AL FRONTE.

LUIGI BARZINI

AL FRONTE

(maggio-ottobre 1915)

MILANO Fratelli Treves, Editori 1915 — Terzo migliaio.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Copyright by Fratelli Treves, 1915.

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Milano — Tip. Treves.

INDICE

PREFAZIONE.

Questo libro, che rispecchia gli aspetti della nostra guerra nei primi quattro mesi del suo svolgimento, dagli ultimi giorni di maggio agli ultimi giorni di settembre, è il frutto di varî periodi di residenza al fronte. Ma è stato partecipando al viaggio dei corrispondenti dei giornali nelle zone di operazione, viaggio durato quasi cinque settimane, che l'autore ha potuto raccogliere la materia essenziale del volume.

La pagina con la quale egli concludeva sul Corriere della Sera i resoconti di quella lunga gita e riassumeva il senso delle cose vedute, viene ad essere anche una specie di commento del libro stesso, ne compendia il significato e ne delinea il carattere. Essa ci appare come la prefazione più naturale del lavoro, e la riproduciamo qui. Mettiamo all'inizio quello che fu scritto alla fine. Del resto la prefazione è sempre l'ultima cosa che si scrive di un libro. Essa è un epilogo che si finge programma.

Nella loro visita al fronte i rappresentanti della stampa hanno cercato di portare all'anima aspettante della Nazione una conoscenza diretta e sentita, per quanto manchevole e sommaria, della lotta eroica che si snoda per vette e per valli su quasi seicento chilometri, dai ghiacciai del Cevedale e dell'Adamello al Golfo di Trieste.

Tutto quello che giornalisti di ogni regione e di ogni opinione hanno scritto dai campi di battaglia, non può non avere dato al paese argomenti infiniti di fierezza, di orgoglio, di conforto. Le cronache frettolose e disordinate dei corrispondenti di guerra, sospinti dall'incalzare del tempo, sono risultate come una documentazione vissuta, umana, spesso palpitante e commossa, dell'entusiasmo guerriero e lieto delle truppe e del loro valore indomabile che la sapienza e la volontà del comando conduce.

Abbiamo visto come si combatte sull'eterno gelo delle più alte montagne, come si issano cannoni fino all'inaccessibile, come si creano per tutto nuove strade tagliate spesso nella viva roccia fino ai nevai, come si distruggono fortezze nemiche, come si lanciano ponti sotto al bombardamento, come si assaltano e si conquistano le posizioni più formidabili, come si respingono e si sfanno gli attacchi del nemico, abbiamo ammirato la cooperazione perfetta di tutte le armi, lo spirito di sacrificio di tutti i corpi, la concatenazione serrata delle azioni, la prontezza delle manovre, la vastità e la esattezza dei servizi. Se da tutte queste visioni della guerra, che la stampa ha diffuso, la Nazione ha tratto una conoscenza più profonda della sua forza, la Nazione deve sentirsi più forte, deve cioè contemplare l'avvenire con rinnovata e ferma fiducia.

I racconti dei giornalisti al campo hanno finito per costituire una specie di riassunto della guerra. Quello che i corrispondenti vedevano era così legato a quello che era successo, il passato della guerra mostrava tracce così profonde, parlava così forte nel tumulto del presente, che la cronaca diventava un po' storia, una storia delle operazioni rintracciata sui luoghi, illustrata dai racconti di combattenti stessi, commentata dall'azione in corso, fusa, dalla continuità della lotta agli avvenimenti attuali e vissuti. Ebbene, una cosa è apparsa subito evidente da queste narrazioni: ed è la esattezza dei comunicati ufficiali. Le azioni appurate dalla indagine giornalistica si identificavano una per una alle azioni enunciate nei bollettini. Il lavoro dei corrispondenti ha finito per essere un ampio commentario della parola laconica e calma del notiziario dello stato maggiore.

Questa constatazione può sembrare superflua, se non presuntuosa. Il Paese conosce quali uomini reggono il destino delle sue armi, e in tale conoscenza riposa. Per noi, grazie a Dio, le virtù militari non possono apparire disgiunte da virtù civili; siamo fatti all'antica, e la fede nostra in un condottiero è fede nella sua parola; la lealtà è nell'anima guerriera quello che la dirittura del taglio è nella spada. Sentiamo la verità intera nella calma, laconica, semplice e chiara dicitura dei bollettini. Anche per portare una nuova testimonianza, raccolta dai corrispondenti di tutti i giornali d'Italia, sarebbe quasi insolente insistere sulla fredda e precisa sincerità dei comunicati che portano la firma di Cadorna.

Abbiamo voluto accennarvi solo perchè, tornando dalla fronte, dove tutto è fede e tutto è forza, strane voci si odono sussurrare nell'ombra, lontano da ogni fervore di lotta, lontano dai luoghi dove si vede e dove si crede, da gente che alla Patria non dà che la sua maldicenza. Arrivando di là si sente con indignante violenza la stupidità velenosa della calunnia, spesso incosciente, che cerca di annebbiare splendori dei quali, chi ha vissuto al campo, ha ancora pieni gli occhi e l'anima. Vi sono persone, assai poche per fortuna, che sembrano seriamente preoccupate dall'annunzio che tutto va bene, e provano la necessità di dubitare e di comunicare intorno i loro dubbi. Bisognerebbe affidare costoro alla giustizia dei soldati.

Bisognerebbe portare i colpevoli su quelle stesse posizioni che erano oggetto della malevola diceria, e dire alle truppe: «Mentre voi vi battevate e vincevate, queste persone, per le quali anche versavate il vostro sangue, cercavano di derubarvi della riconoscenza e dell'ammirazione della Patria, cercavano di indebolire la fiducia e l'amore del Paese per voi, tentavano di isolarvi alle spalle, vi insultavano, vi defraudavano del premio più ambito, facevano a voi un male più grande di quello che il nemico possa mai farvi: ora sono nelle vostre mani, giudicatele e punitele!»

Da quello che i corrispondenti al campo hanno visto, saputo e narrato, è possibile trarre qualche conclusione, estrarre come un bilancio sommario delle operazioni nei primi quattro mesi di guerra. Il nostro esercito è stato fra i più attivi nel conflitto delle nazioni, ed ha raggiunto alcuni risultati positivi che le condizioni difficili del terreno e la studiata e intensa preparazione del nemico rendono mirabili.

Di tutte le fronti della guerra europea, la nostra è senza paragone la più aspra. Dei giornalisti francesi e inglesi che conoscevano i campi di battaglia di Francia, di Russia e dei Dardanelli, il corrispondente del Bund di Berna, ufficiale nell'esercito svizzero e perciò competente della guerra di montagna, gli attachés militari degli eserciti alleati, hanno tutti, senza riserve, espresso il loro profondo stupore e la loro ammirazione avanti allo spettacolo inaudito delle difficoltà che il nostro esercito ha superato e supera. Eravamo all'inizio dominati e minacciati da ogni parte dalle posizioni avversarie. La nostra avanzata è stata ovunque un'ascesa, una scalata, un assalto a giogaie, a pendici, a declivî, a vette, e le forme più moderne della guerra, abilmente applicate dal nemico, hanno sovrapposto alle asperità prodigiose della terra barriere formidabili di fortificazioni continue.

La tattica nuova, i mezzi che l'industria attuale fornisce alla guerra, la possibilità di nascondere le fanterie nel cemento e nell'acciaio e di proteggerle con reticolati senza fine, con mine senza numero, con cordoni fulminanti, ha moltiplicato le forze di resistenza delle difese. L'esempio più luminoso delle possibilità di una difesa si è avuto nei primi mesi della guerra europea, quando l'ala destra dell'esercito tedesco, fresca ancora, forte di ventiquattro o venticinque corpi di armata, presa Anversa si gettò sulle facili pianure fiamminghe, coperte da un'immensa rete di strade, cercando un varco verso Calais, e non passò. Aveva contro di sè forze inferiori e assai meno armate, ma chiuse in un cordone di trincee. La trincea fermò definitivamente l'offensiva germanica.

Anche noi abbiamo urtato nella lotta di trincea, ma su ben altro terreno, e non ci siamo fermati che dove intendevamo fermarci. Trincee nella neve, trincee nelle rocce, trincee sulle spalle dei monti, trincee sul bordo dei fiumi, trincee sui campi, trincee nei boschi, e abbiamo assalito, conquistato, avanzando sempre. Nella fronte dell'Isonzo, verso Plezzo e sulle pendici del Monte Nero, verso Tolmino e sulle alture di Plava, verso Gorizia e sull'altipiano Carsico, la nostra offensiva ha progredito espugnando opere ad ogni passo, ha progredito lentamente ma sistematicamente, tenace, infaticabile, ardente. Il nostro esercito dà prova di una energia costante, magnifica, che ha finito per trovare un riconoscimento negli stessi paesi nemici. È già una grande e indistruttibile vittoria.

Sono finite le ingiurie degli avversarî contro il soldato italiano; i nostri assalti hanno spazzato anche il disdegno e il disprezzo che il nemico sentiva o mostrava di sentire verso di noi. Si è dissipata quella avvilente atmosfera di sfiducia e di disistima che ci soffocava, che veniva un po' anche dai paesi amici, dove non ci si immaginava così soldati, e che ci svalutava. All'inizio della guerra la folla in Francia credeva che quattro corpi di armata francesi fossero venuti a combattere in Italia, e approvava. Eravamo il popolo che ha bisogno di aiuto. L'eroismo italiano cominciò ad essere ammesso dai bollettini austriaci come una prova di ebbrezza alcoolica; dovevamo essere ubbriachi per batterci così. Poi i bollettini hanno cambiato tono. Ora ammettono il valore della nostra truppa. I corrispondenti della stampa tedesca con l'esercito austriaco hanno dimenticato i «suonatori di mandolino» e parlano gravemente dell'ardimento dei nostri, discutendo su di noi con il rispetto che si ha per i forti. L'esercito ha dato alla nostra Patria in mezzo alle nazioni in lotta una autorità e una grandezza che non aveva mai avuto in mezzo alle nazioni in pace. L'Italia ha conquistato una posizione morale inespugnabile.

Certo i progressi della nostra offensiva possono sembrare lenti a chi non li considera in loro stessi e guarda sulla carta la distanza tra il fronte attuale e gli obbiettivi finali della guerra. Ma un grande, prezioso obbiettivo la guerra ha già raggiunto: quello di aver chiuso la porta di casa nostra, della quale il nemico teneva disserrati i battenti spingendo un piede sulla soglia. Non soltanto noi combattiamo oltre le vecchie frontiere, non soltanto risparmiamo al suolo nazionale gli orrori e i pesi della lotta, ma siamo arrivati ad insediarci quasi per tutto su posizioni dalle quali possiamo contemplare con tranquillità la prospettiva di una potente offensiva nemica. Non si passa più facilmente. Un terribile incubo è finito.

Il Paese non sa fino a quale punto l'invasione austriaca fosse preparata. Percorrendo la fronte, attraverso le terre conquistate, si ha per tutto lo spettacolo degli apprestamenti austriaci contro di noi, e si prova qualche cosa che somiglia a quelle paure postume che assalgono chi si accorge di essere scampato da un pericolo mortale. Già la vecchia frontiera per sè stessa dava al nemico gli sbocchi d'Italia, formava un saliente ad ogni valle, scendeva quasi alle nostre pianure, minacciava le nostre comunicazioni più vitali. Questi vantaggi naturali non bastavano all'Austria, che voleva agire con la massima rapidità e la massima sicurezza, senza pericoli di controffensive.

Ogni nazione ha il diritto di garantire la difesa dei suoi confini, ma i lavori immensi che l'Austria aveva compiuto e stava compiendo, ai quali nulla o ben poco si contrapponeva, costituiscono i preparativi meticolosi di una aggressione destinata a schiacciarci. Non vi era nemmeno una preoccupazione per la insolente evidenza degli scopi di tanta attività militare, l'aggressione era discussa apertamente in Austria, era patrocinata da Conrad e dall'Arciduca Ereditario, era confessata, e si apprestava secondo un inesorabile programma. La preparazione era per sè stessa una intimidazione. Noi non potevamo parlarne in Parlamento e sui giornali senza passare per provocatori. Ci sentivamo già vinti un poco dalla sola minaccia. Sembravamo occupati a rassicurare continuamente il sopraffattore come la pecora rassicurava il lupo. Deprimendo l'esercito, non proporzionando le spese militari, chiudendo le orecchie al grido della italianità assassinata oltre la frontiera, rassegnandoci, acquiescendo, dimostravamo la nostra volontà di pace. E il nemico lavorava.

Erigeva fortezze su fortezze, sbarrava ogni valico, costruiva reti sterminate di strade militari per unire le valli, per raggiungere delle vette dove appostamenti di artiglieria pesanti, già preparati, dominavano tutti i nostri vecchi forti. Ad ogni nodo di viabilità, caserme nuove, ospedali, depositi di munizioni, di viveri, di carri, di slitte, panifici elettrici capaci di nutrire intere divisioni. Si era pensato persino all'acqua sulle strade della montagna, dove ogni due o tre chilometri mormora una fonte per la beverata. Vasti campi trincerati erano pronti. Nelle più selvagge vallate potrebbero ora vivere, spostarsi e agire masse di armati. Persino sulle più alte cime, sulle rocce nude, sulle distese candide dei ghiacciai, capanne, ricoveri, rifugi alpini, alberghi, costruiti apparentemente per un improvviso furore sportivo, si sono rivelati ora per posti di vedetta, basi di avanguardie, caserme, tutto un sistema di edificî eretti in posizioni strategiche, destinati a mantenere in ogni stagione il dominio dell'alta montagna.

La Nazione ignorava la realtà nelle sue vere proporzioni, quella realtà che angosciava le autorità militari, l'allarme delle quali non trovava che una mediocre e saltuaria attenzione nell'ambiente politico. I piani della difesa si fondavano sull'abbandono di vaste zone. La frontiera era indifendibile nella sua integrità. Era fatalmente ammesso che l'invasione entrasse. Ora la catena delle nostre posizioni ha anche un grande valore di difesa. La guerra ci ha dato una tranquillità nuova.

Le zone più vulnerabili erano la sponda meridionale del Garda e la pianura di Vicenza. Fra l'Idro e il Garda la frontiera si spingeva per la valle Toscolana ad una sola giornata di marcia da una delle nostre massime arterie di comunicazione, la ferrovia Milano-Venezia. La possibilità di un colpo di mano austriaco contro il grande viadotto di Desenzano è stata considerata e discussa durante la pace dallo stato maggiore italiano. Si sono fatte persino delle esperienze; reparti alpini hanno percorso di notte, a marcia forzata, la distanza che separa la frontiera dal viadotto. Un colpo di mano sarebbe forse stato di difficile esecuzione, ma la debolezza delle nostre posizioni contro all'impeto insistente di una offensiva appariva in una terribile evidenza. Adesso una offensiva troverebbe una solida barriera sulla valle del Ledro e sulla valle Daona; lo sbocco della Giudicaria è chiuso.

Arsiero era anche ad un giorno di marcia dalla frontiera, e Arsiero è la soglia della piana vicentina. L'Austria aveva preparato accuratamente il forzamento rapido di tutti i passi, dal Friuli al Trentino, minacciava una irruzione irrefrenabile sullo Judrio, sul Fella, sul Tagliamento, sul Piave, sul Brenta, sull'Adige, ma è sopra tutto per le valli che fiancheggiano l'altipiano dei Sette Comuni che il pericolo dell'invasione austriaca si affacciava più impellente, perchè più vicino alla mèta. La frontiera metteva l'offensiva austriaca in posizioni che, con dei confini meno iniqui, essa non avrebbe potuto raggiungere se non dopo lunghe lotte accanite, fortunate e definitive. Cioè, la frontiera, qui più che altrove, equivaleva per l'Austria ad una guerra già quasi vinta. Parlando della Vallarsa e della Valsugana le corrispondenze dalla fronte hanno descritto che cosa l'Austria aveva saputo accumulare di opere militari lì intorno; erano nuclei di forti moderni, centinaia di chilometri di nuove strade, ampie basi di operazione. La famosa questione sul possesso della Cima Dodici era legata a questo sistema di sfondamento.

La lunga lotta di grosse artiglierie sull'altipiano di Asiago, di cui così spesso parlarono i bollettini ufficiali, la distruzione dei forti di Luserna, di Busa Verle, di Spitz Verle, la presa del monte Pasubio, dominante la Vallarsa e la Val Pòsina, la presa del Civaron, dell'Armentera, del Salubio, in Valsugana, e l'azione attuale sugli altipiani di Lavarone e di Folgaria, sono tutte fasi della nostra opera ardita e incessante di consolidamento, di arginatura, di chiusura. Le posizioni che ci minacciavano sono nelle nostre mani, con le loro strade militari, le loro basi, i loro appostamenti. Siamo noi che battiamo al di là e portiamo la minaccia su Rovereto e verso Trento.

Anche la questione di uno sfondamento delle nostre difese verso Arsiero era di quelle che durante la pace angosciavano lo stato maggiore italiano. Delle manovre parziali erano state più volte eseguite per studiare la possibilità di impadronirsi rapidamente del Pasubio, il cui possesso avrebbe solo potuto consolidare la difesa sopra un importante settore. I resultati delle manovre erano scoraggianti. Quella alta montagna, il cui declivio era italiano e la cui vetta era austriaca, appariva inespugnabile. Ed è stata conquistata, e su di lei è imperniata la nostra fortunata azione iniziale.

L'Austria non ha fatto in tempo a difendere efficacemente il Pasubio, come non ha fatto in tempo a difendere l'Altissimo, e il Corada, e il Quarino, e il Medea, e tanti altri monti e passi e selle e varchi, sui quali si è insediata fulmineamente la nostra fronte, solidificandosi. Non è stata sorpresa dalla guerra l'Austria, oh no!, ma è stata sorpresa dalla rapidità del movimento.

Non si aspettava il balzo immediato in avanti, che ha portato subito la guerra sulle sue seconde linee. Ha sbagliato i calcoli del tempo, ha commesso un errore di quindici giorni — errore che poi le inondazioni e le piene immobilizzandoci hanno in parte corretto. L'Austria si basava sui dati da lei conosciuti della nostra organizzazione militare, per concludere che la nostra mobilizzazione e la concentrazione del nostro esercito necessitavano un mese di tempo. Questa almeno era l'opinione più volte espressa dallo stato maggiore austriaco. Sapendo che la mobilizzazione era già in corso col sistema delle chiamate personali, l'Austria credè di essere nel giusto riducendo il tempo della metà. Alla dichiarazione di guerra suppose che le operazioni attive sarebbero cominciate verso il sette di giugno. A dire il vero, il calcolo non era del tutto errato; senonchè noi ci muovemmo audacemente in piena mobilizzazione, concentrando e completando i corpi in azione, organizzando i servizi nella mutabilità di spostamenti impreveduti.

Così fu possibile strappare alla sorte vantaggi immediati che una lotta eroica, ardente, aspra e ostinata è andata poi ampliando e rassodando, in un progresso lento ma costante, contro gli ostacoli più formidabili che siano stati mai superati in una guerra. E per la forza delle armi l'Italia ha liberato le sue soglie invase e puntellato le sue opere minacciate. Si respira.

Ma un esame dei risultati delle operazioni italiane sarebbe incompleto se non si considerasse l'importanza che la nostra guerra ha avuto ed ha nel conflitto internazionale, la somma che essa rappresenta nell'attivo dell'Intesa. Non si misura l'entità del contributo dato per il trionfo finale della nostra causa comune, la causa della Libertà dei popoli, dalle distanze percorse ma dagli effetti e dalla intensità dello sforzo. Se così non fosse, si dovrebbe concludere che la Francia non ha fatto nulla, poichè il suo fronte è rimasto quasi immobile sul territorio francese, e che la Russia perdendo terreno è diventata una passività nella lotta. Anche l'immobilità assoluta potrebbe avere un valore per conseguenze lontane, su altri fronti.

Quando ai primi di settembre la controffensiva russa ha strappato settantamila prigionieri agli eserciti nemici e fermato momentaneamente i loro progressi, il ministro della guerra russo, stringendo la mano dell' attaché militare italiano che si congratulava con lui, gli avrebbe detto effusamente: «Grazie, grazie, il successo è anche vostro!» Ed era realmente anche nostro. La vittoria delineandosi in qualsiasi punto dell'immane conflitto porterebbe al raggiungimento degli obbiettivi speciali di ogni singola lotta.

Quale influenza non ha avuto la nostra guerra nella salvezza dell'esercito russo? Gli Imperi centrali avevano preparato contro la fronte orientale una offensiva destinata a schiacciare la Russia, a costringerla alla pace, ad eliminarla dal conflitto, per definire poi la guerra rapidamente sulla fronte occidentale. Fin dal marzo scorso a Bruxelles si udivano degli ufficiali dello stato maggiore tedesco prevedere per il giugno la pace generale, la pace germanica. Erano sicuri dell'annientamento degli eserciti dello Zar. Tutto era studiato, tutto era previsto, il piano di azione gigantesco, apparentemente irresistibile.

Non diciamo che il piano sarebbe riuscito, se, mentre esso era in pieno sviluppo, l'Italia non fosse entrata in guerra, richiamando imperiosamente forze ingenti dal centro e dall'ala destra degli eserciti austro-tedeschi; ma non è temerario affermare di aver contribuito a dissipare quella disfatta che ha sfiorato l'eroica Russia, che è stata così vicina, così imminente, che è stata la nostra angoscia per un mese, e che avrebbe forse portato con sè la catastrofe del mondo latino e la schiavitù dell'Europa.

La Russia ha arginato l'avanzata nemica, resiste, contrattacca, e si riorganizza. La Francia e l'Inghilterra hanno potuto passare all'offensiva, conquistare le prime linee e attaccare le seconde linee nemiche. Sarebbe possibile questo se vi fossero cinquecentomila avversari in più sopra una fronte o sull'altra? Osservando i confortanti risultati locali della nostra stupenda lotta, che s'impone alla ammirazione del mondo, e che progredisce sempre, aspra ma sicura, da successo a successo, non dimentichiamo dunque le influenze che essa esercita sulle sorti del conflitto delle nazioni.

E non soltanto noi tratteniamo un esercito austriaco, ma lo battiamo. È ben altro. C'è un logoramento che conta. Il nemico, per la sua tattica e per la natura della guerra, perde enormemente più di noi. Sulle due fronti di Francia e di Russia cadono in media trecentomila nemici al mese. Lo spreco di uomini che i nostri avversarî fanno per arrivare rapidamente ad un successo definitivo è inaudito. Pure a questa lotta di usura la nostra guerra dà un largo contributo.

Un progresso costante verso la nostra mèta; una fronte inattaccabile; un aiuto possente ai nostri alleati: ecco in riassunto la situazione militare. Ma chi torna da una residenza al campo porta poi in sè ben altro che questi freddi ragionamenti; porta nel cuore come una sensazione di vittoria, sente una fede attinta alle gloriose visioni della guerra, all'entusiasmo, all'ardore in mezzo ai quali ha vissuto. Si ha quasi l'impressione di una certezza irragionata, naturale, istintiva, come sotto allo splendore del sole estivo si è sicuri che le messi maturano.

Milano, 13 ottobre 1915.

AL FRONTE.

AL FRONTE.

2 giugno 1915.

Ho vissuto i primi sei giorni della guerra sulla fronte friulana. Al settimo giorno tutte le persone che non abitano permanentemente quelle terre, giornalisti compresi, sono state invitate a ritirarsi. In questo momento e nelle condizioni attuali la misura è giustificata.

L'opinione pubblica non interpreti l'allontanamento della stampa dai campi di battaglia come un provvedimento di politica interna. Sento il dovere di dirlo subito, altamente, onestamente: il popolo non si lasci trascinare da quel fondo vago di diffidenza che è nel nostro carattere per immaginare che il momentaneo esilio dei corrispondenti dalla guerra abbia lo scopo di nascondere alla nazione dei possibili mali. Vi sono molte cose da nascondere, è vero, ma al nemico. E per celarle a lui bisogna celarle a tutti.

All'inizio delle ostilità ha persistito sulle zone di guerra la libertà della pace, e prima che la circolazione in quelle regioni venisse vietata, chiunque poteva recarvisi sotto un vago mandato di giornalismo, o anche senza nessun mandato. Sono avvenuti incidenti spiacevoli dovuti all'inesperienza e alla leggerezza di corrispondenti di guerra improvvisati, giunti in folla dai più reconditi angoli di provincia. Di fronte ai grandi benefici che la stampa può rendere in un paese in guerra, dando all'anima nazionale un alimento di verità illuminatrice, stanno i pericoli che possono scaturire da indiscrezioni involontarie, inapparenti, celate talvolta in un innocente episodio.

Il servizio giornalistico sul campo di battaglia deve essere quindi soggetto ad una disciplina, anche perchè la presenza non controllata d'un numero illimitato di persone estranee all'esercito può generare confusioni al movimento esatto della grande macchina militare. Ora, i servizi di guerra sono organizzati nell'ordine della loro utilità; conveniamo che lo Stato Maggiore ha, nel primo inizio della lotta, delle cose più urgenti da fare. Il servizio della stampa verrà presto, crediamo. Ma, per adesso, la proibizione assoluta doveva essere logicamente una misura indispensabile.

Rientriamo dunque anche noi corrispondenti di guerra nella nazione aspettante. Ma vi rientriamo con un ardore più grande di entusiasmo e di confidenza che viene dalle cose vedute. Il Paese ha la fede: noi, testimoni del magnifico principio, abbiamo la certezza. Sappiamo più di ogni altro, forse, come la marcia alla vittoria sarà lenta, ponderata, faticosa, dura, ma sappiamo pure che sarà irresistibile, sicura, e, pensando all'avvenire, in fondo alle tormentose emozioni dell'attesa, sentiamo come gonfiarsi in noi un palpito di gioia trionfale. Il destino d'Italia è nelle mani dell'esercito come un ferro incandescente nelle tenaglie del fabbro, e conosciamo quale forza vigorosa e sicura lo forgia.

Perchè dunque, ridiscesi dalle posizioni irte d'armi italiane, ruggenti di cannonate e festose d'entusiasmo, sentiamo qua e là nella folla un soffio d'ansia? Nessuno meglio di chi arriva dalla guerra può conoscere la falsità assoluta e ributtante di certe notizie che, giorno per giorno, circolano misteriosamente, celandosi vergognose nel sussurrio della calunnia.

Da dove vengono? C'è della gente che ha interesse a pungere così la nostra sensibilità, per stancarci, per indebolirci. Essa sbaglia il calcolo, e insistendo ci renderà il beneficio di guarirci di questa eccessiva sensibilità che ci tortura. L'acciaio si tempra tuffandolo caldo nell'acqua fredda. Scoprendo ogni giorno che il «si dice» affannoso di ieri era un'ignobile bugia, che era un bagno freddo offerto alla nostra anima ardente, ci tempereremo. Diventeremo saldi e freddi come l'acciaio. Grazie, nemico.

Perchè c'è puzza di nemico nei «si dice».

Ricordiamoci che è un principio dell'ineffabile «Manuale di Guerra» dello Stato Maggiore tedesco colpire le risorse morali dell'avversario. La prima e più grande risorsa è la fiducia, la compattezza, la serenità. La sicurezza nella vittoria è l'elemento fondamentale della vittoria. E se v'è un popolo che deve sentirsi sicuro del trionfo, questo popolo è il nostro. In guardia, italiani, contro l'insidia della fandonia austriaca!

Il pessimismo è stato in Francia giustamente equiparato alla diserzione. Chi dubita è involontariamente un disertore. Egli fa al Paese lo stesso male che se passasse al nemico. Lavora per il nemico. Mina la robustezza indomabile della fede, che è il metallo di cui si foggia la volontà.

Diffidiamo del nostro spirito di obbiezione, di contraddizione, di critica, che ci porta alla ricerca appassionata del lato sconfortante d'ogni cosa, creandolo quando non c'è, immaginandolo dietro al silenzio e dietro al segreto sacrosanto che deve circondare i particolari della preparazione strategica.

Anche il popolo che resta a casa è combattente, esso appresta le armi, facilita l'azione militare agevolando la circolazione libera, sicura e rapida dell'immenso traffico su tutto il paese, disimpegna le truppe adibite all'ordine pubblico e più utili alla frontiera, mantenendo da sè stesso una quiete profonda, normale, inalterabile, esso dà alla guerra tutte le risorse e tutte le forze, le dà il nutrimento e le dà l'audacia. Ogni piccolo turbamento nella nazione può ripercuotersi nei servizi della guerra e distogliere un'attenzione preziosa all'opera militare. Le forze vive del Paese debbono tendere concordi alla vittoria, pazientemente, instancabilmente. La vittoria sarà.

L'atteggiamento magnifico della Francia è avanti a noi. Silenzio nelle file, avanti con un solo cuore e un solo pensiero, siamo tutti sotto le armi! Ricordiamoci che si combatte per l'Italia fuori della battaglia, lavorando, ubbidendo, tacendo, l'anima piena della nostra fede incrollabile.

Si vorrebbe sapere più di quello che i bollettini militari ci dicono? Lo sapremo a suo tempo, e sapremo anche come i bollettini siano reticenti: ma reticenti su cose che ci farebbero gonfiare il petto di orgoglio. In fondo dicono già molto i bollettini, con sobrietà; noi ne siamo garanti perchè i nostri occhi vedevano; e la sobrietà nasconde spesso verità magnifiche.

Non è ancora l'ora di narrare. Ma io che ho avuto la fortuna di seguire in guerra varî eserciti, dal Giapponese al Bulgaro, dal Serbo al Francese, dal Belga all'Inglese, posso dire di avere avuto in questi giorni l'impressione d'un esercito magnifico che può reggere tutti i paragoni: magnifico per i suoi uomini, per il suo spirito, per il suo armamento, per i suoi servizî, per la sua disciplina e per la sua salda e profonda fiducia nel Comando supremo.

Non è indiscrezione osservare che il nostro esercito — la cui compagine organica era splendidamente approntata — compie in questo momento lo sforzo più grande che un esercito moderno possa compiere: quello di mobilizzare, adunare le truppe, e fare una guerra offensiva e vigorosa nel medesimo tempo.

È come se si finisse di mettere insieme una macchina quando la macchina è già in pieno movimento. Le unità grandi e piccole si spostano per l'azione, e le forze integratrici le raggiungono senza errori, ed i servizî, mentre si completano, mutano e allungano continuamente i loro itinerarî, facendo fronte a tutti i bisogni. In questo periodo preparatorio si compiono prodigi, si superano difficoltà enormi; l'intelligenza, l'iniziativa, l'abnegazione di tutti risolvono problemi giganteschi di logistica, e il profano non riesce neppure a sospettarli avanti alla grandiosa visione dell'ordine, della puntualità, dell'esattezza, che dànno all'immane movimento la regolarità prodigiosa di un palpito.

Ebbene, questa regolarità nasce lontano dalla zona di guerra, e noi vogliamo ora indicare alla riconoscenza nazionale, oltre agli uomini che tengono nel pugno la formidabile e stupenda organizzazione militare, un altro prezioso fattore di quest'ordine mirabile: i ferrovieri. Essi, dai loro capi supremi all'ultimo manuale, sono al di sopra di ogni elogio. Non hanno più orarî di lavoro, non conoscono altra legge che la necessità, si dànno all'opera infaticabilmente, si moltiplicano, pare che per le luccicanti rotaie si propaghi fino a loro la febbre di attività combattiva delle truppe.

Non giudichiamo il servizio attuale delle ferrovie dal ritardo dei treni viaggiatori. È già un miracolo che vi possano essere tanti treni viaggiatori. Nei primi quattro mesi di guerra s'impiegavano tre giorni per andare da Modane a Parigi. Noi riusciamo a mobilizzare le truppe lasciando al commercio il suo movimento. I ferrovieri italiani sanno stare al loro posto di combattimento.

Il traffico di certe linee è centuplicato. Delle reti ferroviarie giudicate deficienti ai bisogni normali, sono portate ad un rendimento tremendo, favoloso. Non un convoglio militare indugia sulle vie ingombre, e sono centinaia e centinaia di convogli lunghissimi che s'inseguono. I viaggiatori ritardano, ma essi debbono essere i primi a non lagnarsi, perchè al di là delle tendine calate, nei loro vagoni chiusi, essi odono il rombo perpetuo dei treni colmi di truppe, adorni di verdure, dai quali si spandono sulla campagna cori formidabili e guerrieri. E quelli arrivano in orario.

Dove hanno imparato i nostri soldati i loro canti di guerra? Come risorgono queste antiche canzoni militari che accompagnarono le battaglie della nostra Resurrezione? Chi ha inventato i nuovi inni della nuova guerra? Questa musica rude e ingenua pare che sgorghi spontaneamente dalle masse armate, come si leva l'ululato dalla tempesta. Sono arie primitive rese fiere dalla bufera delle voci, sono rozze strofe ma impetuose e solenni come un giuramento.

Andiamo in guerra

Tuona il cannone

Trema la terra

Ma il nostro sangue non tremerà!

ho udito cantare in una stazione, da un treno in partenza, mentre un altro più lontano urlava:

Noi vogliam la libertà.

Noi vogliam la libertà!

E tutta questa gioia superba e gagliarda arriva alle prime linee, arriva al combattimento. La lotta è apparsa subitamente come una non so quale terribile e magnifica festa. Tutti vorrebbero essere avanti, più avanti. Il rombo delle cannonate è una voce che chiama. Quelle unità che entrano nell'azione, vanno come se non avessero mai fatto altro, superbamente. L'anima vera delle varie genti italiche si rivela in un fulgore nuovo. Un soffio d'eroismo l'ha accesa. È tutta la giovinezza della Razza che ritorna e fiorisce come una primavera. Nell'alterna vicenda della storia un grigio inverno è ora finito. Sono dimenticati i lunghi geli e i gravi torpori. Il vigore trionfale d'Italia erompe, pieno di una formidabile poesia. Lassù, fra le truppe, è una serenità ardente.

Prima di prestare orecchio ad una voce velenosa, pensiamo ai nostri soldati che vogliono e avranno la vittoria, pensiamo ai loro capi che sanno prepararla e conseguirla, e crediamo fermamente in loro. Nessuna speranza sembra troppo grande, nessuna mèta sembra troppo alta, per chi ha visto il primo passo delle nostre truppe. A loro la nostra confidenza illimitata.

Sappiamo aspettare e tacere. Facciamo della nostra certezza una corazza. Un dubbio è un tradimento. Convinzione, ordine e calma sono le armi del popolo nella grande guerra. Seguiamo l'esempio dei nostri eroici alleati, noi che entriamo nel conflitto al loro fianco. Evitiamo d'indovinare, evitiamo anche di discutere, una parola inutile può essere una parola dannosa. La disciplina dei ranghi scenda fra noi.

Noi, popolo, siamo come gli equipaggi che nelle cieche stive della corazzata nutrono i forni, caricano le munizioni negli ascensori, fanno camminare, manovrare e combattere la nave, ma che non possono sapere subito quello che avviene sopra, all'aria aperta, dove si combatte, sui ponti e nelle torri blindate, e che ignorano le fasi attuali della battaglia. Essi debbono essere tutti al loro lavoro, senza cercare di capire, esatti, alacri, compresi della necessità di agire senza esitazione e senza scoraggiamenti, sentendo quanta parte della vittoria si appoggi sulla loro opera oscura e sulla fiducia da essi riposta nel comando supremo e negli uomini che si battono.

Ebbene, i boccaporti sono chiusi, c'è combattimento sui ponti, attenti ai comandi, o Genti delle stive! Non vi fermate, dominate ogni curiosità e ogni ansia, una mano ferma, una mente luminosa, un cuore leonino reggono le sorti della possente nave Italia, e dietro ai cannoni vi sono petti che anelano alla vittoria!

E la vittoria sarà nostra.

«MORALE ALTISSIMO».

5 giugno.

«Morale altissimo» — dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore, laconico e pacato, non dedica che una parola all'anima dell'esercito. Il Paese deve averne avuto un'impressione di baldanza. Ma nulla può conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d'un colpo di ala immane, invisibile, favolosa.

No, la Nazione non sa ancora. Per dare un'idea dello spirito delle nostre truppe, vorrei poter descrivere niente altro che la febbre di quel 24 maggio nel quale si tracciò la prima parola della nuova e gloriosa pagina della nostra storia. Quale giornata di luce, di gioia, di ebbrezza!

Abbiamo la sensazione che essa abbia inciso profondamente la sua data non nella nostra povera memoria d'uomini soltanto, ma nella memoria della stirpe. La nostra emozione e il nostro entusiasmo avevano una pienezza e una violenza che sorpassavano la misura della nostra anima perchè erano sentimenti di una personalità più grande della nostra: la Razza. Erano in noi, erano nell'esercito nostro, l'attesa e l'ansia delle generazioni passate, nutrivamo tutti inconsapevolmente delle speranze secolari, avevamo nel cuore l'eredità preziosa e dolorosa del sogno patriottico dei nostri padri. Sì, i morti si levano, i morti ritornano, essi sono nel nostro spirito e nel nostro sangue, il loro palpito gonfia il nostro palpito, la loro forza è nel nostro slancio, e per essi noi abbiamo provato l'immensa ebbrezza di un'ora nella quale il loro voto si compiva. Sentivamo nel petto un confuso delirio di moltitudini. Abbiamo avuto coscienza di un entusiasmo che echeggerà nell'avvenire. Noi siamo gli eletti nei quali s'è impresso un fulgido ricordo che sarà vivo nei figli nostri e nei figli dei loro figli, sempre. L'eredità sacra si perpetua.

La giornata del 24 avrà forse un'importanza secondaria nel freddo calcolo dell'azione militare. Ma per la Storia è la giornata in cui l'Italia «ruppe gl'indugi». Essa ha una luce che non si estingue. Da quella prima mossa divampò un calore che fuse le anime dell'esercito in un metallo nuovo, compatto, puro, scintillante, ardente. Ne fummo abbacinati e soggiogati.

Questa data ha già per noi un non so quale senso di solennità antica, di imperitura santità, e la immaginiamo segnata come una festa nei calendari del futuro. È stato il Natale della definitiva Unità Italiana. Si passò la frontiera.

L'urlo delle truppe esultanti nel momento in cui, ad ogni varco, mettevano il piede sulla Terra Irredenta passò irrefrenabile, profondo, prodigioso, sovrumano. Si sentì dalle cittadine più prossime, si sentì da Palmanova che issò il gonfalone sull'antenna veneta, si sentì da Jalmicco, da Medeuzza, da San Giovanni di Manzano, si sentì da tutti i paesi nella regione immediata dei confini.

Era un'acclamazione tuonante che si levava, si estingueva, risorgeva, veniva da un lato, rispondeva dall'altro, serpeggiava nella pianura, scendeva a ondate per la vallata; e più su, dalle vette boscose sorgeva lontano, nella serenità calma e meravigliosa dell'alba purissima, l'immane grido augurale dell'esercito, il poderoso grido di guerra che l'Italia lanciava per la voce dei suoi figli, e pareva l'ululare remoto d'una bufera.

La dichiarazione di guerra era rimasta ignorata negli accampamenti, che negli ultimi giorni s'erano fatti densi e vasti. Verso i confini, nella campagna ubertosa, era tutto un brulicante grigiore di truppe. Verso i lembi d'una ferita il corpo sano manda a pulsazioni serrate il sangue più ardente a cicatrizzarla in una congestione dolorante, e così sulla ferita delle nostre inique frontiere che tagliavano la carne viva della Nazione era affluito il più bel sangue nostro, la forza fiammeggiante e pura che chiuderà la piaga, tutta la gioventù d'Italia.

Il lavoro dei campi continuava intanto vicino alle trincee. Prevedendo di essere chiamati alle armi, i contadini avevano anticipato la zolfatura delle viti. La calma della popolazione era magnifica. Da alcuni paeselli che potevano trovarsi sulla linea del fuoco, gli abitanti avevano allontanato le donne e i bambini, poi gli uomini validi erano tornati al lavoro. Avere la propria terra sconvolta da una trincea era argomento di fierezza. L'esodo delle famiglie dai cascinali più esposti non aveva nulla di doloroso e di triste. Le donne, con i bimbi in braccio, inerpicate sui carri che i buoi trascinavano lenti, salutavano festosamente i soldati: A rivederci, fateci tornar presto, viva l'Italia!

Avanti a tutti, affossate a terra, le vedette. I battaglioni della prima difesa aspettavano l'allarme, di ora in ora, con desiderio rabbioso. Una impazienza di battaglia era in tutti. Aveva maturato nell'esercito la coscienza d'una forza invincibile. Essa veniva dalla fiducia illimitata nei capi, dall'ordine e dalla regolarità con la quale la nostra gigantesca macchina di guerra si è apprestata, e veniva sopra tutto dal sentimento dei nostri diritti, dalla santità della nostra causa, dall'intima convinzione che la vittoria finale debba essere per la Giustizia. L'odio verso il nemico antico, verso il nemico tradizionale, ridivampava. La Storia non si distrugge.

Ma l'attesa pesava.

C'era ancora come una recondita e vaga paura di essere trattenuti. Che cosa aspettiamo? — chiedevano i soldati, che sono semplicisti e che ritengono tutte le preparazioni complete dal momento che loro sono là. I campanili dei villaggi, le collinette che si levano come isolotti nella pianura, gli antichi spalti veneziani di qualche vecchia città, perfino l'alta spianata del Castello di Udine, erano sempre gremiti di soldati che contemplavano le terre italiane da liberare. Le contemplavano con amore, con passione, le prendevano con lo sguardo pensando all'irruzione imminente e all'urto delle armi che li avrebbe portati al possesso.

Si udivano esclamazioni ingenue e appassionate. Alcuni, ignari, arrivati al fronte per dovere, si accendevano a quella vista. Essa era come la visione materiale dell'ingiustizia. Quel profilo dell'orizzonte aveva al loro cuore qualche cosa di dolente; sentivano la Patria del di là, lacerata e oppressa. In quella linea azzurra di pianure che sfumavano nel mare, in quelle creste di monti lontani e diafani, in tutta quella terra dai nomi italiani e la fisionomia italiana, era una non so quale espressione indicibile di chiamata e d'intesa. Fra i soldati italiani che guardavano e l'Italia schiava, passava da anima ad anima un dialogo prodigioso e muto: Venite! — Eccoci!

E l'ora suonò.

Nessuno l'avrebbe immaginata così bella.

Cominciò un movimento di stati maggiori nella notte. Un rombare di automobili destò le città verso le tre del mattino. Uno scoppiettìo di motociclette si disperse nelle tenebre verso mète ignote. Poi in tutti gli accampamenti, nei villaggi, nei centri di deposito squillarono segnali di tromba. L'allegro ritornello della sveglia chiamava e rispondeva sulla campagna buia. Era la diana dell'Italia.

Fu un'onda di febbre e di gioia. L'aurora trovò l'esercito pronto. Mai la rapidità e l'ordine furono così uniti. Le cavallerie in sella, le fanterie schierate, le artiglierie attaccate, e, indietro, tutti i servizi, tutti i convogli, le salmerie, le ambulanze, aspettavano l'ordine d'avanzata. Ogni ufficiale conosceva il suo còmpito preciso, ogni unità aveva il suo obbiettivo, la grande macchina stava per muoversi, regolare e formidabile.

Le avanguardie partirono incontro all'aurora. Il sole sorgeva immane e rosso, e tutto il mondo si tingeva di rosa. Drappelli di ciclisti scivolavano lentamente in esplorazione sulle strade deserte della pianura friulana in tutta la rete della frontiera. Altrove erano pattuglie di cavalleria che inoltravano verso l'Isonzo. Alcune batterie avevano preso posizione per forzare qualche passo che si supponeva difeso. Si aspettava una resistenza fra il Monte Quarin, sopra a Cormòns, e la collina di Medea, e, di fronte a queste posizioni, le alture di Budrio erano irte di cannoni italiani. Le fanterie infine spinsero avanti la loro prima linea spiegata in formazione di combattimento.

Non si può apprezzare al giusto valore lo spirito meraviglioso della truppa se non si tiene conto di questa circostanza: che muovendoci si credeva alla battaglia immediata.

Si aspettava una resistenza. Le informazioni la facevano prevedere. La natura delle posizioni la rendeva logica. La presenza di truppe bosniache e di cavalleria ussara, avvistate dai nostri avamposti, pareva confermare la probabilità di una opposizione.

La nostra fanteria inoltrando immaginava di andare all'attacco. E vi andava con una volontà compatta e lieta. Guadò il Natisone, nel piano verso la frontiera di Cormòns, e avanti, fra gli alberi folti, lungo i margini verdi, nel profumo delle acacie fiorite, nello sfolgorìo del più bel sole di maggio, in un'inebbriante atmosfera di primavera italica. L'onda umana passava gonfia di gioia.

Giunse sulla sponda cespugliosa e fresca dello Judrio: il confine.

Allora fu una frenesia.

La valanga di uomini si precipitò, si avventò fra i roveti nell'acqua per toccare subito l'altra riva. E l'urlo immenso si levò: Italia! Savoia! Italia!

Ad uno ad uno i battaglioni che seguivano in colonne, per tutte le strade, lanciavano sulla soglia dell'Italia Nuova il saluto fatidico.

Nessuna cerimonia può assurgere alla grandiosità di questa acclamazione spontanea, formidabile, irresistibile. Ogni regione d'Italia univa la sua voce al coro tremendo. È possibile che qualche cosa di quella maschia, fiera, ardente emozione dell'esercito non sia giunta al popolo che aspettava?

Sulla pianura soleggiata, un mare di verdure, si spandeva uno squillare confuso e remoto di campane.

Cominciò Villanova a suonare a stormo. Le chiese di Manzano, di Trivignano, di Palmanova risposero. Tutti i campanili si destavano, successivamente. Era la voce del Paese, la voce della Terra, la voce della Patria, che mandava alle truppe il suo saluto, l'inno antico delle sue feste, la musica della sua tradizione. E lo scampanìo a martello dava all'ora indimenticabile una augusta solennità religiosa.

Da quel momento l'Italia era più grande.

Lunghe nuvole di polvere sorgevano basse, a strisce, mettendo qua e là dei veli sulle piantagioni, avvolgendo villaggi, dissipandosi per risorgere più vicino: erano artiglierie in marcia, convogli a cavallo e a motore, il cui rombo si spandeva sommesso e continuo, come un fremito di tutta la piana.

L'antica, la vergognosa frontiera era cancellata.

Più faticosa, ma egualmente esatta fu l'avanzata sui monti. Fuori di ogni strada, fuori d'ogni sentiero, portando nel pesante zaino viveri e munizioni per lunghi giorni, portando sulle spalle anche la legna per cuocere il rancio, anche la paglia per dormirvi sopra, i nostri atletici alpini, coadiuvati in alcuni punti da bersaglieri, da militi della Finanza, esploratori arditi e infaticabili, andarono avanti da vetta a vetta.

Hanno la tattica dell'aquila. Vanno da una cima all'altra, da una punta all'altra. Si annidano sulle sommità, e non c'è forza che potrebbe sloggiarli. Non temono l'isolamento. Fanno di ogni vetta occupata una fortezza inespugnabile. S'inerpicano, s'insediano, si trincerano, e per le valli che essi dominano il grosso marcia al sicuro e si sgrana come un formicaio.

Si videro le cime austriache coronate da loro, una dopo l'altra: il Monte Corada, il Monte Cuk sulle creste del Colovrat. Sul profilo di posizioni altissime, che si supponevano fortemente protette, al di sopra della gran coltre dei boschi, si scorse dopo mezzogiorno il brulicare delle nostre avanguardie. Subito, al primo giorno, ci insediammo in faccia alle fortificazioni nemiche.

Avanzando sulla pianura, le nostre truppe scacciarono avanti a loro i piccoli nuclei austriaci, che abbandonarono in fuga i loro barricamenti, le trincee di arresto, le abbattute d'alberi, tutte le difese preparate all'entrata dei villaggi e ai punti favorevoli. Ritirandosi il nemico faceva saltare i ponti. Le avanguardie italiane vedevano brillare le mine, una vampa, un getto di macerie, una colonna di fumo e di polvere, e le detonazioni spandevano il loro rombo sinistro. Anche un ponte dei più importanti per l'azione era minato, quello sullo Judrio, ma il precipitarsi dei nostri esploratori lo salvò. Era il ponte di confine.

È un ponte di legno, pittoresco, angusto e lungo, che le sponde alte sovrastano chiudendolo come fra due muri di verdura. Per risalire facilmente la riva, le batterie lo passavano al galoppo. I cavalli sferzati si slanciavano, e in un grido impetuoso di «Viva l'Italia!», in uno scalpitìo pesante sul tavolato che tremava tutto, in un tuonare di ruote, in un frastuono d'acciaio, i cannoni sì avventavano.

Passate le prime truppe i segni della frontiera scomparvero. Una forza sovrumana divelse i pali gialli e neri, saldati a macigni, spezzò le aquile di ferro che in cima ad ogni palo aprivano le loro ali araldiche e biforcavano la loro duplice testa coronata. Non c'è più niente. Dei frammenti calpestati e informi. Un furore d'uragano è passato. Nulla lo avrebbe trattenuto.

In varie zone montuose, come sull'altipiano di Asiago, le nostre truppe avanzarono, in quel primo giorno, sotto al fuoco di grosse artiglierie da fortezza. Non si vide un'esitazione. Quei soldati nuovi al combattimento salutavano le esplosioni con esclamazioni ironiche. E andavano avanti.

Le operazioni di quel primo giorno, i bollettini dello Stato Maggiore l'hanno detto, non furono che una correzione di fronte, la quale, contrariamente al senso del linguaggio ufficiale dei nostri nemici, si operava in avanti. Ma il fuoco che allora si accese nell'anima italiana non si estingue più, perchè non è un fuoco nuovo. C'è stato sempre, noi ne sentivamo il tepore sotto la cenere. Un soffio sublime ha dissipato le scorie e la gran fiamma s'è levata e ondeggia alta. Tutta la frontiera ne divampa. Abbiamo una troppo grande eredità di eroismo e di gloria per non ritrovarla intera nell'ora inebbriante della nostra lotta più santa contro l'eterno oppressore.

No, eterno no! Lo scampanìo delle chiese friulane suonava i primi rintocchi del suo funerale.

Ho narrato del primo giorno, del primo slancio, perchè il resto deve rimanere ancora segreto. Ma v'è lo stesso cuore di quell'ora di delirio. Con lo stesso lieto entusiasmo il nostro esercito schiaccia i forti corazzati del nemico, assalta e conquista di colpo delle ridotte avanzate, si spinge con felice sapienza, con audacia paziente, fin sopra a delle trincee blindate.

Dove non si va con quest'anima?

VERSO L'ISONZO.

19 giugno.

È per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera — diciamo dell'antica frontiera perchè la nuova cammina — la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori sui binarî morti. E ve li dimentica. Nelle piccole linee i treni per il pubblico ritardano in media dodici ore nei primi quaranta chilometri. Uno solo, che io sappia, è arrivato in perfetto orario: partito da Udine si è trovato a San Giorgio di Nogaro all'ora indicata. Ma era il giorno dopo. Così la strada maestra è ritornata in onore.

Da quando fu inventata la locomotiva non aveva visto più tanto traffico. Vi passa tutto il commercio della provincia, tutto il movimento dei mercati e delle fiere. Perchè non un mercato è stato sospeso, e a Treviso, a Portogruaro, a Latisana, a Oderzo, in piena zona di guerra, le piazze antiche e pittoresche si affollano al mattino di venditori e compratori venuti dalla campagna, i merciaiuoli ambulanti erigono le loro baracche, e tutto si passa come in piena pace.

Sulle magnifiche strade, che sembrano viali di parchi, ombrate da vecchi platani rigogliosi allineati sui bordi, è un viavai di carri, di carrette, di biroccini, che s'incontrano con lunghe file di autocarri pesanti e grigi del servizio militare. Stupisce e rallegra la serena attività del paese, la quieta normalità che permane anche nelle regioni che odono il rombo del cannone.

La guerra non ha mutato nulla, non ha toccato nulla. Ricordo la tragica sospensione di ogni vita negli altri paesi belligeranti quando il grande conflitto s'iniziò. Si vedevano i segni del lavoro subitamente interrotto sulla campagna francese divenuta deserta, si sentiva l'allarmi, la paralisi, l'angoscia della nazione intera, i villaggi solitari avevano un'espressione desolata, e, cessato ogni commercio, le città costernate tacevano, con le vie quasi vuote fra i negozi chiusi.

Uno straniero che arrivasse fra noi ignaro (per un'ipotesi fantastica) degli eventi, non sentirebbe la guerra nella vita intensa delle nostre città e nella tranquilla operosità dei nostri campi, non si accorgerebbe che stiamo combattendo la più grande lotta della nostra esistenza nazionale.

La guerra ci ha trovati pronti, e niente altro che l'immutata fisionomia della nazione, mentre milioni d'italiani si battono, è già una grande prova di potenza.

Nei vigneti e nei frutteti si lavora, e dalla campagna luminosa, che non è mai sembrata così bella, così folta di vigore, così promettente, scolorata qua e là dal primo imbiondire delle messi, arrivano nella serenità ardente del meriggio i canti dei contadini all'opera, le antiche canzoni dei campi, semplici, larghe e solenni come preghiere.

L'automobile che mi porta fila nella immensa pianura friulana, attraversa ponti custoditi da sentinelle, passa per stazioni di tappa insediate nelle piccole città, affollate di carreggi, intorno alle quali si allargano bivacchi nereggianti di cavalli e parchi automobilistici.

Impossibile deviare dalla via buona. Oltre alle tabelle militari, che, affisse ad ogni crocicchio, dicono ufficialmente la giusta direzione, si trovano indicazioni di tutti i generi, consigli diversi sotto forma di «vedi mano». L'entusiasmo degli abitanti ha spennellato sui muri dei paesi delle grandi frecce accompagnate da diciture sommarie e definitive: «Per Trieste!» — « — Di qui per Monfalcone, Trieste e sempre avanti!» — e non si può sbagliare. Più di un paesello ha già battezzato Via di Trieste, o Via della Vittoria, la strada principale.

Ma la vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia. Treni vuoti che tornano, treni pieni che vanno, passano in perpetua successione, lunghi, ansimanti, e nelle stazioni piene d'ordine, custodite da bravi territoriali, inflessibili come la loro enorme baionetta, spesso le truppe che aspettano l'ora della partenza, durante lunghe soste al sole, cantano a squarciagola. Ogni vagone ha la sua canzone, indipendente dal vagone vicino, e il treno intero manda il più spaventoso dei cori. Quando poi il convoglio si muove, il coro si fonde in un tremendo evviva: «Evviva l'Italia!», «Vogliamo Trento e Trieste!». E i gruppi di abitanti, che non mancano mai di affollarsi alle barriere, rispondono.

I soldati salutano sempre con gioia ogni passo in avanti. Gremiscono le aperture dei furgoni — che delle fronde, dei fiori, delle bandierine adornano — e gesticolano, e ridono, e gridano, seduti alcuni sui bordi, le gambe ciondoloni, mentre dietro agli uomini, nell'oscurità interna, si profilano teste di cavalli, assonnate e gravi; e un'oscillazione di zaini, di cinturini, di giberne, di tascapani, pende dal soffitto. Sui vagoni a piattaforma i carriaggi si allineano, con le stanghe in alto come braccia levate. Sotto a grandi copertoni di tela grigia s'indovinano forme di cannoni.

Alla stazione di San Giorgio assisto all'arrivo d'un treno di feriti.

È un treno della Croce Rossa, tutto nuovo. Vestite di bianco, delle dame di un comitato locale vanno premurose da un vagone all'altro distribuendo bibite ghiacciate. Non si ode un lamento.

La prima cosa che i feriti domandano è d'essere informati della guerra. Hanno sete di notizie. Portati via dall'azione, vogliono sapere quel che è successo dopo, quello che succede altrove. Si direbbe che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite ricevute.

«Che cosa si sa oggi?» — chiedono prima di portare alla bocca il bicchiere madido. «Buone nuove, Monfalcone è presa!». La voce passa da una cuccetta all'altra. Tutti si sollevano sui gomiti, i meno sofferenti balzano a sedere, è una agitazione sotto le lenzuola candide, delle teste bendate sorgono dai cuscini: «Monfalcone è presa!».

Dei dialoghi brevi s'intrecciano: «Ah, se fossi sicuro d'avere ammazzato un austriaco, non me ne importerebbe della ferita!» — esclama riadagiandosi cautamente uno che ha la spalla fasciata. Dalla cuccetta sopra a lui una voce rauca scende: «Io uno almeno l'ho infilato!» — è un fantaccino che è stato ferito di baionetta alla coscia durante un assalto. Dopo un istante riprende: «Io uno, e lui (additando un altro lettuccio) lui due!».

Qualche esclamazione d'incredulità, o d'invidia, si leva. «Due, due! — ripete la voce. — Era vicino a me. Ci sono i testimoni. Due austriaci si sono buttati addosso al capitano. Eravamo sulla trincea. Allora lui l'ha spacciati tutti e due, ma ha preso una baionettata. È vero? tu, parla!». — Ma l'eroe non può parlare, manda un mugolìo d'approvazione, poi solleva il braccio nudo, un braccio nodoso, forte, bronzato, che emerge dal biancore del letto e agita l'indice e il medio tesi ripetendo col gesto ostinato: «Due, due, due....».

«Silenzio, ragazzi! — ammonisce dolcemente un infermiere che passa. — Chi ha ancora sete?».

L'abnegazione del personale sanitario, tutto, è magnifica. Ad essa si deve se i nostri feriti sono quasi tutti leggeri. La gravità d'una ferita è spesso prodotta soltanto dal ritardo delle prime cure. Con questo calore torrido, anche gl'infermieri, stanchi, debbono aver sete, e pure essi rifiutano le bibite che vengono offerte anche a loro quando tutti i feriti hanno bevuto.

L'attesa è lunga alla stazione; occorrono molte manovre per sgombrare al treno la via, e nei vagoni chiari, odoranti di medicinali, si rifà il silenzio. Alcuni feriti, che dal comitato delle dame hanno ricevuto in dono delle cartoline militari e dei lapis, scrivono lentamente, seduti sul letto. Uno fuma voluttuosamente una sigaretta e ne scaccia il fumo facendo ventaglio della mano, perchè è proibito fumare. La stazione sembra divenuta deserta. Sul marciapiede affocato passeggia il territoriale di sentinella, solo. Fischiano le locomotive laggiù verso i dischi, sui binarî abbacinanti, e il cannoneggiamento brontola dalla parte del Carso.

Il desiderio di tornare al fronte è comune a quasi tutti i feriti. È in loro la fede profonda e l'aspettativa della vittoria. Si rammaricano di esser portati via «sul più bello». Sono presi dalla passione della battaglia, dall'istinto della lotta, sentono ardentemente tutta la grandezza e la giustizia sacrosanta della nostra guerra, ma sopra tutto hanno come il sentimento che «si ha bisogno di loro», la preoccupazione di un posto vuoto lasciato nelle file. È uno spirito straordinario di solidarietà, è un senso altissimo del dovere, che rivelano nella razza virtù guerriere d'una possanza insospettata.

All'ospedale di San Giorgio è ricoverato un soldato automobilista; conducendo la sua macchina, per evitare due cavalleggeri che chiudevano la strada ad una svolta, egli era andato a finire nel fossato, ferendosi contro al volante. Correva incaricato di una missione: ora il suo incubo è di compierla. Ha la febbre, non può muoversi dal letto, ma prega, scongiura medici e infermieri: «Bisogna che io vada, credete, è importante, lasciatemi andare, tornerò dopo...!». Questo senso di un dovere assoluto, improrogabile, sacro, di un dovere che va compiuto ad ogni costo finchè c'è un alito di vita, è diffuso nell'esercito ed ha la profondità d'una convinzione religiosa.

Per tutto dove passo trovo degli esempi umili e magnifici di questa nobile comprensione del dovere, anche fuori dei combattimenti, nell'oscura fatica dei servizi. Ecco, in vicinanza del fronte, a Medea, sulla via polverosa passano i cucinieri di un reggimento che sono andati per l'acqua; sono sporchi, sono stanchi, non dormono che tre o quattro ore per giorno, sul far dell'alba. Uno di essi, dagli occhi febbricitanti, ha la mano destra fasciata, enorme, sollevata e tremante. Porta il secchio sulla spalla sinistra. «Come stai?» — gli domanda affettuosamente un ufficiale superiore. Il soldato, un contadino calabrese piantato sull'attenti, risponde: «La mano mi fa male ancora!». Quando si è allontanato, l'ufficiale mi spiega: «È caduto, e cadendo si è immerso la mano nell'acqua bollente; il medico gli ha ordinato di coricarsi sotto la tenda, di restare in riposo, immobile, ma lui dice che c'è troppo da fare, ed ha pregato i superiori di lasciarlo lavorare finchè Dio gli dà la forza di resistere».

Poco lontano, a Viscone, ad una tappa di carreggi, passa lungo i muri del villaggio un sergente d'artiglieria zoppicante, col piede sinistro fasciato. È stato ferito e mandato alla medicazione, ma egli afferma che non è niente ed evita i posti sanitari perchè «lo portano via». «Sono sicuro — mi dice — che riposandomi qui domani potrò rimettere la scarpa e rimontare a cavallo; così ritrovo subito la batteria....».

Egli si è fermato a portata di voce, per dir così, della sua batteria, e ne ascolta i colpi lontani, e li riconosce: «Ecco, è lei.... — e con un sorriso soddisfatto — Come sona duro, eh?». Il profano non sente che un confuso e formidabile rimbombare di tuoni verso Gorizia.

Avanti, gli avvenimenti ci chiamano con questo rombo tempestoso. Andiamo verso l'Isonzo.

Come tutto prova l'iniquità della frontiera che abbiamo cancellato! Come ogni cosa è italiana al di là! Vi è l'impronta nostrana sulla terra, nel paesaggio, nella natura. Le vegetazioni come gli uomini gridano la loro italianità. Presso antiche ville, che hanno nomi legati alla nostra storia, vecchi cipressi muscolosi ergono la loro mole gigantesca, oscura, solenne, che sembra un'affermazione vigorosa e superba di nazionalità; si direbbero il simbolo caratteristico del nostro suolo; le coltivazioni, i parchi, i giardini, tutta questa campagna meravigliosa, prodigano forme e colori che sono unicamente della nostra patria. Viaggiando sulle regioni conquistate s'intuisce una unità più profonda ancora di quella della razza, dei costumi, della lingua, un'unità perenne, inalterabile alle emigrazioni e ai dominî, eguale sotto alle correnti e alle tempeste umane, una unità eterna: quella della terra.

La strada bianca corre ancora nell'ombra dei platani, e di tanto in tanto qualcuno di questi giganti, tagliato per formare una barricata austriaca, giace abbattuto, rovesciato nel fosso o sul bordo erboso. Barricate e trincee chiudevano la via ad ogni svolto, ad ogni ponticello. Ma nessuno le ha difese. Fino a Cervignano, per avanzare non s'è avuta che la fatica di rimuovere gli ostacoli. A Cervignano pochi colpi di fucile. Un ponte di ferro, all'entrata del paese, era barrato da un terrapieno e da un'abbattuta d'alberi. Una cannonata, che ha lasciato il segno sull'armatura del parapetto, è bastata a mettere in fuga i difensori.

Il paese ha ripreso un'aria tranquilla e sonnolenta, e i convogli militari passano con frastuono per le strade antiche, anguste ed affocate, fiorite di bandiere. Al di là, verso l'Isonzo, un polverone denso annebbia la pianura. Il cannoneggiamento è più vicino. Nell'aria limpida, chiaro, metallico, diafano, un pallone frenato si libra.

Ancora pochi minuti, e ci troviamo fra le truppe. Dei reparti passano il fiume. Sulle alture di Monfalcone la battaglia rugge.

La nostra prima avanzata, che qui giunse d'un balzo a pochi chilometri dall'Isonzo, non fece in tempo a salvare i ponti. La loro distruzione era forse inevitabile.

Il ponte della strada carrozzabile, lungo più di cinquecento metri, tutto di legno, ma largo e solido, ha bruciato completamente. Vedevamo da Palmanova e da Cormòns, il giorno 24, le colonne turbinose di fumo di questo incendio lontano, e pareva che una città ardesse. Si credette anzi, al primo momento, che gli austriaci avessero appiccato il fuoco a dei paesi, per vendetta.

Dei piloni, formati da fasci di travi, non rimangono che alcuni mozziconi carbonizzati, emergenti ad intervalli regolari dall'acqua azzurrognola e dalla ghiaia bianca, sull'immensa spianata del vasto letto. Tutto il resto è scomparso. Le piene ne hanno cancellato ogni vestigio.

Il ponte della ferrovia, poco discosto, è stato minato, e l'armatura d'acciaio, ricaduta sulle macerie dei piloni crollati, disegna sullo sfondo luminoso del fiume come una trina nera, a larghe centine, spezzata nel mezzo, lacerata e scomposta. Queste rovine dànno la prima sensazione profonda di un paesaggio di guerra.

Gli austriaci avevano cominciato a preparare delle forti difese sulla riva destra. Non si trattava più di barricate frettolose. Lunghe, solide, massicce trincee, dei larghi terrapieni che sembrano dighe, i quali emergono freschi, del colore di terra smossa, al di qua della boscaglia che fiancheggia il fiume e gli fa come una scorta di verde, indicano l'intenzione di fortificare solidamente il passaggio, di creare anche lì una testa di ponte. La rapidità della nostra mossa iniziale ha ricacciato il nemico sull'altra sponda. Ritirandosi, gli austriaci hanno anche distrutto, con delle mine, un pezzo di strada, all'approccio del ponte.

Ma bisognava passare, e siamo passati.

Le riparazioni della strada, i preparativi per il varco del fiume, sono stati compiuti sotto ad un fuoco intermittente di artiglieria, al quale rispondevano i nostri cannoni appostati sulla pianura. Qui, la truppa di questo settore fece la prima conoscenza col bombardamento nemico.

Il bombardamento nemico fu accolto con una indifferenza umiliante. La fanteria, inoperosa nelle sue trincee, conversava sotto gli shrapnells, e il chiacchierìo si sentiva da lontano. Sul bordo d'un fosso, file di soldati inginocchiati lavavano la loro biancheria, cantando a squarciagola.

Una sera, quando tutto è stato pronto, è scoppiato un inferno.

Dopo il tramonto, ad un tratto centinaia di cannoni nostri hanno aperto improvvisamente un fuoco serrato sulla riva sinistra dell'Isonzo, spazzandola a tiri progressivi. Ogni batteria aveva la sua zona da coprire di proiettili. Gli shrapnells arrivavano a stormi sul bordo dell'acqua, sulle sabbie della sponda, sui roveti, sulla boscaglia di salici e di pioppi entro la quale la fanteria austriaca veniva ad annidarsi di notte schioppettando a intermittenza, e più in là l'uragano di acciaio e di piombo batteva i vigneti, tempestava le strade, esplorava la pianura in ogni ripiego. Era uno spettacolo terribile. I balenii dei colpi e delle esplosioni illuminavano la notte di una tremula luce violastra, e sulle nostre truppe la veemente moltitudine delle traiettorie formava una vôlta sonora, una vôlta ululante.

Alle nove precise, silenzio.

L'Isonzo ha qui due corsi d'acqua, vicini alle due rive, e nel mezzo, fra l'uno e l'altro, la vasta distesa di ghiaia. Durante il bombardamento che immobilizzava il nemico, il ramo più vicino fu rapidamente passato a guado: è basso e con poca corrente. Nel lampeggiamento delle cannonate si vide un formicolìo nero e silenzioso di truppe traversare la spianata sassosa del letto e portarsi sul corso più profondo trasportando il materiale necessario alla costruzione di zattere.

Quando l'artiglieria tacque, all'ora stabilita, nella quiete improvvisa pesava l'emozione di una grande attesa. Zattere piene di soldati vogavano nel buio. Le prime compagnie si gettavano sulla sponda sinistra occupandola. Altre forze si aggiungevano a loro. L'occupazione si allargava. Si formava solidamente una testa di ponte. Per il passaggio del grosso, intanto, il Genio lavorava alacremente a costruire solide passerelle. Una ordinata e febbrile attività da cantiere attraversava il fiume.

Ogni tanto due, tre lampi vividi, delle esplosioni: cannonate austriache. La fucileria crepitava ad intervalli, dominata dallo scoppiettìo regolare delle mitragliatrici: era la linea della nostra occupazione che avanzava, sloggiando piccoli reparti austriaci dalle loro trincee. Se si ostinavano, era l'assalto.

Si udiva allora echeggiare alto, intenso, entusiasmante, l'urlo trionfale: Savoia! Passava nella notte il grido tempestoso che faceva battere i cuori dell'esercito in attesa. S'indovinavano gli episodi dell'occupazione nel risveglio del fuoco e nel levarsi delle voci. Verso la metà della notte si è capito che gli austriaci contrattaccavano. Ma si è pure capito subito che erano ricacciati. L'oscurità è stata per un istante tutta piena di un eloquente vocìo di vittoria.

Pochissimi feriti. Dei soldati sono tornati indietro con le mani lacerate dai fili di ferro dei reticolati che essi avevano strappati. All'alba le nostre colonne passavano serrate l'Isonzo sui tavolati nuovi e risuonanti, e i tentacoli delle avanguardie avanzavano già verso le alture di Monfalcone.

Sono le riserve che passano adesso.

AI PIEDI DEL CARSO.

20 giugno.

Nel polverone denso, che incanutisce le siepi e incipria i pampini, sulla strada bianca, affocata, accecante, uomini, cavalli, veicoli si muovono come in una nebbia ardente, e sembrano ombre.

I soldati, già abbronzati dal sole, con quella fisionomia invigorita e fiera che è data dalla sana fatica del campo, marciano in silenzio, ordinati, un fazzoletto intorno al collo. Alt! Zaino a terra! Col peso dello zaino pare che essi depositino la stanchezza; conversazioni e risate si levano improvvise. È un vocìo allegro da scolaresca.

Largo! largo! — con uno scalpitìo serrato, con un rombo pesante di ruote massicce, con un frastuono metallico, delle batterie passano lentamente come in un fumo d'incendio. Al passo dei forti cavalli normanni le grigie macchine da guerra, che non somigliano più che vagamente agli antichi cannoni, procedono in una solennità formidabile. La fine della colonna si perde nei nembi della polvere. Delle automobili dello Stato Maggiore si aprono un varco fra tanti ostacoli, e filano verso il fiume.

Là la strada cessa, il polverone si dissipa, e nell'aria tersa si profilano lontano le pendici del Carso nude, grigiastre. Dalle vegetazioni della piana emergono chiari e aguzzi i campanili dei villaggi come fari sopra un mare.

Sulle passerelle che sostituiscono il ponte distrutto le colonne si assottigliano e si sgranano, i cannoni ed i cassoni si spaziano per superare con una galoppata l'ostacolo delle ghiaie. I conducenti scendono di sella e corrono a piedi, schioccando la frusta, aggrampati alle criniere.

Il cannoneggiamento è vicino. Si vedono scoppiare gli shrapnells in alto sugli alberi; e dal nord, da Gradisca, da Podgora, da Gorizia, arrivano boati profondi di artiglierie pesanti.

Presso le rovine del ponte bruciato, dove l'antica strada, all'alto della ripa, sembra mozzata da una lama e sporge sul fiume un moncone fra parapetti spezzati, sono le ultime trincee austriache, intorno alle quali il Genio ha accuratamente raccolto in enormi gomitoli il filo di ferro dei reticolati spinosi. Ci sarà utile. In qualche angolo inesplorato si rinvengono ancora certi ramponi di ferro a quattro punte, dei quali gli austriaci si servono forse per ostacolare il passaggio ai cavalli, o per armare fosse da lupo. In qualunque modo si gettino, i ramponi rimangono con una punta eretta, aguzza come un pugnale. Somigliano ai «triboli» che i soldati romani spargevano per ostacolare l'assalto dei nemici, barbari a piedi nudi.

Sotto gli alberi, al bordo della trincea, una sedia, quella povera sedia che compare melanconicamente su tutti i campi di battaglia, che si rinviene abbandonata, sbilenca e triste, ovunque la guerra ha fatto una sosta.

A difesa di questa regione del basso Isonzo gli austriaci hanno trovato un alleato nell'acqua dei canali.

Ai piedi delle alture che sovrastano Gradisca e Monfalcone, scorre un canale creato a scopi d'irrigazione e per usi industriali. Un'alta diga maestosa, lunga quasi mezzo chilometro, chiude l'Isonzo presso il ponte di Sagrado, sul quale passa la strada di Gradisca. L'acqua trattenuta forma un vasto bacino che nutre il canale con una corrente di quasi ventidue metri cubi al secondo. Il livello di questo corso artificiale è più alto della pianura. Spezzando un argine gli austriaci hanno potuto trasformare in paludi vaste plaghe al nord di Ronchi. L'altura di Sant'Elia, che è al di qua del canale, è divenuta una penisoletta, e, fortemente trincerata, ha costituito una posizione avanzata del nemico.

Per alcuni giorni, la zona accessibile alla nostra offensiva si è trovata sensibilmente ristretta dalle acque. Il bollettino ufficiale ha narrato dell'ardimentosa azione di una batteria di obici che, portatasi sulla linea della fanteria, ha battuto in breccia una diga. Era la diga di Sagrado. Sfondata quella barriera, l'acqua non si sarebbe più immessa nel canale e avrebbe ripreso il suo corso normale nel letto dell'Isonzo. Ma prima che per questo audace bombardamento l'inondazione, priva d'alimento, defluisse sgombrando il piano, il nostro attacco si è gettato sulle terre rimaste asciutte, più al sud, e per Monfalcone ha preso piede solidamente sulle prime pendici del Carso, in vista del mare.

L'acqua ci è stata nemica, per tutto. Le piene, fra le gole del medio Isonzo, ci portavano via i ponti; a valle l'inondazione artificiale creava avanti a noi dei laghi, e il canale, che con le sue diramazioni si va ora essiccando, forniva intanto la forza motrice di impianti elettrici dai quali gli austriaci derivavano correnti per rendere fulminatori certi reticolati di trincea.

Ma gli austriaci avevano dimenticato che la magnifica opera idraulica dei canali di Monfalcone è italiana, studiata e compita dalla Società Italiana per le condotte d'acqua, di Milano. La perfetta conoscenza dei lavori ci ha permesso di correre subito ai ripari e di ricondurre le acque ad un contegno più patriottico.

Passiamo l'Isonzo.

Una casa sfondata, un hangar demolito, dei muri bucherellati da schegge di granata: si è già nell'atmosfera del campo di battaglia. Ma nessuna battaglia è passata di qui.

Dei cannoni austriaci di mezzo calibro, nascosti sulle alture di Doberdò, tirano sulla strada, e sui villaggi, e sui ponti. Otto o dieci colpi per volta, poi, per due o tre ore non si fanno più vivi. Non combattono, stanno lassù in agguato, e quando vedono in una scìa di polverone un convoglio di munizioni che si avvicina, o un reparto di truppa che si sposta, o un'automobile che corre, giù un po' di grossi shrapnells o di granate, che arrivano con quel loro rombo di motore mal regolato e scoppiano fragorosamente sulla pianura quieta. Tirano persino sulle motociclette col side-car, nella speranza di accoppare qualche generale.

Ma hanno paura di essere scoperti. Non insistono mai, e non è facile individuarli. Conoscono così bene la regione, che il loro tiro è giusto, sebbene inefficace. Percorrendo la strada con dei carreggi si ha la probabilità di assistere allo scoppio di una granata a sessanta passi di distanza. I soldati non ci badano.

No, i nostri soldati sono meravigliosi. Appena una granata scoppia, si vedono i soldati correre, ma verso lo scoppio. Vanno a vedere il buco. Hanno una curiosità da ragazzi per i fuochi d'artificio. Compà, sente mò — grida allegramente un soldato di guardia al ponte ad un compaesano mentre tuona una raffica — pare 'a festa d'a Madonna! — Gli sembra di sentire i mortaretti delle solennità campagnole. Ed il cratere slabbrato, nero, fumante, che le esplosioni scavano al suolo, è per loro uno spettacolo curioso che li attira. Sono là intorno, aggruppati allo scoperto, incuranti del nemico che li vede, disputandosi le schegge che scottano ancora. Ogni soldato ne ha una in tasca.

Sulla strada così esposta il movimento continua regolarmente. I territoriali divenuti carrettieri e bovari, passano anche loro con i birocci e le mandrie.

Nessuno esita, nessuno si ferma, nessuno devia.

Un distaccamento di bersaglieri ciclisti riposa all'ombra delle casupole, all'entrata di un villaggio: Begliano. Appoggiate ai muri, le biciclette intrecciano ruote e telai in una confusione sottile e geometrica di circoli e di linee; qualche motociclista prova attentamente il motore, che strepita sul cavalletto; i soldati, accoccolati a gruppi sui macigni, conversano placidamente, fumano, fischiettano, e sulle loro teste l'alito caldo e lieve del meriggio fa correre un fremito di piume nere. Gli ufficiali, che hanno trovato delle sedie in una osteria abbandonata, siedono fuori della porta, sotto a degli alberi. Aspettano ordini. Vi è una serenità, una tranquillità da riposo durante la manovra. Non si direbbe mai che questi soldati si sono battuti di notte e di giorno, che hanno preso delle trincee alla baionetta, sopraffacendo gli austriaci con le mani alla gola.

Il centro della strada è deserto. Da lì si vedono le colline rocciose di Doberdò così vicine che sembrano a portata di voce. «Tra poco ricomincia la musica!» — osserva un ufficiale guardando l'orologio al polso, e appoggiata la spalliera della sedia al muro incrocia le gambe, beatamente, soggiungendo: «Ci fosse almeno un giornale da leggere!».

La musica lì si ripete ad intervalli regolari. Il villaggio è bombardato a orario. Le ultime granate hanno ferito qualche soldato, uno è morto. Da un giardinetto sbuca un bersagliere che ha composto un mazzo di fiori, adorno di una foglia di palma di San Pietro, la palma del nord. Lo mostra ai compagni, che approvano, e scompare in un recinto. È per ornarne la croce sulla tomba nuova.

Ecco, un rimbombo, un urlo apocalittico che solca la serenità del cielo, una esplosione potente, uno scrosciare di tegole e di macerie. La musica.

I bersaglieri, senza scomporsi, guardano in aria. «Dev'essere cascata sulla chiesa!» — dice uno. «Tireranno al campanile!» — osserva un altro. «Questa è cascata qui dietro». — «Ha tremato il muro».... Ma un comando interrompe i dialoghi. Un ordine è arrivato. Si parte.

In un batter d'occhio tutti sono pronti, appoggiati alle biciclette. Si fa rapidamente l'appello. Manca uno. Era là adesso. Chiamatelo. Eccolo che arriva, di corsa, tutto sporco di calcinaccio. «Signor tenente — esclama — è morta la capretta!». C'era una capretta abbandonata nel villaggio, alla quale i soldati avevano munto una bella gamella di latte. «È stata l'ultima bomba — informa il soldato — ero lì vicino, povera bestia! — e dopo un istante di riflessione: — Peccato che sia troppo dura a mangiarsi!».

Via! Con un volteggio elegante ogni soldato inforca la sua macchina e sospeso sul sottile scorcio delle ruote fila nel candore della strada sollevando una bassa scìa di polvere. La compagnia scorre ordinata, silenziosa, veloce, tutta grigia, nella direzione del nemico.

I fucili a bandoliera ergono sullo svolazzamento delle piume come un tratteggio inclinato.

Una folta e confusa massa di gente si avvicina. Viene dalla fronte. Nel polverone che solleva, s'intravvedono dei carri gremiti di persone, tirati da buoi. È un formichìo oscuro, lento, taciturno, nel gran sole ardente. L'emigrazione.

Sono abitanti che il bombardamento austriaco scaccia da ogni paese, da ogni villaggio, da ogni casolare. L'esercito nostro li aiuta, li protegge, li nutre, e disciplina l'esodo. Dei soldati marciano in testa alle colonne e le fiancheggiano.

Il fuoco è cessato, e quando la carovana arriva nell'ombra delle case si ferma e si riposa. «Avanti, coraggio brava gente — avvertono i soldati — ancora un poco, poi vi ristorerete: qui può succedervi qualche disgrazia!» Delle invettive contro gli austriaci si levano dalla folla. Voci di donna gridano, nell'espressivo dialetto veneto: « Anca qua i ne copa! » — « No i vede che semo poareti? » — « Tuto i n'ha tolto, anca i toseti, e adesso i ne buta zò le case! ».

«Calma, calma — ammoniscono bonariamente i soldati. — Tornerete presto a casa!» — « Che el Signor ve scolta! » — rispondono le voci. — « Benedeti vualtri e le mare che v'ha fato! » — E la moltitudine riprende la marcia.

Sono donne, bambini e vecchi, tutto quello che è rimasto del popolo, irredento. Carrette di ogni genere trasportano i loro umili bagagli, e sui cumuli dei fagotti e dei sacchi, facendosi ombra con delle vecchie ombrelle aperte, si accalcano i bimbi, gli stanchi, i deboli, in un groviglio multicolore che oscilla alle scosse dei veicoli. Tutti gli altri marciano, gli uomini a parte, due per due, muti, quasi ubbidendo istintivamente alla disciplina militare che li circonda.

Qualche donna conduce dietro di sè la mucca, l'unica ricchezza rimasta alla famiglia, e tira faticosamente sulla cavezza per indurre la povera bestia, stupefatta ma placida, ad allungare il passo. Si vedono dei bambini feriti, sui quali delle fasciature fresche e ben fatte indicano la cura dei nostri posti sanitarî.

La carovana continua il cammino, lentamente, verso l'Isonzo. Un'altra si avvicina, ma ben diversa. Questa è composta di uomini validi.

Dopo che l'Austria, con la leva in massa, ha portato via da questi paesi tutti i maschi dai diciassette ai cinquant'anni, dopo la fuga di tutte le persone notoriamente irredentiste, dopo l'arresto e l'internamento di tutte quelle altre persone che erano semplicemente sospette d'irredentismo, ogni uomo valido che s'incontra è un individuo sospetto. Nove volte su dieci non è nemmeno italiano. Lo dice la sua faccia, lo dice la sua maniera di mettersi sull'attenti per affermare: Son taliano!

Nei primi momenti dell'occupazione non ci si è fatto caso. Ma non abbiamo tardato ad accorgerci che eravamo circondati da spie. Le nostre ricognizioni sorprendevano sventolamenti di bandierine nell'alto dei villaggi. Il passaggio di truppe in alcuni nodi di strade combinava stranamente con l'incendio di un mucchio di paglia o con la caduta d'un alto albero. Alla notte, dietro certe nostre batterie, sul dorso dei colli, palpitavano luci di lanterne cieche. Chi sventolava le bandiere? chi bruciava la paglia? chi abbatteva gli alberi? chi faceva brillare quelle luci? Si trattava di segnali, chiari, precisi, seguìti infallibilmente da un fuoco austriaco che cadeva dritto sugli esploratori, o sulla truppa in marcia, o sulle batterie. Ma non si trovavano i colpevoli, che si mescolavano alla popolazione campestre, troppo atterrita da loro per denunciarli.

Ho visto io stesso, alla notte, scintillare misteriose segnalazioni sulle colline, e eliografi nemici, durante il giorno, parlare a lampeggi con qualcuno che era dietro alle nostre file. Lo Stato maggiore d'una nostra divisione arrivava in un villaggio, e un minuto dopo delle granate piombavano sul suo quartiere generale. Accampamenti ben celati, invisibili al nemico, erano bombardati appena formati. Le nostre batterie si vedevano scoperte talvolta prima di far fuoco. Prendevano posizione, spesso nel cuore della notte, e subito il tiro nemico le cercava senza incertezze.

Noi abbiamo una lealtà militare, una cavalleria istintiva, una schiettezza e una nobiltà di razza, che c'inducono sempre a supporre nel nemico le stesse virtù, anche se il nemico è turco, anche se il nemico è austriaco. I fatti ci hanno subito disilluso. Abbiamo constatato che una vasta e minuziosa organizzazione di tradimento ci cingeva, e non abbiamo perso tempo. In quasi tutti i casi di spionaggio, le ricerche immediate ci hanno portato a scoprire nel raggio delle segnalazioni la presenza di qualche uomo valido alle armi. Qualcuno era vestito da prete.

Gli atti alle armi sono arrestati. Si tratta quasi sempre di militari austriaci. Molti confessano.

La carovana che passa è composta di questi prigionieri.

Come sbagliarsi? Sotto i travestimenti più eterocliti, il soldato austriaco si rivela. Baffi biondastri e ritorti, basette lunghe, tipi magiari, tipi tedeschi, portamento stecchito, fisionomie chiuse e dure, sguardo nemico.

Perchè non fuggano sono uniti a due a due per le braccia. Pochi fantaccini li scortano, con la baionetta inastata. I soldati che incontrano non dicono niente, guardano con disprezzo la processione sinistra e proseguono il loro cammino. Ma un conducente romano non resiste, e dall'alto del suo cavallo interpella un prigioniero che ha una faccia da feldwebel classico: Hai finito de fa la guerra cor lanternino?

Ha finito, sì, e alle spie che non sono state ancora acciuffate l'esasperata vigilanza dei soldati rende molto difficile il còmpito. Ma ve ne sono ancora, rese audaci dai lauti compensi pagati, e dai più lauti promessi. E in parte anche dalla nostra magnanimità che rifugge dalla giustizia sommaria e ci lega a procedure fra le quali lo spionaggio scivola. Ci si era teso ogni sorta di tranello.

Le semplici popolazioni della campagna erano state terrorizzate con i racconti della nostra ferocia, per indurle a fare una difesa da siepe a siepe, e in qualche centro delle armi erano state distribuite. Le sciagure che quella povera gente da undici mesi sopporta erano addebitate all'Italia. L'Italia, questa stracciona, era responsabile della guerra europea, della leva in massa, delle requisizioni; delle contribuzioni, del pane K, della carestia. La molla più possente nell'anima campagnola, il sentimento religioso, non veniva trascurata: gl'italiani erano gli alleati del demonio, gli scomunicati, i dannati, senza fede e senza morale. I nostri soldati, miserabili e delinquenti, avrebbero profanato, rubato, massacrato.

Nelle cittadine ci ha accolto qualche volta l'entusiasmo schietto e vivo delle popolazioni liberate, e la voce del sangue ha finito per parlare anche alle genti più disperse e ignoranti della campagna. La carità, la bontà, la generosità dei soldati hanno fugato ogni prevenzione, se una prevenzione rimaneva in qualche anima oppressa dal terrore abituale della servitù.

Le macchinazioni sleali del nemico si vanno sventando. Ma sta il fatto che l'Austria ha cercato di usare come armi di guerra, oltre allo spionaggio e al tradimento, la paura di povere donne e di poveri vecchi contadini e la loro fede cristiana.

Tutto è buono quando serve: Kriegsbrauch im Landkriege....

DAVANTI A GORIZIA.

20 giugno.

Mentre annotta, un duello di artiglierie s'impegna. Si distinguono i colpi dei nostri cannoni da campagna, più avanti, più lontani, che si son fatti sotto come una gran muta abbaiante di molossi intorno alla fiera bloccata, mentre i boati più cupi degli obici echeggiano nelle vicinanze e il bagliore delle vampe si accende fra le vigne contornando neri profili d'alberi.

Forse si prepara un passo avanti sul Carso? Forse si respinge un contrattacco? Chi sa? Le fanterie nemiche sono in qualche punto a portata di voce. Nelle ore di silenzio, alla notte, i nostri soldati odono gli austriaci che parlano dietro ai loro parapetti di roccia, sulla quale le granate mordono così malamente.

Si combatte per la conquista di ciglioni nudi, sassosi, sui quali non si possono scavare trincee. La parola Carso viene dal celtico carn che significa roccia. La montagna, con le sue stratificazioni calcaree, con quelle ossature bianche che emergono fra i magri sterpi sulle piccole vette, con le sue vallette verdi, sorprendenti di rigoglio, strane conche di frescura entro bordi di pietra, con i suoi crepacci, le sue spelonche, e gl'imprevisti aspetti pieni di una tagliente arditezza, ricorda un po' la montagna di Derna.

La natura offre alla difesa delle formidabili posizioni naturali, completate e fortificate con un assiduo lavoro. Il nemico si annida dietro baluardi di macigno, ai cui approcci si accumulano le difese ausiliarie delle focate petriere e dei reticolati. Se l'Austria ha creduto utile fingersi sorpresa dalla nostra guerra, tutto sul campo di battaglia smentisce la sorpresa, tutto vi dimostra invece una preparazione ben studiata, lunga e paziente. L'abilissima e laboriosa organizzazione tattica del terreno dice come la guerra con l'Italia fosse da gran tempo nei piani austriaci. Soltanto il momento rimaneva da scegliersi. E quello lo abbiamo scelto noi.

Se non avessimo che degli uomini armati contro di noi, se non ci fossero che delle masse manovranti, come nelle classiche guerre del passato, se il valore, l'ardimento, l'eroismo costituissero ancora i coefficienti massimi e quasi esclusivi della vittoria, noi non saremmo più sull'Isonzo.

Ma l'eroismo finisce pur sempre con l'imporsi. Esso è una volontà che arriva al furore. Una volontà che gli ostacoli esasperano e rafforzano. Le nostre truppe, avanti alle difficoltà, non hanno che un impulso, quello di slanciarsi.

Tutto ciò che abbiamo letto di più bello sulla guerra europea, di assalti audaci e veementi, di attacchi alla baionetta attraverso folti reticolati, in una grandine di piombo, non deve più farci invidia. Simili episodi si svolgono normalmente nella nostra guerra. Soldati che non erano mai stati al fuoco hanno trovato semplice e naturale andarci così.

Al primo urto l'esercito si è comportato come se avesse sempre combattuto e sempre vinto; ha dimostrato un istinto di battaglia, una sapienza spontanea della lotta, una natura guerriera. Possedeva inconsapevolmente virtù militari, che solo la pratica della guerra sembrava dovesse infondere. Gli egoismi naturali degl'individui sono scomparsi, la vita delle persone si è fusa in una vita più grande, ogni uomo si è sentito una molecola nel vasto organismo dell'esercito, una goccia d'acqua nell'onda. Vi è un ardore di tutti, un sentimento di tutti, una passione di tutti, un solo volere, un solo cuore. Si è destata subitamente nell'esercito nuovo l'anima antica, la fiera anima della razza foggiatasi nel fulgore lontano di secoli gloriosi. Vengono da lei queste abilità della guerra nella folla italiana. Questo travolgente desiderio di assalto è un'eredità latina, come la lingua.

I sistemi della guerra moderna e la natura del terreno ci costringono però ad un'azione paziente, fatta di scatti calcolati e di attese, di colpi improvvisi e di pressioni lente, un'azione studiata, razionale, metodica. Non abbiamo una posizione da prendere: ne abbiamo tante, incatenate su cinquecento chilometri di fronte. E per ognuna è una piccola battaglia, con le sue sorprese, le sue finte, le sue soste, le sue manovre.

Guardate una carta: l'austriaco avanti a noi è sempre più in alto. Egli tiene l'alta montagna, il nodo alpino, e noi saliamo i contrafforti, conquistando sprone per sprone, declivio per declivio, vetta per vetta. La nostra guerra è un'ascensione. Sempre più su, sempre più su. Ogni combattimento è un gradino che superiamo. Il gradino seguente domina. Il nemico fugge in altezza. Ritirandosi ci sovrasta. Ma che importa? Noi ascendiamo irresistibilmente.

Nel Carso il nostro attacco s'inerpica ora sulle prime pendici.

Il duello d'artiglierie prosegue.

I cannoni austriaci fanno delle salve serrate e poi tacciono. Forse hanno poche munizioni; forse temono di scoprirsi. Cambiano spesso il loro obbiettivo. Non fanno quasi mai un fuoco di ricerca, di assaggio, di esplorazione. Colpiscono raramente e con magri risultati, ma si vede bene che sanno sempre dove tirano e contro quale bersaglio. Non esitano. Cercano di agire a colpo sicuro. Segnali di spie? Abilità di osservatori?

Ma quando una batteria austriaca è individuata è una batteria silenziata. Un uragano di fuoco piomba su di lei. Allora dietro le spalle delle alture pare avvenga una breve eruzione. Certo è che i cannoni nemici sono astutamente piazzati. Sorge il dubbio che alcuni, dei quali neppure i riflessi della vampa si scorgono nell'oscurità della notte, siano nascosti in caverne.

La montagna è tutta grotte e baratri sotterranei. Ha labirinti immensi nelle sue viscere; pozzi, cunicoli, gallerie, spelonche, formano un meraviglioso e tenebroso paese di abissi. Vicino a Monfalcone stesso si spalancano antri misteriosi dai quali emana uno spavento leggendario, come la Grotta del Diavolo dove secondo la tradizione si muore di terrore. È possibile che dietro la bocca cespugliata di cavità naturali stiano dei cannoni in agguato, diretti dal comando telefonico di osservatori appiattati sulle vette? Lo sapremo.

Tutta la vallata echeggia. Su Ronchi, su Monfalcone, delle granate cadono. Le città sono deserte, gli abitanti sono fuggiti in massa verso l'Italia. Sull'arsenale si ergono ancora intatte le alte ciminiere, ma gli edifici sono in rovina. Il lavoro vi si è ostinato fino al giorno quattro.

I bombardamenti eseguiti dalla nostra flotta avevano già paralizzato il cantiere navale, ma v'era una fabbrica di proiettili di artiglieria, appena impiantata, che non voleva darsi per vinta. Gli austriaci non credevano che la nostra avanzata li sopraffacesse così presto. La loro perseveranza nel mantenere attivi alcuni stabilimenti di Monfalcone dice come si credessero sicuri della difesa dell'Isonzo e dà la misura del nostro successo. La guarnigione fu sorpresa dalle avanguardie italiane, e si salvò a stento inerpicandosi affannosamente oltre la Rocca, inseguita dai nostri che non volevano lasciar presa.

La città antica, al di là dell'arsenale, così italiana, così veneta con i suoi portici bassi, le sue procuratie dagli archi larghi come quelli di cripte, è vuota, silenziosa, oscura, e qua e là le vecchie case abbandonate, nelle risuonanti viuzze pittoresche, sono sfregiate dalle esplosioni che sforacchiano qualche tetto e ne soffiano via le tegole.

Per tutta la notte il cannone ha rombato. La più grande violenza delle artiglierie era verso Gorizia. Il cielo palpitava di lampi a settentrione.

All'alba, delle immense colonne di fumo si scorgono in fondo alla pianura. È il paese di Lucinico che brucia.

Entriamo ora in un'altra zona delle operazioni. Ci avviciniamo alla strada di Gorizia, cioè al centro della battaglia dell'Isonzo, dove più ferve intensa e vasta la lotta, dove gli austriaci hanno posto le più forti difese, le più possenti e numerose artiglierie, le più solide truppe.

Le posizioni nel loro insieme sono rapidamente descritte. L'Isonzo scorre in una gola profonda fino a Salcano, cioè quasi fino a Gorizia, e, da lì al mare, mentre alla destra del fiume si apre subitamente l'ampia distesa verde della pianura friulana, alla sua sinistra invece s'erge ancora, quasi senza interruzione, la montagna, ora a picco sull'Isonzo, come a Sagrado, ora discosta diversi chilometri come a Ronchi e Monfalcone. All'occhio, osservando il panorama, al di là del fiume appare tutta una barriera; c'è come una muraglia, che chiude l'orizzonte orientale, sfumando verso l'Adriatico. Le montagne formano per così dire i bastioni di una smisurata fortezza della quale l'Isonzo è il fossato. In qualunque punto del fiume, chi vuol passare si trova di fronte questo baluardo, più o meno accessibile, spesso altissimo, scosceso, imponente.

Formidabile e semplice, nella sua linea sommaria il piano di difesa austriaco è consistito nella distruzione dei ponti, e nella fortificazione della grande barriera montana con opere di ogni genere, con multiple linee di trinceramenti e con una distribuzione sagace di artiglierie ben nascoste.

Ma la barriera è spezzata, per dir così, da due valli, per le quali passano le comunicazioni verso l'interno. La muraglia ha insomma due porte, che danno accesso alle grandi arterie stradali e ferroviarie per Lubiana, per Villaco, per Klagenfurt, il possesso delle quali è essenziale. La conquista e la difesa delle due porte doveva perciò essere l'obbiettivo logico dell'azione; qui dovevano evidentemente convergere gli sforzi dei due eserciti. E alle due soglie gli austriaci hanno quindi accumulato tutte le difficoltà, tutti gli ostacoli, tutte le insidie che la loro scienza militare, perfezionata dalla lunga pratica, poteva suggerire.

Le due porte sono Tolmino e Gorizia.

A Tolmino per la vallata dell'Idria e a Gorizia per la vallata del Vipacco sboccano dunque nella valle dell'Isonzo fasci vitali di strade, che scavalcano il fiume su molteplici ponti. Questi sono i soli ponti che non siano stati ancora distrutti. È oramai un elemento d'arte militare noto anche ai ragazzi che per difendere efficacemente il varco di un fiume bisogna portarsi avanti, bisogna cioè occupare non soltanto la riva da proteggere ma prendere solidamente posizione sull'altra sponda, stabilire delle opere di arresto più lontane che sia possibile, tanto per impedire al nemico l'accesso al varco, quanto per garantire a sè stessi il libero uso del varco stesso e passare, occorrendo, dalla difensiva all'offensiva.

È appunto quello che a Tolmino e a Gorizia gli austriaci hanno fatto e che in termine tecnico si dice «testa di ponte». In questi due punti essi si sono radicati al di qua del fiume. La natura del terreno li ha straordinariamente aiutati. Allo sbocco della valle dell'Idria, al di qua dell'Isonzo, presso Tolmino, si ergono due montagne gemelle, unite per le falde, isolate in giro, cinte da tre lati da una curva sinuosa dell'Isonzo: una specie di gigantesca e dominante coppia di sentinelle a guardia di una soglia. Il loro nome è stato fatto sui bollettini: sono le montagne di Santa Maria e di Santa Lucia. Fortificate, munite di cannoni di grosso e di medio calibro, le due montagne comandano tutti gli accessi.

Con un'analoga prodigalità la natura ha eretto avanti a Gorizia, sulla destra dell'Isonzo, non meno formidabili baluardi nelle brusche alture di Podgora, alle quali si attacca un tumulto di colline, che si culmina, un poco al nord di Gorizia, nel monte Sabotino, fosco, oblungo, imponente. Tutto questo sistema di vette e di declivi è fortificato a oltranza.

Riducendo la difesa dell'Isonzo all'immagine rudimentale del muro con due porte, un solido muro crestato di vetro e due porte terribilmente barricate avanti alla soglia, comprendiamo chiaramente nel suo schema la nostra azione, così bene descritta dai bollettini. Mentre investiamo la porta principale, Gorizia, abbiamo scavalcato il muro alle due estremità, Caporetto e Monfalcone, e incuneiamo la nostra azione all'altra parte della barriera. A nord e a sud delle due teste di ponte austriache, abbiamo così creato noi due teste di ponte italiane, per le quali l'offensiva penetra e lentamente si allarga al di là dell'Isonzo.

Ed ora guardiamo.

Nella mattinata serena, la pianura superba, coperta da vegetazioni così folte che simulano il bosco, sfuma via e impallidisce, contro la luce del sole, in tinte evanescenti. Al primo momento la battaglia, come tutte le battaglie moderne, è invisibile, incomprensibile, un frastuono tonante, un formarsi e un dissolversi di fumo, un chiamarsi e rispondersi di rombi e di boati, uno scintillare vago di vampe in località imprecisabili. E tutto questo sembra poca cosa nell'impassibilità sublime del paesaggio.

A chi osserva dall'alto di una delle rare collinette che levano sulla pianura la molle groppa impellicciata di acacie, i villaggi, immersi nelle immobili onde delle verdure, si fanno riconoscere ad uno ad uno, per il campanile. Un campanile strano, con la cupoletta slava, che ricorda quello delle chiese russe: Romàns — più vicino, un campanile aguzzo, ardito, veneto: Versa — un campaniletto campestre che una granata ha sfiancato: Fratta. Sono tutti paesi che i cannoni austriaci hanno successivamente preso di mira. Gli abitati sorgono secondo una logica della viabilità, le case si aggruppano alle confluenze di strade, ogni villaggio chiude un piccolo centro di comunicazioni, e l'artiglieria nemica, colpendo i villaggi, ha cercato di colpire ai nodi le maglie della grande rete di vie che in ogni senso vena di bianco la pianura friulana.

Sotto alle alture che chiudono il piano, Gradisca si sgrana bianca lungo la sponda dell'Isonzo, che è indicata da un infoltire di verde, da uno schieramento solenne di pioppi. Dei giardini, delle ville, dei recinti, e, quasi fuori del paese, i grandi edifici della scuola normale, una caserma, degli stabilimenti industriali sui quali le ciminiere si levano sottili come antenne. Come tutto sembra quieto laggiù, nel sole!

Alla città fa sfondo il Monte San Michele, che è un'ultima propaggine del Carso, e più lontano, più in alto, irrompono, azzurre e pallide, le vette del Monte Re. Ai piedi delle alture, sul limite della pianura, come la spuma al bordo del mare, è un biancheggiare quasi continuo di paesi, greggi di case che si dissetano nell'Isonzo. Sdràussina, Sagrado, Fogliano, San Pietro, e sembra tutto un prolungamento di Gradisca. Sulle pendici, dei prati verdi, delle boscaglie oscure, delle strade deserte che serpeggiano ascendendo, delle trincee austriache abbandonate — lunghe e sottili ferite nere, insolentemente visibili. Sono probabilmente delle false trincee, incaricate di attirare la nostra attenzione. Le vere si nascondono, si mascherano con erbe e fronde.

S'incomincia a comprendere.

Le tappe della nostra avanzata sono segnate sulla pianura. Ogni sosta ha lasciato una linea fulva di terra smossa, un solco di trinceramenti dai parapetti punteggiati di feritoie, una barriera oscura che attraversa i prati, sparisce nei vigneti, tocca dei paesi, si nasconde, si perde. Il più vicino è il fronte sul torrente Versa, il fronte assunto il primo giorno della guerra, come i comunicati descrissero. Sono tutte abbandonate, quelle strane arginature della battaglia che hanno segnato sulla terra una specie di gigantesco diario della conquista, sono tutte lasciate indietro. La fanteria non si vede più, è laggiù a Gradisca, tiene quella linea di paesi, tocca il fiume, si annida nella boscaglia delle rive, pare scomparsa.

Nell'apparente solitudine luminosa del paesaggio, sono i proiettili di cannone che rivelano vagamente le disposizioni del combattimento, che lasciano intuire le masse combattenti sotto la coltre delle vegetazioni. Due o tre stormi di shrapnells austriaci scoppiano sulla pianura, un polverone di calcinacci annebbia per un istante un campanile, delle nubi bianche si formano sulle cime d'un filare di platani. Una pausa, poi altre nubi si sfilacciano lentamente nell'aria calda e quieta, e le esplosioni echeggiano. Ma da località imprecisabili si solleva un tumulto impetuoso di rimbombi. La risposta.

Sono obici italiani che interloquiscono, ed ecco le vette sopra Sagrado in convulsione. Se gli shrapnells austriaci ci hanno indicato dove stanno forse delle truppe nostre, sappiamo bene ora dove si nascondono i cannoni che li hanno lanciati. Le granate italiane tempestano le vicinanze di una villa circondata da boschetti, sul ciglio dell'altura. È Castello Nuovo. Nembi di polvere e di fumo la avvolgono; i boschetti scompaiono nelle dense nubi degli scoppi. La batteria austriaca non fiata più. È un episodio breve, repentino, minuscolo.

Altri si succedono, incessantemente; la nostra attenzione è chiamata da cento parti. Bisogna seguire le indicazioni del cannone. Esso spiega la battaglia, a poco, a poco. Su tutto il fronte l'artiglieria romba, ma la tempesta più violenta, più intensa, più ostinata, è verso Gorizia.

Oggi è uno di quei giorni che i bollettini chiamano di «attività sul basso Isonzo». Sono i giorni nei quali si fa un passo avanti. Intorno a Gorizia è l'uragano. La città, i sobborghi, le alture di Podgora, impallidiscono in una bruma grigiastra.

Gorizia si nasconde in parte dietro alle alture di Podgora, s'incastra fra le montagne, si annida in quell'ultimo lembo di pianura che s'insinua verso la gola dell'Isonzo. Da lontano, Gorizia, che spunta dalla valle affacciandosi nel piano, fa l'effetto di un torrente di case che dilaghi dallo sbocco e si spanda in un'effervescenza di muraglie bianche. I bordi della città presso l'Isonzo, dove delle linee di difesa austriaca si annidano, la stazione ferroviaria, le adiacenze dei ponti, sono bombardati. L'incendio di Lucinico si allarga. Lucinico era compreso nelle fortificazioni di Podgora e la popolazione l'aveva abbandonato.

Le fiamme si levano agitate, occhieggiano chiare nel tremolìo di un'atmosfera ardente e fosca, e sulla folla velata e confusa degli edifici il fumo sale denso nella calma, altissimo. Gli scoppi delle grosse granate coprono di cirri le creste di Podgora. Nembi bianchi sorgono lentamente dalle vallette di tutto quel complesso sistema di alture che nasconde Gorizia. Sui fianchi violastri del Monte Sabotino, che solleva più lontano la sua lunga groppa, il fumo si arrampica in nubi che si dissolvono lente.

I nostri cannoni battono su tutti gli sbarramenti. La battaglia s'inerpica, va verso San Floriano, va verso Plava. Scende dal nord, dai monti, un boato continuo di cannoneggiamento remoto. Le esplosioni vicine hanno una violenza da folgore. L'attacco nostro, generale per l'artiglieria, non ha la pienezza delle grandi masse per la fanteria; non vuole averla; si comprende che ha qualche obiettivo parziale; ma su certe posizioni nemiche esso preme con magnifica violenza. Linee e linee di trincee avanzate sono state prese. Alcuni reparti, ricacciato il nemico, lo incalzano sulla seconda linea, che è la più forte. Si combatte ai bordi di Lucinico in fiamme, sotto alle buffate acri dell'incendio. Gorizia è là a due passi.

Con un entusiasmo ardente, con un eroismo sublime, delle fanterie nostre hanno saputo portarsi di fronte alle più formidabili opere campali di difesa, e sono là imperterrite, a qualche centinaio di metri dal nemico, nelle frettolose trincee d'attacco.

ASPETTI DELLA LOTTA SULL'ISONZO.

22 giugno.

La preparazione austriaca, evidentemente iniziata da moltissimo tempo, ha fatto tesoro delle esperienze della guerra delle nazioni. Le prime trincee conquistate dai nostri, profonde, interamente protette, con delle vegetazioni abilmente riportate sulla copertura, non hanno resistito all'impeto dell'assalto. Più avanti abbiamo trovato dei baluardi di cemento armato, delle scudature di acciaio, tutte le difese della guerra di trincea, contro le quali bisogna passar dalla furia alla pazienza.

Il terreno, avanti, è disseminato di tranelli, e in qualche posizione, perchè il tiro dell'artiglieria non distrugga i reticolati, questi sono abbattuti, giacciono molli al suolo, non si scorgono; ma quando l'assalto arriva o è imminente, dall'interno delle trincee i difensori tirano delle corde, e i reticolati sorgono impreveduti e intatti.

Talvolta le trincee austriache, quando forse il fuoco della grossa artiglieria si precisa o quando occorre spostare delle truppe allo scoperto, si nascondono in un fumo di sostanze resinose. I punti più importanti, più vitali, sono così trasformati in fortezze. Agli approcci diretti di Gorizia, sui declivi di Podgora e del Sabotino, si sovrappongono in ranghi paralleli trincee blindate, dalle cui feritoie minuscole scoppietta un fuoco accurato di miratori scelti.

Non era sufficiente l'asperità dei luoghi; non bastava la protezione offerta dalla terra stessa, che oppone alla invasione i castelli delle sue vette; bisognava, per mantenervisi contro di noi, moltiplicare all'infinito le resistenze impassibili della meccanica guerresca, ridurre al minimo il coefficiente del valore umano; era necessario dare il còmpito massimo della difesa all'acciaio, al cemento, all'intreccio di fili di ferro che si spande sui pendii come un'immensa tela di ragno, alle mine: combattenti che non fuggono. Per quanto buone, solide, disciplinate, agguerrite, abili, le truppe austriache non hanno mai posizioni troppo forti per il nostro soldato, quando al valore degli uomini più che all'automatismo delle cose è affidata la lotta.

Ed anche contro la muraglia di cemento, contro i reticolati a sorpresa, sulle mine, l'assalto italiano si sarebbe egualmente gettato, furibondo, eroico, se non fosse stato trattenuto. In breve tempo la linea d'attacco è arrivata fino lì, in un balenìo di baionette. Un'avanzata che sarebbe potuto costare i sacrifici di una lunga e lenta progressione, e trasformarsi forse in guerra di scavo, è avvenuta fulminea, irresistibile. Qualche reparto è così vicino alla linea blindata che l'artiglieria ha dovuto sospendere il fuoco su quel punto, e a portata di voce dagli austriaci fortificati i nostri soldati lavorano a sistemare le trincee avanzate che hanno preso, nelle quali raccolgono le armi abbandonate dal nemico.

Alcuni fucili austriaci, nuovissimi, portano impressa sulla canna un'aquila, ma non bicipite. È un'aquila con una sola testa, e posata sopra una foglia di cactus, le ali aperte, essa tiene fra gli artigli e nel becco un serpente che si torce avvolgendola nelle sue volute; in giro all'aquila le parole: «Republica Mexicana». Ancora i fucili di Massimiliano? No, sono i mausers preparati per il generale Huerta, e rimasti «per conto», il destinatario essendo partito senza lasciare indirizzo.

Di tanto in tanto, nel rombare delle cannonate, echeggia un boato più possente e profondo degli altri, che domina il frastuono come un colpo di grancassa in un concerto. È il famoso obice austriaco da 305.

Si sapeva all'inizio della guerra che c'erano dei 305. Qualche profugo li aveva visti passare, trascinati da file di buoi e scortati, pare, da artiglieri tedeschi. Ma, efficaci nella demolizione di fortezze, i 305 sembravano inutili in una difesa a campo aperto dove il loro colpo, costosissimo, lanciato sopra un bersaglio vago, non poteva produrre molti più danni d'un altro qualsiasi colpo di grosso cannone. Perciò, ad onta delle informazioni, si dubitava della loro presenza sul nostro fronte. Questi colossi dell'artiglieria hanno gli svantaggi di una mobilità faticosa. Sono i pachidermi della guerra.

Forse gli austriaci contavano sull'effetto morale. Il successo doveva scaturire sopra tutto dal rumore. L'obbiettivo iniziale del mostro fu la stazione di Cormons.

Alla prima detonazione formidabile, che fece sobbalzare gli edifici, nella stazione si credette che fosse scoppiata una cassa di munizioni. Fu un correre curioso di soldati, d'impiegati, che si domandavano: — Com'è successo? Dove? — e la folla si precipitò a vedere. In un punto, sulla campagna, c'era un gran fumo. E tutti via, verso il fumo.

Dissipatasi la nube, si vide a terra una buca larga cinque o sei metri, profonda tre o quattro. Si facevano le più svariate ipotesi. In quel momento, nell'aria s'avvicinò un rombo che si spense in un soffio possente, e subito dopo un'altra nube di fumo, un'altra detonazione profonda, dalla parte opposta della stazione. «Ah, ma sono cannonate!» dissero allora tutti come tranquillizzati. Il mistero era perfettamente chiarito. La cosa diventava naturalissima. Diamine, cannonate in tempo di guerra, niente di più logico. E il lavoro fu ripreso, quietamente, serenamente.

Ognuno tornò al suo posto, con qualche fierezza di sentirsi al fuoco, e la stazione di Cormons continuò a funzionare con perfetta regolarità, come se niente fosse. Nemmeno gli abitanti della città si spaventarono. L'effetto morale fu veramente straordinario.

È anche vero che le granate da 305 non toccarono nessuno.

Dove tirano ora i famosi obici? È difficile indovinarlo. Non hanno molti colpi da sprecare. La loro vita è breve. Ogni ora, ogni due ore, un rimbombo, che pare lo scoppio d'una polveriera. Non vediamo nè il bersaglio nè il cannone. Forse è al di là delle colline che i proiettili cadono, a nord di Podgora. Chi sa? Quello che si vede di una battaglia moderna è così poco!

Essa si delinea vagamente, e ogni dettaglio sfugge. Non vorrei nutrire nel lettore l'illusione che io sia testimonio oculare di tutti i particolari che racconto. Tuoni e fumo, ecco quel che sento e quel che scorgo, e la linea del combattimento invisibile si rivela lentamente nell'immobilità solenne del paesaggio, da campanile a campanile, da costa a costa. Ma da ogni parte, laconiche ed eloquenti, delle notizie arrivano, parole che cadono al passaggio di staffette veloci, informazioni sommarie che scaturiscono dall'allacciamento dei servizi, voci che la battaglia propaga dalle trincee sui nervi delle retrovie: «Il nostro battaglione è andato alla baionetta». — «Siamo ora sulle seconde linee». — «La tale posizione è presa». — «Abbiamo fatto dei prigionieri». — «Tutto va bene, evviva!»

Le località indicate sono in una bruma pallida, ma non sembrano più impassibili al nostro sguardo dopo quello che sappiamo di loro; esse assumono una espressione indicibile; ci pare di conoscerle profondamente; le sentiamo amiche o nemiche, sottomesse o pugnaci, a seconda che accolgono o trattengono la nostra avanzata.

Tutto si anima, tutto vive, tutto palpita, vi è una torva ostinazione sul profilo di Podgora, e il Sabotino alto e fosco vigila come una spia. Dietro alle sue spalle si sporge il Monte Santo, che solleva ipocritamente sul vertice il puro biancore di un santuario e nasconde artiglierie austriache in tutte le pieghe delle sue pendici. Il Sabotino indica, il Monte Santo spara. E più in basso spara il colle Santa Caterina, che non si lascia scorgere, in agguato, irto di cannoni anche lui.

No, non si vedono più gli uomini nella guerra d'oggi, sono divenuti troppo piccoli nella vastità, nella imponenza, nella possanza della loro azione; ma entro la solitudine apparente della battaglia i luoghi stessi, con le varie fisionomie del paesaggio, sembrano divenuti i veri protagonisti della lotta, combattenti favolosi pieni di corruccio, di sdegno, di forza; e da montagna a montagna, fra le vette ferite, s'accanisce un duello titanico a colpi di fulmine.

Alle spalle della battaglia, le strade non sono tutte deserte. Una vita strana vi serpeggia, appena visibile, che più lontano dal fronte di combattimento si allarga sicura e viene ad innestarsi nella popolosa e attiva normalità degli accampamenti e dei bivacchi, dei parchi di rifornimento e dei depositi, delle ultime stazioni di carreggio, e arriva fra gli affollamenti gai e vocianti delle riserve, incuranti del cannone, dal quale salgono canti spensierati.

L'artiglieria austriaca batte ad intervalli le strade, senza vederle. Vi mette delle barriere di fuoco anche quando non passa nessuno. Cerca di indovinare le arterie di rifornimento. Si assiste palpitando alle avventure di piccoli convogli che vanno lentamente verso il fuoco, di batterie che si spostano al passo con una solennità sdegnosa chiamate su altre parti del fronte, di squadroni, di staffette, mentre percorrono le strade bombardate. «Si fermano? Sono colpiti?... No, vanno avanti. Ma fate presto che Dio vi benedica!». — E attraverso sinistri spiumacciamenti di fumo quel piccolo movimento di cavalli e di uomini, ai quali s'afferra tutta la nostra passione, procede impassibile, superbo.

Mossa è bombardato, San Lorenzo è bombardato, la strada che li unisce è sotto al fuoco, si vedono gli scoppi indicarne col fumo il tracciato. Della gente che viene di là arriva con una imperturbabilità sbalorditiva. Un'unità di cavalleria ha un'aria di contentezza emergendo dalla zona battuta, verso Medea. «Anche un colpo da 305 ci hanno tirato!» — annunziano i soldati per affermare fieramente la loro importanza, e fanno piede a terra. Fra loro due soli colpiti, leggermente, che sono rimasti in arcione ed hanno avuto le congratulazioni dei compagni vicini.

I due privilegiati si fanno medicare e tornano al loro cavallo che aspetta con la briglia attorta all'asta della lancia piantata nel suolo. Da quando è cominciata la guerra, in tutta una divisione di cavalleria avviene questo fenomeno: che non c'è più malati. I soldati che non si sentono bene, si curano da loro per paura d'essere mandati all'ospedale.

Sereni ma stanchi, quelli che arrivano da più lontano portano un'eco di assalti. Sono descrizioni rozze, concise, vive, palpitanti. Esse ci fanno vedere i nostri soldati furibondi degli ostacoli, appiattati avanti agli inattaccabili baluardi di calcestruzzo, che soltanto una valanga di esplosivi può schiacciare, gridando ingenuamente agli austriaci: «Venite fuori dal buco, attaccateci se avete fegato!».

Sembra strano, ma sono quelli che vengono dal fuoco che sono più avidi di notizie. Non hanno visto che un punto, un angolo, un episodio della battaglia. Essi domandano a coloro che sono lontani, e questi si precipitano sull'estraneo che arriva dal di là delle zone di guerra, dalla quiete operosa della nazione. L'esercito, isolato, non conosce nemmeno i bollettini ufficiali.

In Francia e nel Belgio è stato creato il Giornale degli eserciti, per informare le truppe. Si sono riconosciuti i pericoli dell'oscurità. Una volta, il soldato la battaglia la vedeva. Ora essa è per lui un grande mistero, la decifrazione del quale non è prudente sia lasciata ai «si dice», sempre eccessivi, che si trasformano propagandosi, e si esagerano. Avvengono sul fronte fatti così meravigliosi di fulgido eroismo, che la loro conoscenza fornirebbe alle truppe infiniti argomenti di orgoglio.

Quando l'Italia dichiarò la guerra, l'annuncio fu dato istantaneamente su tutto l'immenso fronte francese, inglese, belga, e l'entusiasmo scoppiò in canti formidabili, per trasformarsi poco dopo in furibondi e fortunati assalti. Vi sono notizie preziose per il morale delle truppe. Le vittorie, gli ardimenti, le ragioni di ogni decorazione, le citazioni all'ordine del giorno, le manifestazioni patriottiche del paese, lo slancio nazionale per provvedere all'avvenire delle famiglie dei soldati, sono cose che, potendolo, dovrebbero essere portate formalmente a conoscenza dell'esercito. Il suo ardore non potrebbe essere più grande, la sua fede non potrebbe essere più ferma, ma le virtù che sono in lui avrebbero conforto ed alimento.

Tutti ricordano come, nei primi giorni della nostra guerra, in ogni città d'Italia delle voci, la cui origine è chiaramente austriaca, volevano far credere alla distruzione di un reggimento che variava da città a città, che era romano a Roma, fiorentino a Firenze, milanese a Milano. Ebbene, ho trovato degli ufficiali e dei soldati di un reggimento meridionale angosciati perchè qualcuno ha detto loro che al paese le loro famiglie li credono tutti morti e li ha assicurati che la notizia del loro massacro era comparsa sui giornali.

«Non è vero! — ho protestato con indignazione — chi è venuto a inventarvi queste indegnità?» «Un borghese che era da queste parti» — mi hanno risposto. Il borghese che era da quelle parti lavorava apparentemente, povero untorello, a spargere anche fra le truppe il suo inutile veleno. Ma non abbandoniamole alle voci, noi non sappiamo fino a dove l'agente nemico può penetrare, fissiamo il pensiero dei soldati sui fatti, così belli, che avvengono in magnifica dovizia dove si combatte e dove si aspetta, e che essi in tanta parte ignorano.

Sopra una delle alture da cui si domina la vallata dell'Isonzo, c'è come una piccola terrazza naturale, ombreggiata di acacie. Durante le fasi più attive dell'azione, dei generali sono saliti lassù. Il Re vi è comparso due volte. Il suo arrivo è stato annunziato da un'acclamazione clamorosa. Tutto un accampamento di riserve, che allinea fra i filari di vite le sue tende grigie, ha salutato il Sovrano con un urlo, che pareva la voce d'un assalto.

I soldati sono accorsi da ogni parte, è stata una confusione da alveare negli attendamenti pavesati da biancherie che asciugano. «Viva il Re!» — gridavano anche i soldati lontani, quelli che non vedevano niente, e che correvano a perdifiato attraverso i campi. Arrivando sulla strada, ansimanti, felici, i soldati si pigiavano in rango, rigidamente, duri alle spinte della massa che sopraggiungeva dopo, e che faceva da popolo dietro il cordone della prima fila.

Sceso dall'automobile, il Re passa avanti a quella siepe d'entusiasmo, e saluta, la mano al berretto, un lieve sorriso sulle labbra, facendo scorrere sui volti quel suo sguardo profondo e osservatore che lascia in ognuno la sensazione di esser visto e notato. Lo sguardo del Re è penetrante e valutatore.

Il Sovrano si ferma: «Bravo! — esclama rivolto ad un soldato. — Dove hai guadagnato le tue medaglie?». L'interpellato ha il petto fregiato da due nastri azzurri del valor militare e del nastro della campagna libica. In un combattimento a Misurata strappò al nemico il corpo del suo capitano caduto, e in Italia, in una camerata di caserma, disarmò da solo un compagno impazzito che faceva fuoco su chiunque si avvicinasse a lui. È un fiero caporale calabrese, biondo di baffi e bruno di carne, un discendente di guerrieri normanni.

«Eccoti da fumare!» gli dice il Re porgendogli dei sigari dopo avere ascoltato il suo conciso e imbarazzato racconto dialettale. Il soldato li prende con profonda reverenza, come una cosa sacra, e quando il Re è lontano la sua felicità esplode. Levando in alto il dono, egli danza gridando: « 'U zigarru d'u Re! 'U zigarru d'u Re! ».

Qualche ora dopo, mentre il Sovrano ridiscende dal colle, lungo un pittoresco sentiero tutto fresco di ombre verdi, tre fanciulle, tre contadinelle del paese, dai piedi nudi negli zoccoletti, si fanno avanti, timide, confuse, le mani piene di fiori colti allora nell'orto, e li offrono inchinandosi con una grazia tutta campestre: «Maestà.... — mormora la più ardita divenendo rossa come le sue rose. — .... I x'è fiori d'Italia! ».

Quando il Re è tornato il giorno dopo, si è fermato allo sbocco del sentiero, dove aveva incontrato le ragazze, e ha fatto chiedere di loro. Una sola era là; essa è corsa a chiamare le amiche; un minuto dopo arrivavano tutte e tre, trafelate e felici, e il Re, sorridendo con una benevolenza paterna, ha porto ad ognuna una scatola di dolci, adorna degli emblemi reali. Poi ha continuato la sua strada, seguìto dal suo Stato Maggiore che riempiva l'angusto sentiero di un grigiore d'uniformi e di un tintinnìo di sciabole.

Ma Vittorio Emanuele non può stare lungo tempo lontano dall'azione. Sente il bisogno di esservi dentro. Quando ha avuto una visione generale della situazione, sceglie il suo posto e parte. Ogni giorno è in un punto ove si combatte. Dov'è andato oggi? Lasciata l'altura, è risalito nella sua automobile, e qualche minuto dopo la vettura reale filava laggiù, sulle strade battute dagli shrapnells austriaci, attraverso villaggi che il bombardamento sforacchia e demolisce, diretta a qualche interessante settore del fronte.

Finchè si è potuta vedere, finchè la sua scìa polverosa ha indicato il suo cammino sulla zona del fuoco, centinaia di sguardi l'hanno seguìta in un silenzio commosso, pieno di una lieve angoscia, e mai il motto solenne della lealtà britannica ha avuto una più intensa significazione: Dio salvi il Re!

Alla notte la tempesta di artiglierie, durata due giorni, si è calmata. La lotta si è sopita. Un temporale scendeva dal nord, con un tremolìo di lampi, e pareva che il cielo a sua volta fosse in battaglia. Delle vivide luci azzurre di segnale brillavano di tanto in tanto nel buio, sulle posizioni austriache. In fondo alla pianura oscura, morta, invisibile, l'incendio di Lucinico metteva un punteggiare di bragie.

I risultati di questi due giorni di combattimenti? Plava. Si lottava a Gorizia per passare altrove. Bisognava impegnare tutto il fronte, per forzare un punto. Il muro è così scavalcato in tre posti. Se la porta resiste ancora, noi siamo già entrati. Abbiamo spezzato il baluardo; però altri ed altri la montagna ne oppone al di là.

I nostri progressi, sicuri, solidi, non possono essere che lenti. Non è osservando per qualche giorno il panorama della battaglia centrale che può esser dato di scorgerli. Essi si rivelano all'improvviso, ora in una zona, ora in un'altra, e spesso quello che si vede non è che una preparazione, come il picchiare faticoso sopra una roccia è la preparazione della mina che la farà crollare.

IN UN OSPEDALE.

5 agosto.

Sono arrivati improvvisamente. È stato un succedersi affannoso di camions d'ambulanza sulla ghiaia fine dei viali, all'ingresso dell'ospedale chiaro ed elegante come una grande villa; e a mano a mano che venivano discesi dai veicoli, in un affaccendamento pieno di delicatezza e di ordine i feriti erano accolti nel vestibolo, spogliati delle loro uniformi lacere e sporche di sangue disseccato, trasportati con cautela nei letti bianchi che si allineano nelle vaste sale luminose e fresche, dalle cui ampie finestre spalancate giunge appena, simile ad un lontano rombo di marea, il profondo respiro della città. Poi la quiete si è ricomposta nel nitido edificio, e sui volti dei nuovi ospiti si è diffusa a poco a poco una espressione di riposo e di beatitudine.

Il primo sentimento del soldato che arriva in un ospedale è una specie di dolce stupore per l'immobilità soffice e definitiva che lo accoglie. Assapora il benessere della immobilità con aria trasognata. Non parla. Gira intorno uno sguardo mobile, interrogatore, che studia, che cerca di rendersi conto delle cose nuove che lo circondano e nel quale brilla ancora di tanto in tanto l'esaltazione della lotta.

Il tumulto del combattimento, la foga ardente dell'assalto fulmineamente interrotta da una palla, l'attesa angosciata, inerte e solitaria sul campo, il trasporto all'ambulanza sotto il fuoco, la medicazione, il viaggio, tutto questo si è succeduto così rapidamente che si confonde nella sua mente febbricitante. Per qualche tempo egli stenta a districarsi dal passato. Quello che avviene è troppo poco in confronto a quello che è avvenuto. Il metallo non si raffredda subito appena tolto dalla fornace. L'anima del ferito è ancora incandescente. Un clamore di emozioni si prolunga in lui come un'eco e riempie il silenzio profondo della nuova quiete improvvisa.

Ma questa eco presto si spegne, la calma si fa anche nel pensiero, le impressioni si fissano, le idee si chiariscono, la curiosità incerta, vaga e atona dei feriti non cerca più intorno. Fra letto e letto si annodano dialoghi sommessi.

Nessuno parla della propria sofferenza o s'interessa a quella degli altri. Si parla della battaglia. «Di che reggimento sei? — Del tale fanteria, e tu? — Ah, eravate alla nostra destra. Io sono del tal altro. — Noi attaccavamo sopra San Martino. — Sì, sì, alla nostra destra. Io sono del San Michele». La battaglia li tiene tutti ancora. Il loro spirito rivive incessantemente i momenti supremi e inebbrianti della lotta, rifà il cammino dell'assalto con ostinazione, quasi cercando di poter proseguire oltre la ferita, oltre la caduta, di andare avanti con gli altri, con i sani, con gli arrivati, con la moltitudine esultante dei vittoriosi.

Spesso, a vederli e ad ascoltarli si dimentica quasi che sono feriti. Si varca la soglia dell'ospedale col cuore stretto, preparati ad uno spettacolo di dolore, e la pietà per i corpi martoriati si attutisce di fronte ad una gagliarda e piena salute delle anime, calda di entusiasmo.

Non somigliano ai feriti delle altre guerre. Ordinariamente, il soldato colpito durante l'azione conosce il duro sforzo della lotta, ma il risultato è per lui vago, impreciso o ignoto, si perde in una rossa nebbia. Il dolore riconduce il combattente nei limiti angusti della sua individualità. Per lui la battaglia si culmina in uno strazio. Rimane spezzata nella percezione del ferito; egli la ricorda come una fiamma spentasi improvvisamente nel sangue. Perciò, generalmente, il ferito è un pessimista. Ma i nostri no.

Non so, pare che non sappiano diventar malati, che si conservino combattenti nell'immobilità penosa delle loro membra, che considerino il colpo ricevuto come un incidente, come una corvée. Rimangono soldati, è in loro l'anima dell'esercito. Distesi nei loro letti, sovente sorridono e scherzano. Gli stessi uomini, se fossero rimasti feriti nella vita privata, se fossero atterrati così dalle disgrazie del lavoro, riempirebbero le corsìe di lamenti. Dimostrano una forza, uno stoicismo, una serenità, un buonumore, che non erano in tutti, che vengono dall'immensa fusione delle virtù nazionali fattasi nell'ardente crogiuolo della guerra. Sono trasfigurati dalla fierezza e dalla nobiltà d'uno spirito collettivo. Essi rimangono inconsapevolmente eroi di fronte alla tortura fisica come di fronte al nemico. Non si arrendono al male.

Interrogati, raccontano con semplicità rude le loro gesta senza vederne il valore. Pare che parlino di cose di tutti i giorni. Si sente dire: «Sono stato ferito mentre tagliavo un reticolato» nel tono di chi dicesse: «Mi sono fatto male scendendo le scale di casa». Chi si aspettasse delle narrazioni romanzesche rimarrebbe deluso.

L'assalto? Roba da niente. «Tutto sta ad arrivare a una cinquantina di metri dagli austriaci — mi ha raccontato un calabrese ferito alla gamba — perchè fino a cinquanta metri sparano. Poi, giù, Savoiaaa!, e quelli alzano le mani. Ed è finito».

«E che impressione si prova quando si è a cinquanta metri dal nemico? e gli si va addosso?» — gli ho chiesto. La sua faccia abbronzata si è aperta in un largo sorriso mentre egli dava questa risposta imprevedibile: «Eh,... si gode!».

Per tornare a simili godimenti egli è impaziente di guarire. La sua ferita è un conto personale aperto con gli austriaci, un conto da regolare al più presto. Quando i dottori lo medicano e gli passano i ferri nella piaga, egli nel dolore rugge invettive: «Brutto boia, aspetta, aspetta! Ci sarò anch'io quando t'acciufferemo! Aspetta, assassino, brigante...».

«Ma con chi l'hai?» — gli chiesero i medici sorpresi, la prima volta. — «Con chi l'ho?... Con Cecco Beppe!...».

Uno dei feriti, fasciato alla testa, alle braccia, alle gambe, coperto di ecchimosi, è sfuggito miracolosamente dalle mani del nemico. Fu durante la conquista del ciglione sopra....

«Ho avuto paura — dice candidamente — ma una paura! Mica delle fucilate e delle cannonate — corregge subito. — Ah, no!... È andata così: era notte fatta, la mia compagnia stava alla prima linea, fra rocce, scogli, sassi, e buio pesto. Abbiamo sentito un rumore di gente che si avvicinava alla nostra destra. «Fermi ragazzi» — ci fa il capitano. La gente si avvicinava, e noi fermi. Poi tutto ad un botto, un fuoco d'inferno a dieci passi. Erano gli austriaci. Non si distingueva niente. La compagnia ripiegò subito per non essere presa, ma io cercavo gli occhiali. Sì, signore, sono miope, m'erano caduti gli occhiali e li cercavo. E mi sono trovato in mezzo a tre accidenti che mi acciuffavano urlando certe parole difficili. È allora che ho avuto paura. Che paura! Una paura che mi ha dato la forza d'un leone. Calci, pugni, morsi.... Ma fu un momento. Eravamo sull'orlo d'un precipizio, che io non vedevo. Per non essere trascinati giù, m'hanno lasciato andare. Così sono caduto fino in fondo, ma ero libero. E mi sono conciato così.»

— E poi? — gli hanno chiesto a questo punto.

«E poi, chi lo sa! Devo aver dormito. Quando mi sono svegliato era giorno. Non capivo niente, non sapevo dove ero. Cannonate, fucilate, e, ad un certo punto, su, in alto ho sentito urlare: Savoia! Savoia! Allora ho pensato che dovevo risalire per ritrovare i nostri, e via, piano piano, come una lumaca, tra le pietre. Ho girato così tutto il giorno. Alla fine una voce mi ha gridato: Eh! torna indietro! Dove vai? Da quella parte ci sono gli austriaci! — Ho riconosciuto il maggiore, che mi avvertiva. Allora, naturalmente, sono tornato indietro. Basta, per farla breve, alla mattina dopo ero arrivato sulla strada maestra di Ronchi. Un po' mi fermavo a riposare e a mangiare l'uva acerba delle vigne, un po' mi trascinavo. Passavano convogli di munizioni, passavano riserve. Verso le nove m'hanno raccolto..... Cosa? Se ho sofferto molto? No, ero così contento di essere scappato da quelle grinfie!»

Gli sfebbrati, i convalescenti, quelli che si possono già alzare, vestiti di pijama smisurati, qualcuno zoppicando, qualche altro col braccio al collo, passeggiano nelle corsìe, si aggruppano, conversano a bassa voce, educati, disciplinati, con un'aria da bravi collegiali. Basta un piccolo ordine di una dama infermiera, per vedere i soldati ubbidire con una docilità spontanea e gentile.

Alcuni feriti alle gambe in via di guarigione deambulano sostenuti alle ascelle da un apparecchio a ruote, e l'arto malato, informe nell'ingessatura, inizia così, rigidamente, i primi passi: «Largo, largo! — avverte il ferito sorridendo mentre sospinge la macchina col piede sano — largo che passa l'automobile!». L'apparecchio è anche chiamato velocipede. Lo scherzo fiorisce nella pena. La gaiezza spunta come il bucaneve nel biancore triste dell'ospedale. Una giovialità buona e composta è in tutti i discorsi, trova la sua espressione in ogni dialetto d'Italia. I figli delle più lontane regioni si uniscono qui nella più vera e sentita fratellanza del sangue. Hanno gli stessi entusiasmi, la stessa passione, la stessa speranza di tornare al fuoco.

Sono senza rancore verso la guerra che li ha colpiti. Il loro pensiero torna con compiacenza fra i compagni che si battono, anche nella febbre, anche nel delirio. Un rude alpino gravemente ferito, supino e immobile, ha voluto scrivere qualche cosa sul ventaglio che gli avevano messo in mano per rinfrescarsi il volto febbricitante. Faticosamente vi ha tracciato col lapis questa frase: «Sempre avanti i bravi alpini per la grandezza della patria!». E, soddisfatto e assorto, egli agita stancamente il ventaglio, come se ascoltasse nel soffio leggero della carta il grido che le ha confidato.

Il suo letto è in fondo ad una grande sala. Ora l'alpino migliora, e sulla lavagna fissata alla spalliera un numero indica che la febbre scema. Quando le sue condizioni erano più gravi ed egli pareva moribondo, arrivò dal suo paese, da Belluno, il padre chiamato di urgenza. Era un grosso montanaro vestito a festa, dall'aria di fattore, con una gran catena d'orologio attraverso il panciotto, la faccia colorita tagliata da un paio di baffoni neri. Commosso, incapace di parlare, le mascelle convulse, gli occhi pieni di lacrime, il padre si fermò ai piedi del letto. E fu il figlio che, sorridendo con le labbra bianche, gli fece coraggio: «Vieni avanti, animo, non temere, vedrai che non è niente, diamine!...».

Questo soldato ritornerà alla vita e alla salute grazie al successo di una difficile operazione che egli ha subìto. Come lui, innumerevoli sono i feriti salvati dalla scienza e dall'abnegazione di chi li cura.

Un risultato così straordinario è dovuto prima di tutto alla perfezione delle prime medicazioni, fatte spesso in difficili condizioni sul campo, poi alla rapidità del trasporto dei feriti dalle ambulanze agli ospedali — per la quale si sono potuti ricevere a Milano dei feriti caduti il giorno prima sull'altipiano del Carso — e infine alla perizia, all'amore, all'infaticabilità dei medici e degli infermieri ai quali è affidata la cura vera e definitiva.

Se è meraviglioso l'organismo che abbiamo saputo creare nei servizi sanitarî della guerra, più meraviglioso è lo spirito che li anima. Nella lotta ostinata contro la morte, il personale ospedaliero di dottori, di dame volontarie, di suore, non si concede riposo. Le esistenze in pericolo sono difese con un accanimento silenzioso fatto di sacrifici. Se il morale dei feriti è così alto, molto si deve all'atmosfera di protezione affettuosa che li circonda, alla vigilanza attiva e ininterrotta che ognuno sente intorno al proprio male. Il male appare già guarito per il fatto che è così curato. Non ci si pensa più tanto, e la mente vola alle speranze.

Perciò il ferito sorride.

TRA LO STELVIO E IL TONALE.

18 agosto.

L'immenso saliente austriaco del Trentino che entra così dolorosamente nella terra italiana e s'incunea nelle nostre valli fino al lago di Garda, ha a nord-ovest un limite di vette smisurate. La frontiera, che s'innesta allo Stelvio, scende al sud serpeggiando sopra un candore di ghiacciai, finchè da sommità a sommità raggiunge i contrafforti e finisce fra il Garda e l'Idro a divorare le verdi pendici della Valle Toscolana, coperte di vigneti, dalle quali si domina la pianura bresciana.

Le vie di penetrazione, le vie dell'invasione capaci di un ampio movimento di masse corrono da nord a sud, lungo la Valle Giudicaria, lungo la valle del Garda, lungo la valle dell'Adige, ma il fianco occidentale è chiuso da un'immane barriera di alte cime che lasciano pochi e difficili varchi. Il nostro fronte comincia quindi, a ponente, sopra una tumultuosa distesa di creste, di ghiacciai, di nevai, in una maestosa tempesta di rocce. Sono le vette dell'Ortler, le vette del Cevedale, le vette dell'Adamello. Le zone di operazione si distendono talvolta oltre i tremila metri di altitudine. La guerra che romba sulla marina nel golfo di Trieste, fra le ardenti scogliere delle giogaie carsiche, si svolge all'estremo fianco sinistro nel perenne e rigido inverno delle nevi alpine.

È lassù una guerra di sentinelle. In quel labirinto fantastico di vallette anguste, di gole profonde, di burroni, di precipizî tenebrosi, due sole strade di qualche valore strategico riescono a inerpicarsi, serpeggiando faticosamente sulle gigantesche pareti dei monti, e a valicare la frontiera. La strada dello Stelvio, che tocca l'estremo limite del confine, e che le nevi bloccano durante otto mesi dell'anno, e più a sud la strada del Tonale. Non vi sono altri valichi se non dei paurosi sentieri da cacciatori di camosci, minuscoli passaggi mulattieri, viottoli che seguono il corso dei burroni, nell'ombra gelida delle gole, e che scalano le selle al bordo sinuoso dei ghiacciai. Pochi uomini vi si possono muovere. Da una parte e dall'altra, l'azione che si svolge in quelle fantastiche zone è più che altro di vigilanza.

Si fiancheggia l'azione più ampia che, salita dal sud, fronteggia ora i formidabili sbarramenti di fortezze che gli austriaci hanno creato in tutte le valli accessibili all'invasione italiana. Sui valichi dello Stelvio e del Tonale, all'estremità sinistra italiana, si sorveglia e si blocca.

Verso queste regioni, all'ultimo limite occidentale del nostro fronte, abbiamo iniziato la nostra visita al fronte.

Si vigila e si blocca, ma non si creda che questa guerra di sentinelle si svolga nell'immobilità. Per consolidare il possesso dei valichi bisogna occupare le posizioni dominanti. Si porta la lotta sempre più in alto. Sono scalate fantastiche verso il cielo, ascensioni notturne di creste turrite, sorprese, attacchi, e le fucilate echeggiano per i deserti glaciali delle vette. La guerra si assottiglia salendo: nelle pianure sono le grandi masse che operano, nelle vallate sono nuclei, nelle gole reparti, e sulle cime pattuglie. La battaglia diviene scaramuccia, e in alto in alto la guerra finisce in una caccia, fatta di sorprese e di agguati, al di sopra del mondo abitato, fra le nubi, sul bordo di abissi, entro un silenzio spaventoso.

Ogni sentiero, ogni passo, è il teatro di minuscole operazioni di guerra; ma sui due valichi principali, che permettono una maggiore concentrazione di forze, e il cui possesso ha un'importanza che pesa sullo svolgimento generale della guerra, l'azione si allarga. Sullo Stelvio e sul Tonale il combattimento di posizioni si è stabilito regolarmente, e sulle fanterie, trincerate fino ai nevai, passano i proiettili di artiglierie issate ad altezze favolose.

È avvicinandosi a Bormio che si ode la prima voce della guerra. Scende dallo Stelvio, echeggiando lungamente per le gole dirupate e nude, un rombo di cannoni.

Il paesaggio si è fatto a poco a poco di una maestà sinistra. La Valtellina, che si risale lungo il corso limpido e veloce dell'Adda, si è andata restringendo e oscurandosi fra balze ripide, che rovesciano di quando in quando fino alla strada lunghe frane di macigni attraverso le boscaglie di abeti. Sboccando sulla prateria in fondo alla quale Bormio si adagia, pare che non vi siano più vie di uscita. Il verde delle vegetazioni risale tutto intorno, poi cessa bruscamente, e la immane corona delle rocce nude si erge impetuosa, a picco, irrompendo vertiginosamente dalle terre viventi, nuda, sterile, grigia, fino alle diafanità azzurrastre di altitudini prodigiose, striata sulle vette da uno splendore di nevi. Le imboccature delle gole superiori non si scorgono a prima vista; la strada che sale allo Stelvio sembra perdersi in una fenditura inaccessibile del monte.

Da questa fenditura, prolungato da mille echi, scende il tuono delle artiglierie.

Non abbiamo potuto avvicinare le posizioni oltre Bormio, ma le notizie affluiscono nella piccola città montanara.

Allo Stelvio si appoggia la nostra estrema sinistra. La lotta ferve intorno al passo, il cui possesso si contende. La battaglia si svolge a tremila metri di altezza. Come quasi per tutto, gli austriaci posseggono posizioni dominanti, dalle quali dobbiamo scacciarli. Le loro trincee più avanzate sono su creste rocciose al di sopra della molle e immacolata distesa di un ghiacciaio. Essi tengono un ciglio del monte; i nostri alpini sono riusciti ad occupare e a consolidarsi sopra un altro ciglio, e avanzano.

Tutto in giro è un caos di nere vette precipitose, una moltitudine di picchi, un panorama fantastico di punte, di cuspidi, di pinnacoli, che emergono da chiazze di neve. Sono le aspre giogaie che coronano l'angusta gola del Bràulio, in fondo alla quale si snoda in mille volute la strada dello Stelvio. Le granate austriache piombano spesso nel baratro, che rugge alle esplosioni. La solitudine sembra assoluta. Truppe e cannoni sono invisibili. Pare che le rocce stesse si fulminino.

L'artiglieria austriaca è postata al valico, presso l'albergo Ferdinandshöhe. È salita per la strada rotabile, e si è fermata lì. Ma la nostra artiglieria non aveva strade, ed è comparsa come per magia su vette all'apparenza inaccessibili. Dei pezzi sono in agguato fra le scogliere più eccelse. I loro colpi possono arrivare all'albergo, che serve di base al nemico, e del quale ora soltanto scopriamo il vero scopo. Questo hôtel Ferdinandshöhe non era che una caserma, e adesso si spiega perchè alla sua costruzione contribuisse largamente il Governo austriaco.

Una singolarità della lotta sullo Stelvio è la presenza degli svizzeri. Il valico segna il vertice delle tre frontiere, italiana, austriaca e svizzera. Fra i due belligeranti s'insinua il neutrale. Le truppe svizzere, accampate anche loro oltre i 2500 metri, vigilano sui loro valichi in difesa della neutralità. Quando le nostre batterie cominciano il fuoco, le creste della Forcola si coronano di svizzeri che corrono a vedere. I profili più accessibili della montagna si granulano di spettatori. La Svizzera è allo Stelvio come un padrino fra i duellanti.

Dalla parte italiana gli svizzeri controllano i colpi austriaci e dalla parte austriaca controllano i colpi italiani. Perchè se una palla toccasse le rocce svizzere la neutralità ne sarebbe offesa. Ma finora un solo colpo è stato accusato di aver sconfinato, di cento metri, causando molte dicerie e nessun danno.

Le forze austriache impiegate sullo Stelvio non superano forse il reggimento, ma la posizione loro è formidabile, come del resto è formidabile la nostra. La montagna contribuisce alla guerra con risorse incommensurabili. Essa moltiplica l'efficacia delle forze in lotta, fornisce delle difese che dànno talvolta ad un pugno d'uomini il valore di un esercito. Tre quarti della guerra in montagna è fatta dalla montagna; essa ha un'ostilità sua che gli avversarî sfruttano, sulle sue vie sta di guardia la morte. Il freddo, i crepacci, gli abissi, le tormente sono le sue armi terribili. La montagna si difende, si oppone, minaccia, ammazza per suo conto.

Il combattimento sullo Stelvio, che per la quantità di truppe impegnate avrebbe un valore di episodio, acquista un non so quale carattere di lotta titanica lassù, in quella sommità del mondo, dove le vette corrusche si ergono come combattenti, avendo i ghiacciai per spalto e le valli per fossato.

Dal giogo dello Stelvio fin verso il passo del Tonale è tutta una distesa di ghiacciai, un mare candido e sinuoso dalle onde immani ed immobili, che innalzano fino alle nubi lo splendore delle loro creste, un paesaggio polare levato nelle profondità del cielo sull'imponente e immane piedistallo dei dirupi. È il gruppo dell'Ortler e del Cevedale sul cui spartiacque la frontiera corre. Non vi sono valichi; bisogna attraversare i ghiacciai nelle insellature praticabili. Italiani e austriaci sono separati dall'ampia distesa del gelo. Qualche pattuglia s'inoltra alla notte sui ghiacci, esplora, attacca un piccolo posto, ritorna all'alba. Quando il giorno sorge non c'è più nessuno sul candore delle nevi. I posti avanzati si annidano al bordo dei ghiacciai, sulle creste nude e grigie.

Risalendo da Bormio la Valfurva si può avere un'idea di questa zona meravigliosa e orrida. Si arriva al villaggio di Santa Caterina, tutto pieno di alberghi, chiuso in una conca verde di boschi, circondato da pendici che lontano, in alto, si culminano in un panorama di nevi. Fra le vette, la più alta, regolare come una piramide, tutta bianca, è quella del Palon della Mare, dai declivi molli, soffici, pieni di ombre azzurre, come fianchi di nubi. Fra questa vetta e la cima del Monte Vioz, più lontana, invisibile, oltre la frontiera, vi è un'avvallatura valicabile che conduce al ghiacciaio del Forno, più basso sul versante italiano, e da lì all'alta Valfurva. È la strada preferita dalle incursioni austriache, piccole incursioni che tentano delle sorprese.

L'ultima incursione è avvenuta una settimana fa, nella notte del 9. Una cinquantina di cacciatori tirolesi attraversarono i ghiacciai per attaccare l'Albergo del Forno. È un rude e grande albergo da villeggianti eretto sopra un verde pianoro in una regione di baite, di fronte al ghiacciaio del Forno — ma dal quale lo separa un profondo torrente. Nell'albergo era un nostro posto avanzato. L'attacco e la difesa costituiscono un infimo episodio di guerra, ma infinitamente pittoresco.

Gli austriaci hanno in queste regioni una facilità di movimenti favorita dall'esistenza di alberghi e di numerosi rifugi, ampî, costruiti da società pangermaniste, da una quantità di vereinen bavaresi e tirolesi. Quello che prendevamo per un furore sportivo era una preparazione di guerra. Ogni rifugio è eretto in posizione utile per facilitare un valico; esso è una vera stazione di tappa o un posto di vigilanza. Il pittoresco non ha niente a vedere con queste costruzioni disposte con criterî militari. Gli alberghi servono di base, i rifugi permettono l'avanzata. Negli ultimi anni, alberghi e rifugi sono stati frequentati da un numero incredibile di austriaci. Anche i registri degli alberghi italiani sono pieni di firme tedesche. I villaggi nostri della frontiera erano infestati da una quantità di tirolesi, e pastori, guide, operai, tagliaboschi tirolesi invadevano l'estate le nostre valli. Il risultato è che esistono sentieri che il nemico conosceva molto meglio di noi.

È per uno di questi sentieri che gli austriaci hanno potuto raggiungere l'Albergo del Forno da un lato quasi indifeso, verso il torrente. All'una di notte, le nostre sentinelle udirono un rumore di passi cauti fra le rocce, e ripiegarono sull'albergo dopo aver fatto fuoco. La notte era oscura. Gli austriaci si erano divisi in tre gruppi, che con abile tattica si presentarono uno per volta. Si rivelarono alle vampe dei colpi. Il primo attacco venne dal pianoro, il secondo da un pendìo che sovrasta l'albergo: ma una barriera di reticolati proteggeva i lati accessibili e il nemico, che certamente lo sapeva, non si avvicinava. Improvvisamente il terzo gruppo comparve dalla parte del burrone, fra delle scogliere vicinissime al caseggiato, quasi alla porta dell'albergo.

Molte, troppe cose gli austriaci sapevano. Conoscevano le posizioni della difesa, sapevano che quel giorno la massima parte della minuscola guarnigione era stata temporaneamente diminuita, conoscevano un passaggio, ignoto anche agli abitanti, per attraversare il burrone, e sapevano infine in quale ambiente i nostri, per aver più caldo, si riunivano alla notte. Infatti il terzo gruppo nemico piombò subito sopra una piccola cappelletta, una rustica chiesuola, vicinissima all'albergo, mentre tutt'intorno era un inferno di fucilate.

Gli alpini erano pochissimi. Contro l'attacco principale, due soli facevano fuoco. Per raggiungere la porta della chiesa gli austriaci dovevano inoltrare fra i due edifici e lo stretto passaggio era spazzato dalle pallottole dei nostri. Coricati a terra, i due difensori sparavano di sbieco per lo spiraglio d'un uscio appena dischiuso. Le canne dei loro fucili scottavano. Quando non potevano più toccare il caricatoio, stendevano la mano nel buio, dietro a loro, e afferravano un fucile fresco che un compagno porgeva.

Non una voce; nemmeno nel momento dell'allarme gli alpini hanno parlato. Al buio, senza fuoco, nelle tenebre fredde, non scorgendosi nemmeno l'uno con l'altro, essi si sono trovati d'accordo per intuizione, per istinto. Gli austriaci vociavano: Arrendetevi! — Rispondevano i colpi, il cui lampeggiamento illuminava i rozzi muri dell'andito. Aspettandosi l'assalto, i nostri avevano tacitamente inastato le baionette.

Un movimento di assalto si è iniziato; decisamente gli austriaci hanno imboccato l'angusto passaggio. Un atletico sergente è arrivato alla porta gridando: Arrendetevi o vi bruciamo vivi! Non aveva finito di pronunziare queste parole che una palla lo colpiva alla gola e lo rovesciava morto. Gli assalitori si sono fermati, hanno avuto un istante di esitazione, si sono visti i loro profili neri oscillare sullo sfondo stellato del cielo e poi scomparire. Fuggivano lasciando i loro caduti. Il rumore dei passi precipitosi svanì, e la pattuglia alpina si ritrovò sola nel deserto dell'alta montagna, di fronte al chiarore sidereo delle nevi.

È qui spesso una guerra di silenzi, di attesa, d'immobilità.

Impossibile scorgere sulle vette i nostri posti avanzati. Nessuno vi si muove. Nemmeno gli ufficiali riescono a vederli. Uomini e roccia pare che formino una cosa sola. Sdraiati nelle anfrattuosità, sull'orlo degli abissi, per intere giornate e per lunghe notti, gli alpini in vedetta rimangono fermi e desti, come cacciatori alla posta.

Taciturni e serî, partono in fila indiana dai loro attendamenti, e salgono, salgono, col loro passo eguale, lento, misurato da montanari, verso le cime, qualunque sia il tempo. Ogni ricognizione è una lotta contro gli elementi. Per bruciare un rifugio austriaco s'inerpicano tutta una notte, legati a cordate marciano sulle nevi con una temperatura di dieci, di quattordici gradi sotto zero, valicano crepacci tenebrosi, sfidano cento volte la morte, e tornano raggianti di una contentezza raccolta e silenziosa, carichi di bottino. L'austriaco è per loro il nemico meno temibile dopo aver vinto la montagna.

Quando lasciano in basso le ultime zone verdi, si fanno gravi. Risalgono spesso gole e passi che hanno una fama paurosa, come la valle Gavia disseminata di croci, che i soldati passando salutano. Ogni croce ricorda una vittima. Santa Caterina sembra l'ultimo limite del mondo abitabile. Al di là tutto si fa truce e smorto, non vi sono più colori, e la zona di operazione, il nostro fronte, è un caos bianco e grigio che sfuma in alto in un pallore d'irrealtà.

Verso il Tonale la favolosa barriera dei ghiacciai s'interrompe, la linea seghettata delle vette degrada, si abbassa, lascia un'insellatura, poi, più al sud, riprende, si risolleva, e si imbianca di nuovo delle nevi eterne dell'Adamello. Per l'insellatura la strada rotabile della Valcamonica balza tortuosa con lunghi giri, guizzando come una sterminata e sottile serpe bianca, con grovigli da nastro caduto, e passato il valico ridiscende a volute oltre la frontiera nella Val di Sole.

La via del Tonale è più libera e più facile della via dello Stelvio, perciò la lotta vi insiste con maggiore violenza. I bollettini ufficiali hanno parlato spesso delle operazioni sul Tonale, ed essi soli bastano ampiamente a dare un'idea dello svolgimento dell'azione. Si combatte non tanto per passare quanto per il possesso di una soglia.

Anche questo valico è dominato da vette, da creste, da picchi. Per conquistare in basso bisogna cominciare col salire in alto. Si tende al valico ma si combatte altrove, e vediamo nei resoconti dello Stato Maggiore come l'attacco nostro colpisca ora al nord e ora al sud, verso le altezze.

Il primo giorno stesso della guerra, il 24 maggio, passata la frontiera i nostri alpini prendono la Forcella di Montozzo, a 2625 metri, a nord del passo del Tonale. Gli austriaci si fortificano sul Monticello, al sud del passo, a 2550 metri di altezza. Si contendono le vette. Chi ha le vette ha le valli. Il 30 giugno l'artiglieria entra in azione; i nostri cannoni aprono il fuoco sulle posizioni del Monticello. Il nemico allora tenta un colpo sulle nostre retrovie, e il 15 luglio, dopo un'ardita traversata dei ghiacciai del Mandrone, al sud del passo del Tonale, attacca in forze il rifugio Garibaldi. È respinto e noi occupiamo il ghiacciaio stesso, nei punti traversabili, al di sopra dei 3000 metri. La battaglia sale ancora, le trincee sono ora nel ghiaccio. Il 30 luglio gli austriaci, nella notte, ritornano all'attacco. Si combatte nelle nevi. Il nemico è respinto dai posti avanzati.

Intanto noi, con migliore fortuna, facciamo al nord del Tonale quello che il nemico non è riuscito a fare al sud. Il 7 agosto, gli alpini risalgono ancora più al nord e più in alto della forcella Montozzo, e avanzando per una cresta rocciosa e difficile, sorprendono e disperdono gli austriaci trincerati presso la punta di Ercavallo. Pare che la lotta devii dalle località alle quali realmente tende, essa si allontana e s'innalza. Le artiglierie sono issate a tremila metri sulle rocce di Ercavallo e rendono intenibili al nemico le posizioni di Malga Palude. Piccole forze e battaglie di giganti.

Ora anche pezzi di medio e di grosso calibro tuonano intorno al valico. Alle fortificazioni permanenti si sono aggiunte fortificazioni campali, tutte le valli rimbombano di colpi, e alla notte il lampeggiare vivido delle vampe rivela immensi profili di balze dirupate.

È di notte che sono giunto alla vista di questo inverosimile, prodigioso campo di battaglia. Sono salito per una lunga via che è sorta come per incantesimo. I tedeschi vantano le loro nuove strade che seguono gli eserciti nelle pianure polacche, ma che cosa sono quelle facili arterie di fronte alla viabilità che le nostre truppe creano, con una energia e una possanza romane, sulle Alpi, tagliando le rocce, aprendo fino alle vette il varco al transito della guerra con una rapidità meravigliosa, come il pioniere si apre il sentiero nella boscaglia? Vi sono nevai ai quali ora l'automobile sale.

Sale per strade vertiginose che si attorcono su falde di monti, e corrono sul bordo di abissi. Da una parte la parete a picco, dall'altra la sterminata profondità della valle. L'automobile passa sopra una cornice, e va lentamente lanciando il suo lamentoso segnale di tromba. Non è senza un vago sgomento che lo sguardo piomba nella vallata, dove le città e i villaggi appaiono come visti dalla navicella di un pallone, sempre più lontani, una granulazione di tetti minuscoli presso un filo azzurro che è un torrente, e un filo bianco che è una strada. Si è a ottocento, poi mille, poi mille e cinquecento metri più in alto. Tutto appare schiacciato, annebbiato, immerso in un'ombra violastra, e nessun rumore sale da laggiù, se non uno scrosciare lontano ed eguale di acque.

Il passo del Tonale era quasi invisibile, ma sotto al cielo limpido e costellato s'indovinava la massa immane dei monti. Un chiarore vago, forse quello della luna sottile che stava per sorgere, si stemperava in un biancore di nubi e di nevi. Non si capiva bene quali erano le nubi e quali erano le nevi. Era un caos di vapori e di cime. Delle fascie di nebbia si distendevano sul nero delle pendici. Improvvisamente un getto candido di luce ha tagliato la notte: il proiettore di un forte.

Esso cercava lentamente intorno, e quella gran striscia illuminava di un confuso e lieve balenìo i punti che toccava. Poi, il raggio che si stendeva orizzontale ha cominciato a sollevarsi. Guardava in alto. Adagio adagio si è disposto quasi verticalmente, come se frugasse nel cielo. Le nubi e le nebbie si sono rischiarate, e prodigiosamente, al di sopra di tutto, dove a noi pareva che la terra fosse finita, dove credevamo di vedere uno scintillare velato di stelle, si è accesa la neve, e un minuscolo lembo di ghiacciaio è apparso come librato nel firmamento.

Poco dopo un baleno ha disegnato di vivida luce i contorni delle nubi: un colpo di cannone. Dopo molti secondi è arrivato il rombo, cupo e lungo.

Tutta la notte l'artiglieria ha tuonato, a larghi intervalli, come se un temporale lontano imperversasse sulle più alte regioni della guerra. Gelava, e nella oscurità la terra intorno a noi biancheggiava di brina.

DAI GHIACCIAI DELL'ADAMELLO AGLI ULIVETI DEL GARDA.

22 agosto.

Nella nostra prima escursione abbiamo avuto un'idea dell'estrema sinistra del nostro vastissimo fronte di battaglia, il quale si attacca allo Stelvio e scende al sud, lungo i ghiacciai dell'Ortler, del Cevedale e dell'Adamello, formanti come un immane, favoloso trinceramento bianco creato per una guerra di titani.

Più oltre, la tempesta delle vette abbassa il livello delle sue prodigiose onde di granito, e in essa, come un diritto e profondo solco, si apre da sud a nord la valle Giudicaria, la prima delle grandi vie di invasione che l'Austria, imponendoci la sua iniqua frontiera, si era riserbata. Fu sempre un'arteria di traffici e di guerre questa strada ampia, pianeggiante, capace, che dalle molli e ubertose vallate italiane, dopo aver contornato lo specchio del piccolo lago d'Idro tutto pieno del verde riflesso di montagne boscose, sale direttamente per la Giudicaria, e poi per la Rendena e per la Sarnthal, fino ad allacciarsi alle prime, ben lontane vallate della vera terra straniera, dove i nomi geografici cominciano a prendere un suono barbaro.

I bollettini ufficiali hanno parlato spesso della valle Giudicaria. La frontiera ci inchiodava in faccia a posizioni dominanti. Bisognava balzare avanti, irrompere nella valle dopo avere occupato le vette laterali, ed andare a stabilire il nostro fronte sopra una linea solida di difesa.

Per ben comprendere questa operazione, il cui teatro è stato la mèta della nostra seconda escursione, basta aver presente che la valle Giudicaria, diritta e mediana, ha i fianchi tagliati da valloni laterali che si distendono con quell'apparenza quasi regolare che hanno le nervature di una foglia. La Giudicaria è il nervo centrale. Inoltrandosi si ha a destra la valle di Ledro, che finisce al Garda; a sinistra la valle Daona che risale con una grande voluta fino ai ghiacciai dell'Adamello. Ebbene, l'occupazione nostra è arrivata ad affacciarci a questi valloni; il massiccio montuoso, aspro che li sovrasta costituisce la nostra fortezza: il torrente nel fondo delle gole è il nostro fossato. L'altro versante è nemico.

Al di sopra delle valli, a duemila metri di altezza, le vette di tanto in tanto si fulminano.

Si attraversa in riva al lago d'Idro l'antica fortezza di Anfo, massiccia, complicata, pittoresca, con le sue enormi muraglie che si sovrappongono fra le rocce fino alle costruzioni più alte sulle balze, con i suoi ponti levatoi, i suoi androni risuonanti di traffico, e gli spalti che si sporgono a immergere nell'acqua del lago le loro speronate robuste e grigie. Poco dopo si varca l'antica frontiera. «Regno d'Italia — Comune di Lodrone» si legge all'imboccatura del primo paesello riconquistato, al posto della scritta austriaca.

Del resto di austriaco non aveva che una scritta. Essa era indispensabile per avvertire che lì cominciava l'Austria. Null'altro lo dimostrava. Bianco, quieto, imbandierato, il paese ha l'aria ridente e soddisfatta di un villaggio brianzuolo. Più oltre, passato Darzo, s'imbocca la valle e la vita normale cessa. Non vive più che la guerra.

Un grande, prodigioso silenzio. Solo un mormorìo cupo ed eguale di acque echeggia sommesso fra le scoscese falde delle montagne: è il Chiese, veloce e limpido, nato dalle nevi eterne, tinto di un azzurro da aria liquida, come se sulle cime dell'Adamello, così vicine al cielo, si fosse imbevuto di serenità. Più ci si inoltra verso il fronte, e più la calma appare profonda.

I due eserciti si sono fissati sulle loro posizioni, e aspettano. Si osservano, si studiano, vigilano, lavorano. Le linee più solide delle reciproche difese sono lontane fra loro. Vi sono certamente delle trincee, ma non è una guerra di trincee. Fra un fronte e l'altro si stende una zona neutra, campo d'azione di pattuglie, di piccoli reparti, disseminato di vedette, percorso da esplorazioni, nel quale risuona improvvisamente lo scoppiettìo della scaramuccia.

È un territorio solcato da burroni, coperto spesso da oscure boscaglie che assaltano i declivi precipitosi e si fermano stanche sotto alle vette nude, è tutta una moltitudine di montagne che si affolla come in gara per sorpassarsi, irta di rocce dall'apparenza inaccessibile, che levano nel cielo, fin oltre i duemila metri, le sagome più bizzarre dell'architettura del mondo, i più inverosimili castelli della creazione.

L'avanzata è stata una corsa alle sommità. Per essere padroni della valle bisognava essere padroni dei monti. Quando il 24 maggio, con la contemporaneità e la coordinazione meravigliose che caratterizzano tutto lo sviluppo delle nostre operazioni, fu portato l'attacco sull'intero fronte, dallo Stelvio al mare, il bollettino ufficiale annunziò al paese anche l'occupazione di una parte della valle Giudicaria. Ma nessun soldato aveva ancora posto piede sulla strada maestra, la vera valle era deserta: però la tenevamo già. Era sotto ai nostri sguardi e ai nostri tiri. Gli avamposti italiani la contemplavano affacciandosi ai dirupi.

Per sentieri da camosci, le nostre pattuglie sbucavano su dai boschi, scalavano le cime e si mandavano l'una all'altra voci di segnale e di saluto attraverso la sonora purità delle altitudini. Quattro giorni dopo l'inizio delle ostilità occupavamo la Cima Spessa, che domina la gola laterale d'Ampola, così piena di ricordi garibaldini. Ancora tre giorni, e l'Ampola era passata, Storo era occupata, Condino era occupata: la conquista avanzava così anche nel fondo delle vallate nostre.

Intanto, valicando difficili passi, per le ripide e orride balze della valle Caffaro e della Valcamonica, reparti di alpini scendevano nella valle Daona, ad occidente della Giudicaria. Dopo un breve combattimento, le truppe che avevano occupato Condino, risaliti gli speroni sulla bassa valle Daona, si collegavano a quei reparti alpini, e si stabiliva una stupenda continuità di fronte, dal Tonale al Garda, dai ghiacciai dell'Adamello agli uliveti del lago. La grande, formidabile linea di posizioni sulle quali ora ci teniamo era tracciata.

Gli austriaci hanno tentato più volte di spezzare la catena dei posti avanzati italiani, di tornare in possesso di picchi e di valichi da cui sentivano più forte gravare la minaccia. I loro attacchi si sono diretti specialmente verso l'alta valle Daona, dove più radi erano i nuclei di occupazione, più facili le sorprese, e dove speravano forse di potersi aprire un varco verso la Valcamonica e disturbare nelle retrovie le nostre operazioni del Tonale.

I loro sforzi, inutili sempre, sono stati però coraggiosi e intensi. Respinti, tornavano cercando altri passi, altri approcci. Durante quasi tutto il mese di luglio sui bollettini dello Stato Maggiore il nome della valle Daona si ripete. Il 6 luglio gli austriaci attaccano il passo di Campo, fra i contrafforti dell'Adamello. Non riescono, e provano più in basso, più al sud. Tre giorni dopo attaccano il valico di Malga Leno. Vi è nella loro azione come la ricerca affannosa di una apertura, o di una debolezza. Contro Malga Leno operano in forze, con artiglierie da montagna, dopo aver tentato di distogliere la nostra attenzione con un attacco minore, un poco più al sud, contro la cima Boazzolo, una lunga cresta rocciosa che sovrasta torreggiando il corso del Chiese. Il giorno dopo i combattimenti riprendono, ma le nostre punte avanzate hanno la solidità dei dirupi ai quali si aggrampano. Niente le smuove.

Il 28 luglio ci spingiamo all'occupazione del Lavanech, che domina la bassa valle Daona. Dall'altra parte della vallata, dal versante austriaco, le artiglierie tempestano la cima conquistata, e nella notte, dopo una lunga preparazione di medî calibri, la fanteria austriaca appoggiata da numerose mitragliatrici tenta l'assalto. È respinta. Tutto il ciglio della valle è definitivamente nostro.

Da allora è cominciata questa tranquillità che ci sorprende. Il nemico ha rinunciato ad ogni iniziativa. Si rafforza e aspetta. Sembra persuaso della inutilità dei suoi attacchi e rassegnato ad un còmpito di vigilanza. Noi ci siamo incrollabilmente insediati sulle posizioni che ci eravamo scelte.

Ma anche nel periodo più attivo della lotta, la quiete alpestre della Giudicaria non doveva apparire troppo turbata. La montagna spezza l'azione in minuscole battaglie isolate, importanti per il risultato e infime per l'ampiezza, faticose, aspre, violente, brevi. La notte, improvvisamente, sopra una balza, la fucileria scintilla e scoppietta, e pochi chilometri più in là, al primo svolto della valle, non si sente nulla. La guerra ritorna lassù a proporzioni antiche ed a forme primitive. L'individuo diventa un'unità importante. Una pattuglia può costituire tutta l'ala di un fronte di combattimento. Il comando non arriva e l'iniziativa personale supplisce.

È risorto nei nostri soldati un istinto guerriero, fatto di scaltrezza e di ardimento; hanno ritrovato un'anima primordiale da cacciatori d'uomini: sono divenuti come se sempre fossero vissuti nella selvaggia solitudine dei boschi; hanno la sensibilità di percezione dell'indiano nella jungla; conoscono tutti i rumori, tutti i mormorii, tutti i fruscii, tutti gli echi delle valli; sentono la vicinanza del nemico con un orecchio selvaggio. La razza conservava insospettate armi di guerra, delle facoltà combattive discese a noi da remote e gagliarde generazioni conquistatrici. E con esse, la gioia naturale e piena di battersi e di battere.

Le pattuglie partono lietamente, contente; hanno sempre in serbo qualche cosa di nuovo per il nemico. Studiando le abitudini degli avversari, esse inventano tranelli, organizzano sorprese, con il buon umore col quale si prepara una burla. Ne sanno più loro della mentalità austriaca che non tutti i psicologi del mondo. La zona aspra che separa i due fronti è un terreno di agguati, di sorprese, nel quale i nostri soldati hanno scoperto tutta una viabilità invisibile.

Un giorno verso l'imboccatura della valle Daona, un tenente dei bersaglieri scoprì un posto d'osservazione austriaco: una baita che si affacciava alla boscaglia sopra un costone. Si mise alla posta, per vari giorni di seguito, e vide che la pattuglia austriaca nascosta lì dentro arrivava alla prima alba, lasciando una sentinella celata fra le piante, e ripartiva al tramonto. Una notte il nostro tenente prese dieci uomini con sè (fu una gara per seguirlo) e partì.

Prima del giorno i nostri circondavano la baita. Ecco l'alba, ed ecco la pattuglia austriaca che sbuca, guardinga, e rassicurata penetra tranquillamente nella capanna. Rimane all'esterno il capo, un grosso sergente tirolese, che si mette a passeggiare. Passeggiando non si accorge che qualcuno lo segue, ritmando l'andatura perchè il rumore dei due passi si confonda. È il tenente dei bersaglieri.

Era rischioso quel modo di sorprendere il nemico, ma era elegante. Era italiano. Noi facciamo anche la guerra da artisti. Sarebbe stato facile piombare sulla baita ad armi spianate, ma il tenente voleva vedere la faccia sbalordita e comica del grosso tirolese. Una soddisfazione che poteva costargli la vita, ma che importava?

Dunque l'ufficiale segue il sergente austriaco. Allunga il passo, lo raggiunge e lo tocca leggermente sulla spalla. Il tirolese si volta di scatto e fa un balzo indietro. Stupefatto, allibito, rimane immobile, pietrificato in un gesto di sperdimento, con gli occhi sbarrati, la bocca aperta. Il tenente sorride.

— Ma — balbetta l'austriaco con voce strozzata — ma.... voi siete un ufficiale italiano!

— Perfettamente! — fu la risposta — e questi sono soldati italiani.

Dai cespugli tutto intorno emergevano teste di bersaglieri e baionette. Un minuto dopo la pattuglia austriaca marciava via prigioniera.

Una spedizione assai più drammatica fu quella compita sul Ponale per interrompere l'impianto elettrico che fornisce energia a Riva, spedizione che fu annunziata con sei parole dal bollettino del 27 giugno.

Non fu per lasciare Riva al buio che venne compita quell'audacissima impresa, ma per estinguere i proiettori austriaci, che la forza elettrica del Ponale accendeva sul fronte fino a Rovereto, e per disarmare i reticolati fulminanti della loro micidiale possanza.

L'impianto elettrico aveva le sue prese idrauliche ad una chiusa del lago di Ledro, vicino a Molina, in fondo alla valle che le nostre posizioni avanzate ora sovrastano. L'acqua in pressione imboccava due enormi tubi accoppiati. Fra i nostri alpini si trovava un operaio che aveva lavorato all'impianto, e che si offrì per guidare la spedizione.

Partirono in cinque. I loro nomi erano stati tirati a sorte. Alla compagnia schierata il capitano aveva domandato cinque volontari, dopo avere spiegato i rischi dell'impresa; ma all'ordine di «chi vuole andare faccia un passo avanti» tutta la compagnia fece un passo avanti, con tanta regolarità di manovra che l'ufficiale credette di essere stato frainteso. «No, no — gridò — capitemi bene, quelli che si offrono escano dalle righe!» E la compagnia intera, per essere ben capita anche lei, fece due passi avanti. Così si ricorse alla sorte.

Si trattava di attraversare gli avamposti del nemico e di andare a lavorare fra i suoi accantonamenti. Per lunghi giorni i sentieri erano stati ricercati e studiati. Il piano dell'impresa era completo. Ognuno dei cinque aveva un còmpito preciso, stabilito prima. Alla partenza, l'ordine fu di non parlare fino al ritorno, di non aprire bocca qualunque cosa avvenisse.

I cinque muti lasciarono il campo in una notte di bufera, oscurissima. Discendevano per le forre del Martinel da sterpo in sterpo, quando si trovarono a qualche metro da una pattuglia austriaca. Aspettarono lungamente, immobili, coricati fra i rovi. La pattuglia austriaca passò.

Poco lontano dalle chiuse, i tubi dell'acqua facevano un gomito. Ogni soldato aveva sulle spalle dei sacchi di sabbia e un carico di gelatina esplosiva. Arrivati a quel punto, senza una parola, deposero tutto in terra. Quattro di loro si allontanarono in direzioni prestabilite e si sdraiarono vigilando. Rimase uno solo ad eseguire il lavoro di mina: l'operaio. La pioggia s'era calmata, e s'intravvedevano le nubi basse che fuggivano tumultuosamente verso il Garda. Una finestra illuminata, vicina, alle prime case di Molina, pareva spiare nella notte.

Sotto al gomito delle tubature, l'artiere alpino, attentamente, con una lentezza eroica, disponeva gli esplosivi, e con i sacchi di sabbia, messi tutto intorno, formava la camera di scoppio. Il tempo pareva eterno. Dal villaggio, occupato dagli austriaci, sono salite delle voci. Un cane ululava a cinquanta passi dai nostri, in una fattoria tutta buia. L'alpino minatore si muoveva senza rumore, studiosamente. Cinquanta minuti è durato il lavoro.

Riunitisi a qualche centinaio di metri dalla mina, i cinque soldati hanno aspettato immobili lo scoppio. L'esplosione è avvenuta senza fragore. È stato un tonfo sordo e profondo, seguìto da uno scroscio violento di cateratta. La massa d'acqua irrompeva precipitosamente dalle tubature spezzate. Poco dopo essa arrivava con impeto al villaggio, inondandolo. Gli austriaci sono stati svegliati dalla piena negli accantonamenti e nelle tende, e un urlo immenso di terrore è salito dalla valle.

Senza una parola, sempre muti, gli alpini hanno ripreso la via del ritorno; hanno ripassato la linea degli avamposti austriaci in allarme; sono arrivati alla punta dell'alba all'accampamento, affranti di stanchezza e d'emozione.

L'ordine del silenzio era finito, ma uno di loro non parlava più. L'operaio, che aveva compiuto lo sforzo più grande di tensione e di volontà, aveva perduto la favella. Ed egli tace ancora, atono, stupefatto, quieto, avendo dato in un'ora tutte le energie di una vita, avendo speso in sè stesso, in un sublime dialogo fra la volontà e l'istinto, tutte le eloquenze della sua anima. La fatalità ha voluto suggellare sulle sue labbra il mistero del suo magnifico dramma.

La spedizione è stata ripetuta, ma con altri mezzi. Il danno fatto non era irreparabile, se gli austriaci possedevano tubi di ricambio. E dovevano certamente possederne a Riva. Infatti le nostre ricognizioni hanno potuto vedere un affaccendamento di lavoro intorno alle chiuse del Ledro. Si è pensato quindi a troncare l'impianto idraulico in modo definitivo. Non più pochi uomini, ma un battaglione. Se non si passava di sorpresa si sarebbe passati per forza. Gli zaini dei soldati erano pieni di gelatina esplosiva.

Fuori di ogni sentiero, per i boschi del Carone, la truppa, dopo aver sorpreso di notte i posti avanzati austriaci, ha raggiunto il ponte sul Ponale a Biacesa, un gran ponte in ferro che sosteneva con le sue travate le tubature dell'impianto elettrico. Tre piloni, tre mine. Uno scoppio immane, un lampo accecante, una eruzione di rottami, e il ponte era scomparso.

È una guerra di colpi di mano, nella quale il nemico, più tardo, dimostra una pesantezza e spesso una inumanità teutoniche. In un recente combattimento, piccolo ma accanito, che ha completato il nostro fronte sul Garda, gli austriaci, che tentavano di resistere all'attacco, mentre si combatteva a brevissima distanza, facevano fuoco sui feriti.

Di tanto in tanto, una volta o due al giorno, la bella quiete della valle Giudicaria è interrotta da un rimbombo di cannonate. Tre o quattro granate austriache arrivano intorno a Condino. Un po' di fumo, un boato, ed è finito. È il forte di Por che abbaia, accucciato sopra un costone di fronte allo sbocco della valle Daona.

Vi è tutto un gruppetto di forti lì, a quel bivio di valli, ma soltanto quello di Por prende la parola, forse perchè è il più vicino, o forse perchè è il più moderno. Può anche darsi che gli altri forti siano stati disarmati per coronare con le loro artiglierie le posizioni lungo la Daona.

Il forte di Por si vede nettamente. L'erba non è ancora nata sui suoi spalti, che macchiano di una nudità rossastra il fianco del monte, come una frana. Però un muraglione di appoggio laterale delle opere, rimasto scoperto, è sagacemente tinto di verde, ma di un verde tenero inverosimile che non appartiene a nessuna vegetazione di questo mondo. Sulla spianata le cupole di acciaio si profilano basse, cinque calotte che sfiorano appena la superficie. Intorno, il prato e il bosco fanno largo, come arretrando davanti a questa fragorosa intrusione sulla selvaggia bellezza del monte.

Condino riceve le sue granate quotidiane con quell'aria desolata, esterrefatta e lugubre che hanno i paesi abbandonati nelle zone del fuoco dove fra le case e per le piccole vie pittoresche la solitudine e il silenzio acquistano una pesantezza tragica. Da ogni porta esala come un alito di angoscia, e pare di sentire nelle abitazioni vuote il senso di un'atroce attesa. Da lontano sembrano vivi questi villaggi. Condino, con le sue case bianche, appare pieno di una campestre gaiezza. Quando vi si entra, l'immobilità di ogni cosa produce una non so quale impressione di gelo, come se l'ombra dei muri raccogliesse un'atmosfera di morte.

Poco più oltre, Cimego; più lontano Castello. Abbandonati anche loro vedono strisciare lungo le case le pattuglie austriache. Questo silenzio, così sinistro nei paeselli, dove inconsciamente noi tendiamo l'orecchio alle voci, è dolce all'aperto. Nella mattinata limpida, sotto al gran sole, la valle è festosa.

Nelle acque del Chiese è un brulicare rosato di soldati che si bagnano e si levano dai loro gruppi canzoni e risate. Altrove si lavora. Si lavora con una letizia che mette in noi una serenità indicibile. Si fanno baraccamenti per l'inverno, si fanno strade, si fabbricano arnesi, si costruiscono persino slitte, che porteranno viveri e munizioni quando tutto questo verde sarà morto e i nevai saranno discesi fino alla valle. Falegnami, muratori, carpentieri, zappatori, lavorano al sole, cantando. Gli accampamenti che s'inerpicano con un disordine da armenti al pascolo sui prati e sulle boscaglie dei declivi, sono pieni di vita e di allegria. Direi quasi che scendono da essi delle buffate di giovinezza e di vigore.

Se il nemico contasse sulla nostra stanchezza, s'ingannerebbe molto. La guerra ci tempra. Pare che i nostri soldati ritrovino al campo una vita che conoscevano, che amavano e che avevano dimenticata.

Compiono opere meravigliose che la sola forza non può fare senza l'entusiasmo. Il dorso delle più aspre montagne è solcato dalle volute di strade che scalano l'inaccessibile e per le quali l'automobile ascende. Sono centinaia di chilometri. I più grossi cannoni italiani tuonano da vette sulle quali finora non s'era posata che l'aquila. Declivi e rocce, ad altezze vertiginose, sono tagliati dal varco aperto dalla sapienza, dalla volontà, dalla gagliardia dell'esercito, e le strade nuove, simili a venature sui monti, portano come vene un fiotto di vita nostra alle più eccelse altitudini.

Per interrompere la strada di Ampola, quella che va a Riva, gli austriaci hanno fatto crollare in un punto la montagna con tre tonnellate di dinamite. La strada che era incavata nella roccia è scomparsa, e con lei tutta una falda della roccia. Ebbene, si è fatto un ponte che raccorda i due mozziconi della strada interrotta, un ponte sull'abisso, un ponte di legno, che si aggrampa alla parete, che si appoggia alle sporgenze, che sale lungo la roccia, così grandioso, così solido, che pare un lavoro permanente, e che probabilmente per molti anni reggerà il grave traffico di questo nuovo e antico lembo d'Italia.

Nelle opere delle nostre truppe si rivela una visione monumentale delle cose. Pare che si faccia tutto col pensiero dei secoli. E per lunghi secoli infatti rimarranno su queste montagne le tracce profonde e gigantesche della nostra civiltà in lotta, che affacciandosi sulle sommità delle Alpi vi lascia come degli indelebili solchi di artiglio.

TRA LE BALZE DELL'ADIGE.

26 agosto.

L'occupazione di Ala, e la prima irruzione delle nostre truppe verso Rovereto nella valle dell'Adige, dopo la conquista fulminea dell'Altissimo e di tutto il massiccio fra il Garda e l'Adige, sono legate alla memoria del generale Cantore. La storia della nostra azione in quel settore è come dominata dalla figura di questo singolare condottiero di avanguardie, che aveva della guerra una concezione antica, magnifica e temeraria, per la quale è morto. Il suo ardimento da guerriero leggendario, che si accoppiava ad una visione chiara del terreno, ad una percezione esatta e rapida delle possibilità, fu preziosa nel primo slancio dell'avanzata, quando le nostre colonne penetravano nel territorio nemico senza potersi prefiggere un obbiettivo preciso e definitivo, prive di informazioni esatte, affidate alla intuizione e alla sagacia dei capi per strappare alle circostanze il maggiore frutto.

L'Altissimo fu preso con un colpo di mano. Reparti alpini marciarono nella notte del 23 maggio per dirupati sentieri della montagna, e sorpresero all'alba il nemico sulla vetta. Senza sosta l'occupazione si estese ad oriente. Dalla cima scese per i valloni ad affacciarsi sulla Val d'Adige. Le pattuglie calavano per i costoni e per le balze. Delle compagnie di rincalzo s'inoltravano dal sud. Il 2 maggio, l'avanzata risaliva il fondo della valle fino ad Ala.

Poche truppe: due battaglioni. Uno marciava alla destra dell'Adige, l'altro alla sinistra. Una batteria seguiva il battaglione di destra. Gli abitanti, quando vi narrano della comparsa delle truppe liberatrici, non vi dicono «gl'italiani arrivarono» ma «Cantore arrivò». Perchè videro lui prima di ogni altra cosa. Il generale era l'esploratore delle sue colonne. Improvvisamente, in un villaggio che gli austriaci avevano abbandonato poco prima, entrava un generale italiano, solo col suo capo di Stato Maggiore.

Giungeva per la strada maestra, tranquillamente. E questo ardire, pieno di un senso di eroico disdegno verso il nemico, colpiva profondamente l'immaginazione degli abitanti che aspettavano palpitando, la mente piena delle menzogne austriache, secondo le quali gl'italiani avrebbero messo tutto a ferro e a fuoco.

Cantore voleva vedere ogni cosa con i suoi occhi. Dove poteva celarsi un agguato, verso i possibili sbarramenti, dove il terreno si prestava ad una difesa avversaria, andava lui a guardare. Freddo, calmo, avanzava allo scoperto, e, scelto un buon punto d'osservazione, si assestava lentamente gli occhiali sul naso e ammiccava con i suoi occhi da studioso miope, impassibile al fuoco, immobile, attento, come un matematico avanti ad un problema. Poi, quietamente, dettava gli ordini al suo capo di Stato Maggiore, che lo seguiva per disciplina, per dovere e per amor proprio.

Quando voleva recarsi in esplorazione, il generale non mancava di chiedere il parere dell'ufficiale. Ascoltate le eccellenti ragioni che sconsigliavano il progetto, egli concludeva «Allora, andiamo!» — e partiva in avanscoperta. Aveva un'inflessibilità verso di sè e verso gli altri, che era tutta scritta nell'energia del suo volto. Ignorava il pericolo; lo aveva affrontato tante volte impunemente che si era fatta la persuasione di una invulnerabilità. «La morte non mi vuole», diceva. E ci credeva. La morte lo ha afferrato così repentinamente nella sua ultima temeraria esplorazione fra le orrende rocce delle Tofane che egli non l'ha sentita venire e non ha avuto il tempo di ricredersi.

A Borghetto entrò a piedi. Dal campanile del villaggio una pattuglia austriaca aveva tirato dei colpi verso la strada. Poi questo fuoco era cessato. Cantore volle andare a vedere se il paese era sgombrato dal nemico. Due guardie di finanza del posto di frontiera gli fecero da fiancheggiatori. La pattuglia austriaca era fuggita. L'avanzata incominciò. Cantore partì avanti, in automobile, come per una passeggiata.

Nella valle pittoresca i cui nomi evocano come una fantastica galoppata di epopea, fra quei dirupi che hanno visto passare in uno scintillìo di uniformi e in un ondeggiamento di piume la prima gloria napoleonica, la quale doveva allargare i suoi clamori trionfali su tutta l'Europa, in quel grandioso scenario da battaglie, la conquista italiana è entrata veloce, annunziata dal rombo di un motore, che echeggiava improvviso fra i muri dei villaggi attoniti, rozzi e grigi, raccolti intorno al bianco stelo dei campanili, e immersi nei vigneti contro ad uno sfondo oscuro di immani rocce precipitose.

Dopo le chiuse prodigiose che Rivoli sovrasta dal suo verde pianoro, profonde come cañons, dopo quell'angusto e solenne corridoio di dirupi che stringe fra pareti a picco la serenità dell'Adige, dopo la zona delle vecchie fortezze, massicce e bianche, che dominano la gola dalla sommità di vette nude, la vallata si allarga maestosa, vigilata da ruderi di torri annidati fra dirupi giganteschi e da qualche scheletro superbo di castello, che come quello di San Valentino addossa alle rocce le sue muraglie merlate con un'aria grandiosa, severa, lugubre da castello delle leggende. Il passato ha lasciato per tutto un segno di guerra. Ad uno svolto della valle, una cittadina chiara, graziosa, arrampicata in parte tra il verde delle alture, avanza le sue case più nuove verso l'Adige: è la prima città austriaca, Ala.

Ha un'aria raccolta e antica, con un'impronta così profondamente nostrana che pare di averla conosciuta già, di ritrovarla vagamente nella memoria insieme al ricordo di qualche vallata del Friuli. Nulla di più italiano di quei vecchi palazzi d'Ala, di una nobiltà provinciale, di un'arte modesta e pura, nel cui interno verdi specchiere di Venezia riflettono nel loro pallore di sogno delle grazie settecentesche. La parte alta, inerpicandosi sul monte, diviene rustica, e le stradine che salgono tortuose sono fiancheggiate da casupole montanare, tutte a balconate di legno annerite dal tempo. Attaccate ai muri, presso alle porte, le rozze slitte aspettano l'inverno; sulle logge è tutto un festoso verdeggiare di fascine fresche che seccano al sole; da soglia a soglia passa un dialogo veneto di comari.

Ad Ala avvenne l'unica opposizione austriaca alla nostra avanzata. Fu piccola, breve, ma arrivò di sorpresa. La città pareva completamente abbandonata dal nemico.

Prima di ritirarsi i gendarmi austriaci avevano affisso manifesti che minacciavano severe e imprecise punizioni a chiunque avesse osato di fare buona accoglienza agli italiani, e avevano ripetuto a tutti che gl'italiani si sarebbero abbandonati ad ogni eccesso. Da giorni i negozî erano chiusi, e la città silenziosa aspettava nella speranza e nell'ansia. Gli abitanti ignoravano tutto della guerra. Non sapevano della presa dell'Altissimo e delle altre operazioni che si stavano svolgendo nella regione. Nessuna notizia arrivava. Ma fra le case chiuse, per le finestre dei cortili circolavano bisbigliate delle voci.

Il 24 maggio si diceva già: «Saranno qui stasera; un boscaiuolo ha visto i bersaglieri ad Avio; scorgeva le penne....» Fra i patrioti vivevano degli austriacanti; la comparsa di qualche vicino sospetto interrompeva i dialoghi e faceva richiudere le finestre. Non erano tutti partiti gli anti-italiani, e qualcuno ne resta ancora adesso.

Andando via, gli austriaci avevano requisito il bestiame, obbligando dei contadini a condurlo a Rovereto. Pochi di questi disgraziati sono tornati indietro. Per farli rimanere, temendo forse lo spionaggio, gli austriaci avevano annunziato loro, semplicemente, che Ala non esisteva più, essendo stata distrutta insieme agli abitanti dalla barbarie italiana. La mancanza del bestiame e di provviste rendeva la vita dei cittadini difficile. L'arrivo degli italiani era invocato come un salvataggio.

Quando l'automobile del generale Cantore entrò nella città, Ala pareva deserta. Cantore si fermò nella piazza, una piazzetta angusta, irregolare, a declivio, che pare si tenga a stento dallo scivolare con tutti i suoi ciottoli. Erano circa le dieci e mezzo del mattino. Il generale aspettava le sue truppe. Intanto alcuni individui sbucavano fuori e si avvicinavano a lui ossequiosi, assicurandolo della loro lealtà e del loro patriottismo. Gli austriaci? — dicevano costoro. — Neppure l'ombra. Erano fuggiti tutti.

Mentivano. Nessuno disse al generale che la gendarmeria austriaca, rinforzata da un reparto di fanteria territoriale, era all'uscita del paese dove da tre notti lavorava a trincerarsi. Questa menzogna noi abbiamo generosamente dimenticato.

Tre quarti d'ora dopo si udì il passo dei soldati per le vie. Delle porte si schiusero, delle voci di saluto risuonarono. Le case dei patrioti furono in rumore, e il grido di «Viva l'Italia!» scendeva da alcune finestre. All'avanguardia che, fra uno scintillìo di baionette in canna, sboccava sulla piazzetta, il generale diede l'ordine di proseguire ed occupare gli approcci settentrionali del paese. Repentinamente, appena i soldati, voltato l'angolo, sbucarono fuori dall'abitato, scoppiò la fucilata, violenta, intensa, vicina, imprevedibile.

Da quel lato la città si affaccia sul letto ampio e sassoso del torrente Ala, e la strada lo segue per un tratto prima di attraversarlo sopra un ponte. All'altra riva del torrente, si distendono delle vigne sorrette da lunghi muri che si sovrappongono a ranghi, dando l'idea della gradinata di un'arena con una verde moltitudine di viti al posto degli spettatori. In mezzo alle vigne, in alto, una villa isolata. Gli austriaci avevano fatto della villa, che fronteggia e domina il paese, il loro fortilizio, e dei muricciuoli i parapetti delle loro trincee. Inattaccabili alla fucileria, essi bloccavano solidamente il passaggio del ponte e rendevano intenibile il bordo dell'abitato.

Alla resistenza improvvisa, l'avanguardia refluì sulla piazza. I colpi che venivano dalla villa infilavano la via e tempestavano i muri. La piccola vetrina di una modesta pasticceria, avanti alla quale stava Cantore, è tutta foracchiata dalle palle.

Nella città sconosciuta non era facile orizzontarsi subito e trovare le posizioni dalle quali riconoscere e battere il nemico. Quali forze aveva? Il suo fuoco era serrato. Vi fu una ricerca concitata di sbocchi accessibili e di posti di osservazione, mentre sopraggiungeva il resto del nostro battaglione. In quel momento delle fucilate cominciarono a partire da varie finestre.

Allora si svolse uno dei più belli episodi.

Una compagnia cercava di salire alla parte alta della città e avanzava esplorando per una strada angusta e deserta, tagliata dal sibilare alto delle pallottole. Un portone era schiuso, come per un invito ad entrare. I soldati vi si affacciarono guardinghi, le baionette basse. Nella corte, inaspettato, risuonò un grido di entusiasmo, un grido di donna: «Avanti, avanti, viva l'Italia!» E una ragazza, giovane, sorridente, dall'aspetto fiorente e modesto, comparve fra i nostri: «Avanti, vengano, vengano sicuri!»

L'ufficiale che comandava, rimise la pistola nella fondina e salutò cavallerescamente chiedendo: «Signorina, si vedono gli austriaci dalla sua casa?» — «Sì, sì, si vedono, salga con me!» — e svelta essa lo precedette per le ampie scale d'una vecchia casa.

Da dietro alle persiane chiuse si scorgeva quasi sotto ai muri il torrente Ala; al di là, i vigneti e la villa, crepitanti di colpi. Delle palle si schiacciavano sulle pareti della casa.

Figlia di patrioti, educata alla religione segreta dell'Italia, la fanciulla non sentiva e non comprendeva il pericolo, tutta commossa dall'avverarsi del gran sogno. Rideva, e i suoi occhi azzurri sfavillavano di contentezza: «Signor ufficiale — esclamava — chiami i suoi soldati, vede, da qui può far battaglia!» — «No, signorina — rispose il capitano dopo aver bene osservato, — tirerebbero sulla casa e spezzerebbero tutto qui dentro; vorrei trovare una posizione più alta.» — «Sì, so io dove, mi segua, la conduco io!»

Dietro alla casa, degli orti minuscoli, aggrappati allo sperone roccioso del monte, si sovrastano l'un l'altro come pianerottoli verdi. E si vide una lunga fila grigia di soldati, preceduta da una bianca figurina di donna, salire curva da un pianerottolo all'altro per ripide scalette di pietra. Con un breve schianto le pallottole entravano nel tronco degli alberi. Gli austriaci conoscevano quell'accesso e lo vigilavano. Si accorsero subito della scalata. Dai vari ripiani i nostri cominciavano il fuoco, nascosti fra le piante.

Poco dopo anche il generale, cercando un sentiero che aggirasse la posizione nemica, saliva da altra via la costa, esplorando lui stesso, come sempre, seguìto da un plotone. Arrivò in un punto scoperto, preso d'infilata. L'avevano visto; il piombo austriaco grandinava sulla roccia. I soldati esitarono un istante e si gettarono istintivamente a terra, ai lati del sentiero. Cantore rimase in piedi, la faccia verso il nemico, immobile sopra una sporgenza della roccia, impassibile come una statua. Poi chiese un fucile, e lentamente, con un'attenzione da tiratore al bersaglio in un giorno di gara, cominciò a far fuoco. Non gridò ordini, non disse nulla, ma un minuto dopo tutto il plotone, calmo, aveva preso posizione intorno al generale e nulla più lo mosse.

Due settimane fa, nella mattinata della domenica, in mezzo ad un quadrato di truppe che presentavano le armi, la signorina Maria Abriani, l'eroica guida, ha ricevuto la medaglia al valor militare, come un soldato. Essa ne è fiera, ma a chi si congratula con lei, modestamente osserva: «Tante altre donne avrebbero fatto lo stesso nelle mie circostanze».

«Non ha avuto neppure un momento di paura?» — le ho chiesto conversando con lei proprio sull'alto della posizione alla quale essa aveva guidato le truppe, dopo essermi fatto narrare la scena. «Non ci pensavo — mi ha risposto, — ero così contenta. E poi i soldati erano tanto calmi, allegri, che pareva che non ci fosse nessun pericolo».

Dopo un istante, sorridendo ha soggiunto: «Quando ridiscesi, passando dietro alle file che facevano fuoco, i soldati si voltavano a salutarmi e a dirmi dei complimenti....» In pieno combattimento, fra una fucilata e l'altra, mentre qualche cadavere insanguinava già le rocce, i combattenti lanciavano l'omaggio di una frase ammirativa alla gioventù e alla freschezza femminili che passavano. C'è tutta l'anima italiana in questo particolare pieno di eroismo e di galanteria.

Il piccolo combattimento di Ala fu definito dall'artiglieria. La batteria che accompagnava la colonna alla destra dell'Adige fu portata avanti e dall'altra parte della valle scacciò gli austriaci a colpi di shrapnells.

Da Ala la nostra avanzata ha raggiunto senza contrasti le posizioni solide che teniamo, di fronte alla montagna di Biaena, della quale gli austriaci hanno fatto tutta una immane fortezza.

Come nella valle Giudicaria, anche in quella dell'Adige i due fronti si consolidano lontani fra loro, separati da una zona aspra nella quale serpeggia la guerrilla delle avanscoperte. In tutte queste vallate vi è stata un'analogia di azione e di intenti, che ha condotto ad una analogia di situazioni.

Qualche colpo di cannone da una parte, qualche colpo di cannone dall'altra, urti di pattuglie, ma nel complesso la guerra qui marca il passo in un'attesa guardinga. Vi sono delle posizioni d'avamposti alle quali non si arriva che per osservare. Sono cucuzzoli di alture che l'artiglieria ha sterilito e denudato, perchè quando vi arrivano gli austriaci li bombardiamo noi, e quando vi arriviamo noi li bombardano gli austriaci. Si sente, s'intuisce che ogni movimento di masse qui dipenderà da movimenti che si svolgono altrove. Per ora i due fronti avversarî si limitano ad accumulare ostacoli.

Sul Biaena le fortificazioni austriache si vanno delineando come delle ferite sulla immane faccia del monte. Sono scorticature di rocce, tratteggi di terra smossa. Il materiale scavato, trasportato dalle piogge, ha formato delle colate chiare e rosate nei canaloni e sulle pareti a picco delle creste. Si scava e si scava lassù.

Il Biaena, vario, tutto pianori e dirupi, coronato da rocce a picco, fronteggia un gomito dalla valle dell'Adige, al di là della cittadina di Mori, e si presta ad una difesa di sbarramento. Sulla sua vetta lo scoglio appare forato da cannoniere. La fortezza più alta non è sul monte, è dentro al monte. Ci sono voluti anni di lavoro per annidare le artiglierie nel cuore delle immani scogliere.

Le opere colossali che l'Austria aveva fatto sulle formidabili barriere delle Alpi dimostrano non soltanto la preparazione minuziosa di una guerra per noi inevitabile, ma dimostrano anche un concetto altissimo del nostro valore. Non è contro un avversario disprezzabile che si accumulano ostacoli di questa mole. Quando noi ci sentivamo più deboli, l'Austria c'indovinava forti, ci presentiva pieni di energie imprecisabili, di risorse imprevedibili, di volontà insospettate. Nessuna posizione le pareva solida abbastanza, e per poterci battere apprestava le armi più numerose e possenti che la scienza militare moderna sia in grado di fornire.

Il Biaena, con le sue trincee che sembrano sospese come cornici al bordo di pareti rocciose, con i suoi sentieri coperti che cercano il cavo ombrato dei canaloni, con le sue batterie che s'intravvedono nel verde delle boscaglie, con le sue fortezze nascoste nella sagomatura turrita della cresta, il Biaena ampio, oscuro, ostile, imponente, un po' velato nello sfondo della Valgarina inondata di sole, non è che un monumento di paura.

I nostri soldati lo osservano con olimpica indifferenza dalle pendici di Serravalle e dalle falde del Cornale, dove biancheggiano i resti di un castello medioevale che schiera fin verso la cima un rango ancora intatto di merlature ghibelline. Lo sguardo corre da lì lungo il serpeggiamento scintillante dell'Adige, verso il quale i villaggi scendono come armenti alla beverata. Lontano, in fondo alla vallata, in una diafanità luminosa, un biancheggiare più vasto di edifici: è Sacco, un sobborgo quasi di Rovereto, in un'azzurra conca di monti.

I paeselli dalla nostra parte seguitano a vivere anche sulla linea degli avamposti, e ricevono strani messaggi dal nemico, portati dal fiume. Sono proclami, avvertimenti, inviti, spediti dentro bottiglie vuote che l'acqua trascina. Comunicazioni da naufraghi. Qualche volta un treno blindato viene avanti adagio adagio in esplorazione, spara un paio di bordate e fugge, tutto avvolto in una gran nube di fumo.

Il fianco orientale della valle è formato dalle balze del Coni Zugna che digrada, verso Rovereto, nella Zugna Torta. È una lunga montagna boscosa che solleva un dorso crestato di rocce. Sulla vetta più alta si erano fortificati gli austriaci. L'assalto che li scacciò salì da un lato che pare inaccessibile. Dal basso la cresta sembra avanzare delle fulve speronate a picco. Una notte un reparto alpino si arrampicò lassù e sorprese il nemico. Un solo austriaco tentò di difendersi, con un eroismo ammirevole. Al grido di «Arrendetevi!» rispose: «Io non mi arrendo che per ordine dell'Imperatore!» — e cadde trafitto. Gli altri fuggirono.

Ora tutta la montagna è nostra, e dagli ultimi suoi contrafforti settentrionali i nostri avamposti vedono allargarsi sotto a loro, nella vallata profonda, Rovereto. L'altro versante del Coni Zugna scende sulla Vallarsa, che è pure nostra. A Rovereto essa si congiunge con la valle dell'Adige. Rovereto è il centro al quale converge una immane stella di valli nelle quali l'avanzata italiana si è incanalata. Sulle montagne, fra valle e valle, tuona l'artiglieria nostra. Invisibile e dominante, arrivata lassù come per miracolo, lungo strade improvvisate che si slanciano alle cime con un zig-zag da saetta, essa spande come un temporale il suo tuono nelle alte regioni dell'atmosfera.

Si sale alla Vallarsa per la strada di Schio che ascende al passo delle Dolomiti. Si viaggia lungamente nel panorama fantastico delle vette gigantesche, irte di cuspidi e di torri favolose, rossicce o cineree, pallide nella profondità del cielo, immerse nel diafano oceano dell'aria che le tinge un poco del suo azzurro, e nelle quali pare di vedere rovine paurose di costruzioni sovrumane, ruderi di castelli olimpici.

La Vallarsa è quieta come la Val Lagarina. Vi si aspetta. Il rione di San Giusto, il lembo orientale di Rovereto, mette un tremulo biancheggiamento nella distanza, dove la valle si allarga. Rovereto è in fondo ad ogni gola, è la mèta verso la quale tutti i passi si orientano.

Sulla Vallarsa, in uno sperone della roccia che avanza come una sentinella e strapiomba sul burrone, gli austriaci stavano creando uno di quei loro forti scavati nello scoglio. Quanto lavoro contro di noi! Le cannoniere, mascherate da frasche, erano già aperte verso l'Italia, simili ad entrate di caverne, e all'interno del monte immense gallerie formano un labirinto tenebroso. I detriti vomitanti dalle grotte artificiali biancheggiano a strisce fino al torrente.

Sul forte incompleto si stavano issando le spesse pareti di acciaio delle cupole. Quelle cave masse di metallo sono oggi garitte di sentinelle italiane, e il vento freddo della montagna mugola ai loro bordi da campana.

UNA MAESTOSA BATTAGLIA DI FORTEZZE.

Vicenza, 29 agosto.

Delle piccole nubi leggere e rosate incoronano la vetta oscura di una bella montagna regolare, tutta ammantata di una folta pelliccia di vegetazioni, e le cui falde si allargano dolcemente, punteggiate di case così bianche che sembrano luminose nella mattinata serena.

Un gruppo di ufficiali d'uno Stato Maggiore, da una balza erbosa che pare una terrazza verde sulla vallata, punta i binocoli verso la vetta che traspare di tanto in tanto, impallidita fra i cirri. Le nubi si diradano, si sfanno, si riformano, si spostano, e nelle loro lacerature nereggia a momenti, un po' velata, in un ovattato contorno di vapori, la sommità boscosa che attira gli sguardi. Il calore del sole, il tepore che sale dalla valle lungo le pendici, nella quiete profonda dell'aria, spazza a poco a poco le nubi, e in un lento dissolversi filaccioso di nebbie la cresta della montagna appare intera, sempre più nitida.

Essa è coronata di puntini oscuri, che si prenderebbero per minuscole escrescenze sassose sul profilo della vetta, se non si muovessero, con quella lentezza da insetti che hanno gli uomini nelle lontananze. Sono nostri soldati arrivati lassù l'altro ieri, con un assalto salito prodigiosamente a quasi duemila metri. La montagna è il Salubio.

La vallata è quella del Brenta, la Valsugana, che risalito il vecchio confine si allarga serpeggiando in ampie volute da oriente ad occidente verso Trento. La Valsugana e la valle dell'Adige si congiungono a Trento, e costituiscono le due massime arterie di transito fra le pianure italiane e la nostra grande città prigioniera. Fra queste due vallate capaci, nel cui fondo strade e ferrovie s'intrecciano sulle sponde dei fiumi, si ergono massicci alpini, solcati da vallette minori e da gole che formano un labirinto di passi, i quali tendono a innervarsi ai fulcri di Rovereto e di Trento.

L'Austria, preparando la nostra aggressione, aveva apprestato tutto per svolgere una delle azioni offensive più vigorose sulla Valsugana, e allo scopo di proteggere il fianco di questo movimento d'invasione e salvaguardare le sue retrovie, aveva sbarrato quei passi minori, tutti i piccoli sbocchi secondari tra la Valsugana e la vallata dell'Adige, con un sistema di fortezze modernissime. Sono queste le fortezze di cui sovente abbiamo letto i nomi sui bollettini del Comando Supremo a proposito di intense azioni di grosse artiglierie sull'altipiano di Asiago e sul monte Lavarone. Sono i forti di Luserna, di Belvedere, di Spitz Verle, di Busa Verle, che guardano principalmente la valle dell'Astico, la più facile delle vie secondarie fra l'Adige e il Brenta.

Subito, al primo inizio della guerra, incominciò il duello gigantesco dei forti. Varcata la frontiera occupammo di sorpresa il monte Lavarone, sovrastante dal nord l'angusta valle dell'Astico, e lo guernimmo di grossi cannoni. Il 28 maggio il bombardamento era già così intenso, tanto dalle nuove batterie del Lavarone quanto dai nostri forti permanenti annidati più a oriente fra le vette dell'altipiano di Asiago, che il vigore della difesa austriaca dalle fortezze corazzate declinava su certi punti. I nostri tiri bene aggiustati tempestavano specialmente il forte Luserna, il più vicino, che, sconvolto dalle esplosioni delle grosse granate, alla mattina del 29 non rispondeva già più. Le sue cupole d'acciaio erano demolite, tutto pareva in rovina.

Verso mezzogiorno si vide sorgere una bandiera bianca sul forte austriaco sbrecciato e silenzioso. Un evviva echeggiò sulle vette italiane a questo segno di resa. Ma subito dopo il forte scomparve in un fumo di esplosioni. Era il forte austriaco di Belvedere, più lontano, che apriva il fuoco sul Luserna per punirlo d'avere issato bandiera bianca. Il 3 giugno anche il forte di Spitz Verle, più indietro, fra le alte rocce che dominano la Val d'Assa, era ridotto al silenzio, e quelli di Belvedere e di Busa Verle apparivano danneggiati. La nostra offensiva spezzava le prime barriere.

Il bombardamento continua. A lunghi intervalli il suo cupo rimbombo passa come un profondo e lontano boato di temporale sulla Valsugana, alla quale l'azione delle nostre grosse artiglierie tende dal sud. Le truppe che operano nella valle odono avanti a loro questa gran voce che rugge. E avanti a loro, infatti, la difesa austriaca che le fronteggia ha sul suo fianco destro la maestosa e lenta battaglia di fortezze.

È una battaglia che ha una mobilità solenne. Viste le opere in pericolo, gli austriaci spostano le batterie. Hanno costruito appostamenti nuovi, hanno creato vie di arrocco per trasportare i pezzi da una posizione all'altra, e alla notte, nel silenzio profondo della montagna, si ode talvolta un rombare metallico e lontano di ruote sui binari: sono batterie nemiche che viaggiano. Scoperte e battute, esse tacciono, e nell'oscurità se ne vanno. È come se le fortezze viaggiassero.

L'eco dei colpi arriva dunque nella vallata sulla quale si è riformato il silenzio dopo l'ultimo combattimento. Sulla cima del Salubio conquistata i nostri soldati si profilano, e più in basso, fra le piante, si annida il gregge bianco e sparpagliato delle tende. Qualche nuvoletta di shrapnells si forma, uno scoppio risuona, gli ometti lassù rimangono immobili. Un paio di cannoni da montagna austriaci abbaia cautamente contro le nostre nuove posizioni, ma nessuno ci bada.

L'assalto nostro è arrivato sul Salubio di sorpresa. L'ascensione è durata un giorno intero. Dopo un abile movimento aggirante, compiuto di notte, l'alba del 24 ha trovato le truppe destinate all'attacco tutte nascoste nelle foltissime boscaglie che coprono le falde fin quasi alla vetta. Su tutto il Salubio non c'è che un triangolo di prato, il cui velluto verde si stende sulla spalla oscura della montagna, disseminato di baite deserte. Lentamente, lentamente, strisciando, ascoltando, inerpicandosi con cautela da rovo a rovo, da tronco a tronco, le truppe, in silenzio perfetto, precedute da punte di esplorazione, salivano nell'ombra più cupa, evitando le radure, lontano da ogni sentiero. Alle cinque della sera si avvicinavano al limite alto del bosco. Qui furono fatte fermare, per dar loro un po' di riposo. Gli austriaci erano trincerati a cento metri da loro.

Mezz'ora dopo si potevano scorgere dal basso, attraverso i binocoli, le prime pattuglie che uscivano dal folto, fra gli ultimi rovi. Parevano immobili, tanto il loro avanzare era lento, guardingo, felino. Gli austriaci non erano più che a cinquanta metri dalla fila avanzata dell'attacco. Dietro ad ogni cespuglio si aggruppavano minuscoli grappoli d'uomini accoccolati. Ogni movimento pareva sospeso. Non un colpo di fucile, non una voce. I minuti sembravano eterni.

Improvvisamente, uno strepito di fucilate, uno scoppio sonoro di cannonate, nembi di fumo sulle trincee, poi un formicolìo confuso verso la vetta, un gran grido, lungo, vasto, l'urlo poderoso dell'assalto, simile ad un lamento di bufera, e sul profilo della cresta si è formato un granulamento ondeggiante e vago. La montagna era presa.

La difendeva una compagnia munita di mitragliatrici. Pareva inconquistabile. Ma la sorpresa ha sgomentato il nemico. È stato sopraffatto dal panico alla vista degli assalitori così vicini, contro i quali ha sparato con tanta concitazione da non causare che perdite infime. Alcuni colpi di cannoni da montagna, appostati vicino, lo hanno deciso definitivamente alla fuga.

La compagnia austriaca ha lasciato indietro cinque uomini con l'incarico, piuttosto sproporzionato, di trattenere gl'italiani in caso d'inseguimento. I cinque uomini si sono naturalmente arresi. Più tardi — era quasi notte — gli austriaci, non udendo più niente, hanno distaccato altri sei soldati per andare a vedere che cosa era successo dei cinque. E lo hanno visto bene, poichè sono stati fatti prigionieri anche loro.

La conquista del Salubio ha inutilizzato le difese più basse nella valle, create sull'altura di Telve, che è come uno sperone del Salubio avanzato verso il corso del Brenta a sovrastare la cittadina di Borgo. Quest'altura, fulva, nuda, regolare, appare tutta rigata da trinceramenti formidabili in cemento armato. La sua fortificazione deve essere costata milioni. L'allineamento oscuro delle feritoie, nell'ombra della blindatura, si tratteggia su tutto il declivio, fino al paesello di Telve, che sorge ai piedi del colle, e le cui casette bianche si sovrastano, come per contemplare la valle, l'una al di sopra del tetto dell'altra. La rovina turrita di un castello allarga sulla vetta della collina la cinta delle sue muraglie diroccate. L'altura è stata abbandonata senza lotta.

Attraverso la vallata ubertosa, seguendone la dolce curva, Borgo, l'ultima città conquistata, si distende; e da lontano essa appare come un chiaro festone di case che si attacchi alle prime pendici del Salubio, da una parte, e a quella del monte Armentera dall'altra. L'Armentera è pure nostro. Mentre avanzavamo alla destra sul Salubio, avanzavamo alla sinistra dal monte Civaron, preso nel giugno e dal quale gli austriaci hanno tentato inutilmente di scacciarci.

Nessun combattimento nella valle. La lotta è avvenuta sui fianchi, da dosso a dosso, da cima a cima. Il Civaron, alto, strano, sottile come un pan di zucchero, coperto di boschi, dominava già Borgo, ma è l'Armentera, più avanzato, che scende a balze dirupate, tutte solcate da lavori di trinceramento austriaci, che ce ne dà il possesso incontrastato.

Fra queste alture imponenti, la Valsugana si apre e forma una conca meravigliosa, ricca, verde, disseminata di villaggi pittoreschi, di ville, di castelli. Da ogni parte d'Europa l'estate portava qui una popolazione di gente in vacanza, attirata dalla bellezza dei luoghi e dalla efficacia curativa delle acque. Oltre Borgo si scorge Roncegno, con i grandi caseggiati dei suoi famosi stabilimenti termali immersi nelle nuvolose masse oscure di un parco. Più lontano è Levico, più in alto è Vetriolo.

Nelle stazioni ferroviarie di tutti i paesi si leggono ancora questi nomi sopra affiches multicolori, rimaste ad invitare la gente come se niente fosse successo. Le locande vicine alla vecchia frontiera sono piene di queste réclames allettevoli che vi incitano a passare un mese di villeggiatura al Ferdinandshöhe sullo Stelvio, o al Grand Hôtel del Tonale a Ponte di Legno, o all'Hôtel di Falzarego, in località bombardate, in alberghi dei quali non esistono più che le rovine.

La incantevole conca di Borgo è deserta. I paesi sono abbandonati. Nulla si muove sulla via bianca. La polvere s'accumula sulle soglie delle case, insieme a detriti di carta e di paglia portati dal vento. Tutti i ponti sono saltati. Non uno ne hanno lasciato intatto gli austriaci. A Grigno, non lontano dalla frontiera, e più oltre, presso Borgo, hanno interrotto i passaggi a colpi di mina. L'acqua del torrente Maso gorgoglia fra i rottami contorti dei ponti di ferro della ferrovia — i cui binari sono rimasti per un tratto stranamente sospesi — della strada rotabile principale e della strada di Scurelle; tre ponti vicini, le cui campate, crollate allo stesso modo, spezzate agli stessi punti, hanno una non so quale bizzarra analogia di gesti.

Poco lontano, il campanile di Borgo, dal pinnacolo singolare come una punta di pagoda, si leva giallo e scintillante al sole sopra un fresco stormire di pioppi. Le persiane chiuse dànno alle case del paese silenzioso un'apparenza di paura, come se esse avessero serrato gli occhi per non vedere. Su queste case spaventate e sole, di tanto in tanto arriva una granata: un ronzìo profondo e lamentoso, uno scoppio, una nube di fumo e di polverone, ed un edificio ferito versa sulla strada qualche frammento bianco.

La stazione, ad un limite del paese, appare danneggiata dai colpi. Ma furono colpi nostri. Circa tre settimane fa, come annunziò il bollettino ufficiale, si scorse dal Civaron un intenso movimento di truppe e di carreggi alla stazione di Borgo e delle artiglierie pesanti la bombardarono. Il movimento si dissipò come per incanto. Una grande attenzione fu posta nei tiri per non danneggiare l'abitato, benchè allora la città fosse già abbandonata.

Per quasi due mesi Borgo è stato zona neutra. Vi arrivavano pattuglie nostre e pattuglie austriache. La situazione non era amena per gli abitanti; tanto più che quando le pattuglie nemiche sceglievano la stessa ora erano scariche di fucilate per le strade. Gli austriaci accusavano la popolazione di favorire gl'italiani. Avvertiti da quello spionaggio che è una delle loro più perfette istituzioni, essi scendevano ad arrestare la gente sospetta di italianità. Portarono via così anche una signorina, colpevole di aver stretto la mano a un caporale nostro. Alla fine ordinarono lo sgombro definitivo della città, e la poca gente che era rimasta partì. Ma partì dalla parte nostra, protetta da uno squadrone di cavalleria.

Ora, da due giorni, gli austriaci tirano cannonate sulle case, ma senza continuità e senza convinzione. Credono di impedire forse qualche concentramento di truppe a Borgo. Sparano da lontano e da vicino; sono piccole granate di cannoni da montagna, che arrivano chi sa da dove, o sono le grosse artiglierie del monte Panarotta che intervengono, specialmente nelle ore pomeridiane, quando il Panarotta è in ombra e vede la valle in luce.

Il Panarotta costituisce adesso la barriera austriaca nella Valsugana, come il Biaeno è la barriera che fronteggiamo nella valle dell'Adige. Si sporge ad una svolta della vallata, dietro a Roncegno, e pare la blocchi con la sua mole superba, azzurrastra nella luce del mattino. La conca di Borgo ha il Panarotta come ultimo scenario di fondo.

Sulla vetta la montagna ostile ha dei forti corazzati muniti di cupole d'acciaio. Pare che all'inizio della guerra questi forti non fossero ancora armati. In ogni caso si armarono presto, e alla metà di giugno cominciarono a far sentire la loro voce. Più in giù, lungo gli oscuri declivi boscosi, batterie mobili si appostano sui pianori, e trincee, e reticolati che si stendono a fasce, segnalati come da un affollamento nebbioso e minuscolo di miriadi di pali.

La difesa austriaca sembra si vada concentrando in quell'immane fortilizio. La nostra avanzata sul Salubio e sull'Armentera ha provocato un balzo indietro del nemico. Sopra Roncegno c'è una piccola chiesa, antica e solitaria, sul cui campanile ha sventolato fino a due giorni fa una grande bandiera austriaca. La bandiera è scomparsa. Nessun essere vivente si muove intorno alla chiesuola lontana. Per tutto è quiete, silenzio, immobilità. Non uno spolverìo di marcia o di convogli in movimento sulle strade più remote. Gli austriaci si sono ritirati dopo l'ultimo combattimento, lasciando qualche piccolo reparto sulle colline, a ponente di Borgo, da dove cannoneggia. E ritirandosi hanno fatto saltare altri ponti. Fino a Roncegno si sono viste brillare le mine. Questa fretta d'interrompere la viabilità denota uno stato singolare di allarme.

Dalla Valsugana, nelle vicinanze di Borgo, si diparte a Strigno una strada nuova, arditissima, che valica passi difficili, s'inerpica con mille giravolte sulle falde di montagne dirupate, e va da valle a valle, parallelamente alla frontiera, fino a Fiera di Primiero a congiungersi con la grande strada della valle di Cismon. È una strada militare magnifica che l'Austria ha costruito con uno sforzo gigantesco, quale soltanto una volontà definitiva poteva determinare, e il cui valore spaventa. Percorrendola noi abbiamo la misura del pericolo immenso che ci minacciava.

Questa grande e comoda via, che rendeva praticabile ai movimenti delle forze austriache la parte più aspra, impervia e selvaggia di quella zona di frontiera, ha ramificazioni verso la parte nostra, ha derivazioni che salgono a delle vette. Salgono tortuosamente a vette dalle quali i nostri forti si dominano, e su molte di quelle posizioni le piazzole per le grosse artiglierie erano già pronte.

Non tutte quelle strade sono finite; alcune erano ancora in lavorazione, altre erano appena tracciate, quando la guerra è scoppiata. Nessuna carta le segnala. Esse compongono tutto un sistema che rivela il piano austriaco di aprirsi il passo su Feltre sfondando le nostre barriere della Valsugana.

E mentre si apprestavano le strade per le grosse batterie da assedio, piccoli paesi della montagna, di quattro o cinquecento abitanti, vedevano fra le loro mura sorgere enormi panifici elettrici, d'una modernità insuperabile, capaci di fornire da dieci a ventimila razioni di pane ognuno. Ve n'è a Pieve di Tesino, ve n'è a Canal San Bovo, ve n'è a Fiera di Primiero, cioè ad ogni nodo di strade, ad ogni sbocco di valle. Quali masse erano destinati a nutrire? Ora essi fanno il pane per le nostre truppe.

L'Austria preparava l'invasione meticolosamente, metodicamente, con quella cura del dettaglio di chi può prendersi tutto il tempo necessario per studiare e per operare, eliminando ogni rischio, organizzando il colpo sicuro, contando di poter scegliere il suo momento. Fortunatamente non lo ha scelto lei.

La grande strada militare porta attraverso paesaggi melanconici e grandiosi dell'alta montagna, fin dove l'abete intristisce nei crepacci e fra minuscoli cespugli cinerei fiorisce l'edelweiss, il fiore del freddo, il fiore in pelliccia bianca. I nostri soldati ne fanno raccolta, e la posta porta innumerevoli fiori delle Alpi alle case italiane. Nella foschia, nella penombra nebbiosa delle vette, quasi sempre sfiorate dalle nubi, s'intravvedono baraccamenti che sorgono, e il martellare lieto del lavoro, accompagnato da canti d'ogni regione, echeggia nell'aria fredda.

Si ridiscende al tepore della ridente valle di Cismon, dove tutto è quieto. Guerriglia di pattuglie sulle montagne, al nord, ai piedi delle prodigiose muraglie dolomitiche della Pala di San Martino, immani, grige, inverosimili. I nostri soldati si spingono in esplorazione fino ai passi che il nemico guarda. È la lotta di agguati e di sorprese che abbiamo conosciuto sulla Valfurva e nella valle Daona.

Il combattimento più importante avvenne al ritorno di una esplorazione. Trenta alpini erano aspettati da cinquanta nemici appiattati nel folto di un bosco di abeti. Era la sera. I nostri, vicini ormai all'accampamento, marciavano incolonnati in un sentiero. Il nemico fece fuoco a cinquanta metri. La prima scarica fu micidiale. Gli ufficiali nostri caddero. Ma i soldati non si persero d'animo: manovrarono, si distesero in ordine di combattimento, e, appostati dietro gli alberi e tra i macigni d'un torrente, per tutta la notte sostennero il fuoco dell'avversario superiore, mirando alle vampe dei colpi.

All'alba, udendo arrivare dei rinforzi italiani, i nemici fuggirono lasciando vari morti e alcuni prigionieri. Quando si potè osservare la loro uniforme, si vide che non erano austriaci.

FRA I TORRIONI DELLE DOLOMITI.

Belluno, 2 settembre.

Una pioggia torrenziale, uno di quei brevi e violenti temporali di montagna che pare nascondano il mondo in un velo crepuscolare di acque scroscianti, aveva la sera prima vuotato sulle montagne Cadorine tutte le nubi, e quando ci inerpicavamo verso la vetta maestosa dell'Averau, al nord di Selva di Cadore, l'immenso panorama delle Alpi Dolomitiche levava la moltitudine fantastica delle sue punte nella gloria di una serenità magica.

Non un pennacchio di nebbia, non un batuffolo di vapore, non un cirro, e nell'azzurro profondo del cielo i profili dello sconfinato e meraviglioso orizzonte si disegnavano con una precisione tagliente. La terra e l'aria avevano un non so quale colore di lavato, di fresco, come se la creazione fosse stata ridipinta a nuovo, e le più lontane balze soleggiate, che rivelavano i loro infimi rilievi nella purità luminosa della divina mattinata, apparivano stranamente vicine, quasi a portata di voce.

La vetta dell'Averau è una torre immane, prodigiosa, di una nudità striata di rosa, e vista dal basso, dal piede delle sue pareti a picco, ha qualche cosa di soprannaturale e di pauroso. Lo sguardo sale al cielo lungo la roccia tormentata che strapiomba, e quella mole vertiginosa che esce dalla logica delle nostre concezioni incute un vago senso di sgomento. Sui suoi fianchi corrono crepacci profondi, strane feritoie nelle quali un buio ostile si agguata. Da un lato la portentosa muraglia si sfalda, e forma delle guglie aguzze, fra le quali s'insinua nell'ombra la precipitosa e cinerea fiumana di detriti dei canaloni.

A oriente, il massiccio roccioso, biancastro, tutto a stratificazioni, sul quale la torre si fonda, risale a piatto inclinato, va su dolcemente come un bastione, come il muro di cinta di una favolosa fortezza di cui l'Averau sia il mastio, e forma la vetta del Nuvolau. Nella sella fra le due vette, un rifugio, una casetta di pietra, il «Nuvolau Pass Hütte». Sulla cima del Nuvolau, un altro rifugio, un puntino bianco, il «Saxendankehütte». In realtà sono due caserme austriache che dovevano permettere la difesa del passo. Ma la montagna fu presa quasi senza lotta nella rapida avanzata iniziale, dopo l'occupazione del Porè, le cui falde verdi abbiamo contornato salendo. Ed ora il gruppo del Nuvolau si erge dominatore sulla lotta che si svolge intorno, a semicerchio, da levante a ponente.

Dietro a noi, scalando l'ultimo ciglio, vedevamo inabissarsi la valle del Fiorentina, cupa, selvosa, colma di un'ombra perenne. Tra la ridente valle del Cismone, nella quale si adagia la pittoresca cittadina di Fiera di Primiero, che visitammo nella ultima escursione, e la valle del Boite, che da Pieve di Cadore e per Cortina d'Ampezzo incanala la strada che scende sulla Drava a Toblach, fra questi due passaggi principali, come abbiamo già visto fra la Val d'Adige e la Valsugana, si dirama tutto un labirinto di vallette e di gole che immettono a valichi e a passi, lungo le quali strade mulattiere od erti sentieri da alpigiani salgono a cercare un varco nelle selle dell'alta montagna, talvolta fino ai ghiacciai. La valle del Fiorentina è uno di questi solchi, nei quali il sole estivo non scende che per qualche ora al giorno. L'inverno non finisce mai completamente nel profondo, dove la boscaglia rigida dei pini accumula ombra su ombra, e le rare case di legno, basse, ricordano le isbe siberiane. Le pietre si coprono di muschi nell'oscurità verdastra della selva, come per difendersi dal freddo, e sui praticelli scoscesi un effimero alito di primavera fa schiudere una delicata flora nordica.

Anche qui la guerra si sparpaglia nei passi, si spezza, si trita, si fa guerriglia, mentre sulle grandi strade l'azione s'innerva. Da valico a valico vi è una lotta di appoggio, di fiancheggiamento. Alle volte, su testate di valloni secondarî il combattimento si accanisce e si allarga non per il valore del passaggio ma per secondare l'azione che si svolge altrove, per arrivare a posizioni che dominano. Ogni episodio è l'anello di una catena. La sicurezza di un'ampia conca o di una rilevante vallata, per un allacciamento di occupazioni minuscole che sembrano isolate, può dipendere dall'esistenza di una pattuglia lontana, quasi sperduta, aggrampata ad una vetta precipitosa, una vetta che dalla conca o dalla vallata non si vede nemmeno.

Percorrendo il fronte come noi facciamo, da occidente ad oriente, si sente che l'azione va pulsando più intensa. La frontiera austriaca, dopo essere discesa a inglobare nell'impero le terre più santamente nostre, fino al Garda, risale nel Cadore ad avvicinarsi alla frontiera geografica, pur così lontana. Qui la nostra offensiva si è trovata relativamente più prossima alla vera terra austriaca e punta verso il fianco di grandi comunicazioni interne dell'impero. Perciò le difese si accumulano contro questi sbocchi e la guerra vi si fa più attiva e più aspra.

Al di là della tenebrosa vallata del Fiorentina, alto in una profondità azzurra si apriva al nostro sguardo stupito tutto un oceano di montagne, una fantastica distesa di immense onde di pietra dalle creste frastagliate e in ombra, lambite appena sul fianco dal sole, diafane e di un colore glauco di acque, con sollevamenti fluidi di costoni cilestrini, una sterminata evanescenza di forme gigantesche nelle quali non si riconosceva più l'eterna immobilità poderosa della roccia. Sulle onde, dei marosi più alti, un irrompere di masse sublimi: il Pelmo dominatore e nobile, un signore dei monti, il Civetta seghettato e strano, le Pale di San Martino più lontane, una furia di guglie turchine, e ad occidente il Marmolada solenne, sul quale i ghiacciai accumulano nevicate di millenni nel loro spessore ovattato. Ghiacciai e nevai chiazzano di candore l'azzurro delle vette ed hanno una mollezza di nubi rapprese fra le cime, di nubi adagiate e immobili.

A mano a mano che, isolatamente per non essere scorti dalle vedette nemiche, salivamo le ultime rampe del passo dell'Averau, scoprivamo alla nostra sinistra l'angusta e vicina valle d'Andraz, al di là della quale il famoso Col di Lana pareva salire con noi, oltre un costone dell'Averau, mostrandoci prima la sua cima nuda, poi le sue falde boscose, poi i suoi declivî più bassi immersi nell'ombra. Sul Col di Lana il combattimento è continuo. Anzi, è il solo punto di questa zona nel quale la battaglia abbia assunto un carattere regolare, sistematico, continuativo.

Un'occhiata ad una carta ne rivela subito la ragione. Risalite con lo sguardo la strada che da Feltre per Agordo arriva, correndo da sud a nord, alla frontiera lungo la valle del Cordevole. Il Col di Lana fronteggia la valle e la domina. Appena il viaggiatore arriva a quel delizioso laghetto che il Cordevole forma vicino al villaggio di Alleghe, nello sfondo, simmetricamente fra le due verdi pareti laterali della valle, si vede profilarsi il cono quasi regolare di un monte che ha l'aria di chiudere il passo. È il Col di Lana, che sorge alla confluenza del Cordevole e dell'Andraz, come una di quelle case erette ad un bivio, che si vedono da lontano e che sbarrano la prospettiva.

Ma la strada non continua lungo la valle oltre la frontiera, il Cordevole non costituisce un passo primario; e la lotta non si sarebbe fatta forse così intensa sul Col di Lana, se ai piedi della montagna, quasi rasentando la frontiera, non passasse la famosa strada delle Dolomiti, un'opera gigantesca, costata all'Austria delle somme colossali, la quale, correndo parallelamente al confine, costituiva una preziosa via di arrocco fra valle e valle. Essa era intesa a facilitare gli spostamenti delle forze destinate ad invaderci. Il possesso incontrastato di questa strada è di una utilità indiscutibile. Il Col di Lana la difende, e dominando tutta la valle superiore del Cordevole esso è anche un posto di osservazione eccellente, che piomba il suo sguardo nelle nostre retrovie.

La nostra azione ha tessuto una rete di operazioni offensive intorno al Col di Lana, prima di attaccarlo. Ci spingemmo subito a prendere cime e passi, affacciandoci da ogni parte, comparendo sui fianchi dei colli, conquistando vette, aprendo strade, permettendo alle nostre artiglierie pesanti di arrivare su posizioni inaudite, dalle quali hanno aperto il fuoco contro i forti austriaci eretti sulla zona del Cordevole. Avemmo notizia il sei luglio del primo bombardamento sistematico delle opere di Corte e della Tagliata Tre. Altri forti erano bombardati presso Falzarego.

Gli austriaci tentarono replicatamente di scacciarci dalle nostre posizioni avanzate, di spezzare la catena delle nostre operazioni, ma non riuscirono mai. Attaccarono il 9 luglio, per due volte, durante la notte, le nostre forze alla testata al vallone Franze, cioè delle forze che si avvicinavano da nord-ovest al Col di Lana. Attaccarono sull'aspro vallone di Travenanzes, fra le Tofane, il 23 e il 27 luglio. Il 29 attaccavano di notte, di sorpresa, le cime di Pescoi e il Sasso di Mezzodì, a ponente del Col di Lana, del quale eravamo già parzialmente in possesso.

Fu il 16 luglio che la nostra fanteria conquistava alla baionetta le prime pendici del monte. Visto dall'immenso gradino, tutto chiaro di rocce sgretolate, che sale al passo dell'Averau, avevamo l'illusione di vedere il Col di Lana vicinissimo, sotto a noi, illuminato in pieno dal sole mattutino. Vedevamo distintamente le trincee, i passaggi coperti, le blindature. Le posizioni nostre e quelle del nemico sono ad una ottantina di metri.

Non si ha idea di queste trincee che rampano sul declivio scosceso, di questo attacco millimetrico che si attacca con gli artigli alle falde della montagna che scava. Non si spara più, non si può più sparare il fucile. Il dislivello precipitoso copre gli uni e gli altri. Si combatte a furia di granate a mano.

Il monte non è roccioso, ma ha la linea ardita di un cono, e sulla sua sommità un'erba povera e grama verdeggia. Non è sulla estrema aguzza vetta che si combatte. Dalla vetta scendono due costoni, che, poco sotto alla cima, avanzano ognuno una specie di gobba, ad altezze diverse. Su queste due gobbe gli austriaci hanno scavato due ridotte, munite di blindature a terrapieno, con delle trincee così profonde che sembrano spaccature. Nell'ombra di questi solchi nulla si muove. Gli uomini sono affossati nel buio. Noi vedevamo dall'alto e di scorcio queste posizioni, e avevamo l'impressione di un allineamento di fosse regolari colme d'oscurità.

Intorno l'erba è scomparsa. Il suolo rossiccio ha l'aspetto della terra lavorata di fresco. Tutta la parte superiore del monte è come vangata dalle esplosioni delle granate. Sembra scorticata. Anche la vita vegetale è fuggita. Le due ridotte, sporgendo sui costoni, dominano. Un poco al disotto, altri solchi, più sottili, si direbbe più svelti: le trincee che assaltano. Si vedono venir su come delle serpi, tracciando una linea piena di violenza, a zig-zag. La testa avanza, si tende, e la coda si perde in basso fra le prime boscaglie, fra gli abeti più snelli e più arditi, avanguardie della selva che sembra montare all'assalto anche lei, tutta irta di punte verdi.

In mezzo agli alberi, del legname biancheggia in un disordine da cantiere. Si combatte il nemico e il freddo, si scavano trincee e si fanno rifugi, si lotta e si lavora, bisogna vincere l'austriaco e la montagna. Ma tutto questo s'indovina senza vederlo. Le nostre posizioni sembrano deserte come quelle avversarie.

Per riconoscere quei due cucuzzoletti fortificati i soldati hanno dato loro un nome. Uno a destra, più alto, lo chiamano il Cappello di Napoleone; l'altro il Panettone. Ci vuole una straordinaria fantasia per riconoscere la più vaga somiglianza fra quelle due fosche ridotte e le cose indicate dai loro nomi, ma su tutto il fronte sorge la necessità di creare una nomenclatura per località anonime, che prendono inaspettatamente un interesse enorme nella storia degli uomini compensandosi così della oscurità profonda del loro passato, e nulla di più bizzarro di questi nuovi nomi che entrano gravemente nelle carte dello Stato Maggiore e nell'uso della guerra.

Sotto al sinistro sconvolgimento di solchi e di scavi, pieno di una truce immobilità, più in basso del bosco, dove i declivî si addolciscono nella valle d'Andraz e si chiariscono di prati, biancheggiano villaggi abbandonati. Alcuni sono in rovina, altri, distrutti dal fuoco, non mostrano più che i basamenti di pietra sui quali le casette di legno s'innalzavano con i loro tetti neri e scoscesi. Gli austriaci quando non possono più difendere distruggono. Cercano di privarci di ricoveri e mettere il gelo dalla loro parte.

Erano minuscoli aggruppamenti di quelle pittoresche casette da paese nordico che nelle vallate cadorine chiamano tabià. Salesei, Pieve di Livinallongo, Agai, Franza, formano nel verde un disseminamento di piccoli edifici e di macerie. Agai fu bombardato con proiettili incendiarî sparati da Corte il 9 luglio. Divampò ai primi colpi. Il nemico tentava di ostacolare la nostra occupazione di Pieve, cioè di paralizzare il nostro movimento ai piedi del Col di Lana sul quale ci preparavamo a salire.

Nella notte del 14 luglio le truppe destinate al primo attacco marciarono lungamente per i sentieri della foresta, risalendo nel fondo della valle d'Andraz, contornando le falde del monte. La notte era oscurissima, ma di tanto in tanto di fra i rami degli abeti scendeva improvviso e vivido un raggio bianco, che illuminava i tronchi e le pietre; i soldati si fermavano un istante nelle ombre. Erano i proiettori austriaci che frugavano gli approcci. Investiti dal chiarore subitaneo, i nostri avevano sempre, per un istante, l'impressione di essere stati visti, come se quel raggio fosse stato uno sguardo soprannaturale e fosforescente, e impugnavano il fucile in atteggiamento guardingo. Poi le tenebre si richiudevano più profonde; il lieve rumore eguale dei passi era coperto dallo scrosciare del torrente.

L'assalto dato il 16 luglio conquistò i primi trinceramenti, sui contrafforti che scendono verso Agai e verso Pieve. Fu preparato da un intenso fuoco di artiglieria. I cannoni tiravano alternativamente prima a granata, per demolire le difese e forzare il nemico ad abbandonarle, e poi a shrapnell per colpirlo nella fuga. L'assalto fu magnifico. Si videro le nostre file uscire dal folto del bosco nelle prime radure e salire con un impeto irresistibile, formando un formicolìo grigio e veloce e ululante su tutto il costone. Delle mine scoppiavano; il fumo e il polverone delle esplosioni avvolgevano a tratti l'assalto in un nembo rossastro; poi al dissiparsi della nube si scorgevano i nostri che proseguivano, colmando i vuoti, finchè sparirono tutti nella trincea nemica. I lavori di rafforzamento furono rapidi. Qualche giorno dopo, un altro passo avanti.

All'imbrunire furono portati due pezzi lassù. Venivano issati adagio adagio, nel buio. Lunghe file d'uomini silenziosi tiravano le corde, puntando i calcagni ai tronchi degli alberi, e non si udiva che il loro ansimare. A mezzanotte i due pezzi erano fuori delle posizioni, pronti. Erano a sessanta metri dalle trincee austriache. Ai primi colpi, così vicini che le spolette erano graduate a zero, gli austriaci sorpresi abbandonarono le trincee e fuggirono attraverso le ultime propaggini del bosco, poi sui prati macilenti dell'erta vetta.

Il 28 luglio l'attacco progrediva sul costone sud che scende verso Pieve. Il 4 agosto, un altro assalto, e si prendeva l'ultima linea di trincee austriache, oltre le quali non ci sono più che le ridotte: il Panettone e il Cappello di Napoleone. Ma appaiono formidabili.

La nostra artiglieria le batte con una precisione stupefacente, ma la loro posizione elevata le protegge in parte dal fuoco. E l'artiglieria austriaca, ben nascosta dietro qualche spalla del monte Sief, che è quasi una seconda vetta, più lontana, del Col di Lana, può concentrare efficacemente i suoi tiri sulle due ridotte al momento in cui fossero prese. La preparazione di ogni movimento deve essere accurata, lunga. Ad essa si dedica, con una volontà ferrea e una ingegnosità fertile di risorse, un ufficiale superiore che porta uno dei più gloriosi nomi guerrieri del mondo. La fiducia delle truppe è immensa.

E il loro buon umore anche. Se fossimo nelle loro trincee sentiremmo chiacchierare e ridere. Soltanto le vedette, rigide nell'attenzione, tacciono guardando per le feritoie. Di tanto in tanto dei dialoghi singolari s'intrecciano fra trincee italiane e austriache, alla notte, quando il silenzio porta lontano le voci sommesse.

Una notte una squadra nostra avanzava fuori della trincea, strisciando dietro ai sacchi di terra sospinti e rotolati. Le vedette nemiche se ne accorsero e uscirono pure dalle posizioni per poter sparare. Dei colpi di fucile risuonarono. Le due squadre rimasero in silenzio a scrutarsi nel buio. Allora un soldato torinese che parla tedesco bisbigliò da dietro il suo sacco: «Venite giù, vi trattiamo bene!» — Dopo un breve silenzio una voce dall'alto rispose, nello stesso tono: «Non possiamo, c'è l'ufficiale, dietro a noi, che ci sparerebbe addosso!»

Qualche volta i tedeschi attaccano la testata delle trincee d'approccio, per interrompere i lavori di zappa. Gettano allora centinaia di granate a mano; anzi, spesso non le lanciano nemmeno, le lasciano rotolare giù con la loro miccia accesa che fa un frullìo da trottola; si direbbe che ne rovescino dei cesti. Anche le mine aeree sono entrate in azione. I nostri, con un colpo di mano, sono riusciti una volta a portar via un lanciamine e a fare dei prigionieri.

La situazione su quella vetta, a 2400 metri, è così bizzarra che un giorno un colpo di cannone ci ha portato un prigioniero. Una granata nostra ha demolito un angolo di una trincea austriaca, e l'angolo è franato giù fino alla trincea italiana trascinando nel terriccio e fra i sassi del parapetto crollato un soldato tedesco, tutto stordito e impolverato.

Mentre contemplavamo questo straordinario campo d'azione, il vallone di Andraz risuonava lungamente di cannonate, che acquistavano fra le falde dei monti e per le gole una sonorità fantastica. Ad ogni colpo la montagna faceva un commento senza fine. Lo ripeteva, e lo ripeteva, lo lanciava e lo riprendeva, dandogli la continuità di uno scroscio immane.

Poi una batteria non lontana da noi ha aperto il fuoco, e la torre titanica dell'Averau ha urlato. Era un effetto d'echi di una grandiosità paurosa. Dopo l'esplosione, metallica e violenta, passava qualche istante di silenzio, e improvvisamente la roccia, dall'altra parte, tuonava. Pareva qualche cosa di vivo quel ruggito, pareva la vera voce di quegli smisurati giganti di pietra, che hanno forme così personali e violente, una voce apocalittica. Dopo l'Averau, le alti pareti del Nuvolau rombavano, con oscillazioni fuggenti nel suono profondo. Quando si acquietavano le vette vicine, si udivano lontano brontolare ancora le balze del Busella.

Per qualche tempo l'ascensione dell'ultimo tratto ci ha chiuso ogni vista con un paesaggio di macigni. Pareva di salire il gradino di un girone dantesco. Arrivati al rifugio ci siamo affacciati sopra un panorama di orrore, sopra un mondo inverosimile, tutto muraglie titaniche, tutto picchi, tutto cuspidi, affascinante, spaventoso, sublime, solcato da abissi, tagliato da canaloni angusti come corridoi, chiusi fra pareti immense, un mondo privo di terra, privo di vita, fatto di pietra nuda, foggiata in una convulsione di forme soprannaturali, senza declivî, senza una curva, angolose, strapiombanti, vertiginose: il paesaggio delle Tofane.

Quale terribile terreno di guerra questo incubo di rocce! La torre dell'Averau non era che un'avanguardia. Tutte le montagne qui sono torri, sfaldatesi lentamente in miriadi di secoli, torri che accendono le loro guglie oltre i tremila metri nello splendore luminoso delle terse altitudini gelate del mondo, e che precipitano i loro speroni a picco in voragini che il sole non tocca mai fino al fondo.

Sono moli prodigiose, striate di rosa e di grigio, alle quali la regolarità delle stratificazioni geologiche dà un'apparenza di costruzione favolosa, di cose volute, di edifici incomprensibili e immani eretti per sovrapposizione di pietre a ranghi, come l'uomo erige le sue mura minuscole e presuntuose.

Canaloni creati dall'allargarsi di spaccature profonde chilometri, offrono i rari e difficili accessi alle altezze; le frane dei detriti vi hanno formato come delle sterminate cateratte cineree e immobili. Su quelle cateratte la nostra fanteria s'inerpica, e a poco a poco si scorgono i sentieri che essa vi traccia, sottili, tortuosi e scoscesi.

È impossibile descrivere, ed è difficile capire la nostra azione in quel labirinto infernale, in quel paesaggio da tregenda. Fra il gruppo delle Tofane e l'Averau passa la continuazione della strada delle Dolomiti che va a Cortina. Verso l'oriente, in fondo ad un allargamento lontano e luminoso di vallate, vedevamo un po' di verde, un po' del mondo nostro, e nel verde una deliziosa cittadina che pare fatta di ville: Cortina. Dalla parte opposta, una barriera maestosa e orrenda di vette, sorelle delle Tofane, un caos di punte aguzze che la strada valica ad una depressione, detta il passo di Falzarego. Il gruppo delle Tofane è traversato da nord a sud dalla gola di Travenanzes, nella quale abbiamo fatto numerosi prigionieri. Quasi tutte le strade sono in mani nostre.

Ma le occupazioni delle vette s'intrecciano. Le linee dei fronti s'infrangono, per così dire, sull'inaccessibile, e i frammenti, composti di piccole pattuglie, vagano, ascendono, scalano, si sorprendono. È la caccia. Caccia meravigliosa e appassionante da cercatori di nidi d'aquila.

L'Austria ha l'ausilio dei contrabbandieri e dei cacciatori tirolesi di camosci. Bisogna riconoscere che la guerra amareggia profondamente i contrabbandieri, e con ragione: spostando le frontiere la loro industria finisce. La simpatia dei frodatori di dogane è andata tutta alla nostra nemica. Vi è stata una leva in massa di tali gentiluomini, che costituiscono su questa zona una piccola milizia indipendente di franchi tiratori.

Sono loro, conoscitori profondi della montagna, che presidiano le vette più alte. Stanno alla posta; sanno da dove potrà spuntare un soldato e aspettano, dietro ad un fucile di precisione, che tira spesso a palla esplosiva, munito di alzo a cannocchiale, montato su cavalletto.

Le esplorazioni sono come un duello all'americana. Nell'immenso caos di pietra, la lotta è fra pochi uomini. Si fanno giorni e giorni di marcia su incredibili sentieri da capra, per arrivare addosso ad una pattuglia da una parte non vigilata. Si sta per lunghe giornate immobili, attaccati ad una roccia, sopra due palmi di cornice al bordo di un abisso, per sorprendere il movimento imprudente di un uomo, che è attaccato ad un'altra roccia, sopra un altro abisso.

Vicino al passo di Falzarego, ai piedi della Prima Tofana, la più prossima al vallone, vi è una vetta più bassa che i nostri chiamano il Castello. Tutti i nomi, anche gli antichi, ricordano castelli e torri, tanto l'idea di costruzioni sovrumane sorge spontanea. Nel fondo del vallone, proprio sotto all'Averau, sono le Cinque Torri, delle masse rossastre, isolate, che sembrano i resti di qualche fortezza favolosa. Dunque sul Castello c'era un posto austriaco. Una notte, una audace pattuglia nostra è andata a sorprenderlo.

La scalata era impossibile. Non potendo arrivare dal basso bisognava arrivare dall'alto. Dopo un lungo cammino sulle cornici della Tofana, i nostri poterono calarsi con una lunga corda sopra una specie di angusto pianerottolo che sovrastava il posto nemico. Udivano, mentre scendevano lungo la fune, gli austriaci discorrere sotto a loro, nel buio. La conversazione si cambiò in un gridìo di spavento e di dolore, quando una grandine di granate a mano scoppiò fragorosamente sul Castello, illuminandolo di baleni azzurrastri. Poi silenzio profondo.

Qualche minuto dopo i nostri si aggrampavano l'uno all'altro sorpresi, e si stringevano contro la parete di pietra, immobili. Delle altre granate scoppiavano ora in alto, su delle sporgenze della roccia, sopra a loro. Un posto austriaco annidato sulla vetta della Prima Tofana li cercava a colpi di esplosivo. I tre aggruppamenti nemici si sovrastavano a trecento metri l'uno dall'altro.

Qualche volta di notte, da punte altissime scende la luce viva di un razzo illuminante, la cui fiamma bianca rimane sospesa come una meteora. Dei proiettori si accendono e rischiarano a una a una le asperità delle rocce. Anche sul Col di Lana improvvisamente si vedono spesso apparire nel colmo della notte vividi chiarori, come sulla vetta d'un vulcano.

La vita sulle Tofane, faticosa, terribile, ha però dei lati che seducono lo spirito avventuroso dei nostri soldati. È una guerra selvaggia nella quale si esaltano le virtù individuali. Ognuno può avere il suo metodo, la sua tattica, il suo piano. Si vive entro spaccature delle rocce, senza ricoveri, senza tende. Delle pattuglie si sperdono, talvolta in quel labirinto di orrori e tornano sfinite dopo due o tre giorni di ascensioni e di discese nella immensità misteriosa di dirupi irriconoscibili.

Fu in questa guerriglia delle Tofane che rimase ucciso il generale Cantore, mentre si sporgeva a guardare un appostamento nemico.

Un silenzio assoluto stagnava nella gola di Falzarego. Ci pareva di dominare il paesaggio grandioso e strano di un pianeta morto. Ma di tanto in tanto si udiva un lontano colpo di fucile, che rimbombava sordamente, cupo e velato.

Quando ridiscendevamo, qualche shrapnell di grosso calibro cadeva verso la strada, sporcando il sereno col suo fumo giallo che la brezza fredda incanalava e disperdeva giù nella valle.

L'eco dell'Averau protestava.

SULLE VETTE DELL'ALTO AGORDINO.

5 settembre.

Il sentiero ascende così ripido, che i muli scivolano ad ogni passo e si portano avanti con un'andatura riflessiva, a gran colpi irregolari di groppa, puntando le zampe posteriori sulle grosse pietre. E pure su questi sentieri è salita l'artiglieria.

Ma dove mai non è salita la nostra artiglieria? Ci inerpichiamo talvolta fino ad alti passi, sulle corone dei monti, e quando siamo lì ci accorgiamo che il cannone è andato più in su, ad accovacciarsi in qualche spaccatura, o in una cavità della roccia, o sopra a sporgenze che lo contengono appena, ad occupare il nido di un'aquila.

Il sentiero ascende ripido lungo l'oscura valle che il nome descrive: Valfredda. I villaggi, tutti di legno, che portano incise sulle porte date secolari, sono rimasti indietro, giù agli sbocchi più tiepidi. Ogni casa ha sulla vecchia facciata qualche immagine sacra in un tabernacolo, ogni crocicchio ha la sua croce, antiche e rozze figure del Redentore aprono le braccia avanti al viandante nelle solitudini della montagna. Si sente negli abitanti taciturni una fede triste e rassegnata, quell'istinto della preghiera di chi vive nel pericolo. Il monte è un eterno nemico, che lancia valanghe e frane, che scatena bufere e tormente, nelle quali l'uomo si sperde e rimane preso per sempre. La montagna, come il mare, rende gravi e devoti.

Oggi essa è sinistra sotto al cielo coperto. Le vette rocciose non sono che masse immani di tenebrore, volumi informi d'ombra violastra sui quali corre il velo delle nebbie, sfondi oscuri e indefiniti che si perdono nelle nubi. Di tanto in tanto, una macchia di sole accende un prato alto, dà vita ad un bosco, passa, scivola, si estingue in frange di vapori cinerei. Il cannone tuona lontano.

Andiamo verso delle posizioni gremite di soldati, ma si direbbe di salire in regioni deserte. Non si vede nessuno. Le carovane e le salmerie salgono ad ore fissate. Il movimento delle retrovie non si sgrana in una continuità di animazione. Qualche piccolo posto, di tanto in tanto, qualche guardia ai ponti rustici che scavalcano il torrente, il fumo di un rancio che cuoce fra due pietre alla fiamma di legni resinosi, un battere di scure vicino ad una tabià abbandonata, il biancheggiare di una tenda fra gli abeti; poi, per ore, più niente.

Abbiamo lasciato molto lontano, laggiù nelle grandi vallate percorse dalle arterie migliori della viabilità, la interessante e fervente operosità che segue e serve la guerra. Carri di tutte le forme, di tutte le regioni, in lunghe file lente, scroscianti sulla ghiaia delle strade maestre con un fragore che ricorda la fucileria lontana; mandrie di buoi, docili e tardi, che bloccano il traffico impaziente delle automobili, e che si fermano placidi a guardare, con una curiosità umana nei grandi occhi umidi, la macchina palpitante che vuol passare, verso la quale allungano il largo muso annusando perplessi; squadre di grigi carri a motore che oscillano e rombano fuggendo fra nubi di polvere; reparti di cavalleria in servizio di perlustrazione, che rallegrano come l'evocazione più pittoresca delle vecchie guerre nelle quali una valanga di cavalli e di uomini, luccicante di sciabole roteate, decideva le sorti della battaglia; convogli di furgoni e di cassoni, attaccati alla postigliona, che spandono un fragore metallico e profondo, carichi di cartucce e di granate....

Tutto questo movimento, che incipria di polvere le siepi, sosta, si addensa e dilaga rumorosamente in strane città di baraccamenti, di tettoie, di hangars, sorte come per incantesimo, città di tappa e di deposito biancheggianti di legname nuovo, punteggiate da uno sfarfallìo di bandiere, gremite di soldati, piene di attività disciplinata. Parchi di automobili, parchi di cavalli, parchi di muli, formano da lontano delle grandi striscie grige o nere che si prenderebbero per ammassamenti regolari di truppe in rango. I rifornimenti si accumulano a montagne in magazzini che sembrano quelli di un porto. I vecchi paeselli vicini, i veri, non sembrano più che dei sobborghi in muratura delle città di legno, sobborghi pieni anche loro di un grigio affollamento di soldati e trasformati in sedi di uffici, di comandi, di ospedaletti.

Queste zone sono il dominio della Territoriale. La milizia territoriale è per tutto, fa di tutto, s'incontra nelle retrovie e qualche volta anche sulle posizioni, ed ha preso alla guerra un'aria marziale di Vecchia Guardia, rigida alla consegna. Ai ponti, a certi passi, c'è sempre una fiera sentinella dai grandi baffi, con qualche capello grigio sulle tempie, vestita spesso di quell'uniforme pelosa color tabacco che la guerra ha fatto scaturire non si sa da dove, armata di un fucilone che aumentato da una baionetta di quattro palmi pare una lancia, una sentinella inappuntabile e grave, che ferma inflessibilmente anche il generale e domanda il salvacondotto. Sono dei territoriali che, a passo lento, muniti di pungolo, conducono le mandrie dei buoi; e sono territoriali i carrettieri che vanno al sole e all'acqua su tutte le strade maestre, seduti in cima ad un carico di munizioni o di galletta, coperti talvolta del vecchio cappotto azzurro, caro al nostro ricordo.

È forse per colpire qualche nostra stazione di rifornimento, qualche centro di tappa, qualche grande convoglio in marcia, che gli austriaci allungano i tiri indiretti dei loro medî calibri in cerca delle nostre strade in fondo alle valli? Essi hanno il colpo facile. Tirano appena vedono la più piccola cosa, e anche se non la vedono: basta che la immaginino. Certo non mancano, all'apparenza, di munizioni. Non proporzionano mai il costo della cannonata al valore del bersaglio. Quando possono, tirano con l'artiglieria anche sopra un uomo solo e sulle case abbandonate.

Dalla vetta del Col di Lana essi piombano lo sguardo nella valle italiana del Cordevole, e ogni tanto, come anche il comunicato ufficiale ha annunziato, vi fanno arrivare qualche grossa granata dalle vicinanze di Cherz, cioè da una dozzina di chilometri, senza una ragione evidente. I colpi passano su delle vette boscose, infilano una gola, e vengono a cadere nelle vicinanze di Caprile, un paesello sull'antica frontiera, alla confluenza del Fiorentina col Cordevole.

Vengono a cadere a piombo, con un gran frastuono di echi nella piccola conca che si apre intorno al paese. In una balza, a mezza costa, in alto sopra al villaggio, c'è un edificio bianco, che era un modesto albergo «Belvedere», e che ora contiene un ospedale. Sono salito lassù iersera per cercarvi un ufficiale amico che credevo ferito, ed ho trovato tutto il personale medico fuori, sulla spianata, intento ad osservare curiosamente in terra una gran buca profonda e slabbrata. Una granata austriaca era arrivata poco prima; s'era affondata scoppiando nel terriccio bagnato, e aveva lanciato zolle di fanghiglia a butterare tutto il fianco destro dell'ospedale. I vetri delle finestre erano infranti, una persiana pendeva. Due dame della Croce Rossa tranquillamente s'affacciavano a guardare.

Il passo duro e robusto dei muli ci porta verso le pendici dell'Uomo, sulle alture di San Pellegrino. Siamo sopra le ultime balze meridionali del Marmolada, i cui ghiacciai vedevamo ieri dalla vetta dell'Averau scintillare a ponente. Questa esclusione ci conduce a sudovest della zona già vista; percorrendo il fronte facciamo un passo indietro per vedere un altro aspetto della lotta sulla valle del San Pellegrino.

È una valle che corre da occidente ad oriente e offre un passaggio che congiunge la valle italiana del Cordevole con la valle austriaca di Fassa, presso a poco come il taglio di un A congiunge le due gambe della maiuscola. Verso il vertice dell'A c'è il Marmolada, e la frontiera scende serpeggiando dal vertice.

Si tratta di un passo secondario, di transito difficile perchè qui, come in tante altre valli, per ragioni di difesa noi non avevamo fatto giungere le nostre strade carrozzabili fino alla frontiera. L'Austria ha spinto su tutti i confini ottime strade militari, e a noi, in condizioni d'inferiorità, non conveniva allacciarle alle nostre vie. Avremmo favorito l'invasione che vedevamo preparare. Così, su moltissimi valichi le strade austriache e quelle italiane sono separate da chilometri di montagna selvaggia. Ma la valle di San Pellegrino ha qualche importanza strategica, perchè comunicando con la valle italiana del Cordevole essa forma uno sbocco sulle nostre retrovie.

Noi la sbarriamo. Nel fondo, pieno di un'ombra verde e melanconica, verdeggiano dei prati folti; si distendono, limitati da fossi e da muricciuoli, piccoli campi da pascolo, disseminati di tabià e di casette, e ciuffi di alberi mettono qua e là la macchia scura delle loro chiome. Ma poco lontano dal torrente, sui fianchi, i prati ascendono subito, come tappeti distesi sopra una scala, e, precipitose, le balze dei monti si levano, coperte di abeti e coronate di rocce.

Nel mezzo della valletta, sotto a noi, vediamo delle rovine calcinate. Sono i resti del villaggio di San Pellegrino. C'era un albergo, c'era una chiesuola, un gruppo di casupole intorno. Gli austriaci hanno bruciato tutto ritirandosi, ed ora bombardano le macerie. Rimangono dei muricciuoli bianchi a disegnare il basamento degli edifici, e uno sgretolamento di pietre. Le fondamenta delle tabià bruciate disegnano sul velluto dell'erba tanti quadratini chiari, come dei minuscoli recinti. Poco più lontano in un laghetto calmo dorme il riflesso verde e profondo delle pendici.

A perdita d'occhio, nessuno. La valle abbandonata, solitaria, è di una tristezza indicibile. È piena di una cupa desolazione. Osservandola bene, si scoprono dei solchi sottili che la percorrono e la traversano, serpeggiando neri fino alle pendici. La vita che resta nella valle passa in quei solchi, invisibile. Sono sentieri affossati, passaggi coperti, trincee d'incamminamento, labirinti scavati dalla guerra e che fanno pensare all'opera di strani animali da tana. Di tanto in tanto, due, tre colpi di cannone. Vengono dal basso, vengono dall'alto, da artiglierie in agguato che si cercano. Qualche nuvoletta si forma, e il rimbombo lungamente percorre la valle.

È anche qui il tiro a granata sull'uomo isolato, tiro inutile ma perseverante. Al mattino gli austriaci hanno la luce in faccia, non vedono niente e stanno zitti; ma verso mezzogiorno i loro osservatorî, alti sui picchi, cominciano a cercare, e per un mulo bombardano. Quando la nebbia benda le cime, si fa riposo.

Dal fondo della valle, per scoscesi costoni, la lotta sale subito verso il Marmolada, e balza a tremila metri sulla Punta Tasca, che noi vediamo vicina, affondata nelle nubi, dalle quali emergono magicamente e scendono a picco, vertiginose, le prodigiose pareti grigiastre e fosche, senza fine visibile, come favolosi pilastri del firmamento. Lassù è la caccia delle pattuglie. Più in basso, lungo la cresta rocciosa di Costabella, vediamo i posti avanzati del nemico, così vicini che parrebbe di potersi fare udire da loro gridando. Ogni punta della roccia ha il suo piccolo appostamento. L'ultimo nostro e il primo loro si guardano da poche centinaia di metri come due torri di uno stesso castello.

Si scorgono le difese ausiliarie del nemico. Avanti ad una minuscola barricata di sassi, fra gl'interstizi della quale le vedette spiano, si disegna contro al cielo, sul costone, la ragnatela dei reticolati, e più avanti i così detti «cavalli di Frisia», che furono una difesa romana, incrociano le loro sagome a cavalletto.

Più volte il nemico ha tentato di sloggiarci. Una notte un pattuglione di trenta uomini, arrivando per il Passo Le Selle, assalì una nostra posizione avanzata, sulla cima dell'Uomo, sotto alla Punta Tasca. La posizione non aveva che nove difensori: un sottotenente, un caporale, sette soldati. Arrivati di sorpresa, gli austriaci con la prima scarica ferirono un soldato e ammazzarono l'ufficiale. Il plotone non pensò a ritirarsi. Si difese con rabbioso accanimento, e quando sentì gli austriaci vicini, balzò fuori alla baionetta. Non si resero conto del numero dei nostri, i nemici; la resistenza li aveva ingannati. Al contrassalto fuggirono; lasciando anche alcuni prigionieri. Questo avvenne nella notte del 28 luglio.

Due giorni dopo tornarono in forze. Avevano persino appostate delle artiglierie al Colle Ombert, i cui colpi passavano sulla cresta di Costabella. Ma furono respinti.

Alle volte sono i nostri che immaginano qualche spedizione, che architettano un colpo; tre o quattro soldati studiano il loro piano, vanno ad esporlo all'ufficiale per l'approvazione, e felici se ottengono il permesso di attuarlo partono al cadere del giorno.

Profittando della inaccessibilità di un punto, sotto alla Costabella, al quale soltanto dal lato austriaco si poteva arrivare, una pattuglia nemica vi si era appostata. Tre soldati nostri pensarono di andarvisi a calare con delle corde da un ciglione soprastante. E alla notte gli austriaci sbalorditi si videro comparire addosso un luccicore di baionette, al quale ritennero prudente di presentare le mani levate e inermi, col gesto tradizionale della resa.

Sono valorosi gli austriaci, ma non insistono. Hanno l'eroismo sobrio, e qualche volta si prendono dei prigionieri che, poco pratici della lingua italiana, hanno previdentemente preparato un biglietto sul quale è scritto: «Mi rendo prigione, prego non uccidermi». Nell'istante critico lasciano il fucile e porgono il documento. È una trovata che ha un fondamento psicologico; la carta impone rispetto alla massa; anche in un momento di furore, chi si vede presentare uno scritto, si calma e lo legge.

L'azione delle pattuglie esploratrici è tutta fatta di trovate personali. Anche ieri, quattro soldati si sono presentati al loro capitano: «Abbiamo visto una vedetta austriaca — gli hanno detto — e vorremmo andare a prenderla». — «Bene, accordato». E sono partiti iersera, verso mète ignote, per passaggi che loro soli conoscono. Non sono ancora tornati, ma non si è udita fucileria sulla montagna, e forse in questo momento essi stanno alla posta rannicchiati in un crepaccio o strisciano carponi lungo una cornice di roccia, sospesi su mille metri di abisso.

Scrivendo, si prova un non so quale ritegno a insistere sull'ardore, sull'entusiasmo, e sopra tutto sul buon umore dei nostri soldati, su questa contentezza gagliarda che si espande in canti e in risa nei più sinistri e mortali centri della lotta, sulla volontà di fare e di dare con generosità smisurata di sè stessi, su questa freschezza d'animo che non ha sospiri se non per la vittoria, sulla disciplina meravigliosa che è fatta dall'unità del pensiero, dal tacito accordo delle volontà, da una solidarietà fraterna. Si prova ritegno a dirne, perchè si ha come un vago timore di essere accusati di esagerazione. La verità pura può sembrare inverosimile nella sua bellezza a chi è lontano. Tutta l'Italia palpita di entusiasmo e di fede, ma il fuoco più ardente è nel cuore dell'esercito.

Avviene spesso che i soldati malati rifiutino di darsi malati. Debbono gli ufficiali vigilare, informarsi, riconoscerli, andarli a togliere da lavori faticosi: «Tu hai la febbre, ritirati, vai all'infermeria». — «Signor no, non è niente, passerà!». Così i miracoli si compiono. Non vi è sacrificio, non vi è difficoltà, non vi è ostacolo, avanti al quale il nostro soldato si fermi.

Le più grandi difficoltà erano opposte dalla montagna, e in qualche zona sono le fanterie che le superano. S'incontrano bersaglieri romani e fucilieri fiorentini, che non avevano mai salito un monte, operare alle altitudini del camoscio, lietamente, senza una indecisione, facendo comparire strade e sentieri dietro ai loro passi, verso l'inaccessibile. E sull'inaccessibile, l'alpino. Tutto ciò è straordinario, ma è impossibile ridire invece l'aria di naturalezza e di consuetudine che queste cose assumono quassù. Si compiono come se si fossero fatte sempre.

Si incontra un professore soldato che conduce il carretto con la perizia di un vetturino, s'incontra un avvocato richiamato che taglia alberi nella selva, e appaiono pienamente soddisfatti delle loro nuove occupazioni. La guerra che ai lontani sembra piena soltanto di immagini di morte, è invece una vita più intensa, una vita violenta, semplice, antica.

Sulle pendici più verdi noi vediamo nelle vicinanze di San Pellegrino dei soldati che falciano l'erba. Qualche volta una granata urla, scoppia, e loro falciano l'erba. Poi tornano al campo, dietro agli asinelli carichi di bel fieno fresco e olezzante portando la falce sulla spalla, e canticchiando, il cappello di traverso, la pipa fra i denti. Si accumulano foraggi per le mucche, che pascolano più in basso, più al sicuro, guardate da un guerriero mandriano, e sembrano insetti chiari e immobili sul velluto dell'erba.

Quando verrà l'inverno, che già si annunzia con le sue brezze gelate, la neve si adagerà per uno spessore di sei, di sette metri, su tutte queste balze, e gli accampamenti sepolti non avranno più per lunghi mesi alcuna comunicazione col mondo. A questo sverno polare ci si prepara; si abbattono alberi, delle segherie si impiantano al salto dei burroni, delle tabià ingegnose sorgono. Muratori, carpentieri, falegnami, meccanici, lavorano intorno a grandi edifici, primitivi e rozzi, odoranti di resina, ai quali si dànno nomi pittoreschi: la Nave, il Palazzone....

Tutto ciò sparirà nella neve. Fra rifugio e rifugio si comunicherà attraverso gallerie scavate nel candore azzurrastro del ghiaccio. Si uscirà alla superficie gelata del monte come si esce da un pozzo, e via sugli sky leggeri che mandano scivolando uno stridore sommesso di seta lacerata, via sul bianco vestiti di bianco.

Per allora si falcia l'erba, che nutrirà il bestiame nelle stalle chiuse e piene di un caldo profumo di muschio. Per allora si ammassano munizioni e viveri nelle capanne e nei ricoveri. E bisogna che per allora le donne italiane si affrettino a far calze di lana, delle quali più di ogni altra cosa c'è bisogno.

Dopo essere saliti per chilometri e chilometri nella solitudine della montagna, sorprende e rallegra l'attività di questi campi, che lambono le nevi eterne, e che si trasformano in bei paeselli popolosi. Saranno le cittadine d'Italia più vicine al cielo.

I soldati vi hanno già creato una industria nuova. Con l'alluminio delle spolette austriache fabbricano dei graziosi e singolari anelli da dito, sui quali intagliano, con una perfezione proporzionata alla perizia, date, sigle, fiori, aquile. Ed è interessante vedere un atletico alpino, con delle dita da gigante, intento gravemente a scolpire scintillanti minuzie.

L'imitazione ha allargato l'industria. Il campo dei paraggi di San Pellegrino ha già una «Via degli Orefici». Ma i fabbricatori di anelli sono tanti che la materia prima qualche volta fa difetto. Allora se la fanno venire dall'Austria. Pigliano il fucile, vanno alla trincea, e sparano otto o dieci colpi.

L'effetto è immediato. L'artiglieria austriaca allarmata apre il fuoco. Gli shrapnells arrivano fragorosamente. Gli orefici tengono d'occhio i punti di scoppio, per potere andar poi a ritirare la merce in arrivo, e contano le esplosioni: una, due, tre.... cinque, sei.... Se arrivano ad otto la giornata è eccellente.

Così si occupano i momenti d'ozio. Intanto, dietro al suo riparo di sassi, la vedetta austriaca che esplora, segna l'ora dell'avvenimento e scrive nel suo rapporto: «L'attacco italiano è stato respinto».

NELLA CONCA D'AMPEZZO E INTORNO AL LAGO DI MISURINA.

8 settembre.

In mezzo alla smisurata violenza di forme rocciose delle Alpi Dolomitiche, nel cuore di quella convulsa moltitudine di vette e di balze nude, si adagiano due meravigliosi angoli di calma, pieni di una molle e riposante bellezza: sono la conca di Cortina d'Ampezzo e la valle di Misurina — nella quale s'incastra il lago famoso, freddo, verde e puro come uno smeraldo. Nel cavo delle sue ondate più eccelse, la grande tempesta dei monti cela e protegge questi due rifugi di tranquillità, così diversi fra loro, ridente l'uno, melanconico l'altro, ma pieni tutti e due di una non so quale dolcezza d'immobilità.

La valle del Boite, nella quale — proprio ai piedi delle terribili Tofane — s'apre la conca di Cortina, e la valle dell'Ansiei, che al sommo di un'aspra salita riserba al viaggiatore la sorpresa del piccolo lago pittoresco di Misurina, queste due vallate profonde, dopo un corso capriccioso, finiscono per risalire al nord quasi parallele e vicine, incanalando strade che conducono alla grande arteria austriaca: la vallata della Drava. Sono le strade per Toblach e per Welsberg, lungo le quali la nostra azione punta.

Il nemico accumula qui tutte le difese possibili, con una concitazione che somiglia all'allarme. Esso protegge energicamente gli approcci della Drava, che costituisce la sua comunicazione unica e vitale col Trentino e sul cui fianco sente gravare la minaccia delle nostre armi. In questo momento anche le lontane montagne di Toblach si stanno fortificando, secondo le voci che circolano fra gli abitanti, e tale eccesso di previsione rappresenta un riconoscimento inconfessato ma convinto del valore del nostro esercito.

La natura favorisce le opere della difesa. Ad una decina di chilometri al nord di Cortina e di Misurina, le due valli parallele sono traversate da occidente ad oriente da una vallata profonda, oltre la quale si ergono montagne immani e dirupate, che dopo un breve declivio, salgono fino ai tremila metri con pareti quasi a picco. Noi teniamo quasi tutti i massicci al di qua della vallata, il nemico tiene quelli al di là. I ciglioni sono fortificati. Gli austriaci non si sono contentati di erigervi delle trincee in cemento, preparate chi sa da quanto tempo, ma hanno disteso sul bordo degli abissi larghi reticolati, aspettandosi l'attacco anche dall'inaccessibile.

Tutti gli approcci erano difesi da fortezze: il forte di Landro allo sbocco del vallone di Rienz, sopra Misurina, risalito dalla strada per Toblach; e pure sopra a Misurina, il forte di Platzwiese, allo sbocco del vallone del Seeland, risalito dalla strada per Welsberg, il forte di Sompauses sopra Cortina, allo sbocco del vallone di Campo Croce. Una delle nostre operazioni più importanti fu il bombardamento sistematico dei forti.

Cominciarono gli austriaci a bombardare. Al secondo giorno della guerra tirarono dai forti nella conca di Misurina dove avevano avvistato forse qualche movimento di truppe. Era al momento in cui le nostre fanterie, a piccoli reparti, s'irradiavano sui valichi della frontiera. Il giorno dopo, infatti, occupavano dopo un vivo combattimento il Passo delle Tre Cime di Lavaredo, un'asprissima giogaia a nord-est di Misurina, una lunga cresta alla quale non manca che un metro per raggiungere l'altezza precisa di tre chilometri. Due compagnie austriache furono poste in fuga.

La lotta di scaramucce si propagava tutto intorno. Il 29 maggio l'occupazione da Misurina, per il passo delle Tre Croci che congiunge le due valli dell'Ansiei e del Boite come le due aste di un H sono congiunte dal taglio, arrivava a Cortina d'Ampezzo. Da Cortina si diramava e si spingeva, fiancheggiata dagli scalatori di vette, verso il passo di Falzarego a ponente, verso Podestagno a settentrione. Abbiamo parlato dell'azione sul passo di Falzarego, ai piedi delle Tofane e dell'Averau, dove ancora si combatte, nel caos delle rocce, intorno alle rovine dell'albergo di Falzarego, scoronato e bruciato dalle granate. Seguiamo la grande linea delle azioni che a quella si allacciano.

L'8 giugno l'avanzata al nord di Cortina respingeva il nemico verso Podestagno, proseguendo sotto al tiro del forte di Sompauses. Gli speroni laterali delle montagne, intorno ai quali la valle leggermente serpeggia, servivano da riparo; si balzava da canalone a canalone, da cresta a cresta, da costa a costa. La strada, bianca e dritta nel fondo della valle, era tempestata di colpi, infilata dal fuoco del forte, sbocconcellata ai bordi dalle granate. Bisognava che la nostra artiglieria avanzasse in appoggio della fanteria, e non vi erano altre vie che quella. L'artiglieria passò.

Una delle nostre batterie, reclamata dall'azione, si slanciò in pieno giorno su quella strada fumigante di esplosioni. La batteria era a Cortina; un ammassamento di cannoni, di cassoni, di cavalli, di soldati, ingombrava le linde vie della cittadina bianca. Il capitano comandante la batteria destinata ad avanzare era andato a scegliere la posizione. Alle due del pomeriggio arrivò un sergente al gran galoppo portando l'ordine: batteria avanti! «Soldati! — gridò l'ufficiale in comando. — Abbiamo la fortuna di essere prescelti per un posto d'onore nella battaglia, e voi mostrerete di esserne degni! Primo mezzo, al trotto allungato, avanti!» I cannoni partirono ad un minuto l'uno dall'altro. Al frastuono del loro passaggio, le finestre si aprivano e delle teste curiose e spaurite si mostravano.

Appena fuori dalle ultime case, la batteria fu avvistata dagli osservatori austriaci. Le granate scoppiavano intorno ai pezzi, che apparivano velati dal polverone e dal fumo. Non un arresto, non una esitazione: la corsa procedeva regolare come in manovra, finchè il folto di un bosco la nascose al nemico. Dalla strada, a forza di braccia, la batteria fu portata sopra una posizione scoperta, a soli 2200 metri dal forte, così ardita che il nemico non riuscì a identificarla. Con i suoi colpi esso cercava i nostri cannoni più indietro, non potendo mai immaginare che essi fossero là, in un boschetto vicino.

Il 9 giugno, Podestagno era occupata. Ma per qualche tempo la posizione appariva talmente esposta da essere intenibile. La linea quindi è stata corretta: avanzandola. Le nostre trincee si sono portate così vicine al forte di Sompauses da non poterne ricevere i colpi. Noi siamo arrivati nell'angolo morto del forte. È una situazione inverosimile; i cannoni nemici che tirano di tanto in tanto su Cortina, che cercano di sfogare la loro tonante ostilità sopra un raggio di dieci o dodici chilometri, non possono niente contro le truppe che vivono appostate a poche centinaia di metri da loro. L'artiglieria è impotente contro di esse.

Il Sompauses da lontano ricorda il forte Porr, che vedevamo in Val Giudicaria. Uno sperone di montagna sporge alla sinistra del torrente, e a mezza costa, sopra un ripiano, in una boscaglia di abeti una linea giallastra di terre smosse, una confusione di spalti freschi, di parapetti, di ripari, si avanza sotto ad un zig-zag di strade militari, che rigano il bosco e le rocce più in alto come venature rossastre. Sotto al forte il pendio è ripidissimo, scoperto, brullo, difficile all'assalto, e percorso da fasci di reticolati.

Il Sompauses è come una belva che non può più mordere, ma che non si può ancora prendere. È stretta dalla grande battuta, ridotta quasi all'impotenza, ma vive, rintanata e torva. Se spara un colpo, il Sompauses è coperto di granate; decine di cannoni gli impongono silenzio; le nostre artiglierie lo tengono sotto ai loro tiri; il terreno intorno alle opere appare sgretolato delle esplosioni. Perciò il Sompauses spara raramente. Tutti i suoi difensori si tengono sepolti entro i cunicoli e le gallerie scavati nel monte, e dentro alle trincee di cemento, le quali non sono che sterminati corridoi dalle spesse pareti, illuminati da sottili feritoie.

Anche gli altri forti sono ormai silenziosi. Ai primi di luglio le nostre batterie aprirono il fuoco contro i forti di Landro e di Platzwiese. L'8 luglio in quest'ultimo si scorsero le fiamme e il fumo di un grande incendio, che durò tutto il giorno. Il 14 una batteria austriaca annidata più indietro di Landro, sul Rautkofel, fu parzialmente smontata. I forti sono ora demoliti o quasi. Però la Grande Guerra aveva già svalutato l'importanza delle fortificazioni permanenti, e gli austriaci non si sono lasciati prendere alla sprovvista. Hanno ritirato in tempo le artiglierie dai forti battuti e, per vie di arrocco nascoste, preparate da lunga mano, probabilmente munite di rotaie, trasportano i pezzi da un punto all'altro, spostandoli appena una posizione comincia ad essere individuata.

Questo non li salva sempre; i nostri tiri li rintracciano e li seguono da appostamento ad appostamento; le batterie italiane anche esse si muovono; è un lento duello di mostri. Ma è difficile ad un profano rendersi conto dei problemi complicati che questi spostamenti impongono. È tutta una geometria di traiettorie e di parabole che traccia le sue linee immaginarie sulle vette dei monti. Sono calcoli di angoli, misurazioni infinitesimali, e ogni colpo di cannone è la soluzione di un quesito matematico irto di cifre.

Non abbiamo tardato ad accorgerci, operando sul territorio conquistato, che le carte topografiche austriache messe in commercio differivano da quelle riservate dello Stato Maggiore nemico per una alterazione di punti trigonometrici, appena percettibile ma sufficiente a turbare l'orientazione dei tiri. Abbiamo dovuto scoprire le alterazioni e calcolarle.

Inoltre gli austriaci spostano, quando possono, i segni visibili messi sul terreno ad indicare i punti trigonometrici. Da noi questi segni sono delle piccole piramidi di pietra, in Austria sono degli alti cavalletti di legno che si scorgono da lontano. È avvenuto qualche volta che i tiri, precisi alla sera, deviassero alla mattina. Nella notte il nemico aveva portato un centinaio di metri più a oriente o ad occidente qualche cavalletto sul quale s'era calcolata l'angolazione. È veramente singolare questa schiavitù dei cannoni più possenti ai tracciati fantastici di un teorema, a delle esattezze logaritmiche, senza le quali essi divengono ciechi.

Questa parte della guerra, che si svolge dietro al furore delle battaglie, lontano dalle masse per chilometri e chilometri, in una calma, in una solitudine di pendici e di valli, ha qualche cosa di affascinante e di terribile. Gli artiglieri che s'intravvedono talvolta in un'ombra di selve, taciturni, raccolti intorno ad una massa grigia, tranquilli, isolati da ogni movimento e da ogni agitazione, intenti ad un lavoro misterioso, si direbbe che non abbiano a che fare nulla col combattimento, del quale non arriva fino a loro neppure l'eco. Non vedono niente, non sentono niente, non sanno niente della lotta alla quale partecipano. Sono i guerrieri dello spazio, i combattenti della immensità, i colpi dei quali passano al di sopra dei nevai per piombare in vallate remote.

Lembi di foresta sono stati denudati, e le centinaia di alberi sfrondati che l'ascia ha abbattuto formano rafforzamenti ciclopici sui declivî che portano i più grossi pezzi. Consolidano e sorreggono pendici boscose, e i poderosi cannoni, la larga gola in aria, sembrano accovacciati sull'ultimo gradino d'una scalea da giganti, sorretta da massicci tronchi di abete. Più lontano, indietro, nelle radure si allargano strani parchi di carrocci ferrati, di automobili larghe e pesanti come locomotive, di veicoli strani che portano argani, tutti mascherati di fronde: sono i trasportatori delle moderne artiglierie da assedio, le quali vanno alle posizioni trascinate da lenti e poderosi motori.

Gli austriaci cercano le nostre grosse batterie come noi cerchiamo le loro. Studiano per settimane, poi, quando credono d'aver trovato, una mattina, da qualche posizione nuova aprono il fuoco con un 305, che lancia dieci, quindici granate in fila, e poi tace per non essere scoperto. Dove arrivano, i mostruosi proiettili aprono cavità enormi, sconvolgono terra, pietre, alberi, e lasciano squarci così grandi sul suolo che sembrano inizî di un lavoro di sterro.

Per arrivare da Cortina a Podestagno, la nostra azione ha dovuto dominare il massiccio della Tofana a sinistra e quello del monte Cristallo a destra. La Tofana e il Cristallo hanno da una parte e dall'altra della vallata di Ampezzo una posizione quasi simmetrica all'occhio. Hanno anche quella somiglianza di forme di tutte le Dolomiti, quell'apparenza turrita e fantastica, con pareti precipitose che dai tremila metri scendono quasi a picco ad immergersi nelle verdure della valle, piombando per un chilometro e mezzo in una vertigine di asperità, di fessure, di canaloni, di speronate.

Abbiamo parlato della lotta sulla Tofana, della stupenda guerriglia di pattuglie in quel caos di rocce e di gelo la quale ci ha dato il possesso incontrastato del monte. Nel monte Cristallo gli austriaci, salendo dal nord, erano riusciti ad insediare un posto sulla Cresta Bianca, che domina Cortina.

Questi monti sono tutti fatti a stratificazioni, sembrano formati da immani tavoloni di pietra sovrapposti a piano inclinato. Salendo lungo l'inclinazione degli strati la via è più facile, ed è la via dal nord. Dalla nostra parte i monti invece sono spezzati a piombo. Dal lato austriaco essi presentano una groppa scoscesa ma praticabile, dal lato nostro una parete. Dunque gli austriaci erano saliti sulla Cresta Bianca, detta così perchè è coperta di nevi eterne. Essa finisce in una specie di piramide candida e puntuta.

Arrivati lassù, sicuri di non essere sloggiati, avevano trasportato sulle vette abbondanti provviste di viveri e munizioni, anche per artiglierie, si erano rinforzati, e si preparavano a portar su i cannoni. Bisognava scacciarli. Per scacciarli bisognava salire le pareti del monte.

Quando si osserva la montagna non si capisce come un reparto di truppe, composto in gran parte di fanterie, sia potuto arrivare lassù. Ma questa guerra di vette ci abitua ai miracoli. La spedizione era guidata da un ufficiale che è uno degli alpinisti più noti, uno di quei dominatori di cime che sfidano l'inarrivabile. Si erano scelti in tutti i reggimenti gli uomini più adatti a quella fatica e i conoscitori di montagne. Partirono muniti di seicento metri di corda, di ramponi, di graffi, di strumenti per forare le rocce.

La preparazione della scalata durò sette giorni.

Per sette giorni si vide una catena di puntini grigi, una catena di uomini che lavoravano come sospesi lungo l'immane muraglia. Piantavano anelli nella pietra, attaccavano corde, configgevano punte di ferro dove mancava una sporgenza per posare il piede. I lavoratori alpini si davano il cambio. Dietro a loro i soldati salivano per impratichirsi del cammino, per conoscerlo bene gradino per gradino. Ogni giorno la scalata ricominciava e arrivava un poco più in su. Alla fine i primi ciglioni furono raggiunti a mille metri sulla valle. Si usufruì dei canaloni, delle fessure, delle cornici. La via dell'ascesa andava a serpeggiamenti bruschi, girava negli angusti pianerottoli formati dalle stratificazioni sull'abisso, superava dei tratti a strapiombo senza altro appoggio che la corda e qualche rampone, e spariva fra due speronate coronate di guglie.

Una sera la scalata definitiva fu data. I soldati avevano le scarpe di corda, per non far rumore avvicinandosi al nemico e per aver più sicura presa sulla pietra. Seguì un lungo inerpicamento sulle nevi nelle anguste ascelle delle vette in un labirinto di pietra e di gelo. Divisi in grosse pattuglie i nostri circondarono la Cresta Bianca. Appena gli austriaci sorpresi aprirono il fuoco sopra i più vicini, la fucileria crepitò tutto intorno. I nemici fuggirono precipitosamente, nascondendosi nelle anfrattuosità, e lasciarono tutto il materiale che avevano accumulato lassù.

Così il Cristallo fu preso, e il possesso delle sue cime ci permetteva di dominare la valle del Felizon, al nord, lungo la quale ora il nostro fronte si snoda.

Di tanto in tanto un lungo rombo scende dalla Cresta Bianca: sono granate austriache che scoppiano fra le rocce. Cercano delle artiglierie. Perchè in quella immane confusione di picchi, in qualche piega introvabile, sui ghiacci, c'è dell'artiglieria, tirata su a forza di braccia, con le corde, lungo le pareti....

Un'altra scalata fu dovuta dare a Col Rosa. Il Col Rosa è una specie di prolungamento delle Tofane, al nord. È una guglia alta, isolata, aguzza, che affaccia la sua punta rossastra in fondo alla valle di Ampezzo e la vigila. Era un posto di osservazione austriaco dal quale i tiri delle artiglierie venivano diretti. Di notte i nostri circondarono il monte e lo ascesero, facendo prigionieri gli austriaci che vi si trovavano e prendendo loro degli ottimi strumenti ottici. Si comprende come il nemico ora non si fidi più dell'inaccessibile e pianti i suoi reticolati anche sul bordo dei precipizî.

Mentre si combatteva nella valle di Cortina, una lotta analoga ma più intensa si accendeva nella valle di Misurina, sul Monte Piana.

Questa montagna sbarra la valle, al nord, proprio come il Col di Lana sbarra quella del Cordevole. Una somiglianza di posizioni ha prodotto una somiglianza di situazioni. Il Monte Piana è tagliato dalla frontiera. Tutte le strade che salgono su Misurina contornano la sua base. Esso domina ogni passaggio. Gli austriaci tentarono di impadronirsene all'inizio della guerra.

Poche forze nemiche vi si insediarono per breve tempo. Furono sloggiate. Il 12 giugno gli austriaci tornarono più numerosi al contrattacco: furono respinti. La lotta diveniva attiva. L'importanza della posizione faceva concentrare su di essa gli sforzi dell'attacco e della difesa. Il 13 giugno gli austriaci bombardarono il Monte Piana dal forte di Platzwiese — nel quale, come abbiamo detto, meno di un mese dopo le nostre granate dovevano portare la devastazione e l'incendio. Nella notte delle masse nemiche tentarono un nuovo attacco. Il 15 si combatteva ancora. La battaglia, cominciata con un'azione di reparti, attirava nuovi rincalzi, si distendeva, si abbarbicava al monte, diveniva lotta di posizioni, combattimento di trincee.

La linea del fronte, dopo avere oscillato lievemente ai colpi e ai contraccolpi degli attacchi, si fissava, entrava nel solco profondo di opere campali. Il 12 giugno il nemico tentava nella notte un altro sforzo per sloggiarci: era respinto. Dodici giorni dopo sperava di riuscire in un aggiramento, e attaccava a oriente del Monte Piana la Forcella di Col di Mezzo sulle Cime di Lavaredo — occupata fin dal 26 maggio dagli alpini — la quale, se in loro possesso, avrebbe aperto il varco al nemico sulla conca di Misurina: fu respinto. Il 23 luglio, altri attacchi austriaci. L'11 agosto, il nemico ritorna all'offensiva. Il giorno dopo siamo noi che attacchiamo e prendiamo delle piccole posizioni sulle pendici occidentali del monte. Gli austriaci non aspettano a lungo per tentare la riscossa, e la notte appresso, dopo un vivo cannoneggiamento, assaltano quelle posizioni che gli avevamo preso: sono respinti.

Così ogni otto, ogni dieci giorni, la battaglia si riaccende. La singolarità è questa: che le trincee nostre e quelle austriache sono separate dalla vetta. Stanno al di qua e stanno al di là, relativamente vicine ma invisibili le une alle altre. E tutto intorno, appiattata dietro dossi vicini, una quantità di artiglierie, italiane da una parte e austriache dall'altra, domina la sommità del monte. Perciò la vetta è intenibile. Di notte o di giorno, appena uno dei due avversarî vi si affaccia, una pioggia di granate trasforma il Piana in una specie di vulcano. Se nessuno si muove, così a ridosso dei due versanti, le posizioni sono invulnerabili.

O vi è un furore inaudito di combattimento che spande i suoi echi da temporale fino alla vallata del Piave, o è la pace profonda. Così profonda che quando siamo arrivati a Misurina ci sentivamo soggiogati dal silenzio prodigioso della valle melanconica, oscura sotto ad un cielo basso e grigio tutto variato da un lento e tortuoso svolgersi di nubi, che celavano le vette e scendevano a tratti ad annebbiare le pendici più basse fino ad appannare lo specchio del lago.

Era tutta una pigra agitazione di vapori, che si addensava e si schiariva, che si squarciava in diafane profondità bianche di luce e ricopriva quegli sfondi con plumbee e molli masse sfumate. Per un istante, in alto, le nubi si sono diradate, e abbiamo visto come un nero di temporale fra le sfumature delle frange nebbiose: erano i monti, le masse del Lavaredo. Poi una gran torre si è profilata cinerea nella lontananza: lo Schwabenalpenkopf, la vedetta austriaca. Ma la nebbia è ridiscesa, si è richiusa, e non abbiamo più visto che il fondo della conca di Misurina, il lago grigio, le rive selvose, fosche di pini. E tutto questo, così pallido, indefinito, in quella gran quiete, aveva un'apparenza di sogno triste, uno di quei sogni lugubri che non si dimenticano.

Il grande albergo, sulla riva, è sfondato da un colpo di grossa granata. È stato quel 305 che viaggia da valle a valle, spara dove crede sia uno stato maggiore o una batteria, e si rimette in viaggio. Un grande demolitore di alberghi, quel cannone errante. Ha tirato sul Grande Hôtel di Cortina, e sull'Ospizio delle Tre Croci. Gli austriaci ci lasciano dei paesi intatti, ma degli alberghi, quando possono, ci consegnano le rovine. A San Martino di Castrozza, sopra Fiera di Primiero, un paese di villeggiature, hanno bruciato tutto, facendo un danno di circa sedici milioni.

L'albergo di Misurina, tutto chiuso, con quella gran ferita nera, si specchiava nel lago. Non si vedeva nessuno. Sulla strada deserta un soldato solo passava lentamente. Una pioggia sottile cominciava a cadere, gelata, e spandeva il suo fruscìo monotono e vasto. Un colpo di cannone ci avrebbe fatto piacere come una voce.

Cortina invece ci è apparsa sorridente, incantevole, in un giorno di sole, con le sue casette bianche posate sui prati folti con un pittoresco disordine come fossero tolte allora da una scatola di giuocattoli nuovi.

L'abbiamo vista come la vedevano i touristes. Dall'alto delle prime giravolte della strada delle Dolomiti ammiravamo il paese sotto a noi, e dimenticavamo quasi la guerra. Vi era una non so quale serenità anche in basso, una serenità della terra, una contentezza tranquilla e profonda. Si udiva appena, come un tuono remoto, lo scoppio di qualche granata sul Cristallo. Dalle Tofane scendeva di tanto in tanto il rumore sordo e lontano di un colpo di fucile. Ma una persona ignara non avrebbe mai immaginato che a ponente, a nord, a nord-est si stendeva un fronte di battaglia, e che tutte quelle fantastiche vette luminose infarinate dalla nuova neve, striate di candori, alleggerite da quella sottile variegazione di bianche evanescenze che disegnavano la sommità d'ogni balza, d'ogni strato, d'ogni asperità, celassero appostamenti e ricoverassero cannoni puntati.

Lassù da due giorni la temperatura è scesa a dieci gradi sotto zero. Il Comando aveva provveduto al cambio delle truppe che occupano le vette. Sono quasi tre mesi che vivono in quell'inverno, fra le tormente, in mezzo a fatiche, pericoli e privazioni inenarrabili, ricoverate nei crepacci della roccia. Ma quando l'ordine di prepararsi a scendere è arrivato, quelle truppe hanno rispettosamente pregato il Comando, per la voce dei loro ufficiali, di lasciarle sulla montagna.

«Noi, oramai siamo abituati al freddo e alla vita delle vette — dicono — noi abbiamo imparato a combattere questa guerra, abbiamo scoperto i sentieri o li abbiamo creati, sappiamo da dove si può salire, da dove si può passare, conosciamo il nemico, e a truppe nuove non è facile imparare presto tutte queste cose». E per paura di non essere ascoltati, qualche reparto si è rivolto per lettera al Comando Supremo.

Ecco degli uomini che da tre mesi vivono in un inferno di sofferenze, che rischiano la vita niente altro che per camminare, che quando riposano si tengono ammassati a gruppi su sporgenze larghe tre passi fra una parete e un abisso, senza vedere altro che rocce e neve, senza udire altro che l'urlo della bufera e il sibilo dei proiettili nemici, degli uomini che quando sono feriti debbono essere impaccati in sacelli e calati con le corde dall'orlo di precipizî, e che quando si offre loro il riposo nella vita, rispondono: «No, noi possiamo servire quassù meglio la Patria, il nostro posto è qui!»

La Patria deve conoscere e riconoscere questi eroismi oscuri, calmi, magnifici, compiuti per la coscienza profonda del dovere, per un'adorazione ineffabile verso la Madre Italia sulla quale si vigila.

Non vogliono scendere le truppe dalle altitudini, anche perchè hanno finito per amare questa montagna conquistata che ora conoscono e che ora le conosce. La montagna si allea a chi la vince, serve chi la doma, offre in difesa quelle stesse difficoltà che si sono dovute superare per espugnarla, svela i suoi tranelli, suggerisce i suoi agguati, combatte anche essa, come un favoloso gigante, per i piccoli uomini che hanno saputo scalarla e comandarla dalla vetta.

Arrivano a Cortina dei soldati dalle altezze a fare provviste. Hanno l'apparenza grave e un po' stupita di chi giunge dalle lunghe solitudini. Vanno fieramente, raccolti, a passo lento, perplessi talvolta sulla strada da prendere, indecisi, come storditi di rivedere delle automobili, di trovarsi fra le case, nel movimento e nel vocìo. Portano in loro una non so quale atmosfera di silenzio come si porta l'aria fredda entrando dall'aperto in inverno.

Passano settimane lassù senza udir nulla, nella quiete morta delle cime. Soltanto alla sera, le truppe che stanno verso il passo di Falzarego e che hanno di fronte delle forze trincerate, nell'ora del tramonto sentono squillare le trombe del nemico. Il suono ha una ripercussione prodigiosa nell'aria cristallina. Le trombe suonano una musica solenne, sempre quella, come se fosse la preghiera dell'Ave Maria. È il Deutschland über alles.

I nostri lasciano finire il suono delle trombe, e poi cantano in un coro tremendo l'inno di Garibaldi. In quel momento i soldati, che sono stati rintanati fino allora, non si tengono più, balzano in piedi, allo scoperto, urlando: «Va fuori d'Italia, va fuori straniero!» Gli ufficiali redarguiscono: — Giù perdio, coperti, giù!

Lo straniero manda invariabilmente una scarica di fucilate che lampeggiano sul bordo d'un ciglione. Poi l'oscurità e il silenzio si richiudono, e la lunga profonda notte comincia.

NELLA VALLE DI SEXTEN.

10 settembre.

Dalla valle dell'Ansiei, lungo la quale serpeggia la strada che per Misurina sale al nord fino a Toblach sulla Drava, ascendendo le pendici boscose del Col Caradies, verso l'oriente, si arriva a dominare dal passo il panorama della valle Pàdola, la quale va pure verso la Drava, e, prolungandosi nella valle di Sexten, oltre la vicina antica frontiera, conduce direttamente a Innichen.

La valle di Cortina, la valle di Misurina, la valle del Pàdola sono tutti passaggi che dall'Italia tendono al corso della Drava, la quale, dirigendosi da oriente ad occidente, porta nella sua ampia vallata i nervi massimi delle comunicazioni austriache col Trentino. Ogni valle nostra è dunque una minaccia sul fianco nemico, una minaccia tanto più grave quanto più la frontiera si avvicina ai punti vitali. Il confine sulla valle Pàdola non è che ad una quindicina di chilometri in linea retta da Innichen sulla Drava: poco più di un tiro di cannone pesante.

Come avevano eretto i forti di Sompauses, di Platzwiese e di Landro a difesa degli sbocchi da Cortina e da Misurina, gli austriaci avevano sbarrato la valle di Sexten con due forti principali e infinite opere minori: un forte ad oriente della valle, sulle pendici del monte Helm, il forte di Mitterberg, ed uno ad occidente, il forte di Heidick.

Contro queste due opere maggiori verso la metà di luglio la nostra artiglieria da posizione aprì il fuoco, sistematicamente, devastandole. Ma anche qui gli austriaci hanno ricorso alla tattica di disarmare i forti che vedevano condannati e di trasportarne i cannoni su posizioni campali, da lungo tempo preparate con solide piattaforme riunite da strade coperte.

È meraviglioso come si sia potuto avanzare su territorio di conquista in mezzo a difficoltà che appaiono quasi insuperabili, opposte dal terreno e dal nemico, il quale ha fatto dell'intera valle di Sexten tutto un sistema di trinceramenti in calcestruzzo. Non vi è una linea di difesa, ve ne sono cento. Le trincee, precedute da reticolati, da fossati, da mine, percorrono i declivi in tutti i sensi. Le artiglierie si sono accumulate in agguato dietro ad ogni dosso, e battono le creste.

La lotta, qui pure, cominciò con una conquista di vette. Dopo aver visto le gole dolomitiche, dominate dalle rocche mostruose delle nude montagne turrite, la valle Pàdola ci è sembrata ampia e dolce, fra quei suoi monti che, sebbene scoscesi, hanno le forme che abbiamo sempre visto ai monti. Vi sono cime rocciose, dalle pareti a picco, coronate di guglie, spaccate da canaloni, ma sono lontane, esse non serrano la valle, non vi precipitano le linee vertiginose dei loro speroni. I massicci più aspri si discostano fra loro e lasciano respirare la vallata fra verdi ondulazioni di propaggini.

A settentrione e ad occidente il vecchio confine passa sopra il dorso di quei massicci, corre sopra la seghettatura delle loro creste biancheggianti di nevi, alle quali arrivano, in cerca di forcelle e di selle, i sentieri che costituiscono i valichi secondarî. In fondo alla valle fugge il nastro bianco della strada maestra. La prima azione si diresse alla conquista dei valichi. Per avere i valichi bisognava avere le vette che li dominano. Fu una corsa alle rocce.

Noi, puntando verso Sexten, prendemmo il Monte Croce di Comelico, e poi la Croda Rossa, e poi la Cima Undici, preparando l'avanzata nella valle nemica, mentre gli austriaci, più ad occidente, si aggrampano al confine, sulla cresta del Monte Cavallin, come l'abbiamo visto aggrampato sul Monte Piana sopra a Misurina. Lentamente la nostra conquista è penetrata nella valle di Sexten.

Al di là della frontiera vi è una di quelle alture che le sinuosità della valle pongono come a sbarramento e che chiudono la prospettiva. È il Seikofel. Si prestava ad una forte difesa. La resistenza austriaca vi si è accanita.

Il primo luglio, per studiare le opere che il nemico vi aveva costruito, si spinsero avanti, arditamente, delle pattuglie di ufficiali. Vi accertarono l'esistenza di trincee permanenti di cemento armato, con larghi reticolati. L'artiglieria nostra cominciò a tempestare le opere invisibili, che le esplorazioni degli ufficiali avevano delineato. Il 14 luglio, la fanteria cominciò ad avanzare dei tentacoli, a tastare con ricognizioni le posizioni nemiche. I nemici furono respinti dalle prime linee. Il nostro fronte si portò più avanti e si radicò alle pendici del Seikofel.

Gli austriaci tentarono una offensiva violenta, preparata con lunga cura. Il 28 luglio essi attaccarono nella valle con forze rilevanti. Furono respinti e lasciarono nelle nostre mani alcuni prigionieri. Il 7 agosto noi attaccammo alla nostra volta. Dopo un'intensa preparazione di artiglierie, che per varî giorni tempestarono le posizioni nemiche, la fanteria avanzò respingendo passo passo l'avversario fino a raggiungere le pendici meridionali del Burgstall, una montagna che sta quasi simmetricamente di fronte al Seikofel, dal lato opposto della valle. Il Seikofel è ad oriente, il Burgstall è ad occidente. Avanzati a destra fino alle pendici dell'uno, si era avanzati a sinistra fino alle pendici dell'altro.

Due giorni dopo il nemico tentava di sloggiarci. Dal Seikofel scese con forze relativamente rilevanti. Fu respinto. Il 13 agosto noi rafforzavamo la nostra linea con l'occupazione dell'Oberbacher, le cui vette furono scalate dalla fanteria. L'Oberbacher è un nodo montuoso a sud-ovest del Burgstall. Costituisce una posizione fiancheggiante importantissima. Nello stesso giorno occupavamo la forcella Cengia, un altro passo ad occidente della valle di Sexten, e il giorno dopo, sopraffatte le artiglierie nemiche con un fuoco intenso, la fanteria italiana poteva salire sulla spalla del Seikofel e radicarvisi, ed occupare definitivamente delle cime della Croda Rossa.

Combattimenti accaniti succedono a lunghe calme. Da una parte e dall'altra non si può agire con continuità; occorrono lente e studiate preparazioni, e l'azione si scatena all'improvviso, violenta, disegnando talvolta un attacco sopra un punto e lanciandolo sopra un altro, tentando i lati deboli, complessa e breve. Se fossimo giunti un giorno prima sul Col Caradies avremmo visto il fumo delle granate e degli shrapnells velare le creste e avremmo udito salire da tutta la valle il tuono incessante delle artiglierie, ma ieri la zona del Pàdola era immersa in una tranquillità profonda, appena turbata di tanto in tanto dall'eco di qualche colpo lontano.

Eravamo in osservazione nella radura erbosa di un bosco di abeti, e lo sfondo della vallata si apriva luminoso entro una oscura cornice di tronchi e di fronde. Non potevamo scorgere Sexten, nascosta dal giro della valle. Il bombardamento che ha demolito i forti ha danneggiato anche la cittadina pittoresca, che rimane sempre un centro importante per le operazioni austriache. Gli abitanti si sono ritirati a Innichen, e i militari si sono sepolti in profonde casematte. A Sexten si allacciano le comunicazioni telefoniche degli osservatorî del nemico e quelle delle batterie. La centrale telefonica è un sotterraneo, invulnerabile, scavato in un prato, coperto di zolle, una specie di cantina alla quale giungono i fili entro cavi sotterrati.

Il Seikofel sollevava fra le pendici la sua larga groppa tondeggiante e fosca. È una collina formidabile chiomata di boschi. Soltanto sulla vetta, il bombardamento e i lavori di fortificazione hanno diradato la selva. C'è una specie di calvizie incipiente sulla sommità dell'altura, e si intravvede il fulvo colore della terra scavata fra le grame alberaglie rimaste. Gli austriaci vi avevano già abbattuto alberi per adoperare il legname nelle opere di rafforzamento; il cannone ha falciato il resto. Si scorgono dei sottili intrecci di tronchi inclinati o caduti.

Come sul Monte Piana, la cima non appartiene a nessuno; è una breve zona neutra, che da una parte o dall'altra si scala per assalirsi. Le trincee italiane e quelle austriache non sono lontane fra loro che una settantina di metri. Ogni tanto qualche esploratore striscia ad affacciarsi cautamente sulla vetta per vedere quello che il nemico, pochi passi più in giù, stia facendo. Se è scorto, si ode una salva di fucilate; la vedetta urla un'ingiuria e si lascia scivolare indietro, fra i suoi. Alla notte, il vivido raggio dei proiettori contorna l'altura, che si disegna nera e netta sul chiarore bianco come in un crepuscolo lunare.

La più attenta osservazione attraverso i binocoli non ci lasciava sorprendere alcun movimento sul Seikofel. Nessuna vita sulla terra sconvolta e sterilita di quella vetta, verso la quale sfuma il nero della foresta. Gli alberi hanno protetto il nostro assalto, come sul Salubio. I nostri sono saliti nella loro ombra, da tronco a tronco, ricacciando il nemico a passo a passo.

Non potendo abbattere la selva, nella quale i nostri movimenti si celano, gli austriaci tentano ora d'incendiaria. Aspettano che il vento spiri dal nord, e mettono il fuoco ai roveti. Le fiamme salgono, gli alberi resinosi ardono, colonne di fumo denso si abbattono sulla vallata. Ma l'incendio non si propaga mai. Divampa, poi langue, s'estingue, e per giorni e giorni dei diafani nembi azzurrastri si levano a volute filamentose dalle plaghe carbonizzate. Dei riflessi sanguigni palpitano nelle tenebre della notte. L'ultimo incendio si è spento l'altro ieri.

In fondo alla valle, sotto a noi, sporgendoci sulla balza, vedevamo il villaggio di Pàdola, deserto. Le strade stendevano lungo il torrente il loro bianco serpeggiamento senza una macchia. Non un carro, non un uomo. Forse qui, come nelle Fiandre, è alla notte che il movimento delle retrovie si desta. Nell'oscurità romberanno i convogli in marcia, mentre in margine al gran traffico dei veicoli sfileranno silenziose le truppe in nere schiere lente. La valle appariva vuota, solitaria e come addormentata.

Essa è ancora sotto alla vigilanza di un lontano osservatorio austriaco, e si sente guardata. Si finge vuota. Niente può dare pretesto ad un colpo di cannone. Questo osservatorio, per una stranezza della guerra di montagna, s'incunea nelle nostre posizioni. È al Passo della Sentinella, una località che merita il suo nome. Vi si erge, isolata, una guglia dolomitica, sottile, aguzza, che sembra un gigante in vedetta.

Tutti questi monti, come abbiamo già osservato nella valle di Ampezzo, sono fatti, per dir così, a trampolino. Verso l'Austria un piano inclinato, verso l'Italia un salto. Da una parte una comoda via di accesso, dall'altra una parete che bisogna scalare. Così il passo della Sentinella. È stato preso e ripreso varie volte. L'attacco è facile per gli austriaci e difficile per noi. Essi possono difendere la vetta con qualche uomo e assalirla con molti. Lassù, sull'estrema punta, come sulla cima della Prima Tofana, non vi è che un minuscolo plotone e una mitragliatrice, alla quale hanno fatto con del cemento una cupola blindata. Tutte le cime vicine sono nostre. Noi li avremo assediandoli. Ma intanto guardano, ed essi sono l'occhio di batterie rincantucciate fra le pendici dell'Inner Gsell, nelle vicinanze di Sexten.

A destra del Seikofel boscoso, poco più lontano, un'altura nuda, rossastra, dalla vetta lacerata dalle granate; è il Rotheck. Nel nome di Rotheck c'è la parola «rosso». La montagna brulla si distingue infatti per quel suo colore ardente, per quella sua strana vetta sanguinante sulla quale il nemico si trincera. Di fronte a lei, assai più vicino, il Quaternà nostro, alto, scosceso, fulvo, dominante, che a sinistra porta le nostre posizioni a congiungersi per ondulazioni di declivî al Seikofel, e a destra le conduce verso le cime del Palombino, altra vetta di frontiera che ci dà il comando di valichi minori.

Sul Quaternà si profilavano gli uomini, che andavano e venivano lentamente sulla cresta in quell'ora silenziosa di tregua, simili a strani insetti, diafani e tremuli nelle rifrazioni della distanza. Vedevamo il rovescio delle nostre posizioni, il formicaio bizzarro degli accampamenti attaccati alla spalla del monte come dei nidi.

Verso le cime, da ogni parte, si vedevano arrampicati i villaggi dei rifugi, color della terra, con le loro piccole baracche che sembrano sovrapposte, minuscole cittadine a ripiani verso le quali sale un saettamento di sentieri a zigzag. Ricordano quei fantastici conventi buddhisti che si aggrampano alle rocce sacre della gola di Kalgan. Su certe vette si sono dovute infiggere delle travi a guisa di mensole, ed erigere i baraccamenti sopra dei pianerottoli di legno sospesi sul precipizio. Si passa da un pianerottolo all'altro per delle scale. Dei gradini tagliati nella roccia portano alle trincee.

Spesso, camminando sulla cresta, un sasso si distacca, rotola giù dal ciglio e frulla nel vuoto rimbalzando più in basso sonoramente sul legno delle costruzioni, percuotendo le travature di sostegno con una violenza da proiettile. Chi si accorge che un sasso sfugge sotto al suo piede, manda giù un grido di avviso. Si sporge e, le mani a imbuto intorno alla bocca, urla: «Sassooo!» — e gli uomini nei ripiani inferiori si gettano contro la parete di roccia aspettando che la pietra sia passata.

Oltre il Quaternà, ad oriente, una vetta precipitosa e immane: il Cavallin. È precisamente una di quelle montagne a trampolino che offrono all'Italia il corrusco aspetto di una rocca ed hanno dall'altra parte un dorso accessibile. Il Cavallin, una delle gigantesche pietre miliari della frontiera, non ha grande importanza perchè non domina alcun valico di qualche entità e non può molestare direttamente le nostre operazioni. Ma fissa, abbarbica su quel punto del confine l'occupazione austriaca, ed è sul fianco destro della nostra direttiva nella valle di Sexten. Non ci nuoce, ma ci minaccia.

Ha una forma quasi simmetrica: due cime, due torrioni, e fra loro una profonda insellatura nel mezzo della quale bruscamente irrompe una guglia. Le pareti sono a picco; non si scorge da lontano alcuna via di accesso. Soltanto delle ricognizioni, in forze più o meno importanti, partite dai costoni del Quaternà, si sono avvicinate alle posizioni austriache del Cavallin per studiarne gli approcci. Ardite e magnifiche spedizioni! Talvolta sono arrivate fin sulle trincee del nemico. Come? Il racconto delle loro gesta sembra una leggenda.

Scalare la parete è impossibile. Le ricognizioni salgono per i canaloni, s'inerpicano sui macigni crollati nelle fenditure, vanno su per veri corridoi fra pareti di roccia che numerose mitragliatrici austriache spazzano al minimo allarme. Nel cuore della notte gli eroici reparti esploratori avanzano. Le trincee nemiche si distendono sui ciglioni, sono annidate in sporgenze della roccia agli accessi dei canaloni. Ogni approccio è barrato da larghi reticolati. È avvenuto che si sia riuscito ad aprire un varco nel primo reticolato, poi nel secondo. Nella luce dei proiettori, strisciando sotto al fuoco intenso, inerpicandosi da masso a masso, i nostri sono arrivati alla trincea principale. Ma sul parapetto stesso c'è un ultimo reticolato che bisognerebbe distruggere, a due metri dalle canne dei fucili nemici.

Quando la ricognizione arriva alla mèta, è già l'alba. Nessuno può più ritirarsi allo scoperto. E i nostri rimangono là, fra le pietre, a qualche passo dai nemici, che li sentono ma non osano uscire. Sparano e sparano, gli austriaci, con quel fuoco a scatti che ridice l'agitazione e l'ansia. Le mitragliatrici martellano l'invisibile. I nostri si aggrampano immobili, lambiti da una rete di sibili. È un inferno. Le palle di rimbalzo sono le più terribili perchè arrivano non si sa da dove. Qualche corpo rotola giù per il ghiaione. Chi è ferito precipita. Dall'altra parte del monte si svegliano i corti mortai austriaci, di un modello studiato per questi terreni, e le grosse granate passano sulla cresta, portando fino ai tremila metri il loro fuggitivo e lacerante lamento, per ricadere al di qua, cercando a caso il terribile assalitore. Ma la notte ritorna e gli esploratori ridiscendono nel buio, portando il tesoro della loro esperienza.

Non c'è più un abisso dal quale gli austriaci ora non si aspettino la scalata. Metterebbero dei reticolati sulle nubi, se potessero. Accumulano mitragliatrici e fili di ferro sul bordo d'ogni precipizio. E da lontano si vedono nereggiare assurde difese anche sulla cima più alta del Cavallin. Una trincea si tiene lassù, in un piccolo spazio, nel quale si ha l'impressione che un uomo non possa distendersi, circondato dal vuoto.

Da lì ricomincia verso l'oriente, verso la Carnia, la guerra delle vette.

LA LOTTA DEI COLOSSI.

12 settembre.

Quando si entrava in Austria per la ferrovia di Pontebba, passato Pontafel, se non si era troppo distratti dalle varie e pittoresche bellezze della valle del Fella lungo la quale il treno scendeva, fra la stazione di Saint-Lusnitz e quella di Uggowitz — piccole stazioni che i diretti disdegnavano, adorne di piante rampicanti, e avanti alle quali non si vedeva che un impiegato fermo e dritto come un piuolo, sormontato da un chepì rosso albo un palmo — si osservava a sinistra uno strano sperone di montagna.

Era un contrafforte ardito, coperto di abeti, che avanzava con tanta insolenza da costringere la valle a scansarsi e fare un giro per passargli intorno. Pareva messo là per sbarrare il passaggio. Subito dopo il biancheggiare di Malborghetto, in fondo ad una piccola conca nella quale il paesello, adagiato a ridosso delle alture per ripararsi dalle tramontane, si rifugia, la vallata pareva chiusa da quel costone boscoso.

Fra gli alberi del declivio si vedevano emergere larghe sagome di possenti costruzioni; erano muraglioni bassi, enormi, massicci, coronati da spalti, alcuni quasi sulla valle, altri eretti più in su verso la spalla del monte, con un collegamento capriccioso di altre muraglie, di altre costruzioni minori. Era il famoso forte Hensel.

Quello che si vedeva costituiva i rafforzamenti del forte. Le spianate della fortezza si appoggiavano a quelle mura ciclopiche, solide come la roccia: due spianate, una in basso, una in alto, sotto le quali il forte affossava le sue parti più vitali. Le muraglie servivano anche da trinceramenti. Erano bucate da feritoie a ranghi molteplici, dalle quali, occorrendo, si potevano affacciare piccole artiglierie. Quattro ranghi di feritoie sovrapposti si allineavano sul muraglione più vicino alla strada.

Il forte Hensel era doppio, aveva appunto la parte alta e la parte bassa, unite da cortine e da strade coperte. Si immaginino dei giganteschi edifici sepolti, dei quali non si scorga che la sommità, verdeggiante di terrapieni erbosi come se essa fosse sorta dalla terra sollevando interi lembi di prato. Il bosco aveva mascherato in parte il resto. Non si vedevano dalla ferrovia gli oscuri emisferi delle cupole di acciaio dei grossi pezzi, due sulla parte bassa e due sulla parte alta, e non si vedevano tutti quei bizzarri comignoli dei quali i forti sono irti, simili a soldatini in ordine sparso ritti sui terrapieni, e che non sono altro che gli sfogatoi dei depositi di munizioni intesi a mantenere la ventilazione dei magazzini sotterranei. Ma i nostri osservatori, annidatisi fin dai primi giorni della guerra sui monti, dall'altra parte della valle, a qualche chilometro appena dal forte, ne scorgevano e ne studiavano tutti i particolari. Distinguevano nell'imponenza geometrica dei suoi profili tutta la segreta disposizione delle sue parti, dei suoi collegamenti, vedevano nereggiare sulle piazzole superiori le batterie in barbetta, e seguivano il lavorìo della guarnigione che apprestava la fortezza alla battaglia come un equipaggio appresta la nave per il combattimento.

Ora non c'è più niente.

Niente, assolutamente niente. Non più muraglioni, non più spalti, non più cupole, non più batterie scoperte, non più strade. È scomparso anche il bosco. Tutto quel folto di abeti che avvolgeva il forte è svanito. Lo stesso sperone di montagna sul quale la fortificazione sorgeva si è trasfigurato, non è più quello, è irriconoscibile, tutto sconvolto, squarciato, imbrullito. Al posto del forte Hensel c'è come una immensa frana, una convulsione di terra e di pietre, una distesa di detriti e di macerie che scende dall'alto del costone fino al torrente. I nostri cannoni hanno fatto questo.

La devastazione dei nostri tiri è indescrivibile. Sarebbe incredibile anche, se non fosse registrata dalla fotografia. Le fasi della distruzione sono documentate dalla fedeltà impassibile del teleobbiettivo. Il cannone operava una lenta e profonda trasformazione del paesaggio. Cominciò a battere le opere basse, poi troncò le comunicazioni protette, poi battè le opere alte, infine disgregò, demolì, sgretolò, seppellì tutto quello che c'era rimasto. Questa volta gli austriaci non hanno fatto in tempo a ritirare le loro artiglierie. Il forte è diventato una immane tomba di cannoni.

Alcuni colpi troppo lunghi, andati al di là dello sperone e caduti nella valle, hanno aperto dei crateri che le piogge hanno riempito, e ai piedi dell'altura la fotografia vi mostra una fantastica costellazione di chiari laghetti rotondi. Le granate facevano un arco al di sopra di vette, un arco alto quasi due chilometri. Varcavano cinque o sei montagne, viaggiavano per un minuto e dieci secondi su creste e burroni, attraversavano la vallata del Fella e piombavano con una precisione meravigliosa sulla parte del forte che si voleva colpire.

Hensel, eretto per chiuderci ogni passaggio da ovest e da sud, messo a guardia di uno sbocco di valli, è stato cancellato dalla faccia del mondo. Abbiamo visto ieri i cannoni che lo hanno annientato.

Lontano dal fronte, lontano dai combattimenti, nelle retrovie della guerra, dove la vita del paese continua normale ed eguale, le mostruose artiglierie si annidano. Sono cannoni che il nemico non avrebbe mai immaginato di veder comparire dalla nostra parte sul campo di battaglia. Credeva di dominarci con i suoi 210 di Hensel, d'inchiodarci nelle nostre valli, alle quali intendeva aprirsi l'accesso.

Accovacciati sui loro larghi affusti massicci, che pesano loro soli decine di tonnellate, piantati solidamente su piattaforme che sembrano fondamenta di torri, i neri e giganteschi cannoni sporgono soltanto il profilo impetuoso e possente del loro lucido collo dall'ampio barricamento circolare di sacchi pieni di terra che li protegge. Quell'alta barriera grigia fa pensare al recinto creato intorno ad una belva.

Gli artiglieri lavorano in quel chiuso, isolati, intorno alla formidabile macchina di morte. Ruote silenziose muovono il pezzo, lo girano, lo sollevano, fanno aprire e richiudere l'enorme culatta, il cui otturatore a cerniera, dalle dentature lucenti, sembra lo sportello d'un forziere favoloso. Docile, il cannone dolcemente obbedisce a lievi giri di manovelle. Quella grande massa di tredicimila chili di acciaio si muove senza rumore con una maestà dominatrice, con una lentezza che sembra pensosa e ponderata. Si dispone al tiro, assume l'attitudine del combattimento, spostandosi adagio adagio, e nel suo moto solenne pare di scorgere una non so quale truce e subdola cautela.

Un carrello sospinto su rotaie porta il proiettile dal deposito blindato delle munizioni. La granata, alta come un fanciullo, è sollevata dall'argano, scivola nella culla di ottone del caricatoio, la culatta si chiude sul sacco della polvere che ha seguito il proiettile nella camera di scoppio, dalla quale per un istante si è intravvista la vorticosa e scintillante raggera delle rigature. Uno scatto di molla. Il colpo è pronto. Tutto questo avviene come un meccanico lavoro da opificio. I soldati rimangono in piedi sulle piattaforme di acciaio che l'affusto sporge. I serventi sono come inerpicati sul colosso.

Al colpo la gran mole del cannone passa veemente fra loro, spinta indietro dalla forza impetuosa del rinculo, e torna al posto ricondotta dalla elasticità dei freni. Una buffata violenta e ardente fa sventolare i lembi dei cappotti. La terra ha un sobbalzo. Nei greti è un rotolare di sassi e uno scorrere di sabbie. Le travature delle case hanno scricchiolato nel villaggio vicino come ad una scossa di terremoto; le porte squassate hanno risuonato cupamente e le finestre mal chiuse si sono spalancate alla sorda percossa della raffica breve.

Gli artiglieri, immobili, afferrati ai montanti, gli occhi riparati dall'ombra della mano aperta, ammiccano verso il cielo, attenti, interessati. Guardano il proiettile. Perchè la granata si vede, si può seguirla per qualche tempo nella sua corsa da meteora. È una lineetta nera, sfumata, che naviga nello spazio, impiccolisce, impallidisce, svanisce.

I viaggi delle palle da cannone più grandi sono diventati così lunghi, che dànno il tempo a delle strane segnalazioni. I nostri posti di osservazione annunciano il passaggio dei grossi proiettili nemici come i semafori avvertono i porti del passaggio delle navi. La granata di certe artiglierie pesanti manda un rumore che ricorda quello di un treno ferroviario lontano; pare un diretto che percorre la vôlta celeste. «Arriva un 305» — telefonano talvolta gli osservatori avanzati, quando percepiscono il caratteristico rombo. «305 in arrivo!» — grida il telefonista della batteria avvisata. «Al coperto!» — ordina il comandante. Gli artiglieri si sparpagliano nelle loro tane. Otto, dieci secondi dopo il proiettile arriva, scoppia, solleva eruzioni di pietre e di terra, annebbia tutto di fumo. Ma la parola umana, più rapida, lo ha preceduto. È meraviglioso.

Per questo le grosse artiglierie, se devastano e distruggono le difese meglio costrutte, non fanno molte vittime. Per ammazzare bisogna che sfondino una casamatta di rifugio o sorprendano truppe allo scoperto. Allora, l'uomo che si trova presso allo scoppio sparisce. Inutile ricercarne i resti. Non v'è più traccia di lui.

Così è scomparso un alpino in val Dogna, dove abbiamo visto le enormi buche scavate di fianco alla strada da alcune grosse granate austriache. Due alpini passavano di lì al momento di una esplosione. Di uno non si trovò più nulla. L'altro fu lanciato in aria incolume e sbalestrato fra i rami di un abete, trenta metri lontano. Annerito dal fumo, imbrattato di terriccio, stordito dal colpo, si attaccò istintivamente ad un ramo con quella forza attanagliante che hanno nelle mani gli alpini, scalatori di vette, e rimase così finchè lo salvarono.

In questo momento i bombardatori di Hensel hanno altri obbiettivi. Dopo un lungo silenzio riprendono la parola. I giganti si celano nell'ombra d'una valle. Quando le loro bocche sono in posizione di tiro, si tendono verso il cielo. Ricordano per la loro mole i telescopi degli osservatori astronomici. E tutti quei loro meccanismi perfetti che permettono di orientare il pezzo enorme fino all'esattezza del decimo di millimetro, i grossi cilindri dei freni che si allungano sul manicotto, i cannocchiali di traguardo, contribuiscono a dar loro un'aria da immani strumenti di precisione. Aumentando la distanza di tiro si è dovuta aumentarne la correttezza. L'errore di un millimetro alla bocca del cannone diventa l'errore di centocinquanta o duecento metri al bersaglio, quando la palla percorre otto miglia. Perciò il cannone ingigantendo ha acquistato delicatezze minuziose, movimenti da apparecchio geodetico.

Un'operazione di puntamento fa pensare ai calcoli nautici. Vi entra dell'astronomia. Bisogna ricercare il nord magnetico, tener conto delle deviazioni locali della bussola, per orientare il quadrante di puntamento al nord terrestre: questo preliminare è necessario per arrivare e stabilire il punto matematico nel quale il cannone è piazzato. Fissata la posizione del cannone si determina sulla carta la rotta dei proiettili. Le altitudini come le distanze entrano nel calcolo. E durante il tiro si tiene una specie di giornale di viaggio delle granate. Si registrano di ognuna le segnalazioni di arrivo, colpo per colpo, e gli errori di rotta indicati dagli osservatori a millesimi — millesimi d'angolo.

La zona che abbiamo visitato, quella parte delle Alpi Carniche che dalla ferrovia Pontebbana si avanza sulla vallata di Plezzo, è stata finora un gran campo d'azione di grosse artiglierie. Ora attivo e violento, ora lento e come stanco, il maestoso duello delle batterie pesanti e di medio calibro ha continuato per mesi. Il silenzio non è mai lungo. Ogni tanto le vallate rombano e echeggiano.

Imponemmo noi la lotta dei colossi. Il 12 giugno i nostri massimi pezzi erano già piazzati e aprivano il fuoco sul forte Hensel. Nello stesso giorno un deposito di munizioni dell'opera alta scoppiò.

L'incendio durò lungamente; il fumo giallo e denso delle polveri brucianti copriva a tratti la intera collina, lacerato dal bagliore delle esplosioni, le quali lanciavano in aria getti alti di macerie e di luce. Pareva che il forte si bombardasse da sè. Era uno spettacolo di una imponenza indicibile che gli osservatori descrivevano per telefono a frasi concitate, piene di ammirazione e di stupore. Il giorno dopo un altro deposito esplodeva nell'opera bassa.

Il 16 giugno la cortina che univa l'opera alta all'opera bassa era già franata; le piazzole della batteria in barbetta erano scomparse in uno sconvolgimento di massi. Allora avvenne una cosa che fa onore al nemico: il forte rispose. Rispose a caso, senza scopo, per non morire senza un simulacro di difesa. Ma dopo pochi colpi tacque per sempre.

Implacabili i nostri tiri si avvicinavano ai pezzi blindati. Il 23 giugno una cupola dell'opera bassa era sfondata. Essa appare ora spezzata come un guscio spesso e nero, aperta, inclinata. Il 2 luglio si rinnovarono scoppi di munizioni in altri depositi del forte. La demolizione progrediva a zone, regolare, sistematica, inesorabile. Il 28 luglio un'altra cupola era spezzata e, rovesciandosi, il suo cannone levava la gola verso il cielo come quelli di una nave che va a picco. Il forte sprofondava.

Gli austriaci adunarono in fretta batterie in quel settore. Le pendici settentrionali della valle di Malborghetto nascondono numerose posizioni di artiglieria pesante e di medio calibro. Vi sono dei 105, dei 110, dei 115, dei 210, e vi è anche un 305. Il nemico ha temuto forse uno sfondamento delle sue linee verso il nodo stradale di Tarvis.

Le nostre batterie sono così nascoste che avviene spesso di passarvi vicino senza vederle. La loro presenza è annunziata da bivacchi, fumiganti di cucine come immensi campi di tribù zingaresche, da affollamenti di artiglieri fra tende e baracche disseminate in selvaggi angoli di valli, da un movimento più attivo di carreggi e di salmerie nelle retrovie, da parchi di furgoni e di pesanti carrelli da trasporto, da file di muli e di cavalli alla corda nereggianti sotto a lunghe tettoie nel greto di qualche torrente. Sui veicoli, sui tetti, sulle tende tutto un intreccio mascheratore di fronde ha un'apparenza di addobbo rustico che rallegra come il preparativo di una strana e primitiva festività montanara. Quando si arriva a questi centri di attività, adornati spesso da bizzarri giardini, con viali e aiuole nelle quali delle pietre colorate, disposte ad arte, sostituiscono i fiori per formare disegni, e sigle, e emblemi, si cercano con lo sguardo, tutto intorno, i cannoni. Bisogna, per scovarli, che qualcuno li additi.

Allora vi accorgete che dal folto di un roveto sporge appena una gran gola di acciaio. Quello che avevate scambiato per un rigoglioso e inestricabile ciuffo di giovani abeti, è un obice. Un boschetto di arboscelli e di sterpi verdeggianti è un cannone grosso come una locomotiva. Pezzi, affusti, piazzole, casamatte, riservette, tutto è affondato nel terreno e nelle vegetazioni. Nella guerra moderna chi si nasconde meglio è il più forte.

Per battere bisogna scorgere. Artiglieria vista, artiglieria silenziata. La situazione di una zona può dipendere da un uomo e da un filo telefonico. Uno sguardo che si affacci e che scruti, un telefono che trasmetta, e la solidità di un fronte può essere compromessa.

La vera guerra, in certi settori, è fatta dagli esploratori, dalle vedette, dagli osservatori. Sono loro, quei pochi uomini annidati su vette, che in fondo veramente combattono. Combattono con armi formidabili, lontane chilometri e chilometri da loro, ma che essi dirigono. Per loro, per quello che vedono e dicono, delle forze cieche si muovono, dietro, nelle valli e sulle alture, e agiscono. L'osservatore che sorprende una preparazione nemica e la fa disperdere con una raffica di granate da batterie che nulla scorgono, e che conduce i tiri di un bombardamento niente altro che pronunziando delle cifre in un ricevitore telefonico, è il fantastico guerriero della nostra epoca.

È lui che assesta i colpi, che sbaraglia e distrugge, ed egli deve talvolta sentire l'orgoglio di poter scagliare, lui inerme, la precisa violenza della guerra sul punto che il suo giudizio e la sua volontà hanno definito.

Da qui il valore di certe cime, quasi irraggiungibili, dalle quali non potrebbe arrivare neppure un colpo di fucile. Insediare un cannocchiale vale alle volte assai più che insediare una batteria. Si sono avute delle azioni importanti per sloggiare un minuscolo posto di vedetta. Battaglioni e cannoni erano paralizzati momentaneamente dallo sguardo di un uomo. E dei bombardamenti, dei combattimenti, avevano, si può dire, un uomo per obbiettivo.

In Val Dogna, ai primi tempi della guerra, quando vi avevamo piazzato delle artiglierie, ora spostate, che bombardavano certe posizioni vicine a Malborghetto nella Val Fella, pareva di essere sicuri dalle osservazioni nemiche. Ma un giorno, improvvisamente, cominciarono a piovere granate intorno ai nostri pezzi. Fu una di quelle granate che mandò in aria l'alpino. Il tiro, accurato, doveva esser diretto da gente che vedeva. Ma dove poteva nascondersi? Cerca, cerca, da punta a punta, da cresta a cresta, finalmente si scoprì qualche cosa sopra una delle vette del Montasio.

Il Montasio che domina la valle da sud-est, una immane rupe che tocca quasi i duemila e ottocento metri d'altitudine, dalle forme ardite e strane, superbo e fosco, ha un versante austriaco e un versante italiano. Era stato giudicato inaccessibile. Ma una guida austriaca, pratica della regione, era riuscita a condurvi una scalata e stabilire sulla punta un posto d'osservazione. Le nostre batterie erano là sotto.

Non rimase a lungo lassù, l'osservatorio austriaco. Dove va un tirolese vanno cento alpini: dove va un alpino non va nemmeno il demonio. All'alba i nostri ascesero la montagna da tre lati. Vi impiegarono sette ore. Gli austriaci in vedetta non si difesero e non esitarono. Temendo di essere circondati, fuggirono. Quando i nostri arrivarono sulla vetta, in un rifugio improvvisato con sassi, trovarono un telefono, degli strumenti ottici, un giornale e nel giornale delle fette di salame. Gli uomini che dovevano essere due o tre, erano scomparsi e giù per una balza oscillava la corda a nodi che era servita alla loro discesa.

Da allora la vetta è occupata da noi, e l'artiglieria nemica, che non vide più niente, tirò per qualche tempo a caso, poi smise. Avere un osservatorio vuol dire talvolta comandare una valle. Noi dominiamo una gran parte della vallata del Fella in territorio nemico, abbiamo potuto distruggervi forti e ridotte, la teniamo quasi senza possederla, soltanto perchè possiamo guardarla. Per avere un'idea dell'azione delle moderne artiglierie, non bisogna dimenticare questi loro nuovi organi indispensabili: gli osservatorî.

Ogni batteria ha una sua rete telefonica, lunga decine e decine di chilometri. Sono i suoi nervi. Il cannone non potrebbe più vivere senza il telefono. Ha bisogno di stendere molto lontano i tentacoli segreti della sua sensibilità. Corrono sulle rocce, sugli alberi, sull'erba dei prati, ora distesi sopra isolatori, ora gettati frettolosamente sulla terra e sui roveti, i fili elettrici ai quali il rivestimento nero dà un'apparenza da miccia. S'incrociano, si scavalcano, s'intersecano in ogni direzione. Un dialogare perpetuo va per monti e per valli fra le batterie e le vedette.

Quando il bollettino ufficiale ci parla di intensi bombardamenti, noi non pensiamo agli uomini spintisi avanti, rannicchiati al riparo di minuscole barricate di sassi, intenti a giudicare, calcolare, scrutare, riferire, freddi, calmi, maneggiando delicati strumenti come in un gabinetto di fisica, mentre intorno a loro è un inferno di esplosioni. Il fuoco nemico li cerca.

Cerca loro prima di ogni altra cosa. Li cerca con urgenza, con furore. Delle batterie intere non fanno altro. La lotta delle artiglierie s'inizia sempre contro gli osservatorî. Durante il bombardamento del forte Hensel i nostri posti d'osservazione erano come in un terremoto. Non furono mai toccati, ma le rocce intorno sono tutte spezzate dai colpi, che pareva dovessero svellere i rifugi da un momento all'altro.

Sempre in Val Dogna, scacciato lo sguardo nemico dal Montasio, non ci sentivamo ancora interamente padroni nella casa nostra. Il nemico si affacciava ad un altro punto, ed ogni movimento importante era impossibile oltre Pleziche, alla metà della valle. Bastava che qualche soldato passasse fra le boscaglie nel fondo della gola, perchè uno scoppiare di granate chiudesse il passo. Gli austriaci erano sulla Forcella del Cianalòt. Questa volta non si trattava di un osservatorio soltanto.

Passato Pontebba, la valle del Fella, che la ferrovia percorre, dopo aver risalito gli ultimi lembi montuosi dell'Italia, da sud a nord, varcata la frontiera volge nettamente verso l'oriente. Parallela e vicina a questo tratto austriaco della vallata del Fella corre la nostra Val Dogna. Lo spartiacque fra le due valli segna il confine. È tutta una lunga cresta aspra, nuda, cinerea, che irrompe maestosamente dagli ultimi prati e gli ultimi boschi. Verso le vette salgono rari e rudi sentieri che, scavalcando dei passi, allacciano le due valli. La Forcella è uno di questi valichi. Tutta la cresta fu subito occupata dai nostri, ma la Forcella, più in là della frontiera, era stata solidamente fortificata dagli austriaci, da tempo prima della guerra, e la tenevano con una risoluzione che indicava l'importanza da essi annessa alla posizione.

La importanza derivava sopra tutto dal fatto che dalla Forcella di Cianalòt, per il vano lasciato da due vette rocciose, si osservava una parte della Val Dogna, paralizzandovi ogni azione. La Forcella è un'insenatura fra i Due Pizzi — due punte: il Pizzo Occidentale e il Pizzo Orientale — e il monte Pipar. Gli austriaci, oltre all'insellatura, occupavano il Pizzo Orientale. Noi avevamo l'Occidentale, avevamo il Pipar, alto, dirupato, vicino al Pizzo Orientale, e, vicino al Pizzo Occidentale, avevamo la così detta Tana degli Orsi, una montagna rocciosa, grigia, nella quale si aprono caverne tenebrose capaci di dar ricovero ad intere compagnie, e che le tradizioni della valle, eternate nel nome, indicano come gli ultimi rifugi del gigantesco orso nero delle Alpi la cui razza è scomparsa.

Vista dal fondo della valle, pieno di un selvaggio arruffìo di boschi, la Forcella del Cianalòt appare come un ripiano, una specie di parapetto oscuro fra i pilastri delle vette. È vicino; il fuoco di fucileria austriaco batteva il sentiero. Parlando di monti e di vallate si conferisce un'idea di grandiosità e di distanza, ma qui, questi pizzi e queste cime intorno al passo sono a portata di voce. I nostri soldati avrebbero potuto dall'alto scagliar dei sassi nelle posizioni nemiche. Ma le posizioni nemiche erano costituite da trinceramenti in cemento armato, inattaccabili, precedute dal solido tessuto dei reticolati.

Gli austriaci stavano tranquilli là dentro. Erano invulnerabili. Nè i fucili nè i cannoni da montagna e da campagna potevano far loro alcun danno. Non rispondevano nemmeno al fuoco dei nostri che li dominavano inutilmente. Chiusi nella loro corazza, erano come il riccio sotto al naso del mastino. Assalirli era impossibile senza aver prima demolito le loro difese con l'artiglieria pesante, e gli austriaci, i quali sapevano bene che la valle angusta e dirupata non aveva strade, si sentivano perfettamente al sicuro dai grossi pezzi. Diamine, i cannoni da assedio non volano.

Ma una mattina, alle sette precise, li sorprese un'esplosione terribile. Fu il 30 di luglio. Una di quelle formidabili granate che sembrano bolidi era scoppiata avanti alle trincee. Non ebbero il tempo di riaversi. Dopo alcuni colpi di sistemazione, il bombardamento si fece serrato, intenso, spaventoso. Il fragore delle detonazioni assunse una continuità sconvolgente, era una catena di folgori, e la Forcella del Cianalòt scomparve entro una eruzione terrorizzante di pietre, di vampe, di detriti, di terra, di schegge, e il fumo balzava su a colonne, a getti, a sprazzi altissimi, per fondersi in immani cumuli, gialli, densi e pigri.

La violenza delle esplosioni era tale, che delle scaglie di roccia grandinavano sulle nostre stesse posizioni. I soldati nostri dovevano tenersi al coperto dietro alle anfrattuosità del Pizzo Occidentale, per non essere colpiti dalle pietre che quel furore di fuoco proiettava tutto intorno. I reticolati sparivano. Paletti di acciaio divelti, ancora uniti da fili, roteavano in aria sibilando. Le trincee di cemento erano qua e là intaccate, sbocconcellate, sbrecciate, in qualche punto anche sfondate. Otto ore consecutive durò quel fiammeggiante uragano di acciaio.

Alle tre del pomeriggio il bombardamento cessò.

Dietro ai ripari i nostri soldati aspettavano quel momento, il fucile nel pugno, la baionetta inastata. Nel silenzio improvviso echeggiò l'urlo possente dell'assalto. Dalle vette le nostre truppe precipitarono giù follemente, a salti, a balzi. «Pareva — dicono gli ufficiali — una frana d'uomini». Una frana grigia, tumultuosa, vivente, ululante.

I più agili arrivarono prima. La discesa disseminò i reparti. Si vide allora, avanti a tutti, a duecento passi dai compagni più vicini, solo, un alpino atletico, che correva impetuosamente verso le trincee piene di austriaci, intimando la resa, a gran voce.

La intimava in tedesco. Era uno di quei pazienti, forti e parchi emigratori friulani che la miseria spingeva oltre le frontiere a vivere di duro lavoro, trattati come esseri inferiori, come bestie da fatica dall'insolenza germanica. Aveva sofferto ogni umiliazione, l'oscuro polentafresser, ma non l'aveva dimenticata. Era arrivato il suo momento. Aveva lui il comando ora: «Fuori tutti! Giù le armi! Arrendetevi!» Egli era la Vittoria.

E prima che gli altri assalitori sopraggiungessero, avanti a quell'uomo solo, decine e decine di austriaci sbucavano fuori, pallidi e inermi, con le mani levate. Da ogni uscita i prigionieri emergevano, a uno a uno, con delle facce attonite e convulse. Furono presi centoventi soldati prigionieri e sette ufficiali. Oltre cento cadaveri nemici insanguinavano i cunicoli delle trincee. Il bombardamento aveva inebetito gli austriaci. Alcuni dovevano essere sorretti. Erano tutti sbalorditi e inerti.

Mentre la lenta carovana dei vinti cominciava a scendere dalle alture, il nostro cannoneggiamento riprendeva, battendo più lontano della Forcella. Sbarrava il passo ai contrattacchi. Si combatteva anche più a ponente, ma si trattava di una nostra finta. Preparando l'assalto del Cianalòt, un'azione accennava a volere aprirsi il passo nella valle del Fella scendendo verso Lusnitz. Conquistato il nostro vero obbiettivo, verso il tramonto, si rifece la quiete.

Ma il giorno dopo il nemico volle tentare una rivincita, e con batterie di medio calibro, piazzate durante la notte nei pressi di Malborghetto, aprì il fuoco sulla Forcella. Lanciava granate mine e bombe di gas asfissiante. Continuò il primo agosto a bombardare, senza avvicinare truppe per l'assalto. Voleva forse soltanto impedire i lavori di rafforzamento. Poi si rassegnò e tacque.

Non completamente però. Tutti i giorni cannoneggiava un poco. Di tanto in tanto la Val Dogna è percossa dai rimbombi dei colpi austriaci. Si vedono delle granate scoppiare fra le rocce, sulle quali lasciano un segno di scheggiatura fresca, e il fumo viaggia, portato dal vento, sugli accampamenti aggrampati al rovescio delle balze. Qualche colpo mal diretto passa sulle creste e arriva nel fondo del vallone. L'ululato del proiettile allora si prolunga curiosamente, per gli echi forse, dopo il boato dello scoppio.

I nostri soldati, sistemata la posizione della Forcella, l'hanno anche ingegnosamente adornata. Come per una sfida, per ergere di fronte allo straniero un simbolo d'italianità, essi hanno costruito proprio sulle trincee un campaniletto veneto, che ha un vaso di shrapnell per campana. Manda un suono da campanaccio da armento, un suono di pace.

Più in basso, al coperto, dove comincia il bosco e si annida fra i macigni il primo posto di medicazione, i soldati hanno eretto un baldacchino alto: quattro tronchi per colonne, una cuspide di fronde, una croce sulla punta. Una grossa pietra rozzamente spianata biancheggia sotto al baldacchino, al quale si sale per una specie di grandiosa scalea di rocce. È l'altare. Alla domenica il cappellano vi dice la messa; in giro sui dirupi e fra gli alberi si accalca la soldatesca immobile, silenziosa e grave; il cannone romba lontano, e in alto, sulle trincee, lo shrapnell tintinna sul suo minuscolo campanile.

Gli austriaci non avevano preveduto la possibilità di portare delle artiglierie pesanti sulle balze della Val Dogna. Non immaginavano che la montagna potesse in poche settimane venir solcata, tagliata e ascesa da strade ruotabili di una fantastica arditezza. Vi erano solo dei sentieri da cacciatori e da contrabbandieri. Nei primi tempi della guerra ogni carovana, ogni salmeria che s'inerpicava sulla valle perdeva qualche mulo. Il terreno si sfaldava, lembi di sentiero franavano, e le più solide bestie da soma spesso scivolavano nei passi angusti e scoscesi, perdevano piede, si dibattevano per un istante annaspando convulse con gli zoccoli, ogni muscolo teso e fremente in un muto terrore, e precipitavano nel burrone, le zampe in aria, in mezzo ad una valanga di terriccio e di sassi. Ora l'automobile sale le stesse pendici.

La strada pare che assalti le balze; passa da una all'altra con quel serpeggiamento ascendente, serrato e folle che hanno certi razzi. Va su, va su, tagliata nel macigno; s'inerpica su delle vere pareti; sembra da lontano, in certi punti, un zig-zag tracciato sopra un muro gigantesco. Non ha parapetti ancora, è larga poco più della vettura, sovente le ruote lasciano cautamente il loro solco lieve ad un palmo dall'abisso. Sporgendosi si scorge il biancheggiare lucente e vivo dell'acqua che scorre precipitosa giù nel fondo, nell'ombra, fra macigni lavati e chiari intorno ai quali essa mette effervescenti collari di spuma. Le volute percorse pochi momenti prima salendo, sono sotto, a picco, già lontane nella profondità. Più avanti o più indietro la strada sembra sempre troppo angusta per potervi passare, e si ha l'impressione di doversi sentir slanciare da un momento all'altro nel vuoto. Ad ogni giro essa manca allo sguardo, sparisce, non è più che un taglio, una soglia oltre la quale non c'è più niente.

Strade mirabili, strade prodigiose aperte dalla guerra! Hanno nel loro tracciato stesso una violenza e un impeto, come un segno di volontà ferma, la volontà di passare, la decisione di non conoscere ostacoli. Sono comparse ovunque, come per incanto, ad ogni altitudine, attraverso regioni impenetrabili ancora chiuse al traffico umano come all'inizio dei tempi. Solide, incancellabili, queste arterie della nostra forza scavalcano ponti di pietra, si appoggiano a muraglie massicce, e sul sasso appena tagliato si vedono scolpiti simboli di armi, frasi lapidarie di ricordo, date, numeri di reggimenti, che narreranno al più lontano avvenire questa magnifica storia che noi viviamo, come quei cippi che ai margini delle strade romane le legioni creatrici piantavano.

Davanti a queste opere gigantesche che sorgono da una settimana all'altra, ci si ricorda stupiti che un male dell'Italia è la deficienza di strade, che delle belle province nostre si spopolano, che delle ubertose regioni nostre agonizzano, perchè isolate dal mondo. Cinquanta anni di pace non hanno dato alla Calabria, alla Basilicata, alla Sicilia, le strade che un mese di guerra apre nelle più impervie regioni del mondo. Ci accorgiamo ora di quello che la disciplina può fare di noi. Avevamo bisogno di un'unione e di un comando.

Le nuove strade ci permettono uno spostamento di grosse artiglierie, quale gli austriaci si erano da molti anni assicurato con una viabilità aggressiva che arretrava tutte le nostre frontiere. I cannoni più potenti, che parevano destinati a non muoversi dai forti, ora viaggiano per tutto, trainati da motori, in lunghi e lenti convogli di carrocci pesanti al passaggio dei quali il suolo freme. È come se le fortezze avessero sciolto le righe e manovrassero. Il duello delle artiglierie pesanti, qui come sull'altipiano di Asiago, ha preso una mobilità maestosa. Cessato su Malborghetto riprende altrove, su nuove posizioni, si sposta, gira.

Abbiamo fatto un rapido e largo giro per le valli del Dogna e del Raccolana, che si somigliano un poco, parallele e brevi, egualmente dirupate e truci alle testate, piene di una agreste poesia agl'imbocchi, dove s'ingentiliscono, verdi di prati, disseminate di piccoli villaggi alpestri che seguitano a vivere la loro antica vita eguale sotto al rombo delle artiglierie, e verso i quali alla sera ascendono in fila per sentieri erbosi robuste contadine, curve sotto alla gerla colma di fieno odoroso, rosse e sorridenti.

A Chiusaforte una folla di soldati si serrava intorno a qualche cosa, riempiva la strada, altri accorrevano su dai baraccamenti e dai parchi, delle grida, delle risa, un pigia pigia, un sollevarsi dei più lontani sulle punte dei piedi, un'agitazione di berretti grigi.

«Che c'è?» — chiedevano gli ultimi arrivati. «Dei prigionieri!» — «Cantano!» — «Quanti? quanti?» — «Da dove vengono?» — «E chi li capisce?».... Degli ufficiali sono sopraggiunti: «Indietro, via! Volete andarvene?» — hanno comandato. I soldati si sono dispersi come delle formiche fra le quali sia caduto un fiammifero acceso. E allora si sono visti nello spazio vuoto due strani tipi, stracciati, vestiti di una tunica irriconoscibile, una specie di camiciotto di tela sporca, con dei grossi stivali deformati, impolverati e rotti, la testa coperta da un largo berretto a piatto con la fascia rossastra.

Giovanissimi, imberbi quasi, magri, pallidi, macilenti, uno basso, uno alto, con delle grosse mani scarnite che si muovevano in gesti disordinati. La loro faccia esotica, dagli zigomi sporgenti e gli occhi asiatici, era tagliata dal largo sorriso di una felicità piena, il quale scopriva dei grandi denti bianchi. Erano russi fuggiti alla prigionia austriaca.

Costretti a fare trincee contro di noi, erano riusciti a separarsi dai loro compagni, e marciando di notte, nascondendosi al giorno, mangiando non si sa come, vivendo così per una settimana una vita da bestie cacciate, erano arrivati ai nostri avamposti.

Ogni tanto li prendeva un impeto di allegrezza, li sollevava un'onda di gioia; agitando i berretti urlavano: «Viva Italia! Viva, viva, viva!» — e i loro poveri grossi piedi stanchi accennavano pesantemente a passi di danza, una di quelle danze slave che si snodano intorno al fuoco dei bivacchi cosacchi, accompagnate da gridi acuti e da un battere ritmico di palme. Poi cantavano qualche strofa d'un loro canto sostenuto e melanconico come un salmo, che scandivano con movimenti di tutto il loro corpo magro e sofferente. Parevano ebbri. I nostri soldati, scostatisi, dopo aver riso al principio si erano fatti gravi.

Quando hanno visto gli ufficiali, i due russi si sono avanzati verso di loro, e chini, messo un ginocchio a terra hanno afferrato a forza le loro mani per baciarle, con quel gesto di profonda devozione del mugik che bacia l'icone.

L'ultima tappa li aveva avvicinati alla loro grande patria, così remota e pallida.

DOVE IL COMBATTIMENTO NON HA SOSTE. IL PASSO DI MONTECROCE.

18 settembre.

Prima di salire sulle posizioni, l'ufficiale che ci conduceva ha preso la parola.

Con frasi chiare, pacate, brevi, come se parlasse delle cose più naturali e semplici della terra, ha narrato lo svolgimento dell'azione su quel settore del fronte, una storia magnifica di lotte incessanti, di assalti e contrassalti senza fine fra vette quasi inaccessibili, una storia di accanimenti e di furori. Stavamo per ascendere alla linea di trincee del Pal Grande, del Freikofel, del Pal Piccolo, nelle quali il combattimento non ha soste.

Quale indimenticabile lezione di tattica!

Eravamo in fondo alla valle di Montecroce in una di quelle mattine fresche e purissime che mettono nell'aria luminosa qualche cosa di inebbriante. Il Pizzo di Timau ci sovrastava con i suoi arditi castelli basaltici, che lanciavano l'impeto delle loro torri grige verso l'indefinito della distanza, nell'azzurro del cielo, a un chilometro e mezzo sulle nostre teste. Dalle loro basi, fino al fondo della valle, un digradare di macigni precipitati, vario e come pieno ancora del tumulto dei crolli. Dall'altra parte della valle, le spalle boscose del Monte di Tierz, la cui cresta terrosa e fulva conserva lembi di prato che l'autunno dissecca. Fra il declivio dirupato e nudo del Timau e la costa selvosa del Tierz, come fra due quinte, tutto uno sfondo di imponenti vette rocciose: il Pizzo Collina, il Monte Cogliàns, lo Zellonkofel più vicino, una maestà di masse scoscese e chiare, rigate qua e là da un candore di nevi. Mentre l'ufficiale parlava, le montagne si rimandavano l'una all'altra echi fragorosi e senza fine di cannonate.

La cima del Tierz si coronava di nubi bianche e nembi di terriccio, ed udivamo passare sul Timau un canto profondo e fuggitivo di granate in viaggio. Lunghi rimbombi di esplosioni scendevano per la valle, nella quale vedevamo sorgere e dileguarsi cirri di fumo.

Il cannone faceva un formidabile commento alle parole dell'ufficiale — uno degli eroi del Freikofel, promosso per merito di guerra e proposto per tre medaglie al valore — le illuminava di verità precisa, delineava l'immagine esatta dei fatti. Noi le vedevamo le nostre meravigliose truppe sotto a bombardamenti di giorni e di settimane, impavide, pronte all'attacco: l'artiglieria spiegava.

Un soffio di terrore pareva avesse spazzato la valle. Eravamo adunati presso ad una vecchia chiesuola solitaria, e vedevamo poco lontano le case del villaggio di Timau, vuote, chiuse, silenziose. Poco dopo il paesello di Muse incomincia la zona del fuoco e la vita normale agonizza. Più oltre, sulla strada polverosa non si scorge che qualche portatrice frettolosa, con una gran gerla sulle spalle curve; ancora qualche capraia sui prati, immobile presso al suo piccolo armento, e poi niente altro che soldati, e muli in lenta sequela, salmerie che salgono verso quella tempesta che romba. Erano le otto del mattino quando ci siamo incamminati anche noi, in lunga processione.

Il Pal Piccolo, il Freikofel, il Pal Grande, sono vette in fila di una stessa catena lungo la quale passa la frontiera, diretta da oriente ad occidente. Questa catena si allunga fra due valloni, per un gran tratto paralleli: quello dell'Anger al nord, in terra austriaca, e quello di Montecroce al sud, in terra italiana. Due allineamenti di montagne assai più alte formano gli altri opposti versanti dei due valloni. Insomma, per avere una visione chiara del terreno, necessaria alla visione chiara dei fatti, bisogna immaginare, uno di fronte all'altro — uno sulla nostra terra e uno sulla terra austriaca — due maestosi schieramenti di monti, due grandi spalti le cui creste ondulate e prative, che passano i duemila metri, si guardano da sette od otto chilometri di distanza, e fra loro, più in basso, la catena rocciosa del Pal Piccolo, del Freikofel e del Pal Grande, la quale finisce per attaccarsi al Pizzo di Timau.

Queste alture famose, con i loro cocuzzoli nudi, frastagliati, precipitosi, messi in rango, sorretti e legati da balze tormentate e scoscese, formano una strana convulsione di pietra in mezzo ad un calmo e solenne anfiteatro di montagne verdi: le montagne di Tierz, di Cimon, di Crostis, dalla parte nostra; quelle di Köderhohe, di Lancheck, di Polenick (la sola che si culmini in una dirupata nudità pietrosa), dalla parte austriaca.

Avevamo già contemplato la truce regione del Freikofel dall'alto del Crostis, durante una delle ultime escursioni. Avevamo visto sotto a noi una confusione di giganteschi macigni, variegata di sterpi, e solo dopo una lunga osservazione ci era stato possibile individuare le cime, distinguerle l'una dall'altra, e sorprendervi a poco a poco la nascosta vita della guerra. Gl'incamminamenti coperti, le paurose scalinate scavate nel sasso entro l'ombra di canaloni, i rifugi arrampicati miracolosamente nei greti, i baraccamenti annidati ai piedi delle pareti rocciose, e qua e là le trincee, tutto minuscolo, strano, fatto di solchi, di celle, di tane, fra sparpagliamenti di tronchi trascinati lassù, simili a festuche di paglia, pareva dovuto ad un lavoro d'insetti infaticabili e industriosi. Il cannone taceva, e nel silenzio freddo delle vette risuonavano continuamente dei colpi di fucile, cupi, lunghi, con quel rumore caratteristico delle tavole gettate a terra, un rimbombo da legname scaricato.

La lotta si accanisce in questa aspra regione perchè c'è il Passo di Montecroce. La valle austriaca dell'Anger e quella italiana di Montecroce sono in comunicazione. La catena rocciosa del Freikofel ha un taglio profondo nel quale una buona strada si snoda. Per questa strada si può scendere dal Gail al Tagliamento. Padroni del Passo di Montecroce, gli austriaci potrebbero premere verso gli sbocchi che conducono, per le valli del But, del Degano e del Tagliamento, alle retrovie del nostro esercito operante sull'Isonzo. Non andrebbero lontani, ma farebbero sentire una pesante minaccia sul nostro fianco.

Per aprirsi la via di Montecroce non hanno risparmiato sforzi. Avevano preparato numerose strade militari, avevano creato nella zona del Passo un vero campo trincerato, e fin dall'inizio della guerra, concentrate truppe e artiglierie in quantità preponderanti, hanno tentato di forzare il varco. L'azione su questo settore ha avuto tre periodi distinti: offensiva austriaca e resistenza nostra; controffensiva italiana e conquista delle vette; equilibrio. Noi non vogliamo avanzare, siamo sulla frontiera naturale, non reclamiamo terre al di là, e non vogliamo disperdere energie in obbiettivi strategici di secondario valore.

Ma la lotta non si acquieta. Gli austriaci tornano e ritornano all'attacco, tentano e ritentano, costone per costone, vetta per vetta, cercano di smuovere la stupenda barriera di eroismo contro la quale ogni assalto si sfascia e si abbatte nel sangue. Alle volte lasciano trascorrere qualche settimana nell'inerzia, poi, impetuosamente, sferrano un colpo di sorpresa. Sperano di trovarci indeboliti, immaginano forse che, ingannati dalla quiete d'una falsa rinuncia, i difensori abbiano assottigliato le loro schiere.

La nostra difensiva non va intesa come una immobilità. La nostra azione svolge spesso una offensiva tattica, sospinge, assalta, sorprende, striscia, strappa al nemico ora una trincea, ora un ridotto, migliora le posizioni, si abbarbica, approfondisce le radici della resistenza. Le fanterie nemiche sono a quaranta o cinquanta metri l'una dall'altra. Gli avamposti sono a quindici metri. Quando gli austriaci bombardano, spesso debbono fare arretrare la loro fanteria nella seconda linea di trincee per non colpirla.

Il Passo, una spaccatura piena d'ombra, folta di abeti, sta fra due cime massicce e rocciose, due immani pilastri: quello a sinistra è lo Zellonkofel, quello a destra è il Pal Piccolo. A destra del Pal Piccolo, un'altra mole di sasso: il Freikofel. A destra del Freikofel, simile per l'aspetto ma più ampio, il Pal Grande. Ancora più in là, le guglie del Timau. Dopo il Timau, ma non più in rango, simile al capo di una schiera di vette, l'alto Pizzo Avostanis avanza al nord e chiude la valle dell'Anger.

Il possesso di questo Pizzo sollevò anni or sono una questione diplomatica che somiglia a quella della Cima Dodici. L'Austria lo reclamava, ma le sue ragioni erano troppo quelle del lupo. Il Pizzo restò nostro. La lunga premeditazione austriaca ora si rivela nella sua pienezza. Non era il povero possesso di una sterile sommità che si discuteva: era il dominio di un valico, il punto di appoggio di un'azione. Il Pizzo Avostanis è il sostegno del nostro fronte. Se non l'avessimo, forse la difesa non potrebbe esser lì.

La lotta cominciò al Passo. Subito, all'inizio della guerra, il nemico avanzò all'occupazione dello Zellonkofel a sinistra del Passo, e del Pal Piccolo a destra. Sul Pal Piccolo avevamo un plotone. Benchè risolute e tenaci, le nostre forze nella zona erano in quei giorni piccole. Il plotone si trovò di fronte una compagnia austriaca. Dovette ripiegare, ma alla notte stessa i nostri assaltarono il monte. Lo presero, lo tennero. Però, profittando di un cambio di guarnigione che aveva portato sul Pal Piccolo una truppa nuova alla località, gli austriaci attaccarono e rioccuparono la vetta. Vi rimasero poco. Gli stessi soldati che avevano già una volta conquistato il monte, salirono nuovamente all'assalto e lo riconquistarono. E vi sono ancora.

Ma gli austriaci avevano lo Zellonkofel, avevano il Freikofel, avevano una delle due punte del Pal Grande; le posizioni nostre e le loro s'incastravano, s'intersecavano, si allacciavano sopra una stessa linea. Aggrampati sullo scoglio, dove non si scavano trincee, dietro a frettolosi ripari di pietre ammonticchiate e di sacchi di terra faticosamente trascinati lassù, i nostri avevano il nemico di fronte e sui fianchi. Gli approcci erano scoperti, la fucileria grandinava sulle retrovie, mancavano sentieri, il rancio doveva esser portato da lontano con due ore di ascensione sotto al fuoco, e l'artiglieria tempestava. Gli attacchi del nemico erano continui e violenti.

Il Pal Piccolo fu assalito cinque volte consecutive in un solo giorno da un battaglione e mezzo di austriaci muniti di numerose mitragliatrici. Cinque volte il nemico venne ricacciato. Si preparava a salire ancora all'attacco, si sentiva troppo superiore di forze per rassegnarsi, quando nella giornata grigia la nebbia scese dalle vette e una pioggia dirotta cominciò a scrosciare sulle pietre. Allora i nostri si slanciarono fuori dalle posizioni, la baionetta bassa, urlando, e per quel giorno spezzarono definitivamente l'offensiva nemica. Era il 30 maggio.

Intanto il coro dei cannoni aumentava tutto intorno. Mentre le fanterie si battevano, spesso a corpo a corpo, sulla catena rocciosa che il Passo fende, da dietro le creste dell'ampio anfiteatro di monti le batterie preparavano gli assalti o si cercavano fra loro, folgorandosi al di sopra della mischia, e da vetta a vetta filava l'ululante parabola delle granate. I nostri medî calibri entrarono in azione il 28 maggio, e i loro primi rimbombi furono salutati da una lunga acclamazione, giù dalle trincee italiane. Il 3 giugno una batteria austriaca veniva smontata dalle nostre cannonate. Era il momento in cui si preparava la conquista del Freikofel.

Fu annunciata al paese il 9 giugno, quando potè dirsi definitiva. Perchè il Freikofel fu preso, perso, ripreso, riperso, ripreso. Quando si è visto il Freikofel si ha di questi assalti l'impressione fantastica di un volo. Immaginate una specie di alta cupola di basalto, irregolare, con dei fianchi quasi a picco, tutta scogliere, tutta nodi, spaccata da fenditure che ospitano grame sterpaglie, grigia, sinistra, strana come quelle rocce inverosimili della pittura cinese che portano sulla vetta i contorcimenti di un pino asiatico. Lo difendeva una compagnia, ossia tanti soldati quanti era possibile mettervene. Fu preso la prima volta da venticinque uomini.

In molte compagnie alpine si sono formati nuclei numerosi d'uomini votati alla morte; sono detti le «anime perse», sempre pronti ad ardimenti che hanno del sovrumano. Ricordano i keshitai giapponesi, gli assetati del pericolo, gli eroi dell'impossibile. L'attacco del Freikofel pareva una follia, ma bisognava studiarlo, bisognava tentarlo. Avanti le «anime perse»!

Sono tante le anime perse che si dovette fare una scelta. Occorrevano venticinque soldati, e ve n'erano cinquecento che si offrivano. Partì all'alba del 6 giugno la spedizione prodigiosa, condotta da un sergente pratico dei luoghi. Erano tutti alpigiani: guide, cacciatori di camosci, portatori, gente che si sente sicura sopra un abisso finchè trova lo spazio per incastrare la punta d'un piede e i polpastrelli di una mano.

Si vede da dove sono saliti, ma non si capisce come siano saliti. Portavano il fucile, con la baionetta già inastata, le giberne, il tascapane pieno di viveri, erano carichi di peso. S'inerpicavano con piedi fasciati di pezze, per far meglio presa sulla roccia, e certi tratti di parete liscia, dove non era possibile salire, li superavano fissando alle sporgenze superiori delle lunghe corde alle quali si arrampicavano. Gli austriaci, che vigilavano le due spalle più accessibili del monte, non udirono niente. L'ascesa, lenta e silenziosa, era durata un'ora e mezzo.

Toccata la vetta, fra le asperità cineree dei dirupi gli assalitori concertarono rapidamente il loro piano. «Battaglione, alla baionetta!» — urlò il sergente. «Compagnia, alla baionetta!» — urlò un caporale. E tutti e venticinque, gridando per mille, si buttarono avanti, saltando da masso a masso: Savoia! Dalle posizioni vicine si udì il clamore. Poi le voci si spensero. Dopo qualche minuto il silenzio tornò profondo sul Freikofel. Che era avvenuto? Tutti gli sguardi scrutavano ansiosamente la vetta. Improvvisamente un'acclamazione immensa echeggiò dal Pal Piccolo all'Avostanis. Sulla cima del Freikofel sventolava la bandiera italiana.

Gli austriaci non si erano difesi. Sorpresi, erano fuggiti in terrore. Erano già depressi per un intenso bombardamento di medî calibri durato tutta la notte. Cinquantaquattro di loro si arresero subito. Molti altri, sparpagliatisi intorno nelle anfrattuosità delle rocce, venivano fuori alle reiterate intimazioni di resa, le mani levate. Il nemico non tentò subito di riprendere la vetta di assalto: la bombardò. Tutte le batterie austriache, grandi, piccole, di medio calibro, vi concentrarono un fuoco infernale, prima che i nostri potessero compiere il più piccolo lavoro di fortificazione. La sommità dovette essere sgombrata, ma tenevamo l'accesso. Aggrampate Dio sa come, le nostre truppe erano là, pronte, al riparo, entro i greti e nei canaloni.

Dei venticinque assalitori uno solo era caduto. Fu visto all'inseguimento, avanti a tutti, scendere a salti di camoscio e piombare colpito da una fucilata a bruciapelo, tirata da qualche nascondiglio. Non era stato nominato per quell'impresa. Aveva protestato perchè non l'avevano incluso nella lista. « Sior capitano, mi go più dirito dei altri! » — aveva detto alla sera, tutto commosso come sotto ad un'ingiuria. — « Me speta! ».

Era un soldato straordinario. Quando vedeva il suo capitano partire solo in ricognizione, borbottava: « Eco sto mato che busca de farse copar! » — E gli dava dei consigli: « No se fida de mi? Perchè no me manda mi a guardar, che se lo copan a el, che femo nualtri? » — Il capitano fingeva di non udire, e allora il bravo alpino pigliava il fucile, si affibbiava le giberne, e dopo aver mormorato un affettuoso e irriverente « andemoghe drio, el xè mato da legar! », lo seguiva per tutto, passo passo, come un cane, devotamente, pronto a fargli scudo del suo corpo ad ogni frusciare di fronde. L'ufficiale lo ha pianto.

Per tre giorni sul Freikofel è stata una alternativa di bombardamenti e di mischie alla baionetta. Quando il nemico credeva di aver spazzato la vetta a colpi di cannone, avanzava la sua fanteria. Improvvisamente era fra le pietre un brulichìo di grigio, un lungo urlo possente, i nostri balzavano su, rioccupavano la cima, facevano dei prigionieri, rigettavano l'assalto. Il bombardamento ricominciava. Si resisteva un'ora, due, tre, poi bisognava cedere, ritirarsi. Dal giorno 7 al giorno 9, il nemico lasciò duecento cadaveri sul Freikofel, quattrocento feriti, duecentoventi prigionieri. Ma il 9 la nostra occupazione della sommità era consolidata. Il cannone non ci scacciava più.

Gli attacchi austriaci sono però continuati. Con la nebbia, con la pioggia, di notte, all'alba, alla sera, il tentativo di riprenderci il Freikofel è stato rinnovato con un'accanita costanza. Specialmente con la nebbia. Quando le nubi scendono e le montagne vi si immergono a poco a poco, quando tutto sparisce in un grigio tenebrore, si può esser quasi sicuri che nello spessore opaco e freddo dei vapori i nemici rampano.

La loro tattica consiste nell'avvicinarsi a gruppi di cinquanta o sessanta, cautamente, carponi, e, arrivati a pochi passi dalla trincea italiana, aprire un fuoco intenso e breve di fucileria. Non osano slanciarsi all'assalto subito; vogliono prima saggiare la difesa. Il fuoco di risposta rivela le condizioni dei difensori. Ne dice il numero, ne dice il morale. Se la trincea si sveglia con una fucileria furibonda, lunga, disordinata, l'attacco può proseguire. Vuol dire che la gente trincerata è poca e vuol parere molta, o è molta ma sorpresa e agitata. Se invece soltanto una diecina di colpi risponde, e poi si rifà il silenzio, la cosa è grave: c'è nella trincea un'aspettativa calma e sicura. In questo caso, che è il più sovente, l'attacco è sospeso. Allora, dopo la scarica, i nostri non sentono più nulla. Il nemico si ritira quatto quatto nelle sue tane.

Tali spedizioni austriache non sono mai condotte da ufficiali; dei sergenti le guidano. Gli ufficiali rimangono dietro, nelle trincee.

Si sono avuti, per lunghi periodi, tutte le notti di questi tentativi di attacco. Talvolta l'offensiva austriaca ha un ben maggiore sviluppo, si sferra in forze compatte dopo violenti bombardamenti, si estende contemporaneamente a tutte le posizioni del Passo di Montecroce, assale il Freikofel, assale il Pal Piccolo, assale il Pal Grande, assale l'Avostanis.

Non si contano più queste battaglie furibonde, nelle quali si calcola siano caduti più di seimila austriaci. Il nemico si dibatte sulla linea incrollabile delle nostre posizioni, non vuol persuadersi che non si passa. Il 14 giugno, bombardamento e attacco dell'Avostanis. Il giorno dopo, attacco generale. Il 20 giugno, alla notte, attacco del Freikofel. Il 22, attacco generale. Dopo ogni insuccesso parziale, gli austriaci allargano il combattimento, come chi non potendo scuotere una porta sferri pugni su tutti i muri intorno. Il 23, attacco dal Pal Piccolo al Pal Grande. Così il 24, nella notte. La notte del 25, attacco del Freikofel. Le rocce si coprivano di cadaveri. Intanto noi, sistematicamente, continuavamo a completare il nostro fronte con nuove conquiste.

Il 22 giugno, proprio durante gli assalti austriaci, occupavamo la cresta fra il Pizzo Collina e lo Zellonkofel, il monte che, simmetrico al Pal Piccolo, sta a ponente del Passo di Montecroce. Zellonkofel e Pal Piccolo sono come due gigantesche sentinelle, una da una parte e una dall'altra del Passo. Il 25, la cima stessa dello Zellonkofel fu presa da noi. La soglia di Montecroce era definitivamente chiusa al nemico.

Gli austriaci tentarono il giorno dopo di sloggiarci. Respinti, impiegarono il giorno 27 a spostare artiglierie; il 28 bombardarono lo Zellonkofel con tutti i calibri, poi lo assalirono ancora. Respinti, si volsero di nuovo, all'altro pilastro del Passo, al Pal Piccolo. Nella notte del 30, alla luce dei proiettori e dei razzi illuminanti l'ondata dell'assalto si abbattè sulle nostre trincee, con granate a mano e bombe asfissianti. L'onda s'infranse e ricadde.

Noi ci eravamo anche impadroniti del Passo di Volaia e del Passo di Valentina, che si trovano a ponente del Montecroce. Il nostro allineamento si estendeva e si piantava solidamente sulle posizioni più forti. Il 1.º luglio facevamo ancora un piccolo passo avanti dalla cima del Pal Grande; scendendo sul declivio scacciammo il nemico dalla trincea avanzata. Gli austriaci fecero sforzi disperati per riprenderla. Tentarono l'assalto nella notte stessa; poi alla mattina seguente; poi, con più truppe, il giorno 3, dopo un serrato cannoneggiamento; poi il giorno 5. Abbandonarono 250 morti sul terreno. Respinti sempre, volsero l'attacco al vicino Pizzo Avostanis. Furono lasciati avvicinare a brevissima distanza dalle trincee, contrattaccati, rovesciati nella valle. Il giorno appresso, assalivano ancora il Pal Grande.

Vi è qualche cosa di cieco e di feroce in questa tattica da ariete, una forsennata negazione dell'evidenza. E l'evidenza è che la fanteria austriaca, dai celebri Kaiserjägern ai bosniaci, non può reggere in combattimento aperto contro la nostra truppa, quando l'uomo è contro l'uomo. La forza degli austriaci è nell'ausilio ampio, bene organizzato, sapiente, di tutta la meccanica offensiva, di tutti gli atroci sostituti scientifici del valore umano: è nell'uso studiato e largo di tutti quei moderni mezzi di lotta che permettono di colpire senza esporsi, che affidano la maggior parte del combattimento al cieco automatismo degli esplosivi; è nell'abilità del nascondiglio, nel soccorso delle difese inanimate. Sono artiglierie numerose, varie, ben celate, pronte a scomparire; sono bombe asfissianti; sono granate che delle macchine lanciano, perchè ci si espone troppo a lanciarle a mano; sono mine, reticolati, scudi di acciaio; sono trinceramenti blindati con feritoie a sportello nei quali la fanteria è invulnerabile. Ma il momento arriva in cui bisogna che avanzino allo scoperto se vogliono tentare una conquista.

Possono bombardare quanto vogliono, aumentare in proporzioni esorbitanti la loro avanguardia di esplodenti, l'ora suona in cui i rifugi debbono essere lasciati per farsi avanti. È l'ora che i nostri aspettano silenziosamente. È l'ora del cuore. Non sempre ci si difende col fuoco dall'assalto che inerpica. Le baionette si inastano, poi con un grido selvaggio i nostri balzano sulle trincee e si gettano giù, a valanga. Il nemico precipita indietro, lascia i suoi morti, i suoi feriti, i suoi fucili, e da dietro i macigni spuntano mani levate di gente che si rende. E questo non una volta, non due; quando leggete nella nobile sobrietà della prosa di Cadorna che avvenne «il consueto attacco» al Freikofel, al Pal Grande, al Pal Piccolo, dovete immaginarvi queste scene sugli orridi costoni di Montecroce, grandiose e tenibili come la penna non potrà mai dire, tumultuanti nel pallore di un'alba, o in una notte di tempesta illuminata dalla luce fantastica di bengala librati nell'aria dai razzi.

Poi si combatte per i morti.

I nostri alpini, specialmente, hanno per il cadavere una reverenza eroica, un culto antico e solenne che fa della sepoltura un dovere sacro. Compiono follìe di valore per raccogliere piamente i loro caduti. Dicono che il morto vuole riposo, e reclamano dai superiori il diritto di uscire dalle trincee. Si concertano, partono in cinque, in sei, armati, di notte. Spesso sono scorti o sono uditi dal nemico, la fucileria si desta, le bombe esplodono divampando fragorosamente, i proiettori si accendono e frugano la roccia. Qualche volta la scaramuccia si allarga, e non sono più cinque o sei che avanzano, sono cinquanta, sono cento, lanciati fuori da un'indignazione generosa, e la spedizione arriva sulla trincea nemica tornandone carica di trofei.

Sul Pal Grande, un giorno, uno dei nostri morti era rimasto a tre passi dai parapetti austriaci. Era un graduato che tutti adoravano. L'ufficiale in comando offrì una somma di denaro ai volontari che fossero andati a prenderlo. Gli alpini, gravi, studiarono a lungo dalle feritoie, poi scossero la testa e tacquero. L'ufficiale, un valoroso, un dio per i suoi uomini, lasciò la trincea con un gesto di sdegno. Bastò più della somma.

Era appena giunto al rifugio, quando l'ufficiale udì un tumulto di fucilate e di gridi. Si disponeva, perplesso e sorpreso, a tornare indietro, ma il tumulto diminuiva, cessava. E verso di lui, per i camminamenti coperti, scendeva un affollamento solenne di soldati. Era il funerale magnifico di un eroe. I primi portavano il cadavere, e dietro a loro ondeggiavano sulle spalle fasci di fucili e grigi scudi di acciaio, armi prese al nemico. Per riprendere il morto, la trincea austriaca era stata attaccata, conquistata, spogliata.

Perchè gli austriaci tirano sui raccoglitori di feriti e di cadaveri? Nulla può indurli al rispetto della croce rossa. Uno dei nostri cappellani, dopo un combattimento, uscì dalle trincee del Freikofel in paramenti sacri, le braccia levate, per chiedere al nemico di lasciar prendere i morti. Fu preso a fucilate anche lui. Fremendo di sdegno i nostri hanno visto più volte gli austriaci massacrare a colpi di fucile e di granata i loro stessi feriti, che strisciavano penosamente gemendo verso le loro trincee. Non è forse ferocia; probabilmente è allarme. Sono in uno stato di agitazione evidente, di ansia, di sospetto, di timore. Non discernono, non capiscono, sono turbati, vedono in ogni cosa un tranello, nel prete immaginano un lanciatore di bombe travestito, nel rampare d'un ferito scorgono l'avvicinarsi subdolo di un assalitore, l'angoscia di una aspettativa mortale non lascia posto per altri sentimenti, tirano su tutto quello che si muove, sulle ombre, sulle apparenze, e tirano anche sui morti, perchè non li ricordano più, o perchè li credono finti morti e fissandoli par loro che si spostino, lentamente, insensibilmente, nell'ombra.

Nessun attacco di queste truppe, anche contro forze che per un periodo furono numericamente inferiori, è mai riuscito. Non li abbiamo ricordati tutti questi attacchi, ostinati, sanguinosi e inutili. L'8 luglio tentavano ancora la conquista dello Zellonkofel. Il 10 si volgevano al Pal Grande, di notte. All'alba contrattaccavamo noi e prendevamo un'altra trincea. Il giorno dopo avanzammo ancora un poco verso l'Anger. Il 14 luglio, nuovo assalto generale austriaco di tutte le posizioni. Era un giorno tenebroso, nebbioso, freddo, e per due volte l'offensiva nemica salì sullo Zellonkofel, sul Pal Piccolo, sul Freikofel, sul Pal Grande, sull'Avostanis, a infrangersi sulle nostre baionette. Poi il 27 luglio, il 30 luglio, il 7 agosto, il 14 agosto, giorni di battaglia. Di ogni attacco nemico noi abbiamo profittato; la controffensiva ci ha permesso sempre di migliorare la linea di resistenza; prendevamo una balza, una gola, un costone. E la lotta prosegue, ora furibonda ed ora stanca, ad una distanza da sassate, con lanci di bombe e d'ingiurie.

Questo è il fronte verso il quale salivamo lentamente dalla valle di Montecroce.

Salivamo verso le posizioni dalla valle di Montecroce, sul cui fondo venivano a cadere dei colpi destinati alle retrovie, i quali aprivano sui prati, dall'altra parte del torrente, lacerazioni oscure.

Ogni quattordicesimo giorno del mese è, per ragioni misteriose, un giorno di furore austriaco in quel settore. Assistevamo alla quarta celebrazione di questa data. Il tempo limpidissimo favoriva l'azione delle artiglierie. Dalle tre del mattino il bombardamento continuava, senza la caratteristica tremenda intensità di una preparazione di assalto, ma vasto, su tutti i punti, contro le trincee e contro gli approcci, sulle vette e nelle gole.

Le grosse granate passavano in alto, alle volte due, tre di seguito, e dalla calma, azzurra, profonda serenità del cielo scendeva quel loro ronfiare cupo, lamentoso, soprannaturale, che per delle interferenze bizzarre del suono ha come dei rallentamenti e delle pause, che pare sosti e riprenda, con qualche cosa di faticoso, di affannato, di pesante.

Veniva fatto di guardare in su, curiosamente, e di cercarle nella luce le canore masse di acciaio. Dal suono si distinguevano i calibri. Striduli, striscianti, con un rumore di lacerazione, delle granate e degli shrapnells di artiglierie da campagna e da montagna, tirati troppo in alto, sorpassavano le posizioni e scendevano lungo la china tracciando invisibili archi di sonorità e di ronzii. Il fragore echeggiante delle esplosioni saliva dalla vallata come una impetuosa marea di tuoni. Il fumo sorgeva filaccioso e diafano sulle cime degli abeti.

Dal colore delle nubi di fumo i soldati classificano i proiettili. C'è la bianca, la bianchina, la rossa, la grigia. Tutto prende un soprannome al campo. Le varie batterie nostre sono conosciute con nomignoli che rimarranno. Una batteria da montagna, inerpicata ad un'inverosimile altezza, è la «pettegola». È sempre la prima ad iniziare la discussione e vuole sempre l'ultima parola.

Incomincia con otto, dodici colpi di fila; allora, siccome i suoi tiri arrivano bene, tutti i cannoni austriaci si mettono ad abbaiare contro di lei; l'altura sulla quale la batteria è piazzata, è tempestata da un imperversare di granate. L'inferno dura un'ora, due ore: la pettegola tace. Il nemico la crede colpita, distrutta, sepolta, e sospende il fuoco. Immediatamente si odono due colpi; è lei che dice: Sono qua! Nuovo furore austriaco, ripresa del bombardamento a oltranza. Poi silenzio. Questa volta è finita. No, due colpi, due soli: Sono ancora qua! E per giorni intieri continua l'alterco dei cannoni, il quale finisce invariabilmente, alla sera, con quei due colpi insolenti, esasperanti, che l'artiglieria nemica si rassegna a lasciare senza risposta.

Da un'altra parte c'è la «mitragliatrice». È una batteria da campagna che si indigna quando la tormentano troppo. Per un po' sopporta, poi perde la pazienza e sgrana giù, per un paio di minuti, un fuoco a tiro rapido filato come i punti di una macchina da cucire. Ma bisogna sentirne a parlare i soldati, di questi cannoni amici.

C'è un affetto, una passione, una riconoscenza, verso quelle batterie protettrici, che non si possono ridire. La loro voce è riconosciuta e sveglia sempre esclamazioni di saluto nelle trincee. Non le hanno mai viste, non sanno nemmeno con precisione dove stiano, ma i soldati le adorano, e non ce n'è uno che all'occorrenza non si farebbe ammazzare per salvarne un pezzo. I tiri sono seguiti con un interesse espansivo. Un bel colpo, che vada al segno, è commentato con espressioni di gioia. I grossi alpini si battono allora fanciullescamente le coscie con le palme, contenti, esclamando: — Bene! Bene! Bravi! — E ridono.

Ma ieri le nostre batterie disdegnavano il fuoco nemico. Rispondevano appena, di tanto in tanto. Qualche grossa granata passava dal sud al nord. «Ciao, cara!» — dicevano i conducenti alzando la testa: «Buon lavoro!»

C'inerpicavamo verso il Pal Grande su di una scoscesa spalla del monte coperta da un folto bosco di abeti, girando e rigirando per le volute del sentiero, ai piedi di immani pareti rocciose dai cui bordi lontani sporgevano le tese braccia degli alberi, in oscuro intreccio. Poi la dirupata, angusta, ombrosa cavità di un canalone ci ha presi; il sentiero sempre più aspro è divenuto quasi una scala, una fantastica scala a brevi zig-zag, fiancheggiata da abeti, serrata dagli speroni di maestose muraglie basaltiche.

Un rombo lontano e sonoro, che si sarebbe preso in quel momento per il rumore di un proiettile se non fosse stato persistente ed eguale, ci ha fatto guardare nei lembi di cielo che s'incorniciavano luminosi e profondi entro un frastagliamento nero di rami. Un aeroplano austriaco passava.

Era chiaro, diafano come una cosa veduta attraverso l'acqua, pareva lento, pareva incerto, volava verso il sud, librato sulle sue ali immobili, poi ha virato verso l'est. La montagna, che sembrava deserta, ha risuonato tutta di colpi di fucile. Si tirava da ogni parte sul sinistro uccello pallido e grande che spiava. Le rocce prolungavano stranamente il rumore dei colpi; l'eco faceva di ogni fucilata uno scroscio. Scendeva su di noi come una portentosa cateratta di strepiti violenti. L'aeroplano è scomparso, la fucileria ha taciuto. Qualche grosso proiettile, passando più basso, faceva udire il rauco soffio vorticoso della spoletta.

Il sentiero aveva i segni caratteristici delle zone battute lasciati dal cannoneggiamento di mesi, schegge di roccia staccate dai colpi e precipitate sul passaggio, frammenti di granate, pallottole di shrapnells, buche scavate dagli scoppi. Qualche barella scendeva lentamente e le cedevamo il passo, salutando il ferito che ci guardava con lo sguardo lontano e assorto di chi ha appena lasciato il combattimento e lo rivive.

Il frastuono delle esplosioni, di tanto in tanto, si faceva vicino ma senza direzione, ingigantito dalle sonorità degli echi. Poi, improvvisamente, uno schianto di folgore, un contraccolpo di vento, un roteare lento in aria di tronchi d'albero sradicati dal ciglione d'una roccia e lanciati in alto, un frullare di pietre tutto intorno a noi, di schegge, di frammenti, con un picchiettare violento di sassaiuola sulle piante e sul sentiero, e un fumo giallo, pesante, acre, si è sparso a piccoli turbini e ci ha velati.

Bianca, gigantesca, precipitosa, una vetta ci appariva vicina, alla fine del canalone, una rocca luminosa nello sfolgorìo del sole: il Pal Grande.

Pochi minuti dopo, inerpicati sulle basi delle sue pareti, contemplavamo la bellezza orrenda di questo grandioso e selvaggio campo di battaglia. La via dalla quale eravamo saliti non era più che una specie di spaccatura in basso, piena di ombra e di un arruffìo di boscaglia, al quale ogni tanto s'invischiava la nube sinistra di una granata. Il Pizzo di Timau vicinissimo, a levante, tutto in ombra, azzurrastro, piombava le sue vertiginose pareti a picco quasi nei ghiaioni del Pal Grande. A ponente la cupola scabrosa e tormentata del Freikofel, lontana meno di un tiro di fucile. Più in là, le rocce cineree del Pal Piccolo che sostengono un pianoro con vestigia di verde. La spaccatura del Passo di Monte Croce appare così angusta che lo Zellonkofel al di là del Passo, si direbbe unisca la base delle sue due cuspidi a quella del Pal Piccolo.

Tutte queste vette, tutte queste rocce, nude, calcinate come ossami di un mondo morto, tuonavano alle cannonate; ruggevano in echi prodigiosi, avevano boati da valanga, frastuoni di crollo, facevano scendere dalle più inaccessibili solitudini tumulti immani di battaglia; pareva che ogni balza, ogni crosta, ogni dirupo sferrasse i suoi colpi, che le montagne stesse si fulminassero confondendo in una continua tempesta lo scrosciare esorbitante delle loro folgorazioni. E finivamo per sentire confusamente una non so quale personalità favolosa in quelle montagne combattenti, piene di un maestoso e immobile furore. Non è possibile dare un'immagine del coro possente e favoloso delle vette intorno alla lotta dei piccoli uomini invisibili, celati come insetti nei greti, ridire quello che la montagna aggiunge alla guerra di pauroso, di grande, di soprannaturale.

Eravamo da poco lì, quando da una piccola baracca, incastrata sopra un gradino della roccia, è sceso un grido di evviva. «L'aeroplano è caduto! — ha annunziato un ufficiale affacciandosi. — È caduto nella valle dell'Anger! Abbiamo ricevuto adesso la telefonata!» La voce è passata. Dei soldati, sull'alto della balza, si sporgevano dal ciglione per sapere forse che cosa fosse successo, e salutavano festosamente. Dietro a loro, più in alto, il cannoneggiamento batteva sempre. Si udiva il miagolìo breve e rabbioso delle pallette di shrapnell. Una scheggia di bomba è scesa frullando sul ridosso, ed ogni tanto un ronzìo di pallottole austriache sperdute, rimbalzate sulle pietre, passava intorno a noi, lontano, in direzioni imprecisabili, chi sa dove.

Gli austriaci non hanno attaccato, non si sono mossi dalle loro trincee. Bombardavano, e facevano un gran fuoco di mitragliatrice e di fucile. Ma le nostre truppe accolgono con una indifferenza sublime queste manifestazioni. Preparano le loro granate a mano e aspettano. Perchè è con il lancio delle granate che iniziano i loro attacchi e contrattacchi. C'è sul Pal Grande un famoso lanciatore di granate. Ne mette cinque o sei nel tascapane, e parte dalla trincea, un mezzo sigaro toscano acceso fra i denti. Egli preferisce le bombe lenticolari a quelle sferiche per il suo sistema. Arriva bocconi presso la trincea nemica, mette le bombe in fila davanti a sè, poi col toscano accende le micce e getta i proiettili con la rapidità e la esattezza del giocoliere che lancia i cappelli. E lanciando conta: Uno, due, tre, quattro, cinque.... Le esplosioni si seguono serrate e la trincea si vuota fra grida di terrore. Una volta preparò così un assalto, da solo.

Il fuoco dell'artiglieria non scuoteva le truppe di montagna nemmeno all'inizio, quando non avevano ancora ripari sufficienti. Capitava qualche volta che una granata prendesse in pieno la trincea e ne demolisse un pezzo. Nessuno si muoveva. I soldati scansavano i morti e i feriti e ricostruivano. Sul Freikofel una volta una granata austriaca buttò giù un riparo e lanciò un caporale sulla tenda del comandante, una ventina di metri più indietro. Ai fianchi del caporale erano due soldati, rimasti miracolosamente illesi. Dissipato il fumo si videro i due soldati già intenti ad ammassare i sassi crollati per rifare il riparo. Non si erano neppure voltati per vedere dove fosse andato a finire il caporale.

Vorrei potere essere autorizzato a dire i nomi di alcuni di questi eroi della calma. Vi sono episodi meravigliosi. Sul Freikofel un soldato era in vedetta in una trincea che, per un caso forse, l'artiglieria nemica si mise a colpire incessantemente. Arrivavano raffiche di quattro, di otto, di dodici proiettili. La trincea era demolita. Il soldato era rimasto interrato tre volte. Per tre volte si era dissepolto. Dalla trincea principale il suo capitano avanzò per comandargli di ritirarsi: «Vieni via! L'hanno con te! Vieni via!» — «Signor no!» — rispose risoluto il soldato. E tutto annerito dal fumo, sporco di terra, balzò su dal buco, e lì fuori, allo scoperto, feroce e fermo, spianò il fucile e cominciò a sparare, a sparare, con una rabbia fredda, come per sfida.

Un altro soldato diceva che non poteva stare in trincea. Spesso chiedeva il permesso di lasciarla. Prendeva il fucile e andava quatto quatto in piena zona nemica. Studiava i punti di passaggio, rimaneva per giorni interi immobile in appostamento. Era il cacciatore di uomini. Tornando annunziava i risultati della posta: « Ghe n'ho tabacai tre! » Per lui colpire era « tabacar ». Un giorno rientrò pallido e muto nelle posizioni. «Cos'hai? Sei ferito? — gli chiesero. — Vuoi che ti portiamo?» No, volle scendere da solo al posto di medicazione. Incontrò il capitano. « Sior capitano — gli disse — i me gà tabacà anca mi! » Era stato passato da parte a parte da una palla.

Ci siamo diretti al Freikofel, contornando il rovescio del Pal Grande. Dei colpi di fucile isolati risuonavano qua e là. Non vi sono punti completamente coperti; le anfrattuosità delle rocce permettono a qualche tiratore isolato di andarsi a rannicchiare sui fianchi delle alture. Episodi di combattimento hanno disseminato il loro ricordo da ogni angolo, fuori della battaglia. L'ufficiale che ci guidava ci ha indicato sul viottolo un punto dove, passando alcune sere or sono, si sentì chiamare: «Capitano, in nome di Dio, fermatevi, non andate avanti, vi ammazzano!» Era un soldato ferito, caduto a terra. L'ufficiale lo raccolse, lo caricò sulle spalle, e passò.

Per un'ora ci siamo arrampicati sulla spalla del Freikofel in una specie di fenditura dove il lavoro dei soldati ha saputo creare un fantastico sentiero, che la battaglia ha disseminato di frammenti di bombe, di schegge di granate, di pallottole: detriti della guerra arrivati di rimbalzo. Vi sono zone in cui tonnellate di metallo si vanno accumulando. Ci siamo trovati inaspettatamente fra casupole di pietra, che sembrano una sull'altra, quasi fossero costruite su gradini colossali di una alta e angusta scalinata. Subito dopo eravamo in un labirinto di scalette picconate nella roccia, di cunicoli, di tane: le trincee.

Tutto era chiuso, tutto era oscuro, un po' di luce verdastra filtrava appena dalle feritoie mascherate di fronde. Si esciva curvi all'aperto per sentieri scavati nel sasso, si andava lungo barricamenti di sacchi pieni di terra, si rientrava nel buio di ridottine e di posti di vedetta. Nell'ombra, vicino alle feritoie, qualche alpino era seduto in atteggiamento di riposo, immobile, sereno, statuario, il fucile fra le gambe, un paio di granate a portata di mano, poste sopra una mensoletta, come dei bibelots, e, vicino, una cassetta piena di uno scintillìo di munizioni. Pallottole austriache schioccavano ogni tanto sulle pietre, all'esterno. Si udivano i colpi dei fucili nemici così vicini, che per qualche tempo abbiamo creduto che fossero i nostri a sparare.

Dalle feritoie si scorgevano le trincee nemiche, a cinquanta passi. Erano ammonticchiamenti di sassi, ammassamenti di sacchi a terra, e qua e là un grigiore strano di corazzature, del colore plumbeo delle navi da guerra. Gli austriaci hanno due tipi di scudatura di acciaio, uno grande da trincea, uno più piccolo da assalto. Ricorda l'antico schermo degli arcieri, questo scudo rettangolare che si posa al suolo, appoggiato a due montanti, e dietro al quale il soldato si rannicchia, spiando da uno sportellino che si apre e si chiude.

In continua azione di combattimento, le nostre trincee sono sorte e si sono rafforzate, a poco a poco, quasi insensibilmente. Furono monticoli di pietre, poi muricciuoli nascosti da verdura di pino, poi ebbero una copertura di travi di abete — portati su faticosamente dalla foresta — poi sulle travi si ammassarono blindamenti di terra e di sacchi. Il nemico che spiava non ha nemmeno visto una mano. I sassi si spostavano adagio adagio, si allineavano, si sovrapponevano, senza che il loro moto potesse essere percepibile da lontano. Era come se pietre, sacchi, travi, animati per magia, lentamente manovrassero. E il lavoro non finisce mai; si migliora, si amplia, si rinforza, si progredisce, si aprono nuove comunicazioni, talvolta si avanza pure, sempre per pazienti trasformazioni, cercando che i profili delle opere di difesa non si levino a mutare troppo la fisionomia selvaggia dei luoghi.

Si profitta di ogni macigno, di ogni sterpo, e si cerca, per analogia, di quali macigni e di quali sterpi il nemico potrebbe profittare. Ridotte, cunicoli di passaggio entro i quali si striscia, tenebrose casamatte nelle quali la vigilanza si apposta, rifugi blindati, spiazzi aperti e alti per il lancio delle bombe, seguono piani capricciosi che rispondono alle necessità di una tattica minuscola, una tattica da fiere rintanate.

Groppe di pietroni, sporgenze di massi macchiate di licheni, crepacci profondi, arbusti, rovi, formano fra le trincee nostre e quelle nemiche un terreno spezzato, confuso, fantastico, che solleva ferocemente sul suo pietrame cinereo gruppi di cadaveri, avanguardie di morti, drappeggi flaccidi di uniformi azzurrastre che conservano incerte forme umane, e dai quali spuntano piedi distorti, mani disseccate. Segnano i limiti sui quali gli assalti nemici furono fermati. Qui soltanto i viventi sono sepolti.

Fra le schiere trincerate, tutto è funebre, tetro, immobile, morto. Le piante stesse non hanno più vita, torcono moncherini di rami nudi, cincischiati, neri, e le reti dei fili di ferro si stendono come enormi ragnatele sopra un intreccio di pali incrociati. Non sono stati costruiti sul posto i reticolati; gli austriaci hanno fabbricato dei «cavalli di Frisia» complicati con attorcimenti di fili uncinati, e li hanno gettati avanti alle loro trincee.

Se da una parte il tono d'una voce si eleva, dall'altra essa è udita. Al minimo svegliarsi di conversazioni nei nostri posti, il nemico si allarma, crede a dei movimenti in preparazione, e aumenta il fuoco per scoraggiarli. Perciò si parla sottovoce, come nella camera di un malato. Anche i divertimenti sono silenziosi. Nei momenti di calma relativa compaiono delle scacchiere, sulle quali fiere teste pensose si curvano a meditare marce e contromarce di pedine, che grosse dita esitanti sospingono.

Dalle piccole porte dei rifugi si vedevano nell'interno piedi di dormienti spuntare confusamente dal buio e come sospesi a tutte le altezze. I giacigli sono sovrapposti; ricordano le cuccette a bordo delle navi, e in quelle tenebrose cabine di pietra riposavano beatamente le squadre notturne, indifferenti allo schioppettìo e alle detonazioni.

Di tanto in tanto, un tonfo sordo, un frullare da trottola, e gli uomini che si trovano nei punti non blindati si fermano a guardare intensamente in aria. Aspettano la «bomba». Lanciata da qualche apparecchio a pressione, essa è salita ad un centinaio di metri di altezza e ridiscende, nera e oblunga, roteando come una bottiglia gettata. Appena si avvicina, i soldati che erano rimasti immobili, cominciano a fare dei gesti da giuocatore al pallone che si prepari a menare il colpo; oscillano, si dispongono a balzare da un lato o dall'altro; per sfuggire al proiettile svolgono la stessa mimica che se volessero afferrarlo; studiano il punto di caduta, e poi, all'ultimo momento, quando sono sicuri, saltano via o si rannicchiano.

Un istante dopo c'è il reflusso, tutti accorrono verso il luogo dello scoppio, che fumiga. Si lavora, v'è qualche sasso da rimettere al posto, qualche sacco sventrato da sostituire; ogni cosa è tinta di giallo intorno. La pietra, la tela, le travi, la terra, per un raggio di qualche metro sono color canario e mandano un puzzo irritante e acre.

Gli austriaci hanno pure delle sottili e piccole bombe, che lanciano per mezzo del fucile, meno potenti delle altre. Le armi che essi tentano sono innumerevoli, e tutte intese ad evitare più che si può la prova del coraggio aperto. Ricadono sibilando oltre le posizioni, nelle gole e nelle valli, frammenti di insoliti proiettili, oltre alle deformi pallottole rimbalzate; sono strani segmenti geometrici di metallo, quadratini di acciaio, pallette rosse di minio, bossoletti da fucile pieni di piombo, schegge di piccole granate da cannoni navali, di quei cannoncini che armano la prua delle torpediniere.

Tutti questi detriti sibilanti che spruzzano via e si disperdono dalle vette in battaglia, tutte queste molecole di violenza che irradiano follemente dalle posizioni, fanno pensare alle faville lanciate da un'incudine gigante percossa dal veemente maglio della guerra.

Quando ridiscendevamo dal Freikofel, sul quale la calma superba e sicura dei nostri dà alla vita una così meravigliosa apparenza di normalità, il cannoneggiamento non aveva più l'intensità di prima. Gli austriaci se la prendevano nuovamente con le retrovie, che delle grosse granate cercavano. Forse il nemico immaginava chi sa quale accorrere di rinforzi.

In una radura del bosco, sotto alle rocce del Pal Piccolo, alcuni soldati lavoravano di zappa; erano seppellitori. Intorno a loro dei cadaveri aspettavano che la fossa fosse pronta, distesi nelle barelle, una rozza croce di verdi ramoscelli di pino posata sul petto insanguinato. Un soldato è caduto ferito poco lontano, ed è rimasto lì, accoccolato, aspettando, senza un lamento.

Le esplosioni nella selva lasciavano un'agitazione di piante; si vedevano lunghe rame di abeti squassarsi con una specie di divincolamento lungo, fra le spire del fumo, come per un disperato tentativo di fuga. I rari soldati che passavano nelle vicinanze non allungavano il passo, non guardavano nemmeno, e il loro volto bronzato, inselvaggito, guerriero, esprimeva la più serena indifferenza. Due di loro si sono fermati a parlare e la buffata d'un colpo vicino non ha interrotto il loro discorso.

In quello stesso giorno, sul Pal Piccolo cadeva ucciso Ruggero Fauro.

Abbiamo contornato le spalle del Pal Piccolo. Un minuscolo accampamento era tutto intento alle sue faccende. Qualche shrapnell è scoppiato ancora, in alto, sul bordo della parete rocciosa, sferrando le sue pallette con un lamento da frusta agitata. Poi i rombi e gli echi si sono andati calmando. Un silenzio solenne si andava ricomponendo sui monti. Mentre raggiungevamo la valle di Montecroce, ancora un colpo ha tuonato, un'ultima granata è esplosa sulla cima del monte Tierz. Ha avuto il rimbombo cupo di una grande porta, che si chiuda, di una smisurata porta dal battente di bronzo, serrato con impeto sulle risonanze profonde di un tempio favoloso.

Agli sbocchi delle valli verso i quali viaggiavamo, nel violaceo declinare del giorno, gli antichi castelli che guardano da tanti secoli le soglie d'Italia profilavano le loro torri merlate, al di sopra delle vecchie cittadine guerriere, semplici, oscure, dalle cui case medioevali sono uscite tante fiere generazioni di difensori della Patria. Tolmezzo, Venzone, Gemona.... La loro storia è una storia di continua lotta contro lo stesso nemico. Esse sono state sempre le sentinelle avanzate d'Italia.

Eran giunti al stretto passo

Nove millia o più Germani

Avevan preso il monte i cani;

Ma cazati foro al basso

Da quaranta di Venzone;

Su su su, Venzon Venzone.

Così canta una vecchia canzone dei luoghi, ricordando le gesta leggendarie dei quaranta venzonesi di Bindernuccio che fermarono da soli l'invasione di Massimiliano Primo e salvarono Venezia.

No, di qui non si passa! Il canto è ancora fresco, è ancora vero, è ancora vivo:

Su su su, Venzon Venzone:

Su fideli e bon Forlani,

Su legittimi Italiani,

Fate ch'el mondo risone.

MONTE NERO.

21 settembre.

La parola slava krn — che si pronunzia kern — significa «roccioso», e somiglia alla parola zrn che significa «nero». La distrazione di un cartografo ha fatto del Monte Krn il Monte Nero; ha dato a questa vetta un nome falso ma indistruttibile, indimenticabile, insostituibile, un nome più noto ora al mondo di quello vero, un nome che è stato pronunziato più volte in tre mesi che l'altro in tre secoli, e che rimarrà, legittimato dalla Storia, battezzato dal sangue.

Il Monte Nero aveva una celebrità nelle guide per la somiglianza singolare del suo profilo a quello di un volto umano, un volto immenso, supino, con la fronte verso il sud, il mento verso il nord. Da lontano, dalla valle di Cividale, oltre i nostri monti si vede, azzurro e alto, quel prodigioso sembiante aquilino da divinità caduta, nel quale molti credono di ritrovare i lineamenti cesarei e solenni di Napoleone. L'apparenza di un viso è così evidente, che gli alpinisti, i frequentatori di vette, chiamano Naso la cima più alta di quella favolosa scultura.

Avvolto in un pallido sudario di brume, il volto della montagna si levava avanti a noi diafano, inverosimile, terribile, mentre per le vallette della Slavia italiana salivamo verso le alture di Colovrat, che fronteggiano il Monte Nero dalla riva opposta dell'Isonzo. Il monte, nei giri tortuosi del nostro cammino, ci era nascosto sovente dalle pendici vicine, e ci riappariva sempre un po' più scomposto nel suo profilo umano; la visione svaniva, la magia cessava, l'aspra verità delle rocce distruggeva a poco a poco l'illusione plasmata dalla distanza.

La fronte napoleonica così diventava la cresta di Luznica; il gran mento rotondo diventava la cresta di Vrata; lo sporgere lieve di una ciocca su quella fronte immane diventava la cima di Maznik; e il naso non appariva più che come il pizzo maggiore del monte, una guglia a declivio precipitoso verso Maznik, a picco verso Vrata.

Da queste altezze ondulavano giù le pendici, con vette minori, con un digradare di cime, con quel risollevarsi brusco che hanno spesso i contorni delle montagne come se si pentissero di scendere alle valli e tentassero di tanto in tanto di tornare in su. Erano le pendici di Sleme, al sud, più vicine all'Isonzo, poi quelle di Mrzli, quasi sul fiume. Al nord i costoni discendenti dal Monte Nero si allontanavano dietro le creste del Polonnik, in una maestosa confusione di dorsi seghettati, di punte nude, che andavano sfumando fino a lontananze incorporee, un oceano di cime rosee e spettrali nella luce mattutina, fra le quali s'indovinavano profonde spaccature di valloni.

Il Monte Nero è la vetta culminante e centrale di una lunga catena quasi parallela all'Isonzo. Attraversato il fiume a Caporetto, che fu occupato il primo giorno della guerra, la nostra azione offensiva si trovò di fronte quella gigantesca barriera, che non ha valichi. Di colpo l'attacco scalò i contrafforti, salì per balze senza sentieri, si portò sotto le vette maggiori, a duemila metri.

Il ponte di Caporetto era stato distrutto dal nemico in ritirata. Le nostre truppe varcarono l'Isonzo su passarelle costruite dal Genio. Quattro giorni dopo, dei temporali violenti gonfiarono le acque; la piena travolse le passarelle. I piccoli reparti che operavano già sulla riva sinistra rimasero isolati. Ma andarono avanti. Il parroco austriaco di Dresniza — paesotto che si adagia tutto bianco sulle falde del Monte Nero — vedendo passare quelle prime magre schiere, senza rincalzi, senza approvvigionamenti, tagliate fuori dall'inondazione, le salutò ironicamente: «Andate pure, non tornerete indietro!». Sapeva che sulle creste dei monti il nemico trincerato aspettava in forze.

L'interruzione del transito sul fiume durò due giorni. La sera del 30 maggio un ponte di fortuna era già ricostruito sul torbido, largo e vorticoso corso della piena. Passarono le munizioni, passarono i rincalzi. L'occupazione era già quasi ai piedi del picco più alto. Il primo di giugno la punta era conquistata.

Non fu un colpo di sorpresa, questa volta; fu un colpo di manovra. La compagnia austriaca che difendeva l'estrema cima quasi inaccessibile, il naso della montagna, vigilava e combattè. Bisognava appunto che si battesse, per la riuscita del nostro piano. È stata questa una delle battaglie più belle e più singolari della guerra.

Fu in una notte oscura e nuvolosa. Non si poteva sperare di scalare la vetta senza svegliare l'allarme. Si profittò allora dell'allarme. Due spedizioni partirono da una specie di tormentato pianoro roccioso sul quale eravamo trincerati, seicento metri più in basso della cresta. Un piccolo reparto, composto dei più abili scalatori, munito di corde, si diresse verso il fianco settentrionale del picco, cioè, per esser chiari, verso la narice del naso mostruoso, dove la parete precipita quasi a piombo. Un reparto più numeroso si diresse dalla parte meridionale, per ascendere il pendìo più accessibile, il dorso del naso. Era questo il lato meglio difeso e più vegliato dal nemico.

È un lungo piano inclinato, eguale ma scosceso, coperto in parte di erbette tenaci che ora intristiscono nell'autunno, disseminato di pietre che vi mettono come una sparsa punteggiatura grigia da pittura divisionista. Bisogna inerpicarvisi con l'aiuto delle mani. Chi scivola difficilmente si riprende; non trova dove afferrarsi, rotola nel precipizio, è perduto. L'attacco che saliva per questo declivio vertiginoso non doveva sferrarsi contemporaneamente all'altro, che ascendeva per le balze rocciose e dirupate del versante opposto. Gli scalatori della muraglia avevano il còmpito arduo e terribile di attirare per i primi l'attenzione e il fuoco degli austriaci, mentre sul pendìo meridionale la vera azione risolutiva si sarebbe preparata silenziosamente.

Per confondere i rumori inevitabili dell'avanzata, fu dato l'ordine alle truppe rimaste sul pianoro inferiore di lavorare a gran colpi di piccone. I soldati picchiavano sodo, a caso, come volessero spezzare la montagna. Un tempestare di picconate echeggiava nelle tenebre fra strisciamenti metallici di pale. Gli austriaci, che ascoltavano dall'alto, sparavano di tanto in tanto qualche fucilata contro quel furore d'operosità, immaginando grandiosi lavori di trinceramento. Dovevano sentirsi rassicurati da tanta febbre di difesa. Improvvisamente i colpi di fucile si fecero più serrati, poi il fuoco si allargò, scrosciò con furore, senza pause, violento, rabbioso, mescolato ad un confuso e lontano gridìo. Giù, nel buio, i soldati che lavoravano si fermarono, sudati e ansimanti, ed ascoltarono immobili, appoggiati ai picconi, studiando lo scintillamento delle vampe sulla vetta in tumulto.

Il piano si svolgeva con una esattezza meravigliosa. La scalata della balza dirupata era stata scoperta dal nemico quando essa toccava già gli ultimi gradini. Il piccolo reparto assalitore, snodatosi subito fra sporgenze della roccia, si moltiplicò, rispose al fuoco degli austriaci con una fucileria precipitosa, riuscì a dare l'illusione di una massa. Tutta la difesa si portò contro di lui. Quando lo strepito della battaglia parve più alto e intenso, l'oscuro pendìo sassoso del versante meridionale si animò.

Un nero formicolìo vi saliva veloce, una moltitudine d'ombre rampava verso l'estremo lembo di quello spalto immane. Il vero assalto arrivava. Le vedette nemiche lo scorsero, ma era troppo tardi. Il loro grido d'allarme fu coperto dall'urlo trionfale dei nostri, che mettevano piede sulla vetta e si rizzavano per precipitarsi subito avanti, la baionetta bassa. La cima del Monte Nero era presa.

La osservavamo percorrendo la cresta del Colovrat. Non si riusciva a comprendere come su quella aguzza guglia potessero aggramparsi e vivere delle truppe. Qualche nuvoletta rossastra di shrapnell sfumava lungo le sue pareti. Dalla vetta la nostra occupazione, indicata da sottili e quasi invisibili sgranamenti di rocce prodotti dai lavori di trinceramento, e da qualche minuscola baracca di rifugio rannicchiata al coperto dietro a delle anfrattuosità, prosegue al sud, scende in quell'avvallamento che da lontano formava l'incavo del ciglio sul profilo del gran volto, e s'inoltra sulla fronte, cioè sulla cresta di Luznica, che i soldati chiamano Monte Rosso per il suo fulvo colore.

A metà della cresta essa ridiscende un poco. Gli austriaci tentarono più volte di scacciarci dalla punta conquistata; lasciarono sul terreno centinaia di morti, disseminati in ogni balza. Non riuscendo a riprendere la cima, si rafforzarono intorno, per barrarci ogni strada.

La montagna si prestava alla difesa, le offriva poderosi baluardi naturali. Il dorso del Monte Nero, dal lato austriaco, è inoltre solcato da strade militari che salgono dal nord, da Plezzo, le quali hanno facilitato un vasto spostamento di truppe e di artiglierie. Al di là del crestone principale, un'altra catena di rudi vette si solleva, vette chiare, strane, che sembrano sfarinarsi in una sabbia grigia di cui i valloni si colmano: sono dette dai soldati le Cime Bianche a causa della loro apparenza. Formano una vera seconda muraglia, vicinissima, sulla quale numerose batterie nemiche si appostano.

Fra lo schieramento delle Cime Bianche e il costone del Monte Nero, in fondo ad un valloncello arido, angusto e selvaggio, è il passo di Luznica, diventato una via di arrocco per le truppe nemiche lungo l'allineamento delle vette da difendere. Enormi lavori hanno trasformato ogni sentiero in comodi passaggi. Vi si lavora anche adesso, e sui sabbioni cinerei delle Cime Bianche si vede come un formicaio oscuro d'uomini all'opera sulle volute serpeggianti e rosate di nuove strade.

La nostra offensiva lungo le propaggini del Monte Nero urtava contro difficoltà formidabili. I trinceramenti nemici non soltanto si allungavano sulle creste, ma le tagliavano, le attraversavano, a cavallo da un versante all'altro. Non era più possibile manovrare, e bisognava salire all'attacco frontalmente dai declivî, e scendere dalla vetta conquistata lungo la dorsale, da punta a punta, prendendo una dopo l'altra le trincee trasversali, sulle quali poi era difficile mantenersi presi d'infilata dalle Cime Bianche. Ma andammo avanti.

Andammo avanti lentamente, con metodo, contrattaccati furiosamente dopo ogni lieve progresso. Il mese di giugno fu tutta una battaglia lassù. I bollettini ufficiali riflettevano sobriamente questo accanimento. Ogni giorno ci dicevano: «Fiera lotta sul Monte Nero....», «lotta tenace....», «resistenza furibonda....». Il nemico tentava di aggirare le nostre posizioni più alte e più avanzate; non risparmiava sforzi per togliersi dal fianco quel cuneo profondo; tendeva ad isolare la vetta del monte. Vi impegnava il massimo degli effettivi che la guerra di montagna consenta.

Tentò azioni di sorpresa, ora con due, ora con tre battaglioni. Il 10 giugno lanciò più di sei battaglioni con una ventina di mitragliatrici, per un vallone che sale da Plezzo verso il declivio occidentale del Monte Nero, il vallone dello Slatenik. Alpini e bersaglieri fecero miracoli, con reparti piccoli e risoluti scesero a sbarrare il passo all'avanzata austriaca. La lotta fu lunga, ma l'aggiramento fu sventato. Per consolidare le nostre posizioni fu necessaria la conquista di nuovi punti d'appoggio verso il nord. Da quel momento l'azione nostra comincia risolutamente ad avere Plezzo come obbiettivo.

Plezzo, posto in una conca alla confluenza di valli, ad un nodo di strade, centro di comunicazioni, ci minacciava. Da Plezzo salivano gli attacchi del nemico. Stazione di rifornimenti, base di operazioni, Plezzo riceveva per la via del Predil, al nord, e per la via dell'alto Isonzo, a levante, le truppe e i cannoni che ridistribuiva poi per i valloni risalenti verso le coste del Monte Nero. Prendere Plezzo voleva dire bloccare agli austriaci le più importanti vie di approccio di quel settore, chiuder loro delle porte. La nostra offensiva, che aveva cominciato col dirigersi quasi esclusivamente al sud, per cooperare alle operazioni che si svolgevano su tutto il corso inferiore dell'Isonzo, si volse allora anche al nord.

Si volse al nord con impeto subitaneo, inaspettatamente. Nella notte del 15 giugno dei reparti alpini scalarono arditamente le difficili balze che si appoggiano da settentrione alla vetta principale. Si avanzava per le cime. All'alba mossero all'attacco della cresta di Vrata. Fu un assalto impetuoso e breve. Un battaglione austriaco, sorpreso, fu sgominato. Alle otto del mattino si erano già fatti trecentoquindici prigionieri, di cui quattordici ufficiali. Alla sera i prigionieri erano seicento, ed avevamo raccolto un largo bottino di fucili, di munizioni, di mitragliatrici. Perduta la posizione, gli austriaci vi concentrarono un intenso bombardamento. I nostri resisterono.

Il giorno dopo si svolse il famoso episodio del battaglione ungherese.

Supponendo forse che il bombardamento avesse sufficientemente preparato un contrattacco, il nemico lanciò alla riscossa le sue migliori truppe. Un battaglione magiaro, fresco e sicuro di sè, tentò una manovra di aggiramento. Partito da un punto detto Planina Polju, a levante del Monte Nero, non lontano dal Passo di Luznica, si diresse nella notte verso il nord, nel vallone, andò a cercare un varco oltre Vrata, attraversò la cresta quasi sotto alla punta di Vrsic, un chilometro e mezzo circa oltre la nostra estrema posizione, discese sul versante occidentale del monte, e volse al sud per compiere il suo avvolgimento. La manovra avviluppante era per due terzi eseguita. Non v'era che un piccolo ostacolo da superare per condurla alla fine. Una magra compagnia italiana sbarrava la strada a Za Kraju, fra il massiccio del Monte Nero e quello del Polonnix.

Era trincerata sopra ad un'altura, senza reticolati, senza blindature, con dei bassi parapetti tirati su in fretta e furia. La mattina era già inoltrata quando il battaglione ungherese incominciò l'attacco.

Avanzava con ordine e risoluzione, in varî ranghi aperti e regolari. Nessun colpo di fucile lo accolse. Fu presto a mille metri dai nostri: il silenzio continuava. La posizione pareva deserta. Rinfrancati, i nemici salivano come in manovra. Forse essi immaginavano gl'italiani già fuggiti. Una quiete profonda e terribile.

La distanza diminuiva. Ottocento metri: silenzio. Seicento metri: silenzio. A mano a mano che si avvicinavano, salendo da una base verso una vetta, le schiere nemiche andavano forzatamente serrandosi. Gli spazî sparivano; le linee di assalto, dapprima distese in catena, restringevano gl'intervalli, cominciavano a formare massa. Cinquecento metri: silenzio. Si levò il vocìo degli assalitori, che coprivano ormai tutta la costa del loro affollamento. Quattrocento metri: silenzio....

Nelle feritoie delle trincee italiane tutti i fucili erano spianati.

Con voce pacata il capitano ripeteva i suoi ordini: «Tutto l'alzo abbattuto! — Attenti a mirare basso! — Siate pronti!». Immobili, impetrati, i soldati puntavano, la testa inclinata sul calcio del fucile. La terra, intorno, era cosparsa di pezzi di cartone, avanzi delle grige scatole di munizioni aperte e vuotate. Ognuno aveva preparato presso a sè un mucchio di caricatori. Inginocchiati vicino alle mitragliatrici i serventi aspettavano pronti con le cinghie di ricambio, e il puntatore, le dita attanagliate alle maniglie, sfiorava con il pollice la molla di scatto. «Pareva — racconta un ufficiale — un museo di statue».

Trascorse ancora quasi un minuto, una eternità. Si distinguevano già le facce accese dei nemici con le bocche aperte, in un balenìo di baionette. Il capitano non aveva più bisogno del binocolo per guardare; fissava l'assalto con occhio grave, freddo, calcolatore. Poi con una parola scatenò la morte: Fuoco! L'assalto era arrivato a meno di trecento metri.

Una scrosciante bufera di piombo rasentò i declivî. Parve che una falce immensa e invisibile passasse e ripassasse su quel mobile e tumultuoso campo azzurrastro d'uniformi. Le prime file caddero, si abbatterono di colpo.

L'avanzata oscillò, rallentò, il gridìo del nemico divenne un urlo di furore, alto, feroce. L'assalto era così vicino che, dopo un istante di incertezza, i nemici intuirono l'impossibilità di ritirarsi sotto a quel fuoco lungo la costa prativa e scoperta. Si buttarono di nuovo avanti, impetuosamente. Pochi passi ancora, e la schiera più avanzata non esisteva più. L'attacco si fermò definitivamente in una tragica e disperata confusione.

Il piombo mieteva sempre. L'erba si costellava di corpi. Anche i vivi, gl'incolumi, si gettarono a terra scavandosi in fretta dei ripari, e cominciarono a rispondere al fuoco, disordinatamente.

Allora un grido formidabile echeggiò sulle trincee: i nostri scavalcavano i parapetti. Era il contrattacco. Precipitarono giù alla baionetta. Ogni resistenza cessò. I nemici che avevano ancora un po' di forza sollevarono le mani. Del battaglione non rimanevano che poche centinaia di uomini inebetiti dal disastro. Non uno potè fuggire.

Il colonnello che comandava la colonna, un fiero magiaro dai baffi brizzolati, fatto prigioniero, si muoveva come un automa, dignitoso e pallido, con una stupefazione negli occhi; ma ogni tanto si fermava, si accasciava e piangeva. Quando entrarono nelle zone abitate, giù nella valle, i soldati che lo scortavano si munirono di una poltrona e se la portavano dietro per porgerla al prigioniero pei momenti di sosta, quando la crisi di dolore lo fermava, trasognato e lagrimante. Con quel nobile rispetto verso i vinti che hanno i nostri soldati, intorno all'ufficiale nemico sconvolto dalla sconfitta si faceva un cerchio di silenzio generoso.

Nei giorni successivi noi proseguimmo le operazioni per dominare le strade provenienti da Plezzo. Furono giorni di nebbie, di temporali, di alluvioni. Si battagliava fra le nubi. Il 20 giugno, l'occupazione si consolidava oltre la punta Vrata. Dopo ogni nostro passo avanti, un contrattacco austriaco. Il 21, per ricacciarci dalle vette comparvero sul campo per la prima volta forze rilevanti di cacciatori tirolesi, gli alpini del nemico, con i petti pieni di medaglie guadagnate sui Carpazi. I nostri non aspettarono l'urto, si gettarono avanti, attaccarono, respinsero i tirolesi infliggendo loro gravi perdite, ne catturarono alcuni.

Le avanzate più rapide nostre sono state quasi sempre favorite dagli attacchi nemici. È l'inseguimento che ci porta più in là. Finchè gli austriaci si difendono nelle loro trincee invulnerabili, protetti da numerose artiglierie nascoste, rannicchiati nei buchi dietro ai reticolati, la lotta è faticosa, dura, lenta. Ma se escono fuori, se si mostrano, se manovrano, l'azione scatta, si sposta, insinua più avanti dei tentacoli che si appigliano su posizioni nuove. Così l'attacco dei tirolesi ci portò ancora verso il nord. Il 23 giugno ci piantavamo definitivamente sulle pendici orientali dello Javorcek. Vedevamo finalmente Plezzo sotto di noi, a quattro o cinque chilometri. Quel giorno stesso la nostra artiglieria iniziò il tiro sulla conca di Plezzo.

Lo Javorcek, tutto coperto di boschi, è l'ultima montagna al nord del sistema del Monte Nero, e sovrasta Plezzo da sud-est. Risalendo l'Isonzo da Caporetto, avevamo fin dai primi giorni occupato senza troppa fatica le creste del Polonnik, che dominano Plezzo da sudovest, e intorno alle falde del quale l'Isonzo gira, fa un gomito brusco e rimonta ad angolo acuto verso levante, per attraversare la conca di Plezzo passando ai piedi dello Javorcek. L'occupazione della Sella Prevala, alla testata della Valle Raccolana, eseguita all'inizio delle ostilità, ci aveva portato ad affacciarci anche da occidente sugli altissimi bordi della conca di Plezzo. Alla fine di giugno il nostro investimento intorno a Plezzo si delineava dunque a semicerchio sull'anfiteatro delle alture. Qui le nostre operazioni sull'alto Isonzo davano la mano, per così dire, a quelle della Val Raccolana, e della Val Dogna, di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo.

Gli austriaci, che avevano lasciato gran parte di questa zona ancora scoperta alla manovra, sperando di difenderla con azioni di movimento, si affrettarono a chiuderla da ogni parte con le loro opere di fortificazione. Scavarono, costruirono, portarono decine di migliaia di prigionieri russi al lavoro, fecero sorgere da ogni parte trinceramenti, ridotti, appostamenti. Eretta una prima linea di difesa, eressero una seconda, poi una terza, e tutti i declivî, tutte le vette, apparvero solcati dai sommovimenti del suolo. Non si fidavano più dell'appoggio dei forti costruiti allo sbocco della gola di Predil. Avevano visto crollare il forte Hensel a Malborghetto, e non avevano una maggiore confidenza nel forte Hermann e nelle batterie corazzate costruiti nella chiusa di Coritnica a difesa di Plezzo. Facevano intanto nuove strade, moltiplicavano gli approcci e le vie coperte.

Masse di soldati e di materiale affluivano a Plezzo. Il villaggio di Coritnica, nella conca, era tutto un magazzino. Le nostre granate riuscirono a incendiarlo il primo luglio. L'attività nemica intorno a Plezzo è successivamente annunziata da vari bollettini del nostro Stato Maggiore. L'interesse della lotta si sposta dalle vette del Monte Nero. Un'ultima battaglia si sferra lassù il 22 luglio.

In quel giorno la nostra offensiva riprese di colpo la via del sud, scendendo dalla vetta. Gli alpini avanzarono lungo l'aspra cresta di Luznica, rocciosa e nuda. Per ritornare ad una immagine che può dare una visione sommaria dei luoghi, ricordiamo che la cresta di Luznica appare da lontano la fronte nel profilo umano della montagna. La lotta fu ostinata, il progresso lento. Si combatteva delle ore per il possesso di un masso, di una sporgenza, di un incavo. L'artiglieria austriaca batteva sui nostri da levante. L'artiglieria italiana batteva sul nemico da ponente. La roccia fu così tempestata dalle granate che si coprì a macchie di un colore rossiccio di sfaldature, vivace e nuovo. Per questo forse la cresta è riconosciuta ora dai soldati col nome di Monte Rosso.

La lotta continuò il 23 luglio. Conquistammo al nemico i punti più avanzati. Il 24 gli austriaci tentarono di riprenderli. Dopo un lungo e intenso bombardamento sferrarono tre assalti consecutivi. Furono respinti. Il 25 riprendemmo l'attacco. Il 26 tutte le vette erano nelle nubi; si combatteva in una nebbia folta e gelata, senza vedersi. L'assalto nostro arrivò al bordo di un gigantesco reticolato, di fronte ad una formidabile trincea. Gli alpini si radicarono lì.

L'artiglieria quel giorno era muta; quando il sole ricomparve i due avversarî erano troppo vicini perchè il cannone osasse intervenire. Ed ora, alla metà del crestone, i trinceramenti si fronteggiano ancora, a pochi passi l'uno dall'altro, con un solo reticolato fra loro, un reticolato in comune che serve per tutti e due. Quando il tempo è limpido, si scorge anche da lontano, sul contorno cupo delle rocce, la selva minuta, regolare e folta dei paletti, in una impercettibile nebbia di fili, fra la rossastra confusione del pietrame scavato.

Ma qui la lotta ora sosta. Qualche cannonata solitaria, la nube di uno scoppio qua e là, di tanto in tanto, e lunghe ore di silenzio profondo. Di fronte al Monte Nero la vallata dell'Isonzo, tutta boscosa, variopinta da un primo ingiallire di foglie, cosparsa di villaggi minuti e chiari giù vicino al fiume, rigata da fili bianchi di strade deserte, è tutta piena della maestà d'un riposo. Dove sono le truppe? Non si vede nessuno. I villaggi sembrano solitari. E queste zone non furono mai abitate come ora, non contennero mai tanta moltitudine umana.

Dove noi sappiamo che gli eserciti si addensano, non si vedono che delle linee sottili di terriccio, che sembrano bordi di fossati, e confusioni strane di sterro. Se ne scoprono una dopo l'altra a centinaia di quelle rigature fulve, che ondeggiano in ogni senso, corrono le vette e i dorsi delle colline, solcano il verde dei prati, scendono i costoni, si moltiplicano, s'intrecciano, s'intersecano, si scostano, si ritrovano, e questo senza fine, ovunque lo sguardo frughi. Bisogna che degli ufficiali vi indichino quali sono le nostre trincee e quali le loro, tanto esse si avvicinano in certi punti e si confondono in uno sconvolgimento unico del suolo. È sulle vette, principalmente, che questo contatto incalzante si delinea. Nella immobilità dei solchi la lenta azione si disegna. Si scopre una eloquenza di tratteggi e di linee; vi sono argini rigidi che si difendono e argini ondulati che assaltano, arrampicandosi, serpeggiando, tendendo avanti con qualche cosa di duttile, di tortuoso, d'insistente.

Se non abbiamo le creste dei contrafforti meridionali del Monte Nero oltre il dorso di Luznica, ne siamo per tutto a pochi metri, là sotto, in posizioni il cui profilo dice una non so quale tenacia costante. Pare da lontano che le trincee stesse si allaccino in una lotta. La nostra linea preme contro la vetta verde dello Sleme, preme contro la vetta pianeggiante del Mrzli boscoso, giù verso Tolmino. Sulla cima del Mrzli le granate hanno sfrondato e potato il bosco; non si vedono più che dei tronchi neri che sembrano schiantati dalla folgore. Gli austriaci hanno allacciato a questi ceppi, che hanno nella distanza una parvenza umana, i fili di ferro dei loro reticolati. Appena al di qua, dove la boscaglia si rinfoltisce, sono i nostri, invisibili. Più in basso, fra delle rocce, qualche minuscolo rifugio si scopre, ma nessun uomo, nessun movimento. Ogni vita è sepolta.

Al rovescio delle alture della riva destra, si passa vicino alle tracce di vasti accampamenti; al posto di ogni tenda è rimasto sui prati un quadrato di terra smossa contornato dalle pietre che tenevano fermi i lembi della tela. I battaglioni innumerevoli che gremivano quelle vallette sono scomparsi alla vista, avanzando, come per un incantesimo. Arrivando in mezzo ad un esercito, nella zona delle battaglie, non troviamo più che i segni delle sue soste, i funebri allineamenti degli oscuri quadrati di terra smossa che fanno pensare a miriadi di tombe nelle solitudini di un paese abbandonato. Un po' per tutto le granate hanno aperti slabbrati crateri.

Un rombo di cannonate veniva ad intervalli dal nord, ora intenso, ora stanco, con momenti di sosta e riprese furibonde. È a Plezzo che si combatte ora, e forse dalle alture di Saga, dove un altro giorno andremo, potremo spingere lo sguardo nella conca famosa che abbiamo fatto nostra.

LA CONQUISTA DELLA CONCA DI PLEZZO.

24 settembre.

Dall'alto della cresta di Colovrat avevamo sentito il cannoneggiare di Plezzo. Veniva da settentrione e passava sulla calma momentanea delle pendici del Monte Nero, come quegli echi remoti di tempesta che arrivano da oltre l'orizzonte in certe giornate estive, serene e ardenti.

Sulla piazza di Caporetto, che pare così vasta fra le casette ad un solo piano, piccole e bianche, incappucciate da nordici tetti scoscesi, abbiamo trovato quel movimento ordinato e denso di carreggi che hanno le ultime tappe nella vicinanza d'una battaglia. Degli ufficiali ci parlavano dell'azione in corso, mentre dalla strada di Ternova vedevamo sbucare nel villaggio in lunga carovana un armento di prigionieri austriaci, quasi tutti giovani, forti, ben vestiti, ben calzati, col cappotto arrotolato a bandoliera, il gran berrettone di croata memoria sulle teste rapate e biondastre, sereni, sorridenti, con l'aria di chi è ben soddisfatto della sua sorte. Intorno a loro cavalcavano carabinieri grigi, che facevano caracollare e sgropponare i cavalli per tenere indietro la folla dei soldati accorsi a vedere, una folla composta, contenta e senza rancori. Tutte queste cose ci facevano presentire lo spettacolo grandioso di una battaglia nella conca di Plezzo. Ma avvicinandoci alla chiusa di Saga, lungo la strada che risale la valle dell'Isonzo verso Plezzo e verso Predil, entravamo invece in una zona di silenzio.

La bufera ha le sue soste e la guerra i suoi riposi. Dopo giornate di violento bombardamento, all'improvviso si fa la quiete, dei cannoni giganteschi si spostano, altri si avvolgono in un mantello di tela quasi per dormire nel loro nascondiglio, e gli eserciti avversari rilasciano la stretta come due lottatori dopo uno sforzo, quando si studiano e si palpeggiano preparando un nuovo scatto dei muscoli. Siamo arrivati in vista di Plezzo durante una di queste sospensioni piene di un senso indicibile di aspettativa e di minaccia.

Le fanterie sole mantenevano lungo trinceramenti invisibili un fuoco di fucileria lento e irregolare, il tiro rado e sparpagliato che scoppietta sempre sulla fronte d'un esercito anche se nessuno si muove. Lo udivamo appena, a seconda del vento, mentre da lontano, inerpicati sulle alture di Saga, rintracciavamo nel panorama le linee dell'azione, tanto intricate e difficili al primo sguardo.

La conca di Plezzo è, per dir così, un convegno di valli in mezzo ad una aspra, maestosa confusione di montagne dalle vette dirupate e nude. Essa appare come un ondulato lago di verdure e di vita, con un fosco bordo di selve, in un anfiteatro selvaggio di pendici e di balze. Vedevamo la conca da ponente; ci affacciavamo su di essa dalla soglia di una delle sue quattro porte. Sono infatti quattro gole intorno. Quella dell'alto Isonzo a levante, quella del Predil al nord-est, quella del basso Isonzo a ponente (allo sbocco della quale noi eravamo), quella dello Slatenik al sud, risalente verso le cime del Monte Nero. Fra una valle e l'altra, un massiccio montuoso, un profilarsi formidabile di declivî scoscesi, fra i quali le valli pare si restringano simili a fenditure tenebrose.

Ma ogni valle è una strada, e tante strade facevano della conca di Plezzo un luogo di concentrazione e di distribuzione della forza austriaca. Plezzo ci minacciava, costituiva per noi un pericolo, era una delle basi preparate per l'invasione. Le strade austriache del Fella e del Predil, quelle magnifiche vie che da Pontafel, per Malborghetto, Tarvis e il passo del Predil, scendono a Plezzo possentemente fortificate, allacciate alle grandi arterie del Gail e della Drava, cingevano di una formidabile tenaglia il nostro estremo saliente della frontiera. Battendo Malborghetto e battendo Plezzo noi abbiamo spuntato le pinze della tenaglia, che s'impernia a Tarvis, e contro la quale non avevamo potuto costruire nè strade nè forti.

Ora, tutta la conca di Plezzo è nostra.

Abbiamo già descritto l'inizio dell'investimento, il lento, metodico restringersi di un semicerchio di conquista, dal Monte Nero alla Sella Prevala. Fin dalla metà di giugno la nostra azione cominciò a tendersi verso Plezzo, da cui salivano per il vallone dello Slatenik quasi tutti i contrattacchi austriaci contro le nostre posizioni del Monte Nero; ma è nell'ultimo mese che l'offensiva italiana ha assunto in questa zona una energia risolutiva. Fu il 13 di agosto che la grossa artiglieria cominciò a battere le opere nemiche nella conca.

Non si trattava ancora del bombardamento dei forti, che sono oltre Plezzo, nella gola del Koritnica, sulla strada del Predil. Si tirava sulle fortificazioni più recenti erette dal lavoro senza soste di masse di prigionieri, moltitudini di schiavi, sulle pendici dello Svinjak — che si erge a levante della conca, isolato fra la strada del Predil e quella dell'alto Isonzo. È lo Svinjak per il nemico il monte più sicuro; forma una specie di fortezza a cavallo dei due sbocchi maggiori, una fortezza immane che avanza a sperone ed ha per fossato l'Isonzo ed il Koritnica. Sui suoi due fianchi, al di qua dei fiumi, questa fortezza naturale che resiste ancora formidabilmente, ha come due sentinelle, due monti, lo Javorcek alla sua sinistra, il Rombon alla sua destra, le cui alte vette fortificate costituiscono due poderose posizioni di appoggio, alle quali il nemico si aggrampa disperatamente.

Al di là della conca di Plezzo conquistata, noi fronteggiamo dunque tre montagne. Il nostro attacco sale verso le cime di quelle laterali e batte alle falde dell'altura centrale, che è un po' più indietro delle altre. Leggendo i loro nomi sui bollettini, si abbia la visione di questa triade imponente, del Rombon alla nostra sinistra, dello Svinjak nel mezzo, dello Javorcek alla nostra destra, e il senso della lotta apparirà nella piena evidenza.

Sopra un fronte di una diecina di chilometri abbiamo qui guerra d'alta montagna e guerra di pianura, difficoltà di rocce e difficoltà di acque, strade nuove tagliate nelle più aspre balze, ponti nuovi lanciati sui fiumi veloci, truppe che scalano, truppe che guadano. Al di là della piana di Plezzo, nella gran luce del limpido meriggio, lo Svinjak ci mostrava la sua gran mole truce. Sembra creato per una difesa a oltranza.

Attraversato il letto pietroso e largo del Koritnica, che gira ai piedi del monte, le truppe assalitrici si trovano avanti ad un lungo declivio dolce ed erboso. È il primo spalto, bisogna salirlo allo scoperto, non v'è un albero, non v'è un sasso. Delle barriere di reticolati lo percorrono. Improvvisamente esso si fa ripido, si denuda, si scoscende in una specie di ripa, e la montagna sorge. Essa forma un primo ripiano, sul bordo del quale si allinea tutto un giallastro sommovimento di terra e di pietre che indica un trinceramento blindato, il fuoco del quale spazza il declivio inferiore. Più indietro, sullo stesso ripiano, altri solchi, altri scavi, tutto un colore di frana recente formato dai detriti rigettati dal lavoro; sono linee successive di difesa, appostamenti di piccole artiglierie, ridotti. Più in alto comincia il bosco, che s'infoltisce nel ripiego dei canaloni, che veste la montagna di una scura pelliccia, per diradare verso la cresta nelle nudità della roccia. Questa selva nasconde delle caverne, e le caverne nascondono dei cannoni. La vetta è l'osservatorio.

Appena sparato un colpo, gli artiglieri austriaci ritirano il pezzo nella sua tana, e si nascondono con esso nel buio. Non si vede niente, la foresta non ha squarci, sembra impenetrata, impassibile. Un'osservazione attenta scopre alle volte la vampa. La risposta allora arriva immediata, esatta, ma bisogna che la granata imbocchi esattamente l'apertura di una grotta per far danni. Ciò è avvenuto; una batteria austriaca nascosta in una caverna è stata colpita in pieno. Ma quando si sente cercata l'artiglieria nemica tace. Le difficoltà di un attacco frontale di simili posizioni appaiono immense. Gli austriaci dimostrano un'abilità singolare a trarre vantaggio da tutte le risorse del terreno. Hanno il genio del nascondiglio.

L'azione è perciò più attiva e più mossa ai fianchi, contro alle due montagne laterali. Verso lo Javorcek l'offensiva è avanzata dal Monte Nero. Essa si mosse risolutamente il 14 di agosto, puntando lungo il vallone dello Slatenik, che gli austriaci avevano sbarrato con trinceramenti. Il 15 una prima trincea venne espugnata e vi furono presi trecento prigionieri. Il combattimento non sostò. Il 16, nuove trincee fra la cresta del Vrsic e una località detta Dol Planina, sul versante occidentale delle propaggini del Monte Nero, erano conquistate. Il nemico contrattaccò, fu respinto, e il 17 agosto facevamo un altro passo avanti dalla cresta di Vrsic in direzione dello Javorcek, ricacciando dopo viva lotta gli austriaci da un'estesa linea di trincee. Intanto dei reparti alpini, scesi dalla Valle Resia, scesi per la Sella Prevala dalla Valle Raccolana, appoggiati da forze che salivano da Saga, incominciavano i primi movimenti per investire il Rombon, il baluardo di sinistra.

Dal nostro punto di osservazione vedevamo il Rombon quasi sopra di noi, brullo, severo, smisurato. Ci pareva di essere sopra una delle sue stesse balze. Solleva la sua vetta oltre i 2200 metri in un pallore di altitudine. È scosceso, ampio, triste. Qualche piccola nube molle e rosata si formava intorno alla sua cima, poi lentamente si sfrangiava, si spostava, mutevole, leggera, trascinata via dal vento a fondersi nella profondità azzurra del sereno. Quando quel velo si dissipava, noi potevamo scorgere proprio sotto alla sommità le nostre trincee, una linea vaga, lontana, minuscola, sbiadita.

L'attacco del Rombon cominciò il 28 agosto. Quel giorno, sulle ripide balze meridionali del monte, furono conquistate le prime trincee nemiche, e una piccola carovana di prigionieri scendeva alla sera per i dirupi verso Saga. Altri reparti da montagna, che venivano da ponente, tentavano l'assalto della vetta nell'alba del 27. Disposte in più ordini, fortissime trincee austriache coprivano il cucuzzolo roccioso del monte. La lotta fu accanita, qualche trincea fu presa, ma il nemico rimase padrone dell'estrema punta. Intorno ad essa si stabilì un fantastico assedio, che ancora dura.

I combattimenti sulla gelida cima del Rombon non somigliano a nessun altro, hanno aspetti favolosi. Gli ufficiali che nel mattino del 27 osservavano da Saga l'attacco, hanno scorto più volte come uno scendere di frane, un piombare vertiginoso di massi lungo le pendici scoscese. Non erano mine che scoppiavano, non erano granate che spezzavano la roccia. Erano blocchi lanciati sull'assalto. Gli austriaci avevano preparato un'arma primordiale e terribile. Avevano disposto orizzontalmente sul pendìo delle travi, tenute da corde alle estremità, e appoggiate alle travi avevano ammassate enormi pietre. Quando vedevano che il fuoco dei fucili e il lancio delle granate a mano non fermava la furia dell'attacco, lasciavano andare una delle corde, la trave cadeva, e tutto l'ammassamento delle pietre, mancando il sostegno, precipitava tumultuosamente, rotolava lungo la costa rombando, rimbalzava. Era un contrattacco di macigni.

I nostri, sorpresi ma non sgomentati, non hanno ceduto terreno, non si sono ritirati. Nella loro pratica della montagna hanno subito trovato la tattica necessaria a questa guerra da uomini delle caverne. Sanno come ci si salva dalle pietre che si staccano nei canaloni durante i disgeli. Tutto quello che cade segue le linee di massima pendenza; i nostri soldati hanno cominciato ad attaccarsi ai costoni, alle sporgenze, alle balze, formandovi dei ripari. Poi hanno creato sbarramenti, difese, ed hanno allargato a poco a poco il loro fronte di attacco. Intorno all'estrema vetta tendono a formare un cerchio d'investimento. Non potendo assalire ancora, vogliono chiudere il nemico. È l'assedio di una roccia.

Ai difensori non rimane più che una strada aperta. È un sentieruolo verso levante, verso la valle del Predil. Non si lotta quasi, più che per quello. I nostri lo occupano, e il cannone nemico lo riapre. È difficile tenervisi sotto al fuoco di una quantità di batterie d'ogni calibro. Anche di notte, anche con la nebbia, al minimo allarme, una tempesta di granate arriva su quel punto. L'artiglieria nemica non può più battere gli altri lati della montagna perchè, mentre si operava contro il Rombon e contro lo Javorcek, una vigorosa avanzata centrale aveva conquistato tutta la conca di Plezzo, arrivando a bloccare gli sbocchi del Predil, dell'alto Isonzo e dello Slatenik, e paralizzando così ogni movimento nemico. Le artiglierie austriache avevano perciò un campo di tiro assai più limitato, ma bastavano a sostenere energicamente la difesa. Era contro di esse che bisognava agire. Una nuova fase delle operazioni nella zona di Plezzo si iniziava con un bombardamento di grossi calibri.

Cominciò il primo giorno di settembre. Parlando dei cannoni colossali che abbiamo visto oltre questi monti, percorrendo certe estreme diramazioni orientali delle Alpi Carniche, di quei cannoni che avevano annientato il forte Hensel a Malborghetto, dicemmo che essi stavano per avere un nuovo còmpito. Il loro nuovo còmpito era la distruzione dei forti di Plezzo. Allora si preparavano. Si spostavano misteriosamente verso appostamenti segreti, in mezzo ad una attività che riempiva di movimento e di vita selvagge vallate. Ognuno di quei mostri, come un sovrano antico, viaggia con una corte numerosa, fra cavalcate e convogli, in lunghi corteggi che nereggiano su chilometri e chilometri di strada e che dilagano in vasti accampamenti. Da altre parti, per diverse vie, altri cannoni giganti, trascinati da possenti motrici, andavano con solenne lentezza allo stesso convegno. Si rafforzavano ponti per il loro passaggio, e dove i ponti non avrebbero resistito al peso delle loro masse di acciaio, si aprivano in poche ore sorprendenti strade di guerra attraverso brughiere e letti di torrenti perchè i giganti potessero passare a guado.

La prima grande granata scoppiò nella gola del forte Hermann, il quale si rintana nella valle del Predil poco sopra allo sbocco. La seconda granata colpì l'opera in pieno. Al quinto colpo il forte cominciò a prendere un aspetto di rovina, a sformarsi in un rovesciamento di massi e di terra. In quello stesso giorno una delle sue cupole di acciaio, colpita, si rovesciava come una campana.

Ora il forte Hermann non esiste quasi più. Ma quelle sue artiglierie che non erano nelle cupole, sono state portate fuori, e tirano ogni tanto da appostamenti preparati dietro ai ripieghi della valle. Sparano qualche colpo, spariscono, non osano rimanere un giorno nello stesso punto, sempre cercate, sempre inseguite, sempre scacciate dal nostro fuoco.

Persuasi che la perdita di Plezzo era definitiva, gli austriaci hanno cominciato a tirare delle granate incendiarie sull'abitato. È il loro sistema. Quando non possono più tenere, distruggono. Le granate incendiarie sono il segno di una speranza perduta. La piccola città muore, casa per casa, sempre un po' più ogni giorno. Le fiamme si levano ora qua, ora là, e nessuno può spegnerle. Da tempo la popolazione è fuggita, e Plezzo agonizza in una sinistra solitudine.

Ci apparivano al di sopra di grandi ciuffi d'albero le sue case senza tetto, alcune coronate da un nero scheletro di travature; vedevamo delle muraglie diroccate e il campanile bianco e mozzo. Su quel campanile, quando Plezzo, alla fine d'agosto, non era ancora occupata dai nostri, osò salire un nostro osservatore.

Il paese si distende sopra una lieve e pittoresca collinetta; noi eravamo arrivati quasi a ridosso della piccola altura, che dalla parte nostra scende a scarpata, formando come un gradino scosceso e brullo, e avevamo bisogno di spingere lo sguardo avanti, di esaminare da vicino le difese austriache sull'altro versante della conca. Il campanile, alto, dominante, quasi nel centro della vallata, offriva un posto di osservazione meraviglioso. Ma era in pieno territorio nemico. Un ardito ufficiale partì in esplorazione.

Pare un episodio delle vecchie guerre. L'ufficiale era di cavalleria, innamorato della sua arma. Pensò che la rapidità può valere in certi casi più della invisibilità, e partì a cavallo, attraverso dei vigneti e dei frutteti, seguito dalla sua fedele ordinanza. Trovò Plezzo già quasi abbandonata dalla popolazione; lo scalpitìo degli zoccoli risuonava fra case deserte. Ad ogni angolo di strada, l'ufficiale rallentava il passo e si sporgeva sul collo del cavallo, per scrutare avanti. Niente, una via dopo l'altra si aprivano vuote e silenziose. Giunse sulla piazza, affidò le cavalcature al soldato e si diresse alla chiesa. Una specie di sacrestano, spaurito, gli aprì la porta del campanile.

Erano le prime ore di una mattinata purissima. Dalla cella delle campane, alla quale salì per vecchie scalette di legno, si vedevano i trinceramenti austriaci, così vicini e netti che pareva si potessero toccare stendendo il braccio. Il binocolo in una mano, un lapis nell'altra, l'ufficiale guardava e scriveva. Tracciava sulla carta topografica appunti e segni. Scorgeva le posizioni dello Svinjak, scorgeva le posizioni dello Javorcek, spingeva le sue ricerche nel cavo delle valli intermedie, calcolava, telemetrava, senza accorgersi dello scorrere del tempo. Intanto degli austriaci entravano in perlustrazione a Plezzo.

Una pattuglia nemica, arrivata dalla parte di Koritnica, percorreva tranquillamente la via principale, senza preoccupazioni, con la serenità di chi si sente sicuro in casa sua. Improvvisamente, ad uno svolto udirono vicinissimo il trotto di due cavalli. Era l'ufficiale italiano e la sua ordinanza che tornavano al campo. Gli austriaci non ebbero il tempo di pensare, fu un attimo, i cavalieri sboccavano sulla via, erano ad un passo da loro. L'ufficiale tirò sulle redini, squadrando quegli uomini con l'occhio feroce dei momenti critici, il cavallo ebbe un movimento d'impennata. Gli austriaci, sbalorditi, si attaccarono al muro, senza osare un gesto. E sotto a quello sguardo, istintivamente, portarono la mano alla visiera, salutando....

Immaginavano forse un seguito di truppa nella strada attigua, e si sentivano perduti. L'ufficiale passò, l'ordinanza passò. Appena passati si curvarono sulle selle, speronando; impetuosamente i cavalli balzarono al galoppo. Era tempo. Dietro a loro la fucileria si svegliava; stormi di pallottole rimbalzavano sibilando intorno. Gli austriaci, riavutisi dalla sorpresa, sparavano freneticamente. Ma per fortuna inutilmente. La straordinaria missione era compiuta.

Il nemico ha tentato più volte di liberare i suoi fianchi dalla stretta che lo attanaglia. Per spezzare il nostro investimento del Rombon e dello Javorcek ha replicatamente lanciato degli attacchi. Presentendo forse il bombardamento imminente, poche ore prima che le nostre grosse artiglierie iniziassero il fuoco contro ai forti, nella notte del 31 agosto, delle forze austriache salivano da levante le pendici del Rombon, precedute da un intenso cannoneggiamento allo scopo di aggirare le nostre posizioni. Fu un combattimento breve ma vivace. Respinti da lì, due giorni dopo si volgevano contro le nostre posizioni alle spalle dello Javorcek, nel vallone dello Slatenik. Si è tanto lottato in quella gola che essa appare alla fantasia come un canale di battaglia. Furono ancora ricacciati. Nello stesso giorno, essi lanciarono alla deriva nell'Isonzo qualche mina galleggiante. Avevano sentore di movimenti nostri, e speravano di potere far saltare dei ponti. La mina fu pescata.

Intorno a Plezzo la lotta si andava facendo più viva, nuove forze italiane premevano da ogni parte, e la preparazione delle artiglierie si faceva di giorno in giorno più energica. Si presentiva l'azione vasta di questa ultima settimana. Dopo l'attacco del 31 agosto, dei drappelli nemici si erano rintanati qua e là nelle pendici del Rombon, erano rimasti celati in nascondigli del monte, tendevano a fare infiltrazione, creavano dei minuscoli punti di appoggio per futuri tentativi di attacco. Il 5 settembre la montagna fu spazzata. I drappelli furono scovati, assaliti, messi in fuga, si penetrarono i loro nascondigli già pieni di armi, di munizioni, di viveri.

Per provocare una diversione, il giorno dopo delle forze rilevanti austriache salite da Tolmino attaccavano le nostre posizioni sotto alla vetta del Mrzli. Si voleva stornare l'azione da Plezzo riaccendendola sulle propaggini meridionali del Monte Nero. Era una cinerea giornata di nebbia lassù. Abbiamo descritto quelle posizioni come si vedono dalle alture di Colovrat. Sulla cima del Mrzli, pianeggiante, una formidabile trincea austriaca, il cui reticolato è intessuto intorno ai tronchi bruciacchiati di un lembo di foresta che il cannone ha distrutto: un poco più sotto, a poche decine di metri, il bosco rinverdisce e rinfoltisce, e lì, fra gli alberi, i nostri. L'attacco nemico è stato respinto, senza vederlo, nella nebbia densa.

Gli austriaci richiamavano rinforzi verso Plezzo. Un urto di masse era imminente. Dai nostri osservatorî più alti si potevano scorgere colonne di truppe e di carreggi che scendevano dal Predil. La nostra grossa artiglieria, l'8 settembre, arrivava a fermare e disperdere due di questi ammassamenti in marcia. Nella notte del 10 il nemico tentava un ultimo attacco per liberare la sua sinistra, dove noi avevamo cominciato a stabilirci sulle balze dello Javorcek. È ancora nel vallone dello Slatenik che si combatte. I nostri ripetono la tattica usata contro il battaglione ungherese sulla testata della stessa gola. Aspettano l'assalto in silenzio, lo lasciano avvicinare senza tirare un colpo. Del resto, l'oscurità profonda renderebbe inefficace il tiro; non è a fucilate che l'assalto viene respinto. È a baionettate. Quando il nemico è a pochi passi dalle trincee, i nostri si precipitano alla mischia, lo scompigliano, lo disperdono. Al mattino dopo la battaglia divampava furibonda e vasta su tutto il bordo orientale della conca di Plezzo. Il nostro attacco in forze, lentamente preparato, si scatenava.

Più di sessanta cannoni tuonavano su quel ristretto fronte, e le nostre magnifiche fanterie si impegnavano sullo spalto erboso dello Svinjak, fra i boschi dello Javorcek, fra le rocce del Rombon, in un maestoso semicerchio di furore. Alla sera le prime nostre trincee di attacco avvicinavano i reticolati delle posizioni centrali. Proiettori e razzi illuminanti inondavano la vallata di splendori soprannaturali, e in vividi chiarori meteorici la battaglia proseguiva, terribile, fantastica. Per tutto era un divampare di esplosioni, un lampeggio di colpi, e il frastuono formava un solo, continuo boato. Si scorgevamo talvolta degli strani, lunghi serpeggiamenti di luce azzurrastra come uno strisciare, uno snodarsi di favolosi fuochi fatui: erano getti di liquido infiammabile. Non vi sono mezzi sleali ed atroci di guerra che il nemico non tenti. Certi reparti nostri dovevano combattere con la maschera contro i gas asfissianti che delle granate a mano sprigionavano.

Durante la notte dei reticolati erano stati distrutti; l'assalto era penetrato qua e là nelle linee più interne; delle posizioni nemiche erano conquistate. Ma dopo aver lottato per prendere, bisognava lottare per conservare. Spesso anzi è più difficile mantenere una posizione che espugnarla. Dopo ogni fase di attacco vi è una fase di consolidamento. Bisogna resistere a tempeste di granate, e scavare, erigere, lavorare difendendosi, crearsi le protezioni, le blindature, i refugi, lasciare ogni tanto il piccone per la baionetta. In tali soste il valore del soldato è più provato forse che nell'assalto. Occorre un valore freddo, calcolatore, intelligente.

Alcuni giorni sono trascorsi in queste lotte di resistenza, durante le quali l'artiglieria infuria, perchè è lei che sorregge, che protegge, che attacca, che predomina.

Degli aeroplani nemici volavano per la prima volta sulla conca di Plezzo in una affannosa ricerca di batterie. Il consolidamento delle posizioni conquistate era completo il giorno 14, e una prima calma si fece. All'alba del 17 settembre la battaglia ha ripreso, in tutto il settore, ed è contro lo Javorcek, nella boscaglia, che il nostro attacco si spinge con maggiore violenza. Dei reticolati sono spezzati, l'assalto si slancia, due blockhouses, cioè due ridotte blindate, vengono distrutte con tubi esplosivi, dei trinceramenti sono conquistati alla baionetta. Agli sbocchi delle valli la nostra occupazione si consolida, la conca di Plezzo si chiude definitivamente al nemico. Due ufficiali austriaci e una cinquantina di soldati prigionieri, scampati agli assalti sulle pendici dello Javorcek, scendono alla sera del 17 verso Saga.

Sono quei prigionieri che abbiamo visto passare a Caporetto, scortati dai carabinieri, fra due siepi di soldati curiosi e silenti.

Non riuscivamo, contemplando la valle, immaginarvi il tumulto che la riempiva poche ore prima, e che forse tornerà a sollevarsi fra poco. Un solo cannone sparava. Era uno dei giganti. Ogni quattro, cinque minuti il suo boato percuoteva le montagne e si spezzava in mille rimbombi. Vedevamo il fumo diafano e azzurro del colpo, in un folto d'alberi; non potevamo scorgere dove battesse. Persisteva, regolare, ostinato, come aspettando una risposta al suo possente ruggito. Non rispondevano che gli echi, nella vallata calma, piena di quel pauroso senso di solitudine e di stupefazione che pesa sui campi di battaglia quando la lotta è sospesa.

Scendeva la sera, quietamente, e la prima oscurità saliva dal basso, come una marea d'ombra. La notte sorgeva dalle profondità, mentre sulle vette ardeva l'ultimo fuoco del tramonto. Lo Svinjak silenzioso, con il suo nero bosco pieno di cannoni, di fronte a noi, si faceva livido, truce, prendeva una non so quale espressione sinistra, si velava di un colore di tempesta nel crepuscolo. E il cannone continuava a lanciare ad intervalli la sua tuonante formidabile interrogazione.

NELL'ALTA VALLE DELL'ISONZO. LE FASI DELLA GUERRA INTORNO A TOLMINO.

27 settembre.

A metà della sua corsa fra i monti, l'Isonzo fa come una sosta. Trova un paesaggio ridente di colline, tutte verdi di boschi e di prati, inoltra in una pianura tappezzata da un variopinto splendore di campi coltivati, e il fiume, che arriva violento per la sua corsa in gole selvagge, rallenta la foga delle sue acque, si allarga in un gran letto biancheggiante di ghiaia, riposa, gira, serpeggia, quasi per indugiare in larghe volute azzurre prima di lasciarsi riafferrare dall'ombra di altre vallate anguste e profonde, nelle quali riprenderà il suo impeto. Questa bella regione è la zona di Tolmino.

Dopo aver percorso tante zone montuose della guerra, cominciavamo a ritrovare in essa le molli e tepide altitudini normali della nostra vita. Non più fosche e rigide moltitudini di abeti e di pini alpestri sui declivî dei colli, non più rocce, burroni, abissi, non più canaloni nei quali la neve si rannicchia e si nasconde l'estate, aspettando il ritorno dei geli per uscir fuori e invadere tutto; percorrevamo prati costellati di delicati e pallidi asfodeli, ci riposavamo nell'ombra di quercie e di castani, ed allargavamo con le mani il fogliame di roseti selvaggi carichi di bacche rosse per guardare in giù nella vallata, piena di sole e di silenzio.

Ci eravamo spinti sopra una delle balze estreme del Colovrat meridionale — la catena di alture che sta fra lo Judrio e l'Isonzo — e vedevamo sotto a noi, a poche migliaia di metri, la cittadina di Tolmino con le sue grandi caserme austriache dalle corti quadrate, vaste come piazze d'armi, con i suoi capaci magazzini militari, e le larghe strade bianche, fatte per il transito degli eserciti, distese a rete tutto intorno. Assai più vicino, alla nostra destra, a due chilometri appena, sollevavano il loro dorso le famose alture di Santa Maria e di Santa Lucia, due gruppi di colline boscose, pittoresche, al di là delle quali, verso levante, l'Isonzo gira. Alte, lontane, dietro a Tolmino, sbiadite nella profondità del sereno, torreggiavano le creste rocciose del monte Cuk, le vette del massiccio che divide la valle dell'Isonzo dalla valle della Sava, le pietre naturali del nostro vero confine.

Sono le colline di Santa Maria e Santa Lucia che hanno fatto di Tolmino una piazzaforte austriaca. Da Caporetto in giù, per tutto, la nostra riconquista ha potuto affacciarsi sull'Isonzo, ma in due punti il fiume si discosta subitamente, si nasconde dietro ad alture isolate, fa un gomito per mettere fra noi ed un tratto del suo corso la barriera di quei piccoli nodi montuosi, una barriera che cela e protegge ponti e strade. Presso Tolmino sono le colline di Santa Maria e Santa Lucia; presso Gorizia sono le colline di Podgora, di Oslavia e il monte Sabotino. Il nemico ha fortificato formidabilmente questi due aggruppamenti di alture al di qua dell'Isonzo, che gli dànno il possesso di paesaggi sul fiume, che sono centri poderosi di difesa e basi possibili di offesa.

Perchè è all'offesa che il nemico pensava prima di trovarsi costretto a difendersi. Basta vedere Tolmino per riconoscervi una di quelle forti basi d'avanzata che l'Austria aveva preparato un po' per tutto sulle nostre frontiere, con una larghezza di mezzi, con una profusione di milioni, con un'attività, che dimostrano un piano preciso e una volontà senza indugi. Noi non avevamo niente al di qua; Tolmino fronteggiava delle valli aperte, che convergono verso Cividale, scendendo alla indifendibile pianura friulana.

Non si costruiscono tre grandi ponti per un paesello, non si erige una vera città di caserme e di depositi, con panifici ed ospedali da metropoli, non si fanno centinaia di chilometri di strade militari, non si trasformano montagne in fortezze, sopra tutto quando dall'altra parte della vicina frontiera nulla si fa, neppure una strada, se non c'è il definito progetto di servirsi e presto di tutte queste opere.

Nel nostro giro sul fronte, quello che ci ha più fatto pensare, oltre alla guerra che si combatte, è la guerra ben più terribile, la guerra spaventosa, atroce, sproporzionata, disperata che si sarebbe combattuta se gli eventi non avessero dato a noi la scelta del momento, se non fossimo stati noi a gettare il guanto e varcare le frontiere, se lo sconvolgimento dell'Europa non fosse venuto a destarci. Bisogna vedere per comprendere. Per difficile che sia la guerra d'oggi, noi dobbiamo benedirla perchè ci salva dai disastri immensi la cui preparazione, che è ora tutta sotto ai nostri occhi, ci cingeva a poco a poco mentre noi dormivamo sognando la pace perenne. La guerra era inevitabile, era decisa: dovevamo farla o subirla.

Non conoscevamo esattamente il valore combattivo di Tolmino. Iniziate le ostilità, le nostre truppe occuparono le alture fra lo Judrio e l'Isonzo e dalla cresta videro, come noi l'abbiamo visto, Tolmino in basso, con la sua pesante avanguardia di edifici governativi, e la folla gaia delle sue case, raccolte fra recinti d'orti, in un verdeggiare di frutteti. Subito, le colline di Santa Maria e di Santa Lucia tuonarono; incominciò un fuoco di medî calibri invisibili, introvabili, che battevano le nostre alture. Continuano ancora, a intervalli.

Udivamo infatti di tanto in tanto il rantolo di qualche grossa granata austriaca, che veniva a scoppiare alle falde dello sperone sul quale eravamo. Dei colpi rispondevano; noi potevamo seguire da vicino la manovra pacata di alcuni artiglieri nostri, intorno ad un pezzo imboscato in un intreccio di cespugli. Facevano fuoco ogni cinque, ogni sei minuti, per non permettere al nemico di scoprire la vampa, e fra un colpo e l'altro si sedevano intorno, conversavano, leggevano un vecchio giornale che passava da mano a mano, compitato e commentato. Nelle vicinanze il terreno era squarciato dai proiettili. Una granata da 305, caduta recentemente, vi aveva aperto una cavità larga, irregolare, profonda, nella quale dei soldati raccoglievano pesanti schegge di acciaio.

Il primo bombardamento austriaco cominciò il 26 maggio. Non fece danni e non fermò le nostre truppe. Si iniziava l'investimento della piazzaforte. L'operazione non pareva estremamente difficile; le colline di Santa Maria e di Santa Lucia non lasciavano scorgere ancora le loro difese imboscate. Gravi ostacoli già ci sbarravano il passo di fronte a Gorizia, e sembravano più facili forse quelle alture di Tolmino, che non avevano l'aspetto possente e ostile del Sabotino e del Podgora. Nei primi giorni di giugno Tolmino parve seriamente minacciata da noi, e si poteva credere allora che su Tolmino potesse portarsi l'attacco fortunato che, penetrando fortemente in quel punto, scuotesse le posizioni nemiche di Gorizia.

L'attacco fu dato. Le nostre truppe erano arrivate a contatto di numerose linee successive di trinceramenti in cemento, mascherati dal bosco, protetti da numerose batterie incavernate, riuniti da cunicoli, tutto un sistema di fortificazioni interrate, nascoste, in agguato. Fu allora forse che si pensò di portare il colpo offensivo su Plava, cioè ad un altro raccordo di strade che un ponte congiungeva attraverso l'Isonzo, in un settore più vicino a Gorizia, e che poteva supporsi meno preparato alla difesa. Era l'unico punto di quella zona sul quale potesse tentarsi il passaggio del fiume. Non si può combattere in qualsiasi luogo; l'offesa e la difesa seguono vie e direzioni prevedibili; le battaglie hanno campi predestinati; la viabilità fissa fatalmente i terreni d'azione. Dove il traffico ha già da secoli scelto i suoi passaggi, la guerra si getta. Una rete di strade dalla riva destra del fiume andava a innervarsi al ponte di Plava, distrutto dagli austriaci. Altrove l'Isonzo scorre fra due ripe altissime, senza guadi e senza allacciamenti. Volendo crearci un'altra testa di ponte, non potevamo scegliere che Plava. Ma la difesa nemica a Plava pure ci aspettava. Noi la spezzammo.

Per oltre due mesi dall'inizio della guerra, di Tolmino non si parla più. Non vi è inazione; vi si combatte, vi si cannoneggia, le fanterie mantengono il contatto, le nostre trincee a poco a poco avanzano, portano i loro scavi sempre più vicino alle posizioni nemiche, le incalzano con la lentezza del piccone. Si prepara l'attacco. È il 16 agosto che l'offensiva nostra violentemente si slancia in avanti. Comincia allora un periodo di furore.

La collina di Santa Lucia è oblunga, regolare, boscosa; ma a tratti il bosco cessa al bordo rettilineo di grandi prati in declivio, ombreggiati qua e là da qualche ciuffo d'alberi, rigati da un folto distendersi di siepi; anche la vetta è erbosa e scoperta. Adesso i prati sono qua e là sterrati dai colpi di cannone, scorticati, del colore dei campi arati, e la vetta, bucata dai crateri scavati dalle granate, uno vicino all'altro, ha quell'aspetto strano dei paesaggi lunari, pieni di cavità rotonde e di bordi circolari. La nostra artiglieria rovesciò su Santa Lucia e su Santa Maria un diluvio di proiettili per preparare l'attacco.

Coperte da quel fuoco, le nostre fanterie spezzarono i reticolati e si slanciarono alla baionetta. Una linea di trinceramenti austriaci fu conquistata. Poi un'altra. L'assalto saliva il declivio da ponente. L'urlo dei combattenti si udiva, alto, tremendo, dalle posizioni di artiglierie sulle alture vicine. Nelle trincee prese, delle compagnie intere di austriaci si arrendevano. Durante la giornata del 16 agosto furono presi prigionieri 17 ufficiali e 517 soldati. Mitragliatrici, fucili, munizioni, formarono un rilevante bottino. Un reparto arrivò finalmente ad espugnare le estreme trincee, quelle della vetta di Santa Lucia, che girano intorno a due cucuzzoli simili alle due larghe gobbe di un cammello gigantesco.

Allora cominciò la tempesta delle artiglierie austriache. Non meno di quaranta cannoni concentravano un fuoco spaventoso sulle sommità del colle. Non vi era tempo per costruirsi dei ripari; bisognava ritrarsi dal costone più esposto. Ma ci tenemmo saldamente sui fianchi delle alture, dove ora si vedono serpeggiare i solchi profondi dei nostri trinceramenti, ai quali salgono strani viottoli di approccio. Gli austriaci rioccuparono le vette. Le loro trincee sono ad un centinaio di metri dalle nostre.

La vera forza di resistenza del nemico è nel cannone. La sua fanteria non si mantiene che nei punti sui quali la sua artiglieria può battere. Gli austriaci hanno dovuto abbandonare sempre i declivî per reggersi sulle creste. Dove le loro granate non arrivano, la loro difesa sparisce.

La battaglia continuò il giorno 17. Qualche nuova trincea fu presa. Altri duecento prigionieri vennero catturati. Ma la lotta più che di attacco era di consolidamento, di sistemazione, di preparazione. Violente avanzate nemiche scendevano alla notte. Erano respinte. Si combatteva e si lavorava ai bagliori dei razzi illuminanti. Per lunghi giorni è continuata l'azione in episodi, sotto al fuoco dell'artiglieria nemica, che frugava il rovescio delle colline per impedire i rafforzamenti.

Il 9 settembre, nella notte, il combattimento ha avuto una ripresa furibonda. Con un assalto improvviso, un reparto nostro, sulla collinetta di Santa Maria, si è impadronito di un'altra linea di trincee, si è avvicinato alla vetta, sulla quale sorge una chiesuola, ora diroccata. Ma avanti agli assalitori, improvvisamente, balenarono fiamme azzurre, fantastiche, di liquidi infiammabili, l'ultima atrocità scientifica della Germania. Lanciato a lunghi getti, il liquido spento, che non arrivò fino ai nostri, scendeva per il declivio a lunghi rivoletti invisibili e silenziosi, poi al contatto di una capsula incendiaria divampavano di colpo. Ed erano serpeggiamenti inverosimili di luce oscillante e pallida, era un fiammeggiare tortuoso e diafano lungo il pendìo, un saettamento di vampe spettrali, presto estinte perchè la terra assorbiva il liquido, e le fiamme si abbassavano subito. Morivano in un palpito scoppiettante, lasciando tutto intorno uno sfavillare minuscolo di brage, un pagliettìo ardente di fili d'erba accesi. Intanto da esplosioni violente di granate a mano si sprigionava l'acre odore di gas soffocanti, una nebbia che persisteva nella calma della notte. I nostri si fermarono, urlando insulti e sfide: «Vigliacchi! Venite!»

Due giorni dopo si scorgevano nel vallone di Tominski dei reparti austriaci in marcia verso Tolmino. Il nemico non si sentiva più sicuro nemmeno dietro le sue fontane di benzol. Ma la calma per il momento pare tornata nel settore. Qualche duello di artiglierie, alla sera, un crepitìo di fucilate, di tanto in tanto, e lunghe ore di silenzio profondo.

Sulla collinetta conica e verde di Santa Maria, la chiesuola ha perduto il suo campanile. Serviva da posto di osservazione al nemico, i nostri cannoni l'hanno mozzato. Era un campanile rotondo che i nostri ufficiali esitavano a colpire per il dubbio che potesse avere un valore d'arte. Non farebbero del male ad un monumento a costo della vita. Ora il campanile rotondo è un rudero strano, squarciato da una parte, che mostra un interno cavo, annerito dall'incendio delle scale di legno. Un villaggio vicino, Kozarsce, che è stato un punto di appoggio della difesa austriaca, è in rovina. Ma Tolmino è intatta.

Noi lasciamo al nemico l'abominevole prerogativa della distruzione inutile. La città pare deserta, la popolazione, infatti, l'ha fuggita, per le strade nessuno passa, ma alla notte quella solitudine si popola. Tolmino è sempre un grande centro militare, e il rispetto che noi abbiamo per l'abitato finchè la battaglia non ci forza a colpirlo rende ancora agli austriaci abbastanza tranquilla quella residenza, che è sotto le bocche dei nostri cannoni e che potremmo annientare in un'ora. Il combattimento è tutto intorno.

Si vede di qua, verso il fiume, un recinto di muro sfondato, un gran recinto quadrato battuto in breccia dalle granate: è il cimitero. Una trincea di difesa lo traversa, passa fra le tombe, discosta i morti, rovescia croci e cippi, ammucchiandovi sopra i suoi sterri, e fa pensare ad una sepoltura gigantesca preparata. Più indietro, verso il sud, una seconda linea più forte, in cemento, allinea le sue feritoie larghe da mitragliatrice, rasente il suolo. I reticolati stendono per tutto il loro grigiore. Si seguono e si seguono, per la pianura, per i declivî, per le vette, attraverso i campi abbandonati sui quali i raccolti intristiscono; sono miglia e miglia di quel tetro viluppo di fili e di pali che dànno un'impressione di vigneti sterili.

Noi attacchiamo le colline di Santa Maria e di Santa Lucia da ponente, e la città da settentrione. La nostra fronte scende dal Mrzli alle pendici del Vodil e attraversa la valle. Il ponte di San Daniele, di fronte all'abitato, è nostro. È un magnifico ponte nuovo, di cemento armato. Gli austriaci speravano forse di difenderlo, e non lo hanno distrutto. Ma su tutta la lunghezza del ponte avevano ammassato ostacoli di ogni sorta, chevaux de Frise, reticolati, sbarre di ferro, un intreccio fitto al di là del quale si appostavano delle mitragliatrici. Durante il giorno, per qualche tempo, la nostra artiglieria da campagna tirava sulle difese del ponte per spezzarle, e alla notte, sotto a raffiche di piombo, dei pionieri eroici strisciavano fra i due parapetti per far saltare i rottami e sgombrare la strada.

Li conduceva un ufficiale del genio, professore di Università prima della guerra. Partiva calmo, sereno, come quando s'incamminava verso la lezione con dei libri sotto al braccio. Dove nessuno osava andare, dove la morte pareva certa, andava lui solo. Alla notte lui era sul ponte, strisciando, avanzando centimetro per centimetro, sospingendo avanti a sè un tubo di esplosivo. L'ultima volta, quando la strada era quasi tutta aperta, non è tornato indietro. Una palla lo aveva fulminato.

Ora sul ponte si vedono oscuri barricamenti di sacchi che proteggono il passaggio, e in fondo, al di là, una breve trincea si profila. È l'attacco che sbocca, ancora piccolo, ancora incerto, una testa di ponte minuscola e ardita che si affaccia.

Al nord della città, vicino quasi alle ultime case, si solleva in vedetta, isolata, una strana montagna, alta, regolare come una montagnola da giardino pubblico, aguzza, coperta tutta da un bosco, un immane cono di verdura, e che non ha un nome. La chiamano con la cifra della sua altitudine: Quota 428. Gli austriaci hanno costruito in cemento, sulla sua vetta, una torre osservatorio, fatta a colonne per lo stesso principio che ha consigliato di dare alle moderne navi da guerra un albero a tripode. Se fosse una torre piena sarebbe demolita, ma i colpi di cannone passano nel vano fra una colonna e l'altra. È una specie di campanile a giorno, una gigantesca armatura, insolentemente bianca, sulla quale la nostra artiglieria ha infuriato per giornate intere. Gli scoppî avvolgevano la bizzarra costruzione di un fumo denso; si credeva spesso di averla abbattuta, ma quando il fumo si dissipava, l'ostile torre ricompariva intatta. Essa spinge il suo sguardo su tutta la vallata, sorveglia gli approcci da Caporetto, vede i nostri movimenti lungo il fiume.

La Quota 428 è anche una posizione di combattimento, nasconde trincee, e i suoi reticolati scendono fino alla pianura, in mezzo a campi di granturco. Osservando meglio, intorno, ci si accorge di tutta una viabilità sotterranea. Certe siepi lunghe chilometri non sono altro che ingannevoli ripari per nasconderci movimenti d'uomini entro sterminate trincee di incamminamento. I villaggi sono uniti da profondi fossati, che seguono il disegno di un fregio a greca per essere protetti dai colpi d'infilata. Mentre le strade sono deserte e nessun essere vivente si muove nella vallata, entro quei canali delle truppe forse si spostano. Poco più a sinistra sono i nostri incamminamenti, sulla riva del fiume, immensi zig-zag dai bordi bianchi di sabbia appena scavata, i quali conducono lo sguardo verso un grandioso intreccio di trincee sui valloni del Vodil, all'altra riva.

Sui bordi d'ogni balza, le posizioni della difesa; poco sotto, a qualche decina di metri, le nostre, che assaltano, che s'insinuano, che spingono avanti i loro parapetti, con quel sovvolgimento di terra dei formicai calpestati, quando gl'insetti scavano furiosamente la loro strada. Da là veniva più serrato e più sovente lo scoppiettare della fucilata. Tendevamo lo sguardo verso la lotta invisibile, instintivamente, ossessionati dalla paurosa apparenza di deserto del campo di battaglia.

Cercavamo un uomo, lungo gli approcci, sulle trincee, nei villaggi che cadono in rovina, presso ai cascinali senza tetto, anneriti dalle fiamme, cercavamo un uomo la cui vista disperdesse in noi il senso di quella solitudine soprannaturale che diveniva a poco a poco angosciosa come un incubo.

L'EROICA CONQUISTA DI PLAVA.

29 settembre.

L'aspetto di solitudine che assume la guerra, quando l'assalto non si slancia, si addice alle zone selvagge. Abbiamo visto la selva di Plava non molto diversa da come la vedevano i cacciatori di Gorizia, quando la attraversavano in questa stessa stagione cercando nel suo folto il fagiano e il gallo di bosco.

Plava è un piccolo villaggio, ora distrutto dal cannoneggiamento austriaco, che allineava le sue casette ai due fianchi della strada, sulla sinistra dell'Isonzo. Delle abitazioni rimangono quattro mura scoronate, dalle cui finestre pendono rottami di imposte. Per uno di quei capricci che il cannone ha, come il fulmine, una sola casetta è rimasta intatta, bianca, col tetto nuovo. Avanti a Plava era il ponte.

Alle spalle del villaggio cominciavano subito il bosco e la montagna. Intorno, nessun altro centro abitato in vista, non campi, non vigneti. L'Isonzo scorre in quel punto incassato in una gola profonda e melanconica. Su Plava viene a finire un'ultima balza di una catena di alture boscose, il cui dorso, salendo a centina, va quasi fin sopra Gorizia e si culmina nel Monte Santo.

Vista dall'altra riva, la montagna di Plava, ha la forma di una piramide perfetta. Quando però si giunge alla sommità, a 383 metri, ci si accorge che non si è sopra una punta ma al principio di una cresta, la quale declina, poi risale. E intorno si levano tumultuosamente le ondulazioni del massiccio di Bainsizza. Non vi sono che sentieri nella oscurità del bosco; le buone strade corrono soltanto in fondo alla valle dell'Isonzo, ma al Monte Santo si allacciano le reti stradali del Goriziano.

Decisa la formazione di una testa di ponte a Plava, il primo obbiettivo fu la conquista della Quota 383. Il giorno 8 di giugno arrivò l'ordine d'avanzata. Alla sera, per la strada di Vercoglia scesero da San Martino i battaglioni destinati all'operazione, che si nascosero nella boscaglia, presso al fiume. Quando l'oscurità fu profonda, si intravvide un convoglio di cavalli e di carri, silenziosi come ombre, che andavano verso la riva. Erano i carriaggi del parco da ponti. Le ruote e gli zoccoli dei cavalli erano fasciati di stracci; gli uomini calzavano scarpe di corda. Lentamente, il convoglio si portò fino dove la strada fiancheggia il fiume.

Si cominciò la costruzione del ponte. Le barche dovevano essere portate a spalla giù per la ripa precipitosa e attraverso il letto di ghiaia. Non un rumore, non un urto, il ponte si componeva in silenzio. L'altra riva era tutta buia, nera, addormentata. Il lavoro procedeva febbrile e cauto, nelle tenebre, con l'ansia angosciosa del tempo che fuggiva, dell'alba estiva troppo vicina.

L'aurora disegnava già i profili dei monti, e il lavoro continuava. Poco più della metà del ponte era compiuta. Alle tre del mattino, quasi i tre quarti del ponte erano finiti. Ancora un poco, ancora un poco e le truppe sarebbero passate. La costruzione proseguiva ora furiosamente, nella piena luce dell'alba. All'improvviso fu un rimbombo di esplosioni nel greto e i pontieri si trovarono avvolti nel fumo.

Il nemico aveva visto. Bombardava da posizioni imprecisabili. Il ponte, colpito, si sfasciava; le barche di lamiera, sfondate dalle schegge, affondavano. Non v'era un minuto di sosta nel fuoco. Le truppe furono ritirate al coperto, nessuno rimase sulla riva cosparsa di rottami, tempestata dai colpi.

Tutto il giorno durò intenso il cannoneggiamento. Così trascorse il 9 giugno. Venuta la notte, dei drappelli ridiscesero verso la riva.

Si era pensato di traghettare poche forze per formare al di là un primo velo di difesa. Si misero i remi ad una barca e si cominciò la traversata. Passavano venti uomini per volta. Scendevano a poche centinaia di metri dal villaggio. Quando furono sbarcati in una cinquantina, i nostri cominciarono ad avanzare e prendere posizione. Il traghetto continuava. Un sergente, che comandava il primo nucleo, prese con sè un plotone e si avvicinò al villaggio, dove sapeva che doveva trovarsi un posto di vedetta austriaco.

Evitando la strada, camminando a passi da cacciatore, quel piccolo gruppo arrivò alle prime case di Plava. Le circondarono, vi entrarono senza passare per l'uscio. Scavalcarono dei muricciuoli, scalarono finestre, e arrivarono così nelle case vicine; strisciavano, penetravano da un'abitazione all'altra per le vie più imprevedute, in modo che una sentinella piazzata sulla via non potesse accorgersi del loro avvicinarsi. Arrivati sotto ad una finestruola chiusa da sportelli di legno, udirono delle voci d'uomo, all'interno. Parlavano in tedesco. Era lì.

Un colpo violento all'uscio che si spalancò, un'irruzione di baionette basse. Dieci soldati austriaci, con un ufficiale, sorpresi e allibiti, alzavano le mani. Erano in una cameretta a pian terreno raccolti intorno alla luce di una candela. La barca, in uno dei suoi ritorni, portò alla nostra riva il carico dei prigionieri.

Questa cattura ha avuto una grande importanza per le operazioni, perchè ha impedito un primo allarme che avrebbe turbato lo svolgersi dei nostri piani. Il Re ha voluto di motu proprio decorare della medaglia al valore l'ardito sergente, che nel combattimento successivo doveva cadere gravemente ferito. E ferito, egli continuava ad esortare i suoi uomini alla battaglia: «Andate avanti, avanti! Non badate a me!...»

Nella notte del 9 traghettarono circa duecento uomini, per la cui sorte si era preoccupati. Durante tutta la giornata del 10, si stette in ascolto dalla nostra riva, si cercava di penetrare con lo sguardo l'intreccio degli alberi, di vedere qualcuno dei nostri, si aspettava un segnale. Niente. Erano tutti presi? No, erano tutti in ricognizione.

Rampavano audacemente, strisciavano sulla montagna, perlustravano ogni passo, arrivavano presso alla vetta, scoprivano i reticolati, le trincee, raccoglievano dati preziosi. Perchè gli austriaci avevano fatto a Plava preparativi assai più completi di quanto fosse logico aspettarsi.

I nemici non sospettavano la vicinanza di quello sciame di esploratori; andavano, venivano intorno alle trincee, disarmati, sicuri. Le vedette di Plava tacevano, dunque gl'italiani non s'erano mossi. Più volte alcuni dei nostri dovettero girare intorno al tronco d'un albero all'avvicinarsi di soldati austriaci che passavano inconsapevoli pochi metri lontano.

Nella notte stessa del 10 si era tentato un nuovo sistema per gettare sulla riva sinistra un forte reparto di truppe. Non era possibile sostituire subito il materiale da ponte distrutto; ma vi era legname sufficiente per costruire sulla riva una passerella che, appena finita, avrebbe potuto essere varata e assicurata solidamente ai resti in muratura delle testate del ponte distrutto. Il Genio lavorò attivamente, con quell'entusiasmo alacre e grave dei nostri artieri militari, che sono così spesso in prima linea, sotto al fuoco più intenso, a creare valichi ed aprire varchi.

È un eroismo difficile quello del lavoro, perchè deve rimanere freddo, riflessivo. Il combattente può lasciarsi spesso trasportare dalla foga disordinata del suo sentimento, può gridare, può sparare. L'artiere del Genio deve pensare. Ogni suo gesto ha bisogno di precisione e di puntualità. Nel pericolo più grave egli deve agire impassibile come l'operaio nel sicuro laboratorio di un'officina. Il nostro Genio ha gettato quasi tutti i suoi ponti nel pieno del combattimento, alla prima linea, avanti alla prima linea. Dei pontieri cadevano feriti, uccisi, erano sostituiti e il lavoro continuava. Le granate sfondavano le barche di sostegno, sfasciavano il travame, distruggevano l'opera intera, e si ricominciava.

Una passerella sull'Isonzo richiedeva più tempo di quello che le circostanze concedevano. L'alba sorse, e il ponte di fortuna non era finito. Gli osservatorî dell'artiglieria nemica, già in guardia, si accorsero della costruzione e fecero aprire il fuoco. Come al giorno prima, il bombardamento fu violento e preciso. Regolato con esattezza sulla posizione del vecchio ponte, esso colpiva in pieno. La passerella rimase spezzata. Un'altra giornata trascorse nell'inazione forzata, senza nessuna notizia degli uomini traghettati alla sera, e con la certezza di trovare il nemico sempre più rafforzato. Per la forza dell'inevitabile la sorpresa, l'elemento primo di un successo facile e pieno, era mancata. Non so fino a quanto si facesse assegnamento sulla sorpresa, ma è evidente che se fosse stato nelle possibilità umane il compimento del ponte nella prima notte, l'attacco di Plava avrebbe potuto avere nella guerra una influenza profonda, penetrando ben oltre i limiti di una testa di ponte.

Si ricorse, nella notte successiva, ad un altro mezzo. Si fece il così detto «ponte girevole». Il ponte girevole non è altro che una piattaforma sostenuta da due barche, assicurata alla riva con una lunghissima corda e lasciata alla deriva. Con il movimento di un remo messo a timone, per effetto della corrente, la grande zattera, come un pendolo orizzontale, se si può dire così, può andare e venire da una riva all'altra. La piattaforma portava una cinquantina di uomini alla volta. In quella notte, finalmente, due battaglioni passarono.

Ritrovarono sulla sponda sinistra la piccola forza sbarcata la notte prima. Si era trincerata aspettando, e teneva già un lembo di altura. Le informazioni che portò furono di enorme utilità. Venne deciso di attaccare il monte sui due fianchi, lungo due valloni quasi simmetrici che sono uno a destra e uno a sinistra di Plava. L'azione cominciò a giorno chiaro.

La difesa fu violenta ma breve. Si avanzò tra difficoltà gravi ma non insormontabili. Di slancio, le linee di trincee erano prese, successivamente. Si fecero duecento prigionieri. I cannoni austriaci, con un fuoco violento, battevano sopra tutto la spalla del monte, e più giù il paese, il fiume, la riva destra. Sarebbe stato impossibile mandare rincalzi se ve ne fosse stato bisogno. Ma le notizie che arrivavano dal combattimento erano buone. Con perdite lievi l'attacco proseguiva. A mezzogiorno la cima del monte era conquistata.

Subito i soldati, benchè stanchi, si misero al lavoro per fortificare la posizione. Alle trincee prese bisogna rovesciare il fronte perchè servano contro al nemico, il parapetto diventa la spalla e la spalla il parapetto. È un duro lavoro che l'urgenza rende affannoso. I nostri erano intenti a questo consolidamento, quando gli austriaci hanno fatto un ritorno offensivo. Il combattimento si è riacceso; è durato qualche tempo. Un accenno di assalto alla baionetta ha ricacciato indietro i nemici, senza però farli desistere interamente. Essi, probabilmente, non avevano altro còmpito che quello di tenere impegnate le nostre forze. Un movimento assai più grave stava svolgendosi.

Sul declinare del giorno furono avvistate masse austriache in marcia lungo l'Isonzo. Erano due gruppi, uno veniva dal nord e uno dal sud, e convergevano verso Plava. Il nemico tentava l'aggiramento delle nostre truppe sulla Quota 383, tendeva a tagliarle fuori, a isolarle, a occupare la base di sbarco. Esse non potevano difendere la vetta e i fianchi, non bastavano a reggere quel fronte troppo esteso. Era necessario ed era urgente che si raccogliessero, che restringessero la linea del loro spiegamento. Dovettero abbandonare la cima conquistata, ridiscendere alle prime pendici, a proteggere Plava e con Plava le comunicazioni.

Venuta la notte, si rimise in acqua il ponte girevole e cominciò il traghetto di altri battaglioni. Si unirono a quelli che avevano combattuto, costituirono nuove unità di attacco. Il nemico aveva rioccupato in forze le posizioni sulla sommità del monte. La battaglia si annunziava aspra e sanguinosa.

Le truppe erano troppo stanche per iniziare l'azione immediatamente. Anche quelle appena sbarcate avevano bisogno di riposo dopo le notti perdute nella continua attesa. Si stava per chiedere loro un grande sforzo. La mattinata del 12 trascorse tutta in una immobilità ristoratrice. L'assalto cominciò nel pomeriggio.

Si svolse con la stessa tattica del giorno prima. Le forze, divise in due colonne, si impegnarono ai due fianchi del monte, avendo la vetta per obbiettivo comune. Il movimento si era appena iniziato, che un terribile fuoco di artiglieria cominciò a battere le pendici. Era una bufera di cannonate; gli shrapnells arrivavano a raffiche continue, volteggiavano in aria foglie e rami d'albero stroncati dalle esplosioni, il piombo grandinava.

Le batterie nemiche da cui veniva quella bufera di fuoco dovevano trovarsi in parte sulle pendici del monte Kuk, uno dei tanti monti Kuk della regione, distante tre chilometri e mezzo da Plava, in parte sul Monte Santo, dal quale i medî calibri tempestavano. Per questo la nostra colonna di destra, più scoperta, era più battuta. Le perdite si facevano gravi. Non era possibile individuare con esattezza le artiglierie austriache, nascoste, invisibili. L'attacco procedeva sempre, audace, meraviglioso. Ma la necessità di riorganizzare le file troppo provate dal fuoco, diradate, la successione dei comandi per gli ufficiali che cadevano, rallentavano l'avanzata dell'ala destra.

Ad un certo punto le perdite aumentano, la colonna di destra è costretta a sostare. Quella di sinistra, meno colpita, più forte ancora e più agile, è arrivata a contatto con la fanteria austriaca e si precipita all'assalto. Fermata dai getti scroscianti delle mitragliatrici, si ricompone e riassalta. Sette volte consecutive si slancia alla baionetta. Intanto anche l'ala destra prende l'attacco. Ma avanzando dalle larghe basi del monte verso la vetta, lo spazio diminuisce, le file, che erano rade e sparse all'inizio, si sono andate serrando, formano nuclei troppo densi, ammassamenti che offrono una maggiore presa al fuoco incessante dei cannoni nemici e delle mitragliatrici, i proiettili delle quali empiono tutto il bosco di un sibilare metallico. È impossibile continuare. La colonna destra incomincia a ripiegare lentamente.

Il nemico, che sente mancare da quel lato l'attacco, cerca di avanzare incalzante. Accenna al contrattacco, fra gli alberi, preme, si fa minaccioso. L'ala sinistra si sposta, lo arresta, lo ricaccia. Il ripiegamento avviene ordinato, con lunghe soste, la faccia al nemico, e si ferma a mezza costa, ad un centocinquanta metri dalla vetta. Era la sera del 12 giugno.

Delle truppe di rincalzo passarono quella notte. La giornata del 13 trascorse in un lavoro di riorganizzazione. Alla notte seguente si riescì a costruire due passerelle sul fiume. Esse garantivano ogni libertà di movimento, assicuravano le retrovie. Un attacco di grandi masse nemiche, sopra una testa di ponte così ristretta, servita da un solo piccolo traghetto, avrebbe potuto provocare forse una gravissima situazione. I nuovi ponti dissipavano il pericolo.

Il 14 fu ordinato l'attacco per il giorno dopo.

Si era portato un mutamento al piano precedente. Una terza colonna, partendo dalla sinistra e puntando verso Globna — un gruppo di casupole presso l'Isonzo, qualche chilometro a monte di Plava — doveva eseguire un movimento avvolgente dal nord. Ma la battaglia non ebbe sviluppo. La terza colonna trovò alla sua sinistra, presso Globna, dei forti trinceramenti impreveduti, e, presa sul fianco dal loro fuoco, fu costretta a far fronte verso di loro ed attaccarli. Questo impegno la deviò dal suo obbiettivo; essa non potè continuare l'avvolgimento iniziato, si trovò fermata, fuori dalla cooperazione prefissa, impegnata in un'azione laterale e isolata. Appena tale situazione fu nota al comando, l'attacco venne fatto cessare e rimandato, per non affrontare uno svolgimento oscuro.

Fu il giorno appresso, il 16 giugno, la vera, la definitiva, la gloriosa e terribile battaglia di Plava.

Contro a quei trinceramenti di Globna, che pigliavano sul fianco la colonna avvolgente, fu mandato un battaglione per fronteggiarli e permettere così alla colonna di proseguire il suo movimento. Questo battaglione fiancheggiatore si trovò davanti a resistenze formidabili, in un tremendo fuoco decimatore, ma non si mosse; non rallentò la sua pressione sopra la forza nemica che doveva impegnare. Il comandante cadde, il capitano anziano assunse il comando. Questi cadde alla sua volta, il comando passò ad un capitano più giovane. Il terzo comandante pure cadde, e il comando passò. Poi un quarto, poi un quinto comandante del battaglione fu ferito o morto. All'una del pomeriggio sette capi si erano successi. E il battaglione non arretrava di un passo. Il nemico poteva dissolverlo, ma non respingerlo. Era come un muro che si demolisce ma non si sposta. L'ordine era di resistere fino alla morte, e si resisteva fino alla morte.

Nel pomeriggio comandava il battaglione un giovane tenente che lo resse con indomita energia, come se insieme alla eredità del comando fosse discesa da capo a capo la fiera esperienza del grado. Questo tenente è stato promosso per merito di guerra.

L'azione del battaglione sul fianco estremo sinistro liberò e difese quella della colonna avvolgente. L'attacco generale procedeva fra difficoltà terribili. Un cannoneggiamento più vivo, più micidiale ancora di quello del giorno 12, tempestava i nostri, voleva fermarli, aveva l'intensità e il furore di una disperazione, apriva dei vuoti, squarciava, ma non fermava l'avanzata, che ascendeva a piccoli balzi, risoluta, sistematica, eguale. Le perdite più gravi erano sempre per la colonna di destra, battuta dal fuoco del monte Kuk e dal monte Santo. A sinistra l'attacco urtava in un potentissimo trinceramento in calcestruzzo, difeso da mitragliatrici, preceduto da reticolati così forti che le nostre forbici non potevano tagliarli.

Quello che avveniva nel battaglione contro Globna avveniva per tutto. Comandi di battaglione, di compagnia, di plotone erano continuamente sostituiti, quasi tutti gli ufficiali di un reggimento erano caduti, le unità minori si fondevano, e l'assalto andava avanti. Era alla fine un'azione individuale di soldati. Dei soldati semplici hanno assunto il comando di reparti piccoli. Dei sergenti conducevano una compagnia. Lo slancio in avanti non veniva più dalla condotta dei capi, era nel cuore di ogni uomo. «Avanti! Avanti! Per di qua, su!», e la massa proseguiva, riformando da sè i ranghi, attenta agli ordini dei compagni più autorevoli dove gli ufficiali non c'erano più.

Meravigliosa fanteria nostra! Nel nostro esercito mutano le attitudini e le capacità delle varie armi, ma non muta il valore. Il cuore è lo stesso, l'anima è la stessa. Sono l'anima e il cuore della razza. Prodigiosa fanteria nostra! Audace, terribile, generosa, essa è il Popolo italiano. Come ricordare gl'innumerevoli e stupendi episodi di valore sovrumano che formano insieme la storia d'ogni nostra battaglia? Come ricordare i fatti di eroismo quando ogni uomo è un eroe? Il sacrificio leggendario di Pietro Micca non è diventato un atto di tutti i giorni, un gesto che si ripete avanti a tutte le trincee, quando occorre aprire la via dell'assalto attraverso i reticolati del nemico? Non partono tutte le notti le spedizioni dei volontari della Morte? Chi sono questi audaci che vanno ad accendere una miccia con l'ultima scintilla della loro vita? Non si distinguono più, hanno un nome solo, sono una cosa sola: sono l'Esercito.

Da ogni parte, quel giorno, sulla montagna di Plava, il nostro assalto, in un uragano di piombo, arrivò di fronte a reticolati che non si potevano tagliare. Non si era ancora trovato il sistema dei tubi esplosivi, e le forbici si spezzavano sui grossi fili di acciaio. I nostri tentarono con le mani di svellere i paletti, ma era impossibile, e non si resisteva due secondi in piedi, a dieci passi dalle mitragliatrici nemiche. Ma i nostri rimanevano là, contro la barriera, ostinati, furenti, fucilando le feritoie, tenendo a bada il nemico mentre studiavano il modo di raggiungerlo, di varcare l'inestricabile ostacolo.

Non potendo passare nè attraverso il reticolato, nè sopra, passarono sotto. Scavarono la terra, fecero dei solchi, strisciarono col dorso sulle spine di acciaio dei fili più bassi. Si adunarono a piccoli gruppi di quattro, di cinque, al di là, incastrati sotto agli ultimi intrecci della siepe di ferro. Poi balzarono in piedi e si gettarono contro alle trincee scoperte, impegnando una lotta a corpo a corpo. A questa vista gli altri, quelli che non erano passati, non si tennero più, e incominciarono a scalare il reticolato, appoggiandosi ai paletti, appoggiando il piede all'incrocio molleggiante dei fili, facendosi poi porgere i fucili lasciati ai compagni che aspettavano indietro. In un momento i reticolati furono tutto un formicolìo lento di uomini sospesi, un gesticolamento confuso e pacato, sul quale passavano dei fucili, da una mano all'altra, da una parte all'altra.

Scavalcata la barriera, appena a terra, senza contarsi, i nostri si gettavano successivamente nella mischia urlando. L'attenzione del nemico era stata sorpresa e deviata dal primo comparire incomprensibile di soldati italiani addosso ai parapetti. Quell'urlìo, la visione della massa sui reticolati, finì per atterrirli. La difesa era estinta dalla terribile e implacabile audacia dell'assalto più che dalla lotta. Le trincee caddero, il grido dell'evviva passava su tutte le posizioni.

Era il tramonto. Le trincee austriache non coronavano la cima, erano costruite un poco più giù per poter avere un maggiore sviluppo. Bisognava occupare la vetta, ma era tardi. Una riorganizzazione si imponeva prima di procedere oltre, dove il bosco manca e si avanza scoperti sopra una cresta pratosa. Fu deciso di aspettare l'alba. Ma un centinaio di uomini, appartenenti a diverse compagnie, senza ufficiali, avendo la volontà sola per comando e l'accordo per disciplina, portati dalla foga della lotta, avevano proseguito, soli, ignari della sosta; tornarono indietro nella notte. È un episodio minuscolo ma significativo, che descrive lo spirito del soldato nostro, il suo istinto della guerra, la sua indifferenza al numero, il suo senso di autonomia. Quando la battaglia spezza le sue formazioni e abbatte i suoi capi, quando si sbanda, si sbanda in avanti.

Siamo alla mattina del 17 giugno. Gli austriaci hanno ricevuto rinforzi numerosi durante la notte e si preparano al di là della vetta. Il nostro attacco è iniziato dalla colonna di sinistra. Appena i nostri sbucano dal bosco, il contrattacco austriaco si precipita. È formidabile, si tratta di una massa che si precipita con l'audacia di chi si sente superiore. Ma la battaglia è breve. Si è impegnata appena, che alla sua volta la colonna di destra emerge dal folto degli alberi. Prima che il nemico possa distaccare forze per trattenerla o fare una conversione per fronteggiarla, la nostra destra si slancia alla baionetta e lo assalta sul fianco. È stata la fuga, è stata la rotta, è stato lo sbandamento indietro. In altri tempi questo solo fatto avrebbe potuto costituire la vittoria definitiva di una guerra. Ma ora, un fantaccino sulla prima linea vive in un mese tutti i rischi, tutti i pericoli, tutti gli eroismi di un veterano della Vecchia Guardia.

Alle otto e mezzo del mattino la vittoria era completa. Avevamo la vetta di Plava definitivamente nostra. La lotta si riaccese poi ad intervalli. Truppe nemiche affluirono, le vicinanze si coprirono di trincee, delle artiglierie si concentrarono. Il giorno 19 subimmo due contrattacchi notturni. Il 20 tre contrattacchi notturni. Anche con forze superiori il nemico non si muove più che alla notte, ha perduto ogni fiducia nei contrattacchi dell'alba. Il 29, sempre di notte, contrattacco di masse, con artiglieria e mitragliatrici. Ogni tentativo austriaco è inutile. Ma la sua preparazione difensiva rende pure inutile qualsiasi azione nostra, anche di grande stile e con grandi forze, per allargare la testa di ponte, o meglio per servirci della testa di ponte al fine di irrompere e spingere l'offensiva verso obbiettivi più vasti e lontani.

Lentamente, un piccolo allargamento della testa di ponte è avvenuto. Dal 20 al 30 luglio abbiamo ripreso l'offensiva. Il cuneo del nostro fronte parte adesso da Globna e da Zagora, e copre bene gli allacciamenti sul fiume. Il sei agosto, l'otto, il dieci, il dodici, furibondi contrattacchi nemici si sono sferrati. Ora è la stasi, una stasi con cannoneggiamenti, fucilate, granate a mano, ma l'azione manca.

Verso Zagora, al sud, le trincee avversarie sono così vicine che, come sulla cresta di Luznica, le divide un solo reticolato comune. Da una posizione all'altra i soldati si lanciano ingiurie e bottiglie vuote. Da lì si vede, non lontano, il rovescio lungo e cupo del Sabotino, sulla cui cresta altre trincee nostre avanzano. E quasi di fronte a Zagora, all'altra riva del fiume, si vede a poche centinaia di metri la gran bocca nera della seconda galleria della strada ferrata Gorizia-Klagenfurt, melanconica strada tagliata tutta nei fianchi umidi della montagna, e le cui rotaie sono diventate rosse di ruggine.

Una volta sola si è riudito il rombo di un convoglio risuonare nella prima galleria, poco più in basso. E si vide sbucare lentamente all'aperto, con la cautela d'una grossa bestia sospettosa che esca dalla tana, un grigio treno blindato. Si fermò a osservare, sparò in fretta alcune cannonate, poi ci pensò meglio e si ritrasse prudentemente immergendosi per la coda nel buio.

Le truppe circondano senza tristezza i loro eroi caduti. Ne raccontano le gesta, con semplicità. Episodi magnifici e senza numero. Una notte, nella seconda fase delle operazioni, dopo la conquista, un caporale si offrì volontario per andare a far saltare una mitragliatrice troppo molesta. «Ma è impossibile!» — dicevano i più temerarî. Egli si ostinò, e uscì dalla trincea, spingendo avanti il tubo esplosivo. Arrivò, sotto al fuoco, a metterlo a due o tre metri dalla mitragliatrice; arrivò ad accendere la miccia. Ma lo zampillare delle scintille permise al nemico di dirigere meglio il tiro della mitragliatrice stessa, l'eroe crivellato si accasciò. Abbattendosi spezzò la miccia accesa, l'esplosione mancò. I soldati decretarono al morto la sepoltura d'onore, ed egli dorme nel centro del piccolo cimitero, sotto ad un tumulo più alto e più solenne.

Un altro racconto ricordo. In una compagnia combatteva un volontario dai baffi bianchi. Aveva sessanta anni, era soldato semplice. Il suo esempio trascinava tutti. Si era arruolato per seguire alla guerra il suo figliuolo. Servivano nella stessa compagnia, non si lasciavano mai. Si vedevano nelle marce quei due soldati vicini, così diversi e così somiglianti, che si tenevano per la mano. Si tenevano per la mano i due soldati per un'abitudine vecchia, di quando i baffi bianchi di uno erano neri e l'altro era un bimbo. Non ci si accorge mai che i bimbi crescono e che i baffi diventano bianchi. Forse anche in quell'allacciamento perpetuo di vita vi era un impulso misterioso di addio. Nel combattimento, sempre in prima linea, erano sempre avanti, spalla a spalla. Durante l'avanzata su Zagora, l'8 agosto, il figlio cadde mortalmente ferito.

Il padre gettò il fucile e si slanciò a sorreggere il morente. Intorno i soldati delle seconde linee passavano di corsa. Qualcuno si fermò un istante presso a quel gruppo. Il vecchio compagno era adorato. Egli, deposto dolcemente a terra il ferito, gli sorreggeva la testa e s'insanguinava la mano tremante per sbottonarlo e cercare la piaga. Poi, con uno scatto, sollevò la faccia pallida, calma, solenne, esclamando: «Ma perchè non l'ho avuta io?» In quell'istante una palla lo colpì sulla tempia.

Il vecchio volontario si rovesciò sul figlio. La morte li riuniva ancora.

Ma la tristezza e la poesia di questi episodi di sangue appare dopo, ripensandoli in un altro ambiente. Lì tutto sembra naturale come è naturale la vita. Tutto è forza e fervore, laggiù, è giovinezza, è gaiezza. E canzoni liete echeggiano nel tragico bosco di Plava come nella più lontana, quieta e ridente campagna del mondo.

GUERRA D'ASSEDIO INTORNO A GORIZIA. UN ATTO DI SUBLIME SACRIFICIO.

2 ottobre.

Abbiamo visto Gorizia dalla vetta del Corada, che si erge quasi di fronte a Plava. Contro alla luce del sole già alto, le montagne ai cui piedi la città si distende parevano fatte d'ombra azzurra, glauche come onde. La più alta, il Monte Santo, si acuminava nel campanile del suo santuario, antica mèta di pellegrinaggi. La tortuosa strada che vi sale da Gorizia sull'altro versante, e che noi non potevamo scorgere, ha una cappella votiva ad ogni svolta, una chiesuola ad ogni giro, una croce ad ogni passo, e da quattro mesi non vede salire che cannoni austriaci. Quel monte della preghiera è diventato la più formidabile delle fortezze, tutta vita di artiglierie introvabili che il bosco nasconde.

La schiena del Sabotino, vicino a lei, si allungava e si sollevava di scorcio come la groppa di un cavallo che s'impenni, coperta da un finimento di trincee: verso il collo le austriache, sulle reni le nostre. In un lungo scintillìo, in una voluta di luce che si spegneva subitamente nell'ombra di una gola, l'Isonzo, passata Plava, andava verso il sud a perdersi fra il Monte Santo e il Sabotino, fra questi due solenni pilastri che formano una specie di porta al fiume, oltre la quale comincia la calma magnificenza della pianura friulana. Gorizia è sulla soglia.

Ne vedevamo confusamente le case, i campanili, le torri, tutta vaga e incerta nel contrasto della luce, con delle trasparenze da miraggio. Ci appariva oltre la spalla del Sabotino, fra il fianco destro del monte ed un profilo oblungo ed oscuro di collina denudata, il profilo del Podgora. Era pallida, indefinita, immersa in una bruma celestina, in un vapore di serenità, e nel centro dell'abitato la piccola altura della sua vecchia fortezza era come fatta di nebbia. La città lontana pareva aperta, accessibile, in attesa. Sembrava di dovervi poter giungere tranquillamente scendendo per la strada di Plava. Le barriere umane erano troppo poca cosa, e lo sguardo scorreva sull'unità del piano come sopra un mare, passava sulla grande eguaglianza della terra, sulle ondulazioni facili dei declivî, cercando l'ostacolo che ferma un esercito, cercando la muraglia di ferro, e non riconoscendola in qualche minuto, infimo, lieve e sottile ombreggiamento da siepe, appena visibile, senza rilievo, confuso nel colore dei campi: quello che è una trincea nell'immensità di un paesaggio.

Abbiamo rivisto Gorizia più vicina, dalla cima del Monte Quarino, presso a Cormòns; poi anche dalla vetta del Monte Medea, che è simile a un'isola sulla verde e calma distesa della pianura, il monte dal quale Attila contemplò con germanica gioia l'incendio che divorava Aquileja. E tutte le volte la città, avanti alla quale l'uragano della guerra da quattro mesi imperversava, ci ha dato la illusione di una aspettativa tranquilla in fondo alla vallata dischiusa, senza vigilanze visibili. Parevano assai più possenti le antiche fortezze dai bastioni quadrati, larghi, che trasformavano la fisionomia dei monti, e disegnavano una minaccia sulle vette, che non i muricciuoli ineguali, primitivi, minuscoli, nascosti, della guerra moderna, cementati col sangue. La fronte di una resistenza appare evidente sulle creste dei massicci alpini, allacciata alle rocche della creazione, identificata nei castelli immani della roccia. Ma sul digradare dei colli, sulle ondulazioni verdi delle ultime pendici, sulla pianura unita, essa sfugge. Pare che non ci sia più nulla di insormontabile da varcare, che il paese sia tutto una strada, che il suo aspetto accolga e conduca.

La guerra moderna ha fatto scendere i forti dalle loro posizioni; li ha per così dire sminuzzati, li ha sparsi per tutto, sui campi e sulle balze; ha disseminato la fortificazione sopra ogni angolo di terra; non ha lasciato un lembo di suolo senza il suo bastione; ha fatto d'ogni fosso, d'ogni argine, d'ogni recinto, d'ogni ciglione, una formidabile ridotta. L'offensiva è divenuta assedio, non ha altra manovra che la zappa e l'assalto, deve spezzare delle cinture di fortezze, deve vincere e rivincere ad ogni piccolo passo in avanti. Non è una battaglia che si combatte di fronte e ai fianchi di Gorizia, è una catena di battaglie. E subitamente lo spazio conquistato appare immenso quando le terribili difficoltà superate si rivelano, quando si scorge da dove il nemico è stato a viva forza scacciato, quando le nostre posizioni si delineano dalle spalle del Sabotino alle pendici avanzate del Carso.

Siamo nella zona più nota della guerra, sulla fronte più attiva e tempestosa verso la quale l'animo della nazione si è teso con maggiore fervore, presentendo fin dall'inizio che qui, in questa larga apertura della frontiera per la quale il nemico si affacciava sulle nostre pianure indifese, sarebbe avvenuto lo sforzo più intenso, il maggiore impeto di masse. La critica e la cronaca della guerra hanno rese familiari queste regioni, dalle quali arrivarono ai giornali le prime visioni del conflitto e le descrizioni più ampie. Il lettore conosce oramai la fisionomia della lotta, sa quale sistema di difesa il nemico abbia adottato, ricorda l'aspetto generale del campo di battaglia.

L'Isonzo corre all'estremo limite della pianura: al di là del fiume il terreno ridiviene montuoso. Il nemico aveva fatto di queste alture oltre l'Isonzo un immenso spalto di fortezza, della quale il fiume era il fossato. Avanti a Gorizia tutte e due le rive del fiume sono montuose: di fronte il Monte Santo sulla sinistra, il Sabotino sulla destra, vicino al Sabotino le brevi ondulazioni di Oslavia, vicino ai colli di Oslavia il Podgora, ultimo sperone sulla pianura. Questo gruppo di alture al di qua dell'Isonzo il nemico aveva conservato e fortificato, costituendo una poderosa testa di ponte che difendeva il passaggio e garantiva a lui il libero varco del fiume nella possibilità di una offensiva. Questa era la situazione all'inizio del conflitto.

Ricordo gli ultimi giorni di maggio, quando, varcata d'un balzo la frontiera, le nostre truppe iniziavano l'attacco della testa di ponte di Gorizia. Le fanterie assalivano furiosamente le piccole trincee, ai piedi delle alture, gettandosi contro ai reticolati senza ancora conoscerne la forza, cercando di svellerli con le mani, di aprirsi un varco come in una siepe. Attanagliati ai fili rimanevano dei morti, che non parevano morti, tanto i loro volti conservavano una espressione di volontà e di furia e i loro corpi eretti un gesto di vigore. Tuonavano contro al Sabotino le nostre artiglierie da San Martino, da Quisca, da Bigliana, le strade al nord di Cormòns erano affollate di cannoni, di cassoni, di carri, artiglierie da posizione salivano lentamente trascinate da lunghe file di buoi bianchi, e il Monte Santo, la vedetta nemica, osservava freddamente tutto questo movimento, occhieggiando da lontano al di sopra della spalla del Sabotino.

Gli austriaci hanno per tutto questo vantaggio: vedere. Il terreno sale sempre di fronte a noi; al di là di una montagna ce n'è una più alta. Non ci ha preoccupato l'ascesa, ma la vigilanza. Lo sguardo del nemico scopriva tutto il nostro scacchiere, seguiva ogni mossa, poteva guidare sopra ogni punto, con precisione, il fuoco di cannoni lontani. In certi settori esso vigila ancora la rete delle nostre strade, scopre la vampa d'ogni nostro colpo. Abbiamo dovuto preparare ardite battaglie allo scoperto, senza segreti, e le nostre vittorie acquistano un valore magnifico di audacia, una grandezza prodigiosa di nobiltà e di vigore, per questa lealtà ineluttabile, per questa disperata sincerità che ci faceva trovare il nemico sempre pronto, sempre in forze, cognito del nostro piano.

Quelle prime azioni non erano che una presa di contatto, non avevano che una importanza di ricognizione. Ci aspettavamo una difesa ben preparata, sapevamo che il nemico aveva da anni studiato minutamente quella zona dal punto di vista militare, le informazioni ricevute erano concordi nel riferirci che grandi lavori di protezione si erano compiuti, ma gli ostacoli sui quali la nostra offensiva urtava superavano in potenza quello che l'opinione comune potesse prevedere. Per tutto erano ranghi numerosi di trinceramenti di calcestruzzo, con blindature di acciaio, con reticolati alti e profondi sostenuti da pali di ferro infissi nel cemento, erano batterie incavernate che incrociavano i tiri, erano sviluppi immensi di reti telefoniche e telegrafiche, innumerevoli osservatorî, zone minate. Nei primi giorni del giugno la battaglia vera cominciò.

Ebbi la ventura di assistere all'inizio della lotta gigantesca. Il sei si passava il basso Isonzo a Pieris, l'otto si occupava Monfalcone, il nove si attaccava Plava, il dieci ci trinceravamo a Gradisca. Si combatteva su tutta la fronte; Lucinico ardeva; Mossa ardeva; le alture erano velate a tratti dal fumo delle esplosioni; sulla pianura si sfioccavano le nubi degli shrapnells austriaci; il nostro attacco saliva le spalle del Sabotino e del Podgora, sulle cui vette intenibili l'onda dell'assalto oscillava. Ora avvicinando il campo di battaglia dalla parte di Cormòns, si rimane stupiti di non riconoscere più certi luoghi.

Il Podgora in quei primi giorni della lotta era una collina tutta coperta di bosco, verde, oscura, con quel profilo nuvoloso, a masse, che hanno i declivî selvosi, sui quali l'intreccio ampio delle fronde si sparge e si allarga con una morbidezza folta da pelliccia. A metà della costa qualche vigna, una verdura più chiara e più minuta. Il declivio si spegneva dolcemente fra le case di Lucinico. Adesso il Podgora è nudo.

Pare più piccolo, così spogliato del suo spesso mantello d'alberi. Nudo, sterile, rossastro, lacerato, bucato, ferito, non si somiglia più. Ha ricevuto centinaia di migliaia di cannonate. Le granate hanno tutto distrutto e tutto sepolto. Dopo aver bruciacchiato, sfrondato, stroncato e abbattuto gli alberi, esse hanno rovesciato sui tronchi atterrati eruzioni di zolle e di sassi. Non v'è più un filo d'erba; ogni vita vi è estinta. Il Podgora è il sinistro cadavere d'un colle cosparso di cadaveri d'uomini. Il nostro lavoro di zappa ha dovuto qualche volta deviare perchè scavava sotto ad un carnaio di nemici.

Sulla groppa della collina, dove nessuno dei due avversari resiste, rimane in piedi qualche decina di fusti nerastri, senza rami, un po' inclinati qua e là, scossi dalle esplosioni come da una tempesta, e sulla vetta principale, sconvolta, non ci sono che tre tronchi, tre soli, equidistanti, che ricordano le croci del Golgota e che l'hanno fatto battezzare Monte Calvario.

S'incontrano per la strada da Cormòns a Mossa degli uomini che tornano dal Calvario o che ci vanno sereni e contenti, non trovando niente di specialmente terribile in quella posizione, sulla quale si sono scatenati assalti senza numero. Dei gruppi di volontari triestini vi hanno compiuto prodigi di valore insieme alla truppa della più vecchia Italia. Tutta la costa dell'altura era difesa da una successione di trincee blindate, protette da reticolati e da mine, e sono state prese ad una ad una, a colpi di zappa, a colpi di esplosivi, a colpi di baionetta. Ogni possibilità offensiva del nemico è stroncata; la testa di ponte è ancora un ostacolo ma non è più un pericolo; non sporge più verso di noi la minaccia di una base di concentrazione, non ha più sfogo.

Sul fiume, Podgora, come il Sabotino, scende con un declivio precipitoso e breve, e su quel pendìo ripido gli austriaci sono ridotti, ad onta dell'appoggio delle batterie d'ogni calibro nascoste sul Monte Santo, sul monte di San Gabriele, sulle colline di San Marco, al di là di Gorizia. Vi si tengono arrampicati in trincee massicce, sotto blindature di acciaio, in mezzo a un dedalo di cunicoli, di gallerie, di tane. Sopra la vetta sgombra, battuta dai cannoni delle due parti, passano di qua e di là bombe lanciate da apparecchi speciali, e la notte essa è vividamente illuminata da un vigilante incrocio di proiettori, percossa da granate.

Verso la linea estrema della nostra occupazione, per gl'incamminamenti coperti, si ode spesso un lieto abbaiamento di cani, come se una caccia si svolgesse nel dedalo delle trincee, e per i sentieri scavati nella terra vanno e vengono strani equipaggi che ricordano certe carrettelle dei contadini fiamminghi. Sono piccoli veicoli che dei cani robusti, volonterosi, di quei cani da gregge e da pagliaio, bastardi, grossi e vellosi, trascinano ansimando, la lingua penzoloni, con una vivacità consapevole nello sguardo dolce, come se comprendessero l'importanza e l'urgenza del loro lavoro. Un conducente accompagna due o tre cani alla volta, li incoraggia, li chiama per nome, li aiuta nei passi difficili. Giunte alla trincea le brave bestie si accucciano fra le stanghe dei loro carrettini, col petto affannato e arruffato sotto al finimento di cuoio, e guardano il soldato che le guida, attente, il muso di traverso, le orecchie sollevate, la coda agitata, aspettando la carezza. In qualche settimana gl'intelligenti animali hanno imparato, conoscono la strada; il frastuono del combattimento non li spaventa più e vanno al fuoco come veterani.

Mentre osservavamo il Podgora, gli austriaci ci bombardavano Capriva, un villaggio fra Gorizia e Cormòns. Da alcune settimane devastano ora l'uno ora l'altro dei paesi sul piano. Credono forse di demolire i nostri quartieri d'inverno. Un fumo denso e scuro passava sui tetti. Bombardavano anche Villanova, ai piedi del Monte Fortin, lieve altura sulla riva destra dell'Isonzo. Lontano, una grande colonna di fumo bianco: un deposito nemico ardeva, incendiato da una granata nostra, nel sobborgo goriziano di San Pietro. Spesso un rumore di battaglia scendeva dal cielo.

Era un tempestare rapido di esplosioni altissime nell'azzurro. Il fuoco dei cannoni antiaerei inseguiva aeroplani nemici. La caccia ci fermava attenti, pieni di crudeli speranze. Le nuvole degli shrapnells si seguivano in fila; creavano una lunga, strana punteggiatura bianca sul sereno, cancellata con lentezza dal vento fino a formare una scìa pallida e confusa, una specie di via lattea striata e diafana. Minuscolo, chiaro, lontano, veloce l'aeroplano filava avanti ai colpi, più in alto.

Appena lasciato con gli occhi era perduto nella luce. Nuove nuvolette ce lo indicavano, più in là. Pareva una corsa fra il volo e i colpi di cannone. La macchina alata fuggiva dai tiri di una batteria e incontrava i tiri di un'altra. A intervalli il bombardamento del cielo cessava, per ricominciare più remoto. In un certo momento, quattro aeroplani austriaci volteggiavano sulla zona di Cormòns.

Si difendevano sollevandosi. È ben raro che il tiro dei cannoni possa abbattere un aeroplano da guerra, che solca lo spazio a cento o centoventi chilometri all'ora, ma lo costringe a fuggire in elevazione, a cercare la salvezza nelle altezze gelate dell'atmosfera da dove la visione della terra si confonde e l'osservazione perde accuratezza. Poi dei grandi uccelli tricolori sono sopravvenuti. Alcuni tornavano dalle ricognizioni e scendevano a motore spento come scivolando vertiginosamente sopra un immenso invisibile pendìo; altri si levavano allora con un roteare largo e solenne. Per un minuto il cielo è apparso tutto solcato dai voli. Qualche boato profondo ha scosso l'aria, e nembi densi e foschi si sono sollevati dalla terra. Il nemico lasciava cadere delle bombe.

Voleva forse colpire dall'alto qualche convoglio che passava sulla strada vicina. Le bombe scoppiavano sui campi. I conducenti guardavano con indifferenza il fumo che scorreva sull'erba e fra i filari di alberi; il convoglio proseguiva con lentezza il suo cammino. Ad uno ad uno gli aeroplani sono scomparsi. Il cielo si è di nuovo fatto silenzioso e limpido. Abbiamo allora udito brontolare il cannone in fondo alla pianura, sulle lontananze azzurrognole del Carso.

Oltre Capriva, ai piedi del Podgora, vedevamo le case sventrate di Lucinico. Il bombardamento e gl'incendî vi hanno tutto diroccato e distrutto. Lucinico è così prossimo a Gorizia che, visto da lontano, si confonde con la città. Ne è quasi un sobborgo, separato appena da un chilometro di strada e da un ponte. A Lucinico la battaglia ha infuriato.

Aprirsi un varco a Lucinico verso Gorizia voleva dire aggirare il Podgora, far cadere la possente difesa delle alture, voleva dire sfondare lo sbarramento frontale di Gorizia. Mentre il martellare degli assalti percuoteva e sfasciava successivi trinceramenti sul pendìo occidentale del Podgora, il nostro attacco, fiancheggiando a destra questa azione, si sferrò su Lucinico.

Le prime difese all'entrata del villaggio furono spazzate via. Successe un combattimento all'antica, da casa a casa, da angolo ad angolo, da porta a porta, una battaglia da pittura di guerra. Appena il villaggio fu nostro, cominciò il bombardamento austriaco, furibondo; tutto era fuoco e fumo; si udiva lo scroscio dei crolli dopo ogni esplosione; le macerie si sparpagliavano con una violenza da proiettili sollevando opachi e persistenti nembi immani di polvere, e alla notte, sopra a questo tumulto danzava il riflesso vivo e sanguigno degl'incendî. L'attacco continuava.

Le grandi opere di trinceramento preparate dal nemico erano al di là. Lavori in cemento, blindature in acciaio, linee successive di posizioni e di ostacoli, tutto quello che la scienza e l'esperienza hanno trovato di più formidabile per lo sbarramento di un piano, era ammassato su quello sbocco. La difficoltà più grave all'assalto non era l'invulnerabilità delle trincee nemiche, non era l'intensità del loro fuoco, era il reticolato, quella cosa che appariva così lieve nella distanza, così leggera e sfumata come una bruma azzurrastra. Sulle trincee si arriva, contro al fuoco si avanza, ma nessuna volontà e nessun eroismo potevano far valicare le sterminate barriere di fili di acciaio intessute sopra uno spessore di cinquanta metri. Allora i mezzi efficaci che abbiamo trovato per la distruzione dei reticolati non esistevano. Le grosse forbici a tenaglia, che così bene avevano servito ai giapponesi in Manciuria, si spezzavano. Per renderle inutili il nemico aveva adoperato dei fili grossi come cordicelle. I reticolati di Lucinico parevano inattaccabili. Si pensò al cannone.

Avvenne qualche cosa di gigantesco. Nella prima luce scialba, livida di un'alba, l'ora dei silenzi anche sul campo di battaglia, si vide un cannone uscire al galoppo dalle nostre posizioni. Si era dovuto lavorare a spianare un tratto di trincea per aprirgli il passo. Pareva che si lanciasse solo all'assalto.

Fra le due linee nemiche, in una fredda, pallida, tragica solitudine, imperterrito, il cannone galoppava alla morte. Andava lungo la strada bianca e diritta verso le trincee austriache. I suoi sei cavalli si allungavano vigorosamente nella corsa, sferzati dai conducenti saldi in sella, e il rombo metallico delle ruote si spandeva sulla quiete. L'ufficiale cavalcava a fianco del pezzo. Vi fu un minuto di sospensione, di sorpresa, di ansia, di ammirazione.

Pareva che il nemico stesso fosse tenuto immobile da un senso di rispetto e di stupefazione. Forse non capiva, non si rendeva conto, di quella sublime audacia. Ma subito dopo la fucileria austriaca cominciò, intensa, scrosciante, allarmata, da tutti i punti, di fronte e di fianco, dalla strada di Gorizia, dalla strada di Gradisca, dalle pendici del Podgora.

Il cannone si fermò a centocinquanta metri dai reticolati. Si potè scorgere qualche cavallo già ferito che si abbatteva agitando convulsamente le zampe. Poco dopo, distaccati dal pezzo, gli altri pure cadevano, tentavano di risollevarsi, ricadevano. Gli artiglieri eseguirono la manovra della messa in posizione, presero i loro posti, tuonò il primo colpo. Vi fu una pausa per regolare il tiro, poi il fuoco riprese, rapido, regolare. La trincea battuta scomparve nel fumo, ma si intravvide al di là una confusione di fuga, uno sparpagliamento di gente in corsa verso i fianchi. Il nemico abbandonava la posizione.

La fucileria austriaca infuriava sempre dalle trincee laterali. Su quell'affaccendamento di pochi uomini intorno ad un cannone, su quel minuscolo gruppo vivente nell'immobilità grigia della zona scoperta, era una grandine di piombo. Qualche servente di tanto in tanto si accasciava colpito. Allora dalla trincea nostra partiva di corsa un artigliere a sostituirlo. E il fuoco continuava.

L'artiglieria nemica si destò. Dei proiettili cominciarono a scoppiare intorno, vicino, ad avvolgere il cannone in cumuli di fumo. Ma si udiva sempre il suo tuono impetuoso, eguale, insistente, ostinato, furibondo.

Ad un certo momento una voce ingigantita dal megafono gridò da là, dal fumo: «Granate! Portateci granate!». Un cassone con trentotto granate uscì dalle posizioni e si slanciò al galoppo in quell'inferno. Il fuoco del pezzo non aveva avuto che una breve sospensione. Con le nuove munizioni il tiro ricominciò veloce. Il cannone affrettava la sua opera quasi presentisse la brevità del tempo che gli restava a vivere. Era circondato da un balenare di scoppi, da un fragore ininterrotto. Un albero vicinissimo, sul margine della strada, cadeva schiantato. Su quel punto convergeva il furore di batterie intere. Nell'uragano delle esplosioni si distinguevano i colpi del cannone nostro, regolari, serrati.

Poi il suo tiro a poco a poco rallentò. Si fece ineguale, ebbe delle pause. Gli ultimi colpi erano separati da lunghi, angosciosi intervalli. Ma il fuoco moribondo del pezzo, che si comprendeva manovrato da qualche ferito, continuò finchè tutte le granate furono scagliate contro l'ostacolo, tutte. Allora soltanto, definitivamente, il cannone tacque. Imperversò ancora su di lui la tempesta del bombardamento. Quando anche essa languì e il fumo si dissipò, sulla strada deserta non c'erano più che delle cose informi.

Il cannone, colpito ad una ruota, con l'affusto sfasciato, era rotolato nel fosso. Cominciò allora una lotta per non lasciar cadere quei gloriosi rottami in mano al nemico.

L'eroico sacrificio di quel pezzo aveva costretto l'avversario a rivelare tutte le sue posizioni. Una breccia era aperta sulla strada, ma inoltrarsi era impossibile in mezzo ai fuochi incrociati di fucileria e di artiglieria che convergevano da ogni parte, risvegliati dall'allarme, provenienti da trincee delle quali soltanto allora poteva valutarsi l'importanza e scoprirne la disposizione. Non potevamo muoverci, nessun assalto sarebbe arrivato in quelle condizioni. Nuove disposizioni si meditavano, la situazione poteva essere studiata nella sua realtà. Nelle trincee i soldati non pensavano che al cannone che bisognava riprendere.

Per tutto il giorno fu tenuto lontano il nemico. Gli artiglieri della batteria erano in trincea con i fucilieri. E furono gli artiglieri che alla fine vollero uscire, sotto al fuoco, inoltrando lungo gli argini della strada. Essi riportarono indietro i cadaveri degli uomini e il pezzo.

In ogni combattimento, sul tumulto oscuro di innumerevoli eroismi si solleva gigantesca, solenne, possente, la bellezza terribile di qualche fatto leggendario, come un monumento sulla folla. In nessuna guerra come in questa il valore è arrivato a così sovrumane grandezze. Sugli orizzonti della storia le generazioni da secoli vedono torreggiare il ricordo di gesta che non arrivano alle altezze di episodî che si svolgono ora, per tutto, senza incitamento di gloria, con la ineffabile semplicità dell'impensato, dell'istintivo, dell'inconsapevole. Son pochi i fatti che arrivano ad essere conosciuti, e nessun nome rimane scolpito su queste vette dell'epopea. I protagonisti non sono più degl'individui, hanno una personalità più grande, sono il popolo, sono la razza.

Per questo gli episodî eroici acquistano qui un colore di naturalezza e non meravigliano più. Per uno di essi che arriva alla nostra conoscenza, cento restano ignorati, passano e scompaiono dalla memoria come le onde di una tempesta, varie, imponenti, mosse tutte dalla stessa forza, fatte tutte della stessa materia, che lasciano l'impressione di una cosa sola: il mare in furia.

Oscuri e sublimi sacrifici volontari crearono il varco ad ogni avanzata, e di avvenimenti che avrebbero gonfiato di orgoglio il cuore della nazione, rimangono tre righe di rapporto richiamate da un numero di archivio. Percorrendo la fronte si scopre che gli ardimenti più grandi non sono isolati, che scaturiscono in ogni settore nelle stesse circostanze. Il cannone eroico di Lucinico ha dei confratelli per tutto, a Gradisca, a Sagrado, sul Carso....

A Lucinico dopo quella battaglia la nostra fronte sostò, mentre varcava l'Isonzo a nord e a sud, a Plava e a Sagrado, e la conquista si affermava sull'altra riva. Gorizia si vede vicina, pittoresca, intatta dalle trincee di Lucinico. I suoi edifici più nuovi e più bianchi, senza una ferita sulle loro facciate, avanzano verso il fiume, lungo viali alberati, e alla sera tutti i suoi vetri si accendono dei bagliori del tramonto, con un'apparenza di illuminazione e di festa. I campanili delle chiese numerose si affacciano incontaminati dalla guerra al di sopra dei tetti. Soltanto la stazione di San Pietro, che serviva ai trasporti di materiale da guerra ed era circondata di depositi, è stata danneggiata dalle nostre granate. Contro ad una grande tettoia da locomotive il tiro fu sospeso perchè sorse il dubbio che potessero esservi raccolti dei rifugiati.

I cannoni del nemico devastano, i nostri combattono soltanto. Non colpiscono che i punti dei quali è accertata l'importanza militare. Non fanno la guerra agli inermi, alle case, ai monumenti. Da una parte è la rovina, un paesaggio da terremoto, dall'altra continua rispettata la vita passiva e silenziosa delle città spopolate che aspettano.

Il nemico, che spesso finge di arrendersi e massacra, che alza bandiera bianca e fa fuoco, che copre con la croce rossa convogli di munizioni, che spara sulle ambulanze e sui portaferiti, che fa prigionieri dei medici, che bombarda villaggi abitati, potrà trarre qualche beneficio della nostra lealtà. Ma noi sentiamo in noi stessi l'immensa forza di una superiorità morale, la coscienza di rappresentare la formidabile nobiltà del diritto.

SULL'ISONZO E SUL CARSO. UNA MIRABILE IMPRESA GUERRESCA.

5 ottobre.

Chi si avvicina adesso all'Isonzo, attraverso la pianura friulana, prima ancora di arrivare all'antica frontiera cerca in fondo all'orizzonte l'altura strana e terribile che è il terreno della lotta più ardente, il campo delle più vaste battaglie della guerra. Il suo profilo si distacca a poco a poco dal confuso e sbiadito sollevamento lontano delle Alpi Giulie, si precisa, prende rilievo, e lo sguardo non lo lascia più. È l'ultima propaggine del Carso, l'immane gradino sul quale la nostra offensiva è salita.

Non ha l'imponenza di quelle montagne guerriere che s'offrono ai combattenti delle posizioni turrite, non ha l'aperta e fiera ostilità del Rombon e del Monte Nero. È una singolare collina, lunga, adagiata, senza sbalzi di vette, senza quell'imperioso levarsi di una cima che mette ad ogni monte come una testa dominatrice. Sembra accucciata, il suo dorso ha una immobilità rettilinea. Bisogna avvicinarsi per scorgervi qualche ondulazione. Allora si osserva che quella barriera va innalzandosi a sinistra, e sale senza vigore fino ad una specie di protuberanza terminale: il monte San Michele. Si distinguono meno, dal lido opposto, altre piccole onde: il Monte Sei Busi, poi il Monte Cosich più lontano. Nell'insieme l'altura si disegna con la regolarità di un oscuro bastione.

È un bastione lungo dodici chilometri, alto qualche centinaio di metri, che avanza a saliente, che penetra ad angolo nella pianura come lo sperone di una prodigiosa fortezza. Il fiume gira alla base di questo spalto immane, ne lambe le pendici per un lungo tratto, poi se ne discosta e scende tortuoso al mare. Ai piedi delle alture è un affollamento chiaro di cittadine e di villaggi, Gradisca a sinistra, quasi sotto al San Michele, Sagrado alla punta più avanzata del saliente, poi Fogliano, poi Redipuglia, poi Ronchi, a destra Monfalcone, disordinate mandrie di case che sembrano fermate dall'ostacolo del Carso e adunate là sotto in una perenne attesa. Ora il cannone austriaco le macella.

Avvicinandosi al Carso la pianura si fa triste. Su dei campi abbandonati il calpestamento dei bivacchi ha aperto larghe plaghe di sterilità; altrove la campagna inselvaggisce in una invasione rigogliosa di vegetazioni parassite. Tutta la vita è sulla strada, polverosa e fangosa, percorsa da convogli e da truppe, animata da squadre che lavorano al rafforzamento di argini o allo scavo di fossati. Passato il fiume comincia la visione pietosa dei villaggi bombardati. Erano rimasti intatti e viventi fino ad un giorno recente nel quale il nemico ha aperto le ostilità contro di loro.

La popolazione emigra sotto alle granate, ma poi quasi sempre ritorna e si riannida tenace nelle case sconnesse, presso la chiesa crollata. Così a Turriaco, sgretolato qua e là dai colpi, abbiamo ritrovato un po' di vita. Dei bambini giuocavano vicino alle rovine di un edificio che aveva bruciato tutta la notte e che mandava ancora fumo e calore dalle sue macerie calcinate. A San Canziano, sulle soglie di case sfondate sono comparse delle donne. Il paesello è stato bombardato con i grossi calibri, come una fortezza.

Qualche casa è scomparsa. Una granata da trecentocinque ha distrutto interamente l'abside della vecchia chiesa, e dall'immane breccia si vede l'interno bianco del tempio sventrato, pieno di rottami, invaso dal vento che agita lembi di paramenti sulla devastazione degli altari. Siccome le granate non parevano sufficienti a sconfiggere il terribile San Canziano, degli aeroplani sono arrivati carichi di bombe, e, abbassando il volo per non sbagliare il colpo, hanno gettato i loro esplosivi.

Le case rimaste in piedi sono butterate di schegge, con delle imposte sfondate, con i tetti disfatti. Agli angoli, i lampioni di ferro della illuminazione pubblica pendono in informi grovigli dai bracci di sostegno. Fu a San Canziano che un cavallo fece un famoso volo, arrivato fino alle colonne dei giornali. La povera bestia, attaccata ad un carretto da battaglione, stava in un cortile quando, a due passi, scoppiò un proiettile da trecentocinque. Il carretto si sfasciò, il cavallo sparì. Per il momento fu creduto annientato dall'esplosione; ma alla sera si scoprì che, lanciato in aria dallo scoppio, il cavallo era ricaduto sopra una casa vicina, aveva sfondato il tetto, ed era sul pavimento d'una camera, morto ma senza ferite, coperto di polvere e di tegole rotte. C'è rimasta ancora la selletta col sottopancia.

Più avanti, Staranzano è quasi distrutto. Dobbia è in rovina. Le antiche case di Monfalcone si disfanno sotto ad un bombardamento inesplicabile e feroce, che non ha ragioni militari. Granate incendiarie appiccano il fuoco, completano la devastazione, e le fiamme sono vedute alla notte fino da pescatori che remano nella quiete buia delle lagune di Marano. Begliano è morta. Due facciate di case ancora in piedi illudono chi arriva. Prima di entrarvi il villaggio pare quasi intatto, e non c'è più. Ha l'aspetto di un paese abbattuto dal terremoto. Rimangono dei muri con delle finestre, isolati come quinte di teatro. Anche qui ha cannoneggiato il trecentocinque.

Uno dei giganteschi proiettili è arrivato attraverso i muri ad un pianterreno, senza esplodere, e dalla strada si vede il terribile intruso nell'interno della casa. La finestra è spalancata, e chi passa scorge nell'ombra la granata enorme e nera, adagiata sopra un letto di calcinacci, allungare il muso aguzzo e formidabile nell'angolo di una modesta cameretta adorna di oleografie, piena di tristezza e di rassegnazione. Il resto della casa è crollato per altri colpi. Ancora pochi passi, e in una piazza cosparsa di rottami fumano ancora le macerie di una vecchia villa.

L'hanno colpita con granate incendiarie. Un grande avanzo della fronte, annerita dalle fiamme, tiene come sospesi dei lembi di adornazione classica, che l'immaginazione prolunga nel vuoto completando le linee del palazzo secolare. In alto, due statue di pietra settecentesche, rimaste sole in piedi sul coronamento, avvolte con grazia in lievi drappeggi, hanno un gesto leggiadro di danza, una posa da minuetto, e sorridono. Qualche granata passa nel cielo rombando e soffiando come un'elica da aeroplano, diretta chi sa dove, e il suo rumore si spegne. Va forse alla ricerca dei nostri ponti.

Il Carso appare vicino. Da Begliano si distingue bene la prominenza del Monte dei Sei Busi. Nella luce di un tramonto vedevamo tutto ardente quel baluardo fortificato che domina la pianura e ne comanda ogni approccio. Come le nostre truppe hanno potuto avvicinarlo, come hanno potuto attraversare il fiume sotto ai suoi cannoni, forzare il passo, salire all'assalto, insediarsi sul ciglione? L'immane spalto di pietra è stato preso per un miracolo di abilità, di pertinacia, di eroismo.

L'Isonzo è stato varcato a viva forza sotto alla fucileria e alle cannonate, col nemico trincerato di fronte, a poche centinaia di metri. Più volte i nostri ponti appena gettati sono stati distrutti dalle granate. Mancato un tentativo si ricominciava. Si è preso piede sulla riva sinistra a poco a poco in virtù di un'audacia inflessibile, tenace, magnifica. Il passaggio dell'Isonzo è uno dei fatti più meravigliosi nella storia delle guerre.

Oltre alla difficoltà che è nella disposizione del terreno, oltre alla preparazione del nemico, avevamo contro di noi una ostilità imprevedibile di circostanze. Il fiume stesso pareva cospirasse ai nostri danni. Mentre stavamo per tentare il primo passaggio, l'Isonzo si mise in piena. Il piccolo corso d'acqua veloce e chiaro divenne una immensa fiumana vorticosa e torbida. Le piene dell'Isonzo sono impetuose e subitanee. Fu allora che i ponti di Caporetto vennero travolti isolando i nostri reparti che salivano alla conquista del Monte Nero.

Ecco la ragione di una sosta delle operazioni nel basso Isonzo dopo il primo slancio dell'invasione. Tre giorni dopo la dichiarazione della guerra, le nostre ricognizioni già avevano scelto i punti di passaggio sul fiume. L'ultimo giorno di maggio ci avrebbe forse potuto trovare sulle pendici del Carso. L'alluvione ci fermò. Il nemico profittava intanto della piena per provocare quella inondazione del piano, fra Sagrado e Monfalcone, della quale narrammo diffusamente nelle cronache di giugno. Con l'inondazione gli austriaci sottraevano un vasto territorio alla manovra, restringevano i punti possibili di attacco e potevano concentrare su di essi la difesa.

Sei giorni trascorsero nell'attesa. Il 4 giugno l'Isonzo decresceva. Si iniziarono le operazioni per varcare subito il fiume nel punto meno contrastato, verso Monfalcone. Tutte le artiglierie di un corpo di armata aprirono il fuoco alla sera. All'alba del giorno dopo due battaglioni traghettavano su barche, spezzavano una debole resistenza del nemico, inoltravano verso Pieris. Dietro a loro si gettavano i ponti militari. A mezzogiorno forse una intera divisione era sulla riva sinistra. Incominciava l'avanzata su Monfalcone, che fu presa due giorni dopo. Ma l'inondazione isolava questa mossa.

Fra le truppe che agivano nella zona di Monfalcone e quelle che agivano nella zona di Gradisca si distendeva la calma di una immensa palude. Un nuovo passaggio dell'Isonzo doveva operarsi indipendentemente, senza appoggi sul fianco, ai piedi delle alture, di fronte alle posizioni nemiche. Bisognava fare un ponte e dar battaglia nel medesimo tempo. Fu il 9 di giugno, di fronte a Sagrado, che avvenne la prima traversata del fiume. L'attacco premeva quel giorno su tutta la fronte per inchiodare le riserve nemiche; si combatteva sul Podgora, si tentava il primo traghetto di forze a Plava, si prendeva la Rocca di Monfalcone.

Le posizioni nemiche da Sagrado a Sdraussina sono bombardate; ma gli austriaci, al sicuro dagli assalti sull'altra riva, lasciano le posizioni battute per rioccuparle appena il cannone rallenta. Sagrado si addossa alle falde del monte, si rannicchia fra le pendici e il fiume, e da lontano il suo campanile pare come attaccato all'oscuro sfondo del declivio. Avanti al paese, il vecchio ponte distrutto dal nemico non è più che un cumulo di grandi macerie fra le quali l'acqua s'agitava a vortici e cascatelle scrosciando e spumeggiando. Un poco a monte di Sagrado, fra due rive folte di cespugli, il fiume forma un isolotto oblungo, cinereo, fatto di sabbie chiare e cristalline e di ghiaia. Questa località è scelta per il passaggio. Si considera più facile gettare due piccoli punti fra l'isola e le rive che non un solo grande ponte dove il corso del fiume è largo e unito. L'isolotto offre come una tappa, una base intermedia, divide l'operazione e la facilita. E poi la corrente è più calma in quel punto.

Tutto è pronto. Nell'ombra della sera la truppa destinata al primo passaggio inoltra silenziosa da Gradisca e si cela nei cespugli della riva. Il materiale per la costruzione si ammassa. Alle dieci e mezzo i pontieri cominciano il lavoro. Nel medesimo tempo numerose barche traghettano le avanguardie. L'isolotto si popola. Non si ode che un risciacquìo sommesso di remi. Due battaglioni hanno lasciato la riva destra. Delle barche tirate a secco e portate a braccia attraverso l'isola sono varate sull'altro ramo del fiume. Si traghetta ora verso la riva nemica. Le operazioni procedono rapide, ordinate, in una quiete profonda.

Le prime truppe che sbarcano dall'altra parte avanzano verso Sagrado. Un intero battaglione, una piccola parte del secondo, e dei drappelli del genio, formano questa estrema avanguardia, che oltrepassa la ferrovia e arditamente s'inerpica e si aggrappa alle pendici del Carso sopra Sagrado. Il nemico pare scomparso. Ma all'improvviso scroscia la fucilata dalla parte di Sdraussina. Gli austriaci tentano, con un attacco subitaneo sul fianco sinistro, di isolare i nostri. L'ultima compagnia sbarcata, che costituiva la riserva, si slancia contro al nemico. Non si trincera, non si difende: assalta. Nella notte, nell'ignoto, corre addosso al lampeggiamento dei colpi, che si estingue. Il nemico fugge. È inseguito, e quando i nostri ritornano verso Sagrado, sospingono una lunga mandria di prigionieri.

All'alba, il ponte sul primo braccio del fiume è quasi finito. Non mancano che tre campate per toccare l'isola. Si lavora con furia, con febbre, correndo; è una perpetua processione veloce di tavole e di assi, oscillanti sulle spalle dei soldati, che va verso la testata del ponte. Subitamente, un inferno di esplosioni. L'artiglieria nemica aggiusta il tiro sull'ultima campata, dove il lavoro più ferve. Degli uomini cadono; delle barche di lamiera, forate dalle schegge, si riempiono rapidamente d'acqua e affondano trascinando pezzi di ponte con uno scricchiolìo di legname spezzato, sfasciando travature, facendo saltare legamenti di ferro. Il lavoro è sospeso. La riva diviene deserta.

Il danno non appare irrimediabile. I cannoni nemici hanno cessato la devastazione. Due terzi del ponte sono intatti, e le campate distrutte alla testa possono essere rifatte. Non c'è tempo da perdere. Il fuoco austriaco imperversa adesso sull'isola e sulla riva sinistra. È un uragano di fucilate e di cannonate. Il furore di batterie e di battaglioni si concentra su quelle piccole zone, che un'oscillazione lenta di fumo va ricoprendo. Le nostre avanguardie isolate sono là sotto. L'artiglieria italiana tempesta, ma i cannoni austriaci ben nascosti continuano. Le nostre truppe fremono, ed i pontieri invocano l'ordine di riprendere il lavoro.

Il lavoro è ripreso. Immediatamente le granate austriache ritornano al ponte, e questa volta battono le campate di attacco e quelle del centro. Non rimangono più che brevi tratti del ponte ancora sull'acqua; il resto ha il lamentevole aspetto di un avanzo di naufragio. Ricominciare è impossibile. Del resto il materiale necessario per il completamento del ponte comincia a fare difetto. Si deve aspettare la notte per muoversi. È stato possibile traghettare alcuni feriti dall'isolotto, poi ogni comunicazione attraverso il fiume deve cessare. La giornata trascorre lenta in un'ansia mordente per la sorte dei due battaglioni rimasti sulla riva opposta e sull'isola. Che cosa avveniva laggiù?

Il nemico non ha osato un attacco su quella piccola forza che aveva passato l'acqua. Non si è mosso; ha creduto meglio agire da lontano. I nostri si sono ritirati dalle pendici di Sagrado ritornando alla riva. Là si sono trincerati.

Passato un primo soffio di sgomento inevitabile al sentirsi soli, senza soccorsi, contro masse di nemici, hanno preso le disposizioni della difesa. Il greto del fiume formava un angolo morto: vi si interrarono. I tiri di fucileria e di artiglieria passavano sopra a loro e finivano nell'acqua. Le perdite dovute al fuoco erano minime. Ma la situazione appariva delle più disperate, con un esercito di fronte e un fiume inguadabile alle spalle. Le teste dei soldati rannicchiati erano rasentate da raffiche di piombo; l'Isonzo s'impennacchiava tutto di spruzzi. Ogni speranza era nella baionetta; si aspettava l'attacco per slanciarsi fuori all'assalto.

Alla sera gli austriaci debbono aver supposto che non ci fosse rimasto un solo uomo vivo laggiù. Cessarono il fuoco e andarono a dormire. Nella notte calma ed oscura si riudì allora il tonfo lieve dei remi sul fruscìo gorgogliante delle acque. Ricominciò il traghetto sui due bracci dell'Isonzo. Mentre si ritiravano gli uomini, i pontieri lavoravano al ricupero del materiale, immersi nell'acqua, seminudi, salvando tutto quello che si poteva salvare del ponte distrutto.

Sull'isolotto erano rimasti senza ricovero sotto al fuoco terribile quattrocento uomini, con il comandante del secondo battaglione di avanguardia. Pareva dovessero essere annientati. L'isola non ha un rilievo, non un macigno, non un ciuffo d'erba, è una spianata grigia, scoperta, sulla quale si distingue un uomo da dieci chilometri. Sotto al fumo degli shrapnells si vedevano con angoscia, dalla riva destra, centinaia di corpi distesi e immobili, dei cadaveri certamente, su tutto l'isolotto. La notizia di un battaglione distrutto era sussurrata già più lontano. Ma quei cadaveri erano caduti in un modo singolare, tutti per un verso, allungati di fianco. Non si scorgeva che erano sdraiati contro a minuscoli parapetti. I soldati avevano scavato la sabbia umida e granulosa, facendovi delle fosse con le mani, con la paletta, con la visiera del berretto, e si erano imbucati. Alla sera avevano soltanto una cinquantina di feriti e una quindicina di morti.

L'ordine era tale, che le truppe reduci dalla audace spedizione sulla riva sinistra avevano conservato tutti i loro prigionieri, e traghettavano aumentate del numero dei nemici presi. Ma all'alba, per i ritardi dovuti al trasporto dei feriti, non tutti i soldati della eroica avanguardia avevano ripassato il fiume. Bisognò sospendere l'operazione.

Gli austriaci, usciti alla mattina dalle loro posizioni e arrivati alla riva, si erano accorti che quei nostri reparti che immaginavano massacrati erano scomparsi. Andavano per contemplare dei morti, e i morti se n'erano andati. Divennero furibondi. Si trincerarono sulla riva, e aprirono un fuoco serrato e cieco contro l'altra sponda. Arrivata la sera, la loro artiglieria ricominciò a bombardare gli avanzi del ponte. Dalla nostra parte, silenzio. Si era intenti al salvataggio degli ultimi superstiti. Appena ritornati i traghetti, tutta la nostra riva divampò. Per lunghe ore, nelle tenebre di una notte piovosa, continuò il frastuono del combattimento attraverso l'Isonzo contestato.

La notte dell'11, la notte del 12, la notte del 13, videro un affaccendamento silenzioso sulla riva. Si finiva il recupero del materiale del ponte. Intanto cercavamo un rimedio alla inondazione, che ci paralizzava sopra sette od otto chilometri di fronte, impedendoci di sfruttare il passaggio effettuato sul corso più basso dell'Isonzo, a Pieris, e di portare l'attacco fra Sagrado e Monfalcone. È noto come gli austriaci avevano ottenuto lo straripamento delle acque sulla pianura. A Sagrado una grande diga munita di chiuse sbarra l'Isonzo e raccoglie le acque per immetterle nel capace canale industriale di Monfalcone. Gli austriaci avevano serrato le chiuse e sfondato con le mine un argine del canale. L'acqua fermata dallo sbarramento abbandonava il letto del fiume, imboccava il canale, e per le rotture dell'argine dilagava sui campi.

Due obici di mezzo calibro con tranquilla audacia furono portati di fronte alla diga, nei pressi di Sagrado, a trecento metri dalle trincee austriache, sotto al fuoco della fucileria, e tirarono a granata sullo sbarramento. La diga fu sfondata in due punti, l'acqua si precipitò per le brecce scrosciando. L'inondazione cominciò a diminuire, ma troppo lentamente. Due ufficiali superiori del Comando Supremo, qualche giorno dopo, si spinsero in ardita ricognizione per studiare da vicino il problema del deflusso. Arrivarono carponi fino alle rovine del ponte di Sagrado, nascosti fra i cespugli e le alte erbe della riva. Una sentinella austriaca vigilava a pochi passi da loro. Si resero conto che l'apertura creata dal cannone sulla diga massiccia era insufficiente. Bisognava tentare ad ogni costo di riaprire le chiuse.

Una notte, un reparto del genio uscì dalle posizioni e scomparve nel buio. La fucileria nemica si destò poco dopo; una mitragliatrice martellava; il reparto doveva essere stato scoperto. Ma andava avanti, saliva sulla diga, strisciando, arrivava alle chiuse. Il loro macchinismo di apertura era spezzato. Le chiuse erano inchiodate. Le enormi saracinesche non si muovevano più. Nessuna forza umana poteva sollevarle. Queste difficoltà gravi non sono insormontabili per un soldato del genio che si è portato sulle spalle uno zaino pieno di gelatina esplosiva. In mezzo ad uno schioccare di pallottole che battevano sulle pietre della diga, delle mine furono accuratamente preparate. E pochi minuti dopo abbaglianti esplosioni aprivano la via all'irruenza delle acque. L'inondazione era vinta.

Era vinta, ma un allagamento così vasto avrebbe indugiato settimane a ritrarsi. Non si poteva aspettare. Il passaggio del fiume fu ritentato nella notte del 15 giugno. Il fuoco del nemico non permise lo sbarco delle prime avanguardie. Due notti dopo si rinnovò il tentativo, ma l'operazione dovette essere ancora sospesa. Gli austriaci vigilavano ora, e nei varchi minacciati concentravano un fuoco spaventoso di cannoni, di mitragliatrici, di fucili.

Il deflusso dell'inondazione era seguìto ansiosamente. Campi e strade emergevano a poco a poco, un nuovo terreno di attacco si scopriva con feroce lentezza. Ogni giorno perduto aumentava la forza e la preparazione del nemico. Tutta la nostra energia, tutto il nostro valore, tutta la nostra sagacia non potevano nulla contro l'ostilità insuperabile e passiva di una distesa di acque. Persisteva ancora l'allagamento in vaste zone, quando si ordinò l'avanzata contro la fronte Sagrado-Monfalcone, per accostarsi anche con l'ala destra alle pendici del Carso e investire le alture da ogni parte. Erano passati venti giorni da quella fatale piena dell'Isonzo che ci aveva fermati.

Verso la nuova linea d'investimento le truppe, protette dalle artiglierie, si lanciarono affondando nel fango. Più avanti, diguazzavano nell'acqua che arrivava loro quasi ai ginocchi. Avanzavano da ogni parte, imperterrite, sul terreno viscido. Il 21 di giugno la linea di attacco era arrivata agli argini del canale di Monfalcone. Il 23 l'aveva sorpassato e toccava la base delle alture. Fogliano era preso. Redipuglia era preso. Vermegliano era preso. Seltz era preso. L'offensiva rombava su tutta la fronte. Con l'appoggio potente dell'ala destra, con quell'ausilio formidabile sul fianco, si ripresero nella notte del 23 le operazioni del passaggio dell'Isonzo a Sagrado.

Si era scelto un altro punto, un poco più a monte dell'isolotto. La nostra artiglieria batteva la riva opposta con un fuoco intenso, e verso le quattro del pomeriggio incominciò il traghetto delle avanguardie. Lo svantaggio di agire alla luce del giorno era compensato dalla efficacia del nostro fuoco, che inchiodava il nemico. Non si poteva più sperare nella sorpresa notturna, e l'oscurità, paralizzando i nostri cannoni, sarebbe riuscita di maggiore utilità all'avversario che a noi. Furono sbarcati poco più di un centinaio di uomini. Ma dalle trincee blindate che ci stavano di fronte, alcune basse verso la riva, altre inerpicate sul declivio, la fucileria divenne serrata, violenta, continua. Non fu più possibile avvicinarsi con le barche piene di soldati. Per due volte, profittando dell'affievolirsi del fuoco, il traghetto riprende, e per due volte deve interrompersi. Il quarto tentativo del passaggio del fiume era fallito.

I centocinquanta uomini che avevano traghettato all'altra riva si ritenevano perduti, ma tardi nella notte si è saputo che erano in salvo. Guidati da un energico e intelligente ufficiale, quando si sono accorti che erano abbandonati alla loro iniziativa, si sono spostati sulla destra, al coperto dei cespugli, lungo la riva, facendo prigioniere delle vedette, sorprendendo dei corpi di guardia, ed erano riusciti a raggiungere le truppe che avevano occupato Fogliano, un chilometro e mezzo a valle di Sagrado.

Il giorno dopo, il 24 giugno, si ricomincia. Non si può immaginare niente di più grande e di più terribile di questa ostinazione eroica, nella quale la volontà del comando e lo slancio degli uomini si fondono e sono come la forza e l'acciaio di un maglio che batta e che spezzi.

Si attese di nuovo l'ora oscura. I primi sbarchi avvennero nel silenzio. Il nemico non si aspettava un altro tentativo così immediato. Quando si accorse di un movimento sul fiume, incominciò un fuoco di artiglieria disordinato, un fuoco di ricerca. Le barche andavano e venivano sotto al lampo degli shrapnells. A poco a poco il tiro cominciò a farsi accurato. Qualche barca colpita tornava indietro, metteva a terra gli uomini feriti, ne prendeva altrettanti validi, e ripartiva col carico completo. Il bombardamento si faceva più intenso e più esatto. Nuove batterie nemiche entravano in azione. Delle imbarcazioni non arrivavano più a metà del fiume che dovevano virare per ricondurre dieci, dodici feriti. Alcune facevano acqua, forate dalle pallette e dalle schegge. Alle undici della notte il traghetto fu sospeso. Erano passati circa cinquecento uomini, spariti, laggiù, nelle tenebre e nel silenzio della riva opposta.

Il bombardamento cessò. Il nemico credette forse fallito anche il quinto tentativo. Ma nella quiete profonda un nuovo lavoro cominciava. Si gettava un ponte. Centinaia di uomini portavano il legname, portavano le barche, e la riva si empiva di un affaccendamento intenso e cauto, del quale a cinquanta passi nulla si udiva. Qualche lieve urto di tavole, dei tuffi di àncore gettate, un gorgoglìo di carene, un sordo calpestìo di piedi nudi sul legno, e nell'ombra il ponte avanzava sul frusciare sommesso della corrente nera.

All'alba la costruzione era arrivata alla metà del fiume. Non si aspettò che fosse finita; quel breve tratto di acqua scoperta poteva essere rapidamente traversato con le barche. Ricominciò il passaggio. La truppa percorreva il ponte a drappelli, arrivava in fondo, s'imbarcava. Andava verso il mistero dell'altra sponda con una calma solenne e fiera. Alle tre, l'artiglieria austriaca aprì il fuoco sul ponte.

Il passaggio continuò sotto alla tempesta delle cannonate, per qualche tempo. Il tiro era a granata, e i proiettili cadevano nel fiume o sulla sabbia. Non tardò molto però ad avvicinarsi al ponte. Una raffica arrivò sulle barche. Si vide il ponte spezzarsi; tre campate affondarono. La costruzione e il traghetto furono abbandonati, non un uomo poteva più passare. Sulla riva sinistra era sbarcato, in tutto, un battaglione di fanteria.

Questo battaglione, solo, tagliato fuori, senza scampo, allo scoperto, attaccò. Troppo debole per difendersi, mosse all'assalto. Si gettò su Sagrado, respinse il nemico, occupò il paese, vi si trincerò, e aspettò.

SULLE PENDICI DEL CARSO.

6 ottobre.

Sagrado, per la sua posizione, aveva questo vantaggio: che le artiglierie nemiche non potevano toccarlo. Era in un angolo morto. Una delle ragioni per cui l'offensiva nostra puntava con tanta insistenza sopra Sagrado, era precisamente l'invulnerabilità di Sagrado al cannone. Sagrado è alla punta dello sperone che il Carso avanza nel piano; il tiro incrociato delle artiglierie austriache piazzate oltre il ciglione, lungo i due lati dell'angolo, poteva battere tutti i declivî ma non arrivava ad una piccola zona al vertice. Prendendo Sagrado si aveva una strada verso l'altipiano quasi salva dal bombardamento.

Era necessario rafforzare immediatamente l'occupazione di Sagrado. Si pensò di servirsi dei rottami del vecchio ponte distrutto dagli austriaci, di fronte al paese. Questo ponte aveva ai lati due passerelle per i pedoni. Un solo arco del ponte era precipitato completamente e le passerelle laterali, sorrette da armature di acciaio, erano rimaste come sospese, spezzate per una lunghezza di pochi metri. Era possibile creare un allacciamento di legno per un passaggio provvisorio di fanterie. Spingendo avanti a loro dei sacchi di terra, per ammassarli ad uno ad uno sul fianco di una passerella e crearvi un baluardo contro la fucileria vicina, dei soldati si spinsero carponi sul ponte.

Il fuoco austriaco li prendeva di fianco, li investiva dalla sinistra; tutte le pendici erano piene di trincee dominanti, lontane poche centinaia di metri. Una volta passato il ponte si entrava in una zona più coperta. Fu possibile sistemare la passerella, ma una traversata di truppe non poteva effettuarsi senza gravi perdite di uomini o di tempo. Allora, come a Lucinico, venne avanti un cannone.

Uscì da Gradisca. Inoltrò per un vialone alberato, diritto, che segue il fiume e finisce al ponte di Sagrado. Entrò di corsa nell'uragano del fuoco. Andava al sacrificio con una galoppata trionfale. Si piantò di fronte a quell'anfiteatro di trincee lampeggianti.

Fra lui e il nemico, la larghezza del fiume. Incominciò un tiro diretto e rapido di shrapnells e di granate, alternando. Non un colpo andava fuori di posto. Gli scoppi dei suoi proiettili disegnavano le linee dei trinceramenti. Batteva in basso, poi in alto, poi di nuovo in basso, a sbalzi, per non permettere al nemico di indovinare di prevedere il punto che stava per essere colpito. La fucileria nemica rallentò, divenne ineguale, prese lui solo la mira, dimenticò il ponte. Dove il fuoco riprendeva a crepitare violento, il cannone si volgeva e intimava silenzio. Faceva fronte a tutti, comandava a tutti, atterriva.

Poco dopo, l'artiglieria nemica lo assalì. Le granate esplodevano tutto intorno, il pezzo scompariva nel fumo. Non poteva difendersi. Non pensava a difendersi. Continuava ad imporsi alle trincee. Costringeva la fanteria austriaca a ripararsi e aspettare. Era il suo còmpito. Intanto sul ponte le truppe nostre passavano. I plotoni sfilavano, uno dopo l'altro, curvi dietro ai sacchi di terra.

Qualche servente cadeva vicino al pezzo; i superstiti scansavano il ferito e seguivano il lavoro. I cavalli erano morti. Schegge di granate martellavano l'affusto e le scudature. Il cannone tuonava sempre. E sul ponte le truppe passavano. In ultimo si videro due soli artiglieri in piedi. Sparavano gli ultimi colpi. Poi il cannone stesso fu preso da una granata in pieno. Rimase tutto di traverso, scavalcato. L'occupazione di Sagrado era definitiva.

Un reggimento aveva varcato il fiume. Il giorno dopo era tutta una brigata al di là. La nostra fronte si allargava verso Castello Nuovo. Il nemico veniva sloggiato da un primo lembo del ciglione. Poteva ancora bombardare il ponte, ma non lo vedeva più. La linea del fiume sfuggiva in parte al suo sguardo. Eravamo padroni dell'Isonzo. Un altro ponte era gettato, sotto a cannoneggiamenti furibondi ma vani perchè ciechi. Si preparava la battaglia di luglio, quella battaglia smisurata che ci ha portati sull'altipiano attraverso innumerevoli assalti, dopo i quali si vedevano scendere alla pianura in lunghe colonne reggimenti e reggimenti austriaci, prigionieri.

Da Gradisca ho potuto avere una visione delle vicine pendici conquistate, che la cima di San Michele sovrasta. Gradisca offre una delle più tragiche scene della guerra. Perchè non è completamente distrutta. È ferita, squarciata, ma poche delle sue case sono crollate, poche sono morte; quasi tutte conservano una paurosa e inesprimibile espressione di vita, di sofferenza, di terrore, di agonia. Le macerie che si vedono qua e là, sono meno sinistre delle abitazioni ancora in piedi che si allineano lungo le vie deserte, sulle quali, dalle finestre sfondate dalle esplosioni, da quei loro occhi sbarrati e vuoti, lasciano cadere uno scintillìo di vetri infranti, come un luccicare di lacrime.

La maceria è il passato, è la tomba; sorprende ma non commove, e la solitudine intorno a lei appare lugubre ma naturale, come nei cimiteri. Fra quelle case senza abitanti, per le strade senza passanti, nella città dilaniata e fuggita, percossa da un perpetuo grandinare di piombo, v'è un senso misterioso di angoscia, qualche cosa di palpitante, un prodigioso alito di spavento, che fa involontariamente affrettare il nostro passo.

Le vie sono ingombre da uno sparpagliamento minuto di rottami e di fronde d'albero staccate dai proiettili. L'uragano senza fine della battaglia strappa dalle case, dalle esistenze, dalle piante, detriti di ogni genere e li mescola.

Tegole, lembi di tenda, imposte divelte, berretti da soldato, mattoni, ramoscelli, sembrano gettati intorno dalla furia di un vortice. Cannoni di tutti i calibri hanno tirato e tirano su Gradisca. Di tanto in tanto, un boato profondo, un sussultare del suolo, un fremito di muri, uno scroscio di crolli, un tintinnare di vetri, e il fondo di una strada si annebbia di polverone denso e di fumo.

Con un sibilare strisciante, delle palle di fucile arrivano, continuamente, picchiettando su tutti i muri. Sono colpi lunghi degli austriaci. La fucileria crepita sulla Sella di San Martino e dietro al bosco del Cappuccio. Basta guardare in terra, per vedere tutto intorno decine di pallottole cadute, come una rada e strana ghiaia metallica, alcune ancora luccicanti e fresche. Alla imboccatura di quel vialone che l'eroico cannone percorse, la terra è aperta da enormi crateri scavati dalle esplosioni.

Uno più largo, profondo come lo sterro di un lavoro di fognatura, fatto da una granata da 305, ha nel centro una sedia infangata e sbilenca, una vecchia sedia da caffè. L'hanno messa lì i soldati, per la fotografia. Avere il proprio ritratto in nobile posa seduto dentro ad una buca di granata, è l'aspirazione artistica d'ogni milite che passa. Il punto è molto esposto al fuoco, ma la tentazione è grande, la sedia è pronta, macchine fotografiche non mancano mai, e la fotografia si riproduce con modelli diversi.

Una granata da 305 ha massacrato la cattedrale. Dall'esterno la chiesa pare intatta. Ma non ha più tetto, e dentro è una confusione immane di travi cadute, di colonne crollate, di arredi sacri frantumati e sparpagliati, di macerie irriconoscibili, sulla quale scende la piena luce del giorno. Le rovine sono più grandi verso il fiume, al quale si scende rasentando i giardini pubblici devastati, con degli alberi stroncati dai colpi, e delle scritte che dicono: «La tutela delle piante e dei fiori è affidata al pubblico».

Dalla riva dell'Isonzo si vedono distintamente le posizioni che tendono alla vetta del San Michele. Il Carso, che da lontano sembra un gradino regolare ed eguale, appare allora tormentato e vario. È un'immensa scogliera, che si corrode, che si sfa qua e là, che raccoglie nelle sue cavità detriti e terriccio sui quali le vegetazioni si affollano, che ha boschi e prati formatisi sulle frane dei suoi fianchi appena coperti da lievi sedimenti coltivabili, ma che lascia emergere per tutto i rilievi della sua cinerea ossatura di pietra. Sulla sua cima il verde si raccoglie come l'acqua piovana negli interstizî di un acciottolato. Intere zone non sono che roccia. Se si scava sul prato, si trova la roccia al primo colpo di piccone.

Avanzando in linea retta, si è fermati continuamente da macigni, da scalini inaccessibili, da protuberanze del massiccio calcareo, e bisogna girare, incanalarsi per le cunette, scendere nelle piccole cavità erbose, nelle doline, inoltrandosi per passaggi obbligati sui quali una difesa facilmente si concentra. L'ordine sparso degli assalti deve per forza finire in aggruppamenti, come un calmo ruscello spezzato dai sassi si gonfia e irrompe in rivoletti fra un ostacolo e l'altro. Gli avviamenti, gli sbocchi, sono fatalmente fissati dal terreno. Contro ognuno di essi il nemico ha preparato una barriera.

Altrove, le trincee si allineano in due, tre, quattro ranghi. Qui sono spezzate e sono per tutto. Fanno fronte da ogni lato, si fiancheggiano, si spalleggiano, serpeggiano, formano angoli, formano intrecci. Non vi è una fronte da varcare, ve ne sono venti. Ogni dolina è un piccolo campo di battaglia. Per ogni trincea c'è un'azione, un piano, una tattica. Se si disegnassero sopra una carta topografica tutte le trincee espugnate sul Carso, si vedrebbe il foglio riempirsi di brevi tratteggi, con una confusione da scrittura misteriosa, come un'invasione di caratteri cuneiformi. E le trincee di difesa e di attacco non sono scavate; la terra manca per nascondervisi. Sono elevate.

Non ci si affonda, ci si innalza. Non si zappa, si costruisce. Bisogna andare all'assalto portando sulle spalle sacchi pieni di terra. Appena ci si ferma, un uomo sorge. Con le munizioni si portano avanti sassi, sacchi, cemento, travi, e si lavora, si erige, i parapetti si formano che le blindature vanno poi coronando. Spesso il lavoro è impossibile. Il combattimento incalza, tutti debbono prendere il fucile, la trincea appena sbozzata è un minuscolo rilievo di pietrame, vi si arriva carponi, vi si sta rannicchiati dietro per giorni, per settimane, aggrampati a quella parvenza di difesa, ostinati, esasperati, decisi.

Dopo ogni avanzata nostra, arrivano i contrattacchi. Due, tre volte il nemico tenta e ritenta la riconquista delle posizioni perdute. Non di rado è il contrattacco che ci porta avanti. Il nostro soldato ha l'istinto dell'offensiva, sente il momento utile allo slancio. Quando ha fermato il nemico, gli va addosso. L'occasione di trovarsi viso a viso con gli austriaci non è mai perduta. Un assalto austriaco finisce quasi sempre con un assalto nostro. Il bollettino ufficiale ha dato notizia di oltre trenta attacchi nemici sul Carso, e non erano che i principali. Molte grandi catture di prigionieri le abbiamo fatte quando eravamo assaliti.

Sul Carso gli austriaci hanno prodigato tutti i sistemi di difesa, tutti i tranelli della guerra, tutti i tipi di opere di fortificazione campale antica e moderna; hanno adoperato cemento, acciaio, pietra, legno; in quantità che sarebbero bastate alla costruzione di intere città; hanno fatto dei muri di protezione lunghi otto o dieci chilometri sul fianco degli incamminamenti; hanno usufruito di grotte e di caverne, scavato cunicoli, piantato reticolati, sepolto mine. E siamo saliti.

La base delle alture, il primo sorgere del declivio di fronte a Gradisca, è boscosa. Interrate fra le piante erano centinaia di mine. Le prime pattuglie in avanscoperta furono sorprese dalle esplosioni. Bastava urtare dei fili sottilissimi, invisibili come crini di cavallo, tesi fra l'erba, per provocare uno scoppio. Squadre di volontari partirono alla ricerca. Strisciavano lentamente, frugando con lo sguardo la terra, trovavano i fili, li seguivano delicatamente, scavavano il suolo adagio adagio, disarmavano gli inneschi, e tornavano portando le scatole esplosive. Tutto questo in mezzo allo scoppiettìo delle scaramucce, sotto alla protezione di vedette che si rannicchiavano a sparare dietro ai tronchi degli alberi vicini. Così si sgombrò la strada al primo passo.

Più in alto la boscaglia s'interrompe, riprende, lascia larghe zone nude, e forma sulle alture larghe macchie fosche di vegetazione arborea. È la forma di queste macchie che ha suggerito ai soldati nomi strani per località che non avevano nome, e alle quali la guerra dava un'importanza storica. Bisognava distinguerle, e si chiamarono Bosco Cappuccio, Bosco Triangolare, Bosco a Lancia, Bosco a Ferro di Cavallo. Quando il bollettino nostro ha annunziato la conquista del Bosco Cappuccio e del Bosco a Ferro di Cavallo, il comunicato austriaco ha potuto smentire recisamente la conquista con un argomento perentorio, inconfutabile e unico: Cappuccio e Ferro di Cavallo, mai esistiti.

E fra poco invece sarà il bosco scomparso e il nome che resterà. Perchè, come sul Mrzli, come sul Podgora, il cannone sfronda, scalza, schianta, incendia e abbatte. La spalla del monte appare nuda sotto ad un magro intreccio di ramosità intristite. La terra è sconvolta e rossastra, la roccia scheggiata ha biancori di neve, e i pochi alberi rimasti eretti, bruciacchiati dalle vampe, spezzati e stroncati, hanno l'apparenza scheletrica delle piante colpite dal fulmine.

Il Bosco Cappuccio, che pareva appunto un cappuccio di verdura sopra un cocuzzolo verso San Martino, è tutto lacerato ai lembi, lungo i quali si distendeva un possente trinceramento austriaco. Avanti, il terreno è nudo. È un pendìo scosceso e scoperto. L'assalto che arrivò alla trincea si potè seguire da lontano. Si vedevano gli uomini inerpicarsi urlando, si vedeva lo sparpagliamento veemente e disordinato delle masse di attacco che salivano, miriadi di puntini grigi, si vedevano le seconde file rincalzare le prime file assottigliate, e l'azione pareva eterna. Al di qua del ponte di Sagrado, dietro ad un parapetto, tre strani piccoli ufficiali vestiti in uniforme khaki, guardavano immobili, con i pugni stretti, lanciando enfatiche esclamazioni gutturali.

Erano gli attachés giapponesi. Quando videro l'assalto sparire oltre la trincea nemica, ingolfarsi nel bosco, si voltarono indietro, verso degli ufficiali italiani che osservavano gravi e commossi, e agitarono le braccia con un gesto di entusiasmo e di stupore, gridando: « C'est grand! C'est grand! » Avevano rivisto la mitraglia umana di Porto Arturo.

Questo avveniva il 25 di luglio. Avevamo messo quasi un mese a giungere lassù. Due giorni dopo aver preso Sagrado eravamo a Castello Nuovo, al bordo dell'altipiano sopra al paese. Doveva essere in antico uno dei castelli intorno ai quali, su quelle stesse pendici del Carso, tre secoli fa Venezia si batteva con gli Arciducali nella guerra «Gradiscana». Poi il castello è divenuto una villa, circondata da cipressi. Adesso la villa è crollata, la battaglia ha cancellato tutto. L'occupazione di Castello Nuovo faceva cuneo, puntava in avanti nel centro della fronte carsica. Gli austriaci sferravano attacchi su attacchi su quel vertice d'avanzata, che era per noi un premio al quale si appoggiava la progressione lenta e faticosa delle ali.

Ogni notte era un assalto. Ve ne sono stati dodici contro quel punto, che appariva sempre avvolto di fumo. Le trincee austriache, coperte, blindate, protette, erano a cinquanta metri. Noi stavamo dietro a parapetti provvisorî, coronati di sacchi. Da una parte all'altra si parlavano, fucilando. Allora nacque, non si sa come, il soprannome di Cecchino dato ai tiratori scelti austriaci, i quali, muniti di fucili a cavalletto con alzo a cannocchiale, stavano eternamente alla posta. Anche noi avevamo i nostri Cecchini, sempre in mira, la guancia contro al calcio. I colpi erano commentati ad alta voce. Un giorno uno dei nostri sbagliò per due dita la testa di un austriaco che si era avanzato quatto quatto e si disponeva a sparare; l'austriaco ritraendosi agitò in aria il fucile facendo quella segnalazione che in tutti i bersagli del mondo significa «zero»! Si rise dalle due parti. Più spesso erano ingiurie. Una sera pioveva a dirotto, l'acqua scorreva dietro ai nostri parapetti, e dalla trincea austriaca, chiusa e asciutta, una voce di scherno gridò nel dialetto dalmata: « I fevi i piediluvi, can de taliani? » Rispose un coro d'invettive che deve aver dato al nemico l'impressione d'un grido di assalto, perchè aprì subito il fuoco. Ma questa è la vita di tutte le trincee.

L'avanzata vera, sistematica, perseverante, vigorosa, cominciò ai primi di luglio. Il centro era piantato solidamente su Castello Nuovo, la destra saliva verso il Monte Sei Busi, la sinistra verso il Monte San Michele.

L'offensiva si scatena allora su tutti i fronti, preme sul Podgora, minaccia i ponti di Gorizia, ma è al Carso che tende con volontà intensa. L'azione non vi ha sosta. Ogni notte dei reticolati saltano, ogni giorno delle trincee sono prese. Il nemico si rinforza, concentra nuove batterie di medi calibri nel vallone di Doberdò, contrattacca per tutto, cerca di profittare della vulnerabilità e della debolezza che hanno le posizioni appena prese, quando ancora non c'è stato tempo di farvi i lavori di consolidamento, e vi dirige assalti su assalti. Ma niente ci smuove, teniamo le trincee espugnate, progrediamo sempre.

La lotta era accanita. Il nemico non rifuggiva dai mezzi più sleali, dalle false rese che nascondevano mitragliatrici appostate, dalle false bandiere della Croce Rossa issate su batterie o su comandi, era feroce quando non era in fuga. Non permetteva di raccogliere i feriti caduti fra le due fronti, e non raccoglieva i suoi. Una mattina uno dei nostri generali doveva far cominciare un bombardamento di calibri pesanti per aprire il varco nel reticolato di un trinceramento che ci era di fronte; ma proprio sotto a quel reticolato che stava per essere sconvolto da una bufera di esplosioni, giaceva un ferito nostro. Di tanto in tanto si vedeva un lieve gesto del suo braccio. Vicino a lui due cadaveri. Erano caduti durante un tentativo notturno.

Il generale, che era in trincea per sorvegliare gli effetti del bombardamento, guardava la scena pensieroso. L'ora fissata per l'azione dell'artiglieria scoccava. Egli non dava ordini. Poi, chiamò un ufficiale e fece parlamentare col nemico.

«Lasciateci raccogliere i nostri feriti e i nostri morti!» — gridò dalle nostre trincee una voce al megafono. Nessuna risposta. «Faremo uscire dei portatori nudi perchè vediate che non è un tranello!» — soggiunse la voce. Nessuna risposta. Le stesse frasi furono gridate in tedesco. Silenzio. La trincea nemica pareva deserta. Quattro portaferiti con le barelle vennero fatti inoltrare. Una scarica di fucilate li accolse appena usciti. Due di loro rimasero colpiti. L'ora era trascorsa. Le batterie pronte aspettavano il segnale telefonico per iniziare il tiro convenuto. Il generale si passò una mano sulla fronte, guardò l'orologio, si volse all'ufficiale d'ordinanza, gli trasmise un ordine. E il fuoco cominciò.

Il varco fu aperto nei reticolati. Il segno che la batteria era spezzata venne dal nemico. Si vide un gruppo di austriaci balzare fuori della trincea e precipitarsi per un passaggio creato dalle nostre granate attraverso la siepe di acciaio. Venivano giù in fila, senza fucile, correndo, le mani in alto. Si arrendevano.

Erano venticinque. Profittavano di una sosta fra il cannone e la baionetta. Ma il cannone non aveva finito. Riprendeva in quel momento il suo lavoro di demolizione. Una granata cadde in mezzo al gruppo. Dalla nostra trincea si scorse distintamente lo spettacolo atroce di corpi umani smembrati lanciati in aria nella eruzione di terra, e di fumo dello scoppio. Era come una di quelle esplosioni inverosimili che si vedono raffigurate nei giornali illustrati. Terrorizzati, insanguinati, lividi, i superstiti arrivarono alla posizione italiana. Non erano più che sedici. Il destino aveva fatto giustizia.

Lo spettacolo di queste rese era comune. Una volta verso Castello Nuovo si vide venire avanti un mezzo battaglione austriaco, agitando fazzoletti, con le braccia levate: cinque o seicento uomini, una folla veloce sormontata da un turbinio chiaro di mani. Cessò il fuoco delle nostre trincee e si fece un silenzio di attesa. Ma quella massa non aveva percorso la metà della strada che la separava dai nostri, quando cominciò su di lei un fuoco di shrapnells austriaci, serrato, esatto, rabbioso, che la seguiva passo passo. Cadevano giù a gruppi i fuggenti colpiti, costellavano la terra di corpi. Centoventi soltanto poterono giungere a consegnarsi. Certe volte si direbbe che i reticolati servano assai più a trattenere gli austriaci dal rendersi che a difender loro dai nostri assalti.

Il cannoneggiamento furibondo, insistente e preciso che preparava gli attacchi delle nostre fanterie, sbalordiva e accasciava il nemico nelle sue trincee. L'assalto spesso lo trovava inerte, sperduto. I nostri primi reparti arrivavano, intimavano la resa, e continuavano l'attacco, andavano oltre, lasciando alle seconde linee la cura di raccogliere i prigionieri e di spingerli giù, verso le retrovie. Gli ufficiali austriaci, che non stanno con i loro uomini, perdevano ogni controllo di comando. Dietro ad ogni trincea nemica, lontano dieci o quindici passi, vi sono dei minuscoli ricoveri; delle buche blindate; nella trincea sono i soldati, nelle buche gli ufficiali. La truppa non può muoversi, presa come è fra i reticolati e le pistole dei suoi superiori. Sapiente disposizione.

I primi tempi i nostri soldati, intenti alla trincea, non badavano alle tane dei comandi che erano alle spalle, e proseguendo incalzanti alla conquista delle linee successive erano spesso feriti da misteriosi colpi a bruciapelo. Poi impararono. Correvano dritti alle buche, e affacciando la punta della baionetta nell'apertura, ponevano all'abitatore rannicchiato nell'ombra questo semplice dilemma: «Fuori le mani, o spingo!» Venivano fuori le mani. Dopo le mani spuntavano le braccia, e dopo le braccia emergeva il resto di un elegante oberleutenant al completo, pallido ma dignitosamente rassegnato.

Una mattina un capitano austriaco, rimasto inosservato nel suo covo mentre l'assalto passava, tirò un colpo di pistola ad un sergente nostro che seguiva il suo plotone. Il sergente, illeso, si fermò e si guardò intorno. Una seconda palla lo sfiorò. Allora egli vide. Non fece fuoco, rivoltò il fucile, balzò addosso all'ufficiale, lo tramortì con un colpo di calcio, se lo caricò sulle spalle e lo portò giù, al posto di medicazione. Qui, alle prime cure il capitano austriaco rinvenne, e andò su tutte le furie. Smaniava, mostrava i pugni al sergente, che lo guardava sbalordito da dietro le spalle dei medici, rotava gli occhi e bestemmiava, in tedesco. Non era furioso per essere stato fatto prigioniero, o per avere perduto la posizione. La causa della sua ira era più grave: «È la prima volta — gridava — la prima volta nella mia vita che manco un uomo al secondo colpo!» Il sergente fece un passo avanti, salutò cerimoniosamente e gli disse: «La ringrazio tanto per la eccezione!» E se ne andò fischiettando.

Storie di prigionieri, di rese, di catture, sono innumerevoli. In quei giorni operava sul Carso una famosa batteria da campagna che era conosciuta dalle truppe precisamente col nomignolo di «batteria dei prigionieri». Aveva la specialità di catturare gli austriaci a mezze compagnie per volta, da sola. Nelle nostre linee arrivavano all'improvviso bande di nemici che si arrendevano, adunati e condotti dal fuoco dei cannoni. Quando la batteria scorgeva dei nuclei nemici in ritirata, li fermava con barriere di esplosioni, li costringeva a cercare uno scampo nel ritorno, li accompagnava, li sospingeva con una minacciosa siepe di shrapnells, non permetteva loro che deviassero, lasciando così una sola via aperta alla loro marcia, quella della resa.

Gli austriaci incalzati, incapaci di mantenere il terreno ad onta della tremenda preparazione difensiva, meditarono un gran colpo. Divisioni fresche arrivavano continuamente dalla Galizia a rinforzo. Fin dal 10 di luglio grandi masse nemiche venivano adunate per una offensiva generale e risolutiva. In quell'epoca cominciò a notarsi appunto l'entrata in azione di numerose batterie pesanti. Per sloggiarci dall'altipiano carsico pensarono di sviluppare l'attacco principale contro la nostra ala sinistra.

Appariva infatti in quel momento la più vulnerabile. Una volta forzata la sua estrema punta sull'Isonzo, un ripiegamento di tutta l'ala sinistra poteva essere provocato. Ripiegare sotto la pressione di un'offensiva possente significava, con molta probabilità, ripassare il fiume. Sarebbe stata la perdita dei ponti, l'annullamento dei risultati ottenuti con sforzi meravigliosi durante quasi due mesi di lotta tenace, il ritorno al principio in condizioni ben più difficili per una ripresa dell'offensiva. La nostra destra invece aveva Monfalcone come sentinella estrema, e un attacco contro di essa, anche fortunato, non avrebbe ottenuto un resultato definitivo quale quello di ridare il pieno controllo dell'Isonzo. Il piano austriaco era dunque perfetto, come sono perfetti tutti i piani prima che falliscano.

Al mattino del 22 luglio il grande attacco austriaco si sferrò. Tutta la notte delle offensive minori avevano tastato la nostra fronte, forse per riconoscerla, forse anche per stancare le guarnigioni e trovarle più deboli e meno pronte all'urto che si preparava. Numerosi generali comandavano il movimento offensivo, fra i quali il principe di Schwarzenberg, il generale Boog, il generale Schreitter. L'azione cominciò con un bombardamento formidabile.

Delle persone che osservavano le posizioni da lontano, le videro letteralmente coprirsi di fumo. Si ovattavano tutte di nubi di shrapnells. Il rombo intenso della cannonata non affievoliva un istante. Pareva impossibile che si potesse resistere in quell'inferno. Si aveva l'impressione angosciosa che fosse un fuoco di sterminio. Improvvisamente si svegliò un tuono più alto, più violento, più vicino: le nostre artiglierie entravano in azione. Per qualche tempo il fumo dei colpi avvolse gli stessi punti. Poi, ad un tratto, parve che gli shrapnells austriaci battessero più in là, che i cannoni nemici raccorciassero il tiro; l'uragano si allontanava, si videro i nostri colpi spostarsi subitamente, andare lontano lontano. Si comprese che facevano un fuoco d'interdizione, che chiudevano la strada ad un nemico in fuga.

L'attacco era stato dato con dense e profonde formazioni, a grandi masse. Erano arrivate impetuose quando la preparazione delle artiglierie nemiche poteva far credere di avere decimato ed estenuato la difesa. Ma una delle più belle qualità del nostro soldato è la resistenza morale al bombardamento. L'attacco si abbattè sulla prima linea in piena efficienza, duramente provata ma pronta alla lotta. La battaglia fu accanita. Le onde di assalto si formavano e si riformavano, ma l'artiglieria nostra aveva avuto una prontezza fulminea nell'intervenire in soccorso della fanteria. Il suo fuoco era di una precisione spaventosa; molti dei punti sui quali si concentrava il tiro erano in diretta visione delle batterie. Lunghi tratti del campo di battaglia si prospettavano in declivio avanti ai cannoni, che scrivevano i loro colpi come sopra una lavagna. Si poteva portare il fuoco a cinquanta, a quaranta metri dalla nostra linea, senza timore di toccarla. L'assalto non trovava un limite di liberazione, oltre il quale l'artiglieria è paralizzata.

La fucileria aveva l'intensità continua di uno scroscio di cateratta, e lo strepito regolare delle mitragliatrici pareva il battito meccanico di un immenso opificio. Ad ogni sbalzo in avanti le file nemiche erano falciate. Si vedevano gli uomini fulminati nella corsa cadere roteando su loro stessi, e le braccia aperte. L'impeto dell'assalto era spezzato. L'attacco violento declinava in un'azione lenta. La spinta si faceva pressione. Intanto i nostri rincalzi erano in marcia, avevano passato i ponti, si ammassavano dietro al combattimento, portavano alla prima linea una nuova pienezza di vigore. E la controffensiva nostra si sferrò, vigorosa, improvvisa, travolgente. Allora la nostra artiglieria spostò il tiro, battè alle spalle del nemico, lo serrò fra le granate e le baionette, e fu la fuga disordinata degli austriaci, la resa di interi reparti, la rotta. La vittoria era nostra.

Il terreno era pieno di cadaveri nemici. Di quando in quando dalle cavità, nelle doline che parevano deserte, si vedevano apparire piccole file caute di austriaci, curvi sotto al loro grosso zaino, plotoni di dispersi in cerca d'uno scampo, e la mitragliatrice intimava loro l'alto là. Il soldato che perde lo zaino è punito nell'esercito austriaco legandolo ad un palo, con i piedi ad un palmo dal suolo, le mani avvinte dietro il dorso, e per alcune ore è lasciato così a meditare sulla santità del corredo governativo. Questa venerabile costumanza ha prodotto una indivisibilità mirabile fra il soldato austriaco e il suo bagaglio. Nelle più critiche circostanze, zaino e soldato sanno rimanere insieme. L'uomo può perdere la testa, può perdere la battaglia, può perdere la vita, ma non il sacco. Si assiste talvolta ad atti di eroismo disperato per la riconquista di uno zaino, abbandonato in un momento di fretta imperiosa e imperiale. Dei feriti a morte, agonizzanti quasi, ai quali nella caduta è sfuggito dalle spalle il carico regolamentare, strisciano a riprenderlo, arrivano ad afferrare a fatica una cinghia, la tirano a loro con le ultime forze. E muoiono così nel pensiero di un ideale raggiunto.

Il grande attacco austriaco naturalmente ci portò più avanti. Per ostacolare il nostro consolidamento sulle nuove posizioni, altri attacchi arrivarono il giorno dopo. La nostra ala destra fu alla sua volta investita. Ma il 25 luglio tutta la nostra fronte riprendeva l'offensiva, paziente, tenace e violenta. Mentre l'ala sinistra conquistava quel Bosco Cappuccio che non ha più alberi sui suoi bordi sconvolti, il centro si avvicinava a San Martino del Carso, e la destra espugnava una gran parte del Monte Sei Busi, verso Doberdò, le cui case bianche si affacciano spaurite al di sopra di un nereggiare di boscaglia. Il Monte Sei Busi era stato già preso, poi riperso, poi ripreso, poi riperso. Si concentravano sulla vetta troppi tiri di artiglierie, che non davano il tempo di consolidarsi. L'azione generale distolse da quella sommità una parte del fuoco che la batteva, permise agli assalitori di resistere, di lavorare, di organizzarsi e di reggere. Cominciavamo a dominare finalmente tutto un lato dell'altipiano, fino al Vallone, dietro a Doberdò, fino al laghetto.

Il Bosco Cappuccio e la boscaglia della spalla di San Martino, erano pieni di trincee, di reticolati. Vi infuriarono combattimenti furibondi a colpi di granate alla mano e di baionetta. Furono spesso lotte a corpo a corpo, avvinghiamenti, sotto ad un roteare di calci di fucile che cadevano a mazza. Le bombe asfissianti del nemico allungavano fra gli alberi il loro fumo persistente, denso, verde, vischioso. Dalle nubi velenose i nostri emergevano terribili, coperti dalle maschere di guerra che mettono sul viso l'apparenza mostruosa di una enorme bocca inumana.

Si combattè il giorno, si combattè la notte, si combattè il giorno appresso. La sinistra era salita sul San Michele. Contro di lei si volsero i cannoni di Gorizia. La montagna pareva in eruzione. I nostri non volevano lasciar presa. Erano decimati ma resistevano. Rimasero fino alla notte sulla vetta battuta da uragani di acciaio. Quando ripiegarono, si gettarono contro delle trincee laterali, andavano in cerca di combattimento. E arrivarono dalla vittoriosa ritirata sospingendo una massa di prigionieri. Oltre cinquemila prigionieri erano stati catturati in tre giorni, con duecento ufficiali austriaci. Alla destra ci piantavamo definitivamente sul Monte Sei Busi.

Il 27 avanzò il centro. Il 28 il nemico contrattaccò con grandi forze. Aveva ricevuto altre truppe fresche. Comparve in prima linea un reggimento di Landschutzen. Non tornò più indietro. Un altro migliaio e mezzo di uomini validi cadde nelle nostre mani. Avanzammo verso San Martino. Il 29 gli austriaci tentavano di sloggiarci con l'incendio dal Bosco Cappuccio. Delle fiamme sorsero qua e là nei roveti; furono estinte.

Continuammo ad avanzare. Tutto un primo sistema d'opere difensive era sfondato. Urtavamo sulla seconda linea, che fu attaccata dalle artiglierie. Il centro progrediva e mandava indietro centinaia e centinaia di prigionieri. Il 31 gli austriaci assalivano con vigore il Monte Sei Busi, dopo aver tentato di stornare la nostra attenzione con un'azione dimostrativa all'ala opposta. L'assalto fu fermato, e la controffensiva nostra si sferrò alla sua volta, magnifica, impetuosa, irresistibile, scompigliando, fugando, disperdendo le truppe più scelte, e quasi un intero reggimento dei famosi Kaiserjäger rimase sul campo.

Il 2 agosto, altro attacco austriaco contro al Monte Sei Busi. Quella occupazione li molesta. Se il San Michele guarda in casa nostra il Sei Busi guarda in casa loro. Vede e sorveglia, scopre le vie di approccio, e colonne nemiche in movimento su strade, che erano state fino allora invulnerabili, sono raggiunte ora dai nostri colpi di cannone, fermate, disperse. L'attacco è respinto, e avanziamo. L'occupazione del Monte si allarga. Anche il nostro centro progredisce. La nostra artiglieria arriva a tormentare delle retrovie avversarie. Scopre Marcottini, domina tratti nuovi di comunicazioni verso Devetachi. Strane località ha il Carso, che portano nomi umani, veri cognomi che adesso ci fanno l'effetto di appartenere a personalità misteriose e ostili: Marcottini, Devetachi, Vizintini, Micoli, Ferleti, Bonetti, Boschini.... Perchè sono dalla parte austriaca tutti questi italiani?

Il giorno dopo, nuova battaglia. Per frenare i progressi del centro, alla mattina del 4 agosto gli austriaci sferrano un attacco contro al Bosco Cappuccio. Si ripetono le fasi oramai consuete di resistenza e di controffensiva. Il nemico è fermato, assalito, inseguito. Una enorme trincea, che i soldati chiamavano il Trincerone, la quale chiudeva gli sbocchi orientali del bosco, è presa così, di impeto. L'assalto vi sale alle spalle dei fuggiaschi. Siamo agli accessi di San Martino. Attacchi, contrattacchi, sorprese, combattimenti nella nebbia, nella bufera, nelle tenebre di notti tempestose, nel chiarore di proiettori e di razzi, si susseguono ogni giorno da allora, ma non hanno più l'ampiezza di azioni generali. Sono imprese locali, battaglie d'una dolina, assedi di una trincea, furori circoscritti. Andiamo avanti sistematicamente, scalzando, incalzando, senza annunziare sempre i vantaggi ottenuti, portando colpi di sorpresa, senza fermarci mai. La lotta non ha soste, si restringe ma non langue, si sposta ma non riposa.

Mentre dalle finestre sbrecciate di un vecchio edificio di Gradisca, sul quale le pallottole grandinando formano come una tarlatura, osservavo le posizioni, il fuoco che languiva ha ripreso, tutta la vetta scrosciava di fucilate, e ricominciava sulla città deserta una pioggia rada e scoppiettante di piombo. Raffiche di cannonate passavano. Un combattimento breve divampava verso il San Michele.

La falda del San Michele era coperta da un folto bosco a semicerchio: il Bosco a Ferro di Cavallo nella denominazione della truppa. Non potrei descriverlo perchè il bosco non c'è quasi più. Lo vedono soltanto i soldati, e lo indicano, perchè conservano nella loro memoria profondi, netti e vivi gli aspetti dei luoghi nella prima apparenza, e perchè le trasformazioni del paesaggio sono avvenute lentamente. Ma chi arriva nuovo e ignaro, al posto del Bosco di Ferro di Cavallo vede, un due o tremila metri lontano, un terreno scosceso rotto e frastagliato, con dei sassi, e qua e là una lanugine gialla di rovi secchi e di cespugli bruciacchiati. Più in alto, la vetta nuda del San Michele, osservatorio del nemico, che ci scruta. Il bosco è così scomparso, e vi si scorgono tutte le nostre trincee, che si tendono ad arco verso la cima del monte, vicina, quasi raggiunta.

Dopo le battaglie di luglio il nemico aveva insinuato fra i roveti dei piccoli posti, che alla notte lavoravano. Erano sorte così delle trincee, che gli austriaci a poco a poco ampliavano; i piccoli posti erano diventati avanguardie, e le avanguardie si disponevano a trasformarsi in prima linea. Pochi giorni or sono, il 18 settembre, assalimmo il Ferro di Cavallo. Le prime trincee furono occupate di sorpresa; le altre furono espugnate a viva forza. Il nostro bombardamento accecava il San Michele. Dei contrattacchi scesero, ma i nostri hanno acquistato una tale destrezza nell'erigere i ripari, che in pochi minuti una prima rudimentale opera di difesa è pronta. Se l'austriaco ha una passione per lo zaino, il nostro soldato è inseparabile dal suo sacco pieno di terra. Sale all'assalto col suo fardello, e non lo lascia che per scaraventarlo sopra un parapetto di fortuna e sdraiarvisi dietro. È avvenuto anche che lo abbia scaraventato sulla testa dei nemici.

Le trincee formano un saliente che spinge arditamente all'attacco del monte una testa arrotondata, la quale simula quasi quel ferro di cavallo che il bosco non forma più. Si seguiva tutta la vita del trinceramento, l'andare e il venire lento e indifferente dei soldati dietro ai muri di riparo, l'affaccendarsi di lavoratori in opere di rafforzo, e presso alle feritoie una immobilità statuaria di vedette e di tiratori. Per un incamminamento salivano, calmi, a passo da montagna, i portatori del rancio, con le loro pentole fumiganti.

In molti settori della guerra ho avuto una impressione di solitudini truci immerse in paurosi silenzi sovrumani. Ma di fronte al Carso no. Di fronte al Carso, in qualunque punto, si sente la massa che vive e la guerra che palpita. Una ostilità martellante pulsa come una febbre. Si direbbe che la nostra fronte toccando il mare attinga dall'Adriatico vigori e impeti maggiori per avventarsi contro le alture feroci. La battaglia non ha più date, è la battaglia del Carso, una lotta gigantesca sugli spalti della immane fortezza che la sopraffazione ha dato al nemico, e dalla quale a passo a passo è scacciato. Il rombo di questa bufera è udito talvolta nelle città tranquille e lontane della pianura veneta.

Nel buio profondo della notte di Udine a lumi spenti, pieno di uno scalpiccio di gente che passa e non si vede, di un sussurrìo di voci che pare vengano dai muri, in quelle tenebre strane nelle quali mormora una vita quieta, invisibile, cieca, fra quei portici che la risonanza sola rivela, per quelle strade opache e nere in fondo alle quali, come un punto di bragia, scintilla una lampadina rossa che tinge un angolo con un riflesso da laboratorio fotografico, per l'aria umida e fredda arriva spesso un rimbombare remoto, un brontolìo di tuono. Nessuno ci bada, il sussurrìo continua, la voce di un ragazzo si allontana cantando. Si ha l'abitudine. È la battaglia del Carso che rugge. È un passo avanti che si fa....

INDICE.

Prefazione Pag. V

Al fronte 1

«Morale altissimo» 11

Verso l'Isonzo 23

Ai piedi del Carso 38

Davanti a Gorizia 52

Aspetti della lotta sull'Isonzo 67

In un ospedale 81

Tra lo Stelvio e il Tonale 90

Dai ghiacciai dell'Adamello agli uliveti del Garda 106

Tra le balze dell'Adige 123

Una maestosa battaglia di fortezze 139

Fra i torrioni delle Dolomiti 154

Sulle vette dell'Alto Agordino 174

Nella conca d'Ampezzo e intorno al lago di Misurina 189

Nella valle di Sexten 209

La lotta dei colossi 222

Dove il combattimento non ha soste. Il passo di Montecroce 249

Monte Nero 286

La conquista della conca di Plezzo 306

Nell'alta valle dell'Isonzo. Le fasi della guerra intorno a Tolmino 326

L'eroica conquista di Plava 340

Guerra d'assedio intorno a Gorizia. Un atto di sublime sacrificio 361

Sull'Isonzo e sul Carso. Una mirabile impresa guerresca 381

Sulle pendici del Carso 401