Novella d'amore.

Fulvio s'inchinò, prese dalla mano di Paola il gelato che ella, sorridendo dolcissimamente, gli porgeva, e le disse, guardandola negli occhi:

--Vi amo.

--Non dovete amarmi--mormorò lei, senza scomporsi, seguitando a sorridere.

--E perchè?

--Perchè ho marito--ribattè ella, ma placidamente.

--Non importa!

E gli occhi di Fulvio, di un tetro azzurro, lampeggiarono di passione. Ella restava innanzi a lui, senza mostrare alcun turbamento, sorridendo ancora, tutta rossa, con le belle braccia bianche e prosciolte sotto il merletto nero delle maniche. Sul merletto nero e sulle bianche braccia scintillavano i braccialetti gemmati: erano ricaduti sui polsi, ella si occupò a risollevarsi verso il gomito, con molta cura, giocherellando con le catenine d'oro, coi cerchiolini sottilissimi. Irritato, Fulvio batteva col cucchiaino sul piattello del gelato:

--Andatevene--mormorò a un tratto, soffocando di collera--siete una donna odiosa, io vi detesto.

Paola crollò lievemente il capo, come si fa per un malato incurabile, e si allontanò da Fulvio. La brigata si aggruppava attorno al pianoforte, dove un maestro giovane, pallido, con un grosso ciuffo di capelli neri sulla fronte, accompagnava il canto di una fanciulla gracile, biancovestita, con un filo di voce simpatica, che cantava una romanza di Bizet. La romanza era di carattere orientale, una nenia bizzarra, a volte piena di trilli allegri, a volte piena di lunghi singulti: e due o tre signore s'illanguidivano, lasciavano liquefare il gelato nel piattello, prese dal delicato lamento della fanciulla orientale: il marito di Paola si dondolava in una poltrona, fumando, tranquillo, guardando con occhio distratto la svelta figura di sua moglie, tutta vestita di nero, tutta scintillante di perline nere. La freschissima brezza marina entrava dalle quattro finestre di quel lungo salone: appoggiato alla finestra, Fulvio guardava il mare, come assorbito. Ora Paola offriva le sigarette ai giovanotti e alle signore che osavano fumare. E la mano che porgeva il porta sigarette era così bianca, così pura di linee, che Fulvio sentì struggersi di tenerezza.

--Perdonatemi--fece lui, levandole in faccia gli occhi supplichevoli.

--Amico, non ho nulla da perdonarvi--disse Paola, soavemente.

--Sono un brutale: voi siete buona.

--No, no--e fece per ritirarsi.

--Non restate mai un momento accanto a me--mormorò lui con voce di pianto.

--Non posso, amico: questi signori hanno bisogno di fumare. Ecco il mio marito senza sigarette....

S'involò, leggiadra, offrì le sigarette a suo marito, sorridendogli. Il marito la guardava quietamente, con un'aria soddisfatta di uomo dalla felicità imperturbabile e sceglieva la sigaretta, a lungo scherzando con le dita della moglie. Pareva che si dicessero tante cose, marito e moglie, tante cose d'amore: ed erano così giovani, così belli, così bene accoppiati, che i loro amici li consideravano con compiacenza, come si guardano due fidanzati. Tutto solo appoggiato alla finestra, Fulvio fissava la scena e impallidiva: fece due o tre passi avanti. Ma, ecco, ella veniva di nuovo a lui, snella, leggiera:

--La sigaretta è spenta: volete del fuoco?

--Non temete voi--fece lui, a denti stretti, ma col più amabile fra i sorrisi--non temete voi che io uccida vostro marito?

--La spagnoletta è spenta....

--Vedrete che lo uccido, signora.

Senza più dirgli nulla, fattasi un po' seria nella faccia, Paola si allontanò da lui, a rilento, come se l'avesse colpita una parola dolorosa. Ora tutti complimentavano la signorina Sofia che aveva cantato così bene les adieux de l'hôtesse arabe: e la gracile fanciulla, tutta malinconia, sorrideva modestamente.

--Vi piace Bizet? chiese Sofia a Fulvio, che si era accostato al resto della brigata.

--Bizet?--fece lui come trasognato.

--Sì: vi domandavo se vi piace.

--Assai--mormorò lui, distratto.

La fanciulla gracile e mesta lo guardò e ripetette, come fra sè, le prime parole della romanza francese:

-- Puisque rien ne t'arrête....

Ma egli non udì, concentrato nei suoi pensieri.

--.... adieu bel étranger --finì Sofia pianissimamente.

Attorno al pianoforte, ora, si rideva. Il maestro giovanetto, pallido, col grosso ciuffo di capelli neri sulla fronte, arrivato da poco da Londra, raccontava a quei suoi amici napoletani l'ostinazione delle misses e delle mistresses inglesi a volere imparare le patetiche romanze italiane: ne rifaceva le smorfie e le contorsioni, vivacemente col brio del napoletano che si vendica della lunga stagione di nebbia sopportata a malincuore. Tatti ridevano, specialmente il marito di Paola: Paola, ritta in piedi, si sventolava col grande ventaglio di raso nero, dove un pittore fantastico aveva dipinto un paesaggio lunare. E Fulvio, non potendo parlare, guardava Paola: la guardava con tanta intensità, con una fissità così ardente, che a lei le palpebre batterono, due o tre volte, quasi per fastidio. Ma lui non si scosse, avvinto, ipnotizzato, bevendo dagli occhi di lei, che non lo guardavano, il fascino invincibile: ed ella, naturalmente, come se la luce soverchia la infastidisse, levò l'ampio ventaglio di raso nero e si nascose il volto. Ora Fulvio non vedeva che il busto scintillante di perline nere e la mano sottile levata, premente le stecche nere del ventaglio: una vela di raso nero gli celava la faccia di Paola: tutti ridevano per le caricature del maestro di musica: Fulvio aveva gli occhi pieni di lacrime. Sofia lo guardava, con un lievissimo, malinconico sorriso.

Ma un delicato suono di mandolino entrò dalle finestre che davano sul mare: le risa tacquero, tutti tesero gli orecchi. Il suono si avvicinava: e la brigata, come attratta, si affollò alla porta che dava sul terrazzo. Nero era il mare, nella notte nera: altissime, tremolavano le stelle, sul cielo nero. Attraverso l'oscurità del mare una barchetta passava, portando a prora una fiaccola sanguigna che si rifletteva nell'acqua e vi metteva una vampa: sulla barchetta qualcuno suonava il mandolino, ma non si distingueva chi fosse; qualche cosa biancheggiava, come il vestito d'una donna, E la facella sanguigna rifletteva la sua luce nel mare, e il mandolino invisibile si lamentava e l'ombra bianca era immobile, e la barchetta filava; un silenzio aveva colto la lieta brigata.

--È una romanza in azione--disse il maestro di musica rompendo il silenzio.

--Duetto d'amore--strillò un giovanotto.

--Non li disturbiamo--disse soavemente Paola.

--Ehi, dalla barca!--urlò il marito di Paola, come per contraddire sua moglie--buonasera, buonasera, divertitevi!

Tutta la brigata ripetette:

--Buonasera, buonasera, divertitevi!

Subito, immergendosi nell'acqua marina, la fiaccola sanguigna si spense, il mandolino tacque, la barchetta vogò nella tenebra e nel silenzio.

--Troppa superbia, o innamorati!--strillò il marito di Paola.

--Beati, loro--disse Fulvio,

--Perchè li invidii?--chiese il maestro di musica.--Napoli ha le sue spiagge piene di barchette e le sue case piene di vestiti bianchi.

--Nè vi è scarsezza di mandolini--aggiunse il marito di Paola.

--Che m'importa della barchetta e della musica e del vestito bianco! Quelli si amano: io li invidio.

--Oh il sentimentale, il sentimentale!--esclamarono duo o tre.

--L'amore è una bellissima cosa--disse Fulvio, con una convinzione profonda.

--Che scoperta, perdio!--gridò il marito di Paola.

--Bisogna ammogliarsi--disse il maestro di musica.--Fulvio, guarda la signora Paola e suo marito: bisogna ammogliarsi.

--Bisogna ammogliarsi--ripetette soavemente Paola.

--Bisogna morire--mormorò Fulvio.

Ma gli amici e le amiche rientravano nel salone: si combinava, per la sera seguente, una gita per mare, con due barchette, con musica. Non era meglio aspettare che venisse la luna? Ma no, le gite con la luna sono volgari, non si ha paura di nulla, ci si vede troppo chiaro: è meglio andare nella notte, come la barchetta degli amanti. Questo dicevano le signore: i signori proponevano di portare la cena. Sulla soglia della porta, verso il terrazzo, Paola disse a Fulvio, da lontano:

--Siete anche voi della gita?

--No, no, sentite...--disse lui, con voce soffocata.

Ma ella non uscì sul terrazzo. Qualche signora parlava di andar via: ma per trattenere gli invitati ancora un poco, Sofia si mise a cantare il waltzer dell' Ombra, nella Dinorah. La gente, in piedi, ascoltava: ma la breve voce simpatica della fanciulla non arrivava a eseguire quei trilli complicati, quelle risposte dell'eco. Sibbene ella cantava quel waltzer come se piangesse: e invero quella musica, che è il pianto di una illusione, pareva un singulto di dolcissima follìa.

--Datemi il mio ventaglio--disse Paola, dolcemente, a Fulvio, che se ne stava solo solo sul terrazzo.

--No, se non mi sentite--disse lui, tenendosi il ventaglio stretto alle labbra.

--Datemi il mio ventaglio--ripetette ella, con fermezza e con dolcezza.

--Sentitemi, sentitemi, ve ne scongiuro, è una cosa gravissima....

Paola non gli dette più retta, rientrò nel salone: ora il cameriere portava attorno dei bicchieri pieni di malaga dove un pezzo di ghiaccio galleggiava, ed ella girava premurosa, sorridente, serena. Quando ebbe compiuto il suo giro, naturalmente si rammentò dell'altro suo ospite che stava solo, nell'ombra, sul terrazzo, fra la nerezza del cielo e quella del mare.

--Datemi il ventaglio, amico.

--Sentitemi....--disse lui, ancora.

E la voce era così piena di dolore, che ella si arrestò. Nella sala, adesso, con la nova allegria del vino, cantavano un coro napoletano. Ella ascoltava le parole di Fulvio.

--Sentite. Io debbo parlarvi. Debbo dirvi delle cose gravissime. Non m'interrompete, Paola, ve ne prego, Ascoltate: ho da dirvi, da dirvi, tante cose. Ma le dico presto, non dubitate. Ora non posso dirle. Vi è gente di là, gente felice: io sono infelicissimo, Paola, se voi non ascoltate quello che ho a dirvi. Siate paziente, ve ne prego. Io soffro assai. Voi non soffrite, lo so: ma siete assai compassionevole. Ho da parlarvi, dunque. Dobbiamo esser soli. Sentite. Io non lascio questo terrazzo. Chiudete la porta, crederanno che io sia andato via. Ve ne prego, chiudetela. Vostro marito andrà a letto.... e io voglio parlarvi. Aspetterò qui fuori, quanto vorrete. Quando egli dorme, venite.

--Non verrò--disse lei, soavemente.

--Sentite, Paola, io sono come in punto di morte. Di là cantano e ridono: qui vi è un agonizzante.

--Io non verrò,--ripetette lei, senza turbarsi.

--Sentite ancora. Ve ne scongiuro, in nome della vostra coscienza di donna onesta, per la vostra virtù di fanciulla e di sposa, per la vostra dolcezza e per la vostra pietà, non mi negate quest'ultimo favore....

--Non verrò.

--Se non venite, io mi ammazzo, Paola.

Ella lo guardò un minuto secondo.

--Io mi ammazzo, Paola, se non venite. Siete una cristiana. Non lascerete morire un uomo così.

--Verrò--disse lei.

II.

E venne. La notte era alta, oramai, sul golfo napoletano, e lontanissime, scintillavano le tremolanti stelle: sulla deserta strada di Posillipo, che sovrastava alla terrazza della villa, una fila di lumi correva sino a Napoli: alta la solitudine, alto il silenzio. Le imposte del balcone che davano sul terrazzo si schiusero pianissimamente e un'ombra bianca, lieve lieve, scivolò sino a Fulvio che aspettava da tre ore.

--Grazie--disse lui, cercando vedere il volto di Paola, all'oscuro.

--Noi siamo in fiero pericolo di morte--rispose lei, con molta dolcezza.

--Lo so--e chinò il capo.

Egli non parlava. Invece, nel momento che aveva strappato a Paola la fatale promessa, la sua passione era in uno stato di esaltamento. Nella prima ora di aspettativa, egli non aveva fatto altro che ripetere a sè stesso, affannosamente, turbinosamente, quello che voleva dire a Paola: e certe parole, certe frasi, mormorate sottovoce a sè stesso, lo avevano affogato di emozione. Ella non veniva ancora. Sentiva che andavano e venivano, per casa, i servi, riordinando le stanze, chiudendo le finestre: sentiva le voci tranquille di Paola e di suo marito, che discorrevano; ma non poteva udire le parole. Poi tutto fu chiuso, si spensero i lumi, un grande silenzio regnò. Egli cominciò a tremare d'impazienza, non osando muoversi, raggricchiato al suo posto, coi nervi che vibravano, ripetendo confusamente, a brani, quello che voleva dire a Paola, come un bimbo disperato cerca invano di raccapezzarsi nella lezione imparata a mente. Paola non veniva. Egli aveva contato cento volte i lampioni a gas, sulla via di Posillipo: erano trentatrè, gli altri si perdevano in una fila di luce. Per ingannare il tempo, pensò di contare le stelle; ma ci si perdette. Quante ore erano passate? Quella notte era dunque eterna? E una disperazione rassegnata lo colse, lo abbattè: forse Paola non sarebbe mai venuta. A lui non restava che buttarsi di sotto, nel mare: giammai si sarebbe fatto cogliere dal giorno, dal sole, su quella terrazza. E tale idea, tale soluzione lo quietò. Un accasciamento profondo lo vinse e non seppe più nulla del tempo e del luogo. Tanto che lo schiudersi del balcone e l'ombra di Paola lo fecero appena trasalire. Ora, non trovava più nulla da dirle. Tutto era finito, egli poteva buttarsi di sotto, nel mare nero.

--Che avete a dirmi, amico?

--Che vi amo.

--Me lo avete già detto. Null'altro?--e fece per andarsene.

--Vi amo, vi amo, vi amo!

--Amico, mio marito è di là che dorme. Se una zanzara gli fa udire la sua canzoncina, se un mobile scricchiola, se la vostra voce o la mia si levano un poco, egli si sveglia. Egli verrà qui: e noi moriremo.

--Questo cerco--mormorò con voce cupa.

--Morirei per voi, se vi amassi. Ma non vi amo.

--E perchè vi esponete alla morte?

--Per pietà.

--Non sentite altro, per me?

--Amicizia e pietà.

--Voi altre donne siete infami.

--Povero Fulvio!--fece ella, con molta dolcezza.

--Vi proibisco di compatirmi. Dovete amarmi, capite? Questo sono venuto a dirvi.

--Non posso amarvi.

--Dovete. Ho il diritto di esser amato. Ah voi credete che sia nulla la esistenza di un uomo? Credete che sia nulla passare accanto a un uomo e togliergli tutto? Credete che sia, nulla farlo agghiacciare di freddo e farlo avvampare, dandogli una febbre che mai non si placa? Credete che una donna possa impunemente guardare con dolcezza, sorridere con dolcezza, parlare con dolcezza, come voi guardate, sorridete, parlate? O maledetta dolcezza, maledetta dolcezza!

Malgrado che le fosse molto vicino e quasi intuisse l'espressione del volto di Paola, egli non vide le lagrime che le salivano agli occhi.

--Perchè, infine, io era una creatura felice. Io godeva la giovinezza e il sole e la lietezza del mio paese e la giocondità dei miei amici! Io aveva la serena indifferenza, la più grande felicità umana. Io era egoista, ma tranquillo: io mi lasciavo amare, o non cercavo che mi amassero. Sereno, sereno come Giove!

--Dio vi possa ridare la serenità--susurrò lei, con dolcezza.

--Dio.... io non lo prego!

--Lo prego io, sempre, perchè vi dia la pace.

--O femmina ipocrita! Non vi burlate anche del Signore, come vi burlate di me. Sentite. Voi dovete amarmi, per forza. Vi amo troppo, per non essere amato. Sarebbe una enorme ingiustizia. Non vi sono queste ingiustizie, nel mondo. Il mondo è equilibrato, tutto si pareggia. La mia fiamma è troppo viva, perchè non v'infiammi. Dovete amarmi. Lascerete vostro marito, vostra madre, la vostra casa, i vostri servi, tutto quello che avete amato, tutto quello che avete adorato: e verrete con me. Andremo lontano. Saremo assai felici, assai felici, vedrete. Saremo anche infelici, lo so; ma non importa, così è la vita. La passione è più forte di noi. Io vi adoro, Paola, andiamo via.

--Voi siete pazzo, amico--disse lei, appoggiando il gomito sul parapetto e guardando il mare, sotto.

--No, o se vi piace, sono pazzo. Questo non importa. Sta che non posso vivere senza voi. Sta che ho bisogno di voi. Sta che vi voglio. Nessuno vi vuole come me: ora nulla resiste al magnetismo della volontà, essa liquefarebbe il diamante e spezzerebbe il ferro. Siete una donna, avete viscere umane, sentite, amate, odiate, sentirete il magnetismo dell'anima mia che vi vuole. Vostro marito vi ha, ma non vi vuole: è una bestia. Io l'odio ferocemente. Volevo ucciderlo stasera: lo ucciderò domani, se non venite via con me. Ma voi verrete. Siete venuta sul terrazzo, verrete via con me. Andiamo.

E le prese la mano, risolutamente, per portarla via.

--No--disse lei.

--Venite via.

--No.

--Perchè?

--Perchè non vi amo.

--O Paola, o Paola, non parlate così--proruppe Fulvio, con voce di pianto.

--Come volete che io parli?

--Tacete piuttosto. Il suono della vostra voce, così dolce e così fredda, mi fa disperare. Tacete, ve ne prego.

Ella tacque. Fulvio si era buttato con le braccia e col capo sul parapetto, soffocando i singhiozzi. Ella aveva chinato la testa sul petto, come se pensasse profondamente. Una carrozza passò sulla via di Posillipo, al trotto, un suono di risa squillanti arrivò. Paola levò il capo.

--Non piangete, Fulvio.

--Non piango--disse lui, disperatamente,

--Siate forte.

--Sono assai forte.

--Sentite, sentite quello che vi dice l'amica. Voi guarirete facilmente.

--No, mai.

--Guarirete. Siete onesto, voi?

--Sono onesto.

--Ebbene, guarirete. La passione è una cosa disonesta. Io ho marito, vedete. Questa sembra una risposta volgare: è onesta, invece. Quando siamo giovanette, la madre ci dice: l'uomo che sposate dovete amarlo. Se non potete amarlo, dovete almeno rispettarlo, dovete essergli fedeli e obbedienti, conservargli il vostro corpo e la vostra anima, anche a costo di morire di dolore. E queste parole non solo le dice la madre, ma ce ne dà l'esempio quotidiano. Questo dovere di onestà, questa tradizione di fedeltà, questa eredità di virtù, ci si trasmette nel sangue, di madre in figlia. Non vi è nulla di sublime, vedete: è un dovere, si compie.

--E si muore, Paola.

--Non si muore. La passione, cieca, insulta il marito, il buon marito che dorme di là, calmo, fidente, senza un sospetto. Questa è la grande ingiustizia. Perchè, infine, l'uomo che si sposa, anche quando fa un matrimonio d'interesse o di ambizione, fa un sacrificio grave. Egli ci affida il suo nome e il suo cuore: egli ci dà la sua fede e la sua libertà: egli si lega a un vincolo indissolubile: egli si mette a lavorare per noi e per i nostri figli, umilmente e gloriosamente. Noi siamo la sua consolazione e la sua gloria: noi rappresentiamo per lui le più dolci e più sicure soddisfazioni: la sua giornata passa nel desiderio di ritrovarci, di vederci: le sue ore più care sono nella casa, nelle nostre braccia. O che tesoro di piccoli e grandi sacrifici è l'amore di un marito! Voi li ignorate. La passione ignora tutto: non conosce neppure sè stessa.

--I mariti tradiscono le mogli--mormorò lui, come trasognato.

--Le tradiscono, ma le amano. Nulla vale a vincere quel legame profondo, intimo, fatto di parole e fatto di lacrime, fatto di baci e fatto di sospiri: nulla, vale a spezzare questo vincolo penetrato nel cuore e nei sensi. Ma, ecco la passione: vuol vincere il sacro legame, vuol spezzare il sacro vincolo. Chi siete voi? Un giovanotto, un uomo, un essere qualunque, della infinita umanità: lontano da me, estraneo a me. Passate per la mia strada: io, forse, passo per la vostra. E subito mi amate. Che avete fatto per me? Nulla. Che potete fare? Nulla. Cioè, molto. Ho un nome, volete togliermelo: ho un onore, voi volete che lo butti via, come un cencio: ho la stima degli amici, debbo disdegnarla: ho la fede del mio sposo, debbo tradirla: ho la pace della mia coscienza, debbo perderla per sempre. Perchè? Perchè voi mi amate? Anche colui che dorme di là, così tranquillo, mi ama.

--Non è vero.

--Che ne sapete, voi? Noi sole donne conosciamo chi ci ama. Parlate di diritti, voi? O povero uomo che dormi, va, adora una donna, sino a sposarla: dà a costei la miglior parte della tua vita: riponi in costei tutta la sua speranza: siile fratello, padre, marito, amante, amico, consigliere, infermiere: soffri per lei, nel corpo e nell'anima! Ecco che un estraneo, un bell'egoista avvampante di capriccio, un uomo che non ha fatto nulla, che offre alla tua donna una vita di disonore, ecco che costui, per forza di violenza vuol toglierti tutto! Parlate d'ingiustizia voi? Che fate qua? Perchè mi degno di ascoltarvi, di difendermi, di darvi delle spiegazioni? Non so chi siate: non vi conosco. Levatevi dalla mia strada. Andatevene.

--Voi non mi amate, Paola, ecco tutto.

--Questa è la verità, non vi amo.

Ma una fuggevolissima luce venuta dalla stanza del marito li colpì entrambi. Un lampo brevissimo: poi l'ombra, di nuovo. Fulvio e Paola, si guardarono, s'intesero. E quietamente, dolcemente, come se fosse sul punto di morire, ella disse:

--Madonna benedetta, vi raccomando l'anima mia.

Sottovoce, orò. Fulvio taceva, aspettando. Ma nessun rumore si fece udire, nessuna luce comparve, nessuno venne. Era stato un inganno. Restarono così, per del tempo. Egli non osava interrompere quel silenzio, non osava dire l'ultima parola. Tutto gli sembrava crollato, intorno, nella notte nera: e non poteva camminare fra le rovine. Pure, levando gli occhi, sentì che gli occhi di lei lo interrogavano desiderosi della fine.

--Che debbo fare?--egli domandò glacialmente.

--Andarvene--fece lei, con dolcezza imperturbabile.

--Andar dove?

--Dove volete: non qui, insomma.

--Assai lontano?

--Assai lontano.

--Posso ritornare?

--No.

--Fra qualche anno?

--No, mai.

--Che farete, voi, qui?

--Passeranno gli anni: poi, morirò.

--Non vi vedrò mai più, Paola?

--Mai più.

--È la morte, questa, per me.

Ella aprì le braccia, come se nulla avesse ad aggiungere.

--Addio, dunque.

--Addio.

Non si diedero la mano. Egli voltò le spalle, rientrò nel salone oscuro, camminando come un sonnambulo. Ella tendeva l'orecchio, come a sentirne il passo attraverso la casa: e restava immobile, bianca. Poi lo vide, dalla terrazza, camminare solo, sulla via di Posillipo, perdersi solo, nella notte, nell'ombra, come un morto. Allora solo Paola si volse. Una voce alle sue spalle le aveva detto:

--Paola, tu ami Fulvio.

Ella rispose al marito:

--Sì.

E le due disperazioni si guardarono in faccia.

Paolo Spada.

L'uomo di cui leggete il nome--nome poetico e predestinato--qui sopra, era uno scrittore di novelle e di romanzi. Aveva trent'anni, era basso, robusto, tarchiato, la fronte breve, gli occhi neri e lividi, le guancie rosse, le labbra grosse e sensuali. Se pel romanziere vi è un tipo stabilito che le fanciulle isteriche e le donne nervose hanno immaginato--capelli neri e ondulati, fronte nobile, pallore arabo, occhi pensosi, mustacchio soave, corpo snello--Paolo Spada non realizzava questo ideale fantasioso. Egli dormiva profondamente per sette ore ogni notte, faceva colazione con uova, bistecche, formaggio e vino, passeggiava su e giù per le vie al sole, pranzava benissimo, ballava, suonava il pianoforte, andava alla sala d'armi, pattinava, corteggiava le signore--come ogni eccellente, forte e compito giovanotto può fare. In quanto al suo umore, era quasi sempre allegro, con brevi accessi di malinconia. Amava la buona compagnia, la conversazione arguta, la musica di camera, le belle donne dalla testa greca; non aveva nè fedi, nè dubbi: era indifferente. Ogni tanto cambiava d'innamorata.

Questo bravo galantuomo così somigliante ad un altro qualunque galantuomo, era anche un novelliere, un romanziere. Aveva ingegno; non quello che comunemente si chiama così in Italia e che tutti hanno a ventidue anni, e per cui si scrivono odi libere d'ogni legge grammaticale, novelle senza soggetto e tentativi di commedie senza intreccio. Un ingegno vero, pulito, lucido, preciso, qualche cosa che rassomigliasse naturalmente all'acciaio. Nessuna morbosità nella sua intelligenza, nessuna nervosità malaticcia nella fantasia: una sanità austera e franca, una robustezza quasi muscolare nella sostanza e nella forma. Egli ammirava tutti gli scrittori il cui ingegno, per cause misteriose, quasi sempre fisiologiche, diventa una malattia; egli era pieno d'entusiasmo per le visioni paurose, lugubri, sanguinanti, desolanti, che escono dai cervelli alcoolizzati per l'amore, per l'acquavite o per l'arte. Ma era l'ammirazione di contrasto, di opposizione, quella che l'avversario dà all'avversario, il saluto di scherma, l'omaggio di giustizia reso al nemico. Poichè egli era sano di mente e sano di corpo.

Così la sua qualità più alta era l'osservazione. Questo giovanotto allegro e spensierato, che respirava l'aria ed i profumi dalle nari frementi, che aveva la distrazione della gaiezza che passava da un piacere ad un altro, da una impressione ad un'altra con una rapidità giovanile, aveva il senso o l'intuito dell'osservazione. Quando scriveva, pareva che ricordasse scene vissute o paesaggi visti. Nulla di fantastico, nulla di creato, nulla che rassomigliasse ad uno sforzo d'immaginazione. L'arte sua era potente, nella verità e nella espressione. Ma non vi era poesia in quello che scriveva.

Eppure questo Paolo Spada era il più grande sognatore che io abbia mai conosciuto. Egli sapeva le segrete voluttà di quelle ore solitarie, passate sopra una poltrona, lungo disteso, contemplando il soffitto bianco su cui è dipinta una corona di rose. Sapeva le ondulazioni molli di quelle lente passeggiate per la casa, innanzi ad un quadro, ad un ritratto, presso il caminetto, dietro i vetri del balcone. Sapeva il segreto di quelle passeggiate concitate, su e giù per le stanze, la testa china, i pugni stretti nelle tasche, senza veder nulla, urtando nei mobili, dicendo qualche parola ad alta voce. In quelle ore la sua porta era chiusa: nè amico, nè donna, potevano entrare. Egli sognava! ed era un sogno così poco vago, così poco fluttuante, così vivo, così vero, così afferrabile che quasi stendeva le mani per pigliarlo. Tutti i contorni di un sogno erano definiti, precisi, con una nettezza di linee quasi troppo forte, con un risalto energico sul fondo. Il paesaggio gli si rivelava nelle parti più intime, nei recessi più oscuri, nelle vastità più sconfinate; egli lo vedeva come in un quadro, meglio che in un quadro, come è la natura. La scena della novella egli la vedeva svolgersi innanzi ai suoi occhi, coi personaggi che discorrevano, agivano, si muovevano, si abbracciavano, si uccidevano, meglio che sul palco scenico, come nella vita. Egli palpitava, fremeva, non osava muoversi, non osava respirare; era commosso, febbricitante innanzi al suo sogno che era vita.

Ma dove il suo sogno arrivava al suo più alto punto di sogno e di realtà, era nella creazione dei personaggi. Egli li vedeva; gli apparivano, non come fantasmi, ma come persone vive, lo guardavano, gli parlavano, vivevano con lui, col viso che lui aveva dato loro, con quel corpo, con quei vestiti, con quello sguardo, con quella voce. Le donne specialmente. Venivano a trovarlo, nelle sue ore di sogno, fanciulle castane, dagli occhi pieni di luce e di bontà, dai sorrisi semplici, donnine bionde e delicate, dalle movenze aggraziate, dalle labbra di carminio, donne brune e splendide, dagli occhioni di baiadera, dalle bocche provocanti e voluttuose, verginelle pallide e mistiche, dai volti esangui e dai corpi magri, peccatrici dagli occhi tinti e dalle guance biaccose. Venivano nei loro abiti di raso, di lana, di broccato, di cenci, di teletta, di trine, tutte sfolgoranti di bellezza, sorridenti di bontà, traspiranti malinconia, emanando il profumo del cielo o il profumo della colpa. Esse venivano a lui, sedevano, gli narravano la propria vita, piangevano, ridevano appoggiavano il capo sulle sue ginocchia, canticchiavano una canzoncina, mormoravano dei versi pieni di dolore, suonavano sopra l'arpa una tarantella, sfogliavano dei fiori, poi, come Ophelia, partivano per ritornare. Lui le conosceva, le chiamava per nome, sapeva la loro vita, Qualcuna, la più stranamente bella, la più misteriosamente incantatrice, la più gaia o la più triste, lo abbracciava e lo baciava, lievemente, sulla fronte, poichè egli l'amava.

Il suo primo libro di novelle, tutte inedite, che egli non aveva voluto pubblicare prima pei giornali come è l'uso, fecero grande rumore e sollevarono molte discussioni. Nessuno però poteva negare la potenza dello scrittore, la forte virilità dell'arte sua, la purezza e la semplicità dei mezzi artistici. Come in tutti i primi libri, vi era un rigoglio d'idee, un bosco folto ed intralciato, tutto cespugli, tutto farre, una condensazione di pensiero nutrita, polposa. Come in tutti i primi libri, tutti i difetti di forma erano salvati dall'impeto che trascina via tutto, dal calore che si comunica al lettore. Questo libro robusto e virginale ebbe per sè il pubblico. Pure verso la fine di ogni novella si notava nello scrittore, e si comunicava al lettore, un senso di malessere, come un imbarazzo penoso, come un pensiero latente che arriva a distrarre dai pensieri attivi. Poi le novelle finivano, come troncate, senza conclusione, quasi gettate via con disdegno. Una specialmente, sovra una monachella innamorata, terminava così bruscamente, così male, che la critica nemica la notò come un difetto serio. La critica amica rispose che quella era sprezzatura artistica--e parve a molti così e tutti si tranquillarono, aspettando il primo romanzo di Paolo Spada.

Fu invece un racconto di cent'ottanta pagine, interessante, acuto, scritto con una profonda coscienza di novelliere. Mai s'era vista unita tanta intensità e tanta leggiadria. Era un'opera pensata, ma fresca. Verso il penultimo capitolo tutte queste qualità si perdevano miseramente, svanivano. Regnava l'impaccio di un principiante che non sa come liberarsi; nell'ultimo capitolo la protagonista doveva assolutamente morire: invece, non si sa come, non si sa perchè, non moriva, stava bene e si sposava un personaggio qualunque. Era una volgarità indegna di un artista. Dopo molte lodi al principio del racconto, tutti biasimarono vivamente la fine.

Ma dopo fu sempre così nei romanzi di Paolo Spada: le sue protagoniste belle, buone, cattive, umane, simpatiche durante tutto il romanzo, alla fine diventavano triviali e ridicole. Colei che si suicidava, non sapeva suicidarsi abbastanza bene per morirne; quella che era distrutta da una tisi al terzo grado, trovava una medicina miracolosa che la salvava, e sposava il medico; quella che era presa dalla meningite, faceva una cura violenta di chinino e si guariva; quella che per un amor tradito era ridotta all'ultima disperazione ed al desiderio della morte, si consolava senza una ragiono al mondo, borghesemente. Qualcuna poi, come nelle prime novelle, scompariva improvvisamente e non se ne aveva più notizia. Così un intiero e spasimante dramma psicologico si risolveva in un matrimonio ed in una scampagnata. Così tutta l'opera d'arte era guastata, rovinata da quella fine illogica, assurda, borghese. Così quel tratto finale in cui tutta la valentìa dell'artista era perduta, perdeva il libro. Fu detto di lui che era debole, che il suo ingegno aveva dei lucidi intervalli, con alternative di tenebra. Fu detto di lui che sapeva cominciare i suoi libri, ma non finirli. La leggenda rimase. E la reputazione di romanziere di Paolo Spada si smarrì fra le infinite mediocrità che affliggono l'arte.

Io seppi il suo segreto. Una sera, in un'ora di espansione amichevole, mentre io lo interrogava con gli occhi senza parlare, egli mi narrò, lungamente e con frasi entusiaste, tutto un suo nuovo romanzo. Lo lasciai dire, ammirando quella robusta fisonomia di uomo gagliardo che si rischiarava.

--E la protagonista, come finisce?--domandai.

Ma mi pentii subito, poichè lo vidi impallidire.

--Non so,--rispose vagamente,--non so.

--Ascolta,--riprese dopo un silenzio penoso,--ascoltami, poichè ti dirò quello che non dissi a nessuno. Ti spiegherò quale è il cruccio della mia esistenza; quale è la rovina del mio ideale d'artista. Senti. Per me il sogno di quello che scrivo, è così vero che è come la vita. Attorno a me i miei eroi esistono. In me, con me, per me, esistono le mie donne. Io le evoco, esse vengono. Le ho create io, sono vita mia, forma mia, mi appartengono, mi vogliono bene, lo le amo senza confine, senza misura, con la più cieca passione, io le amo. La mia innamorata non è Rosina che tu conosci, è Fulvia di cui io sono il creatore ed io l'amante. Fulvia figura ideale, più donna per me di Rosina. Io scrivo la loro storia, preso da una emozione che mi affoga, come se narrassi la vita dell'essere che adoro. Scrivo, scrivo, felice, entusiasmato di far sapere al pubblico la loro bellezza ed il loro amore, esaltato all'idea che queste divine creature faranno palpitare altri cuori. Altri come me le ameranno, queste fanciulle celestiali ed amorose, queste donne passionate. Io provo il piacere più profondo che sia dato provare allo spirito umano. Ma quando la loro vita declina, un'angoscia sottile mi vince; io le amo, non posso vederle declinare; quando sono prese dalla malattia per cui debbono morire, io le amo e mi lascio invadere dalla malinconia; quando esse precipitano alla catastrofe in cui debbono perire, io sono assalito dalla disperazione, perchè le amo. Poi, dovrebbero morire, mentre io le amo. Io, che le amo, dovrei ucciderle. Brevemente o lungamente dovrei descrivere la loro agonia e poi ammazzarle. Non posso. Il cuore mi si strazia e non posso. Mi par di uccidere, a tradimento, una persona viva e sana; mi pare di affogare, in un cantuccio oscuro, una donna senza difesa: mi pare di scannare, di notte, un bambino. Non posso ucciderle. Perchè dovrei uccidere l'amante che è bella, che è buona, che non m'ha tradito? Io non posso. Ho orrore di me e non posso. Aspetto, penso, rifletto, mi torturo. L'arte mi dice: Fulvia deve morire. Ed io le grido, piangendo: Non voglio che essa muoia! L'arte mi dice: Uccidila. Ed io mi consumo di dolore, gridando: Non posso, perchè l'amo. Io aspetto: aspettazione tormentosa. Nulla appare. Allora io salvo la mia creatura agonizzante nel modo meno artistico, più volgare che sia. Ella vive, io moro. Non è ridicolo ciò? Ma è straziante. Queste adorate figure che io non so uccidere, uccidono in me tutto: la felicità e la gloria. Io muoio della loro vita.

Sulla Tomba.

Quel pittore singolare faceva dei singolari quadri. Il suo grande pregio era l'energia del concetto vivamente spiegato nella forza del colore. Non piacevano a tutti i suoi quadri; specialmente a coloro che si compiacciono dei lavori leccati, verniciati e dipinti sino all'ultima linea; specialmente non piacevano ai cultori delle figure eleganti e pallide da acquarello, a quelli che vanno in estasi dinanzi ai toni delicati di una oleografia. Coloro che avevano questi gusti graziosi, gentili e meschini, trovavano i suoi quadri duri, troppo forti, troppo pieni di cose: vi si respirava un'aria troppo carica di ossigeno pei loro deboli polmoni. I paesaggi del pittore erano sempre contorti e violenti, dalle linee spezzate; i suoi Tramonti erano tragici, quasi un carattere di passione si mettesse nel sangue aggrumato del sole senza raggi. I suoi Interni erano cupi, un fondo unito, senza concessioni di forma, senza lenocinii d'artista poco coscenzioso che mette più in luce un seggiolone intagliato, un grande caminetto che le figure del suo quadro. Gli si addebitava anche una certa sprezzatura del disegno, un bizzarro modo di contorcere lo scorcio dei suoi personaggi, una ricerca dei soggetti gravi, e che fanno pensare. I suoi quadri avevano carattere.

Il pittore era ancora giovane e robusto, malgrado otto o dieci anni di travaglio continuo per farsi accettare in questa società in cui pare che non tutti godano il diritto di vivere. Egli non aveva fatto che lavorare, lavorare sempre, ed il successo era venuto lentamente, ma era venuto. Aveva trentasei anni, ed era alto, fortissimo, con una testa poderosa e leonina, un po' rigida di contorni, con certe spalle erculee che reggevano ad ogni fatica. Quando la foga del dipingere se lo prendeva, allora rimaneva dodici ore in piedi, innanzi al cavalletto, senza provare un minuto di stanchezza, senza impallidire. Per ritrovare un paesaggio camminava per ore ed ore, inerpicandosi sulle roccie, scendendo nei burroni, salendo sugli alberi, scavalcando muri, nell'idea ostinata di vedere quello che doveva dipingere. Era costante, tenace, ferreo nella sua volontà.

A trent'anni aveva sposato una creatura piccola, bianca, snella e bionda, quasi una bambina, tanto era gentilina, tutta graziette, tutta soavità. In realtà, lui non avrebbe osato chiedere quella poesia bionda e delicata, lui rude e colossale pittore. Gli pareva quasi di dovere spezzare quel fiorellino gracile. Ma lei lo avvinse così bene con le sue arie infantili e i trilli da uccellino della sua voce che lui ardì chiederla. Gliela dettero. Era già un pittore eccellente, la critica si occupava seriamente di lui, i suoi quadri si vendevano subito, non ad un altissimo prezzo, ma tanto da procurargli una bella agiatezza. Lui si sposò il suo bottoncino d'oro.

Egli era felicissimo in casa, poichè Bianca, la moglie, gliela faceva trovare elegante, profumata dai fiori, ben calda l'inverno, ben fresca l'estate: poichè egli nulla sapeva dell'amministrazione, delle seccature mortali che affliggono la mente di un artista. Ma l'amore, il profondo ed unico amore della sua vita era quella giovanetta svelta che girava per la casa con la sua testa luminosa, coi grandi occhi sereni ed innocenti. Lui l'amava come un amante, come un marito, come un fratello, con un amore fatto di protezione e di adorazione.

Non si sa se lei avesse o no amato mai il pittore. Lo aveva sposato. Tutte le lodi date al suo grand'artista l'avevano esaltata forse sino all'amore; ma, dopo il matrimonio, ci si era abituata e le venivano indifferenti. Naturalmente, come moltissime donne, non comprendeva punto l'arte. Le sembrava una cosa di lusso ed inutile. Quando vedeva il marito pensieroso, agitato, lei si stringeva nelle spalle con un piccolo atto di disdegno. Lei comprendeva che i quadri davano denaro, ma le parevano un po' folli coloro che li compravano. Quando il marito le narrava un progetto di un quadro, lei ascoltava, nascondendo uno sbadiglio dietro la manina. In ultimo, in mezzo all'entusiasmo dell'artista creatore ella gettava queste domande inquiete:

--Credi che piacerà? E si venderà poi?

Lui si sgomentava. Sua moglie non capiva, ma egli l'adorava. Quando comprese che la seccava, narrandole le sue idee, non gliene parlò più. Si tenne per sè i suoi sogni. Lei sola, a casa cominciava ad annoiarsi. Voleva uscire; lui non poteva accompagnarla. Orribilmente e taciturnamente geloso, la lasciò uscire sola. Fremeva dinanzi al quadro che dipingeva, pensando a coloro che nella via guardavano sua moglie, le dicevano qualche parolina di complimento, la seguivano forse. Sulla tela, la sprazzata del colore diventava efficace e passionata; ma in casa egli non domandava nulla, non faceva rimostranze. Le permise di avere il suo giorno di ricevimento, come una gran dama; cioè il permesso se lo prese lei, senza chiederlo. Lui vi faceva delle rapide comparse, un po' distratto, impacciato. Lei, in collera per vedergli la cravatta di traverso o le mani tinte di colore, mormorava, scuotendo la sua soave testolina bionda:

--Questi artisti!

Poi la condusse anche al ballo. Lui ci si trovava disorientato, con le sue spalle quadrate che sformavano la marsina, con la sua seria figura su cui erano così scarsi i sorrisi. Lei restava sino all'alba, ballando come solo le donnine gracili e delicate possono ballare. Lui la vedeva passare dalle braccia di un elegante sciocco a quelle di un brutto e cattivo soggetto, piena di buonumore, prodigando il suo spirito ed i suoi vezzi ad una folla di indifferenti; ma non le diceva nulla, molto felice quando poteva ravvolgerla nel bianco mantello ornato di piume e portarsela. In carrozza lei sbadigliava, sonnecchiando. Se il marito le dava un bacio timido e leggiero, lei rimaneva immobile, fingendo non averlo inteso, per non renderlo. Sulle prime lei era andata ogni tanto a fargli una gaia sorpresa allo studio, e lui era beato di queste visite che gli irradiavano d'amore quello stanzone un po' cupo: ma la scala era alta, lei si stancava, non andò più. Erano tanto lente le lunghe ore del lavoro; lei non veniva mai a farle parere più brevi. Quell'uomo fortissimo, quel grande artista, curvava il capo e pensava.

Un giorno o l'altro, non si sa bene quale, la moglie del pittore prese un amante. Era quasi sempre sola, disoccupata, trascurata per quei quattro palmi di tela dipinta--diceva lei. Poi questi grandi artisti non sono nati per essere buoni mariti--soggiungeva lei. E lo tradiva tranquillamente. L'amante veniva in casa, come tanti altri, sedeva al desco di famiglia, s'interessava alle cose di casa. Il marito non aveva sospetti. Stringeva la mano amichevolmente di colui che gli rubava la moglie. Tutti lo sapevano, fuorchè lui. È la regola; è nell'ordine delle cose. Lui, veramente solitario, veramente abbandonato, d'istinto dipingeva quadri stupendi. Uno anzi, bellissimo, lo comprò l'amante per dodicimila franchi. Questa vergogna si seppe; solo il marito non la seppe. Quando il marito parlava della bontà del suo quadro, la moglie sorrideva stranamente, quasi volesse dire:

--Se Carlo non mi amasse, non avrebbe comperata mai la sua tela dipinta.

Poi, il marito cominciò ad accorgersi di qualche cosa. La moglie usciva ad ore indebite. Era stata vista entrare in una casa dove Carlo, l'amante, aveva una zia. Il marito, malgrado la sua cieca fiducia, fu scosso. Ne parlò a sua moglie. Lei gli rispose alteramente. Gli disse che non tollerava osservazioni. Egli tacque. Un'altra volta, come crescevano i sospetti, ella gli rispose piangendo. Egli tacque. Finalmente quando il sospetto tremolava sulla soglia della certezza, ella non gli rispose che questo: Se continui ad ingiuriarmi, ti lascio per sempre, non mi vedrai più. Egli tacque. Mai più, mai più su questo soggetto fu detta una parola fra loro. Egli temeva troppo vederla andar via.

Fu allora che egli fece il suo maggior quadro di Paolo e Francesca. La scena è bruna, è una stanza tappezzata di cordovano oscuro, senza ornamenti, senza galanterie di tavole scolpite o di finestre binate. Un lettuccio di velluto nero è in mezzo al quadro. Sul lettuccio distesa, morta, con la faccia bianca e sorridente, che fa macchia sul velluto nero, con le mani raggrinchiate, giace Francesca. Stramazzato a terra, bianco, morto, con le spalle appoggiate al lettuccio, con la testa vicina a quella di Francesca, è Paolo. Vi è sangue sulla veste di Francesca, sangue sul giustacuore di Paolo, una pozza di sangue per terra. Le due teste, ravvicinate, pare che si bacino ancora. Lanciotto non vi è, ma è dappertutto. Quell'assenza è di un effetto artistico eccezionale. Tutto è sobrio, tutto è severo, tutto è tragico, anche il bacio, specialmente il bacio. Nessuna mimica, nessuna coreografia. Aleggia nel quadro una fatalità greca, eschiliana.

Era la migliore sua opera. Il pubblico andò in estasi per l'artista; la moglie sorrise, guardò bene, le piacque l'abito di Francesca e non altro. Il pittore manifestò l'intenzione di non vendere il quadro. Ma la volontà della moglie era che si vendesse. E fu venduto.

Nello stesso anno il pittore morì di una malattia di languore, come ne muoiono gli uomini troppo robusti.

Ieri l'altro sono passato presso la sua tomba. Un monumento candido, nuovo, carico di corone. Sulla pietra, in versetti addolorati, due nomi, due persone si dolgono ancora dell'immatura morte. E sono la moglie e l'amante--e il tradimento è ancora là, scritto nel marmo, sotto la luce del sole, sotto i cieli azzurri, tra i fiori; il tradimento pomposo e sfacciato è sulle ossa dell'artista.

La Settimana delle Novelle.
(ANNIVERSARIO)

Francesco II, Francischiello, aveva data l'amnistia: gli emigrati napoletani, a cui l'esilio era duplice dolore, ritornavano in patria, incerti, dubbiosi della parola malfida di questo Borbone, ma vinti da una irresistibile nostalgia. Il quindici di agosto, giorno dell'Assunzione, era tornato in Napoli un emigrato di Terra di Lavoro, partito studente, nel quarantotto; e da paesi assai lontani portava seco la moglie giovane, straniera e una figliuolina di quattro anni. Ora, a Napoli, egli prevedeva rivolgimenti, tumulti e sangue; e pensò a mettere in sicuro la moglie e la bambina. Così le condusse in Terra di Lavoro, a Ventaroli, nella casa paterna, le raccomandò ai suoi parenti e ripartì per Napoli.

Nè voi troverete Ventaroli sulla carta geografica: Ventaroli è anche meno di un villaggio, è un piccoletto borgo sulla collina, più vicino a Sparanise che a Gaeta. Vi sono duecentocinquantasei anime, tre case di signori, una chiesa tutta bianca e un cimitero tutto verde: vi è un gobbo idiota, una vecchia pazza e un eremita in una cappelluccia, nella campagna: il nome del paese è inciso grossolanamente sopra una pietra: i protettori sono i SS. Filippo e Giacomo, la cui festa ricorre ai due di maggio: la protettrice è la Madonna della Libera, che sta nella cappelluccia dell'eremita. A Ventaroli ci si alza alle sei del mattino, si mangia a mezzogiorno, si dorme, si passeggia, si cena alle sette e si ridorme alle otto. Alla mattina vi è la messa; alla sera il vespro e il rosario. Verso l'imbrunire è un gran grugnito di maialetti che ritornano dal pascolo; e un mormorio di voci umane, strilli di donna e pianti di fanciullietti. Il parroco, don Ottaviano, uomo bruno e segaligno, era propriamente cugino dell'esiliato, e capo della prima famiglia del paese.

Ora, dopo tre giorni, la fortezza di Capua si chiuse e le comunicazioni fra Napoli e la Terra di Lavoro furono interrotte. L'emigrato non seppe più nulla della sua famiglia; e la moglie con la figliuolina restarono nel villaggio, straniere, parlanti male l'italiano, fra parenti non malevoli ma rustici. A Ventaroli arrivavano notizie vaghe, paurose: si avanzavano i Garibaldini, si avanzavano i Piemontesi, ma le truppe borboniche tenevano tutta la campagna. Il parroco, che era anche consigliere comunale, cominciò a intimidirsi; la moglie dell'emigrato, sua cognata, la dama straniera, Cariclea, dovette dargli coraggio, ogni sera, nelle conversazioni dopo cena; ma ogni mattina ricominciavano i terrori di don Ottaviano. Né aveva torto: verso i venti di settembre s'intese nella valle un gran rumore di trombe, di cavalli, di soldati, e un distaccamento di Svizzeri venne ad accamparsi in Ventaroli. Nel cortile dell'unico palazzo, quello di don Ottaviano, accamparono duecento fra soldati e ufficiali.

Furono ospiti terribili. Gli ufficiali svizzeri erano buoni e cortesi, assuefatti oramai alla dolcezza della vita napoletana, avendo lasciato a Napoli casa, famiglia, figliuoli, amici; addolorati di quella guerra che sentivano inutile, addolorati per quella causa che sentivano perduta: ma i soldati non tolleravano più freno di disciplina, erano diventati ribelli a ogni ordine, si abbandonavano alla ubbriachezza, al gioco. Dopo tre giorni avevan consumato tutto il vino, tutto l'olio, tutta la farina di don Ottaviano: e chiedevano ancora, insolentemente, bastonando i contadini, sgozzando le galline. Le vecchie zie, le donne antiche di casa stavano chiuse nello stanzone di famiglia; tacevano, non osando neppure di filare, pregando mentalmente. Le serve erano in cucina, intorno a certi caldaioni dove cuocevano i maccheroni, che non bastavano mai. Tutta la notte era un cantare, un urlare, un litigare: don Ottaviano, chiuso nella sua stanzetta, leggeva ad alta voce i salmi penitenziali, per quietarsi o per stordirsi, ma non poteva dormire, il poveretto. Ma la più forte, sebbene la più minacciata, era la signora Cariclea, la moglie dell'emigrato. Lo sapevano bene, i soldati, che era la moglie di un cospiratore, di un nemico, di uno che aveva tolto Napoli a Francischiello, e ogni volta che ella compariva sulla terrazza o attraversava il cortile, vi era un mormorìo crescente di ostilità. Ella passava, quieta, serena, come se niente fosse, e parea non udisse che la chiamavano moglie di brigante, moglie di assassino. Se ne lagnava, ella, con qualche ufficiale, specialmente con un maggiore, alto, biondo, robusto, un colosso:

--Signora mia.--le diceva costui, in francese--io non so che farvi. Badate alla vostra vita, io non posso garantirvela. Non garantisco neppure la mia.

Ella non temeva per sè, temeva per la sua creaturina. La bimba aveva un cappellino rotondo, chiamato allora alla Garibaldi, con un pompon tricolore: e la bimba voleva portarlo sempre, questo pericoloso cappellino. Quando i soldati la vedevano passare, tutta fiera di quel pomo di seta tricolore, era come una rivolta:

--Tagliamogli la testa, a questa razza di briganti, tagliamo la testa di questa creatura, così imparerà a portare il pomo tricolore!

La madre tirava un poco a sè la bambina e fingeva di sorridere, e quando era sola, in camera sua, soltanto allora, abbracciava la bimba, con una stretta frenetica. Don Ottaviano urlava:

--Ci farete ammazzar tutti, con quel vostro pomo tricolore!

Ma la bimba non voleva lasciarlo, gridava, gridava, glielo aveva dato il suo papà, quel cappellino col pomo tricolore. Infine, i viveri cominciando a mancare, i soldati diventarono più rabbiosi e chiesero quattrini: il maggiore portò la imbasciata a don Ottaviano. Costui un giorno dette ai soldati trenta ducati messi da parte per le feste di Natale: ma di notte, aiutato dalla cognata donna Cariclea, dalla zia Rachele e dalla serva Ottavia, seppellì, in un angolo dell'orto, il tesoro della Madonna, collane di oro, anelli, orecchini, ex-voto di argento, pissidi, calici, candelabri, altri arredi sacri. L'altare familiare, che era nel grande salone di famiglia, dedicato alla Vergine, restò spoglio di ogni ornamento. Il seppellimento fu fatto misteriosamente:

--Benedetto, benedetto--diceva don Ottaviano, baciando piamente ogni arnese sacro, prima di sotterrarlo. E singhiozzava, il povero prete.

Poi dette ai soldati altri venti ducati, che erano una dote da estrarsi, il primo di novembre, per far maritare una zitella del paese: ma non bastarono. Donna Cariclea dette loro venti marenghi d'oro che il marito le aveva lasciati: ma non bastarono. Zia Rachele dette a questi svizzeri furiosi quindici ducati di economie fatte, in molti anni, a grano a grano: ma non bastarono. Ottavia, la serva, aveva diciotto carlini: li dette. In breve, nel palazzo non ci fu più un soldo, nè un pizzico di farina, nè una goccia di vino. Gli ufficiali svizzeri si vergognavano: specialmente il maggiore, che era una persona assai gentile, chinava il capo, offeso nel suo orgoglio di militare. Ora i soldati volevano il tesoro della Madonna: lo volevano giuocare a carte.

--La Madonna non ha tesoro--diceva don Ottaviano.--Ditelo voi, donna Cariclea.

--La Madonna non ha tesoro--ripeteva la coraggiosa signora.

Il maggiore andava e veniva, parlamentando fra i soldati e la famiglia.

--Se non ci dànno il tesoro, ammazziamo la bimba--mandavano a dire i soldati.

--Raccomandiamoci alla Vergine, cognata mia--mormorava il prete.

Così, prevedendo imminente la morte, tutta la famiglia si raccolse nello stanzone, innanzi all'altare denudato, e si mise a pregare. Don Ottaviano aveva vestito i paramenti sacri, e stava inginocchiato sui gradini dell'altare. Era una settimana, dieci giorni di accampamento: nessuna notizia, nessun soccorso. Ora, l'umore degli Svizzeri era cambiato. Chiedevano un banchetto; volevano che nel cortile s'imbandisse una grande mensa, volevano li gnocchi, se no, mettevano fuoco alla casa. Il parroco giurava di non aver nulla, nulla da dare, neppure un tozzo di pane: il maggiore con le lagrime agli occhi lo scongiurava, che cercasse, che mandasse, per pietà della vita di tutte quelle donne, vecchie e giovani. Furono spediti corrieri a Carinola, a Casale, a Cascano, per trovar farina. Ma intanto i soldati andarono nella legnaia, ne cavarono fuori tutte le fascine e le disposero attorno alle mura del palazzo. I corrieri che erano andati per farina tardavano assai: forse erano stati arrestati, forse erano morti. Un mormorìo crescente saliva dal grande cortile. Nel salone le donne dicevano le litanie, salmodiando. L'ora passava, lenta.

--Se fra dieci minuti non arriva il corriere con la farina, i soldati dànno fuoco--venne a dire il maggiore.

--Non potete fare più nulla per noi?--chiese donna Cariclea.

--Più nulla, signora.

--Portar via questa piccolina? Io non mi dolgo di morire: vorrei salvare la bimba.

--Mi ucciderebbero con lei, signora,

--Che Dio ci assista dunque--mormorò donna Clariclea.

E Dio li assistette. Un corriere da Cascano ritornò. Portava farina: poca, insufficiente, ma ne portava. Così le serve lasciaron di pregare e scesero in cucina, a fare gli gnocchi per i soldati. Ma i soldati non vollero togliere le fascine: e la morte parve solo ritardata di qualche ora: si capiva che dopo il banchetto i soldati sarebbero diventati più feroci: non avrebbero conosciuto più ragione. Essi, nel cortile, tumultuavano: le povere serve, in cucina, manipolavano la pasta, instupidite: su, nello stanzone, il parroco aveva confessato e dato l'assoluzione a tutti i suoi parenti. La piccolina di donna Cariclea spalancava gli occhi, spaventata: ma non piangeva.

A un tratto, il pesante martello del portone risuonò, tre volte, sonoramente. Un silenzio profondo. Ma nessuno aprì. Tre altri colpi: e il battito del piede ferrato di un cavallo risuonò, innanzi al portone.

--Chi va là?--chiese la sentinella, senz'aprire.

--Viva Francesco II!--gridò una voce affannosa.

--Viva, viva!--urlarono i soldati.

Era una staffetta: un soldato pallido e grondante sudore. Chiese del colonnello, del maggiore, di un capo: non aveva che due parole da dirgli. Il maggiore alto e biondo, il colosseo affettuoso e fiero, accorse: la staffetta si rizzò, gli parlò all'orecchio. Il maggiore restò imperterrito, assentì col capo: la staffetta ripartì, precipitosamente. Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul cortile, fece suonare la tromba, due volte:

--Soldati--disse, con voce tonante--abbiamo innanzi a noi Garibaldi, alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva Francesco II!

--Viva--disse qualche voce.

E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti, molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili: e il maggior loro dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non poter mangiare gli gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli ufficiali andavano, venivano, gridavano: ma inutilmente.

--Consolatevi, signora--disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel salone--ora vengono i Garibaldini.

Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava. Il parroco non levava la testa.

--Addio, signora, non ci vedremo più--disse il maggiore.--Noi andiamo alla morte.

E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati, marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia: dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti, taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto, devastato: per un'ora tutti tacquero, innanzi all'altare, subendo ancora l'incubo di quell'assedio.

--Ora vengono i Garibaldini--disse, a un tratto, la bambina.

E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con le scarpe rotte, stanchi, sfiniti: volevano bere, volevano mangiare, non ne potevano più.

--Che daremo loro?--diceva don Ottaviano, disperandosi.

I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una quarantina, estenuati: avevano trovato la devastazione dappertutto. Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo, parlamentava con donna Cariclea e col parroco: e era inutile, non vi era nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile: i Garibaldini avevano scoperto la cucina e il caldaione degli gnocchi.

--Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate! Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo!

Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse:

--Viva Garibaldi!

La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su, in trionfo, ella strillava sempre. La madre piangeva.

Il cannoneggiamento cominciò alle tre del pomeriggio. Ventaroli è sulla collina, l'eco dei cannoni vi si ripercuoteva fortemente. Donna Cariclea era salita sopra una torricella, donde si vedeva tutta la valle: ma nulla si scorgeva. Dove si battevano? Con che esito? Era impossibile saper nulla, I quaranta Garibaldini erano andati via, allegramente, dopo aver pranzato, coi loro scarponi rotti, coi loro vecchi fucili: e tutte le case di Ventaroli si erano chiuse, i portoni erano sbarrati. Quando cominciò il cannone, Pasqualina Cresce, che aveva paura dei tuoni, si era ficcata col capo sotto i cuscini; il vecchio Nicola Bonelli, che era stato al fuoco, tendeva l'orecchio per sentire onde venisse: e la sorella dell'emigrato, Rosina, una fiera donna, era venuta nello stanzone e aveva accese due altre candele alla Vergine, per conto suo, perchè vincessero i Garibaldini. Donna Cariclea fremeva: invano aguzzava gli occhi, sulla torricella, ma non un'anima passava nella valle, non un carro, non un contadino, un deserto, un paese morto. Il cannone si arrestava, talvolta, per cinque minuti, ma dopo riprendeva con più vigore. Stette tre ore, lassù, sino all'imbrunire. E sempre il cannone: talvolta allegro, talvolta lungo e lugubre. Poi tacque. Era notte. Nessuna notizia. Era perduta o salvata la patria?

Ma don Ottaviano, le vecchie zie, le giovani spose, le serve erano stanche di quella tremenda giornata; e malgrado il terrore dell'indomani, malgrado la suprema incertezza, che era anche un supremo pericolo, andarono a dormire. Donna Cariclea si ritirò nella sua stanzuccia, che era proprio sopra l'arco del portone. Aveva appena appena congiunte le mani della piccolina per la preghiera della sera, quando, nel silenzio profondo del villaggio, si udì un galoppo di cavallo: veniva verso la casa. E subito dopo un fievole colpo di martello risuonò. Donna Cariclea trasalì. Che doveva fare? Si affacciò senza far rumore alla finestra: nell'ombra si vedeva un cavallo e un cavaliere, ma non si distingueva altro. Erano immobili, aspettavano. Ma passò qualche minuto: il cavaliere non suonò di nuovo, aspettando, pazientemente.

--Chi sarà mai?--pensava donna Cariclea, tutta trepidante.

E richiuse la finestra, senza far rumore. Ma quel cavaliere, là, innanzi al portone, nella notte, le dava tormento. Riaprì, domandò, sottovoce:

--Chi è?

--Sono io--disse una nota voce.

--Voi, maggiore?

--Aprite, signora, per carità!

Ella prese un lume, attraversò due o tre stanze, scese por le scale, andò a tirare i grossi catenacci. Silenziosamente, il maggiore era disceso da cavallo e se lo trasse dietro, nel cortile: lo legò a un anello di ferro. La signora andava innanzi e il maggiore dietro: quando furono nella stanzetta, il maggiore le fece cenno di chiudere la porta, a chiave. La bimba, già a letto, guardava tutto questo con un par d'occhioni spaventati.

--Signora--disse il maggiore--io sono nelle vostre mani.

Ella lo guardò, sgomenta. L'ufficiale svizzero era in uniforme, tutto gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul petto.

--Che avete fatto?--chiese ella, duramente.

--Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore: due ore siamo stati nascosti in una macchia, il mio cavallo e io.

--Non avete preso parte alla battaglia?

--No, signora, vi dico che sono scappato.

--E perchè?--chiese ella a quel colosso.

--Perchè avevo paura--disse lui, semplicemente.

--Oh!--fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo.

--Avete ragione--disse lui, umilmente.--Ma la paura non si vince: sono fuggito.

--Non vi vergognate, non vi vergognate?--chiese ella, tremando di emozione.

Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia, grande corpo accasciato dalla viltà.

--E i vostri soldati?

--Chissà!--disse il maggiore, levando le spalle.

--Chi ha vinto, dunque?

--Non lo so. Avranno vinto gli Italiani, forse.

--E siete fuggito?

--Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m'importa della battaglia? Voi dovete salvarmi, signora.

--Io?

--Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho famiglia, io: ho figli io, che me ne importa di Francesco II? Salvatemi, signora, ve ne scongiuro.

--E perchè dovrei farlo?

--Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una figlia.... e capite...

--Siete un nemico, voi.

--V'ingannate, sono un disertore.

--Ebbene?

--Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se mi trovano i vostri, sono un nemico, e mi fucilano: se mi trovano i Borbonici, sono un disertore, e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di salvarmi.

--Se rientrate a Napoli, vi fucileranno.

--Garibaldi è buono--disse umilmente il maggiore svizzero.

--È una vergogna--ripetette lei, duramente.

--Lo so: ma che posso farci? Salvatemi voi.

--Stamane avreste lasciato morire la mia bambina.

--Che potevo fare?

--Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete, dunque?

--O signora mia, per carità, non ne parliamo: se avete viscere di madre, trovatemi un mezzo per fuggire.

--Io non ne ho.

--Lasciatemi stare qua, in questa stanza.

--Se vi ci trovano, siamo perduti tutti.

--È vero--disse lui, dolorosamente.

La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre, ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano. Egli era immerso nel più profondo avvilimento: ella era combattuta da tanti sentimenti diversi.

--Ho anch'io un bimbo di questa età--mormorò il maggiore.--Non lo vedrò più, forse.

--Aspettatemi qui--disse donna Cariclea, decidendosi.

E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come un'ombra, ritornò. Portava un involto di panni:

--Smorzerò il lume--disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di donna--toglietevi l'uniforme e mettete questi abiti.

Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume: il maggiore era vestito da contadino e l'uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava tutto umile, tutto contrito.

--Bisogna nascondere quest'uniforme e questa spada--disse lui:--trovandosi, sareste perduta.

--È vero--disse lei.--Spezzate dunque la spada.

Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la buona lama resisteva. Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli robusti, la spezzò.

--Scucite i galloni dall'uniforme--ordinò donna Cariclea.

Pazientemente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella raccolse tutto.

--Andiamo a buttarli via.

Egli la seguì per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero nel cortile: macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell'olio: ella vi buttò l'uniforme disadorno di galloni. Alla fine passando presso un mucchio di letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli andare sotto.

--Dio mio, ti ringrazio!--esclamò il maggiore.--E il cavallo, che facciamo del cavallo? Se lo trovano, siamo perduti.

--È vero--mormorò lui.--Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo.

--Con che?

--Non ho armi, è vero.

Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì: il maggiore fremette di paura. Poi, sciolse le redini dall'anello, trasse il cavallo fuori del portone e richiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col capo contro il legno della porta: ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna.

--Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti--mormorò il disertore.

--Andiamo su--fece lei.

Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava.

--Sentite--disse donna Cariclea.--Io ho svegliato Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto. Voi scenderete per quella scala: siete forte, mi pare?

--Fortissimo.

--Bene. Andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli.

Egli eseguì senz'esitare.

--Bene. Anderete a passar il Garigliano verso Sora; è lontano, ci arriverete in due giorni: a Sora ci è la scafa, passerete il fiume. Di là siete al confine pontificio. Peppino vi lascerà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore.

--Addio, signora.

E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla.

--No--fece la madre opponendosi.

Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone: udì lo scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante: udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei.

--Pensa che questo sia un sogno, Caterina: dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.............................................

Ma Caterina non ha potuto dimenticare.

Delfina.

Sotto la luce concentrata della lampada, la zia Angiolina leggeva: ogni tanto s'interrompeva, scambiava qualche parola con Cecilia e ripigliava la lettura. La stanza rimaneva quasi tutta nell'ombra; non un soffio d'aria entrava dalla finestra aperta, il luglio portava queste serate soffocanti. Sull'ampia tavola, coperta da un tappeto verde, stavano mucchi di biancheria, pile cascanti da tutte le parti, per soverchia altezza. Un grande armadio, in fondo alla parete, era spalancato--nella penombra, appena appena si distinguevano gli scaffali quasi vuoti. Presso la tavola, un cassone largo ed alto, di legno chiaro, col coperchio sollevato, foderato di tela gialla, inghiottiva la biancheria che Cecilia vi riponeva, togliendola dall'armadio, dalla tavola, dalle sedie dove era sparsa. Cecilia andava e veniva, prestamente, svelta sui tacchettini minuti, uscendo, ritornando, senza fermarsi mai.

--Ti stanchi?--chiese zia Angiolina, presa da un rimorso, lasciando il suo romanzo.

--No, no.

--Neppure io mi stancava.... allora....--mormorò la zia, con la sua posa malinconica e la voce strascicata che usava quando parlava di altri tempi.

--O allora, allora, zia, come dovevate essere allegra!

--Allegra... molto. Facevo un matrimonio d'amore.

--Ed io?--esclamò, ridendo, Cecilia--faccio io un matrimonio diplomatico forse? Sono forse la principessa di Schwarzenbourg-Augustenbourg che sposa, senza conoscerlo, il principe di Assia-Darmstadt?

Rideva. La boccuccia rotonda, che difficilmente poteva star chiusa, col labbruccio superiore che si sollevava, era molto bellina nel riso. Ma ella guardò di sbieco verso un balcone che rimaneva nell'ombra, appena un'occhiatina e tacque, come se fosse colta da un pensiero. Ora piazzava le sottane nel cassone, inginocchiata dinanzi ad esso, piegando le sottane in due, disponendone accuratamente le pieghe perchè le balze riccie, i ricami, le trine onde erano guarniti non si sciupassero. Si fermò d'un tratto, sempre inginocchiata, coi due gomiti appoggiati sull'orlo del cassone, la testa fra le pugna chiuse.

--Zia, non abbiamo pensato ad una cosa molto seria. Io ho moltissime sottane corte, non ne ho che sei lunghe; di lunghissime nessuna; e sotto l'abito di broccato rosso che metterò? Se debbo andare ad un ballo, che metterò?

--Infatti... Dio mio, non si penserebbe mai a tutto in questi corredi! Come si fa ora?

Zia e nipote si guardavano, preoccupate, inquiete.

--Se rimettessimo a quest'altra settimana il matrimonio?

--No!--gridò Cecilia, balzando in piedi.--Penso che quest'anno non ballerò, poichè passeremo l'inverno in campagna. Cesare è stanco dei balli; io quindi ne sono stanca...

--Pare un romanzo, Cecilia.

--Siete sempre coi vostri libri, zia. Vi guastate la vita. Vedete, io non ne leggo mai e trovo molto naturale che Cesare mi sposi...

Chinò il capo di nuovo e si mise a disporre le calze nel cassone, uno strato fitto e multicolore su cui il bianco dominava.

--Ci metto dello spigonardo, zia?--domandò Cecilia che non poteva tacere.--Lo spigonardo, dicono, conserva la seta dai tarli.

--Sì, ma è un profumo volgare, Cecilia. Metti dell'ireos. Tu dovresti avere dell'ireos.

--Vado a vedere.

E scappò fuori. Zia Angiolina guardò anch'essa alla sfuggita, verso il balcone. Nel vano oscuro un'ala nera si agitava nervosamente; era un grande ventaglio. Zia Angiolina sospirò, osservò accuratamente le sue mani che aveva conservate morbide e bianche, le trovò di sua soddisfazione, stette lì lì per dire qualche cosa al ventaglio nervoso, ma se ne pentì e non disse nulla.

Cecilia ritornò; era tutta rossa. Portava un grande cespo di rose gialle e certi lunghi rami di gelsomini bianchi rampicanti. Ogni tanto succhiava vivamente l'indice della sinistra che si era dovuta pungere ad una spina.

--Non ho trovato l'ireos,--dichiarò,--sono uscita nel balcone dell'anticamera ed ho spogliato la rosa-tea che era tutta fiorita. Anche i gelsomini erano fioriti, ho strappato un po' i rami, ma che importa? Rinasceranno.

--Che ne farai, di questi fiori?

--Li sfoglierò nel cassone. È buono l'odore dei fiori secchi. Peccato, dovrei avere le gaggie. Hanno un profumo squisito nella biancheria.

Si pose a sfogliare le rose, lasciandone cadere i petali nella cassa, come una pioggia delicata; buttò via gli steli nudi e verdi. Poi sfogliò i gelsomini che le cadevano fra le dita, lievi ed olezzanti. Rimase a guardare l'opera sua, tutta sorridente. Zia Angiolina crollava il capo con la sua grand'aria sentimentale. Che faceva il ventaglio nero, laggiù, nell'oscurità? Si era chiuso, con una discesa secca come una risata sardonica. Cecilia, quasi fosse stata sorpresa in una contemplazione poetica e puerile, arrossì. Stette immobile, lo sguardo vagante, distratta, cercando qualche cosa da fare o da dire. Poi si dette di nuovo all'opera sua.

--Cesare, Cecilia, non vanno bene insieme?--mormorava.

--Vi è una fatalità nei nomi--rispose gravemente la zia.

--Ancor questa fatalità. La mettete dappertutto, zia. Mi rattrista, ve lo assicuro. Ascoltate, zia: ho da domandarvi due cose gravissime, di una importanza eccezionale. Credete voi, zia, che quando non avremo nessuno a pranzo, io posso scendere in veste da camera ed in pianelle? Credete voi che Cesare sia innamorato di me?

--Debbo rispondere alla prima o alla seconda domanda?

--Sono egualmente interessanti, ma via, rispondete alla seconda.

--È cosa triviale citare un proverbio, ma questo qui l'ho fatto io. Chi ama bene, sposa presto. Da quanto tempo conosci Cesare?

--Da un anno; da sei mesi mi fa la corte, da tre mesi è mio fidanzato.

--Secondo i calcoli matematici, Cesare è innamorato di te.

--N'ero convinta avanti di chiedervelo, zia. Era così innamorato di voi, lo zio Astolfo?

--O cara! Lo zio Astolfo era molto diversamente innamorato. Allora si amava in un altro modo. Ci amammo per quattro anni contro la volontà dei nostri parenti, tre volte progettammo di morire, e tutto era pronto per un rapimento, quando saputosi tutto, finirono per dirci di sì. L'amore era un romanzo, allora.

--E adesso?

--Prosa, mia cara.

--E come scenderò vestita, zia, quando non avremo gente a pranzo?

Le due donne, con la massima serietà discussero l'abito, le pianelle, il goletto, la sciarpa, come avevano discusso l'amore. Nella strada vicina un organetto suonava una romanza di Tosti, allargandone molto il tempo, in modo da renderla più malinconica di quello che era. Poco a poco esse tacquero. Ascoltavano. Abitando al primo piano, con le finestre aperte, tutti i rumori di una sera d'estate salivano netti e chiari. Un fanciullino piangeva, con quel lamentìo insonnolito dei bimbi che si addormentano, un ciabattino batteva forte sopra un tacco di suola, a colpi rapidi, con un rullìo. Una voce femminile, accompagnando sottovoce l'organino, canticchiava:

Vorrei morir quando tramonta il sole.

Involontariamente, Cecilia si pose a canticchiare anche lei:

Quando nel prato spuntan le vïole,

mentre la musica soave, l'afa della serata di luglio e la stanchezza le mettevano addosso una tenerezza grave, una voglia di piangere. Era caduta sopra una sedia, guardando il soffitto, le braccia prosciolte e abbandonate, pensando ad una quantità di cose malinconiche. Dalla via, la vocina femminile continuava a cantare:

Vorrei morir... vorrei morir...

Cecilia lasciò che due lagrimoni le cadessero giù per le guance. Si sentiva impietosita e commossa per quella donnina che cantava così mestamente, pel suonatore dell'organetto, per sè stessa che si maritava, per la zia che era vedova e leggeva Diane de Lys, e forse più di tutto per quel ventaglio nero che si rimaneva tranquillo e silenzioso nel vano del balcone. Tutto ciò durò poco. L'organetto suonò il Funiculì-funiculà.

Tutta la mestizia di Cecilia si dileguò. La vita era bella, nevvero? e Cesare sarebbe arrivato l'indomani presto. Bisognava sbrigarsi.

--Siete rimasti d'accordo per le partecipazioni, Cecilia?

--Sicuramente. Vi lasceremo la nota degli indirizzi e voi le manderete.

--Sei fortunata, eviterai le visite di nozze.

--E laggiù, in campagna, credete che i signori dei paesi vicini, i sindaci, vorranno evitarci questo noie? Quante sindachesse, quante mogli di giudici, quante provinciali sfileranno in casa mia! Come mi divertirò, come farò bene la castellana, come sarò amabile e quante riverenze farò!

--Sei una bambina, Cecilia. Il matrimonio è una cosa grave e pericolosa.

--Pericolosa?

--Pericolosa.

--Perchè, zia?

--... nelle conseguenze.

--Non capisco.

--... tu non sai nulla...

--... forse... forse... perchè vengono i bimbi?

E una fiamma viva le corse al volto.

--Anche... ma vi è dell'altro...

--Forse perchè vi sono queste orribili marchese Susanne, queste principesse Albertine, queste contesse Elene?

--Tu non sai nulla. La vita è un romanzo.

--Il mio è bello, zia.

--Sono i primi capitoli. Occhio all'amore, fanciulla.

--Io amo Cesare, egli ama me--rispose lei con grande semplicità. E guardò intorno intorno, nello stanzone, quasi prendesse l'ombra a testimonio di quella verità. Niente aveva voce, nessuno le rispose; ma ella rimase quietata e soddisfatta, avendo riassunto presente ed avvenire.

L'armadio era vuoto. Cecilia riponeva lentamente nel cassone gli oggetti minuti di biancheria, i goletti, i polsini, le cuffiette, le scatole dei fazzoletti. Prima di mettere al suo posto l'oggettino, lo guardava, lo ammirava, gli parlava sottovoce, quasi lo carezzava. Era molto felice, felice di avere tutti quegli ornamenti candidi, leggieri, morbidi di stoffa, fioccosi per trine, gentili di forme. Vi giuocava, quasi, come una bimba con gli abitucci della bambola.

--Vi sarà molta gente al Municipio, zia?

--Molta gente.

--E il vice-sindaco mi dirà qualche cosa di molto pauroso? avrà un aspetto spaventoso con la sua sciarpa?

--Il vice-sindaco è per lo più un avvocato annoiato e frettoloso. Ma gli articoli della legge fanno pensare, Cecilia.

--Naturalmente, le signore saranno in cappello bianco, zia?

--Bianco, specialmente per le fanciulle.

--Abito corto, nevvero?

--Corto; è volgare il più piccolo segno di coda.

--Si piange al Municipio, zia?

--È a piacere, mia buona. Per lo più si preferisce piangere in chiesa.

--... già, in chiesa. In chiesa è una cosa seria; vi saranno fiori, incensi? E i belli chierichetti biondi e rossi come cherubini, con la cotta bianca a piegoline? Come sarà grazioso tutto questo!

--E se vi fosse un amante disperato dietro una colonna, Cecilia? Se questo amante si avanzasse, ti maledicesse, si ficcasse un pugnale nel petto!

--Questo qui si vede nel libretto della Lucia. Non è più di moda, zia.

Risero cordialmente ambedue.

--Credi tu, zia, che mio marito sarà buono con me? Come farò io per farmi amare? Debbo io essere buona o cattiva con lui?

--Dumas dice in un modo e Giorgio Sand in un altro.

--Ed io, zia?

--Metti il romanzo nella tua vita, bambina. Nulla si fa senza la poesia.

--Dove la trovo questa poesia? Io non ne so nulla. Sono una sciocca; sono disperata, zia. Tu mi farai morire, zia.

Una desolazione quasi infantile le si dipingeva nel volto giovanetto. Zia Angiolina se ne stava tutta preoccupata, come se si desolasse anche lei pel romanzo della sua immaginazione.

--Zia, zia, dove metterò i gioielli?

--Nella cassetta di cuoio nero.

--Potrò ora portare quanti anelli mi piacciono? Ne avrò all'anulare, al medio, al mignolo; potrò finalmente avere gli orecchini di brillanti.

E Cecilia rimase rapita, con una luce negli occhi. La cassa era piena, sgombra la tavola, sgombre le sedie, tutto a posto. Pure ella non chiuse subito la cassa, restò a fissare il coperchio, quasi smemorata, quasi cercasse ricordarsi qualche cosa. Girò così, due o tre volte, per la grande sala, frugando con lo sguardo negli angoli oscuri: ritornò e d'un colpo solo abbassò il coperchio, chiuse le serrature con le chiavicine. Le tremarono le mani. Venne verso sua zia, pallida, e con la voce incerta, le disse:

--O zia, o zia, io me ne vado domani!

Nelle braccia l'una dell'altra piansero. Si sciolsero dinanzi alla svelta e leggiadra figura di giovanetta, vestita di lana bianca, che era apparsa alle loro spalle, lasciando il vano del balcone. Restarono un po' confuse, un po' mortificate.

--Delfina, tu devi trovare tutto questo supremamente ridicolo--mormorò Cecilia.

No, ella non rispose. Ma alla stanchezza dell'occhio bruno, alla piega ironica della bocca purissima, a tutta l'espressione di noia che deturpava quel viso giovanile, si vedeva che ella trovava tutto ciò supremamente ridicolo.

Cuore di porcellana.

Me ne duole per voi, ottimi e capricciosi lettori, ma questa storiella che debbo raccontarvi è vera, perfettamente vera, vera da cima a fondo. Le storielle vere hanno il potere d'irritare sommamente i lettori che non possono fare le loro osservazioni, dare dello stupido allo scrittore, poichè si trovano in faccia alla verità. Ho sempre un po' di paura quando incomincio a narrarle, e vorrei andarmene per le lunghe. So che oggi vi annoierò o vi farò irritare; nè posso evitarlo. Quando una di queste storielle chiede la sua vesticciuola per uscire a fare un giretto nel mondo, bisogna dargliela e lasciarla partire. Invano si vorrebbe metter fuor di casa la sorella maggiore, o la minore, o il fratellino: è lei che deve andar via. È ostinata, cocciuta, invincibile: e non resta che benedirne melanconicamente il volo, seguirla con l'occhio sinchè scompare, per rimanere impensierito della vita breve ed infelice che avrà.

Ecco, io non faccio mai preamboli, e questo qui mi pare abbastanza lungo e noioso. Risolvermi a parlarvi d'Alfonsina sarebbe bene, raccorciando la storiella, copiando dalla verità. Quest'Alfonsina era una ragazza provinciale, di Salerno. Suo padre era impiegato all'Intendenza di Finanza--ella aveva due sorelle e due fratellini, ancora piccini. Di estate ella andava a passare quindici giorni, dal venti agosto al cinque settembre, in un villaggio presso Salerno, in una casa baronale che faceva inviti molto larghi. Ci andavano gente da Cava, da Potenza, da Napoli, da Castellammare; ci andavo anche io. La scusa era la festa e fiera di Sant'Anna che si celebrava coi soliti fuochi d'artificio, mortaretti, bande musicali, pranzi spaventosi e balli popolari. In fondo ci divertivamo come tanti giovanotti allegri, che eravamo, in compagnia di molte ragazze che ridevano dalla mattina alla sera. Quest'Alfonsina ci veniva, ma non le piaceva fare il chiasso: noi la chiamavamo la sentimentale, come usa nella borghesia meridionale, specialmente in provincia, per indicare una fanciulla malinconica. Ella non si dispiaceva del nomignolo. Questa creatura aveva venti anni, era di statura media, magra, le spalle un po' aguzze, il giro della vita assurdamente piccolo. La testa era anche troppo piccola, come quella di un uccello, ed afflitta da una massa inconcepibile di capelli castani, d'un colore morto e che si abbandonavano volentieri sul collo; una bocca minuta, che si storceva un poco nel sorriso; un nasino senza carattere, gli occhi tranquilli e castagni, ma un po' cisposi. La mattina li lavava col vino e non ci sembrava più. Pallida molto, le gengive smorte, anemica come una candela di cera. Belle le mani, sottili e fredde. Portava spesso un vestito blu cupo, con una grande cravatta di merletto bianco che serviva ad ingrandirle un po' il busto, che era meschino. Aveva anche un abito di lana bianca per i ballonzoli della sera ed uno di seta nera per la Messa della mattina. Anzi, era troppo lusso per la figlia di un impiegato, ragazza povera e senza dote. Era buona come tutte le fanciulle quando non hanno ragione di essere cattive; parlava con molta soavità e alzava gli occhi al cielo con una certa grazia. In fondo, era alquanto stupida. Si occupava vivamente, con un'assiduità disperante, di un suo eterno lavoro, a stelline di frivolità, lavoro leggiero, bellino ed inutile. Portava in tasca, in una scatoletta, il gomitolo del refe e la spoletta di avorio:, appena arrivata in un sito, la cavava di tasca e ricominciava i suoi giri rapidi, i suoi nodellini brevi, tutt'assorta in quella frivolità. Ne voleva fare tutto un corredo, tutta una casa, all'ardore con cui lavorava.

Questa ragazza, come tutte quelle di provincia, era innamorata. E seguendo una regola generale, era innamorata d'un giovanotto che non le volevano dare. Il giovanotto si chiamava Giovanni, era basso, tarchiato, robusto, rosso, con una criniera nera, le mani un po' pelose, il collo bruno--era maleducato, ricco e cretino. Sorvegliava i suoi coloni, andava a caccia, guidava il suo calesse, mangiava forte e beveva molto. Anche lui era innamorato di Alfonsina; con un grosso amore di asino per una cosina gentile e delicata. Le scriveva delle lettere piene di punti esclamativi, di frasi scelte nei romanzi di Mastriani, che aveva tutti letti. Lei, dicono, di notte ci piangeva su, il che poi le rendeva gli occhi cisposi al mattino. A Salerno parlavano tutta la sera, lei da un terrazzino, lui da una scaletta di servizio; quando pioveva lei s'imbaccucava in uno scialle, ma ci prendeva certe costipazioni che le rendevano il nasino rosso come il fuoco, gli occhi lagrimosi e le labbra scottate. Lui no, perchè era avvezzo all'umido dei pantani dove andava a caccia. I genitori di lui proibivano il matrimonio; solito dramma in moltissimi atti, di dolore. Alfonsina raccontava i suoi dispiaceri alla frivolità, poichè quando ci lavorava, muoveva lievemente le labbra. Giovannino bestemmiava coi villani. Malgrado le proibizioni, si vedevano in chiesa, alla passeggiata, al teatrino, in certe riunioni di famiglia, in cui pietosi amici offrono un terreno neutro agli innamorati infelici. Anzi, nell'estate, si vedevano per quindici giorni di seguito, nel castello baronale; era la loro luce, la loro felicità quella quindicina. Giovanni sfoggiava cravatte incomprensibili, polsini abbaglianti, un costume da caccia nuovo; Alfonsina lasciava cadere sulle spalle le sue grosse treccie castane, che erano la sua sola seduzione e si faceva piccina, debole, più smorta ancora, piena di brividi, perchè quel giovanottone fosse lusingato nella sua parte d'innamorato protettore. Noi reggevamo il moccolo gaiamente, ma anch'essi lo reggevano a noi. Erano servizii scambievoli che ci rendevamo. La sera, erano coppie innamorate, sotto il portico, nel giardino, sul terrazzo.

Le penombre erano piene di pericoli e di amore; le mamme chiudevano gli occhi. A cena, alla grande cena, volti pallidi, e volti rossi, mani tremanti che non reggevano il bicchiere o disappetenza delle ragazze, appetito dei giovanotti. Tutto candidamente, onestamente, con fine di matrimonio, come sempre in provincia. Alfonsina non mangiava, il che faceva ringalluzzire Giovanni; ella si faceva trasparente; se le accendevano una candela alle spalle, sarebbe sembrata di porcellana. Una sera egli l'aveva incontrata fra due porte e l'aveva abbracciata baciandola ruvidamente sul collo; gli era quasi svenuta nelle braccia. Lui guardava orgogliosamente i propri polsi poderosi e schiattava dal ridere, dicendo: Se la stringo troppo, vedete che la spezzo. Questi brutali complimenti li rendeva sempre più innamorati.

Ma il papà e la mamma tenevano fermo a non volergli far sposare quella ragazza pezzente. S'era sperato lungamente che dopo il matrimonio della sorella di Giovanni, le cose si sarebbero potute accomodare: Alfonsina aspettò pazientemente altri due anni. Ma dopo, fu peggio. Ogni mese la madre di Giovanni gli trovava una sposa nuova: lui rifiutava, gridava, rompeva le sedie. O Alfonsina o la morte--e bestemmiava, dando calci nelle casse. Alfonsina, facendo la frivolità, doveva ripetere: o Giovannino o la morte. Continuavano a parlare dal terrazzino. Poi ci fu un caso grave: vale a dire una proposta di matrimonio per Alfonsina da parte di un impiegato del Dazio di consumo. Fu tranquillamente respinto dalla ragazza e fu bastonato dal giovanotto: uno scandalo enorme in cui spiccava grosso e grasso l'amore di lui, alto e sottile come una fiammolina inconsumabile l'amore di lei. Ma se Alfonsina rimaneva quieta, aspettando tacitamente e fedelmente un giorno, quel giorno, Giovannino diventava aspro, col sangue alla testa per la minima cosa, gridando, urlando, stringendo le pugna. Si faceva un villano. Qualche volta la sua collera si riversava sull'innamorata. La tormentava con una gelosia feroce, le rinfacciava la guerra civile della propria casa, gli anni perduti dietro lei. Alfonsina lasciava andare la frivolità e piangeva silenziosamente. Una sera, in un ballonzolo, arrivò a darle un pizzicotto così tremendo che lei strillò come in agonia e tutti se ne accorsero. Lui, furibondo, la piantò. Per tre mesi bevve molto, andò a caccia e si spassò con le contadine, diventando bestiale. Lei non dormiva più la notte, e quando le portavano le notizie, tremava e sospirava. Poi Giovannino, ripreso dalla tenerezza, si rappaciò, promise di sposarla presto. Ma la tresca con Fortunatella, la moglie del colono, non fu spezzata: si parlava di un bambino. Per dissuadere Alfonsina dall'aspettare più Giovanni che diventava un mascalzone, ci si misero in mezzo amici, amiche, confessori. Lei diceva di sì col capo, ma significava no. Era un'ostrica calma, col suo volto dilavato e le vene senza sangue. Aveva la fermezza della passività. Curvava il capo e non si muoveva più. Lui a riprese, quando era infastidito di Fortunatella, cercava di far la pace con Alfonsina e ci riusciva, ma le cose non duravano molto così bene. Lui la maltrattava nelle lettere, come quando schiaffeggiava Fortunatella. Era una guerra d'ogni giorno--e guai se qualcuno osava gironzare intorno all'Alfonsina. Erano minacce spaventose. Questa vita durò dodici anni. La fanciulla oramai viveva di anima, tanto era stecchita e meschina.

Poi un giorno, i briganti si presero Giovanni; dicono che fosse un agguato tesogli da un colono furioso d'essere stato maltrattato; alcuni dicono preparato da un altro amante di Fortunatella. I briganti chiesero trentamila ducati di riscatto e tagliarono le orecchie del prigioniero. Poi gli tagliarono il naso ed il dito mignolo, e chiesero settantamila ducati, poi, come invece del danaro, vennero i bersaglieri, lo ammazzarono con una pugnalata nello stomaco.

Fu allora solo, che la pallida Alfonsina dagli occhi cisposi, si decise a sputare quel po' di sangue roseo che le rimaneva nelle vene e partì un anno dopo di lui.

La donna dall'abito nero
e dal ramo di corallo rosso.

A M... M...

Sentite ora il mio segreto, uno spaventoso segreto che mi rode l'anima. L'ho taciuto sinora per l'orrore della mia mostruosità. Ma dentro, lo spasimo mio assume mille forme, io sento due martellini battermi sul cuore mortificandolo di colpi; io ho una vite d'acciaio che mi rotea nel petto come un cavaturacciolo; io ho un migliaio di spilli ficcati sotto il cranio; io ho un chiodo confitto nella tempia dritta. Eppure, in questa lunga agonia, io non posso morire; dalla febbre il mio sangue si rinnovella, dalla tortura le mie fibre si disseccano, ma si rinvigoriscono dall'incitamento; la forza dei miei nervi si raddoppia. Morire no, non mi è concesso. Altri dovrebbero morire, meco. Scrivo il mio segreto non per sollievo perchè non ne spero, ma perchè si sappia la verità del caso mio.

Sentite. Non è vero che io sia pazza; io vivo, sento, ricordo e ragiono. Quelli che mi tengono imprigionata, nel manicomio, s'ingannano.

Mai ho posseduto tanta lucidità di mente, tanta solidità di cervello; mai ho contemplato con tanta serenità di dolore la mia sventura. Non sono pazza. È inutile la doccia sulla testa, il camerotto foderato di materassi, il bagno caldo, la sorveglianza continua. Questo non può guarirmi, perchè non sono pazza. Per me non ci vuole il medico, ma il prete. Deve venire il prete con il libro santo dei Vangeli, con la stola ricamata d'oro, con l'acqua benedetta. Deve leggere le preghiere per scongiurare gli spiriti maligni, mettermi sul capo la stola e aspergermi di acqua santa; deve battersi il petto, inginocchiarsi, pregare l'aiuto del Signore su me. Poichè io non sono pazza, ma qualcuno si è impossessato di me; io non sono pazza, ma qualcuno è entrato in me, vive con me. Dentro l'anima mia vi è un'altr'anima. Dentro la mia volontà vi è un'altra volontà. Dentro la mia ragione vi è un'altra ragione. Bisogna esorcizzarmi, bisogna cacciar via la mia nemica, togliermi quest'altra anima che mi riempie di terrore. Noi siamo due...

Quanto tempo è che ho veduto lei, l'altra, per la prima volta? Non so, la data non potrei dirla, perchè mi sfugge. Certo era un tramonto più rosso d'autunno; io correva nelle vie infangate, affrettandomi a una casa dove qualcuno che mi amava moriva. Correvo col capo chino sotto la pioggia mormorando le parole di consolazione e di perdono prima di giungere. D'un tratto, alzando gli occhi sotto la luce rossastra di un fanale a gas, vidi camminarmi accanto una figura femminile. Era una donna di mezza statura, col volto pallido e allungato, sciupato dall'età, dalle sofferenze; ma in quel volto consumato ardevano gli occhi neri, bruciavano di sangue le labbra. Era vestita tutta di nero, il nero dei suoi occhi; portava al collo, come spillo, un ramoscello di corallo rosso come le labbra. Camminava accanto a me, guardando la terra; un sol momento mi alzò gli occhi in viso, ma li riabbassò subito. Io fui colpita da questa apparizione e distesi la mano quasi per toccarla, ma ella si allontanò rapidamente. La seguii quasi per istinto senza saper perchè, presa da necessità di andare dove andava lei, di fare quello che lei faceva. La seguii con gli occhi fissi nella sua figura bruna, raggiungendola ogni tanto per vedere quello sguardo nero e ardente, quelle labbra febbricitanti, quell'abito nero come l'occhio, quel ramo di corallo rosso come le labbra. Ella se ne andò per le strade con il suo passo ritmico, fermandosi innanzi alle mostre delle botteghe, salutando qualche creatura ignota, fermandosi a discorrere con qualche essere volgare. Io feci, dietro a lei, tutto quello che essa fece. Ella prese la via del teatro, salì le scale, entrò in un palco e si pose immediatamente a dardeggiare la folla col suo sguardo nero. Si pose subito a ridere con le sue labbra di sangue; io in un palco dirimpetto a lei, imitandola, guardai sfacciatamente la folla, e risi, risi sempre. D'un tratto ella scomparve, io m'abbandonai in un'atonia come se mi mancassero gli spiriti, poi mi risvegliai nell'amarezza saliente dei rimorsi. L'amico che m'aspettava, a cui dovevo portare le parole di consolazione e di perdono, era morto, solo, mentre io rideva al teatro.

Io non amava quell'uomo. Anzi non amavo nessuno in quel tempo. La mia indifferenza in fatto di sentimento era serena: non amavo, non avevo il rimpianto dell'amore, non avevo il desiderio dell'amore. Poi quell'uomo era un essere volgare e miserabile di cui io vedeva tutta la miseria, tutta la volgarità. Il suo amore fatto di vanità, di capriccio, di puntiglio, non aveva il potere di irritarmi, ma aveva il potere di nausearmi. Le sue parole mi lasciavano inerte, le sue lettere non mi scuotevano, le sue mani che stringevano le mie non mi facevano impallidire. Odiarlo non potevo, e amarlo neppure: tutta la meschinità, tutta la bassezza del suo spirito, la misuravo. Egli, divorato dal desiderio, ch'era vanità, fremeva di rabbia, fremeva di falso amore, e pregava e scongiurava, versava lagrime di dispetto. Io mi rifiutava; tranquilla, immobile, sorridente, quasi insolente, m'immergevo sempre più in quella indifferenza che è il dono dei forti. Finchè lui un giorno, in una scena di collera, mi disse:

--O domani o mai più.

--Mai più--dissi io freddamente.

Il domani, nel pieno meriggio d'inverno, io passeggiava nella campagna trasalendo d'emozione per la maestà del fiume che se ne andava lento al mare, per gli anemoni crescenti nell'erba umida, per i piccoli salici neri che si piegavano brulli, quasi spinosi; per gli uccelli che stridevano sul mio capo nella profondità dei cieli. Queste sensazioni giungevano squisite, soavi ai miei nervi equilibrati. Ero quieta. Quand'ecco nelle lontananze della sponda, nella gialla lucentezza meridiana, ella m'apparve col suo viso smorto, disfatto, dove vivevano soltanto i carbonchi dei suoi occhi e la bocca rossa come un granato; vestita di nero, portando al collo un ramo di corallo rosso. Questa volta non mi guardò. Tutto il mio essere sobbalzò a lei. Mentre si dirigeva lentamente alla città, io la seguii passo per passo come una bestia ubbidiente. Vedevo con paura che ella andava al luogo del convegno con quell'uomo, ma istintivamente non potevo manifestare questa paura. Vidi con spavento che quell'uomo era là, che mi aspettava, che sorrideva di orgoglio. Egli non vedeva il fantasma che gli si accostava, vedeva me che m'accostavo a lui per seguire il fantasma.

--Grazie--disse l'uomo trionfante.

Il fantasma sorrise dolcemente, ed io, che volevo urlare di dolore, sorrisi di dolcezza.

--Tu mi ami?--chiese l'uomo.

--Ti amo--mormorò il fantasma.

Io, che sulle labbra mi si affollavano gli insulti, dissi a voce alta:

--Ti amo.

--Mi amerai sempre?

--Sempre--rispose il fantasma.

Io, che agonizzavo, risposi:

--Sempre.

--Lo giuri sulla Madonna?

--Lo giuro sulla Madonna--susurrò l'ombra.

Io, che avevo il terrore del sacrilegio, bestemmiai:

--Lo giuro sulla Madonna.

Ora mi dicono pazza. Pensate che ho trascinato due anni la catena di un amore falso e volgare, che ho mentito due anni, che ho tollerato due anni la menzogna, perchè non mi amava, come io non l'amavo. Pensate al disgusto, al ribrezzo, alla stanchezza di due anni, ai giuramenti bugiardi fatti e ricevuti, ai trasporti fittizii, ai baci inutili e fiacchi, agli entusiasmi posticci, a questa commedia piena di fango. Era per lei tutto. Per fare quello che ella faceva, per dire quello ch'ella diceva, per seguirla, per imitarla. Era l'incantesimo di questa fata, di questa strega, di questa maliarda. Era il fascino, il filtro; avvinghiata ad essa che rappresentava la bugia e il tradimento, io sono stata la bugia e il tradimento.

Nel tempo, accade altro. Un altro uomo mi amava veramente, con la lealtà spirituale delle anime elette; io lo amava con l'umiltà profonda del cuore che cerca riabilitarsi. Le nostre anime vibravano all'unisono nell'armonia potente dell'amore; si fondevano meravigliosamente nell'armonia dell'amore; era un affetto solo, completo, tutto divino e tutto umano. Ma la celestiale fusione durò poco. In un'ora suprema, mentre egli mi parlava soavemente, vidi comparire fra noi la donna dall'abito nero, che portava al collo un ramoscello di corallo rosso. Questa volta i soavi occhi lampeggiavano malignamente, le sue labbra di garofano sogghignavano. Egli mi parlava d'amore ed ella ghignava, ghignava.

--Non ti credo--rispose a quell'uomo che diceva la verità.

Così l'amore nostro divenne uno spasimo. Dietro il volto di lui, onesto e buono, io vedeva l'ovale sciupato della donna che ghignava; egli diceva un franco, sincero, e l'eco del fantasma era un no duro; egli mi accarezzava col suo sguardo innamorato, ed ella lampeggiava ferocemente gli occhi.

--Non ti credo, non ti credo--ripetevo a quell'uomo, io diventata malvagia e scettica.

Poi egli non credette più a me, mi vedeva sempre distratta, assorbita, scossa da subitanee paure, o perduta in esaurimenti mortali.

--Tu non mi ami, tu sei lontana di qui; la tua anima è assente; oh ritorna, ritorna!--egli mi supplicava.

Eppure ci amavamo; la maga pallida, dalle labbra di carmino, che ci scherniva, si metteva fra noi e ne faceva gelare il sangue, e rendeva deboli i nostri baci e fioche le voci. Io soffriva infinitamente più di lui, io che vedevo la maga sedersi accanto a noi, io che sentivo lo spavento di questo spettro salirmi al cervello e farmi delirare. Io che giunsi fino ad essere gelosa di quel fantasma a cui mi sembrava che egli dirigesse le sue parole di amore; io, che in uno scoppio di gelosia furiosa, gridai:

--Tu m'inganni, tu ne ami un'altra, tu ami una donna pallida, sfinita, cogli occhi neri, le labbra sanguigne, la veste nera, il ramo di corallo rosso. Tu m'inganni, tu mi tradisci, tu ami l'altra!

Egli mi guardò trasognato.

--Tu sei quella--disse semplicemente.

Mi condusse allo specchio; vidi nel cristallo una faccia smorta, consunta dall'età, dalla sofferenza, due occhi neri, ardenti, due labbra brucianti, una veste nera, un ramo di corallo rosso. Vidi la sua figura, che era la mia figura; urlai come una bestia:

--Non sono pazza, non è la mia testa che devono curare, ma è la più fiera nemica che è entrata in me; il fantasma si è messo nell'anima mia. L'altra non vuole andarsene, vuol vivere in me, così siamo due; bisogna esorcizzarmi; chiamate un prete, e dica sul mio capo le parole sacre della preghiera che libera le anime!

Scena.

Tutta chiusa ancora nella pelliccia di lontra, con la veletta nera del cappellino ancora abbassata sugli occhi, con le mani ficcate e strette nel manicotto, donna Livia, ritta innanzi al caminetto, si riscaldava i piedini intirizziti alla vampa. A un tratto, nell'ombra della sera nascente, ella vide biancheggiare qualche cosa accanto a sè.

--Chi è?--disse buttandosi indietro, improvvisamente sgomentata.

--Sono io, Livia, non aver paura--rispose il marito, con tranquillità.

--Ah! sei tu, Riccardo? Non ti ho inteso venire--e la voce si era subito raddolcita, era diventata tenera.

--Non capisco come non abbiano portato i lumi.

--Sono rientrata ora da Villa Borghese--mormorò lei, fiaccamente. Poi, tastando un poco, trovò il campanello elettrico sul muro e vi appoggiò il dito. Un servitore entrò con due lampade coperte da paralumi di seta azzurra che mitigavano la luce. Il salottino apparve nelle sue tinte un po' triste di velluto oliva con broccato oro vecchio, molto smorto; una quantità di rose thea sorgeva dai vasi di porcellana, dalle coppe di cristallo. Don Riccardo era in marsina, cravatta nera, gardenia all'occhiello.

--Già pronto?--chiese donna Livia.

--Ho sbagliato l'ora, non sono che le sei: aspetterò.

E si distese nella poltrona, accanto al fuoco, incavalcò una gamba sopra un'altra.

--Qui si fuma, eh Livia?

--Certo. Cerca un po' le sigarette; sono su quel tavolinetto.

--Ne ho anch'io,

--Le mie saranno migliori, Riccardo.

--Chi te le ha date?

--Le ha portate Guido Caracciolo da Costantinopoli.

Ella stessa gli portò i fiammiferi aspettando che lui accendesse.

Egli si distese di nuovo, fumando.

--Dunque, questo vostro pranzo di fondazione al Circolo è per le sette?

--Sì, cara Livia, alle sette. Un pranzo tutto di uomini: sarà molto noioso.

--Oh! noiosissimo.

Donna Livia si sbottonava lentamente i guanti di capretto nero.

--Almeno avessi dei vicini di pranzo divertenti: ti seccheresti meno, Riccardo mio.

--I vicini sono Mario Torresparda e Filippo Ventimilla.

--Quella Villa Borghese è una ghiacciaia--mormorò lei rabbrividendo dal freddo, presentando le manine inguantate alle fiamme.

--Fai male ad andarci, allora--rispose il marito colla sua bella calma che niente arrivava a turbare.

--Sai... l'abitudine. Oh, vi era una quantità di gente, giorno di festa, molte facce sconosciute oltre alle solite. La regina aveva una piuma rosa pallido sul cappello di velluto nero. Credi tu che mi stia bene il rosa pallido, Riccardo?

--Tutto ti sta bene, cara!

--Bella risposta! Infine ho incontrato Maria, Clara, Margherita, Teresa, Vittoria; Giorgio era solo, nel phaeton; Paola mi ha fatto segno se ci vedevamo stasera, le ho risposto di sì. Ci vieni tu?

--Sì, dopo il pranzo.

--Bravo! Ci sono restata troppo, a Villa Borghese, non mi accorgevo che era notte, poi sapevo che avrei pranzato sola. Brutto cattivo che sei! Sono stata anche da Sofia, prima di Villa Borghese; oh, se sapessi quante cose ho fatte oggi, dalle tre! Povera Sofia, il bimbo è sempre con le febbri e si è fatto magro, giallo; domani lo avvolgeranno negli scialli, lo metteranno in carrozza chiusa e lo porteranno a Tivoli; chi sa che il cambiamento d'aria gli faccia bene...

--Federico parte con Sofia?

--No, andrà ogni giorno a Tivoli. Che uomo freddo e antipaticissimo! Non ha vegliato una sola notte accanto al suo bambino, e Sofia da dodici notti non dorme...

--Dicono che non sia suo, quel bambino,--osservò don Riccardo, scotendo le ceneri della sigaretta nel portacenere.

--Lo dicono, è vero. Sofia si è troppo compromessa con Guido. L'ho incontrato, Guido, in piazza di Spagna, mentre andavo dalla sarta. Sono stata anche da questa sarta, per il vestito grigio, che, è inutile, per quanti sforzi ella faccia, e per quanto tempo mi faccia perdere, non arriva ad essermi conveniente. Un vestito è come un quadro: quando è sbagliato non si corregge più, bisogna buttarlo via e farne un altro.

--Mi sembri poco soddisfatta della tua sarta da qualche tempo. Perchè non cambi? Perchè non fai venire tutto da Parigi? Io non me lo spiego.

--Hai ragione, ma come fare? Questa qui mi si raccomanda, e poi spesso da Parigi mandano degli intrugli di colore di cui è impossibile servirsi. Crederesti che a Giulia hanno mandato un vestito verde! Piangeva, oggi. Sono stata anche da lei, un minuto, per vedere questo vestito che lei aspettava con una certa ansietà. Fiasco, Riccardo mio, fiasco! Un vestito verde chiaro!

Il suo riso strillò per la stanza, poi, essendosi tolto il cappellino e sbottonata la pelliccia, si distese anche lei sulla poltroncina dall'altra parte del fuoco.

Ora la volubilità nervosa con cui aveva parlato si chetava. Ella si passava lentamente le dita nei capelli biondi ondulati come per lisciarli. Don Riccardo accese un'altra sigaretta, e guardando il fuoco parlò così:

--Livia, oggi tu sei uscita alle tre con la vittoria. Sei subito andata da Sofia e vi sei rimasta fino alle tre e venti; di lì sei andata da Giulia, dove sei rimasta dieci minuti; alle quattro eri innanzi al portone della tua sarta in piazza di Spagna; sei entrata di là e ne sei immediatamente uscita dalla porticina che dà in piazza Mignanelli. Hai preso una vettura chiusa da nolo che portava il N. 522. Sei andata in via Cesarini al N. 170, al primo piano, dove Mario Torresparda ha un appartamentino per ricevere le signore del bel mondo che si compiacciono d'andarlo a trovare. La sua abitazione legale, dove riceve gli amici e le cocottes, è altrove. Sei restata là dalle quattro e dieci minuti fino alle cinque e cinquanta minuti; sei discesa, la vettura da nolo t'ha ricondotta in piazza Mignanelli; non avevi moneta spicciola, poichè non si pensa mai a tutto, hai date dieci lire al cocchiere, sei subito uscita dalla grande porta di piazza di Spagna, sei montata nella vittoria, che ti ha condotta per venti minuti alla Villa Borghese, d'onde sei ritornata subito qui.

Ella era scivolata sul tappeto e gli stendeva le braccia mormorando:

--Perdonami, perdonami, era la prima volta!

--La prima volta, lo so. Mario Torresparda ti fa la corte da luglio, quando eri a Livorno; cominciò una sera di plenilunio; fu niente, prima, uno scherzo, poi dalla Svizzera dove era lui, in Sabbina dove eri tu, ti ha scritto prima spesso, poi ogni giorno. Hai sempre risposto; saranno state da cinquantadue a cinquantacinque fra lettere e biglietti. Qui vi siete visti due volte, al Pincio, di mattina, venerdì diciotto novembre e domenica ventotto. D'allora gli prometteste d'andare da lui, ma hai già mancato di parola due volte, lunedì e giovedì della settimana scorsa. Oggi finalmente ci sei andata per la prima, volta.

--Oh Riccardo, oh Riccardo!--singhiozzava donna Livia come un bambino--Perchè non mi uccidi, invece di dirmi queste cose?

--No, mia cara, io non ho l'abitudine di ammazzare nessuno e non voglio cominciare adesso, io. I mariti che uccidono le mogli si vedono nei romanzi di Ohnet e nei drammi del medesimo autore. Io non sono di questo parere: ho certe mie idee sull'onore che trovo inutile di sottometterti, perchè tu non le intenderesti. Sangue, no; non vale la pena, cara. Ci siamo voluti bene, prima e dopo il matrimonio, per un bel pezzo; poi tu non me ne hai voluto più, come è perfettamente naturale, e naturalmente ne hai voluto ad un altro. Non mi parlare di lotta, di battaglia, di acciecamento, di passione contrastata; non servirebbe a nulla, io non ci credo. Gli amori finiscono, ed è logico che sia così. Il tuo, per me, è durato abbastanza, mi pare.--Non mi lagno, come vedi; tu non hai fatto nulla di irregolare; anzi con quella lunga abitudine femminile, per quella tradizione a cui non mancate mai voialtre, per quel raffinato gusto per cui siete tanto seducenti, tu hai scelto il mio buon amico Mario Torresparda. Io gli volevo bene a Mario Torresparda, e glie ne voglio ancora. Non mi batterò mica con lui, per dar gusto a te ed al pubblico. Vuoi forse dirmi che egli ti ha sedotta? No, cara, non è vero: forse tu stessa credi che sia così, sei in buona fede; ma disilluditi, sono le donne che cominciano sempre a sedurre, e l'uomo si lascia prendere. Che colpa ha Mario Torresparda? Nessuna. Ha trovato una donna che faceva la civetta con lui, si è lasciato invescare, poveretto, si è innamorato. Lo compatisco, esser l'amante di una donna maritata non è molto piacevole, è una posizione piena di fastidi.

--Oh come hai ragione di disprezzarmi!--singhiozzò lei.

--No, cara. Io non ho nessun sentimento a tuo riguardo. Mi sono informato del tuo amore, per sapere la verità, per semplice bisogno di posizioni nette. Ora, per l'avvenire, fa quel che ti piace, io non mi prenderò neppur la pena di appurarlo. Ti avverto però che Mario Torresparda è innamorato sul serio di te, e fargli subito un tiro non sarebbe umano. Addio, son le sette, vado a pranzo; buon appetito.

--Non mi perdonerai mai?--gridò essa, afferrandolo per un braccio.

--Ma che perdono? Non ve n'è bisogno punto. Trovo, così, in massima generale, che noialtri uomini abbiamo torto a pigliarvi sul serio e a sposarvi in conseguenza. Se questa è una scortesia, scusami tanto. Vado, perchè son le sette. Verrò da Paola, dopo, a prenderti. Buona sera.................................

--Il pranzo è pronto--disse il servitore entrando.

Donna Livia, seduta sul tappeto, guardando il fuoco che moriva, pensava quanto suo marito, don Riccardo, fosse più chic di Mario Torresparda.

Ideale.

Laura, ritta presso il tavolino, col capo chino, s'occupava seriamente dei molti bottoni del suo guanto; sulla spalliera d'una seggiola era gittata una mantiglia ricamata in oro; un gran ventaglio di raso rosso da una parte, giallo e nero dall'altra, giaceva semiaperto sul tavolino. Laura era vestita di broccato nero, con uno strascico inverosimile; sulla scollatura triangolare del petto era appuntato un grande gruppo di fiori rossi e gialli; un ramo fitto di fiori rossi o gialli ornava i capelli bruni, compariva sotto l'orecchio e le lambiva il collo. Cesare entrò, senza far rumore, la guardò un momento, pensò a quello che doveva dire, e finì per dire:

--Buona sera, signora.

Ella non si scosse. Si volse, sorrise, stirò il suo guanto e domandò:

--Siete voi, Sanseverino?

--La domanda è singolare.

--Contentatevene. Ve ne ho risparmiata un'altra che poteva essere impertinente.

--Contessa, stasera siete un...

--Fenomeno, non è vero?

--Di bontà. Una cosa nuova. Mi risparmiate una impertinenza, mi siete indulgente! Qualche orribile sventura mi minaccia, dunque?

--Chi sa?

--Preferisco l'impertinenza, contessa. Già me lo immagino. Volevate dirmi: Che venite a fare qui?

--Voi indovinate troppo, Sanseverino; è una scienza pericolosa.

--Per me solo. Vengo qui...

--Per vedermi, perchè siete innamorato di me. Conosco il ritornello.

Sanseverino impallidì, nonostante la sua disinvoltura. Carezzò nervosamente il suo mustacchio sottile:

--...già--disse poi.--Ma non l'avrei detto. Non si crederebbe, contessa, ma riesco ad essere un uomo di spirito anche dinanzi a voi.

--Tutto merito mio, Sanseverino.

A lui si annebbiarono gli occhi, ma l'orgoglio gli ridette un sorriso ironico.

--Quanto vi è di buono in me e di felice nella mia vita, lo ripeto da voi, contessa--rispose, con un inchino troppo profondo.

--Benissimo, ecco un grazioso complimento che è il principio di quelli che udrò fra poco al teatro.

--È vero, voi andate al teatro--disse lui come riavendosi da una distrazione.--Perchè ci andate?

--Per annoiarmi in mezzo a molta gente.

--Annoiatevi con me, allora. La proposta è egoistica, non lo nego. Ma io mi moltiplicherò per farvi annoiare come al teatro. Se volete, aprirò il pianoforte, e vi suonerò le più gravi, le più soavi melodie del Lohengrin che dovreste ascoltare al San Carlo. Parlerò con voi di trine, di amoretti, di gite, di nastri come potrebbe farlo la vostra amica Evelina. Vi farò la corte scioccamente, come ve la potrebbero fare Giorgio, Arturo, Adolfo o Gino. Poi, in un intervallo finto, fingerò di venire io stesso a farvi una visita, e vi dirò quello che vi direi...

--Mi piacerebbe più quello che non mi direste.

--Tristi cose in verità--rispose lui con un accento profondo.

Vi fu un minuto di silenzio. Caso meraviglioso, la contessa Laura pensava. Ma si scosse:

--E la platea? Ci mancherà la platea. Chi farà da platea?--domandò.

--Che dice la platea di noi?

--Oh! una cosa molto volgare, Sanseverino. Che mi amate e che non v'amo.

--E soggiunge le ragioni, bella contessa?

--Non le soggiunge, perchè non ve ne sono. Si ama senza ragione e non si ama anche senza ragione. L'amore e l'indifferenza si rassomigliano.

--Voi proferite una frase mostruosa--disse lui placidamente.

--Arriverò tardi al teatro--mormorò lei impazientandosi.

--Sono appena le nove. È ignobilmente presto. Chi è due volte contessa e tre volte marchesa come voi, non può andare al teatro a quest'ora. Io non oserei accompagnarvi.

--Vi farebbe piacere l'accompagnarmi?--chiese lei, lampeggiando vanità dagli occhi.

--... immenso piacere--mormorò lui, comprendendo la malvagia idea--malgrado il susurrìo di compassione che susciterei nella vostra famosa platea, contessa. Sono sicuro, vedete--e la sua voce tremolò di collera--che mi si compiange.

Ella non rispose nulla. Dopo una pausa, gli domandò:

--Foste al ballo in casa Della Mana?

--... ci fui.

--Mi attendeste inutilmente?--riprese, scherzando graziosamente col ventaglio.

--Inutilmente.

--Mandai a dire che ero ammalata. Vi impensieriste? Non era vero. Il mio abito, giunto da Parigi, era un capolavoro di bruttezza.

--Questo di stasera è odioso.

--Vi pare? Eppure voi dovreste preferire questi fiori dai colori passionati. Non andate predicando da per tutto: Amore, amore, passione, passione?

--Ma non artificiale come i vostri fiori, contessa, come il falso colore dei vostri nastri, come la falsa Turchia del vostro ventaglio, come voi stessa...

--Eh!--fece lei, rivoltandosi vivamente.

--Perdono. Ho sbagliato... ho la testa un po' confusa. Qui vi è un profumo penetrante che mi dà ai nervi.

--Ora va bene--approvò lei col capo, agitando lievemente il ventaglio.

--Ho sbagliato, vi ho offesa. Voi non siete falsa; voi siete molto leale. Nulla mi avete promesso e nulla mi avete mantenuto. Dal primo istante che vi vidi, vi giudicai: siete rimasta immutabile. Mi congratulo con voi, contessa Laura: voi avete carattere. Carattere d'indifferenza, di apatia, se vogliamo, unito ad una giusta misura di vanità. Bel carattere: io vi ammiro.

--Credete voi che Teresa Realps sposerà vostro cugino Mario?--disse lei, reprimendo un piccolo sbadiglio.

--Questo matrimonio pare che vi diverta come le mie incoerenze. Sarebbe meglio per voi andare al teatro.

--Grazie; per me è lo stesso. Se volete, rimango qui sino a mezzanotte. Mi diverto anche qui.

--Che cosa potrebbe farvi piangere, Laura?

--Mi chiamate per nome, mi sembra--disse lei lentamente e freddamente, guardandolo fisso col suo sguardo grigio.

--Vi chiedeva che cosa potrebbe farvi piangere, contessa Mormile.

--... non so... non so... ma qualche cosa ci deve essere. La troverò.

--E me la direte?

--Forse. Vi piacerebbe veder le mie lagrime?

--Io non le vedrei--disse Sanseverino, abbassando il capo.

--Bah!--fece lei, stringendosi nelle spalle. E si alzò per prendere la sua mantiglia.

Scesero lo scalone, l'uno a braccio dell'altra, muti, senza guardarsi. Allo sportello della carrozza egli salutò con una grande scappellata. Laura sorrise.

--Verrete più tardi al teatro, Sanseverino?

--A far che?

--Quello che tutti fanno.

--No. Me ne vado a giuocare al Circolo.

--Questo vi distrae?

--Punto. Tutto è inutile, tutto. Buona sera, contessa Mormile.

--Buona sera, duca Sanseverino.

Nel meriggio di settembre tutto taceva. Nella campagna attorno era un grande silenzio. Ogni tanto, di lontano, s'udiva il rumore di una carrozza che passava sulla strada maestra. Nel pianterreno della villa un paio di servitori dormivano sulle panche dell'anticamera, una cameriera agucchiava presso una finestra, un guattero strofinava silenziosamente l'argenteria in cucina. La contessa Laura non amava il fracasso in campagna. Ella stessa stava nel suo salone favorito, che era un po' salone, un po' veranda e un po' serra, dove le tendine moderavano la luce, il ponente soffiava amabilmente, uno zampillo d'acqua rinfrescava l'aria, e i fiori d'autunno appagavano l'occhio. La contessa vestita di casimira bianca, coperta di merletti bianchi, adorna di rose bianche sul seno e nei capelli, si dondolava in una poltroncina americana.

--... Voleva dirvi, Sanseverino--continuò con la sua voce seducente e molle--che rimarrò a Capodimonte sino alla fine di ottobre.

--Così tardi? Eppure voi non amate la campagna, non l'avete mai amata.

--Vi sembra? Non so veramente se io l'ami ora. Ma la sua pace mi attrae, mi soggioga. La città deve essere orribile, arsa dal sole, corrosa dalla polvere, piena di gente borghese e piena di chiasso. Che caldo deve fare laggiù! La sera, quando sto sul terrazzo, mi par di vedere Napoli fumare come una grande macchina a vapore. Ed il vostro Sorrento come lo avete lasciato?

--Bellissimo ed elegante; vi è tutto il vostro Circolo. Ognuno si domanda perchè voi manchiate.

--Anche voi lo domandate?

--Io non oso domandare più nulla, lo sapete. Sono i vostri amici. Fanno commenti, supposizioni...

--Che dicono?

--Io non lo ripeterò mai.

--Anzi, me lo ripeterete.

--Per comando?

--Per comando.

--Dicono che avete un innamorato.

--Credete voi che io abbia un innamorato?--domandò lei fissandolo stranamente.

Egli sentì come un brivido passargli per le ossa, e rispose:

--Non lo credo.

--E perchè?

Sanseverino tacque. Ella raccolse una rosa da un cestino che aveva accanto e glie la gettò. Egli la prese a volo e la odorò lungamente, mentre ella osservava con attenzione. Aveva baciato il fiore o aspirato solamente il profumo?

--... ditemi, Sanseverino, a Sorrento, avete spesso pensato a Napoli?

--Vale a dire, contessa?

--... a Capodimonte?

--A Capodimonte?

--... voleva dire a me--concluse lei con voce dolente e arrossendo un poco.

Egli la guardò, sorpreso. Ma ella non gli dette tempo di rispondere:

--Ho letto, ieri l'altro, una parola misteriosa in un libro misterioso. È la parola: ideale. Non sorridete, la conoscevo: ma non comprendevo bene che fosse. È la nuvola che passa, non è vero, l'ideale? È la musica che abbiamo nella mente? È il quadro dipinto nella fantasia? È un fantasma adorato? È tutto questo, non è vero?

--Tutto questo ed altro ancora, signora.

--O amico, voi dovete averlo ed amarlo un ideale. Ditemi qual è.

--Io non posso dirvelo.

--E che? non mi amate voi forse?--sclamò lei, con gli occhi lucenti.

--Sì, ma non vi dirò il mio ideale.

--Ebbene, non me lo dite: io lo so. L'ho indovinato: il mio cuore è diventato profeta. Il vostro ideale è una donna, quella donna che v'ami. Consolatevi e ringraziate il Signore. L'ideale è vivo: io v'amo, Cesare.

--Non scherzate, Laura.

--Non scherzo, vi voglio bene,

--V'ingannate, forse.

--Non m'inganno: vi voglio bene.

Egli impallidiva sempre più. Un tremolio gli agitava gli angoli delle labbra.

--Ve ne scongiuro, Laura, non mentite! Rimanete bella, malvagia, seducente, ma indifferente, ma lontana, ma inafferrabile! Se volete che v'adori, ditemi che non mi amate.

--Io non vi capisco, voi siete pazzo, Cesare: io so che v'amo.

--Addio, Laura.

--Non ve ne andrete, spero.

--Me ne vado; addio.

--Cesare, Cesare!

Ella spalancò un balcone; la viva luce del sole la ferì. Si spenzolò sulla ringhiera e gli gridò:

--Da tanto tempo, Cesare! Dal primo, dal primo momento...

--Tanto peggio--disse lui, chinando il capo.

E si perdè nella lontananza della via.

Giuoco di pazienza.

La giovane donna si chiamava Tecla, nome duro e schioccante. Era bassa, senza nessuna nobiltà di statura, malgrado portasse la testa ritta e le spalle cadessero benissimo. Era pienotta senza esagerazione di rotondità, e pareva molto svelta nel suo busto strettissimo. Forse con l'abitudine aveva presa quell'aria di sveltezza che sembrava naturale. Si moveva con facilità, con certe mossettine carezzose che stavano bene al suo corpo di bambina felice. Aveva naturalmente un bel braccio, un po' corto, ma graziosamente rotondo, con un'attaccatura molto fine che indicava quanto fossero delicate le ossa sotto quella carne soda e fragrante di salute. La mano sembrava un cuscinetto di raso, una mano troppo morbida che non si osava stringere per timore di guastarcela. Il piede era delizioso, piccolo, sottile, inarcato, con una caviglia elegantissima: per contemplarlo, qualche volta, si dimenticava la testa. La quale aveva un singolare carattere di forza e di energia sopra quel corpo piacevolmente grassotto; era un'anomalia, una sovrapposizione bizzarra. Una testa forte su cui si ammassava una ricchezza cupa e pesante di capelli neri, intrecciati, stretti, raccolti, ma che finivano per piegare le forcinelle e per accumularsi sul collo, sfatti, a sprie semi-ritorte. Sulla fronte nè piccola frangia tagliata, nè ricciolini, nè nulla; si vedeva la nascita dei capelli gettati indietro, folta, possente, tracciando una riga nera sul bianco della pelle. Gli occhi erano nerissimi, brillanti come il jais, ma senza languori di sentimento, e senza profondità di pensiero. Il difetto grave era nelle sopracciglia, troppo nere, troppo folte, quasi riunite in mezzo, che davano una cattiva espressione al volto. Il naso aquilino piombava un poco sulle labbra sottili, un po' tirate in dentro, molto rosse. Tutto il volto era pallido, di un pallore opaco ma non malaticcio, leggermente rosso, un'ombra appena alle guancie. Segno particolare, delicatissimo, colorito teneramente, come quello di un bambino, l'orecchio. Altro segno particolare: un neo castano, vezzoso, sulla metà del mento. Vestiva una veste da camera di raso tessuto, a piccole righe, una riga rossa, una riga gialla, una riga nera: ampia, lunghissima, tenuta ferma intorno alla vita da un cordoncino d'oro. Al collo un riccio di trina antica, molto gialla.

La scimmia si dondolava sopra un cerchio di legno, dandosi il piacere dell'altalena. Era una scimmietta ancora adolescente, tutta magra, con le membra esili; forse non sarebbe cresciuta più. Sarebbe rimasta piccola, elegante e vivacissima, come si leggeva nel furbo e mobile occhio nero. Non faceva orrore, nè schifo: faceva meraviglia, tanto le sue pose aristocratiche rassomigliavano a quelle di una damina. Anzi, per capriccio, le avevano fatti due buchi alle orecchie e portava due stelline di perle come orecchini; il che la rendeva contenta, crollando la testa come una donnina soddisfatta. Aveva anche un abituccio di velluto rosso, come quello di una bambola, fatto per lei; ma quella mattina non aveva voluto metterlo. Se ne stava tranquilla ed illanguidita nell'angolo del salotto che le era consacrato durante la giornata: alla notte Eva andava a dormire nella serra coperta di cristalli, poichè i lumi del salotto le avrebbero dato fastidio ed impedito il sonno. Lei faceva l'altalena lentamente portando ogni tanto la zampina al collo, dove portava un filo d'oro, impercettibile, ma che era il segno della schiavitù: la catenina d'oro, di maglia veneziana, che vi era attaccata, era sottilissima, ma forte. Precauzione inutile, poichè la signorina Eva era perfettamente ben educata, e non tentava scapparsene--essendo provvista di molta filosofia. Quando venivano visite, fingeva sonnecchiare, dormendo con un occhio solo. Quando le portavano le noci, le nocciuole, le mandorle brusche, allora il suo istinto bestiale si rivelava, frettoloso, vorace, gittando attorno occhiate diffidenti, come se qualcuno volesse rapirle la preda. Finite le nocciuole, faceva un grande atto di disprezzo e si richiudeva nell'apatia di una donna malcontenta di tutto. Il più strano, però, era osservarla quando, tutta sola, faceva la donnina: prima civettuola, tutta vezzi, tutta occhiate, tutta galanterie, provocante e seducente--poi di un tratto malinconica, triste, desolata, parlando, piangendo verso un essere immaginario--e dopo immediatamente sola, tranquilla, fingendo di dar il rosso alle guance impallidite dalle lagrime.

Il manicotto della signora giaceva sopra una poltroncina, gittato là per noncuranza. Era un manicotto di volpe russa, foderato di raso nero, tutto profumato come un sacchettino di odori. Pareva piccolo piccolo, capace di nascondere solo quelle manine morbide: ma egli stesso era morbido e cedeva e v'entrava dentro un piccolo mondo di cose disparate. Vi stava prima un fazzolettino bianco, di battista, tenue come una nuvoletta, come un fiocchetto di neve: il fazzolettino portava, in un angolo, una microscopica, quasi impercettibile lettera A: e la signora si chiamava Tecla ed il suo cognome cominciava con la lettera M. Ma era impossibile che il pubblico ignaro potesse scoprire quella cifra. Questo fazzolettino era a sua volta profumato di chypre, un profumo lento e voluttuoso che finisce per addormentare i nervi: un angoluccio era piegato e annodato come i fazzoletti delle serve che vi mettono i denari. Vi era una carta infatti: una immagine della Madonna dei Sette Dolori. Oltre il fazzolettino vi era una piccola boccettina di cristallo smerigliato e chiusa ermeticamente col tappo d'oro; dentro vi era una sostanza bianca che poteva essere sale inglese, bicarbonato o arsenico. Non si distingueva bene. Accanto alla boccettina un minuscolo libriccino di note, legato in pelle grigia, con una violetta del pensiero, secca, attaccata sulla pelle. Dentro, nelle paginette bianche dal taglio d'oro, vi erano semplicemente certe date, ed accanto un no, un. Nell'ultima pagina scritta vi erano tre date e tre no.

La lettera era sulla scrivania, sotto gli occhi della signora. La busta aperta metodicamente, vale a dire col taglio della stecca che aveva tagliato nettamente una delle piegature, come colui che non ha fretta di aprire. La busta era forte, poichè la lettera dentro era molto pesante. Il francobollo straniero: veniva da Montecarlo. L'indirizzo: alla signora Giovanna Jannaccone, ferma in posta, Napoli, un nome volgarissimo, era scritto con un carattere calligrafico, rotondo, tutto a ghirigori ed a fioriture di penna: il carattere di uno scrivano, di un segretario, di un indifferente. Dentro, la lettera era composta di varii foglietti: il primo era di elegante carta inglese, dal cui angolo a sinistra era stato strappato un pezzetto su cui vi era forse una cifra, forse uno stemma. Il secondo era un foglio di carta di albergo, con l'intestazione lacerata a metà, così: Hôtel de.... Il terzo era un menu di pranzo, dietro cui era stato scritto fittamente ed in traverso. Poi veniva di nuovo un mezzo foglietto di carta inglese, poi un pezzo di carta qualunque, comune. Tutto questo era coperto di una scrittura minuta, affrettata, maschile, ma variabilissima, ora tremante e tutta sprizzature di penna, ora ferma e netta--sempre rapida. Qui le linee pendevano verso il fondo, come prese da una mollezza; più innanzi si rialzavano, diritte, uguali, quasi piene di rettitudine. Certe parole scomparivano sotto la cancellatura, alcune supplite da altre, alcune che non avevano trovato l'equivalente. Abbondavano i punti sospensivi, come se lo scrittore si fosse fermato spesso a pensare. Qui e là l'inchiostro cambiava di colore o impallidiva. In due punti era stemperato, divenuto acquoso. Ogni foglietto era firmato con la lettera A. Il penultimo era scritto disordinatamente, le parole una a ridosso dell'altra, quasi impazzite. Sull'ultimo solo una parola.

Con questi pezzi il paziente lettore ricostruisca il dramma funesto che essi formano.

Aspettando.

Nella notte purissima e chiara il plenilunio scintillava. Dalla terrazza del mio albergo io vedeva a destra, a sinistra i campi arati che dormivano sotto la tranquilla luce lunare; in capo alla viottola fiancheggiata di querciuoli, dopo una discesa di cinquanta passi dall'albergo, dormiva, tutta bianca, con due finestre nere, la piccola stazione; lontano, dopo una spiaggia deserta, dormiva la grande linea dell'Adriatico. Dietro le mie spalle, inerpicato sulla collina, il paesello dormiva. La profonda pace della notte era intorno a me. Io solo vegliavo, inquieto, febbricitante, esaltato, passeggiando su e giù, mentre la mia ombra si allungava, si accorciava, scompariva, mentre nulla poteva calmarmi. Io aspettava lei. Da tre giorni io l'aspettava nell'unico albergo, in quella piccola stazione intermedia che niuno conosce. Lei doveva venire, passare con me una giornata e partirsene. Io l'aspettava.

Per questa giornata io fremeva ed impallidiva da due mesi lavorando, ridendo, vivendo sotto l'imperio dell'idea fissa. Da due mesi ella palpitava come un uccello morente nel disordine delle sue lettere; da due mesi noi mentivamo atrocemente alle persone che ci erano state più care. Ogni azione, ogni pensiero, ogni speranza era concentrata in quella giornata luminosa e ardente. Per andare io ingannava un'altra donna, mia madre, mia sorella, i miei amici; io faceva venti ore di viaggio, io rimaneva sei giorni nell'albergo del paesello: per venire ella ingannava un uomo, ingannava suo padre, i suoi fratelli, i suoi cognati, sua suocera, i suoi servi, i suoi amici, si esponeva a viaggiar sola, bella e graziosa, per trenta ore di viaggio, in mezzo ai pericoli, venendo ad un pericolo di morte. Che importava tutto questo? Io l'amava e l'aspettava, ella veniva a me perchè m'amava. L'ultima settimana prima del giorno era stato un turbine quello che ci aveva travolti; eppure, in tanto disordine di ogni cosa brillava netta, lucida, matematica tutta la combinazione del viaggio. Io conosceva a mente il mio itinerario ed il suo, e lo ripeteva sottovoce, come se avessi potuto dimenticarlo. Quei nomi di paesi, quelle ore ritornavano macchinalmente sulle mie labbra. Eppure una orribile paura mi accompagnava di sbagliare un treno, di non trovarmi, di perdere la testa e due ore innanzi era alla stazione, fingendo leggere, disinvolto, bevendo dei grandi bicchieri d'acqua per calmare la mia febbre. Chi ha viaggiato con me? Non so, guardavo in volto le persone senza vedere nulla. Sentivo nelle orecchie un rumorio di voci, uno stridìo di ferro, squille di campanelle, fischi, ma non comprendeva nulla. Non ho dormito mai, mai. Mi assopivo talvolta nell'abbandono, nella stanchezza dei nervi troppo tesi, ma l'anima vegliava, un sussulto mi scuoteva. Quanti giornali ho trascorso, quanti libri ho sfogliato? Non mi ricordo. So che arrivato al paesello dove ella doveva venire, mi son sentito stringere il cuore. Forse non sarebbe venuta.

Che ne sapevo io? Era così strano il modo come ci eravamo amati, così singolare il modo come ci amavamo! Non mi conosceva; non la conoscevo. Da un momento ad un altro, lei che non era nulla, era diventata tutto per me. Che donna era? Forse non sarebbe venuta. Forse l'avrebbero trattenuta. Invano cercavo dominare questo senso invincibile di sgomento. Pure l'albergatore, un cortese e famigliare uomo che non vedeva mai nessun forastiero, non si accorse di nulla; è vero, io era pallido, gli occhi miei vagavano, distratti, le mie mani avevano la febbre, ma sorridevo, scherzavo anche. Nei tre giorni avevo visitato il paesello, la sua chiesa gotica, la sua manifattura di lana sopra un fiumicello là presso: ma i paesani che si volgevano a guardare questo viaggiatore tranquillo ed attento, non sapevano niente della lotta spaventosa che mi rodeva. Con un vetturino facevo lunghe passeggiate in carrozza e mi lasciavo narrare i suoi guai, tutte le vicende della sua vita. Anche la cameriera dell'albergo ed il servitore mi avevano fatto tutte le loro confidenze; essi avevano trovato un placido ascoltatore che approvava col capo, senza capire, rosicchiato, minato, tormentato da un sol pensiero. Diventavo stupido. La notte smorzavo il lume nella mia stanza, passeggiavo sul terrazzo, guardando la via ferrata.--Verrà di là--pensavo fra me. E come un'allucinazione mi prendeva, mi pareva che sbuffante e rumoreggiante il treno arrivasse col suo occhio verde e col suo occhio rosso che mi guardavano, che una potenza malefica m'inchiodasse sul terrazzo, ch'io vedessi di lontano la diletta dell'anima affacciarsi allo sportello, cercarmi, non trovarmi, ricadere indietro, disperata, ripartirsene senza che io, nella più orribile contrazione del dolore, potessi fare un passo o dare un grido. L'incubo si sedeva sul mio petto, me desto.

Erano state lunghe, eterne quelle ore dei tre giorni, io le aveva vedute avanzare pigre e stanche, ma le ore dell'ultima notte, chiamate invano, supplicate invano, non venivano. Lei doveva arrivare alle sei del mattino. Dalle otto della sera prima io agonizzava nell'impazienza. Non una lettera, non un telegramma. Non poteva farmene, non doveva farmene, avevamo stabilito così. Viaggiava lei verso me? Dove era lei in quel momento? Calcolando potevo saperlo. E se non venisse? Tutte le più alte, le più inflessibili deduzioni matematiche sono capovolte da un picciolissimo fatto. Passeggiavo, fumavo, morsicchiando la mia sigaretta, lasciando che si spegnesse, gittandola nella via, accendendone un'altra. Nella sera ad uno ad uno si spegnevano i lumi del paesello. Passò un treno alle nove; era un diretto, non fermò. Alle dieci un altro; fermò per due minuti; era l'ultimo. La stazione era il mio faro, la mia compagnia. Illuminata, mi riscaldava il cuore come un raggio di sole. Certo i due impiegati, i facchini, il capostazione dovevano essere molto stanchi, poichè smorzarono subito e se ne andarono a letto. Mi parve di rimanere solo, abbandonato, in un deserto, senza luce, senz'acqua. Rientrai in camera, tutto angustiato. Dinanzi ad una fioca stearica d'albergo, in piedi, fremendo, rilessi le sue lettere inquiete, agitate, febbricitanti, che mi davano la follia. Sarebbe venuta. Sarebbe venuta la regina di Saba nei dômi azzurri della mia fantasia. Io le tendeva le braccia, ella veniva. Poi mi mettevo a pensare se quel salottino e quella camera d'albergo erano degne di ricevere la sua persona. Piccole stanze, messe con un lusso un po' rustico, un po' cittadino. Ma come Cristo, vi erano tutte le stazioni della Passione. Gliele avrei fatte vedere: Vedi, qui ho pianto, pensando che tu non saresti venuta. Qui ho sperato che questo calice mi sarebbe risparmiato. Qui ho agonizzato nel dubbio della mia fatale Getsemani. Qui ho singhiozzato credendomi tradito da te. Qui ho disperato, credendo che non saresti più venuta. Questo è stata la mia tomba per tre giorni. E qui, qui, amore mio immenso, sono risorto.--E pieno di una esaltazione, uscivo sul terrazzo a gesticolare, come un lungo burrattino preso da pazzia. Forse non sarebbe venuta. Mi sedetti in un angolo, appoggiando le braccia sul muretto, e il capo sulle braccia. Ma non dormivo, no. La boccettina del cloralio era quasi vuota sulla mia tavola. La vuotai. Mi distesi sul letto per dormire. Non dormivo. Presi un libro: le massime di Larochefoucauld. Tristi massime, ironiche massime, piene di realtà. Ma la passione è fuori della vita reale. Mi conturbarono. Fumai di nuovo. Avevo la gola secca, le fauci riarse, le guancie mi bruciavano. Prendevo lo sue lettere, profumate, fresche, e me le metteva sul volto, sperando averne qualche refrigerio.

Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una le case dei contadini. Nell'albergo dormivano ancora. Pure, sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva scopava, in basso, la stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non viene--mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva, un gomito; tornai indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un wermouth nel piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito, forse ella non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto andarmene perchè non veniva. D'un tratto un debole fischio, un suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno nero, bagnato d'umidità. Il sangue mi va al cuore, ma oso domandare:

--È il diretto?

--No, è un merci. Ci vogliono tre quarti d'ora pel diretto.

--È segnalato alcun ritardo?

--No, per ora.

Lei non verrà. Me ne vado nel giardinetto della stazione dove crescono le rose delle quattro stagioni ed i gelsomini cremisi in ritardo. Una lucertola mi guarda con i suoi occhietti sospettosi, una buona, simpatica e nervosa lucertola. Vorrei narrarle la mia disperazione, perchè lei non verrà. Un carabiniere è ritto sotto la porta; non mi guarda. Vorrei dirgli quanto son disperato, poichè lei non verrà. Gli ultimi minuti; prima che il treno arrivi, io li vivo triplicatamente, giunto al culmine d'ogni sensazione. Viene il treno, la campanella è stridula, le orecchie mi tintinnano. Il sole appare vittorioso all'orizzonte e il fumo bianco della macchina s'indora. Lei non vi è. Non mi avanzo, rimango immobile morendo in piedi. Scendono contadini dalla terza classe; dei signori una vecchia, un bambino dalla seconda. Lei non vi è. D'un tratto, lontano, nella penultima carrozza di prima classe, allo sportello non fa che apparire e scomparire un volto smorto.

Mi trovo la forza di aprire la portiera. In una mano ghiacciata è appoggiata una manina tremante. Non ci parliamo, ma ci guardiamo, camminiamo accanto. Quei due esseri pallidi, senza voce, tremanti come bimbi sono un uomo a trent'anni forte e coraggioso, una donna di spirito e di coraggio. Alla porta le faccio una domanda insulsa, inutile.

--Hai il biglietto?

Lo ha, me lo mostra. Passiamo. Ce ne andiamo nel polverio della via, senza osare di darci il braccio. L'albergatore dalla soglia ci sorride. Lei sorride con gli occhi pieni di lagrime, io non sento che il profumo acuto dei suoi guanti, il suo profumo...

Tu hai potuto dimenticare, io ho potuto dimenticare. Poichè questo caso mostruoso, inaudito, è stato possibile, sogghigniamo e diciamo pure che la vita, nella sua più alta espressione che è l'amore, non è che un vano e miserabile sogno.

Duetto di salone.

Le due amiche si erano, all'uso napoletano, cordialmente baciate sulle guancie. Giovannina, la maritata, taceva, affannando un poco, come se le scale l'avessero incomodata; Maria, la fanciulla, le teneva una mano fra le proprie, sorridendo e mormorando:

--Come hai fatto bene a venire, come hai fatto bene...

--Sì, carina, carina--disse Giovanna, sollevando con un dito il mento di Maria, per guardarla bene negli occhi--sono venuta appena di ritorno dalla villeggiatura. Sono rimasta laggiù, nel mio quasi castello, troppo tempo... troppo tempo... mi son lasciata prendere dalla malinconia...

--.... Malinconia? Non mi pare, Giovannina. Tu hai il viso della serenità: il sangue colorisce il tuo volto, lo sguardo brilla; non hai neppure quella brutta traccia di voglia, che è quell'ombra nera sotto gli occhi.

--Infatti, io sono serena--rispose Giovanna con un lieve stiracchiamento del labbro che poteva parere sorriso--ma non è di me che si tratta, è di te, mia ridente e placida. Sono venuta qui per sapere tutto quello che hai fatto da luglio che noi non ci vediamo, come ti sei divertita, come ti sei annoiata, quello che hai detto, quello che hai pensato,--una storia lunga, lunga, lunga, come quelle che chieggono i bambini. Ascolto, mia bella Schehezerade.

--Cara, da luglio ad agosto sono stata a Castellammare, da agosto a settembre a Sorrento.

--E dal primo ottobre sinora?

--A Napoli.

--A Napoli?

--Napoli.

Le tre parole squillarono nette e decise, tanto nell'interrogazione, quanto nelle due affermazioni. Un minuto di silenzio.

--E poi?--chiese ancora Giovannina, distendendosi con un moto voluttuoso nelle sue pelliccie.

--E poi, che cosa?

--Che hai fatto, cuor mio, in tutti questi siti?

--Ah!.. ecco. A Castellammare ho preso il bagno, ho nuotato, ho ballato moltissimo; a Sorrento ho passeggiato, a piedi, a cavallo, in carrozza; ho letto molto, ho fatto molta musica, ho contemplato molti tramonti e molte notti stellate; ho ballato ancora...

--E qui?

--Qui? Le solite cose.

--Nulla di nuovo, carissima creatura?

--Nulla di nuovo, Giovannina mia.

Giovannina compresse un vivo moto di dispetto: la fanciulla non voleva confessare il suo segreto.

--Dimmi tu che cosa hai fatto, Giovannina--domandò la fanciulla con molta bonomia.

--Sai, nulla di eccezionale, neppure quest'anno. Pei bagni, a Livorno.

--È bello Livorno?

--Stupendo, Maria.

--... e allora?

--Allora, allora ti dirò che è troppo stupendo, e che ti fa trovare insopportabili tutti gli altri siti. Là il mare poeticamente burrascoso, tanto più bello nelle ore di tranquillità: quante volte sono stata a contemplarlo!...

--Con tuo marito?

--Luigi? neppure per sogno; egli odia il mare. Poi, i mariti hanno sempre il grave difetto di odiare quello che le mogli amano. Ahimè, Maria, quante volte abbiamo litigato con Luigi, per la musica di Beethoven, per il colore del nostro salotto, per quella cara marchesa Fulvia che egli non può soffrire! Liti lunghe, aspre; egli è flemmatico, io sono nervosa...

--Tu non sei felice?

--Felice, felice!... non dimandare certe cose. Ci maritano molto bene noialtre ragazze...

--Tu amavi Luigi?

--Lo amavo, lo amavo... mi piaceva, invece. Egli portava la marsina in un modo irreprensibile, ballava il valzer, come nessuno lo balla, dirigeva il cotillon come pochi lo dirigono. Ed il modo come mi faceva la corte! Follie addirittura: viaggi a rotta di collo, scene di gelosia feroci, pianti, singhiozzi, un delirio. Sai, questo fa impressione alle ragazze...

--E dopo?

--Dopo ci siamo sposati: ecco tutto.

--Vale a dire?

--Vale a dire che non m'importa più come porta la marsina, poichè lo vedo spesso in giacchetta; con me non ci balla più. Mi ha sposato, non piange più, non freme più, non impazzisce più, crede alla mia virtù, crede al mio amore, crede alla propria onnipotenza...

--Ebbene, questo non basta? Non è questo l'amore?

--.... no, viene un giorno che questo non basta. Di fronte alla placida indifferenza dello sposo, dinanzi alla sua regale aria di conquista, la donna prova un senso di irritazione...

--Il matrimonio è la pace, Giovannina.

--No. L'irritazione cresce quando quest'uomo trascura poco a poco tutti i mezzi per sedurre sua moglie, tutti i mezzi per piacerle, tutti i mezzi per essere verso lei il più bello, il più nobile, il più intelligente, il più innamorato fra gli uomini...

--La moglie non è l'amante, Giovannina.

--Che ne sai tu, fanciulla tranquilla ed inconscia? Io so che Luigi mi amava prima del matrimonio e spasimava per ottenere l'amor mio; ora non m'ama più, poichè è sicuro di essere amato.

--Tu non sei indulgente con lui, Giovannina. L'amore è fatto di indulgenza.

--No, è fatto di giustizia. Sono io meno bella, forse? Sono io meno elegante, meno graziosa, meno amabile? No: è lui che è mutato. Dal maggio io ho notato una decrescenza nel suo affetto. Ora è indifferente.

--Tu puoi ingannarti, Giovannina. Sei tu sicura della serenità del tuo giudizio?

--Sicura? Vedi, io adoro il mare. Non potendo stare a Napoli, nell'estate, decido di andare a Livorno--lui ci viene a malincuore, seccato, trovando l'acqua salsa inutile e Pancaldi noioso. L'Ardenza non lo commuove punto... si può immaginare di peggio?

--Ma perchè non venivate via?

--Per dargliela vinta?

--Il sacrifìcio è lieve quando si ama.

--Dunque tutti i sacrificii debbo farli io? Noi donne non saremo sempre che l'esempio dell'abnegazione? Noi ad amare, noi a sopportare i fastidii, noi a scusare le ridicolaggini del marito, noi a lusingarci che ci ami ancora, noi ad offrirgli dei prestiti per la sua indifferenza! È troppo, è troppo, la misura soverchia!

Giovannina si era riscaldata poco a poco, come se nessuno l'ascoltasse, come se facesse un discorso con sè stessa. Invece la fanciulla l'ascoltava attentamente, guardandola coi suoi grandi occhi luminosi di bontà.

--È grave, è gravissimo--riprese Giovannina--questo maritarsi con una persona con cui non si è avuta nessuna intimità. Dumas lo deve aver detto molte volte; egli lo pensava, io lo sento. Dio mio! Pranzare, passeggiare, cenare, abitare, vivere tutta la vita, con un uomo con cui si è solamente walzato! È comico ed è funebre. E un brutto giorno, sapete di che ci accorgiamo noi? Sapete la paurosa scoperta che facciamo? Noi scopriamo di non amare più!

--Oh! fece solamente la fanciulla, e si nascose il volto fra le mani.

--Non amiamo più. Nulla vi ha più in noi, nulla risuona più nel nostro cuore. In noi si è fatto il silenzio e la solitudine: invano cerchiamo scuotere questa inerzia, invano ci ribelliamo contro questa indifferenza. L'amore è morto: e se quella sua forma fu una falsità, quella falsità è scomparsa. Allora tutti i difetti di quell'uomo, del nostro marito, ci appaiono nudi, brutti, odiosi; tutto in lui ci respinge, tutto in noi lo respinge. Allora malinconiche, desolate, giovani, con una piena di sentimento che si perde miseramente cerchiamo l'amore altrove...

--Altrove??

--.... In un altro cuore che c'intenda. L'altro è sempre pronto, bello, poetico, cavalleresco, fatale, al cui paragone nessun marito regge. L'altro ha l'aureola della poesia intatta, sa amare, sa perdere la testa, non sa, non capisce che la passione. La donna ama quest'altro per logica necessità, perchè non ama più, perchè deve amare di nuovo, perchè l'altro è l'eletto del suo cuore! Ma immagina tu, fanciulla, con che disperata passione la donna si attacchi a quest'altro, immagina con che forza di animo si avvinghi a quest'altro che per lei rappresenta l'amore e la colpa, il dolore e la felicità! Immagina se questa donna che ha gittato in un giorno tutta la sua vita, voglia lasciar mai quest'uomo ad un'altra...

E la parola si affogò nella strozza, per collera, per amore, per gelosia. Poi ella si rizzò in tutta la sua altezza:

--Sposi tu Roberto Montefiore, Maria?--chiese brevemente.

--Lo sposo, Giovanna--disse quella in piedi, seria, tranquilla.

--E perchè?

--Perchè l'amo.

I due sguardi, egualmente innamorati, egualmente disperati, s'incontrarono come due lame nemiche.

Al Veglione.

La stanzina era immersa nell'oscurità. Ogni tanto, un bagliore rossigno si rifletteva sul muro: veniva dalla finestra. Nella via passavano gruppi di gente mascherata e con torcie che girava per le strade, cantando, ballando e schiamazzando. Verso le undici della sera una chiave girò nella toppa. Magda entrò, nell'ombra; senza accendere il lume, camminò nella stanza, a tentoni. Un profondo sospiro le sollevò il petto.

--Che silenzio...--mormorò sottovoce.

Rimase così un pezzo, immobile nel mezzo della stanza, come una statua nera nell'ombra. Si lasciava avvolgere da quell'ambiente cupo e deserto.

--E che freddo!--soggiunse, rabbrividendo.

Poi, quasi por sottrarsi a quelle cattive impressioni, accese rapidamente due o tre candele, gittò pezzi di legno nel caminetto. Con le mani delicate sollevò il soffietto e accese il fuoco. Subito la stanzina s'illuminò. Era tutta gaia nella stoffa chiara dei suoi parati a fiorellini rossi, nei suoi mobili eleganti, nelle trine della sua toilette. Gaia di colore, ma deserta. Magda si guardò attorno. Aveva freddo, sempre che ritornava ad aspettare in quella stanza solitaria colui che doveva venirci. Non si riscaldava che al solo suo arrivo: anzi, appena ne udiva il passo per le scale, le mani le bruciavano come per febbre, il sangue le dava una vampata alla faccia. Ora essa gelava, coi brividi che le passavano sul volto bianco, che le ammollivano le radici dei capelli fulvi. Da dieci giorni egli mancava da quella stanza. Lei lo aspettava ogni giorno.

--Neppure questa sera verrà--pensò lei, sciogliendosi i magnifici capelli per pettinarli.

Ma guardandosi nello specchio, si rincorò. Si trovava bella nelle labbra rosse e carnose, negli occhi verdi che si facevan fosforescenti alla sera, nella bianchezza senza macchia della fronte, del collo.

--Verrà sicuramente--pensò rassicurata.

Si assorbì nel ridurre a minime proporzioni la ricca capigliatura che ondeggiante rassomigliava alla criniera di un leone, nel prodigare alla sua persona le cure più minute che una donna bella, ricca e disoccupata può inventare. Un passaggio di torcie la sgomentò.

--Quanta gente per le vie...--pensò--ma egli verrà sicuramente.

Pure, come l'ora passava, cresceva la sua inquietudine. Le mani si stancavano, andavano a rilento, cadevano fiacche in grembo: tutta la sua persona era presa da un senso di infinita debolezza.

--Coraggio, egli verrà--ripeteva a sè stessa.

Così andò all'armadio di legno scolpito e ne cavò fuori un costume completo da Follia, metà di raso azzurro, metà di raso rosa, tutto a sonaglini di argento, col berrettone puntato, ornato di campanellini. Era un costume corto, scollato, quasi senza maniche. Vi mise le calze, una di seta azzurra, una di seta rosa, gli stivalini anche differenti fra loro: era pronta anche la marotte carica di sonaglini. Tutto questo insieme di abbigliamento le fece vergogna. Lei abituata agli strascichi di broccato e di trine, alle severità dei velluti, aveva orrore di quell'ignobile abito corto da ballerina, da saltatrice di corda. Non l'avrebbe mai messo, mai. Rimaneva in piedi, presso il divano, contemplando col viso addolorato quell'abito. Non avrebbe mai osato metterlo, mai.

Suonò mezzanotte. Non aveva che un'ora per vestirsi ed andare, un'ora sola. Lentamente, sedendosi ad ogni istante, abbattuta ad ogni istante da subitanei abbandoni, rialzata da impeti subitanei, senza guardarsi nello specchio, arrossendo nelle spalle nude, dal collo alla fronte, rabbrividendo come una febbricitante. Quando vide che sotto la gonna si distinguevano i piedi sino al collo della gamba, si buttò sul divano, tutta raggricchiata, non osando più muoversi; quando si fu decisa ad appuntare sul capo il berrettone e che solo facendo un movimento tutti i campanellini suonavano, ella ebbe tutta l'angoscia del suo ridicolo. Non sarebbe mai andata.

--Non importa, egli verrà--pensò ancora, con un eroismo muto.

Mise alle dita i suoi anelli gemmati che le facevano rassomigliare la mano a qualche cosa di fulgidamente alato, infilò il dominò di raso nero, che la coprì tutta. Prima di partire fu presa da una esitazione, quasi che abbandonasse per sempre una persona cara. Pareva che tutto le dicesse sommessamente: Rimani, rimani.

--No, io andrò--disse lei a voce alta, quasi per incoraggiarsi--poichè egli verrà.

Solo nella via sentì il freddo delle spalle nude sotto il raso nero del dominò; non aveva messo pelliccia, lei abituata a stare calduccio. Ma come la febbre divoratrice le saliva al cervello, non sentì più il freddo. Una nuova paura fu quella di non trovare carrozza. Camminava impacciata e guardinga, gelata dal freddo, riarsa dal caldo, urtando nelle colonnine; smarrendo la via sotto la maschera. Già qualche viandante si era fermato a veder passare questo dominò imbarazzato, profumato ed elegante. Uno l'aveva chiamata, offrendole da cena. Lei tremava, lei, la contessa, abituata alla devozione dei servi, al rispetto degli amici--sola, abbandonata, morente di vergogna e di paura. Finalmente una carrozza passa, ella chiamò, vi salì dentro come un naufrago che giunge a riva.

--Che importa? Egli verrà.

Era la sua giaculatoria, la sua litania, la sua ultima, solenne, grandiosa speranza. Era la preghiera: in lui si riassumeva tutta la sua vita. Non vide la via, non avvertì il tempo trascorso. Si trovò innanzi all'atrio senza sapere come. Scendendo di carrozza, sulla soglia, un dominò la complimentò brutalmente sulla bellezza del piedino. Ella tirò innanzi rapidamente, non trovando il corridoio buono che la menasse al suo palco, smarrita, mordendosi le labbra sotto il sussulto nervoso.

--Pazienza, egli verrà.

Quando arrivò al suo palco era la una, l'ora dell'appuntamento. Lei si mise a guardare attentamente nella platea, dove si agitava una folla nera e urlante, variegata di costumi vivaci e di dominò chiari. Ballavano, saltavano, con le braccia in aria, le gambe di qua e di là, come burattini chiassosi e fracassoni. Una nebbia rossastra saliva al soffitto del teatro; non si distinguevano molto le faccie. Lei fissava i suoi occhi acuti attraverso la maschera; un turbamento le appannava la vista.

--Egli verrà, egli verrà.

Dopo aver esplorato la platea, esplorò i palchi, uno per uno. Nulla.

--Verrà, verrà, verrà.

Stette a guardare un lunghissimo, un interminabile galopp, di cui la fila danzante pareva un serpente, ora squassante la coda, ora balzante, rotto a tronconi. Tutta la sala si lasciava prendere dalla follìa del chiasso. Si udivano le voci sottili, in falsetto, delle maschere che non volevano farsi riconoscere. Uno stridìo acuto, un urlare incomposto. Lei se ne sgomentò. Tutto questo le pareva una ridda infernale, un'orgia di dannati. Giammai sarebbe discesa laggiù, nella bolgia.

--Egli verrà, verrà qui.

Qualcuno entrò nel palco; Magda non lo conosceva. Le parlò come ad una mascherina sola, che aspetta avventure; lei impallidiva di sdegno, lei, la fiera contessa indomata. Non rispose: il qualcuno, stancato, finì per andarsene. Erano le due e mezzo.

--Sarà forse nella sala, avrà dimenticato il numero del palco. Se lo cercassi? Così egli verrà.

Combattuta fra la paura e l'amore, discese lentamente nella sala, cercando lui. La chiamavano da ogni parte, vedendola sola, sentendo il maledetto e ridicolo tintinnìo dei campanelli: chi la prendeva pel braccio, chi la urtava, chi le gettava una parola sul volto bianco della maschera, chi gliene susurrava una all'orecchio. Lei resisteva, si scioglieva, non rispondeva, tirava innanzi, mezzo impazzita, cercando sempre, come una belva ferita, con lo sguardo feroce ed umile nel medesimo tempo.

--Egli verrà, egli verrà.

Non lo trovò, non lo sapeva cercare forse. Poi la sormontava il dubbio che lui fosse andato in palco, mentre lei era assente. Risalì aspettando ancora, morendo ad ogni minuto, fremendo ad ogni calpestìo nel corridoio, tremando ad ogni rumore di voce, stirando i guanti sotto le larghe maniche, sfilacciando la trina del suo dominò.

--Egli verrà.

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Alle quattro del mattino, mentre tutta la sala si abbandonava all'ultimo sfrenato ballo, diventato un delirio, Magda, nel suo costume di Follìa, corto e scollacciato, piangeva silenziosamente sotto la maschera, poichè egli non era venuto, poichè mai più sarebbe venuto.

Vittoria di Annibale.

Dopo un anno di matrimonio, la duchessa Adriana di Castroreale fu abbandonata da suo marito, corso dietro alla principessa Natalia Lapouckine, russa, che viaggiava l'Europa. Allora il bel mondo si pose a osservare e domandò: Chi sarà il consolatore della duchessa Adriana? Ma la bella signora, che era dotata di un temperamento nervoso, molto eccitabile, con una lieve inclinazione all'originalità, si montò la testa per questo abbandono, si persuase di essere disperata, pianse per due giorni, vegliò per tre notti, si vestì di velluto nero ed uscì in carrozza chiusa. Niente balli. Il teatro, qualche concerto, qualche società di beneficenza, ma con l'abito rigorosamente chiuso al collo, senza fiori in testa, senza gioielli. Naturalmente, si accese nell'idea di non avere alcun consolatore, e rinunziò all'amore, come aveva rinunziato ai diamanti. Ogni corte celata o manifesta, ogni amoretto nascente, ogni passioncella furtiva, furono respinti con alterezza metodica. Ci si provarono i più valenti; ma non si vince un preconcetto alimentato, non dalla ragione, ma da una fantasia ostinata. La sconfitta più clamorosa fu quella del conte Giorgio Filomarino, uomo bruttissimo, spiritoso, audace ed irresistibile, che volendo giuocare di ardimento sbagliò tutto, offese la duchessa e fu messo addirittura alla porta. Dopo di che il mondo disse: la duchessa Adriana è insensibile; e come ogni filosofia muore quando ha trovato la sua formola, così ogni donna non è più interessante quando è stata definita. Adriana passò fra le donne classificate: la principessa Giovanna era intelligente e cattiva, la contessa Francesca montava troppo a cavallo, la principessa Ester era bionda e sensibile, la duchessa Adriana era insensibile. Ella passò fra le risposte prestabilite, fra le frasi fatte, fra le definizioni immutabili: le era stata assegnata la sua parte, non si pensò più a lei.

Ella, che comprese tutto questo, s'insuperbì della propria virtù, si riscaldò in un ideale di vita illibata, severa; credette sinceramente alla fermezza del proprio carattere, alla singolarità della propria anima. Le sue amiche, parlandole, le dicevano: Tu, Adriana, che sei una donna insensibile, ecc., ecc. Sua zia, la marchesa di Sorito, diceva: mia nipote, che è una donna insensibile, ecc., ecc. I suoi amici arrivavano fino a dirle: lei, duchessa, che è una donna insensibile, ecc., ecc. In tal modo si avvezzò a pensare di sè stessa, a ripetere da sè stessa: Io, che sono una donna insensibile, ecc., ecc. A poco a poco gli adoratori diradarono. All'amore succedè l'ossequio che carezzava la sua vanità, ma la lasciava deserta. La salutavano con profonde scappellate, suscitavano intorno a lei che passava un mormorio d'ammirazione, ma le visite si facevano scarse nel suo palco ed in casa sua. La rispettavano troppo. Quando un novellino si metteva a farle la corte, vi erano subito pronti gli amici ad avvisarlo che era inutile, che avrebbe perduto il suo tempo, e lui abbandonava il campo prima ancora che la duchessa lo licenziasse con uno sguardo glaciale o una parola mordente. Adriana si esaltava sempre più nella sua parte di donna insensibile, malgrado le piccole ferite al suo amor proprio; e provava una specie di ebbrezza nei sagrifici che faceva.

Ma vi era Annibale Massenzio, un giovanotto strano e ragionevole, che non credeva all'insensibilità di nessuna donna. Se ne avesse avuto le prove, non si sa; ma su questo punto aveva profondi convincimenti. Egli diceva dappertutto che le donne finiscono per amare, e che basta saper trovare il momento in cui vogliono amare. Quando gli parlavano della insensibilità di Adriana, si stringeva nelle spalle. Onestamente disoccupato come era, cominciò a farle la corte quasi per scherzo: lei si ribellò, come era solita ribellarsi, il che servì a mettere un certo interesse nell'animo di Annibale.--Mi piacerebbe d'innamorare questa donna--pensava fra sè. Visto che con l'assiduità non vi riusciva, trovando sempre quell'aria severa di virtù offesa che lo irritava, si allontanò tentando il più comune dei mezzi, a cui molte donne si lasciano pigliare. La duchessa non se ne curò che per un giorno solo, chiedendo di lui ad un'amica comune. Egli lasciò dire da molti che avrebbe sposato Maria Mormile, una bellissima giovinetta, per osservare che effetto avrebbe fatto questa diceria sulla duchessa: e lei, la prima volta che lo rivide, gli fece le sue congratulazioni con una disinvoltura che nulla aveva di stentato. Annibale comprese che aveva da fare con una donna non volgare, e tralasciò i mezzucci soliti. Ritornò in casa di lei. Fu accolto con compitezza, ma senza gioia. Solamente, nella profonda notte, nella oscurità della sua camera, la duchessa Adriana si permise di sorridere per compiacenza. Ma l'indomani scontò quel sorriso, raddoppiando di rigore, corazzandosi nella più glaciale indifferenza. Come si consolava all'interno, così si mostrava noncurante e sprezzosa all'esterno; i piccoli e quotidiani peccati di vanità che commetteva inasprivano sempre più le apparenze della sua virtù, simile in questo ai mistici appassionati che si esaltano maggiormente nella voluttà amara del pentimento. Del resto, era perfettamente sicura di sè stessa.

Quegli che si eccitava al giuoco pericoloso era Annibale. La duchessa Adriana lo metteva fuori di strada, egli non comprendeva più il modo come si riesce con le donne, commetteva errori sopra errori, stordito, ostinato, incapricciato come un bambino. Tante volte egli faceva a se stesso un bel ragionamento, provando che Adriana era incapace di amare e che quindi era meglio lasciar stare, se non volea correre il pericolo d'innamorarsi per davvero, il che sarebbe stata una disgrazia grande in quelle condizioni: ma era troppo infastidito dal contegno di quella donna antipatica per decidersi ad una ritirata. Poi, poco a poco, vedendola più spesso, avendo colpito certi momenti rivelatori, egli si persuase che Adriana poteva amare, avrebbe amato quando avesse compreso che cosa fosse l'amore, quando l'animo di lei fosse stato educato al sentimento, quando ella avesse vissuto accanto all'amore. Egli formò il bel progetto di questa educazione, di questa rigenerazione, col coraggio entusiasta di chi crede dover compiere una missione. L'ozio elegante della sua vita era finito, egli aveva trovato come riempire di azione la sua giornata e di sogni la sua nottata. Bene spesso, come la sua natura sarcastica prendeva il di sopra, egli si burlava lungamente di un paladino, di un cavaliere errante che rispondeva al nome di Annibale Massenzio.

Eppure, malgrado le ironie ed i frizzi di cui era prodigo con sè stesso, la sua corte alla duchessa diventava più assidua, più completa, più aperta. Col pretesto di educarla all'amore, egli le mandava i fiori ogni mattina, andava a trovarla ogni giorno alle due, la rivedeva alle cinque alla passeggiata, le scriveva un bigliettino dopo pranzo, la ritrovava ogni sera al teatro, al ballo, al concerto, alle riunioni famigliari. La gente cominciava a compatirlo. Ma non glielo dicevano ancora, credendo che la cosa sarebbe finita lì per lì. Invece la cosa durava: ad una corte accanita Adriana opponeva una resistenza vivace, quasi che si fosse formato un perfetto piano di difesa. Qualche debole e meschina concessione, uno sguardo più languido, una intonazione di voce più amabile, una mano più abbandonata, confortavano per un istante Annibale, ma duravano anche un istante. In realtà, egli finiva per disperarsi; in realtà, aveva finito lui per innamorarsi come tutti quelli che fingono troppo d'amare. Scriveva ad Adriana certe lettere riboccanti di passione per cercare di scuotere quel cuore immobile: e ne riceveva in cambio una frase cortese, una parolina di gentilezza, un sorriso che lo calmavano per breve tempo. Quando stavano insieme era una lotta continua in cui l'eloquenza dell'amor vero infiammava le parole di Annibale, in cui la passione lo rendeva più bello, più seducente: una lotta in cui Adriana combatteva strenuamente negando sempre, ricorrendo a tutte le sottigliezze della dialettica, con quell'arte infinita dei paradossi e degli assiomi che le donne variono all'infinito. Da queste lotte Annibale usciva estenuato, disfatto, con la testa perduta, ogni giorno volendo fuggire, ogni giorno rimanendo; ma Adriana era anch'essa ogni giorno più debole, più sgomenta. L'amore di Annibale la martellava ad ogni ora sul cuore per entrare: i fiori la illanguidivano, le lettere la intenerivano, le parole calorose, gli atti di disperazione la scuotevano; voleva irrigidirsi contro queste impressioni, ma non vi riusciva. Per eccesso opposto diventava crudele con Annibale che, innamorato come era, non sapeva, non poteva accorgersi dei suoi vantaggi. Ella s'inferociva contro lui, lo scacciava dalla sua presenza e, quando rimaneva sola, piangeva. Annibale nulla sapeva di queste lagrime. Adriana viveva in un'atmosfera di amore, era impregnata d'amore, satura d'amore, sognando ad occhi aperti tutte le sue dolcezze, comprendendo il trionfo del sentimento; ed Annibale, vedendola più fiera, più rude, più cattiva, si convinceva della infelicità della sua passione. Stette un giorno senza vederla, ma passò la notte a passeggiare per la riviera di Chiaia; non le scrisse per due giorni, ma quattro lettere lunghissime furono lacerate. Poi si ritirò per una settimana in una sua villa a Capodimonte...

--Se ha anche un'ombra di affezione per me, mi scriverà un biglietto--pensava l'innamorato, desolandosi nel suo eremitaggio.

Per quattro giorni la duchessa Adriana resistette a non aver notizie di Annibale. Ma si sentiva vinta e non cercava che di prorogare il momento in cui la prima parola di amore sarebbe uscita dalle sue labbra. Annibale non veniva, la casa le pareva deserta. Si annoiò mortalmente al teatro. Una mattina entrò in chiesa, cercando rifugiarsi nel misticismo, ma, dopo una convulsione nervosa, si trovò l'animo più afflitto di prima. A casa, nella sua camera, pianse due volte. Desiderò di morire, vestita di raso bianco, coi capelli disciolti, coperta di fiori. Rimpianse di non essersi fatta monaca. Vagava nei suoi appartamenti come un'anima in pena. Una tenerezza grave le saliva dal cuore alle labbra. Finalmente una sera si decise. Stanotte, a mezzanotte, scriverò un biglietto ad Annibale, lo avrà domattina: fu la sua risoluzione. Mentre stava distesa sulla poltroncina, presa da un grande abbattimento, le annunziarono il conte Giorgio Filomarino.

--Benvenuto, mi distrarrà--pensò lei.

Il conte Filomarino era tornato in casa Castroreale da poco tempo. La duchessa aveva voluto benignamente dimenticare la dichiarazione di una volta, tanto più che il conte ritornava come amico, senza farle punto la corte. Dicevano anzi che fosse occupato altrove: anzi il conte sorrideva, ritrovando Annibale presso la duchessa. Era innocuo dunque. Quella sera egli si fermò un istante sulla soglia, osservando quella mezza luce insolita, quelle poltroncine sbandate, quei libri aperti e buttati via, quei fiori che appassivano, gli occhi della duchessa nuotanti in un velo di lagrime. La conversazione si annodò lenta, a voce bassa. Ogni tanto Adriana si passava una mano sulla fronte, quasi volesse diradarne i pensieri. Parlavano di cose semplici, temi usuali della conversazione. Ma due o tre volte Giorgio Filomarino fissò il suo sguardo dominatore sopra Adriana e la vide impallidire. Due o tre volte la voce di Adriana tremò in una insolita vibrazione. Senza accorgersene arrivarono sul terreno del sentimento; e allora Giorgio fu tenero, delicato, imperioso, malinconico, ironico, scettico, appassionato, parlando a meraviglia di amore, con la voce, con gli occhi, con l'espressione del volto. Egli colorì la sua parola, rese brillante e profonda ogni sua idea. Adriana lo stava a udire, socchiudendo gli occhi, mentre un'onda di sangue saliva a rianimarle le guancie smorte. Quella sera, con una intuizione rapidissima, egli indovinò tutto, egli seppe essere tutto, tutto quello che desiderava Adriana. E quando la vide sconvolta, l'occhio smarrito, la bocca fremente, vinta dall'affetto, dalla tenerezza, dall'amore, egli osò dirle ad alta voce, audacemente, che l'amava.

Fu così che Adriana di Castroreale s'innamorò perdutamente di Giorgio Filomarino. Fu questa la vittoria di Annibale.

Falso in Scrittura.

Trovò nel prezioso cassettino di ebano, tutto odoroso di profumi antichi, tutto pieno di morticini sotto la forma di un braccialetto, di un ditale, di un frammento di marmo, di un brandello di merletto, di una perla smarrita, queste tre lettere che formano un morto solo che furono un sol lutto.

12 Maggio...

Egregio signor Cesare--La sua lettera m'ha fatto male. Passai tutta la notte a interrogare la mia coscienza di donna onesta, per sapere che atto, quale parola mia le abbiano permesso scrivermi quel che m'ha scritto. Ella m'ama, signor Cesare, e vuole essere amato da me--da me donna vincolata, malamente sì, ma vincolata. Quale idea ha ella della donna, della virtù, dell'onestà? E in quale pessimo ambiente femminile ha vissuto per creder pessime tutte le donne? E di sua madre, che fu sicuramente una santa donna, se ne ricorda? Mi perdoni la vivacità di queste parole. Fui offesa e se prendessi consiglio soltanto dalla dignità, non le risponderei neppure. Ma la bontà rende mite il mio cuore. Che io mi sappia, nel dolore così forte che lei mi descrive con tanta sincerità di parole, io non ho colpa. Le usai quelle oneste preferenze che si debbono a giovane intelligente e colto; m'intrattenni con lei in quei piacevoli e sereni discorsi che elevano o purificano l'anima, resa troppo volgare dalle materialità della vita; accolsi le manifestazioni della sua stima, le ricambiai con quelle della mia. Tutto era casto, tutto era candido fra noi--ed ecco che lei mi sgomenta con le espressioni infuocate di un amore che non posso permettere in lei, che non troverà mai--no, mai--corrispondenza in me. Ho marito, signor Cesare. Lei pare che lo abbia dimenticato. Io non posso dimenticare.

D'altra parte lei è così solo, così soffocante, così affettuoso che io non oso infierire contro lei. Io stessa, signor Cesare, sono molto sola, molto infelice in questa dura e lunga vita che trascino a stento. Lei sa quale e quante disillusioni ha avuta la mia gioventù. Tutte le mie balde e azzurre speranze caddero come foglie inaridite da un albero decrepito. Io nella vasta solitudine che ho intorno non sento voce amica, non vedo uno sguardo luminoso che mi riscaldi. Il mio sogno è scomparso, l'amore del mio cuore è distrutto. Non so di che popolare questo deserto. Ho freddo nell'anima. E lei rabbrividisce allo stesso brivido. È lei capace di un grande sagrificio, signor Cesare? Vuole ella rinunziare ad ogni idea d'amore nel presente e nell'avvenire? Vuol ella dirmi sì, senza condizioni, senza speranza?

Mi dica sì. Me lo dica quando sia perfettamente sicuro di sè, Allora vedrà che io non sarò ingrata a questo abbandono immenso che ella farà per amore di me. Io ho per quel tempo un bel progetto uno stupendo progetto tutto spirituale, tutta fragranza d'anima. Se vuole, io sarò la sua amica, la sua buona e servizievole amica; lei sarà il mio sincero amico. L'amicizia è un affetto più grave e più serio di quel che pare. Molti--i volgari--lo prendono alla leggera. Noi possiamo comprenderlo. Lei ha un'anima coraggiosa: io sono temprata alla sventura. Ad ambedue un profondo e segreto dolore disfiorò la gioventù: diamoci la mano. Siamo fratello e sorella. Uniamo queste due lente sciagure e derivi da questa unione, non l'amore--che non è possibile--ma almeno la pace ai nostri cuori. Troverà in me il sentimento che non finisce mai, la parola consolatrice, l'azione efficace; troverà me presente ad ogni abnegazione, ad ogni sacrificio. Sarò per lei la madre, la sorella, l'amica. E lei mi prometta di farmi trovare il consiglio saggio, la parola leale, l'azione energica. Io conterò sempre sul suo fermo cuore, lei conterà sul mio cuore affettuoso. Ci sosterremo a vicenda, segretamente, per questa via spinosa e pietrosa. Nulla saprà il mondo, nulla potrà dire di noi. Sarà un segreto altissimo. Sinchè al giorno ultimo della vita, io potrò morire nelle sue braccia, soddisfatta, stringendole mormorando: T'amai, non ho peccato, t'amo.

Solo allora. E mi scriva--Adriana.

25 Settembre...

Cesare, mio re--Vieni. Questa sera egli va a Roma, per quattro giorni. Parte col treno delle dieci e mezzo. Lo accompagno alla stazione. Poi torno a casa; alle undici e mezzo. Tu verrai, o mio fuoco consumatore. Passeremo quattro giorni divini, divini, divini. Fremo al pensarci. Vieni dunque. Pensa come possiamo morire in questi quattro giorni. Non t'amo, non t'adoro, t'idolatro. Sei il mio Dio--Adriana.

4 Dicembre...

Amico mio. Senza dubbio sono giunta alla più dolorosa ora della mia vita. Quello che soffro in questo momento, non posso dirvelo, non posso descrivervelo. È uno strazio senza nome. Sento un unghia che mi lacera il cuore, me lo sento sanguinare: a goccia a goccia perdo il più ricco sangue della mia vita. Non posso piangere, non posso gridare, non posso singhiozzare: affogo. Debbo dissimulare, debbo essere allegra e felice: ma soffoco. Amico mio, è venuta la settimana tragica del nostro amore. Debbo riunire tutto il mio coraggio per dirvi che questo amore deve finire. Deve finire la luce della nostra esistenza, la giocondità della nostra giovinezza. Finire. Morire. Amico mio, è forza che sia così. In questi giorni ho pianto, ho pregato, ho chiesto a Dio la forza del sacrificio. Oggi sono nello spasimo, ma sono decisa. Parla all'anima mia l'alta voce del dovere. Troppo peccammo. Ingannammo un uomo fiducioso e tranquillo, che crede nel mio onore e nel mio amore, che crede nel vostro onore e nella vostra amicizia. Facendo tacere la coscienza, errammo dolcemente ma gravemente. Abbiamo portata la maschera della virtù mentre eravamo colpevoli. Io ho portata in giro la mia fronte pura di sposa mesta, mentre i vostri baci avevano abbracciate le mie labbra. Pentiamoci insieme. Io non voleva, vel rammentate. Ricordate la mia prima lettera. Fui sorpresa, stupidita. Perdetti la testa: ma voi che eravate uomo, perchè non foste il più saggio, il più freddo? Non voleva io. Forse, non vi amava. Vi ho amato poi. Cesare, vi amo ancora, ma vi lascio. Non posso più durare a questa vita di vergogna e di disonore: arrossisco dinanzi a mio marito, dinanzi ai miei servi. Bramo che mi raggiunga l'ultima sciagura, il tradimento svelato. O Cesare, che disperazione! Ci vuol molto coraggio. Aiutatemi in questa opera. Siate calmo. Non vi desolate in mia presenza, non mi scrivete, non venite a casa. Lasciatemi alle mie lagrime notturne, alle mie preghiere ardenti. Non vogliate che io muoia dall'onta e dal dolore. Debbo vivere per quest'uomo che ho ingannato, di cui sono la consolazione. Sono una sposa indegna ma pentita. Vi amo ancora, vi amerò per molto altro tempo, non vi dimenticherò mai. Siete stata la mia gioia, il mio solo amore. Tutto rientra nel passato, ora. Io continuo a vivere, macchinalmente, come un orologio, senza affetti, senza conforti, nell'unica, arida soddisfazione del dovere compiuto. Addio, Cesare; siate felice. Se potete, amate altrove. Ma non potrete, forse. Addio, Cesare--Adriana.

Quanti anni sono trascorsi? Non so; non mi ricordo più. Molti certamente. Ma per quanto tempo sia passato, per quanto io abbia studiato, non mi sono mai potuto accertare in quale delle tre lettere, quella donna mentiva.

Primo giorno.

In verità quando io ho visto passare la bellissima donna, bianca bianca nel volto, dai capelli fulvi e crespi che fiammeggiano cupamente, dagli occhi verdi e gelati, dalla bocca rossa e carnosa come un fiore appassionato, dal corpo ondeggiante come quei magnifici serpenti che danzano innanzi alle bacchette dell'incantatore, io mi sono chiesta chi amasse e quale turbine rovinoso fosse il suo amore. Quando l'ho vista passare in mezzo all'amore, fredda, sorda, indifferente, impassibile, negazione dell'amore, gli occhi rivolti al cielo, vivendo serenamente glaciale nel mondo, ma tormentandosi come disperata nella preghiera, mi sono domandata quale storia avesse pietrificato quell'organismo di donna, lasciandole nell'anima solo la tortura di un misticismo impossente.

Ebbene, nel passato, malgrado il suo odioso matrimonio, ella era stata lungamente e tranquillamente virtuosa. L'avevano maritata a un'ignobile duca, giovane, brutto e villano, che si andava mangiando la sua fortuna--e seguitò sempre--con tutte le attrici di terz'ordine, le ballerine dei piccoli teatri, le cantatrici di operette dei baracconi in legno. Lui era fatto così, era democratico in amore--diceva. Soggiungeva che gli piaceva più l'anticamera che il salotto: quindi si asteneva dal far la corte alle amiche di sua moglie, ma era l'amante della cameriera, della sarta, della modista, financo di quella che veniva a stirare a giornata, al palazzo. Questo essere ducale i cui antenati salivano su per dieci secoli, credeva che questo tradimento volgare, laido, di ogni ora non desse diritto di lagnanza a sua moglie. Poichè il capriccio dell'uomo--diceva questo borghese ducale--deve passare. Così era selvaggiamente geloso dei suoi diritti di marito, geloso senza amore, geloso per amor proprio. La duchessa Emma era considerata come la più infelice ma la più dignitosa fra le mogli: lei non sapeva mai nulla, lei non accoglieva le maldicenze, lei non parlava mai contro suo marito, non gli faceva mai scene, sorrideva sempre. Attorno attorno a lei fervevano gli amori segreti, le dichiarazioni audaci, le passioni che ogni donna mal maritata ispira: lei non se ne accorgeva. Se ne accorgeva il duca marito che ogni sera la brutalizzava, chiedendole se il tale era il suo nuovo amante e se lei permetteva che andasse a tirare due schiaffi al tale altro. Lui sapeva bene che non era vero: ma godeva a queste villanate in cui scoppiava tutto il suo istinto di staffiere finto duca.

In realtà quello che sosteneva quella donna eccezionale era il più grande, il più tetro orgoglio femminile. Cadere--tutte le donne cadono e si chiama debolezza. Per lei si chiamava vigliaccheria. Tradire--tutte le donne finiscono per tradire e si dice leggerezza. Per lei si diceva disonestà, senza sotterfugi, senza transazioni. Essere vile, essere disonesta, essere come tutte le altre, giù, a capofitto, brancicando nel fango, sporche le mani, sporca la gonna, sporca l'anima. La sua fierezza si ribellava, irrompente, furiosa contro l'amore che l'avrebbe fatta tale. Invero ella odiava tutti questi uomini che la circondavano, che le facevano la corte, che le scrivevano; li odiava come nemici, come persone accanite contro lei, come cacciatori crudeli. Il suo orgoglio le gonfiava il cuore, pigliando il posto di qualunque altro sentimento. Per orgoglio sopportava quello scostumato marito, per orgoglio non se andava alla casa paterna, per orgoglio sorrideva, per orgoglio non amava, per orgoglio viveva. Tali mostruosità sentimentali esistono--e sono chiamate vizii--ma sono chiamate anche virtù.

Un giorno, questa donna s'incontrò in un amore sincero, profondo e segreto, come ogni donna ci s'incontra una volta nella vita. Lui non parlava, non scriveva, non la seguiva, la schivava, era serio, contegnoso, di una freddezza assoluta: ma l'amava con tutte le forze di un animo giovanile e tutto l'impeto di una passione repressa. Come lo comprese lei, che disprezzava l'amore, che comprendeva solo l'orgoglio? Chi le narrò la storia di quel lungo e ardente e immenso amore, e come ci credette lei scettica? È ignoto. Oh, la psicologia è una scienza perfettamente ridicola; essa spiega le minuzie e le questioni gravi le sfugge, essa nota i particolari, le sfumature, i cambiamenti di tono, ma la figura principale, ma la frase tematica non la spiega. Gira intorno alle difficoltà, si approssima, conquista terreno: a un certo punto si ferma. Quello che avvenne nel silenzio di quell'anima che si apriva all'amore è ignoto. Come l'edificio dell'orgoglio crollò, come tutto fu distrutto, abbruciato, purificato dall'amore, non so dirvi. Voi che amaste, ricordatevi: e voi che non amaste siete indegni di saperlo.

Fra quei due fu lungo, aspro, fierissimo il combattimento. Lui non chiedeva nulla, non si avanzava, non si muoveva, sopportando, taciturno, uno spasimo senza nome, consumando le sue forze a reprimere qualunque manifestazione. Sapeva di essere amato? Forse: ma non mostrava di saperlo. Lei vedeva tutto, comprendeva tutto, si abbandonava giorno per giorno, linea per linea, all'amore, conoscendo quello che faceva, comprendendo il precipizio, spalancando gli occhi per vederlo, innamorata del precipizio, folle della caduta. Un giorno si guardarono, pallidi, senza una parola, scambiando quell'occhiata rossa, succhiatrice dell'anima. Compresero che l'uno camminava verso l'altro, inesorabilmente, contro la volontà, contro la ragione contro tutto. Non una parola: ma l'uno sentiva i passi che l'altro faceva, pur parendo immobile, calcolava lo spazio, calcolava il tempo.

--Il giorno viene, il giorno viene--mormorava la duchessa presa da un terrore che la sconquassava.

--L'ora viene, l'ora viene--mormorava lui, affogato dalla dolcezza.

Insensibilmente e senza che niuno comprendesse intorno, il giorno veniva. Poteva il duca essere più villano, più brutale, buttare il suo nome dietro le donne più volgari: questo non valeva a nulla. Era per l'amore che Emma amava Luciano, non per la vendetta, non per la rappresaglia. Lei non si scusava, lei non buttava la colpa sugli altri, lei si dava perchè voleva darsi, perchè amava, perchè l'amare le pareva la più alta, la migliore cosa della vita. Poteva la duchessa essere fredda, severa, rigida per Luciano, egli non ne soffriva: l'amava, sentiva di essere amato, doveva essere amato.

Era un martedì notte, in un ballo. Vedendosi, di lontano, provarono la medesima sensazione: che l'ora era giunta. Lui si accostò quasi per interrogarla, levandole gli occhi in viso. Lei non chinò i suoi e tranquillamente ad alta voce gli disse:

--Domenica, da me. Alle due.

Un inchino, un saluto; più altro.

Quattro giorni fra il martedì e la domenica, quattro giorni lunghi, eterni, febbrili, deliranti, in cui ad ogni minuto la duchessa Emma si pentiva di quel convegno, decideva di fuggire, si vestiva, poi ristava indebolita, vinta, incapace di rinunciare all'amore. Quando vide partire suo marito per Nizza--una fatalità--volle gridargli di restare, di salvarla, gridarlo a lui, al selvaggio, all'indegno gentiluomo, al marito traditore. N'ebbe disgusto, una nausea tutta fisica, una ripulsione invincibile di donna--fatta sacra da un forte amore. Ella andava su e giù per la casa, come una tigre che ha la febbre, rodendosi, non potendo piangere, non potendo singhiozzare--cadendo poi, per esaurimento, in un torpore dolce, come se si acquietasse un dolore nel sonno, come se la ferita non sanguinasse più. No, non era il mondo esteriore: lei non lo vedeva più. Era il suo spirito sussultante e trabalzante, era dentro sè, era nel cuore, era nel cervello, era nei nervi il tormento volubile che pigliava tutte le forme, dal grave dolore all'acutissimo piacere. Oh la notte tempestosa dal sabato alla domenica, le preghiere alla Madonna, le disperazioni, i subitanei abbandoni, tutto il suo essere che chiamava Luciano e lo respingeva, che malediceva l'amore e adorava l'amore, che trasaliva, fremeva, si scuoteva, tremava nel delirio. Poi, infine, una spossatezza, un'attesa calma--la reddizione.

Alle due il trasalto feroce. Egli veniva. O amore, o amore, o amore!

Dalle due, alle tre, alle sette, a mezzanotte, egli non venne. Non venne più, non venne. Lei fredda nella sua follia, automaticamente, prendendosi la testa fra le mani per poter pensare, diventata di sasso, gli scrisse queste parole:

"Si manca al primo appuntamento solo per la morte".

Infatti egli era morto; all'una, nella sua stanza da letto, mentre prendeva i guanti per uscire. Avea una gardenia all'occhiello. Da tre o quattro giorni era inquieto, agitatissimo. Un mal di cuore, una vena rotta, poichè avevano trovato del sangue sul tappeto, dove era lungo disteso. Questo lo lesse nel giornale, la Duchessa.

Così lei non ama più, non può amare più. Lei vive, ma portando quella sconosciuta tragedia in sè; lei prega, sconvolta da quella morte che sembra un castigo di Dio. E forse più infelice, più sciagurata ancora, lei ama sacrilegamente quel morto, e vive nel desiderio profondo di quell'amore, di quei baci, di quel primo appuntamento, di quel peccato che la morte le ha tolto.

Sconosciuto.

Nell'oscurità della notte fiammeggiava nella stanza il fuoco del caminetto. Ogni tanto una mano bianca si coloriva di fiamma attizzando lentamente il fuoco. Le tre fanciulle tacevano, prese da un pensiero. Ognuna di esse s'immaginava di essere sola, in un ambiente vago e indefinito, senza nozioni di spazio, senza nozioni di tempo. Quando il crepuscolo era cresciuto, avevano sentito il bisogno di tacere, di raccogliersi. L'una abbandonata sulla poltroncina, col capo riverso sulla spalliera, con gli occhi chiusi, pareva dormisse; l'altra tutta ravvolta in uno scialle, raggomitolata nella poltrona, aveva il capo abbassato sul petto; la terza coi piedini sugli alari si chinava macchinalmente ad avvivare il fuoco. Non si vedeva se fossero bionde, brune, belle, brutte, robuste, ammalate: nulla si vedeva, se non il basso delle gonne che si tingeva di colori falsi alla luce del caminetto. Scomparsa ogni traccia di età, di condizione, di nome. Erano ombre nell'ombra.

Dopo un'ora di silenzio una di esse parlò. Non si dirigeva ad alcuno, parlava verso le tenebre. Aveva una voce debole, ogni tanto più affievolita da una corrente di tenerezza.

--Egli m'ama. Lo conobbi singolarmente in un ospedale di bambini, una casa tutta candida di marmi e di sorrisi infantili. Nella chiesetta serena pregavano dame, signori, fanciulli: due bambini prendevano la prima comunione. Lui aveva chinato il capo. Non so se pregasse: ma guardandolo fiso, vidi bene che le sue labbra si agitavano. La sua testa bionda e serafica, in quell'atto riverente, acquistava soavità. Egli mi guardava coi suoi occhi azzurri, di un azzurro smaltato e chiaro: io mi sentiva tutta inondata dalla dolcezza di quello sguardo. Non era peccato quello che commettevamo. Io pregava il Dio in cui egli credeva: noi ci effondevamo nei tranquilli trasporti dello stesso amore divino. Quando la Messa fu finita, egli salutò profondamente l'altare, poi me: uscì. Dopo, nel giorno della Madonna, un lucido e bel giorno io ho ricevuto a casa un mazzo di fiori, mughetti e gigli, una meraviglia di candore. Io ho mandato a lui il mio rosaio di legno di sandal, i cui granelli, sotto lo stropiccio delle dita, sprigionano un profumo acutamente mistico. Ci vediamo sempre, la domenica, al vespro nella chiesa dei Gerolomini. Egli mi aspetta alla porta e con le dita tremanti mi offre l'acqua benedetta; insieme facciamo il segno della croce. Siede un po' lontano da me, ma ci guardiamo spesso. Dio sicuramente non si offende di questo amore che è puro. L'atto di adorazione, che nel mio libro è un vero inno poetico, lo leggo prima io, poi passo il libro a lui perchè legga. Usciamo insieme, non ci parliamo. Fino a casa mi accompagna, senza darmi il braccio. Stringe appena la mia mano nel licenziarsi. Mi scrive ogni giorno lettere sublimi, di una poesia tutta spirituale, tutta essenza luminosa, tutta sfavilío d'anima. In verità, dal suo spirito prigioniero nella materia parte un tale raggio d'idealità che io mi vi sento vivificata e riscaldata. Gli rispondo ogni giorno, cerco mettere nelle mie labbra lo stesso palpito affettuoso, la stessa iridiscente vibrazione che egli imprime alle proprie parole. Noi ci amiamo perchè amiamo le stesse cose; i cieli sbiancati delle notti autunnali, le acque d'acciaio dei laghi che tremolano sotto il puro raggio della luna, i marmi bigi delle chiese, i pavimenti freddi e duri dove le ginocchia si martoriano. Noi ci amiamo nelle lagrime gelide che quietano i nervi e smorzano l'ardore delle guance, nei sorrisi lenti e placidi che si rivolgono a un punto indefinito, nei poeti celestiali come Chateaubriand, Lamartine, Manzoni, nel distacco tranquillo da ogni contatto terreno, nelle aspirazioni al più alto, al sempre più alto...

Tacque la voce, smorzata in un entusiasmo sommesso e soffocante. Nessuno le rispose. Solo, poco dopo, la seconda che teneva il capo abbassato sul petto, si sollevò e parlò, a scatti, a sussulti, con una voce variabile, ora troppo forte, ora stridente e nervosa.

--Egli mi ama; io lo amo. Non so come, non so perchè. È bello, di una bellezza calda, fulva, virilmente giovane. I capelli gli si piantano sulla fronte, possenti come la criniera di un leone. Gli occhi bruni affascinano. Al teatro mi guardava sempre. Attraverso le lenti dell'occhialino sentivo il suo sguardo che mi toccava e mi abbracciava, lasciandomi sul volto, sul collo, sulle braccia le stimmate della passione. Io credo di aver ceduto a un magnetismo, poichè mentre il capo mi pesava come se fosse coperto di piombo, il cuore si dilatava precipitosamente sotto l'urto del sangue. Ho baciato il mio fazzoletto. Egli m'ha visto e un pallore di trionfo ha scomposto il suo volto. Nelle scale mi ha aspettato, gli sono passata daccanto, ha osato stringere la mia mano nuda, ha rubato il mio guanto. Ha passata la notte sotto la mia finestra: io, alla finestra. Nevicava; non sentivamo il freddo. Da allora questa mia vita è diventata una tempesta di desiderii, di sconfitte, di dolori acuti, di gioie morenti: quando non lo vedo, va lentissima l'ora nell'intensa brama del rivederlo. Quando ci vediamo, restiamo l'uno di fronte all'altro, smorti, col cuore in tumulto, le mani brucianti, la voce strangolata: questo è l'impeto dell'amore che ci fa impazzire. Le sue lettere sono brevi, a frasi nette come un colpo di coltello, scritte a frasi dove vi è il sangue della vita, dove vi è l'eccitazione dei nervi, dove vi è lo scoppio furibondo di un amore supremo. Io l'amo come egli m'ama. Ambedue siamo torturati dall'amore, ambedue soffriamo le pene dei dannati per la gelosia che ci rode, ambedue rotoliamo, inebbriati di amore e di dolore, per una china dirupata dove a nulla possiamo rattenerci. Noi abbiamo le medesime folli e ammalate inclinazioni per i fiori rossi del papavero, per le cose cupe e tragiche, per i tramonti incendiati, per le albe sanguigne, per gli azzurri oltremarini, per le maremme pestilenziali sotto il sole, per i profumi violenti, per l'oro intarsiato che pare scorrere, fluido, liquido, sul fondo nero della lacca, per i grilli sfiniti che muoiono d'amore nel solco fumicante, per le farfalle nere che si abbruciano intorno al lume. Ci amiamo: è lui il mio poeta, sono io la sua dea. Con me, per me, piange le sue lagrime scarse e roventi; con lui, per lui, io trovo il mio sorriso scapigliato, inebbriante. Noi comprendiamo che per una sola cosa viviamo, ed è l'amore; che per una sola cosa moriremo, ed è l'amore. Sono nostri gli spasimi, le trafitture; i fremiti allo stringere lieve di una mano, i pallori incomposti, le convulsioni disperate. Lui distrugge la mia vita: io distruggo la sua...

Bruscamente si arrestò, stringendosi il viso fra le mani. Allora la terza parlò, quietamente, con una voce media, giusta, di una monotonia grave:

--Egli mi ama; io l'amo. Almeno, ogni tanto, me lo dico. Almeno, ogni tanto, mi sembra d'amarlo. Non ne siamo punto sicuri. Egli non ha mai creduto all'amore: io non vi credo da che lui ha fatto crollare la mia fede. Una giornata plumbea, in una sala di accademia, quando un oratore scalmanato cercava invano ispirare nel pubblico il suo falso entusiasmo, egli mi disse: Tutto questo è molto ridicolo. Moltissimo--gli risposi. Lui s'inchinò, soddisfatto di aver ritrovato una donna arida come lui. Non mi ha mai scritto lettere d'amore, non me ne scrive: io non gliene scrivo. Noi non crediamo alle lettere d'amore. Non mi ha dato nè i suoi capelli, nè un anello, nè un piccolissimo dono; mi disse che tutta questa roba non serve, e che va sempre a finire, in cucina, nella spazzatura. Quando io gli dico di amarlo, fa un sorriso d'incredulità, e mi risponde: Sai? non t'affannare, chè non ti credo. Quando gli giuro che gli voglio bene, egli mi lascia dire, poi mi soggiunge, sorridendo: Non giurare, non giurare, non giurare, tu non sai nulla; può darsi che tu non m'ami. Egli non impallidisce, non arrossisce, non cerca vedermi, non cerca sedersi accanto a me, non mi stringe la mano, non mi offre il braccio: la sua sola manifestazione è il sorriso, un sorriso freddo e lento. Egli non ha entusiasmi, mai. Non si scalda mai per nulla. Non comprende l'arte, non comprende la politica, non comprende la scienza, non comprende Dio: egli è un assiduo e calmo demolitore di quanto gli altri credono. È l'apostolo più sicuro dello scetticismo. Lui sostiene brillantemente la falsità delle cose, la falsità della natura, la falsità della virtù, la falsità della passione. Lui è forte, bello: nei suoi occhi grigi, quasi felini, vi è tutto il riflesso metallico della sua anima minerale. Egli rassomiglia all'acciaio. È d'un pezzo solo. Non hanno peso su lui nè sospiri, nè lagrime. Non ci erede. Contro lui mi spezzo. Dacchè l'amo, l'anima mia subisce la sua influenza, si trasforma. Quello che lui non crede, io non credo. Quello che lui vuole, io fo. Quando, in un momento di ribellione disperata, gli domando: Perchè mi vuoi bene, dunque? Egli esita, si conturba, mi risponde: Chissà! Non so: noi non sappiamo nulla. Io ripeto con lui: Noi non sappiamo nulla. Rimaniamo silenziosi, pensosi nello sconfinato dubbio di due anime inaridite...

Di nuovo il silenzio si fece. Niuno non lo interruppe più. Nell'ambiente caldo e bruno, si calmavano gli echi dei tre amori, così profondamente diversi fra loro.

Eppure era lo stesso uomo che le amava tutt'e tre.

Un Inventore.

--Ebbene, Ulrich, non mi rispondi?--chiese Lottchen, molto indispettita.

Egli stava ritto presso la finestruola archiacuta, dai vetri impiombati, guardando fisso nella viottola. Nell'ombra della sera che cresceva, il suo duro ed energico profilo teutonico si addolciva; e il corpo alto si curvava, quasi preso dalla stanchezza.

--Ulrich, tu non mi ascolti--ripetè Lottchen, con una certa tristezza nella voce.

Egli si volse, e sulle sue labbra spuntò un sorriso debole ed indeciso. Lo sguardo gli vagò incerto per la stanzetta, come se la mente lo mandasse in traccia di un pensiero smarrito.

--A che pensavi tu dunque, mentre io ti parlava?

--A nulla, Lottchen--disse finalmente lui, con la sua voce grave e sonora.

--Sempre così, sempre così, Ulrich. Tu mi ami molto meno delle tue sciocche fantasie.

Ulrich chinò il capo, e parve che attorno maggiormente gli si addensasse l'ombra. Mentre Lottchen continuava a tormentarlo ed a tormentarsi, ricominciando per la centesima volta le sue recriminazioni, egli non osò risponderle parola. La fanciulla si chinava verso di lui per vederne il volto, ma si ritraeva scontenta: sulla faccia di Ulrich non si vedeva alcuna impressione. Solo un lieve tremolío gli agitava le dita. Infine la bionda Lottchen si tacque, stringendosi nelle spalle, come se dicesse che tutto, tutto era inutile; ed i due fidanzati stettero per tanto tempo in quel silenzio penoso, pieno di pensieri dolorosi. Ad un tratto, mentre una fantesca posava un lume monumentale sopra la tavola, una voce infantile gridò di fuori:

--Zio Ulrich! zio Ulrich!

Ed un bambino entrò correndo nella stanza, cercando d'arrampicarsi sulle ginocchia del giovanotto. Quando ebbe conquistato quel posto, col tono lento e carezzevole dei bambini, gli domandò:

--Me lo fai un giocattolo, zio Ulrich?

Ulrich impallidì, arrossì e posò una mano sul capo del bimbo.

--Te lo farò, Hans.

--Bello?

--Bello.

--Un giocattolo che avrò io solo, io solo?

--Tu solo.

--Uno di quei giocattoli belli belli che tu solo sai fare?

--Sicuro, uno di quei giocattoli belli che io solo so fare.

Ulrich per la prima volta sorrise d'orgoglio: ma fu anche una lagrima di orgoglio offeso quella che Lottchen celò andando in un'altra stanza. Il bimbo rideva e stringeva le mani, quasi che possedesse già il prezioso giocattolo.

Perchè, pochi lo sanno e nessuno ci pensa, ma è una piccola città di Germania quella che fa contenti tutti i bambini dell'Europa. Da Nuremberg, la città gotica, dall'architettura fantastica e bizzarra, dalle torricelle merlate e dalle case di legno, dalla piccola Nuremberg partono i tesori che destano il riso sulle labbra infantili: le bambole dal roseo viso di cera, dagli occhi azzurri senza pensiero, dai capelli biondi come la stoppa; i fantoccetti vestiti da zuavo, da Arlecchino, da Rigoletto; le armi miracolose, le trombettine di stagno dal suono stridulo; le scatole donde vengono fuori le casettine microscopiche che puzzano di vernice fresca, gli alberetti fatti con un bastoncello ed un fiocchetto di trucioli tinti di verde, i piccoli appartamenti, le piccole cucine, i piccoli animali, i piccoli soldati ed infine tutto il mondo minuscolo, la vita microscopica che prepara il bimbo alla vita vera. In Nuremberg, città della gioia e della tranquillità, dove gli innocenti operai delle fabbriche di giocattoli sorridono nella consolazione di una coscienza soddisfatta; in Nuremberg dovrebbero andare in gaio pellegrinaggio tutti i bambini, accompagnati dalle madri giovanette, processione fulgida e meravigliosa. Ma dovrebbero salutare con le grida d'allegria la casa di Ulrich, il grande ed ignoto artista, il grande ed umile inventore.

Ulrich era stato un bimbo infelice nella casa di una dura matrigna. Sapeva quante lagrime segrete si possono versare in una notte, come possano soffocarsi mordendo il lenzuolo; aveva conosciuto la monotonia delle lunghe ore, passate in un angolo oscuro, sopra una seggiolina, con le mani in grembo. Non aveva giocattoli e ne vedeva dappertutto e ci pensava spesso, e li desiderava tacitamente e li chiamava nel suo cuore. Chiudendo gli occhi, li rivedeva nella sua mente e li scomponeva, li ricomponeva, cercava loro una forma nova. Passando dinanzi ad una fabbrica, guardava, timido, per la porta socchiusa. Stare là dentro sarebbe stata per lui una felicità. Quelle bacchinucce, quei pennelli, quegli strumentini, quei lembi di stoffa, quei pezzetti di legno, lo seducevano, lo affascinavano. La notte li sognava. E anche di giorno egli era un sognatore, perduto nella contemplazione del suo fantasma. Egli vedeva nella sua immaginazione nuovi congegni, combinazioni strane ed audaci; e fuori egli rimaneva un pallido e debole adolescente, dalle labbra smorte, dallo sguardo errante, troppo alto, troppo magro, talvolta abbattuto ed inerte, talvolta arse le guancie dalla febbre dell'idea. Quando entrò come operaio nella fabbrica, credè di essere diventato un re; ma soffrì profondamente, perchè il lavoro usciva dalle sue mani rozzo e incompiuto. Egli piangeva di rabbia per quelle spaventose difficoltà manuali, ed avrebbe voluto mordere le dita incapaci di tradurre in atto le sue fervide creazioni. Si castigò, condannandosi, lui che aveva un mondo nel cervello, a lavorare di copia, a seguire i modelli antichi. Visse un altro anno in desiderio raddoppiato, ardente, contenuto; si consolava passeggiando sulla piazza e guardando i bambini che s'inseguivano. Provava una grande tenerezza che gli faceva venire le lagrime agli occhi. In fondo era rimasto anche lui un bambino, col cuore buono ed appassionato.

Così, a poco a poco, egli dominava e vinceva la materia, e le sue dita diventavano esperte e leggiere, affinando la loro sensibilità, ed egli potè metter fuori il lavoro utile, le idee nuove che s'erano chiuse come fiori al caldo della sua fantasia. Tutto consisteva nel dare una parte d'anima ai giocattoli, nell'imprimer loro un soffio di vita: fu lui che inventò la bambola, la quale, coricata, chiude gli occhietti, quella che dice papà, mammà, quella che saluta col capo, quella che nuota come una ranocchia. Subito il direttore della fabbrica gli assegnò una stanzetta solitaria, dove potesse lavorare tranquillamente ai modelli che gli altri operai dovevano riprodurre. Da quella stanzetta uscivano tutte le piccole meraviglie che sono la consolazione dell'infanzia. Il sorcio volante che si precipita per due trampoli di legno; il ginnasta che sale per una scaletta con l'agilità di uno scoiattolo e si slancia dall'altra parte, per ricominciare ogni momento il suo gioco; il coniglio accovacciato che suona il timpano, abbassa la testa e si frega il muso con le bacchette; il violinista vestito da marquis, in raso ed oro, che nel medesimo tempo suona il violino e balla un passo di gavotta; le oche, le anitre, le navicelle galleggianti attirate alla sponda da un pezzetto di calamita; i cavallini galoppanti, le carrozzette semoventi; tutto questo usciva dalle mani fatate di Ulrich. La sua ispirazione non si fiaccava mai: talvolta egli si stringeva la testa calda fra le mani gelate, per timore gli scoppiasse, tante idee battevano contro le pareti del cervello per uscire; correva di notte, nella campagna, facendosi soffiare il vento aquilonare sul volto. Quando cominciava il lavorío interno per qualche cosa di nuovo, egli si concentrava profondamente e nulla valeva a distrarlo: nè la voce di Bertha sua sorella, nè quella di Lottchen, la fidanzata che egli amava nei suoi momenti di libertà. L'arte ha questi feroci egoismi. Finalmente l'opera veniva alla luce, dopo tre o quattro giorni, tre o quattro notti passate nel laboratorio, curvo sui suoi congegni delicati, senza nè dormire, nè mangiare, non toccando neppure il boccale di birra che gli ponevano accanto; l'opera veniva alla luce bella e perfetta. Allora egli sorrideva, cantava, ballava dalla gioia, amava Bertha, amava Lottchen, amava tutto il mondo, viveva, scendeva in piazza, acchiappava un par di bambini e li soffocava di baci, mormorando, balbettando che aveva lavorato per essi, che li voleva veder contenti per quanto egli aveva sofferto. E il suo pensiero si fermava sulle infinite testoline bionde e brune che sono le stelle della terra; si fermava con orrore nelle cupe officine, dove tristi inventori lavoravano a creare un'arma nuova e più delle altre micidiale--ed allora l'anima sua si allargava nell'orgoglio di un lavoro onesto e giocondo.

Malgrado la sua cera assorta, noncurante, le sue distrazioni, il suo silenzio, la gente gli voleva bene. Il direttore se lo teneva caro, sfruttandone il genio inventivo. Bertha lo curava come un grosso bambino inesperto, dandogli sulla voce, carezzandolo, dirigendolo in tutte le azioni della vita in cui si mostrava tanto ingenuo. Lottchen lo disprezzava, lo tormentava e lo amava. I bambini se lo mostravano a dito nella via, gli tenevano dietro, gli saltavano addosso, gli frugavano nelle tasche, era la divina provvidenza per loro. Egli camminava colla testa nelle nuvole, artista innamorato dell'arte, sognatore incorreggibile, con le dita che gli si movevano come se toccassero molle misteriose. L'idea fissa scacciava a poco a poco tutte le altre. Alle volte si stordiva tanto da rimanere inebetito per un paio di minuti; poi nel cervello cominciava una ridda infernale d'idee che cozzavano fra loro, e allora gli operai non avevano il tempo di copiare un modello che già dalla cameretta usciva nuovo lavoro. Il direttore sorrideva. Lottchen diventava sempre più triste, sempre più collerico; il polso di Ulrich era mosso da una febbre continua che ne consumava e rinnovava il sangue. Egli si faceva sempre più esperto nell'arte, ne aveva penetrati tutti i segreti: era arrivato alla finezza dell'ultimo tocco, della più lieve sfumatura, all'eleganza più leggiadra, al gusto raffinato, alla solidità, a tutte le qualità riunite insieme in un'armonia completa. Creava dei giocattoli meravigliosi--e mai, mai si era sentito così intensamente felice.

Il direttore gli dava sempre notizie del favore che toccava a que' giocattoli. Venivano grandi ordinazioni. Solamente, un giorno, gli disse con un mezzo sorriso:

--Siate più semplice.

Ulrich non vi badò. Anzi, nella sua mente s'intrigavano, si complicavano sempre più mille forme, mille congegni. Fece un uccellino che apriva le ali, gonfiava la gola e cantava. Il direttore lo ammirò, ma non molto; fece qualche difficoltà per le riproduzioni, poi non disse più nulla. Dopo un paio di mesi, duramente:

--Sapete, Ulrich? L'uccellino ha fatto fiasco. È troppo ingegnoso: i bambini non lo capiscono.

Il povero artista impallidì e tacque. Solo, pianse. Ecco che i bambini non lo comprendevano più, adesso! Si spezzava dunque il grande legame fra lui e il suo piccolo pubblico? Poi, ubbidiente e buono, si sfogò a far semplice. Non gli riusciva. Era arrivato ad un punto in cui l'arte divenuta poema, non s'adatta a ritornar sillabario. Le forme semplici gli sfuggivano e correva dietro, di nuovo, alle astruserie più alte. L'insuccesso cresceva, Ulrich tremava di paura ogni volta che una nuova creaturina del suo cervello gli usciva dalle mani. Era mortificato. Dubitava di sè stesso, dell'arte, di tutto. Temeva sempre aver commesso qualche grosso sbaglio materiale. Sentiva intorno a sè una diffidenza vaga; non osava guardare in viso sua sorella, la sua fidanzata. I ragazzi gli davano soggezione: a volte un dolore cocente lo spingeva quasi a chieder loro: Ma che debbo io fare di meglio? Perchè non vi comprendo più, perchè non mi comprendete più? Invece fuggiva nella campagna a sfogare solitario i suoi lamenti. Odiava quasi l'arte sua; lasciava inoperosi gli strumenti, vuota la cameretta, secchi i pennelli. Pensava troppo, oramai. Il suo pensiero si smarriva. Era ammalato, aveva un fuoco insolito negli occhi. Poi, dopo un lungo periodo d'inerzia, prese una risoluzione energica e si chiuse nel suo laboratorio. Voleva meravigliar tutti con un lavoro stupendo, riacquistare d'un tratto la sua fama d'artista, riconquistare per sè l'ammirazione e il riso dei fanciulli. Concentrò tutta la sua attenzione, adoperò utilmente, riunendole, raddoppiandole, le forze dell'arte, compì sino alla perfezione ogni piccolo pezzo, lavorandoci con amore infinito, con ardore, con la passione della disperazione. Ne venne fuori un giocattolo straordinario: sullo stesso piano, una fattoria, delle contadinelle che battevano il burro, le pecore che pascolavano, le galline che razzolavano, il gallo sul campanile della chiesetta, l'acqua del ruscello fra le pietre, le lavandaie che lavavano; tirata la corda, tutto questo mondo si muoveva, il gallo cantava, le galline pigolavano, le contadinelle agitavano le braccia, le pecore brucavano l'erba, il ruscello scorreva, le lavandaie lavavano. Una meraviglia, a compire la quale Ulrich aveva esaurita tutta la potenza del suo ingegno. Compiuta che fu, una soddisfazione gli entrò nell'anima esacerbata, e sorrise. Dopo tanto tempo che non sorrideva. Ma quando fu a dar la via al suo capolavoro, tremò..........................................................................................

Egli sedeva nella sua cameretta, con la testa fra le mani, ansioso, trepidante. Era l'ultima prova che tentava. Sulla porta Lottchen comparve.

--Dove è Hans?--chiese egli vivamente.

--È di là.

--Chiamalo.

--Non verrà.

--Perchè?

--Ha paura di venire.

--Paura di venire?... e perchè?...

--Non affliggerti, Ulrich, e non castigare il bimbo. Ha rotto il giocattolo.

--.... Lo ha rotto?

--Per la rabbia. Non lo capiva, Ulrich.

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Ora quando la luna piove la sua luce pallida nelle viuzze di Nuremberg, dove tutti dormono, un uomo corre e gesticola, oppure siede in terra e guarda il cielo. Ma le sue dita si agitano come se lavorassero intorno a misteriosi congegni. È Ulrich che folleggia, avendo nel cervello l'idea grandiosa ed informe di un giocattolo mostruoso, immane, impossibile.

Commediola.

Nel parco, nel bosco, ne' prati, avevan passeggiato per molto tempo. Avevan calpestato moltissima erba odorosa, e le scarpette della signora dovevan esserne profumate; lei si lagnava di una pietruzza fra la calza di seta e la suola. Avevan disturbato una quantità infinita di nervose lucertoline, di grilli, di formiche; anzi, a proposito delle formiche, il signore, un po' intenerito, voleva dare un tuffo nella poesia. Il sole di luglio, dal cielo, avrebbe voluto disturbar loro, ma l'ombrellino della signora era largo, gli alberi erano pieni di foglie ed un leggiero ponente soffiava. Poi erano profondamente allegri, con una vena inesauribile di spirito, mordendo tutte le malinconie umane col loro sorriso, che nella signora era gaio e sincero, e nel signore un po' scettico. Questi due esseri, che per conto mio e di chi mi legge dichiarerò insopportabili, erano ancora giovani, e se non belli, simpatici; eran soli, nella campagna, nella stagione ricca e non erano punto innamorati. Neppure turbati. Ridevano, si divertivano immensamente e non si erano dati braccio. Si erano burlati di molte cose insieme, dell'idillio specialmente. Si erano burlati delle eterne vergini bionde che sfogliano un'eterna margarita, di Paolo e Virginia a proposito del grande ombrellino della signora, delle famose farfallette innamorate che s'inseguono sulle siepi, dell'usignuolo storico che canta fra i rami, di Catullo che la signora non aveva letto ed il signore sì, della Faute de l'abbé Mauret che ambedue avevano letto, di tutte le elegie più o meno malinconiche, di tutte le descrizioni più o meno colorite che da tempo immemorabile si scrivono sui boschi, sui prati, sui fiori. Quante risate sull'edera tenace e sul ruscello che mormora! La signora aveva dei dentini bianchi da gattina cattiva, ed il signore dei mustacchietti biondi dalle curve armoniose e seducenti. Passavano una mattinata gioconda. I loro cuori erano tranquilli, i nervi quieti, lo spirito agile, la parola briosa. Con tutta l'arditezza del suo carattere e l'indipendenza della sua vita, la signora era onesta, pacificamente onesta: aveva marito, a Milano, e lo amava e si scrivevano ogni paio di giorni. Essa adorava il mare e veniva a prendere i bagni a Castellammare. Il signore aveva moglie, a Potenza, in Basilicata; ed era di carattere freddissimo sotto il suo allegro scetticismo, avendo in fondo al cuore un tacito disprezzo della donna. Ecco perchè non erano innamorati; e insomma, senza tante spiegazioni, non s'amavano perchè non s'amavano. Difficilmente si potrebbe assegnare una ragione all'amore: ed è la stessa cosa per l'indifferenza.

--Se noi facessimo colazione?--domandò a un tratto la signora.

--Signora Lucia, ecco che avete un'idea--disse lui, con cera spaventata.

--Preparatevi perchè ne ho un'altra. Che vuol dire quando mi ci metto! È una valanga. Signor Federigo, andiamo a far colazione qui, a cento passi di distanza, da Giovannino, nei boschetti delle rose e delle mortelle.

--Ci darà delle rose e delle mortelle per colazione? Il dubbio è crudele.

--Bah! m'han detto che si pranza benissimo. A quest'ora non ci sarà nessuno. Solo i matti come noi vanno in giro. Ci comprometteremo orribilmente di fronte al cameriere ed all'oste...

--Signora Lucia, le classi dirigenti debbono moralizzare....

--Basta, basta, per carità. Siete voi deciso?....

--Dal primo momento che parlaste di colazione, un dolce palpito...

--Agitò il mio povero cuore....

--Una soave immagine....

--Intravveduta nella nebulosa dei miei sogni.....

--Parve si realizzasse....

E risero di nuovo e camminarono nella polvere alta della via maestra, e ne ingoiarono della polvere! Il meriggio era soffocante. L'osteria di Giovannino, tutta bianca, aveva le persiane socchiuse; il silenzio più completo dominava.

--Signora Lucia, qui non si fa colazione.

Si guardarono con una cera afflitta. Erano rossi dal caldo. In questa un cameriere con un calzone militare ed una marsina civile, venne sulla porta, sogguardandoli con la più grande meraviglia. Quando essi salivano per la scaletta, li seguì.

--Ho da preparare in una stanzina particolare?--poi chiese, come se parlasse fra sè, sottovoce, timidamente.

Federigo esitò un momento, ma lei prontamente, con un risolino schietto, si voltò e disse:

--Sicuro.

Dopo, rimasti soli, nella sala grande, furono un po' imbarazzati. Ma fu un lampo. Subito subito, da persone di spirito, compresero la graziosità della posizione.

--Sì, o signora,--esclamò Federigo, con accento drammatico,--turbiamo l'onesta coscienza di quest'uomo....

--Scandalizziamo addirittura. Noi ci amiamo, noi siamo due esseri colpevoli e felici, in procinto di fare una tragica colazione, mangiando la costoletta del disonore e bevendo il vino del tradimento...

--Signora, noi rotoliamo in un abisso...

--Senza fondo....

--Noi potremo essere sorpresi. O Lucia, io vi farò scudo del mio petto, tanto più che non avrei altri scudi....

--Perchè non ho io un velo, un lungo velo nero? Che vi pare, signor Federigo, io dovrei tremare ed impallidire?

--Provate un momento; io proverò ad essere agitato.

Il cameriere venne ad annunziare che era apparecchiato. La signora Lucia si alzò, con un passo affrettato; Federigo la seguì, parlandole sottovoce, dicendole delle scempiaggini che figuravano frasi d'amore--il cameriere si manteneva, come di dovere, a distanza. Ella, arrivata nella stanzina, si lasciò cadere sopra una sedia e nascose il volto fra le mani con molta naturalezza.

--Amica mia, che volete da colazione?

--Amico mio, non ho fame--fu la malinconica risposta.

--Prenderete del Chablis?

--Sì, sì--rispose lei, con la voce gutturale e lo sguardo vagante delle donne che perdono la testa.

Il cameriere uscì con gli ordini. Essi dettero in uno scoppio di risa; non ne potevano più. Lucia aveva le lagrime agli occhi, Federigo si nascondeva la testa nel tovagliolo. Che cosa buffa! Si spassavano come scolaretti in vacanza. Poi Lucia venne a un tratto seria. Guardava attorno un po' disillusa. Non trovava nulla di strano, nulla di nuovo. Lui comprese.

--Ecco un salottino che non ha nulla di particolare. Non ce ne sono più che nei romanzi. Noi diventiamo borghesi.

Lei sorrise distrattamente. Ritornò alla commediola.

--Che faremo ora, signor Federigo, che faremo per ingannare quest'uomo? Inventate.

--Dovremo darci del tu.

--È vero, è vero; anzi, fingiamo d'imbrogliarci col tu e col voi.

--Sicuro. Poi guardiamoci lungamente e balbettiamo qualche parola incomprensibile....

--Quando lui ci parla fingiamo di essere distratti, io fisserò l'acqua nel mio bicchiere....

--Ed io farò delle pallottoline di pane...

La commediola andava innanzi, concertata a meraviglia, recitata a meraviglia. Il pubblico composto del cameriere e dell'oste, in lontananza, in un corridoio, ci cascava. Ma per cinque minuti gli attori si occuparono delle costolette, con molta attenzione.

--Signora Lucia, noi non dovremmo mangiare.

--O perchè?

--Capite, col cuore divorato dai rimorsi...

--Avete ragione.... infatti.... Ma infine noi saremo di quelli che mangiano per rabbia....

--E bevono per disperazione....

--Per annegare il rimorso....

Continuarono quindi a far colazione col buon appetito dei giovani che hanno l'anima tranquilla e la salute in equilibrio. Ma non si scordavano la loro parte.

--Quando lui viene, signora Lucia, fingeremo di bere nel medesimo bicchiere.

--Io dirò: "Federigo, ti ricordi di Viareggio?".

--Ed io mi turberò, sospirerò, farò un atto di rimpianto.

Ci prendevano gusto; come si dice in vocabolo teatrale, s'investivano del carattere. Pensavano che cosa si potesse far di meglio, di più fine. Si guardavano in volto, interrogandosi. Nella stanzetta il calore estivo diventava insopportabile, dalla finestra aperta, con le gelosie socchiuse, non entrava un filo d'aria ed entravano molte mosche. La signora Lucia agitava il suo ventaglio; aveva bevuto due bicchieri di Chablis e la commedia la esaltava. Federigo rimaneva più calmo; del resto, in ambedue era chiara, netta, lucida la coscienza del dualismo. Non si confondevano, no. Non entravano in una intimità maggiore per la rappresentazione; non si aumentava di una linea la mutua confidenza. Erano lì buoni amici, contentoni, felici di burlare l'oste ed il cameriere. Una commediola perfetta, addirittura un successo. Il cameriere parlava sottovoce, era pieno di rispetto, camminava forte venendo, camminava piano andandosene. Essi sorridevano, dietro le sue spalle. Lucia sbucciò una pesca, e staccandone un pezzetto, lo diede a Federigo con un vezzoso gesto d'amore: un'idea venuta lì per lì. Federigo prese il pezzetto di pesca, baciò lievemente le dita della manina: anche questa un'idea improvvisata. Il cameriere vide e finse di non vedere: scappò a prendere il caffè. Essi si strinsero la mano, scambiandosi le loro felicitazioni: in verità, si ammiravano. Non si erano mai tanto divertiti nella loro vita.

Trovavano naturale quello che facevano, naturale la propria indifferenza, l'impersonalità. Anzi, non pareva loro neppure arrischiata la posizione, tanta era la serenità del loro animo. Andavano innanzi come due fanciulli soddisfatti di un nuovo giuoco, trovato per caso. Federigo sapeva, poichè aveva vissuto; Lucia indovinava, perchè era donna. L'impensato la interessava.

--Signor Federigo, non vi pare che dovremmo fumare delle sigarette?

--Accendendole, scambieremo un'occhiata. Poi scambieremo proprio le sigarette.

--E guarderemo il fumo con aria triste.

Quando il cameriere venne a sparecchiare, essi fumavano. Un rumore di ruote s'intese sulla via. Lucia gittò un grido e si lasciò cadere quasi nelle braccia di Federigo, tremando.

--Dio mio, tu ti ucciderai con queste emozioni...--mormorò lui, sorreggendola, dandole coraggio.

--È un carro, signora--osò dire il cameriere.

--Va bene, andate--disse severamente Federigo.

O cordiali risate! Non le avrebbero ritrovate più. Si sentivano vivificati, rinfrescati in quel meriggio di luglio. Rimasero a discorrere di tante cose leggiadre, come nel parco, scherzando sulle maniere del mondo intiero. Fumavano, Ogni tanto il cameriere passava innanzi la porta socchiusa, senza volgersi. Essi sorridevano ancora e ripigliavano il discorso. Se ne partirono dopo un'oretta di conversazione. Si dettero il braccio scendendo le scale. Voltandosi, videro sulla porta il cameriere, il guattero, il cuoco, l'oste che li sbirciavano.

E se ne andarono leggieri, riposati e quieti fra la polvere alta.

All'albergo la signora Lucia dormì profondamente per tre ore. La sera non vide Federigo nello Stabia-Hall. La mattina seguente ricevette un dispaccio dal marito che la richiamava a Milano, per andare sui laghi. Cosa che le procurò una grande consolazione, poichè Castellammare cominciava ad essere noioso. Scrisse un bigliettino di congedo, ringraziandolo, a Federigo, e se ne partì affrettando l'ora del ritorno. Federigo lesse il biglietto mentre si radeva la barba, si strinse nelle spalle e andò al bagno.

Per tre anni non si videro mai, non seppero nulla l'uno dell'altro. Ma la prima sera in cui si rividero, il primo momento, in un palchetto della Pergola, a Firenze, senza parlare, senza toccarsi la mano, dinanzi a molta gente, scambiarono quello sguardo ardente che rimescola il sangue e per cui due vite s'uniscono. E fu una spaventosa tempesta la passione che li travolse.

Ritratto di donna.

A voi non piacciono i ritratti di donna. Dite che sono inutili, non mi avete mai voluto dire il colore dei capelli della vostra prima innamorata, nè descrivere la linea del naso della vostra penultima. Ma quando la persona di cui voglio farvi il ritratto passava in carrozza, voi vi fermavate sul marciapiede, guardandola, senza salutarla, con le palpebre battenti, le braccia prosciolte, lasciandovi urtare dai viandanti; quando la persona compariva in un palchetto di teatro, voi dalla platea, voltavate tranquillamente le spalle alla scena, per guardare lei, inconscio, dimentico di ogni altra cosa. Oggi io ho la voglia di tormentare la vostra amicizia, facendovi il ritratto di quella donna.

Una principessa: eppure nessuno di voi ha visto sulla sua testa la corona principesca. È una corona pesante, carica di gemme, di forma poco elegante, difficile ad adattarsi con grazia. La ragione segreta era nella testa un po' grossa della principessa. Non era punto un difetto e lei sollevava il capo con alterigia, ma desiderava nel fondo dell'anima una di quelle teste piccine e schiacciate da vipere. Così non portava mai nastri, mai piume, mai pettini, mai spilloni di brillanti nei capelli: ed i fiori, a grandi gruppi, li appuntava sotto l'orecchio, lasciando che strisciassero sulla nuca, che strisciassero sul collo, producendole un piccolo solletico che le faceva socchiudere gli occhi. Per lo più i fiori erano rossi; quelle rose violente, a bocciuoli stretti, quasi a vita condensata; quei papaveri rossi e leggieri; quelle fucsie della passione cascante, già morente. Rossi i fiori, poichè i capelli erano neri, di un nero senza lucido, appannato, di carbone: capelli arruffati che gonfiavano nelle treccie, che piovevano sulla fronte. Invano il principe chiedeva ogni due giorni alla principessa che dominasse, che regolasse un poco quell'arruffio di capelli sulla fronte. La principessa, che adorava il bellissimo e stupido principe, cercava di moderare la propria selvaggia capigliatura, ma non ci riusciva. Pure quel disordine era seducentissimo, mettendo contorni irregolari intorno a quella testa, e lasciando cadere ombre singolari su quel volto.

La principessa era bruna, molto bruna nella faccia, nel volto, nelle spalle, nelle braccia. Lo sapeva e non si scollacciava mai negli abiti azzurri, verdi o violetti. Portava gli abiti montanti in raso bianco-latte, o in raso giallino, ora col lungo ed alto colletto alla Medici, ora con certe immense cravatte di merletto che la immergevano in una nuvola di trine. Ma una sera, per far dispetto a certe amiche che avevano detto esserle impossibile l'abito scollacciato, venne al teatro con un abito scollato di raso rosso, quasi senza maniche, con un'audacia tranquilla ed irresistibile. L'abito era corruscante, il busto splendido. Nessuno osò dire nulla, poichè tutti sapevano che la principessa era profondamente virtuosa.

Nessuno si accorgeva che ella si tingeva lievemente gli occhi. Aveva gli occhi grigi, molto luminosi e grandi: ma quando ella si turbava, per uno strano effetto, gli occhi si facevano di un azzurro-carico, quasi cupo. Qualcuno, di sera, diceva che ella aveva gli occhi neri: cambiamenti pericolosi che moltiplicano la potenza di uno sguardo. Quella piccola tinta di bistro, segreto orientale, con cui accentuava questo sguardo era messa con sapienza artistica: sebbene la principessa nulla sapesse di arte e odiasse specialmente la scultura, la pittura e la poesia. Comprendeva solo la musica, senza dirlo. Aveva due sguardi: l'uno dritto, fermo, duro, come una domanda imperiosa; l'altro cadeva dall'alto, quasi filtrato attraverso l'anima, un po' errante, con uno smarrimento giovanile, senza calore, ma dolcissimo. La principessa aveva ventiquattro anni e dicevano che in casa passasse rapidamente dalla bontà più larga ad una indifferenza completa.

Il suo sguardo imperioso andava d'accordo con la linea orgogliosa e nobilesca di un naso aquilino. Era un naso ben piantato, la cui radice spianava armoniosamente l'arco delle sopracciglia, un naso forte, dalle nari colorite ma senza fremiti. Quella linea fiera di profilo dava un carattere a tutta la fisonomia: carattere di superbia calma e solida, aristocrazia senza derogazioni, sangue puro, blasone splendido, nome altissimo. Anzi, non vi erano altri eredi del nome, poichè la principessa in tre anni di matrimonio non aveva avuto figli.

Si aspettavano. Ma nessuno gliene parlava, poichè la principessa rizzava il capo, aggrottava le sopracciglia e tutta la sua fisonomia si chiudeva, s'induriva nello sdegno. Però anche in questi momenti, la bocca rimaneva fresca, viva, divina. Vi ricordate? Aveva quel bellissimo difetto del labbro superiore un po' corto, quasi tirato in mezzo, graziosamente, infantilmente sollevato, lasciando un po' vedere i denti. Non si comprendeva bene il disegno della bocca, ma sembrava purissimo, di un rosso garofanato, tutto vivace, tutto rigoglioso come un fiore pieno di vita. Ebbene, vi era anche questo di bizzarro: che quando la principessa guardava col suo sguardo freddo e laminoso, con lo sguardo diritto ed orgoglioso, allora le labbra si ammorbidivano nel sorriso--e quando il suo sguardo si faceva dolce, vagabondando come in cerca d'immagini, allora la bocca non sorrideva più. Singolare e perenne contraddizione fra la parte superiore e la inferiore del volto. Veniva voglia di baciarle le labbra, coprendole con la mano gli occhi--o si provava il desiderio di guardarla sino nell'anima, nascondendole la bocca. Ma nessuno ancora aveva osato esprimere questi audaci desiderii. Nascevano gli amori, ma non trovavano la forma per manifestarsi. Non si conosceva ancora troppo bene la principessa: e troppo i suoi lineamenti si urtavano fra loro, nella espressione. Lei aveva il mento energico, che le allungava il volto e dava un pensiero a tutta la fisonomia: quel mento là era impeccabile. Ma la linea con cui il colle si attaccava alle spalle era molle, e lei, nelle sere in cui si scollacciava, non portava mai un filo di brillanti, nè vezzo di perle, nè nastrino di velluto. Quella mollezza era una confessione inconsciente? Fra venti giovanotti che le avrebbero fatto volentieri la corte, l'uno aspettava che l'altro incominciasse per vedere come era ricevuto. Certe faccie dicono chiaramente quello che vogliono. Ma la principessa aveva nel volto una volontà variabile--quindi misteriosa.

Era più bella seduta, che in piedi. Il busto magnifico era troppo lungo, le gambe troppo corte. Per questo non ballava volentieri, non andava mai allo skating, andava volentieri a cavallo, con uno strascico lunghissimo da amazzone. Ma seduta nella carrozza, nel palchetto, in una poltroncina, in un angolo di divano, sembrava sopra un trono; inginocchiata nella chiesa, sembrava ancora sopra un trono. Non passeggiava mai. Appena si alzava dalla sua seggiola, l'illusione cadeva: molti l'hanno amata e disamata in una serata per questo. Il principe non era punto geloso, ma se lo fosse stato, un rimedio all'innamoramento dell'amante poteva essere condurre la moglie sempre a piedi. Ma lui non ci pensava.

Si poteva supporre che i piedi della principessa fossero piccini, ma essa non li mostrava mai. Invece le mani erano lunghe, sottili, con certe unghie rosee e crudeli. Portava le dita cariche di gemme, d'ogni colore, d'ogni forma, sino al medio. Un carico di anelli, un carico odioso per cui nessuno poteva stringerle la mano: temevano farle male.

Anzi si ripeteva dappertutto che li portava appunto per non lasciarsi stringere la mano. Pure di sera non calzava mai guanti, nella nudità provocante di quelle mani ingemmate come quelle di un idolo indiano.

Così, alla rinfusa, come difetti e come qualità, ella aveva l'orecchio troppo piccolo, non si abbandonava mai col capo per stanchezza, impallidiva molto spesso lasciando scorgere l'onda del pallore che saliva dal collo alla fronte, si vedeva troppo in luce nel palco, salutava senza sorridere mai chinando lentamente la testa, parlava rapidissimamente, tirando indietro la lettera esse; la voce era molto bassa, sempre intima. Non faceva mai dello spirito, ma rideva sempre per quello degli altri. Non discuteva con nessuno, mai. Alla passeggiata della Riviera, non guardava mai il mare; sempre, fisamente, la collina di Posilipo.

Ora la principessa è perduta. Non si sa perchè. S'è perduta per il suo sguardo grigio o pei suoi ventiquattro anni? Pel suo labbro troppo corto o per la sua larga indifferenza? Pei capelli arruffati o per la sua adorazione pel principe? Per le sue rose rosse o pel suo orgoglio? Non si sa. Ditemelo voi, amico, che odiate i ritratti di donna e v'innamorate delle sciarade.

Novella Greca.

Questa novella non è mia. Io l'ho udita narrare e me la son fatta ripetere più volte. Nei lunghi pomeriggi estivi, nelle lunghe sere d'inverno, io prendeva uno sgabello e sedeva ai piedi di mia madre, appoggiando il capo sulle sue ginocchia. Ella, accarezzando con la mano lieve e delicata i selvaggi capelli della mia testa indomita, mi narrava le storielle di Grecia, del nostro bel paese lontano, di cui ci pungeva il cuore la nostalgia: lei, una nostalgia piena di ricordi, me, una nostalgia fervida di speranze. Ora la mamma, i rimpianti, le speranze, tutto è sparito: ma nell'anima mi ronzano pian piano le novelle. Questa qui, come tutte le altre, è vera.

Nereggia l'isola di Santa Maura. Chi passa al largo, pel mare Jonio la prende per uno scoglio bruno, arido e disabitato. La città, la campagna si scoprono dietro un gomito di terreno: piccola città edificata sopra un'eruzione vulcanica, due volte quasi distrutta dall'eruzione, con la previsione di una distruzione completa e di una scomparsa nelle onde del mare; la campagna, sparsa di vigneti e di ulivi. Nell'isola vi sono proprietarî, commercianti, agricoltori e pescatori. Vi si commercia di quell'uva minuta e nera, la passolina, che l'Inghilterra compra a milioni dalla Grecia per metterla nei suoi pasticcetti. I ricchi commercianti mandano i loro figliuoli a studiare a Londra e questi giovanotti ritornano all'isola verso i venticinque anni per darsi alla passolina; le figliuole, quelle ricche, sono educate in qualche collegio di Parigi e ritornano all'isola a diciotto per sposare un negoziante di passolina. Quest'uva piccina e nera, così saporita nei plum-puddings, è la base della felicità, dell'amore, di tutta l'esistenza in Santa Maura.

Eppure Calliope Stavro odiava profondamente la passolina. Era una fanciulla a venti anni, alta, elegante di figura, con uno strano e gracile volto bruno sotto il biondo dei capelli, con certi singolari occhi verdi. Anche lei era stata educata a Parigi, una educazione frivola ed arida. L'anima sua era rimasta chiusa. Nel collegio le sue bizzarre e gaie amiche, con lo spiritello francese demolitore, le avevan messo in burla la Grecia, i Greci, i clefti, lord Byron, Haydée e l'uva passolina. Poi le avevan dato a leggere quello spiritoso, sincero e perfido libro di About: La Grèce contemporaine. A questo fuoco vivo di ridicolo, molte cose in lei si erano disseccate. Ella aveva rinunziato a questi sogni di gioventù, ed era ritornata all'isola taciturna, senza dire quello che odiava e quello che amava, ma serbando sul viso giovanile l'impronta torva ed annoiata di un'anima scontenta. Essa era fiera, ma più spesso indifferente; qualche volta un riso sprezzante e stridulo metteva la sua dissonanza in una conversazione, ma più spesso non vi era sorriso in lei; era capricciosa talvolta, ma più spesso lo sbadiglio ignobile contorceva la linea sottile della bocca: una stanchezza mortale decomponeva l'espressione del suo volto.

Calliope Stavro non era poetica. Aveva un fidanzato e lo avrebbe sposato tranquillamente e senza ribellioni. Era un negoziante di uva, alto, ossuto, coi pomelli sporgenti, di un rosso affogato nel bruno, con tutta la faccia color mattone, bruciata dal sole, la barba nera, gli occhi neri, vivaci ed incavernati, le dita nodose. Aveva diciotto anni più della sua fidanzata, il che si usa laggiù. Galantuomo, ricco, grossolano, parlando un francese spaventoso ed un inglese commerciale, amando le canzonette italiane, il vino di Porto, idolatrando la passolina, era un buon fidanzato, sarebbe stato un ottimo marito. Faceva la sua corte nel modo più rudemente innamorato che sia possibile, e Calliope Stavro l'accettava senza disgusto, ma senza piacere. Poco a poco, nel segreto del cuore, ella entrava nell'indifferenza, nell'atonia. Le sue notti erano senza sogni. Nella bella stagione, nel maggio fiorito, venne a Santa Maura Paolo de Joanna, un giovanotto a ventott'anni, un po' Dalmata, un po' Italiano, cresciuto a Londra, a Parigi, a Firenze. Era viaggiatore, poeta e ricco--tre egoismi armoniosi. Per completare l'accordo, egli era bello. Era sbiancato nel volto di un pallor animato. L'arricciatura dei capelli nerissimi, un'arricciatura originale, non da bambino Gesù, ma da Nerone, gli dava un'aria di Dio antico. L'occhio lionato, dallo sguardo audace, smentiva talvolta la dolcezza dei tratti, la mollezza dei lineamenti. Più che bello era seducente. Simili uomini esistono--e piacciono moltissimo alle donne. Egli non sorrideva che raramente con quei sorrisi lenti che completano l'occhiata e che sottolineano la parola. La voce, questo incanto irresistibile, era grave, bassa. Parlava poco. Quando l'entusiasmo faceva vibrare le sue parole, invece di arrossire, impallidiva.

Paolo si fermò a Santa Maura per un capriccio di viaggiatore raffinato che aborre le grandi città. Aveva lettere per i ricchi dell'isola. Ebbe liete accoglienze. Certo quei Greci bruni, attivi, poco poetici, molto magri e molto intraprendenti, guardavano con una certa diffidenza questo poeta bianco, felice e indolente, questo fanciullo bello, orgoglioso e ricco, pieno di languidezze femminili, di silenzi interessanti e di sguardi misteriosi. Ma lui aveva con essi quella dolcezza di modi, quell'attenzione amabile, quella cordialità rattenuta che affeziona le anime. Finirono per amarlo, con quella espansione greca che rassomiglia tanto a quella italiana.

Egli non corteggiava le fanciulle, oppure le corteggiava tutte, compresa Calliope Stavro.

Quando passava a cavallo per le vie di Santa Maura, cavaliere bello ed elegante, egli salutava ogni fanciulla che accorreva al balcone con un saluto profondo e uno sguardo significante. Egli scriveva sui loro albums bellissimi versi, versi cupi e passionati, che turbavano quella a cui erano diretti. Nelle escursioni di piacere egli si smarriva nei boschetti or con una, or con un'altra, ma non parlava d'amore a nessuna. Egli passava volentieri le notti di estate all'aria aperta, passeggiando sotto le terrazze imbalsamate dal profumo delle rose, senza che si sapesse per quale terrazza egli passeggiasse più specialmente. Così se qualcuna aveva per lui una simpatia segreta, non si poteva dire quale fosse la sua segreta simpatia.

Pure in casa Stavro ci andava spesso. Ma era così discreto, così incantevole nella sua semplicità, che in quella casa avevano finito per adorarlo. Egli s'interessava vivamente agli affari di Spiridione Stavro, il padre di Calliope; egli era il confidente d'amore di Nicolaki Stavro, fratello di Calliope: egli cantava al pianoforte le romanze italiane per Dionisio Catargì, il fidanzato di Calliope. Le serve erano innamorate di lui. Solo la fanciulla, non lo amava, nè lo odiava, come il suo solito. Ella serbava il suo aspetto insoddisfatto e sdegnoso, un silenzio lungo e torbido.

Paolo la interrogava spesso per conoscerne l'anima. Egli tentava di far risuonare tutte le corde, per sentire l'armonia di quel cuore. Ma l'anima era dura e il cuore senza musica. Nulla vibrava in quella fanciulla. Invano egli le parlava dell'Italia, della divina e profumata Italia, in cui la vita si colorisce nell'amore, dalle tinte più delicate dell'argentino-roseo sino alle cupe, profonde e rosse, del rosso che pare nero. Invano egli le diceva della bionda Dalmazia dalle forti donne, della Dalmazia bionda cui bagna malinconicamente il freddo, glauco e malvagio Adriatico. Lei ascoltava e talvolta un'aura di sorriso ironico le aleggiava sulle labbra. Paolo se ne accorgeva e desisteva. Calliope lo irritava. Ella scomponeva la sua calma olimpica.

Allora, pensando che ella fosse frivola e vana, le portava i giornali francesi, le canzonette della nuova operetta, i libri nuovi. Li leggevano insieme. Lui leggeva benissimo, con una voce in cui tremava un'emozione strana. Ella stava a sentire quelle singolari descrizioni, quelle scene amorose, ora fredde e gravi, ora ardenti; stava a sentire, ma parea non ascoltasse. Spesso sembrava che ella si annoiasse profondamente di tutto. Si stringeva nelle spalle come infastidita, ma non diceva nulla. Una volta erano soli. Da una settimana Dionisio Catargì era partito per la campagna, per la raccolta della passolina che si fa nel luglio. Paolo leggeva un libro francese, un romanzo d'amore. Calliope ascoltava. D'un tratto egli si arrestò e la guardò. Ella era pallida, con gli occhi chiusi. Lui, preso dal suo orgoglio di seduttore, si chinò per baciarla audacemente sulle labbra. Ma i grandi occhi verdi si aprirono e lo fissarono con uno sguardo così glaciale che egli s'arretrò, chiuse il libro e partì senza pronunziare una parola.

Provò a parlarle di arte. Dinanzi agli orrizonti sereni, dinanzi all'Jonio azzurro, con la frase eloquente e calda, egli ricostruì quei templi dalle linee pure, dalla bellezza immortale, quelle città piene di luce e di amore, quei portici dove s'elevava nell'aria l'alto insegnamento dell'ideale. Più indietro, più indietro ancora, le disse di quella stupenda natura, in cui tutto era divino, gli alberi, i fiori, i fiumi, in cui cinquemila Dei popolavano un Olimpo, in cui le nozze fra il cielo e la terra mettevano nell'aria l'immensità della passione, il mormorìo dei baci e l'olezzo dell'amore. Ella non comprendeva. Paolo taceva, disgustato, annoiato, con la bocca amara e le labbra inaridite.

Fu più tardi, nel colmo dell'estate, che per la prima volta le parlò d'amore. Mai ne aveva detto nè con Calliope, nè con altri. Il volto del poeta diventava duro e immobile come il marmo, quando il discorso cadeva sull'amore. Trascinato da un impeto, lasciandosi portare dove la natura mobile ed egoista lo trasportava, una sera egli ruppe il silenzio. Quel soggetto lo eccitava, lo esaltava. Sgorgavano le idee ora incandescenti come la lava, ora scettiche, ora sprezzanti. Si contraddiceva, se ne accorgeva, spiegava la sua contraddizione. Il paradosso sfoggiava i suoi colori iridescenti. Tutto quanto era compresso nell'anima, scoppiava col fracasso di un torrente. La voce ora tremula e bassa, ora grave e sonora; gli occhi vaganti, quasi ispirati, il gesto largo. La fanciulla ascoltava. Egli finì per dire che noi abbiamo una sola via alla vita ed è l'amore, una sola via alla felicità ed è l'amore, una sola via alla morte ed è ancora l'amore. Poi tacque. Calliope ascoltava ancora.

In casa Stavro si ballava. Era il dicembre. Si dava una festa in onore di Paolo de Joanna che partiva per l'Inghilterra. Erano riunite tutte le belle donne, tutte le belle fanciulle dell'Isola. Qualcuna certamente sospirava dietro quello straniero che se ne andava così tranquillo e felice, senza curarsi di quello che lasciava dietro di sè. Lui ballava con tutte. Calliope anche aveva molto ballato; il primo waltzer con Dionisio Catargì, il suo ossuto innamorato, il quale, poichè la passolina era andata splendidamente, era contentissimo e le aveva donato un paio di orecchini di brillanti. Ora, la quadriglia chiamata con voce nasale da un direttore greco, Calliope la ballava con Paolo de Joanna. Discorrevano con una certa indifferenza, lasciando cadere le parole.

--Tornerete?

--Ho promesso di ritornare--le rispose lui, evasivamente, anche in italiano.

--Tornerete?--insistette duramente lei, come se volesse obbligarlo alla verità.

--No--disse lui, raddrizzandosi nell'orgoglio feroce del suo animo. Non tornerò.

Il babbo li divise. Quando il babbo li riunì:

--Non siete triste?--chiese lei.

--Io non sono mai triste, nè mai allegro. Io sono saggio; siatelo anche voi.

--Lo sarò--rispose Calliope nettamente sorridendo.

Si riposavano. Lui le parlava sempre quietamente. Lei ascoltava con gli occhi bassi, con un lieve riso della bocca.

--Cara fanciulla, la vita è fatta di queste separazioni. Ci sembrano amare, non sono. Bisogna vivere filosoficamente, godendo la gioia di oggi, non rimpiangendo quella di ieri, non desiderando quella di domani,

--È vero,--rispose lei tranquillamente.

--Poi--riprese lui--il piacere non può essere intenso che sagrificando la sua lunghezza. Per vibrare molto, non si può vibrare per molto tempo.

--È vero--e andò a ballare.

Quando la fanciulla ritornò, egli ricominciò il suo discorso.

--.... anche l'amore è una cosa volgare e comune. Noi lo poetizziamo, per orgoglio, per fingerci esseri superiori. L'amore non mantiene una sola delle promesse che fa. L'amore è inutile.

--È vero--disse lei per la terza volta.

Nella notte rigida d'inverno lo scoglio altissimo si rizza, tutto nero. È a picco, tagliato nettamente come con un colpo di accetta gigantesca. Il suo capo di roccia pare debba essere abitato appena dall'aquila. Niuna luce vi fa piovere lo scintillío delle stelle che paiono di acciaio tersissimo. Non un albero, non una pianticella, non un filo d'erba. Roccia angolosa, arida, dura, quasi livida di collera. Silenzio profondo, il silenzio delle altitudini. Sotto, l'Jonio rumoreggia, si rompe contro la parete dello scoglio. La fanciulla compare. Non si affretta, non va lenta; il suo passo ritmico nulla ha d'incerto. Non piange, non singhiozza. Giunta sul picco, sulla breve piattaforma si ferma, guarda giù, lungamente, quasi ascoltando. Per un momento le braccia si levano al cielo, come una bestemmia, come una minaccia, disperate. Poi si scioglie i bei capelli biondi, guarda l'Jonio bruno e si butta giù.

...............................................

O mamma cara, come si chiamava Santa Maura in greco antico?

--Leucade.

--Leucade di Saffo, mamma?

--Leucade di Saffo.

Ella chinava il capo e pensava. Io taceva.

Sono morti gli Dei di Grecia. È caduto in Leucade il tempio di Apollo: la storia di Saffo pare una fola. Ma sopravvive eterno, implacabile e sorridente, il mito dell'amore.

FINE.

INDICE

Novella d'amore
Paolo Spada
Sulla tomba
La settimana delle novelle
Delfina
Cuore di porcellana
La donna dall'abito nero e dal ramo di corallo rosso
Scena
Ideale
Giuoco di pazienza
Aspettando
Duetto di salone
Al veglione
Vittoria di Annibale
Falso in scrittura
Primo giorno
Sconosciuto
Un inventore
Commediola
Ritratto di donna
Novella Greca