GLI "ISMI" CONTEMPORANEI.
DELLO STESSO AUTORE: RECENTI PUBBLICAZIONI:
La Sfinge. Fausto Bragia. Schiaccianoci. Il mondo occulto.
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE:
Il Braccialetto, Novelle. Le Nuove Paesane. Idillio provinciale ( Profumo ) 3^a edizione. Le meravigliose gesta di Re Bracalone.
LUIGI CAPUANA
GLI "ISMI" CONTEMPORANEI
(Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitismo)
ed altri saggi di critica letteraria ed artistica.
CATANIA
Cav. Niccolò Giannotta, Editore Via Lincoln, 271-273-275 e Via Manzoni, 77. Stabile proprio
1898.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Catania—Tipografia Lorenzo Rizzo, piazza Spirito Santo.
PREFAZIONE, O QUASI…
LA LETTERATURA ITALIANA NEL 1896
—Ma che inventario vuoi fare? L'inventario della miseria?
—Non esageriamo. Io non sono un gran lettore e per parecchie ragioni: primieramente perchè non ho molti quattrini da spendere in libri—e questo mi dispenserebbe di dirti il resto—; secondariamente perchè non leggo o leggo mal volentieri un libro che non è di mia proprietà, eccetto, e soltanto da due anni a questa parte…
—Terzo, aggiungo io, perchè tra i due mali di spendere tre lire e cinquanta centesimi per un libro italiano o uno francese tu scegli giudiziosamente il minore e compri il libro francese. Ho indovinato?
—No. Da due anni non ne compro più; appunto stavo per dirti questo, quando tu mi hai interrotto: me li fo prestare, eccezionalmente, da un amico a cui il suo libraio manda tutte le pubblicazioni letterarie dei nostri cari vicini. Io faccio all'amico il servigio di tagliare i volumi leggendoli il primo, e intanto sottraggo al commercio librario francese il mio piccolo aiuto. Se fossimo parecchi, tutti a fare così!…
—Per incretinirci coi libri italiani?
—Quasi incretiniscano poco quegli altri! Oh, fammi il piacere! Con te, e con tutti coloro che la pensano come te, ci sarebbe da fare un esperimento: prendere, zitto zitto, tre, quattro romanzi italiani inediti, tre, quattro volumi di novelle inedite anch'esse, farli tradurre bene in francese, mutando i nomi delle persone e dei paesi, sostituendo eterocliti pseudonimi in aux, in our, in y al nome degli autori, e darli a pubblicare al Levy, allo Charpentier, al Lemerre. Poi, stampato sui giornali quotidiani francesi (a tanto la linea, s'intende): Vient de paraître l'interessantissimo romanzo, ecc. ecc.—giacchè, tu lo sai, colà sbocciano a questo modo, sui giornali politici, due, tre capolavori ogni giorno—il giuoco sarebbe fatto. Abbocchereste tutti. Ma i letterati, sventuratamente, non possono usare la malizia degli industriali italiani che battezzano per carta inglese e per stoffe inglesi i prodotti delle loro cartiere, dei loro telai, e così ottengono gran spaccio.
—Ragioni seriamente o fai la burletta?
—Ragiono seriamente.
—Metti a paragone la produzione letteraria francese con la italiana?
—Per quantità, no, ma per qualità, proporzionalmente—bada bene a quel che dico—perchè no?
—Eh, via! Tu scherzi!
—Niente affatto. Tu e i tuoi pari avete la mente pregiudicata. Prendendo in mano un libro italiano, siete già convinti che dev'essere noioso; nessuna meraviglia dunque che esso vi sembri noioso davvero. E lo predicate nelle conversazioni, e lo gridate alto dalle colonne dei giornali, e come vi guardate dal comprarlo e forse dal leggerlo, incitate gli altri a far lo stesso. In Francia il libro non è soltanto opera d'arte è anche e soprattutto industria. I capolavori che sbocciano oggi sono belli e appassiti domani; spesso spesso dalla mattina non arrivano neppure alla sera. Ma non vuol dire; l' articolo è venduto; l'autore ha intascato i quattrini, l'editore pure. Tant'è vero che è avvenuta colà una crisi libraria per pletoria di produzione; l'offerta anche colà è stata superiore alla richiesta. E nota che i francesi hanno il beneficio dell'esportazione, che noi non abbiamo.
—Non l'abbiamo perchè non sappiamo fare. Siamo mal preparati? Siamo stanchi, esauriti? Non so. Vedi intanto il D'Annunzio. L'abbiamo screditato, o almeno abbiamo tentato di screditarlo…
—E abbiamo fatto malissimo, per ingenuità e anche perchè da noi il lato commerciale della letteratura s'intende poco. I primi a non badarci sono gli autori, che pure sarebbero i più interessati. Ma tu svii il ragionamento. Le traduzioni non sono esportazione sono una piccolissima parte di essa. L'esportazione francese dipende da condizioni che per ora non esistono da noi.
—Per ora?
—È forse vietato che possano verificarsi per l'avvenire, se si sono già verificate una volta, nel Rinascimento? Allora la letteratura europea era quasi tutta italiana, forse più che non sia oggi europea la francese.
—Che illusioni! Sembra impossibile che un uomo come te….
—E questo appunto è il male: il non avere più illusioni di sorta, in politica, in arte, in ogni cosa, se pure si debbono chiamare illusioni le aspirazioni all'ideale.
—Guarda dove sei arrivato dall'inventario che intendevi di fare!
—Caro mio, l'inventario della letteratura e dell'arte d'una nazione non si mette su, anno per anno, come quello di un negozio di merci. In questo caso, ti dico che bisogna attendere ancora. La produzione letteraria del '96 non è ancora venuta alla luce. Gli editori hanno appena annunziato i volumi che stanno sotto i torchi: e i pochi volumi già comparsi non mi paiono cattivi. Il fatto poi di veder sorgere nuove ditte editrici è sintomo consolante: il Brigola in Milano, il Voghera in Roma, e altri di minor conto. Per fare proprio l'inventario della produzione letteraria del '96 bisogna dunque attendere per lo meno fino all'aprile del '97. Quello del '95, che può farsi oggi, non è punto scoraggiante.
—Ah, sì! O dov'è il capolavoro?
—Lasciamo stare, per carità, i capolavori. Ne spunta fuori appena uno ogni tanto, e non è poco. Facciamo un po' di confronto col nostro passato più recente, con la prima metà di questo secolo, quando i produttori si chiamavano Monti, Foscolo, Guerrazzi, D'Azeglio, Giusti, Grossi, Manzoni, Niccolini, per citare le cime. Il capolavoro fra tanta produzione è uno solo, i Promessi Sposi, e basta per tutto il secolo. Se ti dovessi dire il mio parere intorno alla produzione letteraria della seconda metà, ti confesserei che mi sembra più vitale di quella dell'altra metà; ha maggiori qualità di resistenza; è opera d'arte schietta, senza mistura di politica o di altro. Ma già è inutile fare previsioni di quel che resterà di essa o non resterà. Noi c'inganniamo facilmente su questo punto. La letteratura ha pure la sua moda; e se, giudicando, ci affidiamo al criterio della voga, corriamo il pericolo di sbagliare. Lasciamo all'avvenire la cura della scelta di quel che dovrà o no sopravvivere. Io non sono un letterato di professione, sono un lettore, un osservatore, e con questa mia qualità ti dico che il '96 non termina male per la letteratura italiana. C'è una serietà di propositi, un culto riverente dell'arte, un'intenzione evidentissima di procedere di bene in meglio, e il fatto, evidente anch'esso, da cui si scorge che le intenzioni non rimangono tutte lettera morta. Per voi spericolati, per voi che siete italiani soltanto di nome, lo so bene, non c'è niente, o c'è il chiacchierío di non so che teoriche delle quali non voglio neppur parlare, perchè io, in fatto d'arte, alle teoriche bado poco; chiedo lavori, lavori, lavori! Le teoriche sono buone per le discussioni tra critici, o per mettere, tutt'al più, un'etichetta su la produzione; inutile, se la produzione è cattiva; inutilissima, se l'etichetta vien preparata anticipatamente, per poi incollarla su la produzione che dovrà venir fuori Dio sa quando!…
—Mi fai sbalordire con tutta questa tua fede!
—Ma sì, fede ci vuole! Fiducia in noi stessi ci vuole! Ti ripeto a questo proposito quel che ho letto tempo fa non ricordo dove, nè da chi scritto; ma le parole mi son rimaste impresse nella memoria perchè corrispondevano esattamente a un sentimento mio. Quelle parole dicevano, press'a poco:—Come? Un popolo che ha confuso la sua storia con quella del mondo e che—dopo aver dato alla Civiltà il Diritto romano, la Divina Commedia, la Commedia dell'arte, Raffaello, Michelangelo, il da Palestrina, il Vigo—oppresso, deriso, umiliato, trova in sè tanta forza da ridiventare nazione, compire il più prodigioso atto del secolo XIX, l'abolizione del temporale dei papi, e far convivere nella stessa città il Pontefice del mondo cattolico e il Re degli italiani; come? questo popolo che resiste alla cattiva fortuna, agli errori e alle inesperienze della sua vita politica, sarebbe dunque un'effimera apparizione nella storia contemporanea, senza una ragione, senza uno scopo? Non è possibile. Verrà di nuovo l'ora sua. E di nuovo, nell'avvenire (vicino o lontano, che importa?) quel che di civile, di santo e di pio avranno il vecchio e il nuovo mondo sarà soltanto italiano, come una volta fu romano. Questa dovrà essere la nostra coscienza, il nostro ideale!—Non sorridere; lascia che sorridano o ridano di noi i nostri nemici.
—Tutto questo a proposito di letteratura italiana?
—A proposito di cose spirituali, non ti dispiaccia…. e anche a sproposito, se così ti piace. L'arte letteraria non è un fenomeno accidentale nella vita di una nazione. E se anche riguardo all'arte noi avessimo quella coscienza, quell'ideale, quella fede, come tu ironicamente la chiami…
—Apostolo, va' a predicare il tuo vangelo alle turbe!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In quell'angolo di caffè dove io sorbivo, ascoltando, un'equivoca bibita, il dialogo fra quelle due persone a me ignote fu interrotto a questo punto dall'intervento di una terza persona, Così monco com'è, non mi è parso inutile trascriverlo.—E da ier l'altro—augurio? aspirazione?—mi risuona incessantemente nell'orecchio:
"Verrà di nuovo l'ora sua!… Quel che di civile, di santo e di pio avranno il vecchio e il nuovo mondo sarà soltanto italiano, come una volta fu romano!"
IDEALISMO E COSMOPOLITISMO
I.
Ugo Ojetti ha predicato, giorni fa, a Venezia il suo vangelo letterario. Ripercosso dall'eco del telegrafo e dalle rassegne dei cronisti, è giunto fino a qui il rumore degli applausi prodigati dall'uditorio al conferenziere. Me ne rallegro con lui. Egli possiede tutte le qualità necessarie per farsi applaudire: è bel giovane, ha lo stile vivace, immaginoso, un po' vaporoso, ora di moda; dice delle cose non comuni e le afferma con calda convinzione di neofita, senza esitanze, senza riserve. La foga giovanile lo ha spinto a cercarsi, prima del pubblico veneziano, un pubblico più vasto, quasi mondiale. Per ciò, nel febbraio scorso, si è rivolto alla Revue de Paris per bandire da quel pulpito che questa povera Italia non ha una letteratura contemporanea e non l'avrà per un buon pezzo. I signori della Revue e i francesi che la leggono devono essere stati lietissimi di vedere un italiano chieder loro ospitalità per ragionare della letteratura della sua patria quasi con lo stesso tono d'un francese della più bell'acqua.
Immagino che, gratissimo dell'ospitalità accordatagli, l'Ojetti abbia voluto comportarsi verso quei signori con straordinaria cortesia, e sapendoli d'una ignoranza a tutta prova riguardo alle cose straniere, ha avuta la compiacenza di mettere anche lui nel suo scritto qualche inesattezza, sia intorno alle cose letterarie nostre, sia intorno a quelle francesi. A gentiluomo, gentiluomo e mezzo: ove così non fosse, quelle inesattezze e certi suoi giudizii rimarrebbero proprio inesplicabili.
La sua conferenza di Venezia, dal sunto dei giornali, pare una nuova edizione, anzi una semplice traduzione dello scritto pubblicato nella Revue de Paris. Se gli applausi non dimostrano che il pubblico sia rimasto convinto (in fatto di letteratura il pubblico italiano, lo confessa lo stesso l'Ojetti, est naturellement sceptique et somnolent ) dimostrano che gli italiani di oggi sono molto diversi da quelli di mezzo secolo fa. Il Gioberti del Primato e i suoi contemporanei strabilierebbero, se per un miracolo potessero tornare in mezzo a noi. Dall'eccesso dei vanti un po' declamatori, quarantotteschi, siamo balzati all'eccesso opposto, a una modestia che confina col disprezzo di noi stessi. Fra i due, non è forse preferibile il primo? Almeno n'è nata l'unità d'Italia. Non so prevedere che cosa di buono possa produrre il secondo.
L'Ojetti però non è giovane per nulla; non scettico nè sonnacchioso, ha anzi una fede profonda e la proclama ad alta voce: crede nell'arte cosmopolita. Come lo Zola disse della letteratura francese: Sarà naturalista o niente, l'Ojetti oggi dice dell'italiana: Sarà simbolista o niente, o meglio: Sarà cosmopolita o niente.
Infatti quel che più l'attrista è il vedere che i letterati italiani non hanno un indirizzo comune, non formano una scuola, non vivono nella capitale, nè in un gran centro qualunque. Lavorano, disseminati qua e là, ognuno per proprio conto, secondo il proprio ideale: il Carducci a Bologna, il Fogazzaro a Vicenza, il Verga a Catania o a Milano, Matilde Serao a Napoli. Fin i giovani, egli dice, hanno orrore della parola scuola; preferiscono avventurarsi, ribelli e orgogliosi, per le vie dell'arte, invece di stringersi, non fosse per altro, per istinto di conservazione, attorno alla bandiera d'un capitano insigne per vittorie riportate o per gloriose disfatte; e così finiscono, spesso, miseramente. Tanti capi, tante sentenze. La baraonda dei concetti artistici, si traduce naturalmente in una peggiore baraonda di lingua e di stile. Chi può credere che lo stile e il vocabolario del Carducci, del D'Annunzio, del Fogazzaro, di Ferdinando Martini, del Verga, della Serao, di Edmondo de Amicis appartengano a scrittori della stessa epoca e della stessa razza?
Non lo dice, ma l'Ojetti sembra voglia mettere in confronto la letteratura italiana contemporanea con la letteratura francese, dove le scuole sbucciano e fioriscono a ogni pie' sospinto, dove gli scrittori, coloro che vivono d'arte, se ne stanno accalcati nel cervello della Francia, Parigi. Ed è strano che egli guardi con invidia quest'accentramento appunto quando in Francia si manifesta già qualche sintomo di reazione contro di esso. È strano che egli, autore di un libro Alla ricerca dei letterati, evidentemente ispirato da uno consimile dell'Huret, si lasci ingannare dalle apparenze e non ricordi che baraonda d'ideali d'arte, di lingua e di stile risulti dall'inchiesta del suo predecessore francese. Tralasciando, per un istante, di parlare d'ideali, consentiamo che l'italiano del Carducci, del D'Annunzio non sia l'italiano del Verga e del Fogazzaro; ma forse il francese dello Zola, del Daudet è una stessa cosa con quello dei De Goncourt e del Mallarmè, per citarne soli quattro?
Tra la baraonda italiana e la francese quale apparisce dai due libri, la differenza più notevole è questa: l'Ojetti non ha trovato un solo letterato italiano che abbia detto male di un collega, mentre la enorme vanità dei letterati francesi si è manifestata nel libro del'Huret con una gara, edificantissima, di morsi e di calci fraternamente dati e resi, e non solamente fra artisti di scuola diversa, bensì tra proseliti di una stessa scuola.
Ma per tornare alla questione veramente seria della lingua e dello stile, l'Ojetti, parlando della baraonda italiana su questo punto, ha dovuto far sorridere i colti lettori della Revue de Paris, che sanno di stare quasi peggio di noi. Lo Zola, il Daudet, i De Goncourt sono stati accusati di barbarismi e di sgrammaticature per lo meno quanto la Serao, il Verga, il De Roberto e qualche altro citati all'Ojetti dalla scrittrice napolitana; il Mallarmè e i suoi seguaci vengono giudicati o matti o incomprensibili dalla maggior parte dei loro contemporanei; ognuno di essi ha il suo vocabolario, il suo modo di esprimersi, precisamente come i poveri scrittori italiani; stavo per dire il suo gergo. Parecchi di loro si regalano a vicenda gli epiteti di puri, d' impeccabili; ma ci sono tant'altri che chiamano con nome diverso quell' impeccabilità, quella purezza, e preferiscono qualcosa di impuro e di peccaminoso, se l'impurità e il peccato recano con loro il compenso dell'originalità e della vita.
Tra gli scrittori italiani e i francesi, da questo lato, la questione si riduce a una proporzione aritmetica. Quelli sono molti, i nostri pochi. Avrei dovuto forse dire: a una questione commerciale; giacchè la produzione letteraria si sviluppa (e l'arte non ci perde, anzi!) in ragione dei vantaggi che arreca con la facilità dello smercio. Non credo che, in un problema d'arte, l'Ojetti voglia dare molta importanza al valore numerico.
Nel suo scritto la questione della lingua e dello stile vien posta da due che hanno nome autorevole, dal Verga e dal D'Annunzio. "Lo stile non esiste fuori dell'idea. Se lo stile consiste soprattutto nella forma della frase, deve adattarsi all'idea, deve vestirla e rivestirla. Quanto più intima sarà questa corrispondenza questa fusione, tanto lo stile sarà migliore. Le forme di frasi fisse, apprese in qualche classico, applicabili a tutte le idee, sono mortali per esso." Questo è il concetto del Verga. Pel D'Annunzio le frasi, le parole hanno un valore di trasformazione, di idealizzazione, se si può dire, dell'idea, un valore quasi per sè stesse. Così il Verga, per esempio, se dovrà parlare di una vecchia contadina, la chiamerà semplicemente za Maruzza e la descriverà, se occorre, in guisa da mettercela viva sotto gli occhi. Il D'Annunzio non saprà resistere alla tentazione di chiamarla ripetutamente antica Cibele. Pel Verga, una comitiva di ragazze, che coglie uva o sarchia grano, sarà semplicemente una comitiva di ragazze che lavorano, ridono, cantano; e le descriverà, se occorre, parcamente, incisivamente, in guisa da mettercele vive sotto gli occhi; il D'Annunzio la chiamerà classicamente una teoria.
E, a proposito dello stile di questi due autori, un'altra prova concludentissima. Prima assai dell'avvento del D'Annunzio in Francia, il Verga aveva visto tradotti i suoi Malavoglia per opera del Rod e pubblicati dall'editore Savine. Il Rod ha compiuto un miracolo di lucidazione del testo italiano, sorprendente per fedeltà ed esattezza; ma il lavoro del Verga non ha avuto però successo presso i lettori francesi, e non poteva averne soggiungo io. La personalità del suo stile, il carattere speciale di esso nella traduzione era sparito; il traduttore era riuscito traditore per la evidentissima buona intenzione di non tradire l'originale. Invece quello era il caso, se mai, di rifare con colorito francese, con forme dialettali di qualche provincia francese, un libro dove le forme dialettali si fondono assolutamente nella lingua comune e vestono e rivestono l'idea in modo così organico che la forma non può scindersi dal concetto. Che ne è avvenuto? L'opera del Verga nella veste straniera è apparsa scialba, stinta.
I lavori del D'Annunzio nella traduzione del d'Herelle si sono trovati come a casa loro; il traduttore non ha dovuto penare molto; gli è bastato togliere in prestito a questo o a quello scrittore francese decadente certe forme in voga tra i seguaci della letteratura cosmopolita (or ora mi scappava dalla penna: della massoneria letteraria cosmopolita) e il colpo è riuscito.
Dico questo senza nessuna maligna allusione a recenti polemiche, senza voler discutere o menomare il valore del nostro fortunato romanziere: e posso affermarlo con faccia franca, perchè intorno ai lavori del D'Annunzio io ho scritto quasi un volume; e se ho fatto degli appunti, ho ammirato anche senza mezzi termini, pur sapendo e accennando, tra i primi, i plagi, o assimilazioni ecclettiche che si vogliano chiamare, insomma quelle cose dalle quali sarebbe stato bene che il D'Annunzio non si fosse lasciato allettare.
Il problema dello stile e della lingua va proposto come l'ha proposto il Verga. Lasciamo stare se egli lo abbia o no praticamente risoluto; potremo ragionarne un'altra volta. Se pare che l'abbia risoluto il D'Annunzio (e l'Ojetti non ne dubita punto) la ragione di questa illusione bisogna cercarla altrove, nel concetto. Il Verga crea delle creature vive, di sangue, carne e ossa; il D'Annunzio, finora almeno, ha creato quasi sempre fantasmi di creature, ombre vane. Un nuovo Dante che volesse abbracciarle, sentirebbe cingersi il petto dalle proprie braccia passate a traverso quei corpi inconsistenti.
Ed ho detto:—Quasi sempre—perchè nel Trionfo della morte per esempio, c'è un punto, a metà del volume, in cui il protagonista e la sua famiglia riescono persone vive, di sangue, carne e ossa; ma allora il D'Annunzio si vede costretto dal suo istinto di artista, a mutar tono; non sembra più lui, o per lo meno non rassomiglia più a quel tale D'Annunzio che la leggenda ha foggiato e che poi, di rimpallo, si è foggiato secondo la leggenda. Il primo è il D'Annunzio che fa sperare possibile e augurare assai prossimo un completo rinnovellamento dell'artista, appena gli sarà passata la cosmopolitíte acuta che ora lo ha invaso. L'altro D'Annunzio lasciamolo ai francesi o a chi lo vuole.
Tutto questo l'Ojetti lo sa meglio di me, ma non ha voluto tenerne conto. Ed era, se non sbaglio, il cardine della questione della letteratura italiana contemporanea. Egli però scriveva per una rivista francese, e preso il la, si è sentito forzare la voce. Ma, forse, con tutto quel la, non avrebbe stonato, senza l'altro pregiudizio della letteratura cosmopolita.
II.
"Il campanilismo ormai è ridicolo, specialmente in materia d'arte. Di là dai monti, di là dai fiumi, di là dai mari ecco artisti che rinascono, e si levano, e si chiamano ad alta voce, e si nutrono fraternamente dello stesso pane, al sole. L'arte è universale; l'artista non è più nè italiano, nè francese, nè norvegiano: il suo genio è umano!"
Ben detto, caro Ojetti; se non che è stato sempre così. L'opera d'arte italiana o francese o norvegiana è stata sempre opera del genio umano, e non poteva essere diversamente. Tempo fa il pregiudizio retorico, pedantesco non riconosceva altra arte all'infuori di quella greca e latina. Ma noi ci siamo finalmente liberati dal giogo dei greci e dei romani, abbiamo allargato il nostro orizzonte. Shakespeare non ci apparisce più un barbaro, come al signor di Voltaire; da qualunque parte ci venga, qualunque forma rivesta, qualunque concetto esprima, pur che abbia assunto una forma vivente, l'opera d'arte è accolta, compresa, festeggiata, ammirata. Nazioni che prima non avevano preso parte al banchetto artistico—che non hanno tradizioni classiche nè di nessuna sorta, e non intendono certi nostri pregiudizi—sono venute a sedervisi insieme con noi, balde, piene di entusiasmo, giovanilmente sincere, e anche, non le dispiaccia, giovanilmente ingenue; e ci hanno mostrato, col fatto, l'inanità di certe convenzioni dalle quali non sapevamo sottrarci. Queste nazioni avevano qualcosa di nuovo da dirci: il loro particolar modo di sentire, di pensare; e ciò dava alle loro opere aspetto insolito, attraente, suggestivo. La natura e la vita ci apparivano guardate da occhi diversi dai nostri, da intelligenze più libere e quindi più forti. Noi abbiamo sentito trasfondere nelle nostre vene un'onda di sangue più fresco, ci siamo sentiti ringiovanire. Abbiamo guardato la natura con altre intenzioni anche noi; e anche noi abbiamo osservato la vita che quasi avevamo perduto di vista, tanto ci eravamo abituati a guardarla non direttamente, ma a traverso l'altrui opera d'arte. Per dire la verità, questa trasformazione, questa rinnovazione l'avevamo già iniziata da un pezzo, un po' per istinto, un po' per riflessione; ma i nuovi venuti l'hanno affrettata, l'hanno compiuta. Si trovavano in migliori condizioni; arrivavano ultimi; e senza accorgersene, senza volerlo, usufruendo del nostro lavoro di preparazione, lo hanno spinto molto avanti.
Tutto questo, ripeto, sta benissimo, non fa una grinza. Ma c'è un equivoco prodotto dalla parolina umano buttata là dall'Ojetti, quasi sbadatamente, la quale vuol significare quel sentimento di pietà, di carità universale, più profondo e più vasto, che pervade la società moderna, la rimescola e che, creato il socialismo in politica, vorrebbe pure importarlo tale e quale nell'arte.
Nella politica esso nega il concetto di patria, nell'arte il concetto di letteratura nazionale. Da questo strano equivoco è venuto fuori il cosmopolitismo letterario di cui l'Ojetti è uno dei più caldi e dei più ingegnosi banditori.
È un'astrattezza. Se con quella parola si volesse soltanto significare l'alto senso di comprensione che ci fa penetrare, intendere e ammirare tutte le forme artistiche da qualunque parte del mondo ci vengano: o la urgenza vitale dell'assimilazione delle varie forme quando esse rappresentano qualcosa di organico nell'arte, non ci sarebbe niente da ridire. Ma il fatto dimostra che per cosmopolitismo artistico s'intende tutt'altro. S'intende una certa uniformità di sentimenti, di concetti, e per conseguenza, un'uguale corrispondenza di forma che dallo stile va su su fino al modo di concepire l'opera d'arte: e lo stile diventa quindi un gergo comprensibile soltanto dagli iniziati, e la personalità umana si assottiglia, si assottiglia per diventare simbolo più o meno trasparente. In questo caso non veggo una bella ragione di dare il bando ai greci e ai latini, che sono chiari, solidi, risplendenti, e parlano un linguaggio armonioso, comprensibile da tutti, per sostituir loro qualcosa di inconsistente, di torbido e, quel che è più, di mortalmente uniforme.
Si perdonino queste astrettezze anche a me; era impossibile scansarle. Veniamo ora a qualche esempio. Le nazioni sono degli individui grandi, direbbe il De Meis; e come tutti gl'individui hanno un modo speciale di sentire e di pensare e un modo altrettanto speciale di dar forma ai loro concetti.
Ora ecco una poesia di amore di un poeta cosmopolita. Non ne ho il testo per le mani, e la trascrivo quale è stata recentemente tradotta da Vittorio Pica, nel suo studio premesso alla Belkiss, poema drammatico simbolista del giovane poeta portoghese Eugenio De Castro. Descrive l'istante in cui apparve al poeta l'Amata.
"Trionfale, vespertino, mineralmente rosso—nella diafana pace d'un tramonto di ottobre,—il sole, lacerando l'incenso degli spazii,—cammina verso la morte ad indugiati passi,—come le bande che vanno a suonare nelle esequie….
"Fu in un'ora così soave, crepuscolare—che, lungo questo esteso e fogliuto viale,—altiera, imperiale, tra un fruscìo di seta,—vidi per la prima volta l'Eletta della mia anima—il grande Fiore sottile, impareggiabile, almo—la Maggiore, la più Bella, la più Amata, l'Unica.
"Incedeva gloriosa e triste, ravvolta in nera tunica,—che sul suolo strisciava in ondeggianti pieghe;—aveva nel calmo andare l'eleganza della serpe,—la leggerezza d'uno spettro e la grazia d'un'anfora…
"Il gran Fiore passava, imperturbabilmente,—col suo volto enimmatico ed il suo sguardo vago—ieratico, ricordanti le mistiche immagini,—mentre i miei occhi seguivano come paggi—il suo ritmico incesso sonnambulo e triste…."
Basti questo saggio. Aprendo a caso qualunque volume di poeti cosmopoliti, troveremmo gli stessi aggettivi: trionfale, mineralmente rosso, applicati indeterminatamente e un po' a caso; e troveremmo Belle, Amate, Uniche, ugualmente imperiali, o reali, o ducali; e tutte avranno l' eleganza della serpe, e tutte si muoveranno leggere come spettri, e tutte avranno la grazia di un'anfora. Il poeta che ho citato è portoghese; ma potrebbe anche essere francese, tedesco, italiano, esquimese, come, viceversa, i suoi confratelli esquimesi, italiani, tedeschi, francesi, potrebbero essere benissimo portoghesi. Sono state soppresse nel paesaggio e nella figura umana le particolari caratteristiche; non più quel tal paesaggio, o quella tale persona, ma dei sostantivi astratti, degli aggettivi astratti. Avremmo voluto avere l'impressione di un angolo di cielo e di terra portoghese; avremmo voluto vedere una signora o una signorina di Lisbona o di Oporto, vestita in una certa foggia che neppure la universalità della moda riesce a sopprimere, soprattutto una signora e signorina che sente e pensa in modo assolutamente individuale; e invece non abbiamo niente.
Ed ecco i drammaturgi norvegiani, ecco i romanzieri russi.
Ibsen irrompe sul palcoscenico spingendosi innanzi una folla di creature della sua Norvegia, strane, malate d'ideali, con la coscienza sconvolta dai problemi religiosi e sociali che colà lavorano sordamente i cuori e le teste; nature complicate, nevrotiche, che soffrono e fanno soffrire.
Per condurle sul palcoscenico, l'Ibsen non bada alle forme drammatiche usate altrove. È artista, e capisce istintivamente che quelle creature devono parlare e agire a modo loro, sincere, senza preoccupazioni del pubblico; ma è complicato, nevrotico, malato d'ideali pure lui; com'esse, è lavorato dentro sordamente dai più alti problemi religiosi e sociali; e per ciò s'interessa di costoro fino a un certo punto. Artista, non può vedere il concetto altrimenti che come forma; ma, pensatore, vuole poi così spietatamente che quelle creature agitate e sconvolte dicano chiaro e aperto che non sono loro, soltanto loro, lo scopo di lui, ma l'intimo concetto che le anima; lo vuole così spietatamente, che all'ultimo le sforma, le strappa, le distrugge, e non permette che arrivino fino in fondo dell'atto quinto creature reali e vive quali le avea mostrate sin dalle prime scene.
Intanto, invece di contentarsi d'intendere e d'ammirare l'opera dell'Ibsen, invece di limitarsi all'assimilazione dei perfezionamenti di forma ch'egli ha recato nella drammatica, si è voluto norvegizzare tutte le creature del teatro europeo, anzi cosmopolita.
Il Tolstoi, il Dostoiewski appartengono a una razza che si occupa anch'essa del mondo interiore, e rimugina le proprie sensazioni, e si tormenta con i casi di coscienza. I tre grandi artisti rappresentano la concentrazione, la somma di queste qualità morali e intellettuali. Il Dostoiewski, inoltre, è un nevrotico, un perturbato, e nelle sue creazioni rispecchia lo stato irregolare della sua mente. Con essi la forma si è avvantaggiata dei pregi di sincerità, di rappresentazione evidente e vigorosa di cui hanno dato esempi meravigliosi. Non trovandosi però alle prese con i limiti e le convenzioni della forma drammatica, i tre romanzieri non sono stati costretti a sformare, alla fine, le loro creature per mettere in maggiore evidenza il loro intimo concetto; e così esse han conservato, più delle figure ibseniane, la loro caratteristica di pure opere di arte.
Intanto, invece di assimilarsi quel che c'è di nuovo e di organico nella forma del romanzo russo, operando una confusione tra forma e concetto, è stata egualmente tentata la sciocchezza di russificare alla lor volta i personaggi del romanzo europeo.
E passi per l'Ibsen, passi pei romanzieri russi! Nell'uno e negli altri il concetto ha preso vera forma; l'uno e gli altri hanno creato persone vive della loro nazione, del lor tempo. Il cosmopolitismo va più in là. Per quanto ossessi dei problemi di religione, di morale, di sociologia, i personaggi dell'Ibsen, del Tolstoi, del Dostoiewski sono figure vive, consistenti, e in che modo!
Il cosmopolitismo non sa che farsene di queste figure vive e consistenti. Simboli! Astrettezze! Ecco quel che egli vuole, cioè cose che sono l'opposto, anzi l'assoluta negazione dell'arte.
Il norvegizzare e russificare l'opera d'arte è stata insomma l'operazione preliminare del cosmopolitismo letterario, in Francia, in Germania e, pel poco che ha potuto, in Italia.
Ora esso vuole andar oltre, è andato già oltre.
Ha tutto un programma pieno di concetti che sembrano elevati, pieno di buone intenzioni da lastricarne non uno ma più inferni. E bisogna guardarlo da vicino, sviscerarlo per convincersi se mai si tratti di cosa seria, o piuttosto di aberrazione passeggera, o di risibile ciarlataneria che vuol mascherare coi paroloni un'irrimediabile impotenza creatrice.
Sventuratamente forse si tratta di ben altro.
III.
—Ma dunque lei è un codino!
—Niente affatto. Nessun nuovo ideale umano mi lascia indifferente. Ma qui si tratta d'arte, non di pensiero filosofico o scientifico.
—Vorrebbe forse un'arte vuota di contenuto, forma soltanto?
—Niente affatto. Tutto il contenuto possibile, a patto però che egli prenda forma vitale per via dell'immaginazione creatrice. Intendiamoci. Io odio le cose a mezzo, gli ibridismi. Il puro concetto, se mi occorre, vado a cercarlo nei libri dei filosofi o in quelli degli scienziati. Lì trovo la verità astratta o nuda, cioè quella che provvisoriamente sembra verità; e coi filosofi e con gli scienziati mi insuperbisco della divina potenza dell'intelletto umano, e insieme con loro mi umilio e mi scoraggio davanti all'infinità dell'Ignoto che riduce a ben misera cosa la nostra più profonda filosofia, la nostra più ardita e più meravigliosa scienza. Quando poi mi rivolgo all'opera d'arte, ricerco invece sensazioni, impressioni, caratteri, rappresentazioni nelle quali quel tal concetto filosofico o scientifico, prima ricercato altrove, può benissimo tornarmi dinanzi ma incarnato nella forma, divenuto uomo, donna, paesaggio, passione, azione; e incarnato in modo così perfetto, che io dovrò avere l'illusione di trovarmi faccia a faccia con questa nuova e più eccelsa Natura, e rifare intorno ad essa l'identico lavoro fatto dal poeta, dal romanziere, dal drammaturgo allorchè ricavavano dalla vita sociale il soggetto che li aveva prima commossi e poi spinti a riflettere. Insomma dovrò estrarre io, se sono capace, il concetto condensatosi nell'organismo dell'opera d'arte, e rimuginarmelo senza che il romanziere o il drammaturgo abbiano a fermarmi a ogni po' e picchiarmi la spalla con un:—Bada! Qui sotto c'è un gran pensiero; bada!—
In questo senso, ogni grande opera d'arte è un simbolo: se non che divien tale spontaneamente, per virtù della propria natura intellettuale. Ma appunto per questo ella conserverà tutti i suoi caratteri particolari di tempo, di luogo; sarà prettamente italiana, prettamente francese, prettamente inglese, tedesca, russa o non sarà opera d'arte. Il cosmopolitismo invece toglie via, o tenta di toglier via, tutti i caratteri particolari, e per ciò intende ridurci al simbolismo forzato, al simbolismo artificiale.
Prendo i due scrittori che mi è piaciuto mettere in riscontro nella questione dello stile, il Verga e il D'Annunzio, per non uscire di casa nostra. Tutti e due hanno un concetto filosofico, scientifico che serve di sostrato anzi di lievito alle loro creazioni.
Nella serie dei Vinti, della quale abbiamo per ora soltanto due episodi—avremo il terzo fra poco—il Verga vuol studiare le diverse fasi della lotta pel benessere nella vita, e interessarsi specialmente dei deboli che restano per via, dei fiacchi che si lasciano sopraffare, dei vinti che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, dei vincitori di oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi di arrivare e che saranno sorpassati domani. Dalla lotta per i più umili e più urgenti bisogni materiali, si andrà in su fino a quella elevatissima pei bisogni dello spirito, dove tutte le bramosie, tutte le vanità, tutte le ambizioni umane si condenseranno e diverranno più dolorose per la intensità acquistata lungo la loro corsa vertiginosa.
Il romanziere ha dovuto esporre il suo concetto fin da principio perchè non poteva presentare tutt'a una volta la intera serie e non voleva correre il pericolo di essere frainteso o non capito.
Ma appena ha terminato di esporlo, astrattamente, da pensatore, da sociologo, non ne ha più fiatato. Ha preso i suoi personaggi e li ha mandati pel mondo: povere creature per le quali una barca e un carico di lupini travolti dalla tempesta divengono disastro irreparabile; creature agitate dall'avidità di arricchire, di elevarsi oltre la propria condizione, e che incontrano nella stessa avidità e nella stessa ambizione soddisfatte il loro inevitabile gastigo. E queste creature si chiamano Padron 'Ntoni, Alessi, Zi' Crocifisso, Piedipapera, Mena, Maruzza, la Zuppidda; si chiamano Mastro Don Gesualdo, don Ninì, i fratelli Trao, la baronessa Bianca Trao; e tutte hanno il loro carattere spiccato, la loro individualità, nelle passioni, negli atti, nel linguaggio; e sono di quel piccolo scoglio di Aci Trezza, di quella cittaduzza siciliana della provincia di Catania, e ne incarnano così stupendamente i modi di sentire e di pensare, che non possono essere scambiate con persone di altre provincie neppure nella stessa Sicilia.
Un senso di gran malinconia e di tristezza scaturisce dalle pagine di quei due volumi, ma quale scaturirebbe dalla diretta impressione, se quei personaggi e quelle azioni ci si fossero presentati, nella realtà, sotto gli occhi. Certamente, personaggi ed azione sono simboli, velami di idee; ma simboli vivi, che ignorano la loro qualità di simboli, e non si analizzano da per loro e non si spremono da per loro per cacciar fuori il succo del concetto che sanno di contenere.
Il D'Annunzio vuol rappresentare _stati d'animo dei più complicati e più varii, di cui analista si sia mai compiaciuto da che la scienza della psiche è in onore. Egli tende l'orecchio alla voce del magnanimo Zorathustra e vuol preparare con sicura fede l'avvento dell'__Uebermensch__, del Superuomo._ E sta bene. L'un concetto vale l'altro. Sia la darwiniana lotta per la vita, sia la pessimista e aristocratica filosofia del pensatore tedesco finito miseramente in un ospedale di matti, alla quale il D'Annunzio mesce l'idea pagana del Rinascimento e l'entusiastico culto della bellezza del corpo umano, non importa. Quel che importa di vedere è se gli stati d'animo astratti siano divenuti persone, individui della tal città, della tal provincia; eccezioni, rarità quanto si vuole, ma rarità, eccezioni che debbono fare il miracolo di incarnare più schiettamente, più vigorosamente il carattere della razza, del paese dove son nati, perchè l'eccezione e la rarità consistono in questo.
Io prendo in mano le Vergini delle Rocce e tento di scorgere questa rarità, questa eccezione organica, e non la trovo. Claudio Cantelmo ragiona, analizza, si esprime con lingua e stile elevatissimi; non sa muovere un dito senza distillare tutte le conseguenze più riposte e più misteriose di quella mossa; non può osservare le mani di una ragazza, senza che esse non gli sembrino come ricettacoli d'infinite forze innominate da cui potevano sorgere meravigliose generazioni di cose nuove. Ed eccolo invasato dall'idea di creare il tipo supremo dell'italiano, anzi il futuro Re di Roma!
Dobbiamo supporre che questa persona, a cui sembra non sia ignota nessuna conquista della scienza positiva odierna, non intenda creare un essere umano con mezzi e modi diversi da quelli stabiliti dalla natura. Infatti non si rivolge al crogiuolo del chimico che crea, con sintesi, le sostanze organiche, per chiedergli di anticipare il miracolo scientifico preannunziato dal Berthelot; ma va in cerca di una sposa, di colei che dovrà essere l'eletta cooperatrice nella nobilissima impresa della reale generazione. Se non che, col pretesto che nelle razze di antica origine sangue, nervi, cervello siano necessariamente più raffinati, Claudio Cantelmo va a cercare la madre del futuro re di Italia in una famiglia, principesca, sì, ma composta di idioti, di pazzi, di nevrotiche, di isteriche. E non giudica a prima vista che di quelle tre ragazze estenuate, vissute lontane dalla società, nessuna potrà concorrere a formare la fibra nuova, vigorosa del rigeneratore del regno d'Italia; e va tastoni, ed esita e non arriva a decidersi.
È forse creatura umana Claudio Cantelmo? Diciamo pure, se così si vuole, che sia un simbolo. Diciamo pure, con l'amico Rod, che le tre vergini Massimilla, Violante, Anatolia rappresentano non so quali altri simboli più reconditi e più profondi di quello di Claudio. I lettori spassionati confesseranno che queste tre preraffaellitiche figure li colmano di vivo piacere soltanto quando, di tratto in tratto, accennano di diventare o diventano persone vive; e che più viva di loro è la loro madre, la pazza principessa Montaga, la quale non ha missione, a quel che sembra, di rappresentare simbolo alcuno.
Le bellezze, i lenocinii dello stile, caro Ojetti, risultano cosa molto secondaria, mera esteriorità, quando non diventano cosa organica con quel che costituisce la essenza della forma in un'opera d'arte.
E il cosmopolitismo è costretto a rifarsi con la retorica—diciamo francamente la parola—rinunziando, per partito, al carattere particolare che dovrebbe imprimere in ogni opera d'arte la razza, la tradizione, il genio di ciascun popolo.
I grandi intendimenti filosofici, scientifici, si riducono a lustre, a ciarlatanerie per chiappare il momentaneo favore del pubblico, se poi non riescono a creare persone vive. Omero, Shakespeare, Balzac, che avevano reni solide per la bisogna creativa, non andavano tanto per le vie traverse: mettevano al mondo creature immortali, non vuote parvenze. Ed Elena e Andromaca e Nausica daranno, fino alla fine dei secoli, da pensare e da discorrere più di qualunque nostro simbolo moderno; e Amleto ha fatto e farà scervellare filosofi e scienziati più che non abbia fatto e non possa fare una persona realmente esistita; e Madame Marneffe, e il Barone Hulot, e il Pére Goriot e il Cousin Pons, perchè creature vive, iscritte con inchiostro indelebile nel registro dello stato civile dell'Arte, si prestano compiacentemente a fare da simboli con Elena, con Amleto, con tutti gli altri loro pari. E come no, se l'opera d'arte è pensiero condensato in una forma viva, il quale può benissimo venir di nuovo ridotto alla sua primitiva essenza di puro pensiero?
—Ma il cosmopolitismo non l'ho inventato io!—può dirmi l'Ojetti.—È un fatto storico contemporaneo. Io lo accetto; perchè voglio essere del mio tempo, perchè sono giovane, perchè il mio cervello affollato di concetti filosofici, scientifici, non può funzionare più, come nelle età infantili, barbariche, da pura immaginazione e gingillarsi con semplici fantasie. Con l'arte nuova noi vogliamo rifare il mondo. =E libro lux=, non ha sentito? ha detto il D'Annunzio. E io non ho creduto d'ingannarmi aggiungendo che l'opera letteraria =Lux= sia appunto la trilogia delle Vergini delle Rocce. La odierna letteratura italiana, o meglio la nostra produzione letteraria è fuori di questo movimento, e quasi non ha ragione di esistere. Per l'avvenire? Ripeto quel che ho scritto nella Revue de Paris: "assai prima che si formi tra noi una letteratura italiana, avremo anche in Italia una letteratura europea."
Ah, egregio Ojetti, io voglio mostrarmi più radicale e più cosmopolita di lei! E siccome una cosa o è quel che dev'essere o non è niente; e siccome un'opera d'arte non può essere altro che pensiero incarnato in una forma viva, così io credo che noi assisteremo in tal caso alla solenne agonia dell'Arte. Troppa riflessione, troppa scienza positiva ci pervade ogni fibra. L'opera d'arte che pretende di usurpare le funzioni della filosofia e della scienza non caverà un ragno dal buco. =E libro lux=, sì, sì; ma questo libro (ed è giusto che sia così) non lo scriverà un artista. Io, per mio conto, mi contenterei che qualcuno dei nostri artisti ci desse—vede come sono poco esigente?—di quando in quando, in Italia, un nuovo Don Abbondio!
Amen.
IV.
Ugo Ojetti mi manda ed io pubblico volentieri:
LA DIFESA DI EMPEDOCLE
(Lettera aperta a Luigi Capuana)
Amico mio, come ella sa, un suo conterraneo il filosofo Empedocle d'Agrigento, stanco di operar miracoli e di discutere sui quattro elementi, quattrocento anni prima di Cristo si gettò a capo fitto nel maggior cratere dell'Etna per assicurarsi tra gli increduli fama divina.
Secondo quel che narrano i suoi tre cortesi articoli, io che sono un poco filosofo ma non ho operato miracoli mai, mi sarei gittato dall'alto della Revue de Paris nella ardente voragine del Cosmopolitismo (la parola è tutta sua, non è mia) proprio per acquistarmi un po' di fama tra gli increduli che in Italia sono molti.
…Deus immortalis haberi Dum cupit Empedocles ardentem frigidus Aetnam Insiluit.
Ora, per mostrare ai suoi lettori che ancora son vivo e non mi son bruciato manco un capello, mi permetta di risponderle qualche parola.
Io credo—questa è la mia impressione concisamente e francamente—che i suoi tre articoli che si chiudono con un deprofundis all'Arte vinta, mutilata, asservita dalla scienza positiva, sarebbero stati non solo giusti, ma profetici, per lo meno quindici anni fa, quando per Arte si intendeva l'Arte naturalista, materialista Zoliana (la chiami come vuole), quell'arte che in Italia apparve vestita da siciliana nel Mastro don Gesualdo, nei Malavoglia, e—perchè non dirlo?—nelle sue Paesane.
Adesso, amico mio, le sue idee su l'arte—perchè noi in questa discussione tocchiamo proprio i culmini dell'estetica—hanno contro di loro i fatti compiuti, e non solo compiuti ma constatati da filosofi come il Guyan, come il Brunetière, come il Fouillée, come il Gosse, come l'Hennequin, e anche come il Tolstoi: fatti compiuti e constatati dagli stessi avversarii. Ieri, quando è giunto qui nel mio eremo d'Umbria il suo ultimo articolo, mi giungeva pure il Rome che Emilio Zola mi mandava da Parigi. E per lei che è stato ed è uno dei capi dei naturalisti italiani (in fondo son tutti capi e tutti siciliani, loro naturalisti) quel solo libro nell'intenzione e nel fatto deve valere più di tutte le mie argomentazioni. Non è vero?
Questo periodo è suo; Come lo Zola disse della letteratura francese: Sarà naturalista o niente, l'Ojetti oggi dice dell'italiana: Sarà simbolista o niente, o meglio: " Sarà cosmopolita o niente ".
I due termini del paragone, lasciando stare per comodità di discussione la gigantesca altezza dell'uno e la piccola statura dell'altro, non si corrispondono affatto, malgrado quel suo o meglio il quale mostra che ella stesso scrivendo non li trovava molto adatti alle nozze. Prima di tutto io nego recisamente di aver mai parlato di simbolismo, una parola che ormai ha troppi sensi e quasi tutti falsi, e a prenderla nel senso in cui l'hanno presa Emile Verhaeren, Henry de Regnier, Ferdinand Herold, Francis Vielé-Griffin e leur critique à tous Remy de Gourmont dovrebbe significare puramente l'individualismo nella genesi e nell'effetto dell'opera d'arte: un significato che, come ella vede subito, fa ai pugni con quel cosmopolitismo di cui ella vorrebbe in vece fare un sinonimo di simbolismo.
Ella poteva dire invece semplicemente Idealismo, e il paragone avrebbe filato via come due paranze in pesca unite da una sola rete.
E l' Idealismo appunto io, con le mie forze tutte se pure poche, ho venti giorni fa difeso nel mio discorso di Venezia su L'avvenire della letteratura in Italia, il quale non è (come ella pensa) la ripetizione del mio articolo su la Revue de Paris, ma dice molte altre cose che—credo—anche i sunti telegrafici dei giornali hanno cortesemente ripetute.
Dunque Idealismo, e niente Simbolismo.
* * *
E anche niente Cosmopolitismo se lo si ha da intendere come lo intende lei. L'universalizzarsi dell'arte—non nella forma che è e deve restare nostra e sarà anzi per il suo tradizionale senso di misura e per la sua tradizionale nobiltà il segno in cui noi italiani vinceremo nella ventura giostra mondiale—è un fatto che si è constatato dopo che si sono viste opere come quelle di Tolstoi, di Dostojewski, di Maeterlink, di Ibsen, di Björnson, di D'Annunzio, di Fogazzaro passare i confini di Stato e di lingua, appassionare gli stranieri più lontani, rivelar loro qualche nuovo significato della Vita, aiutarli a intendere il senso della Vita, il problema dell'Anima, a cui nè i contadini di Malavoglia, nè i signorotti dei Vicerè, nè i bruti delle Terre avevano mai pensato o potevano mai pensare.
Invece ella, parlando del Cosmopolitismo in arte, pare che creda che ognuno dei Cosmopolitisti (questa parola per fortuna non è nè sua nè mia) quando deve scrivere una pagina o disegnare un quadro o tentare su la tastiera un accordo, si dica, bevendo prima un bicchierino di Kûmmel in omaggio ad Hauptmann e accendendo una sottile sigaretta russa in omaggio a Tolstoi:
—Oh adesso facciamo un'opera cosmopolita!
Ma no, amico mio! La questione non è di forma, non è di adottare un'allegoria doppia invece di una immagine piana, non è di imitare un po' i francesi, un po' i russi, un po' i portoghesi, un po' i norvegesi perchè quel miscuglio piaccia a tutti loro. Con questo metodo i frati francescani fanno qui in Umbria la misticanza, una insalata fresca arguta e deliziosa che contiene trentatrè erbe diverse. Ma con questo metodo non si fanno libri, o quadri, o musiche.
Quando invece di guardare fra tre persone presenti ciò che le distingua le une dalle altre, un baffo più o meno folto o un occhio strabico o un tic nervoso, si cercherà oltre le loro apparenze quel che l'anima loro ha di più profondo e quindi di più comune e quindi di veramente umano (in questo senso io dissi umano là dove voi mi citate, non nel senso di pietoso o di socialistico ), allora scrivendo, si farà un'opera che interesserà e commoverà tutte e tre quelle persone. Allarghi il conto, e verrà l'arte cosmopolita che le fa fare il segno della croce.
Certo per ciò è necessario di essere idealisti, di cercar di sorprendere al di là dell'occhio oscuro o chiaro l'anima, la tenue timida anima che solo ai credenti si rivela, perchè, se ella si fermerà all'esterno o anche dei fenomeni psichici farà un macchinismo e osserverà solo quelli più prettamente legati alla carne, allora l'opera sarà vana, sarà un permesso di caccia coi tratti caratteristici dei varii personaggi, non sarà un libro dell'anima.
Ella per persone vive intende quelle mirabilmente disegnate dal verismo del Verga, ossia persone che siano quelle e non altre e non confondibili con nessuna altra. E ha ragione. Io (dovrei dir noi, ma mi sembrerebbe anche più orgoglioso e mi contento della mezza misura d'orgoglio contenuta in quell' io ) intendo per persone vive non astrazioni, non nuvole grige e mutevoli a ogni vento, non fantasmi lividi che spariscono alla luce d'una candela, ma tipi (e qui in un certo specialissimo senso ella potrebbe—col Guyan e col Brunetière dire simboli ) dove ogni uomo ritrovi qualche sentimento, qualche pensiero suo, dove ogni uomo ritrovi una qualche immagine fraterna, dove ogni uomo ritrovi l'anima sua compresa come una goccia d'acqua è compresa nell'infinito mare.
Amico mio, buon amico mio, perchè discutere? Perchè parlar di D'Annunzio o di Verga, di Eugenio de Castro di Edouard Rod? Ma quando un libro piace a lei nel suo bello studio arioso fra gli scaffali eguali ed eleganti e piace a me quaggiù nella mia villetta fiorita di rose e di lillà, è che ella ed io ci commuoviamo, sentiamo o pensiamo, non guardando persone vive sì ma indifferenti, disegnate benissimo, scolpite benissimo ma estranee, ma ritrovando invece dentro quella scrittura, fra quelle righe qualche cosa di noi, qualche cosa che è in noi come è nelle persone finte dello scrittore, qualche cosa anzi che è in noi ed è anche nello scrittore. E di tutti i libri oggettivi, ontologici, positivisti del Verga, dello Zola, del Bourget, dell'Hervieu, quelle sole pagine sopravviveranno dove, malgrado loro, per una fatale incosciente trasgressione alle loro teorie pseudoscientifiche, essi avranno messo un po' d'anima, un po' d'anima loro. Ho torto?
Questa differenza essenziale, non formale, spiega perchè il Verga malgrado sia stato tradotto dal Rod non sia stato compreso in Francia. Al più poteva avere un successo di curiosità come rarità esotica come siciliano. Il confronto che ella fa fra il successo del D'Annunzio e l'insuccesso del Verga si ritorce contro di lei, così, facilmente.
E per lasciar questi due nomi che potrebbero far supporre al pubblico che ella ed io difendessimo gli amici più che gli autori, guardi il successo del Daniele Cortis di Antonio Fogazzaro, e me lo spieghi. Lì non c'è nulla (io non lo trovo nemmeno altrove dove ella lo trova così prontamente) di questo gergo cosmopolita, di questo aggettivare convenzionale. Lì son persone di carne e d'ossa, perdio: ma dentro la carne e dentro l'ossa hanno un'anima profonda come un abisso e come un sereno.
Lasci agli Stecchetti e alle Argie Sbolenfi la convinzione che l'arte idealista sia un'accozzaglia di trionfale, imperiale, ducale, minerale. Ella sia con noi, che siamo forse pochi ma siamo nuovi e giovani e abbiamo davanti a noi tale una via lunga, che ai nostri occhi ansiosi essa sembra in fondo all'orizzonte confondersi col cielo.
In quella prefazione del Trionfo della morte lasci un po' stare il Cenobiarca e il magnanimo Zarathustra e legga in principio quell'aspirazione a "un ideal libro di prosa moderno che sembrasse non imitare ma continuare (qui è la differenza fra sua teoria estica e la mia) la natura, libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sè creata con tutti i mezzi dell'arte letteraria la particolar vita—sensuale, sentimentale, intellettuale—di un essere umano collocato nel centro della vita universa".
Ella non guarda e non vuol guardare che a riprodurre la vita; per noi l'arte è una vita superiore, è un eccesso di vitalità e di gioia cosciente (adesso è nientemeno Alfredo Fouillée che parla); a noi l'arte deve dare la coscienza di un massimo di energia con un minimo di sforzo ma non nella nostra sensibilità soltanto ma anche nella nostra intelligenza e nella nostra volontà. Questo, la natura e tanto meno l'imitazione della natura non ci sa dare.
L'arte agonizza? E la scienza positiva l'ha ferita a morte? Ma dove? Ma come? Ma la scienza positiva sta troppo giù per giungere a ferire fino a lassù. E in questi giorni in cui Ferdinando Brunetière mostra in un discorso mirabile La Renaissance dell'Idéalisme, in questi giorni in cui Melchior de Vogue studia lo spiritualismo di Pasteur e di Claude Bernard, in questi giorni in cui lo Zola, il vostro Zola pubblica Rome, in questi giorni in cui Maeterlink mostra ansioso Le Réveil de l'Ave, ella mi annuncia che l'arte agonizza? Eh via, amico mio!
E allora perchè ella ci promette Il marchese di Roccaverdina e Verga il terzo volume dei Vinti? Parleranno da oltre tomba, loro due, se è lecito.
* * *
Credo che, dopo questa difesa, mi sia inutile dire che non certo le parlo della presente letteratura d'Italia "con una modestia che confina col disprezzo." Sono parole sue, nel primo articolo.
Ma però due piccole spine mi voglio levare dalle mani due spine che senza sangue mi si son confitte nella pelle cercando gli sterpi fra i fiori delle sue tre critiche.
La prima spina sta nella frase: "Tutto questo l'Ojetti, lo sa meglio di me, ma non ha voluto tenerne conto… Scriveva per una rivista francese…" Scusi, scusi, amico mio; ma in Italia o in Francia io scrivo solo quello che penso; e a Venezia ho detto su l'inesistenza di una comune anima italiana e su la divisione morale e intellettuale che è fra le razze italiane e su la turpe invasione della piccola politica in ogni più sana terra d'Italia, cose che stimo vere e che domani scriverei in Francia con le stesse ardenti parole.
E la seconda spina sta nella frase: "Io accetto il cosmopolitismo perchè voglio essere del mio tempo, perchè sono giovane."—E anche questa spina punge la mia sincerità e me la tolgo e la gitto via. Io constato il cosmopolitismo non lo difendo; io difendo solo l'idealismo e non perchè sia di moda, ma perchè risponde meglio al concetto che dell'arte mi son fatto dopo aver molto studiato e libri e pitture e musiche e filosofie. E, se sbagliassi, a tutto ella dovrà dare la colpa del mio errore, meno che alla mia sincerità, o (errore accettissimo!) alla mia gioventù! Se la frase "Mi vanto d'esser giovane" non chiudesse un nonsenso, sarebbe davvero da gridarla ai quattro venti a testa alta, vedendo quel che i vecchi hanno fatto della patria.
E qui vorrei mostrarle la terza spina, ma non mi punge e la lascio dov'è. Sa che intendo? Quell'idea di riunire l' internazionale cui aspira il socialismo, all'arte cosmopolita cui molti scrittori aspirano. E se fosse? Certo è che on n'etouffe pas le feu avec de la paille.
A lei sarebbe dispiaciuto che io non avessi chiusa la mia difesa con un po' di francese.
Una stretta di mano sinceramente affettuosa dal suo
San Giacomo di Spoleto, 13 maggio 1896.
__Ugo Ojetti.__
Ah, caro Ojetti! Dopo la sua risposta, io credo di avere più ragione di prima.
La sua difesa poggia tutta sopra tre o quattro equivoci. Cosmopolitismo no (la prego di credere che questa parola non l'ho coniata io; si trova nei vocabolari della lingua italiana); Simbolismo, no; parola che, secondo lei, ha troppi sensi e tutti falsi. Idealismo! Se non è zuppa è pan molle. Vede? Io ragiono d'arte e lei mi risponde picche, cioè filosofia.
Una delle due: o l'arte nuova, l'arte anzi dell'avvenire, si deve ridurre a trattati più o meno astratti di psicologia individuale, e allora non capisco perchè se n'abbiano a fare dei drammi e dei romanzi; o quel tal concetto psicologico individualista deve prendere forma incarnandosi in una o più persone, e allora non capisco la sua commiserazione per le persone vive mirabilmente disegnate dal verismo del Verga. Non sono forse creature umane anche quelle, quantunque nate negli infimi gradini della scala sociale? Non soffrono, non amano, non odiano, non appetiscono in modo che ogni uomo vi possa ritrovare qualche sentimento, qualche pensiero suo, una qualche immagine fraterna, e anche l'anima sua compresa come una goccia di acqua è compresa nell'infinito mare?
Può darsi che m'inganni, ma io suppongo che loro idealisti siano diversi da quelle povere creature soltanto perchè la buona sorte, l'accidente e la volontà e i facili mezzi di cultura li hanno posti o fatti salire parecchi scalini più in su di esse.
Hanno pure un ideale quelle povere creature, che è certamente il nucleo, la prima forma dell'ideale umano, ma non disprezzabile, non trascurabile, no, se è vero che niente sia trascurabile e disprezzabile nello studio di questa multiforme umanità.
E quelle creature sa perchè io le chiamo persone vive? Non perchè sono esteriori, disegnate mirabilmente, ma perchè sono nello stesso tempo esteriori e interiori; perchè ogni loro parola, ogni loro atto rivela uno stato d'anima—passione, calcolo, brutalità, sentimentalità—e non già per indicare, come segno algebrico, il tale o tal'altro principio psicologico che passa pel capo dell'autore, ma perchè proprio continuano nel libro la Natura, perchè proprio portano in sè creata con tutti i mezzi dell'arte letteraria la particolar vita sensuale, sentimentale, intellettuale, di esseri umani collocati nel centro della vita universa, come vuole il D'Annunzio nella prefazione-programma da lei citata. Questo bel programma (accenniamolo di passaggio) il Verga nè altri hanno stimato opportuno metterlo in fronte a un loro libro; gli sarebbe parso d'insultare i lettori, supponendoli così ignoranti da non sapere cose elementarissime. Non le pare? I programmi bisogna lasciarli imbastire ai signori provveditori delle scuole. Gli artisti devono metterli in atto; e il lor dovere d'artisti, perchè, come diceva il buon marchese Colombi:
Le accademie si fanno o pure non si fanno.
—Noi creiamo dei tipi!—dice lei.
Peggio per loro. Il tipo è cosa astratta: è l' usuraio, ma non è Shylock; è il sospettoso, ma non è Otello; è l' esitante, il chimerizzante, ma non è Amleto, e via via. Potrei facilmente moltiplicare gli esempi; ragionando con lei, basta un semplice accenno.
Dei tipi? Ma tutta la letteratura moderna è la negazione di questo principio estetico classico, già sorpassato; lo afferma involontariamente lei stesso quando parla d' individualismo. L'arte, sissignore, oggi crea (quando riesce a crearli) individui non tipi. L'artista moderno si è convinto—e a questo convincimento l'ha indotto la scienza—che ogni creatura umana è un mondo a parte, immensamente ricco, immensamente vario, quasi altrettanto infinito quanto l'universo.
L'arduo, il difficile sta nel penetrare, nello scrutare quell'abisso e illuminarlo con la viva luce dell'arte.
Con lei, filosofo, posso anche permettermi certe formole metafisiche, e aggiungere: ogni individuo è il pensiero umano sotto una data forma particolare di carne, sangue, ossa, che è quanto dire di sensazione, di immaginazione, di riflessione. Il mondo non esiste e forse non può esistere altrimenti che con quella forma. L'ideale dell'albero, dell'animale, dell'uomo non l'ha visto nè lo vedrà mai nessuno; ma questo o quell'albero, sì; ma questo o quell'animale, sì; ma questa o quella creatura umana, sì. Dell'ideal mondo ragionino a lor posta i filosofi, che fanno bene ad astrarre; è il loro mestiere. Il mestiere dell'artista è l'opposto. Ogni artista dovrebbe poter dare la stessa risposta del Goethe a chi gli domandava qual concetto filosofico avesse egli inteso adombrare col Fausto:—Oh, io non son uso di poetare astrattezze!—
Dei tipi! Ma le creature dell'arte diventano tipi da per loro, per intima virtù propria, quando riescono persone vive; e rivelano (senza volerlo, aggiungo io) nuovi significati della Vita, e problemi dell'Anima. E questo fanno—mi dispiace di doverla così apertamente contraddire—anche i contadini dei Malavoglia e i signorotti dei Vicerè. Non ci hanno pensato e non potevano mai pensarlo costoro —qui lei ha ragione; ci pensavano però, per conto di essi, il Verga e il De Roberto che li hanno creati di sana pianta, con lungo lavoro di osservazione e d'immaginazione e non con semplice meccanismo fotografico. D'immaginazione sopra tutto, dopo che il materiale, penosamente e diligentemente raccolto, si è organizzato nella loro fantasia e si è individuato in quei tali personaggi. Il nuovo ideale della Vita, il nuovo problema dell'Anima—tutte e due con l'iniziale maiuscola, come lei le scrive—sono stati precisamente le forze che hanno spinto quegli artisti a creare.
Per questo tutto è condensato, tutto è concentrato, tutto è visto di scorcio nella loro rappresentazione narrativa. Nella realtà non è così; ed ecco in che modo l'Arte riesce ad essere una Natura più elevata, più purificata, idealizzata, come direbbe lei e come dico pure io.
Nel Verga quel suo particolar ideale prende un senso di commozione, di pietà; nel De Roberto, diventa un atteggiamento di ironia contenuta, di spietata crudezza: senso e atteggiamento che s'intravedono, che s'indovinano tanto meglio, quanto più i personaggi e i loro atti, e i loro sentimenti sono esposti oggettivamente, e quanto meno si scorge che tali atti e sentimenti abbiano qualche relazione col pensiero individuale dell'autore.
E questo, caro Ojetti, è individualismo, è idealismo dei più schietti e dei più sinceri. E quando io dico che nel D'Annunzio ciò non avviene, o avviene a intervalli, sì che l'organismo dell'opera d'arte ne soffre, non intendo biasimare l'elevatezza del concetto che vorrebbe informare i Romanzi della rosa e i Romanzi dei gigli. Intendo dire che vorrei meno rose e meno gigli sul frontespizio, meno programmi nelle prefazioni, e più creature vive nel testo; vive in quel loro ambiente elevato, aristocratico, filosofico, ideale, se le pare che così possa dirsi.
Le scrivo da quell'alta scrivania che lei sa, con attorno quei bei scaffali che le è piaciuto ricordare, a la smagliante luce di questo bel giorno di maggio che invade il mio studio dalle sue quattro finestre. E negli scaffali posso scorgere da qui, in volumi dalle coperte pergamenate, Platone, Hegel, e Guyau, e Fouillée, e Tolstoi, e Dostojewski, e Maeterlink, e Ibsen, e Björnson, e il mio Zola, come lei dice con sottile ironia, e i miei Verga e De Roberto—questo lo dico io e ne sono orgoglioso—e il suo D'Annunzio che, se me lo permette, è un tantino anche mio, lei lo sa. (Gli ho letti e studiati e li rileggo e li ristudio anch'io; non li ho comprati soltanto per ornarne gli scaffali). E sul rotondo tavolino di mezzo, veggo il Rome dello Zola mandatomi dall'autore, e che aspetta che io lo rilegga per intero, perchè ne ho letto saltuariamente parecchi capitoli nelle appendici del Journal e della Tribuna.
Eh, no, caro Ojetti—e questo non mi sembra il minore dei suoi equivoci—no, quel romanzo non è per me un argomento di dimostrazione in favore delle mie teoriche.
Da un critico arguto come lei e sdegnoso di ripetere pappagallescamente le opinioni degli altri, io non mi aspettavo di sentirmi dire che sono stato e sono uno dei capi dei naturalisti italiani. Mi ha tirato in ballo e perciò sopporti che io parli di me.
La mia meraviglia le parrà vanità, orgoglio e peggio. Essa suppone che lei abbia letto tutte le cose mie, dai Profili di donne, mio primo libro, al Drago libro di novelline per bambini e al Raccontafiabe. Convenga però che io mi meraviglio con ragione, sapendo quanto lei sia coscienzioso nei suoi giudizi.
Io naturalista? Ma quando e perchè?
Perchè quasi vent'anni fa ho dedicato un mio romanzo allo Zola? E in che modo, di grazia, le mie Paesane, concepite e scritte con metodo che si può dire l'opposto da quello usato dallo Zola, debbono appartenere allo zolismo travestito da siciliano? E le mie Appassionate e le fiabe del C'era una volta… e il Raccontafiabe (ho torto credendole opere d'arte?) e Profumo sono dunque tutti zolismo mascherato? Davvero?
Un critico francese, (mi sia concesso quest'impeto di vanità che sarà il primo e l'ultimo, glielo giuro) un critico francese, anni fa, scriveva di me: La nature extérieure n'est pour lui come elle est pour beaucoup d'autres, la gran tout dont l'homme n'est qu'une parcelle, qui le domine, qui lui impose ses sensations, qui tyrannise sa volonté—décor immense dans lequel se fond tout le théâtre. Loin de là, il la voit et la laisse au second plan.—L'homme seul lui paraît digne d'intéret… N'est-il pas plaisant de constater cette indifférence pour le monde matériel chez un écrivain auquel on a attaché l'étiquette de réaliste? E conchiude: M. Capuana est bien plus près de nier la réalité du monde extérieur que celle de la personnalité humaine. Volontiers il s'écrierait avec le poète:
En spectacle pompeux la nature est féconde, Mais l'homme a des pensées bien plus grandes que le monde.
( Édouard Rod, Études sur le XIX siècle, pag. 179).
Ho citate queste parole perchè non contengono lodi, ma affermano un fatto. E le ho citate perchè a me, supposto uno dei capi dei naturalisti italiani, sembrano esattissime.
Ed ecco perchè il Rome dello Zola non mi servirà a rinforzare le mie teoriche, ma mi servirà a combattere le sue. Il Rome è la più splendida dimostrazione della mia fede, ma in senso negativo: è un romanzo dove il concetto astratto non è riuscito a prendere forma vitale. Non ostante l'etichetta naturalista, il Rome è un romanzo eccessivamente idealista, e per questo, secondo me, sbagliato di sana pianta. Tenterò di dimostrarlo fra qualche giorno, appena avrò rilevato gli altri equivoci della sua difesa di Empedocle.
Ed ora, un'ultima parola. Non abbia timore; a proposito del Verga e del D'Annunzio, non si potrà sospettare che lei ed io volessimo difendere più gli amici che gli autori. Soltanto gl'imbecilli potrebbero creder questo, e non dobbiamo curarci degli imbecilli. Io sono amico del D'Annunzio quasi quanto lei; e metto il quasi per indicare il grado d'intimità, perchè dovrei dire: più di lei, se volessi badare agli anni. Lei era certamente un bambino, quando io passavo molte belle ore assieme con lui, con lo Scarfoglio, con Giulio Salvadori, col Fleres e parecchi altri, nell'antico e modesto caffè Aragno, che non aveva gli ori e gli specchi dell'attuale ma era più simpatico assai.
Lei m'invita:—Sia con noi, che siamo forse pochi, ma siamo giovani e abbiamo davanti a noi tale una via lunga che ai nostri occhi ansiosi essa sembra in fondo all'orizzonte confondersi col cielo.—
Ma volentieri, caro Ojetti; se non che oggi, in questa discussione, veda stranezza! mi sembra che il vecchio sia lei e il giovane sia io… non d'anni, ahimè! ed è la sola cosa che mi dispiace.
V.
E per non fare una discussione campata in aria, mi permetta di tornare su le Vergini delle Rocce e specialmente su Claudio Cantelmo.
Non badiamo all'esteriore, lei dice, ma a quel che l'anima nostra ha di più profondo, di veramente umano.
Siamo d'accordo. Voglio credere però che lei non arrivi fino al punto di negare che quest'anima umana abbia una qualche piccola relazione col corpo che la riveste, col corpo che si è creato, direbbe un egheliano, col corpo che le è stato creato e nel quale è stata infusa, direbbe un tomista. Voglio credere che lei non arrivi fino al punto di negare che l'anima nostra possa rivelare quel che ha in sè di più profondo e di più umano altrimenti che con le azioni, col carattere, con le passioni; e non solitaria, ma in relazione con altre anime rivestite di corpo al pari di essa. Voglio credere finalmente, che lei non arrivi al punto di negare che c'è una logica severa a cui le volizioni e le azioni dell'anima nostra debbono necessariamente conformarsi, anche nell'errore; e che, tanto nella vita quanto nell'opera d'arte, la creatura umana la quale si mette a un'impresa con mezzi disadatti al suo intento è da giudicarsi o pazza o imbecille, o per lo meno non sana. In questo caso è inutile parlare d'ideali, se pure non si voglia dimostrare, come afferma il proverbio, che dal detto al fatto corre gran tratto.
Il concetto che agita la mente di Claudio Cantelmo, non c'è da ridire, è idealissimo: Creare o rifare quell'aristocrazia dell'intelligenza che operi e pensi per conto delle plebi umane, e le foggi a sua immagine e le costringa, con la forza materiale e spirituale, a realizzare un'alta idea di virtù e di bellezza!
Corbezzoli!
Se non che cotesto idealissimo concetto è vecchio quanto il mondo. La natura, la società, dalle prime albe della creazione finora, non hanno fatto altro che incessantemente incarnarlo a traverso tutte le varie accidentalità e vincendole sempre. La storia è il registro immortale degli immani sforzi, dei dolorosi travagli, delle gloriose vittorie dello Spirito lungo il corso dei secoli: ed ella ha ancora molte e molte pagine bianche dove registrare altri sforzi, altri travagli, altre vittorie nei secoli avvenire, fino a che questo nostro sistema solare non si sarà estinto nello spazio.
E neppure allora lo Spirito, umano o divino che si voglia dire, morrà. Noi abbiamo coscienza netta e ferma che egli ricomincerà da capo le sue lotte e le sue vittorie. Ha l'infinito davanti a sè, nello spazio e nel tempo. Altro che la via lunga, che sembra confondersi in fondo all'orizzonte col cielo, dei giovani idealisti come lei!
Si metta ora una mano su la coscienza e risponda a questa mia interrogazione:
—È creatura viva Claudio Cantelmo? È almeno creatura equilibrata, sana, da poter dare l'illusione che essa continui nelle pagine del libro le pagine della vita?
Se l'autore avesse voluto farne un Don Chisciotte dell'ideale aristocratico, non fiaterei più. Ma questa intenzione satirica non trasparisce da nessun rigo o mezzo rigo del volume. Il D'Annunzio ha anzi sfoggiato pel suo protagonista una magniloquenza epica di stile ammirevole davvero e di cui egli solo è capace; magnificenza troppo monotona forse, e qua e là un po' bolsa, che fa pensare di tratto in tratto a la figura della pazza principessa Aldoina Montaga da lui così ben descritta: "La carne del mento s'increspava su i monili ond'era cinto il collo. E quella enormità pallida e inerte mi risuscitò nell'immaginazione non so qual figura sognata di vecchia imperatrice bizantina, al tempo d'un Niceforo o d'un Basilio, pingue ed ambigua come un eunuco, distesa in fondo alla sua lettiga di oro".
E tanta magniloquenza il D'Annunzio l'ha sfoggiata appunto perchè gli è parso di mettersi così all'unisono con la magnificenza della sua creatura, con la romulea grandiosità dell'ideale di essa.
Dov'è qui il tipo? Intendo dire la creatura umana viva, che, se sa quel che vuole, sappia egualmente come attuare la sua volontà con mezzi umani, nella società dove il caso l'ha fatta nascere e dove le è forza di vivere e di agire? Claudio Cantelmo intende forse la società che lo attornia? Da pensatore idealista, qual vuole mostrarsi, capisce forse quel che c'è di passeggero, di accidentale in essa? Indovina forse quale virtù vivificante la pervade intimamente, nascostamente? Sospetta forse che il dominio di certe forze sfugge alla più forte volontà umana, e che è assoluta stoltezza soltanto pensar di infrenarle e regolarle? Quelle, appunto, della generazione. Carlo Bonaparte e Letizia Ramorino a tutt'altro badavano, procreando, che a plasmare il prossimo imperatore dei francesi, il rimescolatore della nuova Europa.
—Il futuro re d'Italia! Il geniale tiranno che dovrà ristorare la razza italiana ed elevarla " al più alto splendore di sua bellezza morale!"
Ma, se occorrerà pure, cotesto genial tiranno l'istinto della razza saprà probabilmente cavarlo fuori da qualche ignoto grembo di ben costituita creatura popolana e infondergli l'anima grande e il vastissimo intelletto, meglio assai della covatrice artificiale di Claudio Cantelmo! E lo metterà fuori al momento opportuno, come ha fatto sempre, e ultimamente fra noi creando Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele per altro non meno nobilissimo e santissimo scopo.
Se queste cose le so io, che non sono idealista e pensatore del calibro di Claudio Cantelmo, a più forte ragione avrebbe dovuto saperle lui, se fosse stato davvero persona viva.
Mi sono ora espresso a bastanza chiaro, perchè non possa più esser frainteso allorchè parlo di persone vive, e perchè non abbia a sentirmi attribuire la sciocchezza che unicamente le persone materiali, esteriori debbano in arte stimarsi vive? Mi pare di sì.
Ed ora eccoci a un ultimo equivoco.
Io le ho detto: l'Arte agonizza perchè la riflessione e la scienza la uccidono. Non me la son cavata dal mio cervello questa sentenza di morte. La storia letteraria universale ci dimostra come la riflessione e la scienza vadano di mano in mano falcidiando le forme artistiche, peggio che non facesse Tullio Ostilio coi famosi papaveri. Dove sono più l'epopea e la tragedia? Qualcuno arriva oggi a domandarsi, e in Francia: Dov'è mai più la commedia?
Lei mi risponde citando la Renaissance de l'Idealisme del Brunettière, gli studi del visconte De Vogüe intorno allo spiritualismo del Pasteur e di Claudio Bernard, e Le réveil de l'Âme del Maeterlink. Ma chi le ha mai negato che lo spiritualismo rinasca? E chi ha osato mai insinuare che non faccia bene a rinascere? Lei sa benissimo che spiritualista sia io; ne abbiamo ragionato insieme, e a lungo, mesi fa.
Avrebbe potuto meglio rispondermi: Morta una forma d'arte, ne vien fuori subito un'altra; non c'è più il poema, ma c'è il romanzo; non c'è più Shakespeare, nè Molière, nè Goldoni, ma ci sono l'Ibsen e, meglio, i drammettini del Maeterlink a proposito del quale si è fin parlato di Shakespeare redivivo.
— Eh, via, amico mio! —Mi conceda di ripetere le sue parole.
In quanto poi a quel che resterà o non resterà di certa produzione letteraria moderna, è meglio lasciar là la profezia. Chi ne può saper niente? Il futuro è pieno di sorprese. Nessuno degli autori da lei citati si è mai figurato che tutta la sua produzione o gran parte di essa arriverà ai lontani nepoti sana e piena di vita; ognuno di loro si stimerebbe fortunato se uno solo dei suoi romanzi, una sola delle sue novelle contenesse in sè tanta virtù da conquistare l'immortalità.
E questo può dirsi tanto dei naturalisti quanto degli idealisti; e sa, caro Ojetti, perchè? Perchè l'avvenire è giusto, tardo nel giudicare talvolta, ma imparziale. Lo avvenire non dirà agli scrittori che han lavorato per esso (questa illusione è necessaria a tutti ):—Su, fuori la tessera di etichetta. È naturalista lei? È idealista?—Si occuperà soltanto di vedere se mai qualcuno di loro abbia o no fatto opera d'arte, indipendentemente di qualunque filosofia, di qualunque positivismo scientifico, di qualunque concetto aristocratico e plebeo. E riporrà nel Panteon delle creazioni immortali soltanto quella che avrà più vigorosamente incarnato l'ideale concetto dell'opera d'arte.
Terribile cosa, caro Ojetti!
E pensare che Omero e Dante e lo Shakespeare non sapevano niente di realismo e d'idealismo e d'altri consimili ismi! E intanto han messo al mondo quelle cosettine che si chiamano Iliade, Odissea, Commedia, Otello, Amleto, Re Lear!
Infine, si ricordi che io ho parlato di agonia non di morte dell'Arte. C'è ancora molto spazio di tempo per loro giovani pieni di fede e di buona volontà. All'opra dunque e:
Viscottu, ventu 'mpuppa e barca lesta!
come dice un poeta vernacolo mio concittadino. Lei non dubiterà, spero, della sincerità di quest'augurio.
LA CRISI DEL ROMANZO
I.
Ragioniamone poichè ne ragionano tanti altri.
Dunque il romanzo moderno è malato, e i dottori che si affollano attorno al suo letto, e fanno la diagnosi del male da cui è abbattuto e che ne minaccia l'esistenza, non ci sanno ancora dir niente di chiaro su la soluzione della crisi.
A dar retta alla gente, questo povero romanzo moderno è una creatura infermiccia, o uno di quegli organismi facili a prendere ogni malattia. Dev'essere però anche un organismo molto resistente, se di tratto in tratto sentiamo dire che ha lasciato il letto, che sta benissimo e che va pel mondo vispo e allegro, roseo e ringiovanito, quasi non fosse mai stato malato in vita sua.
Tempo fa aveva avuto un accesso di romanticismo; febbre a quaranta gradi, allucinazioni, delirio!
Un dottore disse:
—È bello e ito! Se gli si potrà somministrare una buona dose di naturalismo e di sperimentalismo, forse, chi sa!…
E quella specie di chinino infatti fece il miracolo.
Il malato non solamente si rimise in salute, ma ingrassò tanto che non sembrava più lui. Qualcosa però gli si era guastato nel cervello; da bravo figliuolo, onesto, morigerato e col timore di Dio, che era prima era diventato assiduo frequentatore di bettole e di donnacce; sbraitava canzoni oscene, e nelle conversazioni si lasciava scappare di bocca sconcezze di ogni sorta, senza badare alle ragazze e ai bambini che si trovavano presenti. Alla fine, bevi, bevi, una sbornia oggi, un'altra domani, rieccolo all'ospedale, col delirium tremens!
—Ben gli stia!—diceva la gente pulita.—Lasciatelo morire; meglio per lui e per noi.
I dottori intanto volevano sperimentare non so qual nuovo rimedio trovato allora allora dalla scienza; tentare non nuoce, specialmente quando il male è assai grave; e tentarono. Iniezioni sottocutanee di psicologismo in tutte le parti del corpo: non gli rimase un centimetro di pelle intatta dalle punture della siringa Pravaz. E il delirium tremens fu vinto.
Il malato uscì dall'ospedale, riprese le sue faccende; ma era così mutato di carattere da riconoscersi a stento. Non più canzoni oscene, non più bettole, non più donnacce; aveva un sacro orrore del vino e delle bibite alcooliche; mostrava un'eccessiva affettazione di vestir bene, di frequentare l'alta società, misurato nei gesti, gentilissimo nelle maniere, e un po' ammalinconito. Per cose da nulla si scrutava dentro, faceva lunghi esami di coscienza; voleva indagare il perchè di ogni suo sentimento, di ogni suo atto, e farlo sapere a tutti, con cert'aria dottorale che spingeva la gente a guardarlo in viso. Dapprima, la novità di vederlo trasformato in quel modo lo aveva reso interessante; ma, a lungo andare, quei suoi sproloqui, quelle sue divagazioni divennero insopportabili. Non era cosa naturale. Si capì che il rimedio lo aveva guarito, sì, del delirium tremens, ma gli aveva inoculato un male peggiore.
Se non era stato molto divertente con le sue sconcezze e con le sue sbornie, con la prosopopea psicologica era mortale addirittura. E poi, gonfiava, gonfiava, quasi la siringa Pravaz, assieme col psicologismo, gli avesse introdotto sotto la pelle molt'aria. Dovevano vederselo, un giorno o l'altro, crepare davanti agli occhi come una vescica troppo tesa? E lo ricondussero all'ospedale.
Ed è lì ancora, non dico tra la vita e la morte, ma seriamente malato. I dottori, se sono concordi intorno alla diagnosi dell'attuale malattia, non vanno punto di accordo intorno al rimedio da somministrare. Chi propone una cura ricostituente di idealismo o di neo-cattolicismo; chi sciroppi di simbolismo e anche di lirismo. Speriamo che s'intendano finalmente tra loro, e che non accada quel che dice il proverbio: Mentre i medici si accapigliano, il malato muore.
* * *
Una relazione, molto accurata e molto ben fatta, delle varie malattie del romanzo moderno ho letto in questi giorni in una promettente rivista napoletana;¹ la conchiusione è questa:
¹ La rivista contemporanea, anno 1, N. 1. La crisi del romanzo di __Raffaele Gioffredi__.
"Dal crudo naturalismo, che già pare definitivamente abbandonato e dall'idealismo assoluto, contro cui si ribella la coscienza scientifica dei nostri tempi, pare che l'arte disorientata e pur imperiosamente necessaria alla vita moderna, si raccolga in un'atmosfera di superiorità aristocratica. Già in tutta l'arte contemporanea si osserva la tendenza ad una obbiettivazione sempre crescente dei suoi fini; non forse dal sentimento che l'arte debba essere la cultura di ogni elemento di bellezza, debba prolungare l'intima necessità del sogno, deriva tutta la fortuna di cui gode presentemente la musica e la poesia che ha temperate le ali dei ritmi a delle idee musicali?
"E così quando un artista vorrà narrare agli umani, ad alleviare in loro la stanchezza della vita vissuta, qualche superbo suo sogno, scriverà un'opera dove tutte le essenze della bellezza saranno rivelate ad occhi mortali, e vi palpiterà dentro l'eco di un mondo affascinante, e ne sorgeranno in uno splendore di aurora imagini di forza, di grazia, di armonia.
"Questo sarà il romanzo dell'avvenire: un poema che si servirà d'una prosa più nitida del marmo, più fluente di qualunque regale corrente di acqua, più complessa e più varia dei cieli notturni. Aspettiamone l'evento."
Aspettiamo pure. Intanto, poichè il malato non ci sente, discutiamo del suo male.
Ho un'idea un po' stramba e la voglio dire.
Io credo che il preteso malato sia uno di quegli organismi così bene impostati da poter campar cento anni.
Ha un difetto: dà troppo retta ai consigli dei medici e si rovina la salute.
Quando i dottori credono che egli abbia la febbre tifoidea del romanticismo, prendono un abbaglio; scambiano per tifoidea una semplice febbricciuola di crescenza, e rischiano di ammazzarlo con le loro grosse dosi di naturalismo e di sperimentalismo.
Ingrassa, alza il gomito fuor di misura, si perde dietro le donnacce, parla sboccato? Dio mio! C'è da meravigliarsene? Bisogna pure che la giovinezza si scapricci e si sfoghi; non si è mai savii a venti anni. Che delirium tremens ci andate contando! Qualche scossettina di nervi; eh, via! Passerà. Le persone ragionevoli avrebbero detto così; ma fate capir questo ai dottori!
— Psicologismo ci vuole! Serietà! Non siamo per niente nel secolo della scienza positiva!
Ed ecco come l'hanno conciato, povero diavolo!
Ebbene: se lo lasciassimo stare un po' tranquillo? Se gli permettessimo di seguire liberamente gli impulsi del suo istinto, della sua natura? Se invece di parlargli di ricostituenti idealisti o neo-cattolici, di sciroppi simbolistico-lirici, ci risolvessimo a dirgli:
—Su, caro amico, vivi, agisci come ti pare e piace; mangia quel che meglio ti garba, quel che più si confà col tuo stomaco, e non dar ascolto a nessuno? Scommetto che il povero romanzo contemporaneo non farebbe più guadagnare neppure un soldo ai medici e agli speziali, e andrebbe attorno sano, bello, vigoroso come madre natura lo ha creato, con gran piacere di lui e di tutti noialtri.
* * *
Smettiamo il parlar figurato, ragioniamo seriamente.
Che ha da spartire il romanzo con la filosofia, con la scienza, con la religione? Dopo la mala prova del romanzo sperimentale escogitato dallo Zola, avremmo dovuto capirlo.
Già io non credo che lo stesso Zola abbia mai preso sul serio la sua ricetta. Aveva bisogno di un motto, di una bandiera per mettere in vista l'opera sua; e, trovatasi tra le mani la Scienza sperimentale di Claudio Bernard, visto l'esempio del Taine che adattava, forzandoli un po', i criterii delle scienze naturali alle belle arti e alla letteratura, immaginatosi che un romanzo opera di arte e di scienza sarebbe stato certamente una bella novità, imbastì in fretta e in furia la teoria del romanzo sperimentale e la predicò ai quattro venti.
La novità c'era, senza dubbio, ma non era precisamente quella da lui bandita; non consisteva nel dimostrare per mezzo della finzione artistica un principio scientifico, ma piuttosto nell'assimilarsi il metodo di osservazione, dentro i limiti, s'intende, consentiti dall'indole e dalla natura dell'opera d'arte; anzi la precisa novità si riduceva alla coscienza più chiara, più categorica, del dovere dell'artista di dare al suo lavoro un fondamento di osservazione diretta e nel lasciare ai fatti, ai caratteri, alle passioni la loro piena libertà di azione, senza mescolarvi i suoi particolari criterii: insomma nell'imitare proprio la natura, che mette al mondo le creature e le abbandona a sè stesse e al giudizio della società.
Tale cosa era avvenuta, da un bel pezzo, nel teatro; lo Shakespeare aveva praticato quel metodo in modo supremo.
Si trattava in fine di metterlo in pratica anche nel romanzo. Non era facile. Occorreva un genio per lo meno uguale a quello del gran tragico inglese, istintivo, incosciente come lui; e la Natura non si era trovata, chi sa perchè, in caso di crearlo. Ma un'opera di arte ha più genio di tutti gli artisti presi insieme; e il romanzo, visto che il suo uomo tardava a comparire, si è risoluto a tentare parecchie prove parziali, più meno estese, più o meno riuscite, pur di raggiungere, in un modo o in un altro, il perfezionamento del suo organismo. E l'ha raggiunto.
Una cosa però è il romanzo, e un'altra i romanzieri; non dobbiamo confonderli. E non si deve credere che l'organismo di un'opera di arte sia qualcosa di astratto, perchè ha bisogno, per manifestarsi, di particolari incarnazioni nelle particolari opere di questo o di quell'artista. Niente di più reale di questa creduta astrattezza che dà forma e realtà a migliaia di opere di arte, le quali rappresentano, come direbbero i metafisici, tutte le possibità di essa, e avranno ancora molto da fare prima di giungere ad esaurirle.
I romanzieri naturalisti o sperimentalisti che si vogliano dire, mettevano in atto, esagerandola, come accade sempre, una di queste possibilità, e anche svisandola. Un'opera di pensiero—giacchè la immaginazione è una forma inferiore del pensiero—non può non risentire le influenze dell'ambiente in cui viene alla luce. Correvano i bei tempi del naturalismo scientifico, del positivismo, e sarebbe stato assurdo pretendere che i romanzieri potessero fare a meno di servire ai loro lettori pietanze materialiste e positiviste. Ma lo sbaglio lo commetteva loro, non il Romanzo. Il Romanzo li lasciava fare perchè ci aveva il suo tornaconto. I romanzieri confondevano il concetto materialista col metodo positivo: e intanto che essi commettevano l'imbroglio, il Romanzo però si serviva anche del metodo, lo metteva in evidenza, lo faceva insensibilmente penetrare nella loro coscienza; ed essi, non accorgendosi del tiro che veniva lor fatto, continuavano a ciarlare a tutto spiano di naturalismo di positivismo, di verismo, di sperimentalismo e simili teoriche, le quali hanno poco o niente che vedere con l'arte.
In un certo paese di questo mondo, la questione è stata capita dirittamente; i novellieri e i romanzieri di quel paese non hanno infatti parlato di naturalismo o di sperimentalismo; e poichè pareva occorresse che mettessero fuori una bandiera anche loro, per avere un segno attorno a cui raccogliersi durante la mischia, inalberarono il vessillo del verismo, il quale accennava particolarmente più al metodo che non alla materia di cui l'arte loro si serviva.
E in quel tale paese c'è stato qualcuno che ha applicato il metodo con rigore straordinario, raggiungendo quasi di primo acchito il limite oltre il quale l'opera d'arte, se imprudentemente vi si avventura, perde la sua caratteristica, diventa qualcosa di ibrido, d'infecondo, e corre pericolo di rimetterci la pelle.
Ma di quel povero paese e di quel tale qualcuno io non voglio neppur fiatare, per paura di sentir dire che voglio vantare i tagliatelli di famiglia.
E poi, non è passata in cosa giudicata che la letteratura narrativa italiana non conta niente? Siamo noi stessi i primi a proclamarlo dai tetti; e il voler ora insinuare che essa abbia qualche valore può sembrare aberrazione. Zitti, dunque!
Il povero romanzo contemporaneo vorrebbe comportarsi da indifferente con tutte le materie d'arte, materialismo, psicologia, idealismo, misticismo, neocattolicismo; ma inutilmente egli grida:—Sono Romanzo e tale voglio restare, unicamente romanzo, unicamente opera d'arte!—Nessuno gli bada.
Il bello poi è che i critici e il pubblico se la prendono con lui; quasi che il colpevole sia proprio lui e non i romanzieri mezzi artisti e mezzi scienziati, esseri neutri che non appartengono per ciò nè alla scienza nè all'arte; quasi che i critici non abbiano contribuito e non contribuiscano ogni giorno, dal canto loro, a ingarbugliare la matassa, a confondere i critici degli artisti e del pubblico.
Il Romanzo non c'entra per niente in questa baraonda. Egli non vorrebbe far altro che cavar fuori creature vive da qualunque materia; metterle al mondo con la stessa varietà, con la stessa prodigalità della Natura, ma superiori a quelle della Natura, perchè non soggette alla schiavitù delle contingenze e alla fatalità della morte. Qualunque sia lo stato sociale, quali che siano i sentimenti, le passioni, le opinioni politiche, le credenze religiose, le convinzioni scientifiche dei personaggi, il Romanzo vorrebbe riprodurre non il meccanismo ma proprio la funzione normale o anormale di quegli elementi così disparati, nel loro cuore, nella loro mente e quindi nei loro atti e nella complicazione di questi…
Ma forse lo lasciano liberamente agire?
E in questa opera d'impedire al povero Romanzo ogni naturale movimento, critica e pubblico sono così accecati, da non capire neppure gli scherzi che il Romanzo si permette, allucinandoli di tanto in tanto, facendoli andare in visibilio dietro apparenze di nuove forme, come è accaduto ultimamente coi romanzi russi.
II.
Bisogna innanzi tutto metter fuori di causa il publico, come dicono i legali. Egli legge, riceve impressioni, e non discute; o, se discute, ragiona senza sofistiche sottigliezze di scuole e di metodi, e sopratutto non confonde mai, o raramente, il concetto con la forma. Ne abbiamo uno stupendo esempio in Italia.
Nel più bel tempo della nostra letteratura politica, quando la lirica, la drammatica, il romanzo erano avvisaglie, scaramucce, battaglie contro la dominazione straniera e l'influenza clericale, appaiono inattesamente i Promessi Sposi. Il pubblico non si cura dei lombardismi, nè del concetto di rassegnazione cristiana che i critici vi scoprono; gli basta l'opera d'arte e lascia dire. Il Manzoni risciacqua in Arno la sua prosa; i critici, chi lo loda, chi gli rimprovera di aver guastato lo stile del suo romanzo: il pubblico gusta di più in più l'opera d'arte, e lascia dire. Viene il Settembrini e scomunica i Promessi Sposi come lavoro reazionario, appunto quando si gridava da ogni parte: O Roma, o morte! Per ammazzare qualunque altro romanzo, ci sarebbe voluto meno assai. Il pubblico sorride alla tirata dell'onesto patriotta, e continua a leggere i Promessi Sposi e ad ammirarli sempre più.
E quando un altro professore avea messo in un mazzo il Guerrazzi e il P. Bresciani, cioè il diavolo e l'acquasanta, il pubblico non si era scandalizzato e gli avea dato ragione. Gliela aveva anzi data anticipatamente, cominciando a lasciar da parte le Battaglie di Benevento, gli Assedii di Firenze, le Beatrici Cenci come armi già inservibili, da riporre nei musei per gli storici e per gli archeologi dell'avvenire.
Mettiamo dunque fuori di causa il pubblico.
Ecco là un francese, critico di professione, che vuole spiegarsi il fenomeno dell'entusiasmo prodotto in Europa dai romanzi russi.
Quel critico è un ingegno sottile, e conosce benissimo la letteratura romanzesca del suo paese. Infatti egli scorge subito che le crisi di coscienza, le lotte dell'anima per affrancarsi dall'oppressione dei pregiudizi e delle convenzioni sociali sono concetti di antica data: tutta la produzione francese della metà di questo secolo n'è riboccante, dall'Hugo e dalla Sand al Balzac, al Flaubert e allo Zola. Egli crede per ciò, e mi servo delle parole della relazione citata, "che tutto il patrimonio di sentimenti e d'idee, di cui i romanzieri russi han dato per così dire la rifazione in una forma nuova, passando per più vergini spiriti, arricchitosi di quelle speciali visioni e concezioni che ogni razza porta nella vita e nella storia, è parso un mondo affatto originale e diverso da ogni altro".
Ho sottolineato io le parole: forma nuova per notare che il critico si è ingannato. Neppur quella forma è nuova: o meglio non era più così nuova, come egli immagina, al tempo della sua prima rivelazione all'Europa. I romanzieri russi, quei due o tre romanzieri russi che sono davvero grandi artisti, avevano soltanto fatto sviluppare, per istinto più che per riflessione, il germe della impersonalità artistica, che è la più alta conquista del romanzo contemporaneo, il compimento assoluto del suo organismo. Necessità naturale, se mentre i romanzieri russi la mettevano in pratica senza anticipatamente discuterla, veniva discussa e messa in pratica nello stesso tempo in altri paesi di Europa e in Francia specialmente, quantunque per via indiretta, cioè col pretesto di voler ridurre il romanzo a una specie di succursale della scienza.
Il clamoroso successo dei romanzi russi non è provenuto soltanto dai concetti di crisi di coscienza, di lotte dell'anima, o dalle speciali visioni della razza dei loro autori, ma dal rigoroso metodo di osservazione e dalla straordinaria sincerità con cui era adoperato. Tanto è vero che, passata la prima impressione prodotta dall'esoticismo, le opere di quei due o tre romanzieri non hanno perduto niente, son rimasti dei capolavori. Per la stessa ragione tutta la fungaia degli altri romanzieri russi rivelata dopo è rimasta in seconda, in terza linea, anche in Francia, non ostante che la politica si sia mescolata un poco all'entusiasmo letterario. E per la stessa ragione le imitazioni, i rifacimenti, i riporti in diverso ambiente di quei concetti e di quei sentimenti non hanno attecchito. A questi altri romanzieri russi e agli imitatori manca la genialità, manca la coscienza della forma; non sono veri artisti, non sono sinceri. Il Gogol, il Tolstoi, il Dostojewscki concepivano anime e corpi russi, creature vive, e non si curavano di altro. I loro concetti, i loro sentimenti non riuscivano a manifestarsi senza la solidità della forma. Il giorno che uno di loro, il Tolstoi, preso da aberrazione religioso-umanitaria, non ha più creduto sufficiente quella forma per esprimere il suo pensiero, ha rinunciato al romanzo; ed ha fatto bene. Tutti coloro che vogliono esprimere puramente un concetto dovrebbero imitarlo; facciano dei trattati, delle conferenze, degli opuscoli, delle prediche magari, ma non si servano del romanzo. La forma, cioè la creatura viva, è assai più complessa del pensiero astratto. È del tal luogo, del tal tempo; ha troppe relazioni di eredità, di parentela, di condizioni politiche e sociali; troppe fatalità di vizii, di virtù, di passioni da poter essere l'espressione limpida e chiara di un concetto astratto. E quando quella creatura viva si è impossessata dell'immaginazione dell'artista non si lascia più guidare o comandare; lei comanda e guida, lei agita, sconvolge, imbroglia e scioglie a modo suo gli avvenimenti, senza che l'artista possa disubbidirle, se non vuole venir meno al suo dovere e cessare di esser tale.
Ora, se un critico fine e arguto come il Lemaitre non ha veduto chiaramente questo, è assurdo pretendere che abbia a vederlo il pubblico che non fa il mestiere di lui e dei suoi colleghi, e non ha obbligo di farlo. Sono anzi costoro che gl'imbrogliano il cervello, classificando, distinguendo, creando specie e sottospecie, generi e sotto-generi di romanzo, secondo i concetti più o meno abilmente trovati e messi in voga dai cercatori di novità, dai propugnatori di tesi.
Classificando a questo modo, si può andare all'infinito; e si capisce come un critico, quello prima citato, trovi da far le meraviglie per l'affermazione del Verga, che si possa scrivere un romanzo mistico con una forma naturalistica. Tutt'al più, egli avrebbe potuto dire che il Verga non è stato preciso, e che invece di naturalistica avrebbe dovuto dire meglio: impersonale. Intendeva appunto dir questo: e forse l'accusa d'imprecisione è una meticolosità. Il Verga, che come artista sa il fatto suo, capisce benissimo che un romanziere ha l'obbligo di dimenticare, di obliterare sè stesso, di vivere la vita dei suoi personaggi. E se tra essi c'è un mistico, il romanziere deve sentire e pensare come lui, non ironicamente, non criticamente, ma con perfetta obbiettività, lasciando responsabile il personaggio di tutto quel che sente e pensa. In questo senso il romanziere non deve avere nessuna morale, nessuna religione, nessuna politica sua particolare, ma penetrarle e intenderle tutte, spassionatamente, almeno per quanto è possibile. Con questo mezzo soltanto egli potrà mettere al mondo non fantocci, non manichini vestiti con una o con un'altra foggia, atteggiati in una o altra maniera, ma creature libere, viventi nella elevata serenità dell'atmosfera artistica, veramente ideali, cioè veramente conformi all'idea. Con questo mezzo soltanto egli non dovrà stillarsi il cervello a proporsi tesi e risolverle, che è quanto dire tentar di fare opera vana a cui non basta la stessa scienza; può risolvere casi parziali, perchè ogni individuo è un mondo a parte, la qual cosa significa tutt'altro che risolvere una tesi.
I romanzieri di nascita, i vari artisti hanno istintivamente orrore della tesi. Niente è più mutabile del punto di vista da cui il pensiero umano, progredendo, guarda una tesi. La pretesa soluzione di oggi diventerà ridicola o assurda domani. Far dipendere la vitalità dell'opera d'arte dal valore problematico di una tesi è introdurre nell'organismo di quella un elemento di corruzione e di morte. Giacchè la tesi è astrattezza, e per risolverla l'artista dovrà forzare, falsare la realtà, adattare caratteri, passioni, avvenimenti a uno scopo prestabilito, fare insomma opera artificiale o artifiziosa, il rovescio di un'opera d'arte.
I lavori d'arte di questo genere, quando sono produzione di un uomo d'ingegno, possono abbagliare per un po' di tempo, fare qualche rumore, ma alla fine svaniscono come ombre e non lasciano rimpianti. Potranno qualche volta interessare il psicologo, il psichiatra, e anche i curiosi di stranezze simili a quelle dei decadenti neo-cristiani.
Il nostro critico giudica così questi neo-cristiani: "Dove trovare in costoro il sincero sentimento del cristianesimo che rappresentò lo spostamento dell'ideale umano da qualche cosa d'insito alla vita stessa in un mondo ultra sensibile? Che vuoto quindi in questa tendenza letteraria! Il disfacimento dei suoi ideali si può constatare nell'Huysmans, uno dei più nuovi suoi rappresentanti. Nel suo romanzo En route, in cui è descritta la crisi di un'anima che si rifugia dalle insidie e dalle suggestioni del mondo entro la fede dei padri, non si scorge la vittoria di questa nuova direzione contro la quale tutte le facoltà umane, passionali, carnali del protagonista si ribellano con una violenza inaudita; e si può dire che quel misticismo vi rappresenti un dilettevole esercizio retorico, una novità da réclame."
E il critico ha ragione per questa ultima parte: ha torto, chiedendo la vittoria della nuova direzione. Non avrebbe dovuto chiedere altro all'infuori della più grande sincerità possibile nello studio di quel caso particolare.
Ed esprimendo il voto, l'augurio per la forma futura del romanzo, egli non avrebbe dovuto accumulare, nelle poche righe citate da principio, tante astrattezze e contraddizioni che sono infallibile indizio della nebulosità e della inconsistenza del suo concetto. Chiamiamo pure superbo sogno il futuro romanzo. Ogni opera d'arte, su per giù, è un sogno ad occhi aperti; e, se si vuole, chiamiamolo anche simbolo, perchè ogni opera d'arte non è la realtà ordinaria, ma la realtà immaginata, lavorata dalla fantasia, purificata, idealizzata. Ricordiamoci però che i vocaboli hanno un significato ben definito, e che l'adoperarli senza le dovute cautele può condurci a conseguenze funeste.
Il simbolo è opera d'arte primitiva. In esso il concetto, per speciali condizioni, non ha avuto tempo di condensarsi compiutamente nella forma; è rimasto trasparente; o, per condizioni ancora più speciali, si è prestato a divenire trasparente senza sua colpa.
Prendiamo per esempio il mito di Psiche. Nella narrazione di Apuleio, Psiche non è ancora l'Anima, è una fanciulla come tutte le altre. La riflessione se ne è impossessata e ne ha cavato fuori qualcosa che poteva esserci o poteva benissimo adattarvisi; e da allora in poi, la forma, già inizialmente condensata, si è venuta sempre più sempre più assottigliando. La fanciulla di Apuleio infatti è divenuta un'astrazione nel poema del Laprade, cioè lo Spirito umano, che per la sua curiosità e per la sua smania dell'ignoto, viaggia attraverso la civiltà, a traverso le religioni, e si adagia finalmente in un panteismo indefinito. Pare un progresso ed è una decadenza. Non c'è più la semplice creatura, nè il suo concetto; a traverso la creatura scorgiamo il concetto, e quel po' che rimane della creatura sminuisce il concetto.
Prendiamo Prometeo. È dapprima un uomo, o un semideo. Nella trilogia eschiliana è una specie di gigante profeta. La riflessione vi ha lavorato attorno ed è già divenuto il pensiero umano in lotta con la potenza teocratica, con Dio stesso; nè l'essere stato quasi confuso con Satana è la minore delle sventure che siano capitate a quella creazione primitiva. Primitiva fino a un certo punto, poichè le concezioni jeratiche non possono dirsi proprio primitive.
In ogni modo il simbolo è creazione ibrida. Non è assolutamente opera d'immaginazione, nè assolutamente opera di riflessione. Noi abbiamo varcato questo punto intermedio; abbiamo dato all'opera d'arte la sua completa libertà, il suo perfetto organismo. Voler tentare un'opera d'arte dove l'immaginazione deve per forza creare esseri ibridi, è impresa di persone che sconoscono la natura dell'opera d'arte.
Se intendiamo dire con questo che l'opera d'arte ha terminato la sua funzione, diciamolo pure; ma io non so se diremo una verità. Certe quistioni bisogna lasciarle distrigare all'avvenire.
Restringiamoci al romanzo, che non è poi l'opera d'arte assoluta. Sarà un superbo sogno, dice dunque il nostro critico. E sia. Ma perchè dovrà vestirsi di una prosa più nitida del marmo? Più fluente di qualunque reale corrente di acqua? Più complessa e più varia dei cieli notturni? Io confesso di non arrivare a intendere queste belle metafore.
Il romanzo, probabilmente, superbo o umile sogno, se vorrà e potrà rimanere romanzo, avrà la prosa che più converrà al suo soggetto. Questa prosa non esisterà per sè stessa, ma pel soggetto; e sarà tale da non potersi affatto scindere da esso. Sarà forma nata in un parto con lui; sarà anzi talmente lui, da impedire che si possa fare distinzione fra essa e lui.
Il romanzo, probabilmente, se vorrà e potrà rimanere romanzo, non si metterà a servizio di questa o quell'idea, di questo o quel sistema; continuerà a sviluppare il suo organismo adoperando sempre meglio il metodo impersonale, divenendo sempre più nazionale, anzi sempre più regionale, per dare alle sue creazioni la stessa varietà e ricchezza delle creazioni della Natura.
E allora non si parlerà più di crisi nè di malattie ma di pienezza di salute; e i suoi medici potranno andare a riporsi, e i suoi speziali chiudere bottega.
Tanto, è inutile; neppur volendo, giungeremo ad ammazzarlo con le discussioni e gli intrugli critici. Ha la pelle dura il nostro amico. E quando sarà pieno di anni—è giovanissimo ancora—chi sa che sorpresa sarà capace di farci?
Io ne ho un vago sospetto, e un giorno o l'altro forse lo confiderò in un orecchio ai miei buoni lettori. Se mi ingannerò, peggio per me. Infine ho detto sospetto; non ho la pretensione di voler fare il profeta.
ROMANZI E NOVELLE
I.
GABRIELE D'ANNUNZIO
Un'opera d'arte è un problema di rapporti numerici di cui la scienza comincia già a intravedere la soluzione. Gli elementi che la compongono si aggregano nella fantasia dell'artista per l'affinità elettiva che è in tutte le cose della natura, materiali o spirituali. Si aggregano non è la parola propria; bisogna dire: si organano. Attorno a una prima quasi impercettibile sensazione comincia spontanea la fermentazione creativa, l'assimilazione, lo sviluppo, precisamente come per gli esseri viventi; e quella sensazione, al pari della cellula iniziale, domina l'intero processo, stabilisce quasi a priori la natura, il carattere, l'individualità più o meno notevole di un'opera d'arte.
Gabriele D'Annunzio è sotto il fascino dei grandi romanzieri russi, Tolstoi e Dostoïevsky. I suoi recenti lavori, Giovanni Episcopo e l' Innocente si risentono di quel fascino. C'è tanto e tanto però da ammirare in essi, che lo studiare come e fin dove l'influsso di quei romanzieri abbia ora aiutato ora mortificato (più mortificato che aiutato) le originali qualità dell'ingegno del D'Annunzio, sarà una non comune maniera di rendere omaggio all'artista valoroso, ancora in lotta con sè stesso e con le impressioni delle creazioni altrui, e forse (non paia superbia l'accennarlo) uno spingerlo verso la fine della sua ben avviata rinnovazione.
Dico questo perchè il D'Annunzio non sembra avere precisa coscienza di quel che avviene dentro di lui da qualche anno in qua. Nè c'è da meravigliarsene; la coscienza critica è una cosa molto diversa della coscienza artistica. Egli confessa infatti il proprio disgusto di tutta la sua opera passata, che chiama vacua e falsa; e subito soggiunge che non sente "ancora in sè l'agitazione dell'opera futura nè la coscienza del nuovo potere." Questo è già molto per un ingegno come il suo così riccamente dotato dalla natura.
A proposito del Giovanni Episcopo, scrive: "La persona del protagonista era stata da me osservata e studiata con intensa curiosità due anni innanzi…… Ma il raro materiale raccolto con la possibile esattezza era rimasto grezzo in alcune pagine di note. Una sera di gennaio, sfogliando quelle note in un attimo, come nel bagliore di un lampo, vidi la figura dell'uomo; non la figura corporea soltanto, ma quella morale, per non so qual comprensiva intuizione che non mi parve promossa soltanto dal risveglio repentino d'uno strato della memoria, ma dal segreto concorso di elementi psichici non riconoscibili ad alcun lume di analisi immediata. (Sottolineo io queste parole.) Mai avevo assistito a un più alto e più spontaneo miracolo dell'intelligenza, alla perfetta riconstituzione d'un essere vitale nello spirito d'un artefice repentinamente invaso dalla forza creatrice."
Ingenuo stupore di fronte a un fenomeno così naturale e così ovvio, come altrettanto ingenua risulta la formola che egli ne ricava: Bisogna studiare gli uomini e le cose __direttamente__, senza trasposizione alcuna.
Il suo Giovanni Episcopo e l' Innocente serviranno a dimostrare che l'osservazione diretta può avere, anzi ha certamente un gran valore scientifico, ma che in fatto d'arte è di un'utilità molto dubbia. L'opera d'arte è forma vivente. Le note, le osservazioni, l'analisi accumulate non bastano per loro stesse a produrla. Quel materiale disgregato e sminuzzolato dev'essere invaso dalla scintilla creatrice della forma che agisce casualmente, inconsapevolmente, misteriosamente, senza che mai a l'artista riesca di dirigerla a piacere.
Le note, le osservazioni possono spesso venir raccolte in occasioni, in tempi e luoghi diversi, con nessun preconcetto di servirsene per un determinato lavoro; e il vedere poi in che modo esse si siano fuse, messe a posto, e abbiano preso talvolta enorme sviluppo, e si siano rimpicciolite tal'altra, adattandosi mirabilmente alle armoniche necessità della forma, non è il minore dei piaceri con cui l'artista vien compensato dei duri travagli della propria creazione.
La facoltà della forma è innata; nessuno studio, nessuna volontà umana può darcela. Non intendo dire con questo che tale facoltà non abbia bisogno di educazione; questa stessa educazione ha però qualcosa d'istintivo, di libero, e mette la sua impronta di originalità anche nelle forme artistiche più perfezionate. Per ciò noi, a traverso le diverse opere d'un autore o di diversi autori, possiamo seguire il cammino d'un genere e notarne il processo di sviluppo; per ciò possiamo scorgerne i parziali tentativi, i brancolamenti, le incertezze, fino al compiuto organamento nel capolavoro d'uno scrittore.
Gli elementi che concorrono all'educazione della facoltà artistica non sono soltanto elementi d'arte, cioè d'immaginazione, ma di riflessione: e questi possono benissimo prendere qualche volta il sopravvento e nuocere all'azione di quegli altri. È il caso che si osserva presentemente in Gabriele D'Annunzio; lo studiarlo con attenzione può giovare a tutti quanti corriamo dietro il luminoso fantasma del romanzo moderno.
* * *
Da un lustro in qua, l'avvenimento artistico più notevole è senza dubbio l'invasione del romanzo russo nella letteratura dei popoli latino-germanici. Mi sembra sciocco chiedere alla politica una facile spiegazione di questo fatto. Il romanzo russo ha per sè stesso tanto valore, da dispensarci di cercare fuori delle sue elevate qualità la ragione del suo gran successo. Suo merito principale è la straordinaria sincerità.
Essa, unita al sapore esotico dei sentimenti, spiega a bastanza la fortuna delle opere del Tolstoi e del Dostoïevsky, gli ultimi venuti e i più poderosi. Alcune righe del Dostoïevsky ci daranno la chiave di questo affascinante nuovo mondo: "Il russo—egli dice in Delitto e Gastigo —è vasto come la sua patria, terribilmente inclinato a tutto quel che è fantastico e disordinato. Grande sventura esser vasto senza un genio particolare!"
Per ciò le creazioni dei romanzieri russi hanno una forte attrattiva per noi. Vi troviamo anime cupe, tormentate da bisogni ideali; caratteri rozzi e potenti, che operano con egual forza il bene e il male; volontà indomite, cuori assetati da strana sentimentalità di soffrire. Esaminati attentamente, tutti quei personaggi non ci sembrano in uno stato normale; qualcosa si è rotto nel loro cervello o non funziona bene. Sono tutti, o quasi tutti, nevrotici esaltati, gente da consegnarsi nelle mani dello Charcot e del Lombroso; persone che piangono volentieri, perchè i loro occhi sono abituati alle lagrime (Dostoïevsky); cuori ai quali ripugnano tutte le ingiustizie sociali che non trovano spiegazione nel loro troppo semplice cervello; anime che sembra si sveglino ora al tumulto del mondo e ne rimangano sbalordite.
Il nostro scetticismo, la nostra corruzione si sentono scossi al loro contatto. Ma non possiamo compenetrarci con loro; differiscono troppo da noi. Il pessimismo stesso che pervade la nuova società latino-germanica è affatto diverso dal pessimismo slavo. Nel nostro ha parte maggiore la riflessione; in quello il sentimento. Inoltre per gli scrittori russi l'opera d'arte non è soltanto opera d'arte, ma di propaganda politica, religiosa, morale, adattata alle circostanze e ai bisogni della loro nazione. Per noi l'opera d'arte è già diventata qualcosa d'indipendente, di meno appassionata, più vicina alla scienza, se si vuole, e quindi più serena; come nella forma è più concentrata, più limpida, più armonica essendo passata a traverso il classicismo greco e latino. Tentando di infondere nell'arte nostra la conturbata sentimentalità russa, noi facciamo opera stolta per più ragioni. Le togliamo il suo carattere, le impediamo di essere lo specchio della nostra società, ne facciamo un lavoro di riflessi, un non senso. E questo, che è grave errore pei tedeschi, gravissimo pei francesi, diventa enorme per noi italiani che non ci siamo ancora assimilati tutti gli elementi nuovi di una civiltà altrove più progredita e che dobbiamo assimilarceli perchè consentanei all'indole della nostra razza, senza perder niente della nostra schietta individualità, che chiamerò romana per farmi intendere meglio.
Il D'Annunzio, per inclinazioni particolari del suo ingegno fine, propenso a sensualità e a passionalità quasi alessandrine, era esposto più d'ogni altro fra noi al pericolo di lasciarsi sedurre dalle qualità del romanzo russo; e vi si è infatti abbandonato, trasmodando. Nel Giovanni Episcopo c'è quasi una ebbrezza del nevrotismo russo, un'incoscienza che non è senza seduzioni, e nelle quali egli fonde così le proprie qualità originali con le qualità altrui, del Dostoïevsky precisamente, che farebbero mal augurare del giovane romanziere italiano, se non fosse venuto fuori l' Innocente a tranquillarci e a consolarci.
Nel Giovanni Episcopo non gli son valse a niente le note raccolte con la maggiore possibile accuratezza. Lo spirito artistico che ha incubato quel materiale non è il suo. Il fatto è dovuto accadergli in un momento di grave conturbazione della facoltà creatrice. Egli non si è nemmeno accorto di ricordarsi, piuttosto che di infondere il suo soffio vitale al personaggio. Se avessi sotto mano quelle note, colui che egli ha battezzato per Giovanni Episcopo e che dice essere stato conosciuto dal suo amico Angelo Conti per la prima volta nel gabinetto d'un medico all'ospedale di San Giacomo; colui ch'egli ha studiato assieme col Conti e col pittore Marius De Maria in una mortuaria taverna di via Alessandrina, dove quegli andava ad annegare nel vino i dolori e le umiliazioni domestiche, oh quanto facilmente potrei dimostrarlo diverso dal personaggio adombrato dall'arte che l'influenza russa ha sofisticata! E questa verità come trasparisce dalle parti del lavoro in cui la rappresentazione della realtà è riuscita, per naturale impulso sincera, per esempio in quelle pagine che descrivono la pensione dove serve Ginevra, e l'episodio di Tivoli dove si decide il destino del povero Episcopo! Pagine ammirabili per trasparenza di forma, per colorito, per evidenza, pagine veramente sue e veramente italiane.
Ma in quella notte malaugurata di gennaio, l'artista lasciò abbagliarsi da un quasi inesplicabile miraggio, inesplicabile per chi conosce le squisite e preziose qualità del suo ingegno. Egli credette di vedersi vivo e parlante davanti gli occhi lo strano personaggio studiato, e l'allucinazione fu così forte da non fargli scorgere che quel Giovanni Episcopo aveva una fisonomia straniera, un accento straniero; che il povero impiegatucolo, il vile soggetto della prepotenza del Wanzer e di Ginevra, balbettava cose imparaticce, sentimenti non suoi, filosofava, divagava come aveva divagato e sentito e pensato un altro fantasma artistico da cui erano state lasciate nell'immaginazione dello scrittore profondissime impronte. Niente di più eccessivamente russo che quel travedimento di un Christus patiens nell'anima abbietta trascritta in quelle note della taverna di via Alessandrina.
—Che ne sai tu?—mi si potrà dire.
Ecco quel che ne so; leggete:
"Ed ora ella è qui, sta bene: m'accosto, la guardo di tratto in tratto; ma domani? Se la porteranno via. E che farò io allora, solo solo? Ora ella è qui, in questa camera, sulle tavole del letto; domani la cassa mortuaria sarà pronta, cassa bianca,… bianca, foderata di seta di Napoli…. Ma non si tratta di questo. Io passeggio, passeggio incessantemente: io voglio comprendere. Son già sei ore che voglio e non riesco a concentrare i miei pensieri sur un sol punto… Passeggio, passeggio incessantemente, per questo non comprendo…. Via, procediamo con ordine; ecco com'è avvenuto…. Ecco, se voi volete sapere, cioè se io comincio dal principio…. Io voglio raccogliere i miei pensieri e non ci riesco…. Ah, ecco i minuti particolari, i più minuti!… Ricordo, sì, ricordo tutto!… Aspettate, signori…. Aspettate. Io, s'intende, non le ho detto nulla della mia beneficenza, al contrario…. Aspettate ancora…. poichè è necessario che io rimescoli questo fango…. Dicono che il sole vivifichi l'universo. Il sole si leva, guardate: non è morto anch'esso? Morti dappertutto. Tutto è morto. Gli uomini sono soli, circondati di silenzio. Ecco il mondo!… "Uomini, amatevi l'un l'altro." Chi ha detto questo? Che comandamento è questo? L'orologio continua a battere, insensibile… Qual orrore! Due ore di mattino. Le sue scarpine sono lì, che attendono a piè del suo lettuccio. Domani, quando la porteranno via davvero, che diverrò io?"
Sono frasi scelte qua e là nel famoso monologo del marito di Benigna (Krotkaïa) monologo che il Dostoïevsky intitola a torto novella fantastica.
Ed ora leggete quest'altre frasi:
"Bisognerà che io vi racconti tutto, fin dal principio. Tutto fin dal principio. Come farò? Io non so più nulla, non mi ricordo più di nulla, veramente. Come farò, signore, come fare? Oh Dio! Ecco…—Aspettate, vi prego, aspettate. Abbiate pazienza… Mi ricordo di tutto, di tutto, di tutto. Capite?… Ecco, guardate queste scarpette".
Giovanni Episcopo parla così; e lungo l'intero lavoro il suo accento non muta. Racconta casi assai diversi da quelli dell'uffiziale russo diventato strozzino. Nessuna rassomiglianza può notarsi tra Benigna e Ginevra, tra il dramma del vigliacco marito di questa e quello più elevato, più tormentoso del marito di Benigna… Eppure a chi ha letto Krotkaïa par di sentir narrare un'identica storia. Potenza della forma! In quel balbutire, in quel vaneggiare, in quel raccontare con precisione taluni episodii e sorvolare quasi smemoratamente su d'altri, c'è ben più che il suono della voce e l'accento doloroso del personaggio; ci sono pure l'atteggiamento, i gesti, il carattere. Potenza della forma! Essa fa che l'uffiziale russo diventato strozzino non possa scambiarsi con Giovanni Episcopo, perchè sarebbe assurdo, che un individuo si realizzasse più volte, perchè il tale accento, il tal suono di voce, il tal gesto sono così essenzialmente d'un individuo, corrispondono così precisamente al carattere di lui, che invano tenta di appropriarseli un altro, senza avere l'intenzione di fargli il verso, di metterlo in caricatura.
Infatti Giovanni Episcopo rifà il verso di quel personaggio e di un altro similare dello stesso scrittore (del Marmeladoff di Delitto e Castigo ) fin nei particolari minuti. Ho già detto che filosofeggia. "Non avete mai notato? Un uomo, una pianta, una qualunque cosa vi dà il suo vero aspetto una volta sola, ossia nel momento fugace della percezione. È come se vi desse la sua verginità." E vedere da per tutto intorno a voi questo nemico, (il proprio vizio), vederlo con una lucidità prodigiosa, scoprirne tutte le tracce, indovinarne tutte le corrosioni, le devastazioni nascoste! Vedere, intendete? vedere in ciascun uomo la sofferenza, e comprendere, comprendere sempre, e avere una misericordia fraterna per ogni traviato, per ogni addolorato, e sentire nell'intimo della propria sostanza la voce di questa grande fraternità umana, e non considerare su la via nessun uomo come uno sconosciuto…. Intendete? Potete voi intendere questo in me, in me che voi stimate pusillanime e abbietto e quasi idiota?"
No, non possiamo intenderti, povero Giovanni Episcopo, quantunque tu abbia preso al tuo originale anche il capriccio di mettere in corsivo certe parole perchè facciano più effetto: non possiamo intenderti, perchè intendere significa pure giustificare e la falsità non può mai esser giustificata. Se tu avessi saputo mostrarti schietto e sincero, avresti parlato altrimenti; più tristamente, più efficacemente forse, ma da impiegatucolo nostrano, da quell'ubriacone che sei diventato per sommergere nel vino il sentimento della tua viltà e della tua abiezione. E quando un benefico raggio penetrava nella tua miseria morale coll'istinto della paternità, forse ti saresti trasfigurato davanti ai nostri occhi e saresti parso non un bruto ma un uomo, dove la tua parola non fosse stata maschera, e il tuo singhiozzo non fosse suonato in falsetto.
E in questo modo il D'Annunzio ha sciupato la propria creatura che poteva avere tanta vitalità da essere assolutamente lei e non il fantasma di un'altra creatura dell'arte! La colpa non consiste soltanto nella forma, si dilata anche nella sostanza. La sentimentalità di Giovanni Episcopo non apparisce morbosa, ma anche contraddittoria. Quel vigliacco, anzi quel vile si esamina troppo, ragiona troppo; vuol essere non quel che è, ma una specie di simbolo, vuol essere il Christus patiens profanamente accennato dall'autore.
Bisogna però aggiungere subito che soltanto Gabriele D'Annunzio poteva fare in Italia il miracolo di creare un'opera d'arte di seconda mano, e circondarla intanto di così gran fascino nei particolari da far quasi dimenticare la caduca natura di questa. Io ho insistito sul confronto per avvalorare la mia proposizione che in arte l'osservazione diretta è di un'utilità molto dubbia, ove il soffio creativo della forma non sappia giovarsene per infondervi la vera vita.
Nell'opera d'arte avviene così: l'intonazione principale determina fatalmente il resto. Se essa è davvero originale, non importa che parecchi elementi altrui vengano ad aggregarvisi per affinità; il suo carattere non muta. Inoltre, come la natura e la vita, un'opera d'arte, nata di suggestioni, diventa alla sua volta suggestiva. Un personaggio provoca la creazione d'una serie di personaggi, svolgimento di qualità rimaste in esso secondarie, elementari; un episodio, arricchendosi, di un contenuto più vasto e più solido, si trasforma mirabilmente in soggetto principale; un particolare presso che insignificante si eleva, con libera vegetazione e con lieta fioritura, all'altezza di concezione indipendente. E l'ex-uffiziale, usuraio e innamorato che piange e fantastica e vaneggia davanti al cadavere di Benigna (Krotkaïa) avrebbe potuto benissimo produrre un Giovanni Episcopo originalissimo, se i documenti raccolti nella taverna di Via Alessandrina avessero avuto una vera incubazione creatrice, o, meglio, se avessero proprio contenuto qualcosa di speciale, di caratteristico, di personale, capace di suscitarla nella fantasia dell'artista.
A uno scrittore come Gabriele D'Annunzio queste cose si possono e si debbono liberamente dire per metterlo in guardia contro sè medesimo; si possono e si debbono liberamente dire perchè dal suo stesso lavoro si scorge ch'egli non vive a suo agio in tale stato di soggezione alle influenze, non d'un'arte, ma di sentimenti e di fantasmi estranei alla sua natura molle e delicata.
* * *
L' Innocente rappresenta un grande sforzo dell'autore, per liberare la propria personalità artistica dalla rete in cui l'hanno avvolta i romanzieri russi, e mostrarla qual'è. Gli elementi stranieri vi sono già passati in seconda linea; vi si sente una ripresa dei motivi di Piacere nel carattere complicato, un po' artifiziale o artifizioso del personaggio, e qua e là nella forma; ma questo non nuoce; fino i difetti di un artista possono riuscire in qualche modo simpatici quando sono davvero suoi.
Tullio Hermil infatti potrebbe dirsi fratello carnale di Andrea Sperelli. È un corrotto, un raffinato nella corruzione, un artista della vita. Non incide acque forti, non cesella componimenti poetici di sapore arcaico, ma prepara, dispone, regola i suoi sentimenti e i suoi atti in maniera che fruttino al suo alto egoismo i maggiori benefizii. Ha l'orgoglio e la vanità della sua superiorità intellettuale, e si stima dispensato dal sottomettersi ai precetti della morale comune, ai doveri del suo stato.
Sposo a una bella e dolce creatura, l'ha offesa nei modi più crudeli, senza riguardi, senza ritegni, diventando prima l'amante di due fra le più intime amiche di lei, poi ostentando la relazione con una nota peccatrice. Dopo alcuni anni di matrimonio e la nascita di due bambine, tra Giuliana e lui ogni intima relazione vien rotta. La donna soffre dignitosamente in silenzio; egli si compiace di quel patto di fraternità e d'amicizia pura, non tanto perchè esso lo lascia libero, quanto perchè può formarsene una sensazione impura, traendo dalla grande rassomiglianza di una sua sorella morta con Giuliana un acre sapore d'incesto.
Niente di spontaneo, niente di semplice in quest'anima supremamente egoistica. La lontananza dell'amante, lo spinge a riattaccarsi alla povera creatura, non per un sentimento affettuoso, ma per avidità di sensazioni strane, complesse, alle quali per poco non aggiunge attrattive il dubbio che la moglie non fosse rimasta sempre fedele.
E formola assiomi come questo: "La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati; perchè ella avesse occasione d'essere eroica era necessario ch'ella soffrisse quel che le ho fatto soffrire." Basta però una letterina dell'amante che lo invita a raggiungerla in Firenze perchè i suoi propositi di riconciliazione vengan dispersi nel punto che più sembravano vicini a ottenere quel resultato. Ed egli lusinga la propria corruzione con una sentenza, asseverando che il sogno di tutti gli uomini intellettuali sia quello "di essere costantemente infedeli a una donna costantemente fedele."
Al ritorno, non ha rimorsi. Si meraviglia di sentirsi riafferrato dal sentimento della riconciliazione. "Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso trovare nella vita questo sapore! Io posso ancora sperare, posso ancora avere il presentimento d'una felicità!"
Non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole. Se il dubbio vago della fedeltà di Giuliana gli si affaccia alla mente, lo stesso turbamento sensuale concorre ad oscurargli la coscienza, a rendergliela ottusa. Egli confessa: "Io pensavo di riconquistare non l'anima sola di Giuliana, ma anche il corpo; e nella mia ansietà entrava una parte di orgasmo fisico…. Senza accorgermene, io avevo forse acuito e corrotto il mio desiderio con le immagini inevitabili generate dal dubbio; e portavo in me latente quel germe venefico. In fatti, sino allora in me era parsa predominante la commozione spirituale ed io, aspettando il gran giorno, m'ero compiaciuto in puri colloquii fantastici con la donna da cui volevo ottenere il perdono. Ora invece non tanto vedevo la scena patetica fra me e lei quanto la scena di voluttà, che doveva esserne conseguenza immediata."
La scena avviene, ma avviene quasi immediatamente la rivelazione d'un fatto che ne annulla il godimento.
"—Non ti sei accorto che Giuliana è incinta?—gli dice sua madre.
"—Incinta!—egli balbetta.
"Mi si presentò allo spirito la verità brutale, in tutta la sua più ignobile brutalità. Ella è stata posseduta da un altro…. E una serie d'imagini fisiche odiose mi si svolse d'avanti gli occhi dell'anima, che io non potevo serrare. E non furono le immagini di ciò che era accaduto, ma anche quelle di ciò che doveva necessariamente accadere. Bisognò anche ch'io vedessi, con una precisione inesorabile, Giuliana nel futuro (il mio Sogno, la mia Idealità!) difformata da un ventre enorme, gravida d'un feto adulterino…"
E aggiunge: "Io amavo quella povera creatura anche nella sua impurità. Tranne quell'impeto subitaneo di collera suscitatomi dalla gelosia carnale, io non avevo ancora provato contro di lei un senso d'odio o di rancore o di disdegno. Non m'era balenato alcun pensiero di vendetta. In vece, io avevo di lei una misericordia profonda. Io accettavo, fin da principio, tutta la responsabilità della sua caduta. Un sentimento fiero e generoso mi sollevò, mi esaltò. "Ella ha saputo chinare il capo sotto i miei colpi, ha saputo soffrire, ha saputo tacere; mi ha dato l'esempio del coraggio virile dell'abnegazione eroica. Ora è venuta la mia volta. Io le debbo il contraccambio. Debbo salvarla ad ogni costo. E questa sollevazione dell'anima, questa cosa buona, mi veniva da lei."
Ma, ripeto, non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole di Tullio Hermil. Non il suo sentimento, ma la sua carne si ribella, non il suo sentimento ma i suoi sensi si sottomettono. Dopo aver chiesto a Giuliana il nome di quell'uomo, dopo ch'ella gli ha risposto soltanto: "T'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con quest'inferno un minuto di debolezza, intendi? un minuto di debolezza … È la verità. Non senti che è la verità?" dopo questo, che credete voi che avvenga?
"Ancora un attimo lucido; e poi l'effetto d'un impulso cieco, selvaggio, inarrestabile. Ella cadde sul cuscino rovescia. Le mie labbra soffocarono il suo grido."
Unicamente l'egoismo della sua carne gli suggerisce d'impedire il suicidio di Giuliana e gli fa prendere la risoluzione di celare alla propria famiglia, specialmente a sua madre, il terribile caso; unicamente quell'egoismo gli fa rivolgere tutto il suo odio verso la creatura a cui prima vuol interdire la nascita e poi la vita.
Egli tenta di persuadersi e di persuaderci del contrario: "Uno strano ardore di sacrifizio mi infiammava subitamente, mi spingeva ad abbracciare la mia croce. La grandezza dell'espiazione mi pareva degna del mio coraggio." Ma spesso, andando verso la sorella dolorosa per tentar di consolarla, egli smarriva la via; cercava invece le labbra di Giuliana. "Ed erano baci prolungati fino alla soffocazione, erano strette quasi rabbiose, che ci lasciavano più affranti, più tristi, divisi da un abisso più cupo, avviliti da una macchia di più."
Una cosa però sono le parole, un'altra i fatti. Egli fa un tentativo per incontrare il supposto seduttore di sua moglie, ma sente quasi un sollievo quando lo sa lontano, malato di spinite, vicino a morire. E tornato alla Badiola, dov'è Giuliana e tutta la famiglia, prova di nuovo un avvicendarsi di fermenti, di inerzie, di crisi contradittorie, di abbondanza, di aridità. E dubita di sè: "Chi sa! L'uomo è, sopra tutto, un animale accomodativo. Non c'è turpitudine o dolore a cui non s'adatti. Può essere che io finisca con un accomodamento. Chi sa!"
Ed è così. Egli sente per la moglie colpevole una tenerezza infinita, intanto che gli si vien maturando nella mente il proposito dell'uccisione del nascituro. E quando questi è nato, l'idea del delitto diventa di mano in mano più lucida, più insistente, e le ricerche del mezzo più semplice e più nascosto non cessano un minuto. Questa ossessione fa tacere ogni altro sentimento, fin la gelosia della sua carne. E un giorno, come un lampo, un'idea gli passa per la mente…. "Era il ricordo d'una lettura lontana? Avevo trovato descritto in qualche libro un caso analogo?¹ O qualcuno, un tempo, m'aveva narrato quel caso come occorso nella vita reale?"
¹ In una novella del Maupassant?
Si vede che neppur l'odio era capace di suggerirgli qualcosa di suo proprio! Ed egli accetta il vile suggerimento, prende tutte le cautele, calcola con indicibile freddezza tutte le possibilità, tutte le circostanze.
Un anno dopo scrive:
"Andare d'avanti al giudice, dirgli: "Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l'avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l'ho uccisa. Ho premeditato l'assassinio, nella mia casa. L'ho compiuto con una perfetta lucidità di coscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l'anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi.
"Posso andare d'avanti al giudice, posso parlargli così?
"Non posso nè voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.
"E pure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.
"__A chi?__"
Le trecento settantadue pagine della sua confessione non rivelano però il lento lavorìo del rimorso, nè questo bisogno dell'accusa. Tullio Hermil, pur compiacendosi di distrigare l'arruffata matassa delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti, rimane quasi estraneo a tutto quel che va scrutando nel proprio cuore corrotto.
Si scorge benissimo che egli assapora un nuovo piacere di perversione riandando il passato. È composto, chiaro, minuzioso, come sarebbe un narratore di casi altrui; la sua mano non vacilla, la sua voce non è commossa; il fantasma dell' Innocente non lo turba un solo momento durante la lunga confessione. Gli avvenimenti gli sfilano dinanzi a gli occhi della memoria con ordine ammirabile. La sua abitudine di osservarsi, di studiarsi, di gustare nella vita, durante l'azione, ogni depravato movimento dell'anima sua, lo sostiene nella dura opera e lo aiuta a dar colore e rilievo a ogni minimo incidente. Ma non ci dica: "Bisogna che io mi accusi, che io mi confessi." Non possiamo credergli su la parola. E questo mi sembra il cardinale difetto del libro.
Nel Giovanni Episcopo il tentativo di nascondere la personalità dell'autore dietro quella del personaggio c'è, quantunque mal riuscito perchè di seconda mano. Chi non è impacciato da ricordi letterari, chi non guarda tanto pel sottile può venir facilmente illuso da quell'accento che balbetta dietro i fantasmi fuggenti, da quella parola che ripete, ritorna indietro, riprende, da quell'immaginazione che divaga e si turba e si confonde, da quella ragione intermittente per l'abuso delle bevande alcooliche.
Nell' Innocente, per quanto sia visibile l'intento dell'autore, l'illusione non si produce una sola volta. C'è il fantasma d'un personaggio, non quello d'un personaggio che prova il bisogno di confessarsi, di accusarsi. L'artifizio della narrazione in prima persona, che il D'Annunzio predilige in questi suoi ultimi lavori, non arriva fino a vincere il lettore. In un punto anche la forma gli resiste, non si piega alle necessità del soggetto; anche quella forma, che nelle mani di lui è cera molle, pronta a ricevere qualunque atteggiamento, s'aggrava, come in questo brano.
Tullio Hermil ha già commesso il delitto. Davanti al morticino il suo cuore sconvolto si solleva, e sta per lasciargli sfuggir di bocca: "Sapete voi chi ha ucciso quest'innocente?" Ma un terrore subitaneo gli agghiaccia il sangue, e gl'irrigidisce la lingua.
Un parosismo febbrile lo fa tremare; i suoi lo conducono via, lo mettono a letto.
"Il passaggio delle immagini rapide e lucide continuava. Ricordavo, con terribile intensità di visione, l'agonia del bambino.—Era là agonizzante, nella culla. Aveva il viso cinereo, d'un colore così smorto che sui sopraccigli le croste del lattime parevano gialle. Il suo labbro inferiore depresso non si vedeva più….
"—Su, su, trasportiamo la culla vicino alla finestra, alla luce. Largo, largo! Il bambino ha bisogno d'aria. Largo!
"Io e mio fratello trasportavamo la culla che pareva una bara. Ma alla luce lo spettacolo era più atroce: a quella fredda luce candida della neve diffusa. E mia madre:
"—Ecco muore! Vedete, vedete, muore! Sentite: non ha più polso.
"E il medico:
"—No, no. Respira. Finchè c'è fiato, c'è speranza. Coraggio!
"E introduceva tra le labbra livide del morente un cucchiaino d'etere. Dopo qualche attimo, il morente riapriva gli occhi, torceva alto le pupille, metteva un vagito fioco. Avveniva una leggera mutazione nel suo colore. Le sue narici palpitavano.
"E il medico:
"—Non vedete? Respira. Fino all'ultimo, non bisogna disperare."
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"E il medico dava un altro cucchiaino d'etere. E l'agonia si prolungava, e lo strazio si prolungava. Le manine si sollevavano ancora, le dita si movevano vagamente; tra le palpebre socchiuse le iridi apparivano e sparivano ritraendosi come due fiorellini appassiti, come due piccole corolle che si richiudessero flosce raggrinzandosi.
"Cadeva la sera, innanzi all'agonia dell'Innocente. Su i vetri della finestra era come un chiarore d'alba; ed era l'alba che saliva dalla neve in contro alle ombre…"
Abbrevio ancora.
"Un suono indescrivibile, che non era un vagito nè un grido nè un rantolo, esciva dalla boccuccia quasi cerulea, insieme con un po' di bava bianchiccia. E mia madre come una pazza si gittava sul morticino."
Sono quattro pagine di racconto particolareggiato, filato. Il lettore dimentica che non si tratta d'una scena diretta, ma della visione interna, della memoria di una scena. Nè vale che Tullio Hermil aggiunga: "Così rivedevo tutto, a occhi chiusi: aprivo gli occhi, e rivedevo tutto ancora, con un'intensità incredibile." Bisognava che qualcosa d'immateriale, d'impalpabile, l'immateriale, l'impalpabile della visione, si trasfondesse, apparisse nella forma, qualcosa insomma che rivelasse la visione indiretta di quell'istante.
Allo stesso modo in tutto il romanzo manca l'accento, la nota, la sfumatura dei ricordi a traverso il sentimento immediato, che è il bisogno di confessarsi e di accusarsi.
Dirlo non vale; occorreva farlo sentire; occorreva che Gabriele D'Annunzio s'annullasse nella personalità di Tullio Hermil, precisamente come nel brano qui sopra citato Tullio Hermil doveva darci l'impressione della sua allucinazione, non la sensazione della visione immediata.
Il personaggio di Tullio Hermil è creazione così spontanea della immaginazione di Gabriele D'Annunzio, che ci vuole un certo sforzo per accorgersi di questa mancanza. Il fratello carnale di Andrea Sperelli è così corrotto, è così raffinato nella sua corruzione, è così artista nella vita; ci son tanti riflessi nella sua personalità della personalità artistica del D'Annunzio, quale si è a noi rivelata specialmente nelle poesie, che il difetto si avverte ad intervalli, e quando più lo scrittore si trascura e si lascia andare. Per esempio in certe minuzie di osservazione che la commozione avrebbe fatto dimenticare, come questa: "Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva delle mani davano indizio di vita;" in certe descrizioni di paesaggio troppo leziosamente accarezzate, o di particolari secondarii, come quello delle rondini affaccendate nei loro nidi nella casina di Villalilla o quello del canto notturno dell'usignuolo alla Badiola, notato e quasi trascritto in una pagina e mezza¹. Ci son tanti riflessi della personalità artistica del D'Annunzio in certe sopravvivenze di forme stilistiche, che diventano una stonatura nella semplicità ora raggiunta ("un profumo denso e caldo saliva nel sole col ritmo d'un alito; il parto arboreo; la santità della luce; il domo ceruleo; il sorriso esiguo che stilla di sotto alle palpebre; la gloria primaverile; la fronte tenue e pura come una particola, sororale; il sorriso tenue e inestinguibile dei Lari; e tanti altri che non mi ricorrono alla memoria) da produrre lo strano effetto di far stare in dubbio se parli lui per conto di Tullio Hermil, o se questi racconti da sè i tristi casi intervenutigli. Certamente dimentichiamo Tullio Hermil, quando lo vediamo smarrire dietro le descrizioni del battesimo, o della tumulazione del bambino, fino a ripetere tutte le circostanze delle due cerimonie e le parole rituali latine pronunziate dal prete.
¹ Imitazione anzi traduzione di una pagina del Maupassant; cosa che fa sospettare altre imitazioni e traduzioni non ancora accertate. L'interpolazione era evidente anche prima che se ne scoprisse l'origine.
E cito tutto questo per provare al D'Annunzio l'inutilità dell'osservazione diretta da lui predicata, se essa non riesce a trasformarsi in fantasma artistico, che è cosa ben diversa. Nel Giovanni Episcopo per un canto, nell' Innocente per un altro la trasfigurazione per dir così della realtà, delle note, dei documenti, non si è potuta avverare, e la sua opera d'arte ne rimane diminuita, almeno per chi la guarda unicamente come opera d'arte. Giacchè, pei lettori ordinari e distratti, tanto il Giovanni Episcopo quanto l' Innocente hanno attrattive di valore elevato, specialmente in quelle pagine del primo dove il riflesso altrui è meno compenetrato col materiale proprio dell'autore; in quelle pagine del secondo dove l'affetto, l'evidenza, la ricchezza del colorito impediscono di osservare spassionatamente, e lasciano impressione profonda; e di quest'ultime voglio notare la prima e la seconda riconciliazione di Tullio con Giuliana, in modo particolare la scena interessantissima e capitale a Villalilla, e tutte le pagine che seguono alla rivelazione della colpa di Giuliana e precedono la perpetrazione del delitto su l' Innocente.
Ho detto che nell' Innocente l'influsso dei romanzi russi è passato in seconda linea. Forse dovremmo riconoscerlo un po' nel carattere corrotto e complicato di Tullio Hermil, se la derivazione di esso dall'Andrea Sperelli dello stesso autore non lo giustificasse in qualche modo. L'influsso però è potentissimo nel personaggio di Federico, una specie di Levin tolstoiano. Il D'Annunzio, che abusa delle formole, ne fa un contrapposto al Christus patiens e lo chiama il Cristo della gleba. È infatti un discepolo del Tolstoi, un apostolo di carità e di lavoro come lui; creazione voluta, eccentrica, troppo eccezionale e quasi innaturale in Italia. Di origine russa è anche il personaggio Giovanni Scordio, più simbolo che uomo vero. E non è forse un po' russeggiante Giuliana, figura poetica di problematica moralità, di sentimentalità quasi morbosa, come parecchie di quelle creature di cui si compiacciono tanto volentieri i romanzieri russi, che probabilmente ne trovano gli originali in una società dove la civiltà più squisita s'innesta male sul ceppo della più rozza barbarie?
Il fatto di vedere già relegati questi influssi in seconda linea è di lietissimo augurio. L'ingegno di Gabriele D'Annunzio è così promettente e ha dato frutti così fuori dell'ordinario, che il veder me, tra i suoi più vecchi e sinceri ammiratori, tanto severo con lui non può recare nessuna meraviglia. Il Giovanni Episcopo e l' Innocente, per qualunque altro scrittore in Italia, sarebbero opera di gran conto con tutti i difetti notati. Pochi romanzi nostrani hanno uguale intensità di interesse, di commozione, e uguale ricchezza di contenuto; pochissimi o nessuno uguali bellezze e diciamo anche lenocinii di forma. Ma a lui si può chiedere ben altro.
Da lui si può e si deve pretendere finalmente quella sincerità che è la principal dote di un artista e il più solido pregio di un'opera d'arte: da lui si può e si deve pretendere che finalmente si mostri lui, proprio lui, senza maschera, senza influssi estranei, senza concessioni di sorta alcuna. Egli ha la giovinezza oltre l'ingegno, la giovinezza che forma da sè sola una forza immensa; ma egli ormai sta per varcare la soglia della virilità. E il giorno che si affaccerà a quella soglia con in mano una nuova opera d'arte virile, io vorrei salutare l'autore compiutamente liberato da quella tabe patologica e corrotta che ora ispira le sue creazioni, rinnovato a dirittura, italiano schietto, e degnamente trionfante.
II
E. A. BUTTI—NEERA—L. GUALDO¹
¹ E. A. Butti, L'Automa —Neera, Senio —L. Gualdo, Decadenza.
Il caso di tre romanzieri, due provetti nell'arte e uno esordiente, che con mezzi diversi, per vie diverse, probabilmente con intenti diversissimi, si mettano a descrivere lo stesso fenomeno psicologico e giungano a un'identica conchiusione, è così raro in Italia che bisogna fermarsi a osservarlo.
Il concetto delle tre opere d'arte delle quali intendo discorrere è tristamente pessimista. Il Butti, l'esordiente, l'ha espresso nelle prime righe del suo lavoro, l' Automa, con l'enfasi propria della balda inesperienza giovanile. Egli dice:
"In questo tumultuoso e tragico morir del secolo, che ha in sè con ardita sintesi raccolte tutte le caratteristiche dell'epoca contemporanea, nell'opera febrile e vertiginosa di rivoluzione e di raffinamento, che l'ha con moto sempre crescente esagitato ed estenuato,—Attilio Valda può ben rappresentare un caso tipico dell'attuale esaurimento umano, triste documento della nostra immensa miseria intellettuale."
Quasi la stessa cosa avrebbero potuto dire Neera pel suo protagonista Senio Straniero e Luigi Gualdo pel suo Paolo Renaldi; ma, da artisti maturi, hanno lasciato che, senza esagerazioni e senza enfasi, la suggerisse alla mente del lettore la loro opera d'arte.
Nei tre romanzi infatti il cardine della concezione è l'influenza deleteria della donna su la volontà e sul carattere dell'uomo nella società contemporanea.
E se i casi d'un romanzo potessero servir di base a una seria deduzione, il libro di Neera darebbe molto da pensare, non solamente perchè scritto da una donna, ma perchè porterebbe a conchiudere che l'influenza della donna su l'uomo ha più efficacia nel male che nel bene. Alla stessa conchiusione ci conduce il libro del Gualdo, e con maggiore intensità di impressioni.
* * *
Attilio Valda, il protagonista del Butti, è un essere fiacco. "Una faticosa inquietudine modificava senza tregua la spossata impressione del suo viso e del suo corpo un po' curvo,— un 'inquietudine morbosa di nevralgico nel quale ogni atto si capiva essere allo stesso tempo cosciente e involontario."
Pittore, scrittore, musicista "egli sapeva apprezzare ed intendere; anche, poteva intravedere la concezione, ma non arrivava mai a concretarla precisamente in una forma determinata d'arte."
Se questo carattere fiacco incontra sul suo cammino una donna volgarmente sensuale come la cameriera francese Margot o una non meno volgarmente capricciosa, come la principessa Lavinia Casàuri, sarà inevitabile che la sensualità e il capriccio abbiano su lui tanta presa da ridurlo senza volontà, da farlo muovere e agire quasi fosse un automa.
Senio, il protagonista del romanzo di Neera, è di origine contadina. "Nelle sue vene scorreva un sangue rimasto puro nelle aspre lotte del lavoro, e nel quale non s'era mischiata nessuna corruzione, nè la nevrosi avrebbe saputo annidarsi," "Imbevuto delle novissime teorie della scienza, Senio tendeva a ordinare la vita secondo un sistema di assoluto positivismo. Tutto ciò che poteva assomigliare a fantasticheria romantica, a emozione sentimentale, trovava in lui un fiero nemico. Gli stessi affetti naturali, che egli non negava, dovevano subordinarsi a un criterio di utilità incontrastata…" "In religione, come quasi tutti i suoi amici e contemporanei, aveva elevato la coscienza al posto della divinità; e la sua era una coscienza retta ma fredda, disposta a rintracciare il lato utile e pratico della giustificazione matematica."
"Il solo pensiero di menomare coll'amore quell'insieme di forza che lo rendeva fiero e indipendente, gli era insoffribile."
C'è di più. Egli pensa: "Perchè amare? L'amore non è necessario nè per godere, nè per imparare e neppure per beneficare. Egli (Senio) avrebbe diffuso le sue idee nel mondo, giovando forse a qualcuno, certo a sè stesso, senza lasciarsi trascinare da nessuna specie di amore. Se questo era l'origine di tutti i dolori, doveva riuscirne facile l'allontanamento: un solo nemico resterebbe allora da combattere: il dolore fisico."
Eppure questo positivo, non solo non s'accorge dell'amore che ha ispirato a Dina, fanciulla educata dalla sorella di lui e nipote di una loro vecchia amica; non solo si lascia cogliere da un falso senso di gelosia e quasi ama una bella signora che lo ama veramente; ma, dopo ch'egli ha posposto Dina a donna Clara Aldobrandi, donna di un altro da cui è legalmente divisa, e poi la stessa donna Clara al proprio freddo egoismo, basta un incidente insignificantissimo perchè egli si lasci avvolgere, e per non più staccarsene, dai tentacoli di una piovra volgare che, fattasi sua guarda-malato, riesce a distruggere in lui coscienza, carattere, avvenire.
Paolo Renaldi, di cui Luigi Gualdo ha scritto la trista decadenza, è un ambizioso. Passa le notti studiando, oltre le materie proprie della sua professione di avvocato, tutte le questioni di filosofia, di storia, di filosofia della storia, di scienze politiche e sociali: "Nella solitudine, nel silenzio, mille speranze gli facevano battere il cuore: si metteva talora alla finestra e gli pareva, nel vento fresco della sera che gli lambiva i capelli, sentir passare come un soffio di gloria. Guardava il cielo stellato e la strada fangosa, e da quella altezza (di un quarto piano)—per adesso una ironia—gli sembrava scorgere una promessa di dominio; gli pareva, con la fervida e studiosa mente, sovrastare sulla città addormentata."
L'ambizione lo rende calcolatore. Sin dalle prime volte in cui sente attirarsi dal fascino della signora Silvia Teodori egli pensa "che l'amore di colei gli sarebbe di potente aiuto nella battaglia futura" della vita: "l'ebbrezza del trionfo gli avrebbe raddoppiate le forze; la vanità soddisfatta avrebbe infiammato l'orgoglio. In quel momento sentiva in sè una grande potenza; gli pareva che le ignote voluttà alfine conosciute, inciampo per un altro meno forte, sarebbero state a lui sprone a giungere rapidamente."
Diventato l'amante di Silvia, passate le prime ebbrezze, soddisfatta la vanità, egli comincia a sentire una sorda irritazione contro colei, "intravedendo quasi involontariamente ch'ella potrebbe, nell'avvenire, diventare un impiccio, chiudergli la via sulla quale era risoluto a non arrestarsi."
Silvia Teodori non è una donna comune. Un po' di mistero ne circonda la vita, dopo la catastrofe di suo marito condannato per scandali bancarii e poi rinchiuso in un manicomio. L'amore per Paolo Renaldi la eleva, la purifica. Le piaceva di saperlo ambizioso, voleva sorreggerlo sull'ardua via, essergli di aiuto—non mai d'impiccio in quanto intraprendesse—e, ciò, lo credeva davvero possibile, ingenuamente illusa… Se un giorno fosse rimasta libera, avrebbe sposato Paolo… Ma era tanto felice così che questo sogno si affacciava di rado alla sua mente."
Paolo intanto la sacrifica alla propria ambizione, quantunque sappia di risospingerla verso una vita di avventure forse incominciata prima della loro relazione. E sposata, per calcolo, la figlia del senatore Ronconi non amata e non amante, lanciatosi in mezzo alle agitazioni della vita politica, giunge fino a credersi guarito da ogni velleità sensuale. Le concitazioni della politica però abbattono il suo organismo; le prescrizioni del medico lo spingono ad assaporare la vita elegante e viziosa delle stazioni di bagni più ricercate. Il caso gli fa rivedere Silvia… E da quel giorno tutto crolla dentro di lui, quasi l'edificio morale del suo carattere fosse stato qualcosa di provvisorio. Da quel giorno, di transazione in transazione, l'ambizioso, l'orgoglioso Paolo Renaldi precipita verso la catastrofe della più profonda abiezione.
Isabella Ronconi, moglie onesta e buona, non è riuscita a prendere alcun potere su lui. Aveva fatto "attivamente, senza tregua tutto quanto poteva per aiutarlo in tutte le maniere." "Non solo ubbidiva, ma preveniva, indovinandoli, i desideri del marito. E, sforzandosi di amarlo, ci riusciva." Paolo, sacrifica anche lei alla propria ambizione.
"Invano sua moglie inquieta lo esortava a maggior calma. Più saliva e più voleva salire; l'ambizione incominciava a fargli provare le terribili ebbrezze del giuoco. Nulla di ciò che otteneva l'accontentava; guardava sempre avanti." E quando ambizione, smania di gloria, vanità politica, cadono davanti alla riapparizione di una Silvia molto diversa da quella che lo aveva amato, nella casa dove Isabella vive con la sua bambina, lottando contro il dissesto economico prodotto dalle sregolatezze del marito, il ritorno di lui a intervalli diventa sgradito e penoso per tutti.
* * *
Delle tre catastrofi, quella di Attilio Valda ispira più compassione che pietà. Carattere vacuo, intelletto impotente, ci interessa appena quanto può interessarci un animale. La principessa Lavinia Casàuri l'ha ripreso, e lo conduce con sè, facendogli dimenticare un amico carissimo all'ospedale e scancellandogli a un tratto dalla mente tutte le tardive risoluzioni di mutar vita. "Un presentimento lugubre l'assalse: egli non avrebbe mai più rivisto l'amico suo: Stefano sarebbe morto là dentro, innanzi del suo ritorno…" Dove lo portava mai quel convoglio nella notte? Come vi si trovava egli con quella donna?
La sua vita era spezzata: il suo futuro ripiombava nel mistero!… Dopo aver già intravisto la salvezza, come traverso a un tenue velario evanescente, s'era lasciato sopraffare… Ma, qual'era dunque la causa di codesta sua sciagura? Chi lo aveva perduto così per l'ultima volta?
"Egli reclinò gli occhi, brillanti di collera e di odio su la donna addormentata. Esasperato da codesta placida inconscienza, sentì una voglia criminosa di punire costei, di vendicarsene, d'alzare il pugno stretto e di batterlo con tutta la sua forza su la sciagurata fronte di quell'abietta creatura. Ucciderla: ecco il feroce desiderio che tutto lo teneva.
"In quel punto Lavinia si risvegliò, alzò gli occhi su di lui, e gli sorrise.
"Attilio pure sorrise."
E forse sorride anche il lettore.
La catastrofe del Senio, contrista con la sua rapida semplicità.
Il dottor Mordini, suo vecchio amico, gli evoca il ricordo di Dina, la fanciulla educata in casa di lui dalla sorella ora morta, e gli parla della sua candidatura politica che va a gonfie vele, e lo esorta calorosamente a lasciare quella femina che lo trascinerà all'abiezione…
"Stefano parlava ancora ed a Senio, frattanto, passavano delle ombre negli occhi; un sudore freddo gli invadeva le tempie; tentò due o tre volte di pronunziare qualche parola, ma non vi riuscì. Il suo bel volto rivelava le torture di una lotta interna superiore alle sue forze.
"All'ultima frase dell'amico balbettò "pietà" e come Stefano accennava a continuare, tese le braccia a guisa di un naufrago, d'un disperato…
Il dottor Mordini si chinò su di lui:
"—Parla. Quale dolente segreto mi nascondi? Che devo fare per te? Io ti salverò; io e tutti quelli che t'amano!
" Ancora le braccia di Senio si protesero nel vuoto, istintivo appello ad un aiuto sovrumano e dalle sue labbra uscirono quasi sibilando, due sole parole:
"—L'ho sposata."
Ed è proprio un peccato che a questa scena così viva e così rapida sia mancata nell'ultima parte del romanzo la proporzionata preparazione!
Appunto pel minuto svolgimento dei fatti e per la sottile analisi di tutte le sfumature dei sentimenti di Paolo Renaldi, la chiusa del romanzo del Gualdo, assume una tragica elevazione, e dà un senso di sgomento.
"In quella loro storia (di Silvia e di lui) non somigliante ad alcun'altra in quel modo strano nel quale le loro relazioni erano state riprese, v'era qualcosa che li legava specialmente insieme. I vincoli che ora li univano, anche a distanza, dopo le molte separazioni, pareva a lui fossero tanto più forti, e resistenti, quanto meno stretti.
"Ora avrebbe accettato qualunque compromesso, qualunque dubbio, pur di rivederla e riaverla; non ripugnava più a nulla; quella specie di avvilimento, derivante da tutto quanto ignorava e sospettava della vita di lei, non gli avrebbe più ripugnato. Rimpiangeva il tempo in cui aveva per tante cause sofferto; per umiliazione, per gelosia celata. Avrebbe di nuovo patito tutto ciò volentieri; tutto, fuorchè il tormento vano dell'attesa. Attingeva una forza di pazienza ostinata dalla violenza stessa, continua, del suo desiderio. E aspettava."
* * *
Non deve far meraviglia che il pessimismo più apparente si trovi nel più giovane e nel più inesperto dei tre romanzieri. Enrico Butti non ha dubbi, non esitanze, e vuol farcelo sapere. Io non riesco a immaginarlo così precoce da aver potuto studiare di prima mano l'esaurimento umano contemporaneo e la nostra immensa miseria spirituale. Me lo immagino colto, studioso, entusiasta delle idee eccessive, dommatico, come quasi tutti i giovani che credono di fare in questo modo atto di libertà intellettuale. Nella dedica del volume alla memoria del padre, egli ha scritto: "Se avessi altra fede che nella scienza fredda ed essiccatrice, questa postuma dedica sarebbe assai meno desolata. Ma io so, oggi, di sacrar l'opera mia—incominciata nell'entusiasmo di presaperla letta e riconosciuta da te—a un'ombra insussistente, creazione pura della mia fantasia, a un'ombra, che ha le tue care sembianze e porta il tuo intemerato nome di gentiluomo—che pure non sei Tu e che non potrà mai esserlo."
Come non ha un attimo di esitanza intorno al problema dell'immortalità dell'anima, davanti al quale la vera scienza, da lui qualificata fredda ed essiccatrice, confessa non aver prove egualmente solide per affermare o per negare; così egli non esita un momento nell'affermare che il suo Attilio Valda, il quale non ha nulla di caratteristico e può rappresentare gli esseri fiacchi e sconclusionati di tutti i luoghi e di tutti i tempi, sia un caso tipico da riassumere l'attuale esaurimento umano e l'immensa nostra miseria intellettuale.
A un giovane d'innegabile ingegno e che fa la veglia d'armi letteraria devesi condonare e perdonare molto riguardo al concetto della sua opera d'arte. La esperienza lo ammaestrerà; l'osservazione diretta gli smusserà molti angoli, e la cultura gli farà presto capire che l'arte più non fa volontariamente dei tipi, ma crea soltanto personaggi vivi più o meno complessi; gli farà pure capire che sovente un solo punto della vita d'un uomo può diventare soggetto troppo vasto pel romanzo moderno.
L' Automa, che palesa la felicissima attitudine del suo autore al genere narrativo, ne svela anche la scarsissima preparazione per quel che riguarda la lingua e lo stile, ma di questo parlerò poi.
Senio non mi sembra uno dei meglio riusciti lavori di Neera. Vi si scorge eccessiva sproporzione tra le diverse parti, alcune delle quali hanno svolgimento superiore alla loro importanza e che sarebbe stato più opportuno anzi necessario in qualche altra. Molto vi si parla intorno alle idee e al carattere dei personaggi, specialmente di quello di Senio; ma i caratteri non risultano dall'azione; e quello di Senio anzi vien smentito, con inconsapevole ironia, dagli atti di lui. Positivista teorico, si mostra ingenuo alla prova. Se si voleva appunto far risaltare questa contraddizione fra la mente e il sentimento, fra la teorica e la pratica, bisognava trattare il soggetto in maniera diversa, studiarlo più minutamente. Invece, così com'è, il romanzo apparisce un po' arbitrario; i personaggi agiscono in un certo modo perchè all'autore è piaciuto farli agire in tal modo; e quel che traluce qua e là di veramente umano, nobile o basso che sia, serve a far scorgere più evidentemente il difetto. L'abilità per dir così manuale stende una velatura su tutto il quadro e riesce talvolta a ingannare, ma sempre a discapito dell'arte.
Decadenza del Gualdo, da questo lato, è libro più serio. L'abilità narrativa dell'autore però, pur mettendo in moto tutte le proprie forze, mostra un certo riserbo, stavo per dire spregio aristocratico e proprio fuori posto, per alcuni artifizi. Il romanzo deve raccontare, è vero, ma deve anche rappresentare. Il Gualdo, in parecchi luoghi culminanti del suo libro, delinea i caratteri con perfetta maestria, prepara gli avvenimenti, li conduce, li avvolge, li annoda come può e sa fare chi conosce le più fine risorse del mestiere; ma quando il lettore si attende che i personaggi si svincolino dalla tutela dell'autore e parlino e agiscano fuori dall'immaginazione di lui, da persone libere e vive, l'autore finge di non accorgersi della impellente necessità di sparire, di lasciar sole sole quelle sue creature sotto gli occhi di chi le ha ansiosamente seguite lungo le molte pagine di preparazione; e continua a narrare fin là dove il dialogo drammatico vorrebbe sgorgare impetuoso.
Così nella bellissima scena che chiude il capitolo V. all'inatteso ritorno di Paolo in casa di Silvia; così nella scena del capitolo seguente, in cui avviene la rottura con Silvia e la partenza di lei; così in quella che avrebbe potuto riuscire una scena magistrale, quando Paolo e Silvia si rivedono, dopo molto tempo a Nizza.
"—Ancora?—ella disse—ed anche qui?… Continuò a parlare, ora cambiando tono, e calmandosi; ora nuovamente agitata, straziata, piena di qualche passione contenuta—evidentemente in uno stato anormale…. Quella donna che aveva tanto taciuto e che—lo si capiva—doveva tacere ancora, cotesta crisi passata, era quasi, per un'ora fuggitiva invasa da un delirio che la costringeva a parlare…—
E l'autore, resistendo all'impulso che doveva certamente spingerlo a drammatizzare la scena, riprende con serenità che fa stizza: "Disse, tutt'insieme, le vecchie sofferenze e le nuove, l'agonia lontana etc. etc…" proprio tutto quel che si sarebbe voluto sentire dalla stessa bocca di Silvia e direi anche con la sua stessa voce!
Ed ho scritto: finge di non accorgersi, perchè non può giudicarsi altrimenti. In quelle pagine di racconto che avrebbero dovuto essere dialogo son notate le più lievi sfumature dell'animo dei personaggi: il dialogo sembra agitarsi, snodarsi serpentinamente tra le righe della narrazione; ma l'autore lo infrena, lo impedisce. Egli ricusa di dare al concetto la sua forma schietta e precisa, quasi per mostrare che si può ottenere lo stesso effetto, rinunziando a un mezzo stimato volgare.
Ed a torto, secondo il mio debole parere; perchè l'arte è forma, e il concetto perde efficacia, riesce dimezzato quando non riceve la forma che gli spetta e per cui, da cosa astratta, diviene creazione vivente.
* * *
Il Gualdo non può essere accusato d'inesperienza come il Butti. Per diversa ragione però il Gualdo e Neera amano togliersi di mano qualcosa che io paragonerei volentieri a la fionda con cui si scaglia un sasso più vigorosamente che non col semplice braccio. E qui intendo parlare di cosa assai meno elevata della mera forma artistica, ma non meno necessaria ed organica nell'opera d'arte.
Parlare di lingua e di stile vien reputato da pedante. Citando, ho sottolineato, per darne un saggio, le improprietà, le esitazioni, le incertezze, che offuscano, diminuiscono il concetto quasi ad ogni pagina, e spesso lasciano incerti intorno al senso di un periodo, intorno alle precise intenzioni dell'autore, in tutti e tre i romanzi di cui ho parlato. Voglio qui aggiungere che fra i tre scrittori, la donna, Neera, mostra una più agile padronanza dello strumento che adopra, quantunque abbia meno intendimenti stilistici del Gualdo e del Butti.
Io non mi sarei fermato un sol momento sur una questione così minuta, se la scarsa preparazione del Butti, la serena indifferenza del Gualdo, e la lieta vivacità di Neera non mi avessero confermato nella convinzione che per noi artisti della parola non esiste in Italia, a questi lumi di luna, una questione di lingua e di stile: e, se esiste, essa vien risoluta arbitrariamente e superficialmente quasi non meritasse che ce ne occupassimo. Pecchiamo un po' tutti, chi più, chi meno, e io non mi sento tale da poter scagliare una pietra su nessuno: ma pur troppo convien riconoscere che difficilmente si potrà andare più in là; pur troppo convien riconoscere che il senso dell'arte nella lingua si va così stranamente alterando e pervertendo presso di noi, da far dubitare che un giorno possa rimettersi dalla grande malattia da cui è afflitto.
Quando non si hanno, come le ha il Gualdo, tante eccellenti qualità di artista da controbilanciare i difetti della forma: quando non si hanno, come le ha Neera, tante buone qualità di vivace immaginazione, di finezza di tocco, da abbagliare la coscienza del lettore, la cosa diventa assolutamente grave.
E mi sembra tanto più grave quanto più mi vo persuadendo non esser possibile che la imprecisione e la scorrettezza della parola non si riversino, per naturale analogia, su la sostanza medesima dell'opera d'arte. L'esattezza dell'espressione implica uguale esattezza d'osservazione. Il press'a poco dello stile, implica un consimile press'a poco nei caratteri, nell'analisi, nella rappresentazione. Al disorganamento del periodo corrisponde talvolta un uguale disorganamento della concezione generale. Le conseguenze è inutile enumerarle; saltano agli occhi di coloro che si interessano dell'arte.
E questo ho voluto dirlo a proposito di due lavori— Senio e Decadenza —che hanno bellezze non comuni e pregi squisiti; che si leggono con grande interesse e che tentano una rappresentazione della vita italiana (accenno particolarmente a Decadenza del Gualdo) con larghezza di linee e con solidità di contenuto da onorare qualunque scrittore. Ed ho voluto dirlo anche a proposito del primo tentativo di un giovane assai promettente, quasi rimpianto di uno che ha tentato anche lui errando spesso, ma cercando sempre di correggersi con continui sforzi. Mi è parso che il grido d'allarme o la predica, se così si vuole, potrebbe ricavare da questa circostanza personale qualche valore, e non morire inascoltata come la solita vox clamantis in deserto. [Blank Page]
III.
ADOLFO ALBERTAZZI—ENRICO CORRADINI ¹
¹ A. Albertazzi, Ave; E. Corradini, Santamaura.
Da più di un mese questi due romanzi mi si mescolano, con la loro qualità, col loro contenuto, con la loro forma, così stranamente nel cervello, che io talvolta non ho saputo più distinguere l'uno dall'altro, quasi fossero una cosa sola e mi rivolgessero un'uguale domanda, meglio mi presentassero un uguale problema critico da risolvere.
Uno dei guai (che nello stesso tempo è un elevato piacere) a cui difficilmente possono sottrarsi coloro che si occupano d'arte letteraria, è la perdita della ingenuità e della freschezza che rendono vive e gioconde le impressioni di un'opera d'arte presso gli altri lettori.
Coloro che, bene o male producendo, debbono occuparsi non solo del concetto ma della parte tecnica del loro lavoro, nel leggere un'opera d'arte altrui si sentono sempre trascinati a passar oltre la pura sensazione estetica, per vedere in che modo e con quali mezzi essa sia stata prodotta. Quando poi questa sensazione non risulta efficace, specialmente se nell'artista che sta loro dinanzi si scorgono elevate qualità di sentimento e d'immaginazione e padronanza non ordinaria delle finezze e delle malizie di quel che si può chiamare, senza vilipenderlo, il mestiere; la curiosità di scoprire per quale intima e nascosta ragione quell'effetto si è arrestato a metà afferra talmente l'animo, da far nascere spesso il dubbio se mai questa ricerca della parte tecnica di un'opera d'arte—e quando essa ha raggiunto il colmo dell'efficacia producendo il miracolo dell'illusione della vita, e quando questo miracolo vien prodotto soltanto parzialmente—nasce il dubbio, se mai quell'impossibilità di ricevere ormai impressioni libere da qualunque secondo fine non sia poi la cagione che loro impedisce di percepire, al pari degli altri lettori, il valore di quelle parti che sembrano raggiunte, e l'altro specialmente di quelle che sembrano non raggiunte, come direbbero i pittori.
Per coloro che, buoni o cattivi produttori, si sentono trascinati a scrutare, leggendo un'opera d'arte, la parte tecnica di essa, c'è anche un altro pericolo: quello di trascurare l'osservazione dell'assieme e perdersi dietro l'ammirazione delle parti secondarie; c'è, inoltre, il pericolo di quel godimento crudele che vien provato dai medici dinanzi a un organismo malato, quando essi dalle funzioni alterate o invertite di un organo si veggono inattesamente rivelate certe sue funzioni che l'equilibrio della salute nascondeva gelosamente quasi per guarentirne la delicata natura.
Ho chiamato crudele questo godimento perchè proviene dallo studio della sofferenza altrui, e alletta e invade l'animo in guisa tale, che la pietà per la sofferenza del malato sparisce, e la malattia assume anzi un pregio che la fa dichiarare più bella e più interessante della stessa salute.
Io ho letto questi due romanzi, passando e ripassando per tutte le diverse sensazioni accennate, e confesso che il godimento crudele di cui or ora ho parlato non è stato il minore fra i varii miei godimenti. Per ciò non ho ritegno di aggiungere che li ho letti con vivissimo interesse, con piacere squisito; che molte parti ne ho rilette, che parecchie ne ho ripensate e rimuginate dal punto di vista della tecnica, per via della mia profonda convinzione che l'opera d'arte è forma soltanto e nient'altro che forma.
La coincidenza che protagonisti dei due romanzi siano due socialisti, uno più teorico che pratico—Paolo Desilva di Ave —l'altro così invasato dalle sue teoriche, da quasi non scorgere le rovine che la inconsiderata attuazione di esse produce attorno a sè, specialmente nella sua famiglia—Romolo Pieri di Santamaura;—l'altra coincidenza che i due scrittori abbiano un uguale culto per la bellezza dello stile e la purezza della lingua, e che l'uno, il Corradini, possieda quel che di vibrante, di caldo, d'impetuoso che si vorrebbe vedere, almeno di quando in quando, nell'Albertazzi; mentre poi in questo piace e seduce una trasparenza cristallina, una serenità, una eleganza di atteggiamenti che forse servirebbero ad attenuare la pletora da cui talvolta vien reso un po' tormentato lo stile dell'altro; la terza coincidenza che nei due scrittori la parte analitica prenda il sopravvento su la rappresentativa, e si vegga non si sa se un altero dispreggio di certi mezzi o malizie del mestiere o se un'inesperienza facilmente riparabile con lo studio e col farsi la mano a questo genere di lavori; e finalmente l'evidentissimo sforzo dell'istinto artistico che cerca di affermare i suoi diritti quasi a dispetto di certe convinzioni sempre lì pronte a mortificarlo (sforzo che dà, se non m'inganno, al concetto cardinale dell'opera, un significato perfettamente opposto a quello che era prima nell'intenzione dei due autori); tutte queste cose assieme spiegano benissimo la confusione delle due opere d'arte avvenuta nella mia mente, e il bisogno di parlare di esse in una volta, quasi di produzioni delle quali non si possa ragionare spartitamente.
La mia esitanza a renderne conto ai lettori del Roma non ha bisogno di altre spiegazioni.
Il romanzo dell'Albertazzi ha suscitato, al suo primo apparire, una polemica per la sfuriata dell'autore contro uno dei suoi critici, secondo me, inopportuna ed inutile. Ed io accenno a questo incidente soltanto per dire che suppongo molto giovane l'autore di Ave, come so giovanissimo l'autore di Santamaura. Ed entro in questi particolari che non hanno nessun rapporto col valore della loro opera d'arte, per dire che fa grandissimo piacere lo scorgere in due giovani tanta serietà e serenità di culto artistico; fatto che, assieme con parecchi altri, dimostra che che se ne voglia dire—come si vada elevando in Italia, e con fisonomia e carattere proprii, la nostra produzione letteraria.
Certamente questi due giovani (il signor Albertazzi, caso mai, non si offenda se io lo suppongo tale) arrivano nel momento opportuno; rappresentano un bisogno, una tendenza, e (se non si tenta di evitare gli eccessi) anche un pericolo pel nostro romanzo. L'opera loro non avrebbe avuto non solamente nessun significato ma anche nessuna efficacia dieci anni fa; e probabilmente le sarebbe mancato l'uno e l'altro indugiando a comparire e presentandosi qual'è fra dieci anni da oggi.
Il bisogno, le tendenze attuali consistono nella ricerca di un contenuto elevato per l'opera d'arte, e nella profonda convinzione che in un'opera d'arte la lingua e lo stile siano qualità essenziali e supreme. Per dire la verità non c'è niente di nuovo in questo bisogno, in questa tendenza, in questa convinzione, se si eccettua il significato che loro si dà. Una vera opera d'arte nobilita e sublima qualunque soggetto: lo stile e la lingua che riescono a rendere appropriatamente, efficacemente, con luminosa evidenza un dato soggetto, si scostino pure da modelli, da tradizioni letterarie in vigore, hanno appunto quelle qualità essenziali e supreme per le quali non ci dovrebbero essere nè modelli nè tradizioni da imporre. Ma è pur vero che nella pratica, tolte poche eccezioni, si era da noi arrivati, qualche anno fa a una deplorevolissima trascuranza e che ora la reazione è opportuna; e il vederla propugnata da due giovani d'innegabile ingegno e cultura è soddisfazione che il pubblico dovrebbe gustare assai più che non mostra, incoraggiando assai più che non soglia anche i tentativi non interamente riusciti.
Io desidererei però nei giovani scrittori italiani un po' più di malizia, specialmente col nostro pubblico già disavvezzo, per molte ragioni, dal puro godimento artistico di un'opera letteraria. E di questa malizia, che sarebbe anche un pregio non disprezzabile, si avvantaggerebbe pure la parte commerciale del libro. Cicerone, che non scriveva romanzi ma lavori filosofici di volgarizzazione, sentiva il bisogno, come egli si esprime, di rendere uberiora quelle sue disquisizioni perchè fossero vendibiliora. Ma i nostri giovani scrittori non curano di rendere uberiora le opere loro, e mostrano anzi una tal quale vanità nel far scorgere che sdegnano di curarsene.
Ma torniamo ai due romanzi L'Ave e Santamaura.
* * *
Leggendo l' Ave, di mano in mano che si procede, di mano in mano che ci si vede svolgere lentamente, pacatamente sotto gli occhi l'azione semplice ed intima dei tre personaggi (e non aggiungo principali, perchè i due altri che si mescolano un po' negli affari di quelli appaiono tardi e fuggevolmente) si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a una limpidissima fonte tra rocce muschiose e qua e là coperte di esili cespi di capelvenere. L'acqua tersa, appena increspata dalla lieve vena che l'alimenta, invita le labbra a tuffarsi in essa dando anticipatamente la fresca sensazione del ristoro offerto; se non che le labbra, avidamente chinate a tuffarsi e a bere, urtano contro un cristallo protettore, fin allora non lasciato scorgere dalla sincera trasparenza di esso e dalla limpidezza della fonte. L'ingannatore cristallo è con così ingegnosa abilità incastrato fra le rocce; liste di muschio e cespi di capelvenere ne dissimulano in modo così perfetto i contorni che avrebbero subito rilevato la inattesa sopercherìa, da far sorridere più che sdegnarsi della delusione sofferta. E si torna a guardare l'acqua tersa, lievemente agitata dalla tenue vena alimentatrice; e la sensazione della frescura e del ristoro tornano ad illudere piacevolmente; e si pensa quanta cura gentile abbia dovuto indurre a proteggere in quel modo la limpidità di quell'acqua da qualunque villano intorbidamento.
Non bisogna però avere troppa sete, per non sentire la tentazione di prendere un sasso e rompere l'invidioso cristallo. La provvida mano che lo ha lì sovrapposto non ha, si vede, contatto su questo caso; il quale è appunto (usciamo fuori d'immagine) quello della maggior parte dei lettori.
Per ciò non mi meraviglio di aver letto e sentito dire a voce che L'Ave è romanzo noioso, anzi che non è romanzo.
Invece a me sembra romanzo bene architettato, anzi troppo finamente architettato. Si scorge—e questo è male—che l'autore ne ha pensato e ripensato a lungo ogni minima parte e la disposizione e il valore da dare a ognuna di esse in rapporto alle proporzioni di tutto il quadro.
Si scorge che l'autore non ha messo una parola, una frase a caso; che non ha, forse, anzi certamente, concesso a quelle che a lui sono parse esteriorità, l'importanza che richiedevano: e che questa sua cura minuziosa, riflessiva, dalla concezione del soggetto si è naturalmente riversata su la forma, sul periodo, su gli aggettivi, sul modo di rendere le scene e il paesaggio, su il dialogo, su tutta l'espressione di atti e di pensieri dei personaggi, quasi un terrore di eccedere lo infrenasse e lo turbasse; quasi egli ripetesse a sè stesso, a ogni riga a ogni pagina: Meglio rimanere di qua, che avventurarsi troppo in là.
Così gli è avvenuto di non compenetrarsi col fantasma delle sue creature in modo da sopprimere in esse il segno della sua personalità di autore; così nei sentimenti, nei pensieri, nei ragionamenti loro, avviene di sentire spesso qualcosa ricorda il suggeritore delle compagnie comiche e produce sgradevole impressione. E questo si avverte maggiormente quando vengono avanti le due figure secondarie del maestro Capozzi e di sua moglie, nelle quali l'autore non ha nessun concetto da incarnare. E per ciò esse gli riescono più vive dei due personaggi principali, Paolo Desilva e il curato don Saverio Guardi; e per ciò la gentile figura della sorella di questo, accarezzata con grandi finezze di colorito e di sfumature, risulta la più bella del romanzo, quantunque faccia difetto pure a lei quel che si potrebbe dire la spontaneità e la inconsapevolezza della vita.
Ed ecco—voglio darne una prova—il guaio di chi legge con preoccupazioni di tecnica letteraria. Tutte queste deficienze quasi volute, tutte queste inesperienze di mestiere sono state appunto per me le provocatrici di una delizia estetica di cui mi piace ringraziare pubblicamente l'artista autore dell' Ave.
Artista, senza nessun dubbio, e squisito: che troverà subito la via diritta e larga e vi farà gran cammino, appena riuscirà a sbarazzarsi di parecchi preconcetti che ora lo impacciano; appena si convincerà che indarno l'elevatezza della concezione lo attirerà, se poi essa non arriva a compire il miracolo di nascondersi, di sparire sotto la densità della forma—l'aspetto esteriore, il suono della voce e il resto—insomma sotto tutte le accidentalità che, come producono nella vita reale l'individuo, e lo distinguono assolutamente da qualunque altra creatura, devono poi, allo stesso modo, elevato nell'atmosfera ideale dell'arte, rifarlo in guisa da dissimulare quella specie di tradimento che l'arte fa alla Natura purificandola delle irragionevolezze e delle miserie provenienti ad essa dall'azione cieca del caso.
Giorni fa, nello studio di un valoroso scultore osservavo l'opera di uno scalpellino che riproduce in marmo il gesso ricavato dalla prima forma di creta; il gesso, caratteristico, vivo, rappresentava un uomo maturo dal naso piccolo e adunco, con le labbra fine, quasi ironiche, e con una espressione di risolutezza, di durezza d'animo a cui le sopracciglia sporgenti e la fronte ampia, dritta e solcata da rughe, aggiungevano significato. Il marmo, appena in abbozzo, rendeva tutte le linee e le forme del gesso, ma con qualcosa di addormentato e di glaciale, quasi che dentro il masso già corressero fremiti di vita, ma come costretti da sonno, o da paralisi. Guardando fissamente, sembrava di scorgere in quel marmo una sofferenza. Ed io ricorrevo col pensiero a talune parti di Ave, dove la mano dello artista si è malaccortamente arrestata nel tradurre in forma viva il vivo concetto della immaginazione. Quel difetto nell'abozzo dello scarpellino proveniva dalla mancanza delle minutezze di rilievo e di modellature non ancora tentate di riprodurre e che erano precisamente quelle che infondevano la vita nella forma di gesso. Così, nei personaggi di Paolo Desilva e del curato don Saverio Guardi, si scorge il difetto di certi particolari minuti, di certe modellature sapienti che l'artista—e questo un occhio esperto lo vede—ha volontariamente trascurato, fidando troppo non so se nella propria abilità o nella sagacità della mente e nella forza d'immaginazione dei suoi lettori.
E per ciò quei due personaggi discutono astrattamente con lo stesso tono, con lo stesso accento rigido, severo, pieno di formole; e la loro evoluzione per ciò non interessa molto, o interessa unicamente per riguardo della dolce creatura di Livia, la sorella del prete; la quale soffre della loro poca umanità, e questa sua sofferenza timida e chiusa fa riverberare bagliori di vitalità anche sui suoi tormentatori, che finiranno con farla morire bestemmiando.
Tutto il dramma si riduce alla strana lotta di reciproche e avverse influenze del socialista sul prete e del prete sul socialista; lotta che conduce il socialista a farsi prete e il prete a divenire libero pensatore e a buttar la sottana alle ortiche.
Paolo Desilva, per un momento ha ceduto al benefico influsso di Livia, si è sentito rammollire il cuore da un sentimento più naturale che non siano quelli già destatigli dai teoremi di Carlo Marx. Ma sul punto di sposare colei che gli ha fatto intravedere un nuovo aspetto della vita, egli vien ripreso dall'astrazione, dall'utopia.
"Per Livia aveva compreso un tempo il bene d'una sorella; e non gli era bastato, e aveva voluto e ottenuto di più, tanto da rimeritarla d'ogni sua più gioiosa speranza.
"Gentil fiore, ignaro della propria dolcezza, egli la porterebbe seco nel mondo, non più torbido, sereno in virtù di lei, e per lei benedirebbe un giorno alla vita santificata nelle creature del loro sangue.
"Così l'amava.
"Ma appunto amandola così, che inesauribile sorgente di forza per il suo ideale di rinunzia ad essa! Non più un giorno, un'ora di remissione nel suo intendimento; non un minuto di abbandono e di riposo, mai più, perchè lo stimolerebbe senza tregua il ricordo che quel giorno, quell'ora, quel minuto egli l'aveva rapito in un sacrificio crudele e mirabile alla propria felicità…"
Miglior di lui, Don Saverio; il quale almeno, all'ultimo sente bisogno di muoversi, di faticare: è stato troppo sui libri. E fa un giro per la parrocchia, dove—rallegriamocene di sfuggita—il pensatore si lascia un po' vincere la mano dall'artista.
Ma, poco dopo, eccoli tutti e due di fronte, mentre la povera Livia, che vorrebbe sapere qualcosa, si accosta in punta di piedi, tremando all'uscio della stanza dove essi stanno per rivelarsi il mistero della loro mente.
—Non credo più dice il prete.
E Paolo, che ha perduto ogni fede nella scienza e che ha già dichiarato solo infallibile il sentimento, crede che sia un brutto scherzo, una cosa inverosimile.
Povera Livia!
"Attenendosi al muro, piano piano, ella pervenne nell'oscurità, alla sua camera, e si lasciò cadere co 'l viso in giù su 'l letto.
"Non più amore, non più fede! Per amore degli altri Saverio non aveva avuto uno scatto, una minaccia, un rimprovero, una parola in difesa di lei; per amore di Dio, Paolo l'abbandonava. Ma questo Dio che le rubava Paolo; ma questo Dio non aveva pietà di lei e ch'ella aveva pregato con tanta fiducia e tante lagrime, che cos'era?—Era una menzogna in cui un uomo d'ingegno quale suo fratello, un sacerdote ardente e puro quale suo fratello non poteva credere più!
"Non più fede e non più amore: la morte."
Eh, no, povera creatura! Dio non c'entra. Dio, quando vuol fare—e fa spesso, anzi sempre—da artista, non fa mai le cose a mezzo; e le sue creature soffrono e fanno soffrire, sì, come il tuo Paolo e il tuo Don Saverio, ma sono creature di carne e di ossa, come Don Saverio e Paolo non sono riusciti a divenire compiutamente.
In quanto a me, ti dichiaro volentieri, dolce e pietosa creatura, che la tua semplice apparizione è bastata a compensarmi di quel che non ho trovato o che ho trovato a metà, in tuo fratello e nel tuo amante.
* * *
Niente della ben architettata e ben sviluppata orditura di Ave in Santamaura del Corradini. Ma però qual vivo senso della realtà! E con quale agilità i suoi personaggi si muovono e gestiscono e parlano nel momento in cui egli li vede e li mette in azione! In azione? Ho detto male, se per azione si vuole intendere un ordinato intreccio di fatti che procedano, si svolgano, si aggroviglino, tornino a spiegarsi verso uno scopo, verso una catastrofe inevitabile, logica, necessaria, prodotto totale dei caratteri, delle passioni, delle circostanze, dell'ambiente. Si vede anzi che questo è stato sfuggito o evitato dall'autore, scientemente a quel che pare; non saprei dire se per dare alla sua opera d'arte un atteggiamento di alterigia, quasi di sfida, o se per un senso di sgomento davanti alla difficoltà che altrimenti avrebbe dovuto affrontare e superare.
Da ciò il comodo sutterfugio a cui ha dovuto ricorrere per dissimulare il difetto d'orditura, dividendo in cinque quadri, ognuno col loro special titolo, il romanzo; presentando le figure a una a una, o riversando addosso a ciascuna di esse, in certi momenti, un fascio di luce, con l'artifizio di quei pittori che fanno così risaltare dal fondo scuro di una tela, anche tra la folla, un dato personaggio, senza curarsi di giustificare d'onde quella luce provenga.
Questo però non significa che manchi in Santamaura un filo con cui vengano legate assieme le diverse parti; ma è filo troppo evidente e non può star in luogo di organismo.
Senza dubbio, l'organismo, o almeno l'embrione di esso, c'era già nella mente dell'autore. Egli però non ha avuto pazienza di covarlo, di farlo sviluppare e crescere: ha avuto fretta. La rembrantiana figura del vecchio umanitario Romolo Pieri, che ha profuso le sue ricchezze e tutte le energie del cuore e della mente per trasformare il quasi barbaro villaggetto di Santamaura in un centro di lavoro, di agiatezza, di intellettualità, e che non piega e non si pente del suo sacrifizio neppur quando gli si accumulano attorno le rovine della sua casa e i fantasmi dei morti e dei mal vivi della sua famiglia pur tanto amata; la livida figura del giovane Mauro, che le utopie del padre hanno inviato, quasi apostolo, pel mondo, ad affrettar l'avvenire, com'egli dice, con la parola e con l'opera, e che invece gli ritorna a casa misero, corrotto e corruttore di scioperati e straccioni, attratti attorno a lui dalla forte calamita della disperazione e dell'odio; la esile e straziante figura di Annunziata, che vive di rancore, di livore, inaridita internamente per mancanza di amore, come è ingiallita e mezza distrutta dalla tisi ereditata dalla madre; e questo squallido, fatale e doloroso fantasma della madre, Teodula Santa, che si mescola dall'altro mondo, coi ricordi, con gli effetti della sua opra di rassegnazione mistica, alla vita presente dei suoi, e che in certi momenti sembra ancora viva, tanto la sua influenza è tuttavia prepotente: tutte e quattro queste figure egli se le è dovute veder dinanzi con tale nettezza di contorni, con tale energia di colorito, che non ha più voluto badare ad altro; lusingandosi forse che, riuscendo a renderle tali quali si presentavano alla sua commossa fantasia, egli non avrebbe avuto più altro da desiderare o da tentare.
E così ha fatto. Invece di un solo gran quadro, ha dipinto cinque quadri— Il vecchio umanitario, La madre, Annunziata, Le vittime, Mauro Pieri —come gli antichi pittori dal soggetto di una leggenda ricavavano un trittico.
E così facendo, e non potendo intanto ammorzare lo istinto artistico dell'organismo, ha tentato con ripieghi, con artifizi—abili, sì, ma pur artifizi—di correggere il difetto.
Il vero romanzo sarebbe stato quello che i tre personaggi, Romolo Pieri e i suoi due figli, Mauro e Annunziata debbono, ognuno per proprio conto, ripensare e rimugginare e lumeggiare perchè la loro esistenza, il loro carattere e gli intimi movimenti del loro cuore, del loro intelletto vengano giustificati. Il vero romanzo sarebbe stato quello che i lettori intravedono a sprazzi, a scatti, narrato e non rappresentato, a traverso la immaginazione di quei tre personaggi: Santamaura barbara, misera, incolta, sperduta in quella vallata che l'Arno gonfio e lutulento chiude in un vasto semicerchio, fra rocce, colli, pendii, brevi piani e burroni profondi; Santamaura che non ha industrie, nè scuole, nè ospedale, nè società di mutuo soccorso, stretta dalle tenebre dell'ignoranza, sopraffatta dalla forza del male; quella Santamaura che Romolo Pieri vede con soddisfazione, trasformata e che ora "gittando un forte braccio di case, come a significare una continuazione indefinita al di là del gomito dei monti, pare avvinghiarsi a questi violentemente:" quella Santamaura che apparisce a Romolo Pieri, guardante dall'alto delle rocce, "or dalla roggia distesa dei tetti vibrare fiamme vincenti quelle delle nubi rossastre, che correvano sovr'essa; or con le sue costruzioni recenti diffondere una sensazione di freschezza e di chiarezza per l'aria tetra. E le grandi fabbriche, che le stavano attorno, gli sembravano cingerla come una cerchia di forti, e dai lor camini uscivano larghi getti di fumo con maggior veemenza e con maggior resistenza," talchè "essa, essa soltanto rispondeva con grido rassicurante al suo gran cuore angosciato, rompeva essa sola con un fascio di luce le tenebre, che l'accerchiavano."
E non soltanto il villaggetto ridotto da barbaro civile; ma il vero romanzo, ma la tragica azione era appunto quello svolgersi di vicende, di lotte, di dolori, di resistenze, di prostrazioni che, come ho detto, i tre personaggi—Romolo Pieri e i figli Mauro e Annunziata—debbono raccontarci di scorcio, meno efficacemente, senza dubbio, di come ce l'avrebbe raccontato l'autore. E stavo per dire, di come si sarebbe raccontato da sè nell'orditura organica dell'azione, se il Corradini non si fosse lasciato sedurre dalla sua idea di narrare frammentariamente, con scompartimenti che vorrebbero apparir effetto di un processo più libero e più bizzarro di quello usato da tanti altri, ma che invece irrita e distrae; per ragione anche di un pregio di plasticità e di rappresentazione efficace, che si fa molto ammirare nelle parti dove i personaggi non son costretti a digrumare il passato, a far l'esame di coscienza per comodo dell'autore, ma entrano decisamente in iscena e si abbandonano ai moti di passione del momento.
E queste risultano le parti più belle, quasi per infondere un rimorso all'autore. E mi piace di citarne un breve esempio che può stare da sè e forma quadro compiuto.
Mauro, ritornato quella mattina in casa del padre, è da pochi minuti con lui; e già gli accennava la vita di miseria e di umiliazioni trascorsa quando "una donna entrò in bottega, a testa alta, con un gran fagotto tra le braccia. Buttò il fagotto su la tavola, esclamando:
"—Eccomi qua!
"—Romolo e Michele (il vecchio e fedel servitore di casa Pieri) si guardarono in volto. Mauro vacillando mandò un lamento di disperazione e rimase impietrito con gli occhi fissi e tremanti sul padre.
"—Ehi!—riprese la sconosciuta con una voce piena di schiamazzi, rivolgendosi a Mauro.—Volevi che restassi in mezzo ai boschi bello mio? Figuratevi, gente mia, che dalla frontiera a qui siamo venuti un po' a piedi, un po' con le gambe. E vi dico che non ci siamo sostenuti a brodi di cappone! Ehi! bello mio! sei restato di sasso? Portami a casa di tuo padre… Non è mica questa la casa di tuo padre!… A quest'ora glien'avrai già parlato di me!… È questo tuo padre?
"Il suo grosso indice si appuntò verso il petto di Romolo e rimase dritto nel cenno. Parve a Mauro, che il padre si ritraesse, quasi a evitarne l'urto; volse gli occhi in giro per misurar l'effetto della sua rivelazione, mugolò, ammutolì, poi balbettò come avesse confessato un delitto:
"—La mia compagna… Massima.
"—Tua moglie…—sussurrò il vecchio trepidando.
"—La mia compagna—replicò il giovane.
"—Che moglie e non moglie!—proruppe il donnone—Che moglie e non moglie!
"Poi voltasi a Mauro:
"—Mi dicevi che tuo padre era con noi. Te lo sei sognato bello mio! Che moglie e non moglie! Come dire, che se non abbiamo con noi il certificato del sindaco ci si chiuderà la porta in faccia! E noi ce n'andremo! Non ci si perde mai di coraggio, noi! Ne abbiamo passate altre! Vieni, bello mio, vieni!"
E mi duole che la tirannia dello spazio mi obblighi a tagliar corto alla scena.
Ripeto: il vero romanzo era il passato, quel che serve di premessa alla narrazione attuale, la quale avrebbe dovuto esserne l'epilogo, la chiusa dolorosa e tremenda.
—Ma io non ho, appunto, voluto scriverlo, ed ho, appunto, voluto scrivere questo!—potrebbe dire il Corradini.
È nel suo diritto.
Se non che, vorrei scommettere qualcosa contro lui, prevedendo che un'altra volta non farà più così. Come, probabilmente, farà anche l'Albertazzi. Sono tutti e due troppo vigorosi e sinceri artisti, da perdurare in certe meschine disaccortezze di tecnica, da intestarsi in certe fissazioni di processo che tolgono bellezza alla loro opera d'arte, o per lo meno le impediscono di mostrare intera la sua virtù.
Tanto è vero che tutti e due sono urtati contro gli stessi scogli; tutti e due hanno, per dirne una, messo al mondo quasi con identico processo, due figure di donne, Livia e Annunziata, nelle quali si scorge tal parentela di linee, di sentimenti, d'idealità, che, senza le diverse circostanze e gli effetti di esse, le farebbe supporre create da unica fantasia, tratteggiate da unica mano.
Ma non vorrei che questo venisse preso alla lettera. E lo avverto più pei lettori che per i due autori, i quali intenderanno meglio di tutti il preciso significato delle mie parole.
Un'ultima osservazione e finisco.
Ho detto, in principio, che il loro istinto artistico afferma i suoi dritti con l'evidentissimo sforzo di vincere serie convinzioni sempre lì pronte a mortificarlo; sforzo che dà, se non m'inganno, al concetto cardinale delle due opere un significato perfettamente opposto a quello che era prima nell'intenzione dei due autori.
Infatti, che significa la conversione di Paolo Desilva, se non che il socialismo è, più che altro, un sentimento; e che, come tutti i sentimenti non regolati dal positivismo delle ferree leggi naturali, riesce all'assurdo e nuoce a chi lo sperimenta e alle persone che lo circondano?
Che valore ha l'altruismo di Romolo Pieri, se il più immediato dei risultati di esso è la distruzione della famiglia; il dolore e la disperazione seminati attorno; il vizio, la corruzione, l'odio, la morte di coloro che, prima di tutti gli altri, avrebbero dovuto trarne beneficio?
Ho messo innanzi la riserba:—Se non m'inganno—perchè il concetto dei due lavori non si presenta ben chiaro, o almeno non è tale che si possa afferrarlo a prima vista. Ma se fosse proprio l'opposto di quel che risulta, se l'istinto artistico ha fatto forviare i due autori (l'Albertazzi, convien dirlo, forse meno del Corradini), c'è da felicitarsene con loro; perchè quando si è veri artisti, non c'è preconcetti che tengano; la forza creatrice supera gli ostacoli, e fa venir fuori, o tenta di far venir fuori, non fantasmi destinati a raffigurare un'astrattezza, ma, a dispetto di tutto e di tutti, creature vive e sane.
IV.
GRAZIA DELEDDA—ALFREDO PANZINI¹
¹ G. Deledda, La via del male; A. Panzini, Gli ingenui.
Io non ho seguito la signorina Deledda lungo il suo cammino dal Fior di Sardegna, tentativo molto giovanile e non molto promettente, fino a questa Via del male che, non ostante i difetti, è un assai bel lavoro. Se mi dispiace però di averla perduta di vista e di non poter oggi studiare lo svolgimento delle sue facoltà di narratrice—mi è mancato il tempo di leggere le sue produzioni intermedie—son lieto di osservare quanto il suo ingegno si sia maturato e quali promesse ci faccia per l'avvenire; dal Fior di Sardegna alla Via del male il progresso è straordinario, e nessuno avrebbe potuto prognosticarlo dopo la lettura di quel primo lavoro.
È già molto il veder persistere nella novella e nel romanzo regionale lei giovane e donna, e per ciò più facile ad esser suggestionata da certe correnti mistiche, simbolistiche, idealistiche che si vogliano dire, dalle quali si lasciano affascinare ingegni virili. Questa persistenza indica un senso artistico molto sviluppato ed equilibrato, un concetto giusto dell'arte narrativa che, innanzi tutto, è forma, cioè creazione di persone vive, studio di caratteri e di sentimenti non foggiati a capriccio o campati in aria, ma resultato di osservazione; quanto dire studio e creazione di personaggi, nei quali il carattere e la passione prendono determinazioni particolari non adattabili a tutti i tempi e a tutti i luoghi.
La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un'opera d'arte; cito, per esempio, quella delle notti passate da Pietro Benu nella solitaria campagna di là dalla vallata di Marreri, col pensiero rivolto a Maria Noina, la figlia dei suoi padroni.
"Il paesaggio immenso, triste, silenzioso, coi confini perduti nell'orizzonte reso grigio dalla infinita lontananza, la visione delle montagne lontane, livide su lo sfondo dei continui vapori autunnali, contribuivano a rendere più intenso il raccoglimento triste di Pietro, e in quel raccoglimento la passione lo assottigliava come una idea fissa.
"Raramente qualche mandriano, qualche paesano a cavallo, qualche donnicciuola che scendeva a piedi dal povero villaggio di Follovì per recarsi a Nuoro, attraversavano la china dove Pietro lavorava; un saluto forte e bizzarro risuonava allora fra i ginepri, perdendosi giù, tra i rari olivastri del pendio, poi più nulla, più nulla. Neppure un canto di uccello, nè il sussulto di un torrente.
"Nel silenzio immane di quel cielo autunnale, sempre ineffabilmente triste, nelle tinte grigio-rossastre delle tarde albe, nell'azzurro profondo e metallico dei tiepidi meriggi, nei vapori violacei della sera, nelle nuvole gravi dei giorni cattivi, quando l'umido irrorava quel rigoglio selvaggio di vegetazioni rossastre, traendone acuti profumi di profonda solitudine, il pensiero di Pietro lavorava, lavorava, dietro quell'idea fissa, dolce e tormentosa nel medesimo tempo.
"Tutti i giorni i buoi andavano su e giù, ed egli li seguiva col pungolo, pensando.
"Aveva trovato una vecchia capanna di rami secchi e di pietre, e restauratala alla meglio, ci aveva stabilito la sua residenza, deponendovi i viveri, formandosi un magnifico giaciglio con fronde di cisto che odoravano e col sacco datogli da Maria. Dormiva e faceva i suoi pasti lassù, con Malafede, che non avendo altro da fare starnutiva ogni momento, abbaiando contro le foglie portate dal vento. Dal pertugio della capanna, funzionante da porta, Pietro teneva d'occhio i buoi che pascolavano in un pezzo di terra più giù della chiesa.
"Di notte la solitudine, per uno strano effetto che si osserva in molte campagne sarde, si animava un po', o almeno non era così completa come di giorno. Calata la sera, Pietro vedeva i fuochi degli altri contadini lontani, sentiva il tintinnìo di gregi pascolanti in distanza, e gli pareva di udire voci umane portate dal vento o nel gran silenzio del buio, e l'abbaiare amico e diffidente di Malafede metteva come una nota vibrata di vita nella solenne tristezza del paesaggio."
Ho voluto trascrivere intere queste due pagine, quantunque convinto che così staccate non possano produrre l'effetto che esse fanno al loro posto, nell'insieme del quadro e dell'azione. Uguali e forse di maggior valore sono le descrizioni del notturno pellegrinaggio delle nuoresi al santuario di Gonare; del pranzo nuziale pel matrimonio di Maria Noina con Franciscu Rosàna; della vita degli sposi novelli nell'ovile della tanca del Rosàna, dov'egli è ucciso a tradimento; della ria in casa Noina con le prefiche che cantano a boche a boche i loro attitidos su la bara del morto; scene di costumi e di usi sardi, parte organica dell'azione, non semplice pretesto per far sfoggio di colorito locale.
La quale azione si svolge con crescente interesse fino all'assassinio del Rosàna.
L'assassino di Franciscu Rosàna è stato quel Pietro Benu innamorato di Maria, per la quale egli ha cercato di arricchirsi con loschi mezzi—che s'intravvedono e che forse avrebbero dovuto esser messi in maggior luce;—quel Pietro Benu che ha saputo ridestare nel cuore della vedova i sentimenti di simpatia e di compassione lasciatigli scorgere quando ella era ancora ragazza. Un baleno di sospetto contro Pietro Benu aveva attraversato la mente di Maria nei primi istanti della disgrazia; ma le circostanze e la profonda dissimulazione del colpevole ne avevano fin scancellato il ricordo. Ella si era unita a lui tranquillamente, quasi cedendo a una fatalità, e già cominciava a rivivere dopo i terribili giorni dell'assassinio di Franciscu e i lunghi tristi mesi della vedovanza. "Una grande felicità le irradiava il volto; spesso ella cercava di nascondere il suo gaudio eccessivo, per un sentimento delicato misto di pudore e di egoismo, che la costringeva a celare la sua intima letizia, forse per non destare invidia, forse per godersela di più, concentrandola tutta nel segreto del cuore; ma gli occhi la tradivano….
Un giorno una lettera anonima arriva da Cagliari che le svela il segreto della ricchezza di Pietro accumulata con furti di bestiame e con spaccio di falsi biglietti di banca, e l'altro reato già sospettato, dello assassinio di Franciscu Rosàna!… Si sente presa da terrore, non osa credere, capisce che la lettera è arrivata con ritardo e che scopo di essa era impedire il matrimonio. Il ritardo le sembra un gastigo del Signore. Ella aveva un po' lusingato Pietro Benu quand'era ragazza, e poi aveva sposato un altro. Il gastigo però non è sproporzionato alla colpa? Ed ora che dovrà ella fare? Accusarlo? Perdonarlo? Perdonarlo, mai! Sarebbe vissuta con lui per l'occhio della società, ma non avrebbe avuto più nulla di comune con lui. "Lui per la sua via, ed ella per la sua"
La scena che segue all'arrivo di Pietro Benu è fatta con abilità, ma non mi sembra quella che ci voleva. Si risente un po' dell'artificio con cui è stata prodotta. La contadina che ha scritta la lettera anonima si trova troppo facilmente—e due volte—in condizione di ascoltare, non veduta, e di sorprendere segreti. Passi il bacio ch'ella ha visto dare dal Benu a Maria; ma l'appuntamento col fidanzato alla chiesa della Solitudine, prima dell'alba, e le brevi parole ch'ella, di dietro la cantonata, ode scambiare fra Pietro Benu e un ignoto intorno all'assassinio del Rosàna sono evidentemente un artificio per arrivare poi alla lettera anonima e allo scioglimento del romanzo. E questo artificio guasta l'ultima scena, alterando il carattere di Maria, facendole prendere una risoluzione quasi melodrammatica, rendendo affrettata e innaturale l'azione. Peccato!
Il romanzo, non ostante anche altri difetti, rimane però opera forte e seria e fa davvero onore all'ingegno della giovane scrittrice. Si vede ch'ella ha già il polso agile e solido per disegnare e dipingere un quadro di vaste proporzioni. Qua e là s'incontrano inesperienze di mestiere, ma non intaccano l'ossatura del lavoro. La parte esteriore dell'opera d'arte—la lingua e lo stile,—ha bisogno di molta cultura e di studio; è un po' disuguale, e in alcuni punti trascurata, o esitante, quasi ignorasse in che modo esprimere un concetto, senza servirsi di una formola che dà soltanto il press'a poco; da ciò un eccesso di forme approssimative:—il vomero brillava come di argento, sentiva come un peso insopportabile; ebbe come una suggestione di calma; gli sembrava di trovarsi come in una casa lieta di benessere; viveva come in un nuovo mondo; dominava sul quadro, una certa barba maestosa e jeratica.
E questo jeratica è anch'esso una stonatura; e ugualmente una stonatura il seguente periodo: Fuori il vento diventava sempre più violento e cantava come un pazzo inno di leggende nella gran notte sublime dei cristiani. E poi che, senza eccedere, la signorina Deledda ha dato al suo lavoro un accento impersonale spiccato, anche nella narrazione dove i personaggi non parlano ma pensano e sentono a modo loro, quel vento che canta come un pazzo inno di leggende, non poteva passare neppur un istante per la fantasia di un rozzo contadino qual'è Pietro Benu.
Minuzie, lo capisco; alle quali è giusto però che la signorina Deledda badi un po' più nell'avvenire, perchè le improprietà della lingua nuocciono alla chiarezza e all'evidenza per lo meno altrettanto quanto i press'a poco. Pel resto, le basta affidarsi al suo vigoroso istinto di artista.
Qualcuno dirà: Ebbene, che ha voluto provare l'autrice con questa sua Via del male? Niente, rispondo io; ha tentato di metter fuori delle creature vive, e c'è riuscita. Non si è smarrita dietro un lavoro di analisi psicologica, artificiale; ma ha fatto sentire, pensare, agire, tutte quelle creature nel loro ambiente, proprio come fa la natura con le sue. Sotto quelle carni, sotto quei nervi ci sono anime che amano, soffrono, errano, scontano le loro colpe, fin le loro debolezze; c'è l'umanità, non astratta, ma reale, sostanziale; e dove c'è l'umanità c'è il pensiero, c'è il concetto: spetta al lettore cavarlo fuori. L'arte pensa a modo suo, creando forme; chi cerca di farla pensare altrimenti la snatura, non lo ripeteremo abbastanza.
Alfredo Panzini, invece, è un artista che pensa troppo, o meglio, che lo lascia scorgere troppo. Ma, rassicuriamoci; in questo volume di novelle che seguono il suo primo saggio narrativo, Il libro dei morti, c'è già qualcosa che ci conforta intorno all'avvenire dello scrittore.
Le quattro novelle che formano il volume Gli ingenui, sono lo svolgimento di uno stesso concetto, e sembrano scritte a posta, quasi altrettanti capitoli di un libro. Ingenua veramente, tra le quattro figure presentate, è soltanto quella della povera donna che chiacchiera, chiacchiera in uno scompartimento del treno da Novi-Pavia; le altre sono figure di persone, più che ingenue, squilibrate; ma non importa. Siamo lontani assai dalle vaporosità, dalle indeterminatezze del Libro dei morti.
In quel primo saggio, notevolissimo senza dubbio, il concetto sembrava stentasse a condensarsi nella forma; rimaneva indeciso, tra qualcosa di fantastico e di reale che lasciava insoddisfatti. C'era, è vero, una sfumatura d'umorismo e d'ironia che pervadeva le pagine dalla prima a l'ultima e dava loro una specie di grato profumo poetico; ma l'opera d'arte rimaneva ibrida, lasciava vedere apertamente la riflessione che avrebbe dovuto diventare forma viva, e non si era risoluta, alla fine, non si era abbandonata intera alla immaginazione, quasi diffidasse di lei o temesse di vedersi tradita e di esser quindi fraintesa.
E fin la riflessione non si sentiva sicura di sè stessa; era un misto di pessimismo, di sentimentalismo, di codinismo, che evidentemente si trovava a disagio tra le ristrette proporzioni di un'opera d'arte. Tentava discutere per bocca di alcuni personaggi, per bocca del narratore, per mezzo dell'azione fantastica che cominciava e chiudeva il libro, ma aveva la coscienza di dover rimanere insufficiente. E per ciò aveva preso la prima forma capitatale sotto mano, tanto per far qualcosa e velarsi un po' con quella barocca creazione di un morto che non ha trovato Dio nell'altro mondo, e che pure sente e pensa tuttavia nella umida tomba dove l'hanno messo a giacere, e prega e ottiene dalla Morte il permesso di tornare per una sola nottata a casa sua. Povero diavolo! Nella sepoltura ha pensato e ripensato la vita tranquilla e laboriosa da lui menata,—vita appartata, senza grandi gioie, fuori del movimento sociale del suo tempo—e vorrebbe avvertire il figliuolo di non fare come lui, ma di gettarsi a capo fitto nel turbine della società e godere e dominare… Il suo viaggio però riesce inutile. Nella sua casa egli trova ogni cosa come le aveva lasciate: "la stanzetta da pranzo tutta pulita, coi suoi vecchi mobili e odorosi di mele cotogne…. Il suo studiuolo tutto assestato e raccolto, come quando egli vi si recava a leggere o a pregare; lo scaffale con i libri tarlati, messi in fila, il seggiolone di cuoio… Nella camera da letto riposava quella che era stata così buona e mansueta compagna della sua vita. Auliva la stanza di verginità rifiorente in quella casta vecchiezza; e la testa grigia; la faccia scarna era adagiata su d'un alto guanciale e le mani esili giunte sul petto ed intrecciate da una grossa corona… Nella stanza del figliuolo, un lumino ardeva davanti a l'imagine de la Madonna e diffondeva attorno una mite luce. Il giovane giaceva supino ne la beatitudine del sonno, con il capo sprofondato nel guanciale.
"—Perchè non si affrettò a compiere l'opera per cui era venuto e gliene aveva dato potere la Morte?… Forse pensò che, se a quel suo viaggio si era mosso per il bene del figlio, nessun altro bene poteva essere maggiore di quello di cui godeva… Forse lo vinse amore della sua vita passata, forse chi sa, dinanzi alla inesorabile morte gli parve che tanto volesse conoscere il vero come vivere nell'errore, o forse meglio, questo mirabile errore, soltanto come disfida e ribellione dell'uomo contro la fatalità delle cose: fonte perenne di valore e di eroica bontà.—E così lo spirito doloroso ritornò alla sua tomba."
Il lettore si sarà accorto come dall'incertezza del concetto sia scaturita un'uguale incertezza nella concezione artistica di questo morto che sa di non essere immortale e che prega la Morte—un'astrattezza!—e ottiene di poter uscire dal sepolcro e rivedere la sua casa e sua moglie e suo figlio; si sarà accorto come è inutile che un concetto tenti di assumere forma d'arte se non si è deciso di perdere assolutamente la sua natura di concetto e diventare persona.
Di questo difetto si è già accorto benissimo l'autore, e nelle quattro novelle degli Ingenui ha battuto altra strada. Non è riuscito, mi parve, in due tentativi: in quella Nora che non sembra cosa sua, tanto è artificiosa e scadente, in quel Per un ribelle che, più che una novella, è una poco felice bizzarria. Ma in La cagna nera il gran passo è fatto quasi compiutamente; senza quasi nel Da Novi a Pavia, la perla del volume.
La cagna nera è lavoro più largo; ma quel contino scapato che, dopo i rovesci di fortuna della sua casa, crede di riabilitarsi facendo il maestro di scuola, e trova nella vita tante delusioni e tante amarezze per via di una cagna nera, mezza rognosa, da lui caritatevolmente raccolta, è proprio un ingenuo? È uno squilibrato, per eredità, e finisce male: impazzisce. Se non che l'autore si è dimenticato che egli non narra per conto suo, ma per bocca del suo stesso personaggio. E per ciò a tutta la narrazione, bella ed evidentissima, manca la intonazione giusta. Così egli ha dato in prestito al personaggio certe forme che chiamerò retoriche—direi meglio, artificiali—e che, in mezzo a tanta ricchezza ed evidenza di particolari, sono una vera stonatura.
Ecco, per esempio:
"E allora per la calda afosità del tramonto, in quel muto languire del giorno, una figura di donna nuda, maravigliosa e splendente come un sogno, sorse alla mia vista, e si aggirava veloce fra gli alberi come se i piedi a pena lambissero il suolo, e con le braccia sollevate e le palme distese e le chiome accarezzava le erbe e i fiori presso cui trasvolava, come una benedizione.
"Il riso lascivo si era mutato in una voce distinta come una cantilena, e quella voce usciva dalle labbra di quella fata.
"Diceva: "Io sono impudica come Pasife, io sono casta come la Sibilla, io sono forte come Ippolita, io sono sapiente come Minerva: io sono eterna!"
Due pagine intere di questo tenore!
E, prima, aveva fatto lo stesso:
"Ma le onde battevano su la scogliera. Venivano dall'alto verdi, erte, trasparenti come vetro di smeraldo; più e più affrettavano la corsa, spumeggiavano ne la cresta, si accartocciavano e rompevano fragorose e rapide con infinito pulviscolo ai miei piedi.
"—Lo vedi tu, sorella azzurra? Lo vedi tu sorella bianca?—dicevano l'una all'altra, movendomi incontro.—Quegli è matto! Egli era in buono stato; poteva far la traversata della vita senza accorgersene, come un pulcino in una scatola di bambagia. Ne la tua società—mi domandavano—non ce n'erano più marchese vecchie con la prurigine della lussuria; non ci erano fanciulle ereditiere da sposare; non c'erano sul tappeto verde del tuo club buoni da mille da guadagnare?"
Un'altra pagina!
E, prima ancora, l'altro chiacchiericcio dei santi incollati al suo capezzale nella sua povera stanza di professore; udite:
"Tutti convergevano gli occhi verso di me obbliquamente come a domandarsi l'un l'altro con ira e sospetto: che ci fa qui cotesto intruso? Lo sapete voi che ci fa, San Francesco? Io non saccio! pareva rispondesse una Santa Teresa con la faccia tinta di bile per indicarne l'ascetismo. Non vedete che il bambino santo ne piange; fremeva un San Domenico con gli occhi spiritati da accendere da essi soli i roghi. Vattene ai paesi tuoi! Vattene! barbottava il santo protettore della città, che era un vescovo effigiato in gesso, con una barba nera e tonda di brigante ben nutrito. E se non fosse stato gravato dal piviale e dalla mitria che lo insaccava sino alla nuca, si sarebbe mosso e mi avrebbe scacciato a colpi di pastorale!…"
Un'altra pagina e mezza!
Oh, no! A tutto questo chiacchierio artificiale della donna nuda, delle onde del mare, dei santi appesi al muro, basta contrappone il chiacchierio vivo, sincero, meraviglioso della buona contadina che parlava non in dialetto "ma in italiano e con quell'accento mezzo emiliano e mezzo lombardo, pieno d'improprietà e di sgrammaticature" per convincersi del torto che ha avuto l'autore di lasciarsi prendere la mano da questi residui di viete forme e inquinare con esse le belle pagine di La cagna nera. Il suo torto principale è di aver voluto far scrivere allo stesso personaggio i tristi ricordi della sua misera vita, senza badare a immedesimarsi con esso, senza darci, dalla prima all'ultima parola, l'accento, il fremito del ricordo in ogni sua frase, in ogni suo periodo, in ogni sua pagina.
È inutile servirsi dell'artificio di mettere la narrazione in prima persona, se poi questa prima persona dovrà narrare tranquillamente, minutamente, filatamente, come avrebbe fatto qualunque terza persona.
Certamente il contenuto di La cagna nera è assai più elevato di quel che si trova in Da Novi a Pavia; ma in questo però l'autore ha fatto il miracolo della creazione viva; e perciò la povera vecchia che racconta a sbalzi i suoi viaggi nella Merica e le sue speranze e le delusioni e le nuove illusioni, vale, come arte, infinitamente più del raccontatore dei casi della rognosa cagna nera, simbolo del di lui destino. E per ciò la catastrofe del professore, che in un momento di delirio butta in mare tra gli scogli questa sua fatale compagna e assiste allo spettacolo dell'annegamento di essa, e poi fugge via nella notte, ed esclama. "Finalmente, o meravigliosa notte, eri venuta e mi avevi accolto nelle tue ombre, ed io ero entrato nel bagno delizioso e profondo della tua tomba"—ci lascia freddi e delusi. Mentre invece la povera reduce della Merica, che ha fretta di giungere a Mantova e crede di dovervi arrivare presto e apprende che dovrà aspettare ancora molte ore nella stazione di Pavia, sicchè non potrà essere a casa sua per l'ora del pranzo; quella povera chiacchierona, che ha fatto sapere a chi voleva, e a chi non voleva udirli, tutti i fatti suoi e del suo Carletto, c'interessa e ci commove assai più e rimane fissata nella nostra memoria indelebilmente.
"Si scostò, attraversò i binari equilibrandosi alla meglio fra la borsetta e il sacco dei banani; e dopo aver quei chiesto a due o tre impiegati, si rivolse ad un altro dei mandarini che vivono sotto le tettoie delle stazioni e sotto la mitra rossa dei loro berretti, la vidi parlargli umilmente e… poi fece un atto di disperazione; ripassò fra i binari in furia e venne al nostro sportello.
"—Ma sanno, sanno, signori, a che ora si giunge a Mantova? Alle undici… capiscono… alle undici e quaranta!
"Non potè dire altro: una guardia la scostò bruscamente e il treno si avviò. La rividi riattraversare i binari… poi ferma col capo chino sotto la tettoia già deserta, con la borsetta in una mano, nell'altra il fagotto dei banani, i frutti dolci come il miele che mangerebbe suo figlio; e non potei staccare gli occhi da lei sinchè il treno, fuggente sotto la pioggia, non me l'ebbe tolta dallo sguardo."
Niente però toglierà dallo sguardo dei lettori questa veramente ingenua creatura. E il Panzini dovrà essere gratissimo a lei che gli ha fatto fare il gran passo, il difficile salto con cui il pensatore si trasforma in artista. Dopo questo salto c'è da augurarsi che egli non torni indietro. Oramai egli è un altr'uomo; ha dimenticato, ha buttato via ogni artifizio. Rimanga artista, nient'altro che artista sincero; voto schietto, augurio disinteressato di uno che ammira le squisite e forti qualità del suo ingegno, e desidera vederle presto messe in gran rilievo in un'opera d'arte più vasta e più poderosa.
[Blank page]
V.
UN ROMANZO REGIONALE¹
¹ A. Lauria, Povero Don Camillo! scene della vita napoletana contemporanea.—Catania, Giannotta, editore, 1897.
Terminata la lettura di questo romanzo ( scene lasciamolo dire alla modestia dell'autore) pensavo al Goldoni e alle sue commedie. Non già perchè tra il soggetto di esse e quello del Povero Don Camillo! ci sia una qualunque analogia; poche cose anzi ho lette piene di tristezza così grande quanto quella che opprime l'animo in queste dugento ottantasei fitte pagine dove sono descritte le gesta dell'alta camorra elettorale napoletana. Pensavo al Goldoni per una questione di forma letteraria; e niente mi sembrava più profondamente vero della distinzione che soleva fare il De Meis tra Forma con l'effe maiuscola e forma con la effe minuscola; l'una riguardante l'organismo di un'opera d'arte, l'altra più particolarmente la lingua e lo stile.
Quanto rigoglio di vita in quelle creature goldoniane, non ostante tutte le scorrezioni di lingua dei loro dialoghi! Dopo un secolo e mezzo di esistenza, quando le vediamo riapparire sul palcoscenico, ci sembrano uscite allora allora dalla fantasia dell'autore, tanta freschezza, tanto brio, tanta sana giovinezza esse ci mostrano sotto la cipria delle loro pettinature e le foggie del secolo XVIII! È il miracolo della forma (con l'effe maiuscola) soggiungerebbe il De Meis.
A uno stesso miracolo appunto avevo assistito durante la lettura del Povero Don Camillo! Certe asprezze di stile, certi eccessi di napoletanismi, la mancanza di qualunque lenocinio (di quel lenocinio ora di moda, e con cui si cerca di sbalordire la mente dei lettori) non erano riusciti a menomare la vitalità della lunga serie di personaggi che mi erano sfilati dinanzi agli occhi nella Villa Marzano sul Vomero, nella misera casa di Don Camillo, nella sala delle elezioni provinciali nella Sezione del Mercato, in casa dell'onorevole Nicola Doce.
L'impressione era così forte, che tutti quei personaggi mi sembravano già vecchie conoscenze della vita reale, incontrati anni fa; dove e in quali circostanze non riuscivo però a ricordarlo.
Don Camillo de Rogatis, che rifà ogni sera la strada da Villa Marzano a casa sua in via S. Teresa, amareggiato, umiliato, irritato dagli insulsi e grossolani scherzi dei ragazzacci Giovannino Marzano, Mimi Lèpore e Angiolina Marzano, i quali ne hanno fatto il loro zimbello, mi pareva di averlo intravisto tempo fa nell'immensa sala degli uscieri di Castel Capuano, tra la folla di scrivani, di avvocati, di clienti, di sollecitatori, di imbroglioni di cui essa allora rigurgitava nelle ore di udienza; mi pareva di averlo incontrato in qualche salotto borghese, condottovi da un maestro di musica che voleva far risaltare, con l'abilità di cantante e di attore di lui, le proprie composizioni.
Certamente quella figura magra, lunga, ingenua, credenzona, facile ad illudersi e ad essere illusa, che di pagina in pagina prende sempre maggior rilievo, interessa, quantunque umile, più assai di tutti gli altri personaggi che se ne servono pei loro fini, accarezzandola, lusingandola fintanto che hanno bisogno della sua inconsapevole opera nella lotta elettorale, e che buttano via come una buccia di limone spremuto quando non serve più e anzi diventa un imbarazzo per loro; quella figura è così caratteristica, così originale, che non mi stupisce, che arrivi fino a far sospettare al lettore che egli l'abbia davvero conosciuta nella realtà.
E quel Federico Masiello, cognato e agente dei Marzano!
Par di vederlo e di sentirlo quando nel gran salone dei Marzano espone all'onorevole Doce, già un po' imbarazzato dalla rude franchezza di lui, il suo programma elettorale, quello sottinteso, quello che nessuno osa dire a voce alta, tra l'accolta di alti camorristi quali il cavaliere Cercola, don Cristoforo Armaturo, don Federico Balsamo, Ciccio Paloja, giornalista, e parecchi altri.
Il Paloja si era slanciato con entusiasmo in una perorazione infarcita di spropositi, specie di articolo di fondo parlato. Federico Masiello lo interrompe:
—Tu devi scrivere per mangiare; dunque scrivi, ma qui lasciami in pace.
E rivolto all'onorevole Doce, continua:
"—Don Nicolò, vedete, quanti siamo rimasti qui dentro, sentiamo troppa antipatia per le chiacchiere; le chiacchiere sono la broda per gli imbecilli, e noi non permettiamo che nessuno ci venga a trattare d'imbecilli.
"—Bravo, amico mio, siamo d'accordo!—gli gridò il deputato stendendogli la mano.
Ma, con grande sorpresa, vide che Masiello, invece di porgergli la sua, se la ficcò, con certo strano sorriso ostile, nella tasca dei calzoni. Don Nicolino ne restò turbato.
"—Siamo d'accordo? meglio così, chè questo è l'unico mezzo di farmi concepire di voi una buona opinione. Qui stasera vi aspettavamo come il Messia…. Ebbene, poco fa voi avete detto un mondo di belle parole, quelle con cui oggi i vostri pari riempiscono la pancia degli ingenui!… Vi preme tanto il gran popolo napolitano? i suoi interessi? i suoi figli? i suoi stracci? le sue miserie? le pretensioni dei morti di fame?… Poche chiacchiere… Ma che popolo… che grandi interessi generali, me jate combinanno! Qui si ha da fare: ognuno per sè, Dio per tutti… Oggi all'onorevole Doce torna conto di andare a sedere fra i consiglieri provinciali, e si rivolge a Federico Masiello per riuscire… Domani Federico Masiello si rivolge all'onorevole Doce per un favore, e l'onorevole Doce glielo fa, come cosa stabilita, convenuta. E se l'onorevole trattasse Federico Masiello da volgare seccatore… l'onorevole Doce proverebbe l'amaro! Don Nicolò, questa è la storia: Gli uomini savii, oggi, per riuscire in qualche cosa, han da lasciarsi crescere sul cuore tanto di pelo!…"
Infatti tutti quei signori portano tanto di pelo sul cuore, non provano scrupoli di sorta alcuna. Hanno bisogno di un povero ingenuo per la loro pastetta? Prendono Don Camillo, lo raggirano, lo imbrogliano, lo mettono sul punto di andare in galera; e il disgraziato evita la galera soltanto perchè la sua ragione si sconvolge. Va a finire miseramente in un ospedale di pazzi.
La morale del libro è condensata in quel discorso di Federico Masiello. Morale per modo di dire; giacchè si finisce di leggere con un gran senso di nausea e di oppressione, che fa pensare come mai in quel lembo di terra italiana la bellezza del paesaggio e lo splendore del cielo siano in così crudo contrasto con la vituperevole bassezza degli esseri umani.
Voglio risparmiare al lettore il sunto del romanzo, sunto che sarebbe sempre uno scheletro quand'anche potessi dargli tutta l'ampiezza necessaria. Lo invito a leggere e a non lasciarsi malamente impressionare da certe durezze di forma che l'autore ha, forse, credute necessarie per render meglio l'ambiente napoletano. Non è qui il luogo di discutere se si sia ingannato. Quando in un'opera d'arte c'è tanta effusione di vita e tanto effetto di rilievo, le questioni di lingua e di stile diventano proprio pedantesche. L'autore potrà, un giorno o l'altro, tornar sopra quei piccoli difetti e farli sparire. L'importante era che le sue creature fossero vive, napoletane, tali da non poter essere scambiate con altre creature di altre regioni italiane; e questo scopo supremo è maestrevolmente raggiunto.
Qui nessun riflesso di opere d'arte altrui; ma una diretta irradiazione della realtà. Qui non accade, come in parecchi recentissimi romanzi, di doversi fermare a ogni voltata di pagina, a ogni fine di capitolo, per domandarsi, tra mortificati e stupiti, dove mai quei romanzieri abbiano potuto incontrare nella nostra società persone somiglianti a quei loro fantasmi che agiscono con la incoerenza del sogno, quantunque battezzati con nomi italiani, e condotti a errare e a passeggiare per paesaggi italiani, per vie di città italiane. Qui non accade di aver l'allucinazione di assistere a una sfilata di gente travestita da russi, da norvegiani, da danesi, da decadenti francesi che fa il verso ad altre creazioni dell'arte ammirate e rimaste impresse nella memoria. Siamo in piena natura. Possiamo pure sentir ribrezzo di trovarci in contatto con questi rettili umani, con questi bruti senza nessun ideale; ma non possiamo dire: L'autore ci inganna, si fa beffe di noi!
Non c'è nessun ideale, sì, nè nelle persone, nè nelle loro azioni; ma esso vien fuori per contrasto, con quel bisogno, con quell'ansia di respirare un po' d'aria pura, quando il povero Don Camillo, la vittima, vien condotto all'ospedale.
E per restringermi a una questione letteraria che si presenta spontanea se si riflette un po' intorno al problema del romanzo italiano, dirò che il lavoro del Lauria mi ha confermato in una mia antica opinione, cioè: che l'originalità noi dobbiamo, per ora, cercarla appunto nel romanzo regionale, specialmente là dove la sincerità delle indoli e dei caratteri non è stata ancora sofisticata dalle ipocrisie della civiltà generale.
Questo lavoro sembra facile, ma non è; giacchè non basta osservare, studiare, fotografare, per poi avere un'opera d'arte originale, quantunque tutto sia ancora semplice, istintivo, senza mistura di influenze estranee nella società regionale. E sarebbe bene che il presente momento della vita italiana contemporanea non sparisca senza lasciar traccie; e sarebbe utile che noi ci abituassimo a discernere quel che c'è di caratteristico nella nostra società, dirò così, elementare, a fine di arrivare gradatamente al lavoro, più arduo, di scoprire quel che c'è di altrettanto caratteristico e particolare anche in quella società più elevata, dove le influenze livellatrici della civiltà generale hanno già iniziato il loro lavoro da un pezzo.
Ah! se ci fossero dei giovani scrittori che invece di perdersi dietro le imitazioni delle creazioni altrui, ci dessero il romanzo regionale piemontese, lombardo, veneto, toscano, romano, come ora ha fatto il Lauria col napoletano (e ce ne aveva regalato già un bel saggio con la sua Donna Candida ) e come ha fatto mirabilmente il Verga coi Malavoglia e col Mastro Don Gesualdo! Ma disgraziatamente oggi tutto questo sembra meschino, di poco interesse, quasi che la creazione vitale, in qualunque gradino della scala degli esseri, possa mai dirsi in arte impresa meschina e di poco interesse.
Si vuole il simbolo! Ebbene, nessuno può levarmi di testa che il simbolo, non è produzione artificiale, ma cosa che risulta da sè, senza intenzioni preconcette, quando l'opera artistica raggiunge le alte cime della vita.
Don Camillo de Rogatis è una povera creatura di carne e di ossa; ma dopo che ci ha fatto sorridere con le sue miserie amorose, dopo che ci ha fatto crollare la testa alle sue meschine ambizioni, quando soffre e piange per la sorella sedotta, quando perde la ragione per l'urto delle circostanze in cui è stato impigliato dalla malignità e dalla perversità dell'alta camorra; quel povero Don Camillo de Rogatis si eleva, si eleva; perde davanti a noi la sua essenza particolare; diventa il debole sfruttato dagli scaltri, la vittima dei più astuti, dei più forti; diventa simbolo senza volerlo e senza saperlo. Ed è questo, se non sbaglio, il migliore, anzi l'unico modo di diventar tale veramente. [Blank Page]
VARIETÀ
I.
IL TEATRO DI GIOVANNI VERGA
Da parecchi mesi ho sul tavolino l'elegante volumetto della Biblioteca Bijou dove i fratelli Treves hanno raccolto Cavalleria rusticana, In Portineria, e la Lupa che ieri sera è stata calorosamente applaudita dall'affollato pubblico del Valle. Aspettavo appunto la prova della rappresentazione della Lupa per parlare degli intendimenti artistici da cui il Verga è stato guidato nelle sue opere teatrali, e non mi attendevo la buona ventura di vedermi capitare a proposito un articolo pubblicato domenica scorsa su le colonne del giornale fiorentino il Marzocco, dove dei lavori del Verga si ragiona coi criterii della così detta nuova scuola drammatica.
Se ne parla con rispetto, ma infine, si domanda, che cosa sono, se non una intensa rappresentazione di quel che si disse, con vocabolo da macello, "un pezzo di vita"?
E il loro buon successo presso il pubblico viene spiegato così: Il nuovo o l'ignoto, più che il bello, lo attirava per una sola sera (?) a teatro. Nessun sentimento si commuoveva in esso, fuori della curiosità malsana che spinge ogni più quieto burocratico a guardare da dietro gli occhiali su l'alto marciapiede la rissa forse mortale di due popolani nel mezzo della via, in attesa dei reali carabinieri.
La conclusione è che il Verga non si è mai curato di pensare che cosa è e che cosa debba essere la vita, che cosa valga oltre il fenomeno.
Ecco: io non intendo fare una discussione astratta, di faccia ad opere così piene di rigoglio vitale; e quantunque mi sappia battezzato, non so perchè, per verista nel cattivo senso di questa parola, debbo confessare allo scrittore di quell'articolo che non sono di coloro ch'egli crede ignorino fin l'esistenza di quella magistrale pagina su =Le realisme et le trivialisme= dove il Guyau provò che le vrai realisme consiste a dissocier le réel du trivial. Credo che non lo ignori neppure il Verga; egli però non se ne rammenta, nè vuol rammentarsene quando si accinge a fare un'opera d'arte; si affida alla sua ispirazione d'artista, e fa benissimo. L'artista pensa a modo suo, con la immaginazione, che è la riflessione velata. Quei personaggi il Verga non li ha visti, come crede il critico, nè li ha fotografati; li ha pensati e ripensati, li ha lungamente rimuginati per intendere il segreto dei loro caratteri e delle loro passioni; e se non li ha giudicati, approvandoli o condannandoli, se non ha palesato la sua opinione intorno ad essi, questo è avvenuto perchè il farlo gli è parso superfluo. Se si è sentito attratto dal loro fascino, se si è deciso a sollevarli nella pura atmosfera dell'arte, vuol dire che egli ha pensato primieramente che metteva conto di occuparsene, che il rappresentarli soltanto valeva precisamente giudicarli, perchè in essi non c'era il triviale ma la passione; la quale, esploda in alto in basso, tra creature popolane o aristocratiche, è cosa elevata, concentramento di forze, complicazione di sentimenti, energia, lotta, catastrofe, dramma insomma. E di fronte ad essa, l'artista non è, come crede quel critico, rimasto indifferente, se ha saputo talmente compenetrarsi col personaggio da sparire dentro di lui; se ha saputo mettergli in bocca la parola giusta, rapida, incisiva, che condensa in poche sillabe lo infinito dell'anima, se è riuscito a indovinare il gesto, l'intonazione della voce, l'azione tutta corrispondente al suo interno stato e a quello degli altri che si muovono attorno a lui.
Rappresentare così vivamente, così efficacemente è pensare; è dar forma al pensiero però, cioè fare opera d'arte. Shakespeare, che il critico invoca, fa forse altrimenti? Giudica forse Otello? Jago? Desdemona? Ofelia? Amleto? Niente affatto. Egli vuol bene a Jago quanto a Desdemona, e forse più. Con che amore non lavora per metterci viva sotto gli occhi quella infame creatura! È diventato lui, la malizia, la calunnia, la insinuazione in persona; si direbbe che lo accarezzi, che lo palpi, che lo volti e rivolti, aggiungendo qua una pennellata, là un'altra, servendosi del suo gergo, delle sue immagini, della sua ironia, a fine di farne il più meraviglioso birbante possibile. Lo giudica? Ci dice la sua opinione? Non gli passa pel capo che debba far questo. Così con Amleto, così con Ofelia, così con tutti i suoi mille personaggi. Tant'è vero che, dopo parecchi secoli, noi discutiamo ancora per indovinare che mai abbia egli inteso dirci con quel misteriosissimo Amleto. Se egli avesse dovuto manifestarci la sua opinione sui fatti che espone su la scena, e se li approvi o li condanni, immagina forse il critico che Shakespeare si sarebbe trovato in imbarazzo? Non oso sospettarlo. Appunto, Shakespeare non ha nessuna opinione, si accontenta di riprodurre la vita. Il significato, il pensiero è nascosto dentro i caratteri, dentro le passioni, dentro le azioni. Non importa che Shakespeare abbia scelto per suoi personaggi e principi, e comandanti d'armata e governatori di isole, o principesse, o figlie di cortigiani e di senatori. Si parla di metodo, di forma. Il dovere dell'artista è di adottare questo metodo, di creare questa forma. E così Santuzza va a mettersi a fianco di Ofelia, e la Lupa accanto a Lady Makbeth. Non mi si fraintenda; parlo di forma, non di contenuto.
Se i contadini siciliani sono creature meno complicate, se sono, come afferma il critico, tutti meccanismi a molla, creda, non ne consegue che il lavoro dell'artista diventi facile ed ovvio. Si provi e vedrà.
E per ciò io non capisco che senso possono avere queste parole a proposito dell' Utopia del Butti, dei Diritti dell'anima del Giacosa, del Trionfo del Bracco, dei Disonesti e di Realtà del Rovetta: Non li discuto nella realizzazione scenica, li ammiro nella loro concezione!
Ma che importa che ciascuno di questi tre drammaturgi prima di scrivere una sola riga del dramma, giudicò, secondo un suo prefisso sistema di morale, le azioni che stava per svolgere? Questo può interessare i pensatori, i filosofi, i sociologi, non l'arte, non il pubblico che va in teatro per sentirsi appassionare, commuovere, o semplicemente divertire. Se la realizzazione scenica di quei concetti è fallita, non c'è più da discutere.
L'importante è appunto che la realizzazione scenica avvenga piena e completa. È assurdo prendersela col pubblico quando questa benedetta realizzazione non arriva a concretarsi. Il pubblico, per esempio, ieri sera ha mostrato di comprenderlo. A poco a poco quegli umili personaggi che scherzano su l'aia lo hanno afferrato; quelle umili passioni— meccanismi a una sola molla, secondo la sprezzante espressione del critico—lo hanno travolto nel loro ingranaggio, lo hanno fatto palpitare a soffrire; e il pubblico ha mostrato che non chiedeva altro di meglio, ed è stato ad ascoltare con vivissima intenzione, ha scoppiato in applausi, anche quando la scabrosità dell'azione avrebbe fatto temere di doverlo offendere. Perchè?
Perchè non vuol pensare? Perchè si accontenta delle pure sensazioni? Non diciamo sciocchezze. Unicamente perchè vedeva lì sul palcoscenico la vita, la passione, la lotta, non col cinematoscopio dei fratelli Lumière, ma con l'alta proiezione artistica che idealizza, che generalizza; e che ha pensato e fa pensare, aggiungo io, anche a costo di farmi dire che io non capisco che vuol dire pensare.
Lasciamo lì, per amor di Dio, le stupide denominazioni, di realismo, di psicologismo, di idealismo, di simbolismo: ragioniamo di teatro, di opere d'arte drammatica. E soprattutto non predichiamo bene e non razzoliamo male. Il Maeterlink, il nostro piccolo Shakespeare, come lo chiama il critico del Marzocco (Oh, piccolo, sì molto piccolo! infinitesimale!) che fa? Dà sensazioni, niente altro. Di caratteri, di passioni non c'è traccia nelle opere di lui. L'esteriorità predomina. Una camerata di ciechi si smarrisce in un bosco. Il vecchio prete, suo conduttore, è morto là, tutt'a un tratto, senza che nessuno di loro se n'accorga. Tutto il valore di quel lavorino si riduce alla sensazione dell'ignoto di quelle vecchie e di quei vecchi mezzi rimbambiti dagli anni. Il pensiero, l' anima, dove sono?
Un'altra sensazione dell'ignoto (il nostro piccolo Shakespeare si ripete) è nell'altro dramma in un atto, l' Intrusa. Un vecchio cieco ha la sensazione di qualcosa d'ignoto mentre tutta la famiglia è raccolta in un salone, attendendo l'esito della malattia di una malata. Il pensiero, l' anima, dove sono?
E nell' Interno? Una casa dalle finestre illuminate è in fondo alla scena; dietro i vetri si vede la famiglia raccolta attorno a un tavolino. Il babbo legge; le figlie lavorano; la mamma sorregge un bambino addormentato. Sopravvengono un vecchio e un viandante; debbono annunziare che una delle figliuole si è annegata, e preparare la famiglia all'arrivo del cadavere che i contadini trasportano in una barella. Come debbono dare la notizia a quella famiglia ignara della disgrazia che l'ha colpita? Altre persone sopraggiungono; i contadini col cadavere stanno per arrivare: bisogna affrettarsi. Finalmente il vecchio si decide a picchiare all'uscio. Dietro i vetri si vede costui nell'interno; si scorgono i gesti delle persone, il precipitarsi di esse verso l'uscio… e cala la tela!
Quando il piccolo Shakespeare (oh, piccolo, sì, molto piccolo! Infinitesimale!) non si sbizzarrisce con personaggi quasi fantastici, con azioni e passioni artificiali, non va mai oltre la sensazione.
Ah, c'è l'Ibsen che pensa per lui e per gli altri! Ma l' Ibsen fa precisamente come Shakespeare, come il Verga, come tutti coloro che sanno che voglia dire teatro; quando non si rammenta che deve pensare, e far pensare i suoi personaggi, è scrittore drammatico di prima forza. Il male è che all'ultimo se ne rammenta e guasta ogni cosa. E per questo il pubblico si stizzisce con lui.
E torno al Verga. Stia pur sicuro il critico: il giorno che al Verga verrà l'idea di uscire dall'ambiente dove finora si è chiuso, non farà diversamente. Rappresenterà, creerà persone vive e non approverà e non condannerà i sentimenti e le azioni dei suoi personaggi. Coloro che in un'opera d'arte si preoccupano eccessivamente del concetto, o esclusivamente del concetto, sono mezzi impotenti. I veri artisti pensano per conto loro (non possono farne di meno) ma il loro pensiero non si manifesta mai con la caratteristica di puro pensiero: si nasconde, si rifugia nelle creature appassionate, qualunque esse sieno, alte o basse, umili o aristocratiche, che egli butta sul palcoscenico, come fa la natura, in balìa della discussione.
Perchè intanto non dobbiamo tutti esser persuasi di questa sacrosanta verità, veristi, psicologi, idealisti, simbolisti—nel caso che si tratti di veri artisti—è cosa che mi riesce affatto impossibile capire.
II.
PULVIS ET UMBRA¹
¹ V. Morello (Rastignac), Pulvis et umbra.
Si sente, terminata la lettura dell'elegante volumetto, la stessa impressione cantata dal poeta:
E tutte le finestre—del mio nido campestre—apro al cielo fulgente—ed al giardino aulente.
Ed entran, coi novelli—raggi e i novelli ardori—i canti degli augelli—i profumi dei fiori,—i mormorii, dai clivi—alle valli,—giulivi,—di cascate e fontane—o vicine o lontane.
Si sente, cioè, la fresca impressione d'una poesia viva, sincera, sgorgata dall'intimo cuore e dalla mente; più dal cuore che dalla mente, poichè non vi si scorge ombra di quelle preoccupazioni, stavo per dire: di quelle fissazioni, dalle quali sembrano colpiti quasi tutti coloro che oggi scrivono poesie.
Per ciò qui si sorride, come a vecchie care conoscenze un po' perdute di vista, alla linda e ondulante ottava, alle vispe musicali strofe, alle quartine, all'agevole saffica rimata, fin a quei settenari, uniti, che i fautori di proverbi drammatici hanno reso così uggiosi; e per ciò i rari così detti metri barbari ci sembrano rinverditi e ringentiliti, per via di qualche prodigioso segreto.
Il prodigioso segreto consiste nella riproduzione del sentimento e del pensiero odierno senza sofisticazione di sorta alcuna. Tutte le sensazioni, tutte le passioni, tutti gli slanci dell'anima qui cantati ci si ripercuotono dentro, vi ridestano sensazioni, passioni, slanci consimili, ci dànno l'illusione di udire la parola della nostra coscienza, quasi i nostri ricordi, dolci o tristi, i nostri tormenti di amore e di gelosia, i nostri dubbi, i nostri rimpianti, abbiano tutt'a un tratto preso corpo in questi brevi componimenti lirici, densi di cose, che ci interessano tanto da vicino.
Il prodigioso segreto consiste anche in questo: il poeta fa degno riscontro al valente articolista dei giornali quotidiani.
Vincenzo Morello (Rastignac) non lascia mai sfuggirsi l'occasione di trattare le più vive questioni di politica, di morale, di arte, di legislazione che un caso speciale, un avvenimento di cronaca, un libro, una discussione gli suggeriscono e quasi gli mettono sotto la mano; e i suoi articoli, ben fatti, caldi di sentimento, pieni di logica dritta e stringente, ricchi di tutto il materiale della più recente coltura, interessano specialmente per quell'accento personale che viene dalla profonda convinzione, dalla sincera eccitazione del sentimento. Si sente, subito, che si ha da fare con uno che ha qualcosa di serio e di suo da dire, e che sa dirlo con la forma più chiara, più rapida possibile, ma anche con la forma più efficace e quindi più scelta possibile, perchè il concetto abbia la sua intera ed efficace espressione.
Infatti egli non divaga, non si accosta esitante al soggetto. Dalle prime parole si capisce benissimo che è pieno di esso, e che ha fretta di dire. La sua frase è incisiva, lavorata; e come qualcosa di triste, di amaro, di sarcastico pervade spesso il suo pensiero, così qualcosa di altero e di sprezzante rende quasi aspro l'accento della sua parola; ma il concetto si rivela integro, con un che di artistico nelle proporzioni, senza dissonanze, e seduce e avvince anche quando non arriva a convincere.
Rastignac poeta ha, come Rastignac articolista, una spiccata personalità; e non saprei dire se le seduzioni del poeta siano uguali o maggiori di quelle dell'articolista.
L'articolo di occasione è qui in Pulvis et Umbra, diventato poesia di occasione, nel miglior senso, nel senso con cui ne parlava il Goethe, che di poesia s'intendeva. Vi troviamo la stessa acuta e intensa impressione del mondo esteriore, la stessa intensa e acuta ripercussione del sentimento e della fantasia che quella impressione ha prodotto. Qui si tratta, è vero, di minuti casi particolari che sfuggono al dominio dell'articolista; ma essi per questo non sono meno interessanti. Di quella minutezza particolare, l'artista ha messo in rilievo soltanto quel che conteneva qualcosa di più generale, di più umano, e lo ha nobilitato, lo ha trasfigurato con la forma.
L'articolista è troppo mescolato tra la gente, ha troppo aperto gli occhi, troppo intenti gli orecchi a quanto lo circonda e gli si muove dattorno, da avere agio di baloccarsi con l'erudizione, di perdersi dietro i fantasmi di un passato, la cui evocazione è opra assurda perchè non è possibile che esso si rinnovi e perchè ormai ha così poco o niente di comune con noi che la sua rinnovazione possa essere profittevole in qualche modo. L'articolista è troppo preso da tutte le lusinghe, da tutti gl'interessi, da tutte le illusioni, da tutti gli entusiasmi, da tutti gli errori del suo tempo, da aver agio di preferir loro altre lusinghe, altri interessi, altre illusioni, altri entusiasmi e anche altri errori di seconda mano, creati per via di riflessione, d'imitazione e anche di vanità e di calcolo. Il suo tempo egli lo giudica più bello, più importante, o almeno più interessante non fosse per altro, perchè in pieno divenire vitale e in piena lotta; perchè in tanto tumulto delle passioni, degli interessi, delle avidità, delle miserie, dei delitti, delle illusioni, delle allucinazioni, delle generosità e degli eroismi presenti, c'è il piacere, la soddisfazione di agire, di lottare, di combattere insieme con gli altri, di rincorrere un ideale nuovo, e di tentare, di attuarlo, dappertutto, nella vita privata, nella vita politica, nella vita dell'arte, in quella del pensiero. Per questo egli non è preraffaelista, nè simbolista in pittura, non quattrocentista, nè decadente, nè simbolista in letteratura e neppur cosmopolita. Ha il giusto senso della realtà; ha il vivo sentimento della patria; ha la profonda convinzione che l'astrattezza nuoce e nella vita, e nella politica, e nella scienza e nell'arte, dovunque.
E Rastignac poeta non è punto diverso. Il volumetto Pulvis et Umbra contiene proprio la polvere e l'ombra di una vita, dai fantasticamenti del primo amore fino ai rimpianti e ai lamenti della giovinezza che se ne va.
Si apre con un raggio di sole che illumina e vivifica, si chiude con la tristezza e l'ombra notturna.
Udite? Anime umane si lamentan, ne l'ombra, occultamente.. . . . . . . . .. . . . . . . . Ma soffre e si lamenta l'anima mia, su tutte l'altre, forte, ahimè, quasi che senta, in alto, intorno, e dentro sè, la morte.
E il rimpianto, e lo sdegno e l'ironia, irrompono con lo stesso impeto e con la stessa limpidezza di forma che altri rimpianti, altri sdegni, altre ironie, hanno assunto, ora un giorno, ora un altro, nell'articolo di giornale:
Noi che falciammo i campi de la fede, lieti ne la sacrilega fatica, e, pria che desse il grano, sotto il piede calpestammo la spica;
noi che, pria de la lotta, le fulgenti spade spezzammo in solitarie scherme, ed or, fra mille armati combattenti, stiamo col fianco inerme;
noi, stupefatti, senza più speranza, sperduti in mezzo del cammin fatale, domandiamo a l'esercito che avanza: esiste l'ideale?
E vibrano dolorose corde per strappi recenti: e schizzano sarcasmi che fanno salire le lagrime agli occhi, come in quei prigionieri di Leontieff:
Essi tornano. A branchi, come pecore qua e là raccolte, da la terra ostile che li vide brucar ne la vittoria de le sue genti, tornano all'ovile.
Desti a l'arrivo e curiosi, gl'incoli d'Italia, a cui per lunga figliazione, fremono in cor gli spirti e le memorie del secondo e del terzo Scipione
Accorrono: "Portate di Cartagine buone nuove? Laggiù, tra le rovine, nido a l'aquile nostre, ancora crescono i fichi, ovvero crescon le spine?"
. . . . . . . . . . . . . . . . Non comprendono i reduci, e in silenzio si allontanan ne l'ombra, lentamente.
Andate, andate! E appesa al chiodo l'umile divisa, e dato un pensier mesto ai morti, alta la fronte, ripigliate l'opera del maglio e de la falce, in mezzo ai forti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . E se un giorno…
E non è, non sembra artificio neppure questo mezzo verso rimasto lì, come addentellato d'una strofa che non è potuta sgorgare, o come segno di un gran dolore che non trova lagrime, o come suggestione di propositi di vendetta e di augurii.
E, nella notte, Per via, mentre il poeta, al lume della luna che in alto, su le cattedrali—aureole azzurre spande, vaga col sigaro acceso, pensando di sè e degli altri, e domandandosi:
Chi ha riposo nel sonno? Ne la notte ad ogni ora che fugge, Quanta forza in silenzio, ne le lotte più ignorate si strugge?
ecco, in lontananza, una mandolinata.
Dove passa la gaia compagnia con le dolci canzoni par che fioriscan rose ne la via e sorrisi ai balconi.. . . . . . . . . E si perdono i passi e l'ombre e i suoni lontan, lontano, come si perderan le nostre illusioni, la nostra vita e il nome!
Ed egli continua a fantasticare, e il sigaro gli si estingue in bocca; ma l'amarezza delle labbra proviene dal sigaro o dalle cose fantasticate?
Or non più il Gallo tira la barba al vecchio Papirio immoto su l'eburneo stallo: ma gli tira l'orecchio;
e per man d'altri barbari le sfide risolve e le questioni; poi, contento di poco, non l'uccide: lo piglia a scapaccioni.
Buona gente la nuova! In fondo in fondo, essa pensa ch'è vano riconquistare anche una volta il mondo, via con la spada in mano;
e lascia fare agli altri! Soddisfatta, come d'un terno al lotto se dopo una vergogna o una disfatta a lei tocchi lo scotto.
E così gli risale dal fondo in cuore il sentimento religioso che gli amori, gli errori, la politica, vi avevano sommerso. Egli che ha ingiustamente quasi rinfacciato al Cristo:
Ah, tu, è ver tu saprai La croce, o Gesù Cristo, ma la donna non mai!
si rivolge a Maria con dolcissimi e lamentosi accenti:
Tu sempre nella luce, o madre pia! Santificata da l'uman dolore Se pur tramonti nella fantasia, risorgerai nel core. . . . . . . . . Sorridi ancora! A noi che non fiorita abbiam la via di rose, ma di spine, e accumulate ne la nostra vita troviamo le rovine,
apprendi, o pia, come si soffra, come vincendo le durezze de la sorte, si arrivi in pace, nel tuo dolce nome, in grembo della morte.
Certamente, qua e là, e talvolta in uno stesso componimento, la forma non è come oggi si dice impeccabile: ma non è mai contorta, forzata per stramba ricerca di originalità, e di imitazione. Rastignac poeta è in tutto e per tutto uguale a Rastignac articolista, cioè uno—non è male ripeterlo—che ha qualcosa da dire e che sa dirlo con sincera efficacia: uno che sente e pensa e soffre e si stordisce e sbaglia e si pente e si martira, come tutti i suoi fratelli del secolo morente; e per ciò qualcuno di questi suoi lirici gridi vivrà più a lungo di parecchi volumi di versi che i figli del secolo morente guardano nelle vetrine dei librai, senza lasciarsi tentare di leggerli.
III.
L'ODISSEA DELLA DONNA¹
¹ Testo e disegni di Tullo Massarani, trascrizioni in penna di Francesco Colombi-Borda, eliotipie Calzolari e Ferrario. Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, 1893, Vol. in-folio di pag. XV-420. Edizione di soli trecento esemplari numerati.
Un mio amico, che ha la passione della politica e vorrebbe infonderla a tutte le persone con cui ne parla, qualche mese fa, ragionando con me della levata di scudi del Senato contro il ministero Giolitti, uscì in questa esclamazione entusiastica:
—Ormai non c'è in Italia altri giovani all'infuori dei vecchi del Senato!
Io, che di politica m'occupo poco e non mi credevo in caso di giudicare quell'atto, sorrisi e non risposi nulla; ma gli ho quasi dato ragione sfogliando in questi giorni il magnifico volume che il senatore Tullo Massarani ha pubblicato a sue spese nell'occasione delle nozze d'argento reali, e di cui ha regalato l'intero provento—una dozzina di mila lire—a parecchi istituti di beneficenza.
L'Odissea della donna, stampata con nitidezza proprio bodoniana, illustrata da grandi disegni che a prima vista sembrano acque-forti—così bene il signor Colombi-Borda ha trascritto a penna e l'eliotipia ha riprodotto gli schizzi originali del poeta pittore—è pubblicazione che onora la tipografia italiana e chi ne ha diretto la stampa con cura paterna.
È inoltre, pubblicazione che onora il cuore e la mente di colui che ha pure concepito e attuato la doppia opera d'arte, inno di glorificazione della donna dai tempi primitivi ai presenti.
È proprio singolare che quest'inno sia stato scritto da un senatore, se non vecchio, maturo e da parecchi anni dedito più specialmente a studi di critica e di storia, come il Carlo Tenca e il pensiero civile del suo tempo, il Cesare Correnti nella vita e nelle opere.
Ma chi conosce la versatilità dell'ingegno del Massarani, capace di alternare le più serie e dotte lucubrazioni con eleganti traduzioni di raffinate liriche cinesi— Il libro di giada —non si meraviglierà del fatto, e darà come me ragione a quell'entusiasta politico, secondo il quale oggi in Italia soltanto i senatori fanno cose da giovani.
Infatti è proprio da giovane—e da giovane di molti anni fa, quando i giovani non erano precocemente invecchiati di cuore e di spirito al soffio dell'odierna mistura di scetticismo e di misticismo che li invade—è proprio da giovane l'idea di cantare ed effigiare l'odissea della donna a traverso i secoli; ed effondersi in ammirazione e far atto di culto religioso davanti alle varie manifestazioni della bontà, dell'affetto, della passione, dell'energia, dell'eroismo, della pietà, delle miserie femminili che la tradizione, la cronaca, la storia, le sensazioni della vita, l'esperienza dei viaggi possono suggerire alla fantasia del poeta e del pittore.
Per ciò la prima impressione del libro è quasi di stonatura. Sin dalla prefazione ci sentiamo come trasportati in altri tempi, in altro ambiente; ci par di sentire un linguaggio arcaico, di vedere e udir parlare una persona dall'andatura e dai modi diversi dai nostri, vestita a foggia e con panni da un pezzo fuori d'uso. Poi, procedendo nella lettura, tornando a guardare i disegni, facendo l'occhio alle grandi pagine dell' in-folio da cui ci hanno disabituati i volumi in 16° e in 24° minuscolamente illustrati, sentiamo che la prima impressione si è andata di mano in mano modificando; sesto, stampa, disegni e testo hanno via via assunto fisonomia, carattere, espressione moderni; e soprattutto unità tale da far capire che il libro è sbocciato nella mente dell'artista come un fiore; e che forma, colore e profumo sono in esso così intimamente legati insieme da costituire un organismo dove non si può mutar niente senza pericolo di guastarlo.
Come ho già detto, la veste tipografica è bodoniana schietta.
Nelle grandi pagine bianche i caratteri sorridono nitidamente belli, le righe si allineano snelle, intramezzate da fregi ricavati da un prezioso codice vaticano del più puro quattrocento. I titoli, in rosso messale, spiccano elegantissimi in testa a ogni lirica, e stavo per dire a ogni canto, perchè ognuna di esse è proprio un canto del ciclico poema l' Odissea della donna.
I ventiquattro disegni, o illustrazioni come oggi si dice, concordano con la severa forma tipografica per l'accuratezza del disegno, per non so quale molle ondulazione di linee che non lascia trasparire nessuno scatto di nervosità, ma bensì una gentile placidezza di mano che eseguisce accuratamente ogni particolare, e tocca figure e fondi con eguale carezza. L'occhio assuefatto alla nevrotica sprezzatura dei disegnatori di questi ultimi anni, stenta un po' ad assaporarne il carattere classico, da secolo XVIII, se li guarda da soli, senza badare nello stesso tempo alla forma tipografica del volume, e senza metterli in confronto col testo da essi commentato. Ma se dalla pagina figurativa l'occhio passa alla stampata; se alla linea del disegno cerca una corrispondenza nella ritmica parola che le sta di fronte, disegni e testo e stampa gli si confondono in unica luce, diventano tutt'uno, o meglio si giovano a vicenda, si chiosano l'un l'altro, si danno scambievole rilievo.
E questo che ho detto isolatamente per la forma tipografica e pei disegni, potrei ripeterlo per la parte letteraria del libro, versi del testo, prosa delle note a schiarimento. Se la curiosità del lettore si rivolge di primo acchito al solo testo, ne riceve un'identica impressione. Trova versi lindi, sonori, ma con un che di preziosità nella lingua e nello stile; niente delle forme poetiche in uso, ma qua e là un misto di classico e di moderno non ben fusi insieme e, più che altro, benigna concessione d'uomo di altri tempi alle costumanze venute dopo e ora in corso; concessione però che tenta di riportare indietro il presente, anzi che far trascorrere nel presente la maniera del proprio tempo.
E lo scapito non è precisamente a danno della forma passata di moda.
Ricordo, quasi per similitudine, una scena di cinque anni fa: Una sala da pranzo trasmutata in un batter d'occhio in sala da ballo; una dozzina di belle donne fra il triplo di giovani e di uomini leggermente eccitati dal pranzo, dai vini, e da un entusiasmo d'arte che li aveva riuniti insieme; e ricordo una gioconda figura di vecchio in cui la gentilezza e la cortesia innate per eredità, erano state aumentate dalla cultura e dalle circostanze della vita; gioconda figura di vecchio che faceva scoppiettare per la sala l'argutezza dei suoi motti, la vivacità delle sue galanterie di buon genere e che riempiva di stupore tutti quei giovani impacciati, o stanchi, o annoiatamente sdegnosi, quasi dicesse loro con l'esempio:—Una volta si faceva così; si era galanti, gente di spirito, si era lieti e cortesi, e non musoni e sgarbati con le signore, come siete voi tutti.—Quella sera il più giovane di quanti si trovavano lì riuniti era evidentemente colui che aveva i capelli brizzolati e le spalle un po' incurvate dal peso degli anni, il Duca Proto di Maddaloni; il quale, appunto come ora il Massarani, riportava indietro il presente anzichè far trascorrere nel presente le maniere del suo tempo.
Oggi abbiamo quasi tutti, o affettiamo, un'aria punto cavalleresca verso la donna; ne parliamo con poco rispetto; ne facciamo soggetto di clinica artistica: la studiamo da un lato solo, con durezza che vorrebbe parere scientifica, positiva, quasi ella fosse creatura da farvi esperimenti in anima vili, etéra, adultera, strumento insomma di voluttà e di nient'altro. O la guardiamo da mistici, dacchè il misticismo comincia a essere in voga per bisogno di contrasto; e ripetiamo contro di essa le villanie degli Apostoli e dei Padri dei primi secoli cristiani, e le furibonde maledizioni degli asceti avverso così impura fonte di peccato; eccessivi ed ingiusti da positivi e da mistici, teoricamente almeno; perchè poi nella pratica avviene che positivismo e misticismo si attenuino molto, non tanto però da non far giudicare ridicola, o press'a poco, la galanteria d'altri tempi, che era—se si vuole—maniera esteriore forse, ma non del tutto indipendente dalla sostanza interiore.
E a noi scettici e mistici in erba per contrasto, il Massarani viene a cantare la Odissea della donna; incurante che qualcuno possa sorridere o ridere della sua scappata poetica inattesa e stimata inopportuna. Così essa si spiega in ventiquattro canti sotto i nostri occhi, triste e malinconica; ora tormentata di passione, ora lieta di bellezza; ora altera di eroismo, ora piena di miseria e di lacrime. Così essa risuona in vario metro al nostro orecchio, con qualche nota di malizia gentile, con qualche spunto d'ironia cortese; e va dall'Asia, culla del genere umano, via via per contrade e per tempi diversi, fino all'Europa dei giorni nostri, fino alla donna che oggi vende l'amore o muore per amore asfissiata democraticamente col carbone. E sono visioni, paesaggi, storie, ricordi di cose udite e vedute, ogni cosa risognata, come modestamente egli dice in quella sua
stanza muta ai venturi ed ai presenti.
E dall'invocazione alla gangetica Trivia:
Te invoco, o divin Nume Te fausta, te dal cielo immacolata Scesa a lavar la prima stirpe umana. Eteréa fiumana, Quando del contemplarti era beata Dei Devi la invincibile falange, Menavan danze le Apsaràse, e al bello Novissimo portento Plaudendo il Genitor de l'Universo, Seguia dell'acque il fil limpido e terso. Era queto di vento, Sgombro il cielo di nubi; e d'alma luce Lo vestivano gli Dei, fendendo l'aria, Corruscando ne l'armi. E tu scendevi, Qual se di cento soli irradiata, Scendevi, o Dea. Te duce. In cento forme varia, Or lenta, or tortuosa, or concitata E crestata di spume. Vinceva di baglior l'istesse nevi L'abbondanza de l'acque; e un ciel parea Che il cigno candidissimo e l'ardea Solchin d'autunno con l'aeree piume;
alla descrizione della villa pompeiana, dove Delia è schiava:
Ride aprica intorno La villetta amorosa: Nitidissimo il giorno Che sorge, a mano a mano L'alte vette, i grand'alberi, i sacelli. Le mura antiche e gli archi, Fin quest'erma che ancor negletta e mesta Riposa, ùmile terra, Pare che allegro varchi E del suo bacio imporpori e suggelli. Come ardente amator novella sposa. Ecco, il Sole si desta Ad altra e nova e più gioconda guerra: E te volendo aver de la sua festa, Ne le guance di rosa Che gli nascondi invano, Di giovinezza il primo fior saluta;
dalla abitazione del Califfo:
Laggiù tra verdi fronde Carche d'esperie poma Un candido s'asconde, A la frescura in sen E al vaporante aroma, Paradiso terren.
Qual con ferrata zampa Ne le fumanti arene Orma il puledro stampa Ch'arabo eroe frenò, Tale in marmoree vene L'araba sesta osò
Arco gentil, che ignoto Artefice addentella. Come fu vista il loto Iside Iddìa frangiar, E di meandri abbella Che le Peri intrecciar.
Alterna il facil mirto Col nobile cipresso Ombre al sognante spirto, E di perenne umor Il murmure sommesso Molce a' gagliardi il cor;
al quadretto favrettiano della Venezia del settecento;
Quanto di veli e di zendadi e nastri, Quanto fruscìo di giubbe rabescate, Quanto brillare ed ecclissarsi d'astri Eclissarsi come usano le Fate, A provocar novelli Zoröastri! Che baciucchiar di mani ingiojellate! Che visetti söavi, e che melensi! Che perpetuo fumar d'arabi incensi!
e alla scena di pioggia nella campagna Lombarda:
Quando i gelsi e le biade Alternano promesse D'opimo filugello e d'aurea messe. Udiste il ciel di lunghe preci invano Lunga stagion percosso Perchè l'inesorata ignea caldura D'alcuna temperasse amica stilla, D'improvvisa favilla Corso ne l'ime sue viscere e scosso, In pria fremer lontano Su l'alida bassura, Poi da quella di nubi umida e scura Cortina che l'invade Scoscendere de l'acqua il fonte arcano? O dolcezza, o pietade! O in pria sonanti e rade Gocciole grosse che a la strada bjanca Levano il polverìo, Poi rinfittite, a secchi, Sui sitibondi stecchi Il rovescio profondono e il fruscìo Della pioggia felice onde ogni branca, Ogni erbuccia, ogni foglia Tremola, goccia, s'agita e rinvoglia De la vita, e rinfranca, E del fïato che la terra emana Dal suo pregnante sen, tutta risana!
è un succedersi di paesaggi, di scene, di minuscole commedie, secondo che il poeta racconta la storia della Sulamite, rifacendola dietro l'orme del Renan; le divinazioni del culto delle Druidesse; le crudeltà delle patrizie romane contro le povere schiave; le trepidanze d'un giudizio di Dio; gli ozii e gli amori d'una castellana nell'assenza del marito crociato; le isteriche angoscie d'una monaca; i furori religiosi e patriottici delle donne di Calabria contro gli invasori francesi; o pure, mutando tono, le fanciulle crotonesi servite di modelle o Zeusi; le ciarle veneziane del bel tempo del Gozzi e del Goldoni; la miseria in cappellino delle spazzaturaie londinesi briache di gin; e la pace serena d'una capanna su le alpi, e l'avventura d'un cacciatore con una bella acquaiola lombarda. E un succedersi di gravi considerazioni, di slanci, di compatimenti, di ironie, e anche di cerimoniose riverenze, di amabili preziosità, come il soggetto e l'occasione ispirano, come l'umore del momento consiglia; e tutto in forma eletta e severa, anche quando essa si abbandona o tenta di abbandonarsi a modi familiari, discorsivi, quasi il poeta abbia timore di mancare di rispetto alle sue gentili e belle lettrici facendo altrimenti.
E così, a noi scettici e mistici per contrasto o per gusto di novità, proviene dalla lettura quel senso strano da me accennato, che però ha gusto di eleganza aristocratica, profumo solleticante quantunque un po' acuto, insomma carattere suo proprio; da potere più o meno piacere, da poter più o meno essere apprezzato, secondo che si guarda questo lavoro nel suo assieme di stampa di disegni e di parole; o partitamente ma in modo contrario alle più elementari leggi di critica, secondo le quali un'opera d'arte va accettata e interpretata per quella che ha voluto essere e non come ognuno di noi l'avrebbe voluta.
Per conto mio, io ringrazio il Massarani poeta e pittore—e stavo per aggiungere anche proto, giacchè niente della parte materiale del volume è sfuggita alle sue cure—lo ringrazio delle diverse sensazioni che la sua opera mi ha date, dei diversi sentimenti gentili, forti, pietosi in me destati con la sua duplice opera poetica e grafica.
E lo ringrazio non senza una lieve ombra di invidia pel suo ingegno, pel suo cuore, per la sua mano; per quell'attività, per quella versatilità che non lo lasciano riposare, e che possono permettergli di trascorrere da uno studio all'altro con agile sicurezza e con persistenza incurante di elogi e di biasimi.
Non ho voluto, però, ricordarmi che l'opera d'arte è diventata pure opera di carità; che, poeta, egli non ha cantato, pittore, non ha disegnato, editore, non ha pubblicato soltanto per attingere un fine artistico non scevro mai di egoismo; ma anche perchè il suo lavoro, diventando cosa commerciale e preziosa in una per la ristrettezza del numero delle copie stampate, costringa gli altri a cooperare assieme con lui nell'addolcire miserie, nel consolare dolori.
Allora la lieve ombra d'invidia, da buona e nobile, avrebbe potuto mutarsi in peccaminosa, e offuscare e turbare la serenità del godimento estetico, alla vista del troppo squilibrio di forze che permette a uno solo poter fare in questo mondo quel che non è concesso a parecchi. Molti sarebbero paghi di essere o scrittori, o disegnatori, o editori, o munificenti e caritatevoli partitamente, fosse pure in proporzioni minori di quel che al Massarani è concesso.
[Blank page]
IV.
LIONARDO VIGO¹
¹ Giambattista Grassi-Bertazzi, Vita intima, (lettere inedite di Lionardo Vigo e di alcuni illustri suoi contemporanei). Catania, Cav. N. Giannotta, editore.
Ecco un volume straordinariamente, come oggi si dice, suggestivo. Il nome di Lionardo Vigo per molti lettori non vorrà dir niente. Pochi sanno ch'egli fu tra i primi a raccogliere canti popolari; pochissimi hanno sfogliato la Raccolta amplissima (questo titolo, per chi conobbe l'uomo, è una rivelazione) che fu la seconda edizione dei canti popolari siciliani. Nel 1861, per suggerimento del Prati, il Pomba pubblicò a Torino, nella sua Nuova biblioteca popolare, un volume di poesie del Vigo, intitolato Lirica; ma esso, aspro e rude nella forma, non era di quelli che potevano allettare i lettori; e per ciò ebbe poca fortuna. Il suo poema epico Ruggero seguì la sorte di tutti i tentativi epici moderni; si possono, credo, contar sulle dita i siciliani che lo hanno letto da cima a fondo. Il resto della sua produzione, storica e archeologica, è tuttavia disperso in opuscoli, riviste e giornali; e, caso venisse raccolto, servirebbe soltanto a mostrare la versatilità, l'operosità instancabile dell'autore e nient'altro.
Non ostante tutto questo, Lionardo Vigo è una figura attraente. Alcune qualità, e parecchi segni caratteristici del siciliano di più di mezzo secolo fa sono così spiccati anzi esagerati in lui, che ne formano una figura assai interessante per chi vorrà studiare la Sicilia dal '20 al '60, e seguire la trasformazione dello spirito isolano dal '60 in poi.
Io lo ricordo nella sua graziosa villetta La Trinacria a pochi chilometri d'Acireale. Il salottino dove ci eravamo fermati a discorrere era arredato a uso impero, cioè rimasto tale quale lo avevano arredato quando la villetta era stata fabbricata. Si ragionava di Firenze, da cui io tornavo in quei giorni dopo cinque anni di dimora. Da una cosa all'altra, il discorso era caduto sui fatti della sanguinosa sommossa palermitana nel '66, ed io riferivo l'impressione che se ne era avuta nella capitale provvisoria. Per mio conto, mi scappò detto che in quei giorni avevo arrossito di essere siciliano. Egli scattò in piedi, sgranando gli occhi, atteggiando le labbra carnose a un'espressione di sdegno e di commiserazione:
—Cotesti tuoi toscani t'hanno ridotto…!
E non posso scrivere la parola perchè la buona creanza me lo vieta.
Io lo guardai meravigliato e sorrisi. Avevo capito che egli non approvava gli orrori di quelle triste giornate; voleva però che un siciliano non arrossisse della sua patria neppure quando essa, in un momento di aberrazione, si comportava selvaggiamente.
Egli chiamava Palermo: la prima città del mondo!
Si poteva dire che la fantasia del Meli La Origini dì lu munnu veniva stimata dal Vigo verità sacrosanta. Il mondo è creato da Giove, trasformando in isole e continenti le membra del suo corpo.
Eccu l'Italia chi fu l'anca dritta Di Giovi, e fu rigina di la terra.
Ma la testa? (ora cca vennu li liti) leu dieu è la Sicilia; ma un Romanu Dici ch'è Roma; dicinu li Sciti Ch'è la Scizia; e accussì di manu in manu Quanto c'è regni, tanto sintiriti Essirci testi…. Jamu chianu chianu. La testa è una; addunca senza sbagghi É la Sicilia, e c'è 'ntra li midagghi.
Infatti gli ultimi anni della vita del Vigo furono occupati a tentar di provare il primato civile della sua isola diletta, di fronte alle altre provincie italiane. La sua Protostasi sicula vorrebbe dimostrare storicamente e archeologicamente che una civiltà sicula anteriore alla greca e alla etrusca era fiorita colà.
Egli non s'era sbigottito di quest'intrapresa; e la sua assoluta deficienza nel greco e nelle lingue moderne da cui oggi l'erudizione trae materiali di ricerche per le ricostruzioni del remotissimo passato, la scarsezza di documenti e di testimonianze lo rendevano anzi intrepido e sicuro. Un'ipotesi qualunque, la fantastica interpretazione di un testo assumevano per lui valore di autorità, di documento irrefragabile. Procedeva come un bambino che corra su l'orlo d'un precipizio, ignaro del pericolo e sorridente, mentre gli spettatori della sua corsa gelano di orrore.
Gli eruditi, gli storici, gli scienziati sorrideranno: ma chi pensa al carattere dell'uomo che si pasceva e viveva di quei bei sogni, si sente preso di entusiasmo e di ammirazione.
Trattandosi della Sicilia, i suoi occhi assumevano la virtù del microscopio; vedevano tutto straordinariamente ingrandito.
Nella Sicilia, dopo Palermo, c'era un angolo a piè dell'Etna ch'egli amava con lo stesso amore smodato, Acireale. Sfogliando la sua Raccolta amplissima, si vede a occhio la larga parte da lui fatta ad Acireale; e dico fatta perchè mi costa che egli metteva come raccolti colà i più bei canti che gli arrivavano da altri paesi siciliani. Io gli avevo mandato alcune centinaia di canti popolari raccolti dalla bocca dei contadini della mia città nativa, Mineo; rileggendo le bozze di stampa, mi accorsi che parecchi di essi erano stati sottosegnati: Acireale; e me ne lagnai.
—Che importa?—egli mi rispose.—Di Mineo, o di Acireale, rimangono sempre siciliani.
E fu allora che io, non volendo mostrarmi da meno nell'amore del proprio paese, gli feci la burletta di foggiare qualche centinaio di canti, da lui, in buona fede, poi stampati come popolari. Ricordo che in uno di essi m'ero appropriato un noto verso dantesco, voltandolo in dialetto:
Donni ca aviti 'ntillettu d'amuri.
Seppi, parecchi anni appresso, quando svelai dopo la morte del Vigo la mia marachella giovanile, che il professor d'Ancona, dalla sua cattedra di Pisa, aveva a lungo discusso intorno alla questione se Dante avesse tolto a imprestito quel verso da l'ignoto poeta popolare siciliano, o se il poeta siciliano lo avesse rubato all'Alighieri.
Tornando al Vigo, ricordo l'epico racconto d'una seduta di quell'Accademia siciliana da lui restaurata in Palermo per lo studio del dialetto isolano.
"Lo rivedo—ho scritto un anno fa, e i lettori mi perdoneranno questa autocitazione—lo rivedo in berretto da notte, col collo avvolto da una fascia di lana per la tosse che lo travagliava, con la scatola del rapè in una mano e il fazzoletto a quadrati rossi e azzurri nell'altra, acceso dai ricordi della memorabile seduta. E mi pare proprio di sentirlo parlare tra uno schianto di tosse e l'altro, più roco del solito:—Figurati! Il Di Giovanni, con parola elegante e immensa dottrina, sviscera per un'ora, da pari suo, il tema della discussione, e sembra che non lasci più niente da aggiungere: ma si alza il Pitrè, prende il tema da un altro lato, e lo illumina di esempi, di riscontri, di osservazioni argute, rafforzando la tesi sostenuta dal Di Giovanni. Terzo (non rammento chi, ma egli lo nominò) quando il soggetto pareva già esaurito, lo capovolge, lo sminuzza, lo rimpasta; torrente di erudizione, miracolo di critica storica, ci sbalordisce, ci entusiasma; la tesi del Di Giovanni trionfa! Scatta allora quel demonio del Traina che aveva fatto stupire i torinesi nei comizi popolari, scatta e butta giù quasi con un manrovescio ogni cosa. Erudizione, esempi, critica storica, volan per aria come poveri cenci dispersi da un turbine. E allora, non più battaglia ordinata, ma lotta corpo a corpo, confusione. Replica del Di Giovanni; replica del Pitrè; nuovo uragano del Traina…. Parliamo tutti a una volta, non c'intendiamo più:—Ai voti! Ai voti!—Peggio. Il Pitrè si astiene; il Di Giovanni, nel trambusto, vota contro la propria proposta, credendo di votar in favore…. Oh! Oh!
E la tosse gli troncava in gola l'epica descrizione.
L'Accademia aveva discusso se la parola ciuri, fiore, dovesse scriversi all'antica, xiuri con l' x e l' i, o sciuri con l' esse e l' i, o ciuri con la ci e l' i!"¹
¹ __La Sicilia__ nei canti popolari e nella novellistica contemporanea. Conferenza.—Bologna, Zanichelli, 1894.
Il professor Grassi-Bertazzi, assieme coi brevi cenni biografici del Vigo, ci dà in questo volume un saggio dell'epistolario di lui e di altri illustri suoi contemporanei.
C'è da notare in esso molte cose. Tempi che ora paiono lontani lontanissimi a coloro stessi che li hanno in parte vissuti, qui rivivono con la loro schietta fisonomia, con ammirabile sincerità.
Tenterò di ricostruire dietro la scorta di queste lettere, l'uomo e i tempi; e lo studio non sarà senza diletto nè senza insegnamenti.
La sua corrispondenza era conservata con gran cura, in solide buste di cartone, distribuita per mesi e per anni, dopo d'essere stata registrata in un indice alfabetico che doveva facilitare la ricerca di qualunque lettera si volesse, per caso, riscontrare.
Con uguale meticolosa cura egli aveva catalogati i vitigni della sua fattoria di Ballo, con l'indicazione del giorno della piantagione e dell'innesto d'ogni magliolo.
—Caro mio,—mi disse un giorno, mostrandomi quei due cataloghi,—per vivere indipendente, qui bisogna fare l'agricoltore prima, e il letterato poi. Senza la vigna, la letteratura non prospera.
Egli parlava con entusiasmo d'una lunga corrispondenza letteraria col principe Alberto di Sassonia e con la regina Vittoria d'Inghilterra.
Aveva scritto nel '54 un carme, Hyde-Park, che celebrava le meraviglie dell'esposizione di Londra. In una lettera all'Amari, del giugno 1856, trovo raccontate le strane peripezie di quel carme.
"Bene o male che abbia fatto, scrissi un carme all'esposizione di Londra; lo intitolai al principe Alberto, lo feci ben copiare, legare e ricoprire quanto le nostre arti consentono e lo spedii per la via consolare di Messina. Tacquero; riscrissi gentilmente, ma sempre a testa alta. In aprile rispose un colonnello Philipps, rusticamente, non poteva il Principe accettare m. s. perchè invariabile regola glielo vieta.
"Con succosa, stringente lettera, gli mostrai gli usi, le convenienze letterarie di Europa. Or ora mi si riscontra urbanamente, ripetendo non potersi accettare il m. s.
"Ciò posto, è mio desiderio che Granatelli nostro, se è a Londra, o altri a vostro arbitrio (purchè attivo) vada al Palagio di Buckigam, trovi il colonnello Philipps, gli chieda in mio nome il m. s. che è a mia disposizione, e gli dimandi se S. A. R. lo gradirebbe stampato; nell'affermativa chiarisca se anche la dedica potrà stamparsi, ciò che mi piacerebbe; e allora ne faccia imprimere un 200 o 300 copie e ne offra uno ben legato al Principe, e 10 meno riccamente, e se vorrà, anche alla regina".
Il Vigo raccontava che al dono stampato era seguita, per anni, una corrispondenza letteraria. Il Principe scriveva in inglese; il Vigo si faceva tradurre le lettere e rispondeva in italiano. Qualcuno mi ha fatto sospettare che questa corrispondenza sia esistita soltanto nella fervida immaginazione del Vigo: e il non vederla neppur accennata dal Grassi-Bertazzi, che cita in una nota finale i nomi dei più noti personaggi di cui ha avuto sott'occhio le lettere, mi fa credere che il sospetto non sia stato una malignità.
La stampa di quel carme gli costò parecchie centinaia di lire. Il Vigo, anche per le condizioni librarie di allora, stampava a proprie spese e regalava largamente le sue pubblicazioni. Aveva una lunga lista di Accademie e di uomini illustri a cui stimava suo dovere farne omaggio. Credo che soltanto le due edizioni dei Canti popolari siciliani lo abbiano compensato delle spese.
Io lo conobbi nel 1852, al tempo della prima stampa dei Canti popolari. Il tipografo Galatola aveva trasportato fuori dell'Ospizio di Beneficenza una sezione della sua tipografia da servire soltanto alla composizione di quel volume.
Il Vigo veniva da Acireale a Catania, due volte la settimana, con le tasche del largo soprabito piene di manoscritti e di stampe; quando le tasche non bastavano, serviva da tasca la tuba. In un appartamentino affittato a posta ci radunavamo con lui il povero Beppino Macherione (morto di tisi, a Torino, a 23 anni e che il Vigo amava come figlio) Gioacchino Geremia (che allora non accennava neppure di dover essere il disgraziato che fu poi) ed io che allora faceva il second'anno di legge all'Università, il quale fu anche l'ultimo della mia carriera legale. La correzione delle bozze era lavoro diabolico, con quei compositori dello Ospizio, tutti ragazzi dai dieci ai quindici anni e che sapevano leggere appena. E quando, stampato un foglio, scopriva una papera passata inavvertita, il Vigo andava su le furie, e il bravo tipografo Galatola bestemmiava nel suo più schietto napoletano anche lui. Pei ragazzi che gli additavano un errore di stampa prima della tiratura del foglio, il Vigo portava sempre in tasca quattro o cinque grossi biscotti da regalare ai fortunati scopritori.
Com'era orgoglioso di quella raccolta che avrebbe recato trionfalmente il nome del popolo siciliano per tutto il mondo!
Trovo qua e là nel volume tracce della mia marachella dei supposti Canti popolari. In uno di essi io avevo messo il nome del conte Ruggiero:
Bedda, ca' aviti picciulu lu peri, D'oru e d'argentu la scarpa v'hè fari. Si vi scuprisci lu conti Ruggeri Ca di lu peri s'avi a 'nnamurari!
Il nome del suo eroe prediletto era bastato per fargli supporre che quel canto fosse del tempo della conquista normanna. Ne scrisse a Michele Amari, che gli raccomandò prudentemente di star cauto nell'accettare certe ipotesi.
Il Vigo dovette insistere nella sua opinione, perchè Emerico Amari gli scriveva nello stesso anno: "Mi parlate d'un canto dell'epoca di Ruggiero: se è autentico, è un tesoro tale che sono meravigliato di volerlo lasciare dormire sino all'edizione del 2^o volume; pubblicatelo solo, subito; replico è tale tesoro, se vero, che varrebbe un libro intero."
Quando si trattava di cose siciliane, la critica gli faceva difetto. La colpa in questo caso pur troppo era tutta mia. Ma ecco un aneddoto che dimostra come in alcune occasioni il Vigo non comprendesse la ragione di certi scrupoli. Un giorno egli mi faceva leggere su le bozze un canto che la fretta non mi ha permesso di rintracciare nella Raccolta amplissima. Parlava d'una terribile carestia, cosa non rara nel secolo scorso. Due versi di quel canto però mi erano sembrati troppo letterari e non glielo nascosi. E allora il Vigo, ingenuamente, mi confessò che lo aveva un po' aggiustato lui. In quel tempo egli era in uno stato di irritazione per le delusioni politiche che il suo regionalismo gli faceva esageratamente soffrire, e per ciò non gli era parso vero di poter fare, con quel canto, una specie di vendetta. Parlando di campi inariditi dalla mancanza di pioggia, come richiamo alle carestie del tempo di Vittorio Amedeo e come allusione alle condizioni economiche della Sicilia ridotta provincia italiana, egli, rimpastando, o forse scrivendo di sana pianta quel canto, vi avea innestato il verso:
Pari ca cci passau Casa Savoia!
(Sembra che sia passata di qui Casa Savoia!)
E lo faceva risuonare anzi reboare declamandolo.
Con quale ammirazione però non scrive del primo viaggio nel continente al padre, alla moglie, al figlio! L'intestazione della sua prima lettera dipinge efficacemente il siciliano di mezzo secolo fa: Miei carissimi, padre e signore, moglie e amata, figlio e conforto!
Egli che tante e tante volte aveva scritto dalla Sicilia: spedirò in Italia, o è andato in Italia, intendendo parlare del continente italiano, in quella prima lettera dice, scherzando:
"Vi voglio togliere da un errore. Voi credete che io sia in Italia: v'ingannate. Partii da Palermo e tutti mi diedero il buon viaggio per l'Italia; e sta bene. A Napoli accostai con Riso, Brancaccio, Cammerata etc. all'officina dei Pachetti, e ci chiesero ove volevamo andare. Risposi: a Genova. Pagai il mio biglietto in oro…. e ci augurarono il buon viaggio per l'Italia; e non istà bene. A Genova il signor Donato, mio servo di 24 ore… accompagnandomi alla ferrovia e stringendosi, fra le dita e il cappello levato, un cinque franchi con tanto di Carlo Felice, mi baciò le mani, e mi augurò il buon viaggio per l'Italia: e non istà affatto. Ieri andiedi a passeggiare lungo la Dora alle sei e mezzo e vidi partire un convoglio di 16 carrozze; domandai dove andasse: mi fu risposto: in Italia. Ma in quale parte? io chiedo. A Milano, mi rispose un vicino. Ed io a ridere fra me e me. Dissi questo al Guerrazzi, e mi disse che l'istesso avrei sentito dire a Roma, a Firenze, a Milano: talchè conchiusi: Siamo tutti pazzi perchè stando in casa nostra ce ne crediamo fuori."
E non si accorge di contradirsi, a proposito dell'augurio di buon viaggio datogli a Palermo per l'Italia, scrivendo: __sta bene__. Per lui, la Sicilia, nel 1861, non faceva ancora parte del regno d'Italia!
Ma questo suo straordinario campanilismo non gli impedisce però di scrivere da Torino:
"Qui sono alberghi e trattorie di cui costà non si ha idea. Palermo è un cesso al loro confronto!"
E da Genova:
"Siamo barbari a lato a Genova!"
Il suo stupore diventa quasi fanciullesco a Milano dove visita le scuole col conte Belgioioso e col cavaliere Visconti.
"Visitai tre scuole pubbliche e rimasi, non incantato, stupito. Non potete immaginare quanto sanno ( sic ) in lettere, storia, geografia, disegno, geometria! Che sarà l'Italia fra 100 anni?"
E parlando della galleria di Brera e dei quadri di Raffaello, di Lionardo da Vinci, di Michelangelo ivi ammirati, esclama:
"Dio onnipotente a che sublimò l'uomo!"
Così dopo una visita alla Laurenziana scoppia in un:
"Umana superbia, ti annichila!"
A sessantadue anni ammirava così.
Al camposanto di Pisa, vedendo le catene tolte dal porto pisano dai genovesi e ora restituite, pensa subito: Così i Pisani ci restituissero le catene tolteci al mille nel porto di Palermo!
Nel continente si era legato con affettuosa amicizia al Prati. In Firenze aveva rivisto Ermolao Rubieri, modesto e valoroso, già conosciuto in Sicilia; era andato a visitare il Tommaseo.
"È quasi cieco,—scriveva al padre—e ancora non tocca i 60 anni! È così povero da non aver lume nella scala, nell'anticamera; e manca di scranna ove sedere. Paolo (Grassi) si adagiò sulla poltrona, io in una sedia vicino a quel venerando rudere della italica sapienza, ed essendo sopravvenuto il Giotti, si dovette pescare in una sala una seggiola! Ha una tabacchiera di carta tinta che venti anni sono costò cinque soldi, ora è sgualcita e scartocciata come un residuo di legno fracido.
"Eppure avrei cambiato quel vecchio arnese con la mia tabacchiera di argento o con la catena del mio orologio!
"Il governo gli ha offerto 4000 franchi all'anno, e li ha rifiutati! Abbiamo parlato due ore di lettere e politica e origini di popoli, e siamo pienamente di accordo. L'ho lasciato con dolore e forse non rivedrò la sua carne! Gli uomini pergiunti a quella maturità di senno dovrebbero ringiovanire!"
E al Tommaseo, pensò nel 1873, richiedendogli, come sacrifizio filantropico, di accettare la cattedra di eloquenza latina e italiana nell'università di Palermo. Il prof. Grassi-Bertazzi non ha pubblicato la lettera di risposta del Tommaseo. Certamente egli rifiutò, quantunque il Vigo, per indurlo ad accettare, gli avesse detto che si trattava di nomina accademica e non governativa.
Fra i personaggi che più spiccano in questo saggio di corrispondenza, è Michele Amari. Le lettere dell'Amari da Parigi dimostrano che tempra di uomini furono gli esuli siciliani del '49.
Dopo la restaurazione borbonica, il Vigo si era ritirato nella sua villa di Ballo su le falde dell'Etna.
"Io me ne vivo qui, lontano da tutti, solo, intendo senza i tristi, ma con qualche amico, che viene a gustare i miei vini e con mia figlia e i miei libri e questi amatissimi villani; e se in tanto dolore di casi si può aver pace, io l'ho pienissima."
Riprende a lavorare alla raccolta dei canti popolari a cui pensava sin dal '45; studia per mettere assieme i materiali della Protostasi della civiltà siculo italica, riprende la corrispondenza con l'Amari, col Giudici, con parecchi altri.
L'Amari nel '56 gli scrive da Parigi:
"Il secondo volume (della Storia dei Mussulmani in Sicilia ) già stampato a metà, tarda ad uscire in luce per varie ragioni, delle quali la prima è che io, faticando all'opera per 22 anni, ne consumai il misero prezzo! onde ho dovuto guadagnare il pane quotidiano asciutto in altra guisa: cioè facendo il catalogo dei m. s. arabici della Biblioteca di Parigi a 5 franchi al giorno per cinque ore di fatica, fuori le feste e le vacanze, lavoro e paga sospesi nelle feste, il che torna, in valori di Sicilia, a due tarì e mezzo ¹.—L'altra ragione precipua che le altre sei o sette ore al giorno che lavoro in casa mia, sono state consacrate alla Biblioteca Arabo Sicula, cioè al fumo senz'arrosto; al dovere immaginario che m'imposi, di dare un terzo volume della Raccolta di Caruso o un 25^o di Muratori come vi piaccia chiamarlo; al culto di una divinità che mi ha pagato, dal '48 in qua, d'ingratitudine e dimenticanza. Ma che importa?"
¹ Una lira e cinque centesimi italiani!
Un mese dopo, il Vigo gli rispondeva:
"Dio ci conceda poterci abbracciare prima di morire!"
Dissentivano intorno a molte quistioni filologiche e storiche. L'Amari lo ammoniva francamente della stortezza di alcune sue opinioni intorno al dialetto siciliano, e di parecchi pregiudizi intorno all'influenza dei mussulmani in Sicilia; ma si volevano bene. Eppure l'antica amicizia non impedì all'Amari, ministro dell'istruzione pubblica del regno d'Italia, di rifiutarsi a compiacere il vecchio amico in una sua pretesa che a lui sembrava o eccessiva o inopportuna per ragioni locali. Il Vigo chiedeva di essere nominato professore di eloquenza nell'Università di Catania o ispettore scolastico nella stessa città: e il rifiuto dell'Amari lo offese; a torto, secondo me. Avrebbe dovuto colmarlo di ammirazione per l'onesto carattere dell'amico.
Era già rivenuto a galla nel Vigo l'antico autonomista siciliano.
Ricordo una sua lettera di cui fui latore al Guerrazzi nell'aprile del '64. Era piena di lamenti, e di scoraggiamenti. Il Guerrazzi la lesse in piedi, con indosso la pelliccia che portava in quel momento ritornando, da una passeggiata, nella sua villa della Torretta a pochi chilometri da Livorno. Leggendo, agitava il capo, torceva la bocca; all'ultimo esclamò:—Ma perchè suonare a morto, mentre tutti suonano a vivo?—E quasi le stesse parole trovo nella lettera di risposta pubblicata dal Grassi-Bertazzi: "Molti, anzi moltissimi i torti del governo: ma e tutti incolpevoli noi, noi che non sappiamo altro che piangere il morto?"
Uguali lamentazioni aveva dovuto scrivere al Rubieri nel 1862. Il Rubieri con buon senso di patriota e di toscano gli rispondeva: "Voglio ammettere che il governo non sia ottimo: ma la Toscana non è meglio trattata della Sicilia, e vi chiedo il permesso di citarla come modello; qua tutto si tollera, perchè se il governo ha dei torti, ha anche delle difficoltà, ed immense. La festa dello statuto riuscì in tutta Toscana egregiamente. La libertà e la nazionalità sarebbero comprate a buon prezzo se potesse sperarsi di arrivare alla massima prosperità con la minima spesa. Come volete non pagar tasse, quando vi sono tante faccende interne da ordinare, e, che più monta, una quistione esterna da risolvere? La Sicilia riscattata, potrebbe dimenticare Venezia e Roma, tuttora mancipie? E come vuol riscattare Roma e Venezia senza un esercito? E come vuole mantenere un esercito senza aumento di tasse? Io non posso che esortar voi e tutti gli onesti ad adoprare tutta la propria influenza, perchè sia compiuta un'opera che lo sturbare sul più bello sarebbe delitto."
Il Rubieri aveva combattuto a Curtatone ed era stato ferito.
Parecchie altre cose si potrebbero spigolare da questo volume; ma io mi fermo qui.
Il prof. Grassi-Bertazzi forse avrebbe fatto meglio attendendo ancora qualche anno e pubblicando compiuta la biografia del Vigo; o avrebbe dovuto essere, forse, più parsimonioso di alcune lettere, (di quelle del Regaldi per esempio) e più largo di altre di altri personaggi.
In ogni modo la sua pubblicazione è importante.
L'affetto di concittadino non ha fatto velo al suo giudizio, e per ciò gli auguro che porti presto a fine la biografia di Lionardo Vigo.
Prosatore, poeta, erudito, il Vigo non lascerà un'impronta nella storia dell'arte. La sua stessa raccolta di canti popolari è stata già superata da quella del Pitrè per gl'intendimenti scientifici con cui questa è stata condotta; saranno certamente superate tutte e due da una raccolta avvenire, che usufruirà dei materiali di entrambe e dei progressi del folklore.
Ma come uomo, con tutti i suoi difetti, con la passeggera nube—a cui egli stesso accennava con rammarico, dandone la colpa ai subdoli consigli del Malvica—che offuscò per un istante il suo patriottismo siciliano, come uomo, ripeto, Lionardo Vigo è assai interessante e simpatico.
Un'ultima spigolatura.
Nel 1836, Cecilia de Luna-Folliero, partendo per Parigi, dove affari letterari e di famiglia la richiamavano, gli scriveva da Napoli: "Se il mio piede dovrà ricalcare la terra che oggi, a scorno dell'umana ragione, sostiene tanti detrattori della nostra gloria patria, i miei pensieri e i miei affetti rimarranno costantemente alla mia dolcissima Italia."
Oggi. Cecilia de Luna-Folliero potrebbe ripetere le stesse parole, anzi mutare quei detrattori in qualcosa di peggio.
VI.
EMILIA PARDO-BAZAN
Chi legge Viaje de Novios (Viaggio di nozze) e Los Pazzos des Ulloa (La cascina degli Ulloa)—due romanzi freschi, vivaci e che paiono sgorgati dalla penna dell'autrice senza nessuno sforzo, stavo per dire quasi sorridendo—non sospetta affatto che ella abbia passato i migliori anni della sua giovinezza a studiare Krause, Fichte, Kant, Hegel, San Tommaso, Descartes, Platone, Aristotile, Darwin, i mistici spagnuoli, e che fino a tardi, di romanzi, abbia letto soltanto il Don Chisciotte del Cervantes e Notre-Dame de Paris del Hugo, capitatile in mano per caso quand'era quasi bambina.
Aveva già pubblicato il suo Saggio Critico intorno al P. Feijòo e gli studi intorno al Darwinismo e ai Poeti epici cristiani, e non solamente ignorava i celebri romanzieri stranieri, ma non sapeva neppure il nome del gran romanziere spagnuolo suo contemporaneo, Perez Galdòs, e appena conosceva l'esistenza di Valera e di Alarçon.
Si può dire che la signora Pardo-Bazan sia divenuta romanziera per caso.
Un giorno un amico le parla di quei due scrittori e le dà a leggere Pepita Jimenes del Valera: e questo romanzo e il racconto dell'Alarçon, Sombrero de tres picos, la mettono su la pista della moderna novellistica spagnuola.
Per lei il romanzo e la novella erano rimasti a Cervantes, a Hurtado, a Espinel. Quella lettura le apre un mondo nuovo. Come! Invece di avventure straordinarie, meravigliose, impossibili, il romanzo e la novella potevano dunque descrivere luoghi e costumi che si vedevano tutti i giorni, e caratteri che si potevano facilmente studiare osservando le persone attorno?
E scrisse Pasqual Lopez, autobiografia d'uno studente di medicina, con lo stile un po' arcaico e ricercato messo allora in voga dal Valera come reazione contro la sciattezza di lingua e di stile che deturpava la letteratura castigliana.
La scrittrice però si ricordò in tempo del precetto del favolista spagnuolo di non parlare oggi come al tempo del Cid Campeador. Il Balzac, il Flaubert, i De Goncourt e il Daudet da lei letti per la prima volta nel 1880, a Vichy, dov'era andata per ragioni di salute, fecero il resto. Il Viaje de Novios, data da quell'epoca.
A proposito dell'influenza della moderna letteratura francese su la spagnuola, la signora Pardo-Bazan ha scritto sennatissime parole, che possono applicarsi alla nostra.
"Compresi—ella dice nei suoi Appunti autobiografici —che ciascun paese doveva, sì, coltivare la propria tradizione novellistica, specialmente quando se ne possiede una così illustre come la spagnuola; ma nello stesso tempo compresi che non si dovevano disprezzare i metodi moderni, basati su principii razionali e confacenti all'attuale maniera d'intender l'arte, che non era la stessa di quella del secolo XVII. Mi parve che non erano da rifiutarsi i progressi dell'arte novellistica, per ragione della loro provenienza transpirenaica, riflettendo che da un'occhiata alla storia letteraria delle tre nazioni latine, Italia, Francia e Spagna, si capisce che esse hanno stabilito tra loro, da tempo immemorabile, lo scambio delle idee estetiche e la reciprocanza dell'influsso letterario. Gl'italiani influirono su noi, e noi, in ricambio, abbiamo dato ad essi oratori e poeti che insegnarono loro il nostro stile pomposo; influirono su noi i francesi coi loro trovatori; e noi abbiamo dato un forte impulso alla loro drammatica. La lista dei prestiti da nazione a nazione è interminabile, e non dovrà chiudersi mai; non possono neppure dirsi prestiti: sono piuttosto fecondazioni."
Nella Cascina degli Ulloa i lettori troveranno qualcosa che ricorda la solitaria e vecchia Torre di Miraflores dove è passata la fanciullezza della scrittrice, che aveva una precoce inclinazione alla lettura. "Ero di quei bambini—ella racconta—che leggono tutto quel che loro capita tra le mani, fin i pezzetti di carta di cui il merciaio ha fatto un cartoccio pel pepe o il dolciere un involto per le paste; di quei bambini capaci di passare zitti zitti una giornata in un cantuccio purchè gli si dia un libro, e che per ciò hanno spesso le pesche agli occhi e diventano un po' strabici in seguito allo sforzo imposto al loro debole nervo ottico."
A Madrid veniva educata in un collegio francese protetto dalla Casa reale, e la direttrice, azzimata, con riccioli grigi sotto la classica cuffia, trattava le collegiali peor que a galeotes, dando loro a colazione e a pranzo orrendi intingoli e, per frutta, rancidi pistacchi americani e castagne fossilizzate. "Credo—ella dice—che le teneva in serbo in un armadio finchè non si erano indurite talmente da spezzar i denti delle alunne."
A la Coruña, nell'enorme casone silenzioso dove la sua famiglia si era ritirata, vivendo senza compagnia di bambini, ella scopre una stanza piena di libri. Tra tanti, e noiosi, che trattano di politica, di giurisprudenza e di agronomia, trova la Conquista del Messico del Solis e Gli uomini illustri di Plutarco. Un vecchio entomologo dell'Avana, andato a seppellirsi in un villaggio vicino alla Coruña con le sue collezioni di farfalle e d'insetti, la sgridava per quelle letture, scandalizzato che una mocciosa di dieci anni parlasse con entusiasmo di Bruto, di Catone e di altri dannati pagani della stessa risma. La bambina non se n'offendeva; e siccome il vecchio scienziato raccontava mirabilmente i suoi viaggi, così la bambina gli stava accosto, lo tirava per la falda dell'abito e con voce supplicante gli diceva:—Mi parli d'insetti vostra signoria!
E dietro Plutarco vengono l' Iliade, e la Bibbia. Così ella prende gusto alle letture severe; sdegna di apprendere il pianoforte, stimando cosa indegna perdere il tempo a far scale; e chiede invece che le insegnino il latino. La natura del suo ingegno femminile la salva dal pericolo di riescire una pedantessa. Un consiglio del vecchio e sdentato favolista Pasquale Fernandez Baero, accademico e decorato di non so quante croci, non dovette esercitare piccola influenza su lei. L'accademico se la prendeva contro Hermosilla, uno dei progressisti del '20, poi accademico anche lui: "Piccina mia, non leggere Hermosilla; e se lo leggi, mandalo a fare due passi, mi capisci? Due passi! E scrivi versi a modo tuo; ma niente regole! Niente regole! Le regole guastano tutto!
Nel '69, dopo la rivoluzione di settembre '68 che caccia via la regina Isabella e porta al trono di Spagna Amedeo di Savoia, ella segue a Madrid il padre eletto deputato della Costituente, prende marito a sedici anni, si distrae dagli studi nel vortice della capitale. E se perde la propenzione all'isolamento e la timidezza provenienti dal genere di vita in cui ha passato l'infanzia, sente poi dentro di sè un gran vuoto, una tristezza profonda, un sentimento inesplicabile, simile a quello che si sente la vigilia di un tentativo glorioso, quando ci opprime il timore di non giungere in tempo per compire l'opera intrapresa.
Attorno a lei accadeva un rinnovellamento letterario, ma gliene arrivava appena l'eco affievolita, fra il delicato aroma delle tazze di tè delle serate di ricevimento e il rumor delle ruote nelle passeggiata in carrozza.
Il viaggio in Italia, dopo l'abdicazione di re Amedeo, le fa riprendere un po' di vita intellettuale: ma al ritorno in Ispagna si sente trascinata dal movimento filosofico da cui erano invasi tutti gli spiriti dietro il sistema del tedesco Krause, che aveva trovato colà accoglienza entusiastica; non si parlava di altro nelle conversazioni. Cattolica fervente, ella si sentiva sconvolgere la coscienza dalle teoriche krausiane; e, per contravveleno, ricercava la lettura dei mistici. La irritava la barbarie dello stile dei traduttori e dei commentatori di quel filosofo. Il Kraus non l'appaga, ed ella si rivolge al Kant, poi all'Hegel, e poi ad altri filosofi antichi e moderni. E questa curiosità la costringe a studiar con metodo, a riflettere. "Il mio cervello,—ella dice—si snodò, le mie facoltà intellettuali si misero in attività; e così io acquistai quel peso che occorre a un artista perchè la sua nave non sia sballottata come un tappo di sughero sul mare."
Infatti, il giorno che si sentirà artista non precederà istintivamente su la via del romanzo e della novella; e quando da artista vorrà mutarsi in critico, e prender parte alla discussione della questione ardente, come ella chiamava la questione del realismo e dell' idealismo; potrà parlare in modo elevatissimo, guardare il problema da un nuovo punto di vista, e mostrare che Platone, San Tommaso e l'Hegel non erano stati da lei studiati indarno.
Intanto si prepara alla carriera artistica scrivendo piccoli componimenti in versi. La poesia esercitava ancora su lei un'influenza vivissima per l'elemento ritmico, musicale. Nervosa, impressionabilissima, arrivava a commuoversi fino alle lagrime sotto quella influenza quasi morbosa. Trascurava l'esercizio, più sano e più spirituale, della prosa, quantunque l'esercizio di tradurre da diverse lingue straniere la facesse innamorare del castigliano, e le facesse scoprire in esso arcani tesori di rilievo, di armonia, convertendola in infaticabile collezionista di vocaboli, nella cui sola struttura (isolata dal valore che acquistano nel periodo) notava bellezze infinite di colore, di splendore, di profumo, "come il gioielliere che prima di incastrare una pietra preziosa ne ammira la fascettatura, la luce e le qualità."
E si sarebbe arrestata ai versi, se una scortese dimenticanza del celebre poeta Nuñez D'Arce non le avesse reso il servigio di disgustarnela. Glie ne aveva letti parecchi una sera che il poeta era venuto in casa di lei condottovi da un amico. Il poeta li aveva levati alle nuvole, aveva incoraggiata la poetessa a pubblicarli e si era spontaneamente offerto a presentarli al pubblico con una sua prefazione. Lietissima della insperata fortuna, la poetessa lima, riordina e fa ricopiare con bella calligrafia i suoi versi e spedisce il manoscritto all'illustre poeta in Gallizia. "Ma l'entusiasmo era passato,—ella racconta—la buona intenzione del poeta se n'era ita dove vanno a finire spesso spesso le buone intenzioni, e della famosa prefazione non fu mai scritto neppure un rigo. Oh, come sono grata di questo al poeta di Luzbel!"
La Questione ardente è il programma artistico della signora Pardo-Bazan. Pubblicata in articoli settimanali nel giornale L'Epoca, sollevò una vera tempesta di discussioni in difesa e contro. La stessa autrice fu meravigliata di veder "appassionarsi pel suo scritto una nazione che si occupa soltanto di politica, di tori e di donne."
Era naturale che per lei quella questione ardente non rimanesse letteraria soltanto; al concetto naturalista e fatalista dello Zola ella infatti contrappone il concetto teologico cattolico; e nel 1844, in una polemica con Luis Alfonso, critico favorito dei salotti aristocratici, protestava contro l'opinione che faceva di lei un Zola femminino o per lo meno un'attiva discepola del rivoluzionario francese.
Fortunatamente la signora Pardo-Bazan dà al concetto di un'opera d'arte l'importanza che merita; cioè non fa dell'opera d'arte una tesi (e per lei questa tesi dovrebbe essere cattolica). I lettori della Cascina degli Ulloa se ne accorgeranno subito. Se ne accorgerebbero meglio se potessero leggere l'altro romanzo, La Tribuna, dove la imparzialità dell'artista spicca magistralmente.
Nella Cascina degli Ulloa è descritta la decadenza di una nobile famiglia delle montagne galiziane; nella Tribuna, la Galizia moderna, piena di vita e di attività industriale. Quasi per riscontro anticipato all'opera dello Zola, La terra, la Pardo-Bazan ha descritto la vita dei campi nel romanzo La madre natura, che forma la seconda parte della Cascina degli Ulloa. Ma in tutti e tre questi romanzi e negli altri— Il cigno di Villamorta, studio del basso popolo, La Buccolica, pastello di contadina povera, ignorante, istintiva—come pure nelle novelle, l'osservazione diretta e sincera è la principale cura della scrittrice; osservazione che non si rivela come semplice impressione fotografica, ma bensì come impressione riflessa, spogliata dell'accidentale e del triviale. Questa convinzione che l'arte non possa nè debba essere semplice fotografia della realtà è così forte e profondamente radicata in lei, che la spinge in tutti i suoi romanzi a inventare i nomi di città, paesi, provincie dove si svolge l'azione. Non vuole esser legata troppo alla realtà neppure nel paesaggio; se ha bisogno di spostare di qualche miglio una località, vuol farlo senza scrupoli. Così, nel creare i caratteri non si limita a riprodurre fedelmente un personaggio vivente, conosciuto da lei. Cosa, del resto, comune a tutti gli scrittori, anche a quelli che più protestano di voler essere fedeli alla realtà.
Ella ci dà involontariamente un cenno della messa in opera del suo metodo artistico, raccontando come le si svolse nella mente il germe del romanzo La Tribuna. Vedendo uscire un giorno, nella sua città nativa, i gruppi delle sigaraie dalla Fabbrica dei Tabacchi, ella pensava:—C'è qualche romanzo tra quei vestiti di percalle e quelle grossolane mantelle?—E il suo istinto femminile le rispondeva:—Dove sono quattromila donne ci sono certamente quattromila romanzi; il difficile è scoprirli.—E si rammentò che quelle donne brune, robuste, dall'aria risoluta, erano state le più ardenti partigiane dell'idea federale durante la rivoluzione; e le parve interessante studiare lo svolgimento di un principio politico nel cervello di una donna cattolica e demagoga, ingenua per natura e spinta al male dalla fatalità della vita operaia.
Questa impressione la risolveva a osservare da vicino e a studiare quella vita; e la Fabbrica dei tabacchi non era lontana dalla Coruña.
C'è un capitolo del romanzo La Tribuna intitolato: Il carnevale delle sigaraie. La scrittrice aveva assistito, anni avanti, allo spettacolo colà descritto; e fra le maschere di operaie aveva notato una giovanetta di vent'anni, vestita da studente vagabondo, che ballava sul ristretto spazio di un palco, accompagnandosi col suono di un cembalo basco. Svelta, ardita, mandava lampi dagli occhi nerissimi, ballando e scotendo i neri capelli sciolti sotto il tricorno che le copriva la testa. Con freschissima voce ella improvvisava cantando; e vedendo ridere, rideva mostrando i bianchissimi denti; e s'interrompeva per scherzare intorno alla sua inesperienza della rima:—Le dico grosse, eh?
Poco tempo dopo, i giornali portarono la notizia che una ragazza della Fabbrica dei Tabacchi si era suicidata per amore: era proprio la ragazza vestita da studente vagabondo, allegra e chiassosa come un passerotto.
Coi suoi risparmi era andata a comprare un revolver, dicendo che doveva regalarlo a un cugino. L'armaiuolo dapprima aveva esitato; poi vedendo quel visetto vivace ed allegro, aveva venduto il revolver. Ella se n'era tirato un colpo dritto al cuore.
E la scrittrice, raccontando il fatto, riflette:—"che nessuna contadina sarebbe capace di ammazzarsi a quel modo; la media cultura operaia, il raffinamento dei nervi, l'impoverimento del sangue e il continuo e malsano contatto della vita cittadina creano una donna nuova, molto complicata e per conseguenza più infelice della contadina."
Studiare i caratteri principali della produzione narrativa alla signora Pardo-Bazan richiederebbe altro spazio che non quello concesso a questi brevi accenni. La critica conservatrice e spigolistra è stata in Ispagna molto severa con lei. Nel 1886 ella mi scriveva dal suo ritiro della Coruña:
"La mia qualità di signora mi ha fatto soffrire maggiormente per l'ipocrisia della critica e per le contraddittorie pretese del pubblico. Io sono, mi creda, una specie di amazzone, ma ho pure un carattere femminilissimo; che farci? Quando però mi si richiedono cose sciocche, io non so persuadermi che la mia condizione di signora abbia qualcosa da spartire con l'arte; e mettendomi a scrivere, dimentico che porto la gonna e mi sforzo di fare lavoro di artista e niente altro."
La signora Pardo-Bazan ha frequentato, nelle sue corse a Parigi, i salotti letterari della capitale francese, specialmente quello di Edmondo De Goncourt, e li descrive con vivacissima efficacia nei suoi Appunti biografici.
Una volta il De Goncourt le domandò se ferveva anche in Ispagna la battaglia tra l'idealismo e il realismo. E alla risposta di lei, che colà non v'era battaglia perchè gli idealisti non si facevano più vivi, il De Goncourt replicò:
"—Non hanno neppure un Giorgio Ohnet?"
—No—disse la signora Pardo-Bazan.
E il De Goncourt, facendo risuonare quella sua particolare risata ironica e geniale:
"—Come sono fortunati questi spagnuoli! Non hanno un Ohnet!"
Singolarissima è la scena della sua visita a Vittor Hugo; merita di essere tradotta per intero.
"Negli ultimi giorni della mia dimora a Parigi, al mio ritorno da Vichy, conobbi Vittor Hugo, ultimo e grandioso superstite della generazione romantica.
L'autore dello Hernani m'invitò a un suo ricevimento; e dovrei dire: alla sua corte, perchè egli aveva l'aria di un sovrano detronizzato, in quel gran salone illuminato da splendidi lampadari di cristallo veneziano, tappezzato di stoffa di seta, col pavimento coperto da magnifici tappeti, e dove da un lato e dall'altro,—in doppia fila, zitti, o parlando sommessamente tra loro, quasi non osassero accostarsi molto da vicino al maestro—stavano seduti gli ultimi cortigiani della maestà decaduta, e i neofiti tardivi e sorpassati del romanticismo.
Vittor Hugo mi fece sedere al suo fianco, e mi indirizzò la parola. Si fece subito, un gran silenzio attorno, per prestare attenzione al nostro dialogo, che da parte mia si riduceva a quelle rare e timide risposte che sono di prammatica in simili udienze. Vittor Hugo dichiarò che riguardava la Spagna come sua seconda patria, mostrò il suo dispiacere di vederla molto indietro su la via del progresso e soggiunse che non poteva essere altrimenti in un paese dove la Santa Inquisizione aveva martoriato senza pietà scrittori e scienziati. Con tutti i riguardi che il galateo insegna quando si tratta di dover contraddire una persona, e specialmente quando questa persona si chiama Vittor Hugo, risposi che le più splendide epoche della nostra letteratura erano state appunto quelle inquisitoriali, e che l'Inquisizione non si era mai mescolata di letteratura, nè aveva mai bruciato nessun scienziato e nessuno scrittore, all'infuori di ebrei, streghe e fattucchieri. Non si mostrò convinto; ed io, spinta dalla mia inveterata passione di difender la Spagna dalle accuse gratuite, mi misi a polemizzare col vecchio, con buone parole, s'intende, con frasi rispettose e carezzevoli; e quando il poeta affermò che nel 1824 ci erano stati ancora degli autos da fè, non gli dissi che commetteva un anacronismo, ma lo pregai di verificare la notizia, aggiungendo che l'Inquisizione, soppressa per decreto nel 1812, era stata soppressa di fatto molti anni avanti. Di faccia a me sedeva una signora che faceva gli onori di casa, credo la signora Lochroy, la quale mi domandò con velata ironia se io avevo studiato la storia presso i padri domenicani. Ed io subito replicai negligentemente che nel Michelet, nel Thiers e in altri storici francesi avevo letto le Dragonate, la notte di San Bartolomeo, il Terrore e altri episodi della storia di Francia, a petto dei quali gli orrori della Inquisizione erano pasticcetti e zuccherini; e soggiunsi che la Spagna non aveva perseguitato Clemente Marot, nè mandato al patibolo Andrea Chènier, perchè gli spagnuoli apprezzano e venerano le Muse, come provava la mia presenza in quella casa.
— Voilà bien l'espagnole! —mormorò Vittor Hugo con mezzo sorriso su le labbra.
E cominciò a incensare la Spagna, il paese, secondo lui, più romanzesco di Europa; e a interrogarmi intorno ai nostri scrittori contemporanei dei quali non conosceva neppure un rigo. La serata trascorse in un soffio, e pareva che pei discepoli fosse rotto l'incanto; si agitavano e parlavano, giacchè in quella sala del trono—vera sala d'inquisizione poetica!—soltanto un incidente casuale, come la presenza di uno straniero, poteva recare l'animazione della controversia e rompere il gelo del rispetto quasi jeratico. Alle dodici, Vittor Hugo mi congedò. Mi regalò il suo ritratto e quello dei suoi nipotini, col suo autografo, e mi baciò in fronte; costume francese, che se in altra occasione, a me spagnuola, sarebbe parso dì cattivo gusto, ora mi riuscì commovente in persona di quell'ottagenario già curvato più sotto il peso degli allori che non sotto quello degli anni, e vicino al sepolcro, dove ormai dorme. Sia pace all'anima sua!"
— Voilà bien l'espagnole! —ripeto io, terminando di scrivere.
E penso, con rammarico, che questo semplice episodio potrebbe insegnare qualcosa a parecchi italiani di oggi.
VII.
UN PADRE BRESCIANI SPAGNUOLO¹
¹ __Pequeñeces__ per el P. Luis Coloma de la Compañia de Jesus Quinta edicion. Bilbao Administration de El Mensajero del Corazon de Jesus. 1891.
Cioè gesuita e romanziere. Le somiglianze però tra il nostro p. Bresciani e il p. Luigi Coloma non vanno più in là. Coloro che non hanno dimenticato il mirabile studio del De Sanctis intorno all' Ebreo di Verona, leggendo Pequeñeces del gesuita spagnuolo potrebbero credere ch'egli abbia cavato profitto dalle osservazioni del gran critico. Il De Sanctis ha detto al p. Bresciani: "—La parte liberale accoglie in sè, come ogni altro partito, gente di ogni risma; vi ha gl'imbroglioni, gli ipocriti, gli sciocchi, i bricconi. Guardata da questo lato, quanto vi ha di ridicolo! quanto di atroce! La materia questa volta non vi manca. Se avete spirito, fateci ridere; se avete bile, fateci fremere."
E il p. Coloma spirito ne ha davvero e di ottima lega, e bile molta, ma di quella buona, se pure si può chiamare bile la indignazione di un'onesta persona davanti allo spettacolo delle turpitudini umane. Egli è gesuita, sì, come il p. Bresciani, ma, soprattutto, è artista come al p. Bresciani non passava neppur pel capo che essere si potesse e si dovesse. Caso nuovissimo, quasi incredibile, se si guarda la vasta letteratura del loro Ordine, che ha dato scrittori di ogni sorta, artisti no, mai.
Probabilmente questo è avvenuto perchè il p. Coloma si è fatto gesuita assai tardi. Già laureato in dritto all'università di Siviglia, abbandona l'avvocatura per entrare in Marina. Passati due anni alla Scuola navale, n'esce per buttarsi un po' nel giornalismo, nella letteratura, e molto nella politica. Cospirando, compromettendosi pei Borboni, mena intanto vita mondana tra quell'aristocrazia madrilena ch'egli poi descriverà così bene in Pequeñeces.
Un bel giorno, nel '74, una grave ferita di revolver lo fa stare parecchie settimane tra la vita e la morte. Duello? Tentativo di suicidio? Non si è potuto mai saperlo chiaramente. Si sa però che, appena guarito, egli entra nella Compagnia di Gesù, fa il noviziato, prende gli ordini, passa per la fitta trafila di tutti gli esercizi scolastici e religiosi che la regola dell'Ordine impone agli adepti; e dieci anni dopo, dal pulpito di una delle chiese di Madrid, fulmina così rudemente, col suo primo sermone, quell'uditorio femminile, da far scappare di chiesa, a metà di sermone, una delle più grandi dame della capitale. Il caso mette sossopra corte, ministri, Nunzio apostolico; e il terribile predicatore se la cava soltanto con essere rimandato al suo convento.
Ah! gli interdicono il pulpito? Si rivolgerà, da un altro pulpito, quello della stampa, a un uditorio più vasto. Le sue novelle, poi raccolte nel volume Lectures recreatives, attirano infatti verso di lui gli occhi del pubblico. Ma chi poteva sospettare che i Cuentos para niños, El Cazador de venados, Juan Miseria, La Gorriona, Mal-alma, Pilatillo preparassero l'audace e vigoroso futuro autore di Pequeñeces?
Bisogna dire che i gesuiti spagnuoli sono di tutt'altra pasta dei nostri. Pequeñeces è stato pubblicato nel Messaggero del Cuor di Gesù di Bilbao, con l'approvazione dei superiori! I padri della Civiltà Cattolica si farebbero dieci volte il segno della santa croce, se uno scrittore cattolico romano a tutta prova (non oso dire: un padre della Compagnia) andasse a proporre pel loro periodico un romanzo che dipingesse l'aristocrazia nera di Roma o la borbonica di Napoli con la stessa indipendenza e con la stessa crudezza di Pequeñeces.
Giacchè—cosa ancora più strana—il p. Coloma non se la prende tanto coi liberali quanto con gli aristocratici legittimisti, alfonsisti, amadeisti, clericali. Troppi compromessi, troppe venalità, troppi voltafaccia, troppe viltà, troppe sozzure egli ha osservato tra la gente del suo partito borbonico; e ha voluto smascherare tutti: ministri traditori, cospiratori per tornaconto, dame che menano vita da cocotte, grandi di Spagna che meritano il bollo di signori Alfonsi; canagliume, tutti, che della politica e della religione si fanno scherno per nascondere le vanità, l'avidità, le passioni malsane, i vizii schifosi che lor rodono le ossa.
La rigidità monastica impedisce al p. Coloma di giudicare con qualche indulgenza una società che gli pare abbia perduto ogni nozione del giusto e dell'onesto, se, a furia di vigliacche transazioni, essa finisce col chiamare sciocchezze, cose da nulla ( pequeñeces ), quel che nel vocabolario delle persone oneste dovrebbe venir qualificato assai meno benignamente.
Per ciò egli si paragona " a quei frati del medio evo, che montavano nelle piazze sur un pulpito improvvisato, e di lassù parlavano ai distratti non entrati in chiesa il loro stesso grossolano linguaggio, perchè le rudi verità predicate facessero effetto."
Certamente il p. Coloma, nel suo intento, ha voluto fare una predica; ma, prima che le circostanze della vita lo riducessero frate, madre Natura aveva pensato d'impastarlo artista. Nelle novelle egli si era esercitato a disegnare, a colorire; in Pequeñeces l'artista è maturo; e che artista!
E l'arte lo ha preso così fortemente che il predicatore, il gesuita non si scorgono punto, o così di rado e così poco che non se ne può tener conto. Qualunque più grande scrittore realista, verista, simbolista potrebbe dirsi orgoglioso di Pequeñeces; di avervi dipinto (e sarebbe meglio dire inciso all'acqua forte) i ritratti del Marchese Butron ex diplomatico, gastronomo, e l'altro di Pietro de Vivar, detto Diogene pel suo cinismo e la sua cattiva lingua; quello di colui che vien chiamato zio Checco, zio universale di tutti i grandi di Spagna, di tutti i nobili di second'ordine, di tutti i nuovi arricchiti, di tutte le persone più in vista nella politica, nella stampa, nell'amministrazione, non che di tutti gli avventurieri sfacciati e di tutte le anonime celebrità del Toto Madrid e della corte; il ritratto di Giacomo Tellez, marchese di Sabanel, ora borbonico, ora massone, ora alfonsista, e Monsieur Alphonse (il p. Coloma non ha avuto scrupolo di scrivere queste due parole); il ritratto del conte di Albornoz e, finalmente, il gran ritratto, in piedi della contessa Currita (Cecchina) sua moglie, attorno a cui l'autore ha adoprato tutte le audacie, tutte le finezze del suo pennello, che parecchi grandi romanzieri, realisti o veristi, o simbolisti, che si vogliano dire, potrebbero proprio invidiargli.
Ho messo insieme realisti, veristi, e simbolisti perchè il p. Coloma non si è punto curato di appartenere a questa o a quella scuola, ma ha voluto essere, e c'è riuscito, artista sincero e nient'altro; e per ciò ha potuto fare la schietta ed eccellente opera d'arte che ognuna di queste così dette scuole letterarie può contemporaneamente reclamare per propria.
Ho riletto in questi giorni nel testo spagnuolo Pequeñeces, letto prima, due anni fa, nella riduzione francese del Vergniol. Mai riduzione non mi è parsa così pretenziosa e ridicola come questa che toglie al lavoro del p. Coloma il suo speciale sapore, sopprimendo interi capitoli, riducendo in narrazione sbiadita quel che colà è presentato in azione vivacissima, ammortendo spesso, senza nessuna ragione, fin l'energia della forma. A un personaggio mondano, per esempio, che, raddoppiando gli erre, parla di una donna datasi alle austerità del misticismo, il P. Coloma fa dire: Como si parra ser santa, se necesitarra ser puerrca! E lo scimmiotto francese annacqua: Comme si, pour devenir une sainte, fallait se travestir en mendiante! Costui però non è francese per niente, e ritrova tutta la malignità della sua razza quando il testo gli porge l'occasione di sporcare qualcosa che riguarda l'Italia. El viejo mamarrachio, dice il gesuita, parlando di Garibaldi; e nel caso da lui raccontato quel vecchio credenzone sta benissimo. Ma al riduttore francese sembra poco, e mette per proprio conto: vieux matamore: nè gl'importa che questo sciocco insulto risulti un controsenso.
—Politica italiana! Es la màs habil—dice Giacomo Tellez.
—Italiana, no, romana!—risponde la marchesa di Villasis legittimista e clericale.—Es la màs sancta!
Ma al ridicolo riduttore, màs sancta non garba, e mette un altro sproposito: C'est la plus loyale!
Questo sia detto di passaggio per coloro che, ignorando lo spagnuolo e non trovando di Pequeñeces una traduzione italiana, dalla curiosità ora fossero spinti a ricorrere alla riduzione francese. Invece della genuina fisonomia di un gesuita romanziere, troverebbero il buffo travestimento di esso in laico romanziere francese.
L'ignorante riduttore non ha capito che una delle attrattive del libro, e non la minore, nella sua riduzione, è già sparita; intendo dire quell'elevata tendenza religiosa che differenzia questo romanzo di costumi e di caratteri dai romanzi consimili.
Niente di straordinario ci sarebbe infatti se lo Zola, o il Daudet, o il Bourget ci avessero dipinto Currita d'Albornoz, e la società madrilena che le sta intorno; l'importante, il piccante consiste principalmente nel sapere che colui che l'ha dipinta è un gesuita. E questo piccante sparisce quando l'imbecillità d'un riduttore si permette di condensare in otto righe quella ventina di pagine che raccontano la conversione e la morte del povero Diogene, del vecchio cinico sporcaccione, caduto da una carrozza, e abbandonato in mano dei padri del collegio gesuitico di Guipùzcoa dagli amici e dalle amiche che non vogliono interrompere, per assistere il disgraziato, una bella partita di campagna.
Currita d'Albornoz! Ma si direbbe che il p. Coloma l'abbia conosciuta molto da vicino, a Madrid, nell'alta società al tempo che egli era cospiratore borbonico e assiduo frequentatore dei ritrovi eleganti, tanto è viva questa terribile figura di donna e così profondamente studiata!
Non è alla sua vigilia d'armi di donna galante quando la prima volta ella ci apparisce dinanzi nel salotto isabellista della duchessa de Bara. Ha per amante un giovanotto inesperto da lei ammaliato e di cui ha fatto, come al solito, l'amico del marito.
Nel salotto della duchessa de Bara, gl'isabellisti sono agitati, indignati; si è sparsa la voce che Currita abbia chiesto di esser nominata Camarera major della Cisterna, come gli isabellisti sprezzosamente chiamano la regina Vittoria, moglie di Re Amedeo I. Al suo arrivo, Currita è salutata da un ironico scoppio di applausi, al suono dell'inno reale amadeista: ed ella, fingendo di non capire l'atto ironico di Gerito Sardona che, servendosi d'un vassoio da tè per cappello, imitava l'angoloso e serio saluto di Re don Amedeo, risponde con la caricatura del cerimonioso saluto della regina donna Maria Vittoria, e s'inoltra prodigando a destra e a manca eleganti saluti di gran signora di Corte.
Quella nomina è un suo intrigo per poter far dire che ella l'ha rifiutata e mettersi più in vista tra il partito di opposizione.
L'ha fatta chiedere dal marito al Ministro d'oltremare; ma il marito invece che a voce, com'ella gli avea raccomandato, l'ha chiesta per lettera. Al rifiuto di lei, il Ministro indignato va a domandarle la ragione dell'insulto; ella nega sfrontatamente di aver mai pensato a quella carica; e quando il ministro le mette sotto gli occhi la lettera del marito, ella gliela strappa di mano e la butta nel fuoco del camminetto. Un altro suo intrigo è la perquisizione che la polizia viene a farle in casa, per ordine del governatore di Madrid a cui ella, con lettera anonima e calligrafia alterata, avea dato la notizia che importanti documenti di una congiura politica si sarebbero trovati nel palazzo Albornoz. La perquisizione riesce vuota, ma l'ispettore ha però portato via un mazzo di lettere profumate trovate nel cassetto a doppio fondo d'un armadio, in camera di lei. La calligrafia di queste lettere amorose, scritte da Currita al predecessore di Juanito Velarde, e ritirate dopo la rottura, mettono il Governatore in caso di riconoscere l'autrice della falsa denunzia. Le lettere, per vendetta, vengono inviate al marito. La stampa se ne mescola: lo scandalo è grande. Ma Currita che pensa soltanto a sè, vuol vendicarsi dell'impertinente direttore della España con honra, e indìce all'amante di sfidarlo. Il povero Juanito Velarde riceve una palla in petto e muore. Tutta Madrid si commove pel caso dell'inesperto giovanotto, e accusa Currita di averlo spinto a morire.
—Che ho da vedere io con lui?—ella risponde a un'amica—Gli ho io detto di battersi forse? Chi gli ha ordinato di fare il paladino? Il mestiere di Don Chisciotte è pericoloso, cara mia!
Ma quando mezza Madrid le affluisce in casa per opprimerla di ipocrite condoglianze cortigianesche, Currita recita mirabilmente la sua parte di inconsolabile. Povero ragazzo! Se ella avesse potuto sospettare! Ma come mai figurarsi!… E quella povera mamma rimasta senza sostegno, in cattive condizioni finanziarie!… Ella e suo marito avevano pensato a lei, mandandole un soccorso in rendita, presso la Banca di Spagna!
Currita però non diceva che quei sedicimila duros (quasi ottantamila lire) ella li avea vinti, ironia della sorte! con un biglietto di lotteria trovato tra le sue lettere mandate a riprendere in casa del Velarde lo stesso giorno della morte di lui! Erano una restituzione e niente più.
E così ella assume la posa di martire politica, e fa dimenticare che è un'adultera sfacciata, una madre senza cuore pei suoi due bambini, abbandonati alle mani dell'istitutrice e poi messi in collegio quando l'età li rende impacciosi in famiglia.
Paquito ha sgorbiato e impiastricciato di colore un ritratto del padre pel suo giorno onomastico. È una figura mostruosa, ma Paquito e la sorella Lilì si figurano che la buona intenzione possa valere qualcosa. Sono penetrati nello studio di pittura della mamma e hanno messo quel capolavoro sul cavalletto. Sentito rumor di passi nella stanza accanto, si nascondono; ed ecco la madre e il suo nuovo amante Giacomo Tellez, marchese di Sabanel, che parlano di cose che i bambini fortunatamente non possono intendere. Visto quello sgorbio, imitato da una fotografia, riconoscono dalle due ciocche curve su le tempie, alla Napoleone terzo, chi si è voluto rappresentare; e l'amante, ridendo, prende un pezzetto di carbonella e, spinte molto in fuori le due curve, disegna l'emblema di quel che era moralmente il conte di Albornoz, marito di Currita. Poco dopo i bambini, uscendo dal loro nascondiglio, veggono lo sfregio fatto al ritratto del padre; non capiscono di che si tratti, ma capiscono che si tratta di uno scherno e di un'offesa.
Questo nuovo amante di Currita la domina, la tiene sottomessa, la spoglia. Ella è così pervertita, che non ha onta di prendere un antico reliquario di argento dalla cappella di famiglia, bruciar le reliquie per superstizioso rimorso, e regalare quel prezioso oggetto d'arte all'amante, facendone una cornice pel proprio ritratto.
Cacciato via Re don Amedeo, spenta la repubblica, intronizzato don Alfonso, Currita è più in voga, più alla moda che mai. Il suo amante, che ha tradito re Amedeo, la massoneria, gli isabellisti—e tradirebbe re Alfonso, se ne avesse il tempo—appena elevato a grande di Spagna dal nuovo re, cade sotto il giustiziere pugnale della massoneria. Allora quella stessa società che non le avea fatto colpa della morte di Juanito Velarde, le fa carico della misteriosa morte del marchese di Sabanel; e, tutt'a un tratto, Currita vede disertati i suoi ricevimenti, e si sente sfuggita, evitata fin nella sacra cappella del collegio dove è la sua Lilì.
"Ella sentì aumentare la desolazione che la opprimeva. Una sorda irritazione, un amaro sdegno la spingeva a rimescolare, a riandare con acre piacere tutte le sue vergognose immondizie pubbliche, tollerate, consentite, applaudite come amabili cose da nulla da quella stessa Madrid che ora le voltava le spalle; ed ella gliele ributtava in faccia, gridando:
—Sono ora forse peggiore di prima? Dunque una calunnia ha per te più valore di tutto quel fango con cui ti ho lordato il viso?"
E l'indignazione contro la ipocrita e repugnante ingiustizia della società produce nel cuore di lei la conversione, che altre tristi circostanze non avevano saputo neppur farle balenare davanti gli occhi come possibile.
Questo è appena un abbozzo a tratti di lapis della figura di Currita de Albornoz, la trista eroina di Pequeñeces.
Ella vien fuori, viva e terribile, dalle pagine del libro, circondata da una folla di altre figure degne di lei: uomini politici, uomini mondani, donne leggere e corrotte, donne buone ma deboli, incapaci di resistere al fascino del vizio trionfante, madri onestissime che pur non temono di affidare a una Currita le loro immacolate figliuole. E tra tanto fracidume, tre figure elette, accennate, sfumate, ma abbastanza vigorosamente trattate per produrre il contrasto: la marchesa di Villasis, la vedova del marchese di Sabanel che si è data da molti anni alla vita religiosa più austera, e il P. Cifuentes, gesuita, lor confessore.
Anche qui l'artista ha felicemente preso la mano al predicatore. Quanta parsimonia! Quanta misura!
E la bellezza dell'opera d'arte fa fin dimenticare quel po' che può esservi di molto spiacevole per un italiano. Quanti italiani sono, contro la loro patria e i loro compatriotti assai più ingiusti e più sgarbati di questo bravo gesuita spagnuolo! Dei nostri cari vicini non parlo! [Blank Page]
VIII.
UN POEMA DRAMMATICO PORTOGHESE¹
¹ __Eugenio de Castro__, Belkiss regina di Saba, D'Axum e del Hymir, traduzione dal portoghese di __Vittorio Pica__, preceduta da un saggio critico. Milano, Fratelli Treves, 1896.
"L'arte, in tutte le sue forme, è un continuo ed instancabile divenire, ed è perciò che noi non mostreremo mai abbastanza tenerezza, mai abbastanza ammirazione pei novatori, sia per coloro che pagano con lunga serie di amarezze un tardivo raggio di gloria, sia per coloro che, pur passando da errore ad errore, preparano la via ai trionfatori del dimani, e che, nella loro immolazione ad un elevato ideale d'arte, il quale è brillato fulgido nella loro mente, ma che essi, ahimè! non sono riusciti ad incarnare, ci appaiono grotteschi, mentre pure sono i martiri dolorosi e ignoti dell'arte!¹."
¹ __Vittorio Pica__, L'Arte europea a Venezia, Napoli, Pierro 1896, pag. 87.
Queste parole di Vittorio Pica scritte, a proposito di due quadri di Max Liebermann, in un accuratissimo studio intorno alla pittura europea nell'esposizione veneta dell'anno scorso, mi son tornate in mente leggendo il poema drammatico in prosa del giovane poeta portoghese Eugenio de Castro, da lui tradotto e pubblicato con una larga e spassionata introduzione che presenta l'ignoto autore al pubblico italiano.
La regina di Saba (Belkiss o Micauli o Makede, il suo vero nome non si sa) è figura tentatrice per la fantasia d'un poeta, e fa meraviglia che l'arte della parola l'abbia finora trascurata, abbandonando alla pittura un soggetto così pieno di mistero e di magnificenza. Paolo Veronese l'ha trattato due volte, in un quadro che si trova nel museo di Torino e in un affresco del palazzo Bragadino ad Asolo: Raffaello in un affresco nelle Logge vaticane: Claudio Lorrain in un quadro che si ammira nella galleria di Londra e che vien giudicato il capolavoro del gran pittore francese. Non possiamo tenere come appartenenti all'arte letteraria i libretti dei melodrammi del Gounod e del Goldmark che hanno scelto per protagonista la strana regina etiopica.
Il Libro dei Re racconta con lirico splendore la visita a Salomone di questa che S. Matteo chiama vagamente Regina del mezzodì.
Attratta dalla fama della sapienza del re ebreo, la regina di Saba venne in Gerusalemme per far prova di lui con enimmi…. e parlò con lui di tutto ciò ch'ella aveva nel cuore. E Salomone le dichiarò tutto quello ch'ella propose e non vi fu cosa alcuna occulta al re. La regina di Saba disse al re: Ciò che io avevo inteso nel mio paese dei fatti tuoi e della tua sapienza era ben la verità. Ma io non credeva quello che se ne diceva finchè non son venuta e che gli occhi miei non l'hanno veduto; ora, ecco, non me n'è stata rapportata la metà: tu sopravanzi in sapienza ed eccellenza la fama che io ne aveva intesa. E in ricambio dei preziosissimi regali da lei recategli, Salomone donò alla regina di Saba tutto ciò ch'ella ebbe a grado e che gli chiese, (lib. 1. cap. X). Giuseppe ebreo, meno riserbato del cronista biblico, racconta che la regina di Saba partì da Gerusalemme incinta di Salomone. Messo nome David al figlio che partorì, ella poi lo mandò dal padre in Gerusalemme perchè vi fosse istruito e unto re. I negus d'Abissinia pretendono di discendere in linea retta da questo figlio di Salomone.
Che n'ha fatto il De Castro della misteriosa figura della Regina di Saba?
Un simbolo. Pel De Castro, secondo il Pica, lo scopo precipuo della poesia moderna consiste nel presentare dei simboli eterni universali. Ed io aggiungo: Ben venga pure il simbolo in arte, a patto però ch'esso vi arrivi a traverso la vita; a patto, cioè, che le figure evocate dall'immaginazione del poeta siano, prima di tutto, creature vive e non ombre, o astrazioni filosofiche battezzate con un nome qualunque. Ben venga pure il simbolo, a patto però che gli accessorii non sopraffacciano il soggetto principale, che la frase, l'immagine, i vocaboli arcaici o distolti dal loro schietto significato non costituiscano insomma una retorica per lo meno altrettanto inetta e sciocca quanto l'altra che si vorrebbe scacciar via. Ben venga pure il simbolo, a patto però che scaturisca sincero dall'immaginazione del poeta, e non per artificio di ricette che ormai non conservano neppure l'attrattiva del segreto e possono, con maggiore o minore abilità, essere eseguite da qualunque farmacista dell'arte. Ben venga finalmente il simbolo, a patto però che mantenga le sue promesse, che sia essenza spirituale, cioè che ci apra spiragli più larghi e più luminosi da cui spingere lo sguardo negli abissi dello spirito umano, non giocherello, trompe-l'-oil, manichino vestito di broccato e posto in fondo a una stanza mezzo buia per far paura alla gente che vi entra inavvertitamente.
Io non so chi sia il valoroso critico francese citato dal Pica che chiamando un pur chef-d'-oeuvre questa Belkiss del De Castro, non ha dato una bella prova d'intelligenza; e ammiro l'arguta riserbatezza con cui il Pica lo avverte di aver dimenticato una spirituale legge, un po' crudele forse ma non del tutto ingiusta, secondo la quale, prima di chiamar capolavoro un'opera d'arte, bisogna lasciar che il tempo vi deponga su la sua lucida pàtina.
È giusto accordare al poeta la più ampia libertà nella concezione del suo lavoro. Ed io non oserei dir niente al poeta di Belkiss pel capriccio che ha avuto di far della regina di Saba una nevrotica d'oggi, stavo per dire una morfinomane, se (sia arte, sia caso) la figura biblica, nella sua interminatezza, non fosse assai più attraente, più suggestiva, più moderna della Belkiss portoghese. Attratta dalla fama della sapienza di Salomone, la regina biblica va a Gerusalemme a far prova di enimmi con lui, e non ha soltanto una morbosa curiosità di sensi, un bisogno dei baci di Salomone e di nient'altro, come questa Belkiss che confida le sue notturne frenesie al saggio Sofesamin, e che vuole quei baci unicamente perchè le pare che debba essere assai dolce vedersi inginocchiato ai piedi colui che ha il mondo intero inginocchiato intorno a sè.
Per imbastire una figurina isterica di questa natura, qualunque sartina poteva servire di pretesto e di modello; per dirci la volgarissima verità che realizzare un desiderio significa ammazzarlo, qualunque intrichetto era sufficiente, com'è stato sufficiente a tanti romanzieri e novellieri, piccoli e grandi, che hanno cucinato quel concetto in tutte le salse. Perchè scomodare la regina di Saba e il savio Sofesamin e Hedad re di Edom e tanti altri personaggi con nomi più o meno strani, e far ripetere al gran Re sapiente la strofe del Cantico dei cantici in una situazione da operetta? Perchè mettere, come cornice a un fattarellino di alcova, i palazzi di Axum con gl'intercolunni velati da grosse coltri di lino di Egitto ricamate in seta; e la vasta piazza degli obelischi con le scalee fiancheggiate da sfingi che conducono al palazzo reale; e la tetra foresta incantata su la gran rupe a picco del mar Rosso; e l'altra terrazza che domina il mare, lastricata di marmo verde, con in giro vasi pieni di gigli bianchi di Antiochia e di gigli rossi di Licia; e far la rivista di tutte le pietre preziose segnate nella storia Naturale di Plinio il giovane; e circondare di una tenebra di sette giorni il palazzo reale di Axum, se finalmente quel che più premeva, lo stato d'animo di Belkiss dopo di aver colto i sospirati baci di Salomone dovea ridursi a un brevissimo accenno?
—La decorazione è splendida!—Sia pure! Ma il simbolo non se ne giova affatto. Come non giova a render viva la figura di Sofesamin, descrivercelo con la barba d'argento che gli copre il petto, con la mitra in capo, da cui pendono, nascondendogli le orecchie e scendendogli fino alle ascelle, due strisce di stoffa dura e tesa, con sotto l' amiculum di lana bianca un calasiris di lana azzurra, e alla cintola un sacchetto pieno di scapole di cinocefalo e di agnello coperte d'iscrizioni. Secondo le intenzioni del poeta, Sofesamin rappresenta la saggezza, l'esperienza della vita. Ma Belkiss ha ragione di non dar retta ai suoi consigli, perchè l'unica esperienza di cui si può, qualche volta, trar profitto è soltanto la propria.
Contro ogni intenzione del poeta, Sofesamin il savio, il quale ha in fondo agli occhi una luce che deve servire per allontanare gli altri dai pericoli in cui stanno per cascare, e che gli fa vedere chiare quelle cose che dovrebbero essere sempre scure, (luce che non dee far piacere a lui stesso, se quando ne ragiona gli sfugge la esclamazione; Oh! la povera anima mia! ); contro ogni intenzione del poeta, questa severa figura diventa ridicola. Quando la regina è ospite di Salomone (gli ammonimenti di Sofesamin non han potuto impedire che la capricciosa e isterica Belkiss mettesse in atto il viaggio a Gerusalemme) egli vorrebbe impedire che Salomone penetri nelle camere di Belkiss; e fa la guardia davanti l'uscio della regina, ma non così oculatamente che ella non n'esca scalza, coi capelli sciolti, tutta vestita di bianco e che non vada dal re, seguendo la traccia dei gigli sparsi sul pavimento, come il re le aveva indicato. Così mentre il Savio sta dietro l'uscio delle vaste camere di Belkiss a filosofare:— Poveri ciechi! Poveri sordi! Andate verso la felicità come una brigata di bambini che corrono incontro a un cane arrabbiato…!—Donde vengono lo nostre sofferenze? Dalla sazietà dei desiderii realizzati e dall'impossibilità di realizzare altri desiderii… Strangoliamo dunque i desiderii e vivremo quieti; —Belkiss assapora i tanto desiati baci di Salomone; e il savio si accorge, quando non ci è più rimedio, che la sua vigilanza, se non il suo presagio, è fallita. Infatti ecco Belkiss che esce dalle stanze di Salomone, guardando a terra con occhi smarriti e mormorando:
—Oh! Oh! i gigli sono pieni di sangue!
Troppo rapida questa delusione, o poeta! Sarà così, forse, nel regno dei simboli, ma nella vita no davvero!
Il poeta,—dice il Pica—nelle grandiose scene del suo lavoro si è compiaciuto ad evocare, con squisita sapienza artistica tutte le pompe magnifiche delle feste popolari e delle cerimonie ieratiche, tutte le regali raffinatezze voluttuarie dell'antico Oriente e dell'antica Africa; ma il mio caro amico non chiami, per carità, straziante dramma psicologico, la infantile esteriorità a cui esse servono di contorno.
La vera potenza della fantasia poetica si manifesta nella creazione di persone vive che la storia poi registra nello stato civile dell'arte; e l'amico Pica sa meglio degli altri, che c'è voluto certamente maggior potenza d'immaginazione per mettere al mondo don Abbondio che non per profondere attorno ai fantasmi di Belkiss e di Sofesamin tutti i colori orientali ed africani.
Ciò non ostante molti saranno grati, come me, al geniale critico e all'operoso traduttore di questo lavoro; che non è poi cosa volgare, e che può servire di ammonimento non spregevole per gli infatuati di certe artificiali forme letterarie, rammentando loro che artifizio ed arte non saranno mai la stessa cosa. [Blank Page]
IX.
PSICOPATIA CRISTIANA¹
¹ Del D.r Ermete Rossi, Roma, Tipografia Laziale—1892.
Leggendo queste dugentotrenta pagine, sembra di fare un sogno pieno di stranezze e di orrori, o visitare lo spedale di qualche fantastico Charcot millenario. Pallide figure dagli occhi sbarrati, dalle membra convulse, ci si agitano d'attorno in crisi nervose, in estasi, in contorsioni, con grida alte o soffocate scoppianti da bocche riarse, fra laceramenti delle proprie carni, mutilazioni e macerazioni, durante una rapida rincorsa di quasi due secoli verso meta ignota e misteriosa.
E questo spettacolo triste e commovente ci lascia incerti se mai abbiano ragione le vergini pazze d'amore divino, gli anacoreti torturati da invasamenti di castità e di peccato, le piagate di stimmate, i visionari del regno celeste che lo assaporano quaggiù, avanti di salire a goderselo, come credono, eternamente lassù; o pure noi che, sognando un equilibrio di sensi e d'intelletto, operoso e fecondo, siamo riusciti soltanto a convulsioni d'identica natura e che non forniscono meno pazzi al vero Charcot e ai suoi scolari.
Tra i delittuosi consigli di certa turpe scienza che insinua precetti e cautele per prevenire o impedire la generazione; tra le teoriche degli economisti che guardano con occhio spaventato l'aumento delle popolazioni; tra le statistiche delle nascite illegali e quelle che segnano la minacciosa sproporzione tra i nati e i morti di una nazione riputata di stare a capo della civiltà; tra l'immenso stuolo di creature femminili condannate, dal lavoro e dalle condizioni sociali, a verginità forzata, o a nozze vaghe, o a mostruose promiscuità a cui un'antica poetessa ha lasciato in eredità il proprio nome; tra il grido uscito recentemente dal cuore malato di un gran romanziere russo contro l'amore e la generazione, e quell'altro grido del cristianesimo primitivo che esalta la verginità come cima di perfezione, e il consiglio dell'Apostolo ai Corinti:—Se non avete moglie, non la pigliate!—a cui facevano eco Santa Domitilla e tante altre vergini, ripetendo:—Cristo il nostro Re fu vergine e di vergine nacque. La verginità ci fa simili al maestro!—tra questa discordia di mezzi e questa concordia d'intenti, insomma chi ha ragione?
Si rimane incerti, angosciati; e dando un'occhiata ai terribili libri dello Charcot e del Richer, e un'altra a questo volumettino che ci porge raccolta la quintessenza delle psicopatie cristiane, siamo spinti a dubitare se mai il mondo non sia un arruffato viluppo di istinti animali e d'ideali purissimi soltanto buoni a sconvolgere da cima a fondo l'organismo fisico e intellettuale, e se mai la pazzia, o, come oggi dicono, la nevrosi universale, non debba un giorno o l'altro costituire lo stato ordinario dell'uomo.
L'autore della Psicopatia cristiana ha preso un partito.
Con sobrietà che potrebbe quasi dirsi aridezza espone rapidamente il suo concetto, e poi va innanzi a furia di fatti. Vuole che i fatti parlino loro, conchiudano loro; e per questo non si è risparmiato fatica, avendo voluto attingerli alle fonti. Non gl'importa che essi siano presentati dalla leggenda o dalla cronaca; il loro significato per lui è lo stesso.
E così vediamo sfilarci dinanzi la lunga processione.
Prima le vergini che vogliono a tutti i costi mantenere intatto il loro fiore delicato a Gesù: Caterina Godinez che fa ogni sforzo per imbruttirsi; Smeralda da Catania che si deforma il viso; una delle figliuole di Berengario che scaccia i fidanzati con puzzo artificiale; Ulfia che si finge pazza; Oda che si taglia le narici; Eufemia che si recide naso e labbra. E poi i vergini: Mandato che ottiene da Dio il dono d'un morbo schifoso; S. Tenenano che ottiene la grazia di diventare deforme e lebbroso; e cito a caso.
Non tutti intanto possono sfuggire il legame del matrimonio; uomini e donne però, se hanno fatto voto di verginità, riescono a mantenerlo con persuasioni, con artifizi, con l'aiuto dei miracoli. A Sant'Abram una ispirazione divina; a Giuliano una fragranza portentosa; a Magna un'infermità simulata; a Cunegonda, moglie di Boleslao di Polonia, l'apparizione di S. Giovanni Battista; a Santa Osita, sposa di Sigero re dei Sassoni Orientali, l'opportuna comparsa d'un cervo nel più vivo momento del pericolo e poi la chiesta monacazione nell'assenza del marito; a Lucia da Narni infine, un angelo dalla faccia splendente che atterrisce il marito risoluto a trionfare della resistenza di lei, permisero di conservare intatto il loro prezioso tesoro. Ed ecco nella leggenda la glorificazione del resultato: odori paradisiaci che si svolgono dai corpi verginali morti o viventi; luminose aureole che circondano il capo; fiori che sbocciano dalla bocca dei cadaveri: prove del fuoco che confermano o rivelano la verginità oltraggiata da calunnie; vesti dei calunniatori che prendono spontaneamente fiamma; forza supernaturale di resistenza; come quella di Lucia, la quale, condannata dal giudice a un lupanare, diventò a un tratto così pesante che "pur adoperandovisi con gran fatica e sudore parecchi uomini, non poterono trarla" a quel luogo.
Questi sono piuttosto i prodomi della psicopatia cristiana, il punto di partenza.
Il senso è male, è peccato; la bellezza è l'espressione e la causa incitante. Contro la donna gran tentatrice S. Antonino avventa il suo noto alfabeta:
Avidum Animal, Bestiale Baratrum, Concupiscentia Carnis etc.
Ed ecco occhi che, non s'attentando più di guardare in viso a una donna, fosse pure madre, sorella o parente, rimangono continuamente abbassati come quelli di fra Giorgio della Calzata, del padre Antonio Grassi, del P. Bernardo da Offida; o chiusi, come quelli del beato Sebastiano Valfrè.
"S. Ludovico, vescovo di Tolosa, visitato dalla sorella, serbò lo sguardo sempre volto altrove che su lei. Pregandolo ella che la guardasse in viso, rispose che la sua domanda era una pazzia. Fra Ruggiero non mirava mai in faccia nemmeno sua madre, ch'era vecchissima; l'abate Paolo schivava di vedere non solo le donne, ma anche le loro vesti; Francesco Stanno non si lasciava neppur vedere dalle donne" (pag. 34);
Tenere gli occhi bassi o chiusi però non basta; bisogna meglio premunirsi contro le tentazioni. E Giovanni di Palafox tiene una croce di punte ferrate su la nuda carne; e fra Giovan Battista di San Pietro, andando a confessare le monache di S. Caterina in Siena, porta seco uno sgabello irto di chiodi per sedervisi sopra tutto il tempo che confessa.
I cinque sensi sono altrettante porte spalancate alle tentazioni.
Quello della vista innanzi tutti. Pietro di Chiaravalle, perduto un occhio, dice d'essere stato liberato da un nemico. I casti per ciò non solamente non guardano le carni altrui, ma neppure le proprie. Il beato Labre lascia che innumerevoli insetti lo tormentino giorno e notte, e tiene coperte le mani o ripiegate sotto le braccia; Daria, ottenuta la vista da S. Brigida, prega di tornar cieca per salvazione dell'anima; S. Aniamo prende alla lettera il precetto evangelico:—Se il tuo occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via.—
L'orrore della vista delle carni prende maggiori forme morbose: Bartolomeo Tanasi, inetto a spogliarsi e a vestirsi da sè, si fa servire da due ciechi: Fra Michele dei Santi preferisce non mostrare al medico un doloroso tumore sotto l'ascella; fin il cadavere del B. Antonio Zaccaria ritira le gambe quando una mano indiscreta alza il lembo della tunica che ne copre i piedi.
A difesa del senso del tatto, S. Alfonso dei Liguori non imprime mai lo schiaffo di rito nella cresima; S. Chiara di Montefalco non stende la mano neppure per l'elemosina; Suor Maria Crocifissa della Concezione tira a sè con un legno, o con altro arnese, qualunque cosa prima toccata da un uomo; Suor Maria Rosa Giannini non siede su la seggiola dove era stato seduto il fratello; si scuote e freme il cadavere di S.^a Walburga al tocco d'una mano maschile.
Spesso la parola vana o dolce sonante insinua il peccato. E in conseguenza Suor Paola Maria di Gesù non pronunzia mai la parola "matrimonio"; Suor Maria Sabellico non può sentir parlare di fidanzamenti, di nozze, di mondane vanità.
Col cibo—carne, vino, frutta—si fomenta quel seminarium libidinis che è il ventre: e così l'abbate Giovanni si rassegna a morire per l'astinenza da ogni bevanda; S. Pietro d'Alcantara mangia pane muffito, erbe mal cotte e sparse di cenere o d'assenzio; Santa Caterina di Siena non beve acqua e mangia erbe crude soltanto; e i santi Giosafat Kuncewicz, Pantino e Paolo della Croce fanno di più, si estenuano con venti, trenta e anche trentatrè giorni di digiuno. A Batteo eremita, dai troppi digiuni, s'inverminiscono i denti.
Da questo all'abborrimento del sonno e della pulizia corporale c'è un breve passo. S. Rosa da Lima batte la testa alle pareti, si sospende a una croce per le mani o a un chiodo del muro pei capelli, pur di non dormire; la beata Coletta dorme sopra sarmenti di viti, cingendosi i fianchi con una corda irta di nodi; il padre Giuseppe Anchieta posa il capo sopra un fascio di spine e non ha altro letto che la nuda terra.
Se il sonno è una mollezza, la pulizia corporale è peggio; la lista dei santi e delle sante che hanno in odio l'acqua non è corta. Il beato Enrico Susone non si lavò mani nè piedi per venticinque anni; S. Abram eremita non si lavò mai la faccia in vita sua.
La bellezza corporale vien detta amica del diavolo. S. Bernardo Calvonio, sentitosi lodare i denti, se li spezza con un sasso; Rosa da Lima tuffa nella calce viva le mani bianche e fine; S.^a Lucia la Casta, saputo che i suoi occhi avevano ispirato una gran passione a un gentiluomo, se li cava e li spedisce in dono all'innamorato.
Il canto, la danza, i mondani divertimenti sono stimati altrettanti mezzi di perdizione; la donna che canta è chiamata da S. Cripiano: basiliscum sibilantem.
E c'è chi fugge nei deserti, affrontando fame e sete. Ma se è facile fuggire dal mondo, non è egualmente facile fuggire da se stesso. L'organismo conculcato si ribella e tenta di vendicarsi. Le immagini, le visioni più oscene assediano i penitenti nella veglia e nel sonno. A San Martino appaiono Venere e Minerva; Sant'Ilarione e Sant'Antonio Abate hanno visioni di bellissime donne impudiche; San Celestino sente continuamente il contatto di due femine nude; Suor Maria Crocifissa della Concezione ode sconci discorsi che tentano di lusingarla; Suor Agnese di Gesù, per lo sforzo di resistere alle sudice fantasie che l'assediano, casca in convulsioni, Francesca Vacchini ha visioni di orgie carnevalesche; e la Beata Colomba da Rieti, S.^a Rosalia, suor Bartolommea Martini, S.^a Giustina allucinazioni di uomini nudi, procaci, invitanti a lotte peccaminose.
Contro tali assalti sono appena sufficienti le penitenze più dure. S. Girolamo, nel deserto, per scacciare le rinascenti fiamme degli impuri desiderî, si percuote il petto con un sasso; Ildeberga, denudata il ventre e i ginocchi, in pieno inverno, si tiene aderente al pavimento; S. Veronica Giuliani porta gravi pesi, si trascina su le ginocchia notti intere; suor Maria Rosa Giannini si batte con funi, si cinge le reni, le braccia, le cosce e le gambe con catenelle di ferro munite di punte, e prega con le mani sotto le ginocchia; S. Bernardo si butta in uno stagno gelato e vi rimane quasi esanime; S.^a Geltrude d'Eisleben si getta anch'essa in uno stagno, una notte invernale, e sta per affogarvi; S. Francesco di Assisi si rotola e sommerge fra la neve; S. Benedetto si caccia nudo in mezzo a una siepe di ortiche e di rovi; suor Maria Maddalena dei Pazzi si cinge una cintura fitta di chiodi acutissimi; Santa Oliva si configge punte di ferro nelle mammelle; il beato Giovanni Grande si stende sopra un letto di carboni ardenti e si abbrustolisce le carni. Occorre che in aiuto dei periglianti sovvenga l'aiuto divino; e San Tommaso d'Aquino, Caterina da Raconigi, suor Maria Villani di Napoli ricevono una cintura sovrannaturale; cintura che gli angioli stringono troppo forte alla beata Stefana Quinzani, da farla stare tra morte e vita per lo spasimo, durante parecchi giorni.
Vinta la lotta della carne, l'amore per Gesù e per Maria assume forme quasi sensuali e morbose. Gli uomini diventano i cavalieri di Maria, gli spasimanti della bella Signora. Il beato Enrico Susone si sente quasi saltare il cuore fuori dal petto al solo pronunziare quel dolce nome; il beato Giuseppe da Copertino, appena ne vede le immagini, esce dai sensi, si solleva da terra fino all'altezza del quadro da cui è stato rapito in estasi; il vescovo Marsilio sente in bocca un sapore più dolce del miele pronunziando quel santo nome; San Francesco di Solanes, quasi impazzito, suona e canta le serenate alla diletta Signora; Francesco Binanzio, Battista Archinto e Agostino d'Espinosa si tatuano quel nome su le carni.
Per S. Bernardino da Siena, fra Nicola Molinari, Sant'Edmondo, S. Stefano eremita, Maria diventa l'innamorata, la sposa; e spesso lo sponsalizio è realmente effettuato, come col beato Ermanno e col beato Alano da Rupe.
Le donne invece ardono di amore per Gesù, sposano lui, con lui si dilettano in quella che Riccardo da S. Lorenzo chiama con ingenua efficacia: copula spirituale.
Suor Maria Crocifissa Sabellico improvvisa per lui canzonette di amore. Verseggia Suor Maria Rosa Giannini:
O bello Dio d'amore, sta co me ogn'ora. Brucia questo core Del tuo divino amore
. . . . . . . .
O caro mio Gesù…. Del tuo amore io ardo e moro, Torna, torna o mio tesoro.
. . . . . . . .
Io son tua e tu sei mio…
E la concitazione e il fervore si traducono in eccessi molti somiglianti a quelli dell'erotismo sensuale. Margherita figlia di Massimiliano II imperatore, si ferisce il seno e scrive col suo sangue giurata promessa di fedeltà a Gesù; Santa Veronica Giuliani, s'imprime un suggello infocato nel petto; Suor Paola Maria di Gesù inghiotte pezzettini di carta su cui scrive il divino amato nome e se lo incide anche lei con ferri roventi sulle carni in direzione del cuore; Suor Maria Prevostiere s'incide con un rasoio l'anagramma di Gesù sul petto e con suggello rovente su le braccia.
Il celeste amante è largo di favori alle sue dilette. Si mostra a Suor Angelica dello Spirito Santo e si fa accarezzare i biondi capelli; si lascia tenere tra le braccia da Suor Caterina di Bologna; a Suor Ida da Nivella parla in latino, dicendo: Ida, cor meum et anima mea; si arrampica, in minuscole proporzioni di corpo, su la conocchia di Suor Rosa da Lima, le fa mille scherzi e passeggia con lei presa per mano; va a coricarsi a fianco di Suor Anna di tutti i Santi; fa madrigali con Suor Geltrude da Eisleben. Ella dice:
—Diletto mio, è bene lo stare unita con te solo.
E Gesù, chinandosi verso di lei e abbracciandola:
—E a me è sempre soave cosa lo stare unito con te, mia diletta.
E lei:
—Io, vile femminella, ti saluto, Signor mio amatissimo.
E lui:
—Ed io ti rendo il saluto, amorosissima mia.
E un'altra volta la bacia su la bocca e sul petto.
Suor Maria Maddalena dei Pazzi è chiamata da Gesù: Colomba mia, bella mia, sposa mia!—Suor Maria Villani passa intere giornate discorrendo e baciandosi e abbracciandosi con Gesù. A Suor Anna di S. Bartolomeo Gesù si presenta com'era in vita, anzi le va dietro pian piano, l'ascolta e le mette una mano sul cuore, lasciandovi la sensazione d'una profonda ferita. Il Crocifisso fa cenno di accostarsi a Suor Veronica Giuliani e l'abbraccia.
Va anche oltre. Alla beata Caterina da Leazi mette in dito un anello d'oro ornato di pietre preziose; uguale anello sponsalizio vien dato a Santa Caterina da Siena, alla beata Osanna da Mantova, a Suor Angelica della Pace, alla beata Stefana Quinzani, a Santa Caterina dei Ricci, a Santa Veronica Giuliani, a tant'altre.
E allora gli spasimi d'amore sono così forti che le dilette non veggono l'ora di morire. Caterina di Cano e Sandoval esclama:
—Ah, Signore! Quando mi sarà permesso di godere i vostri dolci abbracciamenti? Com'è lungo questo pellegrinaggio! Com'è noioso questo soggiorno!
Ho appena spigolato nel vasto campo dove ha mietuto a larga mano l'autore della Psicopatia Cristiana.
E arrivato alla fine torno a domandare:
Chi ha ragione? Costoro che si ammalano di nevrosi divina, o noi che ci ammaliamo di nevrosi quasi bestiale?
L'autore si è contentato di conchiudere:
"L'ascetismo che nega violentemente le funzioni essenziali dell'organismo umano, e dà preoccupazione e terrore continui di peccato, mantiene il sistema nervoso in uno stato d'irritazione e sensibilità repulsiva, e finisce a produrre fenomeni di pervertimento sensuale… Il principio antisessuale cristiano è nelle sue conseguenze immorale, come ogni principio antibiologico."
È troppo e assai poco per un soggetto così complicato; nè io mi sento da tanto da supplire alla deficienza di un apprezzamento che mi sembra monco e affrettato.
Per conto mio dico soltanto questo: Tra le nevrosi che leggiamo lungamente descritte nelle opere dello Charcot e negli studi clinici del Richer, e le nevrosi con tanto studio ricercate dal dottor Rossi nelle vite dei santi, le mie preferenze non possono esser dubbie; stanno per queste ultime. Gli estratti delle opere mistiche di Santa Teresa, che il dottor Rossi ha messo nell'ultimo capitolo del suo studio, dimostrano con evidenza che la nevrosi religiosa e la nevrosi ordinaria non hanno per lo meno lo stesso contenuto. Bisognava, io opino, studiarle da questo lato prima di giungere alla conchiusione non esattamente scientifica che vorrebbe essere il resultato delle dugentotrenta pagine.
Forse sarebbe meglio che nessun elemento, nè terrestre nè divino, venisse a turbare e a sconvolgere l'armonia dell'umano organismo; ma se qualcosa deve pur troppo romperla, mi pare desiderabile che il gran perturbatore sia il Divino.
X.
I CONTADINI SICILIANI
Chi legge il recentissimo libro del dottor Salomone-Marino intorno ai costumi e alle usanze dei contadini di Sicilia ¹ rimane un po' deluso. Il titolo inganna. Questo lavoro del valente folklorista, che prosegue col Vigo, col Pitrè, col Guastella e parecchi altri la vasta inchiesta intorno alle tradizioni popolari siciliane, avrebbe dovuto piuttosto intitolarsi: I contadini siciliani di tempo fa. È vero che l'autore nel preambolo avverte coscienziosamente il lettore: "Io parlo dei contadini del vecchio stampo, dei quali la generazione già declina e fra pochi anni sarà invano cercata"; è vero che egli spiega la ragione di questa decadenza dicendo: "che la indispensabile coscrizione restituisce oggi alle famiglie i giovani contadini più svelti, più saputi, più civili, ma insieme con un fardello di ambiziose e indigeste e corrotte idee, che daranno loro un altro tipo, non saprei ancora dir quale, ma lontano certo dal tradizionale dell'isola nativa, e forse men buono"; ma la impressione della lettura fa dimenticare questa precauzione. Si direbbe che il libro sia oggi compilato sopra appunti presi molti anni addietro, e che la visione del vecchio tipo di contadini si sia ridestata così viva nella immaginazione dell'autore da fargli dimenticare il mutamento avvenuto, non ostante che egli riconosca, di quando in quando, che il presente è molto diverso, e che tra il contadino siciliano di ieri e quello di oggi la differenza sia enorme.
¹ Palermo, Remo Sandron, editore, 1897.
Un altro difetto che potrà soltanto essere notato da lettori siciliani, è il non aver tenuto conto di certe differenze tra contadini delle diverse provincie siciliane. L'autore ha cercato di delineare, com'egli dice, un tipo, e, nato e cresciuto nella provincia di Palermo e avendo in quella più particolarmente raccolto il materiale pel suo libro, ha delineato un tipo che ha le spiccate caratteristiche del contadino di colà, cioè di una provincia dove l'influenza fenicia e arabo-normanna ha lasciato più durevoli impronte.
Con questo non intendo dire che manchino affatto notizie e raffronti con usi e costumi contadineschi di altre provincie siciliane; mi permetto soltanto di osservare che non mi paiono sufficienti.
Poi, in un libro di questo genere, io credo che bisognava mettere soltanto in rilievo i tratti più salienti del contadino siciliano, quelli, cioè, che lo differenziano assolutamente dagli altri contadini delle diverse terre italiane e anche dal resto dei contadini europei e di tutto il mondo.
Ricordo a questo proposito un'impressione di anni fa. Leggevo la Terra dello Zola. Non so perchè, mi ero immaginato di dover scoprire regioni ignote inoltrandomi sempre più in quella lettura: caratteri, sentimenti, passioni, vizi, virtù propri unicamente del contadino francese. Invece, con mia grande meraviglia, mi vedevo sfilare sotto gli occhi personaggi ai quali dovevo appena mutare i nomi perchè diventassero a un tratto siciliani. Parecchi di quei personaggi li avevo conosciuti nella vita reale; quella specie di scemo, per esempio, che convive incestuosamente con la sorella; e quel Gesù-Cristo che parve, al suo apparire, un epico ingrandimento di certe creature specialmente care alla ridanciana fantasia di Armando Silvestre. Se non ricordo male, c'era fino un incredibile riscontro nel nomignolo; quel mio compaesano si chiama 'U Signuruzzu, cioè: Il Signore, che significa appunto: Gesù Cristo! Un giudice supplente gli aveva dato torto in una lite, ed egli non aveva saputo perdonarglielo. Perciò, tutte le volte che poteva, stava ad attenderlo nella Piazza, e vedendolo passare, si cavava il berretto e lo salutava, accompagnando subito il saluto con uno di quei rumori che hanno fatto la fortuna del Gesù-Cristo zoliano e di tanti allegri personaggi di Armando Silvestre. Il giudice supplente, uomo permaloso, diventava giallo dalla bile; ma la dignità non gli permetteva di mostrare che si fosse accorto della rimbombante vendetta dello screanzato; il quale gli andava dietro un buon tratto ripetendo le sue salve fra le risate della gente, che si divertiva moltissimo a spese del giudice supplente. La cosa durò parecchi mesi: ed io non so se nella vita intima il Signuruzzu si abbandonasse alla gaiezza del suo quasi omonimo francese.
Così e l'avidità, e il poco scrupolo, e certa brutalità di modi, e certe scurrilità di linguaggio, e certi proverbiali principii di condotta nelle relazioni di famiglia e con gli estranei, che io avevo l'illusione di credere speciali del contadino siciliano, tutto, tutto trovavo riprodotto nella Terra, con quella gran maestria che potè far sembrare eccessivamente nera la pittura della vita campagnuola francese.
Nel tipo del contadino siciliano, quale risulta evidentissimo dalla monografia del Salomone-Marino, c'è una caratteristica di religiosa bontà che gli mette attorno al capo un'aureola patriarcale e lo distingue e gli assegna un posto a parte. Ma per intenderlo bisogna immaginarselo vestito assai diversamente da quello di oggi.
Io ne ho un ricordo dentro gli occhi, visione della fanciullezza rimasta indimenticabile.
Alto, magro, raso; con brache a mezza gamba, calze di cotone candidissime e scarpe di vitello bianco imbullettate; giacchetta, o spènser, di panno azzurro cupo, e corpetto (di grossa tela di lino tessuta in casa) con pistagnetta ritta abbottonato, quasi fin sotto il collo da una gran filza di bottoni di madreperla; col lungo berretto di cotone bianco, a maglia, dalla nappa cascante su le spalle, quel vecchio contadino era una figura imponente. Gli si leggeva su la faccia la serenità dell'animo, la forza, il rispetto di sè stesso, l'ossequio agli altri, l'autorità e la bontà insieme. Egli parlava lentamente, sentenziosamente. Di sua moglie diceva sempre: la mia compagna, la mia cristiana, o con più sobrietà ed efficacia: Idda, cioè, lei. Dei figliuoli, uno dei quali già sposo e padre, diceva sempre: i carusi, i bambini tradurrebbe un toscano. E per tali doveva tenerli, se tutti gli obbedivano quasi tremanti.
Ricordo che un giorno egli mi aveva condotto per mano a casa sua; doveva regalarmi non so quale nidiata di uccellini. Non ho potuto più dimenticare l'impressione di terrore prodotta su la moglie e le figlie dal suo inaspettato ritorno. Una di loro era andata a ballare da una vicina, senza il permesso del capo di famiglia; e la madre e le sorelle non sapevano come farla avvertire di rientrare subito in casa prima che il vecchio se ne accorgesse. Sventuratamente egli se ne accorse proprio per colpa della nidiata di uccellini affidata alle cure dell'assente. Quella fisonomia piena di bontà si trasfigurò tutt'a un tratto; gli occhi schizzarono fiamme; le mani si levarono a percuotere prima lei, la mamma, poi le figlie complici, e in ultimo la colpevole, ragazza di quindici anni, che dovette domandar perdono ginocchioni. Il padre si era investito lì per lì delle sue funzioni di giudice e di esecutore di giustizia. Per lui il gran delitto della ragazza non consisteva nell'essere andata a ballare, ma nell'esservi andata di nascosto, quasi burlandosi dell'autorità paterna col consentimento della madre, soggetta anche lei, quanto gli altri, all'autorità del pater familias, bisogna proprio dirlo alla romana. Appunto per questo, il giorno delle nozze, appena introdotta la sposa nella casa maritale, in presenza dei parenti e degli invitati, appunto per questo egli le aveva dato uno schiaffo, simbolo del suo assoluto dominio, a fine d'imprimerle bene in mente, in quel solennissimo istante, che egli era colà il solo e legittimo padrone, e che alla sua autorità bisognava sempre e in ogni occasione inchinarsi.
* * *
Nel libro del Salomone-Marino questo tipo del vecchio contadino siciliano è messo in piena luce con amore e con imparzialità. Egli lo prende, si può dire, dalla culla e lo accompagna alla sepoltura, facendolo passare per tutte le vicende della sua travagliata esistenza. Bisogna leggere il volume da cima a fondo per convincersi qual tesoro di fatti abbia accumulato il valente folklorista siciliano, che porta in questo genere di studi la pacata e diligente accuratezza scientifica a cui la sua professione di clinico lo ha abituato. Egli, evidentemente, non ha voluto fare una scelta, non ha voluto perdersi in confronti, e lo dichiara fin dal preambolo: ha stimato, e a ragione, "carità di patria e dovere di storico il raccogliere e conservare le ultime immagini di un popolo che fino a ieri ebbe una spiccata individualità, della quale ha fatto ora spontaneo sacrificio rientrando nell'unità della gran famiglia italiana."
C'è in queste parole un profondo accento di tristezza che proviene dalla vista del radicale mutamento avvenuto nel contadino siciliano in questi ultimi anni. È un'impressione non giusta, ma inevitabile. Tre anni addietro ne fui vinto anche io, ritornato in Sicilia, dopo un lungo periodo di assenza, da cui mi venivano resi più evidenti i contrasti tra il presente e il passato¹. Ma un appunto da me fatto al suo lavoro saprà, credo, rassicurare l'autore intorno all'avvenire del contadino siciliano. Ho notato la mancanza, o meglio la scarsezza di confronti e riscontri fra gli usi e costumi di parecchie provincie siciliane, specie delle meridionali, con quelli della provincia di Palermo e delle provincie limitrofe; e avrei dovuto notare la tendenza dello scrittore a generalizzare riguardo a certi usi e costumi.
¹ Vedi la mia conferenza: La Sicilia nei canti popolari e nella novellistica contemporanea. Bologna, Zanichelli, 1894.
Con questa osservazione, più che notare un difetto, intendevo far risultare un fatto: la persistenza di certe caratteristiche di razza nelle diverse provincie, persistenza che dimostra la tenacità di un elemento originario, primitivo, ancora attivo, che assorbisce le più o meno passeggere influenze, le trasforma, se le adatta, rimanendo, in fondo in fondo, sempre lui.
Ora io credo che quest'elemento primitivo, speciale della razza, salverà nella prossima trasformazione il contadino siciliano, come farà per le altre classi dell'isola, come ha quasi fatto per alcune di esse che sono già entrate, lievito di attività, nell'organismo della nazione.
Probabilmente il dottor Salomone-Marino lo ha intravveduto prima di me.
"Non ostante il socialismo, il comunismo, l'anarchismo che gli hanno importato in casa, il contadino siciliano è rimasto—tolgo in prestito queste parole dalla conclusione del libro—lavoratore attivo e diligente. Parco nei cibi, paziente, rassegnato, onesto e religioso in maniera sua speciale, aspira soltanto a vivere con meno disagio, possibilmente con agio, ma senza uscire dalla classe nella quale è nato.
"Diffidente, astuto, furbo, egoista, vendicativo, in grazia della sua docilità e malgrado la sua proverbiale testardaggine (proverbiale pei contadini di ogni paese, aggiungo io) egli si lascia facilmente persuadere e convincere, se preso pel suo verso, con dolcezza e benevolenza; reagisce con violenza e cieca ferocia, se gli si fanno angherie, se qualcuno abusa della sua buona fede e della sua ignoranza (pag. 355)."
L'aver contribuito a mettere in piena luce la vera fisonomia del contadino siciliano, qual'era pochi anni fa, non è intanto la minore delle opere meritorie del dottor Salomone-Marino, che deve rubare alla scienza medica e all'insegnamento universitario il tempo da consacrare agli studi prediletti della sua giovinezza.
Ora io vorrei che parecchi studiosi delle diverse provincie siciliane prendessero in mano, come autorevole testo, il libro di lui, e lo arricchissero di aggiunte, di riscontri, di confronti, di note.
Leggendo, e col semplice aiuto del lontano ricordo, io ho potuto notare parecchi usi e costumi viventi ancora in una provincia, e morti, o non mai esistiti in un'altra. Ne citerò uno soltanto, caratteristico assai.
Tra i proventi del frantoio di ulive ( trappitu ), il Salomone-Marino segna al N. 5 l' ogghiu di lu lamperi, cioè l'olio che deve servire per accendere le lampade durante il lavoro serale e notturno. Ebbene in Mineo (provincia di Catania) il volgare ogghiu di lamperi, messo sotto la protezione di un santo che la chiesa cattolica certamente ignora, vien chiamato: San Focale.
Può darsi che questo nome ricordi qualche antichissimo nume siculo, o sicano, o greco, a cui veniva offerta la primizia dell'olio da ardere. È certo però che questa trasformazione dell' olio per le lampade in San Focale è una delicata sfumatura che distingue una popolazione di razza greco-sicula da quella di razza fenicia e arabo-normanna.
ESCURSIONI D'ARTE
MICHELE LA SPINA—IGNAZIO ORLANDO
I.
Due artisti diversi, scultore il primo, incisore in legno il secondo, e tutti e due poderosi e modesti, e per ciò quasi ignorati.
Ignorati, intendo, dal gran pubblico, di quello che dà la fama, la gloria e il resto; giacchè gli artisti, gli amatori d'arte conoscono benissimo il valore di Michele La Spina e ne ammirano da molto tempo le opere; e i pochi che hanno potuto osservare i lavori xilografici del giovane Orlando, lo hanno già in grande stima e gli prognosticano—facile prognostico—un lieto avvenire.
L'uno è all'apogeo della sua forza, l'altro comincia ora la sua carriera. Sono lieto di farmi guida dei lettori nello studio dell'uno e nelle sale dell'Associazione della Stampa dove si trovano attualmente esposte parecchie incisioni dell'altro.
Al numero 113 di Via Margutta: stanzone a pianterreno, ingombro di bozzetti e di busti in gesso, di bozzetti e di busti in plastichina, di qualche bronzo, parte rizzati su rozzi cavalletti, parte posati su casse d'imballaggio, tra tavole, legni, arnesi di scalpellini, seghe, compassi addossati al muro o infissi a un chiodo; pareti nude, tinte di colore di feccia di vino, qua e là scorticate e sgorbiate; tettoia a vetri in mezzo; grande imposta vetrata a ponente, dietro la quale si affacciano le verdi cime di un albero e i festoni di una pianta rampichina con le foglioline di smeraldo trasparenti al sole; a destra dell'entrata—a cui fa da paravento, in modo assai primitivo, una falda di tela grezza—una stanzetta che sembra bottega di falegname; casse, tavole, legni, forme e oggetti di ogni sorta accatastati alla rinfusa, lasciano libero appena il passaggio alla scaletta di legno del mezzanino, dove l'artista si cambia il vestito prima di mettersi a lavorare: ecco lo studio di Michele La Spina.
Entrato, il visitatore non si raccapezza, non sa dove fermare l'occhio. Lo attrae subito la gigantesca testa del Garibaldi, attorno alla quale lo scultore spende, sempre incontentabile, i momenti che i lavori in corso gli lasciano liberi. Ma ecco, lì accanto, un Faunetto di piccole dimensioni che sembra un bronzo antico, uscito assai maltrattato dallo scavo. Non è un bronzo, ma un abbozzo in plastichina, abbandonato da un pezzo; la mano sinistra gli è cascata; sul braccio destro serpeggia uno spacco; la polvere ha sparso su tutta la figura la strana pàtina che gli dà l'aria di cosa antica. Intanto il visitatore, con la coda dell'occhio, ha intravisto più in qua un busto caratteristico e lascia il Faunetto per esso. Quella testa con la faccia rugosa, coi baffi ispidi, appuntati, col collo lungo, secco, circondato da ampio goletto, gli dà una sensazione irritante, che vien subito cancellata dal vicino mezzo busto di donna matura. Le linee dolci e benigne, dalle quali trasparisce un gran carattere di fermezza e di semplicità, fanno restare pensoso il visitatore ora davanti il gesso, ora davanti il bronzo, che lo riproduce con qualche variante negli accessorii. Scosso da così opposte impressioni, il visitatore vorrebbe tornare a osservare la colossale testa del Garibaldi; ma a un tratto gli viene quasi incontro,—altero, col possente naso aquilino dalle narici dilatate, con le labbra screpolate e atteggiate a un'amara espressione intellettuale, che si rivela anche nello sguardo e nella fronte circondata da capelli ricciuti e cadenti in zazzera dietro il collo—gli viene quasi incontro un busto in plastichina, più grande del vero. L'abito talare, della foggia del secolo passato, fa riconoscere in lui l' abate Nicolò Spedalieri. Infatti dietro di esso si scorgono i modelli in gesso della statua intera e del monumento col piedistallo e con la base, che ebbero insieme col busto, nel concorso bandito un anno fa, i suffragi unanimi del pubblico, se non quelli (e si vedrà un giorno con quanta giustizia) dei giudici del concorso. La espressione di quella testa, che pare abbia su le labbra semiaperte la parola già scoccante, costringe il visitatore a volgere attorno lo sguardo; ed egli si sente rinfrancare dall'ilare sensualità di quel vecchio Satiro che si protende in avanti, con le orecchie ritte e la barbetta e i bargigli caprini e un che di malizioso e di bestiale negli occhi lustri e nelle labbra carnose che gli fendono le gote.
Allora il visitatore sente più vivo il bisogno di raccapezzarsi, e si ferma e si raccoglie, prima di ricominciare a osservare partitamente, posatamente; ha già capito che non si trova in uno dei soliti studi di scultura commerciale. E per riposarsi, osserva l'artista che gli sta vicino, zitto, intento a spiargli, con ingenuità sorridente, le impressioni su la faccia. Bruno, magro, coi capelli e la barba brizzolati, con la fronte solcata da rughe, gli occhi neri e penetranti e una nervosa vivacità nei movimenti e nei gesti, Michele La Spina rivela nella persona le supreme qualità della sua scultura. Si capisce come quegli occhi così acuti debbano scrutare il modello nelle più intime fibre e strappargli il segreto d'un carattere, d'una passione dominante; si capisce come quella mano vigorosa, con le vene e i muscoli aggrovigliati a fior di pelle, possa violentare la creta e darle tal forma da simulare e, stavo per dire, da superare la stessa vita. E avrei detto benissimo; perchè l'arte fissa quel che nella natura è fuggitivo: l'espressione più evidente e più importante di un carattere, sorpresa a traverso le accidentalità e le ipocrisie sociali; arresta una mossa della testa e dello sguardo, un'increspatura delle labbra, una ruga della fronte, che poco dopo si muta e si cancella per riapparire di quando in quando, riapparire e sparire.
Così la persona dell'artista, per rara eccezione, illumina e chiarisce, illustra come si direbbe oggi, le opere di lui. Così il visitatore si spiega la straordinaria diversità di fattura che differenzia un busto dall'altro, una figura dall'altra. Chi altrimenti potrebbe dire, per esempio, che quella delicata personcina del Faunetto intento a lavorare e ad accordare la sua siringa, con quel visetto dove la forma animale si fonde deliziosamente con la forma del fanciullo umano; che quel corpicino esile, asciutto, composto con spontanea grazia in un atteggiamento che ne fa risaltare le bellissime linee, con una gamba dritta e ferma sul suolo, e l'altra piegata per appoggiarsi al masso là dietro; chi potrebbe dire che questa figurina—che par creata con un soffio, senza stento, in un minuto di ispirazione, quasi in un minuto di intuizione atavica in cui è stata sentita di nuovo e rivissuta l'ibrida esistenza degli esseri primitivi—sia stata plasmata da quella stessa rude mano che ha menato violentemente la stecca, ha strisciato nervosamente col pollice per modellare la maliziosa figura del Satiro, altra meravigliosa intuizione del mondo primitivo, reale o fantastico non importa, probabilmente più reale di quel che non vogliamo immaginare?
Nel Faunetto infatti c'è l'incoscenza, la delizia di vivere, il rigoglio fresco e puro dell'organismo, il serpeggiamento quasi vegetale della forma non ancora mortificata dall'uso. Stando a fissarlo, si ripensa un cielo purissimo, una campagna verdeggiante fiorita, montagne luminose nel lontano orizzonte, e, fra gli alberi, un'azzurra striscia di mare riluccicante di riflessi sotto il sole meridiano; squarcio di mondo antico, quale noi lo intravediamo talvolta a traverso qualche distico dei buccolici greci.
Invece il vecchio Satiro ci fa sognare boschi ombrosi, tronchi di alberi dalla scorza scabrosa e sparsa di muschi e di funghetti, cinti di rovi e di liane: Ninfe dormenti, spiate, insidiate: fosche visioni di sensualità irrompente, fra gridi rauchi e cachinni, dove prende suono la maligna bestiale compiacenza della propria forza muscolare.
Se questa suggestione avviene, e intensa e persistente, vuol dire che la forma ha detto quel che doveva dire, ha compiuto il suo naturale prodigio.
La potenza psicologica dell'arte del La Spina si rivela immensamente meravigliosa in tutti quei busti, davanti ai quali il visitatore è forzato ad arrestarsi stupito. Quelle teste e quelle fisonomie non sono solamente rassomigliantissime agli originali, ma hanno tutte qualcosa di particolare da mostrarci, che l'occhio arguto dello scultore ha intuito, e la mano, pronta e sicura, ha poi reso con felice evidenza.
E l'artista è oramai così esercitato in questo genere di scrutazione, da poter facilmente indovinare particolarità di forma che il suo occhio non ha veduto, quando è stato costretto a interpretare una scialba fotografia, e ricostruire, come faceva il Couvier, dalla linea della fronte tutta la forma del cranio, cavando fuori piani e protuberanze che i parenti del morto hanno riconosciuto esattissimi, come gli è accaduto pel busto del signor Gaetano Garufi.
Ultimi resultati di questa meravigliosa penetrazione nelle intime profondità psicologiche, oltre quello del Garufi, sono i ritratti del signor Gioacchino Fichera, del dottor Tomaselli professore di clinica medica nell'università di Catania, del signor Francesco Badalà e del signor Mariano Campione; cinque capolavori che Michele La Spina ha avuto il torto di non esporre al pubblico per eccesso di modestia, per ormai invincibile avversione a tutto quel che può prendere la più lontana apparenza di ciarlataneria.
Egli li ha amorosamente modellati nella pace quasi campestre della sua casa di Acireale, li ha fatti fondere zitto zitto in Roma e li ha subito spediti ai fortunati committenti, come se non mettesse conto di incomodare la gente e farla andare, per così poco, sin in fondo a Via Margutta!
E per tale eccessiva modestia, per tale repugnanza di farsi avanti e di dar gomitate a questo e a quello, Michele La Spina è noto a pochi, e non ha potuto afferrar l'occasione di mostrare al gran pubblico quel che egli vale e quel che può.
E così si capisce com'egli, e i rari modesti e valenti suoi pari, debbano intanto veder trionfare per le vie e le piazze delle famose cento città e della lor capitale tante sconcezze monumentali che i posteri certamente abbatteranno, vergognandosi di esse per l'arte, per l'onor di Roma e dell'Italia; e debbano veder accolte nella Galleria dell'arte moderna parecchi orrori scultorii che starebbero bene soltanto in qualche salotto di salumai, o di mercanti di campagna mezzi rinciviliti.
Michele La Spina è modesto sì, ma non inconsapevole del suo valore. E in quei giorni di scoraggiamento e di lassezza, che sopravvengono anche ai più audaci e ai più forti, quando sembra che tutto crolli dattorno all'artista e stia per naufragargli in petto, con la fede nel proprio valore, fin l'amore dell'arte, io credo che gli basterà dar un'occhiata al suo Faunetto che attende l'ultima mano, al suo Satiro a cui manca per l'eternità soltanto esser colato in bronzo, a quella gigantesca testa del Garibaldi dove il gran dittatore rivive come non è mai rivissuto in nessuno dei suoi mille busti, in nessuna delle sue mille statue, in nessuno dei suoi mille monumenti, basterà quella rapida occhiata per ridargli coraggio e vigore, e fargli riacquistare la coscienza della sua forza e la fede nell'arte e nell'avvenire.
* * *
Tre mesi fa, l'amico Amilcare Lauria mi invitava ad andare ad ammirare assieme con lui alcune incisioni in legno d'un giovane siciliano di cui sentivo pronunziare allora per la prima volta il nome: Ignazio Orlando. L'entusiasmo del Lauria per quelle incisioni era così grande, che io già ne attribuivo molta parte alla sua abituale esagerazione affettuosa quando si tratta di cose dei suoi amici. M'ingannavo.
Ricordo, scrivendo, la stanzetta di via Aliberti, dove l'Orlando aveva installato in quei giorni uno studio provvisorio. Eravamo quattro persone e ci si rigirava a stento. Bruno, corto, pienotto, con folti capelli neri, un po' esitante e imbarazzato nei modi, Ignazio Orlando mi sarebbe parso un intelligente operaio vestito bene, senza quegli occhi neri più del carbone che, mentre egli parlava con modesta semplicità dell'arte sua, dei suoi progetti, delle sue speranze, brillavano, lampeggiavano, rivelando assai meglio delle parole un ardente anima di artista.
Aveva tratto fuori da una valigetta due o tre custodie di cartone avviluppate in vecchi giornali, e apertele sul lettino, che occupava quasi metà della cameretta, ci presentava a una a una le prove di stampa di alcune delle sue incisioni, scusandosi che qualcuna di queste non fosse ancora finita.
Mi attendevo, sì, di vedere dei lavori assai bene eseguiti; avevo saputo dal Lauria che l'Orlando, fatti i suoi primi studi in Italia, era stato parecchi anni a Londra e a Parigi alla scuola dei più valenti incisori in legno di colà; e, invece, avevo davanti agli occhi squisite opere d'arte, dove quel che meno colpiva era l'abilità tecnica, che pure appariva grandissima.
Raramente mi era accaduto di vedere qualcosa di simile, cioè l'interpretazione di un quadro, la quale desse un'idea così fedele di esso, da far scorgere oltre al disegno il colore, e oltre al disegno e al colore la speciale fattura del pittore. Ci passavamo da mano a mano le riproduzioni di un lavoro del Morelli, d'un paesaggio del Lojacono, d'una figura del Leloir; e da ciascuna di quelle incisioni non vedevamo risaltare, a prima vista, la bravura dell'esecuzione, ma il carattere e la natura dell'opera riprodotta, pittura a olio o acquarello; la bravura veniva ammirata dopo, quasi per uno sforzo di riflessione.
Allora l'incisione del Cristo nel deserto del Morelli era appena incominciata. Sul tavolino davanti alla finestra, coperto da un foglio di carta turchina, vicino alla cassetta dei ferri, al cuscino tondo di pelle che serve di appoggio incidendo, quasi sotto la lente mobile, stava il legno da cui la nostra importuna visita aveva, poco prima, staccato l'artista. Egli era intorno agli angioli dalle lunghe vesti ondeggianti, uno col vassoio ricolmo di uva e di frutta diverse, l'altro con su la spalla il recipiente con l'acqua. Sotto i lievi incavi del bulino già sparivano le ultime traccie del disegno, mentre a sinistra la figura del Cristo spiccava in nero, ancora intatta, sul fondo opalino della fotografia col collodione; quasi l'artista volesse accostarsi a quella figura con riverente lentezza e dopo aver superato la prova di rendere quelle creature, umane e celestiali in una, così stupendamente intonate con le brulle montagne del fondo, con gli arsi cardi del primo piano, e con quel rigoglioso tralcio di vite impigliato alle vesti del portatore della frutta.
Ora l'incisione è finita ed esposta al pubblico; e la meraviglia e l'ammirazione da essa destate in coloro che hanno avuto la curiosità di visitare la Sala degli scacchi dell'Associazione della Stampa, hanno già ricompensato l'artista della sua ardua fatica, quantunque la più preziosa ricompensa per lui dev'essere stata la lode del Morelli, contentissimo di veder riprodotto in quel modo uno dei migliori suoi quadri.
Peccato che, appunto in questi giorni, il riordinamento della Galleria dell'arte moderna impedisca di confrontare la riproduzione con l'originale a chi volesse formarsi un'esatta idea del valore artistico dell'Orlando.
Chi ha veduto il quadro del Morelli può fare il confronto di memoria; un capolavoro come quello, visto una volta, non si dimentica più. A me basta socchiudere gli occhi perchè le tre stupende figure mi si ripresentino all'immaginazione con l'evidenza della realtà. Sotto il cielo plumbeo e afoso, fuggono in fondo, a sinistra aride e rossiccie le colline; rizzano i dossi nudi e scabrosi, a destra, le montagne della Palestina. In pieno sole, su un rialzo di terreno roccioso, con la bruna faccia su cui i riflessi del terreno e delle candidissime vesti gittano una velatura violacea, con le braccia aperte, quasi lasse, è seduto il Cristo, che ha nei grandi occhi lo smarrimento della mistica contemplazione e dell'estasi. Ed ecco, a destra, vestiti di azzurro, leggieri, sorvolanti sul terreno, i due angeli ministratori che arrivano compresi di riverenza e di tremore, recanti il ristoro delle frutta e dell'acqua….. Et angeli ministrabant illi.
Non pare di stare davanti a un quadro, ma di assistere a una visione, in quell'afosa atmosfera che incombe grave sul vasto spazio attorno, con quelle rocce scottanti, quasi calcinate dal sole, dove una lista di erbe agonizza invocante qualche stilla di rugiada, dove fin le ombre sono luminose, le carni e le vesti trasparenti, tanto impregnate di sole! E che visione quel Cristo coperto del candido sciamma, assorto, con nella faccia troppo umana i bagliori del cielo che gli splende nell'anima, e quelle due leggere figure vestite di azzurro, con ricche chiome d'oro che fiammeggiano al sole, creature angeliche quantunque non mostrino le ali e le aureole con cui la tradizione artistica suol caratterizzarle! Sì, visione non quadro, cioè non dipinto; perchè qui la fattura non si scorge e le supreme sapienti delicatezze del pennello spariscono dietro la creazione artistica che spazia per altezze sovrane. Il quadro par fatto con niente, a furia di mezze tinte, di colori neutri, eccetto il bianco candidissimo delle vesti del Cristo e l'oro fiammeggiante della chioma del primo angelo. Ma che armonia! E che sincerità! E come siamo a mille miglia dalle abilità del mestiere!
Con questo miracolo d'arte ha dovuto lottare l'Orlando e non n'è rimasto schiacciato. Chi ha visto il quadro del Morelli, lo rivede nell'incisione quasi tal quale; e come le piccole dimensioni del quadro dànno all'occhio l'illusione della grandezza naturale, così le piccole proporzioni dell'incisione dànno quelle del quadro.
L'Orlando s'era preparato a quest'arduo lavoro incidendo precedentemente altri lavori del Morelli: l' Uscita dalla chiesa, Giovedì santo e Studio di donna nei quali ha dovuto superare difficoltà di natura diversa, volendo fin rendere la differenza di talune parti del quadro che il pittore non ha mai finite.
La valentìa dell'Orlando non si smentisce nei paesaggi Ischia e Presso il Vesuvio del Lojacono, che come paesaggi non valgono molto; si afferma anzi grandemente nella piccola incisione dell'acquarello del Leloir, finitissima, caratteristica.
E mi limito a parlare delle incisioni esposte, perchè altrimenti dovrei citare parecchi ritratti, fra i quali notevolissimo quello del senatore Paternò.
Ora l'Orlando intende pubblicare un Album dove saranno da lui riprodotte con l'incisione le più belle opere della moderna pittura italiana; album che avrà un testo illustrativo in quattro o cinque lingue. E qui comincia la triste istoria delle difficoltà d'ogni genere che gli attraversano l'impresa. Ma egli è coraggioso, persistente, forte, e il suo breve passato deve infondergli lena e vigore.
Ha già percorso un bel cammino da quando, povero fanciullo, frequentava le scuole della Martorana in Palermo e le scuole serali operaie di disegno; da quando nell'Istituto di San Michele di qui s'iniziava allo studio della sua arte, fino alla sua dimora in Londra e in Parigi, in quegli studi xilografici dove gli venivano appresi tutti i perfezionamenti tecnici dell'incisione sotto la direzione dei più valenti maestri del genere. Passato maestro alla sua volta, egli ha sentito la nostalgia della patria, ed ha sognato di venir a impiantare in Italia una scuola di xilografia, ora che quest'arte torna in onore, ora che il rinascente gusto artistico fa metter da banda le riproduzioni meccaniche della fototipia e della fotoincisione, ora che il libro non vuol più essere soltanto un gioiello di arte letteraria ma anche di arte tipografica e illustrativa.
È rimasto un po' deluso. Nel pubblico, nel mondo artistico, nel mondo ufficiale, che dovrebbe tentare, con alti intendimenti, imprese quasi impossibili per la speculazione privata, non c'è nessun risveglio, anzi neppur un accenno di risveglio in favore di un'arte che è destinata a sostituire i volgari processi meccanici di riproduzione, e, forse, anche pel lato commerciale, la incisione in rame; su la quale ha, fra tanti altri, il pregio di una pastosità che questa non potrà raggiungere mai.
È rimasto un po' deluso; ma non vuol dir niente. Egli ha tanta giovinezza che può attendere ancora un po'. Attenda dunque ed abbia fede!
II.
GRAFOMANE?¹
¹ __Salvatore Grita__, schizzi critici—Prima puntata. Roma, Tip. Economica Commerciale 1897.
No. Certamente è un peccato che Salvatore Grita maneggi da qualche tempo in qua (ahimè da molto tempo in qua!) più la penna che la stecca; ma non è tanto facile trovare delle persone che, come lui, non perdano quasi punto nel cambiar mestiere. Dirò di più: sarebbe desiderabile che molti scrittori di mestiere (si noti, non dico: mestieranti) maneggiassero la penna con la stessa facilità di lui, con la stessa forza di arguzia, con la stessa ricchezza d'ironia che rendono gli scritti di questo scultore un'opera d'arte.
Quando ricordo il giovane che nel 1855 tornava nella sua città natale, Caltagirone, per esporvi la sua prima statua, La Speranza nella sventura, bruno, con folta capigliatura nera, con occhi nerissimi, con indosso l'ondeggiante chemise di lustrino nero allora in voga; e lo paragono all'uomo di oggi, canuto, accasciato, quasi curvo sotto il peso delle disgrazie d'ogni sorta, che però non son riuscite ad abbatterne l'animo imperterrito e a intorpidirne l'eletto ingegno, io mi sento preso da grande commozione e da più grande ammirazione. E penso: sì, è vero, ognuno di noi si foggia con le proprie mani il suo destino; ma, spesso, una crudele fatalità pesa talmente su certe creature umane, da non lasciare nessun dubbio che la responsabilità dello sconvolgimento di una vita debba attribuirsi, più che all'individuo, alle circostanze di cui egli è stato vittima.
Salvatore Grita appartiene a questa categoria.
La lettera che egli scrive all'onorevole Imbriani, a proposito della sua interpellanza pel monumento nazionale al Mazzini, è un capolavoro di 75 pagine che onorerebbe qualunque scrittore di grido. È eccessiva? Violenta? Impertinente? Aggressiva? È quale appunto lo scrittore l'ha voluta. Ma che logica stringente! Ma che mordente sarcasmo! Ma che brio e che umore, nel miglior senso di questa parola! Non una frase, non una parola vuota e fuori posto. L'argomentazione prorompe ex abundantia cordis, lo stile scatta, irride, graffia, morde: e nello stesso tempo si sente che nel suono della voce dello scrittore c'è qualcosa che sa di pianto, e si capisce che la mano di tratto in tratto ha dovuto arrestarsi perchè gli occhi erano gonfi di lagrime che gli velavano la vista.
"Leggete, leggete, ve ne prego, fatemi la grazia di andare fino in fondo: fo un debito per far stampare tutto questo, per così diminuirvi la fatica nel leggere, perchè amo che lo leggiate voi e quei pochi che vi somigliano." (pag. 29).
Salvatore Grita è tanto disgraziato che può darsi benissimo che forse neppur l'on. Imbriani (il quale pure legge tutti i plichi che gli inviano) troverà un quarto d'ora per vedere che diamine voglia da lui uno che comincia con dirgli: "Come? Anche voi vi schierate tra i nemici di Giuseppe Mazzini?"
Giorni fa tutti i giornali di Roma sbraitavano contro la monumentomania da cui è stato preso quest'ultimo quarto del secolo morente; tutti esclamavano: Troppe brutte statue! Troppi bruttissimi gruppi! L'Italia ne è profanata da un capo all'altro! Smettiamo!
Salvatore Grita, scultore, predica così da più di trent'anni, spassionatamente, per puro amore all'arte e della dignità nazionale, accompagnando le sue alte grida da ragioni estetiche, civili, economiche anche, se si pensa ai milioni miseramente sciupati… Ebbene, che profitto ne ha cavato? Quello soltanto di sentirsi chiamare spostato, mattoide, grafomane; anzi, no, non quello soltanto. Personalmente ne ha avuto il bel profitto di un ostracismo che più tardi, se davvero il mondo diventerà a poco a poco più civile e più onesto, parrà affatto incredibile.
Io non voglio entrare nella discussione di alcuni fatti riferiti in questa lettera all'on. Imbriani. Prima di pronunciare un giudizio bisognerebbe aver sentito, come suol dirsi, l'altra campana. E dico così più per rispetto al pubblico che per altro. Il Grita può in qualche punto della sua lettera eccedere, e fare qualche piccola reticenza (per quanto un uomo abbia la coscienza di essere spassionato, non sa difendersi interamente dalle insidie nel proprio interesse) ma è impossibile supporre che inventi di sana pianta, che calunni sfacciatamente Ministri, Segretari di Stato, Commissioni di esami, e che mentisca nella sua dignitosissima lettera alla contessa Ersilia Gaetani Lovatelli; la quale signora contessa ha permesso, senza fiatare, che il suo agente d'affari commettesse contro il Grita un'enormità di cui dovranno occuparsi i tribunali.
Ma di questi fatti personali lo stesso Grita parla a malincuore. Dice: "Vedrà: invece di attaccare le mie idee, prenderanno di mira la mia persona, e non su pei giornali ma nei crocchi, per calunniarmi più agevolmente."
Infatti, sono già parecchie settimane che la sua lettera all'on. Imbriani è pubblicata: nessun giornale ne ha fatto un cenno. E vada pei giornali politici! Ma per le riviste, pei periodici, pei giornali che si occupano di cose d'arte? Giacchè il Grita non è un ciarafuglione, un cervello arruffato; ha intorno all'arte sua una serie d'idee che egli sa esporre con chiarezza, con evidenza immaginosa, con entusiasmo di persona profondamente convinta, stavo per dire, di apostolo; e il pubblico che ha applaudito mesi fa alla conferenza del Nordau intorno alla Funzione sociale dell'arte, ignora che il Grita ha predicato con la stampa, e da un pezzo, le stessissime idee, non meno brillantemente e non meno efficacemente del troppo lodato scrittore tedesco.
Ecco: io, per parte mia, credo poco o punto al valore pratico della Funzione sociale dell'arte come oggi s'intende; mi sembra che nel porre questo problema si giuochi d'equivoco; e non si tenga, nel risolverlo, nessun conto delle mutate condizioni dello spirito umano. Io, per parte mia, credo che il primo dovere di un'opera d'arte sia quello di essere una bella opera d'arte; che il primo dovere di un'opera d'arte moderna sia quello di essere una bella opera d'arte che riveli di essere di oggi, e non d'ieri o di parecchi secoli fa, cioè non una reminiscenza, nè un pastiche.
Perciò, mentre vo d'accordo col Grita su alcuni punti, mi trovo molto lontano da lui intorno al valore del concetto in un'opera d'arte. Ma questo non m'impedisce di ammirare fino i suoi eccessi, in grazia della forma.
Egli biasima, e con evidentissime ragioni, lo stupido interpolamento delle allegorie antiche in un'opera di arte moderna.
"Coloro che trovarono quelle personificazioni erano uomini di genio, ed esse erano prodotti logici, storici, istruttivi, educativi; ma voialtri ( parla a certi scultori ) che tacete i fatti storici per darci dei rebus, voialtri siete ladri che rubate alla storia, che rubate pagine di storia alla patria.
"Gli antichi, delle loro allucinazioni facevano altrettante realtà; oggi dopo tanti secoli di progresso, dopo tanto lume di scienza, delle realtà fanno allucinazioni: ma che dico? rubano, copiano, applicano, no, appiccicano a sproposito le forme già sciupate dei prodotti d'immaginazione intellettiva di trenta, quaranta secoli fa" (pag. 8-9).
E con acuta ironia prosegue poco più in là:
"È inutile che io mi sforzi di continuare a combattere le allegorie; me ne manca l'autorità: non sono un matricolato. Ma i matricolati, i laureati pare che arrossiscano di parlare delle arti plastiche contemporanee, o sono presbiti d'intelletto. Dev'essere proprio così, perchè vedo che essi ragionano tanto bene, parlando dell'arte di Raffaello e dell'arte preraffaellista, di Giotto e dell'arte pregiottesca, dell'arte romana, della greco-romana, della greco-egizia, dell'egizio-assira, dell'arte omerica e della preomerica! E non vi parlo dell'arte preistorica e con quanta lucidità la vedano e con quanta profondità di analisi critico-scientifica la giudichino; e come, dopo aver parlato del microcosmo della genesi e della sua evoluzione, attacchino l'estetica del microcosmo!
"Ma questi nostri grandi critici che vedono così limpidamente il grandissimo e il picciolissimo del passato, non vedono più le opere d'arte esposte che aspettano il loro giudizio… I signori dotti presbiti diranno, mi par di sentirli, che le allegorie le inventarono e immaginarono i grandi conduttori di popoli, i grandi legislatori… È vero; ma quelli erano grandi animali politici, e i nostri tesmofori sono dei politici animali quando approvano, se non suggeriscono, forme vuote di contenuto moderno. Gli antichi legislatori adoperavano le allegorie per colpire e persuadere le turbe, e vi riuscivano felicemente; se ne servivano per democratizzare, se così posso dire, i loro aristocratici pensieri e renderli comprensibili alle masse. Ma per far ciò si richiede la mente altissima d'un filosofo che analizzi ed astragga, il potente ingegno immaginativo di un artista che sintetizzi in forma plastica il nuovo tipo allegorico adatto a significare i concetti moderni, il contenuto razionale, come praticarono i classici e il medio-evo, come praticano in questo momento i giornali politici illustrati e soprattutti i giornali socialisti nelle loro allegorie" (pag. 10-11).
Un potente ingegno immaginativo d'artista! E leggendo una pagina che ragiona con parole di fuoco del monumento del Grandi per le Cinque Giornate parrebbe ch'egli si contraddica; giacchè quel potente ingegno immaginativo del povero Beppe Grandi ha, secondo me, fatto quel che il Grita vorrebbe, cioè ha sintetizzato in forma plastica un concetto storico, e così chiaramente, così evidentemente, che un plebiscito popolare impose ai giudici accademici la scelta di quel lavoro fuori concorso. Il programma voleva che il monumento fosse pure caserma per le guardie daziarie, e il Grandi, con un colpo d'ingegno immaginativo, ha fatto invece quel che ha fatto. Ma il Grita non si smarrisce; ha quasi preveduto l'obiezione, e si sdegna e schizza fiamme:
"Cinque allegorie delle cinque giornate, che vuol dire cinque modelle! Manetta del Frate, la lunedì; l'Organettaia, la martedì; Gigia la sudicia, la mercoledì: Antonietta Ruggerio, la giovedì; e Beppa la pillaccherona, la venerdì. Ecco le cinque giornate! Perchè rubate questo tempo, questa materia, o scultori, o Milanesi, ai vostri martiri? Perchè vi siete dimenticati del vostro zoppo Pasquale Sottocorno?… Come! Mi fate delle allegorie, della mitologia due secoli dopo che il Vico ha convertito la mitologia in istoria; due secoli dopo, della storia voi me ne fate mitologia!" (pag. 37).
Ed ho voluto citare questo tratto per dare un'idea della forma e per dimostrare che anche dove c'è eccesso nel concetto, c'è sempre qualcosa di profondo e di suggestivo.
Povero Salvatore Grita! Poche volte l'arte ha avuto un adoratore più fervente e più devoto di lui; e poche volte la devozione e il fervore sono stati peggio rimeritati!
Ormai è troppo tardi per lui; l'esperienza non potrà più insegnargli nulla. Ma il suo esempio rimarrà tipico, e forse non sarà inutile per qualche altro. Quando in un intelletto di artista la riflessione sopraffà la immaginativa, quando l'artista si preoccupa più del concetto come concetto e meno della forma come forma, avviene subito un disequilibrio nelle facoltà di lui; e, se le tristi circostanze della vita se ne mescolano un poco, si ha il doloroso spettacolo di un'eletta intelligenza artistica che si arrabatta nel vuoto.
Salvatore Grita oggi ha sessantanove anni. Ha modellato La Speranza nella sventura, la Cieca, Una monaca, simboleggiante l'abolizione dei Conventi, e quel gruppo Il bombardamento di Palermo che, più di ogni suo lavoro, mostra quali belle qualità tecniche possedeva questo ribelle, che poi non ha più potuto—e non per impotenza creatrice!—produrre altro, per quel che io sappia.
Se chi ne ha il facile mezzo in mano potesse dargli pace e tranquillità, forse i sessantanove anni non impedirebbero al Grita di fare un lavoro dove il pensatore e l'artista si mostrerebbero fusi assieme, opera d'arte da onorare lui e la scultura italiana.— Sit omen verbo!
POLEMICA
_Eduardo Boutet pubblicava nel Don Chisciotte di Roma del 7 gennaio 1894 il seguente scritto:_
SICILIA VERISTA E SICILIA VERA
Proprio di questi giorni, due fra i maggiori scrittori siciliani di questi tempi, pubblicano due volumi: Luigi Capuana e Giovanni Verga. Luigi Capuana Il Raccontafiabe, seguito al C'era una volta, Giovanni Verga una raccolta di novelle e bozzetti, Don Candeloro e C. E proprio di questi giorni è stato chiesto ai deputati siciliani, precisamente nel Don Chisciotte:—Ma, le conoscevate voi le sciagure che straziavano la terra nobilissima? e perchè, ogni giorno, là alla Camera non le avete ricordate?
Da siffatta domanda, perfettamente giusta, ne deriva spontaneamente un'altra:—E voi scrittori siciliani, di novelle, di bozzetti, di macchiette e via, perchè ne' vostri libri, non avete narrate quelle sciagure?—Tale domanda ha bisogno di un semplice commento per dimostrarne la esattezza.
Luigi Capuana e Giovanni Verga hanno sempre dichiarato che essi riproducevano, dall'ambiente al carattere, il vero. Tutto e solo per la verità. E infatti sono specialmente i contadini che appassionano quegli scrittori. Si può dire quasi, che la maggior parte del successo fosse costituita—oltre le qualità degli scrittori—dalla curiosità che destava quel mondo diverso. Nè è stato consentito mai il dubbio sulla validità del documento. Si era convinti e persuasi, perchè dubitare della sincerità? che quelle creature rese poi addirittura popolari nel mondo dalle note di Cavalleria Rusticana, fossero così e non altrimenti.
Sì; avevano un certo interesse di ricerche di tradizioni e costumi popolari quelle macchiette, quei bozzetti, quelle novelle. Quando un contadino vuol invitare a coltellate un altro, gli morde l'orecchio; dei vecchioni vanno per le casupole a scacciare le malie dal corpo delle ragazze; e nelle campagne, che so, si tengono i porci per la casa da certi contadini, e nei giorni di festa, mi pare, si vanno ad abbracciare; e come gridi di quelle anime, sapevamo che il morsicato all'orecchio, risponde: Avete morso a buono! e che la fanciulla abbandonata dal traditore dice: La mala pasqua a te! Poi santo diavolone e santa Rosalia! In genere si trattava di fanciulle campagnole, di curati di pievi perdute tra i campi, o smanie di contadino innamorato che soffre o che si vendica, e poi descrizioni di casette o capanne, della terra in fiore o no, di processione o messe grandi, infine da' tipi all'ambiente, per le consuetudini della vita, e lo svolgimento delle anime, e le modificazioni degli usi e costumi, dei quadretti graziosi e caratteristici, anche nella tragedia, pasta tenera azzurrino in fondo; e quando si son veduti poi quei fazzolettoni bianchi sulla testa delle femmine, quei berrettoni lunghi sulla testa dei maschi, sì, la curiosità non mancava, ma non si usciva da un folklorismo amabile e sentimentale. E si giurava che quella era la verità, tutta verità, niente altro che la verità: Cavalleria rusticana, e Santuzza, e Turiddu e compare Alfio, con relative piccole sventure di persone, non tragedie di popolo, anzi gente di buon augurio in fondo.
Ma ecco i fatti di Sicilia. Quella letteratura speciale e caratteristica, dove aveva trovato i suoi documenti? Il vero… il vero come? il vero dove? Quelle macchiette, quei bozzetti, quelle novelline di dove fiorivano? Quale fosse il martirio precisamente de' contadini proprio di quelli che fornivano il modello secondo tutte le Cavallerie rusticane del genere, si vede nei tristi casi di questi giorni. Altro che compari Turiddu e compari Alfio, e morsetti all'orecchio e male pasque a te e a me! Basta la storia squadernata al sole della sola zolfara per sentirsi spezzare l'anima: pare sempre di sentire risuonare nella coscienza come rimprovero, come gemito, come maledizione il ritornello dei minatori agonizzanti laggiù: ahi, ahi, chiste so li guai! ( sic ) Invece compare Alfio se ne veniva a cantare allegramente alla ribalta: Oh, che bel mestiere fare il carrettiere; e sulle piazzette dei villaggi si trovava un vinetto da brindisi faccio, brindisi faccio; e le festicciuole degli sponsali avevano ciambelle zuccherate, e vesti ricamate d'oro; e chitarrate, stornelli, rose, fiori. Lagrimucce fatte per l'applauso alla prima attrice; o tormenti raggruppati in note per lo sfoghetto d'un tenore: o popolo in massa che scende sulla via—popolo in massa che scende sulla via!—ad accompagnare la madonna in giro, la madonna che deve far la grazia alla fanciulla spasimante d'amore alla finestra, o a rallegrarsi che Cristo non è morto, colle ginocchia a terra, ed i berretti in mano.
Ecco, è chiaro. Vuol dire che la Sicilia degli scrittori che riproducevano dal vero, è diversa, assai diversa, dalla Sicilia vera: popolo che soffre tutti gli strazi e tutti i soprusi, e che cerca nella morte la fine de' patimenti più infami e più ingiusti. Vuol dire che la Sicilia—Cavalleria Rusticana, nella quale si può riassumere la macchietta, il bozzetto e la novella, era una Sicilia esercitazione letteraria, quindi retorica nel metodo, e nel fine una Sicilia d'osservazione in prima pelle, in quanto si presta alla grazietta accademica e nulla più: di maniera. Vuol dire che quegli scrittori hanno forse tutte le doti di artisti, non mi riguarda, ma quando gridano di riproduzione dal vero non sono esatti: si sono fermati a' giubbetti ed ai fioretti, e nelle anime non hanno guardato: se le anime avessero vedute e sentite ben altro dovere avrebbero dato alla loro letteratura. Alfio e Turiddu potevano pure andarsi a fare ammazzare tranquillamente, essi avrebbero raccolte le sanguinanti lagrime di quel gran popolo così oltraggiato, e le avrebbero gettate in faccia, protesta e rivendicazione, ai colpevoli, bollandoli di rovente marchio.
Del resto, questo errore di vivere insensibili del loro tempo, senza vederne e senza sentirne le angoscie e le convulsioni, servendosi de' documenti umani come di giocarello arcadico, è errore non solo di quei novellieri e romanzieri, ma in genere, quasi di tutti coloro che vanno tra il popolo minuto e i contadini a pescare la loro letteratura: ne cavano il sonetto con nuovi Melibei e nuovi Clori, ma di ciò che realmente è, e che realmente dovrebbe osservarsi e riprodursi,—e l'arte avrebbe la maggiore potenza di impressione,—nulla, nulla mai. Oh non accade lo stesso per la mia Napoli? E io non ho dimenticato che quando dalla scena proruppe il dolore della mala vita, della piazza e della casa, mi dovei accapigliare con un critico, amico mio carissimo, perchè vedeva un'altra Napoli, non quella bozzettistica de' maccheroni al pomidoro, delle ostriche di Santa Lucia, e del pesce fresco allo scoglio di Frisio.
E la dolorosa conclusione è questa:—Mentre nelle condizioni contemporanee gli scrittori—anche i giovani pur troppo!—che si danno allo studio e alla riproduzione della sconsolata vita popolana o campagnuola, dovrebbero sentir fremere nell'anima l'opera civile—l'opera d'arte verrebbe poi!—si fermano invece ai maccheroni al pomidoro e alle ostrichette di castello. Fenesta che lucive! ecco Napoli! Occhiuzzi beddi! ecco la Sicilia. Con i carusi non si fanno i volumini gingilli e le illustrazioncelle civettuole pe' salottini rococò!
__Caramba__.
Non potevo lasciar passare inosservato questo articolo così ingiusto, e nello stesso giornale fu gentilmente pubblicata la mia risposta.
Caro Boutet,
Ho letto, con due giorni di ritardo, il vostro articolo Sicilia verista e Sicilia vera. Io che compro tutti i giorni il Don Chisciotte (non lo dico per farmene un merito presso l'amministratore) avevo comprato anche il numero di domenica, ma lo avevo dimenticato in tasca. Avvertito da parecchi amici che voi mi avevate cucinato assieme col Verga e servito ai lettori con salsa piccante, ho voluto subito assaggiare anch'io il vostro manicaretto. Mi aspettavo di trovarlo gustosissimo; la mia aspettativa però è stata sorpassata. L'articolo, non c'è che dire, è proprio di quelli che sapete scrivere voi, vibrante, scoppiettante, un articolo parlato, una napoletanata alla Boutet, come diciamo noi amici quando vogliamo qualificare le vostre deliziose comiche conversazioni in redazione, al caffè, per le vie.
Peccato che tra la materia delle vostre conversazioni e quella del vostro articolo ci sia grandissima differenza. Nelle conversazioni ordinariamente parlate di cose che avete viste, che conoscete benissimo, a fondo; di persone che la vostra parola e il vostro gesto fanno rivivere e mettono sotto gli occhi altrui quasi col fascino della realtà; l'eccesso, l'inesattezza, lo sproposito qualche volta, passano inavvertiti sotto la forma efficacissima del dialetto napoletano, sotto l'immagine, sotto la mimica; si ride a crepapelle, vi si ammira e vi si è grati di un bel quarto d'ora di gaiezza e di ilarità.
Nell'articolo Sicilia verista e Sicilia vera, invece avete voluto parlare di cose che ignorate affatto, o che avete appreso a orecchio; e se la forma per parecchi lettori, ignari come voi, può far passare il contenuto, non può bastare per me, che vi siete compiaciuto di tirare in ballo. Inoltre, gli spropositi che avete detto in quella colonna e mezzo, scusate, sono così grossi che non è possibile ridere; tanto più che questa volta voi vi date l'aria di parlare sul serio, e l'occasione che vi porse il pretesto di scrivere quella tirata è serissima davvero.
Sotto l'incubo dei terribili telegrammi che arrivano di laggiù, voi vi siete rammentato di compare Alfio, di compare Turiddu, e siete rimasto strabiliato di vedere che in Sicilia, invece di ammazzarsi con la solita regola di mordersi l'orecchio, si fauno ammazzare in tutt'altri modi e ammazzano e incendiano e devastano come non fa nessuno dei personaggi di Cavalleria rusticana: e allora, al solito vostro, con una boutate (questa volta il francesismo è proprio al posto) avete esclamato:—Ma che sono venuti a contarci il Verga e il Capuana coi loro pretesi siciliani? I veri siciliani sono questi qui, questi dei telegrammi della Stefani!
Che ne sapete voi, caro Boutet, che non siete mai stato in Sicilia? Come potete giudicare che i veri siciliani siano questi e non gli altri da noi descritti? Con che giustizia decidete che noi abbiamo badato piuttosto ai giubbetti ai fioretti e che nelle anime non abbiano guardato, se vi mostrate così ignorante di questa stessa riproduzione artistica voluta confrontare con la realtà, da far credere con fondamento che ne parlate per sentita dire soltanto?
Ecco, leggete qui:
"Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: Viva la libertà! Come il mare in tempesta, la folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
"—A te prima, barone, che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!—Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo; armata soltanto delle ugne—A te prete del diavolo, che ci hai succhiato l'anima!—A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!—A te, birro, che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!—A te guardaboschi, che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!
"E il sangue che fumava e ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! Ammazza! Addosso ai cappelli."
Vi pare un telegramma da Caltavuturo o da Valguarnera? Ebbene è proprio il principio di una delle Novelle rusticane del Verga.
E nella Vita dei campi, se non ci sono i carusi della solfatara, ci sono Rosso Malpelo e Ranocchio della cava di rena, che è qualcosa di simile.
E ci sono i contadini che soffrono, che muoiono di fame e di fatica, rassegnati talvolta, talvolta delinquenti per forza; ci sono i galantuomini che opprimono, che corrompono, che fanno il male quasi inconsapevolmente, per tradizione, per uso, per costume, perchè si è fatto sempre così ed è comodo continuare a fare ancora così.
Capisco; voi non avete letto le novelle del Verga e molto meno le mie, o ne avete letto qualcuna per caso, alla lesta, fra una cronaca teatrale e l'altra; si vede che voi, critico teatrale accurato e coscenzioso, non vi siete neppure dato l'incomodo di confrontare la Cavalleria rusticana opera melodrammatica, con la novella o col dramma in un atto da cui è tratta; anzi di Cavalleria rusticana deve esservi rimasto in mente soltanto il libretto, se appioppate al Verga la grulleria melodrammatica:
Oh, che bel mestiere, fare il carrettiere!
quasi il libretto lo avesse abborracciato lui.
E con questa bella preparazione, con questa straordinaria e profonda cultura speciale, bum, bum, bum! vi mettete a battere la gran cassa per proclamare agli sciocchi che Verga è un accademico, un manierista!
Io e tutti gli altri, peggio!
E vorrei limitarmi a questa semplice questione di fatto: ma voi parlate d'arte, sentenziate che gli autori contemporanei dovrebbero sentir fremere nell'anima l'opera civile, l'opera d'arte verrebbe poi!
Caro Boutet, permettetemi di dirvi che questa non è materia vostra, e che fareste meglio a non buttarvi in tal ginepraio. L'opera d'arte viene quando dee venire, cioè quando c'è l'artista che sa farla; e pare che, a giudizio dei competenti, il Verga e qualche altro abbiano saputo farla, senza preoccuparsi dei Fasci e dell'onorevole De Felice, osservando la Sicilia in istato normale, in istato di sanità e non di eccitazione morbosa.
Chi vi ha detto che il Verga ed io, per esempio, abbiamo voluto dipingere la Sicilia sotto tutti i suoi aspetti? Da artista coscenzioso, minuzioso quasi, il Verga non è mai uscito nelle novelle fuori della sua provincia di Catania; io, più timido di lui, non sono uscito fuori del territorio della mia cittaduzza. Voi siete assolutamente incompetente di giudicare se abbiamo riprodotto bene o no i nostri personaggi, anche per la bella ragione che non avete letto i nostri lavori. Non ve ne faccio colpa, oibò; siete così occupato nella vostra funzione da critica con gli sciagurati autori drammatici! Ma dico che avete avuto torto di spropositare, senza che nessuno vi abbia condannato a scrivere la Sicilia verista e la Sicilia vera, e pel solo gusto di buttar giù un articolo pur che sia.
Lo so, voi siete stato sincero; l'inconsapevole sproposito è la vostra miglior difesa; infatti non vi si può voler male, e voi sapete che io non vi ho tenuto broncio per le vostre bastonature di critico teatrale. Non vi voglio male neppur ora; ma, contrariamente alle mie abitudini, sento il dovere di avvertire coloro che possono supporvi competente anche oltre la critica teatrale, che non bevano grosso, che non prendano per cose serie le brillanti sciocchezze che vi sono scappate dalla penna questa volta. E un'altra volta, prima di lasciarvi tentare, pensateci su un momentino e poi non ne fate niente. Sarà tanto di guadagnato pei lettori e per voi.
E concedetemi di aggiungere, per vostro conforto, che nel caso di sentenziare senza aver letto non siete solo. Giorni fa, nel Diritto, a proposito delle mie Paesane, ho ammirato queste precise parole: Le scene selvaggie vi hanno il predominio sulle altre, e questo ci dice che la Sicilia, in gran parte, è terreno da redimersi alla civiltà. Benedetto Iddio! Neppure farlo a posta, appunto in tutto il volume delle Paesane è il lato comico della vita siciliana, o meglio il lato comico di certi carrettieri siciliani quello che vien messo in maggiore evidenza. Ecco come siamo letti e giudicati noi poveri diavoli!
Scusate la lunga chiacchierata, caro Boutet, e ricevete una cordiale stretta di mano
dal vostro affezionatissimo __Luigi Capuana__
FINE
INDICE
PREFAZIONE, O QUASI—La letteratura italiana nel 1896 Pag. 1
IDEALISMO E COSMOPOLITISMO " 9
LA CRISI DEL ROMANZO " 61
ROMANZI E NOVELLE.
I. Gabriele D'Annunzio " 88 II. E. A. Butti—Neera—L. Gualdo " 113 III. Adolfo Albertazzi—Errico Corradini " 131 IV. Grazia Deledda—Alfredo Panzini " 153 V. Un romanzo regionale " 171
VARIETÀ.
I. Il teatro di Giovanni Verga " 181 II. Pulvis et Umbra " 189 III. L'Odissea della Donna " 199 IV. Lionardo Vigo " 213 VI. Emilia Pardo-Bazan " 233 VII. Un padre Bresciani spagnuolo " 249 VIII. Un poema drammatico portoghese " 263 IX. Psicopatia cristiana " 273 X. I contadini siciliani " 287
ESCURSIONI DI ARTE.
I. Michele La Spina " 297 II. Ignazio Orlando " 305 III. Grafomane? " 313