I

Tre sono i personaggi di questa istoria d'amore: Paolo Herz, Luisa Cima e Chérie. Malgrado il suo cognome tedesco, Paolo Herz è italiano, di madre e di padre italiani, delle provincie meridionali. Veramente, non è inutile aggiungere che l'avo paterno di Paolo era tedesco. Questo nonno aveva lasciato la Germania in piccolissima età, emigrando in Italia: qui era cresciuto, aveva lavorato ad accrescere la sostanza famigliare e il decoro del nome Herz: qui si era ammogliato con una italiana, e aveva procreato dei figli. Così i legami con la patria di origine, almeno quelli esteriori, si eran venuti col tempo, con la lontananza, rallentando e poi, più tardi, sciogliendosi: tanto che gli Herz sembrava non conservassero più nessuna traccia nordica nel temperamento e nel carattere.

Paolo Herz ha trentasei anni; è alto, forte, elegante, sebbene per gli anni e per la vita di piaceri trascorsa, sia in lui più evidente l'eleganza che la forza: ha il volto pallido, ma sano, e sotto il pallore è diffusa una lieve tinta ambrata, emblema del mezzogiorno ove egli nacque: i capelli tagliati molto corti e che formano delle punte naturali, sulla fronte e sulle tempia: ha i mustacchi soltanto castani, che lasciano intravvedere una bocca ancora fresca, mentre intorno agli occhi già manca la freschezza. Paolo Herz ha una fisonomia tranquilla e quasi immota, certe volte: ma questa immobilità non è l'assenza della vitalità, nè quel ritiro dell'espressione faciale che lascia le linee come morte. È, piuttosto, un riposo dignitoso del viso che esprime chiaramente il silenzio e la meditazione dell'anima; una pacatezza nobile e pensosa che pare più adatta al suo genere di bellezza virile e che maggiormente gli attira l'amore delle donne e l'amicizia degli uomini. Forse, senza che egli neppure ne abbia sentore, in quei periodi di pace del volto, rinasce in lui l'antica, avita conscienza germanica, fatta di speculazioni spirituali, di contemplazioni pure e poetiche. In quei momenti, Paolo Herz è bello: le donne, spesso, gli hanno imposto di tacere e di pensare, quando era accanto a loro. Sovra tutto, non lo vogliono veder soffrire: le sue peggiori giornate, come estetica, sono quelle in cui per un puntiglio non vinto, per un capriccio non soddisfatto, per una delusione inaspettata, per un immeritato dolore, tutta la sua fisonomia si decompone, quasi l'uomo toccasse le soglie della morte. Egli non può soffrire: egli non sa soffrire: quando soffre, è brutto, è antipatico, è, talvolta, odioso. Il suo volto bruno diventato terreo, i suoi occhi come velati da una nebbia torbida, le rughe che si moltiplicano intorno agli occhi, le guancie sparute che fan parere grosso il naso, le pieghe accanto alla bocca, mostrano un Paolo Herz tutto diverso, senza energia morale, senza forza fisica, inetto al dolore, abbattuto dal patimento e non destante alcuna compassione. Però, bisogna dirlo: pochi uomini lo hanno veduto soffrire e una sola donna. Per lo più, quando è infelice e non regge ad essere infelice, egli fugge, e si nasconde non si sa dove.

Paolo Herz è libero. Egli ha perduto sua madre, essendo ancora giovanissimo: un orfanello di sedici anni. Dopo nove anni, avendone Paolo venticinque, gli è morto il padre. Da undici anni, quindi, egli è solo, nella vita: ha lontani parenti, che poco conosce e non vede mai; ha qualche amico buono, ma l'amicizia loro non è nè profonda, nè esclusiva. Egli ha amato più sua madre che suo padre, mentre è stato amato moltissimo da ambedue, come figliuolo unico. La morte di sua madre, sparita assai giovane e bella, ha colpito l'adolescenza di Paolo, di un dolor folle, con lunghe crisi nervose e intervalli paurosi di stupefazione, in cui è parso naufragasse la sua salute e, forse, la sua ragione: suo padre ha dovuto condurlo a fare un lunghissimo viaggio, di due anni, nei paesi più lontani: ma il figliuolo, calmato l'impeto angoscioso, ha conservato un rimpianto inconsolabile, la nostalgia di quel fido seno materno su cui appoggiava così volentieri il capo. A Paolo Herz è restato, dall'adorazione per sua madre, una invincibile inclinazione a tutte le delicatezze muliebri, un bisogno di tenerezza quasi morboso, un desiderio di blande e innocenti carezze, una necessità di chinare la testa sovra un petto femminile e di udire un cuore tenuemente palpitare sotto il suo orecchio. Malgrado questo, Paolo Herz, come si supponeva dovesse fare, non ha preso moglie. Una sola volta nel suo segreto, ha avuto l'idea di sposare una fanciulla intelligente e affettuosa, ma al momento di parlare, ha esitato, dolendogli di lasciare una libertà tanto piacevole a un giovane: poi, la vita lo ha condotto altrove. La creatura prescelta intimamente dall'anima sua, ha avuto qualche vago presentimento di questa probabile elezione: ha atteso lungamente e vanamente il segno reale: ma ha finito per stancarsi e ha dato il suo cuore e la sua vita ad altri. Paolo Herz sa di aver perduto per sempre l'occasione di essere onestamente felice: ma il suo rammarico non è nè acuto, nè grande, nè continuo. Invece, la libertà di cui dispone ampiamente, è una delle maggiori gioie della sua esistenza, nè egli commette l'errore di gusto di lagnarsi, mai, delle ore solinghe, mai egli invoca borghesemente le dolcezze familiari, nella sua vita. Forse, nel matrimonio più perfetto, con la persona che più egli aveva sognata di far sua, egli ha sempre temuto un misterioso pericolo.

Paolo Herz è ricco. Egli ha avuto da suo padre e da sua madre una magnifica fortuna, senza impicci, senza noie, perfettamente liquida, denaro e denaro, cioè. In verità egli ne ha mangiato una parte, vivendo, cioè amando, viaggiando, giuocando, spendendo il suo denaro in piaceri alti, mediocri, e anche qualche volta, bassi: non prodigo, generoso. A trentaquattro anni rimane ancora ricco: mentre ha già percorso una metà del mondo; mentre ha già esaurito le tre o quattro follie costose della giovinezza e della età meno giovane; mentre ha già quasi toccato il fondo e anche assaporato un po' la feccia di quel programma di lusso, di godimenti, di squisite ed estreme raffinatezze che fa fremere ogni temperamento nobile e ardente. Egli non è, dopo tutto questo, nè un vizioso, nè uno scettico, in fatto di sensazioni umane. Ha avuto del gusto, un vivacissimo gusto per tutti i piaceri; ma non ha lasciato che la depravazione toccasse il suo cervello; ma la sua stanchezza delle cose è malinconica, non cinica.

Paolo Herz è un uomo eminentemente portato all'amore. Dopo aver percorso tutte le vie dove vibra la vita, egli ha ritrovato, non so in quale pozzo, la Verità; ed Essa gli ha detto una cosa antichissima: solo l'amore vale la pena di vivere. Dotato di un temperamento caldo e vivido, di una fantasia esuberante e gagliarda, di un profondo segreto senso di poesia, queste sue qualità che, applicate a un'ambizione, ad un'arte, a un apostolato, avrebbero reso illustre il suo nome, gli sono servite solamente per amare e per essere amato, per ricercare, per raccogliere e per chiudere nell'amore tutte le varie forme della felice attività umana, per serrare nel piccolo giro di un amore muliebre ogni desiderio, ogni speranza, ogni finalità.

Egli, però, non è un Don Giovanni. Nella sua anima esiste una limpida corrente sentimentale che viene a temperare tutte le fiamme troppo improvvise, troppo violente, troppo fugaci. Sentimentalità costante, latente, intimissima, conservatrice di dolcezze miti e nascoste, evocatrice di dilette e predilette immagini, rammentatrice di una figura femminile, ahi, indimenticabile, la figura materna, tutta piena di grazia e di modesta seduzione. Sentimentalità persino eccessiva, in un uomo come Paolo Herz, e anche non scevra di strani tranelli e destinata a procurargli le più elevate gioie del cuore, ma, fatalmente, anche a condurlo su per l'erta tribolata del dolore. Forte della sua salute, della sua bellezza, della sua fortuna, della sua libertà, corazzato in questa lucente e salda armatura che gli ha concesso Iddio, destinato alle vittorie, figliuolo primogenito del trionfo, Paolo Herz non ha che questo lato debole, in sè, questa sentimentalità celata, ma prepotente sovra ogni altro istinto, sovra ogni altra inclinazione. Ciò che rende quest'uomo altero e robusto, fragile come un fanciullo, è appunto questa larga fiumana sentimentale che confonde e affoga le sue forze, in qualunque ora di battaglia. Quante volte, nell'orgoglio maschile, egli ha tentato di liberarsi, di diventare duro e freddo, di non tremare per un ricordo, di non impallidire per un nome, di non vibrare di pietà per uno sguardo velato di lagrime, di non fremere di tenerezza dinanzi a un volto smorto di malata: vanamente. I suoi avi di Germania gli hanno trasmessa questa eredità del sentimento, molle e rorida, e il sangue bruciante meridionale, col suo effuso ardore non è giunto a inaridirla. Pure, sino a trentaquattro anni, Paolo Herz ha amato ed è stato amato, senza che l'amore, anche a grandi altezze di temperatura, gli infliggesse le torture che subiscono gli animi deboli: nessuna tragica lotta interiore lo ha travolto. Egli si è incontrato in due o tre donne, qualcuna semplice e umile, qualche altra superba e appassionata; ed egli ha dato e ha ricevuto felicità, ha dato e ha ricevuto spasimo, ebbrezza, delirio, in uno scambio abbastanza giusto. È stato amato, per quanto ha amato: combinazione rara, rarissima, che è data in sorte solo a coloro che la vita vuole favorire. Herz è stato molto innamorato, molto fedele, molto passionale e insieme molto sentimentale, senza soffrire troppo, poichè le donne che lo hanno amato, erano alla sua altezza. Così gli è entrata nell'anima una fatale fiducia di se stesso e dell'amore; egli ha finito di temere le debolezze del suo temperamento; egli è stato certo di vincere sempre, vincere dandosi all'amore, naturalmente, tutto quanto, ma dandosi in una perfetta armonia di abbandono, ricevendo per quanto dava, inteso per quanto intendeva, compreso e preso per quanto egli comprendeva e prendeva: e non soffrendo. I suoi amori, prima dei trentaquattro anni, sono fioriti senza catastrofi, dolcemente, lasciando nel suo cuore e nel cuore della donna già amata, già amante, un profumo soave. Ciò ha ancora aumentato la sua fiducia nel sentimento e in se medesimo, e lo ha imbaldanzito sino al punto di credersi intangibile al dolore di amore; egli ha perduto ogni criterio della infelicità e della miseria morale che viene dall'amore, massime di quella miseria e di quell'infelicità, che noi stessi portiamo nell'amore. Infine, Paolo Herz è diventato un essere fiero della propria forza morale amorosa, della propria sapienza amorosa, fiero di tutto conoscere e di tutto poter vincere, nulla temendo, nulla vedendo, nulla rammentando, cieco come tutti i fortunati, sui moti improvvisi e inaspettati della vita e sulle contraddizioni crudeli della fortuna.

In questa istoria d'amore, Paolo Herz è il traditore.

II.

Luisa Cima ha ventisei anni. È piccola di statura, minuta di linee ma non troppo scarna: anzi le spalle hanno una curva molle, le braccia sono rotondette, il collo è pienotto, tanto che ella guadagna sempre nei vestiti da teatro e da ballo, dove tutto questo si può mostrare nudo. Però sembra così esile, così fragile che un nulla pare debba spezzarla. La sua carnagione è di un pallore trasparente che non è senza grazia, poichè si attribuisce a malattia, di cui ella sia convalescente o ad emozione di cui sia in preda: mentre quel pallore è naturale, ella è in perfetto stato di salute e delle sue emozioni nessuno ha saputo mai nulla. Spesso, però, quando Luisa Cima ride, o quando cammina presto, o quando balla, ondate lievi di sangue passano sotto quella carnagione bianca e se le tolgono la sua aria interessante, la fanno ridiventare giovanissima, una fanciulla che sia sposa da un anno.

I capelli di Luisa Cima sono nerissimi, di una grande finezza, morbidi, così lucidi che paiono bagnati e malgrado che sieno molti, per la loro finezza e per la la loro morbidezza, si possono chiudere in un pugno: ella li rialza poco più su della nuca, in molle disordine, con una grossa forcinella di tartaruga bionda, una sola, che ne trapassa il nodo e lo sostiene: qualche ciocchetta lieve ne sfugge: sotto la linea nera che essi formano, rialzati tutti sulla fronte e sulle tempie, la fronte si distacca, più vividamente pallida. Gli occhi di Luisa Cima sono oscuri, di tinta incerta. Ma oscuri, non neri: vi è chi li ha visti marrone oscuro e chi grigio scuri: mai neri. La loro espressione è sempre duplice: tenerezza e malizia, miste insieme. Spesso vi è lotta intima, fra queste due espressioni: vince l'una o l'altra, secondo il momento. Talvolta la tenerezza degli occhi di Luisa va sino al languore e quasi quasi vorrebbe far credere a un sentimento segreto: talvolta la malizia sopraffà la tenerezza e diventa impertinente, prepotente, provocante. Ma il loro stato naturale d'espressione, di questi occhi, è una dolcezza infantile mista a una scintillante malizia. A guardarli bene, però, questi occhi sono scoraggianti. La sua limpidità è assoluta. Mai profondità di pensiero li fa maggiori di sè, mai velo di lacrime li intorbida, mai nuvola di tristezza li appanna: quello sguardo non è mai errabondo, mai sognante, mai vago: ha una nitidità, una precisione, che taglia di un colpo solo, tutti i vagabondaggi della fantasia. Niente di segreto.—Essi non mostrano che quello che sono. E così, questi sono sinceri, perchè dicono, senza reticenze e senza indecisioni, lo stato di animo di Luisa Cima: tenerezza molta mista di malizia. E sono sempre le stesse parole, poichè gli occhi sono sempre gli stessi e non altro.

La bocca di Luisa è formata di labbra sottili e pallidette nel loro roseo tenue: i minuti denti, bianchissimi, nel sorriso che li scopre tutti, lasciano vedere una gengiva esangue anche essa. Luisa sorride quasi sempre: a bocca chiusa e pensosa, il suo volto è molto meno seducente, come accade a tante altre donne. Invecchia, questo volto: impallidisce anche più. Ella, quindi, sorride facilmente, di tutto, anche quando dice qualche cosa di serio, anche quando dice, spesso, qualche cosa di duro. La sua voce è infantile, un po' trillante, un po' roca, un po' interrotta, spesso, da improvvisi languori, da stanchezze brevi: Luisa parla presto, molto, restando talvolta senza fiato, con le labbra schiuse, come un uccellino che abbia allora finito di cantare. Le mani sono magrette, lunghette, bianche, con le unghie scintillanti, troppo scintillanti, come l'onice: ella cambia nervosamente spesso, gli anelli, troppo numerosi, anelli gemmati da una mano all'altra, con un moto quasi continuo. Luisa Cima porta dei vestiti senza strascico, rotondi, semplici: delle giacchettine attillate e brevi, delle mantelline da bimba, delle grandi cravatte di merletto dove, la sua testina pare che s'immerga per disparire: dei colletti di pelliccia tutti irti dove essa sembra, ancora una volta, un uccellino freddoloso: dei cappellini fatti con un fiore e con un nastro, con una farfalla e una veletta, dei cappellini fatti di niente. Sulla sua piccola persona vi è sempre una cosetta carina e originale, una fibbia, un fermaglio, un nodo di nastro, un gingillo sospeso alla cintura, qualche cosa di luminoso e di vezzoso, talvolta di vezzoso e di abbagliante che attira gli occhi e li respinge. Ella, porta degli orecchini enormi e pesanti, di smeraldi, di turchesi, alle sue piccole orecchie troppo bianche: dieci o dodici cerchiolini di oro, sottilissimi, al braccio, che tintinniscono sempre e a cui è sospesa una perlina. Si dice che le perline formino un nome. Quale nome? Forse due nomi, perchè sono molte. Moltissimi anelli, dei ventaglietti antichi e preziosi, ma sempre preziosi: e i guanti, solo i guanti, sulla sua persona, oltraggiosamente profumati.

Poichè nella donna bisogna desumere il suo tipo morale specialmente dal suo tipo fisico, dal suo modo di vestire, di camminare, di parlare: da quanto si è detto, Luisa Cima pare una di quelle creature deboli, gracili, che traggono, per contrasto, vivacità dalla loro debolezza e che hanno delle vibrazioni squisite nella loro gracilità. Ella pare, anche, delicatissima come se uscisse allora da una infermità che l'ha estenuata e come se riprendesse allora le sue giovanili e tenere energie. Certo è questo: che non possedendo nessuna bellezza, non avendo nessuna formosità, non facendo mostra di nessuna grande qualità estetica palese, questa donna è seducente. Quando è in una sala, in un teatro, dove deve tacere, stare quieta, in silenzio e al riposo, ella sembra una donnina insignificante, poco sana anche, anemica, senza nessun genere di attrazione: e può essere, è trascurata. Ma, l'ora passa: ella si muove, si leva, parla, sorride, va, viene, compare e scompare, gira, danza, pare che si spezzi in due, si gitta estenuata in una poltroncina, coi grandi occhi limpidi, maliziosi e teneri bene aperti, con la bocca socchiusa e la sua attrazione vincola, lentamente. L'uomo ha cominciato per considerarla come un qualunque inutile e trascurabile piccolo elemento muliebre: poi, la sua attenzione benevola ha pensato che Luisa Cima sia una cosetta carina e infine, infine, quando il fascino si è sviluppato, che Luisa Cima sia un prezioso piccolo gioiello. Sovratutto poichè l'uomo è un buon tiranno pietoso, un affettuoso tiranno protettore, lo lusinga la debolezza di questo tenue fiorellino, mancante di colore, piccolo fiore freddo—le manine lunghette e magrette di Luisa Cima sono sempre fredde—e la vanità della protezione lo spinge alla compassione e la compassione tende all'uomo, da quella donna, il suo maggiore tranello. Oh la donna sa farsi anche più minuta, più piccina, tutta trepida di misteriose paure, tutta tremante di freddo a un soffio, con quel volto da cui sparisce così facilmente il sangue, dove solo i maliziosi, assai più maliziosi che teneri occhi vivono alacremente: ella chiede, in silenzio, di essere protetta, sorretta, presa, chiusa nelle braccia, difesa contro tutto e contro tutti, carezzata sino alla voluttà, anche sino al delirio, lo chiede col tenerissimo languore del suo sguardo, in cui la malizia nasconde il suo trionfo!

Così, desumendo sempre da quello che essa fa, quello che Luisa è, si forma la figura morale di una donnina perfida. La parola perfida non basta: si può arrivare a perversa. Questa donna, sovra tutto, non ama che se stessa, così follemente, che quasi mai l'egoismo fu spinto a tale estremo segno. Ella si adora. Quando pare che ella ami follemente qualcuno, è per qualche segreta soddisfazione crudele del suo egoismo. La medesima felicità che dà al suo amante è fatta di egoismo e di perversione. Ne ha avuti due, di amanti, oltre il marito: il terzo amante è stato Paolo Herz. Ebbene, tutti e quattro, poichè il marito anche è stato suo amante, poichè ella è ritornata a lui tre volte tutti e quattro sono stati presi ed abbandonati, così, per capriccio caldo che parea passione, sono stati lasciati per fastidio improvviso; e niuno l'ha dimenticata, mai, neppure il marito, tutti hanno desiderato il suo amore, ardentemente, dopo l'abbandono. La sua perversione ha seduzioni latenti, prima, poi palesi, poi sfrontate: e infine, ella rimane nel sangue di coloro che l'hanno amata, come una infermità corrompitrice. Nell'egual modo come una donna leale, nobile e generosa ha bisogno di vivere continuatamente nell'esercizio di queste virtù, e di questi puri elementi nutrisce con compiacenza l'anima sua, così Luisa Cima chiede, per esser felice, di poter compire gli atti capricciosi e crudeli che le ispirano i suoi istinti di perfidia e di perversione. Ella non sa nè amare nè vivere che così: obbedendo alla mobilità del suo temperamento, vincendo un uomo ogni volta che le piace di vincerlo, inebbriandolo di amore e di dolore, abbandonandolo solo, fiacco, perduto, quando quest'uomo non le piace più, tradendolo immancabilmente, colmandolo di quante amarezze una vera perfidia possa versare nel cuore di amante, non solo tradendolo, ma avvelenandolo, non solo tradendolo, ma ridendo di lui, altrove, con altri, togliendoli, così, l'ultimo dovere e la ultima illusione. Pure, questa natura muliebre ha grandi scoppii di sincerità: la verità brutale le piace. Essa, a un certo momento, non si cura di fingere più. Come è, è. Ella non inganna: non tradisce. Quando ha tradito, lo dice, lo dichiara, lo sostiene, lo proclama, se ne vanta. Chi la vuole, deve accettarla come è. Chi la prende, si dà al più orribile fra i perigli sentimentali.

Luisa Cima, in questa storia di amore, è la tradita.

III.

Chérie non è un nome, naturalmente, è un soprannome. Nessuno sa troppo bene come Chérie si sia chiamata, al fonte battesimale e quale cognome ella porti, sui registri dello stato civile. Forse, a furia di udirsi chiamare Chérie, ella stessa ha dimenticato il suo vero nome. Fu il primo uomo che l'ha amata, quello che la chiamò Chérie, o sua madre, o un indifferente, o ella stessa si applicò questo vezzeggiativo francese? Chi lo sa! Nessuno, forse ha pensato mai a domandarglielo: forse, perchè accanto a lei si pensa a tutt'altro che a fare delle indagini sul suo nome: forse, perchè queste due sillabe sono così ben dette, per indicarla! Ella, del resto, è muta su questo: se un raro imprudente le chiede l'origine del dolce appellativo, ella china i suoi begli occhi verde acqua, e non risponde. D'altronde, dapertutto, per dire di lei, non la si nomina che come Chérie: il suo nome è ripetuto spesso, nei colloqui dei giovanotti alla moda, massime fra quelli più intelligenti e più veri amatori delle donne: anche le signore, talvolta, parlano di lei, ma quando sono sole e di sfuggita. Ella non firma che Chérie i suoi biglietti mancanti di ortografia, ma non mancanti di grazia. Questo soprannome, infine, ha un carattere soave e familiare che se contrasta con la vita di Chérie, risponde abbastanza al tipo muliebre che ella rappresenta.

Chérie non è più tanto giovane, ha circa trent'anni. Ma come a venti anni, ella ha sempre la medesima foresta arruffata di capelli biondi, dove, qua e là, una scintilla di oro si accende; nei suoi begli occhi glauchi frangiati di biondo, è sempre un perenne riso di giovinezza, e la bocca tagliata classicamente, simile a quella di una olimpiaca Diana, ha una freschezza umida incantevole. Non invecchierà tanto presto, Chérie, poichè il segreto della gioventù è nel genere della sua beltà, un po' confuso, un po' originale, in certi lineamenti squisito, in alcuni altri molto scorretto. Ella è troppo alta: ma la sua persona è snella, ha proprio quella flessuosità che sì facilmente si attribuisce alle donne di persona svelta, ma che è raramente reale. La carnagione è un po' rossastra, di una tinta sgradita che, in alcuni giorni, diventa color mattone; ma i suoi occhi sono immensi, o sembrano immensi, giacchè la pupilla azzurro verdina ha intorno una cornea non bianca, dai riflessi azzurri, ma la lieve ombra che è sotto le palpebre, ha anche qualche cosa di azzurro: ed è miope, Chérie, con questi grandi occhi nuotanti nelle tinte glauche, il che le dà un'aria sognante. D'altronde, saviamente, ella non adopera mai l'occhialino, lasciando ai suoi occhi vedere solo quello che vogliono e non togliendo loro nessuna di quelle contemplazioni vaghe ed errabonde. Ella ha il collo un po' troppo lungo, le spalle larghe, la cintura strettissima, il passo lieve e due o tre movimenti leggiadrissimi del capo.

Ma la cosa più seducente, in Chérie, la cosa che vi attrae, che vi prende, che vi tiene, che vi soggioca, è la voce. Qual voce! Bassa e velata, quasi sempre, questa voce dicendo parole più insignificanti, par sempre emozionata: talvolta vivida e sonante, in un'armonia di canto, pare che dia forza e lietezza a chi l'ascolta. La voce di Chérie è insinuante, è toccante, è candida, è amorosa: ella è già scomparsa e quella voce vibra ancora nel vostro cuore, con musicalità sentimentali, e certe frasi dette da quella voce, sembra che contengano delle melodie sconosciute. Ella sa bene questo, Chérie! E conoscendovi, dandovi un lungo sguardo dei suoi immensi occhi color dell'acqua marina, dicendovi: buona sera, ella sa di suscitare non so quale piccolo poema nelle anime più inaridite. Molti l'hanno voluta conoscere, solo per udirla a parlare, e, dopo, non hanno saputo staccarsene che a forza. Ella non ha mai cantato, però. Una strana avventura, è accaduta, a Chérie, in un veglione. Una signora della grande società, il cui marito era folle di Chérie, si è mascherata per trovare la sua rivale, per parlarle, per ingiuriarla, forse, per fare uno scandalo, certamente. La dama è entrata nel palco di Chérie e sono rimaste insieme mezz'ora, parlando a bassa voce, sul davanti del palco, guardandosi a traverso i buchi delle mascherine: lo scandalo non vi è stato, giacchè, a un certo momento, la dama si è levata, ha salutato quietamente ed è uscita. Dopo, interrogata, ha detto: mio marito ha ragione. Del resto, la dama è un po' strana e Chérie, pare, le abbia risposto con molta dolcezza e con molta umiltà.

Chérie è, relativamente, onesta. Non ha mai due amanti, nello stesso tempo; non ha mai preso, solo per il denaro, un amante brutto, vecchio o ladro; odia i banchieri e gli ebrei; e se le è capitato che il suo amante fosse egualmente ricco, giovane e bello, ella gli ha dato uno o due anni di amore, gli è stata fedele, gli ha fatto spendere una quantità di denaro, lo ha lasciato solo quando costui ha voluto esser lasciato e ha tenuto sempre due o tre mesi di lutto. Le si conoscono anche degli amori di cuore. Essa è ricca, infine. Vi è chi è restato legato, a lei, come si resta difficilmente legati a una Chérie: e chi ha voluto assicurarle una fortuna. Essa dà da vivere a una quantità di parenti poveri, marita le sue cameriere, partecipa segretamente a tutte le questue e a tutte le sottoscrizioni, ha delle devozioni speciali per certi santi e una paura orribile della morte.

La sua casa, d'altra parte, è elegantissima: ella ama le grandi serre, i grandi saloni, i mobili larghi e scolpiti— che dureranno più di noi, ella dice, con una lieve malinconia—i quadri antichi. I salottini, i mobilucci, i gingilletti, le statuine le sono antipatici. È troppo alta, per poterli amare, porta sempre dei vestiti o neri, o bianchi: bianco sul nero, talvolta, e nero sul bianco: ha delle scarpette nere senza tacco, con grandi fibbie di argento, di strass: porta dei mantelli ampii, foderati di magnifiche e nobili pelliccie e dei fili di perle, in tutte le grandezze e in tutte le ore, al collo. Sta più volentieri in piedi che seduta, più seduta che sdraiata: e ama di cavalcare, di remare, di ballare. È sana: o pare sana. Sta più volentieri sul mare che sulla montagna. Nel suo mondo la ritengono come una donna sentimentale, troppo, e troppo pretensiosa, quindi. Le piace di cenare, ma odia i discorsi liberi; beve e mangia benissimo, ma ha un inconsiderato amore per i fiori; non è mai triste, ma è capace di guardare la luna con occhi pensosi, Chi, fra le sue amiche, la chiama una posatrice, chi una seccatrice: qualcuna confessa che ella è buona.

Sì, Chérie è sentimentale, buona e anche un poco sciocca, Ha una sentimentalità tutta superficiale e una fantasia molto limitata. Le cose che dice sono, spesso, molto ingenue o molto sceme, ma le dice con grazia e sovra tutto con una voce! Sa qualche verso, ma per lo più, ne sbaglia l'autore: legge, ogni tanto, qualche libro, ma Ohnet è il suo autore preferito. Le piacciono gli eroi poveri e nobili, le eroine che muoiono, anzi che peccare: ma tutto ciò è simile a quello che può sentire una modistina o una onesta fanciulla un po' esaltata. Salvo che nella sua società di donne volgari e mal educate, di creature corrotte e avide, ella sembra un fiore di poesia, talvolta, mentre, poveretta, ha un piccolo cervello e una piccola anima. Per lei si va in rovina, egualmente, ma senza essere urtati in certi bisogni di finezza e di delicatezza; e quanti hanno finito per esserle grati di ciò, malgrado la loro rovina! Qualcuno, si è illuso su lei: ha creduto di trovare in Chérie della passione, della intensità, della profondità: ha supposto che grandi misteri fossero nascosti in quella anima: ha voluto attribuirle un desiderio d'ideale, combattuto dalla sua viltà: ha creduto che ella tenesse a redimersi. Costui ha avuto delle delusioni gravi. Chérie non è nulla di tutto questo: non pensa a nessuna di queste cose: quando gliele dicono, non le capisce: quando gliele ripetono, si sforza per comprendere, ma finisce per seccarsi ed esce in un discorso qualunque. Non bisogna dunque lasciarsi ingannare dalle inflessioni malinconiche della sua voce, quando tramonta il sole: dalle lacrime che velano i suoi grandi occhi, quando vede uno spettacolo pietoso: da certe furtive strette di mano, quando ode un bel discorso eloquente: da certi segni di croce che ella fa, quando lampeggia e tuona. Bisogna pensare sovra ogni altra cosa che ella è una donna fatta per l'amore, che ella è buonina, ma che è anche un poco stupida. Per aggiungere un ultimo tratto, Chérie è quasi sempre allegra: il che è consolante, per chi la conosce e per chi le vuol bene. Ella crede che l'allegria conservi la salute e la beltà; e a trenta anni, per questo, pare molto più giovane.

Questa Chérie, nella istoria di amore che qui racconto, è la complice necessaria del tradimento fatto da Paolo Herz a Luisa Cima.

IV.

Ogni tanto nella buona società, si parlava dell'amore di Luisa Cima e di Paolo Herz:

—Sarà una passione fugace, vedrete—diceva un uomo, che se ne intendeva molto—Paolo si stancherà presto.

—Del resto, sembra che l'ami molto poco—soggiungeva uno scettico.

—E Luisa è proprio una creatura nulla. Che ci trova, poi Paolo?—osservava un'amica di Maria.

Costoro e gli altri sbagliavano assai sul conto di Paolo Herz e del suo amore. Egli era preso seriamente. Non sapeva neppur lui come era accaduto. La prima volta che egli aveva vista Luisa Cima gli era parsa nulla. Varie altre volte, il suo giudizio non si era modificato. Una sera, però, ella teneva nelle mani un fiore di asfodelo, dal lungo gambo: e gli aveva parlato prestamente, ridendo, battendogli sul braccio con quel leggiero fiore, guardandolo con tenerezza e con malizia. Egli aveva ripensato a quel viso espressivo, pallidissimo sorridendo di compassione e di compiacenza. Ed è tutto. Più tardi, negli spasimi della passione mortale, perversamente, Luisa Cima gli aveva narrata la leggenda orientale dell'asfodelo e della montagna. Una montagna esiste, salda, forte, incrollabile, in un paese d'Oriente: non l'hanno vinta nè i cataclismi della natura, nè le mani degli uomini. Ma vi è anche un piccolo fiore fatato, l'asfodelo: esso, gracile, tenuto da una mano gracile, batte sulla montagna: e la montagna trema.

—Io possiedo il magico fiore—soggiunse lei ridendo, mostrando tutti i denti fitti e minuti, attraverso le labbra rosee e le gengive esangui.

Ma ciò fu più tardi, molto più tardi! Paolo Herz non ebbe sentore del suo gran periglio, che quando egli era completamente indifeso, senz'arme, senza forza e senza volontà. In realtà, Paolo Herz si lasciò andare a questo amore per Luisa Cima con una spensieratezza baldanzosa di uomo provato dalla passione e che è certo di dominare il proprio destino amoroso. E, in principio, questo amore che in lui doveva mettere radici così profonde e così vitali, non parve, forse, un flirt molto leggiadro e molto fine a cui Luisa si abbandonava con rossori di emozione di novella iniziata, in cui Paolo aveva l'aria di un maestro tranquillo, severo e pieno d'esperienza. Ella manteneva quel suo contegno infantile, di una semplicità assoluta quell'aspetto di creatura debole e vezzosa che si accosta, tremando, alle grandi ore tempestose, che ne è sgomenta ed attratta, che, considerando il pericolo con occhio di dubbio e di paura, pur sembra decisa ad affrontarlo. Quasi quasi, in alcuni momenti, Paolo Herz sentiva una pietà grande di questa donnina che invocava così audacemente e imprudentemente i folli ardori delle supreme febbri, e la guardava con occhio pieno d'indulgenza e di compassione, domandando a se stesso, se non fosse più onesto avvertirla, che le povere bianche dita, dalle unghie così scintillanti, si sarebbero bruciate, a scherzare col fuoco.

La pietà! Era un sentimento che preponderava, nel cuore di Paolo, per Luisa e che, forse, era l'origine di tutti gli altri. Pietà dell'uomo sano per la personcina malatticia, della persona forte per l'essere debole, del carattere saldo e leale per un carattere incerto, puerile, fatto di bizzarre fluttuazioni; pietà per quel volto tenue, per quei capelli troppo morbidi e troppo fini, per quelle cose pallidamente rosee, labbra, gengive, unghie! La pietà, sovra tutto, per questa creatura così piccina e così fragile, che era negata a tutte le lotte gravi dell'esistenza e a tutte le vittorie clamorose, che si doveva contentare di mezzi piaceri, di mezzi amori, di mezzi trionfi, per questa povera piccola cara che a tante, tante cose belle e alte della vita doveva rinunciare. Ah come la perversa leggeva negli occhi di Paolo, il poema amorosissimo di questa pietà, e come sapeva sospingerla e allargarla, come sapeva usarne, perchè questo uomo fosse completamente suo, preso dal pallido viso senza bellezza, dalla piccola persona senza nobiltà di linee, preso da quel tipo così capriccioso e fugace, preso da quella volubilità puerile, preso da quell'insieme di graziose miserie femminili, per la pietà! Come ella sfruttava, a suo favore, questa immensa pietà, facendosi contentare in tutti i suoi capricci, dettando lei tutte le condizioni di quell'amore, imponendo la sua volontà di donna debole, piegando quella volontà di uomo forte, imperiosa nella sua grazia morbosa, inquietante nei suoi turbamenti improvvisi, suggestiva di tutte la stranezze e pallida persuaditrice di ogni bizzarria!

Nè solo la sicura e schietta forza di quest'uomo doveva esser vinta dalla debolezza di quella donna, rinnovando anche una volta, come per migliaia di anni, le antiche favole delle seduzioni ebree e greche, ma la fantasia e i sensi di Paolo Herz dovevano subire le lusinghe più inaspettate, dovevano esser tormentati e carezzati da un'insaziabile curiosità. Colui che aveva assunto per la sua età, per la sua conoscenza della vita, per la sua esperienza dell'amore, la posizione di maestro, di guida, di consigliere, in questo che egli chiamava, senza saper di dire così bene, l'ultimo amore della sua vita, si trovò innanzi a una scolara stupefaciente. Vi era in Luisa Cima un così singolar miscuglio di corruzione spirituale e di giovanile poesia, di candore e di menzogna, di gelido calcolo e di squisita grazia, che Paolo Herz passava di sorpresa in sorpresa, che tornava a casa, dopo i convegni di amore, disgustato, incantato, irritato, estasiato, sempre in preda a una esaltazione. Ella si mostrava a lui in tutte le sue faccie, in tutti gli aspetti di un temperamento egoistico e imperioso ella era impertinente e affettuosa, mai soddisfatta, gelosissima, civettissima, narrando tutte le sue conquiste, violando tutte le delicatezze dell'amore, senza scrupoli, senza carità, disumana, o pure talmente ammaliatrice, che lasciava il suo amante confuso nell'ebbrezza, ebbrezza orribile, ma che importa? Ebbrezza!

Quando egli si accorse che, a trentasei anni, essendo uscito salvo, incolume da due o tre violente passioni, avendo penetrato l'anima femminile in tutte le condizioni e in tutti i paesi con lo sguardo freddo dell'osservatore, avendo saputo molte, troppe, delle verità dell'esistenza, avendo la piena coscienza del proprio valore e del proprio diritto, quando si accorse, dico, che egli apparteneva, spirito e sensi, a quella piccola donna, dalla testina bruna su cui parea si levasse il ciuffetto lucido di penne di un uccellino, e che egli era un suo prigioniero per la vita e per la morte, era tardi, era troppo tardi. Sentì il peso del ferro, ai polsi, ma non più il vigore per iscuoterlo. Atroce scoperta e atroce giornata! Ella era stata, in quel giorno, assolutamente perfida, assolutamente cattiva, con lui: e invano egli aveva voluto, sorridendo, diradare questa mala volontà perversa che animava Luisa Cima. Il piccolo idolo giapponese, ridendo di un crudel riso, mostrava i suoi dentini minuti e le pallide gengive, crollava la testina, scuoteva le spalle e diventava anche più malvagia. Paolo Herz ebbe un moto d'ira, il primo. Partì da quella casa, pensando che ella non lo avrebbe richiamato. No. Canticchiava ella, come un fanciulletto. Suppose che, giunto a casa sua, un biglietto lo avrebbe richiamato. No. Si torturò tutto il pomeriggio, non uscendo, attendendo questo appello. No. Anzi qualcuno gli disse che Luisa Cima era andata alla passeggiata, e che dei giovanotti l'accompagnavano e che ella rideva.

—Rideva?

—Sì, rideva—ripetette l'amico.

Alla sera, come l'ora avanzava, solo, desolato, disperato, Paolo Herz andò alla casa di Luisa Cima affrontando tutti i rischi di questa visita in un'ora insolita. Per fortuna, ella era sola, leggeva, bevendo una tazza di the. Il suo viso era sereno, nè avevano traccie di lacrime i suoi occhi: già egli non l'aveva mai vista piangere. Ella rosicchiava dei biscotti inglesi. Muto, imbarazzato, con un dolor vivo nel volto, Paolo Herz la guardava: ed ella non comprese, non volle comprendere: egli dovette dirle tutta la sua spasimante giornata, di cui Luisa si meravigliava molto, con un'aria di disinvolta innocenza: e infine, quando egli scoppiò in rimproveri e delle lacrime di collera gli sgorgarono dagli occhi, ella trovò modo di dargli tutti i torti e lo obbligò a chiederle perdono. Obbligò? Fu lui che, contrito, compunto, persuaso di aver maltrattato un angelo bianco e piccino, convinto di essere il più ingiusto e il più villano fra gli uomini, s'inginocchiò innanzi a Luisa per impetrare la sua grazia. Con quale stento gli fu accordata, come cadde dall'alto, come parve proprio una degnazione sovrana! Ma la ottenne. Era tardi, quando uscì da quella casa, folle di gioia. Il cielo stellato brillava sul suo capo; i sentori della primavera olezzavano intorno a lui; la terra pareva elastica, sotto il suo passo: e a un tratto, il cielo gli parve funebre, un odore di morte gli salì al cervello e la terra roteò sotto di lui, ed egli intese che era perduto, si sentì perduto, perduto.

V.

Ogni tanto, nei giorni lunghi e agitati, eppure monotoni e tetri dell'abbandono, Paolo Herz si metteva a calcolare mentalmente per quanto tempo Luisa Cima lo avesse amato. Nella realtà delle parole, ella gli aveva detto di volergli bene, per più di un anno, di seguito: ma l'infelicissimo amante abbandonato, si rendeva adesso, un conto ben preciso delle menzogne di Luisa e riducendo, riducendo, togliendo tutto il periodo preliminare in cui Luisa Cima lo aveva amato un pochino, togliendo tutto l'estremo periodo in cui la perversa donna lo aveva amato sempre meno, sempre meno, egli, nella realtà dei fatti aveva limitato questo amore a quattro mesi, dall'aprile al luglio, dalle prime rose agli ultimi papaveri. Quattro mesi! Che sono, innanzi alla vita di un uomo? Un soffio fugace: il tempo di un bacio, di un sorriso, di uno sguardo incantato e incantevole, null'altro. In quei quattro mesi, come se fosse stata travolta dal vortice della focosa e indomata passione di Paolo Herz, la donna era stata veramente sua, in una di quelle unioni profonde, così rare, così preziose e che vincono per sempre le anime che comprendono l'amore. Forse, Luisa non aveva fatto che subire l'impeto sentimentale e il trasporto sensuale di Paolo Herz, essendo ella creatura di tempra e di fibra molto più tenue, molto più inerte; forse, ella era stata solo l'eco di quella voce calda e vibrante di passione, alla cui armonia, dice il divino poeta germanico, rispondono i cieli commossi e palpitano le lontanissime stelle: forse ella non era stato che l'istrumento sonoro e vuoto di quella magnifica sinfonia. Ma per quattro mesi, in una primavera estasiante di luce e di profumi, in un'estate ardente di cui ogni notte era indimenticabile, l'illusione era stata perfetta e niun acido corrosivo di riflessione amara, di ricordo doloroso, di rimpianto inconsolabile poteva mordere questo periodo di amore. Egli non indagava. Sentiva di essere stato amato; sentiva di aver tenuto fra le braccia un essere vivo e innamorato, fremente di leggiadria e di entusiasmo, giocondo e felice; sentiva che una giovinezza seducente, piena di una delicata poesia, gli era appartenuta, esclusivamente, e gli aveva data una ragione suprema all'esistenza. Quando già, in lui, gli anni avevano fatto il loro lavoro di stanchezza, di delusione, di segreto affralimento; quando tanti piccoli e teneri ideali erano tramontati, in lui; quando, anche lui, portava nel suo cuore il cimitero delle speranze più balde, questa donna, questa Luisa Cima, nei cui incerti occhi rideva il sorriso della tenerezza e della furberia, questa donnina breve e snella, e fine, e infinitamente cara, gli aveva dimostrato che gli anni si obliano, quando si ama; che tutte le delusioni spariscono, quando si nutre la illusione dell'amore e che non vi sono morti, dove vive l'amore. Quattro mesi! Niente: e tutto.

Ma dietro questo tutto delirava lo spirito di Paolo Herz, nell'abbandono e il suo corpo soffriva, come se fosse crocefisso. Giacchè ella lo aveva lasciato. Così. Non aveva voluto più saperne di lui. Aveva finto per poco tempo, verso la fine. Era crudele, Luisa: ma molto logica, nella sua crudeltà. Quando non si ama più, non si ama più. Mancò ai convegni. Non rispose alle lettere. Non volle capire l'interrogazione disperata degli occhi di Paolo Herz, quando lo incontrava fra le persone: lo sfuggì, per quanto le era possibile, innanzi a una persecuzione ostinata, accanita che egli la faceva. Infine, ebbero un colloquio. Fredda muta, ma tranquilla, ella lo sogguardava, con gli occhi limpidi, dallo sguardo nitido e duro.

—Di' che non mi ami più!—gridò lui, in un accesso di furore, pronunciando la frase per lui terribile—Di' che non mi ami, non mentire più, bugiarda, bugiarda!

—Non mento, Paolo. Non ti amo più.

Esterrefatto, egli tacque. E nelle due o tre altre volte, quando annoiata, gelida, infastidita volgarmente, ella venne a lui, la stessa verità nuda e semplice sgorgava da quelle rosee labbra.

—Non ti amo. Non ti amo.

—Ma perchè, ma perchè?—gridava Paolo, folle di collera e di dolore.

—Così.

—Non sai la ragione?

—Non la so. Non ti amo, ecco.

—Sei una scellerata, sei un'infame.

—Sarà: ma non ti amo.

Che dire? Che fare? Chi non ama, non ama. L'uomo tradito, almeno, può uccidere. Ma chi non è più amato, non ha neppure il diritto di uccidere, egli ha avuto la sua parte di bene, quando è finita, non vi è più nulla da chiedere, nulla da pretendere. Che fare? Imporre l'amore? Come, come? Esso non s'impone, che quando l'altro non ha cominciato ad amare ancora; non già, quando ha finito. Creare dal niente, con un miracolo, si può: far risorgere un un morto, no. Che fare? Domandare la pietà della menzogna, la carità dell'inganno? Luisa Cima non possedeva nè il dono della carità, nè quello della pietà: e si seccava di mentire, allo scopo odioso di prolungare una falsa posizione. Che fare? Provocare in duello qualcuno? Chi? Perchè? Luisa Cima non aveva trovato il successore, ancora. L'occhio avido e geloso di Pietro Herz che la sorvegliava, dappertutto, non aveva ancora scovato il rivale. Ella svolazzava, lieta, tenera, brillante, capricciosa, e libera, libera, sovra tutto, godendo tutta la sua libertà, con una voluttà che ella non nascondeva. Che fare? Uccidersi? Ma Paolo Herz, ardentissimamente innamorato, non finiva mai di sperare che Luisa Cima sarebbe ritornata a lui, un giorno, più tardi, più tardi.

—Tanto l'amerò—pensava che ella s'intenerirà, E poi, si ricorderà… —quale amore simile al nostro?

Tenace e inutile speranza. Ella non voleva tornare, ella non era tenera che superficialmente e tenera solo quando amava: ella si ricordava, sorridendo e non rimpiangendo; il suo arido cuore non si dilatava, nella nostalgia, mai! Ella non riceveva più le lettere di Paolo Herz, restituendogliele chiuse; ella non andava, dove lo poteva incontrare, o vi andava serena in tanta indifferenza, da essere scoraggiante; ella resistette a qualunque tentativo, dei più folli nell'audacia, che egli facesse, per avere un colloquio; ella non sapeva, non voleva sapere quante notti egli passasse sotto le sue finestre, vegliando, con gli occhi rossi dalle lacrime, col passo di un fantasma. Nulla!

Del resto, non aveva ella ragione, innanzi alla ragione, di agire così? Torto poteva averlo; Luisa Cima, innanzi al cuore umano e alle sue arcane leggi: ma ella si rideva di questo cuore umano, come di un fiore rettorico.

Il dolore per l'abbandono di Luisa Cima ebbe in Paolo Herz uno stadio acuto di una violenza folle ed inane. Egli commise una quantità di atti irragionevoli, furiosi e strazianti nello stesso tempo, ma che non ottennero nessun risultato, nè di riaprire il picciolo duro cuore di Luisa, oramai serrato per sempre all'amore di Paolo, nè di placare il tormento dell'abbandonato. Egli dimenticò ogni dignità di uomo, innanzi a lei, arrivando a tutte le viltà e arrivandoci inutilmente, egli si degradò in tutte le concessioni, in tutte le umiliazioni senza ricavarne il più semplice compenso, la finzione della pietà, in Maria: giunse, Paolo Herz, uomo, intelligente, fiero, nobile a farsi disprezzare ed anche, a meritare il disprezzo di quella femminetta frivola e crudele. Fu, anche, Paolo Herz, senza pudore nella sua disperazione: non avendo nè forza, nè energia per reprimerla, per dissimularla, egli la mostrò a tutti, agli amici e agli indifferenti, ai parenti e agli estranei, egli trascinò questa disperazione dell'abbandono, dappertutto, nelle vie e nei caffè, nei salotti intimi e nei teatri, nelle conversazioni lunghe e folte di confidenze, come nei discorsetti brevi e leggieri. Per qualche tempo, egli attirò schiette compassioni e false compassioni: il compatirlo, l'esecrare Luisa, fu di moda: poi, la gente s'infastidì di questo volto tetro; e il ridicolo finì per affogarlo. Vari dettero ragione a Luisa Cima; era troppo noioso, troppo affliggente, Paolo Herz, ed ella aveva fatto benissimo a piantarlo. Anzi, Luisa attrasse a sè molte simpatie; diventò oggetto di curiosità amorosa; e l'abbandono di cui ella aveva desolato il cuore di Paolo, le conquistò due o tre amori, in cui ella poteva scegliere, se volesse, il miglior successore. A un certo punto, dunque, quattro mesi dopo l'abbandono, Paolo Herz si trovò in uno stato d'anima, anche più atroce di quattro mesi prima: non solo senz'amore, ma senza stima: non solo senza felicità, ma senza coraggio per sopportare l'infelicità: non solo triste mortalmente, ma avvilito: non solo assorbito in un'idea ed in una immagine ma incapace di trovar distrazione: non solo disprezzato, ma disprezzantesi. Tutto il suo mondo interno era crollato: e nessuno, nessuno, nè gli altri, nè egli stesso potevano ricostruirlo. Pensava, spesso, di dover morire; decideva, spesso, di uccidersi. Ma Luisa la piccoletta timida, la paurosetta vezzosa, aveva anche reso vile Paolo. Egli non combatteva neanche più col dolore, come le creature umane che hanno ancora una volontà, correndo l'alternativa di vincere il dolore o di farsene vincere. No. Egli si lasciava colare a fondo, ma senza naufragio completo, ma senza catastrofe. La gente levava le spalle, infastidita, vedendolo. È un imbecille —dichiaravano gravemente molti sciocchi. Paolo trovava che quegli sciocchi avevano ragione.

Fu verso il novembre che Luisa Cima partì, col marito. Una terza luna di miele, si diceva, e non era quasi una malignità, tanto ella stessa lo faceva intravvedere, tanto ne sorrideva, con una gran tenerezza negli occhi scintillanti. Paolo Herz, non lo seppe che dieci giorni dopo la partenza: e nella immensa fiacchezza sua, non fece un passo per raggiungerla. Vagamente, nella sua testa si formava il progetto di uccidere il marito di Luisa, così, un progetto nebuloso e velato: ma il suo spirito a poco a poco cadeva in un torpore grande, quello che sovraggiunge dopo i grandi esaltamenti. Una sonnolenza morale e anche fisica finiva per dominare la sua vita, quella dei bimbi che hanno troppo pianto. L'autunno era molto triste: e in cerca di maggior silenzio, di maggior tristezza, egli andò via, una mattina, recandosi in un lontano e brutto paese di provincia, dove aveva una casa, dei beni, dei coloni. Intendiamoci, non era in campagna, non era in una villa, non era in una fattoria: ma proprio in una casa provinciale, fredda, nuda, polverosa: in un paese pieno di gente meschina e goffa: in un ambiente così assolutamente diverso, così contrario a ogni poesia, a ogni estetica, a ogni eleganza, che Paolo Herz potette veramente credere di essere lontano seimila miglia di cammino e cento anni di tempo, dall'ambiente dove aveva amato Luisa.

Fu in questo paese antipatico e in quella solinga casa che il dolore di Paolo Herz, si fece meno acuto e più profondo: fu colà, dove nulla e nessuno parlava al suo cuore e alla sua fantasia, che egli entrò in quel pericoloso, fatale periodo della familiarità col dolore. L'eccitamento folle era caduto: l'alta temperatura si era abbassata: l'acuzie si era moderata: ma l'infermo era entrato in una morbosità cronica, anche più temibile, poichè di queste non si guarisce. Innamoratissimo: non con la passione acre e mordente di un uomo che il giorno prima poggiava il suo capo sovra un seno amato e che è stato brutalmente scacciato da questo seno, ma col desiderio languido e lacrimoso di chi tende le braccia a una figura sparente, e le braccia ricadono vuote sul freddo e anelante petto. Non più, nel sangue, il bollore vulcanico che consuma l'energia e che lascia solo rovine fumanti, sul suo passaggio: ma il gelido, tenace brivido della solitudine amorosa, questo ribrezzo grande del non esser più amati, questo sgomento quasi infantile di chi si sente non protetto da nessun amore. La violenza era distrutta: ma restava la perseveranza, l'ostinazione, queste forme così spaventose del sentimento. Giacchè, in questa trasformazione dello stato d'anima di Paolo Herz, tutto il vecchio fondo sentimentale, soffocato nell'anima, prendeva il disopra, si allargava, si effondeva dovunque, si costituiva permanentemente. Le creature passionali sono, infine, le più fortunate, nelle battaglie dell'amore: la vittoria è rapida, l'intensità del trionfo è inebbriante, il dolore della fine è alto, ma breve, la loro guarigione è facile, ed è spontanea. Le anime sentimentali sono destinate alle lunghe e tenaci sofferenze, quasi sempre inutili e quasi sempre incapaci d'ispirare pietà.

Così, l'ossessione che l'immagine di Luisa Cima esercitava, in quel lontano paese, in quella bruttissima casa, sullo spirito e sui nervi di Paolo Herz, diventava sempre meno sensuale. Le scene di grande ebbrezza che, nei primi tempi, lo avevano torturato sino al delirio, adesso si allontanavano nelle brume della memoria: e tutto quello che era affetto, tenerezza, effusione di amore candido e buono, si faceva più preciso, più assorbente.

Inconsolabile rimpianto non tanto dei baci ardenti, delle supreme gioie, quanto delle miti carezze, delle dolci parole, delle voci amorose, delle soavi comunioni dello spirito! Inconsolabile, inconsolabile, il povero deserto cuore sentimentale, perchè gli era mancato per sempre il pascolo dei suoi più alti e più puri desideri, perchè gli era stato tolto l'amore, l'amore caro e bello, l'amore tutto giovinezza e tutto innocenza, l'amore che è sorriso, giocondità, festa celata del cuore e fulgore di luce negli occhi! Nei lunghi sogni Paolo Herz cercava di ricordare tutto, ogni scena, ogni motto, ogni intonazione del volto di Luisa, quando era giunta al convegno, quando ne era partita, cercava di fissare tutta la istoria sentimentale di questo amore: e nell'impeto solitario di un cuore ammalato della nostalgia d'amore, salivano ai suoi occhi le dolenti lacrime che nessuna mano di donna avrebbe rasciugato mai più. Poche, scarse, rare, gelide lacrime che chiunque ha amato con tenacia, con fedeltà, anche nell'abbandono, conosce bene: e che sono più amare e più corrodenti di tutti i singulti della passione. Gli si gelavano sulle palpebre, sulle guance, mentre il pallido viso dell'abbandonato ancora più si scolorava, nel lento, molle e ostinato dolore.

Così il suo amore per Luisa Cima, distaccato dalla immagine viva e parlante, finiva per adorare un fantasma assai più bello, assai più gentile: questo amore diventato solitario, monologo profondo di dolore, prima, di mestizia, poi, si sollevava dai bisogni terreni; questo amore, nell'abbandono, obbliava le oramai lontane feste della passione, e si spiritualizzava. Dai sensi liberati, dai nervi placati, dalle fibre atonizzate, l'amore di Paolo Herz per Luisa Cima, passava nelle contemplazioni dolci e dolenti sentimentali, viaggiava nelle purissime regioni dell'anima.

E nel silenzio della gran casa deserta di provincia, in un'ora alta della notte, solo con la sua coscienza e con Dio, innanzi alle lontane stelle, egli giurò, a se stesso e all'arcano Spirito delle anime, che, per sempre, egli non avrebbe amato che Luisa Cima sino alla morte, e che giammai avrebbe violato la fedeltà a questo amore. Quello che egli non aveva mai voluto giurare, nella pienezza dell'amore corrisposto, nelle ore più alte e più larghe di felicità, lo giurò quando era stato abbandonato, quando la creatura crudele e perversa gli aveva volto le spalle. Era uomo, allora, ed era nel massimo vigore della sua salute e della sua mente; egli conosceva tutte le invincibili miserie della natura umana, tutti gli errori del sentimento, tutti i tranelli degli istinti, e sapeva bene che non si può giurare, quando si ama! Ma tolto bruscamente dalla realtà palpitante della passione, gettato in pieno sogno di dolore, esaltato dal suo spasimo, egli assurse ad un'idea più nobile e più pura di questo amore, egli credette poterlo collocare a tale altezza che nessuna delle umane macchie potesse lederlo. Quando Luisa Cima era nelle sue braccia, quando eran suoi la piccola anima malvagia e il leggiadro piccolo corpo, non aveva avuto fede nè in sè, nè nel sentimento: quando ella si era a lui strappata, per sempre, giurò, giurò che egli sarebbe stato suo, non più di nessun'altra, suo, suo, unicamente suo.

Egli navigava, così, in una allucinazione completa. Tutto il sentimentalismo della sua natura, adesso, trionfava sul resto della sua esistenza o ne trasformava ogni manifestazione. Di nuovo, egli scriveva a Luisa Cima, ogni mattina, ogni sera, delle lunghe lettere, come ai bei tempi, quando le ore brevi del distacco erano ancora abbreviate da questa corrispondenza epistolare; egli le faceva delle domande, delle interrogazioni quasi che ella fosse lì, per rispondergli, quasi che giammai si fosse interrotta la loro comunione di spirito. Queste lettere, egli non le mandava; eppure bizzarramente, egli ne aspettava la risposta, egli riprendeva a scrivere, rimproverando dolcemente l'amata. La sua illusione talvolta, si prestava a miraggi incredibili. Egli si faceva portare, da un giardiniere che aveva il gusto dei fiori, in quell'atroce paese di provincia, dei fasci di fiori, gli ultimi rami degli arbusti autunnali e li riuniva nel modo che ad essa piaceva: e mettendoli nei vasi, pareva che preparasse tutta la bellezza floreale di quell'antico nido d'amore, dove si vedevano, dove egli passava tante ore, anche senza lei, prima che ella giungesse, nella impazienza dell'attesa, dopo che ella era partita, nella contemplazione serena della felicità. Ah non dovea più giungere, Luisa, coi suoi piedini, trottanti nelle sue scarpette, col suo bel volto dietro la sottile veletta, ma che importa, egli l'aspettava ancora, egli l'aspettava sempre, egli l'amava ed era suo!

Il suo squilibrio si faceva più grande, come il tempo passava. La solitudine di quelle tristi giornate di autunno, in quella bruttissima casa vuota, l'aggirarsi sempre in quelle stanze deserte e sonore, il non uscir mai, il fuggire ogni contatto umano, creavano a Paolo Herz un ambiente strano, ma pur confacente alla sua allucinazione sentimentale. Privato di ogni spettacolo umano e di ogni sua seduzione, distratto da ogni cosa che questo segreto, taciturno amare non fosse, non sapendo, non volendo altro che amare solitariamente, sconsolatamente, disperatamente Luisa Cima, tutto era favorevole a questo ultimo sviluppo del sentimento. Nulla che non fosse grigio e monotono e mesto, intorno a lui; non una, delle lusinghe della vita che lo attirasse. In certi momenti, in una suprema menzogna che la sua anima gli diceva, egli credeva di aver disciolti i legami duri che vincolano l'uomo all'argilla: gli pareva di aver potuto compiere il miracolo di essere un'anima, solamente un'anima, fatta di una purissima essenza spirituale, nudrita di amor puro. Solingamente, egli ebbe un eccesso d'inane orgoglio. Gli sembrò di essere diventato una creatura perfetta. Egli solo sapeva amare. Cacciato via, egli si ostinava ad amare; abbandonato, egli restava costante; schernito, egli era ancora l'umile adoratore; brutalmente vilipeso, egli restava buono, onesto, fedele. Sovra tutto, fedele! In alto, in alto era messa Luisa, nel suo spirito e nessuna mano poteva tentare di abbatterne la figura, di toglierle quel unico posto. Nessuna mano! E, superbamente, egli credette che giammai prima, giammai più, nel mondo, una donna era stata amata, potesse essere amata, come Luisa Cima da Paolo Herz.

Nella metà di dicembre, in una notte freddissima, Paolo Herz decise di partire; e all'alba livida, gelida, egli entrò nel treno che lo doveva ricondurre in città.

VI.

Chérie era lunga distesa, sulle pelliccie bianche e morbide che coprivano un gran divano basso: e la sua testolina bionda arruffata si affondava nei piccoli e molli cuscini di seta bianca. Una gran vestaglia di mussolina di seta, tutta nera, a piegoline fitte, dal capo ai piedi, la vestiva mollemente e appena lasciava vedere, nelle sue onde nere smorte, i lunghi e sottili piedi, calzati di finissime scarpette nere, quasi senza tacco. Ella era sola: e non faceva nulla. Non si annoiava neppure. Teneva le braccia incrociate dietro il capo e guardava il soffitto a cassettoni del suo magnifico salone, così austero nel suo addobbo e nel suo mobilio. Ella non fumava, non dormiva, non sonnecchiava, non sognava: stava, così. Erano le tre pomeridiane, pioveva e il cielo era basso, plumbeo e triste. Paolo Herz entrò.

—Oh caro uomo, vi si rivede!—ella disse, con una espressione molto gentile e non mancante di cordialità.

—Non ero morto—egli rispose, formando un pallido sorriso.

—Non l'ho mai pensato. Lontano, eh?—e gli dette la mano.

Egli baciò quella mano, lievemente, ma la trattenne un pochino sotto le sue labbra.

—Lontano, sì.

—Un gran viaggio? Dove?

—Che viaggio! Una dimora in provincia, niente altro, Chérie.

—Noiosa?

—No.

—Triste, allora?

—… sì.

—Eravate voi, triste?—domandò ella, con la sua meravigliosa voce cantante un'armonia strana.

-… non so. Credo… credo che sia stato io, triste—Paolo Herz soggiunse, vagamente.

—E vi siete consolato, Paolo?

—M'immagino di no… certamente, no.

—Eh! passerà—ella mormorò, con un tono di voce profondo e toccante.

—Questo dite voi, Chérie?

—È così. Passerà

Un silenzio. Egli era seduto accanto a lei, ma non vicinissimo. Adesso, ella teneva le braccia e le mani abbandonate lungo la persona. Sul nero, le mani erano candidissime: ma troppo gemmate.

—Dove siete stata, voi, Chérie?

—A Saint-Moritz.

—Bello, è vero? Ci manco da tre anni.

—Bellissimo. Ma quell'aria mi ha fatto male, un poco.

—Qualche cosa può farvi male, Chérie?

—Pare. Ci respiravo male. Credereste, Paolo? Vi è stato un medico malinconico che pretende essere ammalato il mio cuore.

—Il vostro cuore, Chérie?—e un po' di sorpresa gli si dipinse sul volto.

—Supponete che io non abbia cuore Herz? Quando vi voglio tanto bene—e la disinvoltura era velata da una espressione sincera.

—Anche io ve ne voglio moltissimo; ma ciò non prova nulla.

—Nulla.

—Come può essere ammalato, il vostro cuore? Siete così florida e leggiadra!

—Vi piaccio, eh?—-diss'ella, con un sincero moto di soddisfazione, che quasi, escludeva la civetteria.

—Assai.

—Meno male—mormorò la—donna, con un discreto sorriso.

—Cioè?

—Era tempo che vi piacessi un poco, abbastanza, moltissimo—ella proferì, con la bella voce toccante.

—Non è mai tardi—egli soggiunse, con galanteria.

—Allora, è inteso che mi fate la corte?—disse Chérie, ridendo e battendo le mani.

—È inteso.

—Continuate, allora.

Egli la guardò trasognato, e tacque. Chérie si era subitamente fatta pensosa.

—Siete stata sola, a Saint-Moritz?—e fece uno sforzo per parlare.

—Solissima.

—E Carlo?

—Carlo è partito—ella disse, a bassa voce, voltando il capo in là.

—E da quando?

—Da luglio.

A quella data, egli fece un fugace atto di sorpresa.

—Ritornerà presto?

—No: non presto—e le candide dita scherzavano con una gran croce di turchesi che le pendeva sul petto.

—Ma ritorna?

—Forse, no.

—Dove è andato?

—In Australia.

—E perchè?

—Era rovinato, poveretto—e la sua voce aveva una schietta intonazione di pietà.

—Poveretto!

—È incredibile quello che io spendo, senza accorgermene—confessò Chérie candidamente.

—Vi voleva ancor bene, quando è partito?

—Un pochino, credo.

—E voi?

—Anche io, un pochino.

—E… dunque?

—A che serviva, restare? Egli avrebbe sofferto molto più: e mi secca, far soffrire.

—Siete buona, voi.

—Non sempre, non sempre. Ma tutti siamo capaci di far male.

—Tutti, tutti—egli ripetette, pian piano.

Ella lo guardava, ora coi suoi begli occhi di un così largo e fluido azzurro.

—Vi ha scritto, dall'Australia?

—Due volte, delle lunghe lettere.

—Gli avete risposto?

—Non troppo—ella disse, lealmente.

—Perchè non troppo?

—A che lusingarlo?

—Il cuore è già occupato, di nuovo?

—No—dichiarò Chérie, semplicemente.

—E che fate?

—Mi riposo.

—Perchè non amate un poco me?

—Io vi amo—-ella disse, con chiarezza—ma non serve.

—È una cosa molto graziosa essere amato—mormorò lui, prendendo una delle mani di Chérie e tenendola fra le sue, senza stringerla, giuocando con le bianche dita troppo gemmate.

—Vi piace, Paolo?

—Non mi è mai piaciuto altro nella vita.

—L'amore?

—Essere amato, quando amavo.

—E vi è sempre accaduto, è vero?

—L'ho supposto—egli disse, con un sorriso fra ironico e mesto. Ma chi ne sa nulla!

—E ora?

—Ora… ora vuota, Chérie—soggiunse lui, con un sogghigno, per indicare che quella freddura non era il segnale dell'allegria.

—Non vi amano?

—No.

—E perchè?

—Non ne sono degno, pare.

—Poveretto, poveretto—disse la biondissima, con la sua cara voce armoniosa.

—Brava, compatitemi pure così. Ditemi delle altre parole di pietà, con la medesima voce.

—Vi fan bene?

—La vostra voce è balsamica.

—Se la ferita è troppo profonda, essa non guarisce, povero Paolo—diss'ella, additando il cuore e sfiorandolo lievemente con la mano.

—Provate, provate.

—E se sbaglio la cura?

—Ciò non guasterà l'alta vostra reputazione sanitaria, Chérie.

—Mi seccherebbe, non guarirvi—mormorò, un po' pensosa.

—Perchè? Per amor proprio?

—Non so. Credete di essere il primo, venuto da me, in un giorno di tristezza, a piangere il suo dolore e a chiedere dei sorrisi?

—Non ignoro la vostra missione di consolatrice universale. Ma io non piango, vedete. Sono sulla via della guarigione.

—Da quando?

—Da tre quarti d'ora.

—Benissimo, benissimo, fatemi la corte—e rise un poco.

—Mi accettate?

—Si accetta sempre un corteggiatore.

—Poco buona, Chérie, in questo momento!

—Io? ella domandò, distratta, mentre egli le aveva preso le due mani e le baciava, ora l'una, ora l'altra, con piccoli baci che parevano dei soffi.

—Le vostre mani sono più buone delle vostre parole—e si chinò per darle un bacio sulle labbra.

Ma ella, con moto vivace, sebbene senza ira, lo schivò.

—Cattiva!—egli disse con molta dolcezza, ma con una vera emozione nella voce.

—Pessima—Chérie aggiunse, ridendo.

—Me ne vado—e si alzò, Paolo, senza guardarla.

Ella lo seguì, con gli occhi, attentamente; ma quando ebbe fatto pochi passi verso la porta, lo richiamò:

—Paolo, Paolo!

Qual voce, in quelle due sillabe! Che melodia tenue e soave! Egli ritornò e venne ad inginocchiarsi presso il gran divano bianco dove ella giaceva.

—Scellerata creatura, mi richiami, adesso?—e tentò novellamente di baciarla.

La resistenza fu più debole. Un leggiero rossore si distendeva sulle guancie e sulla fronte della bellissima creatura.

—Che vuoi, dunque?—ella domandò, a bassa voce, levando la testina, per guardarlo negli occhi.

—Che tu mi voglia bene, un poco.

—Io te ne voglio.

—Come agli altri tuoi amici?

—… già.

—Diversamente, voglio.

—Tu vuoi essere amato, pour tout de bon?

—Sì, cara.

—Si dice Chérie e non cara.

—Chérie, Chérie, Chérie!

—Il mio cuore è malato, non posso amarti.

—Sono bugie dei medici.

—Ti assicuro… pare che io lo abbia consumato.

—Consumalo un pochino per me, Chérie.

—Paolo, Paolo, io sono stata malata a Saint-Moritz.

—Chérie, tu sempre così allegra, fai la Margherita Gauthier, adesso?

—È una sciocchezza, io sto benone—proclamò ella, con un grande scoppio di risa. I bianchissimi denti scintillavano, fra le labbra umide.

—Ridi, ridi ancora un poco—egli le disse ansiosamente, tutto rinfrescato, tutto confortato da quella florida gioventù, da quella gaiezza serena, da quella bellezza deliziosa.

—Io morirò in una risata, sembra…—e rise ancora, così seducentemente, che egli restò incantato.

—Tu sei la giovinezza; tu non puoi morire. Chérie, Chérie, tu avrai sempre venti anni!

—Si ha venti anni, quando qualcuno ci ama.

—Ti ama il mondo intiero, io credo.

—Ma no.

—Fa malissimo, allora.

—Tu non mi ami, intanto.

—Io? No. Ti adoro.

—Voi mentite, signore—ella gridò, con un tono del Padrone delle ferriere.

—Io ve lo giuro, signora marchesa—-disse lui, imitandola.

—Su che lo giurate voi, dunque?

—Su quanto ho di più caro al mondo, signora, l'onore.

—Non sugli avi vostri?

—Sì, su quei tedeschi che non ho mai conosciuti, su quegli Herz che non erano neppure dei filosofi.

—Ma che ti hanno lasciata una bella fortuna, Paolo.

—Essa è vostra, Chérie.

—No, no, non mi parlar di denaro, mi secchi—e impallidì, preoccupatissima.

—Se vai in collera, sono pronto a dichiararmi un pezzente. Voi siete amata da un gentiluomo povero, Chérie, poverissimo.

—Giura che mi ami!

—Io, Paolo Herz, sul mio onore e sulla mia coscienza, giuro di amare di ardente amore la signora Chérie…

—Da quando?

—Da un'ora e sette minuti, lo giuro, con l'aiuto dell'orologio.

—Scrivi ciò—ella disse, levandosi, portandolo presso un grande tavolino di legno scolpito, dove era un immenso calamaio dell'Impero. Gli dette un largo foglio di carta bianca, una penna d'oca e chinandosi su lui, ripetette:

—Scrivi.

Ma mentre si chinava, ella non seppe schivarsi ed egli la baciò fuggevolmente. Nè quelle labbra potettero frenare un sorriso.

—Scrivi, scrivi—disse la bella voce, un po' velata.

Invero, egli ebbe un minuto di esitazione, prima di scrivere: un leggiero pallore gli si distese sul volto: e parve che innanzi ai suoi occhi fluttuasse una immagine. Ma nell'aureola bionda dei capelli arruffati di Chérie tante scintille correvano gaiamente, attraverso il fiore rosso della bocca schiusa come un anello, i bianchissimi denti guardavano, guardavano ridendo e infondendo giocondità. Paolo Herz ebbe come una sferzata, come un sussulto di vita: una fiamma lieve fece dileguare il pallore del suo viso; egli scrisse, rapidamente. In piedi, fissando sulla carta quei suoi grandi occhi, che nuotavano nell'azzurro, Chérie seguiva quella mano rapida che scriveva. Con un gesto immediato, ella versò sulle poche righe un'arena micacea, azzurra a scagliette d'oro, e ripiegato il foglio, lo ripose. Va bene?—egli domandò, voltandosi e sorridendo.

—Benissimo—ella rispose, con voce lenta, come pensando ad altro—È scritto, adesso.

—Quello che è scritto, è scritto—e si levò, portando negli occhi il desiderio di quella giovinezza, di quella bellezza.

Mutamente, con dolcezza, ella si sciolse da quel tentativo di abbraccio.

—Perchè no, perchè no?—egli domandò, con ansia, con tristezza.

—Così—ella disse, con una smorfietta graziosa.

—Se ho scritto!

—Tanto meglio.

—Siete voi una volgare civetta, Chérie?

—Non so… non mi pare. Sono civetta molto, questo è certo.

—Io vi domandavo un po' di cuore, mia cara!

—Malato?

—Come me lo volete dare. Un pochino, mi basta.

—Tutto, sarebbe troppo, è vero? e lo guardò negli occhi, volendoli scrutare.

—Quello che tu vuoi, cara—esclamò lui, un po' follemente.

—Tutto, per poco tempo, allora?—-e di nuovo gli rivolse uno sguardo scrutatore.

—Tutto, sempre, diletta!—esclamò Paolo Herz, che adorava quella donna poichè gli piaceva enormemente.

—Vieni questa sera—ella disse, presto, con una completa, tenera e appassionata dedizione, nella voce.

—A che ora?

—Alle undici.

Fu un soffio, quella voce, sulle due ultime parole; un soffio che era una carezza, un bacio, un abbandono. Egli s'inchinò profondamente, innanzi a lei: le prese la mano, che ella gli stendeva e la baciò appena, sfiorandola sulle dita ripiegate.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Nel cadente pomeriggio di autunno e nella sera, Paolo Herz portò nei sensi e nel cuore una ebbrezza di vita traboccante, come da tanto tempo non aveva mai provata. Una improvvisa primavera era rifiorita nella sua anima e gli parvero persino odorosi e voluttuosi i pallidi crisantemi, e ricche e appassionate perfino le povere rose thea, fiori di novembre, che egli mandò, da tre o quattro fiorai, in casa di Chérie. Tutto un novello calore gli inondava il sangue e gli saliva, a sbuffi, al cervello, come se, debole e convalescente, egli avesse bevuto un bicchiere di vino generoso. Egli andò per le vie a piedi, guardando la gente e sorridendo ad essa, come se la conoscesse: si fermò a una quantità di vetrine, incantato delle cose belle che serravano, e volendo cercarne una bellissima per donarla a Chérie. Un bisogno pazzo lo assaliva di parlare, di ridere, di spendere molto denaro, di vivere largamente, con quella donna accanto, immersa nelle più raffinate e più ardenti eleganze: un rigoglio di giovinezza eccitava tutto il suo organismo e gli dava un bisogno assoluto di esser felice materialmente e moralmente, nelle braccia di quella donna così giovane e così bella, dalla voce così toccante, dalle parole così voluttuosamente tenere e non scevre di malinconia.

Innamoratissimo! In quelle non molte ore che lo dividevano dalle undici di sera, egli ebbe quasi sempre la allucinazione fresca e fiammante, insieme, della persona di Chérie. Ora pareva che lo guardassero quei grandi occhi azzurri, dalla cornea non bianca, tutta a riflessi azzurri, dalle ombre azzurre, sotto le palpebre: e gli sembravano un mare di dolcezza, senza nessuna velatura di malizia, di perfidia, di quelle malaugurate cose odiose, che tante volte appariscono, spesso involontariamente, negli altri occhi femminili. Ora pareva che, innanzi a sè, si muovesse l'alta persona un po' troppo alta, ma così veramente flessuosa: e l'innamoratissimo pensava che, Chérie, quando era sdraiata sul gran divano, sembrava più piccola, pur conservando la grazia e la nobiltà della sua figura. Talvolta, in una allucinazione anche più palpabile, sotto i suoi occhi, a breve distanza, gli sembrava che apparissero e sparissero quelle mani bianche dalle dita troppo cariche di pietre preziose, dalle vene di una delicata tinta fra l'azzurro e il violaceo, dove vi fosse anche del grigio: e più ancora, più ancora, egli ebbe, due o tre volte, la sensazione di quel bacio, di quel solo bacio, che egli aveva dato sulla bella bocca e dalla quale lo aveva ricevuto, trovandovi il senso fuggevole, ma profondo di un aroma misterioso. Egli si sorprese, o piuttosto non si sorprese punto, anzi si dilettò a pronunziare spesso il nome della diletta, con lentezza e con passione, con una costante espressione di desiderio e d'invocazione:

—Chérie, Chérie, Chérie!

Egli andò in una trattoria di prim'ordine, verso le otto; e si ordinò un pranzo squisito. Aveva un grande appetito, egli che non mangiava da tanto tempo che per cibarsi: gli amici si accostarono a lui, scambiò saluti, parole, scherzi con tutti: offrì del kummel, delle sigarette. Rise molto.

Ma temendo di sospingere troppo l'ebrezza che lo teneva dal pomeriggio, non volle bere vino e liquori: viceversa, fumò molto, cercando addormentar l'impazienza dei suoi nervi, volendo dimenticare l'ora del convegno, per ricordarla, ad un tratto, quando fosse prossima, con immensa delizia. Innamoratissimo, anche quando uscì nel freddo e nell'ombra della via e rientrò nella sua casa deserta: egli ardeva di passione, come un giovanotto ventenne al suo primo convegno d'amore e si andò a guardare nello specchio, per vedere se era abbastanza bello per quella bellissima donna.

Due ore ancora, lo dividevano dal convegno di Chérie. Egli aveva già fatto per le vie dei giri rapidi e lieti, incantato della serata di autunno, seguendo con lo sguardo le donne che passavano, udendo con delizia dei piccoli brani di colloqui d'amore, da qualche coppia che passava. Era il momento in cui tutti si recavano ai teatri, ai caffè, ai ritrovi serali: e gli pareva di scorgere, a Paolo Herz, nel volto di tutti quanti, come un desiderio intenso e frettoloso, un pallor d'ansietà, la voglia di arrivar presto dove era il proprio amore, il proprio vizio, la propria consuetudine. Egli stesso, ogni tanto, fremeva d'impazienza: ma era una impazienza voluttuosa e tranquilla, insieme; qualche cosa di profondamente desideroso, ma di placido nella certezza della imminente soddisfazione. Pure, quell'andare per le vie, tutto solo e rapido nella sua estasi, a un certo punto gli spiacque. Temette che quell'ardore giovanile onde vibravano gaiamente le sue vene, svanisse al contatto troppo prolungato dell'aria notturna: egli voleva conservare, intatta, tutta la rinnovata fiamma messagli nel sangue, nei nervi, nel cuore da Chérie. Rientrò a casa sua; avrebbe aspettato, sdraiato, tentando di leggere—avrebbe potuto leggere?—tentando di sognare—oh, avrebbe certo sognato!—sino all'ora di recarsi direttamente dalla bella e ammaliante donna.

Subito, in casa, fece accendere dal suo servo tutti i lumi: non amava le penombre, quel suo rigoglio di vita: aveva necessità di chiarore largo, di visioni nitide e precise. Si gittò in una poltrona, prese un libro: ma i suoi occhi s'immobilizzarono sovra le righe nere, senza intenderle: e ancora la snella figura vestita di bianco gli riapparve nell'aureola bionda e scintillante dei suoi capelli arruffati di bimba, col collo un po' gracile fra i merletti della vestaglia e il passo ritmico, ondeggiante senza rumore.

—Chérie, Chérie—egli mormorò in preda a uno struggimento di tenerezza.

E immediatamente un ricordo lo colpì. Questo innamoramento così improvviso e completo, questo vivido abbandono dello spirito, e questo ardore dei sensi, egli l'avea provato un'altra volta. Aveva venti anni allora, e una giovinezza appena sfiorata da certi amoretti fugaci, da certi capricci molto intensi, ma molto brevi. Una bellissima donna gli era apparsa, allora: ma quasi vicina ai quarant'anni, espertissima della vita e delle sue passioni, ella aveva guardato con indulgenza, niente altro, il trasporto amoroso di Paolo Herz. In verità egli aveva delirato per questa donna, più vecchia di lui di circa venti anni; egli si era rotolato sul letto, singhiozzando e mordendo i cuscini nel dolore dell'amore non corrisposto; egli aveva voluto morire, perchè Beatrice Somma non voleva amarlo. Infine un giorno la bella donna si decise: fu per pietà, fu per lassezza di combattere, fu perchè il suo cuore aveva subito un estremo assalto di tenerezza?

Chi sa! Ella disse di sì. Si rammentava bene, Paolo Herz, che ebbrezza era stata la sua, noi giorno del primo appuntamento, e come egli aveva avuto la febbre vorace dell'impazienza, spezzando il suo orologio, andando per le vie come folle. Poi… che era accaduto, poi? In un momento di maggiore impeto d'amore, donna Beatrice gli aveva detto, malinconicamente:

—Non giurare, non giurare: verrà giorno in cui non saprai se io sia morta o viva.

Lo sapeva egli, forse, se donna Beatrice Somma fosse morta o viva? La sua passione, soddisfatta, era durata assai poco: ella l'aveva veduta finire, con viso calmo in apparenza, ma forse straziata da questo ultimo errore che aveva commesso. Era partita donna Beatrice; sparita. Morta o viva? Aveva delirato per lei: per lei aveva desiderato la morte: ma non ne sapeva nulla.

Questo inaspettato ricordo gli fu increscioso. Malgrado la pienezza dell'entusiasmo amoroso che aveva per Chérie, vi era in un cantuccio del suo spirito un segreto terrore che questo entusiasmo si diminuisse o svanisse, per qualche ragione misteriosa, per qualche insidia. Aveva paura di un'insidia, che gli togliesse quel vivace germoglio di tenerezza, quel fiore di simpatia irresistibile, quell'ampiezza di vita morale e fisica che lo esaltava, da varie ore. Scacciò la immagine di donna Beatrice Somma, quasi con un atto meccanico, passandosi le dita sulla fronte si raccolse un momento e tutta la scena del pomeriggio, con Chérie, gli riapparve, da quel sorriso buono e amichevole dell'entrata, fino a quel bacio varie volte conteso e infine concesso; da quelle vaghe parole di conforto, che ella gli aveva detto con una voce così ammaliante, sino a quel sì, che consentiva, e che era stato un alito, più che una parola. Subito, riarse del trasporto più violento, con un'allucinazione amorosa replicata e sempre più nitida: e maledisse l'ora che non fuggiva abbastanza presto, consumando, invece, in lui, tutto questo entusiasmo.

—Chérie, Chérie, Chérie—andava dicendo, per la casa, mentre riprendeva i guanti e il bastone, mentre si rimetteva il soprabito.

Andò a piedi, piano. La città, adesso, era molto meno popolata: tutti erano nei teatri, e nei ritrovi, quelli che facevano ora tarda: e quelli che rientravano presto, erano rientrati. Nella via, a capo basso, egli pensava alla imminente notte di amore che andava a ritrovare, lassù, presso una creatura squisita nel piacere e nell'amore, così bella e così fine: così buona nel fondo del suo carattere e così inconscia del male che commetteva. Un batticuore gli cresceva nel petto: così nel giorno in cui era andato da donna Beatrice Somma e che rimproverato dolcemente da costei, che fosse più tardi del convenuto, egli aveva infranto il suo orologio, sotto il piede rabbioso! Lo stesso palpito: e dopo, non aveva egli desiderato, tenacemente, che nessun orologio esistesse più, perchè donna Beatrice non conoscesse mai l'ora, mai più, e non si accorgesse dei suoi continui ritardi? Che fastidiose memorie!

Il villino di Chérie era immerso nell'ombra: egli suonò il campanello del cancello: esso si schiuse, senza che nessuno comparisse ad aprirlo. Cautamente egli camminò sul terreno del viale: palpitava, d'ansietà. Nessuno, nell'immensa anticamera vuota: egli lasciò il cappello e il soprabito e penetrò nel salone, pieno di tenui penombre. Chérie era sdraiata sullo stesso largo divano, come al mattino: era tutta vestita di nero, di una seta molle e opaca, una vestaglia a forma di tunica, le cui ampie maniche si rovesciavano, lasciando le braccia nude sino alle spalle. Non un anello nelle perfette mani, incrociate dietro la testa. Ella lo salutò, egli era pallidissimo: pallidissimo.

VII.

Chérie dormiva, fra la bionda aureola dei suoi capelli, un po' diffusi sul guanciale: la lampada veneziana, presa da un palazzo ducale, ardeva ancora nei suoi foschi vetri di un verde oscuro, quando già il sole era alto. Dormiva, quietamente, con la bocca un po' schiusa e umida, sui denti bianchi e brillanti. In piedi, presso il gran letto a colonne, nello stile di Enrico II, Paolo la guardava dormire. Forse la luce verde dava riflessi lividi a quel volto di uomo, o pure egli era livido? Ella sorrise, nel sonno: mosse lievemente la testa, come se volesse parlare ed egli si chinò su lei, quasi a raccogliere il segreto di quel sogno. Ma, subito, si rigettò indietro: aveva trasalito, come ad un avvertimento interiore. Stava da tempo così: non osava svegliare la placida dormiente, tutta rosea nel suo sonno giovanile, spirante la leggiadrìa delle creature fatte per l'amore e a cui l'amore dà tanto fascino. Ma quell'ombra, quella luce verdastra, quei grandi mobili austeri fra cui la bionda amava di vivere, come a contrasto di quella sua beltà fresca e vivida, lo opprimevano: fuori vi era la luce, vi era il sole ed egli si sentiva soffocare. Due o tre volte, aspettando che ella si svegliasse, gli era venuta una voglia frenetica di fuggire. Scappar via, solo, scappare lontano, andare a gittarsi in un posto deserto, fuori dei viventi, lontano da Chérie, non volendola vedere più, non osando sostenere il suo sguardo! Questo progetto folle e ardente lo riarse, due o tre volte; ma una volontà fuori di lui, almeno egli credeva fuori di lui, lo teneva inchiodato, nella calante mattinata, di fronte a quel letto, innanzi a quella bella donna profondamente presa dal sonno. Che avrebbe detto, ella, trovandosi sola allo svegliarsi? Avrebbe forse creduto a una villania o ad una pazzia? Avrebbe ella supposto che egli fosse andato a uccidersi? Così, egli pensava: e restava, inchiodato, immobile, incapace di dare le spalle a quel caro volto fresco, a quei capelli biondi, sparsi sulla batista dell'origliere; restava, vinto egualmente dal ribrezzo di sè, dalla paura, dalla pietà. A un tratto, l'idea di parlare con Chérie, di dirle qualche cosa, gli fu insopportabile; fissava con occhio attento quella bocca bella socchiusa, da cui sarebbero uscite, forse fra un minuto, le parole di saluto, di interrogazione, a cui avrebbe dovuto rispondere ed ebbe un moto di orrore. Facendo uno sforzo supremo, si voltò, per andarsene, ma urtò in un mobile, qualche cosa tintinnò, Chérie si risvegliò, subito, levando la testa:

—Paolo? Paolo?

Egli si riaccostò al letto, senza rispondere. In silenzio, ella si sollevò sul letto, gli gittò le braccia al collo e con una carezza tutta gentilezza, mise la sua guancia presso alla sua.

—Che fai?—gridò Paolo non sapendo reprimere un brivido di terrore, ma non osando respingerla.

—Ti amo, questo faccio—ella disse, non accorgendosi ancora di nulla—Ho dormito troppe ore…

—Hai sognato?—egli domandò, con una voce strana.

—No: non sogno mai. E tu?

—Non ho dormito, io.

—Allora, tu mi ami di più. Che vergogna per me!

E rise, di un bel riso sonoro. Egli non potette neppure sorridere. Ella chiese:

—Che hai?

Ma nello stesso tempo, ancora, pose infantilmente la sua guancia presso quella di Paolo: questa volta, egli si rigettò indietro. Una espressione di pena sfiorò il volto di Chérie: ella spalancò i larghi occhi azzurri, interrogando:

—Perdonami—disse Paolo, con una subitanea tenerezza—perdonami… è quel gesto…

Si fermò, sentendo che stava per dire tutto.

—Che gesto?

—Nulla, nulla.

—Mi vuoi bene?

—Sì.

—Molto?

—Immensamente.

—Fino a quando?

—Fino a… sempre!

Ma la voce di lui era monotona, come fosse stata per sempre privata di espressione; e parlava a occhi bassi.

—Apri un poco, perchè io veda la tua faccia—ella chiese, con un lieve sospetto.

—No—egli rispose, immediatamente.

—Vuoi restare all'oscuro?

—Sì, sì.

—Il sole ti piaceva una volta, mi ricordo.

—Non ora, più. L'ombra è amica.

—Tu sei triste, Paolo.

—Un poco.

—E perchè, dunque?

—Forse, perchè sono stato troppo felice—egli rispose, in tono enigmatico.

Ma Chérie credette solo al senso amoroso della frase e fece un moto di soddisfazione.

—Avevi dimenticato la felicità?

—Oh sì!—gridò lui, con accento desolato.

—E adesso, adesso—interrogò Chérie, con ansietà.

Egli non rispose.

—Apri la finestra—chiese lei, di nuovo, curiosa di scorgere bene il volto del suo novello amante.

—No, Chérie, per amor di Dio, non apriamo! La luce mi farebbe morire.

Vi era tanta desolazione paurosa, in questa esclamazione, che Chérie si turbò.

—Spegniamo anche la lampada, allora—ella suggerì, cedendo alla strana emozione di Paolo.

E toccando un bottone, nascosto dietro la cortina di lampasso del letto, la lampada si spense. Ombra perfetta. Stavano, così: egli in piedi, presso la sponda del letto: ella, sollevata sui cuscini, tenendogli le braccia al collo, ma senza stringerlo, senza toccare il suo volto.

—Sei contento, ora?—ella domandò, pianissimo.

—Sono tranquillo.

Un profondo silenzio regnava in quella stanza, piena di tenebre; si udivano i due respiri, quello di Chérie calmo, eguale, lieve come quello di un fanciullo, quello di Paolo Herz più forte, un po' affannoso, talvolta.

—Ti do noia, così—ella chiese dopo qualche tempo, sembrandole che Paolo avesse il petto oppresso.

—No, cara.

—Mi vuoi bene?

—Sì, cara.

—Ripeti: Chérie, io ti adoro.

—Chérie, io ti adoro.

—Ed è vero? è vero?

Nessuna risposta.

—Paolo?

—Amore?

—Rispondi, dunque!

—A che?

—Ti avevo chiesto, se era vero che mi adorassi.

—Non avevo udito—disse Paolo, con voce anche più sorda.

La donna disciolse il cerchio delle sue braccia, mutamente e ricadde sul letto. Pian piano, nell'ombra egli ne cercò una mano, che giaceva abbandonata sul letto: la strinse, la trovò fredda. Allora cadde in ginocchio, avanti a quel letto, col capo nascosto fra le coltri, singhiozzando senza versare una lacrima, gridando, convulso:

—Ah Chérie, perdonami, perdonami, io soffro tanto, io soffro, io soffro!

E prostrato, con le braccia buttate sul letto, stringendo nervosamente quella mano che si era fatta gelida, con la bocca contro la stoffa della coltre, egli continuò a gemere, a gridare, confusamente, il suo ignoto dolore. Ella non gli disse nulla: aveva distesa l'altra mano e gli carezzava i capelli, così, come a un bimbo che gridi per un male, a cui non vi è rimedio.

—Chérie, Chérie, perdonami, consolami, sono un infelice, sono un miserabile!—seguitava lui, singultando aridamente, battendo la testa sul letto.

—Poveretto, poveretto—disse lei, con un tono vago di pietà, con la sua affascinante voce di canto—Che hai?

—Ho male, ho male, soffro, Chérie soffro come se morissi e come se non potessi morire…

—Dimmi che hai… dimmelo…

—Tanto male, tanto male… Non puoi sapere, Chérie… che male, qui, dentro di me, che mi soffoca…

—Non puoi dirmi il tuo male? Non posso io consolarti, guarirti?

—Vorrei… vorrei che tu potessi!—egli gridò, non osando più nascondere il suo segreto.

—Ma non posso, è vero? Non posso guarirti?—ella chiese, con un po' di malinconia nella cara voce armoniosa.

—L'ho sperato! L'ho sperato…—e pronunziò la frase, la prima volta con un'aspirazione, la seconda con una delusione immensa.

—Dimmi il tuo male, dimmelo—ella mormorò, insistendo, con molta dolcezza, con una certa tristezza.

—Non me lo domandare! Paolo esclamò, con tono di sbigottimento, quasi che l'idea di rivelare la segreta miseria della sua vita gli facesse orrore.

—Non è per curiosità—ella soggiunse, piano. Ti assicuro che non è per curiosità. È per interesse… di te…—e finendo queste parole, leggermente, la voce le tremò.

—Chérie, Chérie, quanto sei buona! Ma non dimandare, te ne prego!

—Forse… ti farebbe bene…

—No, no, lasciami soffrire, così senza conforto, non ne merito, non ne sono degno… tu sei una persona buona, semplice…

—E scema—ella completò, fra l'ironia e la tristezza.

—… io sono un essere malato… cattivo… laido…—egli continuò, con voce sdegnata, quasi parlasse a se stesso e non rispondesse più a lei.

Chérie non rispose. Di nuovo la sua mano si arrestò sui capelli di Paolo Herz, con una carezza fugace. Lo sentì trasalire, allontanandosi. Allora, subito, ella gli disse, con intonazione freddissima:

—Te ne prego, Paolo, apri quella finestra.

Egli obbedì, subito. Tutta la gaia luce meridiana entrò nell'austera stanza e la riempì di pulviscolo d'oro. Qual viso era quello di Paolo! Pallido di un pallore terreo e con gli occhi rossi e le tempie rosse, come se invece di lacrime, fosse salita colà un'onda di sangue, con lo sguardo torbido e smarrito, tutti i suoi anni parean passati dalla bella virilità, all'accasciamento e allo sconforto di un'età più lontana. Chérie, sgomenta, si ricordò il bel volto fine un po' consumato, ma leggiadro, ma arso dalla fiamma di una giovanile passione, che ella aveva veduto la sera innanzi. Una notte, dunque, aveva fatto quel cangiamento? Una notte. Egli la guardava, come perduto.

—Va di là—gli disse lei—va in salone. Aspettami.

Gli aveva parlato con più dolcezza, ora: ma sempre come se comandasse. Senza rispondere, egli volse le spalle ed uscì.

Quando fu solo, fra le piante verdi dalle larghe foglie, di quel salone che era anche una serra, fra quelle sete ricamate di fiori esotici e di animali favolosi, fra quei vasi alti e sottili ove si elevavano dei fiori dal lungo stelo, fra quei mobili molli e profondi, dove pareva così soave sdraiarsi e non pensare, sognare e non dormire, in una luce temperata, ma limpida, coi rumori della città che giungevano assordati, ma giungevano, solo, come indifeso contro il mondo, come con l'anima dolorosa nuda innanzi agli occhi della gente, Paolo Herz ebbe un altro impeto di disperazione, un accesso di follia. Caduto sovra una poltrona, con la faccia fra le mani, tutto il suo essere sentimentale, si contorceva di spasimo e interrotti lamenti escivano dalle sue labbra. La luce, l'aria, la beltà e la pace delle cose intorno, pareva che lo irridessero, che l'offendessero: ed egli si copriva gli occhi per non vedere, si copriva il volto per non farsi vedere. Da chi? Dalla luce, dall'aria, dalle belle e pacifiche cose che lo circondavano. Un bisogno novello, istintivo, di fuggire, come un animale sanguinante, in una tana profonda e sconosciuta lo assalse. L'ora passava, ella sarebbe venuta, adesso: non era più notte: ella avrebbe veduto la sua figura sconvolta: ella avrebbe udito ancora gli urli della sua inesprimibile disperazione.

Ma mentre gli tumultuava dentro il desiderio della fuga, di una fuga lunga, senza termine, la sua volontà mancava di qualunque forza: si sentiva fiacco: si sentiva, meccanicamente, dominato dall'ordine di Chérie:

—Ella mi ha detto: aspettami—pensava, con un pensiero che si manteneva estraneo a tutto l'altro movimento della sua anima.

E aspettava. Ella apparve dopo qualche tempo. Aveva indossato un suo vestito di seta a righe minute bianche e nere, di un taglio assai succinto: e i biondi capelli erano raccolti in un grosso nodo ricciuto, a metà testa, traversati da due spilloni d'oro matto. Ella aveva sempre lo stesso volto sereno e giovanile, ma guardandolo bene, non so quale nova fermezza vi si leggea. Ella andò a lui, gli si sedette dappresso, ma non vicinissima e gli parlò:

—Paolo?

—Chérie?

—Sei più tranquillo, ora?

—Sì.

—Vuoi ascoltarmi? Puoi?

—Sì, sì.

—Tu sei malato, Paolo: tu dicevi il vero, ieri: sei molto malato.

—Molto, molto, molto—diss'egli, con un'insistenza di voce e di espressione, guardandola coi suoi occhi smarriti.

—Vuoi tentare di guarire? Vuoi?—gli domandò lei, con la sua voce cantante e seduttrice.

—Oh non è possibile, non è possibile!

—Tentare, soltanto?

—Oh Chérie, non mettermi alla disperazione!

—Tentare… tentare…

—E come? Come?

—Partiamo insieme—ella le disse, levando il bel viso florido e guardandolo coi suoi grandi occhi nuotanti nell'azzurro.

—Partire, per dove?

—Dovunque, lontano… partire…

—Partire, come, quando?

—Oggi, fra poche ore, insieme.

—Chérie, Chérie, è impossibile!—egli esclamò, dolorosamente.

—Perchè, impossibile? Chi vuol partire, parte!

—Chérie!

—Non sei libero?

—Sì sono libero.

—Non hai tu denaro?

—Sì, sì, ho del denaro.

—Hai qualche obbligo, qualche legame?

—No, nessuno.

—Niente ti vincola?

—Niente.

—Ebbene, parti con me.

—Chérie, Chérie…—gridò lui, come se tutto il suo essere spasimasse.

—Parti con me—ripetette lei, lentamente, con una suggestione continua,—Andremo molto lontano… viaggeremo presto… viaggeremo assai… vedrai tanto mondo diverso… dimenticherai…

—Io porto il mio male in me—soggiunse Paolo, con voce sorda.

—Partiamo, partiamo…—riprese lei, quasi non avesse udito.

—Vuoi tu viaggiare con un agonizzante?

—Non importa—ella rispose, crollando il capo.—Vieni via, Paolo, ti sentirai meglio, il tuo male avrà una pausa.

—Dove, che questo interno tormento non vi sia? Conosci tu questo paese?

—Paolo, io sono una persona che ti vuol bene, non so tante cose. Ti dico, solo: andiamo via. Vedrai… sarò una buona compagna di viaggio… mi fermerò, dove a te piacerà restare… andremo via dai paesi che non ti piacciono… vieni via.

—Qual triste viaggio di nozze tu mi proponi, o Chérie!

—Perchè, triste?

—Perchè lo sposo è morente!

—Morente, di che?

—Di tutto, Chérie.

—Anche di amore?—e lo fissò, negli occhi.

—Anche di amore.—egli rispose, a capo basso.

Ella impallidì un poco: ma si rimise subito.

—Io sarò un'anima tenera per te, Paolo.

—Non ti prendere questo duro incarico, povera creatura; lasciami al mio destino.

—No, no, ti voglio bene, mi sei sempre piaciuto… tentiamo questa salvazione, Paolo…

—Un lugubre compagno di viaggio, Chérie…

—Dimenticherai, dimenticherai…—ella disse, con la sua intonazione malinconiosa, che dava tanto fascino alle sue parole.

—Non dimenticherò, mai—egli dichiarò, aprendo le braccia, con un gesto definitivo.

—Tutto si dimentica—disse Chérie, semplicemente.

—Io non posso.

—Tenta.

—Ho tentato… lo sai… ho tentato—egli disse, con una umiliazione atroce di tutto il suo essere.

—Ebbene?

—Non mi domandare, Chérie! Ella tacque, un poco. Ma poi, ostinatamente, ritornò al suo quieto assalto.

—Partiamo oggi, Paolo.

—No.

—Senti, è meglio che partiamo. Che farai tu, qui?

Egli la guardò, smarrito.

—Che farai questa sera, oggi, domani? Dove andrai? In che posto troverai refrigerio, distrazione, obblìo? Chi ti consolerà?

—Dio! egli esclamò, convulso.

—Senti, vieni via. Fuggi questo paese; fuggi coloro che conosci; fuggi ogni ricordo; fuggi ogni cosa. Oh Paolo, io sono una povera persona sciocca, ma io so, questi dolori che cosa sono, io comprendo, così, che tu sei un infelice, un miserabile… Ne ho visti degli altri… non vi è che partire…

—Gli altri, gli altri! Felici gli altri!

—Sarai felice ancora; vedrai. Ma parti. Solo, qui, non puoi restare.

—Solo? Tu andresti via?

—Si—diss'ella, voltando il viso.—Ho voglia di espatriare.

—Anche tu soffri? Anche tu, poveretta? È possibile?

—No—ella rispose, subito—Non soffro, io. Non sono mica una creatura sentimentale—e sorrise un pochino, fuggevolmente,—Sono un po' malinconica, talvolta: quando mi dicono che ho malato il cuore. In generale, mi annoio spesso. Ora, da qualche tempo, mi annoiavo moltissimo…

Chérie parlava con molta disinvoltura, senza però giungere a dare un'aria di perfetta naturalezza a quello che essa diceva. Le sue mani mettevano in ordine, macchinalmente, degli oggetti di porcellana della Cina, tutti bianchi, in una scansia e così, spesso, ella distoglieva i suoi occhi da quelli di Paolo Herz.

—Tu sei venuto—ella riprese—… io ho subito pensato di partire con te. Giusto… questo ti serve, anche… la cosa sarà utile ad ambedue…

—Tu sei buona—mormorò Paolo Herz, subitamente intenerito.

—Oh, non tanto! Faccio anche il mio interesse… sono una donna interessata…

—Povera Chérie!

—Perchè mi compatisci? Non compatirmi. Va a fare le tue valigie, per partire.

—Così presto?

—Bisogna sempre partire subito, quando si vuol andar via. Se si ritarda, si resta.

—Tu dici che bisogna andar via?—egli chiese, guardandola, coi suoi torbidi occhi pieni d'incertezza.

—Sì, sì, sì.

—Dove andremo?

—Dove ci porterà il primo treno che troveremo, e poi un altro treno; e poi un altro…

—Fin dove?

—Chi lo sa!

—Che faremo, laggiù?

—Niente, Paolo; nulla più di qui.

—Ma io dovrò vivere, pensare, agire, Chérie, comprendi questo? Io sono inetto a ciò, adesso.

—Non ti capisco—ella mormorò, chinando gli occhi.—Ma qualunque paese sarà migliore di questo.

—Io non posso amarti!—gridò Paolo vincendo la sua ripugnanza a dire una cosa atroce.

Ella lo guardò: sorrise appena: poi disse, con quel suo tono di mistero, che facea parere molto più profonde le cose che ella dicea.

—Chi lo sa!

—Chérie, io sono un infame e un inetto!

—Paolo, Paolo, taci… tu esalti i tuoi nervi… tu aumenti il tuo turbamento…

—Chi tradisce, è un infame, Chérie, non vi può essere pietà, per chi tradisce. Io ho tradito.

—Calmati… calmati—e gli prese le mani, come si prendono le mani di un ammalato, che vaneggia.

—Che vuoi, Chérie, ho tradito, ho commesso un tradimento odioso… io mi sento perduto…

E smorto, sconvolto, egli la fissò, come se non la vedesse, come se non la riconoscesse, come se non fosse stata proprio lei, a essere lo strumento del tradimento.

—Perduto, perduto, perduto…—ripeteva lui, follemente.

—Pace, Paolo, non pensare a ciò…

—Come, non pensare? È lo stesso come dire a chi ha un morto, in casa, di non pensarci più.

—Paolo, chi è morto, dunque?

—Il decoro del mio amore è morto, è morta la sua dignità, è finita la sua forza e la sua saldezza, io ho tradito!

E questo grido, continuò a escirgli dal cuore lungo, aspro; egli non sapeva che ripetere questa parola del tradimento, in tutti i tuoni. Ella lo ascoltò, per un pezzo, meravigliata più che dolente: due o tre volte, le palpebre dei grandi belli occhi azzurri battettero, come per rattenere le lacrime. Ma egli non vide, questo: gittato sovra un divano, battendo la testa sui cuscini, egli esalava il suo dolore e l'orrore di se stesso. Così, vagamente, ella intese che era meglio parlargli del suo strazio e gli chiese:

—Paolo, non era… non era tutto finito?

—Tutto, che? Di che parli?—domandò lui, trasognato.

—L'amore… fra te e Luisa Cima…

Egli levò la testa, a quel nome e con voce tetra:

Tutto non era finito…

—Come? T'amava ella, ancora?

—No. Non mi amava, più.

—Da qualche tempo… mi pare…

—Sì, da vario tempo. Forse, non mi ha mai amato.

—Perchè? Non dire questo… non lo dire di nessuna donna—ella mormorò, con bontà.

—Mai, Chérie, mai! Non la conosci! Non la sai! Mi ha mentito, non mi ha mai amato!

—Tutti mentiscono un poco, nell'amore—ella soggiunse, a occhi bassi, appena appena rimproverandogli, così, la sua menzogna della sera scorsa.

Egli non comprese.

—Poichè non ti amava, da tanto tempo, non eri tu libero?

—No—egli disse, tetramente, Ero legato.

—Come?

—Legato da un giuramento.

—A Lei?

—A me stesso.

—Non ti capisco—ella disse, ancora, guardandosi le perfette mani.

—Io l'amavo…

—Ebbene?

—E l'amo.

—Ah!—diss'ella, senz'altro.

—L'amo sempre, l'amerò sempre, non amerò mai altra donna, è così, nessun'altra!

E si guardò intorno, con occhi fuori, come se qualcuno gli impedisse, gli contrastasse questo amore e che egli fremesse di dichiararlo a tutti quanti. Invece, Chérie lo guardò, con occhi pieni di una grande pietà, una pietà non profonda, forse, ma grande, una pietà che taceva molte cose, ma che per questo era una grande pietà. Adesso, si era seduta e teneva le mani in grembo: la beltà di quel dolce volto non parea fosse stata turbata, solo era piena di una pietà grande: pietà non sapiente, forse, non magistrale, non alta, ma umile, ma tenera, ma femminile. Ella non gli chiese conto della notte: ella sentiva che, egli stesso, si pentiva troppo amaramente di quello che aveva fatto.

—Avevo giurato… avevo giurato di restar fedele a quest'amore solitario… sempre… e avevo tenuto il giuramento… per tanto tempo… e ora, ora, ora!

Si prese la testa fra le mani, per nascondere le lacrime che gli salivano agli occhi.

Vedendo quell'uomo piangere, Chérie si curvò su lui, gli liberò il volto dal velo delle mani, gli passò delicatamente il suo fazzoletto sugli occhi, con un atto materno. E non seppe dire altro che la parola che si dice agli sconsolati, a coloro cui è morto qualcuno:

—Non piangere, non piangere così…

Ma una suprema debolezza aveva atterrato Paolo Herz, sorgente da tutta la sentimentalità quasi muliebre del suo spirito: egli piangeva come un misero, come un bimbo, come una donna, preso, appena appena ogni tanto, da un accesso virile di collera. La istessa pietà di Chérie che egli intravvedeva vagamente, quasi senza intendere da chi venisse e come e perchè, aumentava il suo irrefrenabile dolore.

—Ma non piangere, non piangere tanto, infine…—mormorava lei, seguitando a comprendere poco e non sentendo che la compassione semplice per un dolore grande e ignoto.

—Ah io sono infelice… un povero infelice… il più povero e il più infelice uomo della terra… quello che non ha pane, che non ha tetto, che chiede l'elemosina, nella via, è meno miserabile di me… io ho perduto tutto… tutto è finito…

Chérie pensava, naturalmente. «Ma se ella non lo amava più, da tempo, che cosa è dunque finito? chi ha tradito Paolo?» Però nulla ella diceva, di ciò, intuendo un mistero dell'anima, che non poteva nè misurare, nè apprezzare. Prono sul divano, singultando, Paolo continuava a dire:

—Tutto è finito… tutto è finito.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fu un pallido uomo, distratto, smemorato, senza volontà e senza forza, quello che seguì Chérie, nel viaggio malinconico che essi intrapresero a traverso l'Europa. Paolo Herz si lasciava condurre, di treno in treno, di città in città, di albergo in albergo, come una creatura inerte, incapace di reagire, poichè era incapace di agire. La loro vita era singolarissima. Tutte le cose esterne del viaggio erano regolate da un servo che prendeva gli ordini da Chérie, alla mattina: e tutto si compiva, senza fretta, senza rumore, con la taciturnità e la compostezza di persone che portano seco un malato. Egli, forse, fisicamente, malato non era; ma tutte le corde dell'energia infrante, spenta ogni iniziativa, il suo spirito era prostrato nell'invincibile abbattimento, da cui non si risorge, salvo una crisi violenta. E niuna cosa e niuna persona, più, poteva dare all'anima e ai sensi di Paolo Herz la scossa che li doveva vivificare o uccidere. Egli si lasciava condurre dappertutto, docile, obbediente, senza mai un atto di ribellione, senza una parola di rifiuto: Chérie regolava la sua vita; e come un fanciullo, come un malato, egli viveva secondo Chérie. Ma, un fanciullo senza sorrisi e un malato senza speranze, obbediva alla bellissima donna, dalla florida chioma bionda e dai begli occhi azzurri: mai gli usciva dalle labbra una parola, che desse segno di una sua risurrezione. In pubblico, veramente, egli non sembrava che un uomo triste senza essere acerbamente addolorato, taciturno per sua elezione, non tetro: egli accompagnava la donna nelle passeggiate, nei teatri, nei pubblici ritrovi, correttissimo, smorto, parlando con lei due o tre volte, in una serata. Non aveva neppure l'aria di annoiarsi: aveva l'aria di vivere, senza vedere e senza sentire la vita.

Ma quando restavano soli, solissimi, in un vagone, in un salotto di albergo, Chérie e Paolo, egli lasciava che la sua fisonomia esprimesse tutta l'angoscia che premeva, perennemente, il suo cuore. Senza dir verbo egli si abbandonava sovra una sedia, esausto dallo sforzo di vivere: tutta la sua orribile miseria, lo mordeva, nella carne e nel cuore; ed egli provava lo spasimo dell'irreparabile.

La donna non gli domandava nulla. Decisa a compire sino all'estremo il suo ufficio d'infermiera ella restava le lunghe ore, accanto a lui, silenziosa, vigile, seduta in una poltrona, così immobile e così taciturna che egli dimenticava perfettamente la sua presenza. Ma ella vegliava! Nel vagone, ella lo vedeva agitarsi, levarsi, aprire e chiudere i cristalli, incapace di trovar pace, seguendo con occhio smarrito la fuga delle campagne e dei villaggi, innanzi al treno, guardando giù, con qualche cosa di disperato, nello sguardo. Nell'albergo, ella lo vedeva inquieto, senza requie, andare e venire, non potendo liberarsi del suo indicile tormento. Sino a tardi, essa aspettava: poi si levava, andava, a lui, gli diceva, dandogli la mano:

—Buona notte.

Macchinalmente egli rispondeva:

—Buona notte.

Ironico augurio! Ella giovane, senza preoccupazione altro che quella pietosa, per il suo amico, stanca del viaggio, si addormentava del suo bel sonno senza sogni: egli combatteva ogni notte una battaglia con l'insonnia. In quelle ore di solitudine, Paolo Herz era avvilito da un profondo senso di degradazione. Il tradimento che aveva commesso, così brutalmente, obbedendo al cieco istinto sensuale che si era avvolto nella luce lusinghiera di un novello, giovane, fresco amore, questo tradimento compiuto con entusiasmo fisico, con un delirio di tutto il suo essere terreno, gli sembrava, ogni giorno più, una deturpazione, una violazione del più prezioso tesoro che egli conservasse nel suo cuore: il suo amore. Si sentiva vile, sporco, cinico, macchiato dall'indelebile peccato della carne, simile a qualunque animale senza intelletto e senza cuore; faceva orrore a se stesso.

Giacchè poteva Luisa Cima non averlo amato mai, o averlo abbandonato crudelmente, dopo un breve capriccio; poteva egli essersi disperato di questo abbandono, nelle lunghe cogitazioni delle sue ore solinghe; poteva egli aver sentito la fine della sua esistenza di amante; ma questo era un fatto fuor di sè, che egli subiva, che egli pativa, come Gesù sofferse la Passione. In quella orrenda disperazione il suo amore restava puro, schietto, alto: amore doloroso, amore straziato, amore spasimante, ma senza peccato, senza decadenza, senza degradazione. Luisa Cima aveva potuto togliergli la sola felicità della corrispondenza amorosa, gli aveva levato il bacio e lo sguardo, il sorriso e la parola: egli non aveva più un'amante, egli non era più un amante: ma egli era un innamorato! Ciò che viveva nel suo cuore, l'amore, era intangibile: la piccola donna dal viso appena roseo dagli occhi neri, dolci e maliziosi, la perfida donna dai capelli neri, morbidi, fini, lucidi, come se fossero bagnati, poteva infrangere tutto, fare una rovina di tutto, ma non toccare l'amore nell'anima di Paolo Herz. Oh quello era collocato in un posto sicuro, chiuso, messo nell'arca santa che niun mortale può violare, nell'arca del pensiero e del sentimento! Ella avrebbe potuto spezzare la fronte di Paolo Herz, attraversargli il cuore con un pugnale, non vincere quell'idea e quell'affetto. Questo orgoglio aveva sostenuto Paolo, nelle lotte atroci contro l'abbandono: questa fierezza del suo amore, che era suo, che niuno poteva levargli, mai, che niuno poteva nè offendere nè ferire!

Ebbene, egli stesso, volontariamente, aveva aperto la porta del tabernacolo, spezzata la santa reliquia e rovesciato l'altare: egli aveva rinnegato non l'amore di Luisa Cima ma il suo: egli aveva tradito, non Luisa Cima, ma se stesso: egli aveva disperso al vento, per sempre, tutto il suo tesoro. Giammai più, giammai egli avrebbe ritrovato la fermezza fiera, il candore appassionato, la nobiltà ardente, la fedeltà incrollabile, che erano le virtù alte di questo amore. Aveva tradito: aveva tradito. Le parole sacre della passione che sono sacre, sol perchè dette nella sincerità e nella profondità di questo sentimento, egli le aveva dette a un'altra mentendo: le sue labbra avevano baciate, delirando di amore, quelle di un'altra donna, e il suo delirio era falso, era un inganno dei sensi: egli si era dato a una donna e aveva avuto una donna, ma un'altra! Il tradimento era più brutto, più sporco, più laido, perchè compiuto così, non contro l'amante, ma contro l'amore, non contro Luisa, ma contro sè. L'incanto era spezzato; ogni santa magia era distrutta: ed egli era un essere volgare e vile, un essere povero e infelice, una creatura senza dignità e senza orgoglio, senza rifugio e senza conforto.

Oh notti atroci! Egli espiava, in quelle notti, la notte del suo peccato: egli la espiava in tutte le forme, le più crudeli: egli si odiava e si disprezzava: egli che si era creduto grande e puro, innanzi alla perfida Luisa Cima, adesso si sentiva mille volte più basso di lei. Le ragioni naturali della vita erano infrante: i legami che uniscono l'uomo all'esistenza, la speranza nelle cose e negli uomini, la fede in se stesso, erano sciolti, per sempre. Aveva tradito! Possedeva una cosa bella, onesta, superba, e l'aveva insultata e calpestata; da se stesso, aveva espulso dal suo cuore ogni sorgente di tenerezza e di orgoglio e l'aveva contaminata. Traditore, infedele, impuro, egli, in certi momenti, accostandosi allo specchio, nel vedere il suo pallido viso, aveva ribrezzo!

Nelle atroci notti, oramai, una fatale convinzione si faceva posto nel suo spirito. Come uomo, egli era distrutto: distrutto come amante. Mai più, mai più avrebbe potuto accostarsi ad una donna, desiderandola, volendola; l'idea di un simile fatto, gli metteva un terrore folle, la crisi di un ferito che vede il ferro chirurgico. Due o tre volte, ingenuamente, Chérie, che nel suo buon senso, credeva alle forze semplici della vita, lo aveva guardato con gli occhi seduttori, con gli occhi che invitavano: due o tre volte era stata provocante, sperando di guarire così Paolo Herz. Ma aveva visto un tale sgomento in lui, gli era parso così tremante, così pallido, che la donna, non comprendendo più nulla, aveva chinato il capo, un po' umiliata, si era ritirata nella sua stanza, tutta pensosa. Mai più, nessuna donna, dopo Luisa Cima! e mai più, in sè, nessun amore, dopo che egli aveva così ignobilmente tradito il suo. Eternamente solo, solo nel ricordo dell'abbandono e solo con la testimonianza della propria turpitudine: una solitudine senza decoro, senza serenità, senz'ombra di conforto. Confortarsi in chi? In che cosa? Tutto era finito: tutto, anche l'idealità sublime del suo amor solingo. Col tradimento, tutto era finito.

Egli si levava da questi notti con gli occhi cavi e brucianti, con uno smarrimento di coscienza, che lo faceva parer vaneggiante. Chérie lo sogguardava, sempre più sorpresa. Adesso, non si parlavano più. Non si davano neppure la mano. Egli cercava di isolarsi, assorbito dalla sua fissazione sentimentale, uscendone solo per considerare Chérie con spavento, poichè ella era stata la causa del tradimento. Ella domandava a se stessa: «perchè gli faccio paura?» Ma non glielo chiedeva, oramai intimidita e stanca. La infermità morale di Paolo Herz sfuggiva a qualunque cura ella potesse tentare, e la poveretta aveva finito per annoiarsi mortalmente e sovra tutto, per sentirsi inutile e noiosa. Viaggiavano da quattro mesi, insieme: e il tentativo era stato troppo lungo. Una sera, a Vienna, glielo disse:

—Paolo?

—Chérie?

—Non ti pare che sia meglio finire?

—Che cosa?

—Questo viaggio, insieme.

—Ah!… sì.

—Io vorrei restare, ancora, con te—ella aggiunse, gentilmente—ma non serve a nulla.

—Non serve a nulla.

—Me ne vado, allora, Paolo?

—Sì.

—Tu resti?

—Non so.

—Che farai?

—Non so.

—Vuoi che io resti, Paolo?

—No.

—Trovi che ho torto? Che faccio male?

—No, Chérie: tu hai ragione e fai benissimo.

—Mi serbi rancore?

—No: non ti serbo rancore.

—Mi vuoi bene, un poco, allora?—disse ella, scioccamente.

Egli rabbrividì: tremò. E disse:

—No, niente.

Così, si lasciarono.

Dissidio.

—Dunque, mi amate?—ella domandò.

—Io vi amo. E voi?—egli chiese.

—Anche io vi amo.

Ma perchè non erano felici, dopo quella confessione? Perchè quella permanente nube di tristezza in entrambi?

—Avete molto tardato a dirmelo—ella soggiunse.

—Moltissimo. Anche voi, del resto.

—Anche io—ella replicò.—Perchè tardaste tanto?

—Perchè non ero perfettamente certo di amarvi: e non volevo ingannare nè me, nè voi.

—Dubitavate? Non vi piacevo, io, forse?—ella disse.

—Mi piacevate e mi piacete immensamente. I vostri occhi così vivaci e tanto spesso pieni di malinconia, la vostra bocca sempre così fresca e dove il sorriso assume tante forme novelle e bizzarre, mi attirano irresistibilmente: io adoro le vostre perfette mani e quando immagino che esse possano passare sui miei capelli, con una lenta carezza, fremo di un lungo brivido: tutta la vostra persona esercita su me il fascino, che non si vince, dei corpi giovani e belli, fatti per l'amore…

—Ebbene?

—Ebbene, tutto ciò, talvolta, non esiste più. Vengono giorni, vengono periodi, in cui non mi piacete punto. Nè lo sguardo vostro, nè il vostro riso arrivano sino a me; mi sembrano pallidi, smorti, o, forse, io non li sento, sono diventato sordo e cieco alla loro espressione. La vostra persona mi pare quella di un manichino e non la bella forma di una creatura umana. In questi periodi, io potrei stare vicino a voi, voi sola con me, lontani ambedue da ogni rumore, da ogni fastidio, in quella compagnia, infine, che ogni amante ardentemente desidera e io non vi prenderei una mano per baciarla, non vi direi una parola d'amore…

—È strano… è strano…—ella mormorò.

—Vi è di peggio. Debbo io dire anche il peggio? Non vi offendete, voi?

—Non mi offendo. Dite.

—Càpitano dei periodi anche peggiori. Sono quelli in cui tutto in voi mi dispiace. Dopo la indifferenza, un senso di disgusto, d'irritazione tutta fisica. I vostri occhi mi sembrano sfrontati, perversi, sempre duri, come se giammai vena di dolcezza li possa attraversare; la vostra bocca ha qualche cosa di odioso, di sovranamente antipatico, nel parlare, nel sorridere; ogni vostro movimento mi sembra volubile o goffo; e tutta voi, per me, mancate di armonia, siete una dissonanza, urtate i miei nervi e vi debbo fuggire, se non voglio essere maleducato, villano con voi.

—Così?

—Così.

—E poi?

—Poi, non so come, giacchè la transizione mi sfugge, viene il giorno, viene l'ora in cui voi, a un tratto, mi riapparite in tutta la vostra seduzione. Sarà, forse, un vestito che vi va bene; un significato più tenero degli occhi; qualche cosa di più mite nel sorriso; una posa più stanca, più abbandonata del vostro bel corpo; un tocco fuggevole della vostra cara mano nella mia… non so! Allora l'antica incantatrice mi prende, mi riprendo ed io sono suo.

—Solo per questo non eravate certo di amarmi?

—Anche per altre ragioni.

—Vi ascolto.

—Non vi rattristeranno, esse?

—Sì: ma non importa.

—L'istesso fenomeno del mondo fisico, fra me e voi, si è sempre riprodotto nel mondo morale. Vi ho ammirata sempre, lo sapete, perchè il vostro carattere ha qualche cosa di assolutamente personale, perchè sotto il vivido sfavillare dello spirito, ho ritrovato un senso equo della vita, perchè a traverso gli erramenti naturali del cuore, il vostro onore mi è parso buono e perchè in mezzo a tutte le inevitabili influenze di corruzione, avete tanta ingenuità infantile. Ciò è così nuovo in una donna moderna ed è così inaspettato, in voi, che sono stato e sono innamorato della vostra anima…

—Ma non sempre innamorato?

—Non sempre! Ciò che voi dite, in certi momenti, mi pare senza colore e senza sapore, come il cinguettìo di un uccellino senza cervello e io mi domando, se dietro la vostra bianca fronte, havvi veramente un pensiero. Mi sembra che il vostro spirito sia quello comune a qualunque altra donna, senza intelligenza: e che la vostra bontà sia quella debolezza naturale del cuore muliebre, quella volgare impotenza a odiare, a fare il male, che si scambia tante volte, fallacemente, con la bontà. La vostra sentimentalità mi pare insipida e la vostra ingenuità mi fa l'effetto di una puerilità scema…

—Triste!

—Non basta. Dopo ciò arriva, costantemente il periodo della irritazione morale. Allora, sì, allora non solo dubito di amarvi, ma sento che mi diventate così odiosa, che tutto il mio cuore si solleva, si ribella contro di voi. Vi ritengo per una donna completamente falsa, in ogni vostra manifestazione. Fredda, se avete l'aria appassionata; ipocrita, se avete l'aspetto sentimentale; maligna, se scherzate; sleale, se vi abbandonate a delle confidenze; e sovra tutto bugiarda, bugiarda nelle prove di bontà, bugiarda nelle espressioni di equità, bugiarda nella ingenuità, bugiarda nella tenerezza, incapace, incapace di una verità, mai!

—E poi? E poi?

—Improvvisamente il suono della vostra voce, dicente una parola; una lettera scritta da voi ad altri e che io leggo per caso; l'aver conosciuto lo scopo di una vostra passeggiata, di una vostra, visita; il velo delle lacrime nei vostri begli occhi; la morte del sorriso sulle vostre labbra; una impressione simile, un fatto vago e fuggevole, mi ridanno, intiera, tutta la malìa che la vostra anima esercita su me…

—Ma, allora, in tanta incertezza, come siete giunto a credere che mi amate?

—Sentite. Voi sapete che io ho un carattere sentimentale e un temperamento amoroso. L'amore, così, è stato il grande affare della mia vita. Io ho amato varie volte e con entusiasmo, con profondità. Le donne che ebbero tutto me stesso, mi meritavano, non mi meritavano, erano, sovra tutto, degne di tanto amore, io non lo so! So che mi detti ad esse e all'amore, con trasporto. Ebbene, a traverso a questa dedizione della mia persona, dei miei pensieri, dei miei sentimenti, io ho scorto, in un cantuccio del mio spirito, un pensiero solitario, talvolta latente, ma costante: il pensiero di voi. Non già che vi amassi, mentre ne amavo un'altra. No. Ma mi occupavo di voi, ma vi seguivo in tutte le evoluzioni della vostra vita, ma nulla di quello che facevate voi, mi era indifferente. Andando a un convegno d'amore, desideratissimo, se v'incontravo, mi distraevo subito, non per molto, ma mi distraevo: tornando da un convegno d'amore, tranquillo, felice e stanco, se vi rivedevo, per la via, tutto il mio essere aveva una vibrazione. Quando mai mi siete escita di mente? Una curiosità costante di voi, dei vostri fatti, della vostra esistenza ha accompagnato tutti i miei ardori per altre donne, io ho delirato di amore e di dolore, ma non sono mai stato infedele a questo pensiero, a questa curiosità. E se il criterio dell'amore è un abbandono assoluto, incondizionato, se bisogna donarsi tutto, se il lasciare anche una piccola parte di se stesso, è una infedeltà, io ho tradito tutte le donne che ho amate, per voi.

—Per questo soltanto, avete avuto la certezza che mi amavate?

—Non soltanto! Il vostro cuore ha avuto le sue ore di passione, non è vero?

—Sì—ella disse.

—Ne ha avute anche di aberrazione?

—… Sì.

—Quanto ho sofferto, sempre, in queste ore, che gelosia continua, profonda, sanguinante, ho avuto di voi e della persona che amavate! Che tormento lungo e sottile, ad ogni nuovo sospetto, a ogni nuova induzione! Che spasimo segreto, non tanto segreto, però, che non ve ne accorgeste, voi! Dite, ve ne siete accorta?

—Sempre. Ogni volta che ero prossima ad amare qualcuno, l'idea che voi ne avreste sofferto, mi ha turbato molto: qualche volta, vedete, ho rinunciato, perchè sentivo tutta la vostra gelosia.

—Atroce! V'intendevo, io, quando stavate per commettere un altro errore e venivo da voi, e vi parlavo, vi rammentate, vi maltrattavo, talvolta! Ciò vi fermava, lo so. Ma quella volta, quella volta fatale, nulla vi arrestò, nulla poteva arrestarvi ed io che vi amava, forse, dovetti assistere alla vostra caduta. Che orribile cosa, che notti ho trascorse, con questo cruccio nell'anima, vedendovi avvilita, perduta, disonorata, non solo agli occhi del pubblico, che non sarebbe di prima importanza, ma agli occhi miei, agli occhi vostri! Questo, è amore.

* * *

—Voi, dunque, mi amate?—ella domandò ancora.

—Sì. E voi?

—Vi amo.

—Da molto tempo, è vero?—egli chiese.

—Da moltissimo tempo.

—Perchè non me lo avete mai detto?

—Perchè voi siete voi e non un altro.

—Come?

—Ho avuto paura di voi.

—Paura?

—Sì: ho temuto assai di non rendervi felice nell'amore, di non esser felice con voi.

—Triste, triste—egli disse, a sua volta.

—Triste!—ripetette ella, come un'eco—Dal giorno che vi ho conosciuto, sono stata attratta verso voi, continuamente e continuamente respinta, come innanzi a un pericolo sconosciuto. Ho intravveduto sempre, con un senso d'infinita dolcezza, l'idea di appartenervi, l'idea di avervi mio, per tutta la vita, prima come amante, poi, quando la ragione dell'età fosse sopravvenuta, come la migliore vostra amica, come il migliore fra i vostri amici, come l'unico amico. Qual sogno!

—Ebbene?

—Ebbene, ogni volta che la realtà mi pareva si avvicinasse a me, a noi, sempre che questa visione prendeva forma, cominciava a prender forma, un invincibile terrore mi ha impedito di continuare.

—Ma perchè?

—Ve l'ho detto: sospettavo, temevo una reciproca inguaribile infelicità. Troppo diversi fra noi e troppo eguali in alcuni momenti: troppo esigente, io, e certo, troppo esigente, voi; ambedue, spesso, ribelli alle esigenze: innamorati e intanto diffidenti, disdegnosi, chi sa, forse disprezzanti l'uno dell'altro; gelosi e infidi; con un mondo spirituale ora complicato e spaventoso, ora semplice e tormentoso; capaci di ogni sacrificio, ma capaci anche di rinfacciarlo brutalmente e crudelmente; con un passato tumultuoso, ambedue, tumultuoso e risorgente, ahimè, a ogni crisi amorosa; con un dubbio avvenire, senza fede, sovra tutto, senza fede nè in noi, nè nell'amore…

—Questo, formava il vostro sgomento?—gridò, lui.

—Sì—disse lei, piano.

Un minuto di silenzio.

—E come avete vinto questa paura?—egli chiese, rompendo il silenzio.

—Come voi avete vinto il vostro dubbio.

—Cioè?

—Pensando che, infine, vi è una fatalità che lega segretamente le persone che si debbono amare, che si debbono appartenere; e che dopo aver lungamente combattuto, invano, questa fatalità, era ben dolce lasciarvisi andare, senza resistenza, senza forza, oramai, più. Sentendo che vale la pena di rischiare tutte le infelicità, tutti i dolori per un poco di amore, con quella tale persona, tanto desiderata, tanto invocata; sentendo che non si deve morire, senz'aver gustato a quel tale amore che si è troppo sognato e troppo respinto.

—È vero, è vero—egli disse.

—Non avete voi superato il vostro profondo e insistente dubbio, sul vostro amore, proprio per questo?

—Sì.

—Così ho superata la mia paura—confermò lei.

* * *

Ma le parole sincere che essi avevano pronunziate, stavano fra loro, nell'aria, intorno a loro nelle loro menti, nei loro cuori: quello che non si erano mai detto, ora lo sapevano. E altre parole più intime, più cocenti, anche più sincere, le più sincere fra tutte, quelle che stanno chiuse nell'intimo del cuore, che sono la verità istessa dell'anima, il grido ultimo, essi intravedevano, in una rivelazione indistinta, ma dolorosa. E il silenzio fra loro si fece tragico; e si fece tragicamente lungo, ognuno di essi assorbito dal proprio pensiero, da una agitazione muta ed estrema. Forse in quell'assorbimento, ognuno si pentiva di aver parlato, ognuno s'incolpava di aver dichiarato il segreto del proprio spirito, tristemente e inanemente; ma le parole erano state dette, avevano vibrato nella voce, avevano ondeggiato nell'aria, ognuno le aveva udito palpitare nel proprio cervello. Impossibile tornare indietro. Ella fu, che interruppe, per la prima, il silenzio: e la sua voce la scosse, come mai udita; ed egli fu scosso da quella voce, come inaspettata.

—Voi, mi amate?—ella domandò.

Egli non rispose: pensava.

—Mi amaste? mi amate?—richiese, ella, subito.

—Non so—egli disse.

—Non potete saperlo?

—Non posso.

—Non potete esser più forte del vostro dubbio?

—No. E voi, mi amate?

—Forse—ella disse,—ma non debbo amarvi.

—Non osate?

—Non oso.

Ancora, il silenzio.

—Addio, dunque, Massimo.

—Addio, Maria.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L'attesa.

Nella notte purissima e chiara il plenilunio scintillava. Dalla terrazza del mio albergo io vedeva a destra, a sinistra i campi arati che dormivano sotto la tranquilla luce lunare; in capo alla viottola fiancheggiata di querciuoli, dopo una discesa di cinquanta passi dall'albergo, dormiva, tutta bianca, con due finestre nere, la piccola stazione; lontano, dopo una spiaggia deserta, dormiva la grande linea dell'Adriatico. Dietro le mie spalle, inerpicato sulla collina, il paesello dormiva. La profonda pace della notte era intorno a me. Io solo vegliavo, inquieto, febbricitante, esaltato, passeggiando su e giù, mentre la mia ombra si allungava, si accorciava, scompariva, mentre nulla poteva calmarmi. Io aspettava lei. Da tre giorni io l'aspettava nell'unico albergo, in quella piccola stagione intermedia, che niuno conosce. Ella doveva venire, passare con me una giornata e partirsene. Io l'aspettava.

Per questa giornata io fremeva ed impallidiva da due mesi, lavorando, ridendo, vivendo sotto l'imperio dell'idea fissa. Da due mesi ella palpitava come un uccello morente, nel disordine delle sue lettere; da due mesi, noi mentivamo atrocemente alle persone che ci erano state più care. Ogni azione, ogni pensiero, ogni speranza erano concentrate in quella giornata luminosa e ardente. Per andare, io ingannava un'altra donna, mia madre, mia sorella, i miei amici; io faceva venti ore di viaggio, io rimaneva sei giorni nell'albergo del paesello: per venire ella ingannava un uomo, ingannava suo padre, i suoi fratelli, i suoi cognati, sua suocera, i suoi servi, i suoi amici, si esponeva a viaggiar sola, bella e graziosa, per trenta ore di viaggio, in mezzo ai pericoli, venendo ad un pericolo di morte. Che importava tutto questo?—Io l'amava e l'aspettava, ella veniva a me perchè m'amava. L'ultima settimana prima del giorno, era stato un turbine quello che ci aveva travolti; eppure, in tanto disordine di ogni cosa brillava netta, lucida, matematica tutta la combinazione del viaggio. Io conosceva a mente il mio itinerario ed il suo, e lo ripeteva sottovoce, come se avessi potuto dimenticarlo. Quei nomi di paesi, quelle ore ritornavano macchinalmente sulle mie labbra. Eppure una orribile paura mi accompagnava di sbagliare un treno, di non trovarmi, di perdere la testa, e due ore innanzi io era alla stazione, fingendo leggere, disinvolto, bevendo dei grandi bicchieri d'acqua per calmare la mia febbre. Chi ha viaggiato con me? Non so, guardavo in volto le persone senza vedere nulla. Sentivo nelle orecchie un rumorìo di voci, uno stridìo di ferro, squilli di campanelle, fischi, ma non comprendeva nulla. Non ho dormito mai, mai. Mi assopivo, talvolta nell'abbandono, nella stanchezza dei nervi troppo tesi, ma l'anima vegliava, un sussulto mi scuoteva. Quanti giornali ho trascorso, quanti libri ho sfogliato? Non mi ricordo. So che arrivato al paesello, dove ella doveva venire, mi son sentito stringere il cuore. Forse, non sarebbe venuta. Che ne sapeva io? Era così strano il modo come ci eravamo amati, così singolare il modo come ci amavamo! Non mi conosceva, non la conoscevo. Da un momento ad un altro, lei che non era nulla, era diventata tutto per me. Che donna era? Forse, non sarebbe venuta. Forse l'avrebbero trattenuta. Invano cercavo dominare questo senso invincibile di sgomento. Pure l'albergatore, un cortese e famigliare, uomo che non vedeva mai nessun forastiero, non si accorse di nulla; è vero, io era pallido, gli occhi miei vagavano, distratti, le mie mani avevano la febbre, ma sorridevo, scherzavo anche. Nei tre giorni avevo visitato il paesello, la sua chiesa gotica, la sua manifattura di lana sopra un fiumicello là, presso: ma i paesani che si volgevano a guardare questo viaggiatore tranquillo ed attento, non sapevano niente della lotta spaventosa che mi rodeva. Con un vetturino facevo lunghe passeggiate in carrozza e mi lasciavo narrare i suoi guai, tutte le vicende della sua vita. Anche la cameriera dell'albergo ed il servitore mi avevano fatte tutte le loro confidenze; essi avevano trovato un placido ascoltatore che approvava col capo, senza capire, rosicchiato, minato, tormentato da un sol pensiero. Diventavo stupido. La notte smorzavo il lume nella mia stanza, passeggiavo sul terrazzo, guardando la via ferrata.—Verrà di là—pensavo fra me. E come un'allucinazione mi prendeva, mi pareva che sbuffante e rumoreggiante il treno arrivasse col suo occhio verde e col suo occhio rosso che mi guardavano, che una potenza malefica m'inchiodasse sul terrazzo, ch'io vedessi di lontano la diletta dell'anima affacciarsi allo sportello, cercarmi, non trovarmi, ricadere indietro, disperata, ripartirsene senza che io, nella più orribile contrazione del dolore, potessi fare un passo o dare un grido. L'incubo si sedeva sul mio petto, me desto. Erano state lunghe, eterne quelle ore dei tre giorni, io le aveva vedute avanzare pigre e stanche, ma le ore dell'ultima notte, chiamate invano, supplicate invano, non venivano. Ella doveva arrivare alle sei del mattino. Dalle otto della sera prima, io agonizzava nell'impazienza. Non una lettera, non un telegramma. Non poteva farmene, non doveva farmene, avevamo stabilito così. Viaggiava lei verso me? Dove era lei in quel momento? Calcolando, potevo saperlo. E se non venisse? Tutte le più alte, le più inflessibili deduzioni matematiche sono capovolte da un picciolissimo fatto. Passeggiavo, fumavo, morsicchiando la mia sigaretta, lasciando che si spegnesse, gittandola nella via, accendendone un'altra. Nella sera, ad uno ad uno si spegnevano i lumi del paesello. Passò un treno alle nove; era un diretto, non fermò. Alle dieci un altro; fermò per due minuti; era l'ultimo. La stazione era il mio faro, la mia compagnia. Illuminata, mi riscaldava il cuore come un raggio di sole. Certo i due impiegati, i facchini, il capostazione dovevano essere molto stanchi, poichè smorzarono subito e se ne andarono a letto. Mi parve di rimanere solo, abbandonato, in un deserto, senza luce, senz'acqua. Rientrai in camera, tutto angustiato. Dinanzi ad una fioca stearica d'albergo, in piedi, fremendo, rilessi le sue lettere inquiete, agitate, febbricitanti, che mi davano la follia. Sarebbe venuta. Sarebbe venuta la regina di Saba nei dômi azzurri della mia fantasia. Io le tendeva le braccia, ella veniva. Poi mi mettevo a pensare se quel salottino e quella camera d'albergo erano degne di ricevere la sua persona. Piccole stanze, messe con un lusso un po' rustico, un po' cittadino. Ma come Cristo, vi erano tutte le stazioni della Passione. Gliele avrei fatte vedere: Vedi, qui ho pianto, pensando che tu non saresti venuta. Qui ho sperato che questo calice mi sarebbe risparmiato. Qui ho agonizzato, nel dubbio della mia fatale Getsemani. Qui ho singhiozzato, credendomi tradito da te. Qui ho disperato, credendo che non saresti più venuta. Questa è stata la mia tomba per tre giorni. E qui, qui, amore mio immenso, sono risorto.—E pieno di una esaltazione, uscivo sul terrazzo a gesticolare, come un lungo burattino preso da pazzia. Forse, non sarebbe venuta. Mi sedetti in un angolo, appoggiando le braccia sul muretto, e il capo sulle braccia. Ma non dormivo, no. La boccettina del cloralio era quasi vuota sulla mia tavola. La vuotai. Mi distesi sul letto per dormire. Non dormivo. Presi un libro: le Massime di Larochefoucauld. Tristi massime, ironiche massime, piene di realtà. Ma la passione è fuori della vita reale. Mi conturbarono. Fumai di nuovo. Avevo la gola secca, le fauci riarse, le guaucie mi bruciavano. Prendevo le sue lettere, profumate, fresche, e me le metteva sul volto, sperando averne qualche refrigerio.

Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una le case dei contadini. Nell'albergo, dormivano ancora. Pure, sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra, vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta, un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva spazzava, in basso, la stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non viene—mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva un gomito; tornai indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un vermouth nel piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito, forse essa non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto andarmene, perchè non veniva. D'un tratto odo un debole fischio, un suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno nero, bagnato d'umidità. Il sangue, mi va al cuore, ma oso domandare:

—È il diretto?

—No, è un merci. Ci vogliono tre quarti d'ora pel diretto.

—È segnalato alcun ritardo?

—No, per ora.

Ella non verrà. Me ne vado nel giardinetto della stazione dove crescono le rose delle quattro stagioni ed i gelsomini cremisi, in ritardo. Una lucertola mi guarda con i suoi occhietti sospettosi, una buona, simpatica e nervosa lucertola. Vorrei narrarle la mia disperazione, perchè ella non verrà. Un carabiniere è ritto sotto la porta; non mi guarda. Vorrei dirgli quanto son disperato, poichè ella non verrà. Gli ultimi minuti; prima che il treno arrivi, io li vivo triplicatamente, giunto al culmine di ogni sensazione. Viene il treno, la campanella è stridula, le orecchie mi tintinnano. Il sole appare vittorioso all'orizzonte e il fumo bianco della macchina s'indora. Ella non vi è. Non mi avanzo, rimango immobile, morendo in piedi. Scendono contadini dalla terza classe; dei signori una vecchia, un bambino dalla seconda. Ella non vi è. D'un tratto, lontano, nella penultima carrozza di prima classe, allo sportello non fa che apparire e scomparire un volto smorto.

Mi trovo la forza di aprire la portiera. In una mano ghiacciata, è appoggiata una manina tremante. Non ci parliamo, ma ci guardiamo, camminiamo accanto. Quei due esseri pallidi, senza voce, tremanti come bimbi, sono un uomo a trent'anni forte e coraggioso, una donna di spirito e di coraggio. Alla porta le faccio una domanda insulsa, inutile.

—Hai il biglietto?

Lo ha, me lo mostra. Passiamo. Ce ne andiamo nel polverìo della via, senza osare di darci il braccio. L'albergatore dalla soglia, ci sorride. Ella sorride con gli occhi pieni di lagrime, io non sento che il profumo acuto dei suoi guanti, il suo profumo…

* * *

Tu hai potuto dimenticare, io ho potuto dimenticare. Poichè questo caso mostruoso, inaudito, è stato possibile, sogghigniamo e diciamo pure che la vita nella sua più alta espressione, che è l'amore, non è che un vano e miserabile sogno.

Zig-Zag.

Io conosco un curioso signore che possiede, in un cassetto sempre chiuso di una sua scrivania, un piccolo museo amoroso, vale a dire quella tale raccolta di oggettini insignificanti per sè, ma espressivi per la persona che li riunì, a testimonianza e a ricordo dei suoi fatti d'amore. Sin qui, ciò è molto comune: giacchè è collezionista di tal genere, chiunque sia un poco sensibile, un poco sentimentale, chiunque si sia abbastanza occupato dell'amore, nella sua vita. Cassetti, cofanetti, scrigni che serrino simili preziosità tutte personali, si trovano dapertutto, anche nelle case di donne molto austere e di uomini molto serii: il bisogno di provare a se stessi che si conobbe l'amore, che si ebbe un passato tenero e passionale, determina la conservazione di tali memorie. E il curioso signore sarebbe un signore qualunque, somigliante a un altro qualunque signore e a moltissimi altri signori qualunque, col suo cassettino, ermeticamente chiuso: ma la sua singolarità è questa. Egli ha due piccoli musei. Il primo è custodito nel cassetto superiore, a destra dell'antica scrivania, il secondo nel cassetto superiore, a sinistra del medesimo mobile: cassetti eguali, che si aprono con la medesima chiave: la chiave, non grande, è sospesa all'anello dell'orologio, ma sempre nascosta nel taschino del panciotto. Del resto, il curioso signore apre assai raramente i due musei dell'amore; bisogna che egli si trovi in una di quelle lunghe giornate di pioggia autunnale, senza voglia di fare nulla di bene o male, senza desiderio di vivere: o in una di quelle dolci notti solitarie e insonni, fervide di fantasmi nell'anima: o in qualche minuto di convulsione spirituale, in cui tutto nel presente può dare la disperazione e solo il passato può dare la calma. In queste rarissime occasioni, il curioso signore cava la chiave e schiude il primo cassetto; ma quando le sue mani hanno toccato, i suoi occhi hanno visto, il suo naso ha aspirato, allora egli, subito, apre anche il secondo. Più tardi, molto più tardi, quando la lenta e penosa rassegna dei due musei è compiuta, uno dopo l'altro egli serra, con un cheto girare di chiave, i due cassetti; il trattamento sentimentale è di una perfetta eguaglianza e di una assoluta giustizia.

Nel primo cassetto stanno i ricordi delle donne che egli ha amate. Vi è una cintura di seta, molto scolorita; apparteneva a una bellissima donna quarantenne di cui egli si era innamorato, verso i venti anni. Questa donna era stata molto amica di sua madre e veniva spesso in casa, sempre vestita con grande eleganza, un po' imbellettata, moltissimo profumata, con certi fruscî inebbrianti di gonne di seta, lasciando vedere i suoi piedini calzati di calze di seta trasparenti e di minute scarpette. Il giovanotto l'aveva amata con grande timidezza dapprima, fuggendola, nascondendosi dietro le porte, per guardarla, tremando di gioia o di terrore, se ella gli toccava la mano: la passione, sensuale, del resto, facendosi più violenta, egli era giunto alla dichiarazione, alla lettera di amore, alle insistenze disperate. Questa donna lo aveva respinto, ostinatamente: prima aveva avuto l'aria di non accorgersi di lui, poi lo aveva avvilito con una continua illusione, con un continuo disprezzo. Per avere quella cintura egli l'aveva fatta rubare da un servo compiacente: la signora aveva creduto a una dispersione, e il folle innamorato passava le sue notti covrendo di baci roventi quella molle seta, cingendosela al collo, fingendo che fossero le braccia della donna inutilmente amata. Costei, a un certo punto, era partita: egli aveva spasimato ancora un pezzo, e infine si era consolato.

Sempre nel primo cassetto, delle donne amate da lui, vi era un fazzolettino di battista, con una iniziale: un B lungo e sottile. Apparteneva, questo fazzolettino, a una cara, pensosa, triste donna di cui egli aveva portato l'amore, nel cuore, circa due anni. Bionda, pallida, alta, ella aveva la flessibilità e le fragilità delle creature sparenti: ella amava un amico del mio curioso signore, o il curioso signore, per un seguito di circostanze, era intermediario fra il suo amico lontano e questa donna. La assenza rendeva infelice quell'amore, ma lo esaltava: il curioso signore passava le sue ora accanto a quella donna, Beatrice, parlando di colui che era diviso dai mari e dai monti, ma che era adorato da colei. A parlare sempre di amore, a essere sempre in contatto con una passione così profonda e così costante, a udire tutte le manifestazioni di quell'anima così schietta e così salda femminile, egli si era innamorato. Ma con un coraggio eroico, aveva taciuto questo suo amore, che era completamente senza speranza: aveva seguitato a vivere accanto a Beatrice, portandole notizie dell'amante lontano, leggendole le sue lettere, leggendo il giornale di questo amore che ella scriveva, piamente, con una fedeltà cristallina, inebriandosi di amore non corrisposto, ribevendo le proprie lacrime, soffocando ogni singhiozzo, reprimendo ogni pallore rivelatore, pur di poter tenere quel posto preferito di confidente. A un tratto, gli ostacoli fra Beatrice e il suo lontano amico erano caduti: la parte del curioso signore era finita: si sentì soverchio, inutile: si strappò allo spettacolo dei due ricongiunti, felici. Quando aveva chiesto quel fazzolettino? Una sera in cui ella aveva pianto per il dolore dell'assenza: le lacrime che avevano bagnato il fine tessuto, erano state versate per l' altro.

Il terzo ricordo, fra quelli delle donne che egli aveva amate, era un ritratto, una fotografia grande, sbiadita, con una dedica i cui caratteri anche si erano scolorati. Rappresentava una donna di un ventotto anni, forse, dalla fisonomia capricciosa e seducente: certi grandi occhi con le ciglia molto lunghe: un nasino troppo piccolo: una bocca ridente: una massa di capelli bruni, ondulati. Era vestita in un costume bizzarro, da ballo mascherato, cioè trifoglio: aveva una gonnella un po' corta, di raso bianco, su cui era applicato un gran trifoglio di velluto nero: sul bustino di raso bianco, sul petto, era ricamato un trifoglio nero, di perline: e la gran collana di perle era rialzata, al collo, da un trifoglio di brillanti. Anche sui bei capelli ondulati, ella aveva un diadema di gemme e una specie di cappellino o di cappellone di velluto nero, a tre foglie, che ella portava come una cornice, come un'aureola. La dedica diceva: Charles, je t'adore—Mimì. Il curioso signore, appunto, si chiamava Carlo, ed ella Mimì, un nome vero o falso, chi sa! Falsa senza altro, era la frase della dedica, giacchè Carlo, infatti, aveva adorato Mimì, ma Mimì non aveva adorato lui, nè amato, nè niente. Così, senza una ragione al mondo! Ella aveva avuto molti altri amanti, ad alcuni aveva voluto del bene, non era una creatura arida: ma a Carlo, pur dandosi, ella non aveva concesso nulla. Si era data per gentilezza, per compassione, per distrazione, per ozio, perchè, anche, era inutile negarsi, anche perchè Carlo era un amante generoso. Ma amore, Mimì, per Carlo, mai! Oh egli lo sapeva bene, a malgrado le pietose e scaltre menzogne di Mimì, che egli gittava invano la sua passione, la sua salute, il suo tempo, il suo denaro: la donna si dava, ma egli non era amato. Tante volte, glielo diceva, a Mimì: le chiedeva, perchè essa non potesse volergli bene, un poco volergli bene d'amore, naturalmente. Ella si rattristava, perchè era buonina: rispondeva, senza aver il coraggio di mentire: non so. Un sacrifizio costante, una fedeltà rigorosa, una passione sempre eguale, il denaro, i viaggi, non arrivarono a fare di Mimì, l'amante di Carlo, l'innamorata di Carlo. Periodo febbrile, morboso, della sua esistenza: male atroce di cui aveva sofferto e di cui, ogni tanto, soffriva ancora, non per la donna, che aveva obliata, ma per l'amore che era stato respinto, offeso, ferito mortalmente. Le ferite dolgono pure quando sono guarite.

Il secondo cassetto superiore, a sinistra, nell'antica scrivania di Carlo, contiene un altro piccolo museo amoroso. Sono i ricordi delle donne che hanno amato il curioso signore.

Il primo, fra essi, è un crocifisso di argento, oscurato dagli anni e come consunto dai mistici baci di una pura bocca orante: non è un crocifisso di quelli che portano sospeso al collo, da un cordoncino, le persone pie; è di quelli che si tengono attaccati al muro, presso il letto, e innanzi ai quali ci s'inginocchia, pregando. Esso apparteneva a una fanciulla, Grazia, che era un po' parente e un po' amica di Carlo. Molto gracile, molto sensibile, molto impressionabile, dedicata assai alle cose del cielo, quella povera creatura aveva nutrito, segretamente, una tenerezza innocente per Carlo. Lo aveva egli compreso? Aveva egli misurato l'intensità di questa tenerezza? Chi sa! Ella aveva sempre taciuto questo suo sentimento, mentre se ne struggeva: e se anche qualche cosa n'era trapelato, sino a lui, la vita lo trascinava troppo nel suo vortice, perchè egli corrispondesse a questo affetto. Questa Grazia, per la sua salute per le sue inclinazioni, sembrava più fatta per il chiostro che per il mondo, e più per la morte che per il chiostro. Di fatti, un giorno, chetamente morì. Il crocifisso fu mandato a Carlo dai parenti perchè ella volle così. Probabilmente, ella aveva tentato di ricondurre alla fede un'anima errante: probabilmente aveva esalato tutto il suo amore, in quel dono. Egli non divenne un credente: ma si accorse di essere stato amato, troppo tardi, e conservò preziosamente il crocefisso.

Un altro oggetto d'amore, era un paio di forbici da ricamare, molto fini, taglientissime, col manico di oro; erano servite a una donna per tagliarsi le due lunghe, folte, bellissime trecce nere, per gittarle ai piedi di Carlo, inutilmente. Costei era tanto brutta! E sgraziata e antipatica, inoltre! E di animo bizzarro, capriccioso, insopportabile, insieme a ciò! Carlo la guardava con ripulsione; lo faceva degli sgarbi; le diceva delle impertinenze; le dimostrava in tutti i modi il disgusto che ella gli ispirava. Ma ella lo amava. Goffa, non giovane, brutta, vestita grottescamente, nervosa, nevrotica, piena zeppa di difetti fisici e morali, ella lo amava e lo perseguitava con questo amore. Erano tali o tante le frenesie che questa donna commetteva, nell'ebrietà del dolore, che tutti si erano accorti di questo amore; si burlavano di Carlo, ne ridevano e aumentavano il ribrezzo che egli aveva per lei. La fuggiva, ella lo raggiungeva; la scacciava, ella ritornava; la ingiurava, ella piangeva, ma non si guariva. Una ossessione. Una notte ella si fece trovare nella sua stanza e per sei ore, otto ore, lo tenne sotto le preghiere, le minaccie, i singhiozzi, i gridi di un amor desolato, disperato: ella fu volta a volta, volgare e sublime, grottesca e nobilissima, orribile a vedersi e trasfigurata dalla passione; a un certo punto, ella sciolse i suoi capelli, la sola bellezza che possedesse, e in un impeto di follia, li tagliò. Invano egli tentò strapparle le forbici, le afferrò le mani, si ferì; ella seguitò a tagliare, cieca, perduta, gittando le sue trecce a lui, rimanendo mutilata, deforme, esausta; egli l'aveva messa fuori, egualmente, dandole i suoi capelli morti oramai, disdegnando persino questo grande sacrificio ed ella era fuggita, a capo chino anche più brutta e più infelice. Dopo, più tardi, egli aveva saputo che ella era in preda a una grave malattia di nervi; poi, più nulla. Quando aveva ripensato, dopo tanti anni, a quell'amore, aveva voluto conservare le forbici di quel sacrificio.

Il terzo ricordo era un pacchetto di lettere, quaranta o cinquanta, forse: molto minutamente scritte, con una calligrafia lieve e volante, che pareva riempisse di alucce il foglio. Portavano, tutte, solo la data del giorno, non l'anno, una firma: Eva. Chi era, dunque, costei? Egli non lo aveva mai saputo. Aveva cominciato a ricevere queste lettere, un bel giorno: venivano dalla posta: una, due per settimana: talvolta, quindici giorni senza venirne: talvolta, due di seguito, un giorno dietro l'altro. La donna si manteneva in incognito, nè faceva nulla per esser conosciuta: ma si comprendeva che fosse giovane e bella e che non fosse libera. Il suo amore per Carlo pareva generato da un incontro, da una conversazione e che si fossero ripetuti incontri e conversazioni; ma nessun dato preciso veniva a chiarire questa ombra, in cui ella si avvolgeva. Forse, se Carlo avesse fatto uno sforzo, se avesse moltiplicato le indagini, egli avrebbe scoperto la verità: ma una sola volta lo tentò e le lettere sparirono, per qualche tempo. Del resto, lo aveva tentato debolmente, senza nessuna volontà di sapere il vero: in fondo, poco gli premeva questa solitaria e misteriosa sua corrispondente. Di nuovo le lettere apparvero, l'amore sembrava più forte, più ardente: si vedeva la lotta di un'anima che vorrebbe realizzare il suo sogno. Carlo partì, per un viaggio improvviso: tornò dopo due mesi: vi erano tre lettere, pressanti: la terza gli dava un convegno in una via, ed era di un mese e mezzo prima. E niente altro. Veramente, egli non ebbe rimpianti, occupato altrove, distratto.

* * *

Infine egli aveva molto amato: e molto era stato amato. Ma non era stato corrisposto mai: e mai aveva corrisposto. Non è curioso, ciò? Forse, non è neppure curioso.

Si è pubblicato:

Luigi Capuana La Sfinge —-Un volume in 16° L. 2.50

Laura Gropallo In hora mortis —Un volume in 16° di pag. 263. 3.50

Luciano Zùccoli— Roberta —Romanzo. Elegante volume in 16° 3.50

Pompeo Bettini—Poesie. Un volume diamante 2.—

In preparazione:

Teresah— Il campo delle ortiche —Poesie

Domenico Oliva— Note letterarie

Matilde Serao— Il peccato

Jack la Bolina (A. V. VECCHI)— Ricordi di fanciullezza

Luigi Capuana Il braccialetto

E. A. Butti L'apostata