LA MARCHESA COLOMBI

Serate d'Inverno

RACCONTI

TESTE ALATE — LA PRIMA DISGRAZIA IMPARA L'ARTE E METTILA DA PARTE — FIORE D'ARANCIO IN PROVINCIA — UN VELO BIANCO

1914 CASA EDITRICE MADELLA SESTO S. GIOVANNI

INDICE

Prefazione Pag. 5

Teste alate 19

La prima disgrazia 75

Impara l'arte e mettila da parte 103

Fiore d'arancio 153

In provincia 177

Un velo bianco 193

PREFAZIONE

Sono l'incubo di mezzo mondo quelle lunghe, lunghe sere d'inverno, che durano dalle sette alle dieci; tre ore per lo meno; per molte famiglie assai più.

Alle quattro e mezzo, al più tardi alle cinque, s'è accesa la lampada in sala da pranzo. Ad uno ad uno i membri della famiglia, chi da fuori, chi dallo studio, chi dal salotto, si sono radunati là, intorno alla tavola apparecchiata.

Quelli che sono usciti hanno reso conto dei gradi di freddo della temperatura esterna, della maggiore o minore densità della nebbia, dello stato delle contrade, se asciutte, fangose, gelate, ecc.

Le signore hanno riferite le visite fatte, le abbigliature della Tale e della Talaltra, le carrozze che erano al corso, le stoffe nuove esposte nei negozi di moda, le pelliccie, i cappellini.

I giovinetti hanno riportate le novità raccolte al caffè o al club; chi s'è sposato, o è in procinto di farlo, chi è morto, chi è innamorato; che nuovissime promette il manifesto del Manzoni: chi era la signora più brillante la sera innanzi alla Scala; che cosa combinano di fare gli ammiratori per la beneficiata della prima donna o della prima ballerina.

Il babbo, i membri seri della famiglia, hanno recate le notizie politiche e quelle dei loro reumi, che aumentano o diminuiscono in ragione diretta dell'intensità del freddo, e dei loro catarri a cui l'umidità fa dei brutti tiri.

Intanto è stata servita la minestra; ciascuno ha preso il suo posto, e durante più d'un'ora tra un boccone e l'altro, si sono particolareggiati tutti gli avvenimenti messi sul tappeto, si sono analizzati, discussi, se n'è visto il fondo.

Alle sette il pranzo è finito, la tavola è sparecchiata, e la sera, l'eterna sera d'inverno, non è cominciata ancora.

Gli scrittori sentimentali che hanno l'abitudine di guardare il mondo traverso una lente azzurra come se fosse un eclissi, hanno scritto volumi di prosa soave, sulle serate di famiglia intorno al focolare domestico; ce le hanno dipinte come un perpetuo idillio.

Ma in realtà sono una delle tante cose, che sembrano belle soltanto quando si guardano da lontano.

Io pure a quest'ora, dopo tanti anni e tanti avvenimenti, le ripenso con dolcezza infinita le serate casalinghe della mia casa paterna.

Il capo di casa ottuagenario, che sonnecchiava in una poltrona accanto al camino, e tratto tratto si svegliava in un sussulto, o perchè le molle gli erano cadute dalle mani, o perchè la serva entrando gli aveva mandata una corrente d'aria tra capo e collo, o per qualunque altro avvenimento della medesima importanza.

Domandava l'ora, picchiava i tizzoni, osservava che io sporgevo sempre le labbra come se fossi in collera col Padre Eterno, che mio fratello non faceva mai nulla, che mia sorella aveva gli occhi rossi, che le zie dovevano annoiarsi di far sempre lo stesso lavoro.

— Maria, tira dentro quel muso.

— Mario, fa qualche cosa, fannullone.

— Teresa smetti quel ricamo che ti guasta la vista.

— Quante calze ha fatte quest'inverno signora Caterina? Deve averne per un reggimento.

— Ce n'ha sempre di bucato da raccomodare signora Rosa?

Quando aveva fatta l'una o l'altra di queste osservazioni, tanto per provarci che non dormiva, s'addormentava daccapo per un altro quarto d'ora.

La zia Rosa non amava conversare; parlava soltanto quando poteva imprendere una narrazione tutta finezze, e particolari, e dissertazioni, e commenti, che le permettesse di tener la parola per una mezz'ora o più, senza interruzione. Ma la sera non era più in lena, e preferiva star zitta.

La zia Caterina parlava sempre per proverbi. Ne aveva una raccolta immensa, colle rime che non tornavano, mezzi in lingua mezzi in dialetto, e ad ogni discorso ne trovava uno da applicare.

Quando qualcuno si meravigliava degli interminabili rammendi di sua sorella, era lei che rispondeva:

« L'ago e la pezzuola, tengono in piedi la camiciola. »

Se si osservava a lei che, a forza di far calze tutta la vita, doveva averne una provvista sterminata, rispondeva subito:

Pane e panni, buoni compagni.

— Che freddo! diceva qualcuno, non s'ha voglia di uscire.

— Ma sicuro, ribatteva lei. A Santa Caterina, chiudi i buoi nella cascina.

— Le giornate cominciano ad allungarsi un poco.

— Senza dubbio. Natal el pass d'un gall.

Questo era uno de' suoi proverbi più infelici, perchè oltre la rima impossibile, aveva bisogno d'un discorso preparatorio per stabilire che il passo d'un gallo era la misura di cui s'era allungata la giornata a quell'epoca.

Mio fratello la chiamava il Giusti; e quando aveva bisogno d'una rima pe' suoi infelici tentativi poetici, ricorreva sempre a lei.

Ma quei proverbi che ora mi fanno sorridere quando li ricordo, allora li udivo ogni sera, li sapevo, li avevo in uggia.

Il nostro capo di casa aveva un fratello di settant'anni, che gli pareva molto giovine perchè aveva undici anni meno di lui; egli veniva ogni sera a sedere per un paio d'ore dirimpetto al suo primogenito dall'altro lato del camino.

Quello parlava a monosillabi, e bisognava strapparglieli con una serie di domande. S'accontentava di starsene zitto contemplando il fratello, pel quale aveva una grande venerazione, e cogliendo il momento opportuno per impadronirsi delle molle che l'altro si teneva amorosamente tra le ginocchia, per picchiare un poco alla sua volta i tizzoni.

Qualche rara volta mancava. Era il solo avvenimento che introducesse un po' di varietà nelle nostre serate.

Allora il primogenito si metteva in grande apprensione. Si alzava tutto ingranchito dal sonno, coi calzoni raggrinzati sulle ginocchia pel lungo star seduto, passeggiava barcollando fin in fondo alla stanza, e sospirava:

— Ma! Cosa sarà accaduto a quel ragazzo? Per lui il suo secondogenito era sempre un ragazzo.

E noi, coll'insolenza della gioventù, facevamo a gara a suggerirgli una serie di disgrazie infantili e burlesche:

— Sarà rimasto sotto una carrozza.

— L'avrà portato via lo spazzacamino nel sacco come i bimbi cattivi.

— Avrà fatto i capricci, e la mamma l'avrà mandato a dormire senza cena.

Ridevamo un momento, poi ricadevamo nella solita monotonia, finchè non accadeva un altro di quegli episodi profondamente insignificanti, che la nostra allegria giovanile, priva di sfogo, afferrava al volo per farsene argomento di spasso.

La massima parte ce li forniva l'eccentricità bonaria del nostro vecchio capo di casa.

Era un uomo estremamente alto e dritto, forte, magro, col volto color del legno di noce, e talmente rugoso che sembrava una collaretta arroccettata. Portava una folta parrucca bionda, sebbene nessuno si ricordasse d'averlo mai visto biondo. Egli stesso non ne aveva idea. Quando gli domandavamo com'erano stati i suoi capelli, ci rifletteva un pochino colla sua bontà condiscendente, poi rispondeva:

— Così... come i tuoi.

E questa medesima risposta la dava ugualmente a me che avevo i capelli neri, a mio fratello che li aveva biondi, a mia sorella che li aveva d'un bel castano bronzato.

Del resto egli non metteva punto civetteria nel portare la parrucca. Non aveva mai pensato che dovesse illudere alcuno. Era leale in quello come in tutto; le dava semplicemente per una parrucca; nè più nè meno. L'aveva adottata nei tempi trapassati remoti, al principio della sua calvizie, per riparare il capo dal freddo, e l'aveva serbata sempre come una parte indispensabile del suo vestiario.

Quando le giornate erano rigide egli scendeva dal letto assiderato, ed affrettava la toeletta per trovarsi più presto nella sua poltrona accanto al camino. Allora la parrucca presentava ogni sorta di novità bizzarre. Ora aveva un orecchio in mezzo alla fronte, ora sopra un occhio; alle volte era messa col davanti di dietro addirittura.

Poi quando il freddo aumentava, il riparo della parrucca non bastava più; ci voleva anche una berretta di lana. Ma per sentire il beneficio della lana sul cranio calvo, egli si metteva la berretta di sotto, giù giù fin sulla fronte, sulla nuca, sugli orecchi; poi la parrucca inalberata sopra, come Dio vuole, con un largo orlo di berretta che sporgeva tutto in giro.

— Babbo, un fenomeno! diceva mio fratello. Una capigliatura bionda cresciuta sopra una berretta.

Potrei continuare per un volume a narrare così i piccoli svaghi delle nostre sere; miseri svaghi, che si rassomigliavano tutti, e passavano presto.

Ora ripenso a quelle sere coll'animo commosso; ne risento soltanto l'atmosfera tepida della famiglia, la pace, l'intimità. L'immensa lontananza a cui le ha respinte il tempo, non permette più di vederne le ombre.

Dio, com'erano noiose quelle sere d'inverno! Sempre i due vecchi accanto al fuoco; sempre lo stesso tavolino un po' più indietro, colla stessa lampada, e le stesse zie cogli stessi lavori. Sempre mio fratello, imbronciato di non poter uscire a fare il giovinotto, che tirava certi sbadigli da destare un morto. Ed io e mia sorella, sempre occupate a ricamare fiori improbabili ed animali mostruosi, con tutta la precisione possibile, su qualche inezia elegante.

Ogni tanto esclamavamo:

— Oh Dio! Sono appena le otto! Sono appena le otto e mezzo!

E cosí via, di mezz'ora in mezz'ora, finchè veniva un'intimazione superiore del nonno, sempre impensierito del nostro bene, di smettere il ricamo perchè ci affaticava gli occhi.

— Ma non sappiamo cosa fare, si rispondeva noi.

— Leggete.

— Non abbiamo libri.

— Leggete una commedia di Goldoni.

Il nostro caro capo di casa era un uomo positivo. Si occupava, o piuttosto s'era occupato di fisica, di chimica, di scienze esatte. Non amava le vaporosità sentimentali; abborriva i romanzi.

Una volta un suo lontano parente povero, ch'egli colla sua grande bontà manteneva a Torino per gli studi universitari, ebbe l'idea di scrivere un romanzo, e trovò un editore che lo stampò, forse in penitenza de' suoi peccati.

A titolo di riconoscenza il giovine autore dedicò quell'opera al suo benefattore, e gliene spedí una copia.

È l'unica volta che mi ricordo d'aver visto in collera quell'uomo, che era l'incarnazione della indulgenza, della mitezza. Non lesse una parola; non guardò neppure il titolo. Prese il romanzo colle molle (le compagne e la distrazione costante delle sue serate) lo mise sul fuoco; e finchè lo vide interamente bruciato picchiò i tizzoni con maggiore accanimento del solito. E da quel giorno soppresse la pensione al suo parente.

— Non voglio il rimorso d'aver fomentati i suoi cattivi istinti, diceva. Quando non avrà denaro in tasca, sarà obbligato a lavorare, ed il lavoro gli rimetterà la testa a posto.

Con queste idee, è facile immaginarsi come fosse fornita la nostra libreria quanto a letture amene.

Oltre una serie infinita di opere scientifiche, c'erano il teatro di Goldoni e quello di Alfieri.

Goldoni era il solo autore letterario che avesse trovato grazia agli occhi del nostro capo di casa.

«Quello era vero; mostrava la vita com'era realmente; non inventava passioni esagerate; ritraeva uomini e donne in carne ed ossa come noi, colle nostre virtù ed i nostri vizii, e senza fantasticaggini, senza esaltazioni. Quelli erano libri che facevano buon sangue, rasserenavano lo spirito, e non guastavano la testa alla gioventù.

Più tardi aveva comperato il teatro d'Alfieri, sperando di trovarci le stesse qualità. Ma era stato un gran disinganno. Quegli eroi cattedratici, quelle passioni frementi, quelle tirate retoriche lo avevano esasperato.

«Egli non aveva mai conosciuto nessuno, in ottantun'anni di vita, che parlasse a quel modo. Quegli uomini e quelle donne sempre furibondi, che ammazzavano e si facevano ammazzare come se si fossero fatto strappare un dente, che vivevano sempre nelle nubi, gli parevano matti; gli davano le vertigini.

Appena noi ragazze eravamo tornate di collegio aveva messo l'Alfieri sotto chiave.

— Se leggono questa roba, addio lista del bucato, diceva; addio note della spesa; addio testa! Si mettono in mente di sposare un eroe e non si maritano più.

Rimaneva il Goldoni. L'autore positivo e vero delle scene casalinghe, dai pettegolezzi borghesi, dagli amori tranquilli. Ed ogni volta che sentiva il bisogno di darci una distrazione per quelle benedette sere d'inverno, era sempre il suo ritornello:

— Leggete una commedia di Goldoni.

Le avevamo lette tutte, rilette, ri-rilette; le sapevamo a memoria, le avevamo talmente negli orecchi, che per gioco i miei fratelli ed io parlavamo qualche volta per ore intere in versi martelliani (che le nove Muse ce li perdonino!) ma le sillabe e le rime tornavano sempre.

Se in quella noia profonda ci fossero capitati dei libri di racconti, in cui non si fossero narrate passioni da romanzo per far infuriare il capo di casa vecchio, e che avessero ritratta qualche scena amena e commovente per divertire i giovani, sarebbero stati una benedizione.

Si sarebbe letta una novella ogni sera, ci si sarebbe conversato sopra un quarto d'ora senza misericordia pel povero autore, e sarebbe venuta l'ora di coricarsi; ed allora si sarebbe finito per dire:

— Malgrado tutto, ci ha fatto passare la sera, però.

Ed in vista di questo gli si sarebbero perdonati i suoi difetti, e l'indomani si sarebbe fatto ancora buon viso al libro, ed ancora, ed ancora finchè si fosse giunti all'ultima pagina.

Dopo si sarebbe dimenticato; pazienza; questa è la sorte comune dei libri che non hanno altro scopo fuorchè il diletto; ottenuto lo scopo il mezzo non serve più.

Ma più tardi, giungendo fra noi un altro volume dello stesso autore, avrebbe trovata la stessa accoglienza.

Di gente che passa la sera come la passavamo noi, ce n'è un numero sterminato. Sono le famiglie modello che stanno riunite, che si amano, che s'annoiano insieme; quelle che hanno inspirata la poesia del focolare. Poi c'è un altro numero sterminato di famiglie, in cui il babbo è fuori da un lato, i fratelli dall'altro, e le signore passano la sera in casa tra loro. Poi vi sono le altre in cui la mamma è ancora giovine o crede di esserlo, e va a teatro, va in società; e le signorine che non debbono assistere alla commedia, non debbono vedere le ballerine, non debbono udire una quantità di cose in conversazione, rimangono sole a casa. Oppure è tutta la parte giovine della famiglia che esce e si diverte; ed una nonna, una zia, una vecchia parente, ha dinanzi la prospettiva d'una lunga serata tra il caldanino e la lampada.

Queste persone solitarie ed annoiate, in quelle ore di solitudine e di noia, sono disposte all'indulgenza, come eravamo io ed i miei fratelli nelle nostre serate di famiglia. Ed è a loro ch'io raccomando i miei poveri raccontini, implorando per essi quell'accoglienza ch'io avrei fatta ai raccontini di chi allora avesse avuto il pensiero pietoso di scriverli per me.

TESTE ALATE

I.

Nell'autunno del 1869 mi trovavo a villeggiare ad Intra sul lago Maggiore.

In una gita ad Arona, fra le solite figure straniere che sembrano darsi convegno da tutti i paesi d'Europa sul ponte di quel battello a vapore, avevo incontrato un giovinotto lombardo, col quale avevo stretta relazione.

Io andavo poi regolarmente due volte ogni settimana ad Arona, e nell'andare o nel venire mi trovavo sempre con quel giovine.

Gli altri passeggeri si vedevano una volta, due, poi scomparivano. Erano sempre figure nuove, quasi sempre figure ignote. Noi soli tornavamo ancora ed ancora.

Quel giovine non era facile ad entrare in discorso. Ma una volta entrato, era piacevolissimo, e qualche volta s'abbandonava ad un'allegria clamorosa. Ma bisognava che altri lo eccitasse. Sembrava una di quelle macchine che, appena montate, vanno, vanno con una celerità sorprendente; ma se le vediamo ferme, non possiamo persuaderci che quegli ammassi di ordigni muti ed inerti abbiano in sè la facoltà di tanto rumore, di tanto movimento.

Non dirò che provassi pel mio compagno di viaggio nè una misteriosa attrazione, nè quella curiosità, quell'interessamento irresistibili che si trovano soltanto nei romanzi. Fu la circostanza dei nostri frequenti incontri che fece nascere tra noi una relazione superficiale, la quale si andò facendo man mano meno cerimoniosa, più franca, più espansiva, più confidenziale, e finì col diventare una sincera ed affettuosa amicizia. Tutto questo nello spazio di un mese. Ma eravamo giovani tutti e due, ed alla nostra età le amicizie si fanno presto.

Conoscendo intimamente Gustavo, mi accorsi che, sebbene il fondo del suo carattere fosse gioviale, il suo stato abituale, in quel momento almeno, era triste ed impensierito. Però non cercai di provocare le sue confidenze con domande indiscrete; c'è una così lieve sfumatura tra l'interessamento e la curiosità!

— Se un giorno sentirà il bisogno di dirmi i suoi crucci, li accoglierò con cuore d'amico, pensavo. Se vorrà serbarli per sè, rispetterò il suo segreto.

Intanto cercavo, per quanto era in mio potere di mantenerlo divertito. Ogni mattina gli facevo un programma per passare la giornata: erano gite sul lago, pranzi alle isole, partite di pesca, escursioni sui monti, visite alle fabbriche di tela, di carta, di vetro, ecc.

Una mattina mi parve più mesto del solito.

— Cosa facciamo oggi? gli domandai.

— Quello che vuoi, mi rispose, purchè siamo soli.

— Prendiamo un canotto, e facciamo un viaggio d'esplorazione sul lago, in cerca di un luogo pittoresco per pranzare insieme?

— Io preferirei una gita su qualche monte. In barca si rimane così inerti che si cade in malinconia. Ho già tanta tristezza nell'anima; ho bisogno di movimento per distrarmene un poco.

Era la prima volta che alludeva alla sua tristezza. Ebbi la delicatezza di non rispondere a quella mezza confidenza, per non mostrare d'esserne stato all'agguato.

Gli proposi di andare a Premeno. Egli accettò, e mezz'ora dopo salivamo una stradetta di montagna, erta, tortuosa, pittoresca.

Camminavamo da quasi due ore, quando il cielo cominciò ad annuvolarsi; minacciava un temporale.

— Guarda, Carlo, mi disse Gustavo additandomi una nuvoletta scura, non ti pare che quella nuvola abbia la forma di due teste di angeli?

— Ma che! Mi sembra piuttosto che raffiguri un cane accovacciato.

— Ah! Lo sapevo, sai, che tu non l'avresti veduta come me! E disse queste parole con accento addolorato.

Non capivo perchè desse tanto peso a quella sciocchezza, e gli risposi meravigliato:

— Ti dispiace tanto che io non veda due teste d'angeli! Via, ci metterò un po' di buona volontà. Già, nelle forme vaghe delle nuvole si vede quel che si vuole.

— No. Lo sapevo già che tu non avresti veduto come me. È una mia visione, eterna, crucciosa. Vedo dovunque delle teste alate. È il mio incubo.

— È un bell'incubo. Dicono che Iddio si circondi di angeli per abbellire il Paradiso, e tu che hai la fortuna di vederne in hac lagrymarum valle, te ne lagni?

Gustavo chinò il capo sul petto, e stette zitto un pezzo, come discutendo qualche cosa di grave tra sè e sè. Ad un tratto si fermò, mi prese le mani, e mi disse con voce commossa:

— Senti, Carlo. Questa storia delle teste alate, che ti sembra certo una puerilità, è il segreto della mia malinconia, delle mie incertezze. È il cruccio della mia vita. E mi pesa, e vorrei parlarne con te. Tu mi sei amico, mi vuoi bene. Ti dirò tutto, quello ch'è passato e quello che mi tormenta ancora; e tu mi darai il consiglio ed il coraggio di cui ho bisogno. Lo vuoi, Carlo?

Non so dire che slancio d'affetto, e che senso d'immensa pietà mi si destassero in cuore per quella sventura misteriosa e grande. Se avessi secondato il primo impulso, mi sarei stretto Gustavo al cuore, avrei pianto con lui. Ma per quello sciocco riserbo che ci fa arrossire de' nostri sentimenti migliori, e ne imbriglia le manifestazioni, mi limitai a stringergli le mani, e gli dissi con calore:

— Con tutto il cuore Gustavo, con tutto il cuore.

Egli mi prese il braccio, continuò a salire, e lasciandosi dietro Premeno, mi trasse sopra un'altura in un piccolo spianato sassoso e disuguale, che si chiama col nome pomposo di Piazza Garibaldi. Vi trovammo alcune panche e delle tavole di sasso. Sedemmo sotto una specie di grondaia per ripararci dalla pioggia che cominciava a cadere. Gustavo prese alcuni sassolini sulla tavola che aveva dinanzi, li agitò un poco in silenzio, poi prese a parlare rapidamente, sempre baloccandosi con quei sassi per darsi un'aria disinvolta, mentre invece la sua voce tradiva l'agitazione dell'animo.

II.

— Tre anni sono, disse, ero un giovinotto allegro, pieno di vita, affettuoso, noncurante del domani, amante del lavoro, appassionato per la mia arte, nella quale mi sentivo capace di riescire a qualche cosa.

— Bada alla tua modestia, Gustavo. La farai arrossire.

— No; lasciami dire quel tanto di buono che ho avuto; ne avrò bisogno per farmi perdonare il tanto male che mi resta a dirti.

Poi soggiunse con un sorriso penoso come una lacrima:

— Parlo di un morto. Il Gustavo d'allora non esiste più.

E continuò a rimovere vivamente quel pugno di sassolini, a gettarli in alto ed a riprenderli, finchè l'intenerimento che gli aveva fatta oscillare la voce nelle ultime parole fu dominato. Allora riprese senza alzare lo sguardo:

— Una mattina giravo per Milano cercando alloggio. Passando in via dell' Unione, vidi ad una porta un appigionasi, ed entrai.

«È al secondo piano, l'uscio a destra,» mi disse la portinaia.

— Salii. La serva che venne ad aprire m'introdusse in un salotto, e mi lasciò dicendo:

«S'accomodi. La signora verrà a momenti.

— La prima cosa che vidi fu un cavalletto, su cui stava una tela finita, rappresentante due teste alate. Ma non erano teste di puttini. Erano due belle teste di donna, piene d'espressione e di vita. Una, pallida, con una ricchezza di capelli, di ciglia e di sopracciglia d'un bel castano chiaro e due grandi occhi color dell'ambra, dall'espressione malinconica e dolce. L'altra sembrava piuttosto la testa d'un'amazzone che quella di un angelo. Capelli nerissimi, occhi neri scintillanti, profilo greco, bocca stretta e severa, carnagione bruna, colorita, attraente.

— Erano due belle teste ed era un bel lavoro. Stavo assorto in quella contemplazione che mi appassionava come uomo e come artista, quando udii aprire l'uscio del salotto, ed una voce lieve lieve mi disse:

«È il signore che desidera di vedere il quartierino da affittare?

— Mi voltai a quella simpatica voce di donna; ma invece di risponderle, misi un'esclamazione di meraviglia.

— La signora che mi aveva parlato era l'originale della testa alata, dagli occhi color dell'ambra, dall'espressione malinconica e dolce.

— Ella comprese la causa del mio stupore, e mi disse:

«Ha osservato quel lavoro, nevvero? Deve trovarmi vana assai per essermi ritratta così. Ma veda: non ho che una parente al mondo, una sorella che mi è tanto cara. E viviamo lontane, lontane. Quando ho cominciato questo quadro destinato a lei, mi venne naturale di ritrarre il suo bel volto; e poi non ho potuto rassegnarmi e mettergli là accanto una testa qualunque, ideale o vera, ma indifferente. Ci voleva la testa di qualcuno che l'amasse, e ci ho posta la mia.

— Ella aveva cessato di parlare, ed io non pensavo a risponderle ed ascoltavo sempre, e quella voce lieve lieve vibrava ancora nell'aria intorno a me. Era lei l'originale del quadro; l'aveva dipinto lei! Era giovine; era bella di quella bellezza sofferente che interessa ed affascina; era artista come me.

— Trovai superbe quelle camere che dovevano farmi vivere accanto a lei; e mi affrettai ad impadronirmene.

— La mia padrona di casa era una signorina. Si chiamava Clelia Moris, ed aveva ventiquattro anni. Era una natura eletta, aristocratica, delicata, fatta per vivere in un ambiente di poesia; le cure materiali dell'esistenza la urtavano penosamente. Quando le domandai il prezzo del mio nuovo alloggio, me lo disse rapidamente, senza guardarmi, a bassa voce, ed arrossì fin sulla fronte. Quando la sera, appena installato in casa sua, le posi dinanzi il denaro, ella arrossì ancora di più; cercò di profferire un grazie che le rimase fra i denti; tenne sempre gli occhi fissi sul lavoro, si diede a cucire con una rapidità febbrile, e lasciò il denaro sulla tavola senza osare nè di ritirarlo, nè di guardarlo.

— Al confronto di quell'estrema delicatezza, io che senza essere nè cupido, nè avaro, non avevo mai avuta l'idea di trovarmi umiliato per rapporti di denaro con chicchessia, mi sentii compreso da tanta inferiorità, che non osavo quasi più parlare, e sostenevo male la conversazione con frasi scucite, alle quali Clelia rispondeva con monosillabi, senza alzar gli occhi. Compresi che quel denaro posto là tra me e lei sul tavolino era la causa della sua confusione e mi ritirai.

— Il mio cuore d'artista, che s'era conservato entusiasta e buono malgrado la vita burrascosa d'un giovine affatto libero, era fatto per apprezzare le cose belle, per amarle con passione.

— Così non mi feci neppur un momento l'illusione di rimanere con quella fanciulla nei prosaici rapporti di padrona di casa ed inquilino, e nemmeno in quelli paradossali dell'amicizia. L'amore non mi venne addosso inavvertito. Da quel primo giorno, da quella prima ora, sentii che avrei amata Clelia con tutto l'ardore di cui era capace il mio cuore. Ma non pensai menomamente di fuggire, di sottrarmi a quel fascino: lo guardavo venire con delizia, come si guarda in aprile rinverdir la natura, gonfiarsi le gemme, sbocciare le rose.

— Quando rividi Clelia il giorno dopo, non le parlai più di pigione, di denaro. Discorremmo d'arte, di libri, di teatri, di amici lontani, di noi, di tutto. Ed allora non fu punto impacciata; le parole non le morivano fra i denti come la sera innanzi; parlava con entusiasmo, e mi guardava negli occhi senza sfrontatezza, ma con un'espressione di curiosità e di simpatia.

— Così passarono dieci giorni. Dieci giorni così belli, così inebbrianti, che darei tutto il sangue delle mie vene per farli rivivere. Amavo quella fanciulla come un pazzo; e sentivo il bisogno di dirglielo, di dirlo a tutti, di gridarlo sui tetti. E tuttavia la sapevo così delicata, che temevo d'offenderla. Esitai due giorni ancora. Ma la passione, la speranza, la gioia mi gonfiavano talmente il cuore, che mi pareva dovesse scoppiare. Tremavo da un momento all'altro di non sapermi frenare, di saltarle al collo e di coprirla di baci, senz'altro preavviso a costo di farmi scacciare come un malcreato. Non potevo più vivere così. Bisognava che ella mi amasse, o che me ne andassi per non vederla mai più.

— Una sera stavo seduto accanto a lei che lavorava. Frenai i miei impeti entusiastici, e cercai di fare la mia dichiarazione un po' indirettamente ed accartocciata, come si usa fra persone ammodo.

«Lei non ha altra affezione al mondo che per sua sorella, signora Clelia? le domandai.

«Perchè me lo domanda?

— Ella mi diede questa risposta continuando a lavorare, tranquilla, senza il menomo imbarazzo. Mi parve molto fredda. Provai nel cuore un senso di delusione penoso, e tra l'amore e lo sdegno, tutti i miei propositi di convenienza sfumarono; me le accostai all'orecchio fin quasi a toccarlo colle labbra, e con tutta la passione che mi sentivo nel cuore, le dissi:

«Perchè vi amo, Clelia. Vi amo!

— M'aspettavo un'esplosione di sdegno. Ero spaventato dalle mie stesse parole. Ma ella si voltò lentamente, e guardandomi in volto coi suoi grandi occhi limpidi, mi rispose:

«Lo so bene che mi amate, Gustavo.

— Rimasi istupidito. Era la schiettezza dell'innocenza, o era un artificio di civetteria? Quella pace, quella sicurezza, volevano dire che mi amava, o che si prendeva gioco di me? Volli saperlo, e col cuore tremante le domandai:

«Lo sapete, e non ne siete offesa?

— Ella depose il lavoro, e senza precipitazione, colla calma d'una vera beatitudine mi guardò a lungo e mi disse:

«Non posso esserne offesa, perchè anch'io vi amo.

«Voi mi amate, Clelia? Oh non avrei mai osato crederlo!

«Osatelo, Gustavo. Osatelo perchè siete un bravo giovine.

— E mi prese il capo colle sue mani bianche, e senza agitarsi, senza arrossire, mi baciò sulla fronte. Ricevetti quel bacio in ginocchio, a capo chino, senza ricambiarlo, in un religioso raccoglimento, come si riceve una benedizione.

— Vivemmo otto mesi così. Otto mesi di incantevole ebbrezza, amandoci con tutto l'ardore dei mortali, con tutta la purezza degli angeli.

— Clelia aveva in casa una serva che l'aveva veduta nascere; una di quelle donne che invecchiano nella famiglia del primo padrone, ci si affezionano come se fosse la famiglia loro e ne dividono eroicamente quando occorra, le disgrazie, i sacrifici, le privazioni, senza immaginarsi nemmeno per ombra il proprio eroismo.

— Da quel giorno ogni volta ch'io sonavo alla porta di Clelia, la vecchia Rosa, dopo avermi introdotto, sedeva anch'essa nel salotto, a qualche distanza da noi, e lavorando in silenzio, assisteva a tutte le mie lunghe visite. Era un po' sorda, e le nostre parole le sfuggivano; ma non eravamo soli.

— Ci eravamo fidanzati tra noi, da cuore a cuore; ed io lavoravo assiduamente ad un quadro che dovevo mettere all'Esposizione di Firenze, e col quale speravo di farmi conoscere per guadagnarmi una situazione da dividere con Clelia. Quando le dissi questi particolari che non mi permettevano di sposarla subito, mi rispose senza vergognarsi:

«Io pure sono povera, Gustavo. Non vi porterò altra dote che il mio amore.

— Del resto non seppi mai nulla riguardo ai suoi interessi. Evitava di parlarne; credo che soffrisse delle privazioni, ma non me le disse mai. Cercai più volte di farmi raccontare di quella sorella lontana, ma ella mi rispose vagamente, e finì col dirmi:

«Perchè cercate di indagare i miei interessi di famiglia? Dubitate di me, Gustavo? Mia sorella è maritata, ed è onestissima.

— Io non dubitavo di lei, e non domandai più nulla, e non pensai che ad esser felice.

— Una sola cosa mi tormentava durante quegli otto mesi così belli: la salute di Clelia. Non era precisamente inferma, ma era tanto gracile e delicatina, che un nulla la faceva ammalare. Parecchie volte al giorno prendeva un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, ed aveva sempre la tosse. Ma io pensavo: «Non è più tanto giovine, la tisi è la malattia delle giovinette.» E scacciavo le idee tristi guardando la serenità dei suoi begli occhi.

— Sul principio della nostra relazione, uscendo di casa, una sera incontrai alcuni amici, che m'invitarono ad una cena. Dopo la cena, si fece un po' di chiasso, e rimasi fuori tutta la notte.

— La mattina, quando andai da Clelia, fui spaventato al vedere quanto male le aveva fatto quella mia scappata. Era pallida, abbattuta, cogli occhi gonfi di pianto; sembrava che uscisse da una malattia. Non mi fece alcun rimprovero. Ma la sua sofferenza mi fu un rimprovero crudele. D'allora rientrai più presto la sera, la circondai di affettuose assiduità, ma per parecchi giorni le durò una febbricciatola che mi rodeva la coscienza.

— Ogni volta che nasceva tra noi una di quelle piccole questioni da innamorati, che sono tanto belle per la pace che le segue poi, Clelia ne aveva la febbre.

— Più volte, solo nella mia stanza, piangevo di rabbia pensando a quel che potrebbe accadere. Avrei voluto parlarne alla vecchia Rosa; ma non mi aveva più perdonato quella notte passata fuori, che aveva fatto soffrir tanto la sua padrona; e non mi badava più. E poi col suo udito, non era possibile discorrere in segreto con lei.

— Un giorno condussi a casa un amico medico, pregandolo di osservare attentamente la mia fidanzata, senza farsi scorgere. Glielo presentai e lo feci rimanere tutta la serata con noi.

— Quando uscii ad accompagnarlo mi disse che non osava dare un giudizio senza avere visitata l'ammalata, ma aveva tutta la veste della tisi. Forse potrebbe ancora vivere a lungo; ma la menoma scossa, la menoma sofferenza fisica o morale potrebbe esserle fatale...

— Ebbi alcuni giorni di profondo sconforto. Ma Clelia era così serena, cosí felice; mi parlava sempre del nostro avvenire, ci credeva tanto, che tornai a crederci anch'io.

— Infine quel medico non l'aveva oscultata. Chi sa? Forse s'era ingannato sulla natura del male. Appena Clelia sarebbe mia, la condurrei a Napoli, a Madera, la farei vivere in una pineta, dove i polmoni delicati si riconfortano; ne avrei tanta cura, la renderei tanto felice, che non soffrirebbe più...

— Intanto il mio quadro era finito ed era tempo d'andarlo ad esporre. Dovevo separarmi per poco da Clelia. Ci scambiammo le solite promesse e raccomandazioni.

«Scrivimi, sai, mi diceva, non tenermi in pena, non darmi crucci, te ne prego. Io sono come quelle povere pianticine esotiche che si conservano belle e profumate, finchè sono tenute in un dato ambiente, con quelle date cure; ma un soffio d'aria, una goccia d'acqua più o meno, bastano a farle morire.

— Io promisi, di cuore, di gran cuore, perchè l'amavo più della mia vita, e tremavo per la sua. E partii.

III.

— Avevo venticinque anni. Mi sentivo pieno di vita e di speranza. Partivo lasciandomi dietro la dolcezza dell'amore, per andare incontro alla dolcezza della gloria.

— Clelia sembrava rinverdita colla primavera; da qualche tempo stava bene, ed era evidente che quel medico s'era ingannato.

— Ero contento di me, del mondo, di tutti. Quegli otto mesi di amore virtuoso, di vita casalinga, mi avevano ritemprata la salute. Il sangue mi scorreva caldo e robusto nelle vene. La natura mi rifulgeva intorno splendida e giovine come nel giorno della creazione. Ed io pure ero giovine e felice come Adamo. Ma per me pure c'era un frutto proibito; ed io pure trovai l'Eva che me lo porse.

— La incontrai nel breve tragitto di mare tra Genova e Livorno, quella Eva francese col viso dipinto di bianco o di roseo, e gli occhi dipinti di nero, e le labbra dipinte di rosso. Ho sempre avuto un profondo disprezzo per le donne imbellettate. Ma pur troppo vi sono delle ore maledette nella vita, in cui la materia vince l'anima, ed allora si accoglie volentieri una donna che si disprezza, perchè i suoi favori si ottengono facilmente. Quella straniera bionda fece due terzi della strada per avvicinarsi a me. Nelle disposizioni in cui mi trovavo, lo spirito è pronto, ma la carne è debole: ed io non mi feci pregare per fare l'altro terzo.

— Avevo promesso a Clelia di scriverle da Livorno la prima lettera. Ma quando presi la penna per scrivere a lei che stimavo tanto, alla mia sposa, in una camera profanata dalla presenza di quell'avventuriera, sentii una profonda vergogna di me, e per non mentire non scrissi nulla. L'amavo con tutta l'anima ma le ero infedele; cosa avrei potuto dirle in quell'ora che non ripugnasse alla mia coscienza?

— Pensai che quella relazione avventurosa sarebbe presto troncata; che quella donna se ne sarebbe andata, e quando mi fossi sentito ancora degno dell'amore di Clelia, le avrei scritto.

— Il mio quadro piacque, e fu comperato da un signore americano che lo pagò bene. Questa circostanza aumentò visibilmente la tenerezza della signora francese per me, ma diminuí d'altrettanto la mia.

— Alle emozioni nobili dell'arte, era strettamente legata ogni memoria del mio cuore. Mi svegliai da quella specie di delirio, che mi aveva tenuto unito per tre settimane ad una creatura indegna di occupare un'ora della vita d'un galantuomo.

— Pensai con angoscia a Clelia. Povera gioia! Erano tre lunghe settimane che l'avevo lasciata, e non le avevo scritto una parola. Mi rammentai con indicibile spavento la sua estrema sensibilità, la sua salute delicata. «Se l'avessi fatta ammalare? Mio Dio!»

— Forse m'aveva scritto?

— Corsi alla posta. Vi trovai infatti due lettere ferme in posta, perchè non le avevo mandato il mio indirizzo. Una aveva la data di pochi giorni dopo la mia partenza. Clelia era già inquietissima del mio silenzio; mi pregava di scriverle; era tormentata da presentimenti dolorosi e strani. Quelle fibre tanto delicate e nervose, presentono vagamente il male che noi facciamo loro, mentre noi, nature meno squisite, lo comprendiamo appena quando ne vediamo le conseguenze irreparabili.

— L'altra lettera era scritta soltanto da quattro giorni. Erano poche parole. Clelia era ammalata; l'agitazione, l'incertezza in cui l'avevo lasciata, avevano abbattute le sue poche forze. Le era tornata la febbre, e si sentiva debolissima. Ma aveva sempre fede in me. E mi pregava di tornare, di tornar subito, se non volevo che morisse di cruccio.

— Lacrime di vero cordoglio, di rimorso, di vergogna, mi bagnarono gli occhi, mi gonfiarono il cuore.

— La sera stessa lasciai quella donna malaugurata, e partii.

— Ma quella lettera era giunta da quattro giorni. Erano cinque giorni che Clelia l'aveva scritta, ed io giunsi a Milano dopo due altri giorni. Mio Dio! Cosa poteva essere accaduto in quel tempo?

— Quando sonai alla porta di Clelia il cuore mi batteva da spezzarmi il petto. La serva mi disse con amarezza:

«Ben presto l'avrà uccisa del tutto, sarà contento.

— Sentii che meritavo quel rimprovero, e la seguii senza risponderle a capo chino, cogli occhi gonfi di lacrime.

— Quando stavo per entrare nella camera di Clelia, Rosa mi disse ancora:

«Ed ora vorrebbe comparirle dinanzi così, come una bomba, per farla morire sul colpo? Il medico ha raccomandato di non darle emozioni.

— Mi fermai, ed essa entrò. Ma un minuto dopo udii una voce piena di dolore, d'amore, di pianto, esclamare:

«Gustavo! Oh vieni Gustavo!

— Mi precipitai nella camera, caddi in ginocchio accanto alla poltrona di Clelia, mi premetti sul volto le mani che ella mi stendeva in segno di perdono, e piansi, singhiozzai come un disperato. Ed essa, povera gioia, mi copriva il capo di baci e di lacrime, senza un rimprovero, senza un lamento.

— Quando cercai di accusarmi, di domandarle perdono, mi chiuse la bocca colla mano e mi disse:

«Stai zitto, Gustavo. Non parlar del passato. È stato un brutto sogno; dimentichiamolo. Ti perdono tutto, sai. Ora non pensiamo che ad amarci, ed esser felici. Forse potremo esserlo per poco.

— Io piangevo, piangevo, e dal fondo del cuore offrivo a Dio la mia vita in cambio della sua.

— Tuttavia mi sembrava che Clelia si esagerasse il suo male. Era magrissima è vero; ed aveva la voce debole. Ma non era a letto, ed il suo volto animato della gioia non aveva l'aspetto d'un volto di persona gravemente ammalata. Ed io pensavo ancora che l'avrei fatta guarire a forza di cure e d'amore; che l'avrei resa felice, che l'avrei sposata subito, anche il domani, e l'avrei portata a Viareggio, e l'avrei condotta ogni giorno nella pineta. Oh Dio! Si può forse morire quando si ama e si è amati così?

— Passai il resto della giornata accanto a lei. Ogni tanto tossiva, tossiva a lungo da rimanerne quasi soffocata. Ed io soffrivo, avrei dati dei pugni contro il cielo. Ma poi quell'accesso passava; Clelia riprendeva a discorrere del nostro avvenire; era serena, felice. Ed io pensavo che la tosse della tisi è breve, asciutta. Che quella tosse violenta non poteva essere che un'infreddatura. Non conoscevo quella malattia inesorabile se non dai romanzi, e mi facevo illusione.

— La sera quando Clelia mi congedò per coricarsi, la pregai di lasciarmi rientrare più tardi, per vegliarla durante la notte. Ella me lo permise.

— Quando fu a letto, tornai infatti nella sua camera.

«È quasi inutile che tu stia alzato, mi disse. Mi sento bene. Il tuo ritorno mi ha guarita. Ti lascio star qui perchè abbiamo tante cose da dirci, e poi Rosa ha bisogno di dormire, ha tanto vegliato le notti scorse.

— Rosa se ne andò; la udimmo chiudere gli usci, e ritirarsi nella sua stanza. Io rimasi solo accanto al letto di Clelia, più bella, più serena, più amante che mai.

— Io pure non avevo mai sentito d'amarla tanto come quella sera. Comprendevo tutti i miei torti, avevo tanto da farmi perdonare! Ed ella, povero angelo, aveva tanto sofferto, aveva tanto bisogno di conforto...

— Cercammo il perdono, l'obblìo, il conforto nel nostro amore. Quella notte fummo sposi davanti a Dio. Ma la mattina quando mi risvegliai accanto a Clelia, ella non aveva più che un soffio di vita. Il mio disgraziato amore l'aveva uccisa.

................

A questo punto del suo racconto Gustavo aveva la voce commossa, strozzata dal pianto. Agitava furiosamente i sassolini, li prendeva in mano e li respingeva con rabbia, mentre le lacrime gli gonfiavano gli occhi e cadevano sulla tavola di sasso.

Io non cercai di consolarlo. Rispettai il suo dolore, e rimanemmo entrambi in silenzio. Finalmente scosse il capo, si asciugò coraggiosamente le lacrime, come per dire:

«Non me ne vergogno,» e riprese il suo racconto.

IV.

— Due giorni dopo Clelia era morta. Fuggii da quella casa colla disperazione nell'anima. Presi alloggio in una delle contrade più deserte di Milano, e vissi là due mesi come un condannato, senza veder nessuno, lavorando e piangendo.

— L'arte mi era divenuta più cara; era l'unica passione che avessi avuta comune con lei. Ed ormai i miei quadri si vendevano; andavo guadagnando nome ed agiatezza, ora che non avevo più quella cara per cui avevo desiderato l'uno e l'altra; ed in quell'isolamento il mio dolore si andava facendo ogni giorno più intenso.

— Poi vennero i soliti amici premurosi della salute di chi non sa più che farne, e mi costrinsero a lasciar Milano, a viaggiare, a divagarmi.

«Al passato non c'era rimedio; quella poveretta era etica, già condannata quando l'avevo conosciuta; cosa volevo fare sempre solo così! Ero giovine, avevo un avvenire dinanzi a me, avevo altri doveri che di piangere, ecc.»

— Più per togliermi la noia, che non persuaso da quei discorsi, lasciai Milano e viaggiai sei mesi, senza cercare tuttavia altra distrazione nè altro conforto che il lavoro, al quale dava grande argomento la varietà dei luoghi.

— Tuttavia non potevo viaggiar sempre. Mi fermai a Torino, dove per un anno feci la stessa vita solitaria che avevo fatta in viaggio.

— Ma a poco a poco lo smercio de' miei quadri, le esposizioni, i critici d'arte che parlavano di me nei giornali, mi obbligarono a rivedere qualcuno. Finii per riprendere in una certa misura i rapporti colla società.

— O Carlo, arrossisco nel dirlo; ma anch'io parlavo, anch'io ridevo; ridevo come gli altri. Quando pensavo a Clelia risentivo nel cuore tutto il mio dolore, ma c'erano delle ore e delle ore in cui non ci pensavo. Si dice tanto che la gioia è fugace. Ma e il dolore non lo è forse altrettanto? Noi siamo deboli. Non sappiamo soffrire a lungo; siamo incostanti in tutto. La costanza è una virtù superiore alla nostra natura imperfetta.

— Un giorno passando in via Nuova, vidi uscire da un negozio di guanti una signora alta e bruna, vestita con eleganza.

— Dopo la morte di Clelia non avevo più provata la menoma simpatia per nessuna donna. Mi erano tutte indifferenti, e le sfuggivo. Ma la vista di quella signora mi fece un'impressione strana. Mi parve che avesse in sè qualche cosa della mia povera sposa; mi parve che quegli occhi scintillanti mi parlassero di lei. Non le somigliava punto, eppure me la ricordava. Mi pareva che quella signora ed io fossimo amici da un pezzo, e che ella conoscesse tutti i miei dolori; e senza quasi volerlo, la seguii.

— Giunta in piazza Castello ella prese l' omnibus della via Po. Stavo per salire io pure nell' omnibus, ma mi fermai. Mi pareva di commettere un'infedeltà alla memoria di Clelia. E rimasi; e l' omnibus partì colla bella signora.

— Mi sentii contento di me, come quando si è fatta una buona azione o si è vinta una mala tendenza.

— Ma quando la fatalità ci si mette, tutti i nostri sforzi per combatterla non riescono a nulla.

— Pochi giorni dopo andai per sentire Cause ed effetti al teatro Gerbino. Era la beneficiata della prima attrice Vittoria***. Quando uscì, riconobbi la bella signora che avevo incontrata in via Nuova.

— Mi dissero che quell'artista era molto ricca, molto spiritosa, molto corteggiata, e molto onesta. Quella riputazione di onestà, che i disillusi trovavano incredibile, e su cui facevano i più assurdi commenti e le più rancide facezie, mi fece molto piacere. Non avrei voluto che quella donna, che nel mio pensiero si associava all'immagine di Clelia, fosse stata una delle solite donne da teatro; mi sarebbe sembrata una profanazione. Almeno, allora attribuii a questa ragione soltanto la soddisfazione che provai a sentirne parlare con rispetto.

— Dopo la commedia un amico mi propose di presentarmi alla signora Vittoria***. Non seppi resistere a quella tentazione: accettai. Mi pareva che avvicinandomi a quella donna mi ravvicinassi alla povera Clelia; e, cosa strana, il volto gioviale dell'artista, i suoi movimenti rapidi, il suo sguardo ardito, mi rammentavano il volto mesto, il gesto lento, lo sguardo malinconico della mia fidanzata.

— Vittoria era ancora commossa della parte appassionata e straziante che aveva sostenuta egregiamente nel dramma di Ferrari. Mi accolse con una cordialità che aveva qualche cosa di intimo; come se ci conoscessimo. Mi aveva forse già notato quel giorno in via Nuova? O quella sera durante la rappresentazione? Ad ogni modo era contenta di vedermi, e m'invitò a tornare.

— Ed io tornai dopo una settimana, poi tornai dopo tre giorni, poi dopo due, poi il giorno seguente, e l'altro, e l'altro; tornai, tornai sempre.

— Anche questa volta l'amore non mi colse per sorpresa. Lo sentivo venire, lo vedevo. Ed anche questa volta non fuggii. Ma non lo accolsi sorridendo come avevo fatto accanto alla povera Clelia. Lo accettai per forza. Non avevo il coraggio di combatterlo. Era destino.

— Un mese dopo dissi a Vittoria che l'amavo, e la domandai in moglie. Così la stimavo.

— Fin allora non l'avevo veduta che nel camerino del teatro.

«Venga domani a casa mia, mi rispose stringendomi forte la mano. Le risponderò domani.

— Era una donna schietta, passionale, ardita; un carattere indipendente, un po' maschio; si riscaldava facilmente, pronta a secondare il primo impulso del cuore che credeva il migliore. Si esaltava per l'arte, si entusiasmava d'un autore, d'un attore, anche d'una attrice; voleva conoscerli, ed aveva delle parole e dei modi per esprimere la sua ammirazione che rivelavano tutto l'ardore della sua anima d'artista. Io sentivo il bisogno di riscaldare il mio povero cuore assiderato ad un cuore di quella tempra; il pensiero di essere amato così m'inebriava.

— Quando andai a casa sua il domani, mi accolse come un vecchio amico. Mi prese tutte due le mani, mi fece sedere accanto a sè, e dandomi del voi per la prima, mi disse:

«Sentite, Gustavo: l'avete compreso, nevvero, che vi voglio bene?

«Ma proprio di quel bene che intendo io? le domandai guardandola negli occhi.

«Sì, di quello.

«Mi amate?

«Sì, vi amo. Ma ho una storia. Oh Dio! Le artiste hanno tutte una storia! Soltanto la mia è vera. Volete che ve la dica?

«Ditela, Vittoria: ma ditemi prima che non c'è nulla che v'impedisca di accettare la mia proposta.

Ella sorrise, e senza tener conto di quella preghiera, mi raccontò la sua storia.

«Avevo diciotto anni, quando mio padre, che era notaio, morì lasciando mia madre con due figliole, di cui ero la maggiore, senz'altro avere che il suo studio. Questo si dovette vendere, e dopo molte noie di conti, di minutari, di dare, d'avere e che so io, si trovò che ci restava appena appena da vivere malamente. Io avevo recitato parecchio da dilettante, in campagna, nelle serate di beneficenza, e mi pareva di fare benino. Ad ogni modo ci avevo passione, e dissi alla mamma che mi lasciasse far carriera da attrice per aiutare un poco la nostra povera famigliola.

«Ma sì. Andate a dir codesto ad una signora di principii evangelici come la mamma! Lei ci vedeva il diavolo con tutti i sette peccati capitali a braccetto, dietro le quinte. E mi fece invece la sua brava proposta tutta morale di fare gli studi magistrali, prendere il diploma, e colla raccomandazione del sindaco e dello speziale, cercar di ottenere il posto di maestra comunale a Desio, presso Monza, dove il babbo aveva un villino, che noi si era venduto col resto.

«Pensate, Gustavo, se io ero donna da insegnare l'alfabeto e le quattro operazioni aritmetiche ad una quarantina di marmocchi tutti i santi giorni dell'anno per guadagnare trecento trentatre lire e trentatre centesimi.

«Scrissi di mia testa al direttore d'una compagnia drammatica, il quale mi aveva udita recitare più volte e mi aveva incoraggiata molto, e senza dirgli dell'opposizione della mamma, gli narrai le nostre circostanze finanziarie, la morte del babbo, e gli proposi di prendermi nella sua compagnia.

«Egli mi fece delle condizioni modeste ma accettabili, e certo migliori assai di quelle che si fanno alle maestre. Ma era inutile sperare che la mamma mi desse il suo consenso, ed io ne feci senza. Un bel giorno invece di andare alla scuola magistrale andai allo scalo, presi il mio bravo biglietto di seconda classe, perchè non avevo quattrini da sciupare, e via!

«Avevo lasciata una lettera alla mamma dicendole dove andavo e tutto, e pregandola di perdonarmi e di non farmi tornare. Ed infatti non mi fece tornare, ma mi rispose imponendomi di non portare mai più il nome della sua famiglia; di non pensare ch'ella potesse accettar mai il soccorso che io potrei offrirle coi miei guadagni, e di non andare mai più a Milano, dove il nome del babbo era conosciuto e rispettato, ed una figliola commediante gli avrebbe fatto disonore.

«Mia sorella, che mi voleva bene, mi scriveva segretamente, ma non le riescì mai di farmi perdonare, neppure quando la povera mamma stava per morire.

«Ero fidanzata da due anni ad un mio cugino che studiava legge, e dovevamo sposarci quando avesse presa la laurea.

«Appena uscirono nei giornali alcuni articoli che parlavano del mio successo da artista, io glieli mandai superba di offrire a lui quel primo trionfo. Egli me li rimandò con una carta da visita in cui mi pregava di non tenermi vincolata dalle promesse scambiate con lui, perchè egli aveva creduto di fidanzarsi con una giovine onesta e non con una commediante. Oh il pregiudizio!

«Disillusa di tutto, m'innamorai sempre più dell'arte, ed in essa almeno trovai un compenso. Mi feci quel po' di riputazione che ho, e la feci presto.

«Ora viene la storia dello spasimante ricco e nobile. Ce n'è sempre almeno uno nella storia delle donne di teatro, ed è sempre stato respinto. Soltanto, il mio, che era più ostinato degli altri, quando vide che non poteva giungere a me per le vie storte, prese quella retta del municipio, e mi domandò in moglie, a condizione che lascerei il teatro sposandolo. Risposi che lo sposerei a condizione di non lasciare il teatro. Egli si offese; se ne andò infuriato; non voleva più vedermi. Ma dopo una settimana tornò pentito, accettò le mie condizioni, e mi rinnovò la proposta. Gli domandai un giuramento che non mi farebbe lasciare il teatro, e giurò sul suo onore. Ci sposammo a Firenze.»

A questo punto del racconto mi si strinse il cuore.

— Siete maritata? esclamai dolorosamente rizzandomi in piedi.

— Abbiate un po' di pazienza, rispose Vittoria prendendomi la mano ed obbligandomi a sedere di nuovo. State a sentire.

«Dopo la cerimonia mi disse che aveva combinato tutto in segreto pel viaggio di nozze, perchè contava di farmene una sorpresa. Mi conduceva a Parigi ed a Londra. Non s'era mai parlato di quel viaggio.

«Io non posso; debbo recitare doman l'altro, gli dissi. C'è una commedia nuova.

«Ma che! Ormai ero una signora, ero entrata in una famiglia nobile; non era più decoroso che io continuassi a recitare. Sì, egli aveva giurato per farmi piacere; ma quello era un capriccio da fanciulla. I suoi parenti non potrebbero tollerarlo... Egli voleva bastar solo alla mia felicità...

«Ed invece no, non mi bastava. Amavo l'arte con passione, e poi mi offendeva il vedermi ingannata così.

— Ebbene, gli dissi, partiamo subito.

«E partimmo. Entrai in un vagone in cui c'erano parecchie persone, ed il mio sposo dovette seguirmi malgrado il suo biglietto di coupé. Partimmo da Firenze alle sei del mattino ed alle otto di sera giungemmo a Torino senz'essere stati soli un momento.

«Dovevamo passare la notte a Torino e ripartire la mattina seguente per Modane. Ma, appena giunti all'albergo, gli dissi che avevo sofferto tutta la strada d'un atroce dolore ad un dente.

«Mi ci voleva il chirurgo-dentista. Il dottor Camusso mi aveva curata altre volte. Era necessario che mio marito andasse subito a cercare il dottor Camusso. No; un cameriere non ci metterebbe quella premura. Doveva andarci lui. Fui inesorabile. Gli diedi l'indirizzo: via S. Tommaso, n. 3. E se ne andò.

«Appena egli fu uscito, uscii alla mia volta; andai in piazza Castello, entrai in un omnibus che mi conducesse fin in Borgo Nuovo. Di là mi recai a piedi in via Vanchiglia da una cameriera che m'aveva servita qualche tempo, poi si era maritata a Torino con un operaio. La pregai di tenermi in casa sua per alcune settimane senza farne parola a nessuno. E vi rimasi più d'un mese.

«Intanto la mia compagnia lasciò Firenze e si recò a Napoli. Io scrissi al direttore che lo raggiungerei. Ed infatti dopo quaranta giorni ricomparvi in iscena ai Fiorentini di Napoli, in una prima rappresentazione che ebbe un gran successo, ed io ne ebbi la mia parte.

«Il domani il mio sposo lesse quella notizia sul Fanfulla nella corrispondenza di Picche. Anch'egli, come il fidanzato di Milano, mi scrisse di non considerarmi più come sua moglie.

«L'avviso era superfluo. Pensavo tanto a lui come all'imperatore della Cina. L'avevo sposato unicamente nell'idea fissa di mostrare alla gente che mi aveva disprezzata, che si può essere una attrice, ed essere onesta come un'altra fanciulla, e fare un bel matrimonio, e rimanere una buona artista diventando una gran dama, ed una buona moglie. Era stata un'illusione. Dovetti rassegnarmi a vivere divisa dal marito.

«L'anno scorso seppi, non dalla sua famiglia, ma per mezzo d'un giornale, che mio marito era morto di tifo.

«Nel contratto nuziale mi aveva fatto un assegno dotale abbastanza generoso, per assicurarmi un'esistenza agiata; e, malgrado il mio abbandono, non aveva presa nessuna disposizione per annullare quella donazione. Ma quando la reclamai, i suoi parenti ed eredi mi mossero lite.

«Io sono certa di vincerla; ma per mille riguardi non è conveniente che mi rimariti prima che sia terminata questa noiosa causa. Volete aspettare alcuni mesi, e continuare a volermi bene ed a farmi la corte?

— Potete domandarmelo, Vittoria? le risposi. Farò tutto quello che vorrete; vi lascierò continuare la vostra carriera.

— No, Gustavo, m'è passata la manìa di guarire il mondo da' suoi pregiudizi. Ho capito che una vita a tesi è troppo difficile. E poi non ho più fede nella mia tesi. Siete voi che me l'avete fatta perdere. Finchè non si ama davvero si crede di poter sempre serbare una parte del nostro cuore per l'arte; ma voi m'avete fatto sentire che c'è un amore per cui basta appena tutto il cuore, tutta la vita; che non lascia più posto per nessun'altra passione.»

Quelle parole mi resero pazzo di gioia. La presi nelle mie braccia, la colmai di carezze e di baci. Tornai a gustare l'ebbrezza d'essere amato, fui ancora felice.

Quando fummo per separarci, Vittoria mi disse:

— Credete in Dio, Gustavo?

— Sì, le risposi. Quando si ama e si è felici si prova il bisogno di credere, come nei grandi dolori.

— Ebbene venite. Voglio che mi giuriate davanti a Dio che mi amerete sempre. E mi trasse nella sua camera, dinanzi ad un inginocchiatoio a' piedi del letto.

— Giurate, riprese, che mi amerete sempre come ora; che mi aprirete sempre tutto il vostro cuore, che avrete fede in me, che mi renderete felice e mi rispetterete come questa sera.

E mi aveva spinto in ginocchio, ed inginocchiata anch'essa accanto a me mi stringeva le mani e mi guardava negli occhi con infinito amore.

Il mio cuore balzava di gioia; mi sentivo rivivere in quella grande passione. Alzai gli occhi per ringraziare Iddio dal fondo dell'anima.

Ma ad un tratto un grido soffocato, un gemito, un singhiozzo, mi uscì dal petto, mi lacerò il cuore. Al disopra del Crocefisso stava appeso un bel dipinto ad olio rappresentante due teste alate.

Era il quadro di Clelia, e Vittoria era sua sorella!

Oh Carlo! Non so dirvi l'angoscia di quel momento. Stringermi al cuore una donna che adoravo, e trovarmi dinanzi all'immagine d'un'altra donna che avevo uccisa. Udire Vittoria parlare di un avvenire pieno d'incantevoli promesse, e sentirmi vile ed infame se non rinunciavo a quella felicità. Avrei dovuto gettarmele ai piedi, confessarle tutto.

«Ho amato tua sorella e disonorandola l'ho uccisa!»

E poi fuggire e non vederla mai più. Vedevo chiaro il mio dovere. Vedevo la viltà dell'azione che commettevo tacendo. Ma avevo il delirio della passione. E non la disingannai: e rimasi. E lasciai che il nostro amore aumentasse ogni giorno. Lasciai che la sua anima si esaltasse in questa passione fino a non poter più vivere senza di me.

Ma d'allora la mia esistenza è una continua tortura; una lotta disperata tra il cuore e la coscienza. La vedo, affogo i miei rimorsi nell'ebbrezza dell'amore; e poi ad un tratto penso:

«Ecco questa donna abbandonata dai parenti e dagli amici non aveva altro affetto sulla terra che sua sorella. Ed io gliel'ho tolta; ed ella si stringe al cuore l'uomo che l'ha uccisa.»

Ed in quei momenti mi sembra d'abbracciare il cadavere gelato di Clelia; e respingo la povera donna, grido, mi sfogo in pianto; le sembro pazzo, e sono profondamente infelice.

Vittoria volle che venissi a respirare un po' d'aria pura qui. Ella mi crede ammalato. È venuta ella pure ad Arona per essermi vicina, e vado a vederla ogni giorno.

Ma la sua schietta affezione, le sue tenerezze sono un continuo rimprovero alla mia coscienza. Sento che questo stato di cose non può durare. Bisogna ch'ella sappia tutto. Che mi perdoni, e mi renda la felicità e la pace; o mi disprezzi, mi scacci addirittura. Meglio morire disperato, che vivere così.

Gustavo era esaltato e commosso. Io stesso non trovavo parole per quell'angoscia; ero profondamente impietosito; comprendevo tutto lo strazio di un'anima delicata in quella situazione. La colpa era delle circostanze più che di lui; ma le conseguenze erano state terribili. Gli strinsi la mano in silenzio come per dargli coraggio. Egli riprese:

— Dimmi tu, Carlo. Cosa debbo fare? Ogni volta che vado da Vittoria ho il proponimento di dirle tutto; ed ogni volta il coraggio mi manca: ed ogni giorno commetto una nuova viltà. Cosa debbo fare? Consigliami, via.

— Mi fai pena, povero Gustavo; non ne hai colpa, ma hai ragione di sentir dei rimorsi. Non può durare così. Vuoi che faccia io qualche cosa per te? Vuoi farmi conoscere Vittoria, e lasciare che le parli io, e che le domandi io il tuo perdono?

Egli mi abbracciò con riconoscenza; mi chiamò suo salvatore, suo amico; ed il giorno dopo mi presentò a Vittoria.

V.

Era una simpatica giovine quella Vittoria; mi sembra di vederla ancora. Vestiva un abito bianco ampio, a lungo strascico, guarnito in giro di una larga striscia color d'arancia.

Aveva i capelli nerissimi, lunghi, folti, annodati con un grosso fiocco di nastro color d'arancia a sommo il capo.

Poche signore sanno vestire capricciosamente senza cadere nell'esagerazione. Vittoria possedeva quest'arte, e specialmente nelle abbigliature di casa, che non erano troppo schiave della moda, metteva un gusto squisitamente artistico.

Accompagnai Gustavo parecchie volte nelle sue visite ad Arona, per poter entrare con Vittoria in quel grado d'intimità necessaria per la missione di cui mi ero incaricato.

Fra persone giovani e schiette l'intimità si stabilisce presto. Una mattina dissi a Gustavo che quel giorno andrei ad Arona solo.

Egli si fece pallido, mi strinse le mani e mi disse:

— Credi che mi perdonerà? Quando penso come ha trattato quell'altro perchè l'aveva ingannata....

— Quell'altro non lo amava, risposi. Via, speriamo.

Ed andai solo ad Arona.

— È solo? mi domandò Vittoria agitata.

— Sono solo. Gustavo verrà più tardi, se vuole.

— Se voglio?

— Sì, se vorrà, quando saprà tutto.

— Quando saprò tutto? Ma cosa sono questi misteri? Gustavo non può avere dei segreti per me che sono stata sempre sincera e fiduciosa con lui.

— Non si affretti ad accusarlo, Vittoria, Gustavo è innamorato. Questa è la sua colpa e la sua scusa. Ma c'è un segreto, c'è una grande disgrazia di mezzo. Gustavo non ha il coraggio di farle questa confessione. L'ha affidata alla mia amicizia. Vuole sentirla da me?

— Dica, dica presto per carità.

Ed era tutta turbata e le scintillavano gli occhi.

Io le narrai tutta la storia disgraziata del mio amico; le dissi le sue trepidazioni passate, le sue angoscie presenti, i suoi rimorsi, i suoi timori, il suo immenso amore per lei. La pregai di perdonargli; mi posi in ginocchio io stesso per Gustavo; evocai, per intenerirla, la memoria della povera Clelia.

Ella mi ascoltò sempre in silenzio. Ma aveva il seno ansimante, e si fece prima pallidissima in viso, poi infiammata. I suoi grandi occhi neri mandarono lampi di sdegno, poi rimasero fissi con un'espressione implacabile.

Quando ebbi detto tutto ella mormorò:

— Disgraziato! Aveva uccisa mia sorella, ed ha accettato il mio amore! Ah non sapevo che si potesse esser perfidi cosí!

Io parlai e pregai ancora lungamente, senza che l'espressione del suo volto si rischiarasse un momento. Rifletteva e pareva che non mi desse retta. Finalmente si rizzò e mi disse seria seria:

— Gli dica che venga.

— Questa sera? domandai.

— No. Giovedì. (Era una domenica).

— Ma gli perdonerà, nevvero, Vittoria? Posso dirgli che gli perdonerà?

— Lo saprà allora.

— Mi dica almeno che gli vuol bene ancora.

— Pur troppo l'amo quel mostro; l'amo con tutta l'anima e vorrei odiarlo.

Pronunciò queste parole con un accento crudele. Ma era un momento terribile per lei. Ed io pensai che, passati quei pochi giorni in cui si calmerebbe l'impressione di quell'ora, sarebbe clemente, e perdonerebbe con tutta la generosità del suo grande amore.

Corsi da Gustavo altero e felice della nuova che gli recavo. E per la prima volta vidi la sua bella fronte farsi veramente serena. Mise un lungo sospiro di sollievo. — Ah!... come se si sentisse alleggerito da un grave peso.

La sera di giovedì lo accompagnai al battello a vapore; era bello e contento, proprio come dev'esserlo un fidanzato che va a ricevere la sposa del suo cuore. Ma quando fu partito, e rimasi solo alla sponda del lago, mi sentii triste, e mi parve d'averlo perduto.

Tutto il giorno, finchè giunsero battelli, stetti al porto guardando ansiosamente tra i viaggiatori che sbarcavano, per rivedere Gustavo e leggergli in volto com'era andata la sua visita. Si leggeva tutto su quel volto là. Ma l'ultimo battello passò, e Gustavo non venne.

— Va bene, pensai. È perdonato e felice. Lo rivedrò domani.

E rientrai in casa e mi coricai. Ma il mio cuore era agitato. Mi addormentai con difficoltà e sognai tristi sogni.

Tuttavia mi risvegliai che il mattino era già inoltrato. Dovevano essere passati due battelli; Gustavo era dunque tornato. Come mai non era venuto subito da me? Mi vestii in fretta e corsi a casa sua. No; non era giunto ancora.

— Via, è una pace completa, dissi. Rimane a colazione con lei.

E cercai di figurarmi la sua felicità. Ma invece mi pareva di vederlo triste, piangente. Finalmente nel pomeriggio non seppi resistere più. Presi il primo vapore che passò; andai ad Arona, e corsi difilato dalla signora Vittoria.

— C'è la signora? domandai alla cameriera che venne ad aprirmi.

— Nossignore, è partita.

— Partita! E... col signor Gustavo?

— No; il signore dorme; ho l'ordine di rimaner qui finchè si desti.

Entrai precipitosamente in sala. Gustavo infatti era steso sul divano e stava svegliandosi. Sbarrò gli occhi meravigliati; mi osservò ben bene; si guardò intorno come per assicurarsi del luogo in cui si trovava, poi finalmente disse:

— E Vittoria?

— Ebbene, gli risposi, dov'è andata Vittoria?

— Mi ha perdonato! sclamò con accento di beatitudine.

— Ti ha perdonato, ne ero certo. Ma perchè è partita?

— Partita? gridò balzando in piedi tutto sgomento. Ma che! È impossibile.

Io cominciavo a presentire qualche guaio.

— Via, calmati, dissi, e raccontami un po' com'è andata la tua visita, come ti ha ricevuto, e come s'è fatta la pace.

— Ecco. La trovai triste, sai; ma triste! Il suo sguardo mi faceva male. Tuttavia avevo tanti torti; era giusto che mi tenesse un po' il broncio; non poteva dimenticarli così subito. Io le domandai:

— Siete molto in collera, Vittoria?

Ella invece di rispondermi mi additò la tavola apparecchiata e mi disse:

— Pranziamo.

— No, risposi, non pranzerò se prima non mi avete perdonato.

Ella si alzò, passeggiò un momento per la stanza; batteva i piedi forte, ed era molto agitata. Poi mi si accostò e con un atto quasi furioso mi prese la testa fra le mani e se la strinse sul petto; ed in quell'atto ruppe in un singhiozzo che mi fece piangere. Era Clelia che aveva dinanzi. Ed anch'io pensai a Clelia.

Ah! Sono stato infame; senza volerlo, sono stato infame.

— E poi? domandai con impazienza.

— E poi Vittoria disse ancora:

— Ed ora pranziamo.

Sai che ha delle idee bizzarre alle volte.

Io non volli contrariarla di più. Mi posi a tavola e pranzammo.

Qui Gustavo tacque, e rimase pensieroso come se cercasse nella sua memoria.

— Tira via! gli dissi ansioso di veder la fine di quella scena.

— Non c'è altro. Ho un'idea vaga di essermi addormentato a tavola. Non si parlava quasi; di mangiare puoi figurarti se n'avessi voglia. Bevevo, bevevo, e forse ho passata la misura. Fatto sta che mi sono addormentato. Ma tu mi dicevi che Vittoria è uscita?

— Uscita? È partita, ti dico. L'ha detto la cameriera.

— Ma che! L'avrà detto per non lasciarti entrare.

— Meglio così. Ma allora dov'è la signora Vittoria? Perchè non è con te?

— Aspetta, chiamiamo Caterina. E chiamò.

La cameriera accorse.

— Dov'è la signora? le domandò Gustavo.

— La signora è partita ed ha lasciata questa lettera da dare a lei quando si sveglierebbe.

Gustavo si fece pallido come un morto.

Prese quella lettera colle mani tremanti, e si lasciò ricadere seduto sul divano. Io pure mi sentii gelare il sangue nelle vene. Accennai alla cameriera di andarsene, ed appena fu uscita, corsi a Gustavo, lo abbracciai con tutto il calore del mio cuore d'amico e gli dissi:

— Fa coraggio, via. Volevi che ti perdonasse o ti scacciasse per sempre, purchè finissero i tuoi rimorsi. Forse ti scaccia; sopporta la cosa da uomo. Io ti aiuterò con tutta la mia amicizia.

Egli mi diede la lettera, e si coperse il volto colle mani, con un atto veramente disperato.

Non osavo aprire quella busta. Egli me la riprese e mi disse:

— Leggiamo.

Tutti e due abbracciati ed in silenzio leggemmo:

«Voi avete sedotta la mia povera sorella, l'avete disonorata ed uccisa. Foste egoista, sleale con lei. Poi avete ingannata me, e foste con me pure egoista e sleale. Io vi amavo, e vi amo ancora tanto, che se non fuggissi vi perdonerei. Ma sarebbe una cosa infame, che per appagare una passione mia, sposassi l'uomo che ha sedotta ed uccisa l'unica parente che mi sia rimasta fedele. Quella memoria sarebbe sempre fra noi per farci vergognare l'uno dell'altra. Non voglio che mi cerchiate, non voglio che mi vediate più. Lo ripeto: ho la viltà di amarvi; avrei quella di perdonarvi tutto. È per questo che ho fatto preparare nei giorni della vostra lontananza uno stromento di tatuaggio come ne vidi nell'India; e vi ho fatto dormire con un po' d'oppio nel vino. Ho voluto porvi sulla mano un'immagine tale che v'impedisca di stenderla mai più in cerca di me.»

Ci guardammo l'un l'altro atterriti. Eravamo pallidi come due cadaveri. Non osammo dire una parola. Gustavo alzò lentamente e tremando la mano destra, mise un grido disparato, e gettandosi nelle mie braccia ruppe in un pianto convulso. Su quella mano stava impressa, ancora arrossata e gonfia per l'operazione recente, la figura del quadro di Clelia. Due teste alate.

VI.

Allontanai di là il mio povero amico; lo ricondussi ad Intra; cercai di distrarlo; ma fu inutile. Teneva sempre gli occhi fissi su quella mano tatuata e stava zitto delle ore guardandola. Lo indussi a venire con me a fare un giro artistico in Isvizzera sperando che quella natura pittoresca, ridestando in lui le inspirazioni dell'arte, mitigasse l'intensità del suo dolore.

Ed infatti quando si vedeva in faccia ad una bella scena, si metteva con ardore a farne lo schizzo. Ma poi sospendeva il lavoro e rimaneva cogli occhi sbarrati e penosamente fissi sulla mano tatuata.

L'indussi a portare un guanto, anche quando lavorava. Ma era la stessa cosa. Fissava il guanto, pensava a quello che c'era sotto, e piangeva in silenzio; gli cadevano dei lacrimoni che mi straziavano il cuore.

In un mese si fece magro come un'ombra. Prima parlava pochissimo; poi finì per non parlare più affatto. La solitudine ed il raccoglimento che si procurava coll'insistente silenzio, lo concentravano sempre più in quell'idea fissa.

Qualche volta faceva dei gesti disperati. Dopo qualche tempo cominciò ad accompagnare i gesti con qualche parola che non rivolgeva a nessuno. Un giorno, dopo una lunga gita, vedendolo più triste che mai, gli rizzai davanti il cavalletto nella nostra camera d'albergo, e vi posi sopra un suo quadro incominciato. Al vederlo si ritrasse con raccapriccio, respinse la tavolozza che gli porgevo, e si pose a gridare mille cose insensate.

«Ch'egli era venuto al mondo in un quadro, e con due cuori. Ed aveva sempre vissuto in un quadro: e perchè aveva due cuori era morto due volte. Ma però la vita della gente che parla e ride e cammina non la sapeva, perchè nei quadri si vive in una continua tempesta; ed omai voleva provarla anche lui quella esistenza tranquilla senza cornice...»

La sua ragione era perduta, o almeno in grave pericolo. Lo condussi a Milano dal dottor Biffi.

Egli mi disse che non c'era punto sicurezza di ricuperare quella testa malata. Tuttavia si proverebbe a curarla; era tanto giovine....

Visitai lo stabilimento. Quelle camere ariose, pulite, quel servizio accurato, quella posizione salubre, quell'insieme di cura intelligente e cordiale, mi persuasero ad affidare al dottor Biffi il mio povero amico.

Egli rimase là senza la menoma resistenza. Comprendeva vagamente di essere ammalato, o almeno fuori dal suo stato normale, e d'aver bisogno di cura.

Allontanandomi dalla via San Celso, solo in una carrozza da nolo, piangevo come un disperato. Mi ero affezionato a Gustavo di quell'affetto intenso che nasce nella comunanza dei grandi dolori. Ed in quella casa di tristezza avevo lasciata una parte del mio cuore, la più cara e la migliore.

Quanto a Gustavo mi aveva veduto allontanarmi senza dare alcun segno di rammarico, come se avesse esaurita tutta la sua potenza di soffrire. Quell'apatia straziava l'anima a me, e faceva crollare il capo al medico.

Seppi che Vittoria si trovava a Genova ed aveva lasciato il teatro. Vi corsi subito. Le narrai lo stato di Gustavo e la rimproverai acerbamente. Oh mi dimenticai che fosse una donna per rimproverarla. Ed ella chinò il capo e mi ascoltò col più profondo pentimento, e pianse come non piangono che le anime buone.

Imprecò a sè stessa, al destino, al teatro.

— Maledetto il teatro, esclamò. È quello che m'ha guastata la testa. Ero avvezza a vedere delle catastrofi, ed avevo bisogno di metterne una in fondo al mio dramma. Mi pareva che dopo dovessimo ritrovarci tutti dietro le quinte, e darci la mano sorridendo tra noi, per venir fuori a sorridere al pubblico. Aveva ragione la mamma. Ecco quello che ho guadagnato. Mi sono guastata la testa ed il cuore. È la sua maledizione che mi colpisce. Poi, gettandosi addosso un mantello senza guardarsi allo specchio, senza prender nulla con sè, uscì in furia con me, e ci recammo allo scalo. Per fortuna c'era un treno in partenza e potemmo partir subito per Milano. Vittoria mi diceva traverso i singhiozzi e le lacrime:

— E se sapesse come l'amavo, e che vita miserabile ho fatta in questo tempo. L'aspettavo sempre, mi pareva di vederlo entrare, gettarmisi in ginocchio davanti; e di stendergli le braccia, e di piangere insieme. Era il colpo di scena che aspettavo. Non ero che una commediante; che Dio disperda tutti i teatri del mondo!

Era una bella mattina di marzo quando giungemmo insieme a Milano e con una carrozza da nolo ci facemmo condurre allo stabilimento del dottor Biffi. Gustavo passeggiava in giardino. Ci lasciarono andar soli ad incontrarlo.

Al vederlo mi si strinse il cuore.

I romanzieri ed i poeti dipingono la pazzia in un modo malinconico e bello: la pazzia d'Amleto e d'Ofelia. Ma la realtà non è così. Sembra che in quegli esseri privi di ragione la macchina umana si sfasci. I loro abiti sono mal messi e cadenti, spesso anche sudici; una gran parte ha la manía delle nudità indecenti. In tutti, la persona perde ogni grazia, ogni decoro di contegno. L'uomo aristocratico, l'artista dalle grandi ispirazioni, il contadino ignorante sono tutti uguali là dentro come nel campo santo. Tutti camminano, gestiscono, si muovono colla medesima trivialità. Quelli che per una manìa di grandezza vogliono serbare un contegno dignitoso, lo esagerano e fanno da caricature: About-Hassan nel palazzo del Califfo.

Ci accostammo a Gustavo che ci guardava senza riconoscerci. Vittoria con uno de' suoi slanci drammatici gli si gettò ai piedi gridando:

— Oh Gustavo! Mio caro, perdonami per carità...

Egli non si mosse; non comprese nulla. Ella si alzò, gli prese le mani, le baciò, le riscaldò sul suo petto; gli parlò del passato, di lei, di Clelia; lo chiamò coi più dolci nomi.

Sempre impassibile.

Volle abbracciarlo, egli si schermì colla selvatichezza d'uno scolaro.

Allora presi a parlargli io; cercai di condurlo ad un altro ordine d'idee; di rammentargli le partite di campagna, i viaggi, i conoscenti comuni.

Mi rispose con un sorriso idiota che mi fece piangere.

Vittoria pensò di poterlo ridestare da quel torpore col mezzo dell'arte che aveva amata. Corse nello stabilimento, e tornò portando un bel quadro ad olio, rappresentante la Madonna dei dolori.

Ma prima che gli fosse vicina, Gustavo, alla vista del quadro, si diede a fuggire urlando e facendo salti spaventosi.

Fu arrestato a fatica e gli si dovette mettere la camicia di forza. Voleva frantumare il quadro e chi lo portava; tornava alla storia della sua vita, trascorsa tutta in una cornice; voleva essere libero, e ricominciare un'esistenza fuori dai quadri.

Forse aveva creduto di vedere il dipinto di Clelia colle teste alate. Tutte le volte che vedeva un quadro dava in quelle smanie; diceva che le teste che hanno ali fanno morire i cuori, e strappava i capelli agli infermieri ed a se stesso, credendo di strappare le ali.

Partimmo di là colla morte nell'anima, senza recare con noi nessuna speranza. Vittoria, violenta nel dolore, come era stata nell'amore e nella vendetta, si disperava, e mi faceva tremare di vederla subire la stessa sorte del suo povero amante.

Ci lasciammo a Milano, e non ci rivedemmo più. Ella rimase, per essere sempre vicina a Gustavo, e continuò a visitarlo, e ad amarlo, ed a vivere per lui.

Gustavo morì dopo un anno senza aver ricuperata neppur un'ombra di intelligenza, senza aver riconosciuta mai quella povera donna, che implorava in ginocchio una parola di perdono.

Nella lettera in cui mi annunciava la morte di Gustavo ella mi scrisse:

«Abbiamo sempre torto quando vogliamo ribellarci alle leggi della natura. Egli ha cercata la felicità in un amore impossibile; ed io ho cercata la giustizia in una separazione inumana. E Dio ci ha puniti entrambi. L'ho fatto portare al cimitero di Monza, ed ho presa una casa vicina per andarlo a visitare ogni giorno finchè vivrò.»

Erano due anime buone e meritavano una sorte migliore.

LA PRIMA DISGRAZIA

M'era caduta addosso quasi colla vita, la mia prima disgrazia, e da quel giorno fummo inseparabili, immedesimati l'uno coll'altra; io ero essa ed essa era me; mi chiamavo Eustacchio.

Eppure passarono degli anni assai, prima che m'accorgessi che quella era una disgrazia.

La mia mamma era vedova, ed aveva un negozietto di droghe a Fossano. Io passavo le giornate sullo scalino della bottega, mentre la mamma accartocciava caffè e zucchero con tanta arte, che si sarebbe detto che quello zucchero e quel caffè fossero nati in quei cartocci come frutti nella buccia.

Venivano i figliuoli dei vicini a trastullarsi con me; e, naturalmente, si giocava alla bottega. Due pezzi di carta appesi ad un bastoncino con tre fili di refe, facevano da bilancia; un po' di terriccio, sassolini e mattone pesto, costituivano il fondo di negozio.

— Mi dia un'oncia di caffè, diceva il ragazzo che rappresentava l'avventore; e lo diceva gongolando e frenando a stento le risa come se fosse la cosa più umoristica del mondo.

Ed io, che, come proprietario dello scalino di bottega su cui si giocava, avevo sempre la più bella parte, che è quella del bottegaio, mi affrettavo a mettere un po' di terriccio sulla bilancia di carta, poi ad accartocciarlo studiando i movimenti simultanei delle mani, che col pollice e l'indice tengono uniti i due capi della carta ai lati, e col medio ripiegano gli orli, salendo man mano, e restringendo sempre.

Tratto tratto la mamma mi chiamava per presentarmi a qualche sua cliente, la quale mi trovava sempre cresciuto.... uno sproposito! e mi domandava quasi invariabilmente:

— Come ti chiami?

Io stavo zitto e cercavo di tornare al gioco. — Ma la mamma andava superba della mia intelligenza precoce, ed insisteva:

— Via, rispondi. Di' alla signora come ti chiami.

— Tacco Locci! Rispondevo un po' per ubbidienza un po' per vanità di sentirmi lodare. Ed infatti erano esclamazioni ammirative da non finir più:

— Carino! Come parla bene! Che cosa ha detto?

Eustacchio Rossi, chiosava mia madre insuperbita da quel successo. Lui dice Tacco per dire Eustacchio.

— Oh caro! Quant'è caro! Che intelligenza! Quanti anni ha?

— Ne ha tre; ne ha quattro, ne ha cinque; ne ha sei; rispondeva la mamma crescendo d'anno in anno, finchè arrivò a dire:

— Ne avrà presto sette.

Ma la mia intelligenza e l'ammirazione delle vicine erano sempre le stesse. Intanto la mamma aveva cominciato per vezzo a chiamarmi Tacco come dicevo io, poi aveva fatto il diminutivo Tacchino, ed era diventato un nomignolo di famiglia, dato e ricevuto come una carezza.

* * *

Fu soltanto il primo giorno che andai a scuola, che mi accorsi che quel diminutivo vezzeggiativo era ridicolo.

Dopo avermi raccomandato lunghissimamente alla maestra, la mamma se ne andò dicendomi:

— E stai buono, sai Tacchino?

— Oh! oh! oh! Tacchino! s'udì susurrare sui banchi, si chiama Tacchino!

— Chi?

— Il ragazzo nuovo.

— Come si chiama?

— Tacchino.

— Ah! ah! ah! Tacchino!

— Oh! oh! oh! Tacchino!

E tutti a ghignare guardandomi; e man mano che passavo loro accanto per andare al posto che m'era assegnato, facevano glu... glu... glu... glu... E daccapo a ridere.

Io non sapevo cosa volesse dire quella specie di gorgoglio, come se gargarizzassero; ma alla lunga capii che credevano d'imitare il grido del tacchino quando fa la ruota.

E questo durò per tutti gli anni di scuola.

Io cercavo di nominarmi spesso per poter dire il mio nome senza diminutivo. Ma che! L'avevano udito una volta; non potei più liberarmene.

Finii per fare l'abitudine a quegli scherzi, che erano poi sempre gli stessi, ma la scuola mi venne in uggia. La mamma trovava quelle burle insistenti, estremamente sciocche; ed infatti ripensandoci ora, non capisco come potessero alimentare per tanto tempo l'ilarità di quei monelli. Ma generalmente gli scherzi che divertono i ragazzi non sono più sensati di così.

* * *

A quattordici anni mi sentii abbastanza forte e testardo per far fronte a tutte le obbiezioni della mamma, e ribellarmi risolutamente alla scuola. Del resto avevo in mio favore un argomento irresistibile: non imparavo nulla.

Mi posi al banco nella mia bottega; firmai parecchie ricevute col mio bravo nome tutto intero, feci perdere a mia madre il vezzo di chiamarmi Tacchino, gli avventori presero l'abitudine di dirmi signor Eustacchio; e mi credetti salvato dal ridicolo.

Furono buoni anni quelli. Nella mia bottega ero una potenza; ero padrone; e non avevo altra fatica fuorchè quella di accartocciare, pesare, contar denari e dire paroline inzuccherate alle servotte giovani, ed anche a quelle che non lo erano più tanto.

Ma cosa bella e mortal passa e non dura. Il vecchio garzone patentato che avevamo in negozio morì. Non era lui la cosa bella; ma la mia vita beata, che fu interrotta da quell'incidente funebre. Non potevo continuar a tener bottega aperta senza procurarmi una patente da droghiere; oppure un altro garzone patentato. Ma questo mi sarebbe riescito dispendioso ed umiliante.

Decisi di prendere gli esami io stesso. Non si richiedevano studi molto profondi, ma sufficienti per turbare la mia pace, e farmi svaporare quel poco cervello che avevo.

Si fece venire interinalmente un garzone patentato per rappresentarmi in bottega, ed io partii per Torino.

* * *

Affittai una camera mobigliata al quarto piano, in una gran casa sotto i portici della Cernaia; e mi affrettai a prenderne possesso appiccicando all'uscio un cartellino su cui avevo scritto: E. Rossi.

Sul pianerottolo c'era un altro uscio proprio di contro al mio, e ci abitava una sarta. La mia unica finestra verso il cortile, era in faccia alla finestra del laboratorio.

Io ci guardavo dentro. C'era un gran paniere di vimini, pieno di stoffe e ritagli d'ogni colore, e di abiti in via d'esecuzione, intorno a cui cucivano, sedute in giro, cinque ragazze dai quindici ai diciotto anni.

Avevo diciotto anni io pure; e sapevo che gli studenti a Torino trovavano delle avventure. Dacchè ero a Torino per prepararmi ad un esame e pigliare una patente, mi consideravo uno studente anch'io, ed aspettavo le avventure. Sentii vagamente che per me dovevano cominciare da quel laboratorio; e non fui malcontento di quella persuasione.

Dal bel primo giorno passai subito tutto il mio tempo alla finestra per attirare l'attenzione, e non mi riuscì difficile.

Era un gruppo irrequieto, garrulo, giocondo, come una nidiata di passeri.

I primi a volgersi dalla mia parte furono due occhietti furbi, neri come il nerofumo che avevo in bottega, lucenti come la lampada a petrolio del mio banco; due occhietti che ridevano senza bisogno d'averne un pretesto. Una parolina susurrata e due colpetti di gomito a destra ed a sinistra, fecero alzare due grandi occhioni fieri e terribili, e due occhi azzurri come due pallottole d'indaco per la biancheria.

Le altre due fanciulle che compivano il circolo intorno al cesto, volgevano il dorso alla finestra, e per guardarmi dovettero torcere il collo e volgere lo sguardo indietro, ed io vidi i loro occhi soltanto di sbieco, e mi parvero loschi.

Stavo là ritto, impalato, lasciandomi ammirare.

La mattina seguente mi parve che ci conoscessimo un po' di più, dacchè c'era il precedente delle occhiate del giorno innanzi.

Mi credetti in diritto di fare un saluto, e mi si rispose con un cinguettìo sommesso fra le cinque testine raggruppate, con uno scoppiettìo di risate mal represse, con una serie di occhiatine furtive, maligne, rapidissime.

Quell'armeggio durò una settimana. La nostra muta conoscenza si andava facendo sempre più intima; ci sorridevamo in faccia; appena comparivo alla finestra i dieci occhi brillavano come dieci becchi di gaz; ed io aspettavo ansiosamente la prima avventura che non poteva tardare.

* * *

La sera del sabato udii sul pianerottolo una vocina giuliva che chiamava:

— Signor Enrico!

Provai una fitta al cuore. Era la voce della bella fanciulla dagli occhietti nerofumo; quella che m'aveva guardato per la prima, e che udivo cicalare tutto il giorno nel laboratorio in faccia.

E chiamava un altro sulla scala. Chi poteva essere? Stetti a sentire, e dopo un minuto la udii chiamare daccapo:

— Signor Eugenio!

Un altro ancora! Ed io che aspettavo l'avventura da lei?

Era quella che mi piaceva di più... Ed invece dovrei accontentarmi della bionda dagli occhi come pallottole d'indaco.

— Signor Emilio! riprese la fanciulla.

Un terzo!

— Signor Ercole!

— Misericordia! esclamai. Si chiaman legione.

— Signor Ernesto! Signor Ernesto! gridò ancora; e questa volta picchiò al mio uscio.

Ma non poteva rivolgersi a me. Non mi chiamavo Ernesto.

Stetti zitto, ma il cuore mi batteva come il pestello di sasso nel mio mortaio da caffè.

— Signor Ernesto! Signor Ernesto! chiamò daccapo picchiando più forte. Non c'era più dubbio; l'aveva con me. M'affrettai ad aprire.

Era proprio lei che rideva colla bocca, cogli occhi, con tutto il viso.

— Misericordia! mi disse, quanto mi ha fatto chiamare! È sordo? Mi si è spento il lume.

Corsi a prendere il mio per riaccenderglielo ed intanto risposi:

— No, non sono sordo, la udivo benissimo. Ma non sapevo che chiamasse me. Non ho nome Ernesto!

— Che ne so io? C'è soltanto un E sul suo uscio. Ho chiamato tutti i nomi in E che mi sono venuti in mente.

— Ma non ha chiamato il mio.

— Come ha nome allora? Ettore?

— No.

— Edoardo?

— No.

— Oh Dio? Ma come ha nome? dica?

— Eustacchio.

— Eu...?

— Stac-chio.

— Ah! ah! ah! ah! ah! ah! E giù dalla scala sghignazzando come una matta. Credo che rida ancora.

* * *

Rimasi intontito.

Non bastava il nomignolo che mi aveva avvelenati gli anni di scuola? Anche il mio nome pronunciato con tutta serietà faceva ridere? Dovevo ricominciare a tribolare per quel disgraziato nome? Come aveva fatto ad invecchiare quel balordo zio materno che mi aveva legata col battesimo quella funesta eredità? Udivo ancora echeggiare le risate di quella ragazza. Ero ridicolo anche per lei, per tutti!

La mattina seguente mi accostai alla finestra pian piano, in punta di piedi, peritante, intimidito come un cane scottato. Ma non arrivai neppure ad affacciarmi. Le cinque bocche rosate si spalancarono ad un coro di risate sonore, ed i dieci occhi scintillanti mi trafissero come dieci lame d'acciaio.

Dal fondo della mia camera le udivo sghignazzare ripetendo il mio nome.

— Eu-stacchio. Ah! ah! ah!

Se dovevano esser queste le mie avventure, pensai che non valeva la pena di desiderarle tanto!

E tuttavia, se non fosse stata quella miseria del nome l'avventura sarebbe cominciata. Quella fanciulla era venuta a bussare al mio uscio per farsi riaccendere il lume; ma il lume era un pretesto. Era venuta per parlare con me; era stato il mio nome che l'aveva fatta fuggire.

Ah, se mi fossi chiamato Ernesto come diceva lei! Ernesto!

* * *

Era come se quel nome fosse fatto di pece o di trementina. Mi si era appiccicato al cervello, e non potevo staccarmelo più. Avrei dati fin gli scaffali della mia bottega per potermi ribattezzare.

Tentai ancora più volte di riaffacciarmi alla finestra; ma suscitai sempre la stessa ilarità. Dovetti rinunciarvi.

Ad un tratto mi venne, improvvisa come se un amico me la susurrasse all'orecchio, una idea luminosa.

— Perchè non potrei chiamarmi Ernesto? Chi me lo impedisce? C'è forse qualcuno che ha acquistata la proprietà di quel nome? Posso pigliarla io quanto un altro. A Torino nessuno sa che mi chiamo Eustacchio, fuorchè quelle fanciulle. Che non mi vedano più, ed in un paio di giorni mi avranno dimenticato, ed avranno trovato un altro argomento da divertirsi...

Avevo preso in affitto la camera per una settimana. La mia pigione scadeva appunto il giorno seguente. Invece di rinnovarla feci fagotto, mandai un sospiro alla finestra del laboratorio, senza affacciarmi per non udire quelle risate schernitrici, e via per Torino in cerca di un altro alloggio.

Lo trovai in via Pio Quinto, all'altro capo della città. Mi presentai sotto il nome di Ernesto, e posi il cartellino collo stesso nome sull'uscio. Poi scrissi a mia madre che avevo conosciuto un altro Eustacchio Rossi, e la pregai di dirigermi le sue lettere al nome di Ernesto per evitare confusioni.

Quel nome mi portò fortuna. Nessuno mi derideva più. Ebbi quasi subito un'avventura colla serva d'un salumaio sotto i portici di San Salvario. Non era bella come la sartorina dagli occhietti lucenti, ma era meno insolente. Mi voleva bene, mi trovava bello, e mi chiamava Ernesto.

Io glielo facevo ripetere cinquanta volte in un'ora. Non potevo saziarmi d'udire quel nome che mi accarezzava l'orecchio e mi compensava di tutti i dispiaceri che m'aveva dato quell'altro.

A poco a poco stando a Torino divenni elegante fino a farmi delle carte da visita. Non facevo visite, veramente. Ma ne avevo data una alla mia amante che l'aveva piantata nella cornice dello specchio, ne avevo piantato un'altra nello specchio della mia camera, ed una sull'uscio al posto del cartellino manoscritto.

Ormai nessuno poteva più negare che mi chiamassi Ernesto; era stampato. Erano le mie carte da visita quelle. Il giovine del trattore dove andavo a pranzare mi chiamava famigliarmente signor Ernesto; e mi faceva un piacere...

Fu un anno felice. Ero completamente libero. Prendevo sempre l'alloggio di settimana in settimana, e quando la mia servotta cambiava padrone, io cambiavo di casa per andarle vicino.

Da via Pio Quinto andai in via Vanchiglia, poi in via Plana, poi in Dora Grossa, poi d'un balzo fino in Borgo Nuovo. Ero perfettamente padrone di fare a mio modo. Non avevo bisogno neppure di scriverlo alla mamma, perchè aveva cominciato a mandarmi la prima lettera ferma in posta aspettando il mio indirizzo, ed aveva poi continuato sempre cosí.

Ci volle un anno intero per prepararmi all'esame. Gli altri si sbrigavano più presto; ma io non avevo un cervello vulcanico. Però quell'anno era passato presto.

Stavo per avere la patente.

Poi sarei tornato a Fossano carico d'allori, avrei preso il mio posto di padrone nella mia bottega, ed in quella circostanza gloriosa, non disperavo che anche la mamma consentisse a chiamarmi Ernesto. Soltanto non avrei potuto metterlo sull'insegna in causa della patente. Ah! questa pur troppo non si poteva avere senza presentare quella disgraziata fede di nascita!

* * *

La vigilia degli esami andando alla posta, trovai una lettera profumata come una scatola di canfora; ma non aveva odore di canfora, e portava tanto di cifra e di corona sulla busta.

Cosa poteva essere? Un'avventura con una corona! Doveva essere una regina.

Ed io che m'ero andato a perdere con una serva! Cosa vuol dire esser troppo modesti!

Tagliai la busta pian piano col temperino, per non guastare la corona che volevo far vedere a Fossano, ed apersi la lettera.

Erano poche parole. Ma che parole, Santa Sindone... immacolata! che parole! Sottili che si vedevano appena, e tutte cascanti come donnine gentili che cadono in svenimento.

«Mio signore,» cominciava... Suo signore! Il cuore mi diede un tal balzo che credetti vedermelo uscire dalla bocca.

«Sono una povera inferma...

— Ah! è per questo, pensai che le parole cadono svenute.

«Quando tutta la parte intelligente e gentile di Torino corre a portarle il suo tributo d'ammirazione...

— Diamine! esclamai, io non ho ricevuto nulla! Dove l'hanno portato? Forse all'indirizzo di via Pio Quinto. Ecco cosa si guadagna a cambiar casa ad ogni momento. Bisognerà ch'io passi a vedere dal portinaio.

«... il loro tributo d'ammirazione, io, che sono condannata a starmene in casa, dubito della giustizia di Dio.

«È un dubbio pericoloso per la mia anima cristiana; e dipende da lei il togliermelo dal cuore, e restituirmi la fede. Vuole? Acquisterà merito dinanzi a Dio. Basterà che mi provi che un po' di giustizia c'è sempre, venendo questa sera a prendere un tè in casa mia perchè possa anch'io conoscerla ed ammirare il suo ingegno. — Contessa Tale dei Tali. — Via Tale, numero Tale.»

Era soltanto una contessa. Ma quasi lo preferivo. Una regina mi avrebbe data un po' di soggezione.

* * *

Quel giorno avevo stabilito di ritirarmi in casa a ripassare i miei studi per esser pronto l'indomani all'esame. Ma dopo quella lettera capii che ne sapevo abbastanza. Del resto, avevo ben altro in testa che gli studi in quel momento.

Erano già le undici e dovevo prepararmi per la sera ad andare dalla contessa Tale dei Tali.

Scrissi subito una cartolina a mia madre, per sfogare la soddisfazione immensa che mi gonfiava il cuore.

«Cara mamma. I miei studi sono compiuti gloriosamente; l'esito dell'esame è più che sicuro; credo anzi che mi manderanno la banda municipale per farmi onore, perchè pare che io abbia un ingegno sorprendente. Tutti ne parlano; una contessa di mia intima conoscenza, mi assicura che tutta la parte intelligente e gentile di Torino corre a portarmi il suo tributo d'ammirazione. Io però non l'ho ancora ricevuto in causa di uno sbaglio d'indirizzo; ma prima di partire ne farò ricerca e te lo porterò.

«Domani coll'ultima corsa arriverò a Fossano colla patente. Annuncia ai parenti ed amici la buona novella ed invitali a cena per festeggiarla.

«Tuo aff. figlio «Ernesto Rossi «Droghiere approvato.»

* * *

Ero sempre stato economo; lo ero per natura. Ma in quella circostanza non era il caso di badare a miseria. La contessa m'invitava a prendere il tè; bisognava renderle cortesia per cortesia.

Entrai da un droghiere e le feci mandare a casa una bella provvista di caffè moka ed un pane di zucchero.

Poi, contento di me, pensai al modo di vestirmi per la sera.

Dovendo stare soltanto un anno a Torino, non mi ero provveduto di un abito da serata; tanto più che avevo l'abitudine di passare le sere al giardino della Stazione colla serva del salumaio, la quale non era esigente sulla toeletta.

Ma ero sicuro che non si poteva andare da una contessa senza avere l'abito a coda di rondine, i calzoni neri, la cravatta bianca.

Era una spesa enorme. Ma in quel momento non badavo più a spese; avrei ipotecata la mia bottega, avrei messo sul lastrico me e mia madre per non sfigurare.

Andai dai fratelli Bocconi e comperai tutto il vestiario, perfino le scarpe lucide. La stoffa era ordinaria; poichè doveva servire soltanto una volta, non metteva conto che durasse. Ma tutto era nuovo fiammante; e tutto stretto stretto; le contesse amano gli uomini magri come croci, ed io avevo una salute... oh, ma una salute, che mi arrotondava tutto dai piedi al cervello.

Spesi ottanta lire. Uno spropositone! Ma infine tutti fanno qualche pazzia in gioventù; e, d'altra parte, quel vestiario poteva ancora servirmi quando avrei preso moglie.

* * *

La sera quando entrai nell'anticamera della contessa, così ben chiuso ne' miei abiti che stentavo ad alzare le braccia per togliermi il cappello, non erano ancora le sette.

— La signora è a pranzo, mi disse il servitore.

— Non importa, risposi. Ditele che son io. M'ha invitato pel tè; mi aspetta.

Egli mi guardò ben bene dalla testa ai piedi. Forse non aveva mai visto nessuno così ben vestito. Poi riprese:

— Ma è molto presto.

Io sorrisi della sua ingenuità. Egli non sapeva con che ansietà mi aspettasse quella povera dama, che dubitava persino della giustizia di Dio per causa mia.

— Se potesse tornare più tardi... soggiunse.

— No, no. Lasciate pure che pranzi con comodo. L'aspetterò. E mi posi a sedere in un angolo dell'anticamera dicendo:

— Quando avrà finito mi riceverà.

— Chi dovrò annunciare? domandò il servitore avviandosi per uscire.

— Ernesto Rossi.

Egli si fermò di botto, poi tornò indietro e mi disse con premura:

— Scusi. Può aspettare in sala. Favorisca.

Ed aprendo i due battenti della porta di contro, s'inchinò per lasciarmi passare in una sala tutta piena di fiori e di specchi, con un tappeto su cui si camminava senza rumore come fanno i fantasmi.

— Anche i servitori sanno il mio nome e mi ammirano, pensai; ed andai a contemplare in uno specchio la mia persona divenuta celebre.

* * *

Quello specchio era un uscio, ed era socchiuso. Dall'altro lato si udiva tratto tratto il leggerissimo tinnire d'un bicchiere, d'una posata, d'un piatto, subito represso. Doveva essere la sala da pranzo. I signori usano pranzare pian piano come se avessero paura di venir sorpresi.

— E così? domandò una voce d'uomo.

— E così, rispose una vocina di donna, gli ho scritto, e l'ho invitato per questa sera al nostro tè.

Capii che parlavano di me, e stetti a sentire coll'orecchio all'uscio.

— È una pazzia, Emma. Un'imprudenza. Ti crederà una donna leggera, ripigliò l'uomo.

E la vocina graziosa:

— Ma che! Non è un vanerello. Tutti mi parlano di lui, del suo ingegno; io non posso andarlo a sentire, e mi struggo di curiosità. Era naturale che lo invitassi a farmi una visita. Di sera poi, in pubblico, presente mio marito, perchè spero che ti fermerai in casa... Via, che male ci trovi?

— Trovo che metti troppo entusiasmo nella tua curiosità. Questa sera sarò io che mi chiamerò Otello.

Questa mi parve curiosa che per ricevermi volesse cambiar nome anche lui. Del resto se gli piaceva di chiamarsi Otello, era un'idea come un'altra; ma non potevo a meno di ridere al pensiero delle disgrazie che gli tirerebbe addosso quel nome, più strampalato del mio Eustacchio.

In quella entrò il servitore e disse:

— Il signor Ernesto Rossi aspetta in sala.

S'udì un susurrìo sommesso, poi un rumore di sedie.

Io mi allontanai in fretta dall'uscio; e quasi subito il servitore lo aprì, e vidi entrare la contessa, piccolina e pallida, che zoppicava leggermente e si reggeva al braccio del marito.

* * *

Io mi feci innanzi, stendendole la mano quant'era larga, e le dissi:

— Sono venuto un po' presto! ma so che, aspettare e non venire è una cosa da morire, e non ho voluto farla aspettare.

Invece di rispondermi la contessa guardò suo marito tutta confusa come se non avesse capito.

Egli si mise a ridere, forse della semplicità di sua moglie, poi mi disse:

— Perdoni. Non abbiamo il bene di conoscerla...

— Ernesto Rossi, risposi. La signora mi ha scritto...

— Ernesto Rossi il tragico? interruppe guardandomi nel bianco degli occhi come se volesse cavarmeli.

— Nossignore, io non sono tragico. Ho sempre avuto un carattere mite.

— Ma cosa fa? Cos'è?

— Sono studente.

La contessa si mise a ridere come se non l'avesse saputo. Poi mordendosi le labbra per star seria domandò:

— Studente di legge?

— Nossignora.

— Di matematica?

— Nossignora.

— Di medicina?

— Nossignora.

— Ma studente di che cosa?

— Studente droghiere.

Fu come se le avessi sparato contro una fucilata. Cadde di piombo sopra un divano in una convulsione di ridere. Pareva che soffocasse. Ne ebbe per un quarto d'ora.

Io non capivo nulla di quell'allegria straordinaria. Finalmente quando le riescì di riavere il fiato, mi domandò:

— È lei che mi ha mandato il caffè! e fuori a ridere daccapo.

— Sissignora, risposi. Mi sono presa la libertà...

— Guarda un po', Emma, a che cosa ti esponi colle tue imprudenze da ragazzetta! le disse il marito coll'aria indulgente con cui si rimproverano i bambini malati.

— Via, ribattè la signora pigliandogli la mano e facendoselo sedere accanto. Ora è inutile che tu faccia l'Otello. Vedi bene che Desdemona potrebbe offrirgli una dozzina intera di fazzoletti, senza nessun pericolo.

Capii che la signora Desdemona doveva essere una persona della famiglia che offriva una dozzina di fazzoletti in compenso dello zucchero e del caffè. Allora presi una sedia, apersi con cura le falde dell'abito e curvai pian piano le mie ginocchia strette, per mettermi a sedere ed aspettarla. Ma in quella la signora diede uno strappo al cordone del campanello che mi fece balzare in piedi daccapo.

Il servitore si presentò all'uscio e la padrona gli disse:

— Pagate a quest'uomo il caffè e lo zucchero che ha mandato quest'oggi, ed accompagnatelo. È il droghiere; fu un errore introdurlo qui.

E mi fece un cenno colla mano, non tanto per salutarmi quanto per mostrarmi la porta.

Maledizione! Anche quel nome d'Ernesto che mi pareva tanto bello mi portava disgrazia come l'altro.

Non ero io, per caso, che portavo disgrazia ai nomi?

Corsi a casa colla testa in fuoco.

Bruciai le carte di visita; strappai il nome dall'uscio; e ripresi il mio primo battesimo di Eustacchio. Per quello che ne avevo cavato, non metteva conto di cambiare.

Ma quella scena m'aveva talmente scombussolata la mente, che il giorno dopo, quando mi presentai agli esami, tutti i miei studi di un anno mi erano svaporati dalla testa; non ne sapevo più assolutamente nulla.

Tutti i tentativi che feci negli anni seguenti ebbero gli stessi risultati. A qualunque domanda rispondevo Ernesto Rossi, Eustacchio Rossi. Non sapevo dir altro.

D'allora il cervello mi è andato in acqua, e si coagula appena qualche rada volta nei freddi intensi, e per breve tempo. Sono i lucidi intervalli di cui mi valsi per narrare alla meglio la mia prima disgrazia.

IMPARA L'ARTE E METTILA DA PARTE

Odda aveva ventotto anni. Era orfana e senza marito. Abitava sola una sua villa ad Ameno sul lago d'Orta. Sola, coi suoi pennelli che sapeva adoperare maestrevolmente, colle massime del suo babbo, e con un'illusione tutta sua.

Le massime del babbo, che Odda aveva adottate, si riassumevano, o quasi, nel proverbio:

«Impara l'arte e mettila da parte.» Soltanto che il proverbio era applicato alle fanciulle, alla loro educazione.

Quanto all'illusione di Odda... ma è meglio, signore lettrici, che la vedano da loro, tenendo dietro al racconto.

Ecco come andò la cosa.

Odda aveva finito un quadro di genere, e l'aveva mandato all'esposizione di Brera. Non quest'anno però; le prego signore lettrici; non cerchino sul catalogo, non voglio fare personalità.

Mandare un quadro all'esposizione è cosa facile senza dubbio. Ma occorre sempre un parente, un amico, qualcheduno, che lo riceva, si assicuri che il viaggio non l'ha avariato, lo presenti, lo faccia collocare, e molti etcetera.

Il parente Odda l'aveva; un fratello del babbo. Ma era un uomo d'affari, che non ammirava l'arte in generale, e la odiava addirittura nelle donne, le quali, secondo lui, sono create e messe al mondo unicamente... per creare e mettere al mondo non già quadri, nè libri, nè statue, s'intende.

Dunque il parente Odda l'aveva, ma era come non l'avesse.

L'amico non l'aveva punto.

Dovette ricorrere al qualcheduno. Il qualcheduno era un pittore, di cui Odda aveva ammirati, studiati, copiati i quadri. Alcuni li aveva anche comperati, ed era superba, e più ancora felice di possederli. Si chiamava Fulvio... ed un cognome.

Ma qui finivano le informazioni di Odda. Chi era? Com'era? Giovine? Vecchio? Ricco? Povero? Bello? Brutto?

Di tutto questo non ne sapeva più di loro, signore lettrici. Sapeva però che ne era idealmente innamorata, e questo lo sanno anche loro a quest'ora. Colla loro penetrazione di donna l'hanno indovinato da questo esordio.

Dunque Odda aveva scritto un biglietto al signor Fulvio e lo aveva pregato per la loro fratellanza in arte, e per la sua cortesia verso una signora, a volersi incaricare di ricevere il suo quadro, presentarlo, farlo collocare e molti etcetera.

Ed il signor Fulvio, da uomo cortese, aveva risposto ringraziandola dell'atto di fratellanza, ed accettando l'incarico con entusiasmo. — E più tardi aveva sfogato in quattro «piedi» d'appendice d'un giornale quotidiano, la sua ammirazione pel talento artistico della signora Odda, la quale lesse quel giudizio colla gioia con cui i pochi eletti fra i molti chiamati leggeranno la loro parte di giudizio universale, nella valle di Giosafatte; lo imparò a memoria, e fabbricò un castello in aria colossale su quella base di carta.

* * *

L'esposizione stava per essere chiusa; lo zio Giorgio, il parente iconoclasta, era tornato dalla campagna colla famiglia: una figliuola di ventitrè anni, ed una sorella vedova — anni x.

Odda era giunta anch'essa in casa dello zio, per sapere cosa avvenisse del suo quadro, ritirarlo, o ritirarne il prezzo se si vendeva.

Era arrivata col treno della mezzanotte; s'era coricata subito, ed il mattino, alzandosi tardetto, aveva trovato lo zio in sala da pranzo che si bisticciava colla sorella per cagion sua.

— L'arte delle donne, diceva lo zio, è di essere buone mogli e buone mamme. Ecco la sola idea vera e sana che voi altre possiate avere; ecco la vostra felicità, la vostra gloria. La famiglia; non altro che la famiglia.

— E chi glie lo nega, zio? entrò a dire Odda che aveva udite quelle ultime parole.

— Tu stessa lo neghi, figliola, ed i paradossi del tuo povero babbo. S'è visto mai una stramberia simile? Avete una ragazza bella, robusta, buona, ed invece di farne una madre di famiglia, farne un'artista, un fenomeno!

— Ma crede che, se avessi trovato un uomo come l'avrei voluto, non l'avrei preferito ai pennelli ed alla tavolozza? E che il mio babbo non avrebbe approvata quella preferenza? Ma che! Le pare? Il babbo ha voluto che imparassi un'arte, e se l'avessi preferito mi avrebbe fatto imparare una scienza, o tutt'altra cosa, unicamente per prepararmi una passione di ripiego. Egli diceva:

«Le ragazze che non fanno nulla di serio, si mettono in testa d'essere al mondo soltanto per trovare un marito, e non pensano che a quella x incognita e sospirata. Si fanno belle per piacere alla x; acquistano una certa coltura, per interessare la x; non ne acquistano troppa, per non adombrare la x; sono casalinghe, economiche, oneste, per rassicurare la x. E quando invecchiano senza averla trovata, non sanno più per chi serbare tutte le qualità coltivate per la x, e le lasciano andare. E si persuadono che hanno fallito lo scopo della vita, e diventano stizzose, sfiduciate, invidiose; o, se sono buone, diventano beghine. Diamo loro un'occupazione nobile e seria, che le appassioni per sè stessa, indipendentemente dall'idea del marito. Se il marito verrà, lo ameranno malgrado la loro occupazione; se non verrà, continueranno a lavorare e ad amare il loro lavoro. Avranno sempre un'idealità, un amore nella vita.» Ecco quel che diceva il babbo.

— Ma quello che non capisco, osservò lo zio, è appunto che una ragazza quando non è un mostro, non abbia a trovare un marito.

— Eppure è facile capirlo, rispose Odda, dacchè il mondo è pieno di zitellone. Ma anche quelle che trovano marito, non lo trovano tutte come avrebbe voluto il babbo, e come vorrei io. Allevate nell'idea fissa che debbano maritarsi presto, e che il non maritarsi è una vergogna, le ragazze a vent'anni cominciano ad inquietarsi se non sono ancora spose. Hanno paura del celibato come dell'inferno. Pensano il giorno e sognano la notte domande di matrimonio. Ed appena si presenta un partito conveniente, lo accettano, non perchè amino quell'uomo-partito, ma per fuggire il pericolo di rimaner zitellone.

— Mettiamo capo alla teoria dell'amore prima del matrimonio, disse lo zio Giorgio con molta ironia.

— Precisamente, affermò Odda. L'amore ci dev'essere. È la sola guarentigia di felicità che abbiano gli sposi. Due persone che si uniscono senza amore, può darsi che si amino vivendo insieme; ma può anche darsi che non si amino; e mi pare troppo ardito tentare la prova. Bisogna amarsi per sposarsi, e non sposarsi per amarsi.

— Questo è un bisticcio, malignò ancora lo zio.

— Lo spiego. E, se la zia Claudina lo permette, lo spiego con un esempio.

— Fai pure, disse la vedova indovinando che Odda voleva parlare di lei. Fai pure. Siamo in famiglia.

— Ebbene. La zia aveva venticinque anni... Non ti preme di nasconderli, vero?

— No, no, tira via.

— Quelli là non li nasconde, disse ridendo lo zio Giorgio. Sono gli altri...

— Aveva venticinque anni, continuò Odda, ed era innamorata di qualcuno. Il qualcuno non sapeva il suo amore.

— Scusa, interruppe la zia, lascia che questa storia la racconti io che la conosco meglio. Il qualcuno sapeva perfettamente d'essere amato, ed aveva fatta la sua brava corte per riescirci. Ma se gli era caro farsi amare, ed essere preferito in società dalla zia che era una bella signorina molto elegante, gli era anche più cara la sua libertà; e respingeva sempre nelle penombre d'un avvenire indeterminato la famosa catena coniugale, il cui nodo gordiano gli faceva paura. Un giorno si presentò al babbo della signorina il signor Tale dei Tali, che aveva trent'anni, una bella situazione, quindici mila lire di rendita, e nessuna paura del nodo gordiano.

«Cosa fare? pensò la signorina. Se quell'altro non si decide ho da rimaner zitellona?» E spaventata da quella minaccia di ridicolo, sposò il giovine bello, ricco stimato, dicendo:

«Col tempo lo amerò.»

Ma invece non lo amò mai.

Egli sentì il contraccolpo della freddezza della moglie; ne fu afflitto, poi annoiato, poi disgustato.

Onesti entrambi, si resero infelici a vicenda. Ed alla fine, quel nodo gordiano che avevano stretto nella speranza di amarsi poi, dovettero invocare d'accordo la spada d'Alessandro per tagliarlo.

Vissero tre anni divisi e poi il marito morì in Inghilterra, lontano dal suo paese e dalla moglie, che rimase in una casa non sua, di peso a se stessa ed agli altri.

La zia stette un po' impensierita dopo quel riassunto della sua vita uggiosa, e Odda accennandola allo zio disse:

— Ora veda. Se quella signorina, invece di passare tutte le sue ore di libertà ad aspettare lo sposo, e le altre ad occuparsi per lui, avesse diviso il suo tempo fra i doveri di casa ed un'arte, se ne sarebbe appassionata, e non avrebbe trovato il tempo lungo fino a venticinque anni, e l'avvenire senza marito non le sarebbe apparso deserto. Avrebbe pensato: «Se quel tale si deciderà a superare l'avversione del nodo gordiano, sarò felice tra la mia arte e lui; altrimenti mi resterà sempre l'arte, non sarò inutile al mondo.» E non avrebbe sposato quell'altro per fare infelice se stessa e il marito.

— Sì; ma queste sono le eccezioni, ribattè lo zio.

— Non sono le eccezioni; sono fra le molte eccezioni. Poi c'è l'altra eccezione di quelli che si sposano senza amore, e dopo qualche tempo si danno a vivere ciascuno a suo modo, hanno appartamenti differenti, abitudini differenti, e differenti relazioni. Poi l'altra eccezione del marito che ama la moglie, e dell'amico che ne è amato. Poi l'altra eccezione della moglie amante ma trascurata, che fila in casa il sentimento e la noia, mentre il marito si spassa fuori. Poi ancora l'altra eccezione della moglie coscenziosa, che combatte nel suo cuore un sentimento estraneo alla famiglia, ed è onesta ma infelice.

— E tu senza figlioli, senza sposo, sola nella tua casa deserta, sei felice perchè fai dei quadri?

— Ora non si tratta di me, zio. Le ho detto che l'arte è una passione di ripiego. Se fossi infelice, essa varrebbe a consolarmi, a preservarmi dalle invidiuzze, dai sentimenti meschini; a darmi un valore personale, che mi farebbe evitare il ridicolo, ed all'occorrenza mi aiuterebbe a guadagnarmi la vita.

* * *

Questo battibecco minacciava di durare tutto il giorno, col solito risultato delle discussioni, di lasciare ciascuno del proprio parere.

Ma fortunatamente per loro, signore lettrici, entrò un servitore con una lettera che lo zio Giorgio comunicò alle signore.

« Caro Giorgio.

«Ho fatto come l'ape, che vola di giardino in giardino, sugge i fiori, e passa, senza voltarsi a guardare se il suo bacio li ha avvizziti; poi, quando la primavera è passata, ed il suo corpo s'è fatto grave al volo, si richiude nell'alveare a deporvi il miele.

«Io ho svolazzato rubando dolcezze di baci traverso la Francia, l'Inghilterra, la Germania; ed ora che il sole di primavera è tramontato dietro i miei quarantacinque anni, portando seco le curiosità giovanili, i giovanili ardimenti, torno anch'io al mio bell'alveare ambrosiano.

«Non mi rimane più molto miele da deporvi, ma se tu mi aiuterai a trovare una collaboratrice giovine, onesta, buona, ho in mente che tra due ne avremo abbastanza per comporre a una discreta luna di miele.

«In volgare desidero di ammogliarmi. Pensaci un poco, e, prima di tutto, pensa a prepararmi da pranzo, perchè col treno che segue questa mia, sarò a Milano.

« Tuo « Leonardo Leoni ».

— Un buon partito per Valeria, disse l'incorreggibile zio Giorgio.

— Ma che! Tua figlia è troppo giovine per lui, osservò la zia facendosi rossa.

— Cosa importa l'età? Se stando qui per alcuni giorni gli riescisse di farsi amare.....

— Ma non deve riescirgli, insistè la zia. È un uomo leggero, disilluso, che ha fatto una vita galante.

E la signora Claudina diceva questo con enfasi, perchè quel Leoni era appunto il giovinotto che l'aveva corteggiata quand'era giovine lei, quello che aveva avuto paura del nodo gordiano. Ed ora che tornava disposto ad ammogliarsi, ed ella era vedova...

Ma lo zio non voleva saperne.

— Ubbie, ubbie, gridava.

Erano tutte ubbie per lui, dinanzi al fatto positivo d'una domanda di matrimonio. Le galanterie di Leoni erano cose passate; aveva fatte le sue scappate in gioventù, ma ora pensava a prender moglie, ed il proverbio dice «Prendendo moglie si fa giudizio».

Odda invece, colle sue idee ed i suoi principii, fu addirittura indignata dell'idea di maritare a quel modo Valeria. E disapprovò lo zio, e fece un'opposizione così calorosa, che la zia, la quale aveva cominciato dal farsi rossa, finì per farsi pallida, ed ebbe il sospetto che Odda fosse segretamente innamorata di Leoni.

L'aveva forse incontrato in società quando aveva ancora il babbo ed abitava a Milano; ed era per lui che non aveva mai voluto maritarsi, e s'era ritirata ad Ameno, dove aveva passato nell'isolamento e nel lavoro, tutto il tempo che Leoni era stato in viaggio, ecc., ecc.

* * *

Tutto il giorno la zia Claudina andò almanaccando prove in appoggio del suo sospetto. Verso sera, trovandosi sola con Odda le disse:

— Insomma, perchè ci opponiamo a questo matrimonio? Se alla ragazza piacesse?...

— Anche tu, zia! Ma ci opponiamo perchè Valeria è giovane e Leoni è vecchio. Perchè Valeria è buona ed affettuosa, ed egli ha logorato quel poco che aveva di bontà e di sentimento negli attriti di una vita leggera. Perchè Valeria, che ha paura di rimaner zitellona e ridicola, e, senza la prospettiva del matrimonio non saprebbe cosa fare della sua attività e dei suoi entusiasmi, accetterà quel partito, tanto per maritarsi. E poi s'accorgerà che non ama e non è amata, e sarà infelice.

— Ma, se invece di Valeria che ha ventitrè anni, fosse una donna più matura che sperasse in Leoni?

— Se lo sperasse soltanto, come un partito ignoto di là da venire, qualunque fosse l'età di quella donna direi a lei pure:

«Non vada incontro al matrimonio a sangue freddo, mia signora. Lasci che l'amore glielo conduca per mano. Non dubiti; l'amore è nel suolo, è nell'aria, è nella natura. Verrà.

— E se il suolo, l'aria, la natura avessero già esaltata questa loro produzione? Se quella donna matura amasse Leoni?

— Allora non avrebbe di meglio a fare che cercare d'esser corrisposta e sposarlo.

Parlava per se stessa? Era per cercare di esser corrisposta lei, che si opponeva a quel matrimonio? La zia Claudina non sapeva cosa pensarne. E tuttavia le premeva assai di saperlo.

Pensò che era meglio pigliare la questione di fronte, e, passando l'acqua dov'è più stretta, domandò a bruciapelo:

— E tu, Odda, non senti la mancanza dell'amore intorno a te? La nostalgia della famiglia?

— Fino all'anno scorso ebbi il babbo...

— Che! La famiglia ascendente non basta alle aspirazioni della vita giovanile.

— È vero, confessò Odda con sincerità. Ho sognato anch'io la mia famiglia colle sue cornici color di rosa e d'azzurro. Ma è là nell'azzurro. Cosa farci? Vorresti ch'io stessi giorno e notte colla testa in mano pensando se verrà o se non verrà? Oppure che, per farlo venire, prendessi il primo partito venuto, e gli facessi fare la parte del protagonista come in una commedia, a rischio di trovare poi che quella parte non gli va, e di rovinare la produzione?

— Allora vuol dire che là nell'azzurro, ci sarebbe il tuo protagonista?

— Sì, ma molto nell'azzurro. Figurati zia che non lo conosco ancora.

— Allora è un'idealità?

— No; è un uomo vero. Ma non mi fu presentato, e nella nostra società, per quanto si apprezzi l'ingegno d'una persona, per quanto s'abbia pensato a lei degli anni, non si può dire di conoscerla finchè un fantoccio qualunque non abbia detto fra noi:

«Il signor Tale; la signora Tale,» e che noi ci siamo inchinati l'uno all'altro.

— Questo non è accaduto, dunque non lo conosco, e può darsi ch'egli pensi a me come alla questione d'Oriente.

* * *

È una proprietà fatale della gelosia, di trovare delle ragioni per tormentarsi, anche nelle cose che sembrano fatte apposta per rassicurarla. La zia Claudina pensò:

— Ecco. È proprio lui. Lo conosce, ma non le fu presentato. Lo avrà veduto, udito discorrere con quella disinvoltura che possiede lui solo, saprà delle passioni che ha ispirate, delle sue avventure, e si sarà esaltata.

Ma mentre si angustiava con queste fisime, la povera zia aveva una rivale assai più pericolosa di Odda.

Lo zio Giorgio era andato dalla figliola, e le aveva detto il suo disegno:

— Leoni aveva tanto, e tanto. Agli anni non ci si doveva badare, perchè gli uomini, che Dio li benedica! non invecchiano mai. Lei invece a ventitrè anni non era più giovine. E però, dacchè Leoni era disposto ad ammogliarsi, egli, babbo, credeva conveniente di non lasciarsi sfuggire quel partito.

Valeria aveva trovato che il babbo aveva perfettamente ragione. Aveva provata una fitta al cuore, ed un momento il suo avvenire le era apparso triste come un annuncio di morte. Ma tuttavia aveva aderito a conoscere Leoni, e si disponeva a presentarsi a lui sotto l'aspetto più favorevole, a cercare di piacergli, ed a sposarlo se le riesciva.

Odda, che contava unicamente sull'opposizione della ragazza, si sentì scoraggiata quando la vide comparire in sala con un'abbigliatura che in casa non portava mai, e mettersi al pianoforte ad esercitarsi in un terribile pezzo, che avrebbe messi in fuga tutti i partiti della terra, se la bella figura di Valeria non avesse distratta la loro attenzione da quel supplizio acustico.

— Perchè ti sei fatta così bella, Valeria? domandò Odda.

— Per farti onore, disse la signorina continuando a precipitare i diesis ed i bemolli.

Esclusivamente per far onore a me?

— Tu pretendi un omaggio esclusivo?

— Domandare non è rispondere; ma ho già capito che, se lo pretendessi, sarei delusa. Ed accostandosi a Valeria, ed appoggiandosi alla spalliera della sedia, continuò:

— Confessa, bimba, che quell'abbigliatura non l'hai fatta per me.

— Non soltanto per te, via!

— Bene. Ora cominci ad esser sincera. E quell'affastellamento di crome e di biscrome, chi deve sedurre?

— Oh questo, non te sicuramente, che metti sempre in burla il pezzo della signorina di casa. Che pretendi si studiino le arti fino nelle viscere...

Odda in quel momento non aveva testa ad affermare le sue teorie. Rimase un momento a riflettere, poi senz'altro esordio, passando accanto al piano e guardando Valeria negli occhi, le disse:

— E tu acconsentiresti a quel matrimonio?

— Perchè no? — rispose la signorina con indifferenza.

— Perchè no? Ma perchè no, bambina: appunto perchè no, non deve essere, non può essere.

E vedendo che Valeria sorrideva amaramente mordendosi le labbra, picchiando con dispetto un la col suo ditino nervoso, le tirò accanto uno sgabello, si pose a sedere, e pigliandola amorosamente per la vita, le disse: — Senti, Valeria. Tu non sei un'ingenua da commedia. Sai che esistono i mariti e le mogli, ed anche gli innamorati. Sai che esiste un sentimento che si chiama l'amore, il quale si estende sopra una lunga scala, dalla simpatia nascente ed occulta che si riporta da un ballo, da un'adunanza, da una passeggiata, e si nutre in fondo all'anima, dove vive e muore ignorata, fino alle tempeste irrompenti dei romanzi e dei melodrammi, che molte volte hanno la loro parte di verità.

Valeria, picchiando sempre il la col ditino nervoso, osservò con un po' di ironia:

— Mia cara Odda, a forza di star sola, e di corrispondere col mondo soltanto per iscritto, hai imparato a parlare come un libro. Bada che potrebbe essere ridicolo.

— Eh, che m'importa! esclamò con disprezzo la pittrice. Poi riprendendo il suo tuono affettuoso continuò:

— Dammi retta, Valeria. Non sacrificare ad idee convenzionali, ad un'ingenuità di forma, la confidenza che apre il cuore e può fargli del bene. Dillo a me sola, che non rido mai del sentimento, lo sai; dimmi; di quella lunga scala dell'amore, non t'è mai risuonata nel cuore, neppure una nota?

Valeria pose il primo dito sul do dei bassi, e facendolo scorrere di volo lungo la tastiera fece sonare tutti i tasti in una velocissima scala, poi disse col solito sorriso:

— Tutte!

Odda sussultò di sorpresa. Pensò un minuto come se cercasse di sciogliere un problema, poi facendosi mesta, domandò:

— E neppure una nota ti ha risposto in un altro cuore, forse?

Valeria pose le mani sul piano, eseguì di volo una scala cromatica, poi rispose, ridendo come una scettica dello stupore di Odda:

— Tutte. Anche i diesis.

— E sposeresti Leoni? domandò Odda sbalordita.

— Eh! disse Valeria stringendosi nelle spalle.

— Via, allora è di lui che sei innamorata.

— Che! Non so che viso abbia.

— Si può amare anche un uomo che non s'è mai veduto.

— Questa fenice non sarà Leoni però.

— Valeria, cos'è questo enigma? Vuoi sposare uno sconosciuto, un vecchiotto, mentre ami un altro e ne sei amata?

— Mia cara, tu vai nel romanzo.

— Ma non capisci, bimba, esclamò Odda spaventata da tanto scetticismo, non capisci che in amore il romanzo è la realtà? Che in ogni vita di donna c'è, ci dev'essere questo romanzo d'amore? E che, se non lo farai con tuo marito, lo farai con un altro?

— Stai sicura, disse Valeria con una calma sfiduciata che faceva contrasto all'eccitamento di Odda, che se quell'altro fosse qui a domandarmi di collaborar lui al mio romanzo come marito, sarei felice di accettarlo. Ma quello non c'è. Mi fa la corte; mi ama anzi. Ma è giovine, brillante, ha un bell'ingegno, un bel nome, e forse pensa al matrimonio come a farsi cremare. Io invece ci penso; debbo pensarci perchè sono alla vigilia di diventare una zitellona. Non ho un'arte come te che assorba i miei pensieri. M'hanno data soltanto l'educazione d'una signora. Non ho risorse in me stessa. Se non avrò una famiglia mia di cui occuparmi, passerò forse la vita a far pettegolezzi sul conto del prossimo, a spropositare sulla politica, ad allevare e vezzeggiare dei cani, a mettere il becco nelle cose altrui, a farmi ridicola per parer giovine, a rendermi uggiosa a tutti. Non ti pare che sia meglio sposare un invalido, ma pigliare un posto in società?

— Ma il tuo amore non lo conti? E quel tale che incontrerai forse sovente, e che sarà più bello di tuo marito, più giovine di tuo marito, più intelligente, più innamorato?

— Quel tale... Guarda; quando si è al municipio, si strappa via dal cuore. E faceva l'atto di strapparlo tirandosi l'abito convulsamente sul petto. Si mette là, fra due pagine del codice civile, e si chiude bene ad essicarvi, come un povero fiore appassito.

— Povera bimba! sospirò Odda.

— Ma che ti credi? Io non ho mai sperato di meglio. Quello là non è della pasta di cui si fanno i mariti. Il matrimonio per gli uomini è il corpo degli invalidi, e le donne che li sposano, si fanno suore di carità. Ma rassicurati sai; io saprò rispettare i miei voti; non farò parlare il mondo di me. Figurati! è per non farlo parlare che mi dispongo a sedurre legalmente il mezzo secolo venerabile del signor Leoni.

* * *

All'ora del pranzo, quando le signore comparvero per fare gli onori all'ospite che era giunto, Odda si presentò con un'abbigliatura così elegante e di buon gusto, che il lion si credette in dovere di lodarla come si loda un merito personale.

Aveva un abito di velluto nero a strascico, colla scollatura quadrata sul petto e le maniche corte. La gonna era ornata da una sciarpa ricchissima di blonda bianca ingiallita, sostenuta da un grosso mazzo di gerani rossi e limonaria. La scollatura era pure guarnita di blonda antica, con un mazzo di gerani. I capelli nerissimi, rialzati sulla nuca, come si vedono alle statue greche, erano intrecciati di grosse perle ingiallite, ed ornati con un mazzo di gerani e limonaria.

Odda aveva la persona elegantissima; alta, svelta, tondeggiante senza grossezza; aveva la carnagione fresca delle persone robuste e tranquille; gli occhi, nerissimi come i capelli, erano d'una serenità affascinante, e la bocca aveva il sorriso della bontà.

L'abito color di rosa di Valeria fu completamente ecclissato; e la zia Evelina che aveva studiata per la circostanza un'abbigliatura giovanile, mista di roseo e d'azzurro, apparve un po' più matura di quel che fosse in realtà, perchè le sue forme pronunciate sembravano anche più grosse con quelle tinte chiare.

Non essendovi la moglie del capo di casa per occupare il centro della tavola in faccia a lui, quel posto toccava naturalmente alla zia, la quale nel disporre la mensa vi aveva messo il proprio nome, ed alla sua destra aveva messo il nome di Leoni.

Ma al momento d'andare a tavola, mentre la signora si alzava per invitare Leoni ad accompagnarla, questi s'affrettò ad offrire il braccio ad Odda.

La zia si lasciò accompagnare da un altro invitato, ma durante il pranzo si mostrò severa col suo vicino; gli domandò se per caso nella Cina i convitati usano disporre del loro braccio per accompagnare una signora a tavola, prima che la padrona di casa abbia scelto il suo cavaliere.

— Non saprei, non sono stato nella Cina, rispose Leoni.

— Allora deve aver viaggiato fra le pelli rosse.

Valeria invece non dava alcun segno di dispetto. Pensava il discorso passionale che le aveva fatto Odda la mattina, e diceva tra sè:

— Povera Odda! Perchè non dirmelo che lo amava lei? Voleva spingere me al romanzo, per paura che mutassi scioglimento al suo.

E, buona per natura, rinunciava tranquillamente a quel matrimonio. Per nulla al mondo avrebbe voluto frapporsi alla felicità d'un'amica.

Odda non aveva mai sfoggiato tanto spirito come quella sera. Si mostrò sotto un aspetto veramente seducentissimo. Leoni si ringiovaniva di dieci anni per corteggiarla. Le ore passarono in parlari arguti, in piccole civetterie; nessuno pensò a domandare il famoso pezzo studiato da Valeria. Fu il babbo stesso che, al momento di separarsi da' suoi ospiti disse alla figliuola:

— Non ci suoni qualche cosa al piano, Valeria?

— Ah sì! appunto; La sonate de mademoiselle votre fille, disse Odda con un'ironia che nessuno aveva mai trovata nella sua bella voce, prima di quella sera.

Valeria non ripicchiò la parola acerba della cugina, non si mostrò punto risentita. Sonò « Parigi, o cara » senza variazioni, e ridendo per la prima di quello scherzo, disse che non sapeva altro.

Ma ritirandosi nella sua camera, camminava lenta, a capo chino, ed era tanto impensierita che non s'avvedeva d'un'infinità di goccie biancastre, che la candela stearica le lacrimava sull'abito color di rosa.

Ella pensava:

— Se l'amore rende invidiose ed intriganti le anime belle come quella di Odda, meglio essere scettica e sposare un invalido, che guastarmi il cuore. Però non cercherò di sposare il suo invalido. Lui o un altro, mi è tanto indifferente!

* * *

Odda invece era trionfante, e le balzava il cuore di gioia.

— Sono ancora riescita ad innamorarlo, diceva tra sè guardandosi allo specchio mentre si scioglieva i magnifici capelli. E sorrideva al proprio volto, e ad un'idea giuliva che aveva in mente.

L'indomani si alzò per tempo; vestì un elegante abito da mattina sciolto, color di bronzo, con rabeschi di velluto lontra profilati in oro, raccolse i capelli in una retina di filo d'oro brunito, infilò due pianelline di pelle bronzata con una grossa fibbia dorata, lucente come il sole; sorrise ancora nello specchio a quella sua abbigliatura da civettuola, e s'affrettò nel salotto dicendo tra sè:

— Verrà; sono sicura che mi sta spiando.

Infatti ebbe appena il tempo di sedere in una poltroncina e di far mostra di leggere un giornale, che Leoni entrò.

Dopo il buon giorno scambiato e qualche preliminare senza costrutto, egli le domandò il permesso di fumare un sigaro.

Odda non ebbe nulla in contrario; anzi le piaceva l'odore di sigaro.

— Sono molto contento che le piaccia, disse Leoni appoggiando su quelle parole per farle capire che avevano un senso recondito.

Odda s'affrettò a rilevarle colla compiacenza soverchia d'un'innamorata.

— Che cosa può importare a lei? domandò.

— M'importa assai perchè fumo sempre.

— Anche le locomotive fumano sempre, e non hanno punto piacere che io ami il loro orribile odor di carbone.

— Le locomotive non sentono nulla. Io non sono una locomotiva.

— È però ugualmente sempre in giro pel mondo. Fra un mese fumerà a Londra o a Parigi o al Paraguay, ed il suo fumo non mi farà più nè piacere nè dispiacere.

— Sa perchè ho viaggiato finora? domandò Leoni con piglio confidenziale.

— Per divertirsi, credo.

— No. Ho viaggiato perchè ero solo, e la mia casa era fredda.

— Non ci aveva i caloriferi?

— Via, non mi canzoni. Era fredda moralmente; e non trovavo una donna che la riscaldasse.

— Ha viaggiato perchè non aveva moglie, insomma.

— Appunto.

— E non era più semplice ammogliarsi che fare il giro del globo? A questo modo le azioni ferroviarie aumenteranno in proporzione diretta del numero dei celibi.

— Dimentica i viaggi di nozze, signorina. Poi rifacendosi serio, riprese:

— È presto detto ammogliarsi, e presto fatto anche. Ma io conoscevo molto le donne. Trovavo in tutte più vanità che cuore; molta civetteria, poca serietà; gli affetti di famiglia non abbastanza compresi; una smania esagerata di divertimenti. Via... avrei voluto una donna perfetta e non la trovavo.

— Allora può ripartire col primo treno; di donne perfette non ce ne sono. E neppure di uomini, veda; tanto meno.

— Le abbandono gli uomini, ma difendo le donne in una. Ce n'è una perfetta; una sola.

— E non l'ha sposata?

— La conosco soltanto da ieri.

— Mia zia?

— Che! Ho la memoria delle date. Un'afflizione....

— Mia cugina allora?

— Punto.

— A quella non può nuocere la memoria delle date.

— Non le ho badato nemmeno.

— Badi che potrei prenderla per una dichiarazione.

— La prenda, disse Leoni abbassando la voce d'un semitono per portarla alla nota della passione. E senza lasciarle il tempo di rispondere continuò:

— Ho trovato in lei la bellezza, lo spirito, l'istruzione che ho cercato invano nelle altre. So che ha un bel talento da artista ed un bel cuore di donna. So che è buona, casalinga, coraggiosa; che ha tutte le virtù...

— Ed in compenso mi offre il suo cuore disilluso, il suo passato... che non voglio conoscere, il suo avvenire che sarà quel che sarà. In compenso a tutte le virtù offre la sua persona. Il premio Montyon!

— Perchè mi deride? Perchè mi disprezza? Ho fatto la vita di tutti i giovani infine; non sono più colpevole d'un altro; e mi offro per quel che sono.

— Ma in compenso a tutte le virtù. È molto modesto. Però anch'io, veda, fra tutte le virtù ci ho pure la modestia, ed il premio Montyon ch'ella mi offre, lo rifiuto.

Leoni era uomo di mondo; e ricevette quella staffilata coll'aria compunta, e col rispetto che un gentiluomo serba sempre dinanzi ad una signora. Ma il suo amor proprio era profondamente ferito, e quando Odda stava per uscire dalla sala disse con voce sommessa:

— O ieri sera la mia vanità m'ha ingannato assai o lei ha voluto punirmi del mio passato con uno scherzo crudele.

Odda tornò indietro, gli porse cordialmente la mano, e gli disse:

— Che le pare! Che la mia pedanteria debba arrivare a voler punire il passato di chicchessia? No. Mi perdoni. Non ho agito bene forse, ma le giuro che non mi sono permesso un cattivo scherzo. Tutto questo è serio, molto serio...

— Ma allora.... interruppe Leoni cogliendo al volo un raggio di speranza che gli pareva balenare da quelle parole.

— Mi dia retta. Temevo, ero certa anzi, che mia cugina avrebbe attirata la sua attenzione e la sua simpatia. Dalla lettera che lei scrisse allo zio avevo saputo il suo proposito di scegliersi una sposa qui, ed avevo saputo anche la sua età, il suo passato... Dica, in coscienza, crede d'aver ancora tanta poesia nel cuore, tanto sentimento giovanile, tanto avvenire, da rendere felice una giovane di ventitrè anni? Dica, lo crede?

— Ma io non pensavo a sua cugina, rispose il lion mortificato, forse per la prima volta nella sua vita, e convinto. Pensavo a lei, che è seria, generosa, che non ama la società...

— E che ho ventotto anni, lo dica pure. Ma se io non mi fossi messa innanzi, se non avessi cercato di attirare la sua attenzione su di me con una civetteria che fa ridere me stessa, sarebbe stato a Valeria che avrebbe pensato; ed a quest'ora avrebbe domandato lei e non me. E quella ragazza, che non conosce il mondo come lo conosco io, avrebbe potuto accettare la sua proposta per l'infelicità d'entrambi.

D'entrambi, è un complimento.

— Se poi vuol dirmi anche che non ha più abbastanza cuore per soffrire della infelicità di sua moglie... Ad ogni modo questa è la ragione per cui mi sono data qualche ora alla civetteria. Volevo deprezzare la sua offerta con un rifiuto, per impedire a lei di ripeterla a Valeria, ed a Valeria di accettarla. Ed ora, mi perdona?

Leoni s'inchinò, e le strinse la mano con profonda stima. Non la profonda stima kristophle che si presta a firmare qualunque lettera sconclusionata; ma quella vera, che trova la via anche dei cuori disillusi. Ed avrebbe dati volentieri dieci anni della sua vita, non della passata, per poter ripetere con qualche speranza a quella simpatica zitellona, la proposta che ella aveva rifiutata.

* * *

Quel giorno stesso Odda ricevette una lettera dell'Accademia di Brera in cui le annunciavano che il suo quadro era fra i scelti per essere acquistati dall'Accademia stessa, e la invitava presentarsi per regolare le condizioni del contratto.

Odda non aveva la menoma attitudine agli affari, non ne capiva nulla. Era ancora il caso di rivolgersi ad un parente, ad un amico, a qualcuno che s'incaricasse di rappresentarla, e di fare i suoi interessi.

Ma il parente, l'unico, lo zio Giorgio, aveva un nuovo rancore contro la pittrice.

La sera innanzi era stato al di là d'ogni meraviglia vedendo Odda mettersi in galanteria con Leoni. In fondo, ben in fondo, era buon uomo, e, pennelli a parte, quell'unica figliuola d'un unico fratello gli era cara. A patto di non rimetterci nulla della sua borsa, nè delle sue opinioni, avrebbe fatto di tutto per vederla maritata.

Così non s'ebbe a male di quella specie di soperchieria che Odda faceva alla cugina beccandole lo sposo sotto gli occhi.

— Ciascuno fa il suo interesse, diceva colla sua logica d'uomo d'affari. Odda ha già ventotto anni; è più urgente per lei che per Valeria di maritarsi. E se questo deve guarirla dalle sue ubbie sull'amore e sull'arte, e farne una donna come le altre, mi rassegno volentieri a rinunciare al mio disegno per adottare il suo.

Ma quando il mattino udì da Leoni che Odda aveva rifiutata la sua domanda, non seppe più cosa pensare, e si sentì profondamente offeso.

— Dacchè non lo voleva per sè, perchè portarlo via a Valeria? La sapevo originale, ma non a questo punto. Così non l'avranno nè l'una nè l'altra. Un partito perduto. E diceva questo come se dicesse: Un capitale non impiegato.

In queste disposizioni di spirito, si può figurarsi come accolse la preghiera di Odda per l'affare dell'Accademia.

— Se vuoi che stiamo in pace, le disse, non parlarmi mai più de' tuoi quadri.

Dunque per aiutare la povera Odda, ora come prima, il parente non c'era.

L'amico neppure.

Dovette rivolgersi daccapo al qualcheduno; lo stesso qualcheduno che aveva ricevuto e presentato il suo quadro all'esposizione, il signor Fulvio... ed un cognome.

Odda gli scrisse un altro biglietto, annunciandogli che si trovava a Milano, che desiderava di conoscerlo, e che le brighe per quel noto quadro non erano anche finite.

— Voleva continuargli la sua tutela? Voleva recarsi da lei?

Nel pomeriggio erano tutti nel salotto, e stavano prendendo il caffè dopo la colazione, quando il servitore annunciò il signor Fulvio.

Odda si fece rossa, e rimase un momento confusa. Le sussultava il cuore. Non osava parlare per paura che le oscillasse la voce. Erano più di due anni che pensava a lui, se n'era fatto un ideale, e se ne era appassionata. Tuttavia seppe vincere la propria commozione, gli porse la mano, e disse sorridendo:

— Ma io non ho il diritto di parlarle, nè di presentarla a chicchessia, dacchè nessuno l'ha presentata a me. Poi rivolgendosi al servitore gli ordinò seriamente:

— Annuncia anche noi.

Il servitore obbedì, e ripetè i nomi di tutti.

Quella trovata originale fece ridere la compagnia, e ciascuno alla sua volta s'inchinò e porse la mano a Fulvio.

— Ecco fatta la presentazione, disse Odda, è adesso soltanto che ci conosciamo.

La zia Evelina, che aveva gli occhi intenti su di lei, con un sentimento affatto differente da quello che la faceva travedere il giorno innanzi, s'avvide del turbamento di Odda, si ricordò di quanto le aveva detto, del suo amore ideale per una persona che non conosceva, e facendosi accanto a lei le susurrò:

— È lui?

— Sì, rispose Odda, stringendole la mano.

— Perdonami, Odda, avevo sospettato di te, ripigliò la zia.

— Che amassi Leoni?

— Sì.

— Non hai creduto di farmi torto, dacchè tu stessa lo ami.

— Lo sapevi?

— No. Ma questa mattina non sei fuggita abbastanza presto. Uscendo dal salotto, dove ero stata con Leoni, ho veduto il tuo abito da camera che scompariva in fondo al corridoio ed ho indovinato.

— È vero, t'ho seguita, ed ho ascoltato tutto.

— Povera zia! disse Odda pensando alla delusione che doveva provare.

Questo scambio di parole sommesse fu fatto in un minuto, mentre lo zio Giorgio presentava seriamente Leoni e la sua famiglia a Fulvio.

Quando Odda e la zia si voltarono per unirsi alla compagnia, lo zio diceva accennando Valeria:

— E questa è mia figlia.

Valeria era rossa come una fiamma, ed imbarazzata come una collegiale, lei che non si confondeva mai; mormorò senza guardare Fulvio:

— Noi ci conosciamo già.

— Sissignore, disse il pittore. Ebbi il piacere di vedere la signorina, e di esserle presentato all'ultimo ballo del casino.

La zia Evelina, che non si ricordava di questo, e non osava dirlo per non offendere Fulvio, guardava lui e Valeria in atto di stupore.

— Tu non c'eri, zia, rispose Valeria indovinando il suo pensiero. Ti ricordi che all'ultimo ballo sono andata colle signorine Tali e colla loro mamma?

Si parlò dell'esposizione. La zia e la nipote c'erano state due giorni prima. Valeria, che, passato il primo momento, aveva riacquistata l'usata sicurezza ne parlava con grande interessamento.

E quante cose sapeva!

Sapeva che il signor Fulvio aveva esposto tre quadri di genere ed una marina. Il quadro della prima sala era collocato bene, in luce; otteneva tutto il suo effetto. Che effetto! Peccato che lo avesse comperato il signor Flidgeby (fin il nome inglese sapeva!) Peccato! con quel nome là, il meno lontano che poteva portarlo era a Londra. Invece il quadro della seconda sala era così mal collocato dietro quell'enorme cornicione d'un quadro di battaglia, che lo adombrava tutto... E così in alto! Ne aveva provato un tal dispetto.... Fortuna che lo aveva scelto l'Accademia, e dopo l'Esposizione si potrebbe vederlo collocato meglio. E quel puttino del terzo quadro nella quinta sala! Quel puttino lo aveva sempre dinanzi; faceva greppo così bene, che nell'allontanarsi ella si era voltata per vedere se non era ancora scoppiato in pianto....

Odda, coll'occhio fisso, ed il cuore serrato come in una mano di ghiaccio, osservava la cugina mentre parlava cosí.

I modi indifferenti, la sua affettazione di scetticismo, erano affatto scomparsi. Aveva gli occhi scintillanti, il volto acceso, e da tutta la persona bella spiravano l'entusiasmo e la passione.

Che momento fu quello per Odda! Povera giovine. Ripensò i suoi entusiasmi, la sua passione che aveva coltivati per tanto tempo in fondo al cuore. Ella pure aveva in mente tutti quei quadri, li aveva analizzati, copiati, con infinito amore, e colla mente rivolta a quell'autore ignoto, studiandone l'ingegno, il cuore, l'ispirazione.

Ed ora, dopo due anni era venuto il giorno di conoscerlo quell'autore. Lo aveva aspettato palpitando e domandando a sè stessa coll'angoscia dell'incertezza:

— Sarà bello e cortese?

Sì, era bello e cortese. Ma là, accanto a lui, c'era una fanciulla che lo amava anch'essa, e che egli pure amava. Povera Odda!

Un momento la sua parte di debolezza umana le ricordò che il giorno innanzi coi suoi ventotto anni ella aveva potuto eclissare la cugina. Si ricordò la propria figura riflessa nello specchio; era nobile e bella. Leoni, l'uomo delle avventure galanti, malgrado la sua lunga esperienza, era caduto ai suoi piedi.

— Se anche Fulvio mi trovasse bella? Se apprezzasse il mio ingegno? Se mi amasse come Leoni? Chissà?

Ma fu un pensiero che passò di volo. Il nobile cuore di Odda non era di quelli che la passione può indurre a commettere una slealtà.

— E Valeria? rispose subito a sè stessa. Valeria che lo ama, che me l'ha confessato; perchè era di lui che mi parlava ieri.

E qui la speranza, la terribile ingannatrice, le suggerì un dubbio.

— E se non fosse di lui?

Allora s'accostò al pianoforte dove i due giovani stavano discorrendo, fece scorrere il dito su la tastiera come aveva fatto Valeria il giorno innanzi, poi le domandò:

— E adesso le senti tutte quelle note?...

— Sì, tutte, tutte, anche i diesis, disse la signorina facendosi rossa, troppo rossa per un discorso affatto musicale.

Addio fallace speranza! Non fu che un disinganno di più.

Odda andò a sedere in disparte, e ripensò la sua arte, il successo del suo quadro, i suoi lavori finiti, i disegni audaci d'altri lavori. Ma tutto questo lo ripensò senza passione, perchè ormai le mancava il sentimento entusiasta che le aveva dato coraggio, ambizione, fermezza. Pure non si lasciò abbattere. Era quello o non mai il momento di sentire il vantaggio d'un'altra passione che non fosse l'amore.

— Perchè ho imparato un'arte? Perchè il babbo me l'ha data, se non per preservarmi dal vivere esclusivamente all'amore, dal rendermi ridicola nell'età matura cogli sterili rimpianti d'un sentimentalismo incompreso? Egli non mi ama? Pazienza. Il mio lavoro, un lavoro assiduo, interessante, studiato, mi occuperà la mente e il cuore. Sarò forte.

* * *

Lo zio Giorgio invitò Fulvio a pranzo perchè potesse avere il tempo di mettersi d'accordo con Odda circa il quadro.

Odda scese a pranzo vestita di nero, senza la menoma pretesa all'eleganza.

— Oggi non sei in vena di fare conquiste? le disse Valeria.

Odda stava per giustificarsi; ma Valeria non glie ne lasciò il tempo, e riprese:

— Odda, ti ringrazio dal fondo del cuore. La zia mi ha detto tutto. Ed io che ieri ho pensato male di te?

— Mi hai creduta innamorata di quel vecchio lion!

— Perdonami; non sapevo nulla ieri.

— Ed oggi cosa sai?

— So che recitavi una parte difficile, uggiosa, compromettente, per liberarmi da un matrimonio che mi avrebbe resa infelice.

— Non sai altro?

Valeria la guardò co' suoi occhi alteri in cui si rifletteva la sincerità di un carattere che non discende mai ad una finzione.

— So che tu sei superiore alle debolezze delle altre donne, rispose. Che hai rifiutato Leoni, che rifiuteresti chiunque, che non hai altro amore fuorchè la tua arte: che hai rinunciato alle passioni della gioventù.

— Sì, ci ho rinunciato, disse Odda. Ti giuro che ci ho rinunciato.

— Ma so anche, continuò Valeria, che mi vuoi bene, e farai ancora qualche cosa per me.

Odda le strinse la mano in silenzio. Aveva il cuore troppo gonfio per risponderle in quel momento. Si volse a Leoni, fece

— Io sono la zitellona della famiglia, e sono più che parente, sono amica di Valeria. Via, mi faccia le sue confidenze.

— Ma io non so se debbo osare. Suo zio è così avverso agli artisti....

— No; lo zio è avverso solamente alle artiste. Gli uomini li autorizza a fare quanti quadri vogliono, a due sole condizioni: che ne ricavino molto denaro, e che non li facciano ammirare da lui. Lei adempie da un pezzo alla prima condizione, e credo che non avrà difficoltà ad adattarsi alla seconda.

— Pensi! Coll'attenzione che ha la bontà di accordar lei a' miei quadri, non resta più nulla a desiderare al mio amor proprio.

— Dunque?

— Dunque, se crede che le mie speranze non siano troppo audaci ed infondate, dacchè mi legge nel cuore, mi abbandono a lei. Disponga di me.

Se quelle parole le avesse dette per lei stessa! Disporre di lui; trasportarlo nella sua solitudine d'Ameno, nella sua villa, piena di ricordi e dei lavori di lui; in riva al suo lago, su cui aveva tanto vagato solitaria, pensando al suo povero amore ignorato: vivere a due una stessa vita, colla stessa passione, la stessa arte, un ingegno gemello!... Povera Odda! Fu un momento crudele. Quel sogno svanito si ravvivò ancora una volta al suo pensiero, tanto più splendido quanto più isperato. Si sentì infelice, sconfortata, sola, miserabile.

Si alzò con un singhiozzo strozzato in gola, salì frettolosa nella sua stanza, e si abbandonò ad un pianto disperato. Dinanzi ad una passione che si spezza, non c'è forza d'animo che valga. Una donna è sempre una donna, e bisogna che pianga.

Ma, pagato quel tributo alla fragilità umana, Odda fece chiamare lo zio, e gli domandò, a nome del suo illustre collega, la mano di Valeria.

La situazione di Fulvio era troppo bene assicurata, il suo nome troppo stimato come uomo e come artista, perchè lo zio Giorgio pensasse a rifiutare quella proposta.

— Ero in collera con te, Odda, le disse, perchè hai mandato a monte il mio disegno su Leoni. Ma ora me ne compensi. A conti fatti questo qui lavora, ha più avvenire, è anche più giovine, dacchè le donne ne fanno caso. Il partito è migliore. E poi dici che si amano... Un'altra cosa di cui fanno caso soltanto le donne, ma infine giacchè si può conciliar tutto, meglio così. Però non capisco perchè, dopo aver fatto la civettuola per innamorar Leoni, lo hai rifiutato. Me l'ha detto lui, che l'hai rifiutato.

— Giacchè gliel'ha detto...

— Scusa, è una pazzia. Potresti sposarlo. Tu hai ventotto anni; la differenza non è già più tanto grande. E poi è disoccupato, potrebbe stare ad Ameno quanto ti piace.... Ti converrebbe perfettamente. È robusto, bell'uomo, d'umore sereno, non gli manca assolutamente nulla.

— Nulla fuorchè una piccola cosa, un'inezia. D'inspirarmi un pochino d'amore. Oh! un'inezia affatto. Ma sa, zio, noi donne ci si bada alle inezie.

— Ma perchè lusingarlo allora?

— Ah! È stato un capriccio da zitellona. Non dice lei che il babbo, lasciandomi imparare un'arte, ha fatto di me un fenomeno! I fenomeni non si capiscono sempre.

E senza spiegarsi di più si avviò alla sala da pranzo.

La zia, i due ospiti e Valeria stavano aspettando. Fulvio e Valeria guardarono ansiosamente in volto ad Odda per leggervi la loro sentenza, e, vedendola pallida come una morta, tremarono pel loro amore. Nel loro giovanile egoismo non sospettarono nemmeno che potesse esservi un altro amore che si sacrificava.

Odda entrò, bella del suo coraggio eroico, andò a loro sorridente (povera Odda!) prese la mano di tutti e due, e disse:

— Vittoria! Il babbo acconsente, ed io vi unisco in nome del padre, della zia, e della vecchia cugina. E fece l'atto di benedirli. Poi volgendosi a Valeria, soggiunse:

— Vedi pure che ne' miei consigli da romanzo hai trovato la felicità.

Aveva la voce commossa, ma tutti l'attribuirono alla gioia di quel momento. La zia sola, che sapeva il suo povero segreto, indovinò lo strazio che soffriva, e le susurrò:

— Ma l'ha trovata a prezzo della tua.

— Oh! io ho un altro amore, rispose Odda prendendole il braccio e traendola in disparte. Sposerò i miei pennelli. Finora furono sempre compiacenti con me, mi tennero buona compagnia, e la pace ha sempre regnato in famiglia. Il babbo lo diceva: «Impara l'arte e mettila da parte.» Ora è venuto il momento di trarne profitto. È una fortuna che sia là da parte.

— Come ti ammiro Odda! esclamò la povera zia. Tu sei così generosa, ed io invece ho il cuore pieno di fiele contro Leoni perchè non mi ama. Odio lui, odio tutte le persone che sono amate e felici. Vorrei far dei dispetti a tutti, e sento che se li vedessi miserabili ne godrei.

— Oh, zia!

— È orribile, Odda, ma è vero. Non so che fare di me stessa; mi sento vecchia e non mi ci so rassegnare; mi sento inutile al mondo; non so a chi voler bene.

— Non ne vuoi un poco a me, zia? Non vuoi che io cerchi di consolarti?

— Sì, Odda. È questo che volevo da te. Dimmi; non hai bisogno di una stupida creatura che sappia togliere la polvere a' tuoi quadri, che ti sostenga la tavolozza? Mi pare che accanto a te, col tuo nobile esempio, lontana dalla società leggera e pettegola, mi affliggerei meno d'invecchiare. Potrei imparare ad occuparmi di qualche cosa meno irritante che il mio miserabile idillio morto, che non mi riesce di galvanizzare.

Odda le aperse le braccia e le disse con tutta cordialità:

— Sii la benvenuta, zia, nella mia villa modesta. Vedrai che non ci starai troppo male. I bimbi del paese ti ammireranno quando spiegherai loro i profondi misteri del sillabario, come il protagonista del tuo idillio non t'ha ammirata mai. E quando racconterai loro le storie dei Greci e dei Romani, ti vorranno bene come egli non te ne ha mai voluto.

— Quanti compensi trovi nel tuo bel cuore, Odda. Mi porterò un baule di sillabari; ed imparerò a memoria tutta la storia universale di Cesare Cantù.

— Troppo zelo, cara zia. Pensa che avrai altro a fare, ed il tuo tempo sarà prezioso laggiù. Vi saranno i vecchi poveri che aspetteranno un brodo per riscaldarsi lo stomaco; i malati poveri che avranno bisogno della medicina; vi sarà della gente che avrà fame; dell'altra che avrà freddo; e dei poveri piccini che il Padre Eterno, in un momento di distrazione, avrà mandati al mondo senza ricordarsi di provvederli del loro piccolo bagaglio di fascie e pannolini. Tu penserai a tutti. E quella gente ti sarà riconoscente, e ti benedirà, come non ha mai pensato ad esserti riconoscente ed a benedirti quello dell'idillio il quale non ha voluto neppure farti benedire dal prete.

— E nessuno sorriderà ironicamente, perchè sono vecchia?

— Ma che, zia! La provvidenza non invecchia mai. E tu sarai la provvidenza. Vedrai. Tutto codesto non è elegante, senza dubbio, ma vale assai meglio che trascinare la tua maturità mascherata da giovinetta, tirando un idillio per la coda.

Due mesi dopo, quando si celebrarono le nozze di Valeria, le due signore stabilite ad Ameno, fecero una gita a Milano per assistere a quella festa di famiglia.

La zia Evelina aveva smesse le abbigliature giovanili, le pettinature giovanili, le sentimentalità giovanili. La pace le era entrata nell'animo. Le occupazioni morali e serie che le riempivano la vita, le davano quel contento di sè, che tranquillizza il cuore e rasserena lo spirito. Era bella ancora, ma una bella matrona senza pretese, senza civetteria, senza ridicolaggini.

Leoni era stanco del suo isolamento, della sua stupida esistenza da scapolo, de' suoi tentativi di conquista che riescivano come quello fatto con Odda.

S'intrattenne a lungo colla zia Evelina, si fece raccontare la sua nuova vita, le placide giornate d'Ameno, cosí occupate, così serene. La trovò buona, affettuosa, sensata. In un momento d'entusiasmo le disse:

— Come vorrei passare i miei giorni con lei e come lei ad Ameno!

— Come me, vale la pena di desiderarlo, rispose la zia Evelina; ma con me, poteva dirlo quindici anni fa; ora è troppo tardi.

— Oh! quindici anni... protestò Leoni, ostentando un'incredulità galante.

— Quindici, mio signore; e venticinque che ne avevo allora fanno quaranta. Ad Ameno s'impara a contare i proprii anni senza arrossire.

Odda, con quell'ospitalità cortese che la rendeva tanto simpatica, invitò Leoni a passare il novembre alla sua villa. Egli accettò, ed appena celebrate le nozze dei giovani, partì colle due signore pel tranquillo romitaggio di Odda.

Egli aveva quarantacinque anni, e la zia Evelina ne aveva quaranta ed era molto ben conservata. E poi, non ricercava più l'amore, lo respingeva, era occupata d'altro, aveva acquistata l'attrattiva d'un frutto proibito.

Ad Ameno non si stampano giornali; non seppi altro. Ma i contadini si maritano giovani assai; eppure mi dissero che in quell'inverno, erano inscritti nell'albo municipale due sposi maggiorenni.

FIORE D'ARANCIO

Da quanto più lontano risalgono le mie memorie, mi ricordo di aver aperta la corolla alla scossa di una brezza mattinale, e d'essermi trovato ad un'altezza straordinaria. Ero proprio sulla punta d'un ramo che si slanciava verso il cielo, e vedevo il terreno del giardino, al di sotto, molto al di sotto di me.

Mi guardai beatamente intorno, superbo della mia alta posizione.

Al di là del giardino che avevo immediatamente ai piedi, dominavo il pendìo della collina, nella sua discesa ripida fino al Po; su quel pendìo facevano macchietta tante ville signorili, sparse qua e là, come un branco di pecore biancheggianti. E giù giù in fondo, vedevo il Po, che s'incurvava, si torceva, mandava riflessi metallici come un serpente.

— Com'è bello stare al dissopra di tutti; dominare sui proprii simili! pensavo olezzando dalla corolla sospiri di soddisfazione.

Poi guardavo gli altri fiori d'arancio che erano sbocciati sulla stessa mia pianta, ma nei rami inferiori, e che, per quanto allargassero i petali, non potevano vedere lo spazio immenso che io abbracciavo con uno sguardo. Li osservavo dall'alto, ed esclamavo con disprezzo:

— Poveretti!

Non l'avessi mai detta quella parola orgogliosa! Da Lucifero in poi, la superbia non ebbe mai miglior risultato che un capitombolo. Io ero destinato ad aggiungere un documento di più alla serie già numerosa di documenti, che provano la vanità delle cose di questo mondo.

Mentre ero assorto nella contemplazione della mia grandezza, vidi venire dall'estremità del giardino un signore abbrunato dal sole come una statua di bronzo, con un giubbino di tela bianca, ed un largo cappello di paglia. Camminava colle mani dietro il dorso canticchiando: «Uhm! Uhm! Uhm!» Teneva nella destra una piccola falce, lucente come un quarto di luna.

Quando fu vicino alla bella pianta d'arancio, che era come chi dicesse il mio albero genealogico, osservò con compiacenza il tronco robusto, le foglie spesseggianti, ed i fiori; fiori bassolocati, i miei umili fratelli che avevo disprezzati.

Ma invece di dividere la mia commiserazione, quel signor Botanico esclamò:

— Bella pianta! Bella fioritura, per bacco! Questa va mandata all'esposizione.

Quella parola mi scese nel calice, soave come una goccia di rugiada! L'esposizione! Era là che la mia posizione eminente avrebbe attirata l'ammirazione di tutti.

Ad un tratto il signor Botanico alzò lo sguardo fino a me. Cercai di allargarmi e rizzarmi sullo stelo per piacergli. Ma egli si rabbuiò tutto in volto, e si pose a chiamare:

— Michele! Chele! Cheee!

— Signore! rispose il giardiniere sbucando in lontananza da dietro un chiosco di gelsomini, e correndo, con grande accompagnamento di zoccoli, alla nostra volta.

— Chi v'ha insegnato a lasciar allungare un ramo a quel modo? gli gridò il padrone accennando il mio ramo. Mi guasta tutta la pianta. Voi non badate a nulla. Ch'io stia una settimana in città, e ritrovo il mio giardino ridotto come l'orto di Renzo.

Il giardiniere non sapeva come fosse l'orto di Renzo. Ma io, che in una precedente esistenza aveva udito leggere i Promessi Sposi, stando nei capelli d'una bella signora, ed ero morto soffocato tra due pagine di quel libro, compresi benissimo. Lo slancio preso dal mio ramo non andava punto a genio del signor Botanico; provai un'angoscia indicibile.

— Vuole che lo tagli quel ramo, signor padrone? domandò con piglio compunto quello snaturato giardiniere.

Se avessi potuto stritolarlo!

— Sì eh? A quest'ora ci pensate? Ma quando sono qui io non ho bisogno di voi. Stateci attento un'altra volta.

Nell'agonia di quel momento i miei sentimenti erano così eccitati, che stavo per fare un miracolo, ed in uno sforzo supremo sciogliere la parola, ad eterna meraviglia del signor Botanico e di tutti i botanici presenti e futuri. Ma non ne ebbi il tempo. Vidi il signore color di bronzo alzare il braccio verso di me, vidi balenare nella sua mano il piccolo quarto di luna, sentii un dolore atroce alla congiuntura del ramo. Tutto il paesaggio mi oscillò d'intorno; perdetti l'equilibrio, e caddi rovinando a terra, mentre il signor Botanico si allontanava ripetendo in tono di soddisfazione il suo piccolo crescendo:

«Uhm! Uhm! Uhm!»

* * *

Là, umiliato ripensavo ad Icaro, che era caduto anch'esso per aver voluto salire troppo alto; e le mie povere foglioline bianche si rammollivano al sole come le sue ali di cera.

Pensavo che presto sarei morto, per rinascere chissà quando e chissà come; ed olezzavo languidamente negli ultimi sospiri la mia animuccia di fiore quando vidi due scarpine di pelle bronzata, e due calzettine azzurre tese su due gambine rotonde, che si avanzavano rapidamente verso di me, col movimento alternato di due piccoli stantuffi d'una macchina a vapore.

Feci uno sforzo straordinario per guardare più in su, ma non potei vedere che due ginocchietti color di rosa che si piegavano al mio fianco; ogni energia mi mancò e rimasi appassito.

Udii vagamente una vocina armoniosa che diceva:

— Oh! chi me l'ha gettato a terra il mio povero fiore? Il mio fiore bello che saliva fino alla mia finestra? Povero fiore! Povero fiore!

Mi sentii rialzato nella posizione verticale, e due labbruzzi come due fragole, mi sfioravano i petali susurrando ancora:

— Ti hanno gettato a terra, povero fiore! povero fiorellino mio! Ma io ti farò tornar vivo, e sarai la mia pianta. Io so fare; io so fare; m'ha insegnato il babbo.

Fui sottoposto ad un'operazione dolorosa. Mi si schiacciò con un sasso l'estremità del gambo; mi fu ravvolto intorno alla parte schiacciata qualche cosa come dei fili, poi fui piantato in terra. Ma tutto codesto era fatto con garbo infinito, da due manine minuscole e liscie, ed io pensavo nel mio dolore, che molti ammalati avrebbero voluto esser guariti a quel modo.

* * *

Quando fui piantato sul gambo, e la terra del vaso fu leggermente inaffiata, mi sentii rinfrescato, e ripresi abbastanza vigore per osservare il medico pietoso che m'aveva salvato.

Era una bella bimba di otto anni. Bianca, rosea, bionda come un puttino dell'Albani. E mi saltellava intorno giuliva, proprio come quei puttini nella Danza degli amori; soltanto un po' più vestita.

Dio dei fiori! Quanto ho voluto bene a quella bimba! Quanta riconoscenza le ho votata! Morii e mi riprodussi, sempre sulla sua pianta, e sempre devoto alla mia piccola salvatrice.

Ogni autunno veniva un giorno triste, in cui Dora mi salutava, mi copriva amorosamente i piedi colla paglia, mi raccomandava al giardiniere, poi saliva in carrozza mostrandomi le gambine, ed i ginocchietti dal rovescio, ed il fondo bianco delle gonnelline corte. Poi mi mandava un bacio, ed un altro, ed un altro; i cavalli scalpitavano, prendevano la corsa e via! Per sei mesi non la vedevo più.

L'inverno era lungo ed uggioso, e lo passavo pensando a lei, e tesoreggiando profumi per inebbriarla in primavera.

Ad ogni maggio la vedevo tornare più alta, più bella. Mi faceva un gran chiasso d'intorno. Ripeteva le lezioni camminando su e giù accanto al vaso, con voce alta e monotona, ed alternando le risposte poco sicure, con domande fatte in tono cattedratico e colla voce grossa per imitare una maestra.

Poi buttava i libri all'aria, giocava, rideva, cantava; mi circondava il vaso di bambole. Talvolta stendeva a' miei piedi una tovaglina più stretta d'una pezzuola, disponeva tondini e bicchieri infinitesimali, chiamava i bimbi del giardiniere, ed imbandiva un banchettino da burla con foglie di rosa, confetti ed acqua inzuccherata.

— Bei tempi erano quelli! Bei tempi!

* * *

Poi venne un anno, lo ricordo sempre, un anno in cui non vidi più le gambine rotonde ed i ginocchietti color di rosa. Le gonnelline corte erano allungate. I bei capelli, sciolti fin allora come una pioggia d'oro, erano intrecciati e raccolti a spirale a sommo il capo.

Dora non saltava più; camminava composta. Non canticchiava più canzonette stonate al vento; cantava in tempo ed a tono, con accompagnamento di pianoforte; non mi ingombrava più il vaso di bambole; vi sedeva tranquilla con qualche libro accanto, e leggeva versi e prose in lingue strane che non potevo comprendere, ma che sonavano soavi come una melodia udite dalla sua voce armoniosa.

La bimba era divenuta una signorina.

Però mi amava sempre, mi chiamava sempre la sua pianta, il suo fiore; ed io mi avvezzai a vederla così.

Fu ancora un tempo bello. La signorina veniva in villa colle sue compagne. Sedeva o passeggiava con loro intorno a me. Parlava di studi, d'arti, di teatri, di libri, di musica, di abbigliature.

Posava sul mio vaso la gabbia del canarino, e gli diceva molte cose graziose, molti vezzeggiativi, a cui il canarino rispondeva gorgheggiando. Allora erano grandi elogi, grandi ammirazioni pel suo canto e pe' suoi occhi innamorati; ed io ero geloso. Non de' suoi occhi, che per la bellezza non avevo nulla da invidiargli; ma dei suoi gorgheggi. Oh come avrei voluto sciogliere anch'io una canzone a quella bella fanciulla!

Nel mio dolore, le soffiavo in volto una ondata di profumo, ed allora ella si volgeva a me, e dava a me pure espansioni e lodi. Ed io pensavo:

— A lui il canto, a me l'olezzo. E non invidiavo più il canarino.

* * *

Più volte si diedero delle feste. Vennero molti bei signori dalla città. Si appesero lampioncini a tutti gli alberi del giardino. Tutte le sale furono illuminate. Udivo la musica. Vedevo traverso le finestre belle coppie di signori e dame agitarsi in tempo di danza. Ed i bicchieri tinnivano, ed echeggiavano i discorsi galanti e le risa.

La mia salvatrice era ammirabile allora, col volto acceso dal movimento e dall'allegrezza. Andava, veniva, danzava, rideva, ricercata da tutti, cortese con tutti, bella, gioconda, felice.

Il signor Botanico, vestito di nero, coi guanti, e senza il terribile quarto di luna, ma sempre color di bronzo, la seguiva coll'occhio passeggiando di sala in sala, e spesso gli sfuggiva, sui tre toni più alti della soddisfazione paterna, il suo piccolo crescendo:

«Uhm! Uhm! Uhm!

Quell'anno Dora venne a salutarmi il mattino dopo la festa, un po' abbattuta dalla lunga veglia, ma sorridente, spensierata. Andava incontro al carnovale, co' suoi divertimenti che amava tanto; e non si affliggeva punto di tornare in città.

Ne fui lungamente crucciato, tanto più che il canarino era partito con lei. E nelle giornate uggiose dell'inverno ripensai quel saluto senza rimpianto della signorina, lo confrontai coi saluti espansivi della bimba, ed appassii di dolore. Mi sentivo meno amato.

Con che ansietà aspettai la primavera! Con che gioia la sentii venire tepida e serena! Il succo mi corse più rapido e caldo negli steli; mi sentii ravvivato, e sperai.

* * *

Un mattino, quando non me l'aspettavo ancora, udii rotare la carrozza dei signori. Mi feci investire dal primo soffio d'aria che passò per voltarmi da quella parte ed essere il primo a vedere la mia salvatrice.

Stava seduta in fondo alla carrozza. Era pallida e mesta.

Il mio primo sguardo fu per lei; il secondo per cercare il mio piccolo rivale biondo. Ma nè presso la signorina, nè dietro colla cameriera, mi riuscì di vedere la gabbia. Il canarino non c'era.

— Forse è morto pensai. E nella mia semplicità di fiore compiansi sinceramente il mio rivale.

Ma, nello scendere di carrozza, la vecchia zia di Dora, che faceva raccogliere dalla cameriera una catasta di scialli, mantelli, sciarpe, veli, borse ed ombrelli, si volse alla nipote, e le disse:

— E il tuo canarino, Dora?

— Ah! esclamò Dora con un atto di sorpresa incresciosa; ma fu passeggera. Riprese subito con indifferenza:

— L'ho dimenticato!

Flora e Cerere! Aveva dimenticato il canarino! Ma a che cosa pensava dunque?

Mi passò accanto senza guardarmi ed entrò in casa. Più tardi però uscì, e venne a vedermi, e mi accarezzò. Ma erano carezze distratte. Il suo cuore non era più là. Le olezzai contro tutto il mio profumo per consolarla. Ella lo accolse colla stessa indifferenza con cui s'era ricordata del canarino.

Passò un mese senza che udissi la sua voce intonare una canzone. Non la vidi mai sorridere. Passeggiava lenta, solitaria, silenziosa, e spesso aveva gli occhi rossi e gonfiati.

Piangeva? E perchè? Avrei voluto saperlo, ed avrei dato fin l'ultimo atomo d'essenza che poteva esalare dalla mia corolla per risparmiarle una pena.

Anche il signor Botanico avrebbe voluto saperlo, ed avrebbe dato fin il suo quarto di luna per risparmiarle una pena. Ma non riusciva neppur lui a capirne nulla e gemeva tristamente in tuono di dolore il suo piccolo crescendo:

«Uhm! Uhm! Uhm!

* * *

Un giorno erano tutti seduti dinanzi a me sotto la gradinata della sala da pranzo. Tutti non erano molti. Il signor Botanico, la vecchia zia e Dora.

Parlavano d'una festa da dare in villa, come l'anno precedente.

Dora aveva un taccuino sulle ginocchia, e scriveva colla matita l'elenco delle persone da invitare. La zia le dettava una filza sterminata di nomi da signora, che Dora scriveva con indifferenza. Finita quella litania femminile, cominciò un'altra litania più lunga di nomi maschili, che la signora continuava a dettare, come le si affacciavano alla memoria.

Si affacciavano prima i marchesi, i baroni, i conti, poi i cavalieri, gli avvocati, gli ingegneri, ed i signori Tali.

Dora scriveva sempre senza dare il menomo segno di approvazione o di biasimo. Giunta in fine dell'elenco, la zia conchiuse per ultimo:

— E Franco.

— Franco? disse Dora facendosi rossa come una fragola.

— Sicuro, Franco. Vorresti escludere dagli invitati mio cugino?

Dora non fece altri commenti. Scrisse, poi ripetè:

— Capitano Franco Trestelle.

La signora non aveva più nomi da aggiungere. Si alzarono per andare a scrivere gli indirizzi delle circolari.

Per quella sera Dora non uscì più in giardino, ed io rimasi solo a pensare cosa, o chi, o come potesse essere quel Franco, al cui nome soltanto Dora si scuoteva dalla sua apatia, e si coloriva come una fragola.

* * *

Venne il giorno della festa. Dora era troppo occupata per pensare a me. La vidi tutto il pomeriggio andare e venire in abito di percalle azzurro, ed incontrare ed accogliere le sue ospiti. Era gentile con tutti. Ma non sorrideva, non si animava. Una cura penosa doveva starle nel cuore.

Sull'imbrunire cominciarono a giungere i landeaux ed i breacks senza signore, tutti carichi di giovani eleganti, coi lunghi pastrani di lustrino, che scendevano fin sulle scarpe per coprire le abbigliature da ballo. La vecchia zia ed il signor Botanico li accoglievano salutandoli dalla gradinata del salotto; ma Dora non c'era più.

— È intenta alla sua abbigliatura di gala, pensai: e mi rassegnai a non vederla; ma il tempo mi parve lungo.

Verso le due di notte, quando la musica era più animata, e le coppie si movevano più allegramente nelle sale, vidi un'ombra solitaria e bianca scendere la gradinata, ed avviarsi con rapidità convulsa verso di me.

Era Dora con un bell'abito di seta color di zolfo; aveva la coda lunga come una cometa, ed era ornato da sciarpe di velo reseda, sostenute con mazzi di rose d'un bel carmino. A breve distanza, ed a luce di luna quell'abbigliatura chiara pareva bianca.

Il volto pallido della signorina, i suoi occhi gonfi si accordavano male coll'aria di festa della sua casa e della sua abbigliatura.

Si gettò a sedere sul mio vaso, mi appoggiò la fronte al tronco, e rimase a lungo cosí, a capo chino, come se contemplasse la terra che mi circondava. Ma le cadevano dagli occhi grosse goccie cristalline, che non erano pioggia nè rugiada. Avevano un sapore acre. Erano lacrime.

Io le effusi intorno tutto il mio olezzo, la avvolsi in un'atmosfera di profumo, come si ravvolgono le reliquie adorate in nubi d'incenso. Ed il suo cuore, commosso da quella espansione, si aperse ad una confidenza intima, e sospirò:

— Se potessi non amarlo più!

Non amare, più chi? Il Canarino? Ma se l'aveva dimenticato! E poi perchè non amarlo più? Erano sempre andati d'accordo... No. Non poteva essere il canarino. Ma chi dunque? Io no di certo. Non le avevo dato alcun motivo per desiderare di non amarmi più.

Pensai un momento. Ricordai le persone che vedeva, quelle che nominava, le espressioni del suo volto, le sue parole, i suoi atti: e ad un tratto mi ricordai:

— Franco! Franco, che non voleva invitare. Franco per cui ha arrossito come una fragola. È per lui che piange. È lui che vorrebbe non amare.

Dunque lo amava. Maledetto Franco! Chi era? Non lo conoscevo punto; ma avrei voluto asfissiarlo.

* * *

Dora alzò gli occhi, ancora bagnati di pianto, e stette a guardare distrattamente la porta a cristalli della sala che era in faccia a noi.

La musica cessò. Poi due figure si affacciarono nel vuoto illuminato della porta. Un ufficiale ed una bella signora che si davano il braccio, ed accostavano le teste per parlare sommessamente; poi ridevano. Formavano un bel quadro oscuro su quel fondo chiaro di luce.

Dora li vide, e scoppiò in singhiozzi. Compresi che quell'ufficiale era il capitano Franco Trestelle. Era gelosa di quella signora, come io ero geloso del canarino. Povera Dora!

Le due ombre eleganti scesero lentamente la gradinata, e si avanzarono verso di noi susurrandosi all'orecchio parole animate, e guardandosi negli occhi, e ridendo.

Dora si rannicchiò dietro a me, si nascose alla mia ombra.

Io invece, più ardito, rimasi immobile in faccia ai misteriosi passeggiatori. Guardai Franco. Era un bel giovine bruno, dalla persona alta e florida, dal portamento baldanzoso, dagli occhi neri, scintillanti, temerari e buoni.

Guardai la sua compagna. Il volto un po' dipinto, la persona tondeggiante, l'abito damascato, i pizzi di Bruxelles, i brillanti che parevano lucciole...

Per tutti i profumi del Serraglio! era una donna maritata.

* * *

Tutto il mio senso morale di fiore si rivoltò a quella scoperta. Lanciai dietro a Franco un tal buffo di profumo, ch'egli volse il capo dicendo:

— Che buon odore d'arancio!

E nel voltarsi vide un lembo di quella coda interminabile color di zolfo, ed indovinò che Dora lo vedeva e lo udiva.

Si fece serio, e tirò via in silenzio, malgrado il cinguettìo ameno e civettuolo della bella signora.

Quando furono scomparsi tra la folla della sala, Dora si alzò anch'essa. Non sospettava punto d'essere stata scoperta. Mentre si avviava alla sala del ballo, io le mandai un olezzo che voleva dire:

— Prendimi con te.

Ella staccò un fiore dal mio stelo, e se lo pose nei capelli susurrando:

— Non ho che te da amare, mio povero fiore. E rientrò.

Franco le andò incontro per domandarle un ballo. Ella stese la mano e lo seguì in silenzio.

— Si diverte Dora? domandò il cugino, non abbastanza prossimo per darle del tu, non abbastanza lontano per chiamarla signorina.

— Sì, rispose Dora.

— Non l'avrei mai creduto; mi sembra malinconica.

— È il mio carattere.

— È pallida.

— Lo sono sempre.

— Da quando?

Dora non rispose. Franco osservò ancora:

— Ed ha anche freddo, mi pare.

Dora tacque sempre, ed abbassò il capo. Franco le domandò:

— Dove l'ha preso, quel fiore d'arancio?

— Non so... sulla mia toeletta.

— Ma che, Dora; si confonde. Mezz'ora fa non l'aveva.

— L'ho colto or ora.

— L'ha colto sulla toeletta? Ed abbassando la voce con una nota di petto, appassionata come un sospiro, continuò:

— Perchè stava sola, al freddo della notte, sul vaso d'arancio? Perchè ha gli occhi rossi, Dora? Dica; perchè!

E la guardava fissamente in volto collo sguardo scintillante, temerario e buono.

Dora non osò rispondere. Si fece rossa e continuò a tener gli occhi bassi in silenzio.

Era la loro volta di ballare, e Franco la strinse forte al seno, e nel lasciarla le premette lungamente la mano.

Fu l'ultimo ballo. Dora si ritirò nella sua camera, ma non dormì. Guardava il mio fiore, ripensava tutto il discorso che aveva fatto nascere, e mormorava:

— Chissà?

* * *

Il domani tutti gli invitati partirono. Anche la bella signora dai pizzi, dai brillanti, dai colloqui civettuoli e segreti.

Franco solo, come parente della famiglia, rimase.

— Resti con noi, Franco? domandò la zia.

— Sì. Dora mi ha promesso una gemma del suo arancio. Mi fermo per staccarla, e per piantarla. Ed offerse il braccio alla cuginetta, e la trasse presso il mio vaso.

— Sa perchè non sono partito? le domandò colla sua bella voce di petto. Lo sai Dora?

A quell'ultima parola che le dava del tu, Dora ebbe un sussulto che la scosse tutta. Per un sentimento di decoro volle allontanarsi, ma non ebbe il coraggio. Si lasciò cadere come nella notte sul mio vaso, e si nascose il volto tra le mani.

Franco sedette egli pure, e le mormorò:

— Non sono partito perchè ti voglio bene; e perchè so che tu pure mi vuoi bene.

— Oh, Franco! esclamò Dora singhiozzando. Questa notte non era a me che volevi bene.

— Sì, Dora, sempre. Ebbi un momento di debolezza, ma volevo bene a te sola.

E le prese una mano, ed accarezzandola continuò:

— Ed il tuo fiore mi fece voltare col suo profumo; e mi fece vedere che eri qui sola, e che mi avevi veduto, e che piangevi. Ed allora non ho più pensato che a te; te lo giuro. Vuoi perdonarmi, Dora?

E mentre parlava sommesso, tirava dolcemente la manina, e faceva chinare verso di sè la personcina sottile e la bella testa bionda.

— E poi se ti accade ancora un momento di debolezza? disse Dora. Ne hai tanti quando ti trovi fra belle signore...

— Sta sempre con me, cara. Sii tutta mia, ed i momenti di debolezza li avrò soltanto per te. Lo vuoi Dora? Vuoi essere mia moglie? Di', vuoi?

Il braccio dell'ufficiale cingeva la personcina sottile, e la bella testa bionda sfiorava quasi la sua spalla, mentre egli la guardava negli occhi collo sguardo scintillante, temerario e buono.

Sì... Dora susurrò che voleva, e gli diede uno dei miei fiori:

— È stato il mio fiore d'arancio che ci ha riuniti; quando andremo in chiesa a sposarci lo porterò nei capelli.

Le labbra dell'ufficiale avevano incontrate quelle di Dora, e, per quella combinazione improvvisata, il discorso rimase interrotto.

«Uhm! Uhm! Uhm! s'udì canticchiare quasi subito sul tono languido d'uno sbadiglio.

— Il babbo! disse Dora. Ed i due giovani balzarono in piedi, e corsero incontro al signor Botanico, e colla voce commossa e gli occhi lucenti, gli dissero tutto... o quasi.

— Benedetti ragazzi! borbottò il babbo. Ma quel giorno, malgrado la stanchezza della notte vegliata, si osservò che intonava con insolita giocondità il suo piccolo crescendo:

«Uhm! Uhm! Uhm!»

E fu a questo modo ch'io divenni un fiore nuziale.

IN PROVINCIA

Virginibus puerisque cano.

Traduzione libera. — Lettore, se non è più giovinetto, m'incresce, ma il mio racconto non è per lei.

Il nonno era stato farmacista in una piccola città della Lombardia. Sua figlia, il cui marito era succeduto a lui nell'esercizio della sua professione, come egli stesso tanti anni innanzi era succeduto al suo babbo, sua figlia aveva obbedito fedelmente al precetto delle sacre scritture, che dice alla sposa: «Sarai feconda come una vite... senza crittogama».

E però la casa paterna in cui vivevano alla patriarcale tre generazioni, riboccava di bimbi, di giovinetti, di fanciulle, e ciascuno aveva amici del suo sesso e della sua età, che si riunivano poi tutti in un'amicizia ed in un chiasso comuni.

Maria, la figlia primogenita dell'esercente farmacista, e quindi la maggiore fra le nipotine del nonno, s'era fatta da qualche tempo palliduccia ed imbronciata. Mangiava poco, lavorava meno, non rideva affatto, piangeva spessissimo. Ed in conseguenza di questo trattamento poco igienico, si andava assottigliando fino alla trasparenza. E tutto questo a diciotto anni. Come mai Dio buono? E perchè?

Il perchè non s'aveva che a domandarlo al primo venuto. Nei piccoli paesi non vi sono segreti. La vita è regolata come un orario di collegio.

C'è un luogo di passeggio alla moda, dove convengono in certi giorni stabiliti tutti i giovinotti e tutte le signore e signorine della città, ad udire una musica come Dio vuole, che fissa loro le ore di uscita e misura loro il passo. C'è una messa alla moda pei giorni di festa. Di quando in quando c'è uno spettacolo teatrale: e dappertutto sono sempre le stesse persone che si trovano, si ritrovano si guardano, si conoscono, si studiano, si sanno a memoria a vicenda, e vedono nell'interno delle famiglie e dei cuori come in un guanto rovesciato.

Il tale corteggia la tale. Così cominciano tutti i pettegolezzi nei piccoli paesi. Un primo sguardo appassionato che ha fatto palpitare un povero cuore di fanciulla, corre tutte le bocche come il listino di borsa. Profanazione!

Poi si va innanzi.

Quei due sono in sentimento.

È il gergo del pettegolezzo.

— Oggi al passeggio egli l'ha seguita. Allo svoltar del viale l'ha salutata.

La giovinetta ripensa quel saluto nel segreto della sua stanza; si copre gli occhi per dimenticare dov'è, e trasportarsi coll'immaginazione a quel momento, e riprovarne la sensazione commovente e soave.

Poi, quando l'immaginazione è stanca e l'impressione, a forza di ripetersi ogni sera, è esaurita, la giovinetta innamorata la confida all'orecchio d'un'amica, per ravvivarla col suono della propria voce.

Ed intanto nel caffè della piazza la cosa è già stata detta e ridetta a sazietà, e si sta già tutt'occhi aspettando la farsa d'un biglietto furtivo, che non può mancare di passare la prossima domenica all'uscir di chiesa, tra la folla, dalla mano del giovine in quella della ragazza.

Così tutti i segreti, nelle piccole città, sono segreti di Pulcinella. E così pur troppo era passato fase a fase, sotto la revisione ed i commenti di un piccolo pubblico scimunito, il segretuccio palpitante della povera Maria.

Si trattava di un giovinotto ricco, bello, elegante; ma poco studioso, sfaccendato e di costumi non molto esemplari.

Erano proprio arrivati fino all'episodio del bigliettino, episodio ripetuto fedelmente tutte le domeniche ed altre feste comandate, con una moltiplicazione di bigliettini che inondava tutte le scatole e scatoline e scrignetti di cui erano adorni i cassetti della fanciulla; un vero studio epistolare, che faceva molto onore all'assiduità dei due studenti.

Poi Roberto aveva cominciato ad accorgersi di avere la tosse. Una tosse misteriosa per verità, che sentiva lui solo, e soltanto di notte; ma egli accertava che di notte la sentiva.

E quanto bene gli facevano le pastiglie di altheae officinalis! Non gli guarivano la tosse lì per lì. No, era una cura da continuare all'infinito; ma una buona, buona cura.

E perchè gli giovasse, bisognava che andasse in persona a comperare le pastiglie d'altea alla farmacia ogni mattina alle undici; poi alle tre, prima del pranzo; poi ancora alla sera. Bisognava provvederle di volta in volta per misurar le dosi; e continuare; sopratutto continuare.

E Maria era sempre in farmacia in quelle ore. Era ben naturale, dacchè egli ci andava ad ore fisse, e tutte le fanciulle ordinate hanno pure la loro giornata regolata ad ore fisse. Così, imbroccato l'incontro una volta, era imbroccato per la vita eterna.

— Quante ne vuole? domandava Maria.

— Cinquanta grammi. Fresche come lei, signorina..

— Oooh!... (rossore, confusione). E lei ha sempre la sua tosse?

— Sempre, finchè potrò venire da lei a prendere le pastiglie d'altea.

Questo dialogo si ripeteva con pochissime varianti, tutte le volte che il farmacista era assente, e Maria, che sapeva benissimo spedire le ricette, lo suppliva.

Ella trovava tanto spirito in quelle due risposte di Roberto, e tanta passione! Le commentava come si commenta il Paradiso di Dante, e, come in quello, vi trovava sempre nuove bellezze.

Ma quando le imposte della farmacia si chiudevano alle undici di sera, e Maria si ritirava nella sua cameretta a ripensare, e poi a sognare baffetti nascenti e pastiglie d'altea, Roberto non si ritirava, non pensava nulla, non sognava nulla. Andava a zonzo, beveva, giocava: faceva una brutta vita di notte; — brutta vita! Neppure l'ingenuo amore che gli azzurreggiava al pensiero durante il giorno, riesciva a purificarlo. Era come le pastiglie d'altea per la tosse. Gli faceva bene, ma non lo guariva.

E la gente parlava, parlava a sproposito al solito. Trovava che tutti i torti di lui si riverberavano sulla fanciulla, che non li conosceva nemmanco:

— Amare un giovine come Roberto! Con quella vita che fa! Chi la vorrà più sposare quella ragazza? Egli l'abbandonerà; ne piglierà un'altra più ricca, più bella, e lei resterà zitellona.

Così si suol ragionare. Egli, perchè era un discolo, avrebbe trovata una sposa, ricca, bella, conveniente sotto ogni rapporto. Lei, perchè buona, fiduciosa, e per disgrazia illusa da uno scostumato, avrebbe dovuto portar la pena delle colpe di lui. Oh, giustizia! Che hai lasciato pigliar la ruggine alle tue bilancie?

Ma il farmacista non istette a cercare il pelo nell'ovo. Seppe che correvano ciarle sul conto della figliola, e volle farle tacere.

Prese a parte Roberto durante una delle sue provviste di pastiglie, e gli fece uno speech, sulla riputazione delle fanciulle, infiorato di tutti i paragoni colla fragilità del vetro, e la neve, e la sensitiva, ch'egli ripetè con enfasi come se li stesse inventando lui freschi freschi: «e se le sue intenzioni erano buone, si svelasse a lui, il babbo; ma non stesse a compromettere la figliola, ed allontanarne gli altri partiti..., ecc., ecc.

Pare che la bontà di quelle intenzioni non fosse tanta come voleva il babbo; perchè in conseguenza del suo discorsetto, il grande smercio dell' althaea officinalis cessò, ed incominciò l'affilarsi del viso, ed il gonfiarsi ripetuto degli occhi di Maria.

Era passato più d'un mese. Una sera che c'erano in casa Dio sa quanti ragazzi, tra quelli della famiglia ed i vicini e gli amici, ed il rumore della brigata giovanile era diventato insopportabile, e la mamma aveva ammonito inutilmente ed il babbo era montato inutilmente sulle furie, il nonno entrò di mezzo come paciere. Chiamò a sè i nepoti ed i compagni dei nepoti, se li fece schierare intorno alla poltrona fuori della farmacia, e si dispose a raccontar loro una fola. Era il grande ripiego a cui si finiva per ricorrere quasi ogni giorno.

Quella sera Roberto capitò a passar di là appunto in quel momento; e vedendo che quei ragazzi, fra cui c'erano pure delle fanciulle, ed anche Maria, aspettavano la fola del nonno, si fermò anch'egli a qualche passo dalla poltrona venerabile. Era stato congedato dal negozio; ma là fuori era sulla strada, area municipale, ed, a rigor di termini, nessuno poteva impedirgli di rimanervi.

Il nonno, che lo vide colla coda dell'occhio, narrò:

— C'era a' miei tempi un giovinotto che si chiamava Leonardo Valle. Non era punto nobile, ma i suoi genitori avevano ammassati quattrini assai, tenevano un andamento di casa coi fiocchi, ed il ragazzo era avvezzo a mancare soltanto del sole nei giorni di pioggia.

Teatri, serate in casa, pranzi, lezioni d'equitazione, velocipede, pattinaggio, nuoto... era una benedizione! Figurarsi il gusto che poteva trovare alle ore passate sui banchi del liceo un omettino avvezzo a quel po' po' di movimento. Non s'aveva che a parlargliene per venirgli in uggia e farsi dar del pedante.

Tuttavia i genitori, cui sapevano male che venisse proprio su il signor nessuno, ed avrebbero voluto udirlo chiamare il signor avvocato o il signor dottore, battevano e ribattevano il chiodo dello studio. Allora Leonardo, che aveva ormai diciotto anni, ed era dotato d'una volontà energica, accampò il Codice che gli dava diritto ad essere emancipato. Si prese il fatto suo, e fece come il podestà di Sinigaglia, e come il figliuol prodigo. Ed allora, viva l'allegria! Non c'era più nè giorno nè notte; era lui il padrone del mondo, e se gli avessero detto che quella vasta proprietà potrebbe trovarlo un giorno a borsello vuoto, e venirgli contestata, avrebbe fatto spalluccie.

Ma « Vedi giudizio uman come spesso s'erra » il borsello vuoto gli capitò in tasca più presto assai che non lo credessero neppure gli invidiosi, i quali per altro hanno sempre il tempo dell'oriolo girato sull'avanzo.

— Gli amici mi aiuteranno, pensò, hanno tanto fatto il chiasso alle mie spese...

— Ma sì, eh? Uno aveva finito appunto allora l'ultimo scudo. L'altro era figlio di famiglia; quell'altro aveva un amministratore taccagno che gli teneva conto fin delle frazioni infinitesimali... e così via.

Amici da starnuti

Il più che tu ne cavi è un Dio t'aiuti!

Fu tutto quello che ne cavò Leonardo. Il proverbio dice «chi s'aiuta Iddio l'aiuta.»

Bisognava dunque che cominciasse dall'aiutarsi da sè; e non era facile con quella sorta di passato, che gli aveva lasciato il cervello vuoto come una casa nuova.

Un momento pensò le rivoltelle, ed i bracieri di carbone, ed i tonfi nel Po, ed i salti mortali giù dai campanili, proprio mortali davvero quelli, e non so che altre reminiscenze bislacche di cronache di giornali.

Ma, per fortuna, se il povero babbo era morto, gli restava la mamma. E quando si ha una mamma che piangerebbe tutte le lacrime de' suoi occhi, e si struggerebbe la vita di cruccio, certi spropositi non si fanno.

Tirò la somma del dare e dell' avere. Questo era assolutamente nulla; ed il dare invece era parecchio. Finchè aveva creduto di poterli pagare da un'ora all'altra, quei debitucci non gli erano sembrati nulla. Ma dal momento che non si sentiva sicuro di metterci il saldo, ne ebbe una vergogna tremenda. Se la sua mamma avesse saputo che aveva dei debiti... Madonna Santa! E corse da lei, che non aveva più veduta dopo la sua emancipazione e le giurò sui suoi capelli bianchi che vivrebbe delle proprie fatiche, e sarebbe un galantuomo.

— Non offrirmi nulla, soggiunse. Non dirmi che mi perdoni. Non lo merito ancora, mamma; e non mi permetterò di rivederti finchè non mi senta degno della tua benedizione.

E vendette tutti i gioielli, i mobili di lusso, un mondo di inutilità che aveva comperate; e con quei denari pagò fin l'ultimo soldo da' suoi debiti. Allora si sentì tolto un peso dal cuore; e cominciò ad esaminare le sue capacità.

Misericordia!

Aveva avute da piccino delle governanti tedesche e francesi, ed aveva imparato a balbettare quelle due lingue; ma malamente e senza conoscerle a fondo. Del resto sonava La Stella confidente sul pianoforte, ballava a perfezione e dirigeva le quadriglie come un generale d'armata. E null'altro.

Però sì; aveva una bella mano di scritto, chiara, elegante. Era pochino; ma, non avendo di meglio, pensò di cavare partito da quella sola capacità.

Non gli riuscì subito, nè facilmente. Ma domanda e ridomanda, venne a capo di scoprire una benedizione di notaio, che aveva bisogno di uno scrivano, e che lo prese nel suo studio per sessanta lire al mese.

Lui, che non trovava mai nulla abbastanza buono pel suo palato guasto, si prefisse di vivere con una lira al giorno. A colazione un pane da due soldi con una tazza di latte. Poi andava a desinare in una trattoria dove mangiava una minestra con un pezzo di carne, senza ber vino. La sua salute non fu meno florida per questo. Prese in affitto un abbaino che mobigliò con un lettuccio, una tavola, una catinella e due sedie. Pagava dieci lire al mese di pigione. Gli rimanevano venti lire. Dieci le destinò a pagare un maestro di contabilità, dal quale andava a scuola ogni giorno nel solo tempo che aveva libero, da mezzodì ad un'ora. Le dieci lire rimanenti le mise a parte per vestirsi.

E la sera, che altre volte era costretto a disputare alla noia a forza di divertimenti costosi e strambi, la passava solo nella sua cameretta a studiare le due lingue che conosceva imperfettamente.

Ci mise tutta la sua volontà energica, e perseverò in quella vita con coraggio. In capo ad un anno poteva parlare e scrivere speditamente il francese ed il tedesco. E l'aritmetica e l'algebra non avevano più segreti per lui. Una casa di commercio molto accreditata ricercava un commesso. Egli si presentò. Fu provato al concorso con sei altri aspiranti, ed ottenne quell'impiego con tre mila lire all'anno. Allora andò dalla mamma, e le disse:

— Ho voluto essere ancora degno del tuo amore e del nome del babbo. Ora puoi benedirmi, mamma, perchè la stessa volontà energica di cui m'ero valso per far il male, mi ha giovato per ricondurmi a te, che sei il bene.

* * *

Il nonno aveva parlato serio serio e concitato; e però la piccola brigata trovò che la fola di quel giorno non era punto dilettevole, e si disperse, brontolando un pochino. Ma Maria che aveva indovinato a chi la dedicasse il nonno, gli strinse la mano in silenzio; e tutti e due tennero dietro collo sguardo a Roberto, che cacciate le mani in tasca, e col capo chino sul petto, si allontanò lento e pensoso, e scomparve senza voltarsi.

Due giorni dopo giunse alla farmacia una lettera dalla posta coi bolli di Milano. Era diretta a Maria; ma, naturalmente, la ricevette e la lesse il babbo, poi la comunicò alla mamma, al nonno; li consultò tutti e due, si fece un gran discutere se convenisse o no di parlarne a Maria; e finalmente considerato l'aspetto sofferente e la malinconia della ragazza, ed i buoni propositi dichiarati nella lettera, fu deciso alla unanimità di comunicare a Maria quell'epistola. Era di Roberto e diceva così:

« Signorina,

«Io non ho, come quel Leonardo della fola, una mamma per giurare sui suoi capelli bianchi di mutar vita. Ma sento che se l'avessi avuta, sarei stato migliore di lui; perchè ieri, appena vidi lei cogli occhi arrossati, ed udii le parole del suo nonno, ho provato un rimescolamento nel cuore, ed ho giurato di mettermi al sodo.

«Quello là aveva di mira il compenso di farsi benedire e voler bene dalla sua mamma. Ed io sono venuto qui a studiare ed a farmi una posizione per farmi benedire e voler bene da lei.

«Quando sarò medico e verrò in farmacia per domandarle... le pastiglie d'altea, il suo babbo, non mi metterà più fuori, spero. Saprò stendere la mia brava ricetta, in latino anche, e, se avrà da mettermi fuori, dovrà mettermici colla sua figliola.

«Glielo dica, signorina, per vedere se volesse permetterle di scrivermi una parolina di tanto in tanto per darmi coraggio.

« Roberto.»

E ne scrissero tante di paroline: e poi venne un giorno in cui non ne scrissero più, perchè potevano dirsele.

UN VELO BIANCO

La vidi la prima volta nella Galleria Subalpina dai signori Baratti e Milano. Ero entrato per pigliare una soda water, che mi aiutasse a digerire la colazione, e mi desse appetito pel pranzo. Ero già a questi termini.

Lei era con un'altra signora, ed io non osavo guardarla in viso, per non mostrarmi indiscreto. Stavo voltato verso lo specchio, e la vedevo in effigie. Che effigie, signori pittori! Che effigie! Se loro fossero mai riusciti a farne una simile!

Lunga, sottile, svelta... se fossi a Milano, direi come la guglia del Duomo. Ma vi potrebbe esser qualcuno che non l'ha veduta. Mettiamo, svelta come un palo del telegrafo; un po' di linea e di buon garbo ce l'aggiunga lei, signora lettrice, con quella parte d'immaginazione che il suo cattivo genio le ha data.

Dico il suo cattivo genio, perchè l'immaginazione per me è stata una fonte di disgrazie. Sentirà. Ma ora tiriamo innanzi.

Aveva i capelli neri come questo inchiostro; ed il viso bianco come questa carta; e gli occhi vivaci, incisivi, come i tratti di spirito di cui vorrei infiorare la mia narrazione se ne fossi capace. E la sua bocca...

No. Qui bisogna che mi fermi un poco. La sua bocca era un poema.

Si figuri, signora lettrice, che la vidi nel momento in cui l'apriva per introdurci, con due ditini che parevano due foglie di rosa accartocciate, un marron glacé. Il marron glacé era dei più grossi, e naturalmente lei apriva la bocca a tutta forza come se gridasse:

— Aiutoooo!!!

Se avesse potuto vederla Giotto proprio in quel minuto là! Sarebbe andato a nascondersi lui ed il suo o, che doveva essere uno sgorbio, al confronto di quella rotondità di bocca. No. Sono pronto a giurarlo sul Vangelo, sul Corano, sui libri dei Veda, sul libro mastro del mio sarto, non è mai esistita nei fasti della bellezza umana, una bocca più rotonda di quella.

E che denti! E che freschezza! Se i rettorici non mi avessero sfruttata l'immagine dello scrignetto di perle, sarebbe il caso di applicarla davvero. Così dovrò accontentarmi del paragone d'un gelato di fragole, guarnito di mandorle. È un po' da credenziere; ma quella bocca color di rosa non li sdegnava punto i lavori da credenziere. Oh punto, punto!

Quando il marron glacé fu spacciato, le foglie di rosa accartocciate afferrarono una brioche; poi un petit four; poi un croque en bouche, e l'uno dopo l'altro fecero scomparir tutto nel gelato di fragola.

Il croque en bouche fu il colpo di grazia pel mio cuore. Lo zucchero cristallizzato che avvolgeva lo squisito chicco, scricchiolava sotto quei dentini bianchi... cric, cric, cric...

Ah! quel cric, cric! La soda water mi salì alla testa, mi entrò nel naso, mi andò in gola a traverso, nell'eccesso della commozione. Tossii, tossii fino a diventare violetto. Il pasticciere mi picchiava pietosamente dei pugni sulla schiena, ed intanto udivo la signora che era con lei che diceva:

— Sbrighiamoci, è l'ora del pranzo.

Che Santa Lucia le conservi la vista! L'ora del pranzo! Ah! era un tesoro quella fanciulla che andava a pranzo dopo quel preludio di pasticcieria con accompagnamento di vermouth.

Neppure negli incubi più stravaganti delle mie digestioni laboriose, avevo mai sognato una donna di stomaco forte come quella giovinetta. Per tutta la sera, per tutta la notte, l'ebbi sempre in mente.

* * *

Avevo trentanove anni ed undici mesi. Il sagrestano della mia parrocchia e gli spazzini del municipio possono far fede che non erano ancora quaranta.

Avevo perduto i genitori poco dopo la mia maggiorità, ed avevo menato una vita alquanto allegra, troppo forse, da cui m'ero ritirato da qualche anno col patrimonio ridotto a metà, e le facoltà digestive ridotte a zero. Non più pranzi d'amici, nè cene, nè ritrovi giovanili. Ciascuno di codesti spassi lo scontavo, ormai, con una piccola malattia; ed avevo finito per condannarmi ad una vita d'isolamento, di bistecche e di soda water.

Molte volte m'era venuta l'idea di ammogliarmi per avere chi confortasse i miei dolori di stomaco, e sorvegliasse meglio le mie bistecche. Ma mi ero sempre incontrato con signorine che mangiavano poco e bevevano acqua, ed avevo tremato di sposare uno stomaco fragile come il mio, per passare con mia moglie il resto dei nostri giorni ad intenerirci a vicenda sulle nostre indigestioni, ed a prodigarci decotti di camomilla.

Alla vista di quella fanciulla, le mie idee coniugali si ridestarono. Era lo stomaco delle mie aspirazioni. L'apparecchio digestivo d'uno struzzo nel petto gentile d'una bella signorina di vent'anni.

Non sapevo chi fosse. Aveva l'aspetto ed il vestire d'una straniera. E la signora che l'accompagnava, piccola, grossa, col viso infiammato, ed una pioggia di ricci d'un biondo scialbo misto di grigio lungo le guancie, gli abiti corti, le scarpe di grossa pelle a doppia suola, ed un lungo velo turchino sopra un cappello ridicolo, era quanto si potesse desiderare di meno bello, ma di più touriste.

Però quella specie di pallottola, del peso di qualche tonnellata, aveva cinguettato in italiano:

— Sbrighiamoci; è l'ora del pranzo.

Aveva veramente cinguettato? Il suo accento era veramente straniero? Non avrei saputo dirlo. Avevo fissata tutta la mia attenzione sulla giovine, e queste considerazioni circa la loro nazionalità le facevo dopo, fondate sopra memorie molto vaghe.

Ad un tratto mi colpì improvvisa ed atroce come un crampo allo stomaco questa idea:

— Se sono straniere in viaggio, può darsi che partano domani, che siano già partite questa sera, per Londra, per Nuova-York, per le steppe della Russia, e che io non le riveda più.

Parlavo in plurale, ma il mio rimpianto era per una sola.

Era notte inoltrata quando mi venne quel pensiero pauroso. Passai delle ore agitatissime, ed appena fu giorno, mi slanciai ai musei, alla sala d'armi, al giardino del re, al cimitero. Visitai molte chiese, poi il Teatro Regio, desolato come un disinganno, alla luce scialba che vi penetra di giorno, coi palchetti vuoti cavernosi come tante orbite cieche. Ma in nessun luogo incontrai la bella straniera.

— Sarà andata a Superga, pensai.

Erano le quattro del pomeriggio. Non avevo più il tempo di andarci anch'io. Stanco, affannato, corsi giù giù in via di Po, fino alla Gran Madre di Dio e passeggiai più d'un'ora nella speranza di vedere le viaggiatrici tornare.

Ma nemmeno per ombra! ed intanto pensavo la sua bella figura, i suoi occhi, la sua bocca rotonda, ed il suo appetito, il suo meraviglioso appetito. Mi pareva di sentire ancora il cric, cric del croque en bouche.

— Se fosse rimasta a Torino? Se fosse là, come ieri a quest'ora, ad esercitare i suoi dentini? Infatti, che cosa mi prova che sia andata ad assiderarsi fra quei morti reali? Dio degli Dei! Ed io sto qui ad aspettarla come un grullo. Oh! l'immaginazione!

E via, un'altra volta di corsa lungo i portici di Po senza fermarmi finchè mi trovai, ansimante ed acceso in volto, nel negozio del pasticciere.

Era là. L'avevo trovata! Per tutte le cose dolci della terra! Mi sentii sollevare un peso dal cuore, come se avessi digerita la colazione.

Tornai a piantarmi, come il giorno prima, in faccia allo specchio, per contemplarla senza soggezione. Ma la vecchia rotonda dai ricci biondi le stava sempre dinanzi, e mi toglieva la vista della personcina elegante.

Quel giorno mi proposi di non lasciarmela sfuggire senza scoprire almeno dove fosse alloggiata, e quando uscì le tenni dietro.

Lei e la sua compagna camminavano con una celerità inglese, e mi fecero correre sino in via Cernaia. Là, entrarono in una casina piccola, che aveva un giardinetto a fianco.

Andavano a fare una visita? O a casa loro!

Rimasi al mio posto come una sentinella tedesca, per aspettare la risposta a queste domande. Sonarono le sei, le sei e un quarto, le sei e mezzo. Le signore non uscivano. Erano appunto le sei e mezzo il giorno innanzi quando la mamma aveva detto alla figliola:

— Sbrighiamoci, è l'ora del pranzo.

Dunque pranzavano là, e dovevano essere a casa loro, perchè la vecchia con quelle scarpe e quegli abiti corti, non era certo in arnese per un pranzo d'invito.

Sapevo dove abitavano; era già qualche cosa. Ma è nella natura dell'amore di non fermarsi mai nella scala ascendente dei desiderii. Ora avrei voluto sapere chi erano.

Mi avventurai ad entrare. Il portinaio aveva una faccia incoraggiante.

— È da affittare questa palazzina? domandai.

— Nossignore. È già affittata a due signore inglesi.

— Ah! le signore...

— Sì. Le signore... Hanno un nome spropositato che non si può dire.

— Aspetta... e finsi di cercare nella mia memoria. Che! l'ho dimenticato anch'io. Non importa; una giovine...

— Una vedova ed una miss.

Diedi un biglietto da cinque lire al bimbo del portinaio ed uscii trionfante.

A conti fatti non ero molto bene informato. Che la giovine era una miss lo sapevo anche prima. Che la vecchia fosse vedova, non m'importava affatto. Tuttavia quella vedovanza mi dispensava dalle lunghe aspettative, per domandare traverso la Manica il consenso del suo signore e padrone, per sposare la figliola.

Ed intanto era certo che abitavano là; che non mi guizzerebbe via la sposa come un'anguilla, fischiando dietro alle mie speranze, pel tubo della locomotiva.

Mentre stavo fermo dinanzi alla porta a fare l'inventario delle notizie raccolte, vidi venire un servitore con due bottiglie di selz: mi passò accanto, entrò nella palazzina e salì, senza parlare al portinaio che era uscito a guardarmi dietro, per imprimersi bene in mente come sono fatti gli uomini che pagano cinque lire tre risposte inconcludenti.

— Il servitore delle signore inglesi? gli dissi accennando l'uomo dalle bottiglie.

Egli chinò più volte il capo in segno affermativo ammiccandomi degli occhi... Anche quella conoscenza era buona. Un servitore può essere un alleato; ed io ne avevo bisogno, perchè avevo la velleità romanzesca di voler conoscere la signorina, ed assicurarmi d'essere amato prima di presentarmi ufficialmente come pretendente. Per una inglese questo era nelle regole.

L'indomani replica dell'incontro dal pasticciere, e dell'inseguimento fino in via Cernaia. Quel giorno pranzai in una trattoria da quelle parti per non iscostarmi troppo, e verso le sette andai a passeggiare dinanzi alla palazzina aspettando di vedere il servitore. Avevo preparato un biglietto rispettoso, serio, pratico, degno d'una giovine inglese.

« Signorina,

«Dal primo giorno che la vidi dal pasticciere mi ha divorato il cuore col suo croque en bouche. Sono gentiluomo; patrimonio discreto, abitudini tranquille, carattere uguale, trentanove anni e undici mesi; un po' avariato nelle funzioni digestive. Questa confessione le provi la mia lealtà. Quanto all'aspetto può giudicarlo da sè, e se potessi sperare di ottenere le sue simpatie, sarei felice di offrirle la mia mano, e di domandarle in ginocchio la sua».

Seguiva il nome e l'indirizzo, contrada, numero e tutto perchè potesse rispondermi.

Circa le otto vidi il servitore che usciva dalla palazzina e s'avviava ad un'edicola in piazza Solferino, dove comperò alcuni giornali.

Quando stava per rientrare in casa, me gli accostai, e gli dissi:

— Vorreste portare questa lettera alla signorina?

I don' dan't understand mi rispose. (Non capisco).

To miss. Gli dissi mostrandogli la lettera.

Yes, sir. E, presa la lettera, se ne andò, senza farmi difficoltà e senza mostrare la menoma meraviglia.

— Miss è molto accessibile, a quanto pare, pensai. Troppo accessibile. Si vede che la sua mamma le accorda tutta la libertà inglese.

Aspettavo di ricevere il giorno dopo un invito, o un biglietto che mi offrisse il mezzo di farmi presentare alla mamma, per poter conoscere la signorina, e farmi conoscere da lei.

Dio! che agitazione fu quella. Avrei giurato di avere vent'anni. Dimenticai la magnesia, la soda, le pastiglie di bismuto. Passai la notte a leggere un romanzo d'amore.

La mattina mi alzai ad un'ora inverosimile, e mi provai allo specchio tutti i miei abiti neri e le mie cravatte bianche. Alle nove ero in gran toletta da visita. Non c'era senso comune a quell'ora. Ma non potevo persuadermene.

— Non si sa mai quel che può accadere, suggeriva la mia impazienza. Potrebbe scrivermi di mettermi in relazione con Tizio, che mi facesse conoscere a Sempronio, che mi presentasse a Caio, che mi conducesse da Martino, il quale fosse incaricato di offrirsi d'introdurmi presso la signora vedova e la miss. Supposto che tutti quei personaggi avessero qualche altro affare oltre la mia presentazione, ci vorrebbe del tempo a trovarli ed a farli agire; infine è meglio tenersi pronto ad ogni evento.

Più presto che non osassi sperarlo, ricevetti un biglietto di grossa carta inglese, scritto a lunghi caratteri inglesi. Lascio stare i miei palpiti, le mie agitazioni, le mani tremanti nell'aprire la busta, che si possono trovare descritti un paio di volte in tutti i romanzi che addormentano l'umanità. La lettera veniva dalla posta, e diceva così:

« Mio Signore,

«Io non conosco voi. Io sono non abbastanza libera per pregar voi di venire, e conoscere me. Cosa fare?

« Miss Gemmy Faat.»

Mandai dal cuore tutt'altro che benedizioni a quella madre crudele che teneva schiava la bella fanciulla. A cosa serve esser inglesi, a cosa serve aver un servitore compiacente, se sul più bello si debbono troncare a questo modo le speranze d'un galantuomo?

Dovevo essere commovente col mio abito nero, la cravatta bianca, il gibus sotto il braccio, i guanti a tre bottoni, gli occhi imbambolati, e quel pochino di languido appetito che mi aveva dato la speranza, completamente svanito.

Povera bimba. Era vittima della tirannia della vedova; ma quanto a lei non mi respingeva; tutt'altro. Si affidava a me, mi domandava nella semplicità del suo cuore:

— Cosa fare!

Infatti, cosa fare? Non era il caso di darsi vinti così. Bisognava pensarci, cercare. Intanto avevo il conforto di vederla dal pasticciere.

Quel giorno la vedova rotonda, mi parve più vecchia di vent'anni, ed orribile. Aveva una avidità di croque en bouche, che mi irritava. Ne divorò una dozzina, e ad ogni uno mi guardava come se volesse divorare anche me.

Mi venne il sospetto che avesse scoperta la mia lettera alla figliola, e cercasse d'impaurirmi per impedire il nostro matrimonio. Mi proposi d'esser cauto, e quando uscirono non le seguii.

Invece di avviarsi a casa come gli altri giorni, entrarono dalla modista di contro, e fecero spiegare una quantità di tulle bianco, che riempì la bottega, velò la bacheca, avvolse le signore come in una nuvola trasparente.

— Un abito da ballo! pensai; deve andare ad una festa; è l'occasione di conoscerla. È andata apposta in quel negozio ed a quest'ora, per farmelo capire. Dovunque sia quel ballo giuro che non mancherò.

E mi diedi d'attorno per sapere dove e quando si ballasse.

Andai da tutti i miei amici eleganti, da tutte le signore brillanti di Torino; nessuno sapeva d'una prossima festa. Nessuno pensava a ballare.

Cominciavo ad inquietarmi. Andavo cercando nei clubs, nei caffè; fermavo la gente per la strada; volevo una festa da ballo ad ogni costo. Finalmente la trovai in Doragrossa. Vidi un giovine di studio del mio notaio che mi salutò, e lo aggredii gettandogli contro come un colpo di rivoltella la solita domanda:

— Scusi, sa dove si balla in questi giorni?

— Sissignore, in casa Pepesale.

Gli avevo presa una mano; afferrai anche l'altra, le strinsi amorosamente. Avrei voluto stringermelo al cuore in un amplesso di gratitudine.

— E lei ci andrà, esclamai. Ed io pure ci andrò. Mi procuri un invito...

— Ma signore...

— La prego, non mi dica di no. Non può credere come desidero di conoscere la famiglia Pepesale. È il più ardente dei miei voti; ne perdo l'appetito ed il sonno. I signori Pepesale sono necessari alla mia vita, alla mia felicità...

Dovetti pregare, insistere. Quel povero giovine, rimandato come una palla avanti e indietro mi portò le risposte più negative, più scortesi.

«Era una festicciola affatto privata; non ricevevano altri che gli amici intimi; avevano già troppi ballerini; le signore erano poche; ero soverchio; non mi volevano a nessun patto.

Ma insistetti sempre; ed a forza d'indiscrezione, mi riuscì di estorcere quell'invito.

C'erano tre giorni da aspettare; ed ogni giorno la bella miss e la grossa mamma, dopo il vermouth entrarono dalla modista, ed ogni giorno misero fuori stoffe e veli bianchi.

Finalmente venne l'ora di rivestire il mio povero abito nero, la mia disgraziata cravatta bianca, il mio gibus, che respinto con impeto quella mattina, s'era guastata una molla, e ad ogni movimento scricchiolava in suono di pianto. Mi vestii palpitando e partii.

Quando la carrozza si fermò alla porta indicata, guardai dallo sportello e dissi al cocchiere:

— Tira via. Non è qui.

— Sissignore. Ha detto numero trentuno.

Guardai meglio; era proprio quel numero e quella contrada... Ma la porta era buia, e la scala poco illuminata. Non si vedeva un servitore, non s'udiva alcun suono, non c'era una carrozza. Ed erano le dieci e mezzo.

Salii al primo piano. Tutti gli usci chiusi, e profondo silenzio. Salii al secondo: usci chiusi ed un fievole suono in lontananza. Al terzo piano il suono si faceva un po' più distinto. Doveva esser là. Ma gli usci erano sempre chiusi.

Per quanto la cosa mi paresse strana sonai il campanello.

— Forse non avranno abbastanza servitù per lasciare una persona fissa alla porta, pensai.

Venne ad aprirmi lo stesso scrivano del mio notaio, da cui avevo estorto l'invito. Servitori punto. L'unica lampada dell'anticamera mandava un profumo di petrolio fatale al mio stomaco. Fui sul punto di tornare indietro. Ma pensai a miss Gemmy, così elegante, così bella, e con un eroismo da innamorato, mi tolsi il soprabito.

— Oh mio Dio! esclamò lo scrivano stupefatto, come se dal mio soprabito avesse veduta uscire la statua del Conte Verde a cavallo.

Lo guardai con disprezzo. Come voleva che vestissi, quel selvaggio, dove le signore erano in bianco? Osservai la sua giacchetta, il suo gibus, la sua cravatta scura.... E là dentro c'era miss Gemmy colla nuvola di tulle.... Mascalzone!

Entrai in una sala col gibus sotto il braccio, chiudendomi il terzo bottone d'un guanto, e pregando lo scrivano di presentarmi alla padrona di casa.

— Scusi non c'è. Dev'essere di là.

— Andiamo di là, dissi avviandomi sempre cogli occhi al bottone del mio guanto, per cercare la signora in un'altra sala.

— Ma che le pare! rispose quel giovine arrestandomi, vorrebbe venir lei in cucina?

— In cucina? Alzai gli occhi sbalordito, e mi guardai intorno.

Per quanto v'ha di ridicolo sopra la terra, avrei voluto esser di sotto!

Un salotto di pochi metri quadrati, coi mattoni nudi, alcune vecchie in cuffia che mi fissavano come un oggetto di curiosità, un gruppo di fanciulle vestite di scuro, che mi sbirciavano sogghignando come monelli, e cinque o sei giovani di studio o commessi di negozio senza guanti, che le incoraggiavano a burlarsi di me.

In quella lo scrivano, partito in esplorazione in cerca della padrona di casa che stava in cucina, mi venne incontro con una donnetta in abito di seta nera, che mi porse la sua manuccia nuda e disse:

— Mi fa piacere di conoscerla signor.... E lasciò il nome sospeso come fanno le signore dei negozi salutando gli avventori.

Seppi più tardi che erano una famiglia di droghieri ritirati allora allora dal commercio.

Le dissi che ero passato un momento solo per iscusarmi di non poter profittare del suo invito. Ero aspettato ad un contratto di nozze.... Accennai alla mia toeletta ridicola, per giustificarla con quel pretesto, e presi la porta, accompagnato dall'ilarità rumorosa delle signorine e dei commessi di negozio.

* * *

Quella scena mi pose in uno stato deplorabile. Ero irritato, svergognato, deluso. Non si poteva andare innanzi così. La mia pace ne soffriva troppo. E la mia digestione poi!

— Cosa fare? Miss Gemmy lo domandava a me. Avrebbe anche dovuto aiutarmi un poco. Nell'eccitazione dell'animo, le scrissi:

Signorina,

«Mi sono reso ridicolo per cercare di trovarmi con lei.

«Sono andato in abbigliatura di gala ad inchinarmi alla moglie d'un droghiere. Perchè non dirmi dove è stata, o dove andrà in abito da ballo? Me lo dica per carità.»

Mandai il biglietto per la posta, ed ebbi la risposta il giorno seguente.

Miss Gemmy non era stata, nè andava a nessun ballo. Viveva ritiratissima. Una vedova ed una signorina sole, non potevano frequentare la società. Trovava la moglie del droghiere molto shocking; ma non ci aveva colpa. E, daccapo, non era abbastanza indipendente per poter invitarmi a casa sua.

La mia parte di pazienza era esaurita. Bisognava finirla. Uscii, deciso a seguirla dovunque, ad osare qualunque cosa, pur d'entrare in relazione con lei.

Ma la lettura della lettera, che era giunta colla distribuzione delle cinque, mi aveva ritardato un poco. Quando giunsi in galleria le nuvole di tulle biancheggiavano già ammonticchiate nella bottega della modista. Miss Gemmy era là.

Nulla poteva arrestarmi. Il mio amore, irritato dai contrasti, prendeva un carattere feroce. Spinsi eroicamente la porta, ed entrai dalla modista, gridandole:

— Mi favorisca una cravatta! coll'accento con cui avrei detto: O la borsa o la vita. Ed impugnai il portamonete come un'arma micidiale.

La modista era intenta a ripiegare un magnifico velo di blonda bianca, che aveva mostrato a miss Gemmy.

— È quanto posso mostrarle di più bello, di più elegante, diceva.

— Lo vedo; mi piace tanto, tanto, rispose la bella miss con una voce da far impazzire i sette savi della Grecia, e tutti gli altri; ma costa troppo. Non voglio fare quella spesa. M'accontento del tulle.

Ella uscì volgendo a quella meraviglia di velo uno sguardo di tanto rincrescimento, che tutta la mia ira svanì, e mi sentii intenerito fino al pianto, all'idea della privazione a cui la mamma crudele condannava quella fanciulla.

Non c'era a' miei occhi peggior malfattore di lei.

Domandai alla modista il prezzo del velo di blonda.

— Seicento lire! mi rispose. (Dico 600!)

Ebbi un momento di vertigine. Mi parve di precipitare da un campanile, e mi aggrappai al banco come un uomo che cade. Ma mi riebbi tosto e sorrisi all'idea di fare una pazzia malgrado il mio stomaco rovinato!

Del resto quella pazzia sarebbe debitamente registrata e messa in conto nel contratto di nozze; perchè quella fanciulla doveva essere mia moglie; doveva esserla ad ogni costo.

Comperai il velo e vi aggiunsi un biglietto di visita, in cui scrissi, sotto il mio nome: — «... domanda in ginocchio di poter offrire a miss Gemmy questo velo bianco, che, s'ella vuole, potrebbe anche essere un velo da sposa.»

La sera aspettai il servitore sotto la palazzina, e gli porsi la scatola col velo, ed il biglietto:

To Miss.

Yes, sir.

La cosa più facile del mondo. Eppure quella fanciulla, tanto libera quanto alla corrispondenza, non poteva ricevere una visita.

* * *

La mattina quando mi svegliai la risposta era già in casa ad aspettarmi.

Miss Gemmy era sensibile, very, very sensibile al mio amore, ed al mio dono nuziale. Mi era tanto grata, e desiderava tanto di farsi una famiglia proprio sua, di avere la sua casa, e qualcuno che l'amasse, che consentiva ad essere mia sposa, se i nostri cuori si fossero compresi conoscendosi. Mi trovassi la sera alle nove presso la porticina del giardino. Il servitore m'introdurrebbe. Miss Gemmy era desolata di ricevermi così misteriosamente; ma non era libera. Mi dispiaceva d'essere accolto a quel modo?

Pensi signora lettrice, se poteva dispiacermi! M'incresceva per lei povera bimba, che era costretta a ricorrere a tali mezzi con un galantuomo, il quale domandava soltanto di essere presentato onestamente in casa, per conoscerla, e fare poi la compagna delle sue gioie, de' suoi dolori e delle sue digestioni.

— Ecco a cosa riducono le figliole, i genitori troppo severi! esclamai. E maledissi ancora una volta quella vedova snaturata.

Rinuncio a descrivere l'eccitamento in cui passai quella giornata, e la sua lunghezza sterminata. Eravamo nella stagione delle giornate lunghe; ma quella fu più lunga di tutte. Feci colazione; pranzai; tornai a far colazione; tornai a pranzare. Presi una dozzina di caffè, seltz, soda water. Mi vestii; mi tornai a vestire; fumai una scatola di sigari; mi ridussi lo stomaco in uno stato compassionevole. E dopo tutto questo, non erano che le sette! Due ore ancora!

Presi una carrozza, ed ordinai al cocchiere di farmi girare due ore. Ma alle otto e mezzo non seppi più reggere a quell'inerzia, e mi feci condurre in via Cernaia.

Il servitore tornava dall'edicola coi giornali. Appena mi vide, s'avviò alla porticina del giardino, l'aperse, poi, da uomo prudente, andò pei fatti suoi.

Entrai colle braccia spalancate per accogliere Gemmy che senza dubbio correrebbe ad incontrarmi. Ma abbracciai soltanto una pianta; Gemmy non c'era.

— Infatti ho anticipato, considerai. E mi posi a passeggiare aspettandola. Eravamo ai primi di settembre. Le finestre della palazzina erano aperte. Si vedeva il lume in una sala terrena, traverso la persiana abbassata.

Non seppi frenare la mia curiosità. Mi avanzai fino alla persiana e guardai.

Miss Gemmy era là in piedi davanti ad uno specchio, e si provava in capo un velo bianco di semplice tulle, ed intanto parlava con la sua mamma, che non potevo vedere perchè era seduta proprio sotto la finestra.

— Questo velo bianco non è adatto, diceva. Dovrei portarlo nero anche per andare a nozze; ma sono tanto giovine....

— E tanto bella! disse la persona che stava seduta sotto la finestra.

Per tutti gli inganni che hanno desolato il mondo! Era la voce d'un uomo! Un uomo che poteva andare in casa, che si permetteva di trovare tanto bella miss Gemmy, la mia miss Gemmy! E lei si lasciava trovare tanto bella da un altro, mentre lusingava me, mentre si disponeva a venire ad un convegno segreto in giardino... Tanta doppiezza a quell'età!

Mi cacciai un pugno in bocca per non urlare.

Quell'uomo, quel ladro di spose, si alzò. Era bello; via, la verità avanti tutto. Poteva avere trent'anni, era alto, bruno e prosperoso.... o prosperoso!... Come doveva digerire!

Lo vidi accostarsi a lei....

Ahi! dura terra, perchè non t'apristi?

Le cinse con un braccio la vita, le pose una mano dietro la bella testina bruna, e le ripetè guardandola negli occhi:

— Sì, tanto bella, Magdalen; mia cara sposa.

Magdalen! sua sposa! Cominciai a tremare per tutte le membra. Le mie idee si confondevano. Magdalen! E mi sentivo scricchiolare nella tasca del soprabito le sue lettere firmate miss Gemmy. Sua sposa; ed aveva scritto a me che accettava il dono nuziale, ed era disposta a sposarmi! Ebbi paura d'impazzire.

— Bella o no, disse ancora lei, non ho più diritto di portare il velo bianco; perchè sebbene non abbia ancora ventidue anni, sono vedova.

Ira di Dio! La vedova era lei, quella giovinetta; e si chiamava Magdalen! Ma chi era dunque miss Gemmy?

— Miss Gemmy, continuò Magdalen, come se rispondesse al mio pensiero, dice che le vedove debbono andare a nozze col velo nero.

Dunque esisteva davvero in casa sua una miss Gemmy. E non erano che due signore.... Miss Gemmy doveva essere la vecchia, una governante, una zia, una zitellona!

Ed io, grazie alla mia fatale immaginazione avevo scritto a lei; le avevo offerto di sposarla; le avevo regalato un velo da seicento lire. Ed a momenti verrebbe là in giardino, ad impormi i suoi sfoghi sentimentali, al chiaro di luna...

Mi diedi a correre come un ladro per uscire da quel tranello infernale. Ma nell'attraversare il giardino, vidi una forma rotonda, che si avanzava misteriosamente verso di me, col capo e le spalle ravvolte nel mio magnifico velo bianco di blonda. Accelerai la corsa, mi slanciai verso la porticina; era chiusa.

Ed intanto la forma rotonda si avanzava sempre e stendeva le braccia....

A quella minaccia, il delirio della paura mi invase; non pensai più che a salvarmi da quell'amplesso a qualunque costo. M'arrampicai al piedestallo, d'una Pandora di sasso, salii sul suo cornucopio, e da quell'altezza spiccai un salto disperato al disopra del muro di cinta, che separava il giardino dalla strada.

E caddi come corpo morto cade.

Fine.