A RENATO EDOARDO E ADELE MANGANELLA.

Carissimi

Nel dicembre del 1897, per festeggiare le vostre nozze, staccavo da questo romanzo, tuttora inedito, un capitolo—il primo—e ve l'offrivo…. interessatamente—scrivevo—perchè la vostra felicità di quel giorno fosse di buon augurio al mio lavoro.

"È impossibile—aggiungevo—che tanta giovinezza e tanto amore non portino buona fortuna all'opera di uno che vi vuol molto bene, che ha trepidato e sofferto con voi quando pareva vano sogno quel che oggi è lietissima realtà; di uno che, aguzzando lo sguardo nel vostro avvenire, si veda sorridere dinanzi agli occhi il raro spettacolo di due felici creature che alla bellezza, alla giovinezza e all'eletto ingegno seppero accoppiare quel che corona degnamente la vita, un fortissimo amore.

"Allora si saranno avverate come tu, Renato, hai cantato augurando,

del focolare le giovini gioie celate; la lampada, il tizzo, e due bimbi che intreccian tra risa beate di riccioli biondi due nimbi, com'alte in autunno le piante fiorenti riannodan corimbi. (LUCIO D'AMBRA. Monile)."

Oggi invece, i bimbi sono già tre, e Rassegnazione viene a compire la promessa da me fattavi nella letizia di quel giorno, e invoca di nuovo il buon augurio.

È libro un po' triste, come se ne possono scrivere soltanto dopo lunga esperienza della vita; ma è anche, in un certo senso, libro di entusiasmo e di fede non ostante lo scoramento che traspare dalle sue ultime parole. E se qualcuno degli illusi, come il mio Dario, ne ricevesse conforto e insegnamento a non chiedere alla vita più di quel che essa può dare, e ad amarla anche pel poco che talvolta concede, sarei orgoglioso che la mia opera d'arte riuscisse qualcosa di più che lo studio coscenzioso di una crisi dello spirito di parecchi nostri contemporanei.

Cordialissimi augurii pel nuovo anno; affettuosissimi baci ai vostri cari bambini.

Catania, 31 dicembre del 1906. LUIGI CAPUANA

RASSEGNAZIONE

I.

Ogni volta che ricordo mio padre, lo rivedo come in quel giorno, presso la finestra del suo largo studio, alto, aitante della persona, coi folti capelli brizzolati che gli mettevano una specie di aureola attorno alla fronte, con la barba fluente su l'ampio torace; e mi par di sentirne risonare la parola a scatti, accompagnata da vivacissimi gesti che rivelavano tutta la foga della sua anima forte ed equilibrata.

Era tornato da un viaggio in Francia e in Inghilterra per affari.

—Ora pensiamo a te!—mi aveva detto.

Avevo compiuto i miei studi liceali ed ero rimasto quattro anni incerto, esitante intorno alla professione da scegliere. Egli mi aveva lasciato libero di studiare a modo mio per scoprire in me l'indizio di qualche vocazione più spiccata; e non avevo scoperto niente. Vivevo appartato dalla società, divorando da mattina a sera libri di ogni genere, prendendo appunti, disegnando nelle ore in cui mi sentivo affaticato dalla lettura, ricevendo qualche visita di pochi amici studiosi al pari di me, ma che tramezzavano gli studi coi divertimenti, con gli esercizi corporali, e che io ammiravo grandemente perchè non potevo imitarli.

Ero timido, ombroso per la coscienza, della mia debole costituzione fisica che i medici avevano tentato invano di fortificare con ricostituenti di ogni sorta. L'aria della campagna—mia madre aveva passato due anni, con me in una villa comprata a posta dal babbo—mi era giovata pochino.

—Il ragazzo è sano,—aveva concluso finalmente il dottore.—Non sarà mai un atleta come il babbo; bisognerebbe rimpastarlo. Cessiamo di rimpinzarlo con troppi intrugli farmaceutici. La natura farà da sè, tra qualche anno.

Ero però rimasto mingherlino, palliduccio, serio più che all'età mia non convenisse. Avevo studiato bene, ma senza entusiasmo; continuavo a studiare. Ed ora, sul punto di varcare il limite della giovinezza ed entrare nella virilità—avevo vent'anni—mi sentivo tuttavia fanciullo di corpo e di spirito.

Riflettendo, certe volte mi sembrava di essere qualcosa di mostruoso, una creatura il cui regolare sviluppo fosso stato impedito da misteriose circostanze e che rimarrebbe tale per tutta la vita.

Per ciò, quel giorno, appena mio padre mi domandò che cosa pensassi di fare pel mio avvenire, io non seppi rispondere altrimenti che con uno scoppio di pianto dirotto.

Egli mi prese affettuosamente per le mani, stupito, domandandomi replicatamente:

—Perchè?

E siccome io non davo nessuna risposta, così, rilasciatemi, con un gesto d'impazienza e di contrarietà, le mani, si mise a passeggiare su e giù per lo studio, borbottando:

—Sei un fanciullo! Proprio un fanciullo!

Poi mi si accostò di nuovo, accigliato. Avevo alzato la testa per guardarlo in viso, per chiedergli scusa di quel pianto che tentavo invano di frenare.

—Il torto è mio,—esclamò.—Ti ho abbandonato troppo a te stesso. Avrei dovuto farti dolce violenza, sospingerti nella vita, iniziarti all'azione, strapparti ai libri…. Me ne accorgo in tempo. Per gli affari—soggiunse dopo breve pausa—non hai fibra resistente; e poi, bisognava cominciar di buon'ora, intendo per gli affari che ho fatto e faccio io….

Si era fermato quasi gli fosse sembrato meglio riserbare per sè quel che stava per dirmi. E, mutando tono di voce, continuò:

—Ho lavorato per te, com'era mio dovere. Tu non mi avevi chiesto di metterti al mondo; era giusto che pensassi io a renderti la vita meno triste e meno difficile che non fosse stata per me. Ci son riuscito. Non ti ho fatto milionario; i milioni, checchè ne dicano, non si trovano a ogni piè sospinto. Sei però ricco a bastanza da poter dire:—Voglio questo, con questi mezzi.—Ma risolviti. La vita è azione; ormai dovresti saperlo. Se i libri e lo studio non te l'hanno fatto capire, vuol dire che non giovano a niente. Quelli che io ho letti mi son serviti sempre a qualche cosa. Non ho mai studiato pel solo gusto di studiare, neppure quando avevo la tua età. Già allora me ne mancava il tempo; dovevo lottare contro la cattiva sorte. Per me, se il pensiero non diventa azione, azione di qualunque natura, è assolutamente cosa vana. Che intendi di fare?

—Non lo so; non ho nessun'idea chiara, intorno alle mie forze, intorno a una vocazione determinata. Non mi capisco…. Forse non sarò mai buono a niente!

Avevo risposto con voce commossa, abbassando la fronte, quasi mi vergognassi di quel che dicevo.

—Rifletti,—riprese mio padre;—ti do un mese di tempo. Prima di morire, voglio sapere che è mai diventato mio figlio; voglio andarmene all'altro mondo con la coscienza tranquilla anche su questo punto. Un figlio è l'opera più importante di cui si deve render conto a sè stessi, alla società, a Dio…. giacchè io credo in Dio, tu lo sai. Dando la vita a una creatura umana, si introduce nel mondo un elemento di forza, che può fare gran bene e gran male. Spasso il padre non è responsabile….

E credendo, a una mia lieve mossa d'impazienza, che intendessi di contraddirlo, si era interrotto, domandandomi:

—Non è vero forse?

Risposi con un gesto affermativo, volendo evitare una discussione.

Mi guardò un istante per convincersi della sincerità della mia risposta e riprese:

—Chi sa mai, procreando, se farà un delinquente o un grande uomo? La responsabilità comincia dopo. Per ciò mi piace di avere la coscienza netta; se occorre, voglio anticipatamente domandar perdono a Dio del male che mio figlio farà per colpa mia; voglio rallegrarmi del bene che opererà, se riesce un galantuomo. Galantuomo tu sarai senza dubbio. Non ti ho dato cattivi esempi. Ho lavorato, lavoro ancora, lavorerò finchè avrò forze. Forse ti paio uomo materiale, perchè uomo di affari; t'inganni. Ho fatto quel che sapevo far meglio, coscienziosamente, non risparmiandomi mai. Lavorando per me, ho giovato molto agli altri, ora senza volerlo, ora di proposito; nella vita accade così, anche pel male. Essere galantuomini però non è tutto; si può esser tali anche negativamente; almeno il mondo giudica così; chiama pure galantuomini, onesti coloro che si limitano a non fare danno agli altri. Io la intendo diversamente. Non fare il male è poco; bisogna, anche fare il bene, secondo le proprie forze, le proprie attitudini, servendosi delle circostanze. In che maniera vorrai tu farlo? È tempo che tu prenda una decisione e una risoluzione. Sei già uomo, capisci!

Non avevo mai sentito parlare mio padre con tanta serietà e tanta elevatezza. La sua voce mi penetrava nel più profondo dell'anima, mi turbava, mi sconvolgeva. Il suo sguardo, fissato nei miei occhi, mi pareva un raggio di luce che illuminasse quella profondità e me ne facesse scorgere tutta la miseria e tutto l'orrore.

Non valse l'ultimo addolcimento di voce con cui egli aveva pronunziato le parole: «Sei già uomo, capisci!»; non valse la carezza della sua mano robusta, passata amorevolmente sui miei capelli nel momento in cui mi alzavo dalla seggiola dove ero rimasto seduto mentre egli parlava, in piedi, davanti a me.

Uscii dal suo studio con un inesplicabile sentimento di rancore, che in quel punto non intendevo se contro di lui o contro le cose da lui dette; e andai a rifugiarmi nella mia camera. Non volevo pensare, non volevo riflettere. Avrei voluto dimenticare; ma era impossibile.

Mentr'egli parlava, la mia attenzione, più che dalle sue parole, era stata attratta dalla sua persona. Mi era parso un gigante, una creatura diversa da me, capace di ammaccare il mondo con un formidabile colpo di pugno; capace di sconquassarlo con una scossa delle braccia nerborute, con una spinta del suo petto di bronzo. Nella fronte ampia e negli occhi vivacissimi lampeggiava indomabile la volontà; e la tenacità dei propositi risaltava evidentissima da quelle labbra ombreggiate dai folti baffi, dall'espressione della testa che richiamava alla memoria quella del Mosè di Michelangelo, quantunque in proporzioni ridotte. Come mai da quel colosso ero potuto scaturire io, fragile creatura vissuta quasi a stento?

E mentr'egli mi diceva: «Tu non mi avevi chiesto di metterti al mondo; era giusto che io pensassi a renderti la vita meno triste e meno difficile che non sia stata per me», una risposta cupa, indefinita, una specie di accusa, mi fremeva dentro:—Perchè non hai saputo farmi forte come te? Dovevi cominciare da questo.—E mentr'egli mi diceva: «La vita è azione, ormai dovresti saperlo!», un'altra risposta non meno cupa non meno indefinita e non meno accusatrice, mi fremeva, non dirò nella mente, ma in tutte le fibre:—E perchè tu intanto mi hai fatto appunto così inetto all'azione?

II.

La mia timidezza proveniva, in gran parte, dal convincimento della inferiorità fisica a cui mi credevo condannato, e dal sentimento della mia inferiorità intellettuale che giudicavo dovesse risultare da quella.

Non già che io mi stimassi uno sciocco, no; sapevo benissimo quel che valevo; valevo quanto molti altri. Ma che importava? Non valevo però tanto da essere assai più di molti altri. Misuravo la distanza frapposta tra quel che sapevo di essere e quel che avrei voluto e non avrei potuto mai essere, e mi sentivo preso da scoraggiamento che mi rendeva eccessivamente severo con me stesso, fino a farmi giudicare inutile qualunque sforzo, anzi inutile la vita medesima! Avrei voluto essere un braccio, una mano; e potevo appena fare la funzione di un meschino strumento in mano altrui, caso che ci fosse stato chi avesse voluto adoprarmi in qualche umile circostanza. Non sapevo rassegnarmi.

In quei quattro anni, ero passato per una serie di prove tentate una dietro all'altra, non la speranza che, forse, quando meno me l'attendevo e da dove meno l'attendevo, sarebbe venuta fuori la coscienza della mia vita, la ragione del mio avvenire.

Ecco, invece, quel che n'era venuto fuori.

Ma prima debbo dire di un'altra anomalia del mio organismo.—Debole, ero poco sensibile; e avrei dovuto essere l'opposto.

Non mi eccitavo per nulla; non avevo scatti di ribellione o di allegria, come gli altri fanciulli. Ripensando, oggi, le mie sensazioni di allora, rimettendomi con la immaginazione in quello stato, mi sento intorpidito, impacciato, incapace di ricevere intero l'urto delle impressioni esterne, di trasformarlo, di assimilarlo; quasi mi mancasse l'attitudine della resistenza, quasi i miei nervi fossero stati di bambagia.

Era proprio così. Tutto veniva a posarvisi, ad adagiarvisi cautamente, dolcemente, sofficemente. E non posso prolungar molto questo sforzo dell'immaginazione per rivivere la mia fanciullezza e spiegarmela. Soffro ora quel che non soffrivo allora; mi sento mancar l'aria, mi sento imprigionato dentro me stesso; e mi vengono le lagrime agli occhi per quegli anni così smorti, così tristi, per quella, sto per dire, mia anticipata vecchiezza.

Soltanto una volta avevo avuto un lampo di coscienza durante il grigio torpore dei primi anni di scuola. Uno dei miei compagni mi aveva chiamato:—Mummia! Mummiaccia!—Dal tono della voce avevo capito che quella parola, di cui non intendevo il significato, doveva esprimere un'ingiuria; e, tornato a casa, avevo subito domandato alla mamma:

—Mummia, che vuol dire?

La mamma, poverina, me lo aveva spiegato bene; ed io ero rimasto pensieroso tutta la giornata, intento a indovinare quale relazione passasse tra una mummia e me.

—Non sono una persona morta!—pensavo.

Intanto l'idea che uno avesse potuto ingiuriarmi con quel nome, cioè che avesse potuto giudicarmi quasi persona morta, imbalsamata, fasciata—questi particolari avevano fatto maggiore impressione su la mia fantasia—mi die' per parecchi giorni un profondo senso di tristezza.

—Se colui ha potuto dirmi: Mummia!—riflettevo,—significa che ha veduto in me qualcosa che gli ha richiamato la mummia alla memoria.

Barlume di coscienza infantile, sparito presto e non rinnovatosi più.

Non godevo e non soffrivo.

Ricordo le sensazioni della mia vita di campagna, nella deliziosa villa comprata a posta dal babbo. Vi sono tornato spesso, in questi ultimi tempi, e principale occupazione colà è stata sempre quella di ricostruirmi con tutti i particolari la mia vegetazione di allora; non posso chiamarla altrimenti.

Le belle giornate, il verde dei campi, il canto degli uccelli, le acque scorrenti, le stesse affettuose premure della mamma, la compagnia dei bambini del mezzadro, niente penetrava a fondo dentro di me, niente riusciva a produrre un'eco di sentimento nella mia povera animuccia.

Restavamo soli colà, mia madre ed io, per mesi e mesi. Il babbo era costretto a viaggiare spesso dagli affari, dalle speculazioni commerciali, o era trattenuto in città. Scriveva quasi ogni giorno per avere notizie di me e s'impazientiva di non riceverle quali le avrebbe volute. Capivo questo dall'espressione del viso della mamma mentre leggeva la lettera tenendomi tra i ginocchi; lo capivo dalla sua invariabile esclamazione:

—Benedett'uomo!… Quasi fosse colpa mia!

—Che vuole il babbo?—le domandavo.

—Vuole che tu ti diverta, che tu corra, che tu faccia il chiasso con gli altri bambini, per diventar grande e forte come lui.

In quel tempo avevo per mio padre un sentimento di affettuoso terrore; sì, di affettuoso terrore. Mi compiacevo di sapermi voluto bene da lui; ma quand'egli arrivava, improvvisamente alla villa per uno o due giorni, avevo proprio una sensazione di terrore nel sentirmi sballottare tra le sue braccia, strusciar dalla sua barba allorchè mi baciava, trascinar per mano lungo i viali, pei sentieri delle colline, forzandomi a correre mentre egli camminava regolarmente coi larghi passi da gigante; nel vedermi tutt'a un tratto sollevato di peso, con un braccio, perchè potessi staccare un ramo, o cogliere un frutto da un albero che mi pareva toccasse il cielo, guardato da terra.

A tavola mi stupivo egualmente di mio padre, sgranando gli occhietti. Montagne di vivande sparivano dai piatti davanti a lui, rapidamente maciullate dai solidi denti dell'ampia bocca, inghiottite con vorace avidità, inaffiate da copiosi bicchieri di vino. La mamma, al confronto, mi sembrava un uccellino che beccasse appena le vivande; io, non occorre dirlo, mi riconoscevo assai meno: una mosca, un insettuccio.

Dopo desinare, quando non mi conduceva via con sè, lo guardavo dalla finestra; lo udivo gridare coi contadini, lo vedevo gesticolare, lontano; lo perdevo di vista tra gli alberi, e, poco dopo, lo rivedevo lassù, in cima alla collina, quasi vi fosse giunto con una volata; poi, in brevi minuti, di ritorno, frettoloso, pronto a partire.

—Vuoi venire con me?

Non rispondevo, interrogando con gli occhi la mamma.

—Lo porto in carrozza fino alla stazione.

La mamma non voleva. Era distante la stazione; avrei fatto troppo tardi.

Egli mi afferrava con le ossute mani, mi sollevava fino alle sue labbra, come un giocattolino, come un fuscello, mi strusciava di nuovo la faccia coi baffi e con la barba, per farmi il solletico—ci si divertiva—mi dava parecchi baci, mi riponeva a terra con atto rapido da sembrare che volesse buttarmi via, e spariva.

Quell'impressione di abbrividimento mi durava tutta la giornata.

La mamma mi faceva da maestra perchè almeno non dimenticassi il poco che avevo appreso a scuola, e le sue lezioni oltrepassavano di rado il quarto d'ora. Aveva paura di affaticarmi. Scambiava per stanchezza la nessuna curiosità di apprendere che io dimostravo.

Ella, sì, leggeva molto, in camera o nel prato all'ombra di un albero, mentre io giocavo fiaccamente coi bambini del mezzadro, che, vivacissimi, si sentivano impacciati della mia indifferenza. Qualche volta essi si arrestavano per guardarmi bene, stupiti di scorgermi così dissimile da loro, quantunque fanciullo come loro.

Una volta, accorso dalla mamma per domandarle la spiegazione di non so che cosa, la trovai che piangeva, pur continuando a leggere. Mi fermai a pochi passi da lei, non osando di avvicinarmi.

—Che hai? Perchè piangi, mamma?

Dalla sua risposta capii che la faceva piangere quel libro.

—Buttalo via,—le dissi,—è un libro cattivo!

—No, è anzi un bel libro,—rispose.—Un giorno, quando sarai grande, piangerai anche tu talvolta, leggendo. Non si piange di dolore, ma di piacere.

Non compresi; e tornai dai miei compagni, facendo dentro di me proponimento che quando sarei stato grande non avrei letto mai, mai, libri che potessero farmi piangere.

Ora mi sembra strano che io abbia potuto pensare una cosa simile. Ordinariamente, niente mi spingeva a riflettere anche un istante da fanciullo, come soltanto avrei potuto fare con la mia piccola intelligenza. Le sensazioni mi sfioravano appena, si smussavano nel mio contatto. Ero simile a una di quelle larghe foglie di piante acquatiche nuotanti nella vasca davanti a la villa, che non si bagnavano mai, e lasciavano scivolar l'acqua in goccioline iridate, senza neppur ritenerne l'umidore.

III.

Allo stesso modo avevo attraversato la giovinezza nelle scuole superiori imparando attentamente quel che m'insegnavano, riponendolo, con ordine, nei varii scompartimenti della memoria, come avrei potuto disporre nelle vetrine d'un museo minerali, conchiglie, farfalle, oggetti rari e preziosi, senza che tutto quel materiale prendesse realmente possesso di me, o, per dir meglio, senza che me lo assimilassi, lo rendessi pensiero mio; se non pensiero—era troppo presto—sentimento mio, insomma, intima parte del mio organismo spirituale.

Le cose da studiare giornalmente erano troppe. Le mie scarse forze vi si esaurivano. Non me ne rimanevano affatto per prender parte al chiasso, agli scherzi, alle scapataggini dei miei compagni. I quali, per qualche tempo, mi canzonarono spietatamente, chiamandomi: «la signorina». Poi, mi lasciarono in pace, non occupandosi più di me, quasi non esistessi per loro e non fossi un collega.

Tre di essi, cinque anni dopo, si stringevano con me in amicizia di studio; un po' forse, per la ragione che potevano approfittare delle nuove pubblicazioni italiane e francesi che io avevo i mezzi di comprare e che compravo perchè un libraio, per ordine di mio padre, me le mandava in osservazione a casa, e rimanevano sul mio tavolino, non badando io a restituirle neppure quando non facevamo per me; un po' anche perchè la mia attenzione allo studio, la facilità con cui apprendevo e ritenevo le cose apprese mi davano agli occhi loro una superiorità di cui non potevo insuperbirmi, non avendone nessuna coscienza.

Essi possedevano—specialmente due—assai più ingegno di me. Erano infatuati dell'arte, e cominciavano già a scrivere in certi giornali. Il terzo suppliva con la faccia tosta, con la presunzione, a l'ingegno che gli mancava. Discuteva con tutti schiamazzando, trinciando giudizi sbalorditivi, dicendo spropositi con aria così tranquilla, così convinta, che io lo stimavo quasi più di quegli altri, quantunque lo sapessi mediocrissimo. La sua faccia tosta, la sua presunzione mi parevano indizio di forza.

Ci riunivamo in casa mia nei giorni di vacanza. Facevamo qualche lettura—Bissi leggeva benissimo, con un po' di teatralità, se si vuole, ma efficacemente—e poi ci mettevamo a ragionare intorno ai lavori letti: poesia, novella, capitolo di romanzo. Dovrei dire—si mettevano a ragionare: il Lenzi e il Bissi avendo sempre molte belle cose da dire; il Lostini spropositando e chiacchierando per lo meno quanto quei due presi insieme.

Io mi meravigliavo di quel che il Lenzi e il Bissi potevano e sapevano cavare dal fondo dell'anima loro, suggestionati dalla lettura. Mi meravigliavo egualmente di quell'ammasso di cose strampalate che il Lostini sbrodolava; quasi spiattellasse le cose più nuove e più interessanti di questo mondo. A me non riusciva di dir nulla. Eppure mi pareva che avrei potuto dire le stesse cose che il Lenzi e il Bissi dicevano. Provavo la strana sensazione che essi parlassero pure per conto mio e che quelle idee me le cavassero di mente per mezzo di qualche operazione magica a me ignota; tanto le riconoscevo conformi al mio modo di sentire e di pensare. Se non che ero convinto che, da me, non avrei mai saputo metterle fuori, anzi che non avrei mai avuto, senza l'aiuto dei miei amici, neppure il sospetto che esse esistessero nel mio cervello.

A poco a poco intanto cominciavo ad avventurarmi nelle discussioni, a tentar di formolare con la parola quel che mi ribolliva in istato di indefinitezza nella mente e nel cuore. La parola, dapprima restìa, vaga, scialba, diveniva facile, colorita. La mia attitudine all'osservazione arguta e giusta si svolgeva lentamente ma gradualmente. Ora, infine, si meravigliavano essi di quel che dicevo; ma io me ne stupivo più di loro. Sentivo un piacere doppio, squisitissimo, e per la cosa detta e perchè l'avevo detta io, senza che altri me la cavasse fuori a mia insaputa.

Ma quando, dopo due o tre ore di questo esercizio, essi mi lasciavano perchè io non volevo seguirli a una passeggiata, a un divertimento dove sapevo che sarei rimasto estraneo per la mia timidezza e la mia ombrosità, mi sentivo riafferrare dal mio solito torpore; quasi l'anima mia tornasse a rinchiudersi dentro quel guscio da cui si era affacciata un istante per impulso altrui e non per sua propria virtù.

Il Lenzi e il Bissi erano due bei giovani: l'uno, biondo, con folti baffi e occhi cilestri, svelto della persona, di modi signorili, che l'accuratezza del vestire faceva spiccare meglio; l'altro, bruno, con occhi nerissimi, vivacissimi, barbetta fina, appuntata, baffetti un po' radi e capelli densi, tagliati a spazzola, sui quali il cappello a larghe tese non era mai calcato, quasi pesasse troppo e impacciasse la spaziosa fronte dentro cui si agitavano tante e tante cose—sogni d'arte e lieti fantasmi di avvenire. Il Lostini, alto, magrissimo, con mani che sembravano granfie, andava sempre in tuba e abito chiuso, con enormi colletti, enormi polsini, enormissime cravatte rosse o azzurre, spille da dar nell'occhio lontano un miglio, vistosi fiori all'occhiello e mazza con pomo di argento, ogni cosa all'ultima foggia e così esageratamente da far fermare le persone per via. Eppure io lo ammiravo; mi pareva che occorresse un bel coraggio per mascherarsi a quel modo.

Tutti i giovedì e tutte le domeniche egli arrivava in casa mia con un gran rotolo di manoscritto. Il Lenzi e il Bissi lo prendevano in giro spietatamente; gli davano senza cerimonie dell'asino e del cretino; ma egli non se ne offendeva. Spiegava il manoscritto sorridendo, lasciava passare la sturata dei motti pungenti, delle sanguinose ironie, e cominciava a leggere. Notavo che, alla fine, egli riusciva sempre a farsi ascoltare e discutere.

—Via, ditemelo francamente: non c'è male, mi pare. Questa volta l'ho imbroccata.

Non l'aveva imbroccata affatto. Io stupivo, riflettevo come mai non si accorgesse della miseria dell'opera sua, che il Lenzi e il Bissi gli analizzavano punto per punto, riducendogliela in minuzzoli, polverizzandola.

—E non parlo delle sgrammaticature!—conchiudeva il Bissi.

—Sgrammaticature poi! È un po' troppo!—egli protestava ridendo.—Lo dite per farmi arrabbiare. No; questa volta l'ho imbroccata!

E andava via con tale convinzione, annunziando tronfiamente che preparava un volume di versi giovanili, editi e inediti, per mettere in evidenza il proprio nome, per forzar la mano al pubblico. Aveva già trecento abbonati; le spese di stampa erano coperte. I guadagni sarebbero venuti dopo.

Il Lenzi e il Bissi parlavano anch'essi del loro avvenire, ma entravano nella mischia, nella lotta per la vita, ben altrimenti preparati ed armati.

Il Lenzi, studiando diritto, mirava alla deputazione, o alla diplomazia; avrebbe scelto quando fosse arrivato il momento opportuno; non disperava di diventare, un giorno o l'altro, ministro del regno d'Italia. Intanto, per rifarsi dell'aridità degli studi scientifici, si divagava con studi d'arte; li stimava valevoli mezzi, armi poderose, anche per un uomo politico.

Il Bissi, invece, odiava la politica, regno delle mediocrità, secondo lui, della volgarità, della materialità. L'attuale decadenza degli ingegni e dei caratteri non si doveva tutta ad essa? E non leggeva giornali quotidiani, viveva chiuso nel suo mondo estetico, ambizioso soltanto di guadagnarsi un bel posto nel gran movimento di rinnovazione artistica, che affermava prossimo a rivelarsi. In questa nuova fase della vita italiana, egli voleva trovarsi alla testa del movimento…. o tirarsi un colpo di pistola. Non cercava vie di mezzo; e si preparava benissimo anche lui.

Io soltanto non scorgevo nessun avvenire per me.

Non osavo fermarmi un momento a riflettere quale avrebbe potuto mai essere, nel caso che mi fossi deciso a rappresentare una parte attiva nella società. Non mi riconoscevo nessuna attitudine speciale, spiccata, per l'arte, nè per la politica, e molto meno per l'azione di qualunque natura. Mi sentivo condannato a vivere da parassita, a consumare senza produrre, a trascinarmi impotente tra la folla portata via dal turbine dell'attività industriale, letteraria, politica; oggetto di compassione o di riso o di disprezzo; fantasma tra tanti vivi. Niente altro!

Era possibile?

Eppure potevo osservare che qualche non lieve mutamento era avvenuto in me durante quegli anni di apparente inerzia. Un fine senso della concezione d'arte già traspariva dai miei ragionamenti. A ogni nuova lettura, mi sembrava che i confini della mia intelligenza si fossero spostati; intravedevo che un sordo lavorìo era dovuto accadere e accadeva tuttavia dentro di me; lavorìo di digestione, di chilificazione delle immense letture, operato nei più misteriosi recessi del pensiero, dell'energia intellettuale, allo stesso modo della digestione e della chilificazione dell'organismo fisico, se in certi momenti mi riconoscevo cresciuto e fortificato spiritualmente come prima non ero.

Perchè non mi provavo a fare, a produrre?

Il Lostini non riusciva perchè non sapeva, e intanto aveva l'illusione di poter fare, ingannato dalla sua fatuità e dalla sua presunzione. Col Lenzi e col Bissi non ardivo di paragonarmi. Erano organismi perfetti, delicatissimi; sapevano quel che volevano, dove tendevano e dovevano arrivare, e già coordinavano ogni loro minimo atto con quello scopo, sicuri delle loro forze, pronti ad abbattere gli ostacoli e col presentimento dell'immancabile vittoria in fondo al cuore.

Come li ammiravo e come li invidiavo!

IV.

Avevo probabilmente un'istintiva coscienza del mio difetto essenziale; capivo forse, senza possederne ancora netta intuizione, quel che c'era d'immensamente sproporzionato tra gli ideali che mi brillavano nella mente e le mie forze fisiche e intellettuali che avrebbero dovuto metterli in atto. Perciò evitavo di tentare. Avevo paura della delusione che subito sarebbe venuta dietro al tentativo. Pure, una volta, mi lasciai trascinare.

La virtuosità del Lenzi non mi produceva più il gran senso d'ammirazione di prima. Egli poteva scrivere una poesia, una novella, un articolo di critica—con noi parlava di arte soltanto; i suoi saggi di scienze giuridiche non ce li faceva neppur vedere—e non far mai cosa volgare. Versi e prose però non lasciavano trasparire una personalità originale. I riflessi altrui vi venivano fuori evidentissimi, quantunque assimilati con garbo. Egli stesso non dava nessuna importanza a quei capricci che rivelavano, qua e là, un'anima aperta alle diverse espressioni dell'arte.

Pel Bissi, l'arte era cosa sacra. Gli tremava la voce parlandone. Sapevamo che lavorava, lavorava; ma niente di preciso egli ci diceva dei suoi lavori, impedito da quella sua profonda riverenza religiosa, da quel suo gran pudore di artista che non voleva profanare la bellezza, mostrando gli abbozzi informi dov'essa non era riuscita a palesarsi intera.

Un giorno, finalmente, lo vedemmo arrivare a casa mia col cappello a larghe falde sulla nuca, con gli occhi raggianti, quasi spauriti.

—Vorrei leggervi….

E si era arrestato, per guardarci in viso.

Non dimenticherò mai le impressioni di quella giornata, l'urto, la spinta ricevuti, per cui potei illudermi che un uomo nuovo si fosse improvvisamente rivelato dentro di me, ricco di facoltà inattese e stupende. Per la prima volta non mi trovavo più di fronte a un'opera d'arte della quale non potevo penetrare tutti i misteri perchè ignoto mi era il processo d'incubazione che l'aveva formata ignota la persona dentro il cuore e la mente della quale esso aveva avuto luogo, ignoto l'ambiente che aveva contribuito ad agevolarlo.

Mentre il Bissi leggeva, io avevo la pura visione del miracolo creativo in atto. In quei personaggi della sua novella, nel loro sentimenti, nelle loro passioni, nelle azioni, nelle parole, nel paesaggio, in ogni minimo particolare, io riconoscevo qualcosa; ne indovinavo la provenienza; scoprivo relazioni intimissime. Assistevo al mirabile lavoro di fusione e di organamento, all'esplosione della vita, e senza che quell'analisi nuocesse punto all'effetto dell'insieme. Vedevo, per dir così, le parole, le immagini accorrere spontaneamente, come per virtù di attrazione, aggrupparsi, combinarsi. E con le parole e con le immagini le cose, i colori, i sentimenti; particelle di osservazioni fatte insieme; fitto pulviscolo di sensazioni, di reminiscenze sue e mie, che si era agglomerato, ed era diventato unità, forma, avvenimento, opera d'arte insomma. La quale era l'anima di colui che leggeva, e, nello stesso tempo, cosa affatto diversa; riproduceva in sè l'accento della voce di lui, ne rivelava i gesti, tutta l'aria della persona, eppure non poteva dirsi precisamente lui, perchè quelle poche creature, di cui la novella narrava i casi, svolgeva le passioni, riferiva i dialoghi, erano poi creature viventi da per loro, col loro accento, coi loro gusti, con la loro distinta individualità, proprio come colui che le aveva create e che non aveva niente di comune con noi tre intenti ad ascoltarlo, rapiti!

La potentissima corrente che si era sprigionata, da quell'opera d'arte mi aveva penetrato, abitato, reso convulso.

Producendo una benefica rivelazione di me a me stesso, mi aveva infuso potenza di creazione artistica, quasi essa non fosse stata opera del mio amico, ma mia; quasi il Bissi non avesse fatto altro che leggerla benissimo, come io non avrei saputo, prestandomi soltanto la voce, l'accento, e nulla più.

E quando la lettura fu terminata, e il Lostini, levando in alto le scarne mani, esclamò scioccamente, al suo solito:—Tu sarai il primo simbolista d'Italia!—io, che ordinariamente tacevo e lasciavo prima parlare gli altri, scoppiai in un energico:

—Zitto! Non dire bestialità!

E abbracciai e baciai il Bissi che invocava, umile e commosso, il giudizio del Lenzi e il mio.

Attesi con impazienza che essi fossero andati via per raccogliermi, per mettermi subito al lavoro. Avevo dentro di me un confuso ribollimento da cui credevo dovesse immediatamente scaturire una consimile opera d'arte: novella, romanzo, non avrei saputo specificarlo; ma qualcosa di vivo, di nuovo.

E per due settimane l'illusione persistette, diminuendo a poco a poco d'intensità, senza che io me n'accorgessi.

Lottavo accanitamente contro la resistenza che la forma mi opponeva; mettevo il mio stento a carico dell'inesperienza, delle difficoltà d'un primo serio tentativo; chiudeva gli orecchi alla voce della coscienza critica che si andava risvegliando e mi faceva intravedere tutta la inettezza del mio lavoro. Alla fine, non ebbi neppure il coraggio di consultare gli amici; avevo riconosciuto la mia impotenza creativa in maniera così evidente, che ne sentivo vergogna e rimorso come di un delitto commesso di nascosto. Ero riuscito a far peggio, molto peggio del Lostini!

Negli scritti di lui v'era la volgarità, la sciattezza, ma qualcosa di organico; nel mio lavoro questo qualcosa mancava.

Il Lostini, studiando, avrebbe potuto riuscire a far meglio, forse a far bene; io no. In quel cervello bislacco e incolto esisteva quel tal «che» indefinibile che nessuno studio può far acquistare.

Oh, non era più possibile illudermi! Avrei potuto divenire qualunque cosa; grande artista, no, mai! E la mediocrità, che a quel giovane non dava ombra, a me faceva orrore. Quest'orgoglioso sentimento era il mio supplizio.

Allora, con spietata insistenza, presi a studiare tutti i sintomi della malattia che mi affliggeva.

Che cosa avrei potuto essere?

L'avvocatura richiedeva mezzi diversi da quelli dell'arte; ma mi mancava la fluidità della parola, l'arditezza e la rapidità della concezione che fanno dell'avvocato un mirabile stratego. Mi mancava, sopratutto, quell'elasticità di coscienza da permettermi di credere alla bontà di qualunque causa, purchè vi fossero stati un'imboscata, un tranello da tendere al codice o alla procedura; e mi ripugnava il sapere che sarei stato cosa del cliente, suo schiavo!

La medicina e la chirurgia mi venivano interdette dalla mia debole costituzione; il male fisico mi dava nausee invincibili; e mi repugnava inoltre, egualmente, il dover essere cosa del cliente, suo schiavo!

Gli affari?

Avevo l'esempio di mio padre. Ne avevano assorbito tutta la forza, tutta l'attività, tutto l'ingegno. Era stato forse un uomo libero lui, attanagliato dalle grosse speculazioni, dai grossi appalti, dai giuochi di borsa, sempre agitato dall'ansia di un tracollo e dalla crescente smania di guadagnare sempre più?

Aveva avuto però un ideale, uno scopo: suo figlio; questo sangue del suo sangue, questa carne della sua carne, questo misero inetto, che la cecità dell'affetto paterno non gli faceva riconoscere tale; questa infelice creatura in cui il dissidio tra il pensiero e l'azione si rivelava così mostruosamente, così irreparabilmente alla luce di quella stessa cultura che avrebbe dovuto dargli vigore!

Col gran numero di volumi di ogni genere divorati in quei quattro anni, tutto lo scibile umano ripensato, analizzato, rifatto dalla positiva scienza moderna, era passato a traverso il mio cervello e vi aveva lasciato un germe di orgoglio. Vivevo soltanto con la testa. Il cuore, la immaginazione mi si erano dunque atrofizzati? Infatti, niente di fresco, di giovanile sentivo in me. Invano avevo vent'anni! L'unico mio svago era stato disegnare; disegnare aridamente; copiando disegni altrui. Quando però mi convinsi che pure in questa meschina operazione la secchezza dell'anima mia traspariva nella rigidità delle linee, nella durezza degli scuri, smisi subito nauseato.

Mi sentivo invadere da profonda pietà di me stesso e insieme da profondo disprezzo. Mi pareva che si adempisse sopra di me una giusta vendetta per tutti quegli agi immeritati che mi rendevano facile la vita e mi toglievano da ogni bassa occupazione manuale.

Chi più infelice di me, che pure stavo comodamente seduto in quel vasto studio invaso dal sole, ornato di belle piante esotiche, cinto torno torno da eleganti scaffali dove si allineavano centinaia e centinaia di volumi pronti a ogni appello, capaci di rivelarmi i più riposti misteri della scienza, le più eccelse bellezze dell'arte, e che quasi non avevano nessun segreto per me?

Mi ero seppellito, sì, da me stesso in quella tomba ridente, ma che altro avrei potuto fare?

E là avevo sorbito, a stilla, a stilla, il sottile veleno del pensiero, per cui ora credevo che la vita avesse valore soltanto quando poteva raggiungere il suo più alto grado di espressione e di forza; là mi ero inorgoglito di essere uomo, e avevo voluto riuscir tale nel più nobile significato di quella parola!

Artista o pensatore, giacchè uomo di azione non era il caso; ma grande artista, gran pensatore…. o niente! Non aggiungevo come il Bissi:—O un colpo di pistola!—Mi mancava l'energia di pensarlo.

E tutto quel lieto sorriso di sole che inondava lo studio, quella luminosità che si riverberava nei mobili, nei quadri, nei ninnoli di bronzo e di porcellana, nel verde delle trasparenti foglioline dei bambù presso la finestra, mi parevano un'amara irrisione, un insulto in quel momento; m'incombevano, peso enorme, su l'anima trambasciata dall'evidenza della mia inanità. Mobili, quadri, ninnoli, piante avevano brividi di vita sotto la carezza del sole e dell'aria primaverile che penetrava dalle aperte finestre. La sola cosa morta colà ero io, disteso su la poltrona, davanti alla vasta scrivania ingombra di libri e di carte! No, un'altra cosa morta mi faceva compagnia: quell'aborto, quello sciagurato tentativo di arte su quei fogli rabbiosamente brancicati, strappati a metà e buttati alla rinfusa parte su la scrivania, parte per terra; e che io guardavo con occhi sbarrati, quasi brani di me squartati da spaventevole mostro, nei quali mi pareva di scorgere gli ultimi sussulti della vita che si spegneva!

V.

Perciò non mi ero mosso, sentendo replicatamente picchiare all'uscio; perciò non mi ero sollevato dalla poltrona vedendo quel bel bambino biondo, coi riccioli spioventi attorno al collo e i grandi occhi interroganti e il sorriso ancora più interrogante degli sguardi, affacciatosi all'uscio cautamente da lui aperto.

—Dormi?—mi domandò.

E non vedendomi muovere, era entrato saltandomi addosso, gettandomi le braccia al collo per baciarmi.

—C'è la mamma di là, in salotto, dalla tua mamma. Io mi annoiavo, e sono venuto da te. Mi mandi via?

—No.

—Stai così zitto! Che hai?

—Niente.

Lo sollevai tra le braccia, lo baciai, lo misi a terra, stirandomi tutto per scacciare il torpore che mi aveva invaso; osservandolo con intenso piacere, mentre lo tenevo per le mani un po' discosto, quasi lo vedessi allora per la prima volta.

Bello, sano, forte, con quei lunghi capelli e lo svelto vestito alla marinaia, più che bambino, mi pareva già uomo, tanta espressione d'intelligenza aveva negli occhi e nella fronte, tanta pienezza di energia mostrava nell'atteggiamento della persona.

—Oggi è vacanza!—mi disse, accompagnando le parole con un vivacissimo atteggiamento della testa.

—Non ami la scuola?

—Sì; ma mi piace pure fare il chiasso e andare attorno con la mamma o col babbo.

Moveva rapidamente gli sguardi in giro per la stanza, come se volesse abbracciare ogni cosa con una occhiata; poi si era fermato ad osservare i libri che riempivano gli scompartimenti degli scaffali.

—Li hai letti tutti?—domandò, additandomeli.—Anche il babbo ne ha molti—non tanti—e me li darà quando sarò grande. Ma io voglio piuttosto le sciabole, le pistole, le lance, i fucili appesi alla panoplia—si dice così?—nello studio del babbo. Voglio essere generale io, andare in Africa e ammazzare tutti gli abissini che hanno scannato a Dogali i nostri soldati.

—Chi te l'ha detto?

—Il babbo; lo leggeva nel giornale e io stavo a sentire. E poi ho visto i ritratti…. le figure. Come sono brutti gli abissini! Senti. Ho messi in fila i miei soldatini di piombo, ne ho più di cinquanta, e ho detto:—Voi siete abissini!—Poi, presa la mia sciabola di latta, piff! paff! gli ho buttati per terra e gli ho lasciati là.

—E se gli abissini, quando andrai in Africa, ammazzeranno te?—replicai per provocarlo.

Fece una spallucciata sdegnosa, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, e arditamente rispose:

—Prima ne ammazzerò almeno un centinaio! Non sarò solo; comanderò tanti soldati, su un bel cavallo come quello del re.

E moveva le gambe per imitare lo scalpito del cavallo, ergendo la vita, facendo il gesto di infrenarlo per le redini, quasi in quel momento stesse proprio sul dorso di un focoso animale.

Io lo guardavo stupito. Che rigoglioso sviluppo di facoltà in quella creaturina di sette anni! Come le mosse della persona, la prontezza della parola ne mostravano la ferma volontà, la coscienza di potere, la sicurezza di sottomettere tutto alla sua forza! Non riflettevo in quel momento che poteva trattarsi di una spavalderia di bambino; pensavo soltanto che io non ero mai stato capace di sentire e di immaginare qualcosa di simile, e non ne ero capace neppur ora!

Si era avvicinato al tavolino dov'erano ammucchiati tutti i miei lapis, le carbonelle, i pennelli, accanto ad una scatola di colori per acquarello; li esaminava attentamente.

—Faccio un pupazzo?

E senza attendere il mio permesso, aveva intinto un pennello, sorridendo della propria arditezza, mentre prendeva un foglio di carta e se lo aggiustava dinanzi. Mutò pensiero a un tratto:

—Fammelo tu, ma bello! Un soldato con cappello da bersagliere.

—Un'altra volta,—risposi:—Oggi sono occupato.

—Allora me ne vado.

Era corso verso una pianta di bambù. Ne accarezzava le foglioline, ne piegava gli esili rami.

—Come si chiama questa pianta?

—Bambù.

—Quella di cui si fanno le mazzettine?

—Sì.

—Me ne farai una? Bisogna che la pianta cresca, è vero? perchè il fusto s'ingrossi. Mi hanno chiamato?

—Mi è parso.

Mi tese la mano, con agile atto di persona matura, e, nel socchiudere l'uscio, affacciò la testa tra i battenti per rammentarmi:

—Con cappello da bersagliere, hai capito?

Che misera creatura ero io, se sentivo di valere assai meno di quel bambino di sette anni!

VI.

Mio padre arrivava in mal punto.

Ero, da più giorni, tormentato da questa convinzione della mia inettezza a qualunque cosa che veramente meritasse di occupare l'intelligenza di un uomo. In certi momenti mi domandavo se quella sproporzione tra la mia idea e le mie forze fisiche e mentali non fosse grave sintomo di degenerazione o di pazzia.

Riflettevo:

—Un gran poeta, un gran romanziere, un gran drammaturgo, qualunque grande artista, qualunque gran pensatore è tale quasi senza saperlo. A nessuno di essi dev'essere mai passato per la testa:—Voglio essere questo! Voglio essere quest'altro!—Si sono sentiti artisti, pensatori, o meglio hanno operato da artisti, da pensatori, creando, ragionando, facendo naturalmente, semplicemente la loro funzione. Chi dice, come me:—Vorrei essere questo! Vorrei essere quest'altro!—ha già la coscienza di essere tutt'altro.

Che sono io? Un orgoglioso, un vanitoso! Un uomo mancato!

E inutilmente soggiungevo:

—Al pari di mille e mille altri!

Questo non mi consolava, non leniva il mio tormento.

Fino al giorno però in cui mio padre venne improvvisamente a disperdere le mie ultime illusioni, io non avevo ancora sentito l'abbattimento così disperato che quel giorno mi faceva singhiozzare bocconi sul letto, brancicando la coperta con mani convulse.

Mi sembrava che il mondo fosse crollato attorno a me e che fosse sparita ogni luce.

—Dario! Dario!—sentii chiamare.

Era la voce di mia madre.

Mi asciugai in fretta il viso bagnato di lacrime, cercai di dissimulare la mia angoscia e corsi ad aprire l'uscio.

—Dario!…

Mio padre le aveva accennato qualche cosa di ciò che mi aveva detto poco prima, e la povera donna accorreva per temperare l'asprezza da lei sospettata nelle parole di lui.

—Oh, mamma!—esclamai, gettandole le braccia al collo e chinando desolatamente la testa, sul suo petto ansante.

—Coraggio! Tuo padre ti vuol bene. Non prendere in mala parte i suoi consigli, la sua insistenza.

—Il babbo ha ragione,—risposi con voce cupa.

—Ascoltami, Dario!—ella soggiunse affettuosamente.

E mi condusse per mano verso il canapè forzandomi a sedere accanto a lei.

Era un po' pallida, ma sorrideva con tale espressione di dolcezza e di benignità, che io sentii dileguare quasi tutt'a un tratto quel fremito di rancore destatosi nel mio animo mentre mio padre parlava.

—Ho fatto come tuo padre,—cominciò;—ti ho lasciato pienissima libertà riguardo al tuo avvenire. È giusto che i genitori non pesino per nulla su questa scelta perchè possono facilmente ingannarsi e indurre in inganno.

—Ah! Non ho da scegliere,—la interruppi.—Ogni via mi è chiusa.

—Credi tu dunque di averle esaminate tutte?

—Tutte!

—Lo so; tu vorresti farti onore nel mondo con le opere del tuo ingegno; vorresti arrivare in alto, alla cima; la mediocrità ti fa orrore; me lo hai detto più volte. Hai tentato, ti è parso di non aver forza da riuscire, ed hai perduto la fiducia che ti aveva sostenuto finora. Sei orgoglioso e modesto nello stesso punto, e ciò onora molto la tua intelligenza e il tuo cuore. Io non m'intendo di queste materie; la mia cultura è troppo scarsa da poter giudicare se hai torto o ragione. Mettiamo che tu abbia ragione. Che vuol dire? Se tutti la pensassero come te, la società perirebbe d'inerzia. Ciascuno di noi porta dentro di sè qualche sogno non mai potuto realizzare; ed io credo che sia bene che avvenga così. Non è certo, figliuolo mio, che avremmo raggiunto la felicità o la gloria, realizzando quel sogno. Nella vita poi vi sono còmpiti umili o modesti non meno necessarii nè meno utili del còmpito dell'artista e dello scienziato. E ci vuole grandezza d'animo e quasi eroismo per eseguirli senza rimpianto di maggiori cose, attentamente, amorosamente, non come penoso dovere, per non sopportarli soltanto come inevitabile croce. Non ti meravigliare che io parli così. Non ripeto cose imparate dai libri; esprimo quel che ho pensato e meditato da anni, silenziosamente, portando dentro di me il mio sogno rimasto tale, ed eseguendo il mio còmpito rassegnatamente, con lo stesso amore con cui lo avrei eseguito, se lo avessi scelto di mia libera volontà.

—Anche tu, mamma?—la interruppi stupito.

—Oh, non immaginare niente che possa eguagliarsi a quel che tu desidereresti di raggiungere! Raramente il pensiero di una donna va più in là della famiglia, di quel nido di amore dove ella vorrebbe essere schiava e regina nello stesso punto. Mia madre è stata un'eletta. Tu non l'hai conosciuta. Avresti avuto una nonna adorabile. Era bellissima e di bontà immensa. Più che coi precetti, mi ha educata con l'esempio. Creatura felice, ha fatto felice l'uomo del suo cuore, e quanti le stavano attorno. Credevo che avrei dovuto avere la stessa sorte; potevo ambirne una migliore?… Invece!… Non accuso qualcuno, e meno di tutti tuo padre.

—Anche tu, mamma?—replicai guardandola fisso negli occhi, quasi temessi che ella, non volesse svelarmi il suo doloroso segreto, e tentassi di carpirglielo per forza.

—Non accuso qualcuno,—ella riprese,—e meno di tutti tuo padre. La sua condizione era molto diversa della tua. Un disastro economico della sua famiglia lo ha costretto a rifare col lavoro quel che l'imprevidenza di suo padre e la furfanteria degli altri gli aveva improvvisamente rapito. Poi, quando la fortuna ebbe aiutato i grandissimi sforzi di attività che egli era riuscito a fare, quella stessa febbre di speculazioni, di imprese, di appalti, di scommesse di borsa che lo aveva risollevato in alto, lo ritenne, quasi sua preda, lo sopraffece, gli die' la vertigine. Fu marito e padre soltanto nei primi anni del nostro matrimonio; dopo, è stato, in famiglia, una macchina creatrice di ricchezza; non ha avuto tempo di esser altro. Sballottato di qua, di là, pel mondo, si ricordava di me unicamente per farmi sapere che mi voleva felice, assieme col figlio, e che tutta la sua vita era consacrata a questo scopo. Ma per lui la felicità consisteva nella ricchezza; in niente altro. Io gli sono stata e gli sono gratissima di questa buona intenzione; e ringrazio Iddio che lo ha aiutato in ogni sua impresa. Egli però, te lo dico senza ombra di rancore, ha voluto altrimenti. Io avevo te, ero assorta nelle cure della tua malferma salute, nella tua educazione, e mi mancava il tempo di essere gelosa, di dolermi di esser messa da parte nella sua vita, di essergli divenuta presto, se non un'estranea, certamente non più la donna sua, come sposandolo avevo sognato. Sono stata rispettata, stimata infinitamente; amata, no!

—Povera mamma!—esclamai.

—Non mi compiangere. Ho avuto la buona ventura di rassegnarmi. Quel mio sogno di ragazza mi si è rifugiato in fondo al cuore, vi si è nascosto e addormentato; ed oggi è la prima volta che lo sveglio e torno a guardarlo. Tuo padre non ha mai sospettato che io soffrissi in silenzio, e che rimpiangessi qualche cosa. Mi ha creduto forse indifferente, fredda, anima creata a posta per stare sottomessa, formata per servire un padrone.

—Oh! Tu sei stata dunque una martire, mamma?—dissi, prendendole le mani e baciandogliele ripetutamente.

—Martire è troppo, figlio mio!

Sorrideva serena. Ma negli occhi e in certe pieghe delle labbra le si scorgevano facilmente segni di profonda tristezza.

—Non sono stata felice—continuò—come tuo padre probabilmente ha creduto. Forse, un po', la colpa è mia. Ho avuto un senso di orgoglio che mi ha chiuso la bocca. Nessuno ha mai saputo quel che avveniva dentro il mio cuore. Non mi sono mostrata espansiva neppure con te. E questa casa invidiata, creduta albergo di felicità, ha spesso visto tre ombre aggirarsi per le sue stanze: una, quella di tuo padre, agitata da fantasmi di speculazioni, di intraprese industriali, di progetti di nuovi guadagni; l'altra, la mia, muta, passiva, con una maschera sul viso che impediva alla gente di penetrare il mio doloroso segreto; terza, la tua, povero figlio, tormentata da una gran visione di creazione artistica e di gloria. E siamo vissuti quasi non fosse stato tra noi niente di comune, intendo niente d'intimo; lasciando che ognuno agisse a modo suo, legati unicamente da quelle relazioni materiali di famiglia che bastavano a tenerci insieme. Può darsi che io esageri; può darsi che io giudichi con parzialità. Giacchè tuo padre, in mezzo alla ressa, alla tormenta degli affari, ha pensato sempre a te, al tuo avvenire. Egli ha goduto la vita di viaggiatore che prende qualche cosa, via via, nei buffet delle diverse stazioni, in piedi, senza aver tempo di scegliere, di far lo schizzinoso. Ha cercato il meglio che poteva avere sottomano, si è servito spensieratamente ed ha ripreso il treno, soddisfatto, contento della corsa che lo avrebbe fatto presto arrivare alla mèta del suo viaggio. E viaggiando, ha pensato che coloro che rimanevano in casa sua, dovevano anch'essi essere soddisfatti e contenti perchè potevano godere il frutto del lavoro di lui senza darsi pensiero di nulla. Sono stata forse una donna per tuo padre? Ha supposto che potesse bastarmi l'essere madre quasi per caso. Egli aveva avuto da me quel che desiderava: un figlio. Non voleva averne altri, per non disperdere tra parecchi una sostanza che gli sembrava appena sufficiente a concedere piena indipendenza a un solo. Non me l'ha mai detto; me l'ha fatto capire dal suo contegno; ed io non ho voluto contristarlo ribellandomi. Pensavo:—Chi sa ch'egli non abbia ragione?—E l'idea che facendo diversamente avrei potuto mettere qualche ostacolo al tuo futuro benessere, mi ha infuso la gran forza di rassegnarmi.

Io non osavo d'interromperla, e l'ascoltavo vinto da un senso di maraviglia e di compassione. Una dolce vena di tenerezza mi scaturiva, inattesamente, nel cuore, e me lo inondava tutto. Mi sembrava che quanto di umano, di affettuoso, di carezzevole era fin allora rimasto quasi condensato in ghiaccio nella profondità del mio organismo, si liquefacesse soavemente, cominciasse a circolarmi per le vene, mi infondesse una vitalità nuova di cui non avevo nessuna idea.

Mi sembrava di essere tornato bambino, di crescere di mano in mano, là, sotto gli occhi di colei che mi guardava amorosamente pronunciando, con voce flebile ma armoniosa, quelle significative parole che non erano suoni soltanto ma onde luminose e benefiche.

Così capivo di essere ancora giovane, di avere aperta davanti ai miei passi una via di vita, di gioia, di attività assai ben diversa da quella che l'aridità dei miei studi mi aveva fatto fin allora intravedere. Così mi balenava allo sguardo interiore dell'anima la possibilità di essere qualche cosa anch'io, quantunque non più quel che avevo fantasticato nell'orgoglioso raccoglimento in cui ero vissuto tant'anni.

—Parla, parla ancora, mamma!—avevo esclamato con voce tremante, e sentendomi riafferrare dalla disperazione appena l'avevo creduta quasi vinta.

—Io ho atteso con fiducia questo momento,—ella rispose.—Ricordi? Ogni volta che mi confidavi i tuoi alteri progetti di avvenire e mi mettevi a parte delle tue angosce, delle tue delusioni, delle tue nuove illusioni, io ti dicevo:—Tu puoi giudicare meglio di me, povera donna quasi ignorante. Sei troppo giovane, hai tempo di riflettere!

—E soffrivo per te, non già perchè il tuo sogno mi sembrasse irraggiungibile, ma perchè diffidavo di quel sogno, da donna, da madre. Ti vedevo, con profondo dolore, cercare la soddisfazione della tua anima, la tua felicità là dove ero convinta che non avresti potuto trovarle. Ma non osavo dirtelo; non me ne riconoscevo l'autorità, per quanto il mio dovere di madre potesse scusarmi, se mai lo avessi tentato. Ora però….

—Parla, parla, mamma!—imploravo.

—Ora che tu stesso….

—Ah!… È orribile, mamma! Mi par di morire!

—No, la vita non consiste tutta nell'intelletto; somiglia a una immensa gradinata. È bello aspirare di salirne la cima, di poter parlare al mondo da quell'altezza con la parola dell'arte o della scienza; ma non è avvilente fermarsi a metà o più giù….

—Confuso tra la folla, zero che dà valore a un'unità!—la interruppi amaramente, sentendomi tutt'a un tratto affluire alla bocca il fiotto attossicato della mia delusione, vedendo sparire, quasi irridendomi, gli ultimi lembi del miraggio che mi aveva abbagliato e sedotto.—Oh!—continuai rizzandomi in piedi.—Rinuncio a tutto! Vegeterò, non vivrò. Tu mi aiuterai a sopportare la lunga agonia, se questo miserabile mio corpo si ostinerà a durare! Non aprirò più un libro, non penserò più! La mia intelligenza dovrà atrofizzarsi alfine, e lasciarmi bestialmente tranquillo. Oh!… Rinuncio a tutto; vegeterò, non vivrò!

E così esclamando, avevo la strana sensazione che un'altra persona parlasse a quel modo per bocca mia.

Allo sdegno, al rancore si mescolava intanto quel senso di tenerezza che la rivelazione di mia madre mi aveva fatto, poc'anzi, scaturire nel cuore. E pur balbettando con rabbia, quasi per fissarmelo bene nella memoria:—Rinuncio a tutto! Vegeterò, non vivrò!—la carezza di quel sentimento m'insinuava:

—Vivrai! Vivrai! La vita ha ben altro di quel che tu, miope, vi scorgi!

VII.

Non saprei dire se mia madre rispose qualche cosa a quella sfuriata, o se il ricordo delle sue parole mi è sparito dalla memoria. Rivedo il triste caro volto, anzi soltanto quegli occhi umidi di lagrime, pieni d'immensa pietà fissi su me per tentar di calmarmi; e non rammento altro.

Che cosa avvenne quella notte nelle profondità del mio spirito? Qual lavorìo si compì senza che la mia coscienza vi prendesse parte?

Mi svegliai quasi tranquillo, con un gran bisogno di aria libera, di luce diffusa.

Una delle finestre del mio studio dava sul giardino della casa vicina. Il sole già dorava la cima degli eucalypti che vi si elevavano rigogliosi, e i passeri facevano allegra gazzarra tra i rami. Un tumulto quasi simile mi si destava a poco a poco nel cuore, come se la giovinezza incominciasse quella mattina a pispigliare dentro di me le sue prime note gioconde.

Ed ecco la voce di mia madre, grido doloroso di appello:

—Dario! Dario!

Ed eccola apparire su la soglia, pallida, agitando le braccia, senza poter profferire parola, con gli occhi smagriti dal terrore….

—Tuo padre!…—balbettò finalmente, trascinandomi via con una mano.

Quel colosso che ieri avevo visto davanti a me, esuberante di vita e di salute, giaceva rovesciato per terra, come una quercia sradicata dall'uragano, con le dita attrappite sul cuore, con gli occhi stravolti e la bocca contorta dal colpo apoplettico che lo aveva fulminato nel punto di stender la mano alla tazza di caffè fumante ancora su la tavola da pranzo.

Parlava con mia madre, lieto che un suo affare già si fosse avviato bene, contrariamente di quel che egli temeva…. e tutto a un tratto, senza un grido, senza un gesto, era barcollato ed era cascato col capo indietro. Un rantolo, un rapido scomporsi della sua bella fisionomia….

Tutto era dunque finito?…

Mi sembrava impossibile che fosse proprio così!

La mamma e io lo sollevammo a stento, lo adagiammo sul divano credendo ancora che si trattasse di uno svenimento, di un malessere passeggero. Infatti il corpo aveva fremiti, sussulti che illudevano.

—Babbo! Babbo!—chiamavo quasi per destarlo, reggendogli il capo, intanto che la mamma dava gli ordini per un dottore.

Gli occhi si chiusero lentamente, i muscoli contorti della faccia si distesero, e il capo mi si appesantì su le braccia, chinandosi da un lato!

Mia madre, ritornata con due guanciali, volle insinuarli ella stessa sotto la testa del babbo, ignara dell'irrimediabile disastro; ingannata anche dall'apparente tranquillità—invece era istupidimento—che mi leggeva sul volto.

Non piangeva neppure lei, non poteva piangere; si torceva le dita guardando, di tratto in tratto, all'uscio da cui doveva entrare il dottore, smaniando pel ritardo; ed ora accarezzava la faccia del babbo con lievi passaggi delle mani tremanti, ora rivolgeva a me timide occhiate interrogatrici che facevano intravedere lo spavento di una possibile tremenda risposta.

Quel quarto d'ora di angosciosissima attesa mi parve un secolo.

Che mi attendevo dal dottore? Ero impietrito, convinto che la sua presenza oramai fosse inutile; eppure respiravo con ansia, celeremente, quasi il mio ansare potesse influire ad affrettarne l'arrivo. E in quel momento, con lo spettacolo sotto gli occhi di colui che ormai sapevo cadavere in cui nessuno avrebbe potuto infondere un nuovo respiro di vita, tendevo l'orecchio al cinguettìo dei passeri che entrava, clamoroso, dalla finestra, e riflettevo intorno alla grande indifferenza della Natura per le nostre gioie e pei nostri dolori, pur indignandomi di poter pensare a simili cose in quel tragico istante.

Finalmente il dottore arrivò. Tastò i polsi, introdusse una mano nello sparato della camicia, chinandosi per ascoltare i battiti del cuore, o meglio per fingere di ascoltarli, giacchè il primo sguardo gli era bastato per capire l'inutilità della sua opera. E rizzandosi su la persona, si volse verso mia madre, la prese delicatamente per un braccio e fece atto di volerla allontanare.

La povera mamma, copertosi il viso con le mani, balbettando:—Oh, Dio! Oh, Dio!—si lasciò trascinare fuori della stanza, opponendo debole resistenza.

Io caddi ginocchioni davanti al divano; baciavo e ribaciavo il cadavere ancora caldo, senza un lamento, senza un singhiozzo, soffocato dal groppo di pianto che non riusciva a versarsi per gli occhi; e dietro un velo di nebbia, quasi nella fluida trasparenza di un sogno, intravedevo le persone di casa, gli inquilini accorsi, e il corpo giacente che aveva tuttavia, nonostante quel nebbioso velo, le rigogliose apparenze della vita e della forza…. Poi improvvisamente, non vidi più nulla, come se un nero abisso mi avesse inghiottito.

Il povero babbo era stato previdente.

Fra le sue carte, e serbata in un posto dove avrebbe potuto essere subito ritrovata, io rinvenni una lettera diretta a me, scritta sei mesi prima del luttuoso avvenimento, quasi il cuore gli presagisse quel che doveva, tra non molto, accadere. Mi dava minutissimi schiarimenti intorno ai suoi affari, m'indicava la persona a cui avrei potuto, con piena fiducia, affidarne il disbrigo, e si diffondeva in lunghi consigli di pratica saggezza, ripetendo con diverse parole—e leggendo mi sembrava di riudirne la voce—quel che mi aveva detto la mattina del nostro ultimo colloquio.

Ancora, dopo parecchie settimane, io non sapevo rassegnarmi a credere ch'egli fosse sparito per sempre!

La mamma vestita a lutto, la tristezza che incombeva su tutta la casa, le insolite occupazioni alle quali dovevo concedere quel tempo fin allora riserbato esclusivamente ai miei studi, e che mi infastidivano per la loro volgare minuzia, non erano sufficienti a darmi un vivo senso della realtà, delle tristi circostanze intervenute a sconvolgere l'andamento ordinario della mia vita.

Il dolore di mia madre era intenso. Capivo che ella evitava, quanto più era possibile, di rammentare il povero nostro caro assente per non accrescere lo strazio del mio cuore; ma, in certi momenti, ripensando le rivelazioni di quel giorno, io non riuscivo a vincere il sospetto che ella si sforzasse di far apparire il suo dolore più grande e più intenso che veramente non fosse. La scusavo, la giustificavo; avrei voluto però che ella avesse già perdonato e dimenticato; che più non fosse perdurata, tra l'assente e lei, quella scissura che le aveva fatto portare chiuso in cuore tant'anni il suo bel sogno di donna non potuto attuare, com'ella si era espressa.

E a tavola, o quando veniva a sedersi nel mio studio per leggere là qualcuno dei tanti volumi nuovi che il mio libraio continuava a inviarmi (ora che non aveva altri all'infuori di me, voleva sentirsi confortata—diceva—standomi silenziosamente vicino) a tavola, o mentre ella leggeva, io la fissavo, evitando di farmi scorgere, e tentavo di penetrarla per indovinare se, sospettando in quel modo, non la calunniassi indegnamente.

Un giorno, alla fine, per dissipare il tormentoso dubbio—soffrivo assai ogni volta che esso, scacciato via, tornava a riaffacciarmisi nell'animo—un giorno, vedendo che la mamma, deposto su le ginocchia il libro di lettura, chiusi gli occhi e abbandonata la testa indietro su la spalliera della poltrona, si era immersa nel dolce fantasticamento prodotto dalle sensazioni delle cose lette, la riscossi bruscamente:

—Mamma!…

E mi arrestai, già pentito di quel che intendevo di fare. Ella mi fissò con sguardo così affettuoso da incoraggiarmi a dirle subito:

—Che cosa pensavi, mamma?

—Pensavo,—rispose dopo un istante di esitanza,—che io non avrei mai creduto ch'egli occupasse, vivendo, tanto posto nel mio cuore. Si vede che l'amore è capace di assumere tali forme da rendersi quasi irriconoscibile. Sento oggi nel cuore lo stesso vuoto lasciato dalla sua sparizione in questa casa e nella nostra esistenza. Ora riconosco che ha avuto ragione lui, stimandomi uno strumento in mano sua, da dover adoprare secondo i suoi fini. Egli possedeva un senso sano ed integro della vita. Se ha avuto qualche torto…. parecchi anche…. più che a lui, essi debbono venir attribuiti—lo capisco ora—alle circostanze. Non è stato egoista, cattivo, crudele, oh, no! È stato uno con cui si dev'essere indulgente perchè ha lavorato molto; uno che aveva bisogno di cogliere qua e là qualche fiore, lungo la strada, per distrarsi, per riposarsi…. Allora ne soffrivo. Da che non è più…. lo scuso, e spasso gli chiedo perdono del non avergli sempre nascosto che ne soffrivo, e di averglielo rimproverato con la freddezza e col silenzio, talora peggiori di ogni aperto rimprovero.

—Mamma cara! Che consolazione mi dài dicendomi questo!

—Che cosa credevi tu dunque?

—Credevo che tu serbassi qualche rancore alla sua memoria!

—Oh! figlio mio!

—C'è stato un momento in cui sono stato ingiusto anch'io verso il babbo!

Chiuse il libro, si rizzò in piedi e, presomi per le mani, soggiunse:

—Non mi hai più parlato del tuo avvenire, Dario. Io attendevo da te una parola, come tuo padre e forse assai diversa da quella che attendeva tuo padre. Non me l'hai detta. Perchè, Dario?

—Non so, mamma! C'è un gran buio nel mio spirito. L'orgoglio mi acceca tuttavia. Non so rassegnarmi a non essere niente nel mondo, pur avendo un altissimo concetto di quel che vi vorrei essere. Sarò un infelice, mamma; lo sento. Non mi consolerò mai della mia miseria rimpetto allo splendore di quel sogno! Se avessi, come te, la fortuna, di credere in Dio, andrei a chiudermi in una Certosa, a vivervi la lunga agonia della preghiera e del silenzio; ma la mia mente non può credere…. Mai, come in questo momento, io non ho compreso la terribile verità di quella sentenza biblica: La scienza è dolore! Vorrei dimenticare, diventare tutt'a un tratto un ignorante, un povero di spirito…. Ecco perchè non ho potuto dirti la parola da te attesa…. C'è un gran buio nel mio spirito!

—Io non oso suggerirti….

—Parla, mamma! Le tue parole dell'altra volta mi avevano aperto uno spiraglio di luce. La mattina della disgrazia, già avveniva un insolito risveglio di giovinezza, nel mio cuore…. Non mi ero mai sentito giovane come in quel momento. Ah! Il mio male consiste qui, nell'intelligenza; non sono stato mai giovane, quantunque io abbia appena vent'anni. Non potrò ridivenirlo, oramai ne sono convinto. Vi è una maturità dello spirito che talvolta precede quella del corpo; ed è stato di malattia forse incurabile. La sanità consiste nell'equilibrio.

—T'inganni, Dario! T'inganni! Io sono una povera donna che non può opporre profonde ragioni alle tue; ma nel mio cuore materno c'è qualcosa che vale, mi sembra, quanto codeste ragioni. Siedi qui; non sdegnare di ascoltarmi. Io ti riguardo come superiore a me, sebbene mio figlio. Sei uomo, sai tante cose che io non intenderei anche se mi applicassi a studiarle come te; non per questo mi sembra atto di vanità o di superbia il dirti quel che sento. Tuo padre ti parlava altrimenti. Era uomo di azione, a modo suo. Avrebbe voluto che suo figlio lo somigliasse, anche non facendo quel che faceva lui. Sai che fantasticava di te?—Un uomo politico, un deputato al Parlamento.—E poichè ci vogliono belle migliaia di lire per riuscire ad essere eletto,—diceva, stropicciandosi le mani,—io gliele preparo. Saranno bene spese; e vorrei che mio figlio non avesse scrupolo di spenderle. Quando si vuoi raggiungere uno scopo….

—Vorrei adoperarle meglio…. in ogni caso!…—la interruppi sorridendo tristamente.

—Lo dico anch'io. E, nota: egli che riponeva in te ogni sua speranza; che non aveva voluto altri figli per non disgregare la sua fortuna; che era orgoglioso di veder sopravvivere in te il suo nome onorato, non accennò mai, mai, alla speranza di vederti creare una famiglia. Una volta io gli dissi:—Mi dispiace che Dario viva a questo modo, tutto immerso negli studi. Andrà incontro a un pericolo il giorno in cui dovrà scegliere una sposa.—Alzò le spalle, e non rispose nemmeno. E un'altra volta mi rispose:—Troverà facilmente; è il meno di cui mi preoccupo.—Infatti…. egli mi aveva sposato unicamente per avere un figlio. Le dolcezze della famiglia non avevano significato o valore per lui. Ebbene, Dario, io desidererei che tu agissi altrimenti. Io desidererei che la tua vita si raccogliesse tutta in quelle gioie intime e sicure che egli non ha voluto conoscere, che non ha goduto. C'è dell'egoismo in quel che ti dico, ma forse assai meno che non sembri. L'arte, la scienza sono belle e grandi cose; ma la vita è così breve, così precaria, che la suprema saggezza a me sembra consistere nel goderla il più tranquillamente possibile, quando si hanno, come tu li hai, tutti i mezzi di goderla in tal modo. Crearsi una famiglia è azione bella e grande quanto l'arte e la scienza. Amare, essere amato, dar vita ad esseri che ci perpetuano e che possono contribuire alla felicità o almeno alla prosperità sociale non è spregevole cosa. Io ti parlo da donna, da madre. Prima d'ora ho taciuto per non impormi alla tua scelta, per non mettermi in contrasto con le intenzioni di tuo padre. Davanti a lui mi sentivo piccina piccina, non osavo aprir bocca; ma oggi mi sembra che sia mio dovere….

S'interruppe.

Dolcissime lagrime mi scorrevano silenziosamente per le gote e non pensavo di asciugarle.

Perchè piangevo?

Le parole di mia madre significavano l'estrema condanna del mio sogno di grandezza spirituale, ed io gli dicevo, con quelle lagrime, il mio addio?

Erano esse segno di fiacchezza nervosa?

—Non ti dispiaccia, che io ti abbia parlato così—riprese mia madre.—Tu sei libero, e puoi fare quel che vuoi. Va', figlio mio, verso la felicità che intravedi, per qualunque strada, con qualunque mezzo, secondo giudichi opportuno. Tuo padre aveva detto:—Ti do un mese di tempo!—Egli aveva fretta, era impaziente. Io no, Dario!

—Tu sei una santa!—esclamai.

VIII.

Il Bissi era venuto da me più volte nei primi giorni del lutto. Si sedeva in un canto, silenzioso, assorto nelle sue fantasie letterarie, quasi volesse farmi capire che soltanto l'arte purifica, eleva, trasportandoci in un'atmosfera dove i casi della vita, lieti o tristi, non hanno più nessuna importanza o hanno soltanto quella che loro proviene dalla possibilità di trasformarli in elementi di creazione. Poi non si era fatto più vivo.

Una mattina lo vidi ricomparire.

—Vengo a congedarmi—disse.—Parto per Desenzano.

—A che farvi?—risposi.

—Indovina.

—Risparmiami la fatica d'indovinare.

—Ho ottenuto un impiego nelle Dogane. Bisogna vivere, mio caro!

Lo guardai, incredulo.

—Questa notizia ti stupisce?—egli soggiunse.

—Ormai non mi stupisco più di niente!

—Fra una bolletta e l'altra, se mi rimarrà tempo….

Voleva mostrarsi tranquillo, ma aveva il pianto nella voce.

—E tu che farai?—mi domandò, quasi per sviare il discorso.

Non seppi che cosa rispondere. Allora egli riprese:

—È per mia madre. La poveretta ha fatto troppi sacrifizi per la mia educazione; bisogna che non abbia una vecchiaia di miseria e di stenti. L'arte, quale io la intendo, non dà pane in Italia e, forse, neppure altrove. Se fossi solo, lotterei; il mio stomaco non è esigente. Ma non mi sento in diritto di costringere a combattere chi non ha il mio stesso ideale. Se tu vedessi come la santa donna è felice di sapere che almeno ora avremo qualche cosa di sicuro!… Non rinunzio al mio avvenire; sarebbe assai peggio che rinunziare alla vita. Mi riserbo. Darò le giornate alle bollette, le nottate all'arte…. Mi scriverai di tanto in tanto, è vero?

E, vedendo che io restavo pensieroso e muto, continuò:

—Molti altri si sono trovati in più tristi circostanze di me, e non si sono persi di coraggio. Ancora non ho potuto far niente da autorizzarmi ad assumere l'aria di persona delusa. E poi…. chi lo sa?… Può darsi che io m'inganni intorno al valore delle mie forze. Se valgo davvero qualche cosa, vincerò, riuscirò; soltanto gli inetti non riescono. Cioè, riescono qualche volta; ma vuol dire che hanno altre qualità. Ho questa convinzione. Guarda Lostini. Arriverà, ne sono certo, a farsi un bel posto al sole. Ha l'improntitudine, la vanità…. e un certo ingegnaccio. Sa dare gomitate per spingersi innanzi tra la folla, e non si cura se gli urtati protestano anche con male parole; finge di non udirle e tira via. Io, per paura di pestare, nella ressa, i calli a un vicino, preferisco di restare immobile, di attendere che mi sia sgombrato il passo. Il torto è mio. Dovrei pestare i calli e, tutt'al più, dire: scusi! Lostini non dice neppure: scusi; ed ha la forza di non sdegnarsi se li pestano a lui. Gli par naturale che tra la folla avvenga così. Ed è pratico. E poi…. anche un'altra cosa. Credi tu che metta conto oggi di darsi interamente all'arte?

—Senti,—gli risposi,—se tu pensassi davvero questo, significherebbe che sei più scoraggiato che non vuoi sembrare.

—Lo penso, altrimenti non lo direi. Mi sono però espresso male. Volevo dire che oggi non mette conto di pensare all'arte per gli altri. Essa è divenuta un oggetto di lusso, da oggetto di prima necessità che era una volta. E del lusso si può far senza o, piuttosto, per tale scopo basta l'arte antica, la vera, la pura, la inimitabile. Che cosa produciamo noi oggi? Abilissime contraffazioni e le spacciamo per cose nuove. Quel po' che vi mettiamo di nuovo è un elemento estraneo all'arte, il pensiero, la riflessione; e non sappiamo o forse non possiamo più conservare una certa misura. Poco, è insufficiente pel bisogno del nostro spirito; molto, è dannoso all'arte, perchè la snatura, e non è molto a bastanza. La nostra disgrazia è di essere arrivati troppo tardi. Ciò non ostante, qualche cosa c'è ancora da fare; ma le difficoltà materiali e morali sono incredibili. Gesù ha detto che l'uomo non vive di solo pane. Ma non ha affermato che possa vivere di solo spirito. Quando rifletto che la mia opera d'arte è come non avvenuta prima che trovi un editore o uno stampatore, e che può rimanere ignorata, se l'editore non sa fare il suo mestiere e se i giornali non spingono il pubblico a comprarla, mi viene nausea di lavorare….

—Ma l'arte dà oggi fin milioni!

—Ah! vorrei però sapere che rimarrà di cotest'arte.

—Precisamente quel che è rimasto dell'antica; il meglio. La zavorra va sempre a fondo.

—Basta!… Questo non è discorso da congedo. Attendendo che possa mettere insieme anche io il mio milioncino, mi contenterò per ora delle cento cinquanta lire di stipendio. Per l'ufficio di riempire bollette il compenso è anche troppo.

—Perchè non hai cercato qualche cosa di meglio?

—Ho avuto un santo protettore. Anche i santi sono come le botti: dànno il vino che hanno.

Rideva, con qualche stento. Poi tornò a domandarmi:

—E tu che farai?

Neppure questa volta gli risposi. Pensavo che quel caro e valente giovane forse aveva bisogno di qualche aiuto e orgogliosamente non me lo chiedeva. Non mi aveva chiesto mai nulla, quantunque la nostra intimità fosse stata grande. Cercavo il miglior modo di fargli una profferta, senza offendere il suo amor proprio.

—Partirai subito?—gli domandai.

—Appena avrò raggranellato certa piccola somma. Vendiamo i mobili.

—Mille lire ti basterebbero?

—Chi me le dà?

—Uno che ti vuol bene e che ha fiducia in te.

—Grazie!… Ma potrei mai rendertele?… Grazie!… Non le accetto. Ricaveremo dalla vendita quattro, cinquecento lire; sono sufficienti.

—Fammi fare un'opera buona; non ne ho fatta nessuna finora. Immagina che io sia un editore; ti prendo un volume, il tuo primo volume, e ti anticipo mille lire.

—E se non lo scriverò?

—Ne scriverai parecchi.

Era divenuto rosso in viso, non saprei dire se per gioia o per modestia. Non gli diedi tempo di riflettere, nè di ringraziarmi; dissi:

—Che farò io?… Mi sento come travolto fra le macerie di un vasto edificio improvvisamente rovinatomi addosso. Hai inteso parlare di persone vissute due o tre giorni sotto le rovine delle loro case nei grandi tremuoti? Tratte fuori miracolosamente incolumi, avevano perduto la nozione del tempo trascorso in quell'orribile stato. Tra esse e me la differenza consiste in questo: esse credevano che i giorni fossero stati ore; a me sembra che le ore siano state, non giorni, ma anni. E non so se qualcuno arriverà in tempo a sottrarmi al mio orrendo destino!

—Che ti manca?

—L'essenziale…. Non ne parliamo!

Gli fui gratissimo della sincerità del suo silenzio. Un altro, per gratitudine, non avrebbe mancato di adularmi. Bissi abbassò la testa e rispose soltanto:

—Bisogna prendere la vita com'è. Tempo fa io solevo dire: O essere alla testa del futuro movimento letterario…. o darsi un colpo di pistola!—Sciocchezze da vanitoso…. In ogni modo sarò sempre in tempo.

E questo fu pronunziato così seriamente e con tale accento, che mi sentii scorrere un brivido per le ossa, quasi egli mi avesse detto:—Tu che speri? Sei nel caso di fare come farò io, occorrendo; ma non ti basta l'animo!

Forse si avvide dell'impressione prodottami dalle sue parole e volle attenuarla.

—Ma prima ci penserò due volte,—soggiunse.—Finchè vive mia madre, ho il dovere di vivere. È per lei…. Grazie, Dario!… E se sarai editore sfortunato, ricordati che lo hai voluto tu!

Questo distacco mi lasciò più triste. E durante una settimana, assieme col senso di soffocamento sotto le macerie di un vasto edifizio crollatomi addosso, mi tenne nel solito stato di sonnambolico sbalordimento. Andavo, venivo, deliberato di dare un assesto definitivo agli affari lasciati in tronco da mio padre; ma mi sembrava di agire automaticamente per impulso esteriore di mia madre e dell'amico indicatomi da mio padre come persona di fiducia. Le questioni da risolvere non erano poche, nè di facile riuscita. Mia madre e il signor Bardi discutevano, deliberavano; io assentivo, perchè mi si chiedeva di dire anch'io il mio parere. Non vedevo l'ora di uscirne.

E mia madre s'illudeva; ma io ero avvilito davanti a me stesso, come se fossi venuto meno a una parola data. Mi figuravo che tutti dovessero ridermi in faccia o additarmi con scherno:—Ecco un genio fallito!—E non valeva a rendermi rassegnato il pensare che avevo accennato soltanto a mia madre l'ambizioso sogno di grandezza che ancora mi tumultuava nell'anima, quasi stentasse a dileguarsi.

Mi immergevo in letture difficili. Libri lasciati sdegnosamente da parte mi attiravano con la lusinga che dovessero ispirarmi ripugnanza. Così presi a leggere parecchi dialoghi di Platone tradotti dal Bonghi; e, invece, ne rimasi ammirato e mi vergognai di avere appena tagliato quei volumi quando mi erano stati mandati dal libraio. Inoltre, mi parve segno di maturità di mente l'essermi lasciato allettare dalle lettere di dedica fitte di pensiero, dalle introduzioni piene di tanta dottrina. Dei dialoghi avevo rispetto per sentita dire, e un po' per averne scorso qualcuno, il «Convito» e il «Fedone», più per curiosità che per altro; ora mi stupivano con la loro freschezza drammatica.

Platone mi fece ricordare del vecchio prete napoletano che mio padre mi aveva dato per professore di filosofia—era intimo amico della sua famiglia—e che allora mi era parso mente bislacca per la strana maniera d'insegnare. Era venuto, cinque o sei mesi, due volte la settimana, in casa mia, con la pipa, già ripiena di tabacco, in fondo a una delle immense tasche che gli pendevano dalla cintura sotto la zimarra. Ripeteva ogni volta ironicamente:

—La filosofia è fumo. Non le disdice la pipa…. che serve anche per allontanare qualche signora, caso mai volesse venire a disturbarci.

Intanto che l'accendeva, tra una boccata di fumo e l'altra, annunziava l'argomento della lezione. Lezione per modo di dire. Hegeliano dalla cima dei capelli fino alle ugne dei piedi, al lirismo dell'Essere e del Non-essere, inframmetteva terribili sfuriate contro il Comte, lo Stuart-Mill, il Darwin e tutti quanti i positivisti. Li attaccava violentemente, li apostrofava quasi fossero là, davanti a lui; li metteva in gastigo, ginocchioni in mezzo al mio studio, col berretto di carta e le orecchie di asino su la testa. E, nello stesso tempo, diceva cose profonde, con tale chiarezza di frasi incisive, ma immaginose, da far credere che filosofia potesse pure significare: poesia. Infatti, secondo lui, la «Fenomenologia dello Spirito» del maestro era il più maraviglioso poema che l'ingegno umano abbia saputo creare.

Mi divertiva, ma non mi convinceva. E, dopo un'ora e talvolta due, di corsa a tutta briglia pel mondo delle astrattezze, pel vero mondo reale—egli diceva—mi guardava in viso ed esclamava ridendo:

—Non ne mastichiamo, è vero? Non importa. Hegel è onnipotente; è fuoco; dove tocca brucia e lascia il segno. Domani te ne avvedrai, come diceva il pievano Arlotto, quando aspergeva le sue pecorelle con l'olio invece di acqua santa. Che cosa vorresti essere? Poeta?… Ah, figliuolo mio!… Romanziere? Ah, figliuolo mio!… Drammaturgo? Ah, figliuolo mio!… Hai sbagliato secolo.

E ricaricava la pipa.

Me lo ripetè tante volte che un giorno gli risposi impertinentemente:

—E lei ha sbagliato uscio!

Ora, ripensandoci, riconoscevo quanto avesse ragione quel vecchio prete che vestiva la zimarra, portava il tricorno, ma più non diceva messa e più non recitava l'uffizio.—Domani te ne avvedrai!—Sì: il mio orgoglio, quel sogno di grandezza che mi aveva fatto e mi faceva tanto soffrire, proveniva da lui, dalle teoriche del suo Maestro fermentatemi nella mente senza che io me ne avvedessi, commiste e confuse con tante altre idee di opposta natura.

Povero vecchio! Se sapesse il gran male che mi ha recato, certamente senza sua colpa. Egli aveva trovato modo di vivere, con lo spirito, in quella che per lui era la vera realtà; e col corpo, in questa nostra misera realtà apparente. Amava il vino, la buona tavola abbondante, tutti i piaceri dei sensi, con ampia conciliazione, a cui forse serviva di tramite la pipa corta, di radica. Dalla materia, il fumo del tabacco lo trasportava via nell'ideale. È morto d'indigestione.

Lo avevo dimenticato. Quel suo ritornello:—Figliuolo mio, hai sbagliato secolo!—me lo aveva reso antipatico. E quel suo:—Domani te ne avvedrai!

Me ne avvedevo, infatti, dopo sei o sette anni; e in quali circostanze!

Ogni volta che io sognavo, mi piaceva indagare da quali impressioni recenti o remote il mio sogno fosse stato prodotto. E quando giungevo a scoprirle, la maraviglia che sentivo per la strana creazione incosciente spariva a un tratto. Quando non arrivavo a rinvenire nessun elemento del mio sogno, in guisa che esso mi appariva come qualcosa di reale, fuori di me, quasi visione di cose di un altro mondo, la maraviglia e il piacere rimanevano intatti.

Il giorno in cui si presentò alla memoria la figura del vecchio prete hegeliano, io provai la stessa delusione che pei sogni di cui giungevo a scoprire gli elementi. Rimasi stupìto accorgendomi della influenza delle sue idee su la mia vita, e sentii un acuto dolore, quasi una mano spietata ma benefica mi avesse strappato, in quel punto, un pezzo di carne viva dal cuore. E mi parve di esser tornato in pace con me stesso e con gli altri.

IX.

Il giorno dopo dissi a mia madre:

—Consigliami; che cosa vuoi che faccia? Ti obbedirò ciecamente.

—Prendi moglie, figlio mio!

—Tròvamela. L'istinto materno ti guiderà bene nella scelta.

—Oh, no! Cèrcala. Il cuore ti suggerirà assai meglio di me. Se mi sembrasse che tu stèssi per cadere in qualche inganno, ti avvertirci.

Fui spaurito dal consiglio e più dal modo indicatomi di metterlo in pratica. Mi sembrò di trovarmi, nell'oscurità di una notte senza luna e senza stelle, al confine di una immensa regione ignota, e che una voce mi ordinasse:—Procedi! Indovina la via! La felicità è laggiù, laggiù in qualche parte. Raggiungila, a tuo rischio e pericolo!

Risorsero, vigorosissime, tutte le mie prevenzioni contro la donna. Solevo chiamarla la gran nemica, l'avversaria, per esprimere quel che reputavo esistere in essa di malefico, di diabolico.

La donna! La sensazione, la immaginazione, il sentimento tutto al più, ma ristretto, egoistico, quasi non umano! Hegel e i positivisti si erano trovati di concerto per infiltrarmi nella mente tale convinzione. Che poteva esservi di comune tra questa creatura inferiore, anello intermedio fra gli antropoidi e l'uomo, e me che volevo essere l'uomo superiore, l'uomo perfetto, vivente soltanto di pensiero, e che rifà il mondo con la riflessione, penetrandone il processo; o almeno, l'artista che crea un mondo più nobile, più perfetto di quello materiale, non soggetto al caso, e per ciò immutabile, immortale mentre ogni cosa cangia e gli muore attorno, nella Natura?

Così mi ero reso—e le circostanze della mia debole costituzione e della mal ferma salute nella fanciullezza e nei prim'anni della giovinezza vi avevano molto contribuito—così mi ero reso una creatura refrattaria alle attrattive femminili, fino a far dubitare della mia virilità gli amici, che qualche volta mi avevano espresso brutalmente il loro pensiero.

Io avevo risposto con orgoglio:

—Vorrei che fosse pure così!

Il vecchio prete hegeliano che, idealmente, era gran spregiatore della donna, e la escludeva dall'arte, dalla religione, dalla scienza, cioè dalla filosofia, concedendole, appena, di poter essere una comtiana, una darwiniana, una positivista, e di praticare la farmacia, la umile medicina curatrice, la chirurgia, il notariato, l'avvocatura e le arti minute quasi meccaniche, il vecchio prete però mi aveva ammonito:

—Bada! Non confondere! Lo spirito da un lato, in alto; la carne, dall'altro, in basso. Sono distinti, ma non scissi, non ognuno per sè. E come la mente si ritempra nell'Idealismo Assoluto, il corpo dee ritemprarsi nella realtà materiale. Ci vuole la sensazione, il sentimento, la fantasia…. cioè la donna. Sissignore! Eh! Eh! La donna! Beato te, che non hai ancora vent'anni! Tutto sta nel modo e nella misura. Platone si ritemprava in Acherneasse; Aristotile in Herpyllis; Dante, non in Beatrice…. non dargli retta…. ma nella cognata, sembra, e in parecchie altre; e il canonico Petrarca, non in Laura, ma…. più non ricordo in chi mai…. Senza la Fornarina, Raffaello avrebbe forse potuto dipingere la Trasfigurazione? Io, vedi, sarei riuscito qualche cosa, se non vi fossero stati di mezzo la zimarra ed il tricorno…. Me ne sono accorto troppo tardi! La tonsura svirilizza; e se questo vocabolo non c'è, lo invento io. Quei della Crusca non lo accetteranno, per non far torto a loro stessi. Mettiamolo in circolazione noi altri, e forse attecchirà…. Ah, la donna e il tabacco nella pipa corta, di radica!

In quel momento il vecchio prete hegeliano mi era parso un lurido scimmione. Si esprimeva a modo suo, come sempre; ma oggi riconoscevo che diceva la verità.

—Prendi moglie, figlio mio!

Oh! Potevo confessare a mia madre quel che io pensavo della donna?

Ella aveva parlato nobilmente: «Crearsi una famiglia, mettere al mondo creature destinate a far progredire la società è azione grande e bella quanto l'arte e la scienza!» Quest'azione bella e grande avrei però voluto compirla in maniera da non dover rinunziare interamente alle mie aspirazioni. Tornavo, di tratto in tratto, a lusingarmi. Mi sarei afferrato ai rasoi, pur di riuscire ad essere un uomo.

Allora la parola «superuomo» non era stata coniata; ma anche allora l'avrei creduta superflua, giacchè dicendo: uomo, io intendevo significare l'individuo della specie che ha raggiunto la maggiore eccellenza, che ha incarnato più largamente un certo ideale, una certa perfezione; quello soltanto, per me, era uomo; gli altri, prove e riprove sbagliate e corrotte. Non ero modesto, ma ingenuo! Non mi accorgevo che rappresentavo anch'io una prova sbagliata e delle peggiori.

Non potevo perciò andare incontro al matrimonio spensieratamente o per calcolo. Intanto mi inorgoglivo di potermi accostare ad esso vergine di animo e di corpo. Era già un'eccellenza questa rara condizione.

E a poco a poco, frammezzo a lunghe dolorosissime lotte, mi convincevo che non sarebbe stata impresa facile nè volgare creare un'opera d'arte in azione, realizzare un ideale di vita con mezzi e intenti forse non mai adoprati riflessivamente fin allora. Vi avrei potuto trovare alte soddisfazioni, gioie intense. Mi esaltavo o meglio mi sforzavo di esaltarmi per prendere una decisione; ma poi venivo riafferrato dalla paura dell'ignoto. E l'ignoto era Colei che avrei dovuto scegliere a compagna della mia impresa. Oggi ero libero di fare questo o quello; domani, non solamente non sarei stato più libero, ma anche alla mercè di un carattere, di un temperamento che forse non avrei potuto modificare nè domare. Donna, mistero! Dovevo abbandonarmi al caso? Quali precauzioni adottare per opporsi alla sua cieca opera?…

Ricordo benissimo; mi trovavo nel mio studio. Era una mattina verso la fine di aprile, quando i profumi di esso quasi si confondono coi tepori del maggio che sta per arrivare. Dalle quattro finestre spalancate alla dolce frescura e al sole irrompeva nella stanza ora un inno di lieta giovinezza, ora una solenne sinfonia di vita nuova; suoni, rumori indistinti, voci umane, canti di uccelli, bagliori di luce, festa di colori, trepidare di foglie recenti, che dava apparenza di cose animate agli alberelli di bambù davanti a le finestre, contro il sole.

Da mesi, io entravo nel mio studio con la stessa riluttanza con cui si penetra in un sepolcro che racchiude resti carissimi al nostro cuore.

Libri, quadri, statuette, ninnoli, tutto mi sembrava già in via di dissoluzione, emanante il nauseabondo odore delle cose imputridite; i libri specialmente, quei libri che più avevano contribuito a formare, ad alimentare il mio orgoglio, a ridurmi miseranda creatura invecchiata anzi tempo e che sentiva nelle vene il gelo e l'angoscia della morte.

E, tutt'a un tratto, un fremito m'invase, quasi i miei occhi lungamente chiusi o coperti da velo sentissero l'impressione della luce, vedessero vicino, lontano, con miracoloso potere. Una sfilata, una folla! Figure bionde, brune, con occhi azzurri, neri, con labbra porporine, schiuse a sorrisi accoglienti…. Le riconoscevo! Mi ero figurato che esse fossero passate, tempo fa, inavvertite o sdegnate davanti a me, che non avessero lasciato traccia alcuna…. E invece mi si erano fissate, vivacissime, nella memoria e nel cuore; e il cuore, felicissimo di ricordare, di rivederle, si sentiva commosso, palpitava, con rapido moto di gioia mista a un po' di rimorso.

E guardavo, guardavo la sfilata, la folla, ansioso, come chi cerca, come chi attende di ritrovare una persona diletta. E mi dicevo:

—Osserva bene! Non stancarti di ricercare! Sei vissuto fino a questo giorno non nella realtà, ma in un pallido riflesso di essa…. Tu credi di non avere mai amato, ed hai amato a traverso i lirici, a traverso i romanzieri, a traverso i drammaturgi, affascinato dai fantasmi da loro creati; fantasmi immortali, ma perciò insufficienti ai bisogni della vita che cangia e si trasforma, e si rinnova…. Sì, tu hai amato Sita, Elena, Nausica, Didone, Fedra, Giulietta, Desdemona e tante e tante altre ancora!… Vanamente però, solitariamente…. Con queste qui oh! non amerai solo: sarai riamato!… Tra le mille ce n'è una—osserva bene! cèrcala! Non stancarti di cercarla!—che sarà tua, che ti vorrà suo!… E con essa adempirai al tuo destino, farai opera grande, divina; perchè colui che agisce secondo le sue forze non fa mai opera bassa e vile; è venuto al mondo per tale scopo e non per altro. Quel che deve fare lui non può farlo nessun altro! Guarda! Cerca! Non stancarti!… Povera scienza la tua, che non ha saputo rivelarti la complessità, della vita! Pensare sì, ma anche agire, cioè amare, amare, amare!…

Come? Io sapevo tutto questo e ignoravo di saperlo? Perchè? In che maniera?… O si trattava di una nuova illusione che prendeva il posto dell'altra, che mi avrebbe ingannato come l'altra, che mi avrebbe fatto terribilmente soffrire e vanamente, come l'altra?

Distornavo gli occhi, diffidente, con indefinibile senso di paura.

Ma tornavo subito a guardare, simile a un fanciullo che si trova faccia a faccia con un oggetto non mai visto, di cui ignora il congegno e l'uso e che stende una mano per toccarlo e la ritira, torna a stenderla e finalmente lo tocca e lo prende in mano, maravigliato che non gli faccia male, ma non compiutamente rassicurato.

Ricordo benissimo!

E poche ore dopo, quel sepolcro del mio studio, dove prima sentivo il nauseabondo odore delle cose imputridite, mi sembrò tramutato in una serra nella quale era stato necessario riporre tutti i delicati germi della mirifica fioritura improvvisamente scoppiata, e che non avrebbe potuto fiorire altrimenti. Ora potevo aprire, abbattere anche le pareti vetrate, esporre ogni cosa al diretto contatto della luce, all'aria libera; non c'era più timore che quella ricca bellezza ne soffrisse.

—Cèrcala tu!—mi aveva detto anche mia madre.

E cercai, e trovai!

X.

Più rifletto intorno ai casi della mia vita e più mi convinco che c'è una Forza Superiore, che guida e regola le nostre azioni, spingendole dove vuol essa anche quando noi crediamo di agire con la più capricciosa libertà. E non è sopraffazione, violenza arbitraria, ma ragione elevata che ci difende contro l'accidentalità delle circostanze e ci rimena allo scopo della nostra esistenza. Spesso noi chiamiamo Caso questa misteriosa Forza coordinatrice, perchè ignoriamo quali intimi rapporti annodino i più insignificanti nostri atti ai più grandi e più remoti movimenti dell'Universo. La nostra ignoranza attuale dovrebbe però renderci meno vanitosi, meno superbi, o indurci almeno a riconoscere che, mentre noi immaginiamo di fare soltanto il nostro personale interesse, lavoriamo inconsapevolmente a quel che il Montesquieu chiamava: «Le grand oeuvre», e un nostro illustre pensatore semplicemente: «La storia». E così accade talvolta che colui che crede di compire una mirabile cosa ne faccia una meschinissima; e che un altro, rassegnatosi ad opere umili e modeste, ne compia, invece, quasi senza ch'egli ne sappia niente, una grande davvero.

Infine, l'importante è che ognuno faccia quel che deve fare; la felicità umana consiste in questo soltanto. Ma io che ora, quasi vecchio, senza illusioni di sorta alcuna, ragiono in questo modo e chino il capo davanti a quella che stimo sacra fatalità della vita, provo un riverente terrore riandando con la memoria per quali vie dolorose, per quali erramenti, per quali inganni sono arrivato al punto estremo dove ormai nient'altro più mi rimane che chiudere gli occhi e sparire dalla scena del mondo.

Tutti i miei castelli in aria sono miseramente crollati; tutte le mie più orgogliose speranze sono andate a vuoto; eppure oggi sento la grande soddisfazione di esser vissuto come sono vissuto, di aver attraversato tante dolorosissime prove e di aver fatto per mezzo di esse quel po' di bene che mette in pace la mia coscienza e mi fa attender tranquillamente la morte.

In certi momenti, è vero, io non so come giudicare il resultato finale delle mie azioni che è ancora un'incognita o che può essere affatto diverso da quello che mi figuro. Ma mi conforto, riflettendo: Forse sarò in tempo di correggere il mio sbaglio; o, forse, quel che può sembrarmi uno sbaglio è tale soltanto in apparenza. L'avvenire lontano sfugge a ogni nostra previsione; e nel mistero che lo circonda, consistono le forti e lusinghiere attrattive della vita.

Per ciò io ero felice nei giorni in cui cercavo qua e là Colei che doveva essere la mia cooperatrice nella sovrana opera di creazione assai diversa, della creazione d'arte, e che già mi sembrava più nobile e più elevata di questa.

Mi apprestavo alla eccelsa funzione come a un atto supremo. Non i sensi, ma la riflessione mi spingeva a dedicare tutte le mie forze fisiche e intellettuali a un fatto che la maggior parte degli uomini compie con colpevole spensieratezza, per impulso di voluttà, per calcolo di meschini interessi spesso, quasi ignara di quel che opera, certamente ignara di quel che dovrebbe operare.

Ero orgoglioso di sapere che pochi o nessuno si erano accinti con degna preparazione, con intera e limpida coscienza all'atto più elevato che un uomo possa compire: la generazione di un'altra creatura umana. Io davo il primo esempio. Questa idea mi esaltava.

Non ero capace di mettere al mondo un capolavoro immortale, nè una di quelle poderose scoperte di idee che rinnovano la vita civile e fanno progredire l'umanità; ma forse potevo dare la vita a colui che avrebbe creato il capolavoro d'arte a me negato di produrre, o rivelato alla società l'idea nuova e feconda che avrebbe allargato i confini dell'intelligenza, dominato le menti e creato l'avvenire.

Il mio orgoglio divergeva per altra via, ed io non me ne accorgevo. Mi sembrava di fare modestissimo atto di sottomissione accettando questo còmpito, e non vedevo le immense difficoltà, dell'attuazione di esso, o la vanità del tentativo.

Non ne parlavo con nessuno, neppure con mia madre.

Ero certo che, se avessi esposto quella idee ai miei pochi amici, essi, quantunque intelligentissimi e capaci di comprendermi, mi avrebbero deriso. Troppo pratici, travolti dalle agitazioni immediate della vita comune, avrebbero giudicato strambe idealità i miei proponimenti, sogni di uomo vissuto solitario, fantasie da poeta.

Mia madre si sarebbe certamente rallegrata di vedermi interessare con tanta serietà e con tanto entusiasmo, della mia futura situazione; e avrebbe, senza dubbio, apprezzato più di ogni altra la intensità di quel sentimento che mi dava, assieme con una profonda commozione, la risolutezza e l'energia mancatemi fino allora. Ma temevo di vederla impaurita dall'eccitazione che questo nuovo stato d'animo mi produceva; temevo di udirle pronunziare qualche parola di richiamo, qualche femminile osservazione di senso comune che mi avrebbe tarpato le ali, e tolto, con le illusioni, ogni coraggio di andare avanti.

Giacchè in certe ore, in certi giorni, la stanchezza delle inutili ricerche mi faceva balenare nella mente il sospetto che anche quest'altra mia intrapresa potesse fallire,… E allora una tetra risoluzione mi si affacciava al pensiero. Questa volta facevo mie le sdegnose parole del Bissi:—Se la vita mi rifiuterà ogni consolante mezzo di azione, io dirò risolutamente alla vita: Non voglio più saperne di te!—Ma erano fiacchezze di istanti.

La vita, intanto, mi sembrava bella, immensamente bella, anche nei ristretti limiti dentro i quali ora volevo circoscrivermi. Non mi stimavo più uno scopo, ma un mezzo. Lo scopo era molto, oh, molto! di là da me. Quando io fossi riuscito a formare quella creatura pel cui avvenimento mi preparavo con trepidanza quasi religiosa, avrei fatto opera così inestimabilmente elevata che la mia personale nullità non mi avrebbe potuto più ispirare commiserazione nè sdegno.

Avevo ricercato il Lenzi, il Lostini e altri giovani compagni di studi, che furono lietissimi di vedermi entrare, dopo tanti anni di segregazione, nel turbine della vita sociale assieme con loro. Ero stato presentato in varie famiglie, frequentavo riunioni, feste, teatri. Lenzi e gli altri anzi credevano che intendessi rifarmi del tempo perduto; e perciò si maravigliavano che avessi tuttavia ripugnanze e astinenze inconcepibili.

Infatti mi mescolavo apparentemente con loro, ma non partecipavo al loro genere di vita, che mi sembrava sciocco e qualche volta bestiale.

—Insomma, quale chimera ti attrae?—mi domandò un giorno il Lenzi.

—Cerco moglie!—mi lasciai scappare di bocca.

Riflettè un momento; poi riprese:

—Se la mia proposta non potesse sembrarti interessata….

E s'interruppe, alzando le spalle.

—Di' pure. Tu capisci che parlo seriamente e non vorrai propormi nulla da ispirarmi tale sospetto.

—Sposa mia sorella. Non ha una gran dote, ma ha doti rare e non è brutta. Rientrerà tra qualche mese dal collegio. Ha diciassette anni….

Mi parve una bravata sconveniente. E risposi con tono rigido:

—Grazie! Tua sorella merita più degno marito.

—Tu non la conosci.

—Non mi conosce neppure lei.

—È la migliore condizione per sposarsi.

—Perchè?

—Perchè non c'è di mezzo l'amore, che guasta ogni buona relazione tra l'uomo e la donna destinati a formare una famiglia. Dovresti saperlo; i matrimoni d'amore riescono quasi sempre malissimo.

—Quasi sempre, hai detto.

—In questo caso il matrimonio diventa un giuoco dove si corre il maggior rischio di perdere. Bisogna esser matti da avventurarsi a un irrimediabile disastro.

—Forse hai ragione.

—Senza forse. Io ho giurato di restar celibe. Voglio essere un uomo forte, e soltanto chi è solo può esser forte. Quando il matrimonio non sarà più un contratto nè un sacramento….

—Potrà non essere un contratto, ma un sacramento sarà sempre.

—Ah, ti riconosco! L'Hegel ti tiene ancora tra gli artigli. E il tuo Hegel era anche prete!

—La storia naturale dà ragione all'Hegel. L'uomo è animale monogamo, come i piccioni.

—E i mussulmani? Non sono uomini forse? E i Mormoni? Si chiamano: Santi! Ma lasciamo andare. Qui stiamo davanti a un caso particolare. Tu vuoi prender moglie, secondo le leggi e le costumanze del tuo tempo e del tuo paese. L'hai trovata? Sei già innamorato? Me ne dispiacerebbe, per te. Se non l'hai ancora trovata, dàmmi retta: sposa mia sorella. È una donnina seria, buona, affettuosa e non brutta, ti ripeto. Ne sarei contentissimo per tutti e due, giacchè non ci sono sentimenti nè azioni completamente disinteressati in questo mondo…. Dimmi la verità, sii sincero: Tu ami!

—No.

—Tu ami e non hai il coraggio di farlo sapere alla persona amata!

—No, no; te l'assicuro.

—Allora rifletti un po' su la mia proposta. No è uno scherzo. E non pensare all'amore…. «Amore alma è del mondo, amore è mente!…» Lascia dire i poeti; sono la peste dell'umanità. L'amore? È un divertimento, come il «capanniscondere», come «ladri e birri», come le rincorse, con la sola differenza che questi ci svagano durante la fanciullezza, e quello ci fa perdere il tempo e qualche altra cosa quando siamo grandi e dovremmo badare a tutt'altro. Il guaio per te consiste nel non essere mai stato fanciullo. Così potrebbe darsi che il giochetto dell'amore ti attiri, invece del «capanniscondere» e di «ladri e birri» che non sei più in età di praticare. L'amore? È anche una malattia infettiva, contro la quale conviene vaccinarsi in tempo. Senti; vedendoti apparire tra noi, avevo pensato appunto che tu volessi far questo. Ma tu hai avuto la sventura di un'inoculazione di hegelismo; vivi tuttavia tra le nuvole, e ti dispiace di discenderne. Bene. Con mia sorella staresti tra cielo e terra, nè tutto in cielo, nè tutto in terra. Se la posizione non ti sembra scomoda….

—Rifletterò—risposi sorridendo.

—E manda Hegel al diavolo! Quel tuo professore, dovresti ricordartene, predicava bene e razzolava male. Portava l'Hegel nel cervello e seguiva Epicuro nella pratica.

—Bada,—gli dissi,—tu sei il primo e il solo che abbia ricevuto questa mia confidenza. Conto su la tua discrezione.

—Figurati! Sono interessato a mantenere il segreto. Tu però non credere le mie parole una delle pretese eccentricità di cui voialtri amici mi accusate di troppo compiacermi. Io sono sincero. Ho il coraggio di dire ad alta voce quel che molti pensano nel loro interno e non osano sostenere a viso aperto.—Va' a farti monaca!—rispondeva Amleto ad Ofelia; ed era eccellente consiglio.—Sposa mia sorella!—ti ripeto io, ed è eccellente consiglio anche questo, poichè tu hai intenzione di sposare qualcuna.

—Perchè no?—pensai appena fui solo.

E me lo ripetei moltissime volte, durante una settimana. Era un'incognita colei? Ma sarebbero state pure tali tutte le ragazze tra cui potevo scegliere. Ne avevo già notate parecchie, ed ero rimasto sempre indeciso. A una mancavano certe qualità intellettuali che mi sembravano indispensabili; a un'altra certe condizioni fisiche da me reputate non meno indispensabili di quelle. Non era forse più giudizioso affidarsi al caso? L'amore infine non mi sembrava precisamente una condizione assoluta nel mio intento. Sarebbe venuto dopo. Se non l'amore, l'affetto, cioè qualche cosa di meglio e di più solido; e con l'affetto, la stima.

—Perchè no?

E poi, con quella inattesa proposta mi sentivo quasi liberato dal grave imbarazzo delle ricerche e della scelta. Lenzi era, senza dubbio, sincero. Sarebbe stato capacissimo di darmi un consiglio contrario, di dissuadermi di sposare sua sorella, se glien'avessi manifestato l'intenzione ed egli avesse creduto che quella unione non poteva riuscir bene.

Da mia madre mi era stato domandato più volte:

—Ebbene? Niente ancora?

—Cerco. Non ho fretta.

—Non vorrei,—ella mi disse una mattina,—che tu ti fossi formato un concetto così elevato delle virtù da ricercare in una moglie….

—Oh, non dubitare!—le avevo risposto.—Sarò pratico.

Appunto quella mattina, levandomi da letto, mi ero tutt'a un tratto deciso.

—Perchè no?

E, avanti le nove, m'avviavo verso la casa del Lenzi, col cuore in tumulto, ma come chi vada incontro a inevitabile destino.

Il suo studio era al pianterreno.

Andavo sempre a cercarlo colà quando volevo vederlo, e nei giorni e nelle ore che sapevo di trovarlo con certezza. Ma questa volta anticipai a posta, e salii al terzo piano dov'egli abitava con la madre e una zia paterna.

L'annunzio della mia visita lo maravigliò tanto, ch'egli venne in salotto in maniche di camicia.

—Mi vestivo per scendere nello studio…. Scusa se mi presento così…. Che novità? Non ho saputo resistere.

—Finisci di vestirti; non c'è nessuna urgenza.

Ero imbarazzato. Avevo ideato il pretesto di non ricordo più qual libro da farmi prestare. Fanciullaggine! Il vero motivo della mia visita era quello di osservare, se mai lo avessi scoperto nel salotto, il ritratto di sua sorella. Lo avrei riconosciuto dal posto in cui si sarebbe trovato, certamente accanto al ritratto della madre o del padre morto, o della zia. La madre e la zia le conoscevo per averle viste una o due volte pochi mesi prima. Le due donne vivevano ritirate, non frequentavano società, dedite a pratiche religiose e ad opere caritatevoli, senza ostentazioni e senza eccessi.

Infatti!…

—Ah!… Sono lieto di coglierti in fallo—esclamò il mio amico trovandomi intento a osservare alcuni ritratti schierati, in belle cornici di velluto, sur una consolle.

Arrossii, e balbettai:

—Questa è tua sorella, è vero?

—Vieni a chiedermi la sua mano?—egli disse, affettando comica serietà.

—Quasi.

—Benissimo…. Ma…. come quasi?

—Se tu non hai nessuna difficoltà, ti prego…. di darmi, per poche ore, questo ritratto. Voglio presentarlo a mia madre.

—È giusto. Portalo via. So a chi lo affido.

Non m'era parso di vedere quella gentile figura per la prima volta, ma di riconoscerla, quasi ritrovassi incarnati in essa tutti i vaghi sogni di quegli ultimi mesi, quasi dagli occhi vivacissimi, dalla fronte spaziosa e dalle brevi labbra sorridenti si sprigionasse la modesta e schietta promessa della intima felicità che andavo cercando, e che già temevo di non trovare.

XI.

Andai via come un fanciullo a cui fosse stato regalato un giocattolo desiderato ardentemente da gran tempo. È così: nello sviluppo dei nostri sentimenti, noi dobbiamo attraversare, non fosse che per pochi istanti, tutte le fasi dell'evoluzione ordinaria; neppure in questo caso la Natura fa salti. Saremo fanciulli anche a sessant'anni, se non siamo stati tali al tempo opportuno. La maturità della mia intelligenza non m'impediva perciò di comportarmi come colui che si trova nel punto di iniziarsi alle prime prove del sentimento. Mi sentivo riafferrato dalla timidezza di una volta. Era certamente una timidezza più elevata, mista con trepidazioni, con esitanze, con scoramenti di altra natura; ma, in sostanza, era tutt'una con quella che mi aveva fatto rimanere confuso e smarrito anche davanti agli allettamenti dei giuochi infantili nella villa paterna.

Già mi stupivo di aver potuto prendere una risoluzione, e osato di chiedere quel ritratto. Lo stringevo col braccio, quasi per accertarmi che lo portassi con me nella tasca interna del vestito e nello stesso tempo avrei voluto non averlo là, perchè l'idea che la mia chimera, come aveva detto l'amico Lenzi, stesse già per divenire una realtà cominciava a infondermi una strana sensazione di freddo e di paura.

Intanto affrettavo il passo verso casa mia. Volevo interporre tra questi sentimenti e me un valido fatto in cui la mia volontà avesse preso parte e pel quale mi dovessi poi sentire indissolubilmente legato.

Fui lieto di trovare nel salotto di mia madre anche il signor Bardi. Amico fedele, quasi rappresentante di mio padre, dal quale era stato creduto degno di affidargli i suoi complicatissimi affari, aveva pienamente corrisposto alla fiducia da lui accordatagli e confermata da mia madre e da me. La mamma, accòrtasi subito, dal mio aspetto, che avevo una gran notizia da comunicarle, m'interrogò con un lieve movimento del capo.

—Eccola!—dissi.

E mi sentii esaurito da questo sforzo di energia. Non occorreva darle altre spiegazioni.

Ella osservò attentamente il ritratto, sorrise e lo porse ai signor Bardi che, inforcati gli occhiali, tendeva il collo curiosamente. L'osservò con attenzione anche lui, ma non comprese di che cosa si trattasse.

—Chi è?—domandò.

Lasciai che rispondesse mia madre:

—La mia futura nuora!

—Ah! Dunque ci siamo?—egli fece, strizzando un occhio.

—L'accetti già!—esclamai, rivolto alla mamma.

—Io non la conosco,—ella riprese,—nè so come e perchè tu l'abbia trovata e scelta tra tante. Ma giacchè finalmente ti sei deciso, significa che essa corrisponde a tutti i tuoi desiderii, ed io la benedico sin da questo istante come se già fosse mia figlia. Che Dio vi faccia felici!

La povera mamma, estremamente commossa, aveva ripreso dalle mani del signor Bardi il ritratto e tornava a guardarlo con viva compiacenza:

—Ha viso buono e attraente, occhi e labbra bellissimi.

—Non mi chiedi il suo nome?

—Chi è quel poeta che ha detto: La rosa, con qualunque nome, sarebbe sempre un bel fiore?

—Shakespeare,—risposi.—Questa si chiama Fausta Lenzi.

—Ed è una bella e fresca rosa davvero!—soggiunse il signor Bardi.

—Dio vi faccia felici!—replicò la mamma.—Sorella del tuo amico?

—Unica sorella.

—Perchè non me ne hai parlato prima?

—Perchè io stesso non sapevo…. fino a qualche ora fa….

—O perchè l'amore ama il mistero….

—No…. veramente, signor Bardi….

Mia madre, udendomi così parlare e vedendo il mio imbarazzo, era diventata tutt'a un tratto pensosa.

—Tu ormai sei un uomo,—disse,—tu sai tante cose; non puoi aver fatto una scelta irriflessiva.

—Sì, mamma,—mi affrettai a rispondere per confortarla.

Ma mi tremava la voce, e mi rimordeva il cuore di ingannarla in parte:

—Poi ti dirò tutto; mi approverai.

Volevo impegnarmi per una sincera confessione.

—Non intendo di sapere altro,—ella riprese.—Neppur le mamme debbono essere indiscrete. Fausta!… Bel nome, e di buon augurio.

—La famiglia è eccellente—intervenne il signor Bardi.—Ho inteso parlare della signora Lenzi come di persona caritatevolissima e in segreto; il miglior modo di fare il bene. L'avvocato—lo conosco un po'…. gli ho procurato qualche cliente—l'avvocato è giovane e vuol godersi la vita…. Brava persona però anche lui. Colto, intelligentissimo, sa mettersi avanti e farsi valere…. Dario lo conosce meglio di me…. Dicono che commetta…. delle pazzie, no…. ma qualche scapataggine…. Dio mio! se non le fa ora che è in tempo. Bisogna che la gioventù si sfoghi. Non sapevo che avesse una sorella. Qui ella troverà una mamma migliore della sua…. Uguale alla sua—si corresse;—non voglio offendere la vostra modestia, signora Maria. Bravo, Dario! La tua bella risoluzione mi fa davvero gran piacere. Avevamo qui ragionato più volte intorno a questo argomento. Anzi io—ma ora è inutile dirlo—fantasticavo un progetto, e mi ero riserbato di farne parola a cose finite, cioè quando i nostri affari….—nostri? Eh, sì, li curo più che se fossero miei—sarebbero stati compiutamente in assetto, cioè, tra poco. Arrivo troppo tardi. Tanto meglio. Certe cose è bene sbrigarsele da sè; gli intermediari non hanno sempre la mano felice. Bravo! Mi rallegro di tutto cuore. E vi lascio, perchè in circostanze come questa si fa sempre la parte del terzo incomodo. Mi rallegro anche con voi, cara signora!

E il signor Bardi scappò quasi, per lasciarci soli nella dolce intimità di quel solenne momento.

Avrei voluto trattenerlo per sfuggire una immediata spiegazione con mia madre.

—Non so se ho fatto bene o male,—dissi impetuosamente, per liberarmi dal peso che mi sentivo sul cuore.—Sappiamo noi forse, con precisione, se facciamo bene o male, nel momento che prendiamo una decisione qualunque? Seguiamo o un impulso del cuore, o le conseguenze di un ragionamento che ci sembra giusto e convincente. Non biasimarmi, mamma! Ecco com'è stato.

E le narrai minutamente ogni cosa.

Mia madre mi aveva ascoltato grave, intenta, ora fissandomi in viso, ora rivolgendo gli sguardi al ritratto che teneva, posato in grembo, con una mano.

—Hai fatto bene,—mi disse all'ultimo.—E poi hai tempo ancora di riflettere, di maturare la tua risoluzione e deciderti.

—No, mamma; non voglio più riflettere. È deciso.

Sorrise maravigliata.

—Godo di scoprire in te uno scatto di giovinezza!—ella esclamò.

Era uno scatto insolito; aveva ragione.

Mia madre portava ancora il lutto, quantunque fossero trascorsi più di due anni dal giorno della morte del babbo. I capelli ondulati, abbondanti, pettinati con semplicità in due bande che le coprivano le orecchie contornandole il viso, e già in via di brizzolarsi di grigio, davano, assieme col vestito nero, alla sua svelta ma robusta persona un'aria imponente. Si era rizzata dal canapè pronunziando le ultime parole, e mi avea teso le braccia. La tenni stretta al petto con forza baciandole la fronte, mentre anche lei mi stringeva a sè e mi baciava, bagnandomi la faccia con lacrime di tenerezza e di gioia.

—Grazie, mamma!—le dissi.

Il ritratto di Fausta era rimasto tra i nostri petti quasi per partecipare a quell'amplesso. Stava per cadere sul tappeto nel disgiungerci; ma fui pronto ad afferrarlo.

—Portiamolo con noi al camposanto. Andiamo a dare la dolce notizia anche a Lui che ti voleva tanto bene.

Mai mia madre non mi era parsa così nobile e veneranda come nel momento in cui delicatamente mi rimproverava di aver quasi dimenticato Colui che, se fosse stato ancora in vita, avrebbe certamente gioito del mio futuro matrimonio, non ostante le sue idee intorno a questo soggetto.

Un'ineffabile tenerezza m'invase. Gittai di nuovo le braccia al collo di mia madre, mormorandole con effusione:

—Andiamo, andiamo sùbito!

Mi è rimasto indelebilmente impresso nella memoria lo strano spettacolo del cielo di quella sera di settembre. Un gran velario di nuvole, formato da larghe scaglie, simili a scaglie sovrapposte le une alle altre, di un'immensa corazza che il sole in tramonto incendiava fantasticamente con barbagli di oro agli orli, con splendore da rubini nel centro. Il marmo del monumento si colorava in roseo pei riflessi di quelle scaglie fiammanti che si facevano gradatamente più rosse, di mano in mano che il sole declinava verso le montagne dell'orizzonte lontano; e quel roseo comunicava un fremito di vita al busto, somigliantissimo, quasi vi facesse circolare dentro, per inatteso miracolo, il sangue.

Mia madre si era inginocchiata a pregare, posando prima, su le fronde della siepetta di bosso che circondava il monumento, il ritratto di Fausta.

Io l'avevo imitata, e le invidiavo quella forte fede che le permetteva di rivolgersi all'anima di mio padre con assoluta certezza di essere udita, e di ricevere un'interiore risposta da lui, valevole quanto quella che avrebbe potuto uscirgli dalle labbra se fosse stato ancora vivo. Le mie idee erano allora orgogliosamente diverse. Convinto che corpo e spirito di mio padre, disgregati dalla morte, si trovavano ormai confusi con gli infiniti elementi dell'Universo, io non riuscivo a concentrarmi in un'aspirazione, nè formulare una preghiera; per poco non mi vergognavo di sentire in quel momento la suggestione di quell'umile creatura che risolveva serenamente, con uno slancio, il più terribile problema da cui sia turbato il nostro intelletto. Se non potevo credere che qualche atomo dell'infinita sostanza conservasse tuttavia la coscienza individuale di Colui che era stato mio padre, ne sentivo un'eco, ne percepivo un riflesso nel mio cuore e nel mio spirito per la evidente continuità degli esseri tutti; e così, a modo mio, mi rallegravo di praticare un atto quasi simile alla preghiera di mia madre.

Ci avviammo ad uscire dal camposanto silenziosi, a capo chino.

Le innumerevoli scaglie delle nuvole erano già diventate cineree. Una gran pace aleggiava per quei viali deserti, tra quelle tombe biancheggianti. Il rumore dei nostri passi su la fina ghiaia produceva tale trista, indefinita sensazione che ci impediva di riprendere a parlare. Soltanto quando rientrammo in mezzo alla vita cittadina, trasportati celermente dalla carrozza che ci riconduceva a casa, mia madre esclamò:

—Ora mi sento più tranquilla pel tuo avvenire.

Non chiusi occhio quella notte. Da alcune parole della mamma avevo indovinato la ragione delle ansietà che la turbavano, quantunque cercasse di nascondermele. Roberto Lenzi ed io avevamo fiduciosamente combinato la cosa, senza punto pensare che il cuore o la volontà di Fausta potevano rovesciare a un tratto il nostro magnifico edifizio e spazzarlo via come fa il vento coi globi di fumo. E allora?

Verso le due dopo la mezzanotte mi ero levato da letto e avevo aperto la finestra; mi sembrava che nella camera mi mancasse l'aria. Il cielo era limpidissimo, trapunto qua e là da poche stelle che tremolavano fiocamente, vinte dalla diffusa chiarità plenilunare. I tetti delle case erano bianchi dalla rugiada; i campanili e le cupole delle chiese si profilavano nel cielo quasi opalino con rigida nettezza.

Soltanto a grandi intervalli il vasto silenzio veniva interrotto dal rumore delle pesanti ruote di un carro, dai passi di un nottambulo, dallo strido di un uccello notturno che forse il lume della mia finestra aveva attirato da lontano.

—E allora?—m'interrogavo.

La risposta si sperdeva nel torpore che m'invadeva la mente, proprio come quella nebbia che vedevo inoltrarsi lieve, lenta, e che pareva scancellasse le sembianze delle cose, coinvolgendo dentro i suoi taciti veli biancastri la scura massa delle case, i campanili, le cupole, le cime degli alberi dei giardini attorno, spegnendo i fanali, di mano in mano che si accostava; prima, trasparente, simile a quei teli di garza scendenti dall'alto di uno scenario, e poi sempre più e più densa, tanto da coprire allo sguardo fin gli oggetti più vicini.

E quasi una mano invisibile agitasse di tanto in tanto quella vaporale inconsistenza che il chiaro del plenilunio rendeva opacamente luminosa, o un improvviso soffio di vento la diradasse per istanti, vedevo riapparire, slontanati dalla sfumata tenuità, cupole e campanili, angoli di case come galleggianti in quell'onda, che poco dopo tornava a riavvolgerli e a farli sparire.

—E allora?

La mia vita verrebbe sommersa, sarebbe presto sparita anche essa nel nulla, come le cose attorno, e non per qualche ora, ma per sempre?

Non mi ero accorto del tempo trascorso. La nebbia persisteva ancora fitta, immobile, quando potei distinguere a traverso di essa il luccicore dell'alba, quando l'aurora sopraggiunse più luminosa, tra i rumori della città che si destava.

E allorchè il sole, saettando i tiepidi raggi mattutini, cominciò a fugare la nebbia e a risuscitare attorno a me la realtà delle cose, mi parve che una risposta consolante mi risonasse dentro il cuore e che la gentile figura di Fausta mi sorridesse, lassù, nella limpida e dorata profondità del cielo, assentendo!

XII.

Il timore di mia madre, fortunatamente, era stato vano.

E così il più delizioso istante della mia vita fu quello in cui vidi Fausta venirmi incontro e tendermi le mani con tale grazia e semplicità, da rendere doppiamente gradita la incondizionata dedizione di tutta se stessa.

Rimandammo il nostro viaggio di nozze a sei mesi dopo il matrimonio—la mamma ci avrebbe accompagnati—e andammo a nasconderci nella villa dove io avevo passato due anni della mia scialba fanciullezza.

Ma prima di far la richiesta e appena ricevuta l'approvazione di mia madre, io avevo scrupolosamente adempito il programma con cui intendevo prepararmi al grande atto.

Stavo bene; il mio organismo, con lo sviluppo dell'età, si era rafforzato. Avevo conservate intatte, per via delle mie convinzioni e delle circostanze, quelle forze che i giovani sogliono spensieratamente disperdere quando più sarebbe dovere di risparmiarle.

Pure mi parve giusto interrogare un dottore.

Non si passa una misera fanciullezza senza che un'impressione non rimanga da farci dubitare e sospettare che qualche mal germe possa, insidiosamente, ancora annidarsi dentro di noi. Volevo essere sicuro.

Entrai con profonda trepidanza in quel gabinetto a cui gli strumenti per l'esame dei malati davano l'apparenza di una stanza da tortura.

—Dottore, mi dica crudamente la verità!

—Che cosa vi sentite?

—Niente. La prego di esaminarmi.

Il celebre professore al quale mi rivolgevo era famoso per la ruvidezza dei suoi modi; lo avevo scelto appunto per questo.

Mi avvolse con una larga occhiata indagatrice, scosse la folta capellatura grigia un po' in disordine, e cominciò a interrogarmi intorno ai miei genitori, alla mia fanciullezza, al genere di vita e di studi da me fatti.

—Siete stato malato qualche volta?

—Seriamente, mai.

—Perchè dunque venite da me?

—Devo prender moglie. Non vorrei contribuire a mettere al mondo creature imperfette; preferirei di rimanere scapolo.

Sorrise, maravigliato.

—Spogliatevi; vediamo.

Il cuore mi tremava sotto i picchi delle sue dita che mi scrutavano le viscere quasi impazientemente, sotto l'impressione della sua gota carnosa contro il mio petto e le mie spalle.

—Siete sano come un pesce; suol dirsi così,—egli sentenziò, rizzandosi su la persona, soddisfatto.

E brutalmente soggiunse:

—Avete però avuto torto di astenervi…. Tutti i nostri organi hanno bisogno di esercizio, perchè non si atrofizzino…. Siete in tempo di riparare. Affrettatevi. La natura è immorale, caro signore. Essa ha ordinato l'accoppiamento non il matrimonio. Il resto lo abbiamo inventato noi e malamente. Non vi scandalizzate; la scienza rifarà anche la morale e le leggi sociali, e saprà impedire che l'umanità perisca. Voi, intanto, pensate un po' meno, e sentite un po' più. Ricordatevi che l'uomo è pure un animale e che gli istinti hanno carattere sacro. I pregiudizii della civiltà sono una grande abominazione…. Potete andar via!…

Mi licenziò così.

In altra circostanza, io non avrei lasciato senza risposta le sue troppo recise affermazioni; ma, in quel momento, che poteva importarmi di esse? Ero felice di sapermi sano, e sorridevo allegramente dei consigli di lui e della solenne serietà con cui mi erano stati dati.

Andavo, due giorni dopo, dal dottore del collegio dove Fausta era stata educata. E pregavo anche lui:

—Mi dica crudamente la verità.

—È mio dovere,—rispose.—Ho curato la signorina tre anni fa, d'una febbre che minacciava di trasformarsi in tifoidea; ma la crisi fu superata. Delle piccole indisposizioni, comuni a tutte le giovinette della sua età, non è da tener conto. Un po' di nervi, si sa…. Ormai!… La signorina Lenzi, secondo quel che può osar di affermare la povera scienza medica attuale, è assai ben costituita per l'opera della maternità. Ma sarebbe audacia imperdonabile il supporre che la Natura non sia capace di scombussolare tutte le nostre previsioni, tutti i nostri calcoli. Il laboratorio della generazione è ancora un mistero per noi. Quali impercettibili e pure potentissime influenze producono le anormalità organiche, le voglie, i mostri? Non ne sappiamo nulla. Germi, trasmessi per lunga via ereditaria, si svolgono tutt'a un tratto, quando già avremmo avuto ragione di crederli estinti. Influenze morali si rivelano con fenomeni fisici; difetti fisici si traducono in fenomeni così detti spirituali. Precauzioni? Fino a un certo punto. Parlo così perchè…. non si sa mai!… E non vorrei che un giorno ella venisse a dirmi: Mi ha ingannato! Nel caso della signorina Lenzi abbiamo quasi la certezza assoluta. E questo deve mettere in pace la sua coscienza e la mia. Sangue purissimo; si vede dal bel colorito della carnagione. Costituzione solida, seno ampio, bacino ben modellato, da far prevedere parti agevolissimi….

—Basta!—lo interruppi, un po' indignato di questi minuti particolari che mi parevano sconvenienti anche in bocca di un medico.

E, tornato a casa lietissimo del resultato delle due inchieste, dissi alla mamma:

—Ora tocca a te!

Avevo voluto vedere Fausta appena uscita di collegio.

La fotografia la calunniava, esagerando certe linee del viso, togliendole l'espressione ordinaria con la fissità della posa. Il ritoccatore, dandosi gran pena per levar via la bella modellatura delle guance, con la buona intenzione di attenuare gli inevitabili contrasti dei chiari a delle ombre, aveva compiuto la sfigurazione. Di quel che di virile, di rigoglioso, che imprimeva un carattere alla fisionomia e a tutta la persona di lei, non era rimasta traccia nel ritratto datomi da Roberto.

Avevo osservato Fausta a lungo, non visto, in chiesa, e ne avevo ricevuto una consolante impressione di energia, di salute, di equilibrio. Niente di sensuale, di bassamente voluttuoso; ma una armonia dolce e tranquilla di bellezza esteriore e psichica che non avrebbe mai suscitato in nessuno furori di passione morbosa.

Il mio cuore infatti non ne era stato turbato, non aveva palpitato insolitamente in quel primo incontro, nè dopo. Io ritrovavo in essa la bella e ben costituita macchina di creazione che appunto ricercavo, e non mi importava niente se in me o in lei mancasse qualcuno degli accessori che dagli altri venivano strettamente reputati come cosa principale.

—L'amore—pensavo—come lo concepiamo al dì d'oggi, ha caratteri eccessivi. Abbiamo esagerato le insidie che vengono tese dalla Natura per la conservazione della specie, dimenticando che esse sono simili agli specchietti da allodole tremolanti e brillanti al sole per attirarle sugli stecchi cosparsi di vischio, o sotto la rete. La Natura è provvida, non fa sciupìo di forze. Essendo io disposto ad adempire riflessivamente alle sue leggi, il sentimento e l'immaginazione non hanno nessuna ragione di operare in me per allettarmi. Ecco perchè il mio cuore rimane tranquillo.

Fui commosso però il giorno della presentazione, allorchè me la vidi venire incontro tendendomi le mani con atto di gentile sincerità, dopo di avere abbracciato affettuosamente mia madre.

—Io la ringrazio!—disse.—E farò ogni sforzo per mostrarmi degna della preferenza che mi ha usata. Mio fratello mi ha parlato tante volte di lei. Roberto le vuol bene. Ella non è ignoto per me.

Non ricordo quel che risposi; poche e imbarazzate parole certamente.

Fausta aveva una prontezza di spirito che mi maravigliava; un senno pratico e indulgente che faceva contrasto con la sua età. Di giorno in giorno, durante i rapidi preparativi delle nozze, mi stupivo di scoprire in lei tale limpida ed esatta conoscenza della vita, quale non credevo potesse acquistarsi vivendo segregati in collegio, come ella era vissuta otto anni, e in un collegio diretto da suore, quasi monastero.

—Tanto meglio!—mi rallegravo.—Non entrerà ignara, con poetiche illusioni, nella nuova condizione sociale. Sarà ben armata contro le delusioni e le sventure.

Una sera, qualche settimana prima delle nozze, mia madre ed io, dopo di aver desinato in casa Lenzi con la più affettuosa intimità, eravamo usciti a prendere il caffè nella terrazza che rispondeva sul giardino, come il padrone del casamento chiamava, con qualche enfasi, i pochi metri quadrati, ornati di tre o quattro alberi frondosi, di una siepe di bosso torno torno, e di una aiuola centrale che secondava le sinuosità degli stretti viali.

Mi ero appoggiato alla ringhiera fumando una sigaretta. Roberto discorreva con le signore, facendole ridere a furia di stranezze e di aneddoti raccontati con la sua solita prodigalità di parole e di gesti.

Fausta, che stava ad ascoltare ridendo anch'essa, dovette credere che io avessi udito quel che Roberto diceva in quel momento, giacchè venne a mettersi al mio fianco per rassicurarmi:

—Oh, non dubitare! Non sarò mai gelosa del tuo passato.

—Non c'è di che—risposi, senza domandarle per quale ragione fosse venuta a dirmi questo.

—Tutti gli uomini,—ella riprese,—affermano così, sul punto di sposare. È un'ipocrisia che ormai non inganna nessuna ragazza. Potreste farne a meno. Se io fossi un uomo, sarei più sincero.

—Sono sincerissimo.

—No, non mentire. Si capisce; la vita di un giovanotto è molto diversa da quella di una di noi. Forse dev'essere così; almeno è convenuto—la legge l'avete fatta voi—che debba essere così.

—Ma chi ti ha detto queste sciocchezze?

—Non mi cedere un'ingenua, una puppattola. In collegio apprendiamo tante cose. E poi, abbiamo occhi per vedere, orecchie per udire. Non ti dispiacerà se parlo in questo modo.

—Niente affatto.

—Mi basta che tu sappi che per me il tuo passato non esiste. Io non frugherò nei tuoi cassetti per trovarvi qualche letterina dimenticata di stracciare o di bruciare. Non vorrò mai sapere se hai amato altre donne e quante e come. Saprò scancellare, m'ingegnerò di scancellare ogni loro traccia dal tuo cuore. Da ora in poi però…. starò vigilante su la soglia di esso perchè nessun'altra vi penetri.

—Potrai risparmiarti di vegliare—risposi prendendole una mano e stringendogliela forte.—E in quanto al passato, vivi tranquilla. Sono stato una ben misera creatura, per tante ragioni; e tu puoi varcare la soglia del mio cuore senza timore di incontrare là dentro tracce di altre donne.

Mi guardò, sorridendo un po' incredula, scosse il capo e soggiunse:

—Male! Male!

—Perchè?

—Sara diceva….

—Chi è questa Sara?

—Una delle mie amiche di collegio. Diceva: Non ci è niente di peggio di un marito che non ha già fatto vita—si esprimeva così.—Vorrà cavarsi il gusto dopo, appena….

—Ma….—la interruppi,—in collegio vi occupavate di questi soggetti?

—Riguardano il nostro avvenire. Come vedrai, così io non sarò una moglina seccante. Il passato…. è passato. Nessuno di noi ha alcun diritto su di esso.

La guardai con tale espressione di stupore, che Fausta capì subito quel che mi spuntava nella mente.

—Oh, non parlo per metter le mani avanti, per interdire a te di ricercare, no! Nessun amoretto, neppure per chiasso. Voialtri non potete immaginare quanto si diventi serie in collegio. Ci sono anche là le sventate, le romantiche, le sentimentali; poche; e vengono messe in ridicolo. Quella vita così apparentemente segregata ci rende riflessive, positive. Ognuna mette in comune il suo mucchietto di esperienza, e ne formiamo un bel cumulo. Io ero la più sprovvista: una sciocchina. Non sapevo niente, mi maravigliavo di tutto: del poco bene e del molto male di cui sentivo ragionare dalle altre. Avevo però intelligenza svelta, e intendevo spesso più in là che l'altre non intendessero o fingessero di non intendere.—L'una parlava del babbo, l'altra della mamma; questa del fratello, una quarta del cugino; e poi degli estranei, delle famiglie amiche e conoscenti…. Quanti dolori, quante stoltezze, quante brutture! Ed esclamavo, spaurita:—Dunque la società è fatta così?—Mi confortavo riflettendo che i miei non somigliavano punto a tutta quella gente. Roberto però—Sara lo sapeva, sapeva ogni fatto altrui quella Sara!—Roberto non ha operato diversamente da quei fratelli e quei cugini…. Tutti a un modo!—conchiudeva Sara. E perciò ho pensato: Anche Dario dunque!

—Dario, no,—risposi sorridendo.—Il tuo Dario ha questo di buono…. o di cattivo—chi lo sa? Prende la vita seriamente, troppo seriamente, forse.

—Non mi dispiace. Sai? Le ragazze oggi rifuggono dai giovani leggeri, superficiali. Roberto mi ha detto che tu sei appunto uno dei pochi che prendono la vita seriamente. Come sono contenta di aver avuto occasione di dirti questo, prima di essere legati per sempre!

—Grazie, Fausta!

E le baciai rapidamente la mano.

—Eccoci!—ella rispose alla chiamata del fratello.

XIII.

Quel mese da noi passato a Villa Fausta—mia madre mi aveva suggerito di ribattezzarla così—lo rivedo nei ricordi come un'impressione di sogno, quasi non ci fosse stata nessuna continuità nei nostri atti, quasi noi fossimo sbalzati, volati da un punto all'altro con la facile incoerenza della vita onirica, e da una circostanza all'altra, senza neppure quella strana coscienza, che talvolta abbiamo, di sognare.

Mio padre aveva fatto scolpire sotto i capitelli del cancello il nome della mamma; e rammentando i tristi due anni della mia fanciullezza trascorsi colà, soleva chiamarla Villa Amara, invece di Villa Maria. Allora—lo seppi assai dopo—egli temeva di perdermi; e ogni visita era una angoscia nuova pel suo cuore di padre, quando non scorgeva in me il rapido miglioramento che egli avrebbe voluto.

Vi ero tornato solo o con la mamma parecchie volte negli ultimi anni, e la chiamavo anche io Villa Amara perchè non vi trovavo nessun ricordo che potesse rallegrarmi, perchè neppure allora ne ricevevo nuove impressioni che riuscissero a scancellare le grigie impressioni infantili.

Ora rammento, vagamente, con che sorriso parvero accoglierci i viali, le stanze, e come tutto mi sembrasse improvvisamente trasformato.

La mia trepidanza era straordinaria.

Quel che stavo per compire mi sembrava il più solenne atto religioso della mia vita. Non credente, mi ero sottomesso molto volentieri alla benedizione in chiesa, perchè stimavo anche allora che certe forme hanno un gran valore, se non per sè stesse, per quel che contengono d'aspirazione ideale. Trascurarle, rifiutarle mi sarebbe parso azione da bestia, non da uomo.

Così Fausta non rappresentava per me la bellezza, la giovinezza, la vita o l'amore soltanto,—giacchè mi sentivo, mi riconoscevo già amato da lei,—ma qualcosa di talmente elevato, di talmente misterioso e divino, che l'accostarmele e il possederla mi turbava, mi agitava con sottilissima pena.

—In ugual modo,—pensavo,—deve turbare e agitare l'idea di sentirsi vicino alla morte e nel punto di penetrare il grande Ignoto, l'Essere infinito dove ogni forma vivente torna a confondersi, per poi riprodursi con nuove apparenze nel creato!

Quel mio stato di muta adorazione, Fausta, nei primi istanti lo interpretò per freddezza. Come farla partecipare ai miei sentimenti, alle mie idee? Temevo di non sapermi esprimere e di non essere compreso. Questa convinzione mi impediva di parlare. Che importava infine? Sapevo di essere la Volontà, la Forza maschile, l'Elemento fecondatore e creatore, quel che doveva vincerla e sottometterla. Eppure, in quei momenti, avrei piuttosto voluto produrre il miracolo di compenetrarla spiritualmente, senza che niente di basso, di sensuale si fosse mescolato all'atto supremo.

Fortunatamente la Natura ha maggior potere di qualunque individuale convincimento. Essa opera in noi, nostro malgrado. Perciò, soltanto dopo, io potei riflettere che, fin dall'inconsapevolezza dell'abbandono, avevo compito un atto di sacrificazione, una preghiera propiziatoria, e mi auguravo che venissero accolti ed esauditi, come meritavano, per la loro purezza e la loro intensità.

E, con che vivo senso di superstiziosa premura, il mattino appresso, appena, l'aurora cominciava a colorire di roseo i lembi del cielo all'orizzonte, io svegliai Fausta per condurla su l'alta terrazza della villa affinchè vi ricevesse la benedizione dei primi raggi del sole!

Era incantata. Non aveva mai visto quel maraviglioso spettacolo che rallegra la terra tutte le mattine.

Di lassù, a perdita d'occhio, la campagna appariva un vasto oceano di verdura. I monti lontani, velati da vapori azzurrognoli, ergevano le cime indorate dal sole che emergeva dalle nuvole come da un letto di freschissime rose.

Fausta era un po' pallida, coi capelli in vago disordine, con atteggiamento di soave languore, e si appoggiava al mio braccio, sorridendo di ammirazione. Io ammiravo lei, che forse già portava in seno la germinazione di vita da cui veniva resa sacra agli occhi miei!

Il sole, che la inondava e l'avviluppava con la sua luce, cooperava probabilmente….

Ah!

Ora sorrido con immensa tristezza di tutte queste fantasticherie, di tutta questa poesia, di tutto questo misticismo che mi straboccava dal cuore e dalla mente in quei felici giorni, quando per poco non mi sembrava che tutta la vita dell'universo fosse concentrata in noi due, e che l'orgoglioso mio disegno, i miei grandiosi proponimenti fossero proprio sul punto di attuarsi con la più piena misura!

La deformazione del mio spirito era tale, che mi rallegravo anche di non sentire per Fausta qualche cosa che potesse somigliare lontanamente all'amore. Che ella mi amasse, mi sembrava giusto, naturalissimo. Donna, ella doveva usare delle sue facoltà primitive, l'immaginazione e il sentimento. Pensare, riflettere, spettava a me. Nel mio cervello, quelle primitive facoltà erano state assorbite, assimilate da facoltà superiori, ed operavano sottomesse a queste. Senza dubbio, amavo anch'io, ma in maniera così diversa, così elevata, che quel mio sentimento meritava appena il nome di amore, unicamente per farmi intendere e per intendermi! E m'insuperbivo di questa distinzione.

Facevamo lunghe passeggiate, soli soli, portando con noi una frugale colazione, qualche libro di versi o un romanzo. Mangiavamo, spensierati come due fanciulli, all'ombra di un albero, dentro una grotta, dove gemeva, in una fonticina, acqua freschissima, limpidissima e di sapore delizioso; su un ciglione di collina, tra i sassi, gli sterpi e le erbe; e spesso le poche persone di servizio ci attendevano alla villa, con ansia, vedendoci ritardare insolitamente.

Il Bissi mi ripeteva da Desenzano la sua solita domanda:

—Che fai? E l'arte?… Ne hai smesso ogni pensiero?

E mi dava la lieta notizia:

—Lavoro a un romanzo.

—E tu, non hai scritto niente?—mi domandò Fausta.—Hai studiato tanto! Non t'impedisco io, è vero?

—Ho qualcosa di meglio da fare!—risposi.

—Eppure sarei orgogliosa di vedere il tuo nome su pei giornali, su la copertina di un volume. Roberto dice che hai troppo ritegno, troppa modestia.

—Roberto s'inganna. Non parliamo di questo.

Con mano inconsapevolmente crudele, ella aveva toccato la piaga non ancora rimarginata in fondo al mio cuore.

—Anzi!—ella continuò.—Voglio essere la tua ispiratrice. Quando torneremo in città, dovrai riprendere gli studi e i lavori interrotti, mettermi a parte di essi. Non già che io possa consigliarti o aiutarti, ma perchè me ne interessi quanto te, ed abbia il piacere di vederli germogliare e crescere sotto i miei occhi e goderne prima degli altri; ne ho il diritto.

—Ho rinunziato a tutto, da un pezzo!

—Giuramento da marinaio.

—Da marinaio che non ha mai tentato il mare e che ne ignora la furia e le tempeste!—dissi, con desolata ironia.

—Dedicherai a me il tuo primo libro.

—Non scriverò mai un libro!

—Perchè?

—Perchè quello che vorrei scrivere…. è un libro impossibile.

—Che cosa?

—Un gran capolavoro!

—Hai ragione, Roberto s'inganna; non sei modesto. Mi piace. Le persone modeste sono sempre mediocri. C'è pure una modestia che è gran vanità. L'orgoglio, invece, mi sembra una forza. Sei orgoglioso tu!

—Oh, sì! Di te, di qualcosa che dee venirmi da te.

Avrei voluto ch'ella mi avesse risposto:

—Rallegrati! Già lo sento agitarsi nelle mie viscere.

Invece, otto mesi dopo, la confidenza, attesa con impaziente e smaniosa ansietà, tardava ancora!

Neppure le distrazioni del viaggio di nozze avevano attenuata la indefinita paura di un terribile disinganno che mi rendeva nervoso e malinconico.

In certi giorni, al vederla serena, tranquilla, senza nessuna preoccupazione di quel che, secondo me, avrebbe dovuto essere il suo costante pensiero, sentivo un sordo dispetto contro di Fausta, quasi ella fosse venuta meno alle sue promesse, a un giuramento; quasi il grand'evento fosse stato in ritardo unicamente per colpa di lei. Sbuffi momentanei che mi rimordevano subito.

E mi sforzavo di sorridere, di mostrarmi lieto.

Una sera, non ricordo più a che proposito, Fausta disse:

—Quando avremo una figlia….

—Perchè una figlia e non un figlio?—la interruppi.

Mi guardò maravigliata dello strano accento con cui avevo pronunziato quelle parole.

—Ti dispiacerebbe di avere una figlia?

—Sì, se venisse prima d'un maschio.

—Vedi: ora mi farai stare in pensiero, pel caso….

—Devi volere un maschio, a ogni costo. La volontà influisce.

—Il Signore ci dà quel che piace a lui!

—Devi volerlo, fortemente…. Non farti il malaugurio!

Intervenne la mamma:

—Bastasse volere! Ha ragione Fausta. Infine, con chi vorresti prendertela, se per disgrazia…?

—O mamma, non farmi il malaugurio anche tu!

Pochi giorni dopo, nel tornare da una passeggiata, Fausta, tutt'a un tratto, a pie' della scala, sentendosi venir meno, si aggrappava al mio braccio, esclamando fiocamente:—Oh, Dio!… Dario!

E mi si aggravò sul petto.

L'alzai di peso e la portai su quasi fosse stata una bambina. Era pallidissima, diaccia. Mia madre non si smarrì al mio grido che chiamava soccorso e a quella vista. Le spruzzò il viso con acqua fredda, le fece odorare dei sali:

—Non è niente! Si è strapazzata troppo.

—Ha voluto andare sempre a piedi—balbettai.—Fausta! Fausta!

Aperse gli occhi, sbalordita; poi sorrise:

—Scusa, mamma! Non so…. Da questa mattina!… Hai avuto paura, povero Dario?… Non mi è accaduto mai prima d'oggi.

—Ti senti meglio?

—Sì, Dario. Solamente…. una gran lassitudine…. E poi…. Ecco, mi riprendono le nausee di poco fa, ma…. più forti.

Mia madre ed io scambiammo una lunga occhiata di tenerezza, di gioia repressa.

Stesi le mani ad accarezzare delicatamente il viso di Fausta, ritenendomi dallo stringerla al petto, come avrei voluto fare in uno slancio di gratitudine immensa, per paura di nuocerle in quello stato.

Non ci ingannavamo, mia madre ed io? Era quella la rivelazione così ardentemente invocata?

Quel giorno non le dicemmo niente del nostro sospetto, e neppure nei giorni appresso, quando il sospetto fu lietissima certezza.

Io ero diventato un bambino. Avrei voluto correre, saltare, gridare per dar qualche sfogo fisico alla mia intensa gioia. Due volte mi ero sorpreso, nel mio studio, con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo, in atto di ringraziamento e di preghiera; e, nonchè arrossire di un atto che contradiceva alle mie convinzioni filosofiche, non me n'ero nemmeno maravigliato.

Stavo attorno a Fausta, in gioconda ammirazione di quel fragile corpo di donna che conteneva il misterioso germe, la mia speranza, la mia vittoria!

E quando neppur essa potè più ignorare, e mi accorsi che era triste, agitata dalla paura, che il mio desiderio potesse venire frustrato, mi affrettai a rassicurarla:

—Non importa; qualunque sia l'esserino che ci verrà concesso, sarà sempre accolto come una benedizione.

—Sei buono; me lo dici per confortarmi….

—No, sta' tranquilla.

—Vedrai, sarà un bambino!

Avevo sentito parlare di un mezzo per accertarsi del sesso di una creatura in gestazione, e lo avevo giudicato superstiziosa sciocchezza. Ebbene, non seppi trattenermi dall'adoprarlo.

Una mattina improvvisamente le dissi:

—Oh, Fausta!… Quelle mani!

Me le mostrò, voltando le palme, stupita della mia esclamazione.

L'abbracciai, commosso, credulo al pari di una femminuccia.

—Sì, sarà un bambino!—le dissi.

—Davvero?

—Certamente.

—Come lo sai?

Le spiegai il mezzo di cui mi ero servito.

—Eh, via!…—esclamò delusa.—È uno scherzo.

—Tante altre cose gli scienziati stimano scherzi e superstizioni e, alla prova, non sono tali.

Parlavo gravemente, con convinzione, in quel momento.

—E poi,—conchiusi,—spesso la felicità consiste in un'illusione. Non priviamoci di questo beneficio!

Sorvegliavo ogni movimento, ogni atto di Fausta. Le sue passeggiate, il suo nutrimento, le sue più indifferenti occupazioni diventavano per me tanti difficili problemi da studiare, da risolvere ponderatamente. Qualunque commozione, qualunque impressione capace di avere influenza su l'organismo del nascituro—non dubitavo più, era un figlio!—mi teneva ansioso, mi atterriva, mi rendeva importuno, seccante con la povera Fausta; e me ne scusavo e gliene chiedevo perdono, quando mi accorgevo di eccedere troppo.

—Senti com'è irrequieto!—ella mi diceva.

Non potevo accertarmene. I movimenti interiori che ella notava non erano ancora tanto sensibili da essere verificati esternamente.

E quando potei anch'io accertarmi dei calcetti, come diceva lei, che il rabbiosino le dava, quei sintomi di vitalità, e di forza mi confermarono nella convinzione che si trattasse proprio di un bambino.

—Lascialo fare. Si annoia al buio, nel ristretto spazio che lo contiene; ha fretta di uscire all'aria libera.

—Tra due mesi!

Oh, quanto mi sembravano lunghi a scorrere! Due eterni mesi ancora! E contavo i giorni, le ore, i minuti, con indefinito terrore del gran momento, con immensa compassione di colei che sopportava così lietamente il grave peso della maternità, e che passava le sue giornate a preparare, insieme con la mamma, il corredino del nascituro.

XIV.

Ero come in attesa di un portento. In certi momenti mi paragonavo, sorridendo, a quei maghi maravigliosi operatori di prodigi, che, avendo asservito tutte le più arcane forze della natura, le costringono alla creazione da loro ideata e voluta, e per ciò superiore alle ordinarie produzioni, le quali risentono inevitabilmente gli influssi delle circostanze e del caso. La loro opera non è diversa dalle creazioni naturali; si serve degli elementi esistenti, ma li combina con piena libertà, evitando gli impedimenti e i contrasti del cieco intervento di altre forze.

Così credevo di aver potuto fare io, ed ero in vivissima impazienza di vederne il risultato. Ne avevo parlato spesso nelle mie lettere al Bissi, e mi ero indispettito delle sue obbiezioni. Egli mi aveva risposto:

«Solo e vero mago è l'artista. Soltanto del nostro pensiero abbiamo padronanza assoluta, e per questo, se sappiamo, possiamo fare il portento dell'opera d'arte. Non c'è altra creazione umana possibile, ed è superiore, infinitamente superiore, a qualunque più elevata creazione della. Natura».

—E l'artista chi lo crea?—gli avevo risposto.

La nostra discussione epistolare era stata interrotta dalla malattia di sua madre.

Una mattina me lo vidi inaspettatamente dinanzi, vestito a lutto.

—Oh, povero amico!—esclamai, abbracciandolo.

—È un dolore ineffabile!—rispose.—C'è stato un istante in cui mi parve che tutto l'universo perisse assieme con me. Non avevo mai immaginato niente di simile; mi sembrava di dover ammattire. Il lavoro mi ha salvato…. Ne ho quasi rimorso.

—Perchè?

—Ho potuto fare una cosa orrenda. Stenterai a credermi. Tornato dal cimitero dove avevo assistito, senza piangere, quasi inebetito, al seppellimento della mia morta adorata, mi son chiuso nella cameretta accanto a quella in cui mia madre era spirata due giorni avanti…. ho ripreso il mio romanzo abbandonato da parecchie settimane, come se niente di terribile fosse accaduto nella mia vita…. ed ho scritto, ho scritto, notte e giorno per dieci giorni di sèguito, dormendo qualche ora seduto nella poltrona, con la testa su le braccia appoggiate al tavolino, sostentandomi con caffè e latte e pochi biscotti, domando così lo sconvolgimento fisico dell'organismo che pareva dovesse annientarmi l'intelletto. È stata, forse, azione istintiva, per proteggerlo, per salvarlo…. Una mostruosità! Quando ripenso a questo, mi faccio orrore!…

—Ed hai finito il romanzo?—gli domandai per non insistere sul triste tema.

—Sì.

—Ne sei contento?

—Molto; a te posso dirlo senza falsa modestia. E riflettendo che, probabilmente, non sarei riuscito a farlo quale ora è, se non fossi stato sotto la terribile stretta di quel dolore senza nome, mi sento preso da un impeto di indignazione contro la Natura che ha bisogno di servirsi di tali mezzi per produrre certi fenomeni intellettuali. È una gran profanatrice la Natura!

—Tu intanto devi essere felicissimo di aver già fatto quel che hai voluto.

—Sì, è vero. Ho l'assentimento della mia coscienza. Ma corrisponderà l'opera mia alla coscienza degli altri? Ti confesso che questo mi dà pensiero fino ad un certo punto. Tanto peggio per me, se essa arriva in ritardo; tanto meglio, se precorre l'avvenire. Lo saprò tra non molto, appena avrò trovato un editore, e, dopo l'editore, un pubblico che voglia leggerla. L'importante era che io giungessi a produrla quale l'ho maturata nell'immaginazione e nel cuore; che nell'arduo passaggio dalla concezione all'attuazione la mia opera d'arte non perdesse per via le eccelse qualità di vita, di luce, di colore, di euritmia lungamente vagheggiate e laboriosamente proseguite con l'intenso concorso della forma che dà allo spirito dell'artista ansie e dolori di cui pochissimi possono formarsi esatta idea. Ormai io sento lo sfinimento, la lassitudine che seguono al lavoro compiuto; e guardo l'opera mia con la stessa tenerezza, con la stessa compiacenza con cui una mamma deve certamente guardare la creaturina che poche ore avanti le ha straziato le viscere per venire alla luce.

—T'invidio!

—Forse hai ragione, forse hai torto. In questo momento io non so giudicare se la generazione di una creatura vivente, cioè di un'anima, di un cuore, d'un intelletto, non sia infinitamente superiore alla creazione di un'opera d'arte; o se quest'altra creatura spirituale che vive, che palpita anch'essa, e che è capace di produrre in migliaia d'intelligenze e di cuori ripercussioni immortali di pensieri e di affetti, non valga assai più, assai più del misero organismo formato di fibre, di nervi e di sangue che potrà essere un genio, un cretino, un delinquente senza che la nostra volontà c'entri per nulla.

—No! No!—esclamai.

—Scusa,—egli rispose, sinceramente mortificato.—Ti ho parlato di me e delle cose, che possono interessarti fino a un certo punto, ed ho trascurato di chiederti notizie….

Lo presi per le mani con slancio affettuoso.

—Non ancora…. Poche settimane, pochi giorni, forse, e il gran miracolo sarà compiuto. Lasciami dire così. È la convinzione, anzi la fede che mi regge, che mi conforta, che mi fa amare la vita. Chiamo Fausta; voglio presentarti a lei che ti vuol bene come al più caro dei miei amici. La gestazione ha un po' deformato le linee del suo giovane corpo; a me però sembra più bella ora; c'è qualcosa di augusto, di sacro nella maternità.

Ero orgoglioso di veder Bissi quasi timido davanti a Fausta.

—È un vecchio amico per me,—ella gli disse.

Si era fermata scorgendolo in lutto e mi interrogò con lo sguardo.

—Ha perduto la mamma,—spiegai.

—Povero signor Bissi!

Le tremava nella voce tale improvvisa commozione, che io, per impedirle di continuare, la interruppi:

—Sarà nostro ospite. È inutile che tu dica di no—soggiunsi al gesto negativo del mio amico.—Mando all'albergo a prendere la tua valigia.

Fausta lo fissava con gli occhi velati di lacrime. La rimproverai dolcemente. La sua sensibilità si era molto esaltata in quegli ultimi giorni; qualunque lieve impressione la turbava; e questo stato di debolezza nervosa m'impensieriva, quantunque comprendessi che fosse proveniente dalle condizioni del suo organismo, in via di prepararsi al supremo sforzo del prossimo parto. Ricordo le dolcissime ore passate in quella stanza dove Fausta e mia madre finivano di mettere in ordine il corredo del «principino imperiale» come io mi compiacevo di chiamare il nascituro; e Bissi ed io dimenticavamo di ragionare di arte, interessandoci a quelle piccole cose eleganti che si accumulavano sui tavolini e su le seggiole in gentile disposizione.

Fausta, di tanto in tanto, animava il nostro ammirativo silenzio con parole di scherzo rivolte al Bissi:

—Beati voialtri romanzieri che non fate nessuna fatica e nessuna spesa per abbigliare i vostri personaggi!

—Ah, se sapesse!—egli rispondeva, crollando il capo.

—Lo so che spessissimo li vestite male. Vi costerebbe tanto poco sollecitare intorno a questo la collaborazione di una donna. Ma voialtri artisti siete orgogliosi; stimate la donna un essere inferiore….

—Può darsi che abbiano ragione,—soggiungeva mia madre.—Però, però….

—Dica pure, signora Maria,—la incitava Bissi.

—I romanzi noi li facciamo e li facciamo fare nella vita. Non è poi gran cosa, se loro li scrivono.

—T'inganni, mamma!—intervenivo io.

Nessuno sapeva meglio di me quanta gran differenza corresse tra il viverli e lo scriverli. L'antica piaga del mio cuore si era riaperta in quei giorni, assistendo alla lettura di parecchi maravigliosi capitoli del lavoro di Bissi, dove la realtà e la poesia si fondevano con arte squisita, organicamente, con originalità schietta e sincera, con robusto impeto di stile. L'ammirazione e la gelosa invidia che riprendevano a torturarmi col vivo ricordo della mia impotenza artistica venivano a stento represse dall'idea che tra poco avrei veduto venire alla luce il mio capolavoro, di natura diversa, Colui che avrebbe dovuto attuare quel che al suo genitore era stato negato. Non osavo di dubitare un solo momento che ciò non dovesse accadere. La ragione della mia esistenza consisteva tutta là.

Tornavamo col mio amico da una lunga passeggiata, in aperta campagna. La primavera era arrivata da parecchi giorni coi suoi tepori, coi suoi profumi, col suo vasto sorriso di verde e di sole, con la lieta gazzarra degli uccelli nidificanti tra i rami degli alberi, tra le siepi, con le farfalle che ci volteggiavano su la testa, d'attorno, mentre noi procedevamo per l'ampia strada, riandando con lieta spensieratezza i bei giorni della giovanile comunanza di studi, di aspirazioni, di sogni ora parte svaniti, e parte sostituiti da altre aspirazioni, da altri sogni, o da tristi e dolci realtà. Le circostanze della vita ci avevano divisi. Il fratello di mia moglie, con la madre e la zia, stava a Roma, dove aveva aperto il suo studio di avvocato; il Lostini era andato a Milano e già spadroneggiava nel basso giornalismo, poeta, novelliere, critico letterario e teatrale. La sua improntitudine e la sua audacia lo aiutavano a far rapida carriera più che il suo ingegno incolto, bislacco, ma che però progrediva e si fortificava oltre di quel che da principio non facesse sospettare.

—Noi due siamo rimasti, in disugual modo, sognatori ostinati,—diceva Bissi sorridendo malinconicamente.—Il mondo è dei violenti.

—C'è violenza e violenza,—risposi.—Io preferisco quella che adopriamo noi, tu più di me. È la più sicura.

Ci eravamo dilungati troppo. Una carrozza vuota ci veniva incontro. La fermai. Bissi voleva ritornare a piedi; ma io sentivo una strana agitazione, un'impazienza improvvisa di trovarmi a casa.

—È puerile. Devi perdonarmi; in certe circostanze si diventa superstiziosi. Ho il presentimento d'una novità che mi attende. Infatti nell'anticamera, ci venne incontro mia madre.

—Fausta ha cominciato tutt'a un tratto a soffrire. C'è di là la levatrice. Ho mandato ad avvisare anche il dottore, per precauzione.

Avevo provato una gran stretta al cuore, come davanti a un pericolo di morte; e per sorreggermi mi ero afferrato fortemente al braccio di Bissi.

—Dario!… Eh, via…. coraggio!

Egli tentò di trascinarmi in salotto o nello studio; ma io volli, a ogni costo, vedere Fausta prima che le sue sofferenze aumentassero.

Era in piedi, appoggiata alla spalliera di una seggiola, pallida, col viso un po' contratto. Vedendomi entrare, si sforzò di sorridermi e mi stese una mano.

—Non è niente…. Sono forte!

—Fausta!… Fausta!…—balbettai.

—Non è niente!… Va' di là; mi fa più male il vederti soffrire.

E mi offerse le labbra, ghiaccie come la mano.

Ah, quelle terribili ore, quando le sue grida strazianti arrivavano fino al mio studio, dove andavo su e giù senza sapere quel che facessi, cacciandomi le mani tra i capelli, invocando il nome di lei—Fausta! Fausta!—sollevando le braccia in atto di supplicazione, stringendo forte i denti quasi avessi potuto in quel modo aiutar Fausta a sopportare lo strazio che la costringeva ad urlare.

Di tratto in tratto, mia madre si affacciava all'uscio per dirmi:

—Sta' tranquillo! Tutto procede regolarmente!

Com'era lenta la crudele Natura!… Le ore mi sembravano secoli. Le lancette dell'orologio a pendolo si erano dunque fermate?

E nei momenti di tregua, quando all'orecchio ansiosamente intento non arrivava nessun grido, io pensavo:—Eccolo! Eccolo!—E mi sembrava che il miracolo valesse bene tutti gli strazi della madre e miei, e che quanto più essi erano maggiori, tanto più grande e più stupendo sarebbe il risultato che stava per essere prodotto.

Mia madre si fermò su l'uscio, esitante. Aveva su le labbra qualcosa che avrebbe voluto essere un sorriso e che mi parve subito l'anticipazione di tristissimo annunzio.

—Mamma!…—gridai.

—Fausta sta bene,—rispose.

—E….—feci senza aver forza di proseguire.

—Rassegnati, Dario!… È una bambina!

Ripensandoci sento di nuovo l'urlo bestiale che mi uscì dalla gola; sento l'urlo, la violenza del colpo che mi piombò sul capo quasi avessero tentato di atterrarmi con una mazzata! E mi lasciai cascare, sbalordito, sur una seggiola, coprendomi il viso con le mani, sussultando, smaniando, con uno sgorgo di odio nel cuore contro la innocente creaturina che distruggeva in un istante il mio superbo sogno di tanti mesi, quasi ella avesse fatto ciò con malvagia intenzione, povera creaturina innocente!

XV.

Mia madre e Bissi erano attorno a me costernati. Mormoravano brevi parole di conforto, tanto il mio dolore sembrava ad essi incapace di qualunque umana consolazione.

Tutt'a un tratto mia madre alzò la voce severa:

—Dario! Dario! Non ti riconosco, figlio mio! È forse colpa di Fausta? Tua? Della bambina? Io che sono una povera donna quasi ignorante dico: Il Signore ha voluto così! E mi rassegno alla sua volontà. Questo per te non vale. Se c'è però una legge, se c'è un ordine nelle cose che nessuno di noi può mutare, la tua ragione faccia quel che fa in me la fede in Dio. Il bambino che tu desideravi, che tu attendevi con inconcepibile certezza, verrà dopo; e forse sarà meglio…. Sii uomo, Dario! Che dovrà pensare Fausta non vedendoti accorrere da lei? Appreso che era nata una bambina, ella si è sentita mancare, pensando a te.—Oh! Dio! Oh! Dio!—ha esclamato desolatamente; non aveva forza di piangere; faceva pietà. Vieni, Dario!… Ma ricomponiti. Nel suo stato la uccideresti, se le facessi scorgere questa irragionevole disperazione. Sii uomo! Sii uomo, Dario!

—Tua madre ha ragione,—soggiunse Bissi, scuotendomi per un braccio un po' rudemente.

Mi rizzai, trassi un lungo respiro, stringendo i pugni, chiudendo gli occhi, facendo stridere i denti: poi, riscossomi, gettai le braccia al collo di mia madre, quasi singhiozzando:

—Mamma, perdonami! Mamma!

—Ti comprendo, Dario. Ma che cosa possiamo farci? Non c'è rimedio.

Oh! Nessuno poteva comprendermi. Per tutti gli altri, l'immenso mio dolore doveva apparire, più che esagerato o artificiale, stranissimo, quasi confinante con la pazzia. Era tale davvero; lo riconosco ora, dopo molti anni. Allora però niente mi sembrava tanto ragionevole quanto quel che io chiamavo il miracolo. Esso non doveva venir fuori dalla sospensione di certe leggi della Natura, ma dalla intelligente coordinazione di queste a uno scopo determinato.

E la mia vanità mi lusingava che io avessi già adempito a quella intelligente coordinazione. La delusione perciò era tale, che mi sembrava di non poter più vivere, quasi si fosse addensato fittissimo buio intorno a me, quasi mi si fosse aperta davanti una profonda voragine che niente avrebbe potuto colmare.

Eppure ebbi la forza di comporre il mio aspetto a serenità, di dare alla voce un accento di dolcezza, di spiegare insomma una arte di finzione per la quale credevo di non avere nessun'attitudine.

La camera era ancora sossopra. Fausta, sorretta da un mucchio di guanciali, pallida, con gli occhi infossati e i capelli in disordine, mi accolse atteggiando le labbra a un sorriso dubbio che pareva chiedesse scusa e nello stesso tempo volesse confortarmi.

La vista della bella creatura sofferente mi die' uno slancio di pietà. La presi delicatamente per le mani, la baciai, e con voce ferma e carezzevole le dissi:

—Sii calma…. Sarà per un'altra volta. Possiamo attendere. Sii calma.

—Grazie, Dario!—rispose commossa, con gli occhi improvvisamente gonfi di lacrime.—È là,—soggiunse, additandomi la neonata che riposava, coperta da un velo, sur un guanciale a pie' del letto.

Mia madre la sollevò con cautela, per non svegliarla, e me la presentò…. Un mostricino roseo, affogato fra le trine della cuffietta e dello scollo della veste, dalle cui maniche, ornate di merletti, venivano fuori due manine coi pugni chiusi, del color del sangue. I lineamenti sembravano fluidi, inconsistenti, quasi le carni non avessero ancora avuto tempo di raffermarsi. Dalla cuffietta scappavano fuori alcune ciocchettine di capelli biondissimi; le sopracciglia si confondevano col roseo della fronte; le labbra erano pavonazze.

Ebbi un senso di repulsione, ma lo vinsi subito e mi inchinai a baciarla sfiorandola appena.

—Tra poche ore non la riconoscerai,—disse mia madre.

La bambina si agitò, aperse gli occhietti grigi e mosse le manine.

—Ti guarda, Dario!

—Vedrà come sarà bella domani,—soggiunse la levatrice che assisteva la puerpera.

—Ti guarda, Dario!—replicò Fausta.

E c'era nella sua voce un invito, un'implorazione che mia madre capì meglio di me, alzando la bambina, perchè la baciassi di nuovo.

Sentivo un inatteso turbamento davanti a quell'esserino, sangue del mio sangue, carne della mia carne. Non era rancore, ma non era neppure gioia, soddisfazione, compiacimento del nuovo fiore di vita non ancora compiutamente schiuso, avviluppato dalla inconsapevolezza che guardava senza discernere come scorgevo dalla pupilla non schiarita e dai movimenti, vaghi, annaspanti, dei minuscoli ditini.

E fui lieto che mia madre la riponesse sul guanciale e tornasse a ricoprirla col velo.

—Le vorrai bene, Dario?—domandò Fausta, esitante.

—Quanto gliene vorrai tu.

Ella spalancò gli occhi e sorrise con tale espressione di felicità, che io non potei difendermi da una punta di rimorso per averle mentito.

—La signora ha bisogno di riposo,—fece la levatrice.

—Resta ancora un po', Dario! Resta anche tu, mamma!

—Per ora qui comanda lei,—rispose mia madre, accennando alla levatrice.

Si era forse accorta di quel che cominciava ad accadere dentro di me per la violenta costrinzione impostami e volle impedire che Fausta finalmente indovinasse?

Avevo il cuore gonfio. Sentivo per tutto il corpo un fremito che sarebbe scoppiato in un nuovo eccesso di disperata indignazione, se non ne avessi avuto terrore; e non mi fosse venuta l'idea di sviarlo pregando Bissi di leggermi altri capitoli del suo romanzo.

Egli mi guardò stupìto, e accondiscese col gesto compassionevole di chi si presta ad appagare il desiderio di un malato.

Oh, la strana sensazione di quella lettura! Le parole mi penetravano nell'orecchio perdendo il loro preciso significato, diventando suoni musicali soltanto, che la voce del mio amico modulava con inflessioni ora rapide, ora soavi e lente, ora gravi e solenni, in una specie di melopea da cui venivano acchetati e quasi addormentati i miei nervi senza affaticare la mente. Avrei voluto che con la lettura tutta la mia vita avesse continuato a durare in quell'indeterminatezza, in quel fluire indefinito che mi portava via con sè lontano, lontano, con lassezza da dormiveglia dolce e triste, con un senso di benessere che mi dava ineffabile ristoro. E quando la voce del mio amico a poco a poco, secondo la drammatica situazione di un dialogo di amore, si abbassò di tono, si affievolì e si smorzò nell'unisono di un sospiro dei due amanti, mi parve che qualche cosa si arrestasse dentro di me.

—Non mi dici niente?—domandò Bissi, dopo alcuni istanti di silenzio.

Dispiacente di dover mortificarlo confessandogli la mia involontaria distrazione, balbettai poche e sciocche parole ammirative, incapace com'ero di precisar meglio le mie impressioni.

—Hai voluto fare un gentile sacrifizio,—egli disse.—Te ne sono grato. Non era il momento più opportuno; capisco lo stato dell'animo tuo. E se in qualche modo ti ho giovato….

—Non so esprimerti quel che ho sentito. Avevo bisogno di perdere la coscienza di vivere.

Mi levai da sedere, ripreso dalla dolorosa rabbia della mia delusione, e mi misi a passeggiare agitato pel salotto, strizzando le mani, con l'immagine davanti agli occhi di quel mostricino mezzo affogato fra le trine della cuffietta e i merletti della bianca veste che Fausta aveva cucite con tanto amore, destinate a quell'altro, al desiderato, al non arrivato e che forse non sarebbe arrivato mai più! Bissi non osava di dirmi una parola di conforto.

Così passarono parecchi giorni. Entravo per pochi minuti, due, tre volte il giorno nella camera di Fausta, ripetendo lo sforzo di costringimento, senza sentirmi commovere dalla vista della creaturina attaccata al seno della madre beata di sentir scorrere abbondante nella bocchina, che suggeva il capezzolo, l'affluenza del latte.

—Se tu sapessi com'è ghiotta!—diceva.—La mamma mi raccomanda di non avvezzarla male; di allattarla a ore determinate, sempre le stesse; ma io appena la sento piangere, non resisto. E sembra che lei lo sappia, la cattiva!

Se la stringeva al cuore, se la divorava dai baci; e vedendomi restar là, freddo, quasi annoiato—non mi sforzavo più di frenarmi, di dominarmi—soggiungeva rimproverandomi indirettamente:

—E per ciò il babbo non le vuol bene e non l'accarezza e non la bacia!

—I baci sformano il viso dei bambini; non dovresti baciarla neppure tu!

Protestò baciucchiandola con maggiore vivacità.

Finchè Fausta era restata a letto, ed io avevo avuto la distrazione della compagnia di Bissi, l'irritazione che mi sconvolgeva l'animo per la delusione sofferta aveva trovato facili momentanee diversioni. Rimanevo però sotto il tormento durante la insonnia in quelle tiepide notti di maggio che spesso passavo alla finestra, fumando, con qualcosa somigliante a un chiodo calcato da crudelissima mano in mezzo alla fronte, e che a poco a poco mi produceva tale stordimento da farmi guardare, senza distinguer nulla, le case, la campagna, i monti lontani, annegati nella diffusa luce lunare, e smarrire in torbide regioni dove la facoltà di pensare rimaneva offuscata e quasi annullata. Allora l'alba mi sorprendeva alla finestra, un po' intirizzito dalla brezza notturna, con le braccia indolenzite dalla posizione in cui erano rimaste per tante ore, con grave spossatezza intellettuale, quasi la mente avesse fatto, nei più chiusi recessi del cervello, un intenso lavorìo di cui non mi rimaneva coscienza; e mi mettevo a letto per alcune ore a dormire un sonno agitato, interrotto da sussulti, e pieno di sogni che finivano in incubi affannosi.

Un pomeriggio Bissi entrava nel mio studio col viso raggiante di gioia. Il suo romanzo era stato accettato dal direttore di un giornale quotidiano che lo avrebbe pubblicato prima nelle appendici di esso e poi in volume. Ma più che di questa insperata fortuna, egli era lieto dell'anticipazione concessagli, che gli permetteva di restituire le mille lire dategli da me due anni addietro.

—Questo non era nei nostri patti—gli dissi.—Dovevo essere io il tuo editore. Ti prendo in parola per un altro romanzo.

—Grazie,—rispose.—Sono solo; lo stipendio mi basta. Ti costituisco mio banchiere. Se avrò bisogno di quattrini, mi rivolgerò a te.

—Ora sai la via della mia casa; troverai sempre la tua camera.

—L'occasione non mancherà. Mi vedrai arrivare travestito da Re d'Oriente con incenso e mirra—con oro ahimè! no—in omaggio al tuo secondogenito che non si farà aspettare molto!

Mi salirono le lagrime agli occhi. Quelle parole esprimevano un augurio, o una garbata ironia? Esitai un istante, guardandolo fisso; poi me lo strinsi al petto senza pronunziare parole, che non avrebbero aggiunto niente alla desolazione di quell'abbraccio.

Alcuni giorni dopo, il dottore venuto a visitare la puerpera, mi disse sottovoce:

—Desidero di parlarle in disparte.

Lo condussi nel mio studio col pretesto di mostrargli un recente opuscolo di fisiologia.

—Compio un triste dovere,—egli cominciò appena fummo soli.

E alla mia mossa di ansiosa aspettazione, soggiunse subito:

—Si rassicuri. Noi medici siamo spesso uccelli di malaugurio. Questa, volta invece io faccio l'ufficio di preammonitore. Il parto della signora è stato laboriosissimo. So che sua madre non ha voluto dirgliene nulla, per non affliggerlo inutilmente, trascorso il pericolo. Il pericolo però può ripresentarsi e grave in una seconda gravidanza; bisogna assolutamente evitarla. Se avessi qualche dubbio intorno alla mia diagnosi, non le parlerei così. Disgraziatamente sono certissimo di quel che affermo. Commetterei un delitto tacendo.

Lo guardavo in viso con lo stupore di chi non ha capito bene quel che ha udito.

—Ha già la consolazione di una bambina,—egli riprese,—non chieda altro alla Natura. Quel giorno dovetti andar via da casa sua chiamato di urgenza presso un malato. Sono stato assente una settimana per affari di famiglia; sarei stato sempre in tempo di avvertirla. Ma non ho voluto più indugiare. Comprendo il suo dolore; è proprio un peccato che tanta giovinezza debba vedersi interdetta la gioia della procreazione. Ma la vita è sacra, e può dare altri compensi.

Stentavo a rinvenire da quest'altro colpo inatteso.

—Eppure,—risposi quasi balbettando,—ho avuto la precauzione di consultare il medico del collegio dove mia moglie era stata per parecchi anni. Mi aveva assicurato….

—Le previsioni non basate sui fatti sono quasi sempre fallaci. Non oso di dire che non potrei ingannarmi anche io. In ogni modo, credo che lei non vorrà correre il rischio di attentare ai giorni della sua signora. Si tratta di questo.

—Che terribile disgrazia!—esclamai.

—Ho fatto il mio dovere; lei farà certamente il suo,—soggiunse il dottore.—In quanto al modo di far comprendere a sua moglie il crudele divieto segua il mio consiglio: nei mesi dell'allattamento, il grave dispiacere di quest'annunzio potrebbe riuscire fatale alla bambina per un'inevitabile turbazione del latte della madre. Attenda fino all'epoca dello spoppamento. Che brutto mestiere è il nostro! Ci consente assai di rado il piacere di parlare di cose liete. Non mi porti rancore.

—Anzi!

Ed ebbi la forza di ringraziarlo con una stretta di mano.

Ero così sconvolto, che, accompagnatolo fino all'uscio, tornai nel mio studio, e presi macchinalmente a rassettare i libri e le carte della scrivania, quasi non avessi altro da pensare e da fare.

E quando cominciai a destarmi da quello stordimento non sapevo se avessi dovuto rallegrarmi o dolermi di ciò che avevo appreso.

Durante la settimana, la partenza di Bissi mi aveva lasciato libero di abbandonarmi tutto alla mia desolazione. E il veder Fausta, orgogliosa di allattare da sé la bambina, e immersa talmente nelle delicate e minuziose cure di nutrice da non accennare neppure una volta alla delusione che mi sconvolgeva mente e cuore e alla quale avrei voluto ch'ella mostrasse di prendere parte, m'insinuava un senso di crescente indignazione contro di lei, che in certi momenti diventava di odio a dirittura.

Avevo farneticato:

—Che inganno! Quel suo organismo, creduto capace di un perfetto concepimento, è fiacco, fiacchissimo per la creazione di un maschio! Non me lo darà mai, o, se riuscirà a darmelo, non sarà mai il maschio che dovrebbe attuare la elevatissima idea da me pensata e maturata!

Mi sembrava che ormai, dopo quest'altra prova andata a male, la mia vita non avesse più nessuno scopo. Mi vedevo confuso con la moltitudine che ingombra il mondo, condannato a quella volgarità quasi animale da cui rifuggivo con orrore, ridotto a essere un marito come tanti altri, un padre come tanti altri, una forza sperduta nel complicato ingranaggio sociale: niente!

Fausta non si accorgeva di nulla, lieta che la lasciassi interamente dedicata alla sua creaturina. Mia madre però osservava con sguardi inquieti il mio contegno, e non osava di interrogarmi, quasi avesse paura di veder confermati i sospetti che il mio silenzio, il pallore del mio volto, la cupezza della mia voce nelle brevi risposte che davo, le avevano fatto concepire. Dopo il mio primo scoppio all'annunzio della nascita della bambina, mi ero sforzato di dissimulare quel che mi ribolliva nell'animo. Non ero un bruto, non ero un selvaggio; ero, interiormente, qualcosa di peggio, sì; ma all'esterno i miei atti, i miei modi avevano tutta la raffinatezza dell'uomo civilizzato che si stima obbligato a mentire.

Col divinatore affetto materno però non c'è finzione che basti.

Mia madre, una mattina, venne da me mentre tentavo, leggendo, di dimenticare quello che giudicavo immane, irrimediabile disastro: e accostatasi, mi battè dolcemente con la mano sur una spalla.

—Ma non pensi,—mi disse,—che Fausta, se tu continui così, morirà di dolore?

Alzai la testa, e risposi:

—Se si morisse di dolore, a quest'ora io….oh!

E mia madre, crollando dolorosamente il capo, era andata via senza aggiungere altro.

Ora però, dopo la rivelazione del dottore, mi sembrava di non poter misurare l'immensità della mia sventura. Se l'illusione fosse tornata ad afferrarmi, se io avessi voluto ritentare la prova, mi sarei trovato di fronte a una porta di bronzo, ermeticamente chiusa, davanti a cui stava disteso il bellissimo corpo di Fausta che avrei dovuto calpestare e sacrificare per passare oltre.

Oh! Avrei commesso il sacrilegio, il delitto, se avessi avuto la certezza di poter così attuare il mio sublime sogno. Esso valeva bene la vita di una creatura, se soltanto a prezzo di questa la realizzazione n'era possibile! Ma, di certo, non mi si presentava altro che un'immolazione spietata! E così alla tristezza si era aggiunto l'orrore di un segreto che mi rendeva più odiosa la esistenza!

XVI.

Eravamo andati a passare l'estate a «Villa Fausta». Leggendo in cima ai pilastri del cancello questo nome sostituito per consiglio di mia madre a quello di «Villa Maria», riflettevo che avrei dovuto farvi incidere l'altro di «Villa Amara», come l'aveva chiamata il babbo al tempo della mia malinconica fanciullezza.

E una mattina, mentre per desiderio di Fausta noi due ci inoltravamo nei boschetti in cerca dei fiori di campo, lasciai sfuggirmi di bocca:

—Chi sa che mio padre non avesse ragione di chiamar questa villa «Villa Amara»!

—Tu la farai divenir tale per tua madre e…. per me!—rispose Fausta con insolito accento di tristezza.

Mi fermai per guardarla in viso. Era impallidita, tutt'a un tratto, quasi si sentisse mancare.

Avrei dovuto scusarmi di aver profferito quelle stolte parole, darle una spiegazione qualunque che avesse potuto almeno attenuarne il significato. Invece stetti zitto, attendendo con severa aria interrogativa che ella riprendesse a parlare.

—È inutile,—disse dopo alcuni istanti di pausa,—che tu continui nella tua misera finzione; non inganni nessuno; me, molto meno degli altri. E se crederai che io me ne lagni per mio personale interesse, prenderai un grande abbaglio. Quel che mi ha fatto passare tanti terribili mesi di ansia sopportati in silenzio è, sventuratamente, arrivato. Tu non mi ami più. Forse non mi hai amato mai. Amavi in me il tuo sogno; e quando esso è svanito, io sono rimasta per te uno strumento inservibile, un ingombro. Non mi importerebbe che sia così, se non ci fosse di mezzo mia figlia. Tu la stimi tanto poco tua che io non ho saputo mai dir «nostra» parlando di lei. Ieri ti ho accennato di quella contadina che vorrei scegliere per balia. Ti sei maravigliato della mia risoluzione…. È necessaria, è urgente; sarebbe un'infamia ostinarmi più oltre ed avvelenare col mio latte guasto la povera creaturina che ha avuto la disgrazia di venire al mondo mal gradita dal suo babbo. Tu non te ne sei accorto, perchè non la guardi; ma essa, da qualche mese in qua, deperisce; ha continui dolorini…. Non voglio vedermela morire di sfinimento…. Il mio latte si è mutato in veleno.

L'ascoltavo a capo chino, con le sopracciglia corrugate, come un accusato che sente pronunziare contro di sè un'ingiusta sentenza. Ella interruppe un istante lo sgorgo della parola, quasi per rifiatare; poi, riprese lentamente:

—Senza la bambina, sarei stata più forte di te; avrei sopportato il disinganno…. Giacchè avevo il mio sogno anch'io; sogno di affetto, di dedizione, di sottomissione, di sacrifici, non meno bello, non meno elevato del tuo e che avrei saputo attuare, perchè più ragionevole, più naturale. In altre circostanze mi sarei rassegnata. Non ti avrei mai rimproverato:—Perchè non mi ami più? Che cosa ti ho fatto?—So che non si ama quando si vuole, ma quando si può…. Mi sarei rassegnata senza cercare distrazioni o compensi; e avrei atteso il tuo nuovo risveglio, lusingandomi che potesse avvenire…. Ora no! Tu sei di quegli infelici che hanno superbamente difformato la propria intelligenza, il proprio cuore, e li hanno resi inumani…. Se non sentissi una gran pietà di te, non ti avrei detto niente. Non vorrei vederti fingere, perchè capisco quanto deve costarti. A che scopo, Dario? Rispondi: a che scopo?

C'era tanto dolore e tanta tenerezza nella sua voce, che avrei dovuto sentirmi spietrare il cuore, e buttarmele ai piedi per chiederle perdono. Le rivolsi una dura occhiata, mordendomi le labbra. Si era appoggiata con le spalle al tronco di un albero, e il pallore del suo viso risaltava tra i riflessi verdi delle foglie, tra le piccole chiazze d'oro con cui il sole, infiltrandosi a traverso i rami, ne punteggiava i folti capelli neri, la camicietta grigia, stretta ai fianchi da larga cintura di cuoio, e la gonna di color rosso cupo che il sole sembrava avesse spruzzata qua e là di vivo sangue…. La ho davanti agli occhi, dopo tanti anni, fissata nella memoria dall'iroso dispetto che in quel momento mi rendeva più avverso a colei della cui pietà mi sentivo offeso, quasi al danno fattomi ella osasse di aggiungere ora anche lo scherno.

Ma ella insisteva:

—Rispondi, Dario: a che scopo?

—Tu e mia madre,—feci cupamente,—dovreste lasciarmi covare il mio dolore, non occuparvi di me, tollerarmi se vi riesce. Ho fatto di tutto per nascondervelo. Passerà, forse, come passa ogni cosa in questo mondo. Mi sento però mortalmente colpito.

—È mai possibile, Dario, che un uomo come te si lasci abbattere dal crollo di una fantasticheria?…

—Era l'unica ragione della mia esistenza!

—Come sei spietato, Dario!

—Non vuoi tu che non finga, che non mentisca?

—Vorrei pure ben altro da te: uno sforzo, uno scatto di virilità, un impeto di resistenza.

—Non sono mai stato giovane. Non sono mai stato neppure fanciullo. Il mio triste destino è cominciato a svolgersi fin dalla culla. Mia madre mi ha visto crescere con lungo stento. Mio padre, un forte, aveva quasi sdegno di me. Forse, se egli fosse vissuto ancora, mi avrebbe risparmiato di commettere lo sbaglio che contrista te e mia madre. Io avrei dovuto vegetare e morire come una di quelle gracili pianticine selvatiche che non si sa perchè nascano, che non fanno fiori, che non danno frutto, che il sole inaridisce o il vento strappa alle rocce dove han trovato quasi un rifugio….

—T'inganni, Dario!

Mi prese per una mano, attirandomi. Ebbi la durezza di svincolarmi.

—Ero venuta da te con tanta gioia,—ella continuò dolorosamente,—con tanta ferma risoluzione di sollevarmi fino alla tua altezza e riuscire di esser degna del tuo nobile affetto. Ah, se allora, avessi saputo che tu avresti preteso da me l'impossibile, quel che nessuna volontà, nessun estremo sacrificio mi avrebbe mai concesso di darti!… E tu mi porti rancore di questo, come di una colpa, volontariamente commessa, come di un vilissimo tradimento…. Non dire di no!… Ne ho pianto in segreto, per non affliggerti di più. Tua madre ed io vorremmo confortarti, consolarti, e non sappiamo come. Abbiamo quasi paura di te noi due povere donne che daremmo volentieri la nostra vita per renderti felice.

—Paura di me?

—Non sdegnarti, se non so esprimermi bene. Son tante settimane che avrei voluto dirti quel che finalmente ti ho detto oggi. Tua madre mi consigliava:—Lascialo stare! Se sapesse il male che ti fa, diverrebbe più intrattabile, non per cattiveria.—è buono, immensamente buono—ma per vedersi ridotto suo malgrado a far del male a qualcuno.—Ed io invece ho pensato: E perchè devo permettere che egli inconsapevolmente mi faccia del male? Mi sarà grato di averlo avvertito; dovrebbe essermi grato! Per questo ho disobbedito alla mamma. Ne sono punita! Dunque tra te e me non c'è più niente, niente oltre il legame civile e religioso che ti è divenuto pesante catena?

—Oh, Fausta! Me ne fai accorgere ora tu; non mi è passato per la mente neppure un istante in questi miserrimi mesi! Perchè non hai taciuto? Perchè hai voluto rendermi più infelice? Ero così sopraffatto dal mio dolore che non mi preoccupavo punto del dolore degli altri!… Quel mio sogno distrutto….

—Possiamo riprendere e sognarlo. Sarebbe così bello, così dolce! Non mi dicesti un giorno: Sarà per un'altra volta; possiamo attendere?

—Non spero più! Certi sogni non si risognano!

—E dovremo vivere come due estranei che si sono incontrati accidentalmente per via?

—Voglio essere più forte del mio destino. Voglio vincere la brutalità del caso. Voglio aver l'orgoglio di proclamare: Non mi son sottomesso!

—Sottomesso a chi? A tua madre? A me?

—Vedi? Non mi comprendi!

Potevo dire: C'è qualcosa di peggio di quel che tu immagini?

E per sfogare tutta l'acredine che mi sentivo nel cuore, mi misi a calpestare furiosamente le erbe e le pianticine fiorite che smaltavano il suolo. Due lunghe lacrime rigavano le guance di Fausta. Ed io godei che ella piangesse!

Tornavamo verso la villa come due sconfitti, uno dietro all'altro.

—Non contristare la mamma, facendole sapere quel che è avvenuto tra noi.

—Non dubitare,—risposi un po' scosso dall'accento supplicante di Fausta. Avrei voluto aggiungere qualche parola cortese se non affettuosa; ma mi si fermò a mezza gola.

—E i fiori?—ci domandò mia madre, venendoci incontro.

—Non ne abbiamo trovati,—si affrettò a dire Fausta.

E corse verso la culla di vimini a ruote, dove la bambina armeggiava, con le manine, all'ombra della palma dai grandi rami quasi spioventi.

La seggiola là accanto indicava che la nonna si era intrattenuta durante la nostra assenza a sorvegliarla, a svagarla.

—Non ha pianto,—ella disse rivolta a Fausta.

Mi accostai e feci una lieve carezza alla bambina, solleticandole il mento. Sorrise, guardandomi fisso, quasi avesse indovinato che quella mano compiva un atto insolito e avesse voluto mostrarmi che lo gradiva.

—Povera piccina!—mormorò Fausta, mentre mi allontanavo temendo che ella non sapesse contenersi. Paventavo una scena alla presenza di mia madre.

Ero irritato profondamente di sapere che ella e Fausta si erano accorte di quel che io intanto non mi curavo molto di nascondere; avrei voluto che avessero finto di non avvedersi di niente, di abbandonarmi alla mia tristezza che esse, pensavo, non potevano intendere. Il mio convincimento delle inferiorità dell'intelligenza femminile aveva ricevuto una gran conferma dal recente colloquio con mia moglie. Quel che essa avea chiamato inumana disformazione della mente e del cuore era tuttavia per me il solo atto che mi rendeva degno del nome di uomo, un'elevazione oltre il senso, oltre l'immaginazione: la riflessione ridotta vita, carattere. Non voleva dir nulla, se circostanze accidentali ne avevano attraversato la compiuta azione. Il semplice tentativo mi inorgogliva; e il vederlo miseramente abortito non m'ispirava nessuna fiducia per rinnovarlo, anche se avessi ora ignorato il divieto fatale!

Una grave tristezza era piombata sulla nostra casa, un lutto di anime, di cui gli estranei non potevano avvedersi. Credevano che con la nascita di quella bambina ci fosse arrivata tale felicità da renderci gelosi di farla conoscere agli altri, da staccarci da tutto e da tutti, per concentrarci in un egoistico godimento di intense gioie domestiche. E tra quelle mura dove l'agiatezza, l'amore, la paternità spandevano, secondo la gente, gran luce di sorrisi, regnava invece la desolazione, della quale non sapevo riconoscermi, in parte, autore; vi si aggiravano, come ombre desolate, due caricature umane: Fausta, la bellezza intelligente, la giovinezza amorosa; mia madre, la sacrificata per tutta la vita, che non si era lamentata mai della sua sorte, e che aveva indarno sperato di veder consolati almeno gli ultimi suoi anni dalla felicità di un figlio costatole tante lacrime e tante cure.

E il sapermi anche invidiato a torto rendeva più vivo, più intenso il mio rancore contro le brutali forze della Natura, davanti a cui la sovranità del pensiero umano rimaneva impotente.

XVII.

Ripensando il mio stato di animo di quel tempo, non mi stupisco di aver potuto resistere al doloroso spettacolo che avevo ogni giorno sotto gli occhi. La mia intelligenza era talmente ossessionata dalle prepotenti idee metafisiche insinuatemi dal vecchio professore di filosofia, che pur sapeva contemperare per conto suo l'ideale col reale, da rendermi una specie di macchina dove il raziocinio avea distrutto ogni vestigio di sentimento.

E così mi spiego in che modo potei assistere con crudele indifferenza alla morte della mia bambina.

Il latte alterato dai dispiaceri l'aveva, pur troppo, come diceva Fausta, avvelenata. Il mutar latte non valse a niente.

Nei primi giorni dell'autunno eravamo ritornati in città, per avere più pronta l'assistenza del medico.

Ogni altra preoccupazione di Fausta e di mia madre era sparita davanti al pericolo che minacciava il piccolo organismo. Fausta sembrava dovesse impazzire. Vegliava la malatina giorno e notte, e le esortazioni e i consigli di mia madre non riuscivano a moderarne gli eccessi.

—Ti ammalerai anche tu!

—Non importa,—rispondeva.—Voglio far guarire mia figlia, anche a costo della mia esistenza!

E quando il dottore, che mi credeva desolato dall'angoscia di poter perdere la bambina, mi annunziò, sottovoce, che non c'era più speranza di salvarla, lasciando a me l'incarico di preparare l'afflittissima madre alla imminente sventura, io risposi seccamente:

—Grazie!

—Le dia coraggio lei che è un uomo,—egli soggiunse.—Il disastro può accadere da un momento all'altro. Vuole che ne parli anche alla signora Maria?

—Si, sì!

E chiamai io stesso mia madre. Sentivo che non avrei saputo trovare le parole opportune. Nel cuore non mi vibrava niente. Mi sembrava anche giusto che quel testimone del mio disinganno sparisse; e già m'invadeva nuova sorda irritazione contro Fausta, che non sapeva più sperare nel rifiorimento della mia illusione da cui avrei potuto essere ricondotto a lei. Non le avevo detto un giorno:—Possiamo attendere?—Avevo dimenticata la smentita data recentemente a quelle mie parole; e non riflettevo che sarebbe stato peggio se fosse avvenuto altrimenti.

Vedendomi aggirare, cupo, per la camera dove la bambina agonizzava, e fermare davanti al lettino di ottone, sotto le coperte del quale si scorgeva appena il corpicino ridotto pelle e ossa, irriconoscibile, Fausta mi guardava ansiosa a traverso il velo di lagrime che le offuscava gli occhi. Poteva mai immaginare che non mi sarei neppure commosso in faccia alla dissoluzione di quell'esserino innocente, nelle cui vene davano le ultime pulsazioni il suo e il mio sangue? E per ciò, lei, la buona creatura che aveva tanto bisogno di conforto, riusciva a trovare parole di conforto per me.

—La salveremo, è vero, Dario? Io la ristoro col mio alito, Dario! Non ci sarà concessa altra gioia, mai più, mai più, se questa ci manca!… Dobbiamo salvarla!… Non mi rispondi, Dario?

Assentii fiaccamente col capo, stupìto del profetico senso delle sue strazianti parole.

Poco dopo, mia madre ed io la trascinavamo mezza svenuta di là, per impedirle di accorgersi che la bambina era spirata!

Provai subito un senso di sollievo, di liberazione; qualcosa di così feroce, di cui ho orrore ricordando.

Quando però tornai dal camposanto dove avevo accompagnato la piccola cassa mortuaria, coperta di raso bianco che spariva sotto il cumulo di fiori sciolti profusovi sopra e attorno, fui preso da improvvisa commozione alla vista di Fausta stesa come una morta sul letto, sussultante pei singhiozzi che non arrivavano a risolversi in pianto.

—Fausta! Per carità! Fausta!—balbettai, chinandomi a baciarla, passandole la mano sui capelli con carezzevole gesto da molti mesi obbliato.

Aperse gli occhi, mi fissò, e li richiuse senza pronunziare una sola sillaba. Era sfinita.

Baciai anche mia madre che, seduta presso il capezzale, con la testa appoggiata al guanciale accanto a quella di Fausta, le teneva strette amorosamente le mani.

—Lasciala riposare,—mi disse sottovoce.

I singhiozzi erano cessati; sul pallido volto di Fausta già si scorgeva la benefica calma del sonno.

Accostai un po' più gli scuri della finestra, evitando di far rumore, e mi sedei a pie' del letto, con un lieve sbalordimento che mi dava l'impressione di aver sognato e di continuare a sognare.

Che cosa accadeva dentro di me? Non sapevo rendermene conto. Nell'istante del contatto delle mie labbra con quelle di Fausta avevo sentito un leggiero brivido corrermi dalla nuca lungo la schiena. Le labbra di lei erano ghiaccie, sì, ma il brivido o non proveniva da quella sensazione, o la oltrepassava. Un principio di vano risveglio? Una iniziale e oramai stolta ripresa della vita trascorsa con gentile delizia dal giorno della nostra unione fino al terribile momento in cui mi era parso che tutto fosse crollato attorno a me? Vita punto sensuale, vita di affetto purissimo, quasi i nostri corpi fossero rimasti verginalmente intatti per virtù dell'esaltazione prodotta dal grandioso scopo che aveva reso il nostro congiungimento un atto di adorazione, celebrazione di un sacro rito.

E nella penombra, proprio come in dormiveglia, mi passavano quasi sotto gli occhi tutti i particolari, dal momento in cui avevo portato via dalla sua casa il ritratto confidatomi dal fratello, fino al nostro primo incontro e a le settimane passate nella villa ribattezzata allora allora col suo nome; settimane d'ineffabile intimità, quasi di estasi da parte mia, di cui Fausta sorrideva, ammonendomi:—Mi farai insuperbire!

La visione si arrestava là; la memoria rifuggiva di andare più avanti. Tutto il resto doveva essere dunque come non avvenuto?

Ahimè, no! Mi riafferrava lo scoramento, il terrore della spietata sentenza pronunziata dal dottore. Ma, anche senza di essa, quel che sentivo dentro di me da qualche ora mi sarebbe sembrato da lì a poco atto di fiacchezza intellettuale, contro cui dovevo tenermi in guardia; seduzione alla quale dovevo assolutamente resistere; forse, anche principio di infermità del corpo che influiva sullo spirito. No! No!

Intanto, con contradizione che mi meravigliava, di mano in mano che Fausta andava superando l'abbattimento prodottole dall'immenso dolore, tornavo a sentirmi spingere verso di lei da soave corrente di compassione e di tenerezza che m'ispirava parole di gentile affettuosità, gesti di carezze da un pezzo inusate. E mi affliggevo di vedergliele accogliere con glaciale indifferenza.

—Non affaticarti ancora a mentire!—mi disse una sera che volevo indurla a suonare al pianoforte alcuni pezzi dell'opera nuova di un maestro da lei tenuto in gran pregio.

Fui spaventato della devastazione avvenuta nell'animo della dolente creatura, e tentai di disingannarla, di rassicurarla.

—Non respingermi, Fausta!—esclamai,—Non sono stato mai così sincero come in questo momento….

Un incredulo sorriso accompagnò la sua risposta:

—Può darsi!

Mi era parso che la calma fosse rientrata nel suo cuore, vedendole riprendere le sue cure della casa dov'ella aveva messo un'impronta di squisita eleganza che formava l'orgoglio e l'ammirazione di mia madre. Mi compiacevo del ritorno dei fiori in tutte le stanze, disposti da lei con mirabile senso di arte nei molti vasi e vasetti di porcellana e di cristallo, su i tavolini e le mensole, e che spargevano una gaiezza di colori e un'ebbrezza di profumi specialmente nel mio studio, nel suo salottino, e in quello di mia madre.

Assistevo, lieto, a queste operazioni di ornamento, quasi il riapparire dei fiori fosse emblema della rifioritura del suo cuore intristito. Seguivo Fausta, con intima compiacenza, su la terrazza affollata di vasi con piante di ogni sorta, alcune in isboccio nella mitezza di quell'autunno che aveva tepori primaverili.

Erano state la sua passione. Voleva innaffiarle di sua mano, ripulirle delle foglie morte, liberarle dai polloni soverchi, curarle come creature sensibili, che le esprimevano la loro gratitudine col verde rigoglio dei rami e i tenui colori delle corolle. Ora però ella faceva tutto questo senza l'entusiasmo di una volta, quando mi invitava ad ammirare ogni manifestazione di vita vegetale, quasi ne comprendesse il segreto, quasi ne sentisse una sottile ripercussione nella sua.

Allora udendola parlare delle piante con tanta squisitezza di immagini, la interrompevo sorridendo:

—Poetessa! Poetessa!

—La miglior poesia,—ella rispondeva,—è quella che si sente e non si scrive.

—La più grande è quella, che si fa,—replicavo, pensando al germe che già sapevo le palpitasse nel seno.

Ora attendevo invano una sola parola dalle sue labbra ridivenute rosee, un guizzo di luce nei suoi occhi che avevano cessato di piangere. Quelle cure, che ella era tornata a prodigare alle piante, sembravano unicamente l'esecuzione di un dovere se non gravoso neppur piacevole.

E come più io mostravo di voler vincere la sua diffidenza, più ella mi faceva apertamente capire che non credeva affatto alla sincerità dei miei atti, e che non si sarebbe lasciata lusingare e illudere come la prima volta, quando mi era venuta incontro—me lo aveva detto un giorno—quasi con le mani cariche di rose da sfogliare ai miei piedi, fidente e lieta di ricoverarsi così tra le mie braccia, come in un rifugio di gioia e di pace. E vedendomi continuare in quel che lei stimava gioco di astuzia infantile, una sera, su la terrazza dove mia madre, dopo cena, ci aveva lasciati soli senza che noi ci fossimo accorti della sua discreta sparizione, mi parlò duramente:

—Sono stata la tua disgrazia, lo capisco. Soltanto la mia morte potrebbe renderti libero di rinnovare la vita; ma io non ho il coraggio necessario per sparire volontariamente….

—Non dire così, Fausta!

—Ormai!

—La vita,—replicai,—non ostante le nostre aberrazioni, le nostre miserie, le nostre colpe, è bella, Fausta; massime quando le sorride una giovinezza come la tua, massime quando possiamo adoprarla per qualcosa di nobile, di eccelso, da soddisfare la nostra coscienza, da appagare il nostro cuore.

—Tu insegui sempre il tuo sogno!

—No, Fausta. Ormai! ripeto come te. In questo momento, te lo giuro per la nostra morticina, non lo rimpiango neppure.

—È la prima volta che la ricordi.

—Non volevo inacerbirti la piaga.

—Me la inacerbiva peggio il tuo silenzio. Parlami di lei, mi farai bene. Io la sogno ogni notte; non so ancora persuadermi che ci abbia abbandonati!… Ma no,—s'interruppe a un tratto,—dimentichiamo, Dario; facciamo di tutto per dimenticare. È finita! Non possiamo far altro che trascinarci, stanchi, delusi, pel corso degli anni che ci rimangono a vivere. Siamo già due ombre!… È finita! Vi sono istanti in cui ti sono grata degli sforzi di addolcire la fatalità che si è aggravata sopra di noi; ma, più spesso, io provo—perchè celartelo?—un grande sdegno della tua pietosa menzogna…. Non ostinarti…. È finita!

Chinai la testa, colpito dall'improvviso mutamento che aveva fin alterato la dolcezza della voce con cui aveva pronunziato le parole: Parlami di lei, mi farà bene!

—Se è finita per un verso,—ripresi dopo lunga pausa,—potrà ricominciare da un altro.

—In che maniera, Dario? Tu non mi ami più.

—Si può amare in tanti modi.

—In un solo ed unico modo! Quel che tu chiami amore è una falsificazione di esso; l'amicizia larvata. Che cosa vuoi fartene di me?

—La cara compagna della mia vita.

—Ero, potevo essere tale tuttavia; ora non più. Ti ho atteso; non sapevo convincermi che tu fossi arrivato al punto di sentir repugnanza dei miei baci, dei miei abbracci…. E perciò ti attendevo, pensando:—Gli ho voluto immensamente bene! La mia più grande gioia, il mio più grande orgoglio consistevano nel contribuire alla sua felicità con tutte le forze dell'anima e del corpo. E se, contro ogni mia intenzione, la cattiva sorte mi ha fatto complice del gran dolore che gli ha scombuiato la vita, l'ingiusto rancore con cui mi gastiga non potrà essere durevole…. Tornerà da me più affettuoso, più amante, come forse non è mai stato—dopo l'arrivo della bambina cominciavo a capirlo.—Tornerà! E attendevo, spiando ogni tuo atto, ogni tuo gesto, con l'orecchio intento a indovinare, dal suono della tua voce, quel che la parola non diceva…. Invano! Invano! Poi non ressi più all'ansia angosciosa, e tentai di scuoterti, di strapparti un gesto, una parola che potessero darmi lena di attendere ancora…. ricordi? Nel boschetto…. Fosti senza pietà! E te ne fui grata…. Da alcune settimane intanto, vuoi farmi vedere che qualche cosa di nuovo avviene nel tuo cuore…. Oh, se fosse vero! Non è vero, povero Dario! Tuo malgrado probabilmente, ma non è vero!

—Ah, Fausta! se tu sapessi!…

—Che cosa? Parla…. Vorrei crederti…. Parla!… Ma no; non voglio udir niente…. Voglio sentir stringermi violentemente tra le tue braccia! Voglio sentir soffocarmi dai tuoi baci…. se è proprio vero, Dario! Così! Così! Così!…

Non avevo saputo resistere alla malìa del suo accento, al contatto delle sue mani che, brancicando, avevano afferrato le mie con predente carezza. Mi sentii tutt'a un colpo trasportato indietro, alle prime settimane del nostro matrimonio, quando Fausta mi era sacra come futura cooperatrice nel gran miracolo di creazione per cui l'avevo prescelta. Se non che, ora mi ritornava sacra, diversamente, pel suo dolore, per la sciagura da lei ignorata e che non avrei più a lungo potuto nasconderle; e perciò mi abbandonavo a quest'effusione che mi faceva assaporare i suoi baci, le sue carezze per loro stessi, per quel che avevano di umano, fin di sensuale; per tutto quel che m'era parso di dover trascurare e sdegnare al tempo della mia infatuazione, quando Fausta era desiderata e voluta soltanto come mezzo, come strumento del mio sogno superbo.

Ella mormorava:—Così! Così! Così!—insaziata, insaziabile di sentirsi baciare e ribaciare al cospetto del cielo stellato, nella oscurità notturna, rischiarata appena dal fil di luna che si affacciava incerto dietro una cupola.

—Ah, Fausta!… Se tu sapessi!—replicai, sciogliendomi con uno sforzo di riflessione dalle sue braccia.

—Oh, Dio!… Parla dunque, Dario!

Non ricordo con quali parole le appresi il terribile divieto.

Ricordo soltanto che la vidi balzare indietro, con gli occhi spalancati, con le labbra contorte da un riso sarcastico, quasi io le facessi orrore.

—Mentisci!—gridò.—Ti sei messo d'accordo col dottore!

—No, Fausta!

—Mentisci!—replicò.—Che cosa ti figuri…. Oh!

—No, Fausta!—esclamai, così vivamente che ne fu impressionata.

—È forse infallibile costui?…—riprese.—Quand'anche? Voglio sacrificare la mia vita al tuo e al mio sogno! Non me n'importa! Fammi morire così, Dario!… Sarò felice di morire così!…

E mi si gettò tra le braccia con un delirio di baci.

XVIII.

—C'è il signor Lostini—mi annunziò il cameriere.

E avanti che io mi rizzassi dalla seggiola, per andargli incontro, egli entrava nel mio studio, con un libro in mano, un gran fiore bianco all'occhiello, vistosa cravatta bleu a fiorellini bianchi, ornata da spilla con grosso brillante, corpetto a colori, calzoni chiari sotto il kraus; elegantemente inguantato, proprio come parecchi anni addietro, quasi giovane come allora, ma con un che di più serio in tutta la persona, non ostante i baffi straordinariamente ritti, o i capelli un po' diradati, pettinati con cura per celarne i guasti sofferti.

—Ah!—esclamò—mi sembra di rivivere i bei giorni di una volta in questo tuo studio che mi ricorda….

E s'interruppe per abbracciarmi.

—Come qui?—domandai.

—Per pochi giorni. Ho voluto portarti io stesso il mio ultimo romanzo. Lo leggerai? Spero che ti piacerà. Ho saputo…. Ma non parliamo di cose tristi! Tu stai bene. E tua moglie? Mi presenterai; ho vivissimo desiderio di conoscerla. Ho visto a Roma suo fratello. È stato appunto lui che mi ha informato…. E tua madre? Voglio salutarla. Si ricorderà di me la buona signora? Tu ti sei chiuso tutto nella vita di famiglia…. Forse hai fatto bene. Io, sempre scapolo impenitente. L'arte assorbe, e non dà, almeno in Italia, le soddisfazioni, le consolazioni che noi abbiamo la dabbenaggine di chiederle…. Io, veramente, non posso lagnarmi. A furia di ostinazione, di buona volontà—vedrai—mi sono conquistato il mio posticino. Non so se tu leggi i giornali. Un coro unanime di lodi per questo romanzo che pure è una terribile sferzata contro il mondo bancario e gli affaristi di ogni sorta. Non ho risparmiato nessuno: deputati, senatori, giornalisti politici, critici di letteratura e di arte…. socialisti, clericali…. donne emancipate, donne così dette intellettuali…. Tutti! Provavo, scrivendolo, una gioia feroce…. Mi sembrava proprio di sentire gli urli delle bestie del mio «Serraglio»…. E con tutto ciò…. Un gran successo, quasi ognuno dei maltrattati voglia far credere che non si tratti di lui; successo di lettura e di vendita; il secondo migliaio va a ruba…. Oh, io non sono modesto! La modestia, a questi lumi di luna, è merce che non va…. Ma già parlo, parlo, e non penso a domandarti: E tu? Hai dunque compiutamente rinunziato?

—Si rinunzia a qualcosa che si potrebbe avere.

—Hai torto. E sappi che son venuto appunto per scuoterti, per spronarti; ti voglio con me nell'impresa che sto per tentare. La gratitudine è il mio forte. Le vostre critiche di allora, quando tu, Lenzi e Bissi ridevate tanto di me, mi hanno fatto gran bene. Anche Bissi sarà con noi. Un capolavoro il suo romanzo. È disgrazia talvolta cominciare così…. Ma quel giovane ha tanto ingegno!… Lenzi è perduto per la letteratura; sta per diventare il primo avvocato di Roma; guadagna quattrini a palate…. Hai dunque indovinato quel che sto per fare?

—No.

—Metto su una grande «Rassegna», da buttar giù la «Nuova Antologia» e le altre rassegne minori. Ho centomila lire a mia disposizione…. per cominciare. Ah! Milano è la città delle grandi imprese! Là tutto è possibile; anche l'impossibile. «Nemesis!» Eh? Titolo indovinato. Giacchè io voglio fare una rassegna viva, battagliera. Ogni suo fascicolo dovrà sembrare lo scoppio di una bomba di dinamite da mandar per aria tutte le fame usurpate, tutte le pedanterie, tutto il misero ingombro dei grafomani prosatori, e poeti…. tutti i falsi genii della musica, della pittura, della scultura….

—Purchè le bombe—gli dissi ridendo—non mandino alla fine per aria chi si diverte a lanciarle!

—«Audaces», etc. Ricordo ancora un po' di latino.

Lo guardavo con grande ammirazione, ma senza invidia. Fin questo sentimento era morto in me. Mentre Lostini parlava, mi sembrava che ragionasse di cose alle quali mi ero interessato un po' in tempi così lontani da ricordarle appena. Da un pezzo ogni velleità letteraria era sparita dalla mia mente; mi ero già rassegnato ad assistere da semplice spettatore a quel che facevano gli altri, convinto che la natura si era crudelmente divertita a mettere in me la misera contradizione tra le aspirazioni, tra la facoltà della riflessione e quella immaginativa. È vero che avevo là, davanti a me, un esempio di quel che potevano far ottenere la volontà e l'accanimento al lavoro anche a un ingegno che dai suoi primi tentativi sembrava destinato alla più meschina mediocrità, e invece era arrivato a produrre qualcosa superiore a ogni nostra previsione…. Ma Lostini già si contentava di essere arrivato a un punto più in là della mediocrità; io non me ne sarei contentato mai. Probabilmente egli avrebbe oltrepassato quel punto; era giovane ancora. L'improntitudine gli sarebbe forse giovata ad innalzarlo più che egli non osasse di sperare. A me questa qualità faceva difetto. Per ciò lo ammiravo senza punto invidiarlo.

E quando mi disse:—Tu dovrai essere mio assiduo collaboratore; il critico letterario di «Nemesis», uno dei grandi dinamitardi della mia rassegna,—scoppiai in una risata che lo confuse.

Si rinfrancò subito.

—Oh, io non ti lascio prima di aver avuta la tua formale promessa…. So quel che vali, so quel che puoi. Non ho dimenticato la finezza delle tue osservazioni quando facevamo qui la piccola accademia…. Voglio rivelare all'Italia un gran critico nato.

—È una pazzia!

—Chiamerò in mio aiuto la tua signora, tua madre.

—Povere donne! Lasciale in pace.

—Se ti vogliono bene, mi aiuteranno a vincere la tua sciocca repugnanza; scusa se dico così.

E infatti, appena lo presentai a Fausta, le prime parole che egli le disse furono:

—Lei dovrà essere la mia alleata! Anche lei,—soggiunse rivolto a mia madre.

Lo trattenni a desinare con noi. Quella sua foga di parole e di gesti mi divertiva, mi distoglieva dal pensare alle mie tristi circostanze. Da molti mesi non avevo più visto Fausta ridere con tanta scioltezza come alle strabilianti uscite di ogni sorta che Lostini profondeva. Mia madre lo guardava maravigliata, ripetendogli a ogni po':

—Sempre lo stesso!

Rideva anche lui, soddisfatto, con un po' di fatuità, di quel che diceva. Pareva che ripetesse a memoria brani di sue novelle, di suoi articoli, e si ascoltasse con piacere.

—E non prenderà moglie?—gli domandò mia madre.

—Per certe sciocchezze si è sempre in tempo—rispose. Ma si corresse immediatamente.-Parlo di me. Non sono serio. Le donne finora mi hanno fiutato, e non si sono mai risolute a darmi retta, le rare volte che ho avuto la debolezza di parlare di matrimonio. Non avrò più la tentazione di riparlarne. E poi mi trattiene una tremenda paura….

—Di che cosa?—fece Fausta.

—Stavo per dire una storditaggine; me la rimangio.

—Dilla, pure: una di più non importa.

—Una di meno, sì, caro Dario.

—Di che cosa?—insistè Fausta incuriosita.

—Mi dispiacerebbe, se lei indovinasse.

Compresi e feci deviare il discorso, ma troppo tardi.

—Ha ragione,—disse Fausta con voce commossa,—I figli sono spesso un gran dolore; ma sono anche una gioia senza pari.

—Ne ho già messi parecchi al mondo,—rispose Lostini ridendo,—i miei libri. Non sono un portento di bellezza, di salute, di spirito…. Ma, che vuole? gli voglio bene; anche ai mostricciattoli, ai primi…. Un padre non può essere parziale…. E quando ne sentivo dir male…. (non mi hanno adulato i critici) ebbene, francamente, ne provavo pena. Domandi a Dario che risate facevano lui, il fratello di lei e Bissi ogni volta che infliggevo ad essi la lettura di un mio aborto…. Facevo lo sforzo di riderne anch'io…. Ridevo verde. Li ho benedetti dopo. Li benedico ancora. E perciò ora voglio smuovere questo poltrone…. Che fiammeggiare di ideali allora! Non è possibile che tutto sia morto nel suo Dario.

Non sapeva come riparare la sua storditaggine, vedendo il viso di Fausta improvvisamente rabbuiato. E continuò:

—Dovrà fare lei il prodigio. Tanti studi, tanta cultura, tanto acume critico non devono andar perduti. Sarà un'occupazione, una distrazione per lui; un articolo ogni due mesi! Non chiedo troppo.

—Io influisco così poco!—rispose Fausta.

—Non può essere.

—Te ne prego!—intervenni.—Non insistere. Da due anni non ho scritto più una sola parola. Mi sento irrugginito. L'ideale?… È un gran malanno.

—Come? Parli così, tu, hegeliano fino alla punta delle unge?

—Non insistere più!—replicai, e con tale accento che il povero Lostini, mortificatissimo, soggiunse a bassa voce:

—Scusa. Credevo di mostrarti che ti voglio bene.

—E te ne ringrazio,—conclusi.

Uscimmo a prendere il caffè su la terrazza.

Lostini tornò loquace, divertente.

—A Milano ci si trovava bene?—gli domandò mia madre.

—Quasi ci fossi nato. Là è impossibile rimanere inoperosi. Io mi son buttato nella mischia a corpo perduto. Mischia incruenta, d'inchiostro—non si spaventi—ma che tiene agitati come se si trattasse di botte, di colpi di sciabola o di coltello. Se ne soffre, ma non vuol dire. Si fa anche soffrire. È la vita! Io pubblico un romanzo; un critico rinomato me lo stronca, me lo riduce in poltiglia…. Ne soffro, è naturale. Ed ecco che il critico rinomato pubblica un suo volume. Alla mia volta, glielo stronco, lo riduco in poltiglia…. E allora soffre lui, con mio vivissimo piacere. È la vita!

—Credevo che la letteratura fosse ben altro,—disse Fausta.

—Ed è ben altro,—rispose Lostini,—ma anche questo. Come accade in tutte le cose, coloro che la manipolano ne hanno quasi nausea; coloro che se ne servono la giudicano secondo il piacere ricavatone…. In certi momenti, più che romanziere, novelliere, articolista, versaiuolo, preferirei di esser fabbricante di saponi; in certi altri, non scambierei il mio mestiere con quello di un milionario. Forse esagero su questo punto: i milioni servono a tante cose; ma qualche volta non servono a niente…. o a far male agli altri. Un romanzo, un cattivo romanzo anche, come qualcuno dei miei, fa sempre un po' di bene ai lettori imbecilli e promove la secrezione della bile ai signori critici. Senza contare che quando si è occupati a scriverlo, ci dà la sensazione, il convincimento di essere in procinto di mettere al mondo un capolavoro…. Sensazione, convincimento che spesso i grandi ingegni non hanno. Dubitano, esitano davanti a le difficoltà, guardano troppo in alto (come un certo signore di mia conoscenza) e rimangono inerti, con gli occhi alle nuvole…. Lei mi approva, signora Fausta. Ecco: io non guardo in alto, nè in basso, ma diritto davanti a me, e procedo….

Continuò a parlare fino a tardi; sembrava che il mio silenzio, l'attenzione e le risate di Fausta e di mia madre lo eccitassero. E per quattro giorni la nostra vita fu invasa dalla sua voce, dalla sua allegria, dai suoi gesti, quasi ravvivata da un'onda di luce, quasi scossa da quella vivacità eccessiva, che a me intanto ispirava un senso di repulsione per la inconsapevole volgarità che col mio modo di giudicare scorgevo nelle parole e negli atti di Lostini.

—Buon giovane, del resto,—dissi a Fausta.

—E anche savio,—rispose.—Prende il mondo com'è. Non fantastica irraggiungibili felicità, e non avrà mai disinganni.

—Soltanto l'aver potuto pensare l'irraggiungibile, come tu dici, vale più di qualunque azione.

—Ti credo, senza comprenderti.

Com'era sottomessa, umiliante, affettuosa Fausta dal giorno della terribile rivelazione! Come era silenziosamente implorante che io mi decidessi ad accettare la generosa offerta della sua vita! Ora, lo capivo, il pudore le impediva di ripetermi le disperate parole:—Fammi morire così, Dario! Sarò felice di morire così!—Ma c'era nei suoi sguardi, nella sua voce commossa, nelle sue contegnose carezze qualcosa che mi esprimeva mutamente la stessa offerta. Io ero alla tortura.

Avevo avuto una scena quasi violenta con mia madre.

—Perchè non torni a dormire in camera? Durante l'allattamento stava bene; ma ora….

Per espresso desiderio di Fausta, ella ignorava ancora.

—È più igienico,—risposi.

—Tuo padre diceva pure così.

L'espressione dell'accento fu di tale strazio, quasi tutti i dolori della sua desolatissima vita le si fossero ridestati nel cuore in quell'istante, che io infransi la promessa giurata a Fausta, e le rivelai il triste segreto.

Stentava a credermi.

—E la povera figlia?

—Sa, da una settimana. Non riesce a consolarsene. Non vuol convincersi. Dice:—Ma cotesto dottore è forse infallibile?

—Lo dico anche io. Faremo un consulto. Sì, il parto fu difficile; te l'ho taciuto per non angustiarti inutilmente, dopo che tutto era finito bene. Ma da questo, al pericolo che ci annuncia costui…. oh!… ci corre…. e di molto. E tu la prendi così freddamente? Ti sei già rassegnato?

—Come ci si rassegna all'inevitabile!

—Oh, Dario! Ho l'animo riboccante di amarezza. Pesa dunque su questa casa la fatalità che nessuna donna debba esservi amata? Io vedo riprodursi in Fausta la mia sorte: ho ripreso a rivivere e a soffrire in lei tutti i miei dolori che credevo di poter dimenticare davanti allo spettacolo della vostra giovinezza felice! Tu sei un egoista diverso da tuo padre, ma egoista quanto lui; peggio di lui, lasciamelo dire. Quegli sacrificò tutto all'idea di accumulare per un unico figlio la ricchezza, i mezzi da poter renderlo considerato e onorato nella società, benefica forza di azione per via dell'intelligenza, come egli era stato benefica forza di produzione industriale e commerciale. Tu intendi di sacrificare tutto a non so quale superbo tuo sogno, a non so quale delusa vanità, a non so quale feroce idolo della tua immaginazione; e non ti accorgi che stai per commettere l'assassinio della bella e buona creatura che ti ha dato il suo cuore, la sua anima, tutta sè stessa, e che sarebbe pronta infine a immolarti la vita—te l'ha, detto—in ricambio di un po' di affetto sincero! E perchè uno sciocco dottore ti ammonisce:—Bada!—tu chini il capo; cioè no, tu non sai nascondere la tua perversa soddisfazione di essere sciolto da ogni dovere di uomo e di marito…. perchè il tuo orgoglio ha avuto una disfatta, e non vorresti esporti a una seconda!

—Mamma! Mamma!—balbettai protendendo le mani in atto di preghiera.—Non inveire così contro di me. Hai torto! Non sono più quello di prima; ma la sola idea della possibilità di attentare alla vita di Fausta m'ispira tale orrore!…

—Facciamo un consulto. Come non ti è passato pel capo?

—A Fausta repugna fortemente di doversi esporre alla indiscreta curiosità dei dottori.

—I medici sono i confessori del corpo; non bisogna nasconder loro niente, allo stesso modo che a quegli altri.

—Parlagliene tu; convincila tu!

—È ragionevole Fausta.

—Che punizione, mamma, è stata oggi la mia, sentendo parlare con tanta durezza te, che mi avevi detto finora soltanto qualche parola di affettuoso rimprovero, addolcita dalla benignità dell'accento commosso! Ti ho contristata inconsapevolmente. Perdonami, mamma!… Sono un grande infelice!

E parlai a lungo di Fausta e con tale effusione di tenerezza, con tale foga di adorazione, che vidi a poco a poco schiarirsi la fronte e gli occhi della mamma insolitamente rabbuiati, e riapparire il sorriso su quelle labbra poco prima illividite dallo sdegno.

—Peccato che Fausta non sia in un canto ad ascoltarci!—ella disse.

E si affacciò alla finestra per nascondermi le lacrime di consolazione che non poteva più trattenere.

XIX.

Non era stato possibile neppure a mia madre di persuadere Fausta della necessità di un consulto. Il suo pudore si ribellava, indignato; si ribellava anche il suo cuore. Più volte le aveva risposto:

—Ma perchè Dario non vuole accettare il sacrifizio della mia vita?… Sarebbe così bello, mamma!

La sua ostinazione mi irritava. E avrei dovuto essere invece profondamente commosso, orgoglioso, pur respingendo la triste offerta. Ero convinto della sincerità del suo atto, quantunque essa avesse tentato di farmi credere che sacrifizio non sarebbe occorso e che l'avvenire avrebbe smentito le cattive previsioni del dottore.

Questi però, nuovamente consultato da me, era stato più esplicito dell'altra, volta.

—La chirurgia non fonda la sua diagnosi su intuizioni, come la medicina, ma su fatti che si possono ripetutamente osservare.

E aveva parlato a lungo, con qualcosa di compassionante, di ironico nella voce, dopo che io gli avevo risposto:

—È orrendo che la Natura o l'accidente vietino a una donna di esser madre!

—Perchè? È consolante anzi che agli uomini la Natura abbia concesso una cosa da lei interdetta agli animali: il piacere.

—Ah!—risposi col mio hegelismo.—L'istinto è in noi già divenuto ragione; essa deve farne le veci.

—Lasci andare—continuò—cotesti sofismi da metafisici, che la scienza positiva non può ammettere. Il piacere è una gran bella realtà, e il genere umano non sarà mai disposto a rinunziarvi. Gli antichi sapienti ne hanno fatto una Dea; alcune religioni hanno popolato i templi dei loro idoli di sacerdotesse dell'amore. La vita è così piena di tristezze di ogni sorta, che sarebbe follia, delitto il privarla di una gioia che dà il pieno oblìo, non importa se per rapidi istanti. Non assumiamoci il superbo còmpito di correggere la Natura; siamo piuttosto grati ad essa di non aver creata la donna unicamente per la generazione. E per un falso concetto metafisico, lei, a cui la sorte ha dato in dono una delle più belle, fresche e sontuose coppe di amore, vorrebbe astenersi di accostarvi le labbra?

—Le profanazioni mi ripugnano,—risposi con accento severo.

—Lei è vittima del cristianesimo e della metafisica, o, per dire più esattamente, delle loro esagerazioni, che hanno mortificato per tanti secoli l'intelligenza umana e continueranno a mortificarla, fino a che la scienza positiva non avrà fatto rifiorire la schietta coscienza della vita. Vede? Oggi la Natura si vendica. Noi le impediamo il libero svolgimento, ed essa, per ripicco, torna a rimbestialire l'uomo. Il piacere non deve essere vizio, non deve essere eccesso, ma igiene dell'organismo sano. Religione e metafisica non pensano a questo; vi porrà rimedio la scienza, tardi, nell'avvenire, quando potrà. E non è fantasticamente superbo, è anticipazione della realtà ciò che le dico. Un uomo come lei avrebbe dovuto fare queste riflessioni prima che un povero chirurgo mio pari sentisse il bisogno di suggerirgliele per suo conforto e per consolazione della sua buona signora. Stia tranquillo; non oprerà niente di male, d'indegno, di brutto seguendo i consigli che le darò; le parla la Scienza per bocca mia.

—Grazie!—lo interruppi, rizzandomi dalla seggiola e prendendo commiato.—Su questo punto non potremo intenderci mai!

Quella pretesa scienza positiva mi faceva schifo. Immensamente più accettabile mi sembrava il generoso sacrifizio propostomi da Fausta:—Prendi la mia vita! Ti voglio tanto bene!

—E chi sa che non sia il grido sincero, inconsapevole dell'istinto,—pensavo,—che vede ben più in là delle fallaci previsioni della scienza!

Neppur oggi, dopo tanti anni, so dire se sia stata questa lusinga o l'irrompente rigoglio della virilità che mi travolsero e mi spinsero mio malgrado. So certamente che vi contribuì sopratutto la invincibile repugnanza di ridurre mia moglie a coppa di piacere, come si era espresso il dottore. Mi sarebbe parso di diventare, tutt'a un tratto, peggio delle bestie accettando i suoi consigli. Egli aveva parlato da uomo pratico, secondo la sua convinzione, ripetendo a me le stesse cose ridette a tanti altri con la medesima indifferenza con cui prescriveva una cura profilattica, o un'operazione di chirurgia a coloro che andavano a consultarlo.

Alla sua indifferenza scientifica si mescolava, quel giorno, un senso di gaiezza da satiro, che traspariva dallo scintillìo degli occhi, piccoli e arguti, e dal sorriso delle labbra grosse, sensuali, su cui egli passava spesso la punta della lingua, quasi volesse assaporar meglio la voluttà delle parole lentamente pronunziate. E questo avea concorso a rendermi più odiosi i suoi consigli.

Fausta mi attendeva con mia madre in un angolo del giardinetto che circondava la nostra casa. Il sole di quel pomeriggio di autunno inondava di splendore quasi roseo la bianca vestaglia di lana, guarnita di mostre azzurre, che ella indossava. Il bruno della carnagione risultava attenuato dai riflessi della stoffa e della parete della casa investita dal sole.

Arrivato davanti al cancello mi ero fermato alcuni istanti a guardare. Un mucchio di rose gialle, rosse avvampanti, candidissime, era deposto sul tavolinetto di ferro accanto a cui sedeva mia madre, mentre Fausta, in piedi, intenta a comporre diversi mucchietti, assortiva con cura i colori, le forme, la grandezza. Al lieve stridìo del cancello, ella si volse e con impeto di gioia mi lanciò addosso molte delle rose già scelte.

—Non le meriti,—disse ridendo.—Come sei maldestro!

Avevo tentato di afferrarne al volo qualcuna e non ero riuscito. Mi chinai a raccoglierle tutte, e gliele riportai sul tavolino.

—Perchè mi guardi così?—domandò Fausta.

Infatti la guardavo con una specie di stupore e di ineffabile compiacenza, quasi la rivedessi dopo lungo intervallo e la trovassi trasformata. Mai la sua delicata bellezza mi era apparsa tanto attraente dopo il tristissimo avvenimento che aveva portato la desolazione nella nostra casa. In quel momento mi sentivo liberato da ogni rimpianto, da ogni seduzione di alti ideali; mi sentivo uomo e innamorato, senza nessuna ombra di sospetto che tutto ciò potesse nascondere un'atroce insidia della sorte.

—Perchè mi guardi così?—replicò Fausta.

—Osservavo certi effetti di luce,—risposi imbarazzato.

—Ah!—ella fece, un po' delusa.

E si rimise a scegliere le rose, a distribuirle in mucchietti di varia grandezza. Io seguivo il rapido movimento delle sue mani che sconvolgevano il grosso mucchio, affondando le dita tra il verde delle foglie, distrigando i gambi, rizzando ogni rosa per giudicare a qual mucchietto avrebbe dovuto destinarla; e mi pareva di scorgervi tremiti, e vibrazioni che non provenivano soltanto dalla gentile occupazione alla quale ella era intenta.

—E non comunichi a Dario la bella notizia ricevuta da Roma?—disse a Fausta mia madre.

Alzai il capo con vivissima curiosità, fissando Fausta negli occhi.

—Roberto si è fidanzato. Sposerà in ottobre.

—Davvero?—esclamai.—Questa sua risoluzione mi stupisce. Ha detto sempre di voler conservare la sua libertà. Credevo che si preparasse alle lotte della vita politica.

—Il matrimonio glielo impedisce forse?

—No, mamma, non glielo impedisce. Ma per certi ufficii esso, più che un peso, è un ostacolo. Io credo che l'artista e l'uomo politico dovrebbero imitare il missionario: votarsi al celibato.

—Gli artisti e gli uomini politici non cessano di essere uomini come tutti gli altri,—intervenne Fausta.

—Non sono come tutti gli altri, o almeno non dovrebbero esser tali. La loro funzione sociale è più nobile e più elevata: ha scopi assai diversi che non quella delle persone ordinarie.

—Non fanno da artisti o da uomini politici anche quando mangiano e dormono!

—Mangiano e dormono pure le bestie. L'uomo è uomo soltanto quando pensa e agisce secondo che pensa, Ora tra l'artista, l'uomo politico, e il matrimonio, c'è assoluta incompatibilità. Vuol dire, che si può essere uomo mezzo e mezzo. A me però non piace. O Cesare o niente, diceva il Valentino; e aveva ragione.

—Sposa una bella e ricca signorina.

—Lo pensavo; Roberto è uomo pratico.

—Intende giustamente la vita; non si smarrisce tra le nuvole.

—Guarda!—le dissi, additando il cielo verso ponente.

Le nuvole invadevano lo spazio, leggere, rosee, scure, bianchiccie e orlate di oro, spinte in su da un soffio di vento che pareva si divertisse a farle mutare di aspetto. Si allungavano in isolotti nello smeraldo del cielo, si trasformavano in figure di mostri, cavalcati da esseri strani, che la corsa disfaceva; si elevavano in torri, in scalinate, in collinette che si confondevano insieme, annullandosi lentamente, assumendo da lì a poco altri aspetti bizzarri.

—Guarda!—soggiunsi.—Smarrirsi lassù, in mezzo a quel visibile sogno di vapori acquei, dev'essere una gran bella sensazione! Ma il cielo della Intelligenza ha nuvole anche più meravigliose, ed è sensazione infinitamente più bella lo smarrirsi tra esse.

—Io rassomiglio a mio fratello; preferisco la realtà.

—Fantasticare ha, talvolta, il suo vantaggio,—concluse mia madre.—Non bisogna però abusarne.

In quel punto le nuvole del mio fantasticamento assumevano la forma di una bruna creatura, bianco-vestita che mi prendeva per mano e mi portava via con sè, sorridente, felice, col capo abbandonato indietro, con gli occhi socchiusi, le labbra atteggiate a un sorriso di beatitudine intensa…. E non sapevo distinguere se questa visione era accidentale aspetto delle nuvole additate poco prima a Fausta, e che si sarebbe subito alterato e difformato, o se gentile realtà, intraveduta quasi in sogno dal cuore!

Tutto questo era durato pochi istanti. La mia abitudine di riflettere prendeva subito il sopravvento; e osservando Fausta, che, terminato il lavoro di scegliere e di assortire le rose, si era allontanata silenziosamente, protestavo, nell'intimo, contro l'enormità del sacrifizio della sua vita, che io, nell'indignazione contro i consigli del dottore, mi ero sentito quasi disposto ad accettare.

A che scopo avrei immolato quella giovinezza, giacchè (non potevo più dubitarne) l'immolazione era sicura? La vita di una donna, sì, aveva per fine supremo la maternità; ma a quante le condizioni fisiche, le circostanze sociali non impedivano di raggiungerlo?

Agli altri era stato facile sciogliere questo problema della vita coniugale; a me ispiravano orrore tutte e due le soluzioni che mi si presentavano davanti come possibili. Non si muta compiutamente il complesso di sentimenti e di idee che ha formato il nostro carattere, la nostra personalità; allora credevo così. Mi ero rassegnato al mio destino; pensavo soltanto, come a lontanissimo passato, alla orgogliosa illusione sostituita all'altra mancata illusione di riuscire un grande artista. Mi sarei contentato ormai di vivere da umile borghese, tra mia madre, mia moglie e i miei figli…. Ed ecco la crudeltà del caso che sopraggiungeva a interdirmi anche questa ultima, umilissima soddisfazione!

Ero rimasto seduto accanto al tavolino di ferro ingombro di fiori dal lato opposto a quello di mia madre che aveva ripreso a leggere un fascicolo di non ricordo più quale rivista illustrata. Vedevo Fausta laggiù, presso il muro di cinta coperto di piante rampichine; e il bianco della sua vestaglia risaltava sul verde dei fitti rami, come qualcosa di vaporoso che si moveva lentamente. Le sue braccia si alzavano a staccare una foglia inaridita, ad aggiustare un ciuffo di fronde troppo denso, e mi pareva compissero una strana opera d'invocazione e di preghiera nei momenti che indugiavano in alto. La seguivo, intento, conturbato dal suo silenzioso allontanamento. Le mie parole accennanti alle nuvole avevan dovuto ferirla, e si era mossa lentamente lungo il breve viale, avea girato attorno a una aiuola, ed ora seguiva la linea retta del muro di cinta, fermandosi, tornando indietro di qualche passo, riprendendo a procedere con l'atteggiamento rigido di una sonnambula.

E di nuovo, mi sentivo invadere da quello stupore, da quella ineffabile compiacenza che avevo provato trovando Fausta nel giardinetto con quel mucchio di rose davanti. Scattai da sedere e mi avviai verso di lei, quasi accorressi a un suo appello. Al rumore dei miei passi su l'arena del viale, ella si voltò con un incerto sorriso su le labbra, e una timida interrogazione nello sguardo.

—Che cosa vuoi dirmi?—domandò Fausta.

—Voglio dirti,—risposi, e mi tremava la voce,—che sarebbe una grande infamia della Natura se le tristi previsioni del dottore dovessero avverarsi!

—Ah!—esclamò subito.—Credevo che non mi amassi più!

E mi si buttò tra le braccia.

Sussultava di gioia, mormorando il mio nome, sollevando fieramente la fronte in atto di sfida al destino; e in quell'istante mi sentii forte anch'io contro di esso, e quasi mi parve di aver vinto!

XX.

Oso appena di riandare i terribili mesi vissuti sotto l'incubo del dubbio che io avessi commesso un delitto. Non so spiegarmi come mai l'organismo umano possa reggere il tormento dell'ossessione di un orrido insistente inevitabile pensiero, senza che vi si produca una lesione al cervello, o un disordine nelle più delicate funzioni vitali.

Una mattina, su la terrazza, mentre assistevamo armati di cannocchiali alle manovre militari che si svolgevano su la collina lontana, e nella sottostante pianura, Fausta die' un piccolo grido.

—Che cosa è stato?

—Niente!

Ma i suoi occhi brillavano di allegrezza, e le sue guancie si erano improvvisamente imporporate. E, dopo breve pausa, mi sussurrava in un orecchio:

—È arrivato!

—Chi?

—Il Sospirato, l'Atteso!

—Possibile? Senza che nessun sintomo lo abbia preannunziato?

—Qualcuno, sì; ma l'ho taciuto, temendo di ingannarmi.

—E ora?

—L'ho sentito agitare!… Sono certa.

—E ti senti bene?

—Benissimo. Nessuno dei fastidi della prima volta. Non sei contento?

—Sì…. Mi sembra però….

Ero atterrito appunto da quella quasi completa assenza di sintomi. Che giorni! Che settimane! Che mesi! E la povera vittima sorrideva! E si sarebbe detto che la Natura volesse darle il compenso d'una salute eccezionale, e anche d'una bellezza eccezionale! Mai Fausta non era stata così bene, così florida come in quegli ultimi mesi di gestazione che mi tenevano attanagliato da un'angoscia senza nome, perchè dovevo nasconderla a lei e a mia madre, fingendo un'allegria quasi più penosa dell'angoscia che voleva celare.

Ancora un mese, e avrei saputo che la speranza ci aveva ingannati! In quei giorni mi arrivava il nuovo romanzo di Bissi con la dedica affettuosissima a Fausta e a me, augurando che il bel sogno dei nostri cuori diventasse anche più bello nella realtà. Leggendo queste parole mi ero sentito salire le lacrime agli occhi. Fausta, oltre che per l'augurio, era felice di veder stampato il suo nome in testa al lavoro d'arte di un amico già consacrato dalla gloria. Diceva che quell'augurio, ripetuto a migliaia di pagine, letto da migliaia di occhi, e forse pronunziato ad alta voce da migliaia di bocche, non sarebbe rimasto augurio vano. E me lo ripeteva spesso, con espressione di birichineria bambinesca che mi faceva tremare di pietà.

—Eh? Che il bel sogno dei vostri cuori…. diventi anche più bello nella realtà!… Più bello! Capisci?

Aveva divorato il libro, segnando molte parti che le sembravano quasi scritte per me.

—Senti,—rileggeva con enfasi:—«Tentando d'intravedere l'avvenire, l'uomo spesso dimentica la bontà del presente, e si stima infelice».—Senti: «Amare è quasi niente, se non s'intende e non si apprezza in che modo e fino a che punto ci corrisponda il cuore della persona da noi amata».

Ho sotto gli occhi le pagine segnate dalla sua mano col lapis bleu; e mi par di scorgere, dalle linee diritte, vibrate o ondulanti, sui margini, il sentimento che ha prodotto il gesto e la traccia del segno; qualcosa che vive ancora là dopo tanti anni, e non potrà più sparire.

La lettera di ringraziamento che Fausta scrisse a Bissi era un capolavoro di grazia e di finezza epistolare; tra le altre cose gli diceva: «Ho gradito l'onore della sua dedica quanto il cordialissimo augurio, e significa: immensamente. Ma forse esagero un po': per l'augurio vorrei trovare una parola che vada più in là dell'immensamente; la cerchi lei per conto mio. Quando lo riavremo ospite nostro? Venga a convincersi che il suo romanzo non è soltanto un bellissimo libro, ma un vero porta-fortuna».

Povera Fausta!… Neppure un momento di dubbio mi parve che la turbasse in quegli ultimi giorni. La vedevo andare incontro al destino come una vittima coronata di fiori. Ne profondeva in ogni stanza, specialmente nel suo salottino, spargendoli fin per terra con strana soddisfazione. Diceva di voler così infiorare la via all'Atteso, al Nascituro; pensava di ridurre la culla una cesta di fiori, tra cui doveva riposare e dormire il fiore più bello e più raro, Colui che in quegli ultimi giorni la faceva soffrire come non aveva mai fatto durante la gestazione.

E una settimana dopo!…

Mi buttai ginocchioni, davanti a la sponda del letto, baciando la sua mano esangue, quasi fredda per l'invadente gelo della morte.

—Perdonami, Fausta! Perdonami!—balbettavo convulso, senza lacrime.

Ebbe la forza di sorridere e di agitar le labbra, per parlare.

—Addio!… Muoio…. contenta!

Quasi fievole suono di voce che arrivava da lontano, dal confine dell'ignota regione dove ogni esistenza va a perdersi…. E subito un travolger di occhi, un impietrarsi delle pupille, un lieve sussulto…. e poi nient'altro!

Il doppio gran sacrificio, della madre e della creatura, era compiuto!

E non potevo piangere! Non potevo urlare! Non riuscivo a sfogarmi in nessuna maniera!

Ero impietrito dall'orrore di aver contribuito, per debolezza, a quel delitto; e il rimorso, che mi ha avvelenato tutta l'esistenza, mi fa rabbrividire anche oggi, come d'infamia recente.

Avrei dovuto resistere a ogni lusinga, a ogni illusione io che mi reputavo il più forte, il più savio, e non prestar mano a un suicidio qual è stato il sacrifizio di Fausta:—Prenditi la mia vita!—Giacchè (ora lo comprendo) ella ha voluto morire pel dolore, per la disperazione di non poter essere più la donna capace di darmi la gioia per cui l'avevo sposata; ed è andata incontro alla morte sorridendo, fingendo di esser convinta che le tristi previsioni sarebbero state smentite, felice di aver travolto me in un inganno senza il quale non avrebbe potuto attuare il suo reciso proposito di sparire…. Forse, povera creatura, ha avuto dei momenti di illusione, di speranza anche lei; o si è risoluta a scegliere quel mezzo, non sentendosi il coraggio di uccidersi diversamente; lottando col sentimento religioso che le faceva apparire il suicidio come il più imperdonabile dei peccati, transigendo con la sua coscienza e acchetandone la voce col ripetersi nelle esitanze:—Chi sa? Chi sa?

La maggior colpa però è mia; e consiste nel superbo intento di voler mettere la ragione nelle piccole irragionevolezze della Natura; consiste nell'invincibile repugnanza di profanare la donna riducendola soltanto vile strumento di piacere. Ma questo dignitoso sentimento è ora l'unica forza che mi permette di ricordare Fausta con continuo atto di adorazione. Io non ho inflitto alla sua bellezza, alla sua giovinezza, alla sua purezza, quel che giudico anche oggi la suprema mortificazione, il supremo oltraggio che si possa fare mai infliggere a una moglie. E per questo benedico all'inganno di lei. Ella è rimasta santa, immacolata; ella mi ha permesso, a costo della sua vita, di aver l'orgoglio di sentire che la unità della mia intelligenza e dei miei atti non è stata violata un solo istante.

Mia madre era inconsolabile:

—Perchè non ho avuto fiducia nelle parole del dottore? Ho contribuito stoltamente io pure a spingerla, cara figlia, verso la morte!

E vedendomi quasi ebete pel dolore, spaventata da quella falsa calma che mi inaridiva gli occhi, che non mi consentiva neppure il lieve conforto dei singhiozzi, mi passava le mani sulla testa e sul viso, accarezzandomi come un bambino, e ripetendomi, quasi per incoraggiarmi, per determinarmi:

—Piangi, Dario! Piangi!

E il pianto venne, straziante, abbondante, con singhiozzi che pareva volessero soffocarmi. Ma quando fu il momento di comporla nella cassa che doveva custodirla per l'eternità, tornai improvvisamente tranquillo, quasi inconsapevole di quel che operavo. Mia madre l'aveva fatta rivestire col bianco abito nuziale. Il viso di Fausta aveva assunto un'espressione di placido sonno. Cereo, un po' più affilato dell'ordinario, conservava, ciò non ostante, tutta la delicatezza dei lineamenti, con qualcosa di severo che ella soleva prendere in rare occasioni quando il suo cuore si indignava per le ingiustizie della sorte e della prepotenza degli uomini.

Io la sollevai, insinuando le braccia sotto il corpo rigido e appesantito; la collocai con precauzione, quasi temessi di destarla da benefico sonno, dentro la cassa, aggiustando le pieghe della veste, sospingendo un po' il guanciale perchè la testa vi si adagiasse comodamente, e—lo ricordo bene—mi chinai a parlarle sommesso vicino alle labbra:

—Dormi, cara! Sogna, cara! Sogna!

E non mi parve assurdo che io le dicessi così.

Mia, madre aveva fatto recare una cesta di rose, e cominciò a spargergliele addosso a piene mani…. Ne versai a piene mani anch'io, lasciando libero soltanto il viso…. E ripetei sommessamente:

—Dormi, cara! Sogna, cara! Sogna!

Soltanto al ritorno dal cimitero io ebbi coscienza del gran vuoto che la morte di Fausta aveva fatto nel mio cuore e nella mia casa. Mi sembrava quasi impossibile che la presenza di quell'esile corpo avesse potuto occupare tanto posto, e animare ogni cosa col suo sorriso, col suono della sua voce. Mi sembrava quasi impossibile che tutti gli oggetti del suo salottino, della nostra camera fossero rimasti dov'ella li aveva collocati con squisito senso di arte; che niente del mio dolore si rivelasse nelle linee delle loro forme, nello scintillìo dei loro colori. Il pianoforte era aperto come lo aveva lasciato lei il giorno fatale, e sul leggìo stava la «Cavalcata delle Walchirie», quasi le ultime pagine attendassero ancora le mani che dovevano riprendere ad eseguirla.

E tutto è rimasto così com'ella lo aveva lasciato; e tutto, ancora per qualche tempo dopo la mia morte, sarà religiosamente conservato così. Poi…. Anche nel mio cuore, nei miei ricordi non avverrà altrimenti. Fausta, diventerà una dolce visione lontana, verso la quale gli occhi del mio spirito si rivolgeranno, di tanto in tanto, in certi momenti di sfiducia, di tristezza. La vita ci sopraffà; scancella o appiana tracce che abbiamo creduto incancellabili, profonde; altri dolori, altre gioie si sovrappongono a quelli che ci sono stati più cari, e il gran mondo fluisce, fluisce, e finalmente porta via pure noi, versandoci nel cuore l'oblìo.

XXI.

Bissi era accorso, appena conosciuta la mia disgrazia. Era arrivato, il giorno dei funerali, anche Roberto fratello di Fausta; ma aveva dovuto ripartire quasi subito per Roma dove aveva lasciato sua madre malata e ancora ignara della perdita della figlia.

Bissi, mio ospite, non mi abbandonava un solo minuto. Tentava di distrarmi, e con gentile avvedutezza mi parlava anche di Fausta; avea capito, col suo cuore d'artista, che questo era l'unico modo di consolarmi un po'. Sapeva poi far deviare con arte la conversazione, se poteva chiamarsi tale quella in cui io dicevo qualche parola, qualche breve frase, e che si riduceva, il più delle volte, a un suo lungo soliloquio. Egli non si interrompeva neppure quando si accorgeva che la mia attenzione gli era già venuta meno. Allora sentivo attorno a me il suono della sua voce quasi errasse per lo studio, in alto, in basso, a destra, a sinistra, smanioso di penetrarmi nell'orecchio, senza riuscirvi; e i miei occhi guardavano intenti, o abbassavano le palpebre, in una specie di annullamento di ogni facoltà per quell'interruzione della luce di penombra che le imposte socchiuse raccoglievano specialmente nell'angolo dov'era la scrivania e dove noi sedevamo.

Mia madre, a intervalli, veniva a prender parte alla conversazione.

—E non si annoia in quel paesetto di confine?—domandava a Bissi.

—Lavoro; non sono mai solo. I fantasmi della mia immaginazione mi tengono compagnia giorno e notte. Sono le uniche persone con cui mi compiaccio di vivere. Godo, soffro con loro, rido con loro talvolta, quasi siano persone reali. La casetta che abito è situata in piena campagna, in mezzo agli olivi, e la mia camera ha due finestre che dànno in un orto. Per arrivarvi, dal mio ufficio, faccio una bella passeggiata zufolando, canterellando, cogliendo alcuni fili di erbe pel mio passerotto che, appena, mi scorge in fondo al viale, cinguetta, pigola, si arrampica alle stecche della gabbia per festeggiarmi. È la mia delizia. Intelligentissimo, addomesticato, ammaestrato anzi, mi serve di svago quando sono stanco di lavorare nei giorni di festa. Lo trovai una mattina, cascato dal nido e appena rivestito di piume. Ora, quando scrivo, lo lascio libero per la stanza; e vedendo che non mi occupo di lui, vola su la scrivania, viene a darmi fitti colpettini di becco alle dita, tenta di strapparmi la penna, quasi capisca che sia essa la sua rivale nel mio cuore. E—tu non lo crederai, Dario—pare che capisca talvolta, che sto per scrivere una sciocchezza, e mi ammonisca:—Bada! Rifletti!—E siccome mi distrae, mi fa riflettere davvero e mi fa accorgere. Insomma, è il mio collaboratore. Per un passerotto non c'è male.

—Avrà altre…. distrazioni….

—Oh, no, signora mia! Vivo da eremita…. Ed è curioso il vedere come tutti i ricordi, tutte le osservazioni del tempo che stavo qui mi rifioriscano nella memoria e riprendano vita nella mia opera d'arte con intensità che mi maraviglia. È un'evocazione inconsapevole. Figure che credevo dimenticate, che mi eran sembrate senza interesse quando le avevo sotto gli occhi mi si affollano davanti con qualche lor segreto da comunicarmi: una passione, una speranza, un'illusione, un dolore, una follia, un gesto disperato, una smorfia. Così la mia solitudine si popola, e non ho tempo di annoiarmi. Non sono stato mai tanto accompagnato come da che vivo lassù solo solo!

Povero Bissi, se avesse potuto immaginare che male mi facevano al cuore quelle sue parole pronunziate con intonazione indefinibile, tra seria e scherzosa! Povera mamma, se avesse sospettato che la esclamazione—Beato lei!—con cui gli aveva risposto forse pensando a me, mi era parsa un'irritante inutile commiserazione contro la quale sdegnosamente mi ribellavo!

Dal dolore rampollava a poco a poco il rancore, e al rancore teneva dietro l'odio di tutto e di tutti. Mi sentivo rinascere nella mente le aspirazioni giovanili e nello stesso tempo la convinzione della loro piena inanità. Il mio desiderio era volato alto, nello spazio infinito, come un'aquila incontro al sole, e quasi immediatamente lo avevo sentito piombar giù, colpito da un proiettile arrivato all'improvviso a stroncargli un'ala. E provavo di nuovo il dolore della ferita e la vertigine del precipizio!… Dopo la gran delusione dell'arte, l'altra, quasi più triste, della famiglia! Perchè mai la Natura, che si era compiaciuta di darmi un'intelligenza non comune, i mezzi per coltivarla, la forte volontà di raggiungere lo scopo intellettuale verso cui mi sentivo attratto e che reputavo l'unico pel quale avrei potuto credermi degno del nome di uomo; perchè mai, nello stesso tempo, mi aveva negato quella facoltà d'immaginazione creatrice prodigata a tanti altri, senza sostituirla con la profonda riflessione che crea essa pure, divinando, dall'immensa moltitudine dei piccoli fatti, le ampie intime leggi dell'Universo?

Perchè mai la Natura mi aveva concesso una intelligenza capace di formarsi la grandiosa illusione di una potenza dominatrice del Caso, e si era poi accanita a distruggerla, quasi l'orgogliosa idea che avrebbe voluto eliminarlo, almeno una volta, dell'atto supremo della generazione, fosse stato un tentativo di diminuire il suo dominio, di circoscrivere la sua libertà, di impedire il suo capriccio?

E nell'impeto dell'indignazione dimenticavo Fausta, mia madre, tutti i nobili sentimenti che mi avevano guidato e sostenuto fin allora; e mi lasciavo sopraffare dalla nausea di dover vivere una vita così vacua, così meschina, così immeritevole fin del sacrificio delle basse gioie e dei vili piaceri, principale occupazione della maggior parte degli uomini. A che cosa mi era valsa la rinunzia a quei piaceri, a quelle gioie, che aveva reso grave ed austera la mia giovinezza? E perchè mai dovevo continuare a persistere in tale rinunzia senza ragione e senza scopo, senza compensi di sorta alcuna?

Bissi poteva benissimo rassegnarsi alla solitudine della sua vita di provincia. Quel gran silenzio di cose e di uomini attorno a lui era incitamento alla produzione, allo svolgimento libero e geniale della sua bella facoltà di narratore che forse, in un centro diverso, avrebbe risentito influenze mortificatrici, tentazioni di ravvicinamenti che le avrebbero nociuto; ma io, io che cosa dovevo farmene di un'esistenza a cui era venuta meno ogni ragione di continuare?

Se non avessi avuta mia madre (ridotta un fantasma di se stessa, incanutita, infiacchita, sembrava si trascinasse per le stanze in cerca della Morte che tardava a venire), io avrei accolta la idea del suicidio balenata a insidiarmi in quei mesi di impetuosa ribellione contro la spietata violenza del mio Destino. Pensavo di essere nel diritto di rinunziare alla vita che non avevo chiesta, che mi era stata imposta e che era risultata una serie di delusioni, di dolori, di inutilissimi sacrifizi.

La vista di mia madre mi impediva di fermarmi a riflettere su quell'idea. Volevo però far atto di ribelle, mostrare i pugni al Destino, ridergli vittoriosamente in faccia, gridargli:—Tu mi hai inoculato un vacuo senso di dignità umana, un'irrisoria aspirazione alle più pure gioie dell'intelligenza; ed io voglio diventare un bruto, per farti oltraggio, per sputarti in viso il mio disprezzo, per mostrarti che ho una volontà superiore alla tua, che sono forte quanto te, più di te!

Ma non sapevo decidermi dopo la risoluzione presa; c'era ancora dentro di me qualcosa che resisteva, che mi inceppava, che mi faceva stupire, in certi momenti, di aver potuto pensare, formulare quella risoluzione così opposta a tutto il mio passato, così contraria alla mia indole, al mio carattere; e lo stupore m'irritava, m'incitava, senza mai arrivare al punto di spingermi, con un salto, di là dall'ostacolo che mi si elevava dinanzi.

Una lettera di Lostini fu come un grande urto alle spalle che mi fece balzare oltre l'ostacolo quasi mio malgrado. Inaugurava gli uffici della sua «Nemesis»; voleva che almeno fossi presente col corpo, se mi ostinavo ad essere assente con lo spirito, cioè con la collaborazione.

«Non mi privare di questo piacere; anche Bissi sarà qui. E pensa che un po' di vita agitata, in questo centro di attività di ogni specie, farà certamente molto bene al tuo animo esulcerato. La vita è triste; perchè commettere la stoltezza di volercela volontariamente peggiorare? Vieni; conduci con te, se è possibile, la tua buona mamma. La mia casa di scapolo può offrirvi una modesta ospitalità. Vieni! Non ammetto scuse nè pretesti. «Nemesis» ti attende!»

—Va'—disse mia madre.—Lostini ha ragione. Io ti accompagnerò col cuore, ti sarò vicina col pensiero. Sarei un impiccio per te e per lui…. Mi scriverai ogni giorno, una parola, due righe; e mi farai avere i giornali che parleranno della vostra festa. Voglio annunziargli io la tua partenza, ringraziarlo dell'invito e mandargli i miei augurii. Come gli sono grata!

E mentre il treno mi portava via, mi sembrava di lasciarmi dietro, anzi di sfuggire non solamente un posto di orrore, ma un «me» che abbandonavo alla sua sorte, quasi non mi appartenesse più, e col quale non sapevo come mai avessi potuto convivere tant'anni!

Affacciato al finestrino, respiravo a pieni polmoni l'aria che mi sferzava il viso, e gli occhi bevevano lo spazio, trionfanti in quella improvvisa libertà, in quella rapidissima corsa che mi dava la deliziosa sensazione di veder accorrere incontro a me alberi, case, colline, montagne, paesetti, città! Avrei voluto che il viaggio non avesse avuto soste; ogni minuto di ritardo nelle stazioni intermedie mi faceva spazientire. E, nella notte, che ansia, che trepidazione, quasi il treno avesse potuto smarrire la via, e allontanarmi dalla meta! I fischi della locomotiva, mi sembravano gridi angosciosi, di appello, gridi sinistri, di minaccia; e quando l'alba cominciò ad imbiancare l'orizzonte, e il paesaggio a uscire dalla penombra, ebbi un senso di soddisfazione puerile, e trassi un respiro di gioia.

Alla stazione di Milano, ero un uomo nuovo! L'espressione non è esagerata.

Ah, quel Lostini! Maraviglioso addirittura. Che aria di sufficienza, di indulgenza benevola, di cordialità che si concedeva e non si profondeva, di protezione paterna!

—Come non ti senti formicolare le mani? Come non ti viene l'impeto di afferrare una penna?

—Non mi parlare di cose intellettuali,—gli dissi.—Voglio imbestialirmi.

—Se non cerchi altro! È la cosa più facile.

Mi guardava stupito.

—T'intendo però,—soggiunse,—e ti invidio. Io comincio ad essere stufo. Tu invece puoi gustare il piacere con la ingenua ingordigia del collegiale; non ti offenda il paragone. Corri forse il pericolo di prenderlo sul serio; non ne vale la pena. Il vizio è come la virtù; non bisogna abusarne, ma usarne discretamente; levarsi da tavola con un resto di appetito è prezioso dettato di igiene. Dico vizio per modo di dire, perchè i moralisti han ribattezzato così il piacere, forse per disgustarne gli altri e serbarselo tutto per loro. I moralisti, caro mio, sono capaci di ben altro. Quando ne incontro uno che predica le grandi attrattive della virtù, penso a quei negozianti che fanno la réclame ai fondi di bottega, per darli via al più presto. Io non sono precisamente un virtuoso, figurati! E perciò ti dico che fai bene a voler divertirti. Ma sono anche uomo di esperienza, e ti posso dare qualche prudente consiglio.

—Zitto; vo' andare incontro all'impreveduto!—lo interruppi.

—No, caro; anche il piacere deve essere un calcolo. Su questo soggetto ho tutta una teorica che potrebbe far la fortuna di un pensatore. Non ci tengo, e non ne ho preso la privativa. E prima di ogni cosa sappi che non ci sono piaceri di prima, di seconda, o di terza classe, come i vagoni della ferrovia. Ne hanno l'etichetta, ma è bugiarda, per canzonare i creduloni. Io ho trovato, per esperienza, che è meglio pei viaggi corti prendere un biglietto di terza; e il piacere è un viaggio corto, cortissimo; non mette conto di prendere per esso un biglietto di prima. Coloro che parlano di piaceri raffinati sono, come dicono qui, dei «bagoloni» che si vogliono dare aria di intenditori. Il piacere non è una raffinatezza, è anzi—se vuoi che ti dica la mia schietta opinione—una grossolanità. Tant'è vero che l'uomo ha sentito il bisogno di lardellarlo—non ti dispiaccia la parola, hegeliano mio—di lardellarlo d'ideale! Ed ha fatto malissimo: l'ha ridotto un'altra cosa, come quei cuochi sciagurati che a furia d'intingoli….

—Eh, via, Lostini!

—Tu m'interessi come un'esperienza scientifica; voglio studiarti; intravedo un bel soggetto di romanzo; un raro caso di osservazione diretta. Sarà la tua indiretta collaborazione a «Nemesis», se arriverò a scrivere quel che tu stai per fare. E lo intitolerò…. Come potrò intitolarlo?

—«Vanitas vanitatum!»—gli suggerii scherzando.

—Ben trovato; grazie!

—Certe sciocchezze è molto farle; sarebbe troppo scriverle.

—Specialmente dovendo scriverle io, tu pensi.

—Oh, niente affatto!

—Guarda!—mi disse, additandomi una donna che ci veniva incontro in carrozza, sotto i riflessi di un ombrellino azzurro, elegantemente vestita, con un gran cappello piumato posato con bizzarria su i capelli troppo biondi da esser di color naturale.—Guarda!… Biglietto di prima classe, che non ne vale uno di terza…. Dio ti preservi dalle sue pari!

XXII.

Vorrei cancellare dalla mia memoria il ricordo dei sei mesi passati a Milano. Arrossisco ripensando quella specie di frenesia di godimenti di ogni sorta a cui mi abbandonavo con ansiosa avidità che talvolta raggiungeva l'acuta sensazione di violentissima sofferenza. Ne rimanevo prostrato per parecchi giorni, con gran maraviglia di Lostini e dei nuovi amici della redazione di «Nemesis», tra i quali avevo trovato un compiacente iniziatore.

Questo personaggio di età incerta, che vestiva con pretenziosa eleganza, e affettava la rigidezza quasi meccanica delle maniere inglesi, da principio mi aveva ispirato un senso di diffidenza e di repugnanza per lo straordinario cinismo delle sue opinioni. Sembrava avesse adottato l'istigazione di Otello a Jago:—Esprimi la tua peggiore idea con la tua peggior parola.—Ma quando capii che era un deluso della vita mio pari, mi divenne simpatico.

Lostini aveva detto parlando di me:

—Non c'è peggio di coloro che non si sono mai permessa qualche piccola follia in gioventù. Hanno fretta di riguadagnare il tempo perduto.

—È un inganno—aveva risposto Grigoni (si chiamava così).—Il tempo perduto non si riguadagna mai. Le follie non valgono per loro stesse, ma pel sentimento con cui noi le apprezziamo. A vent'anni l'amore, il piacere sono assolutamente diversi da quel che ci appaiono a trenta, a quarant'anni; e la loro diversità consiste soltanto nell'animo nostro. Essi rimangono immutati, misera e spregevole occasione di sensazioni irritanti che la nostra immaginazione trasforma ed esalta. La deficienza dell'educazione attuale sta appunto nel divieto che quasi interdice il godimento sensuale, come se nella vita ci fosse qualcosa di meglio. La vita è fango, e la maggior soddisfazione di vivere dovrebbe ridursi unicamente nell'avvoltolarcisi bene. L'animale più ragionevole è, senza dubbio, il maiale. Io ho un gran rispetto per esso; e quando ne mangio le carni fresche o salate, mi par di praticare un atto religioso, una comunione, augurandomi di poter divenire altrettanto maiale quanto lui.

—Ci sei riuscito!—gli gridò Lostini dalla scrivania dove correggeva, alcune bozze.

Grigoni non gli rispose; e rivolgendosi a me, soggiunse:

—Lo compiango, caro signore, se è vero quel che ha detto di lei il nostro amico. Egli, vede? ha il suo particolar modo di avvoltolarsi nel brago: s'immagina, o finge di immaginarsi, che la letteratura sia qualcosa…. di superiore, di elevato. E se gli dico che essa è un brago come un altro, protesta; ma ciò non significa niente. Abbiamo il brago dell'arte, il brago della politica, il brago della filosofia o delle filosofie, perchè credo che ce ne siano parecchie per comodo dei diversi temperamenti; abbiamo in fine il brago della Scienza che stimo il più delizioso di tutti. Ah! La Scienza è furba; si tiene bene afferrata al reale, al positivo. Ed io, così dimesso come le appaio, li ho provati un po' quasi tutti questi e gli altri braghi che non ho enumerati. Ora però il mio residuale godimento è di guardare in che modo vi si ravvòltoli la gente. Ed è la ragione della mia frequenza in questo ufficio messo con tanto lusso e tanta eleganza dall'amico Lostini, a cui voglio bene…. non so perchè. Romanzieri, poeti, critici—tutti questi bravi giovani qui si stimano tali, e, più o meno, sono tali o ne hanno l'apparenza; io non giudico—mi consentono di assistere allo spettacolo del loro brago letterario. Vo poi a godermi, nei ricevimenti eleganti, nei circoli, lo spettacolo, non meno interessante, del brago mondano. Oh! Non ho voluto specializzarmi. Dovrebbe fare così anche lei. È romanziere? No? Poeta? No? Filosofo…. No!

—È stato,—lo interruppe Lostini che rideva.

Ridevano anche gli altri che gli facevano corona, in piedi, fumando, stando ad ascoltarlo con deferenza non ostante le risa.

Mi era parso di udir predicare un nuovo vangelo, quello del Fango. Mi era parso, anzi, di sentir formolare chiaramente quel che si trovava nel mio spirito in istato di incubazione, e di confusione. E fummo amici inseparabili; lui maestro, io discepolo. L'amarezza delle sue parole mi produceva un appagamento che mi gonfiava, il cuore con senso di tenerezza puerile. Mi compiacevo di sentir vilipese da lui tutte le cose belle e sante che avevo adorato, e che non avrei saputo vilipendere neppur ora che mi apparivano inutili e vane.

E nel primo mese era stato un oblìo intenso, quasi avessi sorbito un possente filtro che aveva addormentato dentro di me ogni sensazione, ogni idea del passato. Mi sembrava di ricominciare a ogni istante una vita novella, di rinascere giorno per giorno con la invincibile curiosità di scoprire il mistero della esistenza che mi si preparava dall'istante in cui aprivo gli occhi stanchi alla luce alta del sole, fino alla tarda ora notturna che me li avrebbe richiusi nella spossatezza del sonno.

Grigoni mi ammoniva:

—Non bisogna avere entusiasmo neppure pel piacere; se ne esaurisce presto la virtù. Centellinare è profonda sapienza….

Questo io non lo intendevo. Inconsapevolmente proseguivo la mia idea di un tempo: Raggiungere anche nel piacere il grado supremo. Soltanto così mi sembrava che mettesse conto di ricercarlo. E giacchè, secondo la teorica di Grigoni, il piacere era qualcosa di amorfo a cui la nostra immaginazione doveva dar forma, volevo foggiarmelo in guisa che anche quella bassissima cosa riuscisse, sì, una bassa opera d'arte, ma creazione vissuta, in azione.

Nel delizioso quartierino che avevo mobiliato per la Savina, questa bella, umile e quasi sentimentale creatura, si trovava come sperduta. Mi guardava con occhi stupiti, non sapeva rispondere alle mie interrogazioni, aveva paura dei miei scatti, delle mie pretese che la facevano strabiliare.

Mi piaceva appunto per questo. Mi aveva raccontato la sua triste storia; non le avevo creduto, per suggerimento di Grigoni.

—Non credere a quel che raccontano coteste infelici, mentiscono tutte; ma fingi di crederle. È un modo di godimento anche l'ascoltare la menzogna che fiorisce su le loro labbra, specialmente quando, a furia di ripeterla, finiscono col credervi esse pure.

E se in certi momenti mi persuadevo che la Savina fosse sincera, esclamavo:

—Tanto meglio! Sarà più arrendevole al mio scopo di trasformazione.

Forse, se avesse potuto intendermi, ella si sarebbe piegata ad assecondarmi nell'opera di raffinamento—di pervertimenti dovrei dire—a cui volevo ridurla. Invece mi resisteva con inconcepibili ritrosie, con inattesi pudori, che qualche volta assumevano, involontariamente, atteggiamenti di rimprovero.

Fu in uno di questi momenti che io ebbi l'impressione di una scossa, di un lampo, di non saprei dire che cosa che mi spinse a rigettare indietro Savina, col gesto e con l'espressione di un uomo colto in fallo e che vorrebbe nascondersi.

—Perchè?—mi domandò, stupita del mio atto.

Io la guardavo come chi non presta fede ai suoi occhi. E, da prima, credetti proprio a una allucinazione. Appena però potei riflettere, mi spiegai facilmente la sensazione provata. Savina aveva fatto un'insolita mossa delle pupille e delle labbra…. E immediatamente….

Ne fui atterrito. In quei primi mesi di intenso oblìo, poche volte il fantasma di Fausta mi si era affacciato alla mente. Mi era perdurata l'impressione di quel «me» malato che mi era parso di lasciarmi addietro partendo per Milano; mi era perdurata anche la impressione di sentirmi divenuto affatto un altro appena arrivatovi.

—Ed ora?—mi domandavo.

Mi accomiatai bruscamente, senza darle nessuna spiegazione del mio contegno. Quella mossa delle sue pupille e delle sue labbra era stata così identica alle mosse di pupille e di labbra che Fausta adoprava in certe circostanze, per dar maggiore evidenza al ragionamento, che io stetti parecchi giorni senza tornare da Savina.

Povera Fausta! Era sparita dal mio cuore. Il vedermela però ricomparire nella memoria mi produceva una vivissima sorda irritazione, quasi ella commettesse una soverchieria venendo ad intorbidarmi la vita nuova che volevo assoluta negazione della precedente.

Questa volta neppure il cinismo di Grigoni valse a serenarmi.

—Eh, via! Il rinascere dei ricordi è una forma delicatamente sottile di godimento, se possiamo gridar loro in faccia tutto il nostro disprezzo. È bello, è fiero poter dire al passato:—Tu mi avevi foggiato così, mio malgrado; ed io mi son foggiato volontariamente tutt'altro!—C'è poi una forma di godimento ancora più sottile, più raffinata: il rimorso artificiale, la ironia rimordente, come io la chiamo. Ma per arrivare a questa superiorità, bisogna disumanarsi molto, imbestialirsi molto; e tu sei alle prime prove.

No: io volevo soltanto dimenticare, non commettere nessun sacrilegio contro il passato. E mi sembrava una debolezza lo irritarmi contro quella sensazione, il fantasticare una stupida gelosia postuma da parte della morta. Non ero convinto che ormai tutti gli atomi del suo corpo erano dispersi per lo spazio, e forse già entrati in altre combinazioni di vita? Eppure eran bastate quelle mosse degli occhi e delle labbra di Savina per darmi la impressione che qualcosa fuori di me ora interveniva a turbarmi, a menomarmi lo stordimento, l'ebbrezza, il tentativo di crearmi il piacere supremo!

Quella sera avevo giocato sfrenatamente al club, e avevo sfrenatamente vinto. Mi ero quasi vergognato di così costante fortuna. Mi sembrava di barare contro tutti quei visi pallidi, sconvolti, quelle mani increspate che buttavano le puntate su le carte con gesti imprecanti, raddoppiandole colpo su colpo, sperando che la Fortuna avesse dovuto stancarsi e voltare indietro la sua ruota, secondo i calcoli loro.

E il giorno dopo scrivevo alla Savina:

«Sei libera. Tieni tutti i mobili dell'appartamentino per ricordo di me. Aggiungo seimila lire per le pigioni future, se vorrai restare costì. Ti auguro un nuovo amante migliore di me».

Non era trascorsa una settimana, ed io istallavo la Gilda in un quartierino più elegante, intonato alla figura scultoria di questa ragazza fredda, quasi insensibile e nello stesso tempo ben pervertita, come diceva Grigoni.

L'attrattiva di tale scelta era stata il maligno piacere di toglierla al suo nobile giovane amante allora malato e quasi moribondo. Ella lo aveva abbandonato con squisita indifferenza.

—Ti voleva molto bene, è vero?

—Era noioso con la sua gelosia.

—Tu lo tradivi?

—Facevo il comodo mio. Dovevo essere la sua schiava?

—Farai lo stesso con me?

—Chi lo sa? Tu non sarai geloso, mi figuro.

Aveva un'inconsapevolezza da bellissimo animale. Con lei il piacere supremo doveva consistere nel far vibrare quei nervi ben difesi dalla bianca opulenza delle carni, nel riuscire ad infondere almeno un tepore di sentimento in quel cuore di ghiaccio.

—La guasti! Bisogna prenderla come è. A certe donne non si deve mai chiedere più di quel che sono capaci di dare.

Grigoni aveva ragione; ma io cominciavo a sentire la stanchezza, la sazietà, la nausea di quella vita, che non manteneva nessuna delle sue promesse per le quali mi ero lusingato di rinnovarmi.

La Gilda mi resisteva diversamente dalla Savina. Si arrendeva, compiacente, ai miei capricci, ma rimaneva sempre padrona di sè, fredda, insensibile, libera da ogni soggezione, quasi fosse convinta che il possesso del suo perfettissimo corpo era già concessione superiore a tutto quel che io facevo per lei. E per lei spendevo pazzamente; la portavo attorno quasi in trionfo.

Ella gradiva poco questa ostentazione. Spesso non la trovavo in casa; mi toccava di attenderla lunghe ore; e rientrando, non si scusava, si levava tranquillamente il cappellino, si fermava davanti allo specchio per aggiustarsi i capelli. Io mi spazientivo, ma non volevo farglielo scorgere.

—Dove sei stata?

—Ho passeggiato un po'.

—Dovevi figurarti che ero qui ad attenderti.

—Saresti per caso geloso anche tu?

Sembrava che dicesse:—Saresti, per caso, imbecille anche tu?—E volevo mostrare che non mi importava niente di quel che lei faceva o avrebbe voluto fare; tanto, appena me ne fosse venuto il capriccio, avrei potuto prenderla per le spalle e metterla fuori l'uscio. Con lei non mi sembrava il caso di comportarmi con qualche delicatezza, come con la Savina.

Lo pensavo, per scusare la mia debolezza, ma capivo benissimo che non avrei avuto la forza di farlo. Già provavo uno spossamento fisico uguale per lo meno a quello morale. Un gran senso di tristezza mi invadeva ogni giorno più.

—Tu non sei un temperamento da buttarsi anima e corpo tra i piaceri,—mi diceva Grigoni con intonazione sarcastica.—Che cosa ti eri immaginato? Vorresti idealizzare il fango? Pena perduta! La vita ha qualche valore soltanto per chi è convinto che essa non ha nessun valore. È…. è….

E pronunziava solennemente una famosa parola, ripetendola due, tre volte, con enfasi crescente. Ma così dicendo, produceva in me un effetto contrario a quel che intendeva di ottenere.

Più non mi confidavo con lui. La bellezza plastica della Gilda mi ossessionava, ridestando nel mio spirito aspirazioni, sentimenti, che credevo di già distrutti. Diventavo veramente geloso di lei. Non volevo che quella magnifica euritmia di forma e di colore fosse esposta all'avvilimento di prodigarsi a chi non se ne curava perchè non la intendeva e non poteva intenderla; il mio supremo piacere doveva consistere nell'esclusività.

E soffrivo di non avere il coraggio di dichiararglielo, e di esser convinto che, forse, non avrei potuto ottenerla da quella invincibile sua indifferenza morale.

E, a poco, a poco, timidamente, mi voltavo indietro, verso il passato, senza che mi fissassi precisamente su qualche punto di esso, senza che ne rievocassi un particolare, una figura; quasi tutto si fosse oramai ridotto a qualche cosa di astratto, a una specie di nebbia che i miei occhi non riuscivano a penetrare, ma che mi dava dolci e consolanti sensazioni di rimpianto. Da una frase sfuggitami, Lostini indovinò quel che stava per accadere.

—Bada: tu corri un grave pericolo. Tu sei già in procinto di innamorarti della Gilda…. È una miserabile creatura, indegna di qualunque riguardo. Ti rende ridicolo. Ho l'obbligo di avvertirti…. Mi ha scritto tua madre.

Mi sentii avvampare il viso. Da parecchi giorni trascuravo fin di mandare a mia madre le brevi letterine con cui solevo darle mie notizie. Ella non si era mai lagnata della mia troppo prolungata assenza. Probabilmente non immaginava neppure dalla lontana a quali eccessi mi abbandonavo; probabilmente si augurava che la tumultuosa vita milanese servisse a distrarmi, e sopratutto a darmi quel senso pratico delle cose di cui difettavo. Ah, se avesse saputo!

—Mi ha scritto tua madre,—replicò Lostini.—Ti vorrebbe con lei nell'imminente anniversario….

Un improvviso groppo di pianto mi salì dal cuore alla gola.

In quel momento il cameriere mi annunciava la inaspettata visita del Bissi.

Mi buttai tra le braccia del mio amico, con un senso di rifugio, quasi chiedendogli protezione.

—Che cosa avviene?—egli domandò a Lostini.

—Una guarigione, se non mi inganno,—rispose questi commosso.

Aveva ricevuto una lettera di mia madre anche lui, e chiesto e ottenuto un permesso di otto giorni, era accorso a Milano.

—Milano, Dario mio, non è città pei sognatori come te. Avresti dovuto andare a Venezia. Là, chi non vi è nato, vive davvero come in sogno.

—Ha voluto conoscere un altro lato della vita,—rispose Lostini a Bissi che mi guardava stupito.—Ed è andato un po' in là. Dario è stato sempre eccessivo.

Feci uno sforzo per uscire dallo stato di prostrazione che mi teneva come istupidito davanti ai miei amici.

—È finita anche questa!—esclamai, tentando di sorridere.

E pensavo che aveva ragione Grigoni quando mi ripeteva che la vita ha qualche valore soltanto per chi è convinto che essa non ha nessun valore.

—No, Dario,—fece Bissi.—Niente finisce, tutto continua. La nostra esistenza è una evoluzione indefinita, un crescente germogliare di cose nuove da quelle che ci sembrano morte e rivivono sotto forma più perfetta; tu lo sai meglio di me.

—E qui consiste l'inganno! Non si dovrebbe tornar addietro; e invece io sono la dolorosa riprova che niente c'impedisce di cascare molto in basso.

—Hai tentato un'esperienza—disse Lostini.—L'eccesso non significa niente; tornerà l'equilibrio.

E da quel giorno mi sembrava di sentirmi liberare lentamente da nodi che mi avevano tenuto stretto e quasi imbavagliato. Riprendevo possesso della mia intelligenza, del mio cuore con commozione straordinaria. Una ventata di pazzia mi aveva certamente travolto, se ero potuto arrivare fino al punto di essere vicino a precipitare in un abisso di depravazione in cui sarei rimasto soffocato.

Ma assieme con questa immensa gioia di rivivere, quanta tristezza, quanto scoramento! Non potevo più illudermi intorno al mio avvenire; non mi balenava davanti agli occhi nessun elevato intento, nessun nobile scopo. Niente vedevo mutato nella mia sorte, nei miei sentimenti, nelle mie idee; c'era invece nella mia vita qualcosa, che non avrebbe dovuto mai esserci, una bassezza, un avvilimento, inutili anch'essi quanto l'orgoglio dei miei vani ideali!

XXIII.

Qualche cosa del nostro corpo e dell'anima nostra si espande forse attorno a noi e si attacca indelebilmente alle mura della casa che abbiamo lungamente abitata, agli oggetti di ogni sorta che ci hanno tenuto compagnia per tutta la vita e sono stati muti, inerti testimoni delle nostre gioie e dei nostri dolori.

Non so spiegarmi altrimenti le impressioni ricevute dopo solo sei mesi di assenza.

Mia madre, venuta ad incontrarmi all'arrivo, mi aveva abbracciato con straordinaria commozione.

—Sei stato malato?

Avevo tale cera da giustificare l'ansiosa domanda. Ero pallido, dimagrito, e la grande tristezza che non sapevo dissimulare aumentava la mia aria di sofferente.

—No, mamma—risposi.—Lo strapazzo del viaggio, la perdita del sonno…. Pochi giorni di riposo basteranno a rimettermi nello stato di prima.

Sorrideva, un po' incredula.

—Ero certa che ti saresti trovato qui per domani l'altro. Milano è città maliarda; fa dimenticare facilmente. Non ti rimprovero, Dario. Le mamme sono un po' egoiste; bisogna compatirle.

Con che dolcezza mi guardava e mi parlava! Sentivo rimorso di aver mentito, scrivendole che avevo pensato anche io di trovarmi presente al primo anniversario della morte di Fausta.

—Ho già disposto ogni cosa,—soggiunse.—Molti fiori, oh, molti! Li amava tanto! Durante questi sei mesi glien'ho portati io stessa ogni venerdì, giorno della sua morte. Non le mancheranno mai finchè campo….

E mi parve che intendesse di dire:

—Morta io, forse non li avrà più. Povera Fausta!

Volevo protestare; ma non ebbi animo di aggiungere una probabile menzogna a quella che le avevo scritto da Milano.

Passando da una stanza all'altra, quasi per istintiva sollecitudine di riprenderne possesso, provavo la strana sensazione di sentirmi risospingere molto addietro, agli anni più fecondi di illusioni, alle lotte contro me stesso, a quella specie di sottomissione a un ideale meno elevato, ma consolantissimo che mi aveva fatto stendere la mano a Colei che avrebbe dovuto avverare il mio nuovo sogno. E questa sensazione era così fresca, così «presente»—non trovo un'espressione più esatta—da farmi credere, come l'altra volta, che la mia vita si fosse arrestata a quel punto e che dovessi allora riprendere a procedere innanzi, quasi le delusioni non fossero arrivate, quasi il disastro non fosse avvenuto, ed io non avessi commesso l'atto disperato di tentar di ammazzarmi moralmente, non avendo forse il coraggio di ammazzarmi realmente.

Se non che notavo un particolare. Niente mi parlava di Fausta, come se ella sdegnasse di ripresentarsi alla mia mente, di far ripalpitare il mio cuore. Non la ritrovavo in nessun angolo di quella casa che pure era stata illuminata dai suoi sorrisi, che avea risonato della sua voce, delle sue gaie risate nei bei giorni dell'attesa.

Il suo salottino, che conservava qualche traccia di disordine nei libri, nei ninnoli, negli oggetti di arte, da dover dare la idea che ogni cosa fosse stata recentemente smossa dalla mano della signora del luogo, era significantemente silenzioso, di un silenzio inesprimibile, di un silenzio di orgoglio—mi pareva—e di dispetto.

I ritratti, belli, somigliantissimi, in varie pose, rimanevano muti anch'essi, come di persona ignota, di cui potevo ammirare la purezza delle linee, l'espressione degli occhi e delle labbra, senza che mi producessero la più lieve tristezza di ricordi.

Questa inaspettata aridità di cuore mi stupiva grandemente; non sapevo a che cosa attribuire l'impressione negativa di quei giorni, quantunque mia madre, immaginando di farmi piacere, mi parlasse spesso di Fausta, con voce piena di lacrime, con tenerezza profonda.

La giornata era grigia, senza sole. In quell'ora mattutina, pei viali del cimitero non si incontrava anima viva. Mia madre mi precedeva con passo affrettato. La modesta tomba di Fausta, era sparita sotto un gran cumulo di fiori; emergeva soltanto, tra le rose gialle e bianche, la breve colonnina sormontata da una piccola urna di porfido. Al cancello di ferro battuto si erano, torno torno, avviluppati rami di piante rampichine con penduli fiori di colore amaranto; otto grossi ceri già ardevano agli angoli.

Mentre mia madre, inginocchiata sul gradino sporgente dalla base pregava in gran raccoglimento, io, rimasto in piedi dietro a lei, mi sentivo invadere da un tormentoso senso di invidia per Colei che dormiva sotterra il sonno da cui nessuno si desta. Non riuscivo a immaginarmela disfatta, ridotta orrido scheletro, irriconoscibile. Ora mi si ripresentava proprio quale l'avevo veduta allora appena da me composta nella cassa mortuaria, col viso cereo, con gli occhi chiusi, e le labbra smorte, serena; e mi sembrava che avesse dovuto continuare a dormire, forse a sognare come io le avevo affettuosamente sussurrato nell'istante del distacco.

—Felice te!—pensavo.—Vorrei già poter dormirti accanto, ora che non ho più niente che mi lega alla vita!

E a poco a poco quel tormentoso senso di invidia si calmava per dar luogo a un sentimento di compassione di me stesso, che tornava a farmi zampillare nel cuore inaridito la sincera e copiosa onda di affetto di cui era stato capace negli ultimi mesi della vita di Fausta, quando l'avevo amata umanamente, senza sottintesi, senza secondi fini, per la sua bellezza, pel suo affetto, pel suo sacrifizio; e avevo tremato dall'angoscia di perderla, dal rimorso di aver affrettato sconsigliatamente la sua misera fine; e l'avevo pianta come non avevo mai pianto fino allora, nè dopo.

E così Colei, che nei giorni scorsi mi era parsa assente da ogni angolo della casa, rientrava trionfatrice nella riposta intimità dell'anima mia; consolatrice anche, suaditrice di andarle incontro con la stessa ferma volontà con la quale ella aveva affrontato il terribile enimma da cui dipendeva per lei la vita e la morte.

Mia madre mi rivolse un'occhiata supplicante, allorchè, rientrati in casa, le dissi:

—Lasciami qualche ora solo con lei!

Sentendomi parlare di Fausta come di persona ancora viva, ella esitò un istante, temendo forse per la mia ragione; la indifferenza dei giorni scorsi doveva esserle parsa uno sforzo per ingannarla intorno al vero stato dell'animo mio. La rassicurai con una stretta di mano; ed entrato nel salottino, chiusi l'uscio dietro a me.

Spalancai la finestra. Il sole, diradato il fitto velo di nuvole che lo aveva nascosto nella mattinata, penetrava nella stanza infondendo un palpito di vita su tutti gli oggetti sparsi attorno che la sapiente mano di Fausta aveva disposti sui tavolinetti, su le mensoline, alle pareti, con squisito senso di armonia. Fin i fiori, già inariditi nei vasi senz'acqua, sembravano rinverdire i brevi rami e rianimare il colorito delle foglie risecchite e ingiallite.

Non ostante la diffusa luce, io guardavo attorno come chi entrato in un luogo mezzo buio strizza gli occhi per scorgere gli oggetti che vi si trovano, e li vede a poco a poco quasi venir fuori dalla penombra per virtù di tenue propria luminosità. Non mi bastavano la forma, il colore degli oggetti; volevo che essi mi rivelassero qualcosa delle mani che li avevano toccati, e disposti qua e là: il profumo, la essenza vitale che avean dovuto rimanere attaccati ad essi nei ripetuti contatti.

E, quasi come una realtà, Fausta si aggirava pel salotto, ripetendo nella mia memoria gesti, atteggiamenti, mosse che ora mi rappresentavano tanti lieti e tristi momenti della nostra vita di sposi; si aggirava pel salotto, muta però, perchè io non riuscivo a produrmi, ricordando, l'illusione di udirne la voce, allo stesso modo che mi riproducevo un movimento delle mani, un passo, un sorriso, un balenar di occhi, un cruccio che le aveva velato improvvisamente la dolce serenità del viso, un'espressione di dolore che le aveva contratto le labbra.

Avrei voluto che mi fosse avvenuta una compiuta allucinazione; i soli ricordi non mi appagavano. E se, anche per un istante, avessi potuto vedermela comparire davanti, le avrei gridato:—Portami via, portami via con te! O dammi la forza di venir volontariamente a raggiungerti!

Era stata sublime. Se non era arrivata precisamente alla decisione di voler morire, aveva dato prova di eroico coraggio affrontando l'incognita del pericolo preavvisato dal dottore. Aveva dovuto dubitare qualche volta, e certamente esclamare:—Che importa? In ogni caso, meglio così!—Era stata sublime!

Io, invece, avevo commesso la vigliaccheria di rinnegare ogni mio ideale, la profanazione di stringere tra le braccia quasi consacrate dal suo bellissimo corpo, di baciare con le labbra che erano state ribaciate dalle sue, vilissimi corpi e impure labbra insozzati dell'imbrattamento di altri contatti non meno vili ed impuri. Mi sentivo soffocare dalla nausea di esser potuto giungere a tanto. La grande idealità che aveva rallegrato e confortato la mia giovinezza, che mi aveva preservato da ogni bassa azione ed era stata il mio unico grandissimo orgoglio, mi rigurgitava nuovamente nell'intelletto e nel cuore, operava nel mio spirito un misterioso purificamento, adempiva la redenzione iniziata poche ore addietro dall'influsso di Fausta davanti alla sua tomba infiorata.

Oh! Se lei non veniva a portarmi via, ora mi sentivo degno di andarle incontro nell'indefinita serenità dell'Ignoto, che in questo momento la fantasia mi animava, contro ogni mia convinzione, di persistenti forme di vita.

—Dario!—chiamò mia madre, picchiando leggermente all'uscio e aprendolo a mezzo.

Mi riscossi e le feci cenno di entrare.

—Senti:—disse dopo di aver guardato tristamente attorno.—Io credo che noi dobbiamo pensare ai nostri morti senza dolore e senza rimpianto. Se è vero, che essi ci stiano attorno, vivano, invisibili, la stessa vita di una volta o almeno ritornino di tanto in tanto per aiutarci e ispirarci qualche buona azione—ho questa fede, da donna mezza ignorante, e non la cambierei con la opposta certezza di voialtri sapienti—se ciò è vero, noi non dovremmo affliggerli con lo spettacolo di un dolore inconsolabile, che non giova ad essi nè a noi. Senti, Dario: tu mi dai una gran pena restando così chiuso con me; mi sento come esclusa dal tuo cuore.

—Oh, mamma!—esclamai.

—Poco fa,—ella proseguì,—hai avuto il coraggio di dirmi:—Lasciami solo con lei!—Perchè? Non le ho voluto bene anche io? Non l'ho pianta anche io? Parliamone insieme, Dario. Onoriamone la memoria con una bell'opera di carità. Ho fatto qualche cosa a tua insaputa, e non soltanto per conto mio. Prendi ora tu una generosa iniziativa.

—Ho pensato appunto a questo!—risposi, mascherando con un sorriso il tetro significato delle mie parole.

XXIV.

In pochi giorni l'idea del suicidio mi aveva talmente invasato, che io ne sentivo una specie di esaltazione, di ebbrezza gioconda. Non dovevo fare nessuno sforzo per ingannare mia madre e il signor Bardi che avevano voluto informarmi di alcuni particolari di amministrazione, e consultarmi intorno allo impiego di un grosso capitale inaspettatamente recuperato.

—Sono stato uno sciupone nei mesi scorsi,—avevo detto scherzando.

—Se tutti gli sciuponi somigliassero a lei! Di tanto in tanto è bene però dare una scossettina alle rendite, per impedire che ammuffiscano.

Era una delle tante curiose teoriche del signor Bardi. L'altra, più savia, era questa:

—Sapere come si fa il denaro è il miglior insegnamento per goderselo.

Io, secondo il signor Bardi, ero per ciò un cattivo goditore.

—Dovresti sollevarmi un po' dal peso della responsabilità….

—Quale responsabilità, mamma?—la interruppi.—Non ne hai nessuna. Tu sei padrona assoluta in questa casa, ed io mi stimo felicissimo di poter rimanere ancora figliuolo di famiglia e nient'altro.

L'idea della morte volontaria ha un fascino incredibile. Stordisce o annulla la nostra sensibilità; forse lusinga anche il nostro amor proprio o, meglio, la nostra vanità col farci credere superiori alla maggioranza degli uomini così attaccati alla vita. Quel che dà la spinta verso la morte è il meno, nella più gran parte dei casi. Il coraggio, la freddezza nell'esecuzione provengono dall'anestesia morale che tien dietro alla decisione di finirla con la esistenza. Non so spiegarmi altrimenti la serenità, la imperturbabilità con cui facevo i preparativi senza badare menomamente al dolore che avrei cagionato a mia madre, senza sentirmi commosso dalla vista della povera donna che mi voleva tanto bene e che aveva tanto sofferto per me. Pensavo solamente di evitarle lo spettacolo del mio corpo insanguinato; e per questo avevo risoluto di prendere il pretesto di andare a sorvegliare gli urgenti lavori di riparazione nella casa dei contadini a Villa Fausta. Precauzione superflua, perchè mia madre non aveva nessuna ragione di sospettare di me. Infatti non sospettò neppure quando io, sul punto di partire, l'abbracciai e la baciai con insolita insistenza.

Oh come mi parve che Fausta mi venisse incontro per l'ombrato viale! Oh come mi parve di rivederla sotto il portico, su per la rampe della scala esterna, o affacciata alla terrazza tra i vasi di azalee in fiore che la ornavano! Così l'avevo vista più volte in quel mese della luna di miele che rimaneva tuttavia il più puro, il più eccelso, il più commovente ricordo della mia vita coniugale.

E mi sembrava, nei primi momenti, che io fossi andato colà non per cercarvi la morte, ma per rivivervi quasi realmente, con l'immaginazione, le ore, i giorni, le settimane passativi insieme, a rinnovare con essi il mio cuore e la mia intelligenza, e a prendervi nuove forze per impiegare la vita in modo assai più degno che non pel passato.

E trascorsi tutta la giornata, cercando di qua e di là, frugando i posti consacrati dalle nostre deliziose passeggiate, dalle nostre soste sull'erba, all'ombra degli alberi e delle siepi; dolcemente scosso dalla scoperta di un fiore di campo nello stesso punto dove allora ne avevo raccolto uno simile per lei, contento di sedermi sul ciglione di un sentiero dove mi ero seduto accanto a lei; maravigliato di scorgere che l'aspetto dei luoghi e la vita vegetale erano poco o niente cambiati, quantunque già cominciassi a riprendere coscienza che intanto tutto era cambiato, e irrimediabilmente, dentro di me.

—Oh! signor Dario! Buon giorno!

Era il medico condotto di campagna, vecchietto grasso, rubicondo, sempre di buon umore, grande amico di mia madre da lui chiamata la «Tesoriera dei poveri», o pure il suo «braccio diritto» nelle opere di carità.

—Solo, questa volta? Peccato!

—Mia madre,—risposi,—mi ha investito delle sue funzioni di «Tesoriere»; disponga di me.

—Grazie pei malati. Ne ho parecchi. Cattiva stagione l'estate! Dominedio ha avuto torto di creare i contadini. Che cosa poteva costargli di far fruttificare la terra senza bisogno della mano dell'uomo? Lavorano peggio delle bestie, soffrono come le creature ragionevoli, e non sono interamente nè l'uno nè l'altro. Io che li pratico da quarant'anni ne so qualcosa.

—Le macchine,—dissi,—a poco a poco emanciperanno l'uomo dal lavoro manuale.

—Non me ne parli! Le hanno ridotte così perfette da sembrare che vogliano vendicarsi di essere costrette a lavorare per conto altrui; e di tanto in tanto storpiano, mutilano, stritolano un povero diavolo che non c'entra. Giusto un mese fa…. che orrore! Un misero padre di famiglia… Quella trebbiatrice ha qualche diavolo negli ingranaggi. Non è la prima volta…. Non me ne parli!

—E lei, sempre contento di vivere in campagna, tra' contadini?

—È il mio mestiere; non saprei farne altro. Ognuno deve fare quel che può, se vuol oprare un po' di bene. Io sarei stato un cattivo medico di città; sono troppo rozzo e troppo allegro. I contadini mi prendono come sono, ed io li ricambio della stessa moneta. Una buona parola, una barzelletta, certe volte, valgono meglio di una medicina. Per questo il farmacista mi vuol bene quanto il fumo agli occhi. I contadini mi compensano. Povera gente! Ma cominciano a guastarmeli. Non si contentano più del loro stato, messi su da certi apostoli…. Prima erano contadini, di padre in figlio, buoni fittavoli, buoni giornalieri…. È questo il gran guaio: non adattarsi alla propria sorte…. Si figuri me, se mi fossi messo in testa di voler essere professore di clinica! La mia felicità è stata di riconoscere che avrei potuto essere soltanto un mediocre medico condotto. Non l'ho sbagliata…. Salute, appetito, buon umore, e non importa se pochi quattrini. Svaghi? La caccia, la pesca con la lenza, quando i malati me lo permettono. Ho un roccolo famoso. Ma io chiacchiero, chiacchiero, e non ero venuto precisamente per questo. Appena seppi:—Alla Villa Fausta c'è gente—dissi: È arrivata la Tesoriera dei poveri…. E son venuto…. prima che si presentasse il parroco…. Mi fa la concorrenza…. E la signora Maria gli usa un po' di maggior riguardo, per via della veste. Si sa; coi servi di Dio…. Bisogna portar rispetto al cane per amor del padrone…. Lei faccia pure come la mamma: un po' a me, un po' a lui. Spesso ci troviamo attorno allo stesso letto di miseria, io pel corpo, colui per l'anima; e facciamo ognuno del nostro meglio. Quando mi accorgo che non c'è più speranza di guarigione, gli dico:—Tocca a lei!—E, poverino, li fa andar via contenti all'altro mondo, promettendo un paradiso, che sarebbe proprio un'infamia se non ci fosse, che ci sarà, spero…. quantunque, in certi momenti…. Non capisco, ecco, perchè il Signore non ha voluto darcene una piccola anticipazione anche quaggiù.

Non lo interrompevo. Quella figura tozza, un po' volgare, mi si trasformava sotto gli occhi, mi si spiritualizzava quasi, e per le cose che diceva, e per la giocondità con cui le diceva. Lo conoscevo da un pezzo; ma quando veniva a farci spesse visite, io lo lasciavo volentieri in compagnia di mia madre. La serenità, l'inesauribile buon umore di lui mi riuscivano, per le mie idee di allora, un pochino antipatici. E per ciò ora mi maravigliavo di stare ad ascoltarlo volentieri, e di sentirmi penetrare nell'animo conturbato qualcosa di quella sua semplice, dolce filosofia ch'egli metteva in pratica da tanti anni, che lo aveva fatto arrivare alla sana robusta vecchiezza, e gli permetteva di adempire, senza stancarsi, le gravi fatiche di quel che egli chiamava umilmente il suo mestiere.

Si era arrestato ridendo, per esclamare:

—Guardi: il mio concorrente!

Il parroco veniva verso di noi, con passi così frettolosi, che sembrava dovesse impigliarsi da un momento all'altro nella scolorita zimarra di mussola nera, stretta attorno al corpo lungo e magro. Invece di tricorno, portava calcato su la testa un rozzo cappellone di paglia. Salutava da lontano, agitando le braccia.

—Sta bene? E la signora Maria? Sente che caldo?… I miei poveri l'attendevano…. Io ho il brutto viziaccio di correre invece di camminare; non so frenare le gambe. Se avessi una giumenta come il nostro dottore…. La signora Maria non ci mancherà quest'anno, voglio augurarmi…. Le fa specie il mio cappellone di paglia?… Qui in campagna, possiamo permetterci tutto.

—L'abito non fa il monaco,—dissi io.

—Eh!… Lo fa, lo fa! Sembra una sciocchezza, ma se non avessi addosso questo straccio di zimarra, non mi stimerei prete neppure da me. Il dottore mi ha preceduto…. Ci sarà però qualcosina anche pei miei poveri….

—Perchè non dire: nostri?—fece il dottore.

—È vero. Ma, infine, essi non sono di nessuno, o di chi fa loro la carità…. Starebbero freschi se dovessero contare soltanto su noi!… Riparazioni, eh? Lavoro; è la miglior carità. Non umilia, non degrada. Io, se fossi signore, non darei un soldo di elemosina: lavoro, lavoro, lavoro; nient'altro.

—E a chi non può lavorare?

—Stia zitto, dottore; in famiglia c'è sempre qualcuno che può lavorare per gli altri. Dico bene, signor Dario? Non lavora anche lei, a modo suo? Siamo stati messi al mondo per fare ognuno qualcosa; tant'è vero, che chi non può e non sa fare il bene, fa il male, pur di non stare inoperoso, con le mani in mano.

—Oh, questo poi!—esclamò il dottore, dando in una delle sue rumorose risate.

—Non dovrebbe essere così, ma è così,—rispose il parroco.—Tante cose noi pensiamo che dovrebbero andare in un modo e, invece, vanno in un altro. Lei mi aveva dato per ispacciata la povera moglie di Testagrossa…. Io le ho amministrato il viatico e l'estrema unzione. Le hanno profittato meglio del chinino; non me lo aspettavo neppure io. La ho vista ora ora, davanti a l'uscio di casa; pettinava una bambina…. E i famosi uccelletti che mi ha promesso, da mangiare con la polenta?

Il parroco mi divertiva per quel passare da una cosa all'altra, senza transizioni, ruzzolando le parole con la stessa nervosità con cui moveva le gambe.

Egli e il dottore mi seguirono, invitati, fino alla villa. La serata era dolcissima. Mi sentivo compenetrato tutto dalla divina serenità della campagna. E quei due, così diversamente semplici, buoni e allegri, sotto il portico, attorno al tavolino di ferro coi bicchieri e due bottiglie di vino, ragionando, ridendo, mi producevano un inatteso sollievo, che somigliava a un soave sbalordimento.

Mi avevano guardato in viso un po' stupìti di quel che avevo dato in nome della «Tesoriera dei poveri».

—È anche troppo!—aveva esclamato il parroco, ringraziandomi.

—Non è mai troppo!—soggiunse il dottore ridendo.

Era già tardi quando andarono via, con quello splendido lume di luna piena che pareva piovesse calma e riposo dattorno. E quasi immediatamente fui ripreso dalla tristezza, dal cupo proposito per cui ero andato colà.

Perchè indugiavo? Perchè rimanevo alla finestra, dopo di averli accompagnati con l'occhio fino allo svolto della strada, laggiù? Perchè quel grido lontano della botta che interrompeva il gran silenzio notturno mi teneva intento ad ascoltarlo quasi potesse avere un qualche significato per me?

Avevo fatto un'opera buona a nome della mamma, e (quei due non se n'erano accorti) mi eran tremate le mani vuotando il portafoglio di tutti i biglietti di banca che mi trovavo per caso. Riflettevo.

—A quest'ora, certamente il suo pensiero è qui, ed io mi preparo ad abbandonarla!

La vedevo, con l'immaginazione, andare da una stanza all'altra, osservare attentamente ogni cosa, riparare un piccolo disordine, chiudere bene un uscio, borbottando, intanto, le preghiere della sera….

La botta continuava lo stridulo grido. Anch'essa vegliava, invocava forse il maschio; forse esprimeva soltanto un rudimentale sentimento di gioia per la frescura, pel silenzio, per la bianca luce lunare.

—Perchè indugiavo?

Pensavo a quel ritratto di Fausta che non avevo voluto portare con me per non far insospettire mia madre; sarebbe stato un atto così insolito! Eppure sentivo che, se lo avessi avuto sotto gli occhi, mi sarei deciso subito, senza esitare un istante, quasi per precipitarmi tra le braccia in attesa, o immergermi assieme con lei nella gran pace del Nulla.

Tornavo a pensare a quei due che adempivano modestamente, tranquillamente il loro dovere di uomini; consapevoli della loro pochezza, contenti del loro stato, come altri ne avevo osservati quella mattina, contadini, operai che lavoravano alacremente, cantando, scherzando, soffrendo in silenzio, accettando la vita quale l'avevano ricevuta in sorte, rendendosi utili a sè stessi ed agli altri, contribuendo, per quanto era in loro, al benessere comune.

Era forse la prima volta che osservavo questo? No. Ma allora sentivo un profondo disdegno per tutto quel che non era pensiero o opera di pensiero; non mi ero mai fermato a riflettere che tutte quelle creature umane condannate a rimanere nei bassi strati della vita sociale esercitavano una necessaria e benefica funzione, preparatrice di materiali, di alimenti a coloro che si trovavano destinati a funzioni più alte; e che questi, alla lor volta, lavoravano per quei pochi nei quali funzionava, per così dire, soltanto il cervello, artisti, scienziati, pensatori, e che erano la somma di tutte le altre attività, il resultato complesso di tante funzioni diverse ma indirizzate a unico fine.

E mi tornavano in mente le allegre parole del dottore:

—Si figuri me, se mi fossi messo in testa di voler essere professore di clinica!

Io avevo voluto tentare qualcosa di simile; e la mia superbia delusa mi spingeva a finirla con la vita!

Ma subito mi rimproveravo:

—Tu già ti lasci lusingare dalla vigliaccheria!

E subito rispondevo a me stesso:

—Non è forse maggiore vigliaccheria disertare dalla vita unicamente perchè essa non ha soddisfatto la tua vanità, il tuo orgoglio, i superbi tuoi sogni?

Mi sembrava impossibile che l'insegnamento, la salvezza, forse la redenzione, dovessero venirmi appunto dalle umili cose e dalle umili persone tanto da me misconosciute e disprezzate!

XXV.

All'alba, ero su l'alta terrazza della villa. Quattro anni addietro, dallo stesso posto, avevo avuto la gioia di assistere assieme con Fausta allo spuntare del sole, spettacolo nuovo per lei. L'avevo condotta lassù con strano senso di superstizione, per farla benedire dal sole appena uscita dal mio abbraccio nuziale, quasi il tepore di quei primi raggi dovesse investirla di vive forze cooperatici al gran mistero della concezione…. E la rivedevo come quella mattina, un po' pallida, un po' sbalordita del suo nuovo stato, sorridente, stretta al mio braccio; e mi sembrava di riudire le sue parole di esclamazione ammirativa:

—Oh, che bellezza! È una festa!…

E pensavo che quella festa si era ripetuta da allora in poi, indifferentemente ogni giorno, e che si sarebbe ripetuta ancora ogni giorno, per anni, per secoli indefiniti senza che le creature riflettano quali correnti di vita, quali correnti di pensiero arrivino ad esse con le vibrazioni di quella luce e le impressioni di quel calore!

Un irresistibile bisogno di aria libera, di frescura mi aveva spinto a salire su la terrazza. Venere scintillava nel cielo opalino; tutta la campagna attorno era ancora immersa nell'ombra, in una specie di torpore, di dormiveglia, di soddisfazione di benessere, e me ne sentivo compenetrare, quasi quello stato corrispondesse alla mia condizione interiore. Un senso di stanchezza, di prostrazione, era seguìto infatti all'esaltazione nervosa della giornata.

L'abbattimento però si accresceva di mano in mano che l'ampia vallata usciva dalla penombra, che l'orizzonte si tingeva di un roseo dorato, che i contorni dei monti e delle colline si accendevano ai primi raggi del sole quasi scoppiassero in fiamme al loro tocco, e tutta la campagna vibrava di sussurri, di canti di uccelli, in un delizioso fremito di risveglio che mi sembrava, più che un'irrisione, un rimprovero. Che cosa ero io venuto a fare colà, in mezzo a tanto rigoglio di vita, se neppure sapevo ritrovare in me la forza di darmi la morte, con orgoglioso gesto di rinunzia in faccia alla irragionevole prepotenza della Natura?

E non attesi che il sole si levasse alto su l'orizzonte.

Sul tavolino della mia camera luccicava il revolver, accanto ad esso era spiegato il foglio nel quale, all'arrivo, avevo scritto in fretta poche parole con cui chiedevo perdono a mia madre dell'atto disperato che stavo per compire. Mi parve di vedere la povera donna nel momento di leggerle, e mi sentii correre un brivido per tutta la persona. Strappai il foglio.

—Ormai!

Fu l'unica parola che mi sfuggì di bocca. E significava che la vita e la morte avevano lo stesso valore per me. Non dovevo riputarmi come morto da un pezzo?

I muratori erano già al lavoro sul tetto della casa del colono. Uno di essi cantava, interrompendosi per dire delle buffonate che facevano ridere gli altri. Li osservavo con tristezza compassionevole per quella loro serenità di creature umane, condannate a una esistenza quasi animalesca, senza barlume di pensiero.

Lavoravano intentamente a rizzare un muricciolo, sovrapponendo pietre su pietre, mattoni su mattoni, manovrando di cazzuola, e tutto il funzionamento del loro cervello si riduceva a quella misera opera di muratura…. Così, un po' più distante, sei contadini sarchiavano curvi, movendo in cadenza le braccia, sgretolando con le mani, di tratto in tratto, la terra smossa, e buttando via da parte qualche sasso, anch'essi condannati a un'esistenza quasi animalesca, senza barlume di pensiero.

E non era forse meglio per loro che fosse così?

—È la Provvidenza!—mi rispondeva poco dopo il parroco.

Andava attorno di buon'ora, sgambettando per le viottole, accompagnandosi coi contadini avviati al lavoro, dando consigli, facendo paternali, e tutto alla lesta, quasi avesse qualcuno che lo stimolasse col pungolo e lui volesse liberarsene.

Vistomi affacciato alla finestra mi aveva dato la voce.

—Bravo! L'occhio del padrone ingrassa il cavallo, come suol dirsi…. Ha dormito bene? Veggo che è mattiniero. Bravo! In campagna si va a letto coi polli…. ma ci è lo svegliarino dei galli e degli uccelli…. Sì, quel tetto pericolava; il rinforzo del muricciolo…. sì, sì. Fa bene a sorvegliare i lavoranti, anche a distanza. Non bisogna fidarsi troppo.

—Guardi. Povera gente!—risposi additando i sarchiatori.

—Perchè?

—Che colpe ha commesso da essere punita a quel modo?

—È la Provvidenza!

—Poteva, mi pare, provvedere altrimenti.

—Se non l'ha fatto, vuol dire che doveva essere così.

—Voi la proclamate onnipotente.

—La proclamiamo? È, figliuolo mio! È!… Ma già lei va d'accordo col dottore…. nelle stramberie. E ci vuol tanto poco a pensare giusto!

—Salga su, venga a prendere una tazza di caffè….

—Ecco la Provvidenza! Ieri ho finito la mia piccola provvista…. e per ciò sono uscito dalla canonica a stomaco vuoto; i fondi ribolliti non mi piacciono…. Neghi la Provvidenza se può!… Eh? Eh?

Mentre egli faceva il giro del muro di cinta per entrare dal cancello, io avevo fatto preparare nella sala da pranzo le tazze pel caffè.

—Anche i biscotti!—esclamò.—Mi vizia, come la sua mamma…. Le ha mandato i miei ossequi?… Il caffè bisogna prenderlo in piedi, sorseggiarlo, centellinarlo…. Squisito! Il mio è un lontano, molto lontano parente di questo…. Ma lo bevo e lo gusto lo stesso: tutto sta nell'abituarsi…. E lei dice male della Provvidenza!

—Ne dice male lei, attribuendole certi fatti…. Dandone la colpa al caso, che non sa quel che fa, e se sbaglia….

—Quistione di nomi. Noi diciamo Provvidenza, anche quando non sappiamo spiegarci la ragione dei suoi atti; li accettiamo quali sono, li rispettiamo, e la nostra ignoranza è confortata dalla Fede che la Provvidenza sa quel che fa e che fa tutto a fin di bene. Loro dicono Caso perchè non vogliono confessare la loro ignoranza, e trovano comodo di attribuire a un cieco tante belle cose che farebbero onore anche a chi possedesse quattro paia di occhi…. Un'altra tazzina? Volentieri…. Ben zuccherato; il caffè, dicono, così è più digestivo…. E poi rimettendoci alla Provvidenza, a Dio, noi viviamo tranquilli…. Loro, invece, si beccano il cervello e…. che cosa concludono?

—Il guaio è, caro don Luca, che la vita resta ugualmente una brutta cosa sia che la prepari la Provvidenza o ce la intrugli il Caso.

—E ne dice male, lei, lei a cui niente manca per essere felice?

—Crede che la felicità stia nei quattrini?

—No, perchè in tal caso io sarei tra i più disgraziati del mondo. La felicità sta nel contentarsi, nell'adoprare alla meglio tutti i mezzi che Dio ci ha messi a portata di mano. Quei contadini sarchiano, cosa che lei non sa fare nè può fare; non resisterebbe. Sarchiare per loro è come…. studiare per lei; come dir messa, recitar l'ufficio, confessare, portare il viatico…. per me; ognuno al suo posto; ogni frutto alla sua stagione…. Lei mi fa parlare, mi fa distrarre…. e questo è il quarto o quinto biscotto che mangio senza punto badarci….

—E non ci badi!

—Eh, no! Avrei fatto meglio a mettermeli in tasca e portarli a qualche povera malata; ne ho rimorso….

—Porti questi altri che rimangono.

—Ma allora la buona azione non la faccio io.

—Che importa? Purchè sia fatta!

—È vero…. E intanto non dica più che la vita è una brutta cosa. È quello che è; secondo si prende. E inoltre c'è la consolazione del compenso che riceveremo nell'altra….

—Ne è sicuro?

—Sicurissimo! Se non fosse così….

—E se davvero non fosse così?

—Dove vuol condurmi? Cotesti «se» non li ammetto. Se li ammettessi un solo istante, in certi momenti…. Dio me ne scampi…. non ci penserei due volte. Ma, no, no: la vita è bella anche quando…. è brutta. Se lo immagina lei il mondo senza la vita? Buio fitto, freddo intenso…. Eh, no! Questo bel sole, questo bel verde…. Ah! E quest'aria che rinfresca i polmoni…. Ah!

—E la Morte non la conta?

—Passaggio! Passaggio!… Un po' duro, se vuole…. specialmente quando bisogna farlo troppo presto, all'inaspettata…. Ma passaggio e niente altro…. E per ciò non è male portarsi via, nel mondo di là, un fagottino di buone azioni sotto braccio….

—Lei dunque fa il bene in vista della ricompensa che può venirle….

—Certamente, e mi astengo dal male pel castigo che mi attirerebbe addosso. Sono sincero. Coloro che dicono di fare il bene unicamente pel bene, se non mentiscono, sono illusi dalla loro vanità…. Ed ecco un sesto biscotto andato di mezzo! È un'indecenza…. Io non posso star fermo; mentre la lingua parla, le mani armeggiano, afferrano…. quasi quasi non lo finirei…. Ma che significa quel gran fumo laggiù… dietro gli ulivi?

E dopo aver guardato un momento, gridava a uno dei sarchiatori:

—Ehi! Pietro!… Corri, va' a vedute che cosa avviene nella fattoria dei Contardi…. Correte in due, in tre, per dar soccorso se mai!… Vado io, sarà meglio. Il fumo aumenta!…

—L'accompagno.

Stentavo a tenergli dietro. La fattoria dei Contardi distava dalla villa mezzo chilometro. Don Luca scavalcava viottole, improvvisava scorciatoie, saltava fossati, lasciando indietro me, i contadini, che pure correvano vedendo correre il loro parroco a cui volevano bene.

Ora si sentiva il crepitìo delle fiamme, e un grido invocante aiuto. Era la voce di un ragazzo che strillava, piangendo, spaventato, davanti a la casa che bruciava.

Bruciava da tutte le parti con terribile impeto. Globi nerissimi di fumo uscivano dalle finestre e dal tetto, lingue di fuoco vibravano tra il fumo, alimentate dal vento che sembrava vi soffiasse su con maligna violenza.

Al nostro arrivo, don Luca interrogava il ragazzo, s'interrompeva per chiamare i contadini che non rispondevano, tornava a interrogare quel poverino, guardiano di una mucca, e non riusciva a ottenere risposte concludenti.

—I tuoi padroni dove sono?

—Non lo so!

—Non li hai visti questa mattina?

—Non li ho visti.

—Li hai visti ieri sera?

—Non li ho visti.

Una gran confusione. Mancavano recipienti per l'acqua, mancavano scale, mancava tutto! Era difficile di accostarsi specialmente dalla parte davanti; le fiamme, il fumo che il vento spingeva da tutti i lati, in basso, quasi per tener discosta la gente che avrebbe voluto dare qualche soccorso, ci facevano rimanere spettatori del disastro, in attesa che i muratori e i contadini, spediti alla villa, portassero recipienti, scale, picconi.

Don Luca smaniava, alzava le braccia al cielo, si aggirava attorno a la casa, chiamando per nome il Contardi e sua moglie, che dovevano essere là dentro soffocati dal fumo e forse carbonizzati dal fuoco se non davano nessun segno di vita; forse erano andati in città, e questa ipotesi ci consolava.

Intanto parte del tetto crollava con gran fracasso; e parve per pochi minuti che il materiale di tegole e di calcinacci venuto giù attutisse l'incendio. Già ferveva l'opera di estinzione ora che dalla villa erano arrivati recipienti di ogni sorta. Venivano riempiti alla meglio attingendo acqua dal pozzo, e a una gora poco distante. Due scale erano state appoggiate a un albero, che il fumo avvolgeva tra le sue spire, e ai muratori montati fino agli ultimi scalini, i contadini, don Luca ed io porgevamo i secchi e le brocche ripiene che quelli si sforzavano di vuotare su i muri, su le imposte delle finestre mezzo consumate, dentro quella voragine apertasi al crollo di parte del tetto.

Duo o tre volte i muratori avevano dovuto scendere per non essere soffocati dal fumo, sostituiti subito dai contadini. Don Luca, buttata via la zimarra, era montato su anche lui, per dare l'esempio, esortando con la voce arrochita, mostrando un'agile forza proprio straordinaria per la sua età. Pensava, anche a me:

—Lasci fare; non si affatichi…. Vede?

Avevo rovesciato un secchio nel fare lo sforzo di porgerlo al contadino in basso della scala….

—Regoli meglio la catena!… Passando da una mano all'altra secchi, orci, brocche, si fa più presto….

Le mura fumigavano, ma le fiamme già si abbassavano….

Mi era parso di udire un grido, di sentir picchiare; in una grata…. Ed ero accorso dietro la casa. C'era una sola finestra in alto, da dove usciva poco fumo; e tra quel fumo, due manine che picchiavano con una chiave, e una figurina incerta tra il fumo che, mezzo soffocata, poteva appena gridare.

—La ragazzina! La ragazzina!…

Don Luca saltò giù dalla scala col pericolo di fiaccarsi il collo.

Anche oggi io ho un'idea molto confusa di quel che oprai in quel momento. Ricordo soltanto che mi sentii preso da un impeto di vigoria e di coraggio, che respinsi bruscamente don Luca e un muratore che volevano impedirmi di afferrare una scala. Ricordo il mio grido:

—Il piccone! Il piccone!

E mi rivedo, come in un sogno, arrampicato alla scala, dar furibondi colpi per scassinare la grata. Il fumo aumentava, mi accecava. Dietro la grata, aggrappata ad essa, con gli occhi atterriti, il respiro affannato, intravedevo la ragazzina che pareva stentasse a reggersi. Ah, quella maledettissima grata come resisteva!… Finalmente!… Da una sola parte però…. La spinsi indietro, per aprire un varco alla ragazza…. E gettai un urlo di orrore! La poverina non aveva potuto reggersi più!

Ricordo soltanto che, tardi, a notte avanzata, mi svegliai quasi da sonno profondo, che avevo la testa fasciata, che mia madre, il dottore e il parroco mi stavano ansiosamente dattorno, e che il dottore mi disse:

—Non è niente!

—Sì, Dario; fortunatamente, non è niente!—soggiunse mia madre.

E le tremava la voce.

XXVI.

—E la ragazzina?—domandai.

—Salva!—rispose don Luca.—Lei si è già conquistato un bel posticino in Paradiso. Non sorrida; si va in Paradiso anche senza volerlo, e senza saperlo, quando si fanno opere buone. C'è lassù Chi tutto vede, e premia e gastiga…. Ma è inutile, io predico per abitudine; bisogna tollerarmi…. E lei, dottore, su, come spiega il fenomeno della signora che si sente ispirata ad accorrere qui?

—Io non ho l'obbligo di spiegare; mi basta il fatto, che non è nuovo, che accade anzi tutti i giorni…. Presentimento…. Vuol vederci un miracolo?…

—Tutto è miracolo!

—Allora!… Tutto è naturale; è lo stesso.

La ferita alla testa, quantunque non grave, mi aveva dato però un po' di febbre. Don Luca, in piedi davanti al letto, raccontava a mia madre quel che era, avvenuto. Mi ero precipitato dentro, dietro la ragazzina quasi soffocata….

—Ah, signora mia!… È stato un momento…. un momento!… Si figuri…. Mi è fin scappata di bocca una parolaccia…. In certe circostanze, uno non sa più quel che si dica….. Avrei voluto veder lei, dottore!… Se si tardava soli dieci minuti, invece di due si avrebbero avute quattro vittime…. Quei poveri Contardi! Irriconoscibili…. Un orrore! Li avrò davanti agli occhi fin che campo…. E ne ho visti morti! Ammazzati, annegati, stritolati da carri; di ogni specie. Ma questi qui, specialmente l'uomo!… E ora dovremo pensare per l'orfanella. Non le è rimasto neppure un cencio….

Mia madre era così commossa, così sbalordita, dal pericolo da me corso, che rispondeva soltanto con movimenti affermativi del capo. Io pensavo tristamente:

—Peccato! Sarebbe stata finita!

E socchiudevo gli occhi fantasticando:

—A quest'ora starei steso su questo letto, freddo, inerte, forse sfigurato, e non vedrei, non udrei niente, e sarebbe calato il sipario su la commedia o tragedia della mia vita; tragedia piuttosto che commedia…. E sarei morto almeno facendo un atto di energia…. inutile, come tutto quel che ho tentato finora; mentre ora dovrò ricominciare da capo a trascinarmi simile a un fantasma in mezzo all'attività che mi circonda. Che cosa vuoi farci? Ne avrai ancora per un po'; continua a rappresentare la tua parte di fantasma, rappresentala bene…!

E feci un involontario gesto di sconforto.

—Ti dà molta noia la ferita?

—No, mamma! Riflettevo….

—È meglio che non affatichi la mente—intervenne il dottore.—Ne avrà per una settimana. La febbre è in decrescenza. Sono un po' in pensiero per la ragazzina. L'asfissia, anche non inoltrata, lascia dei disturbi nella circolazione del sangue; è una specie di avvelenamento. E poi, è così gracile, così patita quella poverina! Chi sa dove le par di essere? Guarda attorno nella camera, stupita di veder i fiori della tappezzeria, i bei mobili, il grande specchio dell'armadio, i quadretti alle pareti….—E la mamma? E il babbo?—mi ha domandato timidamente. Le ho risposto:—Sono andati al paese; torneranno tra due giorni.—E stavo per dirle:—Avrai un'altra mamma, anche migliore della tua!

—Le mamme sono tutte uguali.

—Così fosse! L'amore materno è una delle tante generalizzazioni di cui non sappiamo disfarci. Conosco mamme così crudeli e spietate verso i loro figli, che il paragonarle con le tigri…. sarebbe un'offesa per le tigri. La Contardi non era precisamente di queste; la miseria però l'aveva inasprita. Da due anni a questa parte poi, in seguito a un aborto, era anche malandata di salute; e la ragazza, poverina, scontava ogni cosa. Quando don Luca dice: La Religione! Costei aveva la casa piena di santi appiccicati ai muri; teneva accesa la lampadina a non so quale madonna,…

—Sarebbe stata peggio, se non fosse stata credente,—lo interruppe don Luca.

—Era peggio a bastanza; ma non sparliamo dei morti.

—E non diciamo male della Provvidenza,—dissi io, ridendo,—se no, don Luca si arrabbia!

—Ma che cosa s'immagina? Che io non ne senta dir male anche dai miei parrocchiani? Questi qui però li compatisco; sono ignoranti, e poi non ragionano, parlano per impeto di sentimento, in certe circostanze…. e dopo vengono a confessarsi. Senta: anni fa una povera vedova perdè l'unico figliuolo di vent'anni, un giovanone più alto di me, un gigante; pareva scoppiasse di salute e di forza, e una febbre maligna glielo portò via in tre giorni. Da allora in poi non la vidi più venire a messa le domeniche, nè a nessuna funzione religiosa. Un giorno, incontratala per caso da una sua parente, tentai di consolarla esortandola a rassegnarsi alla volontà di Dio. Scattò da sedere…. Bisogna averla veduta, per figurarsi quella persona, vestita tutta di nero, pallida, con le braccia in alto, imprecanti, la voce ferma, la parola impetuosa a tu per tu con Domeneddio che le aveva tolto il figliuolo.—Un'infamia!… Glielo grido in faccia! Che m'importa se mi manda all'inferno? Non lo sapeva che non ne avevo un altro? Non lo sapeva che era la colonna della mia casa?…—Io non osai d'interromperla. E quando si lasciò cascare, quasi sfinita, su la seggiola, per poco non le diedi ragione, così eloquente, così furioso era stato lo sfogo di quella madre desolata. Capisce? A me fa rabbia il freddo ragionamento che sragiona.

—Ma così—esclamò il dottore—si giustifica tutto, anche l'incendio e la disgrazia di ieri l'altro! Se la moglie…. No, non diciamo male dei morti. Ma il povero Contardi era buono, lavoratore onestissimo. E la ragazzina? Che peccati può aver commessi la ragazzina?

—Sono in due contro di me, cara signora; ed io non voglio sprecare il mio fiato. Mi basta di aver lei dalla mia parte. Dobbiamo pensare all'orfanella; metterla in un ricovero….

—Non c'è fretta,—rispose mia madre.

E appena, fummo soli, soggiunse:

—Per ora la terremo con noi. Sarà l'opera di carità, con cui potremo onorare la memoria di Fausta. Te l'ho accennata l'altra volta; ma allora non avevo nessuna idea concreta…. E ancora non ti ho raccontato i particolari del mio incredibile presentimento. Avevo dormito male la notte avanti; un'irrequietezza insolita mi scoteva dal sonno quasi di soprassalto. Mi ero alzata dal letto di buon'ora, con un'oppressione al cuore, con una angoscia sorda sorda che mi spingeva ad aggirarmi per le stanze senza scopo; così ero entrata, nel salotto di Fausta. È la mia cappella familiare; vo a pregarvi ogni giorno, in comunione con la nostra cara morta. Tutt'a un tratto…. non saprei dire se abbia udito davvero una voce fievolissima o se le parole mi siano risonate nel cervello proprio come quando noi ricordiamo la voce di qualcuno…. Tutt'a un tratto, insomma, mi parve di sentirmi dire da Fausta:—Dario vuol venire con me! Dario è in pericolo!—Forse mi esprimo male; era un sentimento confuso, forte, quasi violento…. E non potei più stare su le mosse. Volevo mandar a chiamare il signor Bardi; ma sentivo che non dovevo frapporre nessun indugio. Quell'agitazione così insolita, così persistente….

—Oh, mamma!… Perdonami! Hai indovinato! Perdonami! Ero venuto qui con un pazzo proposito…. Perdonami, mamma!

—Dario! Dario!… E non pensavi…?

—Non più, mamma! Ora voglio vivere per te, qualunque sia la vita che mi si prepara. Mi sono già rassegnato. Mi rassegno! Perdonami, mamma!

Ripetevo queste parole affannosamente, invocando una risposta. La povera donna sembrava atterrita dalla mia rivelazione. Rizzatasi da sedere, stringendo le mani con le dita conserte, mi guardava senza poter pronunziare altro che il mio nome; e c'era nella voce tanta angoscia, tale accento di rimprovero da farmi pentire di essere stato sincero.

—Da oggi in poi,—disse quasi balbettando,—non potrò più stare tranquilla…. Giurami, Dario…!

—Lo giuro a te…. e a Fausta!—risposi.

E le apersi le braccia.

La mia ferita si era rimarginata più presto che il dottore non prevedesse. Stava bene anche l'orfanella. Mia madre aveva provveduto a rivestirla, ma non a lutto. Don Luca si era incaricato di comunicarle la disgrazia che l'aveva colpita, ed ella aveva accolto la notizia con stupore, senza lacrime, esclamando:

—Ed ora…. come faccio? Ed ora…. come faccio?

—Non dubitare, la Madonna ti aiuterà.

Ripulita, ravviata, sembrava un'altra. Era esile, bionda, con un profilino delicato, occhi cilestri, bocca piccola, con labbra un po' tumide, e un'espressione di sgomento che le faceva fissare gli occhi su le persone e le cose, quasi ancora non credesse a quel che era accaduto e a quel che accadeva attorno a sè.

Mia madre la incoraggiava con le parole e con le carezze.

—Come ti chiami?

—Rosa.

—Vuoi restare con noi?

—Se mi vogliono…. Che ne so?

—Resterai con noi; verrai con noi in città.

Io sentivo una lieve tenerezza, pensando che quella ragazzina era viva per me. La interrogavo anch'io, quasi in qualche modo mi appartenesse.

Passato il primo sbalordimento, pensando ai suoi genitori, ella piangeva zitta zitta.

—Non devi piangere più. Quanti anni hai?

—Dieci anni—mi rispondeva, asciugandosi le lacrime col grembiulino.

—Che cosa facevi a casa tua?

—Davo il becchime alle galline, governavo il porcellino, accendevo il fuoco, raccoglievo la legna….

—Non farai niente di tutto questo. Ti piace?

—Che ne so?

Il giorno precedente al nostro ritorno in città, avevamo a desinare don Luca e il dottore. Rosa sedeva tra mia madre e me.

—Già sembra della famiglia!—esclamò il parroco.

—I bambini si adattano subito. La Natura li protegge.

—Diciamo la Natura!—replicò ironicamente don Luca al dottore.

—Oggi, niente discussioni,—dissi.—Ho una lieta notizia da dare; e tu, mamma, mi scuserai se non ti ho messo a parte anticipatamente di quel che sto per annunziare; ne sarai, forse, un po' maravigliata, ma il tuo cuore sussulterà di gioia. Noi adotteremo Rosa!

Don Luca e il dottore si rizzarono in piedi, battendo le mani, gridando:—Bravo! Bravo!

—Io non so quali formalità legali occorrano per quest'atto. Consulteremo un avvocato. Intanto l'adozione è già fatta dal cuore; è l'essenziale e l'importante. Di', mamma, pensavi tu a questo parlandomi di un'opera, di carità in omaggio della memoria di Fausta? Se sì, sono lietissimo di aver interpretato il tuo sentimento.

—No, Dario; io non arrivavo fino a questo; ma approvo, commossa, la tua idea. Almeno tu ed io avremo una bella ragione di vivere, tu specialmente.

—Io specialmente, dici bene!—risposi con espressione di grande tristezza.

In quel momento mi parve che lo stuolo di tutti i miei sogni mi passasse davanti agli occhi, fuggendo via come uno stormo di uccelli migratori, in cerca di miglior stagione e di suolo più clemente.

Dicono che coloro che stanno pur morire annegati, abbiano una rapidissima visione degli avvenimenti della loro esistenza, rivivendola in pochi istanti con tutti i più minuti particolari. Qualcosa di simile accadeva in me, mentre ripetevo le ultime parole di mia madre: Io specialmente! E mi sembrava di sentirmi sprofondare a poco a poco in fondo a un abisso silenzioso, proprio in fondo a un oceano stranamente illuminato dai raggi del sole che stentavano a penetrare tra i verdi mobili riflessi delle acque.

Quando mi destai da questa specie di sogno, ebbi la paurosa impressione di essere diventato un altro. Certi sentimenti, certe idee, certi sogni anche, formano così gran parte della nostra individualità, da far provare la impressione di uno strappo di carne viva, da darci la sensazione dello sprizzar del sangue da larga ferita quando avviene qualcosa che abbatte dentro di noi tutto il passato e ci fa scorgere l'aridità del presente e l'inanità del futuro.

Tutta la mia vita ormai si riduceva a un'opera di carità, all'adozione di quella gracile creaturina che aveva già conosciuto dolori, avvilimenti, miserie la cui impronta forse sarebbe rimasta visibile, non ostante le amorose cure che mia madre ed io le avremmo prodigate.

—Hai capito?—le diceva don Luca.—Da ora innanzi la tua nuova mamma sarà questa buona signora, e questo signore sarà il tuo nuovo babbo. E tu diventerai una signorina. Dovrai voler bene a tutti e due, obbedirli in tutto, se no ti rimanderanno in campagna a far la vita che hai fatto, peggio anzi; dovrai andare a servire, comandata da padroni che non ti useranno riguardi. Hai capito? Hai capito?

La poverina lo guardava spalancando gli occhi, con un sorriso di stupore che dimostrava com'ella non avesse compreso chiaramente il gran mutamento avvenuto nella sua sorte; qualcosa però avevo compreso a modo suo, mentre le mani di mia madre le accarezzavano la testa, delicatamente, passando e ripassando su i capelli già domati dal pettine. Ed ebbe un inatteso slancio, si lasciò scivolare dalla seggiola, ginocchioni accanto a mia madre e cominciò a baciarle le mani che cercavano di sollevarla.

—Bada,—le dissi:—non ti chiamerai più Rosa, ma Fausta.

E volli baciarla e accarezzarla anch'io.

Mia madre, colpita dal tono un po' enigmatico con cui avevo pronunziato queste parole, mi guardò intentamente e mosse le labbra, per farmi una domanda. Non disse motto, e gliene fui grato.

—È strano!—esclamò il dottore, facendo uno sforzo per nascondere la commozione.—La gioia stimola l'appetito. Io ricomincerei a mangiare.

Ma il buon vecchio si levava intanto da tavola, e non finiva neppur di bere il vino che si era versato.

XXVII.

Mia madre si era accorta che io agivo per impulso di un esaltamento probabilmente morboso e ne rimaneva impensierita. Infatti in quei giorni ero nervosissimo, eccitabilissimo. L'articolo 202 del Codice civile che metteva un insormontabile divieto all'atto di adozione, almeno per allora, mi sembrava una nuova infamia del destino contro di me.

—Ebbene, che importa? Attenderemo,—disse mia madre.—Nessuno però può impedirci di agire come se l'adozione fosse avvenuta.

Il signor Bardi non approvava la mia intenzione, e sosteneva che la legge, in questo caso, operava saggiamente.

—È una sopraffazione!—esclamavo io.

—È una tutela!—ripicchiava il signor Bardi.—Fingiamo, per poco, che la condizione di aver compiuti i cinquant'anni non esistesse. Tra uno, cinque, dieci anni, potrebbe venirti l'idea di riprender moglie; e tu ti troveresti su le braccia una figlia non tua, che i figli legittimi non vedrebbero certamente di buon occhio.

—L'ipotesi è assurda,—risposi.—L'adozione sarebbe anzi un ostacolo, che con me poi non occorre. L'ostacolo consiste nella mia volontà.

—Caro Dario, la volontà non comanda, obbedisce. Comandano la passione, il capriccio, le circostanze sociali; e per ciò noi troviamo sempre pronta una scusa per tutti i nostri mutamenti di condotta. È vero; tu sei savio, ma la vita, spessissimo, è più savia di noi…. quando non è pazza addirittura. In tutto, come negli affari, è prudente non impegnarsi troppo. È l'assioma praticato da tuo padre, che se ne trovò sempre bene. Ma noi facciamo una vana discussione. Il Codice civile pensa appunto per tutti coloro che non possono pensare. Tu intanto avrai tempo di riflettere; e dice bene tua madre, niente t'impedisce di operare come se l'adozione fosse avvenuta.

—È una sopraffazione della società che si sostituisce al diritto individuale! Barbarie di legislazione pagana! Rimasuglio di prepotenza medioevale!

Parlavo concitato, quasi la sopraffazione venisse dal povero signor Bardi che infine, se fosse dipeso da lui, sarebbe stato lietissimo di accontentarmi a dispetto di quell'articolo del Codice, pur di evitare a me e a mia madre la contrarietà che ci affliggeva.

Sì, noi potevamo operare come se l'adozione avesse ottenuto tutte le sanzioni richieste dalla legge; ma era una finzione, non una realtà; e questo m'indignava, quasi da un momento all'altro avesse potuto sopraggiungere qualcuno e rapirmi la bambina che ormai mi sembrava m'appartenesse perchè salvata col pericolo della mia vita.

—Tu sei eccessivo,—mi diceva mia madre.—O tutto o niente è una bella insegna, non lo nego; ma quando non è possibile ottener tutto, è bene contentarsi di qualcosa che sarà sempre meglio del niente. Un grande ambizioso, un forte può adottarla e metterla in atto; può adottarla però anche un poltrone, e trovarvi il pretesto di non far nulla.

—Sono ambizioso, orgoglioso, mamma; ma non più come prima. Tu lo vedi a che cosa mi rassegno: a beneficare una creaturina, a fare anche opera di espiazione per la memoria della povera Fausta! Io non la ho amata quanto meritava, quanto dovevo; l'ho fatta soffrire, mamma! Forse ella è morta non tanto per un difetto dell'organismo, quanto per l'immenso dolore di non essere riuscita ad imporsi al mio cuore…. Oh, mamma! Tu non sai; forse sai, e temi di accrescere il mio rimorso dandomi ragione. La ho amata quando non ero più in circostanza di consolarla, di compensarla; ho commesso l'infamia, per disperazione, di tentar di dimenticarla. Tu non sai, mamma! Tu non sai! Voglio punirmi, voglio redimermi…. E voglio pure, mamma, crearmi ancora un sogno nella vita, un'illusione, fosse pure a costo di rimpiangere, dopo, di non aver saputo resistere alla seduzione di esso nè alla fallace malìa di quella. E saranno nello stesso tempo sogno e illusione anche tuoi. Mi aiuterai almeno a produrmelo, a foggiarmela. In Rosa dovrà rivivere Fausta. Dobbiamo farne una creatura di bontà, d'intelligenza, di bellezza; e sarà in gran parte opera tua. Hai già cominciato. Io ammiro il miracolo di trasformazione che hai saputo produrre. Chi non l'ha conosciuta quando era una misera contadinella sfigurata dagli stenti e dalle fatiche, non potrà credere che Rosa non è stata sempre quel fiore di grazia timida e inconsapevole che rallegra oggi la nostra casa. E sono passati appena dieci mesi!

—Quando torneremo a Villa Fausta, don Luca e il dottore non la riconosceranno.

—Certamente. E mi piace che perdurino in lei, che quasi resistano un po', certe mosse, certi piccoli impeti selvaggi. Usufruiremo anche di queste forze nell'educarla.

—Tu però la vizii un po', condiscendendola in tutto.

—Penso a quel che ha sofferto.

Non mi accorgevo di ricadere nell'eccesso che aveva contristato tutta la mia vita. Volevo da questa sempre qualcosa di più che non potesse darmi. Dovevo esser io il dominatore, il creatore; sotto forme diverse, per scopi diversi, la mia stolta ambizione era quella di imprimere l'impronta del mio spirito nelle persone e nelle cose delle quali m'interessavo. Tardi, molto tardi, ho finalmente compreso che l'opera dell'intelligenza riesce efficace soltanto quando l'uomo intende il preciso valore delle sue facoltà, e sa adoprarle secondo la loro potenza, secondo il loro sviluppo. Quanti spostati di meno, se tutti avessimo questa coscienza! E, forse, anche questa mia ultima convinzione è sbagliata. Ogni individuo è, probabilmente, un tentativo della Natura per attingere la forma perfetta della specie; c'è dentro di ognuno di noi la forza impellente del tentativo, e, fuori, l'ostacolo delle circostanze, del Caso…. E così tutti i mezzi-artisti, i mezzi-scienziati, i mezzi-uomini politici, tutte le mille mediocrità che ingombrano il mondo vengono giustificati davanti alla riflessione, ma non per questo soffrono meno, e fanno soffrir meno gli altri. La gran sapienza consisterebbe nel rassegnarsi, nel limitarsi ad essere quel che le circostanze esteriori ci costringono ad essere. Ed, ecco, pure in questo momento mi abbandono alla Sirena dell'astrazione che è stata la mia malefica Fata!

Malefica? Chi lo sa? Pensare è agire. Perseguire un ideale e non raggiungerlo mai, è godimento ineffabile; e in questo caso—non sembri contradizione—fin la sofferenza può mutarsi in godimento, ripensandola.

In quei giorni m'isolavo sempre più, dedicato interamente alla nuova creazione intrapresa. Assistere al risveglio dell'organismo di Fausta—più non chiamavo Rosa col suo nome di battesimo e godevo ch'ella se ne compiacesse—assistere alle continue manifestazioni del suo spirito in formazione, che talvolta erano deliziose sorprese per un osservatore attento come me, bastava a riempire le mie giornate, quando ero stanco di leggere o di occuparmi di affari, da che il signor Bardi si ostinava a volermi informare dei misteri—diceva così—dell'amministrazione dei miei beni, pel caso ch'egli dovesse rinunziare al suo incarico o venisse a mancarmi.

Povero signor Bardi! Era invecchiato, molto stanco, e una lenta malattia viscerale gli minava la salute. Mia madre ed io gli volevamo bene per la sua onestà, per quel che di sornione e di gioviale che gli si leggeva in viso.

—Bisogna prepararsi ad andarsene e tener pronta la valigia, per non esser colti alla sprovveduta. È vero che con la morte non c'è pericolo di perdere il treno!

E rideva.

—Ma come le passano per la testa queste malinconie?

—Per forza. Quasi ogni giorno, cara signora, mi capita di sentire che un amico, un conoscente—di quelli che son cresciuti con me….—E fa impressione. Spariti, portati via da una febbre, da un colpo…. Il tale? Ma siamo stati insieme sere fa…. Il tal altro?… È naturale che si pensi: Verrà presto la mia volta!… Oh, non me ne affliggo. La mia esistenza non è stata cattiva; ho goduto un pochino; ho pure penato…. Ma infine…. Posso andarmene tranquillamente, coi miei conti sottobraccio, per presentarli al Gran Giudice di lassù. Li troverà in regola? Spero.

E rideva.

Povero signor Bardi! Tre mesi dopo era andato serenamente a sottomettere i suoi conti al Gran Giudice di lassù, come aveva, detto, scherzando. Ed oggi, io credo che il Gran Giudice li ha trovati in piena regola. Ma allora, quasi per attutire il dolore della sua perdita, dissi a mia madre:

—Come sarà rimasto male il signor Bardi non trovando di là il Gran Giudice revisore dei conti degli uomini!

—Oh, Dario!—fece mia madre.—Non celiare su certi soggetti. Rispetta le credenze e i sentimenti altrui. Tuo padre credeva in Dio; ci credo ciecamente anch'io, lo sai. Comprendo: l'amarezza che ti trabocca dal cuore ti spinge a parlare così. Non voglio che Fausta senta qualcosa di simile dalle tue labbra. La turberesti crudelmente.

—Hai ragione,—risposi mortificato.—Non mi accadrà più!

Assistevo ai progressi di Fausta come al lento sbocciare di un fiore di cui non si conoscono la forma e le tinte. La sua timidezza mi incantava; la sua vita si riduceva a una continua sorpresa davanti alle cose, a una specie di stordimento che la teneva per alcuni istanti perplessa e poi la faceva scattare in sussulti di gioia. Ho notato, giorno per giorno, le più minute osservazioni, i fatti più insignificanti che assumevano grande importanza perchè riguardavano un cuore e uno spirito, che pure talvolta si chiudevano inconsapevolmente, istintivamente, e si rendevano impenetrabili. Ed io rimanevo deluso e turbato davanti al mistero dell'avvenire di quella creatura che così si sottraeva all'influenza mia e di mia madre, quando più ci lusingavamo di averla compenetrata e domata. Riflettendo però, ero contento di vederla agire liberamente, di vederla riapparire quasi subito piena di tenerezza, di effusione, di gratitudine, di sentirla esprimere con parole di una semplicità così profonda da far dubitare che fossero sue.

Grande consolazione era per me il rifiorire di una seconda giovinezza che avveniva in mia madre, quasi il contatto con quella fresca adolescenza partecipasse anche a lei liete correnti di energie.

Gli anni intanto passavano. A intervalli, sentivo rinascere nel mio cuore qualche bell'entusiasmo, mi accasciavo con rapida vicenda sotto il peso della delusione di vederlo svanire; e mi confermavo sempre più nel convincimento che fossi destinato a qualche inesplicabile funzione con quell'accogliere, con quel ruminare tanti sentimenti, tante idee che a me sembravano inutili perchè non approdavano a niente e che forse, nel vasto organismo della società, servivano, senza che io ne avessi coscienza, a qualche remoto scopo che non mi era permesso di intendere.

E fantasticavo:

—Che misere creature noi siamo! Crediamo di agire per conto nostro, secondo i fini calcoli del nostro orgoglio, del nostro amor proprio…. E quando più stimiamo di aver servito il nostro interesse, di aver soddisfatto il nostro orgoglio, ci accorgiamo finalmente che abbiamo lavorato per tutt'altro!

Così, più tardi, ho sentito il bisogno di riandare il mio passato, di fissarlo nei suoi tratti principali, con queste pagine schiette e sincere; e lascerò al Bissi la cura di pubblicarle dopo la mia morte, se crederà che possano interessare e giovare a qualcuno.

Glielo dissi quella volta ch'egli venne a passare un mese a Villa Fausta per la villeggiatura di autunno.

Bissi aveva rinunciato all'impiego; i suoi libri gli davano, se non la ricchezza, un po' di agiatezza. Si era fatto fabbricare un delizioso villino in un paesetto della Riviera Ligure, e vi passava l'inverno e la primavera, lavorando in invidiabile solitudine, interrotta da brevi corse a Milano e a Venezia. Era divenuto tutto grigio, ma il volto e l'aria della persona conservavano una freschezza virile, e l'agilità di parola e di gesto della sua bella giovinezza. Io sembravo un vecchio accanto a lui, ed eravamo della stessa età. Egli viveva tutt'assorto nel suo gran sogno artistico, producendo regolarmente uno o due volumi all'anno che circondavano di gloria il suo nome anche fuori d'Italia; e quella vita di lavoro e d'isolamento avea lasciato intatta l'indole modesta, ritrosa, che me lo faceva prediligere tra i miei compagni di studi, quando sognavo inutilmente anche io e soffrivo per la coscienza dei miei vacui tentativi.

Lo vidi arrossire come un fanciullo sentendosi dire da Fausta:

—Come è bello il suo ultimo romanzo!

—Le hai permesso di leggerlo?—mi domandò maravigliato.

—Mi permettono di legger tutto; non sono più una bambina,—rispose Fausta.

—Veramente, io….—intervenne mia madre.—Ma Dario pensa che i libri come i suoi sono quasi un'anticipazione dell'esperienza della vita, una preparazione; e forse non ha torto.

—Li ho letti tutti, ed anche riletti,—soggiunse Fausta.—Spesso mi metto nei panni di qualcuna di quelle donne e penso: Che cosa avrei fatto io nello stesso caso? E, sa? Qualche volta mi sembra che le sue signore commettano grosse sciocchezze, quasi non sapessero ragionare…. Ma già è lei che le fa agire come le torna comodo, poverine!

—Agiscono anche peggio, signorina. Noi romanzieri non siamo mai tanto audaci quanto la realtà; e questo diminuisce il valore dell'opera nostra.

Io ero felice di udir ragionare Fausta a quel modo, come ero stato felice poco prima sentendole eseguire al pianoforte un «notturno» dello Chopin, con squisitissima interpretazione. Dalla crisalide della contadina era già uscita fuori la splendida farfalla che Bissi non si saziava di ammirare.

—In che modo siete riusciti a fare questo prodigio? E dico «siete» perchè lei, buona signora Maria, ha dovuto contribuirvi più di lui.

—Oh! Non disconoscere il merito che mi spetta!—feci io con una mossa di finto risentimento.

Si era fatto tardi. Mia madre e Fausta erano andate a letto; e noi due rimanevamo nel terrazzino del salotto, a fumare dondolandoci su le seggiole di bambù, scambiando rare parole, assorti nel silenzio della sottoposta vallata, sotto la cupa serenità del cielo fitto di stelle.

—Penso alla tua nuova Fausta,—esclamò Bissi, scotendosi tutt'a un tratto.—È una vera creazione; te la invidio!

—Hai torto. Il più meschino dei tuoi personaggi vale assai più di questa creatura, che ha ricevuto dalla generazione l'eredità di un'impronta particolare, incancellabile, un germe la cui essenza sfugge alla mia azione, e può scombussolare da un momento all'altro tutti i miei calcoli.

—Non è precisamente vero. Anche i personaggi delle creazioni d'arte si ribellano alla nostra volontà, e noi siamo costretti a seguirli nulla logica dei loro errori, senza poter farli deviare. Io ne soffro, ma essi resistono, proprio come nella vita.

—È diverso. E questo è il punto nero che mi dà qualche volta fin le ansie di un rimorso. Da mesi e mesi io riando tutto il mio passato e non a memoria soltanto. Ho voluto fissare, anche per gli altri, i miseri avvenimenti che hanno fatto di me un impotente della vita; e tu immaginerai facilmente l'acre sensazione di rivivere, quasi giorno per giorno, con straordinaria intensità, tanti particolari che in questi ultimi anni di torpore credevo scancellati per sempre dalla mia memoria. Che trista visione, caro Bissi! E di mano in mano che scrivevo, di mano in mano che rileggevo alcune pagine, mi sembrava di sentir l'alto mio grido di protesta contro la fatalità della Sorte. Può darsi che questo sia l'atto estremo della mia inguaribile vanità; può, però, anche darsi che sia la mia più compiuta giustificazione, caso mai….

—Caso mai?…—ripetè Bissi, con accento di vivissima curiosità.

—I miei ricordi si arrestano alla fine dell'anno scorso. Non vorrò aggiungervi altro. Non è più vita questa mia, è vegetazione quasi ingombrante. Dopo tanti sforzi andati a vuoto, mi sono già rassegnato. È il più serio gesto di tutta la mia stupida e dolorosa esistenza.

—Sei troppo severo con te stesso!

—No, Bissi, sono giusto.

—Tu hai realizzato un ideale di carità che dovrebbe bastare a compensarti di tutti i precedenti disinganni. Pochi possono dire come te: Ho trovato una creatura informe e la ho resa buona, intelligente, bella. Ho impedito così alla Natura di perpetrare uno dei tanti suoi atroci misfatti, allorchè mette al mondo un essere umano, e l'abbandona alla miseria, all'abiezione, al delitto, senza punto curarsene.

—E se non fosse così? Se, al contrario, ho svegliato in quella, che tu chiami creatura informe sentimenti, desideri, passioni che sarebbero rimasti inerti senza il mio intervento? Se invece di renderla felice, come forse sarebbe stata nella inconsapevolezza della sua condizione, ho destato nel suo cuore vampe violente, scatenato tempeste che la faranno piangere e disperare? Se dalle sue labbra contratte dall'angoscia dovranno uscire parole di maledizione contro colui che ha avuto l'idea di trasformarla, di elevarla, per soddisfare il proprio orgoglioso capriccio di uomo annoiato e deluso?

—Ma perchè pensi a questo e non al contrario?

—Perchè lo sviluppo di Fausta mi fa paura. E così la mia vita si chiude con un desolatissimo punto interrogativo. Non sono mai riuscito, con tanto slancio di volontà, ad attuare uno solo dei miei sogni; e il giorno che ho potuto compire un'azione che dovrebbe appagare la mia coscienza, mi veggo spinto a domandarmi:—Ho fatto bene? Ho fatto male?—E forse verrà a sorprendermi la morte prima che io ottenga una risposta. Potessi almeno raggiungere l'età legale per l'adozione di Fausta!—conclusi con un profondo sospiro, rizzandomi da sedere.

Bissi non disse nulla. Buttò via il sigaro che gli si era spento tra le labbra e mi strinse affettuosamente e lungamente le mani.

La vallata dormiva nella tenebra notturna. Lievi rumori indistinti arrivavano da lontano. Poco dopo, nell'alta quiete, proruppe il lugubre «chiù» d'un assiolo. Mi sentii stringere il cuore.

—Per chi crede ai presagi…!—mormorai con voce turbata.

E mi affrettai a rientrare.

FINE.