“ Semprevivi „ BIBLIOTECA POPOLARE CONTEMPORANEA
LUIGI CAPUANA
Il nemico è in noi
CATANIA Cav. Niccolò Giannotta, Editore Libraio della Real Casa — 1914
PROPRIETÀ LETTERARIA
Catania — Offic. tipografica Giannotta nel R. Ospizio di Beneficenza
INDICE
Avvertenza pag. vii
Tormenta 1
Storia fosca 45
Convalescenza 69
Un bacio 87
Contrasto 99
L'ideale di Pìula 115
Un caso di sonnambulismo 131
Il dottor Cymbalus 171
Nota 205
AVVERTENZA
Il dottor Cymbalus che chiude questo volume è la mia prima novella.
Fu pubblicata in La Nazione, nel settembre del 1865, ed ebbe l'immeritato onore di esser discussa, in un lungo articolo, dal corrispondente della Gazzetta di Augusta.
Quel bravo signore avea scambiato la mia fantastica narrazione per un tentativo di studio della vita tedesca contemporanea, e si era affannato a dimostrare che gli italiani ne avevano una stranissima idea.
E quando io, che lo vedevo quasi tutti i giorni nella redazione di Via Faenza, tentai di fargli capire l'equivoco in cui era caduto, non riuscii a convincerlo di non aver mai sognato di credere che qualche grande scienziato tedesco somigliasse al mio dottor Cymbalus, nè che i giovani sentimentali della Germania del 1855 avessero qualcosa di comune col mio William Usinger.
Così questo volume finisce come avrebbe dovuto cominciare, se avessi voluto accennare al lettore le varie fasi delle mie esperienze narrative, fino a Tormenta! che è tra le ultime cose da me scritte.
Caso mai, quest'avvertenza potrà, forse, avere qualche valore pei critici. E per essi, se si degnassero di notarlo, è stata conservata la data della pubblicazione di ogni novella.
Luigi Capuana.
TORMENTA!
Pietro Borgagli osservava con crescente terrore la rapida trasformazione che avveniva in sua moglie.
Ai primi sintomi della strana gelosia egli aveva sorriso.
Da qualche mese in qua però la sua Diana andava insolitamente a sedersi su una poltrona a dondolo in quello studio che non sembrava stanza di raccoglimento e di lavoro per uno scrittore, ma piccola serra di piante da salotto e di vasi da fiori; e là ella faceva sembiante di svagarsi a leggere.
A traverso le foglie del bambù che nascondeva un po' la poltrona, alzando gli occhi dalle pagine già riempite di grossa nervosa scrittura, egli sorprendeva spesso la moglie fissamente intenta a guardarlo sotto le sopracciglia corrugate per lo sforzo, pareva, di voler vederci meglio.
Gli sembrava impossibile, che ella si sentisse invadere da inesplicabile diffidenza dell'opera letteraria di lui, ora che la felicità del possesso dell'adorata creatura, contèsagli per due anni da insidiose circostanze, davano alla sua immaginazione un rigoglio che i critici notavano con unanime compiacenza all'apparizione di ogni suo nuovo lavoro.
Infatti egli sentiva dentro di sè qualcosa di più fresco, di più agile, di alato quasi; e il suo godimento artistico durante la produzione era così acuto, così intenso da fargli augurare che i lettori risentissero almeno un terzo dell'effetto di bellezza e di vita da lui provato scrivendo.
Il giorno delle sue nozze era stato pubblicato in elegantissima edizione il suo primo romanzo: Il Gran Sogno. L'editore ne aveva fatto tirare una copia speciale, su carta della Cina con larghissimi margini, dove parecchi artisti avevano profuso disegni a penna, e figure acquerellate che davano a quella copia un valore straordinario. Rilegata in pergamena, con ornamenti quattrocenteschi, racchiusa in un cofanetto di pelle dello stesso stile, era stata il più prezioso dono delle loro nozze e certamente il più gradito.
Il cofanetto portava impresso in oro il motto Sic semper! E Pietro aveva presentato, cerimoniosamente, piegando un ginocchio, il regalo del munifico editore alla giovane signora che baciò in fronte, tremando dalla commozione, il paggio editoriale, come egli si disse, già commosso quanto lei.
Diana, distratta dal viaggio di nozze, dal trambusto di visite, di ricevimenti, di spettacoli al loro ritorno in città — quando la stagione invernale travolse nel suo vortice la giovane coppia, che la bellezza e l'ingegno rendevano ricercatissima — dopo sei mesi di vita coniugale non aveva ancora trovato un po' di tempo per tagliare e leggere la copia ordinaria del romanzo che suo marito le aveva regalata con la semplice dedica: a Diana Cantelli, mio vero «Gran sogno!.
E sentì un po' di mortificazione, una sera in casa Marzani, quando la giovane signora, sua amica di collegio, le disse:
— Ah, quel Gran Sogno di tuo marito! Un capolavoro di sentimento, di passione, di finezza! L'ho riletto due volte! Gli scrittori hanno un bel dire che si tratta di semplici invenzioni della loro immaginazione con qualche leggera tinta di realtà. Io credo, invece, che sia il contrario.
E vedendo che Diana, rimasta confusa, non sapeva che cosa rispondere, riprese maliziosamente:
— Di' la verità: non te l'ha mai dato a leggere?
— Sì, e con questa dedica: a Diana Cantelli, mio vero Gran sogno. Solamente....
— Solamente....
— Ti confesso che non ho ancora avuto la curiosità di aprirlo; mi basta di leggere... — e sorrise — il suo autore, per ora.
Intanto la mattina dopo si affrettò a tagliare il volume e, chiusa nel suo studiolo, cominciò a divorare avidamente quelle pagine che, come più andava avanti, più le producevano la triste sensazione di farla inoltrare negli oscuri penetrali dell'animo di suo marito, quasi di nascosto, di sorpresa, e dov'ella non sarebbe forse mai arrivata senza le suggestive parole della sua amica: Gli scrittori hanno un bel dire..... — Sì, sì, era impossibile che quei personaggi non fossero davvero esistiti, che quelle violenti passioni non si fossero davvero scatenate nel cuore di essi fino al delirio, fino al delitto; che quelle parole, quelle frasi caratteristiche non fossero state davvero pronunziate con la desolata espressione che le pareva di sentire fin nelle righe del libro.
E come poteva mai darsi che un uomo indovinasse o inventasse quelle passioni, quei contrasti, quelle lotte senza che il suo cuore vi avesse davvero partecipato in una o in altra maniera? Se non precisamente a quel modo, se con particolari diversi, non voleva dir nulla; forse anche con maggior violenza, con circostanze tali, senza dubbio, da far esitare la penna più esperta.... da costringerla ad attenuare, a travisare un po' la realtà, a deformarla probabilmente, per non far riconoscere persone e fatti e suscitare scandali e recriminazioni.
Si maravigliava ella stessa di quell'improvvisa compenetrazione che le faceva intravedere l'intimo legame tra l'autore e l'opera sua. Non le era mai passato per la mente che ognuna delle figure, specialmente di donna — erano quelle che più la interessavano — fossero ancora qualcosa di vivo, di segreto nel cuore dell'artista, se egli sentiva la necessità di riprodurle con la magìa della sua parola, quasi per fissarle meglio, e perpetuarle per sè e per gli altri. Lo capiva ora tutt'a un tratto; e mentre fino a poche ore addietro ella si credeva in pieno possesso del cuore e dello spirito di suo marito, ora le sembrava di esserselo sentito sfuggire lentamente, di mano in mano, senza nessuna lusinga di più tornare a riconquistarlo.
Reagì contro questa impressione, pensando che ben altro era il sapersi legata a lui da attuali forti vincoli di sentimenti e di carne, che non il sopravvivere, se pur poteva chiamarsi tale, nell'immaginazione, nel ricordo. Bisognava anzi già esser pervenuto a un punto di indifferenza completa per cacciar via fuori di sè, quasi per sbarazzarsene, quei fantasmi di una realtà una volta cara, e che, per felice disposizione d'ingegno, assumevano forma d'arte, e dovevano probabilmente riuscire irriconoscibili a colui stesso che li aveva a quel modo fatti vivere.
Rilesse alcune pagine, sfogliando il volume, fermandosi a un nome di donna, seguendolo un po', abbandonandolo, riprendendolo verso la fine nella scena più violenta, e sorrise, rassicurata.
Entrò col libro in mano nello studio del marito.
— Oh! finalmente...
— Sì, finalmente — ella lo interruppe, agitando il volume con grazioso gesto di minaccia — e puoi esser contento di quel che mi hai fatto soffrire.
Egli ebbe una mossa di stupore.
— Siete dei grandi sfacciati voi scrittori — riprese Diana con accento indefinibile, di scherzo e di serietà. — Vi compiacete di raccontarci le vostre prodezze, fingendo di raccontare la storia degli altri, assegnandovi la più bella parte negli avvenimenti, cioè quella che a voi sembra la più bella, e vi figurate così di aver gabbato i lettori. Ma sai che questo tuo Gherardo del Gran sogno è uomo spregevole, con tutte le sue arie di incorreggibile sentimentale?
— Spregevole poi... — fece Borgagli, lusingato di veder presa sul serio la sua opera d'arte.
— Ah! Tu lo difendi; è naturale. Quanta parte di te c'entra, confessalo, in quell'ambiguo carattere?
— Ambiguo, no; complicato forse volevi dire. Allora facevo anche io il mio gran sogno e tu eri un po' la donna intravista, inseguita e non mai raggiunta, per dimenticare la quale Gherardo...
— E perchè voleva dimenticarla?
— Ecco — disse il marito, alzandosi da sedere e raccogliendo i fogli sparsi su la scrivania già coperti della sua grossa e nervosa scrittura. — Tu non puoi immaginare il piacere che mi produci in questo momento, ragionando dei personaggi e dei fatti del mio romanzo come di persone e di avvenimenti reali. Certamente qualcosa di mio c'è in essi e del me più schietto e più sincero. Sono passati per la mia immaginazione, si sono fusi, si sono organizzati in essa pur tentando di assumere una loro distinta personalità. Io stesso non saprei precisamente dirti come questo avvenga. L'artista, scrivendo, è in una specie di semi inconsapevolezza, sta a guardare, maravigliato — più che non farebbero gli altri — quel che avviene dentro di lui, il miracolo della creazione; e forse è il solo a goderne pienamente, perchè, soltanto lui può osservarne il processo di mano in mano che esso avviene. Quante viete cose ti dico, mentre dovrei baciare la bella mano che tiene ancora il mio libro, e la bellissima bocca che mi ha detto: Mi hai fatto soffrire!
Diana si lasciò baciare la mano e la bocca, spalancando i vividi occhi caprini in viso al marito, un po' irrigidita di fronte alla calda effusione di quel ringraziamento, di cui ella non riusciva a capire il preciso significato, se egli non si burlasse, per caso, della sua femminile ingenuità.
Parecchi volumi di novelle di suo marito ella aveva letti durante il fidanzamento, ma senza interessarsi di scoprire quel che esse potessero ricordare del passato di lui. Non aveva mai fatto nessuna distinzione tra quelle narrazioni rapide, appassionate, contenenti un fiero dramma interiore che talvolta scoppiava in tragedia; tra parecchie di esse piene di finezze, argute, quasi maligne, specialmente quando si trattava di rari caratteri di donne; e le molte novelle drammatiche o ironiche di altri autori italiani e stranieri. Le une e le altre erano servite a procurarle un po' di distrazione, con lieve godimento intellettuale.
Ora invece si era messa a rileggere non solamente le novelle e i racconti di lui già raccolti in quattro bei volumi, ma anche le altre ancora disperse tra le colonne dei giornali e le pagine delle rassegne, dove suo marito le spargeva con profusione da gran signore, e che egli ritardava a raccogliere, attendendo che le impressioni della recente lettura si fossero alquanto scancellate e fosse solleticato il gusto di tornare a leggerle.
Dapprima Borgagli si era rallegrato della conquista di una lettrice che non era, per cultura, per affettuoso interesse, lettrice ordinaria. Diceva anzi: della riconquista perchè, di giorno in giorno, notava certe sottili osservazioni intorno a parecchie novelle che prima le erano passate quasi inosservate. Pareva che ella avesse bisogno di schiarimenti, di dilucidazioni a proposito di una battuta di dialogo, di un motto passionale fatto sfuggire dalla bocca di una creatura, in un terribile momento, quando sembrava che soltanto quella parola risolvesse la inevitabile crisi di un povero cuore.
— Perchè ha risposto così?... Come hai tu saputo che ha risposto così? — domandava infine ansiosamente.
— Perchè la situazione, capisci, portava che doveva rispondere così — egli spiegava, stupito di quelle insistenti domande. — Non ho saputo, ho intuito che ha risposto... cioè che avrebbe risposto così.
— Tu hai detto una volta, parlando con Leoni, che certe frasi, certi motti non s'inventano: si prendono dal vero, in circostanze inattese, uditi direttamente o riferiti.
— Non ho rossore di confessare — rispose, sorridendo, Borgagli — che quattro o cinque delle frasi che più destano ammirazione in alcune mie novelle, io me le sono appropriate, come chi trova per via un diamante, smarrito del suo sbadato proprietario. E il paragone è soltanto giusto riguardo al diamante. Coloro che han pronunziate quelle frasi, quei motti sublimi o caratteristi, ne ignoravano il valore. Il pubblico dev'essermi grato di non averli lasciati disperdere.
E il giorno dopo, a proposito di altre novelle, di altri racconti specialmente di quelli usciti recentemente dalla penna di lui, ella riprendeva la sua indagine con maggiore insistenza; e Pietro già notava con qualche sgomento, quell'accento di profonda tristezza con cui ella interrogava, quella espressione del viso che significava la dolorosa delusione di non aver raggiunto il suo scopo.
— Ma che hai? che vuoi sapere — le diceva. — Sembra impossibile che una persona intelligentissima e colta come te, cerchi di scoprire in un'opera d'arte quel che non c'è. Il mio passato? Ma tu, adorata mia, da due anni hai scancellato tutto, tutto! Hai fatto cor novum dentro di me, un cuore nuovo, dove non può più esservi posto neppure pei ricordi, tanto tu lo riempi di te, rinnovando ogni giorno, ogni ora, ogni istante il tuo sovrano possesso. Come non lo intendi? Come non ti accorgi del male che ti fai? Giacchè tu soffri — non negarlo — tu diventi sempre eccitabile, sempre più nervosa; ed io ho paura quando ti sento tremare, fremere fra le mie braccia, come in questo momento, scossa da brividi molto diversi da quelli, dolcissimi, di una volta.
— No, no, t'inganni! — ella tentava di negare. — Forse attraverso un periodo strano, di facili eccitazioni, nel quale mi sembra di sentir sviluppato in me un senso inesplicabile di veggenza, che però è ancora in uno stato torbido, fosco.
— E rimarrà sempre tale, perchè sei tu che tenti di formartelo artificiosamente e non riesci; tenti l'impossibile. Che t'importa di sapere, con precisione, quel che c'è di me, della mia vita, del mio passato, del mio cuore, del mio spirito nell'opera mia narrativa? Qualcosa, molto o poco, dev'esserci, per forza. Ma ormai questo qualcosa, poco o molto, non ha nessuna importanza; è ridotto, per dir così, proprio a materiale — nota: a materiale — da servire alla costruzione dell'opera d'arte. L'importante è la forza creatrice che ora aiuta ad adoprarlo; e questa forza creatrice ha un personale slanciato, capelli di un biondo scuro, occhi grandi, caprini, scintillanti, labbra rosee, mani — oh, mani! — minuscole e braccia morbidissime; e dovrebbe stringermi più forte, più forte... così; e baciarmi così, così, e giurarmi di non torturarsi più, se non vuol farmi maledire quella che è stata il mio orgoglio, la mia consolazione, la mia ragione di vivere prima che entrasse in questa casa l'attuale gentile dominatrice, ed è e sarà, da ora in poi, il mio omaggio, la mia raccolta di fiori immortali da spargerle ai piedi: intendo la mia opera d'arte. Me lo giuri?.... Me lo giuri dunque?
Diana, vinta da intensa commozione, si abbandonò singhiozzante tra le braccia del marito balbettando:
— Sì! Sì!
Sdraiata indolentemente su la poltrona a dondolo, con un libro in mano, che di tratto in tratto quasi le cascava sui ginocchi aperto o tenuto socchiuso dall'indice, Diana passava molte ore nello studio del marito, intento a terminare il romanzo che doveva comparire nel primo fascicolo del prossimo anno su la maggior rassegna italiana.
Come per riposarsi, in alcuni giorni della settimana egli scriveva una novella che, secondo lui, doveva tenergli sciolta la mano con la forzata rapidità della narrazione; e anche per sodisfare a certi impegni con giornali e periodici che si contendevano i suoi lavori.
Mai Diana aveva mostrato curiosità di leggere le piccole cartelle del manoscritto via via che suo marito le andava accumulando in un angolo della scrivania.
Quella mattina egli la vide accostare con tale aria di sospetto che, quando ella tese la mano per prendere le cartelle alle quali era già sovrapposta l'ultima scritta, non ostante il sorriso, non ostante il tono appositamente umile e gentile con cui furono pronunziate le parole: — È permesso pregustare?... — non potè far a meno di fermarle il braccio e domandarle:
— Ti senti male?
— No.... Lasciami leggere.
— Leggerai dopo. Rispondi: ti senti male?
— No.... Lasciami leggere.... Voglio leggere....
E si allontanò stringendo nel pugno il manoscritto, come una preda vittoriosa.
Pietro Borgagli si sentì contrarre il cuore da uno spasimo atroce. E ritto in piedi, col dorso delle mani fortemente appoggiato su l'orlo della scrivania quasi avesse bisogno di premere su qualcosa di resistente per convincersi di non esser vittima di un'allucinazione, seguiva con gli occhi i movimenti di Diana, che leggeva le cartelle un po' sgualcite dalla stretta del pugno con cui le aveva afferrate, e indugiava, andava lestamente via con gli occhi, tornava addietro, fino a che, arrivata all'ultima, non scattò, tendendo il manoscritto, balbettando convulsamente:
— Ora non dirai che non è vero!
Per disgrazia, quella novella aveva forma di lettera. Un uomo rinfacciava aspramente la donna che si era fatta giuoco di lui, scoprendo tutte le vili manovre per mezzo delle quali lo aveva irretito; e in quelle poche pagine già si sentiva lo schianto di un cuore onesto, sincero, e l'amaro disprezzo con cui nobilmente si vendicava dicendo: «Io non vi denunzierò a vostro marito nè al vostro amante. La vostra miseria morale mi ispira in questo momento tanta pietà da rendermi capace di perdonarvi, se il mio perdono potesse giovarvi a qualcosa.
«Ma voi siete....
E doveva seguire il castigo, la parte più arditamente nobile, più originale della novella.
Pietro Borgagli non poteva sorridere dell'inganno da cui si era lasciata cogliere sua moglie. Questo morboso stato di animo di lei durava da mesi; egli, sul principio, non se n'era preoccupato, stimandolo la forma un po' esaltata di un amore che vuol avere l'esclusivo possesso della persona amata. Avea contato su gli effetti della serietà dell'assoluta dedizione della sua vita a colei che rappresentava ancora, come anni addietro, il gran sogno di lui già diventato realtà; sogno di bellezza, di sentimento, d'ideale, che ora s'identificava con l'Arte, l'altro gran sogno di ideale e di bellezza, raggiante, più che mai, nel suo fervido intelletto.
Avea contato su questo; ma già si accorgeva di essersi illuso.
— Ora non dirai che non è vero!
Che poteva risponderle? Che lo spunto di quella novella gli era stato dato da Leoni, il quale, sere addietro, gli aveva riferito il caso di un suo amico, accorso una mattina da lui per sfogarsi pregandolo di ascoltarlo se non voleva che commettesse una pazzia? Infatti quello sfogo lo aveva salvato....
Quand'anche avesse risposto così, non sarebbe stato creduto.
Prese le cartelle che Diana gli porgeva e fissandola con sguardo implorante, accompagnato da un sorriso che nascondeva la grande angoscia dell'artista, cominciò a fare, ad uno ad uno, in minutissimi pezzi, i piccoli fogli del manoscritto; e quando li ebbe tutti accumulati nel piatto indiano, di rame cesellato che a lui gran fumatore di sigarette, serviva da portacenere, accese un cerino e vi appiccò fuoco, rimescolandoli perchè bruciassero meglio e presto.
Pallidissima, trattenendo il respiro, Diana aveva assistito immobile, strizzandosi le mani, a quell'olocausto tanto più grande, quanto non chiesto, nè immaginato; e quando le ultime monachine dileguarono, quasi inseguite, su gli ultimi pezzettini di carta consumati dal fuoco, ella si rovesciò pesantemente indietro: e sarebbe cascata sul pavimento se Pietro non l'avesse sorretta, portandola di peso sul divano nel salottino là accanto.
Pareva che su quella casa piena di sorrisi di giovinezza e di sorrisi d'arte si appesantisse tutt'a un tratto un'ombra di muta tristezza con la grave cefalalgia che faceva gemere la povera Diana nell'oscurità della sua camera dove non doveva penetrare un fil di luce.
Suo marito le stava seduto al capezzale e sembrava anche a lui che il buio, mentre contribuiva a non rendere più acute le trafitture di cui si lamentava sommessamente Diana, serviva a calmare le agitazioni del suo spirito intorno alla malattia di lei, contro la quale lottarono invano due famosi dottori.
In certe ore di maggior desolazione, un terribile sgomento lo invadeva: di perdere la bella adorata creatura nel più spaventevole modo, con la pazzia. All'idea che avrebbe veduto sopravvivere, chi sa per quanti anni! il corpo della infelice, mentre la sua intelligenza andrebbe di mano in mano immergendosi nelle tenebre dell'ebetismo, Pietro Borgagli si sentiva straziare da una specie di rimorso, quasi egli avesse contribuito con la sua arte a produrre quell'eccitazione, quell'esaltamento nervoso nel delicato impressionabile organismo della sua giovane moglie.
Per ciò non l'abbandonava un momento, per sviare a forza di affettuosissime cure il tremendo pericolo; a forza di volontà anche, tentando di comunicare a lei, come sapeva che fosse possibile, tutto il suo vigore di salute, col tenerle strette le mani scosse sempre da lievi tremiti, indizi delle intime agitazioni che la travagliavano.
Da un mese, egli era entrato due sole volte nel suo studio, e per pochi minuti, provando dolorosissima ripugnanza di tutto quel che richiamava alla sua memoria il lavoro: carta, penna, libri, giornali.
E così fu preso da gioia infantile la mattina che Diana, entrata in piena convalescenza volle ricondurvelo per mano e intronizzarlo, com'ella disse, davanti a la scrivania.
Egli aveva dovuto obbedire, ma sùbito si era alzato per stringerla tra le braccia, per baciarla con tale impeto che fece venire a Diana le lacrime agli occhi dalla straordinaria commozione.
Tenendosi per mano si erano affacciati al largo terrazzino che dava su l'aperta campagna. Gli pareva che tutto sorridesse in quella stesa di verde dorato dal sole, e che terminava laggiù laggiù, nella scintillante striscia di mare interrotta qua e là dalle chiome degli alberi, per cui prendeva apparenza di una sequela di azzurri laghetti.
— Guarda! — egli disse, indicando una bassa nuvola scura che si avanzava rapidamente.
Come avanguardia, centinaia di allodole si precipitarono per l'aria, volteggiando, inseguendosi — pareva — radunandosi compatta disperdendosi, spaurita — ora si capiva bene — dalla presenza di due falchi che intanto non riuscivano a ghermirne una. Ed ecco il grande sciame, di migliaia e migliaia di allodole, la bassa nuvola scura, che accorreva — se ne udiva distinto il forte strillìo — per resistere all'assalto col numero almeno, fuggendo poi via, lontano, per l'aperta campagna, poi mentre i due falchi proseguivano il loro feroce inseguimento.
Diana sembrava intenta a guardare la strana battaglia; ma tutt'a un tratto si afferrò al braccio del marito, balbettando:
— Pietro!... Pietro!
E portò vivamente le mani agli occhi.
— Oh, Dio! Oh, Dio!... Questi fili neri che mi tremolano davanti... che mi scendono su le pupille.... Oh, Dio! Oh, Dio!... Pietro!...
Egli l'aveva presa tra le braccia, facendola rientrare, con la gola improvvisamente così inaridita da non poter dirle una parola.
— Non ti vedo più!... Non ti vedo più!
E si aggrappava a lui, spalancandogli in viso gli occhi limpidissimi che intanto non ci vedevano più!
— Non è niente!... Non spaventarti! Non è niente!
Egli si sforzava di rassicurarla, ma aveva nella voce uno sgomento maggiore di quello di lei.
— Siedi qui, riposati! Hai voluto lasciare troppo presto la camera.... Sarà un abbagliamento — chiudi gli occhi — prodotto dalla luce troppo viva.
Le accarezzava il viso bagnato di lacrime la baciava delicatamente su gli occhi; e intanto un fremito di sdegno o di ribellione gli infiammava il sangue contro la vigliacca crudeltà del Destino che si accaniva su quel povero corpo, su quella povera anima, su tanta fresca giovinezza, su tanto amore!
— Bisogna attendere: bisogna aver fede nella virtù medicatrice della Natura che ne sa più di noi — aveva detto il valente oculista consultato più volte.
A Pietro Borgagli sembrava che con l'oscurarsi delle pupille di Diana qualcosa si fosse oscurato anche dentro di lui. La voleva ogni giorno nel suo studio, seduta su la solita poltrona, come un misterioso genio tutelare, che taceva, e che però pareva tendesse l'orecchio per afferrar qualcosa di impercettibile per gli altri. Silenzio e atteggiamento che paralizzavano ogni sforzo di riprendere il romanzo interrotto o di scrivere qualcuna delle sue brevi novelle richieste con insistenza dai giornali e dalle rassegne per impegni trascurati da un pezzo.
Non sentendo il lieve stridere della penna su la carta, Diana domandava ansiosamente:
— Non lavori?... Non puoi lavorare?
— Sì, sì, lavoro. Stento un po', dopo tanto intervallo.
— Povero amor mio!... Io sono la tua cattiva influenza.
— Non dovresti dirlo neppure per ischerzo!
— Oh! lo dico sul serio. Chi sa che qualche volta anche tu non lo pensi?
— Diana! Diana!
Andava a inginocchiarsele davanti, prendendola per le mani, baciandogliele con lieve carezza, accostando il viso al viso di lei per osservare, desolatamente, quegli occhi limpidissimi da far credere che il non vederci più fosse una finzione, se si fosse potuto supporre tanta cattiveria in una dolce creatura di bontà come Diana.
— Vedi? Ti distraggo anche senza volerlo! Va', riprendi a lavorare.... Al romanzo? A una novella? Puoi dirmelo senza timore che io diventi gelosa dei fantasmi del tuo passato... Come sono stata stupida! Quanti dispiaceri ti ho dati! E il signore mi ha gastigato!... Sai? Però ora mi sembra di esserti più vicina, più intima... Mi esprimo male... Di volerti più bene, oh! assai più bene di prima. E mi pareva impossibile che ciò potesse accadere... Ma tu non sai che fartene dell'amore di questa povera cieca che impaccia la tua vita, che, soprattutto, t'impedisce di lavorare, di farti vivo con tanti tuoi ammiratori.... Lasciami.... dire....
Egli le turava la bocca! Non poteva sentirla parlare così, perchè l'apparente tranquillità della voce non riusciva ad ingannarlo intorno all'intimo significato di quelle parole di desolazione e di pianto segreto.
E le settimane passavano, e i mesi passavano nel torpido silenzio di quella solitudine dove Pietro Borgagli avea voluto rinchiudersi con colei che egli sentiva di amare sempre più, specialmente dopo i rapidi istanti — che poteva farci? — nei quali sentiva balenarsi in fondo al cuore un improvviso sentimento di rivolta contro il suo destino, un lampo di misero odio contro la innocente cagione di tutto questo.....
Ed erano i momenti nei quali Diana, stretta forte al cuore di lui, si sentiva pienamente compensata di ogni sua disgrazia; nei quali Pietro non sapeva in che modo scontare quell'involontario lampo d'odio che sembrava gli avesse lasciato qualcosa di attossicante nel sangue.
— Non lavori? Non puoi lavorare?
— Il romanzo procede bene. Più tardi ti leggerò gli ultimi due capitoli scritti.
— No, mi leggerai tutto a lavoro finito.
E il giorno dopo — e così ogni giorno — ella tornava cupamente a interrogare:
— Non lavori?... Non ti riesce come prima?
— Anzi!... Mi pare che il tuo alito qui...
— Non dire bugie!... Non sento stridere la penna... Ho buon orecchio, specialmente da che non ci vedo.
— Ho mutato penna. Perchè ti prendi il gusto di tormentarti senza ragione?
— Te tormento, non me!
— Cattiva! Cattiva! Cattiva! Bisogna che io punisca cotesta bocca calunniatrice!
Ed erano baci, ed erano abbracci deliranti, fino a che Diana vinta, spossata dalla commozione, non pregava:
— Basta, Pietro!... Basta!
Che pietà, ogni mattina dover condurre per mano nello studio, fino a una poltrona la bella creatura su le cui labbra appariva il caratteristico sorriso dei ciechi, e farla sedere, aggiustandole alle spalle e sotto i piedi i cuscini! Le si inginocchiava davanti, voleva che gli posasse le mani su la testa in atto di benedizione, e le augurava:
— Sogna, mentre io inseguo il sogno della mia opera d'arte!
Diana diveniva, di giorno in giorno, più chiusa, più impenetrabile, quantunque le rifiorisse sul viso una bellezza serena, gentile, una maravigliosa maturità di bellezza, che si rivelava pure in certe inflessioni della voce, in certe appassionate esitanze della parola, quasi ella avesse una pienezza di cose da dire e volesse assolutamente astenersene.
Questo formava la maggior tortura di Pietro Borgagli, gli produceva un senso di stanchezza, di acredine, di sordo terrore insieme. E pensando all'avvenire, egli levava gli occhi dai bianchi fogli che aveva davanti e che stentava a coprire di quella caratteristica scrittura, rivelatrice, una volta, dell'agile vivacità del suo pensiero di artista. E fissava a lungo la cara silenziosa, che si dondolava lievemente su la poltrona con le bianche mani aperte sui ginocchi, e gli occhi che non vedevano, eppur fissi lontano, nello spazio, quasi guardassero, intenti, una dolorosa visione.
Quella mattina, tutt'a un tratto, ella gli disse:
— Come dev'esser bella questa fine di aprile alla Roccetta!
Gli parve ch'ella intendesse di dirgli: — Andiamo ad isolarci di più! — Per quanto vivessero segregati, ricevendo lui pochi amici, lei, e raramente, una o due signore, intimissime, che non potevano farle sentire l'offesa della compassione, pure qualcosa della vita esteriore penetrava fino a loro, anche coi confusi rumori della via dove ferveva fino a tardi la vita cittadina. Diana non potè accorgersi dell'oscuramento del viso, del gesto d'impazienza provocati dalle sue parole. Credè che suo marito, immerso nel lavoro, non avesse ben udito, e ripetè:
— Come dev'esser bella questa fine di aprile alla Roccetta!
— Se vuoi, vi andremo domani... domani l'altro... — egli rispose.
— Domani... Grazie!... Non ti dispiace?
— Perchè dovrebbe dispiacermi, se fa piacere a te?
— Grazie!... Domani!
La villetta, con l'intonaco azzurro sbiadito dal tempo e dalle pioggie, era stata fabbricata dall'avo di Pietro in cima a quella roccia che, da ponente, scendeva quasi a picco su la vallata sassosa, coperta più in là di erbe, di piante selvatiche, di alberi di ulivi.
Su la terrazza che permetteva di affacciarsi senza pericolo da quel lato, al ritorno del loro viaggio di nozze, i giovani sposi avevano passato serate deliziosissime, al lume di luna, in soavi colloqui, in più soavi silenzi, durante i quali i loro cuori si erano detti quel che le parole non avrebbero saputo mai dire!
E ogni volta che vi erano tornati, il maggior loro godimento era stato il rivivere le indimenticabili serate di allora — Ricordi? — E tu, ricordi? — quasi niente più potesse raggiungere le deliziose impressioni di quel passato.
Due sere dopo, attorno ad essi, su la terrazza alitava una frescura impregnata di selvaggi profumi campestri. Il sole stava per tramontare dietro la collina dirimpetto, tra una maravigliosa gloria di nuvole dagli orli d'oro, lanciando, diritti come frecce, nel cielo di tenue smeraldo, i suoi ultimi raggi; e Pietro, assorto in questo spettacolo che rapidamente vaniva sotto i suoi occhi, divinò, più che non vide, il gesto di angoscia con cui Diana si passava le mani sul viso, il crollo indietro della testa che rivelava la improvvisa risoluzione scoppiatale nell'animo; e, senza un grido, si slanciò ad afferrare l'esile corpo che, scavalcata la ringhiera, stava per precipitare nell'abisso della vallata a trovarvi la morte.
La misera resistette un po', si agitò, tentò di svincolarsi, ma le forti braccia di Pietro l'avevano già tirata dentro, su la terrazza, e singhiozzante, mezza svenuta, la portavano di peso in camera, deponendola sul letto.
Egli non osava di dirle una parola di rimprovero, quasi l'ingiusto ribollimento di acredine contro di lei, che gli amareggiava la bocca da due giorni, avesse contribuito a spingerla alla terribile risoluzione. Ed ora tremava di rimorso davanti a quel corpo disteso sul letto e che sussultava convulso; col terrore negli occhi di quel che sarebbe avvenuto, se egli non fosse arrivato in tempo per impedirgli di precipitare nel vuoto!
Diana alzò le braccia brancicando l'aria e chiamò con un fil di voce:
— Pietro! Pietro!
Sentendosi abbracciata e baciata impetuosamente, ella scoppiò in un pianto dirotto, di sfogo, di sollievo. E appena si fu calmata, Pietro, con dolce rimprovero, le disse su la bocca, come bacio:
— Perchè? Perchè?
— Per liberarti!
— Di che cosa?
— Di me, di me, che ti rendo infelice come uomo e come artista!
— T'inganni, Diana! La disgraziata sei tu che, forse, con un altr'uomo... Ho detto forse... Nessuno avrebbe potuto amarti come ti ho amato, come t'amo ancora, come sento di poter amarti sempre più!... Lo sai che, in certi momenti, ho avuto fin la stoltezza di rallegrarmi della tua cecità, geloso che i tuoi sguardi potessero, per caso, vedere qualcosa.... qualcosa da menomare, da rubarmi il tuo amore?
— Mi ripeti le belle cose che tu suoli scrivere.... Non mi illudi però.... Non è colpa mia, se ti ho fatto soffrire... Per questo... Oh, come sono stanca! Stanca in tutti i sensi, col sangue tutto sossopra, con improvvise nuove punture agli occhi...
— Riposa. Io ti veglierò a piè del letto...
— È già sera avanzata?
— Sono appena le sei e mezzo. Ma prima porgimi le tue mani, così, e giurami per la santa memoria di tua madre, che non tenterai mai più, mai più, in nessuna maniera... Ti figuri dunque che io potrei sopravviverti? Tanta poca stima hai di me?... Giurami!
— Te lo giuro!... Ma sarebbe stato meglio altrimenti!
— Come sei crudele, Diana!
Si era buttato, vestito, sul lettino accanto, per poter accorrere sùbito se Diana avesse avuto bisogno della sua assistenza. Non aveva chiuso occhio, agitatissimo. Alle altre sue preoccupazioni, si era aggiunta ora anche questa del possibile suicidio di Diana in un nuovo improvviso sconvolgimento della sua coscienza!
— Ah — pensava — si ha un bel voler essere forti, scettici contro le circostanze della vita! Arrivata a un punto, qualunque fibra più resistente vien tutt'a un tratto spezzata.
Nella sua prima giovinezza, egli cavava, anzi, dalle contrarietà, gran incitamento al lavoro. Aveva scritto molte delle cose più belle in momenti in cui un altro si sarebbe lasciato vincere da scoraggiamenti, da fiacchezze, da vili rinunzie.
Ora — e non poteva farne colpa ai suoi trentadue anni — non aveva saputo resistere come allora, quando era solo a lottare pel suo ideale d'arte. Si sentiva diminuito. Non amava più il lavoro; non trovava in esso le consolazioni, le sodisfazioni di una volta. La strana gelosia di Diana pel passato che le sembrava di veder rivivere in ogni pagina di lui, lo facevano stare in guardia, in sorveglianza che un accenno, una frase non dessero pretesti di turbamenti alla povera creatura innamorata. Si sentiva impacciata la immaginazione, diminuita ogni libertà di espressioni, di sentimento, di bollori, di passioni....
Era amato, è vero, come pochi potevano lusingarsi di essere stati amati; egli avea visto realizzare il suo gran sogno di bellezza e di amore non soltanto nell'Arte ma nella Vita; e colei che si agitava di tratto in tratto su quel lettino, e che, appunto per accesso di amore, poche ore addietro, avea tentato di morire, gli ispirava tale profonda tenerezza per la quale in quel momento non gli sembrava gran sacrifizio fin la rinunzia all'Arte.
— No, l'Arte non vale la vita! — ripeteva talvolta mentalmente.
Si sentì chiamare con voce così concitata da farlo balzare in piedi atterrito:
— Quella striscia di luce... Pietro!...
E prima che potesse rendersi conto a che cosa Diana accennasse, un grido acuto di gioia risuonava nella camera:
— Ti vedo!... Ti vedo! Pietro!... Pietro mio!
Quel che il valente oculista aveva dubbiosamente detto: — Bisogna aver fede nella virtù medicatrice della Natura — riceveva improvvisa conferma. La quasi identica violenta impressione che aveva prodotto la cefalalgia e poi la cecità, oprando ora in senso contrario, rendeva all'organo visivo la sua funzione non distrutta, ma impedita....
— Ti vedo! Ti vedo!...
Era un balbettamento; sillabe che pareva s'impigliassero tra i singhiozzi; singhiozzi che non riuscivano, tormentosamente, a sciogliersi in pianto; e mani che brancicavano quasi non fossero sicure della realtà che tornava a sorridere agli occhi...
Pietro, dapprima, aveva creduto a un improvviso sconvolgimento dell'intelligenza di sua moglie, all'estremo disastro tante volte temuto in quei tristissimi giorni, nei quali era stato condannato a passare le giornate nella buia camera dove ella soffriva gli strazi della cefalalgia... Appena però dovè convincersi del miracolo oprato dalla Natura, una gioia infantile lo sopraffece; poi un riso convulso, poi una commozione così profonda che somigliava allo stupore....
E siccome la viva luce che inondava la camera dalla finestra spalancata, abbagliava troppo la rediviva — non seppe meglio chiamarla in quel punto — egli si affrettò a socchiudere gli scuri.
La teneva tra le braccia, seduta sui ginocchi, quasi l'avesse ritrovata dopo lungo smarrimento, quasi avesse ancora paura di vedersela nuovamente portar via.
E, nel silenzio, essi sentivano i battiti anelanti dei loro cuori felici.
Per parecchi mesi s'immersero, con vivissimo entusiasmo, nella vita di società.
— Volete rifarvi del tempo perduto! — gli dicevano amiche, e amici che non si stancavano di festeggiarli.
— Hanno ancora tanta giovinezza davanti a loro! — rispose una volta la signora Marzani che non sospettava neppure dalla lontana il gran male prodotto da certe sue parole.
Sì, era vero; volevano rifarsi del tempo perduto, quantunque avessero tanta giovinezza davanti a loro. Troppi e troppi mesi erano rimasti in un isolamento che ora cercavano di scancellare dalla loro memoria, tanto era increscioso. Respiravano a pieni polmoni le salsedine delle stazioni balneari, viaggiando in incognito, perchè Pietro Borgagli odiava le interviste, i fotografi delle spiaggie, nè voleva che la gente guardasse come bestia rara lo scrittore che il caso della moglie, riferito dai giornali, aveva rimesso in vista, e del quale si annunziano prossimi volumi di romanzi, di novelle, e un dramma passionale.
Un giorno si era divertito a dir questo a un giovane ma importuno giornalista che lo aveva riconosciuto e additato ai bagnanti di Viareggio, costringendolo così a scappare di colà. Tutti i giornali avevano riportato la notizia, rallegrandosi del suo ritorno all'Arte e augurandogli nuovi gloriosi successi.
Gliene scrisse, lietissimo, il suo più caro amico, Leoni. Quella lettera, che arrivava da Londra, e dove ogni parola, ogni periodo parevano agitati da affettuosissima gioia li aveva raggiunti a Venezia, quando già si preparavano a tornare a casa del troppo prolungato pellegrinaggio, e produsse su tutte e due penosissima impressione. Non osarono comunicarsi, lusingandosi l'una e l'altro di essersi ingannati.
Diana aveva cominciato a notare che quella riposante tranquillità venuta dietro alle esaltazioni, alle concitazioni, ai tormenti, alla paura di risvegli del passato nel cuore del marito, alle momentanee sodisfazioni di scoprirsi illusa, al riprendere e rinnovarsi delle stesse esaltazioni, degli stessi tormenti, delle stesse paure, insieme con l'angoscia della sopravvenuta cecità, e col cupo orrore della tenebra dov'era sparito ogni sorriso di giovinezza; sì, aveva cominciato a notare che in quella riposante tranquillità c'era qualcosa di torpido, di insignificante, e che lei intanto vi si adagiava con vigliacca rassegnazione, quasi non avesse più altro da desiderare, da sperimentare, all'infuori delle giornaliere occupazioni casalinghe che in certe circostanze la prendevano forte, come non avrebbe mai creduto che potesse accaderle.
Da principio le era parso che ciò significasse stanchezza della vita di alberghi, di riunioni, di teatri, di concerti; vivo bisogno di riposo, di tregua almeno. Presto si accorse che era già, invece, un senso di esaurimento, un disinteressarsi di ogni idealità, un abbandonarsi alle minute cure esteriori della comoda vita che l'agiatezza le consentiva.
In quanto a suo marito, ormai, ella era assolutamente sicura di non aver niente da temere dal passato, niente dal presente e molto meno dall'avvenire.
Anche lui si sentiva evidentemente stanco, vinto da un torpore, che egli non avrebbe saputo dire se fisico o intellettuale. Per poco, in certi momenti, non credeva spenta o vicina a spegnersi ogni sua facoltà artistica; e non ne provava nessun rimpianto, come se questo fosse un fatto ordinario, nella natura delle cose. Gli pareva di averlo osservato precedentemente in altri, che intanto o non se n'erano accorti, o avevano voluto continuare per forza a produrre, dando misero spettacolo di decadenza.
Non aveva lavorato a bastanza? Ora poteva coscenziosamente riposarsi; ora poteva svagarsi leggendo i lavori degli altri, osservando la tempesta dalla spiaggia: la tempesta della critica, la tempesta del mutevole gusto del pubblico che si lasciava abbagliare dalle lustre dei ciarlatani dell'arte, e aveva quel che si meritava.
Leoni, tornato da Londra, era rimasto profondamente afflitto di ritrovarlo in questo stato d'animo. Non osava di credere ai suoi orecchi, sentendolo parlare, non con profonda ironia, non con desolante scetticismo, dell'Arte che ne aveva cinto di gloria il nome; e sarebbe stato indizio di un'evoluzione che poteva riuscire feconda, perchè l'ironia, lo scetticismo sono attività dello spirito capaci di rivelarsi in splendide creazioni.
C'era però nelle parole di Pietro Borgagli un'incredibile supina indifferenza.
— Ma è possibile? Tu mi fai strabiliare!
— Se è, vuol dire che è possibile — rispose Borgagli all'amico. — In certi momenti — in certi lucidi intervalli, forse tu pensi — me ne maraviglio anch'io. Sin dalla mia prima giovinezza ho lottato, ho fatto a pugni contro tutto e contro tutti che volevano porre ostacoli alla mia azione. Poi fu lotta diversa, inferiore, con le grandi difficoltà della forma, con le non meno grandi difficoltà dei soggetti che mi piaceva di affrontare. Vincevo perchè sentivo, fuori e dentro di me, qualcuno o qualcosa che voleva opprimermi, atterrarmi; e per ciò tutti i miei lavori, novelle, romanzi, polemiche, squillavano come trombe guerresche, avevano l'aria di correre all'assalto, anche quando erano soffuse di grande pietà, di sottile gentilezza, raggianti di poesia nella loro umile espressione di tristissima realtà....
— E non senti riaccendere, ricordando, le divine vampe dell'entusiasmo?
— Niente, caro Leoni! Non vedo più nessuno che mi si pari dinanzi per tagliarmi il passo; non vedo rizzarsi più davanti a me un qualche ostacolo che vorrebbe costringermi a tornare addietro. Forse ho sofferto troppo, ho fatto soffrire troppo; è anche lei nello stesso mio stato, e io la osservo, la studio con crescente orrore. Niente più vibra in lei... Ah, la sua divina gelosia! Ah, quelle convulsioni del suo organismo che produssero la cecità, che le riaccesero di nuovo, come sublime rivincita, la vista!.... Niente! Niente! A te posso dirlo: Ho passate intere giornate a rileggermi.... Ho visto ripassarmi davanti tutte le creature da me messe al mondo: ho provato — e ne sentivo rossore — un senso di ammirazione per colui che aveva lasciato così potente impronta su quelle pagine che a stento mi sembravano mie.... Niente! Niente! Che vuol dire questo?.... Guarda; ti si è spenta la sigaretta... No, non bisogna riaccendere una sigaretta spenta. Eccone un'altra: ne accendo una anch'io, e non ritorniamo su questo stupido soggetto. Ormai!... Ormai!
— Protesto!... Mi ribello! — esclamò Leoni. — Senti: tu hai scritto un mirabile libro: Il Gran Sogno. Devi — devi, intendi? — scriverne un altro che sarà, ne sono certo, il tuo capolavoro: Tormenta (ti regalo il bel titolo) questa tua storia che — tu ancora non te ne accorgi — ti freme, ti ribolle dentro...
— Forse!... Forse!... Amico, fratello mio! Forse! — mormorò Borgagli.
Ma Tormenta non è comparsa finora!
STORIA FOSCA
— Tu menti! — urlò il barone.
Era pallido come un morto, tremava tutto e fulminava cogli occhi il vecchio servitore che gli stava davanti, pallido anche lui, a testa bassa, col viso pieno di lagrime.
— Eccellenza!
E il vecchio giungeva le mani, in atto di preghiera.
Ma il barone si era slanciato su le pistole posate sopra il tavolino:
— Confessa che hai mentito! Confessa che hai mentito!
Soffocava, dalla rabbia.
Il vecchio portò le mani al viso, senza indietreggiare, senza difendersi:
— Ho detto la santa verità! Abbiamo un'anima sola; non voglio dannarmi!
Allora il barone sentì cascarsi le braccia; e guardava attorno, smarrito. Non credeva ancora alle sue orecchie!
La camera era inondata di luce. Per le aperte invetriate un sorriso di verde, un profumo di primavera irrompevano follemente dal giardino della villa. Il cinguettìo dei passeri sul letto e tra gli alberi, lo schiamazzo delle galline e dei tacchini nella corte, l'allegro abbaiare dei cani echeggiavano per la vôlta come un coro di festa, un'irrisione in quel punto.
Il barone avea rimesso le pistole sul tavolino, macchinalmente, barcollando, e si passava le mani su la fronte bagnata di sudore ghiaccio.
Gli pareva di ammattire; provava un dolore di morte; il cuore gli si schiantava! Ma... aveva proprio veduto, coi suoi occhi?
— Sì, eccellenza, con questi occhi!
— Coi tuoi occhi?
Giuseppe con una mano sul petto spingeva le pupille in alto:
— Giuro al cospetto di Dio!
— È orribile!
Il barone si torceva le dita, passava la lingua, su le labbra inaridite a un tratto e guardava per terra di qua e di là, senza sapere quello che facesse. Non aveva più forza di parlare; e interrogava insistente, con lo sguardo, il servitore che esitava.
— Sì, sì, ogni volta che il signor barone era andato in Palermo o era rimasto a dormire in villa al tempo della vendemmia e del raccolto delle ulive. Non si era risolto a parlare per paura di non esser creduto... Ah, lo aveva ben detto lui che la baronessa era troppo giovane pel signor barone!
Il barone piangeva come un fanciullo, con le gomita appoggiate a un mobile, e la testa fra le mani:
— Era orribile! Era orribile! Imbecille! Dovea prevederlo! La colpa era tutta sua, imbecillone! Ah, certo il diavolo gli aveva suggerito di rimaritarsi!
Il sangue gli montava a fiotti alla testa e gli sconvolgeva il cervello. Quei terribili progetti di vendetta che gli si abbozzavano nella mente, uno sopra l'altro, alla rinfusa, gli davano il capogiro. E dimenticava il vecchio Giuseppe singhiozzante in un canto.
— Grazie! — gli disse, facendo uno sforzo per ricomporsi e asciugandosi gli occhi.
— Voscenza deve perdonarmi! Avevo rimorso di star zitto. Ed ora... che farà voscenza? Non si danni l'anima, non si danni l'anima! Lo mandi lontano...
— Mio figlio!... Mio figlio! — mormorava il barone, cacciandosi le mani tra i capelli.
* * *
Il barone Russo-Scaro era sui quarantanove anni quando avea sposato Cecilia di Pietranera appena di ventidue.
— Tu commetti una grande sciocchezza — gli disse suo zio l'abate di San Benedetto.
— Cecilia è la bontà in persona — avea risposto il barone.
— Sarà sempre una matrigna...
— Giorgio ha quindici anni. Per ora è in collegio: poi verrà l'università; poi daremo moglie anche a lui...
— Ma tu non sei più un giovane...
— Sono ben conservato!
Nel viaggio di nozze erano stati scambiati per padre e figlia; ma il barone avea dimenticato sùbito quella cattiva impressione. Così il primo anno del loro matrimonio era passato tranquillamente.
La baronessa amava di vivere ritirata. Era seria, quasi triste; e il marito non sapea che cosa inventare per distrarla. Innamorato, volea farsi perdonare la sua età col mezzo d'altri compensi: e le profondeva regali.
— Ancora? — esclamava Cecilia a ogni nuova sorpresa del marito.
— Non è mai abbastanza!
E la baciava su la fronte.
Un desiderio lo tormentava:
— Se avesse avuto un figliuolo da lei! Oh, allora soltanto gli sarebbe parsa proprio sua!
Ma il figliuolo non veniva.
— Meglio! — ella esclamava quando il barone toccava malinconicamente questo tasto. — Non abbiamo Giorgio?
— Sì, sì, ma è tutt'altro! — rispondeva quello sospirando.
Infatti la loro casa non era allegra; vi mancava un raggio di sole.
Ella passava le giornate divorando romanzi e libri di viaggi. Non amava il marito, ma non provava ripugnanza di trovarsi sua moglie. I suoi parenti avevano voluto così ed ella avea ubbidito, senza che questo le costasse nulla. Certe volte sentiva svegliarsi dal fondo del cuore un sentimento indefinito, qualcosa che ella stessa non arrivava a capire, un bisogno, un'irrequietezza, una smania; ma confondeva il malessere dello spirito col malessere fisico, e consultava il dottore. Il dottore ci perdeva il latino:
— Nervi!
Le sue ricette non approdavano a nulla.
* * *
— Sai? Giorgio torna in famiglia — le annunziò una sera il barone.
Cecilia non mostrò nè piacere, nè dispiacere, ma una leggiera sorpresa:
— Ah!
Il barone avea creduto che il ritorno di Giorgio non le fosse gradito e, per scusarlo, s'era affrettato ad aggiungere:
— È un po' ammalato. I medici gli consigliano qualche mese d'aria nativa.
— Gli farà bene, certamente.
Ella continuava a leggere, distratta.
Il barone si sentiva su le spine; quella indifferenza egli la prendeva in mala parte.
— Quando? — domandò la baronessa dopo qualche minuto di silenzio.
— Presto.
— Bisognerà preparargli le stanze...
— Andremo in villa. L'aprile e il maggio li passeremo là. Ti dispiace?
— Anzi!
Il barone si era sentito togliere un gran peso dal petto.
* * *
La villa del Gelso Nero era deliziosamente situata in mezzo a quel giardino di aranci, quantunque che non fosse molto bella con quel casamento a due piani. Dietro la siepe di nespoli del Giappone, di pomi e di peri che circondava la spianata, gli agrumi affacciavano le loro cime luccicanti, di un verde bronzino. L'aria era tutta imbalsamata dal profumo della loro zàgara.
Nei primi giorni, la baronessa e il figliastro si eran trattati con un po' d'impaccio. Giorgio non sapeva adattarsi a chiamare mamma una matrigna così giovane; a lei non riusciva di chiamarlo semplicemente Giorgio, e gli dava del baronello.
Facevano lunghe passeggiate, a piedi o a cavallo, insieme col barone. Qualche volta andavano anche soli, quando il barone s'intratteneva a dare un'occhiata ai lavori dei calabresi che sterravano la vasca. Così in meno di due settimane l'impaccio fra matrigna e figliastro era stato vinto. Già si davano del tu, e il barone n'era lietissimo.
Giorgio, gracile, bianco, pareva un fanciullo addirittura, con quei capelli d'un biondo cinericcio e quella straordinaria dolcezza dello sguardo. Però la sua voce, armoniosa, femminile, turbava la baronessa. Sentendolo parlare, ella lo guardava fisso. Tanta gentile freschezza le ridestava, tumultuosamente, le sue prime sensazioni di ragazza. Fremiti deliziosi le correvano per tutta la persona; il cuore le si gonfiava.
Quando passavano la mattinata nell'uliveto, sul prato smaltato di fiori e dorato dal sole, o in giardino — egli sdraiato bocconi tra l'erbe, all'ombra di un magnifico albero di arancio; ella seduta al suo fianco sul cuscino che Giorgio portava apposta — intanto che questi leggeva ad alta voce, con una monotonìa d'inflessioni efficacissima, Cecilia stava ad ascoltarlo lavorando all'uncinetto. Di tanto in tanto quei suoi begli occhi neri lampeggiavano fra l'ombra dei rami; poi restavano assorti in un punto lontano.
— Sai che in collegio t'odiavo? — le disse Giorgio una volta sbucciando un'arancia.
— Davvero? E perchè?
— Mi ero figurato che fossi brutta. Invece...
— Sono meno brutta che non ti immaginavi?
— Sei bella!
Glielo aveva detto sinceramente, con ammirazione di fanciullo, continuando a sbucciare.
La baronessa s'era alzata, e preso il libro messo a cavalcioni di un ramo, lo sfogliava inoltrandosi lentamente pel viale. Giorgio andò a raggiungerla per offrirle l'arancia.
— No, grazie.
— Metà almeno!...
— No, non ne ho voglia.
— Almeno uno spicchio!
— No.
E sorrideva, guardandolo negli occhi stranamente intenerita.
Giorgio le si era piantato dinanzi, porgendole lo spicchio presso la bocca, insistendo.
— Metà.
Cedeva, per compiacerlo. Giorgio mangiava l'altra metà:
— Come è dolce!
E assaporava.
— Via, lasciami leggere — disse la baronessa impallidita.
* * *
Ma quel ragazzo non s'avvedeva di nulla. Trovata in casa non un'intrusa ma una sorella, anzi qualche cosa di più, una amica, si sentiva felice.
— Beata giovinezza! — esclamava Cecilia nel suo interno.
Però non si mostrava sempre del medesimo umore con lui. Certe volte mutava da un momento all'altro, dalla dolcezza a un tono brusco.
— Ha i nervi — diceva Giorgio a suo padre.
— Ti senti forse male? — le domandava il barone.
— No; perchè dovrei sentirmi male?
— Giorgio mi ha detto: Cecilia ha i nervi.
La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia.
Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire!
La presenza di Giorgio dovea essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne aveva colpa?... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare!
Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose:
— Quel ragazzo è ancora sofferente. Perchè tanta fretta di mandarlo via? Volete far sospettare che io, la matrigna, cerco di tenerlo lontano? Le vacanze sono prossime. In ottobre Giorgio si sarà rimesso del tutto...
E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato!
* * *
In città, la vita di Cecilia e di Giorgio scorreva più monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il Dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel Casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come con un camerata. Una sera le raccontò la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine.
— E poi?
— Poi?... Nulla — rispose Giorgio.
Ella si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, con gli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto da freddolosa, e aveva avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto:
— Voglio tornare a casa. La serata è troppo fresca... Sento dei brividi...
— Fa caldo invece!
E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, con la testa appoggiata al ferro della ringhiera, gli occhi socchiusi, dondolando la seggiola.
— Ninna, ooh! Ninna ooh! — cantava Giorgio, ridendo, agevolando con la mano quel dondolamento. — Ninna, ooh!
Al lume di luna che cadeva di sbieco dalla grondaia della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata su la sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava tra le labbra semiaperte a un sorriso.
— Ninna, ooh!
— Giorgio, sta' fermo! Sta' fermo!
E tentava fiaccamente di trattenergli la mano.
Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiò sul viso e scappò via.
Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio.
* * *
Il barone era andato a Palermo; ed essi avean seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare.
Due volte erano andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto, o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto avea certe scossettine nervose che le faceano strizzar gli occhi e scuoter la testa.
Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava su la fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva più celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava.
In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le disse:
— Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo.
Cecilia lo guardò come se queste parole significassero chi sa che cosa:
— Diciassette anni!
* * *
E la settimana dopo andarono di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo.
Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, avea cominciato a venir giù una acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto.
— Pioggia d'estate! — disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra.
La baronessa guardava il cielo e la campagna muta, con la fronte corrugata, le labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi.
I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giù più fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri.
— O dove vuole andare, voscenza? — disse il massaio. — Pioverà certamente tutta la nottata.
La baronessa avea guardato Giorgio e, tutti e due, si erano messi a ridere:
— Che bella sorpresa!
Anche la massaia era comparsa su l'uscio della stanza col suo grembiulone bianco di traliccio:
— Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu di amareddi, per la cena? C'erano delle uova fresche — il pecoraio, più tardi, avrebbe portato la ricotta...
— Oh, bene! Oh, bravo!
Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, si mordeva lievemente la punta dell'indice, con li sguardi sprofondati nell'oscurità a traverso la nera campagna.
I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti a la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano, di tratto in tratto, strane ombre allungate. La voce di Giorgio — sceso un momento giù dagli uomini — scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava.
Poi Giorgio era tornato su ridendo:
— Che grullo quel boaro! Lo canzonano tutti. Ha paura delle Nonne che gli spastoiano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte, dice, gli hanno anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul colpo. Che grullo!
— E la biancheria da letto? Ah! ci tocca di dormire su le materasse, belli e vestiti!
Allora, mèssisi a rovistare i cassettoni, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; Cecilia fingeva d'arrabbiarsi:
— Come sei strambo!
E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo più. E così, daccapo, nell'altra camera attorno il letto di lui.
La cena era parsa deliziosissima.
— Ghiotti questi amareddi!
— Squisito questo pane dei contadini!
Seduti di faccia, coi gomiti su la tavola e il viso fra le mani, con le ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, ella con li occhi foschi, luccicanti, le labbra umide e più accese del solito. Parlavano a voce bassa, a intervalli.
Giorgio si rizzò il primo, snodandosi la cravatta, e sbottonando la camicia, scoprì il suo collo tornito, più bianco della spuma, un collo da vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase là, addossata allo spigolo, dopo di avergli appostata sbadatamente una sedia a piè del letto.
— Buona notte!
— Buona notte!
La pioggia veniva giù forte ma uguale con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva.
La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati su le spalle ignude. Si passava su la fronte le mani fredde, madide come quelle d'una malata. Tutt'a un tratto, così mezza svestita, barcollante come una persona ebbra, avea fatto uno, due passi verso l'uscio... e l'avea aperto, risoluta.
* * *
Era stata lei!
Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere.
Ah, tutto li avea preparati!
E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla.
Nulla era venuto a turbarli: nè cura del presente, nè pensiero dell'avvenire.
Una figura, un fantasma non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Ella lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; egli l'avea scossa tutta con la sua carne di fanciullo più bianca della spuma, fresca, vellutata, la soavità del suo sorriso, l'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non potea neppur sospettare e il cielo e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di più intimo e di più seducente.
* * *
Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro.
Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa.
— Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso!
Il pretore lo scongiura, stringendogli fortemente le braccia.
— È molto se invoco soltanto la legge! — avea risposto il barone.
Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state più aperte, chiuse per lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta.
Quando lo zio del barone, il vecchio abate di San Benedetto, passa per caso davanti a quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato:
— Se vedete una grande rovina — suol ripetere con la sua profonda amarezza di cenobita — dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per là![1]
Milano, 15 febbraio 1879.
CONVALESCENZA
Come udì il lieve scricchiolìo dell'uscio, Eugenio si voltò.
— Buon giorno — gli disse la pallida testina di donna ch'erasi affacciata tra i battenti semiaperti.
— Di già levata! — egli rispose freddamente.
La signora Viotti entrò, facendo un solo passo, con un soave sorriso su le labbra e negli occhi; e scrollava la testa per confermarlo nella sua sorpresa, non senza una lieve aria di rimprovero nel vedere ch'egli non le si precipitava incontro ad abbracciarla e a sorreggerla.
Eugenio, infatti, era visibilmente contrariato dall'inattesa apparizione di quella pietosa figura di convalescente dal viso scarno, da le occhiaie livide e infossate, da la persona esile ed alta, tutta ravviluppata nella mantiglia di raso nero foderata di martora.
— Ma, il dottore..... — egli disse, alzandosi dalla poltrona e gettando via il libro sul tavolino.
Ella scosse una spalla:
— Il dottore è uno sciocco.
Prèsala per tutt'e due le mani ch'essa gli porgeva, Eugenio, un po' accigliato, la condusse lentamente presso la finestra:
— Potevi aspettare qualche altro giorno.
La signora Viotti, senza punto badare al tono severo di quella voce, gli s'era slanciata al collo e lo baciava e ribaciava:
— Oh, come ti voglio bene! Come ti voglio bene!
Non sapeva frenarsi, e resisteva ai moti impaziente di lui che cercava di svicolarsene.
— Via, non fare il cattivo! — ella disse, scoccandogli un ultimo bacio, in distanza, nell'abbandonarsi, spossata da quello sforzo, su la poltrona.
E, rovesciata indietro la testa, con gli occhi socchiusi, mormorava a fior di labbra:
— Sono felice: non voglio più morire!... Siedi qui; non fare il cattivo!
Era stato un gran colpo di pazzia. Se ne accorsero quasi subito, dopo quattro o cinque mesi della loro vita di amanti; ma si accorsero pure di non trovarsi in pari condizioni, pur troppo! Mentre Eugenio, passato il primo bollore della passione, si distaccava da lei mezzo annoiato, mezzo sazio, naturalmente, senza che la riflessione vi concorresse per nulla; la signora Viotti — che aveva abbandonato un marito da cui si sapeva adorata e che aveva adorato anch'essa fino a sei mesi addietro, essendosi sposati per amore — la signora Viotti, all'opposto, sentiva legarsi ad Eugenio sempre più strettamente, di giorno in giorno, da uno di quei ciechi attaccamenti, per resistere ai quali non c'è ragione che valga.
Da Treviglio, dove Eugenio si trovava in villeggiatura, nella villa Savini, invitato da un amico, essi eran volati a nascondersi nell'immensità della capitale, in quell'elegante quartierino di Via Modena, al terzo piano; e durante il primo mese, ne uscivano soltanto la sera, a braccetto, per passeggiare pei quartieri nuovi quasi furtivamente, baciandosi lungo le vie solitarie, come se in casa, in tutta la giornata, ne fosse lor mancato il tempo! Non facevano altro, Dio mio! ma erano insaziabili.
Andando attorno, posatamente, parlandosi in un orecchio, stringendosi le mani, ella gli ripeteva spesso:
— Mi pare un sogno!
— Anche a me — rispondeva Eugenio.
Era proprio un sogno. Conosciutisi in una scampagnata, egli aveva appena avuto l'occasione di susurrarle qualche parola, così, per semplice galanteria, senza nessun'idea di far colpo, sapendo bene che quei due, marito e moglie, s'erano sposati per amore. Ma una sera, sul tardi, ritornando alla villa da una passeggiata faticosa, avvedutisi di esser rimasti molto indietro da tutta la compagnia, eran diventati a un tratto silenziosi, impacciati di trovarsi così soli tra i filari dei gelsi che costeggiavano la via, sotto quel cielo senza luna, nella penombra della sera che invadeva tacitamente la campagna al leggiero stormire delle fronde.
In che modo i loro sguardi s'erano incontrati? In che modo era spuntato su le labbra di tutti e due lo stesso sorriso pieno di stupore!.. E in un baleno, essa gli si era buttata tra le braccia, singhiozzante:
— Che gran male mi avete fatto!... Mi sento ammattire!
Eugenio, interdetto, turbato, rispose a stento:
— Ci chiamano... Non sente?
Ma nella nottata non potè chiuder occhio. Quella voce singhiozzante, piena di tanta passione, gli avea sconvolto il cuore e il cervello. Non credeva a se stesso:
— Amato fino a quel punto!
E due mesi dopo, nelle loro passeggiate serali per le vie della nuova Roma, essi ridevano ancora del terrore provato in camera di lei, nella Villa Savini presso Treviglio, una notte che suo marito avea dovuto correre a Milano per un affare urgentissimo.
Nel più bello, essi avevano inteso un piccolo rumore, secco secco.
— Han chiuso l'uscio della stanza di passaggio, di dentro! — ella balbettò, stringendogli un braccio, convulsa.
— Ah! Domani mattina saremo scoperti, tra le risa mal celate della servitù, e le ipocrite indignazioni delle altre villeggianti!... E mio marito! E mio marito!....
La signora Viotti si disperava, si torceva le mani, si strappava i capelli.
— Non può essere!... Zitta!... Vado a vedere.
E andato di là, a piedi scalzi, in mutande come si trovava, per accertarsene coi propri occhi, Eugenio era sùbito tornato addietro pallidissimo, mordendosi i baffi..... Un terribile quarto d'ora!
Smarrita, tremante da capo a piedi, vincendo ogni pudore, s'era levata anch'essa dal letto, e tutti e due presi per mano, barcollanti, erano andati insieme di là, dinanzi a quell'uscio fatale, per forzarlo, a ogni costo!.... E che infrenabile convulsione di risa, nel trovarlo ancora aperto com'egli, entrando, lo avea lasciato!
— Ero così agitato, per te, da traveder fino a quel punto!
— Ed io, te ne ricordi?..... Un sorso di acqua!..... Quasi svenuta sulla poltrona, tremavo e ridevo!.....
Così riandavano spesso i più piccoli fatti del loro breve passato; ella senza nessun rimpianto di quello che, fuggendo, avea lasciato dietro a sè: egli senza nessun pensiero dell'avvenire, come se la loro felicità di amanti avesse dovuto durare eternamente!
Quando la signora Viotti, avvertita dal suo fino istinto di donna, sorprese i primi sintomi del raffreddamento di lui, rimase stordita non altrimenti che da un colpo di martello su la testa. Non pianse, non gli disse nulla. E, messasi ad osservarlo, dissimulando la sua ambascia, ad ogni sintomo che le rendeva più evidente l'immensa sciagura, sentiva corrersi per tutto il corpo un veleno sottile sottile che le guastava il sangue, sordamente.
Da prima, Eugenio la vide deperire con un indefinibile sentimento d'inquietudine:
— Che cosa ti senti?
— Io? Nulla.
— Pure, mi sembra.....
— T'inganni.
Egli non insisteva. Sicuro del suo segreto, aspettava di poter scoprire qualcosa di simile nel cuore di lei:
— Allora lo scioglimento della crisi diventerebbe facilissimo: nè disperazioni, nè lagrime; una stretta di mano, una parola di compianto per la felicità volata via.... e festa! D'altronde, il marito di lei pronto a perdonarle e ad aprirle le braccia, aveva scritto ultimamente a un amico, perchè s'interponesse; e questi s'era presentato alla signora colla gravità di un diplomatico. Ella, oh, sì! — aveva avuto il torto di rispondere che non ammetteva perdoni nel caso suo! — Un'umile fierezza a sproposito!.... Ma, dopo quella risposta, non le aveva egli susurrato, abbracciandola: T'amo di più! Sei stata sublime?.... — E aveva mentito!
Ma dopo che potè penetrare la vera ragione di quel muto dolore, Eugenio provò un vivissimo senso di dispetto, come se colei gli usasse così una prepotenza, un'inqualificabile soverchieria. Non ebbe il coraggio di rinfacciargliela; e rodendosi dentro, diventava, a ogni minima occasione, per ogni futile pretesto, incontentabile, stizzoso, aizzato da quel suo dispetto ingiustissimo — ne conveniva, qualche volta, da sè.
— Ma, infine, perchè non gli riusciva di provocare una resistenza; una scena da parte di lei?
Si arrabbiava.
La signora Viotti, zitta, rassegnata, deperiva intanto rapidamente, per quella vampa interna che le prosciugava il sangue e le struggeva le carni.
— Meglio lasciarmi morire! — avea deciso.
Eugenio, per convenienza, per scrupolo anche, condusse seco un dottore; ma la signora ricusò di riceverlo.
— Che dottore! Perchè mai? — ella diceva sforzandosi di parer tranquilla. — Sto benissimo.
E non si lamentava della sua sorte, neppure quand'era sola:
— Se Eugenio non mi ama più, che posso farci? Forse, son io che non ho saputo farmi amare durevolmente; forse, è questo il mio castigo! E sia. Ma io lo amo, e l'amerò fino al mio ultimo respiro. Voglio morir qui, in casa sua; non potrà scacciarmene morente!
Poi cedette, per contentarlo. A ogni visita, ella guardava fisso il dottore; volea leggergli sul viso la sua sentenza.
— Parli chiaro: è una cosa grave? — gli domandò una mattina che Eugenio non era presente.
Il dottore tentava di rispondere con dei ma, con dei se.....
— Non ho paura di morire — ella lo interruppe, per farlo uscire dalle reticenze. — Sappia che, se fossi in pericolo, avrei importanti disposizioni da dare.
— Per cautela, provveda — allora conchiuse il dottore.
— Ah!..... va bene! — ella mormorò.
Avvertito dal dottore che lo aveva incontrato per le scale, Eugenio entrò da lei insolitamente commosso; e vedendo affondato nei guanciali il volto quasi irriconoscibile della bellissima donna un dì amata, s'arrestò come se non lo avesse mai visto fino allora:
— Povera donna!.... Poichè deve morire, che almeno ella muoia credendosi sempre riamata! —
La signora Viotti lo guardava con gli occhi dolenti, come una vittima invocante misericordia dal carnefice; e quei suoi lunghi sguardi — un addio pieno di strazio — parevano domandargli dimessamente: Perchè non mi ami più: Perchè?
Da quel momento però il suo Eugenio cominciò a sembrarle di bel nuovo mutato.
— Guarisci presto — egli le diceva due giorni dopo, accarezzandole il volto dimagrito, ravviandole le ciocche dei capelli arruffate sulla fronte. — È la bella stagione. Andremo in campagna o a Sorrento come tu desideravi una volta. Cercheremo un nido, un piccolo paradiso di verzura e di sole, degno del nostro amore, degno di te....
La signora Viotti non rispondeva, non sorrideva neppure, a quelle carezze, a quelle promesse, ancora incredula e sempre decisa di lasciarsi divorare dalla sua gastrite. Ma da che egli rimaneva giorno e notte in camera, presso il letto di lei, e spesso la notte, dormicchiava, vestito, su un canapè, per esser più pronto a somministrarle una medicina e a cambiarle le pezze ghiacciate della testa; da che gli sentì ripetere, con lo stesso accento di prima, le dolci parole d'amore che l'avevano inebbriata fino ad offuscarle la ragione, fino a spingerla ad abbandonare un marito così innamorato e così buono da perdonarle tuttavia, s'ella avesse acconsentito; quelle parole piene d'incanto che Eugenio non le aveva mai più ripetute da un pezzo....
— Oh Dio!..... S'era dunque ingannata!..... S'era dunque ingannata?
Neppure lo stesso Eugenio, in certi momenti, avrebbe saputo distinguere s'egli continuava a rappresentare una pietosa commedia o se diceva davvero. Infatti, il rimorso d'aver contribuito, benchè involontariamente, alla distruzione di quella povera creatura, lo spingeva ad esagerare:
— Poverina! Muoia almeno contenta!
— Senti — gli disse un giorno l'ammalata. — Debbo confessarti una cosa....
Con le mani dimagrite, tremule per debolezza, ma che scottavano, gli aveva prese le sue e gliele stringeva forte:
— Fatti più accosto; posa anche la tua testa sul guanciale... Senti. Prima di morire, voglio confessarti....
— Oh, non siamo a questo punto!
— Forse!
S'era arrestata per guardarlo da vicino, nelle pupille; e gli passava una mano su la guancia, con la incerta carezza di persona rifinita dalla malattia.
— Senti.... Ti vedevo cambiato... Credevo che tu non mi volessi più bene e che io ti fossi diventata un peso insopportabile, una dura catena...
— Ma...
— Lasciami dire. Oh, non ti accusavo, non ti maledicevo; no! Vedi? Muoio per questo, e sarei morta disperata, senza fartelo comprendere. Perdonami!..... Ingannata dalle apparenze, ti calunniavo indegnamente..... Perdonami!
In quel volto pallido e scarno, le lagrime scorrevano, sgorgando più abbondanti dalle ciglia a ogni parola, a ogni frase; ed ella se le bevea con voluttà, impedendo che Eugenio gliele asciugasse:
— No, lasciami piangere!..... È così dolce!..... Lasciami morir così!
Nell'interrogare il dottore, egli provava una specie di esitanza, per paura che quello non indovinasse il suo egoismo di uomo che non amava più. Cercava, in alcuni momenti, di mentire perfino a se stesso, a quella intima voce della coscienza che lo rimproverava, inesorabile, a ogni domanda con cui egli sperava d'accertarsi che, presto o tardi, la sua tortura sarebbe finita. E, dopo tre eterne settimane passate attorno a quel letto, giorno e notte, senza aver mai respirato un soffio d'aria libera, il suo egoismo si sfogava in soliloqui brutali:
— Farà morire anche me, di sfinimento!
Ma sùbito, come per ammenda, la povera ingannata che smaniava dalla febbre, si vedea sopraffatta da un'effusione di carezze e di affettuosissime parole che parevano scaturirgli dal più profondo del cuore.....
— Ed erano una vigliacca finzione, un artifizio per attutire quella voce intera che gl'insorgeva contro! Aveva egli dunque due anime? Vivevano dunque due diverse persone dentro di lui, una buona e una cattiva?
Il dottore non si lasciava scappare una affermazione recisa:
— La malattia, gravissima perchè non curata in tempo, segue il suo corso; ma.....
A quel ma lasciato così sospeso, Eugenio provava, suo malgrado, un sollievo.
— Per certe anomale situazioni della vita, non c'è' altra soluzione che questa! — rifletteva freddamente. — Io non l'ho promossa, nè agevolata..... — soggiungeva, sùbito, per scusarsi.
Ma spiava ogni piccolo sintomo, ma notava ogni minimo cambiamento, raggirandosi, smanioso, attorno a quel letto, dove la povera signora, riarsa dalla febbre, soffocava gli atroci tormenti delle sue viscere, per non gridare, per risparmiargli il dolore di vederla soffrire, ora che si credeva sempre amata.
— Mi sento assai meglio, sai?
E le sue viscere si contorcevano, sotto la coperta, intanto ch'ella gli sorrideva e gli domandava dei baci.
Quella mattina ch'ella, già convalescente, si affacciò tutt'allegra tra i battenti dell'uscio del salotto, augurando al suo amante il buon giorno, questi, di cattivo umore, non seppe neppure usarle la cortesia di alzarsi sùbito da sedere e andarle incontro.
— Sono felice; non voglio più morire! — mormorava la signora Viotti, abbandonata deliziosamente su la poltrona.
Eugenio, rimasto in piedi, stava a guardarla; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso — quasi una brutta contrazione — dell'uomo non più amante che vedeva ribadirsi una catena creduta prossima a esser spezzata.
Mineo, 25 Marzo 1885.
UN BACIO
Alla marchesa Bellati era stata data la penitenza di contentare all'orecchio.
— Oh! No, no! si rifiutava!.... Non avrebbe saputo da che parte rifarsi!
E rideva, faceva delle moine graziose, da bimba; ma il direttore del giuoco fu inesorabile. Le porse il braccio e la condusse attorno, aspettando ritto, serio come un ciambellano, che le persone delle quali ella si accostava all'orecchio dichiarassero di contentarsi delle sue proposte di penitente.
Le signore (ce n'era parecchie) si eran contentate quasi subito; la marchesa, senza dubbio, avea saputo indovinare desiderii e aspirazioni che, a quattr'occhi non temevano di scoprirsi. Gli uomini, meno un solo, l'ultimo, erano stati più gentili:
— Si eran dichiarati contenti della sola vista di lei.
Restava il barone Paolo Foli, bel giovane, capo ameno, che tutte le settimane, con tono di tragica serietà, invariabilmente soleva ripeterle:
— Marchesa, è inesplicabile come non siate già pazzamente innamorata di me. Questo però non impedisce che io lo sia di voi!
La marchesa, tutte le settimane, invariabilmente, gli porgeva a baciare con affettata sentimentalità la sua manina di vedova, bianca, vellutata, e rispondeva:
— È inesplicabile!... Ma pure è così!
Nelle serate di casa Bellati il barone Paolo Foli era chiamato l' inesplicabile. La cosa sembrava non andasse oltre i limiti di un semplice scherzo. Infatti fra gli invitati a Borzano, magnifica villa del conte Rampa, il barone quel giorno le avea ricantato il suo ritornello a colazione, in giardino, alla passeggiata, e, poco prima, anche nel salotto dove tutti si erano riuniti dopo il pranzo a terminar la serata ciarlando, facendo un po' di musica e, in mancanza di qualcosa di meglio, svagandosi con giuochi di società.
Il barone, vedendo accostare la marchesa, si era sdraiato su la poltrona con la fiera attitudine di un uomo molto difficile a contentare.
— Oh, sentite! — ella gli disse; — se fate lo schizzinoso, vi pianto.
— Per la grazia di Dio, c'è un direttore in salotto! — rispose il barone.
E additava il cavalier Vergati che se ne stava là, ritto, impettito, a pochi passi, tutto compreso della solennità del suo ufficio.
Il cavalier Vergati s'inchinò profondamente:
— Farò giustizia!
La marchesa, rassegnatasi sedette accanto al barone:
— Vi contentereste se fossi innamorata di voi?
— È poco; questo accadrà un giorno o l'altro.
— Impertinente!
— È sempre poco. Avanti.
— Se vi procurassi una bella moglie, con dieci milioni di dote?
— È troppo. La moglie mi guasterebbe i milioni.
— Dunque i soli milioni?
— Non saprei che farne; sono uomo straordinariamente virtuoso e modesto.
— Dio mio! — esclamò la marchesa impazientendosi e battendo i piedini.
— Parla di me?
— Che grullo!.. E se vi regalassi una cuoca?
— Ne ho già una in serbo, per sposarla in articulo mortis.
— La meritereste!
Andavano per le lunghe. La marchesa avea già fatto una trentina di proposte, ma il barone teneva duro, divagando, rispondendo cose assurde.
— Volete che ve lo dica io quando sarò contento?
— Sentiamo; sarà una stupidaggine.
— No, la cosa più semplice di questo mondo.
— Quando? Via...
— Ma prima bisogna fare una scommessa.
— Vada per la scommessa! Auff! Che cosa dovremmo scommettere?
— Quella mano.
La marchesa si guardava curiosamente la destra additata dal barone, voltandola e rivoltandola, senza capire.
— La vostra mano... di sposa.
— Ah! — fece la marchesa. — E in premio di che?
— Ecco — replicò il barone, accostandosele all'orecchio. — Io sarò contento unicamente il giorno in cui vi avrò dato (notate bene) senza il vostro consenso, senza vostra resistenza, ma tranquillamente, con tutto il mio agio, un bel bacio su la bocca. Volete scommettere?
La marchesa, diventata rossa come una ciliegia, s'era rizzata su la vita.
— Accetto — disse dopo un momento, con aria altiera, sorridendo. — E vi sembra la cosa più semplice? Ma sapete che siete...?
— Il più bel giovane e l'uomo più spiritoso di tutto il creato: è la mia opinione.
La marchesa si levò da sedere.
— Perdoni — disse il cavalier Vergati fermandola. — Il barone non si è finora dichiarato soddisfatto.
— Soddisfattissimo — rispose questi.
E si alzava alla sua volta, per inchinarsi con le braccia incrociate sul petto come un mandarino della China.
— Ooh! — esclamarono tutti.
* * *
Tre mesi dopo, nel salotto della marchesa Bellati, verso le undici e mezzo di sera non restavano altre persone che il barone Foli e il suo amico commendatore Vanzetti, un ex deputato scartato ultimamente dai suoi elettori senza che nemmeno loro ne sapessero la ragione.
La marchesa pareva stanca dalla fatica e dalla noia di quella serata: c'era stata troppa gente. Avea il capo grosso; si sentiva stordita. Sua madre, la vecchia marchesa, si era già ritirata nelle sue stanze.
— O che questi due signori non abbiano nessuna intenzione di andarsene? Se fosse soltanto il barone, lo metterei subito alla porta, dicendogli senza tante cerimonie che casco dal sonno. Ma col commendatore!
La marchesa chiamò la cameriera e, sotto voce, ordinò le si preparasse il letto:
— Sùbito; non ceno.... E quel commendatore che non si muove! Sembra lo faccia a posta.
Quello ragionava di ferrovie, di esercizio privato, di esercizio governativo, di treni che deviavano, di treni che non arrivavano più...
— Oh, il suo, il treno di quella discorsa non arrivava alla fine davvero!
La marchesa velava uno sbadiglio. Avrebbe voluto alzarsi da la poltrona; ma si trovava come asserragliata tra il commendatore e il barone, e le pareva sconveniente passare in mezzo a loro....
— Se quell'altro l'avesse almeno guardata in viso! Gli avrebbe fatto un segnale. Pareva impossibile! Un uomo di spirito come lui gustava l'esercizio ferroviario con una voluttà!...
E i treni del commendatore continuavano a partire, uno dietro all'altro, senza interruzione. Si scontravano, ammazzavano la gente, non si arrestavano mai....
La marchesa avea una voglia di urlare:
— Cinque minuti di fermata!
Ma il commendatore non lo lasciava respirare; s'infuocava, apostrofava il Consiglio superiore del movimento, se la prendeva col Ministro dei lavori pubblici e gli faceva certe lavate di capo!.... Poi veniva la volta del Parlamento.
— Tutto il marcio era lì! Non c'era più deputati, ma dei saltimbanchi.... dei giuocatori di bussolotti!... E il paese!... il paese!... il paese!...
La marchesa si era sdraiata su la spalliera della poltrona, con gli occhi socchiusi, il viso nascosto nell'ombra che la ventola lasciava cadere dal lato di lei. Si sarebbe detto che quella parola: il paese! il paese! ripetuta dal commendatore nell'entusiasmo della sua perorazione, avesse servito a vincere la resistenza che lei si sforzava di opporre alla forza del sonno. Da lì a poco il ventaglio le scivolava di mano.
Il barone fe' cenno al commendatore:
— Continui a parlare.
E si alzava adagino adagino dalla poltrona.
La marchesa diè un grido e si coprì il volto colle mani.
— Occorreva di un testimone — disse il barone. — Se non vi dispiace, caro commendatore, potrete anche esserlo, fra non molto, del nostro contratto di nozze.
Il commendatore guardava ora lui, ora la marchesa, interdetto.
* * *
Altri tre mesi dopo, il barone e la marchesa Bellati, diventata quella mattina baronessa Foli, partivano verso le cinque di sera pel loro viaggio di nozze.
Era una serata dolce. L'orizzonte si accendeva ancora delle tinte vive del tramonto con gradazioni delicate.
Presi per mano, i due sposi si guardavano teneramente, commossi, senza dire una parola, da vere persone felici.
Si eran voluti bene tanto tempo, in una maniera stravagante, quasi avessero canzonato!... Ed ora, non era sogno, facevano il loro viaggio di nozze!
La baronessa al dubbio lume della lampada del vagone sembrava una bellezza fantastica, con quel viso che aveva sfumature e delicatezze da pastello e, in mezzo, i grandi occhi neri un po' velati da graziosa indolenza. Lo scialle che l'avviluppava tutta le dava aria di levantina.
Sul tardi, il barone tirò sotto il lume la tendina azzurra. Un'ombra discreta invase il vagone. Poi scoppiò un bacio.
— Ah, cara mia! — le mormorava il barone in un orecchio. — Se tu avessi provato la dolcezza del primo! Quella sera....
— Va là! Non dormivo! Ti volevo bene, e...
— Non dormivi?...
Il barone Paolo Foli rimase male.
Milano, 30 Novembre 1877.
CONTRASTO
Alberto diventava più impaziente da un momento all'altro e guardava l'orologio con certe occhiataccie... come se questo gli facesse il dispetto di ritardargli le ore.
— Le dodici! Per arrivare alle tre di sera ci voleva addirittura l'eternità.
Il caminetto schioppiettava nel salottino con allegra fiammata. Pareva borbottasse: «Stai fermo, accosta la poltrona; facciamo quattro chiacchiere sotto voce; ho tante cose a dirti! Ma Alberto ora andava su e giù, da un angolo all'altro; ora incollava il volto ai vetri della finestra e guardava nella via, senza dir nulla; i passanti gli parevano ombre.
Il cielo era grigio. Folate di nuvole scure spuntavano dietro i tetti e andavan via di corsa, quasi avessero fretta. Quelle nuvole pregne di pioggia, che pareva la rattenessero a stento per rovesciarla giù al primo scoppio di tuono, Alberto la vedeva fuggire pel cielo come tanti uccellacci di mal augurio.
Quel tempo minaccioso gli metteva l'uggia addosso.
— O perchè non splendeva una bella giornata di sole? Anche il tempo lo contrariava, gli faceva un dispetto, gli dimezzava la sua felicità, gli amareggiava uno dei più squisiti piaceri della sua vita di scapolo! Già, se cominciava a piovere, col rovescione che sarebbe venuto giù, lei avrebbe trovato una scusa per mancare alla promessa. Oh, non le sarebbe parso vero! Se l'era lasciata strappare a stento, dopo parecchi mesi d'insistenza, quasi per stanchezza!... La pioggia, sicuramente, sarebbe stata un bel pretesto!
E già le prime goccie battevano sui vetri, brillavano un momentino, e poi sbavavano.
Alberto, involtando nervosamente una sigaretta, masticava impropreri all'indirizzo della pioggia.
* * *
Si aggirò pel salotto a testa bassa, lentamente; prese in mano uno dei tanti volumi buttati alla rinfusa sopra un tavolino e si sdraiò su la poltrona, presso il caminetto. Il caminetto continuava a scoppiettare, a borbottare con le sue lingue di fiamma.
— Inutile! non posso leggere. Le lettere mi ballano sotto gli occhi. Son troppo arrabbiato.
E si allungava su la poltrona, abbassando le palpebre, strizzando la sigaretta fra i denti.
— Domani alle tre!...
Se lo sentiva ripetere all'orecchio da una voce affiochita dalla distanza, musicale, da un gorgheggio di usignuolo, da un'eco che sembrava gli arrivasse da una profumata regione tropicale verso cui si sentiva trasportato, come nei sogni, vertiginosamente.
— Ah quella bionda testa di donna!
Gli accendeva l'immaginazione di riflessi dorati, di rosei fulgori.
— E quegli occhi cerulei! Cerulei, limpidissimi, profondi; un'immensità di cielo! E quelle labbra! Così sanguigne da rendere smorta la bianchezza opalina della carnagione!
Quella testa di bionda maliarda gli faceva accenni civettuoli, promesse che avean l'aria di voler essere ripulse, inviti che pretendevano di parere concessioni pietose.
E il salotto gli si illuminava di un vasto incendio di sole, e il pianoforte aperto in un angolo vibrava da tutte le sue corde un fremito armonioso, senza che nessuno lo toccasse, per sola virtù della presenza di lei!...
* * *
Gran fantasticatore quell'Alberto! Glielo dicevo sempre; ma questa volta, bisogna convenirne, aveva ragione. Nei suoi panni chi non avrebbe fatto lo stesso? La signora Moroni era tale bellezza, da far girare il capo a un santo e fargli perdere il paradiso.
Girare il capo, l'ho detto a posta. In quanto a farsi amare, ecco, la signora Moroni era di quelle donne che si desiderano violentemente ma non si amano punto. Da prima, lo confesso, non ero di questo parere, non facevo distinzioni; confondevo scioccamente il violento desiderio con l'amore.
— Sbagli — mi disse Alberto una sera; — c'è una bella differenza. Il desiderio, sodisfatto, cessa, l'amore è un abbisso che non può mai colmarsi.
— Cessa anche l'amore...
— No; il vero amore si trasforma, non cessa.
* * *
— Le due!
Agli squilli argentini dell'orologio Alberto si riscosse.
— Avea dormito? Avea sognato? Avea fantasticato?
Si sentiva intorpidito. Il caminetto rosseggiava senza fiamma; la pioggia cadeva lentamente. Il cielo prendeva quel colore bianchiccio che precede il sereno. Il salottino nuotava entro una luce dolce, morbida, insinuante. Alberto se la sentiva penetrare per tutto il corpo, come il tepore di un bagno.
Non era più impaziente. Guardava l'orologio con altr'occhio; dubitava non andasse avanti:
— Possibile! Le due?
Quasi quasi gli dispiaceva che mancasse appena un'ora all'arrivo di lei.
— C'è da sentir fermare, da un momento all'altro, la sua carrozza al portone... Forse non verrà nemmeno in carrozza... La prima scampanellata all'uscio sarà la sua, certamente... Ecco, dimenticavo di lasciarlo soltanto accostato!... Lei voleva così, per non aspettare sul pianerottolo...
Ma rimaneva là, sdraiato, con la pianta dei piedi contro la brace, senza trovar la forza di levarsi; giacchè bisognava andasse egli stesso ad aprire, avendo, con un pretesto, mandato fuori di casa il servitore.
O che cosa era avvenuto dentro di lui? Ah! Di pensiero in pensiero, di ricordo in ricordo, avea perduto di vista a poco a poco l'imagine della sua bionda maliarda... L'avea lasciata per via, senz'accorgersene, come un compagno di passegiata che indugi erborizzando. Si era voltato uno o due volte, sbadatamente, senza curarsi di spettarla.... E il tradimento gliel'aveva fatto quel brontolone del caminetto.
Quattro anni fa, nello stesso mese, alla stess'ora, con una giornata egualmente piovosa, in quel medesimo posto.... Gli pareva un sogno! Povera Erminia! Singhiozzava, col volto nascosto tra le mani, riversata indietro su la spalliera della poltrona, desolatamente; e lui, pallido come un morto, con le mani giunte in atto di preghiera, la voce turbata dall'emozione, tentava di farle coraggio! Terribili momenti! Ma che fare contro quella forza brutale che spezzava, a un tratto, la loro catena di amore? Ella doveva partire col marito, senza speranza di ritorno! Quel colpo la uccideva! Già le pareva di accomiatarsi da lui dal letto di morte! Si sentiva schiacciato anche lui; sentiva mancarsi il respiro!
Povera Erminia! Egli lo vedeva ancora quel viso bruno e pallido, contornato dai folti capelli neri, pieno di profonda tristezza! La sentiva ancora quella voce soave, che sembrava scaturisse dall'intima profondità del cuore!
Come si erano amati! Come si eran sentiti fulminare, tutti e due, la prima volta che si eran visti!
E che delizia in quelle continue cure di eludere ogni sospetto, di addormentare ogni malignità, in quell'inebbriarsi della poesia del loro segreto come due giovanetti di sedici anni! E che tesori di piccole astuzie prodigate per passare insieme intiere giornate... o anche soltanto per vedersi mentre la gente li credeva distanti cento miglia l'uno dall'altra.
Divine follie! Sublimi abbandoni! Ineffabili ore di scoraggiamenti, di dubbi, di felicità spensierata! Delizie senza nome! Voluttà più dello spirito che della carne, in quella raffinatezza, in quell'elevatezza che scaturiva dal prepotente rigoglio delle loro anime innamorate!...
Al brontolìo del caminetto, al guizzo delle fiamme azzurrognole, ai bagliori di oro che montavano ondulanti in alto quasi volessero scappar via per la gola affumicata, tutto quel passato gli si risvegliava nella memoria, viveva una vita quasi più reale di quella vissuta una volta!
— Ma che! Le due e mezzo? Di già? Certamente le lancette dell'orologio a pendolo si scapricciavano a correre!
Così la bionda maliarda ritornava a inframettersi, importuna, tra lui e quei cari ricordi, con la sua aureola di biondi capelli elegantemente arruffati, la provocante serenità dei suoi occhi azzurri, le sue labbra porporine, la marmorea candidezza del collo e del seno, con tutte le seduzioni di cortigiana aristocratica che si concede e non si profonde, con quei suoi capricci di sensi e quella terribile freddezza di cuore che pareva calcolo e non era!
— Ed essa doveva occupare in quel giorno, in quell'ora, lo stesso posto della sua povera morta? Di lei che gli avea fatto provare le gioie più grandi e il più grande dolore della sua vita?... Ora che rimormoravano pel salotto quegli addii dolorosi, pur troppo gli ultimi?... Ora che gli si rinnovavano dentro l'orecchio quei singhiozzi soffocati dai baci più strazianti che mai scoccasse bocca di donna?.... No! No!
Quell'inatteso rifiorire di un affetto da lui creduto già inaridito; quei ricordi di sensazioni che diventavano in quel momento sensazioni immediate, lo sbalordivano, gli davano la tortura di un rimorso, gli producevano un improvviso disgusto.
Una gentile tenerezza gli si affollava al cuore da ogni parte del corpo; le pupille gli nuotavano in qualche cosa che aveva la soavità delle lagrime; i suoi nervi erano sopraffatti da una lassezza deliziosa, ch'egli si rimproverava fiaccamente:
— Debolezza di fanciullo!
Intanto l'assaporava con gusto, come un frutto conservato fuori stagione...
* * *
Una scampanellata arditissima, nervosissima, lo fece balzare in piedi.
— Era lei! La desiderata da tanto tempo! Lei, il fascino irresistibile della carne, per cui gli eran divampati nel sangue ardori così divoranti da farlo soffrire come se gli fossero corsi dei carboni accesi per le vene!...
Il campanello tornò a squillare, più nervoso.
Senza coscienza di quel che facesse, tremante dall'emozione, in punta di piedi, Alberto era arrivato fino all'uscio; ma nello stendere la mano al paletto:
— Vile! — sentì gridarsi dal profondo del cuore.
E il suo braccio si arrestò quasi paralizzato, mentre il petto gli ansava forte, e le gambe gli si piegavano al fruscìo di quella veste e al lieve rumore di quei tacchi che si allontanavano per la scala.
* * *
Verso le undici, Alberto entrava nel salotto della signora Moroni.
Il Palloni andatogli incontro, lo aveva tratto in disparte:
— Briccone! Ho un tuo segreto in mano; ma non temere, sarò discreto.
E siccome Alberto lo guardava negli occhi:
— C'incontrammo per le scale — gli sussurrò all'orecchio — ma feci le viste di non riconoscerla. Io andavo dai Cerri al primo piano.
Alberto gli rispose con un'alzata di spalle.
La signora Moroni era splendidissima. Egli la guardava affascinato:
— Com'era stato sciocco quella mattina! Oh, ma un'altra volta non avrebbe fatto l'imbecille!...
E cercava una scusa, quando la Moroni gli accennò di accostarsi.
— Come si chiama quel rimedio contro il mal di capo che voi vantate tanto? Voglio sperimentarlo. Che giornataccia! Credevo di ammattire!... Ne ho avuto per sette ore!... Quel rimedio è proprio efficace? Il dottore dice di no. Ma io voglio provarlo di nascosto del dottore... Chi sa? Potrà giovarmi davvero! Si chiama?...
— Guarana — rispose Alberto, inchinandosi dopo averla guardata negli occhi.
— Che bel giovane! — disse la signora Uzelli alla Moroni, mentre Alberto si allontanava.
— Imbecille, come tutti i bei giovani! — replicò questa seccamente.
* * *
Al tocco dopo la mezzanotte Alberto era ancora al Club disteso sul canapè, con le gambe allungate, le braccia incrociate su lo stomaco e la testa abbandonata su la spalliera.
— Un poema, caro amico! — gli diceva sotto voce il Gardini. — Un vero poema! È arrivata in casa mia alle tre e mezzo, inaspettata come un'apparizione...
Il Gardini parlava da una mezz'ora, profondendosi in esclamazioni, perdendosi in un lirismo di frasi e di gesti da far comprendere, povero diavolo! che aveva bisogno di uno sfogo perchè la sua felicità non lo uccidesse...
Ma Alberto si era quasi sùbito inabissato di una rêverie così profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico.
Milano, 15 Dicembre 1877.
L'IDEALE DI PÌULA
L'amico Pìula andava giù rapidamente in modo incredibile.
Ogni settimana gli lasciava grandi guasti sul viso, nell'andatura, nelle maniere, nella voce, dappertutto. Il colore della sua carnagione diventava terroso; alla coda dell'occhio gli si aggruppava un fascio di piccole rughe che si apriva a ventaglio verso le tempie e non conferiva ad abbellirlo. Altre rughe invadevano il collo, la fronte, le guance e gli davano l'aria d'un pezzo di cartapecora aggrinzita, nel quale fossero stati ritagliati due buchi paralleli: gli occhi. Ma tutto questo non avrebbe fatto grande impressione senza quell'andatura stracca, curvata con cui egli si trascinava da un luogo all'altro, senza quella sciatteria degli abiti, senza quel lamentevole suono della voce che pareva uscisse dalle cieche profondità dello stomaco, stavo per dire dalla pianta dei piedi, anzi da sotterra.
— Ma che cosa hai?
— Oh, nulla!
— Eppure....
— Ah!
Quell' ah! lo sapevo a memoria. Significava il vuoto desolante del suo cuore, il gran desiderio della famiglia che lo tormentava da tanti anni, il suo ideale della vita che gli sfuggiva appena allungava la mano per afferrarlo.
Per questo si era buscato il nomignolo di Pìula, che nel dialetto siciliano significa strige. Era un sospiro, un lamento, un singhiozzo, qualcosa di così triste, di così malauguroso, come il canto della strige, che faceva proprio male a sentirlo.
Pìula aveva trent'anni, ma gli se ne potevano dare addirittura cinquanta. Occorreva la fede di nascita, col visto del Sindaco e con tanto di bollo, per non credersi corbellati. Era andato giù in poco tempo, dopo parecchi disinganni: l'ideale lo consumava. La natura lo aveva impastato male. Una sensitiva, un poeta! Non già che egli avesse la debolezza di scriver dei versi, nemmeno per sogno; i suoi studi, fortunatamente, non gli permettevano di poter distinguere un endecasillabo da un settenario. La poesia l'avea tutta dentro, nelle sue viscere di sensitiva.
Bisognava sentirlo ragionare della donna dei suoi sogni! Venivano le lacrime agli occhi. Una lirica di tenerezza, un idillio, un cantico di adorazioni e di mistici rapimenti....! Ma quel sogno tardava troppo a trasformarsi in realtà.
Nel marzo d'ogni anno, Pìula sentiva l'assillo della Primavera vicina e rifioriva, come la terra; diventava allegro, spigliato. La sua folta capigliatura castagna provava più assidue le carezze del pettine e dell'olio coll'essenza di spigo, il profumo da lui preferito. I bianchi e lucidi petti delle camicie si avvicendavano frequenti tra lo sparato del corpetto. I colletti si contornavano d'una cravattina nera, vero nastrino di seta, accuratamente annodata. Il ferraiuolo di panno verde-bottiglia, dal collare un po' unto, cedeva il posto al soprabito nuovo color cioccolata; e le sue mani stupivano di sentirsi, le domeniche, imprigionate dentro guanti di pelle ch'esse dovevano certamente riconoscere; contavano più primavere, ma sembravano nuovi.
Erano i segni rivelatori dell'interno risveglio dell'Ideale.
In marzo Pìula ricominciava, da qualche anno in qua, la sua caccia alla moglie, farfalla indiavolata che non si lasciava acchiappare; e allora, nelle belle giornate, egli veniva da me, a invitarmi a una sentimentale passeggiata pei campi. Sintomo infallibile! Aveva qualcosa da confidarmi.
— Ci siamo?
— Eh! Eh!
— Via, non far misteri....
— Niente di serio! Dei progetti soltanto... Ma quest'anno voglio uscirne: o uguanno o mai più! L'ho giurato sul crocifisso.
— Bella?
— Simpatica; e poi, buona! È l'essenziale.
— Bravo. La conosco?
— Può darsi.... Ma, te lo ripeto, ancora niente di serio. Non ne parliamo, sarà meglio. Saprai tutto a cose finite.
Intanto mi accorgevo che l'amico ciliegia si struggeva di sgravarsi del suo segreto e lo tormentavo cambiando discorso. Pochi minuti dopo, con quella sua finta aria sbadata, mi aveva riportato al soggetto.
— Sono stanco di questa vitaccia di celibe; non ne posso più! Questa mattina ho dovuto attaccarmi da me due bottoncini della camicia... Cosa insoffribile! E mi son punto un dito tre volte!... La mamma, povera vecchia, si trovava alla messa; la serva badava in cucina, e... e con quelle manacce!... Insomma voglio uscirne; non ne posso più! Ho posto il dilemma a mio fratello: o lui, o io! A questo modo non si va avanti. Nino rifiuta. Dunque tocca a me di sacrificarmi sull'altare della famiglia. E son pronto!
— Anche l'anno scorso.....
— Oggi è un'altra cosa: affare finito. Con te parlo a cuore aperto: affare finito!
— Me ne congratulo, sinceramente.
— Grazie. Ho bisogno di conforti. La moglie è una terribile responsabilità! Mi tremano le spalle nel rifletterci.
— Non bisogna rifletterci.
— Poi càpita addosso una tempesta di figliuoli.....
— Orrore! Le gioie della paternità le chiami una tempesta....?
— Sì sì, gioie, non dico di no. Ma se ci rifletto su un pochino.....
— Non bisogna rifletterci!
— Hai ragione. Però.... Questa mattina era andato in casa del notaio. Che seccatura! Nel matrimonio non dovrebbero entrarci questioni d'interessi; mi ripugnano. Infine, il mondo è fatto così, e bisogna prenderlo come è. Dunque, era andato in casa del notaio. Avessi visto! Pareva l'anticamera dell'inferno, con sette diavoli di bimbi che urlavano, pestavano i piedi, strascinavano sedie, strillavano per la colazione, sudici, mocciosi, spettinati!.... Il notaio bestemmiava come un turco per farli star cheti. Eh, sì! E quelli, per risposta, urlavano più forte! Andai via col capo come un cestone, senza aver capito nulla dell'affare, convinto che di figliuoli non bisognerebbe farne più di due... Forse, ce ne sarebbe anche uno di troppo!
— Malthusiano! Mi scandalizzi!
— Oh! dico per dire. Io credo nella Provvidenza... Ma, infine, se il Signore si benignasse di non accordarmene più di due..... non me ne lagnerei.
— Già pensi ai figliuoli?
— Se è un affare finito! Mancano alcune piccole formalità. A me piacciono i conti spicci; non voglio aver noie coi parenti per questioni d'interessi. Sono un uomo di abitudini tranquille...
— Devo dirtelo? Sei troppo sottile, troppo meticoloso....
— Ma non si tratta di un affare; bensì di un matrimonio d'inclinazione.... quell'antica idea..... capisci?
— Ah!.... Capisco, briccone!
E Pìula mi diè una spallata, fregandosi le mani, sorridente, contento come una Pasqua. E filò una buona mezz'ora della sua solita lirica, del suo solito idillio, del suo solito Cantico dei Cantici. Era diventato un giovane di vent'anni.
Si arrabbiava di non vedermi convinto come lui! Quella volta le sue cose andavano bene; il così detto affare finito era davvero un affare finito!
Però il maggio e il giugno passarono in trattative, in un viavai dell'avvocato, del notaio, di amici intermediari che non finiva più.
— Insomma?....
— Si va avanti.... Una piccola difficoltà: il nonno si ostina a non voler fare una permuta da nulla. Capisci? A me preme di aver la dote raccolta tutta in un punto. Dovrei confondermi con un pezzettino di terra qua, un altro là? Se non ci potesse trovar rimedio, non fiaterei. Ma il rimedio c'è: la permuta con la vigna di Licciardo. Il nonno tiene duro per farmi dispetto; forse, ha un altro partito per la testa.... Ma la ragazza gli ha spifferato un no più tondo di così!
— Vuoi un consiglio? Lascia andare la vigna: ne parlerai dopo.
— No, è una mera picca, ho ragione io...
Ma ecco che nel luglio e nell'agosto Pìula ridivenne scuro scuro.
I capelli non mostravano più l'assiduità delle carezze del pettine e dell'olio coll'essenza di spigo. I petti delle camicie rimanevano in mostra fra lo sparato del corpetto quantunque fossero evidentemente un po' troppo sgualciti. La cravattina nera, stretta come un nastrino di seta, era stata sostituita da certe cravattacce a nodo scorsoio che mostravano i denti. Il viso gli si era disfatto in un paio di settimane come una pera mezza. E viveva appartato, evitando anche gli amici. Ai primi freddi dell'autunno aveva già ripreso il ferraiuolo di panno verde-bottiglia col collare un po' unto e, al solito, gemeva quei suoi ah! da vera Pìula, peggio di prima.
— Te lo diceva io?
— Oh, non me ne parlare! Chi poteva prevederlo? Volevano farmi passare per grullo; volevano abusare della mia passione per la ragazza..... Capisci bene che....
— Capisco benissimo!
— E poi, sai che c'è? Son contento di non esserci cascato. La ragazza... mettiamola da parte; un angelo di bontà. Non bella, se vogliamo, ma un angelo, una perfetta donna di casa, massaia, prudente... quel che ci vorrebbe per me; e se si fosse trattato soltanto di lei!.... Ma la parentela!.....
— Non è poi il diavolo!
— No, ma noiosa, permalosa, esigente, piena di pretese, con tanti fumi in testa pei suoi quarti di nobiltà, che più non valgono un fico secco. Non si vive di quarti, disgraziatamente! I quarti io li capisco accompagnati da centinaia di migliaia di lire; se no, fanno ridere.
— Però la dote della Paolina......
— Ne convengo, è discreta, sebbene un po' sparpagliata..... Ma col nostro brutto costume che lo sposo deve regalare i vestiti di nozze alla sposa e tutto il resto che vien dietro... Vuoi fare un po' i conti?
— Lasciamo stare.
— Mezza dote se ne va in fumo prima di averla tra le mani. E già avevo sentito sussurrare di un certo abito di velluto nero... Si esigeva un abito di velluto nero di seta!.... O che sposavo una principessa?
— Ah! ah!
— A questi lumi di luna! Con l'esattore sul collo che non ci lascia respirare!
— Ah! ah! ah!
— Ridi? Ah! ah! ah! Rido anche io e mi frego le mani! No, quel matrimonio non era proprio il mio ideale!
Non era il suo ideale.
Da quattro o cinque anni, ad ogni trattativa andata a monte, Pìula conchiudeva sempre:
— Non era il mio Ideale!
Avrei dato un occhio del capo per sapere precisamente quale fosse quel benedetto Ideale!
Povero Pìula! Mi faceva pietà. Questa volta era andato giù davvero; pareva invecchiato di cento anni. Io intanto avevo la fanciullesca crudeltà di canzonarlo:
— Ti ricordi di Ramsete III?
Pìula mi guardò in viso, con tanto di occhi.
— Di quel re d'Egitto, tuo contemporaneo? N'è stata scoperta la mummia il mese scorso.
Pìula scrollò il capo:
— Mummia! Mummia! Ma io mi sento più giovane di te; ho la giovinezza del cuore. Mummia sei tu che non credi più a nulla, nè sei capace di provare nessuna gentile illusione!...
— Idee egiziane, del tempo della ventesima dinastìa!
— Te lo proverò che son giovane ancora...
— Se dovrò aspettar questa prova!
Nel marzo dell'anno scorso Pìula, al solito era ringiovanito; relativamente, ma ringiovanito. E una domenica me lo vidi venire davanti raso di fresco, col soprabito color cioccolatte, coi guanti nuovi.... di tre anni fa, con gli stivaletti di pelle lustra; un zerbinotto! Fumava un virginia, prodigalità sorprendente; portava all'occhiello un garofano brizzolato bianco e rosso, vera insegna da innamorato. Stentai a riconoscerlo quando, fermatosi a pochi passi da me, si mise a guardarmi con gli occhietti strizzati e un ironico sorrisino su le labbra.
— Non me la dài a intendere — gli dissi.
— Ti ho fatto segnare per testimone — rispose.
— Testimone di che?
— Del mio.... contratto di nozze.
— Ooh! Ooh!
— Risparmia gli ooh! Fammi il piacere!
— Ed è già steso?
— Sissignore, in tanti bei fogli di carta bollata.
— Tu sei prudente; non sei capace di metterti al repentaglio di sprecar quella spesa: ma finchè non avrò inteso dal Sindaco le sacramentali parole...
Si trattava della figlia del Vescovo, il primo medico del paese: (non si è mai potuto sapere perchè lo chiamassero così). La Carmelina, figlia unica, aveva già passato da qualche tempo i vent'anni. Magra, lunga, moretta, con certi occhi sgranati.
— Non è un buon partito?
— Ottimo. Ma gl'interessi?
— Già belli e regolati. Soltanto...
— Ahi! Ahi!
— Soltanto...
E non era passata una settimana che Pìula declamava contro la società moderna, come un quaresimalista:
— Non c'è più sentimento nei cuori di oggi, ma liste di cifre!... Il matrimonio? Speculazione, affare! Le ragazze vanno in cerca di un grullo da fargli le spese, i babbi non pensano che sbarazzarsi delle figliole, con appena la camicia indosso!... Un galantuomo dee rinunciare alle dolcezze della famiglia, se non vuol morir disperato, di pura fame!... Il mondo va a rotoli! Solo i contadini possono prender moglie; vivono di nulla! Ma i proprietari? Tutti condannati al celibato forzoso! Una moglie per essi diventa un tracollo!
Povero Pìula! Anche la Carmelina era andata in fumo.
— Ma insomma — gli dissi — vorresti sposare soltanto la dote?
— Se si potesse! — rispose alzando gli occhi al cielo. — Sarebbe l'Ideale!...
Milano, gennaio 1879
UN CASO DI SONNAMBULISMO
Tra i tanti casi di sonnambulismo dei quali la scienza medica ha fatto tesoro, questo del signor Dionigi Van-Spengel è certamente uno dei più maravigliosi e dei più rari. Compendierò l'interessante memoria pubblicata recentemente dal dottor Croissart; spesso, per far meglio, adoprerò le stesse parole dell'illustre scrittore[2].
I.
Il signor Dionigi Van-Spengel ha cinquantatrè anni. È una figura secca, lunga, eminentemente nervosa, notevolissima sopra tutto pel naso e pel modo di guardare; vista una volta non si dimentica più. Il ritratto, disegnato da Levys, messo in testa al volume, è di rassomiglianza perfetta. La sua fronte, poco ampia ma molto elevata, è coperta di rughe che si alzano e si abbassano con continuo movimento come il mantice di un organino. Dietro di esse mulina un cervello che ignora il riposo. Il signor Van-Spengel si trova da venti anni alla Direzione Generale della polizia del Belgio, e ha preso sul serio il suo posto. In parecchie circostanze ha dimostrato di non essere stato per nulla l'allievo prediletto del Vidocq.
La sua pupilla, un po' neutralizzata da un par di occhiali da presbite, ha un'espressione affascinante; non guarda, ma penetra. L'uomo più onesto del mondo tenterebbe invano di sopportarla pochi minuti senza imbarazzo.
«La prima volta che conobbi il signor Van-Spengel, dice il dottor Groissart, fu per cagione di una sua malattia. Da sei mesi era travagliato da insonnia fastidiosissima: i medici di Brusselle e di Parigi non sapevano da che parte rifarsi contro un male così ribelle ad ogni energico trattamento. Giunto allora dalla provincia, una cura fortunata mi avea messo sùbito in mostra. Egli venne a trovarmi. L'impressione di quella visita non mi uscirà più di mente.
«Ragionando del suo male, il signor Van-Spengel mi guardava in viso con quell'aria scrutatrice tutta propria, che un po' gli veniva dalle abitudini del mestiere, ma che in gran parte mi parve dovesse attribuirsi al suo naso lungo, acuminato, un tantino storto e rivolto in su, un naso stranissimo.
«Dopo pochi minuti, non fui più buono di prestare attenzione a quello ch'egli diceva. Mi sentivo attaccato nel santuario della mia coscienza e badavo a difendermi. Non son facile a subire illusioni di sorta alcuna; ma la fisonomia di quell'uomo mi inspirava in quel punto un indefinibile senso di paura. Giunsi fino a fantasticare che egli adoperasse quel naso, pel morale, come lo spiego delle guardie daziarie alle porte della città; infatti esso ricercava tutte le fibre e si ficcava più oltre.
«Quando il signor Van-Spengel tacque, non ebbi alcun dubbio ch'egli non conoscesse il mio cuore quanto e, forse, più di me. Credetti anzi di sorprendergli su le labbra un sorrisino di trionfo. Fui, mio malgrado, costretto a chiedergli scusa e a pregarlo umilmente di ricominciare da capo.
«O indovinasse il motivo del mio turbamento, o rimanesse mortificato della mia disattenzione, il signor Van-Spengel fissò allora gli sguardi sul piccolo tappeto steso sotto i suoi piedi e non li distolse di là prima di aver terminato la seconda narrazione delle sue sofferenze (pag. 6).
Il signor Van-Spengel è celibe. Non ha parenti. Vive con una vecchia che lo serve da trent'anni, ed abita un quartierino nello stesso ufficio della Direzione Generale di Polizia. Di abitudini regolarissime, passa leggendo le poche ore disoccupate che il suo posto gli consente. Mangia poco e, cosa più notevole, non beve vino.
È certissimo che la sera del 1 marzo 1872 il signor Van-Spengel rientrò nelle sue stanze più presto del solito. Era di buon umore e cenò con appetito. Si mise a letto alle undici e mezzo di sera; poco dopo la serva lo sentì russare fortemente. Alle otto e tre quarti del mattino (2 marzo) era desto. Il campanello avvertiva la Trosse che il suo padrone attendeva il caffè.
La Trosse assicura che l'aspetto del signor Van-Spengel era, quella mattina, preciso come il consueto, anzi un po' più sereno.
Nulla facea presagire la trista catastrofe della giornata.
— Il padrone — raccontò poi la vecchia — sorbì il caffè a centellini, esclamando ad ogni corso: stupendo! eccellente! Indi accese la sua pipa. — Sapete? mi disse; temo di aver dormito nove ore tutte di un fiato! — E diè in uno scoppio di risa. Io tentennai il capo, ma non volli contraddirlo.
All'una dopo la mezzanotte, la Trosse lo aveva sentito passeggiare per la stanza e muover qualche seggiola. Supponendo ch'egli si sentisse male, si era levata e, pian pianino, aveva aperto l'uscio a fessura. Il suo padrone, seduto a un tavolino, avvolto nella veste da camera, col berretto da notte, scriveva.
Alle nove e mezzo il signor Van-Spengel, terminato di fumare la pipa, si era levato.
Si vestì, secondo la sua abitudine, in fretta e in furia; si fece aiutare dalla serva a infilare il soprabito, e si accostò al tavolino per prendervi gli occhiali. La serva teneva in mano il cappello e la mazza.
— Che storia è questa! — aveva esclamato ad un tratto.
Era maravigliato di trovar alcune carte sul tavolino.
Prèsele in mano e lette le poche righe della prima pagina, il signor Van-Spengel si era fregato più volte gli occhi, avea guardato attorno, in alto e in basso, per la stanza; poi era tornato a sfogliare lentamente tutto il quaderno, osservandone con viva attenzione e con crescente sorpresa la scrittura fina e compatta.
— Chi ha recato queste carte? — disse bruscamente alla serva.
— Ma, signore!....
La Trosse sorrideva; credeva che il suo padrone celiasse.
— Infine, parlate! Chi ha recato queste carte? Non me ne avete detto nulla.
— Non so — rispose la serva vedendo la serietà del suo padrone. — Qui non c'è stato nessuno.
— Se è un scherzo — borbottò il signor Van-Spengel tra i denti — bisogna confessare che è ben riuscito.
Sedette su la poltrona più vicina, accennò alla serva di lasciarlo solo e si pose a leggere ad alta voce: Rapporto al signor Procuratore del Re sull'assassinio commesso la sera del 1 marzo nella casa N. 157 Via Roi Lèopold in Bruselle.
E qui si fermò per osservare il calendario americano che pendeva dalla parete.
Il calendario segnava 2 Marzo. Il signor Van-Spengel aveva strappato pochi momenti prima il fogliettino del giorno avanti.
— O il diavolo se ne mescola, o io ammattisco — riprese a borbottare. — Questa scrittura è mia! Non c'è che dire; è mia!
E picchiava col dorso della mano sul quaderno deposto su le ginocchia.
— Eppure non l'ho fatto io, no davvero!
— Se il padrone mi permette... — disse la Trosse aprendo timidamente l'uscio.
— Permettere che? — rispose il signor Van-Spengel stizzito.
— Vorrei rammentarle che questa notte m'sieu ha scritto dall'una alle quattro, e.....
— Siete matta!
— Scusi; m'sieu deve ricordarselo. Io mi son levata due volte credendo che si sentisse male; e tutte due le volte l'ho veduto a quel tavolino, occupatissimo a scrivere. M'sieu vi ha poi dormito sopra, ed è forse per questo.....
— Dev'essere così! — esclamò il signor Van-Spengel dopo un momento di riflessione. — È strano ma dev'essere così. Sapete? In gioventù sono stato sonnambulo.
— Ah, mio Dio! — fece la serva. — Vuol dire che la notte lei andava per le stanze....
— Sì, mamma Trosse, qualcosa di simile. Parlavo, facevo ogni cosa proprio come quand'ero sveglio; nè più, nè meno. A vent'anni però ebbi una gran malattia (fui sull'undici once di andarmene) e quel sonnambulismo cessò. Che voglia ricominciare? Cospetto! Sarebbe una gran seccatura! Ma sicuro — continuò dopo qualche intervallo — sicuro che ho scritto dormendo! Ne parlerò sùbito al dottore. Andate, serrate quell'uscio.
Il signor Van-Spengel riprese in mano il quaderno, e svoltata la prima pagina, lesse:
«Signore,
«Questa mattina (2 marzo) alle ore 11 ant...
Si fermò nuovamente, per cavar di tasca l'orologio.
— Curiosa! Manca poco alle dieci e mezzo! Cose fatte dormendo!...
Ecco intanto ciò che il signor Van-Spengel lesse tutto di un fiato. Lo trascrivo dall' Appendice A posta in fondo al volume.
«Signore,
«Questa mattina (2 Marzo) alle ore 11 antimeridiane, recandomi dal mio ufficio al Ministero dell'interno per ricevervi le istruzioni e gli ordini di S. E. il Ministro, allo sboccare della via Grisolles nella via Roi Lèopold, vidi una gran folla radunata, davanti a la casa segnata col N. 157, accanto al palazzo del signor visconte De-Moulmenant. Dubitando di un assembramento di sediziosi contro il pastaio che ha la bottega là presso al N. 161, mi affrettai ad accorrere dopo aver chiamato le due guardie Lerouge e Poisson che si trovavano di fazione a capo della vicina via Bissot. Si trattava di ben altro. Il cocchiere, il cuoco, due camerieri della signora marchesa di Rostentein-Gourny stavano davanti al portone della casa a due piani, proprietà di detta signora marchesa, picchiando, ripicchiando da un'ora e mezzo e non erano riusciti a farsi sentire nè dal portinaio, nè dalla cameriera rimasta in casa, nè dalla marchesa, nè dalla marchesina.
«Quelle persone di servizio affermavano aver ricevuto dalla marchesa il permesso di assistere alle nozze della figlia del cuoco; erano perciò rimaste fuori di casa tutta la nottata.
«Si cominciava a sospettare di qualche grave accidente.
«Il cocchiere, scalato il terrazzino di mezzo a cavaliere del portone, aveva tentato di farsi sentire, picchiando su le persiane con tale violenza da rompere alcune stecche; ma senza frutto. Pareva che in quella casa non ci fosse mai stata anima viva.
«Dimenticavo di dire che il sergente Jean-Roche, con altre sei guardie, mi avea precesso sul luogo, ed aveva già mandato uno dei suoi uomini dal giudice del Circondario per aprire il portone con le forme richieste dalla Legge. Il giudice arrivò da lì a pochi minuti, insieme col Cancelliere.
«Si cercò un magnano, e dovemmo stentare un pezzetto prima che le serrature interne fossero messe allo scoperto e sforzate.
«Assegnate sei guardie per contenere la folla e scelti due testimoni, entrammo insieme con questi domestici, chiudendo il portone dietro a noi. I domestici dovevano servirci di guida e dar gli schiarimenti opportuni.
«Fatti pochi passi, ecco sul primo pianerottolo della scala un'orribile scena. Il portinaio giaceva là quant'era lungo, con la testa appoggiata a un gradino; nuotava nel sangue. Le sue mani erano squarciate da tagli in direzioni diverse. Aveva due ferite alle regioni del cuore, tre in fondo all'addome.
«A quella vista la Luison, una delle cameriere, svenne e fu presa da convulsioni violente. Nichette invece si slanciò su per le scale urlando, piangendo e chiamando a nome la sua padroncina. Gli uomini, allibiti, non pronunziavano sillaba.
«La guardia Maresque fu tosto spedita per un dottore.
«Eravamo appena a mezza scala, quando Nichette, affacciatasi dall'alto della ringhiera, urlava:
«Assassinate! Assassinate!
«La casa pareva presa d'assalto. Oggetti di biancheria alla rinfusa per terra; cassette, cassettoni, armadi, tutti scassinati e messi sossopra. I divani e le poltrone del salone di ricevimento spostati, o buttati a gambe all'aria. Presso il pianoforte, sopra una duchesse, il cadavere della marchesina di Rostentein-Gourny.
«Colpita da una sola stilettata al cuore, era rimasta là, con le mani aggrappate ai capelli, col capo rovesciato indietro sulla spalliera. Una piccola riga di sangue le macchiava la veste.
«Gli usci che dal salone introducevano nella stanza da letto della marchesa erano tutti spalancati. In fondo, per terra, si vedeva una forma di persona avvoltolata tra coperte. Era il cadavere della signora Marchesa. Due guardie lo distrigarono a stento. Parecchie lividure al collo indicavano ch'era stata prima strangolata, poi raggomitolata a quel modo.
«La cameriera giaceva assassinata sul proprio letto nella camera accanto.
«Il dottor Marol arrivato in quel punto, dopo attente osservazioni, constatò che le quattro vittime dovevano esser morte da otto ore, poco più, poco meno. L'atroce misfatto era stato dunque consumato dalle due alle tre dopo la mezzanotte. Evidentemente i malfattori non erano andati là con lo scopo di assassinare. Ma non si penetra di soppiatto in una casa abitata da persone che, non foss'altro, possono urlare al soccorso, senza che l'assassinio sia anticipatamente calcolato.
«Dalla vista dei luoghi non era difficile immaginare quel ch'era accaduto.
«Il portinaio, levatosi per rendersi ragione di qualche insoluto rumore, dovette essere aggredito all'uscire della sua cameretta. Grosso, robusto, coraggioso, si liberò dalle strette degli assalitori e tentò di chiamar gente. Egli lottò con qualcuno dei malfattori (le tracce della lotta sono evidenti) ma gli altri lo finirono a coltellate.
«Penetrati nelle stanze superiori, alcuni eran corsi nella camera della Marchesa, introducendosi probabilmente dalla parte di destra, altri nella camera della cameriera. La Marchesa, sveglia, deve aver avuto appena il tempo di alzare il capo e di aprire gli occhi, ch'era già ridotta in istato da non poter più gridare.
«Forse nello stesso tempo veniva uccisa la cameriera. Giacchè la marchesina ancora alzata, avvertita certamente dallo insolito movimento nella stanza vicina, suonò parecchie volte il campanello, fino a strappare il cordone. Vedendo entrare qualcuno degli assassini, la Marchesina era scappata via, inseguita di stanza in stanza, rovesciando tutto quel che le capitava innanzi, sedie tavolini, poltrone. Ma nel salone, trovatasi circondata da parecchi di quei visacci, si era abbandonata su la poltrona e vi era stata uccisa di un colpo.
«Le induzioni erano queste; ci trovavamo tutti d'accordo.
«Dopo lunga e minuziosa ispezione, potemmo avverare che l'argenteria, le gioie, i valori erano stati violentemente involati con arditezza senza pari.
«Da che parte e con che mezzi gli assassini eran penetrati in quella casa?
«Ecco una difficile ricerca.
«Il portone, solidissimo, sbarrato da spranghe interne e chiuso da un magnifico ordegno inglese di struttura assai complicata, non mostrava guasti di sorta alcuna. Nelle imposte, ermeticamente chiuse all'interno ed all'esterno, nessuna traccia di violenza. Il cancello di ferro fuso che chiudeva l'entrata del giardino aveva la sua serratura a posto. Le mura delle cantine erano intatte. Il piccolo portone in fondo alle cantine, che rispondono nel vicolo Mignon, era chiuso con tanto di spranga. I tetti, le soffitte in perfettissimo stato. Insomma ci trovavamo in faccia ad uno di quei difficili problemi che l'inesauribile astuzia dei malfattori presenta, come una sfida, alla polizia.
«Appoggiato al davanzale di una delle finestre che guardavano nella via Roi Lèopold, io riflettevo da un pezzo, quando tutto ad un tratto.....
— Hem? — fece il signor Van-Spengel, interrompendo la lettura.
E appuntò una terribile interrogazione sul viso della Trosse che si disegnava nel vano dell'uscio tenendo tra le dita un biglietto di visita.
— Ah, l'amico Goulard! — esclamò il signor Van-Spengel. — Stavo per piantarlo. Diavolo! Le dieci e tre quarti? Leggerò il resto più tardi. Mamma Trosse — poi soggiunse con un comico atteggiamento, mettendo in tasca il manoscritto — siamo sul punto di diventar scrittori, romanzieri, come il vostro Ponson du Terrail. Che ne dite?
— Tanto meglio! — rispose la Trosse, senza capire.
— E i nostri romanzi li scriveremo senza fatica, a occhi chiusi, dormendo!
— Tanto meglio!
Il signor Van-Spengel si lasciò spazzolare da capo a piedi, aggiustò tranquillamente gli occhiali che gli si erano abbassati fino alla punta del naso, mise in testa la tuba, prese in mano la mazza e disse alla serva che andava a far colazione dal suo amico Goulard. Il Goulard intanto aspettò fino al tocco, ma invano. Il signor Van-Spengel non si fece vivo in tutta la giornata.
Giudichi il lettore se sarebbe stato possibile indovinare, anche dalla lontana, quel che gli era accaduto.
II.
Il signor Van-Spengel senza nemmeno entrare nelle stanze dell'Ufficio, scese in fretta le scale e attraversato il vicolo dei Roulets, era riuscito a metà della via Grisolles.
Il conte de Remcy, maggiore dei granatieri, che lo incontrò poco più in là del Cafè de Paris e lo fermò alcuni minuti, ribadisce anche lui il racconto della serva intorno alla perfetta tranquillità d'animo del suo amico.
Il signor Van-Spengel era (e come no?) vivamente impressionato dal caso di quello scritto. Fra le poche parole scambiate col De Remcy ci furono anche queste:
« Van-Spengel. Credete voi all'assurdo?
« De Remcy. Anzi!
« Van-Spengel. Ebbene questa sera vi dirò una cosa che vi farà strabiliare.
« De Remcy. Perchè non ora?
« Van-Spengel. Ho fretta.
Il dottor Groissart riferisce altre quattro testimonianze di persone che fermarono il Van-Spengel lungo la via Grisolles; sono dello stesso tenore.
Dalla chiesetta Saint-Michel fino allo sbocco della via Grisolles nella via Roi Lèopold il signor Van-Spengel fu accompagnato dal signor Lebournant, sarto, che tornava a raccomandargli un suo affare. Fu questi che notò pel primo un istantaneo e profondo sconvolgimento sul volto del Direttore in capo della Polizia.
— Ah, mio Dio! Ah, mio Dio! — avea esclamato il signor Van-Spengel.
Sboccando dalla via Grisolles nella via Roi Lèopold, aveva visto una gran calca di gente presso il palazzo del visconte De-Moulmenant, precisamente innanzi al portone della marchesa De Rostentein-Gourny.
«Però, riferisce il signor Lebournant, quel turbamento gli durò poco. Io lo guardavo con sorpresa. Non era mica naturale che un uomo della sua fatta si turbasse per l'assembramento di un centinaio di persone. Sospettai che ci fosse per aria qualcosa di grave. La prima idea che mi si affacciò fu quella di andar a chiudere il mio negozio. Intravvidi le barricate.
« — Permettete — mi disse torcendo a destra per la via Bissot.
«Lo tenni d'occhio.
«Ritornò poco dopo con due poliziotti e insieme con essi s'indirizzò verso la folla.
«Mi mescolai tra i curiosi. Tutti si fermavano domandando di che si trattasse. (pag. 70).
Riconosciuto il Direttore in capo della Polizia, la folla si aperse per lasciarlo passare.
Una scala era appoggiata al terrazzino centrale del palazzotto Rostentein-Gourny; e quando il signor Van-Spengel giungeva davanti al portone, la persona che discendeva diceva ad alta voce:
— Hanno il sonno duro.
Il signor Van-Spengel impallidì. Il riscontro del suo scritto con la realtà era così evidente che anche una testa più solida della sua ne sarebbe stata sconvolta. Bisogna dire che il suo organismo fosse proprio d'acciaio, se potè far violenza a se stesso e padroneggiare fino all'ultimo la sua crescente emozione.
Lascio la parola al dottor Groissart.
«È difficile, egli scrive, indovinar con precisione ciò che accadeva nell'animo del signor Van-Spengel alla terribile conferma data dai fatti alla sua visione di sonnambulo. Il giudice signor Lamère, appena arrivato sul luogo, notò che l'aspetto del Direttore era nervoso. Guardava attorno un pò stralunato; pacchiava con le labbra asciutte, impaziente. Era di un pallore mortale, quasi cenerognolo; respirava affannato. Il signor Lamère gli rivolse più volte la parola senza spillarne altra risposta che uno o due monosillabi.
«Entrarono.
«Alla vista del cadavere del Portinaio, il signor Van-Spengel lasciò sfuggire un oh! prolungatissimo, e si passò più volte la mano su la fronte. Nel salire le scale sudava. Cavò fuori ripetutamente il fazzoletto per asciugarsi le mani e il viso. Nel salone di ricevimento si fermò immobile, davanti al cadavere della marchesina Rostentein-Gourny, tenendosi la testa con tutte e due le mani.
«Il signor Lamère si affrettò a domandargli:
« — Si sente male?
« — Un pochino — rispose.
«E andò verso la finestra che dava sulla via Roi Léopold.
«Quando il giudice lo invitò ad assistere alla perquisizione, il signor Van-Spengel rispose secco secco:
« — Fate.
«E rimase assorto nei suoi pensieri, a capo chino, con le mani chiuse l'una nell'altra, appoggiate al mento ed alle labbra, e le spalle rivolte alla via. (pag. 130).
Il dottor Marol lo trovò in questa posizione. Ma poco dopo, quand'ebbe terminato l'esame della ferita della Marchesina, vide che il signor Van-Spengel, coi gomiti sul davanzale della finestra e il il mento sui pugni, guardava fisso tra la folla.
Stette così forse una mezz'ora. Il giudice signor Lamère, compiute le sue indagini, gli si era accostato per consultarlo sul da fare. Egli credeva che i servitori, che almeno qualcuno dei servitori avesse avuto parte in quel misfatto:
Gli pareva prudente far arrestare senza indugio tutte le persone di servizio. I particolari del delitto mostravano, quattro e quattro fa otto, che là c'era lo zampino di qualcuno di casa.
— Un momento — rispose il signor Van-Spengel dopo alcuni istanti di riflessione.
Andò lentamente a sedersi sul canapè nel lato opposto della camera, trasse dalla tasca del sobrabito alcune carte piegate in lungo, saltò parecchie pagine e si mise a leggere con grande attenzione.
In quel punto l'aspetto del signor Van-Spengel aveva un'espressione stranissima.
Gli abbondanti capelli grigi che gli rivestivano la testa erano arruffati, quasi irti per terrore. Il luccichio dei cristalli degli occhiali, ogni volta ch'egli alzava il capo quasi cercasse una boccata d'aria, accresceva il sinistro splendore della pupilla e del volto. Le rughe della sua fronte parevano tormentate da interna corrente elettrica e comunicavano la loro violenta mobilità a tutti i muscoli della faccia. Le labbra si allungavano, mentre i piedi sfregavano continuamente sul tappeto poggiando con forza.
— Tutti i direttori di polizia sono così? — disse il signor Lamère al dottor Marol.
— Che volete ch'io ne sappia? — rispose questi più stupito di lui.
Passarono dieci minuti.
Il signor Van-Spengel si slanciò verso la finestra dove il signor Lamère ed il dottor Marol erano rimasti ad aspettare.
— Ebbene? — domandò il primo.
— No, — rispose — arrestereste degli innocenti. Attendete. Lasciatemi fare. Maresque! Poisson!
Le due guardie erano accorse sùbito.
— Con permesso, fatevi in là — disse al dottore. — Affacciatevi con me, ad uno ad uno — seguitò rivolgendosi alle guardie — fingete indifferenza. Attenti alle mie indicazioni. Occhio desto!
E si fece alla finestra col Maresque.
Il signor Lamère sentì questo dialogo:
« Van-Spengel. Vedi tu quel biondo accanto all'uscio del gioielliere Cadolle?
« Maresque. Quello con l'abito bigio e il berretto alla polacca?
« Van-Spengel. Bravo! Fissati bene in mente la sua figura.
« Maresque. Lo riconoscerei fra mille, signor Direttore (pag. 250).
Rientrarono.
— Ora, a te, Poisson!
E ripetè all'altra guardia la medesima cosa.
In quel punto il signor Van-Spengel non pareva più l'uomo di pochi momenti fa. Era calmo e impartiva gli ordini con la serietà delle persone del suo mestiere.
— Via! — esclamò all'ultimo, sospirando. — Usciremo dal vicolo Mignon; qui c'è tanti grulli curiosi! Tu, Maresque, ti accosterai al nostro biondino senza far le viste di badargli. Son sicuro che il colore della tua divisa gli urterà sùbito i nervi. Prenderà il largo e tu dietro, da vicino, senza aver l'aria di pedinarlo. Poisson verrà con me. Signor dottore, signor Giudice, fra un quarto d'ora uno degli assassini sarà qui. Abbiate la pazienza di attendere.
— Che dica sul serio? — chiese il Giudice al dottore.
— Ma! — rispose questi, stringendosi nelle spalle.
— Ha detto il negozio del Cadolle non è vero?
— Sì, il gioielliere; eccolo là!
E tutti e due si affacciarono alla finestra tra increduli e curiosi.
Più di tremila persone stavano accalcate in quel piccolo tratto di via, incatenate dalla curiosità di conoscere i risultati delle indagini dell'autorità giudiziaria, coi visi in alto, verso le finestre del palazzotto Rostentein-Gourny, con le immaginazioni riscaldate dai pochi e contraddittorii particolari che andavano attorno.
Il Maresque si era fermato più volte, prima di accostarsi verso il negozio del Cadolle.
Il biondo indicato dal signor Van-Spengel, rimasto tranquillo per qualche minuto, faceva due passi, poi tre, poi dieci verso la piazzetta Egmont, e spariva senza voltarsi. Il Maresque spariva dietro a lui. Il signor Direttore e l'altra guardia li seguivano a dieci passi di distanza. Più in qua della piazzetta Egmont, Poisson si staccava dal Direttore. Dopo questo, il giudice e il dottore non videro più nulla. La loro sorpresa era immensa.
Il biondo, secondo l'espressione del signor Van-Spengel, si era sentito urtare i nervi della divisa del Maresque ed aveva preso il largo con una indifferenza da ingannare il più astuto.
Sui trent'anni, con lunghi e folti baffi rivolti in giù, occhi cerulei, limpidi ma irrequieti, il biondo era uno di quegli esseri sociali che non si sa mai con certezza a quale classe appartengano.
Indossava, con la eleganza che vien dall'abitudine a una vita molle e disoccupata, un vestito di fantasia, accozzaglia di foggie diverse, dal berretto polacco alla scarpa parigina, dalla giacchetta ungherese al calzone inglese e alla cravatta americana; ma questa accozzaglia non stonava, armonizzata dal suo bizzarro portamento. Nessuno, a vederlo, avrebbe sospettato in quel giovane il menomo indizio di un assassino. Poteva esser preso facilmente per un artista un po' matto.
Dal signor Van-Spengel si erano avute parecchie prove veramente sorprendenti di quella lucida, elettrica intuizione — vero colpo di genio — che distingue l'uomo dell'alta Polizia dal Commissario volgare. Si tratta di sorprendere intime relazioni tra avvenimenti che paiono disparatissimi; d'intendere il rovescio d'una frase, d'un motto o d'un gesto che cercherebbe di sviarvi; di dar grave importanza a certe cose apparentemente da nulla; di afferrare a volo una circostanza da mettervi in mano il bandolo che già disperavate di trovare; lotta di astuzie, di finezze, di calcoli, di sorprese che con la sodisfazione del buon successo compensa l'uomo dell'alta Polizia del suo ingrato lavoro.
Ma qui la cosa andava diversamente. Il signor Van-Spengel, letta la seconda parte del suo lavoro di sonnambulo, vi aveva trovato, negli interrogatorii anticipatamente scritti, i più minuti particolari di quel che poi doveva accadere e si era messo, dirò così, ad eseguire punto per punto il programma della giornata, visto che la prima parte aveva corrisposto così bene.
Svoltando a destra della piazzetta Egmont, il biondo s'era avveduto della guardia, con la coda dell'occhio, e aveva capito che lo pedinava. Allungato il passo, vicino al chiassetto dei Trois Fous, avea tentato un colpo ardito. S'era fermato davanti a un portone e v'era entrato in un lampo. La casa aveva un'altra uscita nella via della Reine. Se poteva essere perduto di vista per venti secondi il colpo gli riusciva.
Profittando di alcuni carri che ingombravano la via della Reine verso il Restaurant des Artistes, girò con lestezza attorno ad essi, ritornò sui propri passi mentre il Maresque lo cercava con l'occhio tra la folla, e infilò un vicolo stretto, torto, sudicio, una di quelle tante anomalie che si trovano spesso nel cuore delle grandi città.
Aveva fatto i conti senza l'oste.
Il signor Van-Spengel lo aveva scoperto da lontano.
Il biondo varcò un usciolino sepolto tra le panche di erbaggi di una bottega di ortolano e i cenci di un rivendugliolo ebreo, spenzolanti in mostra dalla tabella.
Il signor Van-Spengel, seguito dal Poisson e dal Maresque, diè un'occhiata allo stabile; poi, senza dir motto, cominciò a salire la scala che principiava quasi alla soglia.
Trovarono un andito largo, una specie di corridoio senza vôlta, col pavimento sdrucito e i vecchi mattoni che vi formavano degli isolotti: un locale freddo, grigio, di aspetto sinistro. Sei usci, segnati con grossi numeri rossi, indicavano sei stanze; ma il perfetto silenzio che vi regnava faceva supporre che i locali fossero allora disabitati.
Il Signor Van-Spengel si accostò all'uscio numero 5, e picchiò con le nocche delle dita tre colpetti risoluti.
— Chi è? — avea risposto una bella voce di uomo.
— La Legge!
Apparve all'uscio un uomo in veste da camera. Pareva di essere su la quarantina. Aveva il volto tutto raso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhiali inforcati sul naso e un libro in mano.
— Disturbo? — disse il Signor Van-Spengel con impercettibile ironia, mostrando la sua fascia tricolore.
— Niente affatto — rispose l'altro inchinandosi. — La Legge è la migliore ospite di questo mondo. Ai suoi ordini, signore.
Le guardie scambiarono due occhiate interrogative, scrollando le spalle.
— Caro dottor Bassottin — disse il signor Van-Spengel, appuntando in viso a quell'uomo i suoi sguardi di fuoco. — Caro dottor Bassottin, o meglio signor Colichart, o, se più vi aggrada, signor Anatolio Pardin, scegliete!... (l'altro al sentir pronunziare quei tre nomi avea fatto tre movimenti mal frenati di sorpresa). È provato che la notte scorsa voi, insieme coi vostri compagni Broche, Vilain, Chasseloup, Callotte e Poulain — col mezzo di due ordegni inglesi da voi fatti costruire l'ottobre passato dal Blak di Londra — penetraste, alle due e un quarto dopo la mezza notte, nella casa della signora marchesa De Rostentein-Gourny, via Roi Léopold, numero 157......
L'uomo a cui erano rivolte queste parole lo guardava imperterrito, facendo segni negativi col capo.
— Voi ne usciste l'ultimo — continuò il signor Van-Spengel — richiudendo il portone collo stesso ordegno servito ad aprire. Appena uscito vi metteste a cantare e a schiamazzare insieme con gli altri. Poi vi sparpagliaste per diverse direzioni e vi riuniste dopo mezz'ora in questo locale a dividervi il bottino.
— Ma, signore — interruppe l'altro con un tono calmo ed insinuante, sorridendo — qui dev'esserci uno sbaglio. Io sono il dottor Bassottin in carne e in ossa, medico chirurgo di Bruges. Voi mi trovate tra i miei libri di scienza e i miei strumenti. Non ero preparato a questa visita. Signore..... oh! dev'esser corso proprio uno sbaglio.....
— Signore Anatolio — replicò il Direttore di polizia accostandoglisi all'orecchio. — Io so qualche cosa che i vostri complici non sanno: so dove avete nascosto quel diadema di brillanti che la vostra abilità di giocoliere fece sparire senza che quelli se ne accorgessero!
— Ah! Voi siete il diavolo!.....
E Anatolio si appoggiava al muro, tremante come una foglia.
— Cavategli quella veste da camera — disse il signor Van-Spengel. — Strappategli quella parrucca.
Il Pardin non oppose la minima resistenza.
Com'erano ricomparsi i vestiti, ricomparvero allora anche i capelli biondi del giovane pedinato. Le due guardie, stralunarono dalla sorpresa.
— Se vuol rimettersi i baffi! — disse il signor Van-Spengel seriamente.
E il Pardin, che pareva sotto l'oppressione di un potentissimo fascino, cavati macchinalmente di tasca i baffi finti, se li adattava come li avea prima.
— Ed ora mettetegli le manette.
Il Pardin esitò un momentino a porgere le mani, ma non impedì che il Maresque gliele tenesse unite mentre il Poisson gli stringeva ai pollici il suo piccolo strumento di acciaio.
Il signor Van-Spengel picchiò in vari punti del pavimento, indi smosse un mattone con la punta della sua mazza. Apparve una buca. Poisson ne estrasse parecchie scatole e due involti che depose sul tavolino. Il signor Van-Spengel aprì ad una ad una le scatole osservò gli oggetti d'oro, le pietre preziose, e le richiuse con cautela.
III.
Mentre il signor Van-Spengel eseguiva queste operazioni, il giudice Lamère e il dottor Marol avevano fatte altre e più minute osservazioni su le diverse ferite delle vittime, perdendosi in un ginepraio di supposizioni intorno al modo con cui gli avvenimenti eran dovuti accadere.
Un piccolo episodio li avea commossi.
Erano nella Camera della Marchesina.
— Perchè non l'avevano trovata uccisa là, ma nel salone di ricevimento? La Marchesina era ancor sveglia verso le due e mezzo dopo la mezzanotte. Che cosa faceva?
Il dottor Marol si accorse pel primo d'una lettera restata a mezzo, sul tavolino, ma non osò buttarvi gli occhi. La sua squisitezza di animo gli impediva di violare il segreto dei morti, il segreto di una signorina!
Il Giudice Lamère, invece, trattò quella lettera come un documento del suo futuro processo, e la lesse.
Eccola: fu pubblicata dai giornali belgi di quell'anno.
«Mia cara,
«Sono felice! Bisogna che ti dica sùbito queste due parole; le capirai meglio quando avrai letto fino all'ultima riga. Sono felice! Se ancora me le tenessi nel cuore, potrebbero farmelo scoppiare. Oh! Sarò sempre in tempo a morire. Oggi sono felice! Troppo felice!
«Figurati! Mi son messa a scrivere alle undici e mezzo di sera. È già l'una dopo la mezzanotte, ed ho appena incominciato. Ma in queste due ore e mezzo non ho fatto altro che parlare con te, ad alta voce, come se ti avessi avuta presente. Ah! mia cara!....
«La penna non corrisponde alla foga del mio pensiero, al tumulto de' miei affetti. Perchè le persone che si amano non s'intendono da lontano, senza scriversi nè parlarsi? Ecco: io duro fatica a proseguire, ed ho cento cose da dirti. Via, siamo serie!....
«Egli mi ama!
«Me l'ha detto questa mattina, in salotto, dove ci trovammo soli per due brevi minuti. Io tremavo come una bimba nel sentirlo parlare. Egli tremava più di me. Non intesi bene le prime parole; ma le compresi egualmente e gli risposi... così strampalata! Oh, fu di una delicatezza senza pari! Pareva chiedesse scusa di farmi felice.
«Scesi sùbito in giardino. Non potevo contenermi. Un fremito di piacere mi agitava da capo a piedi e mi rendeva leggera come una piuma.
«Lì tutto sorrideva; tutto era pieno di profumi. I fiori mi salutavano scotendo il capino su lo stelo con grazia indicibile; le acque delle vasche mormoravano mille cosette maliziose che mi facevano provare certi brividi!... Gioia fino allora ignorata!
«Correvo pei viali; mi fermavo; odoravo i fiori, li accarezzavo; agitavo con le mani convulse le acque della vasca...
«Pare impossibile che una parola ci possa rendere così! Volevo esser seria e non riuscivo. Mi sembravo che io profanassi il divino sentimento dell'amore, manifestando la mia allegrezza in quel modo così fanciullesco; ne avevo dispetto.... Ma tornavo a far peggio. Correvo di nuovo, saltavo... Poveri fiori! Quelle mie carezze li maltrattavano, ne guastavano le foglioline e le corolle, li sfogliavano anche; ma!... I felici sono crudeli, cara mia!
«Egli m'ama! C'era proprio bisogno che me lo dicesse? No, no!... Ma pure non vivevo tranquilla; dubitavo sempre, mi torturavo da mattina a sera: mentre ora!...
Il signor Lamère e il dottor Marol avevano le lacrime agli occhi. Il cuore da cui erano sgorgate quelle righe piene di tanto affetto non batteva più!
Il Lamère e il dottor Marol si guardarono in viso stupiti vedendo entrare il signor Van-Spengel seguito dal giovane arrestato, tra le guardie. Il Van-Spengel pareva in preda a un fierissimo accesso nervoso. Metteva paura.
— Cancelliere — disse il signor Lamère, stendiamo dunque il verbale.
— Se ne risparmi la fatica — balbettò il signor Van-Spengel, avanzandosi barcollante, con un sorriso da ebete. — Il verbale eccolo qua!....
E presentava il suo manoscritto, dando in uno scroscio di risa convulse.
Era ammattito!
* * *
Il libro del dottor Croissart, interessantissimo per tutti i versi (egli è direttore del Manicomio di Brusselle) termina con profonde considerazioni su questo fenomeno di psicologia patologica, degne di esser lette e meditate. Egli conchiude:
«Quando vediamo il nostro organismo mostrar tanta potenza in circostanze così eccezionali ed evidentemente morbose, chi ardirà di asserire che le presenti facoltà siano il limite estremo imposto ad esso dalla Natura?
Catania 25 Marzo 1873.
IL DOTTOR CYMBALUS
Da due anni Hermann Strauss lavorava assiduamente a un Nuovo sistema della natura; ma quel giorno la sua meditazione era stata troppo intensa. Perduto nella immensità d'un problema d'altissima metafisica, aveva finito coll'addormentarsi; e russava da più di un'ora quando fu bruscamente svegliato da un insistente picchiare all'uscio.
— Avanti! — borbottò, sbadigliando e stirandosi sulla poltrona.
Comparve una gran cuffia dov'era affogata una grinzosa testa di vecchia.
— C'è un giovane che desidera parlarle — biascicò la cuffia.
— Passi — rispose Hermann. — Chi diavolo può essere?
E aveva appena terminato di pensar questa domanda, che un bel giovane, alto di statura, biondo, pallido e in abito da viaggio, si presentava sulla soglia.
— William Usinger!
I due amici si abbracciarono affettuosamente.
— Sei arrivato oggi stesso?
— Si; e ripartirò domani. Ho bisogno di te.
— Son qua. Ma siedi; fumiamo una pipa.
— Grazie.
L'Usinger posò sul tavolino un grosso piego sigillato.
— Vo in America — egli disse; — lontanetto, è vero?
— Ci metterai un po' di più ad arrivare. Infine si va in capo al mondo e si ritorna.
— Si può anche non tornare...
— Certamente, quando si trova da star bene... Ah! È il tuo viaggio di nozze! — esclamò Hermann picchiandosi con la mano su la fronte e spalancando gli occhi cerulei sotto le sue lenti da miope.
Il silenzio di William lo sorprese.
— Hai già sposato?
— No. Ma parliamo di cose serie. Sono qui per un affare di grave interesse.
— Non sei sposo?
— No — replicò William seccamente.
— O dunque?
— Parto per l'America.
— Ma che cosa è accaduto'?
— Una cosa semplicissima: Ida sposa un altro.
— Tu l'abbandoni? Tu che mi scrivevi di amarla tanto?
— È lei che preferisce di sposare un francese.
— Francese per giunta! — esclamò Hermann dando un fortissimo pugno sul tavolino.
— Oh, per me val lo stesso, quando l'amato non son più io!
— Povero William! Tu vuoi dimenticare, tu vuoi.....
— T'inganni. Due donne non mi usciranno mai dal cuore: mia madre e lei!
— A proposito, e tua madre?
— Non ha voluto ricevermi.
— Nemmeno per farsi vedere, per farsi adorare in silenzio?
William scosse il capo tristamente.
— Tua madre dev'essere un'altra!
— È lei! Ne ho in mano le irrefragabili prove.
— Povero William!
— Mi sento vecchio, decrepito a venticinque anni. Senza famiglia, senz'affetti, senza speranze, senz'illusioni, che più ci faccio fra voi?
— Hai ragione. Va' in America: abbandona questa vecchia Europa che casca a pezzi da ogni parte. Va' in America. Buon viaggio! Là potrai presto rifarti il cuore. Buon viaggio!.... Ma è triste doversi dire addio forse per sempre!
— Ed ecco il motivo della mia visita — disse William molto commosso. — Questo plico sigillato contiene alcune carte importanti e le mie ultime volontà.
— Le tue ultime volontà?
— Riguardo a quel che lascio in Europa — soggiunse l'Usinger sorridendo. — Per l'esecuzione del mio testamento non bisogna aspettare la mia morte. Appena imbarcato, intendo non esser più vivo per nessuno di qui, cioè fra tre o quattro giorni. Non ammattirai; te lo avverto perchè tu non stia in pensiero. Ho venduto tutto. Questo plico contiene, in biglietti, in obbligazioni, in cambiali, quas'intiera la somma che ne ho ricavata.
— E pel tuo viaggio? Pel tuo avvenire?
— Non dubitare, ci ho pensato. Accetti?
— Ma di cuore!
Hermann avea le lacrime agli occhi. William, pallidissimo, faceva grandi sforzi per contenersi.
— Hermann — disse l'Usinger dopo alcuni momenti di silenzio; — promettimi di non aprire questo plico prima di quando ti ho detto!
— Anche più tardi, mio caro, se così ti fa piacere. Io già l'ho con me che non tento di distoglierti dalla tua trista risoluzione. Trattienti almeno un paio di giorni!
— Non posso, ho molte faccende da sbrigare. Volevo anzi, per far più presto, spedirti il plico con la posta; ma poi mutai pensiero. Ho voluto abbracciarti prima di lasciare l'Europa.
— Grazie, caro William! Mi hai fatto proprio piacere. Dove sei tu alloggiato?
— Alla Blaue Stern.
— Verrò a trovarti. Staremo insieme fino a stasera.
Quando Hermann Strauss rimase solo, accese la sua grande pipa, si calcò sulla fronte il berretto di pelle di volpe, incrociò le braccia e stette assorto, lungamente, cogli occhi fissi sul busto di Hegel collocato lì in faccia.
A un tratto si riscosse, si precipitò sul plico, ne ruppe i sigilli, prese il solo foglio scritto ch'esso conteneva, e, prima di averne letto mezza pagina, cacciò un urlo.
— Che io arrivi a tempo! Che io arrivi a tempo! — balbettava scappando fuori di casa.
II.
La Blaue Stern era situata al punto opposto della città.
Hermann attraversò una viuzza, svoltò una cantonata, sboccò in una piazzetta, infilò due altre straducole contorte ed oscure, uscì nella via principale, e poi tirò diritto, correndo affannosamente, senza curarsi che la gente si fermasse a guardarlo. Giunto al portone dell'albergo non avea più fiato.
— William Usinger? — domandò al portinaio mezzo appisolato nel suo stambugino.
Il portinaio si scosse, si strofinò gli occhi e, guardandolo in viso, chiamò:
— Resi!
Comparve una donna sui trent'anni una vera paesana, grassa, bionda, untuosa. Il portinaio accennò ad Hermann che parlasse con lei.
— William Usinger è in casa? — replicò Hermann che sembrava sui carboni accesi.
— Glielo dirò sùbito.
E sparì dietro l'uscio da cui era sbucata.
Quei minuti di aspettazione parvero un secolo ad Hermann. Finalmente la Resi venne a dire che l'Usinger era andato fuori di buona ora e non era più tornato.
— Le sue valigie sono ancora qui! — domandò Hermann agitatissimo.
— Non ha valigie.
— Dovrà pagare il suo conto.....
— L'ha saldato.
— Dove trovarlo? Come raggiungerlo a tempo?
Hermann pestava coi piedi, si strizzava le mani, bestemmiava, guardando indeciso di qua e di là; quando eccoti l'Usinger.
— Ah! — urlò Hermann, correndogli addosso come se quello avesse tentanto di scappare.
— Hai aperto la busta! — disse William con piglio severo.
— Sì!
Hermann per precauzione lo teneva sempre pel vestito.
Montarono le scale, silenziosi. Entrati in camera, William buttò in un canto il suo berretto da viaggio e si lasciò cadere sopra una poltrona. Hermann rimase in piedi innanzi a lui.
— Hai perduto il cervello?
Lo rimproverava affettuosamente.
— Può darsi. Ma così che credi di fare?
— Il mio dovere d'amico.
— Un dovere inutile.
— William!
— Vorresti persuadermi di amare la vita dopo tutto quello che tu sai? C'è forse il mezzo di strapparsi il cuore dal petto e non morire? Hai tu il modo di rendermi freddo e insensibile come il marmo?
— Sì! sì! — esclamò Hermann.
A quelle ultime parole dell'Usinger gli era balenata nella mente una luce improvvisa perciò lo abbracciava con effusione. William stava a guardarlo stupito.
Il cervello del suo amico non aveva dato la volta?
Ma Hermann sorrideva, si fregava le mani dalla gioia:
— Ti basta l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica?
William fece una mossa di offesa.
— Mi prendi per un bimbo?
— Ti senti l'animo di sostenere una dolorosa operazione chirurgica? Te lo domando seriamente.
— Perchè!
— Per diventare freddo e insensibile come il marmo. Ti basta l'animo? Rispondi.
— Oh, sì! — disse William. — Ma questo è impossibile.
— Meno di quel che supponi. Tu conosci certamente, almeno di fama, il dottore Franz Cymbalus, uno dei più grandi, anzi forse il più grande dei fisiologi viventi. Le sue scoperte sul sistema nervoso sono le conquiste più straordinarie della scienza moderna. È stato mio maestro e mi vuol bene. Andremo a trovarlo. Il dottor Cymbalus ti salverà.
— È dunque un Dio cotest'uomo?
— Uno scienziato; val quasi lo stesso.
— Non credere che io m'illuda — disse l'Usinger. — Se acconsento a venir da lui, è solamente per contentarti. Abita lontano?
— In una sua villetta, a poche miglia dalla città.
— Su, andiamo!
E l'Usinger rispose con un'incredula scrollata di spalle al gran respiro di soddisfazione cacciato fuori da Hermann.
III.
Il dottor Cymbalus era seduto sopra una panca di legno con due bimbi su le ginocchia. Sorrideva, li accarezzava e rispondeva bonariamente alle vivaci domande di quelle due bionde testoline.
— Domine, bona dies — disse Hermann dal cancello, togliendosi di capo il berretto.
Il dottore lo riconobbe, mise a terra i due bimbi che si perdettero pei viali, e andò ad aprire facendo con la mano un affettuoso saluto.
— Amico mio! — disse, introducendo i due arrivati. — Sono lietissimo di rivedervi. Signore, vorrei poter soggiungere altrettanto di voi; ma, se la memoria non mi inganna, non credo d'avervi veduto un'altra volta. Per questo non siete meno il ben venuto in casa mia.
— William Usinger — disse Hermann.
William fece un profondo inchino. Il dottor Cymbalus gli stese la mano.
— Maestro, il mio amico ha bisogno della sua scienza — disse Hermann, sorridendo all'Usinger.
— È ammalato?
— Più che ammalato: è deciso di ammazzarsi.
— Così giovane?
— Sì, maestro, così giovane!
— Non viene certamente da me perchè gliene fornisca il mezzo — disse il dottore. — Ma entriamo in casa. Ragioneremo con più comodo.
Il dottore condusse i due ospiti nel suo gabinetto di studio, vero caos di libri, di carte, di mappe, di strumenti, di boccette, di vasi, di cranii, di preparati anatomici, di scheletri umani. L'Usinger, entrando, sentì dei brividi per la schiena.
Il dottore sedè su la poltrona dietro il suo tavolino. I due amici gli sedettero di faccia.
Quella figura di vecchio scienziato era dolce e serena. La fronte spaziosa e solcata da rughe profonde, l'occhio vivo e scintillante nonostante le veglie sostenute per mezzo secolo in pro della scienza e dell'umanità; il labbro quasi sempre sorridente, la posatezza delle maniere, la bontà della parola, tutto rivelava in lui una natura elevata; di quelle che, dal sapersi più grandi delle altre, attingono la virtù dell'umiltà che le fa venerande.
— Voi dunque volete morire? — disse il dottor Cymbalus con accento di paterna ironia.
— Sì, o signore, — rispose Usinger freddamente.
Mentre Hermann raccontava, a grandi tratti, la dolorosa storia di William, il dottor Cymbalus teneva bassa la testa e gli occhi socchiusi; le sue labbra erano atteggiate a commiserazione profonda.
— Io non posso approvare la vostra risoluzione — egli disse all'Usinger quando Hermann ebbe finito. — I miei studi m'ispirano un immenso orrore per l'opera di rovina che voi meditate; forse, perchè mi trovo, più d'ogni altro, nel caso di misurarne la gravità. La mia età e i miei studi mi autorizzano a tenervi questo linguaggio. Le vostre sventure sono grandi: però voi dimenticate che la Natura non toglie nulla senza dar dei compensi. Nel mondo vi sono molti esseri che paiono condannati alla perpetua servitù di altri esseri superiori; nascono, vivono, muoiono senz'un loro apparente profitto. Fra gli uomini, nella vita civile e in quella della intelligenza, succede lo stesso. Il genio potrebbe dirsi una tremenda schiavitù; la scienza, un'orribile catena. Tutta la gloria e tutte le ricchezze di questo mondo non valgono a compensare la più piccola parte dei dolori che l'artista e lo scienziato provano nella creazione delle loro opere e nella ricerca della verità, che è creazione anch'essa. Voi dite di voler morire perchè vi è mancata la consolazione degli affetti domestici; ma chi vi dice che la Natura non v'abbia destinato ad esercitare le forze del vostro cuore e del vostro intelletto in una sfera assai più larga di quella della famiglia? La società si compone di tanti cerchi concentrici. La famiglia occupa il posto di mezzo; l'umanità l'ultimo, almeno nel mondo che noi abitiamo. Più in là della famiglia vi è la città; più in là di questa, la nazione; più in là ancora, le nazioni; un campo immenso, fecondissimo, ove quella piena d'affetto che vi tumultua nel cuore potrebbe trovare mille sfoghi. Quante vie non sono aperte alla vostra attività nell'istruzione, nella politica, nella milizia, nel commercio, nelle arti, nelle industrie, nelle scienze, perfino nelle occupazioni più spregevoli? Per una sublime fatalità, ogni minima influenza del minimo atomo contribuisce, coi suoi mezzi, al grande edificio del Progresso. La materia si trasforma e trasforma, alla sua volta, quello che noi chiamiamo spirito, pensiero. Vi siete mai reso conto della benefica legge del lavoro, la più perfetta esplicazione dell'amore? No, certamente. Per vostra mala sorte, vi siete invece concentrato in voi stesso; avete aumentato con crudele compiacenza la forza del male; avete già iniziato, isolandovi, quell'inconsiderata opera di distruzione che ora intendete di compire. Forse non avete mai provato la consolazione di beneficare i vostri simili.....
— Si, — lo interruppe Usinger. — Ma sopratutto (può darsi ch'io sia un grande egoista) ho sempre pensato a me stesso. Io ammiro la grandezza delle cose da lei dette, e mi addoloro di trovarle indifferenti per me, cioè troppo elevate pel mio cuore, per la mia indole, fors'anche per la mia stessa volontà. Ma se la sua scienza, o signore, non ha altri mezzi per giovarmi, mi affretto a chiederle scusa di questi momenti di noia. Li deve al mio buon amico Strauss; ma li perdoni a tutti e due.
— Maestro! — disse Hermann, stendendo le mani verso il dottore in atto di preghiera. — Maestro, bisogna salvare, a ogni costo, quest'infermo di mente. L'ho qui condotto con la fiducia che lei lo avrebbe salvato.
— Ma in che maniera, caro Strauss? — domandò il dottore.
— Mi son ricordato a un tratto di quella sua straordinaria scoperta, della quale lei diceva di sentirsi atterrito; di quella scoperta che lei vuole portar con sè nella tomba. per non mettere nelle mani della fanciulla umanità un'arma così terribile e di così facile abuso. Ebbene, Maestro, quella scoperta può strappare alla distruzione una vita vigorosa, un'intelligenza potente. Non vorrà lei stender la mano per salvare metà d'una creatura già decisa di perdersi intiera?
Il dottor Cymbalus guardava William fissamente. Questi aspettava con calma la risoluzione dello scienziato.
— E s'io vi rispondessi che non posso far nulla?
— Mi ammazzerei.
— Ma voi ignorate senza dubbio quella che Hermann mi chiede!
— No, signore. So che si tratta d'una operazione con la quale rimarrei freddo e insensibile come un uomo senza cuore.
— È un'operazione che qualunque meschino barbiere sarebbe capace di fare. Ma io provo ribrezzo a stender la mano sopra una creatura perfetta per guastarla senza riparo! Non vo' commettere un sacrilegio. Un ago, una lancetta basterebbero per turbare la maravigliosa armonia del vostro organismo. Qualcosa di voi perirebbe, come per incanto. Diverreste un uomo nuovo, una creatura senz'affetti....
— Non desidero altro — interruppe Usinger. — Le mie sventure provengono dal cuore. S'io fossi insensibile, se....
— Ah, ma un giorno voi potreste amaramente rimpiangere quello di cui ora volete disfarvi!
— No, non è possibile; soffro troppo.
— Badate! Allora la scienza sarà impotente a darvi il minimo aiuto. È la sua inferiorità di faccia alla natura, è la sua miseria attuale. Per dispetto, come l'ebreo della leggenda, voi potreste buttar nell'oceano la preziosissima gemma del vostro sentimento. Ma nessuno badate! ripeto, nessuno potrebbe più ripescarvela. Persistete ancora nella vostra risoluzione?
— Più che mai, mio signore!
Il dottor Cymbalus appoggiò i gomiti sul tavolino, mise la testa tra le mani e stette a riflettere per due minuti. Hermann guardava il suo maestro, trattenendo il respiro. William aspettava, tranquillo, facendo girare tra le dita gli orli del suo berretto da viaggio.
— Avrei amato — disse il dottore — che più della mia scienza vi giovassero i miei consigli. La vita è una bella cosa; credetelo a un vecchio che non può star molto a lasciarla. Dite di no? Dio faccia che un giorno non mi abbiate a dar ragione!
Il dottor Cymbalus scrisse una prescrizione sur un foglietto di carta e la porse ad Hermann:
— Dopo sei giorni di questa cura, tornate qui. Tenteremo.
Hermann si precipitò su la mano del maestro e la coperse di baci.
William si sentiva stranamente commosso.
IV.
Una settimana dopo, Hermann e William picchiavano al cancello della villetta.
In un angolo della camera larga ed ariosa era preparato il letto pel paziente. Sopra il tavolino rotondo posto nel centro, si vedevano due boccette con liquidi rossi e nerastri, fasce ripiegate, filacce e una piccola borsa chirurgica.
William guardò questi apparati con occhio indifferente.
Il dottor Cymbalus gli ordinò di mettersi a letto, poi gli somministrò il cloroformio.
Mentre Hermann, aiutato dal servo del dottore, rivoltava bocconi il suo povero William reso insensibile, il dottore cavava fuori dalla borsina due aghi e una lancetta, preparava due fasce e stendeva sopra cuscinetti di filacce un po' di quei liquidi rossi e nerastri delle boccette, che sùbito si rapprendevano.
Era soprappensiero.
— Lasciatemi solo — egli disse — e non entrate prima che io suoni.
Trascorsero dieci minuti; durante i quali Hermann, che origliava dietro l'uscio, non sentì altro nella camera che il passo affrettato del Dottore dal letto al tavolino e dal tavolino al letto. Benchè non dubitasse minimamente della riuscita, era agitatissimo. Tremava, non vedeva l'ora che l'uscio della stanza di William fosse stato aperto.
Il dottore suonò,
— Tenetevi pronti — disse, vedendo entrare Hermann e il servitore. — Appena si sveglierà, le sue convulsioni saranno tremende.
Un lento mugolìo annunziava da lì a poco il ritorno ai sensi dell'Usinger.
Le filaccie, trattenute da due fasce nel mezzo della spina dorsale e all'occipite, indicavano il posto dove l'operazione aveva avuto luogo, non vi si scorgeva traccia di sangue.
William stirò le braccia con moto convulsivo, poi le lasciò cadere come sfinite. Tentò svoltarsi, ma non riuscì. Lo lasciarono fare. Il dottore aveva raccomandato di intervenire soltanto nel caso che quello cercasse di strapparsi le fasce.
Il mugolìo diventava a poco a poco un urlo prolungato. William mordeva i cuscini, tormentava con le mani le lenzuola e le materasse, si agitava con tutta la persona, e urlava:
— Ahi! ahi! La morte! La morte! Ahi! Ahi!
Quando videro che tentava di strapparsi le fasce, Hermann e il servo lo afferrarono pei polsi. Era livido, con la fisonomia contratta, gli occhi terribilmente spalancati.
— Ahi! ahi! — continuava ad urlare. — La morte! La morte!
— Vi è da temere, maestro? — domandò Hermann ansioso.
— Tutto va bene — rispose il dottore con la sodisfazione dello scienziato che ha ottenuto una vittoria.
William restò per alcuni minuti come un corpo inerte. Il dottor Cymbalus gli tastava il polso.
— Le convulsioni ricominciano; saranno le ultime, ma più violente.
L'accesso riprese appena il dottore aveva terminato di parlare, ma non durò molto. William ricadde spossato.
— Lasciamolo riposare — disse il dottor Cymbalus. — Già si sviluppa la febbre. È la Natura che si solleva contro la violazione delle sue leggi!
William dormì tranquillamente quattr'ore di fila. Quando si svegliò, i suoi occhi smarriti si fissavano su le persone e gli oggetti intentamente, come per riconoscerli bene; poi passava via, senza lasciar capire se li avesse o no riconosciuti. Le sue mani brancicavano nel vuoto, sfregavano le coperte; poi si tastava il viso, il petto, lo stomaco, e tornava a brancicare qualcosa invisibile. La sua voce era un lamentìo basso, interrotto, una specie di singhiozzo. Durò così due giorni. Al terzo riconobbe Hermann e gli strinse la mano; sorrise al dottore.
— Soffro molto — diceva; — soffro molto qui. — E indicava il petto.
— Non è nulla — rispondeva il dottor Cymbalus. — Passerà.
Quando questi gli tolse le fasce, Hermann vide su la spina dorsale e su l'occipite di William due piccolissime cicatrici, due graffiature nere; niente altro.
William si sentiva uscire a poco a poco da un profondo sbalordimento. Le idee gli erravano per la mente, gli sfuggivano, gli tornavano innanzi come nuvoloni sballottati da un temporale; poi cominciarono ad ordinarsi simili a una folla di persone entrate confusamente in una sala che riescano in fine a trovar tutte il loro posto. Capiva che doveva essere accaduto qualcosa di straordinario dentro di lui; provava un vuoto immenso e un benessere ineffabile, ma non si ricordava bene; credeva d'aver sognato.
Hermann, il dottor Cymbalus, il letto, la stanza, l'operazione subita non erano fantasmi creati dalla sua fantasia delirante? Si era forse ucciso, e quello stato di calma era la sua nuova esistenza in un mondo migliore?
Finalmente ebbe la certezza della realtà.
— Consumatum est! — gli disse il dottor Cymbalus scotendo la testa tristamente.
— Ella è il genio del bene! — rispose William.
— Dite piuttosto il genio del male, capace di distruggere e non di edificare!
— Ah, dottore, come son lieto di non aver ascoltato i suoi consigli! Io gusto una pace, una felicità che non credevo possibili sulla terra!
V.
Infatti era una felicità vera. All'eccessivo tumulto dei suoi affetti succedeva un silenzio completo. I suoni gli aliavano intorno agli orecchi, sussurrandovi le loro note, senza decidersi ad entrarvi. I colori venivano a posarglisi sulla retina con la delicata precauzione di chi non vorrebbe farsi scorgere.
Quella parola misteriosa della malinconia dei tramonti, del mormorìo delle acque, del profumo dei fiori, delle linee della campagna, della serenità dei laghi, dello altero slanciarsi dei monti al cielo, del mesto sprofondarsi delle vallate; quella parola misteriosa che tutti cerchiamo, che tutti ci sforziamo di riprodurre, poeti, romanzieri, pittori, scultori, maestri di musica, quella viva ed eterna parola dell'universa Natura, egli non la sentiva o non la intendeva. Viveva come circondato da un'immensa solitudine, tra le vaste ruine d'un mondo una volta animato E si sentiva felice, e s'inorgogliva di sè stesso.
Come era superiore a quanto gli stava attorno! Nulla giungeva più a fare nessuna impressione su lui!
Ricordava sua madre, ricordava Ida Blùmer le sole creature ch'egli avesse immensamente amate e per le quali il suo cuore aveva tanto sofferto; ma non provava più nè commozione, nè rimpianto.
Era vendicato di esse!
Gioiva del suo trionfo.
Durante questo tempo, avvenimenti inaspettati mettevano sossopra il palazzo, della contessa K***.
La sventura avea spetrato quel cuore di madre, e il pentimento e il rimorso la conducevano alla casa del figliuolo così spietatamente abbandonato, e, una volta, fatto scacciare dai suoi servitori.
William abitava insieme con Hermann.
Quella stessa vecchia che un giorno lo introdusse nella stanza di studio del suo amico gli annunciò la visita d'una gran dama.
— Passi — rispose smettendo di lavorare.
Una signora vestita a lutto, con un fitto velo sul viso si presentava su la soglia. Esitava ad inoltrarsi.
William le era andato incontro. Allora quella signora avea sollevato il velo ed era rimasta a testa bassa innanzi a lui.
— Mia madre.
William non si era scomposto.
Ma la signora, fulminata da quella freddezza, lo fissò in volto. Non vi traspariva nessun indizio di commozione repressa. Suo figlio la guardava attentamente, ma con impassibile tranquillità.
Al grido straziante della contessa, e al vederla inorridita, William avea alzate le spalle ed era tornato al tavolino, a disegnare figure di geometria.
Otto giorni dopo, passando davanti a la casa dove si espongono i cadaveri delle persone perite di morte improvvisa o violenta, avea veduto molta gente affollarsi sull'uscio. La curiosità lo aveva spinto ad entrarvi.
Sopra una bara giaceva il cadavere di una giovine dai diciotto ai vent'anni.
Bella, vestita con eleganza, aveva i capelli rappresi sulla fronte e sul collo; gli abiti ancora bagnati indicavano il genere di morte scelto dalla infelice per finire i suoi giorni.
— È Ida Blùmer — egli disse; — la riconosco.
Condotto davanti al Commissario, vi fece la sua deposizione. La vista di quel cadavere lo aveva lasciato indifferente.
VI.
Eran passati sei anni.
Che cosa voleva dire quella stanchezza vaga, indefinibile che cominciava ad insinuarsi nella sua vita regolare e monotona? Quei confronti del passato col presente che gli erano stati cagione di tanta allegrezza, perchè ora prendevano un accento di lieve rimprovero?
Fu spaurito di questi sintomi e cercò di svagarsi.
Ma come sfuggire la memoria? Si vedeva perseguitato da essa perfino nei sogni. Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto la stanchezza e la noia aumentavano. Non poteva far nulla per arrestarle; si sentiva inetto a resistere.
— La gran legge del lavoro!
Aveva un bel ricordarsene; non gli riusciva di lavorare. Si stancava, si annoiava sùbito. Gli mancava qualcosa che gli rendesse caro il lavoro.
La sua solitudine gli faceva spavento. I momenti più tristi della sua vita gli parvero preferibili, immensamente, a quella calma di morte che l'operazione del dottor Cymbalus gli aveva procurata.
— Mamma! Ida! Mamma! Ida! — chiamava ad alta voce, chiuso nella sua stanza, senza voler vedere nessuno.
Tentava di riscuotersi con quei nomi dal torpore che lo teneva incatenato fra i suoi terribili nodi.
Niente!
Quelle parole: Mamma! Ida! gli risuonavano nell'orecchio come due voci che non avessero mai avuto alcun senso per lui.
Ah, quell'ore di pianto, di disperazione di strazio mortale passate a guardar da lontano le finestre del palazzo K*** nelle notti d'inverno! Ah, quell'ore d'agonia, quando si struggeva di abbracciare sua madre che, perduta tra le feste e i conviti, più non si ricordava di lui! Quelle erano state ore! E quando i furori della gelosia, i folli propositi di vendetta gli avevano sconvolto il cervello, per il tradimento di Ida Blùmer? Che emozioni! Che divini dolori!... Ed ora, più nulla!
Un giorno corse da sua madre.
La contessa K*** si preparava per un viaggio lontano, nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa si trovava nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona col viso tra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sì o no con un cenno del capo.
William irrompeva nella stanza.
La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo.
William non rifiniva dal baciarla.
Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore!
— Chiamami figlio! Chiamami figlio!
— Figliuolo, figliuolo mio! — ripeteva la contessa.
Il rimorso il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei.
William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto.
Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi!
— Qui le tue mani, sul mio cuore!... Premi forte!... Ancora più forte!
Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh! Maledetta quella scienza che lo aveva così ridotto!
VII.
La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus.
Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva più nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui.
Il dottor Cymbalus lo ricevette con la sua solita cordialità.
William gli espose quel che provava.
— Io non v'ingannavo, figliuolo mio! — gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. — Forse sarebbe stato meglio che vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza; osai sperare che la Natura non sarebbe stata inesorabile. Eravate così giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le le sue ineluttabili leggi.
— Addio dottore! — disse William.
— Abbiate coraggio, abbiate coraggio!
— Avrò coraggio.
Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguì con l'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi.
S'udì un'esplosione d'arma da fuoco.
Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove Usinger era scomparso.
William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita.
Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, con le lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole:
Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perchè con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!
Firenze, settembre 1865.
NOTA.
Quando Storia Fosca venne pubblicata la prima volta parecchi critici, parlando di essa, si compiacquero di ricordare la Curée dello Zola. Fu troppo onore per la mia novella, ma non senza un po' di ingiustizia.
Storia Fosca è uno studio dal vero fedelissimo in quasi tutti i suoi particolari, e i personaggi di essa vivono ancora. Ho letto, stampato in una memoria legale, il verbale del brigadiere dei carabinieri che ne chiuse la catastrofe; e lo avrei qui riportato, se il farlo non mi fosse parso un'arditezza soverchia. Quel brigadiere, ignorando i nostri scrupoli letterari, ha detto tali cose con tali parole che nessuno scrittore naturalista, come ora li chiamano, avrebbe il coraggio di ripeterle al più spregiudicato dei suoi lettori.
Non dico questo per farne un merito al mio lavoro — la realtà di un fatto importa assai poco, quando i personaggi non riescono qualcosa di vivente anche nel mondo dell'arte — ma unicamente per dimostrare che non mi è mai passata pel capo la balorda idea di rifare in piccolissime proporzioni il gran quadro della Curée.
Nè intendo protestare contro la critica; sarebbe puerile. Voglio soltanto accennare per quale ragione, narrando alla mia volta gli amori di una matrigna col figliastro, io credo di non aver oltrepassato il mio diritto di artista.
Oggi che il romanzo e la novella son diventati un vero studio psicologico, i caratteri dei personaggi, l'ambiente dov'essi vivono, le circostanze che li fanno agire occupano talmente il posto del fatto, prima creduto l'essenziale, che lo stesso fatto può esser ripreso e studiato con varietà indefinita. Da esso, trasportato in altro ambiente, come da invisibile nucleo, si svolge e si forma un nuovo organismo di caratteri e di sentimenti, non più vaghi e indeterminati, ma concreti, determinatissimi, del tal posto, del tale anno; ed è il completo trionfo dell'individuo vivo sull'individuo astratto, sul tipo classico, insomma una cosa perfettamente moderna.
Gli amori di una matrigna col figliastro, per esempio, non potevano considerarsi come novità neppure quando la Curée fu pubblicata. La novità consisteva nei caratteri dei personaggi, nell'ambiente così analiticamente studiato, nei particolari assolutamente parigini, dell'epoca del secondo impero; talchè l'incesto diventava una cosa proprio secondaria di faccia a tutte le circostanze che lo avevano determinato e prodotto.
Non rimaneva forse anche tale trasportato in altri luoghi, fra notevolissime differenze di caratteri e di sentimenti?
Ed ecco perchè non credo che, scrivendo Storia Fosca, io abbia oltrepassato il mio diritto di artista. Nè avrei mutato di parere nel caso che, invece di studiarla dal vero, l'avessi inventata di sana pianta.
NOTE:
1. Vedi la Nota in fine del volume.
2. Un cas de sonnambulisme par le dottor Croissart. Bruxelles, Mennier et fils, 1873. Un vol. en grand 18 avec portrait. L'edizione è esaurita; non se ne troverebbe una sola copia nemmeno a pagarla a peso d'oro. Un curioso, confrontando la narrazione del dottor Croissart con una pianta della città di Brusselle, ha notato che i nomi delle vie sono stati cambiati dopo il 1873.