Cronache Letterarie

CATANIA

CAV. NICCOLÒ GIANNOTTA, Editore Via Lincoln, 271-273-275 e via Manzoni, 77. Stabile proprio. — 1899.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Catania — Tipografia di Lorenzo Rizzo.

INDICE

Nuovi ideali d'arte e di critica, conferenzaFelice Cavallotti, drammaturgo e poetaAlfonso DaudetGoetheGiovanni MeliGabriele d'AnnunzioEmilio ZolaUna jettaturaLa ChimeraE. Rod — E. LescaVittorio PicaEnrico IbsenDi un'opinione di E. ZacconiAscensioni umaneTullo MassaraniE. De Amicis e P. MartiniLa nevrosi artisticaDomando la parolaPer un romanzoDialoghi d'EstetaEdoardo Boutet e le sue cronache drammaticheLa Società per gli studi francesi in Italia

NUOVI IDEALI D'ARTE E DI CRITICA

(Conferenza detta il giorno 11 maggio 1899 nella sala del Teatro Nuovo di Pisa, a beneficio degli Asili Infantili.)

Signore e Signori.

Ogni volta che sento ragionare o sragionare di arte — e a me accade spesso, bene o male, essa è il mio mestiere — mi torna in mente una mirabile pagina di Francesco De Sanctis a proposito della Divina Commedia. Con arguta genialità, egli dimostra come Dante, volendo fare un'allegoria etico-religiosa, sia stato costretto dalla sua natura di poeta a ribellarsi contro il concetto astratto, a dargli forma viva e solida, a farne una creazione immortale. La favola lo scalda, lo soverchia — egli dice — e vi si lascia indietro come innamorato, nè sa creare a metà, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dall'ispirazione, non gli è possibile starsi col secondo senso dinanzi (il senso etico-religioso) e formar figure mozze che si rispondono appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce ai mediocri. La realtà straripa, oltrepassa l'allegoria, diviene sè stessa; il figurato scompare in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione dei commentatori: egli fece il suo mondo, e lo abbandonò alle dispute degli uomini.

Fare il suo mondo e abbandonarlo alle dispute degli uomini, ecco quel che mi sembra debba essere l'ideale di ogni artista. In altri termini, questo vuol dire che l'essenza dell'Arte è la forma, nel più alto significato di questa parola, e che tutto il resto è sostrato, materia inorganica, di cui essa deve servirsi pel suo scopo creativo, e nient'altro. Per ciò io mi sento invadere da un profondo senso di tristezza e di scoramento ogni volta che nelle discussioni odierne intorno al concetto dell'Arte odo ragionare di ideali nuovi, che poi sono astrattezze estetiche o filosofiche, e mettere in seconda anzi in ultima linea la quistione della forma.

Capisco benissimo che in un secolo quale il nostro, tutto pervaso di positivismo e di riflessione, in un secolo che cerca ansiosamente nuove vie nelle industrie, nelle scienze, nella costituzione sociale, il problema dell'Arte s'imponga alla meditazione di coloro che studiano i fenomeni dello spirito umano e vogliono rendersene ragione. Mi stupisce però il vedere la confusione che avviene in questo studio pieno di tanto interesse, lo scambio che suol farsi di quel che costituisce la intima ed essenziale natura dell'Arte con altri elementi, indispensabili certamente, ma secondari, se non si vuole ridurla qualcosa d'irriconoscibile, di mostruoso, di ambiguo, Arte insomma e nello stesso tempo non Arte.

È strano intanto che oggi questo non accada soltanto tra coloro che sono critici, scienziati, pensatori; sarebbe spiegabilissimo. Accade pure — e per ciò genera maggiore imbarazzo — tra coloro che hanno chiesto o chiedono all'Arte le più elevate soddisfazioni e cercano di farla vivere e prosperare rinnovandola, mettendola, dicono, a paro con le altre funzioni dello Spirito, con la Scienza o con la Religione, quasi l'Arte abbia qualcosa da spartire con queste due grandi forze della vita civile.

Si dimentica con facilità che nell'Arte il pensiero opera, sì — e non potrebbe accadere altrimenti — ma soltanto con una delle sue forme, l'immaginazione. Che se egli dovesse operare da riflessione, vi verrebbe a fare cosa fuori luogo, perchè Arte e concetto astratto sono incompatibili tra loro. Chi ha voluto così è la Natura, la Legge suprema dello Spirito, e noi non possiamo arbitrariamente mutarlo. Tentandolo, commettiamo un sacrilegio o una sciocchezza, come meglio piace. Ed è quel che mi sono proposto di accennare, ingegnandomi di abusare il meno possibile della loro cortese indulgenza.

* * *

Che cosa è l'Arte?

Se lo è domandato, per quindici anni, Leone Tolstoi, e alla fine il grandissimo artista ha conchiuso la sua lunga inchiesta con la condanna di quasi tutte le opere d'arte antiche e moderne, cominciando, come Bruto, dall'ammazzare i suoi figli.

Terminata la lettura del suo ultimo libro, che ha per titolo quella domanda, si rimane perplessi. Chi ha ragione? Lui o la storia? Lui o l'umanità che non si sazia di ammirare le opere d'arte antiche e moderne, e di chiederne ancora altre ai poeti, ai romanzieri, ai pittori, ai musicisti?

Il suo libro, in certi punti, è di una logica così stringente che, se per poco gli si mena buona una delle premesse, bisogna accettarne, per non cascare in contraddizione, le conseguenze.

Fortunatamente, l'arbitrarietà di alcune premesse può sfuggire a pochissimi lettori; e non ostante il rispetto che si ha per l'autore dei due o tre capolavori che onoreranno, con pochi altri, presso i posteri l'arte narrativa del morente secolo, si finisce con vincere la perplessità d'un istante e sentire compassione del potente ingegno di artista immiserito dal misticismo da cui è stato vinto in questi ultimi anni. Compassione ed ammirazione in una; giacchè si capisce quanta fortezza ed elevatezza di animo ci sia voluta per avere il coraggio di condannare quel che ha cinto d'un nimbo di gloria il proprio nome, la parte migliore del proprio pensiero divenuta creazione vivente.

Si è parlato a questo proposito di Alessandro Manzoni; ma il paragone non regge. Alessandro Manzoni rinnegava, tutt'al più, un genere di opera d'arte, il romanzo storico e anche, logicamente, tutte le opere d'arte dove i fatti immaginarii s'innestano sur un fatto reale: il dramma, la tragedia. L'artista ripudiava un genere d'arte in nome d'un principio d'arte. Forse, nel momento che s'induceva a scrivere la severa e giusta sentenza, egli ripensava il processo di creazione con cui erano venuti fuori nei Promessi Sposi i diversi personaggi: Don Abbondio, Perpetua, padre Cristoforo, don Ferrante da un lato: l'Innominato, la Signora di Monza e il Cardinale Borromeo dall'altro; gli uni tutti di un pezzo, organici, figli soltanto della sua immaginazione; gli altri messi insieme con elementi imposti dalla cronaca e dalla storia.

Forse ripensava la spontaneità con la quale i primi gli erano balzati davanti agli occhi, con fisonomia, gesti e linguaggio proprii, simili agli individui incontrati nella vita reale: e allo sforzo, allo stento che gli erano costati gli altri, pei quali aveva dovuto interpretare, indovinare molte cose, traendole da dati, da accenni che egli non poteva troppo mutare secondo gl'intenti della sua opera d'arte. Anche a lui don Abbondio è dovuto sembrare più vivo, più reale del cardinale Borromeo del quale intanto egli poteva vedere il ritratto. Insomma il Manzoni, parlando da critico, non cessava di essere artista; il critico anzi mostrava, in modo più notevole, la sua coscienza di artista.

L'unico punto di contatto tra il Tolstoi e il Manzoni può trovarsi nel frammento pubblicato dal Bonghi, nella famosa opinione intorno all'amore nell'opera d'arte: ma questa opinione è ragionata in modo da far capire che l'autore dei Promessi Sposi pensava, più che ad altro, alla eccessiva sensibilità o sensualità italiana che non ha bisogno di stimoli ma di freni, e che può quindi essere facilmente indotta al peccato dalla vivace rappresentazione dell'amore. Anche generalizzandola, si vede bene che il Manzoni la dava quale timida sua opinione particolare e di pochi che la pensavano come lui; infatti con essa non osa biasimare o condannare l'Arte che ha preso, sin dal suo apparire nel mondo, a soggetto delle sue creazioni la passione amorosa. S'intravede che, se il moralista non esita nell'esprimere il suo convincimento, l'artista ne sente la enormità e non si spinge fino a cavarne fuori tutte le conseguenze. Ossequiente alla sua idea, egli ha tolto via dai Promessi Sposi le scene di amore che nell'atto quasi inconsapevole della creazione gli erano venute fuori e che egli aveva accarezzate (lo confessa) anche meglio delle altre; ma l'aver lasciato inedita quella dichiarazione fa sospettare che in lui l'artista non dava completamente ragione al moralista cattolico. Questi, in un certo momento, ha sopraffatto l'artista; l'artista però gli ha tenuto il broncio pel sacrifizio a cui era stato costretto; e vedremmo che l'artista aveva ragione, se l'autografo dei Promessi Sposi contenesse le scene passionali tolte via e queste venissero pubblicate.

Nè si dica che il Manzoni è meno esplicito, meno ardito del Tolstoi nel manifestare le proprie convinzioni; la condanna del Romanzo storico è là per smentirci, senza contare la Morale Cattolica ed altri suoi franchi recisi giudizi intorno a diversi soggetti. Quella dichiarazione sembra unicamente fatta per tranquillare i rimorsi della sua coscienza di artista, quasi Renzo e Lucia, ridotti due larve incolore, da amanti appassionati che erano nella prima redazione del romanzo, non cessassero dal rimproverarlo della crudele operazione fatta su loro.

Infine, col Manzoni si tratta della soppressione, di un sentimento nelle creazioni dell'arte della parola, non delle soppressioni delle varie manifestazioni dell'Arte con la parola, col disegno e il colore, e col suono, se esse non sono asservite direttamente a uno scopo di moralità religiosa o di insegnamento civile.

Qui, tra il Manzoni e il Tolstoi, non c'è più nessuna relazione, nessuna lontana concordanza.

L'idea dell'elevato scopo dell'arte radunerebbe invece attorno al Tolstoi una folla di scrittori che egli scomunica e maledice. Qual artista ha mai sostenuto che l'Arte non debba servire a nulla, o servire a corrompere piuttosto che a purificare il cuore e la mente? Gli stessi esagerati partigiani della teorica Bellezza si fondano su l'influenza, vera o supposta, della bellezza nella educazione del cuore e dello spirito; e per loro essa è scopo supremo in quanto la semplice bellezza della forma vien reputata capace di destare negli animi bellezza di sentimenti, cioè produrre effetti di raffinamento spirituale.

L'Arte, o Signori, non è una cosa convenzionale; ha avuto ed ha la sua funzione nella storia della umanità: prima, certamente, una funzione più grande, perchè era e Arte e Religione e Scienza nello stesso punto: poi — quando la Religione e la Scienza si scissero dal primordiale organismo per svilupparsi a parte, con organismi più vasti e più propri alla loro natura — una funzione meno complessa ma più determinata; forse meno importante, perchè prodotto, principalmente di facoltà inferiori — immaginazione e sentimento — ma non superflua o inutile; e molto meno dannosa, come giudica il Tolstoi.

Si direbbe che, per lui, l'Arte non ha storia.

Egli mette l'arte antica allo stesso livello della moderna nella funzione sociale. Secondo lui, un poeta dovrebbe essere anche oggi sacerdote, profeta. Che questa innocua illusione possa averla qualche odierno poeta, passi. I poeti non sono obbligati ad essere storici, critici di arte come colui che vuole occuparsi d'un problema di storia e di critica d'arte. Un artista che intenda di sciogliere quel problema, deve, innanzi tutto, sapere che egli entra in una funzione molto diversa da quella da lui praticata facendo unicamente il romanziere o il poeta, il pittore o il musicista. Leone Tolstoi, mente superiore, lo ha capito ed ha voluto per ciò mettersi in condizione di esercitare con pienezza di mezzi la sua funzione di critico. Se non che, egli si è accostato al problema con un'anticipata soluzione in tasca. Ha detto: Stiamo a sentire quel che hanno ragionato intorno alla mia domanda — Che cosa è l'arte? — e critici e filosofi e scienziati e uomini del mestiere. Sono convinto che hanno scritto un ammasso di contraddizioni e di sciocchezze. Si trovano tutti fuori di carreggiata, non hanno la divina idea direttrice del sentimento religioso che guarantisce la verità del mio concetto. Pure, stiamo a sentire.

E ci presenta la sfilata delle definizioni dell'arte dal Baumgarten, fondatore dell'estetica, al Guyan, al Kralik, a Julius Mithalter; una vera babele, secondo lui. Egli non si accorge che tutte quelle definizioni sono vere e false perchè guardano l'arte da uno speciale punto di vista e ne mettono in rilievo un lato solo, per via del sistema da cui scaturiscono. « Dopo un secolo e mezzo di discussioni — egli esclama — intorno al significato della parola bellezza, esso rimane tuttavia un enimma. » Che importa? Di tante forze della Natura noi non conosciamo l'essenza, e questo non impedisce di servircene e di applicarle ai nostri bisogni.

È appunto l'uso dell'arte, quale vien fatto nella società moderna, quel che più irrita il Tolstoi. Egli non vorrebbe riprendere la tradizione di Socrate, di Platone, di Aristotile, dei filosofi buddisti e proscrivere l'Arte dal vivere civile, come pensano oggi i maomettani e i pii contadini russi. Dice anzi che costoro fanno male ripudiando qualunque genere d'arte, perchè così si privano del più importante fattore di quell'unione senza la quale l'umanità non potrebbe vivere. Semplicemente egli vorrebbe ridurre l'Arte a un mezzo di propaganda religiosa, un che di simile a quei raccontini illustrati che i protestanti fanno distribuire per le vie per ottenere la conversione dei peccatori. Com'è al presente, l'arte, non che essere un aiuto al progresso, n'è anzi il più grande ostacolo, egli conchiude. « Tutti gli sforzi — sono sue parole — degli uomini che vogliono fare il bene devono tendere alla soppressione dell'arte moderna, che è il più terribile male dell'umanità. Domandate a un vero cristiano se sia meglio perdere, assieme col po' di buono che c'è, tutto il falso dell'arte moderna, ed egli non potrà esitare di rispondere, come Platone, come i Padri della Chiesa, come i maomettani: Meglio non avere nessuna specie di arte, che continuare a soffrire l'influenza deleteria di quella che ora abbiamo. »

E questo che ora abbiamo non bisogna intenderlo ristrettamente per la odierna produzione artistica, ma pure pei criterii che formano la nostra guida nell'ammirazione dell'arte di tutti i secoli. Quest'ammirazione, secondo lui è cosa tutta convenzionale. I tragici greci, Dante, Raffaello, Bach vengono stimati grandi perchè così fu detto da principio. Quali invenzioni più grossolane di quelle dei tragici e dei comici greci, di Aristofane soprattutti? E Shakespeare, e Milton e Michelangelo, col suo assurdo Giudizio Universale, sono forse qualcosa di meglio? Da questa stolta ammirazione nasce il contagio artistico che produce l'enorme folla degli imitatori.

Non si può tener dietro al vertiginoso movimento di questa discussione che si smarrisce spesso in discussioni incidentali, che dà importanza uguale ai piccoli e ai grandi fatti, e che subordina tutto al concetto religioso e morale, non tenendo conto del fatto che la vita spirituale dell'umanità è molto complessa, nè riconoscendo che la vera umanità è quella nella quale tutte le forze intellettuali hanno raggiunto il massimo grado di svolgimento.

Per ciò egli ha potuto scrivere che l'Arte, per essere stimata buona « dovrà soddisfare i bisogni di tutte le masse popolari che vivono in condizioni naturali, e non le fantasie dei privilegiati chiusi in un ambiente fittizio. E per ciò egli intravede nel futuro la generalizzazione della facoltà artistica, perchè l'arte, sdegnando le complicazioni tecniche attuali che richiedono lungo studio e gran perdita di tempo, allora non chiederà altro agli artisti all'infuori della limpidezza, della semplicità della concisione » quasi la limpidezza, la semplicità, la concisione non fossero le più alte e più difficili qualità della tecnica artistica!

Dopo tutto questo, in che modo meravigliarsi nell'udirgli proporre come unici modelli dell'arte narrativa moderna Les Misérables e le Pauvres Gens di Victor Hugo, i romanzi del Dickens, la Capanna dello zio Tom della Beecher-Stowe, e l' Adamo Bede di Giorgio Eliot? Come meravigliarsi vedendolo indignare della pretesa che pel giudizio di un'opera d'arte occorre qualche preparazione, se non proprio un'iniziazione? Allora si capisce come la leggenda o storia di Giuseppe ebreo rimanga per lui il modello di tutti i capolavori artistici. « La gelosia dei suoi fratelli, la vendita di lui ai mercanti, il tentativo di seduzioni da parte della moglie di Putifar, l'assunzione del giovinetto a un'alta carica governativa, la sua pietà pei fratelli, etc. sono fatti — egli dice — che provocano uguali sentimenti nel contadino russo, nel cinese, nell'africano, nei ragazzi e nei vecchi, nell'uomo istruito e nell'ignorante; e tutto il racconto è scritto con tanto riserbo, con tanta assenza di particolari, che si può trasportare la sua azione in qualunque ambiente, senza che essa perda per questo di essere comprensibile e commovente. »

È inutile discutere. L'eccesso salta agli occhi; e dicendo eccesso voglio essere moderato. Ma pure in quella farraggine quante osservazioni argute, profonde; quante sincere premesse dalle quali è poi sviata la conseguenza!

Fortunatamente per lui, e più per noi suoi contemporanei e pei nostri posteri, la fama di Leone Tolstoi non è soltanto affidata ai suoi libri di propaganda religiosa e sociale nè a questo che cosa è l'arte? derivazione da essi o variazione sul tema. Non ostante il ripudio dell'autore, La Guerra e la Pace, Anna Karenin, e La Sonata per Kreutzer rimarranno nel patrimonio dell'arte mondiale, e faranno dimenticare che nella vecchiezza l'illustre autore preferì di essere un santo al continuare ad essere un meravigliosissimo artista.

* * *

Ho voluto dilungarmi intorno a questa strana opinione del Tolstoi anche perchè essa dimostra come non valga essere artisti — e fin grandi artisti — per ragionare con giusti criterii intorno all'Arte.

Altre persone poi, e non meno autorevoli, profondono consigli e ammonimenti a quanti oggi si occupano a scrivere romanzi, novelle, liriche, drammi; e i loro discorsi ci rivelano quali dovrebbero essere, secondo essi, i nuovi ideali d'arte, i nuovi ideali di critica che debbono guidare la produzione letteraria futura.

— Voi scrittori — essi dicono — avete un gran torto: vivete tra le nuvole, vi turate volontariamente gli orecchi per non udire, chiudete gli occhi per non vedere. Vi siete formati nell'immaginazione un mondo a parte, che ha poco o punto riscontro coi bisogni della società che ci circonda, e vi deliziate in esso quasi esso fosse la vera realtà, e la realtà, invece, ne dèsse un fantasma falso e disformato. La gran corrente d'idee e di sentimenti che pervade il mondo attuale e lo agita e lo tormenta e lo travolge non ha presa su voi. Dite di possedere non sappiamo quale ideale di bellezza e volete attuarlo; bellezza di concezione, bellezza di forma (con lo speciosissimo pretesto che l'arte vostra consista soltanto in quella creazione, in quella forma) e non vi curate di altro. E poi avete il coraggio di lagnarvi che i lettori vi abbandonino, che non v'intendano più!

Perchè dovrebbero seguirvi? Voi fingete d'ignorare, o ignorate davvero, quel che ora avviene nelle menti e nei cuori, quel che sobbolle in alto e in basso. La politica vi mette orrore; le quistioni sociali vi sembrano indizii di brutali appetiti avidi di saziarsi nel modo più spicciativo possibile. I tentativi, le conquiste della scienza vi lasciano indifferenti; le stesse speculazioni del pensiero filosofico, ora condotte con metodo meno arbitrario di una volta, non hanno potenza di attrarvi. Ve ne state chiusi dentro un'immensa solitudine, in compagnia dei vostri fantasmi di bellezza o pretesi fantasmi di bellezza (dovete permetterci di dire così perchè non è provato che non vi inganniate intorno al valore di essi) e guardate la gente con aria di compassione e di disprezzo. Ah, è proprio questo il momento di non occuparci d'altro che della bellezza!

Se volete che l'arte vostra sia qualcosa di vitale, che eserciti una funzione efficace nell'organismo della società moderna, scendete dalle nuvole, sturatevi gli orecchi, aprite gli occhi; siate apostoli, profeti o poeti, come vi piace, giacchè è tutt'uno; ma ogni vostra pagina sia un'eco dei nostri dolori, delle nostre aspirazioni, delle nostre lotte, delle nostre vittorie. Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi! Le libertà politiche non sono cosa vacua; le quistioni sociali non significano discussioni tecniche; la scienza, che non è mai stata un giuoco, oggi non è tale più che mai; la riflessione filosofica che rimescola i più alti problemi dello spirito non rappresenta soltanto l'orgoglio e l'impotenza della mente umana.

Noi non troviamo nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori di arte, e per ciò buttiamo via il volume appena scorgiamo di che si tratta; non lo apriamo neppure ormai, certi come siamo di non trovarvi niente che possa interessarci. Ah, sì! Le nostre passioni, le eterne passioni, sotto le mutabili influenze della razza, delle circostanze passeggere, degli usi, dei costumi, della moda anche; grazie tante! Come non vi accorgete che, con lievi apparenti modificazioni, ci ricantate sempre la stessa storia? Sono secoli e secoli che voi artisti ci parlate di amore, di gelosie, di tradimenti coniugali e cose simili! Ne siamo stanchi, ne siamo sazii. L'amore? Abbiamo già Giulietta e Romeo; non ci avete più saputo dare niente di meglio. La gelosia? Abbiamo Otello e non vi siete ancora stancati di ricopiarlo. L'adulterio? Ma non vi sembra che bastino, per non parlare degli antichi, Madame Marneffe e Madame Bovary?

Tutta questa folla di creature appassionate, irrequiete, degenerate, come oggi è moda di dire, che voi vi affannate di gettare in pascolo della nostra fame spirituale, ci lascia, se abbiamo il coraggio d'ingollarla, più affamati di prima. Mutate registro! Ruit hora!

Non sono persone volgari coloro che parlano così. Sono anzi persone colte, serie, e credono di discorrere seriamente, ragionevolmente. Infatti, se uno di loro stèsse a sentire qualcuno che dicesse, per esempio, a un sarto: — Eh, mio Dio, non sai far altro che vestiti! Ma pensa che l'uomo non ha bisogno soltanto di essi; ha bisogno di mangiare, di albergarsi in una casa, di scaldarsi, l'inverno, di rinfrescarsi l'estate; ha bisogno di mezzi per coltivare i campi, di macchine per condurre le sue industrie, di strade, di carrozze, di teatri, di tante e tante urgentissime cose per tirare avanti la vita in società. Per te l'importante consiste soltanto nel taglio degli abiti, nella foggia, nella eleganza e nel lusso dello guarnizioni... In che mondo tu vivi? — se uno di costoro stèsse a sentire qualcuno che parlasse così, si stupirebbe, ne riderebbe, lo giudicherebbe un po' leso nelle facoltà della mente. Ora, tali brave e intelligenti persone non si comportano diversamente di fronte all'artista, e intanto s'immaginano di ragionare a fil di logica.

— Eh, mio Dio! Voi artisti non sapete fare altro che opere d'arte, cioè opere di creazione e di bellezza! Ma siate politici, sociologi, scienziati, filosofi! E non a modo vostro, pelle pelle, per pretesto di mettere un po' di sale e di pepe nella solita sciapa minestra; ma realmente, profondamente, in modo che quel che ora è la lustra, il pretesto, diventi scopo principale. Siate uomini, non fanciulloni. Il regno dell'immaginazione è finito da un pezzo. Sostanza ci vuole oggi, non apparenza: e la forma e la bellezza sono soltanto apparenze. Le fiabe bisogna lasciarle ai bambini, in ogni caso; le nonne e le balie bastano per l'ufficio di raccontarle al loro minuscolo uditorio e farlo star cheto. Non siamo arrivati al XXº secolo per nulla!

Oh, perfettamente! Ma parlate chiaro, si potrebbe rispondere. Dite che l'Arte non è più di questo tempo, che è diventata una superfetazione, e forse potremmo ragionare, discutere. Abbiate la sincerità del Tolstoi, maleditela quest'arte che vi sembra una vanità, se non volete arrivare fino alla esagerazione del neo-mistico russo e chiamarla a dirittura una calamità. Gli artisti, i veramente degni di questo nome, non lavorano per l'oggi, per la moda passeggera. Ecco perchè si affaticano a cogliere le caratteristiche più intime e più durature dell'uomo; non vogliono fare opera effimera.

La politica? Ma quale? Quella di ieri non somiglia a quella di ieri l'altro; quella di domani non sarà quella di oggi. Volete dunque che l'artista introduca nella sua opera d'arte un elemento così mutabile che ne abbasserebbe il valore in poco volgere di anni e forse di mesi? Il romanziere, il drammaturgo italiano, per esempio, pensa alla sorte dei romanzi del Guerrazzi e delle tragedie del Niccolini, e si guarda bene dall'imitarli.

La sociologia? Ma tutto è ipotesi provvisoria in essa, se non volete dire fantasticheria sentimentale. Come? Questa scienza, o pretesa scienza, non riesce a risolvere degnamente i problemi che si pone davanti, e voi pretendete che se ne impossessi l'artista, e ne accetti e ne propaghi coi suoi mezzi le conchiusioni campate in aria? Per questo scopo, c'è la Repubblica di Platone, o la Città del sole del Campanella, o i recenti volumi del Bellamy e di qualch'altro. Sorbiteveli. Non vi sembrano sufficienti?

La scienza? Ma essa nega oggi quel che ha affermato con gran sussieguo ieri! Nessuno peggio di lei, dà il doloroso spettacolo di credersi infallibile, di ostinarsi, per anni ed anni, in una cantonata presa, in un errore, per giungere poi a disdirsi e a ricominciare daccapo. C'è stato un artista, o quasi, che si è baloccato a mettere un po' di scienza in romanzo; viaggiate nella luna col Verne, passeggiate con lui ventimila leghe sotto il mare, e lasciate in pace tutti gli altri!

La filosofia?... La religione?...

Ma come non vi accorgete che l'Arte dev'essere tutt'altra cosa? Come non capite che i veri artisti si disinteressano soltanto in apparenza di tutte le grandi quistioni che affannano l'umanità, perchè loro dovere è unicamente mettere al mondo creature ideali, le quali poi non sono per questo meno reali di quelle che sogliamo chiamare più specialmente così; e che ognuna di tali creature è un'idea, un sentimento fatti carne, ossa, sangue, non una vanità che par persona; e idea fondamentale, sentimento perenne?

Voialtri, però, non volete andare oltre quella carne, quel sangue, quelle ossa; badate soltanto all'esteriore. E se voi avete perduto il giusto senso dell'Arte, che colpa ne hanno gli artisti? Essi debbono fare opera d'immaginazione e di forma, e voi chiedete, all'incontro, opera di riflessione, di puro pensiero; o, per lo meno, qualcosa che stia nel mezzo, dove la forma non celi interamente il pensiero astratto, il concetto. Voi chiedete l'assurdo; per ciò gli artisti vi lasciano dire e continuano a produrre quel che debbono produrre.

Non pretendiamo affermare con questo che nella loro produzione siano adempiute tutte le condizioni che costituiscono una pura opera d'arte. Deficienze, stonature vi sono pur troppo e sarebbe miracolo quasi incredibile se non ci fossero. Nella produzione artistica avviene, come nella produzione naturale, un eccesso, quasi essa sia una serie di prove e riprove, di tentativi e anche di aborti, per raggiungere finalmente una altezza, una compiutezza che non è mai la perfezione assoluta, l'ideale, ma qualcosa di approssimativo all'ideale. Accettiamo come una necessità inevitabile questa ricchezza, questa prodigalità generativa e, se così volete, questo sperpero inutile di forze. Di cento romanzi, di cento novelle, di cento drammi, uno o due soltanto supereranno la prova della sopravvivenza; è stato sempre così; sarà sempre così. Ruit hora! Sì, per noi misere apparizioni di un momento; ma per una letteratura, per una nazione, per l'umanità quelle due parole latine non hanno senso. Lasciamo che le cose vadano pel loro verso: che l'Arte sia arte e la Scienza scienza.

Quando verrà il momento, se dovrà venire (nessuno di noi può prevederlo con certezza) se l'Arte dovrà cedere il posto alla Scienza o trasformarsi e divenire qualcosa di essenzialmente diverso di quel che ora è, la trasformazione avverrà per forza fatale di circostanze; ma non potremo chiamarla più Arte, come non potremo mai chiamare nero il bianco, nè il bianco nero, se prima non ci metteremo di accordo che nero vorrà dire bianco e viceversa. Avremo mutato il vocabolo, non la cosa; e non mette conto di rifare per così piccolo scopo il dizionario.

Pur ora dobbiamo riconoscere che creare forme di bellezza artistica non è poco. La Grecia antica è immortale per aver fatto questo soltanto. Le sue battaglie, le sue conquiste, i suoi sistemi filosofici, le sue scienze embrionali hanno ormai un valore molto relativo nel presente. Le divine opere di Omero, di Eschilo, di Sofocle, di Aristofane sono qualcosa di così importante che, se fossero andate perdute, ci mancherebbe la miglior parte di noi e il danno sarebbe irreparabile.

Così parlando, non vogliamo fare presuntuosi o stolti confronti, nè metter fuori vanitose pretese; l'artista di oggi è quel che dev'essere; ed appunto perchè è qualcosa di diverso ha ragione di esistere.

Sventuratamente una delle più evidenti caratteristiche di oggi è la confusione delle idee. Forse, da questo caos verrà fuori il nuovo mondo futuro; ma neppure questo nuovo mondo potrà fare che una cosa sia e non sia nello stesso tempo; e possiamo quindi anticipatamente proclamare che anche nel più lontano avvenire l'Arte sarà semplicemente Arte o non sarà più. Da questo dilemma non si esce.

* * *

Quale potrà essere l'Arte e in un non lontano avvenire, me lo prediceva seriamente, mesi fa, un mio amico a cui la serietà degli studi filosofici, scientifici e anche teologici non ha ammortito la vivacissima fantasia.

Io ho trascritto per mio gusto, la sua improvvisazione di quel giorno, quando egli, dopo aver divagato per più di un'ora intorno all'Arte cosmica, preistorica, finì con fare un salto straordinario fino all'Arte avvenire. E se avessi potuto riassumerla con tutto l'abbagliante splendore della sua parola, spanderei un sorriso di luce su la grigia intonazione della mia conferenza.

Siccome il pensiero umano e le sue forme e le sue facoltà esistevano sin dall'inizio, sin dall'eternità, sin da quando lo Spirito di Dio s'immerse nella materia imponderabile o etere che vogliamo chiamarlo, così domanderà quale ha potuto essere allora la sua attività funzionale come arte.

— Non possiamo figurarcela, altrimenti che paragonandola a un'attività di sogno, anzi a una attività, per un certo lato, minore di quella del sogno e dall'altro lato infinitamente maggiore perchè organica e creativa.

Che altro possono essere stati se non una specie di sogno dello Spirito, quel fermento di atomi, quell'aggregarsi, quel distinguersi, quel combinarsi, e le consecutive formazioni sempre più addensantesi, sempre più moltiplicantisi, fino al prodursi delle nebulose, fino al condensarsi di essa in Soli immensi, fino al disgregarsi di questi Soli in sistemi solari, fino alle formazioni particolari di ogni singolo mondo di quei sistemi nei quali, forse, anzi senza forse, nessuna delle combinazioni chimiche aveva qualche analogia con quelle conosciute oggi; nessuna delle forme qualche lontana rassomiglianza con le forme di oggi; sistemi solari, mondi, creature viventi morte e sparite migliaia e migliaia di secoli prima che qualche indizio apparisse dell'infinito universo attuale, che l'occhio nostro scorge nelle notti stellate e che i nostri telescopii intravedono di mano in mano che la loro potenza visiva si accresce.

L'opera d'arte allora, in quei lontanissimi secoli di secoli, era la stessa creazione; e noi possiamo chiamarla tale perchè era forma, forma materiale, incosciente, forma aggregativa, forma combinativa, chimica, vegetale e anche vivente, quantunque chimica, vegetale, e vivente in modo assolutamente diverso da quanto noi indichiamo oggi con questi aggettivi.

E così dobbiamo supporre altre luci, altri paesaggi, altre figure, altri profumi, altri suoni; e nelle creature viventi, altre facoltà, altri sensi, altra intelligenza. Per quanto la nostra immaginazione volesse sbizzarrirsi nelle concezioni più complicatamente strane ed assurde, probabilmente non raggiungerebbe la mirabile diversità di tutte le manifestazioni della forma e della vita che possono e debbono essere apparse prima di queste da noi conosciute.

E ammettendo la ipotesi di creature vi venti, ammettendo in queste creature sensi e facoltà di spirito diversi dai nostri, quale avrà potuto essere la loro opera d'arte? Certamente in corrispondenza di quelle facoltà, un'applicazione, un'estrinsecazione di esse, una riproduzione idealizzata di quella loro natura esteriore e interiore.... E dobbiamo arrestarci a questa affermazione; e dobbiamo contentarci soltanto di pensare che la loro evoluzione ha dovuto seguire le stesse norme della nostra: salire da una forma inferiore alla immediatamente superiore: cioè, prima, sensazione, immaginazione, poi riflessione. Se non che questi tre elementi possono essere stati contemperati in modo da produrre qualcosa che ci colmerebbe di stupore e di meraviglia, se, per fortuna, potessimo averne un saggio, e se le nostre facoltà potessero adattarsi a sentirla e a intenderla per poterla ammirare.

Qui la nostra intelligenza si confonde.

Da questi secoli iniziali, se pur si può parlare d'inizii ragionando d'eternità, noi possiamo slanciarci fino alla fine dei secoli, alla maturità, alla vecchiezza, alla decrepitezza del nostro sistema solare e ricostruire con l'immaginazione, anticipatamente, quel che forse sarà o potrà essere l'opera d'arte futura.

Abbiamo pochi elementi, ma essi ci basteranno per un'ipotesi, giacchè sono elementi di fatto, quasi scientifici.

Notiamo il continuo perfezionamento dei nostri sensi. Il tatto, la vista, l'udito, tutti i nostri mezzi di rapporti con la natura esteriore si sono talmente perfezionati lungo il corso dei secoli, da permetterci di affermare che noi siamo creature affatto diverse dalle creature che furono i nostri primi progenitori.

Le evoluzioni delle arti sono un'altra prova convincentissima. Se qualche mago, sacerdote o poeta delle età primitive, per un miracolo d'intuizione le avesse annunziate agli abitatori lacustri, ai nomadi delle grandi pianure e delle grandi montagne dell'Asia, a quelle genti che ignoravano se stesse e che stimavano dovesse essere la vita una perenne lotta col mammut, con gli ittiosami, con tutte le bestie feroci brulicanti su la giovane terra — quelle evoluzioni sarebbero state giudicate assurde, parto di fantasia morbosa.

Eppure dal grido bestiale quasi inarticolato, dalla mimica, dalla danza sacra e guerresca noi abbiamo veduto scaturire a poco a poco i poemi dell'India, la Bibbia, l'Iliade, la tragedia greca, la commedia, i capolavori di Dante e dello Shakespeare, il romanzo e la lirica attuale.

Ed ecco che nuove facoltà si rivelano oggi o almeno attirano l'attenzione dello scienziato, agitano il nostro spirito e lo fanno tremare di sgomento e di curiosità. C'è un altro mondo in questo mondo, c'è un'altra natura dentro la nostra natura. S'intravedono facoltà incredibili, si scorgono bagliori di forze prima ignorate o trascurate. L'invisibile diventa visibile, l'occulto si manifesta; leggi, o quelle credute tali, da cui sembrava che il nostro organismo e la natura fossero ferveamente dominati, non appaiono più tali. Quel che ieri era tenuto per fantastico, per impossibile, per supernaturale, diventa realtà, o meglio viene scoperto realtà altrettanto naturale che quello comunemente chiamato così. Tutti i limiti cedono; non si allontanano soltanto, ma spariscono: e questo dovrà naturalmente produrre tale rivoluzione nel mondo, che qualunque superlativa nostra fantasticheria non potrà darne la misura.

Ormai nessuno può più dubitare di quella forza che il nostro imperfetto linguaggio si rassegna a chiamare psichica, perchè la scienza non sa a chi addebitarla, nè come contrassegnarla. Quel che pareva un sogno di malati comincia a venir giudicato più che una possibilità. Questo nostro pensiero che finora si è manifestato servendosi della materia, marmo, tavolozza, suono, parola scritta, pare abbia tanta potenza creativa in se stesso, da poter fare a meno di questi mezzi che non riescono a renderlo con tutte le sue sfumature.

Il marmo resiste, immobile, incoloro; la tavolozza non dà tutta la luce e tutti i colori alle forme, e per quanto si aiuti con la prospettiva e con gli scorci, è impotente a rendere il moto; la musica, con le meravigliose combinazioni delle sue melodie e delle sue armonie, rimane vaga, imprecisa, quantunque potentemente suggestiva: la parola, che riesce a dare l'illusione complessiva di tutte le altre arti e simulare la vita, si frange contro certi limiti del linguaggio, e contro certi limiti parte sormontabili perchè convenzionali, parte no, perchè inerenti alla stessa natura della sua opera.

Noi sentiamo che tutte queste arti c'impacciano, ci tormentano per la loro impotenza a creare davvero la vita.

Ora, la forza psichica, di cui già parlasi con trepido stupore, dovrà produrre nel lontano avvenire un'Arte della quale non possiamo formarci neppure un'idea approssimativa, in corrispondenza della nuove facoltà che avrà allora acquistato l'umano organismo.

Questa forza ormai la conosciamo come produttrice di moto. Sappiamo che è possibile spostare oggetti materiali con la semplice concentrazione della volontà. Sappiamo che un individuo, in certi casi di cui ignoriamo il come e la legge, può con essa oggettivare, materializzare il pensiero, dargli forma visibile e tangibile, forse esplicando poteri intimi suoi propri, forse impossessandosi di elementi circostanti e ignoti alla scienza. S'intravede però che quel che è ora accidentale potrà, anzi, dovrà essere normale, soggetto alla ragione, come sono divenute normali e soggette alla ragione tante altre forze della natura; l'elettricità, per esempio.

Immagina dunque — e il mio amico entusiasmato dalla sua idea, mi stringeva forte il braccio — immagina dunque che cosa potrà essere l'opera d'arte quando il pensiero non incontrerà più ostacoli nel marmo, nella tela e nei colori, nei suoni e nella parola; quando l'opera d'arte si esplicherà, si formerà con la stessa rapidità e con la stessa nettezza dell'idea, cioè, quando il pensiero diventerà visibile, tangibile, quantunque fuggevole, forse, e mutabilissimo, come la sua natura di pensiero comporta; quando insomma le creazioni dell'intelletto immaginativo vivranno, sia pure per qualche istante, realmente fuori di noi, quasi proiettate da un cinematografo infinitamente superiore a quello inventato dai fratelli Lumière?

Ah, io non voglio mettere a dura prova la loro cortesia, continuando a riferire lo svolgimento di questa ipotesi che la magia della parola e dell'espressione riuscirono a farmi accettare senza nessuna obbiezione, così rapida ed efficace era stata l'impressione prodottami. E siccome sono un po' sognatore anche io — altrimenti non andremmo molto di accordo con quel mio amico — confesso sinceramente che oggi, nel riferire la sua ipotesi, non ho potuto sorriderne, come il giorno in cui la udii la prima volta.

Ho visto diventare realtà tante cose giudicate da gran tempo impossibili, che più non oso rimanere scettico neppure davanti l'assurdo.

FELICE CAVALLOTTI DRAMMATURGO E POETA

I.

Si dava, per la prima volta, al Valle La luna di miele del Cavallotti. Teatro affollatissimo. Un occhio esperto avrebbe però facilmente capito che il pubblico di quella serata era, in gran parte, pubblico di occasione. Infatti gli amici politici dell'autore avevano creduto di dover fare atto di fraternità accorrendo ad applaudire la nuova produzione del recente promotore del Patto di Roma.

Il manifestino teatrale portava stampato con grossi caratteri il titolo della commedia e il nome dell'autore; da piè, in carattere minuscolo, avvertiva che lo spettacolo sarebbe cominciato con la recita della commediola dello Scribe: La camera affittata a due.

L'orchestra diede l'ultima strimpellata d'un valzer, il sipario fu tirato su; e sùbito si fece nella sala gran silenzio di vivissima attenzione. Sin dalle prime scene un'ingenua ilarità cominciò a serpeggiare per la platea, scoppiando di tratto in tratto, più che in risate, in applausi mal frenati. Dalle poltrone, parecchi si voltavano meravigliati di quella fermentazione di entusiasmo per una commediola stravecchia; le signore dei palchi guardavano le persone delle sedie e le altre in piedi, cercando di spiegarsi quel buon umore che di mano in mano aumentava e accennava di prorompere.

Proruppe infatti, con fragorosissimi applausi e chiamate: Fuori l'autore! Fuori l'autore! appena la tela venne giù.

Si udì una voce:

— Zitti, cretini!

Era quella di Ettore Socci, allora non onorevole, ma sempre colta e brava persona, che arrossiva e s'indignava pei suoi confratelli politici e pel suo amico Cavallotti. Gli associati al Patto di Roma non si erano accorti che la Camera affittata a due non aveva niente che fare con La luna di miele: e, venuti col proposito di applaudire a ogni costo il Cavallotti, avevano sincerissimamente applaudito... Eugenio Scribe!

Ricordavo quest'aneddoto accettando l'invito di scrivere uno studio intorno al Cavallotti drammaturgo e poeta. La tragica fine di lui mette in imbarazzo chi vuole ragionarne spassionatamente, senza sottintesi politici. La pietà che ispira l'uomo così immaturamente spento consiglierebbe di attendere ancora prima di pronunciare un giudizio su l'opera letteraria di colui che fu un perpetuo combattente nella vita e nell'arte, che fece per lo meno altrettante polemiche quanti duelli, e che mise nei duelli e nelle polemiche gli stessi elementi di foga, di eccessi, di sincerità e di partigianeria, quantunque i resultati ottenuti con gli uni e con le altre siano stati diversamente inefficaci. Io mi son sentito in buone condizioni. Ho scritto una sola volta intorno a un suo lavoro; e siccome allora, a proposito della Sposa di Mènecle, non esitai di dire a lui vivente quella che mi pareva la verità, così non temo che si possa sospettare che ora approfitti della sua sparizione per dire quel che mi sembra la verità intorno alla sua produzione teatrale e poetica.

Come in quella sera al Valle, il drammaturgo e il poeta non sono stati giudicati finora senza che intenzioni politiche, senza che amori o rancori di parte non si siano mescolati ai criteri puramente artistici che avrebbero dovuto ispirare la critica. Non era cosa facile mentre l'autore viveva. Mancava a lui la serenità dell'artista che crea ed abbandona alle discussioni del mondo l'opera sua. Appena si stimava frainteso, voleva sùbito difendersi. Ma la polemica letteraria nelle sue risposte s'inaspriva facilmente, e minacciava di finire o finiva talvolta con un duello; non era il miglior mezzo per avere ragione. E poi c'era nel Cavallotti una contraddizione che sembra inesplicabile a molti e che pure non è rara. Uomo di idee e di sentimenti avanzati in politica, era quasi codino in arte, precisamente come parecchi altri, moderatissimi in politica, sono audaci rivoluzionari da artisti.

Le polemiche del Cavallotti riescono però documenti importanti: permettono di riassumere i principii da cui scaturivano le sue opere, e dànno spesso la opportuna misura per giudicare fin dove le intenzioni sono arrivate ad attuarsi; fin dove sono rimaste semplici intenzioni e nient'altro. In questi ultimi tempi la politica lo aveva assorbito tutto. Si diceva appunto che egli voleva riposarsi dopo le agitazioni e forse dopo i disinganni sofferti, dedicandosi nella solitudine della sua villetta di Dagnente a un'opera drammatica. Una triste fatalità ha distrutto per sempre i suoi disegni. L'uomo sparito ci ispira un senso di compassione profonda; ma l'opera dell'artista così malamente interrotta non ci desta nell'animo nessun rimpianto. Niente faceva prevedere che la nuova concezione del drammaturgo dovesse essere qualcosa di diverso da quel che era stata finora; un dramma storico o una commediola di più, poco o nulla avrebbero aggiunto al valore della vecchia produzione.

E intorno al valore artistico della sua opera letteraria gli spuntava forse un dubbio nella mente matura; esso trasparisce da alcune parole della prefazione al Libro dei versi pubblicato pochi mesi avanti la sua morte.

Egli parla di questo volume, dove ha raccolto quel che gli è parso il fior fiore della sua molta suppellettile poetica, più come di una testimonianza del suo intimo io, che di un'opera d'arte; lo chiama la sintesi di tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono, un libro vissuto, il compendio in versi delle memorie di un poeta. E, con amarezza, premette alle strofe del Ritorno notturno: Fra la lotta politica e l'arte, viene l'ora in cui pur troppo bisogna scegliere, ossia scegliere fra gli aspri doveri contratti nella vita e i godimenti della fantasia.

Forse avrebbe detto meglio e più chiaramente: o le ansie tormentose della forma. Ma egli queste ansie le conosceva poco. Nella lirica come nel dramma, la forma è l'ultima sua preoccupazione; e dicendo forma non intendo parlare soltanto delle minuterie dello stile, ma dell'intiera concezione, dell'organismo dell'opera d'arte. Un giorno che, per capriccio, vuol darsi lo svago di fare un'ode saffica per provare al Chiarini che non è assurdo scrivere versi italiani nei quali si possano conciliare le leggi metriche italiane con quelle del ritmo latino vero, è preso da congestione cerebrale, stramazza per terra, e gli rimane un'invincibile e prudenziale avversione, egli dice, contro i metri barbari.

Ma io credo che anche senza la paura di nuove e meno dannose congestioni cerebrali, egli avrebbe avuto uguale avversione contro ogni difficoltà di forma, contro ogni tentativo di novità da cui potesse sentirsi troppo infrenato. Se si scorre, anche sfogliandolo, questo volume di versi, si ravvisano a occhio, senza lèggere, le sue preferenze pei metri facili ben sonanti, ben rimbombanti o ben fluenti: quinari doppi, senari doppi, decasillabi, strofe quasi cantabili di settenari, quartine di endecasillabi alternati con piani e tronchi.

E come nella lirica, così nel dramma. La concezione di tutto il lavoro, le passioni, i caratteri, la distribuzione delle scene, il dialogo non escono un istante dalle usate forme teatrali. Non c'è un lontano accenno di tentativo per vincere gli impacci di una delle tante convenzioni che sono gli organi atrofizzati di un organismo vivente e non più necessari alla esistenza: convenzioni che altri combattevano già, che altri hanno già abbattute e vinte. Per ciò tutta la sua opera drammatica, che pure dimostra un ingegno dotato di buone qualità teatrali, rimane quasi non avvenuta, non lascia orma nella storia della forma, come non lascia un personaggio, un carattere, una creatura sopravvivente.

Eppure poche persone hanno tentato la lirica e la drammatica con migliore e più soda preparazione di lui; poche persone hanno teorizzato nelle polemiche con criteri più spassionati e più giusti dei suoi, sia trattando le questioni dell' idealismo e del verismo nei giorni in cui lo Stecchetti le aveva suscitate con Postuma e con Polemica, sia trattando il soggetto dei metri barbari, dei quali aveva, come ho accennato, un prudenziale orrore. E di questa polemica, ora dimenticata, ma che può insegnare o rammentare parecchie cose buone anche oggi, mi piace staccare il seguente tratto:

« Questo bisogno di rinnovamento che è, direi, nel sangue e nell'aria, e travaglia gli artisti e via li porta nella sua rapina, si traduce ai più incoscienti in una ricerca quasi morbosa del nuovo e del bizzarro, come tale. Del processo intimo che la letteratura attraversa costoro sentono vagamente il soffio: intendono che qualcosa intorno ad essi, non nei tipi eterni, ma nelle forme dell'arte, si modifica, si trasfigura: e non avendone che una nozione confusa, tementi solo di rimanere in ritardo, o di parer fuori del movimento, corrono dietro affannosamente, come i fanciulli alle farfalle, ad ogni larva non veduta o strana, ad ogni luccicchio che passi loro davanti agli occhi, per l'aria. Ciò che nello ingegno dei migliori è un presentimento gagliardo di nova via e ragioni dell'arte ancor non note, ch'essi vanno tentando ed esplorando con orme insieme mal sicure ed audaci, aumenta l'impazienza smaniosa di tutti quelli che dietro a loro si affollano a far coda, aspettando che i novi sbocchi si aprano. Dove i primi mettono, tastando il piede, e tutti là corrono; se uno si addentra a capriccio in un viottolo, solo per vedere ove vada a por capo, e tutti dietro, credendo ch'egli abbia imbroccato la via; se quello sotto un andito si mette a cantare per sentir se c'è l'eco, e tutti a far coro, credendo che sia quella la poesia nuova. Quell'altro avrà poi un bel tornare indietro ad avvertire che il viottolo era chiuso e che sotto l'andito egli stava solamente provando la voce!

« Così i tentativi, i capricci stessi dei migliori alimentano questa smania della novità per la novità... Nè si bada se dall'intima opera rinnovatrice si afferrino invece soltanto le accidentalità fuggevoli, i tentativi ingannevoli dell'esplorazione. »

Tutto questo è ben osservato e ben detto, quantunque non si tratti di un fenomeno nuovo e speciale dei nostri tempi, nè tale da dover suscitare sdegno o meraviglia. Se non che il Cavallotti non sentiva il bisogno di quei tentativi, e neppure quello, meno lodevole, dei capricci di cui egli parla. E la ragione della sua tranquillità acquiescente io la trovo nel concetto che egli ha dell'arte, strana confusione tra forma e concetto; nella pedestre interpretazione dell'aforismo: L'arte non deve avere altra finalità che sé stessa.

Questa confusione tra forma e concetto e questa che io chiamo pedestre interpretazione dell'aforisma l'arte per l'arte ci daranno la chiave per spiegarci in che modo un ingegno così riccamente dotato non sia potuto uscire nella drammatica nè nella lirica fuori di quel limbo della mediocrità che Orazio chiamò aurea non saprei dire perchè.

II.

Per conoscere gl'intenti del drammaturgo, non saremo impacciati. L'autore ci ha risparmiato il fastidio di andare a racimolarli qua e là, a cavarli fuori dalla stessa opera d'arte quale si presenta agli spettatori e ai lettori. Prefazioni, note, prologhi ne son pieni; basta quasi aprire a caso uno dei volumi delle sue opere pubblicate dalla Tipografia sociale E. Reggiani e C. di Milano. Nella notissima lettera al Ferrigni (Yorich figlio di Yorich) sull' Alcibiade, La critica e il secolo di Pericle, c'è un credo in regola, che può benissimo applicarsi a tutta la sua produzione teatrale.

Io l'accennerò tanto più volentieri, quanto più voglio limitare questo studio ai lavori di soggetto greco, che sono la parte più caratteristica della sua opera drammatica e senza dubbio la più importante.

Al signor Roberto Stuart che gli avea rimproverato di non aver avuto nessun intento nello scrivere le scene greche dell' Alcibiade, egli rispondeva trionfalmente:

« Anzi ne ho avuto parecchi.

« Primo: Un intento drammatico... È una mia idea che dramma voglia dire contrasto di passioni e che questo contrasto, questa lotta possa succedere tanto fra più individui, quanto in un solo...

« Una ragione storica, critica e filologica: offrire agli studiosi una pittura, dei quadri, delle scene della vita greca del secolo di oro, colta nella sua fase forse più caratteristica e culminante....

« Terzo intento del lavoro: Un intento morale....

« Infine, una considerazione storico-politica ».

Troppi, se si vuole, ma non guasterebbero, se l'intento drammatico fosse rimasto davvero il primo; e doveva essere l'unico.

La lettera a Yorich figlio di Yorich è splendida per calore, per ironia di buona lega, per erudizione. Essa e le note al dramma, spesso spesso eccessivamente prolisse, dimostrano con quanta cura coscienza il Cavallotti si sia preparato a scrivere il suo lavoro. Ma prima di parlarne particolarmente, mi piace ripetere, intorno alla tesi generale di queste interpretazioni artistiche di un fatto storico, quel che scrivevo sedici anni fa a proposito della Sposa di Mènecle.

« Quando penso che noi, generazione venuta su dopo il 48, non intendiamo più quasi nulla del gran complesso di sentimenti e di idee che formarono quella gloriosa rivoluzione; quando penso che il secolo decimottavo, del quale possiamo studiare da vicino qualcuna delle reliquie viventi, ci fa lo stesso effetto delle epoche greca e romana, tanto ci apparisce diverso da tutto quel che costituisce la nostra vita presente, mi meraviglio che si possa tentare con animo sereno una interpretazione artistica (la parola non è eccessiva) di epoche che per costumi, sentimenti, religione, scienza, filosofia furono quasi agli antipodi di quel che siamo ora noi.

« Dicono: C'è il documento scritto, c'è il documento archeologico. Noi facciamo delle ricostruzioni meravigliosamente esatte. Per ogni parola, per ogni frase, vi presentiamo un testo, venti testi che potranno servirvi da controlli. Abbiamo i poeti lirici, gli storici, i comici, i tragici; abbiamo le statue, le pitture, le ruine, e poi tutto il grande arsenale archeologico, una infinità di arnesi domestici e di gingilli che ci mettono sotto gli occhi l'esteriore della vita antica in modo da non poter prendere nessun abbaglio. Quella vita intima d'allora, così diversa per chi la guardi alla superficie, studiata dappresso e minutamente, somiglia in moltissime cose, come due gocce d'acqua si somigliano, alla vita intima di oggidì; molti di quei tipi, di quei caratteri, di quegli affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi, negli affetti e nei tipi della società nostra, riscontro meraviglioso[1]... A prima vista, la prova è, come suol dirsi, schiacciante. Quei personaggi non pronunziano una sola parola che non abbiano già detto Aristofane, Demostene, Menandro, Andocide, Platone, Eschine, Iseo, Luciano, Plutarco, Aristotile, Senofonte, Euripide, Alessi, Calisseno rodio, Teofrasto, Alcifrone, Eubulo, ecc., e che tutti gli scolasti e tutti gli interpreti non possano, all'occorrenza, confermare o schiarire... »

Facevo però osservare che:

« la vera vitalità di un personaggio consiste nei suoi sentimenti, nelle sue passioni; e la realtà storica di queste passioni sta tutta nella loro caratteristica che li rende diversi dai sentimenti e dalle passioni di un'epoca precedente o posteriore. Senza dubbio l'amore di oggi ha molti punti di contatto con lo stesso sentimento provato dai greci e dai romani e anche dagli uomini primitivi; ma l'amore di oggi contiene, innegabilmente, elementi che allora non esistevano affatto, e non ha nelle stesse proporzioni di allora, gli elementi che una volta dovettero essere predominanti. L'artista che, volendo darci la rappresentazione dell'amore, non riesce ad afferrare la caratteristica propria di una data epoca, fa opera sbagliata. E questa caratteristica sta tutta nella differenza, non nella rassomiglianza... »

E citavo come esempio la tristezza, la malinconia, quel che di vago, di sfumato del sentimento che la parola stenta a rappresentare. E ammettendo che i greci antichi avessero dovuto provare anch'essi in certe ore, in certe circostanze della vita, la tristezza, la malinconia e, forse pure un po' di sentimentalità, soggiungevo:

« Soltanto a giudicarne dalle testimonianze letterarie che ci restano, le proporzioni di tali sentimenti erano assai diverse presso di loro e per moltissime ragioni. La misura noi la sentiamo e la giudichiamo leggendo Eschilo, Aristofane, Euripide, Pindaro, Anacreonte, Menandro: è come un profumo, come qualcosa di imponderabile che si stacca da quelle opere immortali e ci dà la sensazione delle sensazioni dell'antichità.

« I riscontri con la vita moderna vi s'incontrano di tratto in tratto e sorprendenti; ma sono più esteriori che intimi o, per dir meglio, che organici e fondamentali. Sarebbe proprio meraviglioso che non fosse così. In questo caso bisognerebbe convenire che l'opera di due civiltà, la romana e la cristiana (senza voler contare quella delle influenze intermedie) sia stata a dirittura o inutile o inefficace per lo spirito nuovo, e dovremmo dare una solenne smentita e alla storia e alla scienza »[2].

Queste ragioni il Cavallotti non voleva intenderle. Aveva detto, nella prefazione all' Alcibiade, che la natura umana è sempre la stessa in ogni tempo; e in una lettera a me diretta, credo nel Secolo, zeppa al solito di citazioni, tentò di persuadermi che stavo dalla parte del torto pensando diversamente da lui. In fondo anche lui era convinto che, se lo studiare coscienziosamente un'epoca dovea essere obbligo dell'artista, l'aver adempiuto quest'obbligo non bastava per l'opera d'arte.

« L'artista anzi tutto studii di immedesimarsi con quell'età; e alla verità delle passioni ritrovi gli accenti e le corde nella verità completa dell'ambiente. Allora l'illusione artistica sarà perfetta; allora le figure che l'artista evocherà saranno vere e vive, rappresenteranno uomini e non nomi, persone e non personaggi[3] ».

Certamente egli si lusingava d'aver raggiunto lo scopo, se ha risposto a certe critiche invocando per sua difesa l'esempio dello Shakespeare. Poteva andare più in là: il barbaro inglese non aveva gli scrupoli di lui riguardo alla storia. Se gli faceva comodo, metteva un'università a Vittenberga ai tempi di Amleto, spingeva il mare fino in Boemia ( Novella d'Inverno, atto III, scena III), faceva molto a fidanza con la vivacissima immaginazione degli spettatori, si serviva di tutte le libertà che l'organismo, ancora in formazione, dell'opera drammatica gli concedeva; ma nello stesso tempo creava uomini di carne e ossa; e se ogni parola dei suoi personaggi non poteva essere giustificata con l'autorità d'uno storico, d'un cronista, di un autor comico o tragico, non importava; essi parlavano secondo la loro vita interiore, avevano sempre un motto profondo che rivelava gli abissi del loro cuore, che metteva a nudo le loro anime non con un ragionamento, non mostrando, per dir così, il filundente su cui aveva ricamato l'autore, ma dandoci il resultato della nascosta operazione dello spirito, come nella vita reale.

Lo Shakespeare sapeva il suo mestiere. L'autore drammatico non è uno storico, non è obbligato alla scrupolosa esattezza dei fatti che mette in azione: è solamente obbligato, o almeno, innanzi tutto, è obbligato a creare personaggi viventi, a interpretare perciò la storia quando le chiede in prestito un soggetto: il resto è cosa secondaria. E in questa interpretazione lo Shakespeare è sovrano; dà l'illusione della realtà, se non la realtà. La Venezia dell' Otello, la Roma del Giulio Cesare, la Danimarca dell' Amleto sono resurrezioni, evocazioni che ci fanno stupire. L'erudizione non ci darà mai qualcosa di simile, con tutta la sua precisione, con tutta la sua scrupolosità. E quando essa verrà a dirci che documenti ora dissepolti dimostrano Desdemona una donnaccia e il povero Otello il più tradito dei mariti, noi sorrideremo ma non muteremo opinione. Questa Desdemona degli archivi non c'interessa; per noi la vera Desdemona sarà sempre quella dello Shakespeare, cioè una purissima e dolce creatura innamorata — a dispetto di tutti i documenti, a scorno di tutti gli eruditi.

Il Cavallotti che non si vuol persuadere della necessità di circoscriversi alla rappresentazione del proprio tempo, sente però involontariamente di essere del suo tempo: la grande cura di conformarsi alla storia, di giustificare con un'infinità di note ogni parola e ogni azione dei suoi personaggi non significa altro. Il Manzoni aveva detto che il dramma storico vive calcolando molto su la ignoranza degli spettatori: e il Cavallotti, in omaggio al positivismo odierno, non vuole che si pensi ch'egli abbia, per conto suo fatto quel calcolo. Occorreva un ben piccolo sforzo per fare un passo più innanzi, e riconoscere che il circoscriversi nella rappresentazione del proprio tempo sarebbe stato omaggio migliore al positivismo contemporaneo; e che il verismo, il materialismo non erano capricci di teste bislacche, scuse di artisti pigri, incapaci di idealizzare, ma conseguenze della riflessione matura, da cui è stato riconosciuto che un'opera d'arte è il prodotto di un tempo, di una razza, di una civiltà, e che la storia, il passato ricostruito dalla fantasia postuma è una fantasmagoria passata a traverso quegli elementi e da essi modificata, trasformata e deformata. Si sarebbe risparmiato parecchie volgarità; per esempio: che il verismo, il naturalismo pretendano che l'arte debba essere soltanto « la fotografia di quello che esiste in natura e come vi esiste; e che i suoi uomini non debbano portare che il frach, e le sue donne non debbano vestire che colle mode dell'ultimo figurino[4] ». Si sarebbe risparmiato di ripetere le sciocchezze che « fantasia, poesia, idealizzazione del vero » siano oggi stimate « roba scolastica da far dormire, » e che l'arte odierna consiste tutta in « un po' di spirito di osservazione, per riprodurre, tal quale, quel che succede ogni dì, in un po' di raziocinio per coordinarlo, in un problema sociale ed economico da risolvere, o in un adulterio pudico da legittimare![5] ».

Che ridurre il presente in opera d'arte non sia tanto facile quanto egli credeva, lo dimostra l'opera drammatica sua stessa, quando, lasciati in pace i greci del tempo di Alcibiade, i Messeni della 28.ª olimpiade e quelli della 100.ª mette su la scena passioni e personaggi contemporanei. Lo sforzo dell'erudizione dà qualche parvenza di vita a quei greci, e Alcibiade, Timandra, il parassita Cimoto, Aristomene, Laodamia, Mènecle e Aglae la vincono su la contessa Bice delle Lettere d'amore, su la Lea del dramma che ne porta il titolo, su l'Emma della Figlia di Jefte, sul Povero Piero, sui cugini del Cantico dei Cantici, per nominare soltanto quei personaggi che mi vengono in questo momento alla memoria. I greci guadagnano nel confronto perchè non possiamo fare riscontri con la realtà; dobbiamo contentarci del press'a poco che l'erudizione ci permette. E se la creazione ci sembra insufficiente, siamo proclivi a scusare il poeta, a tenergli conto dello sforzo che ha dovuto fare per imbastire quelle figure, per dar loro un che di organico, servendosi di frammenti, di accenni, di materiali diversi faticosamente raccolti qua e là. Coi personaggi moderni il compito è facile; la loro manchevolezza, la loro falsità, la loro convenzionalità saltano agli occhi. Possiamo riscontrarli con noi stessi, coi nostri vicini, coi nostri amici, con le persone che incontriamo per via, e misurarne subito il vuoto, l'inefficacia.

Il Cavallotti dovea certamente sentire questa deficienza di forza creativa, se non ebbe mai il coraggio di affrontare su la scena la rappresentazione di un qualche alto fatto della vita moderna: se lui, così mescolato nelle agitazioni sociali, così penetrante indagatore della putredine parlamentare, così inesorabile censore di giornalisti affaristi, di ministri da lui creduti dilapidatori del pubblico danaro, osservatore e parte ( quorum pars magna fuit ) di commedie, di drammi e di tragedie contemporanei, si sia soltanto rifugiato presso i greci: e abbia preferito di dipingere i grandi quadri della splendida decadenza della repubblica ateniese, l'eroica guerra dei messeni su per le rocce del Dentelio o Deltanio che debba dirsi, e fra le gole di Ecalia, quando ha voluto uscire dai piccoli fatti, dalle piccole passioni; quando ha amato piuttosto farci sorridere e intenerirci coi casi familiari del vecchio Mènecle e della sua giovane sposa Aglae, che tentare il problema del divorzio nella società in cui egli viveva, o altri problemi morali e sociali non meno elevati e non meno attraenti di questo.

E sarebbe studio interessante il ricercare per quali ragioni un uomo come il Cavallotti, che non è vissuto rinchiuso nelle quattro pareti della sua biblioteca, svolgendo nella solitudine le polverose pagine dei classici greci, che anzi ha passato tutta la sua giovinezza in continue agitazioni di amori, di odii, di polemiche, di duelli, e che ha pagato miseramente con la vita questa irrequietezza e questa smaniosa rincorsa di ideali, diversamente giudicabili ma degne di essere rispettate dopo ch'egli le ha suggellate col sangue a Villa Cèllere. E nelle circostanze della sua vita si troverebbero certamente molte scuse, molte dilucidazioni intorno ai pregi e ai difetti dell'opera di lui; si vedrebbe quanto gli abbia nociuto la fretta per quella ch'egli chiamava scherzando, in una delle sue ultime lettere, la fabbrica dell'appetito; e si ammirerebbero maggiormente la sua cultura e il suo ingegno. Giacchè, è innegabile, ingegno egli ne aveva parecchio, e si può scorgere dalle circostanze in cui fu scritto, per esempio, l' Alcibiade, l'opera sua più vasta e più poderosa.

Negli ultimi di giugno del '73 pubblicando il volume delle sue Poesie e temendo rappresaglie da parte del Procuratore del Re e della polizia, egli va ad annidarsi nel granaio di una casa di campagna presso Meina, in riva al Verbano: e istituito un eccellente servizio di informatori, pel caso che la polizia fosse venuta a ricercarlo lassù, lavora per quasi due mesi, dalle sei di mattina alle dodici, spendendo le ore del pomeriggio nel consultare i classici e nel prendere note; quelle note che poi metterà a piè di pagina, per dimostrare che i suoi personaggi non hanno detto un'esclamazione, non hanno formolato un pensiero che Aristofane, Menandro e i minori comici, Platone, Plutarco, Luciano, Aristenete non abbiano espresso quasi con le stesse parole. E in quel granaio che serviva per l'allevamento dei bachi, il suo spirito non è tutto di Alcibiade e degli ateniesi e spartani che formicolavano attorno a lui insieme con gli sciti di Patti su l'Ellesponto; il padre e un amico lo tengono informato delle cose di Milano, degli avvenimenti politici, e dell'improvvisa morte del Billia che gli era amicissimo e compagno di lotte nei fortunosi tempi di Lissa e Mentana, del processo Lobbia e nella redazione del Gazzettino rosa, ricordato dai milanesi, credo, ancora con terrore.

III.

L'Alcibiade, dopo la Sposa di Mènecle, è il lavoro del Cavallotti in cui si mostrano meglio certe sue qualità di immaginazione e, stavo per dire, di creazione, se la parola non potesse sembrare eccessiva trattandosi di organismi rimasti a mezzo, più accennati, che sviluppati. La vastità del quadro impòstosi lo costringe a far questo. I personaggi passano davanti ai nostri occhi come le bizzarre figure di un caleidoscopio; non abbiamo tempo di fissarle; appariscono e si dissolvono; meno il protagonista che è, naturalmente, sempre in vista e dà unità all'azione.

Unità però che è aggregamento, non organismo. Sarebbe stato meglio, per esempio, che il drammaturgo non si fosse scusato di aver confuso in uno due momenti della vita del suo eroe, peccato neppur veniale, e avesse sviluppato più un carattere genialmente concepito e abilmente tratteggiato, quello del parassita Cimoto che, da misero ricercatore di pranzi a ufo, da punto coscienzioso agente elettorale, come diremmo oggi, si eleva a poco a poco ad altezza di eroe nella scena finale.

I soldati di Lisandro, circondata la povera casa colonica in Frigia dove Alcibiade e i suoi si sono ricoverati, vi hanno appiccato il fuoco. Alcibiade tenta un'ultima resistenza, ma torna indietro ferito, barcollante, quasi soffocato dal fumo. Timandra, la fedele cortigiana che è stata il buon genio di lui, lo accoglie morente tra le braccia.

Alcibiade. Timandra, un bacio!... Cimoto, a te la raccomando; non distaccarti da lei.

Cimoto ( piangendo e singhiozzando ). Oh, mio padrone! mio padrone!

Alcibiade. Quando tornerai in Grecia, di' ad Atene che spirai col suo nome su le labbra.... e racconta a Socrate come son morto!... Addio!... Ricordati di Alcibiade! ( ricade e muore ).

E allora la cortigiana si purifica; vuol morire con l'amato, come olocausto alla Dea sotterranea da lei invocata. Le fiamme crepitano da ogni parte.

Timandra. Cimoto, vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un istante e non sarai più in tempo.

Cimoto ( cupo ). E tu?

Timandra. Io... io compio il sacrificio... ed infioro la vittima... vanne! Le fiamme son qui.

Cimoto. Timandra, hai ben sentito che egli mi ha detto di non lasciarti? Dal dì che Alcibiade mi chiamava a sè, egli non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne avessi la mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. Sono il suo parassita. Ci resto!

E si avvolge nel suo mantello, attendendo, ritto e fermo, che le fiamme lo avvolgano insieme con Alcibiade e Timandra.

C'è un: Vanne! c'è un quel dì, e il ci resto che può indurre in equivoco, se Cimoto vuol restare suo parassita o restare per prender parte al sagrificio: piccoli nèi di forma che abbondano in tutti i lavori del Cavallotti e che più stonano qui dove la perfezione dello stile dovrebbe essere degna del soggetto greco. Ma questi nè altri nèi impediscono di ammirare la concezione, come l'ammirazione non impedisce di rimpiangere che il carattere di Cimoto non abbia potuto disegnarsi completamente per giustificare il mutamento avvenuto in lui.

Il poeta ha una scusa e l'ha detta: La vastità delle proporzioni della tela. Ma è scusa insufficiente. Chi gli ha imposto quella vastità? Chi gli ha imposto di dare a tutto il suo lavoro una forma vieta, sorpassata, quantunque sia stata la forma adottata dallo Shakespeare pei suoi drammi che racchiudono parecchi secoli della storia d'Inghilterra? Allora certe convenzioni erano perdonabili. Lo Shakespeare se ne serviva perchè non repugnavano a lui nè ai suoi contemporanei, e se ne serviva (bisogna aggiungerlo) da pari suo. Voglio pure ammettere, come larga concessione, che il Cavallotti le adoperasse in quella riduzione dell' Alcibiade destinata alla rappresentazione; ma avrebbe dovuto farle sparire dal lavoro destinato alla lettura. Bisognerebbe esaminare minutamente il quarto quadro, quello della spedizione in Sicilia, per convincersi quanto il Cavallotti abbia abusato di certi mezzucci convenzionali, quasi che dallo Shakespeare in qua l'organismo drammatico non si sia sviluppato, nè perfezionato in niente: quasi sia lecito a un artista del secolo XIX ignorare questi svolgimenti e perfezionamenti o, per lo meno, disdegnarli.

Per questa ragione La sposa di Mènecle rimarrà il miglior lavoro di tutto il teatro cavallottiano, accettato il genere a cui appartiene.

Il prologo è una bellissima trovata. Il poeta comico Eudemonippo, un Felice Cavallotti greco ( eudaimôn, felice, ippos, cavallo) ha osato porre in iscena Mènecle, tesmotèta due volte, ambasciatore ai Corinti per parte degli Ateniesi, governatore in Lesbo, e attribuirgli un'azione che, secondo l'accusatore Beoto, capovolgeva ogni concetto della famiglia e della virtù. Il poeta è citato a difendersi nell'aula del Batrachio, davanti al Tesmoteta e ai giudici estratti a sorte. Assistiamo a una seduta con arringhe dell'accusatore e dell'accusato, con tutte le minute particolarità dei processi giudiziari ateniesi. Durante l'ultima parte dell'arringa di Eudemonippo, il Tesmoteta e i giudici dànno visibili segni di stanchezza sonnolenta. Quando l'oratore ha finito e si leva la corona, il Tesmoteta rialza, scotendosi vivamente, il capo.

Tesmoteta. Finito?... Ah! Passeremo dunque, prima dei voti, alla recita della commedia in atti... Or quindi, o giudici, l'arringa che udiste...

Il Cancelliere ( additando i giudici ). Li ha persuasi. Dormono.

Tesmoteta. Davvero? ( vivamente all'accusato ) Recita che il momento è buono.

E cade la tela.

Nella Sposa di Mènecle i caratteri sono disegnati e coloriti con garbo. Quel po' di convenzionalismo che qua e là si scorge non giunge a dispiacere; sembra un riflesso, un'eco della commedia menandrea arrivati a noi a traverso di Plauto e Terenzio, e passati un pochino pel Marivaux. Qualche volta il Cavallotti dimentica un po' i suoi greci, come nella scena X.ª dell'atto terzo, dove Aglae, pur fingendo, pur esagerando, se si fosse meglio ricordata della sua origine ateniese dell'anno secondo della 100.ª olimpiade, non avrebbe dovuto dire:

« Alla mia età, c'è qui dentro un cuore che batte, c'è un'anima che ferve, che soffre, che s'irrita, che ha bisogno del suo lembo di mondo e di cielo!... E quando la povera anima piange trovandosi al buio, quando piange perchè trovasi al chiaro... la si compiange! Bel conforto! tenetevelo. »

E infatti qui non c'è nota, non c'è richiamo di testo antico di sorta alcuna.

Note e richiami invece troviamo dove forse non erano necessari. Non occorrevano un testo di Alessandro e un altro di Euripide per giustificare questo dialogo:

Mènecle. E un amico come te...

Crobilo. Per tutti e dodici gli dei! Voglio credere!...

Mènecle. Val più d'un tesoro.

Eppure il Cavallotti ha cura di annotare:

« Meglio un amico sulla terra e innanzi ai nostri occhi che un tesoro sotterra e lungi da noi (Alessandro, Citarista fram. 3). Nulla è più prezioso di un amico sicuro: nè ricchezze, nè regno. (Euripide, Oreste, v. 1155). »

Il convenzionalismo drammatico apparisce, come ho accennato, più evidente nei lavori di soggetto moderno. Per la Lea, in un altro prologo a bastanza originale, che mette in scena parecchie macchiette di avventori del caffè del Teatro Manzoni di Milano — una specialmente caratteristica, quella di Fulvio, ameno e onesto boème a cui tanti vogliono bene, autore di libretti melodrammatici, sempre in cerca di cinque franchi o di un francobollo che gli fa più comodo invece d'un sigaro che gli viene offerto — il Cavallotti che ha profuso prologhi in azione o in versi, per la Lea dunque fa dire e dice:

Fulvio.

... Eh, mi sembra, scusa se mal mi appiglio,
Che il tema abbia la barba lunghetta un mezzo miglio.
La va, capisco, al modo di svolgerlo... e poi, se
Il tema è vero...

Autore.

È storico...

Fulvio ( incredulo ).

Storico?

Autore.

Eh, altro che!

Ti basti che nei fogli fu raccontato un fatto
Preciso tale e quale lo narro al secondo atto.

Fulvio.

Ne dicon tante i fogli! E poi non è ammissibile
che un fatto, perchè vero, debba anch'esser possibile.

Fulvio avrebbe, forse, voluto dire: possibile in arte, cioè reso tale.

E tale non è reso in Lea. Per ciò la catastrofe risulta violenta o meglio melodrammatica.

Riccardo Verneda ha rapito Lea ed è andato a passare la luna di miele in un villaggio remoto, per sfuggire alle ricerche dei parenti di lei che avversano quell'unione. La madre di Lea infatti le tende un tranello: si finge moribonda e richiama la figlia al letto di morte. Riccardo non può impedire ch'ella parta. Lea dai suoi genitori vien rinchiusa in un convento.

Riccardo, per otto mesi, ne ricerca invano le tracce, e all'ultimo riceve l'atto di morte di lei. Un anno dopo egli sposava Ida, e ne aveva un figlio. Passati sette anni, proprio il giorno in cui nella villa di Riccardo fanno i preparativi per festeggiare il suo onomastico, ecco Lea ancora viva, ancora innamorata, miracolosamente fuggita dalla sua prigione monastica! Ci vuol poco ad accorgersi che arriva terza molto incomoda nella famiglia del suo rapitore. Da principio ella vuol farsi forte del suo diritto, riprendere il posto di sposa; la legge sta dalla parte di lei. Ma un grido del figlio di Riccardo: — Mamma! Mamma! Non piangere! — e un rimprovero rivolto a lei, Lea: — Signora cattiva, se facessero piangere la mamma tua... — le mutano a un tratto il cuore. Anche lei ha fatto piangere la sua mamma fuggendo dalla casa paterna con un uomo, e l'ha fatta morire di dolore! Quel che ora, ritrova, dopo sette anni, è il suo gastigo. Riccardo le si getta ai piedi:

Riccardo. Lea!... perdonami!

Lea ( chinandosi su lui e prendendogli la testa nelle mani, gli susurra all'orecchio con accento rapido a fior di labbra ).

Mi ami ancora?... Mi ami?

Riccardo. Sì.

Lea ( c. s. ). Verresti meco?

Riccardo. Sì.

Lea. Ah! era ciò che volevo!... Ora sì che l'andarsene è bello! No, no... Vivi a tuo figlio! Il passato sta nella tomba... Ebbe torto ad uscirne... e ci ritorna!

E si precipita dal balcone prima che Riccardo potesse trattenerla.

In tutte le sue produzioni di soggetto moderno non c'è un carattere, una figura che possa star a paro col Cimoto dell' Alcibiade; non c'è una scena che si elevi dalla mediocrità, che possa attestare una concezione, uno svolgimento fatti con elevate intenzioni di arte e con novità di tecnica. Alessandro Dumas il giovane, l'Augier, insomma, l'arte moderna è rimasta come non avvenuta per lui. Nè la stessa Sposa di Mènecle è tal lavoro che possa lasciare una lieve orma nella storia dell'arte drammatica, anche restringendoci alla sola arte drammatica italiana. Un lavoro che, pur attaccandosi al passato, non porge addentellato per l'avvenire, è cosa nata morta.

Componiamolo nel sepolcro, e la terra gli sia lieve.

IV.

E ripensando all'eccessiva scrupolosità delle note ai suoi tre lavori di soggetto greco ( Nicarete non ho potuto vederlo, credo non sia stato ancora pubblicato) voglio qui rammentare un tratto caratteristico dell'uomo, l'unica volta che l'ho conosciuto da vicino, due anni fa.

Facevo parte, col Panzacchi e lui, della commissione esaminatrice degli scritti per la gara finale dei Licei del regno, nella quale il Ministero della Istruzione pubblica concede una medaglia di oro. Ci riunivamo in una sala della Minerva due volte il giorno. Gli scritti da esaminare erano una sessantina. Il Panzacchi aveva fretta di tornare in Bologna, e appena gli capitava in mano uno scritto che dalle prime tre o quattro pagine si palesava molto mediocre, tale da non presentare nessuna probabilità di esser preso in considerazione, subito proponeva:

— Smettiamo di andare avanti; non perdiamo il nostro tempo.

Io ero di accordo con lui; ma il Cavallotti si affrettava a dire, quasi balbettando:

— No, no! Chi sa?... Vediamo. E poi, è dovere nostro.

Si leggevano altre due, tre, quattro pagine; il lavoro peggiorava.

Il Panzacchi, impaziente, alzando le spalle, brontolava:

— Ma insomma, che dobbiamo più vedere? Non va. Smettiamo, passiamo a un altro.

Io ero di accordo con lui. Ma il Cavallotti insisteva:

— Ancora un po'. Chi sa?... Non precipitiamo il nostro giudizio...

E quando si era finito di leggere, il Panzacchi protestava:

— Hai visto? Ti sei persuaso che noi due avevamo ragione? E così abbiamo perduto due preziose ore di tempo!

— Non importa. Ora sono tranquillo.

E per giustificare le sue esitanze, soggiungeva:

— C'è del buono, qua e là: ha un concetto patriottico... È vero?

E si rivolgeva a me che, sorridendo tranquillo e rassegnato, rispondevo:

— Il patriottismo non è una ragione per malmenare la lingua e lo stile.

E si passava a un altro scritto; e si tornava rifare la stessa scena, quasi con le stesse parole, e con identico risultato. E non ci fu caso che l'esperienza di otto o nove scritti inducesse il Cavallotti a cedere, a non andare fino in fondo.

Faceva di più: nelle ore pomeridiane tornava alla Minerva un'ora prima dell'ora fissata. Aveva paura che non si fosse lasciato illudere da una lettura frettolosa, da una discussione in cui non avesse saputo tener testa contro il Panzacchi e me, e tornava a rileggere da solo quegli scritti. Il giudizio non mutava, ma egli si sentiva più tranquillo. E al nostro arrivo, ci rileggeva qualche brano non mal riuscito, specialmente quelli dove lo studente aveva infilato una serie di belle frasi patriottiche.

— Peccato! Se fosse andato avanti così!

— Tu hai tempo da perdere! — tuonava baritonalmente il Panzacchi, e rideva.

Rideva anche lui, il Cavallotti, e poco dopo eravamo daccapo:

— Vediamo!... Chi sa?... Forse, avanti...

Pareva un'esagerazione, una posa, e non era. Proprio come sembrano un'esagerazione, una posa da erudito quelle note, quei riscontri, quelle citazioni a piè di pagina, che raddoppiano e anche triplicano il volume dell' Alcibiade e quello dei Messeni e della Sposa di Mènecle nell'edizione del Reggiani.

Io credo che il Cavallotti sia stato, tra gli autori drammatici italiani, colui che abbia ricavato un maggior compenso dai suoi lavori. Mi è stato detto che non si contentava dei decimi; richiedeva anticipazioni a fondo perduto, sicuro che le sue commedie e i sui drammi potevano contare su la benevolenza del pubblico. Non sarà malignità aggiungere che l'influenza dell'uomo politico giovava all'autore drammatico, ma stimo che si possa aggiungere ch'egli non la sfruttasse per progetto. La politica s'infiltrava, non ostante la puritaneria di lui, nei larghi successi dei suoi lavori. La misera fine dell'autore ha prodotto in questi mesi una rifioritura di rappresentazioni e di successi clamorosi. Le ragioni dell'arte però non hanno niente che vedere con essi. Le Rose bianche, Lea, Le lettere di amore, Agatodemon, il Povero Piero, non vivranno. Dei Pezzenti e dell' Agnese, drammoni in versi, non è da parlare.

La sera d'ogni prima rappresentazione il Cavallotti aveva la febbre; sembrava quasi stèsse per ammattire. A ogni impuntatura di attore, trasaliva, si agitava convulso, si arrampicava a una quinta, mandava fuori qualche moccolo, si versava intere catinelle di acqua fredda su la testa.

Alle prove, non era meno agitato. Un suo amico narra piacevolmente:

« Bisogna sentirlo ora come legge le sue commedie, e come rifà la parte dell' amoroso o del primo attore, servendosi alternamente dei suoi due registri vocali. Vedetelo là adesso, piantato a gambe larghe nel centro della scena — come direttore sceno-tecnico preferisce il centro alla sinistra, che gli spetterebbe — togliendo al suggeritore la vista degli attori, che pendono dalle sue labbra; vedetelo rosso in viso, con lo sguardo intento e l'orecchio teso ad ascoltare, tormentando quell'infelice baffo destro, che deve alla sua posizione topografica sotto il naso il continuo esercizio depilatorio, al quale, non so come, resiste, con meraviglia del suo omonimo fortunato di sinistra.

« Ora sentitelo: interrompe la prova con un formidabile — No! — e si sforza di recitare a memoria, e con la dovuta intonazione, il periodo che qualche attore non ha inteso bene o gli ha storpiato; ma nella foga, spesse volte, replica ripetutamente una mezza frase che non riuscì a tirargli in mente l'altra metà. Allora si arrabbia con sè stesso, suda, si sbottona il vestito, getta via il cappello e strappa il copione dalle mani del suggeritore. Quando poi, con la scorta del manoscritto, ha rimesso in tono e raddrizzato i periodi, respira, si asciuga il sudore, si riabbottona, cerca il cappello, lo rimette nella consueta posizione e torna al posto ».

Lo stesso amico, a proposito della prima rappresentazione dei Pezzenti a Milano, racconta il seguente aneddoto:

« Il Conte di Rysdal dorme in una delle due celle occupanti la scena. Svegliatosi, deve recitare una preghiera. Alzatosi il sipario, arrivato il momento, l'attore incaricato della parte non si move, non dà segno di vita. Il Cavallotti, che poco prima non aveva saputo spiegarsi un rumoroso e cadenzato respiro, al mormorio del pubblico capì subito di che si trattava. Slanciarsi contro lo scenario di fondo, darvi un solennissimo pugno accompagnato da un rabbioso e meneghino: Porco sciampin! e rompere il sonno al malcapitato attore fu tutt'uno! Il pubblico non si accorse di niente e la rappresentazione proseguì senz'altri incidenti. »

V.

Probabilmente, nella lirica Felice Cavallotti non lascerà orma più profonda che nell'arte drammatica. Il Libro dei versi è quasi il suo testamento poetico e una piccola biografia insieme, divisa in sei parti con titoli diversi: La mia Arte, Il mio Paese, La mia casa, Sogni e sorrisi, Malattie, Ricordi scenici. Dal volume delle Poesie, dalle Anticaglie, dai drammi e dalle commedie, dove il Cavallotti non ha mancato mai d'introdurre qualche personaggio che scrive o recita versi, da riviste e giornali, fin da galanti ventagli, egli ha scelto, secondo il consiglio del suo editore Aliprandi — com'egli narra nella prefazione — quei componimenti che il cuore ripete più volentieri, quelli ai quali egli vuol più bene, non perchè migliori degli altri, ma anche perchè, a differenza degli altri, vi è appiccicato della sua vita, un qualche cosa il cui ricordo lo fa triste ed allegro, una qualche memoria che il tempo non ha cancellato.

E di questa prefazione è notevole la chiusa:

« Questo libro vorrebbe essere, per ciò che rispecchia, un libro sui generis: il libro cioè che il poeta, passato per molte lotte, arrivato a un dato punto della via, quando il crepuscolo si avanza, vorrebbe trovare vicino a sè nell'ora dell'andarsene, e lasciare di sè e dell'opera propria — quando il resto andasse perduto — come il più sereno dei ricordi, al figliuolo, come lui nato ad amare, come lui nato a lottare. E cioè vorrebbe essere come la sintesi di tutta una produzione lirica, in rispetto unicamente al soffio che l'animò, ai sentimenti che la destarono; un libro vissuto, il compendio in versi della memoria di un poeta. Ivi non saranno tutte le battaglie combattute: ma echi delle note che squillarono in tutte; ivi non saranno tutti i sogni sognati, ma parole e lavoro dei sogni che il poeta più amò. Sicchè coloro che non sciuparono il tempo nel tener dietro alla varia sua opera o nel leggere i volumi suoi possan dire, senza errore, di conoscerlo da questo: e quando ci sia passato fra i più, e data la molta sua suppellettile all'oblio, gli sorrida la lusinga di vivere in taluna almeno di queste pagine, e che a qualcuna di esse si arresti il sorriso di labbra gentili o il pensiero di qualche anima buona. »

Malinconiche parole che rendono pensosi e inducono a credere che un confuso presentimento della sua prossima fine attristasse l'animo del poeta, se si ricordano le altre parole riferite dai giornali e da lui rivolte a un suo collega di deputazione poche ore prima dello infausto duello: Prepàrati a fare anche la mia commemorazione!

Certamente in questo volume sono raccolti i versi del Cavallotti che più volentieri si rileggono. Con bonomia tutt'ambrosiana, nell'autunno dell'anno scorso, in faccia agli ultimi raggi del sole che indoravano la collina di Dagnente, fra due bicchieri di ottimo Miradolo, il suo editore — com'egli riferisce — gli diceva:

— Quei versi lì, così a naso, mi pare che sian quelli che si capiscono di più e che girano meglio per le mani della gente. Lei ha gridato tanto la croce contro i versi che la gente non capisce!...

E sembra che abbia voluto dirgli:

— Negli altri suoi versi c'entra troppa politica, troppa partigianeria. Nati in circostanze eccezionali, hanno tutti i difetti delle produzioni che prendono occasione di un fatto politico particolare, di cui, nel momento che esso avviene, non si può dare un giudizio equo e sereno. Quando sopravvengono altri fatti che lo commentano e lo spiegano, la spiegazione e il comento affrettati, monchi, ingiusti ne diminuiscono il valore, specialmente se quei versi non hanno tale eccellenza di forma da ridurli immortali. Lasciamo che li ricerchino coloro che vorranno rintracciarvi i sentimenti e le idee dell'uomo politico. Costoro non si arresteranno a un'epoca, frugheranno qua e là, potranno cavarsi il gusto di trovare il poeta di un tempo in contraddizione con quello di tempi posteriori. E avranno torto di scandalizzarsi di certe contraddizioni tra i sentimenti e le idee del giovane e quelli dell'uomo maturo — l'uomo tutto di un pezzo è quasi innaturale — purchè gli entusiasmi di una volta non siano meno sinceri degli entusiasmi di dopo. La politica è deleteria. Lo sa per prova un altro poeta. Pochi critici riescono a mantenersi nei limiti della discussione puramente letteraria, quando un concetto estraneo all'arte vi si è infiltrato per dividerne gli animi, per eccitarli, per offuscare le menti. Se occorrerà, se la forma ha avuto tanta potenza da elevare la poesia di circostanza, anche appassionata, anche ingiusta, anche maligna, a un'altezza sublime; se occorrerà, se sarà il caso, quando le passioni, gli eccitamenti, gli odii, i rancori, le invidie troppo personali non turberanno più gl'intelletti, la critica saprà fare e farà il dover suo, guarderà soltanto l'opera d'arte e la giudicherà unicamente come tale. Diamo per ciò tempo al tempo. Intanto facciamo un volume che riveli l'uomo nel poeta, o meglio, il poeta nell'uomo, se c'è; è più prudente, più pratico. —

Ecco quel che mi è parso d'intravedere in quelle parole di bonomia tutt'ambrosiana, e che ho riferito apposta perchè anche io non voglio ricercare il poeta lirico nei canti politici, ma circoscrivermi a studiarlo nel libro dei versi.

Non già che qui siano soltanto componimenti con contenuto dove la politica non faccia capolino e non lo invada intero con tutti i suoi sdegni, con tutte le sue ire, con tutte le sue contraddizioni; sarebbe quasi un miracolo, trattandosi di un uomo come il Cavallotti.

E a Giuseppe Garibaldi egli dirà:

Altra Italia sognavi!
un'altra meta
Accarezzavi nell'ingenua testa!
Povero vecchio! il desiderio acqueta!
Ecco l'Italia dei tuoi sogni è questa!

Non pei suoi figli, tu ne' giorni rei
Dolce speravi d'
una patria
il vanto?
Vuota formola Italia or più non sei,
Tutto ora copri del tuo nome santo.

Guarda le nude, le tetre pareti!
Chiudono ancor le squallide
dimore
I generosi, i matti ed i poeti...
Ma almen veglia alla porta il tricolore!

Ve' tra gli inermi, come un dì, si sbranca
Torma di sbirri per le dense strade!
Lavorano le daghe a dritta e a manca...
Ma almeno, almeno, son d'Italia
spade
!

Oh dolce orgoglio! Non più lo straniero
C'insulta nei cruenti parapiglia!
Le prepotenze son le stesse, è vero...
Ma almeno, almeno, son fatte in famiglia!

La forma non eleva l'ironia troppo volgare; e questo difetto fa pensare che gli Dei hanno voluto bene al poeta, evitandogli il pericolo di esser ministro e di trovarsi in circostanze che avrebbero permesso, a qualche altro non meno volgarmente, di ripetere che anche sotto il governo di lui altri generosi, altri matti ed altri poeti, o pretesi generosi, o pretesi matti e poeti, come si vorrà, avevano abitato le squallide dimore; che altre daghe non meno sbirresche avevano lavorato a dritta e a manca per le dense strade; giacchè la politica gioca simili e peggiori tiri ai suoi adepti, e non c'è abilità che possa evitarli.

Nella poesia Dijon, in morte del fratello Giuseppe, egli si lascerà sfuggire:

Oh, la notte che all'Alpi scoscese,
Solo, in vetta, sostando fra i geli,
Lungi il guardo
oltre i limpidi cieli
Sospingevi la Francia a cercar

Di che lauri mai fosse cortese
Questo
suol che a difender volavi,
E qual messe superba ignoravi
Tanto sangue dovesse inaffiar!

Non pensasti la gallica boria.
Curva ancor sotto l'asta germana,
Pei
tornati
guerrier di Mentana
Ritrovante l'oltraggio di un dì;

E spartirsi l'ausonia vittoria
Quei che al Prusso voltarono il dorso.
E i paffuti fuggiaschi del Còrso
Scagliar fango a chi vinse e morì!

E annoterà: Non è inutile per la storia il rammentare di che gratitudine imperialisti, legittimisti, pseudo-repubblicani e clericali rimeritassero in Francia il soccorso magnanimo del vinto di Mentana. Ma sùbito la politica della sua parte repubblicana gli farà soggiungere: « Per fortuna... il VERO POPOLO FRANCESE... ricorda con ammirazione e gratitudine il nome del vincitore di Dijon, » quasi imperialisti, pseudo-repubblicani, legittimisti e clericali non appartenessero al VERO POPOLO FRANCESE e non ne formassero la maggioranza!

Sarà meglio rifuggiarsi spassionatamente nella critica letteraria e, innanzi tutto, prender nota di una preziosa confessione del poeta:

A me polito e terso
Nel furiar de l'ore
Non concessero il verso
Le Pierie canore:
E di squisiti carmi
E d'armonia gentil
L'estro ignorò fra l'armi
Il delicato stil.

( La lucerna di Parini ).

Infatti, proprio nel componimento che inizia il volume, nella prima strofa, c'imbattiamo in questi versi:

Ma già già l'ombre
fasciano
il piano,
Espero luccica ne lo zaffiro...
Il lampionaio comincia il giro
Per i
viottoli
de la città!

( Tramonto ).

E nell'ultima strofa:

Or tu, fanciulla, che nel tripudio
Dei cari aprili mi chiedi un canto,
Tu, se dell'arte gentile incanto
Perenne fascino rida a' tuoi dì.

Nei tardi vesperi, su questa pagina
Se un melanconico sguardo ritorni,
Del fior più bello che il crin t'adorni
Lieve una foglia
posala
qui.

E più in là in questi altri, nella lirica Alla Doccia perenne di Dagnente:

Ecco, or
fantasima somiglio bianca
Che vada errando per la montagna...
Di qualche morto l'anima stanca
Che di
alcun
torto forse si lagna...

Senti, Giovanni, quando in lenzuolo
Simile a questo porranmi un dì,
In qual sia trovimi lontan suolo
Di' la
mia bara
la portin qui.

Non voglio affermare che uguale trascuratezza s'incontri in tutte le sue liriche, ma è raro che qualcosa di trasandato, di dimesso, di comune non dia a quasi tutte l'aria di facili improvvisazioni. I metri troppo musicali lo affascinano, lo fanno trascorrere, gl'impediscono di scegliere fra le tante immagini che gli si presentano davanti, di indugiare su un aggettivo, di esitare intorno a una rima. L'eccitazione lo spinge innanzi senza dargli tempo di voltarsi addietro; le strofe sgorgano una appresso all'altra, lusingandogli l'orecchio, ed egli cede volentieri alla loro malìa.

Certe volte la trovata è geniale, ma la verbosità per poco non la sciupa; è gentile, ma fa rimpiangere che la forma non sia gentile altrettanto. La sincerità spesso lo salva, giacchè dov'egli appare anche più manierato si mostra pure sincero. In bocca a un altro questa strofa oggi farebbe ridere:

Oh melodi! o fantasime
Superbe del pensiero!
Santi dell'Arte fascini.
Caste Pimplee del Vero!

Triste chi osò di adùlteri
Amplessi i vostri altar,
Di servil carme i dèlubri
Di Pindo profanar.

In bocca sua fa appena sorridere, perchè c'è sempre un dissidio tra la sua forma e il suo concetto, quasi egli abbia gettato addosso a questo la prima veste capitatagli sotto mano, senza badare se gli si attaglia o no; forse, per la convinzione che il concetto, bene o male, più o meno efficacemente, si farà intendere; e questo gli sembra l'importante.

Infatti le naturali attitudini del suo ingegno sono ricche: l'impeto, lo slancio, la commozione, la tenerezza, il sorriso, l'ironia, la satira violenta si alternano, si mescolano, si confondono con vena abbondante.

Quella monotonia che scorrendo il volume si fa vivamente sentire è più nei mezzi ch'egli adopra, che non nella sostanza; nel verso, nel metro, nella costruzione della strofa, e anche un po' nella concezione generale. Si vede bene che, se egli non avesse avuto troppa fretta, se non avesse sentito alle spalle l'urgenza di altre bisogne specialmente politiche, l'opera sua avrebbe potuto riuscire assai ben diversa. Ma a lui, che scorge soltanto gli eccessi di certe ricerche di stile e giustamente le sdegna, anche il limæ labor sembra, o almeno pare che sembri, un eccesso. E perciò si fa dire dalla Musa:

Fra pergamene logore, astruse
Che andresti, misero vate, cercando?
Astrusi ritmi, strofe confuse,
Gergo dai vivi fuggito in bando?

Odon gli stitici metri di notte
L'ombre:
te i cuori ch'odano io vo'
:
O scegli il plauso di scimmie dotte,
O scegli i baci ch'io sola do.

( L'Addio alla Musa ).

Ma forse quand'egli rimpiange, con insolita bellezza di forma,

I bei razzi lucenti
Lanciantisi alle stelle,
In fasci aurei spioventi
E in scintillanti fior!

Per mille goccie belle
Di color mille splende
La pioggia ignea... discende
Lenta ne l'aria... e muor

nella quale felicissima immagine adombra i fervidi giovanili sogni che

Spingean superbi voli
Incontro all'avvenir:

forse egli pensa quel che sarebbe stata l'opera sua letteraria, soggiungendo con amarezza:

Luce più lunga ed altro
Solco
ne
l'aria scura
S'era il mio cor più scaltro
Segnato avria il cammin!

Cercando la ventura
Per altre vie gioconde,
Avria più liete sponde
Raggiunto il mio destin!

E altri rimpianti, e altri dubbi intorno alla vitalità dell'opera sua gli sfuggono frequentissimi, assieme con accenni al riposo finale, quando il suo cuore avrà cessato di battere e la sua mente di lottare. E questo senso di scoraggiamento e di tristezza rende simpatico l'uomo anche a coloro che non amavano il partigiano politico e il polemista irruente. L'arte non è eccelsa, ma il carattere fa impressione; e qualche volta anche la persona prende rilievo e apparisce viva, come nella lirica I miei discorsi alla camera.

Egli si leva a parlare:

E sovra italiche labi e vergogne
De l'ire chiuse puntando l'arco
L'aspra parola, frenata al varco.
Tenta di arguzie vestita uscir.

Ma i forse, i quasi, i periodi corretti, i cauti motteggi gli sembrano una triste concessione, una viltà; e la parola scatta arroventata.

Ma inquieto l'occhio del presidente
Attento, vigile sopra
gli
sta,

Fatto a l'orecchio la man riparo
Ansio ogni sillaba segue il vegliardo;
Or bieche lancia
gli
rampogne il guardo,
Ora par preghi
lo
...: Per carità!

Ed egli s'infrena, s'infrena; e il Biancheri lo ringrazia sorridendo. Ma di là a poco, una forte scampanellata:

Allora... allora... dal cor profondo
Un
non so cosa
sal di molesto...;
E la man destra fa un certo gesto...
Come di cetra corde toccar.
Conclude in furia... finisce il fondo
De l'acqua e zucchero... poi corre via...

E infatti parrà di vederlo a tutti coloro che hanno assistito a qualcuna delle sue sfuriate parlamentari.

E per questa schiettezza di rappresentazione che ci mostra il poeta calmo, sorridente, in un momento di galanteria anzi di marivaudage, certe sue poesie minori, riunite nella parte IV appunto sotto il titolo di Sogni e Sorrisi, hanno probabilità di vita più lunga delle altre, anche perchè più accarezzate, in grazia forse della serenità del momento, dal lato della forma.

Oh, egli sa benissimo di essere stato un combattente, un agitato, un inesorabile; e la sua coscienza gli fa prevedere che neppur quando sarà morto i suoi avversari gli daranno pace! Ma egli protesta, e invoca l'amico Primo... perchè difenda la sua memoria dalle bieche ingiurie che tenteranno di sterpare i fiori dalla sua fossa:

Tu, che da questi carmi udirai
Note a te fremere pugne dal cor,
Tu al buon Tersite dirlo potrai
Se furon tinti del suo livor.

Tu che gli sdegni vedevi e l'ire,
E il giambo uscirne, beffardo suon,
Tu al buon Tersite lo potrai dire
Se vi eran lagrime nella canzon!

( A l'amico Primo... )

E quantunque questi versi siano del giugno 1879, non mi è parso inopportuno ripeterli come chiusa di questo scritto.

ALFONSO DAUDET

Da quasi dieci anni Alfonso Daudet sopravviveva a se stesso. I suoi intimi affermavano che la spinite da cui era reso mezzo inerte il suo corpo non aveva menomamente intaccato le facoltà intellettuali di lui; ma gli ultimi libri pubblicati mostravano una stanchezza, un affievolimento di forze che smentivano presso gli ardenti ammiratori la pietosa bugìa. Per ciò, oggi, al dolore per la perdita dell'autore prediletto si è mista la pietà per l'uomo che ha cessato di soffrire.

La natura e le circostanze lo avevano colmato di doni. Alla bellezza fisica si accoppiavano in lui un'immaginazione vivacissima, una sensibilità squisita, quasi femminile, una geniale padronanza della forma letteraria, un felicissimo intuito dell'opportunità, una sempre giovanile freschezza di impressioni, di slanci di buon umore, di malizia e di birichineria. Nato poeta, le necessità della vita lo avevano fatto smarrire tra i romanzieri; e c'era voluta una gran forza di volontà e di ostinazione per guadagnarsi e mantenersi fra essi il posto che ha occupato per parecchi anni.

Pochi scrittori hanno avuto, come lui, la rara facoltà di impossessarsi delle anime, di compenetrarsi con loro, di ispirare la profonda simpatia che mette all'unisono il cuore dello scrittore con quello dei lettori. I suoi stessi difetti lo aiutavano in questo. L'eccesso di colorito, la mancanza di proporzioni e di equilibrio, le trascuratezze apparenti o volute di molte parti dei suoi lavori avevano un incanto particolare, di bizzarra noncuranza, di imprudenza gioconda. Si perdonava facilmente ogni cosa a colui che ci commoveva con le sue novelline, che ci interessava e ci sbalordiva con la magnificenza delle sue descrizioni, con la passione e coi casi dei personaggi dei suoi romanzi. In Francia gli han perdonato fin le sgrammaticature; e il giorno che qualcuno, nella Vie moderne, si compiacque di una lunga spulciatura pedantesca dell' Immortel, i lettori francesi non gli badarono, e continuarono a leggere e ad ammirare il Daudet, sospirando forse: Ne avessimo parecchi di simili scrittori sgrammaticati! Giacchè egli, come tutti gli artisti di razza, si era creato una lingua tutta sua, uno stile vivo, pieno di efficacia drammatica, che non somigliava a quello di nessun altro. Se la grammatica non ci trovava il suo conto, peggio per lei.

Eppure quella deliziosa facilità era frutto di paziente fatica. Le novelline di poche pagine gli costavano otto giorni di lavoro. La lucidezza e il fremito della sua frase risultavano da una cesellatura amorosa, paziente che voleva raggiungere a ogni costo la perfezione. Quando si parla di lingua e di grammatica, bisognerebbe sempre rammentarsi che il Fénelon ha detto del Molière, da lui tanto ammirato come autor comico: Ah, se Molière sapesse scrivere! E il Molière oggi è un classico.

Alfonso Daudet ha avuto tutte le fortune, non ultima quella di non accorgersi di morire.

Autore dell' Immortel, satira spietata ed eccessiva dell'Accademia francese, esecutore testamentario del De Goncourt per l'altra Accademia dei Dieci che dovrebbe essere il contr'altare dell'Accademia dei Quaranta, gli era toccata ultimamente anche la consolazione di un primo sfavorevole giudizio dei tribunali verso gli avidi eredi del fondatore. E forse dalle sue belle labbra, convulse per gli atroci dolori che gli rodevano le ossa, uscivano inesorabili epigrammi contro i quaranta immortali nell'istante in cui la morte è venuta a strappargli l'estremo grido, rovesciando su la tavola, fra lo spavento della moglie e dei figli, la leggendaria testa capelluta, grigia per gli anni e pei patimenti.

Non ostante i suoi ultimi lavori, sembrava che per lui la posterità fosse cominciata da un pezzo, dopo Sapho. I giovani, con la ingratitudine baldanzosa che è propria della loro età, osavano già scrivere che il Daudet ormai era un grand'uomo soltanto in provincia, a Tarascona da lui illustrata, a Nîmes dove era nato! E il suo stile veniva qualificato di telegrafico, rozzo impasto di interiezioni e di balbettamenti, linguaggio da petit nègre, cosparso di pariginismi in voga! Tamburinaio traviato (alludevano al Valmajour del Numa Roumestan ) falso parigino, era stato creduto per un momento uomo di spirito, stilista, artista e fin romanziere! Ma tempo, tempo fa!

Ai giovani è permesso di esagerare e anche di essere ingiusti. A questi cercatori di novità sbalorditoie, a questi infatuati del simbolo, a questi folli adoratori della preziosità della forma, uno scrittore limpido, vivace, drammatico anche nel colore della frase come il Daudet non può riuscire gradito. È troppo esteriore, secondo loro, è troppo del suo tempo, e anche troppo personale. Probabilmente, il giudizio della posterità non sarà proprio questo che essi han pronunciato così alla spiccia nelle compiacenti colonne del Figaro e di altri giornali. Non sarà neppure un'ampia conferma, senza nessuna obbiezione e riserba, di quello pronunziato dal pubblico, quando i romanzi del Daudet gli mettevano sotto gli occhi creature che non lo interessavano soltanto come creazioni di arte, ma anche perchè ne stuzzicavano la curiosità come figure, appena velate, di personaggi viventi o spariti da poco dalla scena del mondo.

Indagare quale potrà essere il giudizio dei posteri, e quale delle opere del Daudet sarà capace di resistere all'edace lavoro del tempo, mi sembra tentativo inutile oltre che irto di difficoltà.

Siamo vissuti con lui nello stesso ambiente letterario; abbiamo ancora fresche le sue stesse convinzioni e, se così si vuole, i suoi stessi pregiudizi estetici, da poterci astrarre da essi, e studiare l'opera sua da un punto di vista così elevato e così imparziale che permetta di adoprare come elementi di giudizio soltanto i più puri e i più immutabili principî d'arte. Bisogna contentarsi di riandare tutta la non vasta opera sua, metterne in rilievo i caratteri principali e notare via via lo svolgersi delle qualità più personali che lo hanno distinto tra la folla degli scrittori francesi contemporanei; bisogna contentarsi di accennare quel che egli ha apportato di nuovo nella forma narrativa, quel che, per caso, vi ha lasciato in germe e che potrà fiorire a tempo opportuno, quel che anche oggi può facilmente giudicarsi e manchevole e caduco. Questa sarà l'umile opera che cercherò di fare alla meglio nel presente studio.

* * *

Innanzi tutto, il Daudet dev'essere qualificato impressionista. Questo miope ha una gran virtù di osservatore.

Lo sforzo per veder bene acuisce la sua attenzione, imprime più profondamente nella sua memoria le cose vedute, e la vivace sua fantasia meridionale non deve fare nessun conato per renderle col magistero della parola. Certe volte l'evocazione è così intensa, che perde la qualità di opera d'arte e, da descrizione che avrebbe dovuto essere, riesce enumerazione e niente altro; ma questo, bisogna dirlo, gli accade di rado.

L'osservatore è intanto anche un sensitivo, un sentimentale, un poeta. La sua anima è piena di fantasticherie e di compassione; egli s'intenerisce facilmente; ama meglio sorridere che sdegnarsi; perciò mentre la sua visione delle cose esteriori è intensa e minuta, e le impressioni del paesaggio e delle scene della natura si trasformano agilmente dentro di lui in immagini artistiche, il suo sguardo non penetra addentro nell'intimo spirito delle persone che non possono riuscire simpatiche al suo cuore. Da ciò una sproporzione, un disquilibrio nella sua opera d'arte. Il poeta guasta il romanziere.

E soltanto poeta egli arrivava a Parigi nel novembre del 1857 a diciotto anni, portando con sè nella misera valigia la maggior parte dei componimenti poi pubblicati sotto il titolo Les Amoureuses.

Un critico scrisse allora: « Alfredo de Musset, ha lasciato due penne a disposizione di chi poteva prenderle: la penna della prosa a quella dei versi. Ottavio Feuillet aveva già ereditato l'una; Alfonso Daudet si è impossessato dell'altra. »

Si vede bene che i critici fanno male a indossare la veste di profeti!

Teodoro de Banville ci ha lasciato il ritratto del giovane poeta. « Testa maravigliosamente incantevole; carnagione di un pallore caldo, color d'ambra; sopracciglia diritte e morbide; occhi fiammeggianti, vaghi, umidi in una e brucianti, pieni di fantasticherie, occhi che ci vedono poco, ma belli a vedersi; labbra voluttuose, pensose, quasi sanguinanti; barba fine, infantile; capellatura fitta, abbondante bruna; orecchio piccolo e delicato; insieme di virile rigoglio e di grazia femminile. »

I salotti e le signore avevano fatto la fortuna delle Amoureuses; Il Figaro doveva rivelare lo scrittore di novelline. Parecchie di esse erano appena una transizione dai raccontini in versi e dialogati, come Le roman du Chaperon Rouge, les Rossignols des cimetières, l'Amour trompette. Brevi come questi, poetici nella sostanza e nella forma, quantunque non vi fosse adoprato più il verso, essi hanno preso posto nelle Lettres de mon moulin, nei Contes du lundi, nelle Lettres à un absent. Sono fantasie, ricordi, note di impressioni fugaci, che, dopo i disastri francesi del '70, assumono talvolta un'elevazione tragica, un'espressione di sdegno non potuto reprimere. Rammento L'ultima classe, La partita di bigliardo. Quel povero maestro Hamel che col cuore infranto, dà l'ultima lezione in francese ai suoi scolari alsaziani, perchè il governo prussiano ha ordinato che da allora in avanti si dovrà studiare soltanto il tedesco nelle scuole; e che alla fine della lezione, preso un gessetto, scrive a grosse lettere su la lavagna: Viva la Francia! e barcollante, con le lagrime agli occhi, dice soltanto col gesto agli scolari sbalorditi: — È finita! Andatevene! — quella figura di vecchio maestro di villaggio, che ancora porta l'antico tricorno, rimane indimenticabilmente impressa nella memoria, quantunque il racconto sia di quattro o cinque paginette.

E come fa fremere quel maresciallo che, acquartierato in un castello del tempo di Luigi XIII — mentre i suoi soldati intirizziscono fuori, coi piedi nel fango, morti di fame — giuoca al bigliardo con un capitano che perde appositamente per adulare il superiore da cui dipende il suo avanzamento! I prussiani, sopravvenuti, hanno già attaccato gli avamposti; la fucilata incalza, incalzano anche le bombe. Gli ufficiali francesi accorrono dal maresciallo, chiedendo ordini; ma egli non smette di giuocare, ingessa tranquillamente la stecca, tenta delle carambole. Che gli importa se fuori si combatte e si muore? Quando la sua partita finisce, i reggimenti francesi sono già sbaragliati, e attorno al castello si ode soltanto un rumore confuso di passi simili a quello di un armento che fugge!

In questi mirabili capolavori si trovano tutte le buone qualità dell'ingegno del Daudet, senza nessuno dei difetti che egli mostrerà quando dal quadretto di genere passerà a dipingere i grandi quadri della corrotta vita parigina.

Da principio sembra che nei lavori di lunga lena egli facilmente si annoi, e cerchi volentieri l'occasione di distrarsi. E le narrazioni complicate assumono quindi fra le sue mani un'aria di cosa scucita, frammentaria. Si capisce da un capitolo all'altro, la disposizione del suo spirito. Mentre è ingolfato a raccontare il crudo dramma di casa Risler, e già trova accenti di vigore e di forza nel descrivere e gli adulteri amori di Sidonia con Giorgio Fromont, socio di suo marito, e tutti gli infami intrighi di essa che conducono l'onesto e buon Risler al suicidio, egli si sente a disagio tra quei personaggi. Ah, che sforzi in questa continua tensione di spirito! E, appena può, scappa via, in casa dell'illustre Dolabelle che lo diverte con la sua vanità di comico di provincia smarrito per le vie di Parigi, con le sue pose, col suo accento teatrale, con quell'aria di sacrificato in contrasto con la sua pinguedine e con la lucentezza della sua pelle! E come lo accarezza, come gli sta attorno, come se lo gode lui, prima di presentarlo ai lettori! Ogni suo gesto, ogni suo atto è stato mimato da lui, ogni sua parola gli è venuta su le labbra con lo stesso falso accento di lui; egli è stato Dolabelle, immaginando e scrivendo. E quando gli fa scappar di bocca una di quelle frasi incredibili che sono stupende trovate di artista, la gioia e la soddisfazione dello scrittore traspariscono tra le righe, invadono anche il lettore, che si vede davanti agli occhi, vivo e parlante, il personaggio. Come, per esempio, quando l'illustre Dolabelle conduce dietro il convoglio funebre di sua figlia Desiderata tutti i comici dei teatrucoli di Parigi, e invanito per la solennità della cerimonia, additando le due carrozze che seguono il corteo, esclama serio e impettito:

— Due vetture padronali!

Così farà il Daudet più tardi nel Nabab, con la famiglia Joyeuse. E gli parrà quasi di ritrovare un riscontro all'illustre Dolabelle in persona del signor Joyeuse che, perduto l'impiego, per non addolorare le figliuole, nasconde ad esse per tre lunghi mesi la sua disgrazia; e tutte le mattine finge di andare, come era solito, al suo ufficio, e passa la giornata errando qua e là per Parigi, fantasticando le storielle che dovrà poi raccontare alle figlie a fine di far durare il loro inganno.

Così praticherà, più tardi ancora, in Numa Roumestan.

Ma, a proposito di questo romanzo, bisogna aprire una parentesi.

Fra il gran tumulto della vita parigina, Alfonso Daudet ha continuamente la nostalgia del suo mezzogiorno. La nebbia che là infosca il cielo, il fango che imbratta scarpe e calzoni, gli fanno sospirare il profondo azzurro del cielo provenzale e quello più costantemente limpido di Algeri, dove, anni prima, avea dovuto ricercare ristoro alla sua malferma salute. Da questa doppia nostalgia era già scaturito Tartarin da Tarascon, armato di tutto punto per le sue caccie di leoni!

Tartarin sognava caccie di orsi, di leoni, di elefanti, centellinando bicchierini di rhum in quel suo salotto parato di armi d'ogni sorta e di ogni tempo. E dire che, da buon provenzale, avrebbe dovuto fantasticare soltanto bei colpi ai berretti, quei bei colpi con cui i suoi amici si solevano compensare, nelle partite di caccia, della selvaggina che non trovavano!

Ma di mano in mano che la fantasia di Tartarin si eccitava e divampava, si eccitava maggiormente e prendeva fuoco la fantasia del suo creatore. E questa volta era proprio vero che il Dio foggiava la sua creatura a immagine e similitudine sua! Se non che, il Dio si divertiva dell'opera che andava facendo e della caricatura di sè stesso che ne scaturiva fuori. Il provenzale che, credendo di ammazzare un leone, stendeva morto dietro una siepe un povero somaro, non era diverso dal provenzale che si compiaceva di fargli fare quella e altre ridicole prodezze. Tutti e due mentivano, esageravano, prendevano diletto della propria esagerazione e della propria menzogna scaturite dal fondo di un organismo infiammato dal sole della loro cara Provenza. Rare volte una creazione artistica era riuscita così intimamente improntata del carattere dell'autore e della razza.

Coloro che hanno avuto la fortuna di gustare la conversazione famigliare di Alfonso Daudet dicono che par di riudirne la voce durante la lettura dei suoi libri. Quello stile spezzato, di scorcio scintillante di immagini, riboccante di esclamazioni, di apostrofi, di tutte le figure che la rettorica ha enumerate e che là vengono al lor posto spontaneamente, come ribollimento anzi spuma del pensiero concitato, è precisamente la sua parola ordinaria un po' infrenata, epurata, quasi inconsapevolmente adattata dall'arte. Sarà, forse (diciamolo per compiacere gli stilisti) stile disuguale, scorretto; ma ha il fuoco della vita, il fremito del movimento, la commozione, il pittoresco, l'imprevisto, come secoli avanti l'aveva avuto, in Italia, quello di Benvenuto Cellini, che non si curava anche lui della grammatica dei pedanti e dettava, tra un cesello e l'altro, la meravigliosa narrazione sventuratamente rimasta caso isolato nella nostra letteratura.

E il Tartarin che scrive come ride delle famose gesta del Tartarin eroe che gli balza vivo da ogni pagina, gesticolante, ebbro delle sue stesse madornali fandonie, dalle quali egli si lascia illudere con pienissima buona fede, quasi quanto gli altri a cui le sballa!

Numa Roumestan è un Tartarin più elevato, ma artisticamente meno sincero. Anche questa volta la nostalgia della Provenza ha invaso il cervello del Daudet; ma questa volta risulta Tartarin proprio lui che racconta.

Ha avuto un colpo di sole; ha visto il Gambetta nel colmo della sua potenza e n'è rimasto abbagliato. Infatti, nei primi capitoli del romanzo il lettore non può far a meno di pensare al Gambetta; i nomi cambiati non riescono a ingannarlo. Aps è Aix; Numa Roumestan è il gran latino che ha conquistato nuovamente la Gallia. « Quella festa del concorso nazionale nell'arena d'Aps (mi sia permesso ripetermi) sotto il sole cocente, con quella folla in ammirazione davanti al grand'uomo di provincia, Numa Roumestan, che distribuisce a destra e a manca saluti alla buona, strette calorose di mano, incoraggiamenti e promesse d'ogni sorta mentre le bande strepitano e i contadini si slanciano a ballare la farandole al suono del piffero e del tamburo del Valmajour, primo tamburinaio della Provenza; quella festa ci richiama alla mente altre riunioni della stessa natura, delle quali abbiamo letto le descrizioni nei giornali, quando il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente andava attorno per convertire le turbe al suo vangelo opportunista. Poi si torna indietro, assistiamo ai primi passi del grand'uomo nella carriera politica. Quella testona dalla nera capigliatura che gli mangia metà della fronte, quella faccia col sangue a fior di pelle, coi begli occhi dorati, di ranocchio, quel giovane studente, insomma, che passa le serate al caffè Malmus, nel quartiere latino, discutendo in dialetto coi focosi compaesani, e poi quel processo di stampa del Furet che rivela, più che agli altri, a se stesso, un oratore di prima forza nel giovane avvocato senza cause, ci ricordano anch'essi il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente, che sotto il secondo impero frequentava, ancora studente, il caffè Procopio, esercitandosi con colpi di pugni sui tavolini nella grand'arte della discussione, e che dopo, nel 1868, già laureato e uscito dallo studio del Cremieux, nel processo Baudin lanciava, invece della difesa del cliente Delescluze, un terribile atto di accusa contro l'impero in via di sfasciarsi.

L'autore però, che non avea preso sul serio Tartarin, che lo aveva accompagnato con un benevolo sorriso di compatimento e con risate quasi di ammirazione dalla sua partenza per Algeri fino al trionfale ritorno in Tarascona assieme col famoso cammello che ha voluto seguirlo a ogni costo, commette lo sbaglio di accigliarsi, di sdegnarsi a ogni atto e a ogni parola di Numa Roumestan, e ha incaricato l'antipatica parigina, moglie di Roumestan, di far la parte di moralista. La razza! La razza! Ed egli incolpa il Roumestan delle cose più semplici e più innocue, quasi nessun parigino fosse mai capace di dire una sola di quelle piccole bugie, che sono, più che altro, espressioni di convenienze sociali!

Così Numa fa la corte alla figlia di un Consigliere della Corte d'Appello; non l'ama, ma gli sembra conveniente sposarla. E siccome sa che la ragazza non può soffrire i meridionali da lei stimati grossolani, chiassosi, tenori da melodramma o negozianti di vino, il giovane provenzale s'ingegna d'ingraziarsela; le ripete, forse involontariamente — come nota l'autore — brani di discorsi politici da lui recitati al caffè, nelle conferenze, e l'abbaglia con gli sprazzi della sua fulgida eloquenza.

Delitto!

— Amate la pittura, signore? — ella gli domanda.

— Oh, signorina, se l'amo! — risponde Numa, quantunque sappia di non capirne niente.

Delitto!

Eppure questa poca scrupolosa esagerazione meridionale monta la testa anche al Daudet; non è compaesano di Tartarin per nulla.

— Flamme et vent du midi, vous êtes irresistibles! — egli esclama, entusiasmato.

Quasi non fosse stata bastante l'esagerazione di lui posta per epigrafe del libro: Pour la seconde fois, les Latins ont conquit la Gaule! »

Numa Roumestan ha un valore per la storia dell'ingegno artistico di Alfonso Daudet: segna il punto di partenza della sua ultima evoluzione. Si era smarrito, per qualche tempo, dietro gli allettamenti del romanzo, diremo di circostanza, col Nabab e Les Rois en exil e vi aveva profuso tesori di osservazioni e di descrizioni che daranno a questi lavori il pregio di documenti storici in avvenire; era fallito nella terza prova con L' Evangéliste. Ora, col Numa Roumestan, pur cedendo un'ultima volta alle lusinghe di un soggetto che lasciava trasparire qua e là personaggi viventi dietro le figure dell'arte, sembrava si fosse, innanzi tutto, occupato della forma, per rispondere a coloro che lo accusavano di servirsi di uno stile troppo impennacchiato, troppo straluccicante; a coloro che gli rimproveravano la mancanza di proporzione negli episodi, l'eccesso evidente nella ricerca dei contrasti. E a forza di sorvegliarsi, d'infrenarsi, egli, meridionale, compaesano di Tartarin, di quella razza provenzale che vive all'aria aperta, inebbriata di sole, tutta sensi, tutta esteriorità, che parla come l'uccello canta, facendo della propria parola non un mezzo ma un fine; di quella razza che non ha misura, che ha l'esagerazione nel midollo delle ossa, nei nervi, nel sangue; egli, Daudet, riusciva grigio, monotono, per aver voluto architettare il suo lavoro con regolarissime proporzioni di parti, senza divagazioni, senza contrasti.

Ci fu allora chi, studiando questo strano fenomeno, si domandò: Che vuol dire?

E rispose: « Secondo me, vuol dire che questo libro è la forma transitoria dell'evoluzione artistica del Daudet. Qui comincia a mancare l'accento personale, la commozione intensa dello scrittore, e i personaggi, se non si disegnano netti e spiccati, tentano di vivere da per loro. Guardando all'ingegno di Daudet, non è ardito presagire che nel suo prossimo romanzo potremo salutare la sua evoluzione artistica già bella e compiuta ».

Chi scrisse queste parole ebbe un senso di gran soddisfazione quando Sapho venne fuori a confermare mirabilmente il presagio.

* * *

Sapho fu una sorpresa per molti lettori del Daudet. Dietro quelle creature, appassionate, tormentate, buone, cattive, stravaganti, perverse, che annodano un dramma di spaventevole semplicità, non s'intravedevano figure note, personaggi in vista.

I critici si sentivano anch'essi fuorviati, quasi ingannati. Come era stato bello tormentare un po' l'autore, rimproverandogli di servirsi della cronaca, dell'aneddoto contemporaneo, per dare ai suoi libri un piccante che altrimenti non avrebbero avuto!

Com'era stato comodo fargli scontare la gloria letteraria attaccando l'uomo, accusandolo di ingratitudine verso il conte de Morny, il Mora del Nabab; di calunnia contro Francesco Bravay, il Nabab in persona; di esagerazione contro il Thérion, l'Eliseo Méraut dei Rois en exil; di sconvenienza verso Sarah Bernhardt sospettata di essere l'originale della Félicia Ruys; di non so quale altra colpa contro il senatore Numa Baragon che si diceva avergli servito pel Numa Roumestan!

E ora, con Sapho, niente di tutto questo! Appena qualche sospetto intorno al vecchio ingegnere galante Déchelette.

E quasi quasi se la prendevano con quei personaggi che vivevano indipendenti, come nella vita reale, senza essere neppur dalla lontana il riflesso di altre persone della società contemporanea; che amavano, che tradivano, che si lasciarono illudere, che commettevano pazzie, e che, pur non somigliando particolarmente a nessuno, erano come lo specchio di tutti, perchè non rappresentavano più un caso eccezionale, patologico ma la natura umana schietta, con le idealità, le miserie, le falsità della passione e del vizio che rendono bella e triste la vita, la giovinezza specialmente!

Eppure l'artista aveva adoperato con Fanny Legrand, Sapho, col suo adorato Jean Gaussin, con l'ingegnere Deschalette e col marito di Fanny Legrand, l'identico processo adoperato nel dipingere i grandi quadri della vita parigina; cioè, aveva aguzzato gli occhi miopi attorno a sè, aveva osservato, preso appunti, rimuginato impressioni, fuso insieme due, tre, quattro personaggi della realtà per formarne uno solo, eliminando alcune particolarità, accumulandone altre, proprio come era riuscito a trarre Jansoulet dai pochi casi di Francesco Bravay, attribuendogli una bella morte che il personaggio reale, ridotto alla miseria, dovette spesso invidiargli; dandogli un'ingenua nobiltà di animo che il personaggio reale non possedeva così intera, mettendo nelle ultime parole del romanzo tutta la sua tenerezza di poeta:

« Le sue labbra si agitarono, gli occhi dilatati, rivolti verso Géry, ritrovarono prima di morire un'espressione dolorosa di implorazione e di ribellione, quasi per prenderlo in testimonio di una delle più grandi e più crudeli ingiustizie che Parigi abbia mai commesse ».

È vero che nello scandalo letterario s'infiltrava un po' la politica. I legittimisti non gli perdonavano di essersi acconciato tacitamente al secondo impero e poi alla repubblica; non gli perdonavano — a lui che aveva orgogliosamente detto al Morny: Io sono legittimista! sul punto di diventare uno dei suoi segretari di gabinetto — di essersi tenuto in disparte, di non essersi voltato un momento a guardare verso il castello di Frohsdorf, quando era parso che la restaurazione della monarchia stava lì lì per avverarsi. Fingevano di aver dimenticato le roventi parole del Daudet nelle ultime pagine del Robert Helmont:

« O politica, io ti odio! Ti odio perchè sei grossolana, ingiusta, strillona e chiacchierona; perchè sei nemica dell'arte e del lavoro; perchè tu servi di etichetta a tutte le sciocchezze, a tutte le ambizioni, a tutte le poltronerie. Cieca e appassionata, tu dividi cuori fatti per stare uniti; tu leghi, al contrario, esseri assolutamente dissimili. Tu sei il gran dissolvente delle coscienze, tu dài l'abitudine della menzogna, del sotterfugio: in grazia tua, vediamo brave persone diventar amici di birbanti purchè siano dello stesso partito. Ti odio sopratutto, o politica, perchè sei fin arrivata ad uccidere nei nostri cuori il sentimento, l'idea della patria! »

Ma la più bella risposta dell'artista era il suo capolavoro, Sapho. La curiosità, l'indagine storica faranno certamente ricercare nel lontano avvenire le smaglianti pagine del Nabab, del Numa Roumestan, dei Rois en exil e forse anche dell' Evangéliste; ma tutti i cuori tormentati dall'amore, ma tutti gli illusi dal falso miraggio della passione torneranno a rileggere le pagine di Sapho, dove ritroveranno non l'incidente d'un momento, l'aneddoto d'una breve fase storica, ma l'eterno spettacolo dell'umana debolezza, narrato serenamente, delicatamente e senza che la delicatezza noccia all'efficacia e alla forza.

* * *

Io non ho neppur fatto cenno di Petit Chose e di Jack che son rimasti oscurati dai loro fratelli venuti dopo. Non dirò niente dell'opera teatrale del Daudet, che non ha importanza di sorta, quantunque egli abbia tentato di usare pel teatro tutte le sue belle qualità di scrittore.

Che cosa è stato apportato dal Daudet nella forma del romanzo?

Egli sopravveniva in pieno naturalismo, per esprimermi con la formula di uso, dopo il Flaubert, dopo i De Goncourt, dopo lo Zola. Alla impassibilità troppo ostentata del primo, alle preoccupazioni stilistiche e di colorito dei secondi, all'epica e un po' romantica ispirazione del terzo, unita a un problematico rigore scientifico, egli ha recato in contributo una bella facoltà di commozione, una giocondità alata di poeta, la sincerità alquanto chiassosa di una brava persona indulgente.

Ha mostrato che si poteva tentar di fare lavoro di artista senza nè troppo nascondere nè mostrar troppo che, infine, l'opera d'arte è la natura passata attraverso l'organismo dello scrittore e da esso un po' modificata, se non del tutto alterata; che le preoccupazioni stilistiche non debbono soverchiare nell'opera d'arte quel che ne costituisce la parte essenziale, cioè, la creazione del personaggio vivente; che la rigorosa osservazione non deve implicare l'intromissione di argomenti scientifici da produrre, con la tesi, una deformazione dell'opera d'arte; ha mostrato che si poteva tentare tutto questo, e il suo tentativo non è stato vano.

Fino a che punto sia riuscito, quali influenze abbia egli esercitato nell'arte narrativa contemporanea e se egli abbia lasciato germi che potranno germogliare a tempo opportuno può, forse, risultare dal frettoloso schizzo che ho fatto.

E poichè intendo finire questo studio parlando dell'uomo, dirò qualcosa dell' Immortel che sembra una stonatura nella sua carriera di scrittore.

L'artista, in un cattivo momento — chi non ne ha nella vita? — aveva ceduto a un impeto di sdegno, che egli, con la focosa natura meridionale, si era compiaciuto subito di ingrossare. Aveva fatto — sembra — come il proverbiale compare della mula di cui parla un aneddoto siciliano. Costui andando a chiedere in prestito una mula da un suo compare, riflette per via che questi troverà mille scuse per non fargli quel favore. Supposizione, sospetto; egli però fantastica tanto intorno a questa idea, che finisce con scambiarla per un fatto già avvenuto. E tiene broncio al compare; se lo incontra per via, finge di non riconoscerlo o non risponde al saluto di lui. Fa peggio: con amici comuni dice male dell'ingrato compare che ha avuto il coraggio di negargli così piccolo favore. Non gliela avrebbe rovinata quella sua mula, caso mai! E più ci pensa su, e più s'imbroncia, e più si sdegna. Alfine il compare va a domandargli: — Compare mio, perchè? — Per la mula. Non avete voluto prestarmela. — Non l'avete chiesta. — È vero. Ma ho pensato che non me l'avreste prestata lo stesso....

Il Daudet rimase al broncio. Immaginando, forse, che l'Accademia non avrebbe voluto saperne di lui, scrisse l' Immortel. La satira passò il segno; la freccia rimase spuntata.

A furia di caricare d'obbrobrio l'accademico Astier-Réhu, l'artista spinge il lettore a scuotersi dallo sbalordimento che gli danno tante nefandezze e tante imbecillità, lo forza a riflettere; e allora tutto il romanzo gli crolla davanti come un edificio di carte da giuoco, non ostante la magìa di molti particolari, non ostante che lo stile si sia avvantaggiato dell'eccitazione dell'autore per riuscire più vibrato, più denso, elettrico quasi.

E forse l' Immortel non era opera di malignità, nè di invidia, nè di altro sentimento cattivo, ma una semplice birichineria, simile a quelle che Ernesto Daudet ha raccontate nel volume Mon frère et moi, quando Alfonso studiava assieme con lui nel liceo di Lione. Me lo fa supporre la risposta da lui data a un compaesano che gli parlava dell'indignazione suscitata fra gli accademici dall' Immortel:

— Eh? Un bel sasso nel pantano dei ranocchi! Gracideranno più di un mese!

Lo divertiva l'idea di quel gracidìo di accademici.

Se non si accetta questa spiegazione, l' Immortel rimane un atto inesplicabile nella vita del Daudet, una aberrazione enorme.

Ma ora egli riposa nella pace della tomba e non gli importa più niente di tutte le accademie di questo mondo, compresa anche quella del suo amico De Goncourt.

Artista, ha avuto, vivente, tutta la gloria possibile.

Uomo, ha avuto nella famiglia tutta la possibile felicità. La sua buona sorte non solamente lo aveva preservato dalla sciagura di uno di quegli amori che gli hanno fatto scrivere, come ammonimento ai suoi figli, Sapho; ma gli aveva regalato, nel fiore della giovinezza, una compagna, un'anima di artista fina e seducente quanto lui.

Egli ha ringraziato con eloquenti parole colei che è stata fino all'ultimo la sua regolatrice del lavoro, la discreta consigliera delle sue ispirazioni, la serena stella della sua casa:

« Ella è così artista! Ha preso tanta parte in tutto quel che ho scritto! Non c'è una sola delle mie pagine, ch'ella non abbia riveduta, ritoccata, e dove ella non abbia sparso un po' della sua bella polvere azzurra e dorata. E così modesta, così semplice, così poca donna di lettere! Io avevo espresso, un giorno, tutto questo e la testimonianza della sua tenera ed instancabile collaborazione in una dedica del Nabab, che mia moglie non ha voluto permettermi di pubblicare e che ho conservato soltanto in una dozzina di esemplari regalati ad amici. »

Ella, alla sua volta, ha svelato con grazia squisita il segreto della loro collaborazione:

« La nostra collaborazione? Un ventaglio giapponese: da un lato, campagna, personaggi, cielo; dall'altro, ramoscelli, petali di fiori, lievi accenni di fronde, quel po' di colore, quel po' di doratura che rimane all'ultimo nel pennello di un pittore. E questo lavoro minuto lo faccio io, badando che le mie cicogne volanti non guastino il paesaggio invernale, o, la mia vegetazione, sul fondo bruno dei lembi, il paesaggio primaverile che è dipinto dall'altra parte ».

E intanto tutto è finito! Questa mirabile armonia di due cuori e di due menti è rotta per sempre!

La folla che settimane fa si accalcava per le vie di Parigi facendo, riverente e commossa, ala al passaggio del feretro di Alfonso Daudet, oggi irrompe furibonda per le stesse vie, insultando chi si è generosamente costituito cavaliere della giustizia e della libertà, Emilio Zola. Se qualche eco dell'indegna gazzarra arrivasse laggiù, o lassù, fino a lui, Alfonso Daudet avrebbe ragione di ripetere:

O politique, je te haïs!

GOETHE

Qualcuno ha detto: — Davanti a una bell'opera d'arte io ammiro come un bruto. — Probabilmente questo è il miglior modo di ammirare. Sentirsi compenetrare dall'intimo senso della bellezza, da non aver tempo di ragionare o di sofisticare, è anche la più alta prova del valore di un'opera d'arte. Ma è difficile mantenere immacolata questa specie d'innocenza battesimale del senso estetico. Lo spirito umano ha bisogno di variare le sue impressioni; così alla sua ammirazione da bruto segue sempre l'ammirazione che ragiona o che pretende ragionare. C'è qualcosa del fanciullo in noi, che permane non ostante l'età; a un certo punto, vogliamo tutti vedere com'è fatto quel giocattolo che ha servito a divertirci, e spesso, per soddisfare questa curiosità, distruggiamo il giocattolo, l'opera d'arte, proprio come fanno i fanciulli.

Veramente il paragone non è esatto: l'opera d'arte rimane quella che è; il disastro avviene nelle nostre impressioni. Gli antichi su questo particolare erano, o sembrano, più fortunati di noi. Non ricercavano col lumicino quali relazioni avesse l'opera d'arte col carattere, con l'organismo, con l'atavismo dell'autore, o almeno non si accanivano in questa ricerca come facciamo noi e non ne traevano le conseguenze che ne tiriamo noi. Se ci fossero pervenute tutte le scolie dei grammatici, possederemmo forse oggi indiscrezioni, notizie, favole, intorno agli antichi autori, da farci vedere che il pettegolezzo dei critici non è poi cosa tutta moderna. I pochi documenti che ci rimangono autorizzano questa supposizione. Così, per esempio, sappiamo che Orazio aveva gli occhi cisposi; che lo stomaco di Virgilio digeriva difficilmente; che Sofocle si era così senilmente affezionato al figlio naturale avuto da una donna di Sicione, da provocare un processo in famiglia; ma gli occhi cisposi di Orazio, lo stomaco debole di Virgilio, la senile affezione di Sofocle non sono serviti, per quel che ne sappiamo, di cemento estetico-psicologico alle odi, alle epistole, alle egloghe alla Georgica, all'Eneide, nè all'Antigone o all'Epido a Colono.

Oggi no. Così dicendo non mi passa pel capo di voler discreditare gli studi psicologici o psicopatici che sono, con tutte le loro esagerazioni, gloria e onore della scienza moderna. Noto il fatto per discuterlo un po' a proposito di un libro che chiama alla sbarra della giustizia Volfango Goethe[6], e gli chiede conto, rispettosamente, coi riguardi dovuti a tanta grandezza, del processo creativo con cui sono state messe al mondo tutte le sue opere d'arte.

* * *

In Edoardo Rod è avvenuto il fenomeno a cui accennavo in principio. « Dieci anni fa, egli dice, ebbi l'occasione di fare nella Facoltà di lettere di Ginevra, un corso di lezioni intorno al Goethe. Come tutti coloro che si accostano al grand'uomo, ne sentii fortemente l'influenza. Le mie lezioni e alcuni articoli da me pubblicati in quel tempo furono l'espressione di un entusiasmo senza riserve di sorta alcuna. Un viaggio a Weimar, nuove letture e nuove riflessioni arrecarono a poco a poco sfumature e modificazioni nelle impressioni primitive. Il Goethe è, tra gli scrittori, quello che ha preso l'atteggiamento più schietto di faccia ai problemi della vita; è dunque naturale che il giudizio intorno a lui si vada trasformando con la esperienza dell'età. »

Egli ha riacquistato, in questa sua nuova condizione, quella libertà di spirito ch'era stata sopraffatta dalla violenza delle prime impressioni, ed ha avuto la buona idea di liberamente scrivere un libro liberamente pensato, senza fanatismo, nè acrimonia. Per questo il suo lavoro è riuscito interessantissimo, e sarà letto con profitto anche da coloro che dissentono dai principî che gli servono a sostenere la sua tesi.

Giacchè il libro ha una tesi; e forse a parecchi, arrivando all'ultima pagina, parrà o che l'autore non sia molto convinto della bontà di quella, o che la luce del gran sole goethiano sia riuscita ad abbagliarlo di nuovo. E questa ultima pagina sarà giusto trascriverla intera. Ma prima bisogna dire qual'è la tesi. L'opera d'arte del Goethe, o quella parte della sua opera dove la creazione artistica ha raggiunto il culmine della perfezione, è talmente legata alle vicissitudini della sua vita, e questa vita è stata, per forza di innato vigore e per forza di volontà, foggiata talmente da riuscire essa stessa una grand'opera d'arte, che diventa difficilissimo il giudicare l'opera letteraria, senza cedere alla tentazione di metterla in riscontro con le circostanze che l'hanno prodotta.

Se non che, in questo genere di critica con cui gli avvenimenti della vita dell'autore vengono usufruiti per rivelare le intime ragioni del processo artistico, si corre facilmente il pericolo di dare troppa importanza alla realtà materiale dei fatti e di diminuire il valore della realtà spirituale dell'opera d'arte dalla quale è stata trasformata, fino a renderla quasi irriconoscibile, l'altra che n'è la causa occasionale; o di non scorgere la manchevolezza dell'opera d'arte, illusi dalla corrispondenza di essa coi fatti reali d'onde la creazione artistica è venuta fuori.

* * *

Il pericolo di cui parlo diventa maggiore quando un'idea di moralità s'infiltra nel giudizio intorno alla vita, e da questo passa inavvertitamente a influire su quello intorno all'opera d'arte.

Il libro del Rod mostra sin dai primi capitoli che la personalità del Goethe gli è un po' antipatica; ma fa scorgere anche che quel che più gli rende antipatico il Goethe è il goethismo, cioè l'adorazione incondizionata del modo con cui l'autore del Fausto adatta spregiudicatamente sè stesso alle circostanze della vita, e queste alla libera espansione e formazione di sè stesso. Ora il goethismo è una stupidaggine di cui il Goethe non può essere stimato responsabile.

Quel che gli si può attribuire è l' olimpismo, come il Rod lo chiama dopo tanti altri, cioè l'egoismo elevato a forza di coscienza, di riflessione, di raffinatezza fino a l'ennesima potenza; teorica ragionata e pratica, sapiente e speciosa, aggiunge il Rod, la quale però non lo differenzia da quella media umanità che fa dell'egoismo, senza elevatezza ma con contegno, la regola ordinaria delle sue azioni.

Qui mi sembra stia l'inganno. Quest'egoismo, che il Rod ben definisce: — indifferenza verso qualunque cosa che non sia il proprio sè; ferma risoluzione di voler ignorare gli sconvolgimenti che menano con loro gli avvenimenti quotidiani della vita; cura continua di allontanare dallo spirito qualunque impressione penosa, dal cuore qualunque sentimento che potrebbe agitarlo; e decisa volontà di tirare innanzi per la sua strada senza darsi pensiero del danno che si arreca agli altri — quest'egoismo comune, volgare, non dà frutti; è sterile quand'anche non riesce nocivo. Qualunque mascalzone può esserne capace; e se non provoca la nostra indignazione, non attira affatto l'ammirazione, pure quando, talvolta, ci trova quasi indulgenti.

All' olimpismo del Goethe, invece, l'umanità intera deve qualcosa. Esso non è servito unicamente a lui, ma a tutti; per questo l'umanità sente il dovere non soltanto di essere indulgente ma di ammirare. Se c'è degli imbecilli che si assumono il diritto di volerlo imitare, il torto è tutto di costoro. Sono occorsi secoli di civiltà, circostanze straordinariamente aggruppate per produrre il fenomeno spirituale che ha nome Volfango Goethe; e queste circostanze non si ripeteranno più. È puerile, è sciocco, ostinarsi a tentar di rifare artificialmente un prodotto simile, cioè un organismo e uno spirito talmente equilibrati, in così felice corrispondenza tra loro, da dar vita a capolavori che faranno eternamente parte del patrimonio intellettuale dell'umanità, e che danno e daranno ancora per un pezzo mirabile impulso alla nostra vita interiore.

In non lontano avvenire, la posterità farà la sua scelta anche tra le opere del Goethe. Molte ne dimenticherà, per esempio, tutti i suoi lavori drammatici e qualche romanzo. E le belle pagine nelle quali il Rod analizza il Torquato Tasso per giustificare le parole del suo autore: Esso è l'osso delle mie ossa, la carne della mia carne, basteranno a coloro che vorranno conoscere come certe forme d'arte possano riuscire incompatibili anche con un genio universale qual'era quello del Goethe.

Confessioni, documenti di ogni sorta, studî, interpretazioni, raffronti però non ci riveleranno mai il segreto con cui lo spirito del Goethe ha prodotto quell'organismo, o, se così si vuole, il segreto con cui quell'organismo ha prodotto quello spirito. Questa grande divina operazione rimarrà sempre un mistero per noi, come tutte le operazioni consimili della Natura. La necessità e la libertà hanno operato assieme; il Goethe non è, in questo, diverso da una magnifica quercia che s'impossessa, con le sue vaste radici, di tutti i più eletti succhi nutritivi del terreno dove è nata, a detrimento delle altre piante circostanti. Come noi domanderemmo invano alla Natura il segreto della vegetazione di questa quercia gigantesca, così domanderemo invano il segreto della vita di quell'uomo gigante. Se i critici non se ne vogliono persuadere e non sanno rassegnarsi a tale ignoranza, vuol dire che non hanno spirito scientifico e filosofico. Se gli imitatori, i fanatici non sanno scegliere tra la piccola personalità originale, che ogni individuo possiede appunto perchè è individuo, e la copia della personalità altrui che li rende impotenti, sterili, mediocri, peggio per loro. Mi sembra troppa degnazione l'occuparsene. E poi, il goethismo passerà, com'è passato il volterianismo; resterà Volfango Goethe, o meglio resteranno i suoi capolavori, e anche il capolavoro della sua vita, non quello scritto, ma il vissuto, e che farà ripetere alle generazioni venture il motto di Napoleone: — Voi siete un uomo, signor Goethe!

Ed è, infine, la conchiusione anche del libro del Rod. Libro che ha pagine veramente magistrali di analisi arguta e pacata, e che risponde allo scopo per cui è stato scritto, quello cioè di spingere gli intelletti indipendenti a studiare le opere del Goethe senza preconcetti, di gustarle senza esserne sopraffatti, di ammirarle senza dare in stravaganze.

« All'ultimo, egli conchiude dopo tanta analisi, si è sempre costretti a salutare in lui un uomo che si è sviluppato secondo la sua propria legge, realizzando giorno per giorno le sue più intime virtualità, col pieno sviluppo di quei germi nascosti che muoiono spesso infecondi nei recessi delle anime ordinarie. E questa legge, dalla obbedienza alla quale proviene la di lui forza, può essere espressa in termini altrettanto chiari quanto l'idea fondamentale del suo capolavoro che anch'esso ne dipende: Avendo amato l'azione, egli ha conformato tutta la sua vita e adattato il suo intelletto a questo principio dominatore. Qui consiste la sua grandezza, e forse tutt'intera. Che cosa sia stata la sua incessante attività a traverso i molteplici scopi, sarà dannoso per la gloria di lui ricercarlo molto da vicino. Così, si può benissimo parlare a lungo intorno a lui, raccontarne la vita, discuterlo, smarrirsi nelle tenebre della sua cronologia o del suo pensiero senza mai poter giungere una di quelle sentenze che dannano o santificano. Le stupende parole del coro degli angeli che riassumono il suo capolavoro, riassumono egualmente, in ultima analisi, l'insieme delle riflessioni che egli ispira. E arrivando al termine di questo lungo studio, non possiamo far altro che ripetere con lui arrivato al termine del suo poema:

« Colui che si sforza a un'aspirazione costante, colui può essere salvato. »

C'è un'ode tra le poesie del Goethe che dà un'immagine schiettissima della mirabile operazione che egli metteva in atto per trasformare la realtà delle circostanze in una realtà spirituale superiore. Ricordate il mito di Ganimede rapito da Giove? Niente di più materiale. Ora leggete:

« Come tu m'inondi dei tuoi ardori, o amata primavera, nello splendore del mattino! Ineffabili voluttà si destano nel mio cuore, invaso dal sacro sentimento della tua eterna bellezza, o Infinito!

« Oh potessi io stringerti tra queste braccia!

« Oh, io poso sul tuo seno e languisco, e le tue erbe e i tuoi fiori premono il mio cuore. Tu estingui l'ardente sete che mi divora, dolce brezza del mattino! Tu mi porti il canto dell'innamorato usignuolo, che m'invita dal nebbioso fondo della vallata. Eccomi! Eccomi! Dove io vo? Dove?

« Lassù, lassù io aspiro! Le nuvole nuotano, discendono, si abbassano verso l'ansioso amore.

« Venite, venite! Accoglietemi nel vostro seno, abbracciante abbracciato! Lassù! Padre dell'universale amore! »

Tutta la vita e tutta l'opera d'arte di Volfango Goethe son simbolizzate in quest'ode.

GIOVANNI MELI

(G. Pipitone-Federico, Giovanni Meli. I tempi, la vita, le opere. Palermo, Sandron 1898. )

Le quattrocentoventiquattro pagine di questo volume potrebbero essere ridotte quasi a metà, levando via le lunghe citazioni, qualche volta ripetute in diversi capitoli, di brani di componimenti del poeta siciliano. Ma per coloro che conoscono poco o niente del Meli e che non possono facilmente procurarsene le opere, o non sentono grande curiosità di ricercarle sospettando insormontabili difficoltà nell'intenderne il dialetto, il libro del signor Pipitone-Federico riesce utilissimo.

Lo studio intorno ai tempi e alla vita del poeta è fatto ampiamente; quello intorno alle opere, un po' farraginoso e troppo polemico. All'ultimo, si ha, è vero, l'impressione di aver conosciuto un Meli molto diverso da quello, diciamo così, leggendario, e infinitamente più simpatico; ma l'apologia del poeta lascia perplessi. Il critico insiste più del convenevole su le qualità di pensatore, di filosofo, e per poco non dimentica che si tratta di un poeta, di un artista.

La fama del Meli varcò, lui vivente, i confini dell'isola, ed ora il suo nome va accompagnato nel continente a quelli del Belli e del Porta. Ma i più ne parlano per sentita dire. Gli stranieri forse lo conoscono assai meglio di molti italiani. Le traduzioni lo rendono più facilmente accostabile; ma le qualità di stile e di forma, che si alterano straordinariamente nel passaggio da una lingua all'altra, specie trattandosi di poesie dialettali, non daranno mai elementi sodi e sicuri per un equo giudizio.

Io, come siciliano, non posso essere sospetto se non sarò pienamente d'accordo col signor Pipitone-Federico nella grande ammirazione pel Meli. Anni fa, nel Fanfulla della Domenica, osai dire che bisognerebbe tradurre il Meli in siciliano. La espressione è forse eccessiva, ma, anche dopo la lettura di questo volume, non esiterei di ripeterla. Parto da un concetto della poesia dialettale che mi sembra giusto tuttavia, nonostante quel che il signor Pipitone-Federico ha diffusamente scritto in difesa del Meli.

E il giudizio del Finzi, che il critico riporta e che io ignoravo, mi pare il più esatto che si sia dato intorno al poeta siciliano finora. Dirò subito la ragione. La poesia dialettale implica naturalmente l'idea della forma popolare. Il Porta e il Belli, due grandissimi poeti, lo hanno istintivamente capito e messo in atto. Il Meli, no. E quando dico forma, non intendo solamente la parola del dialetto, ma il modo di sentire e di concepire il soggetto. Il Porta e il Belli non hanno mai dato impronta letteraria alle cose loro; e questo costituisce il massimo loro pregio. Il Meli, invece, è raramente popolare, anche dove più la sua natura di poeta e l'argomento lo spingevano ad esser tale. Da ciò la meraviglia di coloro che accostandosi, timidamente, per la prima volta, alla lettura delle sue poesie, le trovano di più facile comprensione che non si erano immaginati.

Certamente il vocabolario del Meli è più vario e più ricco, se si confronta con quelli del Porta e del Belli; ma questo avviene perchè più di metà dei vocaboli che egli adopra sono siciliani fino ad un certo punto, o almeno non sono propriamente popolari; così le frasi, così il giro del periodo poetico.

A un siciliano di buon gusto, il Meli fa l'effetto di uno che traduca alla meglio per farsi intendere da coloro che capiscono soltanto il suo dialetto. L'affermazione pare enorme; un esempio la schiarirà. Ecco pochi versi, scelti a caso dall' Idilliu 1º:

Tacinu l'ocidduzzi 'ntra li rami;
Sula la cucuccinta, ch'era stata
La prima a lu sbigghiarsi, ultima ancora
Va circannu risettu pri li chiani:
Ed ora l'ali soi parpagghiannu,
Si suspenni 'ntra l'aria; ora s'abbassa,
Ripitennu la solita canzuna.

Traduciamo:

Tacciono gli augelletti in mezzo ai rami;
Sola l'allodoletta, ch'era stata
A svegliarsi la prima, ultima ancora
Va cercando ricetto per le piane;
Ed or con l'ali, a guisa di farfalla,
Si sospende nell'aria, ora si abbassa
Ripetendo la solita canzone.

Questa traduzione sembra l'originale. Si capisce sùbito che il poeta ha sforzato il dialetto, e che, scrivendo, aveva nell'orecchio un movimento ritmico disadatto alla natura di esso.

Si noti inoltre che ho scelto un passo dove il dissidio tra la forma e il concetto è meno apparente.

Ma questa discussione mi menerebbe troppo lontano e non potrebbe interessare tutti i lettori; mi basta averla accennata. Interesserà invece la figura del Meli quale risulta dalle pagine del signor Pipitone-Federico, che ha potuto usufruire di molti documenti recentemente pubblicati e ignorati fuori dell'isola.

Il titolo di abate che va inseparabile dal nome del Meli; molte sue poesie, piene di facile e amabilmente stoica filosofia, hanno dato origine alla creazione del personaggio fantastico d'un poeta gaudente, sensuale, adulatore, parassita. Si diceva: Il poeta ha adombrato sè stesso nella Cicala da lui cantata:

Cicaledda, tu t'assetti
Supra un ramu la matina,
Una pampina ti metti
A la testa pri curtina,
E ddà passi la jurnata
A cantari sfacinnata.

Povero abate Meli! Egli quasi prevedeva questo equivoco quando scriveva all'arcivescovo Lopez, suo amico e protettore: « L'abate Meli (abate però di sole spoglie, senza titolo, senza pensione) fu una cicala che assordì col suo canto molta estensione di paese ». E soggiungeva: « Il secolo ed il paese in cui nacque e visse, e la professione che esercitò, fecero sempre a calci con la di lui indole e temperamento ( sic ). Vide e gustò qualche volta il piacere, la pace, la consolazione, ma soltanto nei sogni che gli somministrarono i soggetti delle sue poesie. »

Nato in Palermo il 3 marzo 1740, da un orefice di scarsa fortuna, fu messo a studiare nelle scuole gesuitiche; e vi apprese il latino, passando sette anni attorno alla grammatica del Padre Emmanuele Alvarez, anni che egli rimpianse argutamente nel suo poemetto La Fata galante. I Reali di Francia, i drammi del Metastasio, l' Orlando furioso dell'Ariosto svegliavano la sua fantasia; e l'istinto poetico del giovinetto cominciò a rivelarsi in componimenti di imitazione. La Fata galante, scritta a diciotto anni, è già un gran passo; è la splendida aurora di un bellissimo giorno.

Intanto, tra un canto e l'altro di quel poemetto, tra un'ode e l'altra di fattura rollesca o vittorelliana, tra un capitolo bernesco e l'altro, egli studiava medicina. E appena era in caso di esercitarla — la laurea non esisteva ancora nell'Università di Palermo — le strettezze della famiglia lo costringevano ad accettare il posto di medico comunale nel villaggio di Cinisi, a ventiquattro miglia dalla capitale. Qua egli era vissuto tra gli accademici della Galante conversazione, come s'intitolava una riunione di begli ingegni e di coltissime persone, e il suo nome accademico era Lu stravaganti: a Cinisi, si trovava faccia a faccia con la Natura, in mezzo a un paesaggio incantevole, tra uomini di vita semplice e laboriosa. Curava i suoi malati, si divertiva con la caccia al roccolo e con la pesca, e continuava alla meglio i suoi studi di medicina e di filosofia. La vita frugale gli permetteva di mandare quasi intero il suo magro stipendio alla famiglia. E tra quelle collinette, tra quelle valli, tra quelle roccie rivestite di muschi e di edera, egli concepiva e scriveva la Buscolica, che rimarrà il suo maggior titolo di poeta.

Era andato in Cinisi innamorato; cinque anni dopo tornava a Palermo, chiamatovi dal suo professore di clinica che voleva affidargli la sua clientela durante la sua assenza per un viaggio all'estero. Il primo amore era sfumato; e il giovane dottore, con l'aureola di poeta e in fama di uomo di spirito e di persona gioviale, si vedeva festosamente accolto dall'alta società palermitana, specialmente dalle belle signore che si disputavano l'onore di aver dedicata e d'ispirare qualcuna delle sue odi. Il titolo di poeta noceva un po' all'esercizio della sua professione, non ostante che il Meli avesse usata la precauzione di vestire l'abito talare, come allora facevano i medici per poter avere tra la loro clientela le suore dei monasteri. Pare che molte delle sue odi non siano state semplice esercizio poetico, reminiscenze o ispirazioni del vecchio Anacreonte. Una baronessa Martinez, bellissima e colta giovane signora, la non meno bella marchesa Regiovanni, una signora Mantegno, che aveva sul petto un graziosissimo neo, entrarono per qualche cosa nell'ispirazione del Lu gigghiu, Lu pettu, Lu neu. Il Meli menava di fronte la scienza, la poesia e la galanteria: ed è curiosa una sua lettera amorosa che si conserva nella biblioteca comunale di Palermo:

« Non è più tempo di dar fede ai pregiudizii dell'infanzia ed alle fole dei poeti che vi dipingono Amore fiero, indomito, lascivo, crudele al par di un'arpia e d'una megera. Crediamo piuttosto alle veridiche voci della natura. Ella non è un nome vano e senza effetto; è un principio, un nome, una pura causa, una parte di Dio medesimo, che, occultata nel più recondito recesso del cuore umano, ispira, agita e si palesa sotto la mascherata ( sic ) di un istinto o sia di un sentimento vivo ed animato...... Or questo stesso principio che vi fa amar noi in noi, comanda di amar noi in altri. Per sovrumana metamorfosi di amore, chi ama vive nell'oggetto amato e questo in lui. Adunque dovendo amar voi in voi, dovrete amar voi in me, per diritto di natura, di gratitudine, di convenienza.

« Mi direte che in questo istante non sperimentate in voi le voci del sentimento così vive che vi spingano ad amare. Sia così; ma di grazia, cancellate quella stima pel cagnolino, discacciate il passerino, lasciate di apprezzare quelle gioie, quegli arredi, quelle galanterie, insomma rivocate quell'affetto disperso in mille oggetti e riunite le divise forze d'una potenza così nobile impiegata stoltamente in oggetti ignobili e materiali. Ed allora sentirete destar la natura ed esortarvi ad impiegare il ricco capitale dei vostri affetti in un cuore come il mio, nel quale chi ve ne impiega una parte, nel momento appresso ne avrà rese mille per quell'una. »

La galanteria non gli aveva impedito di scrivere le Riflessioni sul meccanismo della Natura, in rapporto alla conservazione e riparazione degli individui e il discorso Sulle attrazioni elettive adombrate nella mitologia degli antichi, lavori che dimostrano come sotto il poeta ci fosse il pensatore positivo, se non originale, certamente audace riguardo ai tempi e alla cultura del suo paese. Le Riflessioni sopra il meccanismo della Natura suscitarono quasi uno scandalo, e l'autore ne fu intimidito e non scrisse gli altri due libri che dovevano compire il lavoro. Non si deve però attribuire al suo merito scientifico l'elezione a professore di chimica nell'Università di Palermo, che egli ottenne nel 1786; si volle, con essa, dare una rimunerazione al poeta. Il Meli in chimica era un mediocre teorico: uomo di ingegno e di buona volontà, aiutato dal suo operatore Stefano Chiarelli, potè per sedici anni contribuire a diffondere in Sicilia le teoriche del Lavoisier.

Intanto, alle sventure domestiche, si aggiungevano una lunga malattia e un furto che lo metteva sul lastrico. I ladri gli avevano svaligiato completamente la casa, portandogli via trecento ducati di laboriosi risparmi, biancheria, vestiti, arnesi. Senza l'aiuto dell'arcivescovo Lopez, il Meli sarebbe morto quasi di fame. E di questa disgrazia, scriveva poco dopo, scherzando all'arcivescovo lontano: « Intorno al rispondere, che sarebbe il maggior incomodo, mi rimetto al laconismo della prima lettera di Cicerone: Si vales, bene est, ego valeo, potendosi risparmiare il tua tueor; perchè io in questo mondo non ho nè beni, nè affari, nè pretensioni, onde alcuno potesse assumere per me la cura: nè io medesimo ho niente da sbrigare, o da custodire, giacchè i ladri, com'Ella sa, mi hanno di questa gran cura liberato. »

Il padre del Meli era morto pazzo; uno dei suoi fratelli si era rovinato per eccessivo scrupolo nei suoi doveri di procuratore; la sorella, che poi moriva matta anche lei, era invasata da tale ardore di carità da vendere mobili e biancheria per maritare e dotare le sue serve e le loro figliuole; un secondo fratello, monaco domenicano, processato dagli altri monaci come dilapidatore dei beni del convento, ricorreva al povero abate per farsi cavare da impicci che potevano disonorare la famiglia; e viveva alle spalle di lui, quantunque abitasse nel convento di Santa Cita. L'abate aveva in mano certe carte da cui risultava un credito di once quattrocento (più di tre mila lire) in favore del fratello morto e da cui egli aveva ereditato; ma un frate lo imbroglia, gli leva le carte di mano col pretesto di adoperarle per un accomodamento, e sparisce e non si fa più vedere..... Il poeta ha raccontato tutto questo in una specie di memorietta da lui scritta, non so a che proposito, in terza persona; e finisce malinconicamente: « Oggi che trovasi ridotto all'osso, altro non desidera che questo almeno possa portarlo intero sino alla tomba ».

Nel 1806, a un tedesco suo ammiratore, traduttore di parecchie sue poesie, e che gli chiedeva notizie per un cenno biografico, il Meli scriveva:

« Volete che io mi lusinghi coll'idea di qualche postuma considerazione? Vano e miserabil compenso! Non vale al certo la pena che io vada riandando nella memoria le miserie ed amarezze di mia vita, quelle che con tanto studio ho cercato di coprire e di palliare a me stesso ed agli altri con le poetiche illusioni e col trasportarmi alle antiche età del mondo, per togliermi da questa almeno col pensiero e colla immaginazione..... Ho fatto poca fortuna nella professione della medicina, facoltà in cui non ci ho veduto mai chiaro ed a cui sono stato negato per natura, perchè nemico del ciarlatanismo, del corteggiamento, e dippiù per il peccato originale nel paese di essere appreso ( sic ) per poeta..... Conchiudo: leggete le mie poesie e divertitevi e scordatevi della mia vita, come me ne sono scordato io, o guardatela come me nel migliore aspetto: quello cioè di non aver nemici (salvo che non lo sia un fratello monaco, che non accosta mai da me) di non aver litigio, di non desiderare, di non invidiare nessuno, e di lusingarmi di essere amato dalle persone che mi conoscono ».

Il cav. Luigi Medici, che gli voleva bene e lo ammirava e lo aiutava, gli consigliò di chiedere al re l'abbazia di San Pancrazio allora vacante.

— Ma io non sono prete, non ho neppure gli ordini minori! — rispondeva il Meli.

— Si fa presto a prendere gli ordini minori — replicò l'amico. — Al resto penserò io.

Il poeta obbedì e poi scrisse, per supplica, un sonetto con la coda dignitoso e malinconico, che dà una gran tristezza. Ma appunto allora la Corte borbonica, caduto Napoleone, tornava a Napoli; la supplica si smarriva tra le carte burocratiche portate via. Venuta tardi a galla, era rimandata al governo di Sicilia per informazioni; e quando la nomina finalmente arrivava in Palermo, l'abate Meli era morto da parecchi giorni nella più squallida miseria, maledicendo il giorno in cui si era messo a fare il poeta: « Or che sono adulto, anzi vecchio, ne sto piangendo le conseguenze — scriveva al suo amico dottor Troysi. — Imperciocchè mi è d'uopo appoggiar le speranze della mia sussistenza nell'altrui patrocinio. — Maledictus homo qui confidit in hominem! »

A settantacinque anni posando in pieno inverno per un busto nello studio dello scultore Villareale, si era buscata una punta, e il 20 dicembre del 1815 cessava di vivere per peripneumonia biliosa.

L'uomo fa ammirare maggiormente il poeta. E che il Meli fosse davvero un gran poeta nessuno vorrà negarlo, non ostante il dissidio che c'è tra la forma dialettale e il concetto in quasi tutte le sue poesie. Il signor Pipitone-Federico non nega recisamente questo difetto, ma cerca di scusarlo e di spiegarlo là dove è più evidente. Senza dubbio, i tempi, le circostanze speciali della cultura siciliana hanno influito sull'ingegno del poeta. Nato nel continente, con la padronanza della forma del Parini, del Foscolo, del Monti, egli avrebbe raggiunto un'altezza e un'originalità che l'impaccio di dar forma letteraria al dialetto gli ha vietato di raggiungere. Studiare fino a qual punto gli abbia nociuto quest'impaccio e i tempi e le circostanze, studiarlo anche dopo quel che con ampiezza ne ha detto l'autore di questo volume, sarebbe interessante: ma occorrerebbe più spazio che un giornale non può concedere; e per ciò me ne astengo.

GABRIELE D'ANNUNZIO

( La città morta — Fratelli Treves editori. Milano, 1898. )

Poichè le rappresentazioni di essa in Italia sono ritardate, si dice, fino a giugno, tentiamo di darcene intanto una rappresentazione ideale.

Abbiamo il volume sotto gli occhi. L'immaginazione è assai più compiacente della realtà. Un'attrice, un attore hanno sempre qualcosa di più e qualcosa di meno nell'aspetto, nella voce, nel gesto con cui dovrebbero far vivere sul palcoscenico un personaggio. Particolari che sembrano insignificanti attenuano grandemente il godimento estetico in teatro, quando non gli nuocciono a dirittura. Tentiamo dunque di darci della tragedia dannunziana una rappresentazione ideale, cioè conforme all'idea voluta attuare dal poeta.

Fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di conoscere le intenzioni di lui per mezzo delle interviste dei suoi ammiratori ed amici. Intorno alle intenzioni di chi si accinge a fare un'opera d'arte è imprudente discutere. Bisogna dire soltanto: — Va bene; mettetele in atto; ne ragioneremo poi.

Non già che non si possano talvolta discutere le intenzioni, quando, per esempio, sono evidentemente assurde. Ma siccome dal detto al fatto, secondo il proverbio, corre gran tratto, così mi par meglio rassegnarsi ad attendere. Le intenzioni, lungo il cammino, inciampano in difficoltà di esecuzione che ne modificano le crudezze, ne infrenano gli eccessi. Quel che di raramente buono c'è in esse, si trasfonde intero nell'opera d'arte; il po' di strambo, di cattivo che non vien potuto eliminare non risulta poi tale da danneggiarla fortemente.

Infondere nell'anemico organismo della drammatica moderna tutta la maestà, tutta l'idealità ieratica della tragedia greca, fino a sconvolgere i mezzi materiali di cui si serve il teatro attuale, e le abitudini del pubblico a un certo modo di rappresentazione; far sorgere in Albano, in vista del lago, fra gli ulivi, un teatro di foggia antica dove i capolavori della musa tragica greca e i capolavori della musa tragica contemporanea, o, più modestamente, i lavori, i tentativi di essa si alternerebbero davanti a un pubblico capace di intenderne le bellezze e di apprezzarne le arditezze, non erano, secondo me, intenzioni così strane, così assolutamente impossibili da permettere di condannarle anticipatamente.

Le riproduzioni dei drammi di Eschilo e di Sofocle, avrebbero potuto riuscire cosa assai diversa dalle recitazioni scolastiche fatte ogni anno dagli studenti inglesi e tedeschi al cospetto di professori e di dotti, pei quali non hanno misteri le più riposte meraviglie del testo originale. Un pubblico speciale avrebbe potuto, per qualche ora, darsi il gusto di rivivere un'altra vita intellettuale, e ottenere direttamente quelle grandiose impressioni che formarono la delizia del popolo più artistico che mai sia stato al mondo.

In quanto ai lavori nuovi, imitazioni, derivazioni dagli antichi esemplari, perchè diffidarne prima di averli sott'occhio? Ferve negli scrittori e nel pubblico l'ansiosa ricerca di qualcosa di meglio, di più elevato, di più raro che non somministrino le commedie e le pochades da le quali sono a stento alimentate le fiacche rappresentazioni dei nostri teatri. Parecchi tentativi hanno avuto la fortuna di vincere gli ostacoli di un'educazione estetica molto scarsa, e quelli, anche più ardui, delle vecchie abitudini. Buon numero di convenzioni teatrali, che già s'imponevano come dommi, sono state eliminate; concetti che sembravano repugnanti alla forma drammatica sono apparsi sul palco scenico, dando vita a personaggi, a caratteri, a passioni, a catastrofi che hanno allargato i confini, dentro cui si era aggirata finora questa forma d'arte.

Perchè altri tentativi non avrebbero potuto farsi, cavando fuori nuove conseguenze da vecchie promesse, facendo germogliare semi rimasti addormentati, operando innesti fecondi, procurando anche ibridismi che trasporterebbero nel dominio dell'arte scenica i miracoli ottenuti dalla istancabile pazienza dei floricultori?

— Anche il simbolismo?

A priori, io non oso dire di no. Tutto sta nel modo e nella misura.

Per parecchi secoli, l'arte drammatica si è servita del tipo: poi, per logica evoluzione, ha messo fuori l' individuo: prima, per esempio, con caratteristiche generali, l' avaro, il geloso; poi, un tal geloso, un tal avaro, Otello, il notaio Guerin. Presentare ora personaggi, caratteri, situazioni che, sorpassando il significato individuale, aprirebbero alla intelligenza e alla fantasia degli spettatori orizzonti più larghi, e darebbero anche sensazioni più profonde, più complicate di quelle che sogliono scaturire da individui, da caratteri, da passioni, da situazioni determinate, perchè mai, dico, dovrebbe sembrare a priori impossibile?

Questo però presuppone che un artista, intraprendendo un'opera d'arte, conosca innanzi tutto la intima essenza di quella forma e i limiti ad essa imposti dalla sua natura; presuppone che egli sappia che l'essenza d'una forma d'arte è superiore a qualunque potenza d'ingegno, e che neppure il genio sconvolge o inverte le funzioni vitali di essa, anzi le sente e le incarna più compiutamente di ogni altro; così compiutamente talvolta, da esaurire tutte le possibilità d'una forma e chiuderne il ciclo di evoluzione.

La tragedia con personaggi moderni non è precisamente una novità. Invece di tragedia è stata chiamata dramma. Non è una novità il tentativo di trasportare in un soggetto moderno il Fato degli antichi greci. Zaccaria Werner l'ha fatto nel 1810, col suo Ventiquattro febbraio, di cui ci ha dato, se non sbaglio, la traduzione e uno studio critico il Mazzini. Questo non significa che non si possa ritentare con altro modo, con altra misura. Del Fato dei greci non abbiamo idee esatte; filosofi ed eruditi non sono punto di accordo intorno al vero significato di questa concezione religiosa. Pel D'Annunzio, per esempio, l'interpretazione del Fato consisterebbe nell'influenza dell'ambiente, nella violenza che la passione esercita su la ragione, nelle determinazioni prodotte nel cuore e nella intelligenza dagli studi particolari a un individuo.

Siamo lontani dal Fato greco, molto lontani da Edipo destinato ad essere uccisore del padre, marito della madre e per questi involontari delitti condannato ad errare cieco e miserabile pel mondo, fino a che non troverà requie nel bosco delle Furie e non diventerà genio benefico per la città di Atene. Non importa. Il pregio dell'indeterminatezza di certi concetti consiste appunto nelle diverse interpretazioni che essi permettono all'artista per scopi artistici. L'essenziale è che questi scopi artistici siano raggiunti.

Dicevo dunque che fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di conoscere le intenzioni di Gabriele D'Annunzio. Ora che abbiamo sotto gli occhi l'opera bell'e compiuta, cerchiamo di renderci conto se alle intenzioni ha corrisposto il fatto.

* * *

Siamo avvertiti dal titolo che non dobbiamo attenderci niente di reale, o poco assai. La città morta è Micene ricca d'oro, nell'Argolide sitibonda, come dicono le scolie con perdonabile pedanteria. Bisogna dimenticare che gli scavi di Micene furono fatti, tra il '73 e il '78, dal mecklemburghese Schliemann e dalla sua Signora, e non stupirsi se gli scavi del lavoro di fantasia danno risultati alquanto diversi da quelli descritti dal vero scopritore delle tombe degli Atridi. Non si tratta di una ricostruzione, ma d'una creazione che toglie in prestito dalla realtà i particolari che gli fanno più comodo. Il poeta ha diritto di agire così.

Le dramatis personae (dire personaggi è parso una volgarità?) sono indicate con semplici nomi, quasi per spogliarle di ogni bassa caratteristica. Forse notare, invece di Alessandro, Leonardo, Anna, Bianca-Maria, notare soltanto: Un Uomo, Un altr'uomo, Una donna, Una Vergine, Una Vecchia sarebbe stato meglio; lo dico senza malizia, giacchè il poeta vuol raggiungere l'idealizzazione dei personaggi anche con questi espedienti. Nelle rappresentazioni di Parigi ha vestito le donne con larghe tuniche greche, e gli uomini.... da biciclisti, come ci ha fatto sapere il Sarcey, se pure questa non è stata un'irriverente grossolanità del critico francese.

Tutti i personaggi sono oppressi dall'ossessione archeologica. Per Leonardo, la cosa è naturalissima: è invasato dall'idea di scoprire le tombe degli Atridi. Si capisce pure che un poeta come Alessandro, che ha voluto accompagnare l'amico nella difficile e nobile impresa, viva con l'immaginazione nel mondo mitologico di Omero e di Sofocle.

Sembra un po' strano che le due donne, Anna e Bianca-Maria, non leggano altro all'infuori dell' Antigone durante la monotonia delle lunghe giornate d'ozio; e che Anna, la cieca, racconti alla nutrice la favola della ninfa Io; eppure reca meraviglia che il poeta abbia ceduto un momento alle lusinghe della verosimiglianza facendo addormentare la vecchia a quel racconto.

Sarebbe ridicolo avere un attimo di curiosità intorno alla condizione dei personaggi. Anna è divenuta cieca dopo il matrimonio? O Alessandro, vinto da un impulso di generosissimo affetto, l'ha sposata proprio per quei begli occhi limpidi, ma muti alla luce? Immaginate quel che vi pare. Tanto più che la stessa Anna sembra di scordarsi di essere cieca quando dice, parlando di Zacinto: Io non conosco l'isola; ma una sera, nel mio primo viaggio la vidi di lontano e mi pareva l'Isola dei Beati. Queste minuzie non hanno niente che fare con l'azione, col dramma intimo che i personaggi ci vogliono raccontare, adoperando un linguaggio adatto all'ambiente, tra quei tesori di arte antica che ricompaiono al sole dopo migliaia di secoli — avori, vesti, diademi, maschere del Re dei Re, di Clitemnestra, di Cassandra, ogni cosa di oro massiccio — tra i versi di Omero, di Eschilo e Sofocle che suonano a ogni istante su le labbra di tutti.

In una rappresentazione ideale noi possiamo prestare docile orecchio ai periodi ondulanti, spiegantisi con lenta maestà, scandentisi al pari dei greci trimetri, degli anapesti, dei tetrametri-trocaici, dei giambici eschilei e sofoclei. È vero che dobbiamo foggiarci uno special modo di recitazione simile a melopea, che di tratto in tratto, si esalti fino a divenire melodia; ma nella nostra condizione è lecito permetterci tutto.

I personaggi si sono sollevati molto in alto, in una regione dove possono sentire e pensare a modo loro, fuori d'ogni volgarità, fuori anche dell'umanità, ed esprimersi in conseguenza. Sono nel dramma, cioè nella tragedia, e nello stesso tempo quasi estranei a quel che accade dentro di loro e attorno a loro.

Anna, la cieca, sente, indovina che Bianca-Maria le toglie il cuore del marito, eppure compatisce, perdona e pensa di eliminare l'ostacolo all'unione dei due cuori: sè stessa.

Bianca-Maria è appena turbata dall'impuro amore che le è germogliato nel petto.

Alessandro, il poeta, fa serenamente olocausto della moglie al suo nuovo amore per Bianca-Maria; e quando la vergine gli domanda: — Che volete fare di me, della creatura che amo, che amate? Dite! — egli risponde: — Lasciate che il destino si compia.

Leonardo è preso da folle passione per la sorella; e venendo a cognizione ch'ella ama, riamata, Alessandro, pensa soltanto a purificare per sempre quella creatura, annegandola nelle acque della fonte Perseia. E allora si sente tutto puro anche lui!

Se ella ora si levasse, potrebbe camminare su l'anima mia come su neve immacolata... S'ella rivivesse, tutti i miei pensieri per lei sarebbero come i gigli, come gigli.

Lo stesso Alessandro, il poeta innamorato, davanti al cadavere dell'amata non ha uno scatto; soltanto, con gesto imperioso, dice all'assassino, no, al purificatore: — Non la toccare! Non la toccare! — E l'altro, indietreggiando, risponde: — Non la tocco... Ella è tua, ella è tua!

Anna, la cieca, finalmente, inciampando nel cadavere dell'amica, ha un grido: — Ah! Vedo! Vedo!

E noi dobbiamo rimanere nell'ideale e ignorare precisamente in che modo ella veda.

* * *

Senza dubbio, c'è in tutto questo, nel concetto e nella forma, una continua cura di sfuggire il comune, il volgare; ma c'è anche una non meno continua cura di sfuggire la logica della passione e delle circostanze. Nessun artificio teatrale è messo in opera per ottenere qualcuno dei soliti effetti; sono però adoprati altri artifici per raggiungere determinati effetti, e viziosi quanto quelli voluti evitare.

Tutti i personaggi hanno orrore di dire la parola giusta, di servirsi dell'espressione più semplice e quindi più efficace. Nel punto in cui l'anima loro sta per penetrare nell'intimo del pathos, si ritraggono sùbito indietro, quasi abbiano paura di dire qualcosa di umano, di vero.

« Bianca Maria. Le mie labbra erano pure, sono pure... Per la memoria di mia madre, per il capo di mio fratello, io vi giuro, Anna, che rimarranno pure, così, suggellate dalle vostre stesse mani. ( Ella preme su la sua bocca le mani della cieca ).

« Anna. Non giurare! Non giurare! Tu pecchi contro la vita; è come se tu uccidessi tutte le rose della terra, per non donarle a chi le desidera. Abbi fede! Attendi ancora un poco! »

È un momento grave, solenne, veramente tragico.... Ma Anna, a un tratto, divaga:

« Senti l'odore dei mirti? È inebriante come vino caldo... » E in quella divagazione lirica intorno ai mirti di Megara, alle rive di Zacinto (nessuno dei personaggi dice mai Zante!) e intorno alle voci misteriose delle fontane, non si sente il fremito di chi divaga a posta, per sviare il discorso, per reprimere la commozione. La parola non dice una cosa per farne intendere un'altra, la più importante, no; si compiace della bella descrizione, delle dolci immagini, delle sottili comparazioni, fa un esercizio retorico.

Così ogni volta che la situazione drammatica vorrebbe forzar la mano al poeta.

La grande, la ieratica idealità greca? Ma tutto è umano in quella grande idealità. Antigone che affronta consapevolmente la morte per dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice e compire un atto religioso che avrebbe permesso allo spirito di lui il passaggio nell'Eliso, Antigone rimpiange la vita e le nozze. Edipo passa di angoscia in angoscia, tentando di trovarsi innocente, e rimanendo sempre dubbioso ed incredulo davanti alle prove più evidenti della fatalità che lo incalza. E Filottete? Che accenti di dolore, che imprecazioni, che suppliche nella sua misera condizione!

La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nel concetto? Il dramma, la tragedia, giacchè così si vuole, qui risulta per via di artifici. Quei personaggi pensano e agiscono a quel modo, perchè il poeta ha voluto che pensassero e agissero a quel modo. Anzi, per dire la verità, essi non c'entrano. Il poeta ha parlato per conto loro, togliendo a ognuno di essi la propria personalità, fin nella maniera di esprimersi. E quando ho detto: agiscono ho parlato impropriamente; essi agiscono così poco, che non potrà sembrare esagerazione l'attenuare che non agiscono affatto.

Ora niente è più contrario all'essenza della tragedia greca, che è tutta azione; azione breve, ristretta, circoscritta dai limiti che le condizioni teatrali e l'indole di rappresentazione religiosa imponevano con gli intermezzi del coro, impaccioso residuo della forma sacra primitiva; coro che in Sofocle comincia già a trasformarsi in personaggio.

La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nella forma? Ora niente di più semplice, di più limpido, di più trasparente della forma greca; cioè niente di più perfettamente compenetrato col concetto che essa vuole esprimere. Nel caso però che si voleva fare un pastiche, bisognava imitare il Goethe, scegliere un soggetto greco, e dare ad esso quell'apparenza di bassorilievo ch'egli ha tentato di dare alla sua Ifigenia.

Ma anche a proposito del Goethe, si può ripetere il motto del Taine: Non c'è altre tragedie greche che le greche!

* * *

Non sarebbe qui inopportuno discutere le intenzioni del poeta. Ma a che prò?

Io capisco che un ingegno come quello di Gabriele D'Annunzio ha fatto così la Città morta, in massima parte perchè ha voluto farla così. Nella Città morta c'è il germe di un'azione veramente drammatica, e qua e là un accenno di organico svolgimento di essa. Questo, forse, può significare che un'altra volta, se non vorrà fare a posta così, — cioè rinunziare di proposito ai perfezionamenti che la forma drammatica ha raggiunto dai greci fino a Shakespeare, e da Shakespeare fino ad oggi — Gabriele d'Annunzio ha tanta forza da prendere facilmente una rivincita, purchè non dimentichi che l'essenza d'una forma d'arte è superiore a qualunque potenza d'ingegno, come l'ha sventuratamente dimenticato scrivendo questa Città morta, morta davvero come opera drammatica.

EMILIO ZOLA

( Émile Zola, Paris, Charpentier, 1898. )

Ironia della vita! Mentre Emilio Zola pubblicava nel Journal gli ultimi capitoli del suo romanzo, che è la glorificazione anticipata di quel Parigi fantastico da cui l' umanità dovrà ricevere il dono dell'emancipazione definitiva, il Parigi reale, preso da un accesso di follia, insultava il coraggioso scrittore che appunto in quei giorni si era costituito paladino della libertà e della giustizia.

Rileggendo in volume quelle pagine che uscivano quasi contemporaneamente con le relazioni delle sedute della Corte d'Assise pel processo del loro autore, si ha l'impressione di un senso artistico divinatorio che meraviglia. L'anarchico Salvat sembra un simbolo: il processo di lui una esattissima previsione di quel che sarà il processo Zola. Ecco qui:

« Nella gran folla, un mescolarsi di abiti chiari di signore, di toghe nere di avvocati, tra cui si distingueva appena la toga rossa dei giudici negli stalli così bassi, che lasciavano scorgere a stento, su le altre teste, la faccia bislunga del presidente. Molti osservavano i giurati, tentando d'indovinarne qualcosa dai loro visi; parecchi non levavano gli occhi d'addosso all'accusato.... Salvat si alzò in piedi; il presidente cominciò l'interrogatorio. E apparve con tragica nettezza, il contrasto: da una parte i giurati nell'ombra anonima, con l'opinione già bella e fatta sotto la pressione del pubblico terrore, riuniti là per condannare, dall'altra l'accusato....

« Il procuratore generale prese la parola, severissimo. Era noto per le sue relazioni con tutti i partiti politici e per la sua destrezza nell'essere sempre amico degli uomini al potere; d'onde il suo rapido avanzamento nella carriera giudiziaria e i favori di cui era costantemente colmato.... E continuò per due ore, sdegnando la verità e la logica, cercando soltanto di impressionare le immaginazioni, cavando partito dal terrore che aveva invaso Parigi, incoraggiando il giurì a fare il suo dovere condannando l'assassino, giacchè il Governo era risoluto di non indietreggiare di fronte a qualunque minaccia....

« Dopo una deliberazione di appena un quarto d'ora, i giurati rientravano nella sala, con gran rumore di tacchi sui banchi di quercia. Riappariva anche la Corte. Un crescendo di emozione agitava la folla, quasi un vento di ansietà scuotesse tutte le teste. Molti si erano levati in piedi, lasciandosi sfuggire qualche lieve grido. E il capo dei giurati, grosso, con faccia rossa e tonda, dovette attendere prima di leggere:

— Sul mio onore e su la mia coscienza, davanti a Dio e davanti agli uomini, la risposta del Giurì è questa: Su la domanda intorno all'assassinio, sì, a maggioranza.... Salvat capì subito di che si trattava dal silenzio che seguì, senza che si parlasse di circostanze attenuanti. »

I lettori del Journal in quei giorni dovettero sospettare qualche sbaglio d'impaginazione, mescolando la relazione della seduta del processo Zola con la relazione del processo Salvat.

Nel romanzo, il Salvat, condannato a morte, si rizza bruscamente; e mentre le guardie lo conducono via lancia con gran voce il grido: Viva l'anarchia! Lo Zola risponde al verdetto dei suoi giurati, con un libro, con un'opera d'arte che è anch'essa un gran grido. Viva la giustizia!

* * *

Paris chiude la trilogia delle Trois villes. Lourdes e Roma erano le premesse; Paris è la conchiusione, la conseguenza del sillogismo. Pietro Froment, giovine prete, sentendosi venir meno nel cuore e nell'intelletto la fede religiosa, ha cercato un rimedio al suo male prima a Lourdes, nella piccola città dei miracoli, nella piscina odierna, poi a Roma, nel centro di vita del grande organismo cattolico.

A Lourdes ha trovato, o gli è sembrato di trovare, la superstizione, anzi lo sfruttamento quasi commerciale delle umane miserie fisiche; a Roma, la religione divenuta organizzazione politica, immobilizzata nel domma, ridotta sterile e tiranna dei corpi e delle anime. Quel socialismo cattolico, con cui sembrava che il papa volesse vivificare e consolidare la chiesa, gli si era rivelato un espediente transitorio, un'abile menzogna diplomatica.

Ed era tornato a Parigi profondamente disilluso, minacciando di scrivere un libro incendiario contro Roma, « dove avrebbe messo tutto quel che aveva visto, tutto quel che aveva udito; un libro dove sarebbe apparsa la Roma vera, la Roma senza carità e senz'amore, e già agonizzante nell'orgoglio della sua porpora ».

Il libro lo ha scritto il suo autore per lui, infondendo un grandioso soffio d'arte in tutto quel che aveva visto; facendo sforzi d'intuizione straordinari, ma insufficienti, per quel che aveva udito: libro però dove la Roma vera (la Roma dei papi e la Roma italiana) non è intesa o è fraintesa, perchè l'abate Froment era venuto a cercare una Roma di sua immaginazione, e in tre soli mesi di dimora non si è potuto accorgere del suo inganno. Nè forse se ne sarebbe accorto in dieci, in venti anni, come la sua compaesana de l'Ile-de-France, cameriera in casa Boccanera, che gli confessa: Voicì vingt-cinq ans que j'habite leur pays, et je n'ai pas encore pu my faire à leur satanè charabia!

L'abate Froment ricercava un'astrattezza, e si era trovato faccia a faccia con l'incarnazione di un'idea, cioè con una realtà ricca di tutti i pregi e di tutti i difetti derivanti dalla natura umana e dalle condizioni sociali, ma non perciò meno elevata, meno possente, meno divina. L'idea astratta gli sembrava perfetta perchè spoglia di particolari, di accidenti; ed egli non sapeva riconoscere, nel gran rigoglio della vegetazione cattolica, appunto quell'idea che n'era il succo vitale.

Ed eccolo ora in quel Parigi, dov'egli spera di ricevere una risposta definitiva ai dubbi della sua mente, alle angosce del suo cuore.

Partendo da Roma egli aveva esclamato: « Giustizia, sì! Ma non più carità! La carità ha reso durevole la miseria; la giustizia forse l'annienterà! »

E tutto il Paris è un largo comento a quel grido.

Questa volta però l'autore non si trova in un mondo potuto conoscere molto esteriormente con tutta la buona fede e la buona volontà che egli aveva adoperato, e l'opera d'arte si giova di tale condizione; risulta viva, quasi spigliata, e rivela qualità che finora sembravano negate al suo autore. L'abate Pietro Froment non apparisce più un vanesio, un orgoglioso che tenta di imporre le sue fantasticherie umanitarie a papa Leone XIII col libercolo La Roma nuova. La sua importuna personalità sparisce in mezzo al gran formicaio parigino dove fervono tutte le attività scientifiche, socialistiche, anarchiche, insieme col fasto della ricchezza, con le orgie del vizio, con le disperazioni della miseria. Sì, come nel Lourdes e nel Rome, egli serve da filo conduttore a traverso gli avvenimenti molteplici del Romanzo, ma non è più il protagonista o, almeno, non se ne dà l'aria. Le lotte della sua coscienza qui ci interessano, ma quanto quelle di suo fratello, inventore di un terribile esplodente che dovrebbe dare alla Francia il predominio della forza su tutte le nazioni del mondo. Il suo carattere ci diventa simpatico, ma quanto quello di Maria, l'orfanella ricoverata in casa del fratello di lui e già sua promessa, che poi, invece, diventerà la moglie dell'abate quando egli avrà buttato alle ortiche la sottana.

Nel Rome egli diffonde attorno a sè una fosca influenza che vela, attrista ogni cosa; un senso di rancore e di dispetto, stavo per dire di pettegolezzo, quasi egli non sappia come sfogare la stizza di sentirsi piccino e impotente di fronte alla grandiosa mole dell'organismo cattolico; nel Paris, invece, egli versa su le cose e su gli uomini, un così largo sentimento di compassione, di carità, di amore, da far dimenticare l'infausto banchiere Duvillard, l'adultera ebrea convertita sua moglie, la cinica sua figlia che contende l'amante alla mamma e se ne fa un marito, la strana e corrotta principessa di Harth che cerca nel misticismo, nel saffismo, nel decadentismo, e fin nell'anarchismo, sensazioni sempre nuove e sempre più acute; e tutto il vermicaio di deputati, di giornalisti, di uomini di affari, tra i quali appare scomposta, losca e seducente, la figura della cocotte Silvana che fa battezzare col suo nome un ministero; da far dimenticare, insomma, tutto il laidume della società borghese e aristocratica parigina, al confronto di quelli entusiasti per una generosa idea, di fronte a quelli invasati dal furore della distruzione, lanciatori di bombe omicide, preparatori di ordegni e di esplodenti che debbono predicare a modo loro la giustizia finale.

E questo senso di compassione e di tenerezza è tale che il lettore si accorge troppo tardi della parzialità del giudizio, dell'artificiosità dei mezzi di cui si è servito l'autore.

È una gran vittoria per l'artista. Ed è nello stesso tempo la parte caduca che il preconcetto ha infiltrato nel romanzo.

Bisogna però concedere qualcosa alle ragioni dell'arte. Questo mondo nuovo in creazione, in fermentazione (se pure è nuovo) occorreva metterlo in riscontro con quello che esso intende rovesciare; dargli un risalto tale da porlo in grande evidenza, e non soltanto nei tratti principali, ma anche nelle sue gradazioni, nelle sue sfumature. Guglielmo Froment troneggia su gli altri personaggi; carattere solido, tutto d'un pezzo a cui il sentimento o meglio la sentimentalità annebbia un momento l'intelletto, fino a suggerirgli l'idea di far saltare in aria la chiesa del Cuor di Gesù quando migliaia di pellegrini vi si affollano per una sacra funzione; ma cuor retto, animo capace di alti sacrifici, una delle più simpatiche figure che lo Zola ha messe al mondo.

Viene poi Maria Courturier, figlia d'un amico di Guglielmo, inventore di genio, che aveva sciupato il suo patrimonio in fantastiche scoperte. Guglielmo ha ricoverato in casa sua l'orfanella. Mente sana in corpo sano, ella ha ricevuto una solida istruzione ed è rimasta ingenua quanto bella.

È il simbolo zoliano della donna futura, di un ateismo tranquillo, con completa noncuranza del di là. E quando l'abate Pietro le confessa i tormenti della sua coscienza, il gran vuoto che gli ha lasciato nel cuore la perdita della fede, la disperazione di non sapere che cosa sostituire al Dio perduto, ella lo guarda stupefatta:

— Ma voi siete matto! — gli dice. — Disperarsi, non più credere, non più amare, perchè l'ipotesi del divino è crollata, e appunto quando il mondo ci si apre vastissimo davanti, con tutti i doveri della vita, con tante creature e tante cose degne di essere amate e soccorse, senza contare l'attività universale, dove ognuno ha un còmpito da eseguire! Ma voi siete proprio matto!.... Tornate con noi alla scuola della buona natura. Vivete, lavorate, amate, sperate!

Ella dice delle belle e dolci parole, ma fa anche delle belle ed umili cose; è una buona massaia, e si capisce facilmente come, per lei, l'abate Froment diventi l'operaio Pietro Froment.

Ma io mi occupo più del contenuto che della forma, e trattandosi di un'opera d'arte non sta bene.

Mi limiterò a dire che Parigi ha portato buona fortuna a Emilio Zola. Mai egli è stato così semplice, così spigliato, così efficace; mai ha mostrato meno di ora quell'impaccio, quella gravità richiesta e quasi impostagli dal suo metodo di composizione. Ha buttato via tutta la scoria; appena appena qua e là qualche accenno del suo simbolismo, ma fatto con garbo, senza calcar troppo la mano.

« Il sole, vicino al tramonto, dietro un roseo velo di nuvolette, dardeggiava Parigi, simile a un seminatore gigante che lanciasse da un punto a l'altro dell'orizzonte colossali manate di oro.

« — Parigi sementato dal sole! — esclama Pietro.

« — Sì, è vero — dice Maria, — Parigi sementato dal sole! E con che gesto egli butta la semente della salute e della luce fin nei più lontani sobborghi! Cosa singolare! A ovest, i quartieri ricchi sembrano avvolti da bruna rossastra, mentre la buona semente dorata cade su la riva diritta e sui quartieri popolosi a est! Là, è vero, dovrà spuntare la messe. »

E Guglielmo soggiunge con allegra espressione di voce e di gesti:

— E non tardi a spuntare su questo buon terreno del nostro Parigi, arato da tante rivoluzioni, concimato da tanto sangue di lavoratori! Non c'è altra terra al mondo per far germinare e fiorire le idee. Sì, Pietro ha ragione: il sole sementa Parigi, e il mondo futuro nascerà soltanto da lui!

E lo Zola nell'ultima pagina del romanzo riprodurrà questa immagine e ne farà la chiusa sinfonica. Non più distinzione di quartieri, ma tutto Parigi sementato ugualmente dai grani di oro del sole. E la messe sembra già maturata, ondeggiante come un gran mare biondo a perdita di vista, sul vasto terreno della riconciliazione fraterna.

Pietro Froment, non più abate; ma padre di una bella creatura, prende in braccio il figlioletto Giovanni, e lo leva in alto quasi in offerta all'immensa Parigi sementata dai raggi del divino sole, d'onde nascerà la futura messe di verità e di giustizia.

Ma al poeta che spicca un così lirico volo nei secoli avvenire divinando la missione redentrice di Parigi, Parigi non ha concesso l'illusione di un istante. Mai con più bestiale smentita è stato risposto, non da una città ma da tutta una nazione, al sogno umanitario di un'anima avida di verità e di giustizia. Che importa, se questo sogno ci ha fruttato una bella, una grandiosa e severa opera d'arte?

In quanto all'avvenire, noi sappiamo che lo Spirito soffia dove vuole, che nessuno può dire anticipatamente: — La redenzione verrà di là! Il mondo attuale non ha niente che vedere col mondo avanti la Rivoluzione; è sazio di astrattezze. — Non più carità, ma giustizia! — Ma qualche altra nazione dà già al mondo lo spettacolo meraviglioso della più grande tolleranza possibile, che è forse la forma più pratica della giustizia su la terra; e l'esempio non sarà senza influenza per le altre nazioni. E con la tolleranza, la carità dovrà riprendere l'opera sua consolatrice, e tutte le forze dello spirito dovranno concorrere alla grand'opera. La carità non ha fatto bancarotta, come non l'ha fatta la scienza, come non l'ha fatta la ragione, checchè ne pensi l'abate Froment così scandalizzato dalla Roma papale. Il vero divino sole dello Spirito si leva su l'orizzonte per tutti i popoli, sementa tutte le terre: e se si dovesse fare un'ipotesi ragionevole — si badi, dico: un'ipotesi! — si dovrebbe dire che la giustizia, invece che nel terreno dove sono spuntate le astrattezze della libertà e dell'uguaglianza, germoglierà nel suolo d'onde si è sparso per tutto il mondo civile l'albero immortale del Diritto.

I giornali avevano annunziato il suo ritorno a Parigi nella prima settimana di questo mese. Egli avrebbe lasciato il misterioso rifugio per riprendere il suo posto accanto all'eroico Picquart nella immane lotta per la verità e la giustizia, alla quale ha, da quasi un anno, sacrificato la sua tranquillità di uomo e la sua gloria di artista.

Gli stessi giornali oggi annunziano invece che egli parte per l'America a farvi delle conferenze, non dicono precisamente intorno a quale soggetto, forse intorno ai tristi avvenimenti della sua patria che destano tanta ansietà e tanto interesse dovunque.

Io non so quel che ci sia di vero in queste contraddittorie notizie, e può darsi benissimo che Emilio Zola ci prepari qualche sorpresa che non sarà il suo ritorno in Francia o il suo viaggio in America. Vorrei però che questa sorpresa fosse un'opera d'arte, un romanzo.

La missione di pubblico accusatore, ch'egli si era generosamente imposta, è ormai finita. Qualcosa di più potente che la voce di uno scrittore, quantunque grande e famoso, la terribile eloquenza dei fatti, ha preso il posto di lui e parla, anzi tuona alla coscienza del popolo francese. Emilio Zola è passato in seconda linea.

Questo non diminuisce punto il valore della nobilissima parte da lui rappresentata nel nefando intrigo che supera quanto di più putrido e di più immondo egli è stato accusato di ammassare nei suoi romanzi.

Doveva accadere così. Egli però n'è stato ricompensato a bastanza. Mentre la Francia soldatesca e reazionaria lo insultava, tutto il resto del mondo civile teneva fissi gli occhi su lui, lo accompagnava coi voti, augurandogli quel trionfo che oggi è quasi raggiunto.

In quei giorni niente faceva prevedere quel che ora è avvenuto. Su tutti i personaggi del triste dramma grandeggiava, calma e serena, la figura del romanziere accusatore; e non valevano a sbigottirlo i feroci attacchi della stampa partigiana, gli urli della folla pagata o miseramente illusa, le sentenze dei giurati terrorizzati dalle minacce dei capi dello Stato Maggiore che, luccicanti di spalline dorate, di decorazioni, impennacchiati e pettoruti, erano comparsi unicamente per quello scopo davanti a loro. I pochi che lo ignoravano come romanziere, avevano appreso ad amarlo e a riverirlo come difensore della vittima del più indegno delitto che abbiano mai commesso il militarismo, la politica, la intolleranza religiosa. In certi momenti, i più gravi interessi delle nazioni erano diventati meschina cosa di fronte alla titanica lotta da lui combattuta.

Poi sembrò vinto, disfatto. La sua scomparsa veniva giudicata una fuga; il dubio e lo scoraggiamento cominciavano a insinuarsi fin fra coloro che più avevano avuto fede in lui; e i suoi avversari sogghignavano di scherno alle parole: Sarò al mio posto, quando verrà l'ora opportuna!

Tutt'a un tratto il rasoio del colonnello Henry recide i primi lacci della mostruosa matassa... e l'Accusatore sparisce dietro le sinistre figure dei falsari venute inattesamente in pienissima luce.

* * *

Voglio sperare che Emilio Zola non stimi questa sua grande vittoria, questa sua sublime ora di trionfo superiore o uguale alle vittorie e ai trionfi da lui ottenuti nel campo dell'arte. Il valore di un'azione va anche giudicato dalle conseguenze che può produrre. E intorno a queste, pel processo Dreyfus, non c'è da farsi illusioni di sorta alcuna.

In meno di un lustro, Dreyfus, l'Isola del Diavolo, il colonnello Henry e compagnia brutta saranno certamente dimenticati. All'agitazione presente succederanno altre e non meno violente agitazioni. La vita — che ne dica la ballata — corre più presto dei morti. E poi, Calas e Voltaire non hanno impedito che, appena dopo un secolo, una quasi identica situazione si riproducesse, cioè che un innocente fosse condannato e che uno scrittore, un semplice scrittore, non magistrato, non avvocato, sorgesse a difenderlo e riuscisse, come ci auguriamo tutti, a salvarlo dell'atroce prigione, più fortunato del suo predecessore che potè solamente rivendicare la memoria dell'infelice vittima della superstizione religiosa.

Ci sono voluti degli eruditi per rammentare la bella azione del Voltaire. Tutti coloro che hanno letto e leggono Candide, o la ignoravano o non se ne rammentavano più; ed io temo che il nuovo esempio dello Zola non varrà neppur esso a impedire che qualche altro infelice sia vittima di altri falsarii o di miserabili di specie diversa. Mutano le apparenze, le passioni assumono altre maschere, ma la malvagità umana permane identica. E quando i nuovi Esterhazy, i nuovi Henry, i nuovi Paty de Clam, i nuovi Gonse e Boisdeffre entreranno in ballo; quando avranno ordito peggiori tranelli e più formidabili falsità che non ne abbiano accumulato i maldestri di oggi, troveranno sempre una folla che si lascerà ingannare, che sentirà il bisogno di essere ingannata per sfogarsi contro qualcuno delle sciocchezze e degli errori da lei commessi e dei quali non saprà rassegnarsi a soffrire le conseguenze; troveranno altri interessati a coadiuvarli, altri furbi che vorranno giovarsi delle loro birbanterie e che li lasceranno liberamente agire con questo secondo fine. E allora niente varrà che altri eruditi rammentino Voltaire e Calas, Emilio Zola e il capitano Dreyfus. Non sempre i Voltaire e gli Zola hanno la fortuna di trionfare, caso mai se ne potessero trovare a ogni occasione; e non si trovano, ahimè!

* * *

Se Emilio Zola non avesse fatto altro che difendere la innocenza del capitano Dreyfus, avrebbe raccomandato il suo nome a un molto debole sostegno.

Fortunatamente per lui e per noi, egli ha fatto ben altro.

Ed ecco perchè io sono lieto che l'illustre autore dei Rougon-Macquart sia giunto al termine della sua campagna. Ed ecco perchè mi auguro ch'egli testimone e magna pars in questi avvenimenti dai quali sono tenuti tuttavia sospesi gli animi — perchè non è ancora certo che le bieche ragioni di Stato non prendano il sopravvento su le ragioni della giustizia — meglio che scrivere un libro di storia e di polemica, come è stato detto, ritorni all'arte, al romanzo.

La politica, oh no! non lo tenterà. Egli deve sentirne un'immensa nausea, dopo aver potuto scrutare da vicino di che laidumi sia impastata.

Ch'egli scriva dunque quest'altra Debacle assai più terribile della prima! Ch'egli attacchi a una gogna immortale — l'arte sola dà l'immortalità — tutti questi farabutti che disonorano l'esercito francese e la Francia intera! Quando le misere agitazioni presenti saranno appena un vago ricordo per li ultimi sopravvissuti della nostra generazione, e quando soltanto gli storici si occuperanno del processo Dreyfus consacrando ad esso qualche breve pagina, l'opera d'arte soltanto terrà ancora in vita, bollate da un marchio di fuoco, le ignobili figure della seconda repubblica, che ecclisseranno i poco scrupolosi faccendieri del secondo impero transustanziati dalla immaginazione nei Rougon-Macquart.

Mai più tetra e tragica materia si è presentata all'immaginazione di un grande artista, mai, o quasi, la realtà è stata così superiore alle combinazioni più assurde di un'ardente fantasia! Mai il còmpito di un artista è stato più difficile e nello stesso tempo più tentatore. Emilio Zola ha il poderoso petto che occorre per affrontarlo.

I suoi famosi documenti umani egli non dovrà stentare per trovarli; ne ha già troppi sotto mano.

O tranquilla palazzina di Médan, ieri violata dalla volgare persona degli uscieri, umili strumenti di una giustizia indegna di chiamarsi tale, quando aprirai a due battenti il tuo cancello al profugo artista? Allora veramente entrerà assieme con Lui nelle tue vaste sale la solenne vindice Giustizia: ed ha un nome altrettanto nobile e santo; ella chiamasi l' Arte.

UNA JETTATURA

Sto per credere di averla addosso, se mi capita così frequentemente di vedermi frainteso. Aveva pur troppo ragione il Voltaire quando diceva: Datemi tre righe di un galantuomo e ve lo faccio impiccare. Io ne ho scritte più di tre a proposito di Emilio Zola e della parte da lui presa nell'affare Dreyfus, ed ecco il Fanfulla che mi denuncia come reo di lesa maestà della nazione francese, ed ecco il nostro Marius che mi fa una lavata di capo, quasi io abbia mancato di rispetto a Emilio Zola, augurandogli di riprendere presto la sua penna d'artista.

Gli spropositi dell'articolista del Fanfulla potevo lasciarli passare inosservati. Quando uno ha il coraggio di proclamare Emilio Zola il più gran malfattore che abbia oggi la Francia, il maggior responsabile di tutta la corruzione che rode come un cancro la società contemporanea francese, non c'è da discutere. Si ride e basta. Ognuno è spiritoso come può. Se i lettori del Fanfulla si contentano dell'amenità che lo Zio Tobia ha loro ammanito, tanto meglio, o tanto peggio, per essi. Forse pensano che certe sciocchezze sono talvolta più esilaranti di un bel tratto di spirito; questa per esempio: « La Francia, atterrata, ma non soffocata dalle sventure del 1870, avrebbe dovuto riprendere in breve tempo i sentieri luminosi della civiltà; ma trovò sul suo cammino Emilio Zola e ricadde più ferita di prima: anzi strozzata addirittura. »

A chi osa di scrivere queste parole (non hanno bisogno di un qualificativo, ed io sarei imbarazzatissimo se dovessi trovarlo) posso facilmente perdonare la ignoranza che dimostra intorno alle mie convinzioni letterarie, e rassicurarlo che dicendo male dello Zola non si è comprata, come egli crede, a contanti la mia irosa inimicizia; sarebbe troppo a buon mercato.

Marius però deve avere la pazienza di ascoltarmi.

Da qual parte del mio articolo egli ha desunto che io mi permetto di fare a Emilio Zola una ramanzina, come ad un ragazzo impertinente che trascura i suoi doveri?

Debbo supporre che il fioco lume d'una luna amareggiata da molte nuvole e il fioco lume della lampada del vagone, o la narcotica virtù del mio articolo lo abbiano ridotto in un dolce stato di dormi-veglia che lo hanno poi indotto a fraintendermi?

Io ho voluto dire soltanto questo: Emilio Zola ha ormai compiuto il suo dovere di cittadino. Coloro che egli accusava sono smascherati. « Qualcosa di più potente che la voce di uno scrittore, quantunque grande e famoso, la terribile eloquenza dei fatti, ha preso il posto di lui, e parla, anzi, tuona alla coscienza del popolo francese. Emilio Zola è passato in seconda linea. Questo non diminuisce punto la nobilissima parte da lui rappresentata... Ritorni all'arte e scriva quest'altra Debacle più spaventevole della prima. »

E conchiudevo:

« O tranquilla palazzina di Médan, ieri violata dalla volgare persona degli uscieri, umili strumenti di una giustizia, indegna di chiamarsi tale, quando aprirai a due battenti il tuo cancello al profugo artista?

« Allora veramente entrerà, assieme con Lui, nelle tue vaste sale la solenne vindice giustizia; ed ha un nome altrettanto nobile e santo: ella chiamasi l' Arte. »

Quando mai mi è passato pel capo di diminuire il valore del coraggioso atto cittadino del romanziere trasformatosi inattesamente in pubblico accusatore?

Quando mai mi è passato pel capo d'insinuare che Emilio Zola, così facendo, abbia voluto formarsi un piedistallo di questa questione, e che abbia preso il destro di afferrare quest'arma per servirsene a vantaggio suo e dei suoi?

Marius ha trovato proprio le tre righe per farmi impiccare: le ha strappate dal nesso logico del mio articolo, e ha impreso caritatevolmente a lavarmi quel lucido capo, che appunto per questa sua condizione non ne ha punto bisogno.

Se dire ad un artista, a un grande artista: Avete compiuto la missione che vi eravate imposta con generosità senza pari. I resultati della vostra lotta sono forse superiori a quel che voi vi attendevate. Ora, per attaccare a una gogna immortale coloro che han disonorato l'esercito francese e la Francia, scrivete un libro degno di voi, prendendo a soggetto i tetri e tragici fatti di cui siete stato testimone. « Mai còmpito di artista è stato più difficile e più tentatore: voi avete il poderoso petto che occorre per affrontarlo »: se dire questo a Emilio Zola significa fargli una ramanzina come a uno scolaro che ha trascurato il suo dovere, io lo lascio giudicare ai lettori della Tribuna, e mi rassegno anticipatamente alla loro sentenza.

Le tre righe incriminate da Marius volevano dire soltanto che l'opera d'arte, per la sua speciale natura, ha un valore assai superiore a qualunque nostro atto semplicemente morale. E citavo per ciò Voltaire e Calas.

L'opera d'arte infatti, anche quando non ne ha la precisa intenzione, è atto di alta moralità, di giustizia spirituale. Io accuso! Ma Emilio Zola, si può dire, non ha fatto altro in tutta la sua dignitosissima vita. I suoi ventitrè romanzi sono atti di accusa e di condanna nello stesso tempo; ed io non credo di ingannarmi dicendo che quando, nel lontano avvenire, e anche nel non lontano, non si parlerà più del processo Dreyfus e del coraggioso promotore della revisione di esso, i Rougon-Macquart, e Le trois villes con tutti i loro difetti, e non ostante questi, vivranno nella memoria degli uomini e continueranno ad accusare e a condannare il secondo impero e la seconda republica.

Io accuso! Emilio Zola lo ha lasciato trasparire anche troppo da tutta la sua produzione di romanziere, e qualche volta fin facendo sottostare le ragioni dell'arte alle sue convinzioni personali. La sua carriera di critico e di artista è stata una lotta incessante. Il conspuez Zola, prima che dalla gola della folla anti-semitica e reazionaria, era risuonato parecchie volte dalle colonne dei giornali per opera di articolisti che si affibbiavano la giornea di campioni della morale e dell'arte; e i rammolliti decadenti e i pretesi neo-spiritualisti avevano già ripreso a urlare quel conspuez anche dopo che gli altri si erano stancati.

Emilio Zola non si è minimamente commosso per questi incessanti attacchi, come non si è impaurito delle dimostrazioni della folla che minacciava non la sua opera d'arte, ma la sua vita.

La sua imperturbabilità di artista e di cittadino dimostra ad evidenza che egli non ha mai avuto bassi secondi fini.

Quella ricchezza che è venuta a lui per virtù del suo ingegno, egli l'ha messa a repentaglio spensieratamente per una causa che gli è parsa altrettanto nobile e santa quanto la sua opera d'arte. Se questa volta si fosse anche ingannato, le sue intenzioni non avrebbero potuto essere giudicate meno disinteressate e generose.

E perchè convinto di questo, non ho potuto lasciare senza risposta le parole dell'egregio Marius.

Al quale auguro in altra occasione una luna meno amareggiata da molte nuvole e una lampada di vagone meno fioca.

LA CHIMERA

Quando sento dire d'un giovane: — È serio, assennato, non ha chimere pel capo — subito mi domando: — Ma è proprio giovane costui? — Mi sembra impossibile: non so figurarmi la giovinezza senza chimere pel capo.

La chimera ordinariamente è l'ideale; il nuovo che sta per schiudersi e che si fa intravedere appena: il sogno che si agita per divenire realtà; il feto che si matura nel seno oscuro, dove succhia tutti gli elementi della vita e dà nausee, dolori, malessere sui generis, alla creatura gestante di cui è sangue del sangue, carne della carne. Una giovinezza che non rincorre l'alata chimera dell'ideale, che non sogna e non si agita dietro i primi luccicori dell'avvenire che sta per schiudersi, che non sente in sè il malessere intellettuale di una gestazione potente, è inferma, senza rimedio, di vecchiezza precoce.

Per ciò io mi sento attratto in singolar modo verso tutti coloro che si mostrano giovani davvero e inseguono con foga e temerariamente una qualunque chimera. Non già perchè io sia convinto che sempre e in ogni caso la chimera di oggi sarà la realtà di domani, ma perchè quella rincorsa dietro un'ideale è buon segno di vitalità, di forza, e perchè da questa confusa e talvolta pericolosa agitazione di discordi elementi la sapienza organatrice della Natura trae l'artista, il grand'uomo, il genio che darà vita a un capolavoro.

Che importa se per molti la chimera sarà stata alla fine una dolorosa delusione? Che importa se il cammino percorso trionfalmente da pochi o da uno solo è funestato dallo spettacolo di tanti che sono caduti fra i tormenti di terribile agonia a metà di strada, maledicendo la chimera che non si è lasciata raggiungere? La vita è così; ha la sua legge, la sua ferrea necessità, ed è stolto pensare che avrebbe potuto essere costituita diversamente.

O Romanticismo, chimera della generazione che precedette la nostra! O Verismo o Naturalismo, che sei stato anche la mia chimera quando avevo folti capelli scuri e baffi neri e non sospettavo di dover scrivere un giorno due volumi di Fiabe, che allora mi sarebbero parse vigliacca rinnegazione della mia fede!

O Idealismo, o Simbolismo, chimera della generazione presente! O sogno di bellezza estetica che dinanzi al vocabolo raro, al periodo armonioso e voluttuosamente snodantesi come collo di cigno o come corpo di serpe che rinnova la sua spoglia sotto i raggi canicolari, dimentichi che il vocabolo è segno e confondi l'essenza della musica con l'essenza della parola!

O unica e sola Chimera, che assumi diversi aspetti, iridando le penne delle tue ali ad ogni nuovo riflesso di luce, e che sei stata Romanticismo e poi Verismo e oggi Idealismo o Simbolismo e assumerai domani chi sa quale inattesa e più lusinghiera sembianza! Noi tutti abbiamo bisogno di te, anche quando arriviamo a comprendere che tu sei l'inafferrabile, l'irraggiungibile e, spesso, anche nient'altro che l'inganno!

Io fantasticavo così poco fa, terminando di leggere il libro di un giovane[7] che avevo visto già correre con forte lena dietro l'attuale Chimera, in due suoi lavori precedenti. E mi vedevo davanti agli occhi un altro scrittore, giovane anch'esso e non nostro, che la stessa Chimera aveva allettato e fatto fuorviare, ma che si è poi sottratto vigorosamente al mortale miraggio fatto balenare da essa agli ansiosi sguardi di lui, quando lo allettava a scrivere La course à la Mort, Le sens de la Vie, Les trois coeurs, tre romanzi di idealismo trascendente, dove era tentato l'assurdo di ridurre l'opera d'arte a pura opera di pensiero; dove i personaggi erano semplici nomi, semplici segni, senza carne nè ossa. E pensavo al poderoso sforzo che Edoard Rod aveva dovuto fare per sbarazzarsi dalle allucinazioni della Chimera idealista e simbolista, e arrivare all'ultima, sana e rigogliosa manifestazione del suo ingegno, a Le Ménage du Pasteur Naudié apparso appunto in questi giorni.

Veramente Enrico Corradini non era andato tant'oltre, come lo scrittore francese, tra le nebbie dell'idealismo e del simbolismo, o dell' intuitivismo come il Rod lo chiamava.

Nel Santamaura stava ancora molto vicino alla realtà e i suoi personaggi erano quasi tutti solidi e robusti; se non che si smarrivano un po' nel labirinto dell'azione e, di tratto in tratto, si scolorivano, non sembravano più persone vive o almeno ben organate, quasi fosse venuta meno la vital forza della immaginazione che li aveva messi al mondo.

Dopo, era uscita fuori La Gioia preannunciando una trilogia, un trittico narrativo, come oggi è di moda; e molte pagine di questo nuovo romanzo raggiavano di lieta luce, sorridevano; e i personaggi di esso, se mostravano ancora qualche rapporto di fratellanza (come no?) con quelli di Santamaura, avevano aria di miglior salute, quantunque meno robusti e anche meno attraenti di quegli altri, dotati di una simpatica rustichezza, di una strana vigorìa di sentimenti che li fissava nella memoria del lettore. In La Gioia mancava infatti una figura da poter stare in confronto col vecchio sognatore umanitario Romolo Pieri a cui il misero villaggio di Santamaura deve la sua trasformazione industriale; e il protagonista Vittorio Rodia che vuole ricercare « soltanto nel proprio spirito il piacere della vita » perchè è convinto che « dallo spirito nasca ogni desiderio e ogni visione di felicità »; non vi fa intravvedere in che modo egli diventerà Il Signore della vita (seconda parte della trilogia) nè quali potranno essere i risultati della sua esperienza negli Ultimi giorni di Vittorio Rodia, terza parte della trilogia.

La chimera, che meglio si scorgeva proseguita in quei due primi romanzi, era quella dello stile, con una preoccupazione insistente; un po' chimera propria, un po' quella di un altro che già affascina parecchi e toglie a molti giovani l'impronta della loro personalità. Mentre però si scorgeva in La Gioia uno sforzo, spesso vittorioso, di liberarsi dalla malìa della chimera altrui per questo riguardo, vi apparivano pure i segni della sopraffazione di un'altra chimera appunto nel protagonista Vittorio Rodia, che richiamava spesso alla mente l'Andrea Sperelli, il Tullio Hermil e il Claudio Cantelmo dei noti romanzi del D'Annunzio.

Ma nè Santamaura, nè La Gioia facevano sospettare, neppure in rapido baleno, La Verginità ultima arrivata.

Quando si tratta d'un ingegno non comune, com'è quello del Corradini, non c'è da impaurirsi tanto pel suo avvenire. Io, per esempio, che ho seguìto attentamente tutti i suoi passi, non temo che egli voglia ripetere, all'inverso, tra noi, il caso letterario del Rod: non temo di vederlo smarrire irrimediabilmente tra la nebbia dell'idealismo e del simbolismo, non ostante che in La Verginità egli abbia calcato la mano o, meglio, si sia lasciato andare troppo oltre verso queste due azzurre chimere che infestano il cielo dell'arte narrativa odierna, proponendo ai giovani scrittori, come la mitica Sfinge, enimmi insolubili o che paiono tali, e colpendoli fatalmente se non riescono a risolverli.

Chi ben guarda, trova in La Verginità l'ingrandimento, l'esagerazione di certe tendenze manifestate dal Corradini nel suo dramma Dopo la morte e nei due romanzi citati. Ma mi sembra sia un caso naturale, come il necessario germoglio di certe cattive erbe non strappate da un campo, e riproducentisi con invadente vegetazione maligna. Altre cattive erbe — e si scorge — il Corradini ha strappate, impedendo loro di riprodursi in questa sua nuova opera di arte: affettazioni di stile, imitazioni, forse irriflesse, di stile altrui, eccessi d'immagini, eccessi di colorito inopportuno: ed è qualcosa. La rinnovazione procede così, dall'esterno all'interno: dalla parola, dalla frase, all'organismo dell'opera d'arte. Quando si vede che uno scrittore caccia via dal suo stile quel che è falso, quel che è inutile, e cerca di dare alla parola la limpidità, la trasparenza che la riducano tutta una cosa col concetto, c'è da scommettere che opererà lo stesso lavoro di rimonda, di semplicizzazione, di inveramento, come direbbe il Vico, anche nell'organismo della sua concezione. Perchè cancella una parola, e muta e rimuta una frase, e le martella e le ripulisce fino a che non corrispondano a quelle che devono essere? Senza dubbio, perchè comincia a convincersi che la semplicità, la schiettezza, la sincerità sono le vere doti naturali dello stile, e che la semplicità, la schiettezza, la sincerità diventano, secondo il concetto, forza, colore, tutto.

Così avverrà a poco a poco coi suoi personaggi; li vorrà semplici, schietti, sinceri, perchè non potrà più tollerare una stonatura tra essi e la forma. E capirà che semplicità non significa povertà; nè schiettezza e sincerità, ingenuità.

Attilio Palagonia, l'attrice Saveria ed Ercole Grabba, i tre personaggi di La Verginità, appaiono creature complicate per effetto d'una illusione di ottica d'arte. In se stessi sono, non solamente semplici, ma dirò quasi poveri. Sono creature sensuali, voluttuose; nient'altro. La complicazione la vuole e la ricerca l'autore a furia di analisi, o meglio prestando ai suoi personaggi la sua ricchezza. Per riempire il loro vuoto, ha dovuto ricorrere a mezzi di messa in iscena, anzi di scenario che, se provano la sua abilità descrittiva, scoprono maggiormente la deficienza delle sue creature. E che sforzo per illudersi sul conto loro e illudere il lettore! Basterà leggere gli splendidi capitoli Nel sole, La passeggiata notturna: splendidi non tanto per quel che sono, quanto per quel che fanno scorgere della forza artistica del loro autore. Attilio Palagonia, Saveria, Ercole Grabba sembrano degli agitati, dei malati che non scorgono più la realtà delle cose e dei sentimenti; ma la veggono mostruosamente sviluppata per qualche infiammazione che, dopo avere alterato i loro organi visivi, si sia comunicata alle loro menti.

Perchè mai Enrico Corradini, che ha creato Romolo Pieri, suo figlio Mauro e la brutale campagna socialista di lui; che ha concepito e delineato bravamente la spigliata figura di Natalia, le grottesche sorelle Florimo, la sensibile Concettina Croce (cito a caso e di memoria) nei due romanzi precedenti, qui, in La Verginità, ci ha fatto intravedere soltanto a sbalzi qualcosa di umano, di non voluto, di non troppo ricercato?

Ah, la Chimera, la Chimera!

Ed io ne capisco tutte le seduzioni e non mi sdegno e non ne faccio un rimprovero alla giovinezza dell'autore.

Creare un'opera d'arte dove lo stile, i personaggi, la natura, le sensazioni, i sentimenti, le idee siano, tutt'insieme, un'armonica luce di bellezza; dove il reale e l'ideale si confondano e si compenetrino talmente da far risultare la concezione artistica verità materiale e simbolo in una!... Come resistere agli incanti di tale Chimera?

Eppure io credo che Enrico Corradini resisterà. Sarebbe proprio una disgrazia, se egli dovesse rimanere tra quelli che agonizzano a metà di cammino, nella via dell'arte, prima di aver stretto fra le braccia la forma sognata e adorata.

Nel paese della Chimera, che qui significa dell'idealismo, del simbolismo, dell' intuitivismo, Edoardo Rod si era inoltrato più arditamente e più spensieratamente di lui, e n'è tornato addietro sano e salvo e più vigoroso e più forte. Non è male avventurarsi in questo viaggio; qualcosa dell'ideale inseguito si trasfonde sempre nell'opera d'arte, quando si possiede ingegno solido e ben organato. Per esempio, quanta idealità, quanta serenità in quest'ultimo romanzo del Rod. Le ménage du Pasteur Naudié! E quanta passione vibrante e profonda! Si vede bene che la Chimera non è stata inseguita inutilmente.

E questo vorrei poter dire del Corradini e di un suo prossimo libro.

E. ROD — E. LESCA

( E. Rod, Nouvelles études sur le XIX siècle, Paris, Perrin, 1898 — E. Lesca, Leggendo e annotando, Roma, Loescher e C., 1898. )

Un libro di critica è spesso, oggi, un'opera d'arte.

L'autore non lo ha composto tranquillamente, di proposito, capitolo per capitolo, col pensiero fisso a un'idea cardinale e intento a farne risaltare la dimostrazione in pro o contro uno scrittore, una moda, un genere letterario. Gli articoli che formano il volume sono usciti fuori alla spicciolata, in occasioni diverse, con intervalli di anni qualche volta, ma sotto la vivissima impressione di una lettura, di una discussione: e ne portano l'impronta nel contenuto e nella forma.

L'autore ha avuto il buon senso di riprodurli in un volume quali comparvero nelle colonne di un giornale o nelle pagine di una rivista. Lo svolgimento di qualche soggetto sarà insufficiente; e fra un articolo e l'altro ora si potrà scorgere qualche contraddizione che indica come il pensiero dello scrittore abbia fatto cammino, e si sia maturato nello spazio di tempo corso fra i due scritti: tanto meglio. Il volume acquisterà, anche per queste insufficienze e contraddizioni, un'aria di vita e di cosa d'arte, che le facili correzioni e le aggiunte gli avrebbero tolto.

In Italia i volumi di critica letteraria sono assai rari, per ragioni commerciali dipendenti da quelle della nostra cultura generale. Bellissimi e interessantissimi articoli, che non hanno niente o assai poco da invidiare agli scritti delle migliori rassegne estere, rimangono sepolti nei fascicoli della Nuova Antologia e delle altre poche consimili riviste o nelle colonne di qualche giornale quotidiano. I loro autori sono convinti che troverebbero difficilmente un editore; e gli editori sanno per prova che questo genere di volumi non va. Parecchi scrittori poi non mettono insieme, in uno o due anni, tanto materiale da formare un volume. La critica letteraria non è una funzione, o meglio una carriera tra noi: è una esercitazione casuale, capriccio di un momento, spesso atto di compiacenza verso un autore, concessione all'entusiasmo passeggero per un poeta o romanziere in voga, per un principio d'arte che la moda mette in evidenza e che interessa realmente con la sua elevatezza e con gli eccessi.

Non occorrono tutte le dita di una mano per segnare i nomi di coloro che seguono, da critici competenti, il nostro movimento letterario e ne notano, di tratto in tratto, i prodotti di qualunque natura e di qualunque valore essi siano. E questi medesimi non sentono mai il bisogno di rivolgersi addietro, di riprendere in esame la molteplice produzione di uno scrittore, e riguardarla da un nuovo punto di vista, e cavarne i segni caratteristici, o sviscerarne il concetto morale che si nasconde sotto ogni opera d'arte.

Infatti, a quale scopo? La gente che legge appena l'opera d'arte o va a sentirla a teatro, non leggerebbe quel che vorrebbe dirgli il critico. L'interessamento di essa non passa oltre la buccia di un certo pettegolezzo. Una discussione o un esame fatti con serietà la seccherebbero.

E così avviene anche che il critico italiano, specialmente quello d'occasione, non ha sempre ben sciolta la mano, non sa assumere quella spigliata aria discorsiva che rende ordinariamente gli articoli originali delle riviste e dei giornali esteri una specie di vivace conversazione tra scrittore e lettore, dove il lettore ha il piacere di star ad ascoltare e l'altro tutto l'interesse di rendersi parlatore gradito.

Facevo queste riflessioni leggendo interpolatamente i due volumi annunciati, uno francese e l'altro italiano; e mentre non mi sembrava ambizioso il titolo del volume del Rod, avrei desiderato meno dimesso quello del volume del giovane professore Lesca, quantunque corrisponda benissimo alla natura degli scritti in esso raccolti, anzi appunto per questo.

Gli studi del Rod sono quasi tutti riassuntivi. Non già che pretendano di dire l'ultima parola intorno alla produzione, o al carattere di essa, di autori che si chiamano A. Daudet, A. France, V. Hugo, E. Hennequin, A. Fogazzaro. Per alcuni di questi, l'ultima parola oramai spetta alla posterità; per altri non sarebbe possibile dirla, trovandosi oggi nel vigore degli anni e nella piena maturità della creazione.

Ma il loro autore, vi adopera tale sagacia, tale serenità da far stimare che ben poco l'avvenire correggerà o cancellerà di parecchi suoi giudizi, almeno nei punti più rilevanti. Per altri punti, dove l'affetto esagera un po' l'ammirazione, come nello scritto intorno al Daudet; dove la imparzialità coscienziosa del critico, la suggestione artistica o intellettuale sentite leggendo, gli impediscono di prendere un più risoluto atteggiamento, come a proposito di A. France; dove il sentimento di amicizia e la compassione davanti alla tomba di un giovine d'ingegno, morto a ventinove anni, gli ingrandiscono le proporzioni del valore critico del povero E. Hennequin, annegato, per congestione cerebrale, prendendo un bagno nella Senna; infine, dove, ragionando del Fogazzaro romanziere e poeta, rimane più sur un terreno di cortesia che di osservazione a fondo e di precisione di fatti; per quest'altri punti, dico, le correzioni, le attenuazioni le va facendo lo stesso lettore via via che procede di pagina in pagina senza arrestarsi o stancarsi.

E infatti il minor merito di tal genere di scritti non è certamente la muta, interiore discussione provocata durante la lettura; specialmente quando uno scrittore come il Rod, alle funzioni di critico d'arte, mescola con abilità quelle di moralista elevato.

Il volume del prof. Lesca, ripeto, risponde benissimo al titolo: Leggendo e annotando. Certamente egli legge con molta attenzione, annota con fine intelligenza, con garbo e qualche volta con vivace arguzia: vedi lo scritto: Un preteso dialogo di Torquato Tasso.

Ma, sia un po' colpa dei soggetti, sia un po' qualche residuo non potuto ancor vincere delle funzioni scolastiche dell'autore, mi sembra che manchi appunto in questi scritti quella facile ma non superficiale scorrevolezza, quell'agile eleganza di presentazione del soggetto, senza perdersi in cose minute, ponendo subito in vista l'essenziale; insomma quel che, ddu tali nun-so-cchi (a lui che è stato in Sicilia e ne parla anche in questo volume a proposito del Bazin, si può dirlo col Meli) quel che per cui l'articolo di critica assume senso e forma di opera d'arte.

E non c'è nello stile del Lesca niente di ammanierato, di grave, di pedantesco; soltanto il concetto non prende le ali, non tenta di diventare qualcosa di organico, o di meno scucito che il semplice annotare. Io avrei voluto vedere smentita la modestia del titolo del suo volume; cosa che all'autore non sarebbe stata difficile volendo, perchè ne dà un esempio nello scritto: Foscolo Manzoni Leopardi, a proposito del libro dallo stesso titolo, di Arturo Graf; e avrebbe potuto darne un altro esempio, parlando della Sicile del Bazin; tanto più che egli aveva ricordi personali da contrapporre o aggiungere alle impressioni dello scrittore francese.

E a proposito di queste annotazioni, da uno che è vissuto qualche anno in Sicilia, non mi attendevo generalizzazioni molto simili a quelle da lui rimproverate al Bazin, o meraviglie e stupori davanti a spettacoli di miseria o di poca nettezza, quasi essi fossero una specialità della Sicilia e non se ne vedesse neppur l'ombra altrove, nel continente italiano e fuori!

Egli descrive con gran compiacenza di particolari un misero albergo di Giarre e la difficoltà di procurarsi un po' di carne e delle uova... Ma forse questo avviene soltanto a Giarre, paesetto dove la ferrovia ha ormai reso superflui gli alberghi che vi erano prima, quando esso era punto di fermata del viaggio in diligenza o in carrozza fra Catania e Messina?

Un giorno, anni fa, il Verga ed io pensammo di fare una bella passeggiata e andare da Milano a Sesto. Ma non era domenica, e nei due o tre ristoranti, che la domenica rigurgitavano di avventori, non c'era anima viva. Chiesto invano da mangiare a due ristoranti indicatici come migliori, dovemmo rassegnarci a ricorrere al terzo. Il padrone ci guardò con aria così ansiosa, che ci lusingammo di essere capitati bene. Il locale non era veramente di gran lusso, ma decente. — C'è qualcosa di pronto? — Niente; tutto da farsi. — Allora, spaghetti al pomidoro. — Oggi, cari signori? Impossibile! — Due cotolette ai ferri; intanto un po' di salame, un po' di burro. — Il padrone si grattava poco pulitamente la testa. — Insomma?... — Quel che vogliono; ma, oggi...

E dovemmo contentarci di un po' di pane non fresco, di un po' di gorgonzola o stracchino, non ricordo bene, e qualche mela. A Sesto! A poche miglia da Milano! D'estate! Cioè, quando quel paesetto diventa luogo di villeggiatura domenicale pei buoni ambrosiani che non possono correre alle montagne o al mare!

Il Verga ed io ci contentammo di ridere, e di andare a desinare a quel Biffi che avevamo voluto fuggire. E stia sicuro il prof. Lesca che, nel caso che io avessi la tentazione di mettermi a scrivere le mie memorie, non dirò — glielo giuro — che Sesto, nel 1889, era un posto selvaggio, dove due viaggiatori potevano facilmente morire di fame!

VITTORIO PICA

Il suo ultimo libro s'intitola: Letteratura di eccezione; ed è un'eccezione anche lui, l'autore, che si è formato una specialità della critica letteraria ed artistica, senza mai invadere altri campi. Per ciò è riuscito un critico che sa molto bene il suo mestiere, cosa rara tra noi.

Si può anzi dire che un eccessivo scrupolo di coscienza lo abbia indotto a limitare lo spazio dei suoi studi d'arte letteraria alla sola letteratura francese contemporanea, e, in questa, particolarmente alla produzione che ha lo spiccato carattere della ricerca del nuovo a ogni costo e, appunto per tale smania, invece dell'originalità, trova spesso la caricatura di essa, lo strano, l'assurdo. Giacchè si è originali senza volerlo e quasi senza saperlo, per naturale conformazione dell'ingegno, come si hanno quella fisonomia, quei gesti, quel tono di voce, quei modi di sentire e di esprimersi che costituiscono la individualità d'ogni creatura umana, e la distinguono da tutte le altre. Questa originalità naturale, istintiva, organica, non mostra nessuno sforzo, nessuna deliberata intenzione di voler essere tale; non architetta anticipatamente teoriche che debbano regolarla e giustificarla; si manifesta genialmente, vivendo, operando, cioè producendo l'opera d'arte più conforme ai suoi mezzi di creazione.

Di questo è convinto pure Vittorio Pica, e lo dà a vedere con la moderazione dei suoi giudizii, anche quando la sua tormentata curiosità gli fa preferire lo studio di quelle opere letterarie da lui chiamate di eccezione, alterando un po' il significato di questo vocabolo, e dandogli un senso di scusa indulgente.

Egli si lascia attrarre più volentieri da certi caratteri morbosi, da certe mostruosità psicologiche o di forma, con le quali si rivelano in ogni opera d'arte l'aspirazione a qualche cosa che esca dall'ordinario e il faticoso vano processo per raggiungere quello scopo.

È simile a un medico che si compiace dei bei casi di malattie complicate, a un chirurgo che si entusiasma davanti a una bella piaga purulenta e cancrenosa. Certamente, come nel medico, c'è in quel compiacimento di lui il pensiero dell'opera d'arte sana e piena di rigoglio; c'è, come nel chirurgo, l'idea sottintesa dell'abile operazione che farà rimarginare quella piaga.

E per questo il lettore dei sei lunghi e minuziosi studii intorno al Verlaine, al Mallarmé, al Barrès, al France, al Poictevin, al Huysmans, gli perdona facilmente quel compiacimento e quell'entusiasmo quasi inerenti all'ufficio di critico, come li perdona al medico e al chirurgo in grazia della scienza della salute.

Senza l'entusiasmo ed il compiacimento del nuovo e dell'esotico, che spinge il Pica a traverso la letteratura decadente francese e l'arte dell'estremo Oriente, noi non avremmo questi studii letterari nè gli altri intorno alla pittura moderna che ne formano il compimento, ispirati e spinti come sono da identica intenzione verso le varie ricerche di nuove forme e di nuovi processi, sia per mezzo della parola, sia per mezzo del disegno e dei colori.

Qualcuno gli fa una colpa della sua preferenza per la letteratura moderna francese. Dice:

— Se vuol trovare dei malati, dei cancrenosi, perchè non cercarli anche fra noi? Mancano forse?

— Non mancano — potrebbe rispondere il Pica — ma sono malati di contagio, di suggestione nevrotica. Io faccio come quei dottori che, volendo studiare il colera, sono andati nell'India, per meglio osservarlo nel paese dove l'infezione è di prima mano. I nostri decadenti sono derivazioni, riflessi, — nella lirica, nel romanzo, nel dramma — dei decadenti stranieri; e, al pari di tutti gli imitatori, se hanno importato il morbo, ne hanno anche alterato il carattere, esagerandone le qualità cattive, non mantenendo le buone, se di qualità buone può parlarsi trattandosi di malattia. E le derivazioni, le imitazioni, i riflessi non mi interessano punto.

Egli ha ragione. Nella stessa artificiosità dei decadenti francesi c'è un che di spontaneo che la rende interessante; c'è, per lo meno, una logica necessità di circostanze particolari che le danno un'espressione di sincerità personale in ogni suo primo e valido campione. Negli imitatori, no. Per ciò avviene che i primi, non ostante le loro strane esagerazioni, lascino dietro a sè qualcosa che sopravvive e che forse non sarebbe sopravvissuto senza la stranezza di quelle esagerazioni. Lo ha notato il Pica, parlando dei Parnassiani. Essi vollero esiliare a ogni costo la passione dalla poesia, tenersi paurosamente lontani dal tumulto della vita contemporanea che ferveva attorno a loro, dedicarsi esclusivamente al culto esagerato della forma, fin a detrimento dell'idea; ed ebbero torto. Ma il loro disinteressato e religioso amore per l'arte ha prodotto una perfezione di fattura nel verso francese non mai raggiunta prima di oggi. La loro voluta impassibilità davanti al dolore volgare

Qui pousse des cris importuns

è sparita, come spariscono le esagerazioni di ogni sorta; le loro conquiste tecniche sono, in gran parte, rimaste. Così Teofilo Gauthier, Leconte de Lisle, il Banville non ci dicono più niente come poeti, ma il verso francese non potrà mai più cancellare l'impronta profonda segnatavi dalle loro abilissime mani. Così il Mallarmé sarà per gli avvenire più incomprensibile che non sia ora pei suoi stessi ammiratori, ma qualche lembo del suo sogno di esteta non è morto per sempre con lui, e forse diverrà bellissima realtà domani, tradotto, nel verso, nel romanzo, nel dramma, da uno che saprà dargli forma organica e viva.

Ora io comprendo, in qualche modo, che possa applicarsi la qualifica di letteratura di eccezione alla produzione del Verlaine e del Mallarmè. L'eccezione, nella natura e per ciò anche nell'arte, è il vigoroso sviluppo di certe qualità rimaste insignificanti o soffocate negli esseri e nelle creature ordinarie; e questo sviluppo, nel Verlaine e nel Mallarmè, sarebbe rappresentato dal senso vivissimo della musicalità e del colorito della parola; dal bisogno del raro, del raffinato, come oggi si dice; dal concetto della idealizzazione della forma in maniera che possa essere simbolo anche essa di quel gran sogno che noi chiamiamo stoltamente realtà. Non so comprendere però per quali ragioni egli annoveri tra le opere letterarie di eccezione quelle del Barrès, del Poictevin, del France e di Joris-Karl Huysmans. In queste, la eccezione non riguarda la forma o almeno la riguarda in parte secondaria: l'eccezione è nel concetto; pel Barrès, nella teorica del culto dell'io: pel Poictevin, nello studio di ciò che « vi ha di vago, di misterioso nell'intimità dell'anima, studio che gli fa creare, non di rado (cito le parole del Pica) a bella posta, delle complicazioni per poterle sbrogliare, delle difficoltà per poterle superare, in modo da passare inconsapevolmente dall'osservazione semplice e sincera ad una specie di arbitrario acrobatismo metafisico; » pel France, « nell'egoistica civetteria cerebrale di critico », nella ironia, nella scettica crudezza dell'osservazione, nella continua propensione al paradosso, nello spensierato dilettantismo filosofico; per l'Huysmans, infine, nella irrequieta tristezza della coscienza religiosa.

Eccezioni di concetto, forse, certamente riflessi, derivazioni di speculazioni filosofiche o di ipotesi scientifiche che pervadono le intime fibre del pensiero moderno; ma eccezioni di arte letteraria in che cosa mai?

È questo il solo appunto che si può fare al bel volume del Pica.

I sei studi, del resto, sono condotti con straordinaria accuratezza, mescolando la biografia alla parte critica, con larghe e opportune citazioni perchè i lettori abbiano anche essi sotto gli occhi qualche documento da aiutarli a riscontrare le osservazioni e le affermazioni del critico; fin con indicazioni bibliografiche da soddisfare quei meticolosi che danno molta importanza a un'edizione, a una data.

Certe volte il suo entusiasmo lo trascina un po' oltre. Non nega, per esempio, che il Mallarmè abbia spinto le circonvoluzioni del suo stile fino alla più completa oscurità e che i suoi ammiratori abbiano torto di ammirarlo là dove è più incomprensibile; ma le dubbie tenebre nelle quali qualcosa si può intravedere lo seducono fortemente. E a proposito del frammento del dramma o tragedia, Erodiade — l'unico pezzo che il Mallarmè ne abbia scritto — il Pica ci rivela quella sua debolezza pel raffinato, pel malato in arte a cui ho accennato da principio.

« Intendo benissimo — egli dice — che, alla prima lettura di questo frammento di poesia anche gli spiriti sottili e comprensivi (dei mediocri e dommatici non è neppure il caso di parlare) debbono rimanere un po' smarriti e debbono sentire una specie di ostilità contro il linguaggio prezioso, le metafore strane, le imagini arditissime di questo dialogo in versi, e sopra tutto contro la generale intonazione sibillina; ma se lo rileggeranno attentamente e pazientemente (sottolineo io) si sentiranno a poco a poco conquidere da un arcano fascino e si convinceranno che anche quelli che a bella prima paiono difetti (sottolineo ancora io) contribuiscono possentemente al mirabile effetto totale » (p. 147).

In queste poche righe c'è intero il carattere del volume Letteratura di eccezione e c'è la immagine netta della fisonomia di critico dell'autore.

ENRICO IBSEN

( Gian Gabriele Borckman, Dramma in 4 atti. )

Ha sessant'anni; e i capelli e la barba interamente incanutiti lo faranno sembrare più vecchio che non sia. La catastrofe finanziaria che lo ha buttato giù, trascinando nella rovina tanti altri che avevano avuto fiducia in lui, lo ha reso — com'egli dice — un Napoleone storpiato da una palla nella sua prima battaglia. Ma, dopo di aver espiato la pena a cui è stato condannato, chiuso nelle stanze del primo piano della sua casa, dove sua moglie non sale mai, dove va a visitarlo, accompagnato dalla figlia giovanetta, soltanto un ingenuo poeta — una delle moltissime vittime finanziarie di lui, e che pure gli rimane fedele, ancora soggiogato dalla forza di quell'anima indomita — Gian Gabriele Borckman, senza amici, senza famiglia, senza niente, sogna intanto la rivincita, vive della grande illusione di tornare ad essere più potente di prima.

— I miei nemici verranno qui, a prostrarsi ai miei piedi, a supplicarmi di prender le redini della nuova banca, di quella banca che essi hanno fondato e che sono incapaci di reggere!... Ed io li riceverò ritto, con una mano appoggiata a questa scrivania... E detterò i patti; ed essi li accetteranno, per forza, sì, per forza! Se non fossi certo di questo, mi sarei già tirato un colpo di pistola da un pezzo!

Egli parla così a un altro povero sognatore, a un poeta che spera egualmente la sua rivincita in teatro. Borckman lo commisera, lo compatisce. L'arte! Oh, si tratta di ben altro per lui! Creare dei milioni, farli scaturire dalle miniere, dalle strade ferrate, dalle forze idrauliche, dalle industrie, dai commerci per mare e per terra... ecco il miracolo che egli avrebbe compiuto, se fosse stato solo!...

Ma egli, il forte, ha avuto una debolezza: ha creduto nell'amicizia!

— C'è qualcosa al mondo peggiore dell'assassinio, del furto, del giuramento falso: l'abuso di confidenza di un amico a danno d'un amico!

— C'è un peccato imperdonabile — gli dirà, poco dopo, una donna: — Quello che ha troncato la vita di amore in un essere umano!

Ed hanno ragione tutti e due.

Egli, uomo, guarda il mondo dal punto di vista della prosperità sociale; e tutto quel che non ha stretta relazione con tale scopo gli sembra inezia. Per colei, donna, niente dovrebbe prevalere sui diritti del cuore!

E s'ingannano tutti e due!

Gian-Gabriele Borckman ed Ella Rentheim non sono due formole messe là da Enrico Ibsen per dimostrare un concetto. Sono due personaggi vivi; per ciò hanno ragione e nello stesso tempo s'ingannano.

Nella vita agiscono forze complesse. Un uomo può incarnare per qualche tempo le aspirazioni di un popolo e guidarne i destini; ma vien l'ora in cui il segreto della sua idea gli è tolto di mano. Altri lo metterà in atto più vigorosamente di lui. Una donna può esercitare durante qualche tempo una benefica influenza su la vita d'un uomo; ma arriva pure il momento in cui questa influenza perde possa, per necessità naturale, ed è sostituita da altre influenze più elevate o più poderose.

Enrico Ibsen ha osservato questo terribile dramma della vita e lo ha magistralmente rappresentato in quest'ultimo suo lavoro, mostrando un'abilità di fattura che nelle precedenti sue opere non aveva raggiunta.

Qualcuno vi ha visto una rinnegazione della sua maniera, un regresso. Qui tutto è chiaro, evidente, vivente. Il concetto è divenuto realtà. Nessuno dei personaggi discute; tutti sentono, pensano, agiscono secondo il loro carattere, secondo le loro passioni, le loro illusioni; e il dramma (stavo per dire, la tragedia con l'antica fatalità) scaturisce violento dal cozzo dei caratteri, delle passioni, delle illusioni, al pari che nella vita reale.

— Come! Niente simbolo? — gli è stato rimproverato.

— Ma io non sono mai stato o almeno non ho voluto mai essere un simbolista alla vostra maniera — ha risposto il gran drammaturgo. — Noi siamo tutti tanti simboli viventi. Obbediamo a leggi fisse, anche quando crediamo di non assoggettarci a niente, all'infuori che alle nostre passioni e ai nostri capricci. Rendere sensibili, visibili queste leggi per mezzo di un'azione, di caratteri, di passioni, ecco quel che io ho sempre inteso di fare. In questo senso soltanto sono, forse, stato un simbolista.

Infatti che cosa ha egli osservato prima di scrivere il Gian-Gabriele Borckman?

Ha visto un uomo assetato di potere, di ricchezza, che vuol raggiungere un'alta cima di prosperità generale, smovendo, agitando, guidando tante forze sparse, rimaste inefficaci e disperse prima della sua potente iniziativa. Con lo sguardo fisso all'eccelsa mèta, egli procede senza badare a quel che abbatte e calpesta nel suo cammino. Opera come le grandi e cieche forze della natura. La morale, il diritto, la legge, gli affetti, non debbono impacciarlo e impedirgli di spingersi avanti. Egli sa di non dovere curarsi al presente, ma occuparsi di creare l'avvenire; e sa che per creare deve distruggere. Il vero torto di quest'uomo non consiste nel male che così fa agli altri, ma nel non averlo fatto compiutamente, da solo. Egli ama una donna, e la cede a un amico che l'ama ugualmente, pel motivo che questi può essergli di valido aiuto nella sua vasta intrapresa. Il sacrificio non gli giova. Se egli cede, non cede la donna, che ignora il mercato. Colui crederà che il rifiuto di essa è opera segreta di lui, e si vendicherà rovinando il preteso rivale col palesare il segreto che ne avrebbe prodotto il gran trionfo.

Ha visto una donna, innamorata non ostante l'abbandono, che tenta di salvare dalla rovina il figlio di colui che l'ha posposta, per calcolo, alla sorella.... E questo giovane le sfugge, invischiato dalle arti di una cattiva signora!

Ha visto una mamma che vorrebbe riabilitare nel figlio il nome del padre insozzato da una condanna infamante; che tenta di educarlo in modo da corrispondere a questo suo ideale, segregandolo fin dalla compagnia di suo padre non volendo ch'egli, adottato dalla zia, perdesse il nome che doveva rialzare: ha visto insomma una donna chiusa, per questo, a qualunque altro affetto terreno... e che viene schiacciata anche essa dalla violenza delle circostanze superiori al suo potere.

Ha visto due altre creature affascinate da altri sogni: il poeta Foldal, da un sogno d'arte; Frida Foldal, sua figlia, da un sogno di ricchezza e di piaceri.

E vedendo e osservando, ha penetrato col suo acutissimo sguardo, fino all'intimo fondo, quelle creature umane, là dove le leggi della vita si rivelano nella loro fatale rigidità; ha veduto l'inanità degli sforzi individuali nella lotta dell'esistenza, se le circostanze non li favoriscono. Eppure il pensatore si è sentito invadere da profonda e ammirativa simpatia per quelle creature dolorose, ognuna con la sua croce, o con la sua illusione, che è tutt'una; e l'artista ha sentito il bisogno di fissare le fuggevoli figure dalla realtà, spingendole vive e palpitanti sul palcoscenico, perchè altri osservasse e riflettesse come lui, perchè ognuno vi ritrovasse, per conto proprio, qualcuno dei mille pensieri che si sono agitati nella mente di lui, durante la gestazione creativa.

Ma questa volta egli ha voluto che le sue creature apparissero compiutamente staccate dal suo pensiero, segnate dal suo marchio si intende — come sarebbe stato possibile il contrario? — ma creature di carne e di ossa, con la loro particolare fisonomia, coi loro gusti, con la loro voce speciale, con le loro passioni, con le loro debolezze, coi loro sogni, con le loro allucinazioni, e senza l'impaccio di un preconcetto, di una tesi... o almeno con quel tanto di tesi che è indispensabile sostrato di ogni opera d'arte.

Infatti egli diceva ultimamente al suo traduttore francese, conte Prozor:

— L'importante, la cosa principale in un'opera teatrale è l'azione, la vita. Il resto è accessorio.

— Per noi semplici mortali, non grandi artisti come lei — rispondeva il Prozor — non sono cose accessorie le idee.

— Ma tutti scrivendo manifestano idee. Che cosa fanno dunque gli altri autori drammatici?

La domanda manifesta l'ingenuità di un uomo di grandissimo ingegno.

Che cosa fanno?

Precisamente il contrario. Niente azione, niente vita. E così il preteso lavoro drammatico si risolve in un noioso soliloquio dell'autore... per bocca di parecchi personaggi.

DI UN'OPINIONE DI E. ZACCONI

A proposito della rappresentazione del Gian-Gabriele Borckman dell'Ibsen è stata rammentata la risposta di Ermete Zacconi ai critici tedeschi che lo accusavano di eccessivo verismo patologico negli Spettri dello stesso autore.

Confesso sinceramente che la ignoravo (non siamo obbligati di sapere tutto) e aggiungo non meno sinceramente che essa mi sembra una risposta sbagliata.

Se lo Zacconi si fosse contentato di dire soltanto: — L'Ibsen ha voluto così quel personaggio di Osvaldo — e, ove gli fosse sembrato necessario, si fosse spinto fino a dimostrarlo, la risposta sarebbe stata degna di quel grande artista che egli è.

Invece si è compiaciuto di manifestare la sua particolare teorica intorno all'interpretazione rappresentativa di certi lavori drammatici, e si è lasciato scappar di bocca, o meglio, dalla penna, un'incredibile enormità che contraddice quanto poco prima egli aveva affermato.

Egli soggiunse (ripeto le sue parole su la fede altrui, ma non ho nessuna ragione per sospettare che non siano riferite esattamente):

« Nella interpretazione dei capolavori dei sommi non bisogna arrestarsi sempre davanti alla semplice opera d'arte. C'è il pensiero che va più in là dell'arte. Così nell'Ibsen bisogna distinguere prima il filosofo, poi il simbolista, e soltanto in ultimo l'artista. Egli è grande per la forza del pensiero, non per la forza artistica ».

Tradotto in parole più semplici e più chiare, questo significa: Vi sono opere d'arte sbagliate, dove il concetto non è riuscito ad assumere la forma che gli spettava. Le opere drammatiche dell'Ibsen sono di questa categoria. Nella rappresentazione di esse si deve quindi badare più al pensiero che alla forma...

In che modo, io sarei curiosissimo di apprenderlo dallo stesso Zacconi.

Ho assistito più volte alla sua mirabile incarnazione nell'Osvaldo degli Spettri, e non mi è parso di scorgervi quell'eccesso di verismo patologico rimproveratogli dai critici tedeschi. Osvaldo è malato moralmente e fisicamente; la sua intelligenza vagola in mezzo alle nebbie incipienti della follia alcoolica ereditaria; la sua lingua incespica, come le sue gambe che si risentono della debolezza della spina dorsale. A poco a poco, quelle nebbie della mente si fanno sempre più dense, il suo tormento è atroce; egli ha coscienza dello stato in cui si trova; ha strappato al medico la verità. E negli ultimi luccicori dello intelletto, rinfaccia alla madre quella vita che gli è stata malamente data senza che egli l'avesse chiesta. Tutt'a un tratto, chiude l'uscio a chiave; nessuno deve più uscire di là, nessuno può più entrarvi!... La madre, spaventata, tenta di calmarlo. Intanto spunta il sole e indora le cime delle montagne che si scorgono dalla finestra aperta. Osvaldo, immobile su la seggiola, si è già sperduto nella tenebra della pazzia.

— Mamma, dammi il sole! — balbetta.

E alle parole disperate della signora Alving ormai egli non saprà rispondere più altro: — Il sole! Il sole!... — disfatto, ebete, con gli occhi quasi spenti che guardano nel vuoto.

Dov'è qui il pensiero che va più in là dell'arte? Il concetto dell'eredità è divenuto personaggio vivente. Osvaldo non discute una teorica scientifica, la mostra. Così, più o meno, tutti gli altri personaggi dei lavori drammatici dell'Ibsen. La stessa Nora delle ultime scene di Casa di bambola è, se vogliamo, una persona che ragiona male, unilateralmente, ma forse per questo schiettamente donna più di quel che non si creda.

In ogni modo, è strano che un attore faccia la distinzione di tre Ibsen, uno filosofo, l'altro simbolista, il terzo l'artista, e dica che questo è il meno a cui si deve badare.

L'Ibsen, al contrario, chiede di essere considerato principalmente come artista. Per lui tutta l'opera drammatica consiste nell'azione, nei caratteri. Se sotto quell'azione, sotto quei caratteri formicolano idee, è naturale che sia così. Un'opera d'arte è un concetto astratto materializzato nella forma.

Il dovere dell'attore è quindi soltanto quello di cooperare con essa per mezzo di efficace interpretazione.

Certamente in questa interpretazione ogni attore dovrà dare, secondo le sue facoltà, maggiore o minore rilievo ad alcuni particolari caratteristici, ma non gli è lecito di spingere tale suo diritto fino al punto di svisare, di disfare la concezione dello scrittore.

So che oggi cominciano a prevalere criteri diversi. Attori ed attrici si credono liberi di abbandonarsi alla così detta creazione del personaggio, senza tenere gran conto delle precise intenzioni di chi primamente lo ha messo al mondo. E mi sembra grave errore. L'opera d'arte drammatica è esposta, per sua natura, a questo pericolo. La deficienza di un attore o di un'attrice può influire sulla sua sorte presso il pubblico, che spesso non è tanto colto e tanto avvisato da distinguere il valore dell'opera d'arte da quello della rappresentazione che essa riceve.

Così, per esempio, si è potuto vedere ad essere bene accolta dal pubblico e dalla critica un'interpretazione che trasformava Margherita Gautier quasi in personaggio simbolista. Bisognava invece indignarsi, protestare.

In Francia, dove il senso dell'arte è meno corrotto, si è fatto altrimenti. La Dame aux Camélies, dopo quasi cinquanta anni di vita, è stata riputata un'opera di arte storica. Costumi, sentimenti, azione sono parsi talmente lontani e dissimili dagli attuali, da far comprendere la necessità di accordare ad essa il privilegio delle opere classiche, cioè la riproduzione esatta coi costumi dell'epoca. E si è venuto a questo lentamente, di mano in mano che certe stonature col presente si sono rese più visibili. Anni addietro, quando il Dumas viveva, per evitare il ridicolo al personaggio di Armando, si erano dovute elevare le somme di denaro ch'egli spende per la sua amante. Poi neppur questo piccolo ripiego è parso sufficiente. Armando sembra un collegiale di fronte agli amanti nostri contemporanei: il padre di Armando, un buon borghese; Margherita, un'ingenua in confronto delle attuali cocottes e orizzontali che invadono la società e quindi la scena.

Bisognava dunque riportare la commedia nel suo ambiente; vestire gli attori coi figurini dell'epoca; spogliare Margherita dei ricchi costumi odierni, indossarle il modesto scialle di allora e il cappellino a cuffia (non so se mi esprimo bene) che le ho veduto in testa nei ritratti riprodotti in un interessante studio intorno a lei e pubblicato, quattro o cinque anni addietro, nel Livre. E se ancora Sarah Bernhardt non ha saputo sacrificare a questo scopo le sue eleganti toelette, vuol dire che la vanità femminile è qualche volta superiore anche al genio di una grande artista.

E stato notato che, per certi capolavori drammatici, arriva un'epoca che potrebbe dirsi dell' età ingrata; stanno come a cavallo di due fasi di vita civile, non a bastanza invecchiate da farle chiamare antiche, nè a bastanza giovani da permettere di crederle del nostro tempo. Durante questo spazio di anni esse perdono valore.

Ci vuole un pervertimento di senso artistico nell'attore, una deplorevole mancanza di cultura nel pubblico per permettersi e per applaudire una profanazione artistica come l'idealizzazione simbolica della Margherita Gautier.

Vien naturale su le labbra la domanda: Chi crea il personaggio? L'autore o l'attore? La risposta non può essere dubbia. E appunto perchè la creazione vien fatta dall'autore, che ha le sue belle ragioni di produrla nel tale e tal modo, l'obbligo dell'attore è unicamente di renderlo quale quegli lo ha formato. Un personaggio è simile a un individuo vivente; non può essere ridotto irriconoscibile dal nevrotico capriccio di un attore o di un'attrice. Essi si mostrano tanto più grandi, quanto meglio arrivano a riprodurlo in tutti i minimi particolari quale l'autore lo ha concepito. L'individualità di quel personaggio implica una serie di gesti, di espressioni del viso, di inflessioni di voce, di rivelazione di sentimenti e di passioni che non debbono poter essere confusi neppure con quelli di un altro individuo che ha qualche apparente rassomiglianza con esso. Quanto maggiormente l'attore riesce a rappresentare integra quella personalità, e tanto più elevatamente fa opera di artista.

L'autore, scrivendo, ha la realtà di quel personaggio davanti agli occhi; lo vede muoversi, gesticolare, ne sente la voce; per via di questo sforzo di suggestione, arriva a immedesimarsi con esso, a strappargli il segreto della sua vita. Ma, disgraziatamente, il potere dello scrittore è limitato. Quando egli ha messo su la carta, per esempio, un Ah! non può andare più oltre. Quell' Ah! gli è risonato nell'orecchio con la sua precisa intonazione, che nella scrittura va perduta; così tutte le inflessioni del dialogo. Spetta all'attore il ritrovare nuovamente, a forza di studio, quell'intonazione, quelle inflessioni e pure quegli atteggiamenti, quei gesti che lo scrittore ha udito e visto scrivendo e che non ha potuto notare, come avrebbe fatto un musicista. Quell' Ah! in quel dato momento dell'azione, può avere soltanto un'inflessione, perchè si tratta di una situazione particolare, impossibile a ripetersi due volte. Bisogna trovare, a ogni costo, quell'inflessione; non è lecito sostituirla con un'altra che, alla men peggio, si riduce a un misero press'a poco. E quel che accenno per le minutezze, vale maggiormente per la massa del carattere e della stessa figura del personaggio.

Nel 1865, a Firenze, l'attore Samson della Commedia francese mi diceva che in quel teatro non si rappresentava da quarant'anni il Burbero benefico del Goldoni perchè non c'era stato un attore, durante quel tempo, che avesse le phisique du rôle. Scrupolo che può forse sembrare eccessivo, e non è.

Tutto questo non mi ha allontanato troppo dal mio soggetto, cioè dalla risposta di Ermete Zacconi ai critici berlinesi.

Dicendo che nell'Ibsen l'ultima cosa da considerarsi era l'artista, Zacconi si dava la zappa sui piedi. Un lavoro teatrale dove la forma sia l'ultima cosa da considerarsi, non è opera d'arte. E i critici berlinesi avrebbero potuto soggiungere: Ma, in questo caso, è assurdo che voi lo scegliate per rappresentarlo... o avete la grande superbia di credervi capace d'infondere la vita in una cosa morta.

Invece Ermete Zacconi giudica male e razzola bene.

Era tanto più semplice e più esatto il dire:

— Io rappresento Osvaldo Alving così, perchè da ogni atto, da ogni frase, da ogni parola di questo personaggio risulta che l'autore lo ha voluto così! Ho fatto il mio dovere e nient'altro.

ASCENSIONI UMANE

(Baldini e Castoldi editori, Milano 1898. )

Antonio Fogazzaro ha dato questo titolo a un volume dove ha raccolto parecchi suoi scritti di origine diversa ma di unico soggetto: discussioni, conferenze, polemiche riguardanti il problema dell'origine dell'uomo e l'ipotesi darwiniana dell'evoluzione.

Cattolico, egli chiede libertà di discussione intorno a un argomento pel quale la Chiesa non ha finora detto la sua assoluta parola. Uomo colto, che tende l'orecchio alle discussioni degli scienziati e scorge com'esse siano talora frantese dalle persone mezze ignoranti e per ciò più presuntuose, egli vorrebbe persuadere quei mezzi ignoranti o coloro che sentono vacillare la fede di fronte alle affermazioni spesso premature della scienza, che tra la recente ipotesi dell'evoluzione e le credenze della religione non vi è dissidio o contradizione, almeno finchè il problema rimarrà nello stato presente. Poeta, spiritualista, egli vuole esercitare il diritto di intervenire nella quistione e di manifestare certe sue aspirazioni e farle partecipare e infonderle agli altri, per contribuire, secondo le sue forze, a quell'ascensione che ha tratto dal bruto l'uomo barbaro, dal barbaro l'uomo cosciente e riflessivo, dall'uomo religioso e poeta il filosofo e lo scienziato, e che trarrà da questi l'uomo spirituale, spirituale anche di corpo, affrancato dagli impacci della materia e ridotto veramente simile a Dio alla cui immagine e similitudine è stato creato.

Innamorato della bellezza dell'idea di evoluzione che mette in pace la sua coscienza di credente con l'altra di uomo moderno pel quale i simboli della fede non bastano più (e uno dei suoi scritti s'intitola infatti Per la bellezza di un'idea ) egli si è imposto una specie di apostolato, in cui si fondono insieme le sue facoltà di artista, le sue convinzioni estetiche, le sue credenze religiose, la sua cultura scientifica.

E se nella trattazione di un soggetto come questo tali diverse facoltà e qualità potessero bastare, si dovrebbe dire che raramente un apostolato sia stato intrapreso con maggior ricchezza di mezzi.

La profonda sincerità delle sue convinzioni religiose dovrebbe rassicurare i credenti; la sua imparzialità nell'esporre le dottrine degli avversari appagare coloro che ripongono tutta la loro fiducia nella parola positiva della scienza; la sua elevazione di sentimento poetico, trascinare infine coloro i quali, e sono la maggior parte, piuttosto che discutere, amano abbandonarsi alla delizia dei voli dell'immaginazione e facilmente penetrare in regioni che la fede non illumina della sua luce e che la scienza sdegna di esplorare perchè le stima proprio fuori del suo dominio.

Invece, io credo che questo volume sia destinato a non contentare nessuno. Non sarebbe un gran difetto, perchè è molto difficile, come dicono i nostri vicini, contentare tout le monde et son père. Credo così perchè mi pare che manchi in tutta la trattazione variamente ripresa un elemento importantissimo: l'elemento filosofico.

Un libro del Le Conte, professore di geologia nell'Università di California — L'evoluzione e le sue relazioni col pensiero religioso — una tesi del Grassmann, professore del seminario di Freising, lo hanno spinto ad approfondire il concetto di S. Agostino e di parecchi Padri della Chiesa intorno al gran problema delle origini; ed egli è stato consolato dal vedere quanta larghezza di vedute, quanta libertà d'interpretazione essi adoprassero nel distrigare dall'involucro del simbolo un'opinione ragionevole, quasi scientifica. Allora egli ha voluto conoscere fino a qual punto le affermazioni della scienza, di quella che non è soltanto particolare convinzione di alcuni scienziati, siano conformi alla natura di essa, o se oltrepassino la sua competenza cedendo alle lusinghe di ridurre a tesi ciò che avrebbe dovuto rassegnarsi a rimanere semplicemente una ipotesi.

E quando si è sentito rassicurato della libertà d'interpretazione reclamata anche oggi da alti ingegni cattolici, che non hanno giudicato mettersi in contraddizione coi dommi della loro Chiesa pensando liberamente sopra un argomento ancora lasciato aperto alle ossequiose discussioni; e quando si è convinto che gli scienziati più positivi non pretendono di dichiarare, come certi loro colleghi, perfettamente dimostrata un'ipotesi che pure serve a risolvere molte questioni di grandissima importanza per l'umanità, desiderosa di credere e riflettere insiememente senza supina sottomissione e senza orgogliosa ribellione, egli ha stimato che occorresse soltanto l'intervenzione del poeta perchè il simbolo della fede, transustanziato in affermazione scientifica, e aiutato dal calore e dallo slancio della fantasia, si impossessasse di tutti i cuori e di tutte le menti, e spingesse tutti a quell'ascensione dell'umanità che le credenze religiose e la storia testificano e che la irrequietezza delle nostre aspirazioni ci comprovano doversi ancora produrre nell'avvenire.

Così, leggendo il suo volume, mi meravigliavo di trovarvi una lacuna che la fede, la scienza positiva e la esaltazione poetica non possono all'atto colmare. E rammentavo un libro di un pensatore italiano, probabilmente dal Fogazzaro ignorato (e che io gli consiglio di leggere) di uno scienziato che era religioso nel senso più elevato di questa parola, sommamente positivo perchè non ignorava e non disprezzava i metodi e le ricerche e le conquiste della scienza contemporanea, e che infine era poeta — non nel piccolo senso oggi accordato a questa denominazione, ma in quello vero e primitivo di creatore, cioè di restauratore del processo ideale della Natura e di profeta dell'avvenire.

È morto da pochi anni, e i suoi scritti parte sono rimasti quasi ignorati, parte inediti e forse dispersi. Ma il Dopo la laurea, Lo Stato, I tipi vegetali, I tipi animali, il frammento Deus creavit avranno un'eco nell'avvenire, e Camillo De Meis prenderà, quando verrà il momento, una più larga influenza sul pensiero italiano e su quello mondiale.

Pensavo appunto a quel Dopo la laurea dove l'ascensione umana è proclamata ben diversamente e più elevatamente che non venga fatta dal Fogazzaro, con tutti i sussidi della fede che discute liberamente, della scienza che non trascende oltre il suo limite, e della riflessione filosofica che integra organizzando e compie ciò che la fede e la scienza e anche la poesia, sono, tutte unite insieme, incapaci di compire. E mi piace di qui trascrivere una pagina del meraviglioso libro, nella quale il Fogazzaro riconoscerà — e se n'intende — un anticipato altissimo senso di quella poesia a cui egli tende e che vuole essere religione, scienza e riflessione filosofica in uno. Eccola:

« Crescere, decadere e perire è il destino di tutti gli uomini, di tutti gli animali, di tutte le piante — e diciamolo pure, di tutti i sistemi planetarii. Questo cosmos ha i suoi giorni contati come gli abbiamo noi che ne siamo gli endozoi; solamente che egli ha la vita più dura, ed è più lungo il suo tempo e più lunga la sua durata naturale: per cui, come la balena e l'elefante vivono più di un uomo e un pino e una quercia vivono più d'un elefante, così lui, il cosmos — e per cosmos intendi questo nostro sistema solare, viva più della quercia e del pino — ecco tutta la differenza.

Ma quando il suo giorno fia giunto, esso perirà come uno di noi uomini, come una pianta, come un animale: e non il nostro soltanto, ma tutto questo gruppo di sistemi solari, gli uni formati, forse, e già perfetti, gli altri ancora incompiuti e in via di formazione, che compongono questo nostro sistema sidereo, se tant'è che formano un sistema; e tutta questa natura che ci circonda, e quest'universo di cui l'uomo è il compimento e l'ultima perfezione perirà come un sol uomo; e forse dal seno dell'infinito un altro universo è già sorto e gli germoglia allato un'altra natura, forse anche più perfetta di questa, che la dovrà surrogare ».

Intorno alla quistione che più particolarmente interessa il Fogazzaro, il De Meis sin dal 1868 aveva scritto:

« Sì, certamente, l'uomo è il portato spontaneo dalla natura. Egli è la spontanea generazione della terra; dalla quale certo non è nato immediatamente in forma di uomo. Dalla terra, dal cosmo, che abitiamo, in somma dal nostro sistema o uomo solare, non è nato che il primo essere vivente, di cui l'uomo è l'ultimo sviluppo, la finale e definitiva trasformazione... Ma non è l'accidente, non sono gli agenti esterni casualmente combinati in un dato modo, che hanno dato origine a quel primo essere, e l'hanno successivamente trasformato e cangiato alla fine in un uomo; e voi, osservatori ridicoli, e impostori in buona fede, perdete il vostro tempo a cercar di riprodurre quelle combinazioni fisiche e chimiche, perchè quella è una chimica e una fisica divina.

« Fra quegli agenti e quegli elementi ci è Dio in persona. È Dio che prepara di lunga mano la combinazione: è lui che concentra la natura in un punto e crea la vita: è lui che feconda la terra e ne fa uscire le forme viventi originarie, similitudini imperfette e rozze della idea divina, e germe della perfetta forma umana ».

Il Fogazzaro si meraviglierà di scoprire che un professore di Storia della Medicina nella Università di Bologna, abbia proclamato prima di lui, con più calore di lui e con più competenza di lui — non se n'offenda — e in nome della filosofia e della scienza l'opera di Dio nella creazione. Solamente può darsi che il Dio del De Meis sia un po' diverso dal Dio del Fogazzaro; ma il Fogazzaro non vorrà certamente sostenere che l'idea ch'egli ha di Dio sia perfettamente identica a quella che ne ha l'umile feminuccia quando lo invoca nelle preghiere.

TULLO MASSARANI

( Diporti e Veglie, 2ª. edizione, Milano, Hoepli 1898. Poesie scelte di Elisabetta Barrett Browning, versione libera, Milano, Fratelli Treves 1898. )

La varia attività del senatore Tullo Massarani sembra voglia dimostrare che gli anni non hanno nessun potere su lo spirito anche quando il corpo è infermo. Per quanto non grave, la malattia a cui egli accenna malinconicamente nella nobilissima epistola al Faldella pel Cinquantennio dello Statuto, avrebbe dato ad altri plausibile ragione di riposarsi.

Ma egli è così abituato a riposarsi mutando soltanto soggetto di lavoro, che continua a fare come ha fatto prima, quando tra un severo studio storico e l'altro, tra l'assidua frequenza alle sedute del Senato, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale, ha trovato modo di mandar fuori la traduzione del Libro di Giada, le popolari Conversazioni del Dott. Lorenzo i canti della Odissea della Donna, illustrati da molti suoi disegni; dare a giornali e riviste gran numero di articoli non brevi e tutti coscienziosamente meditati nella sostanza e nella forma; e, quasi per svago, mettersi a tradurre una scelta di poesie della poetessa inglese Elisabetta Barrett Browning, impresa che, per le tante difficoltà che presenta, avrebbe scoraggiato l'ardimento di un giovane.

Bisogna proprio credere che gli uomini della generazione del '48 erano fatti di altra pasta. Dice un proverbio siciliano: lu bon vinu finu a la fezza: lu bon pannu, finu a la pezza; ed è verissimo. Avevano un grande ideale, la Patria, e questo li rende ancora vigorosi e forti tra i disinganni e i pericoli; sentivano altamente la dignità della libertà individuale, e questo apre il loro animo a tutte le ragionevoli aspirazioni sociali.

Se più acconcie forme
Fia che rivesta e più discrete quella
Che pur nei cuori e nell'istoria vive
Carità di fratelli, e di rinforzo
Le sia l'oprar comune, e il mutuo aiuto
A augmento e vigor, ben venga, amico
Ogni primizia, ogni disegno, ogni arte,
Che uomo a uomo ravvicini, e il fosso,
Da Pluto re scavato in mezzo, colmi!
[8]

Augurio caldo e sincero, che non impedisce al Massarani di veder chiaro nell'avvenire, di paventare che

sulle spente libertà si assida
Sovrano e universale archimandrita
Il peggior d'ogni autocrata, lo Stato.

Ma io non voglio ragionare di politica, e perciò non farò cenno di uno dei più bei scritti dal Massarani nel volume Diporti e veglie, intitolato: L'utopia della Pace che finisce con un voto alla fraternità di quella che Cicerone, da lui citato, chiama la infinita societas generis humani.

In questa seconda edizione, il volume è stato arricchito di nuovi scritti di diversa natura: Josè Espronzeda, Pagine del martirologio nazionale, In Calabria, San Marino, Un raro cimelio (che è il libro L'Italia del Tommaseo), La seconda Mostra mondiale di Belle Arti in Venezia, L'Ulisse dantesco. E già bastavano a dargli molto valore quelli soltanto raccoltivi prima. Dopo la varietà anzi disparità dei soggetti che confermano la soda e riposta cultura dell'autore; dopo quella viva fiamma di entusiasmo che investe ogni pagina, sia che egli si trovi dinanzi alle lettere di Giordano Bruno; alle tele di un pittore moderno, l'Induno; alle opere di Leone e Pompeo Leoni, padre e figlio, scultori del secolo XVI; e alla ricchezza d'arte internazionale accorsa a far mostra di sè nella splendida città della Laguna; o sia ch'egli si fermi qua e là, a Verona, a San Giulio sul lago d'Orta, davanti al palazzo Marino, egli che chiama i patrii monumenti: il primo, il più eloquente, il più solenne e più legittimo testimonio della nostra storia e della nostra grandezza (pag. 203); dopo tutto questo, impressiona maggiormente nei diversi scritti l'aria di buon senso pratico che li rende simpatici, l'accento fervido e persuasivo, la schiettezza e la franchezza di certe confessioni; insomma quella bonomia cortese e gentile, che giunge talvolta fino a far sembrare un po' troppo grave la forma cesellata e raffinata che la riveste. E di tutti questi scritti citerò una sola mezza pagina in conferma di quel che ho detto. A proposito dell' Arte nella società moderna egli ha il coraggio di scrivere:

« Piuttosto rozzi e poveri, che veder rovinare la patria per esserle mancato, come dice il Macchiavelli, una cosa sola, il provvedersi bene dell'arme.... »

Ma il Massarani non è artista per niente, e poco appresso soggiunge:

« Io mi ricordo, per parlare ancora dei tempi andati d'aver visto ogni giorno su per le scale degli Uffici di Firenze, la cacciatora di frustagno dell'artigiano o del contadino, e i larghi cappelloni di paglia delle loro donne; e d'avere udito, davanti ai capolavori della Tribuna, fior di giudizi da quegli ingenui compaesani del capraio che aveva nome Giotto, del pecoraio che si chiamò il Baccafuni, e del vaccaro che fu Andrea del Castagno.

« Spesso invece, nè mai senza una giaculatoria secondo la mia intenzione, mi rompo gli stinchi, nei vestiboli delle Pinacoteche e dei Musei, in quello strumento di supplizio che non ha nome italiano, e che chiamano il tornichetto. E perchè di questa guisa, tormentando pazienza e tasche, cogli spiccioli del forestiero più spesso che non coi fogliolini sudici del concittadino, i sopracciò vengono poi comperando a lor volta degli spiccioli di pittura e di scoltura, credono o dicono d'incoraggiare le arti. Povere arti, che vivacchiano su l'ostracismo del popolo, a cui si predica educazione e si sottrae di tutti i magisteri educativi il più gentile, il più gradevole, il più potente sulle fibre del cervello e del cuore! »

Nel presentare al pubblico la presente raccolta, egli si augurava che, capitando a qualcuno fra mano, quegli scritti inducessero i giovani a pensare di cavar dalla vita un costrutto migliore; i vecchi, a compatire chi ha tentato di allegerirne a sè il peso senza altro danno del prossimo. Modeste parole, che faranno sorridere tutti coloro che dalla lettura di essi saranno usciti con qualcosa di più nell'intelletto, con qualcosa di meglio nel cuore.

* * *

Lo studio intorno a Enrico Heine, pubblicato dal Massarani molti anni fa, quando del lirico tedesco si conosceva in Italia poco più del nome, non ostante il tempo e le circostanze in cui fu scritto, è rimasto uno studio diffinitivo. Così la introduzione alle poesie scelte della Browning, intitolata La donna e la poetessa, rimarrà pure uno studio definitivo di quest'anima poetica che amò tanto l'Italia.

Se la signora Zampini-Salazar, che ha dedicato alla Browning e al marito di lei una serie di belle conferenze per diffonderne il culto in Italia, gli ha messo addosso una gran voglia di conoscerli più da vicino, il Massarani non si è arrestato alla lettura delle loro sole opere poetiche: ha consultato i lavori biografici pubblicati dalla signora Sutherland Orr, dall'Ingram, dalla signora Vilson, e tutta la vasta congenie di pubblicazioni browninghiane da cui è stata inondata l'Inghilterra; che è quanto dire ch'egli si è messo in caso di trattare il suo soggetto con la competenza del più fanatico browninghiano, senza il suo fanatismo si intende, e non senza quella abituale galanteria, per cui preferirà, per esempio, la data del 1809 a quella del 1806 parlando della nascita della Browning, data che gliela figura più giovane.

Così, accennando al poemetto Gli Adoratori di Donna Giraldina, e non volendo tacerne i difetti, metterà il giudizio in bocca dei lettori. « Questa storia di Donna Giraldina, temo che mi direte, è un po' lunghetta, e non è sempre verosimile ». Aggiungerà però subito: « Ma che sia viva e forte e audace, spero che me lo vorrete concedere ». Di altre leggende dirà francamente e che mostrano troppo la intenzione didattica o ascetica, e che sono un poco offuscate dalla maniera ultra romantica del tempo; ma non saprà arrestarsi di soggiungere: « A me, lo confesso, queste romanticherie tornano ancora, per amore dei ricordi, bene accette, come quelle del Prati e del Carrer, a cui tanto somigliano. »

Per questi sentimenti egli si trova più a contatto con l'opera da tradurre, e potrà essere traduttore libero quanto è possibile e quanto le diverse indoli delle due lingue richiedono.

A prima vista, senza avere il testo sotto gli occhi e senza conoscere altri tentativi di traduzione, a coloro che conoscono bene lo stile e dirò anche la maniera del Massarani, la lettura del volumetto elegantemente stampato dai Treves fa sospettare che il traduttore abbia interpretato con troppa larghezza la concessione di certe libertà consentite ai traduttori di opere poetiche. Ed io sono stato tra questi sospettatori: ma ho dovuto ricredermi. Senza dubbio, il Massarani ha dato (e poteva fare altrimenti?) l'impronta sua caratteristica alla forma della Browning. Il concetto della poetessa, passando a traverso la mente del traduttore, si è qua accorciato, là disteso; qua ha preso un'aria di persona agghindata, là di persona che si lascia un po' andare; se però si guarda bene, dovrà convenirsi che tra le torture del metro e delle strofe, non ha mai perduto molto e qualche volta anzi ha guadagnato in chiarezza. Lo dimostrerò con pochi esempi.

Questa traduzione in prosa di due quartine del VI di quei sonetti che narrano la storia del felice amore della Barrett col Browning, io la tolgo in prestito dal libro della signora Zampini-Salazar.

« Lasciami! Eppure io sento che resterò da oggi innanzi sempre nell'orbita tua. Mai più sola sull'uscio della porta della mia esistenza individuale, potrò ordinare la vita dell'anima mia, nè alzare lo sguardo serenamente ai raggi del sole, come prima, senza risentire tutto ciò che io provai quando nella mia tu posasti la tua mano. »

E il Massarani:

Vanne, deh vanne. Ma nell'ombra tua
Sento che quind'innanzi io saprò sempre:
Non fora mai che l'ignorata prua
Ad altronda si volga e non s'insempre
Con quest'una che invan volle esser sua:
Arbitra io non son più delle mie tempre,
Ch'ogni pensiero, ogni voler s'indua,
E di desìo la man par che si stempre.

E dal XX sonetto, la signora Zampini-Salazar.

« Amato, mio ben amato, quando io penso che tu eri al mondo un anno fa, mentre qui sola io sedevo, senza scorgere orma di passi su la neve! »

E il Massarani:

Diletto mio, diletto mio, se penso
Ch'eri nel mondo ora fa proprio un anno
E ch'io, 'l piè nella neve e in cor l'affanno,
Non isperavo a' mali miei compenso!

Dai due esempi si scorge bene il processo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti; ma da quest'altro che riporterò si scorgerà anche con quanta bravura il Massarani superi certe difficoltà dei metri con cui ha voluto spesso rendere esattamente i metri originali. Prendo a caso due strofe del poemetto Pan è morto, e traduco letteralmente:

« Queta, in antico, la barca andava innanzi — quando un grido più forte del vento — salì, ingrossò, e corse verso il sole — e il sole si nascose e si fece pallido — dal buio pesto di dietro — soffiatogli incontro dal gran lamento: — Pan, Pan è morto!

« E i rematori dai banchi — si ritrassero, ciascuno abbrividendo in volto — mentre partenti influssi — spargevano addietro un freddo attraverso il luogo — e l'ombra della barca — vacillava lungo l'immota profondità: — Pan, Pan è morto! »

Ed ecco con che sveltezza e con che fedeltà rende il resto il Massarani.

Queto un naviglio un giorno
Se n'gìa, lorchè d'intorno
Voce suonar s'udì.
Salìa, salìa più forte,
Movea al Sol dal norte,
Moveva d'in fra le tenebre
Dal cupo al chiaro dì:
Il sol si fece pallido
A quel messaggio squallido,
Che « Pan — dicea — morì.
È morto Pan, è morto
È morto, è morto, è morto, »
I remator sospesero
Sul banco i remi, e intesero
Un soffio a trapassar,
Un soffio che mortale
Parea sovresso l'ale
Al fronte che n'abbrivida
Rancura apparecchiar.
Ed il naviglio intanto
Scorreva, e in suon di pianto
L'onda parea solcar.
« È morto Pan, è morto,
È morto, è morto, è morto! »

Il Massarani ha voluto darci un saggio di tutti i generi poetici minori, tentati più o meno felicemente dalla poetessa inglese; e coloro che non possono accostarsi al testo gliene debbono essere grati, perchè così potranno formarsi un'idea quasi completa del carattere di essi.

Per noi italiani è quasi un debito non ignorare almeno le cose minori — che non sono poi le meno belle — di una inglese che fu italiana di elezione e che ha cantato le speranze, le gioie, i dolori del nostro risorgimento nei componimenti Napoleone III in Italia, Prime nuove da Villafranca, Commiato fra amanti, e in Poetessa e madre; di una inglese che, annunciando la morte di Cavour, scriveva: « Posso appena comandare alla voce ed alla mano di nominarlo. La grand'anima, che ha meditato e fatto l'Italia, è passata a più divina contrada. Se lagrime di sangue avessero potuto salvarlo, egli avrebbe avuto le mie. »

E. DE AMICIS E F. MARTINI

Si parla molto di tutti e due in questi giorni.

Nella maturità del suo ingegno, nella pienezza della sua fama, Edmondo De Amicis dà un nobile esempio di onestà letteraria rifiutando di accettare l'elezione a deputato del primo collegio di Torino. La politica gli fa paura; egli vuole restare quel che è stato finora, uno scrittore, un artista. Non bisogna prendere alla lettera le ragioni del rifiuto da lui addotte. Possono mancargli, sì, alcune delle facoltà richieste dall'ufficio di deputato; ma parecchie non sarebbe stato difficile acquistarle, e in poco tempo, a un uomo come lui. Le hanno già acquistate persone che avevano cultura e ingegno assai meno di lui, e che non le esercitano certamente con l'efficacia che a lui avrebbero consentita e l'autorità del nome e la sincerità delle convinzioni. Le lotte? Egli non le ha sfuggite. Attorno al suo nome, al suo valor di scrittore c'è sempre stato un accanimento di lodi e di biasimi che non lo ha mai turbato, che non lo ha fatto indietreggiare nè deviare. Quando la sua sentimentalità, tante volte rinfacciatagli, si è convertita a un alto ideale sociale, egli ha coraggiosamente affrontato il giudizio dei suoi ammiratori e dei suoi avversari. Nell'entusiasmo di neofita, avea promesso un libro intorno ai nuovi ideali da cui era stato commosso il suo cuore e attratta la sua mente. Non lo ha scritto? O non ha voluto pubblicarlo perchè la sua coscienza di scrittore non n'è rimasta contenta? Io non lo so; ma questo non significa niente, o significa una probità letteraria degna di grandissima lode.

In ogni modo, più che altro, la sua lettera agli elettori socialisti del 1º collegio di Torino e a quelli non socialisti che hanno votato in favore di lui per semplice sentimento di benevolenza, com'egli dice, significa che egli crede di poter servire meglio la causa del socialismo restando scrittore e nient'altro.

Nessuno può oggi decidere se il De Amicis abbia ragione, e se il suo convincimento sia una lusinga. Quando il libro promesso — trattato di volgarizzazione o opera d'arte — verrà fuori, allora sarà il caso di discutere, di vedere se egli si sia ingannato o no. Dovesse anche risultare da questi futuri suoi lavori che egli ha preso un abbaglio, la onestà e l'elevatezza delle sue intenzioni non ne sarà diminuita.

Scrittore ed artista, Edmondo De Amicis può essere diversamente apprezzato. Gli eccessivi lo stimano poco come scrittore, pochissimo come artista. I suoi Bozzetti militari, le sue novelle, i suoi ultimi romanzi scolastici — osservano gli eccessivi — sono opere d'arte fiacche o abortite; le sue descrizioni di viaggi, fantasmagorie che corrispondono poco o niente alla realtà; il suo tentativo psicologico degli Amici, un opprimente cumulo di osservazioni o non nuove o comuni. I suoi versi... Dei versi del De Amicis gli eccessivi non vogliono nemmeno parlare, quasi ne sentano nausea. L'editore delle opere di lui ha una risposta trionfale: il copioso numero delle edizioni, le traduzioni di esse in tutte le lingue europee. Nessuno scrittore italiano contemporaneo ha ottenuto finora così splendido successo di ristampe. Cuore è arrivato, credo, al duecentesimo migliaio.

Certamente il numero delle edizioni non è un elemento di giudizio da trascurarsi. Libri che trovano così straordinaria folla di lettori debbono aver qualità tali da far anche perdonare facilmente i difetti ch'essi hanno. La semplicità, l'efficacia della forma, una leggera nervosità di quando in quando, l'assoluta trasparenza dello stile che rende subito assimilabile il concetto, non sono doti comuni e spregevoli a questi lumi di luna tra noi. E quando la sincerità del sentimento si aggiunge alla sincerità della forma, e stabilisce una corrente di simpatia tra lo scrittore e il lettore, non è il caso di fare i difficili, gli scontenti.

A me, per esempio, la troppa sentimentalità non piace affatto; mi sembra un falso modo di sentire e di vedere le cose. Eppure a me è accaduto di essere commosso e di vedermi improvvisamente inumidire gli occhi alla lettura di qualcuna delle scene militari descritte dal De Amicis. Sorgeva dentro di me una specie di lotta tra il raziocinio che giudicava e il sentimento che veniva eccitato. Mi sdegnavo di essermi lasciato quasi prendere alla sprovveduta, ma non potevo negare l'effetto ottenuto dallo scrittore, l'effetto a cui egli mirava.

Ora questa sentimentalità, di cui lo stesso De Amicis, se non mi inganno, ha sorriso in un suo componimento poetico, sarà un difetto spinta tropp'oltre come spesso gli avviene, ma è una qualità preziosa che molti debbono invidiargli.

Se egli dunque vuol rimanere scrittore e artista, cioè esercitare col mezzo che crede più adatto alle sue facoltà un'influenza qualunque sul pubblico che lo legge, che lo segue, che lo ammira anche con tutti i suoi difetti, io gli batto le mani.

La politica è fatale all'arte, è troppo assorbente. Quel che essa richiede dai suoi adepti, dai suoi cultori, ha poco o niente da spartire coi mezzi di cui dispone l'artista. La sentimentalità, che può essere anche un pregio in arte, è spesso in politica, più che un difetto, una colpa. Per ciò poeti, romanzieri, drammaturghi sono apparsi sempre spostati nell'aula parlamentare. E vi hanno fatto udire raramente la loro voce, o non hanno prodotto nessun notevole effetto. Al D'Annunzio, per esempio, la politica non ha ispirato finora altro che una splendida stonatura di stile che ha dovuto far strabiliare moltissimi dei suoi elettori, e una corrispondenza in un giornale americano intorno ai fatti del maggio 1898, che ha mosso a riso e a sdegno anche coloro che gli vogliono più bene.

Senza dubbio, il nostro Parlamento dev'essere onorato di veder sedere nei suoi stalli un D'Annunzio, un Panzacchi, come il Senato un Carducci; ma più a ornamento che ad altro. O deve rassegnarsi a veder sparire l'artista davanti all'attività e alla giusta ambizione del deputato. È il caso di Ferdinando Martini, governatore dell'Eritrea.

Ahimè! I giornali, che ne annunziano il felice ritorno in Italia, ci parlano del bilancio della colonia da lui preparato, commettono indiscrezioni intorno ai progetti di lui per assestare definitivamente l'amministrazione civile di quei nostri possessi, ma non ci dànno nello stesso tempo notizia di nessun nuovo libro che il Martini abbia scritto o ideato di scrivere. La sua trasformazione è mirabile. Con poco, il brillante articolista del Fanfulla della domenica è divenuto uno dei più affascinanti e più seri oratori. Il critico arguto e coscienzioso si è mutato in politico ricco della stessa finezza, dello stesso buon senso e della stessa competenza adoprata in soggetti di arte drammatica. Il facile ed elegante narratore di Peccato e Penitenza ha adoperato ugualmente nel suo libro L'Affrica tutte le meravigliose sue qualità di statista e di colorista rese ancora più splendide e più solide... Ma l'arte ormai lo ha perduto. Egli, evidentemente, si allontana a malincuore della meta a cui miravano i begli entusiasmi della sua giovinezza; di tratto in tratto si ferma, si rivolge indietro, ma ormai... l'Affrica, la sua Affrica, se lo è preso, e non ci renderà più il Martini di una volta.

L'Italia avrà trovato probabilmente in lui un amministratore coloniale eccellente; ma, cercando bene, amministratori di ugual valore si sarebbero potuti trovare o creare. Un giorno, in Parlamento, o nel Consiglio dei ministri, Ferdinando Martini sarà una gran forza per l'esperienza amministrativa acquistata, per la maturità dei suoi consigli, per la bontà dei suoi progetti... Ma nessuno potrà togliermi di capo che altri avrebbero potuto fare, più o meno bene, quel che egli è andato a fare laggiù; ma nessuno vorrà affermare che non sia stato un gran peccato che Ferdinando Martini, il brillante articolista del Fanfulla della Domenica, il critico arguto e sensato, abbia sacrificato alla politica meravigliosi doni letterari che tutti dobbiamo rimpiangere.

E, mentre scrivo, mi passano davanti agli occhi, come in turbinosa fantasmagoria, i bei giorni di Firenze, quando egli giovane, biondo, pieno di entusiasmi per l'arte, riempiva con lo scintillìo della sua parola il foyer del teatro Niccolini; quando niente faceva prevedere che all'autore di Fede e dei proverbi drammatici, lavori con cui egli faceva allora le sue prime prove di artista, dovessi io dare il saluto di ben arrivato da Massaua con queste malinconiche parole.

LA NEVROSI ARTISTICA

a Rastignac:

Il tuo benevolissimo giudizio intorno al mio racconto Scurpiddu non mi ha fatto piacere soltanto perchè lusinga grandemente il mio amor proprio, ma perchè dà una soddisfacente risposta al dubbio che mi tormenta da un pezzo: Se noi siamo oggi condannati anche in arte alla nevrosi del concetto e della forma.

Ci ripensavo tristamente giorni fa, leggendo un recente romanzo italiano che avrebbe potuto essere un bel libro se non fosse stato, fra le altre cose, troppo prolisso. E durante la lettura, ricordando certe violente tirate di uno scrittore francese contro la letteratura odierna già parsemi eccessive, sentivo infiltrarmi nella mente il sospetto che fossi stato eccessivo pure io giudicandole tali.

« Noi manchiamo, egli dice conchiudendo, della serenità che rende incantevoli i classici. La nostra forma ha la febbre, la nostra ispirazione somiglia alla demenza. Nessuno tra noi raggiunge la bellezza: lo sforzo e l'entusiasmo non bastano a questo: occorre la calma che è la virtù delle anime forti. Le nostre idee, invece, scoppiano tumultuose; si direbbe che provengano dai sensi non dallo spirito. Lo stile che le riveste mostra il suo peccato di origine: non ha calore, nè limpidezza, nè splendore: ribolle, fa la schiuma, è torbido. È frutto del disordine della concezione, quando niente è chiaro, niente al suo posto. Felici quelle età che ignoravano questa precipitazione e questa febbre. L'artista allora contemplava a lungo le sue idee, le penetrava, le animava, e quando si accingeva ad esprimerle, le rivestiva di luce, di serenità, e l'anima del lettore vi beveva a lunghi sorsi il ristoro e la gioia. »

Raramente, bisogna confessarlo, questo ristoro e questa gioia vengono sentite leggendo un libro d'arte moderna.

I fisiologi o i psicologi hanno proclamato che oggi noi siamo tutti malati di nevrosi; gli artisti non hanno inteso a sordo, e, dalla vita, hanno trasportato la nevrosi nell'opera d'arte. Dovevano in qualche modo, aggiungo io, fare così. Ogni periodo letterario è una involontaria pubblica confessione della società che lo produce. Ogni opera d'arte, dramma, commedia, lirica, romanzo, una specie di processo verbale dei sentimenti, delle idee che rendono affatto diversa una società da quella che l'ha preceduta e da cui è nata.

È impossibile che l'opera d'arte si astragga dal suo tempo, s'isoli, parli un linguaggio che differisce dal linguaggio usato da tutti; corre pericolo di non essere intesa, di riuscire ridicola.

Ma in questo, però, c'è modo e modo. Anche lo spirito ha le sue fogge strane, i suoi capricci passeggeri. L'artista non è davvero artista se non sa distinguere tali caratteri e scegliere. Questo è il punto per cui i classici dovrebbero rimanere sempre nostri ascoltati maestri.

Essi sono di tutti i tempi, di tutte le nazioni. Ma, indiani, greci, latini, italiani, francesi, inglesi, tedeschi, anche oggi si fanno intendere, ci entusiasmano, ci commuovono pur esprimendo sentimenti e concetti che, in gran parte, non sono più nostri. La loro narrazione è così limpida, così viva, che le disparità, le differenze rimangono inavvertite. Sita, la bella e immacolata moglie di Rama, non ha niente che vedere con la donna moderna. Ettore e Priamo, sono principe e re che non presentano il minimo punto di somiglianza coi principi e coi re delle case regnanti attuali. La reggia d'Alcinoo, donde la dolce Nausica esce col carro carico di biancheria da lavare, e dove l'edo Demodoco canta su la cetra gli intrighi amorosi di Venere a Marte, o le prodezze dei greci all'assedio di Troia, è così diversa dalle reggie odierne, che noi dovremmo sentire repugnanza e noia nel leggere i canti di Valmichi e di Omero, se la forma non producesse il miracolo di una rappresentazione così netta, così evidente da farci dimenticare, come dicevo, tutte le disparità e tutte le differenze di sentimenti e di idee che il lungo corso dei secoli ha frapposto tra essi e noi.

Sembra che in quei capolavori, tra il concetto e la sua rappresentazione, non ci sia entrato niente in mezzo; forma e concetto sono divenuti così identici che non possiamo più dividerli, nè considerarli separatamente.

Io non sono tanto sciocco e ignorante da non riconoscere e da non accettare le modificazioni avvenute da allora in poi nel modo di concepire e di esprimersi. Ma non sono neppure così ignorante e sciocco da credere che l'essenza dell'arte sia mutata.

Oggi, per esempio, ci riempiamo la bocca col tronfio assioma che l'arte è e dev'essere aristocratica, quasi l'arte non fosse stata tale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Niente di più aristocratico di Omero, che pure ai suoi tempi era un cantastorie poco diverso, per certe circostanze, dai ciechi siciliani che vanno pei larghi e per le fiere a stonare le storie in versi dei paladini, dei briganti famosi, dello sbarco di Garibaldi a Marsala e della sua gloriosa entrata in Palermo. Ma la divina aristocrazia di Omero non consiste però in una nebulosità che offende gli occhi del pensiero, nè pretende di dover essere intesa e compresa soltanto da un ristretto numero di affiliati.

Consiste nella grandiosa semplicità delle linee, nella meravigliosa trasparenza della forma che rende la concezione talmente reale e viva sotto gli occhi, che la stessa realtà non potrebbe darci di più. Se questo fosse facile, se democraticamente potessimo praticarlo tutti, Omero e i pochi classici che sopravvivono immortali su l'immenso cumulo di tentativi d'arte ammucchiato dai secoli, non ci sembrerebbero più una meraviglia.

L'artista è aristocratico senza saperlo, e senza volerlo; anzi è soltanto tale quando non vuole esser tale per forza.

È sintomo d'impotenza la smania di aristocrazia che ha invasato e continua a invasare l'arte contemporanea? Sarebbe quasi da crederlo, guardando gli effetti dell'ossessione di questa idea.

Sì, è vero, noi siamo nevrotici, ma non nel modo nè nella misura, che l'arte odierna vuol darci a intendere. O, se siamo così nevrotici, l'arte moderna si inganna nei mezzi che adopra per mettercelo sotto gli occhi. L'inganno apparisce evidente dai resultati. Sovraccarica di colore, di inutili particolari, di capricciose divagazioni, essa, avrà (se così vuolsi) l'aristocrazia dell'artifizio, ma non quella dell'arte. Vi si scambia il colore col colorito, la sovrabbondanza impacciosa dei particolari con l'esattezza parca che serva soltanto a dar rilievo. Vi si cerca non l'eccezione caratteristica che è una delle supreme necessità dell'arte, ma l'eccezione foggiata di maniera, che non può ricevere il soffio vitale della creazione perchè le leggi della vita vi sono manomesse o assenti del tutto.

Io credo che niente potrebbe meglio guarire questa malattia dell'arte moderna quanto lo studio spassionato e accurato di quel che v'ha ancora nella nostra società di spontaneo, di semplice.

È facile, più non si voglia far credere, accumulare cinque sei aggettivi addosso a un sostantivo, invece di ricercare e trovare il solo, l'unico che dovrebbe sinceramente e quindi efficacemente qualificarlo. È facile con forza di arcaismi, rimessi in corso senza necessità, mascherare agli occhi della gran folla la inanità del proprio stile e sbalordire gli ignoranti.

E, a furia di così miseri mezzi e mezzucci, siamo arrivati a perdere e a far perdere al pubblico il vero senso dell'arte e della bellezza.

Lo so, tutto questo è passeggero. Lo spirito umano, presto o tardi, riprende i suoi diritti e spazza via quel che non corrisponde alle sue leggi supreme; ma il male non è meno deplorevole per ciò, e può lasciare lunga traccia.

Non vorrei intanto essere frainteso. Con te non c'è questo pericolo. Mi dispiacerebbe però se qualcuno supponesse che queste parole sono unicamente un'abile orazione pro domo mea. Io sono convinto che uno scrittore, qualunque sia la sua virtù, deve abbandonare la sua opera d'arte al giudizio del pubblico e attendere pazientemente. Le lodi dei giornali non accrescono punto il valore di un'opera d'arte; possono forse, creare una momentanea illusione; niente altro. E in tutta la mia non breve vita mi sono confermato a questo convincimento e spero non dipartirmene fino a che potrò conservare intatta la ragione.

Ho voluto semplicemente affermare che se noi siamo nevrotici, l'arte che tenta rappresentare la nevrosi non dovrebbe essere, alla sua volta, nevrotica, cioè malata.

E poi, caro Rastignac, ci sono ancora nella vita angoli intatti, inesplorati, angoli limpidi e sereni come certi piccoli laghi che riflettono il cielo e le colline dattorno meglio di uno specchio.

Non è vero che il nostro occhio sdegni oramai simili spettacoli; non è vero che il nostro cuore rimanga sordo alle suggestioni delle cose e delle creature semplici e che hanno un particolar splendore di bellezza.

L'Arte non perde affatto la sua naturale aristocrazia accostandosi ad esse; giacchè, non bisognerebbe mai dimenticarlo, l'aristocrazia dell'Arte è tutta riposta nella forma, cioè nella concezione e nello stile in una; ed è un'aristocrazia così elevata che pochi sono i fortunati capaci di raggiungerla.

Tu intanto non dire che ti ho rimeritato malamente della tua benevolenza, scrivendoti in pubblico tutto questo.

DOMANDO LA PAROLA

Domando la parola per un fatto personale! Capisco: il Marzocco ha inteso di farmi una cortesia chiamandomi strenuo campione del naturalismo in Italia, e di questa gentile intenzione gli sono gratissimo; ma siccome io ho la coscienza di non essere campione del naturalismo, nè di altra qualunque scuola letteraria, o chiesola, o setta che si debba dire, così chiedo il permesso di protestare, per la seconda ed ultima volta, contro l'etichetta che critici benevoli e valevoli si compiacciono, da anni, di appiccare al mio nome.

Sissignore, io ho difeso il naturalismo zoliano in parecchi miei scritti, facendo però sempre le debite riserve contro l'esagerazione del sistema: ho dedicato a Emilio Zola un mio romanzo giovanile Giacinta in segno di viva ammirazione per lo scrittore; e forse allora mi illudevo che quel romanzo derivasse dalla sua scuola. Ma i critici non si sono mai accorti che era proprio un'illusione; me ne accorgo ora io che posso guardarlo con occhio imparziale e commiserante, e stupisco della miopia dei critici, che pure dovrebbero vederci assai meglio di noi autori.

Poi, bene o male, ho scritto quasi un centinaio di novelle, una cinquantina di fiabe, due romanzi, Profumo e La Sfinge, e parecchi altri volumi di critica letteraria dove ho chiaramente espresso il mio credo artistico. Da questa varia produzione, qualunque sia il giudizio che voglia darsi intorno al suo valore, appare evidente che unica mia cura è stata sempre quella di raggiungere la maggiore sincerità possibile di osservazione unita alla maggiore sincerità possibile di espressione.

Quando il soggetto di una novella, di un romanzo, di una fiaba mi ha attirato, io non mi sono mai chiesto se esso era naturalista, verista, idealista o simbolista; ho badato soltanto a dargli la forma più schietta e più conveniente ad esso; se io sia riuscito o no è un'altra quistione. Mia intenzione era unicamente fare opera d'arte. Non ho mai pensato che o una fiaba o una novellina per bambini potesse essere cosa diversa da una novella, diciamo, psicologica o pure di soggetto paesano, o da un racconto di larghe proporzioni o da un romanzo. Convinto che la forma è tutto, o quasi, in un'opera d'arte, mi sono ingegnato di dare alla fiaba, alla novellina per bambini, alla novella psicologica o paesana, al racconto e al romanzo la loro natural forma, ora ingenua, ora semplice, ora un po' più complicata; e dicendo forma non intendo parlare soltanto della lingua e dello stile, ma anche dell'intimo organismo di ciascuna opera d'arte. Ripeto: se io sia riuscito o no nel mio intento, è un'altra quistione.

Qui si ragiona solamente d'intenzioni, di convinzioni, d'ideali appartenenti in modo speciale a una scuola estetica più che a un'altra; e per ciò posso lagnarmi della disgrazia di vedermi franteso che mi perseguita da un pezzo.

Ho un bel sforzarmi di esprimere nel modo più chiaro il mio concetto; si prende un periodo, una frase, staccandoli da quel che li precede e li segue, e in questa maniera mi si condanna ad esser naturalista per forza, e campione del naturalismo non meno per forza.

Ho protestato per una prima volta[9]; ma inutilmente, se un giornale come il Marzocco e con l'intenzione di farmi un complimento, torna a dirmi quel che tante volte mi è stato sbadatamente ridetto.

È appunto quest'intenzione che mi spinge a protestare di nuovo e per l'ultima volta.

E perchè l'equivoco finisca — se pure è possibile, giacchè il mutare un'etichetta sembra fatica straordinaria agli etichettai — ecco, per chi vuole saperlo, il mio credo letterario. Invece di riassumerlo, potrei metterlo insieme citando una buona quantità di brani di miei articoli di critica dai quali risulterebbe che io ho avuto sempre, più o meno chiaramente, la stessa opinione; e accennando, nel medesimo tempo, i miei lavori di arte che sono, o che dovrebbero essere, secondo me, la conferma, il documento probante delle convinzioni del critico divenute opera d'arte. Ma non voglio incombrare le colonne del Marzocco per risparmiare un po' di fatica ai curiosi che volessero accertarsi se alle mie intenzioni hanno davvero poi corrisposto i fatti.

Dico dunque semplicemente che io, caso mai, sono naturalista, verista, quanto sono idealista e simbolista: cioè che tutti i concetti o tutti i soggetti mi sembrano indifferenti per l'artista ed egualmente interessanti, se da essi egli riesce a trar fuori un'opera d'arte sincera. Il mondo è così vasto, ha tanta moltiplicità di aspetti, esteriori e interiori, che c'è posto per tutti questi diversi aspetti nel mondo superiore dell'arte. Perchè vogliamo restringerlo, limitarlo? Perchè vogliamo imporre a tutti l'afflizione di doverlo riguardare dal medesimo punto di vista?

Ma noi abbiamo bisogno di fare, di tratto in tratto questioni di lana caprina; abbiamo bisogno — ed è peggio — di arruffare le discussioni più semplici, scambiando le carte in mano all'avversario, e scambiando i termini della discussione perchè il nero sembri bianco e il bianco nero. Così arriviamo a non intenderci più.

Io dico, per esempio: il concetto in un'opera d'arte è una cosa secondaria: l'importante è che esso diventi forma viva, altrimenti noi confonderemmo l'opera d'arte con l'opera di pura riflessione, di puro pensiero. Questo non significa che un concetto elevato, se arriva ad assumere forma artistica, non aumenti il valore dell'opera d'arte; significa soltanto che esso può produrre quest'effetto unicamente quando raggiunga quella metamorfosi per via della forma.

Naturalisti, veristi, idealisti, simbolisti non dovrebbero essere d'accordo su questo elementarissimo canone di arte?

Dovrebbero; ma non sono.

Io dico, per esempio, che le forme artistiche debbono essere talmente connaturate al concetto da non poterle distinguere da esso. Per ogni concetto o sfumatura di concetto ci è una sola unica forma: il difficile sta nel raggiungerla. Per ciò ogni soggetto richiede uno stile diverso, suo proprio, e l'artista deve avere, per dir così, altrettanti stili quanti sono i soggetti che tenta, e seguire con essi tutte le gradazioni, tutte le sfumature, senza alterare niente, senza tralasciare niente, conformandosi a tutte le sinuosità, a tutte le accidentalità del soggetto.

Naturalisti, veristi, idealisti, simbolisti non dovrebbero essere d'accordo su quest'altro elementarissimo canone di arte?

Dovrebbero; ma non sono.

E si continua a fare lunghe discussioni bizantine. Si scartano certi soggetti, si colpiscono d'interdizione; si bandiscono certe formole stilistiche, si getta l'anatèma su altre. Per quale ragione? Per un capriccio di moda forse.

In quanto a me, non ho mai avuto preferenze per questo o per quel soggetto, per questa o per quella formola di stile. Ho tentato soggetti di ogni specie ed ho cercato di esprimerli con lo stile più adatto.

Lo stile delle mie Paesane non è quello delle novelle, diciamo, psicologiche. Fra lo stile delle Paesane e quello di Profumo e di La Sfinge c'è un abisso, come c'è un abisso tra il contenuto.

Io, lo confesso, e sia detto per incidente, non ho saputo persuadermi, per quanto mi sia ingegnato di farlo, in che cosa mai differiscano Profumo e La Sfinge dai così detti romanzi idealisti; potrei quasi farmi la stessa domanda intorno a Giacinta, non ostante la dedica a Emilio Zola. Mi son fin domandato come mai due volumi di fiabe, e due di novelle dove studio il mondo dei bambini con lo stesso metodo di osservazione praticato per gli adulti, possano permettere di classarmi a ogni costo fra i naturalisti.

Ebbene tanta diversità e varietà di concetti e di forme non avrebbero dovuto mettere in guardia i critici prima di etichettarmi assolutamente naturalista?

Resta per loro scusa, la quistione, come dicono ora, stilistica. Io non sono certamente uno stilista. — Oh, no! — sento mormorarmi all'orecchio — E aggiungo che non vorrei esserlo, caso potessi. Sono diventati stilisti tante brave persone che poi non hanno altro all'infuori di quel tale stilismo, che non credo di dire una cosa assurda asserendo che a furia di pazienza e di studio avrei potuto divenire loro emulo anche io. Il vocabolario, per fortuna, non è proprietà esclusiva di nessuno, e i modelli da copiare o da imitare molto meno. Dico questo perchè la semplicità, la nudità del mio stile non sia attribuita al mio naturalismo e non sembri una prova lampante di esso; non già per scusarlo o per difenderlo. È giusto che questa orazione pro domo mea rimanga nei limiti dei principî e delle intenzioni.

In quanto al resto, non debbo e non voglio entrarvi. Non ho mai fatto polemiche, da giovine, per difendere questo e quel mio libro; e non voglio cominciare ora che... non sono più giovane.

E mi si permetta di finire, con l'autorità che consentono gli anni, raccomandando a tutti coloro che ora hanno l'invidiabile tesoro della giovinezza:

— Lasciate da parte le discussioni astratte, le polemiche; non vi compiacete delle belle etichette, che in fine non vogliono dir nulla se il liquore della bottiglia non è poi di ottima qualità; siate sinceri, se potete e se sapete, siate sinceri, sinceri, sinceri; il resto, come dice il Vangelo, vi sarà dato in più dal gran Padre che sta nei cieli!

PER UN ROMANZO

( Ugo Ojetti: Il Vecchio, romanzo — Milano, Casa Editrice Galli, 1898. )

Un'opera d'arte bisogna accettarla qual'è, senza cercarvi l'attuazione delle teoriche dell'autore, se queste son note.

È riuscita bella? Tanto meglio per le teoriche e per l'artista. È in contraddizione con esse? Tanto peggio per le teoriche. L'importante è che un'opera d'arte sia una bell'opera d'arte.

Secondo me, l'artista può mettersi in piena contraddizione col critico, nella stessa persona. Discutere intorno ai principii estetici è funzione molto diversa dall'adoperare l'immaginazione nel creare. E pensavo appunto questo, leggendo i primi capitoli di Il Vecchio.

La lunga agonia della moglie del senatore Alessandro Zeno; il triste via vai dei parenti, degli amici, degli indifferenti; le estreme cure date dal marito e dal figlio al cadavere della morta; tutti i minuti particolari, fino al ritorno dall'accompagnamento al cimitero, che dànno vivissima la sensazione della nauseabonda realtà, mi richiamavano alla memoria le invettive contro i così detti realisti, accusati di compiacersi di descrizioni repugnanti. E il non aver voluto evitare d'incorrere nello stesso biasimo, e l'aver anche calcato un po' la mano su certi punti, mi sembravano begli atti di coraggio e di sincerità artistica dell'autore.

« Fece uno sforzo supremo; premette col fazzoletto le gote fredde ( della morta ); ma sotto la pressione troppo forte, il siero all'improvviso pullulò dalla bocca rigida, quasi fermentando, formò una bolla come un velo viscido tra labbro e labbro sui denti, e la bolla scoppiando sprizzò sul volto del vecchio... »

« Ne guardò il volto curiosamente. Le labbra erano ormai esangui, del color della prima cera, e nei due angoli insisteva quel solco rosso che il succo gastrico vi aveva sùbito dopo la morte segnato scorrendo. »

Un realista non avrebbe potuto dirlo con maggiore evidenza.

E per ciò già credevo di trovarmi di faccia a un'opera d'arte schietta, che non voleva essere nè realistica, nè ideologica, nè idealistica, nè simbolistica, ma viva rappresentazione di caratteri, di sentimenti, di impressioni; di faccia a un'opera d'arte dove le preoccupazioni stilistiche non cercavano di sopraffare l'espressione più diretta e più immediata del concetto; insomma di faccia a qualcosa di fresco, di giovine, di rigoglioso, non ostante la tristezza del soggetto; ma l'autore si era affrettato a disingannarmi.

Parecchi splendidi paesaggi; alcune belle scene ma brevi, quasi egli se le fosse lasciate sfuggire dalla penna con rincrescimento; e, qua e là, certi penetranti accenni di osservazione psicologica, non mi avevano all'ultimo compensato della monotonia di quella specie di soliloquio di quasi trecento pagine, a cui si era ridotto, dopo i primi quattro capitoli, tutto il romanzo.

Ricordavo qualcosa di simile pel concetto, una novella del Tolstoj, che appunto descrive il terrore della morte nella persona di un uomo di età matura; ma non volevo fare confronti. Là tutto era rappresentazione, azione; qui il movimento, la rappresentazione, l'azione rimanevano esteriori al personaggio, pretesti di un continuo maniaco rimuginamento della stessa idea. E poi, nel senatore Alessandro Zeno non era tanto il terrore della morte, quanto l'odio della vita degli altri quel che formava il pernio della morbosa attività cerebrale. Attività vacua, astratta, perchè non rivelava niente di personale, di caratteristico, tanto da apparire, di tratto in tratto, mera esercitazione scolastica.

A un certo punto mi era sembrato che il concetto del libro doveva forse essere la lotta tra sentimenti ed idee che stanno per tramontare e idee e sentimenti che si levano su l'orizzonte con rosei trionfanti splendori.

L'autore ci dice che tra il senatore e il figlio Andrea c'erano state lunghe lotte e dolorose. Il padre, metodico lavoratore, non intendeva il lavoro libero, di artista (Andrea studiava pittura), a cui suo figlio si consacrava.

« Il miraggio della burocrazia lo occupava, come occupa ancora tutta la penultima generazione nostra e la parte più fiacca ed inerte ed amorfa dell'ultima.... La non curanza del domani per la tutela promessa dallo stato, la ricerca del minimo sforzo per conseguire, quella prestituita mercede, attiravano tutti i deboli incapaci di lotta e i servili. »

E (non si sa se per conto proprio o per conto di Andrea) l'autore continua a sparlare del « governo dei Vecchi, perchè, sia in buona fede che in perfidia, essi fanno leggi e morali atte a ridurre i giovani fiacchi e degni di morte come essi ormai sono; » delle scuole « che sono un tradimento della vecchiaia contro la gioventù e tendono solo ad abbassare gli ingegni giovani audaci al livello dei maestri affraliti dagli anni e dalle desolate dottrine; » della schiavitù burocratica « causa di decadenza altrettanto potente che l'antica schiavitù giuridica e la medievale schiavitù monastica. »

Si capisce però che tra padre e figlio, più che lotte, erano avvenute discussioni forse un po' animate. Il senatore « incapace di intendere non pur l'arte del figlio (Andrea era simbolista, o almeno ideologico, in pittura) ma anche l'antica fungosa arte accademica, avea finito col credersi il più liberale dei padri, poichè lasciava che Andrea a suo piacere vivesse di quel passatempo fastoso. »

Di tali discussioni, o lotte che si vogliano dire, non appare più ombra nel libro. Dànno una rapida vampata in una conversazione tra un giovane poeta, amico di Andrea, e lui e il senatore, e si estinguono sùbito.

Si ragionava di un vecchio pittore, disonesto intrigante.

« Alla parola vecchio Alessandro Zeno si scosse:

— Insomma il suo massimo torto è di esser vecchio?

— No, è di essere disonesto. Ma anche la vecchiaia, quando è cieca a quel modo, è un torto che fa degno di morte e non di onori.

— Insomma, lasciando da parte l'onestà, se egli fosse stato in giovinezza un pittore eccellente, e poi, fissatosi nella sua maniera, non intendesse le vostre massime nuove, lo si dovrebbe segregare dal consorzio umano?

— Se fosse onesto, egli se ne dovrebbe allontanare da sè.... Dovrebbe lasciare il campo a noi. »

E il ragionamento dal fatto particolare, balza a un concetto generale. Il giovane poeta parla del Vecchio « del Vecchio che si rinchiude nel passato e nega l'aurora solo perchè non potrà vedere il giorno; del Vecchio che, vedendo le tenebre attorno all'opera sua, dice: — Il mondo finisce. Le tenebre saranno sempre sul mondo. Il sole non sorgerà più! — E combatte chi aspetta e canta e glorifica il sole futuro.

« — Quel vecchio, — egli conchiude — se è così cieco deve ritirarsi, deve deporre le armi dalle mani inette. Voi, senatore, dite che non lo vogliamo lasciar vivere. Vivere? Ma egli deve lasciar vivere noi. Noi, lo lasceremo tranquillamente morire. »

Ragionamento specioso, per non dire illogico. Il poeta così e non vuole la lotta, e anche pretende che un cieco faccia atto di persona che ci vede bene; ma passi. Si deve però credere che l'autore non abbia riferito questa conversazione per niente; ci attendiamo infatti, da un momento a l'altro, qualche atto del vecchio senatore che giustifichi la necessità di quella scena, di quelle parole così severe. Il Vecchio invece non fa nulla che abbia almeno l'apparenza di un'ostilità alla giovinezza. Lascia vivere in pace gli altri, se non vive in pace, interiormente, lui.

Egli, che il giorno della morte di sua moglie aveva detto ad Andrea, con ira: — Vattene, figlio mio: tu penserai a lavar me, quando anch'io starò lì, così...... E sarà presto! — ora, vedendo Andrea lagnarsi di divenir calvo, pensa che la vita « correva anche per lui, che nelle estasi artistiche si angosciava ad arrestarla.... Non egli solo moriva un poco ogni giorno, ma anche Andrea; e anche gli altri giovani attorno..... tutti..... tutti! Via!... La vita correva! »

Allora egli si sforza di riafferrare, come tavola di salvezza, il sentimento religioso, e tenta di pregare nell'umile chiesetta di campagna dove fa celebrare, due mesi dopo la morte della moglie, un ufficio in suffragio dell'anima di lei; ma egli esce dalla chiesa più solo che mai, più scorato che mai.

Tutto l'offende, tutto lo irrita; vorrebbe che attorno alla sua vita vicina a spegnersi non sorgesse nessun altro nuovo germoglio di vita; o che le nuove cose e i nuovi uomini nascessero su dalle vecchie cose e dai vecchi uomini e fossero grati ad essi. « Invece tutti i germogli e tutti i giovani disprezzavano quelli da cui erano nati..... Nessuna gratitudine, fuori del formale rispetto; ma ribellione, disprezzo, indipendenza non ostentata ma originale e franca. »

Perchè se ne meraviglia lui che aveva sentito « un soddisfacimento segreto e pensava che quel giovane ambizioso (suo figlio Andrea) dagli occhi lucenti, dalle bianche mani nervose era nato da un ignobile atto di lui, come un fiore dal fimo? »

Più di ogni altra cosa, lo cruccia la compassione. Sente dire, non visto da sua figlia Luisa e dal marito di lei, in giardino:

« — Egli pensa sempre alla mamma, e ha il colore di un cadavere.

— È vero.

— Povero babbo, se ne andrà presto anche lui!

— Chi può impedire la morte! »

E gli sembra ch'essi lo consegnino nelle mani della morte o lo spingano « malamente nel sepolcro sdrucciolo buio freddo profondo. »

Che vuole? Che pretende? Non lo sa. Una volta aveva pensato la gioia dell'ultimo uomo che vedrà l'ultimo sole; e questa idea che lo riprende, dopo che un bagliore di coscienza sincera, gli ha fatto riconoscere che i giovani, apparentemente disprezzati, erano in realtà, invidiati da lui affralito e senescente.

Ma l'autore è proprio sicuro che tutto quel chimerizzare intorno al giorno finale del mondo sia del vecchio senatore, e non di lui, romanziere, che ha voluto compiacentemente regalarglielo? È proprio sicuro che non sia artificioso, per non dire falso, il grand'odio attribuito al vecchio contro il pastello dove il figlio aveva tentato di fissare i lineamenti della madre morta?

« All'improvviso si ritrasse, afferrò il vaso delle rose che era sul pianoforte, il vaso delle rose donde il dì innanzi erano caduti petali rossi su la tastiera logora, e lo scagliò con violenza contro il ritratto. Si frantumò il vetro, si lacerò la carta, e il vecchio in una furia di distruzione con le tremule mani ancora assalì l'opera del figlio, il ritratto della morta, calpestandolo, con basse violente parole vilipendendolo. »

Egli cerca di scusarlo, di giustificarlo, e gli mette in bocca queste parole:

« Noi ( vecchi ) coscientemente danneggiamo il mondo. Sì, sì, solo invidia mi respinge da Andrea, solo paura mi allontana da quel ritratto di Nannetta ( la moglie morta ). Ecco, ecco ( Andrea ) scoprirà la rovina compita da me quando stamane per un attimo sono stato sincero nel fatto, ed egli finalmente mi deriderà e intenderà la vera causa dei miei disdegni e non mi rispetterà più. Io morrò ridicolo. »

E appicca fuoco alla stanza, per nascondere con l'incendio il delitto del ritratto distrutto.

Io che mi ero un po' inalberato leggendo quella specie di settecentesca visione che chiude il capitolo intitolato Arcobaleno, non mi aspettavo però di veder intervenire un sogno (l'autore non può far a meno di chiamarlo: miracoloso sogno ammonitore ) perchè riuscisse meno ostico il mutamento finale del Vecchio. E a questo punto non bisogna più dire il senatore Alessandro Zeno, ma soltanto il Vecchio. Egli è divenuto una entità astratta, da personaggio vivente che era nei primi capitoli. Si è venuto di mano in mano assottigliando, ed ora non ha più niente delle nostre miserie umane; è un ragionamento puro e semplice. Ci voleva quel miracoloso sogno ammonitore perchè egli, che odiava tutte le creature viventi, tutte le cose esistenti per l'unica ragione che vivevano ed esistevano e sarebbero vissute ed esistite dopo sparito lui; ci voleva proprio un miracolo perchè egli che ieri si rallegrava al pensiero che creature e cose avevano però dentro di sè, al pari di lui, il germe distruttore della morte, oggi — con la chiarezza del recente sogno in cui aveva visto il suo stesso cadavere — si senta perfettamente cambiato e possa riflettere: « La vita è il mutamento continuo della materia. Perciò la vita è dovunque, anche dove non giunge la luce, dove non penetra l'aria. La Morte non esiste, e tu morendo puoi negarla. »

Ma come? Non sapeva questo il senatore Alessandro Zeno? E ci voleva un miracoloso sogno ammonitore per rivelarglielo? E doveva egli arzigogolare tanto, per venire poi alla risoluzione di finirla con quella sua esistenza, che infine non era cattiva?

« Nessun odio più lo accendeva, egli era calmo e solenne come un sacerdote che compia un sacrificio comandato da Dio.... Prese, quasi a tentoni, la piccola boccia del veleno d'oro e lasciò sopra un largo pezzo di zucchero cader molte gocce finchè gli parve che lo zucchero ne fosse ben saturo. Poi lo ingoiò e corse al letto. »

Poco dopo Gino, figlio di Luisa, vien mandato su a chiamare il nonno per la cena. Chiamatolo a nome e non ricevendo risposta, il bambino, toccata la mano del vecchio che era gelata, altro non osò.

« Quando entrò nella luce, in cospetto dei tre giovani (cioè nella sala da pranzo illuminata, al cospetto dello zio Andrea e dei genitori Luisa e Giorgio) disse senza timore:

— Il nonno dorme. »

Così finisce Il Vecchio e faticosamente, sarebbe puerile non dirlo.

Ho cominciato a leggerlo con animo sereno. L'ho terminato col profondo dispiacere di chi vede sciupato in malo modo molto sforzo di ingegno e di coltura. Giacchè è evidente che l'Ojetti ha composto così il suo romanzo in ossequio alla sua fissazione del romanzo ideologico e un po' simbolista. Che egli volesse mettere in un romanzo idee e simboli non era poi cosa tanto strana e insolita da dovergli sembrare anche audace. Più o meno, via, in un romanzo ci son sempre idee divenute personaggi con caratteri e passioni speciali, e personaggi e sentimenti che possono, con un pochino di buona volontà, passare per simboli. Solamente per fare un'opera d'arte, le idee non bastano, o bastano per fare Il Vecchio e non mai per ridurre Il Vecchio Un Vecchio, cioè il senatore Alessandro Zeno. Questo Ugo Ojetti lo sa; ma gli è parso fosse meglio far una bravata fingendo di averlo dimenticato; e che lo sappia lo dimostrano i primi capitoli del libro e alcune scene, qua e là, sobrie ed efficaci nei capitoli Il piccolo abbandonato, La tentazione e in parecchie descrizioni notevolissime per colorito, non ostante che, con meraviglia, nella forma semplice, e schietta, si notino certi residui stilistici contro cui egli ha gridato a ragione.

Ho polemizzato qualche anno fa con l'autore di Il Vecchio, e parecchi, che per ragioni diverse, non gli vogliono bene, mi hanno biasimato di aver discusso con lui, quasi mi fossi ingenuamente messo al servizio della sua smania di far rumore in tutte le occasioni e con tutti i mezzi.

Quantunque l'Ojetti sia stato poco garbato, anzi insolente con me, io non mi pento di quel che ho fatto. Bisogna perdonar molto all'età; e i giovani a me piacciono (che che egli ne pensi) specialmente quando, assieme coi pregi, mostrano tutti i difetti della loro condizione: l'orgoglio, l'entusiasmo, la fede cieca.

Molto orgoglio, molto entusiasmo, molta fede cieca traspariscono dalle trecento ottantaquattro pagine di questo volume, cioè molta giovinezza, inficiata però da inopportuna serietà, da voluta gravità nella scelta del soggetto e dei mezzi per svolgerlo. Se è vero, come asseriscono, che noi così detti veristi o realisti abbiamo uggito il mondo dei lettori, non mette conto diventare ideologi e simbolisti per uggirlo allo stesso modo e anche peggio!

Siano sinceramente e schiettamente giovani i giovani!

È consiglio disinteressato di un vecchio.

DIALOGHI D'ESTETA

( Romolo Quaglino. Dialoghi di esteta. Milano, tipografia Treves, 1899. Un vol. di 270 pag. in 16. )

Chi apre il libro, allettato dalla simbolica copertina — un vaso da profumi, da cui sortono nuvole d'incenso dentro i vortici delle quali s'intravedono figure in atteggiamenti ed espressioni diverse — può credere, a prima vista, che si tratti di un volume di poesie. Tra i grandi margini bianchi si allineano infatti righe più o meno corte che hanno l'apparenza di versi, di strofe: ma cominciando a leggere, egli si avvede che l'esteta ha voluto ingannarlo. Ingannarlo fino a un certo punto: giacchè se non ci sono i versi, c'è la poesia; se non ci sono i piedi esatti degli endecasillabi, dei settenari, c'è però un quissimile di ritmo che non irrita l'orecchio e che anzi lo alletta con studiate cadenze di accenti, con abili avvolgimenti di periodo da tenere benissimo luogo di verso, senza la ibrida intenzione della prosa poetica. Aperto a caso il libro, egli legge:

Sul roseo avorio de le carte,
bruni ed alati,
come uccelli stanchi,
dormono i sogni:
reliquie e diane
di cuori vecchi e nuovi,
pianto di avelli.
Ma se la dolcezza
di grandi occhi feminei,
sole e rugiada, cali, —
se una voce pallida,
nel silenzio odoroso d'un talamo
esile mormorio, li ravvivi;
se una mano bianca e fine,
gigli su rose,
fremendo,
con la diafana unghia
li carezzi, —
su dal sepolcro del volume
avello bianco
ove il dolore si acqueta,
vagano bruni ed alati
come uccelli all'alba,
e bisbigliano,
e l'anima del poeta
sale, per le dita, lieve
a baciar, ebbra di amore,
le inanellate gemme della Pietosa.

E il caso ha servito bene il curioso lettore. Egli allora farà come la Pietosa — non importa se la sua mano non è rosea, e se le sue unghie non sono diafane — sfoglierà altre pagine, cercherà altri segni pei quali possa davvero sentire l'anima del poeta salir su ad accarezzargli — se non le inanellate gemme o la chioma, forse, assente — il cuore o lo spirito; e vorrà cominciare daccapo.

Certamente la lettura non riesce facile. Questi dialoghi che l'esteta intraprende con figure evocate, sogni, simboli d'idee o di sentimenti — Ignazio di Lojola, la fede dominatrice; il Valentino, l'astuzia e la forza; don Giovanni, l'amore l'insaziabile e insaziato; Fausto, l'ansioso e vacuo ricercatore della scienza assoluta; Salvat, il bruto ribelle; o con creature senza nome, pittori, poeti, vecchi, monaci, folla; o con esseri ai quali la sua immaginazione, usando del primitivo privilegio dei fanciulli e dei selvaggi, concede vita, anima, volontà, parola; o col demone tentatore che è dentro di lui; tutti questi dialoghi non potevano essere ragionamenti ordinati, filati, discussioni pedantesche, poichè dovevano e volevano riuscire espressione lirica di concetti e di sentimenti, poichè richiedevano all'onda musicale di un particolar ritmo e all'immagine la loro forza di rappresentazione, la loro forma.

L'esteta è un irrequieto. Il pensatore contrasta col rincorritore del fantasma della bellezza. Che vuole? Che sogna? Vorrebbe un mondo più buono, più giusto, e sopratutto più bello. E' vede un continuo, incessante trasformarsi di tutte le forze naturali, comprese quelle del pensiero. E se gli nomini, la storia, il passato, non rispondono alla sua insistente interrogazione, si rivolge alla Natura, dove c'è anche il pensiero involuto nascosto, e tenta di aver da essa una risposta.

Ne la fede de l'immortalità
rapida corre
l'ora nemica:
ne l'orgoglio degli ordini
ancor l'insanie
appar feconda.

Che importa?

L'idea è l'inarrivabile amore
tutti soffrono per lei,
tutti sanno
che nessuno mai la stringerà
tra le braccia, vinta.

Ed egli inneggia agli Stiliti che salgono su la colonna di Simeone e tendono le braccia al cielo, immemori delle miserie terrene.

esulare dal corpo, è la gioia
almeno, l'illusione buona dell'ora:
esular, quietamente,
come un'umile cosa,
come un'anima pavida tra le anime.

Deliziosa elevazione che dura poco; il mondo si agita, vuole operare; nell'azione è la forza; ma fra tante orgogliose forze operanti per la vita materiale o per la gloria, l' Esteta è tentato soltanto dall'orgogliosa umiltà di fare un'opera di bellezza, olocausto a Dio e agli uomini,

senza che la vanità di un nome
inutile sgorbio, la profani.

E il compenso?

Che vale la passione dell'opera
senza il premio di un bacio?

D'un bacio e dell'amore; se pure l'amore varrà a saziare o a dar pace all'anima irrequieta, al corpo fremente.

Che vale l'amore, se non può essere trasfusione di un corpo in altro corpo, di un'anima in altra anima? E mentre egli anela al corpo della sua Esteta, il ricordo della madre lo turba, e l'amore carnale gli sembra una profanazione, anzi quasi un incesto. E la Esteta gli dice tristamente:

— Volete che io mi allontani?

L'ESTETA

Lo desidero:
la voluttà non ci darebbe che rimorsi, —
la creazione indicibili angosce,
e rimorsi fors'anche.

LA ESTETA

Non ci ritroveremo mai più?

L'ESTETA

Un giorno, si compirà forse
il miracolo d'oblìo.
Qui, dove la vostra anima bambina
e la recente anima vostra pensa,
qui, forse.

LA ESTETA

Vi sovvenga che la mia vita è così umile
che la morte non saprebbe esserlo di più.

Ma a che giovano queste rinuncie? Il cuore non appaga, la mente non si acqueta. L'avvenire urge; Il trionfo dell'Idea vuole tutte le braccia e tutte le menti.

L'Esteta è pieno di scoramento:

Ancora ne li attoniti occhi,
reca lo spasimo d'una mortale caduta
il terrore d'un incubo
improvvisamente scomparso.
Sognò lotte e baci,
dominazioni e rinuncie,
cose belle oltre la Verità,
dolci, oltre l'Amore,
eterne, oltre la Fede.

. . . . . . . . . . . . . .

Sorrise a tutte le veneri,
benedisse a tutte le forze,
a tutti i connubi sospirò.

. . . . . . . . . . . . . .

Doloroso miracolo:
la visione tangibile si oscura
di maligne nebbie.

E finisce con domandarsi tristamente: Sia pure che l'uomo nello spazio e nel tempo s'inganni, ma esso è però un mondo, un occhio dell'infinito;

perchè dunque
non vuol recare intorno
la serenità e la luce,
come il cielo e le stelle?

Ho tentato di riassumere questo poema lirico di una anima solitaria, che si tormenta fra le strette del sillogismo e del sentimento, citando il più largamente possibile per dare ai lettori un'idea approssimativa non soltanto dei concetti ma anche della forma.

Secondo me, il poeta ha fatto bene a sciogliersi dalle pastoie del ritmo, che non concede certe libere agilità neppure ai suoi più poderosi domatori. E se nel suo tentativo ha qualche volta ecceduto, sia condensando troppo, sia trascorrendo in istonature prosatiche incurante di mettere a dura prova l'intelligenza o la schifiltà stilistica del lettore, non bisogna fargliene troppo carico, in grazia di quei larghi brani dell'opera sua dov'egli raggiunge l'ideale voluto attingere, come nei canti L'orgogliosa umiltà, La metamorfosi e specialmente nel Preludio al canto Marmi e bronzi, invocazione della Bellezza, e nella Oscura rinunzia, che mi sembra la cosa più squisita di tutto il volume.

Il quale, se, come ho accennato, non è di facile lettura, è poi tale perchè, nell'intenzione dell'autore, non è destinato al volgo dei lettori.

Nel grottesco s'adombra
qualche aristocrazia;
nel crudele, qualche idealità;
e il valore della vita
consiste nel saper morire.

Ecco una sua schietta dichiarazione.

Al Quaglino intanto non si potrà dire che abbia scelto questa libera forma di ritmo perchè il verso non obbedisce alla sua mano. Egli ha pubblicato due volumi di versi, dove alla vigoria e all'originalità del concetto è accoppiata una vigoria e sovente una stranezza di forma — stranezza più visibile nel primo, Modi, anime e simboli, che nel secondo Fiori brumali — le quali dimostrano ch'egli si sente anche capace di abusare della padronanza della forma ritmica, contorcendola a sua voglia e capriccio, e non sempre con buon resultato.

Dopo questi Dialoghi d'esteta, che hanno nel loro sciolto ritmo dolcezze e sfumature veramente notevoli, è da augurarsi che il pensiero del poeta divenga più limpido, più tranquillo, più trasparente, e che il sentimento prenda la mano su di esso, perchè, ritmo rimato o sciolto, la sua parola trovi più larga eco nei cuori: e non intendo dire: nel volgo dei cuori.

EDOARDO BOUTET E LE SUE CRONACHE DRAMMATICHE

Ricordano il Moschettiere di Alessandro Dumas, il vecchio, giornale che era scritto da Alessandre Dumas père et seul, e che fece sorridere e anche ridere, al suo apparire, per la ingenua vanità di quel seul. Il Moschettiere parlava di tutto: dall'articolo di fondo spoliticante, passava alle ricette culinarie, delle quali il Dumas era forse più orgoglioso che del Conte di Montecristo e dei Tre Moschettieri; gli articoli di viaggi e di varietà si avvicendavano coi capitoli degli ultimi suoi stanchi romanzi, con frammenti di memorie, cioè, di strabilianti fantasie. Veramente il seul non era poi una novità. Alfonso Karr aveva scritto anche lui da solo, Les Guépes, ma non aveva inalberato quell'aggettivo con la spavalderia del simpaticissimo fanciullone che fu per tutta la vita Alessandro Dumas.

Le Cronache drammatiche, apparse ieri l'altro, somigliano al Moschettiere e alle Vespe in questo soltanto: saranno un opuscolo settimanale scritto tutto da Edoardo Boutet e si occuperanno unicamente di cose riguardanti il teatro.

Arrivano in buon punto. Da qualche anno, per opera di attori e di scrittori, viene risuscitato nel pubblico italiano l'interesse, se non l'entusiasmo, di trenta anni fa, quando una nuova produzione drammatica, data nella capitale provvisoria, occupava per settimane gli spiriti e faceva quasi tacere le discussioni politiche.

Oggi, l'interesse non è scevro di un senso di scetticismo, effetto delle delusioni seguite alle illusioni eccessive. Ma bisogna dire che noi, da schietti meridionali, da latini, siamo trascorsi dall'eccesso delle speranze all'eccesso della sfiducia: e se le Cronache drammatiche riusciranno a mettere le cose in equilibrio, faranno opera degna di grandissima lode.

Nessuno, io credo, in Italia, è più adatto di Edoardo Boutet a operare questo miracolo. Egli è un topo di palcoscenico. Da anni, sua occupazione e preoccupazione sono stati gli attori e gli autori drammatici. Con franchezza straordinaria, spesso brutale, egli ha detto la sua opinione su tutto e su tutti, ogni volta che l'occasione si è presentata. I suoi articoli nel Corriere di Roma dello Scarfoglio lo misero in vista. La gente che leggeva quegli scritti, si domandava con curiosità:

Chi è mai questo nuovo paysan du Danube che irrompe nella cronaca teatrale? — E la curiosità non veniva eccitata soltanto dalle cose che egli diceva, ma dallo stile con cui le diceva; stile pieno di immagini, lutulento, imbarazzato, eppure innegabilmente efficace. Sotto l'impaccio della parola e della frase, si sentiva l'uomo sincero, convinto; una specie di apostolo e di profeta.

Allora il giornale quotidiano non era un organo frettoloso d'informazioni com'è divenuto oggi. Il cronista teatrale aveva dignità di critico; non si trovava obbligato di far sapere la sua opinione immediatamente dopo lo spettacolo a cui aveva assistito; dal teatro non doveva correre in tipografia, e là improvvisare l'articolo e darne le cartelle ai compositori di mano in mano che le scriveva, senza avere tempo neppure di rileggerle. Durava il bel costume dell'appendice del lunedì; delle novità date il venerdì sera — e che egli era in caso di riudire nelle sere seguenti, se state tali da ottenere di essere replicate — l' appendicista poteva scrivere pensatamente, con comodo; e la curiosità del pubblico veniva anche aguzzata dall'attesa, e trovava piena soddisfazione nel poter leggere, il lunedì, i giudizii degli appendicisti teatrali più in voga; giacchè allora accadeva che alcune appendici drammatiche assumessero il valore di un piccolo avvenimento letterario.

Edoardo Boutet portava qualcosa di nuovo, di speciale nella critica drammatica: la perfetta conoscenza dei misteri del palcoscenico. Di rimpetto a lui, gli appendicisti del lunedì di dieci anni avanti sembravano persone impettite, troppo serie, quasi accademiche. Egli era uno sbarazzino e nello stesso tempo uno che credeva, che si infiammava, e che talvolta arrivava fino ad assumere atteggiamenti apocalittici, fino a far intravvedere che tra la critica teatrale e lui egli supponesse un'assoluta identità di persona.

Anche quando era ingiusto, o meglio, anche quando s'ingannava (non c'è ingiustizia nello ingannarsi) sotto la violenza del giudizio e della frase si scorgeva benissimo la sincerità del suo sdegno. Quella che per lui era un'offesa all'arte, sembrava anche si mutasse in offesa personale; ma sembrava così per la montatura del periodo che gli si aggrovigliava tra le mani tremanti di santissimo sdegno. I puristi, leggendo, si sentivano venire la pelle d'oca, ma non cessavano di leggerlo. Gli attori flagellati a sangue, le attrici contristate nella loro vanità, gli autori redarguiti con accompagnamento di sferzate fingevano di disprezzarlo, di sorridere di quelle sue sfuriate, ma poi gli davano ragione. Conosco qualcuno che non ha potuto tenergli broncio neppure un giorno, dopo un articolo che lo aveva stritolato la sera avanti, nel primo Capitan Fracassa di gloriosa memoria. Critico e autore, il giorno dopo erano a braccetto in Piazza Colonna e ridevano assieme, con gran meraviglia di parecchi che immaginavano forse di doverli vedere piuttosto presi pei capelli, dato che l'autore drammatico avesse avuto dei capelli afferrabili; e non ne aveva.

Da quei giorni, molt'acqua è passata sotto i ponti del Tevere. Edoardo Boutet ha sentito anche lui la mortificazione degli anni. Può darsi — ma non pare — che il vedersi mancare lo spazio e il tempo, per le invadenti necessità giornalistiche, lo abbia un po' scoraggiato. I suoi grandi articoli, le sue encicliche drammatiche si erano fatte rare. Di quando in quando, la Nuova Antologia, la Rivista d'Italia portavano un suo studio di attrice, una sua disquisizione intorno a qualche soggetto di attualità drammatica; studio e disquisizione dove egli mostrava la grande abilità di sapersi adattare all'ambiente, di parlare con moderazione di concetti e di forma — sì, anche di forma — che gli dava l'aria di persona un po' costretta a raffrenarsi, a comportarsi come chi si trova in un circolo di conversazione fuori dell'usuale.

Di quando in quando, una scappata, un razzo, l'iniziamento di una serie di studi sur un particolare soggetto presto interrotta e non più ripresa; nient'altro.

Si vedeva l'uomo che avrebbe voluto parlare, chiacchierare a suo agio e che non poteva più farlo, perchè il proto gl'insidiava le righe, perchè l'articolo politico, la cronaca, la satira gli contendevano lo spazio. Edoardo Boutet però è un parlatore brioso, delizioso, un conversatore; e il suo dialetto napoletano non forma la minore attrattiva delle sue improvvisazioni familiari. Ha dovuto dire dentro di sè: Mi si tura la bocca o, per lo meno, mi si trattiene il braccio, mi si lesina lo spazio? Ebbene, io non posso sentirmi soffocare, io voglio sfogarmi. Ho tante e tante cose da dire! Debbo attendere un'occasione propizia che forse non si presenterà o chi sa quando si presenterà? No; fondo una piccola rivista settimanale e in essa sarò libero di sfogarmi e di scapricciarmi come voglio e come non posso più fare da un pezzo!

Ed ecco le Cronache drammatiche, comparse il 2 aprile, col sorriso della Pasqua di Resurrezione, quasi anche il giorno della prima pubblicazione dovesse essere un buon augurio! Sedici fitte pagine in 16º.

Ora Caramba è a suo agio. Ogni domenica, egli avrà la sua tribuna, il suo pulpito, o più propriamente il suo salotto. Egli non scrive, discorre. Qualcuno che lo vede frequentemente e che prende gran gusto nello stare ad ascoltarlo, ha esclamato: Ah, se Edoardo Boutet si risolvesse a scrivere le sue Cronache in dialetto napoletano! Che festa sarebbe!

Sarà una festa egualmente! Anche a dispetto di certe velleità di affettazioni stilistiche che da qualche tempo egli predilige, come questa che chiude il suo primo articolo, Il sogno della Duse: — E intanto, in cosiffatta imperante e straripante dissennattezza, si compie, forse, il delitto di uccidere la ignota anima destinata di un teatro italiano a gettar le fondamenta!

Sarà una festa egualmente. Edoardo Boutet non diverrà mai un pedante: non scriverà mai, parlerà: ed è la sua caratteristica e sarà la sua forza. Passare una mezz'ora con lui, per via di quelle fosforescenti e svariate pagine delle Cronache drammatiche, diventerà presto un piacere che si tramuterà in dolce abitudine, anche per coloro che non si occupano esclusivamente di cose drammatiche.

E sarà una festa e una cosa seria.

Le cose che egli dice ridendo sono anzi le più serie.

Leggete l'aneddoto intorno ad Adamo Alberti, illustre impresario, tempo fa, del teatro dei Fiorentini a Napoli; leggete l'articolo Spettacolo di onore che chiude il primo fascicolo. Sono del Boutet più schietto, e di quello che non ha bisogno di scrivere in dialetto napoletano per riuscire efficace e nello stesso tempo divertente.

LA SOCIETÀ PER GLI STUDI FRANCESI IN ITALIA

Eh, sì, mancava! Ed ho fatto tanto di cuore leggendone l'annuncio in una rivista genovese.

Questa volta eravamo davvero ingrati, come ci qualificano i francesi. Da parecchi anni molte brave persone si sono sbracciate in Francia per fondare una Società di studi italiani col generosissimo scopo di far sparire qualche piccolo malinteso nato in questi ultimi tempi tra l'Italia e la sua sorella latina; e nessuno finora aveva pensato di far sorgere qualcosa di simile tra noi per aiutare quelle brave persone nella fratellevole impresa!

Di tratto in tratto, a grandi intervalli in verità, i giornali francesi recano la notizia di una conferenza molto applaudita di soggetto italiano, dell'invito a uno dei nostri scrittori più in voga per andare a conferenziare colà; e il rumore degli applausi e dei brindisi nei banchetti passa le Alpi e commuove i cuori sensibili di quegli italiani che amano politicamente la Francia per lo meno quanto la loro patria, e, stavo per dire, anche più. Milano ci ha dato l'esempio di una doverosa cortesia invitando Edoardo Rod per una conferenza: ma il caso è rimasto isolato.

Durante questo tempo, i francesi hanno iniziato per la letteratura italiana contemporanea quel che facevano da un pezzo per altre letterature straniere. Si sono degnati di accorgersi che c'è un po' di buono anche tra noi. Un accademico, che aveva prima scoperto i romanzieri russi, scopriva Gabriele D'Annunzio e lo presentava all'ammirazione del mondo intero, giacchè quando Parigi ammira, per la sua naturale funzione di cervello del mondo, induce tutte le nazioni civili a sentire e pensare come lui. Rivolti, così per caso, gli occhi a quest'umile Italia, meravigliati che avevamo anche noi parecchi poeti, parecchi romanzieri degni della loro curiosità i francesi si sono messi a farseli tradurre, per risparmiarsi la fatica di leggerli nella lingua originale. E così è avvenuto che parecchi italiani, che non avevano mai sentito la tentazione di leggere il loro D'Annunzio nelle belle edizioni del Treves, hanno avuto il piacere di gustarlo nelle traduzioni dell'Hérelle.

È probabile che in questo emballement, come colà dicono, di Parigi per la letteratura italiana, la Società di studi italiani entri per qualche cosa; è probabile anche che non c'entri nè punto nè poco. Io non ho elementi per giudicarlo. I piccoli malintesi nati in questi ultimi tempi fra l'Italia e la Francia non hanno, mi sembra, niente che vedere con la letteratura; e se si dovesse badare allo scopo della Società per gli studi italiani e apprezzarne il risultato dai fatti, non si avrebbe, credo, nessuna ragione di rallegrarsi dell'efficacia di quegli studi. I piccoli malintesi permangono, se pure non aumentano. La Società per gli studi italiani non ha potuto, per esempio, impedire che i francesi, quando han voluto trovare l'epiteto più infamante con cui bollare Emilio Zola, scegliessero quello d' italiano. Venduto agli ebrei, tedesco, traditore della patria, insultatore dell'esercito non sembrando sufficienti, ogni insulto è stato riassunto in quella parola!

Qualche scontroso potrà dire:

— Siamo proprio buffi! Che alcuni francesi, di buona volontà abbiano sentito il bisogno di fondare una Società per gli studi italiani, non c'è da stupirne. Tra cento mila francesi, appena appena uno intende un po' l'italiano. Tra gli scrittori francesi, a stento tre o quattro non hanno citato un periodo, una frase italiana senza infiorarla di spropositi. È naturale dunque che essi si vergognino della loro ignoranza e cerchino di porvi riparo. Ma noi? Noi leggiamo tutto quel che ci viene dalla Francia; noi conosciamo la loro letteratura contemporanea quasi assai meglio della nostra; le nostre riviste, i nostri giornali letterari, i nostri stessi giornali politici rigurgitano di saggi, come si dice, di studi, di recensioni di libri francesi; dovrei dire di panegirici, di inni, anche per libri mediocrissimi che, scritti in italiano passerebbero inosservati. Che diamine dobbiamo studiare più di quel che facciamo?

C'è chi si sente commuovere le viscere pei trionfi del D'Annunzio, per le traduzioni dei romanzi del Serao, del Rovetta, del Butti, del Neera? Primieramente questo fatto non ha niente di speciale. È venuta la nostra volta. Passata la moda dei romanzieri russi, dei drammaturgi e romanzieri norvegiani, la curiosità si è rivolta verso di noi, come domani si rivolgerebbe verso i Lapponi e gli Ottentoti, se essi avessero la fortuna di possedere una letteratura.

Questa curiosità intellettuale però fa molto onore ai francesi di oggi; è una loro qualità nuova, e di cui bisogna rallegrarsi in onore dello spirito umano. Ma coloro che vedono in questa curiosità un sintomo di sentimenti di altra natura, si ingannano grossolanamente.

Per disgrazia, la letteratura è una cosa, la politica è un'altra. Politicamente tra francesi e tedeschi c'è un dissidio mortale. Spiritualmente, mai come oggi la cultura tedesca è stata assorbita e assimilata in Francia; se ne veggono i segni dappertutto, nella scienza e nell'arte. Chi da questo assorbimento e assimilamento volesse indurne che francesi e tedeschi siano avviati a darsi un abbraccio politico, direbbe una corbelleria.

La letteratura è come la religione; invade la immaginazione, il sentimento, ma diventa cosa pratica fino a un certo punto; mai più in là. Così noi, teoreticamente cristiani, praticamente siamo tali fino a un certo punto, e forse non andremo mai più in là.

È male, è cosa deplorevole, ma non possiamo impedire che sia così. In certi momenti, quando interessi tutt'altro che spirituali vengono in ballo, la bestia che dorme nel nostro organismo si sveglia a un tratto e ruggisce e sbrana e divora a dispetto di tutto e di tutti. I fratelli cristiani si ammazzano tra loro peggio dei turchi e dei selvaggi; le nozioni del tuo e del mio, i sentimenti di tolleranza, di libertà, di eguaglianza diventano belle parole e nient'altro, utili soltanto per darla a intendere ai semplici, agli sciocchi che si lasciano illudere facilmente.

Diciannove secoli di cristianesimo, di filosofia, di scienza, non hanno cavato un ragno dal buco, non sono riusciti ad ammansire un po' la bestia umana! Di addomesticarla non si può parlare.

Ora nei quelques travers a cui accenna il programma della Società francese per gli studi italiani — e che non sono di ces derniers temps, e non hanno origini così antiche che bisognerebbe andare a indagarle nelle tenebre preistoriche — quei quelques travers tra italiani e francesi riguardano la bestia, cioè la politica; e non c'è società di studi francesi e italiani che possano dissiparli. In questo caso: — Chi si guarda si salva, dice il proverbio.

Ma io tolgo la parola allo scontroso; non voglio impicciarmi di politica per conto suo. E siccome egli ha parlato di bestia ed ha citato un proverbio, aggiungerò soltanto che è bene non fidarsi troppo delle bestie; e che l'altro proverbio: — Il lupo cangia il pelo e non il vizio — non deve intendersi unicamente per questi poveri animali. E torno alla letteratura.

Oh, nessuno è più lieto di me che sia, finalmente, arrivato in Francia un buon quarto d'ora per gli scrittori italiani; ma ne sono lieto più pei francesi che per noi. Gli scrittori italiani insomma, rimangono quel che sono. Hanno valore? Riconosciuto o no dagli altri, questo valore non aumenta, nè diminuisce. Non hanno valore? E l'immeritata ammirazione sarà fenomeno effimero, senza importanza.

Mi fa gran piacere intanto che lo spirito francese abbia abbattuta un'altra barriera e varcato un altro confine intellettuale. Era eccessivamente esclusivo; troppo e orgogliosamente si lusingava e si compiaceva che poco o niente esistesse nel mondo fuori dei suoi poeti, dei suoi romanzieri, dei suoi drammaturghi. Ora invece può giustamente e diversamente inorgoglirsi, vedendo che il resto del mondo non ha lasciato passare nessuna forma della letteratura francese senza giovarsene, senza appropriarsi tutti i processi tecnici di essa, ma anche non senza aggiungervi qualcosa, non senza apportarvi qualche necessaria innovazione. E la letteratura italiana contemporanea gli darà probabilmente, per ragione di conformità d'indole e di tradizioni, maggiore elemento di orgoglio che qualunque altra.

Noi italiani abbiamo forse barriere da abbattere, confini da varcare, specialmente con la Francia letteraria? Se mai, abbiamo bisogno di ritrarci un pochino in casa nostra, per rifarci la salute con la sana aria paesana.

E poichè per la politica la Società degli studi francesi non approderebbe a niente, come a niente ha approdato in Francia la Società per gli studi italiani; poichè, per quel che riguarda l'arte letteraria, essa risulterebbe assolutamente superflua, conchiudo:

— Vogliamo fare ancora un altro po' di accademia? Facciamola pure. Vogliamo prendere altre indigestioni con banchetti internazionali, e sgolarci in risonanti brindisi, e smanacciarci in applausi di convenzione? Divertiamoci pure. Si fanno tante cose inutili in questo mondo, che una di meno o una di più non sarà la rovina di nessuno.