MATILDE SERAO

VITA E AVVENTURE DI RICCARDO JOANNA

ROMANZO

MILANO GIUSEPPE GALLI, LIBRAIO-EDITORE Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80

LIPSIA e VIENNA        MONTEVIDEO

F. A. BROCKHAUS        GALLI E COMP.

1887

Proprietà Letteraria

Milano — Tip. Filippo Poncelletti — Via Broletto, 43.

INDICE.

Dedica Pag. v

I. Piccolo 1

II. La grande giornata 69

III. I capelli di Sansone 141

IV. Il quarto d'ora di Rabelais 213

V. Eldorado 275

VI. Una catastrofe 316

AI GIORNALISTI D'ITALIA.

VITA E AVVENTURE DI RICCARDO JOANNA.

I. PICCOLO.

Paolo Joanna andava e veniva per la stanza, vestendosi, straccamente, ancora tutto pieno di sonno. Sul suo letto disfatto stavano una quantità di giornali aperti e spiegazzati, cascavano dalla sponda, giacevano sul tappetino miserabile; erano quelli della sera innanzi, su cui si era addormentato, su cui si era arrotolato, dormendo: quelli della mattina, ancora chiusi dalle fascette multicolori, erano deposti sul vecchio tavolino da notte, accanto a una tazza da caffè — e attratte dal fondiccio melmoso del caffè, dove lo zucchero si liquefaceva, le mosche vi ronzavano attorno — e un sottile odore d'inchiostro di stamperia restava nell'aria. Paolo Joanna si vestiva pianamente, per non destare il suo figliuolo. In uno stretto lettuccio il piccolo Riccardo dormiva, con una manina sotto la guancia palliduccia, con le palpebre un po' ombrate di livido e socchiuse, con la fresca e rossa bocca schiusa: respirava leggermente, impercettibilmente. Aveva sul volto una espressione di stanchezza, e il corpicciuolo elegante, sottile, di fanciullo a sette anni, si allungava sotto il lenzuolo con una linea di abbattimento profondo: tanto che il padre voltandosi ogni tanto a guardare il suo bimbo, diventava sempre più cauto nei movimenti, per paura di svegliarlo. La notte prima, dopo il teatro, lo aveva condotto a cenare a una trattoria a Vico Rotto San Carlo, che resta aperta sino alla mattina: erano rientrati alle due: il bimbo, eccitato da un bicchierino di Marsala puro, non aveva preso sonno che alle quattro. Ora sembrava troppo felice di dormire, perchè il padre, preso dalla tenerezza, non camminasse in punta di piedi e rinunziasse a cercare, nel vecchio canterano, una cravatta meno vecchia di quella che portava. Ma una mosca si posò sul volto del piccolo Riccardo, e quel visino, dal pallore di perla, si scosse, come se il bimbo fosse lì lì per svegliarsi: il padre tremò. Una seconda mosca venne a ronzare intorno ai riccioli castagni del piccolo Riccardo, poi si posò sulla fronte: e Riccardo fece udire, nel sonno, un piccolo lagno di creaturina che soffre. Allora il padre, delicatamente, senza far rumore, prese da terra un grande giornale e ne coprì il volto del bambino, per difenderlo dalle mosche: e sotto il largo foglio di carta stampata, odorante d'inchiostro di stamperia, il sonno del piccolo Riccardo Joanna continuò tranquillo.

Stava per uscire Paolo Joanna, dopo aver ricercato e trovato un mezzo sigaro spento, quando la serva si presentò sulla soglia. Era una tarchiata, robusta contadina del Cilento, dai capelli ispidi e neri, dagli occhi selvaggi, dalla bocca larghissima:

‟Bon giorno, signorì. Che faccio per pranzo?”

Paolo esitò un momento:

‟Pranziamo fuori, questa sera,” disse poi, presto presto, a bassa voce.

‟E per colazione che gli do, a quest'anima di Dio?” domandò Marianna, accennando a Riccardo che dormiva beatamente, sotto la Perseveranza.

Paolo Joanna mise la mano nel taschino della sottoveste, ne cavò certi soldi e disse a Marianna:

‟Basteranno dieci soldi?” e un piccolo tremito era nella sua voce.

‟Ci bastano e ci soverchiano. E voi, signorì?”

‟.... Io..., non importa. Faccio colazione fuori, sono invitato,” soggiunse.

‟A che ora vi debbo portare il signorino don Riccardo?”

‟Portamelo in ufficio, alle due. Ti raccomando questa creatura, Marià.”

‟Non dubitate, non dubitate,” mormorò lei.

Paolo Joanna se ne andò, contando e ricontando nel taschino i venti centesimi che gli erano rimasti, per comperare due sigari virginia. La serva prese la tazza sporca e se ne andò, richiudendo pianamente la porta. Erano le undici e mezzo quando il piccolo Riccardo si svegliò, il sole meridiano entrava nella camera, si allungava sui mattoni rossastri, illuminava tutta la povera decenza di quella stanza mobiliata: egli si rizzò sul letto, senza meravigliarsi di esser solo, senza chiamar nessuno, balzò in terra, in camicia, scalzo, si dette a cercare le calzette e le scarpette. Una calzettina aveva un buco al tallone, egli la stirò per ficcarla dentro la scarpetta e intanto canticchiava, come un grande:

‟Tu, tu, tu....”

Ogni volta che incontrava un giornale sotto i piedi, lo scartava con un atto di fastidio, o vi passeggiava sopra, come se fosse un tappeto. Solo solo, come un piccolo essere ragionevole e buono, si lavò, si pettinò, si vestì col suo bel vestito nuovo, calzoncini al ginocchio, giacchettina, grande colletto di trina e cravatta di seta rossa: era il vestito nuovo che presto sarebbe diventato vecchio, a furia di portarlo ogni giorno, dalla mattina. E sull'uscio, preso a un tratto da una impazienza nervosa, si mise a gridare:

‟O Marià! O Marià!”

La serva accorse, dal fondo della cucina, dove spremeva il sugo di pomodoro per i maccheroni della padrona di casa: aveva le mani rosse sino all'avambraccio.

‟Voglio la colazione,” disse il bimbo, levando sulla serva i suoi occhioni azzurri e pensosi.

‟Che volete, per colazione?”

‟Una bella cosa: una cosa bella assai,” disse lui, come sognando una ghiottoneria.

‟Ditemela, signorino mio: e Marianna ve la fa. Volete una bella frittatina di due uova?”

‟No, no, voglio una bella cosa.”

‟Volete un'insalatella di patate e tonno?”

‟No, no,” fece il bimbo, con la cera nauseata.

‟Volete dei maccheroni col pomodoro?”

‟No, no, no,” fece Riccardo, irritato, battendo i piedi in terra.

‟Signorino mio, che vi posso fare? ditemelo voi.”

‟Voglio un pollo, tutto un pollo, tutto per me, Marià,” disse il fanciullo.

‟Non può essere, signorino mio.”

‟Io voglio il pollo,” disse il fanciullo freddamente, con l'alterezza del gran signore avvezzo a comandare.

‟O Madonna mia? come vi posso comprare il pollo? Proprio non posso.”

‟O Marià, Marianna mia cara,” disse il piccolo seduttore, con una voce tenerissima, ‟se mi vuoi bene, comprami il pollo.”

‟Creatura di Marianna sua, non mi fate disperare, siate buono, papà mi ha lasciato soltanto dieci soldi per la colazione.”

‟Soltanto dieci soldi?” chiese il bimbo, diventato a un tratto calmo e riflettendo profondamente.

‟Sissignore.”

‟Ebbene, non importa: comprami dieci soldi di pollo.”

E l'ala di pollo a cui era attaccato un pezzetto di petto, Riccardo Joanna andò a mangiarla in cucina, accanto al tegame dove bolliva il sugo di pomodoro: Marianna, la serva, dalle nerborute braccia, aveva fatto in modo da comprargli anche due prugne dolci e mature. Donna Caterina, la padrona di casa, andava e veniva, tutt'affaccendata nei preliminari del pranzo: era una grassona, col viso cosparso di tre o quattro porri rossi e pelosi. Il bimbo, silenzioso e dignitoso, la guardava, ogni tanto, coi suoi occhi fieri, rosicchiando la sua ala, come un piccolo principe.

‟Non ti ha dato nulla don Paolo, per me?” domandò donna Caterina a Marianna, che toglieva le teste e le spine alle alici.

‟Nossignora.”

‟Ma gliel'hai detto?”

‟Nossignora, l'ho dimenticato.”

Donna Caterina fu lì lì per gridare: Marianna le fece un cenno supplichevole, indicandole il piccolo Riccardo, che lavava aristocraticamente le sue prugne in un bicchiere, prima di mangiarle. La padrona di casa fece una spallata, ma tacque. Erano gli otto del mese e Paolo Joanna non ancora aveva pagato l'affitto della sua stanza: ogni mese si faceva pregare sino ai quindici, sino ai venti. In realtà Marianna, presa da pietà, non glielo diceva spesso, vedendolo impallidire e balbettare: non glielo diceva, anche per quella bella creatura di Riccardo, che chinava gli occhi e stringeva le labbra, quando venivano a chieder denaro a suo padre. Il figliuolo, allora, levava gli occhi in faccia al padre, preso da una grande ansietà, muto, angosciato: Marianna voltava la testa in là, per non vedere questa scena silenziosa. E la gentilezza, la intelligenza del piccolo Riccardo erano tali che commovevano anche donna Caterina: era un bimbo senza madre, quello, ed ella era una donna senza figliuoli.

‟Vuoi pranzare con noi, Riccardo?” gli disse, quando le alici cominciarono a saltare nell'olio della padella.

‟Grazie, signora,” rispose il piccolino, ‟ho fatto colazione e pranzo con papà mio, questa sera, alla trattoria.”

E se ne andò in camera sua, dove restò solo solo, di nuovo, a giocare con una scatola di soldatini scompagnati. Ora Marianna aveva piegato i giornali trovati sul letto e in terra e li aveva uniti ad altri sparsi, a fasci, ammonticchiati sul canterano, sul tavolino da notte, sopra un seggiolone di cuoio nero dove nessuno sedeva: ogni tanto, quando eran troppi, Marianna li vendeva al pizzicagnolo, a cinque soldi il chilo, quando non erano tagliati, e con quei soldi pagava la stiratrice che insaldava i grandi colletti di Riccardo, o gli lavorava dei manichini di lana rossa, per l'inverno. Alle due ella entrò in camera, per condurlo all'ufficio del giornale, da suo padre: aveva lasciato il suo piatto di maccheroni a metà, per non mancare.

‟Mettetevi il berretto, e andiamo, signorino don Riccardo.”

‟Posso andare anche solo: so la strada!”

‟Madonna, potete capitare sotto a una carrozza!”

‟Vado sul marciapiedi.”

‟Nossignore, ho promesso a papà di accompagnarvi.”

Egli posò un berretto grazioso sui riccioli castagni e se ne andò per il vicolo dei Pellegrini, raccontando a Marianna le meraviglie di Giroflè-Giroflà, che aveva visto la sera prima, al Circo Nazionale, il nero Mourzouck, i pirati e la vampa del punch, acceso nella zuppiera. La serva lo ascoltava, esclamando ogni tanto:

‟O Gesù, o Gesù!”

Innanzi alla tipografia del Tempo, nella piazzetta dei Bianchi, incontrarono Peppino, un ragazzotto tipografo.

‟Peppì, vai all'ufficio?” domandò il piccolo Riccardo con aria d'importanza.

‟Sissignore, porto le bozze a papà.”

‟Ah! va bene,” fece Riccardo, tutto soddisfatto.

Ora camminavano in tre, la serva col suo passo di anatra grassa, il bimbo sottile e snello e il ragazzo di stamperia. Peppino portava un berretto di carta bianca sui capelli rossi, e il viso bianchissimo era macchiato di lentiggini e d'inchiostro: e sulla blusa turchina parea che ci fosse piovuto l'inchiostro. Egli guardava il figliuolo del redattore, con un rispetto profondo e si teneva un po' indietro.

‟Tu sai leggere, Peppino?”

‟Sissignore: altrimenti non potrei fare il tipografo.”

‟E scrivere?”

‟Un poco.”

‟Io non so nè leggere, nè scrivere,” disse Riccardo. ‟Ma non serve, papà dice sempre che non serve.”

‟Voi non dovete fare il tipografo, signorino.”

‟No, no, io non debbo fare il tipografo,” mormorò macchinalmente il bimbo. ‟Addio, Marianna, addio.”

‟La Madonna vi accompagni,” disse la serva, ferma sulla soglia del portoncino, guardando ancora il bimbo che si arrampicava lestamente per la erta scaletta.

E Marianna Rosanía, la vigorosa contadina di Caposele, se ne andò a casa, col suo passo di bestia grossa, a lavare i piatti, mentre i ferri da stirare si arroventavano sull'altro fornello. Riccardo attraversò l'anticamera senza fermarsi, schiuse una porta, corse a una scrivania e buttò le braccia al collo del padre.

‟O papà, o piccolo papà,” ripeteva il bimbo, strofinando la sua guancia contro quella del padre.

Il padre lo baciava, in silenzio, sui capelli, sugli occhi. Per lavorare in ufficio, Paolo Joanna aveva cambiato il soprabito in una giacchetta di lustrino: la faccia aveva una monotona espressione di stanchezza e quasi di ebetismo: il medio e l'indice della mano dritta erano sporchi d'inchiostro sino alla seconda falange.

‟Hai mangiato, nino mio?”

‟Sì, papà: Marianna mi ha comprato il pollo.”

‟Ti è piaciuto?”

‟Sì, papà: e tu?”

‟Io ho fatto colazione al caffè.”

‟Con gli amici tuoi, papà?”

‟Sì, nino. Ti sei seccato, a casa?”

‟Un poco, papà: ma non importa.”

Peppino, il ragazzo di stamperia, ritto innanzi alla scrivania di Paolo Joanna, teneva sempre le bozze in mano e guardava in aria, seguendo il volo delle mosche. Il giornalista gli prese le bozze e chinò il capo sul tavolino, a lavorare di nuovo. In silenzio Peppino andò via. Riccardo aveva posato il berretto sopra una scansia, sopra un fascio di opuscoli tutti polverosi, e piano piano girava per la stanza, come a cercarvi qualche cosa di nuovo. Ma era sempre la medesima stanza, con due scrivanie che si prospettavano, massicce, profonde di cassetti, due monumenti; con certi scaffali pieni di libri buttati a caso, pieni di opuscoli, di carte vecchie, di fasci di giornali ingialliti; alle mura una carta geografica dell'Italia, un vecchio orario generale delle ferrovie romane, una vecchia réclame dell'esposizione marittima di Napoli, un cartellone rosso con cui il Tempo annunziava ai suoi lettori la pubblicazione del romanzo di Montépin: La Marchesa Castella. Ma su tutto questo una polvere fitta, come se ci fosse piovuta, una polvere che mangiava il colore della carta, che appannava la vernice del legno, che si depositava, a solchi, nella paglia delle sedie, che copriva i libri e gli Atti del Parlamento di uno strato molle, che disegnava delle ombre sugli ondeggiamenti della carta geografica e dei cartelloni.

Insieme al costante odore d'inchiostro di stamperia, questa volta un po' rancido, si univa l'odore secco e aspro della polvere: se ne indovinavano dei monticelli negli angoli dimenticati, dietro gli scaffali, nei cantucci oscuri: Riccardo procedeva con una certa diffidenza, avanzando il nasino, indietreggiando il corpo, per la paura d'insudiciarsi. Sopra un tavolinetto vi era un bicchiere con un po' di limonata in fondo: accanto una vecchia testata del Tempo, tutta nera d'inchiostro, tutta corrosa dalla polvere. Per cavare da uno scaffale un fascio d' Illustrazioni italiane Riccardo sollevò un nugolo di polvere, tossì: Paolo levò il capo, si baloccò con la penna.

‟Che cosa scrivi, papà?”

‟Scrivo che il prefetto è un cattivo, nino mio.”

‟Gliene dispiacerà al prefetto?”

‟Sì, nino.”

‟Imparerà a esser cattivo,” disse imperiosamente il bimbo, con l'intonazione di un piccolo tiranno.

E si mise a sfogliare le Illustrazioni, senza parlare. Aveva subito imparato a non discorrere in ufficio, a non chiedere nulla, a non far rumore, a stare lungo tempo immobile, seduto, curvo sopra un giornale illustrato, sempre i medesimi giornali, senza seccarsi mai, come un bimbo precoce e saggio. Non si accostava neppure al balcone che dava sulla Piazza dello Spirito Santo, quasi alla fine di Via Toledo, donde veniva un grande rumore di carrozze e di persone: ogni tanto, quando una persona attraversava la stanza, Riccardo levava gli occhi, curioso, ma timido. Quella porta, quella stanza di là, dove sedeva e troneggiava il proprietario-amministratore del Tempo, sembrava a Riccardo un tempio: non vi si entrava mai, bisognava chieder permesso, le persone vi restavano lungamente e certo parlavano a voce bassa, di cose importanti, perchè niun rumore ne veniva: il proprietario non riconduceva mai nessuno, era un piccolo uomo panciuto, con una testa di foca e gli occhi grigi e falsi dietro gli occhiali. Ogni tanto, Paolo Joanna scompariva anche lui dietro la porta del tempio: Riccardo restava con gli occhi fissi su quella porta, un po' inquieto. Verso le cinque il proprietario andava via, senza guardarsi intorno, senza salutare, con l'occhio spento dietro gli occhiali, chiuso in sè. Giammai aveva detto una parola a Riccardo, giammai aveva fatto mostra di aver notata la sua presenza: e Riccardo, il piccolo principe, si sentiva pieno di rispetto e pieno di paura per quel breve uomo ventruto, dal mustacchio troppo corto e troppo rado. Quando qualcuno veniva a chiedere del proprietario, domandava sempre se vi era il signor cavaliere, senz'altro: Paolo Joanna, parlando di lui a tavola, a teatro, diceva sempre il signor cavaliere, e questo titolo pareva a Riccardo qualche cosa di misterioso, di grande. Talvolta nella stanza di là le voci si elevavano. Paolo tendeva l'orecchio un minuto, poi diceva a Riccardo di andar a giocare in anticamera. Quest'ordine, per Riccardo, era una liberazione. Quel giorno, precisamente, l'ordine non veniva: e Riccardo si accostò alla scrivania di suo padre, senza dirgli nulla. Costui continuava a scrivere e non si accorse di nulla: ma levando gli occhi, vide la testa ricciuta di suo figlio accanto a lui:

‟Vuoi qualche cosa?”

‟Vorrei andare in anticamera.”

‟Va: non t'insudiciare.”

‟No, papà: mi porti al trattore questa sera?”

‟.... Sì.”

‟A quale?”

‟.... Non so, vedremo, nino mio.”

‟Mi fai mangiare la ragusta, papà?”

‟.... Se ce n'è, nino.”

‟Voglio anche il dolce, papà.”

‟.... Sì, sì,” mormorò il padre chinando il capo.

Il bimbo guardò bene suo padre, con un occhio così indagatore, così acuto, che parea quello di un vecchio.

‟Se non abbiamo quattrini non importa, papà,” disse Riccardo, scotendo il capo.

A Paolo salirono le lagrime agli occhi, ma rispose allegramente:

‟Ne avremo, ne avremo, piccolino, non dubitare.”

Riccardo scappò fuori, tutto felice; l'anticamera, una stanzetta quasi buia, la cucina formavano la sua felicità. Nell'anticamera, innanzi a una scrivania, sedeva don Domenico, un vecchissimo e piccolissimo gobbetto, tutto bianco, tutto grinzoso, con certi occhietti vivi, il gerente responsabile del giornale, che teneva anche il registro degli abbonati e faceva i conti. Don Domenico era grande amico di Riccardo, lo lasciava scherzare col timbro colorato tutto umido d'inchiostro azzurro, gli regalava le ostie colorate, rosse, turchine, gialle: facevano insieme, il gobbetto antico e il bambino, certe conversazioni lente, a voce sommessa, a riprese:

‟Dove sta vostra moglie, don Domenico?”

‟È morta, signorino.”

‟Ah!”

Qui un silenzio: il gobbetto continuava a scrivere in quei suoi libroni.

‟Che avete fatto, don Domenico, quando è morta vostra moglie?”

‟Che dovevo fare? Niente.”

‟Papà ha pianto quando mammà è morta, a Milano,” diceva il bambino, con un accento da trasognato.

‟Mammà vostra doveva essere bella.”

‟Era bella assai, bella assai,” continuava il piccolo, con la sua aria di sonnambulo.

Quando entrava un signore per prendere un abbonamento, Riccardo taceva, mentre il gobbettino scriveva con la sua larga e chiara calligrafia, staccava la ricevuta nettamente e salutava con un sorriso il nuovo abbonato. Quel giorno don Domenico era in collera con una macchia d'inchiostro cascata sulla pagina bianca di un registro, e col capo abbassato, con la gobba quasi fatta più prominente per l'attenzione, strofinava, strofinava con la gomma per cancellare quella macchia. E tutto preso dalla sua smania di pulizia, il gobbetto non gli dava retta, a Riccardo, che gli voleva raccontare come il papà di Giroflè, al Circo Nazionale, rassomigliava a lui, don Domenico.

‟Don Domè?...” disse Riccardo.

‟Ah?” fece quello, senza levare la testa.

‟Don Domè, non vi voglio più bene.”

‟Aspettate, aspettate, signorino mio, ora parleremo.”

Ma Riccardo si era seccato: aveva voltate le spalle e se n'era andato nella stanzetta semibuia, dove stava l'altro suo amico, Francesco. Era un giovanotto alto e forte, che prima aveva fatto il mestiere del fabbro nell'arsenale di Napoli e guadagnava tre franchi al giorno, essendo bravo: ma un giorno, battendo col martello sul ferro incandescente, una scintilla gli era schizzata in un occhio e gli aveva bruciata la cornea: lo avevano tenuto cinque mesi all'ospedale dei Pellegrini, alle mani del primo oculista di Napoli, ma aveva perduto l'occhio: all'arsenale non avevano voluto riprenderlo, egli si era acconciato in quell'ufficio di giornale, lavorando dalle otto della mattina sino alle nove della sera, per cinquanta lire il mese. Chiuso dalla mattina in quella stanzetta oscura, dove si accendeva il gas alle tre, seduto sopra un alto seggiolone, innanzi a una grande tavola, con un forbicione in mano, Francesco tagliava le fasce, lentamente, con un moto uniforme, con uno stridío regolare delle forbici. I larghi fogli di carta dove gli indirizzi erano stampati, sotto le cesoie di Francesco diventavano tante strisce piccoline tagliate precisamente, e gli si ammonticchiavano accanto. Più tardi, quando aveva finito, Francesco disponeva le fasce a scaletta, in tanti mucchi bene ordinati, pronti a essere bagnati di gomma, pronti a stringere il giornale nel loro legame. Riccardo era un grande amico di Francesco, lo andava sempre a trovare nella cameretta buia, dove non entrava mai nessuno, dove il forte fabbro dall'occhio bianco passava le giornate, inchiodato sul seggiolone. Riccardo lo guardava a tagliare, per intieri quarti d'ora, senza dire nulla, e il tagliatore dava prova di maestria, tagliando con una certa grazia, arrotondando il braccio, con un colpo quasi volante delle cesoie.

‟Don Domenico pare un gatto che raspa, oggi,” osservò Riccardo.

‟Certi giorni pare uno scimmiotto,” rispose Francesco, con un accento profondo.

‟Mi fai tagliare un poco, Francesco?”

‟Vi potete far male.”

‟No, no, non mi faccio male.”

‟Mi taglierete storte le fasce e poi mi gridano.”

‟Ti gridano spesso, Francesco?”

‟Non sono molto buono per questo mestiere, signorino,” mormorò l'ex-fabbro.

‟Ti piaceva meglio l'altro, Francesco?”

‟Sicuro.”

‟Raccontami come ti successe la disgrazia,” disse il bimbo, sedendosi sopra uno sgabello e incrociando le mani.

L'aveva intesa raccontare cento volte, quella storia della scintilla ardente che era schizzata nell'occhio di Francesco e glielo aveva bruciato: ma Francesco amava di narrarla la storia della sua disgrazia, il più grande avvenimento della sua vita. Cominciava sottovoce, brandendo le sue cesoie, facendole stridere attraverso i fogli di carta, mentre il bimbo lo fissava coi suoi grandi occhi azzurri, tutti intenti: ma pian piano Francesco si riscaldava, alzava un po' la voce, non tagliava più, gesticolando con le cesoie, la cui lama lucida brillava: una emozione strozzava le parole del fabbro, un pallore si mescolava alla tinta bruna del volto — quando arrivava a dire come dalla barra di ferro arroventato si staccasse la fatale scintilla. Francesco si fermava, tutto commosso, non potendo più parlare. Il piccolo Riccardo ascoltava senza batter palpebra, senza interrompere, preso anche lui da una emozione: e quando taceva il tagliatore, anch'esso taceva, un silenzio regnava nella stanzetta semibuia.

‟Ti fece molto dolore?” disse, dopo una pausa, il bambino.

‟Un dolore immenso.”

‟Bruciava?”

‟Assai, assai bruciava.”

‟Povero Francesco!” disse, sottovoce, il piccolo Riccardo.

‟Volete tagliare, signorino?” esclamò il tagliatore, con un moto di entusiasmo.

E gravemente, stringendo le labbra, Riccardo afferrò le cesoie e si diede a tagliare le fasce.

‟Quante saranno le fasce, Francesco? Un milione?”

‟Sono tremila.”

‟Più di un milione?”

‟Meno.”

‟Tu non sai leggere?”

‟No, signorino.”

‟E non sai a chi vanno queste fasce?”

‟Non lo so.”

‟Non vorresti saperlo?”

‟Che me ne importa?”

‟È vero, che te ne può importare?” soggiunse il bimbo, col suo tono di persona ragionevole.

Ma le cesoie gli stancavano le piccole dita, le depose. Una voce di fuori lo chiamò.

‟Riccardo?”

‟Eccomi.”

Fuori vi era il cronista, un giovinottone lungo e magro magro, con le spalle curve, il collo esile, le guance rossastre del tisico: un Veneziano dalla dolce pronuncia, dai modi dolcissimi, perduto in quel vasto Napoli, tossicchiante appena veniva l'autunno, povero, sempre allegro, che scriveva presto presto un italiano pieno di errori di ortografia che Paolo Joanna doveva correggere e per cui Alessandro Dolfin non si offendeva mai, quando lo riprendevano. Riccardo era il suo prediletto, aveva sempre in tasca per lui un paio di soldi di confetti, un giocarello di pochi centesimi. Entrava in redazione tutto scalmanato, col respiro affannoso, avendo troppo camminato, dalla Questura alla Prefettura, agli ospedali, sempre in giro sino alle tre, e si buttava a scrivere come un disperato, con una calligrafia grande e informe di ingegno mediocre: a un certo punto, domandava:

‟Non ci è il bimbo?”

‟È fuori.”

‟Ora, ora lo vado a prendere.”

E buttava giù in fretta e furia la sua cronaca, facendo uno sforzo sulla sua naturale indolenza, vincendo la debolezza di essere destinato a morire di tisi, scriveva come se avesse il diavolo in corpo, per poter poi andare a cercare il piccolino.

‟Ti ho portato una cosa, indovina?”

‟Che cosa, che cosa?” chiedeva Riccardo, attaccato alla lunghissima gamba di Dolfin.

‟Una pesca, una pesca: ma devi venire a prenderla.”

E Dolfin avanzava il piede e il ginocchio destro, Riccardo vi si arrampicava come uno scoiattolo, gli saliva sul petto, opprimendolo, tendeva le mani, afferrava la pesca, la mordeva.

‟Mangia anche tu, Alessandro.”

‟Non ne voglio, mi fa male.”

‟Tutto ti fa male a te?”

‟Tutto.”

‟A me nulla.”

Questo dialogo avveniva in cucina; una cucina fredda, coi fornelli spenti, senza un utensile: il focolare era coperto di grandi pacchi di Tempo, la resa: sotto l'arco, dove si conservava il carbone, vi erano certe scatole di caratteri tipografici consumati, corrosi, ma sempre un po' umidicci, puzzolenti di antimonio; in un angolo certi strofinacci sudici. Sul muro, dove un tempo erano state le casseruole e vi avevano lasciato la loro orma rotonda, erano attaccate certe caricature rosse e nere del Pasquino, la Francia con la cresta di gallo, Bismarck coi tre capelli ritti sul cranio, Depretis con la barba fluente di un Fiume. Ivi Alessandro Dolfin oziava un pochetto, facendosi arrampicare addosso il bambino, parlandogli affettuosamente in quel molle dialetto veneziano, soddisfacendo quel bisogno di tenerezza che immalinconiva quel giovinottone ammalato, nostalgico e povero. La cucina aveva un finestrino dai vetri sporchi che dava sulla scaletta: un grosso naso, una testa di faina vi comparve e gridò:

‟Cronista, un suicidio!”

Dolfin lasciò Riccardo a malincuore, e andò dietro al reporter che aveva tutti i particolari della notizia. Il reporter era un napoletano, afflitto da uno sciagurato amore pel giornalismo, piccolo, scarno, con un naso che pareva si trascinasse dietro la testa, con la faccia di un vecchietto astuto e un modo di parlare telegrafico, tutto compreso dell'altezza del suo ufficio, quasi che fosse un redattore del New-York Herald. Nell'anticamera, frettolosamente, Angiullo dava la notizia a Dolfin, leggendogli le note del taccuino: Dolfin ascoltava con aria stracca, e Riccardo, che gli aveva tenuto dietro, aveva un contegno di personcina attenta.

‟... Dal Ponte alla Sanità. Si crede che sia morto prima d'arrivare in terra.”

‟L'hai visto, tu?” domandò il bimbo al reporter.

‟Certamente: faceva orrore.”

‟Qual è la causa del triste proponimento?” domandò il cronista, con lo stile della cronaca.

Credesi dissesti finanziari,” rispose sullo stesso tono Angiullo. E scappò via.

Dolfin entrò nella redazione per scrivere la notizia, annoiato; Riccardo lo seguiva. Paolo Joanna scriveva sempre, con un movimento della bocca che imitava quasi quello della penna. Non levò neppure il capo. Dolfin scriveva tenendosi il bimbo accanto.

‟Dimmi, che significano dissesti finanziari?” chiese il bambino, dopo aver pensato.

‟Mancanza di quattrini,” disse Dolfin.

‟E uno si ammazza?”

‟Più di uno.”

‟Ah!” disse soltanto il bimbo.

‟Che ora sarà?” domandò Paolo Joanna, levando il capo e mostrando la sua faccia stanca e preoccupata.

‟Mah!...” fece il cronista, con un cenno d'ignoranza.

Ambedue non avevano orologio: e l'orologio grosso e grossolano, da paccotiglia, sospeso al muro, era fermo da sei mesi alle undici e mezzo.

‟Ora domando a don Domenico,” propose il piccolo Riccardo.

Adesso, nella stanza di redazione era cominciato un certo viavai; il deputato ispiratore del Tempo aveva mandato l'articolo di fondo contro il governo, e Paolo Joanna lo arricchiva di punti, di virgole, di esclamazioni, spezzava i periodi, ne rifaceva qualcuno; il corrispondente da Torino aveva mandati due telegrammi, di cui uno si fingeva fosse da Parigi; era venuto il fattorino dell' Agenzia Stefani col solito dispaccio; Peppino era capitato di nuovo, con altre bozze; due o tre signori erano passati, si erano ficcati nella stanza del proprietario. Dolfin con le mani in tasca guardava il soffitto, con quella immobilità sorridente del Veneziano immerso nelle sue contemplazioni.

‟Sono le quattro e un quarto,” tornò a dire Riccardo.

‟Paolo, dammi Riccardo, lo porto a passeggiare.”

‟No, no, lascialo stare,” mormorò Paolo, pensoso.

‟Che ti fa qui? Te lo riconduco all'ora del pranzo.”

‟Lascialo Riccardo: mi serve.”

‟Quello si annoia: fallo venire a passeggiare.”

‟Ti annoi, Riccardo?”

‟No, papà: non mi annoio mai,” rispose il piccolo uomo.

‟Senti una parola, Alessandro,” disse Paolo.

E per parlarsi in segreto, i due redattori se ne andarono fuori il balcone. Ivi Paolo fece la domanda: aveva da prestargli venti lire, Alessandro? E lo aveva detto presto presto, con quella timidità e quella soffocazione di voce che hanno le persone veramente bisognose: e giocherellava col bottone quasi strappato della sua spolverina. Dolfin si fece pallido, una viva espressione di dolore gli si dipinse sulla faccia: non aveva che tre lire per pranzare, potevano dividere, egli si sarebbe contentato.

‟Non importa, non importa,” disse Paolo, vergognandosi.

‟Prendile, Paolo, prendile: almeno per Riccardo.”

‟Troverò altrove: lascia fare,” e abbozzò un pallido sorriso di sicurezza.

Rientrarono. Erano smorti ambedue, e si dolevano, l'uno della domanda fatta inutilmente, l'altro della propria impotenza. Il bambino li guardò, uno dopo l'altro, come se volesse leggere nelle loro facce: egli era serio serio, come se avesse indovinato.

‟O Riccardo, vuoi arrampicarti ancora?” domandò fiaccamente quel bonaccione di Dolfin, tendendo il piede e il ginocchio destro.

‟No,” disse lentamente il bambino, ‟non ho più voglia.”

‟Che hai, piccolino?”

‟Niente.”

‟A rivederci, io vado al Consiglio comunale,” disse Dolfin, che non si reggeva a vedere il padre preoccupato e il bimbo triste.

Uscì. Paolo, dopo aver pensato un poco, aveva preso un foglietto e scriveva una lettera. Poche parole: ma ad ognuna di esse si fermava, come pentito, come esitante, come se non trovasse la forma giusta. Stracciò il foglio: ne prese un altro. Riccardo si era seduto, le mani abbandonate, l'occhio spento, come stanco.

‟Riccardo?”

‟Papà?”

‟Senti una cosa.”

Il figliuolo si appressò al padre, che gli carezzò i capelli leggermente.

‟Mi vuoi bene?”

‟Sì, papà mio.”

‟Allora vuoi farmi un piacere?”

‟Sì, papà.”

‟.... Senti.... senti,” e pareva che inghiottisse difficilmente la saliva, ‟dovresti andare.... dentro.... dal signor cavaliere....”

‟Oh, papà!...”

‟.... A portargli questa lettera,” terminò di dire precipitosamente il padre.

Il bimbo tese la manina, ma aveva chinato la piccola testa sul petto.

‟È proprio necessario, papà, che ci vada io?” chiese poi, con voce fievole.

‟Necessario, Riccardo mio,” rispose il padre.

‟.... Ora vado, papà.”

E si avviò.

‟Senti, Riccardo.”

‟Che cosa?”

‟Digli anche: Papà mio si raccomanda.”

‟Niente altro?”

‟No.”

‟Vado, papà.”

Il bimbo bussò debolmente: una voce secca gli strillò di entrare. Paolo, mentre Riccardo era di là, volle rimettersi a scrivere, ma non potè, le mani gli tremavano. Quando la porta si chiuse, egli arrossì di vergogna sino ai capelli.

‟Ecco, papà,” sussurrò Riccardo.

Gli pose sulla scrivania quattro rotoli bianchi, venti franchi in monete di rame.

‟Bravo, Riccardo.”

Si chinò per baciare il figliuolo sulla guancia, ma il bimbo non potette più rattenersi, le lagrime gli gonfiarono gli occhi, egli si attaccò al collo del padre, dicendo fra i singhiozzi:

‟Oh papà mio.... oh papà mio bello!...”

‟Per carità, non piangere, mi fai disperare,” e cercava di calmarlo, lo carezzava, dava delle occhiate di paura verso la porta.

‟Ti possono, udire, per carità, Riccardo!”

Il fanciullo cercava di trattenersi, ma non poteva, i singulti lo soffocavano. Il padre se lo tolse in collo, e non sapendo dove andare, lo portò in cucina, chiuse la porta.

‟Ma che hai, che hai?” gli andava ripetendo.

‟Oh papà, non mandarmi più.... il signor cavaliere mi fa soggezione.... mi fa paura.... non mandarmi più....”

‟Non ti mando più, non dubitare. Che ti ha detto?”

‟Ha detto, leggendo la lettera: solite fandonie...”

‟Imbecille! E poi?”

‟Poi ha messo la lettera in un librone nero, ha aperto un cassetto: quanti denari, papà! e mi ha dato.... quei quattrini....”

Si diede a piangere di nuovo.

‟Non piangere: perchè piangi?”

‟Mi sono vergognato, papà.”

Tacquero. Un grave silenzio era fra loro: la faccia del padre si era scomposta, quella del bimbo pareva quella di un vecchietto, che avesse tanto vissuto, tanto sofferto.

‟Hai ragione,” mormorò Paolo. ‟Non dovevo mandarti: dovevo andare io, sono un vile....”

‟No, non dir queste cose, non ti arrabbiare, papà mio, un'altra volta non piangerò più, manda sempre me....”

‟Speriamo di non averne più bisogno,” soggiunse solennemente il padre.

‟Speriamo,” aggiunse piamente il figliuolo.

Erano già consolati: uscirono dalla cucina.

‟Ora papà tuo ti manda a comperare qualche cosa che ti piaccia. Vuoi il fernet?”

‟È amaro.”

‟Vuoi il wermouth?”

‟Sì, ma col seltz, papà.”

..........

Nella tipografia il rombo della macchina era finito. Tutta l'edizione di provincia era stata tirata: in un camerotto di legno, sotto la vampetta di un lume a gas, Paolo Joanna e Dolfin scrivevano le ultime informazioni e le ultime notizie di cronaca per l'edizione di Napoli che doveva uscire fra un'ora. I due redattori erano in maniche di camicia: in quel camerotto si affogava — e non parlavano, scrivevano rapidamente, presi dall'ansietà di quella ultima ora. Riccardo gironzava per la tipografia, come una piccola ombra, fra i larghi tavoloni e gli scaffali della composizione: sopra certe casse, dove non si lavorava più, il gas era abbassato: solo tre tipografi componevano gli ultimi pezzi del giornale; Peppino si ergeva sopra uno sgabello, essendo ancora troppo piccolo per arrivare alle cassette dei caratteri; il proto, tutto attento, si curvava sopra un ampio tavolone coperto di marmo macchiato di inchiostro, umidiccio di un'acqua sporca, e con certe sue pinzette cavava certe lettere dalla pagina composta, tutta nera. Riccardo gironzava, ma sapeva che non doveva parlare ai tipografi, massime in quella fervida ora di lavoro: e dopo un poco, se ne andò in un camerotto di legno, simile a quello dove lavoravano suo padre e Dolfin. Attorno a una larga tavola, sedute sopra certi alti seggioloni, stavano le tre piegatrici dei giornali: e innanzi a ognuna di loro, un fascio di giornali aperti si elevava. Rapidamente, senza smettere di parlare, senza guardare, esse piegavano il giornale in due, poi in quattro, poi in otto, poi in sedici: agilissime volavano le dita, l'unghia del pollice passava sulla piega per fissarla meglio, i giornali piegati si elevavano in mucchi.

Maria lavorava lentamente: era la giovane moglie di un cocchiere, bellina, dall'aria signorile, convalescente ancora di un tifo che le aveva minacciato per più giorni la vita, coi capelli corti e ricciuti e la naturale indolenza dei convalescenti: Raffaela chiacchierava, canticchiava, lavorava come se avesse una grande fretta, i suoi quattro figliuoli l'aspettavano a casa per mangiare, era vedova da due anni, suo marito era un fontaniere, era morto in un pozzo improvvisamente inondato: la più silenziosa era Concetta, una sciancata, una povera giovane dal volto lungo e pallido, dal vestito di percalla nero, dal fazzoletto di cotone bianco al collo, una monacella, così la chiamavano le sue due compagne. Riccardo si metteva accanto a lei, a vederla piegare con le lunghe dita scarne, muta, fingente non udire le storielle di amore che le raccontavano le sue compagne, per scandalizzarla un poco. Maria, specialmente, diceva quella sera di un signore che la seguiva sempre, quand'ella usciva dalla tipografia, un signore con orologio e catena, col tubbo e con un brillante grosso grosso al dito mignolo: un brutto signore, del resto, che se Totonno, suo marito, si accorgeva di tale cosa, correvano le coltellate — e ne parlava con un brivido voluttuoso di spavento, con quel desiderio e quella paura mistica del sangue che hanno le Napoletane in fondo all'anima. Raffaela, per scherzare, accusava Concetta di avere un innamorato e quella non rispondeva, piegava più rapidamente i giornali. Sì, sì, aveva un innamorato, la monachina, era don Domenico, il vecchietto gobbo e bianco, un bel matrimonio, il gobbettino e la monacella zoppa. Ella quasi piangeva, col naso che le si faceva rosso e con le labbra che si protendevano per lo scoppio delle lagrime.

‟Non te ne incaricare, Concetta, lasciale dire,” l'ammonì Riccardo, per consolarla.

Il bambino si arrampicò sulla sedia di Maria per toccarle i capelli.

‟Se mo' avessi ancora Pascaluccio mio, sarebbe come voi, signorì,” disse quella, immalinconendosi al pensiero del suo bimbo morto.

‟Ringrazia la Madonna che se l'ha preso,” gridò Raffaela, ‟oh quanto pane mangiano le creature!”

‟A me il pane non mi piace,” osservò Riccardo.

‟Voi siete un signore, è un'altra cosa.”

Le piegatrici avevano finito, si guardavano le mani già tutte nere d'inchiostro, si mettevano gli scialli, Concetta si annodava un fazzoletto sotto il mento.

‟T'aspetta don Domenico?” le disse, per burla, Raffaela.

Le tre piegatrici se ne andarono, attraversando la tipografia, ridendo a qualche motteggio dei tipografi, Maria con la sua fiacchezza di malatina debole, Raffaela dicendo qualche paroletta vivace. E dopo un poco il rombo della macchina ricominciò. Riccardo si era ritirato in un angolo lontano, ma non toglieva gli occhi di dosso alla macchina. Sempre quel grande congegno nero, a ruote che s'ingranavano l'una nell'altra, a rulli neri e lucidi che andavano e venivano, con quel cilindro che si arrotolava sulle pagine, con quei telai semoventi, con quel fischio sottile dei fogli che scivolavano, quasi afferrati e divorati da quell'ingranaggio, quel macchinone rombante sempre lo meravigliava. Quando era al riposo, Riccardo vi si accostava, timidamente, toccava con la punta del ditino una ruota, poi si ritraeva, girava attorno alla macchina con una curiosità ansiosa; ma quando la macchina si metteva in moto, un timore, un rispetto lo faceva rinculare lontano. E nello stesso tempo egli invidiava Peppino, il ragazzo, e Ciccillo un altro ragazzo, che sedevano in cima ai due piani inclinati, sicuri, tranquilli, facendo scivolare i fogli di carta dentro la macchina, con un atto disinvolto, di operai avvezzi. Non tremavano essi, lassù, mentre la macchina si moveva tutta, con un rombo forte, sotto di loro; essi parevano due domatori della macchina, due trionfatori, due piccoli re. Riccardo li invidiava.

A Riccardo la macchina pareva una cosa grande e misteriosa. Quando si trovava innanzi a essa, vedendola inghiottire di mano in mano i fogli bianchi e subito buttarli fuori stampati, con gli articoli, con le notizie, coi telegrammi, gli sembrava che essa sola facesse il giornale: il fanciullo dimenticava il lavorío faticoso di suo padre, di Dolfin, degli altri redattori, a cui assisteva ogni giorno, dimenticava il lavorío quotidiano, paziente dei tipografi che componevano il giornale linea per linea. Per Riccardo la macchina pensava e sapeva, scriveva e correggeva, componeva, faceva tutto, sapeva far tutto: quell'organismo ignoto, ma forte e potente, creava ogni giorno il giornale, lo cacciava dalle sue viscere nere, con un movimento preciso e inflessibile di generazione. Tutto l'agitarsi minuscolo di tante persone, scrittori, fattorini, compositori, stampatori, correttori spariva dinanzi a quel largo movimento di creazione della macchina, stridente, rombante, mugolante. Riccardo, assorbito, contemplava il grande congegno, tenendo la bocca un po' schiusa, le manine inerti lungo le gambe: invidiava Peppino e Ciccillo, i due ragazzi della macchina, ma non avrebbe mai osato di salire lassù. Ogni tanto, quando parlava con suo padre, gli diceva:

‟La macchina, papà....”

E diceva queste tre sole parole lentamente, con un accento profondo, staccando le sillabe, dando alla frase come un senso sacro. Una notte, il padre lo aveva condotto in tipografia, dopo il teatro: Paolo Joanna aveva bisogno di dire qualche cosa al proto: i tipografi della notte lavoravano, ma la macchina stava ferma: sopra certe ruote erano buttati degli strofinacci unti di olio, una gran tela nera quasi quasi la ricopriva.... ed essa s'immergeva nella penombra.

‟Che fa la macchina?” aveva chiesto sottovoce il bambino.

‟Dorme,” aveva risposto distrattamente il padre.

‟La macchina dorme,” ripeteva pian piano Riccardo, come se non volesse svegliarla, ‟la macchina si riposa.”

Gli pareva quasi una gran cosa umana, come un congegno che avesse l'anima. A un tratto il gas intorno alla macchina fu alzato, la tela fu portata via, i cenci unti furono buttati in un cantuccio e con un rombo prima sordo, poi fragoroso la macchina, svegliata, viva, cominciò a buttar fuori le copie del giornale La Patria che usciva al mattino. Riccardo era rimasto compreso di meraviglia; e da quella notte, ogni tanto, pensava fra sè:

— La macchina non riposa mai. —

Sulla porta del suo camerotto, ancora in maniche di camicia, con un mozzicone nero di sigaro spento fra le labbra, Paolo Joanna aspettava. Gli toccava restare in tipografia sino a che la tiratura fosse finita: nel caso che venisse qualche notizia importante da Torino o da Napoli stesso, bisognava inserirla, fare una seconda edizione. Aveva sul volto l'ansietà, l'impazienza di quella ultima ora: era quell'esaltamento finale di un lungo lavoro della mente, quella piccola febbre che soffre il giornalista al termine della sua fatica quotidiana, l'occhio un po' stralunato, le labbra un po' secche, le mani un po' calde, tutti i nervi tesi.

‟Riccardo, levati di là,” disse da lontano Paolo.

‟Perchè, papà?”

‟Perchè ci fa caldo e ti puoi far male.”

‟Non fa caldo, papà, e non mi posso far male.”

‟Riccardo, non discutere, levati di là.”

Il figliuolo guardò bene il padre e gli scorse la brutta faccia nervosa delle ore cattive: non rispose più nulla e lentamente girò intorno alla grande macchina che egli amava, passò attraverso le casse della composizione e si andò a sedere sopra una panchetta di legno, presso la porta a vetri della tipografia: ivi un po' di fresco veniva. Poi, attratto dallo spettacolo di fuori, Riccardo accostò la faccia ai vetri. Fuori la porta, a tre passi di distanza, una trentina di monelli stazionavano, aspettando: vi erano dei bimbi di sei anni e degli adolescenti di quattordici: due o tre vestiti decentemente, tutti gli altri laceri, cenciosi: alcuni scalzi: qualcuno con un cappelletto sfondato, qualcuno con un berretto stracciato, gli altri col capo nudo. Si affollavano innanzi alla tipografia, urtandosi, spingendosi per farsi avanti, buttandosi in terra, dandosi degli scappellotti, piangendo, ridendo, bestemmiando: ma Capozzi, un giovanottone, stava piantato innanzi alla tipografia e non li lasciava entrare. Capozzi era il loro capo, il loro comandante, il loro signore: Capozzi era il loro ingaggiatore, era quello che distribuiva i giornali, era il tiranno temuto e venerato. Stava sulla porta, col cappello abbassato sopra un orecchio, con la mazza d'India del guappo, con un'aria di autorità che pochi ribelli osavano affrontare. E come litigavano fra loro, si acchiappavano pel collo, egli con una parola, con un rovescio di mano li divideva.

‟O moccosiello, sta fermo, se no ti mando via senza giornali!”

Bellu guaglione, figlio di buon cristiano, lo vuoi un calcio?”

‟Che credi che non ti vedo, Sciurillo? Adesso ti pigli quattro schiaffi!”

Caporaluccio, questa sera ti metto a mezza razione!”

In tutto quel chiasso di monelli impazienti che solo la voce di Capozzi arrivava ogni tanto a sedare, fra gli strilli, le canzoncine e i fischi, solo due di essi stavan quieti, appoggiati al muro. Erano un maschio e una femmina: fra gli otto e i dieci anni, fratello e sorella, si rassomigliavano tanto che parevano gemelli. La femmina, la sorellina, aveva un visetto scarno, dagli occhi vivissimi, con un treccione di capelli castagni mezzo disfatto sul collo: e sul vestitino di percallo scuro un grembiule di merinos, un fazzolettino di cotone al collo. Così il fratelluccio, anch'esso magro e pallidino, con l'aria un po' femminile.

Senza parlare, mangiavano del pane e delle prugne gialline, piccoline, quelle che si vendono a sei un soldo: le prugne stavano nel grembiule della sorellina che le passava al fratello, invitandolo con gli occhi. Quando le prugne furono finite, la sorellina scosse il grembiule: il fratelluccio mangiava ancora il suo pane, guardandolo dopo ogni morso che vi dava. Ma allora i clamori cessarono: la distribuzione cominciava. Capozzi, assistito da un suo aiutante, Salvatore Decrescenzo, detto Totore, dava a chi cento, a chi cinquanta, a chi duecento copie di giornali. Le mani si tendevano, i monelli si urtavano: ma Capozzi era flemmatico, non perdeva la testa, faceva l'appello come pei soldati.

‟Dove sta Gennarino Mennella?”

‟Sto qua.”

‟Sebastiano Loiodice?”

‟Eccomi, don Giovannì.”

‟Margherita Santaniello?”

La ragazzina era lì, con le mani tese.

‟Cento a te, cento a tuo fratello.”

Ora, come la distribuzione finiva, i monelli battevano i piedi per l'impazienza. Tenevano il fascio dei giornali per un capo, spiegati innanzi come un tovagliolo, e stavano già quasi col corpo proteso, per fuggire. Ma Capozzi, quasi scherzando con la loro furia, li tratteneva ancora. Essi aspettavano da lui la parola d'ordine, la frase che dovevano gridare, per vendere meglio i giornali. E solennemente, in napoletano, Capozzi la pronunziò:

I' mazzate d'i' Cammere.

E con un cenno olimpico della sua canna d'India licenziò i monelli. Fu una fuga come la partenza di una freccia: fuga muta, ansiosa. A venti passi una vocina sottile di fanciulla diede il primo grido:

I' mazzate d'i' Cammere, vulit'u Temp!

E il fratellino subito la ripetette, gli altri monelli la ripetettero su tutti i toni, ogni momento, correndo, correndo, gridando, diffondendosi dappertutto, pei vicoli e per le grandi strade, ai cantoni e sulle piazze, dovunque arrivava il galoppo di quei monelli, dovunque si ripercoteva l'eco di quelle vocette stridule o sonore.

..........

Riccardo si era annodato dietro la nuca, con molta disinvoltura, il tovagliolo bianco, per non sporcare il suo bel vestito nuovo. Seduto di fronte a suo padre, a una tavola della elegante trattoria Caffè di Europa, il piccolino non dimostrava nessuna impazienza, aspettava il pranzo con la serietà di un grande che non dà in escandescenze in pubblico.

‟Hai fame?” domandò il padre, offrendogli le sardine di Nantes dell'antipasto.

‟Abbastanza, ma non voglio sardine,” rispose Riccardo, con la cera disillusa del vecchio frequentatore di trattorie.

E aspettava, con un gran contegno indifferente, guardando ora un grasso signore, un agente di cambio che mangiava dei vermicelli al pomodoro, ora una donnina dal vestito di merletto nero, dal largo cappello piumato di nero, dagli orecchini di brillanti simili a rosette, che tutta sola, a un tavolino, sorbiva del brodo, agitando le mani bianche cariche di gemme. Riccardo non parlava, e suo padre era felice di non parlare. Una grande stanchezza si delineava sulla faccia di Paolo Joanna. Paolo in quell'ora, sotto la luce cruda del gas, innanzi al grande candore della tovaglia, al luccichío dei bicchieri, allo scintillío delle posate, pareva molto più vecchio. La tensione dei nervi era calmata, tutti i muscoli della faccia si erano rilasciati in un riposo: egli era pallido, quasi scialbo, con l'occhio spento e il labbro inerte. Era quello il grande accasciamento serotino, l'abbattimento di tutte le forze spirituali che pare il principio quotidiano dell'ebetismo, quello stato di silenzio, di aridità, di nichilismo che fa simile, ogni sera, il giornalista al contadino che si siede alla mensa dopo aver zappato, tutto il giorno, sotto il sole o sotto la pioggia: come il contadino ha in quell'ora il solo, quasi animale desiderio del cibo, il desiderio della sua copiosa minestra di patate o di barbabietola, così il giornalista, così Paolo Joanna, in quell'ora è fatto indifferente ad ogni altro desiderio che non sia quello del pranzo. In quell'ora la fantasia di Paolo Joanna, tolta al continuo rimuginare di nuove e vecchie forme giornalistiche, tolta a quel fittizio esaltamento che fa sembrare fresche e belle idee, immagini da lungo tempo classificate; smontata, come usa dire nel vocabolario giornalistico, questa fantasia secca e inerte come un sughero, non sapeva sognare altro che le voluttà del cibo. Paolo Joanna e suo figlio Riccardo in questo si eran trovati d'accordo nel volere il pranzo a prezzo fisso, a cinque franchi, incluso il vino. Il pranzo da ordinarsi dà minori voluttà agli stomachi corrotti, non vi è la varietà, non vi è il piacere acuto della sorpresa: il pranzo a prezzo fisso, composto di cinque o sei pietanzine, variato, ignoto, soddisfa, solletica, è tutto un lungo piacere dell'immaginazione e dello stomaco.

‟Chissà che ci daranno!” aveva detto Paolo Joanna, divorando, uno ad uno, i ravanelli rossi e bianchi dell'antipasto.

‟Chissà,” aveva risposto Riccardo, posando delicatamente le dita sull'orlo della tavola, per scherzare con la forchetta.

‟Il brodo, di sicuro,” aveva proseguito a dire, macchinalmente, il padre.

‟Il brodo, naturalmente.”

‟Sì: ma che ci sarà dentro?”

E Paolo Joanna levò gli occhi al soffitto in aria di grave interrogazione, come se rivolgesse una domanda al cielo. Un sottile odore di costoletta alla milanese, nuotante nel burro, veniva a tratti dalla cucina: l'agente di cambio spremeva un mezzo limone sopra una triglia fritta, la donnina versava della salsa di maionese sopra un pezzetto di ragusta.

‟Forse ci saranno le costolette alla Villeroy,” mormorò il bambino.

‟Forse,” rispose il padre.

Intanto il cameriere, Peppino, con un'aria di falso signore nella sua marsina, con una disinvoltura di giovanotto che sa vivere, aveva versato nelle scodelle la zuppa per Paolo e per Riccardo. Una glutine bionda si agitava nel brodo: padre e figlio la sorbivano in silenzio, tutti raccolti, con una devozione di gente pia.

‟Sarà tapioca,” disse, dopo un poco, Paolo.

‟No: è sagou,” rispose Riccardo.

‟A me sembra tapioca.”

‟Ti assicuro, papà: è sagou, io lo so, ce l'hanno dato un'altra volta.”

Riccardo, a furia di girare per le trattorie, aveva imparata tutta la convenzionale nomenclatura delle pietanze: egli si rammentava tutti quei nomi benissimo, e quando gli presentavano una pietanza sconosciuta, egli chiamava il cameriere e se ne faceva dire il nome. Per lui non avevano più segreti il bue alla finanziera, le scaloppine al Madera, i vol-au-vents, la zuppa alla Julienne e la Charlotte di frutti. Quelle venti pietanze che si dànno nelle trattorie, che cambiano salsa, cambiano nome, ma sono sempre le medesime; quei venti intrugli fatti di carne pesta, di grosso burro milanese, di mollica di pane, di salse dolci o piccanti, di pesce passato, Riccardo li conosceva bene, e il suo piccolo palato di fanciullo viziato li adorava. Era un buon fanciullo che finiva per rassegnarsi a tutto: e quando dovevano pranzare a casa, per economia, egli fingeva di trovar buono il fitto brodo grasso che faceva Marianna Rosanía, lo stufatino nero per essere stato troppo soffritto, o i maccheroni carichi di un sugo pieno di pepe. Ma quel pranzo casalingo, nella loro stanza, con le forchette appannate e i piatti incrinati, gli sembrava una miseria suprema: gli venivano le lagrime agli occhi e le buttava indietro coi bocconi.

‟Almeno sapete quello che mangiate,” borbottava Marianna, la buona donna che vedeva scontenti il padre e il figliuolo.

‟È vero, è vero,” diceva Paolo, chinando la testa a quella voce saggia e ammonitrice.

Ma erano tristi, Riccardo come Paolo, tristi di non essere in quella stanza della trattoria, dalle pareti stuccate di bianco, dagli specchi incorniciati di oro, dai divani di velluto rosso, dal caminetto di marmo bigio; tristi di non avere quella bella e dura luce del gas, quel mazzo di fiori nel vaso di porcellana, per lo più formato da dalie multicolori; tristi di non esser serviti da Peppino, il cameriere in marsina, dalla camicia sgargiante e dalle guance azzurrognole, rase di fresco; tristi appunto perchè sapevano quello che mangiavano, la carne di vaccina, dura e tigliosa, il formaggio di Cotrone, bianco come la calce e piccantissimo.

‟La carne della trattoria è morbida, perchè è fradicia,” borbottava ancora Marianna, che voleva convertire quel padre e quel figliuolo impenitenti. ‟È tutto un pasticcio.”

Ma giusto quei pasticci piacevano ai due Joanna, quelle falsità, quel baccalà che fingeva di essere storione, quelle uova di tonno che fingevano di essere caviale, quelle creste di gallina che parevano funghi freschi, quelle costolette dall'osso posticcio. Quella incertezza, quel dubbio, quell'inganno li divertiva, li lusingava.

‟Che pesce è questo?” domandò Paolo, tirando la sua parte da un grosso pesce bianchissimo.

‟Non so, papà,” rispose il figliuolo, mettendo sul pesce, invece della salsa, una quantità di olio e di limone.

E quando Peppino venne a portar loro il pezzo grosso, sette od otto ostie sottili di carne rosea arrostita, con un contorno multicolore e artistico di carote, pastinache, cocozzelli, fagioletti freschi e fagiolini ancora verdi, tutti commossi e soddisfatti innanzi a questa tavolozza ingegnosa del cuoco, non chiesero neppure al cameriere che fosse il pesce. Di nuovo, mangiavano in silenzio, Riccardo rosicchiando i suoi grissini, Paolo divorando la carne che doveva rinnovare le sue forze cerebrali e tenerlo pronto al lavoro dell'indomani: sulla sua faccia una novella serenità andava discacciando la stanchezza, l'accasciamento: il viso scialbo si coloriva leggermente sotto l'influenza riparatrice del cibo e del vino. Paolo cominciò a guardare intorno con interesse, con benevolenza, come l'uomo soddisfatto che prende in considerazione il mondo esterno e comincia a non trovarlo molto cattivo. In questo il signor cavaliere, il proprietario del Tempo, entrò e si diresse verso l'agente di cambio che si alzò subito, premurosamente, e con cui intavolò un fitto colloquio, a bassa voce. Il signor cavaliere non aveva più quella sua aria di bonzo, di grasso idolo indifferente dall'occhio bigio e falso: invece pareva un piccoletto grasso e bonario, che ha ben mangiato, che è felice e che farebbe il possibile per la felicità altrui. Era in soprabito chiuso e si asciugava il sudore della fronte con un fazzoletto di battista, tutto profumato di verbena, un profumo dolcissimo: un brillante scintillava alla mano pienotta e bianca, la mano del capitalista contento e quieto. Riccardo quando aveva visto entrare il signor cavaliere, era rimasto interdetto, come confuso, e aveva levato gli occhi in faccia a suo padre, come interrogandolo: ma Paolo aveva conservato la sua serenità e la sua disinvoltura, aveva fatto un cenno con gli occhi al suo bimbo, quasi per rassicurarlo, come per dirgli: continua a pranzare e non curarti d'altro. Il signor cavaliere ascoltava i vivi discorsi dell'agente di cambio, tenendo chini gli occhi, facendo girare e rigirare il suo anello intorno al suo dito mignolo, e sorrideva. Completamente rassicurato sul conto del suo spauracchio, Riccardo gustava lentamente i piselli del piatto di mezzo, mentre Paolo si distendeva un po' sulla sua sedia, stirando la sottoveste bianca, passandosi due dita nel goletto per allargarlo. Il signor cavaliere si divise dall'agente di cambio, si strinsero la mano, guardandosi, come se convenissero di un patto: il piccoletto bonario si fermò amabilmente, ma senza sedersi, presso il tavolino dove la donnina vestita di nero e ingioiellata sbucciava lentamente una pesca.

‟Come va?”

‟Va bene,” rispose quella, con una voce un po' roca, versandosi dell'acqua di Seltz nel vino di Bordeaux.

‟Non si parte?”

‟Presto, per Livorno: venite anche voi?”

‟Oh io!” fece l'altro, crollando le spalle, con un cenno indefinibile.

La lasciò, si accostò al tavolino di Joanna, si sedette, bonario, familiare.

‟Buona sera, Joanna. Ho visto il giornale, il capocronaca mi va, è molto forte, così lo volevo, il prefetto sarà giallo di bile.”

‟Domani lo faremo diventar verde,” rispose Joanna, ringalluzzendosi, sorridendo.

‟Ecco, giusto quello che voleva dirvi. Bisogna che v'informiate precisamente se hanno intenzione di dare quei tali appalti, di cui vi parlai, a trattative private. Sarebbe uno scandalo.”

‟M'informerò, e se è vero....”

‟Anche se non è vero, bisogna fare un articolo sul sospetto, sul caso probabile, m'intendete?”

‟Ho inteso, vedrete domani,” disse Paolo, con una magnifica sicurezza.

‟E questo bel bambino,” soggiunse il signor cavaliere, carezzando i riccioli di Riccardo, ‟diventerà anch'esso un giornalista. Quand'è che farai il tuo primo articolo, piccolino?”

‟Presto, signor cavaliere,” rispose prontamente Riccardo, imitando la sicurezza di suo padre.

‟Ci conto dunque,” disse il proprietario del giornale, ridendo e andandosene.

Il padre e il figliuolo si guardarono con gli occhi lucenti.

‟Non è mica cattivo il signor cavaliere,” osservò Riccardo, sorbendo il suo punch alla romana, un sorbetto biancastro, nel bicchiere, che spezzava in due il pranzo ed era lo chic, l'orgoglio di quel pranzo a prezzo fisso.

‟Ma che! è bonissimo, eppoi è un uomo che sa apprezzare, capisci. Questo vale molto, nel lavoro.”

‟Ha molti quattrini, papà?”

‟Moltissimi: è un riccone,” rispose Paolo Joanna, tutto vanaglorioso, come fosse lui a esser così ricco.

‟Chi glieli ha dati?”

‟Il Tempo, perbacco! Avere un giornale è una gran cosa, figlio mio: ci si arricchisce come nulla.”

E a malgrado la precocità del bambino, a malgrado la quotidiana, dolorosa esperienza del padre, nessuno dei due pensò o disse della propria decente miseria, di quello stento giornaliero a cui non vi era via di scampo. Padre e figlio, verso la fine di quel pranzo, vedevano la vita gradevolmente: era con un contegno di piccolo principe, di fanciulletto ricco e vizioso che Riccardo rifiutava l'insalata russa che accompagnava due quaglie arrosto, le ultime quaglie della stagione: era una smorfia di piccolo principe scontento quella di Riccardo al cospetto della bavarese gialla e tremolante, un dolce che non gli piaceva. Peppino ne era umiliato. Padre e figlio, guardandosi con una vaga espressione di beatitudine negli occhi, con un lento sorriso di soddisfazione sulle labbra, dopo aver ben pranzato, sembravano ed erano due persone soddisfatte dell'esistenza. Un amico entrò, un uomo dalla prolissa barba nera, vestito meschinamente: capitava sempre al Caffè di Europa all'ora del pranzo, ma avendo già pranzato in qualche oscura osteria da studenti, nei vicoli di Toledo, e non prendeva nulla, dava del tu a tutti i camerieri, come un frequentatore assiduo: usciva poi di là, con qualcuno che vi trovava, come se avessero pranzato insieme, ridendo e chiacchierando ad alta voce. Così la gente che lo vedeva, supponeva che egli fosse un gaudente della terra: e lui aveva occasione di poter dire, discorrendo, altrove, con una certa bonomia di signore: iersera, pranzando al Caffè di Europa....

‟Ciao, Joanna.”

‟Ciao, caro: pranzi?”

‟No, ho pranzato, figurati, un invito noioso, una specie di banchetto.”

‟Prendi un caffè, allora?”

‟Preferisco un cognac, mi hanno dato della chartreuse orribile in questo banchetto. Senti, ero venuto per raccomandarti quel libro di mio cognato, mi hai promesso un articolo da tanto tempo.”

‟Lo farò, lo farò.”

‟Sai, mio cognato ci tiene, ci tiene assai. Voi altri giornalisti, quanto vi fate pregare! Debbo diventare giornalista anche io; che vuoi, è una carriera piena di soddisfazione; io t'invidio, Joanna.”

‟Peuh! Peuh! non c'è male, ha i suoi vantaggi....”

‟Altro che vantaggi. Voi potete tutto, voi create tutto: la fama e il disonore, la fortuna politica e la fortuna finanziaria, voi lanciate una prima donna, una commedia, una nuova bibita, una nuova invenzione, voi fate cadere il Ministero,” e si buttò in gola il bicchierino di cognac, dopo avere spifferato la convenzionale tiritera che tutti gli sciocchi ripetono.

‟Come si fa a diventar giornalisti?” soggiunse poi.

‟Bisogna nascerci,” disse, con una certa importanza, Paolo.

‟Io lascerò lo studio del mio avvocato, egli assorbisce tutto, non mi dà un affare: io mi slancerò nella stampa, mi ci sento la vocazione. Intanto fammi l'articolo pel cognato.”

‟Te lo farò.”

‟Te lo dimentichi? Eccolo, lo dirò al bambino, a questo bel bambino. Ricordateglielo voi, caruccio mio, che egli deve fare un articolo al cav. Leutari, sul libro La nave nel diritto internazionale.”

‟Non dubitate, signore, glielo ricorderò.”

L'avvocato senza cause andò via, passando dalla scaletta interna, per farsi vedere agli avventori delle sale terrene. Paolo e Riccardo avevano deciso di andar a prendere il caffè al Gran Caffè, dieci passi più innanzi, dirimpetto al palazzo reale; e Paolo pagò il conto, dieci lire e ottanta centesimi, cinquanta centesimi per Peppino che era un cameriere troppo signore per lasciargli meno, e trenta pel cognac. A quell'ora flutti di gente attraversavano Piazza San Ferdinando, salivano e scendevano per Toledo: Paolo teneva per mano Riccardo. Un giovane bruno, con gli occhiali, dal profilo stranamente somigliante a un gallinaccio, passando, strinse la mano a Joanna e gli disse:

‟Bravo, mi congratulo tanto pel vostro capocronaca.”

Nelle sale interne del Gran Caffè faceva troppo caldo, padre e figlio sedettero fuori, sulla strada, dove si allungava una fila di tavolini, circondati da persone che bevevano il caffè o sorbivano un gelato.

‟Vuoi il gelato, Riccardo?”

‟No, papà, voglio il caffè.”

‟Portami anche dei trabucos,” ordinò Paolo Joanna al cameriere.

Sotto un lampione, l'uno accanto all'altra, i due piccoli venditori di giornali stavano fermi, tenendo il loro fascio di giornali. E la sorellina dava il grido:

I' mazzate d'i' Cammere, vulit'u Temp!

E il fratelluccio, con una voce più flebile, riprendeva:

I' mazzate d'i' Cammere, vulit'u Temp!

‟Papà, dimmi, che è questa cosa che gridano quei due piccolini?”

‟Nulla, Riccardo: è per vendere il giornale.”

‟Ma non ci è, nel giornale?”

‟No, Riccardo.”

‟Allora perchè gridano così?”

‟Te l'ho detto, per vendere il giornale.”

‟E quelli che non ce la trovano, che dicono?”

‟Niente: che vuoi che dicano?”

‟Ah!” fece soltanto il bimbo, come quando gli dicevano qualche cosa che lo sbalordiva.

Ma un signore vecchiotto, dai mustacchi bianchi, dalla carnagione rosea, dagli occhi vivi salutò Joanna e venne a sedersi al suo tavolino.

‟Posso offrirvi qualche cosa, signor commendatore?...” domandò, tutto premuroso, Joanna.

‟Grazie, grazie.”

‟Un buon trabucos?”

‟Questo sì: ma ditemi, che vi ha fatto quel povero prefetto?” e sorrideva argutamente.

‟A me? niente.”

‟E allora? Come è che lo tormentate tanto?”

‟Proprio si tortura assai?”

‟Sicuro: ogni volta che apre il Tempo si fa livido: questa sera avrà la febbre, io credo.”

‟Credete?” e rideva d'orgoglio.

‟Infine smetterete?”

‟No, no, non smetto sino a che il governo non lo traslochi.”

‟Mi pare difficile: il ministro dell'interno non si occupa dei giornali.”

‟E fa male, commendatore. Il prefetto sarà traslocato, vedrete.”

‟Si consolerà facilmente: ha tanti quattrini!” soggiunse filosoficamente il commendatore. ‟Venite al Sannazaro questa sera? È la serata dell'Amalia: ci andiamo tutti, un momento. Ma forse questo bel ragazzo avrà sonno?” e gli carezzava una guancia.

‟Io non ho mai sonno, o signore, domandate a papà,” rispose, tutto baldanzoso, il piccino.

‟Oh, Riccardo è un omino,” soggiunse il padre.

Il commendatore si allontanò, dopo aver presa una gardenia da una fioraia, una bella fioraia, dalla fisonomia corretta e fredda, vestita di broccato nero, con due rose bianche nei capelli rialzati e due stelloni di brillanti alle orecchie. Ella, dopo aver sorriso al commendatore, fece il giro dei tavolini, arrivò a quello di Paolo Joanna:

‟La vuole, una rosa?” chiese ella con la sua voce tranquilla e armoniosa.

‟Dammela pure.”

‟A questo bel bambino gli darò dei gelsomini.”

E diresse al bimbo un affettuoso sorriso che agli uomini non dirigeva mai: il bimbo la contemplava, estatico, per quel volto purissimo, di un biancore delicato, per quella nobiltà dello sguardo. Paolo le dette una lira: ella la gittò graziosamente in fondo al paniere, senza guardarla, e si allontanò col suo passo lieve lieve. Riccardo stringeva il mazzolino dei gelsomini. Paolo Joanna pagava il conto al cameriere, una lira di sigari, settanta centesimi fra caffè e mancia.

‟Questa fioraia mi pare che somigli alla mamma,” mormorò il bambino, riattaccandosi alla mano del padre per andare al teatro Sannazaro.

‟No, no, Riccardo.”

‟Sì, quando ride, papà.”

‟No, la mamma era tutta un'altra cosa.”

‟Sì, è vero, era tutta un'altra cosa: ma quando rideva, papà... non rideva sempre la mamma. Perchè, papà?”

‟Era seria,” disse brevemente il padre.

A un tratto, in mezzo alla folla che ingombrava la Via di Chiaia, fra tante ricche botteghe, fra tanti lumi, fra il chiasso serotino estivo napoletano, il piccolino pareva preso da una grande malinconia. Camminava piano, si faceva trascinare, guardava svogliato, come distratto, le vetrine scintillanti.

‟Vorrei avere la mamma, papà: la mamma mi voleva bene,” diceva, sottovoce, in mezzo a quella folla, il bambino triste.

‟E io non ti voglio bene?”

‟Sì, sì, ma vorrei avere la mamma.”

‟Ma che hai, nino mio?”

‟A casa mi secco, solo: Marianna è noiosa e la padrona di casa è brutta.”

‟Ma ti maltrattano forse?”

‟No, no, ma mi secco, vedi. Se ci fosse la mamma, resterei. La mamma non ci è, non mi lasciare più solo solo, papà.”

‟Ti porterò sempre con me, Riccardo: non dire più queste cose.”

‟Portami sempre con te, papà: non mi lasciare mai.”

Nella folla il padre si chinò per baciare il suo bambino. Erano giunti al Ponte di Chiaia, al fioraio che sta sotto l'arco.

‟Dovremmo portare dei fiori all'Amalia, Riccardo.”

‟Sì, sì, portiamoglieli, ella mi dà sempre i confetti.”

‟Glieli darai tu, Riccardo: un mazzo ci darebbe troppo fastidio, compreremo dei fiori sciolti.”

Ma i fiori sciolti, in quella calda stagione che bruciava tutti i fiori, costavano molto. Per due gardenie, per quattro o cinque rose bianche, per dei bastoncelli carichi di fiammanti gerani, con un po' di cetronella e qualche ramoscello di vainiglia già quasi appassito, il fioraio voleva sei lire. Paolo Joanna discusse lungamente sul prezzo col fioraio: voleva lasciare i fiori e andarsene: ma Riccardo li aveva già presi e li teneva stretti; si dovette venire a patti; il fioraio strillando li lasciò per quattro lire. Riccardo si avviò in trionfo verso il teatro Sannazaro:

‟L'Amalia sarà contenta: i fiori sono molto belli,” disse quasi a sè stesso, a modo di consolazione, Paolo.

Innanzi alla porta del teatro, dei giovanotti stazionavano. Uno di essi si mise a parlare con Joanna, mentre Riccardo aspettava, sulla soglia, impaziente.

‟Vi è molta gente?”

‟Pieno zeppo: l'Amalia fa una bellissima serata. Io non avevo biglietto, sono stato in piedi, ma ora ne ho abbastanza.”

‟Vieni dunque,” diceva Riccardo.

‟Ci avete i biglietti, voi, Joanna?”

‟Noi andiamo in palcoscenico,” disse Paolo, con un gesto di padronanza.

Infatti si avviarono per un piccolo corridoio laterale, sino a una porta pesantemente foderata di panno.

‟Stampa,” disse Paolo, al custode.

Camminavano per un passaggio stretto, fra il muro e le quinte: Riccardo in punta di piedi, temendo di far rumore. Il marito dell'Amalia in parrucca bianca, marsina di broccato e spadino, con un pizzo finto attaccato al mento, appena li aveva visti, aveva sorriso loro, ma posando un dito sulle labbra: l'Amalia era in iscena, vestita da uomo, recitando nelle Prime armi di Richelieu: ella faceva andare in estasi il pubblico, il marito dalle quinte ne sorvegliava il successo, gelosamente. Come un'eco lontana, fioca, giungevano gli applausi. Il marito dell'Amalia, lusingato, crollava il capo e sorrideva: oramai egli non aveva amor proprio che per lei.

‟Milleottocento lire,” diss'egli, senz'altro, a Paolo Joanna.

‟Perbacco!” esclamò l'altro, meravigliato.

‟Dodici mazzi di fiori.”

‟Belli?”

‟Peuh!”

‟Regali?”

‟Un ventaglio e un anello: belli.”

‟Per la stagione, ti devi contentare.”

Parlavano pianissimo, come un soffio: erano risaliti verso il fondo, dietro la scena, in una penombra vasta, piena di cassoni, di tavoloni, dove delle ombre si agitavano vagamente, senza far rumore. Riccardo si teneva stretto a suo padre. Sempre il palcoscenico gli faceva un certo effetto, di sgomento e di curiosità: quel luogo strano, che non rassomigliava nè a una piazza, nè a una trattoria, nè a una chiesa, nè a una casa, che non rassomigliava a nulla, quel parlottío basso e quelle voci lontane che venivano dal palcoscenico, quei comici bizzarramente camuffati, con le guance dipinte, le labbra dipinte, gli occhi dipinti, che si movevano in quella penombra, con la faccia stanca o indifferente, aspettando il loro turno, colpivano la immaginazione del fanciullo.

‟Qui Riccardo ha portato i suoi fiori,” mormorò Paolo.

‟Andiamo ad aspettare l'Amalia in camerino: ora finisce l'atto,” rispose il marito.

Nel camerino il gas fiammeggiava, il caldo era soffocante: le sedie erano coperte di vestiti, di mantelli, di asciugamani: una cagnetta dormiva in un angolo, arrotolata sopra una gonnella di raso rosso: le scarpette erano sbandate, una da una parte, l'altra dall'altra: un paio di calze di seta pendeva dalla spalliera di una sedia: la cameriera, con un paio di occhi imbambolati dal sonno, inginocchiata dinanzi alla tradizionale cesta, cavava il vestito femminile di una commedia in un atto: Lei, voi, tu, di Cagna. Riccardo restava immobile presso la toilette, non osando sedersi, aspirando quell'aria muschiata, guardando i mazzi di fiori sparsi dappertutto, per terra, sopra una mensoletta, alla porta del camerino. Uno stupore teneva il piccolino. Paolo Joanna e il marito dell'Amalia chiacchieravano fra loro. Ma un rumore lontano s'intese: vestita da Richelieu adolescente, con un'aria da birichino, l'Amalia comparve, portando dei fiori, tutta riscaldata in volto, tutta nervosa.

‟Ecco,” disse semplicemente al marito, dandogli i fiori.

‟Quindici,” fece costui.

E subito, con la sveltezza abituale delle attrici, si mise a disfare la sua acconciatura, con le mani un po' tremanti.

‟Ecco dei fiori, signora Amalia,” disse fievolmente il piccino.

‟Oh caro, caruccio, quanto sei gentile, ti voglio dare un bel bacio.”

La bella faccia tutta dipinta di roseo, con gli occhi sottolineati di bistro e le labbra come sanguinanti, si chinò sul bimbo e lo baciò: egli restò tutto interdetto.

‟Se continuate così, signora Amalia, mio figlio prenderà una terribile passione per voi,” e rideva.

‟Lo spero bene: ma Riccardo l'ha digià. Non è vero, piccolo, che mi vuoi tanto bene?”

‟Assai, assai,” disse il piccolino, seriamente.

‟Allora padre e figlio,” disse Paolo. ‟Ti esorto a sorvegliare mio figlio, Giovanni, più di me.”

‟Ci baderò,” rispose il marito, continuando lo scherzo.

E andò a far mettere i fiori avuti in dono dalla moglie, nel salotto moderno che è la scena del Lei, voi, tu. Senza far cerimonie, Amalia era passata dietro un paravento a vestirsi e un po' parlava sottovoce con la cameriera, un po' discorreva, ridendo, ringraziando, salutando le persone che venivano nel camerino. Scostando una mantiglia di merletti, Riccardo si era seduto sull'angolo di una sedia e teneva i piedi tirati indietro per non disturbare la cagnetta che continuava a dormire, in quell'aria calda, odorosa di muschio. L'Amalia uscì di dietro al paravento, già vestita per la commedia, tutta seducente in un vestito scintillante di perline, scollato in quadrato sul petto. Stringeva la mano a questo, a quello, giornalisti, critici, vecchi buontemponi, frequentatori di palcoscenico, che le parlavano all'orecchio, o sottovoce, ed ella si arretrava, ridendo, tutt'amabile, tutta nervosa, esaltata dai complimenti, dai fiori, dagli applausi.

‟Voglio fare una dichiarazione d'amore a Riccardo,” esclamò, a un tratto, l'attrice.

Prese i gerani rossi e se ne acconciò un gruppetto fra i neri capelli.

‟Sto bene così?” domandò al bambino.

Gli astanti ridevano: anche Paolo Joanna. Il bambino crollò il capo, per dire di sì, ma non parlò. Per l'odore, forse, pel caldo di quel camerino, per l'ora avanzata, una crescente stupefazione invadeva il cervello del bambino: il pallore si allargava sul suo visino. Si teneva sul suo angolo di sedia, come stordito, con un piccolo sorriso sulle labbra, un sorriso vago di persona sofferente.

‟Poi verrai a trovarmi, nevvero, Riccardo? Ti darò i confetti!”

Scappò fuori, perchè la musica era finita e l'atto cominciava: gli ammiratori, gli amici si dispersero per quella penombra del palcoscenico: alcuni, più pazienti, si sedettero su certi cassoni, parlando a bassa voce, aspettando l'Amalia, per accompagnarla a casa. Paolo Joanna aveva attaccato una discussione politica con un suo collega della stampa, collega e avversario, un Calabrese barbuto e dottrinario, che parlava con un forte accento di Calabria, e pieno di entusiasmo per la politica si irritava dello scetticismo di Paolo Joanna.

‟Andiamo, Riccardo.”

Tutti e tre si avviarono, Riccardo piccolo piccolo, in mezzo ai due uomini: era quasi mezzanotte. Nella strada la discussione si riscaldò. I due uomini cercavano di convincersi l'un l'altro, si fermavano, gesticolavano, si afferravano il bottone del soprabito, tutti infatuati. Con una sommissione infantile, mentre il sonno gli piombava, pesante, sulle palpebre, Riccardo si fermava anch'esso: e fermandosi, si addormentava leggermente, in piedi, svegliandosi improvvisamente, quando i due uomini si avviavano di nuovo. In quel dormiveglia, egli non capiva nulla di quello che dicevano suo padre e il Calabrese, egli non sentiva che un fastidioso ronzío nella sua piccola testa di creatura stanca: egli non capiva neppure più in che strada si trovassero, ma la via per arrivare a casa gli sembrava lunghissima, eterna. Suo padre, infervorato nella discussione, nottambulo del resto, non si accorgeva del tormento del suo bambino: e il piccolino non si lagnava, oppresso dal sonno, tenendosi lungo il muro per non vacillare. Le sue gambine lo portavano a mala pena, il sonno, prepotente, gli si era diffuso per tutta la persona: gli sembrava di camminare da ore e ore, senza mai arrivare, e nella piccola anima, esaurita di stanchezza, si formulava solo questo desiderio:

— Venisse la casa, venisse! —

A Toledo la discussione, vivace, era passata all'arte: alla Pignasecca, dove Paolo Joanna doveva voltare, si parlava del socialismo. Il Calabrese invitò Joanna ad accompagnarlo un po' più su, sino a Piazza Dante, dove abitava: e il giornalista nottambulo stava per farlo:

‟Oh papà!” disse lamentosamente, nel sonno, la povera creaturina.

E il padre fu tanto commosso da quella voce, che salutò in fretta il collega e si levò in collo il suo bambino — il quale si lasciò prendere e portare, addormentato sulla spalla del padre. Silenzio profondo nella Pignasecca — e l'aria un po' umida della notte. Una carrozzella passò lentamente, ritirandosi alla stalla.

‟Papà?” disse il bimbo, levando il capo.

‟Riccardo?”

‟Non hai più denari, è vero?”

‟Ho... ho ancora una lira, credo.”

‟E domani?”

‟Domani? Qualche santo provvederà.”

‟Va bene, papà.”

E si riaddormentò.

II. LA GRANDE GIORNATA.

Nella sua lenta e chiaroveggente agonia, il padre gli aveva detto, con la rauca voce dei tisici:

‟Riccardo, mi vuoi bene?”

‟Papà, perchè mi dici queste cose?”

‟Se mi vuoi bene, niente giornalismo.”

Lo sguardo del morente era così lucido di sgomento e di pietà paterna, la intonazione era tanto tetra e supplichevole a un tempo, che il giovanetto balbettò: ‟.... Niente giornalismo.”

‟Niente, niente. Vedi come si muore?” soggiunse, con tutto il rammarico di una vita travagliata e inutile.

E se il funebre testamento di suo padre, consistente in quelle poche parole, non fosse bastato, sarebbe bastato, pel cuore di Riccardo, il ricordo dell'agonia paterna. Lo aveva visto ammalarsi di bronchite, presa uscendo dalla tipografia caldissima all'aria fredda della notte, e trascurare questa bronchite, tossicchiando, con improvvisi abbassamenti di voce, mangiando pasticche di gomma, bevendo qualche cucchiaino di codeina per calmare l'irritazione, ma non tralasciando, ogni giorno, di far l'articolo di fondo e il capocronaca, di compilare i dispacci e di correggere le bozze. La tosse parve finita: ricominciò, dopo una cena all'aria aperta, allo Scoglio di Frisio, dove la stampa festeggiava un commediografo trionfante. Qualche giorno, ogni tanto, quando il raffreddore si addensava sui bronchi, Paolo Joanna lavorava in casa, in una camera mobiliata a Taverna Penta, avvolto in uno scialle da donna che la padrona di casa gli aveva prestato: e il figliuolo, chiuso con lui in camera, guardava scrivere il giornalista infermo dalla faccia accesa e dalla fronte bagnata di un lieve sudore freddo: talvolta Paolo si fermava, pallidissimo, nauseato da quell'odore d'inchiostro fresco. Appena si sentiva meglio, Paolo Joanna esciva, andava in ufficio, con un vecchio fazzoletto di seta rossa avvolto al collo: fermandosi solo per tossire, sospendendo il lavoro solo in quel quarto d'ora in cui gli entrava la febbre, ricominciando appena calmato il turbamento dell'accesso. Poi aveva lavorato in casa, in letto, sopra una tavoletta posata sulle ginocchia, riprendendo fiato ogni momento, appoggiando al mucchio dei cuscini una faccia gialla e sudata. Venivano amici, colleghi, buttavano il mozzicone prima di entrare, ridevano un poco, parlavano di teatri e di politica, restavano poco tempo: qualcuno si chinava all'orecchio dell'ammalato, parlandogli affettuosamente, stringendogli misteriosamente la mano; egli accettava sempre, crollando il capo, ora sorridendo con una malinconia straziante, ora con le lagrime che gli gonfiavano gli occhi. Due volte era venuto il direttore, restando cinque minuti, guardando in aria, pronunciando qualche vaga parola di conforto, lasciando sul tavolino, una volta quaranta lire, un'altra volta trenta. Ritto ai piedi del letto, appoggiato ai ferri, taciturno, coi fieri e malinconici occhi abbassati, il giovanetto Riccardo vegliava suo padre. Due giorni prima di morire, Paolo Joanna aveva ancora scritto un capocronaca, con la mano tremante, respirando a ogni parola, col rantolo lugubre dei polmoni sforacchiati dalla tisi. Nel giorno della morte, aveva ancora preso della codeina, l'inganno eterno dei tisici: aveva sonnecchiato — risvegliandosi, con la mano faceva cenno, ripetutamente, perchè gli togliessero d'intorno qualcosa che lo infastidiva. Il figliuolo non intendeva e tastava gli oggetti, interrogando con lo sguardo il morente: poi intese, raccolse tutti i giornali, li tolse via. Subito il morente si placò. Morì un quarto d'ora dopo, senza soffrire, senza dire nulla, brancicando lieve lieve il lenzuolo: e una pace distese quei poveri tratti affaticati, la serenità augusta della morte nobilitò quel misero volto di lavoratore. Riccardo si mise a urlare di dolore: ma si vergognò dei vicini, tacque. Sopra un tavolino vi erano due lire e otto soldi, avanzo dell'ultima carta da cinque lire, cambiata al mattino: pietosamente la padrona di casa vestì il morto: non vi erano calze decenti da mettergli, Riccardo si cavò le sue che erano meno rattoppate. Il direttore dette centocinquanta lire per i funerali, i colleghi e i tipografi altre centoventi, per sottoscrizione, a piccole quote di cinque, di due lire, di cinquanta centesimi. Al seppellimento tutta la stampa intervenne, e qualcuno parlò dell'operaio umile e laborioso che era morto sul lavoro. Gli astanti pensavano, colpiti da neri presentimenti: e l'orfano guardò la terra discendere nella fossa, vestito di bigio, non avendo avuti i quattrini da pagarsi il lutto. Il direttore fu ancora più pietoso, per tre mesi dette cento lire il mese al giovanotto: dopo, gli procurò un posto di straordinario al ministero di agricoltura e commercio, in Roma. Tutti i giornali lodarono discretamente la bontà del direttore del Tempo.

Quietamente, nella solitudine di uno spirito privo di amore, nella natural fierezza di un grande dolore, Riccardo si acconciò facilmente alla umile sua carriera di impiegato. Quella morte che gli portava via l'unico essere amante, amato, aveva gettato il suo animo in un torpore: e il meccanico lavoro, dalle nove alle dodici, dalle due alle cinque, gli riempiva il gran vuoto del tempo che sentiva intorno a sè. Abitava presso il ministero, in Via della Panetteria, e pranzava anche lì vicino, al Gabbione, in Via del Lavatore. Guadagnava poco più di cento lire il mese: ma in quei primi tempi della capitale, a Roma, la vita materiale era molto facile. Povero, malinconico e superbo, Riccardo non entrava nei caffè, non andava nè al teatro, nè alle passeggiate pubbliche. Quella monotonia di esistenza, quel senso di completo isolamento, quell'austerità di vita e di sentimenti gli sembravano confacenti alla sventura che aveva sofferta. Con la inclinazione dei cuori giovani, egli esagerava volentieri il suo lutto. Del resto non avea idee, non avea progetti: e il naturale ingegno giovanile giaceva sonnolento, inerte, capace solo di quel metodico lavoro di ufficio. Aveva amici, in ufficio: ma non voleva mai discorrere del passato, con loro:

‟Abbiamo avuto delle disgrazie,” mormorava.

Tanto, che con quella sua aria aristocratica e indolente, con quel pallore romantico e interessante del volto, con quel silenzio in cui volentieri si rinchiudeva, vari credevano che appartenesse a una grande famiglia decaduta. Il giovanotto si assuefaceva sempre più alla vita di ufficio, vinto dall'abitudine, interessandosi ai pettegolezzi burocratici, odiando o amando il tal superiore, parlando male del ministro senza conoscerlo, avendolo visto entrare in carrozza una volta sola. In due anni cambiò casa una volta sola: andò più su, a Via in Arcione: cambiò trattoria, andò poco distante, al Trevi, frequentato da altri impiegati. Alla domenica, talvolta, si recavano in quattro o cinque a ispezionare i lavori di Via Venti Settembre. Ma non voleva che, lui presente, si parlasse mai di politica: si allontanava, come per una repulsione istintiva. Non comprava mai giornali, non ne leggeva mai: e una volta ripetette quello che un suo collega diceva, macchinalmente:

‟I giornali? Tutte bugie.”

Ma rimase male, come se avesse bestemmiato un nome caro. Un giorno, a Piazza Barberini, incontrò un Napoletano, un amico di suo padre, giornalista:

‟O caro, caro giovanotto,” e gli battea familiarmente sulla spalla, ‟come te la passi?”

‟Abbastanza bene, grazie.”

‟E dove lavori? In quale giornale?”

‟Faccio l'impiegato, all'Agricoltura.”

‟L'impiegato? Gesù! E che direbbe tuo padre, povero Paolo, se rivivesse? Suo figlio, un travet!”

‟Egli non voleva che facessi il giornalista.”

‟Son cose che si dicono, capirai, nella malattia. In fondo, è un bel mestiere, te lo assicuro. E tu non crepi a fare il travet? Non t'incretinisci?”

‟Papà non voleva che facessi il giornalista,” insistette il giovanotto, infantilmente.

‟Perchè è morto, poveretto. Se vivesse, ti lascerebbe fare.”

‟Forse....” mormorò Riccardo, ‟forse.... sono troppo bestia, per scrivere.”

‟Che! Ci vuole la vocazione, ecco tutto. Se ce l'hai, figlio mio, ti vincerà. Poi, ci è l'eredità: si porta nel sangue, te lo assicuro.”

Riccardo guardava il suo interlocutore, come trasognato: costui soggiunse qualche parola di affetto e si allontanò, ritenendo in cuor suo che il figliuolo del suo amico fosse uno stupido completo. Quella sera, alla trattoria, Riccardo fu nervoso. I suoi colleghi gli sembrarono lievemente imbecilli, con la loro eterna lagnanza sulle ore di ufficio, sulla composizione dell'organico: e per non udirli più, comprò un giornale. Un memore, acre odore gli salì al cervello e insieme uno sbuffo della vita infantile, uno sbuffo di poesia malinconica gli attraversò la memoria. Per un momento egli rivide tutto, in una visione confusa, e viva, e dolce, saloni di trattorie piene di ori e di velluti, macchine tipografiche in movimento, dietroscena di palcoscenici pieni di ombre amiche, monti di giornali che uscivano dalle mani delle piegatrici. Un minuto: poi, tutto disparve. Si portò il giornale a casa, e disteso nel letto, lo lesse religiosamente, da cima a fondo: e brani di frasi gli ritornavano in mente, intieri periodi, la lingua della sua infanzia e della sua adolescenza gli ritornava, gli ritornava, come in sogno. Siamo autorizzati a dichiarare.... sì, sì, era proprio così.... che la notizia era assolutamente infondata. E il capocronaca descrittivo: Sin dalle prime ore della mattina.... come continuava? Continuava così: le vie della città offrivano un insolito aspetto di animazione! Sì, era questo. Il ricordo di quelle frasi giornalistiche si manifestava tenuemente, come un motivo musicale, ancora velato, ancora indistinto: poi si precisava, la cadenza veniva naturalmente. Erano quelle le canzoni, le strane canzoni che avevano cullata la sua infanzia, eran quelle le armonie bizzarre che facevano vibrare gli echi del suo spirito: la musica del suo cuore era quella. La polizia è sulle tracce dei ladri; e ancora l'altra: così il libro della questura. Tutto, rammentava. E una infinita nostalgía lo struggeva.

Ma la fredda quiete mattinale calmò la piccoletta febbre, diradò i sogni e compose ragionevolmente lo spirito di Riccardo. Non gli rimase che uno strascico di malcontento, per cui fu taciturno all'ufficio: e come il giornale della sera innanzi diceva qualche insolenza a un giornale della mattina, egli comperò il giornale della mattina, per vedere la risposta. In breve prese l'abitudine di quella lettura mattinale e serotina: la sua stanzetta fu piena di giornali. Ma leggeva macchinalmente, approfondendo pochissimo la lettura, non interessandosi molto, come un lettore sonnolento. Il lavoro di ufficio, le conversazioni di luoghi comuni, quella vita stereotipata gli avevano assopito il cervello. Pure una vaga malinconia gli era restata, nel cuore, dopo il discorso fatto col giornalista. Quello gli aveva dato del cretino, apertamente: e alla malinconia un po' di rancore si univa. Che credevano, questi signori giornalisti, di essere una specie rara? Un articolo, su per giù, lo fa chiunque. E questo rancore, questo dispetto crescendogli nell'animo solitario, lo tormentava: una sera comprò della carta, e macchinalmente la tagliò in cartelle, come aveva veduto fare a suo padre: gli parve di sentirsi passare un soffio sul viso, si fermò, trasecolato, chiudendo gli occhi, vedendo apparire nella fantasia un volto cereo, con gli occhi socchiusi, le labbra violette. Lasciò tutto, spaventato, uscì di casa, perseguitato da un'idea, da un'ombra cara e dolente, da una voce rauca che gli diceva: se mi vuoi bene.... se mi vuoi bene.... Entrò nel Caffè Cavour, a Piazza Colonna, dove non andava mai. Si voleva sottrarre a quella persecuzione. Si unì a uno studente, due impiegati, un cronista di giornale che sedevano a un tavolino, discutendo di politica. Lo studente era collerico, gli impiegati erano flemmatici: il cronista crollava il capo, gravemente, contraddicendo tutti; Riccardo taceva. Poi il cronista parlò a lungo, sottovoce, nominando familiarmente il Minghetti e il Visconti-Venosta, riferendo un colloquio del Re col Sella — e aveva, nel suo dire, certe intonazioni, certe reticenze, certi ammiccamenti d'occhio, certi abbandoni di confidenza, certe riserve di persona discreta, sì che lo studente aveva finito per ascoltarlo attentamente, come convinto, e i tre impiegati erano meravigliati, quasi commossi a quelle confidenze. A un certo momento, Riccardo, per sottrarsi a quella malía, volle contraddire: ma superbamente il cronista gli rispose:

‟Nessuno può essere informato come me.”

E invincibilmente, la sera seguente, Riccardo ritornò alle sue cartelle bianche e con molto stento, fumando, alzandosi e passeggiando, ritornando a sedere, scrisse un articolo di politica estera, intitolato: La situazione, lungo, imbrogliato e molto enfatico. Erano le due del mattino quando ebbe finito, e tutti i suoi nervi vibravano, un lieve tremore gli agitava la mano sinistra. Si sentiva l'animo gonfio, di amore, di dolore, di pensieri, di parole, tutte cose che volevano sgorgare, che non sapeva a chi dire: si sentiva un tumulto profondo nel cuore e un grande vuoto intorno. Per farsi animo, lesse ad alta voce il suo articolo, declamando: alla fine, esaltato dalla sua voce, dalle sue parole, credendo alla verità di quello che avea scritto, pianse.

L'indomani corresse qualche frase, aggiunse delle virgole, copiò in pulito l'articolo, lo mise in una busta e lo indirizzò alla direzione del giornale politico del mattino che, sebbene ancora molto giovane, era già molto forte. Per otto giorni Riccardo aprì il giornale con un tremolío interno, sperando di veder pubblicato il suo articolo. Nulla fu pubblicato. Scrisse una letterina dignitosa, dando il suo indirizzo, richiedendo il suo manoscritto, che gli serviva. Niuno gli rispose, mai. Rifece la prova, due o tre altre volte, dopo settimane di esitazione, mandando degli articoli così intitolati: Dove andiamo? Il voto di ieri. Il fallimento della politica. Nessuno di essi fu pubblicato. Allora una sfiducia grande lo colse: e si sentì sprofondare in una miseria spirituale, donde niuno lo avrebbe mai tratto.

Ma mentre le ore della giornata gli si facevano sempre più tetre, le ore della sera erano un sollievo: si andava a ficcare nel Caffè Cavour, al caldo del gas divampante, fra il fumo dei sigari e l'odore pesante di zucchero che è in ogni caffè: ivi, nel solito crocchio di studenti, impiegati e giornalisti di second'ordine, avvenivano le grandi discussioni di politica e di letteratura. Gli studenti si riscaldavano, coi cappelli buttati indietro sulla fronte, le facce concitate, gli impiegati mettevano ogni tanto una nota scettica e i giornalisti avevano sempre la loro aria liturgica di sacerdoti che pontificano. Riccardo, nella prima ora taceva, obbedendo alla naturale selvatichezza del suo carattere: ma a poco a poco il calore dell'ambiente e l'andirivieni delle persone e certi odori di liquori, certi aromi di rosolii, e i discorsi gli davano un eccitamento nervoso. Per istinto di aristocrazia contraddiceva la opinione dei più, pur conoscendone, talvolta, la ragionevolezza: e per non consentire alla volgarità, il paradosso fioriva dalle sue labbra e scandalizzava i suoi ascoltatori. Sulle prime impacciato a discorrere, non trovando facile nè la frase, nè la parola, non vedendo ancora tutti i lati di una questione, non aveva la forza di sostenere il suo paradosso e si lasciava dare addosso dagli avversari, non sapendo che cosa ribattere. A casa, solo solo, continuando quello stato di esaltamento, egli difendeva brillantemente la sua idea, parlava ad alta voce, allo scuro, rivoltandosi nel letto, non potendo dormire. Spalancando gli occhi, nell'ombra, egli vedeva scritte le sue parole, a linee sottili e fitte: e gli sembravano belle ed efficaci, e se ne innamorava e sospirava penosamente, dopo, più tardi, pensando che tutto questo era inutile, che nulla mai avrebbe potuto fare di meglio che formulare pratiche e abbozzare decreti. Ma come le sedute serotine al caffè si prolungavano e il crocchio era già di sette od otto persone, Riccardo si fece più audace, sosteneva coraggiosamente le sue opinioni, per quanto bizzarre esse fossero, per quanto egli ne sentisse la bizzarria. Uno spirito di pugna nasceva nell'anima di quel povero impiegato, un'acre voluttà di combattimento lo teneva, e si faceva impetuoso, e mentre nelle ultime ore della serata egli diventava feroce, i suoi amici lo ascoltavano inerti, inebetiti dal fumo e dall'ambiente artificiale. Un impiegato delle poste, specialmente, era l'ammiratore più ingenuo di Riccardo, era quasi un compare, tanto aiutava Riccardo con la mimica della meraviglia e dell'ammirazione: alla notte lo accompagnava sino a casa, ascoltandolo ancora, col pomo della mazzettina appoggiato alle labbra, approvando col capo, approvando sempre:

‟Perchè non fai degli articoli? perchè non scrivi nei giornali?” gli domandava ingenuamente.

‟No, no,” mormorava Riccardo, ‟ho promesso....”

‟Che cosa?”

‟Niente, niente, non puoi capire....”

Invero la promessa non lo tratteneva più, le visioni paterne non arrivavano a diradare la sua febbre. Ora, nelle conversazioni serotine, dove egli parlava quasi sempre, ritenuto come un oracolo di stravaganza, il suo spirito si sviluppava dai pesanti ravvolgimenti che lo avevano tenuto inerte tanto tempo. Come a tutti gli ingegni fatti di fiamma, a lui non convenivano, per il naturale germoglio dell'intelligenza, i lunghi studi solitari nelle biblioteche, nel silenzio della stanza deserta: a lui si convenivano le discussioni infocate dei caffè e le arringhe notturne nelle strade brune di Roma, e la lettura rapida, quotidiana di molti giornali. Dal torpore una vampa d'ingegno guizzava; dal silenzio una voce concitata si levava, come lama scintillante esce dal velluto della guaina. Non dai libri gli veniva la scienza, nè dalle contemplazioni taciturne della vita, nè dalle cose e dagli uomini antichi; ma dalle concioni a gente mediocre che ascoltava, estatica, ma dall'urto quotidiano di una vita ardente e desolata, ma dalle cose e dagli uomini dell'oggi. Come Faust, egli disdegnava e l'alchimia e la medicina e la filosofia: ma il momento che fuggiva lo innamorava, e tendeva le braccia, quasi ad arrestarlo.

E il momento era strano. Un grande soffio d'impopolarità cominciava a circondare gli uomini di pensiero che avevano condotto sino allora le cose pubbliche; il paese si stancava di dover chiamare giusti tanti Aristidi; gli uomini volgari, arsi dalla sete del potere, si ostinavano sempre, si moltiplicavano, creavano interessi, si organizzavano con la potenza degli esseri mediocri. Quelli che pensavano, sentivano già la solitudine; ma alcuni si affidavano, alcuni contemplavano serenamente il sopravvegnente infortunio politico della loro parte; altri, già stanchi, lo desideravano, per riposo. I volgari facevano la voce grossa, nei caffè, nei circoli parlamentari, nelle piazze, nelle trattorie, e il combattimento si andava allargando. Riccardo era con quelli che scendevano, naturalmente, per delicatezza di spirito, per spontaneo sentimento di nobiltà: mentre i giovani, intorno a lui, eccitati dai desiderii di miglioramento, avendo amici, protettori, fra quelli che dovevano essere i vincitori, andavano facendo propaganda per gli uomini nuovi. Onde Riccardo era solo contro tutti quelli del suo crocchio; e spesso la discussione si esasperava.

‟Bada che se Tal de' Tali diventa ministro, ti destituisce subito,” gli dicevano canzonandolo.

‟Se diventa ministro, io mi dimetto,” diceva lui fieramente.

E con la freddezza di chi prende la mesata ai ventisette del mese, e quella sola cosa desidera e ama e possiede, qualche suo collega gli soggiungeva:

‟Ma perchè ti riscaldi? Che t'importano queste cose? Sei un deputato, forse, o un giornalista?”

‟È vero,” rispondeva lui, quietandosi subito.

Giacchè più i giorni passavano e più si facea profondo il dissidio fra la realtà e i suoi sogni. Tutte quelle cose che diceva, che pensava, tutte quelle esercitazioni brillanti della mente non servivano a nulla. Quando rientrava a casa, sentiva tutta la miseria della sua esistenza ripiombargli sulle spalle; la sua meschinità, la sua grettezza lo umiliavano. Che era lui? La mattina un umile impiegato ignoto: la sera un vano chiacchierone da caffè. Chi lo conosceva? Tre o quattro imbecilli, al mattino: sette od otto inebetiti, la sera. Il suo più caldo ammiratore era quell'impiegato della posta, una buona pecora umile e affettuosa, che gli diceva:

‟Tu dovresti esser ministro, Riccardo.”

Più il tempo passava e più si faceva cocente in Riccardo il sentimento della propria nullità. Divorato dal desiderio di elevarsi, il lavoro di ufficio gli pareva vile, lo faceva a stento, sempre di pessimo umore, sempre malcontento, sbagliando spesso, attirandosi delle lavate di testa che lo rendevano più tetro che mai. La compagnia della sera gli era diventata incresciosa, la sfuggiva, andava a passeggiare solo, per le strade di Roma, così piene di mistero e di solennità, crogiolandosi amaramente nella sua misantropia. L'onda dei ricordi lo assaliva con un urto fiero: e del passato egli non rammentava le dolorose mattinate senza denari, ma i pomeriggi allegri nell'approssimarsi del pranzo; non rivedeva le facce arcigne dei creditori, ma le belle facce dipinte e sorridenti delle attrici; e della vita raminga, senza tetto, senza letto, vissuta un giorno per l'altro, senza idea di avvenire, egli non sentiva, no, orrore: egli ne sentiva di nuovo l'irresistibile attrazione. E gli pareva che la malattia avesse reso suo padre profondamente ingiusto, facendogli fare quella rinunzia: e tutti i suoi nervi fremevano di desiderio, tutto il suo sangue dava un tuffo, alla speranza di ricominciare, giovanotto, quella esistenza spensierata, noncurante, senza coscienza del futuro, senza rimpianti di passato. A che era servito il lugubre scongiuro del padre? Il vecchio sangue giornalistico, rinnovato e giovane, bolliva: nel temperamento sensibile del giovanotto erano impressi, incancellabili tutti gli usi quotidiani della vita giornalistica, le ore di tipografia, le corse precipitose da una conferenza a un funerale, gli articoli scritti di notte, coi compositori che vengono a strappare le cartelle ancora fresche d'inchiostro, le esaltazioni artifiziose dei grandi avvenimenti — e buttato sul suo lettuccio egli piangeva, sì, piangeva di dolore e di collera, non potendo rivivere quella vita.

Ma dove convergevano i suoi desiderii e le sue invidie nascoste, era a un giornale del pomeriggio, il giornale bello e spiritoso e forte dove scrivevano i migliori scrittori d'Italia. Molto era il valore di questo giornale e molta era la sua fortuna: ma fra il pubblico la leggenda ingrandiva e valore e fortuna, talchè si parlava di migliaia, migliaia e migliaia di copie vendute, e si accennavano cifre assai rispettabili come compenso ai collaboratori. E si almanaccava sugli pseudonimi e si assegnavano nomi di ministri come autori di certi articoli: e del mordente spirito del giornale molto si rideva, da quelli che non ne eran colpiti, e i colpiti fingevano di divertirsene, ma assai se ne dolevano segretamente. Vi era stato qualche duello fortunato, e il giornale n'aveva avuto maggior decoro: talchè, per la sua elevatezza e per la sua fortuna, anche gli avversari lo rispettavano. Riccardo era innamorato di quel giornale, e quasi lo imparava a memoria ogni sera: e gli sembrava una costruzione alta, solida, fortissima, inaccessibile. Nei suoi deliri di ambizione giornalistica, collaborarvi sarebbe stato per lui la felicità suprema. Ne parlava con emozione, sottovoce, come di una persona adorata: e quanto vi si scriveva, gli sembrava giusto, onesto e grande. Talvolta, nelle due ore di libertà, dopo il mezzogiorno, andava a passeggiare in Piazza di Montecitorio, sogguardando la porticina miracolosa: e tutti quelli che vi accedevano, gli sembravano persone privilegiate, felici. Due volte aveva avuto il coraggio di salire anche lui, a chiedere dei numeri arretrati, ed era restato in anticamera, commosso, fra quegli armadi a caselle, accanto al tavolone coperto di fasce, non osando guardare attraverso i cristalli ovali delle porte imbottite di lana verde: se ne era andato via, malinconico come un esiliato. A furia di passeggiare in Piazza di Montecitorio, aveva imparato a riconoscere il direttore, un piccoletto, dalla barba bionda e dagli occhiali d'oro: accanto a lui andava spesso un ometto rotondo, dal mustacchio nero e dagli occhi vivissimi — ma costui Riccardo non sapea bene chi fosse, un redattore sicuramente. Egli li guardava con una certa tenerezza, pensando che in quel momento essi forse architettavano uno di quei brevi ma eleganti edifizietti di prosa, dove era così leggiadra la disinvoltura e così simpatica la fierezza di chi sa.

‟Se cade il suo partito, vedrai che calo fa il giornale....” gli diceva un rabbioso studente che voleva gli uomini nuovi.

‟Non può morire: è immortale come tutte le cose fatte di pensiero,” rispondea superbamente Riccardo.

Ma in cuore suo un rancore col giornale suo prediletto ce lo aveva. Tre volte gli aveva mandato degli articoli: mai nulla era comparso. Eppure gli sembrava che fossero il fior fiore della sua intelligenza, il primo e puro germoglio, quella primizia innocente e forte che va a morire quasi sempre ignota in un cestino di carte stracciate. Ma come si comincia, dunque? Ma che avevano fatto per sbucare, quelli che erano lì, felici, parlando, ogni mattina, a centomila lettori? E una voglia pazza gli veniva, di sera, incontrandone uno per la strada, di chiedergli il segreto di quel grande primo passo.

— Non riescirò mai, — diceva fra sè disperato.

Ne ammalò. Ebbe una febbre biliosa che degenerò in febbre di malaria: e nelle ore di intervallo fra una febbre e l'altra, lo teneva lo stordimento del chinino preso. Sperava assai di morire. Non lesse giornali per un mese e mezzo, volendo dimenticare. Ma in un'ora di debolezza, egli ne aperse uno, il solito, quello che amava. Leggeva, senza intendere, infiacchito dalla infermità e dalla esorbitante vita interiore. L'avviso con cui la direzione cercava un correttore lo fece trasalire. Poi si vergognò di sè stesso: certo la debolezza lo rendeva vigliacco, ora, gli consigliava una umiliazione troppo grande! Cercò di distrarsi, di non pensarvi: ma invano. E l'anima gli suggeriva transazioni: nessun lavoro era indecoroso, nessuna opera umile era da disprezzarsi. Che cosa era lui per tenersi così alto? un misero impiegato, alla fine, e il lavoro del ministero, poco diverso, era dunque anche una vigliaccheria? Invano, invano, il poveretto cercava di difendersi dalla tentazione, era inerme, era debole, era indifeso — e la tentazione nelle ore di convalescenza si faceva più viva, il desiderio di viver là, in un ufficio di giornale, si faceva sempre più pungente, sempre più forte: e gli pareva già di essere lì, fra quell'odore di polvere stantía, fra i fasci della carta bianca, innanzi a quei calamai profondi e melmosi, tenendo una di quelle penne grosse e corte, tutte morsicchiate alla cima dalla nervosità del redattore avido di idee, scrivendo su quelle cartelle bianche, empiendo di segni cabalistici quelle cartelle giallognole e molli che sono le bozze di stampa — gli pareva di esser già lì, nell'ingranaggio, rotellina minuscola della macchina possente, granello di polvere travolto in quel turbine quotidiano, lieto di quel travolgimento, felice nella sua umiltà — e tendeva le braccia, come un bimbo alla madre, invocando.

‟O papà, o papà, come posso fare?” gridava, come un fanciullo ammalato.

Ma un'ultima vergogna lo colse, in Piazza Montecitorio, quando andava a offrirsi. Una fiamma colorì il suo volto bianco e bello di convalescente: ed esitante, si mise per la Via degli Uffici del Vicario, voltò per la Maddalena, uscì al Pantheon, camminando meccanicamente, fremendo all'idea di esser preso per un mendicante. Fu più forte di tutto la passione, e Riccardo ritornò per Piazza Capranica, deciso, affrettando il passo, volendo abbreviare quella prova. Era di domenica: per le scale dell'ufficio, tre o quattro persone scendevano, discutendo e ridendo: egli chinò il capo, salì presto:

‟Vorrei parlare al redattore capo.”

‟È occupato: abbia la bontà di aspettare,” disse l'usciere con una certa cortesia importante.

Mentre Riccardo passeggiava su e giù, non volendo sedersi, non volendo aver l'aria del mendico che aspetta pazientemente l'elemosina, un andirivieni continuo agitava quell'anticamera. Signori affaccendati entravano, penetravano in redazione senza farsi annunziare, stavano un momento, uscivano di nuovo, distratti, assorbiti; giovanetti tipografi in blusa azzurra macchiata d'inchiostro, col berretto di carta, entravano precipitosamente, partivano correndo; il portalettere delle raccomandate era in conferenza coll'amministratore, dritto innanzi al suo tavolino, con la sacca di pelle nera aperta, donde estraeva i plichi. Nessuno badava a Riccardo che passeggiava, aspettando: egli si sentiva in mezzo a un largo mondo di operosi indifferenti, in mezzo a un organismo forte, ma concentrato in quei tali elementi. Due volte si avvicinò alla porta, per andarsene, ma l'usciere manco si voltò. Lui rimase, pazientando: ma questo redattore capo, chiuso nel segreto della sua stanza, presso cui tanta gente entrava, quest'uomo che ogni minuto faceva squillare il campanello elettrico, breve, come un comando imperioso, assunse nella immaginazione di Riccardo proporzioni fantastiche. Non era egli dunque un sacerdote orante in fondo a una cappella? Non era dunque un signore possente e misterioso, di cui si sapeva il nome, ma che i pochi, i privilegiati soltanto arrivavano a vedere?

‟Passi,” disse l'usciere, ritornando.

Riccardo attraversò un salotto dove non ci era nessuno, una stanza dove due uomini scrivevano, ma che non alzarono neppure il capo. Questo redattore capo sedeva in fondo alla terza stanza, dietro uno scrittoio che pareva una fortificazione di legno e di carta: ed era un bell'uomo alto e robusto, dal mustacchio brizzolato, dagli occhi dolci e arguti. Scrisse qualche cosa sopra un pezzetto di carta, chiamò l'usciere, glielo consegnò, poi alzò il capo e disse a Riccardo:

‟Lei cosa vuole?”

L'intonazione era mite, ma di uomo distratto.

‟Venivo.... per quel posto di correttore....” mormorò il giovanotto.

‟Abbiamo molte richieste.... ma, si vedrà.... lei si chiama?”

‟Riccardo Joanna.”

‟Non fa altro?”

‟Sono al ministero di agricoltura.”

‟Ah! S'intende di correzione?”

‟Mio padre era giornalista,” rispose Riccardo, sottovoce.

‟Dove?”

‟Al Tempo, di Napoli: un povero giornale,” e ingoiava a stento.

‟Sa l'orario? Bisogna venire dalle quattro alle sette.”

‟Sissignore; potrei anche venire da mezzogiorno alle due.”

‟Non servirebbe. A rivederci, signore.”

‟Debbo ritornare?”

‟Ritorni.... mercoledì, sì, mercoledì.”

E chinato il capo si rimise a scrivere. Riccardo se ne andò, col sangue alla testa, senza neppure chiedere che onorario vi sarebbe stato. Era precipitato giù, al fondo di tutte le sue speranze. Sperava, aveva sperato che questo redattore s'interessasse a lui, che lo interrogasse, che lui, infine, potesse confessare il suo desiderio di scrittore assolutamente inedito: sperava che sentendolo figliuolo di giornalista gli avesse chiesto di suo padre, largamente: aveva l'aria così bonaria, quel signore, che Riccardo gli avrebbe buttato le braccia al collo alla più piccola parola affettuosa. Ma come tutte le persone molto occupate, quel signore gli aveva detto cortesemente quello che era necessario, e niente altro. Ma Riccardo era fuori della realtà: quel ricevimento così semplice gli pareva una crudele delusione. Decise di non ritornare, nè il mercoledì, nè mai: si pentì di esser salito lassù, dove nessuno si curava di lui, dove di lui nessuno voleva sapere: e giurò e sacramentò di non leggere mai più il giornale, di non leggere mai più nessun giornale, di non parlare mai più nè di arte, nè di politica. Ma il mercoledì era ancora in Piazza di Montecitorio, desiderando quello che aveva disprezzato tre giorni prima, ritraendo una quantità di pronostici dalle cose. — Se incontro un cavallo bianco, buon segno — ma non ne incontrò. — Se vedo un gobbo, buon segno — e ne incontrò uno, verso gli Orfanelli, un gobbo vero, gobbo davanti e di dietro. Pure esitò ancora, prima di salire, prese un wermouth al caffè, per rianimarsi. Oh avrebbe parlato, oggi, a questo redattore capo, lo avrebbe forzato ad ascoltarlo, con l'eloquenza del dolore, gli avrebbe detto, gli avrebbe raccontato tutto!

Trepidante, salì su: e dette il suo biglietto da visita all'usciere, perchè lo portasse di là, al redattore capo.

‟Lei è il signor Joanna?” chiese l'usciere, un Toscano.

‟Sissignore.”

‟Ho una lettera per lei.”

E la trasse di sotto un mucchio di fasce. Riccardo la tenne in mano un momento, senza leggerla; e gli pesava fra le dita, come piombo. La lesse con uno sguardo solo: era accettato per correttore, poteva cominciare il suo lavoro dall'indomani. Confusamente egli salutò e andò via, pieno di dolcezza e pieno di amarezza. Ecco, ora si sentiva depresso, abbattuto, dopo i grandi eccitamenti febbrili dei giorni decorsi: e una stanchezza mortale gli spezzava le gambe. Tornò al ministero, salì dal capo divisione, per pregarlo di modificargli l'orario, preferiva andare in ufficio dall'una alle quattro:

‟Avete trovato qualche altra occupazione?”

‟Sì, signor Commendatore.”

‟E di che si tratta?”

‟È al giornale Baiardo.”

‟Mi congratulo tanto: leggeremo la vostra prosa.”

Riccardo non rispose: solo era un po' rosso in viso, vergognandosi della bugia che egli accreditava col suo silenzio. Subito, il capo divisione gli accordò il permesso. E in tutto il pomeriggio, a pranzo, al Caffè Cavour, la voce circolò, e tutti gli domandavano, un po' increduli, un po' invidiosi:

‟È vero che sei al Baiardo?”

‟Sì,” rispondeva lui, debole, vile, non osando confessare la verità.

Ma il più commosso fu l'impiegato postale. Con l'occhio umido e la voce un po' tremante, fece le sue congratulazioni all'amico, facendogli notare che lui glielo aveva sempre pronosticato uno splendido avvenire, che la fortuna di Riccardo Joanna egli la considerava come la propria fortuna, che oramai avrebbe comperato il Baiardo ogni giorno, per leggere gli articoli del suo migliore amico:

‟Io me ne accorgerò dallo stile, se sono tuoi: ma tu avvertimi sempre, quando ci è qualche cosa di tuo, non ti scordare! Avvertimi, sai.”

‟Ti avvertirò,” mormorava Riccardo, internamente disperato.

A casa, nauseato di sè, degli amici, della vita, dormì profondamente del sonno delle anime intorbidate. L'indomani, alle quattro, nervoso, non sapendo quello che avrebbe fatto, era all'ufficio del Baiardo: e l'usciere lo introdusse in un camerottino, dove ci era il posto soltanto per un tavolino, una sedia. Sulla parete un calendario con una grossa Italia gialla e rossa, era appeso, e sul legno del tavolino l'altro correttore, o un redattore, aveva disegnato dei profili femminili, un biglietto da mille lire, aveva scritto qualche frase, qualche freddura. Il redattore capo entrò, salutò:

‟Ora le portano le bozze. Molti a capo, mi raccomando.”

Niente altro. Riccardo entrava nel giornalismo per la scala di servizio, come un muratore che venga a portare della calcina, come uno spazzacamino che venga a pulire la cappa del camino dalle fuliggini. Perchè non prendeva il cappello e andava via, se aveva un acino di dignità? Ma un piccolo di stamperia entrò, gli posò innanzi un fascio di bozze tutte molli e scappò via. Quando la sua penna si posò sulla carta e corresse il primo errore tipografico, una lettera capovolta, egli si sentì vincolato per sempre: la sua dedizione era completa. L'opera sua procedeva lenta lenta, ancora un po' inesperta, egli cercava di ricordarsi del tempo quando aiutava suo padre alla correzione delle bozze: come l'ora passava, altre bozze giungevano, egli vedeva con un certo spavento accumularsi il lavoro, si confondeva, solo solo, nel crepuscolo triste di fuori, tristissimo nella penombra del camerottino. Si sbrigò alla meglio, trascurando varie correzioni: gli portarono le due prime pagine, già pronte alle cinque, tutte umide. Quella correzione delle pagine non l'aveva mai fatta, restò confuso, non sapendo dove mettere i segni: per fortuna vi erano pochi errori, li trasportò alla meglio, in cima o in fondo alla pagina. Durante il suo lavoro non aveva visto nessuno, chiuso nel suo gabbiotto, preso dallo stento della sua inesperienza.

‟Viene in tipografia a correggere la terza pagina?” chiese il piccolo.

‟Vengo.”

Era lì presso, in Piazza Montecitorio. Il redattore capo, in uno stanzino, compilava un telegramma: un vecchio magro, una figura melanconica e romantica e simpatica da don Chisciotte, scriveva le informazioni dall'altra parte del tavolino. Non ci era posto per Riccardo: il proto gli accennò un leggío di legno, un seggiolone alto. Ivi, sotto la vampa del gas, Riccardo corresse la terza pagina. Non vi era altro da fare: se ne andò, senza salutare, insalutato, mentre redattori, proto, tipografi, macchinisti erano assorbiti da quel calore dell'ultima mezz'ora. Erano le sette: al Trevi non vi era più nessuno, le vivande erano scarse, gli impiegati che pranzano alle cinque e mezzo avevano consumato quasi tutto, Riccardo mangiò di pessimo umore. Al caffè, il Brandi, l'impiegato postale, gli chiese subito:

‟Ebbene, vi è nulla di tuo nel Baiardo?”

‟No, non ancora.”

‟Non farmi segreti,” ribattè l'altro, con la sua aria di volpe fina, ‟io me ne accorgo, sai, ti conosco allo stile: tutto possono insegnarmi salvo quel che pensa e quel che dice Riccardo Joanna!”

Un altro gli chiese:

‟È vero che il ministro degli esteri avrà un voto di sfiducia al suo bilancio?”

‟Io non lo so,” rispose Riccardo, seccato assai.

‟Non vuoi dirlo. Tutti così, voialtri giornalisti!”

Il suo cómpito di correttore continuò, quotidiano, in quel camerottino solitario, sotto gli occhi rotondi e spiritati della grossa Italia del calendario, senza incidenti, senza che mai nessuno venisse a visitarlo, senza che egli conoscesse neppur uno della redazione. Ogni tanto il redattore capo, il bell'uomo a cui era mancato il pubblico, perchè diventasse un Girardin, tanti erano i giornali che aveva fondati e di cui si era felicemente disfatto, entrava nel camerotto e raccomandava certe correzioni a Riccardo, gli a capo, massimamente: il lettore si stanca della prosa unita, fitta — e usciva via subito, chiamato dal lavoro. Di là, Riccardo udiva spesso un grande andirivieni, talvolta arrivavano a lui discorsi e risate, discorsi dove l'accento toscano vivacissimo superava qualche pronuncia napoletana o lombarda: ma non ardiva andare di là senza essere chiamato, non vedeva mai i redattori. Il Baiardo continuava ad essere per lui un tempio misterioso, dove si pontificava, recitando le spiritose litanie della politica e dell'arte, da sacerdoti sconosciuti. Al caffè, la sera, gli domandavano:

‟Joanna, dicci dunque chi è Molosso?”

‟Non so.”

‟E Stellino, lo sai: chi è Stellino?”

‟Neppur quello.”

Gli amici restavano scontenti: si seccavano che egli volesse mantenere il segreto, quando la loro più viva curiosità erano appunto quelli pseudonimi, quando le loro più ostinate liti erano per saper chi fosse Neera, un uomo o una donna, per assodare se De Amicis era proprio Furio.

‟E tu, come firmi?”

‟Non ho deciso ancora.”

‟Va là, che non vuoi dirlo!”

Questi tormenti serotini gli facevano odiare il caffè e la gente e tutti: trovava che la punizione della sua bugia era troppo grande. Non sapeva prendere un'aria disinvolta, non voleva inventarne altre delle bugie, anche la prima era stata involontaria. E temeva forte che si scoprisse, che i colleghi del ministero, del caffè appurassero che egli era un misero correttore, un povero muratorello della stampa che metteva un po' di calcina nei buchi del bell'edifizio. Quelle sue risposte troppo evasive, quella sua ignoranza avrebbero dato nell'occhio, certamente: e saputa la verità, quante beffe, che ironie, che umiliazione! Trascinato da un falso amor proprio, una sera, al caffè, disse:

‟Leggete l'articolo di fondo: è del direttore, è molto bello.”

‟Firma Baiardo?”

‟Sì.”

‟Come va questo? Se il direttore è in Lombardia, nella villa del nostro direttore generale,” disse un impiegato alla guerra.

‟Sarà ritornato,” mormorò, arrossendo, Joanna.

Non tentò più. Si lasciò andare, per una settimana, al lavoro di correzione, meccanicamente. E quel lavoro, ora se ne accorgeva, lo aveva privato del suo grande piacere quotidiano, serotino: la lettura del Baiardo. Prima, nel tempo della indipendenza, quando ancora non aveva sporto i polsi volontariamente alle catene, la prosa di Fantasio, ora argutamente scettica, ora malinconicamente sarcastica, sempre piacente, sempre originale, gli procurava un delicato piacere spirituale: la prosa di Scapoli aveva una eleganza muschiata, un profumo di salotto, una piacevolezza serena che lo trasportava in un ambiente aristocratico: la prosa di Neera aveva il calore e l'attrazione della simpatia. Quella lettura di giornale, alla sera, prima, era per lui una soddisfazione raffinata dello spirito: a cui si aggiungeva il bel piacere della sorpresa, quello schiudere il giornale, ignorandone ancora il contenuto e ogni sera avere l'impressione gradita.

Ma ora, ogni giorno egli rimetteva a posto le lettere capovolte nell'articolo di Fantasio, metteva in corsivo qualche vocabolo francese adoperato da Scapoli, e aggiungeva gli a capo alla prosa della scrittrice lombarda. Questo riattamento macchinale, questo lavorío minuto, fatto sulla parola, gli faceva sfuggire il senso di quello che leggeva: e il tratto spiritoso, dove una lettera maiuscola era minuscola, lo lasciava freddo; i versi dove mancavano le virgole, non gli facevano apprezzare la dolcezza della poesia; il periodo dove il tipografo aveva dimenticato le interlinee, ronzava nella sua testa, senza che egli ne intendesse il significato. Cercava di rilegger posatamente, dopo fatta la correzione; ma quella pioggia di segnetti neri lo irritava, e buttava giù le pagine, annoiato. Nella serata tentava di leggere il giornale, come un lettore qualunque, ma ciò non gli dava più nessun piacere, mancava qualunque sorpresa, egli sapeva tutto, chiudendo gli occhi rivedeva la misura dell'articolo e il titolo e la firma, rivedeva tutti quei geroglifici delle correzioni, gli angoli acuti, i triangoli, le sbarrette, gli ovali: le sue delizie intellettuali andavano sparendo ogni giorno. Come il tempo passava, gli nasceva nell'animo irrequieto e sensibile, vivacissimo alle nuove impressioni, un disgusto di quella prosa politica e letteraria: il vederla scorretta, nella confusione tipografica delle prime bozze, infiorata di strafalcioni, qua e là macchiettata di errori di grammatica commessi dai compositori distratti, spesso sconvolta, coi periodi trasportati, nel disordine mattinale di una bella signora troppo mondana a cui è necessario un po' di cosmetico, toglieva a Riccardo tutta la poesia della bellezza letteraria. Una delusione grande, uno scetticismo nuovo andavan crescendo in lui: come in coloro che sono destinati dalla loro professione a essere in contatto con la nuda forma delle cose umane, non per anche adorna ed accarezzata dall'arte ancora grezza, ancora rudimentale. Riccardo era come il medico che non crede più alla coscienza, come il sarto che non crede alla bellezza delle forme, come il parrucchiere che disprezza le folte capigliature naturali da cui si può trarre poco partito. Quando sentiva lodare quel tale articolo per la sua giustezza, per la sua semplicità, per la sua lindura di forma, egli alzava le spalle, infastidito, pensando quanto gli era parsa brutta quella prosa, nella sconclusione delle bozze, tutta piena di refusi, talvolta comicissima per il senso cangiato dagli errori.

Così il Baiardo perdette un lettore amoroso. Due o tre mesi di correzioni avevano fatto nascere in Riccardo quella strana ma fatale infermità dei giornalisti, la repulsione dal proprio giornale, repulsione istintiva, invano combattuta, talvolta gelosamente nascosta, spesso scetticamente confessata. Nessun direttore di giornale è capace di rileggere attentamente tutto il proprio giornale, e i pochi che ne leggono una parte, lo fanno distrattamente, senza vedere bene quello che vi è: l'occhio giornalistico così fine nel trovare in sedici colonne di un altro giornale, il periodo, la frase, la parola che lo interessano, s'appanna, s'intorbida leggendo il proprio giornale. Il povero correttore soffriva di questo innocente ma non innocuo morbo, come se anche lui scrivesse, come se anche lui fosse nauseato di rileggere la propria prosa.

‟Che vi è stasera, nel Baiardo?” domandava il Brandi con molto interesse.

‟Le cose solite, credo,” scappò detto, una volta, a Riccardo, annoiato e impazientito.

Ma uno dei maggiori suoi crucci, il segreto rancore che aveva contro i redattori del Baiardo, era la loro invisibilità. Nessuno veniva mai da lui: e pochissime erano le occasioni di andare nelle altre stanze. Una sera, in tipografia, vide un signore alto e biondo, dalla chioma militarmente tagliata a spazzola, dagli occhi chiari, che parlava col redattore capo, sviluppando un po' il torace, avanzando un po' la gamba destra: del resto parco di gesti, signorile, freddo. Chiese il nome al proto: costui era nuovo, non seppe dirgli nulla: ma il piccolo che gli portò la terza pagina da correggere, lo sapeva:

‟Quello è il signor Scapoli,” disse andandosene.

Un'altra volta fu peggio. Al caffè un gruppo di ufficiali attorniava un maggiore, un miope dagli occhi vivacissimi, ancora giovane. Distrattamente Riccardo chiese al suo vicino, un reporter di giornale democratico, chi fosse quel maggiore.

‟Come? Non lo conosci? Ma se è tuo collega, uno scrittore del Baiardo, dicono che firmi Fucile.”

Queste cose assai lo mortificavano. Trovava i redattori troppo altieri, troppo aristocratici, che non si degnavano di farsi vedere, quasi mai, che capitavano un momento in direzione, poi andavano via subito, chiamati al Parlamento, alle Commissioni, agli affari, gente che faceva il giornalismo per svago, per diletto, per una soddisfazione dello spirito, ma da signori, inafferrabili, inaccessibili. Si rammentava di dieci o dodici anni prima, del giornalismo che faceva suo padre, passando dieci ore al giorno in ufficio, sempre a lavorare, sempre con la porta aperta, dovendo dar retta a tutti, contentare tutti, a rischio, in caso contrario, di far perdere la popolarità al giornale, temendo sempre di scontentare l'abbonato, facendo di tutto per attrarre il lettore: giornalismo umile, pedestre, fatto da lavoratori oscuri, che non firmavano i loro articoli e che combattevano quotidianamente col pezzo di dieci franchi. La differenza era grandissima, il passo fatto in dieci anni era enorme: e quando pensava a questo nucleo di scrittori felici, dove i toscani portavano l'arguzia e i napoletani il fuoco, padroni delle loro idee e del pubblico, paradossastici, indipendenti, compensati lautamente, una pietà profonda gli veniva per quel povero morto, strappato dall'articolo e buttato nella fossa. Un coupé, talvolta, saliva al trotto per Piazza Montecitorio, si fermava innanzi alla porticina magica: era un uomo politico che veniva a portare una notizia, o una signora che gentilmente faceva da reporter, o era un redattore, forse, un redattore che possedeva vettura. Riccardo abbassava la testa sulle bozze: ma la sua anima era sconvolta. Penetrato nel cuore del Baiardo, nella sua intima manifattura, egli era sempre escluso dalla sua vita: il giornale lo aveva assorbito ed egli vi perdeva ogni giorno la sua personalità, ignorato, strumento volgare e non necessario. Ogni tanto, vi era un barlume: quando al Tordinona o al Valle vi era un'opera nuova, prosa o musica, faceva le riviste teatrali un meridionale, un Napoletano, dal grosso naso piovente sui baffi, miope, geniale. Queste riviste bizzarre erano a base di freddure, tempestate di freddure, in versi, in prosa, in italiano e in latino, talvolta comicissime: e siccome lo scherzo spesso dipendeva dalla spezzatura di una parola, da un nome in carattere corsivo, da una ortografia bislacca, così il redattore, ogni volta, veniva a correggere personalmente le sue bozze, sedendosi accanto a Riccardo, scambiando con lui qualche parola. Quello scrittore non era mica molto allegro, come del resto non è nessuno scrittore di cose allegre: ma era simpatico, parlava col largo accento napoletano, e quelle poche frasi rincoravano Riccardo, lo riempivano di tenerezza:

‟Siete napoletano, voi?” gli chiese un giorno.

‟Sissignore.”

‟Non dovete trovar Roma molto divertente.”

‟Napoli è la patria del cuore,” mormorò Riccardo, ‟ma qui si pensa.”

‟Già,” disse il redattore, rimettendosi filosoficamente a correggere le bozze.

Un'altra volta:

‟V'ho incontrato al ministero di agricoltura, oggi. Siete impiegato?”

‟Pur troppo!”

‟Non è mica una cosa dispiacevole. Io me ne trovo bene, ai ventisette del mese.”

Non altro. Ma era già molto, per un essere abbandonato come Riccardo, chiuso nel suo gabbiotto, come una lumaca. Egli non discorreva neppure col giovane amministratore, al primo del mese, quando andava a riscuotere. Quelle sessanta lire dategli per il suo lavoro meccanico, gli sembravano una cosa così umiliante, che non le contava, non le guardava neppure, firmava subito subito nel registro. I suoi amici credevano che egli guadagnasse molto e si meravigliavano che egli abitasse ancora una stanza da venti lire il mese, che mangiasse ancora al Trevi, che non pagasse qualche tazza di birra agli amici. Qualcuno gli chiese in prestito cinquanta lire: un altro, più audace, gliene chiese duecento. Egli rifiutava: gli dicevano:

‟Perchè non te le fai dare all'amministrazione del giornale?”

E lo tenevano per avaro, per egoista. In realtà egli soffriva della sua miseria, fortemente. Assopito nel cuore il dolore della morte di suo padre, sviluppata l'intelligenza dalle scorie che la rendevano inoperosa e la deturpavano, a venti anni, in una grande città come Roma, dove la vita già si disegnava a linee di capitale, il giovanotto cominciava a provare l'arsura di tutto quello che gli era conteso. Quando usciva di tipografia, alle sette, nell'ora in cui tutte le trattorie fiammeggiano di lumi e sono riboccanti di gente, mentre passeggiava lentamente, per sollevarsi dal lavoro, prima di pranzare, egli dava un profondo sguardo d'invidia alle trattorie dei ricchi, degli uomini felici, che mangiavano delle pietanze delicate in una porcellana elegante: e si rammentava di averle gustate, da bambino, quelle dolcezze, nei giorni in cui suo padre aveva denaro, quelle galanterie da palati viziati, il caviale, la ragosta, la pernice, lo storione, la beccaccia, le salse rosse o verdi, colorite gaiamente, piccanti. E la sua fantasia viaggiava anche più in là: passando innanzi ai grandi palazzi patrizi, egli indovinava la maestà delle vaste stanze da pranzo, coi loro legni scolpiti, col luccicare vivido dei cristalli e delle argenterie, coi tappeti molli, dove non si udiva il passo dei servitori, coi fiori strascicanti sul candore della tovaglia, col sorriso muto e incoraggiante della padrona di casa. Le trattorie di terz'ordine che era costretto a frequentare, con la loro biancheria dalla dubbia pulizia, dall'odore nauseante di sapone, con le posate di metallo giallo, i piatti grossi e pesanti, con le solite pietanze quotidiane, dai miscugli equivoci, rivoltavano i suoi istinti aristocratici, e mangiava per saziarsi, sempre seccato, incapace di prolungare di un minuto il pranzo, soffrendo di tutto, anche delle mani del cameriere che gli porgevano il piatto e che gli sembravano ignobili. Quando una prima rappresentazione era annunziata, strombazzata, aspettata, e tutti ne parlavano, e quelli che potevano andarvi si consideravano assai fortunati, egli si rodeva di non poterci andare, ricordandosi della sua infanzia e della sua adolescenza, ogni sera al teatro, dappertutto, nei migliori posti, senza spendere un soldo, andando sul palcoscenico dove pochi potevano andare, carezzato dalle attrici. Giammai al Baiardo aveva avuto un biglietto di teatro: e intanto tutti credevano che egli ne fosse pieno e gliene chiedevano talvolta; e quando, in una sera di prima rappresentazione, lo vedevano comparire al caffè, si meravigliavano:

‟Non sei al Valle? Non vai all'Apollo?”

‟Il teatro mi secca,” faceva lui, alzando le spalle.

Non era vero. Quand'anche fosse stato cattivo lo spettacolo del palcoscenico, frivola la commedia, noiosa e risaputa la musica, la sua immaginazione di venti anni trasaliva all'idea di veder tante donne riunite in una sola sala, vestite elegantemente, sorridenti o melanconiche, adorne di fiori e di gioielli. Dopo due anni di esistenza selvaggia, fuggendo le passeggiate e i ritrovi, egli aveva ceduto alla natural simpatia che lo faceva fantasticare dietro ogni profilo femminile che incontrava per la via. Timido e superbo con gli uomini, temendo sempre qualche cosa di offensivo pel suo orgoglio, egli sentiva che le donne sono più buone, più indulgenti, più carezzevolmente affettuose, più nobilmente pietose: sentiva che il suo bisogno di tenerezza, di dolcezza, di amore mite e gentile soltanto in loro si sarebbe potuto appagare. Egli non invocava, come può farlo un carattere forte e temprato, un amico serio e affettuoso, sagace nel consiglio, virile nell'ammaestramento: egli invocava l'amica ideale, parola amorosa e voce toccante, opra gentile e sguardo ammaliatore, pietà muliebre vestita di velluto e spirante profumi, affetto sentimentale, vergato in una calligrafia delicata, sopra una carta bizzarra, bizzarramente cifrata. Alla debolezza del suo cuore non era necessaria un'affezione salda ma severa, pronta all'aiuto come al biasimo rigeneratore: egli aveva bisogno della compassione femminile che ha una scusa per tutti gli errori, che ha un perdono per tutti i peccati. L'amico vi offre la mano leale e l'opera sua: ma la donna è sempre più vicina al vostro cuore, essa non può far nulla, ma piange con voi. Riccardo aveva la nostalgia di un lungo pianto femminile unito al suo, un lungo pianto dolcissimo e puro che si portasse via le amarezze accumulate da anni.

Nella crisi di tenerezza che lo invadeva, ogni apparenza muliebre suscitava la sua fantasia. Un paio di occhi socchiusi dietro una leggiera veletta nera; un sorriso fuggitivo che arcuava gentilmente un labbro sottile; un piede snello che appena appena toccava il marciapiede; una testina intravveduta dietro i cristalli di una carrozza fuggente; qualche ombra errante sopra un terrazzo principesco, nelle ore crepuscolari: una impressione, una visione, un nulla che fosse femminile gli prendevano l'anima. La poesia della donna era la prima che schiudesse il cuore del poeta, e doveva essere la più profonda: e non amando ancora, non essendo forse predestinato a quella eccezionale, rara forma del sentimento che è la passione, egli poteva analizzare consecutivamente tutte le attrazioni, tutte le seduzioni dell'ideale muliebre. Uno dei suoi più acuti piaceri erano le domeniche a Villa Borghese, in quello sfilare continuo di equipaggi, dove le donne troneggiavano, dove le donne trionfavano, ora nell'umiltà delle palpebre abbassate, delle bocche pensose, ora nel languore di certe pose abbandonate, ora nella serenità della indifferenza. Egli vi andava sempre: e quando cadeva il sole, rosso ardente, fra i cipressi di Monte Mario, e i vestiti delle donne si scoloravano ed esse stesse sembravano colpite da pallore, Riccardo provava l'emozione intima dei grandi spettacoli umani. Due o tre volte, coi suoi quattrini, soggiacendo poi a piccole ma tormentose privazioni, era andato al teatro: una sera proprio all'Apollo. Visione prolungata per tre ore, e che illuminò le sue buie giornate per gran tempo: visione di bei quadri scintillanti che accendevano il sangue, di profili evanescenti che trasportavano l'anima in regioni ideali, di pallori pensierosi, di molli linee armoniose: visione di lusso e di ricchezza, nella bella espansione della donna. Oh, egli non amava punto le giovanette borghesi dai paltoncini neri e dal cappellino piumato di nero, che andavano su e giù pei marciapiedi del Corso; nè le ragazze che lavoravano a macchina nella casa dirimpetto alla sua; nè le crestaine snelle, dai capelli incipriati, dallo scialletto nero che batteva sulle calcagna. La donna povera, o gretta, o costretta a lavorare, o volgare, ripugnava alla sua fantasia di poeta: e non dava il suo cuore, come tanti suoi amici, al primo sguardo affettuoso, alla prima dolce parola: egli conservava il suo cuore alla prediletta, alla ignota, alla donna circondata da tutte le eleganze, esoticamente profumata, maestra di tutte le finezze spirituali.

Pur desiderandolo, questo essere ideale gli sembrava inaccessibile, a lui ignobilmente povero, facente un lavoro oscuro di polipo. Solo uno spiraglio, solo uno: non la ricchezza, o la nobiltà, o la fortuna politica, conquiste troppo lontane, troppo difficili, ma il successo letterario, la reputazione di scrittore, il nome di giornalista alla moda. Egli indovinava, intuiva il cuore femminile: quando nel brioso resoconto parlamentare, lo scrittore abbandonava gli oratori noiosi della politica, per inneggiare alla seducente contessa che era comparsa, benefica apparizione, nella tribuna diplomatica; certo, per quanto la contessa fosse abituata agli omaggi, quel pubblico, delicato omaggio, fatto in una forma così gentile, doveva riescirle gratissimo. Quando all'indomani di una festa al Quirinale, lo scrittore scioglieva in un poemetto di prosa la sua ammirazione per le dieci dame più belle, più eleganti, Riccardo immaginava quanto piacesse alle orecchie femminili quel lusinghiero linguaggio. — Le donne — egli pensava — sono riconoscenti a chi sa apprezzarle, esse conoscono bene i loro amici; esse sono dolci al poeta che le canta. — E per arrivare a questo suo sogno, l'arte, la poesia, la letteratura, il giornalismo gli apparivano come un mezzo necessario, unico. Aveva allora ventidue anni: e molte volte bestemmiava la oscurità da cui niente lo traeva. Le sue collere erano vane, poichè non producevano nè una risoluzione forte, nè una reazione di serenità. Come tutti i temperamenti fantastici e morbidi, alacre era la vita interna del suo spirito, e impacciata, infeconda, nulla la sua vita d'azione.

Un giorno, il redattore teatrale, che stava correggendo una poesia in lode della signora Pia Marchi, gli disse:

‟Volete andare al teatro? Vi è una poltrona pel Politeama, dove non posso andare. Vi sentite di far due paroline di cronaca, domani? Due soltanto.”

Riccardo si fece pallido come un cencio, per la collera, pel piacere: disse di sì, prese il biglietto rosso. Un grande tumulto si faceva nel suo cervello, andava col capo chino, pensando come avrebbe scritto quelle poche parole, cercando una frase efficace, che fosse anche una rivelazione di quello che egli sapeva fare. Ma non aveva provato le sue forze da tanto tempo, e a un tratto la prosa degli scrittori del Baiardo, che gli era caduta in disgusto, gli sembrava ora insuperabile, e le colonne del giornale gli parevano troppo maestose per la sua pochezza. Avrebbe scritto delle corbellerie, o fatta la solita noticina di cronaca. Volle confortarsi la mente: facevano la Forza del Destino, comprò il libretto, andò a leggere la biografia di Verdi in una enciclopedia che la biblioteca del ministero possedeva. Mangiò assai in fretta, andò a vestirsi subito, il Politeama era lontano e doveva andarci a piedi: e intanto ruminava la sua nota di cronaca, ora pensava di cominciare con un verso di De Musset, ora con un motto latino, pensava una freddura sul cognome del baritono e un aggettivo nuovo per la prima donna. Tutto raccolto in sè, passando sul Ponte Sisto, non si accorse di qualche carrozza che tornava indietro e dei pedoni che venivano incontro a lui. Presso il teatro soltanto vide il cartellone attraversato da una striscia rossa: Per cause involontarie e imprevedute, questa sera: Riposo. — L'Impresa. Ripassando sul ponte, egli si domandò se non era meglio, dinnanzi a una avversità così costante, se non era meglio fare un tonfo nelle acque fredde del fiume e lasciarsi trascinare dalla corrente a mare. Ma non era esso l'uomo delle pronte decisioni, ed ebbe orrore di una morte volgare, il corpo gonfio di acqua, la faccia gialla, la bocca piena di rena. L'indomani, malgrado tutto, egli volle fare la nota di cronaca; ma non sapeva che cosa dire: inesperto giornalista, non aveva neppure chiesto allo spaccio dei biglietti la ragione del riposo. Dopo molti stenti, dopo molte carte lacerate, egli arrivò a copiare, testualmente, l'avviso dell'impresa. Lo portò al Baiardo, in anticamera lo consegnò al piccolo perchè lo desse a comporre. Come se si trattasse di un articolo, egli trepidò, nel pomeriggio, aprendo le bozze: la nota non vi era, il redattore capo, trovandola inutile, l'aveva tolta via. Questo fu l'ultimo colpo.

L'indomani, quietamente, comprò un foglio di carta bollata e fece una domanda al ministero di agricoltura per essere ammesso a un concorso per posti di vice-segretario. L'esame si doveva fare in febbraio, e in quei tempi non si chiedeva molto agli impiegati: d'altronde il suo lavoro come straordinario era già un titolo. Le ricerche per avere la fede di nascita, le altre carte necessarie, certe pratiche, l'andare e venire, distrassero Riccardo Joanna dalla ruina che era avvenuta nelle sue speranze. Nelle ore di libertà, adesso, invece di legger giornali e di discutere pei caffè, studiava le materie del programma, voleva almeno riescire in questo, poichè il suo destino voleva così: e già vedeva il suo lento progresso burocratico, quel salire duro e stentato, ma sicuro, quell'orizzonte breve, ma accessibile. Con un paio di altri giovanotti che pure si preparavano a questo concorso, si vedevano, nelle ore di libertà, e tenevano conferenze sulle materie dell'esame, passeggiando talvolta, o anche a pranzo, tenendo sempre lo spirito occupato, non volendo pensare ad altro, non volendo mai distrarsi. Faceva sempre il suo lavoro di correzione, ma ora se ne sbrigava molto più presto, con una certa fretta di andarsene, senza badar più a quello che leggeva. Era arrivato finalmente a vedere Fantasio, un giorno, per le scale, insieme al direttore: e l'originale scrittore fumava una sigaretta e sorrideva ascoltando un racconto del suo amico; ma Riccardo era troppo deluso per provar più nessuna emozione alla vista di quei forti.

Persuaso di non aver nè ingegno, nè vocazione, nè fortuna, ora l'indifferenza succedeva alla passione giornalistica. Chissà, forse era meglio, per la pace del cuore e per la salute, essere un buon impiegato, zelante, amato dai superiori, sempre in aumento di grado e di stipendio, col cavalierato in prospettiva, la pensione per la vecchiaia e una morte tranquilla. Almeno, al ministero non vi erano templi misteriosi, chiusi ermeticamente ai profani, dove non si poteva penetrare nè con l'umiltà, nè con l'audacia: e la simpatia, l'ammirazione del pubblico non sono un monopolio! Niente di questo: una bella esistenza monotona e quieta senza troppi guai. Si trattava di riescire, e Riccardo studiava molto. Per una reazione naturale e che indicava non esser rimarginate le sue ferite, egli si burlava di sè stesso, delle sue ambizioni, dei suoi progetti, delle sue fantasie. Questo impiegato pallido, dall'aria un po' fatale, lo faceva ridere, quando si mirava nello specchio: questo poeta che non sapea fare versi, questo prosatore senza prosa, questo giornalista senza giornali, gli sembrava un caso comico. Un giorno aveva sognato di poter amare una duchessa, di essere amato da una contessa, di poter sedurre e rapire la moglie di un banchiere! Riccardo sogghignava. Gli parea di esser diventato una persona seria, ora che aveva prestabilito il suo avvenire, rinunziando a tutte le follie: e con la precipitazione e il bisogno di progettare di tutti gli ingegni meridionali, egli si figurava già di esser riescito, di aver avuto il decreto di nomina. Allora egli si vestiva di scuro, come per una solennità, andava dal redattore capo e in poche parole gli annunziava le sue dimissioni. Costui, forse, lo avrebbe interrogato sulle ragioni: allora gli avrebbe narrato tutto, la sua infelice, non corrisposta passione per il giornalismo, e il colpo sofferto e la delusione immensa e infine il proponimento di salvataggio, buttandosi nelle braccia della burocrazia. Con questo discorso che egli avrebbe pronunziato con l'enfasi del sentimento, egli certo sarebbe arrivato a scuotere la distrazione laboriosa del redattore capo e gli avrebbe fatto intendere quale servo fedele e amoroso essi perdevano. Invano avrebbero tentato di trattenerlo: a una vita seducente ma precaria, piena di grandi soddisfazioni, ma piena anche di grandi dolori, egli preferiva una esistenza mediocre ma pacifica, gretta forse ma non fallace: lo lasciassero andare, lo lasciassero andare per la sua strada, oscuro, ignorato, come tutti coloro che non seppero o sdegnarono d'imporsi.

Esaltandosi su questo discorso, racchiudendo esso tutta una nobile vendetta, Riccardo si avvicinava al tempo dei suoi esami. Mancavano soltanto quindici giorni, quando il Pompiere, il redattore teatrale, che decisamente aveva preso in simpatia questo educato e taciturno correttore di bozze, gli disse ancora:

‟Giovanotto, volete andare al Valle? fanno una commedia nuova, in cinque atti, di autore patrio: e corre una voce molto grave, che sia una commedia a tesi. Tutto questo è più forte di me: del resto, io ho da andare a Napoli. Che Iddio vi assista nella dolorosa prova! Darete gli appunti di cronaca a qualcuno in redazione che li compilerà. Chiederò notizie della vostra salute, al mio ritorno.” E non smentendo un minuto la sua gravità abituale, egli girò sui tacchi e andò via. Riccardo sorrise ironicamente: non era più un bambino come quello di una volta, per commuoversi di un biglietto di teatro. Placidamente lo serbò e non affrettò mica il suo pranzo per andare al Valle: obbedendo a un antico strascico di vanità giornalistica, disse ai suoi commensali, con aria sdegnosa:

‟Che noia, stasera! Il Pompiere è fuori e io ho ancora da andare al Valle, per udire una terribile commedia in cinque atti.”

‟Che originale, questo Joanna,” disse il suo ammiratore, il Brandi, altrimenti detto il segretario particolare di Joanna; ‟egli si secca di tutte le cose che divertono gli altri. Dammelo a me, questo biglietto, chè ci vado io.”

‟E l'articolo, lo fai tu?” disse Joanna, mentendo sfacciatamente.

‟Hai ragione,” mormorò l'altro, umiliato. ‟Non importa, vengo con te, comprerò il biglietto, cercherò di avere un posto vicino al tuo.”

Ma non lo ebbe, dovette contentarsi di un posto di platea, mentre Riccardo aveva una poltrona: si diedero appuntamento per dopo. Brandi accompagnava sempre Riccardo a casa. Confitto nella sua poltrona, Riccardo ascoltava attentamente la produzione; e mentre alle sue spalle e dietro a lui molti applaudivano, egli non dava segno di approvazione o d'altro. Un momento che si volse, vide il Brandi che applaudiva forte; Riccardo fece una levata di spalle.

La commedia era volgare, a grandi tirate rettoriche, tutta gonfia di parole sonore e di sentimenti lirici: ma la digestione rendeva sentimentali i borghesi della platea e il popolo del lubbione: i palchi, quieti, si astenevano. Vi era di tutto, nella commedia: la tesi del divorzio, l'emancipazione della donna, la tirata contro i seduttori, la tirata contro i preti, quella contro i potenti — e vi era il solito deputato frivolo e imbroglione, il solito giornalista imbecille e velenoso, una ragazza pura, un giovanotto virtuoso e tentato, una donna non virtuosa e tentatrice, infine l'antica miscela, la combinazione triviale dei vecchi elementi, un tritume, una rifrittura graveolente. In fondo, vi furono ancora degli applausi: ma gli spettatori delle poltrone e dei palchi si astennero. Sotto l'atrio Riccardo accese il suo sigaro a quello di Brandi e si avviarono insieme. Brandi era ancora tutto commosso:

‟L'autore di questa commedia è un uomo di grande ingegno,” esclamò l'impiegato postale.

‟Tu sei una bestia,” gli rispose tranquillamente Riccardo.

‟Sarà....” fece l'altro, un po' scosso.

‟Chi trova bella questa commedia è una bestia, caro mio.”

‟Già tu sei infallibile come il papa....” disse sottovoce il Brandi.

‟Non sono io infallibile, è l'autore che è un asino.”

‟Ma scusa.... la commedia è piaciuta.... tutti l'hanno applaudita.... è piena di posizioni drammatiche.... uno si commuove quando si toccano certi tasti.... a me, che vuoi, mi piace.... sarò pure una bestia.... ma puoi negare che le situazioni sieno assai interessanti?”

Come Riccardo fumava il suo sigaro in silenzio, senza ribattere le ragioni del Brandi, il Brandi seguitò, con la monotonia di un robinetto, a versare le cause della sua ammirazione per la commedia. Ripetè tutti i luoghi comuni che si possono dire, a proposito di un'opera drammatica: e la trovata che era una bellezza, l'intreccio di cui uno seguiva le fila con ansietà, la scena-madre, la scena forte che afferrava pel collo lo spettatore e lo costringeva all'attenzione, i finali di atto che colpivano l'immaginazione, il movimento naturale delle persone, e quelle persone, quelle persone che erano così vere, così rassomiglianti a certi tipi che noi conosciamo, quelle macchiette così vere, così spiritose: e infine lo scopo morale della commedia, la tesi, anzi le varie tesi sociali che vi s'intrecciavano.

‟Quando avrai finito di dire sciocchezze, mi lascerai parlare,” osservò Riccardo, mentre uscivano da Via di Pietra.

‟Parla, parla,” disse, rassegnato, il Brandi.

Allora Joanna cercò di spiegargli, con la maggior chiarezza possibile, con uno stile piano, le ragioni per cui quella commedia era cattiva. Smontandola, pezzo per pezzo, gli dimostrava la vecchiezza dell'argomento, anzi dei vari antichi argomenti cuciti insieme, già mille volte tentati come ingredienti di commedie: gli mostrava la rigidità automatica dei personaggi, la fanciulla non era simile a nessuna fanciulla umana, la moglie tentatrice non esisteva, un deputato come quello non si era mai visto, un giovanotto come l'eroe della commedia bisognava pescarlo nella luna, e il giornalista....

‟Oh il giornalista, poi, non puoi negare, è indovinato!”

‟Non vi sono di tali sciocchi cattivi, fra noi, e quando te lo dico io, basta,” ribattè severamente Joanna.

E ritornò all'argomento, prendendosi la pena di far vedere al Brandi come fossero fuori di uso, perchè vuote di senso, quelle tirate contro i preti, contro i banchieri e tutte le altre. Ora sprezzante, ora bonario, ora insultante, Riccardo Joanna distruggeva linea per linea la commedia, eseguendo certe brillanti variazioni di spirito e di critica, che avevano per solo ascoltatore Vincenzo Brandi, impiegato alle regie poste. Costui, presso la porticina di Riccardo Joanna a Via in Arcione, col pomo della mazzettina appoggiato alle labbra, ascoltava con una compunzione profonda l'attacco critico del suo amico: e i carabinieri che gironzavano intorno alle reali scuderie, manco si voltavano a vedere chi fosse quel declamatore che ora nominava Shakespeare e Molière. Parlava del teatro, ora, Riccardo, cavando dalla memoria, che aveva forte e pronta, citazioni e titoli, date e raffronti. Brandi, taciturno, non osava interrompere quel bel discorso, incantato, preso da quella forma varia ma efficace. Poco intendeva e poco poteva seguire il moto rapido del cervello di Riccardo: ma sentiva che egli diceva delle cose giuste, belle e profonde. Alla fine, inebetito, giusto quando Riccardo credeva di averlo convinto, di avergli dimostrato la trivialità della commedia e di coloro a cui piaceva, l'impiegato stupidamente disse:

‟Ma è stata molto applaudita....”

‟Va al diavolo!” gridò Riccardo imbestialito, ficcando la chiave nella toppa.

‟Ma almeno scrivile queste belle cose,” supplicò il disgraziato, ‟non le dire a me che non le capisco. Scritte, le capirò forse.”

‟Le scriverò, le scriverò, e tu non capirai mai nulla,” rispose Riccardo, dalla scala.

Andò subito a letto, sentendosi stanco; spense il lume, credendo di addormentarsi subito. Infatti un lieve sopore scese su lui: ma se ne ridestò di soprassalto, si rivoltò, sperando di riaddormentarsi. Niente: era nervoso: quel somaro di Brandi lo aveva trascinato ancora a discutere. E rifece nella sua testa la discussione di nuovo: e nel letto, voltandosi e rivoltandosi, trovava nuovi argomenti, pensava che avrebbe dovuto dire questo, questo e quest'altro, diventava furioso per non aver pensato prima la tal cosa e rideva ogni tanto, fra sè, a una frase comica che gli veniva. Ah, no, non poteva dormire, non ci era rimedio. Riaccese il lume, prese un volume di storia del commercio, su cui si preparava ai suoi esami, e lesse per un quarto d'ora, con molta attenzione, senza capire una parola: la mente non si staccava da quella commedia e dalla critica che ci si poteva fare. Poi, senza rendersi molto conto di quello che faceva, si alzò, si vestì e si dette a passeggiare su e giù per la stanza. Faceva freddo: ma egli non lo sentiva. Camminava con le mani in tasca e col capo abbassato sul petto, concentrato nelle sue idee, riunendole, con certe che si ostinavano e certe altre che sfuggivano. Aveva già pensata l'ultima frase del suo articolo, prima di mettersi a sedere: e seduto, cominciò a scrivere, come in sogno, sulle cartelle bianche che devotamente conservava sul suo tavolino. Non provava nessuna fatica e scriveva prestamente, come trasportato da uno spirito: ogni tanto si fermava e con la penna faceva dei segni sopra un altro foglio di carta, meccanicamente, mentre il pensiero seguiva il suo viaggio. La candela faceva lucignolo per lo scirocco umido della notte e scoppiettava: egli la guardava, senza vederla. Nitido, preciso, proseguiva il suo lavoro, nel silenzio della notte, dove si udivano soltanto i misteriosi scricchiolii dei vecchi mobili e lo strisciar della penna sulla carta: in un momento fu tanto l'impeto del pensiero che lo travolgeva, che egli si alzò da sedere, senza accorgersene, andò sino alla finestra, appoggiò la fronte calda ai vetri, sentendosi soffocare da tutte le cose che pensava e che tumultuosamente volevano uscire dal cervello. Ritornò subito al tavolino, a lavorare di nuovo, con lo stesso fervore, con lo stesso trasporto spirituale, per cui gli pareva di volar via sulla frase, trascinato da una volontà ferrea di cui sentiva la mano, ma gli mancava la coscienza. Mise una firma e la sottolineò con un grande tratto di penna. Un profondo sospiro di sollievo uscì dal suo petto, ma gli parve che qualcuno avesse sospirato accanto a lui. Senza rileggere, senza numerare le cartelle, senza raccoglierle come erano disperse, si spogliò in fretta, spense il lume e si addormentò subito, senza pensieri, senza sogni.

‟Perdio! che sonno,” disse Brandi, all'indomani, entrando nella stanza di Joanna. ‟Per fortuna che è domenica. Sono già venuto alle nove, che! Sua Eccellenza non ha risposto.”

Riccardo sorrise languidamente, non alzandosi ancora, godendosi il calduccio delle lenzuola.

‟Hai lavorato molto?”

‟Molto.”

‟Sino a che ora?”

‟Alle tre, credo.”

‟Mi lasci leggere?”

‟No, non serve.”

‟Leggerò stasera, allora. Vestiti e andiamo a portare l'articolo al giornale.”

Senza turbarsi punto, come se Brandi gli avesse proposto la più naturale delle cose, Riccardo Joanna si alzò, si vestì, arruffò la sua nera chioma ricciuta di cui era un po' fiero, mise una cravatta di raso nero, poichè egli si sacrificava in tutto, salvo che nel vestito. Gravemente, ma con la disinvoltura di un giornalista provetto, egli rilesse il suo articolo, aggiungendo qualche virgola, rifacendo qualche lettera male scritta, numerando le cartelle, piegandole in due, come aveva visto degli originali di altri scrittori.

‟Che bella cosa saper scrivere!” disse sospirando Brandi, che aveva ammirato tutta quella mimica.

‟Peuh! non è una gran cosa,” fece l'altro, con disprezzo.

‟E con questo articolo, quanto guadagni?”

‟Non so bene: secondo la misura,” rispose Joanna, parlando a caso.

I due impiegati si avviarono per Montecitorio: a Piazza Colonna incontrarono il direttore del Baiardo che scendeva con un paio di amici, per far colazione da Morteo. Riccardo Joanna fece un gran saluto, che gli fu reso con molta gentilezza.

‟È il direttore,” spiegò poi a Brandi, ‟e va a colazione.”

‟Ah! bravo,” faceva l'altro, come se quelle notizie lo facessero penetrare nella vita intima del Baiardo; ‟e quelli altri chi sono?”

‟Amici politici del giornale: ma io li conosco poco, capirai....”

‟È naturale, è naturale,” diceva Brandi, tutto pieno di maraviglia.

Salirono all'ufficio. Senza scomporsi Joanna cavò l'articolo di tasca, lo consegnò all'usciere e gli disse:

‟Giovanni, manderete questo con l'altro originale in tipografia. Io poi passerò alle quattro per la correzione.”

‟Che bella cosa, che bella cosa!” andava esclamando Brandi, mentre scendevano dal giornale.

Mentre facevano colazione, al Falcone, dove andavano qualche volta, alla domenica o nei giorni di paga, Riccardo Joanna ebbe la bontà di spiegare a Vincenzo Brandi molte cose oscure del giornalismo: e costui, che si era sempre lagnato del silenzio del suo amico, che gli aveva sempre rimproverato la sua musoneria, lo ascoltava, tutto beato, deliziandosi all'aspetto di quei mondi che la parola del suo amico gli schiudeva, pensando quante cose sieno impenetrabili nella vita e superiori alle nostre forze. La colazione si prolungava, amichevolmente, nelle mutue confidenze, perchè Vincenzo Brandi, per ricambiare la bontà di Riccardo Joanna, gli veniva raccontando tutti i suoi progetti per l'avvenire, e i concorsi in cui contava di riescire, e la ragazza che voleva sposare, fra un paio di anni, se essa aveva la pazienza di aspettarlo.

‟Anzi voglio fartela vedere, vieni con me,” disse Brandi con uno slancio supremo di tenerezza.

I due amici se ne andarono sottobraccio, pel Corso pieno di sole, in quella dolce giornata invernale, incontrando una processione di signore e di ragazze, che andavano o venivano dalla chiesa, stringendo nella mano il libro di messa, occhieggiando le amiche, sogguardando con la coda dell'occhio i giovanotti. Un lieto sole, un fiorire di belle ragazze, un incontrarsi di persone sorridenti.

‟La vita è bella,” disse Riccardo Joanna.

Ma Vincenzo Brandi non trovava bella ancora la vita, perchè al Corso mancava la sua ragazza: erano arrivati a Via Condotti, e non l'avevano ancora incontrata. Finalmente, la videro discendere dagli scalini di San Carlo, accanto a sua madre: era una piccolina bionda, un po' palliduccia, con gli occhi chiari, modestamente vestita. Salutò l'impiegato con un batter di palpebre: Riccardo Joanna udì tremare il braccio di Vincenzo Brandi sotto il suo.

‟Tu l'ami assai!” chiese Riccardo.

‟È una passione, caro mio, una vera passione.”

‟E che farai?”

‟Toh? me la sposo.”

‟Ah!” fece soltanto Riccardo, come se non avesse pensato questo scioglimento semplice.

La ragazza andava innanzi, essi venivano dietro: essa si rivolgeva naturalmente, per sorridere al suo innamorato. Centinaia di questi idilli si svolgevano pel Corso, dolcissimamente, nella lietezza del sole, nella purezza delle anime femminili consolate dalla preghiera. Una carrozza si fermò innanzi al palazzo Theodoli.

‟Guarda bene questa signora che scende,” disse subito Riccardo a Brandi.

Una signora snella e alta, tutta avvolta in una pelliccia bruna, con una veletta abbassata sul viso, discese: era una strana bellezza bianchissima, senz'ombra di roseo sulle guance, dai neri capelli rialzati audacemente sulla fronte e sulla nuca, dagli occhi verdi, lunghi, dalle lunghe ciglia. Ella entrò nel portone con un passo svelto, e scomparve nell'androne, senza rivoltarsi.

‟Ti piace?” chiese Riccardo.

‟.... Sì, mi piace.... è molto smorta,” mormorò Brandi, che non voleva far dispiacere al suo amico.

‟È la principessa Sackarine: una Russa.”

‟Ah!” fece Brandi.

‟Se legge il Baiardo, stasera, sarà contenta.”

‟Perchè?”

‟Era al Valle ier sera: e non applaudiva. L'ho scritto.”

I due amici girarono per Roma sino alle tre e mezzo, si lasciarono un momento prima delle quattro.

‟Mi secca di andare, ma debbo andare,” disse Riccardo. ‟A rivederci, ci vediamo a pranzo.”

E si avviò con le spalle un po' curve e le mani prosciolte della persona indolente. Senza dire nulla a nessuno, andò a sedersi nel suo camerottino: le bozze non erano venute ancora, le attese con pazienza, fumando una sigaretta. Una grande pace era nel suo cuore. Gli portarono le bozze da correggere: l'appendice, l'articolo politico, una corrispondenza erudita e poetica da Venezia, ma null'altro, il suo articolo non vi era. Non s'impazientì, non pensò nulla, sbrigava il suo cómpito speditamente, fermandosi ogni tanto per trarre una boccata di fumo dalla sigaretta. Vennero le altre bozze: le svolse placidamente, vi era il suo articolo. Soltanto, per la novità della calligrafia, era pieno zeppo di errori, e fu mestieri che egli vi facesse tutto un lavoro di riattamento. Quando ebbe finita la correzione, lesse il suo articolo, e gli sembrava la prosa di un altro, una prosa chiara, lucida, tutta solida, tutta nutrita, anzi troppo folta d'idee: e vibrava in essa un umorismo giovanile fatto di melanconia, una ironia piena di forza. Egli si dilettava in quella lettura, come un lettore che s'incontra in qualche cosa che assai gli piaccia, anche ignorandone l'autore. Mentre finiva quella lettura, il redattore capo entrò, guardò il correttore e gli disse:

‟Joanna?”

‟Signore?” e si alzò.

‟Ha fatto lei quell'articolo firmato Glauco?”

‟Sissignore.”

‟Ah!” fece soltanto l'altro.

Nulla soggiunse, voltò le spalle, uscì. Non aveva dimostrato nè collera, nè allegria. Joanna ricominciò il suo lavorío, sulle due prime pagine: l'articolo era in seconda pagina, e in colonna pareva abbastanza lungo. Andò in tipografia, la terza pagina non era pronta, dovette aspettare, seduto sull'alto seggiolone, innanzi al leggío, sotto la vampa del gas. Il direttore andava e veniva, affrettando i compositori, il giornale era un po' in ritardo quella sera e non sarebbe partito in tempo: gli abbonati avrebbero mormorato il giorno seguente. Quando gli ebbero portato la pagina, Riccardo si adoprò a far prestissimo, la macchina era pronta. Il direttore arrivò sino al leggío e acconciandosi le lenti d'oro sul naso, con un modo familiare, disse:

‟Signor Joanna?”

‟Signor direttore?”

‟Passi in amministrazione, quando le pare, a farsi pagare il suo articolo. Lo calcoli a dieci centesimi la linea.”

‟Sta bene.”

Si lasciarono. Ma Riccardo Joanna non uscì subito di tipografia come faceva ogni sera. Stette a guardare le pagine nere che l'impaginatore metteva sotto i rulli lucidi d'inchiostro. Subito la macchina si mise in movimento, un va e vieni rapido, rumoroso, ingoiando fogli bianchi dal di sopra, rigettandoli dal di sotto stampati. Una per una, con lo sguardo, Riccardo Joanna seguì le migliaia di copie che venivano fuori dalla macchina, che erano piegate dalle mani agili delle donne, chiuse nelle fasce, riunite in pacchi per essere mandate alla posta: seguì le migliaia di copie che venivano consegnate a fasci al distributore che doveva darle ai ragazzi e ai chioschi.

‟Dammi l'ultima copia,” disse sottovoce al proto.

Il proto gliela dette. La macchina si arrestò, il fornello fu spento, il gas fu abbassato, un silenzio regnò nella tipografia. Solo, fra le ombre bizzarre della macchina, con quel giornale in mano, Riccardo Joanna ebbe un minuto supremo di passione, minuto di paura e di audacia, di desiderio e di potenza. Un minuto: e la sua vita fu gettata.

..........

In Via dei Crociferi incontrò i due amici che si preparavano con lui all'esame di vice-segretario. Gli domandarono a che ora si poteva fare l'indomani la solita ripetizione.

‟Domani non posso,” rispose, asciutto, Riccardo.

‟Dopodomani, allora.”

‟Nè dopodomani, nè mai più. Non contate su me.”

‟E perchè?”

‟Perchè così.”

E li piantò, sorpresi; entrò nella trattoria Trevi, dove Vincenzo Brandi lo aspettava pazientemente per pranzare.

‟Andiamo via,” gli disse Riccardo.

Presolo pel braccio, senza dargli nessuna spiegazione, se lo trascinò dietro sino al Caffè di Roma, in Piazza San Carlo, sull'angolo di Via delle Carrozze. Nessuno dei due aveva mai pranzato in quel posto: ma la memoria dei sensi era viva, come quella della mente, in Riccardo, ed egli si trovò subito bene, intonato con l'ambiente ricco e caldo, pieno di banchieri, di donnine eleganti, di artisti fortunati, di maestri di musica alla moda. Egli ordinò il pranzo con una grande disinvoltura, come se non avesse fatto altro nella sua vita, rendendo estatico Vincenzo Brandi. Dopo le frutta Riccardo chiese dei sigari, avana, il caffè e il cognac. E nella serenità della digestione, Riccardo Joanna contò le linee del suo articolo per calcolare quanto aveva guadagnato in quel giorno.

‟Centottantadue linee, a dieci centesimi, quanto fanno?” andava ripetendo Riccardo.

‟Diciotto lire e venti centesimi,” rispose il fedele amico.

‟Non ci è tanto male, eh?”

‟Niente male, niente male, Riccardo!”

Una fioraia venne, dette dei fiori ai due amici: Riccardo le dette due franchi. Dopo pranzo, nella mitezza della sera, Riccardo volle fare una passeggiata in carrozza, per Trastevere, discorrendo piacevolmente con Vincenzo Brandi. Scesero a Piazza Sciarra: al solito l'impiegato postale volle accompagnare l'amico sino a casa. E sotto il portoncino calcolarono quanto aveva speso Riccardo in quel giorno:

‟Giusto, diciotto lire e cinquanta: trenta centesimi più di quanto hai guadagnato.”

‟Queste le avevo: non contano,” disse Riccardo.

Risero insieme, senza ragione, separandosi. Quando fu sopra, solo solo, un cocente rimorso, l'ultimo, avvelenò la coscienza di Riccardo. Ripensò tutto il passato, infanzia, adolescenza, giovinezza: pensò la promessa solenne fatta nell'ora più seria della sua vita. Aveva disubbidito. Ma addolorato, confuso, non si pentiva, non chiedeva perdono, non tornava indietro.

— Se tu vivessi, padre mio, mi assolveresti, — egli pensò, superbamente.

Nè s'ingannava.

III. I CAPELLI DI SANSONE.

Quando Riccardo Joanna schiuse la porta a cristalli per entrare nell'ufficio del Quasimodo si trovò avvolto in un nugolo di polvere che lo fece tossire. Gregorio, l'usciere, dando certi impetuosi colpi di scopa, si spingeva innanzi un mucchio di spazzatura. Gregorio, spazzando, conservava il suo eterno malumore misterioso contro la razza umana: malumore che ora assumeva la forma collerica di un borbottamento ringhioso, ora si manifestava in uno scetticismo pieno di malinconia.

‟Quanta polvere!” esclamò Riccardo.

‟Più ne levo e più ce ne sta,” rispose Gregorio, crollando il capo, sfiduciato.

Stavano l'uno di contro all'altro, il redattore e l'usciere, divisi dal mucchio di spazzatura: Gregorio lungo, allampanato, pallido, colla barbetta rada sulle guance giallastre, appoggiato alla scopa; il redattore, l'articolista brillante, Riccardo Joanna, bel giovanotto, dagli occhi azzurri pieni di languore, dalle palpebre livide cariche di stanchezza, dal fine mustacchio castagno sopra una bocca ancora fresca e rossa, dalle mani bianche femminili, ma tenaci come l'acciaio.

‟Ci sono lettere per me?” domandò il bel giornalista con la sua voce infranta da una grande lassezza.

‟Un mucchio,” e crollò filosoficamente le spalle, come compiangendo coloro che ancora scrivono delle lettere.

Riccardo scavalcò le spazzature ed entrò nella redazione, vuota, dove si sentiva forte ed acre l'odore della polvere smossa e quello dell'inchiostro di stamperia già rancido. In una cartella di metallo a compartimenti vi era un fascio di roba al suo indirizzo. In una busta gialla vi era un biglietto rosso con cui si avvertiva Riccardo Joanna che poteva pagare sino all'una pomeridiana del giorno seguente, al banco Savelli, l' effetto di lire mille che scadeva in quel giorno. Leggendo quell'avviso, mezzo stampato, mezzo manoscritto, stando solo in quella stanza dalla luce grigiastra, il volto di Riccardo Joanna si decompose.

‟Banco Savelli,” ripetè piano.

E all'idea tormentosa di quelle mille lire che non avrebbe mai potuto pagare l'indomani, si unì subito quella di donna Clelia Savelli, la bella moglie del patrizio banchiere. Erano già due volte in nove mesi che rinnovava quell'effetto di mille lire all'onesto strozzino che gli prendeva solo il tre per cento al mese, novanta lire alla volta: e da tre mesi faceva invano la corte a donna Clelia Savelli, la rosea, sorridente signora, dai grandi occhi grigi, dai denti sfolgoranti, la crudele e dolce signora che tanti uomini avevano amata invano. Questa volta lo strozzino aveva detto no, pel rinnovamento, voleva riavere il suo capitale, d'altronde la cambiale era girata: ma donna Clelia Savelli non diceva no, non diceva sì, rideva, rideva, nella sua irresistibile ilarità di donna bella e felice.

— Proprio al marito, proprio a lui, — mormorava Riccardo, a cui quel biglietto rosso scottava le dita. Distratto aprì la seconda lettera: era un vecchio abbonato di Mondovì Breo che rimproverava a Riccardo Joanna le idee audaci espresse nell'ultimo articolo sul divorzio; ma gliele rimproverava con un ossequio profondo, dandogli dell'illustre pubblicista. Invece uno studente, da Trieste, gli scriveva una cartolina piena d'entusiasmi e piena di punti ammirativi, a proposito dell'articolo sul divorzio: una maestra elementare da Colle Val d'Elsa, piena di una melanconica e sentimentale ammirazione, gli mandava una novellina, Fior di mughetto, sperando che egli la leggesse, e cercasse di farla pubblicare nello spiritoso Quasimodo; un suo amico di Napoli gli scriveva una cartolina domandandogli se era possibile trovar lavoro letterario e giornalistico in Roma. Già rasserenato a quel mite soffio di adulazione, Riccardo sorrideva: malgrado il continuo incensamento che da due anni gli facevano il pubblico e la critica ed i colleghi giornalisti, egli non era ancora disgustato dall'adulazione, era ancora quella una carezza soave che gli calmava i nervi. Con un puerile moto di vanità lasciò lettere e cartoline sulla scrivania, perchè i redattori del Quasimodo potessero leggerle, e schiuse un giornale della sera innanzi, mandato al suo indirizzo: non intendeva bene perchè glielo avessero mandato. E guardandolo con l'occhio giornalistico, scorse subito un segno rosso accanto ad un annunzio del concerto di Beniamino Cesi, per le due, alla Sala Dante: e trasalì di piacere. Doveva esser lei, proprio lei, la taciturna pensosa signora Caterina, dal volto di perla, dalle labbra sottili d'un tono di rosa morta, che non sapeva sorridere, che non voleva amare, ma che chinava il volto quando dal pianoforte toccato da mano appassionata uscivano i singhiozzi che scoppiano, lugubri, solitari nel Clair de lune, di Beethoven; nulla diceva Caterina, che tutti chiamavano santa Cecilia, ma dentro doveva tremarle l'anima per una emozione suprema. Macchinalmente, smorto innanzi a quel favore femminile, Riccardo si mise in tasca il giornale e nel giovane cuore, tutto pieno di fantasmi femminili, s'innalzò, sottile, potente, il fantasma tutto vibrante d'armonia di Caterina.

‟È venuto il Pierangeli,” disse Gregorio, entrando.

‟Ah! e che vuole?”

‟È venuto per quel conto di fiori.”

Riccardo fece un gesto di fastidio. Ora, dopo aver spazzato la stanza, Gregorio spolverava i mobili: ma non aveva piumacciolone nè strofinaccio. Tutto torvo, colle sopracciglia aggrottate, soffiava sul piano delle scrivanie e degli scaffali: la polvere si levava da un posto per posarsi altrove; ma Gregorio si riposava ogni tanto, come stanco per tutto quel fiato buttato. La stanza, male illuminata, conservava il suo aspetto impolverato e triste: Riccardo stava ritto, come indeciso, pensando a chi chiedere mille lire per pagare la cambiale l'indomani. Poi, seccato da quelle nuvolettine di polvere che Gregorio andava sollevando, voltò sulle calcagna e andò nella stanzetta dell'amministratore. Ivi Gaetanino Gargiulo, l'amministratore, un giovanotto bruno e smilzo, silenzioso ed ardente fumatore di sigarette, teneva aperto il registro degli abbonamenti innanzi a sè e contemplava il soffitto. Stava dalla mattina alla sera inchiodato su quel seggiolone di pelle, come se non potesse staccarsene, fumando sempre, con le unghie ingiallite dalle sigarette, gli occhi un po' inebetiti di colui che fuma troppo, lasciandosi andare a quella vita di contemplazione che i meridionali amano per contrasto.

‟Crescono gli abbonati eh?” domandò Riccardo.

‟Sì.”

‟Allora dammi cento lire.”

‟Non posso.”

‟Come non puoi?”

‟Ho pagato or ora una cambiale di duemila lire.”

‟Anche ieri avevi pagato una cambiale di duemila lire.”

‟Anche ieri ti sei preso cento lire,” ribattè Gargiulo, quietamente.

‟Via, hai ragione sempre tu: ma dammi queste cento lire.”

‟Non posso, non le ho.”

‟Non è possibile.”

‟Non le ho, posso darti delle sigarette, se le vuoi.”

‟Cinquanta lire?”

‟Neppure dieci.”

‟Eh va al diavolo!” gridò Joanna, con la sua voce lamentosa e rabbiosa di fanciullo viziato.

Gargiulo lo guardò coi suoi occhi chiari e inespressivi, ma non rispose. Egli nascondeva, sotto l'apparenza di persona istupidita dal fumo, la naturale e necessaria durezza della sua anima amministrativa. In fondo egli invidiava silenziosamente quei giovani redattori del Quasimodo che raccoglievano i minuti suffragi della stampa: biglietti ai teatri, sorrisi delle attrici, viaggi gratuiti per le inaugurazioni delle ferrovie; e prima di dar loro quattrini, quando li vedeva innanzi a sè, stretti da un fittizio o imperioso bisogno, egli si dava il piacere d'assaporare la sua potenza. Riccardo era già quasi uscito, quando Gregorio lo richiamò e gli disse:

‟Ha letto quello che ha scritto sulla lavagna il direttore?”

Riccardo, senza rispondere, andò difilato nello stanzino che pomposamente si chiamava salotto di ricevimento: stanzino adorno di due divani di tela russa, tutt'unti sulle spalliere e sui bracciuoli per le teste che vi si erano appoggiate, adorno di un falso caminetto in tela russa con un galloncino azzurro stinto, adorno di uno specchio coperto da un velo verde. Ivi all'odore di stantío della polvere si univa il puzzo dei sigari che vi erano stati fumati, e qua e là, su qualche mensoletta, sul falso caminetto, sul pianoforte vi erano dei mucchietti di cenere fredda, nauseante. Sopra una lavagna sospesa al muro, il direttore, capitato alle dieci in redazione, aveva scritto delle domande ai suoi redattori, che aveano risposto così:

— ‟Lamberti, lo fai un articolo sull'Afganistan?”

— ‟No, ci ho la moglie in parto: Lamberti.”

— ‟Scano, fammi il capocronaca sul muratore sfracellato: va all'ospedale.”

— ‟Sì: ma fammi pagare la carrozza da Gargiulo: Scano.”

La domanda: ‟Franceschetti, te la senti di tradurmi l'articolo del Fremdenblatt, sbagliando solo una ventina di parole?” non aveva risposta. Franceschetti non era ancora venuto in ufficio. Per Riccardo vi era questo:

— ‟Joanna, se le tue signore ti lasciano il tempo, fammi un articolo sulla principessa Pignatelli.” E Riccardo, preso il bastoncello di gesso, scrisse, superbamente:

— ‟Non ho nulla da dire alla gente sulla principessa Pignatelli: farò un articolo sul concerto Cesi, alle tre.”

Per le scale Riccardo Joanna incontrò Carlo Mosca, un redattore, quello che faceva i resoconti giudiziari, un fiero consumatore di aggettivi sanguinolenti.

‟Vai già a lavorare?”

‟No, cerco Gargiulo,” disse l'altro, alzando la faccia preoccupata.

‟È inutile,” disse Riccardo, con un gesto di sfiducia.

‟Perchè inutile?” e la voce era piena di desolazione.

‟Non ha un soldo.”

‟Proprio niente?”

‟Come ti dico.”

E restarono fermi sul pianerottolo, ambedue oppressi, guardando per la finestra, senza vederlo, il cortiletto semibuio, dove pendevano dai balconcini tanti cenci di vario colore, il piccolo bucato familiare delle serve vicine.

‟Tenterò,” fece Mosca, con un gesto disperato.

Riccardo fece sentire un risolino d'ironia e discese via: nell'androne, incontrando il postino delle raccomandate, preso da una curiosità bizzarra, gli domandò:

‟Nulla per Joanna?”

‟Nulla,” rispose l'altro, senza voltarsi, con la sua voce cantante.

A Riccardo era venuto in mente che qualcuno potesse mandargli del denaro, così, per una combinazione, una eredità, un dono di un ammiratore ricco, un amico che glielo confidasse per negoziarlo; la vita è un romanzo, un lungo romanzo inverosimile, pieno di donne amate e di cambiali pagate miracolosamente. Come lo avrebbe salvato un caso simile! Non poter pagare, al banco Savelli, al marito di donna Clelia, era una cosa per lui insopportabile, faceva scattare i suoi nervi. Ritto, sul marciapiedi del Corso, si lasciava passare la folla intorno, senza vederla. Alzando il capo intravide, dentro un coupé, donna Beatrice di Santaninfa; la carrozza andava lenta lenta, egli da Piazza Colonna la vide fermarsi innanzi al pasticciere Ronzi e Singer. Irresistibilmente attratto da quella seducente, provocante testa bionda, egli entrò dal pasticciere a prendere il wermouth. Vestita di nero; alta, flessibile, donna Beatrice, la bionda, dagli occhi verdi e dall'enigmatico sorriso, sceglieva le pastine, i biscotti, i puddings pel suo thè, e ne faceva fare dei pacchetti; con le mani sottili calzate di lunghi guanti di camoscio, prendeva i pasticcini ancora caldi e li mangiava gentilmente, lungamente, con una irritante espressione di voluttà sulla faccia. Riccardo Joanna, col bicchiere del wermouth in mano, senza bere, non distoglieva gli occhi di dosso a lei, la guardava con così fervida espressione di ammirazione, eravi nel suo sguardo tanto calore di vita, che la contessa arrossiva come se stesse accanto al fuoco e si muoveva nell'ambiente di quello sguardo come la salamandra fra le fiamme. Ella conosceva Joanna benissimo, sebbene nessuno glielo avesse mai presentato; sapeva bene che egli era l'articolista prediletto delle signore per quella miscela di languore e di audacia che era nella sua prosa; sapeva bene che egli era il cronista dell'eleganza femminile, il deificatore della bellezza muliebre. Ella, dunque, posava per lui: socchiudeva gli occhi di smeraldo puro, trasparente, rosicchiava le pastine, sorridendo; sulle labbra grosse e rosse vi era un orlo di zucchero finissimo, provocante; stendeva la mano regale, con un gesto vago, per indicare certi biscotti bruni; piegava un po' il corpo; beveva lentamente, con una linea di braccio alzata, da statua, con gli occhi spalancati, come dilatati nella loro verdezza, con le sopracciglia spianate, il bicchiere colmo di Porto. Riccardo era incantato; nella bottega tutta bianca di marmi entrava un raggio del sole meridiano primaverile; i camerieri andavano, venivano, premurosi, dai tavolinetti al banco, portando i piatti dei pasticcini ed i bicchieri di Malaga, di Marsala, di Xeres; nell'aria stava un odore di cose dolci, zucchero, crema, vainiglia, cioccolatte; nella fontanella del banco l'acqua scorreva, cantando; ogni tanto si udiva il fruscío dell'acqua di seltz che schiumava dal sifone nel bicchiere, — e Riccardo si lasciava andare, dolcissimamente, alla seduzione di questo ambiente che lusingava i sensi. La contessa di Santaninfa lo incantava, in quel sole caldo e mite, fra quegli odori di cose dolci, fra quei riflessi rosei di vini e di sciroppi; quella eleganza sapiente di acconciatura, la ricchezza della stoffa, l'armonia della tinta e della linea, quella bellezza bizzarra e provocante e sicura e altera, quella trionfante civetteria femminile, che più audacemente si manifesta e più attrae, realizzavano i suoi sogni di poeta adoratore della donna. Egli si abbandonava ad un languore estatico, una specie di molle beatitudine, dove la bionda contessa dagli occhi verdi di pietra preziosa gettava un'acredine di fantasia insoddisfatta. Ella uscì, scomparve qual dea. E Riccardo ebbe come un senso di freddo, come se fosse entrato in una vasta, glaciale, solitudine. E in quel freddo, in quel senso amaro di solitudine, il suo segreto tormento finanziario si risvegliò, gli dette una stretta al cuore, lo fece trasalire come la donna che sente nel seno il morso dello scirro. L'idea di far colazione solo, con quella sottile e cocente tortura interiore, gli era insopportabile; passeggiò lentamente pel Corso, cercando qualcuno che volesse mangiare con lui. Invero non aveva denaro, nè per sè nè pel suo futuro invitato, ma al Caffè del Parlamento gli facevano credito, anche per quindici giorni. Trovò Scano, il cronista, un giovanotto che scriveva delle cronache comiche, zeppe di bisticci, di meditate, profonde cretinerie, e che nella vita era di un contegno lugubre, schivava la gente, non andava nei caffè per economia o per amore di melanconia; ogni volta che lo invitavano a pranzo o a colazione, Scano rifiutava, aveva già fatta colazione, si schermiva con una resistenza, una durezza di persona timida e fiera che non vuole essere compatita.

‟Fa' colazione con me,” gli disse Joanna, ‟mi fai un favore.”

‟Ho già fatto, non posso.”

‟Non ti credo, sei un orso.”

L'altro arrossì, ma non disse nulla. Riccardo continuò a pregarlo con quella sua voce spezzata dalla stanchezza, guardandolo con quei suoi occhi pieni di una tristezza inguaribile, tanto che Scano si commosse e disse che gli avrebbe almeno tenuto compagnia per non sembrare un orso. Riccardo conservava nella faccia quell'ombra di sfinimento che molti prendevano per una posa, e mentre il cameriere del Caffè del Parlamento gli veniva spifferando la lista delle vivande, egli scoteva il capo, dicendo no, sempre:

Bove brasato, arrostino annegato, ossobuco, costola di manzo, ” incominciava il cameriere.

‟Si prende un buco e ci si mette attorno un osso,” mormorò tetramente Scano, pensando a mettere questa scioccheria nella cronaca dell'indomani.

‟Non hai nulla, nulla di diverso?” chiese Joanna al cameriere.

Il cameriere fece un cenno di desolazione, come se mai vi potesse essere nulla di nuovo nella sua trattoria e in tutte le trattorie. E nella memoria dello stomaco di Joanna era così lunga la fila dei buoi brasati, degli ossobuchi, degli arrostini annegati, delle costole di manzo, che nulla poteva più farlo trasalire di desiderio, lo stomaco giaceva in una atonia donde non valse a trarlo neppure la magnifica offerta di una trota.

‟Dammi delle ostriche e del caviale,” disse Joanna, alla fine.

‟Se egli ti avesse dato del bue, tu potevi dargli dell'asino,” mormorò Scano, con quella mite intonazione di malinconia che gli serviva a ripetere le sue vecchie freddure.

‟O Scano, tu mi contristi, amico mio.”

‟O Riccardo, più felice di te, in Roma non vi è che l'acqua di tal nome. Noi t'invidiamo tutti; noi abbiamo trovato così un mezzo di nutrirci economicamente, poichè si dice: L'invidia, figliuol mio, sè stessa macera.

‟Non puoi tu parlare semplicemente, come parlano tutti gli altri di questa terra?” gridò Riccardo, esasperato. ‟Devi per forza irresistibile fare la freddura? Ti sei abbrutito?”

‟Credo,” rispose Scano, sorridendo pallidamente.

Non voleva mangiare nè le ostriche, nè il caviale. Riccardo dovette obbligarlo; Scano si difendeva con fiacchezza, sostenendo sempre che aveva già fatta colazione, timido dinanzi alle cortesie, temendo sempre che gliele facessero per un senso di pietà; ed esagerando come tutte le persone ingenue, disse male delle ostriche, sostenne che il caviale non valeva le uova di tonno.

‟Perchè m'invidiate?” chiese Riccardo.

‟La tua prosa va: tutti la vogliono. Tu prendi cinquanta lire ad articolo, ne puoi fare uno al giorno, perchè non ne fai due al giorno?”

‟Per questo,” rispose Riccardo, brevemente.

‟Fossi in te, li farei.”

‟Fossi tu in me, non li faresti,” ribattè Riccardo, sempre più scuro nella faccia.

‟Perchè?”

‟Perchè non si può.”

Tacquero. Scano non voleva dividere con Joanna i crostini in salsa di alici, un cibo piccante da stomachi guasti; ma il caviale, le ostriche e il Capri bianco lo avevano eccitato, la sua resistenza fu di pura forma. Joanna era sempre buono per lui, Scano lo ammirava ingenuamente, si lasciava andare a qualche confidenza con lui.

‟Vedi, Riccardo, tante volte le penso anch'io quelle cose che tu scrivi, così bene, con tanta efficacia; perchè non le scrivo mai? Non so. Hai ragione, ho il cervello guasto; quello del cronista è un morbo cronico. Il fatto di sangue ci entra nel medesimo e la data di cronaca diventa quella di tutta la nostra vita.”

Riccardo sorrideva; quelle volgari freddure non lo irritavano più. Era quello il nuovo vocabolario giornalistico, con cui si parlava e si scriveva, e lo sentiva da due anni; ci si ribellava ogni tanto, nei momenti di maggior nervosità, ma in fondo quel frasario bizzarro e convenzionale, quello spezzamento metodico e cervellotico delle parole, quel doppio significato cavato fuori a forza, stillato dopo intiere mezz'ore di riflessioni mute, per cui i fredduristi hanno sempre l'aria di filosofi profondi o di uomini perfettamente infelici, per cui la loro compagnia è funebre, quel vocabolario falso, così lontano dalle verità quotidiane della vita, lo cullava. Quello, infine, era uno dei vari gerghi giornalistici, il più alla moda fra il pubblico grosso, come il gergo poetico e aggettivante di Riccardo era alla moda fra i letterati e le signore.

‟Io, alla fine,” proseguì Scano, ‟non ho che un solo desiderio: non vorrei essere il re di tal nome, che andò a finir male, secondo dicono gli storici, sebbene la storia l'abbiano inventata gli storici per poi poterla scrivere....”

‟E che vorresti?”

‟Vorrei avere mille lire, tutte insieme....”

‟Oh!” fece dolorosamente Riccardo.

‟Se qualcuno me le prestasse, io gliele restituirei. Sicuro, a venti franchi al mese, togliendole dai duecento che guadagno.”

‟Ci vorrebbero cinque o sei anni.”

‟Giusto quattro anni e due mesi. Credi tu che qualcuno me le presterà mai?”

‟Io non lo credo, Scano mio.”

Tacquero di nuovo, pensosi. Mentre prendeva il caffè, Scano scriveva delle cifre con la matita sul piano di marmo del tavolino.

‟Che fai?” chiese Riccardo.

‟Calcolo.... calcolo che potrei pagare anche venticinque lire al mese, stringendomi un poco. Ma i calcoli.... i calcoli, come sai, sono una malattia....”

Riccardo non pagò, non volle vedere neppure il conto: anzi prese dal cameriere anche venti sigari di avana, regalias, e una scatola di sigarette russe. Scano non volle accettare che un sigaro e quattro sigarette; per schermirsi egli disse che i sigari napoletani erano superiori a tutti gli altri, e che lui li preferiva.

Sulla soglia del caffè Riccardo fu preso dalla incertezza; era l'una e mezzo, doveva andare alla Lotteria di beneficenza, in Via Nazionale, dove avrebbe trovato donna Tecla Spada, la mordente marchesa, dal naso sottile, dal mento acuto e dagli occhi neri e pizzicanti come il pepe. Ogni volta che si trovavano lui e la marchesa, che portava sempre un nastro rosso infantile negli arruffati capelli neri, vi era un lungo ed acuto combattimento di parole, di frizzi, di paradossi. Ella posava per la donna di spirito e talvolta era spiritosa; ma la sua reputazione la rovinava, ella voleva far dello spirito a qualunque costo, spesso diventava insolente, la sua voce strideva come metallo limato. Riccardo usciva da quella conversazione nervosa, eccitante, con una irritazione che aveva il suo lato piacevole. Ora nel momento della digestione, con la fantasia risvegliata dal Capri, gli veniva una grande voglia di combattere una battaglia di sillogismi bislacchi con la simpatica marchesa dalla bruttezza attraente. Ma alle due cominciava il concerto Cesi e Via Nazionale era così lontana! Forse, prendendo una carrozza.... trattenendosi soltanto per mezz'ora.... ma come l'avrebbe pagata questa carrozza? Basta, un santo avrebbe provveduto. Scano e Joanna si divisero; ognuno salì in carrozza, innanzi al caffè; Scano vi andava coi quattrini della cronaca, Joanna senza quattrini affatto; i pedoni oziosi invidiavano, sospirando, i due giornalisti.

‟Corsa di consolazione,” esclamò Scano, che andava all'ospedale omonimo.

Sulla porta del palazzo dell'Esposizione Riccardo lasciò la carrozza, dicendo al cocchiere di aspettare; tanto lo prendeva a ora, avrebbe pagato più tardi, anche in quel momento la dilazione, la speranza dei disperati, lo lusingava. La lotteria era nel salone terreno, in fondo: attorno alla tavola vi era pochissima gente, le signore sbadigliavano, annoiate, dando ogni tanto un colpetto al manubrio delle urne, dove rotolavano i cartoccetti sottili dei numeri, mentre nel fondo, sopra una piattaforma, vi era l'esposizione degli oggetti, una farragine di tutte cose meschine. La marchesa Spada aveva il suo tavolino presso la porta, chiamò subito Riccardo.

‟Joanna, Joanna, venga qui, si prenda un migliaio di numeri.”

Egli rimase interdetto, non aveva pensato a questo. Pure si accostò:

‟È fatta l'elemosina,” disse, cercando di scherzare.

‟Io sono una poverella privilegiata, mi hanno rilasciato brevetto, s. g. d. g., come nelle scatolette dei fiammiferi. Prenda dei numeri, Joanna, può guadagnare l'anello del Kedive.”

‟Ma che! L'anello del Kedive non è nei numeri, o è falso, o non è mai esistito anello di Kedive: questo è un covo di vagabonde, oziose, mendicanti e truffatrici,” e rideva rideva nervosamente, volendo nascondere con l'audacia il suo imbarazzo. ‟Perchè non va al concerto Cesi, invece di seccarsi qui?”

‟Perchè non ho bisogno di un accompagnamento di Mendelssohn per flirtare, io!”

‟Preferisce Cimarosa?”

‟Non flirto io.”

‟Sì? e allora che son venuto a fare, io, qui?”

‟Un corso d'impertinenza, a quel che pare.”

‟Grazie della lezione,” fece Riccardo inchinandosi. Ella rise: era ben seducente, ridendo, per Joanna, la marchesa Tecla Spada. Le labbra sottili si distendevano su certi dentini minuti minuti, e i piccoli occhi neri brillavano, mordevano, bruciavano.

‟Io me ne vado a sentire Beethoven, marchesa; egli è più onesto di lei, che non flirta, che tende dei tranelli ai suoi amici, con le lotterie. Ci va, almeno, a Villa Borghese oggi?”

‟Ci vado: porterò meco cento numeri per lei, Joanna.”

‟Inoltrerò querela al procuratore del Re, per rapina. E all'Apollo ci viene, questa sera?”

‟Joanna, lei ha l'aria di volermi sedurre, come una inesperta fanciulletta.”

‟Questa è infatti la mia intenzione, marchesa,” soggiunse Joanna, gravemente.

‟Stia attento alla sua riputazione, allora: ella si compromette orribilmente con me.”

‟Oh!” fece lui, come desolato, ‟non ho più nulla da perdere.”

E girando sulle calcagna, andò via subito senza voltarsi indietro, temendo d'essere richiamato; si buttò con un sospiro di sollievo dentro la sua carrozza, guarito della orribile angoscia di quei minuti, disfatto dallo sforzo, ma tranquillo. Pensava fra sè: — Avrà capito la marchesa che non avevo un soldo in tasca? — Questo dubbio lo crucciava, gli faceva venire i sudori freddi come nel salone dell'Esposizione, lo faceva tremare di collera e di vergogna, di nuovo, soffrendo nel suo esacerbato, sconfinato amor proprio, che infuriava a qualunque contatto. Era vergognoso di quella sua povertà, nascosta con tutta la cura, ma che ogni tanto trapelava: era arso da desiderii sempre più forti e più larghi, disprezzava quel migliaio di lire che guadagnava al mese, sfacchinando, buttando via il meglio di quello che pensava e sentiva, sfruttando il suo successo, imponendosi con quella sua ardente voglia di guadagnar quattrini. Mille lire! che erano mille lire, consumate a cinquanta lire alla volta, in un giorno talvolta? Erano così feroci i suoi desiderii, e così poche quelle mille lire, in un lungo mese di tanti giorni! Era così duro, così pesante fare un articolo, e cinquanta lire duravano tanto poco! Ma un pensiero sprezzante lo calmò, ad un tratto:

— Queste femmine crudeli non sanno nulla della vita: la marchesa non avrà capito niente. —

La Sala Dante era piena di gente. Beniamino Cesi era un artista molto amato nella società romana: in tutta la lunghezza della sala vi erano cinque file profonde di signore, nell'aria tepida primaverile alitava quel delicato soffio femminile, odore di stoffe, odore di capigliature, odore di pelle macerata nei profumi. Con le nari dilatate e frementi, Riccardo Joanna respirò quell'alito, un'espressione di benessere gli si dipinse sul volto. Tenendo il cappello in mano, lasciando vedere la ricciuta testa dalla bianchissima fronte, cercando vagamente con gli occhi una persona ancora introvabile, Riccardo Joanna si avanzava, senza far rumore, strisciando fra le sedie, con la cautela del gentiluomo che non vuol disturbare, con l'aria della persona illustre ma modesta che non vuole attirare l'attenzione. Qualche testa femminile si volse a guardare due volte il bel giovane dal viso pensoso e languente, qualche voce sussurrò: Joanna. Piccolo mormorio dilettoso che si levava sempre sul passaggio di Riccardo, e che il suo orecchio fino coglieva a volo, suffragio carezzevole dell'ammirazione, che gli produceva sempre un trasalimento di vanità. Sul lato sinistro della sala, accanto a due signore, vi era una sedia vuota, vi sedette, senza far rumore, cercando con gli occhi Caterina. Era poco lontana da lui, la bruna creatura mistica, dai grandi occhi neri e torbidi — un nero opaco di carbone, — ed il viso pallidissimo, di anima inferma, non ebbe neppure un brivido, scorgendo Riccardo Joanna solo. Come aveva guardato nella bottega del pasticciere la contessa Beatrice di Santaninfa, Riccardo guardava intensamente donna Caterina, mettendo tutta la potenza de' suoi nervi in quello sguardo. Naturalmente solo la donna aveva il potere di fissare e di concentrare l'anima vagabonda di Riccardo, solo la donna ne attraeva tutti i sogni in un sogno solo, solo la donna gli dava l'obblio di ogni cura. E della donna lo attraeva tutto: bellezza aperta, sfacciatamente luminosa, assorbente come il sole, o timida purità di bellezza immersa nella penombra, fantasia mondana che di frivolezze vive e di frivolezze non sa morire — o immaginazione sentimentale che cerca l'amore e non vuol subirlo, avendolo trovato — o cuore profondo e sconosciuto che si ammanta di leggerezza, ma palpita di passione — o grande mistero indecifrabile di cuore, di sensi, di fantasia, come spesso la donna è. — Le labbra della bionda contessa impolverate di zucchero chiamavano i baci dell'amatore pazzo e irriverente; gli occhi cocenti di donna Tecla Spada davano all'amatore crudele il desiderio di vederli dolcificati dalle lagrime dell'amore; ma egualmente strano doveva essere il segreto delle labbra violette e dei neri occhi di carbone di donna Caterina Spinola. Baciavano quelle labbra smorte che non sapevano ridere? Che erano, nell'amore, quegli occhi spenti? Riccardo guardava donna Caterina, profondamente interessato, amandola con tutto l'impeto dei suoi nervi, come aveva amato la contessa di Santaninfa e donna Tecla Spada: e desiderando di essere amato da lei, non volendo altro, non desiderando altro, come aveva desiderato l'amore di donna Beatrice e di donna Tecla, parendogli che oltre quell'amore niente altro vi fosse.

Nel grande, religioso silenzio degli ascoltatori, Cesi sonava: e sonava con quel concentramento, con quell'assorbimento delle sue ore di musica solitaria. Giammai si voltava al pubblico, sonando, e distrattamente, come se nulla vedessero, i suoi occhi seguivano il volo delle sue mani sulla tastiera bianca e nera. Un pensiero di Beethoven, pensiero grave, quasi solenne, si allargava nella nota di una musica eminentemente semplice: e il pensiero parlava di cose alte e pure, di nobili cose che nascono dal cuore e al cuore arrivano. Donna Caterina Spinola, sotto la falda nera del gran cappello piumato alla Rubens, stava a sentire con la faccia immobile, senza batter palpebra. Non si voltava mai a guardare Riccardo Joanna, solo un lievissimo rossore le si distendeva di mano in mano sotto gli occhi, a striature. Non si scosse neppure quando Cesi fu applaudito alla fine del pezzo. Riccardo, scontento di quella indifferenza, di quella freddezza, cominciava ad irritarsi, un senso di collera si mescolava al suo desiderio. Non era dunque lei che gli aveva mandato il giornale, segnato col lapis rosso? Non era quella una dichiarazione chiara ed aperta, nel medesimo tempo un appuntamento dato senza essere stato richiesto? Ed ella non si smoveva, inflessibile, in quella morte apparente del suo viso; tanto che, profittando del movimento fra un pezzo e l'altro, egli si tolse donde era seduto, e scivolando fra la gente, andò a sedere alle spalle di donna Caterina.

‟Ebbene?” le disse, duramente, con la prepotenza dell'uomo imperioso.

‟Che cosa?” domandò lei, senza voltarsi, senza turbarsi.

‟Niente,” fece lui, chinando il capo, umiliato, sentendosi salire un flutto di lagrime agli occhi, un nodo di singhiozzi alla gola.

E un lamentío, un singhiozzo era nell'aria divina di Pergolese: Tre giorni son che Nina, che Cesi sonava al pianoforte. Nina era ammalata, Nina si moriva d'amore, e la musica piangeva sulla giovinetta morente con una insistente mestizia, con un abbandono di note musicali che si trascinavano, tristi, monotone, profonde, appassionate di dolore. Donna Caterina Spinola, che le amiche chiamavano Santa Cecilia, piegava un po' il capo, come se poca forza ornai lo reggesse, come se avesse bisogno di un petto su cui appoggiarsi e piangere.

‟Caterina,” mormorò la voce tramutata del fanciullo infelice.

E fu così forte l'appello, giunse così direttamente alle fibre profonde di quel cuore di donna, fu così potente l'evocazione, come quella di Cristo innanzi alla tomba di Lazzaro, che senza voltarsi, ella disse:

‟A San Pietro, dopo il concerto.”

Quando Riccardo Joanna scese la scaletta della Sala Dante, trovò il suo cocchiere che lo aspettava pazientemente con le gambe incrociate, leggendo un giornaletto del mattino, molto popolare fra i vetturini. Joanna fu interdetto, un minuto, pensando che non aveva nulla da dare a questo cocchiere, ma la sua fantasia correva già a San Pietro; pure, macchinalmente, cavò di tasca un taccuino, ne lacerò una paginetta e ci scrisse:

‟Caro Carlo, non posso farti il concerto Cesi, vengo alle cinque in ufficio a fare il giovedì santo a San Pietro. Ciao. — Riccardo.”

Non osando salire in ufficio, passando innanzi il portone del Quasimodo, lasciò il bigliettino al portinaio, perchè lo portasse su al direttore del giornale, e fece galoppare il cavalluccio della botte verso San Pietro, vinto da una grande impazienza, cercando domare la febbre dei suoi polsi. L'atmosfera fresca e la penombra della basilica lo calmarono subito: tanto che essendovi entrato di corsa, immediatamente rallentò il passo, placato, felice, come l'uomo che è accanto alla felicità. Donna Caterina Spinola non si vedeva, la basilica era quasi vuota, e in fondo ad una cappella laterale, certi preti e certi diaconi cantavano nasalmente, inascoltati, le antifone della passione di Gesù. Riccardo andava attorno, senza far rumore, cercando il cappello piumato di donna Caterina, sapendo di doverlo trovare da un minuto all'altro. Infatti vide un'ombra nera inginocchiata al cancello di bronzo della cappella di papa Della Rovere; le si accostò, la lasciò pregare, non le disse nulla, non la chiamò. Ella sapeva bene che egli era là, ma reclinato il capo, le mani congiunte, orava fervidamente. Non si alzò che dopo qualche tempo, s'inchinò, fece un ampio segno di croce e si pose accanto a Riccardo. Passeggiarono insieme, guardando distrattamente i monumenti, scambiando qualche parola.

‟La chiesa è troppo vasta.”

‟E fredda,” e rabbrividì sotto il suo mantello di velluto nero che sembrava una coltre funebre.

‟Voi pregate però, qui, signora.”

‟Prego sempre.”

‟Che gli dite a Dio?”

‟Tutto.”

‟Ditelo anche a me.”

‟No.”

‟Perchè?”

‟Perchè.... così.”

‟Che volete da me, allora?”

‟Non voglio nulla.”

Tacquero, ella già chiusa e diffidente, gelata nel misticismo bizzarro del suo spirito, indietreggiando spaventata e sospettosa innanzi al fatto che stava per compiersi: egli scontento ed offeso nel suo amor proprio di uomo, sentendo il ridicolo di quella posizione, di due che non si amano e che si pentono di aver voluto cominciare ad amarsi.

Riccardo specialmente, anima ansiosa di amore, ardente ricercatore di avventure, credendo tutto dovuto al suo ingegno e alla sua bellezza, era crudelmente mortificato; sotto la calma esteriore, sotto il consueto pallore del bel viso giovanile, infuriava una grande collera di amor proprio. Come un fanciullo che tutto vuole e a cui tutto è negato, egli avrebbe voluto piangere, strillare, battere i piedi in terra, far male a quella donna, lacerarle il vestito; ma si dominava con un forte sforzo, cercava di lasciarsi vincere da quel disprezzo del femminile che ogni tanto trapelava attraverso il suo entusiasmo per la donna.

‟Vi piace la Nina, signora?” chiese freddamente, come se si trovasse in un salone e non in quella immensa chiesa fresca e silenziosa, a un convegno d'amore.

‟Mi piace assai,” rispose l'altra, fissandogli in viso i suoi occhioni tetri.

‟E perchè vi piace?”

‟Perchè intendo il suo dolore.”

‟Che!” fece lui, con un disprezzo profondo, con un riso fierissimo d'ironia.

‟Addio, signore.”

‟Addio, signora.”

Ella affrettò il passo, senza voltarsi, senza neppure farsi il segno della croce, uscendo dalla chiesa. Riccardo, non soddisfatto di quello che le aveva detto, rabbioso contro sè stesso e contro tutte le femmine, non la seguì neppure, la lasciò allontanare, mandando alla malora le beghine e la musica e l'amore. Uscì dopo; la vista della sua carrozza che lo aspettava lo fece trasalire di nuovo, come se una trafittura, per poco calmata, ricominciasse a trapassargli l'anima.

‟Dove andiamo?” chiese il cocchiere.

‟Andiamo.... al Corso, va piano, che non c'è premura.”

E morsicchiando il suo sigaro avana, al mezzo trotto del cavalluccio, Riccardo si domandava, ostinatamente, come avrebbe fatto a pagare quel cocchiere; erano le cinque, forse, doveva dargli tre ore e mezzo, almeno sette lire, doveva trovare sette lire fra tre minuti, per darle a quell'odioso cocchiere, che gli pesava sullo stomaco come un incubo. Per Via Borgo, lungo il Tevere, per Ponte Sant'Angelo, Joanna si guardava attorno vagamente, con una curiosità disperata, come se dovesse trovare nelle insegne delle botteghe, nelle vetrine, nelle acque sacre del fiume, nelle statue brune, le sette lire per pagare il suo cocchiere, il suo feroce nemico che non lo abbandonava. Oramai l'offesa al suo orgoglio di uomo che gli aveva fatto subire donna Caterina Spinola si affievoliva sempre più, dinanzi al cruccio reale, presente, di queste sette lire mancanti, che egli doveva trovare ad ogni costo: e si rammentava di donna Caterina, perchè era proprio lei che se lo era trascinato dietro a San Pietro, aumentando così a ogni minuto il suo debito verso il cocchiere, facendolo morsicare sempre più profondamente da quel verme roditore che è la carrozza presa a ora. Nella stretta via di Tordinona, la sua carrozza si fermò; un coupé ingombrava la via, fermo innanzi ad una bottega di antiquario. Sulla porta della bottega, una signora parlava vivamente con un commesso dell'antiquario, un giovanotto pallido, anemico, coi capelli rossi, gli occhi lattei e le guance macchiate di lentiggini. Era donna Clelia Savelli, che vedendo Riccardo, subito gli sorrise, facendogli un amichevole cenno del capo: egli restò incantato innanzi a quel sorriso, d'un tratto rasserenato, con una letizia che gli penetrava nel cervello, gli si diffondeva per le vene. Scese dalla carrozza, raggiunse donna Clelia.

‟Eccomi sorpresa,” disse ella, ridendo. ‟È un gran mistero, tutta un'istoria, ma per carità, non la racconti sul giornale!”

‟Io la racconto sicuro.”

‟No no, la prego, sia discreto.”

‟Me la paga, questa discrezione?”

‟A che prezzo?”

‟A discrezione.”

‟Bene, si vedrà. Sa, si ricorda, che io desiderava da gran tempo una portantina? Quella portantina tutta dorata, dipinta sulle quattro pareti, così barocche, così artistiche nel loro barocchismo? Vari amici mi avevano promesso di trovarmela, una portantina, anche lei doveva far ricerca, si rammenta? Ebbene, io ho da ieri la mia portantina, foderata di vecchio velluto rosso, una tinta disfatta che è seducentissima....”

‟Come lei....”

‟Come me, più di me, anzi! Indovini chi me l'ha data?”

‟Io non indovino mai nulla, presso lei.”

‟Mio marito, glielo dico subito: quel caro e buon marito che attraverso i suoi affari di banca ha il tempo di pensare alle mie portantine. Che marito!”

‟Eccellente,” mormorò Riccardo, come distratto.

‟Ha duecento anni la mia portantina, è vecchia assai, una perla di portantina, credo che l'abbia pagata mille franchi, per la rarità. È, del resto, bruttina, ma io la desideravo tanto!”

‟Si farà condurre in portantina?”

‟Ma no: quella non serve a nulla, la terrò in salone, vi metteremo in penitenza quelli che mancano da troppo tempo da casa nostra.”

‟Non io vi andrò.”

‟No; lei è molto fedele. Ritornando al mio discorso, io cerco di rendere la cortesia a mio marito. Voglio donargli una bella cosa pel suo scrittoio, che ne dice? un pugnale, un bel pugnale moresco, ricurvo....”

‟Il coltello divide, contessa.”

‟Dividere per regnare,” e rise in un modo seducentissimo. ‟Io tengo al mio pugnale, ma qui non ve ne sono; ne ha visti, lei, dei pugnali, dei bei pugnali, in qualche posto?”

‟Nel mio cuore, contessa, come si dice nei vecchi romanzi.”

‟I vecchi romanzi sono più belli dei nuovi articoli: ma dove potrei trovare il pugnale per mio marito? Da Cagiati?”

‟No, non credo.”

‟Da Janetti, allora?”

‟Forse; o dalla Beretta, vi sarà qualche pugnale giapponese con cui quella brava gente ha l'onesta abitudine di aprirsi il ventre.”

‟Bene, venga con me, Joanna, bibelotteremo assieme.”

‟È che dovrei andare al giornale,” disse lui, abbozzando un pallido sorriso.

‟Oh! il giornale, a che serve? io l'aspetto dalla Beretta, venga.”

E lestamente salì nel coupé. Riccardo rimase sulla soglia della bottega di antiquario, stupefatto, guardando fuggire la carrozza.

‟Lo vuole, un bel cofano da nozze?” domandò placidamente a Joanna il commesso pallido dai capelli rossi.

‟No, no.”

‟Allora una lampada di argento antico?”

‟Non mi serve,” rispose il giornalista, sempre più imbarazzato.

Ma ancora gli balenava dinnanzi la luce di quegli occhi incantatori, luce tutta temperata di dolcezza che infondeva una letizia a colui che la contemplava; e non esitò più, si buttò in carrozza, ordinando al cocchiere di condurlo in Via Condotti, accordando a sè stesso un'altra dilazione, tutto preso di donna Clelia. Anzi, di nuovo trasportato nelle esaltazioni della fantasia, scese precipitosamente davanti al grande magazzino della Beretta: ma la contessa non v'era ancora, egli restò interdetto. Erano le cinque e mezzo, il gas era già acceso in quel negozio che sembra un piccolo appartamento esotico, tutto caldo e chiuso, in una temperatura orientale.

‟Vuole qualche cosa?” domandò, dolcissimamente, la piccola signorina Beretta, dal pallore di avorio giapponese, dai lunghi pensosi occhi giapponesi.

‟Mi faccia vedere.... delle scatole da thè.”

Mentre lui sogguardava la porta, sperando di veder entrare la contessa, la signorina dalle lunghe mani candide, dalla vocina discreta, veniva disponendo, innanzi a lui, le scatole di lacca bruna su cui si rileva qualche bizzarro fiore d'oro, le scatole di legno leggerissimo dove s'incrosta qualche piccolo animale metallico, madreperlato, una lumachetta, una mosca, un ragno; le scatole di metallo traforato, dove la pesante materia è vinta dal magistero di un lavoro che la fa rassomigliare a una trina.

‟Bambou con applicazioni di metallo; cloisonné, metallo dalla patina di porcellana; avorio scolpito,” mormorava la signorina vestita di nero, portando le scatole brune, azzurre, gialle.

La sottile seduzione di quegli oggetti singolari cominciava ad invadere il cervello di Joanna, prestandosi alle morbose raffinatezze sensuali dei suoi gusti. Quella bizzarria poetica di forme, quella morbida attrazione misteriosa che sta nelle cose dell'estremo Oriente, quella visione di colori e di linee piene di un senso strano andavano sino al cuore ammalato di poesia del giovane giornalista. Nulla egli poteva comperare, ma qualunque oggetto gli presentasse la signorina, egli non sembrava mai contento: quando ella gli proponeva di prendere qualche altro genere, egli annuiva col capo, un po' stupefatto da quell'ambiente. Ella alzava le mani verso una scansia alta, si chinava ad aprire una cassetta, piccolina, taciturna, come una brava fata silenziosa e sorridente.

‟Buona sera, Joanna,” disse una molle voce.

Donna Clelia Savelli era entrata senza che egli la vedesse, tutta ridente negli occhi e nelle labbra. Ella emise un sospiro di soddisfazione, si guardò attorno, si sedette, s'installò, sbottonò il mantello di velluto, e tutt'assorta nella contemplazione di una bella, elegante, slanciata gru di bronzo, chiese alla signorina:

‟Mi fate vedere qualche arme?”

La signorina si dette di nuovo a ronzare per quel salotto esotico, senza far più romore di una mosca, e portò a donna Clelia tre o quattro sciabolotti ricurvi, dalla lama d'acciaio, dal manico altissimo, dalla guaina di legno. La signora, tutta serena, con una bell'armonia di movimenti, con la sua tranquillità di persona felice, considerava lungamente le impugnature di avorio, le lame filettate e passava l'arme, in silenzio, a Joanna, e passandogliela, non parlava, solo il suo benefico sorriso le fioriva sulle labbra. Riccardo ritto accanto a lei, seguendo il moto ondeggiante di quel cappellino nero scintillante di perle che si curvava sulle armi o si arrovesciava indietro per contemplare la poesia colorita di un paravento, deliziandosi nella soave linea di quel corpo femminile così placidamente bello nel riposo, così vivo nel movimento, Riccardo prendeva la sciabola e l'osservava collo sguardo acuto e pregno di ammirazione dell'artista — ogni tanto lui e donna Clelia Savelli si guardavano, come per dirsi che nulla valeva ancora la pena della loro scelta. Alla fine un pugnaletto muliebre, dal manico di avorio scolpito, piccolo, sottile, fermò il gusto di donna Clelia, e lo guardava tutta lusingata, ne provava la punta acuta sul dito.

‟Sono venute le stoffe?” chiese, con la strascicante e morbida voce.

E a Joanna:

‟Che ha comperato?”

‟Nulla, guardavo le scatole da thè.”

‟Chi glielo fa, il thè, a casa?”

‟Nessuno; sono solo.”

‟E l'ha trovata la scatola?”

‟Io non trovo mai quel che cerco, contessa.”

Insieme si misero a guardare di nuovo le scatole, un po' curvi ambedue, dando in qualche esclamazione di meraviglia. Il calore del salotto chiuso, tutto foderato di tende e di tappeti, tutto pieno di mobili, faceva salire una fiamma rosea sulle guance di donna Clelia: curvandosi accanto a lei, Riccardo sentiva come un profumo voluttuoso e caldo, che forse veniva da lei, forse si combinava con quello dei legni odorosi e teneri dei mobili. Intanto la signorina tornava con le braccia cariche di un mucchio di stoffe e le depose su una sedia, cominciando a spiegarne una innanzi agli occhi di donna Clelia e di Riccardo. Era una lieve garza colore di latte, color di cielo biancastro, appena appena ricamata di roseo, di verdino, d'oro.

‟È un vestito di estate, da signora giapponese,” mormorava la signorina, piegando delicatamente la garza.

‟Perchè non si veste così, contessa? Io le farei una poesia in giapponese.”

‟Vorrebbe chiamarsi Tien-Tsin?”

‟Perchè no?”

La seconda era una stoffa nera, di un nero profondo e tetro, ricamato di rosso e di giallo, a grandi fiori clamorosi. Poi la signorina ne spiegò un'altra, di un grigio ferro, tutta cosparsa di fiori rosei e di cicogne bianche.

‟È un sogno,” mormorò donna Clelia.

‟Sì, un sogno,” ripetè Riccardo.

La esposizione continuava; sotto le mani bianche della signorina, le stoffe aperte e ripiegate sfrusciavano come vestiti serici femminili, che si affrettino al convegno amoroso; e le tinte che i paesi di Levante amano, le tinte che i grossolani europei non hanno ancora nella loro tavolozza, lusingavano teneramente e ardentemente gli occhi dei due spettatori: il bianco d'argento simile al ventre lucido di certi pesci, il viola che sfuma nel roseo, la vampa fra rossa e gialla, il verde intenso dove l'azzurro si è liquefatto, e infine il roseo giapponese, il roseo del salmone, il roseo che pare carne o che pare corallo, il roseo così vivo e così languente che pare tutta la vibrazione d'un amore — e dappertutto sulle tinte smorte come su quelle accese, sugli azzurri di cielo, sui biancori di latte, sulle tetraggini rosse, la grande nota calda, la grande nota ricca, la nota del lusso e del piacere, — l'oro — il fantastico fiore di oro, di una flora impossibile, il bizzarro animale d'oro, dragone o liocorno d'una impossibile fauna. Donna Clelia, creatura esteriore, ma fine, sorrideva di piacere innanzi a quella galleria, sempre variabile, innanzi a quei quadri apparenti e sparenti, e tendeva un po' le mani, curiosa, eccitata, desiderosa di portarsi via tutta quella ricchezza artistica, per adornarne i suoi salotti. Ma Riccardo, dai nervi squisiti, dalla vita tutta falsa o falsificata, dai sensi vibranti, godeva profondamente, aspirando il godimento da tutti i pori. La temperatura calda del salotto lo circondava come di una tepida carezza soffiante sul volto e sulle mani, e la luce chiara si arrestava, dolce sui legni, sugli avori, sui bronzi, scintillante sulle porcellane, sulla madreperla; un alito profumato vibrava nell'aria, profumo di donna, profumo orientale; niun rumore; accanto a lui, donna Clelia, bella, sorridente, lievemente esaltata, lievemente accesa dal riflesso de' colori; e innanzi a lui la piccola fata muta e miracolosa, che dispiegava tutti i tesori dell'estremo Oriente. Un pallore più intenso si allargava nel bel volto del sognatore: e al sognatore sembrava di essere un possente signore, dei paesi del sole, un possente signore carico di ricchezze, nonchè di amore, che tenendosi accanto la bellissima sua donna, in una stanza del gineceo, tutta odorosa di legni, tutta odorosa di acque fragranti, lasciasse errare i suoi occhi stanchi e soddisfatti sopra le stoffe meravigliose, che le schiave ricamano per deliziare l'occhio del loro signore. La visione penetrava in lui per tutti i sensi lusingati e si facea una realtà.

‟Addio, Joanna,” disse la molle voce, e una mano strinse la sua dolcemente.

Era solo, sul marciapiede, nella via bruna, dove il freddo della prima ora notturna lo faceva rabbrividire, la carrozza della contessa fuggiva verso la Trinità dei Monti, dietro di lui la porta a cristalli della Beretta s'era chiusa. Finito il sogno esotico, caldo ed odoroso, un fiato umido e acre lo feriva, nell'ombra, nella solitudine.

‟Dove comanda?” domandò il cocchiere suo, paziente.

A Riccardo parve più oscura la notte, più triviale la luce dei fanali, più umido il marciapiede; gli parve di essere così solo, così infelice, così infinitamente infelice, di fronte a quell'uomo che gli chiedeva dove andava, che uno smarrimento lo inchiodò sul marciapiede. Dove andava? Non sapeva che dirgli, si guardava intorno, come trasognato.

‟Dove comanda?” chiese di nuovo il cocchiere.

Gli doveva dare dieci lire, forse, a quest'uomo che si era trascinato dietro, da tante ore, chissà da quante ore, consumando in sua compagnia il tempo, il tempo che è denaro.

‟Va' a Piazza Colonna,” gli disse.

Percorse quel breve tratto, torvo, concentrato nella sua volontà di far quattrini, per pagare quel cocchiere: era deciso a prendere d'assalto Gargiulo; d'altronde, in ufficio, avrebbe scritto un articolo sul Giappone, il suo vasto sogno esotico.

‟Quanto devi avere?” chiese al cocchiere.

‟Sei ore: dodici e cinquanta.”

‟Bene, ora te le mando giù.”

E corse per la scala, col capo chino, come un soldato che marcia all'assalto di una fortezza; diede un urtone al direttore che scendeva.

‟Sei un bel tipo, Joanna,” disse costui, riabbottonandosi i polsini, finendo la sua acconciatura, mentre scendeva; ‟non mi fai l'articolo sulla Pignatelli, non lo fai sul concerto Cesi, non lo fai su San Pietro, perchè prometti?”

‟Vado a farti un articolo sul Giappone.”

‟È tardi, il giornale va in macchina.”

‟Lo farò stasera, per l'edizione di Roma.”

‟Sì. Ci conto.”

Se ne andò quietamente, con la sua aria di manovale indifferente, d'impiegato freddo e puntuale.

‟Gargiulo; cinquanta lire?” chiese, entrando dall'amministratore, Riccardo, e la sua voce pareva un grido di dolore.

‟Non le ho,” fece costui, togliendosi la sigaretta.

‟Cerca bene, te ne prego; fammi questo favore.”

‟Sai che conto di anticipazioni è il tuo?”

‟Gargiulo, non mi fare la predica, ho da pagare dodici lire di carrozza.”

‟Perchè vai dietro le donne?”

‟Sono le donne che mi vengono dietro,” fece l'altro, con un moto di fatuità.

Gargiulo, aprì il cassetto, frugò, rovesciò una scodella di soldoni, lentamente, fumando sempre, facendo fremere d'impazienza Riccardo, contento di tenere nelle sue mani scarne di amministratore quel bel poeta fortunato, la cui voce tremava di dolore come se gli cercasse l'elemosina.

‟Eccone venticinque....”

‟Non basta, non basta, cerca bene.”

‟Ventisette, trenta.... trenta dovrebbero bastarti, devi darne solo dodici al cocchiere....”

‟E pranzare? fa' un miracolo, Gargiulo, pesca almeno quaranta lire, te ne prego....”

‟Impossibile, contentati di trentacinque lire, te le do del mio.”

‟Sia,” fece l'altro con un sospiro doloroso.

‟Ma mi devi fare un sonetto, un bel sonetto per nozze, da stamparsi sul raso.”

‟Te lo farò: addio!”

‟Domani, domani....”

Scappò via, scese nella strada, per pagare il cocchiere.

‟Sarebbero tredici lire, sor padrone, è finito un altro quarto d'ora.”

Riccardo, generoso e superstizioso, per evitare il numero fatale gli dette quattordici lire; quando la carrozza si fu allontanata, egli prese la sua via, fra le onde di persone che rincasavano per pranzare, che si avviavano alle trattorie. Le botteghe del Corso erano sfolgoranti di lumi e di tentazioni, e nell'umidore di quella prima ora serotina, fra i volti pallidi delle persone affaccendate, fra le facce stanche di chi ha consumato le forze in una giornata di lavoro, qualche viso femminile, tutto dipinto, dagli occhi bistorti, appariva e scompariva, nascondendo l'ansietà sotto il sorriso. Ma in Riccardo la distrazione era profonda; cessata l'ansietà del bisogno immediato, una più grave, più profonda si faceva largo, cresceva nella sua anima. Le mille lire della cambiale, girata a Pompeo Savelli, quelle mille lire introvabili, impagabili, erano la sua grande tortura, come il cocchiere era stato la sua piccola tortura. Giusto sopra un cartellone rosso si promettevano mille lire di compenso a colui che sapesse trovare una tintura dei capelli migliore di quella di Zempt: e una mancia competente era promessa, in un piccolo cartellino bianco, a colui che riportasse a chi li aveva smarriti, sei fili di perle orientali. Riccardo pensava se non valeva la pena d'inventare realmente una tintura, per far la burletta di cavare le mille lire al signor Zempt; guardava per terra, macchinalmente, cercando i sei fili di perle, o un portafoglio smarrito: chissà, accadono certe cose così strane! La vetrina di Marchesini lo arrestò; egli si fermava sempre innanzi a quegli splendori, attirato, lusingato nelle sue fantasticherie: e una visione di mani femminili gemmate, di teste femminili coronate di gioie, di colli rotondi e bianchi anelanti mitemente sotto le collane di perle, passò tumultuosamente nella sua immaginazione. La donna lo rapiva di nuovo; in sogni di amore, di bellezza, di lusso: donna Beatrice Santaninfa preferiva gli smeraldi, i vivi gioielli delle bionde ardenti; donna Caterina Spinola amava le misteriose perle brune, tetre come i suoi occhi; donna Paola Spada scintillava di rubini, sempre insieme al suo ingenuo nastro rosso fra i capelli arruffati; donna Clelia Savelli i diamanti grossi legati in argento, i topazi vescovili di un delicato colore di vino bruciato, le amatiste gialle e vive. Donne e gioielli, belli idoli adorni di ricchi voti lo trasportavano via sopra le ali rapide del desiderio, e in fondo, nell'orizzonte del sogno, una leggera figura di biondina smorta appariva. Elsa Maria, una poetica sottile figura di donna dagli occhi dolcissimi, dalle chiome morbide sempre adorne di mughetti, in tutte le stagioni. — Bisogna che io trovi dei mughetti, — pensò il poeta.

E si avviò verso il Pierangeli in Via Frattina, ma a mezza via un'idea lo trattenne. Gli dovea dei quattrini al Pierangeli, non era possibile ritornarvi: eppure gli occorreva un ramo di mughetto, a ogni costo, per quella sera, per piacere a Elsa Maria, la delicata signora di quel grosso e grasso signore che era Pietro Magoz: Elsa Maria andava ogni sera all'Apollo a sentire il Lohengrin. Riccardo cercò il ramoscello di mughetto da tutti i fiorai minori, che stanno nei portoni e da quelli ambulanti, ma non ne avevano, la stagione era troppo inoltrata: e il bisogno di quel ramoscello verde carico di fiorellini bianchi si fece così impetuoso, che Riccardo entrò ansioso nella bottega profumata della Zamperini. Ne aveva, ella, dei mughetti, ma già un po' mangiati dal caldo primaverile, già un po' rosicchiati dalla ruggine dei fiori. Il migliore dei ramoscelli Riccardo lo pagò due lire. Lo portò via, felice, tranquillo, coi sensi soddisfatti.

Andava a casa, era per vestirsi in marsina, poichè doveva andare all'Apollo e in casa Savelli: voleva fare la sua toilette quotidiana di scrittore amato dalle donne, pallido, fantasioso, dagli occhi pregni di sogni, pranzare in una trattoria elegante, e poi farsi trascinare al teatro in carrozza, pensando, fumando. Salì una scaletta del numero settantuno, in Via della Vite, bussò al primo piano a una porticina scura, entrò in una stanzetta fredda e buia. La padrona di casa, ferma sulla soglia, aspettava che egli parlasse.

‟Sora Rosa, vi sono camice stirate per la marsina?”

‟Sicuro, sor Riccardo, sono qui sul letto, cinque o sei, le ha portate la stiratrice oggi.”

Al lume di una stearica fioca, egli osservò quelle camice insaldate, dure, lucidissime. Una era a fiorellini neri da estate: una aveva il goletto troppo alto, un vero capestro: la terza aveva il goletto arrovesciato, di quelli che non usano più: le due ultime avevano gli orli del goletto e dei polsini sfilacciati, da non mettersi.

‟O sora Rosa, nessuna di queste va!”

‟Figlio mio, che v'ho da dire? Le camice si sciupano presto, a lavarle e stirarle sempre, con quel lucido che vi mangia la tela....”

‟Ma come faccio, io, ora?”

‟Facciamo la barba alle camice, si radono le sfilature.”

‟Ma che, ma che....” fece l'altro crollando il capo desolato.

‟Tenetevi questa che portate, è buona ancora....”

‟Ma vi pare, sora Rosa? E indecente, mi occorre una camicia fresca, lucida: ho da andare in teatro, dalle signore, dappertutto, non posso farne senza....”

‟Figlio mio, quello che posso fare è di darvene una di Toto mio, ma non vi andrà, è troppo più grasso di voi....”

‟No, no. Sora Rosa, piuttosto fatemi un favore, ve ne prego, andate a comprarmene una, dai De Paolis, qui al Corso: prendete la misura del collo, la camicia costa otto lire e cinquanta, eccole qua.”

‟Io, sor Riccardo mio, per voi ci vado volentieri, che fosse per un altro, non lo farei; ma qui, in casa non ci ho nessuno, se bussano, mi dovreste fare il favore di aprire.”

‟Va bene, sora Rosa, aprirò....”

‟Già non verrà nessuno, ma se capitasse Toto, ditegli che torno subito, avesse a pensar male....”

E la romana chiacchierona, dal floscio viso cinquantenne, se ne andò, dicendo ancora qualche parola contro le lavandaie, e raccomandando la porta a Riccardo.

Costui, già distratto, cercava nel cassetto una cravatta bianca e i bottoni di metallo dorato per la camicia: e nel cassetto era una gran confusione di cravatte smesse, di guanti vecchi, spaiati, di calzettine di seta dal tallone bucato: e prima di raccapezzare i cinque bottoni, la cravatta bianca, il fazzoletto di batista pulito, un paio di guanti presentabili, Riccardo dovette perdere la testa, rimestare in tutti i cassetti, in tutte quelle anticaglie, buttando in aria certe camice da notte un po' logore, scotendo i vecchi gilets estivi, tutto un ciarpame di roba inutile, un rimescolío di stracci eleganti e buoni a nulla.

Lo tenevano la malinconia e il dispetto: la malinconia, perchè oramai non avrebbe più potuto pranzare al Caffè di Roma o da Morteo, non aveva più che dieci lire e cinquanta, non poteva rimanere senza un soldo, doveva andare all'Apollo, all'Esquilino, aveva bisogno della carrozza, e ad andare in una trattoria mediocre ci soffriva troppo; e il dispetto di quella mancanza continua di quattrini, il dispetto di quel continuo squilibrio, il dispetto dell'assetato a cui danno due dita di acqua. Andava su e giù nella stanzetta magramente mobiliata, con un tappeto stinto sul pavimento, con un lettuccio stretto stretto; e la fioca stearica si agitava al passaggio nervoso del pallido scrittore.

Alla fine si decise: aprì un balconcino, e chiamò un giovanotto, un cameriere in marsina senza falde che si pavoneggiava alla porta di un'osteria, là dirimpetto; costui dovette capire, perchè attraversò subito la strada, e si ficcò nel portoncino.

‟Portami da pranzo,” gli mormorò Riccardo piegandosi sulla ringhiera.

‟Che ho da portare? Gnocchi al sugo? Pollo alla cacciatora? Un po' di trippa in umido?”

‟Portami gli gnocchi e il pollo, ma subito.”

‟Vino e pane?”

‟Sì.”

‟Frutta?”

‟Sì, sì.”

Riccardo rientrò chinando il capo, era il pranzo cattivo, segreto e umiliante dei giorni poveri, il pranzo da poeta bello, vanitoso e sognatore fatto in fretta nella piccola stanza in disordine, al chiarore di una stearica, scostando un calamaio dove l'inchiostro si era seccato, un volume di Baudelaire tutto macchiato di cera, una bottiglia di acqua di fieno. Dopo dieci minuti il cameriere era risalito un paio di volte taciturnamente, lasciando la porta socchiusa, portando due o tre piatti coperti, stendendo un tovagliolo grossolano sul tavolino, posandovi sopra dei panini biancastri, poco cotti, due mele e un fiaschettino impagliato pieno di un vinello color giallo. Sempre in silenzio, il cameriere dalla giacchettina troppo corta coi risvolti unti, posò accanto al piatto degli gnocchi il conto che ammontava a due lire e sessanta. Riccardo pagò, prima di pranzare, e dette venti centesimi al cameriere. Solo solo, torvo, soffrendo solitariamente, col capo abbassato, egli divorò quegli gnocchi su cui il grasso si era gelato, quel mezzo pollo tutto coperto di grosso pepe nero, bevve quel vinello romano acidulo che raschiava la gola, mangiò una mela e respinse sul tavolino tutti i piatti sporchi.

‟Ecco la camicia,” disse trionfalmente la sora Rosa rientrando.

E per fargliela ammirare, ella andò a prendere un suo lume a petrolio, che diffuse un maggior chiarore e un po' di allegria in quella stanzuccia.

‟Avete pranzato qua? Chi sa che intrugli vi avrà portato Checco? Volete che ve lo faccia un poco di caffè?”

Egli disse di sì, voltando la testa per non vedere quei piatti sudici e la posata sporca. Come sempre, le donne erano carezzevoli con lui, gli volevano bene istintivamente, sedotte da quella pura fronte bianca, dalla melanconia di quei begli occhi languenti, dalle linee delicate e affaticate di quel volto giovanile.

Cominciava a vestirsi lentamente, di migliore umore, indossando volentieri quella livrea nera e bianca, dando con la sua persona una grazia all'abito moderno, un po' tetro: e quella sua lenta trasformazione da lavoratore stanco e infelice in uomo di società, pallido ma elegante, quell'appressamento graduale che egli veniva compiendo ad un mondo più felice, più ricco, gli ridavano la coscienza di sè stesso.

Profumandosi i ricci e bruni capelli, arricciando il molle mustacchio sulle morbide labbra, dando una correzione britannica a tutto il suo vestito, egli sentiva svanire la sua malinconia.

‟Per carità, sora Rosa, toglietemi dinnanzi tutti questi piatti sudici.”

‟Sì, figlio mio: bevete il vostro caffè. Grandi conquiste stasera? Volete venire a guardarvi tutto nello specchio del mio armuàr?”

La padrona di casa reggeva il lume nella sua camera e Riccardo si guardò due o tre volte di faccia e di profilo, nel grande specchio dell'armadio.

Passò il fazzolettino di batista nello sparato del gilet e se ne ritornò in camera sua, dove lo seguì la sora Rosa.

‟Non dimenticate nulla,” gli disse la padrona, e gli porse i guanti, il portafogli, la mazzetta.

Macchinalmente egli aprì il portafogli e vide sette lire da una parte, il biglietto rosso del banco Savelli dall'altra. Uno smarrimento subitaneo, rapido, lo colse: calcolò mentalmente quante ore lo separavano dall'indomani a mezzogiorno, in cui doveva pagare le mille lire. Erano le nove; in quindici ore doveva trovare mille lire o far protestare la sua firma.

‟E domani c'è articolo, sor Riccardo?”

‟Domani? non so.... forse ci sarà....”

‟La signorina del terzo piano si lagna, vorrebbe che scriveste ogni giorno....”

‟Si seccherebbe poi, sora Rosa.”

‟Non lo dite, non lo dite. Siete così bravo e dite tante cose belle alle donne, voi, come nessuno sa dirle, che le donne non si seccheranno mai di sentirle.”

‟Vi metterò nel mio articolo, domani,” disse ridendo Riccardo.

‟Uh! Sono troppo vecchia, figlio mio.”

Egli uscì, si mise in carrozza con un piglio deciso, come se buttasse indietro tutte le sue angustie. Voleva non pensare, voleva godersi la sua serata, poichè tanto tormentosa era stata la sua giornata: cercò di dimenticare guardando dalla sua carrozza, mentre fumava voluttuosamente un sigaro, i pedoni che si affrettavano ai teatri, ai circoli, ai caffè; non pensava a donna Tecla Spada, dagli occhi ardenti che avrebbe desiderato vedere molli di lacrime; pensava a Elsa Maria, il fragile fiore del nord italiano, che languiva nel pesante aere romano, povera creatura, a cui giammai forse sarebbe comparso liberatore il cavaliere del cigno. Oh, fosse egli stato un principe, un signore potente e audace, come l'avrebbe portata via, lontano, nel mare glaciale, Elsa Maria, la sottile creatura. Donna Caterina Spinola aveva bisogno delle grandi e brune navate, dei freddi marmi, dell'incenso, dei cantici sacri per essere amata; donna Beatrice di Santaninfa voleva trionfare nei balli, dove è profondo, invincibile il fáscino femminile; donna Tecla Spada amava la viva lotta dello spirito, il suo carattere pugnacemente nervoso si concedeva solo alle stravaganze del paradosso; donna Clelia Savelli aveva bisogno dei velluti antichi, degli argenti smorti, dei bronzi giapponesi, degli avori italiani medioevali per poter essere amata; Elsa Maria, la snella figurina esangue, aveva solo bisogno della candida neve e dei negri abeti. Riccardo Joanna avrebbe voluto fuggire in un grande paese sconosciuto, tutto neve, tutto candido e glaciale, al polo nord.

‟Non vi è teatro stasera a Tordinona,” disse il cocchiere, fermandosi innanzi al teatro buio e silenzioso.

‟E perchè?” chiese Riccardo, come risvegliandosi da un torpore.

‟È giovedì santo. Dove ha da andare?”

‟Portami in.... sì, in Piazza Colonna,” rispose il giornalista.

E si rigettò, annoiato e deluso, in fondo alla carrozza.

Natura vivamente impressionabile, ma fugacemente, il teatro chiuso, tutta quella toilette inutile, il non poter vedere donna Tecla e la divina Elsa Maria, tutti questi contrattempi presi insieme gli davano un grande senso d'infelicità. Quando scese di carrozza e pagò due lire al cocchiere, delle sette che possedeva, dette una crollata di spalle da uomo disperato: a capo basso salì le scale del Quasimodo. Era deciso, andava a scrivere l'articolo, tanto non vi era nulla di meglio da fare sino alle undici, in cui decentemente si poteva fare una visita a donna Clelia Savelli: voleva scrivere l'articolo per noia, per collera, odiando i caffè, odiando la gente, odiando la propria debolezza, sentendo che non vi era per lui altro scampo, altro rifugio che il lavoro.

Questo bel giovanotto in marsina era pieno di una foga ardente d'indignazione, entrando nell'ufficio del Quasimodo, dove Gregorio sonnacchiava, con la sua faccia grave di filosofo pessimista. Riccardo non si prese neppure la pena di svegliarlo, entrò nella redazione deserta, rialzò il gas, e col soprabito addosso col bavero rialzato, col cappello sul capo, badando bene a non sporcare il candore dei suoi polsini, egli si curvò a scrivere rapidamente.

E come in uno specchio terso, fedele, tutte le impressioni amare e gioconde della giornata si trasfondevano in quella prosa ora secca, arida e tagliente, ora piena di mollezza e di soavità. Lo scrittore che non studiava più, che non leggeva più, che guardava intorno a sè la vita, ma senza vederla, che sognava sempre, per cui la esistenza era una visione fra dolorosa e leggiadra, lo scrittore traeva dalla viva, fervida anima sua la prosa del suo articolo. Dentro vibrava l'ironia dei cuori insoddisfatti, che non vivono abbastanza per la loro sete ardente di vita, vibrava la malinconia delle esistenze affrante dal lavoro e da una grande delusione o dalle piccole quotidiane delusioni, vibrava la gaiezza talvolta brutale dei temperamenti audaci nel desiderio, molli e deboli nell'urto reale dell'esistenza.

In fine, naturalmente, come sempre, le donne apparvero nella prosa di Riccardo Joanna, che parlava di una lunga e strana giornata romana: e subito un incanto nuovo surse in quella prosa, la parola divenne più efficace, più ardente, la frase si fece più rotonda, più carezzevole, piena di allacciamenti strani, lo stile salì alto. Come allucinato, egli scriveva scriveva, traendo dai suoi nervi la potenza e l'impeto, traendo dal fosforo del suo cervello la verità dell'immagine e la bellezza della parola: egli gettava, col magnifico, generoso abbandono giovanile, tutto un cumulo di forza, sentendosi ancora troppo ricco in quell'ora di eccitamento.

‟Fai un articolo?” domandò Scano, entrando e cavandosi il cappello, sedendosi quietamente per fare la cronaca.

‟Sì, debbo finirlo presto,” mormorò Joanna.

‟Io fo la cronaca; essa è il mio male cronico.”

‟Che ora è?”

‟Le dieci e mezzo, a Piazza Colonna.”

Riccardo Joanna piegò di nuovo il capo, volendo finire subito, volendo partir subito per l'Esquilino, non resistendo all'idea di veder donna Clelia, dai denti che brillavano, dagli occhi grigi scintillanti. Non aveva più voglia di scrivere, ora, e tutta la sua prosa scritta con tanto fuoco, gli sembrava una cosa miserabile e inutile. La donna era stata la sua forza animatrice, un momento prima; ora diveniva la sua mortale, irresistibile debolezza. Bruscamente irritato contro quell'indegno lavoro da galeotto, che ogni giorno doveva fare, se voleva vivere, strozzò l'articolo. Rileggendolo a freddo, un grande disdegno di sè stesso e dell'arte gli empì di amarezza il cuore: anche in quella serata, al pubblico ignorante e scettico e brutale egli aveva aperto il suo cuore, come si apre alla madre, all'amico più caro, alla donna amata, aveva detto a una folla di sciocchi e d'indifferenti le più intime, le più tenere, le più melanconiche cose, aveva violato i più alti misteri spirituali. Una nausea di sè lo assalse, mentre si spazzolava, per andarsene:

‟Che mestiere da cani,” mormorava.

‟Almeno, essendo molti, fossimo can-tanti, guadagneremmo più quattrini.”

‟Addio, Scano.”

‟Addio, Joanna; te fortunato, che vai via!”

‟Torneremo tutti, domani, non dubitare,” disse il poeta con malinconia.

Di nuovo macchinalmente si mise in carrozza, dando l'indirizzo del villino Savelli all'Esquilino; un novello cruccio sorse in lui, non potette più pensare ai sereni occhi bigi di donna Clelia senza vedere gli occhi freddi e chiari di don Pompeo, il marito, il banchiere: dietro il sorriso delle labbra rosee di donna Clelia, egli vedeva apparire il biglietto rosso della cambiale di mille lire. Aveva preso fra sè la grande decisione di parlare a don Pompeo della cambiale, perchè gliela rinnovasse, giudicando che non potea negargli questo piccolo favore: ma l'idea di doverlo dire là, nel salone di donna Clelia, lo torturava. Fino allora la parte dolorosa e la parte gioconda della sua vita erano state separate: le donne lo avevano consolato del suo sperpero quotidiano di quattrini, delle alternative crudeli di splendore e di miseria, ma ora questi due elementi contrapposti si univano, si confondevano, il suo tormento e il suo conforto erano una cosa sola. Per un minuto il volto gli si fece di brace, egli pensò di dovere le mille lire a donna Clelia e di non potergliele restituire l'indomani. Ma un largo e mite raggio di luna inondava Santa Maria Maggiore, la chiesa e la piazza, e nel giardinetto che circondava il villino Savelli un rumore di musica si effondeva; la palazzina, con le sue lunghe e sottili finestre dalle tendine increspate di seta rossa, tutta illuminata, pareva rossa e ardente. In silenzio il servo tolse il soprabito e la mazzetta a Joanna e lo precedette, senza far rumore, mentre la musica rinforzava. Joanna rimase sulla soglia, tranquillo, aspettando che la musica finisse, per salutare. Sedevano al pianoforte donna Clelia Savelli, la serenità, ed Elsa Maria, l'ideale, quasi trasparente, quasi consumata da un pensiero dominante; sonavano un pezzo di Beethoven, pieno di nobiltà. Tutta scintillante di coralli neri, di riflessi azzurrognoli, nero vestita, ma come corazzata di acciaio, donna Caterina Spinola si raccoglieva in una poltrona presso il pianoforte, ascoltando sapientemente; vestita di rosso, piccola e pungente, donna Tecla Spada teneva a bada due o tre giovanotti, parlando sottovoce, ridacchiando, scotendo il capo, incapace di prestare attenzione alla musica: mentre donna Beatrice di Santaninfa posava magistralmente sdraiata in una lunga seggiola, quieta nell'indifferenza plastica di chi si sente bella in mezzo a queste donne e a questi uomini felici; era la felicità delle cose belle e artistiche, i fiori freschi, le piante verdi, le azalee bianche e rosee, le delicate, futili statuine di Sassonia, i tappeti molli e le seggiole profonde fatte per i sogni.

Così dalle persone e dalle cose, dalla musica e dai sorrisi delle donne, un'onda di letizia venne a Riccardo Joanna. Perduto nell'ombra di una portiera di velluto, egli sentiva il suo spirito liberarsi da tutte le preoccupazioni, purificarsi da ogni miseria. Questo, questo era il suo ambiente, fra l'intenso magistero del lusso, fra la bellezza femminile, diversamente trionfante, fra gli ondeggiamenti della nobile arte musicale. Giammai, come in quella sera, erano giunte a lui impressioni così complesse e complete, così perfette: e Riccardo si concentrava nell'attenzione, godendo di un alto acutissimo piacere spirituale; alla fine, dopo tanto travaglio, dopo così varia fortuna, in quel giorno, il poeta ritrovava realizzato il mondo dei suoi sogni.

‟Buona sera,” disse sottovoce a donna Tecla Spada, mentre la musica finiva.

‟Eccola qua, signor poeta: così non mi si è potuta rapire all'Apollo questa sera!”

‟Per mia fortuna, contessa. Ho troppa paura per fuggire con lei.”

‟Paura? Noi possiamo ardere, signore, bruciare non mai.”

‟Manca un pompiere nel mio cuore, contessa.”

‟Lo chieda alla sua serva. E poi l'Apollo ha il Tevere vicino.”

‟Bel letto freddo e molle, per dormire,” disse Riccardo malinconicamente.

‟O per morire,” ribattè donna Tecla.

‟Come Amleto.”

I gruppi si erano sciolti e formati di nuovo, due altri signori erano arrivati. Donna Clelia Savelli aveva presentato Riccardo Joanna a donna Beatrice di Santaninfa: essa lo aveva accolto con un sorriso di sicurezza. Egli taceva, donna Clelia parlava.

‟Figurati, Beatrice, che mentre stavo bibelottando sola sola con questo caro signor Joanna, sai che malinconia è bibelottare in solitudine. A chi dire: quanto è bello? con chi dividere la propria gioia? nel negozio di antichità si sente il bisogno del consorzio umano: io amo il prossimo mio, quando compro uno stipo o un piviale. Così.... ho sequestrato Joanna oggi, per tre ore.”

‟I suoi parenti saranno stati inquieti,” mormorò donna Beatrice, dicendo profondamente questa banalità.

‟Io non ho parenti, signora.”

‟Ma se sapessi, cara, se sapessi!” riprese stordita, leggiera come una capinera, donna Clelia. ‟Abbiamo visto tante stoffe così belle, dalla Beretta, che vi era da cadere in deliquio. Oh, Joanna è un buon compagno: lei verrà spesso con me, nevvero?”

‟Sempre.”

‟Dalla mattina alla sera?”

‟Sempre.”

‟Lasciando tutto e sempre?”

‟Tutto e sempre.”

‟È medioevale, a me piacciono assai le cose e le persone del medio evo. Ti piacciono, Beatrice, i cofani da nozze?”

‟Sono volgari,” fece quella, guardandosi gli anelli della mano destra.

Riccardo era alle spalle di Elsa Maria, rimasta presso il pianoforte, come immobile, sfogliando lentamente certe romanze dalle copertine fantasiose.

‟Sonavate Beethoven: lo amate molto?” chiese il poeta, parlando sottovoce.

‟Lo amo sebbene sia troppo solenne per me,” rispose la gentile, e la voce era come un soffio.

‟Ma chi preferite?”

‟Chopin.”

‟È naturale,” disse lui, ‟sapete come è morto?”

‟Lo so,” disse lei chinando i soavissimi occhi.

‟Non amate voi anche i mughetti, signora.”

‟Sì, sopra tutti i fiori.”

‟E io li porto per voi.”

‟Oh,” fece l'altra soltanto.

‟Ditemi tutte le cose che amate, ditemele, voglio saperlo per amarle anche io.”

Ella lo guardò lungamente coi suoi puri occhi cristallini, ma non gli rispose. Per fortuna la voce stridula di donna Tecla Spada copriva l'imbarazzo di quel silenzio. Donna Beatrice di Santaninfa se n'era andata, dea pacifica, taciturna, distribuendo sorrisi, incedendo qual dea; e donna Clelia ora chiacchierava di scultura con un professore dell'Accademia di San Luca. Non si moveva donna Caterina Spinola, ma le sue perline nero-azzurre luccicavano come metallo temprato e brunito.

Riccardo, guardando nel salotto, esaminava l'urna bianca, carica di fiori nevosi; ella ne profittò per dirgli sottovoce:

‟Voi dovete odiarmi?”

‟Chi vi ha detto nulla, signora?” rispose lui duramente.

Ella tremò e impallidì. Ma in questa don Pompeo Savelli entrò tutto sorridente, alto, magro, un po' angoloso, un po' duro. Riccardo provò una fitta così dolorosa che gli tolse il respiro: e pensò subito che non era possibile dirgli nulla; era troppo vergognoso parlare della cambiale a questo gran signore, mentre che lo accoglieva in casa sua. E sebbene la conversazione si allargasse, Riccardo taceva, confuso, turbato, combattuto crudelmente, ora decidendosi a dire tutto, immediatamente, ora sentendosene incapace, debole, avvilito: guardava l'azalea, come assorto.

‟Il poeta è innamorato: non parla;” disse ridendo don Pompeo.

‟È vero che è innamorato, Joanna? Di me forse?” stridette donna Tecla.

‟Obbedisco,” disse lui inchinandosi.

Sì, doveva dirglielo, era necessario, era meglio fare un atto solo di coraggio: don Pompeo era un gentiluomo, certo avrebbe acconsentito. Alla fine che costa una parola? E dopo averla detta si resta liberi per tre mesi: in tre mesi si trovano almeno dieci volte mille lire, si hanno amici, si lavora assai. Sì, sì, valeva meglio dirglielo! Ma don Pompeo era così dimentico, così gran signore, così lontano dagli affari, in quel momento! Ora egli parlava col ministro belga a Roma, forse di cose diplomatiche: non era quello il minuto propizio.

Poi don Pompeo provava a far chiacchierare donna Caterina Spinola, non era cortese interromperlo: Riccardo cercava di restar disinvolto, mentre febbrilmente seguiva con l'occhio ogni movimento di don Pompeo, e dava a sè stesso, a ogni minuto, una nuova dilazione. Donna Tecla partiva accompagnata da un giovane conte napoletano; vi fu un po' di movimento, don Pompeo andò ad accompagnarla sino al giardino: Riccardo Joanna rimase, mentre si faceva ancora della musica; donna Caterina Spinola, al pianoforte, accennava vagamente a quel poema di lamento che è lo Stabat di Pergolese. Riccardo ascoltava, trasalendo dolorosamente, perchè quella musica rispondeva al suo tormento: ma su quella musica così piena di pianto, donna Clelia, la bella signora frivola e sempre allegra, metteva un risolino breve e chiaro ogni tanto.

‟Che bella luna vi è in giardino!” disse don Pompeo rientrando.

Riccardo aspettava ancora, agonizzante: ma il suo sorriso fatuo nulla rivelava del suo cuore. Alla fine, decidendosi, salutò sottovoce donna Clelia: aveva deciso di essere vigliacco, di non parlare a don Pompeo. Ma costui, tutto premuroso, lo accompagnò in anticamera.

‟Non posso soffrire la musica triste,” disse ridendo il banchiere; ‟donna Caterina ha l'aria di una coltre funeraria.”

‟Neppur io ho voglia di morire,” rispose Riccardo.

Il banchiere uscì col poeta nel giardino: il plenilunio di aprile lo inondava blandamente.

‟Che bella sera!” mormorò don Pompeo.

‟Bellissima!” disse lentamente il giovanotto, e ad un tratto, bruscamente, rapidamente:

‟Avete un effetto mio, in scadenza domani?”

‟Ho visto, sì, credo di mille lire....”

‟Sarebbe possibile rinnovarlo?”

E la voce pareva rotta da un lieve brivido.

‟Impossibile, mio caro,” disse l'altro con una intonazione di freddezza. ‟La cambiale non è nostra.”

‟Mi.... mi farebbe piacere....”

‟È impossibile, ve lo assicuro. Ma per voi è così facile essere in misura! Guadagnate quel che volete, voialtri scrittori! noi poveri uomini d'affari....”

‟Buona notte,” mormorò Riccardo con molta dolcezza.

‟Buona notte.”

Il giornalista traversò la piazza lentamente: sonava l'una. La sua giornata finiva così.

Mentre discendeva per Via Nazionale deserta, lucidissimamente, come se egli fosse uno spettatore disinteressato, innanzi ad un palcoscenico, dove ferveva il dramma, tutto quello che egli aveva pensato e fatto, tutto quello che gli era accaduto, gli riappariva. Senza amarezza, senz'ironia, freddamente, con una potenza grande di visione, egli si rivide sognatore inerte, indeciso, lasciarsi prendere da un profilo femminile, da una mano sottilmente inguantata, si vide vagabondando da una bottega di dolci a un'esposizione di beneficenza, da un concerto ad una chiesa, da un magazzino d'arte a un fioraio, da un teatro, ad un salone, ozioso, senza volontà, senza coraggio, subendo l'attrazione femminile come un fanciullo, sacrificando ad essa il suo tempo, i suoi pochi quattrini guadagnati stentatamente, trascurando il suo lavoro che era tutta la sua forza. Vide tutta la sua immensa, inguaribile vanità; e ne analizzò tutta la vacuità. Poichè queste donne che come Dalila congiuravano serenamente, inconsciamente, a togliergli la forza, in realtà egli non le amava; nessuna di esse gl'ispirava una di quelle ardenti passioni che tutto devastano: e il sentimento per cui tutto egli sacrificava non aveva nè altezza nè nobiltà, era una certa attrazione dell'istinto, una simpatia, un arrovellamento dell'amor proprio. E il più grave di tutto ciò, il più comico e doloroso, nello stesso tempo, era che nessuna di queste donne lo amava, lo guardavano dolcemente, gli sorridevano, lo conducevano in chiesa, al concerto, nel negozio di antichità, mangiavano i pasticcini con lui, sonavano una mazurka di Chopin, ma non lo amavano, no, nessuna. Per loro come per lui, quella compagnia, quella conversazione, quell'essere, insieme, era una piccola soddisfazione di vanità, l'appagamento di una simpatia a fior di pelle, il diletto spirituale senza peccato, la piccola battaglia delle frasi: e anzi tutto, sopra tutto, quel largo odore d'incenso che il poeta tributava loro nella sua prosa e nei suoi versi. Ma niente altro: e a nessuna di esse veniva in cuore il desiderio di amarlo, di entrar nella sua vita, di portarvi la dolcezza ed il coraggio; e quanto egli poteva soffrire, a quelle donne era indifferente. Alta e rotonda brillava la luna nel cielo: e di questi suoi trionfi, di queste sue conquiste che gli fruttavano tanti nemici, egli sentiva la inanità, la miseria; egli sentiva la grande indifferenza femminile che sa ammantarsi di cortesia, ma che più oltre non sa andare; sentiva la grande frivolezza muliebre, la forma più seducente di un egoismo ponderato e tranquillo; fra lui e tutte quelle donne non un legame di affetto, di tenerezza, di amicizia: solo il vincolo della vanità. Egli si sentiva solo, per sempre solo.

‟Joanna?” disse una dolce voce femminile, da una carrozza ferma in Piazza Venezia, alla luna.

‟Buona sera, Chérie,” disse lui, alla donna tutta ammantata di bianco.

‟Dove andate?”

‟In nessun posto.”

‟Andiamo al Colosseo, allora, a vedere la luna.”

Chérie taceva, alta e magra nel suo mantello di lana: la carrozza andava verso Via Alessandrina.

‟Che avete?”

‟Niente, Chérie.”

Egli fumava la sigaretta, ella guardava lontano, in cielo. Non si dicevano nulla. All'Arco di Settimio Severo, ella domandò ancora, con quella voce che era la sua maggior seduzione:

‟Che avete?”

‟Niente, Chérie.”

Alla porta del Colosseo le dette la mano per discendere, ma non le offrì il braccio per camminare nell'ampio circo bagnato dalla luna. La donna si sedette sopra un sasso; e lui rimase in piedi, fumando. Ella guardava tutto, in un silenzio pieno di pensieri.

‟Non mi dite la storia del Colosseo, Joanna; preferisco restare ignorante.”

Egli non rispose; e al lume della luna ella dovette vederlo così tramutato di volto che di nuovo ella disse:

‟Ditemi che avete, Joanna; quando si ha qualche cosa, è meglio dirla.”

‟Ho una cambiale di mille lire da pagare, domani.”

‟E non avete i quattrini?”

‟No,” e un singulto ruppe il petto del poeta.

‟Non importa, non importa,” mormorò ella carezzevolmente, ‟le cambiali non pagate sono protestate.”

Nella notte, innanzi a Chérie, nel biancore lunare, il poeta piangeva.

IV. IL QUARTO D'ORA DI RABELAIS.

L'ultimo redattore se ne andò, sbattendosi dietro l'ultima vetrata dell'ufficio, saltando a due a due gli scalini. Riccardo Joanna restò solo nella stanza piena di fumo, ove ancora c'era una penombra del giorno, ove già il gas asfissiante ardeva. Il bel Riccardo, affranto da quella fatica divorante che da tre mesi gli rompeva, gli macinava, gli stritolava la vita, non si mosse dalla scrivania sulla quale i giornali sforbiciati e i frammenti di carta scombiccherati stavano in confusione come gli avanzi d'una battaglia dopo il combattimento. Steso nella poltrona di reps giallo e rosso, a strisce, il virginia fra i denti, i capelli anch'essi confusi come tutto il resto della sua esistenza, si riposava nella stanchezza profonda del suo cervello, si ubbriacava dell'amarezza immortale della sua anima.

Nella redazione deserta, ove egli solo soffriva, l'ultimo numero dell' Uomo che ride pareva ancora in elaborazione; sopra un tavolinetto Giulio Frati aveva lasciato le spoglie del suo violento articolo contro le tariffe doganali di Bismarck, alcuni foglietti sporchi e un numero del Temps spiegato; davanti a Riccardo Joanna, arrotolato e sudicio di stamperia, c'era l'originale dell'articoletto anodino di Paolo Stresa sulle pitture della basilica di San Clemente; alle sue spalle, infissi al chiodo e aperti, i telegrammi particolari da Milano, che si stampavano con la data di Parigi, di Berlino e di Londra; e qua e là un po' di tutto, un volume del Bouillet ch'era servito a Bertarelli per fare un capocronaca sulla inaugurazione della lapide a Stephenson, nella stazione di Roma e sull'invenzione della locomotiva, e un volume dei discorsi di Gambetta che doveva servire a lui per un articolo contro Rochefort che non aveva poi fatto, un romanzo di Ottone di Banzole, e un ombrello lasciato da Bagatti, poichè verso sera non pioveva più. Queste spoglie fugaci del giornale che in quel momento era in macchina per l'edizione di provincia, assistito da altri, accompagnato da altri alla luce, gli davano una tristezza infinita. Che gl'importava più, oramai, di ciò che conteneva il giornale? Purchè il giornale uscisse, comunque, purchè non morisse d'anemia una sera, che i cilindri d'una macchina tipografica, accanto ad un'altra macchina che versava a fiotti continui un altro giornale più fortunato e più forte girassero anche pel suo! Ecco tutto. I suoi sogni erano svaniti. Egli, Riccardo Joanna, il brillante articolista, il poeta della prosa quotidiana, il cronista mondano e fosforescente, l'istoriografo dei balli e dei concerti, tutto scintillante di aggettivi e di metafore, era schiacciato sotto il peso del suo sogno ambizioso, era soffocato sotto la mole della sua impresa gigantesca, non esisteva più. Da quindici giorni non poteva più scrivere, neppure un articoletto politico pieno di paradossi e di fuoco, neppure una di quelle sfuriate polemiche così impetuose che lo facevano ammirare anche da quelli che non si volevano abbonare all' Uomo che ride. Sopraffatto dalla belva famelica ed urlante ch'egli aveva sguinzagliata, il bell'adoratore del caviale e delle donne aveva smarrito tutti i suoi aggettivi e le sue metafore: uno era il cruccio cocente e divorante che lo affocava, uno era il pensiero che lo aveva abbrancato, una la smania furiosa che lo mangiava; tirare avanti, a forza, ad ogni costo: se no, morire. E a questo fantasma della morte ch'egli chiamava ad ogni tratto, ch'egli avea sin dal principio evocato a sua tutela quando nella cena inaugurale, rispondendo a Giulio Frati che beveva ai funerali del giornale, disse, freddo in faccia, col bicchiere alla mano, con la voce tranquilla:

‟Non scherzate col becchino, amici cari; voi sapete bene che L'Uomo che ride sarà il mio sudario.”

Di nuovo i vetri dell'uscio tremarono con fracasso, qualcuno entrò, il gerente venne con un dispaccio che tese a Riccardo; poi cominciò a rassettargli davanti le carte sul tavolino. Joanna aprì la busta del telegramma, ma distrattamente; veniva da Bologna; diceva: Spedito cinque cartelle; segue resto; mandami per telegrafo 50 lire. — Brancacci. Joanna guardò stralunatamente quel pezzo di carta gialla, poi alzò gli occhi, e vide il gerente che puliva con uno strofinaccio i due o tre calamai sparsi sul tavolino.

‟L'amministratore non s'è visto per niente oggi?”

‟No, signor direttore,” rispose quell'onesto avanzo dei Mille, lunghissimo, che aveva la faccia d'un palafreniere inglese.

‟E chi c'è stato in Amministrazione?”

‟È venuto un momento Antonio, che voleva parlare con lei; ma il signor Frati l'ha rimandato.”

‟Chi ha aperto la posta dell'Amministrazione?”

‟Nessuno; la tengo di là: la vuole?”

‟Portamela. E chi ha preso i danari della vendita?”

‟Il signor Frati.”

‟Va bene; portami la posta.”

Il gerente depose sul tavolino un gran pacco di giornali, la resa, e sei o sette lettere. Joanna cominciò a sventrarle con un taglia-carte, e a scorrerle rapidamente.

Mattirolo di Torino chiedeva si diminuisse la spedizione d'un terzo; non lo volevano a Torino L'Uomo che ride; la resa era enorme. Il pretore di Campobello di Licata scriveva una lettera furiosa: da tre mesi respingeva ogni giorno il giornale spendendo due centesimi; volevano finire di mandarglielo, sì o no? non capivano che non voleva saperne di abbonarsi? Il Circolo sabaudo di Ragusa inferiore reclamava il giornale, a cui s'era abbonato, ma che non riceveva mai: perchè? Il Messaggiero di Trinitapoli si lagnava perchè non gli si accordava il cambio; tutti i giornali glielo concedevano; perchè L'Uomo che ride glielo negava? Non si degnava?

Joanna sorrise, scrisse sopra un foglio di carta col lapis rosso: ‟Si dia il cambio al Messaggiero di Trinitapoli,” e diede una scorsa a cinque o sei cartoline; ancora un rivenditore che chiedeva una nuova riduzione di spedizione, Carlo Erba di Milano che ordinava si cessassero le inserzioni dei suoi avvisi, il rivenditore di Bologna che pregava di passare all'Amministrazione del Fanfulla le 32 lire spedite per errore tre giorni innanzi. Infine, nell'ultima lettera, un consigliere della Cassazione di Firenze accludeva sei francobolli da dieci centesimi per sei arretrati, avendo smarrito sei appendici del romanzo di Ettore Malot, in corso di stampa.

Joanna chiuse nel cassetto la posta, si pose in tasca il telegramma di Brancacci, e andò a cercare il suo cappello, lasciando sul tavolino i francobolli del consigliere di Cassazione.

‟Se viene qualcuno a cercarmi, gli dirai che sono in tipografia; torno subito,” lasciò detto al gerente.

La strada ardente di lumi lo accolse con una ventata sciroccale piena di pioggia, che pareva il pianto pieno di lagrime d'un ragazzo, Riccardo si fermò un momento, pensando se dovesse andare su a prendersi l'ombrello di Bagatti o se dovesse montare in una botte; poi s'avviò a piedi per Piazza del Pantheon alla tipografia. Davanti alla stamperia l'acqua cominciò a cadere dal cielo con impeto: Joanna entrò in fretta, strisciando i piedi per asciugarseli sul cemento dell'androne.

In un camerotto piccolo, ov'era la cassa forte dello stabilimento tipografico, Giulio Frati, piccolo, tarchiato, con una capelliera che gli copriva il bavero rialzato del paletot, stava mezzo bocconi sulla prova della prima pagina, correggendo avidamente il suo articolo violentissimo contro Bismarck; e, correggendo, leggeva forte, con enfasi; Bagatti, panneggiato in una immensa pelliccia, col cilindro inclinato sulla tempia destra, col torace vestito d'un gilet di azzurro stellante e gonfio in avanti, ascoltava lisciandosi i mustacchi enormi ed esclamando e ammirando con veemenza meridionale.

‟Hai preso tu i denari da Gardini?...” disse Joanna a Frati.

‟Sì,” disse Frati sollevandosi un poco dal suo articolo.

‟Mi dài cinquanta franchi? Brancacci mi ha telegrafato che li vuole immediatamente.”

‟Brancacci aspetterà.”

‟Se non glieli mando, non spedisce la fine dell'articolo.”

‟Ma io non li ho.”

‟Non li hai?” disse Joanna, pallido, stranamente atterrito da questa piccola difficoltà.

‟Aspetta che ti do i conti; oggi ho dovuto far io da amministratore.”

Frati si cercò nella tasca e ne trasse un pezzetto di carta che spiegò sulla pagina umida dell' Uomo che ride.

‟Ho dovuto dare i quindici franchi dell'articolo a Bertarelli: quell'animale non consegna le ultime cartelle se non ha avuto i quattrini. Il gerente doveva avere sei lire e mezzo per dispacci che tu hai mandati. La vedova Baracconi è venuta a chiedere i cinque franchi mandatile ieri da Trieste, e che l'amministratore aveva impiegato altrimenti: fanno 26.50; il conto di Gardini, eccolo;” e Frati tese a Joanna un altro pezzettaccio di carta tutto sporco sul quale il rivenditore aveva segnato col lapis il risultato della vendita di quel giorno: Ottanta dozzine Uomo, L. 28.80.

‟Restano due lire e sei soldi,” concluse Frati.

Joanna, che aveva ascoltato distrattamente la triste aritmetica di Frati, fece un meccanico cenno affermativo col capo, Bagatti gli pose le due mani sulle spalle:

‟Io ti saluto, o insigne campione della libertà della stampa. La tua penna sfonda le tenebre dell'oscurantismo, tu sei il gran poeta parlamentare. Il paese reclama la tua splendida parola alla Camera, perchè metta in fuga i vili pipistrelli della maggioranza. Non ti far sopraffare da queste miserie quattrinaie. Specchiati in me, che non ho neppure una vile lira in saccoccia, ed ho la faccia radiosa nella speranza del futuro. Non mi restano altri beni mobili che questa pelliccia e un fucile da caccia, frutto dell'ultima campagna elettorale; e chi sa? forse il Monte di Pietà, in omaggio alla sua benefica istituzione, mi prenderà l'uno e l'altra in cambio di cinquecento lire.”

‟E per l'amministratore come si fa?” disse Frati, interrompendo l'altro.

‟Perchè, che è stato?” domandò Joanna.

‟Ci ha piantati, dicendo che non può andare avanti.”

Joanna si morse le labbra sottili, mentre la fronte gli tremava lievemente.

‟Va bene, ci penseremo domani. E il giornale?”

‟Il giornale si sta impaginando; Malgagno di là corregge la Camera; ma non finisce mai di chiacchierare.”

‟Hai riletta la pagina? Dammela.”

Joanna prese la pagina stampata da una parte e bianca dall'altra, ed entrò in mezzo al movimento della tipografia, seguito dai due redattori. Malgagno correggeva il resoconto della Camera vicino al banco dei compositori sopra un tavolinetto carico di tavolette di caratteri composti, e litigava col proto espandendo la sua loquacità napoletana a piena bocca.

‟Siamo in tempo?” domandò Joanna.

‟È un po' tardi,” disse il proto; ‟il signor Malgagno non finisce più.”

‟Va bene,” disse Joanna indifferente, restituendo la pagina al proto, e domandò a Paolo Stresa che entrava in quel momento, molleggiante sulle sue lunghe gambe, dondolante la testa impomatata civettescamente:

‟Piove sempre?”

‟Non tanto,” disse Stresa.

‟Io me ne vado,” disse Joanna.

‟Addio, formosissimo giovine,” gridò Bagatti dal mezzo della stamperia.

E mentre Joanna se ne andava, il proto gli si appressò, e gli disse:

‟Il contabile della tipografia desidera di parlarle.”

Nel camerotto a vetri, ordinato e tranquillo in mezzo al rombo tumultuante della stamperia, il contabile si teneva davanti i suoi registri e i suoi libri di commercio ben rilegati, uno sopra l'altro. Il piccolo uomo freddo con la barbetta bionda e gli occhi gialligni, tirava delle linee oblique seguendo con la penna il filo d'una riga di ferro sotto colonne di cifre nitide. Joanna, stordito anche dalla molteplicità, e dalla rapidità dei fatti, dei movimenti, dei suoni, entrò stralunato.

‟Senta, signor Joanna,” disse quella voce fredda e cortese che aveva o parve avere un che d'insultante, ‟così non si va avanti. Per fare un favore a lei, le abbiamo accordato di fare i pagamenti settimana per settimana: ella è in arretrato di quindici giorni; ogni giorno promette di pagare, e poi non ne fa nulla. Io non lo posso far più; capirà, abbiamo anche noi i nostri impegni, dobbiamo pagar gli operai.”

Joanna ascoltò la dolorosa filippica che gli scardinava il cuore, senza rispondere. La voce del contabile salì d'un tono, inasprendosi, irritandosi a quel silenzio.

‟Insomma, mi dispiace moltissimo, ma ho ordine di significarle che se non paga entro domani, sospenderemo la stampa del giornale.”

‟Datemi tempo sino a dopo domani,” disse Joanna, freddo, ma sentendosi salire un tumultuoso turbine di sangue alla testa.

‟Impossibile. E, capirà, se dipendesse da me....”

‟Va bene,” disse Riccardo, andandosene, preso da un'ubbriachezza ardente; e uscendo dal camerotto, ancora con l'usciuolo in mano, chiamò:

‟Frati.”

Frati venne, tutto infocato dal calore della stamperia. Un gruppo di redattori del Baiardo uscivano in quel momento dalla tipografia, ciarlando e ridendo, col loro prosperoso giornale in mano.

‟Addio, Joanna,” dissero.

‟Senti,” disse Riccardo a Frati, traendolo nel buio dell'androne; ‟tu non hai scordato quello ch'io ti dissi la sera della cena inaugurale: L'Uomo che ride sarà il mio sudario. Bene, ci ho pensato meglio: morrò forse io, ma il giornale vivrà. — Giulio, se io mi ammazzerò, tu farai vivere il giornale.”

‟Sei pazzo?” gridò Frati, afferrandolo.

‟Non aver paura, non vado ad ammazzarmi ora; ma non si sa mai. Ciao.”

La porta della tipografia si rinchiuse rumorosamente dietro Riccardo che uscì canticchiando.

‟Che è stato?”

‟Si cessano le pubblicazioni?”

‟Joanna s'ammazza?” domandarono i redattori, affollandosi intorno a Frati.

‟Sentite,” disse Frati: ‟noi siamo alla vigilia d'una catastrofe. Bisogna tener d'occhio Joanna.”

‟T'ha detto qualche cosa?” domandò Stresa.

‟Facciamo dei sacrifizi, intanto, per aiutarlo: io non ho un soldo.”

‟Io neppure,” disse Bertarelli.

‟Tu sei un animale,” disse Frati.

‟Io non ho che il mio stipendio di travet riscosso oggi,” disse Stresa.

‟Io impegnerò la pelliccia e il fucile,” disse Bagatti.

‟Bene: sarà un acconto per la tipografia,” disse Frati.

‟Andrò a parlare col ministro d'agricoltura e commercio,” disse Malgagno.

‟Ma si vuole ammazzare?” domandò Bertarelli.

‟È un disperato,” disse Frati.

Com'era caldo, grasso, confortevole il Caffè di Roma alle sette di sera, con tutto il gas bruciante, col brodo alitante, con la carne odorante!

La gente stanca della giornata laboriosa o seccata della giornata oziosa, si abbandonava alla delizia del cibo, e una eccitazione saliva dallo stomaco al cervello scotendo tutti i nervi del corpo, svegliando l'allegrezza negli spiriti. In un angolo, in fondo alla sala, una tavolata di artisti e di giovanotti eleganti romoreggiava lietamente; a un altro tavolo un deputato enorme con una grande catena d'oro spiccante sulla sottoveste nera, improvvisava un articolo politico a un piccolo e sottile deputatino dalla testina di vipera e dagli occhiolini di pesce; due giovani sposi forestieri, seduti l'uno di fronte all'altro, si ridevano negli occhi spartendosi un piatto di maccheroni; uno scrittore elegante di vestiti e di stile, caro alle signore, un Riccardo Joanna giovinetto, pranzava solo, barbaramente, con un po' di caviale e con una costoletta in salsa d'acciughe.

Questi mentre Joanna passava guardando intorno con l'incertezza di quelli che entrano in trattoria per cercar qualcuno e non per mangiare, lo chiamò. Riccardo gli diede la mano a traverso il tavolino:

‟Pranzi con me?” disse il ragazzo illustre.

‟No, caro: cerco qualcuno.”

‟Una donna?”

‟No, un milionario.”

Il bel ragazzo fece un risetto freddo e indifferente cercando di prendersi coi denti due o tre peli dei baffettini invisibili.

Joanna preso da un improvviso impeto di tenerezza, da uno struggimento d'amore subitaneo per quella graziosa macchinetta d'aggettivi rimanti e di periodi sfarfallanti, sedette accanto al poeta sul canapè.

‟Me la fai una novella per domenica?”

‟Ma che novella! io non ne faccio più novelle. Ci vuole troppa fatica, e non c'è sugo.”

‟Dammi una poesia, allora.”

‟Ti farò quattro sonetti sui denti della principessa di Santaninfa; quei denti di tigre, sai?”

‟Anche tu?” disse Joanna, guardandolo con una tristezza infinita.

‟Come anch'io? L'ho vista stamani da Ronzi e Singer, mentre comprava le paste pel suo thè. È divina.”

‟So, so,” disse Joanna. ‟Dunque me li dai questi sonetti?”

‟Te li do, ma voglio cinquanta lire subito.”

‟Ora non le ho: fammi prima i sonetti.”

‟Ciao, allora: mi occorrono subito e vado a farmele dare dall'amministratore del Baiardo.”

‟Addio, bambino,” disse Joanna, alzandosi, e di nuovo guardò il poetello con tanta amarezza d'amore, con una tristezza così compassionevole, che costui si avvide di qualche cosa.

‟Che hai? E vero che il tuo giornale sta per morire?”

‟Questo non lo vedremo nè io, nè tu,” disse vivamente Riccardo; ‟ma più ti guardo, e più mi sento commuovere; mi sembri mio figlio.”

E s'accostò al tavolo ove pranzava il milionario, che lo aveva visto e gli aveva fatto cenno con la mano.

Il buon vecchio di Basilicata, senatore del Regno, vice-presidente e consigliere d'una dozzina di banche, di compagnie di assicurazione, di società anonime, il buon vecchietto placido, dalla barba bianca, che pareva felice di sè e della vita ad onta della sua grande tragedia coniugale, mangiava dolcemente, ma con le gengive spoglie di denti, e ascoltava con tranquilla attenzione le cose crudeli che Joanna gli veniva dicendo a voce bassa e con faccia serena.

Proprio lì accanto la tavolata allegra romoreggiava, e poco oltre un vecchio dottore tedesco distribuiva il pasto alla sua numerosa famiglia. Joanna, freddo di fuori ma bruciante dentro come se tutti gli spiriti della sua vita si fossero accesi per dar l'ultima fiammata, stava piegato sul fianco destro, e stringeva fra due dita convulsamente una cocca della tovaglia, parlando con calma e lucidezza grandissima.

‟L'ultima mia speranza è riposta in lei: se lei mi abbandona, io mi debbo ammazzare questa notte.”

‟Non dica questo,” disse il senatore, ‟non son cose che si dicono, perchè poi o si fanno, e si commette una sciocchezza, o non si fanno, e si diventa ridicoli. Lasci stare, creda a me, i giornali passano, gli uomini restano.”

‟Lei non mi conosce bene, senatore, o non conosce i giornalisti; un giornalista è come un capitano di mare: deve colare a picco con la nave.”

‟Non dica queste cose, caro Joanna, a un uomo d'affari a cui vuol proporre un affare. Lei vuol esser poeta in tutto, anche nella speculazione, anche nel giornalismo. Ho conosciuto molti ma molti più giornalisti di lei: ho conosciuto bene Girardin, per esempio, il quale diceva che il giornale è oggi ciò ch'era alcuni secoli fa un reggimento. Allora metteva su un reggimento chi voleva tentare l'avventura della forza, ora fonda un giornale. Se l'avventura era buona, il capitano saliva in groppa alla fortuna; se era cattiva, il reggimento si scioglieva, il capitano tornava ai campi, o al castello, secondo la sua condizione.”

Il placido senatore parlava mollemente, bonariamente, con un risolino benevolo, diffondendosi con compiacenza per mostrare la sua erudizione del giornalismo e della vita. Joanna si sentiva torcere le budella per l'impazienza. Sapeva bene oramai il tormento di queste divagazioni degli uomini d'affari coi giornalisti che ne propongono, aveva provato cento volte oramai la tortura feroce che la gente di danaro si compiace di infliggere, menando attorno chi si rivolge ad essa, sermoneggiandolo, facendogli la lezione.

La faccia di Joanna si cominciava a far tetra; quella volta, proprio, la necessità era troppo incalzante; ogni deviamento dalla questione gli era insopportabile.

‟In sostanza,” disse il senatore, ‟veniamo all'affare. Di che si tratta?”

‟Si tratta,” disse Joanna, piano sempre, ma con la virulenza magnetica d'un uomo che si lancia ad abbattere un muro, ‟che se non risolvo il problema insolubile che le ho detto, stanotte mi debbo ammazzare.”

Il senatore lo guardò in faccia, questa volta un po' impressionato più dal tono che dalle parole, e con un principio d'agonia.

‟Dite, dite: vediamo.”

‟Mi occorrono diecimila lire domani,” disse Joanna tutto in un colpo, brutalmente.

Il senatore tornò freddo e dolce come prima.

‟Sarà un po' difficile che le troviate. Io non posso darvele.”

‟Allora addio,” disse Joanna tranquillamente, facendo atto di alzarsi.

‟Aspettate,” disse il senatore, alzandosi a metà anche lui, di nuovo inquieto; ‟aspettate, che andate a fare?”

‟Vado a trovare non dieci, ma venti, ma centomila lire. Se domani L'Uomo che ride esce col suicidio di Riccardo Joanna, la sua fortuna è fatta; se ne tireranno centomila copie, nessuno gli negherà più i fondi necessari alla vita.”

‟Aspettate un poco, vediamo cosa si può fare,” disse il buon vecchio, spaventato sinceramente, sconcertato da quella faccia serena e delirante insieme. ‟Vi occorrono proprio diecimila lire?”

‟Non so, mi occorre tutto: seimila lire a Fontanella che non mi dà più carta se non lo pago, milleduecento lire alla tipografia che non mi stampa domani il giornale se non saldo il conto, cinquanta lire a Brancacci che non mi finisce l'articolo se non gliele mando per telegrafo, cinquanta lire a quel ragazzo che porta i sonetti al Baiardo se non gliele do subito, quattromila lire ai miei redattori che da due mesi non hanno avuto un soldo, dodici lire al gerente....”

Il senatore lasciava sfogare il disperato ch'era stato preso da una specie di furore; e masticando lentamente pensava, valutava, misurava l'abisso dal fondo del quale Joanna gridava aiuto.

‟Ecco,” disse, ‟io debbo domattina partire per Torino, ove ho consiglio d'amministrazione della Banca Piemontese; sarò qui fra cinque o sei giorni, e potrò occuparmi di voi. Parlerò coi miei amici, vedrò cosa si può fare, e spero di mettervi insieme fra due o tre settimane otto o diecimila lire. Ma voi dovete darmi la vostra parola d'onore che il vostro giornale durerà.”

‟Ve l'ho già detto: il giornale vivrà; ma io non posso aspettare tutto questo tempo.”

‟E allora che volete che vi faccia?”

‟Sentite,” disse Joanna, ‟datemi cinquemila lire domani, e non v'infastidirò più.”

‟Io non posso, assolutamente.”

‟Datemene tremila.”

‟Ma no, ve l'ho detto.”

‟E allora,” disse Joanna di nuovo glaciale, ‟tutto è inutile.”

Il senatore cominciava a fremere di paura e di collera.

‟Ma come diavolo vi trovate a questi estremi? Non avevate preveduto le grandi spese che richiede un giornale?”

‟E potevo io pensare che Sella si sarebbe ammalato? Voi lo sapete: senza la malattia di Sella a quest'ora la Destra e la Sinistra non esisterebbero più, non vi sarebbe più che una sola grande maggioranza dei conservatori più vivaci e dei progressisti più sensati. L'Uomo che ride sarebbe l'organo di questo nuovo partito, avrebbe trovato i fondi, si venderebbe a cinquantamila copie.”

‟E voi fondate un'impresa commerciale sopra un sogno che può esser distrutto da una febbre malarica.”

‟Senza simili sogni non vi sarebbero nè giornali, nè banche, nè società ferroviarie.”

‟E i vostri azionisti? Mi diceste tempo fa che avevate settantamila lire sottoscritte. Sono già consumate?”

Joanna fu fermato nel suo impeto da questa osservazione che lo richiamava alla realtà, che lo puniva con un sol colpo del suo terribile vizio di considerare i suoi sogni come fatti compiuti, i suoi desiderii come conseguiti, le sue illusioni come verità. Balbettò, rispondendo una bugia:

‟Hanno sottoscritto, ma non hanno pagato.”

‟Come non hanno pagato?” disse il senatore con un risolino incredulo, e riacquistando la sua tranquillità; ‟non avevate costituita una società anonima? Gli azionisti non si sono riuniti? Non hanno formato un consiglio di amministrazione, non hanno nominato un amministratore, non hanno versato le quote stabilite dalla legge? Voi avete il codice di commercio e il tribunale dalla vostra parte: difendetevi.”

‟Io non ho fatto nulla di tutto ciò,” disse Riccardo, ‟non credevo ci fosse bisogno di tante formalità: mi sono fidato.”

Il senatore lo guardò con pietosa indulgenza. Riprese lo châteaubriand che aveva abbandonato. Il poeta, terminato il suo barbarico pasto, s'accostò, attillato ne' suoi panni serrati e corti all'inglese, smovendo il collo nel solino che gli segava il mento.

‟Senti, Joanna, se non trovo l'amministratore del Baiardo prima di mezzogiorno, verrò da te: e se mi fai trovare i quattrini ti darò i sonetti.”

‟Bene, ciao,” disse Riccardo guardandolo mentre s'allontanava dimenandosi inglesemente sulle anche, con le mani ficcate a forza nelle piccole tasche della piccola giacchetta.

‟Che cosa costa un giornale, ora, a Roma?” domandò il senatore, preso da una curiosità feroce. Joanna lo guardò negli occhi. Di nuovo colto da una speranza, e obbedì al capriccio del mite e feroce milionario.

‟Secondo i casi: il mio costa da otto a diecimila lire al mese.”

‟Per Dio! È un affar serio.”

‟Il conto è presto fatto. La carta dell' Uomo costa sessanta centesimi al chilo; ogni chilo dà una cinquantina di fogli, quindi per quattro a cinquemila copie si ha una spesa di cinquanta a sessanta lire al giorno, da millecinquecento a milleottocento lire al mese. La tipografia costa da trenta a trentacinque lire al giorno, ossia da novecento a mille lire al mese. La redazione ordinaria, compresi i corrispondenti dalle varie città d'Italia, duemila trecento, duemila quattrocento lire al mese. La redazione instabile, gli scrittori pagati ad articolo, le corrispondenze straordinarie, l'appendice.... da mille duecento a mille cinquecento lire. I telegrammi, su per giù, compresa la Stefani, mille cinquecento lire. La posta, il basso personale, il locale, il gas, millecinquecento lire. Fate il conto.”

‟E i proventi?” domandò il senatore, sempre tranquillo.

Riccardo sopraffatto da quella speranza che gli cresceva nel cuore, che ingigantiva, che diventava una follia, tenne dietro al milionario, come quei pescatori che gittano il rampone alla balena, e poi si fanno trascinare dal cetaceo ferito aspettando che abbia perduto le forze e che possano rimorchiarlo a terra.

‟Gli utili sono costituiti dagli abbonamenti, dalla vendita in Roma, e dalla vendita in provincia. Noi abbiamo pochi abbonati, perchè l'abbonamento è una cosa lunga, lenta.”

‟Quanti?” domandò il senatore.

‟Circa quattrocento.”

‟Che pagano?”

‟Venti lire all'anno.”

‟Ottomila lire,” calcolò il senatore. ‟E la vendita?”

‟A Roma diamo il giornale ai rivenditori per tre centesimi, se ne vende da settanta ad ottanta dozzine, sono da venticinque a ventinove lire al giorno, da settecentocinquanta a ottocentosettanta lire al mese.”

‟Mettiamo novemila lire l'anno,” calcolò ancora il senatore.

‟In provincia invece il giornale si dà ai rivenditori per sei centesimi, se ne vende un migliaio al giorno, abbiamo sessanta lire al giorno e....”

‟Quasi ventiduemila lire l'anno,” concluse il senatore. ‟E la quarta pagina?”

‟La quarta pagina per quest'anno non ci dà quasi nulla, perchè non ci conveniva di fare un contratto sulla base di quattromila copie, e perchè a farlo per conto proprio ci vorrebbe un'amministrazione speciale.”

‟Dunque,” disse il senatore, ‟voi spendete più di centomila lire l'anno, e ne introitate meno di quarantamila?”

Joanna restò muto, soffocato dalle cifre, ardente, palpitante d'inquietudine, sotto lo sguardo dolce del milionario, aspettando convulsamente.

‟Voi siete un giovine d'ingegno, caro Joanna; è un peccato che vi perdiate così; sentite me: questa è una cattiva speculazione: lasciatela andare. Scrivete dei belli articoli nei giornali degli altri, voi potete far molto.”

Joanna, stordito, finito, sotto quel colpo di mazza, si alzò, prese il suo cappello, attraversò il caffè, mezzo pazzo, non vedendo la gente che lo guardava, si trovò fuori, al freddo, nella mezza tenebra del Corso.

Allora gli accadde una cosa nuova nella sua vita. Una tranquillità lucida empì il suo spirito: il suo cervello, calmo e sicuro, cominciò a funzionar con ordine, obbedendo alla volontà ferma, incrollabile. Stette un minuto a pensare, per vedere che cosa ci fosse da fare, per prestabilire tutto, per provvedere a tutto, senza perder tempo, senza confondersi.

Pel Corso risaliva poca gente, a causa del tempo cattivo: qualcuno andava in giù, in fretta, lungo il marciapiede, con una mano in tasca, e con l'altra reggendo l'ombrello, alcuni venivano dalla Cacciarella, ove s'eran fermati a fare il chilo lungamente, pel freddo, e parlavano di giornali: erano impiegati e giornalisti. Passarono presso a Riccardo, due lo salutarono.

‟Ciao, Joanna.”

Riccardo li lasciò un po' dilungare, poi prese il marciapiede opposto, e cominciò a correre, riparandosi dalla pioggia sotto la sporgenza dei tetti. Davanti al caffè Aragno si fermò: voleva guardare a traverso i vetri, se Frati era là dentro. Ma il contrasto del freddo esterno e del calore interno aveva sparso sui cristalli delle vetrine una patina impenetrabile, e non si vedeva che un rosseggiar vivo che pareva di spiriti brucianti. Joanna girò il manubrio d'una delle porte, ed entrò: da tutti i tavolini delle voci lo accolsero. ‟Ciao, Joanna.”

Una specie di moschettiere della stampa, alto, con una barba da Ernani, con un mantello verde da toreador sulle spalle, gli si accostò.

‟Senti Joanna: io non ti potevo soffrire; mi eri antipatico: te lo dico francamente. Ma ora conta sopra di me, per qualunque cosa.”

‟C'è Frati?” disse Joanna, serrando la mano del moschettiere.

‟Guarda lì in fondo: ci dev'essere.”

Riccardo traversò le sale, con faccia sicura, con passo fermo, senza veder la gente che lo guardava, e che parlava di lui.

‟Quello è un uomo che finisce male,” disse un capitano dei carabinieri amico de' giornalisti.

‟Ma che male,” disse il corrispondente del Secolo di Milano, ‟oggi stesso si sono accordati con Depretis: gli daranno quattromila lire al mese. Vedrete L'Uomo che ride risorgerà.”

‟E pure è un bel giornale, è un peccato!” disse Centola, il comproprietario d'un giornale del mattino che aveva fatto la guerra, sordamente, con la camorra dei rivenditori, all' Uomo che ride.

Frati era in istato incandescente, pareva una caldaia a vapore. Con un bicchiere di ponce davanti, col bavero alzato, il cappello indietro sul cranio, gli occhi lucenti, le mani in aria, polemizzava violentemente con quattro o cinque giornalisti, corrispondenti, redattori d'altri giornali. Era il leader dell' Uomo che ride. Giulio Frati, l'entusiasta del suo giornale, il credente nella sua polemica, l'appassionato della discussione. Per lui, non c'era altro giornale al mondo fuori del suo; e la sua voce, per solito piana, era salita a una tonalità imperiosa e burrascosa. Egli urlava, e sbalzava dall'uno all'altro argomento perorativo, soffocando gli avversari sotto l'esuberanza della dimostrazione.

‟Perchè si deve vendere il Baiardo, che è un vecchione, un rudere, una vacuità, ove non c'è più nè men spirito, ove non c'è nulla, nè un articolo, nè un dispaccio, nè la cronaca, nè nulla? Perchè si deve vendere il Sancio Panza, che è il monitore ufficiale dell'imbecillità, della sgrammaticatura, dell'ignoranza? tutto un cumulo di scempiaggini tradotte dal francese? C'è nessun giornale a Roma che abbia un ideale politico? Noi lo abbiamo, noi combattiamo per esso, ogni giorno, da tre mesi, senza tregua. Quando poi la polemica politica si è fatta in Italia con tanta vivezza, con tanta onestà, con tanto fuoco? Quel poco di vita letteraria che ci è in Italia, tutta è raccolta nel nostro giornale; noi pubblichiamo gli articoli di Brancani, di Cesare Dios, di Filippi, le novelle di Capuana, di Verga, di Navarro, i versi di Stecchetti, di Panzacchi, quotidianamente. E non siam stati noi i primi ad introdurre in Roma il sistema dell'informazione telegrafica, rapida, fulminea, colorita, palpitante? Quando mai s'è visto un lavoro giornalistico simile al nostro resoconto del processo Faella? Intanto nessuno risponde ai nostri attacchi, hanno paura, ci fanno la guerra vigliacca, ci fanno la camorra, impongono ai rivenditori di non gridare il nostro giornale, ci rubano le notizie senza citarci. Andate là: la stampa in Italia è vigliacca. Ma, per Dio, verrà il momento....”

‟Giulio, vieni via,” gli disse, battendogli sulla spalla, Joanna, ch'eragli sopravvenuto dietro.

‟Buona sera, Joanna,” dissero quelli che erano stati a sentir Frati, freddamente, poco convinti dalla sua focosa eloquenza.

‟Oh, sei tu? Eccomi,” disse Frati, battendo sul tavolino i soldi del ponce.

‟Andiamo all'ufficio,” disse Riccardo quando furono fuori.

Quel pezzo di Corso era un po' più popolato; il caffè Aragno e quello del Parlamento, ove la gente affluiva, lo popolavano anche nelle sere cattive. Ignazio, il gobbetto allegro, urlava i titoli dei giornali sotto il palazzo Chigi. Piazza Colonna era nebbiosa assai, e bizzarra, con quel lunghissimo stelo della colonna che se ne andava in alto, fra i vapori. Davanti al palazzo del Parlamento, i cui cristalli opachi erano debolmente illuminati, Joanna si fermò:

‟Entra un po',” disse a Frati: ‟vedi se c'è l'onorevole Feliciani.”

Frati stette qualche minuto dentro. Joanna pensava, nella piazza, fischiando un'arietta e battendo il tempo col piede.

‟Non c'è,” disse Frati, tornando.

‟Chi c'è?”

‟C'è Capponi che scrive una lettera, Boselli che parla con Zerbi, e un vecchio che legge i giornali, non so chi sia.”

‟Non importa,” disse Joanna.

Scesero in Via degli Uffici del Vicario; Frati ancora ardente per la gran discussione recente, Joanna tranquillo ancora, sebbene una nuova febbre, il gran delirio finale, gli cominciasse a scoppiare nel sangue. Giunti al portoncino dell'ufficio, disse Joanna:

‟Hai fiammiferi?”

Dirimpetto, il liquorista se ne stava all'ingresso della sua bottega. Quando Frati accese il cerino, s'accostò a Joanna:

‟Senta, caro signore; mi son seccato d'esser menato in giro a questo modo, per quel conto di duecentoventi lire. Anche ieri il suo amministratore mi ha mandato a spasso, dicendo che il giornale andava in rovina.”

‟Venite domani,” disse Joanna, trasalendo a quella guerricciola della necessità, a quell'assillo del bisogno, minuto, insistente, implacabile, all'ultimo momento.

‟Ma che domani e doman l'altro,” gridò sgarbatamente il creditore, inferocito, ‟son tre mesi che mi sento ripetere questa storia. Perchè bevere tanto cognac e tanto kummel, quando non potete pagarlo?”

‟Fate un po' quel che vi piace,” disse Joanna, entrando nel portoncino; e mentre abbasso il liquorista bestemmiava e minacciava, egli montò le scale rapidamente, preso da una ribellione, afferrato dalla pazzia.

Frati accendeva il gas nella stanza di redazione, Joanna si buttò nella sua poltrona davanti alla scrivania, furioso, con una smania di urlare prepotente.

C'erano due lettere. Una busta gialla la prese, la buttò in terra, la calpestò:

‟Anche tu, anche tu, anche tu! Andate al diavolo tutti, andate all'inferno tutti, fallite tutti, cani: non voglio più veder nulla, non voglio più saper nulla.”

‟Per Dio!”

Frati raccolse la lettera, guardò la busta, c'era su stampato la ditta del tappezziere che aveva mobiliato l'ufficio, che insisteva per avere il saldo, che ingiuriava, che minacciava. Il buon giovine se la mise in tasca, per nasconderla agli occhi di Riccardo.

‟Lascia stare, non c'è bisogno,” disse Joanna, che restava nella sua poltrona, coi gomiti puntati ai braccioli. ‟Oramai non m'importa più nulla. Mi dài il giornale di stasera?”

Frati andò in anticamera a farsi dare dal gerente una copia dell'edizione di provincia, e gliela recò. Joanna aveva cercato un sigaro nel cassetto della scrivania, e lo aveva acceso: si mise a leggere il giornale, con una certa attenzione. Frati sedette al tavolinetto, ove di solito lavorava, e cominciò a scrivere un po' di cronaca per l'edizione di Roma, sugli appunti che il reporter gli aveva lasciati. Dall'alto le tre lampade gittavano tre grandi fiotti di gas. L'ufficio ancora nuovo, ma già pieno di fasci di giornali vecchi e già polverosi, pareva scoppiare per la luce troppo piena. La faccia di Joanna era nascosta dal foglio, ma il fumo usciva dai lati e dall'alto del giornale. Giulio Frati scriveva in fretta: la sua penna correva con rapidità grandissima sui pezzetti di carta lucida. Dall'uno all'altro, nel silenzio, una trasfusione avveniva; il pensiero dell'uno passava nel cervello dell'altro. Il sognatore che aveva travolto l'altro nella sua illusione, e lo spirito pratico e mediocre che gli aveva dato invano, per avverarla, tutta la sua tenace volontà di lavoratore, s'avvicinavano, si tendevano l'uno all'altro, si stringevano unitamente con un vincolo di simpatia, di fraternità, di affetto, tenacissimo.

‟Bello il tuo articolo,” disse Riccardo Joanna.

‟Ti piace?”

‟Senti,” disse Joanna, alzandosi dalla sua poltrona e venendo a sedere sopra uno scannetto accanto a Frati: ‟tu hai una vera stoffa di giornalista: hai il cervello solido, non sei poeta, non hai velleità letterarie, non hai il feticismo dell'aggettivo: tu sarai un gran giornalista. Io ho fede in te. Ti affido L'Uomo che ride.”

Frati balzò su, convulso.

‟Se non ti levi quest'idea dal cervello, mi affaccio alle finestre, fo un tal chiasso che fo correre tutta Roma.”

‟Che idea? sei matto?” disse Joanna dolcemente, sorridendo.

‟L'hai detto fino dal primo giorno, l'hai detto sempre, l'hai detto anche stasera: questa è una follia, tu non la farai,” gridò Frati, eccitandosi rapidamente alle sue stesse parole, correndo alla scrivania e mettendovi su le mani, come per impedire a Joanna di accostarsi al cassetto.

‟Ma no, smetti, non aver paura, non mi ammazzerò, sarebbe troppo stupida, e darei gusto ai miei nemici. Lascia pur stare la scrivania, sentimi.”

‟Io non mi movo di qua, parla pure,” disse Frati.

‟Senti dunque. Noi non possiamo andare più avanti. Il senatore, quello che da principio mi aveva promesso di darmi quindicimila lire, e poi non volle far altro che avvallarmi la cambiale di Fontanella, di tremila lire, me ne ha ricusate mezz'ora fa diecimila. L'Associazione Costituzionale, che mi ha menato in giro per un mese, all'ultimo momento, ieri, ha dato le trentamila lire alla Patria. Fontanella non vuol farmi più credito, la tipografia non stamperà il giornale domani se non pago, voi da due mesi non siete pagati, anzi io sono indebitato con tutti voi, con te, con Stresa che mi ha dato il suo stipendio il mese scorso, con Bagatti che ha impegnato il suo orologio per me, persino con Bertarelli che mi ha trovato ottocento lire da uno strozzino. Noi dovremmo dunque domani sospendere il giornale. Invece, senti che cosa ho pensato. Io parto domattina all'alba, per l'Alta Italia: voi fate uno sforzo disperato per trovare dei denari e per ottenere una dilazione dalla tipografia, e tirate avanti per otto giorni ancora, a qualunque costo: io vado a Milano, a interrogare i negozianti arditi che hanno bisogno di réclame, i ricchi ambiziosi che hanno bisogno d'appoggio per riuscire; poi fo una corsa a Genova, e batto in breccia tutti i ricchi industriali che hanno tanti svariati interessi; i proprietari di cantieri che hanno bisogno di ordinazioni dal governo, i moderati che sono irritatissimi della prevalenza radicale; passo per Torino, ove do l'assalto alle banche che vogliono tentare a Roma delle imprese di costruzione, ai ricchi commercianti che temono dei disastri all'apertura della galleria del Gottardo: riunisco in un fascio gl'interessi più opposti, quelli che vogliono assicurarsi il possesso della ricchezza o del potere conseguito, e quelli che vogliono conseguirlo. Sarò qui tra dieci giorni, tra dodici giorni al più tardi con centomila lire, con un nucleo di aderenze, e non avremo più pensieri. Capisci?”

‟Capisco,” disse Frati, senza moversi dalla scrivania; ‟ma perchè non hai pensato a questo prima, in principio?”

‟I pensieri buoni vengono sempre in punto di morte,” disse Joanna gravemente, e subito rise: ‟dico per ischerzo, perchè son pieno di fede e di allegrezza: non mi far la tragedia. Sono contento: finalmente mi è venuta l'inspirazione: i giornali debbono posare sopra una base d'interessi pratici, di bisogni positivi: la base del giornale dev'essere la speculazione, non la politica: la politica è un sogno, è metafisica, è poesia frugoniana.”

‟Dunque tu parti domani?”

‟Sì, parto domani; e ti affido il giornale. Il servigio che io mi aspetto da te è immenso, è uno di quelli che legano per la vita e per la morte. Ora fammi un favore, va a cercare quanti più puoi dei nostri redattori: voglio parlar con loro prima di partire, voglio ufficialmente investirti de' miei poteri.”

‟Va bene,” disse Frati, ‟andrò, ma voglio anch'io un favore. Dammi il revolver che hai nel cassetto.”

‟Prendilo pure,” disse Joanna, ‟tanto, non mi occorre.” Frati lo guardò in faccia. Era tranquilla come non la vedeva più da due mesi, illuminata da un risolino persuasivo. Fu sul punto di lasciar lì il revolver, convinto, ma la sua natural prudenza prevalse. Aprì il cassetto, prese l'arme, se la mise in tasca.

‟Vengo subito,” disse.

Joanna, rimasto solo, tolse prima di tutto dal muro una delle pistole che stavano appese al semicerchio di bronzo, con le altre armi da duello; poi cominciò un lavorío lungo. Staccò le palle incastrate nelle cartucce del revolver rimaste nella scatola, e radunò la polvere sufficiente per una carica, la pigiò nella canna, la calcò con un pezzetto dell'originale di Paolo Stresa, vi calcò dentro due palle del revolver. Mancava la capsula. Dove trovare una capsula? Andò in anticamera, a svegliare il gerente.

‟Vai dal tabaccaio in Piazza Colonna, fatti dare un soldo di capsule per fucile.”

Il reduce lo guardò sbalordito, non tanto dal sonno, quanto dalla stranezza della commissione.

‟Spicciati: che hai? Non capisci?”

Tornò di là, si pose in tasca la pistola carica a metà, prese con le due mani nel cassetto un fascio di carte, le posò sulla scrivania. Oramai, la febbre finale, il gran delirio della distruzione lo teneva con una ossessione completa. Era una ebbrezza ardente di distruggimento, e insieme un'allegrezza, una consolazione ineffabile di troncare il martirio quotidiano, di perir nella lotta. Era la vanità e la vigliaccheria. Pensava al supremo e tragico bene della insensibilità infinita, alla sensazione finale della morte, all'articolo che l'avrebbe annunziata, il giorno seguente, nell' Uomo che ride. E un desiderio lo prese, una voglia morbosa di giornalista che muore di giornalismo: prese un pezzo di carta e una penna, e scrisse:

‟Non voglio che la mia morte sia annunziata da altri che da me. Io muoio col mio giornale, come il capitano con la sua nave. Noi abbiamo lottato gigantescamente con la tempesta, il mio giornale ed io, sul gran mare della pubblica opinione. Quando ho sentito che il giornale colava a picco, mi son bruciato le cervella sul ponte di comando. A quelli che mi hanno seguito con amore nel combattimento, mando l'ultimo saluto: agli altri offro l'olocausto della mia vita. Così ne fossero contenti! Per parte mia, rompo la mia gioventù, la mia forza, le mie speranze, lietamente. La stampa, come tutti gli stromenti della civiltà, vuole le sue vittime umane. Io mi getto con gioia, con fede, con entusiasmo, nelle fauci del mostro. Un giornalista cade sulla breccia: Evviva il giornalismo! — Riccardo Joanna.”

Joanna scrisse il suo ultimo articolo tutto d'un fiato, con impeto, con passione, come ai bei tempi antichi, lo rilesse tre o quattro volte delibandolo, pregustando con raffinatezza feroce la profonda impressione che avrebbe fatto il giorno seguente. — Ecco il più bell'articolo della mia vita, — pensò. — Lo riporteranno tutti i giornali: Wood lo telegraferà al Times — e, con la compiacenza con cui Carlo V doveva contemplare il suo funerale, prese una matita rossa, e scrisse in cima al foglietto: Primo articolo. C. 12 (corpo dodici).

Fumò lungamente, guardando il fumo, pensando con tanta intensità, che la percezione delle sue idee gli sfuggiva, sentendo però in tutto il corpo un accrescimento formidabile di sensibilità, un'espansione fortissima di calore, come se la sua vitalità si andasse di minuto in minuto centuplicando per morir poi tutta quanta d'un tratto. Cominciò a scernere le carte: fra le prime, gli capitò il verbale del suo ultimo duello, col direttore della Pace, per un articolo veemente dell' Uomo che ride. Lo rilesse, lentamente, per richiamarsene tutti i più minuti particolari, per riprovare la sensazione della morte che aveva avuto quella mattina, acutissima, quando i padrini comandarono l'attacco ed egli si lanciò addosso all'avversario, con la spada avanti, e si sentì la punta fredda entrare nella spalla, profondamente. Accese una candela, accese alla fiamma il verbale. A che serviva? Quella era stata la prova della morte: ora veniva la rappresentazione vera della tragedia. Subito, la stanza si empì di fumo: quel mezzo non andava; i romanzieri avevano torto di adoperarlo sempre, nella catastrofe dell'amore. L'amore! Povero amore! Povera e meschina passione che non salva gli uomini dalla rovina, nè dalla morte, e che non li rovina, nè li uccide. Prese un pacco di lettere, le ultime, l'ultima passione. Non le rilesse, non sentì il desiderio di leggerne neppur una: tutto era finito: proprio. Si alzò, s'accostò alla finestra, l'aprì: nel cortiletto buio una finestra illuminata versava un fragor di voci, maschili e femminili, miste. Sciolse il pacco, cominciò a stracciar le lettere in pezzettini minuti, le buttò nel cortile, piano, piano: sentiva il freddo umido del vento lambire la sua pelle, senza raffreddarla: pareva anzi che il vento s'infocasse, toccandola. Tornò alle altre carte: cominciò a stracciarle come venivano, tutte senza distinzione, buttando i frammenti nel cestino ov'erano alcuni giornali e parecchi articoli non pubblicati. — A che lasciarsi dietro delle carte inutili? — E distrusse un fascio di fatture non saldate, di lettere impertinenti di creditori, lettere di azionisti che avevano promesso di pagare e non avevano mai pagato, lettere di redattori che si offrivano, o che si dimettevano: tutta la storia dell' Uomo che ride, tutto l'archivio d'un giornale, ch'è importante e ricco, umanamente appassionato come un archivio di questura. Infine, preso da un'impazienza, da una furia, stracciò senza più nemmeno guardare. E sedette da capo, per tornare a scrivere. Ma questa volta senza impeto, senza enfasi. Scrisse a Giulio Frati, semplicemente, affettuosamente, chiedendogli perdono dell'inganno, lasciandogli in eredità il giornale, supplicandolo di fare sforzi sovrumani per tenerlo in piedi, dandogli una folla di consigli e di ammonimenti. Scrisse ai suoi redattori, ringraziandoli del concorso generoso e amoroso, della loro abnegazione, del loro coraggio, raccomandando anche ad essi il giornale. E suggellò tutte queste lettere, una dopo l'altra, accuratamente, chiudendo anche la sua necrologia in una busta gialla e scrivendovi sopra: Al proto per domattina. Mise questa busta al posto solito, sulla scrivania, sotto il timbro, ove il proto, quattro o cinque volte nel giorno e nella notte, veniva a cercare l'originale, per l'edizione della sera e quella della mattina.

Per le scale salivano i redattori, con Frati, parlando forte, facendo un rumore grande in quel buio silenzioso. Frati aveva pescato Paolo Stresa al Valle, Malgagno al caffè, Bagatti nell'ufficio del Sancio Panza, ove la sera c'era circolo. Aveva dato la voce, qua e là, nei due o tre posti ove i giornalisti bazzicano la notte, al telegrafo, da Morteo, alla birreria del Quirino, di avvertire gli altri di mano in mano che capitavano. Erano eccitati tutti: avevano tutti un presentimento, una divinazione tragica: portavano anche l'esaltazione dei luoghi ov'erano stati, poichè ovunque, come per una fatale combinazione, non avevano sentito parlare che di Joanna, non avevano parlato che di Joanna. Bagatti era atterrito. I suoi antichi amici del Sancio Panza, che gli avevano sempre rimproverato il suo attaccamento a Joanna, quella sera erano tutti pieni di lodi per L'Uomo che ride, dicevano che Joanna era un forte polemista, che il suo giornale era molto bello: peccato! Ma, già, il pubblico è così strano: chi ci capisce nulla? E mormoravano a tratti, smorzicatamente, delle frasi di malaugurio, la pietà del giornalista che è contento della disfatta d'un nemico e mortificato insieme della disfatta del giornalismo. Qualcuno disse che l'Associazione Costituzionale, ieri, aveva assegnato alla Patria le trentamila lire promesse a Joanna. Un altro disse:

‟Stasera Joanna ha fatto un tentativo disperato col senatore ***. Aveva una faccia stravolta. Il senatore s'è fatto fare il bilancio del giornale: è rimasto spaventato: non gli ha voluto dare neppure un soldo.”

Un altro disse:

‟E ora che farà? S'ammazzerà.”

Tutta la sala insorse:

‟Ma che ammazzarsi; ma uno s'ammazza così, perchè muore il giornale? Ne muoiono tanti di giornali, allora!”

‟L'ha detto lui, che s'ammazzava. Lo farà, vedrete. È un uomo di fegato, Joanna.”

‟Vedrete che si rassegnerà.”

Allora Bagatti, furioso, balzò su, rosso in viso, violento, feroce, e con una retorica dirompente, con un'enfasi scatenata, con una voce scoppiante caricò d'insulti la società, rinfacciandole la sua vigliaccheria, la guerra settaria e camorristica che aveva fatto a Joanna, la congiura del silenzio, la lega dei rivenditori, chiamandoli tutti coccodrilli, fra gli urli di quelli.

Frati lo venne a salvare, lo fece chiamare per l'usciere, lo trasse via, ancora ribollente, ancora spumante d'indignazione, tutto agitato di collera e di terrore, per Joanna.

‟Che c'è di nuovo?”

‟Nulla, per ora: Riccardo pare tranquillo, ha delle buone idee, vuol partire per l'Alta Italia; ma bisogna sorvegliarlo.”

Roma entrava sempre più nella notte lacrimevole, sempre più fredda, sempre più buia, sempre più solitaria. Gli uomini si ritraevano addentro, addentro, nelle case calde, nei letti caldi, come per fuggire dai miseri che avevano bisogno d'aiuto, come per non vedere quelli che dovevano necessariamente perire.

‟La Duse mi ha raccomandato di stare attento a Joanna, di non abbandonarlo,” disse Paolo Stresa, raggiungendo gli amici che lo avevano fatto chiamare, e che lo aspettavano fuori del Teatro Valle, ‟io credo che bisognerebbe persuaderlo a far cessare il giornale: può accadere una disgrazia.”

‟A ogni buon fine gli ho portato via il revolver,” disse Frati.

Entrando nell'ufficio, lo trovarono tutto illuminato. Riccardo stava prendendo da un armadio le ultime bottiglie di quello sciagurato kummel ch'era servito a festeggiare le prime settimane del giornale, e che gli aveva procacciata l'ultima stilettata. Pareva tranquillissimo. Frati si fermò vicino a lui, gli altri due andarono nel salotto, a seguitare un racconto che Malgagno aveva cominciato da dieci minuti, e che pareva eterno.

‟Il Ministro pranzava alle Venete, col Segretario generale dei Lavori pubblici, col Direttore della Banca Nazionale, col Presidente della Società d'Assicurazioni Veneta. L'ho fatto chiamare dal cameriere, per non parlargli davanti a quegli altri. Gli ho parlato lungamente, ho fatto di tutto per persuaderlo. È stato inutile. Depretis è seccato dell' Uomo che ride, s'è accorto che non può tirare avanti, preferisce lasciarlo morire: se lo aiuta a rimettersi in gambe, teme che da un momento all'altro ritorni all'attacco. Quanto a lui personalmente, non può far nulla. Le millecinquecento lire che diede a Joanna, in principio, gli sono state rinfacciate. Poi non può nemmeno aiutarlo indirettamente, col pretesto di affidargli un lavoro: gli articoli di Frati sono stati troppo virulenti, la cosa si saprebbe subito. Del resto il fondo delle spese eventuali era tutto impegnato.”

Joanna entrava con Frati nel salotto, ciascuno con due bottiglie in mano.

‟E gli altri?” domandò Riccardo.

‟Vengono,” rispose Stresa, alzandosi a prendere una bottiglia di mano a Frati.

Il salotto era comune: aveva un'aria borghese, ma poco casalinga, ma niente affatto intima. Già la polvere era penetrata nella iuta, già la vecchiaia prendeva quei mobili recenti. Sulle poltroncine stavano dispersi dei volumi di relazioni dell'Ufficio di Statistica, sul pianoforte era una confusione di carte di musica e di giornali, le molle dei canapè già cominciavano a fiaccarsi per l'abitudine dei redattori di starvi sopra distesi.

Stresa fece un cenno a Frati che chinò la testa e porse l'orecchio:

‟Che t'ha detto?”

‟Niente. Vuole che beviamo insieme le ultime bottiglie.”

Malgagno si mise al piano, cominciò a strimpellare un pezzo d'operetta.

Stresa s'accostò a Joanna.

‟Senti, ho dovuto dare trenta lire alla mia padrona di casa. Eccoti queste centocinquanta.” Joanna sorrise, bizzarramente.

‟Dàlle a Frati: domani avrete bisogno di quattrini, per saziar la fame della stamperia.”

‟No no, tienile tu,” disse Frati: ‟noi provvederemo alla meglio. A te occorreranno pel viaggio.”

‟Bene, prendo anche queste: il viatico mi porterà fortuna. Ma non dimenticare di telegrafare a Brancacci, domattina: finisca di mandar l'articolo, avrà i quattrini. A proposito, le prime cartelle non son mica arrivate?”

‟Credo di sì,” disse Frati: ‟aspetta un po'.” E andò nella stanza di redazione.

Bagatti da dieci minuti passeggiava da un capo all'altro del salotto, con la tuba calata sopra un occhio, con la pelliccia sbottonata, terminando a sè stesso, senza emettere altri suoni sensibili che certi grugniti confusi, l'allocuzione furibonda, l'investimento frenetico cominciato contro quelli del Sancio Panza. Ad un tratto, non potendone più, si voltò a Riccardo:

‟Joanna, tu cadi vittima de' tuoi errori.”

‟Può essere,” disse Joanna col suo risolino convulso.

Bagatti restò interdetto, colpito dalle parole che gli erano uscite di bocca involontariamente, e dalla faccia di Riccardo, gelata rabbrividente. E per reazione, la sua retorica rigurgitò di nuovo, prepotente, soffocante, stordente:

‟Tu dovevi schiacciare i rettili sotto l'impeto della tua gioventù, tu dovevi montare sul destriero della tua prosa fiammante, e buttarti in mezzo al cozzo delle passioni giornalistiche, implacabile, flagellante, schiacciante, per Dio! Tu hai disprezzato il lavorío sordo e sotterraneo dei vili insetti che ti circondavano, e questi t'hanno scavato la mina. Hai voluto essere olimpico, hai voluto essere un Dio; ma gli Dei se ne vanno, per Dio!”

‟Gli Dei sono immortali,” disse Joanna, ‟tu sei sempre la stessa bestia.”

Bagatti rise clamorosamente, sonò il campanello, chiamando il gerente, che gli portasse un bicchiere d'acqua. Frati diede a Joanna un rotoletto di carta.

‟Due cartelle e mezzo!” disse Riccardo togliendo la fascia è svolgendolo; ‟sempre lo stesso, Brancacci.”

E cominciò a leggere l'articolo.

‟Che dicevate?” domandò Frati a Bagatti, piano.

‟Lasciami stare: sono un asino. Ma ti giuro che è tranquillo, che non pensa ad ammazzarsi: ce ne potremo andare a letto presto, sicuri.”

Pure, il tragico presentimento perdurava in tutti. Joanna, guardando in faccia i suoi amici, aveva quel risolino nervoso che pareva rassicurante, ed era invece un'ipocrisia: nascondeva, l'infelice, sotto quel riso, la convulsione de' suoi nervi, vi sfogava un tremito di tetano che gli s'era messo alle mascelle, e che percorreva tutto il suo corpo, squassandone ogni atomo sensibile, richiamandogli una intensa e dolorosa vibrazione della vita. E un terrore bizzarro, a tratti, lo assaliva: il sospetto che tutti gli leggessero negli occhi il proponimento fatale, incrollabile; che tutti s'avvedessero dello stromento di morte ch'egli si teneva in tasca, e che faceva una rigonfiatura, sul calzone scuro. E leggendo, ogni tanto alzava lo sguardo furtivamente.

Malgagno seguitava a battere con un dito sopra un tasto, a caso, stonatamente; Stresa leggeva un giornale, bevendo a tratti un sorso di kummel, Bagatti e Frati stavano seduti accanto, sopra un canapè, e parlottavano a bassa voce. ‟Tieni queste cartelle, serbale,” disse Joanna a quest'ultimo, ‟è un buon articolo: lo metterai domani, se vengono le altre cartelle. Non scordarti di mandargli i denari, a Brancacci, o di telegrafargli, domani.”

‟Che articolo è?” domandò Stresa.

‟Un articolo sul Lohengrin,” disse Joanna.

‟E quando, mio Dio, non si scriveranno più articoli sul Lohengrin e in favore di Depretis? Quando potrò avere la suprema consolazione di veder fischiati Wagner e Depretis, questi due immortali, questi due grandi impostori?” gridò Bagatti.

La porta a vetri si spalancò di nuovo, e si richiuse con fracasso.

‟Chi è?” domandò Malgagno.

‟Ciao, cane!” disse Bagatti.

‟Buona sera, porci!” rispose Bertarelli entrando, con le mani nelle maniche come un frate, col collo e la barba irsuta nascosti nelle spalle, con gli occhiali scintillanti alla luce del gas. E andò a sedere vicino a Stresa.

‟Sapete che si dice per Roma?” disse quell'uomo funebre, che aveva il pettegolezzo malinconico e la malignità iettatoria.

‟Che cosa?” domandò Joanna.

‟Si dice che dentro la settimana L'Uomo che ride muore, e tu ti ammazzi.”

Ci fu un silenzio glaciale, per un minuto. Frati guardò fissamente Joanna, aspettando una risata. Vide invece come una nuvola oscurar gli occhi del suo amico, il quale disse freddamente:

‟Mi dispiace per quelli che te l'hanno raccontato, ma tu non accompagnerai al cimitero nè il giornale, nè me.”

Stresa, il più tranquillo di tutti, il più giovane, il più lontano dal pensiero della morte, preso anche lui dall'inquietudine che tormentava Frati da parecchie ore, si alzò, andò di là. Si fermò un momento davanti alla scrivania, guardò la busta gialla ch'era sotto il timbro, invaso da una curiosità mordente, da un desiderio di aprirla. Resistette, passò in anticamera, a svegliare il gerente, il povero martire che aveva rischiata la pelle in dieci combattimenti per concorrere alla costituzione di una patria ricca di giornali e povera di quattrini:

‟Svegliati, Pompeo, rinfresca la tua memoria: rispondimi.”

‟Che è stato?” rispose trasalendo il reduce, oramai avvezzo a queste scosse.

‟Che ha fatto il direttore stasera, dalle otto alle dieci, mentre noi non ci eravamo?”

‟Cosa doveva fare? Ha letto, ha scritto, non so.”

‟Non hai notato nulla di straordinario? Non t'ha chiesto nulla?”

‟La posta.”

‟È venuto il proto?”

‟Non ancora.”

‟E la cronaca chi l'ha fatta?”

‟Non so. Sordini ha lasciato le notizie sul tavolino del signor Frati.”

‟Non t'ha data nessuna commissione il direttore?”

‟Sì, mi ha mandato a comperare delle capsule.”

‟Che capsule? Dal farmacista?”

‟No, dal tabaccaio: capsule di fucile.”

Stresa s'accostò vivamente all'uscio del salotto, senza entrare, e chiamò:

‟Frati!”

‟Che c'è?” disse Frati, venendo premurosamente.

‟C'è un guaio,” disse Stresa; e narrò il fatto delle capsule.

Frati diventò bianco.

‟L'affare è serio. Come facciamo?”

‟Io esco,” disse Stresa, ‟vado a cercare qualcuno: qui ci vuole una risoluzione disperata.”

E mentr'egli spalancava la porta per uscire, apparve sul pianerottolo Palumbo, il cronista del Tribunale, basso, secco, con due baffi spelacchiati sulla bocca meschina.

‟Dunque Joanna parte, lascia morire il giornale. E noi che facciamo?” domandò.

‟Chi t'ha detto questo?” disse Frati.

‟Non so: si dice. L'ho sentito nella sala di lettura a Montecitorio.”

‟Chi c'è a Montecitorio?” domandò Stresa, sempre con un piede fuori dell'uscio.

‟C'è l'onorevole Sinibaldi, c'è Wood, c'è l'onorevole Caselli.”

Joanna s'accostò alla porta del salotto, e vide quei tre che parlottavano piano, confusamente.

‟Ecco Joanna, io filo,” disse Stresa, andandosene.

Riccardo e gli altri due se ne andarono nella stanza di redazione.

‟È vero che parlano di me stasera in Roma? Dicono ch'io m'ammazzo,” domandò nettamente Joanna a Palumbo.

‟No, disse Palumbo, nè meno per sogno. Dicono invece che ammazzi il giornale, e che te ne vai ad Assab, con un incarico del governo.”

‟Ah, sì?” disse Joanna, con un sorriso d'ironia.

‟Il corrispondente del Secolo stava anzi per telegrafar questa fola: l'ho fermato in tempo.”

‟Hai fatto male. A che serve? Tanto, lo telegraferà domani lo stesso; se pure non l'hanno già telegrafato altri. Hai visto il corrispondente della Gazzetta Piemontese?”

‟Non c'è: è andato a fare un'escursione nella repubblica di San Marino.”

‟Meno male, è uno di meno; ma già, non c'è mezzo di scampare: quando tutto manchi, il corrispondente del Fieramosca e quello della Gazzetta di Parma, domani o domani l'altro ammazzeranno il giornale e me, per telegrafo.”

‟Facciamo un articolo violento, smentiamo anticipatamente le voci possibili,” disse vivamente Frati.

‟A che serve? Lasciali cantare. Hai fatto la cronaca?”

‟Ne ho fatta una metà: vado a terminare.”

‟Spicciati. Stresa dov'è?”

‟Ora viene.”

Palumbo seguì Frati nella stanza di redazione: Joanna cominciò a passeggiare fumando nel breve corridoio tra l'anticamera e il salotto. Nel salotto, Bagatti, Bertarelli e Malgagno, radunati, stretti in un gruppo, parlavano a bassa voce. Quelli non avevano nessun dubbio: Bertarelli parlava della catastrofe come d'una cosa certa, inevitabile: già la considerava come un fatto di cronaca clamoroso, magnifico, come un grande avvenimento giornalistico; e spiegava minutamente le ragioni: e faceva la critica dell' Uomo che ride, i vizi organici della sua costituzione, la fretta della fondazione, l'inopportunità della sua nascita, l'intempestività del suo ideale politico, il difetto della sua redazione più letteraria che giornalistica; e faceva l'analisi psicologica di Joanna, troppo nervoso, troppo poeta, troppo visionario, un adoratore della parola, un nemico della sostanza. E così, di mano in mano, quel frate francescano del giornalismo, quel padre guardiano della libera stampa, così grossolano di gusti e così sottile di malignità, seguitava l'autopsia di tutto il giornale, di tutti i redattori, di Paolo Stresa, superficiale, vacuo, parolaio, con pretensioni letterarie; di Bagatti, retorico, rimbombante, inconcludente; di Frati incoerente, violento, ignorante, rozzo, che sarebbe rimasto sempre allo stato di mediocre, di speranza; dei reporters che andavano a cercare in Questura delle notizie già recate da tutti i giornali; di Malgagno che copiava dal resoconto analitico le relazioni della Camera; di sè stesso che traduceva gli articoli dal francese. E sotto la lingua velenosa del frate-sbagliato, che tagliava come un paio di forbici inglesi, che addentava, che mordeva, la demolizione di quell'opera ch'era costata tante fatiche, tanti dolori, tante umiliazioni, a cui avevano concorso tante giovani forze, tanta generosità inconscia, tanta abnegazione sconosciuta, avveniva. L'organismo malsano si sfasciava: un terrore riprendeva i due che lo ascoltavano, i quali si guardavano senza osare di più domandarsi: Come andrà a finire? poichè lo sapevano, lo vedevano ormai come doveva andare a finire.

‟Che fate adesso?” concluse Bertarelli. ‟È una sciocchezza inutile quella che s'è messa in testa Frati. Joanna è un uomo finito: si deve ammazzare per forza.”

E mentre Joanna, posseduto dal fantasma della sua fine che lo divorava silenziosamente, passeggiava tra alcuni suoi amici frementi di strapparlo alla morte e alcuni altri amici che lo abbandonavano alla fatalità, Paolo Stresa, infocato, ansante, rientrò con l'onorevole Sinibaldi, e con Wood. Entrarono tutti e quattro nel salotto, ov'erano quei tre a parlare, e che si empì. Il deputato meridionale, alto, colorito, con molta barba nera, e il giornalista inglese, secco, muscoloso, una pertica, si posero Riccardo in mezzo, sul canapè, parlando di cose indifferenti, travolgendolo in un discorso copioso, un po' sconcertati dalla sua apparenza tranquilla. A un tratto Wood gli disse bruscamente, lealmente, non sapendo più oltre sopportare quella falsa ipocrisia che non ingannava nessuno, quell'allontanare il discorso dalle cose che tutti pensavano, che tormentavano tutti gli spiriti:

‟Non avete più denari? Ammazzate il giornale.”

‟Così fanno in Inghilterra?” domandò Riccardo, non persuaso, sorridendo.

‟Certamente.”

‟Noi siamo più sentimentali.”

‟Allora scrivete delle poesie.”

‟Non avrete torto; ma oramai ci sono; che volete che faccia?”

‟Smettete. Non avete mai comprato rendita turca?”

‟No,” disse Riccardo col suo brutto sorriso.

‟Fingete d'averla comprata, e di vedervela morire in mano, buttatela via.”

‟E poi?”

‟Poi, quando sarà il momento, quando la rendita turca risalirà, ne ricomprerete: farete un altro giornale.”

‟Sentite, Joanna,” disse il deputato Sinibaldi, alzandosi e traendosi Joanna nel vano della finestra. Gli fece un discorso lungo, pieno di saviezza, pieno di bontà affettuosa: gli voleva bene, aveva conosciuto suo padre. Joanna ascoltava, sorridendo sempre, non rispondendo mai, quasi per una cortesia fredda, per lasciar parlare sino alla fine quel bravo ed onest'uomo che si credeva in dovere di consigliarlo.

‟Sentite, Riccardo: persuadetevi. Il vostro bel giornale è prematuro: non può vivere, non può vincere la concorrenza degli altri più forti. Lasciatelo morire. Non abbiate falsi pudori. Nessuno vi rinfaccerà la disfatta. Vedrete: i vostri nemici, finita la concorrenza, saranno i primi a riconoscere che il vostro giornale è stato un miracolo di forza, di costanza, d'ingegno. Anche non riuscendo, voi avete dato una grande prova di voi, del vostro valore. Avete conquistato un nuovo pubblico, il pubblico degli uomini politici, della gente seria. A un nuovo tentativo, troverete appoggio da tutte le parti. Siete una forza, oramai: fra un anno, fra due anni, il punto d'appoggio lo troverete naturalmente, nel bisogno che si avrà di voi. Dove non è riuscito Sella, riuscirà Minghetti, riuscirà Spaventa, riuscirà fors'anche Bonghi. I vecchi partiti sono corrosi, crolleranno. Il partito, anzi la maggioranza del buon senso, della pratica, del lavoro, sta per costituirsi, per forza propria, necessariamente. Allora potrete fare un gran giornale, sopra una larga base parlamentare, sopra un solido fondamento finanziario. Ora abbandonate questo figliuolo, nato prima del tempo, e non vitale: siate spartano, uccidetelo, non vi fate uccidere da lui.”

‟Vi ringrazio assai delle buone parole,” disse Joanna, ‟ma non deve morire nè il padre nè il figlio.”

Il deputato lo guardò, stupito.

‟Io parto domattina per l'Alta Italia, vado a Milano, Torino, Venezia, a cercare i fondi necessari a tirare innanzi, finchè il momento buono non sia venuto, e il giornale possa continuare da sè.”

‟Buona fortuna,” disse Sinibaldi, non sapendo che pensare, addolorato davanti a quella frenesia persistente; e s'allontanò.

Ma Joanna cominciava ad essere stanco. Quella opposizione muta alla sua volontà lo irritava. Egli voleva morire, e tutti lo volevano tenere incatenato alla vita. Egli si voleva buttare nel gran mare del nulla, e tutti, tacitamente, senza dirgli nulla per dissuaderlo, con la sola forza della loro volontà, col solo influsso magnetico dell'amicizia, o della ripugnanza della morte, lo trattenevano alla riva. Per reazione, il fantasma della morte non lo tormentava più: ci si era assuefatto, lo vedeva in sè, con indifferenza. A ogni sguardo, a ogni parola di quelli che lo attorniavano, sentiva una nuova dissuasione dalla morte, e la ribatteva in sè, dicendosi che doveva morire, senza nessuna sensazione troppo viva. Solamente la fatica di quella giornata terribile gli penetrava nelle ossa, fiaccandolo. Pensò: — Come farò a stare sveglio sino all'alba? — E lungamente, meditò se dovesse dormire, prima. Intanto, per non farsi prendere dal sonno, ricominciò a passeggiare. Tutti i gruppi s'erano riuniti in un angolo del salotto: parlavano a bassa voce, mentre Joanna passeggiava: parlavano di lui, della sua sorte, apertamente, tutti, non facendosi più illusioni.

‟Ma se mi ha detto che vuole andare a cercar fondi pel giornale? Spera sempre,” disse il deputato.

‟Non gli credete,” disse Frati: ‟deve avere la pistola in saccoccia: ne manca una, in redazione: io non ci avevo pensato.”

‟Lasciamolo stare,” consigliò piano Bertarelli.

‟Sei pazzo?” urlò piano Stresa, furioso. ‟Io avvertirei la Questura.”

‟Non lo abbandoniamo. Stiamo con lui tutta la notte,” disse Frati: ‟domattina lo accompagneremo alla stazione. Vedremo. Forse si calmerà.”

Joanna, fatalmente, tornò alla scrivania, al trono che stava per mutarsi in catafalco. La piccola scrivania di falso mogano, tutta scarabocchiata di pupazzetti, tutta istoriata di nomi, di leggende scritte fra una cartella e l'altra, era già, dopo tre mesi, un monumento di lavoro, di dolore, di collera. Guardò la busta gialla, sotto il timbro, la sua condanna. La stanchezza cresceva.

Di là, tutti i suoi amici, radunati insieme, cercavano il modo d'impedire la sua catastrofe, preconizzata da lui, auspicata da lui, annunziata da lui. Lentamente, senza spiegazioni, naturalmente, s'erano reciprocamente intesi. La posizione era imbarazzante. Come fare a sottrarsi? Ammazzarsi in quel momento, mentre essi erano tutti di là, con un colpo solo, d'un tratto?

Di nuovo, il fracasso della porta aperta empì le stanze silenziose. Era il proto. Prese le cartelle della cronaca, si fermò per vedere se Joanna aveva null'altro da dargli. Riccardo, macchinalmente tese la busta gialla. Ma come la vide in mano al proto, un fuoco gl'investì il cervello, le tempie gli batterono furiosamente.

‟Dammi quella lettera. Non c'è altro, per ora: verso l'alba, forse, si manderanno poche righe.”

Il proto se ne andò. Joanna restò con la lettera in mano, un tremito convulso lo facea vibrar tutto, era gelato. Pensò alle parole di suo padre, le ultime: ‟Vedi come si muore!” Un abbattimento lo accasciò, si sentì spezzato, in tutte le molle; e con la penna, che aveva presa, macchinalmente, trasognato, scarabocchiò delle parole incoerenti.

All'alba, alla stazione, tutti i redattori dell' Uomo che ride, tetri, pieni di sinistri presentimenti, non osando più lottare contro la fatalità inevitabile, aspettarono che il treno di Firenze partisse. Non partiva nessuno quella mattina, fredda, funebre, lacrimevole. Joanna era una massa inerte. Bianco, con gli occhi rossi, la faccia contratta. Era un uomo morto. Baciò i suoi amici, lungamente, convulsamente, non nascondendo più il pianto. Li guardò dallo sportello, accasciati, distrutti anch'essi da quella tragica avventura che li aveva tutti trascinati. Gli era caduto il cappello, salendo nel vagone: i suoi bei capelli erano tutto un tumulto.

Non seppe parlare stendendo a Frati la busta gialla che aveva portata seco.

Frati, prendendola, non seppe dir nulla. Tutto era inutile, tutto. Solamente, quando il treno se ne andò, battendo, sbuffando, nella tragica alba romana, quelli che restavano alzarono le braccia a più riprese, agitandole. Joanna si buttò dentro, scomparve. Uscirono dalla stazione come morti. E allora Frati stracciò la busta d'un colpo; lesse: una stupefazione, una collera, uno sdegno gli sconvolsero il volto. Passò la carta al vicino. Se la passarono tutti: lo stesso stupore furioso, in tutti.

Sulla carta era scritto:

«C. 12. Per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, L'Uomo che ride cessa le sue pubblicazioni. — La Redazione. »

Homo est: nil humani ab eo alienum puto,” disse Bertarelli, filosoficamente.

V. ELDORADO.

Riccardo Joanna stese la mano, al cui dito mignolo scintillava un grosso brillante e toccò un bottone del campanello elettrico, sulla sua scrivania. Un usciere, in livrea azzurra cupa filettata di bianco, si presentò, camminando delicatamente sul tappeto.

‟Il bollettino,” disse Riccardo, senza alzare il capo da certe carte che leggeva.

Dopo un minuto, l'usciere ritornò, portando sopra un piatto di argento un foglio di carta, una lettera e un biglietto da visita. Senza curiosità, Joanna non aprì la lettera, lesse distrattamente il biglietto.

‟Dite al signor Cimaglia che aspetti.”

La porta, foderata di velluto bigio, si richiuse discretamente: Joanna meditava sul bollettino del giorno prima. La provincia aveva comperato cinquantaduemila copie del Tempo: gli abbonati erano sedicimila; la vendita in Roma era di trentunmila ottocento ottanta copie. Totale: novantanovemila ottocento ottanta copie del Tempo. Mancavano, per centomila copie, numero rotondo, altre centoventi copie: e da due mesi, la vendita aveva sempre fluttuato, un po' meno, un po' più, ma senza scavalcare mai la cifra di centomila.

— Ancora centoventi ostinati che non vogliono il Tempo, — pensò fra sè.

E solo solo, nella grande severità della stanza mobiliata di velluto bigio, tutta incorniciata di legno quercia scolpito, dall'ampio caminetto fiorentino dove una bella vampa consumava le legna, seduto dietro la larga, profonda scrivania che aveva il massiccio e la forma di una fortificazione, egli pensò a questi centoventi ostinati, esseri fantastici, scettici, che non volevano saperne del Tempo. Forse il giornale non era abbastanza bello per loro, forse la corrispondenza telegrafica da Parigi, Londra, Berlino e Vienna, non sembrava loro abbastanza ricca: e quietamente, pesando le parole, egli scrisse quattro telegrammi, esortando i corrispondenti a telegrafare di più, a telegrafare sempre. Stese la mano sopra un altro bottone della tastiera elettrica: un altro usciere si presentò:

‟Questi telegrammi all'impiegato, li trasmetta subito.”

Poi, pensò di nuovo: forse quei centoventi sdegnosi non trovavano completa la cronaca, i reporters che aveva, evidentemente non bastavano al lavoro. E un'idea gli balenò, chiamò di nuovo il primo usciere:

‟Aspetta sempre il signor Cimaglia?”

‟Sempre.”

‟Fatelo entrare.”

Il signor Cimaglia entrò, con un'aria fra rispettosa e disinvolta: era un giovanotto biondo, con gli occhi un po' stanchi, di fisonomia simpatica, vestito con grande cura, correttamente; certo egli si era preparato a quel colloquio, come una fanciulla che deve incontrarsi con un presunto fidanzato. E tutto fece crescere il suo rispetto: l'ampiezza del caminetto, la mollezza del tappeto, la vasta mole della scrivania e l'accoglienza gentilmente fredda di quel signore in soprabito e in goletto chiuso, alla militare.

‟Le hanno già parlato di me?” mormorò il signor Cimaglia, già un po' confuso, sentendo che doveva cominciare lui.

‟Sì, credo,” disse lento lento Joanna.

‟Il signor deputato Galletti è stato tanto buono da scrivere delle cose molto lusinghiere per me....” fece Cimaglia, con un po' di fatuità.

‟Non ho letto la lettera,” disse freddamente il direttore del Tempo, arrestando l'espansione di Cimaglia.

Stese la mano, prese la lettera e l'aprì. Il candidato Cimaglia profittò di quel momento per studiare il volto di quel giornalista onnipotente: era un volto che doveva essere stato bello, ma sciupato, invecchiato; le rughe si diramavano dall'angolo dell'occhio, da quello delle labbra, deturpavano una fronte che doveva essere stata bellissima; poi, come una glaciale immobilità aveva colpito quei tratti, arrestandone la convulsione, e gli occhi erano smorti, spenti, tutta la faccia aveva la tinta terrea della lava raffreddata.

‟Anche Galletti la raccomanda caldamente,” disse Joanna, piegando metodicamente la lettera. ‟Lei vorrebbe entrare nella redazione del Tempo?”

‟Avrei questo desiderio,” disse con una certa modestia baldanzosa il Cimaglia.

‟E che titoli ha?”

‟Io mi sono laureato in lettere e filosofia, ho il diploma, ma la vita dell'insegnante non mi va, non sono nato per fare il pedagogo, voglio lanciarmi nel giornalismo, è l'unico mezzo per riescire....”

‟Ha scritto già nei giornali?”

‟Sissignore, ho scritto quando ero ancora all'Università degli articoli di erudizione in varie importanti riviste....”

‟Questo a me non serve,” disse Joanna, guardando sempre fiso il suo interlocutore, che aveva preso un certo tono di confidenza, l'abbandono dei giovani che credono all'amicizia del primo venuto.

‟Capisco,” fece Cimaglia, inchinandosi, ‟la erudizione è una gran seccatura, ma non è male che un redattore sia istruito. Ho scritto delle novelle in vari giornali letterari della domenica, che ella certamente segue....” e interrogò Joanna con lo sguardo.

‟Non leggo mai giornali letterari,” rispose glacialmente il direttore del Tempo.

‟Oh già, naturalmente, fa benissimo,” soggiunse subito Cimaglia, con la premura di chi vuole ingraziarsi l'interlocutore, ‟sono così noiosi! Quelle mie novelle, raccolte in volume, hanno, senza vantarmi, avuto un bel successo.”

‟Ah!” fece soltanto Riccardo, come disinteressato.

‟Ho anche pubblicato un volume di versi, odi barbare e sonetti, Autumnalia: lo conoscerà, forse....”

‟No.”

‟.... Siccome anch'ella è stato poeta....”

‟Oh pochissimo!”

‟Ma sì, ma sì, signor Joanna, e poeta di vaglia,” insistè l'altro.

‟Le assicuro di no, signore,” disse duramente Joanna.

Il candidato tacque, scorato. Joanna pensava:

‟Lei conosce molta gente, signor Cimaglia?” chiese poi.

‟Ben poca, sa, mi tengo da parte....”

‟Il prefetto, il questore, li conosce?”

‟Nossignore; forse loro, probabilmente, conosceranno me.”

‟Ha pratica dei ministeri?”

‟Per nulla, i travetti mi sono odiosi, uno scrittore come me, capirà....”

‟Senta, signor Cimaglia, io non ho bisogno nè di erudizione, nè di novelle, nè di versi. Mi occorre un reporter, un nuovo e buon reporter, che vada, venga, si ficchi dappertutto, sappia tutto, precisamente.”

‟E questo reporter che cosa scrive?” domandò Cimaglia, come inebetito.

‟Niente. Scrive il cronista, sulle notizie del reporter.”

‟Credo.... credo di non poter fare tale mestiere,” e accentuò la parola con un certo disprezzo.

‟Lo credo anche io,” soggiunse Riccardo, con una ironia profonda.

‟Scusi tanto; buon giorno, signore.”

‟Buon giorno.”

Lo scrittore se ne andò, mettendosi sotto l'ascella un manoscritto, che Riccardo non gli aveva neppur dato il tempo di offrirgli. Joanna si alzò dal suo posto, andò a riscaldarsi alla fiamma del caminetto, piegò un po' la testa, dalle tempia già rade, dai capelli brizzolati: e crucciosamente il pensiero di non aver ancora la cifra di centomila, segnata sulla vendita del Tempo, lo riassalse. Da due mesi aveva fatto preparare una grande leggenda a gas, così fatta:

IL TEMPO Centomila copie

e voleva metterla davanti al terrazzo, una bella sera, orgogliosamente. Ma non poteva farlo ancora, malgrado il suo desiderio: malgrado il suo desiderio e le molte transazioni che avevano domato e vinto il suo spirito, non voleva mentire. Raggiunte le centomila, non una di meno, avrebbe fatto divampare la superba leggenda, che doveva contristare i suoi piccoli rivali ed empire di meraviglia il pubblico. E l'opera sua, così paziente, così lunga, così forte, gli sembrava meschina, incompleta, poichè ancora centoventi increduli si stringevano nelle spalle, udendo gridare il Tempo.

— Se dessi tre romanzi, invece di due? — pensava.

— Bussarono discretamente alla porta; era Colombani, il segretario della direzione, un impiegato, non un giornalista, di cui il doppio incarico era di scrivere talvolta qualche lettera ufficiale per conto di Joanna, ma quotidianamente doveva leggere tutti i giornali italiani e metter da parte tutti quelli che dicevano bene o male del Tempo. Era del resto un impiegato ignorante, zelante, molto preciso, che quietamente segnava di rosso gli articoli che parlavano male del Tempo, e di azzurro quelli che ne parlavan bene, portando ogni giorno, con un sorriso d'impiegato soddisfatto, questo fascio di giornali a Riccardo Joanna:

‟Molti rossi, oggi, Colombani?”

‟Abbastanza, abbastanza, da qualche tempo. Il Corriere di Piacenza ha tre colonne.”

‟Frati ha buon tempo,” disse ridendo Joanna.

‟Se la piglia con lei personalmente,” soggiunse l'altro, con un risolino di compiacenza, da stupido.

‟Al solito,” e si strinse nelle spalle.

‟Vi è nulla da scrivere, signor direttore?”

‟Nulla, andate pure, Colombani.”

Il segretario uscì. Malgrado l'acre desiderio che aveva di leggere il Corriere di Piacenza, anzi per vincersi, Joanna lesse quattro o cinque giornali, segnati di azzurro, una frase, una linea, una parola in lode del Tempo; siccome la vendita cresceva visibilmente, e il Tempo diventava più forte e più orgoglioso, le lodi degli altri giornali diventavano più parche, più brevi, più asciutte: e la gran maggioranza della stampa italiana, irritata dalla grande tiratura del Tempo, confrontandola con la propria meschina tiratura, serbava rancore profondo al giornale e attaccava copertamente, con allusioni maligne, o assaltava a viso aperto, con accuse violente e strampalate. Riccardo Joanna leggeva tutto, dalla prima parola sino all'ultima, talvolta sorridente, talvolta pensoso, non andando, apparentemente, mai in collera, abituato oramai all'ingiuria quotidiana, sapendone la causa palese e quella segreta. Anzi, spesso, tutto questo livore accumulato contro lui, allo scoppio rumoroso di tanti odii, lo rendeva orgoglioso, sentendo la forza che dà l'inimico: e piegava il capo, sorridendo, come per lasciar passare l'insulto. Oh nulla, più nulla restava del focoso animo meridionale, trabalzante a ogni più piccola frase che rivelasse malanimo, nello scrittore! Del giornalista che si era battuto due volte, per certi suoi articoli politici, nel Baiardo, del cronista mondano che quand'era al giornale Quasimodo si era battuto alla pistola, con un coraggio stoico, del direttore del giornale L'Uomo che ride che si era battuto alla spada, con un fortissimo avversario, non rimaneva più nulla: e gli eterni ghiacci dell'indifferenza, dello scetticismo, erano scesi in quell'anima. E non rispondeva mai: e i giornali avversari tornavano alla carica, furiosamente, resi feroci dall'aperto disprezzo del Tempo; sempre silenzioso, il Tempo continuava la sua strada, non facendo polemiche, sentendo di aver sempre ragione di fronte al proprio pubblico, conoscendo tutta la forza del disprezzo muto. In mancanza di risposta, la discussione cadeva, i giornali tacevano, rodendo la propria collera: salvo a ricominciare più tardi, sopra un altro tema, più veementi, più feroci. Qualcuno, talvolta, inconsciamente, imbroccava giusta l'ingiuria e la freccia andava a colpire il cuore di Riccardo Joanna: tutto quello che riguardava il suo passato di scrittore, prima del Tempo, nei tre giornali dove aveva scritto, conservatore, radicale, trasformista, lo faceva trasalire, come per una ferita che frizzasse: ma erano lotte interne, ultimi tumulti, che niuno conosceva e che Joanna vinceva, solitariamente, nella muta solennità della sua stanza direttoriale, passeggiando in su e in giù, fremendo di collera per un'ora, ma calmandosi a mano a mano, facendo risonare sempre, sempre più alta, la voce del suo interesse. La vendita, la vendita, era la grande ragione del suo silenzio, nella lotta fra un piccolo giornale e uno grande, chi ci perde, è sempre il grande. Il Tempo si doveva vendere, molto, sempre più: e il direttore vinceva la sua indegnazione, uscendone pallido, disfatto, ma fiero, come Giacobbe dopo la lotta coll'angelo.

Ma quello che trovava sempre la via del cuore di Riccardo Joanna, era Giulio Frati, il giornalista valoroso ma violento e incoerente, che era rimasto sempre in uno stato di oscura mediocrità vegetando nei giornali di provincia, errando da Cagliari a Perugia, da Ancona a Piacenza, sempre laborioso, sempre collerico, sempre sconclusionato, guadagnando stentatamente e senza gloria il suo pane. Costui aveva fondato, molti anni prima, a Roma, insieme a Joanna, L'Uomo che ride, che era vissuto tre mesi; Frati e Joanna erano partiti quasi insieme, Frati era rimasto per la via, Joanna era diventato potente e temuto. Il giornalista di provincia, iroso per la propria mediocrità, furioso contro il successo del Tempo, se ne vendicava, insultando quasi quotidianamente Joanna. E come Frati sapea molti segreti della vita di Joanna e costui molte debolezze e molti errori aveva nel suo passato, così gli articoli del Corriere di Piacenza erano carichi di un fiele profondo che Riccardo assorbiva, ogni mattina, impallidendo, tutto solo nella maestà della sua grande stanza.

Era Frati, che aveva rinfacciato a Riccardo Joanna l'avventura dell' Uomo che ride, un giornale che aveva mangiato sessantamila lire, prendendone a chi duemila, a chi duecento, a chi dieci: allora, il giornalista fatale, il poeta, aveva detto di voler morire lui, pur di salvare il suo giornale, e all'ultimo momento, vigliaccamente, non aveva avuto coraggio di ammazzarsi, aveva lasciato morire il giornale, non aveva pagato nessuno, nè i redattori che avevano lavorato gratis per lui, impegnando l'orologio, quelli che lo avevano, per far vivere un altro giorno L'Uomo che ride, nè il gerente che doveva avere dodici lire. Ogni tanto, ferocemente, Giulio Frati rievocava il fantasma dell' Uomo che ride, con la sua tragedia comica, con quel miscuglio di straziante e di buffo che porta con sè la morte di un giornale: e Riccardo Joanna ne trasaliva, leggendo quella prosa, verde di bile, ripensando a quel tempo della sua vita. Era Frati che rinfacciava a Riccardo Joanna la fondazione del Tempo, fatta coi quattrini di cento azionisti, di ogni classe, di ogni qualità, di ogni opinione, e di costoro, a mano a mano, aveva difese tutte le idee, tutte le opinioni, tutti i progetti, talchè il Tempo era chiamato il giornale di tutti i colori, il giornale Arlecchino: era Frati che rinfacciava a Joanna tutte le debolezze, tutte le transazioni, tutte le piccole vigliaccherie. L'ex-poeta, diventato speculatore, è sempre eguale a sè stesso: così cominciavano sempre gli articoli di Frati e parea che il Corriere di Piacenza fosse fatto soltanto per ingiuriare il Tempo e Riccardo Joanna; e il giornalista di provincia, sconclusionato ed esagerato, passava il segno e riesciva inefficace, ma la guerra continuava. Dalla sua misera stanza, dove a stento guadagnava le dieci lire quotidiane per vivere, dal piccolo giornale che tirava duemila copie, il mediocre giornalista aveva il potere di turbare il giornalista forte, potente, creatore e animatore di un grande organismo. Invano Riccardo Joanna cercava di corazzarsi nella indifferenza: gli antichi spiriti bollenti si ribellavano. Più volte aveva ruminato una risposta fulminante a Giulio Frati: anzi una volta l'aveva anche scritta, ma sarebbe stato un far conoscere al mezzo milione di lettori del Tempo che uno scrittorello qualunque aveva osato d'insultarlo, sarebbe stato far una réclame a quel giornaletto provinciale. Il Tempo, forse, ne avrebbe sofferto: la salute del giornale, anzi tutto. E reprimeva la voglia che aveva di battersi contro Frati, contro l'antico amico, contro il presente nemico: rinunziava, fremendo, all'idea di trovarsi in faccia, pronti ambedue alla vendetta, sciabola contro sciabola, senza dar quartiere, senza usar pietà. Rinunziava, per la vendita del Tempo.

Per consolarsi della quotidiana dose d'ingiurie di Frati, quel giorno, rilesse il bollettino; ma esso, implacabilmente, portava la cifra di novantanovemila ottocento ottanta.

— Il giornale non è ancora abbastanza bello, — pensò fra sè, di nuovo.

E prese il Tempo del giorno prima per leggerlo, lo scorse da cima a fondo. Due romanzi, tradotti, uno dal francese, uno dal russo, con tre titoli per ciascuno; tre colonne di telegrammi in prima pagina, altre quattro, tutte le quattro della terza pagina; una cronaca amplissima, romana e italiana; e delle notizie, delle notizie di tutto, sempre delle notizie, senza commenti, redatte alla meglio, pur di metterne molte, da tutti i paesi, di agricoltura, di borsa, di commercio, di politica, di suicidi, di deviamenti di treni. Nessun articolo: nessuna opinione politica enunciata, difesa o attaccata. Nessuna traccia di arte, di letteratura, di scienza: nulla.

— È abbastanza brutto, per tirare centomila copie, — egli pensò, — ma si può farlo più brutto ancora. —

E uscì dalla sua stanza, per andare a colazione. Una carrozza chiusa, di rimessa, ma abbastanza elegante, aspettava tutto il giorno innanzi alla porta dell'ufficio il direttore. Egli si fece condurre a casa, in Piazza di Spagna, un grande appartamento mobiliato, al primo piano, di quelli che si affittano pei quattro mesi d'inverno a famiglie d'Inglesi ammalate o lunatiche, che vengono a guarirsi o a fare economia sul continente: appartamento bello, vasto, mobiliato con lusso, ma senza nessun gusto, pieno di broccati, ma incomodo, e in tutto qualche cosa di vago che rivelava lo stato provvisorio, la residenza passeggiera, l'attendamento di un giorno. Ivi, Riccardo Joanna viveva solo, con una cameriera e un servitore; gente che non gli era affezionata, che egli non amava, che vedeva solo due o tre volte al giorno, per cinque minuti. Egli non aveva nè figliuoli, nè moglie, nè fratelli o sorelle: e aveva conservata l'abitudine di pranzare dal trattore, non sopportando la solitudine, all'ora del pranzo, non sapendosi vincere. Soltanto, quando, come in quel giorno, egli invitava un amico a colazione, faceva colazione a casa, un cuoco gli mandava tutto, pietanze, vino, biancheria, cristalli, argenteria, anche l'obbligatorio mazzo di fiori. Dopo un'ora, tutto scompariva, in un paio di canestre che due facchini portavano via: la casa restava solitaria, priva di vita, come abbandonata.

‟Bravo, eccovi puntuale,” disse Joanna andando incontro al deputato Bolognetti, un uomo sulla cinquantina, dal viso pallido e floscio, dagli occhi chiari e dalle mani sempre fredde.

E taciturnamente, seduti sulle poltrone di damasco rosso del salone, fumarono i loro sigari di avana. Ognuno studiava l'altro, senza volerlo dimostrare.

‟Ebbene, che sarà del ministero?” chiese Joanna, scotendo la cenere del suo sigaro.

‟Casca,” mormorò Bolognetti, con la sua voce stanca, semispenta.

‟Ma che!”

‟Casca, vi dico: fareste bene ad abbandonarlo.”

‟Io non sono con nessuno,” rispose vivamente Joanna.

‟Ma lo difendete: le sue idee sono le vostre.”

‟Cioè, cioè: le mie idee sono le sue. Ma in realtà, Bolognetti, non ci burliamo; nè io, nè voi, nè il ministero, nè i vostri amici, nessuno di noi ha un'idea. Non ci sono più idee.”

‟È vero: ma vi sono interessi.”

‟Parlate al singolare. Vi è un interesse solo, il proprio.”

‟Naturalmente.”

Tacquero: la colazione era pronta, passarono nella saletta da pranzo, un po' fredda, un po' malinconica, col caminetto spento, il servitore avendo trascurato di accendervi il fuoco: e vi si respirava, come dappertutto, la mestizia degli ambienti morti. Ma nè Joanna, nè il deputato Bolognetti pensavano a tali delicate sfumature di sentimento: li teneva un desiderio vivo di farsela a vicenda, in quella grande battaglia che avevano impegnata.

‟Perchè dicevate che il ministero cascava?” chiese, di nuovo, Joanna, mangiando le ostriche, col pane e burro.

‟Vi è una diserzione, ogni giorno: anche ieri, Galluppi con due o tre amici suoi, lo ha abbandonato. Il centro sinistro è tutto nostro. Sentite, Joanna, il momento è grave....” fece Bolognetti, con un falso abbandono.

‟Vi pare?”

‟Grave assai. Vendeteci il vostro Tempo, non aspettate che cada il ministero, per subire uno scacco anche voi, con esso: il giornale se ne potrebbe risentire. Vendetelo a noi, noi lo faremo apertamente di opposizione.”

‟Io non cerco di meglio che vendere il Tempo. Ditemi quello che volete darne,” e si tagliò un pezzo di costoletta di vitello, immergendola nella salsa piccante.

‟Fate il vostro prezzo.”

‟No, no, dite voi.”

‟Anzi tutto, qual è la posizione vera del Tempo?”

‟Centomila copie,” disse, decisamente, Joanna.

‟Non ancora, Joanna.”

‟Manca pochissimo, cento copie, è lo stesso, domani saremo a centomila,” mormorò lui, arrossendo.

‟E rende?”

‟Ottantamila lire, nette.”

‟Non precisamente, Joanna.”

‟Poco più, poco meno.”

‟E quanto lo apprezzate?”

‟Due milioni, naturalmente.”

‟Quando ve li daranno,” disse, con un risolino d'ironia, il Bolognetti.

‟Voi me li darete, se volete il Tempo.”

‟Il Tempo ha molti debiti, caro direttore: io potrei enumerarveli, cifra per cifra.”

‟E che ve ne importa?”

‟Voi avete bisogno di quattrini per pagarli, è evidente: perciò volete due milioni.”

‟V'ingannate: perchè tenendomi il giornale, posso non pagare. Io ho tutto da perdere, vendendo.”

Il Bolognetti tacque, quasi vinto, per un momento.

‟E se il Tempo nelle nostre mani discende?”

‟È probabile,” fece Joanna, sorridendo, ‟e se nelle mie mani, sale ancora?”

‟No, perchè il ministero cadrà e voi lo sostenete.”

‟Sono buon corvo, io, Bolognetti, e sento il morto: io non mi faccio seppellire con nessuno.”

‟Voi non avete influenza politica, Joanna, col vostro giornale.”

‟È vero: ma la influenza politica è buona per le ambizioni personali, nuoce alla diffusione del giornale.”

‟Voi non avete ambizioni personali?”

‟No,” disse l'ex-poeta, l'ex-novelliere.

‟Nessuna?”

‟Nessuna. Io voglio che si vendano molte copie del Tempo: niente altro.”

‟Voi volete due milioni: ma il Tempo è un giornale brutale, fatto senz'arte....”

‟L'arte non serve a nulla, caro deputato, salvo a contristare la vita degli artisti.”

‟Il Tempo avrebbe bisogno di molte modificazioni, noi ci dovremmo spendere altri quattrini. Voi rimarreste come direttore, come articolista?”

‟Resta a vedersi.”

E siccome avevano finito di mangiare, passarono nello studio di Joanna, mobiliato di reps verde, con una grande scrivania di acero.

‟E che proposte voi mi fareste, Bolognetti?”

‟Mah!... io ho poteri fino a un milione e duecentomila lire.”

‟Sapete bene che non ne faremo niente.”

‟È probabile: ma quello che vi offro, è un bel denaro, confessatelo.”

‟Anche il Tempo è un buon giornale.”

‟Per un giornalista come voi, che ha cominciato dal nulla....”

‟Vi fermo, Bolognetti: io non amo parlare del passato. Credevate mai diventare deputato, quando eravate commesso nella banca Halphen, a Brindisi? Non credo.”

‟La politica è una cosa diversa dal giornalismo.”

‟Non è vero: sono due mestieri di avventura. Riesce chi riesce, fatalmente.”

‟Ecco il progetto nostro, Joanna, scrivetelo, per studiarlo.”

Sulla bella scrivania, dal calamaio di bronzo, Joanna cercò invano un foglio di carta: si decise a staccare un foglietto dal suo taccuino. Ma nel calamaio mancava assolutamente l'inchiostro.

‟Non lavorate mai in casa?” chiese Bolognesi.

‟No, mai.”

‟Capisco: state meglio all'ufficio.”

‟Io non scrivo neppure all'ufficio.”

‟Non scrivete?!”

‟No.”

‟Vi riposate?”

‟Sono quattro anni che non scrivo.”

‟E perchè?”'

‟Perchè è inutile,” disse quietamente Joanna. E scrisse col lapis, sul foglietto del taccuino, il progetto della vendita, la forma del pagamento, le firme, tutti i capitoli del contratto.

‟Non ne faremo niente,” ripeteva ancora Joanna.

‟Pensateci, pensateci, vendeteci il Tempo.”

E con la precisione dell'uomo di affari che non perde un minuto del suo tempo, Bolognetti cercò il cappello per andarsene. Ma dopo aver salutato, un'idea lo colpì: tornò indietro.

‟Voi sapete qualche cosa, Joanna, se tenete tanto al vostro giornale. Il ministero ha preparata qualche altra burletta, per avere la maggioranza?”

‟Non so nulla.”

‟Ditelo, ve ne prego.”

‟Siete un avversario, non posso dirvi nulla,” e rideva, rideva.

‟Siate leale via, ditemi che vi è.”

‟Adesso la facciamo noi la burletta, Bolognesi.”

‟Addio, amico.”

‟Addio, nemico.”

Joanna restò un po' preoccupato; malgrado il suo disinvolto cinismo, era grande il suo desiderio di vendere il Tempo. Il suo giornale gli dava, in grande, i fastidi dei piccoli giornali e le stanchezze da qualche tempo lo assalivano, più lunghe, più invincibili. Molti e di cifre rispettabilmente rotonde erano i debiti del Tempo, e un impiegato di fiducia, un ragioniere, li amministrava, pagando gli interessi, rinnovando le cambiali, diminuendone la cifra, ma di poco, sicchè gl'interessi mangiavano la metà dei guadagni del Tempo. E siccome i mesi passavano, ogni tanto, malgrado la crescente prosperità del giornale, un presentimento di male gli veniva, temeva che la vendita diminuisse a un tratto, o lentamente, per una qualche causa misteriosa o palese: ed esausto, avendo dietro di sè venti anni di giornalismo corrodente, dove s'era consumato tutto il suo vigore, temeva, temeva la mala fortuna. Un grande desiderio di pace, dopo tanta lotta, si manifestava attraverso l'ambizione del giornalista. Venduto il Tempo, pagati i debiti, gli restava abbastanza, da vivere signorilmente, come un borghese filosofo, spettatore della vita. Indeciso, dominato da venti anni di abitudine fortissima, dominato da quella seduzione che è il potere e nell'istesso tempo voglioso di abdicare, uscì di casa fumando, senza scambiare neppure una parola col servitore e si fece condurre al Teatro Nazionale, alla Pilotta.

Ivi, nella penombra fioca del palcoscenico, come in fondo a un pozzo, alcune ombre si agitavano, provando una commedia nuova: e le facce erano scialbe e stanche, i vestiti neri di un nero smorto, parevano lugubri, le voci sembravano cavernose e quel muoversi strano di quelle persone, entrando nell'ombra, mettendosi nel raggio di luce che veniva dall'alto, aveva qualche cosa di spettrale, una vita di ombre nei recessi oscuri della terra. Riccardo, abituato da anni a quell'ambiente, avendo vissuto su tutti i palcoscenici e conosciuto tutti i comici, si appoggiò a una quinta, senza interrompere, seguendo il movimento della commedia. Ma gli occhi vivissimi della prima donna lo avevano scoperto e scintillavano nella penombra, guardandolo: e recitando, distrattamente, si voltava sempre verso lui, quasi parlandogli. A un tratto un tumulto di passi e di voci sorse, l'atto era finito, tutti passeggiavano, battevano i piedi per riscaldarseli, chiacchieravano forte, dei loro guai, dei loro interessi, delle loro infermità.

‟Come è noiosa questa commedia!” mormorò dolcemente l'attrice a Riccardo.

‟Tutte le commedie sono noiose,” disse lui, distratto.

‟Non sarebbe meglio andare a passeggiare per la campagna, non ci verreste voi?”

‟O Serafina, a quest'ora l'idillio? Fa un freddo cane, fuori.”

‟Io vi rapirei,” disse ella, ridendo. ‟Avete visto che mi scrive quella Gazzetta Nazionale?”

‟No: delle lodi?”

‟Ma che! delle insolenze, un orrore! E dire che ho sempre accolto bene quell'asino presuntuoso del cronista teatrale.”

‟Dovevate accoglierlo male.”

‟Ah! se si potesse....” mormorò melanconicamente la prima attrice, rivelando la sua segreta miseria.

‟Vi difenderemo, non dubitate, Serafina.”

‟Ecco, voi siete un buon amico, ci conosciamo da gran tempo, mi siete sempre stato devoto....”

‟È inutile, cara, vi difenderò senza queste dichiarazioni.”

‟Voleva dirvi....” soggiunse ella, con un certo stento, ‟di difendermi, sì, ma senza difendermi troppo....”

‟E perchè?” chiese egli, con un sorriso, volendo forse dire tutto.

‟Ecco, il Tempo è un giornale troppo forte, per non avere molte inimicizie, nella stampa: se mi proteggete troppo apertamente, gli altri mi attaccheranno ancora,” disse ella, con un innocente egoismo.

‟Non temete, figliuola mia,” fece Riccardo, freddamente, ‟non guasteremo i vostri affari.”

‟Siete in collera meco?” chiese umilmente la prima attrice.

‟Non sono mai in collera con nessuno, io.”

‟Dipende tanto dalla stampa la nostra sorte,” ella disse, come fra sè.

Egli aveva voltate le spalle, sorridendo nel buio: e attraversò il palcoscenico per andare a salutare il capocomico. Ma l'ingenua, una simpatica creatura bruna, lo fermò, tutta vezzi, tutta moine:

‟Già, fate sempre le viste di non vedermi, voi, signor Joanna, non mi potete soffrire.”

‟Vi fuggo, mia cara, siete troppo pericolosa....”

‟Mi burlate ora: voi avete le vostre simpatie altrove, si sa, noi non possiamo pretendere nulla.”

‟È la vostra beneficiata, sabato o lunedì, mi pare?”

‟Sì: come lo sapete?”

‟Me lo immaginavo.”

‟E mi farete un bell'annunzio sul Tempo?”

‟Non posso, cara.”

‟E perchè?”

‟Il Tempo non è più mio.”

‟Sul serio?” fece lei, arretrandosi, subitamente raffreddata.

‟Sul serio: l'ho venduto.”

‟A chi? a chi?”

‟Non posso dirvelo. Addio carina.”

‟Addio,” disse lei, gelida, pensosa, senza dargli la mano.

Riccardo andò via, i suoi dubbi tormentosi erano cresciuti, un turbine di cifre gli si affollava nella mente, la tiratura del Tempo, i debiti del giornale, il milione e duecentomila lire che gli offrivano. Nella strada incontrò un deputato della maggioranza:

‟È vero che ella vende il Tempo?”

‟Sì,” disse lui decisamente.

‟Per molto?”

‟Un colpo di fortuna.”

‟Mi congratulo tanto.”

‟Le pare che abbia fatto bene?”

‟Non era il momento, forse.... ma la fortuna è bene afferrarla subito.”

Si lasciarono: Riccardo andava, perduto in riflessioni, con le mani in tasca, il cappello abbassato sugli occhi. Non vedeva ancora il piano da seguirsi, non vedeva quale era la sua strada, come l'aveva trovata dieci anni prima. Si trovava in un momento di stanchezza morale, in cui la potenza dell'organismo giornalistico che egli aveva creato, lo teneva sempre, con tutte le sue seduzioni, e una fiacchezza spirituale, una voglia melanconica di finirla, combatteva dall'altra parte, con tutte le tentazioni della pace. Un crocchio di persone, sue conoscenti, era fermo presso il liquorista, a Piazza Venezia:

‟Joanna, Joanna,” chiamarono due o tre, vivamente.

‟È vero che vendete il Tempo?”

‟Volevano comprarlo,” disse lui, orgogliosamente, ‟ma non l'ho voluto dare, per due milioni.”

‟E quanto ne volete?” domandò qualcuno.

‟Mah! sono segreti di ufficio,” fece lui, ridendo, allontanandosi.

Un po' più innanzi, pel Corso, due o tre giornalisti passeggiavano: uno di essi che aveva lavorato con Joanna, nel Tempo, lo fermò:

‟È vero che vendete il Tempo, per un milione e mezzo?”

‟Smentitelo, vi prego,” disse vivamente Joanna.

‟La notizia o la cifra?”

‟La notizia e la cifra.”

‟Molti corrispondenti di giornali lo hanno telegrafato.”

‟Smentite, smentite.”

Parlando così contraddittoriamente, egli obbediva a un impulso interno. E senza più fermarsi, andò direttamente in ufficio a chiudersi nella sua grande stanza vuota, dove il fuoco sonnecchiava sotto la cenere. Fiocamente, ogni tanto, dal Corso arrivava la voce di uno strillone che annunziava il Tempo: e in quell'anima disseccata al soffio rovente della vita, una memoria indistinta, lontanissima, si faceva largo, una voce dell'infanzia rinasceva, come tremante, di un altro giornale, un povero e piccolo giornale che si tirava a duemila copie e su cui era morto il padre, Paolo Joanna, morto di malattia e di lavoro. E dalla grande tristezza di questo ricordo, da questa storia semplice e funebre, nasceva, egoisticamente, un senso di piacere e di superbia, la distanza enorme fra il piccolo e umile giornale di trent'anni prima e questo fiero Tempo, ricco e diffuso, organizzato come una vasta e solida associazione di forze. Egli pensava al modesto e oscuro lavoro quotidiano di suo padre, che appena gli fruttava il pane: e lo paragonava a queste cifre di milioni, sonanti, brutali, che egli aveva dette a Bolognetti e agli amici.

‟Povero padre, povero padre,” disse sottovoce, come se lo avesse lì presente e volesse carezzarlo con la voce e col gesto.

Ma anche da questo compatimento una novella superbia sorgeva, l'ammirazione di sè, della sua opera. Avrebbe voluto averlo colà, il povero padre che era stato così povero, così infelice, averlo colà quieto e sereno, in quello stanzone severamente mobiliato di velluto bigio e di legno quercia, per fargli ammirare il Tempo, il giornale dei tempi nuovi, il giornale dell'avvenire, per farsi dare dal padre il bacio commosso dell'orgoglio paterno. E forse domani doveva disfarsene, così, come di un cencio inutile, di questo giornale che era il trionfo della sua vita tribolata.... come avrebbe potuto rinunziare?

‟Un telegramma,” disse uno degli uscieri, entrando, col solito piatto di argento.

Roasenda, candidato ministeriale, sostenuto apertamente dal Tempo, era caduto per cinquecento voti, nel suo collegio. Joanna aggrottò le sopracciglia: queste disfatte politiche toccavano oramai troppo spesso al suo giornale, i suoi candidati spesso non riuscivano. Il giornale era diffuso, ma non accreditato. Molte volte le cause che egli difendeva, fallivano: il pubblico comperava il giornale, ma non se ne lasciava influenzare: ognuno leggeva nel Tempo la notizia, il telegramma che più gli interessava e poi lo buttava via, senz'altro. Chissà, la soverchia diffusione neutralizzava l'influenza del giornale, generalizzandola troppo; e i cittadini calabresi, come i friulani, da un capo all'altro del paese italico facevano l'omaggio del loro soldo, ma non quello della loro stima, i lettori erano troppo lontani, troppo dispersi. O forse per l'ostinato silenzio del Tempo contro le accuse che gli si rivolgevano, molte di queste accuse calunniose si erano diffuse nel pubblico e avevano finito per screditare un poco il giornale. Anzi, due o tre volte, per un giorno solo, era venuto in mente a Riccardo Joanna di portarsi candidato nelle elezioni amministrative o in quelle politiche: ma di fronte a quelli insuccessi, quasi continui, non aveva mai osato. In realtà nessun peccato grosso egli aveva commesso, giammai: e aveva sempre fatto male, nei suoi errori, a sè stesso, non agli altri; ma il ricordo del passato gli era insopportabile, i suoi avversari lo avrebbero ricercato nella lotta, e si sentiva impari.

Questa disfatta lo faceva pensare allo strano destino dei giornali, mai completamente furbi, mai completamente efficaci, dalle grandi apparenze di fortuna, ma sempre con un difetto, sempre corrosi dentro da un baco, portanti, come ogni uomo porta, nel proprio organismo il germe della malattia per cui dovrà morire. Anche il Tempo aveva la sua carie: e in quel grande ingranaggio di uomini, di cose, d'interessi, Riccardo Joanna sentiva una rotellina che strideva, che andava contro il movimento generale, ma non sapeva quale. Dentro il giornale, bello e rigoglioso, come in tutte le cose umane, vi era il germe della morte. Così era: la grande opera sua doveva morire. E non valeva meglio ritrarsi da essa, prima della catastrofe, pilota prudente, a riva, guardando la nave sulle alte onde in tempesta?

‟L'onorevole Cardella,” annunziò l'usciere.

Era un deputato della maggioranza, un personaggio alto e robusto, grasso, molto rosso nel viso pingue, con due folti mustacchi bianchi, con l'aria bonacciona di un grosso bove. Riccardo Joanna, ritornato presente a sè stesso, subito, gli andò incontro con cordialità, riattizzò il fuoco, gli offrì da sedere presso il caminetto.

‟Sono passato di qua, per caso, e son venuto a farvi una visitina. Non siete occupato?”

‟No.”

‟È fatto il giornale?”

‟È uscito.”

‟E quello di domani?”

‟Si farà da sè.”

‟Siete contento del Tempo, Joanna, sia detto senza giuochi di parole?”

‟Abbastanza, onorevole.”

‟È un bel giornale, non ci è che dire: ci si trova tutto,” disse Cardella, riversandosi sulla sua poltrona, con aria beata.

‟Ancora ci manca molto.”

‟No, no, non lo dite, io non posso vivere senza il mio Tempo quotidiano.”

‟Io ne farei a meno volentieri,” disse Joanna.

‟Veramente?” E la curiosità si rivelò, ardente, in un momento.

‟Veramente.”

‟Non veggo la ragione.”

‟Sono stanco, onorevole.”

‟Così giovane ancora e così saldo?”

‟Venti anni di giornalismo valgono per sessanta: io mi son guadagnato il mio riposo.”

‟Un lottatore forte come voi, non si deve arretrare dal campo, parrebbe una vigliaccheria.”

‟Sono troppo stanco.”

‟Ma via, non lo ripetete; non vi fa più dunque piacere questo potere, che sebbene sia il quarto, incute tanto timore a tutti gli altri? Noi stiamo sul banco dei rei: voi siete i giurati e potete assolverci o condannarci.”

‟Sono vecchio.”

‟Ma che! Pensate che se ve ne venisse la voglia, quante novelle vie si aprirebbero facilmente alla vostra attività: la banca, l'industria, la politica....”

‟Nulla mi tenta più, onorevole, io ho consumato tutti i miei desiderii: non vi sono più Margherite per questo vecchio Faust....”

‟E poi pensate che perdita farebbe il partito, non avendo più voi per campione.”

‟Oh si consolerebbe facilmente.”

‟Non tanto, non tanto: vi sono persone che non si sostituiscono. E se il giornale non più posseduto e diretto da voi, deperisse, o peggio, cascasse in cattive mani, quale danno al partito!”

‟Il partito non ha fatto nulla pel Tempo, perchè io abbia troppi obblighi,” disse duramente Joanna.

‟Materialmente....”

‟Scusate, il giornale non ha bisogno di appoggi materiali....”

‟Lo sappiamo bene,” ribattè l'onorevole, parlando ingenuamente in plurale, ‟ma l'appoggio morale ci è stato, ci sarà sempre più, il partito ama i suoi amici, sa riconoscerli ed esser riconoscente.”

‟Nulla io chiedo.”

‟Siamo noi che chiediamo, caro Joanna: da qualche tempo vi lagnate di stanchezza, e questi pensieri vi possono condurre a una determinazione improvvisa, violenta certamente, che farebbe danno a voi e ci dispiacerebbe molto.”

‟Vale a dire?”

‟La vendita del giornale.”

‟Il Tempo è ancora mio,” rispose ambiguamente Joanna.

‟Speriamo che sia tale ancora per lunghi anni: è una speranza e una preghiera che vi fanno, per mio mezzo, gli amici del partito. Voi siete una forza: non ci lasciate.”

E il grasso uomo che aveva sin allora nascosta la sua inquietudine, sotto la bonarietà e la cordialità, la lasciò a un tratto trapelare tutta.

‟Io faccio quel che posso,” mormorò Joanna.

‟Via, sacrificatevi, voi avrete una pagina gloriosa negli annali della nostra storia politica. Restate sulla breccia, non la lasciate occupare dall'inimico. Che debbo riferire agli amici?”

‟Che agirò secondo coscienza.”

‟Niente altro?”

‟Mi pare che basti.”

‟Una parola più precisa?”

‟È l'unica che potevo dire.”

‟La vostra coscienza è sicura: io me ne vado contento. Addio, caro martire. Voi avrete uno splendido avvenire.”

Riccardo s'inchinò, senza rispondere: e accompagnò il deputato sino alla porta. Giusto in quel momento entrava l'usciere con una lettera: era un biglietto da visita dell'onorevole Bolognetti, che diceva semplicemente aver potuto ottenere, come ultimo sacrificio, tre quarti della somma che Riccardo Joanna chiedeva. Il milione e mezzo non era dichiarato, ma era sottinteso. E subito Joanna prese un suo biglietto da visita e vi scrisse:

‟O tutto, o niente.”

In carrozza, quel giorno, a villa Borghese, dove egli si recò, — come ogni giorno vi andava, macchinalmente, simile in questo alle donne, che non possono fare a meno di un numero quotidiano di saluti e di sorrisi, — fra i tanti saluti amichevoli e indifferenti, notò sempre un senso di curiosità, come una interrogazione. Spesso entrando nei luoghi dove molta gente sta riunita, egli aveva inteso mormorare il suo nome: Joanna, Joanna, Joanna, ma in quel giorno, da tutte quelle facce, gli parve di leggere un interesse nuovo, un desiderio di sapere, mentre la sua carrozza andava a mezzo trotto.

— Domani io non sarei più nulla per costoro, — pensò fra sè.

E la rinunzia si allontanò un momento da quell'essere che conservava ancora, malgrado l'aridità, in fondo all'anima, le vanità e le debolezze della prima età. Ma il giorno cadeva rapidamente, il crepuscolo era molto freddo, egli andò via dalla villa, dietro agli altri, rabbrividendo; in quell'ora triste di Roma che affligge i cuori più secchi, che fa crollare le più ferme decisioni. Andò un minuto all'ufficio, domandò se vi era stata molta nuova richiesta, in tipografia, del giornale:

‟Sì, signor direttore.”

‟Più degli altri giorni?”

‟Come gli altri giorni.”

Non erano ancora dunque le centomila copie: da due mesi invano tentava di arrivarci. Chissà perchè un giornale aumenta! Talvolta è il resoconto di un processo, talvolta un'epidemia, una inondazione, la morte di un grand'uomo, l'arrivo di una grande cantante: e talvolta non cresce per nessuna di queste ragioni. Negli ultimi due mesi appunto non vi era stato nulla di tutto questo: i grandi uomini del tempo eran tutti morti, la stagione era buona, la salute pubblica ottima. Miracolo, se il giornale non era disceso! Per profonde cause ignote, misteriose, inaccertabili, il giornale discende, talvolta, lentamente o precipitosamente. Un nulla può far discendere il giornale, — e nella carrozza che lo portava da Spillmann, in Via Condotti, Riccardo Joanna, l'uomo indurito nell'esistenza, ebbe un fremito di paura. Meno male che ci faceva caldo in quel piccolo salotto di Spillmann, sui muri del quale vi era una esposizione di piatti giapponesi: e il direttore del Tempo si rincorò, vedendo la bella faccia calma di Marco Farina, un bel signore meridionale che non era nè deputato, nè senatore, nè industriale, nè artista, ma semplicemente un galantuomo ricco, che passava l'inverno a Roma, mangiandosi quietamente la sua rendita, godendo di tutto, amico di tutti, non discutendo mai con nessuno, dando ragione a tutti quanti. Joanna, che lo conosceva, sedette di rimpetto a lui, a quel bel signore, dalla barba bianca, che aveva in sè qualche cosa della pace serena orientale — e parlarono placidamente, mangiando, di molte cose, di teatri, di attrici, di ballerine, di politica, anche, trovandosi quasi sempre d'accordo o cedendo l'uno all'altro, cortesemente, quando non erano d'accordo. Una gran quiete ricca era in quella stanzetta chiusa al freddo e ai rumori della strada, e per Riccardo Joanna il suo commensale Marco Farina era il tipo del borghese felice, lontano da tutte le agitazioni, fuggito dalla battaglia, dilettandosi della vita, in silenzio. E alle frutta, nella naturale tenerezza della digestione che cominciava, Riccardo Joanna vide in Marco Farina tutto il suo avvenire, molti anni di pace, la vita ricca e taciturna, la rinunzia a tutti i turbamenti, a tutte le amarezze.

‟L'onorevole Bolognetti è fuori, in carrozza, che l'aspetta,” gli disse sottovoce il cameriere.

‟Vengo,” disse Joanna.

La carrozza voltò per Piazza di Spagna, senza che il deputato avesse dato nessun ordine al cocchiere.

‟Ebbene, Joanna, vi decidete?”

‟Dovete decidervi voi.”

‟Non insistete su quella cifra, è troppo forte per noi.”

‟Insisto.”

‟Ma confessate la verità: siete deciso o no a disfarvi del vostro giornale?”

‟Sì, per due milioni.”

‟Sapete bene che non possiamo darveli: non volete vendere.”

‟La mia parola è una. Debbo pagare i miei debiti, non mi resta molto e ho assai lavorato.”

‟Ma la cifra è troppo alta: giammai giornale italiano è costato tanto.”

‟Più tardi costeranno di più.”

Si parlavano seccamente, come due avversari dichiarati, senza guardarsi in faccia, guardando nella strada, dove la carrozza correva, senza direzione, avendo avuto ordine di passeggiare a caso.

‟Noi vi faremo un giornale contro, con un milione e mezzo.”

‟I denari non bastano, ci vuole un uomo.”

‟Joanna, Joanna, siate più forte della vostra fortuna, siate superiore al giornalismo, siatene il padrone e non lo schiavo: sappiate rinunziarci a tempo.”

Joanna, per la prima volta, guardò in viso Bolognetti, colpito da questa parola profonda.

‟Dite al vostro cocchiere che ci conduca all'ufficio del Tempo.”

E non dissero più nulla, presi dai loro pensieri. Ma la carrozza si fermò un po' prima: una grande folla si accalcava pel Corso, innanzi all'ufficio del Tempo. Joanna abbassò il cristallo della portiera, mise la testa fuori, rientrò subito dentro.

‟Bolognetti, non vi vendo più il giornale.”

‟Perchè?”

‟Per questo.”

‟No, proprio?”

‟No.”

‟Neanche per due milioni, in sei anni?”

‟Neanche.”

‟A nessun prezzo?”

‟A nessuno.”

‟Addio, dunque.”

‟Addio.”

Joanna discese, nella folla, nel gran chiarore del gas. Sopra la loggia della direzione fiammeggiava la leggenda:

IL TEMPO Centomila Copie.

E il suo desiderio grande era là, esaudito, pubblicamente, la soddisfazione del suo orgoglio avvampava, innanzi al pubblico stupefatto, il suo trionfo lo ubbriacava. Era lui, Riccardo Joanna, che aveva fatto quel miracolo, era quella la sera della sua apoteosi.

‟Centomila copie,” disse il suo vicino di destra, ‟credevo tirasse molto di più!”

‟Centomila copie,” disse il vicino di sinistra, ‟chissà se è vero!”

E innanzi a queste due frasi, che davano la misura della inanità dei trionfi giornalistici, Riccardo Joanna, deluso, provava un'amarezza profonda, un profondo rimpianto.

VI. UNA CATASTROFE.

Agabito entrò senza bussare e richiuse la porta. Riccardo Joanna non si mosse, non trasalì: soltanto rivolse sul servo i suoi occhi smorti, dalle palpebre un po' rosse: occhi così indifferenti, così glaciali che parea più nulla avessero a vedere, di bello o di brutto.

‟V'è un signore che cerca di lei,” disse il servo con aria fra distratta e annoiata.

‟Sarà uno dei soliti.... seccatori,” mormorò Riccardo con la sua stracchissima voce.

‟No, no, non cerca denaro: io non lo conosco,” ribattè il servo crollando il capo.

‟Allora sarà un usciere,” disse Riccardo.

‟È troppo giovane.”

‟Oh ve ne sono dei giovanissimi,” mormorò Riccardo con una convinzione profonda.

‟No, non è un usciere: è un signore.”

‟Basta: entri pure,” disse il giornalista chinando il capo sullo scrittoio e rimettendosi a scrivere.

Un giovanotto, bruno e snello, entrò. Era vestito correttamente di nero, con un solino lucidissimo; era inguantato e stringeva fra le dita una mazzettina sottile. A metà della stanzetta nuda, senza tappeto, esitò, si fermò.

‟Venga, venga,” disse Riccardo Joanna con la sua cortesia un po' altera e senza levare il capo dal lavoro, ‟si accomodi: trovi una sedia: scusi, ma siamo di trasloco, siamo venuti ieri qui....”

‟Disturbo?” chiese timidamente il giovane.

‟No, no, finisco qui e sono con lei,” ribattè Riccardo Joanna.

Il giovanotto bruno e snello aveva preso una seggiola, delle due che ornavano la nuda stanzetta, e aveva fatto per sedersi, ma la seggiola si era piegata leggermente: egli aveva arrossito un pochino e senza far rumore aveva preso l'altra: per timore che fosse anch'essa sfiancata, si era seduto sull'orlo, tenendosi leggiero. E di sottecchi, modestamente, egli sogguardava Riccardo Joanna, questo giornalista grande, questo giornalista terribile, di cui favolose storie si narravano in provincia, il cui nome era conosciuto e venerato dal più umile cronista di giornaletto settimanale e clandestino. Il giornalista grande e terribile aveva le tempie sguarnite di capelli e un po' ingiallite, ma sulla fronte un ciuffetto si arricciava ancora: gli occhi pallidissimi sotto le palpebre rossicce erano anche deturpati da due borse flosce, ma sogguardavano ancora, ogni tanto, con un languore inconscio: il volto era tagliato da mille sottilissime rughe, ma non aveva perduto un resto di antica nobiltà: i denti erano neri pel sigaro. Quello che era ignobile, era il corpo: il collo si era ingrossato, le spalle si erano curvate, la pancia, la pancia era diventata enorme: e sotto quella pancia le gambe parea si fossero rattrappite. Ma il corpo non si vedeva nella poltroncina rotonda: e sulla immaginazione del giovane bruno, il grande giornalista, il terribile giornalista, Riccardo Joanna, apparve ancora come un magnifico avanzo di nome.

Intanto Riccardo Joanna aveva finito di scrivere la sua lettera, aveva fatto l'indirizzo sulla busta e aveva sonato sopra un timbro: n'era venuto fuori un suono rauco, come un singhiozzo sbagliato — la campanina del timbro era rotta. Pure Agabito si era presentato, con la sua ciera di servo infinitamente seccato.

‟Questa lettera a Sua Eccellenza.”

Agabito la girava fra le mani, restando impalato.

‟Debbo portarla io, signor cavaliere?”

‟Non vi è Francesco, di là?”

‟Oggi Francesco non è comparso.”

‟Lo faremo multare di cinque franchi Francesco: andate voi, Agabito.”

‟Non vi è nessuno, di là....”

‟Pregherete il signor cronista di dare un'occhiata....”

‟Non è venuto: ha la moglie soprapparto, del quinto.”

‟Bene: andate.”

Agabito andò via lentamente, trascinando le scarpe.

‟Eccomi a lei, signore,” disse Riccardo Joanna, voltandosi al giovanotto, serbando sempre un'aria di fierezza nella sua bonomia.

‟Ecco, signor Joanna, io ho osato venire da lei, così, senza presentazione: ma è un forte impulso che mi spinge.... lei mi scuserà....”

Riccardo squadrò il giovanotto, fiutando forse lo studente bisognoso, o il questuante signorile. E subito, come una immobilità colpì il suo volto, e si occupò profondamente a guardarsi le unghie. Il giovane, intimidito, taceva.

‟Dica,” mormorò dopo una pausa, freddissimamente, Riccardo.

‟Ecco, signor Joanna: io son venuto da lei per fare il giornalista,” buttò giù tutto di un fiato il giovanotto.

‟Ah!” fece Joanna e squadrò di nuovo il giovanotto con una lunga occhiata.

‟Le pare soverchia pretensione, la mia?”

‟No, non mi pare. Continui pure,” disse, glacialmente, Riccardo Joanna.

‟Io ho pel giornalismo una vocazione irresistibile....”

‟Una vocazione....”

‟Passione, passione. Potrei fare l'avvocato, lo dovrei fare, perchè così vuole mia madre, perchè non facendolo le do un grave dispiacere: ma non mi riesce, non mi riescirà mai. Il giornale mi attrae, fatalmente, coi suoi miraggi di gloria e di prosperità....”

‟Capisco....”

‟Io ho lo spirito battagliero: non posso ammiserirmi nelle meschinità delle enfiteusi, delle servitù di passaggio, delle liti ereditarie. Ho bisogno di lotta, di vita ardente: qui è la vera vita, tutta lucente.”

‟Fulgida....” corresse Joanna.

‟Fulgida,” si corresse il giovanotto arrossendo, ‟è la parola. La stampa è una grande forza, uno strumento magnifico, una spada....”

‟.... a due tagli,” completò macchinalmente Riccardo, con gli occhi socchiusi, sotto le palpebre rosse.

Il giovanotto era rimasto interdetto.

‟Continui pure,” soggiunse di nuovo Riccardo Joanna, rimettendosi a studiare le proprie unghie.

‟Scusi sa.... signor Joanna,” riprese quello, ‟ma ecco, le confesso, ella mi dà soggezione.”

‟Io?”

‟Certo un giornalista così fortunato in tutta la sua carriera, che ha guadagnato quello che vuole, che guadagna quello che vuole, che ha avuto i più grandi successi! Non si scherza! Noi di provincia la invidiamo, signor Joanna: il suo splendido esempio ci esalta, ci entusiasma.”

‟È di provincia, lei?” fece Riccardo con un tono indescrivibile di voce.

‟Di Bergamo. Ho preso la laurea a Padova. Oh, le ho scritto due o tre volte, Antonio Amati, ma ella non mi ha mai risposto!...”

‟Sa, sono molto occupato e....”

‟Capisco, capisco. E.... senta, quello che le chiedevo per lettera, glielo chieggo ora a voce. Mi prenda, qui, al Tempo....”

‟Come redattore?”

‟Come redattore.”

‟I posti sono occupati,” fece Riccardo seccamente.

‟Come cronista, reporter, traduttore....”

‟Non vi è posto.”

‟Vengo anche a copiare, purchè mi prenda....”

‟Sa, l'Amministrazione non si carica di nuove spese a metà anno.”

‟Il Tempo è così ricco!”

‟È ricco, ma ha un bilancio assai rigoroso.”

In questa Agabito rientrò, sempre senza bussare.

‟La lettera è recapitata,” disse. ‟Vi sono due vaglia da firmare.”

‟Ah!” fece Riccardo e firmò rapidamente, sogguardando la cifra dei due vaglia, sedici e ottanta.

‟Tornate subito alla posta,” ingiunse poi ad Agabito, con un'occhiata magnetica, di cui il servo dovette sentire tutto il fáscino, perchè andò via rapidamente.

‟Senta, signor Joanna,” susurrò Antonio Amati, ‟non importa il compenso, mi prenda come volontario, per due mesi, per un trimestre, per un anno....”

‟E come vivrà?”

‟Dirò una bugia a mia madre: dirò che faccio pratica d'avvocato: che intanto non guadagno nulla: è bonissima, ingenua, mi crederà: mi manderà la solita mesata da studente.”

‟Sa, signor Amati, in coscienza io non posso accettare la sua offerta.”

‟E perchè?”

‟Non tutti i perchè si dicono.”

‟Ma infine.... uno che si offre gratuitamente.... capisco che il Tempo è un grande giornale, pieno di redattori.... capisco che non ho ancora fatte le mie prove.... e lei è troppo in alto per giudicare un meschino come me.... ma, infine....”

‟Mi ascolti, signor Amati, smetta questa sua idea.”

‟Lei scherza....”

‟No, non scherzo, sono assai serio.”

‟Si burla dunque di me.”

‟Le assicuro che glielo dico per suo bene.”

‟Ma non le ho detto che ci ho la vocazione?”

‟Vocazione falsa.”

‟Che non veggo nulla di meglio per me?”

‟Vi sono centomila cose migliori.”

‟Ma, signor Joanna, lei può parlar così, lei che è arrivato....”

‟Arrivato dove?”

‟Alla grandezza.”

‟Signor Amati, lei mi pare un giovane buono e gentile, si levi dalla mente di fare il giornalista.”

‟Forse, perchè non ho talento?”

‟Che importa il talento? Se non ne ha, tanto peggio; se ne ha, tanto peggio!”

‟Lei vuole sgomentarmi, perchè sono giovane, perchè vengo dalla provincia; mi tratta male, signor Joanna, e non me lo merito....”

‟Figliuol mio, pensi che io le do una prova di stima parlandole così.”

Agabito rientrò, portando certi quattrini in mano: li consegnò a Riccardo Joanna.

‟Mancano cinque lire e venti, Agabito.”

‟Una lira di carta da pacchi....”

‟Sempre questo spreco! E poi?”

‟La sua colazione di ieri, il caffè e la birra sono quattro lire.”

‟E poi!”

‟Venti centesimi, un francobollo pel sor Rinaldo, il redattore capo.”

‟Bene: andate.”

Antonio Amati non aveva ascoltato, tutto assorbito nel suo dispiacere di non venir accettato al Tempo, giornale così diffuso, così autorevole e così ricco. E si alzò a malincuore:

‟Le tolgo il disturbo: andrò dunque a un altro giornale....”

‟A un altro?”

‟Sissignore. Oh non mi scoraggio, io! sono ostinato, con la volontà si vince qualunque ostacolo. Farò il giro di tutti i giornali di Milano. Mi offrirò gratuitamente: vedrà che in qualche giornale mi prenderanno.”

E il bel giovanotto bruno e snello era così pieno di fiducia, di volontà, di passione, gli traluceva tanto dagli occhi il suo ardore, che Riccardo Joanna lo guardò intensamente, come se solo in quel minuto lo giudicasse. E stettero pensosi, ambidue, un minuto.

‟Resti al Tempo,” disse improvvisamente Riccardo, ‟ci resti da oggi: la inizierò al giornalismo.”

Antonio Amati si fece prima pallido, poi rosso: le lagrime gli salirono agli occhi.

‟Lei è assai buono....”

‟Assai buono,” ripetette Riccardo Joanna misteriosamente. ‟Vada di là e mi faccia un articolo.”

‟Su che?”

‟Su qualunque cosa. Quello che le piace.”

‟E i lettori?” osservò, meravigliandosi, Antonio Amati.

‟Ai lettori piace tutto, quando piace.”

‟Ho paura di essere noioso, volgare: mi dica lei....”

‟Se le riesce di esser volgare, la sua carriera è fatta, signor Amati.”

‟Senta, mi dia lei un'idea....”

‟Sono anni che non ho più idee, io. Ma non servono nel giornalismo: nessuno ne ha.”

‟E se ne avessi io?” osservò con lieta baldanza Antonio Amati.

‟Le consiglierei di non buttarle via. A ogni modo faccia lei.”

‟Sulla questione di Oriente?”

‟È da trent'anni sul tappeto: e il tappeto cade in pezzi.”

‟Sulle donne che uccidono!”

‟Non uccidono neppure più.”

‟Su quelle che si uccidono?”

‟Sono morte: le lasci in pace.”

‟Basta, basta, io scrivo, poi vedrà lei,” e se ne andò di là tutto felice.

Riccardo lo seguì con l'occhio, poi rovesciò il capo sulla spalliera della poltroncina, e guardò il soffitto.

‟Ci ha una penna,” disse, rientrando, il giovanotto.

‟Eccola qua,” e gli dette la sua.

‟E dica.... vorrei anche un po' di carta.... se non le incomoda.... lì fuori, non ce n'è neppure un foglio.”

Riccardo frugò fra le carte, e trovò, dopo lunghe ricerche, tre o quattro fogli, un po' gualciti, un po' macchiati.

‟E non ho calamaio,” finì per dire Antonio Amati.

‟Eccole il mio,” disse pazientemente Riccardo Joanna.

‟Il suo, le pare? Non lo prenderò mai.”

‟Tanto, non ho da scrivere nulla.”

‟Non scrive?”

‟No.”

‟E perchè?”

‟Perchè non ho nulla da scrivere.”

‟E chi lo fa il giornale?”

‟Mah!... si fa!”

‟Senta, mi permette che vada a comperarmi un calamaio?” e tastò il taschino.

‟Faccia pure. Anzi, faccia così: dia quaranta centesimi ad Agabito. Costui le compra una bottiglina d'inchiostro: e lei ha il liquido e il recipiente nello stesso tempo. Raccomandi: doppio nero.”

Si sentì, in anticamera, l'allegra voce di Antonio Amati che si raccomandava ad Agabito, per aver, presto, presto, una bottiglina d'inchiostro assai nero.

‟A che ora vengono i redattori?” chiese Antonio Amati, rientrando.

‟Mah!... quando vogliono. Io non li obbligo a venire puntualmente,” disse Joanna, con suprema indifferenza.

‟Verranno puntualmente il giorno della paga,” ribattè Amati, credendo di fare dello spirito.

‟Si paga quando si può,” rispose tranquillamente Riccardo.

Amati lo guardò un po' mortificato.

‟Ciò non mi riguarda,” riprese poi, il buon giovanotto: ‟io sono a gratis. Ciò riguarda loro. Che dicono, essi?”

‟Nulla.”

‟Nulla?”

‟Cioè, alcuni strillano, alcuni si lamentano, alcuni se ne vanno, altri si rassegnano e restano, sperando sempre.”

‟Ma da che dipende?” chiese ingenuamente Antonio Amati.

‟Dalla mancanza dei quattrini,” disse asciutto, asciutto, Riccardo Joanna.

‟Il Tempo non ha quattrini?”

‟No.”

‟E perchè?”

‟Mah! Nessun giornale ha quattrini.”

‟Nessuno?”

‟Nessuno.”

‟Neppure quelli a trentamila copie?”

‟Neppure quelli a centomila.”

‟Da che dipende?”

‟Non lo saprei dire: ma accade sempre così.”

‟Io vado a fare l'articolo,” mormorò remissivamente Antonio Amati. ‟Per che ora lo debbo fare?”

‟Per l'ora che le piace.”

‟Come? L'ora che mi piace? A che ora va in macchina, il Tempo?”

‟Alle sette e mezzo, spesso: o in nessuna ora talvolta.”

‟In nessuna ora?”

‟Già.”

‟Non intendo. Talvolta non va in macchina?”

‟Talvolta.”

‟E perchè?”

‟Oh, per varie cause! Talvolta si sfascia una pagina, o il motore non va, o i nastri non afferrano la carta: o semplicemente il tipografo è di cattivo umore. Non ha mai letto, in cima al Tempo, la narrazione di uno di questi guasti, per cui il giornale non è giunto agli abbonati?”

‟Ho letto, ho letto,” disse macchinalmente Antonio Amati, ‟ma non il malumore del tipografo.”

‟Quello, no, naturalmente: ma è la causa più facile, veda: i tipografi sono assai nervosi, massime il sabato.”

‟Vado a far l'articolo,” rispose, sempre più remissivamente Antonio Amati.

‟Ci ha un Minghetti?”

‟No, un Virginia.”

‟Me lo dia, tanto fa lo stesso.”

E si mise tacitamente a far ardere, sopra un fiammifero, la punta del Virginia. Antonio Amati era andato di là, sopra un tavolino tutto macchiato d'inchiostro: guardando la parte della stanzaccia nuda, tappezzata da una meschina carta da parati, si affannava a comporre il suo articolo. Ogni tanto, alzando il capo, si meravigliava che nessuno venisse: solo solo, in anticamera, Agabito mangiava un pezzo di pane, lungamente, scotendosi ogni tanto le molliche dalla giacchetta, con aria filosofica. Poi un ometto piccolo, unto e bisunto, venne a parlamentare sottovoce con Agabito, il quale lo ascoltava e crollava il capo: poi entrò nella cameruccia di Antonio Amati, e lasciò che sull'angolo della tavola, dove il neo-giornalista scriveva, l'ometto piccolo, unto e bisunto, scrivesse qualche cosa in certi suoi lunghi fogli di carta. Anzi, Antonio Amati prestò la sua penna, e aspettò che gliela rendessero. E Agabito lasciò i fogli sul tavolino, senza curarsene.

‟Non li portate di là, al signor direttore?” domandò Antonio Amati.

‟No,” fece il servo. ‟Tanto, quando vede carta bollata, non legge mai.”

‟Ma la carta bollata si paga!”

‟Mah!... ne abbiamo un fascio, e non ci dà nessun fastidio.”

‟Pare a voi,” mormorò il neo-avvocato, tutto pensieroso.

‟A quello niente gli dà fastidio,” susurrò Agabito, indicando la stanza di Riccardo Joanna.

‟Omo grande, eh?” disse Amati, con ammirazione.

‟Grande,” fece laconicamente il servo.

Ma il suono rauco del timbro, quel singhiozzo sbagliato fece andare Agabito di là, dal direttore. Quando uscì crollava il capo, con quel suo fare fra distratto e annoiato: e nell'anticamera, da certe scansie a casella, da certe canestre si pose a cavare dei giornali, a fasci, e a buttarli in mezzo alla camera, confusamente: se ne formò una montagnola. Antonio Amati, che andava e veniva, nel fervore della ispirazione che lo aveva fatto alzare dal tavolino, arrivò in anticamera.

‟Sono giornali che vanno agli abbonati, questi?” domandò.

‟Vanno tutti al nostro migliore abbonato,” disse Agabito filosoficamente.

‟E chi è?”

‟Il pizzicagnolo.”

‟Giornali vecchi,” fece con disinvoltura, per parere informato, Antonio Amati, ‟quanto al chilo?”

‟Cinque soldi.”

‟Bene, bene!”

E ritornò al suo articolo. Mentre scriveva, venne il garzone del pizzicagnolo, e il contratto durò lungamente, fra lui e Agabito: le voci si alzarono. Riccardo Joanna, attratto dal rumore, comparve sulla porta: e assistette al dibattito. Ora che lo vedeva in piedi, Antonio Amati si rimetteva dalla impressione di magnificenza che gli aveva fatto Riccardo Joanna. La pancia rotonda si vedeva troppo, gonfiante il panciotto bianco di un candore un po' dubbio, e quella pancia incongrua, assurda, squilibrava tutto il corpo. Malgrado la stagione calda, Riccardo portava una redingote greve: la testa si affogava un po' nelle spalle. Intanto il garzone del pizzicagnolo, dopo aver contato e ricontato i quattrini di rame, se ne andava, borbottando ancora. Agabito rimaneva, con le mani cariche di soldoni.

‟È venuta la risposta di Sua Eccellenza?”

‟No, signor cavaliere.”

‟Ah! E quanto avete fatto?”

‟Nove lire e venticinque, signor cavaliere.”

‟Quanti chili?”

‟Trentasette.”

‟È strano: parevano di più.... Cambiatemi questi soldoni.”

Se ne andò in camera sua: si sentì che spazzava il suo cappello, lungamente. Poi Agabito gli portò le nove lire in argento. Riccardo Joanna si accostò al tavolino di Antonio Amati, e gli domandò:

‟Ha finito?”

‟No,” fece l'altro, tutto vergognoso, ‟sa, è la prima volta....”

‟Venga a far colazione meco.”

‟Veramente.... sarebbe meglio, forse, che finissi l'articolo....”

‟È sempre meglio far colazione, che fare l'articolo: se lo abbia per assioma. — Agabito, se viene il sor Rinaldo, ditegli che mi faccia un pezzo sulle conquiste dell'Inghilterra in Africa.”

‟In Africa? Bene, signor cavaliere.”

‟Se venisse la risposta di Sua Eccellenza....”

‟La porto subito al signor cavaliere, alla trattoria.”

‟Bene: veggo che capite. Vi farò dare due lire di gratificazione, rammentatemelo.”

‟Veramente, signor cavaliere, vorrei che si rammentasse le mesate arretrate: la padrona di casa non mi fa aver bene....”

‟È una donna immorale, essa offende la libertà della stampa. Addio, Agabito.”

Antonio Amati, pieno di meraviglia, seguiva docilmente Riccardo Joanna.

Mangiavano in una cattiva trattoria, di Via Rastrellieri, in una stanza bassa, dove si sentiva un acre odore di burro soffritto, quell'odore fitto delle trattorie milanesi: e in quella stanza bassa, le mosche ronzavano pesantemente. Il cameriere li serviva con un'aria addormentata, con un vago sorriso. Antonio Amati, tutto esaltato ancora dell'articolo interrotto, mangiava assai poco: e Riccardo Joanna mangiava pochissimo, con la più pallida cera di uomo nauseato, a cui nulla fa venir più l'appetito.

‟Che bettola!” disse a un tratto, respingendo il suo piatto.

‟Perchè non va altrove?” chiese Antonio Amati.

‟Tutte bettole, tutte bettole!” borbottò Joanna.

‟Avevo letto.... in un giornale, credo.... in un giornale di provincia, che ella andava al Cova, con altri colleghi suoi.... vi era anzi la descrizione di un banchetto....”

‟Può darsi,” fece Joanna, duramente.

‟Scusi,” mormorò Amati, con civiltà.

‟Quella è bettola più elegante,” riprese Joanna, ‟ma su per giù, vale questa. È più pulita, ecco: ma tutte sono nauseanti.”

‟Perchè non pranzare a casa, allora?”

‟Oh questo, mai! Un giornalista pranza talvolta a casa, ma non vi fa mai colazione.”

‟E la famiglia?”

‟Quale famiglia?”

‟La madre, la moglie, i figliuoli!”

‟Io non ho nessuno,” disse con una certa fierezza Riccardo Joanna.

‟E gli altri?”

‟Non hanno nessuno, come me: o se hanno famiglia, la nascondono.”

‟Lo vuole il caffè?” venne a domandare, con voce sonnacchiosa, il cameriere. ‟Lo farò fare espressamente.”

‟No, caro.”

‟Lo paga, il conto?” disse più sommessamente, il cameriere.

‟Sì, caro.”

‟E il vecchio?”

‟Diventi decrepito!”

‟Posso....” chiese con timidezza Antonio Amati, volendo pagar lui.

‟No, signor Amati: è mio ospite.”

E lasciò generosamente una lira di mancia al cameriere. Camminavano piano, per la via affollata: due volte si fermò Riccardo Joanna, con due persone. E dal modo come gli parlavano, dalla fiacchezza con cui egli rispondeva, si capiva che erano creditori e che egli non dava loro neppure delle buone ragioni. Antonio Amati si teneva in disparte, per prudenza. Riccardo Joanna riprendeva il suo cammino, lentamente, l'occhio impallidito sotto le palpebre rossicce: in Piazza del Duomo una bella signora che passava, lo salutò, sorridente. Egli le fece una profonda scappellata.

‟Posso domandare?...” disse Antonio Amati.

‟La contessa Colletta.”

‟Dama?”

‟Dama.”

‟Amica vostra?”

‟No.”

‟Amante?”

‟No.”

‟E che cosa?”

‟Ha un processo. Teme il giornalista. Dopo.... non mi saluterà più.”

Traversarono la Galleria. Una delicata figurina di donna, trasvolante rapidamente, negli abiti modestissimi, fece un timido saluto.

‟Una signora?”

‟Signora.”

‟Amante o amica?”

‟Niente di niente.”

‟E che è?”

‟Una povera: il Tempo le ha fatto una colletta di milleottocento lire.”

‟Che forza, il giornalismo!”

‟Sì, dà da mangiare agli altri, ma non a sè stesso.”

Erano giunti al Caffè Cova: entrarono. Riccardo Joanna si era raddrizzato e teneva lo stuzzicadenti alle labbra. Buttato sopra un divano di velluto verde, col panciotto bianco che si arrotondava sulla pancia, misurando i quadrettini. Allo zucchero nella tazza del caffè, Riccardo Joanna aveva la cera di un felice della terra, di un perfetto gaudente.... Dei colleghi passarono: egli li salutò con un cenno superbo e condiscendente della mano.

‟Altri giornalisti?”

‟Sì, il direttore dell' Oggi.”

‟Che.... mi pare.... è rivale del Tempo?”

‟Rivale.”

‟Rivale sfortunato, naturalmente.”

‟No, fortunato.”

‟Oh!”

‟Fortunatissimo.”

‟E ciò le secca assai?”

‟Mi ha seccato, ora non mi secca più.”

‟E non odia quell'uomo?”

‟Io? neppur per sogno. Non è un giornalista come me? Oggi tocca a me, domani a lui.”

‟Non ci si è battuto in duello?”

‟Sì, anche: e che perciò?”

‟Quanti duelli ha avuti, signor Joanna?”

‟Otto, o dieci, forse.”

‟Beato lei!”

‟E perchè?”

‟Mah.... l'idea del duello mi esalta.”

‟Io non ne fo più.”

‟Già: ne ha fatti tanti!”

‟Non per questo. Un duello, dove ferite l'avversario, costa almeno trecento lire: dove siete ferito leggermente, ne costa seicento: se la ferita è grave, allora ci vogliono due o tre mila lire. Troppi quattrini: non mi batto più.”

Avevano anche preso il cognac: Riccardo Joanna ne aveva bevuto due bicchieri, un lieve calore era salito al suo volto scialbo, una certa vivacità aveva dato un'attrazione ai suoi occhi smorti.

‟Andiamo in ufficio: forse Sua Eccellenza avrà risposto,” mormorò, con una dolcezza nuova nella voce.

‟Ma Agabito non sarebbe venuto?...” osservò Antonio Amati.

‟Forse Agabito mi cerca dappertutto.... andiamo in ufficio.”

E furono subito in quella Via di San Dalmazio stretta e sinuosa, a quel terzo piano tetro e nudo. Agabito era seduto in anticamera e con un forbicione tagliava le fascette dei giornali.

‟Vi è nulla, per me, Agabito?”

‟Nulla, signor cavaliere. Vi è di là il signor Casiraghi.”

‟Bene, bene.”

‟Aspetta da un'ora.”

‟Continui pure il suo articolo, signor Amati.”

Ed entrò nella sua cameretta. Antonio Amati udì che una voce si alzava, irosa, e che un'altra, fredda tranquilla, gli rispondeva, come per acquietarla. La discussione si chetava, poi ricominciava, più forte: e impediva ad Antonio Amati di scrivere. Infine Riccardo Joanna schiuse la porta, venne sino al tavolino di Amati, guardò per poco il giovanotto che si affaccendava a scrivere e d'un tratto, gli disse:

‟Ce le avrebbe mille lire, addosso, signor Amati?”

‟No.... non le ho.... non le ho proprio....” fece l'altro, interdetto, tremante.

‟A casa, allora? Le vada a prendere.”

‟Mi dispiace.... ma neppure a casa.... mi scuserà.... sono confuso....”

‟Non importa. Le volevo dare qui, a Casiraghi, che non stampa il giornale se non ha per lo meno mille lire.”

‟E come si fa?”

‟Ma non si dia pena. Continui il suo articolo. Grazie tanto.”

E voltò sui tacchi, con disinvoltura giovanile, come se nulla fosse stato. La discussione, di là, ricominciò più viva. Riccardo Joanna ritornò fuori.

‟Che le avrebbe disponibili quattrocento lire, signor Amati? Casiraghi si contenta di queste, intanto.”

‟Non mi mortifichi, signor Joanna: ma io non ho neppur queste.”

‟Non importa. Continui pure il suo articolo.”

Di là vi fu un discorso a voce più bassa, ma concitata. Il signor Casiraghi, un omaccione grosso e rosso, uscì con la faccia stravolta: andò via sbattendo le porte. Tutto contrito, Antonio Amati si azzardò a penetrare nella cameretta di Riccardo Joanna. Costui era seduto tranquillamente nella poltrona, col capo rovesciato sulla spalliera e guardava il soffitto.

‟Che dice?” chiese con ansia dolorosa il neo-giornalista.

‟Casiraghi? Vuole quattrocento lire: se no, non va in macchina.”

‟Deve aver molto?”

‟Quindici, o diciottomila lire, o forse ventimila.”

‟Non sa bene?”

‟Non so.”

‟E come farà, oggi?”

‟Mah!...”

‟E può esser tranquillo così?”

‟Sulle prime non si è tranquilli; poi.... ci si abitua. Ha finito il suo articolo?”

‟L'ho finito: ma è certamente bruttissimo.”

‟Non importa,” rispose distrattamente Riccardo Joanna.

E si mise a rivederlo, minutamente, con l'abitudine del vecchio giornalista. Antonio Amati guardava Riccardo Joanna, il gran giudice inappellabile e tremava in sè. Ma Riccardo Joanna non disse nulla: e nulla osò domandare Antonio Amati. Agabito si presentò al suono rauco del timbro rotto: Joanna gli consegnò il manoscritto:

‟Va' in tipografia, Agabito. Il sor Rinaldo è venuto?”

‟Sissignore: è andato subito a far colazione. Scriverà in tipografia.”

‟Se viene il cronista, lo manderai in tipografia anche lui.”

‟È venuto: ha chiesto dell'amministratore.”

‟È ammalato. Andiamo, signor Amati, qui non vi è più nulla da fare.”

E se ne andarono di nuovo in Galleria, a ciondolare, chiacchierando un po' qui, un po' lì. Riccardo Joanna presentava a tutti Antonio Amati come un nuovo suo redattore: anzi lo presentò a due o tre celebrità, di musica e di letteratura. Il giovanotto bergamasco si ringalluzziva: e due o tre volte volle entrare nel discorso, credendo di dire qualche cosa di spiritoso e provocando certe occhiate di profondo disprezzo. Che importava? Egli apparteneva oramai a quel mondo, era un giornalista. Il più grande dei giornalisti italiani lo conduceva a passeggio, lo proteggeva, lo presentava a tutti.

‟Viene con me da Margari?”

‟Vengo dove vuole lei.”

‟Margari è il negoziante di carta. Vedrà, è un bel tipo, si divertirà.”

Andavano, per la Via dei Mercanti, ai vecchi quartieri di Milano, al Broletto, dove ferve così forte quella vita industriale. Attraversarono un cortile tutto pieno di balle ed entrarono in un camerone semibuio, tanta era la carta che vi era accumulata.

‟Quattrini?” disse un vecchietto, dal volto raggrinzito come una mela, uscendo di dietro a un monte di carta.

‟Niente, Margari.”

‟E niente carta, sor Riccardo.”

‟Volete che il Tempo muoia, Margari?”

‟Voglio dei quattrini.”

‟Non ne ho.”

‟Io non ho carta.”

‟Ve ne darò di quattrini.”

‟Datemeli adesso: mi contenterò di un cinquemila lire, sulle trenta che mi dovete.”

‟Non le ho cinquemila.”

‟Duemila, allora.”

‟Non le ho.”

‟Via, mille, ce le avrete. Avete fatto i rinnovi.”

‟Scarsi.”

‟Mi contento di cinquecento lire.”

‟Se vi dico che non ne ho, Margari.”

‟E allora che siete venuto a fare qui?”

‟A chiedervi la carta per oggi.”

‟Io non ve la do se non veggo i quattrini.”

‟Niente.”

‟E niente, sor Riccardo.”

Antonio Amati assisteva alla scena, muto, addolorato, non osando intervenire, non osando interrompere, con gli occhi abbassati, un po' stordito da quel sazievole odore di carta che era nel camerone. Il vecchietto, tutto coperto di risecature di carta, di filucci bianchi di carta, prendeva tabacco da una piccolissima tabacchiera rotonda e aspettava pazientemente, come se da un momento all'altro gli dovessero capitare le sue trentamila lire. Era un ometto piccino e bonario, tutto roseo, malgrado quell'aria affogante di carta che si respirava lì dentro. A un tratto Riccardo Joanna, decidendosi, disse ad Antonio Amati:

‟Avrebbe per caso cento lire?”

‟Queste, sì, le ho, mi servono per finire il mese, ma non importa,” disse Antonio Amati, tutto felice di aver le cento lire.

‟Bene, gliele ridarò domani o dopodomani, per certo, o fra tre giorni. Me le favorisce?”

‟Non le ho addosso, le ho a casa.”

‟Senta me, porti sempre addosso tutto quello che possiede.”

‟Lo farò sicuramente. Mi permette? Vado e torno.”

Uscì di corsa. Riccardo Joanna ebbe un lieve sorriso di trionfo. Aveva vinta una delle difficoltà della giornata. Il sor Margari tranquillamente andava e veniva fra le sue balle di carta, pigliando annotazioni sopra un taccuino, attaccando cartellini con lo spago, genio sorridente e familiare. Riccardo Joanna fumava ancora un mozzicone di un sigaro di Avana, comperato al Caffè Cova, e appoggiato alle balle di carta guardava il fumo salirsene al soffitto. Antonio Amati ritornò dopo un quarto d'ora tutto scalmanato. Principescamente, senza contare, prese i quattrini dalle mani di Antonio Amati e li depose in quelle del sor Margari. Costui contò e scomparve in uno stanzino.

‟Andiamo,” disse Riccardo Joanna, crollando le spalle come se si liberasse di un peso.

‟Pigliate la ricevuta!” disse il vecchietto dal suo stanzino.

‟A che serve?” fece il direttore del Tempo.

‟Per regolarità di amministrazione.”

‟È ammalato l'amministratore.”

Il vecchietto ritornò con la ricevuta dall'inchiostro ancora fresco.

‟Fatevi dare da questo vostro amico le trentamila lire, sor Riccardo.”

‟Non le ha, sor Margari; a quest'ora me le avrebbe date.”

‟E voi le avreste mangiate.”

‟Non io, il Tempo; è il mio verme solitario, mangia tutto.”

Uscirono. Il facchino, nel cortile, già caricava le risme di carta del Tempo, per portarle in tipografia; e le sue nerborute spalle si piegavano sotto i colli che trasportava al carrettino. Stava la carta, rettangolare, avvolta nella sua fodera di cartone grosso, scuriccio, stava massiccia, fitta, elevantesi l'una dall'altra risma, come pietra fortissima di un edificio incrollabile. Il facchino compariva sulla porta del deposito, curvo in due sotto il peso delle risme, e trascinantesi a stento veniva a deporle, con un tonfo sordo, sul carrettino. Riccardo Joanna e Antonio Amati rimasero fermi a guardare lo spettacolo, e mentre il vecchio e grande giornalista aveva ripreso la sua cera di uomo esaurito, sfinito, morto, Antonio Amati, al cospetto di tutta quella carta bianca, era nervoso, ridacchiava come preso da un principio di ebbrezza. Quando l'ultima risma fu messa sul carrettino, egli si accostò timidamente e toccò col dito, come un bimbo pieno di soggezione, la carta.

‟Questa fa venir la voglia di stampare giornali,” mormorò Antonio Amati.

‟Sì, la carta è bella,” rispose Joanna.

‟Quanto peserà?”

‟Pesa ventisette chili la risma.”

‟E in tutto? Quell'uomo potrà trascinarla?”

‟La può trascinare: sono centonovanta chili.”

‟È assai, è assai,” ripeteva Antonio Amati, preso da un rispettoso timore, ‟quante risme?”

‟Sette.”

‟E ogni risma, quante copie? Diecimila?”

‟No, mille.”

‟E voi mettete sette risme?”

‟Sette.”

‟Sicchè avete settemila copie di tiratura?”

‟Settemila.”

‟Io credeva.... credeva che tiraste sempre centomila copie.”

‟Le ho tirate, cinque anni fa.”

‟E perchè tenete quel centomila, in testa al giornale?”

‟Mah!... per abitudine.”

‟Ah! ah!” fece Antonio Amati, guardando con malinconia il carrettino torreggiante di carta, che traballando se ne andava verso la tipografia. ‟Settemila copie! Sono poche, mi pare.”

‟Sono pochissime,” confermò Riccardo, non accorgendosi neppure che Amati gli dava del voi.

‟Come è stato, come siete disceso a settemila da centomila?” si azzardò a chiedere Antonio Amati.

‟Non dimandate,” ribattè Riccardo, con durezza. Essi tacquero, ritornando verso il centro di Milano.

Lentamente Riccardo Joanna e Antonio Amati si avviarono di nuovo verso l'ufficio del Tempo. Non parlavano. Il vecchio giornalista aveva abbassato il cappello sugli occhi e portava il capo chinato sul petto: non come colui che è preso da un forte e assorbente pensiero, ma come colui che si piega sotto la stanchezza. Il giornalista novellino non osava dire più nulla, temendo di turbare quel sacro silenzio: e andava accanto a Riccardo Joanna, timidamente, impacciato, con le mani penzoloni, guardando le botteghe.

‟Io l'annoio, forse....” mormorò, a un tratto, facendo quasi per allontanarsi.

‟No, no,” fece Riccardo, trasalendo, cercando di scuotersi.

Ma mentre andavano, fra la gente, Riccardo ricadde nel suo mutismo: una lieve tinta giallastra, ora, gli si distendeva sul volto, un pallore di collera, un pallore di bile. Sotto il mustacchio brizzolato, il labbro pendeva, scolorato. E pareva vecchissimo, ora; più che vecchio pareva accasciato, consumato, crollato come per interna macerazione.

‟È preoccupato?...” chiese Antonio Amati.

‟Io? no,” rispose, come ridestandosi da un sogno, Riccardo Joanna. ‟Di che dovrei essere preoccupato?”

‟Mah!... Del suo articolo, forse....”

L'altro dette in una spallata.

‟Chi pensa mai all'articolo?” disse, con disprezzo.

‟È vero,” mormorò il novellino, ‟ma noi altri che arriviamo, sa, bisogna compatirci....”

‟Lei farà.... farà....” disse Riccardo con profonda malinconia.

Erano di nuovo in Via San Dalmazio. Un uomo, tutto unto, lo fissò coi suoi occhi smorti e glaciali.

‟Era per quel conticino del sarto....” disse, a bassa voce.

‟Quale sarto?” chiese Joanna con fare altiero.

‟Roberto Pacilio.”

‟E deve avere?”

‟Duecentosessantatrè lire.”

‟Non vi ho dato degli acconti, varie volte?”

‟Due volte: una volta sette lire, una volta cinque.”

‟Venite domani,” disse imperiosamente Riccardo Joanna.

‟Domani?” fece l'esattore intimidito, ma esitante.

‟Domani.”

‟Mi darà il saldo?”

Riccardo Joanna fece un gesto così largo di magnificenza, che l'esattore andò via subito. Ma il direttore del Tempo fu ancora fermato, innanzi al casotto del portinaio: questa volta era un esattore lungo e scarno, uno scheletro ambulante:

‟Signor cavaliere, scusi, sa, venivo per quel conto del tappezziere Martelluzzi....”

‟Ebbene, che vuole? Io non li ho più i suoi mobili.”

‟È vero, è vero, signor cavaliere, ma la colpa non è di Martelluzzi se le han fatto la vendita. Alla fine sono ottomila lire.... e capirà....”

‟Capisco: venite domani.”

Ma l'esattore doveva conoscere il valore di questa promessa, perchè guardò Riccardo Joanna con un'aria di rassegnazione malinconica.

‟Domani, dunque,” mormorò.

‟Alle tre,” ribattè Joanna imperiosamente.

L'esattore di Martelluzzi lo guardò con un muto e ossequioso rimprovero, come a dire: — Che ti ho fatto, per parlarmi così? — E pian piano, se ne andò, crollando il capo, fidando in questo domani che egli udiva da tre anni, fingendo di fidarsi, non osando, nella sua povertà di servo, mostrare alcun dubbio.

‟Ha debiti, lei?” domandò Joanna, per le scale, ad Antonio Amati.

‟Io, no,” fece l'altro, come vergognoso.

‟Ne farà.... ne farà.... non dubiti che ne farà,” canticchiò Joanna.

Per le scale scendeva un giovanottino piccolino, dal musetto di volpe, vestito leggermente per la stagione, tenendo un mozzicone spento e nero fra le labbra.

‟Buon giorno, direttore. Che le serve la cronaca, oggi?”

‟Parrebbe,” disse profondamente Joanna.

‟Mi dica la verità, tanto non faccio un lavoro inutile.”

‟Il lavoro è sempre inutile,” soggiunse Joanna, con gli occhi socchiusi, con la sua aria di bronzo.

‟Ce le avrebbe cinque lire, oggi, direttore? Ho la moglie di parto.”

‟Quanti figli?”

‟Cinque.”

‟Non legge Malthus, lei?”

‟No, direttore.”

‟Fa bene, non legga mai nulla; e non scriva neppure.”

‟Dunque, direttore?”

‟Passi dall'amministratore.”

‟Mi ha detto di venir da lei.”

‟È uno sciocco. Buon giorno.”

E passò avanti con la sua aria principesca. Il cronista, colpito, non disse più nulla: ma scendendo per le scale, fischiettava di mala voglia. Nell'anticamera l'usciere dormiva, col capo sulle braccia.

‟È venuta nessuna lettera di Sua Eccellenza?” domandò forte Joanna.

‟Niente, niente,” balbettò l'altro fra distratto e sonnolento.

‟Andate a domandarla di nuovo.”

‟Va bene,” fece l'altro sbadigliando.

Poi, come rammentandosi:

‟Signor cavaliere, è venuto il postino delle raccomandate.”

‟Ah!” fece Joanna, e un lievissimo rossore gli salì alle guance. ‟Ha lasciato?”

‟Non ha voluto....”

‟Che bestia!”

‟Tornerà alle sei. Veniva da Napoli.”

‟Forse....” pensò ad alta voce Joanna. ‟Forse è un manoscritto....”

Ed entrò nella sua stanzetta, seguito da Antonio Amati. Il giornalista novellino taceva, ora, senza più voce: tanto quello che vedeva e ascoltava lo empiva di meraviglia. Riccardo Joanna si sedette al suo posto e un sospiro di stanchezza si sprigionò dal suo petto: stava col capo chino, gli occhi chiusi dalle palpebre rosse e gonfie, più pallido, più giallastro che mai. Ad Antonio Amati parve che il direttore del Tempo avesse cento anni, ma cento anni di dolori, di travagli, di sfinimenti.

‟Orsù....” fece Joanna, come se fosse solo e si decidesse a qualche cosa.

E cercò un foglietto e una busta, fra le sue carte. Ne trovò: era una carta a mano elegantissima, delicatissima, con certi bizzarri geroglifici verdi per cifra.

‟Le piace questa carta?” domandò ad Amati.

‟Assai. Che dice il motto?”

‟Non si dice.”

‟Scusi.”

Mentre Antonio Amati abbassava la testa, come mortificato, Riccardo Joanna carezzava la carta dolcissimamente.

‟Ho sempre amata la bella carta: è stata la gran seduttrice, per me,” e parlava come a se stesso.

Ora, con la penna sospesa sulla carta, pensava. Due o tre volte l'abbassò, per scrivere, ma si pentì: due o tre volte fece un cenno di sfiducia, con la mano sinistra, come per dire: — A che serve? — Antonio Amati, per darsi un contegno, sfogliava i giornali, giunti dalla posta, ancora chiusi dalle fascette. Riccardo Joanna non si decideva a scrivere: guardava in aria, almanaccando. Alla fine abbassò il capo, cominciò a scrivere. Ma un signore entrò: era un ometto con la barba rada, come sporca, con una pancetta rotonda e una calvizie che lasciava vedere il cranio giallo, con certe labbra grosse e violacee. Tenne il cappello in testa, si appoggiò al pomo del bastone. Riccardo Joanna gli fece qualche barzelletta, ma l'altro non si placò, era venuto per avere le sue millenovecento lire, non aveva voglia di scherzare, facesse il piacere di dargliele. E si faceva insolente, col cappello abbassato sopra un'orecchia, insultando i giornalisti, chiamandoli tutti bugiardi e straccioni. Riccardo Joanna faceva ancora dello spirito, ma gli occhi gli si erano intorbidati; e l'ometto calvo, dalla barbetta sudicia, continuava a sfogarsi, nulla curandosi della presenza di Antonio Amati che era sulle spine.

‟Vuoi una cambiale, o strozzino?” domandò Riccardo Joanna al suo creditore, e la voce gli tremava di collera.

‟E che me ne faccio?”

‟Allora battiti in duello con me: ma non seccarmi più.”

Il creditore voleva aggiungere qualche cosa, ma vide che la mano di Riccardo Joanna giocherellava nervosamente attorno al calamaio di bronzo.

‟Addio,” disse, ‟vado a vendere il mio credito al direttore del Fulmine.”

‟Oh, non ha denari da comperarlo!” strillò Riccardo, ridendo, esasperato.

Quando il creditore fu uscito, egli rideva ancora: ma come se non si ricordasse più della presenza di Antonio Amati, si nascose la faccia fra le mani, in un disperato accasciamento. Il giornalista novellino lo guardava, e non osava parlare: mentalmente, confusamente, egli faceva il conto dei debiti di Riccardo Joanna, e avrebbe voluto avere quei quattrini, per darglieli, per levarlo di quella pena. Ma dopo un momento, appena Riccardo Joanna aveva ripresa la penna, un altro creditore entrò: era un trattore, dove Joanna aveva pranzato, per due mesi, un po' pagando, un po' senza pagare, e infine aveva piantato il chiodo, non ritornandovi più. E quello di cui più si lamentava il trattore, più del debito, più del tempo che era passato, si lamentava di questa disistima, di questa offesa al suo amor proprio di trattore. E Riccardo Joanna pretestava un viaggio, un'assenza di due mesi, una dimenticanza: prometteva che sarebbe ritornato, senz'altro, ad assaggiare quel buon risotto alla cappuccina: il trattore usciva, obliando di chiedere i suoi quattrini. Poi due altri ne vennero insieme, un litografo per certe incisioni di un numero-strenna, pubblicate un anno e mezzo prima, e il commesso del camiciaio, per certe camicie, da notte, di seta, un conto vecchissimo. Parlavano a gara, l'uno interrompendo l'altro, cantando monotonamente la stessa canzone, insistendo, insistendo con una pazienza, con una rassegnazione di chi conosce la inutilità dei suoi sforzi, ma che pure vuol compire il suo dovere.

Riccardo Joanna li ascoltava, col capo arrovesciato sulla poltrona, con la bocca socchiusa, con gli occhi socchiusi, come se dormisse: e stringeva una stecca di avorio, fra le dita, lassamente, come se dormisse: alla fine tacquero ambedue, come stanchi. Riccardo Joanna non rispondeva.

‟Ebbene?” domandò il litografo.

‟Ebbene?” domandò il commesso del camiciaio.

‟Che cosa?” fece Joanna riscosso.

‟Almeno mi dica il giorno,” balbettò il litografo.

‟Il giorno,” aggiunse il commesso del camiciaio.

‟Domani,” fece Joanna.

‟Domani?”

‟Sì.”

‟Anche per me, domani?”

‟Anche per voi, domani.”

I due se ne andarono, curvando le spalle, come se si fossero scaricati del loro obbligo. Antonio Amati, più che mai confuso, aggiungeva tra sè e sè queste altre cifre, a quelle precedenti, dei debiti di Riccardo Joanna. E le cifre ballavano la ridda nella sua testa, egli pensava che ci voleva una somma favolosa per liberare Riccardo Joanna da tutti i suoi debiti. Due o tre altri ne vennero, volta a volta umili o impertinenti, chiacchieroni, lunghi, ripetenti continuamente la stessa canzone, anch'essi: era il meccanico che aveva messo il gas, nell'altro ufficio: era il negoziante di vini, che aveva fornite molte bottiglie di champagne, per una cena d'inaugurazione: era un creditore del redattore capo, che lo mandava dal direttore Joanna, il quale lo rimandava al redattore, come il Cristo da Erode a Pilato. Venne anche un altro sarto: e Joanna s'imbrogliò, lo confuse con l'altro, che aveva trovato sulla porta, ne nacque una lite, perchè l'altro aveva avuto dodici lire in acconto, e costui non aveva avuto mai nulla.

‟Quando debbo ritornare?” finiva per chiedere il creditore, esausto, disperato.

E la risposta, fiduciosa, superba, era immancabilmente:

‟Domani.”

Il creditore se la faceva ripetere, sempre: e si aggrappava a questa parola, a questo uncino, se ne andava, con una speranza. Ma in questo l'usciere entrò, trascinando il passo, sonnacchioso.

‟Ebbene, avete questa risposta?”

‟Sua Eccellenza la manderà lui, alle sei.”

‟Siete sicuro.”

‟Manda lui, alle sei, qui.”

‟Bene,” fece Joanna, rasserenato.

Di botto, si rimise a scrivere. Ma fuori, in anticamera, una voce femminile parlava forte, con l'usciere: il quale rientrò, parlò sottovoce, questa volta, con Riccardo Joanna, che gli rispose con un cenno vago. Uscito fuori, lo si sentì che cercava di convincere quella donna ad andarsene.

‟Io le do molto fastidio,” disse Antonio Amati, con un mezzo sorriso, ‟lei vuol forse ricevere quella signora....”

‟No, no, caro Amati, io non voglio ricevere quella signora.”

Ma l'usciere rientrò, si mise a parlare energicamente con Joanna, facendo dei grandi cenni di denegazione: Joanna fece un moto di fastidio. E lentamente l'usciere se n'andò, lasciando la porta aperta: e la sora Rosina, la lavandaia, una donna grassa e grossa, con due fili di corallo al collo, con una catena di oro, entrò. Sulle prime cercò il suo denaro, ventisei lire, sottovoce; ma quando vide che Riccardo Joanna neppur le offriva da sedere, che si guardava attentamente le unghie, come se non le badasse, s'irritò, alzò la voce brandendo il suo ombrello come una clava. La scena divenne clamorosa: qualunque cosa le dicessero Riccardo Joanna e l'usciere, che era accorso, non valeva a calmarla; ella urlava come una trecca, voleva le sue ventisei lire o andava alla questura, andava da un altro giornale a denunziare questi bricconi che vanno tutto il giorno in carrozza, e non hanno ventisei lire da dare a una disgraziata.

‟Portate le camicie sporche, quando non avete denaro,” strillava.

Invano Joanna le andava ripetendo il suo eterno domani: ella non ci credeva a questo domani, non voleva tornare, li voleva in quel momento. E gridava tanto, diceva tante parolacce, che Antonio Amati, tutto tremante, alzava quanto più poteva il giornale che leggeva, per nascondersi; avrebbe voluto scomparire, tutto.

‟Ritornate alle sei,” disse Riccardo Joanna, non sapendo più come placare la lavandaia.

Ma che! non voleva ritornare, le gambe le dolevano, non stava a sua disposizione: avrebbe aspettato sino alle sei, non si moveva di lì, incredula, ostinata. E prese una sedia, si mise a sedere calmata di un tratto, aspettando quietamente le sei.

‟Aspettate pure,” aveva detto Joanna, fingendo disinvoltura.

E si era rimesso a scrivere, come se nulla fosse. Ma la sora Rosina restava lì, piantata, con una cera di donna paziente che aspetterebbe così il giorno del giudizio. Per poco Joanna scrisse, ma poi la penna gli schizzò, per un moto nervoso. Antonio Amati continuava a leggere i giornali, ma non capiva nulla: li spiegava e li ripiegava, pian piano, come se temesse di far rumore, come se volesse farsi dimenticare. Immobile, come un dio Termine, la sora Rosina stava lì come un incubo. Alla fine, non reggendosi più, Antonio Amati si alzò, andò presso Riccardo Joanna, e gli parlò sottovoce. Il giovane giornalista arrossiva, il vecchio giornalista impallidiva: e qualche cosa fu fatto, rapidamente, fra loro. Antonio Amati ritornò al suo posto. Dopo cinque minuti, con un alto disprezzo, con un cenno imperioso, Riccardo Joanna tese un batufoletto di carte alla lavandaia:

‟Eccovi le vostre ventisei lire.”

Ella se ne andò, borbottando. Non era una cattiva donna, no, ma furiosa quando voleva il suo. Riccardo Joanna non si degnò neppure di risponderle. E Antonio Amati provò un minuto di felicità pura; aveva almeno pagato un debito di Riccardo Joanna! Costui aveva finita la sua lettera, e la mandava in tipografia: aveva promesso al tipografo Casiraghi di dargli dei quattrini per le sei. Macchinalmente, andava rivedendo certe corrispondenze antiche, certi vecchi articoli che non aveva mai voluto pubblicare, e che man mano andava pubblicando, certe vecchie novelle di scrittrici sconosciute: e con le forbici andava tagliuzzando pezzetti di altri giornali, incollandoli sopra pezzi di carta bianca, scrivendovi qualche frase per cominciare e per finire. Macchinalmente, leggendo i giornali francesi, compose due telegrammi particolari, assai lunghi: macchinalmente, fumando, dormicchiando, fece un articoletto, poche cartelline e lo firmò con quell'i lungo che pareva talvolta un'accetta, talvolta una rivoltella. Antonio Amati lo guardava con ammirazione, come si guarda un automa che agisce come un uomo.

L'automa giornalista si moveva precisamente, senza dar cenno di fastidio o di stanchezza: niuna impressione si manifestava sul viso floscio e pallido, l'occhio smorto restava senza sguardo: solo le mani andavano e venivano, meccanicamente, adoperando le forbici, la colla, la penna, il lapis rosso. In mezz'ora di questo lavorío macchinale, Riccardo Joanna, l'automa giornalista, ebbe combinato tutto l' originale pel giornale. L'usciere andava e veniva, senza parlare, anch'esso diventato una macchina, in questa silenziosa asportazione di carta scritta e stampata.

‟Ecco fatto,” disse Riccardo Joanna, ficcandosi le mani in tasca.

‟Già fatto? È un miracolo. Non avevo mai visto fare un giornale. È bellissimo.”

‟Domani il giornale sarà orrendo.”

‟Oh!”

‟Orrendo, orrendo: io ne capisco.”

‟Ma le pare!”

‟Almeno questa sua bruttezza piacesse al pubblico! Perchè, vedete, il pubblico ama assai le cose brutte, le cose volgari: ma ama una speciale bruttezza, una speciale volgarità. Chi la indovina, quello è bravo. Io.... non ci riesco. Eppure lo fo abbastanza male, il Tempo. Le dirò una cosa, Amati; e senza posa. Alla mattina, io ho un moto di ripulsione quando veggo il mio giornale.”

Antonio Amati ascoltava, fattosi triste. Di là si udiva un grande scricchiolío di forbici: un ragazzino di dodici anni dava di grandi forbiciate nelle fasce, per la spedizione. Ritto sopra un seggiolone egli tagliava le striscette rosse, azzurre e gialle, che spesso volavano attorno a lui. Nella stanza del direttore si taceva: Riccardo Joanna era ricascato in uno di quei suoi torpori, quel leggiero sonno che lo abbatteva, ogni tanto, in mezzo al lavoro, in mezzo alla conversazione. Antonio Amati taceva, preso anche lui da una stanchezza, da una sonnolenza, con un bisogno prepotente di mangiare e di bere, di sdraiarsi, di fumare, di sonnecchiare. Finiva il giorno e la Via San Dalmazio era già scura. Il ragazzino entrò, con una carta fra le mani; e la mise silenziosamente innanzi a Riccardo Joanna. Costui la guardò, ma parve non la vedesse. Il fanciullo aspettava, pazientemente. Alla fine, disse, sottovoce:

‟Trentacinque e settanta.”

Riccardo Joanna lo guardò, lesse la carta, macchinalmente:

‟Va bene,” disse. ‟Va' di là: ora ti darò le trentacinque e settanta.”

‟Non tardi, signor cavaliere: son solo e non arriverò in tempo.”

‟Arriverai, arriverai.”

Una inquietudine si manifestò sul volto di Antonio Amati. Si era fatto pallido: e la sua leale e buona fisonomia di giovanotto spensierato si contraeva nervosamente.

‟Che ci è?” domandò, come allarmato.

‟Niente: è la spedizione.”

‟Quale spedizione?”

‟Quanto è ingenuo, lei, signor Amati! Oh questi giovanotti! Ma non lo sa, lei, che il giornale deve partire per la provincia, e ci vuole un francobollo da un centesimo, sopra ogni copia?”

‟Scusi,” fece l'altro, raumiliato.

‟Niente: ci vogliono trentacinque lire e settanta.”

‟E se no?”

‟Non parte.”

‟Oh Dio!”

‟Senza trentacinque lire e centesimi settanta il Tempo resta a Milano. Ce le ha lei, queste trentacinque lire?”

‟Io?... no, pur troppo, non le ho.”

‟E allora.... non partiremo.”

‟Com'è possibile?!”

‟Oh! sono cose che succedono.”

‟Sono.... sono già succedute?”

‟Si: talvolta. Pare che questa sera si rinnoverà il caso.”

‟Non potrebbe chiederle in prestito a un amico?”

‟È inutile,” fece Joanna, crollando il capo.

‟Cercare i francobolli in credenza?”

‟È inutile,” ribattè, lugubremente, Joanna.

‟Infine far qualche cosa, ma partire?”

‟Tutto è inutile, tutto,” disse Riccardo Joanna, aprendo le braccia, desolatamente.

Antonio Amati pensava, pensava. Poi alzò il capo:

‟Senta, signor Joanna, io ho un'idea....”

‟Sarà buona.”

‟Io non ho le trentacinque lire, ma posso averle. Ecco qui la mia catena e il mio orologio: li mandi a impegnare.... ma è tardi, le agenzie dei pegni saranno chiuse....”

‟No, no, sono ancora aperte,” disse precipitosamente Riccardo Joanna.

‟Ebbene, ecco.”

‟Grazie,” fece seccamente Joanna.

E chiamò il ragazzino, se lo fece accostare, gli parlò sottovoce. Gigino ascoltava, con aria di furberia, non disse verbo, mise la catena e l'orologio in una carta e scappò via senza salutare.

‟Andate da Sua Eccellenza, sono le sei,” disse Riccardo Joanna all'usciere.

‟Gliela porto qua la risposta?”

‟No, portatemela in tipografia.”

La tipografia era un po' lontana, in Via Santa Radegonda. Già vi ardeva il gas: e i compositori erano nel fervore del lavoro, i macchinisti davano l'olio alla macchina, un'aria di febbrile gaiezza regnava. Solo il signor Casiraghi se ne stava in un angolo, tutto chiuso nella sua collera. Riccardo Joanna andava e veniva, dal proto ai tipografi, piegandosi sul marmo, guardando la composizione, evitando, ritardando di accostarsi al signor Casiraghi. Ma costui era implacabile:

‟Dunque?” gli disse, afferrandolo pel soprabito.

‟Ora, ora,” fece Joanna.

‟Ma che ora, ora! Troppe ore sono passate.”

‟Aspetto una risposta. L'usciere verrà a portarmela qui.”

E schiuse la porta a cristalli, guardando sulla via, se l'usciere comparisse, col suo passo strascicato. Antonio Amati venne a raggiungerlo.

‟Non avevo mai vista una tipografia. È una cosa stupenda.”

‟Sì,” disse brevemente Riccardo.

‟È stampato il mio articolo?”

‟Composto, non stampato.”

‟Vale a dire?”

‟Dalla coppa alle labbra, vi è tempo di morire.”

E guardava sempre sulla via, se l'usciere comparisse. Era nervoso, adesso, col cappello buttato indietro, le mani che sollevavano, dietro, le falde del soprabito, la faccia che interrogava ansiosamente la lontananza di Via Santa Radegonda. Alla fine l'usciere comparve, lentamente si accostò, restò ritto innanzi a Joanna.

‟Ebbene?”

‟Sua Eccellenza il principe è partito alle ore 5 e 20 per Parigi.”

‟Toh!” fece Riccardo Joanna. E rise.

Antonio Amati non l'aveva mai inteso ridere in quella giornata: e se ne sgomentò.

‟È partito.... improvvisamente?” chiese, poi, Riccardo Joanna.

‟No, signor cavaliere: doveva partire.”

‟Nulla ha lasciato detto per me?”

‟Nulla.”

‟Sua Eccellenza il principe non lascia mai detto nulla. E quando torna?”

‟Non si sa, signor cavaliere.”

‟Non si sa mai quando ritorna Sua Eccellenza il principe.” E rise di nuovo. L'usciere domandò:

‟Posso andare, ha bisogno più di me?”

‟Non mi serve nulla, andate pure.”

Riccardo Joanna rientrò in tipografia. Camminava piano, accostandosi al signor Casiraghi. E costui gli lesse sulla faccia la cattiva notizia. Ma la sua collera non esplose. Freddamente gli disse che non stampava, quella sera: un terrore si disegnò sulla faccia di Antonio Amati che stava a sentire questo discorso. E per mezz'ora vi fu un combattimento di parole e di gesti fra il signor Casiraghi, tipografo, e il signor cavalier Riccardo Joanna, direttore proprietario del Tempo; un combattimento dove il vecchio giornalista adoperò tutte le armi della parola, per convincere Casiraghi a stampare quel giorno il giornale. Ma quello doveva conoscere oramai tutti i ripieghi della eloquenza di Riccardo Joanna: perchè nulla valse a persuaderlo: le preghiere più umili, le promesse più larghe, certe vaghe minacce di suicidio.

Antonio Amati assisteva, tremante, commosso, con le lagrime agli occhi. Dunque il Tempo non si stampava? Dunque il suo articolo non sarebbe uscito? Ciò era insopportabile.

‟Signor Casiraghi,” disse ad un tratto, ‟senta, senta. Le prometto di darle io denaro domani.”

‟Lei?”

‟Sissignore, io.”

‟Me lo dia questa sera.”

‟Non posso questa sera. Domani telegraferò a mio zio, a mia madre, mi farò mandare quattrini. Cento lire.... anche duecento, sì, duecento, gliele darò tutte, purchè stampi questa sera.”

‟Si obblighi sopra una carta. Io non la conosco, ma m'immagino che sia un galantuomo.”

Antonio Amati si obbligò, sopra un foglione di carta bollata, a dare duecento lire l'indomani al signor Casiraghi: e le dita gli tremavano ancora di emozione, scrivendo. Riccardo Joanna lasciava fare senza neppure ringraziare. Il signor Casiraghi andò a dire una parola al macchinista: un sorriso lievissimo comparve sulle labbra di Riccardo Joanna. Il ragazzino entrava col pacco delle fasce; aveva messo i francobolli coi denari dell'orologio impegnato: diede otto lire e cinquanta che ci erano avanzate, avvolte nella cartella di pegno, a Riccardo Joanna. Costui passò il cartoccino ad Antonio Amati.

‟Non mi servono,” disse costui eroicamente.

E prese soltanto la cartella.

Mangiavano in silenzio, l'uno di fronte all'altro, con la voracità taciturna di due manovali che hanno passato dodici ore alla fatica. Quella trattoria di Monte Tabor era piena di borghesi allegri, di artisti poveri che parlavano forte, scherzavano col garzone, ridevano; mentre i due giornalisti, il vecchio e il giovane, col capo abbassato, miravano a saziarsi. Solo Riccardo Joanna metteva molt'acqua di Seltz nel suo vino: lo trovava pessimo il vino, ed era abituato oramai a non poter digerire senza l'acqua di Seltz. Si guardavano vagamente, sorridendosi, senza parlare, e nessuno dei due si occupava più del Tempo, la voluttà del pranzo li teneva. Antonio Amati divorava grissini: Riccardo Joanna non mangiava pane per paura d'ingrassare. Verso la fine del pranzo si comunicarono certe loro idee di gastronomia. Riccardo Joanna, se avesse avuto il tempo, sarebbe stato un Brillat-Savarin. Antonio Amati stava per le carni fresche e sanguigne, per le uova, per i latticini, per le frutta: Riccardo Joanna, stomaco rovinato, stava per le salse, per i pesci, per i pasticci. Ora si guardavano affettuosamente nella soddisfazione del pranzo, in quel momento di sonnolenza bonaria che precede la digestione. E Riccardo Joanna pagò un conto abbastanza forte per quell'osteria. Gli restavano un paio di lire delle otto e cinquanta.

‟Andiamo in Galleria,” disse.

Camminavano a braccetto, fumando, in uno stato di beatitudine.

‟Siete un buon giornalista, farete farete,” diceva Riccardo Joanna, tutto intenerito, non dando più del lei ad Antonio Amati.

‟E credete?”

‟Ne sono certo, non v'inganno. Avete forza.”

Si sorridevano. Ma una persona li fermò: era Gigino lo spedizioniere che veniva verso il Monte Tabor tutto scalmanato:

‟Oh, signor cavaliere?”

‟Che c'è?” domandò questi subitamente turbato.

‟C'è che non può stamparsi, stasera, il Tempo!”

‟E perchè?”

‟Manca la testata.”

‟La testata?”

‟Sissignore. Quello della stereotipia aveva avuto ordine di fare la nuova....”

‟E non l'ha fatta?”

‟L'ha fatta; ma è venuto una quantità di volte in ufficio per esser pagato.”

‟Io non l'ho mai visto....”

‟Sì, signor cavaliere....”

‟Sarà, ma non me ne ricordo.”

‟Allora, oggi, per la rabbia, è andato in tipografia e l'ha portata via.”

‟Non si poteva rifare in caratteri tipografici?”

‟No, erano troppo piccoli.”

‟Di che si trattava?”

‟Di diciotto lire.”

‟Non avete cercato di questo stereotipo?”

‟Sì, signor cavaliere: il proto mi aveva prestato le diciotto lire. Ma la bottega era chiusa: sono andato a casa sua, aveva sloggiato.”

‟Bene.”

‟E lei non viene laggiù?”

‟A far che?”

‟Sicchè io posso andarmene?”

‟Andate pure.”

‟Quella di stasera, di spedizione, che ne fo?”

‟Conservatela per domani; denaro e fatica risparmiata.”

‟Buona notte, signor cavaliere.”

I due giornalisti rimasero soli, piantati nella via.

‟Ebbene?” disse Antonio Amati.

‟Era una fatalità,” gli rispose Riccardo Joanna.

Ma non andarono in Galleria: voltarono per Piazza Fontana, girarono per due o tre strade senza parlare, finchè arrivarono in Via Sant'Eufemia, dove abitava Riccardo Joanna.

‟Venite su con me?”

‟Non vorrei annoiarvi.”

‟Venite,” fece l'altro brevemente.

Il vecchio giornalista salì innanzi sino al terzo piano, aprì un uscio pian piano, e attraversarono un'anticamera, in cui il fiammifero di Riccardo Joanna facea sembrar fantastici certi grandi armadi.

‟Non risvegliamo la padrona di casa.”

‟Dorme così presto?”

‟È una levatrice: dorme quando può!”

Era una stanza mobiliata banalmente, con un gramo tappeto, certe mezze tende bianche all'uncinetto e un lettuccio stretto e miserello. Riccardo accese una mezza stearica: sedettero ambedue accanto al tavolino, dove vi era l'occorrente da scrivere: ma non un foglio era intiero, tutti erano macchiati, il calamaio era secco, la penna carica di crosta secca d'inchiostro. Riccardo Joanna guardava il fumo andarsene al soffitto: Antonio Amati guardava Riccardo Joanna e la stearica ardeva in mezzo a loro con luce fioca e giallastra.

‟Voi soffrite,” mormorò il giovanotto.

‟Io? no. Non soffro neppure più.”

‟Non volete confidarvi? Non vi sono amico abbastanza?”

‟V'ingannate. Io non mento. Vi assicuro che non soffro più. L'anima, come il corpo, si assuefà a certi dolori. Sono passati tanti anni di questa vita!”

‟Sempre questa vita?”

‟Sempre uguale l'essenza, varia la forma. Il giornalismo è uno strumento a molte corde: alcune risuonano stridule, alcune cupe, altre truci, ma tutte sono dolorose.”

‟Dolorose?”

‟Quanto umanamente comporta un uomo, tanta è la misura di questo dolore. E non avete visto? Non avete udito?”

‟Ho visto e udito.”

‟Ebbene, questo è un giorno solo. Quanti giorni vi sono in un anno, quanti giorni in trentacinque anni? Tanti sono passati sul mio capo e ognuno di essi mi ha ferito, ognuno di essi mi ha portato un colpo.”

‟Voi esagerate, credo,” disse timidamente Antonio Amati.

‟Non esagero. Sono duro, sono incallito, io, non mi lagno neppure più. Parlo per voi.”

‟Pure, vi sono grandi soddisfazioni.”

‟Sì, sì. L'amore, per esempio. Le attrici, le cantanti, le ballerine, vi amano. In molte, poverette, è paura dell'articolo sfavorevole, è il timore della critica che le critica: in molte, è un altro lato della debolezza femminile, è il bisogno di appoggio, è la necessità di un bravo, di un camorrista che le difenda: e in altre è l'attrazione per una vita egualmente vagabonda, egualmente randagia, alla giornata, pranzando alla trattoria, dormendo in albergo o in camera mobiliata. Povere donne! Alle volte, ci amano veramente: e veramente noi le amiamo: ma la loro povertà le trascina altrove, la nostra miseria ci inchioda qui e il sogno svanisce, il bell'edificio crolla, ci si divide, addio, addio! Piangono: piangiamo: alle volte ci è un figliuolo....”

‟Avete avuto un figliuolo, voi?”

‟Sì: ed è morto presso la nutrice, dove la madre aveva dovuto lasciarlo. La madre è morta di febbre gialla a Rio Janeiro,” disse seccamente Riccardo Joanna.

La stearica dette in un guizzo, stridendo, come se l'anima della povera morta fosse là presente.

‟Ma nessuno ha famiglia dei giornalisti?”

‟L'hanno. Nulla di più infelice. Famiglia: ma non si paga il padron di casa e costui vi sequestra i mobili e vi dà lo sfratto. Famiglia: ma bisogna andarsene in camere mobiliate. Famiglia: ma la serva, non pagata, v'insulta e vi abbandona. Famiglia: ma bisogna mangiare in trattoria, spendendo il doppio, mangiando malissimo. La moglie? Poverina, quando ha le scarpe, non ha il cappello; quando si fa il cappello il vestito è già consumato. Vede il marito per due ore al giorno, stanco, pallido, preoccupato, collerico e abbattuto. Non osa chiedergli nulla. Ella soffre in silenzio; egli soffre in silenzio. I bimbi nascono nella malinconia e crescono nella malinconia....”

‟Doveva essere buona vostra madre.”

‟Credo. Non l'ho mai conosciuta. È morta assai giovane.”

‟Mia madre è buona.”

‟Amatela assai, amico.”

Un silenzio di tenerezza si fece fra loro. Il sigaro di Riccardo si era smorzato: egli non lo riaccese.

‟Grandi soddisfazioni dà il giornalismo! È vero. Potete incrudelire col vostro più gran nemico, e voltare e rivoltare la freccia nella ferita che gli fate. E voi passate un'ora deliziosa, ogni tanto, tenendo alla punta della vostra penna il cuore palpitante della persona che detestate! Ma oggi a uno, domani a un altro: questa volta ve la prendete con un partito, un'altra volta con un'associazione, quest'altra con un gruppo; la schiera dei vostri nemici cresce, si moltiplica, diventa una legione. Voi sentite l'ostilità e aumentate di audacia; ma viene, viene l'ora nera in cui vi vedete solo, sventurato, senza forza, senza coraggio; viene l'ora nera in cui questa legione vi circonda, così fitta, così salda, così minacciosa, che voi chinate il capo e desiderate ardentemente la morte. E quel tormento che avete dato con tanta raffinatezza, lo soffrite voi, lo scontate a oncia a oncia, voi pagate la penitenza del vostro peccato di superbia, dolorando nella superbia: poichè la giustizia che regge il mondo è saggia e profonda. La punizione colpisce dove si è peccato. Sono così vecchio, io, e così solo, così infelice, così caduto, così vinto! Ebbene, i miei nemici non mi hanno perdonato, non mi perdoneranno mai.”

‟Eppure,” osservò Antonio Amati, ‟si trovano anche degli amici, col giornalismo.”

‟Già. Dite bene. Ma è più facile dispiacere che piacere; ma dieci servizi che rendete, non valgono un male che fate; ma la più grossa misura di lode equivale appena a una piccola misura di biasimo. Le amicizie cogli uomini politici? Schiavo dovete essere, non amico: non dovete aver bocca che per laudare: non dovete chiedere e tutto dovete dare: vi è impedito il giudizio, il consiglio, l'avvertimento. Le amicizie degli uomini di affari? Durano quanto il loro affare. Le amicizie dei partiti? Non sono cose umane, sono formole impersonali: il partito è un ente, l'ente non ha viscere, l'ente non ha cuore, l'ente non può avere amore e gratitudine. Avete visto che mi ha fatto, oggi, Sua Eccellenza il principe? Sapeva di dover partire, oggi, alle cinque e venti: ha fatto dire al mio servo di ritornare alle sei. Non mi ha detto no, non mi ha respinto, non ha cercato neppure un pretesto: mi ha burlato.”

‟Che infamia!”

‟Non dite infamia. Egli aveva ragione. Noi ne abusiamo di questa presunta amicizia, noi la vogliamo sfruttare in tutti i modi. Oggi cerchiamo denaro, domani protezione, dopodomani intercessione e tutto ci pare dovuto a noi, noi tutto osiamo di pretendere! Io l'ho seccato, il principe: egli è capo-partito, ma io l'ho seccato assai.”

‟Pure gli avete reso dei servigi.”

‟Sì, ma non l'ho fatto ministro. Egli non mi perdonerà mai questo.”

‟Un grand'uomo come lui?”

‟È uno sciocco.”

‟Voi scherzate.”

‟Uno sciocco, vi dico. Ahimè, nessuno meglio di noi conosce la misura di questi grandi uomini, noi sappiamo il segreto della loro riputazione. Essa è fatta di aggettivi nostri: essa è fatta di false notizie nostre: essa è fatta di articoli nostri. Sono quindici anni che io do dell'illustre a Sua Eccellenza il principe e tutti hanno finito per crederlo illustre, sono quindici anni che quando egli parte io scrivo: — È partito Sua Eccellenza il principe per Vienna: si crede che abbia una missione presso quella Corte. — La notizia è riportata, ampliata, travisata, commentata, poi smentita. Oggi io dirò che è andato a Parigi, e che forse lo invieranno ambasciatore nostro colà. Non è vero. Ma per quindici giorni la stampa non si occuperà che di Sua Eccellenza. Sono quindici anni che io dico alla Camera, agli elettori, al pubblico che le cose non andranno bene, sino a che Sua Eccellenza non diventi ministro: e moltissimi, con me, hanno questa convinzione, soltanto perchè l'hanno letto nel Tempo. Ecco come si è fatta la riputazione di Sua Eccellenza, che è uno sciocco.”

‟E se lo facessero ministro? finirebbero le vostre pene, mi pare.”

‟No. Crederebbe che lo han fatto per premio alla sua grandezza: perchè io ho persuaso anche lui, della propria grandezza: e cercherebbe di comperare il Fulmine, che gli dà noia.”

‟Siete pessimista.”

‟Non sono niente, caro Amati. Sono vecchio e sono stanco. Vorrei esser povero, ma sconosciuto: povero, ma senza nemici: povero, ma senza le false abitudini di un falso lusso: povero, ma senza questo cancro del giornale che debbo pubblicare ogni giorno! Io invidio tutti i vecchi giubilati, tutti i vecchi ufficiali in riposo, tutti i vecchi operai pensionati: qualunque vecchiaia più umile, più poveretta, è migliore della mia!”

‟Perchè non lo ammazzate il giornale?”

‟Non posso.”

‟Perchè?”

‟È superiore alle mie forze: io mi sono battuto varie volte: io ho combattuto sui campi di battaglia, per l'Italia: io ho visto la morte, ma non ho il coraggio di ammazzare il giornale. Sono vigliacco.”

La voce era desolata: il tono era lugubre. Alla luce della stearica, la faccia di Riccardo Joanna sembrava più gialla e più floscia, le palpebre rossicce parevano sanguinanti, le tempie rade di capelli avevano riflessi di cranio dissotterrato: il vecchio giornalista pareva una rovina di uomo.

‟Eppure.... eppure,” disse timidamente Antonio Amati, ‟qualche volta il Tempo non esce.”

‟È vero, non esce. È una cosa terribile, ma non esce. Esce l'indomani, se ho quattrini. Una cosa terribile.”

‟Come potete resistere?”

‟Non so, la prima volta, sino all'ultimo momento, non ho creduto che fosse possibile: credevo nella Provvidenza, credevo che il tipografo avrebbe avuto pietà. Ma non ne ebbe, pietà. Io dicevo: — Se il Tempo non esce, io mi ammazzo. — Giravo intorno alla macchina, ferocemente, come se avessi voluto imprimerle movimento con la volontà. Essa stava immobile, taceva. I bimbi che mettono i fogli mi guardavano: io mi sentiva morire. Vennero le donne che piegano i giornali: aspettarono un poco, silenziose, ravvolte negli scialletti neri, immobili: poi, ad una ad una, se ne andarono. Erano tristi, per la giornata che perdevano. Se ne andarono anche i compositori, a uno a uno, lasciando le nere pagine composte. Il tipografo era scomparso. Ero solo, con quel giornale lì, che non andava in macchina. Soffrivo come un dannato. Uscii di lì, errai per i bastioni, come pazzo, gironzai attorno al Naviglio, per buttarmivi. Ma non ne ebbi il coraggio: pensavo a quell'agonia, come a quella di un mio figliuolo, che se ne morisse di fame ed io non potessi dargli un pezzo di pane. Ah! non sapete, non sapete che è per noi questo foglio di carta, questo foglio volante, che costa così caro, che vale così poco, che è così brutto e che noi intanto adoriamo, ciecamente, per quante delusioni e per quanti dolori ci procuri. Esso per noi ha sangue, ha palpiti, ha vita: non è carta, è carne.”

Gli tremava la voce: al suo muoversi convulso, la luce della stearica s'inclinava. Egli non vedeva più il suo interlocutore, parlava per sè stesso, per sfogare la sua irrimediabile sciagura.

‟Eppure non mi sono ammazzato. Non ho dormito, non ho mangiato, ma non sono morto. La speranza, capite, la speranza che il giornale uscisse l'indomani! Ed è uscito l'indomani. Alla seconda volta io ho sofferto quasi quanto la prima, ma non così acutamente. — I lettori, — pensavo, — crederanno che ci sia stato un guasto nella macchina. — E mi consolavo così, mi consolavo pensando che l'indomani sarebbe uscito. Che volete? Ci s'incallisce anche al dolore! Una volta è stato quattro giorni senza uscire: una cosa inaudita. Io non osavo andare in nessun caffè, in nessuna trattoria, fuggivo amici e nemici, dalla mia stanzetta scrivevo lettere a tutti quelli che potevano aiutarmi, bevevo della birra per istupidirmi. Ora.... mi sono abituato anche a questo. Non lo nego: ho un colpo quando questo giornale non esce, ma non più l'anima mia vibra. E certo, vedete, questa indifferenza, questa rassegnazione sono una vigliaccheria, una vergogna, una dedizione della vecchiaia e dell'impotenza!”

Antonio Amati ascoltava, vibrante di emozione, trasalendo a certe frasi più brutali, non interrompendo, sentendo che non doveva interrompere.

‟Sapete quale è la parola del giornalista, voi?” chiese a un tratto Riccardo Joanna.

‟No: io la ignoro.”

‟La parola del giornalista è: Domani. — Domani, per lui, rappresenta tutto: il Fato benevolo, il Caso favorevole, la Fortuna insperata, la Provvidenza che manda il sole sulle terre coperte di neve. Domani, domani, la dilazione, la eterna dilazione, per cui la vita si complica nelle sue cose più semplici, per cui la esistenza diventa una eterna cambiale, sempre scaduta, sempre rimessa al giorno seguente. Domani, per consolare una povera donna che è ammalata: e la povera donna muore, senza consolazioni. Domani, per comperare un vestitino al bimbo: e il bimbo resta senza vestito. Domani, per scrivere a un vecchio parente, che forse vi farà ereditare: e il vecchio parente vi disereda. Domani, per andar a cercare un uomo di affari: l'uomo di affari parte, la occasione sfugge. Non avete sentito, che ho risposto ai miei creditori tutti? Da quello che deve avere ottomila lire a quello che ne deve avere otto? Domani, ho loro risposto, a tutti. Come potrò dar loro qualche cosa, domani? Che accadrà? Chissà! Forse nulla. Ed essi ritorneranno, i creditori, domani, puntualmente, speranzosi e quindi più premurosi, delusi e quindi più accaniti, verranno tutti, ne verranno degli altri, a cui è stata passata la voce, sarà una processione. Che dirò loro? Non lo so. Dirò loro di ritornare il giorno seguente. Così, vergognosamente, sino alla morte. Per questa parola domani, io mi sono perduto.”

Tacque. Riandava sul passato.

‟Era un gran giornale il Tempo. Ebbe una fortuna insperata, immeritata, forse. Saliva, saliva, che era una vertigine. Perchè? Non era nè più brutto, nè più bello degli altri: ma trovò il suo momento. Io andava, andava, per impulsione magnetica, passando di buona fortuna, in buona fortuna: non avevo scrupoli, non mi importava nulla di quanto non riguardava il giornale, non vedevo se non l'affare da farsi, la vendita che cresceva. Ebbi la fortuna di stare tre anni all'opposizione, fierissimamente: quando il mio partito trionfò, me ne staccai, sentendo che era dannoso appartenere ai trionfatori. Volli essere indipendente. Sapete che significa questo vocabolo? Appartenere a chi meglio vi conviene, per un momento: e poi rompergli fede, e passare all'avversario. Si ha l'aria di esser liberi, di esser giusti: molti vi temono, nessuno osa lagnarsi, e si fanno i propri affari magnificamente. Sapete a che tiratura è asceso il Tempo? A centomila copie! Tiratura favolosa in Italia, una fortuna che nessuno ha avuto più. Sapete? In quel giorno che il Tempo ha toccato le centomila copie, vi è stato qualcuno che me ne ha offerto mezzo milione. Ho rifiutato. Ho detto: Domani. L'indomani, la tiratura era discesa. Poi è discesa sempre, senza causa apparente, senza ragione, per le stesse cause forse per cui era salita, o perchè era finita la sua fortuna. Potevo aver mezzo milione. Ho detto, superbamente: Domani. Eccomi qua....”

‟Ma non avete lottato?”

‟Ho lottato. Ma per certe battaglie ci vuole il coraggio e la flessibilità dei giovani; ci vuole la fede nel talento, che nel giornalismo si perde; ci vuole la sensibilità che nel giornalismo si smarrisce. A che scopo, poi? Ho lottato, lotto ancora come un disperato, ma sono vecchio.”

‟Perchè non ammazzate il Tempo?”

‟Sì: e dopo? Come vivo? come faccio? dove vado a naufragare? Quando avete in corpo trentacinque anni di giornalismo, non sapete, non potete fare più niente: e quando il giornale è morto, nessuno vi prende più, tutti vi respingono, tutti vi voltano le spalle. Il giornale, capite, è un pretesto per non mendicare. O piuttosto, m'inganno: è un pretesto per poter mendicare, senza che le guardie vi arrestino, per improba mendicità.”

‟Che dite!”

‟Dico questo, giovanotto. Dico che se oggi voi non foste venuto, io non avrei potuto dare cento lire al mio cartaio, ventisei lire alla mia lavandaia. Vi ho fatto impegnare l'orologio, e non vi conoscevo, stamane! Vi ho fatto firmare una obbligazione, per domani: e domani, se non pagate, vi possono citare e trascinarvi in tribunale. Vi ho invitato a pranzo, e ho pagato coi denari del vostro orologio. Oggi vi ho levato tutto: e vi rammentate? Non vi ho ringraziato neppure, tanto mi sembrava naturale il mio accattonaggio e naturale il vostro sacrificio. Domani, quando non avrete più denari, io passerò avanti, poichè voi mi avete già fatto l'elemosina, io cercherò un altro che me la faccia, fino a che non l'abbia trovato! E sarà così ogni giorno! Ogni giorno, così, sino a che io non muoia, di questa malattia di cuore: e se è breve, morirò nella via, o in tipografia, o sulla mia scrivania, con la faccia nel calamaio, con la mano sulla penna: e se è lunga, mi porteranno all'ospedale. Qualche amico verrà; forse faranno una sottoscrizione per me, ancora l'elemosina; sulla mia morte, all'ospedale, faranno una colonna di elegia. Così finirà.”

Bruciava la carta della stearica, allegramente, con una vampata: poi la fiamma si abbassò, ondulò un poco, si spense. I due restarono all'oscuro.

‟Non ho altra candela,” disse con voce fievole Riccardo Joanna.

‟Non importa, non importa,” fece l'altro, quasi singhiozzando.

Joanna si alzò e aprì le imposte: un po' di luce venne dalla strada. Fissandosi bene, nell'ombra, si vedevano. Il vecchio era curvo, disfatto, come crollato: e il giovane non alzava il capo.

‟Questa è la catastrofe,” riprese fievolmente Riccardo Joanna, come se si svegliasse dalla febbre. ‟Non già la bella catastrofe, violenta, grande, una tempesta che tutto abbatte, un buon colpo di spada attraverso il polmone, una buona palla di pistola dentro il cranio, la morte dei forti infelici: la morte che attira l'ammirazione, e dà un'aureola di grandezza. No. La catastrofe piccola, minuta, volgare, quotidiana: oggi se ne va uno scrupolo, domani si abbandona una fierezza, l'altro giorno si sacrifica un sentimento, quest'altro giorno si dice addio a una fede. Il pudore si sgretola, l'amor proprio si annulla. Si soffre assai, prima: poi, viene l'atonia della coscienza, quell'orribile stato, in cui si è perduta la misura del possibile e dell'impossibile, la misura del giusto, l'atonia della coscienza in cui ogni concetto della realtà è finito, in cui si può far tutto, capite, far tutto! È la catastrofe ignobile, indegna di uomini, indegna di cristiani, la catastrofe che non finisce mai, che non ammazza, che fa agonizzare, e che non uccide, che fa ribrezzo, e non fa pietà. Non vi è lume, per vedermi, perchè io sono un disgraziato accattone, senza pudore e senza coscienza; ma voi sentite la mia voce, intendete la mia parola, voi, giovanotto! Non vi è catastrofe bella, nobile, decisiva! Io non ho neppure il coraggio di morire! Io sono un vile! Io mi fo ribrezzo!”

‟Calmatevi, calmatevi,” fece Antonio Amati.

‟Promettetemi che non farete il giornalista.”

Antonio Amati non rispose.

‟Promettetemelo. Per ottenere questo, vi ho portato meco, dappertutto, oggi: vi ho fatto assaggiare l'amarezza, tutta l'amarezza di questa vita. Promettetemelo.”

Antonio Amati non rispose.

‟Ve ne prego, figliuol mio, non smarrite la vostra via, non vi mettete in questo ingranaggio laceratore. Ve ne scongiuro, pel vostro talento, pel vostro decoro, per queste dolorose confessioni che vi ho fatte, e che non farei mai a nessuno! Salvatevi, salvatevi.”

Antonio Amati non rispose.

‟Avete una madre, voi? Non la disubbidite. È fatale. Io mi sono perduto, perchè ho disubbidito a mio padre.”

‟Non posso,” disse il giovanotto, con voce grave. ‟Farò il giornalista.”

Un silenzio profondo seguì quelle parole dette con una convinzione irremovibile.

‟Siete credente, voi?” gli domandò il vecchio Riccardo Joanna.

‟No.”

‟Io, sì. Che Iddio vi assista, dunque.”

Fine.