VITA MONDANA
MEMINI
VITA MONDANA
MILANO LIBRERIA EDITRICE GALLI DI C. CHIESA E F. GUINDANI Galleria V. E., 17-80 — 1891
Proprietà letteraria
STAB. TIP. E. TREVISINI — MILANO
INDICE
Dilemma.
I.
Nella elegante portineria olandese, nicchiata nel verde, di fianco al cancello del giardino, il sopraggiungere di Alberto Mentena non cagionò meraviglia alcuna. — La linda portinaja si alzò premurosamente per aprir l'uscio che metteva sul viale e accompagnò il giovane, sinchè potè vederlo, colla benevolenza del suo vispo sguardo di vecchietta. Alberto Mentena era simpatico a tutti, giovani e vecchi, ricchi e poveri.
S'inoltrò con spedito passo pel giardino, veramente bello nella pompa primaverile del suo verde. In fondo al viale, biancheggiava la villa, a mezzo rivestita di arrampicanti, un vero nido di pace elegante. La brezza temperava il calore del meriggio, mettendo delle molli oscillazioni nei penduli rami della clematide in fiore e un fremito continuo, sommesso, quasi musicale, nei cortinaggi di tela russa che adombravano l'atrio. — Un domestico, vestito di nero passava grave ed ozioso, a capo chino. Ma Alberto non lo chiamò. — Attese anzi per procedere ch'egli si fosse allontanato. — Allora soltanto penetrò nell'atrio e prese a destra, mettendosi per un'ampia fuga di sale. Le attraversò senza fermarsi nè incontrare alcuno, sinchè giunse e si trattenne in un salotto piccino che apriva su una specie di serra, o meglio un piccolo giardino d'inverno, colle pareti ad invetriate.
In quella serra stava sola, una signora giovane, non bellissima, snella, piuttosto piccina, con un volto pallidetto, di persona ammalata o molto inquieta. Sedeva in una piccola nicchietta di verde, fra due palme, in una poltroncina di giunco e ricamava, svogliatamente però, un canovaccio campionato a disegni antichi, con delle tinte pallide e vecchie.
Alberto non entrò in quel luogo. Si fè presso all'uscio, con precauzione, perchè ella non lo udisse, non sapesse ch'egli fosse lì. Si tenne celato dietro una portiera, rimuovendola solo quanto bastava a concedergli la visione di quanto accadeva nella piccola serra.
La signora si credeva sola. Credeva ch' egli fosse lontano assai. E perciò viveva liberamente quell'ora di solitudine e di sofferenze intime.
Tutto in lei contribuiva a tradire l'interna lotta. Il tremore delle labbra, l'espressione speciale della fisonomia, l'inconscia irrequietezza dei moti. Il lavoro fu lasciato e ripreso più di una volta. — Ogni tanto un'idea passava, quasi tangibile, sulla sua fronte, fissando negli occhi e sulle labbra semi aperte un'estasi vaga, mettendo nella personcina fremente una súbita pace di riposo, contrasto strano coll'agitazione sì viva che lo aveva preceduto...
Diana Contessa di Rezzano ebbe, finalmente un amaro sorriso, cui tenne dietro un lungo e sconsolato sospiro. Afferrò un libro che giaceva su un prossimo tavolino. Lo aperse, vi attese per dieci minuti, poi i suoi pensieri tornarono in frotta, più eloquenti delle pagine del libro. Essa lo depose, senza chiuderlo, su una poltroncina uguale a quella da lei occupata e che le era vicinissima. La contemplò a lungo, con una súbita, profonda attenzione la respinse alquanto, tornò ad accostarsela.... poi, senza allontanarla se la mise di fronte e con una mossa lenta, bizzarra, come esitante, depose la mano sul bracciale. Si chinò alquanto come se parlasse a qualcuno che le stasse di fronte, su quella poltroncina.
Sorrideva, inarcava le ciglia, pareva udire delle frasi, accoglierle... rispondere ad esse. Un momento trasse a sè la mano, che posava sul bracciale, rapidamente, come se l'avesse sfiorata il bruciore di una favilla, poi la depose sull'altra, con una vaga tenerezza di gesto e la baciò. Si scosse poscia ed ebbe uno scoppio di amare risa. S'alzò con impeto ed uscì in giardino.
Allora soltanto, Alberto entrò nella serra e sedette al posto solito, sulla poltroncina che aveva poc'anzi attirata l'attenzione di Diana. Così attese. Il suo sguardo seguiva la gonna della Contessa, volteggiante fra le ajuole.
Quand'ebbe colto, un po' a rifascio, un grosso mazzo di fiori, Diana tornò lentamente indietro, guardandoli. Solo quando fu sulla soglia dell'invetriata alzò gli occhi e vide Alberto.
S'arrestò; cogli occhi spalancati, col volto di cera! Mandò un piccolo grido di gioia involontaria, tenerissima ed una súbita, suprema letizia irradiò da tutto l'esser suo.
Ma ella non corse incontro ad Alberto. Stette ritta, fiera, sulla soglia, aggrottò le ciglia e disse con aspro accento: Che fate qui?
Alberto sorrise, venne risoluto ad incontrarla e le porse la mano.
— Sono qui, le disse.
Ella tentò di ritrarsi d'un passo. Ma non potè, l'ira fuggiva irresistibilmente da lei. Attratta, suo malgrado, mosse verso lui, colle labbra anelanti.
— Alberto! disse a voce spenta, con un fioco accento di rimprovero.
— Sono qui, ripetè il giovane... Diana!... oh Diana! Le prese ambe le mani e le depose sulle proprie spalle.
Il volto di Diana s'era acceso d'una fiamma rosea; ella guardava Alberto intensamente, con una passione, un'affetto senza pari!...
— Alberto! disse ancora con voce tremante. Ma l'intenzione del rimprovero, moriva, soverchiata dalla dolcezza suprema dell'appello inconscio, innamorato.
Sono tornato, mormorò il giovane. Non mi sgridare, non mi tormentare. Ho voluto ubbidirti, ho provato a stare lontano da te!... Ma non posso. Non posso, intendi? E tu pure non puoi... nevvero... Diana?
Le sue parole avevano quell'intonazione rotta, confusa, susurrata, ch'è la più fatale eloquenza dell'amore. — Pure ella tentò di reagire.
— Io?... lo posso... sì... perchè no?
Ma tutto smentiva la povera menzogna. Alberto sorrise. Le sue dita stringevano i freddi polsi di lei e il suo sguardo ardente si fondeva nella luce calda, umida, dell'occhio di Diana.
— Siediti qui, le disse, accennando col mento la poltrona.
— No, diss'ella a denti stretti, con irosa disperazione. — Egli aggrottò le ciglia. — Allora Diana con una súbita scossa, liberò le sue mani.
— Va via, gli disse con rauca voce, va via!
— È inutile, lo vedi. Tornerei ancora.
Diana tacque. Sentiva ch'egli aveva ragione. Il pensiero di ciò ch'ella aveva sofferto, nell'assenza di lui, la colse vivido, pieno di ribellione. Ed ora egli era tornato... era lì e per un momento la gioia inconsulta, suprema, del suo ritorno irruppe unica in lei, cancellando ogni altra impressione.
Egli leggeva, sorridendo, su quel libro aperto. Le si accostò e se la strinse dolcemente, quasi rispettosamente al cuore. Tremava anch'egli, vinto da un'emozione che non pensava a celare, nella sincerità impetuosa del suo amore. Le sue labbra cercarono quelle di lei, che parevano protendersi, ma che, irrigidite ad un tratto, si sottrassero all'incontro.
Ed ella rizzandosi gridò superbamente. Non voglio!
Non voleva infatti. — Ma qualcosa in lei, qualcosa di ardente e di indomabile voleva a dispetto della sua volontà; ed ella si esauriva nello sforzo di quella ribellione, nella fatica della propria reazione contro il cuore affascinato ed i sensi destati. Diana e Alberto si amavano così da più mesi, con una verità ed una forza di passione che nulla osteggiava in lui.
In lei combattevano, dilaniandole il cuore, l'innata purezza dello spirito, l'influenza di una austera e religiosa educazione, l'istintivo orrore della macchia. Ma ella avvertiva dal paro la forza spietata che la trascinava ormai sulla rapida china dell'amore. E perciò; come tante altre povere anime così grottescamente e miseramente create, ella amava, soffriva e lottava tanto!
Per lui tutto ciò era una novità. Sentiva di aver scatenata una tempesta vera nel cuore di una vera donna e conosceva abbastanza le donne per apprezzare il valore e la verità del fatto. — Non aveva deliberatamente tentata la conquista di Diana; s'era abbandonato, ad occhi aperti però, alla dolcezza nuova di un sentimento, lasciando poi ch'egli seguisse il corso della sua logica evoluzione. Aveva lasciato venir l'amore senza sollecitarlo, serbando, anche quando l'aveva ravvisato in volto, un rispetto gentile per la donna gentile che glielo aveva ispirato. No, quell'amore non poteva essere per lui un episodio volgare come i tanti che l'avevan preceduto. — Certo; non doveva neppure essere un episodio eccezionale, ma tanto nel suo delicato epicureismo della passione, quanto nella sincerità stessa del suo amore per Diana, egli aveva trovate delle onorevoli ed eccellenti ragioni per prolungare uno stato quo del quale molti avrebbero potuto sorridere.
Aveva avuta, aveva tutt'ora una certa pietà di Diana e delle sue intime lotte. Senonchè, da qualche tempo in qua, cominciava ad aver pure una certa pietà di sè stesso... Bellissimo, curiosissimo in lei quel contrasto di docilità all'amore e di ribellione alle sue esigenze, ma durava da un po' di tempo e... come ammettere che avesse a durar sempre?
Il marito... solito, che non sa... che non ci pensa, che nulla teme. Cacciatore emerito, ora in Sicilia, ora in Sardegna, ora in Maremma. Bello e giovane, d'indole gaia e spensierata senza finezza alcuna, senz'altre cure che quelle del compiacimento proprio, di un'immoralità comoda e larga, spesso infedele e bonariamente sorpreso che Diana avesse a tanto adontarsene, tranquillo nel sereno convincimento dell'innocuità dei suoi piccoli tradimenti di passaggio. — Ma Diana l'intendeva altrimenti. S'era messo in capo una stramba idea, che la fedeltà nel matrimonio dovesse esser obbligatoria per entrambi i conjugi!.. Aveva ignorato molto, perdonato qualcosa, ma non ammetteva la recidiva e il suo pseudo amore pel marito s'era smorzato, bruscamente, nella collera di quelle replicate offese alla santità del vincolo. — Uno scandaluccio di bassa lega, qualcosa che s'aggirava tra una cameriera e una ballerina, aveva esasperato il risentimento di Diana ed ella aveva creduto bene di ritirarsi nella sua tenda; cioè nella sua villa di Rezzano.
Ed a ciò s'era limitata, solo per deferenza ai caldi consigli di sua madre, poichè questa, la buona contessa Galli, osteggiava apertamente la estrema risoluzione alla quale Diana aveva pensato dapprima. Diana, quella benedetta figliuola, aveva parlato nientemeno che di una buona e completa divisione. Quella povera creatura aveva un'antipatia istintiva per le mezze misure e per le posizioni mal definite. Si sentiva crudelmente offesa e voleva dimostrarsi tale.
Non erano dunque al tutto divisi. Leone, il marito, non desiderava affatto una divisione. Vivevano assieme, scontenti, nel malessere di quei mutati rapporti, nelle perenni difficoltà delle loro conseguenze.
Egli si dedicava molto alla caccia, faceva lunghe e frequenti assenze. Si scrivevano solo quando occorreva, per affari, lettere cordiali, freddine che cominciavano: Carissimo amico... ovvero: Mia buona Diana, e non si aggiravano che su cose indifferenti. La buona Diana si era isolata nel suo cantuccio della tenda comune e aveva iniziato un modus vivendi abbastanza frigido, che il marito aveva tacitamente accettato, distratto in quel tempo da altre preoccupazioni e da quelli che a lui parevano sufficenti compensi.
Ella aveva intensamente gioito, della riacquistata libertà e aveva fatta una scoperta famosa... quella di poter viver così, a quel modo, per sempre. Non temeva nè di sè, nè dell'avvenire. Si ubbriacava d'acqua fresca e faceva delle orgie d'aria pura. Aveva degli alti ideali, una grande fiducia nella fermezza dei suoi principi. Conduceva a Rezzano una vita solitaria ed austera, occupandosi di libri, di poveri, di fiori, credendo sinceramente di poterla durare all'infinito... non felice no... ma tranquilla.
Ma così non la pensava nè poteva pensarla il destino che aveva dato a quella donna un benedetto cuore, uno di quelli che sono per l'amore ciò che l'elitropio è pel sole. Il cuore di Diana, ozioso, non tacitato, illanguidiva come una persona che campa di troppo scarso alimento. Ella non lo sapeva forse, ma soffriva intensamente.
E allora; al momento dato, era venuto Alberto e aveva posto piede a poco, senza ch'ella dapprima lo avvertisse, nel vano di quella vita.
Era un antico conoscente di casa, compagno di liceo e di università, a Leone Rezzano. Dimorava in una città poco lontana e avendo certi beni nel vicinato, capitava di frequente da quelle parti. Nessuno ci trovava a ridere e Leone non era affatto geloso.
Nella sua fiducia entravano parecchi elementi; quali buoni e quali no. Aveva molta stima di sua moglie, sapeva ch'essa aveva passati, incolumi, i primi anni del loro matrimonio, nutriva il convincimento ch'ella fosse troppo bene educata, non solo, ma anche troppo freddina per fare: uno sproposito — Poi... quella tal dose sopranumeraria di cecità che hanno quasi tutti i mariti!... A dir vero; la sua fiducia era abbastanza logica, ma la spensieratezza del suo carattere ne esagerava alquanto le conseguenze.
L'amore s'era dunque presentato a Diana colla veste gentile ed il sicuro aspetto dell'amicizia.
Passato un certo tempo, la cordialità, si accentuò fra Alberto e Diana, divenne un intesa delicata e costante. Si meravigliavano, ingenuamente, di scoprire ogni giorno, nuove comunanze di gusti, di simpatie, una tenerezza latente metteva nei loro semplici, contegnosi colloqui delle finezze squisite di segrete emozioni, assaporate con un acuità di confuso desiderio, nelle assenze; sempre più rade, sempre più brevi. Egli vide, ben prima di Diana ciò che avveniva nell'indole di quella cara amicizia ma, accorto, benchè affascinato anch'egli lasciò che in lei, male accorta, continuasse sinchè poteva, il dolcissimo inganno.
E veramente questo continuò a lungo. Ella ignorava ancora di amarlo e già, da tempo, lo amava.
Per cento ragioni, tutte naturalissime. Perchè egli era amabile, per quella crudele pietà ch'egli aveva di lei, perchè ella non aveva figli ed era tradita, pressochè abbandonata dal marito!
L'amava, perchè il suo cuore ne aveva d'uopo e perchè egli era la sua ora di amore... Lo amava finalmente, per quella suprema fra le ragioni dell'amore... perchè di sì!..
Quando non potè più celare a sè stessa di amare Alberto, non seppe neppur celarlo a lui. Il primo bacio era venuto a tradimento, per una semplice quanto terribile forza delle circostanze.
Si fermarono lì... a quel punto; per uno di quei miracoli ai quali il mondo non crede e che irride, beffardamente. Ma ella non si sentì meno: perduta, perciò. Si sentì colpevole di tutto il male che non aveva fatto, ma che si era posta in grado di fare. Non accattò scuse di fronte a sè stessa, non si chiamò vittima, non si pensò giovane, ardente, trascinata!... Non pensò che al pericolo. Riunì tutte le sue povere forze, lottò e credette di aver vinto quando egli, obbedendo alla disperata ingiunzione di lei, si allontanò da Rezzano. Dieci giorni prima, essa gli aveva detto: va!.. Glielo aveva detto sì efficacemente ch'egli era andato. Giudicava forse venuto il tempo in cui la privazione di lui dovesse tornarle intollerabile e determinare la situazione? Ovvero se n'era andato onestamente anch'egli, con una cavalleresca ubbia di abnegazione e di salvamento? Chi lo sa! Fatto è ch'era partito... Ma fatto pure che passati quei dieci intollerabili giorni, era tornato. Senza idea preconcetta, forse. Ma era tornato e ora; l'equivoco non era più possibile.
La situazione si era aggravata di tutta l'entità del fallito tentativo. L'ambiente era più caldo, più pericoloso di prima, il bisogno di un concreto avvenire s'imponeva al loro amore. Ciò sentivano entrambi, mentre si guardavano negli occhi, accesi di un vago spavento. S'interrogavano a vicenda, così, senza parlare, colle mani prese nella forza di una stretta che pareva accentuare i loro pensieri.
Egli ardeva ed ella era gelata, colla violenta impressione di doverlo amare ad ogni costo. Anelava forte. Ma si difendeva ancora, nel sublime controsenso d'un diniego folle, ostinato, mentre egli ribatteva quel diniego coll'onnipotente ardore di una sola parola.
T'amo.... t'amo.... t'amo!
Un'ubbriachezza la coglieva, e in pari tempo un'inesorabile lucidità del pensiero. Una brutale risoluzione investì il suo cervello. Con un subito, folle oblio di tutto ciò che non era Alberto ella chiese ad Alberto: — Che vuoi?
Ed egli rispose sordamente: — Voglio te.
Tacquero entrambi. Poi Alberto le prese la faccia tra le mani e l'accostò alle sue labbra.
Gli sguardi si smarrirono nell'infinito del reciproco ardore... le labbra si protesero e il lungo forte bacio scoccò, col suo sapore di dolcezze ineffabili. E appena divise, quelle labbra tornarono ad unirsi, ancora... ancora... due, tre, dieci volte...
Finalmente ella si liberò da quella grandine. Mosse un passo addietro ed ebbe un grande gesto di rinuncia, il gesto di una regina che abdica.
— Alberto, gli disse recisamente, portami via!
— Via?... chiese Alberto... tentando un altro bacio che essa evitò.
— Portarmi via, ripetè Diana. Dove vuoi... non importa ma via... subito... intendi?...
Il giovane la guardava sbalordito, cercando dì raccapezzare le proprie idee di fronte a quella strana domanda. Ella aggrottò le ciglia e guardandolo con gli occhi pieni di delirio:
— Esiti?... gli chiese.
Era sì fremente, sì disperata, sì bella, ch'egli trovò, in quell'istante, il coraggio di un'immensa follia.
— No... disse... ti amo!
Allora essa lo avvinghiò colle braccia, lo baciò con furiosa veemenza. Poi si scostò e gli disse:
— Sta bene. Ora sono tua e per sempre. Domattina... alla stazione alle otto. Partiremo assieme. Ora va... questa è casa sua.
Scomparve così ratta, dietro una porta vicina, la chiuse sì rapidamente che Alberto non ebbe il tempo di raggiungere quella donna che fuggiva. — Ma sapeva, ormai, che sarebbe sua.
Tornando a casa, il giovane era alquanto stordito dall'idea della sua sconfinata felicità... Non sapeva bene s'egli stesso fosse un eroe o un imbecille. A dir vero non aveva mai pensato alla possibilità di quella conclusione del suo romanzo con Diana, a quella fuga chiassosa, romantica, che avrebbe avuto una sì inattesa importanza pel suo avvenire. Comprendeva Diana e non l'accusava... ma tant'è... era un po' forte... tutto ciò! Forse, se avesse saputo...
Ma non aveva saputo e ad ogni modo, ormai era tardi. Egli amava realmente Diana e in quell'amore cercò un conforto di risoluzione spensierata. Sarà quel che sarà! Ripeteva: domani... domani... esaltandosi in quel pensiero, tanto che non pensò più ad altro. Si chiuse in camera e dispose tutto per la partenza e per la vita nuova.
II.
Diana era sola, nella sua vasta e bella camera da letto. — Sedeva al tavolino; su una seggiola poco discosta stava la sua valigia già fatta e già chiusa. La Contessa non recava seco che lo stretto necessario, il suo scrigno di fanciulla e pochi oggetti, esclusivamente suoi. S'era tolte dalle dita i ricchi anelli, dalle orecchie i grossi solitari donateli per le nozze. Non voleva nulla di lui. Di fronte a lei stava uno specchio ed ella guardava ogni tanto, come attratta da un fascino, la pallida faccia di quella sciagurata che, in un collo splendore dei celebri giojelli, stava per lasciarsi dietro, nella casa abbandonata, la intatta luce del suo passato, lo splendore della sua reputazione di donna onesta. Il suo volto pareva quello di una condannata, visto così nello specchio, nell'incerto chiarore del giorno che finiva anticipatamente, abbujato da una minaccia di temporale.
Pensò un istante se dovesse scrivere a suo marito. — Ma che dirgli? Accattare un pretesto? Muovergli dei rimproveri? No, tutto era inutile... tutto era un'aggravante dell'oltraggio! — Meglio, di gran lunga scomparire così, in silenzio. — E non solo per lui, ma per tutti.
Allora, ella pensò a sua madre.
Urtandosi a quell'immagine, il pensiero di Diana si smarrì, in un'agonia di spasimo. Ella ebbe il ricordo, rapido, vivo come una luce di lampo, dei giorni passati con sua madre, del suo amore, dei suoi precetti, del suo esempio. Vide quella bella testa bianca, immacolata, di vecchia e di signora, sentì l'intollerabile peso dello sguardo materno, sì amoroso e sì austero. Grosse goccie di sudore le irrigarono le tempie, ed ella strinse le mani tremanti, con una mossa forsennata.
Pensò alle sorelline... pensò a ciò che direbbero, quando fosse noto anche ad esse...
Si contorse, nell'eccesso dell'ambascia che invadeva e disse ad alta voce, come un'insensata: È impossibile.
Ma subito, le corse al pensiero che impossibile pure era il vivere senza Alberto, impossibile il ritrarsi dall'estremo partito cui l'era stato giuocoforza l'appigliarsi. Che fare, ora che lo amava, ora che aveva risolto di esser sua?
La vita sua non doveva forse appartenergli?
Doveva ella abbracciare l'altro partito, quello della colpa, quale ha corso nella società... la colpa plateale, sicura, ignobile, protetta dall'ignoranza del marito? Due tradimenti anzichè uno solo, il buon nome scroccato, l'impunità del giornaliero adulterio, quello che nulla toglie, nulla altera nell'esistenza di una donna?...
No... oh... non scender sì basso, non questo estremo fra i gradini dell'avvilimento, non questo vigliacco sistema d'impunità degradante! Ell'era già troppo caduta col cuore e col pensiero, per poter fermarsi sulla china, per poter tornare indietro, bisognava ora andare avanti così, ciecamente, tragicamente sino alla fine!
Pure... gran Dio! sua madre! Ebbe un nuovo sussulto spasmodico. — Ma disse stolidamente: Che farci? Si sentì impietrire e non pensò più ad alcuno, nemmeno ad Alberto, per non odiarlo!
Le fu recata la lucerna accesa, ma non appena fu sola, Diana abbassò il lucignolo, sì fattamente che non le tornò più possibile il distinguer bene gli oggetti famigliari, le fotografie incorniciate che si agglomeravano dovunque. Pure, le sentì ancora troppo vicine, si allontanò. Si recò sul balcone e stette inerte, senza pensiero, di fronte alla sera che calava, tormentata dal temporale in preparazione. Un venticello caldo, afoso, errava all'impazzata pel giardino e investendo il porticato, sollevava come uno spione i cortinaggi delle tende, rincorrendo sulla lucentezza marmorea del pavimento le foglie che vi aveva già spinte a suo diporto. L'immobilità delle cose circostanti era rotta ogni tanto da una specie di galvanismo fugace, inquieto, ingrato come un mal essere. Pure, nel boschetto lontano, una capinera trillava qualcosa di amoroso e di gajo. Tacque; quando venne la notte.
Verso le otto un facchino della prossima stazione venne alla villa. Recava un telegramma per la Contessa.
Essa lo aprì e lesse:
Morletta, ore 5 pomeridiane
Rezzano-Brianza.
Contessa Rezzano.
Perdoni, Illus. ma Signora Contessa, ma la prego di venir subito. Il Signor Conte è qui, sta malissimo e non sappiamo cosa fare.
La riverisco.
Luigi Lozza.
Per un istante Diana rimase come intontita.
Luigi Lozza, il fattore della villa della Morletta... E Leone era alla Morletta... Stava male! Moriva forse. Lui? Ma come... perchè? Era ammalato... ferito?... Le aveva scritto da Cecina venti giorni prima... stava benissimo, allora!
Per un momento, tutto, nel cervello di Diana fu confusione e disordine, un cozzo vertiginoso d'incertezze. Leone stava male... Bisognava dunque andar subito, telegrafare a Luigi Lozza, alla mamma — partire, scrivere. E Alberto... la promessa... l'amore?...
Sì compresse forte le tempia, frenò l'irruenza dei suoi pensieri, si sforzò a calmarsi ed a farsi un'idea precisa del dovere immediato. Vi pervenne, dopo un certo tempo. Rilesse, più calma, il dispaccio. — Poi, sedette allo scrittojo, mise il telegramma in una busta che sigillò e sulla quale scrisse distintamente: Marchese Alberto Mentana. — Suonò poscia e al domestico sopraggiunto impartì due ordini.
Di far recapitare quella lettera al suo destino nelle prime ore della domane.
Di far attaccare il coupè pel momento voluto onde condurla alla stazione per il prossimo treno serale, quello delle dieci. — Erano ormai vicine le nove e la trottata richiedeva mezz'ora di tempo.
La notte si fè buja, tempestosa e la piova cominciava a cadere quando l'oscurità della via, si vide corsa dalla luce fuggente di due fanali accesi. I cavalli avevano presa una rapida andatura. La signora aveva specialmente raccomandato al cocchiere di farla giungere in tempo per la corsa. E nell'interno della carrozza, Diana abbandonata sui cuscini, cogli occhi spalancati nel bujo, tentava di non pensare a nulla, di non ricordarsi di nulla, di non chiedere a se stessa che significasse tutto ciò, da che la salvasse quel telegramma.
Giunse in tempo e partì colla corsa delle dieci.
* * *
Nel lasciare la villa, il giorno prima e dopo quella brusca spiegazione con Diana, Alberto era, come abbiamo detto, fortemente in dubbio sull'epiteto che meglio lo avrebbe definito in quel momento. — Ma non lo fu certo la mattina susseguente, quando lesse il telegramma inviatogli da Diana. — Si morse forte le labbra e con mirabile candore di apprezzamenti si diè dell'imbecille; sonoramente!
Una collera brutale si fe strada in cuor suo, assieme al convincimento di aver giocata male, sbadatamente, la sua partita. Pensò all'occasione, ch'era venuta tante volte a cercar di lui e ch'egli non aveva mai afferrata. Non comprendeva più sè stesso, ora, nè la sua pietà cavalleresca, davanti a quel bizzarro intervento del destino che gliene strappava di mano, bruscamente, il compenso. Strano ma vero; egli era ora adiratissimo con Diana, la rendeva quasi responsale dell'accaduto, avrebbe voluto poterle fare scontare ad un tempo il disappunto acerbissimo dell'oggi ed il folle sacrifizio che la imperiosa determinazione di lei aveva imposto all'affascinata volontà di lui. — Ah! se gli capitava ancora fra le mani... colei!...
Non si arrestò col pensiero al vantaggio della folle impresa evitata, egli che aveva pure esitato ad acconsentirvi, sotto il fuoco stesso dagli occhi di Diana. — Ora non sentiva che la stizza rabbiosa del colpo fallito, l'aggiornamento della conclusione, fors'anche mal sicura, ormai. Battè il piede sul suolo.
Ah no... questo no... Ora ella gli sfuggiva e ben gli stava. Ma lo amava, questo era certo, egli aveva l'amore dalla sua. E la seconda volta; quella poi.
Gli occhi gli scintillarono in fronte, per l'intima energia dell'ingenerosa risoluzione.
Fece sfare il suo baule e rimase tranquillamente in casa, pensando al modo di aver notizie dirette ed immediate del suo carissimo amico, il conte Leone Rezzano.
* * *
La Morletta, una vecchia e trascurata villa di pianura, dove i Rezzano non solevano passare che una ventina di giorni d'autunno, profilava nella scialba luce del mattino, le linee della sua tozza architettura, quando una carrozzella, proveniente dalla prossima stazione si fermò davanti al portone socchiuso. — La casa pareva disabitata, le imposte erano chiuse. Il vetturino scese ed ajutò a scendere dall'interno, la signora che aveva condotta. Poi risalì in serpa e partì. La contessa Diana si guardò attorno, stanca del viaggio, sbigottita da quel silenzio, nell'attesa vaga d'esser presso a subire una grande scossa. Si spinse sotto l'atrio deserto, sotto il porticato, non trovò nessuno. Salì lo scalone lentamente, con un tremore crescente, che le rendeva difficile il passo. Sul pianerottolo s'incontrò con una contadina ch'ella non conosceva e che vedendola rimase a bocca aperta. La Contessa le si rivolse, trattenendola con un gesto imperioso.
— Ebbene?... chiese con angoscia profonda.
La donna spalancò i suoi stupidi occhi grigi.
— Io non so niente, rispose, sono forestiera, sono la sposa del fattore nuovo. Mi hanno chiamata per dare una mano in cucina. Andrò a domandare alla signora che è arrivata stanotte.
Diana ebbe un amaro sorriso.
— Ah!... una signora! No... chiama piuttosto il Luigi Lozza. Lo conosci?
L'altra accennò di sì.
— Bene, digli che...
Diana non prosegui. Un urlo formidabile giunto dall'appartamento interno echeggiò nella sonora vastità dello scalone.
— Oh Signore! sciamò la donna, lo sente?..-È lui, il signor Conte!
E scappò via, lasciando la Contessa sola, atterrita.
A quel primo tenne dietro una serie di urli potenti rabbiosi, l'espressione estrema di uno strazio fisico, manifestato da un uomo vigoroso ed intollerante. Ella ascoltava, inchiodata al suo posto dallo spavento e dal dubbio. Forse subiva un'operazione... forse era impazzito!...
L'uscio di fianco s'aperse a un tratto con impeto e la signora giunta nella notte corse verso Diana. — La signora era: sua madre.
Diana la guardò, colla pupilla dilatata, con un'interrogazione suprema dello sguardo. — No... no, disse la contessa Galli. Artrite — Dolorosissima, ma nessun pericolo.
Diana si accasciò alquanto su sè stessa. I suoi nervi, dopo la tensione di tante ore ebbero un subito rilassamento.
— Come sei pallida! disse amorosamente sua madre. — Poverina, hai viaggiato tutta la notte e con quello spavento! Figurati! Lozza ha mandato un telegramma anche a casa mia, dubitando che tu potessi esser meco. Son venuta subito col dottore. Qui avevano perso la testa, sentendolo fare quei strilli... Ma ti ripeto, sta di buon animo, non è che un attacco di artrite. Gli prese ieri, a un tratto. Sai... quelle benedette caccie in palude. Hai mangiato qualcosa, tu? Vieni, scaldati, riposati...
Diana si lasciò andare un istante, con un completo abbandono, sul petto materno. Le grida tacevano.
— Vieni, insistè dolcemente la contessa Galli.
Diana sollevò il capo, emise un profondo sospiro, poi disse quietamente: andiamo.
Leone tornava a strillare come un dannato.
Ma ella sapeva, ora, che suo marito non morrebbe.
III.
Un mese intiero alla Morletta, con sua madre e col marito ammalato. Venti giorni e venti notti di quegli accessi saltuari che lo facevano gridare come un ossesso e bestemmiare come un turco. Venti giorni di atmosfera soffocante in una camera chiusa, di silenzi cauti nelle fugaci ore del sonno di lui di attento studio dell'orologio, per non lasciar passare l'ora del salicilato o della veratrina, venti giorni di stretta vigilanza sui misteri della cucina e dispensa. Ma tutto ciò tornava facile a Diana.
Ell'era mirabilmente atta al disimpegno di quanto havvi di preciso, di determinato in un dovere od in una situazione. Quel tanto di suora di carità che la donna o quasi ogni donna, alberga in un cantuccio anche celato del cuore, s'era subito destato in Diana e per un momento, giganteggiando nell'anormalità stessa delle circostanze, aveva tutto assorbito nell'animo suo. — E fu quasi una tregua nelle mortali ambasce che la agitavano — Quel povero essere immobile, dimagrato, stecchito nel suo letto, che soffriva come un cane, non poteva muovere un dito e aveva d'uopo per nutrirsi che lo imboccassero, assumeva per Diana un aspetto inatteso e degno di pietà. Le pareva quasi un suo bambino, piccolo ed ammalato. E nel segreto dell'animo suo, con quel misterioso bisogno di espiazione che tortura e solleva a un tempo il cuore della donna, quando essa ha l'intuizione del bene che non può fare e del male che non dovrebbe fare, ella era istancabile nelle sue cure di infermiera, vi si dedicava con un ardore, una intensità di abnegazione senza pari, era veramente atta alla pratica del dovere verso una persona che soffre. — Povera donna!... soffriva tanto anch'ella, senza urlare!... Sua madre la secondava benissimo nella pia bisogna, cercando a volte di moderare quell'ardore di sacrifizio, meravigliandone a volta, traendone però buon augurio per l'esaudimento del suo più vivo desiderio, quello cioè di una completa riconciliazione fra sua figlia e suo genero.
Senonchè, all'acuta se non completa esperienza della contessa Galli non erano sfuggiti certi indizî che tradivano talvolta, in sua figlia, una preoccupazione propria e segreta, che colla malattia del marito non aveva nulla di comune. Certi scatti involontarî, certi sussulti nervosi, certi rossori subitanei e senza causa apparente, certi accasciamenti molli della persona, certi sguardi erranti dapprima e che si smarrivano poscia, arcanamente, verso un orizzonte lontano... Oh!... cos'era tutto ciò. Tentò di scrutare lontanamente l'animo della figlia, ma s'imbattè in una specie d'impenetrabilità, nuova affatto in Diana e che alla contessa Galli non piacque punto... Pensò a un'infinità di cose, poi le dispiacque di averci pensato. E se non fosse nulla? Se fossero ubbie le sue? Madre e figlia occupavano la stessa stanza, non si lasciavano mai, passavano intera la giornata nella camera di Leone. Nulla, assolutamente nulla, pareva giustificare nella mente della contessa Galli il vago sospetto concepito, un presentimento tutto materno di sventure intime che minacciavano sua figlia, di pericoli indefiniti, latenti che non era prudente accennare, per non suscitare una diffidenza che avrebbe potuto deludere la vigilanza. La madre pensava alla pace della propria gioventù, pace minacciata pure ai suoi tempi, ma vagamente, da lungi, salvata da una maternità faticosa ed assorbente. Ah!... se Diana avesse figli!...
Qui la buona Signora sospirava forte. Era la sua idea fissa, quella di diventar nonna.
A volte, invece, rimproverava a sè stessa quella sorda inquietudine sul conto di Diana. Ma che!... Diana era sua figlia... aveva dei principî così solidi, aveva ricevuta una educazione sì solida, sì austera! Ubbie! Diana sarebbe sempre la sua Diana!
Ora, tutto sarebbe andato forse a seconda dei voti della buona Contessa, se le cose si fossero prolungate all'infinito, nell'attuale loro andamento, colla madre e la figlia costrette al capezzale di Leone, e questi costretto come una mummia nella sua fasciatura, coi suoi versacci da condannato ad ogni crisi, colle sue sofferenze e colla sua spossatezza di malato. Ma le cose, invece, mutavano celeramente; l'artrite era vinta, gli accessi si facevano più rari e meno intensi, il dottore e il salicilato avevan fatto miracoli. Leone si sgranchiva, ricuperava ogni giorno un po' della sua forza.
Sentiva, con gioia inesprimibile di guarire, e di tornar lui... Il bimbo docile ed inerte veniva meno gradatamente, e invece sua si destava l'uomo, tornava, indocile, intollerante, padrone di se stesso e padrone di casa... Leone parlava ora molto, chiassosamente e nelle sue parole sopratutto finiva di morire il povero piccino infermo che Diana aveva cullato nelle braccia della sua fantastica maternità. Pure c'era un mutamento, ma un mutamento inatteso, terribile per lei. Leone si ridestava alla vita e con lui si ridestava un essere ch'ella aveva quasi scordato e creduto di poter scordare, si ridestava il marito. Leone guariva ed era più gentile, più premuroso per lei di quanto nol fosse mai stato. Dimostrava alla moglie una chiassosa gratitudine, conciliante, piena di buon umore. I suoi pensieri erano evidentemente modificati dalla circostanza, si foggiavano ad una specie di nuovo apprezzamento della famiglia, della vita coniugale, si volgevano verso un avvenire più normale del tempo trascorso. La malattia e le sofferenze avevano avuto un eccellente risultato pel morale di Leone, le sue idee s'erano alquanto modificate, egli non era cattivo in fondo e le cure di Diana non lo avevano lasciato indifferente. Ciò non sarebbe forse bastato per un mutamento quale avveniva nell'animo o meglio nella fantasia di quell'uomo, se la gratitudine non si fosse avvalorata in lui da uno di quei bizzarri capricci che si destano talvolta, a un tratto per una persona alla quale non s'era attribuito dapprima il potere di destarli. Sua moglie gli appariva sotto un aspetto nuovo, ed attraente. Sorprendeva in sè stesso una specie di ammirazione per lei, la facoltà di subire un fascino che non aveva sino ad allora avvertito. Le pareva mutata, con un'espressione più profonda, più calda, più appassionata. Quella specie di seconda vita che le tempeste intime del cuore impartiscono alla donna, avevano dato anche all'aspetto di Diana una specie di rilievo qualcosa irradiava, qualcosa misteriosamente da lei. Leone era tutto lieto della sua grande scoperta, si trovava in un certo modo il Cristoforo Colombo di sua moglie. Quando ella era sola in camera, egli fingeva talvolta di dormire, per poi tener gli occhi socchiusi e guardarla da lungi, come studiandola, nella sua stuzzicante novità di attrattativa.
Ella sentiva confusamente tutto ciò, l'osservazione dal quale era oggetto le arrecava un senso disgustosissimo di turbamento, un'irritazione disperata e ribelle. S'avvide ch'egli preferiva di gran lunga le sue alle cure della contessa Galli; piegandosi a prendere una medicina disgustosa, Leone attribuiva unicamente a sua moglie il merito della propria docilità! lo faceva soltanto per far piacere a Diana. — Una volta, mentre essa gli porgeva una tazza di stillato, le loro dita s'erano intrecciate attorno alla porcellana ed egli, con una leggera pressione, aveva per così dire, sottolineato quel contatto di un secondo. Ma quel secondo era bastato a rammentarle un caso consimile, a proposito di Alberto e di una tazza di the. Una trasfigurazione era passata sul suo volto, accompagnata da un violento rossore, nè tutto ciò era rimasto inosservato da Leone.
Ma non se ne inquietò, se ne compiacque anzi, in cuor suo e parve non avvertire la reazione di più sostenuta freddezza che Diana fe' tener dietro a quel muto incidente. — Leone conosceva molto le donne; non forse altrettanto la donna.
La convalescenza progrediva benone. Il conte di Rezzano s'alzava, moveva qualche passo e non si opponeva per nulla all'annunciata partenza di sua suocera.
Diana invece la combatteva con tutte le forze.
Supplicava, scongiurava... coprendo di baci quel caro vecchio volto... No, mamma, non andar via... rimani.
La contessa Galli si difendeva, commossa da quell'insistenza, non senza una vaga inquietudine di quel visibile terrore della solitudine, che si tradiva in Diana. Invano cercava dimostrarle la necessità di quella partenza, già più volte posposta, accampava la necessità di attendere alla propria casa, le due sorelle erano sole da un mese colla governante... gli affari... insomma, era impossibile!
Una volta Diana, nell'ardore delle sue istanze si lasciò sfuggire un: non lasciarmi, sì spaventato, sì angoscioso che la contessa Galli ne rimase davvero impensierita. Pensò che se non si batteva il ferro, subito, ora che era caldo, chissà quando sarebbe tornata l'occasione.
— Non ti lascio sola, cara Diana, le disse teneramente, ti lascio con tuo marito.
Diana si strinse le mani, con un gesto nervoso.
— Ma sai... sclamò... sai pure...
— Lo so... pur troppo... Ma non è possibile che abbia sempre a durare così.
Diana ebbe un brivido.
— Mamma, disse. Ma tu vorresti?...
Si arrestò, mordendosi a sangue le labbra.
— Vorrei solo questo, continuò la madre con grande dolcezza, che tu ti convincessi del quanto sia deplorevole, contraria alla normalità delle cose l'attuale vostra posizione.
— Non son io che l'ho voluta, ribattè Diana seccamente.
— Infatti. Ma sei la prima a subirne tutti gli inconvenienti.
Appoggiò alquanto sulla parola tutti, senza però cercarne gli effetti sul volto di Diana.
Procedeva lentamente, con grande cautela, sentendosi al buio e pur paventando la luce.
Diana tacque; come se non avesse più nulla a dire. Mandò un lungo sospiro, del quale la madre si allietò sinceramente. Un principio di rinunzia, forse, al tenace risentimento.
Ma Diana aveva sospirato, senza saperlo e solo per lo sconforto di non poter fare intendere la vera causa dei suoi terrori. Più volte avrebbe voluto confessarsi alla Contessa. Ma non osava, atterrita dalla severità dei loro comuni principî, dall'austerità della vita ch'ella aveva sempre condotto, dall'orgoglio di pura esistenza ch'ella sapeva riposto in lei da sua madre. Temeva di arrecarle un colpo troppo crudele, lasciandole vedere quanto ella fosse già calata nell'abisso. Temeva di udirsi a condannare, di vedersi aborrita e respinta.
Errore! Dio solo sa quanto può intendere e perdonare chi, pur lottando, non soggiacque! Ma Diana era giovane ed ignorava questo anche perchè aveva, in tutto, delle idee troppo logiche e per conseguenza, estreme.
Un giorno, sola in giardino, aveva veduto alzarsi dietro una siepe la pallida e tormentata faccia di Alberto. Non s'erano parlati, ma in quella rapida apparizione essa aveva trovata la conferma dell'immutato ed esigente amore di lui. No!... egli era sempre determinato, era quale le era apparso a Rezzano, nell'ultimo istante. — Aspettava.
E così; ella si sentiva presa tra due fuochi.
IV.
Leone stava comodamente seduto in una lunga poltrona di giunco, sul limitare del porticato aperto sul giardino. Aveva accanto un tavolino carico di quanto potesse occorrergli e teneva fra le mani un giornale spiegato. Ma egli non leggeva e il suo sguardo correva, furtivo e un po' inquieto, dietro due figure femminili erranti pel giardino.
Egli era ora quasi al tutto guarito ed aveva incaricata sua suocera di parlare a Diana in favor suo. La pecorella smarrita chiedeva di far ritorno all'ovile.
La contessa Galli, lietissima della santa missione, aveva colta la prima occasione, quella cioè della passeggiatina ch'ella e sua figlia erano solito fare ogni giorno, dopo colazione, in giardino.
Giardino, per modo di dire. — C'erano i soliti comparti di bosso sì cari ai nostri nonni, la solita montagnuola, fresca dell'ombra di un vicinissimo boschetto di cipressi e d'ippocastani, ornato d'un tavolo e di qualche seggio di pietra, nonchè di un parapetto, dal quale si poteva godere lo spettacolo della pianura senza fine e quello di una larga gora che stagnava all'esterno, costeggiando la base del muro di cinta. I sentieri si serbavano a mala pena, tanto erano scarsamente battuti.
La contessa Galli condusse sua figlia sulla montagnuola e sedette. Diana rimase in piedi. Indovinava, a un dipresso, le intenzioni di sua madre, sentiva venir la burrasca, senza poterla evitare.
Per un momento, quelle due donne stettero raccolte in un silenzio grave. S'udiva, poco lungi di là, dietro il boschetto, lo strepito dei cavalli che si governavano nelle vicine scuderie. Dalla lucentezza immobile del fossato esterno saliva una frescura umidiccia ed un musicale ronzìo di moscerini.
La contessa Galli fu affettuosissima colla figliuola e fe' rapida strada nell'argomento. Le disse di aver avuto un lungo colloquio con Leone, d'aver deplorato con lui le difficili e spiacevoli circostanze della posizione. Parlò del sincero pentimento del genero, egli riconosceva apertamente i suoi torti e nutriva vivo desiderio di ottenere il perdono di sua moglie.
Diana sorrise. Ora!... disse con profonda amarissima ironia.
La madre, sconcertata un'istante da quell'enigmatica parola e più ancora dall'accento col quale era stata profferita, riprese con somma e dolce cautela, le proprie argomentazioni.
Leone aveva errato, senza dubbio, aveva crudelmente offesa la sua povera Diana. Chi, più della madre, aveva sofferto dell'infelicità, della figlia? Ma ora tutto ciò era passato, finito. Dio aveva parlato al cuore di Leone, le cure, l'affetto della moglie lo avevano richiamato sulla via del dovere, cancellando in lui ogni traccia del passato. Diana trionfava ora, nel pentimento e nel ravvedimento del marito.
E con questo riferto, alquanto amplificato, a dir vero, sul tracciato della missione affidatale, la buona signora credette d'aver tagliata la testa al toro.
Ma Diana non rispondeva. Appoggiata al parapetto, guardava non già sua madre, ma qualcosa che a lei sola era visibile, nelle sfumature dell'orizzonte. Stava rigida, immota colle ciglia aggrottate, il suo volto era duro, contratto, recava una espressione che turbò la madre, più assai di quanto nol lasciasse scorgere.
— Ebbene? chiese questa, cercando di sorridere e di parlare scherzevolmente.
— È impossibile!... disse Diana con accento vibrato.
— Impossibile?... Oh che parolone, mia cara Diana. Ma perchè?
— Perchè è impossibile. Doveva pensarci prima. Ora, è tardi.
— Non è mai tardi per pentirsi. È naturalissimo ch'egli, rinunziando alle colpevoli leggerezze che ti hanno tanto afflitta, desideri il tuo perdono e lo implori. E tu... sei sua moglie.
Diana ebbe un moto di rabbia convulsa. Strappò di terra alcuni fili d'erba e li gettò con un aspro gesto nel fossato.
— Sei sua moglie, continuò dolcemente la vecchia signora. Questo stato t'impone dei doveri speciali... dirò anche, dei sacrifici. Non puoi esimertene.
Diana si morse le labbra e non rispose che dopo un istante, con impeto.
— Egli si è liberato da questi legami, li ha infranti, egli... pel primo.
— Vero. Pur troppo; verissimo. — Ma quando tu lo hai sposato, mia povera Diana, quando hai giurato di esser sua, per sempre, non hai fatte condizioni speciali, non hai messe clausole preventive? Hai giurato, semplicemente ed illimitatamente. — Poi?... Egli fu debole ed infedele, mentre tu serbavi incolume, illibata la tua personale dignità di donna e di moglie.
Sotto la sferza di quella lode materna, Diana impallidì e la sua persona ebbe un breve guizzo nervoso.
— Egli, continuò imperturbata la madre, ebbe la sventura di cadere, non trovò, per difendersi contro le passioni la forza che tu, insidiata da esse, avresti attinte alla nostra fede, ai nostri principi. Perciò ti è serbato l'alto privilegio del perdono. E questo; pietosamente accordato da te, può ritrarre per sempre tuo marito dal male, può essere la salvezza del suo avvenire e... del tuo.
— Il mio?... gridò Diana.
— Il tuo, sì. — Ascoltami, sia sincera. Sei contenta dell'attuale tua posizione? Guardami in faccia, rispondi.
Ella non rispose, nè guardò in faccia sua madre. Alzò le spalle bruscamente, come nello sforzo di un singhiozzo.
— Non puoi essere contenta, Diana... non lo sei. — E perciò, dimmi; cosa intendi fare?
— Io?... Che vuoi ch'io faccia? Che posso dire? Ma scordare, tornar come prima è impossibile. — È impossibile! ripetè esasperata.
— Ebbene, ammettiamo. È impossibile. — Ma allora, in questo caso, quali sono i tuoi progetti.
— I miei progetti?... balbettò Diana. Ma non so, non ne ho. — Vivere a Rezzano, così... nome ora.
— Sola?
— Sì... sola...
— Ma s'egli non volesse? Può venirci o condurti via, a piacer suo. Non siete separati legalmente.
— E se mi separassi legalmente?
— Non puoi farlo senza il suo consenso e senza un motivo legale. Anche nei suoi disordini, egli ha rispettata la dimora coniugale. Egli ha avuti dei torti, e tu hai tutte le ragioni, ma con tutto ciò, la legge è per lui e non per te. E quand'anche ottenessi una separazione amichevole, che faresti poscia?... Penseresti forse di venir con me?... Ma io ti amo troppo, figlia mia, per acconsentire a questo falsissimo passo.
Diana ebbe un grido.
— Tu non mi vuoi?... tu?
— No Diana, non ti voglio così. Non voglio per te una posizione ambigua, che il mondo giudicherebbe sinistramente. Ricusando di accettare il pentimento di tuo marito, rinunzieresti a tutti i privilegi della tua posizione e ne incontreresti una di gran lunga peggiore. E ciò potrebbe altresì recar danno all'avvenire delle tue sorelle.
— Io potrei recar danno...?
— Certamente, Diana. — È difficile, in qualunque condizione, il collocamento delle ragazze. Ma più ancora quando un primo matrimonio in casa avesse fatto cattiva prova. Il mondo...
Diana ebbe un gesto di fiera noncuranza.
— No cara, non possiamo scordarlo, nè sfidare le sue condanne, anche se ingiuste, anche se erronee. E sai tu che si direbbe di te, qualora tu respingendo il pentimento di tuo marito, volessi continuare un'esistenza indipendente? Che colla scusa dell'infedeltà del marito, vorresti libero l'esercizio della tua!
— Mamma! gridò Diana con un'angoscia piena di spavento.
— Sì, proseguì spietatamente la contessa Galli, il mondo direbbe questo. Sarebbe una menzogna; ma alcuni la crederebbero. Non quelli che ti conoscono... non io, appunto perchè più di ogni altro ti conosco; perchè sei mia figlia, perchè è impossibile che tu cada.
Tacque un istante, sopraffatta dalla sua emozione, dal segreto terrore che sorgeva e cresceva in lei davanti all'attitudine atterrita di Diana, davanti al suo curvo capo, al suo silenzio disperato.
— Questo solo è impossibile, proseguì concitata. — È impossibile per te. Fra tutte le sventure che possono accadere ad una donna, questa è la peggiore. Bada, parlo di noi, donne oneste, che abbiamo una fede, che amiamo il bene, che soffriamo del male, anche se lo commettiamo. Non siamo fatte per il peccato, quand'anche peccassimo. Il suo orrore ci ucciderebbe, prima o poi. Ed io vedi, io, tua madre, preferirei saperti morta! Ma non dico questo per te, Diana! Io lo so... tu lo sai pure che non puoi cadere!
Tremò visibilmente, nella gloriosa audacia di quell'asserto. Diana alzò sulla madre uno sguardo spento. — Così era infatti. E per ciò appunto; come dirle il vero?
Non lo disse. Tacque.
— Allora, continuò la vecchia signora, cercando di frenarsi, ti rimane aperta una sola via. Tornare con tuo marito.
Diana si ribellò.
— Ma non lo amo, intendi?
— Il dovere non si chiama sempre amore. Ed egli è tuo marito.
Certo. Leone era suo marito. Di lì, non si esciva!
Diana si sentì invasa da una lassezza infinita, incrociò le mani sulle ginocchia con un gesto di scoramento che parve all'illusa madre un principio di rassegnazione. — Rianimata da quella speranza, prosegui con accento non più austero ma affettuosissimo:
— È una sventura che tu non l'ami, figlia mia. Ma si può vivere senza l'amore. Pur di volere, gagliardamente, ad ogni costo. Sii forte e per poterlo essere; prega. Dio ti darà la forza, ti darà la pace, ti darà forse la grazia che gli ho sempre chiesta per te, la grazia che tanto muta, tanto appiana nel cuore della donna, ti darà la maternità.
La maternità! pensò Diana. Sì. Ma a qual prezzo...!
Non parlava più, ora, persuasa di aver detto tutto ciò che poteva dire, compresa dall'onta di ciò che l'era d'uopo tacere, spaventata dalla gravità dell'ammonimento che la previdenza materna aveva celato sotto l'apparenza di una lode, convinta, nell'intimo del cuor suo, dell'inesorabile vero delle materne parole. Ma convinta pure e con pari forza di convincimento di amare Alberto, di non amare Leone e di non poter vivere con lui, senza amarlo.
* * *
— Ho inteso; disse lietamente Leone a sua suocera, il giorno prima della partenza di questa, ho inteso. Va tutto benone. Ora, lasci fare a me.
La contessa Galli non bramava però ch'egli dasse troppo ampia latitudine alla relazione testè fattagli del colloquio con Diana. Le pareva ch'egli corresse alquanto la posta.
— Ma bada, sai, ti raccomando. — Non ho mica detto che Diana...
— Eh! non importa. Ho inteso, le dico. La conosco sa, è una buonissima creatura, un po' testarda è vero ma a saper fare, se ne viene a capo. Non ammetterà mai, a voce, di rinunziare a una sua idea, ma poi... s'intende, capirà anche lei! E tanto meglio se non ci sono spiegazioni fra noi, le ho sempre aborrite anch'io. Così; ce le risparmiamo a vicenda. Si mette una pietra sul passato e non se ne parla più. È la più bella soluzione che si possa immaginare.
— Intendo. — Ma capirai che ora, naturalmente, la questione è sempre abbastanza scottante, per cui ci vorranno dei riguardi speciali e...
— Diavolo! lo so anch'io. Oh che sono un ragazzo? Naturalissimo! Diana è nei suoi diritti. Per conto mio, la intendo benissimo. Creda, sono proprio dolente delle mie... ehm. Del resto, tutti capricci, sa, roba di passaggio — Le ho sempre voluto bene, anche allora! Scappate, nulla più. A volta anche Diana (mi scusi veh...) era un poco freddina, non c'intendevamo. Mentre ora, si è fatta tanto carina in questi ultimi tempi, ha acquistato un certo non so che, un chic, un sentimento che non aveva, anni sono. E poi, sarei proprio un ingrato, dopo le tante cure che mi ha prodigate. Sento che saremo proprio felici!
— Sì, ma...
— Che ma d'Egitto, lasci fare a me, le ripeto. Vedrà che belle novità le porteremo a Monsoldo, questo autunno!
Rideva, d'un bel riso sonoro di convalescente felice, baciando, da genero galante, la magra mano di sua suocera.
La contessa Galli aveva avuta parecchie volte, nei giorni scorsi, una mezza voglia di ritardare la sua partenza. Non era al tutto contenta nè della muta, accigliata docilità di Diana, nè dell'assoluta fiducia di Leone in una già avvenuta soluzione della crisi. Le pareva che tutto andasse troppo bene. — Ma d'altra parte, a che avrebbe giovato una più lunga dimora alla Morletta? Ora, toccava a loro due! Forse, suo genero non aveva torto, meglio lasciar fare a lui, cioè no, a Domeneddio. Ella aveva fatto quant'era in poter suo per preparare la via ad una completa riconciliazione, il resto verrebbe forse da sè.
Partì e nel lasciare sua figlia, che l'aveva accompagnata alla stazione, le mormorò all'orecchio una calda preghiera.
— Farò quel che potrò, rispose Diana a stento, con voce cupa ed alzando le spalle.
La contessa Galli avrebbe forse voluto aggiunger qualcosa ma il treno si metteva in moto ed ella ebbe a mala pena il tempo di dare un bacio, l'ultimo, a sua figlia.
* * *
Otto giorni dopo i Rezzano ebbero una bella visita.
Alberto Mentana, il quale si recava a Milano per le corse, ebbe la gentile idea di allungare alquanto il suo viaggetto, recandosi alla Morletta, per costatare, de visu la perfetta guarigione dell'amico.
Rimase soltanto a colazione, resistendo a tutte le insistenze di Leone, perchè si trattenesse almeno un giorno intiero. — Ma quelle due ore furono proprio piacevolissime, si fecero grandi progetti per Rezzano, ove si ritroverebbero tra breve. Leone pregò l'amico di aiutarlo a convincere quella testarda di sua moglie che voleva sempre ritardare la partenza per Rezzano, temendo per lui la fatica del viaggio. Come se non fosse guarito ora... perfettamente guarito! Si stava freschi a dar retta alle donne e alle loro paure!
Leone parlò molto di sua moglie, con una specie di lepida insistenza, piena di buon umore. Narrò a lungo della sua malattia, delle infinite cure prodigategli dalla sua infermiera.
Alberto ascoltava, sorridendo, coll'occhio alquanto socchiuso.
— Allora... a rivederci a Rezzano, disse nell'accomiatarsi e rivolgendosi alla moglie dell'amico.
Non eran rimasti soli un secondo, non s'erano scambiati una parola furtiva, ma Diana, colla mano ancora tremante della stretta di addio che Alberto le aveva data al momento della partenza e sotto gli occhi del marito, sapeva di certa scienza che non certo in Alberto avrebbe trovato un ajuto contro sè stessa e ch'egli l'amava ormai senza pietà nè misericordia!
V.
— Allora, diciamo martedì eh? Va bene, martedì prossimo.
S'era al sabato.
— Martedì, ripetè Diana lentamente, come trasognata.
— Sì. — Martedì. — Sono stufo di star qui che non ne posso più e voglio trattenermi un poco a Rezzano prima di andare ad Acqui. Anche tu hai bisogno di cambiar aria. Sei pallidina, da qualche tempo in qua. A Rezzano, se non altro, c'è un po' di gente, ora. Poi c'è Alberto, che verrà a farci compagnia, inviteremo qualcuno, troveremo qualcosa da fare. Vuoi che facciamo addobbare a nuovo quell'anticaglia del nostro appartamento?
— No, disse Diana, trasalendo, no, lascialo stare.
— Oh bella! e perchè no? Credevo che voi altre donne aveste tutte la manìa dei cambiamenti. Pare che tu sia un'eccezione. Ovvero, ti spiace forse perchè colà abbiamo iniziata la nostra luna di miele?
Ed ammiccò, ridendo.
Una vampa passò sul volto di lei e gli occhi ebbero un lampo di uragano.
Egli continuava a ridere, canzonando sua moglie, trovandola bella, sotto l'impeto di quel colpo di sangue, guardandola coll'espressione speciale che tornava ormai sì frequente negli sguardi di lui.
— Suvvia! che bisogno ci è di arrossire a quel modo. Non già che t'imbruttisca, sai. Eri bellina anche allora, un bocciolino di rosa, con quell'arietta da educanda, ti ricordi? Ma adesso sei molto più simpatica, e ti prometto che a Rezzano non te la passerai troppo male. Sarà la nostra luna di miele N.º 2! No... che sciocca, non alzarti, cos'hai?
Ma ella, malgrado l'ammonimento di Leone, s'era alzata e si dirigeva verso l'uscio.
Egli volle trattenerla, ma Diana non cedette.
— Lasciami, ti prego, gli disse con voce fioca, non mi sento bene.
La guardò. Qualcosa, nel volto di lei, giustificava l'asserto.
— Cos'hai? Ti ha fatto male qualcosa a colazione? le fragole, forse.
— Sì... le fragole, mormorò Diana.
Diavolo! pensò Leone tornando in sala dopo aver accompagnato sua moglie sino all'uscio della sua camera, che si ammalasse lei, ora!
* * *
Ma Diana non si ammalò e il martedì la trovò pronta pel viaggio di Rezzano.
Ell'era docile e quieta quanto si poteva desiderare. La tacita riconciliazione pareva aver tutto sistemato fra quei due. — Al passato non si alludeva mai. Leone non ci pensava più e forse non ci pensava più neppur Diana. Il presente, col suo nodo gordiano, sì stranamente aggrovigliato dalla fatalità, assorbiva tutte quante le facoltà dell'anima sua.
Leone, dal canto suo, memore forse dei saggi consigli della suocera, aveva avuto il buon senso di non accentuar troppo, presso Diana, la parte di marito ravveduto. — È vero che Diana, col suo contegno non lo incoraggiava soverchiamente, ma egli s'era fitto in capo che tutto ciò potesse stare, finchè si stava alla Morletta. A Rezzano, poi...
Egli attribuiva il contegno riserbatissimo della moglie ad un miscuglio di risentimento pei vecchi torti, ovvero ad un fermento di gelosia retrospettiva e il suo amor proprio, lusingato, accettava facilmente quella facile spiegazione. Supponeva altresì in sua moglie un'astuzia, recentemente acquisita, di farsi valere, un'arte sagace di farsi desiderare, una rivincita dell'amor proprio femminile sull'umiliazione d'aver sì lungo atteso, nell'abbandono.
Quasi egli sapeva grado a Diana di essere diventata un po' più simile alle altre, l'aveva tanto imbarazzato a volte, con quella sua cieca fiducia, con quelle sue ingenuità dell'altro mondo!
Ma ora, interpretata così, a modo suo, Diana gli piaceva sinceramente. Parola d'onore, era carina sua moglie, quasi quanto potrebbe esserlo la moglie di un altro!
Ella era dunque già vestita pel viaggio e sedeva sotto l'atrio, nella lunga poltrona chinese. Teneva fra le mani un grosso mazzo di garofani, testè recatole dalla moglie del fattore.
Era assai pallida, una perplessità estrema si leggeva sul suo povero volto.
— Diana! chiamò Leone dal giardino, sei pronta?
— Sì, rispose Diana, si va?
— Non subito, fa ancora troppo caldo. Ho detto che attacchino per le tre. C'è un'ora buona e io vado col fattore, per certe cosuccie.
S'avviò frettolosamente, ma si trattenne tosto.
— Leone! aveva chiamato lei, con voce vibrata.
— Che c'è? chiese Leone attonito.
— Leone, ripetè la misera donna, supplichevolmente, lascia che telegrafi alla mamma.
— A tua madre? Ma perchè?
— Per dirle di venir subito da noi... a Rezzano.
Leone guardò sua moglie come si guarda una bimba capricciosa ed esigente.
— Di venir subito! Ma sei matta?
— No, non son matta. Credilo... Lascia almeno che le scriva di venire.
— Ma ti ripeto che sei matta! Non è stata qui or ora più di un mese?
— Non importa. Sarei così contenta. Non posso dirti... Ma tu se sapessi... Leone!
— So che sei un bel tipo e che tutti i giorni ne inventi una nuova. Neppure per idea. Verrà più tardi, quest'autunno. Ma per questi primi giorni, non voglio gente in casa. Mi basti tu, hai inteso?
Ella aveva inteso. Non insistè. Ebbe un semi sorriso, indefinibile.
Leone era già andato pei fatti suoi col fattore.
Diana stava lì, sotto l'atrio, perchè non sapeva più dove stare. Le sale a terreno erano già chiuse e le grandi coperte di tela biancheggiavano come marmi di tomba, sui mobili accatastati al centro. Al piano superiore le cameriere e la fattora scorazzavano pei corritoj, accudendo alle ultime disposizioni della partenza. Si sentivano sbattere degli usci e ogni tanto, l'aspro cigolìo delle grosse chiavi girate nelle serrature dei grevi armadi di noce. Nell'atrio, già denudato degli accessori, regnava un silenzio freddo e un'anticipata malinconia di assenza.
Diana guardò l'oriolo. Appena suonate le due! Impossibile rimanere colà per un'ora intera. S'alzò, depose sulla poltrona i garofani ed un giornale che non aveva potuto leggere. Prese il parasole ed escì.
Errò alquanto nel giardino, passando svogliatamente pei sentieri chiazzati dal tenace verde delle gramigne, giunse all'ombrosa collinetta e vi fè sosta, appoggiandosi al parapetto che dava sul fossato, al luogo stesso dove ella aveva avuto con sua madre il colloquio a proposito di Leone e del suo ravvedimento.
Tutto era quiete e silenzio assonnato in quell'ora di pomeriggio. Non faceva troppo caldo, era piovuto durante il mattino e il parapetto di sasso serbava tuttora una tinta cupa ed una lieve umidità. Diana ne risentì la sgradita impressione quando, appoggiati i gomiti sovr'esso, prese a guardare attorno a sè, per l'aperta campagna.
Dinanzi a lei, dietro lo sforacchiato velame dei pioppi, la pianura si stendeva a perdita d'occhio, solcata da una uniforme vicenda di gelsi e di gabbe biancheggianti ad ogni lieve spirar del vento. Il fossato era colmo per la recente piova e rifletteva luminosamente il cielo, corso da grossi e lenti nuvoloni, tutti sporgenze di soffici candori inargentati. L'azzurro assumeva nell'acqua una più turchina intensità di tinte, ed i pioppi del margine si rispecchiavano capovolti con un'esattezza fotografica, le foglie avevano una riproduzione dei loro più intimi tremori. In quello stretto spazio d'acqua stagnante, capiva tutta un'imitazione ideale di lassù e Diana ebbe una strana, assurda idea di abisso celeste. Un fascino la prendeva dinanzi a quel miraggio. Per un momento, contemplandolo, non pensò e fu quieta.
A un tratto, diè un guizzo. Aveva udito un fischio nella direzione delle scuderie, laggiù dietro gli alberi.
Conosceva il significato di quel fischio. Chiamavano i palafrenieri per approntare la carrozza pel viaggio di Rezzano.
Diana ripiombò bruscamente nella tortura del suo vivere, ebbe l'idea netta, precisa della propria angoscia, la visione esatta di Rezzano, di ciò che l'attendeva colà, inesorabilmente.
Pensò ad Alberto, lo vide colle bramose labbra in cerca delle sue, colle mani cordialmente strette in quelle di Leone! E di nuovo il dilemma crudele l'afferrò, la coscienza dell'imminente incontro con Alberto al fianco di Leone, la certezza di non poter rinunziare al bacio del primo, nè evitare quello del secondo. Pensò alle torture che l'attendevano, alle proprie ribellioni di coscienza, di sensi, d'immaginazione. Pensò che dovrebbe adattarsi, adottare la insopportabile idea del duplice tradimento. Ovvero l'altra, la prima, l'aperto scandalo, l'ignobile fuga coll'amante, la bassa esistenza irregolare che la segregherebbe da ogni onesto consorzio. E sulla soglia di quel tempestoso lembo di orizzonte purchessia, ella vedeva alzarsi l'immagine terribile della madre, svergognata da lei, insultata nei suoi principî, nell'educazione, nell'esempio che le aveva dati, costretta a veder peccatrice la figlia ch'ella aveva creduto impeccabile. Poi il castigo, scontato dalle sorelle, due stemmi macchiati, un bianco velo infranto, un crocefisso infranto e più tardi finalmente la punizione in agguato, un vago gesto di uggia, sfuggito alla mano stessa di Alberto!
Un raccapriccio la vinse; la fece ripiegar tutta sovra sè stessa, come una foglia verde che si accartoccia davanti alla fiamma. Il suo pensiero trovava sbarrata ogni via di scampo.
Oh! se avesse potuto essere come le altre, fare come avevano fatto loro, non pensare a Dio, nè alla coscienza, nè alla perdizione! Ovvero attingere al pensiero di Dio, della coscienza, al terrore della perdizione una forza più gagliarda e più efficace, la forza di amare Leone o quella di odiare Alberto.
Attaccavano. — S'udiva lo scalpiccio dei cavalli, le risate e i motti dei cocchieri che allestivano l'attacco. Un mozzo cantarellava: Oje Carulì.
Certo, ell'era inesorabilmente condotta a degradarsi, per l'amore di quei due. In entrambi lo stesso cieco egoismo si valeva dei diritti, inconsciamente accordati. Lo stesso intento era scatenato in uno dal codice e dal capriccio ravvivato, nell'altro dall'amore condiviso. Quanto di appassionato e sublime esisteva nei suoi affetti, nella sua cecità di attaccamento, pareva cancellarsi ora, nella feroce bassezza della conseguenza, in quella soluzione che sarebbe sempre, inevitabilmente una caduta. Per un secondo, ella odiò entrambi e parimenti quei due, odiò la vita, odiò sè stessa per la violenza della tenerezza che l'aveva strascinata sì lungi, sì fuor di strada, odiò chi le aveva insegnata la bellezza del bene e la laidezza del male, odiò i suoi sensi ribelli all'animo suo, odiò il suo sangue ardente e il suo cuore appassionato, la sua viltà d'obbedienza all'amore. Tutto era dunque più forte di lei, il bene ed il male, il dovere e la colpa l'avrebbero dunque resa infelice dal pari inesorabilmente?
Le giunse all'orecchio un gajo scampanío di bubbôli. Mettevano le sonagliere.
Ecco; glielo aveva detto la mamma... lì... a quel posto: Noi non siamo fatte pel peccato, quand'anche peccassimo.
Certo; così era. Non valentía di sofismi, non ebbrezze di sensi, non delirii del cuore varrebbero a cancellare in lei l'innato senso del bene. L'amore la traeva alla colpa ed ella amava, irresistibilmente.
Un'altra cosa le aveva detto sua madre: Preferirei vederti morta.
Strinse le mani alle tempie, costringendo gli occhi all'insù. Vide il cielo, ed ebbe un folle slancio dell'anima per quell'altezza lontana, pura, senza macchia, senza ricetto pei bassi enigmi della vita.
Ma l'altezza sorrideva, insuperabile, nel vuoto! Ella pensò: Ora hanno finito di attaccare. Poi chinò gli occhi verso il fossato. Vi ritrovò il cielo e le nuvole, che si succedevano lente nel profondo. Ancora le occorse il pensiero dell'abisso celeste ma prossimo, immediato, accessibile. Una lontana idea scattò tetra e micidiale, in quella povera mente turbata.
Prima di concretarla bene nel suo cervello, Diana gettò attorno uno sguardo, quieto, attento, che interrogava. Attese. — Ma l'erba e le piante vicine, la villa lontana, le farfalle vaganti, nulla seppero risponderle.
Guardò ancora in giù. Nell'abisso celeste l'azzurro incupiva, lumeggiato dall'argento delle nubi che s'indugiavano ora, come se aspettassero qualcosa o qualcuno.
Diana sorrise.
Aspettano me... disse. E sali sul parapetto.
Non idea netta di suicidio. Più che altro, un'allucinazione, un supremo bisogno di riposo, di fine alla lotta intima che la dilaniava. Le parve che tutto l'attraesse, la invitasse là dentro, che il crudele dilemma si sarebbe quietato nel suo capo, quando ella avesse adagiato questo, mollemente, sul candore di quelle nubi. Pensò a sua madre che preferiva vederla morta, pensò a Dio che certamente la capiva e perciò le perdonerebbe il peccato commesso solo per salvarsi da un peccato peggiore. Pensò ad Alberto e a Leone, complessivamente per così dire, confondendo entrambi nell'infinito di un amore come lo si prova solo agli ultimi momenti della vita, quando davanti alla morte vicina galoppa un misterioso guastatore per farle la via e abbatte a destra e a sinistra tutte le barriere onde sono segnati i vari comparti del cuore. Così ella pensò a loro, con un ineffabile amore che già non offendeva più alcuno.
Non volle spiccare un salto indecoroso nè che facesse strepito. Si lasciò scivolare giù all'esterno, tenendosi alle colonnine del parapetto. Solo quando sentì che l'acqua le lambiva i piedi, aperse le braccia e si abbandonò.
Povera Diana! Non trovò l'azzurro nè le nubi fugate dalla sua caduta. Trovò bensì l'acqua limacciosa, l'erbacce viscide, la fanghiglia fetida e nera, gli immondi rospi spaventati. Trovò ancora l'impressione e l'orrore della morte imminente ed ebbe un dibattimento folle che l'aiutò ad annegare, mentre un disperato desiderio di vita la richiamava a galla per ben due volte. La terza fu solo una mano di lei che, bianchissima, tremò un secondo oltre il livello dell'acqua e scomparve poscia ad un tratto, come una ninfea subitamente sbocciata e subito sommersa.
Spiraglio.
Nella viuzza solitaria, ove s'indugiava l'ombra del mattino, il passo del professore Lerskine risuonava alto e cadenzato. La vecchia moglie del droghiere, seduta dietro la bacheca della sua botteguccia ed intenta a far calza, non sollevò il capo udendo quel noto passo. Disse soltanto fra sè e sè: — Sono le nove. Il forestiero va a far scuola.
Egli si recava ogni mattina, alle nove, all'Istituto tecnico e dava ai giovani una solida lezione di matematica, qualcosa che s'imprimeva a forza nelle menti più ottuse. La maschia bruttezza del professore, la sua calma glaciale, il suo perfetto possesso della cifra, stavano bene in cattedra ed imponevano un freddo rispetto, senza simpatia di sorta, non scevro però da una specie di ammirazione involontaria. Ma fuori dell'Istituto, lungi dai pochi luoghi ove egli insegnava l'algebra, la geometria, l'inglese ed il tedesco, i suoi pregi di scienziato e di linguista non bastavano più a salvarlo dall'antipatia diffidente che ispirava l'individuo; lo straniero propriamente detto, che vuole rimaner tale. Nessuno aveva voluto, o forse potuto stringere amicizia con quell'uomo strano, indecifrabile che aveva degli occhi sì freddi, dietro lo schermo degli occhiali azzurri.
Nella piccola città italiana ch'egli abitava da più anni e dove spadroneggiava una grassa borghesia trafficante, segretamente alleata ad un prepotente elemento clericale, contro un radicalume puerile e piazzaiuolo, le opinioni nuovissime del Lerskine, la sua esasperata filosofia di ribelle, non potevano trovare eco, nè sfogo. Perciò egli le taceva colà. Non si sapeva se avesse, o no, legami di famiglia. Si buccinava soltanto ch'egli fosse obbligato, per ragioni politiche, a dimorare lungi dalla sua patria. Chi lo diceva russo, chi tedesco d'origine. Era di mezza età; ma pareva quasi vecchio, coi suoi capelli tra biondi e bianchicci, con quei grandi occhiali azzurri, che posavano perpetuamente sul naso un po' rincagnato.
Egli si recava dunque all'Istituto, quando s'udì ad un tratto chiamare forte, festosamente, dal lato opposto della via.
— Professore, signor Lerskine!
Alzò il capo, con un brusco moto. La voce gli era nota, ma gli tornava tanto inattesa in quell'ora, in quel luogo, ch'egli dubitò per un secondo. Pure, no... era proprio lei, una delle sue poche allieve di tedesco, la più giovane e la meno studiosa fra tutte, Maria di Bruvo. La giovanetta aveva da parecchi anni persa la madre. Il padre suo possedeva una splendida villa nei dintorni e Lerskine soleva da più mesi recarvisi due volte la settimana, per la lezione.
Maria di Bruvo traversò la via, raggiunse il professore e l'arrestò. Sedicenne, non ancora bella, ma già attraentissima, colla grazia enigmatica della sua età; fusione delicata e bizzarra di bimba che finisce e di donna che comincia. Innocentemente audace nel suo attillato costumino inglese, originalissima nella precoce disinvoltura dei suoi modi, disinvoltura fatta ad un tempo di purezza e di capriccio, dell'abitudine d'una grande libertà e di quella dell'omaggio del prossimo.
— Mi son persa! — annunziò trionfalmente.
Lerskine non si commosse affatto.
— È sola? — chiese soltanto.
— Solissima. Oh! tutta una storia. La colpa è della cameriera, che iersera non ha chiuse bene le imposte nella mia camera. Per cui, all'alba, dallo spiraglio, una gran luce. Chi avrebbe dormito più? M'alzo, apro la finestra, vedo uno splendore di mattino!... Mi vien subito una famosa idea, una trottata coi miei cavallini e col panier. Mi vesto, scendo in scuderia. Pietro, sa bene, il nostro vecchio cocchiere, mi fa delle prediche, ma io ho detto «voglio così.»
Battè sul lastricato, forte, col piedino. Tic, tac, categorico imperativo. E proseguì:
— Guidavo io, s'intende. Si filava, oh, una cosa divina! Senonchè, sul più bello, un carro di melloni, con un mulo..., s'immagini! Il carrettiere ubbriaco, credo. Insomma, un urto tremendo, un crac di carro e panier. Pietro bestemmia, il carrettiere bestemmia; si scende tutti. Niente, non s'era fatto male nessuno; ma il panier aveva avuto la peggio; rotto un parafango, stortato un montatoio, che so io. Allora s'è dovuto venire in città, per le riparazioni immediate. Pietro ha promesso di tacere, ma se papà vedesse il panier in quello stato, sarebbe capace di proibirmi di guidare, e allora..., capisce?
Lerskine accennò che capiva, chinando il capo.
— Siamo andati all'Albergo dei Tre Re, — continuò Maria, — e il fabbro ha detto che ci volevano almeno due ore e mezzo. Pensi, che gusto! Una noia, a quell'Albergo, un puzzo di scuderia, d'untume! La padrona che mi voleva tener compagnia, immagini; una folla di villani, che mi guardavano come la bestia rara. Me ne sono andata a zonzo per la città, flânant. Oh Dio, scusi, come si dice in italiano? Alla lunga, però, mi seccai, e, ad un tratto, m'avvidi di non raccapezzarmi più in quel dedalo di stradette sudicie. Cominciavo a disperarmi, quando vidi lei. Un faro nella tempesta, quei suoi occhiali turchini!
E Maria rideva di gran cuore, nella sua contentezza.
Egli, con un sorriso forzato, si mise a disposizione della signorina.
La signorina non fece cerimonie.
— Grazie, professore. E questo benedetto Albergo è lontano, nevvero? Non ce ne sarebbe un altro qui accanto?
— No.
— Un restaurant, un caffè?
— Neppure.
— Dio, che paese! Come fare? Sono stanca e ho un appetito feroce.
Lerskine non suggeriva nulla. Guardava con bizzarra attenzione quella personcina minuta, fremente d'incertezza e di noia.
A un tratto, essa gli chiese:
— Oh, scusi, lei dove abita?
— Qui — rispose l'altro, accennando al fondo della viuzza.
Maria battè le palme, festosamente.
— Ma allora, va benone; andiamo a casa sua.
— A casa mia? — echeggiò Lerskine, con una specie di subito sgomento.
— Oh bella! perchè no? A meno che, — soggiunse la giovanetta, coll'altera prontezza, della signora che teme d'essere stata indiscreta, — a meno che ciò non avesse a recarle il menomo disturbo.
Egli si morse le labbra.
— Vuol favorire? — disse subito — è qui a due passi.
Due passi, veramente. Una casetta piccina, il primo uscio, tre scalini da salire, poi una porticina a vetri, colle cortine di un vecchio tulle di cotone ingiallito. Nell'aprirsi, quella porticina suscitò uno scampanellío.
Il Professore introdusse la sua allieva in uno stanzone nudo, con due finestre, colle pareti imbiancate. Un ampio scrittoio di noce, sul quale regnava un disordine di libri e di fascicoli. Presso allo scrittoio, un grande seggiolone di cuoio. Addossato alla parete di faccia, un divano largo, massiccio, con due tiratoi alla base. A destra, un lavabo e una guardaroba; a sinistra, un tavolino ed una credenza a vetri. Sul davanzale del camino, molti libri ammonticchiati, una conchiglia rosea del mar d'Azof e due candelabri d'ottone. Null'altro.
Maria corse a crogiolarsi nel seggiolone, con un profondo sospiro di sollievo. Poi si mise a ridere, tutto ciò la divertiva un mezzo mondo.
— Aaaah!... Come si sta bene qui! Ella ci passa molte ore, nevvero?
— Molte.
— Si capisce. Questo è il suo studio?
— Non è soltanto il mio studio, è tutta la mia abitazione.
— Questa stanza sola?
— Questa.
Maria si voltò rapidamente, percorrendo tutto quanto il locale, collo sguardo indagatore. Cercò un istante, per mero istinto di gentilezza, qualcosa che potesse meritare un complimento, purchessia. Ma questo solo solo potè dire: — C'è una gran luce. — Infatti, così era.
— Perdoni, — chiese poscia, — allora lei dorme?...
— Dormo sui... — disse Lerskine, con una specie d'acre e calma compiacenza. — Quello è il mio letto — soggiunse accennando il divano.
— Quello? — ripetè Maria, guardando con viva curiosità il mobile a due usi. Non ne aveva mai veduti.
— Vi si dorme bene? — chiese poscia.
— Benissimo.
— Ah, davvero?
Tornò a nicchiarsi nel seggiolone, frenando un piccolo sbadiglio nervoso. Poi, spinta da una subita curiosità, prese a rovistare nei libroni. N'accostò uno, l'aprì, e lo respinse con una comica smorfietta.
— È in tedesco! — sclamò. — Ma oggi, niente lezione. L'ospite è sacro, nevvero?
— Certo, — rispose Lerskine lentamente.
— A proposito, son già due volte ch'ella manca alla lezione. E, a farlo apposta, giovedì scorso avevo fatto il dovere. Parola d'onore, mi spiacque, quasi, ch'ella non fosse venuto. Oh perchè non è venuto? Non si sentiva bene?
Egli esitò per un secondo, poi mormorò:
— Infatti.
— Mi spiace. Ma ora sta meglio, nevvero? E quest'altro librone? vediamo. Oh questo non è in tedesco. Russo, probabilmente. Come sono curiose queste parole. E un poeta?
— Già, — diss'egli con acerbo sarcasmo. — Un poeta — Bakunine.
Maria non fè cenno alcuno. Quel nome formidabile giungeva ignoto alla sua spensierata, ignoranza.
— E quell'altro laggiù, così ben legato?
— Lassalle.
— Ah. E quello rosso, là, in fondo?
— Hertzen.
— E questi giornali?
— Zemlia y volia.
— Perdoni.... ha detto?...
— Zemlia y volia — ripetè egli.
— Oh, che nome buffo... Cosa vuol dire? Oh, non importa. Ma quanto è carino il russo! Vuole insegnarmelo, professore? Già, pel tedesco, è inutile. Ho una testa refrattaria, come dice papà. Ed io compiango lei... di cuore.
— Mi compiange. E di che? — chiese Lerskine, con uno scatto, impetuoso ed amaro.
— O bella... la compiango d'aver un'allieva della mia forza. Mi conosco, sa?
La fanciulla diceva il vero. Traversava un periodo di umiltà schietta e bonaria. Provava un confuso pentimento della propria negligenza, delle leziose ostilità colle quali essa soleva mascherare la sua avversione allo studio e vendicare la segreta soggezione che le ispirava il maestro. Sino a quel giorno aveva trovata uggiosa, insopportabile quasi, la compagnia di quel severo pedagogo; non gli perdonava di non rider mai durante la lezione. Ma ora, in quel povero stanzone, la colpiva un'intuizione vaga della forte e misera esistenza di colui, una segreta pietà del suo isolamento, delle privazioni patite, della tolleranza colla quale egli aveva sopportati i suoi capricci, la sua pigrizia smorfiosa, sempre a caccia di pretesti. E il digiuno, il moto prolungato, la lunga trottata, le mettevano addosso uno spossamento molle, una grande facilità ad intenerirsi e ad effondersi.
— Professore... — disse, porgendo la mano a Lerskine, con un abbandono sorridente.
Egli prese quella mano, non la strinse. La lasciò andare subito, ma non bruscamente.
— Creda, non è già... — disse Maria.
Uno sbadiglio nervoso, irresistibile le mozzò la parola, ed ella appoggiò la testina allo schienale, come una persona stanchissima o presso a venir meno.
Egli vide scolorirsi quel visetto soave. E con una voce sommessa, più giovane di quella solita, una voce in cui vibrava uno sgomento, le chiese premurosamente:
— Cos'ha?
Ella rise, arrossì, esitò. Poi disse, colla dolcezza d'una confidenza:
— Ho fame. Professore, ho fame.
Egli sorrise pure. Un sorriso buono, trionfante, che illuminò tutto il suo volto.
— Le piace il latte? — chiese alla giovinetta.
— Se mi piace? Ma l'adoro. Ne avrebbe, per caso?...
Lerskine non rispose. Corse alla credenza, l'aprì con impeto, ne trasse un bricco colmo di latte, poi un piccolo servizio di caffè e latte, già pronto su di un vassoio e corredato di tre panini. Con un gesto energico respinse a rifascio, sullo scrittoio, libri e giornali; poi sullo spazio sgomberato, davanti a Maria, posò il vassoio.
Ella mandò un piccolo grido di gioia, qualcosa che somigliava al rotto spionciare d'un passerotto al quale si getta del miglio. Si rizzò a sedere, rinvigorita, battendo festosamente le palme.
— Allora... permette? — chiese al Professore.
Questi non rispose, ma prese a mescere il latte nella tazza. Ed una strana gioia, quasi dolorosa, gli morse subitamente il cuore, mentre Maria addentava un pezzo di pane.
Ella non faceva complimenti. Spinta dal prepotente appetito dell'età sua, mangiava di lena, interrompendosi ogni tanto per rivolgere al Professore qualche chiacchieretta gentile e lieta. Il suo sguardo s'era ravvivato; essa stava ritta sulla persona, e un lieve color di rosa saliva sulle sue guancie. Lerskine, invece, si faceva sempre più pallido. S'era tratto in disparte, per lasciarla in libertà, e per la coscienza d'un'impressione indefinibile, che gli rendeva intollerabile quello spettacolo. La guatava da tergo, con certe occhiate strane, formidabili, ove una specie di cupa estasi si confondeva coll'irritazione. Finalmente, con uno sforzo irresistibile, e che gli costò pure uno spasimo, egli afferrò il cappello e si diresse verso la porticina.
Maria si voltò rapidamente.
— Va via? — chiese con accento di rammarico.
Lerskine rimase come inchiodato sulla soglia.
— Sì — disse. — Mi perdoni, se la lascio... Ma devo... bisogna ch'io vada.
— La prego — interruppe vivamente la giovane — non faccia complimenti, non si dia pensiero di me. Ho rimorso di averle già arrecato tanto disturbo. Sono una vagabonda indiscreta.
Inesprimibilmente attraente, la vagabonda indiscreta, colla sua faccetta biricchina, tutta un sorriso, colle labbra semiaperte, sulle quali s'indugiava il biancheggiamento perlaceo di una goccia di latte...
Una lieve contrazione passò sul volto del Professore. Egli girava e rigirava il manubrio dell'uscio. Subitamente, si spiccò dalla soglia e venne a piantarsi, grave, massiccio, a fianco di Maria. E la sua voce vibrava cupa, intensamente accentuata, mentre egli rivolgeva alla Contessina una bizzarra domanda.
— Contessina... ella dunque non ha paura?
Maria depose la tazza sul tavolino. Poi, sollevando verso quell'uomo la serenità attonita del suo sguardo:
— Paura!... — disse — Di che?...
Un secondo di silenzio, durante il quale Lerskine trasalì, ma impercettibilmente, come avrebbe trasalito, in Siberia, sotto un colpo di knut.
— Ah! capisco — proseguì Maria ridendo — Ella crede ch'io abbia paura a restar sola. Ma le pare!... Ci sto tante ore, sola, in camera mia. Piuttosto, se qualcuno venisse a cercar di lei, che devo dire?
— Non verrà nessuno, — rispose l'altro sommessamente.
— Allora, va benissimo. Ella non si prenda pensiero di me. Abbia solo la bontà d'insegnarmi la via più breve per tornare al grande Albergo dei Tre Re.
— Andrò io stesso, se crede, all'Albergo e dirò che la carrozza passi a prenderla qui.
— Gliene sarei proprio grata. Ella m'ha ridata la vita con questo delizioso asciolvere. Ma ora sono tanto stanca... tanto!... Non ne faccio più di queste imprese... sa? Ella vada, dunque. Ma tornerà, nevvero, prima ch'io vada via?
Lerskine chinò il capo, e Maria gli porse la mano, ch'egli prese, strinse nervosamente, una, due, tre volte. Ebbe anche l'impulso di baciarla, ma questo represse sì prontamente che la giovane non l'avvertì neppure.
S'allontanò rapidamente. — Se si annoia, — le disse da lungi — quando fu presso all'uscio, — là..., dietro gli altri, ci sono dei libri francesi.
Escì, ma si trattenne ancora sul primo gradino, mentre il suo sguardo tornava ostinatamente indietro. E così, dietro le trasparenze del cristallo e della cortina, egli vide, una bianca figuretta di fanciulla seduta al suo scrittoio, vide due manine impazienti che frangevano l'ultimo pane!... Digrignò i denti, scese la brevissima scala. Dapprima camminò lento, posato, come al solito. Ma allo svolto della via, prese a correre, come se fuggisse.
Passò all'Istituto, per scusarsi della mancata lezione. Passò all'Albergo dei Tre Re, e accennò al cocchiere di casa Bruvo il luogo preciso ove la carrozza dovrebbe recarsi a prender la signorina.
— Sì, signore, — rispose Pietro. — Ma ci vorrà ancora una buona mezz'ora.
— Per lo meno — confermò il fabbro tuttora affaccendato attorno al panier.
Lerskine non fece commenti. Un cenno di capo e via.
Camminava lento, ora. Ma le sue gambe muscolose parevano muoversi, meccanicamente, contro il voler suo, verso una nota direzione, verso casa. Più volte egli mutò strada, ma un sottile tradimento dei propri intenti lo rimise sempre nel retto cammino. E quasi senza saperlo, si trovò finalmente nella viuzza, affatto solitaria, e vide da lungi le finestre della sua dimora. Rallentò bensì il passo, con un feroce sforzo di volere, ma due minuti bastarono per condurlo sino a quella dimora. S'arrestò, ansante, cercando di raccogliere le proprie idee, di ribellarsi contro l'incerta bramosia che le andava scompigliando ogni momento più.
Gli parve d'esser forte, e disse imperiosamente a sè stesso: — Va!
Andò. Giunto al secondo uscio.... picchiò sommessamente, come avrebbe picchiato all'uscio d'un estraneo. Attese, non ebbe risposta.
Invaso da un'inquietudine, spinse l'uscio; ma sì lievemente che non suscitò il solito scampanellio. Il campanello interno ebbe solo una sorda oscillazione. Lerskine entrò, in punta di piedi.
Il suo sguardo volò allo scrittoio, ma subito si rimosse e corse ansioso per tutta la stanza, in cerca di Maria. Un insano spasimo traversò, come un lampo, l'animo del Professore, ma solo per dar luogo ad un non meno insano succedersi di gioia..., poi d'ira appassionata.
No... essa non era andata via. Era sul divano e dormiva!... Naturalissimo ch'egli non l'avesse subito veduta. Stava nicchiata, tutta raccolta colla personcina, nelle profondità del mobile: a due usi. Non coricata, poggiata soltanto nell'angolo formato dal cuscino di spalliera e da uno dei laterali, sorretta così nella vita, ma col capo reclino a destra, sì che il profilo delicato spiccava, cesellatura vivente, sulla cupa tinta della stoffa. I capelli, un po' arruffatini, gettavano una carezza d'ombreggiatura sulla fronte. Il busto, magro ancora, ma già modellato dalla casta femminilità verginale, si sollevava e si abbassava, col ritmico ritornello del sonno calmo e sano. Nessun disordine nell'abbandono di quell'assopimento, pieno d'una compostezza riposata e fiduciosa.
Una mano posava leggiadramente sul petto, l'altra giaceva fra le pagine d'un libro semichiuso e che dal grembo della dormente era evidentemente scivolato lungo il suo fianco destro. Essa dormiva sodo, colle labbra socchiuse e l'atmosfera tutta della camera pareva vibrare dolcemente della sommessa armonia del suo respiro.
Lerskine si accostò cautamente al divano. Gettò un'occhiata sul libro. Era il Contratto sociale di Rousseau. Essa l'aveva preso a caso fra quelli da lui accennati, e naturalmente, non ne aveva capito nulla. L'arida noia di quella lettura, la comoda posizione sul divano, la stanchezza eccessiva, la solitudine, il silenzio della casa e della via; tutto aveva contribuito al sonno repentino di Maria. Come poc'anzi l'appetito, così l'aveva testè sopraggiunta il sopore, insidioso e prepotente. Ed essa non aveva lottato, aveva reclinato un pochino più il capo sul cuscino, e s'era addormentata. Nulla di più evidente, nulla di più semplice.
Infatti; nulla di più semplice. Ma l'ospite, il padrone di casa, era tornato, e lei non s'era destata. Egli le era presso, la guardava senza testimoni... solo con lei, in preda ad una specie d'estasi febbrile, combattuta ed avvivata ad un tempo da una collera sorda, che cresceva... cresceva a dismisura.
Dalle aride labbra di lui escivano dei rotti e sommessi accenti, quasi un selvaggio brontolio di orso, che vede invasa la sua tana da una bianca cucciolina. Un'ira impetuosa, nera, lo assaliva, un'ira spietata verso sè stesso, per l'onta delle sue emozioni, per la vergogna del suo turbamento, di quel fascino maledetto ch'egli provava, e non già per la prima volta...! Sin dalle prime lezioni, la grazia e la bellezza di Maria, la sua capricciosa purezza, la sua intelligenza sbrigliata e pure tanto casta, avevano scosso il Professore, avevano insultata la sua sprezzante serenità d'uomo attempato, avevano ferito a morte il suo triplice orgoglio d'uomo povero, di sapiente e di ribelle... Così era stato punito della sua sovrumana alterigia di novatore, che vuole sopprimere l'individuo in sè stesso, immolandosi all'entità sovrana d'un principio sovversivo. Ebbro di quel nulla, in fondo al quale sognava confusamente un tutto, Lerskine aveva ad esso sacrificata la sua patria, la sua famiglia, l'orizzonte delle passioni. Era giunto così sino ai quarantanni. Allora... allora soltanto egli aveva incontrata la brutale ironia del suo destino. Una follia l'aveva colto a tradimento. Una passione era nata in lui, una di quelle folli, rabbiose incongruenze del cuore che lo dilaniano, lasciando intatto il retto senso delle cose, che straziano e non acciecano, che destano a un tempo lo spasimo dell'amore e l'indignazione di provarlo. Certo, così era! Ignazio Lerskine amava Maria di Bruvo, la sua indocile ed ignorante allieva.
Aveva subito avvertito quell'amore, prima che niun altro al mondo avesse potuto concepirne il più lontano sospetto. Avvertitolo, aveva subito pensato al suo rimedio: sopprimere. Cessare repentinamente le lezioni. Non vederla più. E quella sarebbe la fine, il nihil della sua passione.
Senonchè, la cosa era andata altrimenti. Egli s'era invano astenuto dal recarsi alla villa, il caso aveva ricondotta presso di lui l'abitatrice della villa. La fanciulla ch'egli non voleva più rivedere era venuta a lui, gli aveva stretto la mano, gli aveva chiesto il pane ed il sale, era ospite in casa sua. Ell'era venuta, senza paure, senza intenti di sorta. Nella desolazione della sua solitudine, in quel buio covo di biechi pensieri e di sogni formidabili, essa aveva recato lo scompiglio e l'antagonismo della sua dolce presenza, la macchia abbagliante della propria luce, l'oltraggio sanguinoso e sorridente della sua calma perfetta. Pura come una neonata, provocante, ben più d'una cortigiana, nella sua divina e folle imprudenza, essa era venuta, inconscia, non chiamata, a stuzzicare la belva nel suo rifugio. In quell'incendio silenzioso, soffocato sotto la cappa d'acciaio di un volere indomabile, essa era venuta a dar aria, a rimuover la brace, ad attizzare la fiamma... Ma essa nulla sapeva di tutto ciò. Dormiva... sul divano a due usi, sognando forse dei lieti sogni, sotto lo sguardo, caldo come il vento del deserto, dell'uomo che l'amava e che non temeva nè Dio, nè gli uomini, nè la morte...
Nessuno potrebbe dire ciò che passò nella mente di lui. Nessuno. La tempesta si scatenava, ecco tutto!
A un tratto, l'atmosfera parve farsi irrespirabile nella camera, il silenzio divenne subitamente tragico, nell'incerto orrore d'un'attesa. Gli atomi luminosi di polvere, cozzanti nei vani soleggiati delle finestre, ebbero un folle rivolgimento di rotazioni, come se due fluidi avversi s'urtassero combattendo nell'aria, come se uno spirito custode l'agitasse violentemente, collo sbattere dell'ali fuggenti...
Lerskine guardava sempre la fanciulla. Un lungo brivido corse tutta la sua persona. Egli si irrigidì... reagendo contro quel brivido. Le sue mani potenti, vellose, imprigionò fortemente l'una nell'altra, con uno stiracchiamento convulso dei muscoli.
La guardò ancora... ancora... La bocca di Lerskine ebbe un contorcimento sublime e grottesco... il rictus d'un sorriso di sprezzo. Poi... egli corse all'uscio, l'aperse al suono d'una violenta scampanellata, e s'accampò sulla soglia, colla mossa di chi entra.
Maria si destò di botto. — Per un secondo rimase immobile, come trasognata, guardandosi attorno. Poi si rammentò. E, mal desta ancora, prese a ridere.
················
Lerskine si diresse lentamente verso lo scrittoio. Giuntovi, s'appoggiò col palmo della mano ad uno dei grossi libroni... quello forse a proposito del quale Maria Bruvo aveva detto poc'anzi, ridendo: — L'ospite è sacro.
Con voce ferma e fredda, il Professore annunziò alla giovane il prossimo giungere della carrozza. Poi: da quel rustico pedante ch'egli era, cadde pesantemente a sedere sul suo seggiolone e prese a sfogliar dei giornali.
La carrozza giunse infatti, pochi minuti dopo. Allora soltanto egli s'alzò, mentre Maria, senza celare la sua fretta di lasciare quella dimora ospitale, ma poco divertente, si assestava in testa il cappellino.
Se non che, la giovinetta, giunta presso alla soglia, si tratteneva ancora, per ringraziare l'ospite. E il delicato istinto della cortesia le metteva in bocca delle frasi leggiadre, ch'ella musicava inconsciamente colla voce.
— No, non scorderebbe mai quanto egli era stato buono per lei. Sperava di non avergli arrecato troppo disturbo. Ora, poi, voleva correggersi davvero della sua pigrizia, mettersi a studiare sul serio. Egli se ne avvedrebbe subito, alla prossima lezione.
Lerskine scosse il capo.
— Le nostre lezioni sono finite, — disse freddamente.
— Finite! — sciamò la giovane — finite! Ma perchè?
Il Professore frenò un piccolo tremore nervoso ed alzò alquanto le spalle.
— A cagion mia? — continuò impetuosamente Maria, — per la mia negligenza?... Ma ora muterò... glielo prometto.
Colla dolcezza irresistibile del suo sorriso essa stese al Professore la mano, quasi arra della promessa.
Egli si sentiva nuovamente inferocire davanti a quella cieca insistenza.
— No... — mormorò.. — non per lei...
— Allora, — chiese ella ancora, vieppiù dolce, vieppiù insistente, — allora... perchè?
Un'esasperazione lo vinse. Con un gesto rapidissimo, pazzo, egli sollevò sulla fronte gli occhiali. Dalle pupille grigie, giovani, maschie, scaturì, libero e brutale, il fuoco dei suoi sguardi... Piombò, si confisse nel volto della giovane subitamente sbigottita, come gli artigli del falco sulle carni della sua preda. Per un secondo, quello sguardo la possedette. Poi, su quel furioso balenìo d'incandescenze, ricadde, smorzandole d'improvviso, il velo dei cristalli azzurri.
— Perchè vi odio! — disse Lerskine a voce alta e chiara, aprendo l'uscio innanzi alla giovinetta.
Più tardi, quando conobbe l'amore, Maria si rammentò di quell'odio. Se ne rammentò con un sorriso e con un fremito.
Zenit.
Eravamo in aprile: io aveva diciotto anni e mi trovavo al mercato. Colla nostra servetta, ben inteso.
Avevo fatto felicemente (almeno così mi parve) la nostra piccola spesa di famiglia, ed esaurita la lista degli acquisti prescritti da Camilla. Pure, non so come, mi rimanevano in mano cinquanta centesimi. Caso rarissimo, più unico che raro, poichè Camilla non sbagliava mai i conti. Ma, stavolta, s'era sbagliata; la cosa era evidente, ed io serrava forte fra le dita i cinque soldoni, lottando coll'aspra tentazione di spenderli a modo mio, di darli, cioè, alla fioraia dirimpetto, in cambio di tutti i suoi lillà bianchi.... cinque grossi ramoscelli, ch'essa vendeva dieci centesimi l'uno.
Nervosa, m'indugiavo davanti al banco, lottando onestamente contro la violenza di quella tentazione. Immaginavo la canzonatura pungente di Albertina, il sorriso di compassione che avrebbero scambiato Camilla e Lidia. Avrei potuto, con un soldo o due, comperare una quantità quasi equivalente di violaciocche e di rosmarino. Ma la tentazione consisteva appunto nell'alto valore dei lillà, nella loro superba e pallida uniformità di tinta, nella squisita finezza della loro leggiadria, nell'acuto e sottile profumo che solo li tradiva in mezzo ai forti odori, alle forti chiazze di colore di tutto ciò che li attorniava. Dio mi perdoni, non seppi neppur tirar di prezzo! Un'audacia mi vinse, un desiderio irresistibile d'esser felice, comperandoli. Li comperai.
Quando li ebbi, quando sentii ch'erano miei, quando il violento profumo salì direttamente dalle mie nari al cervello, allora persi ogni scrupolo, scacciai ogni rimorso. Mi avrebbero sgridata. Ebbene; pazienza! Ma era tanto tempo che sentivo il bisogno d'una gioia cosiffatta, d'un piacere delicato, intenso, tutto mio! Ero gloriosa ora, fiera della mia stravaganza. Traversai il mercato quasi a corsa, stringendomi sul petto il mio tesoro d'olezzi, con una gran letizia esaltata. Camminavo come sulle nuvole, leggermente inebriata, non so bene se dal tepore dell'aria, dallo splendore del mattino, dal profumo dei miei fiori o da quello dei miei diciotto anni.
Forse un poco di tutto ciò.
Quando fui presso alla nostra piccola casetta però, smisi alquanto di quella folle baldanza. Già; ora bisognava sentir loro.... Il cuore batteva un po' più forte del solito. Camilla.... che direbbe Camilla?
Camilla non era a terreno quando rientrai. Corsi rapidamente nel salotto per mettere subito in fresco i miei fiori. Ma in salotto c'era Albertina, che s'immaginava di spolverare i mobili. La bimba mi guardò un momento, guardò il mio grosso mazzo. E subito escì, trascinandosi frettolosamente, colla gambetta zoppa. Ahimè, non c'era il minimo dubbio, essa andava a dirlo a Camilla.
Dio!... che tormento era alle volte quella povera piccina! Pure era il nostro idolo, la reliquia vivente di nostra madre, morta nel darla alla luce. Era malaticcia, e papà non tollerava la vista d'una sua lagrimuccia. Bellina tanto di viso, aveva tanta grazietta morfiosa, sapeva sì bene approfittare dei suoi tristi privilegi! E aveva una linguetta quella bimba!... una linguetta!...
Non m'ero ingannata, pur troppo. Camilla scese poco dopo, proprio al momento in cui io, disponendo sul tavolo di cucina i miei acquisti gastronomici, mi avvedevo, con vero terrore, d'aver per l'appunto scordato il cavolfiore che Camilla mi aveva specialmente raccomandato. Ciò spiegava la misteriosa rimanenza dei cinquanta centesimi. Ma che direbbe Camilla, gran Dio, che direbbe!
Pel momento, Camilla non diceva nulla. La sorella maggiore, la Saviezza, come la chiamavamo noi, abbracciava, col suo sguardo d'aquila sagace, l'assieme delle provvigioni. E a farla apposta, per mia disdetta, una brezza improvvisa, che veniva dal giardino, recava in cucina, passando dal salotto, l'olezzo dei miei poveri fiori. Camilla aveva già avvertita l'assenza del cavolfiore, e il suo naso lungo e magro aspirava il profumo delatore dei lillà. Io teneva chinati gli sguardi, il mio cuore batteva sempre più forte.... Ora, ora.... diceva ironicamente quel cuore turbato.... ora viene il buono.
Ma il buono, non venne.
Forse la mia dolorosa confusione impietosì Camilla, forse era scritto che nulla, nulla al mondo dovesse turbare il ricordo di quel giorno.
La Saviezza sorrise e disse soltanto: — Cos'hai fatto, balorda?
Non dissi quel che avevo fatto, ma feci qualcosa, nell'eccesso della mia gioia, per quella insperata indulgenza. Corsi presso Camilla, l'afferrai alla vita, la baciai con veemenza in volto, poi, trascinandomi dietro quella Saviezza incomparabile, volteggiai in su e in giù per la stanza. Mia sorella, stordita da quel ratto inatteso, non oppose dapprima resistenza di sorta. Ma, subito dopo, la sua lunga persona si ribellò, si fe' rigida ed ella si sciolse bruscamente dalla mia stretta.
— Cos'hai — chiese — sei matta?
— Sì — risposi con trasporto. — Ma è così piacevole esser matti!
La Saviezza mi guardò, attonita.
— Dovresti piuttosto — disse con un subito ritorno all'usata severità — non perder tutta la mattina a questo modo. Sai che c'è tanto da fare.
Innegabile! c'era tanto da fare! Pettinare Albertina, farle recitar le lezioni, aiutar Bettina a far le camere, ad allestire la colazione. Ma, quel giorno, tutto ciò mi pareva facile, gradito a farsi. Schizzavo di qua e di là, ridendo e cantando. Sotto le mie mani, i letticiuoli rifatti diventavano lisci e tesi come tavoli da bigliardi, le ciocche indocili di Albertina diventavano treccie solide e garbate e la bimba, divertita dai miei pazzi racconti e dai vivi dialoghi ch'io facevo tenere ai suoi codini d'oro, scordava d'imbizzirsi e di strillare. Così che, prima ancora delle undici, Albertina aveva recitata con pochissimi errori mezza la storia di Ruth, le stanze eran tutte all'ordine, e la colazione di papà era pronta. Pronto pure il suo tavolino, e su questo il giornale scientifico, gli occhiali, la papalina ricamata da noi e destinata a quella serena testa di scienziato, che il dolore, i crucci della vedovanza e le lunghe fatiche intellettuali avevano fatto sì presto incanutire.
Papà giunse un po' più tardi del solito. Io era tanto lieta quel mattino che non mi meravigliò affatto il ravvisare sul volto di lui l'espressione d'una gioia inusitata e misteriosa. Appena entrato, gli gettai le braccia al collo. Credo anche che, baciandolo, gettassi inconsciamente un piccolo grido di gioia. Può essere.... ero capace di tutto, quel giorno!
Egli non mangiava, non si metteva la papalina, non aveva neppur rotta la fascia del giornale, non ancor chiesto come aveva dormito la bimba. Lidia era testè entrata, e Camilla aspettava, ritta, col piatto in mano, pronta a servir la colazione.
Egli ci guardava, interrogando con arcana compiacenza le nostre mal frenate curiosità. Finalmente disse:
— Oggi abbiamo gente a pranzo.
Una gamma variata di oh! echeggiò nel salotto. Camilla mise un sospiro lieve, ma irrefrenabile, e mi guardò. I miei sguardi ignoravano ostinatamente quelli della Saviezza. Ma sapevo ciò ch'essi, cercandomi, mi gettavano sulla coscienza: l'oblìo del cavolfiore, lo sperpero dei cinquanta centesimi!
— Quante persone? — chiese poscia Camilla, grave, pensando già al da farsi.
— Una sola — rispose mio padre. — Ma occorre un pranzo finito; cinque piatti, dolci, dessert e Marsala.
— Ma papà.... papà! — esclamò Camilla, atterrita.
— Forse — continuò papà tranquillamente — forse sarebbe meglio il Bordeaux. Ma è d'uopo che sia un pranzo signorile, come li mangia lui, ogni giorno, a casa sua.
Una specie di grandioso sgomento invase gli animi nostri, una curiosità febbrile di sapere chi fosse questo misterioso visitatore che mangiava ogni giorno cinque piatti.... E il dolce, in più.
— Ho capito — disse Lidia. — È il Rettore.
— No.... assai più.
Ella tacque un momento, pensando. Poi, trionfalmente:
— Il Provveditore agli studî.
— No — ribattè papà.
Poi, incapace di tener più a lungo celato il suo glorioso segreto, gridò con esplosione d'orgoglio e di gioia:
— È Folco! Folco di Roccalba!
Nessuno rispose. Fu un vero sbalordimento di meraviglia e di letizia. Se ci avessero annunziata la visita di Re Umberto in persona, colla corona in capo e lo scettro in mano, non avrebbero potuto destare in noi impressione maggiore. Assolutamente no.
* * *
Dovevamo tutto ai Roccalba.
In un certo senso, noialtri giovani dovevamo loro persino il privilegio di esistere, poichè è indubitato che, senza l'impiego da essi ottenuto a mio padre e la dote da essi fatta a mia madre, papà, allora precettore in casa Roccalba, non avrebbe mai potuto permettersi il lusso di un matrimonio colla giovane maestrina di musica, ch'egli amava in silenzio da cinque anni. E chi aveva fatto il corredo alla mamma? Chi le aveva regalato quel famoso pianoforte di Tomascheck che noi tenevamo in sala, colla coperta di flanella verde? La marchesa Camilla di Roccalba, se vi piace. Chi pagava la retta al collegio di Milano, ove erano educati i nostri due fratellini? Casa Roccalba, per disposizione testamentaria della marchesa Camilla. Perchè la Saviezza si chiamava Camilla? Perchè la marchesa Camilla, non altri, l'aveva tenuta a battesimo. Figurarsi, dunque!
Noi non avevamo mai veduto Folco, l'allievo di papà. Dopo il matrimonio di questo, il giovane s'era recato a Bologna per compiere i suoi studî; poi era andato in diplomazia, aveva preso a viaggiare. Ma la nostra casa era piena delle memorie di Folco: la fiamma del focolare, scoppiettando, ci diceva, da mattina a sera, il nome dei nostri benefattori. La religione della nostra gratitudine per quella famiglia si era concentrata su Folco, dopo l'immatura morte dei suoi genitori. Era tutto un santuario di ricordi. Nostra madre, i Roccalba, la cattedra di professore ch'essi avevano ottenuta per mio padre, formavano una trinità indissolubile di glorie. Quell'intrinsichezza d'affetti, quella continuità di relazioni con una delle più grandi e nobili famiglie lombarde metteva una nota grandiosa nel nostro orgoglio borghese, nella segreta alterigia del nostro stato, povero, ma dignitoso, di gente che insegna. Noi eravamo troppo numerosi in famiglia, eravamo nati troppo addosso l'uno all'altro, nostra madre era morta troppo presto, perchè ci potesse venir risparmiata a lungo la conoscenza dei crudi doveri della vita; ma tutta la poesia, il lusso dei più splendidi ricordi infantili avevano solleticate le nostre piccole immaginazioni, colla storia, continuamente narrataci, dell'infanzia di Folco. La nostra nidiata era cresciuta un po' alla spartana, come comportavano gli scarsi mezzi di famiglia; ma nulla ci era ignoto di quanto vien prodigato ad un figlio unico da genitori tenerissimi e straricchi. Sapevamo tutto di Folco: gli studî nei quali riesciva e quelli in cui durava fatica, le stravaganze di lusso che lo avevano sempre attorniato, gli splendidi premi, i tenui castighi. Conoscevamo tutti gli splendori di rappresentanza che la casa dedicava all'erede, il fasto de' suoi divertimenti, la ricchezza e la varietà de' suoi giocattoli, de' suoi libri, degli accessorî della sua educazione. Tutto ciò metteva come una vaporosa poesia di grandezze nella nostra ristretta esistenza. Avevamo tutti per quell'incognito, tanto noto alle nostre immaginazioni una specie di adorazione fantastica, riflesso ad un tempo di quella che i suoi avevano sempre avuta per lui e della nostra perenne gratitudine verso casa Roccalba. E ora, lui stesso, quel semidio delle nostre menti, quell'idolo delle nostre ardenti gratitudini, scendeva bruscamente dall'Olimpo, si rivelava agli occhi nostri, veniva a pranzo da noi!
A noi pareva un sogno, una di quelle combinazioni che si danno esclusivamente nei romanzi. Pure era la cosa più semplice di questo mondo. Egli era giunto nella nostra piccola città, la mattina stessa, per un affare da sbrigarsi in poche ore e contava ripartire alla sera, con uno degli ultimi treni. Nostro padre, nell'uscire dall'Università, s'era imbattuto con lui e non l'aveva riconosciuto. Ma l'altro gli aveva messo le braccia al collo, dicendogli: «Sono Folco, il suo antico allievo.» S'eran trattenuti un pezzo per via, commossi, poi s'eran lasciati; ma Folco aveva accettato l'invito di mio padre, aveva promesso di venire a pranzo da noi!... con noi.
* * *
Come passarono quelle cinque o sei ore, prima ch'egli venisse?..,. Non saprei dirlo: eravamo in uno stato di grande eccitamento, esaltate dalla gioia e dall'agitazione dell'attesa. Camilla sola serbava un po' di sangue freddo: non so cos'avremmo concluso noialtre, senza la sua imperiosa impassibilità. Il tempo stringeva, bisognava darsi d'attorno. La Saviezza emanava gli ordini, e noi tutte li eseguivamo, a suon di battiti di cuore. Albertina aiutava davvero. Lidia stessa, la nostra bella indolente, lavorava di lena.
La tavola fu preparata con estrema cura; fu buttato all'aria l'armadio della biancheria, per trovare la tovaglia di Fiandra, quella dove non c'era neppure un rammendo. Io aveva un grande orgoglio, un gran vanto.... la folle spesa dei lillà era diventata per tutti un'ispirazione, quella stravaganza imperdonabile si mutava, di fronte alla visita di Folco, in un lusso ragionevole. Lidia però non mancò di osservare che avrei potuto pagarli meno. Ma che importava ora... Che importava!.... Era come una vertigine di grandezze e di prodigalità. A me fu devoluta la cura di spolverare i ritratti del Marchese e della Marchesa, appesi alla parete, sopra il sofà. Non eran che due vecchi dagherreotipi. Situati in luce non favorevole, impalliditi dal tempo, presentavano allo sguardo una confusione abbagliante di lucentezze grigiastre, dalle quali emergeva poco più della bonaria faccia del Marchese, mentre della Marchesa erano solo visibili i volants a scacchi bianchi e neri d'un vestito teso, come il taffetà d'un pallone areostatico, sulla mostruosa circonferenza del crinolino. Ma questo che importava? Non erano forse i loro ritratti, fatti all'epoca del loro matrimonio? Li avevan dati loro stessi a mia madre, e poche cose al mondo erano a noi più sacre e più care. Ed io, spolverando in quel giorno quelle due povere larve di ritratti, le baciai furtivamente, dicendo loro, con una specie di rapita scempiaggine, che si rallegrassero, che tra poco avrebbero veduto lì, con noi, il loro Folco.
Quando ci penso!... Eppure avevo già diciotto anni!
* * *
Li avevo certamente, ma chi ci pensava, chi se ne accorgeva? Nessuno; non me ne accorgevo neppure io. Non avevo, in famiglia, importanza di sorta. Non ero nè bella come Lidia, nè saggia come Camilla, nè malata come la povera Tina. Dovevo ubbidire sempre alle sorelle maggiori e farmi ubbidire dalla piccina, ed era così difficile a volte il conciliare quelle due opposte mansioni! Dovevo portare gli abiti smessi da Lidia, ma portarli con gran cura, perchè potessero esser trasmissibili ad Albertina. La mia esistenza era un continuo stato di transazione senza colore.
Non sapevo mai dove cacciarmi, nè come figurare; avevo una terribile facilità d'entusiasmi che finivano sempre con qualche catastrofe e un'immaginazione inquieta che macinava nuvole da mattina a sera. Avrei avuto per lo studio un vero trasporto, e papà, che mi voleva un grandissimo bene, m'insegnava nei ritagli di tempo un po' di latino; ma Camilla non approvava questo mio bizzarro divertimento. Anzichè il Lexicon, preferiva vedermi fra le mani il cucito o il piumino da spolverare. Papà stava molto all'Università, dava lezioni private, e io stavo tutto il santo giorno in casa, dove Camilla pensava ad occuparmi secondo i dettami della sua portentosa saviezza. Perciò i miei diciotto anni, non avendo gran cosa a fare, dormivano.
Non sempre, però. Ogni tanto alzavano il capo dicendo: eccoci. Erano insistenti a volte, mi andavan suscitando in capo delle idee fantastiche, una prepotenza d'impressioni vaghe, sconnesse fra di loro, eppure misteriosamente collegate allo stato generale d'incertezza che teneva inquieto l'esser mio. Soffrivo e godevo acutamente, a proposito di tutto, a proposito di nulla. Provavo delle scosse violenti, senza causa o per cause di lievissima importanza; delle grandi emozioni indefinite traversavano, come lampi, la gaiezza e la serenità caratteristiche dell'indole mia. Non avevo il tempo di studiarmi, nè di cercare altrove la soluzione dei bizzarri problemi che inquietano il mio spirito. La nostra posizione, la mancanza della madre di famiglia, i severi principî di papà, ci costringevano ad una vita ritiratissima e quasi claustrale. Il nostro ambiente, così isolato, si manteneva pratico ed austero, serbava purissime le nostre menti. Qualche volta pensavo all'amore, chiedendomi cosa fosse. Non lo sapevo affatto. Avevo bensì un vago e misterioso desiderio di saperne qualcosa.
* * *
Folco Roccalba venne, e pranzò con noi.
Al primo momento, vedendolo entrare, fu quasi una disillusione. Per una di quelle assurdità fantastiche cui soggiace a volte il pensiero, noi tutte avevamo scordato ch'egli aveva ormai trent'anni, ci aspettavamo quasi di dover accogliere l'adolescente dei nostri pensieri. E quando Folco si presentò, uomo fatto, grande, forte, bellissimo, ma d'una bellezza che aveva già attraversato tutto ciò che la sorte e la natura anticipano ad un giovane quale egli era, la impressione fu urtata, quasi spiacevole!
Per me fu un rimescolío strano, una sorpresa violenta, pressochè un terrore. Ebbi un confuso impulso che mi suggeriva di fuggire, di rinserrarmi in camera mia e di non scendere più. Ma invece rimasi al mio posto, immobile, compresa da una soggezione inesprimibile, col cervello vuoto d'ogni pensiero che non fosse: i Roccalba.
Man mano, egli si fece riconoscere, divenne qualcosa che somigliava al Folco dei nostri pensieri. La sua bellezza era gaia, la sua giovialità sapeva sciogliere ogni gelo di timidità rispettosa. Veramente gran signore, era d'una affabilità piana e calma, di quelle che sembrano avocar le anime a sè, chiamarle come a raccolta. La sua intelligenza e il cuor suo gli dicevano senza dubbio ciò che la sua visita era per noi, quale sincerità ed ardore di gratitudine animassero la nostra accoglienza. Egli doveva sentirsi sovrano in quel salotto, in mezzo a tutte noi. Papà non celava la sua gioia, era raggiante e quando Folco si rivolgeva alle mie sorelle od a me, il tremore della voce che gli rispondeva doveva pur rivelargli qualcosa del soave orgoglio onde eravamo comprese! — Naturalmente; Folco si occupò in modo speciale delle sorelle maggiori e Tina, colle sue grazie languidette di bimba malata, seppe accaparrare la sua attenzione. Ma egli ebbe anche per me delle premure cortesi, mi trattò proprio da signorina e per la prima volta in vita mia, sentii di esser qualchecosa più di nulla. Egli pareva prendere un certo interessamento alle pochissime frasi che mi riescì di emettere; rammentai poscia d'aver veduto il suo sguardo interrogare più volte il mio aspetto come alla sfuggita, e con una curiosità umoristica. Egli ci parlava con una bizzarra dolcezza di modi cavallereschi; per papà aveva una deferenza affettuosa, che si riferiva perennemente, con una specie di cordialità seria, poetizzata, ai loro antichi rapporti di maestro e d'allievo. Il passato risuscitava gradatamente nella conversazione generale; Folco pareva rifarsi fanciullo in questa evocazione continua, fatta dal nostro culto per tutto ciò ch'era stato lui. Ritrovava incolume, nella pia riverenza della nostra memoria, anche ciò ch'era sfuggito alla sua, le impressioni, fugaci per lui, durature per noi, nella tenacità religiosa del nostro culto. Lidia non ebbe forse il coraggio di chiedergli che fosse avvenuto di Svir? Egli stette un momento sopra pensiero... chi era Svir? Allora Albertina gli disse trionfalmente essere Svir quel tal cavallino sardo, che gli era stato regalato in premio d'un bellissimo esame, ma che un giorno l'aveva balzato di sella e gettato nel bel mezzo della macchia di gerani, al centro del parterre. E Folco rise a lungo, memore allora di Svir e della sua avventura, incoraggiandoci a narrargliene altre, narrandone alla sua volta, e narrandoci pure del padre nostro, delle sue lezioni, delle cure prodigate a lui, fanciullo indocile bene spesso e sventato. Folco non aveva pretese di sorta, la sua gaia famigliarità aveva subito trovate le vie dei nostri cuori. Egli ci soggiogava ora per conto suo, senza bisogno del passato: questo rimaneva solo lo sfondo luminoso sul quale campeggiava più famigliare quella figura attraente, che non somigliava a nulla di ciò ch'io avessi mai veduto, e che pure aveva un'arcana affinità con tutto quello ch'io avevo provato... no... neppur provato... confusamente sognato, d'emozioni incerte e soavi, misteriosamente pungenti nel segreto dell'animo mio!
Il pranzo riuscì benissimo; senza nessuno di quegli inconvenienti che danno delle sì terribili distrazioni alle povere padrone di casa. Una grande gioia serena era nei nostri cuori; son certa che nessuna di noi fece il più lieve confronto mentale, pensando al nostro solito ordinario. Non parlo di me. Credo che l'animo sedesse quel giorno, per la prima volta, al grande banchetto della vita.
Verso la fine, ci fu una gaia serie di brindisi. Folco ne fece uno brillantissimo, dedicato alle leggiadre figlie del suo amato maestro. Ed io alzai bravamente il mio bicchiere, ove danzava l'ondicciuola color d'ambra d'un dito di vecchio Marsala, quel vino generoso che mette nei pensieri una giocondità festosa e che l'accende negli sguardi.
Il caffè fu servito nell'orticello, all'aria aperta; poi si tornò nel salottino a terreno, e fu allora ch'io vidi il marchese Folco fermarsi dinanzi alla finestra, presso il tavolino sul quale era stato deposto il vaso contenente i miei lillà.
— Come sono belli! — disse con ammirazione. Poi tuffò anch'egli il bellissimo volto nelle grosse ciocche bianche, come avevo fatto io più volte durante il giorno, e sempre con un folle trasporto di delizia. Aspirò anch'egli, con visibile delizia il profumo.
— Sono del giardino? — chiese poscia a Camilla.
— No, — rispose papà ridendo, ed accennandomi. — Sono un colpo di testa della mia Giulietta. Una testina romantica se mai ve ne furono, ma che morde al latino, meglio assai di quanto ci mordesse lei, Folco, ai nostri tempi.
— Oh papà... papà traditore!... Avrei voluto nascondermi sotto terra... ero diventata di bragia.
— Davvero? — disse il nostro ospite, ridendo alla sua volta e rivolgendosi a me col suo sguardo azzurro, scintillante, con una espressione divertita ed ironica ad un tempo. — Le faccio i miei complimenti, signorina. Ma permetta che glieli faccia anche per questi fiori. Mi rammentano la nostra villa di Serate. Si ricorda, professore? Erano la passione di mia madre, ed io l'ho ereditata da lei. Non posso vedere dei lillà bianchi senza..
La sua voce ebbe un lieve tremito, il suo sguardo un lampo di malinconia. Poi egli mi disse dolcemente... oh quanto dolcemente: — È permesso rubare, signorina? Vorrei uno di questi fiori, per ricordo di questa bella serata.
Una follìa di soave orgoglio mi fece battere disordinatamente il cuore. Presi tremando l'intiero mazzo e lo offersi a Folco.
— Sono troppi davvero, — diss'egli ridendo, colla sua grazia affascinante. — Guardi... basta così. — Schiantò un piccolo ramoscello fiorito, lo mondò delle foglie e lo passò alla bottoniera dell'abito.
Poi, prendendo dalle mie mani malferme il grosso mazzo di lillà, lo rimise nel vaso.
Mi sorrise ancora, colla carezza enigmatica e turbatrice del suo sguardo, e disse soltanto: — Grazie.
Oh mio Dio... Una parola umana poteva dunque racchiudere in sè un'armonia sì perfetta! Come! Ma come mai?
* * *
Albertina s'era addormentata improvvisamente, sulle ginocchia di papà.
Giulietta! chiamò Camilla sottovoce.
M'alzai di scatto, scotendomi come una persona che si sveglia di soprassalto. Andai a prendere la piccina, sollevandola dolcemente per non destarla, la portai di sopra, e la misi a letto.
Essa si destò, ma solo per un momento e si lasciò spogliare, inerte. Solo, mentre io la stendevo adagino nel suo letticciuolo, con ogni cautela, per non offendere la sua gamba ammalata, ella socchiuse gli occhi, e guardandomi come trasognata, mormorò — Come è bello... nevvero? come è bello!
— Sì, — mormorai, con profonda emozione. E mi chinai, con impeto inconsulto, per baciare quella boccuccia cara.
La bimba dormiva già. Quel mio bacio incerto, tremante, non la destò.
* * *
Mentre scendevo le scale, per tornare in sala, udii ad un tratto un suono inaspettato, e che mi fece rimanere immobile, coll'orecchio intento. Era il suono del pianoforte che i Roccalda avevano donato a mia madre.
Chi suonava? Lui, senza dubbio. Lidia soleva esercitarsi ogni tanto, colle sue mani grassoccie e belle. Ma io conoscevo i suoi invariabili preludi, e m'erano, ahimè, troppo note le prime battute della sua eterna Prière d'une vierge, il solo pezzo ch'ella attaccasse davanti ad un pubblico qualsiasi. Ma, ora, era tutt'altra cosa. Il vecchio strumento aveva una nuova poderosità di voce e d'accenti, la tastiera era corsa da una virile gaiezza di note brillanti, dalle quali pareva sprigionarsi una festosità senza pari, un folle invito ad una folle gioia. Un motivo di danza, ma complicato, ardente, qualcosa che pareva mettere nel silenzio della nostra casetta una prepotente invasione di sonorità inneggiante.
Ascoltavo rapita, cogli occhi sbarrati nell'oscurità, sentendo levarsi nell'anima mia un armonia confusa, misteriosamente esplicativa, fatta di consensi arcani. E daccapo quel tremito interno, quello sgomento intimo, ch'era a un tempo di gioia e dolore, scienza e ignoranza, speranza e timore. Non avevo provato mai nulla di simile!
Allorchè cessò il suono, scesi lentamente. Ma non rientrai in sala; passai nel giardino.
Noi lo chiamavamo in quel modo, ma in realtà non era gran cosa più d'un umile orticello. C'era tanto verde, questo sì, una vite americana tappezzava colle sue larghe foglie la facciata della casa, incorniciando a terrena le finestre e l'uscio che metteva alla cucina. V'erano otto o nove alberi fruttiferi, una pineta di tre cipressi, qualche rosaio, un conato di montagnuola, e un bel panchetto rustico, appiè d'una delle finestre che dalla sala davan sul giardino. Mi feci appresso a quella finestra, e sedetti su quel panchetto. Potevo così, pur rimanendo all'aperto, non perder nulla della visione che rendeva sì stranamente eccitante l'ambiente del nostro salottino. Vedevo tutto, e credevo di non esser vista, mercè il grosso mazzo dei miei lillà, posato all'interno, sul tavolino che occupava il vano della finestra.
Era venuta la notte, eravamo in aprile, e c'era il plenilunio. La celestiale luce bianca attraversava lo scarso fitto delle piante, gettando a terra un delicato traforo d'argento, che l'arietta in moto scomponeva ogni tanto, sparpagliandolo in un rincorrersi di guizzi luminosi alternati a striature d'ombre irrequiete. Alcune lucciole erravano qua e là, s'udiva un musicale ronzio d'insetti. Un umidore fresco irrorava le erbette, facendole lucenti al bacio della luna; la terra piangeva soavemente la secreta piova del vespro, bagnandosi appena, come l'occhio di chi piange, non già per dolore, ma per intima e delicata emozione. Non più la gioia clamorosa del mattino, quell'esplosione di buon umore e di benessere che m'aveva fatta correre e danzare come una pazza. No... oh no... era qualcosa di affatto diverso, qualcosa che, invece di darmi forza ed energia, pareva tradursi insidiosamente in una stanchezza molle del corpo. Un languore strano s'impossessava dell'esser mio, una grande tenerezza diffusa, una strana e luminosa comprensione dei segreti blandi di quell'ora, un'amorosa facoltà di tutto intendere della vita, dei suoi sogni, delle sue speranze, delle sue felicità supreme.
Continuava a sedere, fiacca, sul panchetto, e vedevo tutto ciò che accadeva nell'interno del salotto. Egli stava sempre al pianoforte, poco lungi dalla finestra. Aveva tralasciato di suonare. Le sorelle e papà gli stavano d'attorno, e parevano chiedergli con insistenza qualcosa. Spinsi maggiormente il capo oltre il davanzale, procurando però di celarmi dietro il mazzo dei miei lillà bianchi. L'olezzo, più violento che mai, mi investiva direttamente. Io guardavo il pianoforte, guardavo lui, Folco, col suo sorriso di gran signore, colle bianche mani erranti sui tasti, ove suscitavano un'armoniosità vaga di accordi sommessi e tronchi. Un raggio di luna si spingeva sul davanzale disegnando attorno a me la frastagliatura delle foglie di vite. Avevo recata una mano al cuore con un gesto innocente e appassionato, senza sapere quel che facessi...
Folco di Roccalba girò attorno a sè un rapido sguardo. Mi vide, ebbe un sorriso ancor più rapido; poi, come decidendosi all'improvviso, prese a cantare.
Avevo udita una sol volta una voce consimile. Avevo udito in chiesa, con grande emozione religiosa, la voce d'un tenore celebre, dire a Dio, in latino, delle cose sublimi e tristi. Ma ora quelle stesse sonorità larghe e dolci echeggiavano ancora al mio orecchio, non più rivolte a Dio, bensì rivolte a me, cercandomi dov'ero, recandomi delle folli frasi di lamento amoroso. Folco cantava la serenata del Don Pasquale. Io non mi intendo di musica. Non so se quella voce fosse realmente quale echeggiava allora al mio orecchio. So che essa mi parve la somma di tutte le dolcezze possibili ad un accento umano. Folco cantava. Nel silenzio rispettoso del salotto, nel silenzio fresco del giardino, egli rappresentava il personaggio più simpatico del melodramma, l'innamorato che rivendica, colla gaia congiura d'un finto intrigo, i suoi diritti al cuore di Norina. La musica è dolcissima, d'una bellezza senza pari, possiede un fascino inesprimibile di freschezza e di sentimento. Le parole della serenata hanno tutta la deliziosa assurdità delle frasi amorose di libretto. Quell'idillio celeste e sgrammaticato comincia così:
Com'è gentil
Questa notte d'april!
e finisce con una squisita grazia disperata:
Ma sarò morto allora e piangerai.
Pure, nessuno piange, Ernesto non morrà; dice per chiasso, e la musica tradisce solo un grande amore soave, tutta dolcezza, con uno spizzico d'ardore, ma sempre trattenuto nella semplicità ineffabilmente affettuosa della frase dominante. Quell'amore non urla, nè strilla mai, il suo è un pathos languido, senza smorfie, ricco d'un'arte finissima di sottinteso che, senza nulla togliere alla tristezza amorosa e querula del lamento, lascia intendere ch'esso non ha nulla di veramente tragico, che a quella dolcissima serenata non terrà dietro una catastrofe, bensì un sereno duetto di amore. E quelle note, modulate con grande sentimento artistico, giungevano sino a me. S'impregnavano, passando, dell'olezzo insidioso dei lillà, morivano nelle penombre e negli splendori della: notte gentil, nei tepori profumati del: mezzo april. Giungevano là dove la luna irradiava e dove i tralci fremevano oscillando alla brezza; giungevano là dove un povero cuore di fanciulla batteva in tumulto, irretito nella terribile novità, nella dolcezza senza precedente di quella rivelazione. Ogni tanto, Folco mi guardava da lungi, sottolineando coll'accento le più gentili melodie della sua voce, inviandole sino a me, coll'espressione d'una grande tenerezza sottomessa, che vuole impietosire. Egli non credeva certamente di farmi del male cantando e guardandomi così; forse fu, in quel momento, una mia immaginazione, un'audacia presuntuosa del mio pensiero, un'insidia del mio stesso esaltamento. Forse egli scherzava soltanto; a volte mi pareva che il suo sorriso, tornato ironico ed umoristico, smentisse la sua voce ed i suoi sguardi, lasciandomi in un'incertezza spasmodica di gioia e di angoscia! Dei leggeri brividi percorrevano tutta quanta la mia persona, il respiro si esalava a stento dalle labbra riarse. E i fiori vicini al mio volto continuavano a profumare, con un'intensità che mi dava il capogiro, ma che io avrei voluto più forte, ancora più forte. Sentivo crescere, incalzare in me una gioia strana, disordinata come una follia. L'oppressione crebbe, uno smarrimento che aveva del delirio confuse tutto nella mia mente, divenne qualcosa d'inesprimibilmente acuto, forte, divino. Vissi uno di quei momenti indescrivibili, in cui l'anima sembra levarsi a volo, come un alcione sull'infinito d'un oceano di luce, di gioia ineffabile; vissi un minuto di estasi squisita, perfetta... senza macchia nè dissonanza; vissi lo Zenit della mia povera vita... Poi svenni quietamente sul panchettino.
Quando mi riebbi, non tornai in sala. Salii lentamente... come trasognata, nella mia cameretta. Mi coricai subito. Quando udii salire Lidia (dormivamo nella stessa camera) finsi d'essere addormentata.
Non ho mai più riveduto Roccalba.
Ora sono vecchia. Non ho mai amato. Ovvero... forse... non ho mai più amato.
Metempsicosi.
As you like it.
Questa storia non è accaduta a me. Ho assistito a qualcuna delle sue fasi. Probabilmente, se me l'avessero narrata o se l'avessi letta, ci avrei pensato prima di credervi, tanto essa si allontana dalle solite consuetudini del cuore. Pure non è che la schietta storia di un cuore. Qualcuno l'intenderà.... forse.
Mi trovavo, venti anni or sono, a Firenze, presso alcuni stretti parenti. Ero giovane; il carnevale era brillantissimo, e vedevamo sempre molta gente che si divertiva in cento modi, anche facendo del bene. Ero patronessa d'una lotteria di beneficenza e raccoglievo doni a dritta e a sinistra. A dir vero, ne raccoglievo molti e n'ero lieta pei miei poveri e per me, cioè pel primo amor proprio di patronessa.
Un giorno, mi giunse uno splendido invio. Un gruppo di statuette di Vieux Sèvres, colle due sue brave spade a tergo del piedestallo. Ebbi un grido d'ammirazione e d'entusiasmo.
Chi mandava quel dono principesco, accompagnato dalla più deliziosa e lusinghiera letterina di questo mondo? Lo mandava Ninì Montelmo... — La Duchessina.
Rimasi alquanto meravigliata. Non mi aspettavo da lei un simile dono. Non era certo un oggetto di quelli che sogliono donar le signorine in simili occasioni.
Poi non eravamo affatto intime, io e Ninì Montelmo. Ci conoscevamo da tempo, eravamo coetanee e ci trovavamo spesso assieme in società. Mia zia e la nonna di Diana si scambiavano qualche visita, ma fra noi non esisteva intrinsichezza di sorta. Come tutti, ammiravo Ninì, subivo il fascino della sua bellezza e del suo ingegno; la difendevo talvolta contro i tanti invidiosi che volentieri sparlavano di lei, ma nulla più.
Corsi a mostrare il gruppo alla zia. Essa lo ammirò al par di me; però, quando accennai all'obbligo d'una visita di ringraziamento in casa Sualta, mi rispose tranquillamente: — Ma certo, vacci pure oggi stesso; se vuoi, con Mademoiselle.
La quale Mademoiselle era la governante francese delle mie cuginette.
Avrei preferito e sarebbe stato più corretto (socialmente parlando) che la zia mi accompagnasse dalla Duchessa di Sualta, la nonna di Ninì. Ma mi era nota la poca tenerezza di mia zia per quella vana e frivola vecchietta, che aveva tanto vissuto per il mondo, tanto sciupato di quattrini e di cuore! Perciò non insistetti. Scrissi un rigo di ringraziamento a Ninì e l'indomani ci andai con Mademoiselle; cioè, questa mi accompagnò sino al portone del palazzo, promettendo di passare a riprendermi dopo la passeggiata delle cugine.
Era per l'appunto: il giorno della Duchessa di Sualta, ed essa riceveva in uno straricco salotto di damasco rosso.
C'era ressa di eleganti visitatrici e la padrona di casa era evidentemente soddisfatta di quel concorso. Non stava mai quieta; s'alzava, rideva, tornava a sedere, chiacchierava, gesticolava, con inesauribile vivacità. Era piccola, curva, pareva decrepita nella ricchezza gaia della sua splendida veste da ricevere. Ma una vera contentezza irradiava il suo visetto di scheletro, tutto infarinato di veloutine, pieno ancora d'una futile ed inimitabile grazia, del sorriso di un'incorreggibile civetteria senile. Certo; la vita diventava più intensa per lei in quell'ora di ricevimento, nella soddisfazione di essere centro di quell'accolta tanto mondana. Ell'era, io credo, veramente felice.
Cercai subito Ninì, collo sguardo. Ma il suo posto solito era occupato dalla signora Niuti, la dama di compagnia della Duchessa.
Questa non notò certo, forse non avvertì, l'assenza di mia zia. Fu meco d'una compitezza veramente carezzevole, s'informò di tutti i miei, mi chiese crucciosamente se mi divertivo, se ero stata a tutte le feste. Poi, con quel suo fare rotto, saltellante, escì a dire di Ninì:
— Era su, poveretta, stava nel suo salottino, non le aveva permesso di scendere a nessun patto. Oh! non si scherza colle infreddature! Ci mancherebbe altro che non potesse andare al ballo in costume di casa F.! No, non lo poteva dire, il costume di Ninì. Era un segreto, vedrebbero. Ieri Ninì era stata a letto, oggi no... ma non scendeva. Aveva avute anche lei le sue amiche, tante amiche.
Le nominò tutte, una filza, con grande compiacenza.
Poi mi chiese se volevo salire io pure. Ninì ci avrebbe tanto piacere; era sola.
Assentii di gran cuore, e poco dopo mi trovavo al secondo piano del palazzo, in quel famoso salotto che avevo tanto udito vantare. Lode, però, invariabilmente corretta dall'osservazione che, decisamente, non era un salotto da signorina.
Innegabile! Troppo bello, troppo elegante, troppo raffinato in tutto. Una reginetta non sarebbe stata a disagio in quel nido di peluscio azzurro antico, a riflessi argentei, seminato di rose d'un pallore appassito, nicchiate in un leggero contorno di verde tenero. Una profusione di statuette di Sassonia, tutte bianche, qualche gruppo di antico Capodimonte, qualche gingillo moderno, scelto col gusto più raffinato. Certi mobili strani, piccoli, fragili all'occhio, una biblioteca tutta bianca, colma di libri rilegati in pergamena bianca, una piccola scrivania in certosina, un pianoforte bianco pure, con certi fregi, a colori tenerissimi, nel più puro stile Vatteau, un tappeto bianco di velluto. Tutto ciò era disposto, presentato nel modo più squisito; l'assieme aveva un significato artistico dei più rari, era come una fantasticheria di eleganze candide, di delicatezze supreme. Vedendolo, si pensava: Ma cosa potrà ella avere di più bello e di più squisito in avvenire? Pure era qualcosa di così casto... di così ideale!... La Miranda di Shakespeare avrebbe potuto dimorare colà, ed offrirvi giornalmente una tazza di the ad Ariele. Ciò non avrebbe meravigliato alcuno.
— Buon giorno, cara! — disse a un tratto, dietro a me, una voce melodiosa.
Mi voltai e vidi Ninì Montelmo. Era in veste da camera.
Ora, ai miei tempi (non remotissimi, veh!) le fanciulle non portavano veste da camera. Giustissimo; per cento e una ragioni. Ninì non era dunque vestita da fanciulla, colla sua stupenda vestaglia sciolta alla vita, guarnita d'una profusione di Chantilly, colla sua fila di grosse perle al collo, colle perle alle orecchie, con quel rifulgentissimo brillante che le metteva come un piccolo sole sull'anulare della mano destra. Un'altra, così vestita, sarebbe parsa un figurino teatrale, Mignon quando è pazza, o la figlia di Rantzau quando è malata d'amore, o Violetta quando s'indugia, sì pateticamente, a morire. Ma Ninì non era altro che sè stessa, e nessun pensiero teatrale sorgeva dinanzi alla sua gloriosa originalità di tipo. Anche così vestita, ell'era inesprimibilmente fanciulla e damigella. Io la guardavo rapita, ed ella mi sorrideva dolcemente con un affetto gaio, di compagna, quasi di sorella.
Interruppe subito i miei ringraziamenti. Oh! era stata così lieta di potersi rammentare a me, per mezzo dei nostri poveri! Le avevo sempre ispirato della simpatia.
Certo, uno strano fascino faceva tepido e dolce l'ambiente attorno a noi. Era come se ci fossimo conosciute da un pezzo. Prendemmo subito a chiacchierare, con un grande abbandono, con un piacere squisito e con una confidenza che s'improvvisava, impetuosa quasi, nella schiettezza bizzarra del suo impulso. Io la trovavo un incanto. Glielo dissi e le dissi pure che mi era sempre parsa tanto, tanto diversa dalle altre ragazze!
Ella si mise a ridere. — Infatti, — disse, — sono originale. Cioè, ho il coraggio di esser me stessa. A volte, per gli altri, lo sono troppo. Infatti, non è un merito. È solo un orgoglio, forse. Ma come si può rinunciare a sè stessi? Che ne dite? Lasciate che vi dia del voi, come faccio a Napoli. Più tardi, quando ci ameremo ancora di più, ci daremo del tu. Ma sin d'ora, mi piacete tanto; per questo e per quest'altro.
Disse, a modo suo, con quella sua mirabile e festosa originalità, i perchè della sua simpatia per me. Ripeterli ora, qui, sarebbe alquanto ridicolo, naturalmente. Voi, lettore amico mio, non siete Ninì Montelmo, per esser meco tanto indulgente e chissà se Ninì Montelmo, ella stessa, e le sue idee e la sua storia non vi parranno tutto un assurdo, da cima a fondo?...
Continuavamo a chiacchierare, con vera passione. A un tratto, ella mi chiese tranquillamente:
— V'hanno detto molto male di me, nevvero?
Colta all'improvviso, arrossii, come una stupida e tentai un cenno di diniego; ma ella si mise a ridere.
— No, cara. Per questo appunto mi piacete, perchè nè voi, nè la vostra faccia sanno dir bugie. V'hanno detto... Volete che ve lo dica io, cosa v'hanno detto di me?
— Ma, cara Ninì, vi accerto...
— Oh lo so... nulla di grave. Decisamente, la società non ha per ora il diritto di mettermi in quarantena. Vi avranno detto soltanto che sono sprezzante, vana, eccentrica, capricciosa, spensierata, calcolatrice, maleducata, stravagante, insolente.
Ebbi un comico gesto di disperazione, ma ella proseguì:
— No, no lasciatemi dire, non sapete come ciò mi diverte! So d'aver tanti nemici, e questo forma la mia consolazione. It is the zest of life. Tante trame da sventare, tante insolenze da umiliare, tante bassezze da punire.
Tacqui, ma il mio volto parlò forse per me.
— Ebbene? — diss'ella interrompendosi.
Arrossii... non so perchè, e dissi timidamente:
— Sta bene. Ma mi pare che nella vita ci sia qualcosa di meglio di tutto ciò.
Ella taceva, pensando. Un vago sorriso socchiudeva le altere sue labbra. Continuai.
— Il zest della vita non sta forse nell'animosità.... anche la più nobile, la più equa. C'è qualcosa di meglio, Ninì cara, nella vita.
Ella sollevò il capo, dolcemente.
— C'è l'amore — disse adagio, mentre il suo sguardo assumeva una soavità.
— C'è l'amore — ripetei come un'eco.
Non arrossimmo, nè io nè lei, pronunziando quella audace parola. Entrambe avevamo pensato a quell'infinito dell'amore che, simile ad una madre, culla fra le sue braccia e nutre del suo latte l'anima dell'umanità tutta quanta.
Per un istante rimanemmo entrambe assorte nell'impressione grave di quella parola.
A un tratto ella mi chiese:
— Andrete al ballo in costume?
La guardai.... mi parve strana quella domanda, in quel momento. Pure dissi:
— Credo di sì. E voi?
— Farò il possibile per andarci. Adoro i balli in costume. Quando un costume non è ben scelto o non sta bene, è grottesco, ma quando invece è adattato e dà veramente l'idea del tipo che rappresenta, è una bellissima cosa.... è quasi una metempsicosi artistica. Ma con tutto ciò, non andrò al ballo se non sarò perfettamente guarita. Ho bisogno della mia salute.
— Perchè? — le chiesi ridendo.
— Pel mio avvenire — rispose ella, senza ridere.
Poi tornò a parlar dei costumi e mi descrisse il suo. Doveva esser qualche cosa d'ideale.... La nonna non pensava ad altro, da venti giorni.
— Povera nonna mia!... — disse Ninì con una tenerezza che aveva qualcosa di materno, — È così buona per me, mi ama tanto, sapete?
Lo sapevo, e però assentii. Ma sapevo pure quanto tutti criticassero quel cieco, imprevidente amore di vecchia mondana, che non aveva mai pensato al poi; che all'oggetto delle sue puerili tenerezze non aveva preparato nè un saldo appoggio, nè benessere reale di posizione, per l'avvenire.
— Povera nonna... — disse ancora Ninì, — mi ama tanto. A proposito, cara, non avete mai pensato se veramente sia meglio amare qualcuno a modo suo, anzichè a modo nostro?
— Sì — risposi. — Ma non ho mai potuto trovare una risposta soddisfacente. E voi?
— Neppur io. Credo che dev'essere un sacrifizio supremo il rinunziare alla nostra maniera di sentire l'amore ed assumerne un'altra. Non so se potrei farlo. Non so.
Si faceva tardi, una semi penombra invadeva il salotto, velando i suoi delicati biancheggiamenti. In quell'ambiente tanto sentito, in quell'ora che lo faceva più teneramente bello, io avvertivo fra me e Ninì un'intesa intima e dolcissima.
Ad un tratto ella s'alzò, quasi bruscamente e mi disse:
— Volete vedere la mia camera da letto?
Attonita, mi alzai pure e le chiesi:
— Somiglia forse a questo salotto?
— Vedrete — diss'ella, precedendomi per un ampio corritoio.
Ecco cos'era la camera di Ninì Montelmo. Era uno stanzone grande, basso, col soffitto e le pareti imbiancate a calcina. Due grandi finestre, senza parati nè cortine, lasciavano entrare una cruda luce, senza attenuazione. Il lettino, di ferro, piccolo, senza ornamenti di sorta, con una copertina di percallo lucido a fiori. Una Madonna bizantina e un grande crocifisso nero. Niente tappeto. L'ammattonato senza lucido, qua e là, accanto al letto e sotto il tavolino qualche pezzo di stuoia. Sei seggiole di Chiavari e un tavolo grande, coperto di libri. Tre piccole fotografie incorniciate e appese alla parete. L'ambiente freddissimo. Non potevo credere a' miei occhi. Guardavo, con una specie di sgomento e Ninì sorrideva, raggiante.
— È un capriccio? — le chiesi finalmente.
— Non è un capriccio, — rispose tranquillamente Ninì. — Qui penso a ciò che l'avvenire può arrecarmi e cerco foggiare l'animo mio, in modo che l'eventualità non giunga impreveduta. Mi alzo alle sei, studio sino alle due e mi preparo all'esame che prenderò, ma non qui, per non dar dispiacere alla nonna. Ella non sale mai, e dedica le ore della mattina alla sua toeletta. Dalle due in poi, appartengo alla nonna e abito le sue sale, ovvero il mio salotto; ricevo, esco, vado ai pranzi, alle feste, a teatro.... Conduco di fronte due diverse esistenze, in vista di ciò che può accadere.
Questo poteva accadere: ch'ella sposasse un re di corona, o un principe, o chiunque s'imbattesse ad amare. Ovvero ch'ella non sposasse nessuno e rimanesse sola, senza un tetto e senza un soldo, poichè la Duchessa di Sualta aveva sì gaiamente sperperate la propria e la sostanza dei figli. La rendita ch'ella godeva era vitalizia e non bastava certo alle sue abitudini di lusso e di sperpero. Le ipoteche gravavano il palazzo in città, divoravano la villa coll'accumularsi degli interessi non pagati. In seguito ad un compromesso con certi creditori, gli arredi, gli oggetti d'arte, le mobilie, i giojelli eran lasciati in godimento alla Duchessa, sinch'ella campasse. E toccava quasi settantacinque anni! Ninì era orfana, non aveva altri parenti, all'infuori della nonna e di uno zio che non aveva mai dato segno di vita, nonchè di parentela.
La baciai, con profondo ed amoroso rispetto.
— Studiate per l'insegnamento? — le chiesi, cercando di frenare la mia intima emozione.
— Sì, ma in pari tempo cerco di approfondire i miei studi letterari, temo d'esser troppo artista per la pedagogia.... Un momento ho pensato all'arte... ma non so altro che cantare!
Ebbe un gesto involontario ed altero. La intesi. Il pubblico, l'impresario, il compagno di scena! Oh no. Ninì Montelmo e il teatro!... Impossibile!
— Sarà quel che sarà, — disse. — Ma ad ogni modo, potrò far da me.
L'occhio suo scintillò di un nobile orgoglio.
— Ammenochè... — dissi sorridendo.
Ella sorrise.
— Può essere... — rispose con grande candore. — Non ho delle tendenze nichiliste e amo troppo le cose belle per rinunciarvi facilmente. Poi... lottare colle piccole necessità della vita. Pure preferisco ciò, al rischio d'un matrimonio come si fanno oggi. Sapete... dicono che ho delle idee tanto originali.
— Ebbene; — le dissi gaiamente — farete un matrimonio d'amore, vivrete in mezzo alle belle cose e non darete lezioni a dei bambini dispettosi.
Ella arrossì, qualcosa di incerto, di dolcissimo passò sul suo volto. Non parlò che dopo un istante.
— Come fa freddo qui. Andiamo di là.
Tornammo nel salotto, e poco dopo un domestico venne ad avvertirmi che la signorina mi attendeva. Nel congedarmi da Ninì, la strinsi al cuore, e con effusione vivissima le dissi ciò che pensavo di lei. E fu uno dei più cari momenti della mia vita. Le parlai, come sentivo, di quella sua strana alternativa di modi di vivere.
— Oh — diss'ella ridendo. — È quasi una metempsicosi, nevvero?
Mi trattenni un momento.
— È la seconda volta che sento quest'espressione in bocca vostra. Ci credete forse?
— Oh — rispose ella, ridendo — perchè no? Ma mi dorrebbe troppo rinunziare alla mia personalità, anche per assumerne una migliore. Sarebbe una prova eccessiva pel mio orgoglio, ch'è infinito... in tutto. Sono contenta che mi approviate. Ci rivedremo spesso, nevvero?
M'indugiavo ancora. Ma bisognò pur andare, e andai, recando meco un monte di pensieri nuovi, una salda amicizia e il fascino di quella creatura ideale nella sua vestaglia bianca, nel suo salottino di reginetta, con tutte quelle cose sì belle e sì candide. E ricordavo, entusiasta la mente splendida di lei, la sua mano da fata, la sua voce sì nobile, il suo sguardo sì fiero, mentre ella mi diceva ridendo: — È soltanto una precauzione... — guardando bravamente in faccia al suo crudele avvenire.
Nello scendere, feci una breve sosta al primo piano, per salutare la Duchessa. Era sfollato assai nel salone rosso. Accanto alla padrona di casa e fatta segno delle più premurose gentilezze, stava una signora sulla cinquantina. La sua persona aveva qualcosa di sfinito, il suo volto distintissimo era di un pallore cereo. Essa parlava poco in francese, con un filo di voce, che pareva venir da lontano, con uno stretto e fioco accento britannico. La Duchessa le diceva del raffreddore di Ninì ed ella ascoltava attentamente.
— Chi è? — chiesi alla signora Niuti, mentre, dopo aver fatti i miei saluti, mi allontanavo.
— Mrs. Spear, la madre di...
— Ah sì? la madre di sir Alan Spear? Quella signora sì malata, sì buona, che adora suo figlio, lo segue nei suoi viaggi...
— E vorrebbe dargli moglie... — soggiunse la signora Niuti, con un sorriso suggestivo, ma discreto.
Pensai a Ninì. Naturalmente. Grazie!.. altro che far la maestrina! Uno dei più bei nomi e una delle più belle fortune dell'Inghilterra. È una bellezza. Dio!... come starebbero bene assieme; quei due. Dovrebbe amarlo, oh sì!.. E se per l'appunto... ella lo amasse?
II.
Per l'appunto; essa lo amava.
Credè che nessuno se ne fosse accorto. Pure, quando ella me lo disse, io lo sapevo.
Egli pareva creato pel cuore di Ninì. Era di una bellezza grandiosa, bionda, serena. Pareva un antico Vitikindo. Nel suo aspetto era qualcosa di stranamente semplice e forte. A dir vero, eravamo tutte un po' innamorate di lui. Ma egli, benchè inglese, non flirtava per nulla. Era gentile con tutte, ma si occupava specialmente di Ninì, ciò era visibile, e pareva naturalissimo a tutti quanti.
Inutile negarlo... Ninì era sempre la prima fra noi. Quando ella compariva in una sala, produceva sempre, invariabilmente, una sensazione. Le ragazze si difendevano da quell'effetto, che gettava sempre un po' di ombra attorno a loro, le mamme; in silenzio, ne soffrivano. Si criticavano molto le sue toelette, ma ai balli susseguenti ce n'erano sei o sette imitazioni, e parevano sempre mal riescite. Gli uomini facevan ressa attorno a lei, essa li trattava con una cordialità un po' fiera, tenendoli molto a posto, alcuni dicevano che Ninì Montelmo era insopportabile, altri chiedevano s'ella avesse dote, e udito che no, scomparivano dal suo corteo. Parecchi avevano paura del suo spirito, altri del suo lusso, alcuni s'erano innamorati di lei senza chiedergliene il permesso e poi.... parevano cani scottati. Ell'era sempre brillantissima e trionfante. Ma scontava i suoi trionfi con quella specie di animosità generale ch'ella combatteva, serbandosi calma. Nulla pareva avere il potere di trascinarla. Non faceva pompa alcuna della sua rara coltura; ma le frivole ignoranze dei più restavano sconcertate dal senso intimo di quella sua splendida superiorità. Era acerbamente discussa, criticata e nel modo più contradditorio. Era troppo originale, troppo manierata, fredda, eccessiva in tutto, era vana, era civetta, non lo era abbastanza. Aspirava troppo alto, non pensava al suo avvenire. Si rimproveravano molte cose a Ninì: il passato leggerissimo della sua nonna, la frivolità ed il lusso della esistenza che conduceva con lei. Aveva delle pretese incompatibili colla sua situazione, aveva rifiutato degli eccellenti partiti, non aveva saputo farsi sposare da chi più le sarebbe convenuto. S'era presa il divertimento di umiliare Guarinaldi. Un po' sboccato, a dir vero, quel Guarinaldi... il terrore dei mariti e delle mamme, ma Ninì non avrebbe forse potuto difendersi con garbo, senza dargli una sì acerba lezione? Ma no... gliela aveva proprio voluta dare ed egli era diventato, naturalmente, un nemico. No, ella non sapeva trar partito dei propri vantaggi. Pure doveva premerle di mettersi a posto. Poichè se moriva la nonna... In miseria, mia cara, in miseria! E che farebbe allora, colla sua educazione, colle sue abitudini?
Il cruccio di tutti quanti. Che farebbe Ninì Montelmo quando fosse crollato il suo castello di cartone? Come escirebbe dal suo salottino di peluscio coi mobili bianchi?
Guarinaldi sorrideva cinicamente quando si parlava di questo.
Ma ella pareva vivere solo nel presente. Si difendeva soltanto quando non poteva farne a meno. Allora; puniva. Di scatto, con un frizzo sanguinoso, con uno sguardo, con un subito silenzio, non più; ma il castigo era sempre efficace. Per gli amici e le amiche era cordialissima, leale sempre e discreta; di una lealtà che aveva qualcosa di maschio, di forte e in pari tempo un'affettuosità al tutto femminile.
Quando si vide che Alano Spear si occupava di Ninì Montelmo, la cosa parve ostica a molti, ma a tutti naturale.
Per gli amici fu un'esultazione. Per molte compagne nostre e per le madri loro, fu uno strazio, temperato dalla speranza che fosse l'ultimo di quel genere. Per lui non era certo questione di dote. Tutto un concerto di: sta bene.
Si sapeva positivamente che Mrs. Spear, conscia della gravità del proprio stato di salute, desiderava ardentemente di veder accasato suo figlio. Ella non celava le sue simpatie per Ninì, nè il desiderio di poterla chiamare sua nuora. Ninì non poteva desiderare nulla di più splendido, di più adeguato a lei, alle sue più audaci speranze. Si attendeva di giorno in giorno l'annunzio ufficiale del matrimonio. Ma l'annunzio tardava. Ciò meravigliava alquanto me pure, perchè io sapevo che ella amava Alano Spear.
Io e Ninì avevamo stretta una vera amicizia, benchè le singole nostre occupazioni e il diverso ambiente non ci consentissero un'assoluta e continua intimità. Ma un'intesa esisteva fra noi e quando ci vedevamo, scaturiva subito dai nostri cuori. Stavamo assieme in società e talvolta, la mattina per tempo, la sorprendevo mentre era immersa nei suoi studi e la conducevo meco a passeggio ai Colli, o alle Cascine, ovvero fuori di qualche porta. E allora che gaiezza di passi e di parole, quanti soggetti ora sfiorati, ora approfonditi! E come eravamo bimbe talvolta!...
Me lo disse per l'appunto alle Cascine, in uno di quei grandi boschi remoti che l'umidità vicina dell'Arno serba sì freschi e sì belli. Era proprio una giornata di tempo fiorentino, vario cioè e bizzarro, col sole caldo e l'aria fresca. Gli alti cipressi, le quercie denudate spesseggiavano attorno a noi, rivestite dei loro tenui paludamenti d'edere, salite ad altezze incredibili. Il fiume, non visto, si tradiva, coi suoi odori umidi e coi suoi susurri. Nelle alte siepi ancor rivestite qua e là del velame delle antiche foglie, il vento metteva un piccolo stormire metallico. Laggiù; verso il tempietto dell'Indiano, una coppia d'innamorati s'internava a casaccio nello sfondo del viale, delle bimbe tedesche, bianchissime, ruzzavano poco lungi. Un vecchio leggeva, seduto su un panchetto. Lontano lontano, una fioca eco di scampanìo festoso, una voce di chiesa di villa, giungeva, non so d'onde, sino a noi.
A un tratto, in un viale laterale, riserbato ai cavalieri e serrato fra due alte siepi, s'udì il passo mirabilmente ritmico d'un cavallo fino.
Ninì alzò bruscamente il capo, ma non guardò oltre la siepe. Stette soltanto, con visibile tensione di nervi.
Io guardai, riconobbi sir Alano Spear. Il suo torso potente, la forte testa di re nordico erano soli visibili oltre la siepe. Passò, lentamente, tenendo la mano sull'anca, guardando diritto avanti a sè: Non ci vide. Poco dopo, s'udì il trotto regolare ch'egli aveva fatto assumere al suo cavallo.
— Sir Alano, — dissi alla mia compagna.
Ella chinò il capo. — Lo sapeva. Un lievissimo tremito passò sulle sue labbra, il suo sguardo ebbe un'espressione indefinibile, una specie di vaga estasi... Poi mi sorrise, rossa come una fragola ed era sì bella, sì cara, sì donna in quell'istante, ch'io me le feci accanto, le presi la mano e gliela strinsi forte, così forte da farle male. Ella mi diè un rapido sguardo di gratitudine, poi la sua testina si protese verso il viale ove veniva meno, allontanandosi, lo strepito di quel trotto.
Allora; essa mi disse che lo amava... L'aveva subito amato, appena conosciuto!
Subiva completamente il suo fascino. Tutto le piaceva in lui, la persona, il volto, i modi, quella stessa sua rigidità britannica un po' accentuata, quella sua calma perfetta, non immune di una leggera sfumatura di malinconia. Non sapeva come nè perchè... ma lo amava!... ecco... lo amava!
Oh! com'era dolce ed umile Ninì Montelmo mentre parlava del suo amore, mentre, più ancora a sè stessa che a me, ella veniva narrando ciò ch'era finalmente accaduto nell'altero suo cuore, il turbamento primo, le evoluzioni del dio ignoto, il tremore sì dolce della passione! Ella poteva esser gloriosa di quel sentimento, tutto si conteneva in esso, stima, simpatia, ammirazione! Le pareva così giusto, così semplice di amare quell'uomo! Era come una suprema giustizia, un compenso della Provvidenza. Poichè ella aveva sofferto tanto... sempre... di tutto! Aveva tanto sofferto della mancanza dei genitori, delle circostanze, della censura dei maligni.
Aveva sempre sentito, col suo raro buon senso, l'anormalità della propria situazione, l'ambiguo stato di celata difensiva cui l'astringeva... Ella, sì orgogliosa, sì impetuosa, sì ardente! Ma ora, ora!...
La sua voce aveva delle grandi vibrazioni larghe, musicali. Il suo volto raggiava di quella luce che ogni grande manifestazione accende nei volti sinceri. — Sì... ciò ch'ella diceva era sincero ed umano, era quella sì rara, sì divina cosa: l'accento dell'amore. Ninì era in quel momento d'una bellezza meravigliosa, mentre si abbandonava all'effusione irrefrenabile di un sentimento fatto per lei e che l'investiva tutta ormai, tutta quanta.
— Ebbene; — le dissi, quando, vinta dalla violenza stessa del suo sfogo ella tacque, tremante come le corde d'una lira testè deposta. — Ebbene; Ninì, tutto è per il meglio nel migliore dei mondi. Tu l'ami, egli ti ama.
Con mia grande sorpresa, vidi un'ombra posarsi sulla fronte di Ninì. Qualcosa dell'intensa luce d'un momento prima, venne meno nei suoi sguardi.
— Sì — disse lentamente — l'amo.
— E lui ama te.
Ella tacque.
— Ti ha chiesta in sposa!
— Sì.
— Lo ha detto a te!
— Sì.
— Ma dunque?
Ninì ebbe un gesto vago, dubbioso.
— Hai accettato? — insistei.
— Non ancora, ho chiesto un indugio.
Tutto ciò mi pareva impossibile. La guardai, come si guarda un fenomeno.
— Ma Ninì, tu scherzi.
Ci amavamo molto, ora, e ci davamo del tu.
Ella scosse il capo.
— Non ho mai scherzato coll'amore, ma non posso dir di sì, prima di esser certa.
Esitò, visibilmente turbata. Poi a voce sommessa, come se parlasse a sè stessa:
— E se non mi amasse? — chiese angosciosamente.
Guardai fiso Ninì. Non so come, in quel momento mi parve malata. Cercai a lungo, ma non trovai che una risposta.
— Ma se ti ha chiesta in sposa!
— Sì, — diss'ella, ravvivandosi per un secondo. Ma soggiunse, con infinito scoramento: — E se non mi amasse!
Una fissazione, evidentemente. Assunsi il tono di chi parla ad un fanciullo caparbio.
— Suvvia Ninì, non sciupare, con quelle ubbie senza base, la tua vera, la tua rara felicità. Non essere sragionevole. Sir Alano è padrone di sè stesso, della sua volontà. Nessuno lo costringe a prender moglie. Ti ha scelta fra noi tutte. Se non ti amasse non ti sposerebbe... Tutti lo vedono e lo dicono: Egli ti ama.
Ella sorrise, con un subito ritorno all'estasi di poc'anzi.
Tacemmo alquanto.
— Mi ama? — chiese, ella a un tratto, con un abbandono quasi angoscioso, come un neofito che, malato di scrupoli, chiedesse al confessore: Padre salverò l'anima mia?
Stavolta alzai le spalle; decisamente. Non sta bene, ma le alzai.
Non capivo come ella potesse rivolgermi quella domanda.
— Ma, Ninì mia, si possono chieder queste cose? Non son cose che s'imparino... si sentono. Ogni donna sa se è amata o se non lo è.
— Non sempre, — disse meditativamente Ninì. — Si sa sempre, se si è o no simpatica ad un uomo. Questo è vero. Ma non si sa sempre se egli vi ama, specialmente quando voi lo amate tanto... così!
— Ma qual prova più evidente che il volerti sua?
— Infatti... Ma se non mi amasse!?...
Un grande spavento, un'angoscia nera passò nei suoi occhi. Ella ebbe un lungo fremito.
Non sapevo più che dirle; io stessa ero impensierita da quella strana insistenza di Ninì.
Tacqui.
Allora essa mi disse:
— Sei in collera con me?
— Oh Dio! no... Ma mi duole vederti così turbata e così sragionevole. Mi pare che hai torto, in tutti i modi.
— Può essere — mormorò Ninì, con profonda umiltà. — Ma vedi, cara, in amore il non essere convinti... è terribile. E se sapessi; io ho tanto orgoglio... tanto!
— Troppo, — ribattei prestamente.
Le sue spalle ebbero un piccolo moto nervoso, quasi convulso.
— Dio mi aiuti — disse poscia. — Andiamo.
E si alzò.
Ce ne andammo, senza parole, pel silenzio mattutino dei viali.
Prima di lasciarla, presso al portone dei suo palazzo, le dissi, stringendole la mano:
— Pensaci, Ninì. Non sciupare la tua vita e il tuo avvenire. Non chiedere troppo. Ama più semplicemente.
Ella mi guardò con profonda angoscia.
— Hai ragione, — mi disse.
Le sorrisi, e stavo per lasciarla su quella buona parola, quando ella mi trattenne e mi disse: — Sai quanti sensi abbiamo?
Trasecolavo.
— Tu credi che siano cinque, nevvero? Ebbene, sbagli; sono sei. C'è il senso intimo, ignoto, quello che sta di casa nel cuore della donna e di lì, parla ed avverte.
— E se invece fosse la voce della nostra presunzione, del nostro orgoglio?
— Oh! — gridò quasi Ninì, — se avessi ragione tu!...
Una donnetta che passava udì e si voltò, meravigliata. Ninì si mise a ridere.
— Vedi — mi disse — diamo spettacolo. Ora; addio. Penserò a ciò che mi hai detto. Mi hai fatto del bene. Ci vediamo in casa C. domani sera?
— Sì, certo. Sia ragionevole e non esserlo fuor di luogo. Ti voglio bene. A domani sera.
III.
All'indomani sera c'incontrammo in casa C. Ai ricevimenti di casa C. non c'è mai folla; è forse la società più esclusivamente scelta di Firenze. Una delle spose di casa è inglese ed ha naturalmente recato con se un po' di elemento britannico, assieme ad un nome storico come è storico quello da lei assunto, sposandosi. Due belle armonie aristocratiche. I grandi nomi della nobiltà inglese, di passaggio a Firenze, echeggiano bene nella vastità sonora dei grandi saloni di casa C., ospitali del paro all'aristocrazia del carattere e dell'ingegno. Ma John Büll, istivalato, chiassoso, testè arricchito, che sa di porter, lo sciame leggero delle Mistress e delle Miss erranti per la comoda indulgenza delle città d'inverno e che sembrano incaricate della missione di darci una sì sconfinata idea dell'emancipazione femminile... oh! tutta questa gente ammira moltissimo, passando sul Lung'Arno, la splendida facciata esterna del palazzo C. Più, due volte alla settimana, ha libero l'accesso alla celebre Pinacoteca di casa.
Non folla adunque, ma il fior fiore di Firenze e della società forestiera. Si fa musica, non troppa, nè d'un solo genere, e sopratutto, senza pretesa. Alcune fra le signore C. sono musiciste emerite, mi rammento d'aver udita una volta mirabilmente, classicamente eseguita da un'adorabile tribù di bimbi e bimbe di casa, la sinfonia dei giuocattoli di Haydn. Che cara e squisita cosa e che spettacolo gentile! Ma scusate, divago un pochino, nevvero?
Quella sera venni presto. Ero inquieta, per Ninì, s'intende. Avevo ormai preso ad amare davvero quella strana creatura, tanto tormentata dall'ironia del caso, tanto atta a tormentare sè stessa. La sentivo in pericolo, mi spaventava l'idea ch'ella potesse, per una sì sottile esagerazione dell'amor proprio del cuore, rinunziare ad una sorte che la Provvidenza stessa pareva essersi compiaciuta a creare per lei. Poichè in tutto e per sir Alano era adatto a lei. Non solo per la splendida posizione, oh Dio!... no! quello era il meno. Ma pel carattere serio, dolce, veramente maschio, per lo spirito nobilissimo e colto. Aveva viaggiato molto, pubblicati parecchi volumi di viaggi, rappresentava al Parlamento inglese un'opinione che aveva già notorietà ed autorità proprie. Ed era sì bello! Nessuno avrebbe potuto sognare, nè bramare un marito migliore per Ninì.
Ed ella, amandolo, esitava!
Non veniva mai; quella benedetta Ninì. Il crocchio delle ragazze s'era formato nel primo salotto, io aveva veduto entrare Sir Alano e colto al volo lo sguardo indagatore ch'egli aveva gettato sul nostro gruppo. Ero distratta, rispondevo un po' a casaccio e non m'interessavo punto al cicaleccio delle mie compagne. Parecchi giovani erano venuti a raggiungerci e le chiacchiere si facevano più vive. Finalmente, mentre stavo per farmi visibilmente inquieta, ecco giungere Ninì Montelmo. Venne, s'intende, con quello sfarzoso e lieto cadavere vivente che si chiamava la Duchessa di Sualta.
Chiudo gli occhi e rivedo Ninì, qual'era in quella memoranda sera, colla sua veste in voile de religieuse rosa, senza fiocchi, senza guarnizioni di sorta. La sua persona pareva contenuta in un grande petalo di rosa, perfettamente assestato. La vita non era scollata, saliva a serrare castamente la nuca nobilissima. Ella aveva due piccoli, fulgentissimi brillanti alle orecchie, non penduli ma infissi a perno nel lobo; due salde goccie di rugiada accanto alla sfumatura rosea delle sue guancie. Mi sorrise, passando, gettandomi, con un'affettuosa occhiata, un cenno quasi impercettibile d'intesa.
Una gioia m'invase il cuore. Mi parve che quello sguardo volesse dirmi: — Sono decisa, sai?
E anche ora, dopo tanto tempo e a dispetto di tutto, io ne son certa. Son certa che Ninì, entrando quella sera in casa C., era decisa a sposare sir Alano Spear.
Mentre ella passava, tutti tacquero, per un momento. Ognuno scordò sè stesso, per guardar lei. Quando non si vide più, due o tre di noi mandarono un respiro, come al cessar d'un'oppressione.
Si parlò subito di lei, naturalmente, ma poco, con cautela. Ognuno pensava al probabile domani di Ninì, a quel glorioso avvenimento che avrebbe in sì acerba guisa castigata ogni malevolenza dell'oggi.
L'attenzione fu poscia distratta dall'entrata di una coppia giovanissima, che tutti accolsero con un coro di acclamazioni festose. Dino degli Ardinelli e la sua piccola moglie. Il romanzo dell'anno scorso che tornava dal viaggio di nozze, in Inghilterra. Quanto avevano fatto parlar di loro, quei due monelli, otto mesi prima! Essa era inglese, sedici anni, minutissima, un niente di personcina e di dote. Lui; vent'anni, un nome da trovare ad ogni pagina del Berni o del Boccaccio, ma undecimo figlio nella arcinobilissima casata. Poi; l'età... figurarsi! I rispettivi genitori avevano fatto l'impossibile per impedire il matrimonio, ma sì! avevano fatto tanto chiasso, quei due, lei s'era messa a intisichire con tanta grazia, lui a informarsi sì risolutamente delle navi in partenza per l'America, che s'era dovuto venire a patti e dir di sì... Il bello è ch'erano innamorati davvero, coll'impeto e la crisi d'un'acuta malattia d'amore: qualcosa di assurdo e di reale, sul gusto di Giulietta e Romeo. Appena sposati e per farsi perdonare s'erano andati a nascondere in Inghilterra da una ricca zia della sposa, parente anche degli Spear. Ora tornavano; più bimbi, più spensierati, più felici che mai, con delle visibili novità a palazzo e colla prospettiva di andar a tubare per dieci mesi dell'anno in una microscopica villetta del Casentino. Ma ciò non li sgomentava affatto.
I profeti piagnucolosi, la gente previdente e assennata, tutti coloro che avevano predetta l'imminenza del terribile risveglio, non erano punto soddisfatti. L'imprudenza del piccolo Dino e della piccola Alice non era peranco stata raggiunta dal castigo, zoppo forse od impietosito. Erano anzi tanto felici da riuscire ridicoli, e da disarmare gli avversari; la maternità, nella piccolissima personcina della sposa, contrastava in modo strano coll'inesprimibile gioventù di lei, col suo fare da bimba, coll'espressione fanciullesca del visetto. E lui... che futuro papà per ridere! Erano gloriosi e patetici nel loro trionfo di ragazzi sposati, nella loro enorme avventatezza di cuore, nella temerità della loro presa d'assalto della vita!... Ma come li festeggiavano, com'eran chiamati, canzonati, invidiati a dritta e a sinistra! Si rideva, teneramente, di loro.
Un crocchio di maestose matrone aveva accaparrata la sposa ed essa scompariva quasi, affondata in mezzo ai grevi broccati, ai velluti e alle trine di quelle grandi autorità benevole. Dino, per un subito ritorno alle antiche abitudini, era venuto nel crocchio nostro, tutto di ragazze e giovanotti scapoli. Ci narrava, saltando deliziosamente di palo in frasca, una vera miscela d'impressioni di cuore, di viaggi, di caccie, di concerti, di corse, di usi inglesi, di feste fatte a lui e a sua moglie.
Ah! quante volte tornava in campo il nome di lei, colla carezzevole intonazione toscana che lo faceva diventare: Alisce!
Quel caro Dino, faceva di tutto per esser saggio e prudente, per non parlar troppo a noi, povere ragazze, della sua felicità e di quella di Alisce; ma che!... ogni momento gli pigliava il morso ai denti, quella biricchina di felicità e via!...
Una delle padroncine di casa venne a pregarci di passare nel gran salone. Si faceva musica.
Obbedienti all'invito, ci recammo tutti di là, nella vastissima sala ove si riunivano tutti quanti gli invitati ed il nostro gruppo si scompose; sparpagliandosi qua e là. Accanto a me, non rimasero che due o tre ragazze e Dino, il quale aveva stabilito con Alisce una corrispondenza telegrafica di non dubbio significato. Infatti, tanto armeggiò quella cara Alisce che riescì a sbucar di mezzo alle matrone e procedendo con infinita cautela, evitando scogli ed intoppi, sbarazzandosi gentilmente degli importuni, finì col venir a raggiungere suo marito. Accaparrarono subito, lì accanto, una di quelle duplici e complici poltrone ad S e non giurerei, che pure accogliendo con grazia infinita i nostri affettuosi complimenti, quei due spensierati non si stringessero ogni tanto, celatamente, la mano. Io non vedevo nulla, s'intende. A dir vero, non mi occupavo troppo di loro. Quelle erano le pecorelle sul monte, a me premeva la mia pecorella; quella che si trovava, sola, sull'erto e spinoso sentiero. Parevo prestare la più religiosa attenzione alla bella suite di Moskoswski che la contessa Balzi e Poppino Denzato eseguivano con rara maestria, una sul piano, l'altro col violino, ma in realtà tenevo dietro, attenta e soddisfatta, ad un altro duetto: quello di Ninì e di Alano Spear.
Erano quasi dirimpetto a me e sedevan vicini. Attorno a loro, s'era formato un piccolo vuoto. Egli si chinava ogni tanto a parlarle sommessamente ed ella rispondeva volgendo il capo verso lui, con una mossa soave, quasi docile, con dei sorrisi sereni e paghi, lo sguardo sollevato, aveva una lenta e luminosa dolcezza!... Ah!... così la volevo; senza alterigia, senza sarcasmo, senza ironia, evidentemente soggiogata dal suo sentimento... così ella era degna del suo destino.
Finito Moskoswski; venne la seconda Rapsodia di Liszt, un po' tempestata, a dir vero, su quel povero Erard, da un dilettante semi-maestro, poi la Marcia del Tannhauser eseguita a otto mani, poi vidi una delle padrone di casa dirigersi verso Ninì e rivolgerle qualche frase. Evidentemente; le chiedeva di cantare.
Ninì si alzò tosto.
Non soleva farsi pregare, e non accampava mai le solite scuse delle altre dilettanti di musica. Andò diritto al piano.
Prese a cantare. Il suo maestro, Barbirolli, l'accompagnava.
Scelse la romanza di Melilotti: «Ad una stella.» Dopo tutti i clamorosi pezzi testè eseguiti, dopo quella musica straniera, sapiente e tormentata, quella delicata composizione, sì prettamente italiana e melodica, giunse a tutti inattesa e gratissima. Si sparse per la sala come uno squisito olezzo musicale, parve all'orecchio del pubblico una carezza blanda, una di quelle cose che parlano non a tutti, ma ad ognuno, intimamente.
Ninì non aveva molta voce, ma il suo mezzo soprano era d'una purezza e d'una freschezza grandi. Aveva avuta un'eccellente educazione musicale e il suo squisito sentimento artistico le tornava di grande aiuto. Il timbro della sua voce possedeva una specie di sentimento proprio, genuino, un non so che di appassionato e di commosso ch'ella frenava, velandolo, ma che pur si tradiva. Vocalizzava mirabilmente e le parole sì caste e pur sì innamorate della romanza stavano tanto bene in bocca sua:
La stella è in cielo e non si può toccare!
E mentre così cantava, ella stessa pareva poggiare su una serena altura siderea; era, luminosa e pura come una stella fissa, ma col palpito scintillante d'un pianeta. E dalla terra, la voce dell'intensa brama saliva umile, piena di preghiera, affidando alle nubi il messaggio amoroso:
«Ditele in cortesia gli affetti miei.
Chiedendo che la stella» fatta mortale «scendesse sino a lei; ma subito, quasi correggendosi» implorando l'ali «per salire così, se non altrimenti, a raggiungere l'astro!»
Ninì disse tutto ciò con grande semplicità e con profondo sentimento, modulò colla sua tenera voce, tutte le tenerezze desiose della musica, pareva che la sua voce e la sua anima fossero una cosa sola. Tacevano tutti, sotto l'impero e il fascino di quelle semplici note.
Guardai Sir Alano. Era molto pallido ed ascoltava intensamente, cogli occhi serrati.
Lo sapevo appassionatissimo di musica, e più d'una volta avevo osservato in lui quella strana particolarità di tener chiusi gli occhi, quando cantava Ninì. Li riapriva, non appena ella aveva finito di cantare, ma la sua fisonomia serbava per qualche minuto un aspetto strano, speciale, qualcosa, come s'egli fosse tuttora sotto l'impero d'un sogno.
Quando le note, vibranti e pure, s'ammorzarono nella dolcezza estatica della cadenza finale, l'applauso irruppe spontaneo, più caldo forse di quanto lo consentano le discrete consuetudini della società. Molti furono d'attorno a Ninì, congratulandosi seco lei. Ella era ancor tutta vibrante d'emozione, stordita, confusa da quei battimani; arrossiva, rispondendo con perfetta modestia ai premurosi elogi della padrona di casa e di quanti le stavano attorno. Io m'ero alzata di scatto, impaziente di andarle a dire una calda parola di simpatia. Dino mi tratteneva e in pari tempo interpellava Alisce.
— Alisce... ma senti, bimba... oh non ti par la sua voce, tal e quale? Dio! come canta bene! Ma nevvero, a chiuder gli occhi si potrebbe giurare ch'è lei?
Alisce assentiva, trovava ch'era una cosa stranissima, che Dino aveva cento ragioni, ch'era tal e quale la voce di Mrs. Alloys.
Non udii altro, avevo veduto libero il passaggio e fui in un lampo presso Ninì.
Ella mi strinse la mano, nervosamente. Poi mi disse: — Andiamo.
Voleva involarsi a quella grandine di mirallegro?... Ovvero le pareva d'essere stata abbastanza a lungo con Sir Alano, isolata quasi con lui, dalla complice benevolenza degli amici?
La condussi al mio posto, sedetti accanto a lei. Osservai che Sir Alano non la perdeva d'occhio.
Va bene, disse il mio cuore esultando, tutto va bene!
Ahimè, no!... tutto andava a rotoli.
Dino e Alice s'erano fatti attorno a Ninì e la colmavano di complimenti. Battevano, ribattevano su quel chiodo, la perfetta somiglianza della sua voce con quella di Mrs. Alloys, lo stesso timbro, la stessa intonazione.
Ninì si mise a ridere e si protestò felicissima di questa somiglianza con Mrs. pardon;... avevano detto?...
La piccola copia cascava dalle nuvole.
— Come! Ninì non aveva sentito parlare di Mrs. Alloys, la professional beauty... la great attraction dell'ultima season?... l'artista impareggiabile che aveva fatte le delizie dei concerti di Londra?
— Ah! una cantante — disse Ninì, con un'ombra di gaia canzonatura.
Dino prese fuoco e fiamma. — Ma niente affatto, una cantante!... nevvero, Alisce? Una signora distintissima, di eccellente famiglia che aveva avuto dei rovesci di fortuna; un marito indegno, il quale era morto, per fortuna. Dava concerti e faceva girare il capo a mezza Londra. Una bellezza, per giunta e più bel tipo inglese che si potesse immaginare. Ne chiedessero un po' a Sir Alano Spear!
Trasalii; voltandomi verso Dino, angosciosamente.
Ma egli non sapeva nulla e nulla intese. Ninì era rimasta immobile... d'una serenità glaciale.
— A Sir Alano Spear? — disse dopo un istante e con perfetta calma. — E perchè?
— Perchè n'era innamorato morto — ribattè Dino — nevvero, Alisce?
Alice assentì, energicamente.
— Certo, una vera passione, voleva assolutamente sposarla.
Mi sentivo venir freddo. Feci uno sforzo disperato per stornare quel soggetto di conversazione, ma Ninì m'interruppe alla sua volta, con una dolcezza risoluta.
— No cara, ti prego, lascia che udiamo i dettagli di questa interessante notizia. Allora... lei diceva, Ardinelli...?
Gettai a Dino uno sguardo sì turbato, che egli comprese, così in confuso, d'essere su un terreno scottante. Ma era troppo inesperto per togliersene con disinvoltura.
Esitò un istante ed Alice venne alla riscossa.
— Ma sicuro, la voleva sposare... Sua madre non voleva; per cento ragioni, ma lui... ostinato. Sfido! un uomo del suo carattere ed era una vera passione; una di quelle che si hanno una sol volta in vita.
E guardò tragicamente il suo bel maritino.
Ninì aperse il ventaglio e lo rinchiuse, con una piccola crispazione della mano.
— Perchè non si sono sposati? — chiese con una voce senza accento... stranamente pallida.
— Perchè Mrs. Alloys morì, — s'affrettò a dire Dino, — morì d'una malattia fulminante. Eh! ci furono dei funerali splendidi, i giornali erano pieni di notizie sul conto di quella poveretta. Si susurrò che Sir Alano...
Interruppi stavolta, recisamente; Ma ancora Ninì mi fe' cenno di tacere, ancora si rivolse a Dino. — Ebbene? — disse.
— Sua madre lo condusse via. Vedo che sono qui, ora. Quella povera donna, mezza morta com'è, non lo lascia mai. Poi, siccome chiodo caccia, chiodo, vorrebbe, prima di chiudere gli occhi, fargli prender moglie. Ma è certo che non la prenderà per ora... ammenochè...
— Ammenochè? — chiese Ninì, che s'era fatta assai pallida.
— Ammenochè non trovi una persona che som... Tò!... che si fa ora?
Quel rapido mutamento di parole era cagionato da un movimento generale delle persone riunite nel gran salone. Alcuni valletti avevano allontanato il piano e andavano rimovendo i mobili dal centro della sala.
— Scommetto che si balla! — sclamò Alice entusiasmata.
Si ballava infatti. C'era molta gioventù quella sera, avevan chiesti ed ottenuti i tradizionali quattro salti.
Le vicende di quella danza improvvisata mi separarono tosto da Ninì e dagli Ardinelli. Credo che i miei ballerini furono quella sera assai scontenti di me. Ballavo come un automa, senza prestar loro la minima attenzione, assorta, qual'ero, nell'angoscia del recente e sciagurato episodio. Serbavo bensì una vaga speranza che Ninì non avesse dato gran peso alle chiacchiere di quei due ragazzi, ma in pari tempo pensavo al morboso orgoglio della mia amica, alla sua strana, assoluta idea dell'amore. I miei sguardi erano sempre in traccia di Ninì, cercavo indovinare qualcosa nei suoi moti, nei suoi gesti. Ma nulla traspariva in lei dell'interna tempesta, ella danzava, chiacchierava colla solita sua calma regale.
Il cuore mi battè forte quando vidi che Sir Alano veniva ad invitarla. Essa lo accettò, come aveva accettati gli altri, la coppia bellissima; volteggiante, passò più volte dinanzi a me, seguita da molti sguardi ammirativi.
Mi parve osservare che Ninì danzasse con una specie di rigidità, insolita in lei, che il suo corpo avesse una mossa dura e stecchita.
In un momento di sosta potei raggiungerla. Essa parlava tranquillamente col suo ballerino, il conte Rinaldi. Parlavano delle prossime corse. Stava ritta davanti a una seggiola.. A un tratto; con un brusco movimento, sedette su quella seggiola, poggiò il capo alla spalliera, e per un secondo chiuse gli occhi. Ma subito li riaperse, sorrise e disse: — Che bell'idea, quella di ballare stasera, nevvero?
— Certo — rispose Rinaldi. — Fa molto caldo però. Crede?
Si chinò, offrendole il braccio. Ella s'alzò di scatto, e quei due s'allontanarono assieme, scherzando e danzando.
E così, sino alle due di notte.
Un istante, mentre non vedevo Ninì e la cercavo cogli sguardi, sentii una mano tremante posarsi sulle mie spalle. Mi voltai; era lei. Sola... per un minuto. Il suo ballerino s'era trattenuto poco lungi a combinare con un amico, pel vis a vis della quadriglia.
Ella mi guardava fisso; con degli occhi grandi, esterrefatti, le sue guancie avevano una tinta brillantissima.
Cercai di prenderle la mano, ma ella la ritrasse e disse ridendo — No... no! — E subito; con voce bassa, smarrita, susurrò: il sesto senso! Poi rivolgendosi al suo cavaliere che, lasciato l'amico, veniva in cerca di lei:
— Ebbene, ha combinato per la quadriglia?
— Tutto combinato — disse quegli lietamente. E la condusse nella sala da ballo, ove la musica dava il segnale.
Una volta e non più la vidi ancora con Sir Alano. Stavano ritti, silenziosi, uno accanto all'altra. Ella pareva di marmo. Sentii un gran freddo al cuore e dissi fra me: È finita.
Quando la zia mi chiamò per andar via, Ninì ballava tuttora. Pareva sempre una rosa, ma, non so come, nè perchè, pensai ad una rosa che, brancicata, si sfogliasse. Udii ancora parlare con invidia e ammirazione del suo matrimonio... sicuro ormai.
Nell'atrio, mentre aspettavamo la carrozza, udii da un giovane, che dietro noi scendeva le scale, cantarellare (maluccio a dir vero) la romanza di Ninì:
Mi sono innamorato d'una stella.
Sentii gli occhi farmisi gonfi di pianto. Prima d'entrare in carrozza, guardai il cielo. Era tutto nero di nubi.
IV.
Forse sorriderete, leggendo quanto sono per scrivere. Soffersi crudelmente, in quei giorni, a cagione di Ninì.
Avevo preso ad amarla, con grande e sincero amore, con quella strana sorta di amicizia che assume talvolta, tra fanciulle, un non so che di passione. Impossibile definire questa specie di sentimento, esso si urta necessariamente a troppe incredulità di apprezzamenti, ovvero, peggio ancora, a delle interpretazioni tanto erronee da sconcertare ogni ragionamento in proposito. È una cosa dolce ed acuta, una bizzarra entità di fatti e di cure, è una preoccupazione costante di: lei per lei, un assieme di tenerezze, capricci, crucci, gelosie, sacrifici, anche gravi, se occorre, trasporti, grandi scosse intime, sincere, cementate sopratutto da quell'indispensabile elemento d'ogni forte senso del cuore, la convinzione, che debba durare eternamente.
Più tardi; da lontano, passato qualche anno, passati alcuni dei veri casi della vita, si pensa talvolta a quelle strane passioni, cadute in oblìo o ridotte alle proporzioni reali dell'amicizia, e non si sa più cosa siano veramente state. Chiediamo anche al nostro cuore: Come mai? — Egli non risponde, perchè non si rammenta neppur lui — Pure; così fu!...
Dunque; soffrivo.
Sopratutto: di non sapere.
Dopo quella sera fatale, non avevo più veduta Ninì. Non era più venuta da me ed io non ero più andata da lei. Un senso intimo, un istinto, più che altro, mi diceva che ella, vedendomi, doveva soffrire d'avermi detto: l'amo.
Pure; avrei dato non so che per vederla, per stringerla al cuore!
Per qualche tempo non l'incontrai nè alle Cascine, nè alla Pergola, non venne neppure al concerto di Tofano, il che mi fece un certo senso. E non si videro neppur i Spear. Non osavo chiedere; avevo desiderio intenso e in pari tempo terrore grande di sapere il vero.
Lo seppi, ciò nullameno, in capo a cinque o sei giorni.
Ahimè! il mio terrore era più che giustificato dai fatti.
Ninì aveva formalmente rifiutata l'offerta di Sir Alano e gli Spear avevano già lasciato Firenze per l'Inghilterra. La Duchessa di Sualta era ammalata, e non lievemente.
Non si parlava che di Ninì Montelmo e per biasimarla, con tutta l'asprezza possibile. La reazione del guardingo silenzio, dovuto all'incertezza di prima, si palesava ora, compensandosi e vendicandosi. Tutte le invidiuzze, le basse ire, le segrete animosità si scatenarono, all'unisono, in quella propizia occasione. Oh! il sogghigno di Guarinaldi, il suo breve, sibilante commento del rifiuto, i mal frenati sorrisi che raccolsero! Avrei dovuto fingere di non intender colui, qualcuno sorrise fors'anche del violento rossore che m'imporporò la fronte, quando udii quelle attossicate parole! Capisco; avrei dovuto fingere di non capire o imitare la piccola Maria S. colla sua schietta risata e il suo innocente: Oh bella!... e perchè non poteva sposarlo?
Ma tutto ciò non me lo dissi che più tardi. In quel momento non seppi che arrossire, e deplorare di non essere un uomo, per poter ricacciare nella sozza gola di colui la frase che n'era uscita a proposito di Ninì!
Che giorni furono quelli per me! Non si poteva por piede in un salotto, nè ricevere tre persone senza che quel fatale argomento non tornasse a galla. Aveva prese le proporzioni di uno scandalo. L'amarissima critica, le ingenue meraviglie, il discreto deplorar del fatto, s'alternavano di bocca in bocca. Crudeli, ingiusti quasi tutti, verso quella gloriosa creatura che avevan tanto temuta, tanto invidiata per l'addietro!... Ma ella non era presente, i maligni non subivano il freno de' suoi freddi sguardi, della sua schiacciante ed orgogliosa purezza. I molti suoi amici la difendevano, ma nulla potevano asseverare sui moventi del suo rifiuto e l'interpretazione di questo era libera a tutti; buoni e cattivi. Circolava pure a suo carico un po' di virtuosa indegnazione per la malattia della Duchessa, malattia notoriamente attribuibita al dispiacere da lei provato pel fatale capriccio della nipote. Si davano dei dettagli commoventi, la buona vecchietta s'era gettata ai piedi di Ninì per scongiurarla ad accettare la mano del giovane inglese. Ma Ninì (che ingratuccia... nevvero?) era stata durissima per la sua povera nonna e questa se n'era accorata tanto da ammalarne!..
Il medico aveva bensì detto qualcosa di una bronchite, dovuta al freddo vento insidioso delle Cascine, ma l'altra storia, quella della crudeltà di Ninì, trovava più facili e volenterosi ascoltatori.
Intanto la povera Duchessa peggiorava e tutti accennavano vagamente all'incerto avvenire di Ninì, alla punizione sì pronta delle sue esigenze e della sua cecità. Era in molti come una bassa angoscia di attesa, un parossismo di crudele curiosità. Invano qualche amico di casa osservò che Ninì passava i giorni e le notti al capezzale della sua nonna, che le prestava instancabili, amorosissime cure. Questo non edificò, non meravigliò nessuno. Anzi tutto; era stretto dovere, e poi, specialmente adesso, a chi più che a Ninì Montelmo doveva premere che si prolungasse l'esistenza della buona Duchessa di Sualta?
Ogni tanto, e solo per aver nuove della Duchessa, scrivevo a Ninì. Mi rispondeva, dandomi, breve e preciso, qualche particolare.
Un momento; quei biglietti si fecero vieppiù brevi e angosciosi.
Quella antica facella parve lì lì per spegnersi. Ma la Duchessa di Sualta amava tanto la vita e perciò forse, le venne fatto di non morire. Il piccolo, tenuissimo filo, non si spezzò.
Un bel giorno di quaresima, in una giornata eccezionalmente bella, si rivide alle Cascine, nel solito landeau verde oliva, una nota larva di vecchietta, avvolta in un greve cachemire bianco, col capo coperto d'un amore di cappello bianco, tutto piume svolazzanti, e sotto al quale s'agitava, salutando a dritta e a sinistra, una specie di teschietto sorridente. Era la Duchessa; rediviva e a caccia d'un'altra bronchite. Accanto a lei Ninì, con una toilette primaverile delle più splendide, un vero poema in grigio e celeste. Essa stava molto ritta e figurava gloriosamente, pareva tutta rosea dietro il suo velo di garza maria... sapete, quella garza finissima, lucida, color di perla che getta sul volto dei riflessi così dolci, così freschi!... Sul sedile dirimpetto alle signore stava accoccolata, tutta freddolosa nella sua gualdrappina di velluto celeste, la levriera favorita della Duchessa. Accanto a lei giaceva un enorme mazzo di giacinti bianchi e di lillà.
Tutto ciò sortì un grande effetto; si parlò molto di quella risurrezione, si disse che Ninì era più bella, più fresca che mai. Certo, non aveva sofferto troppo della malattia della nonna; chi mai aveva detto che si fosse tanto affaticata? quello non era viso da veglie nè da fatiche. E che magnifica toilette le aveva regalata la Duchessa!...
Scambiammo un saluto di volo, mentre le nostre carrozze s'incrociavan sul viale, il suo gesto fu tanto affettuoso ma mi parve un po' stanco. L'equipaggio della Duchessa fece una brevissima sosta sul Piazzone, a una certa distanza dalla nostra calèche. Vidi molte persone affollate ai suoi sportelli, era un continuo dimenío delle piume bianche. Ma l'altro cappellino, quello grigio e celeste, stava immobile... Oh non poterla veder da vicino, non poterle parlare!... Avrei pianto di rabbia!
Aspettavo con ansia indicibile il sabato della prossima settimana, perchè si sapeva che in quel giorno appunto, la Duchessa avrebbe ricominciati i suoi ricevimenti. Senonchè, alla sera del lunedì, ebbi un bigliettino da Ninì.
Essa mi pregava di passare da lei alle nove dell'indomani mattina. Voleva salutarmi.
Non dormii quella notte. L'indomani, alle nove, nel salire le scale del palazzo della Duchessa, sentiva quasi mal fermi i passi, tanto mi pulsava il cuore. Come troverei Ninì, che mi direbbe?
La sua cameriera venne a ricevermi e m'introdusse nel famoso salottino di velluto azzurro.
Poi udii una voce dolcissima: — Falla passar qui.
Passai nella sua stanza, quella nuda e povera stanza ove ella soleva vivere, la vita preparatoria per l'ignoto.
S'alzò, con una mossa un po' forzata, dal grande tavolo ove stava scrivendo, e venne ad incontrarmi. Non mi baciò in viso ma mi strinse forte le mani.
Dio! com'era pallida e dimagrata; pareva quasi cresciuta, tanto era lunga ed esile nella sua succinta veste da casa. Ebbi una viva, dolorosa impressione ch'ella fosse stranamente invecchiata. Pensai al velo di garza e al colorito roseo che avevo veduti alle Cascine. Fu meco affettuosissima, ma non trovai più in lei quella specie di effusione brillante, alla quale mi aveva abituata. Due mesi soli erano passati, ma il suo accento aveva tanti anni di più. Pure; sentivo che mi amava sempre, forse più di prima, perchè rappresentavo qualcosa dell'indole stessa del suo dolore. Mi parlò a lungo della malattia di sua nonna. Disse che il medico, impensierito dell'incostanza della stagione, consigliava un clima più caldo. Partivano dunque, in settimana, per Napoli.
Rimasi senza parole; i miei occhi si velarono di pianto. Qualcosa brillò pure nei suoi, ma non piangemmo. C'intendevamo, però; stranamente.
Non mi trattenni molto. Era un soffrire acuto per me, forse anche per lei, quel colloquio in cui le parole suonavano così vane, davanti alla reciproca impressione del pensiero taciuto.
Le chiesi dei suoi libri, dei suoi studi; ella mi mostrò uno stupendo Atlante, testè giuntole. Mentre stava mostrandolo, io guardavo il profilo emaciato di lei, la trasparenza della pelle, la sfumatura azzurra che si stendeva sotto l'occhio, tanto illanguidito; osservai pure quanto fosse smagrita la mano che volgeva i fogli. C'era, in tutta la sua persona, qualcosa d'inesprimibilmente stanco, di vinto, di domato. Ella mi spiegava, colla sua solita forma sì chiara ed elegante, i pregi di quella pubblicazione. La sua voce era sempre pura, soave, armoniosa, ma io evocavo il ricordo d'un accento, d'una vibrazione speciale che mancavano ora, assolutamente.
Le chiesi di scrivermi per darmi notizie della Duchessa. Promise di farlo. Il nostro colloquio era calmissimo, si parlava sempre, sfiorando vari soggetti, pur di evitare i lunghi, consci silenzi di un tempo. Non le parlai nè della sua salute, nè del suo avvenire. Quando mi alzai ella non mi disse: rimani. Ma non gliene seppi male.
Ero certa del suo affetto per me, ma sapevo pure quanto le tornasse doloroso il ricordo di ciò che entrambe sapevamo. Poichè a niun altro al mondo ella aveva mai detto del suo amore.
E d'una cosa appunto io mi feci certa, in quel calmo colloquio, durante il quale non fu mai pronunciato il nome di Sir Alano. Ch'essa lo amava tuttora, più che mai, con quell'amore tenace e prepotente che si addiceva alla sua forte tempera, al suo caldo cuore; coll'amore (sì raro nella fanciulla d'oggi) che non subisce, nè riconosce legge alcuna di circostanze. Pure, ella aveva rinunziato a Sir Alano, e quel rifiuto era forse una superfetazione del suo stesso sentimento. Ovvero l'orgoglio era stato più forte? Chi potrebbe dirlo? Senonchè, la causa persisteva in quanto aveva sopravvissuto a quel mal riescito suicidio del cuore. Ed ella si dibatteva ora coll'assurdo, folle, disperato rammarico del proprio operato. Provava ora cos'è l'amore quando vive e non ha più ragione di vivere; quando sta nel più profondo del nostro cuore e non è più nel limite della nostra azione, quando è in noi e non ci appartiene più, e pure serbiamo chiaro, preciso il senso di ciò che è, di ciò che avrebbe potuto essere nella nostra vita, se non l'avessimo rinunziato.
Ninì mi accompagnò sino all'anticamera. Traversammo assieme il salottino azzurro, idealizzato dai riflessi miti del mattino. Ella mi parlava sempre di cose indifferenti, con quella sua nuova voce, scolorita e stanca. Ci baciammo quietamente e ci salutammo senza indugiarci. Poi mosse una mano senza parlare con un fiacco gesto d'addio, mi sorrise e si ritrasse.
Scesi le scale, tenendomi forte all'appoggiatoio di velluto rosso.
V.
Mi scrisse da Napoli, brevemente. La Duchessa stava meglio e sarebbero partite presto per Castellammare. Risposi, ma stavolta attesi più a lungo la risposta di Ninì.
Strano a dirsi; non sapevo mai che dirle quando mi accingevo a scriverle. L'esclusione di quel soggetto pareva escludere anche il rimanente. Le mie lettere riuscivano miserabilmente vuote e vane e le sue tradivano pure un segreto sforzo. E così, a poco a poco, quasi insensibilmente, la corrispondenza illanguidì e venne meno tra noi.
Ho detto che questa non è la mia storia. Ma ora debbo dirvi qualcosa anche di me. A dire il vero, lo faccio un po' a malincuore, perchè è una cosa più vera che aggradevole e temo ch'essa mi renda un po' antipatica al vostro pensiero. Pure, debbo dirla.
Ecco, questo è: Che coll'andar del tempo, col succedersi di tanti avvenimenti, grandi e piccini, la mia passione per Ninì Montelmo si ridusse gradatamente a delle proporzioni più ragionevoli. Cominciò col cessare dall'essere il pensiero dominante, poi si mescolò cogli altri e visse con loro, d'amore e d'accordo, senza soverchiarli.
Più tardi ancora, si rincantucciò in uno di quei profondi recessi del cuore, ove la memoria scende volenterosa e lieta, ogni tanto, a cercare l'emozione di ciò che non è morto, ma soltanto: passato. Quivi rimase e rimarrà sempre il ricordo di Ninì Montelmo. Anzi, a misura che il tempo passa ed io procedo nella vita, questo ed altri ricordi di quel tempo vanno ritrovando una coloritura e un profumo speciali, una luce normale li illumina e li ravviva, rivelando la grazia e la bellezza reale delle loro proporzioni. Torno ad occuparmene e a sentirli; con quella più serena cognizione della vita che bene spesso, quando è sincera e reale, ci riconduce per l'appunto all'indole primitiva delle nostre sensazioni e alla semplicità elementare delle nostre impressioni.
Non mi fraintendete, ve ne supplico. Io ho sempre, in ogni tempo, amata Ninì Montelmo, anche quando il mio pensiero di lei non fu più unico, nè tanto assorbente. Ogni suo appello mi avrebbe trovata pronta a fare l'impossibile per lei.
Ma ella non mi chiamò, mai, mai, mai!...
Lasciai Firenze e non ci tornai più. Un anno circa dopo la mia partenza, ebbi la partecipazione stampata della morte della Duchessa di Sualta.
Allora fu un risveglio inquieto, turbinoso del mio caldo interessamento per Ninì. Gran Dio! che farebbe ora quella poveretta?
Le scrissi un'affettuosa e lunga lettera di condoglianza. Oh!, di ciò potevo parlarle! Dalla sua risposta compresi infatti tutta l'entità, la tenerezza del dolore di Ninì. Ma ella non mi faceva cenno alcuno dei suoi progetti d'avvenire.
Avevo i brividi pensando a ciò che sarebbe di lei, pensando ch'era venuto inesorabilmente per lei l'istante di tradurre in atto la sua grande risoluzione, di cominciare la sua seconda, terribile vita. La vedevo fra le aride pareti di una scuola, nella solitudine fredda d'una stanzuccia al quarto piano, la vedevo, umile, dinanzi all'autorità pedantesca d'un ispettore scolastico.
Cioè, no; non potevo pensarla umile. Ma che sarebbe di lei!...
Scrissi, per avere informazioni, ad un nostro amico di Napoli. E le ebbi sì strane, sì insperate che ci volle un po' di tempo per decidermi a crederle.
Quasi contemporaneamente alla povera Duchessa di Sualta era morto quel lontano parente di Ninì, che non s'era mai curato di lei. Agli ultimi giorni di sua vita, Dio sa per qual misterioso ragionamento di morente, egli aveva testato in favore della fanciulla, e questa ereditava quietamente oltre a mezzo milione.
Pensai a Guarinaldi e compagni, con un grido di trionfo. Ero elettrizzata da quel grande atto di giustizia del destino! Oh! la Provvidenza lo sapeva bene che Ninì Montelmo non poteva far la maestrina... Oh brava, cara Provvidenza! come aveva colpito nel segno!...
Alcuni mesi dopo quel lieto avvenimento, qualcosa si fe' strada nella mia vita e tutto ciò che a quello non si riferiva impallidì e si ritrasse in silenzio. Pensando allora a Ninì, mi adiravo quasi con lei. Trovavo che aveva avuto tanto torto... non la comprendevo più.
Un bel giorno ch'io mi ero tutta vestita di bianco e coronata di fior d'arancio venne: qualcuno e mi condusse via.
Mandai a Napoli la partecipazione di quel bizzarro evento, ma dopo un mese la busta mi ritornò tutta chiazzata di bolli e illustrata da una laconica frase d'impiegato postale: Sconosciuta al portalettere. Mi rivolsi al solito amico partenopeo. Ninì Montelmo viaggiava, con una dama di compagnia. Si trovava attualmente a Colonia.
— Le scriverò domani, dissi a me stessa. Ma ero sì felice... e sapete che razza di risoluzioni si prendono allora! Fatto sta, che quel domani si protrasse tanto che lo smarrii di vista... (Ora, vi do un po' ai nervi... dite la verità!) Che volete! Pure; questo posso dirvi, che se non scrissi, pensai molto a Ninì con una pietà nuova affatto, profonda. Qualcuno mi parlò di lei e mi parve, con un po' d'invidia. Era ricca, libera ormai!
Sì! Era libera e ricca. Ma tant'è..., povera Ninì... ah! povera Ninì!
Quel tal egli che mi aveva portata via nel giorno in cui m'ero tutta vestita di bianco, cominciava allora, in un colla carriera coniugale, anche quella dei consolati. Bellissima carriera, non scevra però d'alcuni inconvenienti, specialmente in fatto di lontananze.
Mi condusse seco in una sequela di luoghi divini e impossibili, dove ebbimo a risolvere nei più bizzarri modi i più elementari quesiti della vita solita. Tutto ciò ci divertì immensamente, sulle prime, poi cominciai a fantasticare un po' della nostra decrepita prosa europea. La posta capitava di rado in quei paesi; bensì capitava ogni tanto, in vece sua, l'annunzio che s'era persa per via, ed era un grave pensiero quello di ciò che avrebbe potuto recare quella posta perduta. Il ricordo dei parenti, degli amici giganteggiava in quell'infinita latitudine di esiglio. Pure; gli anni passavano, veniva l'abitudine di quella vita orientale, venivano i bimbi. La famiglia nuova non soffriva di nostalgia nè ci lasciava il tempo di soffrirne. Il Ministero era benevolo per mio marito, lo faceva crescer di grado ad ogni mutar di stazione, ma pareva che facesse apposta a tenerci laggiù, isolati a rappresentare l'Italia in certe stupende regioni, ove l'Italia era proprio l'ultimo dei fastidi della brava gente che le popolava. In quei tempi non s'era ancora inventata la politica africana e in mancanza di quella distrazione, l'Oriente ci annoiava senza ambagi, ne avevamo proprio fin sopra ai capelli. Eravamo sempre felicissimi, ma per nostro conto esclusivamente. Infatti; quando in capo ad otto anni qualcuno: fra coloro che ponno, si rammentò dei poveri sposini depositati in Arabia, fu per noi un grande, un faustissimo evento. Mio marito fu richiamato in Europa e destinato a Cadice, previo però un buon permesso di due mesi ch'egli si dispose a passare in casa sua, in Savoia, colla sua vecchia e colla sua nuova famiglia.
Quando giungemmo colà; era d'inverno e nevicava.
La nostra lunga dimora nei paesi caldi ci aveva fatto scordare il freddo e i suoi pericoli. Lo sentimmo tutti immensamente e più di tutti, mio marito il quale non poteva rassegnarsi alle cautele richieste dalla rigida stagione. S'ammalò infatti e di bronchite, fortunatamente lieve però, e della quale guarì in breve tempo. Ma risolvemmo, dopo ciò, di passare a Nizza, anzichè a Torino, quanto rimaneva del suo congedo e del verno.
Il gennaio ci trovò dunque lietamente installati in un delizioso villino del quartiere Carabacel.
Il contrasto era violento e a dirla schietta non mi tornò troppo discaro. Si ha un bel dire, ma non è facile difendersi contro il fascino di quel cosmopolitismo spensierato, giocondo, che sembra darvi l'idea riassuntiva di tutto il cielo delle eleganze europee. Si può, si deve rattristarsi della funesta larghezza d'ospitalità che il vizio trova negli elementi stessi di quel centro, ma per chi sa scordare il male, per chi sa scegliere la società quale gli conviene; dove trovarne una più simpatica, più interessante per la sua varietà, per le sue tante risorse? E se volete isolarvi, quale opportunità trovereste, maggiore della libera esistenza dei grandi hôtels, ove nessuno si occupa del vicino, ove ogni dettaglio di personalità va perso nel mare magnum dell'eterno via vai? E l'azzurro intenso del cielo, il tepore sì dolce dell'aria e le palme sì frequenti e i fiori... Oh! quella sterminata quantità di fiori che costano sì poco e profumano sì acutamente, e nei giorni di corso danzano attorno a voi come una nevicata rigirata dal vento! E quell'altro perpetuo sboccar di ville in seno ai giardini! Quei bei villini bianchi, giocondi, che traspaiono dagli uliveti e si stendono, si disperdono sempre più lungi dalla città invadendo le distese dei campi, accesi dalla fiamma degli aranceti! Quelle casettine misteriose, suggestive che vanno a celarsi nella vaghezza appartata dei colli, sin là dove questi assumono una subita selvatichezza, formando un paesaggio eroico di montagna, un po' scenico e pur sì grandioso, valli tetre e profonde, accatastamenti granitici, misteriosi corritoi che si prolungano stretti ed umidi, nelle viscere dei monti, passaggi segreti, da contrabbandieri e da rivoltosi, ricchi d'una cupa poesia ariostesca, con certe sfuggite d'ombre e di luci quali fa piovere il Dorè sulle sue pagine!
E il porto piccino, delizioso, incassato fra le verdi alture, bello della gloria leggendaria di un'umile casetta, che si addita ai forestieri pronunciando un nome che sembra evocare sovr'essa la folgore di faro di una luce italiana... Oh! Nizza è bella ed è bello il viverci, sopratutto quando si è felici. Se siete tristi, se siete veramente malati, non andate a Nizza, andate piuttosto a Cannes. È lì... a due passi.
Un giorno ci eravamo spinti passeggiando sino al porto, con certi amici italiani che volevano per l'appunto vedere quella casetta, la casetta ov'è nato Garibaldi. Tacevamo, contemplandola, quando la nostra attenzione fu distratta da un incidente, l'arrivo, cioè, d'un bellissimo yacht a vapore che entrava gloriosamente in porto. Recava bandiera inglese e accanto a quella nazionale, una grande insegna bianca, sulla quale stava scritto il nome del yacht: Lux. La stessa parola si leggeva, fiammeggiante d'oro, sulla elegantissima prora. Alcuni curiosi s'erano riuniti sulla riva e, appoggiati al parapetto, guardavano la manovra d'ancoramento, brillantemente eseguita da una frotta di marinai in assisa privata. Accanto a noi, un signore, vecchiotto, col capo coperto d'un berretto a foggia marinaresca, tolse di tasca un cannocchiale a tubo e guardò a lungo il yacht, lasciandosi sfuggire delle esclamazioni entusiastiche. Qualcuno dei circostanti gli rivolse la parola in proposito, ed egli di buon grado e con visibile compiacenza diede alcune spiegazioni tecniche ch'io non intendevo, ma che interessarono mio marito, appassionato ed intelligente amatore di quanto riguarda la navigazione. Egli pure rivolse la parola a quel signore e subito s'intavolò un colloquio di circostanza. Il possessore del cannocchiale lo offerse cortesemente a mio marito, poi, leggendomi forse in viso una curiosità, pregò di passarlo a: Madame.
Madame non aveva mai avuto per le mani un cannocchiale sì meraviglioso. Portava sì vicine le persone e le cose che pareva quasi di poterle toccare colla mano stessa. Senonchè; ella non sapeva fermar bene l'obbiettivo, e le suddette persone e cose danzavano un balletto singolare dietro le lenti. Pure, qualcosa vidi. A bordo c'erano delle signore, vedevo un lusso d'abiti bianchi, vedevo delle testine bionde, dei visetti carnicini di bimbi che transitavano sul ponte, festosi della gioia dell'arrivo. Vidi avanzarsi a prora, con lento passo, un signore alto, massiccio, imponente, con una gran barba bionda, appoggiato al braccio d'un uomo in assisa di capitano.
Il sole batteva sfolgorante sul ponte, e dava forse noia al signore biondo, perchè egli teneva chiusi gli occhi. Poco lungi da lui, stava adagiata in una lunga poltrona chinese, una signora vestita di bianco. Non so come, provai un senso di ardente attrazione, tutte le facoltà del mio pensiero si concentrarono sovra quella signora. Risentii una vaga scossa morale, un'incertezza magnetica che per un istante mi tolse il respiro.
Mi sovvenne tosto ch'io tratteneva soverchiamente il cannocchiale. M'affrettai a porgerlo a mio marito, il quale lo restituì al proprietario. E sempre sotto l'impero di quell'emozione senza capo nè coda, diedi retta agli entusiastici elogi che il vecchio capitano (s'era dato per tale) prodigava alla struttura ed alberatura del yacht. Ma mi pareva ora che l'elegante vascello si fosse bruscamente allontanato dal luogo ov'era venuto ad ancorare. I miei poveri occhi miopi cercavano con uno sforzo quasi penoso, di concentrare ogni loro facoltà visiva su quel punto bianco, della signora seduta e che, piccolissimo ormai, quasi confuso fra i molti biancheggiamenti del ponte, mi attirava sempre da lungi, tormentoso, insistente come una malía!
Avevamo gente a pranzo quel giorno, e si parlava, naturalmente, dell'arrivo dello splendido yacht inglese. Fedor Zarenine, uno dei nostri ospiti, un vecchio amico del Cairo (vecchio per modo di dire, aveva una trentina d'anni) ci favoriva, evidentemente ascoltati, dei dettagli in proposito. Conosceva il bastimento, uno dei più belli fra quanti avessero mai preso a muover l'elice sotto lo sguardo di Minosse del R. M. C. Ce lo descrisse con entusiasmo, narrò dei suoi fasti, del lusso favoloso dell'interno. Conosceva pure il proprietario; Lord Helvellyn. Il più simpatico gentiluomo di questo mondo, ricco sfondato, cacciatore, scrittore, oratore. E, dettaglio curiosissimo, il proprietario di Lux era... cieco!
— Cieco! — sclamai rammentando quell'alta e dignitosa persona che avevo traveduta sul ponte e alla cui vista, un pensiero assurdo, di ricordo, aveva per un semi-secondo urtato alla porta del mio cervello.
— Cieco, — ripetè Zarenine, — irrimediabilmente cieco! Da pochi anni e per un accidente di caccia. Ma il più calmo, il più eccezionale dei ciechi. Sopporta la sua sventura con una rassegnazione, un coraggio che assumono le proporzioni di una letizia. Alcuni sostengono che Lord Helvellyn si mostri non solo, ma sia pienamente felice.
— Felice! — ripetei con accento sì incredulo che Fedor si mise a ridere.
— Sì... Perchè no? È un originale, vedete, e se gli manca la vista, ha, in vece sua, un monte di belle cose ch'io non ho e ardentemente desidero. Una fortuna regale, per esempio, e una moglie adorabile, ch'egli non vedrà invecchiare.
— Quanto siete egoisti, voialtri uomini, — gli dissi ridendo. — Allora; Lady Helvellyn è bella?
— Ecco una domanda che mi aspettavo. Non è bella, bellissima.
— Inglese?...
— Sì. Cioè; scusate, non lo so precisamente. Ci sono dei dispareri in proposito. A prima vista è il più bel tipo inglese che si possa immaginare: conoscendola un pochino più, si direbbe che ha pure qualcosa, un non so che, di meridionale. Ma il male è questo, che non si ha mai il tempo di conoscerla un pochino più del pochino: più. Viaggiano sempre, e sulla propria nave, per cui capirete, a meno d'essere un delfino o un pesce cane...
Diceva, con tono assai comico, queste sciocchezze. Vide che ridevo e proseguì:
— Ho conosciuto gli Helvellyn in Islanda. Viaggiano sempre verso il freddo. Fui invitato ad una colazione a bordo del Lux e non ho mai visto un più perfetto home inglese a fior d'acqua. Lady Helvellyn canta come un angiolo.
— Inglese? — chiesi con un'ombra di malizia, poichè al piano superiore abitavano certe miss miagolanti che avevan fatto talvolta scambiare fra me e Fedor Zarenine degli sguardi pieni di una cupa rassegnazione.
— No. Canta come un angiolo colle ali. La sua voce ha un timbro speciale, tenerissimo. Una volta sola, anni sono, a Londra, in un concerto, udii una voce simile e pensandoci mi chiedo se...
S'interruppe, tacque un istante poi mi chiese, ridendo:
— Dite la verità: avete una gran voglia di vedere gli Helvellyn?
— Sì — risposi candidamente. — Sapete se si trattengono per qualche tempo?
— Non ne so nulla. Andrò oggi stesso a portar le mie carte a bordo e m'informerò se si può visitare il bastimento. E se verrò a capo di saper qualcosa, ne farò immediato omaggio alla vostra curiosità, in premio del vostro candore.
La sera di poi, venne da noi un momento, prima di recarsi a quel malaugurato Cercle Massena, ove, poveretto, lasciava quasi ogni sera, con celebre disinvoltura, sì larghi brandelli del suo patrimonio.
— Si trattengono otto giorni, non si può visitare il bastimento, ma li vedrete lo stesso. Il presidente del Cercle de la Mediterranée li conosce e pare abbia ottenuta la promessa del loro intervento alla matinée di giovedì.
Tutto ciò col più comico mistero di questo mondo; pareva un vero congiurato di operetta. Era divertente, aveva veramente dello spirito e tante buone qualità... Pure, com'è finito presto e male, povero Fedor Zarenine!...
Di pien meriggio, ma al chiarore di innumeri candelabri accesi in un salone sì ricco, sì straricco di dorature che quasi ve ne dolgono gli occhi. In alto, invisibile e irresistibile, un'orchestra delicata suona a ballo. In un angolo del vastissimo locale un glorioso buffet vi invita ospitalmente. C'è folla e la più strana e varia di questo mondo, e ciò che più vi colpisce in essa, è la immensa latitudine lasciata alla gamma dell'acconciatura. Quivi potete studiare l'eterno figurino femminile in tutte le sue più caratteristiche manifestazioni. Vedete delle spalle nude e delle spalle coperte di una spolverina da viaggio, delle teste cosparse di gioielli e di fiori, e accanto a queste delle sobrie testine, coperte di berrettine di pelo. Nello stesso gruppo una signora tutta in nero, che credereste giunta da una grande funzione religiosa, un'altra in toeletta da teatro, una quarta in assetto da gita montanina, una quinta che diresti avviata ad un ballo in costume, una sesta che ti dà l'idea d'essere testè escita da un ricevimento a Corte. Alcune tengono circolo, altre si isolano nella folla, altre guardano, moltissime si fanno guardare.
Le solite regole della toilette, l'indirizzo generale dell'acconciamento qual'è prescritto dall'indole qualsiasi d'una riunione, non esiste in quella bizzarra accolta. È un allagare fantastico dell'iniziativa personale; ritrovate colà le più inattese rivelazioni della coscienza artistica della donna. Incongruità fantasiose dell'assieme, finezze trascendentali d'accessori, squisite arditezze artistiche, stravaganze bene o male riuscite, eccentricità dissonanti, capricci idealmente tradotti, audacie fortunate o punite nella tonalità dell'innovazione. Ogni tanto tocchi rivelatori del rango o della nazionalità; qui lo sfarzo ultra parigino dell'americana, là l'invincibile orientalismo della russa, il preraffaellitismo e la tendenza pratica dell'inglese. Indovinate la francese dal suo infallibile indizio, la grazia perfetta e l'armonia, la svizzera dalla sua semplicità quasi silvestre, complicata da un aggravante di romanticismo vecchio tedesco, mentre la tedesca propriamente detta, è riconoscibile per la modernità mal riescita del suo vestire. Tutte queste rappresentanze femminili si guardano, si criticano, si sorridono, si salutano e si parlano facilmente ma senza mai amalgamarsi. Non è certo l'incongruo pêle mêle che è impossibile evitare, dalle quattro alle sei, sulla Promenade des Anglais... oh no, ogni socio del Cercle de la Mediterranée assume in certo modo la responsabilità delle persone che egli fa ammettere alle matinées, e ciò dà all'ambiente una tonalità bastevole di per bene, ma nessuna intimità reale può sussistere in un luogo ove è sì fluttuante, sì facilmente mutata la maggioranza di quelli che vi intervengono; sono strane feste, senza carattere proprio, ma specialmente interessanti. In quel po' di tutto c'è inevitabilmente del bello; è come una bizzarra rappresentazione di quadri plastici della vita d'oggidì. Se avete un amico paziente e ben informato egli potrà procurarvi anche delle emozioni, vi designerà ogni tanto, nella folla, una faccia che guarderete poscia con meraviglia insaziabile, ripensando al nome testè udito, collegandola al ricordo, all'espressione di fatti che hanno occupato o travagliato il mondo. Ivi un accenno, un campione di tutti i generi di celebrità, pensatori ed artisti, monopolizzatori d'oro o d'idee, trachee trascendentali, scrigni giganteschi, passioni che hanno fatto chiasso e che hanno appassionato il pubblico, stravaganze che l'hanno colpito, audacie che l'hanno conquistato, idoli effimeri e sdegnose vittime dell'opinione, autori applauditi, notabilità appena battezzate che attendono la consacrazione, tutto ciò troverete alle matinées del Cercle de la Mediterranée.
Non era la prima volta ch'io andava al Cercle. Avevo dei ciceroni cortesi ed informati, conoscevo ormai, anche di persona, buona parte delle celebrità che passavano, come meteore, in quel neutro ambiente. Non mi stancavo di quello spettacolo, perchè n'eran sempre mutati i personaggi, e perchè vi trovavo ogni volta qualcosa che colpiva facilmente la mia fantasia. Quel giorno la pazza di casa teneva dietro a due apparizioni che si contendevano gli sguardi del pubblico. Un'africana, nera come la fuliggine, con due vampe di occhi e un pariginismo incensurabile di toilette moderna. Poi, una bellezza di Bordeaux, la figlia d'un ricco armatore, una signorina: très bien. Certo; era bella, idealmente bella, bella in modo trascendentale! Vestita, atteggiata squisitamente, nell'intonazione perfetta di un quadro di Van Dyck. Ne possedeva in tutto i requisiti tradizionali, la posa, il colorito, la forma, le stoffe, i gioielli. Era bianchissima, un po' pallida, come se la poesia del tempo avesse illanguidite le tinte, sulla tela del suo volto. Parlava pochissimo, senza muover le labbra, senza sorridere oltre i limiti del suo vago sorriso permanente, nella coscienza serena, forse annoiata, della sua perpetua rappresentazione artistica. Non arrossiva sotto l'insistenza e la universalità degli sguardi, più curiosi che altro, danzava con perfetta arte di posa, serbando tutto il suo idealismo di splendida immagine anche nella grottesca assurdità di gruppo ch'ella formava col suo ballerino, un giovinotto volgare e brutto. Poco lungi stavano i parenti di lei, grossi, bonari, plateali anch'essi. Solleciti, ma sicuri del trionfo, guardiani amorosi del tesoro, pazienti direttori di quella sacra passeggiata del capo d'arte della famiglia, nella placida attesa dell'amatore intelligente che ne vorrebbe adornare il proprio museo, mentre ella danzava serenissima, sorridendo esclusivamente a sè stessa!
Ero così immersa nella contemplazione del Van Dyck, che non mi accorsi dei ripetuti cenni fattimi da Fedor Zarenine, il quale farfalleggiava poco lungi da me. Tanto che egli mi venne accanto e mi diede un poderoso shake hand, uno dei suoi soliti.
— Ebbene, — mi disse mentre scotevo la mano indolenzita, — non avete veduto?
— La mora? Sì, ma è orribile. Preferisco il Van Dyck. È una signorina; benissimo, sapete?
Egli si mise a ridere.
— Dico se avete veduto gli Helvellyn? Sono testè giunti.
Mi voltai. — Dove?... dove?... — chiesi con ansia.
Egli mi additò un gruppo abbastanza compatto che s'era formato presso uno degli usci d'entrata.
— Là... da quella parte. Fanno sensazione anche loro! Ora li vedrete. Venivano a questa volta, ma egli s'è trattenuto a parlare col Maresciallo Bazaine. Ora ha finito, proseguono.
Proseguivano infatti. Un signore alto, di forme poderose, appoggiato al braccio d'una signora. Davanti all'incerto passo del cieco, la folla riverente e curiosa s'apriva, facendo ala, lasciando libero il varco a lui e alla moglie che lo guidava colla dolcezza guardinga d'un Antigone.
Li vidi io pure, e provai un sentimento impossibile a definire.
— Ma è Sir Alano Spear!? — gridai quasi a Zarenine.
— Sì, — rispose questi meravigliato della mia veemenza, — cioè; era Sir Alano Spear. Da pochi anni, per la morte d'un cugino, è diventato Lord Helvellyn, sapete che in Inghilterra il titolo...
Non proseguì, perchè non gli badavo. Tutte le facoltà dell'animo mio, tutta la potenza de' miei sguardi erano concentrati sulla signora che accompagnava Lord Helvellyn. Era... non era Ninì Montelmo?
Un'incertezza acuta come uno spasimo, mi mozzava il respiro. Per mero istinto, senza sapere quel che volessi fare, mossi all'incontro di quei due... E a caso, pur di sapere, ad ogni costo, quando ella, senza vedermi mi passò d'accanto, io dissi forte, vibrato: — Ninì!
Ella si fermò, e la vidi trasalire. Si voltò e mi vide... ci guardammo. Non pareva lei, pure sentii ch'era lei, che mi aveva riconosciuto. Un pallore venne sul suo volto. Non mi rispose, non mi salutò. Alzò solo la mano, con un cenno lieve, vago, un piccolo gesto che poteva esser comando o preghiera... Poi, chinò gli sguardi, e passò, impassibile.
Non capivo, provavo come una vertigine e un'imperiosa voglia di piangere.
Zarenine mi guardò attonito e mi chiese se mi sentissi male.
Gli dissi di no, ridendo nervosamente. Ma lo pregai di trovar mio marito e di mandarmelo. Volevo andar via, subito, subito. Quell'afa, quella folla, mi soffocavano. Era tutto una confusione, tutto. Non era più certa che quella donna che aveva trasalito e mossa la mano fosse Ninì Montelmo. Ma allora chi era?
VI.
La mattina dipoi, m'alzai per tempo. Non aveva punto dormito ed era giorno di festa, volli dunque recarmi a messa. Passando sotto l'atrio, vidi un marinaio in assisa bianca e col berretto ornato d'un nastro sul quale era la parola: Lux. Pareva attender qualcuno. Infatti; attendeva me e, non appena gli fui accennata, egli venne ad incontrarmi e mi presentò un biglietto: from Lady Helvellyn.
Il biglietto recava queste parole:
« Amica carissima,
Ti attendo oggi alle due per abbracciarti e darti la spiegazione di quanto accadde ieri. Intanto non accusarmi. Troverai al primo scalo del porto una lancia del yacht che ti condurrà a bordo. Vieni.
Ninì Montelmo Helvellyn.»
Risalii e tracciata su un biglietto di visita una laconica frase d'assenso, consegnai il biglietto al marinaio. Poi, andai a messa coi miei bambini. Ogni tanto, quando n'era d'uopo, accennavo loro di non distrarsi. Ma; Dio mi perdoni; quanto ero, in cuor mio, più distratta di loro!...
* * *
Ci vado ripensando ora e mi par tutto un sogno la gita sul quai sino allo scalo indicato, la elegantissima lancia che mi attendeva cogli otto marinai in bianco, il breve tragitto per l'azzurro del porto sino al yacht... il battere quieto dei remi e quello tempestoso del mio cuore, la visione di Ninì, curva sulla balaustrata della tolda. Mi aspettava, ed io non vidi più che lei. Salii, posi piede sul cassero. Ella mi porse dapprima una mano, poi ci abbracciammo forte, per impulso reciproco, con un'emozione stranissima, con un subito febbrile ritorno a tutto il passato. Ella mi disse rapidamente: vieni, e s'ingolfò per la prima nella scaletta che calava sotto coperta. Le tenni dietro, come se mi avesse trascinata per mano.
Eravamo sotto coperta, a prora, nel suo salottino privato, in mezzo a un mondo di splendidi cose ch'io non guardava. Ricordo solo le ampie sfuggite di luce e d'azzurro che concedevano allo sguardo i vani delle tre finestrine aperte dal lato del largo, di fronte all'immenso orizzonte acqueo. Pareva d'essere in alto mare. Le onde, appena sommosse da un leggero venticello, danzavano carezzevoli attorno alla carena, gettando all'interno una tremula sequela di riflessi dorati e un mormorio festevole d'acqua in pace, cui teneva bordone il gaio e perpetuo sbattere, quasi musicale, di certi freschi cortinaggi di tela russa, calate a mezzo sulle finestrine e sempre accartocciati dalla brezza.
Non rammento altro delle cose esterne. Vedevo solo Ninì e la guardavo con un senso angoscioso, indefinibile della sua dissomiglianza colla Ninì di un tempo. Era bionda ora, ed io l'avevo lasciata castana. Doveva essersi continuamente incipriata, pensai perfino all' auro-come. Era pettinata con una foggia speciale, bizzarra, che le stava bene, ma non somigliava più alla sobria forma greca della testina di Ninì fanciulla. Il personale era bellissimo, maestoso, e il vestire aiutava visibilmente l'effetto, tendente al matronale. Il continuo uso della lingua inglese aveva dato alle labbra un non so che di più energico, di più serrato, ma il sorriso tornava ogni tanto all'antica, indimenticabile espressione. Ninì si teneva in un'attitudine speciale che nulla aveva di manierato e neppure di acquisito, eppure, cercando nei miei ricordi, non trovavo quello di questa attitudine. Essa era nuova per me.
— Siamo sole — mi disse Ninì. — Alcuni amici di mio marito sono venuti a prenderlo stamane e lo hanno condotto a Cannes. I bambini sono a terra e torneranno più tardi. Perchè non hai condotto i tuoi? Parlami di loro, del tuo passato.
Le parlai di tutto ciò a lungo, a cuore aperto. Quando ebbi finito, ella mi prese le mani, le strinse con dolcissimo affetto e mi disse sorridendo: — Cara, sei sempre la stessa!
Le resi la sua stretta con effusione, e stavo per dirle qualcosa, ma m'interruppi a un tratto, sentii quanto ciò che ero per dirle non fosse vero. Ella comprese, mi sorrise ancora e mi disse: — No, è inutile. Sono un'altra persona, ora, lo so. — Poi sussurrò: — Ti ricordi di ciò che ti dissi un giorno della Metempsicosi?
— Se mi ricordo? Ma fu la prima volta che venni da te, Ninì, e...
Ella m'interruppe.
— Non chiamarmi più Ninì. Mi ha fatto tanto male, ieri, l'udire quel nome, il male che si prova udendo il nome d'una persona morta. Sai come mi chiamo ora?
Mi fissava, interrogandomi stranamente, con un'angoscia nello sguardo.
Perplessa, sgomentata all'estremo, tacqui.
— Mi chiamo Grace, — disse Ninì tranquillamente. — Sono lady Helvellyn. Ma prima, un tempo, mi chiamavo Mrs Alloys, Grace Alloys.
Tacque. Le guardai gli occhi; non recavano traccia alcuna di follìa. Erano pensierosi, profondi; nulla più.
* * *
— Ho bisogno di dirti tutto, — mi disse tranquillamente. — M'intenderai o no; ma ad ogni modo mi crederai. Ci sono dei momenti in cui la percezione delle cose non è esatta in noi stessi e si ha bisogno di dire a qualcuno: — Ditemi, ve ne prego, dormo o son desta? — Questo momento venne ieri per me, quando ti vidi e ti udii. Fu come una voce nel sepolcro. Ed egli non doveva avvedersi di te, nè che alcuno chiamasse, al suo fianco, Ninì Montelmo.
Poi, prese a narrare.
L'ascoltavo. La sua voce aveva un accento speciale e melodioso. L'ora era calda, il sole sfolgorava sul mare. Provavo un vago ritorno all'impressione snervante, semi-assopente dei meriggi orientali.
* * *
«Quando morì, la mia povera vecchia nonna, compresi una seconda volta che non bisogna discutere l'amore. Questo imparai, quando mi trovai sola, senza il suo affetto. Credetti giunto il tempo di provvedere a me stessa, mercè gli studi fatti. Ma le difficoltà sorgevano inattese, impensate, ed io tentavo di ritemprarmi nella violenza stessa di quegli urti, quando divenni erede di un ricco patrimonio. Non fu una gioia per me, nè, ritengo, un vero beneficio. Le acerbe sensazioni della lotta mi attiravano, erano favorevoli ai miei segreti orgogli. Sia come vuolsi, certo è che nell'ozio, nel vuoto, nella facilità della mia nuova vita, il verme roditore si ridestò.
Ero sola ormai, colla mia libertà, colle ricchezze che tutti m'invidiavano ed alle quali agognavano parecchi.
La società si ravvedeva, tornava a sorridermi, immemore delle spietate lezioni che mi aveva inflitte un tempo. Ma io le rammentavo. Senza rancore, però, con un vago convincimento che non tornava conto di soffrire anche per ciò. Risolsi di viaggiare, colla speranza che una vita attiva, svagata, intellettuale, sarebbe forse stata giovevole a liberarmi dal mio sciagurato amore per Alano Spear.
Perchè quell'amore era un'angoscia, una fiera ed incessante angoscia. Così, come mi aveva presa, incrudeliva meco. Soffrivo di quell'amore in cento modi e nei modi più contradditori. Alcune di quelle sofferenze m'erano ignote nell'indole propria, non ne conoscevo la fonte.... ne soffrivo ciò nullameno. Tutto mi mancava colla sua mancanza, tutto era vano ed enigmatico. Invano cercai di ubbriacare il mio spirito colla contemplazione dei tesori dell'arte. Lo spirito non si poteva scompagnare dal cuore, già immerso nella grande ebbrezza dell'amore. Ricordati; non avevo altri al mondo da amare. Egli era per me, esclusivamente, universalmente: l'amore. E ora, nel grande vuoto, egli tornava, si riaffermava, tornava ad essere l'unico perchè della vita!... Allora... mi pentii.»
Tacque un istante e un pallore si stese sulla sua fronte.
Sì, quella donna doveva aver sofferto!... Era stata punita acerbamente dell'orgoglio suo.
Proseguì.
«Lottavo, sai?... lottavo gagliardamente. Evocavo di continuo, per darmi ragione, l'immagine di quella donna. Ma essa non mi salvava più... ora! Aveva scatenata l'effimera tempesta, bastevole per mandare a picco la mia felicità, ma che non bastava a spegnere l'incendio del mio amore. Avevo tutto sacrificato. Avevo creduto di esser stata forte, mi accorsi d'esser stata vile, nulla più, di aver sacrificato un amore vero ad un fantasma vano. Ma era tardi.
Viaggiavo con una dama di compagnia, vero automa di rispettabile nullità. Percorrevo sbadatamente le più belle città dell'Europa, senza accalorarmi per nulla. Ero infelice, stanca di tutto, oppressa da un'uggia malsana e crudele. E lo amavo sempre, assai più di prima!
M'era balenato un pensiero: chiudermi in un convento e consacrarmi tutta a qualche grande opera di beneficenza. L'avrei forse fatto, se non avessi letto in un giornale, per mero caso, che sir Alano Spear aveva persa la vista, in seguito ad un accidente di caccia. Allora, presi una risoluzione; mi recai in Inghilterra, andai dalla madre dell'uomo che amavo, le dissi tutto... le offersi di sposare suo figlio. Ell'era presso a morire... accettò. Egli pure, forse per farle cosa grata. Ci sposammo al letto di morte di quella povera donna.»
— E fosti felice? — chiesi con impeto.
— Per qualche tempo, sì. Assolutamente felice. Quell'uomo era mio!... Quel cieco mi apparteneva. Poi, a un tratto, divenni ancora gelosa di lei, di quella morta.
Ella mi perseguitava sempre. Il fantasma si vendicava, tornava, si metteva fra noi due. Io era gelosa di Mrs Alloys.
— Ma come, perchè? Egli dimostrava... accennava forse...?
— No, nulla giustificava apparentemente il mio sospetto. Non era forse che una suggestione del mio demone famigliare, il sesto senso. Ma l'antico terrore tornava a dilaniare il mio cuore.... ch'egli potesse amare soltanto lei.
Come combattere nella tenebra? Il mio sguardo non giungeva ad indagarne il fondo, non era in poter mio afferrare le immagini che passavano dietro le spente pupille di mio marito. Lo studiavo con un'attenzione cupida e febbrile. Studiavo le sue immobilità pensose, i suoi silenzi, i suoi pallori, scrutavo l'animo suo nelle sue parole, nei suoi gesti, origliavo a volte, durante i suoi sonni, in attesa della parola inconscia che può tradire il sogno. Nulla mi sfuggiva d'ogni incidente dell'anormale tenor di vita, dovuto alla sua infermità. Un giorno, la sua mano si posò lenta, esitante sul mio volto. Lo chiamai per nome, egli mi accennò con un gesto, quasi involontario, di tacere. Tremai.
La mia parola turbava forse un sogno del suo pensiero, un ricordo, l'immagine che non era la mia?
È terribile, amare un cieco ed esserne gelosa! È una delle più crudeli e difficili posizioni della vita. È sì strana, sì cupa la sensazione che si prova, scrutando il volto privo di luce, di quella luce al chiaror della quale l'animo si svela e si tradisce. È una notte anche per noi e invano, brancolando, cerchiamo di orizzontarci. Mi dibattevo io pure, nell'oscurità di Alano! Unico conforto mio era quello di giovargli!
Ma se invece fossi per lui un tormento, se nelle lunghe visioni della sua cecità egli vedesse un'altra... non me? Ed io l'amavo... non avrei potuto vivere senza di lui...
L'interruppi:
— Ma tu non chiedesti, non cercasti di sapere?...
— No... Fui cento volte sul punto di farlo, cento volte mi trattenne un'invincibile esitanza. L'ultima rivincita cui non volevo rinunziare era appunto questa: il dubbio... la possibilità che non fosse!. Credevo d'aver ucciso il mio orgoglio, ma esso aveva d'uopo, per morire davvero, di una ferita più profonda. Non tardai a toccarla.
«Un giorno, mi venne tra le mani una romanza per canto che l'autore aveva dedicato a Mrs Alloys e che recava sul frontispizio il ritratto della celebre cantante. Era una semplice ballata irlandese ch'ella eseguiva di frequente nei suoi concerti e che incontrava sempre il favore del pubblico. Studiai la romanza di nascosto, coll'aiuto d'un maestro di canto il quale aveva udita più volte Mrs Alloys. Attonito della somiglianza della voce di lei colla mia, egli m'insegnò a cantare quel pezzo, come soleva cantarlo la donna che tanto aveva torturato l'animo mio. Si valse del suo metodo, mi apprese ad imitare i suoi effetti. Allora tentai la prova... rammentando la strana ammirazione che Alano aveva avuta, a Firenze, per la mia voce.
Un giorno, mentre eravamo soli, mi posi improvvisamente al piano e cantai quella romanza, come l'avevo imparata.
Vidi mio marito trasalire dapprima; poi, con un impulso subitaneo di volontà, frenare il tradimento di quel fremito. Vidi alcune goccie di sudore imperlare la sua fronte, mentre le palpebre calate si dilatavano come in un disperato sforzo per spalancarsi.
Continuai a cantare; mentre sentivo il cuore morirmi in seno... Egli s'era calmato, un vago sorriso d'estasi errava sulle sue labbra.
Quand'ebbi finito mi alzai, mi feci accanto a lui e gli presi la mano, in silenzio. Egli alzò la mia mano a livellò delle sue labbra e lentamente, con dolcissima passione.... la baciò.
Io non parlai... per una vaga pietà del suo sogno, poi perchè nulla irrompesse della confusa bufera d'odio che si scatenava nell'animo mio!»
Lady Helvellyn tacque, strinse le mani una nell'altra. Forse soffriva ancora, al solo ricordo della tortura di quel momento.
— Da quel giorno, — continuò dopo un istante — cominciò la mia aperta lotta col fantasma di Mrs Alloys. Come Giacobbe coll'angelo, lottavamo in silenzio, nella notte, nella sua notte, contendendocene il possesso. M'intendi?
Assentii, chinando gravemente il capo. La intendevo allora, in quel luogo, in quel momento.
Ella proseguì:
— La mia rivale fu più forte di me.... mi vinse. Forse lo credetti soltanto, forse tutto ciò non era che un sogno febbrile del mio amore. Sia come vuolsi, io credetti che nella tenebra di Alano ella imperasse, escludendomi. Per qualche tempo giacqui in un'inerte disperazione. Poi pensai ad andarmene, a scomparire. Ma egli si era abituato alle mie cure. Aveva bisogno di me. Io non avevo ancora avuti figliuoli. Ora nell'amore vero della donna c'è sempre qualcosa della madre... nevvero?
Assentii di nuovo. Poichè così è veramente, per quanto sembri strano ed incredibile.
— Egli era cieco, aveva d'uopo di cure amorose, aveva d'uopo di me. Rimasi al suo fianco, con una pietà infinita di lui. Forse egli pure lottava, nell'isolamento della sua notte... Ammalò in quel tempo e temetti di perderlo. E allora fu che per la prima volta balenò nella mia mente un'idea, l'idea d'incarnarmi nella sua illusione, di risuscitare per lui in quella morta, alla quale non avevo saputo sostituire me stessa...
Le afferrai violentemente la mano.
— Tu?... — gridai — tu?
— Io... — rispose sorridendo e con volto dolce, indulgente. — Povera Ninì Montelmo, nevvero? Dapprima, non voleva morire. Si ribellò a lungo. La sua agonia fu lunga, stentata. Rammenti quanto era tenace, vigorosa in lei la vita personale... il sentimento del proprio essere? Pure, acconsentì...
— Ma come? — interruppi con impeto — come hai potuto...
— Non me lo chiedere.... Lo ignoro. Questo so, che raggiunsi lo scopo, perchè lo volli, perchè amavo Alano, perchè lo volevo felice, a qualunque costo.
Successe una pausa. Ella anelava alquanto. Ma subito proseguì:
— Volevo una completa metempsicosi. Volevo diventar lei... quella morta. Non mi limitai a rappresentare il personaggio, una parte di commedia non sarebbe bastata. Bisognava che mi tramutassi nell'esser suo, quale era stato. Recisi della mia vita tutto ciò che non era il mio intento, non pensai più al paese, al passato, agli affetti di Ninì Montelmo. Acquistai quanti ritratti potei trovare di quella donna, la copiai nelle sue acconciature un po' eccentriche, ne' suoi gesti, nelle attitudini descrittemi da chi l'aveva conosciuta. Lessi, rilessi, studiai a mente tutte le sue biografie, quanto i giornali avevano pubblicato sul conto suo. Seppi di una governante, vissuta lunghi anni con lei, e tanto feci ch'ella venne ai miei servigi. L'aveva molto amata. Grace Alloys era una di quelle donne che, anche senza volerlo, si fanno amare universalmente. Dall'affetto che le aveva poetato quella donna, dai suoi minuti e garruli ricordi, io ebbi tutte le nozioni giovevoli al mio scopo, essa fu il mio pubblico di prova, quando volli tentare il primo effetto della mia metempsicosi. E il giorno in cui ella, guardandomi attonita, commossa, mi disse che le rammentavo tanto la sua povera signora, quel giorno trionfai e piansi... piansi a lungo.
— E tuo marito — chiesi — non s'avvide?...
— No, non s'avvide. Guarì, e mi parve che a misura ch'io m'addestravo alla mia nuova parte, egli fosse più sollevato, meno oppresso dalla sua sventura. Cantavo di frequente ed egli me ne pregava talvolta. Osservai che a poco a poco egli tralasciò di chiamarmi per nome; diceva semplicemente: mia cara. Il nome di quella donna non varcò mai le sue labbra, ma egli non parlava mai dell'Italia, nè delle circostanze del nostro matrimonio. Gradatamente, tutto ciò che riguardava il passato venne meno nelle sue parole. Vidi che l'illusione sorgeva tacita, insinuante, attorno a lui... che lo cullava delle sue segrete dolcezze. Avevo prese tutte le abitudini della vita inglese, vivevamo con una grande intimità soli, nel solo presente, nell'orbita dell'illusione che entrambi alimentavamo, vivendola in silenzio, come in un sogno.»
La voce di lady Helvellyn s'era fatta debole ed inespressiva, pareva che ella stessa parlasse come in sogno e il suo sguardo aveva la fissità languida di quello di una persona che sta per addormentarsi.
Si scosse però tosto e un'espressione perplessa, quasi angustiata, mutò, ad un tratto, la sua fisionomia.
— Ci fu un tempo terribile, — proseguì — un tempo di mortale angoscia, dei giorni in cui, non ancora ben divelta dal mio primo ente, non riuscivo a penetrare che in parte nello spirito del secondo. Lo spirito mio oscillava spaventato fra quelle due frazioni, avverse, ostili una all'altra, di scissa personalità. Mi accadde talvolta, tant'ero presa all'amo della mia menzogna, di non sapere più precisamente chi io fossi... Ma non posso spiegarti tutto ciò... non posso...
Si torceva le mani, compresa del suono assurdo, incredibile delle sue parole. Pure io la credevo, allora, come noi donne crediamo a ciò che non possiamo intendere, per una misteriosa simpatia del solo sentimento.
Si calmò e mi sorrise.
— Ma quel tempo passò, e venne la quiete, il senso della mia entità di un tempo si assopì gradatamente in me e la ribellione si acquetò. Divenni madre e scordai il tempo in cui non lo ero stata. Le circostanze, l'ambiente, l'isolamento, tutto contribuiva a favorire la fantastica esistenza che ci eravamo fatta. La seconda delle mie bambine era alquanto delicata, i medici consigliavano l'aria di mare. Alano acquistò il yacht e volle chiamarlo Lux, dicendo che veramente in esso si conterrebbe la sua luce... Cominciammo a viaggiare, contenti di questa esistenza che perpetua ovunque il nostro isolamento e che giova alla salute di tutti noi. Da sei anni erriamo così... veri zingari dal mare. Egli non mi propose mai di navigare verso l'Italia. Nè io glielo chiesi. Ora andremo a visitare i porti della Scandinavia. Ed egli è felice... credo.
— E tu? — chiesi per un impulso irresistibile, pentendomi subito dell'indiscreta domanda.
Ma ella non parve trovarla tale.
— Io pure, — disse con fermo accento. — Mi sono fatta al mio destino, l'ho accettato in tutta la sua incredibile anormalità. Non ho rimorsi... Nè Dio, nè gli uomini potrebbero chieder più da una donna. Ho amato, e non a modo mio. Ti ricordi dei consigli che mi desti un tempo, d'esser docile, di amare come si può, non come si vuole? Ebbene, così ho fatto. Ho rinunziato alla mia ed ho assunta l'entità di un'altra persona, perchè il ricordo di questa persona era più caro di me stessa all'uomo che io amavo. Ti pare ora ch'io sia abbastanza semplice... elementare?
La guardai, ma non la vedevo bene; avevo gli occhi velati di lagrime.
— Perchè piangi? — mi disse con grande semplicità. — Sono felice adesso: l'amarezza della morte è passata. E, chiunque io sia.... egli mi ama!
Ora aveva finito e si riposava. Mi alzai e mi feci presso ad uno dei finestrini. I piccoli spettri solari danzavano sempre sulla parete e le cortine si torcevano, folli e musicali, nella stretta del vento. Il Mediterraneo palpitava sfolgorante di sole, movendo verso la infinita luminosità dell'orizzonte celeste. Ed io pensai che più profondo, più luminoso, più infinito del cielo e del mare riuniti è talvolta l'amore.
Una voce risuonò sul ponte.
— Boat... ooh!
Lady Helvellyn si alzò e venne a raggiungermi. Le accennai una lancia che pareva dirigersi alla volta del yacht.
— I bambini — disse — ora li vedrai.
Suonò un campanello ed impartì alcuni ordini. Poco stante, si udì sul ponte un gaio brusìo di vocette infantili e un momento dopo la brigatella irruppe nel salotto, seguita da un piccolo stuolo di governanti. Tre amori di creaturine! Si aggrupparono attorno alla madre con visibile adorazione, ed ella me li presentò tutti e tre, con mal celato orgoglio. Poi chiese alle governanti dei loro diporti.
Parlava inglese, ora, un inglese stretto, genuino, che mi parve mutasse ad un tratto il suono stesso della sua voce. Sul suo volto non rimaneva traccia alcuna della recente emozione; era un'espressione al tutto calma, impassibile, quella che il giorno prima, al Cercle, mi aveva resa sì crucciosamente incerta. La persona aveva nuovamente assunta l'attitudine che non le conoscevo. Compresi che Lady Helvellyn era tornata, volontariamente o no, ad immedesimarsi della sua seconda esistenza. E, stranissima cosa, la mia stessa emozione si era calmata in quel frattempo, mi pareva di essere accanto ad una persona che avessi da poco conosciuta, quasi un'estranea. Pure, dopo un istante, ripensando intensamente a Ninì... la ritrovai in quella estranea.
Mi sentivo turbata, affaticata. Tutto ciò mi faceva male. Quella vicenda sì rapida, sì balenante d'impressioni urtate, stancava nervosamente il mio spirito, come la perpetua danza dei riflessi acquei stancava il mio sguardo. Dissi che bramavo far ritorno a casa.
Ella non si oppose, ordinò che fosse approntato il canotto. All'ultimo momento, mentre eravamo sul cassero, presso la scala d'approdo, ella si chinò al mio orecchio, e mi susurrò una strana parola:
— Scordami.
Ma poi, con subito impeto appassionato, mi strinse al seno, in un veemente abbraccio. La sua mano afferrò un lembo della mia giacchetta, come se volesse trattenermi, il suo sguardo acceso, bramoso, mi avvolse tutta, mi afferrò, mi ricercò, m'impregnò di un'onda magnetica di rammarico, di scongiuro, d'incertezze folli... Fu un lampo. Lasciò andare la mia giacchettina, ci sorridemmo scambievolmente con un sorriso vago... come stanchissimo.
Scesi, e subito rivolsi il capo all'insù, per guardarla, per vederla ancora una volta. Ma ella aveva già lasciato il cassero.
Vecchia celia.
Il treno ripartì.
Sulla piattaforma della piccola stazione, la viaggiatrice, testè discesa da una carrozza di prima classe, rimase immobile, come incerta. Nessuno degli impiegati la conosceva. Era sola e non aveva bagaglio. Una borsa da viaggio ricchissima. Inglese, attillata la foggia della spolverina. Un ampio velo marrone le era calato sul volto non più freschissimo, ma fino ed affascinante. E, nel complesso della persona, come nel più minuto dei particolari, era in lei il marchio inimitabile della vera signora, la rivelazione di tutte le raffinatezze di un'esistenza finamente mondana.
Qualcosa pure, però, d'una stanchezza languida ed uggita.
S'avviò con lento passo verso l'uscita. Nel varcarla, chiese al bigliettario:
— Ci sarebbe una carrozza per recarsi in paese?
— Sì, signora. È venuto il vetturino. Guardi.
Davanti all'entrata esterna della stazione, stava infatti uno sgangherato calessino e un giovanotto sventolava, con un fazzoletto di cotone azzurro, i fianchi d'una vecchia cavalla, corsi da continui scotimenti nervosi, sotto le rabbiose punture delle mosche cavalline.
— Comanda, signora? — chiese alacremente il giovane, agitando lo scudiscio davanti a lei, che, nuovamente immobile, guardava la campagna circostante, come per orientarsi.
— Comanda, signora?
A quel secondo appello, ella si scosse e fece un cenno di adesione, senz'altro.
Il vetturino era già in serpa. Si voltò:
— Dove comanda?
— Monteforte, alla villa.
Un ahoo imperioso, una chioccata di frusta, e via.
La strada era bella, tutta vaghezza di colli e pompa autunnale di campagna. Ma pareva triste in quel giorno senza sole, nella bianchezza afosa del tempo rannuvolato.
La signora interpellò ad un tratto il cocchiere:
— Siete il solo vetturino di Monteforte?
L'uomo, un buon diavolaccio, che amava le chiacchiere coi suoi clienti, rispose prontamente:
— Sì, signora! E ce n'è anche di troppo, coi bei tempi che corrono, e queste ferrovie e tram che si cacciano dappertutto. Son cinque anni che abbiamo la stazione. Per quel che fa, potevan lasciar di farla e di rovinar noi altri poveretti. Non c'è commercio da queste parti. Miseria grande, e altro.
— Non ci sono signori, dunque?
— Oh di quelli ce ne sono... Ma son tutti signori di denari, soltanto, son venuti su dal niente e taglierebbero un quattrino in croce. C'era bensì, una volta, una casata di signori veri, i conti di Monteforte, che venivano l'autunno; allora si stava allegri e andava bene per tutti, ma adesso...
— Adesso? — continuò la signora, che pareva prendere un certo interessamento al colloquio.
— Adesso la cuccagna è finita. Da quindici anni, non ci vengono più, e chi la fa grassa sono gli agenti e i fittabili.
— Lo so — disse la signora. E davvero lo sapeva.
— Mah! — proseguì il vetturino. — Succede sempre così, a non guardarci. I padroni non capitavano mai... mangia tu che mangio anch'io; fatto sta che ora la casa e i terreni, è tutta in vendita.
— Lo so — disse ancora la signora. Tacque, rannuvolata in viso.
Il vetturino ebbe un lampo d'ispirazione. Quella era venuta per visitar la villa, per comperarla, s'era di suo genio.
Contento della sua trovata, prese a lodare con astuzia diplomatica il paese, l'aria, i terreni, la campagna.
— Brava gente, sa... rispettosi, lavoratori. Tante persone pulite, fior di gente! Il prevosto, il coadiutore, il curato... C'era un certo Don Giulio, un po' vecchio ormai, ma ch'era sempre il maneggione di tutto. Famoso pei malati e per scongiurar le talpe. Corpo!... non c'era il compagno. Poi un curatino...
S'interruppe ad un tratto ed arrestò la cavalla.
— Guardi, signora. Di qui si vede bene. Quella è la villa.
Accennava, collo scudiscio, un'amenissima altura, e, a mezzo del pendio di questa, un vasto caseggiato signorile, attorniato da un ampio giardino. Un lungo viale di ippocastani finiva dinanzi al portone della casa, e davanti alla facciata meridionale di questa si stendeva un'ampia terrazza, cinta d'una balaustra di ferro leggiadramente intagliata e coperta di arrampicanti. I portoni serrati, le finestre chiuse tutte quante.
La signora si rizzò a sedere sui cuscini e fissò a lungo gli sguardi su quella villa.
— Bel luogo... eh!... — suggerì il vetturino. — Vedrà all'interno poi, che bellezza, che specchi, che mobili! Io veramente non ci sono mai stato; ma mio padre, che ci andava sempre per portar le lettere ai signori...
— Che! — interruppe vivamente la viaggiatrice — sareste mai il figliuolo del Gaspare?
Il vetturino si voltò, meravigliato.
— Per l'appunto. Ma allora, scusi..., lei ci è stata da queste parti?
La signora chinò il capo, con un fare svogliato e s'allungò sui cuscini.
Per un buon tratto di strada, fu silenzio. La cavalla trotterellava, scotendosi dietro la carrozza sul terreno disuguale e sassoso. La signora non reagiva punto contro i villani sobbalzi, dovuti alle pessime molle del legno, la sua persona abbandonata pareva anzi assecondare quelle brusche scosse.
Un giovane, di civile aspetto, passò sulla via, gettando nell'interno della carrozza uno sguardo attonito e curioso che corse poscia ad interrogare il cocchiere.
Questi scosse il manico della sferza, per salutare il giovane, e lo interpellò ad alta voce:
— E così?
L'altro alzò le spalle, con un gesto espressivo.
— È andato? — insistè il vetturino.
— No... ma poco ci manca.
Non ebbe tempo di dir altro; rimase addietro sulla strada..
— È un mio cugino che sta male — disse bonariamente il vetturino. — E quello lì è il nostro dottorino, vede! Gli ho chiesto... perchè quel poveretto, quello che sta male, sarebbe proprio ora che se ne andasse!
Ella sorrise alquanto.
— È molto vecchio? — chiese.
— Oh no! sulla quarantina, se pure. Ma è mezzo... — Si voltò, e recò la mano alla fronte, sventolandola energicamente. — Sono due anni ch'è ammalato, e tre mesi che sta a letto. È ridotto che fa paura. Ma era un bravo giovane, sa?... di talento, di studio; meno che non aveva la testa a casa. Dicono che fosse diventato così per uno scherzo che gli fecero dei buontemponi del paese, anni addietro, d'intesa coi signori qui della villa... dei signori giovani, che ridevano volentieri!
La signora si rizzò bruscamente a sedere.
— Come si chiama? — scattò a chiedere.
— Si chiama Lattanzio. Il maes Lattanzio, che insegnava alle Comunali. Bravissimo del suo mestiere, faceva anche delle poesie! Ma!... era sempre stato una testa un po' matta. Dico io!... andar a immaginarsi che la signora Contessa....
Una brusca interrogazione gli troncò a mezzo la frase:
— Siamo ancor lontani dalla villa?
— No, signora — rispose attonito il vetturino — un mezzo chilometro, a dir molto.
— Spicciati; ho fretta.
L'accento era sì duro, sì imperioso che il loquace vetturino ammutolì e la punta dello scudiscio accarezzò le orecchie della cavalla.
— Che tipo curioso! — pensò il giovane — ora sa, ora chiede, ora vuole, ora non vuole. Chi diamine può essere?
Lo seppe poco dopo, quando furono all'entrata del viale e quando il vecchio custode, capitato finalmente, dopo lunghe chiamate, col mazzo delle chiavi, per aprire il cancello, se le lasciò cader di mano, in atto d'altissima meraviglia, udendo una nota frase sulle labbra della signora che scendeva dal legnetto. Non certo ancora, aguzzò lo sguardo ansiosamente. Ella, ridendo, rimosse il velo... Allora il vecchio giunse le mani e sclamò, gridò quasi:
— Ah Madonna! è proprio lei... la padrona!
— Corpo! — pensò il vetturino, inebetito dalla meraviglia. — E io che la piglio per un'acquirente, e a momenti le conto la storia di maes Lattanzio!...
* * *
Proprio lei... in persona... la contessa Fulvia di Monteforte. La fattora l'accompagnava in casa, sbarrava gli usci, spalancava le imposte nelle sale a terreno, suscitando galoppi udibili di sorci e fughe disperate di grossi ragni. Il tanfo del rinchiuso si esalava caldo e nauseante, la rabescatura bianchiccia del salnitro si accusava sui pavimenti e sugli zoccoli delle pareti e da esse pareva emanare una piccola frescura, acuta e malsana. Informi cataste di mobili avvolti in vecchie tele, rompevano qua e là il nudo e il vuoto degli ambienti.
L'assenza dei padroni era stata pretesto a qualche usurpazione dei custodi. In un piccolo boudoir chinese, un odore acre, intollerabile, rivelava la presenza del raccolto dell'aglio. Il fattore aveva impiantato nello stanzino del bagno una specie di rustico studiolo. In una vasta antisala, dipinta a fresco, eran rizzate delle tavole di graticci a più piani, sui quali era distesa l'uva, fresca ancora della recente vendemmia; ma l'ingrato odore dei bozzoli, che avevan primi occupato il luogo, perdurava.
Le fine nari della Contessa ebbero delle non dubbie vibrazioni, ma essa nulla espresse del suo scontento, se pure ne risentì. Solo un istante, come se sentisse bisogno dell'aria pura, venne fuori, e diede un'occhiata al terrazzo.
Peggio che mai! L'incuria dei fattori, il vandalismo dei villani avevan presto avuta ragione della regolarità leggiadra dei comparti; la gramigna aveva invase e divorate le macchie, e i fagiuoli coprivano, colla tenacità dei loro tenui steli attorcigliati, le cime degli arbusti di lusso; le bordature eran diventate di prezzemolo e di insalata, e dai grandi vasi di limoni si riversava un'arruffata vegetazione di pomidoro. Solo il gelsomino e i due rosai, piantati appiè delle colonne del porticato, avevan vissuto per conto proprio, a dispetto dell'incuria. I rosai erano in piena fioritura, e il gelsomino era tutto in vaga costellazione bianca, e un cespo d'amorino, alla base d'uno dei rosai, metteva la sua nota pura ed intensa in quel terzetto di profumi. Un vecchio montone, sporco, colla lana arruffata, pascolava e dava capate in un piccolo recinto di vecchie canne di granoturco, addossato al piedestallo d'una muschiosa statua di Bacco. Su una cordicella tesa fra due colonne del porticato, asciugava, all'afa delle ore meridiane, tutto un bucatino di robicciuole infantili.
L'agente, che un ragazzo era andato a chiamare, capitò in fretta e furia, accatastando scuse e complimenti. Era ai prati, pel terzaruolo.
La Contessa congedò la fattora. E così, sui due piedi, l'agente seppe che la villa e la tenuta erano state definitivamente vendute a certi fratelli Robins, industriali. Nella vendita era pur compreso il mobilio, ma, per una convenzione speciale col marito, la Contessa aveva diritto a rilevare quanto le piacesse del detto mobilio, a prezzo di stima.
Era venuta per dare le sue disposizioni in proposito. Si tratterrebbe un giorno soltanto. Lascerebbe a lui la lista dei capi prescelti, e sarebbe sua cura lo spedirli...
— A Milano? — suggerì premurosamente l'agente.
No.... nè a Milano, nè alla villa sul lago. A un indirizzo nuovo che avrebbe mandato poi.
Il ricordo d'una bizzarra diceria, penetrata sino a Monteforte, sul crescente disaccordo fra la contessa Fulvia ed il marito, tornò repentino alla mente del signor Perelli, l'agente. Ma non ne fè cenno alcuno, naturalmente.... aveva ben altro pel capo, poveraccio.
Tentò invece di esprimere un decente rammarico per l'avvenimento, che lo separava dai suoi riveriti padroni. Ma il freddo contegno della signora non lo incoraggiava a grandi espansioni di rammarico. Due cure martellavano il buon uomo: la inevitabile resa dei conti e la curiosità di sapere che sorta di roba sarebbero i nuovi padroni. Stava lì, non sapendo come congedarsi dopo quel po' po' di notizia. La osservava perplesso, girando i pollici delle mani incrociate, trovandola magra, invecchiata, con una ciera brutta.... O che aveva da guardarlo così? Poichè ella, distratta, lo fissava con aspra attenzione, pensando alle dilapidazioni che rimarrebbero senza castigo.
Si congedò finalmente con grandi inchini e con grande senso di sollievo. Era già in giardino, quando s'avvide d'essersi scordato di offrire la sua governante pei servigi della signora Contessa. Fu lì lì per tornare indietro. Ma diè una buona crollata di spalle. Oh s'ingegnasse un po' anche lei. Tanto, non era più la padrona. Scuserebbe la fattora!
Scusava infatti, la fattora; ma che croce era mai, la buona donna, con quel suo mulinello di parole! Una ossessione, quelle sue continue domande.
— La illustrissima signora Contessa comanda di pranzare? A che ora?...
— Alle quattro. Facessero venire qualcosa dalla Trattoria del Leon d'Oro...
— E dormire? La illustrissima signora comandava?
La illustrissima ebbe un brusco moto d'impazienza.
— Dovunque, non importa. Per una notte sola.
— Oh Signore! Solo per una notte, proprio? Dopo tanto che non venivano, e ch'eran tanto desiderati?...
Di questo, a dir vero, la Contessa non s'era accorta. Le pareva che Monteforte avesse fatto benissimo i fatti suoi senza di loro. Ed ella era scontenta d'esser venuta.
La negletta casa le era parsa una tomba; tutto in essa era triste, mal destato, dopo quindici anni di vuoto e di sonno. Desinò sola, nel tinello grande, ove la fattora aveva voluto apparecchiare. Mangiò poco, serbando un silenzio quasi accigliato, che contrastava coll'incessante cicaleccio della buona donna. Lo ruppe solo, quasi involontariamente, quando udì annunziare, fra gli altri avvenimenti, la disgrazia del maes Lattanzio.
— Ma non è ancor morto! — disse vivacemente.
— No, ma quasi. In agonia, si può dire, da quindici giorni. Quanti soldi era costata la sua malattia! E che vite gli avevan fatte quelle due donne, la sorella e la cugina Cesira!
Quel nome non giunse nuovo alla Contessa.
— Una bella giovine, nevvero? la fidanzata di maes Lattanzio? Ma non s'erano sposati?...
— Mai più. Lui non aveva voluto più saperne quando s'era cominciato a scaldar la testa. Lei, per la gran passione, fece una malattia e non volle sposar più nessuno. Quando furono morti tutti i suoi e il Lattanzio cominciò a star male, ella venne in casa, come serva della sorella di lui. Tanti la criticarono e le tolsero il saluto. Ma ormai era vecchia e brutta, poteva anche farlo. E adesso vedesse cos'è diventata... a furia di nottate e di strapazzi.
La Contessa chiese il caffè, che le fu recato trionfalmente dalla fattora. L'aveva fatto lei ed era un'abbominevole cosa. Ma Fulvia non s'inquietò e non disse nulla. Tanto, era l'ultima volta.
— Per fortuna! — pensò con un piccolo brivido.
* * *
Curiosità, o senso di dovere. I notabili del paese vennero, in corpo, a riverire la signora Contessa. Essa li vide farsi avanti sul viale. Solo a misura che s'accostavano, avvertì i mutamenti ed i vuoti. Don Giulio, il prete che non aveva rivali per scongiurar le talpe, s'era fatto tutto bianco, ma la robustezza portentosa della tempra serbava alle forti membra, alle marcate fattezze l'antico marchio, quasi brutale, di forza e di energia. Piero Massini, il ricco fittabile, già così grosso, s'era fatto enorme ora, e camminava a stento, come un vecchio bue. Il tempo pareva invece aver sempre più assottigliati i contorni della scarsa persona del signor Tapretti, l'ex-sindaco, e la mobilità nervosa, fuggente, dello sguardo palesava sempre la nota fondamentale del carattere, una conigliesca insana paura di tutto. Il famoso Giovannino Prè, il bell'umore, il brillante della compagnia, proprietario-dell'albergo del Leon d'Oro, c'era non solo, ma non pareva punto invecchiato; portava ancor bene la snella persona di ex-militare e la sua faccia accesa, sensuale, aveva serbata la ilarità maligna di canzonatore spietato, sempre a caccia di grosse mistificazioni. Fra i mancanti, il farmacista pettegolo, famoso per le sue distrazioni, il vecchio dottore, facile al bicchiere e celebre per le sue imprese amorose. Mancavano pure l'astuto, malefico segretario, e il maestro di scuola, maes Lattanzio. Fulvia pensò a lui, e lo rivide col pensiero. Rivide l'esile persona, il pallore malsano, le acute fattezze del magrissimo volto, adombrato da una zazzera divisa in due portentosi ciuffi, ondulati e lucenti. Vide il suo sguardo ardente e spiritato, quell'indefinibile assieme di pretesa, di sussiego, di timidità; rammentò le sue frasi ampollose, arzigogolate, il suo fare tra impacciato e impudente, quei suoi scatti nervosi che avean del convulso. Sorrise per un secondo, evocando quella grottesca figura di pedagogo sentimentale, poi aggrottò le ciglia, pensando che egli, che il Giovannino Prè, che tutti gli altri di quella volgare combriccola di buontemponi erano stati per un anno intero ospiti quotidiani della villa. Rammentò l'acre avversione che aveva dapprima provata per la loro compagnia. Ma Roberto non tollerava la solitudine. Rideva di sua moglie e delle sue riluttanze, trovava ridicole le sue arie scandalezzate, fuor di luogo affatto: Naturalmente, eran gente impossibile, villani rifatti. Ma giacche non c'era altro, bisognava prenderli com'erano, e giovarsene, per non morir di noia. Sinchè si stava in campagna, bisognava adattarsi.
Fulvia aveva capita la lezione e coll'andar del tempo aveva finito coll'adattarsi anch'essa. Non si ribellava più contro la noia di quelle insulse conversazioni, contro il ridicolo del grossolano incenso delle adulazioni, le bizze, i pettegolezzi, le acri piccinerie, le volgarità serene, inconscie, dei suoi ospiti. Roberto, lietissimo, rideva di loro e se li aveva sempre d'attorno. Una gaia brigata; questo sì, sollazzevoli, a modo loro. Si facevano l'un coll'altro degli scherzi gustosissimi, che Roberto incitava e che lo facevan sbellicar dalle risa. Il Giovannino Prè era famoso per le trovate... certe finte citazioni al farmacista, all'ex-sindaco, tanto pauroso, degli spauracchi da fargli venir la terzana. E così, a furia di pensarne e di farne, era andato ad inventare la più bella fra tutte le celie, quella di persuadere maes Lattanzio che la contessa Fulvia fosse segretamente innamorata di lui!...
A dir vero, maes Lattanzio era un soggetto: unico per ogni specie di mistificazione. Malsano di mente e di corpo, estroso, un misto di strane audacie e di codardie, coll'immaginazione male in arnese, con un vacuo disordine di sogni e di aspirazioni. Era grottesco in tutto, nell'aspetto e nei modi; solenne nel parlare, pedantesco, con una spruzzatura di sentimentalismo, che dava l'ultima mano di ridicolo a quella infelice macchietta di pedagogo.
Sulle prime la Contessa aveva preso a proteggerlo, vedendolo fatto segno ai dileggi dei buoni amici. Lo aveva fatto per buon cuore e per spirito di contraddizione, sbadatamente; si divertiva della sua gonfia gratitudine, dell'ammirazione svenevole ch'egli le tributava. Non s'era nemmeno accorta dell'esaltamento vago, indeterminato, che la stessa bontà di lei aveva messo in quel povero cervello. Non avvertiva ch'egli diventava ogni giorno più brutto, che i suoi ciuffi prendevano delle dimensioni sempre più torreggianti, e che gli sguardi, già un po' loschi, del povero maestro avevano delle contorsioni sentimentali del più bell'effetto.... Ma, in vece sua, se ne accorsero gli amici e Roberto, il quale apprese pel primo, a Fulvia, ridendo come un matto, la bella conquista da lei fatta. E Giovannino Prè, cogli altri amici, ordirono tutto il piano della congiura. Si circuì l'infelice, si soffiò a piene gote nel suo focherello, a piene mani vi si gettò esca e paglia; tanto si disse e si fece, ch'egli finì col cader nella rete. Confidò a Giovannino il suo amore per la Contessa, e il Giovannino finì col confidargli ch'egli aveva forti motivi di credere che la Contessa nutrisse pure una segreta, ma violenta passione per l'erudito maes Lattanzio.
Figurarsi l'infelice maestrucolo!... Quel po' di buon senso, ch'egli poteva aver serbato, naufragò completamente nella piena dello smisurato suo trionfo. Egli credette. Tutto abboccò ciecamente di quell'esca grossolana e crudele. Una spina soltanto in quella grandinata di rose... la troppo giusta gelosia del marito.
Roberto figurava d'esser solo insospettito. Ogni tanto, saettava occhiatacce truci al maestro, che allibiva. E dopo queste scene mute, quando maes Lattanzio, sgomentato, se la batteva discretamente, perchè non succedessero disgrazie, quale immenso scoppio d'ilarità fra i congiurati! Come rifacevano le mosse, gli attucci, il contrasto di mimica amorosa e cauta di quell'imbecille. Tanto che la Contessa doveva finire col ridere anche lei del successo della celia.... Ella pure vi recitava la sua particina. La recitava maluccio, esagerandola, come tutte le esordienti; ma il maes Lattanzio, nella serenità del suo convincimento, non badava pel sottile: credeva e tirava via! E così il divertimento si prolungò all'infinito. Solo quando ne furon sazi, quando si vide il Maestro pressochè esasperato dalle speranze sempre deluse dal caso, si combinò con vera abilità una specie di catastrofe. Una lettera intercettata, le smanie gelose di Roberto, che giurava di sterminar l'audace..., la disperazione, le lagrime dell'innamorata Contessa..., la possibilità, anzi l'inevitabilità di un duello. Il Giovannino aveva quasi rapito il Lattanzio, l'aveva costretto ad allontanarsi, sinchè si fosse potuto placare l'adirato consorte. Il Maestro s'era generosamente adattato ad allontanarsi per salvare la Contessa, e intanto gli amici avrebbero placato il Conte. Intanto, invece, era venuta la fine della dimora in villa, il Conte e la Contessa erano partiti; e chi si rammentava più di maes Lattanzio e di Monteforte, nella gaia ed elegante baraonda d'un carnevale passato a Napoli? Solo per qualche tempo i due sposi rammentarono, ogni tanto, ridendo, quell'episodio. Poi venne un tempo in cui Fulvia e Roberto non risero più assieme. Ognuno rideva ormai per conto suo, e non certo a proposito di una vecchia celia, scordata da entrambi!
Ma lì, in paese, la ricordavano sempre, e, durante la visita dei notabili, tornò in campo anch'essa, frammezzo ai ricordi dei lieti giorni e ai rammarichi per la lunga assenza dei signori. Quanto si erano divertiti, quanto avevan riso alle spalle di quel povero maestro Lattanzio, eh! eh!
Ridevano ancora, in coro, con dei grossi scoppi d'ilarità chiassona, triviale, ai quali la Contessa non era più abituata, e che determinavano nell'intimo suo delle lievi crispazioni nervose. Pure, per un acre senso di curiosità, ascoltava non solo, ma interrogava.
— Ah! E poi, cos'era accaduto?
Il Giovannino Prè la informò minutamente di tutto, con grande compiacenza. Era accaduto che quel poveretto, tornando dall'esiglio e non trovando più la signora contessa, era rimasto «di carta», e s'era disperato. Poi, un po' per la paura avuta, un po' per lo strapazzo del correr dietro a quell'eterno appuntamento sempre mandato a male da un caso impreveduto, s'era buscata una fiera malattia, e poco mancò non andasse al mondo di là sin d'allora. Poi, quando fu ben guarito, gli amici dissero ch'era stata tutta una buffonata, una cosa per ridere. Credevano di fargli un bene... eh! una carità perchè si desse pace.
— Già!... E lui?
— Lui invece... la prese tutta a rovescio. Avesse visto che occhi, che furie! Diventò come disperato; cominciò a far il diavolo in casa, in scuola. Già, era sempre stato un po' strambo; ma d'allora in poi divenne così inquieto che alcuni parlavano di farlo ritirare, ma i suoi non vollero. Sua sorella e sua cugina, una giovane ch'egli doveva sposare... la Cesira... si ricorda?...
Ella assentì con un cenno. — E poi?
— E poi, rimase sempre così, come scombussolato nel cervello; ma a poco a poco diventò più quieto. Tutti lo canzonavano, si sa, ma egli canzonava noi, dicendo che s'era benissimo accorto della nostra malignità, che parlavamo per invidia, mentre tutto ciò ch'era accaduto era vero verissimo. E per quanto gli dicessimo, non si volle mai ricredere. Sicchè, può immaginare quanto abbiam riso ancora!
— Però — disse timidamente il fittabile Massini — dopo si persuase.
— Si persuase un corno — ribattè vivacemente Giovannino. — Non parlò più, perchè noi gli eravamo subito addosso a minchionarlo; ma faceva certe faccie... che si capiva che nel suo cuore, era certo... certissimo, benchè...
Ammiccò maliziosamente, ma qualcosa, nello sguardo della Contessa, gli suggerì di soggiungere in fretta:
— Matto da legare, s'intende... Mah! poveretto!
La visita fu lunga; per quel benedetto vezzo che hanno certe persone di non saper mai trovare il momento buono per andarsene. Pure non era per alcuno una visita piacevole. Ognuno pensava, guardando la Contessa: non è più lei. Non tanto per gli anni trascorsi, nè pel mutamento fisico, era ancora bellissima; ma qualcosa d'indefinibile aveva fatto della gaia sposina d'un tempo una donna inquieta e inquietante nella stessa sua calma. Era gentile, e s'informava dei fatti d'ognuno con mirabile sforzo di memoria; pure, sentivano d'esserle diventati al tutto estranei. Poi non sapevano come interpretare la sua venuta a Monteforte e come chiederle di Roberto; ella stessa avea parlato sì fuggevolmente di suo marito!
I visitatori erano molti, ma parevano sfumare nella nuda vastità della sala, a mala pena rischiarata da una lucernetta, la sola che la fattora avesse saputo approntare. Si parlava a mezza voce. Seduto accanto alla contessa, il brillante Giovannino Prè tentava invano di animare la riunione. Parecchi rammentarono che a quel posto soleva stare bene spesso maes Lattanzio. A proposito; peggiorava sempre e si dubitava che potesse passar la notte.
Finalmente se ne andarono, in corpo come erano venuti, incerti, disorientati. Ella disse che sarebbe partita la domane, senza aggiungere schiarimenti di sorta. Non s'incomodasse pure nessuno, non aveva fissata l'ora della partenza. Sperava di rivederli, era grata del buon ricordo... Ma essi avvertivano in quelle parole qualcosa che le rendeva vane, e pareva dare una smentita indefinibile al loro stesso significato.
Ella rimase sola nel grande salotto, fatto tepido dalla dimora di tante persone. Avevan fumato, e l'odore dei sigari rimaneva, acre, disgustoso... La Contessa si ritirò subito. Era stanchissima.
* * *
Aveva detto che non gliene importava nulla, che dormirebbe dovunque. Pure, quando vide che la fattora le aveva preparata l'antica camera coll'alcova, quella ch'ella aveva occupata un tempo con Roberto, ebbe una impressione sgradita. Il letto era fatto, la fattora aveva messi i lenzuoli grandi, d'un sol telo, coi quattro cuscini ricamati, recanti sulla fodera le cifre intrecciate R. M. (Roberto Monteforte). Fu quasi per dirle: — Mettimi altrove. — Ma poi disse a sè stessa: — Che importa? sono stanca, dormirò subito.
Ma non dormì subito. Il sonno se n'era andato ad un tratto, ed ella guardava attorno a sè. La camera era vasta, gaia, semplicemente arredata. Le pareti eran dipinte a paesaggio, una campagna aperta, con molto cielo. L'alcova figurava una grotta di tufi chiari, e dagli interstizi di questi pendevano dei ciuffi d'un verde tenerissimo, imitazione molto libera di felci e di capelvenere. Qua e là, per figurare forse le segrete linfe, lumeggiavano dei pezzi di specchio incastrati nella parete. Sopra il letto un baldacchino bianco, sostenuto da freccie di legno dorato. Ai lati due acquasantini d'argento con due angioletti di stucco, oranti, coll'ali tese.
Uno sgomento colpì improvvisamente Fulvia, quando l'alto silenzio della notte l'ebbe al tutto isolata in quel calmo ambiente. Le parve di trovarvi una grave eloquenza di paragoni e di accuse. Si sentì giudicata da quella quiete, le parve che tutte quelle cose, rivedendola, non la riconoscessero più; si rammentò di quanto essa aveva troppo, irremediabilmente scordato e sentì la nota dissonante ch'ella recava in quella pace, piena ancora della purezza e dei sogni del passato. Un rammarico acuto la colse, un inesplicabile senso di tenerezza amara per quel luogo, per quelle pareti. Poichè ella quivi... quivi soltanto era stata veramente felice! Illusioni, forse. Anzi, certo... Ma lì aveva vissuta quella vita d'illusioni, e forse non le avrebbe perse tutte, se fosse rimasta nel loro nido. — Ora tutto se n'era andato. Illusioni e il resto. Venduto anche il nido..., l'altare dell'ultima fede. Per qualche giorno soltanto aveva il diritto, la possibilità di restarvi. Non era già più suo.
Se ne doleva ora e volle poscia deridere in sè stessa quello strano senso di cruccio. Ma non le venne fatto... Tenne a lungo lo sguardo fisso sul lucignolo vacillante della pessima candela che le aveva data la fattora. Si scosse, le parve di sentire un gran caldo nella persona. Aprì la finestra di centro e vi si affacciò. Una cupa notte, ingombra di nubi tenebrose. L'atmosfera era umida per la pioggia già caduta e per quella imminente. Sulla fuliginosa bassura dell'orizzonte spiccava il vasto tracciato della campagna, cogli accavallati profili dei colli. Tutto il rimanente: un nereggiamento cupo e caotico. Ogni particolare naufragava nell'oscurità; le grandi linee emergevano sole da quell'oceano silenzioso delle tenebre.
Ella vide quel nero, e si ricordò. Nella tenebra della sua mente, del suo cuore, vide alzarsi nude, gigantesche, isolate nell'ombra le grandi linee della sua vita.
Pure rammentava anche un grande e caldo sfolgorio di luce.... Oh le estasi, le gaiezze dei primi tempi del suo matrimonio, quando era passata, senza transazione, dal chiostro a Monteforte, dalla solitudine alle braccia di Roberto! Oh le rivelazioni del dio ignoto... di se stessa, del mondo intero! Il suo pazzo amore per Roberto! Che paradiso le era parso Monteforte!... come aveva sognato di vivere colà in perfetta solitudine con lui, bastandogli in tutto come in tutto egli era bastevole a lei! Una consacrazione reciproca, tale era stato il sogno di quel folle cuore. Ma Roberto era più saggio di lei. Sapeva che siffatti metodi non sono possibili, e glielo disse non solo, ma glielo provò. Per previdenza, per farlo durar più a lungo, egli anacquò il vino della sua felicità. Escluse l'idea dell'isolamento; ricercò invece la compagnia degli amici. Volle compagni, commensali, corteo di clienti, grati e festevoli.
Li aveva sempre d'attorno, sempre; ed ella finì coll'abituarsi. Fece, giorno per giorno, delle concessioni, piccole, ma continue, tolleranze bonarie di motti e di frasi equivoche, ovvero della grossa libertà di espressioni che gli ospiti usavano talvolta, incoraggiati dal suo silenzio, dalla sua indulgenza sconfortata. E così, di concessione in concessione, s'era giunti sino all'episodio di maes Lattanzio.
Ella era quasi insorta, allora; un innato senso morale, una ripugnanza istintiva le aveva suggerito di non prestar mano a quell'ignobile tranello. Ma poi Roberto, gli amici, una malsana curiosità di provar sè stessa...
Alla lunga, finì col divertirsi ella pure delle assurde smanie del maestrucolo. Cominciò a metterci un certo impegno, come una bimba che si prova a far la signora. Fece in corpore vili l'esperienza dell'esercizio d'un potere che a lei stessa si rivelava solo a misura ch'ella andava esercitandolo, s'impossessò dell'arte di sedurre senza amare, di quanto, cioè, havvi nella donna di più basso e sleale. E, in quel gioco crudele, ella e gli altri perseverarono ridendo. Poi, quando ebbero riso a sufficienza dell'imbecille che aveva osato credere, quando ebbero irritate, esasperate sino alla follia le assurde passioni di colui, la celia non ebbe tempo di farsi stucchevole. Finì ad un tratto, senza inconvenienti, per la partenza dei signori.
Erano stati assenti per 15 anni. Che le era accaduto in quel frattempo? Nulla di speciale, nè di strano. Era entrata in società, il mondo l'aveva presa e presto foggiata a modo suo. Roberto l'attorniava ancora dei suoi amici. Senonchè ora, questi erano giovanotti garbati, educatissimi, bei nomi, belle fortune, modi attraenti; talvolta avevano dello spirito, o l'arte di simularne il possesso. Tutti avevano delle avventure. Le signore che la attorniavano, ch'ella prendeva subito ad amare, erano giovani, elegantissime, non tutte incolumi dal soffio della maldicenza, alcune avevano anzi un passato alquanto discusso e un presente discutibile. Essa le imitava per piacere a Roberto. Roberto s'era presto emancipato, a dir vero, dal legame dell'amor conjugale, e la voragine mondana ebbe facile ragione degli ultimi suoi scrupoli. A un tratto, bruscamente, Fulvia si seppe tradita.
Credeva di morire, tanto ne sofferse... Ma non morì. Voleva separarsi da suo marito; non si separò. La prima volta perdonò, perchè l'amava ancora; la seconda, perchè non lo amava più. La terza, ahimè, la terza!...
Tutto ciò era venuto lentamente, a furia di piccole rinunzie, di concessioni successive. Un po' colpa sua, un po' di Roberto, degli amici, delle amiche..., dell'aria che respirava. Anche in quel nuovo ambiente, ella aveva avute dapprima delle ribellioni intime, qualche velleità di lotta, che abbandonò poscia, come aveva abbandonato quelle di Monteforte. E in fondo, in fondo, guardando bene, mutate le forme, le parvenze, il vestito, il linguaggio, era pur sempre la stessa cosa! Il feroce egoismo, la bramosia dei facili piaceri, il vuoto delle menti, l'orrore alla semplicità ed alla serietà, il segreto cinismo degli animi. A conti fatti, era tutt'uno... Ella non lottò e non vinse, nè a Monteforte, nè altrove.
Fulvia fu indolente e sfortunata; non seppe trovare nè amici sinceri, nè consiglieri leali; non fu atta a suscitare, in chi l'attorniava, affetti duraturi e giovevoli. Soffrì talvolta.... Fu offesa, sinistramente giudicata da alcuni, e incrudelì, alla sua volta, con chi non lo meritava. Si perdette in dettaglio, a spizzico: senza unità, nè grandiosità d'immolazione.
Credette d'amare e s'accorse, troppo tardi, che, ciò che aveva creduto una passione, non era stato nulla più che un capriccio; provò delle ebbrezze manchevoli, incomplete, ravvisò bene spesso bruscamente dietro le parvenze d'una cavalleresca poesia d'adorazione, un feroce vero di brutalità. S'abituò a disistimare tutti, ed a vivere placidamente in mezzo alle persone distimate, si fece un'amara e beffarda idea della vita e del cuore. Mentì per vezzo, per spirito di difesa e di vendetta. Tra essa ed il marito, dopo le prime scene violente, una bella pace di tomba, una tacita e bassa convenzione di libertà reciproca.... purchè fosse evitato lo scandalo.
Ma nello scandalo appunto ell'era di recente incappata. Uno scandalo volgare, del quale le amiche ridevano dietro il ventaglio, dicendo che quella povera Fulvia si era proprio resa impossibile, ormai!
In quel lento naufragio era andato travolto, oltre il patrimonio morale, anche il ricco censo dei Monteforte. Scialaquo, noncuranza, rovinoso bisogno di continui svaghi. Roberto s'era accorto, un bel giorno, che sua moglie tornava ormai troppo cara alla sua dignità e alla sua borsa. Allora si pensò al rimedio, e questo fu pronto ed efficace. Così l'amore, il dovere, il legame eterno, tutto finiva in una grande liquidazione generale.
E dopo quella: ognuno per sè e Dio per tutti!
Fulvia non si ribellò... Alzò le sue belle, bianchissime spalle. Un sollievo, quasi, quella completa rottura col passato e con Roberto. Non si fermò a pensare. Andrebbe avanti ancora, come prima, ciecamente. Parte della sua dote era rimasta incolume. Vivrebbe a Parigi, a Nizza, a Roma. Ebbene, meglio così!
Ma ora, lì a Monteforte, affacciata alla finestra dell'antica sua camera, ella non diceva: meglio così! Misurava tutta l'estensione della sua sventura. Si sentiva sola e indifesa, sentiva tutto ciò che aveva perduto. La vecchia dimora aveva risuscitato il vecchio tempo, ridestate le antiche voci. E una sincerità nuova, crudele pareva levarsi dal fondo di quel baratro nero, ch'ella involontariamente interrogava e che le rispondeva la verità. Tutto ciò ch'ella aveva scordato, negletto nel suo pensiero, si ridestò colla tortura d'un nuovo aspetto. Ella rammentò i primordi puri e beati, l'intorbidarsi primo della serenità del cuore e della coscienza, la prima menzogna, la prima bassa condiscendenza. E la vecchia celia, commessa così alla leggera, per ridere, scordata da tanto tempo, campeggiò nettamente in quella vertigine di ricordi angosciosi, parve capitanare tutte le altre avventure della sciupata esistenza di quegli anni, le vere cadute, le debolezze vergognose e codarde, i capricci insensati e dannosi, tutto ciò che a gradi a gradi aveva mutato e pervertito quel fiacco animo di donna, e resolo ciò ch'ella era oggidì, ciò che si sentiva ora chiaramente nella pace immutata e nella solitudine dell'antica dimora!
Curvò la testa sul davanzale e colle aride mani si costrinse la fronte. Per un minuto s'inabissò nel vuoto della sua disperazione. La sua perfetta immobilità parve una morte di più, nella quiete sepolcrale della notte.
S'alzò poscia, chiuse la finestra e si coricò.
Aveva seco un libro, e si provò a leggere, per conciliare il sonno o per distrarsi, ma non raggiunse nè l'uno scopo, nè l'altro. Le venne invece una strana ossessione. Le parve d'esser la Fulvia di allora, la sposa innamorata e felice.
A un tratto, di fuori prese a piovere. Ma, sulle prime, ella non riconobbe lo strepito della piova; balzò a sedere sul letto origliando, con un violento battito del cuore. Le goccie cadevano rade ancora, picchiavano regolari e frettolose sulla ghiaia del vialetto che correva sotto le finestre, imitando quasi lo strepito di un passo baldo, spigliato.
A Fulvia parve per un secondo il passo di Roberto. Tornava così, la sera tardi, dopo una seduta cogli amici al Leon d'Oro. Tornava, e lei, che lo aveva sì a lungo atteso, riconosceva il suo passo con un delizioso tremore. Diceva a sè stessa, esultando: è qui! Dava una rapida occhiata agli specchietti più vicini, le stava bene la cuffia, così? Si accomodava in fretta, poi giù, cogli occhi serrati, a finger di dormire per fargli dispetto, per esser destata, come al solito, con un gaio bacio. E mentre egli saliva le scale, il cuore di lei, quel folle, sciocco cuore batteva, batteva.
Ricadde a giacere, con un beffardo sorriso. La piova cadeva regolarmente ora, e non somigliava più ad un baldo passo.
Nella turbata mente di Fulvia era passata soltanto, come un razzo nella notte, l'immagine di Roberto, colla sua bellezza d'Apollo e col suo sorriso di amante. L'ombra era nuovamente infestata da un disordine di vacue larve. Ma torreggiante, distinta, perdurava la precisione d'un ricordo simile ad un incubo: la pallida faccia, la smorfia sentimentale e grottesca, gli occhi spiritati ed i lucidi ciuffi di maes Lattanzio.
* * *
La notte era trascorsa e l'ospite attesa, la grande ospite nera, non aveva puranco picchiato alla porta di maes Lattanzio. Un alto silenzio regnava nella casetta del docente, e nella sua camera pareva quasi avverarsi una sosta dell'angosciosa aspettazione. L'inquieta veglia finiva in una calma quasi serena.
Tutto in ordine, pulito e ravviato. Due seggiole accostate ai letto, un lavoro di donna tuttora giacente sul copripiedi, facevano fede d'una sorveglianza femminile e recente. La sera prima avevan recato il viatico, e la camera serbava ancora un leggero profumo d'incenso. Una coperta a fiorami era sciorinata sullo scrittoio, e i libri del maestro, ammonticchiati uno sull'altro, formavano una specie d'altarino, tuttora sormontato da un piccolo crocifisso.
L'ammalato era quieto, immobile nel letto pulitissimo e cogli occhi languidamente socchiusi, collo sguardo nitido ancora, ma già attonito, già stanco forse di trovarsi a contatto delle cose umane. La luce del giorno fatto entrava, grigia e malinconica, dalle finestre, solo a mezzo schermita dalle imposte accostate, e nel suo semi-chiarore moriva quello d'una lucernetta d'ottone a petrolio, tuttora accesa e posata a terra in un canto. Una donna, seduta davanti a un tavolino, dormiva. Il sonno doveva averla colta a tradimento. La mano distesa sul tavolino serrava un rosario intralciato fra le dita, e il capo posava con grave abbandono sull'avambraccio. Il respiro della dormiente suonava lieve e regolare; quello dell'ammalato aveva delle lunghe intermittenze; pareva per qualche secondo, cessare affatto, poi ricominciava, lievissimo dapprima, più forte poscia e quasi roco, alzandosi finalmente sino al diapason d'un piccolo rantolo. Poi, daccapo con quella strana, brusca interruzione.
Egli non dormiva. Viveva e sentiva. E tese l'orecchio, udendo, ben prima d'ogni altro, un passo leggerissimo, esitante, che veniva accostandosi alle scale poi un — Si può? — sommesso, che aspettava, e si ripeteva poscia, senza alzarsi oltre la misura di un bisbiglio.
Qualcosa come una leggera contrazione passò sul volto di maes Lattanzio; il suo sguardo ebbe un'attenzione intensa, quasi soprannaturale.
— Cesira! — egli chiamò — Cesira!
Quel filo di voce fu bastevole a destare la giovane. La persona ebbe una scossa brusca, il capo s'alzò con impeto, lo sguardo corse al letto con un'interrogazione angosciosa.
Rassicurata, la Cesira balzò in piedi, venne accanto al letto, chinando sull'ammalato la sua faccia stravolta.
— Sono qui, eccomi, ti occorre qualcosa?... Vuoi la Margina?
Ma egli scosse il capo. Accennò l'uscio, presso il quale il timido — Si può? — si iterava, dolce e musicale.
— Va ad aprire.
La Cesira obbedì. — Un momento dopo, campeggiò sulla soglia l'alta figura della contessa Fulvia di Monteforte.
Le due donne si ravvisarono subito, si guardarono incerte, quasi ostili, per un secondo. Ogni traccia di gioventù e di bellezza era scomparsa nella Cesira. Nei suoi poveri panni, la persona s'allungava, magrissima, ascetica quasi, nell'estremo affinamento delle forme. Ell'era pallida e vecchia. Stanca delle lunghe veglie, stanca di avere sì a lungo lottato per allontanare la morte. Stanca come Giacobbe, dopo la vana lotta coll'Angiolo.
La Contessa pure era pallida e sbattuta. Non aveva chiuso occhio, e solo un capriccio morboso e prepotente l'aveva chiamata colà. Ma la vita è così fatta che la Cesira, obbedendo al fascino d'un istinto, s'inchinò, mormorando una frase di saluto ossequiente, davanti a quella donna che per niente, per ridere, le aveva tutto tolto nella vita. Così il vicino povero salutò forse il vicino, padrone d'innumeri armenti, che gli aveva rapito l'unico agnello, per imbandirlo all'ospite suo.
— Come va? — chiese Fulvia a voce bassa.
Quella di Cesira non tremò, nè fu incerta nel rispondere. Essa alzò il capo, con una mossa altera e ribelle.
— Muore — disse laconicamente, raccogliendo le mani sul grembo.
* * *
Fulvia non poteva spiccarsi di là.
Margina, la sorella del maestro, scesa poc'anzi, le aveva accostato un seggiolone appiè del letto. Ella vi sedeva, immersa in una specie di fredda contemplazione, collo sguardo fisso sul morente. Egli giaceva disteso e composto. Sul candore del guanciale la zazzera incolta, cresciuta a dismisura, metteva un'ampia macchia d'un nero lucido d'inchiostro. Il volto era mutato, ma riconoscibile; serbava tuttora l'impronta della crucciosa caricatura dell'espressione. Lo sguardo errava attorno alla Contessa, con visibile sforzo, assumendo una strana indole di dubbiosità. Una mano, del colore della cera, posava quieta, lunghissima, sulla rimboccatura del lenzuolo.
La Cesira s'era messa a fianco del guanciale, la sua posa era dura, rigida; ella pareva davvero una sentinella della morte. La Margina s'era allontanata alquanto; piangeva, col volto rivolto verso la finestra. Ma le sue lacrime scorrevano senza strepito. Il solo che s'udisse era quello rotto, incalzante del respiro di maes Lattanzio, quella vicenda alternata di crescendo e diminuendo, la solfa, quasi musicale, dell'ultimo appello.
* * *
Non andò guari che la piccola camera fu quasi piena di gente.
Gli amici, venuti per udire l'annunzio della sua morte, salirono, udendo con sorpresa come egli fosse ancor vivo. Ma l'aspetto di lui non valse a rasserenarli, ed essi rimasero senza parola dinanzi a lui, e dinanzi alla strana visitatrice che sedeva immobile, taciturna, appiè del letto. Come mai... la Contessa?...
E quel silenzio sì grave, sì assoluto impressionava i sopraggiunti. La grossa persona di Pietro si dissimulava dietro il tavolo, e Giovannino Prè chiedeva notizie alla Cesira, abbassando la voce sino ad un susurro. La faccia dell'ex sindaco era tutta un tremito di piccoli contorcimenti nervosi. Don Giulio conferiva in segreto colla Margina. Le pareva... sarebbe ora per gli olii santi?..
A un tratto, con una mossa che non diè strepito di sorta, la Contessa si alzò e si fece presso al malato, per salutarlo. Depose la destra inguantata sulla nuda e livida destra di lui.
Allora accadde una strana cosa... La mano di Lattanzio, con una lentezza stecchita di movimento, si ritrasse..., si alzò, si sovrappose, essa, sulla mano di Fulvia.
La Contessa taceva e non si moveva, come se quel contatto l'avesse tutta impietrita. Un ipnotismo generale inchiodava su quelle due mani, così unite, tutti gli sguardi degli astanti.
Maes Lattanzio sollevò alquanto il capo, e il suo sguardo, lottante colla prossima tenebra, si confisse in quello della Contessa. Dalle sue labbra violacee, che parevano ogni secondo più ritrarsi di fianco alle gengive, escì netta, precisa, una domanda: — Era vero?
Una vampa di fuoco passò sul volto di Fulvia, lasciandolo poscia d'un pallore appena secondo a quello del morente. La sua persona ebbe un piccolo spasimo visibile. Esitò un secondo...., e ciò ch'ella visse in quel secondo le sarà forse contato nel gran giorno.
Ma l'errore, l'esitanza, tutto fu vinto.
— Sì, — disse chiaro, lentamente — Era vero.
Allora egli, con un inesprimibile sforzo, rimosse lo sguardo da lei e guardò Giovannino Prè. E nella contrazione convulsa delle fattezze che si alteravano rapidamente, nei prodromi faticosi della fine, un sorriso funebre e grottesco, un sorriso di trionfo e di scherno, si disegnò sulla bocca di lui.
Si disegnò e rimase.
* * *
Poche ore dopo, la Contessa partiva. Temeva di perdere il treno, e il vetturino, lo stesso che l'aveva condotta, costringeva alacremente al corso la magra cavalla. Il legnetto fuggiva, sobbalzando forte sulla strada maestra. E come se tuttora lo inseguisse, giungeva sempre più fievole dal paese, discosto ormai e celato dalle alture, il rintocco lento di un'agonia!...
Gita Estiva.
I.
A Firenze, in un caldo meriggio di giugno. Passando a caso per quella via il barone Leonardo Folgardi alzò lo sguardo verso il palazzo e vide aperte alcune finestre del primo piano.
Attraversò la via, varcò la soglia del portone ed entrò in portineria per chieder ragguagli.
La portinaja non ne fu avara. Donna Costanza era in città da due giorni, sola. — La contessa Clelia era rimasta in villa a Terbeno. Desiderava far passare ambasciata?
Egli rimase alquanto perplesso. Desiderava di riverir donna Costanza, certamente, e gli pareva strano ch'ella non lo avesse fatto avvertito del suo passaggio in città.
— Riceve donna Costanza? — chiese finalmente.
La portinaia esitò alla sua volta. Veramente, aveva ricevuto ordini.... Ma trattandosi di lui, proverebbe.
Si accostò al portavoce e la chioccia frase s'ingolfò nel tubo.
Dopo un istante di attesa la donna si voltò e disse:
— Passi, signor Barone.
Leonardo salì il ricco scalone di marmo e trovò sul pianerottolo Gaetano, il vecchio domestico, il quale lo salutò col rispetto dovuto ad un intimo amico di casa e lo informò che donna Costanza contava di ripartire all'indomani mattina.
Nulla infatti era stato mutato dell'assetto di riposo degli appartamenti. I velluti e i broccati dei mobili stavano appiattati sotto lo schermo delle coperture. Gli specchi, i candelabri, le lumiere tralucevano dietro il velame delle garze che le avvolgevano. — Le ampie e fastose sale parevano assopite nel silenzio fresco della loro penombra. Il barone fu introdotto nel salottino verde, quel bel salotto ove ella riceveva gli amici e dove egli aveva passate tante buone e simpatiche ore. Com'era vuoto ora, pareva devastato! Coperti tutti i mobili, scomparsi gli innumeri ninnoli. Un tavolino soltanto era scoperto e sovr'esso giacevano alla rinfusa alcune lettere.
Il barone attese alquanto, poi vide alzarsi una portiera e farsi avanti una bella signora che lo salutò cordialmente, porgendogli la mano.
Egli s'inchinò e baciò quella mano.
— Buon giorno, Leo — disse gaiamente donna Costanza. — Come avete fatto a snidarmi?
— Per caso. Passavo, vidi aperte le vostre finestre e venni a chieder di voi. Perchè non mi avete scritto?
— E chi vi dice ch'io non v'abbia scritto?'
— Ma non ho ricevuto niente.
— Accade talvolta che una lettera non sia subito recapitata. Guardate, eccola qui, la vostra lettera.
Prese una fra le parecchie buste che stavano sul tavolino e la mostrò a Leonardo, il quale vi lesse infatti il proprio indirizzo. Allungò la mano, quasi istintivamente per prenderla, ma Donna Costanza, con un rapido gesto, ritrasse la busta.
— No, lasciate stare, non importa ora. Sedete piuttosto e chiacchieriamo un pochino.
Ma egli non sedette.
— Non voglio disturbarvi. Chissà quanto avrete da fare. Non potrei fare qualche cosa per voi? Venni solo per mettermi a vostra disposizione.
— Vi ringrazio. Ma non mi occorre nulla. Ho fatto tutto in questi due giorni.
— E vi riposate?
— Non ancora. Mi riposerò meglio.... più tardi.
— Domani?
— Domani — rispose donna Costanza lentamente, come trasognata — domani?
— Contate di ripartire domani?
Essa lo guardò un istante come incerta — poi disse a bassa voce:
— Sì, partirò domani.
La sua voce aveva un accento che sorprese Leo e gli fe' lievemente aggrottare le ciglia.
— Non so che dirvi — osservò poscia — per quanto me ne dolga personalmente, comprendo che con questi calori desideriate di tornar presto al vostro delizioso Terbeno. Che c'è di nuovo, laggiù? Che fa la contessa Clelia?
— Oh! la zia sta benone! Ma si annoia assai. È troppo giovane per star volentieri in campagna.
— Scusate, è sui sessanta... se non erro.
— Non importa. Tutto sta nel carattere, nevvero? Per ora, non c'è male. L'ho lasciata alle prese colla conversione politica del nuovo Cancelliere.
— Ma quando il nuovo Cancelliere sarà convertito?
— Oh allora!...
Corrugò la fronte, con impeto bizzarro. Poi sorrise sedendo, con una mossa piena di abbandono, sul piccolo sofà coperto.
— Troverà.... si occuperà altrimenti, farà benissimo anche senza di....
Si arrestò bruscamente e mutò accento.
— Andiamo, via, non sorridete, non la canzonate così, quella mia povera Zietta. Vi accerto che vale assai più di me. In realtà, son io che ho la sua età ed ella ha la mia.
— Trentatrè anni — disse Leo. — Strana cosa, una donna che dice la sua età. È vero che potete dirla....
E poteva dirla, in fatti. Donna Costanza era bella. La sua persona serbava proporzioni snelle ed armoniche, l'assieme aveva un fascino speciale, una delicata proprietà di attrattive. Certo, non era più giovane, scorgevi qualche indizio di piegoline sull'epidermide del volto, qua e là più marcate, specialmente attorno agli occhi ed in lotta perpetua coll'ardente luminosità di questi, un'impronta come di intime e misteriose lassezze. Molti capelli bianchi, specialmente sulla fronte. Ma con tutto ciò, nulla di vinto, di finito in lei. Tutto il suo essere tradiva un'individualità risentita ed emanava una vaga seduzione, fatta ad un tempo di forza e di femminilità speciali.
Non piaceva sempre nè a tutti. Era molto giornaliera, aveva facile la stanchezza, pur essendo vivacissima talvolta e piena di brio. Parecchi n'erano stati innamorati e avevano tentato invano di farsi amare. Pareva nata per l'amore, certi momenti, pure ella era o più saggia o più forte della propria attitudine.
Vedova da cinque anni, assai ricca, era da tutti preconizzata ad un secondo matrimonio, ed a questo la spingevano incessantemente parenti, amici e voce pubblica. Era stata più volte richiesta in isposa, aveva sempre detto di no, soggiungendo modestamente: per ora.
Sacrificava alle esigenze del pubblico, vivendo con una sua vecchia zia ch'era, in fondo, molto più mondana di lei.
Andava molto in società, recandovi una perfetta serenità di spirito che alcuni chiamavano non sincera. Riceveva degli uomini d'ingegno e di cuore, aveva, fra essi, alcuni saldi e veri amici. — Si sparlava un poco, vagamente di lei, senza nulla precisare, attribuendole ora una perfezione nell'arte del simulare, ora una freddezza innata ed un orgoglio smisurato.
Taluni erano scontenti, come aizzati dall'incerto che emanava da quella signora, tanto donna nel suo aspetto, tanto statua nel suo vivere e nel suo contegno. Perchè non si maritava? perchè non faceva come le altre? come mai destava, senz'averla, l'idea della passione! Qualcuno aveva sorriso, parlando di donna Costanza Varalli e di Leone Folgardi.
Ma il sorriso non si propagava, cadeva, solitario, nel vuoto. Qualcosa, nella severa grazia di quella donna imponeva il rispetto alla parola non solo, ma anche al pensiero.
I suoi amici dicevano di Leonardo, ch'era timido. Le amiche di lei, dicevano che quella cara Costanza era troppo abile per compromettere l'avvenire; il momento cioè in cui si deciderebbe a sposare quell'uomo.
La verità vera?... Questa:
Egli l'amava e l'aveva sempre sognata sua. Lo sognava tuttora.
Ma aveva presa l'abitudine di rispettare profondamente quella donna, sin da quando ell'era la moglie dell'amico suo. Sapeva ch'ella non poteva amare suo marito, ma sapeva altresì che lo stimava, che viveva, tranquilla con lui, se non felice. — Quando ella fu libera, Leo tentò più volte di fargli intendere quanto egli sarebbe fiero e beato da poterle dare il suo nome. D'altro.... non si parlò mai fra quei due.
Erano veramente amici.. Essa ne aveva parecchi, ma fra essi Folgardi teneva un posto distinto, l'amicizia ch'essa gli dimostrava aveva profumo speciale, una vaga, quasi aerea, forma di affettuosità.
E questa era sì cara, sì teneramente necessaria a Folgardi che egli tremava di perderla, di alterare quel bizzarro statu quo, in seno al quale gli anni, quasi cullati, erano trascorsi dormendo.
Non passione, dunque: no. Ma un sentimento speciale, bizzarro, tutto sui generis, uno di quelli che non sono l'amore tutto quanto, ma forse la più delicata frazione di esso, l'amore cioè senza il suo dispotismo.
Questi sentimenti vivono di poco assai, coloro che li provano soffrono sempre alquanto, ma dolcemente, con una continua ed intima voluttà, fatta insieme di una vaga rinunzia e di una vaga attesa. — Il più degli uomini ridono di questi amori e ancor più ne ridono il più delle donne. Ma non importa, esistono.
Donna Costanza però non ne rideva. Solo a volte, ella, sì intelligente, pareva stranamente ancorata nella serenità della sua: non intesa. Le era accaduto di pensare in modo commovente all'avvenire del suo amico, gli aveva fatto parola or di una or d'altra amica sua, delle signorine tanto care, così bene educate, tanto atte a fare la felicità di un gentiluomo! Ma il gentiluomo in questione si trincerava alla sua volta in un sistema di non intesa, e assentiva con sì languido entusiasmo agli elogi delle damigelle tanto carine che donna Costanza aveva perso ogni speranza di convertirlo. — Forse, in fondo, proprio in fondo al suo cuore di donna, era una vaga compiacenza che l'amico fosse così impenitente. Chi lo sa?
Così si eternava, fra quei due, quel vago incerto di amore, che non impediva loro di essere amici e di vedersi di frequente con una cara e reale cordialità, cui non nuoceva una specie di segreta tendenza a contraddirsi vicendevolmente.
Anche stavolta, per esempio, si stuzzicavano e ridevano. Egli l'aveva un po' amara con donna Costanza perchè ella non gli aveva scritto della sua gita a Firenze.
Poi c'erano delle aggravanti. — Egli era lì da due ore (benchè avesse detto d'essere venuto solo per un momento) e non aveva ancor nulla indovinato del perchè della non preannunziata escursione. E gli pareva pallida colei, aveva certi inquieti sguardi, certi subitanei tremori nella voce. Una espressione strana, diversa dal solito, certi momenti, d'una serenità voluta, forzata, che non gli garbava affatto.
Parlavano di cose indifferenti. A un tratto, egli troncò quei discorsi vani e le chiese reciso:
— Cos'avete?
Ella arrossì, come una colpevole, ridendo, però.
— Io?... Ma nulla. Voi sognate, mio caro!...
Gli occhi di lui ricercarono l'anima di quella donna.
Ella tralasciò di ridere, sorrise dolcemente. Poi soggiunse con grande quiete:
— No, indovinate; ho in mente una quantità di cose, di progetti....
S'arrestò a un tratto, obbedendo ad un'intima esitazione.
Egli insistè, cautamente, come scherzando:
— E non si potrebbe sapere...? Sono tutti misteri?
— Sì — disse ella gajamente. — Misteri.... per l'appunto.
— Ma brava!... Mi rallegro.... E non volete dir nulla? Nemmeno agli amici? Pensereste forse a emanciparvi?
Ella battè forte le mani:
— Precisamente! Ecco; avete trovata la parola. Mi emancipo.
Aveva assunto, per dir ciò, un fare biricchino, quasi provocante, col suo visetto animato, cogli occhi accesi di un vago fuoco di sfida. Egli aggrottò le ciglia e rimase muto per un istante, poi tentò d'indagare, attenendosi al tono di celia:
— E non temete di essere sgridata tornando a casa domani? che dirà donna Clelia?
Con sua grande, somma sorpresa, Leonardo vide un'espressione angosciosa passare sulla fronte dell'amica. Essa ebbe un sospiro, poi un sorriso, poi un lieve brivido.
— Si abituerà.... — disse poscia.
— Che!? — sclamò Leo.
— Si abituerà — ripetè Costanza. Tacque alquanto, poi soggiunse gravemente: — Nessuno è indispensabile a questo mondo, sapete? Ed è meglio così.... pel caso mio.
— Ah! c'è un caso vostro, attuale?
— Mio, attualissimo, palpitante di attualità.
— Un segreto?...
— Un segreto se volete.
— E se non volessi?
Ella esitò un secondo, come sconcertata.
— Oh! vi prego di volere — disse poscia ridendo. — Si tratta di sì breve tempo!...
— Ah! una sorpresa, allora? Piacevole?.... Per tutti o solo per me?
— Ma come siete curioso? Non sarebbe più una sorpresa se ve ne dicessi qualcosa.
— È vero, sono indiscreto.
Tacquero.... ridendo entrambi. Ma subito il loro riso venne meno. Si guardarono con uno strano sgomento. Ed ella abbassò gli sguardi ed il suo petto si sollevò, anelante.
Una tristezza senza nome invadeva il cuore di Leonardo, un'irritazione dell'enigma doloroso che emanava da quella donna. Ella sorrideva tuttora, con visibile sforzo, il labbro aveva un piccolo tremito convulso.
Egli si alzò, ed ella nulla fece per trattenerlo. Gli chiese solo sommessamente:
— Andate?
— Sì, è tardi e dovete aver bisogno di riposarvi. Niente incombenze dunque?
— No, grazie.
— Neppur dalla sarta? Incredibile: ovvero ci siete già stata? Questa toilette è nuova e vi sta benissimo.
Involontariamente, lo sguardo di donna Costanza corse allo specchio più vicino; ma il cristallo n'era velato, ed ella si mise a ridere.
— Ben mi sta, vedete? Ancora Eva e sempre Eva.
— Eva è immortale ed è la più cara creatura che sia mai esistita. Quell'abito è fatto secondo le più prette regole dell'estetica. Oserei chiedervi come si chiama quella stoffa?
— Foulard des Indes — rispose donna Costanza. E con un gesto involontario, quasi tenero, fe' correr lenta la mano sulle morbide pieghe della sua gonna.
Ma tosto, precipitosamente la ritrasse, mordendosi le labbra.
Egli la studiava ancora, ritto, col cappello in mano, col cuore pieno di dubbiose impressioni.
— Dunque vado — disse finalmente. — Non divulgo il segreto della vostra dimora?
— No, ve ne prego.
— Devo ripassare stasera? Fareste una trottata dopo pranzo? No?... Ebbene, riposate. Se posso giovarvi, comechessia, onoratemi dei vostri comandi.
Aveva ancora di quelle vecchie formole e stavano bene in bocca sua. Si chinò a baciare la mano di donna Costanza. Gli parve che quella mano tremasse un poco, che fosse arida, calda sotto le sue labbra. Gli occhi avevan pure qualcosa di febbrile, lo sguardo una specie di smarrimento vago, doloroso.
— Siete stanca? — gli chiese — soffrite?
— No; addio.
Ma non ritrasse la mano, ch'egli teneva tuttora fra le sue.
Quei due si guardarono ancora, col fascino delle loro arcane angoscie. Egli, sopratutto, cercava d'imporle la forte potenza della sua penetrazione di indovinare il mistero di lei. Ma essa lo celava, rigida, fissando lui.
Leonardo lasciò andare la mano di quella donna. Gli era venuta una strana tentazione, quella di serrarla sì forte da attirar lei, tutta quanta, sul suo cuore. E quando ella fosse lì, chiederle aspramente:
— Ma cos'hai, tu, cosa intendi di fare?
Non fece nulla di ciò. Fece bensì qualcosa di insolito, le disse qualcosa che non aveva mai osato dirle.
— Sentite, donna Costanza. Oggi non vi intendo. Mi parete un'altra, non siete voi. Qualcosa vi turba, questo è certo. Parmi avvertire che abbiate presa una risoluzione. Quale sia, non lo so. Questo so e vi dico: Che il giorno in cui abbiate d'uopo di un cuore devoto, tutto vostro, in qualunque modo, sotto qualunque titolo, ebbene, quel giorno ricordatevi di me. E ora: a rivederci e buon viaggio.
Costanza non finse, stavolta, di non aver capito. Una fiamma rosea le aveva suffuso il volto. Il suo sguardo profondo seguì Leo sino all'uscio. Ma quando vide ch'egli aveva girata la maniglia, ella ebbe un appello imperioso ed irresistibile.
— Leo!
Egli si voltò, ma non tornò indietro.
— Donna Costanza?
Ella attese un istante, poi gli disse, assai calma:
— Vorrei pregarvi di un piacere. Intendo fare un viaggio.... un piccolo viaggio. Sareste libero domani?
— Liberissimo e a vostra piena disposizione.
— Vi dorrebbe di accompagnarmi?
— Donna Costanza!... Ma che bella idea!
— Aspettate a lodarla. Non sapete neppure dove andiamo.
— Dovunque vi piaccia. Attendo i vostri ordini.
— Veramente? Ebbene, allora.... sia. Ma devo dirvi: È un mio capriccio, sapete, un'ubbia. Non v'importa di non saper nulla, di lasciarvi condurre dove voglio? Più tardi.... capirete.
— Non ho nessun bisogno di capire nè di sapere. Mi basta d'aver l'onore di accompagnarvi. Sarebbe dunque per...?
— Per domani alle dieci. Passate a prendermi. Provvedete per un giorno o due di vagabondaggio. E qualunque cosa accada, checchè vediate, checchè pensiate, non vi meravigliate di nulla. Non mi chiedete dello scopo del mio viaggio, non mi parlate dell.... dell'avvenire.... nevvero?
Si arrestò un istante, anelando, poi ripetè «energicamente: — Nevvero?
Egli s'inchinò:
— Così sia. Non più di ciò.... vi prego. Vi ringrazio, domani sarò qui, alle dieci, e voi mi guiderete dove vorrete.
— Sta bene. A domani.
Pareva, ora, che la presenza di Leonardo recasse a quella donna un'impazienza dolorosa.
Egli se ne andò sbalordito, felice.... Ma inquieto pure; stranamente inquieto.
II.
Le dieci.
Echeggiavano ancora nell'aria mattutina quando un landeau di rimessa si fermò dinanzi al portone di casa Varalli. Dalla carrozza scese tosto il barone Leonardo. Salì lo scalone, e venne introdotto da Gaetano nel salottino di donna Costanza.
Essa lo attendeva colà, già in assetto di viaggiatrice, seduta e calzandosi i guanti. Sulla scrivania non più carte nè lettere. Nulla.
Non era sola. Una cameriera, la vecchia Rita, riponeva qualcosa in un elegante sacco di cuojo. Il mastro di casa, monsù Polè, ascoltava, ritto, impalato, dinanzi alla signora, le istruzioni che questa gli andava impartendo. Ma ella s'interruppe per salutare Folgardi.
— Buon giorno, Leo; siete veramente esatto. Permettete un momento?
Leo s'inchinò, ritraendosi, e mentre ella continuava a parlare col mastro di casa, egli si permise di contemplarla da lungi.
Era stupendamente vestita per la circostanza, tutta avvolta in un'ampia spolverina di seta grigia che sapeva essere ad un tempo maestosa e leggera. Il cappello, grigio parimenti, con un grosso nodo di velluto e un'ala bianca di colomba. Era assai bella, quel giorno, donna Costanza Varalli di Terbeno.
Finita la conferenza il maggiordomo chiese se dovesse far avanzare una carrozza.
— Ci sarebbe la mia — s'affrettò a dire Folgardi.
— Benissimo, — rispose donna Costanza, — mi gioverò della vostra. Oggi bisogna che a tutto pensiate voi. Hai finito, Rita?
— Sì, signora — rispose una voce tremante, mezzo affogata nel pianto.
Donna Costanza si voltò. — Oh Rita, cosa vedo?...
Questo vedeva: che Rita si asciugava gli occhi colla cocca del grembiule.
— La signora mi scuserà;.... Ma vede; son tanti anni che la servo ed è la prima volta che lei va via così... senza di me.
Donna Costanza ebbe un piccolo pallore fuggitivo.
— Ti rincresce... povera Rita? — disse con accento commosso, dolcissimo. — Ma ti accerto che non è perchè io sia scontenta di te. Sai, che ti ho sempre voluto bene. Non pensarci, Rita... passerà... Tutto passa.
Si arrestò, represse un piccolo tremore, poscia proseguì:
— Suvvia, sta di buon animo, non accorarti così. Addio, mia buona Rita, ricordati di... di tutte le raccomandazioni che ti ho fatte. E ora, vogliamo andare, Leo?
Egli le offerse premurosamente il braccio e il mastro di casa spalancò dinanzi a loro i dorati battenti.
Traversarono la lunga fila di appartamenti. Mentre passavano da un gabinetto di raso celeste, ella alzò gli occhi ad una parete e vide il suo ritratto ad olio, in grandezza naturale, in veste da ballo, coi suoi brillanti. — Glielo aveva fatto Guglielmo De Sanctis, a Roma, pochi anni addietro. Era riuscito stupendamente, di una perfetta rassomiglianza, trattato coll'intonazione armonica e grandiosa che caratterizza tutte le opere del celebre ritrattista romano. Donna Costanza gettò sul ritratto uno sguardo rapido, profondo. Ebbe un lieve rossore d'orgoglio, sorrise e passò oltre.
Quando furono sullo scalone, ella rallentò il passo. Sul ripiano, si fermò.
I suoi sguardi percorsero tutto quanto il vasto ambiente, salirono sino al soffitto, coll'affresco olimpico popolato di Dei in iscorcio, scesero lentamente, circuendo e come accarezzando tutto; la grande lanterna antica di ferro, i banchi stemmati, le statue ed i fregi della balaustra.
Poi ella chinò le palpebre, e così scese l'ultima scalinata.
Quando fu in carrozza si lasciò andare nel suo cantuccio, come una persona affranta dalla stanchezza. Ma subito si riscosse e si rizzò a sedere, in quella posa dignitosa e squisita che tutti solevano ammirare vedendola a passare in carrozza e che le sue amiche cercavano invano di imitare.
Respirò fortemente e disse al suo compagno:
— Che bella giornata!
Veramente; era una bella giornata. Nella notte c'era stato un forte acquazzone e s'era lasciato dietro nell'atmosfera una frescura ed una tersità mirabili. La luce aveva una letizia gloriosa e verginale, la gente che passava, la frettolosa industre gente del mattino subiva inconsciamente quell'influenza, i passi erano alacri, serene, ilari le fisonomie.
Le lastre e le bacheche dei negozi erano brillanti della recente ripulitura, le cose fantasiose e gentili esposte in vendita avevano una provocante civetteria di prima offerta. I fiorai giravano, colle ceste scoperte, colme ancora d'immacolati mazzi di fiori.
Donna Costanza guardava tutto ciò sorridendo, evidentemente rianimata da tutta quella gaja frescura mattutina. Era un po' pallida, come lo sono bene spesso, nelle prime ore del giorno, le persone delicate, ma ciò non le disdiceva e neppure le disdiceva la lieve ombreggiatura azzurra che si stendeva sotto i suoi occhi. Forse, non aveva dormito tutta intera la notte.
Ma s'era fatta animatissima ormai, aveva anzi un non so che di dolcemente biricchino, nuovo affatto in lei e che Leo andava studiando attentamente. Ogni tanto lo coglieva un dubbio. Cos'era tutto ciò? Un capriccio crudele? Una prova?... Perchè l'aveva voluto con lei in quel giorno? Non capiva — benchè avesse trascorso insonne la notte, pensandoci... Avrebbe sperato molto, con un'altra signora. Ma lei non era un'altra, era lei... Pensò che era meglio di non pensare. Ed ebbe ragione... forse.
Scesero alla stazione, ed ella guardò subito l'orologio.
— Le dieci e venti! — sclamò, — manca una buona ora alla partenza del nostro treno.
— Avete sbagliato i vostri calcoli? — le chiese Leo ridendo.
— No, affatto. Ho calcolato tutto. Avremo così il tempo di far colazione al Restaurant.
— Il Restaurant della Stazione?... Ma non so se....
— Oh, non importa. Oggi è una giornata... speciale. Ho un appetito!.. E si fa un pochino l'école buissonnière... nevvero?
Facendogli quella strana domanda, ella sorrideva in un modo non meno strano, un modo determinato, con una sì calma e sì misteriosa audacia ch'egli ne rimase trasecolato.
Una domanda gli salì impetuosa alle labbra, ma egli non la formulò. Gli sovvenne ciò ch'ella le aveva sì nettamente imposto il giorno prima, di non chieder nulla, di non meravigliarsi di nulla. Tacque.
Condusse la signora nella sala del Restaurant e sedette con lei ad un tavolino già allestito per due persone.
— Comandate voi, — disse donna Costanza, — oggi non voglio prendermi nessuna briga.
Si toglieva i guanti, lentamente, mentre il suo sguardo errava pel vasto ambiente, sì diverso da quelli ov'ella viveva. Guardava il lusso plateale dei sedili di velluto rosso, le dorature annerite, le volgari cornici dei grandi specchi. Il buffet grandissimo, di marmo, colle sue innumeri e gaje note di colori, gli aranci, le fragole, le nespole giapponesi, le albicocche primaticcie, piccine. Sulle pareti una cervellottica illustrazione di réclames, le mostruose capigliature del rigeneratore Allen, i verdi impossibili dei paesaggi di stazioni balnearie. Al banco sta la padrona, decorosa e grave, che tutto vede ed osserva, senza mai toglier gli sguardi dal suo delicato lavoro di uncinetto. L'impiantito di legno esala il fresco umido della recente spazzatura, i tavolini piccini, già preparati, invitano, col candore delle biancherie, coi riflessi lucidi e gai del vasellame. Gli avventori sono molti, vari, frettolosi, famiglie intere che i papà e le mamme cercano di sfamare con evidente inquietudine per la scarsità del tempo, squadre di viaggiatori avvezzi, che non si confondono, aspetti annojati di oziosi, venuti senza scopo, meste faccie di rimasti che assaporano il primo senso reale della separazione, qualche tipo di irrequieto, che un'impazienza imperiosa ha condotto alla stazione prima assai dell'arrivo di quel treno e che cerca d'ingannare l'attesa davanti ad un moka o ad un cognac.
Ogni tanto la voce stentorea dell'impiegato, che annunzia le partenze imminenti, si eleva oltre il brusio delle tante voci. Allora è uno scindersi di crocchi, un elevar di saluti, s'ode schioccare qualche bacio di addio, la gente si precipita, affollandosi verso l'uscita. Al di fuori, dietro le invetriate, corrono le nere moli dei treni, s'odono il cigolío stridente delle ruote, i fischi brevi, secchi del vapore che sfugge dai robinetti, le esalazioni gorgogliate, asmatiche che sprigiona il fumo delle locomotive. Poi, l'entrata chiassosa del rivenditore di giornali e di orari, quella più pacata, del coltellinajo ambulante e persino del fiorajo. — Certo; il vecchietto dell'angolo di via Rondinelli che si spinge il mattino sino alla stazione, in cerca di viaggiatori sentimentali e di sposi in partenza.
Passa davanti a donna Costanza, la ravvisa e si ferma, salutandola con grande ossequio ma anche con una certa famigliarità, perchè ella suole comprar molto da lui, e viene bene spesso in anticamera a scegliere i fiori ch'egli le reca a palazzo.
Donna Costanza fa colazione. Mangia volentieri un po' d'aragusta, e ogni tanto si reca alla bocca un bicchieretto di Bordeaux. Quella donna possiede il raro dono di mangiare con arte. Almeno così pensa Leonardo, e pensa pure che cara cosa sarebbe il poter far colazione ogni giorno con lei, non già al Restaurant, ma soli, nella sala da pranzo della baronessa Folgardi.
Leo ha delle idee nuove e strane. Ieri ciò pareva sì lontano, sì impossibile; ma oggi essa è con lui, fa colazione con lui... fra poco partiranno assieme. Per quali estranii lidi? Non può essere, in lei, un mero capriccio. Ella non è capricciosa. Dunque, perchè?...
Ecco, discorre col fiorajo, ora. Anche per quel vecchietto cencioso ha una musica sommessa di buone parole, una luminosa bontà di sorriso, mentre ella ammira le belle, freschissime rose della paniera.
Leonardo diventa audace:
— Permettete, donna Costanza?
Certo, donna Costanza permetteva a Leo Folgardi di offrirle qualche rosa. Lasciò che egli ammonticchiasse sul tavolino, davanti a lei, i più belli esemplari della Flora del vecchietto. Solo quando n'ebbe tante, proprio tante, protese la mano e disse dolcemente:
— Basta ora, vi ringrazio.
Il fiorajo si congedò, con mille complimenti e mille raccomandazioni che lo facesse avvisato quando tornava di villa, perchè potesse recarle subito la prima Gran Bretagna.
Ma ella nulla promise. Disse solo: — Addio, fiorajo.
Gli tenne dietro collo sguardo, a lungo, mentre s'allontanava, poi riannodò con Leo le fila di una buona, ilare conversazione. Prendevano il caffè ora, lietamente, animati. Intesi solo uno all'altra, si isolavano, in mezzo alla folla, sempre mutata e che non aveva il tempo di occuparsi di loro.
In quella giunse ancora un treno; l'onda dei viaggiatori passò davanti al buffet. Alcuni fra quelli di prima classe entrarono. Nel novero, un giovanotto elegante, con una faccia lunga, pallida ed intelligente.
Entrando, vede quei due. Apparteneva al loro mondo, li riconobbe e un lampo di viva meraviglia passò nei suoi sguardi, ma per dar tosto luogo ad una voluta impassibilità. Non salutò, finse di non vederli, di esitare e di ritrarsi per conto proprio. Quanto era mai avveduto e discreto, quel caro Peppino Tremiati!
Essi l'avevan veduto, ma Leonardo non ebbe il tempo di salutarlo. Egli guardò la sua compagna. Ell'era subitamente tornata al pallore di poche ore prima e la sua mano giaceva un po' tremante, sopra le rose. Tacquero un momento, col reciproco senso di ciò che pensavano... col pensiero dei pensieri di Tremiati.
Il colloquio non tardò a ricominciare. Ma non sì franco, sì scorrevole come prima. In capo a qualche tempo, donna Costanza guardò ancora l'oriuolo.
— A momenti parte la corsa per Bologna.
Raccolse le sue rose e si alzò.
III.
Soli, nella carrozza di prima classe.
Il treno correva. — S'erano perfettamente aquartierati, sedevano di faccia nell'angolo del waggon. Le sacche, i scialli, gli ombrelli giacevano al sicuro nelle reti, le rose prendevano aria, assicurate alle finestre, davanti alle quali s'incorniciavano, passando, i paesaggi idillici della campagna toscana, per dar poi luogo alle più severe prospettive dell'Appennino. I due viaggiatori godevano veramente di quel viaggetto.
Non pensavano più a Peppino Tremiati, nè a quanto avrebbe narrato agli amici, del recente incontro. Chiacchieravano sereni, con perfetta fiducia e completa libertà di spirito.
Almeno, così pareva.
Cominciarono i tunnels.
Non appena il treno s'ingolfava fischiando nella galleria, Leo alzava il cristallo della finestra. Tacevano entrambi, cullati dal moto ritmico del treno, dal cupo mormorio delle ruote. I fiocchi delle cortine danzavano freneticamente sui cristalli, risuonanti come piccoli tamburi assordati, e la scarsa fiamma della lucerna ad olio metteva nella carrozza una semi-luce sobbalzante, piena di tremori.
Donna Costanza stava immobile, rannicchiata nel suo angolo colla testa appoggiata all'indietro, colla mano penzoloni, fuori del gallone, appeso di fianco alla finestra. S'era tolta il cappello. Il colore e la linea del suo abbigliamento andavano del paro confusi in quell'incerto chiarore. Ella pareva vestita d'ombra. Nella bianchezza del volto suo, gli occhi parevano grandissimi e fissavano come ipnotizzati la fiamma della lucerna. Il corpo aveva un grande abbandono di posa, ma questa perdeva molto del suo significato, così accompagnata alla calma spettrale dello sguardo. Leo avrebbe dato dieci anni di vita per scrutare l'arcano di quella piccola fronte, sì intensamente pensosa, come immersa nella contemplazione di cose misteriose e lontane. Egli non osava interrompere quel silenzio, che pur gli faceva quasi paura; si sentiva pressochè irrigidito egli stesso, in uno smarrimento austero della mente, mentre il cuore gli batteva, con un palpito turbato, che pareva accompagnarsi al frettoloso e cupo rombo del treno nelle viscere del monte.
All'escita dalla galleria, il fascino si rompeva.
Donna Costanza si chinava con vivace movimento verso la finestra della quale Leo abbassava prestamente il cristallo. Le due teste si riavvicinavano, coll'identico desiderio d'aria libera, gli sguardi si cercavano impulsivamente, come se il giorno ricominciasse da lì!... la parola tornava facile, eloquente, il colloquio ricominciava vivo, confidenziale. L'impressione della natura esterna li riafferrava, si accennavano a vicenda la maestà delle masse granitiche, la dolcezza verde dei declivi, l'incomparabile bellezza di vedute che la celerità del treno faceva sfilare davanti a loro, come una rapida successione di quadri. Spaventosi precipizi, sul lembo dei quali un'accolta di casupole si penzolava, come un gruppo di curiosi attratti dalle visioni del profondo. Qualche casetta bianca, ideale, perduta sul profilo del monte o pel cupo verde di una boscaglia; qualche grande spazio di arido terreno bruciato dal sole, colla tetra poesia di una maledizione di sterilità, la maestà d'antenna, superbamente ritta d'un pino isolato su un'altura, forse l' einsam baum di Heine assorto nel pensiero fantastico della palma africana. S'interessavano a tutto dalla via, alle cascatelle irruenti, alle chiesette che pajono sì eloquenti di Dio, lassù quei luoghi ove sì poca gente sale, faticosamente, a pregare. Il Reno attirava di continuo i loro sguardi, coi suoi infiniti meandri di piccolo fiume che assume mille aspetti, che si dà aria di torrente, di ruscello, di fossato, ora gonfio, ora esile, ora a destra, ora a sinistra del treno, capriccioso nel suo corso dietro a questo, come un cane che accompagni il padrone alla passeggiata.
Guardavano e commentavano tutto ciò, ridendo, respirando l'aria acuta dei monti, colla coscienza di goderne anche perchè la respiravano assieme. Leonardo si abbandonava con un'intima gioja piena di speranza alle impressioni di quella gita. Evitava con cura ogni frase che potesse turbare la serenità di donna Costanza, quel suo perfetto e fiducioso abbandono. Aspettava: quel capriccio doveva pure significare qualcosa, approdare a qualche riva.
Erano consci entrambi dell'anormalità della loro posizione, sapevano di parere due innamorati, ma nessuno di essi accentuava la propria parte nel duetto.
Forse Leo non era veramente innamorato di quella donna, l'ho già detto, ma gli pareva assai cara e piacente e fatta per lui. Il mistero capriccioso di quella gita odorava vagamente di lieto fine, solo lo turbava l'aspetto strano ch'ella assumeva nella semi-tenebra dei tunnels, quella inesprimibile malinconia dello sguardo di lei!
I tunnels sono innumeri sulla linea Firenze-Bologna e annojano terribilmente i viaggiatori. Pure, quei due non parevano affatto annojati ed il treno entrò nell'aperto sorriso della campagna bolognese, senza che fra essi fosse avvenuto incidente alcuno. Cioè no.... sbaglio, ci fu un incidente. Ma sì lieve lieve!...
Solo questo: In una discesa, il treno ebbe, non so come, una piccola scossa. I viaggiatori sobbalzarono sui loro cuscini, le rose sobbalzarono pure e fecero atto di cadere fuori della finestra. Due mani si protesero a un punto per trattenerle, di quelle mani, una era più grande e l'altra più piccina. Stettero un secondo a contatto, poi la mano piccina si ritrasse e l'altra la seguì, con una piccola insistenza tremante che a rigore poteva essere un eccesso di zelo, per la tutela delle rose, ma la mano di donna opinò che le rose fossero abbastanza tutelate.
Dopo di che, donna Costanza chiese al suo cavaliere se Bologna fosse finalmente in vista.
— Siete stanca del viaggio? — le chiese Leo non senza una certa ironia.
— Sì.... — disse semplicemente donna Costanza.
Null'altro... Ma l'accento era sì strano, che Leonardo non fece commenti. Chiese a sè stesso il perchè della tenerezza malinconica di quell'assenso, ma non chiese nulla alla sua compagna.
— Siamo giunti — disse di lì a poco, alzandosi per prendere le sacche.
— Siamo giunti! — diss'ella come un'eco. Prese le rose e ne aspirò a lungo il profumo.
Scesero all' Italia, un hôtel simpatico, vecchio, che somiglia poco a un hôtel, ma ha serbato il carattere di ciò ch'era un tempo, il palazzo d'un gran signore. Chiesero tre camere, due da letto, separate da un salottino. Trovarono tutto ciò e s'installarono nel salottino o meglio sul balcone di pietra che percorreva tutta la lunghezza dell'appartamento e dava sulla stretta via. Dirimpetto, c'era un palazzone tanto fatto. L'hôtel e quel palazzo si guardavano di fronte, da presso quasi minacciosamente, come se stessero per dar di cozzo, troppo grandi e maestosi entrambi per l'angustia e la miseria della via sottostante, immagini forse delle vecchie idee nei tempi odierni. L'hôtel aveva certamente la peggio, in fatto di dignità, con quel suo aspetto di palazzo: utilizzato colle sue porte numerizzate, col suo andirivieni di omnibus, colla volgarità delle tabelle e degli affissi che profanavano la maestosa grandiosità dell'androne, col suo volgare tramestìo di camerieri. Ma era vivo, e il suo compagno dirimpetto era morto. Un'uggia malinconica esalava dalle chiuse finestre. A terreno una sequela di grosse inferriate, tutte ruggine e ragnatele. Da una di quelle finestre soltanto, quelle forse del custode, sporgeva tra le sbarre il verde pallido di un vaso di garofani e s'alzava, assieme ad un cattivo odore d'olio fritto, un eterno e picchettato strepitio di macchina da cucire. Al sommo del portone, dietro l'ampia corona che sormontava lo stemma del padrone, una colomba s'aveva fatto il nido e covava, immobile collo sguardo di madre, attento e patetico.
Leonardo stava alle convenzioni, non chiedeva nulla, non si meravigliava di nulla. Solo le pareva strano ch'ella dopo aver detto d'esser stanca, non volesse andarsi a riposare.
E come egli insisteva, donna Costanza ebbe una bizzarra forma di rifiuto.
— No, voglio restar con voi.
Così, non andò a riposare e rimase con lui, di fronte al vecchio palazzo disabitato.
La quiete della via pareva salire sino a loro ed avvolgerli in una maestosa serenità di assopimento. Senz'avvedersene smisero a poco a poco di mutar parola, smisero pure di pensare, forse per la stanchezza cagionata dalle gravi tensioni degli animi loro. Ci sono di questi strani momenti che si vivono così, anche in due, come in un'indeterminata incoscienza di sogno, colla stessa sensazione d'essere in vacanza dal pensiero e dal sentimento, in un'accalmia completa di tutto l'organismo, col senso di esistere, ma senza ingerirsi dell'esistenza propria. Ciò si prova, talvolta in piena vita, in piena tempesta di vita. Per un po' piace.... è un momento di tregua. Alla lunga, sgomenta e la si scuote, perchè somiglia alquanto alla sensazione della morte.
Leo la scosse pel primo.
— Ebbene, donna Costanza... che si fa...?
Ella lo fissò un momento, senza pensare a lui, il suo occhio semichiuso aveva un languore eccessivo.... un po' strano. Ci sono varie specie di stanchezze che si somigliano un poco nei loro sintomi.
Leo si destò completamente e balzò in piedi. Il cuore gli martellava forte.... Mosse un passo verso di lei.
Essa era completamente desta ed egli non vide dinanzi a sè che la sua calma amica donna Costanza Varalli di Terbeno.
Sorrisero entrambi. Ognuno aveva ritrovato sè stesso. Leo chiese a donna Costanza se si dovesse ordinare il the. Sapeva ch'era solita prenderlo a quell'ora, alle quattro.
Ma ella fece un breve cenno di diniego, poi soggiunse: — Grazie; non lo prendo più.
— Oh! come mai queste novità? Ma se era la vostra passione. Vi rinunziate così facilmente?
— Facilmente?... — rispose ella come un'eco. Tacque e il suo sguardo assunse una espressione di dolore, ineffabile e sacro.
Ma subito ella si scosse e disse a Leo:
— Volete escire?
— Con voi?
— No, escirò stasera.
— Bramate riposare ed esser sola?
— No, affatto!
— Allora, lasciatemi restar con voi.
— Sì — diss'ella con una soddisfazione quasi tenera — restate con me.
Restarono dunque assieme, e pranzarono nel salotto. Un fine desinaretto. Al centro del desco, in una carafa d'acqua stavano le rose. Donna Costanza e Leonardo mangiarono lietamente come avevan mangiato il mattino alla stazione, meglio ancora, cioè, senza la visione della pallida faccia di Tremiati. Parlarono di cento cose, godendo delle chiacchiere scambiate, dell'odore e della vista delle rose, del riposo, di tutte le contentezze del momento. Il che è certamente quanto di più saggio ed opportuno si possa fare in hac lacrymarum valle.
Dopo pranzo, calato il sole, escirono in carrozza. Dissero al cocchiere che andasse a piacer suo ed egli percorse tante belle vie, tutti palazzoni austeri e monumentali, bucati alla base dei porticati, sì caratteristici, dentro i quali la penombra del pomeriggio s'allungava già, progressivamente, come un serpe che distende le anella del suo corpo. Ogni tanto l'automedonte accennava la tal piazza, la tal chiesa, la tal via. Commentava ed illustrava a modo suo, con quella parlantina strascinata nell'accento, ma sì italiana nella frase, che tutti, anche la gente del popolo, hanno sì facile a Bologna. Ma a poco a poco, vedendo che i suoi avventori non gli rispondevano, tralasciò di parlare e un dubbio surse nell'animo suo, che quei due potessero essere due novelli sposi o semplicemente due innamorati. Non era ben certo, però; non gli pareva mai d'aver udito, dietro la sua schiena lo schioccare furtivo di un bacio.
Ciò nullameno, li condusse ai giardini, pressochè deserti in quella stagione, e lasciò ch'essi godessero in pace di quella meravigliosa prospettiva di colli lontani e prossimi, tempestati di ville, dell'ampiezza larga e fresca dei viali, dell'estesa, sì ricreativa allo sguardo, dei prati testè falciati. Il giorno finiva, grandioso e in silenzio come un giusto rassegnato. Presso alle cascatelle si levava una diafana velatura di nebbioline, dalla macchia venivano assieme ai profumi acuti dell'acacia in fiore, alcuni rotti preludî di gorgheggi. Nell'immensa frazionatura dei sobborghi qua e là si accendeva un lumicino, nell'intenso azzurro del cielo, appena velato dal primo pallore vespertino, qua e là si accendeva una stella.
Quando furono presso il cancello d'escita, il cocchiere si voltò.
Ma la signora disse:
— Ancora un giro.
Fecero quel secondo giro in silenzio, come se la muta dolcezza del luogo e dell'ora avesse compreso anche le anime di quei due. Vieppiù si accentuava, in quel momento, la strana sensazione di vivere in sogno, che già più volte in quel giorno li aveva blanditi e quasi addormentati. Una voluttà di arcani languori alitava sui loro spiriti, qualcosa come il fresco sventolio dell'ali di un vampiro sulle tempia del dormiente, mentre il sangue succhiato se ne va stilla a stilla e la vittima non sa far altro che morire! Dolcemente però, nella piena coscienza di sè stessa, sentendo che uno sforzo, un gesto, basterebbe a salvarla, ma sentendo pure di non poter fare nè quello sforzo nè quel gesto. Tutto ciò nella più perfetta libertà reciproca, nell'impressione amorosa della notte.... soli.... vicinissimi. Null'altro che la forza, la volontà per un secondo. Un impulso, un lieve moto delle persone, uno stender di mani, un sospinger di labbra, una fusione di due aliti e.... tutto sarebbe stato detto. Ma ciò non avvenne. Perchè?... Quale strana possa paralizzò in quell'istante la possa di quelle due volontà? Perchè si ribellarono a loro stessi, ai loro cuori, ai loro sensi? Perchè non si amarono in quell'istante? Come possono essere queste follie negative dell'animo? Rispetto o disprezzo dell'amore, coraggio o codardia, eccesso di vita, o misteriosa insufficienza di essa?...
Così se ne tornarono tranquillamente alla locanda. Nel salire le scale donna Costanza tradiva nel volto, nel passo, in tutta quanta la persona un'estrema lassezza. Pareva essersi fatta quasi vecchia, le sue fattezze erano come stiracchiate, un piccolo tremito nervoso scoteva le sue labbra, l'occhio aveva una specie di terrore inerte. Ma ella sorrideva ancora, pallidissima, sul ripiano del grande scalone e porgendo la mano a Leo, per salutarlo.
— Buona notte, — disse Leo, — riposate bene ed a lungo. Vi alzerete tardi domattina, nevvero?
Ella assentì, con un lieve cenno del capo.
— Mi manderete i vostri ordini, quando vi piacerà. Spero che dormirete benissimo.
La cameriera aspettava, accanto a loro, tenendo la bugia accesa fra le mani. Quando vide che quei due avevano finito di salutarsi aprì l'uscio della camera di donna Costanza.
Allora questa si scosse, la sua persona si eresse vigorosamente, parve farsi alta, imponente. Non più traccia dell'abbattimento di un momento prima — non più stanchezza. L'occhio ebbe un fulgore, risoluto e sovrano!
Con voce chiara, vibrata, donna Costanza salutò Leo Folgardi.
— Buona notte... — gli disse.
Null'altro.
Poi ella varcò la soglia e la porta si chiuse.
IV.
Leo non poteva decidersi a coricarsi. Faceva molto caldo, in camera sua. Aprì la finestra e passò sul lungo balcone. Chiuse ermeticamente le finestre del salotto e quella della camera di donna Costanza.
Era mezzanotte; ogni tramestio era venuto meno nell'Hôtel. Un po' di lume lunare scendeva di sbieco nella via, sbattendo sulla facciata del palazzo di fronte un angolo di pallore luminoso. I colombi dormivano, appollaiati dietro la corona. Giù nel nero della viottola transitavano scorrazzando delle piccole forme feline, inseguentesi con delle acute note miagolanti di feroce amore. Da un giardino non lontano giungeva ad intervalli una indefinita tenuità soave di olezzi e di canti d'usignuoli... Parve a Leo che giù in fondo alla via, in prossimità d'un lento e cauto passo, una finestra si andasse aprendo adagio adagio con ogni cautela.
Tutto ciò lo irritava, senza ch'egli ne sapesse il perchè. Il suo sigaro gli parve cattivo, lo gettò via. Un vago scontento lo invadeva, assieme al pensiero di quanto fosse uggiosa la sua solitudine in quel momento. Ripensava, con una beffarda ironia, a tutti gli incidenti di quella bizzarra, insulsissima gita. Tutto ciò era stupido in complesso. Si sentiva vagamente deluso e chiedeva a sè stesso s'egli non vi figurasse in modo un po' ridicolo, dopo tutto. Come aveva potuto lasciare che la cosa s'impiantasse a quel modo? Si adirava ora seco stesso, per esser stato sì obbediente, sì docile allo spirito delle ingiunzioni di donna Costanza.... Ovvero... fino a qual limite si stendevano queste ingiunzioni. E se invece?...
Pensò ad un tratto a Peppino Tremiati. Rivide la sua snella persona, il suo volto lungo e magro, pensò alla celata ironia del suo sguardo. Pensò a ciò che aveva detto, a ciò che direbbe di lui e di donna Costanza. Si morse le labbra, sotto l'impressione d'un dubbio brutale che si accampava dinanzi alla sua esperienza mondana. Si rammentò uno degli assiomi favoriti di Peppino Tremiati... per l'appunto. O la donna colpevole o l'uomo imbecille!... Ora; egli rispettava infinitamente donna Costanza, non poteva ammettere neppur col pensiero ch'ella fosse... ciò che diceva Tremiati, ma se per caso, se, dopo tutto, Leonardo Folgardi fosse, egli... ciò che diceva Tremiati?
Leonardo Folgardi si recò all'altra estremità del balcone. Si appoggiò col dorso alla balaustra di sasso, dirimpetto alla finestra di donna Costanza.
Guardò e pensò: le gelosie, i vetri, poi le imposte. Dietro le imposte, la camera. Nella camera... lei.
Il suo pensiero turbato, sconvolto, divampò come una fiamma d'incendio. — Ella dormiva certamente a quell'ora.... Era stata tanto stanca, sul ripiano dello scalone. Eppure, all'ultimo momento, che energia suprema, inattesa, aveva subitamente ravvivato tutto l'esser suo!
L' essere di quella donna, la sua bellezza sì grave e sì pura, la sua dolcezza pensosa, come assopita, dove si suscitava a un tratto incerta, velata, una larva di passione che pareva sempre in fuga.
Sulla calma fondamentale dei sentimenti ch'egli aveva sempre avuto per lei, passò un nuovo, caldo soffio di tempesta. Egli provò un beffardo pentimento d'averla amata così... sì a lungo...
Derise fieramente sè stesso per la sua pazienza, per l'annientamento in cui s'era adagiato, della sua contemplazione di devoto. Ebbe un violento, cattivo ardore di brama.
Colle mani tremanti brancicò le persiane, ne tentò le forti sbarre. Ma combaciavano perfettamente, tutto era serrato, tutto sfidava il rabbioso volere delle sue mani. Allora pensò ad un vecchio dramma di Dumas che nessuno più legge ora, nè ode. Pensò che avrebbe dovuto fare come Antony.
Senonchè, egli non era Antony. Era un uomo di quarant'anni, saggio e posato... E poi: far saltare un cristallo, sollevare un manubrio, a proposito di donna Costanza!
Sorrise dinanzi all'idea schiacciante di quell'assurdo. Sorrise e ritrasse le mani da quella persiana. Ma la tempesta non si ritrasse sì tosto dal cuor suo, ed egli lasciò che imperversasse.
Disse solo vagamente: domani, quella parola sì vasta, sì vacua. Certo, domani egli non sarebbe più com'era stato oggi. Domani, in un modo o nell'altro egli punirebbe quella donna!
Punirla?... Ma di che?... D'aver avuta tanta fiducia in lui?
Rimase immobile a lungo in una perplessità crudele, profondamente umiliante per lui. Poichè è duro sempre, per un uomo di quarant'anni, il momento in cui egli chiede a sè stesso, se ha presa la vera o la falsa via dell'amore. Poichè ne ha fatta molta ormai e non ha più il tempo di ritornare sui suoi passi.
Ripetè ancor febbrilmente, con tutte le animosità e il desiderio di un fanciullo la parola: domani. Risolvette di mancare alla sua promessa, di chiedere imperiosamente all'amica il perchè di quella gita. Sentì il bisogno di essere severo, aspro per lei, di chiederle conto della sua attesa, dei lunghi anni perduti, del languore inerte in cui ella aveva assopito il cuore, addormentati i sensi di lui. Si sentì ribelle, e un odio si levò nel suo cuore.... Pure, forse solo in quel momento egli amò completamente donna Costanza.
Rientrò in camera. — Si addormentò solo a giorno fatto e si destò nelle tarde ore del mattino. Si vestì in fretta, scese a terreno e chiese di donna Costanza.
Con sua somma sorpresa udì ch'ella era escita due ore prima, verso le otto.
— Sola? a piedi?
— A piedi e sola.
— Non aveva lasciata ambasciata alcuna per lui?
— Sì. Aveva lasciato il buon giorno e la preghiera di non attenderla a colazione.
Leo non volle tradire, davanti all'ossequiosa faccia del portinajo, l'ingrata sorpresa di quell'informazione.
— Sta bene, — disse. E passò nella salle à manger.
Sedette a un tavolino e ordinò qualcosa.
Ma non mangiò guari. Guardava ora la seggiola vicina, ora l'uscio d'entrata. Ad ogni muover del battente provava una scossa, si attendeva a veder tosto incorniciata nel vano quell'alta, elegante persona. Ma no... era sempre qualcun'altro e una sorda collera ribolliva nel cuore di lui. Ogni tanto, con un violento sforzo, cercava di acquietarsi, col pensiero di un capriccio, di uno scherzo di lei. Tornerebbe fra poco, confusa, sorridendo, vantandosi delle sue prodezze. Gli venne l'idea di andarla a cercare, doveva esser poco lungi, nei pressi dell'Hôtel. Abbreviò la colazione, escì in fretta, girò a lungo nei pressi dell'Hôtel. Poi tornò frettolosamente all' Italia... forse ella era venuta durante la sua assenza...
Si arrestò davanti alla stolida faccia del guardaporte che sollevava il suo berretto gallonato.
— La signora?
— Non è tornata.
Sentì qualcosa di molto freddo che gli sfiorava il cuore. Passò oltre, salì lentamente le scale e si avviò verso la sua camera.
La cameriera gli tenne dietro ed aprì l'uscio.
La prima cosa che colpì lo sguardo di Leo fu, al centro del tavolino, il mazzo di rose ch'egli aveva il giorno avanti donate a donna Costanza. Accanto alle rose, una lettera indirizzata a lui.
— Chi ha recato quei fiori e quella lettera? — chiese impetuosamente alla donna.
— Io... — rispose questa, — per ordine della signora Varalli. Stamane, prima di escire, mi disse di portarli in camera sua, ma non prima del tocco. Ora è il tocco e mezzo.
Egli tacque un istante, come tace un uomo quando ha ricevuto sulla nuca un colpo violento. Poi disse:
— Sta bene, andate pure.
Quando fu solo, aperse quella lettera. Donna Costanza gli scriveva così:
Amico Carissimo,
«Avete promesso di non meravigliarvi di nulla e di non chieder nulla. Perciò vi scrivo.
«Ora, vi prego di perdonarmi il dolore che proverete udendo ch'io lascio definitivamente voi, gli amici ed il mondo. Mi faccio monaca.
«Ciò parrà a molti una follìa. Può essere che lo sia. Ma la mia vita e l'anima mia hanno d'uopo di ciò, per l'appunto, nulla di meno sarebbe bastevole nè giovevole per me. Di ciò sono, oggi, profondamente convinta. Quali, quanti siano i motivi di questa mia risoluzione, come si sia creata, invigorita in me, sarebbe lungo, inutile il dirvi. Di questo solo vi accerto, che la tempesta fu forte, troppo forte per me... che ho bisogno di toccare un porto, anche prima che sia finito il viaggio. Non accuso nè il caso, nè me stessa, nè persona alcuna, mi congedo dal mondo senza amarezza di sorta.... Stanca soltanto... con un assoluto bisogno di riposo.
«Prima di scordarmi, un quarto d'ora prima, il nostro piccolo mondo riderà un poco di me. Ma questo che m'importa? Ero tra la guerra e la pace, ho eletta la pace, ero malata, mi guarisco con una vecchia ricetta, che ora non si usa più, ma che per certe anime giova ancora. Avrei potuto far altre cose, ma ho scelto di far questa: un matrimonio di capriccio... con Dio, ecco tutto. Ma credo che non ci pentiremo... nè io... nè lui.
«Fra molti, foste il mio migliore amico. Ier l'altro quando mi offriste voi stesso, pensai che vi dovevo qualcosa, e risolsi di darvi quanto mi restava di vita nel mondo. Perciò passai con voi la giornata di ieri. Credevo che fosse più facile passarla così, tutta con voi. Ma ora so che non tornerò più indietro. È l'una di notte, scrivo e vi odo passeggiare sul balcone.
«Siete il primo a sapere della mia risoluzione, ditela pure a tutti, anche a Tremiati. Non temete, non diventerò nè pettegola, nè bigotta. Non cercate nè di vedermi, nè di scrivermi, ma pensate a me con affetto.
«Tutto ciò è molto: old style, veramente. Povera Rita, come piangeva, nevvero?
«Rammentatevi di me, questo sì. Se vi garba, comprate la mia cavallina nera. Amerei saperla in mani vostre. Vi ringrazio di tutto. Non mi difendete quando mi accuseranno... quando udrete i loro perchè della mia risoluzione. Non importa, sapete? tutto ciò che finisce è si breve!...
«Addio, amico carissimo. Se vi ho fatto del male, perdonatemi. Mi pare però di non avervene fatto... tanto. — Ho fatto testamento; a voi lascio le nostre rose del viaggio.
«Buona notte, Leo.»
Costanza Varalli di Terbeno.
················
Leo lesse, rilesse... tornò a rileggere.
Davanti a lui, sul tavolino, le rose mandavano ancora un lieve profumo.....
Fine.
INDICE
Dilemma Pag. 1
Spiraglio 71
Zenit 99
Metempsicosi 133
Vecchia celia 245
Gita Estiva 293