I PARALIPOMENI DEL LUCIFERO DI MARIO RAPISARDI

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I PARALIPOMENI DEL LUCIFERO DI MARIO RAPISARDI

IN BOLOGNA PRESSO NICOLA ZANICHELLI — MDCCCLXXVIII.

L'EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI

AI LETTORI.

Il manoscritto del canto che qui appresso pubblichiamo ci venne recato settimane fa dalla posta, insieme a una letterina molto gentile per noi.

Ricevendo ogni giorno una quantità straordinaria di manoscritti di versi, siamo (è facile capirlo) diventati un po' diffidenti in fatto di autori sconosciuti. Questa volta però la nostra diffidenza fu subito vinta dal vedere il caso alquanto strano di un poeta che ambendo, come cortesemente egli si esprime, l'onore del nostro elzeviro, voleva conservar l'anonimo persino col suo editore, anzi, e sopratutti col suo editore, la letterina diceva.

Leggemmo dunque e da principio, lo confessiamo, con qualche sorpresa e con piacere. Ma inoltrati vie più nella lettura ci sentimmo a poco a poco sopraffatti da un sentimento di dubbio e di sospetto che sarà, crediamo, partecipato dai lettori.

Avevamo fra le mani un lavoro scritto sul serio, o la satira fina ed urbana di una forma poetica?

La prefazione, che spiegava il concetto morale e la ragione estetica del lavoro, pretendeva si trattasse di una cosa sul serio.

«Non è senza profonda trepidanza che io metto fuori il primo canto di un nuovo poema, mentre l'Italia, anzi l'Europa si è appena stancata dall'applaudire il Lucifero; e quando sentiamo da ogni parte, a proposito di esso, con insistenza ripetere che l'epopea se ne giaccia morta da un buon paio di secoli e vano sia qualunque sforzo per richiamarla alla vita.

«Mi affida alcun poco il fatto che, in onta all'acqua lustrale spruzzata dai critici sulla supposta bara della gran morta, l'epopea si mostri di quando in quando viva di vita immortale e apparisca torreggiante nel regno dell'Arte come ai tempi più propizii alla sua divina fioritura.....»

Ma il tono magistralmente severo della prefazione (l'abbiamo anche riletta) non è punto bastato a serenarci la coscienza. Talchè ci siamo indotti a pubblicar questo saggio un po' pel valore intrinseco che ci è parso di scorgere in esso, un po' per la curiosità di conoscere l'impressione delle persone competenti.

Stampando il primo canto dei Paralipomeni del Lucifero non intendiamo però incoraggiare l'ignoto autore ad inviarci gli altri dodici, che, a detta sua, vengon dopo. E siamo questa volta tanto più sinceri con lui, quanto meno intendiamo abusare della cortese accoglienza fatta dai lettori italiani alle nostre edizioncine in elzeviro.

La imitazione del Lucifero e nel tornio del verso e della frase poetica, e nelle similitudini, e nella concezione del soggetto e nella disposizione delle parti, insomma nei più minuti particolari dei pregi e dei difetti di questo poema, ci par spinta nei Paralipomeni a tal estremo da togliere ad essi qualunque lievissimo valore di originalità. E le opere di arte, secondo noi, buone o cattive che siano, è proprio inutile il copiarle.

Che se poi trattasi (come leggendo nasce il sospetto) di un bizzarro tentativo di caricatura letteraria, lo stesso poeta dovrebbe saperci grado della nostra riserba.

In questo caso il pregio dell'opera consiste, particolarmente, nella sua brevità. Col tirarla più a lungo si rischierebbe di farle perdere quell'aria di leggiera canzonatura che a noi, e a quanti abbiamo fatto leggere il manoscritto, è sembrato di scoprirvi.

Per ciò abbiamo osato di sopprimere la prefazione.

Ci siamo ingannati?

Bologna, 1 marzo 1878.

L'Editore.

CANTO PRIMO.

ARGOMENTO.

Felicità dell'universo dopo la vittoria di Lucifero. — Proposizione del poema ed apostrofe ai critici. — Si celebra in cielo il millennio della vittoria di Lucifero. — Belzebù matura nella selva il suo tradimento. — Descrizione della festa del millennio. — Lucifero invita il suo poeta a rallegrar la festa col canto. — Il Poeta. — Belzebù, a tarda notte, va al palazzo del Nulla. Del trionfato ciel sopra la volta

Già sventolava da mill'anni il segno

Redentor di Lucifero. Pei vasti

Adamantini portici solenni

Della reggia immortal suonava ancora,

Terribilmente pauroso, l'inno

Dell'immensa vittoria; ancor sul nome

Del cattolico Iddio scherni possenti

Avventavano i demoni, giocondi

Abitatori di lassù. La terra

Più templi non avea; salmi e preghiere

Per l'äer lento non salian siccome

Spire di fumo di annerita gola

Di operoso camin, quando ai capaci

Paiuoli sottopon aride foglie

Di sacra quercia e ben spaccati tronchi

La vigile massaia e il fuoco induce,

Mentre dai campi coi sudati arnesi

Riede il colono e da lontano odora

Avido l'aglio della sua minestra.

Non più salmi nè preci. Le mortali

Menti non incombea sinistramente

Fra tuoni e lampi il pavido terrore

Di onnipossente forza. Era la legge

Ispiratrice di ogni cor. Vestito

Della luce del Ver spuntava il sole

Dai sorrisi orizzonti e il precedea,

Insieme all'Alba e alla rosata Aurora,

Stuol di gioconde deità; la Pace

Dal niveo peplo abbandonato ai venti;

La timida Innocenza il crin ricinto

Di candidetti gigli e di odorosi

Mughetti che cadean siccome pioggia

Di fatue stelle se del caldo agosto

Le notti incende con celesti razzi.

E veniva con lor la sospirata

Pronuba Dea che di fecondi amplessi

Letifica le genti e all'obbliato

Indissolubil nodo i naturali

Connubbii contrappone e i corpi unisce,

Sol che l'istinto abbia legati i cuori.

Così fioria sull'universa terra

Non interrotta primavera. Un alito

Profumato correa di plaga in plaga;

E dai campi, dal mar, dagli azzurrini

Spazii del cielo un'armonia filava

Continua, dolcissima siccome

Concerto d'invisibili strumenti.

Incredula ridea l'umana stirpe

Allor che udiva rammentar procelle

Sulla terra e sull'onda, e vasti orrori

Di naufragi; o rabidi vulcani

Lancianti, come sputi, al ciel le ardenti

Pomici e l'infocata solforosa

Lava delle lor viscere, sepolcro

Di popolose cittadine mura;

O arenosi deserti immensurati

Che, pari all'ocean, sconvoltamente

Mescean la soffocante onda, fatale

All'arabo mercante e al suo gibboso

Compagno; o furibondi urti di arcane

Forze terrestri che scoteano i monti

Come lapilli, le cittadi e i regni

Di morti seminando e di ruine.

Tutto sogno parea, tutto una fola

Surta nel vaneggiar di mente inferma

Quanto di male producea la dira

Possa del Nume che il fatal conquise

Brando del gran Lucifero. Perduti

Nell'umano linguaggio eran perfino

I motti di dolor, d'odio, di pianto,

Di vendetta, di colpa. Un accigliato

Rovistator di muffidi papiri

Si affannava talor d'indovinarne

Il dubbio senso e con novelli in-foglio

Accalcava le vostre assi, o silenti

Scaffali, preparando un erudito

Letto alla polve e pascoli indigesti

Alle tignuole vindici.

Confusi

Erano insomma paradiso e terra

In un aspetto d'ineffabil gioia;

E impossibil parea che l'infinita

Felicità dell'universo alcuno

Nascosto germe nutricar potesse

Apportator di lagrimosi lutti.

E non la terra ahimè ma la più pura

Parte del cielo l'accogliea! Ma visto

L'avea più volte la sublime reggia

Del Rubelle santissimo adaggiarsi

A piè del trono, sfolgorante il petto

Di preziose invidiate insegne,

Onor dei forti che, tremendo ardire!

Sfidar la larva dell'Eterno e al mondo

Aperser l'êra che non ebbe un Dio!

Ma che non puote ambizion se infiamma

Petto celeste?

E canterò l'estrema

Epopea delle genti. E sulla sacra

Cetra di Omero, con novelle armata

Possenti corde dal chiomato figlio

Dell'Etna, tenterò liberi suoni.

Batterò sull'incude epica, dove

I suoi strali foggiò la catanese

Satanica Callïope i minori

Umili canti miei, propiziando

Con sacro rito all'immortal poeta,

Onde dell'ombra sua qualche a me scenda

Debole raggio che sariami eterno

Nimbo fulgente sulla giovin testa.

In pace lascerò voi, del flebeo

Harem custodi; d'inveir coi morti

Non si piace la Musa. Ancor di troppo

Onor vi fece immeritato segno

Il cantor di Lucifero. Perdura

Sempre negli echi della terra il fischio

Dell'apollineo suo staffil stridente

Sulle natiche sozze e sulle guancie

Incartapecorite ond'era un giorno

Funestato il gentil campo dell'Arte,

Noiosissimo gregge. Or basta l'eco

Del cadenzato con maestra vice

Suo sciolto endecasillabo al disprezzo

Della vostra memoria! E chi ricorda

I tuoi bavosi, puzzolenti erutti.

Sagrestano Aristarco, allor che bello

Della sua eterna gioventù, sdegnoso

Del fiorentin rifiuto (l'aere intorno

Corruscava di lampi e le narici

Un acre accarezzava odor di zolfo)

Posossi in cima alla slanciata guglia

Della mediolana ardita mole

Lucifero e si fè scanno la testa

Bronzea di lei che diede al mondo un Dio?

Tu invan strillasti mal pasciuta turba

Che nella gora delle tue gazzette

Gracidi le babeliche bestemmie

Quotidian di sciocchi arido cibo.

Ei venne, vide, vinse! Esterrefatta

Corse la folla dei credenti all'are,

E sulla spenta larva del suo Dio

(Più che dal ferro del ribelle eterno

Dal fiero verso catanese uccisa)

Ululati gettò qual se l'estrema

Notte incombesse sulla terra. Intanto

Alle vetrine ove d'impresse carte

L'almo tesoro si ministra, un'altra

Folla plaudente s'accalcava; e quando,

Deposto il prezzo delle quattro lire

Sulla mano venal del bibliopola,

La gente si partia grave del pondo

Della novella Apocalisse, gli occhi

Spremeano stille di contento e il core

Superbamente le gonfiava in petto.

Fuggíano allora come stuol di corvi

Malaurosi, crocidanti i vili

Cantastorie di Armando e di Maria,

E quei che primo balbettò scomposte

Strofe al ribelle Satana (carboni

Già del rapisardèo fuoco alla vampa

Mutati in limpidissimi diamanti)

E quanti in riva dell'Olona, al verso

Che rilutta impotenti, in sulle carte

Versano d'immoral prosa il veleno

Alle caste donzelle ed alle spose;

Tutti sparir. Così nel greve autunno

Sui campi e i colli pampinosi scende

La mattiniera nebbia e sotto il manto

Umido dei suo fumo il caro involve

Sembiante di natura. Il sole intanto

Sferza i nitrenti suoi destrieri al balzo

Orientale e sciogliesi repente

Il vel funesto, i vapori disperdonsi

Di qua di là e pell'äer dileguano;

E sui prati, sui colli, sopra i tetti

Ospitali, sui laghi il suo fecondo

Raggio saetta sorridendo Febo.

Havvi nel cielo una remota parte

Ove di mille gigantesche piante

Si protendono i rami. Un sacro orrore

Accolgon le sinistre ombre e il silenzio.

Coi suoi piedi di feltro e la severa

Dell'indice falange sulle pavide

Labbra composta, vagola sottesso

I curvi rami e perdesi fra i cupi

Meandri dove non penetra il sole.

Orma di belva non calcò le foglie

Che lentamente dai maturi rami

Spiccò l'Autunno di sua man, tesoro

Di lieti ingrassi pel vegnente aprile;

Ne tra le frondi di canoro augello

Mai non udissi la volubil nota,

Come allorquando del tepente maggio

Molce le notti Filomena e piange.

Qui, ròso il petto dalla edace cura

E maturando la superba impresa

Nell'inscrutabil mente, allor che il sole

Feria la selva coll'occiduo raggio

Venir soleva Belzebù, fuggendo

D'ogni altro spirto il sodalizio. E quivi

Ne venne allor che romoroso il cielo

Festeggiava il millennio in cui le soglie

Del Paradiso, mal vietate, incesse

Lucifero e nel sen della gran Larva

La vindice confisse ardita lama

Che il tiranno del ciel spense per sempre.

Eccheggiavan da lungi i di piropo

Portici fiammeggianti all'alte grida

Di gioia, agl'inni, alle fanfare: un vasto

Incendio di doppieri era la reggia,

Un trionfo di musiche e di danze

Volteggiate sui piè rapidi, come

Gorgo marino dove latra Scilla

Ed insidia Cariddi. E tal per tutta

L'immensità dei cieli era il tumulto

Della memore festa e in tutti i cuori

Tanta la gioia, che recenti avresti

La vittoria creduta, e i superati

Perigli, e il dubbio, per la sua grandezza,

Dello stesso trionfo. Avea sembianza

Il ciel di non mai visto immensurato

Industre formicaio allor che versasi,

Versasi degl'insetti il nero esercito

E si fiuta, si mesce, e fitto brulica

Al sol di luglio, e vuota i sotterranei

Covi, e le larve attanagliate provvido

Reca all'aperto e ferve attorno l'opera.

Raccolte l'ali di una quercia al sommo

Che dell'annosa sua cervice estolle

Su di ogn'altra l'onor, sdegnosamente

Fissava i lampeggianti occhi Belzèbo

Sulla reggia lontana e dal commosso

Petto, sfrenando alla parola il volo,

In questi accenti prorompea:

— Trionfa.

O incontrastato vincitor di larve.

Non men risibil dell'eroe perenne

D'otri nemico e di mulini! È questa

La tua vantata libertà di spirto?

La tua redenzion? Questa di tanti

Sforzi la meta? E liberar le genti

Di una gran Larva dovevam per farle

Adoratrici di più vana cosa?

Incedi pettoruto e l'imperiale

Coda del manto dietro te trascina,

Mentre le file dei plaudenti schiavi

Inarcano le docili agl'inchini

Vertebri e fanno sul tremante petto

Croce le braccia, come un dì le schiere

Dei chèrubi e dei santi al cuspidato

Padre eterno solean! Trionfa ancora,

Facile vincitor di donnicciuole,

Se pur la fama che ti diè di tanto

Seduttor rinomanza assurda figlia

Non fu d'invisa alle celesti suore

Mente mortal![1] Ma verrà dì (presaga

Mi si agita nel cor la visïone)

Verrà dì che dal tuo scanno usurpato

Ti lancerà pel vuoto aëre un nume

Più possente di te, l'almo, il tremendo,

Il glorioso, ineluttabil Nulla! —

Tacque ciò detto e tremolavan gli occhi

Di amarissime stille e tutte assorte

Nel remoto futuro eran le posse

Di quell'anima torva.

Entro la reggia

Di Lucifero intanto al gran banchetto

I celesti sedean. Fumanti dapi

Dalle fonde cucine ad ora ad ora

Recavano i minor demoni, e fiumi

Versavan altri di spumanti vini

Entro i calici d'oro. Era un tumulto,

Un'orgia indescrivibile; e le mura

Ne tremavano e i tetti. Alfin dall'alto

Del suo trono divin (quel che fu un giorno,

O semitica Larva, il tuo sgabello)

Lucifero fè cenno, e l'ampia sala

(Ampia così che armato occhio non giunge

Lo spazio a misurarne) in trepidante

Silenzio si ridusse. Egli i superbi

Girò sguardi di sol sulla stipata

Gente, e rivolto al suo cantor che a destra,

A piè del trono gli sedea,

— C'intuona,

Disse, qualcuno dei tuoi canti. —

Plauso

Fè allor la turba degli spirti al divo,

Solenne invito, e sui rizzati scanni

Con avida premura si compose.

Assunto era da secoli alle stelle

Il cantor di Lucifero e il sonante

Verso mescea talvolta all'infinita

Armonia delle cose, unico inganno

Della incresciosa, irremissibil noia

Ond'era afflitto il suo Signor. La fronte

Rizzò con fiero atteggiamento e gli ampi

Occhi fissando per l'immenso vano,

Accarezzò con man dotta la chioma

Nero-fluente pel suo cigneo collo.

Più volte delle sue dita gentili

Pettin facendo alle invadenti ciocche,

Indi argine l'orecchio. Tormentosa

Correa la destra intanto all'arcuato

Onor del labbro e le affilate punte

Ne attorcigliava con solenne gesto.

Poi come al varco delle labbra imposti

Furon gli estremi delle dita e il breve

Triplice scoppio di sua tosse uscì,

Dal picciol petto che il febeo consunse

Terribil foco gorgogliante l'onda

Dell'epico suo carme si devolse.

E cantò come dai profondi abissi,

Alle vampe sfuggito ed al bitume,

Levasse il pellegrin volo alla vetta

Del Caucaso l'Eroe, fremente l'alma

Di umanitario amor, lieta giurando

Vendetta all'uomo dei patiti oltraggi:

E come di lassù, auspice l'antico

Crocifisso di Giove, all'alta impresa

Movesse e come ne tremasse il cielo

Presago ornai di sua rovina.[2] Oh sante

Aure di Tempe, ove l'eroe concesse

Al fren d'Amore il suo libero spirto,

Volente sottomesso, e in braccio ad Ebe

I primi assaporò palpiti arcani

Della creta novella![3] Oh tempestosi

Gorghi, ove fiero del pietoso pondo

Della bella Isolina in aspra lotta

Lucifero sen stiè di contro al fato,

E fu maggior del fato e di sè stesso![4]

Oh terribile strazio, allor che tutta

La teutonia gente i memorandi

Oltraggi di Torgravia e di Rosbacco

Vendicò sul gentil suolo di Francia:

E fer più allegra la vendetta il diro

Incendio, e la Licenza attorta il crine

D'aspidi sozzi, e la fraterna strage

Gavazzante in Lutezia![5] Inorridito

Sen fugge il canto dell'Eroe sull'orme.

Che le tue salutando infami sponde

Pei roghi antichi e pel recente sangue,

O giallo Manzanar, creduto al dorso

Dell'ignifero pin, vola anelante

Del vergin mondo di Colombo ai lidi.

Fior fior del labbro si dipinse agli almi

Celesti un riso quando udir l'arguta

Disputa dell'Eroe col darviniano

Pratoplaste dell'uomo, e palma a palma

Picchiar per tanto di febea potenza

Nitor che vide impallidir gli allori

Dell'Alighieri e del Cantor d'Orlando.[6]

Poi gelido per gli arti il terror corse

Alla diva assemblea quando, maggiori

Cose toccando, lor dipinse il verso

Del giaguaro la lotta e dell'Eroe;

Tremenda lotta, che per l'ampia selva

Attonite già fè le testimoni

Arbori gigantesche e sordi gli echi!

E quando stretta colla bronzea destra

L'aperta canna della belva, al core

Tutta chiamando la riposta rabbia,

Il favoloso Eroe nel cieco abisso

Come lapillo la gettò rugghiando.

Furor novello d'incessanti applausi

Risuonò da ogni banda: così suole

Per le elvetiche rupi inviolate

Ratto scoppiar delle valanghe il tuono.[7]

Ma a Te non meno che all'Eroe saliva

Il plauso, a Te, che in non mai tocche sponde

Dell'epico universo il piè posasti;

E immensi schiusi continenti all'Arte,

Altra corona non chiedesti al cielo

Fuor che la fronda dall'industre e pia

Man dell'amore al capo tuo contesta.

Ben oltre il mezzo di suo corso spinto

Già dell'umida Notte erasi il carro,

E occiduo volgevasi degli astri

Il seguace splendor; quando la selva

Lasciando Belzebù, cauto per muti

Ravvolgimenti torse il piè. Sul fronte

Sinistro gli ghignava il maledetto

Pensier del tradimento, e dalle nari

Il feroce soffiava alito e il puzzo

Che del pravo suo cor rendeano imago.

Così protetto dal notturno orrore

La cieca soglia penetrò del Nulla.

Fine del Canto I.

NOTE.

1. Lucifero, canto XIII.2. Lucifero, canto I.3. Lucifero, canti IV e V.4. Lucifero, canto VI.5. Lucifero, canto VIII.6. Lucifero, canto IX.7. Lucifero, canto X.

Finito di stampare il dì 19 marzo MDCCCLXXVIII nella tipografia Zanichelli e soci in Modena.