Piccola collezione «Margherita»
MATILDE SERAO
CRISTINA
Disegni di Castellucci Incisioni di Ballarini
ROMA Enrico Voghera, Editore Via Po, 3 — 1908
La presente opera è messa sotto la tutela delle vigenti leggi e trattati di proprietà letteraria ed artistica
(07-6764) Tip. E. Voghera
INDICE
Cristina Pag. 15
Sacrilegio 89
Cristina.
I.
Mentre Cristina si chinava a cogliere un ramoscello di basilico odoroso, da mettere come aroma nella salsa di pomodoro che bolliva in cucina, udì un sibilo breve e dolce. Ella levò il capo, ma non vide nulla; il sole batteva sulla terrazza dove si allineavano, nei vasi di creta, le rose di ogni mese, fiorite, i peperoncini rossi, i garofani schiattoni, il prezzemolo e i gelsomini bianchi; il sole l'abbagliava. Ma di nuovo un sibilo dolce attraversò quel silenzio meridiano; ella si rialzò vivamente, fece solecchio con la mano e si guardò intorno. Il sole la illuminava tutta, nel suo vestito di percallo bigiognolo a fiorellini azzurri, molto stretto alla cintura, col grembiule di merino nero, che cingeva la persona: a un occhiello del vestito, sul petto, erano passati due gelsomini bianchi, dal gambo sottile; i folti capelli castani, divisi in due treccie, raccolti sulla nuca, strettamente, lasciavano libera una piccola fronte bianca.
— Chi sarà? — pensava ella, aguzzando gli occhi.
Infine qualche cosa di bianco che si agitava, attirò la sua attenzione. Dietro la casa dei Marcorelli, a una piccola finestra di casa Fiorillo, una pezzuola si agitava, mossa da una mano.
— Ah! è Peppino Fiorillo — mormorò Cristina con un piccolo moto di disdegno.
E non vi badò più. Sul parapetto della terrazza sei tovaglioli bagnati si asciugavano al sole, mantenuti fermi contro il lieve ponente da pezzi di mattone. Ella, prima di rientrare, assoggettò meglio i tovaglioli sotto i mattoni, perchè il vento non li portasse via. Ma una curiosità la prese di sapere con chi l'aveva quello stravagante di Peppino Fiorillo: forse con Caterina Marcorelli, ma le finestre di Caterina erano sbarrate, da Marcorelli avevano già pranzato e dormivano tutti, nell'ora lunga e affannosa della siesta meridionale. Si piegò sul parapetto a vedere se la maestrina, la Ottilia Orrigoni, una piemontese, fosse dietro i vetri del suo balcone a correggere i còmpiti delle alunne: non vi era. Niente, attorno non si vedeva nessuno. Levando gli occhi, vide che Peppino Fiorillo faceva cenno a lei, ritto innanzi alla finestra.
— L'ha con me — disse fra sè: — è matto, il giovinotto.
E se ne andò, arrossendo un po' di collera, un po' di compiacenza. Rinchiuse i vetri della porta-balcone che dava sulla terrazza, senza voltarsi indietro. E mentre Michela, la serva, buttava le foglie di basilico nel pomodoro che gorgogliava, Cristina sedette in un angolo della vasta e chiara cucina e si rimise a fare la calza. Per l'ottobre, suo fratello Carluccio doveva entrare nel collegio militare della Nunziatella, a Napoli, e il corredo non era mai finito. Non pensava più a Peppino Fiorillo, la tranquilla creatura, pensava che questo suo fratello se ne andava come l'altro, il più grande, che si era riccamente ammogliato a Pietramelara e lei, Cristina, restava sola, a diciott'anni, in casa, col padre vecchio e con la zia Rosina che soffriva di asma. In questa il fanciullo entrò: tornava dalla scuola, col berretto di traverso e la cartella sotto il braccio, con la cinghia pendente.
— Oh Ciccina, Ciccinella — gridò lui, dandole della testa nel petto per baciarla troppo presto.
— Come puzzi di fumo, Carluccio!
— Pare a te, Ciccina mia.
— Altro che pare! Non dire la bugia, che ti cammina sul naso. Hai ancora fumato, birbante! Glielo dirò a papà, io, quando torna.
— Non glielo dire, Ciccinella cara, non glielo dire. Una piccola sigaretta di quattro centesimi e ne ho mezza in tasca, pensa che me ne vado in quel brutto collegio, dove mi metteranno sempre in castigo.
— E sarà bene, perchè sei impertinente. Chi te lo ha dato il soldo per comperare la sigaretta? Non lo avevi.
— Me l'ha regalata Peppino Fiorillo, quel giovanotto coi capelli ricci ricci; ne fuma venticinque al giorno, lui, di sigarette, perchè è grande, sta al liceo; l'ho incontrato qua vicino, passeggiava...
— Non te la doveva dare la sigaretta; vedete se è possibile, un ragazzetto di dodici anni, fumare! Se è vizioso lui, non deve far diventare viziosi gli altri, le creaturine...
— Oh Ciccina, quel poveretto ti ha mandato anche a salutare! Ha detto così: salutami la tua bella e sdegnosa sorella. Come parla bene, eh? Sta al liceo...
— Un'altra volta non ti fermerai con lui, hai capito?
— Oh Ciccina, quanto sei cattiva oggi — disse Carluccio, volendo piangere.
— Dammi la mezza sigaretta — disse ella, raddolcita.
— Ecco qua.
Cristina la buttò nella cenere del focolare.
— Lo vuoi fare più?
— No, Ciccinella cara.
— Ti ci fermerai più, con Peppino Fiorillo?
— Mi ha promesso un gelato, da Mola, per domani, quando esco con Michela, chè è domenica: ma se tu vuoi, non mi ci fermerò più.
— Te li darò io, i quattrini pel gelato. Se Carluccio si porta bene, la sorella sua lo accompagnerà a Napoli al collegio e gli regalerà una bella scatola di compassi...
— E dirai a papà che mi compri un orologetto d'argento, senza catena, capisci, con un laccettino nero?
— Glielo dirò: subito, a lavarsi le mani e i denti, via, soldatino. Non si viene a pranzo, così, come un sudicione.
Nella giornata, Cristina non ebbe più tempo di pensare a Peppino Fiorillo: Maddalena, la vedova di Stefano, e Carmela, la figlia di Graziella la portinaia, cucivano le camicie pel corredo di Carluccio ed ella doveva tagliarle e impuntirle. Questo le prese il pomeriggio: alle ventiquattro, tutte le donne di casa si riunirono in una stanza dove era un'immagine dell'Assunta e seguendo l'intonazione di zia Rosina, si recitò il rosario. Alla Salve regina Cristina s'inginocchiò e restò genuflessa per tutto il tempo della litania. Pregava per suo padre, per sua zia Rosina che era malata, per suo fratello Ferdinando che stava a Pietramelara, per la cognata Francesca che era incinta e soffriva molto, per Carluccio che era piccolino e doveva partire, e per sè poi, perchè il Signore le desse forza, salute e bontà di cuore. Nella serata, dal terzo piano discese il cancelliere, sua moglie e sua figlia, Irene, una zitella di trent'anni: il marito e la moglie giuocavano la partita a scopone in quattro, con zia Rosina e col padre di Cristina. Irene e Cristina lavoravano all'uncinetto certe stelle per coperta di letto, parlando sottovoce.
— Totonno mi ha ancora scritto, oggi — confidò Irene.
— Ah... e che dice?
— Che vuol dire? le solite cose. Senza denari, non se ne fa nulla. Egli mi ama, capisci, è disperato, non ci è da fare altro che aspettare la morte di suo padre.
— Oh!
— È vecchio, ha fatto il tempo suo, il Signore se lo potrebbe prendere. Noi anche abbiamo il diritto di vivere.
— Gli hai risposto?
— Figurati, subito! In sette anni di amore ci saremo scritti un baule di lettere. Senti, Peppino Fiorillo è innamorato di te?
— No.
— Come? Se ti faceva i gesti da spasimante, oggi.
— Dove l'hai visto?
— Dalla finestra del pollaio; davo il mangime ai polli. Fa vedere che non ne sai niente, ora! Lo ami tu?
— No, cara Irene.
— È un gran bel giovane, una testa bizzarra, è amico di Totonno. Non ti piace?
— No.
— E chi ti piace?
— Nessuno.
— Non può essere.
— Te lo direi: non mi piace nessuno.
— Prometti che me lo dirai?
— Prometto.
Dopo, Cristina non ci pensò più, a Peppino Fiorillo: appena andata a letto, ella si addormentò immediatamente, come al solito. Al mattino seguente, che era domenica, Cristina, dopo aver annodato la bella cravatta rossa di Carluccio, si vestì col suo abito della domenica, di lana crema, e uscì un momento sulla terrazza, aspettando che zia Rosina fosse pronta per la messa. Peppino Fiorillo era alla sua finestra, pronto anche lui per uscire, col cappello in testa: vedendola, si scappellò profondamente; ella rispose appena, indispettita, sapendo che egli l'avrebbe seguita alla messa. Per fortuna non entrò in chiesa, poichè era libero pensatore e segretario del circolo democratico Patria e Libertà: ma Cristina fu inquieta durante tutta la messa. Uscendo, passò rapidamente innanzi a lui, senza guardarlo, rabbuiata nel viso: ma lui, ostinato, la seguì sino alla porta della sua matrina, la signora Cannavale, in piazza Mercato.
— Mettiamoci al balcone, passa la musica.
— No, comare mia, non voglio.
— E perchè?
— C'è qui sotto quel pazzarello di Peppino Fiorillo, che non mi vuole lasciare in pace.
— Chi? quello che dà tanti dispiaceri a sua madre? Figlia mia, pensa a quel che fai: i Fiorillo erano ricchi, ma sono rovinati, adesso...
— Io vorrei che lui mi lasciasse stare, ecco tutto.
— Gliene farò parlare dal compare Ciccio che, sai, ti vuol bene come un secondo padre.
— Non importa, aspettiamo, forse smetterà.
Ma alla sera, mentre in piazza Mercato, sotto le acacie, suonava la banda municipale e le ragazze di Santa Maria sedevano, in fila, coi loro vestitini bianchi di taglio provinciale, agitando i ventaglini rossi che il fratello o lo zio avevano loro portato in dono da Napoli, occhieggiando col giovanotto amato, mentre le mamme, pure in fila, dietro, si lagnavano dell'umidità, Irene disse a Cristina:
— Totonno mio è con Peppino Fiorillo.
Cristina sogguardò da quella parte. Pappino, appoggiato a un'acacia, col cappello in mano, si passava l'altra nei capelli ricciuti, con un gesto stanco e triste di persona infelice.
— Come ti guarda! — disse Irene. — Non ne hai pietà?
— Ma che pietà! Mi secca, tutti lo vedono, domani saremo la favola del paese. Bel guadagno ad avere una persona come lui alle costole!
Malgrado l'aria imbronciata di Cristina, Peppino seguitò il suo armeggio di spasimante provinciale, cavò il fazzoletto di seta rossa dal taschino del soprabito, se lo portò alle labbra come se lo baciasse, lanciando alla fanciulla certi sguardi lunghi, appassionati. Immediatamente Giulia Ricca dette l'avviso di questo avvenimento ad Adelina Magliolo; dall'altra parte Mariella Nespoli lo disse a Clemenza La Corte e tutta la fila delle fanciulle fu commossa. Per un momento si credette che Peppino Fiorillo guardasse Caterina Marcorelli, ma l'errore fu subito corretto, è Cristina, è Cristina Demartino, circolò sottovoce.
— Cristina corrisponde?
— No, no, non vuol saperne.
— Domandate a Irene.
— Irene dice che Cristina non vuol saperne.
— Sarà vero?
— Mah! abitano dirimpetto, non direbbe la bugia.
— Peppino è uno stravagante.
— È capace di una forte passione?
— Chissà! Non ha un soldo e Cristina ha quattromila ducati di dote.
— Che quattromila! Non ci arrivano.
— E se muore la zia Rosina che ha l'asma, Cristina eredita.
— Dio mio, che faccia malinconica ha Peppino! Cristina potrebbe guardarlo un momento.
L'indomani la leggenda della passione non corrisposta di Peppino Fiorillo per Cristina Demartino circolava per tutta Santa Maria. Se ne parlò al casino di conversazione e nella farmacia di don Pietro Roccatagliata, al tribunale e nella tipografia del Corriere Campano. L'eroe girava per le strade, con la sua aria stracca di un uomo tediato di vivere, masticando la sigaretta, rispondendo seccamente agli amici che incontrava.
— È vero che vuoi bene a Cristina Demartino? — gli domandò Ciccillo La Corte, uscendo dallo studio dell'avvocato Bosco, dove faceva pratica di procuratore.
— Sì — disse l'altro, cupamente.
— E che intendi di fare?
— Amarla.
— Ella ti corrisponde?
— Non so: non importa.
— Che tipo strano sei tu!
— Homo sum — mormorò Peppino Fiorillo.
E finì per passare le sue giornate di vacanza alla finestra, donde si vedeva la terrazza di Cristina, e a passeggiare. Appena ella usciva a prendere una boccata d'aria, coll'uncinetto fra le dita e il gomitolo del filo nella taschetta del grembiule, se lo vedeva lì di faccia, con la sua aria tragica di amante disprezzato. Ella chinava gli occhi, non rientrava subito dentro per non far sembiante di nulla, ma restava imbarazzata, col viso infiammato. Ella gli aveva fatto dire, dal padrino Ciccio Cannavale, che la lasciasse tranquilla, che pensasse ad altro. Ma Peppino Fiorillo aveva declamato un grande discorso a don Ciccio Cannavale, sull'eternità del vero amore, su Dante e Beatrice, su Petrarca e Laura, sulla libertà del sentimento. Don Ciccio gli aveva obiettato che lui, Peppino Fiorillo, non aveva nè arte nè parte, e che non poteva pretendere di sposare una fanciulla che aveva quattromila ducati di dote. Peppino aveva subito replicato, con grande fierezza, che egli disprezzava il denaro: sarebbe andato a Napoli a studiare legge, avrebbe conosciuto gli uomini politici del partito democratico nelle cui mani è l'avvenire, avrebbe tentato il giornalismo, la letteratura, la poesia, carriere indipendenti, dove trova fortuna e gloria ogni forte ingegno, insofferente di giogo; del resto, lui, Peppino Fiorillo, disprezzava altamente la provincia e la sua crassa ignoranza. Don Ciccio Cannavale, sbalordito, non trovò nulla da replicare, e Peppino Fiorillo concluse:
— O Cristina, o la morte.
Trovò anche mezzo di scriverle certe lunghe lettere piene di punti ammirativi, di citazioni poetiche, specialmente del Cavallotti, di cui aveva comperate le Anticaglie, nominando financo Victor Hugo, che Cristina non aveva mai letto. Gliele portava Carmela, la figlia della portinaia Graziella, una ragazza di quattordici anni, la cui gran professione era di portar lettere amorose a Irene, alla maestrina Ottilia Orrigoni, e ci guadagnava delle mezze lire, con cui comprava una quantità di nastrini, di spilloni falsi, di orecchini in pastiglia. Cristina lesse le lettere, ma non volle mai rispondere: anzi, nella confessione, padre Raffaele la rimproverò di conservarle, ed ella le bruciò. Una parte delle sue amiche, quelle che amavano i giovanotti spiantati, le cosidette romantiche, la consigliavano a confortare di amore quel povero Peppino Fiorillo, che si struggeva per lei, che si consumava, che vegliava le notti intere, che non mangiava più, che aveva sputato sangue, una mattina: ma le altre, quelle tranquille come lei, in minoranza, glielo ripetevano continuamente che Peppino Fiorillo pativa nel cervello, che era un miserabile sfaccendato, che permetteva sua madre andasse in giornata a stirare, per comprarsi le sigarette e pagare i bicchierini di assenzio al caffè Mola. La buona creatura si ribellava ogni tanto contro questo amore di cui non sapeva che farsi, che la tormentava, che le impediva di uscire. In quei periodi di collera, ella chiudeva i cristalli sul viso a Peppino Fiorillo; dovunque lo incontrava, gli voltava le spalle; il suo umore s'inaspriva, ella maltrattava Carluccio e le serve, recitava il rosario con una voce desolata di donna infelice che chiede una suprema grazia al Signore. In quei giorni Peppino Fiorillo gironzava per le vie di Santa Maria, col capo chino, con le guancie pallide, dove la barba non rasa metteva un'ombra azzurrina di malattia, e non salutava più nessuno.
— Quella Cristina è proprio senza cuore — dicevano oramai tutti quanti.
Ella credette essersene liberata, quando Peppino Fiorillo dovette partire per Napoli, nel novembre. Le parve meno dolorosa la partenza di Carluccio, per questo sollievo di Peppino che se ne andava anche lui. Ma lo studente le scrisse una lunga lettera in cui le giurava fedeltà, che le avrebbe scritto ogni giorno da Napoli, che si sarebbe fatto subito un gran nome per metterglielo ai piedi, per commoverla. La lettera era tutte cassature, raschiature, macchie sbiadite d'inchiostro: Peppino confessava d'aver pianto scrivendo. Questa lettera ella la trovò nel panierino dell'uncinetto, senza poter sapere chi ce l'avesse messa. E tutta la notte che precedette la partenza, Peppino passeggiò sotto la casa di Cristina: se ne parlò un mese in Santa Maria.
Infatti per otto o dieci giorni, per la posta, arrivarono certe grosse lettere di vari foglietti, su cui erano scombiccherate le frasi più disperate. Sempre Cristina avrebbe voluto respingerle, ma poi la curiosità la vinceva. Un giorno arrivò un giornaletto letterario, l' Alcione, che usciva a Sarno, ogni domenica, dove ci era un sonetto dedicato alla mia divina Cristina, tutto idealità e firmato Giuseppe Aldo Fiorello. Poi, un giorno mancò la lettera; le mancanze si fecero frequenti, sicchè a gennaio, per una settimana, non giunse più niente. Alla sera, mentre Cristina leggeva il Pungolo a suo padre, trovò nella cronaca che per i tumulti universitari, fra gli studenti di primo anno che avevano gridato abbasso Senofonte, era stato arrestato, poi rilasciato G. Aldo Fiorello; poi giunse un giornale repubblicano, la Spira, dove Aldo Fiorello che era stato ritenuto in carcere mezza giornata, si vantava del martirio sofferto e sacrava le teste dei tiranni all'augurata ghigliottina. Peppino Fiorillo, ovvero Aldo Fiorello, non venne a far Pasqua con sua madre e la povera donna fu invitata a pranzo da don Ciccio e da donna Rosalia Cannavale: ella mandò dieci lire al figliuolo perchè facesse contento la Pasqua. Per mandargli cento lire al mese, ella digiunava spesso. Nel mese di maggio Cristina Demartino ricevette un giornale politico letterario di Forlì, il Satana, dove era pubblicata una ode barbara di Aldo Fiorello, dedicata a una fanciulla sciocca. In essa l'autore si burlava, in metro alcaico, di una fanciulla provinciale, bacchettona, che ancora aveva la volgarità di credere nel vecchio Jehova dei sacerdoti, che era anemica, ammalata d'isterismo, ipocrita e desiderava l'amore solo sotto il giogo coniugale, che è la galera dei liberi cuori. L'autore, Aldo Fiorello, dichiarava d'essere stato ingenuo sino al punto di amare questa stupida, ma che allargatoglisi innanzi l'orizzonte, sapute le tempeste, egli preferiva, sì, preferiva l'amore che la chellerina gli offriva, insieme con la tazza spumante di birra. Di questa poesia Cristina non capì la parola Jehova, ma la credette una bestemmia e si segnò; non capì la parola chellerina, ma intese, in generale, che lo studente si permetteva d'insultarla e pianse di collera.
II.
Tre anni dopo, un giorno, a tavola, don Cosimo Demartino chiese a sua figlia Cristina:
— Cristinella, lo conosci Giovannino Sticco?
— Il figliuolo di donna Marianna?
— Sì.
— L'avrò visto tre o quattro volte, quando veniva qui, che vi era ancora Ferdinando.
— Che te ne pare, Cristinella?
— Non saprei, papà.
— È un buon giovane.
Il discorso cadde, essi continuarono a pranzare silenziosamente. Erano soli, soli, ora, ridotti a due: povera zia Rosina era morta della sua asma e Carluccio seguiva il terzo corso al collegio militare della Nunziatella. La zia aveva lasciato diecimila lire a Cristinella, e Carluccio aveva avuto ogni anno la cifra reale, come premio. Soltanto don Cosimo invecchiava giorno per giorno, logoro di fatica. Non parlarono più di Giovannino Sticco; ma sulle ventiquattro, appena Cristina aveva intonato il rosario a cui le donne di casa rispondevano, quasi cantando, il padre sopraggiunse, sedette sopra un seggiolone e tratta innanzi a sè una sedia, posò il capo bianco sopra la spalliera. Pregava anche lui quella sera, e Cristina, dopo essersi fermata un momento, meravigliata, ricominciò l'avemmaria. Quando il rosario fu finito, le serve scomparvero a una a una, e padre e figlia rimasero soli, nella penombra. Ella stringeva ancora fra le mani, sotto il grembiule, la coroncina.
— Quel Giovannino Sticco ti vuole sposare, Cristinella.
— Lo ha detto a voi, papà?
— Sì.
— E che gli avete risposto?
— Gli ho risposto di sì, Cristinella.
Vi fu un silenzio.
— Giovannino Sticco è un buon giovane — soggiunse il padre — è di buona salute, il suo negozio di generi coloniali è prospero, non ha che sua madre, avrà in tutto trentamila ducati di proprietà, potreste avere la carrozza.
Ella non disse nulla. Ascoltava, pensava, con le mani in grembo.
— Se si mette nel commercio degli spiriti, può fare guadagni grossi; è molto attivo, pieno di buonsenso. Ha trent'anni. Quanti ne hai, ora, tu?
— Ventuno, compiti a maggio.
— Va bene, mi pare.
Niente diceva Cristinella.
— Potrebbe Giovannino Sticco comprare questa casa qui accanto, di Marangio; apriremmo una porta nel muro divisorio e così non resterei tanto solo, poichè tu devi andartene. Che dici tu?
— Dico che va bene, papà.
— Ho fatto bene a dire di sì a Giovannino Sticco?
— Hai fatto bene, papà.
Nell'ombra egli le posò un momento la mano sui capelli, quasi benedicendo: essa baciò quella mano. Non era stato nè un padre espansivo, nè un padre carezzevole, non aveva sprecato nè baci, nè quattrini, ma era stato un padre onesto e buono, che aveva lavorato dalla mattina alla sera per la sua casa. Non si dissero più nulla, e il matrimonio fu come cosa fatta.
Non aveva trovato molte parole per esprimergli quanto fosse contenta, Cristinella. Era quello che desiderava lei, un marito quieto, una casa piccola da dirigere, la continuazione della vita che aveva sino allora vissuta, senza tempeste di cuore, un amore mite, senza complicazioni di gelosie. La tranquillità del suo bel temperamento aveva bisogno di un ambiente pacifico come quello di casa sua. Ella odiava gli imbrogli, i pettegolezzi, gli esaltamenti per nulla, le agitazioni inutili, gli strilli, le scene, le lagrime. Il suo spirito era semplice, come la sua persona. Ella aveva bisogno di pranzare alle due, di cenare alle otto, di dormire sette ore, di andare a messa ogni domenica, a confessione ogni mese, in visita dalle amiche ogni quindici giorni: ella scriveva ogni settimana a Ferdinando, due volte la settimana a Carluccio. Aveva bisogno che tutto ciò continuasse, senza interruzione. Sapeva, sì, sapeva che il matrimonio non è sempre una allegra cosa, ma conosceva Giovannino Sticco, come le ragazze conoscono bene tutti i giovanotti da moglie. Quando egli venne la sera, a prendere il suo posto di fidanzato ufficiale, dalle sette alle nove, lo accolse con un sorriso famigliare, e subito parlarono di questa compra della casa Marangio.
— Papà, capite, è vecchiarello, non potrebbe star solo.
— È naturale — disse lui.
Il giorno seguente le donò un orologetto di oro, con la catena.
— Ho ordinato un medaglione, a Napoli, con la lettera C, sopra — disse Giovannino. — Gli orecchini vi piacciono?
— Non ne porto spesso.
— Fate bene: nemmeno a me piacciono molto.
Parlavano nella strombatura del balcone, ella lavorando sempre all'uncinetto, il padre che giuocava alla scopa con don Ciccio Cannavale, poichè il cancelliere era stato traslocato.
— Mammà vorrebbe venire domani, Cristina.
— Non è meglio domenica dopo la messa?
— È vero, avete ragione.
Egli la guardava di sfuggita, con una certa dolcezza: ma ella era senza imbarazzo. S'intendevano perfettamente.
— Vi piace l'uva nera, Cristina?
— Mi piace, ma quando è uva fragola.
— Anche a me: è singolare!
Poi, tacevano.
— La coperta all'uncinetto è finita? — chiedeva Giovannino.
— È finita; questo è il terzo guanciale.
— Come la foderate?
— Di seta azzurra: non mi avete consigliato così, l'altra sera?
— Grazie, Cristina. Resta inteso, dunque, che il salone da ricevere lo mobiliamo di giallo.
— Giallo, sì, Giovannino.
— Starà bene?
— Starà benissimo: non avete visto quello di Clemenza La Corte?
— Lo faremo più bello.
Alla domenica, dopo la messa, passeggiavano tutti insieme pel Corso Garibaldi, don Cosimo accanto alla madre di Giovannino Sticco, i due fidanzati innanzi, senza darsi il braccio, perchè non conviene. Cristina conservava la sua serenità; ma vedeva arrivare l'ora del matrimonio con un certo senso di emozione. Essa amava Giovannino, ora, con un'affezione calma e sicura: e sentiva di essere amata come voleva.
Un giorno, come usciva fuori la terrazza, per sciorinare certi corpetti del suo corredo, che le serve avevano lavato, udì, come in sogno, quel sibilo breve e dolce, dalla parte di casa Fiorillo. Era chiusa da due anni la casa Fiorillo, dopo che la madre di Peppino era morta, di tifo, a Napoli, una volta che era andata a vedere il figliuolo che non tornava più a Santa Maria. Ella trasalì, tremò, vedendo nel vano della finestra la faccia di Peppino Fiorillo. Si era lasciato crescere la barba, era più grasso, più scialbo, ma ella lo aveva riconosciuto subito. Scappò in camera sua, tutta la giornata non ebbe requie, sgridò le serve due o tre volte, senza ragione. Sarebbero ricominciati, ora, i tormenti, con questo stravagante che tornava così in mal punto? Come avrebbe fatto a liberarsene, di questo Peppino Fiorillo? Alla sera Giovannino Sticco la trovò inquieta e distratta.
— Che avete?
— Niente.
— Tu hai qualche cosa — mormorò Giovannino, dandole per la prima volta del tu.
— Ho mal di capo.
— Va a letto, ti farà bene.
— Vado, buonanotte — disse ella docilmente.
Non potette dormire. Aveva addosso una inquietudine come mai, una febbre che le ardeva il sangue. Mai aveva provato l'odio, ma ora lo provava, grande, fiero, per questo Peppino Fiorillo che riappariva come un fantasma, a guastarle la vita. Non lo aveva amato, non lo amava, con che ardire egli ritornava ad annoiarla? Già non ci aveva mai creduto e non ci credeva, all'amore di lui; tutte parole tutte chiacchiere, come si leggono dentro i libri e non sono vere. A che scopo ritornare, per affliggerla di nuovo? A che serviva torturarla? Invano cercò di recitare le orazioni per calmarsi. Non ci riusciva, il suo pensiero fisso la vinceva, le disordinava tutte le altre idee.
L'indomani Peppino le scrisse:
«Sono tornato per te, tu sola mi resti, perdonami questi anni di obblio, ti spiegherò tutto, ti amo più che mai».
Ella non rispose nulla. Ma la sera, quando Giovannino Sticco venne, stringendole la mano, sentì che bruciava.
— Hai la febbre, perchè non sei rimasta a letto?
— In casa vi era bisogno di me.
— Lo sai che è tornato Peppino Fiorillo? — chiese egli, senza dare nessuna importanza alla domanda.
— Lo so — e non battè palpebra.
— L'hai visto alla finestra?
— Sì.
— Si è molto mutato.
— Già.
Il giorno seguente, altro biglietto.
«Mi dicono che devi sposare quella bestia di Giovannino Sticco, il venditore di caramelle. Non è possibile. Rispondimi di no».
Rispondere, a quel pazzo? Che rispondere? Non aveva nulla da dirgli, come sempre, e temeva che qualunque risposta avrebbe peggiorato le cose. Forse si convincerà da sè, senza che io gli risponda — pensava, con la transazione abituale degli spiriti tranquilli, che rifuggono dalle grandi decisioni. Difatti, per tre o quattro giorni Peppino Fiorillo non scrisse più, non comparve alla finestra, i cristalli rimasero chiusi, ella non udì parlare di lui. Dunque si era convinto, non ci pensava più, aveva forse abbandonato la casa a Santa Maria per ritornarsene a Napoli. Sollevata da questo incubo, respirava, riprendeva la sua serenità, la sua attività. Si era nel gennaio: il matrimonio con Giovannino Sticco era fissato pel 20 aprile, giorno di Pasqua: bisognava affrettarsi pel corredo. Giusto mancavano ancora le sottane di mussolo dalla balza ricamata: ne avrebbe chiesto il modello a Clemenza La Corte che ne aveva delle bellissime. Mentre pensava questo, capitò Carmela con un biglietto di Peppino: Cristina, per solito così calma, impallidì di collera.
— Non lo voglio — disse con una voce tremante di emozione — riportalo a chi l'ha scritto, a quel pezzente vizioso, e se mi compari innanzi con un altro biglietto, ti faccio cacciar di casa, Carmela, te e la tua famiglia.
— Gli debbo dire quello che mi avete detto, signorina? — balbettò la servetta spaventata.
— Diglielo.
E le voltò le spalle, tutta vibrante ancora di sdegno, tutta commossa ancora dell'atto di volontà che aveva fatto. Per ritrovare la calma dovette passeggiare su e giù, in camera sua per un pezzetto, parlando fra sè, cercando di sfogarsi per riprendere equilibrio. Poi la cuciniera venne a cercarle la roba per il pranzo, perchè Cristina chiudeva tutto, sempre, e si metteva le chiavi in tasca. Entrò nella dispensa e con un cucchiaio di legno staccò un grosso pezzo di strutto bianco, da una vescica già sventrata: lo misurò con l'occhio, era una libbra. Tagliò da una forma di cacio di Sardegna una fetta da grattarsi per i maccheroni: da una scatola di latta, prese tre cucchiaiate di conserva secca di pomidoro.
— Che ha mandato papà, dalla piazza?
— Un chilo di alici e un chilo di carne, pel sugo dei maccheroni.
— Ci vorrà l'olio, per le alici.
Ma Cristina trasse prima da un grande armadio un cartoccio di maccheroni, prese la bilancia e pesò tutto il cartoccio. Era troppo, ne levò un fascetto, a occhio. Mentre si alzava in punta di piedi per prendere un fiasco di olio da uno scaffale alto, tutta la casa fu scossa da una detonazione, vicinissima.
— Madonna Assunta, aiutateci voi! — strillò la serva.
— Che sarà? — chiese Cristina, come perduta.
Poi tesero l'orecchio. Nelle scale pareva che qualcuno strillasse e piangesse forte, una donna, Carmela.
— Avranno ucciso qualcuno nel portone — strillò la serva.
Allora Cristina, dopo avere esitato un momento, attraversò la cucina, la stanza da pranzo, l'anticamera. Nella scala i gridi crescevano; erano due o tre voci che si lamentavano:
— Signorino bello... signorino bello...
Ella fece per aprire la porta sulla scala. Non potette. Peppino Fiorillo giaceva lungo disteso sul pianerottolo, ferito nel petto: una ferita da cui sgorgava il sangue. La rivoltella era accanto a lui: egli era bianco bianco nella faccia, con gli occhi aperti. Li rivolse su Cristina, quando ella apparve.
— Signorino bello... signorino bello... — piangevano e gridavano le femmine.
Ella traballò, si sorresse alla porta, poi stramazzò.
III.
Nella poca luce della lampada che ardeva dinanzi a una immagine dell'Assunzione, Cristina, seduta accanto al letto, stava immobile. Il moribondo giaceva, senza cuscini, con la testa appoggiata al materasso, per impedire l'affluenza del sangue al polmone. Il lenzuolo che lo copriva, macchiato qua e là di sangue, si sollevava appena, sotto un respiro debolissimo.
— Come va? — domandò il medico, piegandosi verso la fanciulla.
— Sempre lo stesso — rispose ella, con un soffio di voce.
— Ha chiesto neve da mangiare?
— Sì.
— Avete rinnovato le vesciche di neve sulla ferita?
— Sì.
— Dà molto sangue?
— Molto: tre asciugamani, da oggi.
Il medico tacque, per poco, come pensando. Poi si chinò sull'ammalato.
— Dorme — disse.
— Non dorme: ogni tanto apre gli occhi.
— La febbre non è forte, per l'infiammazione: solo trentanove gradi e mezzo — riprese lui, come parlasse a se stesso.
Ella non parlò.
— Ritornerò questa notte. Perchè non andate un po' a letto?
— No — disse Cristina.
Egli uscì in punta di piedi, ella rimase di nuovo sola accanto al morente. Da trentasei ore non era mai uscita da quella camera dove lo aveva trasportato: o stava immobile, seduta accanto al letto, o andava e veniva per la stanza, pian piano, come un'ombra, portando le bende, la neve, le compresse. Agiva macchinalmente, senza pensare, sentendosi la testa vuota e rigonfia; agiva come per istinto, indovinando quello che si dovesse fare. Ma non si ricordava più, non giudicava più, non capiva più niente. Quello che le dava uno spavento, ogni tanto, erano gli occhi del ferito che si riaprivano lentamente e la fissavano a lungo, con una intensità di vita profonda. Ella chinava i suoi occhi, ma si sentiva guardare, e le pareva che fosse già morto, che morto la guarderebbe sempre così, con quello sguardo concentrato. Era entrato due o tre volte il padre, a chiedere notizie; ella aveva risposto con qualche monosillabo: e più nulla. Sola, con quell'agonizzante! Come si avanzava di nuovo la notte, vide che agitava un poco le dita della mano sinistra, lungo il lenzuolo. Si chinò su lui: nello sguardo vi era una preghiera ardente. Intese: gli dette la mano. A poco a poco il calore di quella mano febbrile si comunicò alla sua, salì al braccio, si diffuse per la persona: ella arse della stessa febbre. Due volte cercò di ritirare la mano, ma le dita dell'infermo la trattennero, debolmente; ella non osò più muoversi. Si sentiva presa, irrimediabilmente, avvinta a quel moribondo, arrivando a respirare lieve lieve, come lui, sentendosi la bocca riarsa, come lui.
— Morirò, come lui — pensava.
Per quattro ore egli non le lasciò mai la mano; immobilizzata, senza voltare la testa, ella sentiva che il braccio le si paralizzava lentamente.
— Così si muore, forse — pensava.
Ma quella mano, che non la lasciava più, diventava sempre più calda, era rovente come un ferro infuocato, parea le corrodesse la pelle e la carne della mano, facendo una piaga profonda. La febbre del ferito cresceva; egli apriva gli occhi, ma non li fissava più su lei, li stravolgeva, guardando la lampada, guardando il soffitto. Non aveva fiato per parlare, il ferito, ma si vedeva che il delirio gli era salito al cervello. Oh era stata presa, per forza, da quel moribondo, si sentiva fatta cosa di lui, gli apparteneva, non poteva nè strillare, nè parlare, nè fuggire, nè divincolarsi: era sua, il moribondo se l'aveva presa.
. . . . . . . . . . . .
Egli fu trentasette giorni in pericolo di vita; l'emorragia era cessata, ma la febbre d'infiammazione era gagliarda; egli delirava ora a voce alta, chiamando Cristina la sua sposa, la sua cara sposa, la sua fidanzata.
— Non lo contraddite — disse il medico.
Non lo contraddiceva: chinava il capo, Cristina, e impallidiva. Il senso della realtà ritornava in lei, facendola acutamente soffrire.
— Vuole sposarvi — le disse un giorno il medico; — che ne dite?
— Non so, non so...
— Tanto ha da morire: dategli questo conforto.
Ella tacque: non lo aveva sentito, in quella notte, che il moribondo la voleva, che il moribondo se la prendeva?
— Dottore, morirò anche io — disse poi.
— Ma che, ma che! Sarete la vedova di un suicidato, ecco tutto. È un romanzo.
Il romanzo, la stravaganza, la follia, era quello che le aveva sempre fatto paura! Ora, lanciata in questo vortice, non poteva salvarsi più.
— Sposalo, figlia mia — disse suo padre, sospirando, invecchiato di dieci anni. — Non restiamo con questo rimorso: tutta la città ti accusa di questo suicidio.
— Sposalo, Cristinella — disse don Ciccio Cannavale, il padrino; — ha voluto morire per te, poveretto.
— Sposatelo, figlia mia — disse il confessore — se no, egli muore in peccato mortale. Fate dannare un'anima.
Non era il romanzo, questo matrimonio, fatto nella stanza di un ammalato, in un momento di lucido intervallo? Era questa tragedia quella che lei aveva sognata, forse? Quello che lei aveva sognato era lontano, non tornava più, non era più possibile che ritornasse, il moribondo se l'aveva presa, era sua moglie, ora, la moglie di un suicida agonizzante, sarebbe stata la vedova di un suicida. Dove era Giovannino? Forse che aveva mai esistito Giovannino? Per fortuna quel suicida che era suo marito, se l'avrebbe portata giù, nella fossa, dove non ci sono più romanzi.
Il comico di tutto ciò fu che Peppino Fiorillo guarì.
Sacrilegio.
Egli era un vinto. Portava in sè tutte le traccie delle battaglie combattute con accanimento, ma perdute senza gloria. Come in tutti gli uomini di lotta, l'armonia della sua bellezza virile si era guastata e corrotta. Per quindici anni, dai venticinque ai quaranta, lo spasimo interno aveva corrugato quella fronte, aggrottate quelle sopracciglia, fatto fremere quelle nari mobili, curvate al sogghigno quelle labbra. Ora i capelli ricciuti s'eran fatti radi sulla fronte, come se fossero abbruciati: l'occhio era vitreo, inerte: sotto il mustacchio che si brizzolava, le labbra s'erano appassite, quello inferiore era cascante come per stanchezza. Talvolta, in alcuni momenti di profonda distrazione, di sguardo interiore, le palpebre plumbee si abbassavano, il viso si allungava, tutte le linee si atonizzavano e quella faccia pareva già morta, già decomposta. Ritornava in sè lentamente, quasi rinvenisse, con un'espressione di pena: così una lieve animazione ridava un senso di vita a quella faccia che aveva troppo vissuto, consumandosi in una esagerazione della vitalità. Dell'antica bellezza non gli rimaneva che il vigore di un corpo gagliardo e la seduzione morbida di una mano carezzevole, quasi femminile.
La rovina del suo spirito era anche più grande. Entrato nella vita con l'audacia che dànno tutti i desideri di un'anima ribelle e di un temperamento sanguigno, con tutta una ardente, insolente ambizione per quanto fosse potenza, il trionfo gli parve facile e s'inebbriò della propria forza. Ma nella passione umana, come nella passione divina, la Fede non basta, ci vuole la Grazia. Gli è che l'anima sua era piena d'ideali variabili e nebulosi, tutti belli, tutti splendidi, ma tutti sparenti; gli è che egli voleva troppo, voleva quanto gli altri avevano e quanto gli altri non avevan potuto avere; gli è che le sue labbra anelavano ai baci delle donne che non baciano, la sua intelligenza voleva conoscere ed abbracciare i vasti orizzonti della scienza, la sua fantasia sognava tutte le glorie folgoranti dell'arte. Se un poeta assurgeva al cielo immenso della poesia, egli invidiava intensamente quel poeta; se un uomo politico saliva alla vittoria, egli avrebbe voluto essere quel politico; se un uomo bello ed affascinante si pigliava la donna più invano desiderata, egli si rodeva di invidia per quell'uomo. Allora, morsicato al cuore dall'ambizione, dominando i suoi impeti, si piegava al lavoro, frenava il suo slancio, applicandolo al raggiungimento di uno scopo. Ma alla fervida e acuta intelligenza mancava quella nobile qualità che è la misura: alla sua prorompente volontà mancava la fissità. Eccitandosi, esaltandosi, vibrando in una febbrilità di desiderio insoddisfatto, egli cadeva nella esagerazione che raffredda e allontana il successo: poi la febbre declinava e la volontà ammollita, esaurita, si lasciava prendere dall'indolenza. Lo pigliava il disgusto di un lavoro troppo lento; la nausea dei piccoli e volgari mezzi che avviliscono; la sfiducia di sè, che è grave; la sfiducia nel proprio ideale, che è l'estrema rovina. Si ritirava in sè inoperoso, immobile, immerso in un dormiveglia spirituale pieno di amarezza, turandosi le orecchie per non udire, chiudendo gli occhi per non vedere il successo degli altri. Allora, pensava acutamente, profondamente, scavando in sè, analizzando in sè, scendendo alle ultime finezze del pensiero e del sentimento. Poi, d'un tratto, preso da un risalto di vita, si buttava disperatamente in una nuova guerra, assetato di vittoria, abbramato di vittoria, ma incapace di volerla fino all'ultimo. Così, in questi periodi di lotta furibonda e illogica, dove si sciupava il suo ingegno, e di esaurimenti mortali, egli non raggiunse mai nulla. Rimaneva alla porta del tempio, adorando e maledicendo l'idolo, ma non trovando tanta costanza d'imprecazione e di adorazione da essere trasportato al cospetto del dio. Egli fu per essere un grande statista; egli fu per essere un grande artista; egli fu per essere un grande speculatore. Vide il trionfo passargli accanto e, fatalmente immobilizzato, non lo afferrò. Infine, egli restava nel limbo dove si ravvolgono, in un ambiente incolore, tutte le intenzioni a cui mancò la volontà, tutti i pensieri a cui mancò l'azione, tutti i tentativi abortiti, tutti gli ingegni traviati e tutte le vocazioni sbagliate.
Quando s'innamorò, a trent'otto anni, giuocava l'ultima carta. Tutti i suoi amori del passato erano stati creati dall'amor proprio, piuttosto come una prova di potenza, come un esercizio di scherma per mantenersi acuto l'occhio e agile la mano. Vinceva le donne, per imparare a vincere gli uomini: le vinceva facilmente, come se scherzasse, poichè esse si lasciavano prendere egualmente dai suoi accessi di passione furiosa, come dalle dolcezze dei suoi periodi d'indolenza. Quest'anima strana, piena di forza e piena di debolezza, ispirava alle donne orgoglio e compassione. Era un innamorato bizzarro che metteva paura e destava pietà. Egli le affascinava con la soavità della voce vellutata, il cui timbro aveva quell'intimità irresistibile a cui le anime si aprono; ma le affascinava anche con quei silenzi lunghi, pieni di cose tetre e d'immaginazioni mostruose per cui le donne si attaccano invincibilmente all'uomo. Eppure lui, vinto dalle altre passioni, turbato da sempre nuovi interessi, agitato e sbattuto dalla tempesta, non aveva mai amato per amore, mai amato per amare, mai dato tutto se stesso all'amore. Forse, nel segreto del suo cuore, aveva quel tacito disprezzo della donna, quel tacito disprezzo dell'amore, che la gioventù moderna porta in sè come una malattia.
Così s'innamorò tardi, troppo tardi. Sulle prime era freddo, glacialmente stanco delle sue sconfitte, non arrivando a riscaldarsi, guardando imperterrito la donna che seduceva, scherzando col sentimento, facendo fare un pericoloso giuoco d'altalena a quella povera anima femminile che già gli apparteneva. Ma aveva trovato uno spirito eletto, unito ad una femminilità molto sviluppata; una bellezza fatta di espressione, insieme a un carattere singolare; una nervosità tutta giovanile, insieme a un sapore d'arte eccezionale. Lei lo amava piamente, umilmente, con la devozione animalesca e l'esaltazione spirituale. Quando egli conobbe tutto questo, un grande rivolgimento s'operò in lui e nelle nuvole bigie di uno scetticismo insanabile, si allargò questa luce:
— Forse la grandezza della vita è nell'amore.
D'un tratto, egli col suo temperamento eccessivo si buttò nell'amore, come si era buttato nella politica, nella speculazione, nell'arte, portandoci gli ultimi slanci, le ultime collere, gli ultimi ardori. Fu una vampata. Fu un incendio sanguigno. Fu un fuoco divorante e stringente. Fu una selvaggia espansione, l'avvinghiamento disperato di colui a cui tutto è sfuggito, il terrore bianco della solitudine. Amava, gagliardamente, tenacemente, più con rabbia che con tenerezza. Andava alla conquista dell'amore, come a una battaglia, tremando dell'ultima sconfitta. A questo urto così forte, in questo vortice, quella che lo amava si sgomentò, si arretrò spaventata, lo credette impazzito. Come lui più s'innamorava, lei amava meno. Lui saliva alla passione, lei discendeva all'affetto: mai un minuto di equilibrio. E un giorno, quando lui aveva messo in questa passione quanto aveva ancora di illusioni, di speranze, di desideri, ella lo abbandonò non si sa come, lo tradì non si sa perchè, nel modo più illogico e più volgare. Scomparve, fu travolta — dove non si sa.
E così, in Guido fu completa la devastazione e l'aridità: regnò solo, malvagio, egoistico, il cinismo.
* * *
Era una donna fulminata. Nell'unica, immensa battaglia che aveva sopportato il suo cuore femminile, aveva perduto. Nell'amore, aveva fatto naufragio. Nulla si vedeva dal volto, poichè instintivamente il volto femminile dissimula: talvolta, senza che la volontà gli imponga la dissimulazione. Solo un sottile osservatore poteva notare che la vivezza dello sguardo aveva del fittizio, che l'ombra sotto gli occhi era di un bistro carico come segno di molte notti vegliate, che le labbra avevano un sorriso più fremente che dolce. Ma lei ergeva la testa così altieramente, ma una severità così orgogliosa era diffusa nella sua fisonomia, che niuno osava chiederle se si sentisse male. Poi, la rispettavano come un essere colpito da una grande disgrazia. Era una donna fulminata, vivente in una immobilità dolorosa, che piangeva dentro, che sanguinava dentro, senza un respiro di dolore.
Invero aveva tutto perduto. Era stata una giovanetta male educata e imperiosa, cresciuta troppo presto come corpo e la cui anima si era ingrandita in precocità singolari. Lei aveva conosciuti i teatri dall'atmosfera rossiccia, profumata e velenosa, dove i fiori appassiscono e le fanciulle pensano; i balli ardenti dove aleggia tanta seduzione di amore, di luce e di musica; le stagioni balneari dove il mare, il cielo e il sole fiammeggiante sono l'infinito incanto che conduce all'amore; le conversazioni maschili, frivole, nulle, stucchevoli; le conversazioni femminili profonde, che turbano, che tentano. Così ella era stata una fanciulla senza dolcezza e senza soavità. Così ella era stata una fanciulla senz'amore. La vanità le bastava, le bastava la civetteria, le bastava il flirt. Era stata una fanciulla caparbia, maligna, ragionatrice, piena di teorie paradossatiche, guasta nell'anima, falsa in ogni manifestazione del sentimento, che adorava tutte le pose dell'ironia e dello scetticismo, che si lasciava far la corte per curiosità e poichè l'amore dell'uno rassomigliava all'amore dell'altro, si sbrigava bruscamente del suo corteggiatore, insensibile alla maldicenza, insolente per la sua bellezza, per la sua ricchezza, per la sua indipendenza. Le avevano dato un fidanzato, un progetto di pura convenienza: lei lo aveva accettato, stringendosi nelle spalle.
Ma un giorno, in un sito qualunque, per due minuti soltanto, ella vide un uomo che non la guardava, che non era bello, che non era elegante — e se ne innamorò, così d'un tratto solo. Questa creatura cattiva e fantastica, che non aveva conosciuto serenità di gioventù, che si era burlata dell'amore, che non aveva mai capito l'amore, sentì struggersi tutta la parte malvagia di sè nell'intenerimento soave di un affetto spontaneo e vivificante. Si sentì guarire lentamente di quanto era stata la sua infermità di spirito e quanto ella aveva calpestato, adorò. Tutte le rosee incipienze e i brividii lenti e le felicità piccine e le punture acute, fini fini dell'amore che comincia, turbarono deliziosamente il suo cuore rinnovato. Non sapeva che fossero le quiete, dolcissime lacrime che rinfrescano le guancie accaldate dalla febbre; ignorava le dolcezze di una umiliazione innamorata; ignorava le voluttà del sacrificio: tutto ignorava. Questa scienza dell'amore, giunta di un colpo solo, si era poi sviluppata lentamente, togliendo di mezzo la varietà, scacciando le volgarità, divorando come un fuoco purificatore tutte le bassezze. Allora, senza pensare un minuto, senza riflettere, di sua libera elezione, di sua spontanea volontà, buttò via la sua reputazione, il suo nome, la sua posizione, il suo avvenire, come si gitta via un fardello che inceppa il viaggio. Lui non le chiedeva niente e lei gli volle dar tutto. Lui avrebbe voluto l'amore tranquillo, nascosto, a termine fisso, senza compromissioni: lei lo volle clamoroso, invadente, quasi folle. Invano gli amici le dicevano che essa si perdeva, per chi non lo meritava: invano l'amante stesso si mostrava indifferente a tanta abnegazione. Lei camminava per la sua via, fatalmente, incapace di fermarsi, incapace di transigere, incapace di amare meno. Aveva negli occhi belli la luce dell'amore e nel cervello il divino raggio della follia. Tutto il suo passato, secco, duro, aspro, fatto di meschinità maligne e di gretterie femminili, le faceva orrore: sentiva di doverselo far perdonare. Sentiva che quella passione di donna era il perdono della fanciulla crudele e arida, che aveva deriso tutte le nobili e sante cose che esistono. Lei non amava solamente l'uomo, amava anche l'amore per l'amore, perchè l'amore era la sua nuova anima, era la sua gioventù riconquistata la sua bellezza purificata, perchè l'amore era la sua salvazione.
Questa donna amò invano. Essa sprecò tre anni di vita dietro un uomo indifferente, che non capiva, che non sapeva, che certo non meritava. Essa adoperò tutto quanto può fare una povera donna per farsi amare, dalla gelosia vera alla finta freddezza, dalla umiltà profonda alla serietà dell'orgoglio, dall'affetto malinconico che non si lagna, al sorriso divino che tutto perdona. Lei provò ad essere umanamente cattiva e celestialmente buona. Ebbe quei singhiozzi profondi che lacerano il petto e quelle indulgenze materne che solo l'amore insegna. Quanto vi può essere di delicato e di passionato, in una strana fusione di sentimenti, lei provò con quell'uomo. Tutto fu inutile, tutto. Dopo tre anni di lotta contro un uomo, quando fu priva di forza, esausta, demoralizzata, avendo smarrito la via della vita, non sentendo più nulla che un dolore infinito, lui l'abbandonò togliendole ogni speranza di ritorno, per sempre.
Così il naufragio di Teresa fu completo.
* * *
Guido e Teresa, queste miserie infinite, questi esseri devastati e rovinati, si conobbero. L'uno sapeva dell'altro, per fama di esistenze perdute. Ma fra loro non si stabilì alcuna simpatia. Invero vivevano ognuno nella salvatichezza diffidente che segue le grandi sventure, in quell'egoismo sospettoso di chi ha troppo sofferto. Ognuno si teneva caro il proprio dolore, noncurante dell'altro. Non li pungeva neppure la curiosità. Ognuno apprezzava il proprio dolore superiore a quanti umanamente possano esistere nel mondo. L'anima di Teresa era più dignitosa e severa, chiusa nell'asprezza dell'orgoglio, meditante nella solitudine: l'anima di Guido si immergeva in un cinismo tacito, ripensando tutti i rifiuti che gli uomini e le cose gli avevano inflitti. Nè simpatia, nè curiosità, nè pietà; la tempesta, che aveva squassato quelle fragili imbarcazioni, aveva inghiottito tutto.
Solo un duplice egoismo, egualmente acuto, egualmente profondo, creò fra loro una relazione di visite. Egli veniva da lei in certe ore, la salutava senza interesse, le faceva qualche domanda vaga, poi sedeva e fumava. Nella casa di Teresa vi era un silenzio intenso e una penombra triste che conveniva a Guido: non vi erano uccellini che cantassero, mancavano i fiori nelle giardiniere, il pianoforte era chiuso a chiave. Visite non ne venivano mai. Lei vestiva di nero, come una monaca. Non portava nè profumi nè gioielli. Parlava poco e piano. Per lo più, dopo averlo salutato, si rimetteva a leggere con una attenzione concentrata, senza levare la testa, se non quando lui se ne andava, per salutarlo di nuovo. Oppure rimanevano ambedue in silenzio, senza guardarsi mai, pensando. L'uno non s'accorgeva più dell'altro, indifferenti, sottratti alla nozione del tempo e dello spazio: talvolta Guido se ne andava in punta di piedi, senza salutare e Teresa non si accorgeva che più tardi di quella partenza. Un giorno Guido si abbandonò in uno di quei suoi abbattimenti profondi, la sigaretta spenta, le braccia prosciolte, la faccia cadaverica: lei non lo comprese o non pensò neppure a chiedergli che cosa avesse. Un giorno lei, d'un colpo, fu presa da una crisi di singhiozzi, torcendosi le braccia, bagnando di lagrime il cuscino del divano: lui la lasciò fare, infastidito dal rumore, non trovando una parola da dirle.
Una sera, lei leggeva ancora.
— Che leggete? — chiese lui, lasciando cadere la domanda, non curante della risposta.
— Leopardi — rispose lei, senza alzare la testa.
— Un uomo che dice di aver sofferto.
— E non è vero — mormorò Teresa.
— E non è vero — gridò lui, rabbiosamente. — Non permetto a nessuno di dire che ha sofferto, quando non ha vissuto la mia vita!
Lei lo guardò sdegnosa, fremente per lo stesso sentimento di egoismo vanitoso.
— Sentite — disse lui, pacatamente, dopo un poco.
E senza guardarla, fissando il muro dirimpetto o un punto indefinito, senza fare un gesto, con la sua voce bassa dove non scorreva più calore, dove non vibrava più vita, fermandosi ogni tanto per respirare, le narrò minutamente la storia del suo amore, come era nato, in quale ambiente desolato era cresciuto, come egli n'era stato invaso e travolto: poi come questo amore era stato violentemente spezzato. Egli narrava lentamente, senza fare alcuna osservazione, impersonalmente, quasi che dicesse la storia di un altro: precisava nettamente i fatti, metteva le date, accennava a tutte le più piccole circostanze. Il racconto sgorgava freddo e tranquillo, con un movimento d'impulsione quasi matematico, andando diritto alla sua via, quasi rigido, quasi inflessibile. Sembrava il resoconto imparziale, nè severo, nè indulgente, di un giudice che ha dimenticato di essere uomo. Non portava opinione di narratore, sembrava che in lui tutto tacesse dalla coscienza alla fantasia, e che solo operasse lucidamente, algebricamente, la memoria. Teresa ascoltava, senza guardare Guido, distesa nella sua poltroncina, con gli occhi socchiusi, immobile, senza interromperlo mai, attenta forse, disattenta forse, ma simile alla sfinge che tutto pensa dietro la sua fronte di liscio granito. Lui narrò a lungo, a lungo: suonavano le ore all'orologio, trascorreva la notte e lui narrava sempre e lei ascoltava sempre. Quando finì, l'alba bigia spuntava: lui si levò e prese il cappello, senza aggiungere altro: lei si levò senza parlargli. Guardandosi in faccia, si videro lividi in quella scialba luce. Così, tacitamente, si lasciarono.
Il giorno seguente, quando lui giunse, Teresa trovò la parola:
— E voi? — gli chiese.
— Io? io ho finito. Ho chiuso. Sono morto.
— O felice, felice! — gridò lei. — Io sono viva ancora, io non posso morire.
E trasalendo, impallidendo, piangendo a riprese, coi singhiozzi che rompevano le parole, col rossore dello sdegno che asciugava le lagrime, coi fremiti della gelosia che ancora le facevano morire la voce, ora abbandonandosi nella desolazione, ora rialzandosi nella collera, ella disse come si era perduta. Era un racconto informe, affogato, tutto ripetizioni, tutto intralciato di osservazioni, di esclamazioni, ricominciato cinque o sei volte, affannoso, balzante dall'ironia alla passione, dalla tenerezza al furore. Lei raccontava, esaltandosi, inebriandosi della propria voce, ascoltandosi, come se Guido non fosse più là, come se dialogasse con se stessa. Da tanto tempo quella storia le ruggiva dentro ed essa la comprimeva e si sentiva soffocare. Era presa dalla febbre dell'espansione, dal delirio di dire tutto, di gettare via il suo segreto per poter respirare. Avesse avuto cento persone là innanzi, crudeli o indifferenti, avrebbe sempre detto tutto. Si sentiva morire, se non parlava. Quando tacque, non aveva finito. Solo la voce mancava, gorgogliante nella strozza: solo il corpo si lasciava vincere da una lassezza. Ma nella figura ella rimaneva tragica e disperata, simile a una greca eroina di Eschilo che la fatalità ha pietrificata nel dolore.
* * *
Da quel giorno, l'uno fu necessario all'altro. A vicenda si imponevano il proprio egoismo e senza impietosirsi l'un per l'altro, si prestavano attenzione. Non chiedevano che di poter parlare, che di sfogare l'amarezza inesauribile della loro vita e la pazienza dell'ascoltatore era calcolo di colui che aspetta il suo turno. Forse Guido diceva di più e meglio: lui era più glaciale, più morto. Sceglieva le parole, lentamente, trovando quelle più efficaci, rendendo la sua idea con una lucidità meravigliosa. La frase s'insinuava, tutta flessuosa; la frase si allargava, tutta piena di una armonia infinita; la frase si faceva smagliante, tutta ricca di colore. Egli era stato quasi un artista. Raccontando, l'anima sua si sdoppiava, il dualismo della coscienza diventava evidente e nell'atonia del suo spirito, ancora pareva che narrasse il romanzo di un altro. Di questo, egli forse era inconscio. Se Teresa trasaliva, egli non se ne avvedeva. Se una parola rude, selvaggia, brutale, la faceva impallidire, egli non s'accorgeva di questo effetto. Guido sembrava si dirigesse a un pubblico invisibile, cercando di trascinarlo. Sembrava che parlasse di quel passato d'amore innanzi alla pubblica opinione, per accusare la donna che era stata l'ultima sua sciagura. Così giunse il tempo in cui Teresa lo udì volentieri, come presa da un libro attraente: anche esteriormente, anche senza comprendere spesso quello che egli diceva, ella sentiva ondeggiare nel suo cervello quella voce carezzevole e penetrante, che parea conoscesse tutte le sottigliezze dell'intonazione. Quella voce le faceva l'effetto di un delicato piacere fisico, le produceva un senso di benessere fresco, un cullamento quasi inavvertito, tanto era lento.
Ma in certe sere in lei l'angoscia diventava impaziente e come lui taceva, quasi aspettando, lei trabalzava, nervosa, a dire, a dire, a dire. Prima cercava di moderarsi, di temperare la voce e di dominare l'impeto nervoso. Ma il suo carattere orgoglioso e la sua gioventù ribelle si spezzavano in quei ricordi così caldi, così vivaci. S'interrompeva, talvolta:
— Sentite, ho la febbre, come allora.
E metteva la sua mano su quella di Guido. Lui la tratteneva nella sua, mollemente, con una strisciatura lieve delle dita, una carezza di pietà, che parea dicesse:
— Poveretta, poveretta.
Quella compassione segreta, di un essere infelice verso una creatura infelice, faceva sgorgare le lagrime di Teresa. A lei, immobile, di sotto le palpebre abbassate, piovevano le lagrime sulle guancie, disfacendosi sul collo e sul petto, senza che lei le asciugasse. Allora sentiva un tocco leggiero di mano sfiorante i capelli, come un soffio, come una carezza che parea dicesse:
— Poveretta, poveretta.
Ma niente altro. In breve l'uno sapeva la storia dell'altro a mente, poteva dirla coi minimi particolari. Le lettere erano state lette: tutti i pezzetti di cose che segnavano una data nell'amore, se li erano mostrati. Era rimasto l'estremo pudore dei ritratti. Ma anche quello fu distrutto: Teresa aprì il medaglione che portava al collo e chinandosi verso Guido, gli fece vedere il ritrattino di lui.
— Era bello, ma doveva essere malvagio — disse Guido, dopo una lunga pausa.
Poi cavò fuori il portafoglio e mostrò quel viso di lei, pallido come quello di una morta, poichè sembra che i ritratti abbiano senso e vita. Teresa e Guido lo guardarono per molto tempo, senza dire nulla. Infine Guido, covrendole delicatamente la bocca con la mano, le disse, con la sua voce insinuante e quasi parlante in sogno:
— È strano. Nella fronte e negli occhi, voi le rassomigliate tal quale.
E nient'altro. Ma una sera burrascosa di autunno, nella disperazione di un doppio naufragio, nel brancolare cieco di due anime ottenebrate, in un esaltamento bizzarro, vinti da una forza ignota, senza volontà, senza memoria, ammalati di passato, inferociti di passato, lo insultarono in un bacio, lo calpestarono in un bacio.
* * *
Passarono tre giorni senza vedersi e senza scriversi. Teresa visse quei tre giorni immersa in uno stupore doloroso, rabbrividendo ogni tanto come le ritornava la coscienza di quello che avevano fatto. Le pareva di dormire e di sognare sempre, un sogno pieno di paure, pieno di cose orribili. Ogni tanto apriva gli occhi, ma li richiudeva, spaventata dalla luce e spaventata dalla realtà, immergendosi di nuovo in quel dormiveglia dove almeno l'acuzie si attutiva, il senso del presente si smarriva in un orizzonte vago e senza contorni. Lui visse quei tre giorni, rabbioso, agitatissimo, bestemmiando se stesso, l'amore e tutto, incapace di prendere una decisione forte, inquieto di questo risveglio, incapace di volere qualche cosa. Quando si rividero, provarono un acutissimo sentimento di pena, un imbarazzo, un senso di vergogna. Insieme, si tesero le mani, supplicandosi:
— Perdono.
E piansero insieme. Quelle lagrime furono benefiche e calmarono quella pena. Una tenerezza grave li prese come se fossero due grandi colpevoli pentiti, che il rimorso ha domati. L'uno si struggeva di pietà per l'altro e cercava lenire dolcemente quell'anima ferita. Guido ritrovò la sua parola seduttrice e la mano molle, femminile che aveva blandizie materne e sfioramenti infantili. Diceva a Teresa delle cose gravi o serie, molto lontane dall'amore, una efflorescenza sentimentale, un discorso tutto musicale che le cantava una ninna-nanna soave. Lei si lasciava riprendere da quel fascino e spalancava gli occhi di sonnambula in faccia a Guido, sorridendogli, crollando la testa, come se quel discorso, di cui spesso il senso le sfuggiva, la convincesse e la consolasse. Lui stesso si abbandonava in quello stato di dolore indolente, in cui manca la volontà per soffrire.
Così il rimedio fu cattivo quanto il male. Potevano scordare per un momento, ma appena soli, la loro coscienza si rialzava e li ingiuriava. Allora, per senso di vanità, mentendo a se stessi l'uno mentendo all'altro, sentendo la necessità, il peso e lo scorno della menzogna, dissero di volersi bene, di amarsi molto, di amarsi sempre. Ognuno diceva tra sè: ho il dovere d'amare, poichè ho tradito. Ogni giorno recitavano una commedia ignobile, pallidi, inetti, disgustati della rappresentazione, nauseati delle parole e dei baci. A volte, presi dalla stanchezza invincibile, di questa commedia dove tutto era falso, dove gli attori avevano dimenticata la parte e il rossetto male celava i volti sbiancati, si fuggivano. Ma, involontariamente, dopo tre o quattro giorni di tortura, per l'abitudine di vedersi, pel desiderio di ritentare la prova, si ritrovavano e la comica storia, piena di lagrime represse e di grida soffocate, ricominciava.
Erano tormentati anche nell'egoismo. Per delicatezza non si parlava più del passato, non vi era più rinnovamento di confidenze, mancavano tutte le espansioni — e poichè solo il passato poteva loro ispirare qualche cosa di vero, poichè solo il passato volevano nominare e non potevano nominare, così tacevano spesso. Più che mai erano lontani, in quel silenzio.
— A che pensi? — domandava Guido.
— A nulla — diceva lei glacialmente.
Assente ogni intimità. Almeno prima erano semplicemente estranei, riuniti dal caso, destinati a rimanere estranei. Ma ora, rimanere estranei dopo quel che era accaduto, rimanere estranei, mentre dicevano e giuravano d'amarsi, era uno squilibrio, una contraddizione, un'altalena pazza. Istintivamente, i nomi degli altri ritornavano in campo: si guardavano in volto, spaventati, come se vedessero apparire un fantasma. Dapprima finsero anche la gelosia per convincersi che si amavano; e indifferenti si tormentavano, facendosi delle scene furibonde dove l'esaltazione era tutta di cervello, dove spasimavano per un altro dolore, dandogli la forma della gelosia. S'ingiuriavano brutalmente. Ma in fondo ghignava la coscienza, mormorando: non me ne importa niente, non me ne importa niente.
Poi la gelosia nacque veramente, una gelosia tutta di amor proprio, una gelosia senz'amore, una gelosia volgare, a capricci, a dispetti, a piccole ferocie.
— Tu ami ancora lui — diceva talvolta Guido, insistendo, incrudelendo, offeso nel suo orgoglio di uomo.
Teresa non osava dire di no, la parola le moriva sulle labbra, voltava la testa in là.
— Lo vedi, lo vedi? Tu l'ami ancora, sei una sciagurata! — inferociva lui.
Gli è che si ricordavano ognuno la storia dell'altro, precisamente. Serviva per la loro tortura.
— A lei tu scrivevi ogni giorno ed a me, mai — diceva Teresa.
— A lui tu hai dato le due treccie dei tuoi capelli e a me nulla — diceva Guido.
— Tu hai passato sei mesi, passeggiando la notte sotto le sue finestre e con me niente — diceva Teresa.
— Tu hai passato tre anni in casa sua e da me non un minuto — diceva Guido.
Rinascevano i ricordi, assidui, angosciosi, mescolandosi stranamente al presente.
— Io voglio che mi chiami Ninì, come chiamavi l'altra — diceva Teresa, ostinandosi, diventando malvagia.
— Non posso, non posso — faceva lui disperato.
Riapparivano, riapparivano le memorie, turbando il presente, guastandosi nel presente.
— Se mi vuoi bene, non devi portare il medaglione col ritratto dell'altro — diceva Guido.
— Non posso, non posso — gridava lei, singhiozzando.
Ma tutto precipitava in un delirio di collera senza nome. Avidi di crudeltà, inebbriati di cruccio, decisi di andare sino in fondo al loro peccato, portarono il loro amore dove erano vissuti gli altri due amori, nei giardini, nelle ville, nelle campagne, sulle spiaggie, nelle strade, nei teatri: dove ci era un ricordo, vollero deturparlo. Rifecero la via della passione, senza passione: rifecero la via dell'amore, cambiandola in via crucis. Erano ebbri del loro peccato, ammalati, agonizzanti: stracciarono le lettere, dispersero i ricordi, spezzarono i ritratti: presi dalla follia della distruzione. Fino a che, una sera, egli le disse:
— Voglio che mi baci come l'altro.
— Vattene, vattene — strillò lei. — Io non t'amo, vattene; io non posso amarti, vattene; io ti odio, vattene.
Lui la odiava, nell'intensità dello sguardo.
* * *
In verità, essi sono più infelici che mai; infelici quanto umanamente si può essere. E se si rivedono talvolta, si fanno orrore. Poichè hanno commesso, insieme, un sacrilegio.
Piccola collezione «Margherita» Casa Editrice E. Voghera, Roma
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