1894
OPERE di MATILDE SERAO.
( Edizioni Treves ).
All'erta, Sentinella! racconti napoletani, 3.ª ed. L. 4 — Il romanzo della fanciulla, 4.ª edizione 2 — Il paese di cuccagna, romanzo, 2.ª edizione 5 — Il ventre di Napoli (1885), 3.ª edizione 1 — L'Italia a Bologna. Con 15 incisioni. 2 — Gli amanti, pastelli. 4 —
IN PREPARAZIONE:
L'inutile passione.
GLI AMANTI
PASTELLI
DI
MATILDE SERAO
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1894.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
_AL CARISSIMO AMICO
EUGENIO TORELLI VIOLLIER_
M. S.
L'IMPERFETTO AMANTE
(Nino Stresa).
Donna Grazia scrive così, di questo suo amante:
La prima volta in cui Nino Stresa mi mancò di rispetto, fu in un ballo. Ero vestita di broccato bianco, quella sera: e il busto del vestito era sostenuto, sulle spalle, da due fascie di brillanti che formavano manica. Egli, Nino Stresa, mi cominciò a guardare, di lontano, poco dopo la mia apparizione nel ballo: e non potei più fare un movimento per passeggiare o per ballare, senza sentire il suo sguardo fermo sovra me. Ora, Nino Stresa ha uno sguardo singolare. I suoi occhi sono semplicemente neri, senz'altro pregio. Ma lo sguardo ha una dolcezza languida e persistente che, talvolta, dopo qualche minuto di contemplazione, pare che si veli di lacrime per una profonda emozione saliente agli occhi dall'imo cuore. Sembra, quando guarda così, Nino Stresa, che tutta la sua anima si dissolva in una intima e malinconica tenerezza, assolutamente contraria alla sua apparenza di bellissimo giovane e di giovane elegantissimo. Vi sono, o pare che vi sieno, in quello sguardo tesori segreti e inesauribili di un sentimento nascosto con gelosa cura e trapelante, solo, in quella dolcezza ostinata e adombrata di lacrime. Tanto che la donna guardata così, da Nino Stresa, dimentica la soverchia, inquietante bellezza dell'uomo, e nella creatura troppo fine e sicuramente corrotta, nella creatura che porta la peggiore delle reputazioni, cioè quella della fatuità, le par di scoprire, dallo sguardo così strano, un orizzonte spirituale che giammai altra donna vide. Io ebbi questa impressione, vivacemente: e, non so perchè, impallidii dopo averla avuta. Subito, una curiosità ardente mi accese l'immaginazione: e, probabilmente, i miei occhi, rispondendo a quelli di Nino Stresa, dovettero contenere una interrogazione. Non subito egli si avvicinò a me; io fui costretta a ballare una mazurka e gli passai a poca distanza tre volte. Dio, Dio! che struggimento di dolcezza in quello sguardo, quanto languore malinconico, quanta celata tristezza che si rivelava, quasi inconsciamente! Forse, la interrogazione dei miei occhi dovette diventare più acuta. Discorrendo, fermandosi ogni tanto, voltandosi sempre a ricercarmi, egli si avvicinò a me, facendomi un grande inchino.
—Buona sera, signora,—disse con la sua voce sorda, un po' stanca.
—Buona sera, Stresa.
Aspettai, un po' ansiosa, come se egli si fosse avvicinato per rivelarmi un grande mistero, per dirmi, finalmente, la unica verità della sua anima. Egli mi disse:
—Avete delle spalle stupende.
A quest'atroce brutalità, io dovetti arrossire sino alla radice dei capelli: mi sentii soffocare dall'ira e non risposi. Nino Stresa si accorse di tutto, certamente, giacchè mi guardò, stupefatto, con una meraviglia dolorosa negli occhi: mi salutò, di nuovo, e si allontanò lentamente. Lo sdegno mio non ebbe sfogo quella notte: e, man mano, si venne trasformando in un eccitamento di gioia, quasi convulso, che mi fece molto ridere, molto ballare e che mi fece anche cenare, io che non ceno mai, giacchè odio le donne che mangiano in pubblico. Vi erano delle piccole tavole, per quattro. Io era con Clara Lieti, e due cavalieri, briosi e insignificanti. Non avevo più riveduto Nino Stresa, nella notte, e avevo supposto che se ne fosse andato, e questo mi aveva fatto molto piacere, mentre mi arrovellavo di non avergli potuto dire una fredda impertinenza, in cambio della sua brutalità. A un tratto, lo vidi fermo presso la nostra piccola tavola:
—Non si fa l'elemosina all'affamato?—chiese.
Clara Lieti e i due nostri cavalieri gli dettero subito un po' della loro cena, ridendo, mettendo tutto nello stesso piatto. Egli cenò quietamente, in piedi, senza rivolgermi la parola. Io chinavo gli occhi, abitata. Egli si curvò, a dirmi sottovoce:
—Datemi la vostra coppa di champagne.
Io non seppi fare altro che porgergliela. La mia mano tremava lievemente.
—Bevete, prima, un sorso,—disse, con quella voce un po' rôca.
Bevetti un sorso di quello champagne-cup, odoroso e inebriante: gli detti la coppa. Egli mise audacemente le labbra dove io le avevo messe e bevve, guardandomi. In quel momento Nino Stresa mi piacque immensamente: ma subito dopo, ne ebbi un disgusto immenso.
Non credete, però, che io sia divenuta l'amante di Nino Stresa dopo poco tempo e per qualche bizzarra suggestione. No. Egli durò dei mesi e dei mesi a farmi una corte assidua, irrispettosa, circuendo la mia persona di un amore che mi offendeva, tanto era terra terra, e tanto pareva fatto solamente di desiderio. Niuno aveva mai osato guardarmi come egli mi guardava, niuno mi aveva mai detto quello che egli mi diceva! Invano, io mi armavo di freddezza e di alterigia; egli persisteva, ostinatamente, umiliandosi e allontanandosi, talvolta, ma ritornando sempre, più innamorato, più audace, più desideroso. Vi erano dei minuti in cui io lo odiava, assolutamente, per questa sua insistenza amorosa e per la monotonia di quello che egli provava. Pure, egli aveva, insieme all'audacia, tale una tenerezza fluente, tale una morbidezza di parole, di voce, di gesti, egli aveva, finanche, e di nuovo, e sempre, insieme all'audacia, tale una malinconia, che io, sbalzata nel mondo delle sorprese dello spirito, mi chinavo, ahimè, senza odio e con crescente interesse su quell'anima, a scoprirvi un fantastico mistero, a cercare le sorgenti ascose di quella espressione singolare. Nulla io giungeva a vedere, e come la curiosità mi sospingeva, gli domandavo:
—Perchè siete così triste?
—Perchè non mi amate. Ed io vi adoro….—diceva lui, cercando di prendere la mia mano e di baciarne le dita.
Lo respingevo, sempre. Egli ne provava un sincero dolore, non privo di qualche ingenuità infantile. Era come un bimbo a cui negassero una cosa promessa e dovuta: era come se gli si commettesse contro una crudele ingiustizia.
—Perchè non mi amate, perchè?
—Perchè quello che voi sentite, per me, non è amore.
—Che cosa è, dunque?
—È desiderio.
—È la medesima cosa,—replicava lui, con un'aria di perfetto candore.
Ah, quando io lo udiva negare così la parte sentimentale e nobile dell'amore, quando egli calpestava, così, tutto quello che vi è di puro e di elevato, anche in una passione colpevole, Nino Stresa mi faceva ribrezzo! Egli leggeva nel mio viso tutta la ripulsione del mio spirito e dei miei nervi e taceva. Soffriva, forse, in silenzio. Talvolta, si allontanava, per qualche giorno. Ma io, immancabilmente, lo vedeva riapparire, riavvicinarsi a me, cercar di stringere la mia mano, trattenendola sempre un minuto secondo fra le sue, cercando di toccare qualche oggetto ch'io aveva toccato. Per questo, era un superstizioso dell'amore. Se io lasciava un ventaglio, sovra una mensola, Nino Stresa lo prendeva, lo schiudeva, lo avvicinava al viso, continuava a tenerlo fra le mani, incapace di lasciarlo; se io perdevo un fiore dalla cintura, se mi toglievo un guanto, egli raccoglieva subito il fiore e rubava senz'altro il guanto. Una sera, d'inverno, la mia pelliccia era restata nel salone e io ero andata in camera mia, a cambiar d'abito: lo ritrovai col volto immerso nella pelliccia e con una letizia indicibile negli occhi. Egli conosceva perfettamente tutti i miei vestiti e tutti i miei mantelli, e ne prediligeva alcuni, specialmente, e dava loro degli aggettivi carezzevoli, quasi fossero cosa animata, e quando io mettea uno di questi vestiti, egli trasaliva di gioia, e la parola sua, la sua gran parola, gli usciva dalle labbra:
—Quanto mi piacete, quanto mi piacete!
Volgare e laida parola! La pronunciava un gentiluomo, un giovane intelligente e colto, un bellissimo giovane, con una voce sorda, velata e pure armoniosa: ma essa rivoltava tutto il mio sangue.
—Non sapete dirmi altro?—chiedevo io, fremendo di collera.
—Che debbo dirvi? Mi piacete assai, immensamente.
—Niente altro, niente?
—Ma non vi è altro, signora,—egli soggiungeva, meravigliato e dolente.
Così io mi sono innamorata di Nino Stresa. Vi pare una contraddizione? Non so. Cercherò di spiegarmi meglio, e voi noterete se vi è contraddizione. Egli m'indignava, ma mi attraeva, anche, perchè era giovane, perchè era bello, perchè, infine, a suo modo, mi amava. Ogni volta che il suo desiderio si esprimeva negli sguardi e nelle parole, io ne riceveva un sussulto di dolore e di sdegno: ma, nel medesimo tempo, quasi senza che io me ne accorgessi, una delle difese del mio cuore crollava. Gli imponevo silenzio, ma egli aveva già parlato. Lo fuggivo, ma egli mi ritrovava. Mi chiedeva perdono, ma, nel chiederlo, egli ricordava la colpa che aveva commessa e che, per me, sarebbe stato più utile dimenticare. Lentamente, mi abituavo a una temperatura alta di passione, dove scompariva la forma della manifestazione, trionfando solo la potenza dell'amore, qualunque sia il grido del suo trionfo. Certo, Nino Stresa era innamoratissimo; così assorbito, così concentrato in me che, quando veniva a casa mia, mi aspettava anche delle ore, solo, pur di vivere dove io viveva, mentre io era lontana. Innamoratissimo, impallidendo quando io appariva, tremando nel toccare la mia mano, non potendo sedersi troppo lontano, fissandosi bizzarramente a guardare le mie labbra, o la curva del mento, o perdendosi ad ascoltare la mia voce, senza intendere le parole. Allora, vedendolo così preso, così vinto, così soggiogato, io mi formai, come tutti quelli che stanno per commettere un errore, una grande illusione: sperai, non solo sperai, ma fui certa che, se avessi amato Nino Stresa, avrei, senz'altro, estratto dal fondo del suo cuore tutta la sentimentalità che vi era, sicuramente, come vi è, in ogni uomo, il più misero moralmente, in ogni più arido cuore. Io mi incamminavo a uno strano viaggio, come colui che, per una via oscura e malfida, discende sotterra, cercando nelle profondità la miniera che lo deve arricchire: e non ha per sè che la speranza del prezioso tesoro che va a ricercare, non ha per sè che la fiducia in una illusione. L'uomo che mi amava, per carattere e per temperamento mi spiaceva, violando tutte le idealità invincibili del mio cuore, calpestando tutti gli istinti di elevatezza a cui si era educata e legata per sempre la mia anima: ma io mi lusingava, fortemente, di non conoscere l'ultima verità dell'essere di Nino Stresa. L'ultima verità, la suprema di un uomo, si conosce nell'amore corrisposto, nelle ore estreme della passione: tutto il resto è, o può essere, bugia. Questa fu l'illusione che io mi feci e a cui mi afferrai, dandomi all'amore di Nino Stresa. O, forse, volli ingannarmi da me stessa, non resistendo più al mio amore per lui, amore nato dai contrasti, dalla curiosità, dalla debolezza, dall'abbandono di tutte le mie forze morali. Decidete voi. Forse, non speravo veramente nulla e non ero, forse, che semplicemente innamorata, e vergognandomi di tale caduta, trovavo fisime e creavo illusioni. Voi capirete meglio.
Vi dirò tutto. Il primo giorno della nostra felicità, noi fummo infelicissimi. L'esaltamento della sua passione fu così grande, che mi stupì: ed io gli dovetti parere freddissima. Nino Stresa cadde in una tristezza immensa, da cui nulla lo potè trarre. Io gli giurai che lo amavo, che lo adoravo: piansi innanzi a lui. Egli si vinse un poco e fu molto tenero, di una tenerezza mesta che mi andò all'anima. Gli vidi delle lacrime negli occhi.
—Che hai, che hai? Tu soffri, è vero?
—Sì,—egli mi disse, piano.
—Ma perchè? Non ti amo, io?
—Sì, mi ami, diletta.
—Non mi ami, tu?
—Sì, moltissimo.
—Ebbene? Perchè soffri?
—Così: non lo so.
Ma il dissidio che era fra noi, anteriore all'amore, sorgente dalla nostra medesima essenza, non sparve per l'amore. Noi avemmo delle ore violente di passione, in cui sembrò che il raro, l'altissimo miracolo della fusione delle anime fosse accaduto: ma come l'ora declinava, le anime si staccavano, gelide, e gli amanti si guardavano in viso, quasi estranei, imminenti nemici. Come colui che ha una febbre di quaranta gradi che cade, a un tratto, gittando l'infermo in una debolezza mortale, appena l'entusiasmo della passione finiva, mi sentivo misera e disfatta: ero così avvilita, così deturpata da quell'amore fatto solamente di fiamma, che facevo nausea a me stessa. Comprendeva egli ciò? Chi sa! Egli era felice, lo vedevo: e ciò che lo faceva soffrire, era la mia freddezza, la mia diffidenza, la mia ripulsione. L'eterna questione sorgeva, fra noi:
—Il tuo amore non mi piace, Nino.
—Hai torto: esso è sincero.
—Ma non mi piace.
—E perchè?
—Perchè è troppo ardente.
—Ti lagni di essere troppo amata?
—Vorrei esser amata meglio.
—Come, meglio?
—Con l'anima, col cuore, Nino.
—Così ti amo.
—Non è vero.
Egli taceva. Il suo silenzio m'irritava: pareva che confermasse questo criterio dispregevole che mi ero fatto dell'amor suo.
—Non sai amarmi meglio?—gli chiedevo,—non sai?
—Proverò,—diceva lui umilmente.
Ahi, che non gli riusciva! Tutto ciò che è squisita sentimentalità, raffinatezza spirituale, stima, rispetto, poesia, pietà, sì, anche pietà, nell'amore, gli era ignoto. Mancava di quella delicatezza del cuore, per cui, nell'amore, il più piccolo episodio è gravissimo. Non gli importava nè dei miei pensieri, nè dei miei sogni, nè dei miei ideali, nè di nulla che riguardasse il mio spirito: e non arrivava a nascondere tale indifferenza. Gli premeva delle mie ore, perchè le voleva per sè; gli premeva della mia casa, perchè era il nido dell'amore; gli premeva del mio umore, perchè da esso dipendeva un convegno di più o di meno; gli premeva il tono della mia voce, perchè in esso vibrava la negazione o la dedizione: solo tutta la mia vita materiale gli premeva, perchè era legata strettamente alle gioie dell'amore. Invano, a un segno suo d'interesse, a un suo turbamento, io lo interrogava affannosamente, per poter sapere se, infine, qualche cosa della sua anima si muovesse, vivesse, oltre l'ardore della sua fiamma: invano! Tutto il ciclo delle sue azioni si chiudeva in questa fiamma. Quando una delusione novella mi abbatteva, io giungeva ad ingiuriarlo.
—Ma sei incapace, dunque, di voler bene come tutte le altre oscure e semplici creature della terra? Hai dei nervi e non un cuore? Hai del sangue e non un'anima? Sei un mostro?
—Grazie, quanto mi piaci in collera!
—Oh che creatura arida e odiosa tu sei, odiosa, odiosa!
—Proprio, tanto?—chiedeva lui, con la sua voce rôca e carezzevole.
Alla mia sete di sentimento, a questo bisogno intimo e invincibile di tutti gli esseri umani, a questa nostalgia che ci accompagna tutta la vita, egli non sapeva rispondere, che con la seduzione della passione. Monotono, monocorde, impotente a vibrare per qualunque espansione dell'anima, egli si rigettava in quella sola forma che gli permettevano il suo carattere e il suo temperamento. Il mio amore era diventato per lui una necessità, come l'aria che respirava, come il pane che mangiava: me lo diceva, così, credendo di darmi una prova del suo completo soggiogamento, e invece mi faceva bollire d'ira, con questi paragoni tutti tolti alla vita materiale. Per contrasto, in me, tutta l'adorazione delle belle e buone e nobili cose dello spirito diventava come un'ossessione, e solitariamente, nella mia stanza, quando egli mi aveva lasciata, io scoppiava in lunghe e cocenti lacrime sul mio abbassamento, sovra la mia irreparabile decadenza. E se, all'indomani, io ritornava a lui, era perchè questo Nino Stresa, come era, esercitava un fascino sulla mia ragione: era perchè talvolta, nella sua natura limitata e misera, mi faceva pietà. Sì, io piangevo spesso su me e su lui, a cui era negato, per fatalità, tutto un mondo dell'amore, piangevo sull'aridità del suo cuore e sulla impotenza della sua anima. Glielo dicevo, talvolta, così esplicitamente e così duramente, che egli restava trasognato:
—Sono una creatura inferiore, io, come tu dici?—mi chiedeva fra l'ironia e la tristezza.
—Forse.
—E perchè mi ami allora?
—Per un'aberrazione della mia fantasia,—gli dicevo, in faccia, impetuosamente.
Lo vedevo decomporsi, per la collera, per il dolore. Che m'importava? Mi aveva avvinta a una catena insopportabile. Tentai spezzarla. Impossibile! Egli sopportava qualunque insulto, ora tranquillo, ora umile, ora amorosissimo, e questo, non per amore, no, io lo intendeva bene, ma per la consuetudine della passione, per il legame oscuro ma saldo con cui la passione serra le persone, per la passione della mia persona, delle mie labbra, delle mie braccia! Furiosamente geloso: di una gelosia così folle che, varie volte, mi dette la illusione di un amore completo e verace. Se io parlava a un altr'uomo, egli tendeva l'orecchio alle mie parole e alla mia voce; se io dava la mano, egli misurava la stretta di mano data a un altr'uomo; se io sorrideva, egli fremeva e quasi si avanzava a provocare l'uomo cui io sorrideva. Credetti all'amore, io, per la gelosia! Ma era una gelosia così cieca e così bassa, così ingiusta e così brutale, che mi rivoltò. Non osai mai provocarla, tanto le scene che ne seguivano mi accasciavano, dandomi una novella prova che Nino Stresa viveva e amava e soffriva solo per i nervi e per i sensi: non osavo provocarla, giacchè, dopo, io era costretta a essere più amorosa che mai, con lui; e, probabilmente, egli esagerava l'ardore di questa gelosia, per ottenerne dei compensi di passione. Detestabile amore! Quante volte, vedendolo fra amici e amiche, così bello e così corretto, con quei suoi occhi dove nuotava uno sguardo di languore tenero, di mestizia indefinita, io, rôsa dalla collera di tutte le delusioni, non avrei voluto insultarlo, in pubblico, dicendo che quella soave maschera di bellezza e di malinconia, nascondeva solo la vittoria più plateale dell'istinto, che egli era ancora e sempre e non altro che l'uomo fatto di argilla, senza il divino soffio! Non meritava egli l'insulto, con quella sua apparenza di tristezza, dove chi sa quante altre donne sarebbero cadute ingannate, con quella sua ipocrisia di tenerezza e di languore, dove ogni cuor semplice si sarebbe lasciato prendere?
—Perchè sei ipocrita, anche?—gli domandavo per provocarlo.
—Io? Io?
—Sì, tu. Non fingi di esser triste, tu?
—Non fingo, sono triste.
—Tu sei un gaudente, niente altro.
—Gaudente e triste, insieme,—egli soggiungeva, sordamente.
—Ipocrita, niente altro che ipocrita!—gli gridavo, furiosa che egli proseguisse nell'inganno.
Egli mi guardava, crollando il capo.
Oramai, purchè non mancassi ai convegni, purchè mi lasciassi amare, purchè, sotto la sua seduzione—ah egli la esercitava su me, la esercitava!—avvampassi anche io di passione, egli tollerava qualunque mio affronto.
—Non posso fare a meno di te,—soggiungeva, come vinto da una fatalità!
Come la invocavo, la mia liberazione! Ogni giorno di quell'amore che trascorreva, ribadendo i miei ferri, mi recava un oltraggio di più. Mi disprezzavo, per aver ceduto a un uomo così volgarmente predominato dai bassi istinti della vita: e anche mi disprezzavo, per non averlo saputo elevare sino a me, lasciandomi invece trascinare giù. Mi sentivo indelebilmente macchiata. Avevo offeso l'amore e tutta la sua santità e tutta la sua purezza. Chi ama forte e ama bene, non pecca mai, nell'amore. Nella imperfezione dell'amore sta il peccato. La colpa esiste solo dove è la debolezza, la miseria, la grettezza, la bassezza. Eravamo due colpevoli, Nino Stresa e io: e mai, mai, nessun'assoluzione, nella vita, ci avrebbe potuto redimere dalla nostra macchia. Oh lui non ne soffriva, non capiva neppure la volgarità in cui viveva, gli pareva di essere un perfetto amante, e si lagnava della mia crudeltà! Io, io, sentivo tutto il disdegno di una relazione simile, indegna di una donna, di una signora: io aveva l'anima scoperta e ferita, e frizzava a ogni soffio d'aria. Egli, intravvedeva il dramma del mio spirito, senza intenderlo. La sua sola paura, era che lo lasciassi:
—Per carità, non mi abbandonare!
Ed esigeva sempre nuovi convegni, e ne prolungava le ore, e mi seguiva, e mi cercava, temendo che gli sfuggisse il possesso di questa donna che aveva orrore di lui. Lo lasciai, due volte: mi riprese due volte. Allora, disperata, nel colmo dell'avvilimento e della esasperazione, io tradii questo imperfetto amante, questo Nino Stresa. Ah il vile, il vile, sempre il medesimo! Lo dovetti tradire molto, per molto tempo, con una feroce ostinazione, con uno scandalo pubblico, perchè egli mi lasciasse stare. Nulla vi è più, fra noi, da tre anni. Eppure, quando mi incontra, egli mi guarda con quei suoi occhi così dolci, così facilmente velati di lacrime e così infinitamente tristi, che mi hanno mistificata, e la cui singolare espressione, lo confesso, non so donde venga. Egli fu un imperfetto amante e io l'ho tradito, ecco tutta la storia dei fatti.
L'IMPERFETTO AMANTE
(Giustino Morelli).
Anna così racconta:
Per lungo tempo, l'amore che mi portava Giustino Morelli fu la mia segreta consolazione e il mio segreto orgoglio. Io era una donna assolutamente infelice, con mio marito: una di quelle infelicità coniugali intime e inesauribili che assumono le più tormentose e quotidiane forme, che mettono al cimento la maggior pazienza femminile e che sconvolgono nell'anima più ferma ogni idea di giustizia. Mio marito non mi era soltanto infedele, era volgarmente infedele; la scortesia verso me, talvolta, non gli bastava, egli aveva bisogno di esser villano; il suo disprezzo di ogni delicatezza giungeva alla brutalità: e tutto questo con tale una sicurezza oltraggiosa, con tale una severità tirannica, con tale preconcetto di avvilirmi, che io mi domandava spesso se, proprio, io fossi la persona al mondo che egli più odiava. Io ho sofferto immensamente, allora, poichè anche, mi vergognava di soffrire: poichè, io non voleva che la gente conoscesse il mio stato; poichè io celava con cura gelosa tutti i miei dolori, non volendo perdere, oltre la felicità, anche il mio decoro di donna. Il solo che mi ha aiutato in quel tempo a soffrire, è stato Giustino Morelli. Egli sapeva tutto. Io non gli diceva nulla, per fierezza, ma egli solo, oltre me, possedeva la misura esatta di tutte le mie torture. Egli sapeva tutto, da prima. Quando io volli sposare mio marito, tutti approvarono la mia scelta; solo Giustino Morelli impallidì all'annunzio, si turbava ogni volta che gli si parlava di questo matrimonio, tentò qualche vaga rimostranza, non osò insistere innanzi alla mia cieca ostinazione, partì, sparve, non ritornò che dopo un anno dai miei sponsali. Più tardi, amaramente, io gli rimproverai le sue troppo tenui difficoltà, la sua fuga: gli rinfacciai di avermi gittato nelle braccia di un uomo violento e perverso insieme. Ricordo ancora il dolore che si manifestò sulla sua fisonomia a questo rimprovero: era confusione, rimpianto, rimorso, umiliazione. Mi pentii del rimproccio, sentendo per la prima volta che il cuore di Giustino Morelli era troppo debole innanzi a me e sentendo che io doveva risparmiarlo. Ma perchè non salvarmi quando lo poteva? Egli mi amava, non avrebbe dovuto lasciarmi cadere in un precipizio di dolore. Dopo, non gli restava che versare il balsamo del suo amore sulle mie insanabili ferite, perchè io ne sentissi meno l'asprezza.
Così, il suo amore fu un balsamo nascosto, soavissimo, purissimo. Io lo vedeva raramente, Giustino Morelli: giacchè mio marito lo teneva in sospetto, mentre lo irrideva, e giacchè egli aveva ribrezzo di stare con mio marito. A me stessa, in nome del santo e tenero amore di Giustino, mi ripugnava di vedere i due uomini insieme. Ma da lontano, divisi per giorni, per settimane, spesso per mesi, io sapeva bene che il vigile cuore di Giustino Morelli era mio, tutto mio, così completamente mio, che niuna donna, niuna assenza, nessun tempo, avrebbe potuto togliermi mai nulla del mio possesso. Nelle ore più misere e più affrante della mia esistenza coniugale, quando pareva per me crollato ogni senso di tenerezza, di bontà, di compatimento, a traverso le crisi terribili e negli accasciamenti profondi, il pensiero che Giustino Morelli mi amava, di un amor silenzioso, tenace, costante e certissimo, veniva a confortare le mie forze esauste. Talvolta, lo incontrava, dopo uno di questi tremendi periodi: ed egli mi appariva quale io lo aveva sognato, buono, affettuoso, di una dolcezza così grande, che io mi sentiva struggere di riconoscenza, innanzi a lui. Soli, c'incontravamo: egli mi guardava con una pietà carezzevole, prendeva la mia mano senza stringerla, ne baciava leggermente le dita, mi chiamava per nome, niente altro, ma con una voce così amorosa e soave, che lo sguardo, la voce, la parola, la carezza, mi avvolgevano in un'atmosfera d'amore. Quando c'incontravamo, poco mi parlava: si contentava di guardarmi, con infinita tenerezza: mi ascoltava parlare, come se udisse una mistica e misteriosa musica, percepita solo dalla sua anima: e io, sentendo la rarità dell'attimo amoroso, non gli dicevo nulla delle mie sofferenze, volevo godere in tutta la sua essenza purissima quel momento di suprema consolazione. Io intendeva che egli leggeva nel mio spirito, senza che io gli parlassi: e che tutti i più segreti pensieri gli fossero noti, per questa intuizione nobile e sapiente dell'amore. Se io era triste tentavo nasconderlo: mi pareva di averla nascosta bene la mia tristezza: ma subito io la vedeva in lui, riflessa magicamente. Oh, egli sapeva tutto, di lontano, senza che io gli narrassi le mie sventure, senza che io gli scrivessi di ciò una sola parola! Quando mi rivedeva, dopo una lunga assenza, egli prendeva la mia mano e diceva, in un impeto di compassione per tutti i miei mali che indovinava, che aveva indovinato:
—Poveretta, poveretta!
Io piangeva, udendo questa parola. Egli non soggiungeva nulla, lasciandomi piangere, asciugando le mie lacrime col suo fazzoletto, con un moto gentile quale dovette esser quello di Veronica con Gesù, carezzando fugacemente i miei capelli, come benedicendomi. Non altro. Lentamente, le mie lacrime s'inaridivano, la mia anima si quietava e io comprendeva che, ancora una volta, l'amore di Giustino Morelli era stato il mio unico conforto. Tornavo a casa tranquilla, con una novella forza in me e con una lieta luce negli occhi. Mio marito mi guardava, diffidente: e la sua diffidenza lo spingeva all'ira, e nell'ira egli m'infliggeva una di quelle brevi o lunghe scene che erano il tossico della mia vita. Che importa? Io aveva il contravveleno. Chiusa nella sublime fiducia dell'amore che Giustino Morelli mi portava, sapendo che vi era nel mondo, nel vasto mondo così deserto di ogni gioia, qualcuno che mi voleva bene, che mi adorava in una dedizione continua di sè stesso, io opponeva a mio marito una glaciale indifferenza. Mio marito mi lasciava: io andava nella mia stanza, mi buttava sul letto, con la bocca sul cuscino per poter ripetere il nome soavissimo di colui che era il mio salvatore. Tutta l'anima mia, allora, si prostrava, si abbandonava, in un'estasi di tenerissima gratitudine per il beneficio di quell'amore che era il liquore essenziale di ogni mia forza. Non sapendo come sfogare ciò che mi soffocava, trovavo modo di scrivergli, lungamente, confusamente, delle lettere che, spesso, dovevo lacerare senza potergliele inviare: raramente, arrivavo a spedirgliene una. Di lontano, io calcolavo sentimentalmente che effetto gli avrebbe fatto la prova che il cuore di Anna, della sua Anna, gli apparteneva e si dava a lui, novellamente e sempre con entusiasmo. Ma i miei calcoli sentimentali fallivano spesso. Io non lo rivedeva subito. Egli non mi rispondeva mai. Finivo per non sapere nulla. Dimenticavo la mia lettera. Quando, per una scarsa e fortunata combinazione, mi ritrovavo con lui, non gli parlavo più di nulla, felice solo di essere accanto a lui. Sentivo che l'impetuosità del mio temperamento lo turbava un poco: e mi moderavo. D'altronde, era troppo nobile e troppo alto il nostro sentimento, per disperderlo nei minuti fatti dell'amore. Anzi, il nostro amore era senza fatti. Ci vedevamo troppo raramente, perchè le due esistenze si unissero nella fusione degli avvenimenti quotidiani. Parlavamo di amore, pianamente, soavemente, anzi con quella cautela delle persone che molto soffrono, che molto temono di soffrire: e vi era in ogni suo sguardo tanta effusione spirituale: vi era nelle sue mani che tenevano le mie quasi senza stringerle, tanto fluido di affetto: vi era nella sua voce tale onda di amore; che io mi scordava tutto il passato, che io non aveva più paura dell'avvenire, e mi sentivo accanto a Giustino Morelli assolutamente felice. Certo, mi dividevo da lui con un intenso rammarico, sempre più forte come il tempo passava: certo, appena lo avevo lasciato, un senso di vuoto e di morte mi coglieva, orribile. Ma egli era partito da me, almeno in apparenza, senza dolore; ma egli era calmo e tenero. Sempre, anche quando si separava, anche quando mi vedeva turbata e agitata, separandosi da me, e poichè egli, vagamente, profondamente mi amava, io dicevo che solo la sua calma era saggia e pura, che solo il suo spirito intendeva l'amore in una forma sublime. Quando ero sola, di nuovo, io pensava, sì, che Iddio mi aveva legata ad un uomo odioso, che mi odiava: che ogni mia felicità innanzi alla fede e innanzi alla legge, era morta, ma che, in compenso, segretamente, io aveva per me la più bella forma di amore che dar si possa nella limitata e misera natura umana, e che potevo esser superba dell'adorazione di Giustino Morelli come del tesoro fra i tesori.
Pure, da questo esaltamento spirituale che io celava con tanta meravigliosa dissimulazione, nacque in me una sete più ardente di veder l'uomo che mi amava e che io amava, di stare con lui, di vivere insieme a lui. La mia casa e mio marito rappresentavano per me l'avversità, la tristezza, la mala compagnia, mentre la fantasia si fingeva il sole, la lietezza, la cara unione soltanto dove era Giustino Morelli. Cominciai a cercarlo più spesso: e quando lo ritrovavo, insieme alla espressione di immensa tenerezza, io vedeva in lui un senso di pena. Mi pentivo della mia ricerca, subito. Gli chiedevo:
—Ho fatto male, a cercarti?
—No, cara, hai fatto benissimo—diceva lui, dolcemente.
Ma quella dolcezza era anche triste. Forse, egli temeva per me.
—Perchè ti dispiace che io t'abbia cercato?—gli domandavo, ancora, crudelmente verso me e verso lui.
—Non mi dispiace.
—Sì, sì, ti dispiace!
—Oh Anna, non ripetere ciò.
—Allora, se non ti dispiace, vediamoci anche domani.
—…sì—diceva lui, dopo un minuto di esitazione.
Quella esitazione avvelenava la mia gioia. Scorgevo in lui, adesso, quello che prima non vi era mai stato, cioè una titubanza continua, una inquietudine che non arrivava a reprimere.
—Di che temi?—gli chiedevo, guardandolo negli occhi.
—Di nulla, cara—mi rispondeva, guardando in su, per isfuggire alle mie indagini.
—E mi ami, mi ami?
—Ti adoro—mormorava lui, con la intonazione antica, così schietta, così sgorgante dall'imo cuore. Ma presto, la mia insofferenza divenne spasimante. Io non poteva stare un giorno senza vederlo; avevo annullato in me ogni repulsione, venuta dal contatto di mio marito con Giustino Morelli, e pretendevo che egli, l'adoratore tenero e soave, vincesse il proprio ribrezzo.
—Non posso—mi diceva lui, piano, con amore, per togliere a questo rifiuto ogni durezza.
—Perchè non puoi?
—Non lo so, ma non posso, Anna. Venire in casa tua, dove vi è lui, mi è insopportabile.
—Allora, non mi vuoi bene.
—Anna, te ne voglio infinitamente.
—Non è vero. Se me ne volessi, verresti da me. Vieni domani, vieni….
—Anna, non posso.
—Non mi ami, non mi ami! Se mi amassi, vorresti vedermi sempre.
—Io so amarti anche da lontano.
—Senza soffrire della lontananza?
—Senza soffrire.
—Avendo un'altra amante, allora?—arrivavo a dire, io, esasperata.
—Non commettere sacrilegio, cara. Io non adoro che te.
—Così, a traverso le sfere, come le stelle?
—Così—replicava lui, con tanta nobiltà, che io mi riteneva subito la più volgare fra le donne.
In quel tempo, per mia colpa, dunque—più tardi, poi, intesi che era per colpa di Giustino Morelli—io finii per intorbidare la sorgente di ogni mia consolazione. Mentre prima ogni sua tenerezza mi sembrava una ricca parte fattami dal destino, e ne ringraziavo questo destino, adesso non me ne contentavo più. Egli era sempre lo stesso uomo, aveva per me, sempre, un amore tutto di pietà, di rispetto, di ammirazione, di adorazione, ma mi sembrava freddissimo. Infine, io era giovane, bella, elegante, molto corteggiata, poichè la pessima condotta di mio marito, purtroppo, non era ignorata, malgrado le mie premure per nasconderla: e sentivo intorno a me, come l'incenso di un omaggio continuo che uomini giovani e belli abbruciavano nel desiderio dell'amor mio. Giustino Morelli mi pareva freddissimo. La passione violenta di Nino Stresa per Grazia, la mia amica, mi destava curiosità e invidia. Il paragone che facevo, ogni tanto, di Nino Stresa con Giustino Morelli mi faceva sempre più insistere nell'idea, che il mio amante—era egli, forse, un amante?—non provasse per me un amore forte e vivo, come si sente quando si è giovani, quando il sangue è caldo, quando la donna si è già data a voi col suo cuore.
—Perchè sei così freddo?—era la mia interrogazione costante.
—Freddo, ti pare?
—Non mi pare: sei freddo.
—Niuno ti può amare più di me, Anna.
—Non ti vantare. Tu mi ami poco.
—Taci, anima mia. taci.
—Io non ti piaccio—soggiungevo io.
—Nessuna persona mi piace più di te, te lo giuro.
—Non ti credo.
—Che debbo fare, perchè tu lo creda?—mi replicava lui tristamente.
—Non so—rispondevo io, glacialmente.
Giacchè egli diventava più triste, a ogni nuovo colloquio e la mia anima si gelava. Talvolta, lo sorprendevo che mi guardava con ansietà, soffrendo di non so quale strano e ignoto dolore: il mio sgomento diventava grande. La sua voce era infranta, nel parlarmi: più spesso taceva, assorbito.
—A che pensi, amore?
—Non penso, sogno, cara.
—Che sogni?
—Un solo sogno, il tuo amore, Anna.
—Non lo hai qui, presente, reale, vivo, caldo?
—…sì—diceva lui dopo un dubbio.
—Come? Ti piace meglio il sogno?
—Forse—mormorava lui brevemente.
Invece, in me, la vita urgeva. Nella mia casa e con mio marito, ogni pazienza, ogni indulgenza era finita. Il legame con quell'uomo mi era insoffribile, e tutte le ribellioni accumulate nel fondo del cuore sorgevano in armi per vincere. Io voleva la mia parte di bene, di amore, di ebbrezza: ero stanca di lacrime, di abnegazione, di mortificazioni. Mentre Giustino Morelli si concentrava nelle poetiche visioni, in me tutti gli istinti della vita e della giovinezza fremevano, rivoltandosi, contro il dolore. L'amante mio—ma forse egli era l'amante?—mi guardava come spaventato, e bene spesso io ho visto in lui la mestizia di una immensa delusione. Sentivo, così, vagamente, di decadere nel suo spirito, e mentre ciò mi esasperava, mentre io lo trovava un gelido sognatore, un poeta dell'amore, un ardor di passione mi spingeva a lui potentemente, come alla sola creatura umana degna dell'amor mio.
La sua profonda tristezza innanzi alle lotte che si combattevano in me e che egli conosceva, tutte, era un insulto; ma io glielo perdonava, giacchè lo amavo, giacchè egli mi amava, giacchè un solo poteva essere il mio amante, ed era lui, Giustino Morelli. Questa ultima, estrema verità non gliela dissi, io. Ero donna. Ero vissuta nelle altitudini di un amore sublime e mi ero avvezza a una temperatura spirituale delle più fini e squisite. Questa verità, che egli solo poteva e doveva essere il mio amante, io, ve lo giuro, non gliela ho detta, ma tutto di me glie lo disse, involontariamente, glielo disse la vita istessa con le sue fervide e imperiose parole. Io non so quello che accadde in lui, quale lungo sogno egli ricacciò nel mondo delle tenere e pure fantasie, quale saluto egli dette a una sublime illusione, quale suprema divisione accadde fra l'uomo e il suo sentimento. So questo, che Giustino Morelli fu veramente e propriamente il mio amante, e che ciò gli produsse un dolore grandissimo.
Grandissimo! Egli era sempre la cara anima che mi adorava in ogni pensiero e in ogni sentimento, che vibrava a ogni vibrazione mia, che per un miracolo sentimentale aveva fatta sua la vita del mio cuore, che non divideva ma assorbiva tutte le mie sofferenze, che non solo asciugava ma faceva inaridire le mie lacrime, che mi dava la pace e la serenità: sempre il Giustino Morelli che mi aveva aiutato a vivere, che, ancora, in tutti i momenti, era il mio sostegno e la mia guida. Ma oltre questi, per lui non vi era che dolore intimo e represso, non vi era che la rassegnazione a un fatto necessario, fatale, e immensamente triste. I convegni che rassomigliavano agli antichi, austeri e nobili, con la lieve carezza delle sue labbra sulla mia mano, erano un sollievo per lui, lo vedevo: mentre i convegni della passione a cui lo spingeva la voce di un amore diverso, lo affascinavano e gli facevano male, un male orribile, il male del sogno violato, il male della illusione fuggita, il male dell'irrimediabile errore. Così, la passione si faceva tetra: e l'ebbrezza sembrava anche uno spasimo di tutto l'essere che subiva la legge comune dell'amore, ma aveva ribrezzo di quella fatalità.
Nulla vi dirò di me. Sarebbe troppo duro rammentare quello che io provai, dinanzi a tale complicazione nel nostro amore. Ricordo solamente di essere trabalzata, in quei tempi, dai sentimenti più limpidi, alti e luminosi, alle vittorie della passione più oscure e più contristanti: ricordo che io ho sentito, per Giustino Morelli e per me, insieme, il disprezzo più profondo e l'ira più cieca. Ricordo che, un giorno, quando più avevo visto il mio amante innamorato, sì, ma quasi insorto contro le imprescindibili obbligazioni della passione, quando più avevo inteso che Giustino Morelli era infelicissimo, perchè era diventato il mio amante, quando più avevo compreso che l'anima bella e pura e salda di quell'uomo si sentiva deturpata nel suo sogno, allora ricordo di essermi sentita perduta, perduta.
* * * * *
—Voi, forse, avrete intuito la conclusione della mia istoria. Io ho tradito Giustino Morelli, bruscamente, violentemente, malamente. Con un uomo qualunque, io l'ho tradito. Non me ne chiedete il nome, la condizione, l'età, la bellezza. Un uomo qualunque! Non potevo fare diversamente, credetelo. Ho sentito tutto l'orrore della mia mal'azione, eppure mi è stato impossibile di non farla. In fondo, credo che avessi una ragione oscura e atroce di far quello; e non seppi neppure dirla a me stessa. Giustino Morelli me la disse, nel giorno in cui ci dividemmo, per sempre.
—È vero che mi avete tradito?—mi domandò senza tremare, sebbene fosse così smorto nella onesta faccia.
—È vero—gli risposi con molta alterigia.
—Perchè avete fatto questo?
—Non lo so.
—Lo so io.
—Voi? Voi? Ditemelo, dunque!
—Perchè ero un imperfetto amante, mia povera Anna.
—E allora, perchè mi avete amato?
—Questo, nessuno lo sa, nessuno.
Sì, sì, Giustino Morelli era una grande anima, un grande cuore, ma è a lui, è a questo imperfetto amante che io debbo tutte le mie sciagure.
IL PERFETTO AMANTE
(Massimo Dias).
Teresa così racconta il suo amore per Massimo Dias:
Nessun uomo mai ha saputo, nessun uomo saprà mai chi sia e che cosa sia Massimo Dias. Per conoscerlo, per intenderlo, per apprezzarlo in quel che è, in quel che vale, ci vuole una donna: e una donna che lo abbia avuto per amante come me, o che, almeno, sia stata amata da lui. Già, sempre e dappertutto, soltanto la donna ha il diritto di giudicare un uomo e, giudicandolo, può dire la verità, poichè ella solamente lo vede e lo misura nella gran prova umana, che è l'amore. Il giudizio di un uomo sovra un altro uomo o quello di mille uomini sovra un sol uomo, ha un carattere originario di menzogna innocente talvolta, conscia e interessata spesso: mentre la più piccola confessione di una donna sul conto del suo amante, ha la limpidità, la lucentezza, la schiettezza del cristallo. Notate, per Massimo Dias. Che dicono gli uomini di lui? Lo trattano, dal punto di vista dell'amore, con un esagerato disprezzo che ha per base l'ignoranza e l'invidia: si meravigliano che possa piacere alle donne: negano una quantità dei suoi amori più certi e più evidenti, lo trovano insignificante, comune, talvolta insopportabile: e concludono col dire che se Massimo Dias fa qualche conquista, è perchè la donna è una creatura depravata, è perchè la donna, in amore, è capace di tutto. Codesta è l'opinione di quanti uomini, giovani e vecchi, galanti o misantropi, dediti all'amore e indifferenti, abbia io mai incontrato: e Massimo Dias non la ignora, questa volgare e spregevole opinione che hanno i suoi fratelli di lui, in quanto riguarda l'amore, e non la confuta mai, questa opinione, anche quando un fratello più audace glie la dichiara in volto, e lascia correre tutte le voci, e rimane indifeso e incurante di difendersi contro quest'onda di antipatia, d'invidia, di disdegno. Anzi, io ho udito, qualche volta, Massimo Dias, con la freddezza più mirabile, sostenere il parere dei suoi avversari e proclamare la sua inettitudine in amore, e le rare conquiste, più rare di quelle degli uomini meno fortunati in amore, e il non possedere lui nessun ricordo inebbriante, tanto i suoi amori erano stati mediocri e limitati. Invece, tutto il contrario è il vero. Quanti sono uomini, s'ingannano sul conto di Massimo Dias; forse vogliono ingannarsi; egli li inganna, certo, quando si dichiara inetto, e questo inganno è uno dei metodi più semplici per rassicurare il pubblico. La verità vera è che Massimo Dias ha avuto ed avrà molte amanti. E se ve lo dico io, che l'ho amato, che l'amo, che l'amerò sempre, se ve lo dice una donna che è stata amata, che sarà sempre amata da lui, potete crederlo. Egli avrà sempre delle donne; poichè egli è un perfetto amante.
* * * * *
Voi volete apprendere il come e il perchè Massimo Dias sia un perfetto amante? Vi dirò la ragione e il modo come l'ho amato io, e indovinerete, così, come se ne sono innamorate e come, ancora, se ne innamoreranno le altre donne. Anzi tutto, quando una di noi, la più casta, la più semplice, incontra un uomo giovane, ella calcola subito se l'amerebbe o se non l'amerebbe: e così gli uomini sono immediatamente divisi, nella mente femminile, in due categorie, quelli che si amerebbero e quelli che non si amerebbero mai. Coloro che appartengono a questa seconda categoria, non esistono più, per la donna: possono essere belli, ricchi, galanti, non serve, sono creature morte, sono larve che l'occhio muliebre non discerne neppure più. Massimo Dias appartiene alla prima categoria; vedendolo, si pensa che, in certo tempo, in certe condizioni, forse, se Dio volesse o se volesse il diavolo, lo si amerebbe. Beninteso che la donna, con tale pensiero, non si concede, non si dà; il pensiero è profondo, è tenue, è condizionato, svanisce subito, non ha l'aria di lasciar traccia, non riappare…., infine, è nulla, ma è un filo che si lega, sottilissimo, capillare, fra la donna e l'uomo. Questo filo si annodò fra me e lui, la prima volta che ci vedemmo; e passando il tempo, rivedendoci senza nessuna volontà apparente, mia o sua, altri fili si legavano e si riavvicinavano, indistintamente. Egli non mi faceva la corte, ma si interessava di me, senza troppa ostinazione: e aveva nei modi, con me, una certa dolcezza costante, simile al primo albore di una tenerezza. Questa dolcezza primordiale che non fu mai guasta da una parola troppo sensuale, che non rasentò mai il contegno solito verso le altre donne, che era una cosa diversa, infine, rassicurò e fece schiudere il mio cuore. Nulla che di tenero, io sentiva in me: ma in presenza di Massimo Dias mi era impossibile pensare ad altro che all'amore. Emanava dai suoi occhi, trapelava dalla sua voce, parlava da ogni sua parola, anche la più gelida, come un mite color vivo, come una suggestione giovanile, come quel soffio che fra l'aprile e il maggio dà tante rose ai giardini e alle colline. Compresi, poi, più tardi, che egli era un uomo fatto assolutamente per l'amore e solamente dell'amore occupato e preoccupato, essendo egli materiato e spiritualizzato d'amore; tutto questo non era che la manifestazione del suo temperamento e del suo carattere. Negli occhi, nella voce, nelle parole degli altri uomini può scintillare, vibrare, parlare ogni passione umana, nobile e ignobile: in lui null'altro che l'amore. La sua seduzione, quindi, lenta e fine, aveva anche qualche cosa d'inconscio: e la conquista del mio cuore come della mia persona, non subito, più tardi, fu fatta da lui senza violente richieste, senza drammatiche tristezze, senza fughe improvvise, senz'abbandoni che paiono inconsulti e sono meditati—mezzi, questi, che appartengono al comune degli uomini, a coloro che debbono conquistare le donne con gravi sforzi. Massimo Dias fu naturale: e fu amoroso, perchè la sua natura fu amorosa e perchè bastava che vi si abbandonasse, per essere efficace e attraente, per prendere possesso di tutta la mia volontà e di tutta la mia forza. Semplicemente, come un esercizio della vita, egli adoperava tutte le arti più squisite, per essere più amato, egli sapeva attendere: egli sapeva apparire al momento opportuno, egli sapeva andarsene. Mirabilmente, per quella felice intuizione amorosa, il suo amore si equilibrava col mio, senza che nessuna causa esterna li armonizzasse, e, nelle ore tristi, io trovava accanto a me l'uomo che seguiva tutte le indefinite malinconie della mia anima inquieta, come nelle ore brillanti, sfavillanti, io vedeva in lui l'eco della giocondità giovanile, io sentiva il suo cuore balzare per la gioia di vivere. Ma il suo gran segreto, quello che egli chiama il segreto di Pulcinella, dicendolo a chi vuole saperlo, mentre nessuno ne sa fare o ne vuol fare suo pro, il segreto era nell'amore che mi portava, vivo, continuo, costante, che mi giungeva da tutte le parti, che mi avvolgeva come in un'atmosfera di passione, che invadeva il mio ambiente e me, che mi chiudeva in un roveto ardente, come quello delle bibliche storie. L'amore sgorgava da l'animo di quell'uomo così e sempre, che egli non si affidò che a questo, per avermi sua. Chi ama, chi molto ama, chi ama bene, possiede il motto d'ordine della conquista: è come colui che possiede la fede e che arriva alla grazia: è come il mistico che a furia di evocazione e di ardore, ottiene la visione del suo Dio.
Nè io spiegai altrimenti il mio consenso all'amore di Massimo Dias che l'amor suo: e sentii che solo coloro hanno ragione, che dànno passione per passione, e che sanzionano il vile peccato con la suprema legge del premio. Ebbene, fu allora che io cominciai a misurare lucidamente la perfezione di Massimo Dias. Mi amava, mi adorava, e io amava lui, con tutta me stessa, ed ero sua, ed egli non mi ebbe subito, egli aspettò qualche giorno, qualche settimana, perchè l'abbandono più profondo e più completo dell'anima rendesse più alto e più impetuoso l'amore della persona. Egli aspettò! Egli soffriva, la passione lo torturava, ma ebbe la sublime pazienza di aspettare, perchè l'amore nostro raggiungesse quella magnifica maturità che riempie i cuori di ebbrezza. Quanto gli fui grata, io, di quest'aspettazione che doveva essere insopportabile e che era piena di delicatezza, come sentii in lui il rispetto della donna, dell'amore, di sè stesso, come intesi che, in lui, l'amore aveva un tempio e che le feste che vi si celebravano avevano tutta la squisitezza delle grandi aspettazioni, delle grandi purificazioni, delle grandi preghiere!
* * * * *
Un perfetto amante, sì. Naturale, cioè disuguale. L'un giorno di nostro amore non rassomigliava all'altro, e i convegni avevano la più bizzarra varietà, e la curiosità dello spirito raddoppiava il tumulto dell'amore. Disuguale: io l'ho visto, ai miei piedi, piangere come un fanciullo, per una tristezza improvvisa, capitatagli nel momento più lieto del nostro amore, domandare a me la consolazione di questo indefinito e infinito dolore che gli saliva dal cuore agli occhi: io l'ho visto, innanzi a me, pallido d'ira gelosa, fremente, indomabile, soffocare e non poter dire i motti ingiuriosi che gli si affollavano sulle labbra, e fuggire, e ritornare, sempre furibondo, in tali impeti, che io aveva di essi una paura mortale: io l'ho visto, accanto a me, in una confidenza fraterna, in una famigliarità deliziosa, aprirmi tutto il cuor suo, come a una sorella, a una madre: io l'ho visto trascorrere delle ore, chiuso, tetro, senza risponder verbo alle mie domande, senza muoversi alle mie scosse, vinto da una inerzia e da un accasciamento, che non sapeva spiegare: e tutte le faccie del suo spirito amoroso mi apparivano e mi sparivano, innanzi agli occhi, come una visione, e mi stringevano a lui, così indissolubilmente! Disuguale: talvolta così vinto da una crisi di amor passionato che egli non conosceva, non vedeva, non sapeva e non voleva altro che me, che la mia presenza, che la mia persona, come se io dovessi sfuggirgli l'indomani, come se avesse bisogno del continuo possesso, per esser certo dell'amore, con tale un'ardente sete di me che mi sgomentava: talvolta, preso da un eccesso così strano di sentimentalismo, come se l'anima sua fosse partita per i paesi dove solamente di pensiero e di sentimento si vive, come se tutte le cose di questo basso mondo gli fossero perfettamente estranee: talvolta, nei peggiori momenti, assalito dal demone del sarcasmo, per cui il mio cuore era trafitto ed egli aveva l'aria, il mio amante, di godere delle mie trafitture, e non ristava neppure quando vedeva i miei occhi pieni di lacrime, e aveva come la voluttà feroce dei miei e dei suoi tormenti. Frivolo e profondo, geloso e indifferente, scherzoso e tetro, appassionato e sprezzante, il mio amante non era un sol uomo, ma dieci uomini presi insieme, e tutti nuovi, tutti attraenti, tutti affascinanti: e a ogni nuovo colloquio io mi domandava, irrequieta, diffidente, ansiosa, che avrei trovato, in lui, e ciò dava un sapore immenso a tutti i nostri convegni, e ciò metteva il mio cuore in uno stato di continua veglia. Vi erano minuti così intensi in cui io era certa della sua adorazione, poichè io vedevo la verità dell'amore nei suoi occhi ardenti, perchè la udivo nel balbettio della sua voce, perchè io sentivo, con orgoglio e con tenerezza, che quell'uomo mi apparteneva completamente: ma il minuto dopo io ricadeva nel dubbio, tanto le parvenze di Massimo Dias erano singolari, e il dubbio suscitava in me tutte le forme della passione. Vi erano dei periodi in cui sembrava che egli mi sfuggisse intieramente: neri periodi di desolazione, di disperazione: e, forse, forse, in quei tempi egli più mi amava, e io non intendeva l'enigma. Tanto che, a poco a poco, tutta la mia esistenza morale e materiale appartenne al mio amante: io sentii assolutamente che solo il suo amore mi rendeva importante e cara la vita, e che egli era il solo uomo che io potevo amare.
* * * * *
Perfetto amante e traditore, anche. Mi sembra inutile di descrivervi quello che io abbia sofferto, di atroce, la prima volta in cui il suo tradimento mi fu palese come la luce del sole. Io ho creduto di morire. Gli ero stata così lealmente fedele, ero così innamorata di lui, ero così saldamente legata a lui, che tutti i sentimenti in me erano crudelmente offesi, e palpitavano di angoscia e le loro ferite gemevano sangue. Amore, amor proprio, vanità, sincerità, non una cosa che non avesse la sua tortura, in quel tradimento. Egli negò sempre, continuamente, anche innanzi alle prove: e la sua negazione che mi parve una sfrontatezza, irritò maggiormente il mio furore geloso. Compresi, più tardi, quanta tenerezza e quanto rispetto vi era in quella negazione del tradimento. Ma in quella scena terribile, io aveva smarrita la testa. Lo lasciai, così. Non volli più vederlo; lo fuggii. Indescrivibili tormenti! Ero innamoratissima di lui e tutta la mia anima come la mia persona gli apparteneva: figuratevi, dunque, quale violenza io doveva fare a me stessa per non vederlo, per non scrivergli, per non pronunziare neppure il suo nome. L'ambiente del suo amore perdurava, intorno a me. Egli continuava ad apparire, dovunque potesse credere che io andassi, e dovetti, man mano, quasi chiudermi in casa, o uscire per vie deserte e lontane, abbandonando tutti i comuni ritrovi. Egli continuava a scrivermi e io non aveva modo d'impedirglielo, mentre m'imponevo delle pene atroci per non aprire le sue lettere che erano intatte in un cassetto. Tutte le vie, tutte le case, tutte le cose mi ripetevano un episodio del nostro amore: egli aveva messo il suo amore dappertutto: egli seguitava a farmi giungere l'eco della sua passione, come se mai mi avesse tradita infamemente, vigliaccamente. E tutto, senza lui, mi sembrava ombra e silenzio: inutile ogni dolcezza della vita; inutile il lieto trascorrere del tempo; inutile la mia esistenza istessa. La vista di qualunque uomo mi disgustava: Massimo Dias, il mio perfetto amante, mi aveva divisa dal resto dell'umanità e mi teneva per sè, tutta per sè, senza che mai, mai, fino a che avessi sangue nelle vene, un altr'uomo potesse esistere, come amante, per me.
Ebbene, io gli perdonai il suo tradimento. Per quali illusioni, io mi convinsi, non so bene: per quale ineluttabile bisogno di amore e dell'amore di Massimo Dias fui così debole, io so bene, ma non vi debbo spiegare. So che ridivenni l'amante di Massimo Dias, un giorno, così, naturalmente, in cui egli m'incontrò e io non ebbi la forza di evitarlo, in cui eravamo soli e non ebbi la forza di fuggirlo: un giorno in cui egli mi apparve così triste e così innamorato che io dissi a me stessa la gran parola, se non era un errore e una colpa rinunziare alla propria parte di felicità, comunque essa sia, questa felicità. Massimo Dias mi amava, me ne convinsi: il segreto della sua rinnovellata seduzione era sempre nell'amore, di cui era fatta l'essenza della sua anima e dei suoi nervi. Noi avemmo, in questa ripresa, dei grandi giorni, indimenticabili: nell'ora della morte io potrò tutto scordare, ma quelle giornate mi saranno in mente, nelle confuse visioni dell'agonia! Egli mi giurò che non mi avrebbe tradita mai, mai più, che se un errore aveva commesso—non poteva più negare, gli era impossibile—era stato così, senza che lui neppure lo sapesse. Così! Parola strana, è vero? Egli mi volle far credere che il tradimento era stato un fatto istintivo, di cui era inconscio, fuori della sua volontà, anzi, forse, contro: certamente, contro, poichè mi amava. Così!
Che dirvi? Massimo Dias mi tradì una seconda volta e anche più gravemente: e se questa seconda volta il colpo fu meno forte, la mia dignità fu più resistente. Egli negò ancora: diceva di no, di no a tutto, come un bimbo; alle mie ingiurie impallidiva e negava, sempre. Dopo questo secondo dolore, afflittissima, ma meno furente, io ebbi la cura dolorosa di analizzare tutta la mia sventura. Posatamente, io misurai tutto l'amore che avevo portato e che portavo a Massimo Dias: misurai il suo tradimento e il tempo e le circostanze. Freddamente, scesi in fondo al mio cuore e tastai la catena che mi serrava a Massimo Dias: mi parve incrollabile. Gelidamente, pensai che solo partendo, espatriando, non rivedendolo mai più, avrei potuto spezzare questa catena; ma che se restavo dove egli era, mi sarebbe bastato di rivedere il mio perfetto amante per esser sua, di nuovo. E, partendo, non sarei forse ritornata da me a rimettermi nelle sue mani? Con la massima glacialità, di fronte a così assoluta necessità, decisi di perdonargli novellamente, e sempre, e di esser sempre la sua amante, malgrado ogni tradimento. Più tardi, conoscendolo meglio, sono stata e sono anche più giusta con lui. Se si vuole un amante perfetto, bisogna subire il tradimento, soffrendo in silenzio. Il tradimento è uno dei caratteri della perfezione, in amore. Sarà una verità crudele, ma è così. Dalla sua stessa perfetta natura amorosa Massimo Dias trae questo istinto della mutabilità e, in fondo, egli non inganna nessuna donna, neppur me, anzi, me molto meno delle altre. Giacchè egli è sempre innamoratissimo della donna cui dice di amare, come ad ogni perfetto amante si conviene. Fedele all'amore, fatto di amore, egli non mente mai, parlando della sua passione. Fedele, incostante e perfetto.
IL PERFETTISSIMO AMANTE
(Luigi Caracciolo).
Uno sbadiglio atroce contrasse la bella bocca di Maddalena Herz e un piccolo grido esasperato di noia, un piccolo ruggito di sciacallo, le sfuggì dalle labbra:
—Che hai?—le disse gravemente Beatrice Albano uscendo dal torpore pieno di pensiero, dove era immersa.
—Tutti gli uomini sono sciocchi,—sentenziò Maddalena, con un atto sprezzante della mano.
—Tutte le donne sono ingiuste.
—Sciocchi e seccanti, gli uomini: così seccanti, tanto seccanti,—-soggiunse Maddalena con uno scoramento profondo.
—Perchè seguiti ad occuparti di loro?
—Sono essi che si occupano di me.
—Fuggili: dividiti dal mondo.
—Io lo farò,—disse Maddalena, con una perfetta convinzione, girando e rigirando i suoi anelli gemmati.
Poi dopo una pausa di silenzio:
—Nessun uomo vale nulla.
—E nessuna donna capisce niente—le replicò Beatrice, guardandola coi suoi larghi e severi occhi, dove una gran bontà attenuava la durezza dell'affermazione.
—Tu mi contrasti per farmi arrabbiare, Beatrice?
—No, cara.
—Tu disprezzi gli uomini, come me, confessalo, pensosa signora.
—Non li disprezzo; e tu neppure.
—Come, io neppure? Il mio disprezzo è mondiale, anzi universale, per non dimenticare il cielo.
—T'inganni, su te stessa: non li disprezzi, li conosci poco, o male, ecco tutto.
—Tu li conosci meno di me, cara donna Beatrice, che non avete voluto nè amanti, nè corteggiatori, dandovi il raro e nobile lusso di essere virtuosa.
—Io non sono virtuosa,—replicò Beatrice, con un lieve sorriso sulle labbra vivide e sinuose, ma come suggellate in un volontario silenzio.
—Andiamo, tu ami la contraddizione, questa sera. Tu sei virtuosa, te lo giuro: e io sono una donnina esecrabile.
—Non giurare, non giurare….—e Beatrice sorrideva ancora, in una posa così tranquilla, con le mani bianche abbandonate sulla copertina di seta antica del libro che aveva finito di leggere.
—Non mi farai mai credere che tu conosca gli uomini, per averne ben conosciuto uno: non crederò mai che tu abbia avuto un amante,—esclamò Maddalena Herz con un gesto risoluto e definitivo.
—Veramente, io ho avuto un amante,—dichiarò Beatrice Albano, con molta tranquillità.
—Bugia!
—Sull'anima mia, io ho avuto un amante.
—Io non ti credo.
—Fa come vuoi, ma la verità è una sola.
—Un amante, tu, la impeccabile? No, no. Nessuno lo ha mai saputo.
—Infatti, nessuno lo ha mai saputo. Uno dei meriti speciali e grandissimi di questo mio amante, era il segreto.
—Il segreto? Tu hai potuto ottenere il segreto?—chiese Maddalena Herz, di già accendendosi all'istoria.
—Sì. L'amore nostro è stato solamente conosciuto da me e da lui. Siccome egli, mi amava solo per amarmi, assolutamente ed esclusivamente per amarmi, così volle e mantenne il segreto.
—E non lo violò giammai?
—Giammai.
—Forse vi siete amati per poco tempo?
—Per tre anni, insieme: però egli mi amava da molto più tempo.
—-Forse vi vedevate raramente, così il segreto ha potuto esser conservato.
—Non tanto raramente, cara. Spesso, anzi: quanto più spesso potevamo.
—Allora…. avete realizzato un miracolo. Io ho sempre creduto che il segreto non esistesse, in amore,—mormorò Maddalena Herz, che pareva sprofondata nelle riflessioni.
—Anche io, prima, così credevo.
—E vi è stato un uomo che non ha proclamato sui tetti il suo amore, che non lo ha mormorato, sottovoce, a varii suoi amici e confidenti, che non lo ha, almeno, lasciato compiacentemente trapelare?
—Vi è stato: è stato il mio amante.
—Ti amava, poi, costui?
—Immensamente.
—Come lo sai?
—La donna se ne accorge.
—È vero. Tu lo amavi?
—Moltissimo: meno di quello ch'egli meritava.
—Era bello?
—Non bello, probabilmente brutto….
—Ma ti piaceva?
—Era riuscito a piacermi molto.
—Basta così; era bellissimo. Giovane?
—Aveva trentacinque anni.
—Sicchè, aveva amato, prima?
—Egli non mi disse mai nulla.
—Perchè?
—Per rispetto, credo. E per riconoscenza, io non gli domandai nulla. Però, tanto nell'ardore, quanto in una certa ingenuità, mi parve che egli fosse al suo primo amore.
—Ti avrà ingannata.
—Allora, ha saputo ingannarmi. Ma, sai, alle volte il primo amore viene molto tardi.
—O mai—disse malinconicamente Maddalena Herz.—Era geloso questo tuo amante?
—M'immagino di sì.
—T'immagini di sì? Non lo sai?
—Non mi fece mai nessuna scena: ma era geloso. Lo vedevo dai suoi occhi, in certi momenti; pure, subito si reprimeva.
—Amico di tuo marito?
—No: punto. Nè volle diventarlo mai.
—Tu glielo proponesti?
—Io? mai. Era una cosa che mi faceva ribrezzo.
—Già, tu sei stata sempre virtuosa, Beatrice.
—Chi ha avuto un amante, Maddalena, non è virtuosa.
—Un amante, un amante! Quello era un angelo!
—No, ti assicuro che era un uomo.
—Sentimentale?
—Mi amava.
—Molto fantastico?
—Mi amava.
—Molto appassionato?
—Mi amava.
—Ma che era, dunque?
—Niente altro che un uomo innamorato, senza divisioni e classifiche. Innamorato, ecco.
—Hai detto tutto. Quante lettere al giorno ti scriveva?
—Due, ordinariamente: talvolta tre.
—E tu?
—Nessuna.
—Come sarebbe a dire? Non gli scrivevi?
—Egli aveva rinunziato alla dolcezza di avere mie lettere. Temeva che mi sorprendessero, temeva che le lettere si perdessero, temeva che in casa sua un ladro o un male intenzionato gliele rubasse.
—E aveva rinunziato alle lettere? Questa creatura maschile eccezionale, che rinunzia alle lettere, è esistita?
—Sì.
—Forse ti amava poco,—soggiunse Maddalena Herz, ricaduta nel suo scetticismo.
—Mi adorava; io vedevo bene, in lui, quanto gli costasse il suo sacrificio: io l'ho visto pallido e scoraggiato, spesso, di lontano, e ho tentato di consolarlo, con una lettera: ma, sentendo la stessa ebbrezza del suo sacrificio, non l'ho fatto.
—Era un amore triste, però.
—Sì, spesso.
—Molto triste?
—Moltissimo. Ma l'amore non è sentimento gaio.
—Gli uomini lo guastano.
—Forse,—disse Beatrice Albano, incrociando le mani sulle ginocchia.
—Ma siete stati felici?
—Per quanto è possibile, felici.
—Poco felici, allora?
—Come tu vuoi. Giudica: due creature che si adorano, che s'intendono perfettamente, che vivono in un'armonia completa, che credono all'amore, che credono nella vita…. giudica.
—E che mi raccontavi di tristezze? Voi siete stati felicissimi!—esclamò Maddalena Herz.
—Io lo credo,—disse con un fugace sorriso Beatrice Albano.
Un silenzio regnò fra le due donne. Maddalena Herz aveva gli occhi assorti nel roseo, grande paralume che copriva la lampada.
—Beatrice, che faceva questo tuo amante?
—Nulla. Mi amava.
—Non giuocava, non fumava, non andava al club, non scommetteva alle corse?
—Nessuna di queste cose.
—Era disoccupato, dunque?
—Era occupatissimo ad amarmi.
—Tutto il giorno?
—E la notte, anche. Pensa che le difficoltà erano enormi, che la pazienza doveva essere infinita e infinita l'audacia, che l'occasione fuggiva sempre, che la lotta era accanita…. e che egli ha sempre vinto.
—Sempre vinto?
—Sì, egli era forte, paziente, acuto, sagace, audace, ostinatissimo: e tutte queste qualità gli venivano dall'amore e all'amore servivano.
—I pericoli sono stati grandi?
—Grandi e imminenti. Non li ha curati. Era un uomo che credeva nell'amore.
—Tanto pochi uomini ci credono!…—osservò tristamente Maddalena Herz.
—E pochissime donne. Neanche io. Vedi! È lui che mi ha ispirata questa fede.
—Chi ha fede, non naufraga: ma tanta gente affonda.
—Perchè non ha intesa la parola salvatrice; io l'ho udita.
—Beata te! Se fosse accaduto uno scandalo, che avresti tu fatto?
—Eravamo decisi. O lo scandalo era grave e allora saremmo morti insieme: o lo scandalo era ridicolo, e saremmo andati via insieme.
—Morire? Avete parlato di morte?
—Sì, si è parlato di morte,—disse Beatrice, a voce più bassa, chinando il capo.
—Egli era pronto a dar la vita, per te?
—Pronto. E io per lui.
—Lo avevate giurato?
—Ce lo eravamo detto, molto semplicemente. Poichè egli era un uomo semplice, cara Maddalena.
—Alle volte, la semplicità viene da una raffinata corruzione.
—È vero, ma che importa? Ciò che preme è la conseguenza, non la causa. Una virtù che si acquista vale una virtù naturale: vale di più talvolta.
—È una bizzarra teoria, ma mi piace. Forse il tuo amante era un infame, e ha voluto essere una creatura celestiale.
—Non lo so. Io non ho mai vista la bruttura, e ho sempre vista la virtù.
—Dissimulava?
—Non credo. Pure, se ha dissimulato, anche questo era un omaggio dell'anima sua all'amore: Maddalena, Maddalena, nessuna delle azioni di quell'uomo, nessuno dei suoi pensieri, che non partisse e non ritornasse all'amore. Per l'amore egli poteva essere laido come un malfattore e apparire innocente come un fanciulletto: per l'amore egli era profondamente buono, ma poteva arrivare al delitto.
—Oh Beatrice, quanto lo hai amato!
—Quanto, quanto!
—Non lo tradisti, tu?
—Io? Io? Puoi chiedermi questo?…
—Ed egli, ti tradì?
—Mai, mai.
—Ne sei certa?
—Certissima.
—Chi te lo ha detto?
—Nessuno: lo so. Non mi ha mai tradito.
—Qual donna può esser sicura?
—Io solamente.
—Pure…. non lo vedevi sempre…. eravate lontani….
—Che importa!
—….egli incontrava delle altre donne…. l'assenza…. il tempo….
—Mai, Maddalena, mai. Quell'uomo fu mio, in tutto il tempo che ci amammo, in una unione perfettissima, senza mai ombra d'infedeltà.
—Era un uomo freddo?
—No, Maddalena.
—Disprezzava le donne?
—Niente affatto: le stimava e le compiangeva.
—Le fuggiva, forse?
—Tutt'altro: le ricercava, con gentilezza: restava con loro, circondandole di un delicato rispetto.
—Ma perchè non ti tradiva?
—Perchè era fedele.
—La fedeltà assoluta o relativa, è impossibile, Beatrice.
—Sarà: ma io l'ho incontrata.
—Quanti anni di fedeltà?
—Da cinque a sei anni.
—Sembra una favola.
—Sembra: ed è una verità.
—Tu non ti annoiasti mai di questo amante così sublimemente perfetto?
—Lo amavo. Non mi annoiai.
—Però…. la natura umana è così irrequieta…. proprio, non ti seccò mai?
—Non vi fu il tempo, Maddalena.
—E perchè?
—Perchè questo amore finì,—disse con immensa tristezza nella voce e nel gesto, Beatrice Albano.
—Ah! è vero: finì. Questo meraviglioso amore, fatto di adorazione segreta, di rispetto profondo, di sacrifizio silenzioso, di devozione infinita, questo amore ardente e fedele, è finito, è finito, ha subito la sorte comune, è finito.
—È finito,—e Beatrice Albano si covrì gli occhi con la mano, a nascondere il suo pallore, la sua emozione.
Maddalena Herz la sogguardò. Ella era buona, nel fondo del cuore: e amava la sua amica così austera e pure così tenera. Non osò, subito, interrompere quella commozione. Le prese una mano e la carezzò:
—Dimmi come è finito, cara.
Beatrice Albano la guardò, silenziosamente.
—In un modo molto doloroso, è vero? Questi grandi amori, questi amori unici…. tu avrai tanto sofferto?
—Orribilmente.
—Tu non te ne sei consolata?
—Non me ne consolerò mai,—disse Beatrice, desolatamente.
—Perchè non piangi un poco? Ciò ti farebbe molto bene.
—Io ho pianto, in segreto, nell'ombra, tante volte; ma le lagrime non mi hanno guarita.
—Dimmi, dimmi come è finito,—disse carezzevolmente Maddalena Herz, credendo udire una storia d'abbandono.
Beatrice fece uno sforzo per parlare: poi disse:
—Egli è morto.
—Come, morto?—gridò Maddalena.
—Sì,—disse Beatrice, con un atto disperato delle braccia.
—Più tardi…. quando l'amore era finito?…
—No, morto in pieno amore, morto nella verdezza e nell'ardore della passione, morto quando il sogno era diventato realtà e quando la realtà pareva una visione, morto, strappato all'amore!
—Oh poveretto, poveretto!
—Si chiamava Luigi Caracciolo,—singhiozzò l'amante infelicissima.
—Egli avrà dovuto esser disperato di morire?
—No: sulle prime, pareva straziato: poi si rasserenò. Diceva di morir bene, senza disinganni e senza delusioni. Mi adorava, mi benediceva, dal letto di morte. Quanto diventò bello, dopo, Maddalena….
E a lungo, a lungo, Beatrice Albano pianse su quel ricordo così vivace e così fremente nel suo cuore. Piano piano Maddalena Herz le rasciugava le lacrime, senza dirle nulla, con una piccola carezza muta. Alla fine, le lacrime s'inaridirono; ma la donna dolente rimase immobile, con le mani incrociate sulle ginocchia, guardando nel vuoto.
—Egli era troppo perfetto per vivere e per amare; doveva morire,—disse Maddalena Herz, come se parlasse a sè stessa.
Beatrice la guardò: le palpebre le batterono, assentendo.
—E l'amore è una cosa imperfetta!—soggiunse Maddalena.—Imperfetta e miserabile. L'uomo val meglio del sentimento.
Beatrice Albano acconsentì, col capo.
IL VIALE DEGLI OLEANDRI
( Mario Felice ).
Nella grande e strana dolcezza di quell'aprile, tutto il vasto parco era fiorito, fra la collina e il mare: i larghi viali dalle quercie austere, dai platani austeri, sotto l'arco verde oscuro dei loro rami, eran tutti biondeggianti di sottili raggi di sole, eran biondeggianti di piccoli e scherzosi occhi di sole. Lontano, nella gran rotonda luminosa era un cicalìo di bimbi e un cicalìo di passeri e il rombo sordo della città giungeva ancora colà. Bastava allontanarsi cento passi, verso il mare, perchè ogni rumore svanisse nell'aria lieve: e la solitudine del parco era solo turbata da qualche rara persona che passeggiava, lentamente riscaldandosi al sole, un vecchio o un convalescente i cui occhi senza fiamma e senza forza non avean più curiosità: turbato tavolta, il profondo silenzio vegetale dal fruscio di un getto di acqua, con cui un invisibile giardiniere inaffiava un'aiuola. Maria entrava nel parco dalla porta occidentale: al piccolissimo orologio che ella portava sempre seco, nella taschettina della giacchetta, sul petto, le ore di oro su fondo nero segnavano le quattro in punto. Era sempre quella, l'ora del convegno quotidiano, ed ella si doveva frenare per non giungere mezz'ora, un quarto d'ora più presto.
—Se arrivo troppo presto soffro molto,—ella pensava, cercando di diminuire ai suoi nervi la tormentosa impazienza e al suo cuore l'intima tortura.
E perdeva un po' di tempo nel fermare la veletta nera del cappello, abbottonava pian piano i suoi guanti, si guardava ancora nello specchio, senza vedersi, e macchinalmente cercava se avesse preso tutto, il fazzoletto, il portabiglietti, il bianco ombrello. Quest'ombrello era la sola nota chiara sul nero vestito, sul cappellino nero, sulla giacchetta nera di Maria: un ombrello tutto bianco di merletti e di seta, con un grosso fiocco di nastro giallo e un alto scintillante manico d'argento: sulla candida cupola, nei viali delle quercie e dei platani, il sole faceva piovere i suoi sottilissimi raggi biondi, simili a verginali e luminosi capelli, e la bianca cupola si faceva bionda e sul pallido volto di quella inquieta passeggiatrice un confortante riflesso primaverile scendeva, carezzando i pensosi occhi lionati e la molle linea delle fresche labbra. Maria si avanzava camminando piano e silenziosamente, guardando innanzi a sé, così avidamente che le palpebre talvolta si abbassavano per vincere quella fissità ardente di sguardo:
—Se guardo troppo, egli non verrà; meglio non guardare, mi sarà innanzi improvvisamente,—ella pensava con la fatale superstizione amorosa che accompagna ogni moto della passione.
Eppure Mario Felice non tardava mai molto: un quarto d'ora, venti minuti, non più. D'altronde egli entrava dalla porta orientale del parco e doveva fare più cammino di Maria, per giungere al posto dell'appuntamento: arrivava camminando in fretta, un po' affannato e a qualunque distanza egli apparisse, avesse ella lo sguardo levato o chino a terra, ella sentiva che egli era là e un acuto senso di bene le s'irraggiava dal cuore per tutte le fibre. Talvolta ella fingeva di non averlo visto, mentre sapea bene che egli si avanzava, ne contava i passi, fremeva per quell'appressamento, fra cinque minuti secondi la sua mano avrebbe tremato in quella di lui: o, talvolta, non poteva resistere al desiderio di vederlo giungere, i suoi occhi si metteano fervidamente in quella figura alta e svelta di uomo che si avanzava, in quel sorriso triste che ne trasformava malinconicamente la fisonomia serena. Ella s'inebbriava di quella vista, ella aveva negli occhi la rara luce dei suoi buoni giorni, e quando Mario Felice e Maria erano vicini, si stringevano la mano e nulla dicevano. Camminavano insieme accanto, ella levando ogni tanto gli occhi su lui con una infinita dolcezza in una confusione di speranze compiute e di novelli desiderii che le impediva ogni discorso: egli taceva, a occhi bassi come pensando. E andavano insieme nel viale degli oleandri.
Il viale degli oleandri era lungo, stretto e sinuoso. Da una parte e dall'altra, gli oleandri crescevano fitti e ricchi di tutte le dimensioni, ad alberetti bassi, a cespugli, ad alberi grandi, dalla verdura bizzarra di foglie a ferro di lancia, dalla fioritura rosea così esuberante che il suolo era sempre coperto di fiori rosei: un fine e singolare profumo era nell'aria del viale; profumo fresco e triste, insieme. Era quello degli oleandri, il viale così roseo e così bizzarramente odoroso, abbandonato da tutti, chi sa perchè: deserto, il solo banco di marmo che vi era, era seminato di fiori d'oleandro che nessuno levava mai per sedervisi: deserto e a ogni angolo che formava il disegno sinuoso, parea stare in viale chiuso ermeticamente, inaccessibile a tutti, salvo che agli amanti: deserto e nella sua nobile e forte fioritura, nella beltà strana dei suoi fiori ingemmanti la verdezza dei rami, come colpito dalla irremediabile fatalità dell'abbandono. Non so quale misterioso fascino attirava nel viale degli oleandri Mario Felice e la donna che lo amava: ricordavano, è vero, ambedue di avere visto insieme, tanto tempo prima, una linea di cielo azzurro e un muretto bianco, e i due amanti che parlavano di amore, che quasi tendevano le labbra per baciarsi e sul cielo azzurro il ramo ricco di fiori di un oleandro, il fiore di quell'idillio che la mano sapiente di Alma Tadema aveva dipinto, turbando i cuori di tutti coloro che hanno avuto il delizioso piacere di guardare quel quadro. Ma i due amanti di Tadema sono così inebbriati di gioventù e di amore e l'oleandro è così giocondamente voluttuoso! Mentre il viale degli oleandri seduceva Mario Felice e Maria con segrete voci di malinconia; e quando si vi trovavano perfettamente soli, essi si guardavano pallidi e muti: essi sognavano, nei fiori rosei, il veleno esiziale che vi si contiene e che, forse, esalava l'anima perversa nel profumo bizzarro che riempiva l'aria. Per essi era rosso e affascinante il fiore dell'amore: ma pieno di una profonda amarezza, ma contenente un tossico invincibile.
—Mi vuoi bene?—chiedeva la donna a Mario Felice.
—Tu lo sai,—egli rispondeva, con; una lieve contrazione penosa sul volto.
—Non lo so, non lo so, dimmi se mi vuoi bene,—insisteva lei agitata.
—Non domandare, cara,—continuava a rispondere Mario Felice, con una crescente impressione dolorosa.
Ella taceva. Ma queste erano le risposte dei buoni, dei rarissimi giorni, erano le risposte date solo tre o quattro volte, nel lungo e combattuto loro amore: ella conservava preziosamente queste risposte, che le parevano ispirate da un'immensa tenerezza. Quasi sempre alla monotona domanda, alla domanda persistente di lei, a quelle ansiose, affannose parole che erano il costante ritornello di quel cuore femminile, mi vuoi bene, mi vuoi bene? egli non rispondeva che con un sorrisetto fra l'ironico e il pietoso, come se gli facesse compassione quella folle ostinazione. Talvolta, nelle giornate nere, irritato, egli rispondeva:
—No.
—Non mi vuoi bene?
—Non ti voglio bene.
—E che vieni, a fare qui?
—Niente.
—Perché ci vieni allora?
—Eh…. così,—diceva egli enigmaticamente.
A lei passavano negli occhi delle lacrime brucianti: e tutti i fiori rosei degli oleandri intorno ondeggiavano. Egli guardava Maria pensoso, triste: forse ne aveva pietà, ma taceva. Camminavano ancora, ella con le braccia abbandonate, col bianco ombrellino che strisciava sul terreno fra le foglie secche e i fiori di oleandri caduti e quasi appassiti, con le spalle un po' curve, abbattuta da una infelicità che la vinceva anche nel fisico: egli accanto, sogguardandola, ma non trovando parole per confortarla. Ma nel fondo dell'animo di quella pallida donnina dai fini capelli castagni, dalle guancie un po' smunte, dalle fresche labbra, in fondo a quell'anima vinta e perduta per l'amore, esisteva una forza imperiosa di volontà. Ella rialzava il capo decisa ad accettare da quell'uomo che essa adorava, tutto quello che egli poteva offrirle, freddezza, antipatia, amicizia, tenerezza, omaggio di devozione, quello che egli sentiva e che ella non sapeva, non sapeva. Purché egli si lasciasse amare. Maria era risoluta a vincere la dolcissima debolezza femminile che vuole udire, anche se false, anche se fallaci, le parole dell'amore; purché si lasciasse amare, ella volea perdonargli tutto. Mario Felice, acuto osservatore, le leggeva nella fisonomia subitamente infiammata, negli occhi fieri del sacrificio, nelle labbra già quasi sorridenti, nel passo più rapido, e sentiva che ella aveva allontanata la tempesta dove minacciava di naufragare il suo amore. Egli l'ammirava in quelle improvvise risurrezioni di forza che era anche amore: e tentava di vincerla. Allora, fra i due, s'impegnava una lotta di parole, di impressioni, di sentimenti, in cui Mario Felice, apposta, aumentava la dose esterna della sua freddezza, non badava o fingeva di non badare alla crudeltà di certi suoi silenzii, misurava glacialmente l'entità perversa di certe frasi, e le pronunziava a tempo. Ella resisteva, ripiegandosi, fuorviando, inebbriata di amarezza, ma più sollevata dall'amarezza istessa:
—Verrai domani?
—No, non posso,—egli dicea, subito.
—Dopodomani, allora!
—Non so…, ho da fare.
—Che hai da fare…. meglio dell'amore?
—Oh mille cose!
—Meglio dell'amore?
—Meglio; più utili.
—Hai ragione,—ella diceva, umilmente.—Purchè tu non vada da un'altra donna!
—Non ci mancherebbe che questa!—esclamava Mario Felice.
—Tu non ami nessun'altra donna, è vero?
—Io non amo nessuna donna, o signora,—egli concludeva gelidamente.
—Neanche me?
—Neanche voi.
—Peccato, peccato, peccato!—mormorava ella, pianissimo, lamentandosi come un bimbo malato.
Anch'egli era pallido, udendo quel sommesso lamentio, che deplorava l'aridità del suo amore. Ma continuava:
—Del resto voi siete un angelo, cara Maria. Un angelo che ha detto una sola bugia, nella sua angelica esistenza.
—Quale?—chiedeva lei, smarrita.
—Tu dici la bugia, cara, quando dici di volermi bene.
—Io, io?—-gridava lei stupefatta.
—Tu. Non è vero che mi ami.
—Oh Madonna mia,—gridava lei, soffocatamente.
—Se vuoi, te lo dimostro.
Così, Mario Felice la vinceva. Innanzi alla negazione precisa, assoluta dell'amor suo, tutta la forza di abnegazione di Maria svaniva. Ella non resisteva a quella negazione, ciò la esasperava e l'avviliva, non trovava nulla da risponderle, il suo sdegno era grande come il suo terrore. Ma che uomo era dunque, questo Mario Felice, a cui ella si era avvinta? Ma che sciagurata natura di uomo, senza fede e senza speranza, senza entusiasmo e senza carità, ella si era messa ad adorare? Egli non l'aveva amata giammai; questa era la sola certezza. Aveva ceduto, riluttante, quasi pauroso, alla impetuosa passione di lei: aveva ceduto, pensoso, triste, per cortesia, per pietà, forse per una sua intima debolezza: e quella mortale tristezza che in lui sorgeva per tutte le cose e per tutti i sentimenti, non lo aveva mai lasciato, la felicità non aveva mai lampeggiato dai suoi occhi, non aveva mai tremato nella sua voce.
—Che hai? Che hai?—ella domandava, nei primi momenti del loro amore, sentendo la sofferenza del suo silenzio.
Egli taceva, ancora. E più tardi, come se nel cuore di lui fosse sorta una ribellione sorda contro questo amore che non divideva e che lo opprimeva, come se egli avesse finito per detestare questa fragile donna che lo rattristava con la sua passione, come gli altri col loro odio o con la loro indifferenza, Mario Felice non aveva trovato che un mezzo solo per ferirla nell'indomito coraggio, quello di negare l'amor suo. Oh come egli aveva bene inteso ciò che a lei era insopportabile di udire, come la mala volontà di perversione aveva visto in quale parola consisteva l'irremediabile dolore! Il dissidio fra loro era grande, basato sulle diversità dei temperamenti, dei caratteri, dell'età: ella sentiva che Mario Felice non poteva amarla, perchè era maritata ed egli odiava la posizione di amante furtivo: sentiva che egli non poteva amarla, perchè odiava tutta la vita esteriore e mondana a cui ella era costretta: sentiva, sì, sentiva che egli non poteva amarla, perchè lui non era stato il suo primo amore, perchè a questi uomini dal cuore profondo bisogna portare se non altro un cuore verginale. Ella capiva, sì, capiva le ragioni di quella mortale, tristezza e la spirituale ripugnanza di Mario Felice: si sapeva indegna di essere amata e non chiedeva più se egli le voleva bene. Ma che orgoglio inflessibile era dunque quello di quest'uomo che non amava e non sapeva neppure perdonare all'amore? Ma che anima malvagia era dunque quella di Mario Felice che colpiva freddamente e risolutamente colei che lo adorava? Talvolta queste ingiurie sgorgavano dalle labbra di Maria, per impulso involontario: egli le ascoltava, a capo basso, seduto su quel banco di marmo dove tanti fiori di oleandro erano piovuti: egli non attaccava più e non si difendeva, lasciava rotolare rumorosamente il fiume della indignazione muliebre. Ella si chinava, lo forzava a guardarla negli occhi, furente di collera che tentava invano di reprimere; Mario Felice taceva. Poi, quando i rossori del tramonto si cangiavano in ombre violacee, egli guardava di cielo limpido, i cespugli degli oleandri, e i mazzi fitti di fiori rosei: e pronunziava la gran parola:
—Questo amore deve morire.
Ella tremava come se il soffio della morte fosse passato sulla sua fronte.
* * * * *
Contro la condanna implacabile, Maria difese l'amore ora per ora, giorno per giorno, con l'accanimento della madre che non vuol veder morire l'unico suo figliolo; e la appassionata donna, vibrante di una energia morale che nulla valeva a quietare, oppose una quotidiana resistenza alla parola morte, che ritornava sempre nei discorsi di Mario Felice. Ogni volta, ella fremeva di dolore e le sue guancie si facevan livide: egli, paziente, aspettava che quella emozione passasse, per ricominciare, come se vedesse soltanto il proprio scopo. Adesso quei colloqui nel profumato viale degli oleandri, fra quella esotica fioritura, le facevano terrore, ma vi andava, spinta da un istinto di lei più forte: e talvolta, in grazia, gli chiedeva di non parlare d'amore, tanto ella vedeva sorgere, dietro a quei discorsi, la tremenda parola della distruzione. Tranquillo, malgrado la sua tristezza, freddo nella impenetrabile sua malinconia, Mario Felice acconsentiva, ed allora, gli oleandri del viale, in quella tregua, udivano una assai bizzarra conversazione, trascendente, lontana da tutte le quotidiane cose umane.
—Mi basta udire la tua voce:—essa diceva, più calma, quando il colloquio finiva.
Egli sorrideva, con una lieve e fugace ironia. Per qualche tempo, come obbediente a una segreta idea, egli risparmiava Maria e si lasciava ancora amare, non rispondendole quando ella gli chiedeva la ragione della sua contradizione. Ma eran sempre più brevi, le tregue; e ogni volta che essi si rivedevano, direttamente o indirettamente, egli le dimostrava che quell'amore doveva morire. Ah la povera donna, la poveretta come chiudeva li occhi, sgomenta, dinanzi a quella folgorante luce crudele; come trovava nella sua passione le preghiere più umili e pure non vigliacche, perché questo amore non fosse ucciso proprio da loro! Avevan vinto il tempo e le cose e gli uomini, sormontando e calpestando gli ostacoli, e ora, ora bisognava che questo amore morisse?
—Meglio prima che dopo,—egli ripeteva, sempre.
—Dopo, che?—ella chiedeva.
—Non domandare, lascia stare, tu capisci, forse: o capirai più tardi….
La poveretta non gli parlava, soltanto gli scriveva: e ogni dieci o dodici lettere di lei, egli rispondeva, per dimostrarle che quell'amore doveva morire. Maria desiderava queste lettere come la benedizione del cielo, ma quando gliene consegnavano una, non osava di aprirla, immaginava tutto il suo straziante contenuto. Mario Felice mancava agli appuntamenti: poi, partì. Ella cadde gravemente inferma: egli ritornò, ma non potette assisterla, non gli era permesso di andare in casa di lei. Le mandava un comune amico, che non ignorava il loro segreto: e questo amico le diceva quelle vaghe parole di consolazione, che dovrebbero confortare chi ha fatto una perdita irreparabile. Nella convalescenza, ella scrisse a Mario Felice, tristamente, delle lettere piene di lagrime: ed egli le rispose con molta tenerezza, senza una parola di amore, ma con tenerezza, con molta tenerezza, che si sarebbero riveduti, là, in quel viale degli oleandri che era il nido più caro e più poetico del loro amore. E Maria sperò di nuovo e con tale ardore desiderò di uscire, che nessuno glielo potette impedire, malgrado la sua grande debolezza. Era estate, ormai, e i tramonti eran lunghi e violenti di colore: il viale era ancora fiorito, ma una messe rosea copriva il suolo. Ella trovò Mario Felice seduto sul banco: lo trovò più pallido, più triste che mai, le strinse debolmente la mano. Ella soffocava di emozione: e sul principio non parlarono, a bassa voce, che della infermità di lei e del viaggio che aveva fatto lui. Ella lo guardava negli occhi aspettandone una parola decisiva, quella che era venuta a udire, quella che le sue inaudite sofferenze, i tormenti morali e fisici e la tenerezza di lui avrebbero dovuto ispirargli: la parola che meritava la più pura e più ardente passione:
—Maria, questo amore deve morire,—egli disse fatalmente.
Ella non battè palpebra, non impallidì: solo, pensò un poco e rispose:
—Muoia, dunque.
Non aveva tremato la bella voce di Maria confermando chiaramente la sentenza di morte. Altro non dissero. Pallido come un morente, egli aveva vinto. Ella si levò, senza guardare né il roseo cielo, né i fiori che parevano tante fiammelle rosee, in quel tramonto:
—Addio, Mario,
—Addio, Maria.
Ella se ne andò, senza raccogliere un fiore, senza voltarsi, sparì, lontano, verso la gran rotonda luminosa dove arrivava il rombo sordo della città. Mario Felice restò seduto sul banco, e le prime ombre della sera lo avvolsero, poi la notte discese e lo trovò ancora lì, immobile. Nella notte olezzavano più acutamente i dolci fiori dell'oleandro, pieni di un veleno sottile: qualcuno di essi si staccava dal ramo e cadeva al suolo. Per sempre desolato era il cuore di colui che aveva vinto: e le lagrime della suprema tristezza piovevano dai suoi occhi, nella notte. [Blank Page]
NELLA VIA
(Vincenzella)
[Blank Page] Ritta presso il largo parapetto di pietra, Vicenzella con una mano teneva fermo il grosso polipo grigiastro e con l'altra ne tagliuzzava in pezzetti i tentacoli, adoperando vivamente un sottile e affilato coltellino. Accanto a lei, per terra, sopra un piccolo focolare di tufo giallo, bolliva una pignatta di creta bruna; vi era dentro acqua di mare e peperone rosso, secco, fortissimo; ogni tanto Vicenzella vi gettava una manata di pezzetti di polipo, dalla pelle grigia, dalla polpa candida: quando lo ebbe tagliato tutto, e tutto messo a bollire nell'acqua di mare, vi aggiunse delle gallette durissime: coprì ermeticamente la pignatta. Con un moto istintivo, si assicurò meglio negli zoccoli di legno, dal tacco alto e sonoro, e si avvicinò a Maria Grazia, l'acquaiola, che faceva andare in su e in giù la gran secchia chiusa dell'acqua e col piede sinistro cullava il canestrone, dove dormiva il suo figliuolino.
—Non sia per comando, Mariagra', mi daresti un bicchier d'acqua?
—Acqua, tu volessi! Te', figlia mia.
Vicenzella non bevette il bicchier d'acqua, ma se lo versò sulle mani, rasciugandosele al grembiule di cotonina azzurra.
—Quel polipo appesta,—mormorò,—e Ciccillo non può soffrirne il mal odore.
—Tanto gentile, è?
—È un signore, Mariagra'; che ci vuoi fare!
—Ciccillo non è per te, Vicenzè, senti chi ti vuol bene.
—Ciccillo dev'essere,—ribattè brevemente Vicenzella.—La creatura tua s'ingrassa ogni giorno. Dio la benedica.
—Se la mangiano le mosche, povera Cannitella,—e si chinò per scacciarle.
Vicenzella ritornò pressò il focolaretto. Ora, seduta sopra una seggiola sgangherata, appoggiata al largo parapetto di pietra, per non cadere, sorvegliava la cottura del polipo, scoperchiando ogni tanto la pignatta, immergendovi uno schidioncino a due rebbi. E taciturna, coi fieri occhi lionati che guardavano la via di Santa Lucia che era piena di sole, di carrozze, di persone, che era attraversata ogni minuto dai trams, ella lavorava a una sua calzetta azzurra, col tallone bianco. Gennarino, il pizzaiuolo, passò, portando sul braccio un largo scudo di stagno, su cui erano disposti, a corona, i segmenti di pizza, odorosi di pomodoro e di origano.
—O Vice', è cotto il polipo?
Essa fece finta di non udire: e conservò la severità della sua bocca larga ed espressiva, la fierezza dei suoi occhi che non conoscevano lusinghe, la durezza delle nere sopracciglia aggrottate.
—Se mi dai un po' di polipo, Vice'; ti do una fetta di pizza.
—Non ho appetito, e il polipo è crudo.
—Scommetto che se viene Ciccillo, il polipo è cotto. Per lui succedono miracoli, succedono.
—Si capisce.
—Quanto sei cattiva, Vice'!
—Chi ti chiama a parlare con me? Va', vattene.
Gennarino represse un moto di rabbia e si allontanò, gridando e decantando l'odore e il sapore delle sue pizze. Vicenzella continuò placidamente a far la calza fra il chiasso e il rumore della via, guardando in su, ogni tanto, come se aspettasse qualcuno. Una grossa femmina, con la giacca di lanetta nera, il grembiale bianco e un fazzoletto rosso al collo, le si accostò: aveva in mano un mucchio di soldoni, mentre una bambinella le si attaccava alla gonna.
—Questa è la chiave, Vice', e questa è Fortuna. Bada alla casa e bada alla piccola.
—Gnorsì, ma'—fece l'altra, senza muoversi.
—Io non so quando torno: debbo andare ad esigere del denaro sino a Porta Capuana, dalla mamma di Ciccillo. Vicenzella arrossì: e, per un momento, la voce le tremò.
—Non la maltrattate, ma'—disse piano.
—L'interesse è una cosa e l'amore è un'altra,—disse gravemente l'usuraia, scuotendo i soldoni,—Ciccillo si mangia tutte le fatiche di sua madre.
—Voi non l'avete mai potuto soffrire, ma'—disse Vicenzella, chinando gli occhi, abbassando la voce, per reprimere la collera.
—E si mangia anche le tue!
—Voi non ci entrate, voi non mi siete madre. Matrigna, matrigna, come si dice, ma sempre matrigna siete!
—Poi, vedrai la verità,—soggiunse quietamente Gesualda, che non voleva litigare nella via.—Ti raccomando quest'anima di Dio.
Si allontanò lentamente, grassa, ondeggiante, con la pappagorgia che si allargava sul fazzoletto rosso. Vicenzella avea lasciato di far la calza, ancora tutta pallida dì collera soffocata.
—O Vice', Vice'—strillava la piccolina, attaccandosi alle sue gonnelle,—raccontami un racconto.
—Non ci ho la testa, Fortuné, lasciami stare.
—Sì, sì, raccontami il fatto della Bella mbriana.
—Senti, Fortuné, se ti contenti, la sorella tua ti da un soldo, e tu ti compri una bella cosa.
—Che mi compro, che?
—Un soldo di nocciuole infornate? Ne hai tante!
—No, no.
—Un soldo di caffè?
—No, no.
—Un soldo di fichi d'India, ne hai due.
—Sì, sì, dammelo.
E Fortuna scappò via, verso il fondo di Santa Lucia, per comprarsi un soldo di frutti freschi e insipidi. Vicenzella guardava in su verso il Gigante, con la faccia bruna, di un bruno affocato di rosso, dove non compariva sorriso.
—Vice'—disse Aniello, il marinaio, dammi un carboncino per accendere —la pipa.
—Tenete, tata,—fece Vicenzella, sollevando la pignatta.
Aniello era scalzo, vestito semplicemente di un paio di calzoni di tela bianca che gli arrivavano a metà gamba e di una camicia portata come una blusa sopra i calzoni: si vedeva il bruno petto villoso: sulla testa un cappellaccio di paglia, tutto sfondato. Era salito su dalla spiaggia di Santa Lucia, veniva dallo stabilimento di bagno dove faceva da marinaio, cioè da bagnino.
—Gesualda?—disse lui.
—Va esigendo denaro.
—E Fortuna?
—È andata a comperare un soldo di frutta.
—Mi meraviglio che non ci è qua don Ciccillo,—disse il bagnino.—Starà facendo il bagno, con quella ragazza.
—Quale ragazza, tata?
—Non lo sai? Mi ha detto Gaetano, il compare mio, quello dello stabilimento del Sole, che ieri don Ciccillo ci ha accompagnato una ragazza, una bella ragazza, con lo scialletto e la frangetta sulla fronte.
—Non può essere.
—Come, non può essere? Gaetano non è pazzo.
—Non è pazzo, ma quello che vi ha detto, tata, non può essere.
—Lo ha visto coi propri occhi!
—Santa Lucia non lo assiste: questo che ha detto, non può essere.
—E va, che sei una bestia!
Il bagnino si allontanò, scese la scaletta che porta sulla riva: Vicenzella crollava il capo, come se niente avesse potuto convincerla. Ma l'impazienza la faceva fremere: e mentre guardava in su, verso il Gigante, immergeva macchinalmente lo schidioncino nella pignatta, dove bolliva il polipo nella sua acqua di mare.
Erano le undici, la via di Santa Lucia era tutta presa dal sole, Vicenzella non stava più alle mosse: Fortuna, seduta per terra, accanto a lei, dormicchiava. Come l'ora del mezzodì si approssimava, la vendita del polipo cotto cominciava. Vicenzella aveva tre o quattro piattelli di cretaglia bianca, sul parapetto della via: appena un avventore si presentava, ella immergeva lo schidioncino nella pignatta, ne traeva un pezzo di polipo, tutto riccio e lo metteva sul piattello, aggiungendovi un pezzo di galletta, già molle, e una cucchiaiata di brodo rosso. L'avventore, in piedi, chiacchierando, mangiava con le mani il saporito e tenace frammento di polipo, poi accostava le labbra al piattello e sorbiva il brodo. La porzione semplice costava due soldi, la doppia quattro soldi. Vicenzella, misurava con equità la porzione, non si confondeva, non esitava: in un momento ebbe intorno due o tre muratori che lavoravano al Chiatamone, un ostricaro, un postiglione di tramvai: ella si sbrigava, assai seria, non dando retta alle parole di quelli che le facevano la corte, stringendosi nelle spalle, con un moto di superbia e di disprezzo, buttando i soldi nel taschino del grembiule. Quando venne Franceschella, la venditrice di acqua sulfurea, per avere due soldi di polipo, non ve n'era più.
—È finito adesso adesso,—-disse Vicenzella, mostrando la pignatta dove solo un po' di brodo restava.
—Buona giornata, allora?
—Buona.
—Beata te! Con questa paura della malattia, che Dio ci scampi, nessuno beve più acqua sulfurea. Non facciamo niente: e sì che ho promesso il voto alla Madonna della Catena, se mi riesciva una buona stagione. Che ci vuoi fare? Non isposerò neppure quest'anno.
—Ma Carluccio fa ancora il soldato?
—-Lo fa sino a Natale: poi, torna. Mi ha scritto la lettera. Ciccillo non ha fatto il soldato?
—No: il governo non lo piglia, è figlio unico di madre vedova.
—Quando vi sposate?
—Ci vogliono i soldi,—disse Vicenzella, con una malinconia profonda.
—Non li fai, tu?
—Li fo, li fo….
—Ebbene?
—E poi se ne vanno. Non ci è che fare.
—O che brutta sorte! Basta, tu non hai più polipo e io vado a comperare due soldi di pesce fritto. Vicenzella aveva ricoperto il fuoco del focolaretto e in una conchetta di creta, sul marciapiede, lavava i piattelli e la pignatta: poi li mise ad asciugare al sole, sul parapetto largo. Ora, in piedi, dopo essersi passate le mani sui capelli giallastri, contava i soldi che aveva fatti, e prendeva le mosse per partire.
—Vicenze', io vengo con te,—mormorò la sorellina.
—Sì, sì,—disse Vicenzella, impazientita, rimettendosi i soldi in saccoccia.
Ma un giovanotto tutto agghindato si fermò innanzi a Vicenzella.
—La grazia vostra,—disse lui, toccandosi il cappello alla sgherra.
—Padrone mio, Pascalì.
—Vi debbo fare un'imbasciata.
—Vi manda Ciccillo?
—Sissignore, vi saluta assai assai e vi fa sapere come lui non ha potuto venire, perché ci è stata una combinazione di certi amici, che lo hanno invitato in una trattoria: e che si trova là e vi prega, se potete mandargli un paio di lire, perché non vuol far cattive figure. E vi saluta tanto e vi manda a dire come lui, fra una mezz'oretta, è qua.
—Queste sono le due lire, Pascalì.
—Vi saluto: e grazie.
—Ciccillo viene?
—Fra una mezz'oretta è qua.
—Salutatemelo, Pascalì; ditegli che scusasse, se sono tutti soldi.
—Non fa niente.
Ella restò pensosa, un momento, mentre Pasqualino se ne andava, facendo scricchiolare le sue scarpe. Poi, traendosi dietro la sorellina, attraversò la via, aprì la porticina di un basso e ne trasse fuori un cestino ed un banchetto: Fortuna le portò il banchetto, riattraversarono la strada, ritornarono al loro posto, sul marciapiede. Ora, tenendosi il banchetto innanzi, accovacciata per terra, Vicenzella traeva le noci fresche dal cestino, e vi batteva su, presto presto, con un pezzo, di legno, per staccarne la scorza verde. La scorza verde gocciava acido gallico e le dita di Vicenzella si facevano nericcie, mentre ella formava dei castelletti di sei noci e di dodici noci, aperte, lasciando vedere il mallo bianco.
—Dammi una noce, Vicenze'.
—Tieni.
Dopo averle aperte tutte tutte, Vicenzella mise il banchetto innanzi alla sua sedia e si pose a sedere. Guardava in su, dalla parte del Gigante, se Ciccillo comparisse. La vendita delle noci, sulle prime, andò scarsamente: venne una serva del vicinato, ne voleva otto per un soldo e le deprezzò, erano o fradicie o insipide.
—E perché ci vieni qua?—le disse selvaggiamente Vicenzella.—Rompiti le gambe in un altro posto.
—Così speriamo, di vederti morire uccisa!—esclamò la serva, andandosene.
Un vecchio pensionato, invece, ne comprò due soldi, non leticò sul numero, ma le scelse una per una, disfacendo i castelletti. Pazientemente Vicenzella li rifaceva, domandando a sè stessa, mentalmente, se la mezz'oretta era passata. Giusto, i bambini uscivano dalla scuoletta di don Ferdinando, l'ex capitano borbonico: erano le tre, dunque. I bimbi circondarono il banchetto di Vicenzella, strillando, pestando i piedi, mentre ella cercava di quietarli, fermando le loro mani impazienti: uno specialmente, voleva due centesimi di noci, voleva a forza quattro noci, piangeva, singhiozzando, stringendo convulsamente il due centesimino. Essa gliele dette, egli se ne andò, saltando. Già una striscia di ombra si allungava sulla via di Santa Lucia, e la gente vi s'infittiva: una lieve ombra si distendeva anche sulla faccia di Vicenzella. Aveva vendute tutte le noci, anche. un castelletto di piccolissime, anche un castelletto di fradicie: e restava inerte, con le mani sotto il grembiule, non perdendo mai di vista la discesa del Gigante, donde Ciccillo doveva venire. Fortuna era andata a giuocare con la bambinella di Mariagrazia l'acquaiuola, quando una donna si avvicinò a Vicenzella. Era una donnina magra e bruna, con un filo di coralli rossi al collo, e un vestito di percallo giallone.
—Salute, Vice',—disse, deponendo per terra una canestra vuota.
—Sei stata a portare la biancheria?
—Già: torno adesso da Porta Capuana.
—Hai esatto?
—Ma che! Figurati che ho scambiato una camicia alla signora e non ha voluto pagare. È proprio una disperazione. Stasera, vedi, avevo promesso a Ciccillo, a quel povero fratello mio, così buono, di fargli certi maccheroni con le alici e con l'olio, che gli piacciono tanto. Sta fresco! Pane e acqua se li vuole.
—Gli piacciono assai?
—Assai.
—Questi sono venti soldi, Carmela, fagli trovare i maccheroni.
—E che vuoi fare? Se lo sa lui, mi grida! Io non li prendo.
—Fammi questo favore, non glielo dire, prendili: me lo fai proprio per piacere.
—Sì, ma te li restituirò.
—Sì, sì, purché li prendi, ora. Digli che venga, poi, stassera, che non se lo scordi.
—Glielo dico, glielo dico.
Anche Carmela sparì, con un passo rapido, portando la canestra vuota della biancheria sul fianco. Già il tramonto discendeva sul mare e sulla strada, ma Ciccillo non era comparso, non compariva. Gesualda era tornata, col suo passo di oca grassa, col suo pugno pieno di soldi: e si era portata con sé Fortuna, in casa, per cucinare un po' di pranzo. La piccolina venne a cercare quattro soldi a Vicenzella, per sua matrigna.
—Non li ho.
—Come non li ha?—-gridò la matrigna, coi pugni sui fianchi.
E venne sulla strada.
—Dammi quattro soldi, Vicenze'.
—Non li ho.
—Non è vero, bugiardona.
—Non li ho: e se li avessi, non ve li darei.
—Sì, per darli a quello straccione, a quel briccone, a quello scroccone! Ora fa all'amore con una sarta, fa.
—Non è vero.
—Me lo ha detto la mamma.
—Non è vero.
—Bene, lo vedrai.
—Se lo vedo, non lo credo.
—Sai che vi è di nuovo? Chi non mi dà niente, non mangia: oggi, non mangi.
—Non mangio.
—Sei birbona come tua madre, la buon'anima.
—Se non ve ne andate, vi misuro lo zoccolo in fronte, ma'.
—Sei capace di tutto: ma tu, stasera, non mangi.
Difatti, poco dopo, Gesualda mandò Fortuna a chiamare il padre, allo stabilimento. E si misero tutti tre, intorno a un largo piatto di maccheroni. Vicenzella andava e veniva, preparando certe sue cose per la sera.
—Perché Vicenzella non mangia?—chiese il padre.
—Non ha fame,—disse brevemente Gesualda.
—Non ho fame,—disse Vicenzella.
E se ne uscì. Aveva riportato in casa tutti gli arnesi che le erano serviti per la vendita dei polipi e delle noci. Ora, al suo posto, aveva trasportato un piccolo braciere di creta, dove un fuocherello di carboncini ardeva: e sul fuocherello avea messo a cuocere le spighe di granturco. Con acuto e appetitoso odore le spighe si arrostivano e macchinalmente, con un ventaglio da un soldo, Vicenzella soffiava sul fuoco. Più che mai, ora, ficcava gli occhi nell'ombra, per vedere se colui che aspettava dalla mattina, spuntasse. Non badava ai golosi pescatori che venivano a comperare le spighe arrostite, due per un soldo, non badava alle parole di Maria Grazia, l'acquaiuola, che cenava con un soldo di spighe e le diceva di lasciarlo stare, Ciccillo. Ora, non aveva più pace e tutte le parole che aveva udite contro il suo innamorato, dalla mattina, le ritornavano in mente, cattive, crudeli.
Una comitiva di studenti che avevano fatta una scommessa, volevano delle spighe: essi avevano fatto cerchio, aspettando che si arrostissero, scherzando con Vicenzella, che li guardava senza rispondere, seriissima, quasi truce. Ma ad un tratto, una visione le passò fugacemente innanzi agli occhi: le parve di vedere in tram, Ciccillo, Ciccillo suo, accanto a una ragazza con lo scialletto nero e la frangetta bionda sulla fronte. E senza curarsi delle spighe che si abbruciavano, degli studenti che aspettavano, ella si mise a correre, dietro il tram, come una pazza, stringendo nella saccoccia il coltellino affilato con cui tagliava il polipo, la mattina. Ma il tram fuggiva: e i viandanti si fermavano a guardare questa popolana che lo inseguiva.
Quando arrivò alla piazza Vittoria, il tram era fermo, lasciando discendere i passeggieri.
Un giovanotto e una ragazza discesero; si tenevano per mano, andandosene per la grande via che la luna illuminava. Cauta, silenziosa, feroce, Vicenzella li seguiva: e spasimava, un vapor rosso la faceva delirare. Quelli andavano, lenti, stretti, come perduti d'amore. Ella non resse. Li raggiunse, li divise:
—Assassino, assassino!—urlò come una bestia ferita.
—Ebbene?—disse Ciccillo freddissimamente,—che c'è?
Ella non rispose, guardandolo con gli occhi stralunati.
—Vattene subito a casa tua,—comandò lui.
—Me ne vado, me ne vado subito,—singhiozzò lei, implorando.
LA VESTE DI SETA
(Madame la marquise)
Nel mese di aprile, come rifiorivano le rose, nella piccola, irrequieta e capricciosa testina di Emma Lieti sorse un'idea che le parve subito di un'altissima importanza. Nell'improvviso eccitamento, ella scompigliò con mano distratta la fine aureola dei suoi bei capelli biondi, strinse nervosamente il laccio d'oro che le serrava alla persona la sua vestaglia di lana color avorio e fece l'invocazione suprema, cioè chiamò la cameriera. Questa Cristina, la cameriera, assai stranamente occupava un posto saldo e durevole nelle mobili simpatie e nelle fugaci tenerezze della padrona: molte cose e varie persone eran tramontate nella vita di Emma Lieti, senza ribellione sua e senza rimpianto, ma Cristina, la cameriera, restava all'orizzonte da varii anni e un poeta di stampo antico avrebbe detto che ella non conosceva occaso. Cristina, chiamata, non accorse immediatamente: e allora, donna Emma Lieti quasi si sospese al cordone del campanello—giacché ella odiava esteticamente i bottoni elettrici—non potendo sopportare l'aspettazione. Infine, la desiderata giunse, nel suo vestito nero, nel suo gran grembiule di batista bianca guarnito di merletti, e con la sua aria indifferente e stanca.
—Scusi, signora: ero dietro a riporre della biancheria negli armadii.
La biondina andava su e giù, sempre inquieta, battendo sui tacchetti d'argento delle sue scarpette bianche, di un bianco d'avorio.
—-Senti, Cristina, senti…. tu devi fare una gran cosa….
—Eccomi qua.
—Tu devi cavare dagli armadii, dalle casse, da dovunque si trovano, i miei vestiti di primavera e d'estate, dell'anno scorso…. Tutti, tutti! E anche i mantelli, le mantelline, le sciarpe, i cappucci; e anche i cappelli, gli ombrelli, i ventagli…. quanto mi è servito, l'altr'anno, dal maggio a settembre…, hai bene capito?…
—Ho capito…. dove metterò tutta questa roba?…
——Nel salone, sulle poltrone, sui divani, sulle sedie, come in una esposizione, così io potrò veder tutto.
—Ci vorrà del tempo, signora.
—Senti, Cristina, tu devi far questo per questa sera. Io ho bisogno urgente di sapere quello che ho di buono, ancora, quello che debbo smettere e quanti vestiti nuovi mi sono di assoluta necessità. Va là, che vi sarà una larga parte per te: mi rammento di non aver conservata troppa roba. Questa sera, Cristina….
—La signora sarà servita—disse la cameriera, senz'apparire lusingata dalla promessa, a cui teneva molto invece.
—Capisci, Cristina, che soltanto questa sera, io ho un po' di tempo, per questa rivista. Sono sola, non vado in teatro e dopo pranzo non verrà nessuna visita: speriamolo! Non vorrei esser disturbata in questa faccenda che è molto grave. Nel caso, farai dire che sono uscita…. debbo risolvere il mio grande affare e non voglio seccatori….
Tutta la giornata Emma Lieti non pensò che alla rivista della sera, con una sottile ansietà che aumentava il suo piacere. La frivolissima donna aveva sempre provato, da giovinetta, le più vivide sue gioie al contatto di un vestito, all'aspetto di un cappellino, innanzi a un mantello di forma originale: e la sua gioia ne domandava subito il possesso, tanto che ella aveva un numero strabocchevole di abiti, di cappelli, di mantelli e non desiderava altro che di aumentare questo numero, e il solo aprire una scatola, una cassa, un armadio le dava un sussulto di voluttà. Biondina, pallidina, non magra, anzi rotondetta, ella si facea rosea, toccando una stoffa, abbassando gli occhi sovra una vetrina, guardandosi in uno specchio, con una veste nuova. E le sue vesti erano sempre nuove: ella non aveva il tempo di affezionarsi a nessuna di esse, che la smetteva: le sue amiche povere, Cristina, tutte le famigliari di casa, ricevevano dei doni insperati e superiori alle loro aspirazioni: il guardaroba era sempre pieno zeppo di vesti, e ogni tanto Emma Lieti scrollava la testolina pensando che mai si sarebbe interamente disfatta dei suoi vestiti vecchi che aveva indossato quattro volte! Specialmente quelli da ballo che non si sciupano mai, restavano sospesi in lunga fila, nei loro sacelli di percalla, vedendosi solo il corpetto di stoffe delicate adorno di molli trine, col cordoncino raccolto in una matassata: ogni anno, altri vestiti da ballo venivano a raggiungere quelli antichi e la fila cresceva, cresceva. Giammai, schiudendo le grandi porte del guardaroba, guardando quei sacelli dove erano raccolti gli strascichi sontuosi sulle sottogonne ricche di merletti, Emma Lieti pensava di farsi un vestito di meno, di portare, magari rifatto, il vestito dell'anno prima. Questo, lei, giammai! Era nata frivola, prodiga, adoratrice di tutte le fallaci bellezze della moda, così morrebbe.
Ora, con quell'ordine dato a Cristina, Emma Lieti si era procurata una buona serata. Dopo aver pranzato nella gran sala da pranzo, adorna austeramente nello stile di Enrico II e a cui dava risalto un gran quadro d'animali di Rosa Bonheur, dopo aver preso il caffè, tutta sola, nel suo salottino personale dove una stoffa Pompadour alle pareti e sui mobili s'intonava così perfettamente con la sua bellezzina bionda e pallidetta, con la sua grazia un po' minuta, ella si levò e passò nel grande salone da ballo, bianco e oro, dove le laboriose e sapienti mani di Cristina avevano disposto tutti i vestiti di primavera e di estate dell'anno prima. Con quella preziosa cura che le assicurava il costante affetto dell'incostante Emma Lieti, Cristina vi aveva unito tutto, persino le scarpette da ballo estivo e da campagna, persino i costumi del bagno, persino il cappelletto delle escursioni in montagna. Ed entrando, per avere una impressione generale, Emma che era abbastanza miope, coi suoi occhi bigi e carezzevoli nel loro sguardo un po' vagante, non adoperò l'occhialino; ed ebbe un moto di piacevole stupore. Sette od otto candelabri accesi versavano la loro piena luce sui vestiti, sui mantelli, sui mille complementi della beltà femminile e tutto il salone era occupato, nella sua grandezza! Non credeva, non supponeva neppure di aver avuto e di aver cambiati tanti abiti l'anno prima, ed ebbe un senso di grazioso imbarazzo.
—Quanta roba!—mormorò, fra la giocondità e la preoccupazione.
—Ce n'è della buonissima,—soggiunse Cristina, che l'aveva seguita e che aveva sempre l'aria di dar consigli di saviezza.
—Vediamo,—disse Emma.
E schiuse l'occhialino stretto e lungo di tartaruga su cui, in cifre, di brillanti, vi era il suo motto, spagnuolo: Nada. Essa guardò intorno, pian piano, passando da un oggetto all'altro con una lentezza per lei piena di sapore. Giacchè i suoi vestiti, i suoi mantelli, i suoi cappelli, formando una così stretta parte, non solo con la sua persona, ma col suo cuore e con la sua anima, le riapparivano innanzi, non già come tanti metri di stoffa tagliati in una foggia più o meno bizzarra, ma comme lembi della sua esistenza. Il vestito delle corse, dell'anno prima, era di merletto nero ricamato di pisellini di seta azzurra, sovra una gonna di raso nero e con una gran cintura di seta azzurra: in quel giorno delle corse, ella si era sentita così giovane e così gaia, e aveva dato tanto volentieri delle primole azzurre a Massimo Dias che la corteggiava così strettamente, da due mesi. Quest'anno ella avrebbe avuto un altro vestito, molto chiaro, di un verde pallidissimo, una vera audacia, per una persona bionda: e Massimo Dias era partito, dall'autunno, per l'ambasciata di Pietroburgo, dove era addetto. Quel vestito di broccati lilla, corto, ma molto ricco, era servito, l'anno prima, per assistere al matrimonio di Giovannella Casacalenda, un matrimonio di convenienza, dove la sposa era così smorta e aveva pianto nelle braccia di Emma Lieti, mentre costei si commuoveva profondamente, a quelle lacrime: il vestito restava, testimone di un minuto intenso di fraterna tenerezza, mentre Giovannella Casacalenda, ora, presa la sua decisione, era una delle rivali di Emma Lieti, nel campo della moda, e delle conquiste di società. Oh, non si faceva vincere tanto facilmente la biondina dalle manine incantevoli e dai piedini deliziosi, la piccola donna dalla testa arruffata come quella di un uccello! Ognuna di quelle vesti, di primavera, di estate, costumi di lanetta inglese da mattino, leggieri abiti bianchi da passeggiate serotine, gonne e, giacchette da lawn-tennis, vestiti di merletti da visite di gala, costumi per andare in barchetta, col gran goletto aperto alla marinaia e il berretto bianco, abiti per camminare, per ballare, per salire sui monti, per fumare una sigaretta, sulla terrazza di una villa, tutti quanti, sfarzosi o eleganti, corretti o capricciosi, le rammentavano una conversazione, una figura, una parola di amore, qualche piccolo amore. Piccolissimo, anzi: come poteva andare d'accordo col cuoricino fallace di Emma Lieti, con la sua fantasia saltellante, con la mobilità invincibile del suo spirito. Un po'di tenerezza e un po' di flirt, ecco tutto. Poi, l'uomo partiva o la signora partiva: o egli era preso da una più viva passione, altrove, mentre ella si precipitava nervosamente in un altro capriccio, così tutto finiva, benissimo, e restava solo il vestito a ricordare che, in un meriggio sul mare, o in una sera stellata, qualcuno aveva detto all'orecchio di Emma Lieti le sacre parole dell'amore ed ella aveva udito queste parole ondeggiarle nell'anima trepidante! Un po' sorridente, ella aveva, con le sue piccole mani, raccolti insieme un vestito di seta cruda, un costumino di lana bigia e una mantellina di merletti e giaietti neri:
—Prendi,—aveva detto a Cristina,—sono tuoi.
—Grazie,—rispose la cameriera senza troppa espansione.
—Prendi, prendi,—e con le mani prese da un tremore di generosità, le gittò sulle braccia degli altri oggetti, un cappellino, una cintura di cuoio, un ventaglio.
La cameriera ringraziava, con un principio di sorriso: s'intravvedeva in lei un'esitanza, forse un desiderio.
—Vuoi qualche altra cosa?
—La signora è così buona…. perché non mi dà quel vestito….
—Quale?
—Quello color crema, a fiorellini rosei?
E avviandosi verso una poltrona, lo indicò alla padrona. Il vestito di una seta leggiera e molle, molto fine, era fatto di una gonna con un'arricciatura, al basso; un po' increspato sui fianchi; e il corpetto era coperto da una mantellina della stessa seta, molto arricciata. Giaceva sulla poltrona, in un mucchietto, quasi: e la mantellina pendeva sul bracciuolo, come se fosse stata buttata via. Con l'occhialino dove era scritto Nada, cioè Nulla, Emma Lieti guardò la veste di seta, mentre dalle sue labbra era sparito il sorriso e tutto il suo volto di bambola bionda e frivola, senza sorriso, pareva invecchiato, d'un tratto.
—Vede?—disse Cristina,—è tutto macchiato di pioggia.
—Sì, è macchiato di pioggia,—rispose macchinalmente la padrona.
—Ed è impossibile che lei lo metta di nuovo.
—Proprio impossibile….—soggiunse la frivolissima donnina, con una voce immensamente triste.
Era con quella veste di seta che Giovanni Serra, vedendola tutta bionda e gentile, tutta piccola e graziosa, tutta fine e giovanile, con un gran cappello di merletto crema, col vento che sollevava e gonfiava la molle stoffa, in quella veste le aveva dato, il più buono, il più onesto, il più innamorato de' suoi adoratori, le aveva dato il soprannome poetico e quasi fragile di madame la marquise. Dinnanzi al tessuto chiaro e morbido su cui si delineavano delicatamente i fiorellini rosei, Emma Lieti vedeva risorgere nella sua immaginazione la sola figura degna di uomo, incontrata, nella vita, quel Giovanni Serra dai fieri occhi d'un azzurro d'acciaio, dalla figura snella ed elegante, dai capelli che erano passati al castano: quel giovane adoratore così ardente, e così mite, così geloso e così indulgente, così austero per i terribili e continuati peccati di frivolezza che ella commetteva e così disposto irresistibilmente a perdonarglieli. La veste di seta dai tenui colori le rammentava quell'uomo che solo aveva osato rimproverarle l'infinita nullità della sua vita e la freddezza del suo piccolo cuore muliebre, e l'ipocrisia dei brevi amoretti, e la misera dispersione sentimentale della sua esistenza. La morbida veste abbandonata e sempre graziosa, su quella poltrona, le rammentava i suoi soli momenti di pentimento, la volontà, ahimè, fallace, di sottrarsi all'avidità, alla leggerezza, al capriccio. La veste esisteva, come cosa viva, come testimone quasi palpitante di un passato non lontano, ma la buona, tenera, austera voce, ecco, era taciuta per sempre e il piccolo mobile cuore era ricaduto nella frivolità e nella aridità, per sempre.
Eppure la cara piccola donna che portava così dolcemente il nome di madame la marquise aveva amato con sincerità e con profondità Giovanni Serra. Per un giorno soltanto, è vero: ma tutte le ventiquattr'ore erano state sue, di questo amante così giusto e così misericordioso, così appassionato e così leale. Per mesi e mesi, per un lungo volger di tempo, Giovanni Serra aveva amato invano, sentendo volta a volta la tenerezza, la pietà e il disgusto per quella creatura che nulla aveva di stabile e nulla di serio, in sè, per questa leggiadra donnina che aveva una volubilità disperante, per quest'anima senza forza e senza nobiltà: ma niente, niente aveva potuto distaccarlo da una immagine così seducente, da un fantasma così infinitamente caro. Paziente, amoroso, Giovanni Serra aspettava sempre che una grande ora venisse, un'ora trasformatrice che fondesse l'impuro metallo dell'anima di Emma Lieti e rigettandone le scorie, ne traesse il divino gioiello dell'amore; mentre la capricciosa donnina seguitava a cambiar vestiti, ad amoreggiare superficialmente, a flirtare, a mutar cappellini, mentre ella sorrideva e rideva di lui, chiamandolo l'homme qui attend. Una sublime speranza, certo, sosteneva il cuore di quell'uomo, giacché cento volte egli avrebbe dovuto ritrarsi, ributtato da quella civetteria vibrante e pur glaciale, da quell'abbandonarsi, anche di passaggio, a tutte le parole d'amore mormorato, da quell'impiccolirsi nel continuo variare di vesti, di foggie, di mode.
Nè questa sublime speranza era un inganno; poichè in un giorno inaspettato, impreveduto, madame la marquise fu quella che aveva per tanto tempo invocata e desiderata Giovanni Serra e in quel giorno ella lo amò, con tutto il suo cuore, con tutta sé stessa. Non più di un giorno: ma completamente, come per una vita intiera.
Sola nella gran luce del salone, Emma Lieti si chinò a toccare la veste di seta, quasi fosse un talismano. Ella portava quel vestito, nel gran giorno, quando egli era giunto alla Villa delle Rose, in un'alba di maggio. Ella gli era andata incontro nel viale tutto imperlato di' rugiada e vedendolo apparire, aveva sentito un sussulto ignoto: con gli occhi, Giovanni Serra le aveva domandato se eran soli: sorridendo, senza parlare, ella aveva risposto di sì: e sotto gli ontani verdi egli aveva abbracciata madame la marquise che rideva teneramente. Ah in quel momento, ella sentì che tutte le istorie amorose e appassionate non erano una fola di scrittori, come aveva sempre creduto. Per la giornata odorosa di maggio, nel giardino come alla campagna, nella casa magnifica, come in una capanna, ella restò attaccata a lui, con un abbandono della sua piccola persona al saldo braccio di colui che l'amava. Emma Lieti ebbe, negli occhi, nel sorriso, nella voce, negli atti, la manifestazione di un'anima tutta nuova e fresca, una bontà amorosa, una dolcezza amorosa, una fiducia amorosa, un'infinita tenerezza amorosa che giammai erano esistite in lei.
Quello che disse, quello che fece, ogni sua manifestazione portò il suggello divino che solo gli amanti riconoscono e che gli indifferenti invidiano: l'impronta indelebile della passione, unica e viva. Insieme, andarono lontani, nella campagna, e ella non temette di guastare le sue deliziose scarpette dalle fibbie antiche, né di impolverare le sue fini calze di seta donde traspariva il roseo del piede: madame la marquise rideva degli spini, della polvere, delle pietre, mentre il suo amante fremeva di gioia a quel riso e baciava la cara piccola donna sotto gli alberi frementi al ponente che veniva dal mare. Poi, le nuvole si addensarono un poco: il cielo si oscurò: essi, ridendo, amandosi, adorandosi, crearono un ricovero di una capanna dal tetto sfondato: ma ne uscirono subito, per correre sotto una grande quercia: pure, la pioggia li colse e tutta la veste di seta fu bagnata. Madame la marquise fu così lieta e così felice per quella pioggia che le rovinava la sua bella veste e batteva i suoi piedini in terra e il suo amante, in quell'ora, credette di morire d'amore!
Tutto un giorno, ella fu sua, come egli l'aveva sognata per anni e come ella non aveva mai supposto potesse essere, tanto si sentiva indegna e fallace e perversa. Ella fu nella sua massima bontà senza perfidie, nella massima sincerità senza ipocrisie, nel massimo abbandono senza restrizioni. Giovanni Serra vide, per ventiquattr'ore, nell'alba come nel meriggio, nel vespro come nella meravigliosa notte indimenticabile, una donna nata e germogliata come un magnifico fiore, per una intensa e breve ebbrezza. Quello che vi è di amore in un lungo spazio di tempo e in cento cuori diversi fu raccolto, dalla volontà del destino, in una sola coppa, perchè egli conoscesse di non aver vissuto e di non aver amato invano. La piccola bionda pallida e fine ebbe tutte le bellezze ed ebbe tutte le grazie, senza che mai una sola traccia dell'antica donna deturpasse la divina immagine di quelle ventiquattr'ore. Ah ella ricordava, madame la marquise, di aver ricondotto l'amante suo, nell'alba seguente, dieci volte in capo al viale rorido, donde egli doveva partire, e di avergli dieci volte, trattenendolo, ripetuto le parole di Giulietta, di averlo dieci volte scongiurato di restare, mentre egli partiva, pallido, col cuore schiantato: poichè ella giurava di amarlo sino alla morte, ma l'uomo intendeva che tutto era finito.
* * * * *
Ardevano i candelabri del salone. Crollata in terra, col capo perduto nelle pieghe della veste di seta, con le braccia prosciolte, madame la marquise piangeva, macchiando di lacrime la molle stoffa già bagnata dalla pioggia, nella gran giornata. Ella piangeva, inutilmente.
LA VESTE DI CRESPO
(Madame Héliotrope).
L'ultimissima e febbrile eccentricità di Luisa Cima era il giapponesismo: e minacciava di superare tutte le altre a cui si era abbandonata la giovane donna, nel suo insaziato desiderio di originalità. La penultima stravaganza era consistita in una immensa, mostruosa collezione di francobolli per cui Luisa Cima aveva delirato graziosissimamente un anno, spedendo agenti in tutta l'Europa, viaggiando lei, facendo la caccia al francobollo con l'ardore più selvaggio e uscendo vittoriosa dopo le lotte più accanite con gli altri collezionisti, più o meno deliranti come lei: infine, si era stancata e aveva dichiarato che nulla è più stupido di una collezione di francobolli ed è un cretino chiunque se ne occupa. L'ultima stravaganza, per citare così le due più prossime, era stato l'alpinismo: Luisa Cima aveva trionfato della sua naturale pigrizia e, vestita di bigio, con gli stivaletti ferrati, col bastone ferrato, con gli occhiali azzurri, aveva scalato prima le altezze più facili, poi le più difficili, aveva camminato sui sassi e sul ghiaccio, aveva dormito in tutti i rifugi e segnava sul suo taccuino una delle ascensioni più pericolose, quella delle Grandes Jorasses sul Monte Bianco: dopo di che, tornata a casa, col viso escoriato dal freddo, con gli occhi ammalati di oftalmia, aveva deposto per sempre l' alpenstock e si era dichiarata un'alpinista della pianura. Ella non visse normalmente, come tutte le altre donne, che un paio di mesi e l'esistenza le parve subito la cosa più sciapita, più scialba e più soffocante. Per sua fortuna venne a salvarla dalla monotonia e dalla volgarità, questo innamoramento subitaneo del Giappone, innamoramento appena nato diventato gigante, come accadeva sempre nel temperamento eccessivo di Luisa Cima e nella sua immaginazione sempre pronta al più amabile e al più innocuo delirio.
La cosa andò così. Tornò da un viaggio intorno al mondo un ufficiale di marina, Paolo Collemagno, amico d'infanzia di Luisa Cima, e fra gli altri doni esotici che le portò, vi fu una veste di crespo, giapponese. La veste era di un colore azzurrino molto pallido, come scolorito: e vi era tessuto dentro un disegno bianco e grigio di rami, di fiori e di uccelli, molto bizzarro, come appare alle fantasie europee tutto quello che esce dalle mani degli artefici dell'Estremo Oriente. La veste di crespo aveva la forma giapponese, perfetta: aperta innanzi, s'indossava come un accappatoio, incrociandosi poi, sul petto, con due risvolti, e riaprendosi un pochino, verso i piedi, facendo un po' di strascico rotondo e stretto, dietro. Alla cintura si serrava con una larga fascia che girava due volte intorno alla persona e che si annodava dietro, con un gran ciuffo. Ma le più strane e seducentemente strane erano le maniche, larghe, di una forma fra quadrata e triangolare, che si sollevavano come ali, che rialzandosi mostravano tutto il braccio nudo e che, riabbassandosi, coprivano le mani sino alla punta delle dita. Appena ebbe questa veste di crespo, Luisa Cima corse in camera sua a provarla: trovò che essa non rassomigliava a nessun'altra veste e che era, quindi, affascinante nella sua singolarità: riapparve a Paolo Collemagno tutta rosea di gioia, gli fece tre o quattro riverenze e gli chiese, con ansietà, se ella non sembrava una perfetta giapponese. Ora, Luisa Cima era una donna di media statura, mentre le giapponesi sono piccole: aveva dei piedini lunghi e snelli, mentre le giapponesi li hanno brevi e rotondi: era pallida, sì, non tendente al giallo: aveva gli occhi larghi aperti, non così curiosamente piegati agli angoli sotto l'arco curioso delle sovracciglia. Di giapponese, veramente, ella non aveva che i capelli nerissimi. Ma Paolo Collemagno la trovò così carina nel suo improvviso appassionamento del Giappone, ella girava intorno a lui con tanta grazia di movenze, che egli non esitò un momento a giurarle che ella era la più graziosa creatura che fosse mai apparsa in uno dei sobborghi di Yeddo, in una festa di notte, coi lucidi capelli neri legati in ciocche larghe, attraversati da spilloni e farfalle, portando in mano sospesa a un bastone, una lanterna di carta. D'altronde, da vicino e da lontano, Paolo Collemagno aveva sempre avuto un debole per la sua amica d'infanzia, Luisa Cima.
—Paolo, Paolo, trovami subito un nome giapponese,—ella disse, tutta fremente della sua novella eccentricità.
—Te lo troverò, non dubitare,—egli disse, ridendo, pigliandole le piccole mani bianche che escivano dalle grandi maniche e baciandole,
Luisa Cima lo trovò da sé, il nome. In un paio di settimane, con quella facilità e quella felicità che dà la fortuna, ella aveva riempiuta la sua casa di tutti i mobili giapponesi, utili e inutili, di semplice ornamento, quasi tutti, tanto è la loro fragilità e tanto il loro criterio è solamente quello del lusso. I suoi divani erano coperti da stoffe ricamate a draghi e a vegetazioni incoerenti: le pareti erano tese di rasi dipinti dove la gru, l'animale fantastico e pur familiare ai paesi del Sol Levante, appariva dappertutto: le sue tavole, le sue scansie, le sue mensole, ogni ninnolo piccolo, come ogni grande bronzo, ogni candelabro come ogni fermacarte, era del carattere più autentico. Ella beveva del tè in una tazzina di porcellana squisita e scriveva sovra quella carta che sembra fatta di un tessuto che mai si frange. In quanto alla veste di crespo, Luisa Cima non portava che quella e nulla era più piacente che vedere fra le grandi maniche che sembrano ali, le braccia rotonde e bianche. Paolo Collemagno che, ad ogni ritorno, voleva un po' più di bene alla sua amica, glielo diceva sempre: ella che anche lo amava, un pochino, lo udiva volentieri, ma purchè le parlasse del suo caro, del suo diletto Giappone. Pigliava per mano Paolo e, gravemente, lo conduceva ad ammirare tutti i paraventi dipinti ad acquarello, dove i fiori rosei del mandorlo mettono una eterna primavera, le doppie mensole di bambù, le scatole di lacca per i gioielli e per i guanti, quei grandi pugnali ricurvi o piuttosto sciabolotti nascosti in una guaina di avorio scolpita delicatamente, i vasi, immensi, dove appaiono processioni di piccoli galantuomini, dell'Estremo Oriente, verdi, azzurri e rossi sovra un fondo glauco e i piccoli vasi di Sahzuma sul loro fondo appannato di oro.
—Ti piace, ti piace?—gli domandava, nella sua gentile frenesia.
Egli sorrideva, contento di averle dato una febbre così mite e così interessante, e felice di vederla felice, poiché egli l'amava più di quanto credesse.
—E il nome, il nome?—le diceva, seguendola in quella vivificazione dell'esotismo più leggiadro.
—Lo troveremo,—rispondeva Luisa Cima.
Lo trovarono insieme, questo nome. Nelle sere di estate, presso la terrazza carica di gelsomini odoranti, essi avevano letto l'una accanto all'altro, con le teste che si toccavano, il libro di Pierre Loti: Japoneries d'automne. Era anche un ufficiale di marina, lo scrittore, e aveva lasciato nella patria delle persone care, eppure aveva amato il paese delle donne piccoline, degli uomini gialletti e delle casette che sì chiudono e si aprono come uno scatolino di domino. E il libro era anche così triste, poichè le due nostalgie vi formavano un insieme di tristezza; e Luisa e Paolo, talvolta, si fermavano, guardandosi, colpiti dalla medesima malinconia. Si amavano un poco, ambedue: ma non lo dicevano e ciò sembrava loro anche più delizioso, in quella libertà e in quella solitudine. E lessero anche l'altro libro giapponese di Loti: Madame Crysanthème, una storia di amore lontano, fine e malinconico, di una malinconia così sottile e così penetrante che Luisa e Paolo vollero rileggerlo, la seconda volta. E subito, vedendo che molti nomi di donnine giapponesi corrispondono a dei fiori, Luisa Cima trovò subito il suo: madame Héliotrope. Il fiorellino di così chiaro viola, di un profumo carezzevole nella sua acutezza, l'eliotropio, fu il suo fiore: ed ella non firmò altrimenti, e non volle che altrimenti la si chiamasse che col nome di Madame Héliotrope. Pure, a sentirselo dare da Paolo Collemagno, ella era presa, immediatamente, da una tristezza e mormorava, in quel francese che era stato sempre la sua lingua prediletta e che rimaneva prediletta:
— Pauvre madame Héliotrope!
Ora, accadde che Paolo Collemagno era diventato molto innamorato di lei e che, non potendo più tacerlo, glielo aveva detto: ell'aveva ascoltato questa confessione di un sentimento che già conosceva, con un misto di allegria e di mestizia. Anche ella era innamorata di Collemagno, ora più di prima. Prima, prima, quando eran giovanissimi ambedue, ella non aveva ceduto alla nascente simpatia, perchè un fidanzato o un marito che doveva partire spesso, che dovea rimaner lontano molto tempo, non le andava. Glielo aveva anche detto. O tutto o niente, in amore, come nelle altre cose della vita: ed egli si era rassegnato, tanto più che l'inclinazione non era ancora vivace, tanto più che egli adorava la sua carriera. Luisa Cima si era anche maritata, in un minuto di frenesia, con qualcuno che le pareva un uomo d'immenso talento nella politica, poichè ella, allora, non fremeva e non vibrava che per la politica. Aveva egli sofferto, colui che viaggiava nei mari lontani, quando lesse, in qualche giornale, la novella di quel matrimonio? Chi sa! Egli aveva chiesto ed ottenuto dei lunghi imbarchi, mentre, dopo tre o quattr'anni, il qualunque uomo politico di Luisa Cima moriva, a Roma, in tre giorni, colpito e atterrato da una di quelle febbri mortali; e Luisa Cima che era stata una moglie stravagantissima ma fedele, era una vedova dedita a una quantità di originalità consecutive, ma senz'amanti. Lentamente, ad ogni ritorno, le relazioni fra Paolo Collemagno e Luisa Cima si erano riannodate, e solo adesso, non più giovanissimi entrambi, egli le aveva parlato di amore con vivacità, con ardore. Anche essa lo amava; sorrideva, mostrando i suoi denti bianchi, dicendoglielo, ma i suoi occhi erano pieni di lacrime:
— Cher Paul, madame Héliotrope vous adore…. —gli diceva, nel suo preferito francese dove aveva meno timidità a parlare di amore.
Ebbene, ella strinse con Paolo Collemagno uno stranissimo patto, senza il quale ella non avrebbe mai consentito ad amarlo. Aveva letto nel romanzo di Loti Madame Crysanthème di quelle unioni coniugali, che gli ufficiali di marina celebrano con qualcuna di quelle donnine dai piccoli occhi sorpresi e dai piccoli piedi che non sanno camminare, e che durano tutto il tempo della loro dimora a Nagasaki o a Yokohama: dopo, la nave da guerra riceve l'ordine di partire, gli sposi si separano, per non rivedersi mai più, senza lacrime e senza sospiri. Non è questo il fondamento del romanzo di Loti, di un sapore così orientalmente mesto? Metà scherzando, metà sul serio, ella propose la medesima cosa a Paolo Collemagno, come se si trovassero laggiù, in una di quelle minuscole case di legno bianco, il cui solo ornamento è una stuoia intrecciata e una scatola di té; metà sul serio, metà scherzando, egli disse di no, ella non era mica una minuta e vezzosa e leziosa giapponesina, da prenderla e lasciarla dopo sei mesi; e subito, molto sul serio, ella andò in collera, dichiarando che non se ne faceva niente. Ella si sentiva madame Héliotrope sino alla punta delle unghie: e voleva esser come quelle: se no, no. D'altronde—e qui egli intese che vi era di segreto spasimo, in quel patto—ella non voleva legarsi per sempre a un uomo che doveva partire, che doveva restare lontano. Meglio prendere l'amore in ischerzo, allora, come al Giappone; meglio combinare un piccolo romanzo senza seguito. Così, più tardi, quando l'ordine di imbarcarsi sarebbe venuto, non avrebbero sofferto nè l'uno nè l'altra e ognuno avrebbe serbato un dolce ricordo.
Ahimè, egli fu debole e consentì, poichè l'amava moltissimo, poichè l'aveva sempre amata, nel fondo dell'anima, e aveva sognato solo di lei, nei lunghi anni di viaggio! Egli fu debole perchè l'adorava e perchè ella era irresistibilmente adorabile, e perchè, infine, egli si sentiva amato. Qual uomo, di fronte al compenso supremo, non accetta qualunque patto, col segreto desiderio, con la segreta speranza che il patto; per il destino, per la volontà istessa dell'amata, non si mantenga? Egli accettò l'amore come glielo offriva la deliziosa madame Héliotrope avvolta nella sua veste di crespo di un azzurro scolorito, coi suoi bei capelli neri rialzati a larghe e lucidissime treccie fermate da spilloni a farfalla: egli l'amava troppo, per non accettare tutto, dalla diletta donna.
Quanto tempo trascorse, così, nella casa dove l'arte dell'Estremo Oriente creava a colui che vi aveva viaggiato, tutto un sogno, tutta una visione lontanissima? Del tempo. Luisa Cima tenne lei, meglio, il patto, poichè ella amò con maggior convinzione e con maggior profondità, forse. Gli è che Paolo Collemagno, innamoratissimo come era di madame Héliotrope, non temeva la sua partenza. Egli sapeva che il patto di lasciarsi, di dividersi per sempre, senza che nè una lettera nè una notizia dell'altro arrivasse mai all'orecchio dell'una, non poteva esser mantenuto: egli sapeva che avrebbe sempre amato la sua prima ed ultima amica, da vicino o da lontano, e che sarebbe ritornato a lei, con tutto l'ardore represso nel cuore, più tardi e sempre. Non così madame Héliotrope! Ella pareva perfettamente convinta che la loro unione temporanea sarebbe finita fra non molto per non riannodarsi più, mai più; ella si prodigava tanto e parlava del suo avvenire senza Paolo, con una perfetta disinvoltura. L'amante sorrideva e lasciava l'amata al suo gentile e ostinato capriccio. Quando due si amano, nulla li divide, neppure la loro volontà: e il patto sarebbe caduto. Così, madame Héliotrope era più ardente, più appassionata, più intiera, nell'amore che doveva avere una tanto breve scadenza: mentre Paolo Collemagno amava meno, sapendo, di dover amar sempre.
E l'annunzio della partenza fra un mese, fu accolto da madame Héliotrope con un pallore mortale, quasi la vita le fosse venuta a mancare: mentre Paolo Collemagno, benchè triste, era rianimato da una speranza costante e invincibile. In quel mese cette pauvre madame Héliotrope, come si chiamava da sè Luisa Cima, fu di una dolcezza snervante, di una vivacità nevrotica, di un languore dolente e tetro, dove si riflettevano le alternative di un'anima che soffriva nella sua essenza più intima. Pallida nella sua veste di crespo azzurro pallido come lei, ella restava le giornate intiere accanto a Paolo Collemagno, senza parlargli, tenendogli la mano, fumando qualche sigaretta oppiata per calmare i suoi nervi, dicendogli di tacere ogni volta che apriva la bocca. Egli voleva parlarle d'amore, dirle che quel patto non sussisteva, che egli l'avrebbe portata con sè, l'immagine cara, lontano lontano, che sarebbe ritornato a lei, più innamorato di prima, giacchè egli l'amava per la vita e per la morte: ma appena egli cominciava questo discorso, ella si turbava talmente, che Paolo non osava continuare. Dei due, ella affettava una tristissima gaiezza, o una forzata indifferenza, o una glacialità tetra; mentre egli aveva la tristezza semplice di chi soffre, ma non è senza speranza. Madame Héliotrope tenne la sua parola. Ella non pianse e non sospirò: ma il suo pallore faceva paura, nella sua bizzarra veste di crespo che pendeva come un cencio, sul corpo abbandonato: e le povere braccia appena ebbero forza di sollevarsi dalle grandi maniche, per l'ultimo abbraccio.
— Fini, l'amour —ella balbettò, mentre egli spariva.
* * * * *
Il viaggio della corazzata dove era imbarcato Paolo Collemagno durò più di quello che egli credesse: ma in tutte le ore di pace, in tutte le ore di raccoglimento, egli pensava alla diletta donna, lasciata nella patria. Il viaggio si prolungò, molto. Che importa? L'uomo era innamorato e fedele e il patto non poteva sussistere. Non le scriveva, perchè ella non aveva voluto; ma l'amava, con tutta l'anima. Non aveva sue notizie, giacchè ella non voleva dargliene: ma l'avrebbe ritrovata al ritorno! Pure, fu un viaggio così lungo! A San Paolo, egli ebbe notizie. La letterina, scritta da una mano morente, sovra tenace carta giapponese, diceva: Cher Paul, cher Paul, cette pauvre madame Héliotrope se meurt de vous….
UN SUICIDIO
(Julian Sorel).
Egli saliva, lentamente, per via Nazionale, movendo i passi con fatica: e sul bel volto pallido, consumato, disfatto, vi era l'espressione di una mortale stanchezza. Andava con gli occhi bassi e le mani prosciolte lungo la persona, urtato, sospinto dalla gente che camminava in fretta ed egli pareva che nulla vedesse, nulla sentisse: solo, ogni tanto, squillava, passando, la cornetta del tram che ascende da piazza Venezia a Termini, e Julian Sorel sussultava a quel suono acuto, si voltava, si fermava e fissava coi suoi occhi smorti e dolorosamente stanchi il carrozzone, che traballava sulle ruotaie con un sordo fragore. Poi, Julian Sorel riprendeva la sua strada, sempre più lentamente, fermandosi a guardare le vetrine delle botteghe, i cui cristalli erano appannati dalla pesante umidità di quella mattinata di marzo: ma i suoi occhi avevano l'atonia, la stupefazione fredda di chi non vede. Pure, restò varii minuti dinnanzi a una mostra di giocattoli, guardando una fila di bambole dai capelli biondi come la stoppa, dagli occhi più azzurri di qualunque azzurro cielo, dalle guancie più rosee di qualunque rosa: bambole in camicia merlettata, o sontuosamente vestite di raso e di velluto, bambole impellicciate come grandi dame russe, bambole col loro corredo e con i loro mobili. Una nube di pianto venne a velare gli occhi aridi di Julian Sorel, innanzi a quella biondezza tutta ricca di stoffe, innanzi a quelle creature rosee cariche di adornamenti di lusso: ed egli dovette appoggiarsi allo stipite della bottega, per non cadere. Se ne staccò, più affranto di prima. Ma per quanto il suo passo fosse quello di chi non ha forza di raggiungere la meta o teme di raggiungerla, egli giunse all'angolo di via Torino, dove doveva voltare: si fermò, restò immobile, quasi incapace di giungere fino al bigio villino, che già si vedeva, fra la sottile fascia di verdi alberi che lo circondavano. Adesso, una espressione di spavento si era unita, sulla sua faccia, alla profonda stanchezza che ne trapelava: il grazioso villino sorgente fra i rami che cominciavano a fiorire, gli faceva paura. Fu in preda a mille esitazioni che egli attraversò quel breve spazio di strada; la sua mano, pigiando il bottone bianco del campanello elettrico, tremava. Un cameriere, ancora in giacchetta da mattina e con un grembiule di cotonina azzurra davanti, gli venne ad aprire:
—La signora dorme ancora?—chiese Julian Sorel, con una debole voce infranta, sperando tristemente di avere una risposta affermativa.
—No, Eccellenza: ha già chiamato da un'ora.
Gli aveva dato, è vero, dell' eccellenza, quel cameriere, ma lo aveva guardato con tanta freddezza disinvolta, si era avviato innanzi con tanta indifferenza, senza guardare neppure se Julian Sorel lo seguisse, che costui fremette di dolore, cogliendo subito con la sua sensibilità malata quella sfumatura di disprezzo, in quel servo. Julian Sorel aveva attraversato una grande anticamera e due salotti, ammobiliati col lusso più autentico, più austero, e più artistico e si era fermato nel hall, nel salone-serra, tutto coperto a cristalli e velato da sottili ma impenetrabili tende di garza orientale, tutto pieno delle piante più rare e dei mobili più ricchi e più bizzarri, distese sul pavimento le più morbide pelli e sorgenti da ogni vaso di rara porcellana di Delft o di Cina i fiori più esotici. L'aria vi era riscaldata, tiepida: e un assai strano e inebriante profumo era in quell'aria. Seduto in una poltrona di bambù, con i gomiti appuntati sulle ginocchia e il mento appoggiato alle mani, egli si abbandonava, direi, a tutto il suo accasciamento, senza levare il capo, senz'udire neppure il lievissimo passo di Gwendaline Harris; e la bionda e snella donna gli era avanti, lo fissava coi suoi freddi e brillanti occhi azzurri, più azzurri di qualunque cielo, passando le dita rosee e sottili nella piuma bianca volitante onde era guarnita la sua vestaglia di lana bianca, tutta ricamata di argento come una stola.
—Dunque?—chiese la voce fresca e nitida della donna.
—Oh Gwendaline….—egli mormorò diventando più pallido ancora, non reggendo a sostenere lo sguardo di quei glaciali occhi azzurri.
Ella si sdraiò, tutta bianca, in un divano di riposo bianco, coperto di cuscini di seta bianca così molli che vi affondò. Si vedevano i due piedini calzati di pianelle di velluto bianco con l'orlo di piuma e di calze sottilissime di seta nera, sottilmente ricamate di argento. La massa dei capelli biondi era sostenuta da un gran pettine, tutto seminato di minute perle, e due grosse perle bianchissime le pendeano dalle orecchie. Ella giuocava coi fili delle piume, pian piano, come un uccellino che liscia le sue piume. Il roseo della sua candidissima pelle era più veramente roseo di qualunque rosa.
—Dunque?—domandò, di nuovo, a Julian Sorel.
Costui non osò ancora rispondere, e la guardò con gli occhi preganti. Gwendaline crollò un poco la testa biondissima e si mise a giuocare coi suoi fulgidi anelli, che le coprivano le dita sino alla prima falange, sino all'indice, come a un idolo di Egitto.
—L'affare è andato a male?—chiese poi Gwendaline con la pura voce cristallina.
—A male,—egli rispose fievolmente.
—Per sempre?
—Per sempre,—egli ripetette come un'eco fatale.
Nessuna impressione di meraviglia, di tristezza, di pietà venne a turbare quel roseo volto di donna, quella nitida e serena fronte, quei gelidi occhi di cielo.
—Tu sei un uomo morto,—ella dichiarò, freddamente.
—Già,—disse Julian Sorel, terreo nel volto come un cadavere.
—Che sei venuto a fare, qui? Questo non è un cimitero e nessuno dei miei cofani antichi può servirti da bara,—disse Gwendaline, senza collera, alitando sopra un suo anello di opale per farlo ridiventare lucido.
—Ero venuto a salutarvi per l'ultima volta.
—E ieri sera, non ti avevo detto addio? Non lo hai capito?
—Non lo avevo capito: e avevo la speranza del banchiere Colzado, stamane….—egli mormorò, umilmente.
—Speranza inutile: ai morti nessuno dà denaro.
—Hai ragione,—sentenziò lui, a bassa voce, a capo chino.
Ella lo sogguardò stranamente. Pareva che misurasse la morale profondità di quell'abbattimento e che volesse sapere di che fosse capace quella immensa debolezza. Egli taceva, perduto, esausto.
—A che cifra ascendono i tuoi debiti?—ella domandò, a un tratto, con la voce fredda e limpida.
Julian Sorel alzò la testa e guardò Gwendaline, trasognato: quasi non avesse udito, o non avesse inteso.
—A che cifra ascendono i tuoi, debiti?—ella replicò, dominandolo coi suoi azzurri occhi glaciali.
—Non lo so…. non so…. non me ne parlare,—egli pregò fremendo, passandosi una mano sulla fronte.
—Tu devi duecentosettantamila lire, ho fatto io il conto.
Parve che le sillabe di questa dura frase battessero tutte sul cervello dell'infelice, perchè il suo volto si decompose.
—E non hai un soldo per pagare; e non hai più nessuna risorsa, le hai esaurite tutte; e non hai nessuna speranza di eredità, perchè ti sono morti tutti i parenti, nessuna speranza nel tuo lavoro, perchè non sai lavorare, sei stato un uomo dato all'amore e al piacere, nessuna speranza di affare, di speculazione perchè fra un mese, fra una settimana, tu sarai un fallito, un truffatore.
—Gwendaline, se mi vuoi bene, taci, taci….
—Io non ti voglio bene,—ella proclamò, ma quietamente.
—Se me ne hai voluto, taci, non mi uccidere tu….
—Io non ti ho mai voluto bene,—ella insistette a negare, serrando fieramente le belle labbra rosse e fresche.
Julian Sorel la guardò, con tale una novella disperazione negli occhi che la superba donna sorrise di orgoglio.
—Qualche volta…. mi hai detto che mi volevi bene….—egli balbettò.
—Ho mentito, naturalmente,—spiegò ella,—e tu sapevi bene che mentivo. Ti faceva piacere che io mentissi, ecco tutto.
—Sì, è vero, la tua bugia era la mia più grande felicità.
—……e così,—ella concluse,—tu hai speso tutto quello che possedevi e tu hai fatto duecentosettantamila lire di debiti per pagare questa bugia. Per questa bugia sei alla morte.
—Alla morte,—ribattè lui, aprendo le braccia, col gesto dell'ultima desolazione.
—Era una dolce e bella bugia, diciamolo,—riprese Gwendaline, incrociando i suoi piedini leggiadri, calzati finemente, delicatamente di nero e di bianco,—e vale la pena di morire per essa. Non sperare che i tuoi creditori ti lascino tregua! Tu devi fra cinquanta e sessantamila lire di denaro, a Giacomo Levi, a Francesco Sangiorgio, a Giovanni Lamarca, tuoi amici, che ti sei inimicati per sempre e che ti perseguitano assai peggio dei due strozzini, Pietro Toscano e Angelo Cabib a cui devi meno, molto meno, ma gli interessi sono saliti così in alto! Tu devi, poi, ai fornitori di Parigi, a Worth, a Morin, a Redfern, tutti vestiti che sono serviti per me e ti han fatto credito, perchè avevi speso da loro la metà della tua fortuna: devi ai sarti italiani, a Bellom, a Pontecorvo, alle sorelle Borla, alla Tua; devi a tutti i negozi di gioielleria, a Marchesini qui, a Franconeri di Napoli; e devi a tutti i negozianti di mobili e di ninnoli eleganti, a Janetti, a Cagiati, a Maria Beretta, devi anche a Guglianetti di Milano; tutti costoro ti han fatto credito, perchè avevi tanto e tanto comperato, prima, da loro! Ma vogliono il loro denaro, e hanno ragione; perchè lo dovrebbero perdere?… Sono della brava gente!
—Gwendaline, Gwendaline, non essere senza carità, taci, taci, io muoio….—gridò lui, con gli occhi stravolti dal dolore acutissimo.
—Sai quale è il bilancio della bella e dolce bugia?—continuò ella, come se non lo avesse udito.—Un milione e ottocentomila lire. Tu, m'immagino, non hai neanche il denaro per comperare una rivoltella….
—Non l'ho,—egli gemette, dal suo abisso di dolore.
—Un milione e ottocentomila lire: e dover anche ricorrere a un suicidio economico, a un suicidio poveretto, a quello degli straccioni, delle serve tradite, al fiume, al Tevere!—mormorò ella, con un vago sorriso, come se parlasse a sè stessa.
Egli levò i suoi occhi dolorosamente stupefatti, su lei. E Gwendaline comprese il senso di quella stupefazione.
—Tu, adesso, dici fra te stesso, che io sono un mostro di crudeltà….
—Non dico nulla….—balbettò la debolissima creatura.
—Lo dici. Hai torto. Facciamo il nostro bilancio, poichè non dobbiamo vederci più. Tu, che hai voluto da me?
—Che mi volessi bene, che io potessi essere il tuo amante, il tuo amico, il tuo servo….
—E io che ti ho chiesto?
—Niente.
—E tu mi hai dato tutto, per farti amare o perchè io fingessi di amarti. Ecco il bilancio. Ora io, per farti vedere che non sono crudele, non posso darti che un solo savio consiglio: ucciditi. Avevi una fortuna, non l'hai più; avevi un'amante, non l'hai più; avevi un onore, esso è naufragato: sei un'anima fine e molle, un temperamento sensibile e debole, un cuore tenero e sentimentale e hai, insieme, un bisogno di godere, di esser felice, che è il tuo maggior bisogno; non puoi, dunque, combattere contro la miseria, contro l'abbandono, contro il disonore. Ucciditi, ucciditi, non ti puoi salvare diversamente. A che vivresti? Chi si uccide, paga i suoi debiti: chi si uccide, non ha più bisogno nè di onore, nè di amore, nè di denaro: chi si uccide, conquista la pace suprema. Non hai più nulla da fare, nel mondo; vattene via, nella fossa comune, ivi non sono creditori, nè appariscono più i divini e dannati occhi azzurri che furono la causa della tua morte.
Lampeggiarono, gli azzurri occhi, a queste ultime parole. Julian Sorel li guardava e ne beveva il veleno di morte, Julian Sorel udiva la chiara e ferale voce e ne sentiva, al cuore, le mortali, le lugubri vibrazioni.
—Sono due mesi che ho deciso di uccidermi, quando non vi fosse più rimedio,—egli disse, fiocamente.
—Hai aspettato troppo: va, va a buttarti nel Tevere,—diss'ella, guardandolo, ipnotizzandolo, dandogli la suggestione dell'amore, del dolore, del terrore.
—Vado,—disse Julian Sorel e si levò.
Ma non fece un passo. Ella lo guardò ancora, per vincerlo intieramente nella sua infinita debolezza.
—Va, va, sarai più felice, morto,—gli disse ancora, Gwendaline.
—Dammi un bacio,—chiese egli, umilmente, inginocchiandosi innanzi al divano dove ella giaceva sdraiata, per non darle il fastidio di levarsi.
Ella si voltò leggiermente, all'uomo inginocchiato: gli prese la testa fra le mani sottili e ingemmate e gli posò le belle e fresche labbra, sulla fronte. E a lui parve che, ancora, in quel lungo bacio, le labbra di Gwendaline gli avessero detto:
—Va, va, sarai più felice, morto.
* * * * *
Scendendo, per via Nazionale, Julian Sorel andava alla morte. Non trascinava più a stento le sue gambe stanche, ma non correva neppure; non si fermava più, a certe vetrine, ma gli occhi che fissava sui viandanti, avevano la stessa dolente espressione di chi non vede; non trasaliva più, quando squillava la cornetta del tram, ma il pallore del suo volto era diventato livido. L'uomo agonizzante aveva ricevuto la estrema ferita: ma gli era anche stata indicata una via ed egli vi andava, senz'affrettarsi, ma fatalmente, alla luce azzurrina e glaciale di due occhi divini che lo conducevano, al suono funebre di una cristallina voce muliebre che lo accompagnava, alla carezza di due mani sottili sulle tempie e nei capelli, all'ultimo bacio dalle labbra parlanti, ultimo bacio e ultime parole, penetrate nel cervello, nell'anima, nel cuore, in tutto l'essere. Adesso, camminando, Julian Sorel pensava soltanto in quale punto del gran Tevere egli si dovesse andare a buttare: Gwendaline Harris non glielo aveva detto. Non a Ripetta, poichè il ponte è troppo frequentato di giorno e vi sono le imbarcazioni dei canottieri e il suicidio vi fa fiasco quasi sempre: non all'Albero Bello, perchè un posto prediletto alla morte e vi è una barca di salvataggio; non a Ripa, perchè vi sono troppe tartane cariche di vino di Sicilia; dove, dunque? Si rammentò una sera di agosto, in cui, di passaggio per Roma con Gwendaline Harris, venendo da Vienna e andando a Sorrento, erano andati a Ponte Molle, borghesemente, come tutti coloro che sono costretti a restare in Roma nell'estate: e avevan passeggiato, su e giù, lungo il fiume, verso i vasti prati di Tor di Quinto, verso la ombrosa via Angelica: Gwendaline era vestita di molle seta bianca, come sempre di bianco, e aveva un gran mantello leggiero di lana bianca: sì, sì, egli sarebbe morto a Ponte Molle, verso Tor di Quinto o per la riva di via Angelica, era ancora lei che gli suggeriva questa idea. Era a piazza Venezia, quando si decise. E prese per il Corso, sulla diritta. Qualcuno lo salutò, egli non riconobbe chi fosse e passò innanzi: varii lo fermarono, eran creditori di piccole, di grandi somme e la domanda variava, ora brutale, ora piagnolosa, ma insistente, ma implacabile, lo avean saputo ricco e gli avean fatto credito, e credevan che avesse denaro ancora, credean che si negasse per mala volontà. Tutta la traversata del Corso fu una lunga tortura, per lui fu il tormento immeritato, ingiusto, poichè, infine, egli andava a morire, di questo passo, fra un concerto di voci, di parole, di frasi che gli dicevan, tutte, cercandogli i denari:
—Va, va a buttarti nel fiume: sarai più felice, morto.
Tanto che giunto verso piazza del Popolo, fu preso, nella mitezza sentimentale della sua debole natura, da un furore di morte. Andò contro un pesante omnibus di albergo che correva, per farsi arrotare: ma il cocchiere lo schivò bestemmiando, gridando. A quell'ora, in quella giornata umida e triste di marzo, fuori porta del Popolo non vi era quasi nessuno: e quella crescente solitudine lo calmò un poco, mentre si metteva per il fangoso marciapiede che per la via Flaminia, lungo i colli Parioli, porta a Ponte Molle. Nessuno nel piccolo caffè dove si fermano i cocchieri da nolo e i carrettieri; nessuno, nelle piccole osterie che pullulano ogni cinque passi, sino alla metà di via Flaminia; nessuno, pei campi deserti, tutto un deserto di mota, dove cresce a stento qualche alberetto nerastro. Egli pensò, se avesse dovuto scriver qualche cosa prima di morire, una spiegazione, un saluto: e un novello fiotto di disperazione lo soffocò, non aveva nessuno, nessuno cui scrivere, nè un parente, nè un amico, nè una conoscenza, non lo avrebbero rimpianto e maledetto che i suoi creditori: aveva vissuto come un gaudente, solo per l'amore, pel lusso, pel piacere, e moriva così, per queste cose, portando nell'anima come ultimo addio le parole di Gwendaline Harris per cui aveva speso un milione e ottocentomila lire, le parole con cui gli diceva di uccidersi, perchè sarebbe stato più felice, morto. Nessuno, nessuno, non la madre, non una sorella, non una fidanzata, non un amico, niente, niente, non una lacrima umana, su lui: e l'estrema scena della sua vita nella gran solitudine, nel gran silenzio della campagna romana, in quel tristissimo giorno di marzo, camminando e affondando nel fango, era il degno compimento della sua esistenza.
A un tratto, sentì un urto contro una gamba: si voltò. Gli veniva dietro un cane e lo guardava. Era un bruttissimo, sporchissimo e magro cane, che pareva avesse addosso dieci giorni di vagabondaggio e di fame, pel fango della campagna; un cane che faceva schifo. Donde era sbucato? Julian Sorel non avrebbe potuto dirlo. Non vi erano più case, sulla via Flaminia: forse era sbucato, inopinatamente, dalla viottola dell'Arco Scuro che porta alla piana dell'acqua Acetosa. Gli veniva dietro, forse, da qualche tempo: e guardava Julian Sorel, coi suoi buoni e dolci occhi di cane.
—Passa via,—gli disse costui sgarbatamente.
Il lurido cane si fermò un minuto: poi, ricominciò a seguire Julian Sorel.
—Passa via,—e gli diede un calcio.
Il povero cane prese il calcio in una spalla e guaì dolorosamente: ma sempre guardando Julian Sorel, lo seguì ancora. Quello si fermò, turbato assai. Perchè lo seguiva, quel cane, così ostinatamente, anche dopo essere stato battuto? Perchè lo guardava con quegli occhi che parevano umani, tanto esprimevano la pietà e il dolore?
—Sarà un cane perduto e affamato e cerca un padrone,—egli pensò, mentre stava fermo a contemplare quella bestia singolare.
Anche il cane si era fermato: e teneva il capo basso aspettando.
—Va via, va via,—gli disse Julian Sorel,—io ho da morire.
La bestia levò il capo e guardò, con quegli occhi di animale caritatevole, povero e dolente. Tutta l'anima di Julian Sorel tremò, di sgomento, di stupore. Ma chi, chi lo guardava, in quel tenero sguardo animalesco, quale novella ossessione di pietà veniva a dargli un ultimo dolore, un dolore fatto di tenerezza umile, di struggimento amarissimo e dolcissimo?
—Ho da morire, ho da morire,—egli disse, parlando a quella bestia come a un uomo,—sarò più felice morto.
E si avviò, di nuovo, verso Ponte Molle, reprimendo tutte le lagrime di una ignota tristezza che gli salivano agli occhi, reprimendo l'acutezza di un misterioso rimpianto. Il cane lo seguiva, passo passo: e Julian Sorel lo udiva, dietro a sè, camminare fedelmente, sudicio fino alla nausea, brutto fino al disgusto, mezzo morto dalla fame e dalla fatica, ma deciso a seguirlo, fin dove voleva andare l'uomo che andava alla morte. In preda a un invincibile turbamento, fra una bizzarra novella disperazione e fra un bizzarro disfacimento di tutta la sua volontà, Julian Sorel fremeva, udendo quel passo di animale, vigile, quasi inflessibile nella sua affettuosa persecuzione: avrebbe voluto fermarsi, batterlo, buttargli delle pietre, ucciderlo a calci nel ventre, ma l'idea di affrontare quei teneri occhi canini così impregnati di umana pietà, lo spauriva. Ah certo, certo, qualcuno lo guardava per quegli occhi! Non osava fissarli, quegli occhi di animale quasi che essi gli parlassero di tutte le bontà umane che egli aveva disdegnate, di tutte le sofferenze umane che egli aveva disprezzate, di tutte le umane lacrime che per lui erano scorse invano: non osava fissarli, quasi che vi si trovasse, in essi, il rimprovero ignoto, mistico e austero che fa la Vita a chi non seppe conoscerla e non seppe, quindi, meritarla. Chi lo guardava, per quegli occhi così profondi di compassione, chi piangeva ancora, su lui, sulla esistenza di bruto capriccioso e gaudente che egli aveva vissuta, chi piangeva su quella nobile anima trascinata nella vergogna da un amore impuro? Ah quella bestia non se ne voleva andare, lo seguiva, lo seguiva sino al suo ultimo passo, nessuna forza umana avrebbe potuto liberarlo da quella compagnia.
—Venga, dunque, a vedermi morire,—egli pensò.
Ma a Ponte Molle incontrarono tre carretti di pozzolana che venivano lentamente verso Roma, al fischio malinconico dei burberi carrettieri: e verso Tor di Quinto parve a Julian Sorel che il paesaggio fosse troppo largo, troppo aperto per uccidersi, buttandosi nel fiume. Meglio la grande e sinuosa via di porta Angelica, che costeggia, sotto i grandi alberi, il vasto fiume giallo pieno di gorghi e i prati alla Farnesina.
Sarebbe disceso sulla proda e tacitamente, cadendo più che buttandosi, senza nessun rumore, sarebbe morto nel profondo e truce fiume. Ma il cane era dietro a lui, lambendogli le gambe, ma il cane avrebbe latrato vedendolo cadere nel fiume, ma il cane si sarebbe forse buttato nel fiume per salvarlo, ma il cane non voleva che egli morisse, ecco l'idea terribile sorta nello sconvolto cervello di Julian Sorel. Ed allora, quasi che quello sconosciuto animale fosse un uomo, quasi che egli potesse intendere, tutto, Julian Sorel, nella via deserta e fangosa, sotto i grandi alberi neri e nudi, innanzi a vasto e giallo fiume, gli gridò, desolatamente:
—Io debbo morire, io debbo morire, ho duecentosettantamila lire di debiti e non posso pagare, debbo morire, lasciami morire….
La povera bestia, sordida e laida, guardava Julian Sorel, cogli occhi spiranti pietà, come velati dalle lacrime: non una voce, non un passo per la campagna ampia e fumante umidità dal fango dei campi: non una voce, non una barca, sul largo fiume dai gorghi esiziali: soli, quell'uomo e quel cane. Quello sguardo! Non diceva forse, a Julian Sorel, quell'umile sguardo d'animale che la morte non salva dal disonore, che è più onesto vivere scontando la pena del grande errore anzi che rifugiarsi nella tomba? Chi, chi, glielo diceva, in quegli occhi e nella sua coscienza? Tutti i suoi che erano morti, alla loro ora, quietamente, toccati dal destino, ma onorati, ma ridenti di esser rimpianti, glielo dicevano, forse, in quegli occhi: tutti quelli che lo avevano amato e che erano lontani, e che non potevano salvarlo, adesso: tutti coloro che egli aveva amato, nell'infanzia, nella giovinezza, dieci anni, un giorno, un'ora, costoro, forse, o le loro ombre amate, o le loro lontanissime tenere voci o i loro occhi buoni che lo volevan salvare, o le loro mani carezzevoli che lo volevan trattenere: costoro, in quello sguardo! Vinto da una immensa debolezza, Julian Sorel si lasciò andare sulla proda arenosa del fiume, nascondendo la faccia nella umida arena, con le braccia aperte, singultando lievemente, ogni tanto, ma senza piangere. Il cane si era seduto accanto a lui, aveva posato il muso infangato sulle sporche e scarne zampe: e per tutto quel tempo in cui Julian Sorel giacque, lungo disteso, nella fatalità della Vita e della Morte che si combattevano la loro preda, la povera bestia non si mosse, tenendo fissi i suoi occhi sull'uomo che spasimava. Spasimava la debolissima creatura che aveva sempre vissuto pel sorriso del minuto, senza volontà, senza fede, senza bontà: spasimava, l'anima fiacca, l'anima vinta, l'anima immeschinita dalle piccole idee e dagli impuri desiderii: spasimava la creatura che aveva gittato via la parte nobile di sè, e che temeva il castigo, e che voleva fuggire il castigo: spasimava! Correvano le acque torbide del fiume micidiale che avean portato alla deriva tanti cadaveri; taceva la feral campagna romana immobile sotto l'umido fiato maligno del marzo; cadeva il giorno. Il cane, pian piano, lambì la mano aperta di Julian Sorel: quella carezza indistinta fu come un soffio, come una voce, come una parola, fu come l'apparizione di un fantasma. Il corpo dell'uomo disteso ebbe un gran sussulto, e il cuore, veramente, gli si franse nella tenerezza, nel pentimento, nella pietà, nel desiderio dell'umano e del divino castigo. Poi, nel crepuscolo gelido, tornò verso Roma, lentamente: fra la via Angelica e la via Trionfale, il cane disparve, nell'ombra, e Julian Sorel continuò la sua strada verso Roma, verso il castigo.
IL CONVEGNO
(La piccola Maria).
I.
Due o tre volte, durante il pranzo, Paolo, guardando gli occhi dolci e maliziosi della sua ospite mentre essa lo guardava, aveva avuto un subitaneo moto di stupore, immediatamente represso. Gli era parso di rivedere gli occhi di Maria nella loro perfida dolcezza e nella loro trionfale malizia. Ma la cortese signora ospite si rivolgeva agli altri suoi convitati e i suoi occhi mutavano di espressione, si facevano pensosi, o schiettamente ridenti, o serenamente indifferenti nella gentilezza esteriore: e Paolo rientrava in sè, fuggito il lieve e pure sorprendente inganno. Tre volte, egli ebbe la illusione che gli occhi di Maria gli fossero riapparsi: e alla terza volta, nel salone dove si conversava, dopo il pranzo, lo scintillìo di quello sguardo fu così teneramente dolce e così vividamente malizioso, che egli non resistette e attraversò la sala, per raggiungere l'amabile donna che l'ospitava, non sapendo bene quello che le avrebbe detto, nell'intimo turbamento che lo aveva invaso. Quando le fu vicino, tutto era finito: gli occhi della signora avevano assunto un'aria placida e lo sguardo aveva una limpidità dove l'anima mite della donna si rivelava. Nulla più: si era ingannato. Restò ancora qualche tempo, muto, lasciando discorrere gli altri, aspettando come una riapparizione. Ma non vi fu: si era perfettamente ingannato. Prese commiato, con quel suo fare rispettoso ma distratto, con quella attitudine di uomo che, assorbito da un'idea, non perde mai l'equilibrio della gentilezza. Un amico che andava via, anche lui, lo voleva condurre a teatro: si rifiutò di andarci. Si separarono sul portone, in piazza Vittoria. L'amico risalì per la via di Chiaia: Paolo se ne andò per via Caracciolo, camminando piano. Nel tempo in cui Maria lo amava, erano andati spesso, molto spesso, per quella strada che, nelle ombre della notte, è cara agli amanti poetici e appassionati. Si erano anche baciati, nell'intervallo di penombra fra un lampione e un altro: ella, non lasciando il suo braccio a cui si legava, incrociando le manine lunghette e magrette, levandosi in punta di piedi, poichè era molto piccola, per arrivare colle molli labbra un po' pallidine, sino alle labbra di lui. Talvolta, mentre il doganiere si allontanava, sorvegliando la banchina contro i contrabbandieri, ma non contro gli amanti, Paolo si voltava, si chinava un po' e lievemente baciava i capelli di Maria, nerissimi, così morbidi, così fini, così lucidi che sembravano bagnati. Per una consuetudine triste, ora che Maria non lo amava più, egli aveva preso la nota strada, fermandosi ogni tanto, con gli occhi chini a terra, ricordando ancora qualche episodio brevissimo, di un nonnulla, ma che nell'anima dell'amante abbandonato assumeva una grande importanza. Egli non guardava punto il mare: si rammentava che ella aveva avuto sempre una seria antipatia pel mare, di piccola persona paurosa e freddolosa, e che aveva finito per ispirargliela, a lui, uomo, forte e coraggioso. Maria era scomparsa: ma in lui era restato tutto quello che ella ci aveva voluto mettere.
Verso l'angolo del Chiatamone, egli ebbe uno schianto. Una coppia di amanti scendeva dalla più popolosa via di Santa Lucia e veniva verso le care ombre di via Caracciolo. Dovevano essere una sartina e uno studente: non si tenevano a braccetto, ma per mano, con le dita intrecciate, giovenilmente. Un po' intimiditi dalla presenza di Paolo, essi si lasciarono, camminarono pian piano, come due passeggiatori quieti e freddi, discorrendo semplicemente: ed egli, guardando la donna, sotto la luce del lampione non vide che il pallore del suo volto e trasalì dolorosamente. Maria era pallidissima, come se mai una goccia di sangue fosse venuta ad animare quella carnagione: proprio esangue. Quante volte, nell'amore più alto di temperatura, nelle loro grandi giornate, egli si era sgomentato, così, di quel volto esangue che nessuna emozione di tenerezza, di entusiasmo, di languore coloriva, giammai! Il bacio più impetuoso rendeva più pallido il posto dove le labbra lo mettevano, sul viso esangue: e un morso vi poteva lasciare un livido, mai mettervi un rossore. Egli si voltò, mentre i due amanti allontanatisi ridevano fra loro: di lui, certo. Egli aveva sempre riso degli uomini che incontrava, in quelle sere, quando Maria lo amava.
Quell'incontro aveva dato un'acuzie di spasimo al suo sonnolento dolore. Così era, per lui, sempre, lo spettacolo dell'amore altrui, da che ella lo aveva lasciato, per sempre. Tutta la sua vita, dopo l'abbandono, dopo il periodo violento del furore e della ribellione, non era che un voler addormentare la sua segreta tortura. Vincerla non poteva, questa tortura, e nessuna persona, nessuna cosa lo avrebbe potuto: egli non poteva che toglierle l'asprezza, cullandola, tenendola chiusa in sè, preziosamente chiusa, e carezzandola, e dandole il beveraggio che fa sonnecchiare, che fa dormire, ma che non può togliere il senso e il sentimento. Colui che ha un dolore fisico, intollerabile, finisce per ricorrere alla morfina: egli sa bene che la morfina non è la morte del dolore: egli sa bene che il dolore rimane, quietato, ma esistente, ma vivo, ma pronto a trafiggere: pure, la morfina è il sonno molle dove la potenza del male si attutisce. Paolo sentiva, in fondo al suo spirito, dormire questo spasimo, e, già debole innanzi alle furibonde e mordenti sofferenze dell'abbandono, tentava di non risvegliarlo, che quando gli era impossibile di vincere sè stesso. Ma se, in una giornata, egli si procurava qualche ora di torpore spirituale, andando fra la gente, parlando, fumando, fingendo di vivere, fingendo di fare tutto quello che fa la gente che vive, bastava il più piccolo incidente, perchè il suo dolore uscisse vividamente dal sopore e gli schiantasse il cuore: bastava il più umile aspetto dell'amore, perchè egli sentisse tutta la crudezza della sua insanabile ferita. Quanto aveva cullato il suo tormento, lassù, in quel pranzo dove tutti sorridevano e ridevano, dove anche lui avea sorriso, sonnambulo della vita! Ma tre volte aveva visto lampeggiare gli occhi di Maria, o gli era parso, in quelli della padrona di casa: ma la passionale consuetudine lo aveva portato per via Caracciolo, dove, si erano amati e dove si erano baciati: ma aveva incontrato due amanti felici ed essi avevano riso di lui, che era solo, ed egli era veramente così solo, come mai nessun uomo fu solo al mondo!
Adesso, in tutta la sua sensibilità risvegliata e fremente, mentre risaliva per Santa Lucia e per Toledo, andandosene alla sua casa, abbassava gli occhi, ogni volta che incontrava una donna, per non soffrire tanto della sua solitudine e del suo abbandono. E il rientrare a casa, ora che strideva in lui la sottile e permanente angoscia di un amore per sempre perduto e infinitamente desiderato, sempre, con tutti gli ardori dell'anima e dei sensi, gli fece spavento. Pensò, disperatamente, se non fosse meglio tentare di tradire sè stesso e il suo postumo amore, cercando una donna presso cui finire la serata, Chérie, la ridente Chérie. Ma gli tornò in mente tutto l'orrore del primo tradimento che egli aveva tentato, con Chérie, per cercar di guarire, per un giorno o per sempre, della sua inutile e inefficace passione per Maria che non lo amava più. Ricordò tutto il falso entusiasmo, tutta l'amarezza dei baci, tutta la profonda nausea dell'ora amorosa che gli pareva mai finisse, tutto il disgusto di sè stesso e la pietà per quella poveretta che sapeva così graziosamente ridere e donarsi, tutto il ribrezzo per la violazione che aveva commessa, non rispettando neppure, miserabile e vile uomo, l'altezza di un amore che può essere disprezzato, ma che resta inviolato e puro. Ah, come più seducente, più suggestiva, più affascinante, dopo il tradimento con la bionda e sempre ridente Chérie, gli apparve nella mente Maria piccola, dal volto lunghetto ed esangue, dagli occhi tutti dolcezza e tutti malizia, dalle labbra rosee ma pallide, dai capelli neri, fini, che formavano un mucchietto lucido, come bagnato: come essa lo riprese, subito dopo l'ora amorosa, più vivacemente, nei ricordi dei sensi, nei ricordi delle consuetudini, in modo da renderlo folle di desiderio, nella solitudine della sua stanza, donde Chérie, che nulla aveva compreso, era partita, portandosi via dei dolci e delle rose, tutta felice, ridendo con sè stessa, nelle scale! Come egli si pentì, bruciando di amore, di avere ridestato l'uomo in sè e come desiderò di ritornare alle dolorose e solitarie contemplazioni spirituali, dove, almeno, non soffriva anche nel sangue vivificato ed eccitato e non tendeva le braccia a una vana piccola ombra che gli sfuggiva! Tradire nuovamente? No, gli bastava il veleno della prima e inutile pruova: sentiva che non avrebbe neppure la forza di mentire, come disperatamente aveva fatto la prima volta, a Chérie. A che avvilirsi di nuovo? Il suo cuore e le sue fibre si sarebbero ribellati alla violazione, adesso. Il tempo che era trascorso, poteva rendere sonnolento il suo dolore: ma lo aveva reso inguaribile e inconsolabile. Tutto era inutile. Andò a casa.
Giunto colà, nella sua stanza da studio che era anche il suo salotto, egli fece accendere il fuoco nel caminetto dal suo servo che l'aspettava. Prese dei libri, dei giornali, delle riviste e le ammucchiò innanzi alla sedia a sdraio, dove leggeva, accanto al fuoco: si fece portare del tè, del cognac, delle sigarette: fece chiudere tutte le imposte ed abbassare tutte le tende. La stanza, così, era raccolta e calda e confortante. E, rimasto solo, in quel momento terribile quando, nella casa, nella stanza dove sempre si vive, dove sempre si pensa, dove tutto è segreto, poichè si è soli e niuno vede e niuno ascolta, in quel momento terribile in cui il cuore si apre, stanco della soffocazione impostagli dal mondo, egli tentò di non ascoltare il suo cuore, egli tentò di non sentire e di non pensare, forzandosi a operazioni macchinali, fumando, scorrendo dei fogli, preparandosi il tè, scegliendo la sigaretta più morbida, gittandone una, accendendone un'altra. Così, l'urto atroce del primo minuto fu respinto da lui: e il suo primo nemico, che era il suo dolore, tacque, per poco. Ma le sigarette, tre o quattro, caddero in cenere, sul portacenere di metallo cesellato: ma il tè si raffreddò nella tazzina giapponese: ma egli non distese più la mano alla fialetta di cristallo dal coperchio di argento, dove era il cognac: e i giornali, le riviste, i libri giacquero sparsi, ai suoi piedi, sul tappeto. Non potea nè leggere, nè fumare, nè ubbriacarsi di cognac, per più di mezz'ora, e non erano che le undici e mezzo e non aveva sonno. Sdraiato sulla lunga poltrona, abbandonato sui cuscini che aveva ammucchiato sotto le sue spalle e sotto la sua testa, egli si mise a guardare un orologetto di bronzo antico, delicatamente cesellato, posato sovra una mensoletta, presso a lui. Era un orologetto minuscolo, che egli aveva cercato di mettere in maggior evidenza, appoggiandolo sopra una piccola base di velluto azzurro cupo; e aveva, il picciolo orologio, di un bianco latteo, il quadrante e le ore segnate in caratteri azzurri. Era un dono di Maria: l'unico dono! Quando glielo aveva dato, ella lo amava; e aveva aggiunto, all'orologetto piccolo come ella era piccola, un pezzettino di carta su cui era scritto, col bizzarro caratterino che sembrava fatto di tante manine che si tenevano fra loro, queste parole: Siano azzurre tutte le tue ore! L'orologetto era sempre lì, con le brevi sferette che correvano sulle ore azzurre, ma l'augurio mancava. Paolo lo portava sempre, nel suo portafogli, questo pezzettino di carta e lo rileggeva, ogni tanto, nella giornata: ma un giorno, maliziosamente e dolcemente, quasi senza che egli se ne accorgesse e quasi senza che egli potesse opporvisi, Maria glielo aveva ripreso. Così, pian piano, Maria gli aveva ripreso tutte le sue lettere e i suoi biglietti; e due rosette appassite, che erano la più viva memoria del loro primo convegno; e un nastro scioltosele dai capelli, che egli aveva portato via e che avea baciato, tutte le notti, tornando a casa, e tutte le mattine, levandosi, come un bimbo, egli che aveva trentasette anni, come un devoto della Madonna, egli che non credeva. Non aveva più nulla, di lei: nulla. Crudelmente e ostinatamente, ella si era ripreso tutto: ed era, poi, andata via anche lei. E perchè, allora, gli aveva lasciato quell'orologetto che beffardamente segnava, con le sue sottili piccole sfere, le ore azzurre? Ella lo aveva dimenticato, forse: e le ore di Paolo non avevano più nessuna tinta, erano fatte di una immutabile ombra.
L'orologetto segnava le undici e mezzo. Egli si ricordava che nel tempo in cui Maria lo amava, quest'ora della sua serata passava sempre accanto a lei, non soli sempre, ma sempre insieme. Egli la cercava in qualche teatro, in qualche ritrovo, in qualche casa di comuni amici, e appena entrato nella sala, la vedeva, subito, senza averla neppure quasi guardata, la vedeva col suo visetto un po' lungo, coi suoi denti minuti e bianchi, che il sorriso delle pallide labbra scovriva intieramente, con le gengive roseo-smorte, con quegli occhi castani dove si mescolavano così perfidamente e trionfalmente la malizia e la dolcezza, agitando la testina, mostrando il piccolo orecchio roseo-tenero sotto l'arco nero dei morbidi capelli che erano moltissimi e pure si chiudeano, per la finezza, in un pugno. Anch'ella aveva l'aria di non vederlo: ma lentamente, senza far mostra di nulla, Paolo e Maria si avvicinavano, scambiavano con semplicità, con disinvoltura qualche saluto. Poi, sedevano vicino. Egli taceva, spesso; ella parlava con lui, o con qualche altro, vivacemente. Egli ne udiva la voce, un po' infantile, un po' interrotta, talvolta, da improvvisi languori di creatura debole che si esalta e si accascia facilmente: e ne adorava la voce. Egli le guardava le mani fini, magrette, lunghette, con le unghie così lucide che parea scintillassero, con gli anelli gemmati che ella, nervosamente, passava da una mano all'altra, cambiandoli sempre di posto: ed egli adorava quelle mani. Ella gli parlava e rapidamente, un po' sorridendo, un po' lamentandosi, gli narrava una giornata di mali improvvisi e misteriosi, di svenimenti e di soffocazioni, ed egli, mentre la compativa con tutta la più tenera pietà dell'uomo sano e robusto, l'adorava per la sua debolezza. E in quest'ultima ora, egli attendeva una parola da lei, era il segreto della sua felicità che ella gli comunicava, con qualche parola: era il miraggio di un pomeriggio appassionato e delizioso che essa gli faceva balenare innanzi. In quell'ora ultima, essa gli dava il convegno pel giorno seguente, se era libera. Ogni volta la maliarda glielo diceva in un modo diverso: o attraverso una frase ingarbugliata, in cui appariva una cifra, così, stranamente, ed egli solo la intendeva: o sottovoce, in un soffio, che egli solo ascoltava: o salutandolo, mentre egli s'inchinava devotamente innanzi a lei: o con la massima disinvoltura, scherzando, tirandolo da parte, come se continuasse lo scherzo e dicendogli all'orecchio l'ora del convegno. Ah egli ne aveva di felicità, per tutta la notte, andando a casa, ripetendosi quell'ora e rivedendo l'adorata immagine che gliel'aveva data, come una magica promessa di bene!
Quasi mezzanotte. Il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; la stecca che sfogliava i libri era caduta dalle mani di Paolo, a terra; non un rumore saliva dalla deserta via di Costantinopoli, dove egli abitava; non un rumore nella sua stanza. L'ampio paralume concentrava la luce in un cerchio presso la gran poltrona dove egli giaceva sdraiato; e il resto della stanza era in penombra. Egli non vedeva più, fra le palpebre socchiuse, le sferette dell'orologetto, su cui ancora era fissato il suo sguardo; e tutto si era rallentato in lui, il pensiero e il sentimento, nel sonnambulismo di una indicibile, ma torpente amarezza. Era voltato sopra un fianco, con la faccia appoggiata ai cuscini di raso e le mani abbandonate lungo la persona. A un tratto, di lontano, gli parve che avessero aperta e richiusa la porta di casa. Chi poteva venire, a quell'ora? Nessuno. Era una fantasia. Ma poco dopo gli sembrò che si schiudesse chetamente la porta del suo salotto e che un piccolo piede camminasse alle sue spalle. Restò immobile, ascoltando, aspettando. E bene chiaramente, bene limpidamente, egli udì la voce di Maria al suo orecchio, dirgli questo, mentre vedeva, un po' velata, un po' imprecisa, la sua piccola figura, innanzi a lui, col viso esangue, con gli occhi brillanti di dolcezza e di malizia, piegarsi e dirgli questo e lui udire perfettamente queste parole, da una voce che egli distingueva fra tutte, dire questo:
—Domani, alle cinque.
Balzò dalla poltrona, come folle. Il lume urtato vacillò, fu per cadere: egli lo rèsse, gittò via il paralume, si guardò intorno, follemente. Non vi era nessuno. Eppure egli aveva visto Maria e udito le parole, dalla sua voce:
—Domani, alle cinque.
Chiamò il servo, suonando a lungo. Quello venne, sonnacchioso. Non era venuto nessuno? No, nessuno, proprio nessuno era entrato. No, no. Il servo uscì. Paolo rimase, in mezzo alla stanza, tremante di terrore e di gioia, poichè egli aveva inteso la voce di Maria, così precisa, così nitida, dirgli le parole del convegno:
Domani, alle cinque.
II.
Tremante di terrore e di gioia! Tutta la notte egli sentì questa duplice convulsione partire dalla più intima essenza della sua anima e allargarsi nei suoi nervi e nel suo sangue: e fu pieno di sgomento ed ebbro di felicità. Egli non volle lasciare quella stanza dove aveva inteso, ancora una volta, quella cara voce seduttrice, dirgli le parole che sempre avevano sconvolto il suo essere e che adesso gli avevan dato l'indicibile tumulto interiore. Immoto nella persona e pure fremente, egli udiva ancora le sillabe precise che gli davano il convegno, che lo chiamavano alla consueta ora, quando già è declinato il giorno, nella casa dove li conduceva l'amore e che egli non aveva mai più riveduta, da che l'amore lo aveva abbandonato. Era la voce di Maria quella che gli aveva parlato, all'orecchio, bassa, ma netta e viva, battendo sulle lettere e sempre un po' imperiosa, malgrado il velo della dolcezza. Tutta la notte egli stette cogli occhi fissi sulla porta della sua stanza, come se ella dovesse apparirvi, come l'aveva vista, alla mezzanotte, nelle fantastiche contemplazioni piene di tristezza e di desiderio: e stette con l'orecchio teso, coi nervi vibranti, come se ancora l'adorata voce dovesse ripetergli il giorno e l'ora dell'amoroso convegno. Talvolta, la sua ragione tentava di vincere questo tremore di paura e di piacere, per cui egli invocava la presenza e la voce dell'amata, dicendogli che egli era solo, che niuno entrava per andare da lui, che niuno parlava, e che la notte era alta e la stanza si faceva fredda; ma l'uomo giaceva sotto l'impressione indimenticabile di quell'avvertimento e di quell'invito, dove si riussumeva ogni suo desiderio, dove si chiudeva il segreto unico della sua vita. Nella notte gelida e nella solitudine, nel bizzarro giro dei suoi pensieri e dei suoi sogni, egli credeva francamente che la donna, che l'amata, fosse arrivata fino a lui, mirabilmente, misteriosamente, per dirgli che ella lo voleva l'indomani, alle cinque, in quella casa, come nel tempo che si amavano: e silenziosamente e quietamente era sparita, detta l'amorosa parola. Lo credeva, poichè le ore notturne nei loro singolari eccitamenti avevan vinto la sua fredda ragione: e non si domandava, nelle esaltazioni tenere e appassionate, come ella fosse giunta, come fosse partita: e vedeva solamente quell'ideal piccolo volto esangue piegarsi verso lui e dirgli all'orecchio, che il domani, alle cinque, l'amore lo chiamava, l'amore lo voleva.
Le bianche e tristi chiarità dell'alba diradarono la sua febbre e calmarono i suoi sgomenti: la sua ragione parlò: e dopo che ebbe eletto le sue calme cose, non restò, a Paolo, che l'ebbrezza della felicità. Forse, Maria non era penetrata nel suo appartamento, in quella notte strana, ed era una visione della sua fantasia, l'averla vista accanto a sè, come nelle migliori sere della loro passione; forse, Maria non aveva pronunziata, con la sua voce, quella parola vicino al suo orecchio, ed era un inganno del suo udito, quel suono lusinghiero. Che importava, però, il fatto materiale? L'appello vi era stato, l'appello sentimentale di un'anima languente d'amore, l'appello lontano a cui la volontà ardente dell'amore da tanta forza, che l'altra anima lo sente, a traverso il tempo e a traverso lo spazio, come se la persona e la voce fossero presenti. Talvolta, nel felice tempo del loro amore, questo legame fra le loro anime e fra i loro sensi, li aveva colpiti coi più bizzarri fenomeni di contemporaneità spirituale: talvolta, l'uno aveva intuito il muto desiderio dell'altro, essendo lontano: talvolta, l'uno aveva obbedito alla volontà dell'altro, senza conoscerla. Il metallo delle loro anime, troppo spesso si fondeva insieme, nel rovente crogiuolo dell'amore, perchè i due metalli si dividessero, dopo, perfettamente. Si rammentava, Paolo! E come la mattinata di questo suo grande giorno si avanzava, egli riteneva sempre più fermamente che alla mezzanotte Maria aveva pensato a lui con improvvisa passione e che aveva vivamente invocato la sua presenza, per questo pomeriggio, alle cinque. Ah, ella doveva averle ripetute a sè stessa, nella nostalgia del bacio, le parole del convegno, le doveva aver dette con quell'impeto e quella imperiosità che dicevano l'ardore della piccola debole donna esangue, e l'amante lontano le aveva intese ripercuotersi nel suo spirito, nitidamente, come un invito e come un ordine!
E perchè non avrebbe ella inteso, a un tratto, la perfida e crudel donna, il rimpianto di un amore così schietto e così tenace? Non era ella stata di una brutalità feroce, quando aveva voluto morto l'amore, a qualunque costo, ostinandosi ciecamente nella sua ferocia, calpestando ogni senso di bontà e di gentilezza muliebre? Non aveva egli reagito, in tutte le forme, contro questa morte dell'amore, non aveva egli esaurito le sue violenze e le sue lacrime? Non aveva egli pregato alla porta di questa donna fragile e smorta, come un fanciullo lasciato nella via, al freddo, alla fame e al terrore, senza che la porta si aprisse mai più? Non aveva ella opposto la grande idea, l'idea semplice, l'idea liberatrice, a tutti i furori e a tutte le sue desolazioni, dicendogli: non ti amo più? Non aveva egli inteso, ahimè, con tutte le più dure e le più gelide intonazioni, questa idea semplice e definitiva e inappellabile: non ti amo più? Non aveva egli sentito che tutto periva, in lui, uomo, giovane ancora, sano, robusto, non corrotto; giacchè questa piccola donna capricciosa e malaticcia lo aveva scacciato da sè, per sempre? Non aveva egli voluto che tutto perisse, se veramente, nel tempo avvenire, questo amore non potesse mai più rivivere? Nei mesi che trascorrevano, non vincendo il suo dolore, ma addormentandolo, non era restato nel fondo di tutte le amarezze, nella feccia di tutti i calici, una speranza lieve e breve, ma viva, ma imperitura, che l'anima immortale di quella donna si ricordasse un giorno di quell'amore, e lo rimpiangesse, e lo desiderasse? Ebbene, ebbene, era accaduto il miracolo spirituale: il tragico capriccio era fuggito e la crudel donna aveva sentito intenerirsi quel suo piccolo cuore di pietra: ella aveva, forse, pianto su sè stessa e sul fedele cuore di uomo che ella aveva gittato via, nella strada: e a mezzanotte, in un momento di solitudine, Maria era stata presa dal soffocante desiderio di essere ancora amata e di amare ancora. Il fato si era compiuto: e Paolo non aveva sofferto invano.
Egli visse, dunque, in quel giorno del convegno, in preda alla letizia indicibile di un amore rinnovellato: e le ansietà e le trepidazioni del primissimo loro convegno, di cui egli si rammentava, non avevano il suggello di questa gioia suprema. Egli uscì tre volte di casa, camminò per le vie, parlò con la gente, assorbito e sorridente, col suo segreto che gli saliva alle labbra in parole di tenerezza e gli velava gli occhi con lacrime di gioia: e tre volte tornò a casa sua, tanto impaziente, tanto morente di amore e di felicità che, talvolta, pensò non avrebbe avuto forza di resistere all'apparizione di Maria, nella casa del loro amore. Era in questo momento che si concentravano tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sogni. Si sarebbe egli inginocchiato innanzi all'amata che ritornava a lui e le avrebbe baciato il lembo dell'abito? Avrebbe egli detto, all'amata, una parola di adorazione? Le avrebbe forse fatto qualche rimprovero per quel lungo anno di dolore e di solitudine, a cui Maria lo aveva condannato? No, no. Gli sarebbe, certo, mancata la voce, per dire nulla: gli sarebbero, certo, mancate le forze per prostrarsi e adorare. Non avrebbe fatto altro che aprire le braccia e chiudere sul suo petto affannoso e scoppiante pel palpito, la cara piccola persona, deciso a non lasciarla fuggire più, poichè ella era solamente il suo amore e la sua vita. Nulla dirle: poichè niuna parola potea compendiare quello che egli aveva sofferto e quanto era felice. Chiudere nelle sue salde braccia la diletta, null'altro: e tacere: e lasciare che scorressero le ore e il tempo, senza sapere di esso: e credere che il mondo fosse chiuso in quell'abbraccio. Quando egli si fermava, col pensiero, con la fantasia, su questo minuto profondo e intenso, egli abbassava il capo e impallidiva mortalmente. Queste emozioni, qualche volta, sono superiori alle forze umane.
Erano le tre e mezzo quando, lentamente, per calmare la sua esaltazione, Paolo si avviò alla casa del loro amore. Non era molto lontana, proprio nel centro della città e nel mezzo di una via popolosa. Allora, Maria aveva preferito che fosse così, ella che odiava la campagna quanto odiava il mare: e voleva aver l'aria disinvolta di una signora che passeggia, o che va a visitare una signora sua amica, mentre si recava al convegno di amore. Egli aveva obbedito, schiavo di tutte le volontà della delicata e pallida donna: e il loro nido era posto in un qualunque volgare ambiente, circondato, sopra e sotto, da volgare gente. Soltanto che Paolo vi aveva profuso internamente, non il lusso, ma la gentile poesia di un'anima presa e che non vive che per le feste dell'amore. Giammai le tende che velavano le finestre delle tre piccole stanze si levavano, per paura di farsi vedere, le pareti erano foderate di stoffe leggiadre e i tappeti non facevano udire il rumore dei passi. Ebbene, dal giorno in cui era stato abbandonato da Maria, Paolo non vi era mai più tornato. Ne portava sempre la chiave in tasca, devotamente: ma non osava neppure accostarsi al portone di quella casa, senza sentire il ribrezzo della paura e un cocente dolore togliergli ogni forza. Spesso, nelle sue crisi più terribili, egli aveva pensato di andare colà, di salire nel tempio, di lacerare i veli e le stoffe, d'infrangere le statuette e le porcellane, di spezzare ogni cosa e, devastato tutto, di richiudere per sempre quella porta e fuggire. Spesso, nelle sue ore desolate, egli aveva pensato di andare a piangere colà, solo, solo, solo, sperando che quel fiume di lacrime avrebbe deterso la torbida anima sua e l'avrebbe rinnovata. Ma non ne aveva avuto il coraggio, mai. La casa era chiusa da un anno. Anche Maria aveva una chiave. Ella, certo, non vi era tornata, mai. Ma vi sarebbe andata oggi, lo aveva avvertito, ed egli, vinto il terrore di ritornare colà, vi andava con l'ebbrezza dell'amante felice, le cui braccia già si stendono all'abbraccio, le cui labbra già si protendono al bacio.
Pure, innanzi al portone, ebbe un singolar trasalimento. La sua emozione era diventata acuta e il respiro gli mancava. Era quasi sera, già. Faceva freddo, ma egli affogava di fiamme che gli invadevano il sangue. Non intese mai come fosse salito, a quel terzo piano. Quando fu innanzi alla porta, vacillò. Il suo amore lo faceva agonizzare prima del tempo, dunque? E che sarebbe stato, fra un'ora, alle cinque, quando Maria, Maria sarebbe entrata da quella porta e gli sarebbe caduta nelle braccia? Vacillando, egli mise la chiave nella serratura; questa stentò ad aprirsi. Pensò, un istante che gli parve lunghissimo, eterno, che quella porta non si sarebbe aperta mai. Ma si schiuse: egli vide innanzi a sè il vano nero: e vi entrò: quasi, vi si precipitò: e la porta si richiuse, dietro a lui, con un bizzarro fragore.
Ah quando egli fu dentro, nell'oscurità, nel silenzio, e quando gli ebbe fatta un po' di luce, con le mani tremanti che tentavano accendere la candela e quasi non vi riuscivano, quando gli ebbe dato uno sguardo intorno, egli richiuse gli occhi, per non vedere, e si lasciò cadere, sfinito, sopra un divano, nascondendo la faccia fra le mani. Fra un'ora ella doveva qui venire, la diletta. Ma come tutte le cose parlavano di lei, prima, sempre, parlavano alto, insieme, di lei, solo di lei, dell'amore, del solo amore, dell'unico amore, che era lei! Qui, sulla spalliera del divano dove egli appoggiava la testa, ella soleva appuntare gli spilloni del suo cappello, per ritrovarli subito, quando voleva scappar via: e ancora vi era un mezzo spillone, rotto, nella fretta di strapparlo. Ella sarebbe venuta, più tardi, cara, piccola, affascinante: ma ella era già là, in quella fotografia sul tavolino, nella brillante cornice d'argento che circondava la testina dai nerissimi, lucidi e fini capelli, che ne delineava il profilo sottile mostrando lo sguardo un po' levato, dolcemente, maliziosamente e l'angolo di un sorrisino delicato, sulla delicata bocca. La fotografia non portava nome di dedica: ma ella vi aveva scritto il suo nome e la parola sempre. Lei, sempre, sì, sempre e sopratutto, ma specialmente qui, sull'ampio divano dove erano ancora ammucchiati i cuscini, come essa li aveva lasciati l'ultima volta: e uno portava la forma della sua testa, ancora, ancora! Ah egli non resistette a quella impronta del raso, dove la testina si era posata, egli si trascinò là innanzi e vi cadde in ginocchio e baciò lievemente quella impressione concava, temendo che un troppo rude bacio la distruggesse. Un singhiozzo di amore, di gioia e anche di sommo dolore gli sollevava e gli spezzava il petto. Qui, era la casa, era il nido, era il santuario, dove egli aveva vissuto il tempo più inebbriante della sua vita: qui, egli aveva raggiunto quel supremo limite dell'umana felicità, che pare voglia infrangere l'umana natura cui è dato arrivarvi: qui, solamente, egli aveva inteso che la esistenza non è un gretto e miserabile volger di giorni, ma che ha una sublime ragione di essere, quando l'amore la nobilita e la slancia nelle armonie infinite, dove l'anima trascina e purifica i sensi! Quante donne erano passate, nella sua vita? Tre, quattro forse; e anche egli le aveva amate, forse. Dove erano questi glaciali fantasmi? In quale tomba erano spariti? Qual nome portavano? Egli non se ne ricordava più. Già, le aveva dimenticate subito, come Maria gli era apparsa e piaciuta. E invece lei, lei, perfida e crudele, lei che egli non vedeva da un anno, lei che lo fuggiva, beffandosi di lui, era così trionfante, ancora, sempre, non nella memoria soltanto, non nelle testimonianze del passato solamente, ma nel presente, ma in quel minuto, che a lui bastava vedere l'angelo dal fine sorriso, sulla fotografia, per fremere di amore desideroso; e bastava di vedere la traccia della sua testina sul raso abbassato del cuscino per sussultare di passione, di voluttà e di un ignoto spasimo! Ah, egli lo sapeva che quella casa, che quell'ambiente gli avrebbero detto la grande verità, la verità unica, la verità innegabile, che egli viveva solo per l'amore di quella donna e che senza quell'amore egli non poteva vivere; lo sapeva bene ogni mobile, ogni stoffa, ogni piega del merletto, il profumo antico ma persistente di tutto quello che ella aveva toccato, gli avrebbero parlato di una seduzione unica, di un fascino unico, di una voluttà unica, di una passione unica! Perciò, nell'ora della desolazione e dell'abbandono, non aveva osato venirci: perciò vi era venuto solo per aspettarla.
Erano le cinque, l'ora del convegno. Egli balzò in piedi, tendendo l'orecchio. Nessun rumore. Passarono dei minuti; poi, varii minuti; poi, molti minuti. Ritto, immobile, in mezzo alla stanza, rigido di ansietà, egli aspettava. Nulla. Udì, una volta, un passo: ma nessun giro di serratura vi corrispose: e la sua persona s'irrigidì, di nuovo, in una intensità terribile di aspettativa. Nulla. Si mosse: andò sino alla porta, origliò, se per le scale alcuno salisse. Nulla. Andò presso alla finestra, sollevò una tenda, guardò nella via: i passanti erano rari, rarissime le donne, niuna si fermava. Talvolta, prima, tardava; anche oggi, dunque, poteva tardare. Cavò il suo orologio e si mise a seguire le sfere del minuti secondi col tichettìo che gli cresceva di fragore, nel cervello. Guardava, ma non vedeva: sentiva che il tempo passava, ecco tutto. Minuti secondi, minuti primi, ore? Tempo che passava. Adesso quel silenzio, intorno, lo terrorizzava; e uno strazio nasceva, germogliava, cresceva dal fondo del suo essere convulso. Nulla, intorno. La candela ardeva, con un battito leggiero e appena diradava le ombre. Le altre stanze erano oscurissime. Non le aveva visitate, preso e vinto dall'attesa. Ora, non levava gli occhi verso esse, come se racchiudessero paurose e terribilissime cose. Volle provare a parlare, per dar della vita a quella stanza oramai tetra e taciturna: ma la voce non gli uscì dalle labbra. Avrebbe voluto andare ad aprire la porta, così per farla entrare più presto: ma una misteriosa volontà lo inchiodava al suo posto. Quanto tempo? Lo ignorava. Aspettava il suo unico amore e la unica donna. Non conosceva altro. Ella doveva venire, poichè lo aveva detto e poichè lo aveva chiamato, alla mezzanotte del giorno prima, dandogli il convegno. Forse era in via; forse già arrivava; forse era quello il suo passo. Egli aspettava, la creatura, unica, la sola per cui egli vivesse, la sola per cui egli avesse del sangue nelle vene e un palpito nel cuore: Maria.
* * * * *
Egli non si levò dal divano dove si era buttato, che udendo battere mezzanotte a una chiesa poco lontana, con suono cristallino. La candela era quasi consumata. Maria non era venuta. Freddamente si rammentò tutto quello che era accaduto, fra loro, nel passato, come se ne vedesse la rappresentazione in uno specchio: egli si guardò attorno, freddamente, trovando sopratutto quell'amore e quella donna riflessi e viventi e pur finiti, dapertutto. Poi, si ricordò quello che aveva visto e inteso la notte prima, il convegno datogli da una voce che pareva la sua, il convegno a cui era venuto, ineluttabilmente. E intese subito. In quella casa, gli aveva dato convegno la Morte.
L'INELUTTABILE.
(Miss Geraldina).
Miss Geralda Fitz-Gèrald, di Gèrald Castle nel Somerset, per diminutivo vezzoso chiamata miss Geraldina, passava nove mesi dell'anno in Italia, e gli altri in viaggio sempre altrove che in Inghilterra. Miss Geraldina non amava punto il suo paese e non vi ritornava che malvolentieri, una volta l'anno, per tre o quattro giorni. Faceva i conti coll'intendente, firmava i nuovi contratti coi suoi affittaiuoli, visitava Gèrald Castle, visitava la sua vecchia matrigna lady Hilda Brosborough, visitava il cimitero dove dormivano suo padre, sua madre e tutti i Fitz-Gèrald suoi antenati, lasciava una grossa elemosina al Pastore, e partiva senza aver voluto vedere nessuno. Miss Geraldina era ricca, possedendo per sè sola ottantamila lire di rendita; era senza fratelli, senza sorelle, senza parenti poveri che la seccassero, e a ventotto anni, era perfettamente libera di andare, venire, viaggiare, dove le paresse e piacesse. Miss Geraldina conosceva e parlava cinque lingue; aveva studiato il canto, il pianoforte e l'arpa; era un'acquarellista molto abile; aveva molto spirito e lo manifestava in tutte le forme: dallo spirito secco e caustico allo spirito placido e bonario. Miss Geraldina aveva delle idee. Miss Geraldina pensava.
Miss Geraldina a diciotto anni pesava novantacinque chilogrammi, a ventidue ne pesava cento, a ventotto ne pesava centoquindici. A centoquindici si era fermata da un anno e pareva che non ingrassasse più. Era naturalmente e mostruosamente grassa. Aveva la diffusione eguale e permanente della grassezza, per tutta la persona; l'uniformità del grasso; era un grasso coscienzioso ed onesto che si allargava dapertutto, senza parzialità. Grasse le braccia, come le spalle; grasse le mani come i piedi, grasse le guancie come il collo.
In questo modo, a prima vista, non si distinguevano le forme del suo corpo, ma si percepiva confusamente una massa informe, semovente a stento: un testone grosso, grasso e rotondo, quasi affogato nelle spalle che salivano: sulla testa un treccione nero, che per quanto fosse folto, pareva miserabile, come una corda sdrucita. Gli occhietti neri, vivaci, troppo piccoli, scomparivano nel grasso della faccia, sembravano due bucherelli neri; il naso rotondo, come senza ossa, lucido, polputo nelle nari, era sommerso fra le due masse carnose delle gote. La bocca troppo piccola, troppo infantile, era sempre un po' schiusa di traverso, per respirare: un primo mento piccolo, bambinesco, giaceva sopra un secondo, largo come una collana. Di collo solamente una linea. Poi un corpo quadrato, largo, senza linea di cintura, senza curva di fianchi, con due grosse travi per braccia, con due masse di grasso per mani, un grasso roseo, tutto pieno di fossette. Nessuna curva, nessuna linea spezzata. Il cubo—e nient'altro.
A cagione di questa sua formidabile persona, miss Geraldina non poteva fare moltissime cose che le altre ragazze fanno. Non poteva, per esempio, vestirsi in nessun altro modo, che con una larghissima veste da camera, in lana, a pieghe profonde, serrata con un cordone dove avrebbero dovuto essere i fianchi: veste senza ornamenti, senza balze, monacale. Le erano inibiti la seta, il raso, il velluto che disegnano le forme; i merletti che ingrossano la persona. Questa veste doveva essere per forza nera, o molto scura; sarebbe stato ridicolo portare un colore chiaro, che raddoppia le proporzioni. Di goletti in merletto, di cravatte a cappii vistosi, non se ne parla: la straziavano. Appena una linea di goletto, dritto, in tela bianca: e spesso per quello stringimento, le saliva il sangue alla testa, il viso si faceva scarlatto e il naso cremisi. Pei cappelli, era un affar serio; piccoli, erano ridicoli; grandi, ridicolissimi: non si trovava una forma che le andasse, senza sfigurarla troppo. Miss Geraldina aveva finito col portare una cuffia in velo nero come le portano le vecchie nonne. Aveva da tempo rinunziato a tutti gli ornamenti, fiori, piume, nodi di nastro, gioielli, spilloni: poichè tutte queste cose minute ed eleganti erano sproporzionate a quell'adipe. Così non poteva portare gli stivalini bizzarri, dalla suola inarcata, dal tacco svelto: non ci si reggeva sopra, e portava le scarpe di panno, molto forti, a doppia suola e senza tacco. Così non poteva infilare quelle dita simili a salsicciotti nei guanti di seta, di camoscio, di capretto, poichè li faceva crepare su tutte le cuciture; invece portava i mezzi guanti di filo nero, quei mezzi guanti borghesi che servono a deformare la mano.
Naturalmente miss Geraldina non andava mai al ballo, poichè sarebbe stato buffo, solamente l'immaginare quella massa in giro per un waltzer. Buffo e spaventoso. Non potendo usare altra acconciatura che il suo sacco di lana nera, ella non andava ai concerti, non andava a nessuno spettacolo pubblico, dove la toilette è di obbligo. Che lei cantasse, che lei suonasse il pianoforte, che lei suonasse l'arpa, nessuno poteva saperne nulla, poichè niuno pensava che un elefante mormorasse le romanze di Tosti, che un elefante facesse scricchiolare la sedia del pianoforte ed i tasti, per suonare una polka di Chopin, che un elefante osasse sedersi presso l'arpa e abbracciarla e trarne suoni divini. Alle esposizioni non andava, poichè non poteva molto camminare e le poltroncine giranti non la contenevano; così non andava mai a visitare i musei. In conversazione non andava, poichè il moto di stupore e quello di terrore talvolta, d'ogni nuova presentazione, erano cose non destinate a farle buona impressione. Non usciva se non in carrozza, una carrozza speciale, bassa di montatoio, larga di cuscini, dove lei si distendeva, sola, in tutto il torpore della propria persona.
Naturalmente miss Geraldina non aveva amiche. Nel suo passato giovanile due o tre disinganni amari le avevano fatto intorno questa solitudine femminile. In fondo all'affetto di tutte le sue amiche essa aveva trovato, o la falsità, o la compassione. Ed anche la compassione, per quanto ella sopra i nervi avesse quel settemplice strato di grasso, non le andava a' versi. Poi il paragone delle donne sottili, magre o anche grassottelle ma gentili, non era fatto per allietare il suo spirito, ed essa aveva, a poco a poco, ferite una ad una le amiche, con la sua acredine. Tutte si erano allontanate, mormorando: "quella specie di mastodonte sembra buono, ma è maligno."
E neppure gli uomini amava miss Geraldina. Sfuggiva la loro compagnia, sempre, dovunque; sfuggiva le presentazioni, le nuove conoscenze. Essa non credeva alla loro bontà, quando le si mostravano premurosi e cortesi: pensava che lo facessero per interesse e li disprezzava; pensava che lo facessero per pietà e ne aveva sdegno. Forse, preferiva quelli che la burlavano apertamente, che la guardavano con aria ironica, che la squadravano fra loro, additandosela e soffocando le risate. Mai miss Geraldina si sarebbe maritata. A farle la corte, non pensava nessuno. In verità era troppo enorme perchè si potesse concepirla maritata. La cieca ispira una gentile pietà, la gobba ha lo spirito e la malignità per sè, la zoppa può dissimulare il suo difetto, tutto può essere nascosto o attenuato, ma l'esagerazione del grasso non si nasconde, non si attenua. È ridicolo. È ridicolo per ogni chilogrammo, per ogni palmo, per tutta la sua estensione, per tutta la sua enormità. È ridicolo ed è volgare. E per quanto le ottantamila lire fossero lì per sollievo, niuno osava affrontare tanto ridicolo e tanta volgarità. Miss Geraldina lo sapeva; richiesta, avrebbe rifiutato. Ma non la chiedevano.
Così questa giovane miss inglese viveva singolarmente, in Italia, a Sorrento, in un albergo, dove aveva bisogno di sedie fatte apposta, di letto fatto apposta, tutto vasto, tutto solido. Pranzava nella sua stanza, sola; leggicchiava storie d'amore che non la riguardavano e versi che nessuno mai le avrebbe mormorati; canticchiava ritornelli amorosi; dipingeva all'acquerello qualche veduta di Sorrento; sempre sola. Non scriveva mai, perchè non doveva scrivere a nessuno e perchè scrivere le faceva venire l'affanno. Non cuciva nè ricamava perchè era inutile. Non piangeva perchè non aveva per chi piangere; non rideva, perchè il suo destino era di far ridere.
Questa miss Geraldina Fitz-Gèrald di Gèrald Castle nel Somerset, morì a trentaquattro anni, dopo due anni di una crescente malattia di cuore, che le toglieva il respiro. È la malattia dei grassi. Di rossa divenne gialla; invece di dimagrare si gonfiò tutta. Nell'albergo dove morì, dovettero ordinare una cassa grandissima per chiudervela dentro. Io l'ho vista questa morta. Sulla larga faccia, simile a quella di certi angioloni di marmo diventati gialli col tempo, sulla larga faccia bonaria stava il rancore doloroso di un essere innocente, inoffensivo, colpito da una grande ingiustizia.
IL SEGRETO.
(Cariclea).
Nella camera chiusa, in quelle giornate di agosto, si soffocava; al mattino vi ronzavano pesantemente le mosche, attirate dalla zuccheriera scoperta sul comodino, dal bicchiere di aranciata, dallo sciroppo di codeina che stillava dal collo di una bottiglina e dall'odor grave di malattia che era nell'aria. Esse si posavano sul volto bruno dell'ammalata, dai pomelli arrossati, mentre ella dormiva, gittata in quei torpori profondi che sono il preludio della morte: il figliuolo invano le scacciava con un ventaglio, esse ritornavano a posarsi su quelle labbra semiaperte da cui sfuggiva breve, rôco, rantoloso, il respiro. Di sera non si poteva aprire la finestra, non un filo d'aria entrava ad agitare la fiammella diritta; di sera, vampe di calore, fra cui mettevano una nota acuta l'acqua di finocchio e il catrame distillato, salivano al cervello di Pietro, il figliuolo che vegliava sua madre. Il silenzio della camera era rotto dal rantolo cupo o dal fischio sottile di quei polmoni agonizzanti; era rotto dallo scoppio di quella tosse dura, insistente.
Egli vegliava, tenendo lo sguardo fisso, immoto, sulla faccia di sua madre. Pareva volesse scolpirsi in mente quel volto affilato, diminuito dal male, volto di cui già alcune linee erano diventate immobili. Egli sapeva che la madre moriva; lo sapeva, e l'anima sua lo mormorava a sè stessa, quasi per convincersene. Non una lagrima saliva agli occhi riarsi di quel figlio, non un singulto lacerava il petto di quel figlio. Era stupefatto. Egli viveva, quasi pietrificato, in quella stanza, andando, venendo, porgendo le medicine, porgendo da bere, accomodando i cuscini, aiutandola a sollevarsi. Viveva come un sonnambulo, con gli occhi spalancati e fissi, prestando tutte le cure più affettuose e più umili, lentamente ma carezzevolmente, meglio di una donna, senza parlare. Non si scuoteva, non trasaliva, avendo costretto all'indifferenza il proprio viso; solo quando la tosse si faceva sentire, egli impallidiva lievemente e voltava la testa in là. Mentre la madre giaceva in quei torpori che lo spaventavano, peggiori della veglia, egli pensava. Che madre era stata quella per lui! Per lui quella era la madre delle madri, era stata l'amor materno come idea fissa, l'amor materno come follia. Dalla nascita fino a quelle ultime giornate, così monotonamente disperate, non si erano lasciati mai un minuto, madre e figlio. Aveva dormito fino a dieci anni nel letto della madre, con la testa appoggiata sul petto di lei; dopo, nella stessa stanza; dopo, nella stanza accanto, con la porta aperta, parlandosi. Ella lo aveva salvato da tutte le terribili malattie d'infanzia, pregandogli la vita con la voce, comunicandogli la vita con lo sguardo magnetico, soffiandogli la vita col respiro; aveva preso da lui una volta il vaiuolo, una volta il tifo. Ma essa si ammalava pel figlio e guariva pel figlio. Ella lo conduceva a scuola, sotto la pioggia; ella veniva a riprenderlo. A casa studiavano insieme le lezioni e lei si stillava il cervello come lui sui problemi di aritmetica. Pietro era impertinente, nervoso; la madre lo sgridava, poi piangeva, e lui scoppiava in lagrime. Andavano insieme a passeggiare, Pietro bello ed elegante, cogli abitini che ella gli cuciva, lei dimessa e sorridente. Parlavano insieme lungamente, nei tramonti estivi, il figlio abbracciato alla madre, guancia a guancia; ella gli diceva con la voce bassa dove mormoravano le note dell'intimità, tutto quello che vi è di bello e di brutto nella vita. Il figlio ascoltava, senza rispondere; poi con la mano accarezzava la faccia della mamma e talvolta la trovava bagnata di lagrime. La mamma non gli parlava mai di sè, mai del proprio passato, mai della propria vita; gli parlava di lui, dell'avvenire. Talvolta, più grandetto, egli domandava:
—Dimmi di te, mamma buona.
—No; non serve,—rispondeva lei brevemente, mentre un'onda di pallore le saliva al viso.
Tale madre era stata la moribonda per lui; madre per il cuore, madre per la mente, madre per il corpo, madre per il sacrifizio, madre per la stravaganza dell'affetto, madre per l'immensità della passione. Il figliuolo le rassomigliava tratto per tratto, tanto era stato fatto da lei. Nell'anima era come lei, tanta era stata la trasfusione del pensiero e del sentimento. Fra quei due vi era un continuo scambio di vita. Si sorridevano col medesimo sorriso; si guardavano e l'idea andava dall'uno all'altro, senza bisogno di parola. Ancora egli sedeva ai piedi della madre e le appoggiava il capo sulle ginocchia, mentre la mano delicata e lieve di lei gli carezzava i capelli, mentre la voce bassa susurrava a lei le parole della vita—ma questo bambino era un uomo, a diciannove anni, forte, virile, coraggioso, apprezzatore sereno degli uomini e delle cose. D'un tratto, come se finita l'opera sua, la madre non avesse più ragione di vivere, tutte le forze della sua robusta salute declinarono: parve colpita fatalmente e sicuramente.
Come la morte si avvicinava, questo scambievole amore di madre e di figlio aumentava d'intensità senza parole, straziante e profondo.
—Mamma, mamma,—si ripeteva egli a sè stesso sperando di impazzire a furia di ripeterlo.
E le girava attorno, incapace di lasciarla un minuto. Ella lo guardava fisamente concentrando nello sguardo tutto il suo amore.
—Come ti senti, mamma?
—Meglio.
—Mamma cara, mamma bella….
E il figliuolo nascondeva il capo nei cuscini. Poi venivano certi lunghi e paurosi silenzi che lo sgomentavano.
—Dimmi qualche cosa, mamma….
Ella faceva cenno che non poteva, chiudeva gli occhi, crollava il capo come stanca. Sempre quel sonno penoso, in cui la faccia s'induriva, le palpebre socchiuse, la bocca storta, la testa inclinata sul lato destro, poichè il polmone sinistro era consumato.
—Mamma….—mormorava il figlio, piano.
E lei, svegliata, conservava quella durezza di tratti, gli occhi fissi e vitrei.
—Mamma, parlami, dimmi….
Talora quando la vedeva così ritirata in sè stessa, l'anima lontana, con quella indifferenza suprema per cui la mente sembra già staccata dalle cose terrene, con quel disinteressamento per cui il morrente pare già fatto cosa di un'altra sfera, pare già in alto, trattenuto appena da un filo invisibile, egli la chiamava, disperato, con la voce turbata con cui il Redentore dovette chiamare Lazzaro:
—Mamma, mamma!
Ella viveva ancora. Si pigliavano per mano: Pietro le parlava sottovoce, come un bambino, pieno di carezze nella intonazione, dicendole che l'amava, che le voleva bene, che l'adorava, che la idolatrava, che era la sua mamma cara, unica, immensa. Ella stava a sentire, come rianimata da quella voce tutto amore, respirava meglio, la mano non bruciava più tanto, la fronte non aveva più quei sudori gelati. Ma quando, in fondo alle parole del figliuolo, ricompariva, inconscia ma fatale, quella interrogazione; quando quel dimmi, vago ma insistente, ritornava sulle labbra del figliuolo, quando la curiosità ardente e latente trapelava da quanto egli dicesse, allora ella si riversava sui cuscini, chiudeva gli occhi, voltava la testa, come se scegliesse la posizione per morire in pace. Se lui, cieco, disperato, mosso da un istinto egoistico o da un istinto amoroso insisteva su quel dimmi, dimmi, un lamento tetro usciva da quel petto distrutto, un lamento di anima morente e disperata. Il figlio taceva, mortificato, avvilito.
E per dieci giorni, fra questa madre e questo figlio che si adoravano, fra questa madre che non voleva morire per amore e questo figlio che non voleva farla morire per amore, una lotta muta e terribile fu combattuta.
Il segreto si ergeva grande, possente, feroce fra loro, il segreto che faceva balbettare quel figliuolo ai piedi del letto di sua madre, mentre lei si rigettava nell'ostinato mutismo dell'agonia. Fu una lotta accanita, in cui l'anima umana mostrava tutta la sua dolcezza e tutta la sua mostruosità, in cui l'amore era egoismo e l'egoismo amore.
Ardeva la sottile fiammella della candela. Dalla via saliva il suono di un organetto che mandava nell'aria le note di una mazurka. Nella stanza soffiava la morte. Ella aprì gli occhi.
—Perchè hai spento il lume, Pietro?
—Dio! non vede più il lume! mi muore, dunque,—pensò lui.
E allora, buttato accanto al letto, perduto nell'immenso dolore della sua vita, smarrito dalla solitudine in cui entrava, gridando, piangendo, strappandosi i capelli, singhiozzando, gli salì alle labbra la domanda che mai aveva osato pronunziare:
—O mamma bella, dimmelo! O mamma buona, mamma del cuore, mamma, dimmelo! Non vorrò bene che a te, non amerò che te, dimmelo! Per pietà di tuo figlio, dimmelo! Se mi vuoi ancora bene, dimmelo! Mamma, mamma, dimmi il nome di mio padre.
Ella gli spalancò in volto gli occhi vitrei, aprì la bocca per pigliar fiato:
—No,—disse con la voce confusa e pastosa dei morenti.
Poi, volto il capo, dette tre gridi lunghi, striduli, strazianti; non respirò per un minuto secondo; tastò vagamente il lenzuolo con le dita; respirò fortemente e morì.
L'ULTIMA LETTERA
(Angelica).
Signora,
Voglio scrivere a voi, in quest'ora di morte. Non voglio mandare a mio padre, così amabile e così indifferente, così indulgente e così freddo, l'ultima mia parola: non a mio marito, tanto cortese e tanto crudele, voglio scrivere io, per dargli l'ultimo saluto. Quando sentiranno che io mi sono uccisa, ne avranno grande sgomento, perchè la morte fa paura agli indifferenti e ai crudeli: dopo, diranno che così dovea finire. Dieci lettere, mille lettere, scritte nel dolore di questa lenta agonia, innanzi alla piccola rivoltella scintillante come un prezioso gioiello, non giungerebbero a dare a mio padre, a mio marito, la pietà, o il rimorso. La loro glaciale e confortante ragione ripeterebbe loro che dovea finire così e lo strazio mio soffrirebbe una postuma ingiuria. No, no, ad essi non voglio scrivere nulla. Solo a voi, signora, mentre non vi conosco, mentre non mi conoscete, voglio dire che muoio, uccidendomi, voglio dire perchè mi uccido. Vi è un uomo che adoro, Francesco Sangiorgio: ma è inutile che io gli scriva, è inutile che io gli mandi l'estremo addio, è inutile che io gli raccomandi la mia memoria, è inutile tutto. Francesco Sangiorgio vi ama: voi lo amate. Ecco perchè tutto è inutile, il mio amore come il mio dolore, la mia vita come la mia morte. Egli vi ama e voi lo amate: ecco perchè debbo morire. Scrivere a voi, significa scrivere a lui: voi siete lui. Gli leggerete questa lettera: la leggerete insieme. E il soffio tragico della morte che ne spira, darà un sapore più profondo di emozione ai vostri baci; la immensa dolcezza della vostra passione avrà una vena di amarezza, che legherà più solidamente i vostri cuori; all'impeto dell'amore, si unirà il supremo orgoglio di aver fatto soffrire, l'orgoglio che hanno le persone più buone e più dolci: egli vi sembrerà più bello, più nobile, più degno di essere amato, poichè non ha saputo tradirvi e ha lasciato che me ne andassi alla morte; voi gli sembrerete più bella, più cara, più preziosa, poichè una donna è morta per voi. Per voi muoio, signora: morire per voi, significa morire per lui: voi siete lui. E le ultime torbide visioni di quest'ora terribile, queste visioni che mi fanno fremere di angoscia, di gelosia, di odio, mi mostrano sempre voi e lui, sempre insieme; e le schernitrici visioni mi dicono che, morendo, io vi unisco più saldamente, che eravate amanti e che io vi rendo compiici. Oh Dio, Dio, Dio, non avere scampo neppure nella morte!
Signora, vi odio. Mi hanno detto che siete stata amata, che uomini austeri hanno singhiozzato d'amore alle vostre ginocchia: so che Francesco Sangiorgio vi ha dato tutto sè stesso, nell'abbandono della più ardente passione. Ma nessuno amore del vostro passato e del vostro presente può arrivare alla misura dell'odio profondo, cieco, invariabile che trabocca dal mio cuore per voi: ma tutti gli amori presi insieme, compreso quello di Francesco, non giungono all'altezza del mio odio. Ho ventiquattro anni: sono piena di gioventù e di salute: ho dritto alla mia parte di gioia, di felicità—eppure debbo morire disperata, senz'avere avuto il conforto di un bacio, senza sperare il conforto di un rimpianto. Muoio a ventiquattro anni, lascio la mia famiglia, la mia casa, il mio paese dove è tanto sole e sono tanti fiori, me ne vado nella morte, sette palmi nella terra nera e pesante, chiusa in una bara di legno, nell'ombra eterna, nella morte, nella morte: e questo per voi, e per questo vi odio, così mortalmente vi odio, che il mio sangue abbrucia e le mie tempie scoppiano, quando l'anima mia pronunzia il vostro nome. Vi odio. Se voi non foste, ora, non morirei: se voi non foste, Francesco Sangiorgio mi avrebbe amato. Era l'uomo del mio cuore, Francesco: era l'uomo dell'anima mia, destinato a me dalla legge arcana della passione e voi me lo avete tolto, per sempre. Sentite, sentite, quando io penso al passato tutta la mia collera si abbatte e si trasforma in una tenerezza immensa, tutte le lacrime della mia esistenza piovono dai miei occhi e io piango già—saranno le sole lacrime versate su me—su questa povera creatura a cui hanno portato via l'unica forza e l'unica speranza. Ah signora, signora, che siete così dolce, così soave, così umile, che vi chiamate Angelica, come avete potuto far questo, come avete potuto volere la morte di una donna, di una cristiana, perchè mi avete fatto questo, voi che siete una buona e mite anima femminile? Signora, signora, voi siete innocente: ma veramente, ve lo dico, voi avete armato la rivoltella che mi deve uccidere e voi mi avete detto che debbo morire.
Poichè, se voi non foste, egli mi avrebbe amata. Ci conoscevamo da tanti anni, siamo nati nello stesso paese e nello stesso anno, amiamo le stesse cose, abbiamo insieme desiderato un ideale di esistenza più buono, più semplice e più intimo. Mi avrebbe amata! Io conosceva tutto il morboso vagabondaggio del suo spinto irrequieto e dolente; io conosceva tutte le miserie di una volontà ribelle, di un ingegno potente e incompleto, di un cuore che fluttuava fra il cinismo e l'entusiasmo; e dove il mondo lo misconosceva e lo biasimava, io aveva pietà per questa nobile tempra di uomo, in lotta con le idee e con le cose.
Egli mi conosceva: egli aveva pietà di me! Francesco Sangiorgio sapeva che sotto la vivacità insolente dei miei discorsi e del mio sorriso, si celava la piaga insanabile di una esistenza sbagliata; egli sapeva che la seducente dama che appariva a tutti i teatri, a tutte le feste, sempre lieta, col diadema fulgente sui neri capelli, tornando a casa, soffocava i suoi singulti nell'origliere, piangendo sopra la vita frivola e sciocca che faceva; egli sapeva che non avevo conforti nè dalla ricchezza, nè dal nome, nè dai trionfi della vanità, perchè l'anima vuole il suo pascolo, perchè è l'amore che serve all'anima, perchè niuno sfuggirà a questa necessità dell'anima. Come egli aveva compassione di me! io leggevo nei suoi occhi, quando mi guardava, una così infinita tristezza, che mi faceva fremere di dolore: io sentiva tale compassione, nella sua voce, quando mi parlava, che mi veniva una disperazione immensa, come se tutte le sorgenti segrete della mia infelicità fossero interrogate, insieme. Ah egli era il fratello dell'anima mia, era il mio fratello e il mio amante, il mio protettore e il mio sposo: i suoi occhi eran tristi tanto, guardandomi, e la sua voce era triste, parlandomi, perchè egli doveva essere il balsamo malinconico delle mie sofferenze—e l'ho perduto, l'ho perduto! Una sera di estate, mi rammento, io sono escita sulla terrazza della mia villa, lasciando nel salone tutti i miei invitati, cercando un po' di pace nella fresca notte, volendo respirare l'odore inebbriante dei bianchi gelsomini del giardino: e sono restata lì, nella notte, abbandonata a una stanchezza improvvisa, sentendomi crollata in fondo a un precipizio. Non so quando Francesco mi raggiunse; ma lo trovai accanto a me, improvvisamente, e un gran tremore mi colse, come nell'imminenza di un grande pericolo, di una grande gioia. Fumava una sigaretta: e i suoi occhi, fissi su me, avevano una tristezza, una dolcezza! Io lo guardava, tremante, aspettando che mi dicesse una parola. Tacque, per qualche tempo.
—Perchè ridete tanto?—mi chiese, con una profonda malinconia nella voce.—Non ridete più tanto.
—È il mio modo di piangere,—mormorai.
L'ho veduto impallidire, nella notte. Poi la sua mano ha preso la mia e l'ha tenuta un minuto brevissimo: tutta la mia vita è corsa in quella mano e mi sono sentita vacillare.
—Povera e cara donna,—egli soggiunse, pianissimo.
Egli lasciò la mia mano e se ne andò, lentamente. Così l'ho amato.
E quanto ho pianto, su quella terrazza dove giungevano tutti i profumi dei voluttuosi fiori dell'estate. Lo aspettavo ogni sera, tendendo l'orecchio a ogni rumor di carrozza che arrivasse da Napoli: e arrivava un indifferente, una qualunque delle tante inutili conoscenze che ci contristano minutamente la vita. Egli non giungeva e io continuava a chiacchierare, e ridere, sfogando in parole e in sorrisi la mia agitazione: tutti andavano via: la notte era avanzata, egli non sarebbe più venuto e io diventava pallida come un lenzuolo funebre, mi colpiva il freddo dalla desolazione. Signora, egli era presso voi, in quelle sere, perchè voi me lo avevate preso, quando ancora egli non mi aveva detto di amarmi: e ora non me lo dirà mai più, non udrò mai la sua voce pronunziare le più vibranti parole dell'amore, le due parole, ti amo, oltre le quali nessun'altra parola esiste! Egli giungeva, talvolta molto tardi, e subito ogni mia pena si dileguava: ma voi mi mandavate, signora, un uomo assorto, chiuso nel suo segreto che non aveva più occhi per vedere, nè orecchie per udire. Veniva da voi! L'ho saputo dopo. Una volta, signora, voi lo avete accompagnato in carrozza, sino all'angolo del grande viale della mia villa: e io non ho sospettato nulla, a quella carrozza che se ne tornava indietro. Dopo l'ho saputo. Lo accompagnavate da me! Non eravate gelosa, voi. Ah quanto vi odio, creatura debole e timida, che rubate i cuori, che rubate gli amanti e ve li tenete per sempre, e non siete gelosa, di nessuna donna, tanto il vostro fascino, fatto di debolezza, è più forte di ogni cosa e di ogni persona. Quanto vi odio, per questi due anni di atroci dolori segreti, che mi avete inflitti, per queste roventi lacrime che hanno consumata la freschezza del mio volto, per questa rovina quotidiana di tutte le mie speranze: quanto vi odio, per le torture che mi avete fatto soffrire, voi che siete, dicono, un'anima semplice e tenera; quanto vi odio perchè voi amate Francesco Sangiorgio e perchè egli vi adora, perchè in due anni egli non ha mai cessato di adorarvi, perchè in tutti i giorni, in tutti i minuti di questi due anni, egli ha preferito sempre voi a me, così, naturalmente, con la inconscia crudeltà degli amanti. Quanto vi odio, per quello che siete, per quello che rappresentate! I miei occhi sono neri e anche se l'amore m'ispira tutta la sua tenerezza, io non posso dominarne il fiero lampo: i vostri occhi sono azzurri, con un'espressione d'infantile candore. I miei capelli sono neri e si torcono in masse brune: i vostri biondi capelli vi mettono un'aureola dolcissima alla fronte e alle tempie.
Io sono alta e non so piegarmi: e voi siete piccola, voi avete la piccolezza che piace all'amore, poichè l'amore dell'uomo vuol essere anche protezione. Io rido, sempre: voi sorridete, talvolta. Io mi nascondo, quando piango, per superbia: quando l'amore vi fa piangere, voi piangete innanzi a lui e Francesco non resiste al pianto di una donna. E mentre in me, in tutto quel che faccio, in tutto quel che dico, vi è l'orgoglio sterile della mia nascita e della mia tradizione, in voi vi è la infinita umiltà della donna che è semplicemente donna, che sa soltanto amare e immergersi in questo amore. Ah come io odio questi vostri capelli biondi e questi vostri occhi azzurri, come io odio il vostro tenue sorriso e la vostra profonda umiltà, come io odio il vostro nome che è quello degli angioli, mentre io mi chiamo Teresa, un duro nome di donna che ha spasimato ed è morta nella passione! Come vorrei che tutto questo non fosse, che i vostri capelli cadessero, che i vostri occhi perdessero il loro innocente azzurrino fulgore, che il vaiuolo divorasse le pure linee giovanili del vostro volto, come vorrei che voi non esisteste, che non foste mai nata! Maledetto quel giorno e quell'ora in cui siete nata, maledetto il primo vostro respiro, maledetto chi vi ha dato questi bei capelli e questi cari occhi che Francesco adora, maledetto chi vi ha messo il nome di Angelica, maledetto chi vi ha insegnato a sorridere, maledette, maledette tutte le persone che avete conosciute, tutti i paesi dove avete abitato, tutte le cose fra cui siete vissuta, maledetto il primo bacio che avete dato a Francesco, maledetti tutti i baci di voi due, essi sono la febbre delle mie vene, la pazzia del mio cervello, la dannazione della mia anima!
Ho cercato di salvarmi, io. Sono giovane, l'istinto della vita combatte in me. Ho viaggiato, ma il mio tormento mi ha seguito dovunque, nei paesi più lontani; ho cercato di riamare il mio cortese e crudele marito, ma non sono giunta che a violare la mia coscienza; ho cercato di amare qualcun altro, di farmi amare, ma non ho potuto, non ho potuto. L'immagine di Francesco Sangiorgio, nitida, imperiosa fin nella dolcezza, gloriosa fin nella tristezza, è restata in me, intangibile. Nessun uomo, nè io stessa, nè Dio potranno giammai cancellarla da me: e io vado a chiedere alla morte la salvazione. Ho tentato di vivere, ho tentato di sperare. Ho tentato! Ho sperato che il suo amore per voi s'illanguidisse, ho sperato che voi lo tradiste; ho negato fede all'amore, ho negato fede alla costanza femminile, mentre io amava sino a morirne, mentre nulla al mondo mi potea consolare di non essere amata! Ho aspettato, poichè dicono che l'amore, l'arte, la felicità sono il risultato di una sublime pazienza. Ma da tutte le parti, da tutte le persone, ogni giorno io sapeva una novella pruova del vostro amore; ma quasi che tutto mi spingesse alla perdizione, la cronaca sentimentale dell'amor vostro mi era riferita, da mille testimoni indifferenti, che credeano di narrarmi una cronaca indifferente. Quanto vi odio! So tutto: e per quel che so, vi odio. Vivevate, vivete quasi sempre insieme, uscite insieme, insieme tornate a casa e voi suonate il pianoforte, assai dolcemente—egli odiava il pianoforte, un tempo—ed egli vi ascolta, e vi parlate teneramente, soavemente, e quando egli è nei suoi periodi di collera, la vostra soavità è tale, che lo vincete. Oh io sono una donna appassionata, io ho l'impeto dei temperamenti generosi, io non so essere dolce, io non so che amare violentemente, sino a morirne: e così voi mi avete vinta, voi che siete dolce, mentre che io amo con tutte le forze del mio spirito e della mia gioventù, debbo fra cinque minuti tirarmi un colpo di rivoltella al cuore. Signora Angelica, l'altro giorno, per la grande via lungo il mare, vi ho incontrati. Era la prima volta, che vi ho visti insieme. Andavate accanto, senza tenervi a braccetto, senza darvi la mano, senza sfiorarvi, ma andavate così uniti, avevate così le anime assorte nello stesso sentimento, vi amavate tanto, senza parlarvi, senza guardarvi, che io ho inteso tutto. Ho inteso che nulla vi avrebbe divisi giammai e che io dovea morire. I miei occhi non vi vedranno per la seconda volta insieme. Qualcuno di noi tre dovrebbe morire, se rivedessi questo spettacolo atroce: e siccome vi amate e vi amerete sempre, sono io che muoio. Addio dunque, signora Angelica: io amo Francesco Sangiorgio e odio voi. Il resto è silenzio.
TERESA.
FINE.
INDICE
L'imperfetto amante (Nino Stresa) Pag. 1 L'imperfetto amante (Giustino Morelli) " 25 Il perfetto amante (Massimo Dias) " 47 Il perfettissimo amante (Luigi Caracciolo) " 67 Il viale degli oleandri (Mario Felice) " 85 Nella via (Vicenzella) " 107 La veste di seta (Madame la marquise) " 129 La veste di crespo (Madame Héliotrope) " 151 Un suicidio (Julian Sorel) " 171 Il convegno (La piccola Maria) " 199 L'ineluttabile (Miss Geraldina) " 237 Il segreto (Cariclea) " 249 L'ultima lettera (Angelica) " 261
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NEL MEDESIMO FORMATO:
POESIA
BALOSSARDI. Giobbe L. 4 — D'ANNUNZIO. L'Isotteo e La Chimera 4 — —— Poema Paradisiaco—Odi navali 4 — DE AMICIS. Poesie 4 — GRAF. Dopo il tramonto 4 — MARRADI. Nuovi canti 4 — —— Ricordi lirici 4 — NEGRI (Ada). Fatalità 4 — SARFATTI. Rime Veneziane e Minuetto 4 — VIVANTI (Annie). Lirica 5 —
PROSA
GIACOSA. La Contessa di Challant. Dramma in 5 atti 4 — MANTEGAZZA. L'arte di prender moglie 4 — PANZACCHI. I miei racconti 4 — RAGUSA MOLETI. Memorie e acqueforti 4 — —— Miniature e filigrane 3 — SERAO (Matilde). Gli Amanti 4 — VERGA. Storia di una Capinera, 13ª ed. 3 —