PICCOLO ROMANZO

MATILDE SERAO

Piccolo Romanzo

NAPOLI Luigi Pierro, editore Piazza Dante 76 1891

Tipografia Morano e Veraldi nell'istituto Casanova, — NAPOLI alla carissima CORNELIA

PICCOLO ROMANZO

Ella guardava il fragile fiore che si agitava nelle mani del bel principe: e un sottile brivido di terrore la invadeva lentamente. Ora il bel principe indifferente e freddo aveva fissato il fiore, quasi avesse voluto contarne i petali bianchi, dove si contiene la parola del destino, e avendo cavato dalla tasca un portafoglino molle, di seta rosea, accorciò il gambo del fiore, e lo chiuse fra le pieghe, come in una custodia dolce e sacra. Miss Daisy aveva seguito con lo sguardo tutto ciò, e quando vide sparire il fiore, e poi sparire, nella tasca del petto, la sua rosea custodia, ella ebbe un lieve sospiro di sollievo.

— Morirà, morirà: ha trovato la sua tomba — ripetette, quasi macchinalmente, la fanciulla inglese.

— Tanto vi fa spavento, la morte? — dimandò don Francesco.

— No: niente — diss'ella, profondamente.

— Parlavamo della morte — soggiunse lui.

E si voltò nel medesimo tempo, quasi per istinto, verso donna Clara, che giungeva, tutta rosea, tutta gloriosa, al braccio di Haiduck.

— Della morte? — esclamò donna Clara, scoppiando a ridere.

— Sì — disse il bel principe, andando con lo sguardo da Daisy a donna Clara, dal fragile stelo di creatura bionda, al fiore magnifico di bellezza bruna, guardando le due ragazze, senza un sorriso, freddamente e serenamente — della morte. Ho proposto qui, a miss Daisy, di considerarci come se fossimo in punto di morte e di confessarci l'un all'altro, come gli antichi cristiani.

— E non ha voluto? — disse donna Clara, aggrottando lievemente le sopracciglie imperiose.

— Non era possibile; — soggiunse il principe — miss Daisy non ha peccati da confessare.

— E lei, principe?

— Io? Ne ho troppi: e non poteva far inorridire il confessore. Venite via, Haiduck: lasciamo sole queste signorine. Esse hanno bisogno di parlare male di noi.

E il bel principe indifferente fece un gran saluto, infilò il suo braccio sotto a quello del brillante ufficiale ungherese e lo trascinò via. Ora le due ragazze sedevano sul divano, l'una accanto all'altra; con le braccia prosciolte, con le dita che mollemente stringevano il ventaglio. Sembravano ambedue molto stanche, come affrante: e il silenzio si prolungava fra loro. Quasi parea che l'una avesse dimenticata la presenza dell'altra, lontane ambedue le mille miglia, perdute, ognuna, nel suo sogno, dove la musica lontana faceva come da cullamento. Miss Daisy era diventata di nuovo così pallida, che era vinto il roseo smorto del suo viso: e la trionfante fanciulla bruna, accanto a lei, piegava la testa, come vinta dal sogno.

— Sei stata alla Trinità dei Monti? — domandò donna Clara a miss Daisy, improvvisamente.

— Oh no! — rispose miss Margherita, negando vivamente — oggi, poi, no.

— E perchè?

— Perchè non vado mai in chiesa, quando la sera vado al ballo.

— Siete strane, voi altre inglesi. Che ci entra il ballo con la chiesa?

— Appunto per questo. Bisogna seguire una linea sola, nella vita, Clara: e non piegare mai.

— Il ballo non è un'empietà, Daisy.

— Ma non è neppure una preghiera. Bisogna esser logici.

— Oh, che bizzarra gente siete, Daisy! Non fate che degli assiomi. Follie, non ne fate mai?

— Sempre logicamente. Facciamo la follia, con tutte le forme necessarie; e andiamo sino in fondo.

— Sino in fondo? — domandò donna Clara, vagamente preoccupata.

— Così — ribattè miss Daisy.

Donna Clara si passò la mano guantata sulla pura fronte, quasi per diradare una nuvola del suo spirito. E, subito, sorrise.

— È vero, noi mescoliamo troppo le cose allegre e le cose serie — disse, sorridendo, ancora; — ma ciò non è spiacevole, certo. Tu intanto, Daisy, ami molto l'Italia.

— Molto, molto.

— Malgrado le nostre incoerenze?

— Malgrado tutto.

— E perchè non ti mariti qui, o Margheritina piccola?

— Perchè? Per questo.

— Tu non hai voluto Guido Arezzo.

— È lui che non mi ha voluta — disse l'inglese, abbozzando un pallido sorriso.

— Ma che, ma che! Egli lo ha detto a Ferdinando, mio fratello. Perchè non lo hai voluto, Guido Arezzo?

— Perchè non mi amava, Clara.

— Non ti amava, non ti amava? Ma come lo sai, che non ti amava?

— Lo so.

— Gli uomini dicono tante bugie!

— Non a me; io capisco le bugie.

— Oh, poverina, non dirlo, che le capisci! Gli uomini c'ingannano sempre, quando ci amano e quando non ci amano.

— Io capisco le bugie — ribattè miss Daisy, ostinandosi, crollando il capo, come se nulla valesse a persuaderla.

— E dici, cocciutella cara, che Guido Arezzo non ti amava?

— Non mi amava. Ma non mentiva neppure: diceva che nel matrimonio non è necessaria la passione.

— E tu credi che sia necessaria, Daisy?

— Lo credo.

— Quante sei romantica, Daisy!

— Sono romantica: e ciò non mi dà fastidio.

— Sicchè, Daisy, tu devi fare il romanzo, quando ti mariterai?

— Già.

— E forse rimarrai zitella.

— Così credo.

— Gli uomini di adesso sono aridi come il sughero: non sanno nulla di passione e di romanzo. Tu rimarrai zitella.

— Tanto meglio.

— E io mi mariterò male — mormorò donna Clara, chiudendo e schiudendo il suo ventaglio di piume.

— Perchè, male?

— Perchè ho bisogno di tanti quattrini, di tanti quattrini, che nulla più — disse ancora la buona fanciulla, ingenuamente, vagamente, quasi parlando in sogno.

— Quattrini?

— Già. Chissà chi mi daranno! Forse un vecchio conte tedesco, che ha un castello, laggiù, e a cui i servi danno dell'Altezza Serenissima; forse qualche vecchio principe svedese; un industriale lombardo, che diventerà barone, quando mi sposerà; o qualche milionario calabrese. Chissà, chissà...

— Tu non hai volontà? — dimandò miss Daisy, guardandola negli occhi — tu non vorresti alcuno, tu, una persona di tuo gusto, di cui fossi innamorata, o una persona per cui tu avessi una irresistibile simpatia?

— Io? — disse donna Clara.

— Tu, tu. Noi altre ragazze abbiamo un tipo ideale, abbiamo una figura in cui vivono tutti i nostri sogni. Anche tu devi averla.

Donna Clara si era fatta pensosa: e una lieve ombra di malinconia le si era diffusa sulla faccia: la bella bocca, rossa come un melograno, aveva una piega infantile di dolore.

— Un sogno... un sogno... — mormorò lei — chi racconta i suoi sogni?

— I sogni sono la vita — pronunziò gravemente e dolcemente miss Daisy.

— Sogno anche io; — disse la fanciulla bruna — ma temo di mettere un nome ai miei sogni; temo che essi siano troppo belli e troppo indimenticabili, e mi rendano profondamente infelice.

Un gran pallore terreo le si diffuse sul volto, le lagrime salirono agli occhi: ella tremò, come se allora dovessero squassarla i più disperati singulti. Non pianse, però: arrossì di nuovo, si ricompose, sorrise.

— Raccontami i tuoi sogni, Daisy, giacchè tu confessi di essere romantica. Io sono una creatura secca e dura, che ho bisogno di denari e che non devo sognare. Dimmi il nome della persona che vuoi sposare, Margherita.

— Non esiste — disse la creatura pallida e bionda — non esiste.

— Cattiva, che non vuoi dirmi nulla!

— Non esiste. Se esistesse...

— Che faresti?

— Andrei a lui francamente e gli direi: ti amo.

— E se egli non ti amasse?

— Morirei.

— Non parlare di morte, mi sgomenti: voi altre inglesi siete capaci di tutto.

— Non ti spaventare — disse miss Daisy, sorridendo un poco. — Il cavaliere del mio cuore non è giunto ancora.

E si guardarono, affettuosamente, come due amiche che si sono detto tutto, tenendo ognuna per sè il segreto. La gente cominciava ad uscire dal ballo e passava innanzi a loro: qualche conoscenza, qualche amica si fermava un momento, scambiava qualche parola con le due fanciulle e andava via. A un tratto, nel salone da ballo, una dama comparve, donna Maria di Lanciano: una dama alta e snella, dal busto lungo e fine, dalle braccia magnifiche, dal collo grasso. I fulvi capelli erano rialzati sul capo, in una densa massa corruscante: e un diadema ducale, a stelle, vi scintillava. Ella vestiva di nero, cosa strana, in un ballo: un lungo strascico di amoerro nero ondeggiava dietro, con onde cupe. Una collana di brillanti scintillava sul petto: e le maniche erano soltanto due fitte strisce di brillanti, che reggevano il vestito sulle spalle nude. La bocca grande ed espressiva scopriva i denti brillanti, simili a quelli di Berenice, nella novella di Edgardo Poe. Gli occhi verdi, assai verdi, erano profondi di luce smeraldina. Ella era ferma, sotto l'arco della porta — e non parlava, sorrideva a qualcuno, che era ancora nel salone da ballo. Questo qualcuno la raggiunse, le offri il braccio, muto, guardandola negli occhi, guardandola nel sorriso. Era don Francesco. Lentamente, ma senza parlare fra loro, don Francesco, il bel principe indifferente e freddo, donna Maria di Lanciano, la bella dama vestita di nero, passarono innanzi alle due fanciulle, senza salutarle, senza vederle: se ne andarono, muti, uniti dalla lieve catena del braccio, ma così uniti, così uniti che nulla parea potesse mai mai dividerli.

Le due fanciulle si guardarono in viso — e si trovarono egualmente, mortalmente pallide.

II.

Mentre don Francesco, sdraiato sopra un lungo e largo divano della sua stanza da toletta, fumava una sigaretta, le tre lettere giacevano accanto a lui, sopra un vassoino di argento, sopra un tavolinetto di lacca. Due lettere erano grosse, voluminose, suggellate: la terza era un semplicissimo e piccolissimo biglietto da visita, chiuso frettolosamente in una busta. Don Francesco guardava le tre lettere, con l'occhio indolente e stanco, e ritornava alla sua sigaretta, crollando il capo, come se si volesse staccare da tutte le noie umane. Per un momento, prese il piccolo biglietto da visita, chiuso nella busta e lo guardò, esitando: cercò financo di leggerlo, senz'aprirlo. Ma non vi arrivò, posò la letterina di nuovo, cercò di riaddormentarsi, in quel torpore dolce della volontà, che era il suo stato abituale. Pure le tre lettere erano lì, immobili, ma quasi vive, quasi personificate in coloro che le avevano scritte: ed egli rivedeva un volto pallido dai lunghi capelli, di un biondo smorto, rivedeva un vivido volto dagli occhi neri e dalle labbra simili al fiore del melograno, rivedeva quei due occhi così pieni di conturbante luce smeraldina: e per sottrarsi all'incubo di queste tre figure, che si soprapponevano, l'una all'altra, egli stese la mano e aprì una delle lettere.

«Oggi io sposo il principe di Schillingfurst; — scriveva la fanciulla — nel medesimo giorno, tutti tre i matrimoni. Io debbo sposare questo vecchio principe innanzi all'ufficiale dello Stato Civile, e innanzi alle due chiese, la cattolica romana e la protestante. Per tre volte dovrò dire di sì, dovrò dire che sono contenta di sposare questo vecchio tedesco, che sono contenta di seguirlo, laggiù, nel suo castello, dove saremo, è vero, sudditi e tributari della Germania, ma dove i contadini, e i servi, e i visitatori ci daranno dell'altezza Serenissima. Mamma è contenta, poichè il mio matrimonio e la mia partenza, la tranquillizzano sul mio avvenire e le preparano una seconda gioventù, piena di libertà e piena di allegrezza: chi si rammenterà che donna Olimpia di Nerola, ha una figliuola maritata? Ed Ella stessa sarà assai felice, quando potrà dire, con quella disinvoltura signorile che la distingue: mia figlia, la principessa regnante di Schillingfurst. Anche Ferdinando, mio fratello, è contento: poichè pare che intorno al mio castello, vi siano delle bellissime caccie, e lo sapete, egli adora le grandi caccie, all'antica: e, d'altronde, quante volte egli fingerà di partire per Schillingfurst, e andrà a Nizza, o a Trouville, a Lucerna, o in Iscozia! Una sorella lontana è il pretesto per tutte le scappate: e Ferdinando è contento. Anche il mio fidanzato, il principe di Schillingfurst, è contento: è vecchio, ma non ne ha tanto l'aria: ha vissuto assai tempo a Parigi, ha mangiato colà molto danaro e adesso vuol dare una principessa regnante ai felici popoli di Schillingfurst, vuol avere degli eredi, vuol finir bene, ecco tutto. Io sono la sua fine: e per una fine, mi trova abbastanza graziosa. Egli è stato compitissimo, mi ha donato dei bellissimi gioielli, mi ha riconosciuto uno spillatico conveniente: io potrò avere ogni anno dodici vestiti di Worth, senza indebitarmi. Sono io contenta? Io vi amo Francesco, così profondamente, così inguaribilmente, che soltanto nello scriverlo, la mia mano trema e un impeto di tenerezza mi soffoca il cuore. Io vi amo: voi lo sapete. Quando portaste via la rosa rossa, nel ballo di casa Sutri, voi portaste via l'anima mia: e ogni volta che vi ho incontrato, dapertutto, poichè voi mi seguivate, ogni volta che mi avete guardata, lungamente, ogni volta che avete detto al mio orecchio le parole strane e fatali che abbruciano, io ho sentito che l'anima mia era vostra. Come è dolce la vostra voce! Io non la udrò più: io debbo non udirla più. Perchè dunque, portando nel cuore questa ferita così profonda, io sposo il vecchio principe di Schillingfurst? Perchè è il mio dovere di farlo: perchè, se non sposavo lui sarebbe stato un altro, oggi, dimani, un altro giorno; ma infallibilmente un altro, una persona qualunque, un tedesco o un inglese, un veneto o un napoletano, vecchio o giovine, che importa! Ma voi, giammai. Tutta la mia famiglia, tutte le tradizioni di casa mia, mi portavano a questo matrimonio; e non ho avuto il coraggio di ribellarmi. Fare una tragedia, perchè? Il mondo, per un momento si meraviglia, per un momento si commuove, per un momento ride: e tutto finisce e coloro che han fatto la tragedia, egoisticamente, hanno addolorato la famiglia e gli amici, senza scopo. Fare una tragedia, in questo mondo frivolo, cinico! Ebbene, vi confesso qui la verità, Francesco io ho tentato di farla, in un'ora di disperazione. In una notte, quando più mi parea cocente il mio amore per voi, e più mi parea insopportabile l'idea di lasciarvi, per sposare il vecchio principe tedesco, invece di aprire la mia finestra che dà sulla piazza e buttarmi giù, sul selciato, come una buona figliuola del popolo, disperata, io sono andata a gittarmi alle ginocchia di mia madre. Quanto era bella, di ritorno dal ballo, tutta chiusa in un accappatoio di lana bianca? Bella e giovane e delicata. Io le dissi tutto, tutto: io ho pianto, ho singhiozzato, ho strappato i miei capelli neri, che voi amate tanto. Mia madre sulle prime si è meravigliata, poi si è commossa: ella ha passato la notte con me, tenendomi le mani, baciandomi ogni tanto, accarezzandomi, piangendo con me. E ha cercato in tutti i modi di convincermi che le tragedie non risolvono nulla, nella vita: che danno sgomento, e danno dolore, e pongono molta gente nel più crudele imbarazzo, ma non servono ad altro. Ma una obbiezione ha scalzato le mie ragioni, cioè la mia sola ragione, poichè io le diceva una cosa solamente, che vi amavo: ella mi ha chiesto se mi amavate, se mi volevate sposare. Che le potevo dire, Francesco? Io non so nulla di voi, del vostro cuore, della vostra volontà: quanto accade in voi, mi sfugge. Quando, talvolta, mi avete detto che mi volevate bene, la vostra voce era assai tenera; ma i vostri occhi così glaciali! Tre volte mi avete detto che mi volevate bene: una sera, al teatro Valle, mentre recitavano, sul palcoscenico, la commedia degli Innamorati di Goldoni: un giorno, a villa Pamphily, quando ebbi paura di quel cavallo che pascolava libero, nel prato: e una sera, a quell' Oratorio di Haydn, mentre la divina musica turbava i cuori. Tre volte, di nascosto, ma innanzi a tutti: e io dovetti celare il mio turbamento, io non potetti rispondervi, io non potetti interrogarvi di nuovo, e sapere di più, sapere più profondamente: io me ne andai, portandomi via il mio segreto, un segreto vago che mi riempiva di confusione, che mi faceva fremere. Che poteva io rispondere a mia madre? Mentivate o dicevate il vero, in quelle ore? Io non potetti mai accertarmene, o non volli: io mi contentai di quello che mi avevate detto, per amarvi ancora, a sempre vi avrei amato, anche se non mi aveste detto niente, poichè è il mio destino di volervi bene, così per la solitaria dolcezza di amarvi. Nulla potevo rispondere alla mamma, poichè nulla mi avevate promesso e nessuna promessa io vi aveva chiesto. Le ho detto tutto. Ella crollava il capo, dolcemente, poichè ciò che pare un tesoro alle anime innamorate, è nulla per le persone che non amano. Ella mi disse che le vostre parole, dette così, leggiermente, in un minuto di capriccio, o di aspettazione — perchè di aspettazione? — non costituivano un impegno di nessun genere; che, se tutti gli uomini che hanno dotto di voler bene alle ragazze, le dovessero poi sposare, il mondo sarebbe pieno di matrimonii. E così dolcemente, senza rimproverarmi, ella ha tolto alla mia vita ogni speranza di unione con voi: ed ella aveva ragione, poichè voi, certo, disprezzate il matrimonio, e non vi legherete giammai. Voi siete il signore dell'anima mia, io non ho il diritto di giudicare la vostra condotta. Ben felice, se in un'ora della vostra vita mi avete amato e vi siete degnato di dirmelo! Ma dopo questa persuasione amara che mia madre mi ha istillata nell'anima, io l'ho pregata, l'ho scongiurata, che per amor di Dio, per amor del mio nome, non mi obbligasse a sposare quel vecchio principe tedesco: che io avrei portato in quel matrimonio, il mio amore per voi: che sarei stata una cattiva moglie, per il povero vecchio che mi affidava la sua pace e il suo onore, che rivedendovi, a Roma, a Parigi, a Schillingfurst, in viaggio, in un ballo, dovunque, voi non avreste avuto che a guardarmi, che a dirmi una parola, perchè io vi seguissi dovunque: che per amor di Dio, ella non esponesse la sua creatura a questa pericolo, a questo disonore. Povera mamma! Le mie parole l'hanno confusa tanto, che poco mancò non mi svenisse fra le braccia: e infine, dopo aver molto esitato, con la voce più grave, con l'accento più profondo, ella mi fece la sua confessione. Ella, per darmi la forza, per darmi il coraggio, per farmi sposare serenamente il vecchio principe tedesco, mi disse che anche lei, donna Olimpia, era entrata nel matrimonio, portando nel cuore una passione per un altro uomo. Anche lei si era disperata, dovendo sposare mio padre, anche lei aveva voluto morire: ma di questo matrimonio, non era morta. Ella non era partita da Roma, dove abitava l'uomo che ella amava e che non aveva potuto sposare: ella era stata obbligata a incontrarlo sempre, dovunque, di vedere dappertutto quegli occhi fatali, di sentire sempre alle sue spalle quella voce incantatrice. Assai di più: quell'uomo veniva in casa e le parlava di amore. Oh come ho intesa tramutata la voce di mia madre, nel momento di questa strana confessione, che le faceva rivivere tutto il passato! Ella si nascondeva la faccia fra le mani, e alla poca luce della lampada, che ardeva innanzi alla Madonna della Seggiola, io ho veduto scorrere le sue lagrime. Allora io mi sono inginocchiata innanzi a lei e l'ho pregata di perdonarmi, se io, figlia sommessa, figlia obbediente, figlia rispettosa, mi permettevo di chiederle una cosa: l'ho pregata di perdonarmi, se le chiedevo di sollevare tutti i veli del passato, se le chiedevo quello che era il segreto della sua esistenza: l'ho pregata di perdonarmi, se rompevo la distanza che vi è fra madre e figliuola, se consideravo soltanto di essere una donna, una donna lì lì per perdersi, e che chiede dalla migliore sua amica una parola di salvazione. Io volevo sapere da mia madre, se una donna che porta un altro amore nel matrimonio può conservarsi onesta; se una donna che incontra ogni giorno l'uomo che è il dolce peccato, può salvarsi dal peccato; se vi è una forza, nella coscienza, che resista alla tentazione quotidiana, quando tutto, tutto vi mette in tentazione; se ella mia madre, non amando di amore il marito, amando e vedendo ogni giorno l'uomo del suo amore, aveva resistito. Questo ho osato di chiedere a mia madre, guardandola negli occhi, per strapparle la verità. Ella ha guardato la Madonna della Seggiola e solennemente, semplicemente, mi ha detto.

— Va in pace, figliuola. Io non ho peccato: tu non peccherai.

«Ma voi non verrete mai nè a Parigi, nè a Nizza, nè a Schillingfurst, nè altrove, Francesco: voi non verrete mai, dove io sono, ve ne prego, ve ne scongiuro.»

················

«Ripiglio in questo punto la lettera. Narrandovi in questo punto la scena strana e appassionata, fra me e mia madre, una profonda emozione mi ha vinta, come se ancora, innanzi alla disperazione della figliuola una buona mamma adorata facesse la suprema fra le confessioni. Ho dovuto alzarmi e vincere, passeggiando, pregando, l'impeto dei singhiozzi. A noi, fanciulle nobili, la religione è insegnata molto, ma come un dovere, o come una delle tante frivole nostre occupazioni: mentre è una cosa così dolce e così solenne, nel medesimo tempo, così intima, così diretta alle nascoste fibre spirituali, che dovrebbe essere la base della nostra educazione. La religione è bella: ma voi, forse, non credete. Infine, essa ha rasciugato le mie lagrime, quella notte, e questa. Io sono calma. Ma anche nell'ora della freddezza, quando io guardo glacialmente il mio avvenire, come se fosse quello di un'altra, anche quando tutto è deciso, io vi dico: Francesco, non venite mai più per la mia strada. Non potrei incontrarvi, senza seguirvi, poichè questo è il mio destino, questa è la mia fatalità. Scomparite per me. Non ho la virtù di mia madre. Ella non volle e non seppe peccare: io, peccherei. Vedete che confessione atroce fa qui una ragazza, che oggi deve maritarsi? Pensate che scandalo, se qualcuno lo sapesse! Ma il silenzio e il riserbo e la compostezza e la freddezza a cui siamo obbligate, noi ragazze — nè, forse, potrebb'essere diversamente — ci isolano, e avendo l'apparenza di gentili bambole indifferenti, insensibili, noi viviamo, profondamente, una vita interiore, tumultuosa, spesso, che ci esalta. Chi supporrebbe in donna Clara di Nerola, così piena di sorriso, di serenità, di giovinezza, che sposa così volentieri il vecchio principe di Schillingfurst, chi supporrebbe in questa ragazza bella ma esteriore, come tutti dicono, una passione divoratrice, una passione prepotente e indomabile, che ne ha già distratto la segreta virtù? Non venite sulla mia strada: o sono perduta. Siate gentiluomo, siate principe, dimenticate quella vostra natura indifferente e fredda e dimenticate che solo il vostro egoismo esiste e vogliate sparire per me. Vedete che sono stata buona, buona: non mi sono uccisa, il che avrebbe potuto procurarvi qualche fastidio: non sono fuggita di casa mia, per venire nella vostra, il che vi avrebbe dato una grande noia. Sposo un vecchio e vado via dalla mia bella Roma, lascio il mio paese e la mia famiglia; abbiate pietà di me, non mi gittate alla perdizione. Che farò io di questa passione? Dove divamperà questo fuoco nascosto? Chissà! Oh, perchè non siete voi uno fra tanti, uno di quelli che ballano, cavalcano, fumano, giuocano come mio fratello, Ferdinando di Nerola! Vi dimenticherei, così presto, se foste uno fra tanti! O, forse, non vi avrei amato. Ma voi mi farete questa grande carità, voi non verrete mai, mai, dove io sono. Io vi amo tanto tanto, in un modo così assoluto, così imperioso, che il solo vedervi apparire, scomporrebbe per sempre la mia vita. Non venite. Alle dodici, oggi, andiamo al Municipio; alle nove di questa sera alla chiesa di sant'Agostino: alle dieci, al tempio protestante. Non venite in nessuno di questi posti, partite per Maccarese, per Nizza, restate chiuso nella vostra casa, ma non apparite. Se venite, io do in un urlo di gioia, e vengo a buttarmi nelle vostre braccia. È uno scandalo enorme. È la rovina di dieci, di quindici persone. Addio, Francesco. Perchè mi avete detto che mi volevate bene? Forse non era vero. Forse ho sognato. Oh, la voce vostra! Se la sentissi, dal paradiso, nell'inferno, verrei a dannarmi con voi. È un'eresia, un sacrilegio, quello che ho scritto. Come avete guastato la mia esistenza! Ma non importa, mi avete detto che mi volevate bene. Addio, addio. Metto qui il mio nome di fanciulla per l'ultima volta. Nella prima lettera che scriverò, dopo di questa, sarò la principessa di Schillingfurst. È atroce. Addio — Clara.»

Don Francesco aveva letto la lunga lettera, con molta attenzione, ma senza che la sua fisionomia dimostrasse nessuna impressione. Dopo, per un momento, stette a guardare i fogli sottili, pieni zeppi di quei caratteri, sorrise per un momento, poi suonò il campanello elettrico.

— Dite al cuoco — ordinò al cameriere, che si presentò — dite al cuoco che prepari la colazione per le undici e mezzo. Alle dodici, debbo essere in un posto. E si rivolse di nuovo al vassoino dove giacevano, ancora, le due altre lettere: di nuovo, una curiosità lo prese, guardò il biglietto da visita nella busta. Pure, si dominò: e non l'apri. Aprì invece la seconda lettera. Era scritta in lungo e snello carattere inglese: anche essa voluminosa.

«Principe — cominciava a scrivere la fanciulla — io non ho neppure il coraggio di chiamarvi per nome, tanto questa familiarità mi turba e mi sconvolge. Voi, sì, mi chiamate per nome: e provo quando voi pronunciate il mio nome, in italiano o in inglese, io provo una così inebriante dolcezza, che mi fa vacillare. Voi sapete questo: e prima di pronunciarlo, mi guardate intensamente, come per prepararmi a tale dolcezza, e lo pronunziate con tale lentezza, che io ho la sensazione acuta di una lunga, profonda vibrazione. Quando voi dite, Daisy, Daisy, Margherita, un solco mi si scava nell'animo. Di tutto ciò, io muoio. «Principe, io partirò, oggi, per Torino. Ho licenziato la mia dama di compagnia, da otto giorni, e con un po' di denaro per consolarla, ella è partita per la Scozia, quietamente. Non mi amava e non l'amavo. Noi siamo benefici pei nostri servi: ed essi sono, per noi, assai rispettosi. Ma nessun altro vincolo ci lega, altro che la carità ed il rispetto. Noi settentrionali, noi stranieri, noi gelide creature dei paesi brumosi, non siamo come voi altri, tutti avvampanti di amore, nella fantasia, e che poi non amate nessuno. Noi diamo l'anima nostra a un sol uomo, ai nostri figli, se li abbiamo e a Dio, che raccoglie tutti questi affetti. Quanta gente amate voi! I servi che sono cresciuti in casa e i bimbi che vedete andare a scuola, le ragazze che vi sono state compagne d'infanzia e i vecchi che hanno conosciuto vostro padre, i vostri maestri e i vostri amici, quelli che avete visto un anno, e quelli che avete visti un giorno! Amate una quantità infinita di gente. Oggi amate questa fanciulla, perchè le parlaste, in una sera di primavera, in un giardino dove le violette olezzavano e scintillavano le lucciole; domani amate quella signora pallida, perchè la vedeste disperarsi, nel truce giorno in cui le si uccise il marito; dopodomani amerete la folle cavalcatrice, dai capelli biondi e dal cavallo biondo, che vedeste galoppare, nella campagna romana, dietro la volpe che fugge e si rintana. Amate moltissime donne, voi italiani, voi meridionali; questa, perchè ha gli occhi di una cugina che vi morì, l'altra, perchè ride sempre e sempre canta, la terza, perchè veste sempre di nero e porta sempre un mazzolino di mughetti; quest'altra, perchè sempre sogna; e chi sa ancora chi, per una ragione fantastica, per una causa talvolta puerile, bizzarra sempre. Quanta gente, quanta gente amate! Ma, voi, principe, non amate nessuno, nessuno, nè amico, nè amante, nè fanciullo innocente, nè vecchio carico di ricordi, nè donna dagli occhi pieni di languore: nessuno. Voi sorridete, talora, voi parlate con la vostra voce armoniosa e dite delle cose, lentamente, con dolcezza, in modo che chi vi ascolta, freme di gioia; ma non amate, nessuno. Il vostro sguardo accarezza, spesso, i capelli neri delle donne e i capelli biondi dei fanciulli, ma non amate nè le donne, nè i piccoli. Voi non amate nessuno. E di questo, mi fate morire.

«Dunque, parto. Sola. Quando sarò stata due o tre giorni a Torino e avrò fatto perdere le mie tracce a chiunque potesse cercare di me, partirò, per le Alpi. Io andrò, piano piano, senza affrettarmi, ma senza fermarmi mai, prima sulle praterie coperte di brina, ma ancora tutte verdi e tutte fiorite; poi salirò, fra la neve, alla montagna. So che voi odiate la montagna. Tutto ciò che è serenità delle cose e vivificazione dello spirito, tutto quello che serve a dar forza alla fibra e coraggio alla volontà, voi lo odiate. Voi siete realmente l'uomo di Oriente, quello che ama vivere, sdraiato sopra un divano, ascoltando il canto di una fontanina di profumi, guardando dalla grande finestra spalancata, l'oleandro roseo e il mare azzurro. Voi siete l'uomo d'Oriente, coi suoi lunghi sogni dove scomparisce ogni senso del reale, con le sue indefinite contemplazioni, dove si smarrisce il concetto e la forza dell'azione: l'uomo egoista, e fiacco, e cattivo, e felice, nello stesso tempo. Oh come aveva sognato, anche io, di vincere in voi l'indolenza dell'uomo orientale, di rendervi meno egoista, più buono e tenero e benigno, meglio felice! Oh, come ho odiato tutte le cose che spezzano la volontà e corrompono il carattere, le rose profumate, i cuscini soffici, le molli sere di primavera e di autunno, il grande mare azzurro che conduce al sonno, alla immobilità! Ma non ho potuto vincerle, tutte queste cose, esse sono troppo forti, troppo forti in voi, e mi hanno vinta. Avrei voluto darvi l'amore della montagna, dei suoi bianchi fiori vellutati, dei suoi negri abeti, dei suoi temporali subitanei, delle sue valanghe ruinose, spettacolo immenso. Ma voi odiate il freddo, odiate il movimento, la neve vi immalinconisce e i ghiacciai vi danno l'idea della morte. Anche a me l'hanno data.

«Così, me ne vado alla montagna. Chissà dove andrò e quanto resterò lassù! Ma io troverò una buona guida, una guida valorosa che mi accompagni, fra i ghiacci eterni. Andremo errando, insieme, per la montagna, sulle erte cime e nelle vallate profonde, dove la voce umana pare un fenomeno meraviglioso: andremo per le vie cattive, rasentando i precipizii, affrontando tutti i pericoli. Non temete per me: nulla d'impensato può accadermi. Io voglio morire pensatamente, tranquillamente, se è possibile, nel giorno e nell'ora che ho fissato. Voglio inebbriarmi, sulla montagna, di solitudine, di grandezza, di sublimità. Voglio inginocchiarmi sulla neve e chiedere perdono, a Dio, di quello che commetto. Voglio dirgli, nell'umiltà della preghiera, che non posso fare altro che morire, poichè vi amo e poichè voi non mi amate. È un grave, gravissimo peccato il suicidio: e le anime cristiane, come la mia, dovrebbero averne un santo orrore. Ma voi non mi amate: io lo dirò a Dio, sulla montagna. Come Mosè, io lo invocherò e gli dirò il mio dolore: egli deve perdonarmi, perchè io non posso vivere, poichè voi non mi amate.

«Dio deve perdonarmi. Quando avrò abbastanza pregato, abbastanza pianto, quando avrò detto, all'eco della montagna, perchè muoio, nell'ora migliore, io andrò alla morte. La montagna è piena di abissi e ogni passo falso, un sol passo falso può condurmi alla morte. La guida, accorrente, esterrefatta, vedrà precipitare il mio corpo nella valle, dalla neve, fra le nevi: e quando vedrà che nulla può fare, sola, per ritrovare almeno il mio corpo, tornerà, correndo, all'asilo più vicino: e intanto su me, morta, fioccherà larga e pura la neve. Dall'asilo, dal villaggio più vicino, verranno i buoni montanari con le ascie, con le pale, incappottati nei bruni e caldi mantelli: li seguiranno le loro donne, buone, che accorrono sempre, dove è una disgrazia. Porteranno con sè la rustica, la poetica barella fatta di tronchi d'albero: sono abituata alla montagna, io, ho visto la barella dei morti. Per le vie meno pericolose, mentre l'aria già imbrunisce, discenderanno nella valle: e delicatamente, con cure amorose, metteranno il corpo della morta sulla barella, e al lume delle torce, poichè sarà già venuta la notte, la mesta processione si avvierà all'asilo: porteranno la morta al grande albergo, che la vide partire svelta, tranquilla, coraggiosa, piena di forza e di salute, e ora vedrà rientrare un viso bianco, macchiato di sangue, un corpo sfracellato. All'albergo tutto sarà in ordine, nella mia stanza: le mie carte, per provare chi sono: il mio testamento, con cui lascio la mia fortuna ai poveri di Londra, vecchi e fanciulli, uomini e donne. Mi seppelliranno, secondo la mia volontà, non nell'umida, brumosa, soffocante Inghilterra, ma nel cimitero coperto di neve, sulla montagna coperta di neve. Io merito questa tomba di purezza. Nessuno saprà, prima, o dopo, che io mi sono uccisa. Voi soltanto.

«Sentite, Francesco — sì, voglio chiamarvi per nome — il segreto della vita, è l'amore. Credo così profondamente in questa verità, che nulla per me esiste, fuori dell'amore: tutto è illusione, tutto è chimera. Forse anche l'amore è una illusione: dice lo scettico. Che importa! È la più bella, la più grande delle illusioni; e la sua perdita è irrimediabile. Nulla si può mettere al posto dell'amore: nè la tormentosa ambizione, nè la pazzia del giuocatore, nè la dolce passione mistica: nulla vale l'amore. Dico un sacrilegio, forse? Nulla, nulla. Nè i piaceri della vanità, nè la voluttà del lusso, nè le gioie sapienti della intelligenza, nè i trionfi della bellezza, nè le seduzioni dell'arte; nulla vale l'amore. Non credete che io sia una fanciulla audace e peccaminosa; vi dico queste cose, purissimamente, nell'ora della morte. Tutto mi è assolto, da questo abbandono che faccio, senza esitare, a venti anni, della vita. Oh, Francesco, se conosceste che è l'amore, voi direste che ho fatto bene a morire. Poichè, mentre non sapevo far altro della mia esistenza, che amarvi, voi non mi amavate, non mi amate. Non vi hanno insegnato, Francesco, che cosa è l'amore: nè voi avete cercato mai d'impararlo. Non sapete nulla, non conoscete nulla. Siete voi felice? Pare. Chi ne sa niente! Voi stesso non potete dirlo. Forse, mancandovi la grande scienza, vi manca il grande desiderio. Oh, io ne muoio, di desiderio d'amore! Non mi fraintendete. Sentitemi bene.

«Sentitemi, poichè non vi ho mai detto questo. Io vi ho amato subito, così, nel primo momento che mi avete guardata, nel primo momento che mi avete parlato: e voi lo avete inteso, subito, poichè siete certo abituato ad essere amato, poichè, anche non avendo mai amato, conoscete negli altri l'amore. Io, non ve l'ho detto. A noi inglesi il temperamento, l'educazione, l'ambiente, l'esempio, ci creano un carattere di un sol pezzo, un carattere duro e forte, che non mente e che non tollera menzogne, che non è flessibile e disprezza la flessibilità altrui. Io, poi, sono stata avvezza anche più duramente, perchè non aveva padre e madre, perchè il mio tutore è morto anche lui e a sedici anni amministravo di già la mia fortuna, leggevo quel che volevo, potevo viaggiare dove mi piaceva, discorrere, ascoltare, amare chi volevo. E freddamente, io ho voluto conoscere che cosa era la vita, da me, per vivere felice, o per morire, se non potevo esser felice. Io ho visto che solo l'amore era il segreto, e che quel segreto, cercato, ritrovato, invocato e ottenuto, poteva riempire la mia esistenza delle più grandi emozioni. Ero assai fredda, assai tranquilla, allora, quando faceva questi ragionamenti psicologici: e andava formando la mia educazione umana, lentamente, per non cadere nell'errore. Ero così fredda, che potevo scrutare nei cuori umani, come nel mio, e leggervi l'egoismo, lo scetticismo, la indifferenza: e leggervi, peggio, la volgarità, il calcolo, la venalità. Non volevo legare la mia esistenza nell'amicizia o nell'amore, che per l'amore: non volevo darmi a chi non mi amava. Voi lo avete conosciuto, Guido Arezzo? Siciliano, bruno, ardente, pieno d'immaginazione, col sangue bruciante, che gli bruciava le vene, egli diceva di avere una furiosa passione per me, che ero inglese, bionda, pallida, anemica, glaciale. Egli ha dato le dimissioni, egli andava, alla messa, per vedermi: egli aveva la parola calda e la frase prorompente; era ricco quasi quanto me, e libero, e giovine, e nobile: tutti mi dicevano che egli mi amava e che io doveva sposarlo. Ma non mi ha convinta, mai un minuto, perchè io sentiva il vuoto dell'anima sua, sotto le sue parole, perchè io vedeva, passata la vampa fugace, tutto un avvenire glaciale, una unione di due persone che tutto divideva, il carattere, la nascita, lo spirito. Oh, se ci fosse stato l'amore! Ma, come Guido Arezzo, neppur voi mi amavate, l'ho subito visto, l'ho sempre visto.

«Eppure, come la parola vostra era soave, quando dicevate di amarmi, Francesco! Vi rammentate, questo inverno? Dopo il ballo di casa Sutri, il giorno seguente, alle tre, veniste a casa mia così, liberamente, senz'avvertire e senza chiedere il permesso, poichè sapevate che le fanciulle inglesi ricevono liberamente qualunque giovinotto. Io leggevo nel grande hall, innanzi all'immenso camminetto, dove ardeva un gran fuoco: ma fuori, nelle vie, e penetrante dalle finestre larghe nell' hall, vi era ancora il sole. Leggevo il Tennyson, vi rammentate, il poeta dei pallidi e gracili amori: Tennyson, che voi non intendete. Mi faceste leggere qualche strofa ed io obbedii; poichè quello che voi volete, io voglio: ma non ascoltavate e tacqui. Voi eravate perduto nel silenzio, nei sogni. Infine mi diceste che bisognava leggere Goethe, leggere il Faust, il Faust dove è passata l'orma di uno spirito quasi divino; che solo Faust era il poema dell'amore, che solo Margherita aveva saputo amare.

« — Ma Faust amava Margherita — ho detto io.

« — Sì, Faust amava Margherita — mi avete risposto, profondamente.

«Imbruniva. Mi guardavate, dopo avermi detto che mi amavate. Oh, dolcissimo inganno! Che minuto lungo, in cui io sentivo la dolcezza e sentivo l'inganno! Io non dissi d'amarvi. Voi lo sapevate. Quando stringeste la mia mano era gelida. Ve ne andaste. Da quell'ora ho sentito che dovevo morire.

«Poichè invano, invano mi avete detto, innanzi alle stelle del cielo e fra le rose del mio giardino, innanzi alla chiesa del villaggio dove ci siamo trovati insieme, nell'estate, e sul mio libro di preghiere, dove avete appoggiato la vostra mano, invano avete ripetuto le sacre parole, le sante parole dell'amore, quelle che si dicono veramente, una sola volta, l'unica volta. Voi mentivate soavemente: ma io, anche amandovi, intendevo, intuivo, sentivo la menzogna, non avevo neppure più il primo minuto della illusione, avevo il senso glaciale della verità, nuda, implacabile. Oh, come ho pianto, come ho singhiozzato, come ho chiesto al Signore la fede, la felicità dell'illusione, come avrei voluto poter credere, senz'altro, ciecamente, a quello che mi dicevate! Come avrei voluto, non che fosse la verità, ma che io potessi credere quella la verità! Ma era inutile: la profonda passione e il profondo desiderio del vostro amore non mi toglievano la lucidità. Sentivo l'anima lontana; sentivo fra me e voi l'ostacolo, ignoto, ma forte, ma insormontabile. Se mi aveste amato, ora non andrei alla morte.

«Se mi aveste amato, lo avrei inteso e avrei vissuto, per questo: perchè, quando si è amati, bisogna vivere. Non so quello che sarebbe accaduto di me. So che avreste potuto chiedermi tutto ed io lo avrei fatto: o non chiedermi nulla, e io avrei egualmente fatto tutto. Sarebbe piaciuto al mio dolce signore avere una sposa umile e fedele, amorosa e devota, legata a lui, nel nome di Dio e nel nome degli uomini, una sposa per il bene come per il dolore? Io sarei stata quella sposa. Piacea forse al mio buon principe avere una amante leggiadra, intelligente, e appassionata, una donna perduta nella grandezza dell'amore, non conoscente più altro che l'amore? Io sarei stata quell'amante. Piaceva al mio bel signore lasciarmi e ritornare a me, andar lontano, essere un giorno amoroso, un giorno gaio, l'altro triste? Io sarei stata come lui, per lui. Niente mi sarebbe stato ingrato, per lui. Oh, felice, felice, il peccato, nell'amore, quando l'amore vi è, intenso, profondo, unico! poichè l'anima finisce per purificarvisi tutta, per perdere ogni bassezza, ogni volgarità umana. Sono sacrilega ancora, lo sento. Ma l'amor vostro, Francesco, pensate, l'amor vostro, voi che non amate nessuno, voi che non amate niente!

«Niente. Tutto è finito per me. Sono scolorate tutte le più vivide cose dell'esistenza: e le linee, i colori, le forme si confondono in un gran bigio monotono, dove non riluce tinta, dove non freme vita. Non voglio più niente, non mi piace più niente, non debbo più vivere. Voi non mi amate. Ora, la Indifferenza, vedete, la invincibile Indifferenza mi uccide. Sono fiera, non posso sopportare nè la freddezza, nè la pietà, nè la compassione: non mi contento nè della stima, nè dell'amicizia, nè dell'affetto. Sono fiera. Non me ne fo rimprovero. Voglio la vita come la merito, completa, piena di amore, piena di ardente, incandescente amore: non la voglio, fondata sulla bugia, sulla scambievole indulgenza, sul perdono. Avevo un ideale, lungamente invocato, invocato con tutta la potenza della mia giovane anima e questo ideale mi sfugge. Io vado a ritrovarlo di là.

«Restate sereno. Ognuno, attraverso il tempo, attraverso le cose, ha la sua parte, talvolta, semplice, talvolta bizzarra, talvolta inconscia. Che sapete voi, del male che fate? Voi non misurate, perchè vi manca la nozione dell'amore, e ve ne manca la misura. Il solco che scavate, vi sfugge. Dite le parole di amore, così, come il dilettante canta a orecchio, perchè avete una bella voce, perchè la musica delle parole amorose fa in voi stesso un gran diletto, perchè vi piace ingannare, senza sapere il pericolo dell'inganno, perchè voi stesso siete forse in buona fede, credendo di amare. Restate sereno. Io muoio, perchè troppo alto era il mio semplice e puro ideale. Io voleva essere amata: ciò che è dato all'ultima donna della terra non mi è stato concesso. Vi rammentate? In casa Sutri, mi avete parlato di Siebel che non potea toccare un fiore, senza farlo appassire; mi avete parlato di Faust, ma Faust amava Margherita; voi siete dunque Mefistofele, lo spirito che non può amare. E io devo morire. — Margherita.»

Don Francesco, quietamente, ripiegò i foglietti sottili, lievissimi, dove miss Daisy aveva scritto le sue ultime parole, rimise i foglietti nella busta e la busta sul tavolino. Le due lettere, di donna Clara e di Margherita, si toccavano. E mentre riaccendeva la sigaretta spenta, don Francesco vedeva nel bianco, finissimo fumo una bella testa bruna coronata di fiori d'arancio, ma portante negli occhi neri una insanabile disperazione, vedeva una testa bionda, dai biondi e smorti capelli, dalle labbra scolorate, una testa macchiata di sangue, dalle palpebre livide e dalla bocca chiusa per sempre. Egli suonò di nuova e chiese al cameriere:

— Sapete a quale ore parte il diretto, per Torino?

— No, Eccellenza; ma ora glielo saprò dire.

Col dito mignolo, il principe scuoteva la cenere dalla sua sigaretta, pensoso, ma tranquillo: pure, innanzi agli occhi, vedeva sempre un profilo di fanciulla bruna, profilo purissimo, ma pieno di malinconia, come assottigliato e consumato da un malore spirituale: vedeva sempre una linea vaga, di fanciulla bionda e gracile, vestita di bigio, che saliva, lentamente, a una immensa montagna bianca, per uno stretto e ruinoso sentiero.

— Alle due e cinquanta, Eccellenza — disse, rientrando, il cameriere.

— Bene: fate preparare le valigie: parto con quel treno.

Ma quando il cameriere fu uscito, per togliersi a quelle strane apparizioni, egli prese la terza lettera, la busticina dove vi era soltanto un biglietto da visita, e che due volte aveva tentato di leggere, per una bizzarra idea, attraverso la busta. Apri questa volta. Era un biglietto che portava questo solo nome: Maria. E Maria scriveva, semplicemente:

«Oggi, portatemi una rosa.»

III.

Il piccolo coupè di don Francesco, fermato innanzi alla villa Nada, al Macao, innanzi al cancello stranamente ornato, era pieno di rose. Don Francesco era andato dapertutto, per trovare queste rose: dai fiorai più ricchi di fiori, ne aveva trovate pochissime, tutte fredde, tutte scolorate, tutte mangiate dalla brina, come bruciate, con gli orli già nerastri della morte. Era andato al Pincio, dove, al sole caldo, la Zamperini ha la sua serra: ma le rose erano piccole e come gelate. Infine era andato a villa Savella, fuori porta s. Paolo, dove la povera folle di casa Savella, donna Lucrezia Savella, l'ultima di casa Savella, colei che languiva in una dolce e molle follia, coltivava il gran giardino, tutto rose. Ogni tanto, pietosamente, gli amici di casa Savella andavano a passare un quarto d'ora con la pazza, che li conduceva subito in giardino, fra le rose, fra i profumi. Era una creatura di quaranta anni, magra, magra, vestita di nero, con un gran grembiale di cotonina azzurra, per non sporcarsi di terriccio.

— Volete delle rose? — disse donna Lucrezia Savella, con la sua voce gutturale.

— Una soltanto.

— Anche venti, anche cinquanta.

E la folle si mise a tagliarle, con un coltellino sottile, e ne raspava gli steli per toglierne le spine: e le buttava leggermente a don Francesco.

— A chi le date? — A una persona che vi vuol bene?

— No, donna Lucrezia.

— Allora, a una che amate?

— Sì.

E se ne andò, carico di rose, empiendone il piccolo coupè, non osando muoversi per non schiacciarle. Villa Nada taceva sotto il sole d'inverno. Entrò nell'immenso salone terreno, stranamente diviso, dove donna Maria di Lanciano si dondolava in una grande poltrona, guardandosi le punte delle scarpe, ricamate in oro e di rosso. Ella era vestita di una ampia tonaca di lana bianca, senza forma alla cintura, vestito monacale, quasi ieratico, quasi bizantino: le maniche erano doppie — strettissime le prime, abbottonati i polsi da bottoncini di oro; ampie le seconde e ricadenti sulle spalle. I capelli neri rialzati sulla nuca, in gran disordine, attraversati da un pugnaletto di acciaio: alle delicate orecchie pendevano due enormi smeraldi, che, battendo sulla fine pelle del collo, la rendevano rossa.

— Quante rose, quante rose, Francesco! — disse ella, levandosi e accorrendo a lui.

La tonaca si era distesa, con pieghe rigide, come nei vecchi mosaici. Con le piccolette mani, che sparivano sotto la punta angolare delle maniche, ella prese le rose, a fasci, levandogliele, caricandosene, scomparendo dietro a quel fascio che le posava sul petto. E, girando per il salone, ne buttava dappertutto: sui divani, dove le rose nascosero le scintillanti stoffe orientali, dai colori pieni di passione: sulle seggiole coperte bizzarramente di trina d'oro e di trina d'argento: sul tappeto smirniota, dai piccoli fiori, sui tavolini dove caddero fra le singolari cose che il lusso dell'Estremo Oriente manda dovunque vi sia uno spirito strano, innamorato delle forme artistiche. Era una pioggia di rose fresche, vivide. Donna Maria di Lanciano, quando ebbe buttata via l'ultima rosa, si gittò sulla grande poltrona e dondolandosi, col capo arrovesciato, schiacciava le rose sotto i bastoni ricurvi della poltrona. Don Francesco, seduto accanto a lei, sopra una seggiola bassa, aveva preso una mano sottile, sottile, dove scintillava, attaccato a un impercettibile filo d'oro, un enorme smeraldo, verde come gli occhi della dama.

— Siete stato a casa Gallicano, ieri sera, Francesco; — domandò ella, con voce bassa, velata, profonda.

— Sì... — mormorò lui, distratto, preso dalla adorazione di quella molle mano.

— Avete ballato?

— No.

— Giuocato?

— No, non giuoco.

— E che avete fatto?

— Vi ho aspettato, Maria.

— Non vi piace giuocare?

— Non mi dà nessuna emozione.

— Nessuna? — disse ella, come incredula.

— Io conosco le emozioni supreme.

Ella lo guardò freddissimamente con quegli occhi verdi, pieni di gelo: e: contrasto seduttore, irritante, irresistibile, le labbra rosse fiorivano, quasi chiamanti i baci.

— E poi, che avete fatto? — chiese ancora, monotonamente, come se compisse un interrogatorio di dovere.

— Sono venuto quassù, a girare intorno al villino. La vostra finestra era illuminata, di rosso: ci ho buttato un sasso, contro.

— Ho udito — ella disse, sorridendo lievemente.

— Ma non avete aperto.

— Faceva freddo — diss'ella, semplicemente. — E dopo, che altro avete fatto?

— Sono andato a casa e vi ho scritto.

— Dove è la lettera? — disse il fiero giudice d'istruzione.

— Eccola — e la cavò dalla tasca del soprabito: una lettera voluminosa.

Ma il fiero giudice sdegnò la lettera, perchè la tenne in mano, scherzandovi, senza aprirla.

— Stamane, che avete fatto?

— Ho letto delle lettere.

— Che lettere?

— Cose inutili — disse lui con un cenno di distacco.

— Inutili?

— Sì — ribattè lui, senz'altro.

— E dopo?

— Dopo? Ho cercato le rose.

— Avete dovuto metter molto tempo, per cercare le rose, se siete venuto così tardi?

— Non ve ne erano. Tutte le rose sono morte, per il freddo. I fiori muoiono facilmente: il giardino, qui fuori, è pieno di desolazione.

— Anche io sono piena di desolazione — diss'ella, ridendo, col suo riso stridente.

— Perchè? perchè?

— Perchè voi mi amate — e rideva ancora, quasi che non credesse nulla di nulla di quello che diceva.

E, come la piccola mano stellante di smeraldi, era rimasta fra le mani di don Francesco, ella la ritrasse. Si mise a guardare lo smeraldo, simile ai suoi occhi gelidi.

— Non mi amate più, non mi amate più — disse schiacciando le rose sotto i piedini.

E mordeva un bocciuolo di rose. Egli cercò di strapparglielo, per baciarlo: ma non vi riescì.

— Oh, cattiva! — mormorò lui puerilmente.

— Non si è mai abbastanza cattivi — rispose lei, sempre profondamente.

Tacquero. Egli la guardava, preso nelle profondità smeraldine degli occhi.

— Chi vi ha dato queste rose, Francesco?

— Qualcuno...

— Chi? — ribattè lei, imperiosamente.

— Donna Lucrezia Savella.

— Sono dunque i fiori della follia?

— Sono i miei fiori, Maria.

— Voi siete assai savio, Francesco, così savio che mi fate orrore.

— Che dovrei fare? — chiese lui, girando attorno lo sguardo smarrito. — Volete che muoia?

— Breve follia — diss'ella, seccamente.

— Si può morire così a lungo... — osservò egli, malinconicamente.

— Tutti muoiono — diss'ella, duramente.

— Trovate una follia, trovatela — disse don Francesco, supplichevole.

Ella scosse il capo: e, incrociando le mani, le alzò dietro la nuca: le lunghe maniche ricaddero sulla poltrona: e si dondolava, tutta bianca, con gli occhi smeraldini, col viso duro e chiuso.

— Che vi ha detto, donna Lucrezia Savella?

— Mi disse, se portavo i fiori alla mia innamorata.

— E che rispondeste?

— Riposi: no.

— Perchè no?

— Perchè voi non mi amate.

— V'ingannate: io vi amo molto — disse ella, con una glaciale freddezza.

— Oh, Maria.

— Vi assicuro che vi amo — ripetette ella, canticchiando, rovesciando sempre più la testa sulle mani.

Egli si fece mortalmente pallido. Allora ella si abbassò, raccolse una rosa dal tappeto e gliela gittò. Egli la prese, avidamente, come un fanciullo felice.

— Che farete oggi, Francesco? — domandò ella, reprimendo un leggiero sbadiglio.

— Nulla, disse lui, vagamente — nulla, altro che amarvi, come sempre.

— E domani?

— Amarvi sempre, Maria.

— E se io parto?

— Partire con voi.

— Se muoio?

— Morire.

— Bisogna dunque amarvi — diss'ella, con un riso stridente, feroce.

Gli poggiò una mano sui capelli. Egli arrossì vivamente, chinando l'umile testa domata. E le ore fuggivano, per chi andava al dolore, per chi andava alla morte, per gli agonizzanti, per i trionfanti. Fuggivano le ore, inavvertite.

FINE

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Croce B. I Teatri di Napoli — Secolo XV-XVIII — Un grosso vol. in 8º. L. 10,00

Luisa Sanfelice o la Congiura dei Baccher — Narrazione Storica con giunta di vari documenti. L. 2,00

Canti politici del popolo Napoletano — Un vol. in 16º. L. 1,50

Angiolillo (Angelo Duca) capo di Banditi — Un vol. in 16º. L. 0,25

D'Addosio C. Luigi La Vista — con lettera prefazione di P. Villari e un ritratto — Un vol. in 16º. L. 1,00

Bestie delinquenti — con prefazione di Ruggero Bonghi — Un volume in 16º, di circa pagine 400, con illustr. e corredato di importantissimi documenti. L. 2,00

Il Duello dei Camorristi (petriata, zumpata, tirata e dichiaramento) — Un vol. in 16º. L. 1,50

D'Amelio Avv. M. — La Fotografia quale mezzo di prova in D.º Civile — Un vol. in 8º. L. 1,25

D'Annunzio G. Giovanni Episcopo — Elegantissimo vol. in 16º. L. 2,00

— Edizione di 100 copie su carta a mano. L. 5,00

D'Aquino A. Preti e famiglie — Un vol. in 16º. L. 2,00

Piccole rime — Un vol. elzeviro. L. 2,00

Del Balzo C. Dottori in medicina — romanzo 3.º nella serie «I Deviati» della quale fanno parte: Le sorelle Damala e Eredità illegittime, eleg. vol. in 16.º. L. 4,00

De Felice Lancellotti V. Il Divorzio e la Donna. 2.ª Ediz — Un vol. in 16º. L. 0,50

Del mandato a donare (cui voles). Note critiche ed allegazioni degli avvocati Scialola, Ricci, Jannuzzi, Gianturco, Ballerini, Plastino e Lombardi seguìto dalla requisitoria del Procuratore generale Calenda e dalla sentenza pronunziata dalla Corte di Cassazione di Napoli sezioni riunite — Un vol. in 8º di pag. 200. L. 3,00

Di Giacomo S. Rosa Bellavita — Un vol. in 16º. L. 2,00

'O funneco verde — Un vol. in 16º. L. 1,00

Zi Munacella — Un vol. in 16º piccolo. L. 1,00

'O Munasterio — Un elegante vol. in 16º con covertina illustrata. L. 5,00

La Fiera — Un vol. in 16º. L. 1,00

Canzoni napolitane — Elegante vol. in 8º con illustrazioni. L. 5,00

Vierze a Maria. Versi Napoletani — Elegante vol. in 32º con illustrazioni. L. 1,50

D'Ovidio F. — Le correzioni ai Promessi Sposi e la Questione della lingua. 4ª Edizione riveduta e corretta dall'autore — Un vol. in 16º rilegato in tela all'inglese. L. 2,25

Ettari F. Rettorica — 2 vol. in 16º. L. 2,50

Fava O. Storielle di Francine — Un vol. in 32º. L. 0,50

Ferri prof. E. Il progetto Zanardelli del Codice penale — Discorsi pronunziati alla Camera dei deputati — Un vol. in 16º. L. 1,50

Fiordelisi A. Nuovi sonetti napoletani, con prefazione di M. Scherillo — Un vol. in 16.º con covertina illustrata. L. 1,25

Fioretti G. Il nuovo codice penale italiano — annotato col sussidio delle relazioni ministeriali e parlamentari, della giurisprudenza, del confronto del codice abolito, delle leggi speciali, delle dottrine classiche e positiviste e dell'antropologia criminale, 2ª Edizione, completamente rifatta aggiuntovi il richiamo alle disposizioni di attuazione e coordinamento, la giurisprudenza posteriore all'applicazione del nuovo Codice ed una nuova prefazione di Enrico Ferri — Un vol. in 16.º. L. 2,50

Fioretti G. Testo unico delle nuove leggi di procedura penale — annotate col sussidio della relazione ministeriale, del riferimento del testo precedente degli articoli modificati, della giurisprudenza, del confronto del nuovo Codice penale e delle leggi speciali, della bibliografia, del dritto romano, e delle dottrine classiche e positiviste, con prefazione di R. Garofalo — Un vol. in 16º. L. 3,00

Legato in piena tela. L. 3,50

Le disposizioni penali del Codice di commercio — annotate col coordinamento del nuovo Codice penale, col sussidio dei lavori preparatorii della giurisprudenza più recente e delle dottrine classiche e positiviste — Un vol. in 16º. L. 0,50

Gianturco prof. E. Dei Dritti Reali — Lezioni di Dritto Civile — Un vol. in 8º. L. 6,50

Sistema di Dritto Civile Italiano — parte generale 2ª Edizione vol. 1º pag. LXIV — 320 in 8º grande. L. 8,00

Delle fiducie nel Dritto civile italiano — 2ª Ed. Un vol. in 8º. L. 1,50

L'individualismo e il Socialismo nel Dritto Contrattuale. L. 0,50

Del diritto delle successioni — Lezioni di diritto civile — Un vol. in 8º grande. L. 5,00

Del diritto delle obbligazioni — Lezioni di dritto civile — Un vol. in 8º. L. 4,50

Giordano A. Breve Esposizione della Divina Commedia — Un vol. in 16º. L. 1,00

Giordano Zocchi V. Memorie di un Ebete — 3ª Ediz. con aggiunta di una prefazione ed il ritratto dell'autore — Un vol. in 16º. L. 1,50

Saggi di arte — premessevi alcune pagine di G. Aurelio Costanzo — Un vol. in 16º. L. 3,00

Guariglia prof. A. Il concordato nel dritto italiano e straniero — Un vol. in 8º. L. 6,00

Jaccoud S. L'angina pectoris — traduzione del Dott. Silvestri — Un vol. in 8º 2ª Ediz. L. 0,80

La nuova legge Comunale e Provinciale, ossia Testo unico del 10 febbraio 1889 e leggi modificatrici del 7 luglio 1889 e 3 luglio 1892 con l'aggiunta del Regolamento e dei R. Decreti 3 luglio e 31 dicembre 1890 riguardanti l' Amministrazione e Contabilità dei Comuni e Province — Un volume in 32º. L. 0,60

Legge sulle opere pie — (17 luglio 1890 N.º 6992) e Regolamento (5 febbraio 1891, N. 99) — Un volume in 32º. L. 0,40

Le nuove leggi penali speciali — Leggi e regolamenti di pubblica sicurezza — Sanità pubblica — Prostituzione — Emigrazione ecc. coordinate al nuovo codice penale — Un volume in 32º. L. 0,50

Leopardi G. — Le operette morali — Edizione critica con introduzione e note ad uso delle scuole pel prof. N. Zingarelli — Un vol. in 16º rilegato in tela all'inglese. L. 3,00

Majetti R. Il Conciliatore, guida teorico-pratica del Magistrato Comunale, come funzionario, conciliatore e giudice. Commenti alla legge 16 giugno 1892, e regolamento 26 dicembre 1892 ed a tutte le disposizioni legislative dell'ordinamento giudiziario, del Codice Civile e di procedura — Un vol. in 16º. L. 3,00

Legato in piena tela. L. 3,50

Il Tribunale del lavoro, guida teorico-pratica dei PROBI-VIRI, come funzionari, conciliatori e giudici — Un vol. in 16º. L. 2,00

Melograni C. Legislazione sulle elezioni politiche e sulle incompatibilità parlamentari — Un vol. in 16º. L. 0,50

Mezzanotte G. La tragedia di Senarica — Un vol. in 16º. L. 2,00

Milelli D. Nuovo Canzoniere — Un vol. in 16º. L. 3,00

Il libro delle prose — Un vol. in 16º. L. 1,25

Mingioli Dott. E. Manuale pratico di Oleificio — 2ª Edizione. Un vol. in 16º con tre tavole. L. 3,00

Misasi N. Feminilità — Un vol. in 16º. L. 2,00

Senza dimani — Un vol. in 16º con covertina illustrata. L. 2,50

Musaio G. Nozioni elementari di Analisi Chimica qualitativa delle sostanze minerali — Un vol. in 8º con figure nel testo. L. 2,50

Muzii A. Trattato di contabilità agraria — 2ª Ed. Un vol. in 8º. L. 3,00

Ovidio Nasone P. Le Metamorfosi rivedute e annotate per le scuole da F. d'Ovidio — Nuova edizione riveduta e corretta dall'annotatore — Un vol. in 16º rilegato in tela all'Inglese. L. 2,00

Pagliara R. E. Intermezzi Musicali — Un vol. in 16º con cov. illustrata. L. 2,50

Parlati F. e d'Amelio S. La legge sulle opere pie — (17 luglio 1890 N. 6992) — e i Regolamenti Amministrativi e di Contabilità (5 febbraio 1891 N. 99). Commento compilato col sussidio delle relazioni ministeriali e parlamentari della legge 1862, dei codici, delle leggi speciali; con circolari, moduli, e un indice analitico ed alfabetico — Un vol. in 16º. L. 2,00

Legato in piena tela. L. 2,50

Paladini S. Odi e ballate tradotte dall'inglese con prefazione di B. Zumbini — Un vol. in 32º elzeviro. L. 2,00

Pennazzi I. I Commerci dell'Africa orientale — Un vol. in 16º con una carta dello Zanzibar. L. 1,00

Penta Dott. P. I pervertimenti sessuali nell'uomo e Vincenzo Verzeni strangolatore di donne — Studio biologico — Un vol. in 16º con figure e ritratti originali. L. 3,00

Perrone avv. F. L'idea sociale nel D. commerciale — Un vol. in 16º gr. L. 1,00

Petruccelli della Gattina Storia dell'Idea Italiana. Origine, evoluzione, trionfo dall'anno 665 di Roma al 1870 era moderna. 2ª Ediz. Un vol. in 16º gr. L. 6,00

Storia d'Italia dal 1866 al 1880. — Demolizione, raberci, disinganni. Continuazione della Idea Italiana — Un vol. in 16º grande. L. 6,00

Pica V. All'avanguardia — Studii sulla letteratura contemporanea — Un volume in 16º. L. 4,00

Arte Aristocratica — Conferenza letta il 3 aprile 1892 nel Circolo Filologico di Napoli — Stampata nel formato quasi perduto di alcuni eucologi. L. 1,00

Proto F. Duca di Maddaloni Epigrammi scelti, a cura e con prefazione di S. Di Giacomo. Eleg. vol. in 32º con illustraz. L. 1,50

Rapisardi M. Le poesie di Catullo, tradotte — Un volume in 16º. L. 2,00

Relazione a S. M. il Re del ministro Guardasigilli Zanardelli nell'udienza del 30 giugno 1889 per l'approvazione del testo definitivo del codice penale — Un volume in 16º. L. 1,00

Legato in piena tela. L. 1,50

Rivelli A. I Giuochi matematici illustrati — Un vol. in 8º. L. 5,00

Russo Ferd. Rinaldo — Costumi napoletani (Sunettiatella) — Un vol. in 16º con covertina illustrata. L. 1,50

Petrusenella — Elegante vol. in 8º con covertina illustrata. L. 0,50

Scalinger G. M. A la ribalta (Perla — il Dottor Müller), comedie — Un vol. in 16º. L. 2,00

Scherillo M. Quattro Saggi di critica letteraria — I. Alcune fonti manzoniane — II. Ninfo al fonte (Contribuzione alle fonti della Gerusalemme liberata) — III. Le Beatrice di Dante — Un'ultima difesa di Cola di Rienzo a proposito della canzone «Spirto gentile» — Un vol. in 16º. L. 1,50

Simoncelli prof. V. La destinazione del padre di famiglia come titolo costitutivo di servitù prediali — Ed. interamente rifatta — Un vol. in 8º. L. 3,50

Testini G. Arie Nazionali di T. Moore, traduzione e versi — Un vol. in 16º. L. 1,50

Testo unico — delle nuove leggi di procedura penale coordinate al nuovo codice penale secondo le disposizioni transitorie, a cura di G. Fioretti — Un vol. in 32º. L. 1,00

Legato in piena tela. L. 1,50

Turiello P. Saggio sull'educazione nazionale in Italia — Un vol. in 16º. L. 1,50

La politica contemporanea — Un vol. in 8º. L. 2,00

Storia dei popoli Orientali e Greci ad uso delle scuole secondarie — Un vol. in 16 legato in tela all'Inglese. L. 1,80

Verdinois F. Chi deve morire? — Opuscolo in 8º. L. 0,25

Villari R. Giacobini e Sanfedisti — Saggio critico storico di Napoli al 1799 — Un vol. in 15º. L. 3,00

COLLEZIONE MINIMA

Ogni numero cent. 25

VOLUMI PUBBLICATI

  • N. 1 — A. TORELLI — La VeritàCommedia in tre atti.
  • N. 2 — N. MISASI — Mastro GiorgioCommedia in un atto. La Certosa di Serra San BrunoNovella .
  • N. 3 — S. DI GIACOMO — 'O Munasterio .
  • N. 4 — F. RUSSO — 'N Paraviso .
  • N. 5 — M. SERAO — Piccolo romanzo .
  • N. 6 — S. DI GIACOMO — 'O Funneco Verde con aggiunte.
  • N. 7 — D. MILELLI — Risonanze .
  • N. 8 — F. DE ROBERTO — La morte dell'amore .
  • N. 9 — B. CROCE — Angiolillo (Angelo Duca) Capo di banditi.
  • N. 10 — L. CONFORTI — Poema dei baci .
  • N. 11 — F. CIMMINO — Vecchio Idillio .
  • N. 12 — G. PIERANTONI-MANCINI — Donnina .
  • N. 13 — N. MISASI — O rapire o morire .
  • N. 14 — M. SAVI-LOPEZ — Fra le ginestre .
  • N. 15 — B. ZUMBINI — Luigi La Vista .
  • N. 16 — A. FOGAZZARO — Un'opinione di ManzoniG. Zanella .
  • N. 17 — F. RUSSO — Sunettiata .
  • N. 18 — G. D'ANNUNZIO — Violenti .
  • N. 19 — G. D'ANNUNZIO — Gli Idolatri .
  • N. 20 — G. MIRANDA — Reliquie d'amore .
  • N. 21 — DUCA DI ANDRIA — La Figlia di Ninotta .
  • N. 22 — NEERA — Voci della Notte .
  • N. 23 — D. MANTOVANI — Favole d'amore .
  • N. 24 — O. FAVA — Acquerelli .
  • N. 25-26 — C. ANTONA-TRAVERSI — «Tordi o fringuelli?» — Bizzarria comica in 3 atti.
  • N. 27 — M. SERAO — Le Marie .
  • N. 28 — MERCEDES — Oasi nel deserto