COME L'ONDA...
NOVELLE
1921 REMO SANDRON — Editore Libraio della Real Casa
Casa centrale: Palermo, Via Ucciardone, 7 ( Angolo Via Sampolo )
MILANO Via Castelfidardo, 8 PALERMO (Succursale) Via Vitt. Em., 324 NAPOLI Via Roma, 57
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Proprietà letteraria dell'Editore
REMO SANDRON
Riservati tutti i diritti di riproduzione e traduzione per tutti i paesi non esclusi i Regni di Svezia di Norvegia e di Danimarca.
Offic. Tipograf. Sandron
INDICE
I. — Jela Pag. 7
II. — Orrori 45
III. — Sogno vivente 75
IV. — La bella bruttina 89
V. — Marito giustiziere 105
VI. — Il suo amore 119
VII. — Ci siamo? 149
VIII. — L'uomo rappresentativo 161
IX. — Nella pensione 175
X. — Al bivio 189
XI. — L'ostacolo 205
XII. — Il mistero di don Ciccio 223
A ROBERTO BRACCO
JELA. I.
Sono passati tanti anni, ma ancora ricordo lucidamente i più minuti particolari di questo episodio della mia vita.
I cavalli scalpitavano impazienti nella strada, un po' distante dalla porticina dell'orto dove io stavo a origliare. Sentivo, di quando in quando, il rumore delle catenelle e di tutti gli arnesi a ogni scossone che i poveri animali accompagnavano con una specie di sternuto. Mi pareva impossibile che non nitrissero, e col pensiero li ringraziavo della intelligente riserbatezza mostrata in quel punto.
Aspettavo da un'ora.
Era nuvolo. Il vento stormiva furioso fra gli alberi e mi recava interrottamente all'orecchio rumori cupi, lontani, che somigliavano a urli, a lamenti, a grida confuse e mi facevano trasalire.
Provavo intanto vivissima compiacenza di quelle sensazioni notturne. Passare, d'un tratto, dalla monotona vita di provincia a una bizzarra avventura, che aveva la doppia attrattiva del pericolo e dell'ignoto, per uno che languiva nella noia era anche un po' troppo. Sentivo ridestato in fondo al cuore qualcosa rimasto lì da lungo tempo a dormire; respiravo più liberamente; riconoscevo con sodisfazione che non ero già vecchio a trentasei anni.
L'immensa solitudine da cui ero circondato; la vallata che il vento riempiva dei suoi strani sibili; l'oscurità della notte senza luna, che trasformava l'aspetto degli alberi e dei luoghi in un insieme fantastico e pauroso, privo di contorni e di limite, tutto serviva a comporre uno sfondo, che si adattava benissimo alla natura della mia impresa ed alla singolare situazione dell'animo mio.
Aspettavo, ripeto, da un'ora. Nel villino e nell'orto non fiatava anima viva.
— Verrà? Non verrà? Che qualche impedimento abbia sconvolto i nostri piani? Ch'ella si sia pentita all'ultimo momento?
Appoggiato allo stipite della porticina dell'orto, ruminavo da un pezzo queste domande, quando udii girar la chiave nella toppa.
Mi tirai da parte, trattenendo il respiro.
La porta si aperse lentamente; una testa si affacciò indistinta nell'ombra e stette un istante ad ascoltare; poi ecco sul legno i tre colpi convenuti.
— Son qua da un'ora — dissi a bassa voce, facendomi innanzi.
— Siamo già pronte — rispose una voce di donna. — Vado a chiamar la signora.
— Brava! Si spicci.
Le parole mi facevano nodo alla gola. Se la persona che doveva da lì a poco fuggire con me fosse stata mia amante, non avrei potuto essere più agitato.
Trascorsero dieci minuti, che mi parvero un secolo. Non vedevo l'ora di trovarmi lontano un buon paio di miglia e m'impazientivo d'ogni intoppo.
Avevo spinto l'usciolino lasciato aperto, avevo messo il piede nell'orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato sùbito indietro per paura di commettere un'imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro i cristalli di una finestra e sparì. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre si disegnarono sul bigio della facciata del villino, poi sulla striscia del viale.
— Affrettiamoci, — disse la signora con voce soffocata.
— Mi dia la mano, — risposi. — Il cavallo è dei più tranquilli.
E l'aiutavo a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l'altro per servirle da gradino.
Ella saltò leggera, come persona abituata a cavalcare. Lo stradone correva dritto fra due siepi di fichi d'India. Lo scalpitío monotono delle ugne ferrate era il solo rumore che si confondeva coi sibili acuti del vento.
A un'ora dopo la mezzanotte, l'aria pungeva, quantunque fosse di primavera.
Stavamo tutti zitti; già, con quel vento era impossibile parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e un altro contadino venivano dietro, a cento passi, per avvertirci di galoppo se fossimo stati inseguiti.
In quella stessa ora Paolo ballava allegramente da un parente di lei per allontanare qualunque sospetto.
* * *
La strada, dopo un buon tratto, faceva gomito.
— Che cos'è? — domandò la signora, arrestando il cavallo alla vista di un lume.
— È la barriera, — risposi; — non abbia paura. Sta bene in sella?
— Benissimo.
Urtai con le gambe del cavallo la grossa catena di ferro, che sbarrava il passo e feci suonare la campana dentro la baracca di legno. Una voce dall'interno ciangottò non so che parole; poi, allo scarso lume del lanternino attaccato al muro, vedemmo affacciare allo sportello dell'uscio la testa barbuta del custode, con lo sbadiglio alla bocca e gli occhi nuotanti nel sonno. Pagato il pedaggio, lo sportello si richiuse e la catena cadde a terra. Lo stradone tornò a risuonare del trotto dei nostri cavalli.
Il buio non mi aveva permesso di vedere in viso la fuggitiva; ne avevo però udito la voce, dolce, carezzevole.
— È bella? — pensavo.
E tentavo di figurarmela. Le davo occhi cerulei, limpidissimi, e capelli biondi. Perchè? Non lo sapevo neppur io; mi sembrava però che a quelle forme svelte ed eleganti s'addicessero capigliatura bionda e occhi cerulei.
Maritata? Vedova?
Non volevo entrarci. Paolo era sempre stato l'uomo dalle belle avventure. Questa volta mi sembrava l'avesse fatta un po' grossa. Basta! Doveva pensarci lui.
Le ombre della notte cominciavano a diradarsi. Il vento era quasi cessato; il freddo del mattino però mordeva più vivo. La strada s'animava di carri carichi d'ortaggi, che dovevano trovarsi ai mercati dei paesetti vicini prima dello spuntare del sole. I carrettieri, sdraiati bocconi su la roba accatastata, fumavano le pipe, canticchiando, e scotevano di tanto in tanto le redini di corda fissate a un pomo della tavoletta di fianco.
Più in là prendemmo una scorciatoia a traverso i campi, per evitare di incontrar gente e per giungere a tempo alla piccola stazione di Bicocca.
Vi arrivammo che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato appena un quarto d'ora a passare.
Spossata dal viaggio e più, forse, dalla commozione, la signora chiese un bicchier d'acqua. Il Capo stazione la invitò gentilmente a salire in camera di sua moglie; lassù avrebbe anche potuto riposarsi meglio che su le panche di legno della saletta di aspetto.
Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona che dovevo accompagnare non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finchè il mio amico non avrebbe potuto venire presso di lei senza farsi scorgere.
Quando la moglie del Capostazione le presentò il bicchier d'acqua, la signora alzò il velo poco più in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione bruna traeva un po' al pallido. Capelli nerissimi, viso ovale piuttosto piccolo, mento gentile, bocca come un anello, ma seria per naturale atteggiamento delle labbra; ecco quel che potei vedere con un'occhiata investigatrice, nell'intervallo di due secondi, tra la alzata e l'abbassata del velo. Avevo proprio indovinato!
Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, che non si lascia discutere ma s'impone. Piacente sì; molto piacente, e per me, infine, voleva dire più che bella.
Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la vera anima: gli occhi; e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m'abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dato quel collo, quel mento, quella bocca, quella carnagione, quella statura, quei capelli, quale avrebbe dovuto essere l'espressione del volto e, più specialmente, degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore, tremolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi a' miei occhi fissati sulla banchina ghiaiata sottostante alla finestra.
La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto su una seggiola impagliata, col capo appoggiato ai guanciali, e le mani ferme su le ginocchia, riposandosi dalla fatica del cavalcare, pensava Dio sa a che cosa!
* * *
Nel vagone rimanemmo soli. Speravo che quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso.... Niente affatto. Ella si adagiò in un canto quasi per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi scambiare qualche parola con la cameriera, che non era nè giovane, nè bella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l'eccellenza.
Cavai di tasca il portasigarette e domandai alla donna se la sua signora soffrisse pel fumo.
— Fumi pure — rispose la signora senza rimuoversi dalla sua positura. — Non mancherebbe altro ch'ella avesse anche questa noia! Sarebbe troppo: fumi, fumi, la prego....
Il Jonio scintillava come un immenso specchio al sole. La spiaggia si piega in quel punto con vasta curva dolcissima, e l'onda del mare viene a morirvi lentamente quasi per languore amoroso.
Giardini ancora bagnati dalla rugiada del mattino e che profumavano l'aria con la loro zàgara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di nuovo; tutto spariva velocemente con la rapida corsa del treno, in visione indistinta, da far credere che il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. E fantasticavo, secondo le varie impressioni, lieto di seguire i bizzarri capricci della fantasia.
Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli; ripartimmo immediatamente.
— Ora che non c'è più timore di importuni, — dissi, appena chiuso lo sportello, — ella può liberarsi della seccatura del velo.
Staccò uno spillo e rimosse via quell'ingombro.
La guardai stupito.
L'avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Non poteva essere; sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa che mi produceva quell'effetto. Cercai, ma non trovai una spiegazione plausibile.
Oh, quegli occhi! Neri, vivaci, piccoli, dallo sguardo profondo — che, a un lieve aggrottar delle sopracciglia, assumeva un'espressione d'indefinibile tristezza — quegli occhi, senza dubbio, li avevo veduti prima di allora; quell'indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo.
Ella mi domandò:
— Si arriverà tardi alla Marza?
— Domani, — risposi, ricomponendomi sùbito.
— E dovremo viaggiare tutta questa giornata e la notte seguente?
— Ci fermeremo a Rosolini; ripartiremo di buon'ora.
— È un bel posto la Marza?
— Stupendo, massime in questa stagione. Vedrà qualcosa di strano, ch'ella non può immaginare.
— Vigne, oliveti?
— Campagna rasa.
Mi fissò tra incredula e dispiaciuta.
Ma abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione, che produsse l'effetto voluto. Dopo, indovinando facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi a parlare di Paolo.
— Forse — dissi — non potrà esser là prima dell'altra settimana.
— Come? — ella fece. — Non verrà fra tre giorni?
— Potendo. Bisogna esser cauti.... capisce?
— Non correrà pericolo, è vero? — chiese, voltandosi più direttamente verso di me.
— Oh, per questo, viva tranquilla!
Il ghiaccio del primo incontro era bell'e rotto.
Conversammo lungamente.
Verso il tramonto, assai prima di arrivare a Rosolini, si avvolse nello scialle, si rannicchiò nel suo angolo di carrozza e stette così, pensosa e con gli occhi socchiusi, fino al momento che, a sera inoltrata, la carrozza si fermò davanti al portone dell'Albergo.
* * *
Ci rimettemmo in viaggio prima dell'alba.
Ella scese le scale in fretta, con mosse da freddolosa, e appena entrata in vettura:
— Vorrei essere già arrivata! — esclamò con accento di grande stanchezza.
La carrozza partì di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di schiocchi di frusta e di chè! chè! del cocchiere.
Avevo dormito poco, interrottamente, e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d'animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire.
Mentre il piede destro batteva con colpettini irrequieti il fondo zincato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i vetri, la tinta quasi uniforme delle cose in quell'ora mattutina, e l'immaginazione vi gettava, a intervalli, visioni ridenti come sprazzi di luce: un angolo di paesaggio illuminato dal sole; una stanzetta ben nota; una testina di donna che non giungevo a ravvisare; un tramonto, veduto non ricordavo più quando, una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; e cento altre immagini che si delineavano rapidamente su quel fondo grigio, come per istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a fantasticare senza occuparmi d'intendere quali attinenze corressero fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore.... Forse avevo nel cuore una segreta paura d'intenderle.
Quando l'alba colorò dei suoi miti splendori lo spazio di cielo inquadrato dallo sportello della carrozza, ritrassi le gambe, e mi rizzai su la vita:
— Eccoci a un terzo di strada — esclamai, dopo aver dato un'occhiata al posto che traversavamo in quel momento.
— Lo credevo addormentato — ella disse; — temevo di svegliarlo.
— Non ho dormito, — risposi; — ho sognato.
— Desto?
— È il miglior modo di sognare.
La signora fece un movimento con gli occhi e con le labbra quasi dicesse:
— Sarà; ma stento a crederlo.
Durante il silenzio che seguì, io riflettei che trovarsi accanto a una graziosa signora, nel ristretto spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, dentro quell'atmosfera riscaldata dal calore dei fiati, è sensazione gradevole, quasi voluttuosa, che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la signora che viaggia con noi non ci appartiene. Appena però mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L'idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Il non averla ancora trovata m'impensieriva però assai meno di quel che si agitava dentro di me per cagione di lei; senso indefinito di sentimenti dolcissimi provati tempo addietro, venuti ora lentamente a galla dal più profondo del cuore.
— Ma che doveva importarmi di quella benedetta rassomiglianza?
* * *
Me lo domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Conca di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse di camera per far colazione lì, in faccia al mare.
E quando comparve, non seppi frenare un gesto di sorpresa. Ella era trasfigurata!
Indossava un abito d'indiana azzurra e bianca guarnita di trine nere, che davano risalto alla foggia. Il busto le abbracciava stretta la vita e la faceva parere più snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti da un nastro di velluto celeste, luccicavano di ondeggianti riflessi violacei attorno alla fronte.
Mi porse la mano domandandomi scusa di essersi fatta aspettare; poi diede una rapida occhiata al mare brulicante di scintillii sotto la vampa del sole già alto, un'altra occhiata alla campagna che scendeva a sinistra, verde di messi quasi fino alla spiaggia, e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con viva espressione di piacere, esclamò:
— Che magnificenza!
In quel momento mi sentivo interdetto; respiravo appena. La rassomiglianza, così ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all'improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa.
Stupido! Come non me n'ero accorto sùbito?
Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito appena vedutala?
— Perchè mi guarda così?... — domandò quasi mortificata.
— Scusi — mi affrettai a dire. — È proprio un caso incredibile!
— Che caso?
— Lei somiglia tanto a una persona di mia conoscenza....
— Davvero? — m'interruppe ridendo. — È fortuna per me.
— Ma tanto — continuai senza badare al complimento — che io medesimo non credo ancora ai miei occhi!
— A persona, senza dubbio, molto cara.... — ella soggiunse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia.
— Molto! — risposi vivamente.
— Meglio. Così soffrirà meno la noia di questo esilio alla Marza. Cotesta sua amica però, non sarebbe molto contenta, se sapesse che lei ha stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei lineamenti.
— Vi era qualcosa che me lo impediva, — risposi; — il vestito, l'acconciatura della testa, la....
— E poi, forse, — m'interruppe con un sorrisetto di celia — la rassomiglianza non sarà proprio tanto grande....
— Sì, è vero — risposi. — Infatti la sua voce ha un'intonazione diversa, e colei aveva anche aria più dimessa, più seria.
— Così?
E si atteggiò a serietà senz'affettazione, nè caricatura.
— Precisamente, Dio mio!
— Starò seria tutto il giorno, per farle piacere.
— Oh, ma non creda.... — dissi con simulata indifferenza. E per divergere la conversazione, esclamai: — Se ci fosse una tenda, si potrebbe anche desinare qui. Vi ceneremo la sera, al chiaro di luna, come nei romanzi.
* * *
Rimasi tutta la giornata mezzo stordito. Non sapevo capacitarmi come mai i lineamenti della mia Jela si fossero quasi ripetuti in un'altra persona.
Jela! Il dolce sogno della mia giovinezza! L'unica donna che io abbia sempre amata anche amandone altre.
Jela! Jela!... Oh! Dopo tant'anni, non posso tuttavia pronunziar questo nome senza tremare dalla commozione. La immagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con raccoglimento più che religioso, con dolcissima estasi, per parecchie ore, durante le quali l'idillio della mia giovinezza ricanta lietamente le sue gentili canzoni.
— Fanciullaggini! Ridicolezze! — mi sono spesso ripetuto. Può darsi; ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni più profonde? Da chi conforti più ineffabili?
Purificata, idealizzata da lungo e segreto lavorio, pel quale il mio carattere, le circostanze della vita e l'indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura di Jela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito valore di simbolo. Pavento anch'oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o rimanere indifferente. Ed ecco perchè il vederla riprodotta vivente nella persona della signora Emilia mi turbava.
Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per quest'incontro qualche mutilazione? Mi metteva i brividi il solo pensarvi.
E tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo.
Eravamo andati a visitare l'antico casamento della Marza, poco distante. L'atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lì accanto, una volta dei frati Carmelitani, deviavano, a intervalli, la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo far da cicerone, dare schiarimenti, appagare la curiosità femminile destata da un sasso, da una grondaia, da un cespo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull'architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva.
— Quella bianca cupola in fondo, che stacca sul grigio della pianura?
— È della chiesa di Pachino.
— E quel colle con quel vasto e severo edificio in cima?
— Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari.
— E quello scoglio nero in mezzo al mare, poco lontano dalla spiaggia?
— L'isoletta dei Porri.
La giornata era splendidissima. Sole di primavera; aria profumata dagli odori particolari delle mèssi e delle erbe selvatiche in fiore.
Ma quel sole, quelle mèssi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un'altra giornata di maggio e una campagna più bella.
Jela, appoggiata al muro rustico di un pozzo su la spianata accanto all'aia, sorrideva ai piccioni domestici che beccavano i chicchi di orzo e di frumento lasciati cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava guardandola fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch'esso qualche regalo mangereccio.
— A che pensa? — domandò la signora, vedendomi così assorto.
— Penso, — risposi, — ch'è bene ci siano al mondo felicità che non si possono mai possedere!
— Una felicità non posseduta è piuttosto un dolore.
— Per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul certe e sul sempre), l'unico mezzo, cara signora, è non possederle mai.
— Una donna, — ella rispose, — non parlerebbe a questo modo.
— Perchè?
— Perchè noi siamo molto più pratiche degli uomini.
— Questo mi stupisce, dopo averla sentita parlare dei mille romanzi che ha letti.
Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita, che ella mi aveva confidato la sera avanti. Sentivo susurrarmi all'orecchio: «Ho sofferto, ho lottato!»
E poi, in tono più severo, quasi ultimo resultato di tristissima esperienza: «Solo il possesso rende felici; tutto il resto è illusione».
Io però protestavo internamente:
— No, non è illusione.
* * *
Si accorse presto del mio turbamento, e mi sorrideva in faccia con aria maliziosa, non osando apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul mio ideale, com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse gusto nel delicato tormento che m'infliggeva.
— Era più bassa, più gracile di me?... — mi domandò una volta ex abrupto, mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza.
— Più gracile assai.
— Ed è rimasta gracile sempre?
— Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' più pallida e assai più triste.
— Non è felice?
— Ahimè, poverina! — esclamai.
— La colpa è un po' anche sua, — riprese, sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con gesto accusatore.
— Dica del caso, delle circostanze; eravamo così ragazzi tutti e due!
— L'avrà un po' consolata.... dopo.
— Oh, no! — dissi trasalendo, e levando alta la fronte. — Quella donna è proprio morta per me. Io amo soltanto la ragazza, un ricordo, un fantasma. Infatti, quel che rende il mio sentimento più bello e più orgoglioso della propria purezza è la convinzione che sia ignorato da lei.
— Che assurdità! — esclamò. — Una donna amata può, se vuole, fingere d'ignorare; ma ignorare davvero....
— Le assicuro che colei ignora, — insistetti.
E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto sospettarlo io solo.
La signora Emilia si divertiva a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumuletti, lungo la spiaggia; e col braccio mi spingeva a correre su e giù per quella distesa mobile e gialliccia, deserto in miniatura.
Vi ritornammo parecchie volte nei giorni seguenti, ora al levar del sole, ora sotto il calore meridiano per formarci un'idea approssimativa del vero deserto, ora al lume di luna.
I raggi lunari, rischiarando con luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davano risalto con le ombre a tutte le disuguaglianze del terreno; e il luogo assumeva così un aspetto strano e pauroso, che di giorno nessuno avrebbe immaginato. Le onde del mare, battendo svogliatamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su la solitudine desolata.
Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura vivente, sperduti e senza speranza di soccorso, in mezzo a un oceano di sabbia. La configurazione del terreno, celandone i limiti, contribuiva a far credere immensa quell'estensione di poche miglia.
Di tanto in tanto la mia compagna lanciava per l'aria cheta un allegro scoppio di risa, che suonava più argentino del solito e vi si perdeva senz'eco.
Io, quando non ragionavamo, canterellavo. Ella intanto, facendo il giro dei pantani, gettava manate di sabbia fra i giunchi dattorno per far levare le anitre, le folaghe, i gheppi lì rimpiattati.
In verità, non mi divertivo molto.
Nei giorni precedenti mi ero più volte sorpreso a guardarla intensissimamente con sentimento di dolce compiacenza e che non scaturiva soltanto dalla sua somiglianza con Jela.
Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava ad attirarlo.
Pur troppo era vero!
La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con la stessa freschezza d'una volta. No, non vivevo insieme con lei alla Marza, ma con la mia Jela evocata da misteriosa potenza, che soltanto ne aveva alterato alquanto i lineamenti e le gracili forme. Capivo benissimo però che, oltre quei sentimenti, se n'erano sviluppati dei nuovi, collegati con quegli altri quasi per completarli; temevo appunto di questi.
Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che più vivamente riflettevano o rammentavano, anche da lontano, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce di Jela, mi davano scosse, tremiti, languori, che talvolta arrivavano fino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara immagine, che formava da tanti anni il culto più sacro della mia vita.
Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine delle quali parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte quasi delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi avviluppava in modo da non poterne più vincere la malefica azione.
— E dopo? — mi domandai una sera indignato, piantandomi di rimpetto a la mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.
E siccome l'ombra non rispondeva:
— Sei un vile! — dissi a quell'altro me stesso che vedevo coll'immaginazione confuso ed abbiosciato là davanti.
E andavo su e giù, tirando fantastici buffi di fumo dal sigaro spento.
— Miserabile! — continuavo — Tu carezzi desiderii, che non osi confessare nemmeno a te stesso. Già non sei più sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione!
E tornavo a passeggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.
Quelle parole mi avevano fatto arrossire quasi fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato per gli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:
— Via! Tu esageri. Tradire la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere. Volessi pure, quella donna......
Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che forse m'illudevo, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso.
Quella donna non sarebbe stata forte, lo indovinavo. Da che? Da cento lievi e quasi impercettibili indizi, che sarebbero sfuggiti a qualunque occhio meno interessato del mio.
— E dopo? — ripetevo con insistenza.
E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'immagine della mia Jela avesse potuto offuscarsi un momento; indignato che la rassomiglianza fosse servita, mio malgrado, da incentivo per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.
— Che debolezza! Che vigliaccheria!
Oh, no! Volevo essere uomo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo; dovevo al culto della mia Jela questa riparazione sentimentale.
E andai a letto consolato.
* * *
Avevo noleggiato una barca, che venne a prenderci allo spuntare del sole.
Un marinaio, con larghi e corti calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ci portò in collo di peso, una dietro all'altro; poi diede una spinta alla poppa, e la barca mezza arenata si cullò tosto mollemente su le onde dopo aver traballato un pochino pel peso di lui, che vi era saltato dentro.
Il mare appariva tranquillo. Larghi riflessi, verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior d'onda, come solchi di rotaie in un immenso piazzale.
La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua le produceva fascini violenti, che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, a un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un grido — non sapevo ben discernere se di paura o di piacere — e diceva, ridendo:
— Se si cascasse in mare?
E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto dell'acqua.
Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in insolita serietà, e in quel raccoglimento che mi faceva star zitto.
— Si annoia? — ella disse dopo un lungo silenzio.
— No, signora.
— Il suo pensiero non è qui. Lei non dice neppure una parola!
— I grandi spettacoli della Natura rendono muti.
— Mi dispiace che debba annoiarsi per causa mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi.
— Non questa volta.
Approdammo all'isoletta dei Porri, largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro, dirimpetto alla spiaggia. La campagna si stendeva laggiù, laggiù, con linee larghe, con mille sfumature di verde, che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, dentro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggiava da ogni lato dell'isoletta con urli e scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi più bassi.
— Ecco un posto, — ella disse, — dove abiterei volentieri, e dove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgermene.
— Che desiderii strani! — esclamai ridendo. — E vorrebbe vivervi sola?
— Oh! no, — rispose. — Dicono che soli non si starebbe bene neppure in Paradiso. In due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, bastevole ragione per non rimpiangere la società.... Sciocchezze, è vero? — soggiunse sospirando. — Invece bisogna contentarsi della dura realtà. Ecco: pel mio cuore, questo misero scoglio potrebbe valere tutto l'universo. Ma pel cuore di un uomo? Come rende triste il pensiero che noi, nella vita dell'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio!
— Scusi, — dissi. — Non è sempre così. Vi sono donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la parte migliore dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne sono rotte per sempre.
— Jela! — esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo in cui sorpresi lampi di dolore e di invidia.
Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi.
Vedendo che tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano, e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, continuò:
— Come dev'esser felice quella donna! Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi.... E son già dodici anni! Ma quanti dolori, quante tristezze! Felicità costata troppo cara e che, certamente, non esisterebbe, se invece di essere stati proprio a tempo divisi, avessero potuto vivere uniti, o lei l'avesse posseduta un istante, tutta sua, fra le braccia. Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sorte di lei? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi concedere, col corpo, all'uomo che non ama, e di darsi nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato?
— Oh no, no! — interruppi indignato. — È un amore di altro genere. Ella non lo intende... non può intenderlo.
E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di essere scortese.
La tremenda voluttà di doversi concedere!...
Queste parole mi eran suonate all'orecchio come una profanazione. Oh! Colei mesceva la sua bassa sensualità a un sentimento che non avrebbe appannato il cuore più puro....
Sì, avevo bisogno di essere scortese. E non solo per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce, che mi s'insinuavano per tutto il corpo vellicando dolcemente i nervi con irritazione delicata.
Temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte.
Fu un istante.
Tornai a sedermi; volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata.
— Perdoni, — le dissi, — oggi sono nervoso. Il ricordo di Jela mi turba. Senta: ho le mani diaccie. E toccai le sue.
Ella mi guardava ammirando, con le sopracciglia un po' aggrottate, le labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me per fissarmi meglio.
Era Jela, proprio Jela!
Distolsi gli occhi.
* * *
Me la prendevo con Paolo che non veniva.
I giorni passavano apparentemente uniformi; ma il mio cuore era sconvolto. Non lottavo più, non resistevo; ragionavo e tentavo scusare agli occhi della coscienza quella vigliaccheria.
Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto di Jela, no, questo ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con Jela era così grande; il sentimento (perchè non dirlo?) che colei mi ispirava era un così vivo riflesso del ricordo di questa, da non darmi il coraggio di giustificarne ai miei occhi neppure la possibilità.
Mi limitavo a concedere che non era poi gran delitto riamare Jela in quel suo ritratto vivente; riamarla con la stessa semplicità di cuore, e la stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito per lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di quella realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore.
La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dall'amor proprio così fortemente lusingato.
E Paolo? E la fuga? E il loro amore?
Ahimè! Niente è più vero del triste proverbio: Gli assenti hanno torto.
Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al pari di me, e lottava e cedeva e transigeva.... Chi lo sa? Forse anche provava, contro quell'incognita amata, gelosie di rivale.
Non sapeva perdonarle di venire fin lì ad invasarmi il cuore e a contrastarle fin quel meschino tributo di simpatia, che la donna più onesta è lieta di ricevere come buffo d'incenso alla propria bellezza o alla propria bontà!
E voleva vendicarsene, voleva umiliare la povera rivale con la stessissima arma della rassomiglianza, con cui ella era venuta ad assalirla nel suo breve regno.
Spesso le intravedevo negli occhi qualcosa di più; una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lascia perenni ricordi nel cuore.... ma che ci sono baci e amplessi tali, da sconvolgere da cima a fondo la vita e assai, assai più durevolmente delle vaghe fantasie da collegiale che io, un tempo, nella mia inesperienza, giudicavo suprema felicità. E allora i suoi sguardi lanciavano fiamme che venivano a lambirmi il viso con lingue di fuoco; e le sue labbra sembravano umide di un liquore inebbriante, che attirava irresistibilmente le mie.
Mi occorreva un grande sforzo per restare ragionevole e savio.
* * *
Un giorno ella mostrò il desiderio di voler raccontata, con tutti i particolari, la storia di Jela. Non seppi rifiutarmi.
Dapprima ero deciso di accennarle soltanto per sommi capi quel delirio, quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; più non seppi quali scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro quei dolci fantasmi della giovinezza, che hanno avuto una grande influenza su tutto il resto della mia vita.
Ella ascoltava intentamente, avidamente, con agitazione e commozione che aumentavano, come più il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo:
— Basta per oggi, — mi disse con voluta indifferenza. — Veggo che si riscalda troppo; le può far male.
Si alzò dalla seggiola, che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente per la spianata coperta di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli, poi si fermò davanti una statuetta greca, che giaceva ancora nel posto dove era stata scavata.
— Ha letto, — mi domandò con tranquillo tono di voce — la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa dea?
Seguivo con occhio turbato i movimenti di lei. Avevo sùbito compreso il significato della brusca interruzione, e della simulata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di fingere di non aver capito. Senza un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi sarei precipitato a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola.
Quella domanda mi calmò.
— L'iscrizione è monca, — risposi. — Dice: A Hera, la sacerdotessa, (il nome è illegibile) nella festa di marzo.
— Povera dea! — esclamò, quasi non sapesse che dire.
A me intanto parve avesse voluto sottintendere:
— Povera Jela!
E mi sentii stringere il cuore.
* * *
Nella nottata presi un'energica risoluzione. Se per poco cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami così improvvisamente nel petto, insieme col culto ideale di Jela, sarebbero naufragate e la mia dignità di uomo, e la mia lealtà di amico. Decisi di fuggire all'insaputa di Emilia, perchè ero certo che in sua presenza non avrei più posto in atto quell'urgentissima risoluzione.
Scrissi una letterina e la posai sul tavolino, in modo che dèsse sùbito nell'occhio. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza aveva una finestra molto bassa, che rispondeva sulla terrazza; apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla.
Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex-feudo, dormiva vestito su la ticchiena, specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a sellare una giumenta e presi la carreggiata.
Contavo di recarmi a Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio e fido amico e pregarlo di andare, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora. Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era uomo serio, discretissimo. Da giovane, doveva essere stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse per qualche cosa. La signora non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto, che pareva avesse concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo.
La giumenta andava lentamente; chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovare in fondo al cuore la dose di fortezza sufficiente a guarentirmi; ma non la trovavo.
Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza con Jela, sarei poi rimasto così virtuoso? Non dicevo nè sì nè no, ma sorridevo sarcasticamente; mi sbeffavo da me.
La giumenta rallentava il passo, si fermava a strappare grandi boccate di erbe, voltava di qua e di là la testa, quasi per interrogarmi intorno a quel che avrebbe dovuto fare. A intervalli, mi riscotevo; una stretta immeritata di sproni, una strappata di briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva sùbito il trotto.
Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano al soffio del venticello mattutino, facendo un rumore secco e stridente con le teghe delle spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione della campagna, che par fortifichi le fibre e allarghi i polmoni.
Questa sensazione mi produsse l'effetto di un calmante. E quasi incoscientemente feci voltare addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza.
Ero vergognoso; non volevo neppure rammentarmi d'avere tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Conca di Pietra; erano ancora chiuse. La mia lettera fortunatamente non poteva essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta che scuoteva la testa, costernata dell'insolito trattamento.
Volevo arrivare senz'essere veduto. Eh, sì! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra della signora Emilia si aprì, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi mai potesse arrivare a cavallo.
— Oh, lei, signor Claudio? — esclamò meravigliata.
— Buon giorno, — risposi, cercando di dissimulare il turbamento.
— Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera.
— Stupenda, — risposi accostandomi, curioso d'osservarla da vicino.
Era nel più bel disordine, appena levata da letto. I capelli le scendevano arruffati sul collo; una leggiera sciarpa a strisce di più colori le copriva le spalle e le braccia, lasciando scorgere gli smerli della camicia ampiamente scollata in giù della gola; la pelle del volto era ancora quasi madida del calore delle coltri. Ella accostava la sciarpa alla vita, con atteggiamento che voleva esser pudico e riusciva procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di persona uscita allora allora dalla stretta di lunghi abbracci, con l'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti.
A quella vista ebbi abbagliamenti e vertigini. La casta e malinconica figura di Jela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò più forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate.
— Stupenda, — ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorando cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la febbre della mia immaginazione levava d'attorno ogni velo.
— A rivederci, — ella disse, arrossendo di scorgersi così avidamente guardata.
E con movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte, salutandomi con un grazioso sorriso e un inchino del capo.
Era sparita. Io però, rimasto immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i vetri, quasi le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fossero rimaste impresse lì e ve ne mantenessero l'apparenza.
* * *
Ero già pentito di essere tornato addietro. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una lieve spinta, e cascavo nel vuoto. Brividi mi correvano per la persona. Oh, quel Paolo benedetto!
E Jela, il mio gentile ideale?
M'ingegnavo di persuadermi ingenuamente che ella avesse bisogno di questa specie di nuova incarnazione per diventare completa; creatura affatto spirituale, prendendo da Emilia le agili dovizie della forma, sarebbe però rimasta sempre la mia Jela.
Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa apertamente e dire per scusarsi: è irresistibile!
La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole insinuavano nel corpo lassezze piacevolissime, quasi di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche volavano insistenti attorno con ronzio prolungato, vero adagio musicale di ninna-nanna, che cullava i sensi e li legava col suo torpore. A ogni mover di passo fra le erbe e i fiori, migliaia di insetti si levavano a volo e tornavano quasi sùbito a rannicchiarsi all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole.
Appoggiata al mio braccio, Emilia ora percoteva colla punta del piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca per disturbare gli amori degli insetti nel letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa.
La spiaggia formava un seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Il letto di sassi lisci, arrotondati, e di varii colori, era circondato dalla curva costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, che non accusava certamente la mano dell'uomo.
— Vedrà che magnifica pesca, — ella disse, adagiandosi su un sasso da me preparatole per sedile.
— I pesci, — risposi ridendo, — saranno lietissimi d'esser pescati da mano così gentile!
E, inescato il suo amo, lanciai il filo in mare.
L'onda ci lambiva i piedi; la dighetta dei sassi ne limitava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, si vedevano correre i gamberetti marini sul fondo arenoso; le patelle solitarie se ne stavano aggrappate ai sassi col guscio grigio che si scorgeva appena; l'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda delle ondate, inarcandosi per assorbire dai muschi impercettibili prede.
Dopo aver dato un po' la caccia ai gamberelli marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedei sui ciottoli, accanto alla donna.
Atmosfera pesante ed immobile. Silenzio greve intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi, aveva mormorii voluttuosi di sirena, mormorii seduttori. Nessuno dei due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i più riposti movimenti del cuore dell'altro.
Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la mano destra poco discosto dalla mia testa. Sedevo più basso di lei e rimasi alcuni minuti a guardarla come un goloso, con l'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fine e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla con la guancia e le labbra divenne tentazione insistente. Mi spingevo in là senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e la mia guancia si posò su la mano di lei... che non si mosse!
Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con tenere pressioni, che mi facevano gustare tutta la delicatezza della pelle. Avevo già perduto ogni conoscenza di me stesso.
Alzai gli occhi. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, con le labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona per eccessiva commozione, con le pupille lampeggianti di sensualità.
— Claudio!... Claudio!... disse dolcemente, languidamente.
Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci.
Fu un minuto.
— Fortuna che nessuno ci abbia visti! — esclamò Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo.
E rise, con un riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della profonda commozione, che doveva agitarle tutto il corpo, ma contentezza, appagamento, scoppio di sodisfazione volgare....
Avrei preferito che quella pigra ondata del mare, morente sui sassi, si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato; avrei preferito che, mentre ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse comparso all'improvviso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse slanciato addosso con furore di amico e di amante tradito. Niente! L'onda continuava il monotono mormorio; il silenzio meridiano incombeva attorno non turbato nemmeno dal ronzio d'un insetto.
Ella non capì quel che avveniva dentro di me.
— Fa troppo caldo, — disse.
— Fa troppo caldo, — ripetei.
E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza scalinata.
Giungemmo a casa senza scambiare una parola.
Avevo il cuore grosso.
* * *
Che nottataccia!
Al cader della sera mi si erano ridestate più violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, mi strappavo i capelli.
— Perchè non spingevo quell'uscio? Perchè non entravo all'improvviso?
Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la stanza, che dividevano la mia dalla sua camera.
Origliai un pezzo all'uscio per persuadermi se Emilia era sveglia. Grattai leggermente l'uscio; nessun movimento. Dal buco della serratura vedevo la lampada agonizzante sul tavolino accanto al letto; da piedi scorgevo le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una seggiola e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre!
Ritornai vergognoso e disilluso in camera mia, e molto tardi cedetti al sonno.
Chi mi svegliò la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato senza avvisarci.
— Poltrone, — urlava dietro all'uscio. — Dormire fino alle dieci, in campagna!...
* * *
Sei giunto a proposito — gli dissi dopo la colazione. — Ero sul punto di andar via senza più aspettarti.
— Otto giorni di maledetta febbre, altri quattro di prigionia, di riposo in casa per ordine del medico. Un'eternità! Che smanie! Ora mi rifarò del tempo perduto....
Egli rideva, mentre io dovevo apparirgli pallido come un morto. Ripetei:
— Ero sul punto di andar via.
— No. Rimarrai un paio di giorni, ora che ci sono io.... — rispose Paolo.
— Impossibile!
Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non insistente e calorosa.
Avevo appena la forza di guardar Paolo in faccia; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore. Fui fermo.
Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo:
— Senti, — egli mi disse, — sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex-feudo.
Infatti rimase su la terrazza.
Poi, volgendosi alla signora Emilia che, ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con occhi sdegnosi e turbati:
— Pregalo tu, — soggiunse. — Forse l'insistenza di una signora lo piegherà.
La signora Emilia si accostò, guardandomi fisso negli occhi; e con accento represso e vibrato mormorò, impallidendo:
— Perchè mi fuggi?
Si morse le labbra.
— Ma se rimango — risposi a bassa voce anch'io, — commetteremmo un'infamia.
— Che scrupoli! Ormai!... — brontolò con inesprimibile mossa di sdegno, voltandomi bruscamente le spalle.
Quelle triste parole mi resero la mia coscienza di uomo e la mia fierezza di carattere.
Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi indietro soltanto per rispondere a un ultimo addio di Paolo.
La serata era calma, splendida di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva che il cielo si vestisse gradatamente d'un sorriso più bello, e che su quella profonda limpidezza, oh gioia! tornasse ad apparire la soave figura della mia Jela, casta e pietosa come prima, sorridente di perdono.
E quando comparvero le prime stelle, mi sembrò, proprio, che i limpidi occhi di Jela si affacciassero di lassù per un commovente saluto.
ORRORI. II.
Insidia, aggressione?... Non avrebbe saputo dirlo neppur lei. Qualcosa di vigliacco e di brutale.... Un'infamia!
E al ricordo di quell'istante in cui la violenza del cognato aveva impresso a tradimento un bollo di fuoco nelle sue carni di moglie immacolata, ella agonizzava senza tregua, senza poter confidarsi con nessuno, all'infuori del Crocifisso a piè del quale s'era buttata, protestando per la propria innocenza, sciogliendosi in lagrime nel buio della camera, la terribile notte seguita alla sera della violazione, quando le era parso d'impazzire, di morire... e non era nè impazzita, nè morta!
Com'era avvenuto?
Se lo domandava spesso, tentando d'illudersi per non più ricordarsene, per non più crederci; per ottenere, almeno così, un momento di riposo in quello straziante travaglio del sangue, dei nervi, dell'intelligenza che tornavano a ribellarsi contro l'oltraggio, quasi continuasse l'opera sua vituperosa; indignata di se stessa quando credeva che la volontà non reagisse abbastanza da scancellarle dalla memoria l'orribile impressione; irritata contro tutti perchè non la soccorrevano, anche ignorando la causa dell'incessante tortura....
Non si accorgevano che soffriva?
In certe giornate, allorchè il cielo era coperto, o la pioggia scrosciava sui vetri del salottino, dove ella tentava di distrarsi leggendo, o applicandosi a un lavorino manuale, sentiva invadersi a poco a poco da una specie di fascino, che la forzava a ricordare, a rappresentarsi fino i minuti particolari dell'atrocissima scena. I grandi occhi neri le si dilatavano enormemente sul volto pallido e affilato; le mani scarne e bianchissime brancicavano i braccioli della poltrona, dov'ella si distendeva con l'abbandono di persona morta; e mentre le labbra aride articolavano di tanto in tanto parole inintelligibili e sconnesse, quell'altra stanza che prima serviva da salottino, i mobili, i quadri, gli oggetti d'arte sparsi allora qua e là su le pareti e negli angoli, il tavolino tondo, la lampada dalla ventola giapponese, le si rizzavano rapidamente attorno, con la solidità del vero, quasi fossero ancora là, e non li avesse ella dispersi due giorni dopo, perchè sparisse anche ogni inanimato testimone dell'incredibile onta....
Ma.... e la sua debolezza non ci aveva concorso per nulla? Ma.... e non c'era stato dalla parte di lei un cieco assentimento di sensi?... Oh, no! Oh, no!... Ella non sospettava; non diffidava. Il fratello di suo marito!... Sarebbe stato un delitto. Colui parlava quasi sottovoce, stranamente commosso, seduto di rimpetto; ed ella agitava il largo ventaglio, senza guardarlo in viso, sorridendo di quel ch'egli diceva e del modo con cui lo diceva, distratta, nell'intimità dell'ora tarda o da una canzone che saliva inattesamente dalla via e si allontanava affievolendosi, o dal rumore di una carrozza che passava di corsa; il silenzio, poco dopo, rendeva più dolce e più intimo il conversare, lasciando un po' di libertà all'immaginazione e non obbligando a rispondere.
Durava da parecchie settimane. Nella lontananza del marito, egli era venuto più di frequente, anche per affari. Come sospettare?... Come diffidare?... Mai una parola, mai un'occhiata, mai un gesto che potesse metterla in guardia!
Si era levato da sedere continuando a parlare, facendo qualche passo su e giù davanti a lei, con certi sguardi che le avevano dato un senso di meraviglia e le erano parsi un po' buffi in quel momento. E, a un tratto....
Ella si dibatteva, come se quelle labbra le ricercassero di nuovo il viso, il collo, le mani che si difendevano: — No! No! No! — Ed era soggiaciuta per l'annientamento d'ogni forza, vinta da un immenso stupore, quasi fosse stata non già vittima, ma testimone di quel delitto!... E si era rizzata, ravviandosi istintivamente i voluminosi capelli disordinatisi nella lotta, cercando con lo sguardo lui, che era scappato via come un ladro, lui, che ella avrebbe voluto chiamare in soccorso, tanto quell'infamia le pareva incredibile! Così rizzavasi ora, ogni volta che l'allucinazione la vinceva; e così riportava le mani al capo per ravviarsi i capelli alla rinascente sensazione del disordine di allora.
E si rivedeva ritta in mezzo al salottino, come si era vista in quel momento nello specchio di faccia, senza riconoscersi, atterrita di quel fantasma pallido e sconvolto che non si moveva, che non parlava, e pareva non respirasse neppure.... E compreso l'orrore ch'era stato consumato, che non si poteva più cancellare, aveva nascosto le improvvise vampe del volto tra le mani diacce e convulse.
— Lui!... Lui!... Il fratello di mio marito!
Barcollava, come allora ch'era andata tentoni per la stanze buie fino alla camera da letto; e, come allora, i singhiozzi e il pianto tornavano a farle nodo alla gola:
— Lui!... Lui!... Il fratello di mio marito!
* * *
La mattina, quando s'era trovata ancora piangente, accoccolata come una mendicante sul pavimento, con la testa appoggiata alla sponda del letto, le mani avviticchiate attorno ai ginocchi; al barlume dell'alba, penetrato nella camera dai vetri rimasti aperti, la prima sensazione che le aveva dato la coscienza di se stessa, era stata un invincibile ribrezzo dei vestiti che aveva indosso; poi una pazza paura che non le si fossero appiccicati alle carni per perpetuare la sua onta. Rapidamente s'era spogliata, strappando i bottoni, i ganci, ogni cosa che faceva intoppo; e rivestitasi in fretta, aveva spinto coi piedi fuori della stanza quel mucchio di roba e di biancheria, quasi fosse stato un sudiciume da potere appestar l'aria.
Era rimasta tutta la giornata chiusa in camera scusandosi con un'emicrania, senza voler vedere nessuno, neppure la sua bambina venuta a picchiar all'uscio colle manine, chiamando: — Mamma! Mamma! — Ed era rimasta lì; buttata sul letto, col volto affondato nei guanciali, al buio, smaniante di urlare forte, forte, forte, perchè il marito lontano la sentisse, turandosi nello stesso tempo con le mani la bocca, per impedire che qualche grido non le sfuggisse mentre si sentiva soffocare.
E quando suo marito sarebbe tornato?
Oh, non ci voleva pensare!
Sarebbe morta, prima. Non si sentiva già morire? Ed era bene.
Al terrore di quel prossimo arrivo, all'idea di sentir sovrapporre ai baci maledetti i dolci e affettuosi baci di lui, brividi acuti le correvano per le ossa.
Dio!.. Non si sarebbe accorto sùbito?
Intanto ella, no, non poteva accusare, non doveva.... Quell'infamia era così enorme, che nessuno l'avrebbe creduta, e meno di tutti suo marito.... In certi momenti riusciva forse a prestarvi fede ella stessa?
Non le pareva d'essere sotto l'incubo d'un cattivo sogno, mostruoso prodotto dell'immaginazione malata?...
Ed era una realtà!
Sentendo che egli aspettava in salotto, — aveva avuto la temerità di tornare e chiedere di parlarle! — tremante e convulsa era sbalzata dal letto, senza sapere quel che intendesse fare, e si era trascinata fin là, arrestandosi in mezzo all'uscio per appoggiarsi e non cadere.
Egli le si era buttato ai piedi, soffocato dai singhiozzi:
— Perdonami, Teresa, perdonami!... Parto.... Non ci vedremo più.... Ero pazzo!... Ho orrore di me.... Perdonami.... Ti ho amata.... Da due anni.... Mi ero allontanato di casa tua per questo.... Perdonami!
— Andate via! Neppure Iddio può perdonarvi!.... Andate via!
Rantoli più che parole, fremiti di odio, che ne rendevano irriconoscibile la voce.
— Teresa!... Risparmiamogli un inutile dolore....
Non aveva soggiunto altro, implorando.
Ed ella, nel vederlo andar via col passo malfermo d'un uomo a cui traballasse il terreno sotto i piedi, gli aveva ripetuto: — Andate, andate!...
Maledizione, sputo di disprezzo, dove si riversava tutta l'ambascia del suo povero cuore avvelenato per sempre!
* * *
E al ritorno del marito?
Voleva esser forte, per non tradirsi con la menoma esitanza o col più lieve movimento delle labbra e degli occhi.... Perciò parlava spesso del ritorno del babbo alla bambina, tenendola sulle ginocchia, accarezzandola; quasi l'innocente creatura, incapace di mentire, dovesse poi, occorrendo, testimoniare in favore della mamma!... Ma stringendo al petto la figliuolina che le fissava in viso, un po' maravigliata, i begli occhi azzurri, e pareva tentasse di penetrarne, a quelle eccessive carezze, le nascoste intenzioni, come più l'ora dell'annunziato ritorno si avvicinava, come più il momento della terribile prova diventava imminente, ella si sentiva di giorno in giorno assai meno rassicurata, assai meno forte. E allorchè il marito le scrisse che sarebbe stato trattenuto ancora una settimana dagli affari, respirò alleviata; senza curarsi che il ritardo prolungasse la tortura dell'incertezza, illudendosi di doversi sentire tanto più coraggiosa e più forte, quanto meglio si fosse preparata e assuefatta al terribile colpo di quell'incontro.
Si occupava soltanto di lui. Nel salottino, rinnovato da cima a fondo e che gli avrebbe procurato una sorpresa, le pareva di amarlo con maggior tenerezza, quasi con ineffabile pietà materna, giacchè ora le accadeva di chiamar più facilmente: figliuolo mio! colui che, datole cuore, nome, agiatezza, e rimasto modello di marito innamorato della moglie sapeva mettere nell'intima affezione coniugale tutte le delicatezze dell'affetto fraterno e l'alta devozione della vera amicizia. Si occupava soltanto di lui; voleva occuparsi unicamente di lui, anche per scacciar via l'immagine di quell'altro, del colpevole, che talvolta la faceva sobbalzare, pallida d'indignazione, come nel punto ch'egli le aveva balbettato ai piedi: — Perdonami, Teresa! Ti amavo, da due anni!
Da due anni?... Ah!... Intendeva forse che ella doveva essersene già accorta?... E per ciò aveva supposto...?
Le lacrime, che allora le sgorgavano dagli occhi, le bruciavano il viso: — Miserabile!... Miserabile!...
E almeno aveva ancora la forza di sdegnarsi! E almeno poteva ancora buttargli in faccia, quasi fosse stato presente, quel feroce: Miserabile! che le scoppiava simile a un fulmine dalle labbra contratte.
Ma tosto che le parve di sentir dentro di sè un accenno, un preavviso di cui le sue stesse viscere inconsapevolmente provavano nausea; ma quella mattina, seguita a una mortale nottata d'insonnia, in cui l'accenno, il sospetto era divenuto certezza per lei, si era d'un colpo sentita annientare, quasi le sue membra avessero voluto sciogliersi, disgregarsi, disperdersi, per uccidere l'empio germe vitale da cui sarebbe accusata al marito, alla figlia, a tutti, spietatamente inesorabilmente....
Oh, Signore!... Era mai possibile?
Quella mattina ella respinse in modo brusco anche la bambina, che voleva saltarle al collo per darle il buon giorno. Sbalordita, atterrita, neppur capiva il significato delle parole, che andava pronunziando interrottamente, ad alta voce, come una pazza, torcendosi le mani, appoggiata al letto colle gambe irrigidite, puntando i piedi sul tappeto.
Era mai possibile?... Oh, Signore!
Poi, si era sentita inattesamente tranquilla, con disperato abbandono alla fatalità dei casi umani e a un lontano, quasi fanciullesco luccicore di speranza....
— Dio, con un miracolo, Dio solo potrà salvarmi!
* * *
Al rumore dei propri passi nell'oscurità silenziosa e vuota della chiesa, le era parso che qualcuno l'avesse inseguita fin dov'era corsa a chiedere consigli e conforti al vecchio confessore.
Da due giorni la ragione le vacillava. Uno spaventevole suggerimento le brontolava insistentemente nell'orecchio; e non gli aveva dato ascolto per paura, per viltà, quantunque la morte le sembrasse liberazione e anche espiazione. Ma non sapeva, non poteva.... Ora sarebbero stati due delitti in uno.... No! No!
In un angolo, perduta nell'ombra, una donna in ginocchio e colla testa appoggiata alla balaustrata di marmo che chiudeva la cappella, pareva singhiozzasse pregando. A lei però non riusciva nè di pregare, nè di piangere; le lagrime le si erano disseccate dentro gli occhi. Ebete, simile a un accusato che paventi l'apparire del giudice, da cui dovrà essere condannato, attendeva seduta che il vecchio confessore, già fatto avvisare, giungesse; e intanto si distraeva, guardando fisso quella figura di donna curva sul marmo della balaustrata, provandone una viva compassione. Quando colei, levatasi in piedi e pregato un istante col volto alzato verso l'immagine dell'altare, — Madonna o Santo, non si distingueva bene — era sparita via silenziosamente, simile a un fantasma doloroso, ella era rimasta sola, sopraffatta dal terrore di quella oscurità, di quel silenzio, di quelle statue biancheggianti nell'ombra, di quelle lampade agonizzanti nel misterioso fondo dell'abside.... Ma n'era uscita consolata, alleggerita del peso enorme, che le schiacciava il petto, rassegnata a tutte le conseguenze del volere di Dio.
Una voce piena di dolcezza e di pietà le aveva detto:
— No, tu non sarai rea, tacendo. Poichè la tua coscienza non può rimproverarti niente; poichè non hai trovato niente in fondo al tuo cuore da doverne chiedere perdono a quel Dio che legge i più nascosti abissi dell'uomo, va, tu sei ancora pura e innocente anche al cospetto di tuo marito; e faresti molto male, e ne saresti responsabile innanzi agli uomini e innanzi a Dio, se ti lasciassi sfuggir di bocca quel che ormai dovrà rimanere un triste segreto fra Dio e te!
Che gentile carezza al viso l'aria fresca della via! Il cielo pallido ancora degli ultimi riflessi del crepuscolo, e lucente e alto fra i tetti nereggianti, con limpidezza profonda, come corrispondeva alla mite luce, che le sorrideva nell'animo dal vero cielo della parola divina! E come si sentiva dolcemente stanca, in quella deliziosa convalescenza dello spirito, che la rendeva immemore e maravigliata di poter passare lieta anche lei, tra la gente lieta dei marciapiedi! E che fretta di trovarsi in casa per abbracciare la bambina! Da due giorni, povera creatura, doveva essere afflitta di vedersi così poco baciata e abbracciata!
Camminava svelta e leggiera. Tutto era finito; non c'era più da temere. Il miracolo che doveva salvarla, era dunque avvenuto?
Nell'avvicinarsi a casa, però, ecco qualcosa che le saliva, le saliva lentamente dal profondo del cuore, ed ecco di nuovo quel cieco terrore di cui le pareva d'essersi sbarazzata, lassù, nella penombra e nel silenzio della chiesa, dietro la grata del confessionario.
Sì, avrebbe taciuto.... Sì, avrebbe mentito.... Ma se suo marito tardava ancora?
Accelerando sempre più il passo di mano in mano che quel terrore riprendeva intero possesso di lei era arrivata a piè della scala, ansante, con le ginocchia fiacche, peggio che se avesse fatto una gran corsa; e dovette reggersi al ferro della ringhiera per montar gli scalini, e poi fermarsi un momento dietro l'uscio per riaversi e ricomporsi prima di suonare il campanello.
La bambina le era venuta incontro saltellante, agitando il telegramma del babbo. Teresa lo aveva mezzo strappato per aprirlo; e lettolo, si era lasciata cascare sulla seggiola, trattenendo a stento le lacrime, coprendo di baci la testina bionda della bambina, che domandava:
— È del babbo? Verrà domani?
— Sì, sì, domani!
La gioia della sua creatura le dilaniava il cuore.
— Domani!
* * *
Forte della propria innocenza, durante l'interminabile nottata, ella si era ripetuta una dietro l'altra, per fissarsele meglio nel cuore, tutte le confortanti parole del vecchio sacerdote; e aveva invocato dal cielo il coraggio di risparmiare al marito l'immeritato strazio di quell'onta. Neppure la sua bambina doveva un giorno arrossire quantunque a torto, della povera mamma! Dio certamente avrebbe impedito che quest'altra creatura, per la quale ella non avrebbe potuto mai avere viscere di madre — lo sentiva, mai! mai! — venisse viva alla luce.
Le ore scorrevano con tormentosa lentezza sul quadrante dell'orologio, che ella osservava a intervalli; le pareva intanto che le sue preghiere, nella vasta calma della notte, dovevan più facilmente arrivare lassù. E già si sentiva ascoltata, già si sentiva consolata di nuovo.
Perchè doveva repugnarle mentire? Non era per buon fine? Come facevano, dunque, quelle altre che mentivano a fronte alta, a cuor leggero, tradendo?
Infine.... se non le fosse riuscito, se quegli per caso si fosse accorto....
Ebbene, che poteva farci? Avrebbe parlato, avrebbe confessato... sì, sì! Era forse meglio.... Soltanto le otto e mezzo? Altre otto ore di agonia!
Si voltava e si rivoltava nel letto, tastandosi spesso la fronte che le bruciava, tentando invano di distrarsi, di non pensare; e brancicava furiosamente le lenzuola quando l'immagine di quell'altro, scacciata via o tenuta lontana un pezzo, tornava ad assalirla come un invasamento, parlando dal profondo delle viscere di lei; irridendola quasi col mandarle, a traverso lo spazio, dall'Oceano che egli forse in quel momento traversava, le infami parole: Ti amavo! Da due anni!
Non avrebbe taciuto mai?
Era rimasta a letto fino a tardi, incapace di fare lo sforzo di levarsi, quasi, restando immobile, potesse anche ritardare la corsa del treno con cui suo marito tornava; poi s'era alzata tutt'a un tratto irrigidendosi contro ogni impressione capace di infiacchirle l'animo, improvvisamente risoluta di affrontare faccia a faccia il pericolo. Con la cipria rosea e colorandosi lievemente le labbra sbiadite, aveva scancellato dal volto qualunque traccia di pallore; e provava, come una attrice, la parte da recitare, quel che avrebbe dovuto dire all'arrivo di lui.... Sarebbe stato un attimo, ma le tardava che già non fosse passato!
Perciò andò incontro al marito franca, sorridente, — col cuore, sì, un po' agitato, mordendosi le labbra — e gli stese le mani sicura; e non tremò tra le braccia di lui, e resistette all'impressione di quei caldi baci con l'alterezza della innocenza. Era commossa nel vederselo dinanzi gentile, buono, affettuoso, qual era partito; e, sì, stupita che il fingere e il mentire non costassero insomma maggiore sforzo.
Soltanto quando il marito, alla vista della trasposizione e dei mutamenti da lei fatti nel salottino, le domandò perchè non glien'avesse scritto mai niente, ella, con qualche imbarazzo e alzando le spalle, rispose:
— Capriccio. Non sdegnartene, Giulio.
In verità n'era malcontento. Non gli pareva di ritrovarsi in casa propria; quasi avesse fatto uno sgombero, egli che odiava gli sgomberi. Viveva da sette anni in quella casa. La sua felicità era nata e cresciuta là, in quelle stanze ariose, fra quei mobili che avevano veduto e sentito, quasi persone vive e di famiglia, tutto quel che più intimamente lo interessava e gli era caro, sin dal primo giorno dopo il viaggio di nozze.
— Volevo farti una sorpresa, — ella aggiunse, esitante.
Giulio sorrise. Infine, mobili e oggetti d'arte avevano solamente mutato di posto, dalle altre stanze nel nuovo salottino; e la loro disposizione era così gentile e intonata, che poco dopo egli non provava più il cattivo effetto della prima impressione. La bambina, arrampicatagli su le ginocchia, lo accarezzava, lo baciava, aggrappata al collo, chiamandolo: — Babbino bello! Babbino caro!... — Intanto, fra i baci e le carezze, egli osservava sua moglie:
— Sei un po' dimagrita.
— Ti pare?
— E un po' pallida. Non sei stata malata, spero.
— Ho avuto l'emicrania....
Rispondeva tranquilla, senza abbassare gli occhi sotto quegli sguardi che la scrutavano, anzi interrogava alla sua volta:
— Tu però mi sembri pensieroso. Che hai?
— La partenza di Carlo....
— .... È partito?... Per dove?
— Come? Tu non sai?... Carlo è partito per l'America, improvvisamente. Non disse niente neppure a te?
— No.
Lo sforzo di fingere la rendeva quasi sincera. A quel nome, un leggero brivido le era passato per la schiena; ma, sùbito rimessasi, ella mostrava di ascoltare con curiosità e maraviglia il marito, che le raccontava l'improvvisa partenza del fratello.
— Risoluzione inesplicabile.... Temo che qualche grosso affare non gli sia andato male.... M'informerò, senza destar sospetti. Ne sono molto impressionato.
— Tornerà presto.
— Dice che non tornerà più!... Che carattere strano!
Ella ebbe un senso di sollievo, e deviò il discorso.
— I tuoi affari vanno bene?
— Benissimo.
La bambina, presa in quel punto una mano alla mamma e mettendola in quella del babbo, gli diceva ridendo:
— Non vedi?... La mamma vuol essere baciata anche lei!
* * *
Ogni apparenza era salva, ogni ragione di timore sparita; ella avrebbe potuto viver tranquilla, seppellendo nel più profondo del petto quel terribile segreto, ed ecco che la sua tortura ricominciava più atroce.
Con la irritazione contro l'incestuosa creatura che le palpitava in seno e non le dava nessuna delle sofferenze provate nella prima gravidanza, Teresa era divenuta così nervosa, così eccitabile che ogni insignificante contrarietà le produceva strani scoppi di stizza, seguiti spesso spesso da sfoghi di singhiozzi e di pianto.
— Ma che ti senti, insomma? Sei malata? — le ripeteva suo marito.
— Non dire così; è peggio! — rispondeva, piena di rabbia e di vergogna.
Una mattina che Giulio, turbato e tenendola per le mani, aveva insistito più del solito perchè parlasse, Teresa gli si era buttata al collo piangente, stringendolo forte, premendo con la faccia sulla spalla di lui.
— Non lo capisci? Tu sei malata....
— No! no!
E quasi gli aveva morso il collo, spaurita, sentendosi salire alle labbra la terribile rivelazione che la strozzava, soggiungeva:
— No!... No!... È per la bambina. Ho il cuore grosso.... Non so....
E gli era cascata quasi in convulsione tra le braccia. Giulio, spaventato, aveva mandato sùbito pel dottore, il quale, dopo poche interrogazioni e osservazioni, s'era messo a sorridere; e nell'andar via gli avea raccomandato:
— Bisogna che la signora stia molto calma. Le conseguenze d'un aborto potrebbero essere gravi.
Ella era rimasta sdraiata sulla poltrona, con tale abbattimento di forze da non poter tenere nemmeno semiaperti gli occhi; e mentre il marito la confortava, lieto del male passeggero, pregandola di riguardarsi, giusto le raccomandazioni del dottore, lacrime silenziose le scorrevano sul bianco volto, e le mani diaccie le tremavano stringendo la mano di lui.
— Mi hai fatto paura! — egli le diceva, asciugandole la faccia, accarezzandola, dandole lievi baci sulla fronte. — Mi hai fatto paura, sai?
Ma Teresa non rispondeva, immobile, sfinita; e pensava fisso a quell'aborto, che sarebbe stato la sua salvezza, se fosse davvero avvenuto. E ruminando cattivi propositi contrariamente alle raccomandazioni del dottore, vedeva passare, quasi in sogno, una minuscola cassetta funebre portata via di nascosto da un uomo vestito di nero, come ben si addiceva alla trista cosa lì racchiusa.... E le pareva che quell'uomo vestito di nero, con quella funebre cassetta sotto braccio, andasse, andasse, andasse.... e si perdesse lontano, in una nebbia fitta, mentre le viscere dilaniate le doloravano ancora.
Non avveniva così. Il suo fragile corpo diveniva più resistente e più forte, il tormento dell'animo prendeva maggior vigore.
Così, di giorno in giorno, mentre il seno le si arrotondava per la più benigna e più sana gestazione che mai donna potesse desiderare, un odio sordo la invadeva contro quell'ostinato germe, che voleva vivere per forza e crescere e venire alla luce.... E picchiando sul proprio seno, intendeva schiacciare il capo dell'invisibile nemico lì dentro nascosto, finchè inorridita di quel soffio di pazzia che le aveva attraversato il cervello, non s'arrestava e non cadeva in ginocchio invocando il perdono di Dio e dell'innocente creaturina.
Era ingiusta. Non doveva risentire solo colei il peso dell'infamia altrui, nè scontarne la pena!
* * *
Poco dopo, la bambina s'era ammalata gravemente. Teresa avea voluto restare notte e giorno al capezzale della inferma. Preghiere non erano valse, nè minacce del marito per indurla a rimuoversi di là.
Il rimorso le lacerava il cuore. Ella rammentava con spavento la vile menzogna:
— È per la bambina.... Ho il cuore grosso.... Non so!....
E il ricordo di queste parole le si mutava in terribile rimprovero, quasi avesse buttata così una cattiva sorte addosso alla figliuolina, che ora smaniava nel letto riarsa dalla febbre, tra la vita e la morte.
— Oh, lei stessa la uccideva! La bambina avrebbe espiato, vittima pura, l'infame delitto di quell'uomo!...
E credendo di assistere all'agonia della creatura che era stata la sua gioia, il suo orgoglio di madre immacolata e felice, si sentiva intanto sussultar nel seno quell'altra con festoso anelare alla luce, con vivo senso d'allegrezza pel vicino sprigionamento. E presso il capezzale dove le pareva che l'alito freddo della morte gelasse il sudore sul viso sfigurito della sofferente, ecco il fantasma di colui — dello scomparso — che le si ripresentava dinanzi con umile aria di preghiera: — Ti amavo, da due anni. Per questo m'ero allontanato da casa tua! — Perchè se lo sentiva così pertinace nell'orecchio? Perchè il di lei pensiero vi si fissava dispettosamente, con una specie di sdegnosa compiacenza? E quando, Signore! quando? Ora che la sua figliuolina era all'estremo, ora che ella avrebbe dato volentieri in olocausto la propria inutile e triste vita, pur di sviare il pericolo da quel capo diletto!
Il Signore era stato misericordioso: non le aveva preso la bambina!
Teresa riviveva con lei. E al rifiorire del roseo colore sulle guancine dimagrite, le fioriva in cuore una nuova dolcezza di maternità, un senso di pace, che neppure quei rapidi sussulti del seno riuscivano a turbare.
— La sua bambina era salva!
Si sentiva felice; non odiava più, con l'istessa intensità di prima, l'altra creatura che già si faceva sentire maggiormente col grave pondo e coi vaganti dolorini, preludi di un'altra fase di tortura....
Sì, di un'altra fase di tortura. La infelice non poteva pensare, senza raccapriccio, alla continua presenza di quell'insultante testimone della ignominia di lei, di quella menzogna, di quell'inganno vivente, che sarebbe stato di continuo sotto i suoi occhi e ch'ella non avrebbe mai potuto, mai! tenere come sangue e carne sua!... E allorchè il marito la rimproverava dolcemente, non vedendole preparar nulla per il prossimo arrivo del figliuolino tanto desiderato — egli credeva con certezza che sarebbe stato un maschietto — Teresa gli rispondeva:
— Chi sa quel che accadrà?
Presentimento e malaugurio.
S'era fissata nell'idea di dover morire durante il parto insieme con la creatura da nascere; e se ne rallegrava, provando pure un indefinito terrore di quel momento, e non per sè, ma per coloro che sarebbero rimasti, il marito e la bambina.
E se la teneva stretta al seno per ore intere, accarezzandola, baciandola, quasi già fosse orfanella, dicendole cose strane, che la bambina non capiva:
— Se me ne andassi?... Se non tornassi più?...
— Saresti cattiva.
— Non vorresti più bene alla mamma?
— Dovresti portarmi con te.
— Oh, no, piccola mia!
La bambina, impressionata da questi discorsi, la denunciò al babbo:
— La mamma dice che se ne andrà, che non tornerà più.
Giulio impallidì. La persistenza di quel presentimento gli aveva dato nel cuore.
— La mamma è una sciocchina — disse, tentando di scioglier la mano da quella di sua moglie.
Teresa lo trattenne.
— Hai ragione: sono una sciocca!
Provava insolita tenerezza anche per lui. Spesso gli gettava le braccia al collo, guardandolo fisso negli occhi, muta, quasi per compensarlo; vergognosa di non poter essere sincera e di dover tacere, lei, lei che non gli aveva mai nascosto un sentimento, un pensiero, com'egli a lei!
E non potergli dire: — Taci! — quando le parlava del bambino, che sarebbe stato il colmo della loro felicità coniugale!
— Ah, se egli avesse saputo!...
Giulio intanto progettava di dare il nome di Carlo al nascituro, per ricordo del fratello creduto morto, da che non scriveva più e non se n'era potuto aver notizia nè dai Consoli, nè da altri.
Il mistero lo tormentava.
— Così buono! Di carattere un po' chiuso, un po' fantastico, ma docile nella stessa impetuosità.
— Qualche passione malaugurata! — rifletteva talvolta.
Ed ella tremava nel sentirglielo ripetere.
— A che stillarti il cervello? — gli rispondeva con durezza.
Ma si riprendeva sùbito:
— È tuo fratello; hai ragione.... Al bambino però, se sarà un bambino, daremo il nome di tuo padre. Non ti pare più giusto?
* * *
Negli ultimi quattro mesi era frequentemente ritornata dal confessore, ogni volta che si era sentita a estremo di forze. E il marito, lasciandole pienissima libertà, la canzonava un pochino, senza cattive intenzioni, credente anche lui, quantunque troppo distratto dal rimescolio degli affari.
In quella chiesa, dove tante volte aveva dato pienissimo sfogo al proprio cuore, ella trovava sempre il balsamo, che le addolciva la piaga, e gliela rendeva sopportabile, se non riusciva a guarirla. Ribellioni, indignazioni, tetri propositi, tutto si ammansiva, si acchetava in lei alla voce consolante, che le parlava in nome del Signore.
Un'intima corrispondenza si stabiliva allora tra lei e Dio.
— Egli solo sapeva la verità!... Egli solo poteva giudicarla e compatirla!
E, una o due volte, si era sorpresa con parole di preghiera, con invocazioni di perdono sulle labbra anche in favore di colui che le aveva fatto tanto male.
— Era morto? O espiava terribilmente il delitto di un istante?...
Là, in chiesa, poteva pensarci senza che la coscienza le si rivoltasse, senza che un'ondata d'odio e di orrore le si sollevasse nel petto.
— Dovete perdonare anche voi, figliuola mia! — le ripeteva il confessore.
E dietro il confessionario, a piè dell'altare, le riusciva facile. Ma da lì a poco, in casa, ai primi sussulti del seno, non sapeva, non poteva più!
In quell'ultima settimana, con la fissazione di dover presto morire, un senso più vasto di pace e di serenità la penetrava tutta, una tenerezza di distacco e di rimpianto, che involgeva persone e cose e le gonfiava gli occhi di lagrime. Non ne parlava per non rattristare anticipatamente suo marito. Si sforzava anzi di mostrarsi allegra; e preparava il corredino, quantunque lo credesse inutile, e la sola vista di quelle fasce, di quei pannilini, di quelle camicette, di quelle cuffiettine le desse i brividi.... Ma il suo Giulio n'era contento; voleva apparir contenta anche lei.
Acuti dolori l'avevano tormentata fin dalla mattina e non aveva detto niente al marito. La morte, invocata e aspettata, ora le metteva spavento; e le pareva di allontanarla con l'illudersi che quelli che la incalzavano, non fossero i dolori prenunzi del parto. Andava da una stanza all'altra, appoggiandosi alle pareti e ai mobili nelle strette che si rinnovavano sempre più forti, intestata di avvertire il marito soltanto all'ultimo, quando non avrebbe più potuto nascondergli le sofferenze. A un tratto aveva gridato:
— Giulio! Giulio!
E gli s'era aggrappata al collo, baciandolo desolatamente con le labbra diacce:
— Giulio! Muoio! Giulio!...
* * *
Neppure allora era morta!
Si tastava tutta, tastava le coperte del letto, per convincersi d'essere ancora in vita, per accertarsi che proprio suo marito accarezzasse e baciasse il bambino ignudo, vagente tra le mani della levatrice. Girava gli occhi attorno, stupita che il presentimento l'avesse ingannata; con tale confusione nella mente, e tale indicibile prostrazione di forze da credere di sognare, o di vedere ogni cosa a traverso una nebbiolina leggera, in mezzo alla quale si muovevano silenziosamente le persone, mormorando parole a voce bassa e che ella non riusciva ad afferrare.
— Forse si muore in questo modo! — pensava.
Al destarsi dal sonno riparatore che l'aveva vinta, allo scorgere a piè del letto il marito in amorosa contemplazione del neonato, che riposava coperto d'un velo di tulle, al: — Come ti senti? — di Giulio, a cui dalla commozione e dalla gioia tremava la voce, ella lo fissò spalancando gli occhi, sorridendogli inconsapevolmente. Sentiva intanto dentro di sè un'oppressione non mai provata, uno strazio nuovo: la barbara violazione del cuore materno, che le rendeva repugnante la bella creaturina dormente lì accosto.
— Guardalo.... Che bocciuolo di rosa!
Giulio non si era contentato di sollevare il velo di tulle da una parte; ma, spinte le mani sotto il guanciale dove il piccino era adagiato, lo aveva deposto delicatamente a fianco della mamma, perchè potesse ammirarlo senza scomodarsi.
Ella si trasse un po' indietro e serrò gli occhi....
— Che hai, Teresa? Ti vien male?
— Allontana cotesto guanciale.... Mi opprime il respiro. E questa coperta....
Non era vero. Voleva soltanto, a ogni costo, evitar di baciare il piccino; avrebbe voluto, se fosse stato possibile, impedire egualmente che suo marito lo baciasse....
Quelle carni rosee non gli avrebbero dato alle labbra una sensazione rivelatrice?... A lei, poi, sarebbe parso di baciare....
Oh, no.... mai, quantunque il suo cuore di madre la invitasse intanto e la spingesse!... Avrebbe voluto, almeno, che qualche tregua si fosse stabilita tra la innocente creaturina e lei; ma nel tempo istesso che parte di lei così desiderava e voleva, l'altra parte, la più orgogliosa, si tirava indietro, s'adontava di quel desiderio, si ribellava a quella volontà e cercava di paralizzarla!
Voleva forse baciare...?
E restava là, cogli occhi serrati, inerte, sotto lo spasimo della chiusa tortura; pensando con terrore che finalmente, una volta o l'altra, doveva vincere la ripugnanza.
E inorridiva dell'inevitabile contatto, che le avrebbe fatto risentire più immediata la violenza patita.
La mattina che dinanzi al marito non potè fare a meno di baciare il figliuolino prima di tentare di attaccarlo al seno, appena sfiorate con le labbra quelle carni delicate, Teresa gettò un urlo e cadde in deliquio.
* * *
Si era immaginata che dando il bambino a balia, avrebbe dovuto sentirsi alleviata, sollevata; invece era peggio. Giulio parlava continuamente del piccino. Ogni due o tre giorni le proponeva una scarrozzata fuori Porta, fino alla cascina della balia. La figliuola, anche lei, rammentava in ogni istante il fratellino con cui avrebbe voluto già fare il chiasso insieme. Così l'odiata creaturina, quantunque lontana, riempiva la casa di sè più che se fosse stata presente.
E poi....
— Come?... Perchè ora?... — ella si domandava, spaventata.
E poi, qualcosa di strano, di mostruoso cominciava ad avvenire dentro di lei....
— Come?... Perchè ora?... Dio! Dio!
Quell'altro, lo scomparso, tornava a poco a poco a farsi risentire, dimessamente al suo solito, supplichevole: — T'amavo! Da due anni!...
— Come?... E lei, lei più non se ne offendeva?...
E lei stava ad ascoltare, mezza indignata, sì, ma pari a chi si lascerebbe forse commuovere, se colui avesse insistito? E nella solitudine in cui volentieri rimaneva per lunghe ore della giornata, il ripetio di quel: — Ti amavo!... Da due anni! — diveniva sempre più insinuante e più forte.... E all'allucinazione del suono delle parole, s'univa quella della figura, alta, bruna, dal viso serio, dallo sguardo quasi severo e contenuto a stento, mentre qualcosa le si ridestava in tutto il corpo con lento brulichio di sensazioni e di vibrazioni, qualcosa rimasto a germogliare nell'oscurità feconda, e che usciva fuori a un tratto, e si espandeva e fioriva.
Questo le pareva più abbietto della prima violazione del suo corpo....
— No! No! No! — protestava sdegnata, come in quel triste istante, in quella sera: — No! No! —
Inutile!
— Ti amavo da due anni! — E lei non se n'era mai accorta!... Quanto avea dovuto soffrire colui! Che tormenti e che lotte! E si era esiliato per lei! E aveva abbandonato tutto.... per lei..., per espiare la colpa d'un istante! — ella pensava trasognata, quasi un'influenza esteriore le spingesse la povera mente verso quel punto e ve la tenesse fissata.
E riscotendosi tutt'a un tratto, guardava attorno atterrita, feroce contro colui, riboccante di sprezzo di se stessa, con così tragico pallore sul viso, e sguardi così smarriti, che Giulio tornava a impensierirsi.
La gravidanza ora non c'entrava più. Certe stranezze del carattere di sua moglie diventavano addirittura inesplicabili. Non la riconosceva!
Nei momenti, nei giorni ch'ella tentava di rifugiarsi in lui per vincere il tristo dèmone, egli la vedeva sempre agitata, eccessiva in quei baci ed abbracci più da amante che da moglie, e affatto diversa da quella ch'era stata fin allora.
Poi, ella mostrò improvvisamente desiderio di lanciarsi fuori della cerchia intima e tranquilla che li aveva accolti tant'anni, ignari quasi ed ignoranti, paghi e contenti della felicità di amarsi e di sentirsi amati fra le consapevoli pareti, dove non giungeva nessun rumore della vita cittadina. E a quegli scatti di sensazioni, a quei capricci di passeggiate, di visite, di teatri, di feste, che lo maravigliavano assai, Giulio cominciò a temere che la gravidanza non avesse lasciato in lei qualche funesto germe d'esaltazione nervosa.
Il dottore, ripetutamente consultato senza che Teresa ne sapesse nulla, era stato d'uguale parere. Avevano fissato insieme un metodo di cura abilmente combinato; viaggi, bagni, regime ricostituente.... Ed ella aveva sùbito acconsentito, lietissima. Capiva che già v'era qualcosa di guasto dentro di sè, di affievolito per lo meno.
— Ma che posso farci?... Il nemico è in agguato.... qui, nel mio cuore, nel mio cervello!...
* * *
Andati per vedere il bambino, avevano trovato la balia piangente.
— Signora mia, non vuol succhiare il latte!
— Da quando? — domandò Giulio.
— Da ier sera, dopo le otto. Alle quattro aveva poppato benissimo.
Giulio disse:
— Non è nulla.... Riportiamolo in città.
Fingeva di non essere turbato, per rassicurare Teresa che teneva fissi gli occhi su la culla dove il bambino, col viso pallido, i labbrini violacei semi aperti e le manine increspate, dormiva.
Che triste ritorno!
Ella si era raccolta in fondo alla vettura, muta, stringendo una mano di Giulio. La balia seduta dirimpetto, canticchiando sotto voce, cullava il piccino; e la bambina, su le ginocchia del babbo, stringendogli le braccia attorno al collo, guardava lui, e la mamma, e non osava di rompere il silenzio. Solo Giulio, che invece avrebbe voluto piangere, tanto aveva il cuore oppresso, ripeteva di tratto in tratto, monotonamente:
— Non sarà nulla! Non sarà nulla!
Alle prime parole della balia, Teresa aveva avuto un sussulto:
— Se il bambino morisse!
E il malvagio istintivo movimento era stato sùbito seguito da un senso di ribrezzo e di orrore. Poi, in casa, attorno al lettuccio del bambino, quando già si poteva leggere in viso al dottore il destino della povera creaturina, la brutale preoccupazione della propria salvezza aveva preso di nuovo il sopravvento, snaturata, senza pietà. Sentendosi quasi perduta, la infelice si aggrappava a tutto. Pur di salvarsi lei, che doveva importarle degli altri?... Perciò s'irritava contro suo marito che, inconsolabile, forsennato, pregava, scongiurava il dottore con insistenza bambinesca, quasi lo credesse padrone della vita e della morte e capace di fare un miracolo! Il maleficio le pareva legato a quel filo di esistenza, che non voleva spegnersi, che non volevano lasciar spegnere... lui specialmente, suo marito!... Ed ella vibrava tutta, si sentiva squassare tutta; vedeva fiammelle.
E immediatamente, cadeva in grande prostrazione, mutata di punto in bianco, con le lacrime agli occhi per quella creaturina agonizzante; stupita che poco prima avesse potuto desiderare e affrettare coi voti l'empio scioglimento.
— Ma sì, ma sì!... Lo voleva! Aveva sofferto troppo!... Non resisteva più! E vedendo il marito chinato sul lettuccio, dolorosamente intento a spiare il mancante respiro del bambino, si sentiva spinta ad afferrarlo per un braccio e strapparlo di là, e urlargli una terribile parola. Il sangue le affluiva al cervello, le martellava le tempia; un violentissimo tremito tornava a scoterle la persona.
— Giulio!... Giulio!...
Voltandosi al grido sommesso, egli l'avea vista accostare cautamente, in punta di piedi, con gli sguardi smarriti e un dito sulle labbra.
— Lascialo andare, Giulio!... Lascialo andare!...
E lo tirava via dolcemente, sorridendo triste, scotendo la testa con movimento significativo.
— Teresa! Teresa mia! — balbettò Giulio, non comprendo ancora tutta la sua sventura da quegli occhi smarriti, da quelle parole incoerenti.
— Lascialo andare.... Ti vorrò più bene.... Vorrò bene a te solo! A te solo, sì! — ripeteva la misera pazza, tirandolo pel vestito: — A te solo!
* * *
Sei mesi dopo, al ritorno della ragione, ella credeva di aver fatto un lungo orrendo sogno, e lo raccontava al marito, domandandogli a intervalli:
— Ho sognato, è vero?
— Sì, hai sognato — egli rispondeva fremendo al ricordo degli orribili deliri di lei, che gli avevano rivelato l'atroce verità. — Sì, hai sognato.... Abbiamo sognato tutti! — egli soggiunse all'ultimo.
E pensava quasi con invidia al fratello, che aveva cessato di sognare, uccidendosi in Australia.
SOGNO VIVENTE. III.
Miss Flower faceva davvero onore al suo cognome. Alta, bionda, con occhi azzurri, limpidissimi, carnagione bianca, freschissima, voce di rara dolcezza, accento che dava particolare incanto all'italiano da lei parlato, non lasciava supporre che avesse già varcato la trentina, avviata verso quell'età in cui la donna sembra di arrestarsi per qualche tempo, quasi sgomenta di andar oltre.
Il giorno che Efisio Ronchi la vide entrare nel suo studio, accompagnata dalla signora Pinotti, moglie del commendatore paesano e vecchio amico di lui, ebbe la sensazione che la signora gli avesse condotto colà qualcosa di irreale, un sogno vivente, com'egli si espresse col suo immaginoso linguaggio di artista.
— Bisogna proprio venire a scovarvi qui! — disse la Pinotti. — Vi siete fatto prezioso.
Ronchi, con le mani intrise di creta, tentava di sbarazzare la seggiola e la poltrona vicine e ingombre di carte, di oggetti diversi, per offrir da sedere alle due insolite visitatrici.
— Lasciate stare. Permettetemi di presentarvi a questa mia gentile amica, vostra ammiratrice.
Egli era diventato rosso in viso, sotto l'arruffata folta capigliatura grigia e tra la incolta barba dello stesso colore, che gli scendeva su lo sparato del camicione di tela grezza e quasi si confondeva con esso.
— Miss Anna Flower — soggiunse la signora — che ha voluto sorprendere un artista nell'ardore del lavoro... e nel disordine del suo studio.
— Oh!... In quanto a disordine! — fece Ronchi sorridendo argutamente.
— Noi profani — disse miss Flower — non sappiamo immaginarci il posto... l'ambiente dove l'artista si abbandona alla creazione delle sue opere. Ci figuriamo che debba essere qualcosa di strano, di suggestivo, di fantastico, e invece, ho visitato parecchi studi di artisti in voga, a Parigi, a Berlino, a Monaco, e ne ho avuto la cattiva impressione di locali arredati con ben calcolata astuzia per far colpo sui visitatori. Il vero artista ha il suo... studio dentro di sè.... Non so se dico bene.
— Dice benissimo.... Per lo meno, dovrebbe essere così. Ma non tutti gli artisti pensano e sentono a un modo, nè tutti possono sodisfare i propri gusti; la vita è tiranna.
— Avrete tempo di chiacchierare dopo — intervenne la signora Pinotti. — Intanto sappiate, caro Ronchi, che la signorina non è venuta soltanto per curiosità. Ha una commissione da darvi. Ve lo spiegherà lei.
— Un capriccio: il mio ritratto, un terzo del vero, con la persona drappeggiata nel peplo alla greca o alla romana. L'abito moderno, mutando di foggia ad ogni stagione, mi sembra che debba dare un'impronta di caducità all'opera d'arte. Non le pare?
— Sì, sì!
Come se Ronchi rispondesse a un'interrogazione del suo pensiero, intanto che guardava così fissamente miss Flower da imbarazzarla un po'. Già la vedeva modellata, a un terzo del vero, sul cavalletto, avvolta nel peplo; e ripeteva: — Si, si! — per affermare che non avrebbe potuto ritrarla altrimenti. Quella figura gli si era rapidamente fissata nell'immaginazione, da dargli l'impressione che non fosse una statua da fare, ma il ricordo di un lavoro da parecchio tempo compiuto.
— Quando vorrà; sono ai suoi ordini — disse. — Dovrà adattarsi a posare in questo misero studio.
— Misero, no davvero. Ci son tanti tesori! Tra due o tre giorni, se non le fa disturbo. Purchè io sia libera a metà del mese entrante; voglio essere a Londra pel compleanno di mia madre.
— Si stancherà....
— Non ho niente da fare. Sarà attraentissimo spettacolo vederla lavorare. Anzi, se non le dispiace....
Miss Flower si rivolse alla signora Pinotti, accennandole d'intervenire.
— Già — ella disse. — Miss Flower vorrebbe avere un ricordo.... Insomma si tratterebbe di prendere giorno per giorno delle fotografie.
— Voglio vedermi nascere, uscir fuori, di mano in mano, dal mucchio della creta sotto il magistero della sua stecca e delle sue dita.... Me lo permetterà?
— Diamine! È un'idea da fine artista.
— È poetessa la signorina. Peccato che scriva in inglese! Io non ne capisco niente.
E la signora Pinotti rise, stringendo affettuosamente la mano a miss Anna, che si era rizzata da sedere per meglio osservare il busto di vecchio a cui Efisio Ronchi stava lavorando al loro arrivo.
* * *
La sera dello stesso giorno egli era andato in casa Pinotti a ringraziare il commendatore e la moglie per la commissione procuratagli.
— Non ci entriamo — disse il commendatore. — Miss Anna ha ammirato nell'ultima Esposizione quella deliziosa figurina di «Sirena», che i nostri cari concittadini non hanno voluto per la fontana municipale. Cretini!... È quasi milionaria, miss Anna.
— Mi ha domandato — soggiunse la signora — se occorre anticipare qualche somma.
— Niente! Niente! — si affrettò a rispondere Ronchi.
— Perchè? Ti può far comodo — riprese il commendatore. — I quattrini non si rifiutano mai.
— Voglio fare un purissimo lavoro d'arte. Poi, se occorrerà.... Mi è parso di vederla entrare accompagnata da un sogno vivente, mia buona signora. Se riuscirò a fare quel che intendo di fare....
— Riuscirai senza dubbio, anche perchè veggo che il modello ti ha impressionato assai bene. Un sogno vivente! Forse esageri un po'; ma gli artisti veggono le cose in modo diverso dagli altri. Rammenti?
— Mio marito ne parla spesso — fece la signora. — È proprio vero?
— Una bruttezza fenomenale! Non hai osato di farla posare.
— Allora pensavo a tutt'altro!
— La chiamavano: «La strega di Ronchi». Al Caffè Greco, a ogni vostra apparizione, tutte le matite, tutte le penne si mettevano in moto: schizzi, caricature, macchiette con inchiostro di Cina; proprio una gara tra gli artisti. Lei figurava di non accorgersi.... Sembrava fiera di quella sua bruttezza. Gli occhi, sì, sì; e anche il sorriso, talvolta.... Non era giovanissima. Beati quei tempi!
Efisio Ronchi alzò le spalle. Per non ricordare quelli che il commendatore aveva chiamati bei tempi, egli più non andava al Caffè Greco.
Si sentiva stanco, invecchiato, quantunque avesse appena cinquantatrè anni; stanco, invecchiato più di animo che non di corpo, poichè lavorava accanitamente per vincere la disdetta che continuava a perseguitarlo; lavorava col cuore avvelenato, a busti, a ritratti di morti da cavar da fotografie che, fatte in diverse epoche, sembravano di persone diverse.
Ci voleva uno sforzo straordinario d'interpretazione, di pazienza per contentare i parenti del morto. Così gli mancava il tempo di lavorare liberamente a qualche soggetto ardito o elevato di suo gusto.
Quella «Sirena», di cui aveva parlato il commendatore Pinotti, era una mirabile figura, che pareva uscita dalle mani del più puro artefice greco. L'aveva modellata in poco tempo, febbrilmente, anche per la sodisfazione di vederla posta come ornamento di una pubblica fontana del suo paese nativo; ma i signori del Municipio non avevano creduto opportuno, come avevano detto, di deturpare la nuova piazza con una figura di donna nuda, procace, che avrebbe dovuto contorcere nella vasca la sua orribile coda di pesce!
Era stato un gravissimo colpo per Efisio Ronchi. Aveva passato una settimana di torpore, incapace di lavorare; soltanto la coscienza di aver fatto una vera squisita opera d'arte gli aveva impedito di prendere un martello e di fare in pezzi il gesso posto sul cavalletto in un angolo dello studio. Poi l'aveva coperto con uno straccio, tentando di scordarsene, lavorando intorno a quel busto di vecchio caratteristicamente rugoso, che sembrava animarsi di un malizioso sorriso sotto le carezze del pollice modellatore delle labbra carnose.
Gli era parso di sentirsi rivivere, di quasi ringiovanire nell'attesa di miss Flower, che doveva venire per la prima posa. Aveva un lieve fremito per tutta la persona; un'agitazione di forze creative nell'immaginazione. Il sogno vivente doveva divenire in poche settimane realtà vivente.
Miss Anna era arrivata puntualissima, all'ora stabilita da Efisio, perchè lo studio fosse illuminato dalla luce opportuna. Vedendo che l'artista aveva messo un po' d'ordine e fatta un po' di pulizia, aveva esclamato:
— Oh! Era meglio l'altra volta! A me piace la sincerità. Va bene questa pettinatura?
— Perfetta!... Io non ho un gabinetto da signora.
— La toeletta da fare è semplicissima.
Cavò dalla scatola, portata dalla donna che l'accompagnava, una specie di camice e il peplo di finissima stoffa di lana bianca.
— Qui, dietro questa tenda — indicò lo scultore.
Poco dopo, miss Anna veniva fuori completamente trasfigurata: un'apparizione ideale ellenica di suprema bellezza. Ronchi dovè soltanto aggiustare alcune pieghe.
— Potete andar via — ella disse alla donna.
Quando lo scultore la vide sullo sgabello, ritta, nell'elegantissima posa da lei presa senza esitazione, quasi l'avesse lungamente studiata, provò un istante di sgomento: gli parve che stesse per tentare l'impossibile. Ma sùbito si gettò sul pastone di creta accumulato sopra il cavalletto, affondandovi le mani, dando rapidi sguardi al modello, togliendo manate di creta qua, aggiustandone là, assottigliando certe tracce di pieghe segnate con una ditata, salendo su su, fino alla testa, appiccicandovi pezzetti di creta che poi dovevano formare la pettinatura.
— Parli, parli pure.... Non si stanchi stando immobile.
Miss Flower sorrideva, rispondendo:
— E in quest'informe mucchio di creta già s'indovina la statua.... Lei la vede, è vero? Credo che deve soffrire lavorando, anzi lottando.... Si riposi. Riposiamoci.
Si era seduta sulla poltrona. Aveva nel limpidissimo azzurro degli occhi un'espressione di serenità straordinaria, forse non mai turbata, pensava Ronchi osservandola.
Sulle piccole rosee labbra le fioriva un sorriso così dolce, così comunicativo, che anche tra gli ispidi baffi e la barba arruffata, la bocca dell'artista parve costretta ad atteggiarsi a un sorriso di ammirazione commossa.
— È poetessa lei? — disse Ronchi. — La mia ignoranza m'impedisce di conoscerla sotto quest'intimo aspetto. Dev'essere una gran sodisfazione il veder fissata con la musicalità del ritmo, con la precisione della parola, i proprii sentimenti.
— Una cosa triste, dovrebbe dire — ella rispose succhiudendo gli occhi. — La parola non arriva mai ad esprimere compiutamente il sentimento che ci agita, quando tentiamo di manifestarlo. Questo probabilmente, non avviene ai grandi e veri poeti.... Talvolta sì, oso di credere. Tanto è vero che leggendo i loro versi noi ci sentiamo andare più in là, più in là, quasi ogni parola, ogni modulazione di ritmo nascondano qualcosa che neppure un Genio è riuscito ad esprimere intero. E il loro incanto consiste soprattutto in ciò, in certa oscurità, in certe reticenze meravigliose. La scultura è chiara, precisa, non la godiamo soltanto col senso della vista, ma possiamo toccarla, palparla. A Siracusa ho provato una sensazione ineffabile tastando quella Venere, che ha entusiasmato Maupassant. Mi è parso di sentir sparire sotto la pressione delle dita la durezza del marmo. Ne ho preso parecchie fotografie. Chi si accorgeva in quel momento che la statua, disgraziatamente, era mutilata?... Basta per oggi, mi pare. Fissiamo l'informe....
Si alzò, mise a punto la macchinetta fotografica che aveva portato, e prese tre negative da tre punti diversi.
— Pubblicherò in uno dei nostri Magazines la gestazione di un capolavoro. Non protesti; sarà un capolavoro.
Ronchi, pochi giorni dopo, quando la figura sembrava proprio liberata in gran parte dell'involucro che l'avvolgeva, appena miss Anna fu andata via — e la posa era stata lunga e la conversazione, o meglio, i soliloqui di lei sempre più varii e interessanti, giacchè egli si attentava appena d'interromperla — si sentì preso da inesplicabile languore e si lasciò cadere abbandonatamente su la poltrona, che serbava ancora il tepore del corpo di miss Flower.
Che cosa accadeva dentro di lui?
Di mano in mano che faceva quella specie di introspezione, di esame di coscienza, un brivido di terrore lo invadeva. Da anni ed anni egli viveva, secondo la sua espressione, come un animale da soma, affaticato, oppresso dal continuo umile lavoro a cui pareva che la sua cattiva sorte volesse asservirlo; unicamente preoccupato di urgenza di danaro, umiliato del dover accettare compensi che gli sembravano elemosine mal dissimulate, o piuttosto ricatti alla sua miseria, facendo una vita di segregazione in quell'antro del suo studio, dove restava chiuso fino a che un barlume del tramonto penetrava dall'ampia vetrata; affrettandosi a prendere un frugalissimo pasto in un'osteriuccia nella quale nessuno lo conosceva, e andando sùbito a letto stanco anche moralmente, per riposarsi più che per dormire.
Ed ecco che egli si scopriva.... Stava per diventare pazzo, dunque?... E scopriva che ciò era avvenuto sin dal primo giorno, sin dal primo istante in cui il sogno vivente era apparso nel suo studio. E lei, se n'era dunque accorta anche lei?
— Sono indiscreta? — ella aveva detto poco prima. — Non le è mai successo d'innamorarsi della sua modella? Quella che ha posato per la «Sirena» doveva essere bellissima, per quanto lei abbia potuto idealizzarla....
— Ah! Per noi, la modella raramente è una donna.... Ed è bene che sia così.
Ma la risposta gli era uscita dalle labbra stentatamente, quasi sentisse di mentire in quel momento.
— Infatti — ella soggiunse — è più facile che l'artista s'innamori della sua creazione come nella favola greca.
Perchè miss Anna aveva parlato così? Il suo acutissimo sguardo gli aveva già letto nel cuore?
Come doveva ridere di lui vecchio, sciatto, miserabile! Ebbene, non gli importava niente. Quel ch'egli provava in quei giorni era un mirabile rifiorire di giovinezza, o qualcosa di simile agli ultimi guizzi di una lampada che sta per spegnersi.
Ma ormai il suo lavoro era finito, ed egli s'inorgogliva a ragione di quell'opera d'arte davanti a cui miss Anna si era fermata in ammirazione.
— Sono proprio io? Non mi avete trasfigurata? E domani.... Non posso pensarci!... Quest'opera immediata delle vostre mani andrà distrutta per cavarne il gesso! Che peccato!... E, dite, la riproduzione dovrà essere in marmo o in bronzo?
— In marmo finissimo.
— Conservare il lavoro in creta, coprirlo con un panno umido ogni giorno, quasi praticando un culto.... No, non è possibile: sarebbe un continuo pericolo.
* * *
Miss Flower era partita improvvisamente.
— Mi aveva detto di voler lasciarmi qualche migliaio di lire per le spese; e nella fretta se n'è dimenticata.
— Meglio, cara signora — rispose Ronchi alla Pinotti venuta ad ammirare il bellissimo gesso.
Nella sua dignità di creatore era contento di non veder mescolato a quell'ideale d'arte qualcosa di mercenario.
— Com'era orgogliosa dell'opera vostra! Una sera, da noi, disse tante e tante cose strambe.... da poetessa! Mio marito la guardava a bocca aperta. Disse: — In quel mio ritratto c'è infusa tutta l'anima dell'artista, e così intimamente che, talvolta, ho l'illusione, paurosa, di sentirla anche in me! —
Trascorsero mesi e mesi senza che miss Flower desse notizie di sè. A lettere, a telegrammi, nessuna risposta.
L'ansia che, intanto, turbava lo scultore aveva messo nei suoi occhi una luce da febbricitante, quasi da folle. Ma il giorno che la signora Pinotti gli consigliò di rivolgersi alle autorità di Londra per avere notizie della Flower, Efisio Ronchi rispose:
— No! Se è viva, tornerà a scrivere; ho questa certezza. Se è morta....
E non finì la frase. Spalancò le braccia con gesto di rassegnato, e sorrise tristemente. Le labbra gli tremavano come il cuore; e negli occhi gli si accentuò quella luce da febbricitante, quasi da folle, ch'egli non si curava più di nascondere; tanto egli viveva ancora accanto al fantasma del suo divino Sogno vivente!
Ronchi spesso passava ore ed ore in beata contemplazione di quel gesso, che prendeva nella sua fantasia il roseo colorito di miss Anna, l'oro dei capelli, il limpido azzurro degli occhi, anche la voce e l'accento di lei, che più non si faceva viva.
Era morta, dunque? Sarebbe ricomparsa improvvisamente, com'egli sperava ancora? Ma, ormai, a lui bastava di averla immortalata in quella forma.
Viveva sotto il fascino d'un sentimento divenuto quasi morboso. Talvolta provava un senso di rilassatezza, di fiacchezza spirituale, una specie di evaporazione non sapeva di che cosa; di lì a poco però il fascino riprendeva vigore, nonostante ch'egli, più invecchiato, più avvilito, fosse costretto a darsi al suo solito lavoro, se non voleva ridursi a morir di fame.
Un famoso antiquario, visto il ritratto di miss Flower, era rimasto sbalordito.
— Ci sarebbe da fare un mucchio di quattrini! — esclamò — Col trucco di farlo scavare in qualche località della Terra di Lavoro, della Capitanata.... Il guaio è che è stato visto da qualcuno. Pure si potrebbe tentare...
— Non lo vedrà più nessuno!... Mai!
Ronchi si era atteggiato come chi voglia difendere una persona cara, anche a costo della vita.
Un fremito d'indignazione lo scoteva da capo a piedi, quasi quel vile speculatore avesse tentato di profanare l'immagine purissima del suo ideale.... Del suo amore! Non lo dicevano le parole, ma i palpiti del suo cuore, che in quel momento soffriva sotto l'impeto improvviso di una adorazione lungamente repressa.
L'antiquario gli vide buttar lestamente sulla statua il logoro panno, che prima l'avvolgeva.
— Non lo vedrà più nessuno! Mai! E poi, se ne ricordi in avvenire: io non sono un mistificatore, un ciarlatano!...
— Con questi scrupoli.... si capisce!
E l'antiquario andò via senza neppur salutarlo.
LA BELLA BRUTTINA. IV.
Nessuno dei due pensava a far onore alla magnifica frutta che il cameriere aveva portato in tavola.
Tacevano tutti e due, e pareva che quel silenzio imbarazzasse maggiormente la ragazza.
Renato la guardava sorridendo, tra incredulo e maravigliato, intanto che ella, a occhi bassi, mordendosi lievemente le labbra, apriva e chiudeva il ventaglio, quasi mortificata.
Alla viva luce del sole, tra i riflessi verdi del prato, quella bruna carnagione prendeva toni dorati sulle guance e nella dolce attaccatura della gola, e i grandi occhi nerissimi, su quel viso scarso e strano davano un'espressione più provocante al nasino un po' rivolto in su e alle labbra tumide e fresche.
Ella sentiva, senza vederli, quegli sguardi che la ricercavano tutta; e la personcina alta e snella si agitava impaziente, oppressa da tale insistenza. Finalmente alzò gli occhi, timida.
— Non mi crede?...
— Ma, sì!... Ma, sì!...
— Perchè dunque sorride così? Già il torto è mio.... Avrei dovuto avvertirla sùbito, prima di accettare l'invito.
E nella voce turbata le tremolava qualcosa che pareva pianto.
Allora Renato non sorrise più, impacciato alla sua volta. Le prese una mano; si mise carezzevolmente sotto il braccio quel braccino magro, serrato nella manica attillata del vestito nero, e, riprendendo a passeggiare, le andava parlando all'orecchio, tra uno sbuffo di fumo e l'altro della sua sigaretta:
— Oh, non insisto più!.... Torneremo, non occorre neppur dirlo, torneremo però qualche volta alla Gagnola.... a passare insieme una mezza giornata. No?
— A che scopo? Ecco, questo significa che lei non mi ha creduto. Perchè si ostina a non credermi?
— Al contrario! Certe cose non si discutono; si aspettano, si lasciano venire al momento opportuno, è vero? E se non arrivano.... Intanto, per oggi, mi sento compensato abbastanza da questa dolce passeggiata da innamorati. La gente (ahimè, a torto!) deve crederci proprio due innamorati. Infatti, vede? quell'uomo fermato sotto gli alberi sta a guardarci da un pezzo, masticando la sua invidia insieme col mozzicone di sigaro che non vuole accendersi.
E voltando il capo, ella rideva a scossettine portando la punta del ventaglio alle labbra, piegando un po' il busto slanciato; rideva, ma quasi per tentar di distrarsi da riflessioni penose, che le esitavano ancora sul volto.
Quell'uomo fermatosi sotto gli alberi, dopo averli seguiti con lo sguardo lungo il sentiero del prato, era andato a sedersi dirimpetto a loro, divorandoseli con certi occhi sgranati, dal tavolino dove mangiava solo. Luigia e Renato, a metà di desinare, messisi di buon umore, gli ridevano quasi in faccia, facendolo arrossire coll'imboccarsi a vicenda pezzetti di frittura di arrosto, se colui si fermava a guardarli più balordamente incantato.
— Intanto non mangia proprio niente!
— Mangio poco. E non è il miglior modo per ingrassare.
Ah!... Tu lo vuoi? — disse a un tratto Renato, che non ne poteva più di quell'imbecille.
E, alzatosi da sedere, diede un bel bacio a Luigia, che non ebbe tempo di schermirsi.
* * *
Per istrada, nell'oscurità della notte, mentre il tramway a vapore si allontanava gettando rapidi spruzzi di luce rossastra su le siepi e su i campi, essi ridevano ancora del viso sbalordito di quel povero imbecille allorchè avea visto quel bacio. Poi, nella intimità del ritorno a piedi, stringendo il braccio di Renato con abbandono, incoraggiata dal buio, ella era tornata a scusarsi:
— Non ci faccio una bella figura, lo capisco. Ma.... infine, non ho voluto mostrarmi più virtuosa che non sono. Però voi uomini non potete capirlo.
Renato la lasciava dire, accarezzandole una mano. L'accento leggermente veneziano dava un fascino deliziosissimo a quella facile parola, che risuonava nell'oscurità, fra il lieve stropiccio dei piedi sulle foglie secche del viale, e andava a perdersi nel gran silenzio della campagna così pieno di vaghi rumori.
Renato la lasciava dire, non ancora ben persuaso; anzi acceso e smanioso del possesso di quella magrolina assai più ora, che non quando l'aveva adocchiata al terrazzino del secondo piano della casa accanto, raccolta nella veste da camera di tela cruda, larga e ondeggiante, col braccio che usciva ignudo dalla manica rovesciata, poggiato col gomito su la ringhiera; braccio magro, coperto da peluria che dava un tono quasi bronzino alla pelle bruna.
La lasciava dire non ancora ben persuaso, ma nello stesso tempo, per raffinatezza, contento di quella resistenza così inattesa e così franca.
Era piccante! Ah, la bella bruttina, come aveva già cominciato a chiamarla, diventava qualcosa di ghiotto fra la trivialità dei soliti incontri!
E per ciò, quasi senza accorgersene, quando furono vicini a casa tornò a insistere, scherzando:
— Chiedo soltanto il favore di dar un'occhiatina al suo nido del secondo piano....
— È impossibile. Non vuol persuadersene?
— Soltanto un'occhiatina, per figurarmela nel suo vero ambiente quando la sento canticchiare con voce di falsetto.... Non vuol permettere neppur questo? Allora venga a bere un bicchierino di Kummel di Chartreuse a casa mia, qui, a due passi.... Non è un gran sacrifizio.
— Impossibile!
Ella lo supplicava con gli occhi improvvisamente gonfi di lacrime, stringendogli forte la mano, alla luce del lampione sotto cui s'erano fermati:
— Non mi offendo di quest'insistenza. È cosa naturalissima. Il torto è mio.
Renato la interruppe:
— Buona notte.
— È in collera?
— Niente affatto!
Il tono brusco della voce però lo smentiva.
* * *
Il fascino di quella svelta personcina, dai grandi occhi neri nel viso magro, era stato più forte della stizza. E così egli s'era lasciato riprendere, indolentemente. Promise, da gentiluomo, che non ne avrebbe più riparlato, ed ebbe l'onestà di confessarle che una relazione seria, com'ella desiderava, non era possibile.
— Ci vedremo frequentemente, da camerati, da giovinetti.... Eh?
Ella non rispose nè sì nè no, esitante:
— Ho paura di annoiarlo....
Invece Renato era molto contento quando la vedeva entrare improvvisamente in quella camera di scapolo ch'ella quasi trasformava con la sua voce, coi suoi sorrisi di ragazza irrequieta.
Intanto ch'egli preparava la solita tazza di caffè, Luigia andava da un tavolino all'altro rovistando libri, disegni, svolgendo grosse pagine di album.
Tutte queste belle donnine sono state sue amanti?
Renato non rispondeva, ostentando discrezione.
— Tanto a me può dirlo. Non ho nessuna ragione di essere gelosa. Come sono belle! Ah, l'esser bella dev'essere una grande sodisfazione! Se io fossi bella, come questa qui, per esempio, farei disperare parecchia gente, parecchia!
— È così cattiva?
— No: ma la bellezza è una forza.
Renato le assicurò ch'ella aveva qualcosa di meglio della bellezza, quel che di attraente, di simpatico che spesso la bellezza non ha.
— So benissimo che sono brutta, ma so pure che non sono antipatica.... Questo cappello alla Rubens, con questa gran piuma, mi dà un'aria bizzarra.... Sciocca! Lo dico da me!
E scoppiò a ridere voltando le spalle, con una smorfietta, allo specchio davanti a cui si era fermata per provarsi il cappello.
— Capelli pochi e corti. Che disperazione! E così ribelli! Non c'è pettine che riesca a domarli. Già, mi ci confondo poco. Ho ben altro da fare!... Che delizia questa camera così grande e così piena di luce! La mia è un bugigattolo da aggirarvisi appena. Mi è cara però; è piena di ricordi!
— Dolci?...
— Tristissimi. Quante lagrime, quante sofferenze, quando riarsa e stroncata dalla febbre dovevo lavorare tutto il giorno, per settimane, per mesi, rompendomi la schiena, sostentandomi di solo pane!... Non voglio neppur rammentarlo!...
— E ora?
— Ora? Vivacchio, lavorando sempre, orgogliosa di non essermi mai avvilita. Piuttosto un tonfo nel Naviglio. C'è mancato poco, un mese fa! Qualche volta ci ripenso sul serio. Infine!...
Quegli occhioni neri prendevano un'espressione indefinibile, allorchè ella parlava di morire. Ne ragionava tranquillamente, senza affettazione, come di cosa da dover accadere un giorno a l'altro, quando si è tanto disgraziati a questo mondo, quando non si ha neppure un cane che ci voglia bene o che si sia legato da un legame qualunque!
Sua madre era morta. Suo padre.... Un giorno (non poteva dimenticarlo, aveva appena sette anni) un'amica della mamma che la conduceva a spasso, le aveva additato un signore alto, bruno, bell'uomo, che entrava in un caffè. — Va', digli: Babbo, dammi un bacio! — Ed era entrata in quel caffè e s'era accostata a quell'uomo veduto allora per la prima volta e gli aveva detto, tremando: — Babbo, dammi un bacio! — Quel signore, baciatala, accarezzatala e compratele delle chicche, le aveva detto: — Va' va' — E non lo aveva più riveduto. E non ne aveva più saputo notizia!...
— Ma perchè le racconto queste malinconie? Addio, addio.... Scappo.
— Senza pagar nulla?
Renato se la fece sedere sui ginocchi, vincendone la riluttanza:
— Voglio il mio obolo, il mio solito bacio....
— Mi lasci andare!
E quando la Luigia non fu più lì, egli rimase pensoso, sotto un'impressione che non sapeva spiegarsi, affatto nuova per lui.
Era strano. Quel corpicino magro non lo turbava più. La viva sensazione di quei baci era già diventata qualcosa di puro, di spirituale. Gli pareva quasi impossibile. E come lo metteva di buon umore ogni visita della bella bruttina! Sotto quell'apparente allegria, però, chi sa quanti e quali dolori!
* * *
Infatti, in certi giorni, lo sforzo della poverina era troppo evidente. Quegli occhi avevano pianto; quel pallore, che il suo solito sorriso non riusciva a velare, raccontava miserie, ch'ella nascondeva pudicamente e alteramente in fondo al cuore.
Renato la prendeva tra le braccia, con aria di scherzo:
— Via, confessati all'amico, al camerata. Se ti occorresse, per caso, qualche sommetta.
— No, no, grazie; in verità, non mi occorre niente. Com'è buono!
Intenerita, gli stringeva tutte e due le mani, ripetendo: — No, no grazie! — con voce turbata. — Se mai, ecco, le prometto che ricorrerò a lei, piuttosto che ad altra persona. Ma spero che non avvenga. Ci mancherebbe solo questo! Pur troppo, io abuso della sua gentilezza, da vera sfacciata.... No, no, grazie! Grazie!
Renato non insistette per delicatezza. E da quel giorno in poi, la invitò a pranzo più frequentemente.
Luigia, però, aveva capito sùbito; e due o tre volte aveva rifiutato, col pretesto di un precedente invito di un'amica.
Ma egli, rimasto a spiarla, l'aveva vista rimanere in casa fino a sera tardi; e il lume s'era spento presto dietro i cristalli della cameretta al secondo piano. E quella sera Renato non aveva avuto voglia di desinare neppur lui, pensando alla poverina che forse era andata a letto senza aver messo niente dentro lo stomaco.
* * *
Si trovavano quasi tutte le sere, alle otto precise, all'angolo di via Larga, come due amanti. Ella gli andava incontro sorridente, infilandosi un guanto, frettolosa:
— L'ho fatto aspettar troppo?
E, a braccetto, passeggiavano per le vie fuori mano, lentamente, fermandosi davanti le vetrine. Ella gli raccontava le sue occupazioni della giornata; Renato la interrogava intorno al passato, in modo però da non sembrare indiscreto....
— Oh, non posso più avere segreti per lei! — ella rispondeva.
Quella sera erano andati a rannicchiarsi in un angolo del caffè Gnocchi, presso il teatro Dal Verme, caffè mezzo deserto. E Luigia aveva parlato, per ore, squisitamente, con abilità di narratrice che lo stupiva, facendogli sfilare sotto gli occhi i ricordi della lieta fanciullezza e della triste gioventù, passata fra i riflessi verdastri della Laguna, quando sua madre viveva ancora....
— Bella mia madre! Non le somiglio affatto.
E avea continuato, appoggiando l'espressiva testina bruna sul rosso della spalliera di velluto, accostandosi a Renato con più intimità, quando venne il momento di parlare di.... quell'altro.
— Fuggita con lui dalla casa della zia, andammo a Padova, poi a Milano.... Sin dai primi mesi, egli fu costretto a lasciarmi sola, per via degli affari. Prima mi scriveva spesso; poi, a lunghi intervalli; poi, non mi scriveva più. Arrivava e partiva all'improvviso, facendomi anche soffrire.... Mi bastava così poco, che anche di quel nulla sarei vissuta contenta. Una sera, in un ballo, apersi gli occhi! C'era un'altra di mezzo.... Il sangue mi diè un tuffo. Mi sentii impazzire, e le allungai uno schiaffo, in mezzo al ballo, all'improvviso. Fui eccessiva, sì. Ma, dopo, non mi umiliai? Non gli chiesi perdono? Gli volevo bene a quell'uomo.... Gli volevo bene davvero!
Eran tornati a casa silenziosi, affrettando il passo.
— Forse ho fatto male, raccontandole la mia brutta storia.
— Anzi, te ne sono gratissimo, proprio!
— Non lo dice per cortesia?
E per la prima volta, nel separarsi, gli tese le labbra col più strano dei sorrisi di quel suo stranissimo viso di bella bruttina. Quel viso pareva livido sotto il pallore.
* * *
Una mattina Renato le annunziò:
— Vado via, per qualche tempo.
Luigia era rimasta senza parola, interrogandolo con incredulo sguardo....
— Dice per chiasso?
— Oh, dispiace anche a me, tanto! Ma ti scriverò spesso. Puoi esser sicura che, vicino o lontano, sarò sempre amico affezionato e sincero.
— Quando? — ella domandò dopo un momento di silenzio.
— Fra una settimana.
— Ah!
I suoi occhioni neri s'erano dilatati dall'allegrezza:
— Avevo creduto che partisse sùbito. Fra una settimana? Passerà presto anch'essa, pur troppo!...
* * *
Renato, in quei pochi giorni, se la vide venire in casa più frequentemente, meno allegra, sì, ma con cordialità più aperta.
Restava a lungo sdraiata sul canapè o su una poltrona, con la faccia appoggiata a una mano, un piedino accavalciato sull'altro, e gli occhi ombrati dalle ciocche arruffate su la larga e bella fronte, fissi su lui.
E se Renato andava a sedersele accanto e le prendeva una mano e le passava il braccio attorno alla vita, ella tentava di svincolarsi, ma fiaccamente, e finiva col lasciarsi baciare senza resistenza.
Prendo anticipazioni per tutto il tempo che rimarrò lontano — egli diceva.
— Non dubiti: le manderò, ogni volta, mille baci per lettera.
— Ne preferisco dieci ora.
Nelle solite passeggiate serali, Luigia gli si attaccava al braccio con abbandono:
— Non so affatto persuadermi che domani l'altro non ci troveremo più insieme.... Si rammenterà di me?... Ho qualcosa qui, nel cuore, e non riesco a metterlo fuori; un peso, una specie di rimorso. Mentre lei è stato così buono, così affettuoso, così sinceramente amico, con me, io invece mi son mostrata quasi ingrata, cattiva. Almeno debbo esserle sembrata tale. È vero?
— Perchè dici così? Hai torto.
Allora, nei punti più deserti delle vie, ella si fermava, guardandosi attorno, e gli saltava al collo, stringendolo al seno forte forte:
— E dire, che, forse, non ci rivedremo più!... È il mio maggior tormento!
* * *
Appena Renato comprese che cosa significava quella trasformazione di Luigia, sentì una commozione mista di pietà, che lo fece impallidire.
Ah! La povera creatura voleva sdebitarsi a quel modo. No; lui, invece, lui le doveva gratitudine per tante sensazioni blande, per tanti sentimenti miti, per tante ore deliziose, che gli avevano fatto riposare il corpo e lo spirito con ristoro completo. No, povera creatura! Così era stato troppo delizioso, troppo bello! Perchè guastarlo?
E la guardava intenerito, mentre camminavano senza scambiare una parola, tornando da Gorla con quel plenilunio di Giugno, ridente su la vasta campagna addormentata.
Era l'ultima sera che Renato restava in Milano. Perciò ella aveva voluto accompagnarlo su, rassegnata al proprio sacrifizio.
Nel togliersi il cappellino tremava. Poi si era seduta sul canapè, passandosi nervosamente le mani su la faccia.
— Ci rivedremo un'altra volta?
— Perchè no? Fra quattro mesi.
— Oh, in quattro mesi chi sa quante cose accadranno! Potrò anche morire.
Si erano presi per mano, ma non si davano neppure un bacio, sorridendosi tristemente, con lunghi intervalli di silenzio.
— Che ore sono? — ella domandò.
— Le dodici e mezzo.
— Come si è fatto tardi!
Renato restava tuttavia seduto accanto a lei.
— Perchè non si leva il soprabito?
— Voglio accompagnarti fino al portone di casa.
Luigia stette un momento a fissarlo, sbarrando gli occhi, credendo di aver capito male, grosse lacrime le tremolavano irresolute su gli orli delle palpebre.
— È..... per vendicarsi di me?
— No, no, cara! — disse Renato. — Tutt'altro! — Tutt'altro!
Infatti era tutt'altro.
L'accompagnò fino al portone.
Soffriva, fisicamente, di quella rinuncia, ma nello stesso tempo era lieto del senso di squisita sensibilità e di elevatezza che gli faceva battere il cuore. Nel silenzio della via, Luigia intanto piangeva e sorrideva, mentre il petto le si allargava in un gran respiro di sollievo.
Egli le diè gli ultimi baci più caldi, più lunghi, più intensi che mai, per farle capire che le era gratissimo dell'offerta di sè così delicatamente fatta, e che gli sarebbe parso di commettere un'imperdonabile viltà, dopo tutto quel che sapeva di lei, se ne avesse approfittato per la sodisfazione di un basso capriccio.
MARITO GIUSTIZIERE. V.
— Mettetevi nei miei panni! — esclamò Bozzani.
I tre amici, che vuotavano con lui spumanti bicchieri di birra in quell'angolo appartato del Caffè Nuovo, scoppiarono in una sonora risata. Erano tutti e tre grassi, con pance sporgenti, con facce piene, rotonde, da frati gaudenti; e lui, invece, era così magro, così esile che fin l'abito grigio, stretto, assestato, sempre abbottonato com'egli usava di portarlo, in certi momenti non sembrava lavorato su misura, ma comprato bell'è fatto in un negozio qualunque.
Bozzani, dopo un istante di sbalordimento per la inattesa risata, riprese:
— È un modo di dire; ma già voialtri non potete mettervi nei miei panni neanche moralmente. Pure vorrei sapere che avreste fatto nel caso mio, se non foste tutti e tre scapoli impenitenti. Ah! Ma non resta scapolo chi vuole. E noi ci crediamo stupidamente liberi di fare o di non fare, anche quando le circostanze ci impongono la loro violenta necessità, e ci fanno oprare tutt'all'opposto di quel che avremmo voluto. L'essere scapoli non garantisce. Voialtri, tutti e tre, avete tre amanti. È peggio di avere tre mogli. L'uomo è così sciocco da pretendere dall'amante l'assoluta fedeltà, che si crede in diritto di imporre alla moglie. Le conseguenze sono le stesse. Tu, Roggetti, hai fatto un duello, ti sei buscato una sciabolata al viso, che tenti inutilmente di dissimulare con la barba; proprio come ti saresti comportato se si fosse trattato del tuo onore coniugale. Tu, Bossi, meni una vita da cane con le finte gelosie di quella maliziosa cretina — scusa, è la verità — per la quale spendi tanti quattrini quanti basterebbero a mantenere non una ma parecchie mogli. Tu, Nelli, sei costretto a mutar di amante ogni tre mesi, per disperazione, come muti di vestiti ogni settimana.... Siete, forse, più tranquilli, non dico più felici, di me? Oh, sì! Tra le vostre amanti e voi non ci sono di mezzo il sindaco, il parroco. Che è per questo? Il vostro stupido amor proprio vi lega più che non faccia il nodo civile e religioso. Esagero? Sia. Ma sono stato scapolo anche io; ho avuto delle amanti anch'io; parlo per esperienza. Lasciamo andare; veniamo al caso mio. Che avrei dovuto fare? Credevo di aver preso tutte le precauzioni possibili. Nata di buona famiglia, educata in un istituto di monache; di carattere mite, sembrava; non bella da dar nell'occhio, da tentare, ma nello stesso tempo non brutta da riuscire poco interessante pel marito. Mi era parso di aver risolto un gran problema sposandola. Infatti a nessuno di voi è passato pel capo di rendermi il servizio che i più intimi si affrettano a regalare a un marito. Non vi ringrazio di questo. Probabilmente non vi è parso che mia moglie valesse la pena di intaccare un'amicizia d'infanzia non turbata mai dal più piccolo malinteso. Non so se, dopo quel che è accaduto, vi siate già pentiti di non aver approfittato dell'occasione avuta sotto mano. No? Tanto meglio. Ma veniamo all'importante.
Dopo due anni di matrimonio, e quando i miei affari andavano benissimo ed io ero nell'ansiosa aspettativa di un erede, che non si decideva a venire, ecco, comincio ad accorgermi di qualche mutamento di mia moglie. Un altro non si sarebbe messo in sospetto; anzi! Ma io non ero stato... noi due non eravamo stati innamorati nel preciso senso di questa parola. Nessun calcolo dall'una parte e dall'altra; ci eravamo piaciuti, sì, discretamente; niente smanie, però nessuna esaltazione; un affetto sincero, placido tra due persone per bene. A poco a poco, mia moglie diveniva, come dire? innamorata di me. — Diamine! Diamine! — pensavo. — Questo è contrario a tutte le leggi psicologiche che regolano il matrimonio. Non senza profonde ragioni è stato formulato l'assioma: Il matrimonio è la tomba dell'amore!
— Senti, caro Bozzani, — lo interruppe Roggetti, ed era buffo con quei mustacchi impiastricciati di spuma di birra. — Tu hai la cattiva abitudine di riflettere, di filosofare a proposito e a sproposito di tutto. Non vuoi persuaderti che niente è più irragionevole della vita: e così te la rendi assai peggiore di quella che è.
— Ora il filosofo lo fai tu, o almeno credi di farlo, — riprese Bozzani. — La vita è anzi ragionevolissima, se non lo sai. Tanto è vero, che va per conto suo, senza il nostro permesso, da conseguenza in conseguenza, con un ragionamento così filato da travolgerci nostro malgrado. Ma io voglio esporvi fatti, voglio spiegarvi perchè ho agito non come forse avreste agito voialtri e come agiscono tanti, cioè, con la più cieca irriflessione. Lasciatemi continuare. Sono in un buon momento di loquacità, di sincerità; non mi accade spesso. Dunque: Diamine! Diamine! — pensai. — Il fenomeno è strano. Ma tutto può darsi; il mondo è pieno di eccezioni! Mi faceva impressione però che quella eccezione, sebbene dovesse lusingare il mio amor proprio, venisse a capitare giusto a me. Come comportarmi? Mi atterriva l'idea che, assieme con l'amore, arrivasse subito la gelosia, il peggior guaio che possa colpire un marito.
Niente gelosia! Dolcezze, attenzioni delicate, premure squisitamente affettuose: — Non tardare per la colazione!... Copriti bene all'uscita dal club!... Divertiti anche per me al Caffè-concerto!... Io? Sta tranquillo; non m'annoio in casa; ho tanto da fare! — Non mi pareva vero. Avevo però un presentimento; non so come esprimermi. Perchè, da mite, da un po' lenta nei movimenti, da parlatrice piana, dimessa, ella diveniva, di giorno in giorno, ardita, agile nelle mosse, vibrante nella parola, con negli occhi, nell'espressione del viso, qualcosa che prima non c'era e la rendeva quasi bella? Non osavo d'immaginare che quel miracolo lo producessi io. In questo caso avrei dovuto produrlo prima, durante i sei mesi di fidanzamento o, almeno, durante il primo anno di matrimonio, se è vero che il nuovo stato apporta grandi mutamenti nel fisico e nel morale di una signorina.
Fantasticavo, volevo indovinare, invece di chiedere qualche spiegazione. Il caso.... Noi diciamo: «il caso», perchè non sappiamo per quale concatenazione di piccoli, di quasi impercettibili fatti avviene l'imprevisto, l'imprevedibile che ci scombussola, ci fa cascare dalle nuvole e ci spinge a commettere una pazzia, un delitto... o una madornale sciocchezza. Esitai una settimana nell'alternativa tra il delitto e la sciocchezza. Ebbi però la forza di non tradirmi; e credo che quella settimana fu per me un vero stato di pazzia. Nessuno sa simulare o dissimulare meglio dei pazzi.
Avevo in mano una lettera che non mi permetteva più di dubitare della mia disgrazia. Sapevo non solamente che mia moglie mi tradiva, ma anche con chi mi tradiva. E il cambio, veramente, non faceva onore al suo gusto: qui stava il peggio.
— Vuol dire che tu eri superiore al suo.... come si dice.... ideale.
Bossi aveva l'intercalare di quel: come si dice.
— Ciò non consola, fa rabbia piuttosto — continuò Bozzani. — Mi turbinavano in mente i più feroci propositi di vendetta. Li esaminavo, li studiavo, uno per uno. — Ammazzarli! A colpi di rivoltella, come due cani! Non li avrei pagati un centesimo! — Ma fu appunto questo che mi distolse dal farlo. Proprio in quei giorni era stato discusso alle Assise il caso di un marito, che aveva fatto strage della moglie e dell'amante sorpresi in casa col solito tranello di un viaggio improvviso. Era stato arrestato e, dopo sei mesi di prigionia, veniva assolto. Prima; tutti ignoravano la sua sventura; ora i giornali ne erano pieni. Ecco il bel guadagno! Gli uccisi, se nell'altro mondo ci si ricorda di questo, dovevano ridere di lui!
Quell'assoluzione mi faceva rabbia. Come? Abbiamo abolito la pena di morte in una parte del Codice e la manteniamo vigliaccamente, a poche pagine di distanza, in un'altra? Ma sì, ma sì! Questo significa l'assoluzione dei mariti uccisori; si concede ad essi un diritto, che è stato tolto alla Giustizia. Hanno forse paura i signori Giurati, che un giorno capiti anche a loro quel che è capitato a colui che siede nella gabbia, là di faccia e pensano: — Siamo indulgenti: assolviamo, come vorremmo essere assolti trovandoci nello stesso caso di questo disgraziato? — C'è da supporlo, dopo certe inesplicabili assoluzioni. La provocazione? Va bene! La passione? Va benissimo! Il parziale difetto di mente? I periti, con rispetto della Scienza, ne inventano di ogni sorta.
Ma io, signori Giurati, vi confesso che ho calcolato ed eseguito freddamente il mio delitto; ho squartato, ho salato, come carne di maiale, il corpo di mia moglie; l'ho conservato in casa, sotto il letto matrimoniale, una settimana, e vi ho dormito sopra placidamente, quasi non si fosse trattato di nulla!... — E i signori Giurati rispondono: — Abbiamo inteso! Abbiamo inteso: che cosa pretendete? Una bella condanna a vita? Eh, via! Siete un presuntuoso, un vanitoso! Noi vi mandiamo libero, assolto, a riprendere, se vi piace, il vostro mestiere di sgozzatore di mogli. Ci pensino le mogli a riguardarsi, se mai!
Così è impossibile di ottenere la sodisfazione di una magnifica condanna, che ci dia coscienza del fiero gesto fatto ammazzando moglie ed amante, o il solo amante, o la sola moglie, secondo le circostanze. Vale proprio la pena di mettersi nel cimento di buscarsi un colpo di rivoltella da un amante, giacchè non tutti questi signori sono disposti a lasciarsi ammazzare dai mariti? Vale proprio la pena di aver preteso di compire un'alta funzione di vendetta, se dobbiamo poi sentirci dire: — Andate via! Vi siete dunque immaginato di aver fatto una gran cosa?
— Ma che modo di ragionare è questo? — lo interruppe Nelli. — Viene un imbecille qualunque, mi seduce la moglie, mi rende ridicolo davanti alla gente, disonora il mio nome intemerato; e, se mi faccio giustizia, con le mie mani, dovrò esser condannato alla galera per giunta? Oprano bene i Giurati. La colpa è del Codice che punisce gli adulteri con tre, quattro mesi di prigione soltanto. È ridicolo!
— Lo dico anch'io — rispose Bozzani. — Ma per me è più ridicolo e umiliante l'assoluzione del marito uccisore. Bisogna esser cretini per non capirlo.
— E per ciò tu....
— Io, caro Nelli, mi son vendicato più terribilmente; nessuno di voi immagina come.
Nelli, Bossi, Roggetti si guardarono in viso stupiti.
— Capisco — disse Bozzani — che la cosa vi sembrerà strana. Non avete più notato nessun cambiamento nel mio tenore di vita? Voglio sperare che non mi abbiate fatto l'offesa di credermi un... disgraziato rassegnato o contento.
— Inesplicabile, sì. E siamo stati un pezzo nell'angosciosa aspettativa di una... come si dice...
— Esplosione tragica — fece Bozzani, venendo in aiuto di Bossi, che si era arrestato al suo solito: come si dice.
— In certe circostanze, — soggiunse Nelli, — la discrezione è il primo dovere dell'amicizia.
— Avete fatto bene. Dopo lo sfogo di quella sera, ricordate? non vi ho più riparlato del mio tristissimo caso: — Puoi esserti ingannato! Calma! Calma!...
— Oh, non ho dimenticato le vostre esortazioni, i vostri consigli quella sera che il mio straordinario turbamento mi aveva fatto sfuggir di bocca la dolorosissima confessione.
Bozzani, quasi per acuire la curiosità dei suoi amici, prese in mano il bicchiere di birra rimasto intatto davanti a lui, bevve lentamente, ne ordinò un altro, e, sodisfatto dell'attenzione suscitata, riprese, con tono di solennità nella voce:
— Mi son vendicato, terribilmente, senza incorrere nel pericolo d'un processo e nella pettegola pubblicità dei giornali! Quella mattina mia moglie si era fatta più elegante del solito; era allegra, canticchiava, sembrava che la mia creduta cecità la mettesse di buon umore. La presi un po' bruscamente per un braccio, la feci entrare nel mio studio e misi il paletto all'uscio.
— Vai dal tuo amante? — le dissi sforzandomi di mostrarmi indifferente. Spalancò gli occhi, impallidì. Avevo pronunciato quelle parole con lo stesso tono con cui avrei potuto domandarle: — Vai a messa? — Era domenica.
— Ernesto! Ernesto! — balbettò.
— Guarda! — proseguii prendendo in mano il revolver messo anticipatamente in mostra sul tavolino. — Potrei ammazzarti come una cagna arrabbiata....
— Ernesto! Ernesto!
Indietreggiò coprendosi il viso con le braccia, atterrita.
— Non aver paura! — soggiunsi. — Ormai, quel che è stato è stato. Non me n'importa niente. Tu non sei più mia moglie: sei l'amante di Tito Volpi; non dovrai esser altro da oggi in poi.
— Ernesto! Ernesto!... Perdonami!.. Sono stata pazza!....
— Peggio: ingrata, infame!... Ma, ormai!
Si era buttata ginocchioni, supplicante a mani giunte.
Io stesso mi meravigliavo della mia tranquillità. Avevo ruminato, una settimana, il castigo che volevo infliggere a lei e al suo amante e parlavo da giudice severo quasi si trattasse di un altro.
— Hai scelto tra me e lui: tientelo! Ma dovrà essere per sempre! Lo dirò anche a lui: — Per sempre! — Vi sorveglierò come un poliziotto. Andrai a trovarlo ogni giorno, alla stessa ora — so la via, il numero — alla solita ora! Ti ho seguita... Ho visto... Non ti scusare.... Non ti scusare!... Dovrà essere per sempre! Per sempre! Il giorno che credereste di finirla... allora! Peggio per tutti e due! Non mi sfuggireste! Allora!... Vai dunque. Sei attesa. Non tardare.... Come se io non sapessi niente.... E dillo prima tu a quel signore! Se si figura che tu possa essere un fuggitivo capriccio per lui.... Oh, no! Vi amerete, dovrete amarvi per tutta la vita... almeno finchè vivrò io! E sappiate che ho intenzione di vivere a lungo....
Mia moglie mi guardava con crescente terrore. Dovevo sembrarle pazzo... Si addossava all'uscio, quasi tentasse di sparire a traverso il buco della serratura. La presi per una mano — tremava, era diaccia — e la feci sedere; non osò di resistere.
Le sue labbra balbettavano sommessamente: — Ernesto! Ernesto! — supplicava con gli occhi, strizzandosi le mani. Ero ferocemente contento di vedermela là davanti, prostrata a quel modo. Ripresi a parlare, ritto in piedi, con le braccia dietro la schiena.
— Da oggi in poi, tra te e me, in questa casa niente sarà mutato, all'infuori che tu vi sarai... ospite, nelle tue stanze, libera di andare e venire, come sei stata finora. Con l'unica differenza che, apparentemente, continuerai ad essere mia moglie; effettivamente sarai l'amante di Tito Volpi, quasi io non esistessi; col dovere, s'intende, di continuare ad usare le cautelose precauzioni messe in opra per ingannare me e la gente, che vi sono riuscite da un anno, forse da più di più di un anno; non m'importa di sapere la data precisa. Un anno o una settimana o un giorno, per me valgono lo stesso. Sei già pronta... in ritardo, credo; non voglio impedirti. Va', va'! Non immaginare che io mediti altra vendetta; vivete sicuri, tranquilli su questo punto, tu e lui. La mia inesorabile punizione avverrebbe il giorno che voi cessereste di essere amanti. Ti inganneresti, lusingandoti di sfuggirmi; se ne persuada anche il tuo amante. Ti ripeto: vi sorveglierò, come un poliziotto! Dovrà essere per sempre! — Ed è stato così, cari miei. Se non che....
— La tua vendetta è durata poco?
— Una vera follia!
— Una balordaggine! Incredibile!
— Se non che — continuò Bozzani, senza curarsi delle interruzioni degli amici — quella punizione è stata più rapida, più tremenda che io non osassi di sperare.
Come avevo annunziato a mia moglie, mi presentai pure al suo drudo, impiegato in una Banca. — Sono a sua disposizione... — mi rispose. — Riconosco il mio torto! — Non so che farmi della vostra vita — gli dissi. — Avrei potuto ammazzarvi, cogliendovi sul fatto, se avessi voluto: non vi avrei pagati due soldi! — Gli ripetei freddamente quel che avevo espresso a mia moglie: — Dovrà essere per sempre! Per sempre! Come se io ignorassi! Stampatevelo bene in mente! — E gli voltai le spalle.
Ora mia moglie lo odia; egli la odia. Non si possono più soffrire. Si sentono legati a una catena di ferro, e non tentano di spezzarla. Senza che essi lo sospettino, ho affittato una stanza accanto a quella, modestissima, dov'essi si davano convegno, e che, secondo le mie ingiunzioni, non hanno cambiata. Da un buchino abilmente praticato nell'uscio intermedio, io ho assistito, montato su una seggiola, a parecchie delle loro tristi scene di rimproveri, di sdegni, di desolazione.
Non un bacio, non una stretta di mano! Egli si aggira per la camera, come un animale chiuso in gabbia; lei, coi gomiti sul tavolino e la testa tra le mani, gli lancia fiere occhiate di traverso. Ho udito spesso le loro parole: — Per te! — È vita questa? — Dovremmo finirla! — insiste lei. — Per fargli piacere? — risponde lui. — Se sapesse a che siamo giunti!
Ma passano ore senza che scambino una sola parola. Certi giorni, io sono feroce. Attendo che mia moglie sia pronta per uscire... e l'accompagno per via, come se andassimo insieme per una passeggiata. La gente che ci incontra non può immaginare. E il maggior tormento per lei è questo vedermi al suo fianco, muto, inesorabile, fino alla cantonata che lei deve svoltare!... Lei la vittima; io il giustiziere.
Talvolta qualche conoscente, qualche amico ci ferma. — A spasso? Come due sposini novelli. — Ella trambascia; mi sembra che debba mancare.... È dimagrita; sbiancata. Non ha coraggio d'implorare pietà. Attende forse che io mi plachi. È una gran tortura per lei il dover fingere in casa, davanti alla servitù, davanti alle poche amiche, che è costretta a ricevere, come io le ho imposto.
A tavola, io leggo il giornale, o mangio chino sul piatto, come un miope, le poche volte che non la lascio sola, perchè faccio colazione o desino fuori, col pretesto degli affari.
— È una punizione anche per te... — disse Nelli.
— La vendetta è il nèttare degli Dei, ha scritto un poeta. Io vivo di nèttare! — rispose Bozzani.
— Ma se quei due ti avessero preso su la parola? Se avessero continuato ad essere amanti col tuo bel permesso?
— Mi era passata pel capo anche questa ipotesi, ma la scartai subito. L'amore per forza? Andiamo!
Bozzani rise. Ai tre amici, però, che l'osservavano maravigliati, ma non più increduli come in principio, parve che in quel momento egli ridesse male, come se sotto il feroce cinismo nascondesse un dolore profondo, insanabile.
IL SUO AMORE. VI.
Pareva una coppia anormale.
Dopo dieci anni di matrimonio, vivevano come nei primi giorni della loro unione, in pace triste, che ora neppur la figliuolina riusciva a rallegrare un po'.
Il marito, diventato più giallo per bile, col volto scarno e gli occhi grigi, sbiaditi, di pesce morto, metteva paura fino agli assassini quando li fulminava in nome della legge dal suo banco di Procuratore del Re, agitando per aria le mani da scheletro, e la voce gli usciva a scatti, cavernosa, dal fondo dello stomaco, quasi qualcuno parlasse di là dentro invece di lui.
Giovane e bella, pallida sotto la tinta bruna, con gli sguardi smarriti e sognanti, con la indolenza che le rendeva faticoso anche il parlare, le rade volte che si mostrava in pubblico al braccio di lui, sua moglie pareva una convalescente scampata da lunga malattia, così sbalordita, così fiacca gli si trascinava accanto, guardando sempre davanti a sè, lontano, senza badare nè ai luoghi nè alle persone.
In quelle passeggiate di qualche ora, la figlia, alta e magra, tutta suo padre, e che mostrava nell'aspetto di bimba stentata e freddolosa più età che non avesse, camminava a fianco della mamma o del babbo, muovendo lentamente le gambette di ragno sotto il vestitino corto, con le braccia penzoloni e la bocca semi-aperta, come una grullina; e nei primi giorni del loro arrivo in Palermo, la gente si voltava per guardarli tutti e tre, curiosa di sapere chi potevano essere quelle strane figure.
Poi la loro storia si seppe, e la compassione fu tutta in favore della signora.
Quell'uomo l'aveva sposata senza dote, innamoratissimo, pur sapendo di non essere riamato; ed ora la gelosia lo rodeva vivo vivo, quantunque sua moglie fosse una santa. Non ricevevano visite, non ne facevano; vivevano, laggiù, a Porta Sant'Antonino, come chiusi in un carcere, in quel palazzotto silenzioso dalla facciata scura e massiccia, che pareva fabbricato apposta per loro.
Le vetrate dei terrazzini che davano su la via maestra, non s'aprivano mai. In certe ore della giornata, dietro i vetri, fra le tende bianche, si vedeva appena il profilo d'una testa di donna dai capelli neri, ma non si capiva se intenta a leggere o a lavorare; e, accanto, la bimba, seria e malinconica, appannava i vetri col fiato, segnandovi col ditino qualche cosa che sùbito scancellava, per ricominciare da capo. Più tardi, dietro quella finestra sempre chiusa, i vicini dirimpetto, che spiavano curiosi e maligni, vedevano comparire per un momento la faccia itterica del marito sotto il berretto di velluto nero; e allora mamma e figliuola sparivano, quasi colui avesse avuto paura di vedersi mangiare dalla luce quella moglie ancora giovane e bella, che i parenti gli aveano consegnata in mano, superbi della loro figliuola, vestita di bianco e coronata di fiori d'arancio, chiamata a salire così in alto.
* * *
Allora ella aveva appena sedici anni.
Regio procuratore presso il tribunale di Catanzaro, Lupi abitava al primo piano della stessa casa dove la famiglia di lei nascondeva, al piano superiore, la decente miseria del suo stato di decadenza.
Due o tre volte s'erano incontrati per le scale, mentr'ella andava fuori con la vecchia zia; e quella figura gialla, magra, dagli occhi sbiaditi e i capelli grigi, che le gettava addosso lo sguardo diaccio diaccio e si fermava a vederla scendere, le aveva dato una sensazione di ripugnanza, quasi di persona che volesse farle male.
Per questo, arrivata all'ultimo gradino, s'era sempre voltata in su e s'era sempre urtata in quell'uomo affacciato alla ringhiera del pianerottolo, e che continuava a fissarla con la cattiva malia delle pupille smorte.
— Dev'essere un jettatore, — aveva detto alla zia, facendo di soppiatto un gesto di scongiuro.
Qualche mese dopo, s'era accorta che quegli stava a divorarsela con gli occhi dal terrazzino di fianco allorchè ella si metteva a lavorare, canticchiando, su la terrazza.
Una volta la zia le disse:
— È matto di te; ti vuole per moglie. Che fortuna, figliuola! Regio procuratore!
Carmelina non aveva saputo che rispondere, sorridendo con sorriso sciocco, incredula:
— Ma che? Posso essere sua figlia.... Non è possibile!
Eppure era stato. E aveva detto di sì, vinta dalle insistenze e dalle lacrime della mamma e della vecchia zia, intontita dalle interminabili loro chiacchiere, e, un po' anche lusingata da quel cambiamento di fortuna, che la sbalzava nell'agiatezza di un posto onorato.
* * *
La prima cattiva impressione, però, di persona che volesse farle male, era rimasta, malgrado tutto quel che il marito le prodigava per legarsela, per rendersela affezionata ed amante, com'egli non disperava di poterla stringere un giorno o l'altro fra le braccia.
E quando se lo vedeva, cieco dalla passione, inginocchiato dinanzi, smanioso di baciarle i piedi ch'ella tirava indietro impaurita; e quando sentiva ricercarsi avidamente, con labbra scottanti, le carni rosee e fresche, quasi egli volesse inebriarsi del loro profumo e del loro contatto, Carmelina s'irrigidiva, diventava di marmo, e chiudeva gli occhi, e serrava i pugni e i denti; oppure s'abbandonava, come corpo morto. Poteva fare diversamente? Gli apparteneva, per sempre, per sempre!
— Lo so, non t'è facile amarmi, — egli le diceva, un po' impermalito per la resistenza della giovine ai suoi abbracci d'uomo maturo. — Ma io, anima mia, non ti chieggo un affetto volgare, da schiava....
— Perchè mi dite così?
— Vedi? — rispondeva. — Non ti riesce di darmi del tu! Non importa. Sei la mia vita, il mio sole! Quando avrai capito che nessuno al mondo potrebbe amarti quanto t'amo io....
Carmelina avrebbe voluto almeno ingannarlo, per non parere cattiva, per non straziare di più quell'uomo che l'adorava come la Madonna, ed era geloso fin dell'aria.
Non ci era riuscita mai, per quanti sforzi la sua bontà di animo avesse fatti.
Il giorno che Lupi, dopo un anno e mezzo, dovette lasciare Catanzaro, gli occhi di Carmelina si velarono di lacrime, come nello staccarsi dai parenti, guardando forse per l'ultima volta dallo sportello della carrozza le care montagne attorno, che era solita guardare dalla terrazza, allorchè canticchiava lassù, al sole, nella squallidezza della casa, che le aveva addormentato in seno ogni vano desiderio ed ogni giovanile illusione intorno all'avvenire.
Quella vita modesta ma dolce le era spesso tornata in mente, e nella nuova residenza di Taranto, dov'ella si sentiva come sperduta, l'aveva fin rimpianta.
Oramai però cominciava ad adattarsi, spossata da languori indefinibili, mezza assopita dal torbido silenzio, che la circondava in quell'abitazione dalle stanze piccole e basse, tra quei mobili vecchi, del tempo di Murat, che stonavano stranamente con le pareti imbiancate di fresco.
Tra i riflessi bianchi di quelle stanze, suo marito pareva più smorto quando tornava a casa dal Tribunale e le si sedeva di faccia o a lato, e la prendeva per le mani commosso come al primo giorno che le aveva rivolto la parola.
Ah, egli era sempre lo stesso!
E, dopo tre anni, continuava ancora a volerla seduta su le ginocchia come una bimba, e tornava a balbettarle parole mozze, da innamorato che si confonde e non sa parlare, intanto che le baciucchiava le palme delle mani, il braccio, il collo, dicendole:
— Vita mia!... Sole mio!...
Carmelina non si sentiva più irrigidire, non serrava i pugni e i denti, non s'abbandonava più come corpo morto. Era rassegnata, quasi indifferente, dominata da quel fascino maligno che doveva aver maturato rapidamente la sua giovinezza e assonnato nervi e sangue.
Soltanto non riusciva a dargli del tu, com'egli avrebbe voluto. Il tu le moriva su le labbra:
— Che posso farci?
E suo marito, che l'andava scrutando tutti i giorni e tutte le ore, con gli sguardi inquisitori di Procuratore del Re, in cui neppure la passione accendeva un lampo, s'inquietava ora per questa indolenza di lei, peggio che non avesse mai fatto per la vivace ripugnanza:
— Che hai dunque? A che pensi?
— Perchè mi dite così? — ripeteva Carmelina. — Perchè mi dite così?
E gli alzava in faccia le grandi pupille stupite.
Sentiva un accento di minaccia immeritata, e ne aveva paura.
No, no! Egli non la minacciava, tradito dalla brutta voce cavernosa, dalla faccia giallastra, emaciata per la gelosia che lo disfaceva.
Avrebbe voluto vederla anzi allegra, sorridente, felice; e se le fosse sfuggito finalmente uno di quei gridi che soltanto la giovinezza e l'amore son capaci di trovare, oh, gliel'avrebbe pagato con tutto il sangue delle proprie vene! Nè gli sarebbe parso pagato abbastanza.
— Che hai insomma?... Mai un desiderio! Mai un capriccio!...
— Voi mi prevenite sempre. Che mi manca?
* * *
La mattina in cui le viscere, agitate a un tratto e insolitamente, rivelarono il mistero della maternità, Carmelina si scosse indignata contro di sè, quasi la sua volontà fosse stata complice, quasi da quel momento si vedesse già caduta in pieno possesso di lui, e si sentisse tiranneggiata nel più intimo del proprio organismo.
E non gli disse nulla; prima, sperando d'essersi ingannata; poi, sperando che la natura avrebbe avuto pietà di lei. Era offesa, violata da quel mistero di vita che le germogliava nel seno:
— Non basta quel ch'io soffro? Dovrà soffrire anche questa creatura, che verrebbe a intristirsi con me nella desolazione della mia vita?
E di essa già risentiva tutto il gran peso, come nei primi giorni. E quella sensazione di repugnanza, di persona che volesse farle male, le si rinnovava forte alla presenza del marito; il quale intanto l'adorava più che mai e la sopraffaceva con sottomissioni da fanciullo, con delicatezze da donna:
— Oh! Oh!... Perchè non me l'hai detto sùbito?
Quell'unica volta i suoi occhi grigi e smorti si erano animati d'un lampo di gioia, aveano sorriso imbambolati dalle lagrime, mentr'ella ricadeva sfinita nella tristezza indolente, da cui non la destarono neppure i vagiti della gracile creaturina che, nascendo, ne aveva messa in grave pericolo la vita.
Così l'allattò, così la vide crescere, quasi non fosse stata pure sangue suo. Non si sentiva madre, come non s'era potuta sentir moglie, come non si sentiva più giovane, nè donna, nè nulla; e ne soffriva tanto più, quando rammentava che, prima del suo matrimonio, la vista d'un bambino la faceva palpitare di commozione; inconsapevole commozione, come per uno spettacolo di bellezza e di innocenza.
— Sì, qualcosa dev'essersi rattrappito dentro di me; il cuore, certamente!
All'opposto, suo marito cominciava a provare una irritazione per questa resistenza passiva:
— Neanche la maternità la lega a me!
E si mise a sorvegliarla più inquieto, provocandola con qualche parola un po' dura, adombrandosi di tutto, senza nasconderglielo come aveva fatto fino allora.
— Che motivo avete? — ella rispondeva tranquillamente.
— Sei ingrata. Donna senza cuore!
A questi rimproveri amari, restava muta e impassibile.
Da qualche tempo in qua, stando in casa, egli si chiudeva nella stanza da studio, fra libri legali e processi. E non la sentenza l'occupava, non i processi ammonticchiati sul tavolino dentro le polverose copertine rosse e azzurre, legati in fascio. Sprofondato nella poltrona coi gomiti appuntati su un libro aperto a caso, la testa fra le mani scarne, pensava a colei che non lo amava, a colei ch'egli amava sempre più, disperatamente, per quegli occhi neri e grandi, per quella fresca carnagione bruna, che il lieve pallore rendeva più bella, per quel corpo delicato e perfetto, e che non vibrava mai sotto la furia dei suoi baci, tra le strette di quei suoi abbracci da cui sarebbe stata animata fino una statua!
— Ah! Chi sa quali fantasmi le passano per la testa? Chi sa quali visioni agitano quel cuore, che il seno piccolo e bianco nasconde ai miei sguardi? Come sono infelice! Come sono infelice!...
E a un tratto appariva nella stanza dov'ella lavorava straccamente camicine per la bimba, dando un punto a ogni quarto d'ora, appariva sull'uscio com'un fantasma, per sorprendere, chi sa? qualche indizio in quegli occhi sognanti, su quelle labbra chiuse e contratte che non avevano quasi più sorriso, da che egli l'aveva sposata.
Carmelina non alzava gli occhi indovinando senza farglielo capire.
La bimba, seduta per terra sopra un tappetino, dove arruffava con grande attenzione i ritagli di trine e di mussolina raccolti fra le magre gambine aperte, levava il visetto sparuto per guardare suo padre, che l'accarezzava serio, taciturno.
— Il babbo! — balbettava, vedendolo andar via, rivolta alla mamma.
E la stanza ricadeva nel silenzio, bianca, inondata di luce.
Una volta egli parlò apertamente:
— Mi rode una gelosia pazza!... La colpa è tutta tua!
— Perchè?
— Perchè soltanto in apparenza m'appartieni, per effetto della legge e del sacramento, non per legami di cuore!...
— Che debbo fare?
— Quel che non hai fatto finora: amarmi!
— Non vi amo forse? Non vi rispetto? Di che potete lamentarvi? Come si ama? Non lo so.
— Lo vedi in me come s'ama!
— Non riesco mai a contentarvi!... Oh, Dio mio!
Vedendola piangere, s'era sentito rimescolare; e l'aveva presa tra le braccia, tremante, confuso, ripetendole:
— No, non voglio che tu pianga! Non piangere!
E Carmelina aveva dovuto farsi forza per non irritarlo.
Quel giorno egli provava uno dei soliti accessi di tenerezza, che lo assalivano di tanto in tanto e lo lasciavano maggiormente triste e sconsolato; specie di febbre d'amore, che lo estenuava come febbre vera. Allora sembrava un altro. La sua voce diventava quasi dolce e il suo pallore si coloriva di leggiera tinta d'incarnato.
— T'amo troppo. Oh, come t'amo! Io non so esprimermi. Bisogna compatirmi. Mi mancano le parole....
E l'andava accarezzando, ammirandola da capo a piedi, rapito.
— Me n'accorgo, in certi momenti riesco increscioso; incresco fino a me stesso! T'amo troppo. Ti vorrei tutta mia, tutta, tutta! E vorrei poter leggere qui, dietro questa fronte, dietro questa fronte più splendida del cielo!
— Non vi nascondo nulla. Che potrei mai pensare da nasconderlo a voi?
Infatti, nel languore delle lunghe giornate di solitudine non pensava proprio a nulla, oppressa da grave stanchezza e da strana sonnolenza, quasi gli occhi diacci di suo marito, che le stavano sempre addosso, le buttassero, prima ch'egli uscisse di casa, una malia da tenerla legata.
Nelle belle giornate, osava qualche volta chiedere al marito di condurla un po' fuori. Ed egli la conduceva lungo la spiaggia sabbiosa, nei porti più solitari, per strade di campagna fuori di mano.
Pareva che anche la bimba provasse le medesime sensazioni della mamma: abbagliamento, stupore della violenta intensità della luce e della freschezza dell'aria pregna di salsedine marina. Non correva, non si sentiva tentata dalle erbe e dai fiori, che spiegavano la pompa del rigoglio e la festa dei colori pei campi; si teneva stretta alla mano della mamma, guardava con gli occhi sbalorditi, senza godimento, senza voglia, e presto diceva:
— Babbo, torniamo a casa?
Come avrebbe voluto dirgli Carmelina, se non avesse avuto paura di destar sospetti.
* * *
Nella casa di Palermo la solitudine era più grande. Mettendo per la prima volta il piede in quelle stanze vaste, dalle volte che si sprofondavano nell'ombra, dagli usci dipinti a grandi fiorami sormontati da paesaggi anneriti dal tempo, dal pavimento di mattoni di Valenza che agghiacciava le piante dei piedi, dalle pareti sbiadite e ornate di specchi in immense cornici dorate che si accartocciavano baroccamente, Carmelina s'era sentita mancare il respiro.
— Tutta questa decrepitezza, tenuta ritta, non si sa come, l'ha cercata apposta, per farmi invecchiare più presto?
Vi s'era però facilmente abituata, e non v'invecchiava più che altrove.
Gli anni, la vita inerte le avevano anzi un po' arrotondato il corpo; e la pelle bruna, sbiadita all'ombra, dava gran risalto agli occhi neri e ai capelli nerissimi. Guardandosi nei grandi specchi lievemente appannati, che la riflettevano intera, quasi dentro una nebbia sottile, se ne maravigliava:
— No, non sono invecchiata!
E un baleno di civetteria femminile le passava sul volto.
Il tempo e l'abitudine mutavano la sua tristezza in tale sentimento di riposo e di pace, ch'ella non avrebbe voluto mutare stato. La lassezza da convalescente, la indolenza che le rendeva faticoso fin il parlare, prendevano per lei le stesse attrattive voluttuose della soave pigrizia del corpo e dello spirito, che la teneva raccolta, e le mettevano ne le grandi pupille la strana aria di sognante che impressionava le persone.
Per questo il frastuono della vita cittadina, da cui era assediata coi gridi dei rivenditori ambulanti, coi rumori delle carrozze che scotevano i vetri delle finestre echeggiando cupamente per le volte, e col sordo affaccendamento di lavoro, che si ripercoteva indistinto là dentro, serviva soltanto a renderle maggiormente caro l'isolamento e la muta severità delle vecchie cose, dalle quali era circondata.
Fin suo marito non le dava più la solita sensazione di ripugnanza e di persona che volesse farle male. E stava ad ascoltarlo intenta, quand'egli le raccontava il processo discusso alle Assise nella giornata, quasi volesse appellarsi a lei contro i giurati, che si erano lasciati infinocchiare dalle sonore ciance avvocatesche.
In quelle sere la bimba non voleva andare a letto per ascoltare anch'essa le storie dei ladri e degli assassini; e guardava a bocca aperta il babbo che parlava, smorto smorto, nell'ombra della ventola, con le mani sui braccioli della poltrona illuminate dalla luce viva, e le lunghe gambe nascoste sotto il tappeto rosso del tavolino; la mamma che taceva o esclamava di tanto in tanto:
— Povera gente!
Così le stagnava la vita, senza che l'umor tetro del marito vi producesse più neppure un lieve increspamento a fior d'acqua; e così durò fino al giorno in cui la bimba cadde ammalata, e per le stanze mute s'intese frequente il rumore cadenzato dei tacchi del dottore, che, vista la gravità della cosa, veniva a visitarla tre o quattro volte al giorno.
Le tristi occupazioni d'infermiera le furono di sollievo.
Le medicine da somministrare d'ora in ora, esattamente; i piccoli servigi che la costringevano a muoversi da una stanza all'altra; il dover ragionare e venire a patti con la malata per indurla a star cheta sotto le coperte, o a prendere un cucchiaio di medicamento in ricambio dei bei regali di nastri, di oggetti d'oro, di ninnoli di porcellana, che voleva schierati sul guanciale o ficcati dentro il letto; la stessa ansiosa aspettativa del risultato della malattia, tutto concorse a produrle una specie di risveglio di sensi.
* * *
Da la finestra che il dottore voleva aperta finchè il sole era alto, irrompeva nel palazzotto addormentato un giocondo tumulto di vita; voci che chiamavano e rispondevano; scoppi di risa, canti allegri di operaie che lavoravano all'aria aperta nella via di fianco, godendosi il dolce tepore del sole di aprile. E quel canarino che trillava alla finestra della casa accanto!... E quel merlo che fischiava più in là... E gli squilli argentini di quell'incudine, più in là ancora, sotto i colpi di martello!... Che festa!
Non si saziava di guardare fuori, seduta al capezzale della bimba, tenendo strette fra le mani le manine febbricitanti; non si saziava di guardare, quasi quelle donne che sciorinavano la biancheria sui terrazzini della casa di faccia, lassù, distante; quasi quella monaca di casa che, più in qua, inaffiava i vasi di fiori e si soffiava il naso col fazzoletto turchino; quasi quei due, marito e moglie certamente, che s'abbracciavano in mezzo alla stanza credendo di non essere veduti, fossero uno spettacolo per lei.
Un'altra mattina, invece di biancheria, lassù, sciorinavano dei tappeti; quella giovane in veste grigia da camera con grandi ricami rossi che si vedeva distintamente, e pettinandosi sul terrazzino, si serviva dei vetri dell'imposta per specchiera, doveva essere molto bella. Andava e veniva, forse per cambiare il pettine, forse per prendere delle forcine... Parlava con qualcuno che non si scorgeva. Era allegra, rideva... Doveva esser felice!...
— Ah, Signore!... Che cosa avviene dentro di me? Si sentiva quasi destare da profondissimo sonno. Il sole, inondando la camera, le metteva vivi formicolii per tutta la persona; gli sbuffi d'odor di zàgara, che il vento trasportava da lontano, dai giardini di aranci della Conca d'oro, le turbavano la testa. E se ne stava tutta la giornata rifugiata là, come in un angolo di paradiso, senza più impensierirsi della malattia della bimba; paga di stringerne fra le mani le manine arse dalla febbre; bevendosi tutta quell'aria, assorbendosi tutta quella luce, inebriandosi di quei rumori e di quegli odori. E quando, sul tardi, all'abbassarsi del sole, bisognava chiudere l'imposta, e compariva nella cameretta la faccia gialla e scarna del marito ritornato dal Tribunale, ella provava una stretta al cuore, e ricadeva nella torpida inerzia che durava da anni.
Poi quei turbamenti, quelle vertigini le diedero insonnie tormentose, le stesse insonnie di suo marito. Fingeva però di dormire, rannicchiata nel proprio cantuccio di letto, quasi raffrenando il respiro, e la mattina, saltava giù che non era neppure l'alba, con la scusa della bimba, ma veramente per guardare di là, veder ripetere l'incantesimo del giorno avanti.
Poi quando la bimba cominciò a star meglio, ella contro le sue abitudini si sentì attratta a quella finestra e vi restò a lungo, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia sorretta dalle mani, girando attorno i grandi occhi desti, scoprendo cose che non aveva veduto e avrebbe dovuto vedere: quel campanile, quella terrazza dove una cagna allattava dei cagnolini bianchi e neri, quel comignolo, quei rami verdi d'una pianta di limone che sorpassavano un tetto nuovo.
E stava là lunghe ore al sole, come una lucertola, voltandosi di tanto in tanto verso il lettino della convalescente e sorridendole con insolito sorriso delle labbra e degli occhi; stava là stordita, meravigliata di sentirsi tuttavia capace d'avere quelle sensazioni; talora sconvolta da turbamenti improvvisi ch'ella non sapeva spiegarsi, da brividi che le correvano su su per la schiena e la scotevano tutta; e così assorbita, e così sopraffatta, da non pensare a tirarsi indietro per evitare la insistente curiosità di quel signore mezzo nascosto fra le cortine, il quale tornava ogni giorno a guardarla, con l'indiscreto binocolo da teatro, dal terrazzino a sinistra.
Gli aveva rivolto appena un'occhiata il primo giorno soltanto; e quella figura alta e bruna, dai capelli un po' radi, dai grandi mustacchi castagni che si curvavano in su, le si era stampata talmente nelle pupille, che continuava a vederla durante l'insonnia, con quel cannocchiale appuntato, con quei polsini bianchi e lucenti dai piccoli bottoni d'oro fuor delle maniche della giacca. E se ne stizziva:
— Chi è? Che cosa vuole?
Che volesse colui, ella lo capì a un tratto una mattina, da certe mosse di occhi....
— Mamma, che hai?
— Niente, figliolina, niente!...
Intanto si era ritirata dalla finestra con brusco movimento, smorta in viso. La bimba si stupiva che le labbra che la baciavano, fossero diacce e tremanti.
— Mamma, che hai?
— Niente, figliolina!
E affondava la faccia nei guanciali, accanto alla testina della bimba, dolorosamente.
Per parecchi giorni di seguito non s'affacciò alla finestra e tenne i vetri socchiusi, quasi avesse avuto paura delle lusinghe dell'aria tiepida di quelle giornate primaverili, delle seduzioni di quel sole smagliante che irrompeva nella camera insidioso, a traverso le imposte, indignata della propria debolezza contro quel fantasma, che la premeva da qualunque parte ella si volgesse... alto, bruno, dai capelli un po' radi, dai grandi mustacchi rovesciati in su, dai polsini bianchi e lucidi con piccoli bottoni d'oro, dalle mani affilate che tenevano il cannocchiale fissato addosso a lei, insistentemente....
Ed ora che sapeva che cosa egli volesse, la sua alterigia d'onesta si inalberava, protestava, quantunque il suo amor proprio si sentisse un po' solleticato; protestava anche con quella strana pietà pel marito, quantunque se lo vedesse dinanzi più giallo, più magro, più innamorato e più geloso ancora, quasi egli presentisse il tranello teso al cuore di sua moglie....
— Oh, no, no! — ella pensava. — Sarebbe un'infamia!...
Resisteva però alla smania per cui avrebbe voluto affacciarsi alla finestra a fine di persuadersi che s'era ingannata, e mettersi il cuore in pace.
— Ha paura dell'aria? — le disse il vecchio dottore. — Apra questa finestra, così!... L'aria è balsamo di vita.
E l'aperse egli medesimo.
Restò un po' presso il capezzale, irrequieta, lottante, quasi la finestra fosse stata un abisso, che le dava la vertigine; poi s'affacciò, rigida, deliberata di non guardare, coi gomiti appuntati sul davanzale, la faccia tra le palme.... E appena s'accorse di quell'uomo, ch'era là ad attenderla, il cuore cominciò a sussurrarle parole indistinte, le orecchie le zufolarono, gli oggetti attorno le caracollarono sotto gli occhi intorbidati....
— Domani, oh, domani sarò più forte!...
Intanto, quantunque assolutamente risoluta di non dargli un'occhiata, nel tirarsi indietro lo aveva guardato, di sfuggita, suo malgrado....
E quella sera suo marito la sentì tremare sotto i baci e tra gli abbracci, quasi ella cercasse d'evitarli.
— Ti senti male?
— Sì, un po'....
— Che ti senti?
— Nulla, non saprei.... Forse la stagione.
In alcuni momenti, quand'era sola, tutt'a un tratto il cuore le diventava grosso grosso, gli occhi le si riempivano di lagrime, i singhiozzi le annodavano la gola....
Quella volta sentendosi soffocare, era corsa alla finestra, per prendere un po' d'aria, senza pensare a colui. E vedendo ch'egli la guardava sorridendo tristemente a fior di labbra, quasi per rimproverarle qualcosa, quella volta s'era sentita afferrare a tradimento, violentemente; gli aveva risposto con un sorriso.... e si era tirata sùbito indietro nascondendo la faccia tra le mani.
— Oh, Dio, mi par di morire!
Si sentiva venir meno. E avrebbe voluto morire davvero nel punto in cui aveva ceduto, dandosi incondizionatamente, da non riprendersi più.
* * *
Fu uno scatto, quasi avesse avuto tuttavia sedici anni, e si fosse sentita tale forza nei polsi da lottare col mondo intero!
Sentiva bisogno di muoversi, di gesticolare, di ridere, di cantare, ella che fino a poche settimane prima avea passato le giornate sonnecchiando su una delle poltrone addormentate anch'esse negli angoli oscuri di quelle stanze fredde e silenziose. E s'aggirava da una stanza all'altra, leggera, saltellante, levando le mani giunte e gli occhi alle divinità mitologiche dipinte nel centro della volta, per ringraziare non sapeva chi di quella grazia vivificante che le era stata concessa! Debole, ingenua, rimasta quasi bambina sotto l'opprimente gelosia del marito, ella si svegliava esperta di tutte le astuzie, di tutte le malizie, di tutte le ipocrisie della donna abituata a ingannare:
— Ah, finalmente la mia povera vita ha uno scopo, finalmente so!...
Non sapeva nulla, illusa che tutto si sarebbe limitato là, e che l'immagine di quell'uomo ch'ella teneva chiusa nell'intimo del cuore, come in un tabernacolo, per prostrarlesi dinanzi col pensiero in adorazione spirituale, non le avrebbe chiesto nient'altro....
— Che potrò dargli di più?
E, alcuni giorni dopo, allorchè quel che colui sperava le balenò per la mente, la sua dignità di moglie si rivoltò inviperita:
— Spezzerò piuttosto, calpesterò il mio cuore! No! no!
E continuò a vedere quell'uomo fra un nimbo abbagliante; e, accostandoglisi, con la delirante adorazione di donna che amava per la prima volta, le pareva d'elevarsi materialmente, e non sentiva più il terreno sotto i piedi.
Perciò fu atterrita e sentì crollarsi il mondo addosso la mattina in cui ricevette una lettera di lui — imprudente!... — che le chiedeva di poterla vedere da vicino, di parlarle; lettera breve, quasi imperiosa col suo carezzante tono di preghiera.
— Imprudente!...
Per fortuna, in quel momento neppure la persona di servizio era in casa. E alla vecchia mendicante, che attendeva la carità e la risposta, restituì la lettera con sotto poche parole tracciate in fretta in fretta: Impossibile! Se mi amate, non mi scrivete più!
Le disse anche a quella donna, mettendole in mano un pugno di monete:
— Non venite più, buona donna. Se mio marito vi vedesse!...
E lo ripetè a lui dalla finestra, coi gesti, supplicandolo trambasciata, più e più volte di seguito, mentre lui insisteva con gesti, inviandole baci.
— E insiste!... E non sa persuadersi!...
— Vuoi dunque che venga io? — le aveva fatto intendere con gesti più disperati.
— Ah! N'è capace. Bisogna impedirglielo, a ogni costo! — esclamò lei ritraendosi.
La forza del terrore le offuscò il cervello, quasi non fosse peggio ancora quel ch'ella stava per fare. Non riusciva a infilarsi le maniche della lunga giacca nera, nè a infilarsi i guanti.
— Torno sùbito — disse alla serva che la guardava meravigliata. — Non dire alla bimba che vado fuori.
Aveva negli occhi il bacio di ringraziamento scoccatole da colui al cenno che gli rispose: — Aspettatemi, vengo io. — E scendendo le scale, ripeteva mentalmente:
No, no!... Mai!... Mai!
Ma appena colui la ricevette su l'uscio, prendendola per una mano, sorridente, da persona abituata a simili avventure; e appena si vide in quell'elegante appartamentino da le imposte socchiuse in penombra tentatrice.... gli cadde tra le braccia, senza dir motto, quasi vi fosse andata apposta e per nient'altro.
* * *
Da qualche mese il marito la osservava, chiuso nel suo silenzio d'isterico, turbato da quel raggiare d'una seconda giovinezza in sua moglie, e che le appariva dal colorito del viso ridiventato più fresco, da quel fosforeggiare di lampi mal rattenuti negli occhi....
— Doveva credere a un inatteso mutamento? Il tempo, l'abitudine potevano produrre anche quel miracolo. Perchè no?
Invece, ora ritrovava in lei la stessa resistenza che nei primi giorni del loro matrimonio, quando la giovinezza e la novità del legame potevano in qualche modo scusarla; invece scopriva in lei rapidi movimenti d'impazienza, d'alterigia, quasi di ribellione.
E lo ferirono, peggio d'una pugnalata, le parole che la bimba disse una sera alla mamma:
— Mamma, perchè non canti come questa mattina?
Egli non fece un gesto, nè battè palpebra; ma vide l'occhiataccia lanciata dalla mamma a la bambina.
— Ah! Dunque cantava?... Dunque cantava?
Tutta la nottata non ruminò altro. E il giorno dopo, mentre i testimoni facevano le loro deposizioni, mentre gli Avvocati declamavano dinanzi ai Giurati dando colpi di pugno sui tavolini, egli tendeva l'orecchio, col capo rovesciato sulla spalliera della sedia a braccioli, gli occhi chiusi, terribilmente pallido nella toga nera; tendeva l'orecchio per afferrare da lontano una nota di quell'insolito cantare di sua moglie nell'assenza di lui:
— Perchè cantava, ella che non aveva cantato mai?...
E, in casa, gli occhi grigi gli si scurivano, perduti dietro questa ricerca, quasi avesse voluto trovarne la traccia su pei vecchi mobili, e nell'aria di quelle stanze, che doveano certamente saperne qualcosa.
Carmelina non gli badava, ingannata dall'apparenza, con la cieca temerità di chi non sa valutare il pericolo e con la fierezza di chi è deliberato, in ogni caso, a sfidarlo. Non voleva riflettere, non voleva ragionare. Il terrore dei primi giorni, quando le pareva che avrebbe visto sprofondarsi il pavimento sotto i piedi se la serva, inavvertitamente, avesse accennato al padrone che la signora era stata fuori; lo sbalordimento di quant'era accaduto quella mattina, senza che la sua volontà vi avesse concorso — anzi!... anzi!... — tutto era stato trascinato via dalla piena irrompente della passione, che diveniva più minacciosa di giorno in giorno.
Appena un mese dopo, ella rimproverava il suo amante:
— Come? Ora hai paura tu? E mi chiami imprudente?...
— Penso a le conseguenze; uno scandalo, forse un processo!...
Ella alzava le spalle, irritata che colui riflettesse troppo, mentre ella avrebbe affrontata anche la morte per venire a trovarlo un momento, per dargli un solo bacio. Invece sentiva domandarsi:
— E.... lui, lui non sospetta ancora nulla?
— No.
Un giorno, rimettendosi in furia il cappellino, ella gli disse:
— Che vita!... Vedersi soltanto, per pochi minuti!... Se venissi a stare con te, nascosta in quella stanza in fondo dove nessuno potrebbe vedermi?
— E tua figlia?... — aveva risposto l'amante, fissandola per osservare l'effetto delle sue parole.
— Mia figlia?... È figlia di lui!... Ne avrò un'altra.... tua, sai?
E gli buttò le braccia al collo, senz'accorgersi che l'amante era diventato freddo freddo, e aveva aggrottate le sopracciglia, impensierito.
Però il sospetto di qualcosa di tristo, di indegno cominciò a turbarla, dopo che i pretesti per evitare le sue visite divennero più frequenti. Ai rimproveri, egli rispondeva sorridendo con tranquillità d'uomo sazio e annoiato, negando fiaccamente, in maniera da far capire che negava per pura cortesia di persona bene educata....
Un giorno, sul tardi, pochi momenti prima che suo marito rientrasse in casa, ricomparve la vecchia mendicante, con un'altra lettera e per la carità. Anche quella volta la fortuna l'aveva aiutata. Sentendo picchiare all'uscio era andata ad aprire lei.
Quella lettera non potuta leggere, cacciata in fondo a la tasca del vestito col cuore abbuiato da terribili presentimenti, era stata una lunga tortura durante il pranzo, per tutta la serata, mentr'ella ricamava e suo marito leggeva un giornale, e la bimba, mezza stesa bocconi sul tavolino, coi capelli scuri che le cascavano dietro gli orecchi, ritagliava un vecchio figurino di mode sotto il lume, accompagnando al movimento delle forbici uguale movimento di labbra.
Aveva indugiato fino alla mattina del giorno dopo — fino a che suo marito non andò fuori di casa — masticando il tossico dell'incertezza, tastando di tanto in tanto la busta in fondo alla tasca, quasi avesse potuto, palpando, indovinarne il contenuto. Poi aveva letto febbrilmente, abbracciando con l'occhio due, tre righe in una volta.... e s'era sentita lanciare nel vuoto da immensurabile altezza, giù, giù, giù, in quell'abisso che la lettera le spalancava sotto, abisso senza luce, che se la inghiottiva vivente!
* * *
Colui aveva detto alla vecchia serva:
— Se venisse quella signora.... starò fuori di casa fino a notte. Se volesse aspettare, metti alla finestra il solito segnale, finchè non sarà andata via.
E la vecchia aveva messo il segnale.
La povera signora aspettava da più di due ore, ostinandosi, quantunque la vecchia s'affacciasse di tratto in tratto sull'uscio per ripeterle:
— Non tornerà prima di notte; mi ha detto così.
— Sì, sì; aspetterò. Chi sa? Potrebbe tornare anche prima.
E ricadeva abbandonata, nell'angolo di canapè dove s'era buttata arrivando.
Si sentiva precipitare tuttavia giù, giù, giù, in fondo all'abisso senza luce; e non aveva altra sensazione. Quella vertigine della testa, del cuore, di tutta la persona, le impediva di pensare, d'accorgersi degli oggetti circostanti, di formarsi un'idea netta del tempo che passava, e dell'enorme pazzia ch'ella commetteva restando là. A intervalli, la nebbia fosca della sua mente veniva solcata da un chiarore; un quadretto dalla cornice dorata, un oggetto di porcellana con una punta di luce viva, un'impugnatura di fioretto appariva su la parete in un canto del salottino, e le spariva sotto gli occhi appena ella tentava fissarli.
Soltanto allorchè sentì domandarsi: — Vuole che accenda il lume? — soltanto allora si riscosse, atterrita:
— Ditegli che ho aspettato finora e che.... non tornerò più!...
Soffocava.
E andò via, ritta su la persona, come fantasma, mentre la vecchia le faceva lume. Così montò le scale di casa; e così, come fantasma, senza esitare, passò davanti al marito che le aperse e non ebbe la forza di dirle nulla, e richiuse lentamente l'uscio, dietro il quale era stato ad attenderla da parecchie ore, bevendo le lacrime che gli irrigavano il viso sconvolto, in agguato per scannarla, com'era suo diritto, come si meritava questa sgualdrina, ora ch'egli sapeva tutto!...
— Oggi la signora ritarda....
Rientrando, gli era parso d'aver capito male. Il suo istinto geloso si era sùbito svegliato:
— Oggi?...
— Credevo che il signorino sapesse.... — disse la serva, spaventata dal tono di quella domanda.
— So, so: le altre volte però è tornata sempre più presto....
— Sempre.
— Tutti i giorni?...
— Nossignore; una, due volte la settimana.
— E.... da quando?...
— Ma, se il signorino lo sa....
— Rispondi! Da quando?
— Da quattro mesi, forse.... Non ricordo bene.... Oh, vergine santa!
— Da quattro mesi!... Da quattro mesi! Una, due volte la settimana!...
Ogni esclamazione, era lampo di vivissima luce, che gli rischiarava il cervello; era scoppio di fiamme avvolgentisi al corpo, che intanto sudava diaccio....
— Da quattro mesi!... Due, tre volte la settimana!...
E i minuti passavano, e i quarti d'ora passavano, via via sul quadrante dell'orologio a pendolo dov'egli teneva fissi gli occhi; e le ore squillavano pel salotto lentamente nell'attesa mortale, quasi annunziassero un'immensa catastrofe!
— Meglio per lei, se il mondo finisse prima di rimettere il piede in casa, in questa casa insozzata dalla sua infame persona!... Ecco perchè rifioriva!... Ecco perchè cantava!... E la gelosia non mi ha servito a niente!... Neppure ad arrestarla sul punto di.... A niente!
E i minuti passavano, eterni come quarti d'ora! E passavano, via via, gli interminabili quarti d'ora, che sembravano secoli!
La serva aveva sentito suonare con violenza....
— Prendi il tuo fagotto ed esci da questa casa, sùbito, sùbito, ruffiana!
— Vergine santa! Che dite mai, signorino!
— Esci, esci, ruffiana!
* * *
Carmelina lo guardò, ebete; e sbarazzatasi convulsamente del mantello e del cappellino, si rovesciò su la poltrona. Gli orecchi le rintronavano d'un sinistro rumore di case crollanti.
— Dove sei stata? Dove sei stata?...
Alla stretta di quelle mani più fredde e più forti dell'acciaio e che le stritolavano i polsi, ella cacciò un grido:
— Ammazzatemi!... Avete ragione!... Ammazzatemi!
E fissava con avida angoscia qualcosa che gli aveva visto luccicare fra lo sparato del panciotto. Le tardava di morire. Perchè doveva più vivere?
Ma colui stringeva la fronte disperatamente; ma colui le si rotolava ai piedi, mugolando il nome di lei. E quand'ella credette alfine che le si slanciava addosso per ucciderla, si sentì brancicare, amorosamente, su i capelli, su la faccia, per tutta la persona; e si sentì furiosamente baciare e ribaciare, fra singhiozzi e lacrime irrompenti, quasi egli avesse voluto riprendere quel che gli era stato rubato: la sua vita, il suo sole, la sua donna adorata!
— Come hai potuto, infame?... Come hai potuto?...
— Non lo so.... Non lo so....
Alle incalzanti domande ripeteva sempre:
— Non lo so....
Ma pensava a quello sguardo diaccio diaccio, di persona malefica, incontrato per le scale della sua casa, a Catanzaro.
A un tratto, Lupi si rizzò in piedi e chiamò:
— Lisa! Lisa!
La bimba accorse, si lanciò verso la mamma che la strinse tutta tra le sue braccia.
L'altro gliela strappò dal petto con un ruggito e disse:
— Guarda!
In quel punto l'istinto della vita scattò nel cuore dell'adultera, quasi con voce che gridava dalle viscere sussultanti, e vedendo il marito che trascinava la bambina dicendo con voce cavernosa, da folle: — Guarda! Dovrai ricordartene; guarda! — gli si lanciò incontro, tendendo le braccia supplicanti:
— Per quest'innocente che ho nel seno!
Lisa vide luccicare una lama, e poi sua madre rispondere, stravolgendo gli occhi fino al bianco....
— Mamma! Mamma! — gridò, senza comprendere niente in quel momento.
CI SIAMO? VII.
Era un uomo spassoso, specialmente dopo desinare. Non già che bevesse troppo; ma quel po' di vino che a un altro avrebbe appena appena confortato lo stomaco, a lui produceva una piacevolissima esaltazione, gli scioglieva lo scilinguagnolo. E allora il suo caratteristico e strano ritornello: Ci siamo? dava un sapore così piccante alle cose ch'egli diceva, che l'ora del chilo, tra un sigaro e l'altro, volava via quasi inavvertita.
Gilletti soleva dire:
— Martelli è un gran digestivo!
E spiegava, scientificamente, secondo lui:
— Le risate ch'egli provoca agiscono in modo meccanico con le continue scosse dello stomaco: diventano una specie di massaggio, che agevola l'opera di tutto l'apparecchio della digestione. Il giorno che Martelli ci mancasse, noi dovremmo ricorrere al Tot, al Fernet dei fratelli Branca, all'Amaro siciliano, al Ferro-China Bisleri, agli altri intrugli pretesi digestivi, che digerirebbero soltanto i nostri quattrini, e sarebbe un vero guaio. I nostri stomachi si sono ormai abituati a quella provocazione. Ecco: oggi che Martelli ritarda e mi fa temere un'assenza, io comincio a sentire un po' d'imbarazzo stomacale....
Eravamo otto pensionanti nella trattoria di Pappataci e occupavamo una stanza riservata: quattro scapoli, tre ammogliati, uno vedovo, io; tutti impiegati. Due degli ammogliati avevano lasciato le famiglie in provincia, per economia, dicevano; e noi non avevamo nessuna ragione di dubitarne; il terzo, Martelli, era diviso dalla moglie per incompatibilità di carattere, abile modo di esprimere velatamente la sua disgrazia.
Infatti, perchè una moglie scappi via dalla casa maritale e vada a convivere con... un altro, significa che dev'esserci qualche incompatibilità, almeno per parte di lei.
Martelli aveva preso la cosa in santa pace, dicendo:
— Il male non l'ha fatto a me, ci siamo? ma a se stessa. Ormai io conoscevo tutti i difetti della bestia e la compativo; e siccome so, che è affatto incapace di correggersi, si farà sùbito prendere in uggia, e sarà ridotta in mezzo a una strada. Ci siamo? Il mio uscio le è chiuso sempre; la chiave l'ho in tasca e il portinaio è avvertito: in caso di un tentativo di scasso... per opera di madama, correre ad avvertire i carabinieri della caserma vicina. Mi sento smaritato meglio che col divorzio, che non c'è. Ah! Ne ho viste in nove anni, da che eravamo sposati! Ma io sono buono, prudente; ho sopportato il sopportabile e il non sopportabile.... Dillo tu, Gilletti. Mi hai sentito, qualche volta, lamentare in ufficio delle cattive maniere di mia moglie? Mai! Mai! Dicono di Giobbe! Ma costui, ci siamo? Doveva essere un poco di buono se il Signore gli buttò addosso tanti malanni. Infatti ebbe la sfrontataggine fin di rivoltarsi, di mettersi a tu per tu con Domeneddio... E intanto lo portano come esempio di pazienza! Ci siamo? Il vero Giobbe sono stato io, nove fitti anni, senza un solo giorno di riposo! Vi meravigliate di vedermi qui tra voi, per consiglio di Gilletti? Che dovevo fare? Uno sterminio, e andarmene in galera pei begli occhi di lei?
— Bisognerebbe sentire tua moglie in contradittorio per sapere la verità vera — feci io quel giorno, che era tornato in ballo il discorso... di madama.
— Tu sei vedovo — mi rispose — e puoi dar ad intendere di rimpiangere la bon'anima. Io ti credo, perchè la tua signora era eccellente persona, giovane, bella, caritatevole, l'idolo del vicinato. Lo so perchè, due anni, siamo stati ad abitare nella stessa via e non molto distanti. Questo però non vuol dire. Io per esempio... ci siamo? Se mia moglie non avesse fatto quel che ha fatto, e Gesù Cristo se la fosse portata in Paradiso, non finirei di cantarne gli elogi in ogni occasione; anche per dispetto, se è vero che i morti vedono e sentono quel che fanno e dicono i vivi. Sarebbe un'atroce canzonatura, da far crepare di rabbia anche una morta, stizzosa come lei. In contradittorio, tu dici? Ma son sicuro che le dareste ragione, non fosse per altro, per farla star zitta. Figuratevi che una volta, dopo aver leticato un paio di giorni — anche la notte! — per certa stoffa di una veste ch'ella diceva indispensabile, ma che il mio povero bilancio mi faceva giudicare... ci siamo? se non superflua, inopportuna, vedendomi scappare via disperatamente di casa mi urlò dietro: — Ti sbarazzerò di questa sciupona, ti sbarazzerò! Non dubitare! Sarai contento! — E venne a urlarmelo dal pianerottolo, mentre scendevo le scale.
Quella mattina, in ufficio, ero una mosca senza capo, con la trista minaccia negli orecchi: incredulo dapprima, ma impensierito a poco a poco. Se tornando a casa, trovassi davvero?... Le donne sono capaci di tutto. Mi attendevo, di minuto in minuto, di veder comparire la donna spaventata: — La signora!... La signora!... — Ridete? Avrei voluto vedervi nel caso mio. Noi uomini siamo così sciocchi da voler bene alle mogli senza saperlo. E allora... ci siamo? Chiedo un permesso di urgenza al Capo ufficio, corro dal negoziante, compro la stoffa... Avevo dovuto, lì per lì, farmi prestare i quattrini da un usciere, che fa lo strozzino con gli impiegati... Salgo a quattro a quattro gli scalini di casa e inciampo nella donna che accorreva da me:
— La signora, oh, Dio!... La signora!...
Mi sentii morire!... Si contorceva, come una serpe, sul letto mezzo disfatto, lamentandosi con voce rauca... Io tenevo ancora sotto il braccio l'involto con la stoffa. Se ne accorse; balzò a sedere, cessando tutt'a un tratto di contorcersi, di lamentarsi... — Che rechi lì? — E si mise a disfare lestamente l'involto.
— È la stoffa! — balbettai.
— Ah! credevi davvero di trovarmi morta? L'hai comprata per scusarti, caso mai! Chi sa per chi sarebbe servita se fossi morta davvero!
E questo fu il bel ringraziamento, soltanto questo!... Ci siamo? So io quel che m'è costata quella mia imbecillità, con l'usciere che, ogni ventisette del mese: — Signor Martelli... almeno gli interessi. L'ottanta per cento: un disastro!... E Bacci dice: In contradittorio!... Ma io mi sento felice e m'importa un corno, se la gente ride e sparla. Badino agli affari loro. Ieri l'altro intanto.... ho avuto la sodisfazione d'intravederla da lontano con indosso quella stoffa; l'ho riconosciuta e mi è parso di averle fatto un'elemosina... Ci siamo?»
— Eppure — gli disse Gilletti giorni dopo — sembra che tu provi un certo piacere nel ragionare di lei. Confessalo: senti, è vero? che ti manca qualcosa....
— Sicuro! E spesso spesso anche non mi par vero che mi manchi, tanto stimo incredibile la mia buona sorte!... Arrivo fino a compiangere quel disgraziato....
— Ci siamo? — suggerì Giuntini, provocando nuove risate.
— Che volete farci? — rispose Martelli, ridendo anche lui. — È un riempitivo; mi scappa di bocca senza che io me ne accorga.... Ci siamo? Ecco!... La colpa è del mio Maestro di quarta. A ogni po', spiegando le lezioni, ci domandava: — Ci siamo? — E intendeva di dire: — Avete capito? E noi ragazzacci, a coro: — Ci siamo! Ci siamo!
Mia moglie non mi poteva soffrire, quasi il Ci siamo? fosse stato un grave insulto per lei. Dopo sette anni avrebbe dovuto abituarsi, come io mi ero abituato ai suoi modi sgarbati! E dire che da ragazza sembrava la bontà, la cortesia, la gentilezza in persona! Siamo stati fidanzati diciotto mesi. Ogni atto, ogni parola, altrettante carezze! Paolino, qui! Paolino, là! Quasi non metteva un boccone in bocca — le domeniche desinavo in casa dei futuri suoceri — senza chiedermene il permesso. Ah! Gli scienziati perdono il loro tempo a fare.... Ci siamo? tante inutili scoperte, e non pensano a cercare un efficacissimo mezzo di impedire alle ragazze.... Sì, sì! qualche pastiglia, mettiamo, da dare alla fidanzata in un cartoccio di confetti per farle dire, suo malgrado, quel che realmente pensa del povero diavolo lusingato di esser voluto bene.... Sì! sì! Questa sarebbe la vera grande scoperta scientifica!... Ci siamo? A lei parrebbe di dire: — Quanto sei buono! — E, invece, direbbe: — Quanto sei imbecille, caro mio!... Sarei scappato più che di corsa e oggi non mi troverei costretto....
— Va là! Non ti dispiace poi tanto di essere tornato scapolo, di far vita di trattoria, — lo interruppe Cantelli.
— Ah! Intorno a questo, mentirei se dicessi che qualche volta il nostro Pappataci non me la faccia rimpiangere. Quella mala bestia era una cuoca... una cuoca!... Ci siamo?... Quando voleva ottenere qualche cosa mi prendeva metaforicamente per la gola. Tornavo a casa. — La signora? — È in cucina. — La risposta della donna significava: — A desinare avrà una cosa delicata! — E, attendendo la cosa delicata, riflettevo: — Quanto mi costerà? Ci siamo? Cosa, realmente, da leccarsene le dita. Non resistevo, preso proprio per la gola! Ma la scontavo e come! Mi conforto pensando che la sconti anche... l'altro!
— Ci siamo?
Giuntini gli faceva il verso: e così bene, che spesso Martelli ripeteva sùbito: — Ci siamo? — quasi per riparare una dimenticanza.
Ricorderò sempre il viso stupefatto con cui egli entrò nella nostra saletta da pranzo una mattina, a colazione. Lui, che prima di sedersi deponeva il cappello e soprabito e si lavava le mani, prese posto così come era entrato, brontolando parole incomprensibili.
— Che ti è accaduto? — gli domandammo parecchi.
— L'inesorabile! L'assurdo! Ci siamo? Ci siamo?
Fummo maravigliati di sentirgli ripetere il suo ritornello: Non gli era mai accaduto fino allora.
— Insomma.... che cosa? — fece Grilletti.
— Ero andato a comprare dei fazzoletti di filo... Mezza dozzina, perchè la stiratrice.... Basta: ero intento a far la scelta e.... chi mi veggo allato? Mia moglie!... Proprio lei!... Ci siamo?... in carne e ossa!... Mi guarda e.... fa: — Buon giorno!... Stai bene; si vede!
Ero così sconvolto, col sangue tutto alla testa, col cuore che mi balzava! Ah! In certi momenti siamo proprio dei cretini!...
— Parla per tuo conto! — lo interruppi, sforzandomi di restar serio.
— Avresti risposto anche tu come me, là, davanti ai commessi e agli altri avventori:
— Buon giorno! Grazie! — Grazie di che? ora che ci ripenso. E lei ebbe la imprudenza.... ci siamo? di continuare — Che vuoi? Cose che accadono nella vita.... Se potessi spiegarti!
E non le voltavo nemmeno le spalle, non avevo il coraggio di piantarla là, in asso! Avrei dovuto schiaffeggiarla.... Intervenne il commesso: — La signora desidera?... — Vi sembra possibile che sia accaduto tutto questo?
— Tua moglie, se non altro, è una donna di spirito — disse Gilletti. — E poi?
— E poi?... È andata via, ripetendomi con tanto di faccia tosta: — Se potessi spiegarti!... — Attendeva la mia risposta; ma capì che stava per essere quale non l'avrebbe voluta.... Ci siamo? Perchè uno può smarrirsi come un ragazzetto colto in fallo, ma.... un solo momento! Dovette leggermi negli occhi intorbidati.... Oh! È impossibile! È assurdo!
— Ma niente incredibile! Niente assurdo! — rispose Cantelli. — Intanto levati il cappello e il soprabito, e mangia la minestra che ti si fredda. Si tratta di sintomi buoni: prodromi di riconciliazione. Il pentimento è evidente. Tu dovresti passarti una mano su la coscienza e riconoscere quanto hai contribuito, da parte tua, a farle commettere la sciocchezza....
— La chiami sciocchezza? Ci siamo?
— Per la donna è una sciocchezza. Qualunque cosa una donna pensi e faccia, è una sciocchezza....
— Anche se disonora.... se ammazza?
— In questo caso poi è assai peggio che una sciocchezza. Le donne, secondo me, possono, devono qualche volta, essere ammazzate, ma ammazzare mai.
— Disonorare.... è più di ammazzare!... Lasciami mangiare in pace. Non voglio discutere le tue solite enormità. Prodromi di riconciliazione? Pentimento? Che m'importa ora del suo pentimento? Doveva pentirsi prima di fare il male.... Mi fai dire stupidaggini!... Ci siamo?
Due settimane dopo, ci trovammo una sera noi due soli, Martelli ed io, a desinare. Gli altri avevano un banchetto regionale.
Martelli entrò masticando nauseato, quasi avesse in bocca un sapore di cosa amara. Buttò là, rabbiosamente, soprabito e cappello esclamando:
— Quando si dice che uno è stato tirato proprio pei capelli si dice meno del vero! Ci siamo? Ma te la immagineresti tu una moglie.... come quella, che mi ferma in mezzo alla via, m'invita ad entrare in un caffè:
— Ragioniamo! Te ne prego! Sii gentile con una signora! — Così! Così!... Ed ha preso il mio braccio e mi ha trascinato dentro, in un angolo in fondo, mi ha fatto sedere, mi si è seduta accanto, e al cameriere ha ordinato tranquillamente: Due espressi! Così, così! Che potevo fare? Ci siamo? Te la immagineresti tu una moglie.... come quella, che nel tragico momento.... Giacchè lo capisci facilmente, il momento era tragico; avrei potuto saltarle al collo, strozzarla.... ero nel mio diritto; e poi eravamo soli.... Strozzarla e andarmene via zitto zitto.... Te la immagineresti tu una moglie.... come quella che prende con le mollette un quadrettino di zucchero e.... in quel tragico momento, ti domanda: — Tre pezzetti, è vero, Paolino?... Avrei voluto risponderle con rovesciarle addosso la tazza fumante.... Ci siamo? E, invece, ho risposto....
— Sì, tre!
— Precisamente!
— Da gentiluomo: non pentirtene.
— E allora.... Non la finì più: — Ah, Paolino! La mia disgrazia ha voluto così!... Ah, Paolino! Con la tua indifferenza, col tuo supremo disprezzo mi hai castigata abbastanza!... Ah, Paolino! Avrei potuto far peggio: fortunatamente non l'ho fatto! — Paolino! Come durante il nostro fidanzamento.... Non mi aveva mai più chiamato così! C'è voluta tutta la mia.... ci siamo?... grandezza di animo per resistere; a capo basso, sì, sorbendo lentamente il caffè, sì, picchiando col cucchiaino sul vassoio per chiamare il cameriere.... Lo crederai? Voleva pagar lei.... — Ti ho invitato io! — insisteva. E appena il cameriere si fu allontanato: — Ah, Paolino!... Non mi dici una parola di conforto? Di speranza? Di perdono?... Ah, Paolino!... — dignitosamente le risposi: — Ne riparleremo, signora! — Tanto per troncare il discorso.... Ci siamo?
Avevo cominciato a fare un grande sforzo per non ridere e, di mano in mano, mi ero sentito invadere da profonda pietà per la miseria umana, di cui avevo sotto gli occhi un perfetto esemplare.
— Hai avuto torto — gli dissi. — Certi ragionamenti bisogna troncarli netti, in modo da non doverci ritornar su; o pure....
— Precisamente.... Ci siamo? quel che pensai sùbito.... Ma questa non è cotoletta!... — s'interruppe. — È suola da scarpe!... Da qualche tempo in qua, Pappataci abusa della nostra remissione!
Fece un gran rabbuffo al cameriere, leticò col padrone....
Esagerava; non era vero che la cotoletta fosse più immangiabile di quelle delle altre volte. Si calmò e riprese:
— Quel che pensai sùbito. E mi rimisi a sedere, e stetti ad ascoltarla guardandola in viso, per scrutarla.... Era sincera? Chi può mai dire quando una donna è sincera, dato che una donna possa mai essere sincera?... Ci siamo?
— Non fare il pessimista!
— È ravveduta, pentita.... Le son venute le lacrime agli occhi. Dice che quello, col pretesto di un affare urgente, è andato a Milano, a Torino, insomma, non si è fatto più vivo.... Che avresti fatto tu? Dimmelo, francamente; se ho sbagliato, sono ancora in caso di riparare.... Ci siamo? Che avresti fatto nei miei panni?
— Quel che tu hai fatto! Nè più, nè meno!
— Come lo sai?
— Ci vuol poco a capirlo.
— E mi approvi?
— Pienamente.... Almeno non mangerai più cotolette di cuoio.
— È strano, caro mio! Tu che sei vedovo, devi averlo provato meglio di me. Tua moglie era un angelo, era una santa.... Ma ci si abitua anche a una moglie demonio.... Ci siamo? E quando si è già contratta una abitudine.... È strano! Si rimpiange quel che ci faceva soffrire, disperare!... Ci siamo?.... Domani riprenderò.... la mia croce.... Pago il conto a Pappataci. Tu mi scuserai con gli altri.... Che ne dici? Che ne dici? Commetto un'imprudenza? Una debolezza? Una viltà?
— Un eroismo! — risposi.
Ed ero sincero.
Mi strinse la mano, lungamente, affettuosamente, e come conclusione di quel che non aveva saputo dirmi, soggiunse:
— Ci siamo?...
L'UOMO RAPPRESENTATIVO. VIII.
Grave, solenne nell'aria della persona, negli atteggiamenti, nelle mosse, nell'intonazione della voce, nelle scarse parole che gli uscivano di bocca, sembrava che la natura lo avesse creato apposta per dare con la sua presenza, in certe circostanze, un prestigio, un'importanza a cerimonie e ad avvenimenti, che questi, per loro stessi, non avrebbero avuto.
Parecchi anni addietro, quando Giacomo Romero era un impiegatuccio della Prefettura, nessuno avrebbe potuto prevedere che, a via di lenta ma continua trasformazione, quel giovane biondastro, magro, giallognolo, sarebbe diventato, da modestissimo scrivano, l'uomo rappresentativo, come tutti lo qualificavano ora, l'uomo indispensabile nelle riunioni, nelle feste, nei lieti e tristi casi della vita cittadina.
Era irriconoscibile. Gli accadeva sovente di vedersi fermato da un vecchio amico, che lo aveva da un pezzo perduto di vista:
— Scusi.... Lei è...?
— Giacomo Romero, ai suoi ordini.
— Ah!.. Questo volevo dire! Sei tu!
Ma l'amico, che avrebbe voluto precipitarglisi addosso per abbracciarlo, si sentiva tenuto lontano dalla serietà, dalla dignità della rigida accoglienza che sembrava volesse dire:
— Si, sono io.... ma non sono più quello.
Soltanto Pasquale Rosada che aveva, per due anni, abitato nella stessa topaia, quando frequentavano il ginnasio e che non aveva mai smarrito il buon umore neppure nei momenti più tristi, soltanto lui non si era lasciato imporre dall'aria solenne la mattina che lo aveva incontrato in cappello a cilindro, redingote e guanti neri. Gli si era piantato dinanzi squadrandolo da capo a piedi e gli aveva detto, ridendo:
— Guarda!... Romero!... Indovino? Direttore di un ufficio di pompe funebri. Mi rallegro!
E con tutta la severità del vestito e con la premura che aveva di non mancare al trasporto di un commendatore segretario al Ministero della guerra, Romero si degnò di stringere la mano di Rosada e di atteggiare le labbra a qualcosa, che avrebbe potuto sembrare un sorriso di compatimento.
— Tu non invecchi, tu non cangi mai! — gli disse — Beato te!
— Vediamoci, rimango qui una settimana. Dove posso venire a trovarti?
Romero gli diè il suo indirizzo.
Era contento di far sapere all'antico compagno di ginnasio, il gran mutamento avvenuto nella sua vita. Nato da buona famiglia — sua madre si gloriava di aver sangue nobile nelle vene — aveva goduto appena gli ultimi bagliori dell'agiatezza del patrimonio dei Romero, andato in rovina per colpa del padre. Rosada appunto lo aveva conosciuto quando tutti e due stentavano a proseguire gli studi per poter arrivare a carpire un impiego. Poi:
Tu ver Gerusalemme, io ver l'Egitto.
come accade nella vita e come soleva affermare con quel verso dei pochissimi tenuti a memoria da lui, ogni volta che Romero voleva filosofare intorno a qualche avvenimento degno di quella poetica citazione.
Egli aveva preparato a quel burlone impenitente di Rosada la sorpresa di un ricevimento coi fiocchi. Voleva fargli vedere e toccare con mano che lo studentuccio Romero non era arrivato ad essere direttore di pompe funebri; ma un signore libero, indipendente, che grazie alla sua discreta posizione, alla sua intelligenza, al suo tatto, già contava per qualcosa nella società.
Rosada giunse preciso, all'ora fissata.
— Ah! — fece, fermandosi su la soglia del salotto dove Romero lo invitava ad entrare.
Non sapeva spiegarsi quell'esposizione di calzoni, di corpetti, di cravatte, di stivaletti, di scarpe, di scarpine che ingombravano il canapè, le poltrone, le seggiole e i tavolinetti.
— Trovi un po' di disordine, ma con te faccio a fidanza.
— Negozi in abiti belli e fatti?
— Potrei, davvero; ma, capisci, la mia posizione ora m'impone certi obblighi.... Capisci!
— Devi aver vinto una gran quaderna al lotto.
— Ho ricevuto un'eredità. Quando si parla dello zio di America!.... Ebbene ci sono gli zii anche in Italia, nascosti in qualche parte, per non farsi scovare. Se non che.....
— Un giorno li scova la morte..... e avrebbe dovuto scovarli anche prima.
— In tempo, caro Rosada; in tempo e basta.... Che conti?
— Ventidue paia di calzoni! Trenta corpetti!.... sessantacinque cravatte!
— Appena il necessario, caro Rosada. Tu, fortunatamente, ignori le miserie della vita elegante: cambiar di vestito tre, quattro volte il giorno, secondo i diversi posti dove sei costretto ad andare; e stillarti il cervello se là conviene un abito grigio e là un pantalone scuro, e là quel corpetto, e là quella e questa cravatta.... Mi guardi, spalancando gli occhi, ma è così; uno sbaglio può far ridere di te, disonorarti, sì, disonorarti, perchè la reputazione di un galantuomo certe volte dipende da insignificanti nonnulla, che pesano su la bilancia del merito più di qualunque cosa savia.
— E tu ti rassegni a queste stupide imposizioni?
— Per forza, caro mio, per forza, se voglio conservarmi il posto che con molti stenti mi son acquistato nella società. Sono già qualcuno.... niente.... ma qualcuno da non poter essere confuso con gli altri.
— Ti compiango.
— Ci sono compensi, grandi compensi.... morali; sodisfazioni che non si possono ottenere facilmente.
— Ma io, nel tuo caso.... Come? L'eredità ti ha liberato da ogni preoccupazione economica..... Hai avuto il gran coraggio di prender moglie.... Spero che non hai commesso lo sbaglio di cercarti un'amante, col pretesto di sfuggire quell'altro malanno. Sogliamo dire stupidamente così: malanno! Io però posso assicurarti.... Ah, se tu sapessi quel che ho attraversato nella vita prima di arrivare ad assestarmi un po'! Ora sono in un gran giornale genovese.... Amministratore. Scrivo io i più belli articoli. Domandalo a tutta la redazione.... a ogni fine di mese! Ho moglie e due figliuoli; ce n'è in fabbrica un terzo. Sarà il benvenuto anche lui. Ma io ho tempo di riposarmi, di divertirmi con la mia buona mogliettina e coi bambini. E tu ti stilli il cervello intorno alla scelta di un calzone, di un corpetto, di una cravatta e devi essere serio, serio, serio, agli ordini di tutti, alla mercè di tutti, da quel che ho potuto capire. Sinceramente, ti compiango!
— T'invidio, avrebbe dovuto dire! — pensò Romero, che non sapeva persuadersi come mai Rosada non fosse rimasto impressionato di quel che aveva visto e sentito.
Già certe cose non era in caso di intenderle. L'eredità! Ma si trattava del meno in quella sua grande trasformazione. Un altro avrebbe commesso sùbito la volgarità di prender moglie; un altro, più imbecille, si sarebbe dato in braccio di una piovra di amante e a quest'ora sarebbe nudo e crudo peggio di prima con la bella sodisfazione che si era goduto la vita! Lui, no. Aveva detto: — Bisogna scancellare il passato! — E aveva cominciato dalla sua persona. Sì, sì, gli scultori, i pittori.... Cose da far ridere! Ci vuol poco a mutare nella creta, nel marmo, su la tela i connotati di una persona. Ecco qui: la natura vi ha regalato un naso, una bocca, certe mani, e voi dovete farvene, per così dire, degli altri assolutamente migliori. Sissignore, si può. La natura si è compiaciuta di darvi un carattere, un'individualità; e voi dovete disfare il capriccio di essa.... È un capriccio, una cosa irragionevole. Vi ha dato appetiti che non potete sodisfare, facoltà che vi è impedito di adoperare, e.... Sissignori!
Si può! Homo novus! Ma dal dirlo al farlo.... ci corre. E quel cretino di Rosada non ha capito niente di tutto questo! Ha contato i calzoni, i corpetti, le cravatte; ha ammirato diciotto paia di scarpe di ogni sorta. Ed ha concluso: — Ti compiango!
Egli soltanto, Romero, egli soltanto poteva apprezzare il gran valore della creazione di sè stesso. Chi è che ha detto: — Se vuoi che gli altri piangano, piangi tu il primo? — Avrebbe dovuto dire: — Se vuoi che gli altri ammirino, comincia dall'ammirarti tu il primo!
Era il suo grande assioma. E aveva imbastito intorno ad esso una vasta teoria.
— Non bisogna tentare di sbalordir la gente, ma lusingarla, ma illuderla.... Se voleste, potreste fare questo e meglio; ma non val la pena di confondersi, quando un altro si prende questa scesa di testa.
E, infatti, tante scese di testa se le prendeva volentieri lui.
— Caro Romero, mi metto nelle vostre mani.... Voi lo sapete: i genitori, nel caso del matrimonio di una loro figliuola, perdono la testa. E ci sono tante pratiche da fare.... Disponete, ordinate.....
— Caro Romero, la gioia della paternità.... istupidisce. Pel battesimo.... Una cosa degna dell'occasione.... Come se fosse cosa vostra....
— Caro Romero.... È stata una grande disgrazia! Certe perdite annichilano mente e cuore.... Nessuno sa prendere un provvedimento opportuno.... Voi; non c'è altri che voi....
E bisognava vedere com'egli si trasformasse, secondo le circostanze, portando attorno dignitosamente la bella barba rossiccia, la testa ben pettinata, la persona diritta, impettita, quasi un matrimonio, un battesimo, un funerale avessero ai suoi occhi uguale importanza, ed egli si credesse in dovere di concedersi ad essi, egualmente, ma con le opportune modificazioni che testimoniavano della sua abilità, della sua pratica, della sua fine intelligenza per tutto che era mostra, apparato, esteriorità.
Non era arrivato a questo di primo acchito, nè senza aver dovuto reprimere dentro di sè certi sentimenti e certi impulsi che nei primi tempi rinascevano più forti, più violenti; quando già sembravano vinti e domati.
Eh, no! Un piccolo adulterio — e voleva dir: facile — può rovinare la posizione di un galantuomo. Perchè infine? Per far piacere a una signora isterica, malata, che non ha niente da perdere, specialmente se il marito è maneggevole. Chi ha tutto da perdere è.... il complice, l'amante che, spesso spesso, non ama affatto, e mette a repentaglio la sua vita per far piacere a una donna, che non merita affatto così gran sacrifizio.
Se avesse voluto!... Ma non aveva voluto. Già gli mancava il tempo di pensare a frivolezze. Le signorine poi!... Le fuggiva come la peste.... moralmente; perchè, col fatto nessuno era più ossequioso, più garbato, più disposto a profondere ogni gentilezza ai loro piedi.... E se avesse voluto anche con loro! Avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta. Niente! Cortese, amabile con tutte.... E se n'erano lusingate parecchie. Ma lui, alla larga! Il giorno che si fosse lasciato invischiare da qualcuna, sarebbe finita per lui. Diventava un uomo come un altro, un marito e, forse, anche un marito.... Non si sa mai; neppure quando siete stato, per modo di dire, rapito. E c'era voluto un gran sforzo di volontà, di resistenza, di persistenza. Giacchè le più pericolose signorine sono le.... zitellone, che non sanno rassegnarsi, che sono capaci di tutto pur di compromettere un galantuomo e farsi sposare. Anche questi scogli aveva dovuto evitare! In certi momenti, nei quali rifletteva intorno alla sua vita, egli rimaneva meravigliato che fosse riuscito a liberarsi da tante insidie, da tanti agguati. E ricordava con orrore un periodo di parecchie settimane, in cui, per poco, la maligna cocciutaggine di una donnaccola non aveva compromesso tutto il magnifico resultato dei suoi quasi eroici sforzi.
Se l'era vista comparire davanti una mattina, poveramente vestita — e sarebbe stato il meno! — ma sciatta, enormemente sciatta! Aveva stentato a riconoscerla. Ne sapeva qualcosa Rosada, quando convivevano in quella topaia da studentini di Liceo.... In quei benedetti anni non si sa quel che si fa. Una stiratrice sembra una principessa; non si bada alle conseguenze. Per fortuna il bambino era morto da due mesi; ma lei gli si era appiccicata addosso, e non per interesse, sinceramente, perchè lui era il padre del suo bambino.... Una serva! Una schiava! Una cagna, di quelle che anche prese a calci, a legnate, tornano a leccarvi le mani!
Dopo tanti anni, come mai era riuscita a trovarlo?
— Sono sempre la tua Rina. Voglio esser sempre la tua serva, la tua schiava, la tua cagna, come dicevi allora!
Era mai possibile?
— Non voglio esser altro! In nome del nostro bambino.
Era mai possibile?
E non c'era verso di farle sentir ragione. Sarebbe stata nascosta, in cucina, in uno stambugio, non l'avrebbe vista nessuno; ma voleva servirlo lei; spazzare, ripulire, lustrargli le scarpe, spazzolargli i vestiti, preparargli la colazione e il desinare....
Giacomo Romero era stato preso da un senso di orrore al solo pensiero che la sua casa potesse cadere in balia di quella sozza creatura, che pur gli ispirava compassione e un sentimento di rispetto.
Non era riuscito a convincerla, a persuaderla, a indurla a ricevere un po' di danaro, con la promessa di qualche altro soccorso di tanto in tanto.
Arrivò fino a mentire, per farle intendere che quel che lei pretendeva era impossibile.
— Ma io... ho moglie! Ho moglie!
— Che importa? Farò la serva anche a lei.
Quel giorno la persuase ad andar via con la promessa che l'avrebbe mandata a chiamare. E nei giorni appresso la trovò accoccolata sul pianerottolo, dietro l'uscio, in attesa di vederlo uscire e rientrare.
Aveva dovuto ricorrere al questore per liberarsene e farla rimpatriare. Non gli era parso vero che niente fosse trapelato tra i suoi amici e i conoscenti evitando così il ridicolo, che lo avrebbe ucciso come uomo di mondo.
E continuò la sua vita di repressione, di eliminazione; pareva che il suo intento fosse quello di rendersi una specie di interessantissimo automa, di bellissimo automa, combattendo ora per ora, giorno per giorno l'opera avariante della natura, spendendo lunghe ore davanti allo specchio per scoprire l'insidioso lavorio di una ruga, la diserzione dei capelli, che si scolorivano come presi dalla paura di sentirsi scacciati dal centro del capo verso la tempia e di dover rifugiarsi indietro, indietro, verso la nuca.
E fu proprio in quegli ultimi mesi ch'egli si accorse di un insolito risveglio del suo cuore.... — Come mai? Non riusciva a spiegarselo altrimenti che con una specie di sortilegio della giovane vedova Mannelli buttatogli addosso durante l'ultima festa di beneficenza.... Signor Romero qua.... signor Romero là.... E poi anche, corto: Senta, Romero! Guardi, Romero! E lui si era prestato a secondarla, ad appagarla! E a ogni richiesta, a ogni pretesto, si era sentito diventare più grave, più solenne dell'ordinario, quasi quella diabolica Mannelli fosse degna del più rispettoso omaggio, dell'opera più dignitosa e più severa!
— Bravo, Romero!.... Benissimo, Romero! Grazie infinite, Romero!
E lui rimaneva incerto, confuso davanti al preciso significato dell'allegra intonazione della voce di lei, davanti a quel sorriso che le tremava su le labbra prima di diventare riso e anche.... equivoca risata!
Era impossibile che la gente non se n'accorgesse.
Lo approvavano seriamente? Si facevano beffa di lui?
— Non potevate sceglier meglio, Romero!
— Che? Resiste ancora, Romero? Per mostra, non per altro!
Egli negava, ma debolmente; si difendeva, ma in maniera da confermare i sospetti e ridurli certezza.
Ah, quella vedova indemoniata! Ora egli viveva unicamente per lei; era più grave, più solenne, più rappresentativo, ma per lei!
E accadeva questo: la bella e giovane vedova si era compiaciuta di scherzare col fuoco e si era innamorata di Romero con tutto l'impeto del suo cuore infiammabile. Se non che.... Poteva mai immaginare che egli credesse di dimostrarle quel che lei era sicura di aver indovinato, aumentando sempre più, la sua aria grave, solenne, rappresentativa?
E si stancò, e s'indignò, e, dalla sera alla mattina, diventò feroce, intrattabile, peggio che se Romero le avesse fatto offesa di innamorarsi di un'altra e di preferirla a lei!
— Combattete, se vi riesce, con lo spirito, con la lingua, con l'inesorabile accanimento di una donna giovane, bella e vedova per giunta! — si ripeteva tristemente Romero dopo che si fu accorto, troppo tardi! che certe risoluzioni o si prendono in tempo o non si devono prendere mai.
Giacomo Romero però non era uomo da abbattersi per una piccola disfatta di amor proprio. Da lì a qualche mese tornava ad essere quel che aveva voluto essere: un uomo rappresentativo, fedele al suo assioma:
— Se vuoi che gli altri ti ammirino, comincia dall'ammirarti tu il primo!
NELLA PENSIONE. IX.
Giorgio Pintaura era seccato di dover mutare pensione, se la noia notturna di quel suo vicino di camera non cessava.
Di carattere mite, buono, incapace di dare il minimo fastidio a nessuno, non avrebbe voluto neppur lagnarsene con la signora Marianna tanto premurosa pei suoi cinque pensionanti, da lei chiamati «figliuoli» nonostante alcuno tra di essi fosse molto più vecchio di lei.
Ma da parecchie settimane in qua quel signor Torriani era diventato assolutamente insopportabile. Che chiacchierasse a distesa, durante la colazione e il desinare, a lui, Giorgio Pintaura, non faceva nè caldo nè freddo. Silenzioso per natura, gli piaceva di star ad ascoltare, specialmente quando chi parlava era di quelli che tengono desta l'attenzione per le cose che dicono e pel modo con cui le dicono. Il signor Torriani era di questi, quantunque avesse la fissazione di discutere tutti i fattacci riportati dai giornali.
Perciò nella pensione veniva chiamato il Pubblico Ministero. Le sue strampalerie divertivano, e anche le osservazioni assennate che talvolta gli scappavano di bocca, per quella specie di stizzosa ironia con cui venivano espresse.
Danzini soleva dire:
— Le chiacchiere del Torriani aiutano la digestione.
Aveva letto in un giornale qualcosa di simile e si compiaceva di ripeterlo.
Gli altri, spesso, discutevano, facevano da avvocati contro il Pubblico Ministero, per provocarlo, per fargliene dire delle più grosse e riderne....
Lui, Pintaura, intanto, mangiava zitto zitto, comodamente, le pietanze, non molto abbondanti, che la signora Marianna mandava dalla cucina; sbucciava l'arancia o la mela, rappresentanti la frutta con costante vicenda di cui nessuno si lagnava, e, all'ultimo, acceso il mezzo toscano riserbato alla colazione, rimasto là alcuni minuti ad ascoltare, coi gomiti su la tavola e la testa tra le mani, salutava e andava via, senza curarsi se il Pubblico Ministero avesse o no terminato la sua discussione.
Ma che poi il Torriani volesse continuare il suo ufficio anche la notte per ore e ore di seguito, dimenticando che dietro l'uscio intermedio tra le due camere c'era un povero diavolo stanco dal lavoro giornaliero di impiegato contabile e desideroso di dormire sei, otto ore filate, no; questo non poteva tollerarlo, assolutamente!
E intanto, tre, quattro volte durante la nottata, gli toccava di sentirsi svegliare dai soliloqui del signor Torriani, che non aveva l'amabilità, l'educazione di farli sottovoce. Era inutile tossire con insistenza in maniera da far comprendere che nella camera accanto qualcuno fosse stato indelicatamente svegliato. Il Pubblico Ministero continuava con pochi intervalli di riposo, con violente riprese. Soltanto quando dagli scuri mal connessi della finestra cominciava ad insinuarsi la fioca luce dell'alba, il Torriani, si chetava. Pintaura, che doveva fare ogni sforzo a fine di non riaddormentarsi e trovarsi in orario all'ufficio, lo sentiva russare, e sapeva che si sarebbe svegliato pochi minuti avanti di andare a sedersi a tavola per la colazione.
Si decise finalmente di lagnarsene con la signora Marianna, mentre sorbiva il caffè prima di uscire di casa.
— Non reggo più! A me il sonno fa più del mangiare. Vado all'ufficio mezzo sbalordito; e i miei colleghi mi canzonano, immaginando chi sa che nottate!
— Sarà una malattia, come quella dei nottambuli; a lui dà a discorrere....
— Si curi, e vada a discorrere altrove! O dovrò andarmene io.... con mio grande dispiacere!
— Non ci mancherebbe altro! È da me da parecchi anni, tra i primi miei pensionanti. Puntualissimo, a ora fissa, si può dire, e niente esigente.
— Ma che mestiere fa? Ne sa nulla lei? Non ha preso informazioni?
— Ah, per me l'importante è che il pensionante paghi senza ritardi, e che sia persona pulita. Intorno alla pulizia non transigo. Pel resto, capisce, bisogna chiudere un occhio, purchè non si facciano sconvenienze in casa mia. Se si dovesse cercare il pel nell'ovo si starebbe freschi!
— Come si rimedia? Lo avverta.
— Ma che cosa dice? Parla a voce alta?
— Altissima; con lo spessore dell'uscio però non si capisce niente!
Pintaura parecchie volte era saltato giù dal letto per ascoltare che diamine diceva Torriani, discutendo, quasi leticasse con qualcuno. Ma aveva afferrato soltanto poche parole, monosillabi la più parte, esclamazioni, da non poterne ricavare nessun senso. Avesse, almeno, potuto appagare la curiosità di sapere che stupidaggini, peggiori forse di quelle buttate fuori a colazione a desinare, si divertisse Torriani a declamare nella nottata!
Neppure questa piccola sodisfazione! E per ciò quella mattina aveva, finalmente, dichiarato alla signora Marianna:
— O dovrò andarmene io!
* * *
Che Torriani fosse un uomo un po' misterioso si capiva anche dall'aspetto. Quel barbone nerissimo che saliva a mangiargli le gote fin sotto gli occhi, quelle folte sopracciglia ch'egli aveva cura di dividere sopra il naso strappando i peli intermedi — e si vedeva — ; gli occhi foschi, le labbra umide e un particolar modo di girar attorno la testa e gli sguardi, sospettosamente, mentre parlava; la sua voce grossa, cupa; i suoi gesti, a scatti, tutto insomma ispirava un'inconsapevole diffidenza in colui che lo vedeva la prima volta.
Dopo, l'impressione si modificava un po', specie nelle persone che continuavano ad avvicinarlo in intime circostanze come i suoi compagni di pensione. Ma, anche in essi si ridestava, di tanto in tanto la sensazione primitiva, di qualcosa di misterioso nella vita, ora regolarissima, quasi monotona, di quell'uomo.
Vedendolo interessarsi, in modo speciale, dei fattacci riferiti dalle cronache dei giornali, Danzini un giorno aveva espresso la sua convinzione che Torriani fosse stato poliziotto. Ronchelli non aveva taciuto il suo sospetto che potesse essere, più probabilmente, una spia travestita, arrivando fino a dubitare della realtà di quella folta e nerissima barba, che aveva tutta l'apparenza di esser finta. D'Arco aveva detto:
— È un povero diavolo contento di vivere con poco, pur di non fare niente. Lasciamolo in pace.
— Chi lo tocca? — rispose Ronchelli.
E così Torriani potè ancora sfogarsi con le sue requisitorie e divertire i commensali.
Il male era che il povero Pintaura ora, con l'idea di esser da lì a poco svegliato, si voltava e rivoltava nel letto riuscendo stentatamente ad addormentarsi.
Ed ecco Torriani che comincia: prima con parole brevi, quasi sgridasse qualcuno entratogli in camera, e poi, incalza, con domande e risposte fatte da sè, (si capiva benissimo dall'intonazione della voce) fino a certi impeti in cui sembrava che la parola non riuscisse a prodursi intera, e finisse con un rantolo.
Una sera al caffè Raimondi, Pintaura, se n'era lagnato con un amico impiegato nei Telegrafi.
— Se vuoi avere la sodisfazione di sentire quel che il tuo vicino dice, c'è un mezzo facilissimo — aveva risposto il telegrafista. — Farai un buco nell'uscio, un buchettino, anzi, che durante il giorno puoi tenere tappato. Poi ti foggerai un portavoce, un corno acustico, con mezzo foglio di cartoncino bristol, così....
Fece la prova servendosi di un giornale. A Pintaura sembrava che l'amico si burlasse di lui.
— Te lo costruirò io; sarà meglio. Veramente, ti insegno il mezzo di praticare una brutta azione; ma giacchè cotesto signore non ha, da parte sua, la minima delicatezza.... sarà un divertimento; devi però mettermi a parte delle scoperte che farai.
La prima notte che il corno acustico fu al posto, Pintaura non si svestì per andare a letto; si sdraiò su una poltrona vicino all'uscio a cui era addossato il lavamano, accese un sigaro, spense il lume e stette in attesa ancora incredulo del risultato.
Tutt'a un tratto trasalì. Si udiva, quasi fosse nella camera, la voce di Torriani.
-Ancora? Ancora?... Non è bastato dunque di strofinar la soglia dell'uscio con aglio verde per impedirti di entrare? Hai sofferto.... e sei entrata!... No, no! Là.... non verrò mai! Mi fai orrore.... più di quando eri viva!
Con chi parlava dunque? Pintaura si sentì gelare il sangue. Non era uno spirito forte. Ma quantunque pensasse che Torriani poteva essere in preda a una potente allucinazione, pure sentì afferrarsi dalla paura di dover assistere a qualcosa di anormale. Avrebbe voluto rizzarsi in piedi, strappare dal buco il cono di cartoncino, che funzionava da cornetto acustico e impedire la recezione delle parole di Torriani; ma gli parve di essere inchiodato sulla poltrona da una forza superiore.
Torriani riprendeva:
— Come avvenne?... Ma lo sai, da un pezzo. Devo ripetertelo, perchè io ne soffra?... No, non ne soffro.... Ho fatto quel che dovevo; tornerei a farlo daccapo.... se fosse possibile.... Tu, tu, infame!... dovresti soffrire ricordando!... Si vede che, morta, sei peggiore di viva.... Non avvicinarti!... Non toccarmi!... Mi fai ribrezzo! No! No!
Giorgio Pintaura respirava appena. Il corno acustico rendeva così forte, così chiara la voce di Torriani, che il povero impiegato contabile avrebbe voluto accendere un fiammifero per assicurarsi che quello non fosse realmente entrato in camera di lui aprendo con violenza l'uscio intermedio. Avrebbe però dovuto spostare anche il lavamano, far un po' di rumore.... E intanto Pintaura tentava di raccapezzarsi intorno alle poche cose udite. Si trattava di un dramma, di un terribile dramma realmente avvenuto, o l'allucinazione faceva dire a Torriani cose che rispondevano a quelle ingannatrici visioni?
Tendeva l'orecchio. Ora si udiva l'ansimare affannoso di persona che soffriva. Pintaura ricordava che, durante un incubo, anni addietro, si era sentito pesare sul petto il corpo di una persona, che pareva tentasse di soffocarlo: voleva chiamare aiuto, e non poteva; voleva liberarsi dall'oppressione di quel peso e non riusciva a fare il più piccolo movimento.... Doveva accadere qualche cosa di simile a Torriani.... Ma.... notte per notte? Da tante notti? E poi egli parlava senza stento, da persona desta....
— Tu mentisci! — gridò Torriani in quel momento. — Io ti ho seguita, non ti ho perduta un solo istante di vista.... Ah, come andavi lesta, col sorriso, più che sulle labbra, negli occhi, sguisciando tra la folla che ingombrava i marciapiedi.... Avevi fretta, eh? Avevi fretta!... Dalla sarta?... Mentisci!... Da una tua amica.... ora ricordi meglio?... Mentisci! Che mi importava di lui?... Egli aveva incontrato, nella via, una di quelle.... che si comprano per mezz'ora, per un'ora.... Non ti credette altra, sai?... Il disgraziato però rimase preso, ammaliato dalle tue perfide arti.... come me! Come me!... Ti avrebbe dato il suo nome.... come me.... se non vi fosse stato l'ostacolo; io! Tu sola eri responsabile del male fattomi... Male, non disonore.... Ognuno deve render conto delle proprie azioni soltanto; ed io ero e sono rimasto un onorato galantuomo anche dopo!... Ma tu mi hai fatto soffrire pene atroci. Ti amavo!... Oh, come ti amavo! L'amore mi rendeva cieco, addirittura.... Che ti sarebbe costato rimanere buona, onesta?... Non ti contorcere!... Non smaniare!... La verità ti offende.... Che dici? Che dici?
In quei pochi minuti di silenzio che seguirono le incalzanti domande, Pintaura più non capiva se era desto o se sognava. In certi momenti gli era sembrato di assistere alla prova di un attore, che doveva recitare un monologo.... Ma no! Ma no! Non c'era attore che potesse produrre con la sola efficacia della voce — il gesto, la espressione della faccia non si vedevano — la terrificante sensazione delle parole di Torriani.
— Non sei ancora interamente morta? — riprese a vibrare la voce di lui.
Pintaura attese con viva ansietà la risposta.
Invece sentì brontolare:
— Benissimo! È andata via!
E per quella notte non udì più niente.
* * *
Torriani entrò nella sala da pranzo tenendo in mano un giornale.
Pintaura, che era già seduto al suo posto e spiegava il tovagliolo, lo fissò per vedere se gli trovasse qualche traccia in viso dell'agitazione della notte precedente. Torriani era tranquillo, sereno; se non che scoteva con insolita vivacità il giornale, ed emetteva, sedendosi, i caratteristici brevi grugniti coi quali annunziava la sua requisitoria da Pubblico Ministero. Infatti cominciò sùbito:
— Mi fanno ridere! Non riescono a scoprire quel che si può dire hanno sotto gli occhi, e vanno a rimestare cose di anni addietro!... Non hanno dunque altro da fare i vostri giudici, la vostra polizia?... Dico vostri per voi, Ronchelli, che siete impiegato nel ministero di Grazia e Giustizia.... Giustizia! Ce n'è una sola: quella che ognuno si fa con le proprie mani. Qualcuno sbaglia? La Giustizia sbaglia, peggio. Per fortuna, oggi non può tagliar teste, che non si potrebbero già rimettere al posto; ma se casca in un errore, non ha fretta di ripararlo. La grazia, per uno condannato a torto non è riparazione, è grave offesa! Mi fanno ridere!... Non bastano il giudice istruttore, la polizia, i carabinieri, ci si mettono ora anche i giornalisti! Ed ecco qui uno che afferma di aver scoperto una nuova traccia; ed ecco giudici, polizia, carabinieri ad affannarsi a correre dietro di lui! Ma è serio, domando?... Ah! Quel disgraziato che ha ucciso, invece, doveva chiedere il permesso.... ai superiori: — Posso, non posso ammazzare? — Starebbe ancora fresco, se avesse dovuto attendere la risposta: — Abbiamo abolito la pena di morte! — Chi vi ha imposto di abolirla? Ammazzare è.... legge di natura. Ho detto forse una bestialità? Parli, parli pure, signor Danzini; a me piace di discutere. Certe verità fanno paura. Non dovrebbero far paura.... Il signor Pintaura è della mia opinione.... No? Mi era parso.
Pintaura in quel momento pensava:
— Costui ha un gran delitto su la coscienza!
Di mano in mano che mangiava e parlava, che tralasciava di mangiare per parlare, che s'interrompeva di parlare per riprendere a mangiare, la voce, le mosse e gli sguardi di Torriani rivelavano una concitazione sproporzionata con l'interesse che poteva ispirargli una semplice notizia di cronaca.
Pintaura attese con grandissima impazienza che annottasse, dopo ch'ebbe letto nel giornale che cominciava a farsi un po' di luce intorno all'assassinio di una giovane donna avvenuto cinque anni addietro. Rimesso l'apparecchio al posto, sedutosi su la poltrona e spento il lume, questa volta egli attese un bel pezzo. Sentiva scricchiolare il letto su cui pareva che Torriani non potesse star fermo, udiva le scale semitonate dei suoi sbadigli; ma erano le undici e quello taceva. Improvvisamente, scoppiò nella camera un formidabile:
— No!... Perchè dovrei accusarmi?... Per espiare?... Per far piacere a te piuttosto!... Ma io vorrei provare un'altra volta la voluttà del brivido che ti prese, quando la lama del mio coltello penetrò nel centro del tuo cuore, spaccandolo come una mela.... E non sei ancora interamente morta?... Dopo cinque anni? Ah! Le donne malefiche hanno la pelle dura!... Perchè.... Non sei tu ancora interamente morta?... Perchè mi ami? Tanto mi ami.... da non poter morire? Dovrei esser pazzo a prestarti fede. E mi hai amato.... anche nell'altro? Negli altri, forse? In tutti, oh! tanto!... Odiami! Voglio essere odiato! Terribilmente odiato.... Non puoi? E sia l'amore il tuo inferno! Sia! Sia!
Torriani ringhiava. La sua voce si sentiva ora da un punto, ora da un altro, come di chi passeggiasse concitatamente per la camera. Poi parve assalito da un folle colpo di risa:
— Ah! Ah!... Non è ancora interamente morta! Ah! Ah! Perchè mi ama, tanto!... Ah! Ah! Tanto!
Pintaura non poteva più dubitare. Egli era venuto in possesso del segreto di un delitto rimasto impunito. Che doveva fare? Star zitto? Denunziarlo? E che prova avrebbe potuto dare, se mai? Si sentiva ossessionato dal sospetto che gli si leggesse in viso quella specie di rimorso da cui era torturato incessantemente, e che tutti lo guardassero, mormorando: Egli sa! Egli sa!
Dopo quella nottata, non si era più rimesso ad ascoltare. Avea tappato il buchetto dell'uscio, sfasciato il corno acustico. Andando a letto, per cautela, si turava gli orecchi con la bambagia.... Inutilmente! Ormai il segreto era dentro di lui, e pareva fermentasse!
Intanto Torriani, sì, diventava più Pubblico Ministero di prima, iroso, sdegnoso, inesorabile, contro la Giustizia e i suoi agenti; ma incanutiva quasi a vista di occhio, e si trascinava, lento, stanco per le vie, estenuato da un male di cui sembrava non accorgersi, o fingeva di non accorgersi.
Una domenica, Pintaura, incontratolo sul pianerottolo, lo fermò:
— Come si va, caro Torriani?
— È finita! Mi ha già completamente avvelenato il sangue!
— Chi?
— Quella!... Quella!... Per vendicarsi.... Zitto!... Potrebbe far male anche a voi!... Dopo cinque anni, Pintaura! Zitto! Zitto! Zitto!
— Via! È possibile che un uomo equilibrato qual è lei dica certe cose?
— Se sapeste! Se sapeste!
Pintaura non aveva potuto frenare una mossa affermativa del capo. Torriani gli spalancò gli occhi addosso, premette il bottone elettrico dell'uscio; e, quando la donna venne ad aprire, entrò in casa quasi volesse sfuggire un increscioso interrogatorio.
E Giorgio Pintaura: — Se sapeste! Se sapeste! — non ha mai saputo veramente se si fosse trattato di un'esplicabile allucinazione o di una terribile realtà.
Torriani, dopo pochi giorni, era misteriosamente sparito.
Aveva portato via il suo segreto.
AL BIVIO. X.
Romano Verdesi non era mai stato capace di prendere una risoluzione da sè. Quando era scapolo, finchè visse sua madre — aveva perduto il padre giovanissimo — si consultò con lei anche intorno alle cose più insignificanti; e la povera signora si angustiava e nello stesso tempo sorrideva vedendoselo davanti incerto, impacciato:
— Che ne dici mamma? Che ne dici?
— Penso come farai quando io non sarò più.
— Questo non avverrà.
— Come non avverrà? Non posso essere eterna. Per ciò vorrei che tu ti abituassi a decider da te, anche a costo di sbagliare qualche volta. S'impara sbagliando.
— Tu non sbagli mai.
— Sbaglierò apposta, per castigarti.
— Su: che ne dici, mamma? Che ne dici?
Pareva un bambino che chiedesse un giocattolo; e aveva venticinque anni!
Morta la madre, egli si consultò col vecchio amico di famiglia, il signor Bompiani, che abitava al primo piano della stessa casa, assieme con la moglie, più vecchia di lui, ma vivace e piena di spirito quanto lui: un'amabilissima coppia che gli voleva bene come a un figliuolo. Da anni, le domeniche, a vicenda, i Verdesi desinavano dai Bompiani e i Bompiani dai Verdesi, senza cerimonie, alla buona; e Romano aveva voluto che la gentile abitudine continuasse non ostante ch'egli fosse rimasto solo.
Ordinariamente i Bompiani restavano in casa la sera, e spesso Romano andava a passare qualche ora da loro, che ricevevano sempre un piccolo numero di amici della loro stessa età o poco meno, borghesi agiati, impiegati in riposo, già colleghi del signor Bompiani al Ministero delle Finanze. La conversazione non riusciva straordinariamente divertente quantunque intervenissero le mogli e le figliuole di tanto in tanto. Ma Romano non era intelligenza da poter annoiarvisi. E poi aveva, una sera sì, due sere no, o tutte le sere, un piccolo consiglio da chiedere. Voleva andare a letto con l'animo tranquillo intorno a qualcosa che doveva fare il giorno dopo.
In quei desinari delle domeniche, che continuavano la tradizione delle due famiglie, quando toccava ai due vecchi di salire al secondo piano, la signora Bompiani, vedendo la tavola apparecchiata, non tralasciava mai di esclamare:
— Mi pare, ogni volta, di dover trovare seduta al suo posto la mia povera amica!
— Potessi arrivare almeno — soggiungeva il marito — a vedervi la persona che, un giorno o l'altro l'avrà sostituita! Ma sembra che il caro Verdesi non abbia fretta.
E non di rado accadeva che tutta la conversazione si aggirasse intorno a quel che era stato il gran desiderio della buona signora Verdesi, e che Romano aveva deluso protestando fino all'ultimo:
— Qui devi regnare tu sola!
— Come volete che mi decida? Conosco così poca gente! E poi, deve parlare il cuore, sì o no? E il mio cuore è muto. Sembra che abbia paura.
Era la immancabile risposta di Romano alle insistenze dei Bompiani. Ma la vecchietta non si dava per vinta.
— Fai una vita, figliuolo mio! E non sei avaro da temer di sciupare i quattrini. Fortunatamente ne hai tanti, che potresti anche cavarti il gusto di sciuparne qualche po'. Noi non siamo ricchi, ma non ci lasciamo patire. Mio marito ha lavorato cinquant'anni, e ora ci godiamo insieme il riposo. Tu quanti ne hai? Trentacinque. È l'età giusta. E la solitudine non ti opprime? Alla tua età, questo qui che ora sembra un santo, era uno scavezzacollo.... Lo dicono tutti; è inutile negarlo.... Ma dopo — mi puoi credere, caro Romano — è stato un marito modello. Ormai, dovresti deciderti anche per far piacere alla tua mamma là, in Paradiso, dove si trova. Conosci poca gente? È colpa tua. In casa nostra certamente non potrai incontrare una moglie degna di te.
— Ne ho una io per le mani — disse allegramente, una sera, il signor Bompiani. — Ventitrè anni, bionda, bella, di famiglia civile, dote cinquantamila in contanti, depositate in una Banca.... Ecco qua.
E mostrò la pagina di annunzio di un giornale.
— Neppure l'imprevisto ti lusinga? — egli soggiunse.
L'imprevisto colse Romano in una festa di beneficenza. Si era deciso a un tratto, come accade a tutti coloro che non hanno mai saputo prendere una decisione qualunque, in nessuna circostanza della loro vita.
— Bella? — domandò la signora Bompiani.
— Bellissima.
— Bionda?
— Bruna, con capelli neri, ondulati. Venticinque anni.
— Dote? — fece il signor Bompiani.
— Non ho voluto saperlo.
— Ora, scusa, caro Romano, hai avuto troppa fretta.
— Per carità, non mi sconsigliate! Non saprei risolvermi mai più, mai più!... Ci siamo trovati vicini per caso, in mezzo alla folla. — Si diverte? — mi domandò lei. — Mi diverto poco dapertutto — risposi... io. — Scusi, noi ci parliamo senza essere presentati — soggiunse. — Possiamo, se lo crede necessario, presentarci a vicenda — feci io. — Serbiamo l'incognito intanto — replicò lei. — Ci sarà il caso di svelarlo dopo? — dissi. — Tutto può darsi a questo mondo — rispose lei.... Ci guardavamo, sorridendo, negli occhi. — È strano: mi sembra di esserci già conosciuti — ripigliò. — Forse. Stavo per dire la stessa cosa — continuai. — Sa? Sono fatalista. Credo che tutto quel che avviene nella vita sia disposto, preparato, senza che la nostra volontà c'entri per niente — fece lei, dopo un istante di esitazione.
— Brava! E come è andata a finire? — lo interruppe la signora Bompiani, incuriosita.
— C'è bisogno di domandarlo? — soggiunse il marito.
— È finita là, — disse Romano. — Ma so dove rintracciarla.
* * *
Era capitato bene. Elisa Bergani aveva volontà per due. In un batter d'occhi la sua decisione era presa, senza por tempo in mezzo per attuarla.
Nei primi mesi, Romano si sentiva come portato via da un turbine. Non aveva agio di esprimere un desiderio, di fare una proposta; pareva che sua moglie lo avesse sempre prevenuto. E così egli non godeva più neppure quel delizioso intervallo che passa ordinariamente tra il progetto ed il vederlo messo in atto, quei rapidi momenti di ansiosa incertezza che rendono più cara la realtà raggiunta, anche se con pochissimo stento.
— Con questo bel tempo....
— Se andassimo a passare la giornata in campagna? Stavo per dirti anche io: Con questo bel tempo.... La veste, il cappello.... Eccomi pronta. In carrozza!
Sul punto di andar a passare la serata da una amica:
— Come? Non ci siamo accorti che stasera c'è la beneficiata della prima donna, col Lohengrin.
— Ma è troppo tardi per trovare un palco....
— Si troverà!
E non si era mai dato il caso che non lo trovassero, in quella o in altre occasioni.
Romano era felice di avere in casa qualcuno che aveva volontà per due. Assisteva con un che di stupore a tutti i mutamenti che Elisa operava nelle disposizioni delle stanze, nel rinnovamento dei mobili, nelle trasformazioni della sua persona per via dei più bizzarri abbigliamenti in voga.
Ora, le domeniche, più non venivano su per desinare alla buona i due vecchietti Bompiani. Elisa aveva sempre qualche amica col marito, qualche conoscente, una zia, una nipote, un cugino invitati quasi alla insaputa di Romano, perchè egli n'era informato poche ore prima, quando non gli accadeva di vederli arrivare inattesamente e di trovarli a casa rientrando. Pei Bompiani ella gli aveva detto:
— Senti, Romano: io non posso patire i vecchi: mi mettono malinconia. Pare che mi stiano dinanzi per avvertirmi: — Un giorno sarai come noi! — Non è divertente..... Brave persone, lo so, questi tuoi amici.
— Così bravi che mi hanno detto loro stessi: — Vita nuova, figliuolo. Purchè tu sii felice!
Era felice di non dover più consultare nessuno. Non gli occorreva di pronunziare il solito: — Che ne dici? — Elisa aveva già pronto il consiglio, il suggerimento e se ne sbrigava in poche parole, senza ragionarlo. Pareva che gli leggesse la domanda negli occhi. E lui, sùbito: — Sta bene, farò così.
A poco a poco, però, questa supina remissione cominciò ad irritarla.
Avrebbe voluto che qualche volta quell'uomo avesse agito da uomo, facendo, anche capricciosamente, il contrario di quel che gli veniva consigliato. E per ciò ora, dato il suo parere, aggiungeva:
— Io farei così; ma non vuol dire. Potresti fare l'opposto, e ne avrei piacere. Non hai dunque una volontà?
— La tua.
— Lascia andare i complimenti!
— Perchè dici così?
— Perchè vorrei vederti ribellare qualche volta, vorrei vederti imporre la tua volontà anche a me.
Egli la guardava in viso, sorridendo stupidamente, quasi sua moglie scherzasse parlando a quel modo. E una volta glielo disse. Ella rispose, con lieve accento di indignazione:
— Mi conosci male, e conosci malissimo le donne. Apparentemente noi sembriamo avide di dominare; in realtà, siamo orgogliose di sentirci dominate dall'uomo, e direi anche oppresse dal suo dominio. Voi vi stupite apprendendo che certe donne amano i mariti che le sappiano bastonare. Quest'atto è per esse una gran prova di superiorità, brutale, ma per quelle povere anime unicamente maschile. Io non vorrei arrivare ad essere bastonata da te: oh, no! Se tu qualche volta, spesso, in certe circostanze, dicessi: — Non voglio! — credo che ti vorrei più bene.
Avea cominciato a parlare, strizzando un po' gli occhi, come soleva ogni volta che provava un senso di stizza, e aveva finito con raddolcire la voce, facendo una graziosa mossa della testa che voleva significare.
— Sì, sì, ti vorrei più bene!
— Non chiedermi l'impossibile! — disse Romano prendendole le due mani e baciandogliele delicatamente.
Fu come se, da quel giorno, si fosse interposto qualcosa tra loro due, che impedisse il contatto delle loro anime, dei loro cuori. Ella continuò ad esprimere la sua volontà; egli continuò ad accettarla a occhi chiusi; ella sentiva una sottile pena, che si rivelava con un atteggiamento di freddezza, d'indifferenza appena percettibile; egli credeva d'ingannarsi notando il lieve mutamento che avveniva in sua moglie.
* * *
Gli era parso di restar un'altra volta solo al mondo, con la morte dei vecchietti Bompiani. Si erano ammalati con la distanza di due giorni. Lei aveva fatto lo sforzo di restar in piedi, non ostante la febbre, per assistere il marito sorpreso da un terribile attacco di gotta. Poi aveva dovuto mettersi a letto, ed erano morti quasi alla stessa ora, una mattina, senza che l'uno sapesse dell'altra.
Per Romano era stato un gran colpo. In quelle ultime settimane, egli era andato da loro per confidare ad essi il suo sospetto.
— Vorrei ingannarmi....
— E certamente t'inganni — lo confortò il Bompiani.
— Tua moglie ha ragione! — disse la vecchietta, che conservava sempre il suo spirito arguto. Ella vuole che tu sii un uomo, una volontà.... È stato sempre il tuo difetto.
— Non posso mutarmi!
Romano era desolatissimo. Aveva la sensazione che Elisa si fosse allontanata da lui, e provava le prime acute punture della gelosia. Intravedeva la minaccia di un pericolo, non sapeva quale, non osava di supporre quale; e, una sera, ragionandone con quei due cari vecchi, si sentì salire le lacrime agli occhi.
— È il caso di fare un atto di risolutezza. Te ne sarà grata — disse la signora Bompiani.
— Forse, vedendoti così fiaccamente remissivo, tua moglie, che è energica, non si crede amata abbastanza — soggiunse il marito. — In queste circostanze bisogna agire sùbito, levar di mezzo i piccoli malintesi. Non può trattarsi di altro.
Ma prima che Romano si decidesse, era accaduta la disgrazia; e così gli era parso di essere rimasto solo al mondo come alla morte della sua povera mamma.
Una sera, Romano si era trovato a desinare con la moglie senza compagnia d'invitati, e pareva che stessero a disagio uno di faccia all'altra, scambiando qualche parola. Tutt'a un tratto egli fece un gesto vago con la mano destra, accompagnato da una specie di mugolio.
— Che hai? — domandò Elisa maravigliata.
— Ho.... che da un pezzo in qua.... non mi ami più!
— È vero. Mi fai soltanto pietà....
— A questo sei arrivata?
— Avrei potuto arrivare a peggio. E nessuno può dire: Non ci arriverò!
— Elisa!... Elisa!...
— Più che contro di me, dovresti sdegnarti contro te stesso. Ricordi? quella sera, la prima volta che il caso ci avvicinò, ti dissi: Io sono fatalista. Pur troppo da allora in poi, non ho avuto occasione di ricredermi. Avrei voluto ridurti un altro; tu non hai fatto nessuno sforzo per diventare un uomo nel vero senso di questa parola. Sei il Dubbio, sei l'Esitazione in persona, e ti vorrei la Risolutezza, fin la Violenza.... Dovremmo dividerci, di amore e di accordo, prima che avvenga qualcosa... Non abbiamo figliuoli, che ce lo impediscono! Sì, prima che avvenga qualcosa....
— Che può avvenire?
— Non so. Tutto può avvenire, anche quello che stimiamo impossibile. Io mi sento creatura fragile quanto le altre. Ho tentato tanto di stordirmi.... Tu dovresti aver paura del mio continuo sforzo di attività. Arriva un momento in cui anche i corpi più forti si esauriscono. E allora.... Oh! Queste tue lacrimette mi fanno rabbia!
Si rizzò dalla seggiola con impeto, e prima che Romano potesse fermarla era andata a rinchiudersi nella sua camera, accanto a quella di lui. Dormivano separati, secondo i consigli del libro d'Igiene del Matrimonio, ch'egli aveva comprato poche settimane prima delle nozze.
Romano rimase accasciato, immobile, con i gomiti su la tavola, la testa tra le mani, nel posto dove era seduto di faccia a quello di sua moglie.
Che significavano le parole di lei? Uno spauracchio? Una minaccia? Una confessione a mezzo?... Il sospetto che Elisa non avesse voluto mentire gli faceva correre acuti brividi da capo a piedi.
Come doveva comportarsi? Neppure la straordinarietà del caso lo induceva a prendere una decisione. La sua felicità, la sua pace, il suo onore erano in ballo.... Ma.... gli sembrava di eccedere, anche dando il significato di una minaccia alle parole di Elisa.... Ma.... non doveva illudersi, non fidarsi troppo.... Ma stare in guardia doveva, senza farne le viste.... Oh! Esser giunto a questo dopo due soli anni di matrimonio!... E poi? E poi? Se non potesse dubitare più? Se vedesse crollare a un tratto il bell'edificio della sua vita?... Non avrebbe saputo prendere una risoluzione, una decisione.... neppur dopo?
Aveva però la forza di simulare. Non c'era gesto, non c'era atto, non c'era pensiero, sì, pensiero, di Elisa che gli passasse inosservato. Ora, lei non gli diceva più:
— Vado dalla tale amica, esco per certe compere, mi attende la sarta, passo dalla modista.
Andava e veniva senza inquietarsi di lui, vedendo che lui non s'inquietava punto di lei. Talvolta uscivano a passeggio insieme, apparivano in un palco di teatro, si mostravano in un concerto, in una riunione e nessuno poteva immaginare che quei due sposi si fossero ridotti intimamente, quasi come estranei; e nessuno poteva sospettare che quei vividi occhi neri di lei, che guardavano attorno con lieve aria di smarrimento, ricercassero nel vuoto, davanti a sè, qualcosa che si attendevano di vedersi venire incontro, e non appariva da nessuna parte.
In certi momenti Romano dubitava di non esser abile di osservar bene, di scoprire quel che gli sembrava il mistero di lei; sentiva la convinzione, che l'infingimento di lei fosse tale da sviare qualunque ricerca.
Ah, se fossero stati in vita i fidati amici Bompiani! Avrebbe ricavato da loro prudenti consigli e conforti. Era inutile! Aveva bisogno dell'aiuto altrui. Qualunque più piccolo ostacolo diventava per lui difficoltà insormontabile.
Ricordava un signore maturo, calvo, serio, sentenzioso che appariva a intervalli in casa dei Bompiani, specialmente in certe circostanze di feste, di onomastici, e di compleanni. Lo chiamavano professore, ma Romano non aveva mai saputo di che. Uno degli intervenuti lo aveva detto: Professore di appetito, e non era parso malignità, vedendo come egli, in quelle occasioni facesse onore ai dolci, ai liquori d'ogni specie. Pel resto, cortese con dignità, uomo di esperienza, pareva.
Lo aveva incontrato ultimamente, ritto, col capo eretto come chi cercasse qualcuno: e al saluto di Romano gli si era accostato, rimpiangendo:
— Quei cari amici Bompiani!
— Ah! certe perdite sono irreparabili.
— Dite bene: irreparabili!
— Bompiani era il mio fidato consigliere in ogni circostanza della vita.
— Un consiglio si può dare facilmente; non così venti, cinquanta lire. Ho dato tanti buoni consigli da che sono invecchiato!
— Ne dia uno a me, caro professore.
— Dica, dica pure.
— Ha fatto colazione? No? Venga a prendere un boccone in mia compagnia nel vicino ristorante. Potremo parlare con comodo.
Romano aveva osato la inutile precauzione di avvertire il professore che egli lo consultava non per sè, ma per conto di un amico.
— Capisco, capisco! E poi?...
Il professore lo interrompeva di tratto in tratto, continuando a mangiare, chino verso il vassoio da cui ritirava dei supplementi alla sua porzione, intento a versarsi replicati bicchieri di vino.
— Capisco, capisco.... Ma....
Romano, che assaggiava appena le pietanze, non vedeva l'ora di arrivare al caffè per sentire finalmente il consiglio del suo commensale. Il quale intanto si sfogava con la frutta e col formaggio, e non ripeteva più: — Capisco, capisco! — quasi si fosse scordato dello scopo per cui era stato invitato a colazione. Prima di sorbire il caffè egli aveva acceso uno dei grossi avana, che il cameriere gli aveva deposti davanti in un piatto assieme con altri sigari, e si era rovesciato con la testa su la spalliera della seggiola assaporando beatamente il piacere del fumo.
— Dunque, caro professore? — fece Romano.
— Ecco, ecco... Veramente, dopo così lauta colazione.... lei mi ha tentato, e a tentazioni come questa ho la debolezza di non saper resistere; veramente, dopo così lauta colezione.... Lei, intanto, ha mangiato poco. Avrei dovuto imitarlo... voglio dire che la mente s'intorpidisce e non è nella miglior condizione di dare un consiglio.... Lei, cioè il suo amico.... Sono cose che possono capitare a tutti.... In confidenza sono capitate anche a me, anni fa, oh! anni fa! Ci si trova al bivio.... Sa? quelle strade di campagna in capo alle quali se ne incontra una che va di qua, a destra, e un'altra che va di là, a sinistra.... Per dove prendere? Così, in certi casi. Ne conviene?
— Sì, sì; prosegua — rispose Romano con un che d'impazienza nella voce.
— Lei, cioè il suo amico non sembra ancora certo della sua disgrazia. Io gli direi: Creda anche peggio di quel che teme; è regola che non sbaglia.... Dunque, io potrei consigliargli: Faccia come me, prenda quella donna per le spalle e la butti fuori di casa come un arnese inservibile.... O la lasci continuare.... Si stancherà. Finga di non essersi accorto di nulla.... Forse è il metodo migliore. Avrei dovuto adoperarlo io e me ne sarei trovato bene. Ma a certa età, abbiamo tante fisime per la testa!... Ah! una buona tazza di caffè e un sigaro eccellente, dopo una colazione come questa, sono godimento paradisiaco....
Tirò due, tre boccate di fumo, e riprese:
— Ci sono poi i metodi violenti; questi però è inutile di consigliarli; dipendono dal carattere, dal temperamento. Che temperamento ha..... quel suo amico?
— È uno che non ha mai saputo prendere nessuna decisione da sè.
— .... È certo, certissimo che...?
— Proprio certo, no.
In quel momento Romano si sentiva tremare il cuore pensando alla sua Elisa, e domandandosi internamente: A quest'ora che fa? È in casa? Dov'è? È vero che non mi ama più? Sentiva confusamente che il professore avea ritegno a parlare, ma non riusciva ad afferrare tutto il senso delle parole di lui.... Udì, all'ultimo:
— Se se ne mescola l'Inevitabile!... Ah, l'Inevitabile! L'Inevitabile!
Gli parve la sua condanna!
Arrivò l'Inevitabile? Egli non se n'accorse e, se mai, fu contento di non essersene accorto.
La sua vita ebbe, non una sosta, ma una fermata proprio al bivio. Avrebbe potuto inoltrarsi per là o per qua. E se lui prendeva per qua, mentre sua moglie andava per là?
E non seppe risolversi a far niente.
L'OSTACOLO. XI.
Si era ridotto ad abitare, come un eremita, in cima a quella collina, e da mesi non vedeva nessuno all'infuori del vecchio contadino che gli aveva ceduto la sua casetta terrena di due stanze, col tetto a travi e incannicciata, e le imposte delle finestre con due soli vetri.
Un tavolino, una grossa valigia, un mucchio di libri addossati al muro, tre seggiole impagliate, formavano l'arredamento della seconda stanza destinata a studio e a scrittoio.
S'indovinava dalle molte carte confusamente ammonticchiate in un lato del tavolino e dal calamaio di cristallo, da tre portapenne e dal tagliacarte giapponese che occupavano l'altro lato, con la pipa di terracotta e una borsetta di cuoio pel tabacco.
Nella prima stanza, dietro una tenda formata con un vecchio tappeto teso su una cordicella, era il lettino con alto pagliericcio e coperta di lana a colori vivaci. Di faccia, un treppiedi di ferro per la catinella, e, accanto, su breve tavola fissata al muro come mensola, una spazzola, due pettini, un paio di forbicine, un nettaunghie e una spugna.
Il vecchio contadino, antico fittaiolo della famiglia Cellini, lo aveva conosciuto ragazzetto, quando i Cellini erano in auge; e ne ricordava sempre con vivo piacere le visite allorchè, nel maggio e nel settembre, la famiglia dei suoi padroni veniva a villeggiare nella bella proprietà di Ripasseti, in mezzo alla pianura, laggiù, e il signorino si arrampicava quasi tutti i giorni proprio in cima alla collina, vi rimaneva fino a tardi, e spesso toccava al vecchio di accompagnarlo, perchè il buio della sera metteva paura al ragazzo.
Poi, per parecchi anni, non ne aveva saputo più niente. Ripasseti, con la villa, col vigneto, con i campi di seminati era stato spartito tra i creditori del signor Cellini, e lui fittaiolo, coi suoi risparmi, aveva acquistato la collina dov'era cresciuto e vissuto, e che, dopo tanti anni di fitto, gli pareva quasi casa sua.
Era rimasto solo. Sua moglie morta da un pezzo; il figlio, tentando di far fortuna in Germania, era perito in un disastro ferroviario; la figlia aveva preso marito ma abitava lontana con la famiglia di lui, e gli avea mandato un ragazzino di dieci anni, forse per fargli prendere anticipatamente possesso dell'eredità e fargli apprendere ad amare quei luoghi, che poi avrebbe dovuto coltivare.
E perciò, una mattina, il vecchio contadino parve uscito fuori di sè dalla gioia quando vide arrivare lassù quel giovane alto, magro, barbuto, e sentì dirgli:
— Non mi riconoscete? Sono Renzo Cellini.
Aveva esitato un istante, poi gli era saltato al collo abbracciandolo e baciandolo intanto che gli ripeteva:
— Scusi.... mi perdoni, padroncino mio! — come se Renzo Cellini fosse rimasto per lui il signorino di una volta.
Non osava di domandargli perchè mai fosse andato a trovarlo. Credeva che non avesse dovuto bastargli l'animo di affacciarsi da quelle parti dopo il disastro della sua famiglia, e temeva che ogni parola potesse aggiungere strazio allo strazio che il signorino doveva sentire alla vista di quei cari luoghi della sua fanciullezza, resi quasi irriconoscibili dai nuovi possessori.
— Son venuto a chiedervi ospitalità per qualche tempo — disse Cellini. — Ho bisogno di raccoglimento, di solitudine. Mi si son ridestate nel cuore le dolci sensazioni di una volta, quando venivo quassù a inebriarmi di aria, di luce, di colori, e stavo ore e ore immobile, sdraiato su l'erba, come un animalino, davanti allo spettacolo della pianura sottostante, dei monti lontani e di quella striscia di mare che brulica là, in fondo, e sembra una cintura di oro vivo nelle ore del tramonto....
— Si figuri! Si figuri! Tutto quel che comanda! — rispondeva il vecchio. — Ora sono solo: ho un nipotino con me; lo metterò al suo servizio. Dovrà però adattarsi. Posso lasciarle libera la casetta, così com'è.
— Farò i patti io.
— Ma che patti!... Per me.... è ancora il padrone!
Così, due giorni dopo, Renzo Cellini si trovava istallato lassù, tra cielo e terra, diceva esagerando un po' da quel gran fantasticatore, da quell'impenitente idealista quale la sua indole e gli avvenimenti della sua vita lo avevano ridotto.
Era entrato da poco nei sedici anni, quando una mattina suo padre, pallidissimo, visibilmente agitato, gli aveva detto:
— Ti ho fatto chiamare per comunicarti io stesso la nostra irrimediabile rovina, per farti coraggio ad affrontare con animo sereno l'avvenire. Dovremo, da domani in poi, lavorare per vivere. Io solo, non credo di poter bastare.
— Non so far niente — rispose il giovinetto, sbalordito.
— Hai studiato, hai molto ingegno; troveremo una via. Sii forte.
— Sarò forte; vedrai, babbo!
— Ricordati, in ogni circostanza, queste mie parole: Sii forte.
Renzo capì il vero significato di quel: Ricordati! dopo ch'egli vide il cadavere di suo padre, con la tempia forata da una palla e una gota solcata da un rivoletto di sangue.
Il signor Cellini non avea saputo adattarsi alla forzata rinunzia dell'agiatezza, di tante piccole sodisfazioni della vita, che gli erano divenute indispensabili; non aveva saputo resistere al triste spettacolo di veder soffrire le due persone più care al suo cuore, la moglie e il figliuolo, e con facilmente esplicabile contradizione, pur ripetendo in una breve lettera al figlio: Sii forte! gli aveva dato l'esempio di una gran debolezza.
* * *
Il giovanetto, però, crescendo era stato forte davvero.
E quella prima serata lassù, dove gli pareva di aver ritrovato intatte le serene sensazioni della sua fanciullezza, egli vedeva ripassarsi confusamente quasi davanti agli occhi tutti gli avvenimenti dei suoi ultimi dieci anni, durante i quali gli si era irresistibilmente sviluppata la passione della poesia non tanto come arte della parola, quanto come nobilissimo elemento della vita reale.
La serata era calma. Salivano da ogni parte lievi continui rumori simili al lento respiro di persona addormentata. Al fioco lume della luna nuova, la pianura, i monti lontani apparivano velati da una luce grigia, che ne attenuava le linee, i contorni; certe ondulazioni di terreni, invece, si accentuavano, le macchie estese degli alberi annerivano indistinte qua e là, e il biancore delle casette rustiche, il cinereo serpeggiare delle strade rurali segnavano punti quasi luminosi, strane linee appena tracciate, che qualche mano capricciosa forse avrebbe da un momento all'altro scancellati.
Di tratto in tratto, arrivavano gli stridori dei carri, che attraversavano lo stradale più vicino; arrivava acutissimo il fischio di un treno, che stava per sparire dentro la gola di un traforo; e poi, di nuovo, quel silenzio formato da mille piccoli rumori, che l'orecchio percepiva confusamente e che sembravano di essere tutt'una cosa con la tinta quasi uniforme del paesaggio.
Renzo Cellini si era abbandonato a quella ch'egli soleva chiamare la voluttà del silenzio; che gli sarebbe parsa, pensava, anche più dolce nello sfolgorare della luce del giorno, tra la maravigliosa varietà dei colori della campagna e l'azzurro del cielo.
Quell'anno, dopo la morte della madre, realizzata la piccola rendita di un censo dotale, unica cosa sfuggita, non si sapeva come, al gran disastro della famiglia, egli si era proposto di non disperdere, in fuggevoli saggi, la matura attività della sua immaginazione. Da qualche tempo in qua mulinava un lavoro serio, elevato, al quale avrebbe desiderato di consacrare tutta la sua forza creativa. Non avrebbe voluto, però, distrazioni di sorta alcuna; e, fino allora, dalle urgenze della vita, poche, sì, ma imperiose, non gli era stato consentito neppure qualche settimana d'isolamento.
Aveva bisogno di vivere interiormente, immerso nella più riposta intimità del suo spirito, quella creazione che doveva poi prendere l'alata forma del verso, non libero, come altri l'intendevano, ma liberato da ogni impaccio di pedantesca tradizione. Ne aveva una intuizione poco chiara, non dubitava, però, che nel punto dell'attuazione non avrebbe incontrato gravi difficoltà, e che certamente le avrebbe, senza molto stento, superate.
Un poema lirico? Una serie connessa di liriche? Non avrebbe saputo spiegarlo neppur lui. Tutto quel che aveva tentato finora e che aveva avuto l'orgoglio di lasciare inedito perchè non sodisfaceva pienamente la sua coscienza di artista, doveva fondersi, sparire, divenire il germe del definitivo lavoro; assumere una caratteristica personale e nello stesso tempo essere una rivelazione così intimamente umana da trovar un'eco in tutti i cuori, da sodisfare la gran sete d'ideale che affaticava la maggioranza degli spiriti viventi del suo tempo.
Egli soleva dire: — Vi sono spiriti dormenti, quasi morti, che niente riesce a scuotere, e che passano senza accorgersene da quella morte apparente alla morte definitiva; spiriti così immersi nella materia che sono peggiori dei dormenti, e non sapranno mai uscire dalla sfera animale; e spiriti viventi pei quali la realtà è semplicemente un'occasione, un pretesto ad elaborare l'ideale, cioè la realtà vera, in continuo movimento di creazione.
Quando egli, nell'intimità di una conversazione, manifestava queste sue idee, i pochi giovani amici che discutevano d'arte con lui gli rispondevano che con tali fantasticaggini non si rinnova la società.
— Il mondo — gli diceva Rubini — non sarà mai interamente popolato da quelli che tu chiami spiriti viventi. Di essi ce n'è appena uno tra dieci milioni di spiriti ordinari, e mi paiono anche troppi. E tu vorresti ficcare l'Ideale fin nell'Architettura!
— Da per tutto. L'Umanità deve arrivare a questo: di non vedere quel che è, e di vedere unicamente quel che apparentemente non è, cioè la sua creazione, il suo Ideale!
— Belle frasi, che si possono barattare, a quattr'occhi, tra amici intimi, i quali sanno qual valore attribuire ad esse e riderne anche, senza nessuna malignità. Ma parlarne seriamente....
— Io ne parlo seriamente.
Capiva di esagerare un po', ma era convinto che soltanto esagerando si poteva arrivare ad ottenere di raggiungere qualcosa.
Capiva per ciò che quella sua segregazione, quel gran bisogno di silenzio erano un po' eccessivi per intraprendere e compire il lavoro divenuto, specialmente da due anni, la sua Chimera. Come c'erano stati però grandi poeti che avevano chiesto al vino, all'alcool, all'oppio, alla morfina, l'eccitamento per l'ispirazione, lui, più modesto, meno esigente, aveva bisogno dell'isolamento completo e del gran silenzio per interrogare la sua immaginazione e il suo cuore, per ricercare e ritrovare, come si esprimeva, se stesso.
* * *
E si maravigliava che nei primi giorni, nelle prime sere, nelle prime notti, invece di provare quella specie di ebbrezza, di esaltazione venuta a cercare su la collina a lui cara sin dall'infanzia, si sentiva invadere da un senso di sgomento, quasi di smarrimento, e nessuna voce gli saliva dall'anima, per avvertirlo almeno che il gran fenomeno dell'ispirazione era vicino ad avverarsi.
Pensava:
— La Natura s'impone a noi violentemente. Ci si rivela di minuto in minuto sempre più varia, sempre più nuova; di giorno con lo sfolgorio della luce e dei colori, poi con la calma penombra della sera; poi con la grandiosa oscurità notturna vegliata da milioni di stelle; e noi dobbiamo fare uno sforzo per non lasciarci sopraffare, per opporre alle sensazioni le virtù della nostra intelligenza.
Infatti, quel lavoro che avrebbe dovuto venir fuori come un limpido zampillo, gli si agitava nella mente confuso, indistinto, e non riusciva a prender forma chiara, precisa neppure nelle sue linee principali.
— Ah! — esclamava. — C'è ancora troppo rumore dentro di me, troppo miserabile rumore della mia agitata esistenza di questi ultimi anni! Bisogna attendere; bisogna che il mio sangue, i miei nervi esauriscano quel che è stato trasfuso in essi da tante circostanze quasi brutali, delle quali, forse, non so rendermi piena ragione..... Bisogna attendere!
Aveva incaricato il suo amico Rubini di affacciarsi alla posta per lui.
— Non ho segreti da nascondere. Riceverò poche lettere; àprile, e se ce n'è qualcuna importante, urgente, fammi il piacere di mandarmela a questo indirizzo.
Il meno però che si attendeva era una lettera urgente. Non aveva lasciato un'amante, nè strozzini creditori. Ai pochi amici si era raccomandato: «Dispensatevi, vi prego, di scrivermi. Non voglio farmi vivo con nessuno finchè starò lassù».
— Ti annoierai, presto. Che vai a fare in quella specie di deserto?
— Voglio diventare.... un vegetale.
— Un vegetariano, vuoi dire.
— No, un vegetale; è qualcosa di meglio.
Ed era stata l'ultima parola di scherzo che gli era uscita di bocca.
Bisogna attendere! E aveva atteso, con fede, per parecchie settimane.
L'unico suo svago era d'intrattenersi qualche ora della sera col vecchio fittaiolo e col suo nipotino, seduto davanti a la porta insieme con essi, mentre arrivavano lassù gli ultimi suoni, gli ultimi rumori delle cose e degli esseri, uomini e animali, che si preparavano al riposo.
Una sera il vecchio gli disse:
— Sa, signorino? Il ragazzo mi ha domandato se lei ha, per caso, qualche bella fiaba da raccontargli.
— Certamente — rispose Renzo.
Quasi avesse ricevuto un colpo di sprone!
In quel momento però non ne ricordava nessuna di quelle udite e lette. Ma sentì venirsi su la punta della lingua il sacramentale «C'era una volta» ed ebbe un brivido udendolo pronunziare dalla sua voce come se venisse da un altro.
— C'era una volta.....
Già c'era un Re, c'era una Reginetta cieca e muta.....
Chi gliela narrava dentro, senza ch'egli facesse nessuno sforzo, quella strana avventura, che per poco non sembrava maravigliosa realtà anche a lui stesso? Provava di mano in mano un'eccitazione, un entusiasmo nel vagare per quel mondo fantastico, dove le leggi della vita ordinaria erano abolite o invertite; dove si amava, si godeva, si soffriva con rigida fatalità, e dove gli sembrava che tutto si andasse formando e acquistasse vigore, consistenza nello stesso momento in cui gli fluiva dalle labbra, con sgorgo soavissimo, e che il vecchio beveva, a bocca aperta, sorridente, forse perchè si sentiva ridiventato fanciullo. Ma il ragazzo e il vecchio non compresero perchè Renzo, all'ultimo, terminata la fiaba, si era rizzato da sedere, pronunziando vivamente:
— Grazie! Grazie!
Oh! Quasi avesse ricevuto un colpo di sprone.
Quella notte non andò a letto. L'alba lo trovò che ancora scriveva scriveva. Era stupito che il verso investisse il sentimento lirico e lo rivelasse, ora con alata forza, ora con armoniosa semplicità, ora con tale onda di originale dolcezza, quale egli non aveva mai sospettato si potesse raggiungere coi ritmi usuali.
Così per parecchi giorni, ristorandosi un po' dopo un frugalissimo pasto, nelle ore pomeridiane, con breve sonno; felice di non aver dubitato di sè, orgoglioso che la sua Chimera finalmente si fosse lasciata raggiungere e si concedesse come un'amante, che volesse compensare con la pienezza del passionale abbandono il troppo crudele capriccio del ritardo.
Lavorava febbrilmente da dieci giorni, senza rileggere nessuno dei lunghi fogli coperti della grossa scrittura, che pareva un po' deformata dal frettoloso movimento della mano, quando una mattina, mentre fumava seduto su un masso proprio in cima alla collina, vide montare per la viottola serpeggiante sui fianchi di essa, una persona a cavallo a un mulo, dietro cui camminava un contadino, che lo stimolava con una verga nella ripida salita.
— Rubini! — egli esclamò, riconoscendolo.
— Che mai è accaduto?
E gli mosse incontro.
— Ah, caro mio! — disse Rubini, saltando giù da cavallo — certe notizie non si affidano alla glaciale indifferenza di un foglietto da lettera. Bisogna saper comunicarle con riguardose cautele; la gioia uccide più facilmente del dolore.
Renzo lo guardava, incerto se Rubini scherzasse o parlasse seriamente.
— Qui è delizioso! — riprese Rubini. E son contento di poter annunziarti davanti a tanta magnificenza di luce e di colori, davanti a quest'immenso spettacolo di campi, di monti e un po' anche di mare; me ne accorgo in questo punto.....
— Senti — lo interruppe Cellini; — se tu credi di eccitare così la mia curiosità, t'inganni!
— Come sono ingrati gli uomini! — fece Rubini. — Ebbene; allora ti dirò a bruciapelo: sei diventato ricco, ricco di quasi mezzo milione! Ecco qui....
E gli porse una lettera, tirandola fuori dalla busta aperta.
Rubini era andato via maravigliato della fredda accoglienza del suo amico a quella inattesa notizia. Se non fosse stato convinto della sincerità di Renzo, avrebbe immaginato un gesto di posa per darsi l'aria di uomo superiore alle circostanze della fortuna.
Non poteva affatto supporre l'incredibile turbamento da cui Renzo Cellini si era sentito sconvolgere all'idea di poter essere costretto ad interrompere quel lavoro che gli vibrava dentro, ed era quasi il ritmo di una nuova sua giovinezza.
E per due giorni parve di scordare il profondo cambiamento che apportava nella sua vita quell'eredità di quasi mezzo milione lasciatagli da un ignorato parente materno, ch'egli non conosceva, vissuto sempre in un paesetto dell'Abruzzo, sperduto tra i monti e tra i boschi.
Aveva ripreso sùbito a lavorare, con nuova lena, con ansia, continuando a riempire fogli dietro fogli, senza mai rileggere, dopo un'interruzione, quel che aveva scritto; perchè anche durante il breve sonno e i brevissimi riposi, non cessava nel suo cervello il fecondo lavorio dell'immaginazione, con un lieve stato di quasi inconsapevolezza, che era, invece, latente operosità, la quale poi si trasformava in una specie di improvvisazione.
Dopo due giorni però.... come se qualcuno, di tratto in tratto gli arrestasse la mano; come se la Chimera, che prima gli volitava attorno, si dileguasse improvvisamente, inaridì quella ricchezza di sentimento, quegli splendori di immaginazione che formavano, da settimane, la intensa gioia di lui!
* * *
L'eredità! L'eredità!
Non avrebbe voluto occuparsene prima che non avesse scritto l'ultimo verso, l'ultima parola di quel poema lirico appena arrivato a metà; ed ecco che il pensiero di essa veniva a distrarlo, a insinuargli preoccupazioni delle quali non si era mai creduto capace.
La lettera del notaio non specificava niente. Si trattava di contante, di rendita dello Stato, di crediti, di terreni? Faceva male a non informarsene. Forse era necessario, era urgente andare a sbrigar tutto di persona in pochi giorni, e tornarsene poi tranquillamente lassù a rivivere con la sua bella Chimera.
E, non sentendosi disposto a continuare, prese in mano le ultime cartelle e lesse, dapprima scorrendole con gli occhi, poi pronunziando sottovoce, poi declamando a voce spiegata. Gli parve che qualche maligno genio gliene alterasse la forma, il significato; e riprese a rileggere quello che era il decimo canto, la decima lirica, dove il concetto del lavoro cominciava a spiegarsi, ad elevarsi, ad assumere un'intonazione profetica.... Non ne fu pienamente sodisfatto.
Lavorò, a sbalzi, un'altra nottata perchè il silenzio di quelle ore gli sembrava più propizio all'ispirazione; ma quando l'aurora inondò lo studio con la sua rosea luce, lo trovò occupato a raccogliere, a sistemare le molte pagine ammucchiate su una seggiola e sul tavolino, a piegarle e ad avvolgerle accuratamente con l'evidente intenzione di non dover riprenderle presto.
Pure, attese un altro giorno. Forse si era lasciato illudere da una spiegabilissima stanchezza fisica; forse non aveva ben calcolate le forze della sua resistenza intellettuale.... No! No!.... Probabilmente era destino che la sua vita prendesse un nuovo indirizzo, suo malgrado. Poteva anche darsi ch'egli dovesse attuare l'Ideale, da lui tanto fantasticato, non nell'Arte, nella Poesia, ma in quella realtà tanto sdegnata e disprezzata quando egli era quasi povero, e doveva chiedere al lavoro giornaliero, nei quotidiani e nelle riviste, il meschino mantenimento per la sua santa Mamma e per sè.
Non sapeva rassegnarsi. E nel prendere commiato dal vecchio fittaiolo, che aveva le lacrime agli occhi e ripeteva: — Non lo rivedrò più! Non lo rivedrò più! — per rassicurarlo, egli osò di fissare a un mese, a un mese e mezzo, al più tardi, il suo ritorno colà.
* * *
Immerso negli affari, costretto a frequenti viaggi, dopo due anni era ancora ossessionato, quantunque diversamente, dalla sua giovanile Chimera di sovrapporre l'Ideale alla Realtà; ma non trovava modo di attuare neppur dalla lontana quel vaporoso sogno che gli sembrava, forse, eccelsa cosa appunto perchè vaporoso.
Poi finì col cedere, con assaporare i frutti della ricchezza allo stesso modo di tanti altri, che non avevano mai chimerizzato come lui.
Talvolta, in certi momenti di nauseante sazietà, pensava, quasi come ad avvenimento fantastico, a quei giorni trascorsi su la collina di Ripasseti, nella casa terrena del vecchio fittaiolo, e a quel rotolo di manoscritto che, da allora in poi, non aveva più ripreso in mano e quasi non gli pareva più cosa sua.
Ma un giorno che aveva dovuto rimanere in casa per una lieve indisposizione, si ricordò di esso, lo ricercò, lo svolse e cominciò a leggere.
Gli sembrava di sentire una voce d'oltretomba!
Tutto quell'impeto lirico gli arrivava al cuore come un'amara irrisione. Ed era stato gran parte dell'Anima sua e del suo Spirito!
Un'idea gli attraversò il cervello. Si fermò a riflettere e si decise. Gli parve l'ultimo commosso omaggio alla parte più buona di sè stesso.
Chi lo avesse visto, quella notte di aprile, scendere cautamente nel giardino dietro la sua palazzina, con qualcosa sottobraccio; chi avesse assistito al suo lavoro di escavazione del terreno, a piè d'un grand'albero di arancio, non avrebbe mai immaginato che la urnetta di bronzo, deposta nella piccola fossa profondamente scavata, contenesse il manoscritto della sua Chimera, come aveva voluto intitolarlo prima di farvelo saldare dentro col malinconico motto:
Vivit sub pectore vulnus!
IL MISTERO DI DON CICCIO. XII.
La storia di don Ciccio Curti l'ho sentita raccontare da parecchi e sempre in un modo diverso dall'altro. Ognuno di essi mi ha detto:
— Oh, caro don Felice, come posso saperla io!... Quasi dalla stessa bocca di don Ciccio; si figuri!
Ma, allora, vuol dire che la bocca di lui si divertiva a raccontare oggi una cosa, domani un'altra. Va' a trovare qual è la verità vera tra tante! Vi sono dei punti sui quali tutti vanno d'accordo. Questo per esempio:
— Don Ciccio Curti era un galantuomo nel vero senso di questa parola.
Benissimo! Ciò però non ha impedito che commettesse una cattiva azione sposando per forza la bella figliuola dei Mandrà....
Per forza? Il mistero sta appunto qui.
Giusto ieri il dottor Colla, a cui avevo rivolto alcune domande, mi rispondeva:
— Che ve ne importa, caro don Felice?
— E la scienza? E la storia?
— Parole grosse, caro don Felice!
— Per chi non capisce — scusate — che un caso raro, rarissimo può dar la soluzione di parecchi problemi psicologici dietro cui gli scienziati si affaticano invano; per chi non capisce che la storia non è formata soltanto dai grandi avvenimenti, ma anche da tanti piccoli casi individuali....
— Parole grosse! Parole grosse!
Quel dottor Colla sarà — non ne dubito — un valentissimo chirurgo; ma levato dal bisturi, dal forcipe, dai tagli, dalle punture, da tutte queste utilissime però manualissime cose, è — sia detto tra noi, — una bestia.
E mettiamo che io agisca per pura curiosità! Non voglio calunniare nè denigrare nessuno, molto meno don Ciccio Curti, buona memoria.
Arrivar ad assodar se ha sposato per forza o no, può riuscire cosa onorifica per lui o, almeno, una scusa.
Come? Il Cavalier Daeli ignora chi è don Ciccio Curti? È la prima volta che lo sente nominare? Mi pare incredibile.... Tanto meglio. Voi, Cavaliere, che non avete preconcetti di sorta alcuna, siete in caso di giudicare spassionatamente.
Mi credete capace di dire bugie? D'inventare per comodo della mia tesi, — sì, tesi giacchè quel che vi dirò vi contraddice, smentisce, annulla tante sciocche dicerie di certa gente — d'inventare un fatto di sana pianta per mio uso e consumo?
A che scopo? domando io, a che scopo?
Con voi, dunque, occorre che mi rifaccia da capo. Accendete il vostro sigaro, sdraiatevi sulla poltrona, così, comodamente, e abbiate la pazienza di ascoltarmi.
Io lo riconosco, ho il difetto di parlar molto, senza rifiatare e senza far rifiatare, me lo hanno rimproverato.... Mah! Non obbligo nessuno a starmi a sentire. Mi stuzzicano, mi punzecchiano, mi provocano. Voi ridete, perchè siete una persona educata, non siete cavaliere di nascita per nulla, vi vedo già disposto a starmi ad ascoltare benevolmente. Ecco, vengo sùbito a don Ciccio Curti.
Non dico: un bell'uomo, ma quasi. Figlio di contadini che lo avevano mandato a scuola dal «Domine» Speranza — allora si diceva così — avrebbe potuto prendere una professione; e si era arrestato a mezza via. Speziale, no! Agrimensore, no! Santo sacerdote servo di Dio, lo avrebbe voluto sua madre! Lui intanto non aveva fretta; aspettava la vocazione.... Quella di fannullone l'aveva già, come gli diceva suo padre. Le lavate però di capo del buon uomo a quel figlio unico non approdavano a niente. Gli parve, per ciò, di aver toccato il cielo con un dito quando lo seppe allogato come scritturale presso il Notaio «Brà-brà», così chiamato perchè aveva il vezzo di fare continuamente «brà-brà» con le labbra, scrivendo o stando a sentire.
Il padre morì senza accorgersi di una specie di malattia di suo figlio. Durante la giornata era buono, tranquillo; ma, di mano in mano che s'inoltrava la sera, il giovane don Ciccio diveniva irrequieto, smanioso, intrattabile.
— Che hai?
— Niente!
— Va' a fare due passi. Trova qualche amico.
— Do fastidio, forse?
— Non posso vederti aggirare per le stanze come una mosca senza capo.
— Me ne vado a letto; sarà meglio.
E a sua madre che andava a trovarlo in camera e tornava a domandargli con insistenza se si sentisse male, rispondeva soltanto:
— Fammi il piacere di chiudere a chiave l'uscio; così dormirò senza disturbi.
— Quali disturbi?
— Non so quel che dico, mezzo stordito dal sonno.... A doppia mandata, mamma!
La povera donna girava la chiave a doppia mandata nella toppa e spesso rimaneva a lungo a origliare. Lo sentiva voltarsi e rivoltarsi sul lettino coi trespoli, sospirare forte e anche borbottare. Fantasticava che il figlio fosse perseguitato da qualche «Spirdu» maligno e non volesse dirgliene niente per non metterle paura.
Poi, passata una certa ora, non si sentiva nessun rumore, nessun sospiro, nessun borbottamento; e la mattina dopo non si vedeva traccia di sofferenza e d'insonnia nel viso del giovane, che aveva ripreso la sua tranquillità, il suo umore allegro. A tavola imitava perfettamente il suo principale nell'atteggiamento indolente, nei brevi gesti, nel «brà-brà» ripetuto con sempre varie intonazioni. Ma, appena s'inoltrava la sera, ridiveniva irrequieto, smanioso, intrattabile. Pareva che soffrisse di non poter fare qualcosa che gli avrebbe dato gran piacere se gli fosse stato permesso di farla.
Chi glielo impediva?
E ogni sera si ripeteva, quasi parola per parola, lo stesso dialogo....
— Ma, insomma, che hai?
— Niente.
— Ti annoi, lo vedo; va a fare due passi; va a trovare qualche amico.
— Preferisco di andarmene a letto.
E alla madre, sopraggiunta col pretesto di dargli la buona notte, e che insisteva: — Ti senti male? — ripeteva:
— Fammi il piacere di chiudere l'uscio a chiave, a doppia mandata.
Tutte queste minuzie, caro cavalier Daeli, posso garantirvele con giuramento. Paiono sciocchezzole e sono importantissime per la personalità di don Ciccio Curti. Potrete dirmi: — Anche il lettino coi trespoli? — Sissignore, anche quello, perchè non vi figuriate che la camera del giovane don Ciccio fosse mobigliata come la vostra di oggi, nè come la mia; e non vi lasciate ingannare neppure dal «don» troppo facilmente acquistato. Don Ciccio Curti rimase sempre un contadino.... ripulito. Ripulito esteriormente. Infatti, appena perdette i genitori, diè in affitto il podere paterno, smise di far lo scritturale presso il Notaio «Brà-brà», e cominciò quella sua vita vegetativa, di fannullone, di bighellone che parecchi amici gli rimproveravano.
— È meglio che io non faccia niente, invece di far del male... — rispondeva.
Il farmacista Milazzo si rammenta ancora di queste strane parole. Infatti lo rimbeccò:
— Perchè dovreste far del male?
— Perchè.... non saprei far altro. Dovrei tagliarmi le mani. Non le adopro; è quasi lo stesso.
E il farmacista Milazzo mi ha, più volte, raccontato che pronunziando queste parole don Ciccio diventava pallido, gli tremava la voce.
Supponendo che, innamorato non corrisposto, covasse nel cuore qualche vendetta, il farmacista lo ammoniva affettuosamente:
— Non vi perdete dietro alle donne, caro don Ciccio. Se dovete fare una sciocchezza — suol dirsi così, ma è cosa santa e giusta — prendete moglie!
— Le donne? Sciù! Per me sono come le mosche, le caccio via.... Sciù! In quanto alla moglie, se fosse cosa santa e giusta, l'avreste già presa da un pezzo....
Il farmacista l'avrebbe presa volentieri. Aveva però addosso gli orfani di suo fratello avvocato, tre ragazze e due maschi....
Ma questo non c'entra.
L'importante è il sapere che, a trent'anni, don Ciccio Curti riteneva le donne simili alle mosche e che le cacciava via: Sciù! Sciù!
Eppure, come contadino ripulito, era quasi un bel giovane. Avrebbe trovato parecchie donne pronte a sposarlo. Dava occhiate di qua, occhiate di là; non era fatto di legno! Appena però si accorgeva che quelle occhiate potevano esser prese sul serio, smetteva.
Per un uomo di trent'anni, questo gran riserbo faceva specie.
Fece maggiormente specie quando si seppe che ogni sera una vecchierella, sua vicina di casa, era incaricata di chiudergli la porta a doppia mandata e di aprirgliela all'alba.
Durava da un bel pezzo senza che ne fosse trapelato niente; ma una mattina, aspetta aspetta....
Don Ciccio si affaccia alla finestra. Vede che la porta della casetta terrena della sua «carceriera» è ancora chiusa e si rassegna ad attendere fino a mezzogiorno.
Viene un parente della vecchia. Picchia, ripicchia. Nessuno risponde.... Per farla breve, nella nottata la vecchierella era morta di sincope.... E don Ciccio fu costretto a dire:
— Badate: a un chiodo dev'esserci appesa la chiave della mia porta.... Fatemi il favore....
Chi rideva, chi fantasticava tante cose. Si faceva chiudere la porta di casa a doppia mandata.... perchè? Nessuno riusciva a indovinarlo. E se qualcuno glielo domandava, don Ciccio rispondeva con una spallucciata. Giacchè morta la vecchia, egli aveva trovato sùbito un'altra «carceriera», attenta, paziente, ma non discreta quanto la prima; la serrata della porta, in poche settimane, era diventata un piccolo spettacolo pel vicinato. Don Ciccio, volendo evitare il pettegolezzo, aveva dovuto incaricare di quel confidenziale ufficio un uomo, il sagrestano di una chiesetta della via traversa. Ogni sera, egli andava a suonare le due ore di notte, e, al ritorno, passando davanti alla casa di don Ciccio — a quell'ora la via era deserta — dava una doppia mandata alla chiave della porta, poi la mattina all'alba, ripassando per andar a suonare la prima Messa, apriva lasciando nella toppa la chiave, che don Ciccio si affrettava a levar via.
Capite bene, caro cavaliere, che la curiosità degli sfaccendati era diventata vivissima. Si seppe anche del sagrestano; e allora don Ciccio non ebbe più pace.
— Perchè? Avete paura che vi scappino le pulci?
— La casa mia è pulita e pulci non ce ne sono.
— O dunque?
— Badate ai fatti vostri!...
E a qualcuno non diceva: «ai fatti vostri», ma una brutta parola.
I curiosi sono così: quando si accorgono che ogni loro insistenza non approda a niente, si stancano, cercano un nuovo pascolo alla loro stupida avidità. Per ciò, dopo qualche mese, nessuno si occupò più della serale chiusura a chiave della porta di don Ciccio. Se egli avesse avuto moglie, il fatto si sarebbe potuto interpetrare per atto di gelosia. Quando si è gelosi, non si ragiona. Ma don Ciccio era solo.
Una vicina andava a fargli le faccende di casa, gli preparava il desinare, il letto. Alla cena, molto semplice, pensava lui. E, durante la giornata, egli bighellonava, si sedeva davanti a una merceria, a una bottega di barbiere, si divertiva a veder giocare al bigliardo, o a tresette nel mezzanino di Campoccia.
Se non che, da qualche tempo, non era più dell'umore allegro di una volta. Pareva che un pensiero triste, molto triste, lo affliggesse e lo facesse smaniare. Che gli mancava? Tutto gli andava bene! Nel suo podere, per caso, era stata scoperta una polla d'acqua che ne aumentava il valore. Un lontano parente gli aveva lasciato in eredità parecchie migliaia di lire, depositate presso una Banca. E la gente diceva che appunto tutte queste buone fortune lo facevano stare di malumore perchè don Ciccio era.... un egoista. Povero uomo!
Invece, si seppe da lì a poco ch'egli, improvvisamente, si era deciso a prender moglie.
Allora tutti s'interessarono del bel caso.
— È dunque vero? Bravo, don Ciccio....
— La vedova Sincona, don Ciccio? Un po' matura, ma donna di casa.... Bravo!
— La nipote di mastro Stefano il crivellatore? Troppo giovane, don Ciccio. Badiamo!
Quasi avesse dovuto sposare, venti, trenta donne!
Ma i mesi passavano, e lui non sposava nessuna delle tante che gli venivano appioppate come future mogli.
Poi.... Qui comincia il mistero.
Mistero! L'ho detto anch'io, al pari di tanti altri. In questo momento però mi vien da riflettere che non c'è niente di misterioso nella condotta di don Ciccio. E se mi son lasciato scappar di bocca ch'egli ha commesso una cattiva azione sposando la bella figlia dei Mandrà, voglio riconoscere, caro cavaliere, davanti a voi, che ho avuto torto. Le cattive azioni consistono nell'intenzione. Uno sbaglio, — ne convenite? — non potrà mai esser detto cattiva azione. Sbagli ne può commettere l'uomo più onesto del mondo, senza cessare per ciò di essere onesto.
E rifletto: — Sbaglio? Perchè? — Bisogna vedere in che senso la prendeva lui da principio. Se, dopo, le circostanze si sono mutate che colpa ne ha un galantuomo?
Pare che le cose siano andate così:
Don Ciccio aveva visto Fina, la bella figlia dei Mandrà il giorno della festa della Madonna degli Angeli, durante la processione. Come se non avesse mai visto una donna!
Otto giorni dopo, si presentava al padre della ragazza.
— Quattro e quattro fa otto, chiedo la mano di vostra figlia.
— Otto e otto fa sedici, non ho mano di figlia da darvi!
— Sedici e sedici fa trentadue, me la prenderò a vostro marcio dispetto....
E mantenne la parola.
Fu una violenza; ma in certi momenti mi si affaccia alla mente il sospetto che la ragazza si sia lasciata rapire volentieri.
Gli graffiò la faccia? Gli strappò una ciocca di capelli? Certamente, vedendosi afferrata all'improvviso, quantunque già sapesse della richiesta e della risposta del padre, non poteva accarezzarlo, attaccarglisi a un braccio.
Stupore generale! Nessuno si sarebbe atteso un atto di simile arditezza da don Ciccio Curti.
Fin qui, però, gli avvenimenti non hanno nulla di straordinario.
Massaio Mandrà strillò, minacciò il finimondo, non voleva affatto dare il suo consenso. Ma quando don Ciccio, per bocca del Notaio Brà-brà, che ci si era messo di mezzo, mandò a dirgli che rinunziava alla dote, benchè la cosa potesse sembrare una canzonatura, perchè la ragazza era figlia unica, si rabbonì, pur continuando a nicchiare.
Don Ciccio si era comportato da galantuomo, quantunque contadino. Dopo la prima sera del rapimento, avea condotto la ragazza in casa del farmacista Milazzo, raccomandandola alla sua buona signora.
Avvenuto il matrimonio.... appena scorsa una settimana, ricevendo una visita della madre, le si era buttata tra le braccia piangendo:
— Ah! Mamma!... Mamma!
La mamma le aveva fatto un'interrogazione così brutale, che donna Fina aveva arrossito sino alla radice dei capelli.
— No! No, mamma! — protestava. — È pazzo.... non so!... Mi fa paura!
— Pazzo? Perchè?
— Mi dice: Va' a letto, vengo sùbito. E si mette ad andare su e giù per le tre stanze e la cucina. Gesticola, borbotta, non sembra lui; sposta seggiole, sposta oggetti, pesta i piedi. L'ho guardato dall'uscio della camera.... Mi fa paura!... Mamma!
— E poi?
— Poi, questa notte, sentendogli scendere cautamente le scale, ho aperto a fessura la finestra.... Andava via, come brancolando nel buio.... lo vedevo appena.... svoltò cauto.... E di lì a poco tornò, in fretta.... Portava qualcosa in una mano.... Io mi rimisi a letto.... Lo vidi entrare calmo. — Come? Non ti sei addormentata? — mi disse. — Io non ho potuto chiuder occhio, ma lui ha fatto tutto un sonno fino a stamattina....
Non vi stupite, caro cavaliere.... Vi annoio? No? Grazie.... Non vi stupite che io abbia potuto sapere questi intimi particolari; li ho saputi dopo parecchi anni, in gran confidenza, stavo per dire sotto sigillo di confessione. Perchè i Mandrà sospettano tuttavia che don Ciccio Curti fosse un lupomannaro, e che fosse costretto dal suo male ad andare attorno quando faceva la luna, urlando, con la schiuma alla bocca.... Sciocchezza! Perchè, egli andava fuori di casa ogni notte, assai prima della mezzanotte, e non urlava, non mandava schiuma dalla bocca.... Nè stava fuori più di un quarto d'ora, di mezz'ora al massimo, e tornava a casa tranquillo e dormiva tutt'un sonno fino alla mattina.... Ma i Mandrà sono contadini ignoranti.
Non vi riferisco, caro cavaliere, le minchionerie degli altri. Secondo parecchi, don Ciccio andava attorno con le Nonne. Faceva serrare a doppia mandata la porta di casa sua.... ma usciva e rientrava pel buco della serratura. E c'era chi giurava di averlo visto coi suoi propri occhi; e chi giurava di aver tentato di seguirlo, e tutt'a un tratto gli era sparito davanti. Minchionerie senza capo nè coda.
Figuratevi, caro cavaliere.... Vi annoio? No? Grazie; sto per finire.... Figuratevi quel che si fantasticò e si disse quando si seppe che donna Fina era scappata dalla casa del marito, rifugiandosi presso i genitori! I Mandrà non diedero a nessuno la sodisfazione di rispondere: È stato questo e questo! Don Ciccio poi pretendeva di far credere che sua moglie era andata dai suoi parenti per ragioni di salute.... Poteva dire la vera ragione? Chi gli avrebbe creduto, se non gli credeva neppure la moglie?
Vi confesso, cavaliere, che non oso di crederci nemmeno io! Eppure è la spiegazione più verosimile.
Una notte sua moglie, atterrita di quell'agitazione, di quella smania, avea voluto impedirgli di andar fuori; voleva, a ogni costo, sapere perchè.... Voleva, soprattutto, sapere che significavano quei sassi che, ogni notte, egli riportava a casa, uno alla volta.... Ho dimenticato di dirvi ch'egli, ogni notte, tornava a casa con un grosso sasso in mano, e lo buttava in un canto del bugigattolo a pianterreno.... Quella cinquantina di sassi ammonticchiati là, la povera donna Fina li credeva cosa di magia, poichè suo marito sfuggiva di darle una spiegazione.
— Che te n'importa? — le rispondeva. — Mi servono per la fabbrica. — E rideva. — Non fanno ingombro.
Una notte, dunque, donna Fina avea voluto impedirgli di andar fuori.
Dice — l'ho saputo dalla stessa bocca di lei, dopo la morte del povero don Ciccio — dice che egli, diventato più irrequieto, più smanioso, supplicava: — Lasciami andare; torno sùbito! — quasi con le lacrime agli occhi. Poi le si buttò ai piedi, singhiozzando.
— Perdonami! Perdonami!... Sono un gran ladro, d'istinto! Arrivata una cert'ora, di notte, dovrei andar a rubare, e soffro e smanio, perchè la mia volontà dice di no, e.... un'altra volontà vorrebbe costringermi a commettere anche un delitto, pur di rubare!... Non mi riconosco io stesso in quei momenti. Ma ho vinto sempre io, sempre! Notte per notte, da anni!... Prima, per non uscire di casa, facevo chiudere a chiave la porta.... Ora non resisto più! Non potrei prender sonno se non rubassi.... qualcosa. Ed esco a rubare.... un sasso dal mucchio preparato per una fabbrica, laggiù!... Uno ogni notte!... E mi accheto, e posso dormire.... Ecco!... Non mi credi? — Era possibile? — concluse donna Fina. — E non gli ho creduto! E non ho più voluto stare con lui. Avevo paura! Lui dormiva, dopo di esser tornato a casa con uno di quei maledettissimi sassi; io non dormivo più.... Non ho saputo resistere.... Come a un confessore, don Felice!
— Ma questa del rubare è anche una vera malattia — le dissi.
— E se gli veniva quella di ammazzare la gente? Io avevo paura.... Soffrivo più di lui....
Come levarle dal capo che si trattava di pazzia e di magia? E lei e i suoi, intanto, non ne parlavano con nessuno per.... non disonorare la famiglia!
Io ora penso che don Ciccio Curti — se quel che egli disse alla moglie era vero — è stato più che un martire, un eroe! Ha dimostrato col suo esempio che non è difficile vincere anche un forte cattivo istinto, di quelli che la madre natura ha spesso il barbaro capriccio di regalarci fin dalla nascita.
E penso pure: Perchè non dev'esser vero? Perchè?
Ragiono bene, cavaliere? Eh! Cavaliere, che ne dite?
FINE.
Opere di LUIGI CAPUANA (Edizioni SANDRON ).
Delitto ideale. — Novelle.
Cardello. — Romanzo.
State a sentire! — Novelle.
Gli «americani» di Rabbato. — Romanzo.
Nostra gente. — Novelle.
Dalla terra natale. — Novelle.
Ribrezzo e fascino. — Novelle.
L'omino di mamma. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
L'avventura di Liana. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Un piccolo «Fregoli». — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Guerra! Guerra! — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Sarta per bambole. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Il «diario» di Cesare. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Prime armi. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Buono.... per inganno. — Racconto. — (Collezione «Il Rosaio»).
Di prossima pubblicazione:
La fiaba lunga, lunga....