1843

PREFAZIONE.

Questo libro si pubblicò in Palermo, non è ancora un anno, col titolo un po' lungo e indeterminato di «Un periodo delle istorie siciliane del secol XIII.» Non ebbe altro proemio che i due primi paragrafi del primo capitolo. Ma nella presente edizione, perchè avvi qualche cosa di nuovo, mi par bene intrattenerne il lettore per poche pagine.

E per cominciare da ciò che rileva meno, avverto che ho fatto alcune correzioni di stile; senza presumere di essere pervenuto con ciò alla forma, che a me stesso sembri la migliore. Anzi io, che pur troppo ne debbo saper la cagione, veggo quanto niun altro, in molti squarci e in due o tre capitoli interi, il dettato disuguale, febbrile, spezzato come la parola di chi è tra i tormenti, tale da non correggersi che scrivendo da capo: e così avrei fatto se avessi potuto o ritardar la presente edizione, o posporre altri studi ai quali m'incalza un ardente desiderio d'illustrar le memorie della Sicilia.

Ma col favor de' nuovi materiali, la più parte inediti, che ho rinvenuto a Parigi, e sommano a un centinaio tra diplomi e altre notizie, io ho potuto aggiungere o convalidare alcuni fatti di gran momento. Molte memorie dovean qui restare, attenenti a una dominazione che uscì dalla Francia; e che toccata quella fiera scossa della rivolta di Sicilia, ebbe ricorso nuovamente alla Francia; la trasse alla guerra di Spagna; e s'aiutò per venti anni della sua influenza politica e delle sue armi. Fattomi, con questa {ii} certezza, a cominciar le ricerche, le trovai facili pel favore de' molti egregi Francesi e Italiani che m'aprivan le braccia in questa ospitalissima Francia, usando meco non solamente con gentilezza, ma sì con benevolenza, con sollecitudine, con affetto; i nomi de' quali non ripeto, perchè quando si parla d'uomini sommi, anche la espressione della gratitudine può parer vanità. Mercè d'essi e degli ordini sì civili del paese, frugai gli archivi del reame di Francia, ove ognuno è culto e gentile; e ne ho tratto diplomi assai importanti. La fortuna mi portò alle mani due volumi di pregio non minore, quand'io volli affacciarmi nell'immensa miniera de' Mss. della Biblioteca reale. Altre carte ho cavato dalle opere degli spagnuoli Feliu, Capmany, e Quintana; poche più da altri libri.

Per tal modo nel cap. II, ho potuto far menzione d'un disegno assai grave, ancorchè non mandato ad effetto, cioè una partizione delle province del reame di Puglia, proposta da Urbano IV a Carlo d'Angiò, prima della nota concessione feudale. La notizia d'un'atroce prigione di stato che Carlo tenea in Napoli, e altri particolari della sua tirannide, aumentano la descrizione ch'io n'abbozzava nel cap. IV. Il cap. V. risguardante le relazioni politiche esteriori, e l'opinion del popolo è rimaneggiato e accresciuto molto. Perchè alcune notizie pubblicate recentemente intorno al Sordello della Divina Commedia, e la relazione Ms. ch'io trovai d'una ambasceria della corte di Francia per la crociata del 1270, ritraggon sempre meglio le sembianze niente amabili di Carlo d'Angiò. È determinata la patria dello ammiraglio Ruggier Loria: è ammesso a riputazione letteraria il nome di Giovanni di Procida, per un'opuscolo di filosofia morale, ch'ei tradusse dal greco o compilò. {iii} In fine ho avuto luogo a riferire il vespro, non solamente alla reazione degli oppressi contro gli oppressori, ma anche all'antagonismo della nazion latina, che s'era sviluppato contro i Francesi per tutta l'Italia. Il mostra assai chiaramente una epistola de' Siciliani, piena di poesia e di fuoco, dalla quale ho tolto, per accennare l'opinione pubblica del tempo, alcune frasi, di quelle vere e viventi che l'immaginazione de' posteri invano si sforza a ritrovare.

Il medesimo documento mi ha fornito un altro fatto nel cap. VII; ch'è accresciuto ancora dalla lettera di Carlo d'Angiò, che diè contezza dalla rivoluzione a Filippo l'Ardito, e gli domandò soccorso; senza accennare il menomo sospetto di Pietro d'Aragona o d'alcuna congiura, e senza punto ingannarsi su le difficoltà del racquisto della Sicilia. Non manca qualche notizia cavata dalle nuove carte nei cap. VIII, IX, X ed XI; come le negoziazioni di Filippo l'Ardito con Genova; di Pietro d'Aragona co' cittadini di Roma, e col re di Tunis; le preghiere che Carlo d'Angiò moribondo indirizzava al re di Francia, ec. È rimutato il principio del cap. XII per alcuni diplomi che svelan le pratiche della corte di Francia su la guerra d'Aragona. Un breve di Martino IV, tra gli altri, dà a vedere come il parlamento di Francia fosse l'arbitro di questa impresa; e con che audacia la contrastasse.

E scorrendo i cap. XIII e XIV si potrebbero osservare qua e là, altri particolari su le negoziazioni che portarono i re d'Aragona ad abbandonar la Sicilia; onde questa innalzò al trono Federigo II. Una poesia provenzale di Federigo, con la risposta d'un suo cavaliere, mi fecero aggiugnere alcuni righi nel cap. XV; come altri versi provenzali mi avean suggerito qualche parola ne' cap. V, XII e XIII, su Carlo d'Angiò, {iv} Pietro e Giacomo d'Aragona. Nello stesso cap. notansi altri documenti su l'ammiraglio Loria; nel XVII confermansi i particolari della battaglia della Falconarìa, con una lettera di Carlo II di Napoli a Filippo il Bello, piena di lusinghe e di preghiere, per ottener novelli soccorsi dalla corte di Francia. Infine molte notizie su l'ultimo sforzo che fu affidato a Carlo di Valois, aumentano il cap. XIX; tra le quali non è da tacersi un diploma di Carlo II, che prevedea la necessità della pace con la Sicilia, e un altro intorno i dritti ch'or chiameremmo d'albinaggio, che rinnegaronsi in teoria, e rinunziaronsi in fatto, su i beni de' Francesi dell'esercito del Valois, che venissero a morte nelle terre soggette al re di Napoli. Nuove autorità ho aggiunto alla appendice, destinata al minuto esame delle memorie storiche su la supposta congiura. Per tutto il corso dell'opera ho fatto menzione soltanto nelle note, di quei documenti, che nulla mutavano ne' fatti raccontati. E seguendo lo stesso metodo di pubblicare i documenti inediti più importanti, ne ho aggiunto tredici a que' della prima edizione: e sono numerati VI, VII, XIV, XXIV, XXXII e dal XXXVII al XLIV.

Tali son le differenze di questa sopra la prima edizione: ciò che non è mutato, nè mutabile io spero, è la coscienza che guidò il mio lavoro. L'intrapresi per fare un saggio di quelle istorie particolari, che sopra tutt'altre convengono a' tempi nostri. Scelsi il vespro siciliano come il più grande avvenimento della Sicilia del medio evo: il che se si chiamasse umor municipale, sarebbe mal detto; perchè la Sicilia parmi assai grande per una città; e l'amore del proprio paese, il rammarico de' suoi mali, e il desiderio della sua prosperità comunque possan portarla gli eventi, non si {v} dee confondere con l'egoismo di municipio che dilaniò un tempo l'Italia; passione funesta, dileguata per sempre, io lo spero, insieme con l'ambizione di tirannide d'ogni popolo italiano sopra l'altro. Guardando il vespro da vicino, lo trovai più grande; si dileguarono la congiura e il tradimento; l'eccidio si presentò come cominciamento e non fine d'una rivoluzione; trovai l'importanza nella riforma degli ordini dello stato; nelle forze morali e sociali che la rivoluzione creò; nei valenti uomini che spinse per vent'anni tra i combattimenti e i negozi politici: vidi estendersi in altri reami, e perpetuarsi in Sicilia, e fors'anche nel resto d'Italia, gli effetti del vespro. Donde potea bene accendersi in me il severo zelo della verità istorica; e poteva io difendermi dall'inganno delle mie passioni nell'esame de' fatti, ancorchè punto non mi sforzassi ad occultarle nelle parole.

Giovanni di Procida, per amor della patria e vendetta privata, si propone di toglier la Sicilia a Carlo d'Angiò; l'offre a Pietro re d'Aragona, che vantava su quella i dritti della moglie; cospira con Pietro, col papa, con l'imperatore di Costantinopoli, coi baroni siciliani: quando è in punto ogni cosa, i congiurati danno il segno; uccidono i Francesi; esaltan Pietro al trono di Sicilia. Tale è stata, poco più, poco meno, l'istoria del vespro siciliano: e sempre si è arrestata al caso del vespro, o tutto al più, alla mutazione di dinastia che ne seguiva. Per vero alcuni storici moderni, la più parte oltramontani, dubitarono d'una trama sì vasta, segreta, felice; ma non prendendo a investigare minutamente i fatti, perchè scorreano vastissimi tratti di storia, prevalse sempre quella credenza, ripetuta a gara da tutti gli altri storici, e da' Siciliani soprattutto; e si continuò a fabbricare su la congiura. {vi}

Io credo aver dimostrato che il vespro non nacque da alcuna congiura; ma fu un tumulto al quale diè occasione l'insolenza de' dominatori, e diè origine e forza la condizione sociale e politica d'un popolo nè avvezzo nè disposto a sopportare una dominazione tirannica e straniera. I novelli documenti che possono sparger luce su l'origine della rivoluzione, la lettera dello stesso Carlo, quella de' Siciliani, non poche altre bolle papali inedite, confermano certamente questa conchiusione. Al suo popolo, non ai potenti, la Sicilia dee quella rivoluzione che nel secol XIII la salvò dalla estrema vergogna e miseria, dalla corruzione servile, dall'annientamento. Al vespro di Sicilia dee il reame di Napoli una riforma di governo, che moderò per qualche tempo i suoi mali, ma non potè poi allignare. Il vespro risparmiò a tutta l'Italia molti fieri contrasti con la dominazione angioina, che potea conturbare la penisola, non mai ridarla sotto uno scettro: il vespro, per tristissimo compenso, aprì in Italia la strada alla dominazione spagnuola. Esso voltò il corso degli avvenimenti in Levante, disarmando l'ambizione di Carlo: esso per poco non mutò le sorti dell'Europa occidentale, dando occasione alla prima guerra di conquista tentata dalla Francia su la penisola spagnuola. Ma lasciando di considerare le conseguenze esteriori del movimento di questo popolo, che or somma a due milioni, e non n'era forse la metà nel secolo XIII, e restandoci agli effetti nella Sicilia stessa, importantissimi li vedremo; perchè la rivoluzione che mutò prima la forma del governo, poi la dinastia, indi la persona del principe, rimasta salda e vittoriosa al finir della guerra, tramandò alle età avvenire, in mezzo a tanti mali inevitabili, due fatti da non si dileguare sì tosto: una gran {vii} tradizione; e uno statuto politico che molto ristrinse l'autorità regia.

Quella tradizione, quelle franchige, ressero a un secolo d'anarchia feudale; a tre di governo spagnuolo; duraron tutto il secolo decimottavo, e gran tratto del decimonono. Nè alcuno troverà ch'io porti esempi, come or diciamo, liberali, quando parlo di Carlo V e di Filippo II; nè ch'io cerchi autorità sospette o leggiere, quando cito il professor tedesco Ranke, e le sue considerazioni su gli Osmanlis e la monarchia spagnuola ne' secoli XVI e XVII. E pure in quest'opera si dimostra la pertinace resistenza della nazion siciliana contro l'autorità regia ai tempi di que' principi sì dispotici e duri; e con che difficoltà il parlamento di Sicilia consentisse loro alcuno scarso sussidio, mentre il reame di Napoli, la Lombardia, i Paesi Bassi, la medesima Castiglia, tutta la monarchia infine, dall'Aragona in fuori, era oppressa dalle imposte, e dalla novella austerità del governo. Que' nostri ordini pubblici restarono sotto Carlo III, quando i due reami di Napoli e di Sicilia si divisero dalla Spagna; quegli ordini furono cangiati nella forma e non certo nella sostanza, pe' mutamenti del 1812: ed è bizzarra cosa a riflettere, che nel 1815 il congresso di Vienna, rimescolando tutte le masse minori, tarpando e scorciando, come in ogni altro stato d'Italia, le franchige della Sicilia, non seppe annullarle del tutto. Gli statuti degli 8 e 11 dicembre 1816, dettati, come pur furono in quanto alla Sicilia, dal solo potere esecutivo senza partecipazione del legislativo, unirono, egli è vero, i due reami di Napoli e di Sicilia più strettamente che ai tempi di Carlo III, dileguarono per via di fatto le forme costituzionali o rappresentative, ch'erano state in Sicilia senza {viii} interruzione infin dal secolo XI, ma par cucirono nelle nuove fogge, pochi stracci dell'antico manto di porpora; perchè non si potè fare a meno di mantener qualche ultima franchigia nell'ordine giudiziale e amministrativo della Sicilia: e franchigia è per certo, la promessa data chiaramente nello statuto dell'11 dicembre, che il re convocherebbe il parlamento di Sicilia, se dovesse accrescere i pesi pubblici oltre la somma decretata dall'ultimo parlamento.

Così veggonsi per cinque secoli e mezzo, non solamente nel dritto pubblico, ma fino nel fatto degli ordini pubblici di Sicilia, comechè sempre decrescenti, gli effetti di quel potente movimento popolare del secol XII. Se ne potrebbero al pari scerner le vestigie nell'indole del sicilian popolo d'oggi, se fosse agevole, come quella delle istituzioni, l'analisi delle cagioni naturali e sociali onde nascono i costumi d'un popolo. Ma in tale investigazione gli effetti del vespro andrebbero confusi con l'indole che produsse il vespro; della quale ognun può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forse perchè son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio comprendere la sollevazione del 1282 sì com'essa nacque, repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta al girar d'uno sguardo.

Parigi, aprile, 1843.

LA GUERRA DEL VESPRO SICILIANO.

CAPITOLO PRIMO.

Intendimento dell'opera. Viver civile del secolo XII. Potenza della Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d'Italia e dei reami di Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II imperatore, e papa Innocenzo IV.

La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati, mutabilissima è; donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quando più irreparabilmente sembra perduta, d'un tratto ristorasi, per virtù di principe, o impeto di popolo. Splendono allora egregi fatti in città e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione, e spezzansi ingiuriosi legami stranieri, si abbatte al di dentro una viziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato. Questa, al veder de' savi, è la gloria vera delle genti. Questa è degna che si riduca spesso alla memoria loro, per francheggiare gli abbattuti e vergognosi animi. Del rimanente, che portan gli annali de' popoli, se non disuguaglianza di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre, paci bugiarde, sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono e fanno, moltissimi che si lagnan solo, e immolato, il ben comune da contraria tendenza delle cupidigie {2} private? E sarebbero argomenti da ammaestrar gli uomini sì, ma di tal dottrina, che li volge a disdegnosa accidia, anzi che prontarli a virtude.

Però mi son proposto, io Siciliano, di narrare la mutazion di dominio, che seguì nella mia patria al cader del secolo decimoterzo. E in vero, lasciati i tempi rimoti troppo, difformi per costumi, religione, linguaggio, e tutt'altra parte di civiltà, veggo dal milledugentoottantadue infino al trecentodue le glorie maggiori della Sicilia; e venti anni innanzi un tal eccesso di tirannide, che rade volte si è sopportato l'uguale: nè parmi che alcuno scrittore abbia tutto abbracciato questo memorevol periodo, nè dirittamente investigatolo, nè degnamente descritto. Ciò non presumo compier io, ma certo vi porrò ogni sforzo. Non asconderò nè l'amore, nè l'ira; perchè uomo invano promette spogliarsene ove narri i fatti degli uomini. Ben mi guarderò che quelle passioni non mi tirino a sfigurare la storia contro mia volontà; nè dico del falsarla, che sarebbe, secondo il fine, o fanciullaggine o malignità e colpa sempre, anche verso la patria, cui van ricordate con ugual candore le virtù, gli errori e i misfatti, i lieti e i tristi giorni delle generazioni che tennero un tempo questi nostri medesimi focolari. Io so, che scrivendo di età lontane, spesso viensi, come dice un felicissimo ingegno, a far l'indovino del passato. Ma mi studierò a dare alla immaginativa il men che si possa. E perchè i fatti, e là dov'essi manchino, le induzioni, abbiano saldo fondamento, non ritrarrò i primi altrimenti che da scrittori contemporanei o diplomi[1]. Delle {3} memorie repugnanti tra loro, seguirò quelle di maggior autorità, sia per sè medesime, sia perchè si accordino con le necessità degli uomini e de' tempi.

E su i tempi rivolgendo indietro lo sguardo, io non dirò, per esser cose a tutti notissime, nè gli ordini del governamento feudale che ingombrava l'Europa, nè i vizi di quello, nè i passi che moveansi alla riforma nel secolo decimoterzo. Quali nascer possono da poter civile, non già diviso ma senza misura fatto a brani e fluttuante, da estrema disuguaglianza ne' dritti e negli averi, e poco men che universale ignoranza, deturpata religione, leggi impotenti, e uso alla violenza, e necessità della frode; e tali erano i costumi: nè la riforma, dubbia e tarda, li moderava per anco. Necessaria è per natura, nei costumi de' popoli, una mescolanza di buono e di tristo, della quale per leggi ed esempi mutansi alquanto le proporzioni, e non si spegne pur mai nessuno degli elementi; ma in quella età forse al peggio si traboccava, sopra il biasimo de' tempi nostri. Certo egli è, che in tal mezza barbarie, sciolti gli uomini dalla menzogna delle infinite forme, che oggidì ne inceppano a ogni passo nel viver domestico e civile, le grandi passioni, o buone o triste, più rigogliose sorgeano, e più operavano.

Tra così fatti uomini, tra la divisione e debolezza degli stati, il sacerdozio giganteggiava; raccogliendo i frutti della mansueta pietà dei tempi apostolici, del fervore delle prime crociate, della ignoranza lunghissima dei popoli. Fu la religione di Cristo nei secoli di mezzo sola luce e {4} conforto ai buoni; seguita anco dai pravi, perchè feano a metà: calpestavanla nelle opere, la onoravano della fede e del culto, a quetar la cieca paura delle loro coscienze. I ministri perciò dello altare, crebbero di riputazione, crebbero di ricchezze; chè vantaggiavano inoltre i laici per lume di scienza, e adopravan destri ambo le chiavi, e non pochi la purità del Vangelo contaminavano con la superstizione, che ai barbari è più grata. A puntellarsi di loro autorità pasceanli i grandi; i popoli indifesi teneano a loro, credendo trovar sostegno, e in realtà ne davano: ma soprattutto fu la corte di Roma che consolidò la smisurata possanza. Perchè assicuratosi non disputato comando su le chiese d'Occidente, le medesime arti che adopravan quelle in minor campo, spiegò ardita e sapiente tra i reami; nel cui scompiglio tenne dritto il corso a' suoi disegni; trapassò dai dommi e dalla morale, ai civili negozi. Indi, fortificandosi a vicenda il papa e 'l clero, questo per tutta Europa imbaldanziva e prevaleasi, come milizia di possente dominazione; quegli, come capitano d'immense forze, sopra ogni altro principe si levò.

Non è che molti umori non sorgessero contro la romana corte nel secolo decimoterzo. Perciocchè un desiderio novello movea gl'ingegni; prendeansi a ricercar tutte le parti dell'umano sapere; si arricchiano i savi di antiche lettere e dottrine: i quali, ancorchè pochi dapprima, e più radi ove lo stato più discostavasi da libertà, per ogni luogo pure la scintilla del sacro fuoco accendeano. Sollevaronsi pertanto gl'intelletti più audaci a meditare sulla mistura delle due potestà, a contemplare i costumi del clero; nè fu lieve incitamento la gelosia de' reggitori degli stati, svegliata da tanti fatti. Quindi mostravano già il viso alla corte di Roma que' ch'erano più avvezzi a' suoi colpi; il gregge provocato, si voltava con aspri insulti contro il pastore; gli anatemi, per troppo usarsi, perdean forza; {5} pensavano gli uomini e parlavano arditamente di cose tenute in pria sacre come la fede istessa. Nascean così le idee, che Dante tuonò di tal forza; e a fatica si faceano strada tra le inerti masse, dove allignarono infine, e amari frutti portarono alla corte di Roma.

Ma queste opinioni ristrette a pochi, se urtavano talvolta la sua possanza, non la menomavano per anco nel tempo ond'io scrivo. Mentre le ambizioni de' chierici passavano ogni misura, mentre cupidigia, e simonia, e libidine lussureggiavano nella vigna del Signore, tremavan del clero i popoli, e il successor di Pietro stendea la mano su i reami e su i re. Che se tal fiata prevalse la brutal forza sulla morale, la prepotente opinione fece risorger tosto più gagliardo il pontefice. Sì il veggiamo oltremonti levare a sua posta il vessillo de' re o de' popoli, ed accender guerre, e cessarle, e trar tesori, e dove moderare le dominazioni, dove dare o strappar corone: quanto più lontano, più venerando e terribile. In Italia intanto, trasportato dai turbini delle contese civili, più fiero pugnava coll'oro di cristianità tutta; e chiamava straniere nazioni, e opponea l'una all'altra; t'innalzava oggi, diman ti spegnea.

Avvegnachè il bel paese già si disputava acerbamente tra la Chiesa e l'impero. Dietro la occupazion di Carlo Magno e degli Ottoni, la più parte d'Italia era rimasa sotto la signoria feudale degl'imperatori d'Occidente. Succedettero i dappoco a quei forti; i grandi feudatari laceraron l'impero; tosto divenne nulla o nominale di qua dalle Alpi la tedesca dominazione. E in questo, crescea la Chiesa, e confortava gl'Italiani alla riscossa, con lo scritturale spirito di uguaglianza e di libertà. In questo, la industria, il commercio, le scienze, le lettere rinasceano in Italia a mutare le sorti del mondo. Quegli esercizi, quelle discipline, trasser fuora dalla cieca moltitudine di plebi, vassalli, e nobili minori, un'ordine nuovo: il popolo, ch'è solo fondamento {6} ad uguaglianza e viver libero. Donde, volgendo prestamente la feudalità all'anarchia feudale, e questa nel nuovo ordine imbattendosi, sursero nel secolo undecimo repubbliche mercantesche; nel seguente e nel decimoterzo, la Lombardia e la Toscana fioriron di città industri e guerriere, che scosso ogni giogo, si governarono a comune: e i feudatari si fecero cittadini o condottieri, alla lor volta richiedendo il sostegno delle città divenute più forti. E quando il reggimento di pochi o di un solo occupava alcuna città, d'altra fatta esso rinasceva, e meno tendente a barbarie; perchè non più n'era fondamento la ignava necessità del vassallaggio, ma la divisione o l'inganno de' cittadini; i quali, se metteansi il giogo sul collo, non mutavano i modi del vivere, nè perdeano la virtù di affranchirsi. Rinnovellandosi in tal guisa gli ordini civili, fortificossi la virtù guerriera; si rianimarono le virtù cittadine; si apersero gl'ingegni agli alti concetti della filosofia e della politica; una forza ignota agli oltramontani solidamente feroci, scorse di nuovo per le vene dell'italian popolo, stato dianzi signore del mondo. Il perchè gagliardamente ributtaronsi gl'imperatori accaniti con loro masnade a ripigliare il dominio; ma non tolleraronsi gli ordini, che poteano scacciarli per sempre. E 'l rapido accrescimento dell'ordine popolare ne fu cagione. Perocchè in altre nazioni, generandosi lentamente, fu adulto assai secoli appresso, quando la monarchia, domi i baroni, avea consolidato e reso uno il reame; onde il popolo, riscotendosi, fu animato da virtù nazionale. Ma in Italia surse mentre province e città erano più stranamente divise dall'anarchia feudale; laonde, non veggendo altro che i propri confini, quei popoli presero umori e virtù municipali. Operose virtù, che prodigiosamente aumentarono la possanza di ogni città; ma tolsero al tutto che l'universale in reggimento durevole s'assestasse. Così se in alcuna provincia si feano accordi a comune {7} difesa, nè alle altre si estendeano, nè duravano oltre l'immediato bisogno. Difformi i reggimenti, e mutabili, e incerti; e qual città si ricattava, qual ricadea sotto immane tirannide. Brulicavano in Italia cento e cento piccoli stati, pieni di passioni, di vita, di sospetti, di nimistà; pronti a servir ciecamente ad ambizioni maggiori, che nel parteggiare trovavan campo, e più rinfocavano a parteggiare.

Ondechè la corte di Roma, conscia delle sue forze, agognò alla dominazione, or mettendo innanzi concessioni e diritti, or sotto specie di farsi scudo a libertà; e gl'imperatori tedeschi, com'e' poteano, al racquisto del bel giardino sforzavansi. Elettivo allora di Germania il re, che re de' Romani per vanità pur s'appellava, e imperatore, quando assentialo il papa, arrogantesi dar questo titolo e questa corona; ma disputata e mutila, sotto il gran nome de' Cesari, l'autorità. Tenean ogni possanza in Lamagna i grandi feudatari, e le città libere; indocili, gelosi, di lor franchige superbi. Donde nè gagliardi, nè continui gli sforzi degl'imperatori su l'Italia; imprese di venturieri, non guerre di poderosa nazione: e scorati e stanchi avrebbero forse i Tedeschi lasciato quest'ambizione, se l'Italia medesima non si fosse precipitata ad aiutarli con quella maladizion delle parti, i cui nomi a maggior vergogna si tolsero da due case tedesche. I Guelfi allo inerme pontefice, gli altri allo straniero lontano, davan fomite e forza; tra loro atrocemente dilaniavansi; e a questo eran paghi, di libertà, di servitù non curandosi. E quasi non bastassero a lor passioni insociali quelle divisioni, le tramutavano in altre di nomi e sembianze diverse; nelle repubbliche vi si mescolavano le usate parti di nobili e popolani: era per tutto una confusione, una rissa brutale. Così stoltamente sciupossi quel nerbo di valor politico ond'era rigogliosa l'Italia; l'Italia si preparò secoli, e chi sa quanti? di servitù senza quiete. {8}

La Sicilia, e la penisola di qua dal Garigliano poco diverse dagli altri popoli italiani per gente, linguaggio, tradizioni e costumi, reggeansi pure con altri ordini. Mentre nel rimanente d'Europa la progenie settentrionale, perdute le virtù de' barbari, ne ritenea solo i vizi, ebbe la Sicilia, al par che la Spagna, il dominio degli Arabi, culti se non civili, attivi e pronti come popolo testè rigenerato. La regione di terraferma, or invasa dai barbari, or dagli imperatori greci ripigliata, divideasi in vari stati, sotto reggimenti diversi, alcun dei quali pigliava la forma delle nascenti repubbliche italiane, quando una man di venturieri normanni venuta a difendere, si fe' occupatrice, e istituì gli ordini feudali. Altri di questa gente passando in Sicilia allo scorcio del secolo undecimo, e scacciando i Saraceni, nimicati dagli altri abitatori per la diversa religione e lo straniero dominio, fondaronvi un novello principato, e primi recaronvi la feudalità[2]. La quale, perchè in Europa già piegava a riforma, qui surse più civile e giusta; temperandola ancora la virtù e riputazione di Ruggiero duce de' vincitori, la influenza delle grosse città, e i molti poderi che s'ebber le chiese nelle prime caldezze della cristiana vittoria, le proprietà allodiali, le ricchezze, il numero de' Saracini venuti a patti più che spenti, e de' cristiani stessi di Sicilia. Così il conte Ruggiero, principe di liberi uomini, non capo di turbolento baronaggio, e vestito dell'autorità di legato pontificio, ch'è infino ai dì nostri egregio dritto della corona di Sicilia, fortemente e ordinatamente il nuovo stato reggea. Titolo gli diè poi {9} di reame un altro Ruggiero, figliuolo del conte, posciachè con le arti e con le armi tolse Puglia e Calabria agli altri principi normanni; e dai baroni quivi più possenti, e dal papa, e dallo imperatore, gagliardamente difesele con le siciliane forze. Quindi fu gridato dai parlamenti, e in fine, per amore o per forza, riconosciuto dal papa, re di Sicilia, duca di Puglia e di Calabria, principe di Capua. Costui ritirando ver la corona l'autorità dei magistrati, contenendo i baroni, assestò il reame con ordini civili, ravvivò le industrie, e vittoriosamente adoprò fuori le armi sue.

Due forze turbarono questa novella monarchia siciliana: che furono, il baronaggio non sì gagliardo da mettere al nulla l'autorità regia, ma baldanzoso abbastanza da provocarla; e la corte di Roma, la quale attirò i nostri principi nelle contese italiane, or chiamandoli in sostegno, or vantando dritti su lor province, e combattendoli apertamente. Pure la monarchia, per la virtù della sua prima fondazione, stette salda a que' colpi; si ristorò con migliori leggi sotto il secondo Guglielmo; e avrebbe potuto per avventura dopo lunga neutralità alzare un vero vessillo italiano, e messi giù lo imperatore e il papa, da sè occupare o proteggere tutto il paese infino alle Alpi: ma essa dal sangue normanno passò per nozze a casa sveva[3], che tenea di que' tempi lo impero. Indi la potenza di Sicilia e di Puglia prese le ingrate sembianze di ghibellina: e dopo il regno dello imperatore Arrigo, che per essere stato breve ed atroce, nulla operò, vidersi questi due reami avvolti nella gran lite d'Italia. Perchè dal cominciamento al mezzo del secolo decimoterzo regnovvi Federigo II imperatore, prò nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle lettere italiane, costante nemico di Roma. {10} Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi della città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati, vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori.

Dondechè mentre i due potentati acerbamente si travagliavano con le astuzie, con le armi, con gli scritti, e, incontrando varia fortuna, or fean sembiante di venire agli accordi, or più feroci ripigliavan le offese, crebbero nei reami di Sicilia e di Puglia pericolosissimi umori; come avviene dal troppo tender l'arco che i governanti fanno, sperando che pur sempre si pieghi. Innocenzo IV, pontefice di altissimi spiriti, se ne accorse, e principiò a gridare il nome di libertà, non che alle cittadi dell'Italia di sopra, ma nei reami stessi di Federigo. E varcato già a mezzo il secolo decimoterzo, aspirava sì gagliardamente alla vittoria, che, convocato un concilio in Lione, denunziavagli la deposizione dallo impero; e tutte contro il magnanimo Svevo ritorcea le folgori sacerdotali.

NOTE

[1] Sconoscerei un dovere se non facessi qui menzione degli aiuti, che ho trovato a queste ricerche nella Biblioteca comunale di Palermo e nel regio archivio di Napoli. La biblioteca palermitana, dotata un dì largamente dal comune, arrichita di libri da molti cittadini, ristorata dal sommo Scinà, ed ora fiorente per lo amore e l'intendimento con cui la governano i presenti deputati, mi è stata schiusa come a chiunque; ma il valore de' bibliotecari ha agevolate le mie ricerche; e massime debbo renderne merito al sacerdote don Gaspare Rossi, lodatissimo per non comune perizia, erudizione, memoria.

Una permissione del ministero degli affari interni mi die' adito al regio archivio di Napoli: ove trovai molta cortesia in quanti reggono questo prezioso stabilimento, e in particolare nell'erudito professore signor Michele Baffi, capo dell'uficio al quale appartengono i diplomi svevi e angioini.

[2] Così scrivo non ignorando pure che alcuno abbia voluto veder concessioni feudali in tempi più rimoti; fantasie, come giudica il di Gregorio, non solidi ragionamenti. D'altronde è da distinguere feudalità da aristocrazia. Questa, dove più, dove meno, fu a un di presso in tutti gli stati. La feudalità nacque, come sa ognuno, dallo stabilimento de' barbari settentrionali, e fu un particolare modo di governo di ottimati misto di monarchia.

[3] Chiamerò così, secondo l'uso comune, la dinastia degli Hohenstauffen, duchi di Svevia.

CAPITOLO II.

Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa le province di terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia. Manfredi ristora l'autorità regia; e l'usurpa. A spegner lui, la corte di Roma pratica con Inghilterra e con Francia. In fine concede i reami a Carlo conte di Angiò. Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto, e morto a Benevento. Carlo prende il regno—Dall'anno 1251 al 1266.

Alla morte di Federigo, pronto il pontefice assurse a schiantar d'Italia l'emula casa sveva. E l'invidia dell'impero tenuto lungamente da quella; e 'l sospetto della possanza che traea di Sicilia e Puglia, valser tanto in Lamagna, rincalzati delle romane arti, che Corrado figliuol di Federigo, ancorchè eletto re de' Romani, fu escluso dall'imperial seggio. A torgli i domini meridionali, papa Innocenzo rifaceasi a gridare ai popoli libertà; suscitava i baroni; esortava i vescovi e 'l clero, bandiva la remissione delle peccata a chi si levasse in arme per la corte di Roma; per brevi, per legati, ad ogni ordine d'uomini promettea pace, e godimento di tutte lor franchige sotto la protezion della Chiesa: istigazioni tentate indarno sul fin del regno di Federigo. Pur lo zelo de' Ghibellini d'Italia, e la virtù di Manfredi, bastardo dell'imperatore[1] e non tralignante dal paterno animo, fecero che Corrado, spenti i nemici del suo nome, regnasse alfine dal Garigliano al Lilibeo. Poc'oltre due anni regnò, che da morte fu colto: lasciando di sè un sol bambino per nome Corrado, cui disser poscia Corradino, perchè uscito appena di fanciullo, brillò e fu morto. Raccomandavalo il padre, com'orfanello {12} e innocente, alla paternale carità del pontefice; e questi più furiosamente che prima riassaltava i reami suoi con seduzioni ed armi[2].

Prontissima tal foco trovò l'esca, per l'odio partorito agli Svevi, e al principato con essi, da quella lor dominazione avara e rigida, spesso anco crudele, e testè esacerbata nei contrasti all'avvenimento di Corrado. I baroni tendeano a scatenarsi, pe' vizi radicali della feudalità e i mali esempi di fuori. Increscea il freno alle maggiori città, aspiranti alle franchige di Toscana e di Lombardia, delle quali avean preso vaghezza per gli spessi commerci con l'Italia di sopra, e per sentirsi forti anch'esse di sostanze e di popolo, e ravvivate della virtù delle lettere e de' leggiadri esercizi, che fioriron sotto Federigo. Inoltre eran use al municipal reggimento, avanzo di più felici tempi, non dileguato dalla romana conquista, nè sotto l'impero, nè forse anco per la saracena dominazione; il qual reggimento provvedendo alla più parte de' bisogni pubblici, alla libertà politica non restava che un passo. E suol sempre all'autorità dello stato incerta o vacillante sottentrar la municipale, che più si avvicina alla semplicità de' naturali ordini del vivere in comunanza, e i popoli, come cosa {13} propria, l'odian manco. Però in tanto scompiglio ne crebbe la riputazione delle municipalità, e con essa la brama dello stato libero. La quale fors'era più viva in Sicilia che in terraferma, per lo numero delle città grosse, e i meglio raffrenati baroni[3]. {14}

Spiegò Innocenzo in tal punto il vessillo della Chiesa, correndo l'anno milledugentocinquantaquattro; occupò Napoli con l'esercito; mandò oratori e frati a sollevare i {15} popoli per ogni luogo: ed era il re in fasce in Lamagna; il reggente straniero e dappoco; Manfredi senza forze, nè dritto alla corona. Andaron sossopra dunque i reami: chi si trovò presso al potere li die' di piglio, dove a nome del re, del papa, del comune, e dove di niuno. Quindi a poco a poco surse Manfredi, praticò col papa, e pugnò; e morto a Napoli Innocenzo, e rifatto pontefice Alessandro IV, gioviale, dice una cronaca[4], rubicondo, corpulento, non uomo da sostenere i disegni del fiero antecessore, lo Svevo, savio e animoso, a ripigliar lo stato si condusse. Ma perchè l'anarchia avea preso in Sicilia le sembianze di repubblica, e fu questo lo esempio agli ordini che gridavansi poi nel riscatto del vespro, io narrerò questo avvenimento il più largamente che si possa su le scarse memorie de' tempi.

Sedea vicerè in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie, Pietro Rosso o Ruffo. L'imperator Federigo da vil famigliare l'avea levato a' sommi gradi, com'avviene in corte a' più temerari e procaccianti. Pensò Corrado che per opera di costui gli fosse rimasa in fede la Sicilia nei turbamenti desti alla morte di Federigo; onde il fe' conte di Catanzaro, gli prolungò il governo, e crebbegli la baldanza: chè superbamente ei reggeva, a nome del re, a comodo proprio; fattosi trapotente per dovizie e clientela, da osar disubbidire a faccia scoperta lo stesso monarca. Pertanto alla morte di Corrado, a' rivolgimenti che seguitarono, duravane i primi impeti il conte di Catanzaro, e una certa autorità mantenea, non ostante quell'universale pendio alla repubblica; non contrastandolo, ma temporeggiandosi, e procacciando in vista gl'interessi de' popoli. Anzi con la solita audacia, nel torbido aspirò a cose maggiori. Come papa Innocenzo caldamente i Siciliani istigava {16} a gridare il nome della Chiesa, e allettava Messina con le vecchie lusinghe di privilegi, il vicerè intrigossi con gl'inviati delle città di Sicilia a trattare col papa; proponea, rifiutava patti; e mandò al papa con gli ambasciadori di Messina, e col vescovo di Siracusa, un suo nipote; tramando sottomano farlo re di Sicilia, che dal pontefice la tenesse, e pagassegli il censo. Gonfio di questi pensieri, quando Manfredi risurto a Lucera chiamavalo all'antica obbedienza, non assentì il conte che ad una confederazione con reciproci patti. E fidavasi tra 'l principato, il pontefice, e 'l popolo traccheggiar sì maestro, che dell'un contro l'altro s'aiutasse a' propri disegni.

Ma perchè non è felice poi sempre l'inganno, costui non valse a raggirare a lungo le siciliane città: e porse egli stesso l'occasione a prorompere; perchè volendo coprirsi con le sembianze della legittimità, finchè non fosse matura l'usurpazione, battè moneta a nome di Corrado secondo; ch'era un disdir netto la repubblica. Spezzata allora con esso ogni pratica, le città gridaron repubblica sotto la protezion della Chiesa: prima a ciò Palermo; seconda Patti, mossa dal vescovo; ed altre terre seguitaronle. Il vicerè spacciava ambasciatori a Palermo, ed eran respinti; vedea le città dell'Etna levarsi tutte, e con esse Caltagirone, che pose a guasto e a sacco i vicini poderi della corona; non restava che a tentare la forza. Raccolto dunque di Messinesi, e di quanti rimaneangli in fede un grosso di genti, il vicerè assalisce Castrogiovanni, che tentennava; e, dubbiamente difesa, la espugna. Ma quel dì medesimo Nicosia sollevasi, e poco stante molte altre terre; fino i Messinesi dell'esercito levavano in capo: una stessa brama avea preso i Siciliani tutti, nè bastava a trattenerli il veleno delle divisioni municipali. In tal disposizione d'animi, un picciolo intoppo die' il tracollo al conte di Catanzaro. Appena ributtato da uno assalto ad Aidone, {17} le genti sue stesse il costrinsero a tornarsi a Messina; e trovò a Messina una congiura, per disperder la quale invano affrettossi a entrare in città, invano fe' sostenere in palagio Leonardo Aldighieri[5] e parecchi altri cittadini de' quali più temea. Infellonisce il popolo; ridomanda gl'imprigionati; e ottenutili non s'acqueta, ma reca Leonardo in trionfo; capitan del popolo il grida; «Viva il comune, fuori il vicerè!» con lui fermansi i patti, che dia alcune castella in sicurtà, e libero sen vada con l'avere e la famiglia. Così fu scacciata l'ultim'ombra della regia autorità. Partitosi il conte, il popolo saccheggiò le sue case; ed ei, non osservati gli accordi, attese in Calabria ad affortificarsi. Ma quivi lo inseguiano le armi di Messina; imbatteasi ancora in quelle di Manfredi: e, com'e' meritava, cacciato dalle une e dalle altre, vagando senza aiuto nè consiglio, rifuggiasi in fine vergognosamente alla corte del papa.

La Sicilia intanto senz'altri ostacoli alla bramata condizione si condusse. Messina affratellata nel comun brio, diessi tutta, come città rigogliosa, alle virtù e ai vizi delle italiane repubbliche. Volle un podestà straniero; al quale uficio primo chiamò Iacopo de Ponte, romano. Presa poi dalla sete delle conquiste, assalse e spianò Taormina, ricusante d'ubbidirle; in Calabria occupò molti luoghi, e tenne vivo il suo nome. E Palermo sospinta dagli stessi umori, occupava il castel di Cefalù, e certo anco alcun'altra terra di mezzo. Ma, quel che più rileva, intesa all'universale ordinamento, avea già mandato oratore al papa a Napoli un Iacopo Salla, ad annunziare il reggimento a comune sotto la protezion della Chiesa, assentito dall'isola {18} tutta. Incontanente il papa spacciò vicario Ruffin da Piacenza, de' frati minori: il quale era a grandissimo onore raccolto in Palermo, in Messina, e per ogni luogo, e onorato con feste popolaresche; al venir suo tripudianti gli si feano incontro cittadini, e sacerdoti, e vecchi, e fanciulli; di palme e di rami d'ulivo spargeangli il sentiero, come a liberator del paese; tutti si inebriavan di gioia e di speranza nel nuovo stato. Richiamaronsi allora un conte Guglielmo d'Amico, un Ruggiero Fimetta, ed altri Siciliani usciti fin da' tempi dell'imperator Federigo, per umori guelfi, o di libertà. Libertà gridavan tutti: le città, terre, e castella si strinsero con patti reciproci: e su questa confederazione il vicario pontificio comandava nel nome della Chiesa. Così intorno a due anni si visse in Sicilia, dal cinquantaquattro al cinquantasei. In Puglia e in Calabria, nel medesimo tempo, fu più contrastata la dominazione tra i principi, che bramata dai popoli la libertà; perchè men disposti v'erano che que' di Sicilia, e il papa, e Manfredi, ambo vicini, a vicenda sforzavanli a ubbidire.

E ciò sol si ritrae dagli storici de' tempi. Quali fossero gli ordini delle novelle repubbliche di Sicilia, se popolani, se misti d'oligarchia, ne è ignoto. Forse nessuno ben saldo se ne statuì; forse come i cittadini adunati a consiglio, deliberavano per l'addietro su i negozi municipali, come i maestrali per l'addietro li amministravano, fecesi allora in tutte le altre parti del governo. I vincoli scambievoli delle città, i limiti dell'autorità del papa e del legato, i consigli pubblici che a questo fosser compagni, non ricorda la istoria; se non che abbiam documenti di concessioni feudali in Sicilia, fatte dal papa a baroni parteggianti per esso; la qual cosa dimostrerebbe piuttosto la confusione o l'usurpazione dei poteri pubblici, che l'esercizio di quelli a buon dritto stabiliti. Nè alcuno scrittore ci ha tramandato {19} in che stato rimanessero i feudatari; ma li veggiamo quale appigliarsi di gran volontà a questa novazione, e quale ubbidirla tacito e torvo, aspettando tempo; talchè è manifesto, che gli umori guelfi e ghibellini divideano già il sicilian baronaggio. Mezz'anarchia fu quella, e imperfetta lega di feudatari forti e parteggianti, di città aduggiate dalle radici dell'aristocrazia e del principato; e debolmente il nome della Chiesa li rannodava. Potea il tempo consolidar quello stato, al par delle italiane repubbliche; ma il principato repente risorto lo spense. E dalle novazioni i popoli voglion frutto più prestamente che la natura non porta; e delusi gittansi allo estremo opposto; l'invidia morde i privati; la parte che ama gli ordini vecchi rimbaldanzisce. Questo in Sicilia seguì. Risorgea Manfredi in terraferma; la parte pontificia mancava; trionfava in fine la sveva. A ciò levaronsi i feudatari, che per costume, interesse e orgoglio teneano, la più parte, pel re; i repubblicani si sgomenarono; e sì rapido fu il precipizio, che pochi anni appresso, repubblica di vanità l'appellava Bartolomeo di Neocastro.

Ondechè mentre Federigo Lancia riducea le Calabrie con un esercito per parte sveva, un altro se n'accozzò di feudatari in Sicilia. Arrigo Abate con esso entrò in Palermo; e imprigionò il legato del papa, e quanti parteggiavano per lo stato libero. Corse per l'isola poi vittorioso; ruppe a Lentini Ruggiero Fimetta, principal sostenitore della repubblica, o de' feudi che per tal riputazione gli avea largamente dato papa Alessandro: ma a Taormina trovò Arrigo assai duro il riscontro; e si bilanciavan le sorti, se non era per la rotta che toccarono i Messinesi in Calabria. Perocchè l'esercito loro, grosso di cavalli e di fanti, osteggiando in quelle province i manfrediani, fu colto con improvvisa fazione da Lancia, quando saccheggiata Seminara sbadatamente movea per lo pian di Corona; e attenagliato {20} tra due schiere, e con grande uccisione fu sbaragliato. Federigo Lancia a questa vittoria insignoritosi al tutto della Calabria, minacciava Messina, e con sue pratiche fomentava per Sicilia tutta la parte regia. Prevalendo questa dunque in Messina, nè restando armi alla difesa, il podestà, per dappocaggine o necessità, si fuggia; rinnalzavasi il vessillo svevo; arrendeasi a Lancia la città. Pugnaron ultime per la libertà Piazza, Aidone, e Castrogiovanni, e furono soggiogate[6]. Così Manfredi tutti ridusse i popoli e di {21} terraferma, e dell'isola; e breve tratto per Corradino regnò. Poi lo scettro ripigliato col valor suo, render nol seppe a un fanciullo; diè voce che questi fosse morto in Lamagna; e creduto o non creduto, com'erede solo di Federigo, incoronossi in Palermo a dì undici agosto milledugentocinquantotto.

E fortemente regnò Manfredi; e placar non potendo a niun patto la corte di Roma, disperatamente la combattea. Si fe' capo dei Ghibellini: rinnalzolli in Lombardia; fomentolli in Toscana; in Roma stessa ebbe seguito, la quale non sottomessa per anco ai pontefici, e reggendosi per un senatore, avea chiamato nuovamente a questo uficio Brancaleone, uomo di alto animo, che si era, per comunanza di nimistà, col ghibellino re collegato. Per le quali cose, non bastando ormai la romana corte alla tenzone, affrettossi a compiere un antico disegno. Già fin dalla morte del secondo Federigo, papa Innocenzo, perchè non sentia nel sacerdotale braccio tanto vigore da regger Sicilia e Puglia, nè troppo affidavasi in su quegli umori repubblicani, avea cercato in ponente chi conquistasse con armi proprie lo stato, e con nome di re dalla Chiesa tenesselo in feudo, e pagassele censo, e servigio militare le prestasse. Così innalzato avrebbe in Italia un possente capo di parte guelfa, {22} e campion della Chiesa. Donde, mentr'ei qui chiamava i popoli a libertà, mercatavali come gregge, prima con Riccardo conte di Cornovaglia, fratel del terzo Arrigo d'Inghilterra; poi con Carlo conte d'Angiò e di Provenza, fratel di Lodovico IX di Francia; e in fine col fanciullo Edmondo, figliuolo del medesimo Arrigo. Autentiche ne restano le bolle d'Innocenzo e dei successori suoi, le epistole dei re, che queste pratiche rivelan tutte, dalla romana corte per sedici anni condotte a cauto passo, quand'ira o terrore non la stimolavano. E indefessa con brevi o legati a sollecitare i principi, tirare a sè i cortigiani, promettere di ogni maniera indulgenze, sparnazzare le decime ecclesiastiche di cristianità tutta alla occupazione di Sicilia e Puglia, a questo bandir la croce, a questo commutare i voti presi da re e da popoli per la sacra guerra di Palestina. Spesso tra coteste pratiche, la corte di Roma per bisogno di moneta, e necessità di difendersi o voglia d'occupare alcuna provincia di Puglia, accattava danari con sicurtà su i beni delle chiese d'oltremonti; e que' prelati sforzava a soddisfarli; ai riluttanti mostrava la folgore delle censure. Alcuna volta prendeva a permutar la bolla d'investitura con somme assai grosse di danaro: poi la brama più forte di abbatter Manfredi, rimaner la facea da cotesti guadagni. A lungo tuttavia si differì l'impresa, come superiore alle forze di cui la trattava, e disperata quasi per la potenza e virtù di Manfredi.

Di gran volontà s'era accinto a questa guerra di ventura Arrigo, cupido dell'altrui, ma dappoco, e alla Gran Carta spergiuro, perciò contrariato e travagliato da quegli indomiti propugnatori delle libertà inglesi. Arrigo fermò i patti col papa, e la investitura s'ebbe per Edmondo suo, e le armi faceasi a preparare; ma a tanti atti ne venne arbitrari e stolti, e tanto increbbero in Inghilterra le esazioni di Roma, che il parlamento pria trattenne il re dall'impresa; {23} poi richiamandosi di questi e di mille altri torti, lo spogliò del governo, lo calpestò: e in aspre guerre civili s'avvolse il reame. Spezzavasi la pratica con Francia per niente simil cagione: chè quivi obbedienti i popoli, mite e non debole il re, d'alto animo, ristorator delle leggi, savio moderator del governo, e di pietà sì rara, che alla morte sua fu canonizzato tra' santi. L'occupazione straniera menomava la Francia in ponente; la usurpazione de' grandi feudatari dagli altri lati; insanguinata riposava appena da una crociata infelicissima; pur quello che più forte la distolse dalla siciliana impresa, fu l'animo del re, abborrente dal guerreggiar con cristiani, e dar di piglio nell'altrui. Però pertinacemente ricusava quel giusto: a lungo la romana corte si dondolava tra lui e l'Inglese, da forza rattenuto, non da coscienza. Ma quando vide costui prostrato, e sè stessa condotta agli estremi dai Ghibellini e da Manfredi, la romana corte, come disperata, adoprò tutt'arti a sforzar Lodovico. Drizzavasi a Carlo d'Angiò, e alla donna sua, che, sorella a tre regine, avrebbe dato la vita per cingersi un istante a fianco ad esse il diadema dei re[7]: e mostrava a quegli ambiziosi animi spianato ogni ostacolo, fuorchè l'ostinazione di Lodovico. Il papa indettò con vari accorgimenti tutt'uomo che più valesse a corte di Francia. Strinse il re dal lato più fiacco. Ammonivalo con lettere sopra lettere: non indurasse il suo cuore; esser ormai irriverente e {24} presuntuosa la ripulsa, e ch'ei laico dubbiasse a entrare in un'impresa chiarita onesta e giusta dal successore degli apostoli, e da' cardinali suoi. Pennelleggiava la Chiesa schiantata d'Italia per Manfredi, mezzo saracino, dissoluto tiranno; l'eresia pullulante; profanati i sacri tempî; manomessi vescovi e sacerdoti; spregiati gli anatemi; chiusa la via di Terrasanta finchè la Sicilia stesse ribelle al pontefice[8]. Così svolsero {25} all'impresa il re di Francia. Si trattavano insieme i patti della concessione, tra i quali il papa pretendeva il dominio non solo di Benevento e Pontecorvo co' loro contadi, ma quasi di tutta la regione ch'oggi comprendesi ne' distretti di Napoli, Pozzuoli, Caserta, Nola, Sora, Gaeta, e inoltre qua {26} e là per lo reame altre città e terre[9]: ma infine moderandosi da Roma il prezzo, Carlo comprò; e fu fermato il negozio con lo stesso Urbano IV; e per la sua morte, decretato solennemente da Clemente IV, francese, appena ei salì al pontificato. Urbano e Clemente seguivano entrambi l'antico studio della romana corte a mutare per lo meno in signoria feudale quell'uso di consiglio e di protezione negli affari temporali, ch'era divenuto quasi comando in vari reami cristiani; la qual signoria tentò prima in Inghilterra, poscia in Aragona, e più assiduamente su le italiane province a mezzogiorno del Garigliano. Clemente promulgò a venticinque febbraio milledugentosessantacinque la bolla, per la quale «il reame di Sicilia, e la terra che si stende tra lo stretto di Messina e i confini degli stati della Chiesa, eccetto Benevento,» furono conceduti a Carlo, in feudo dalla Chiesa, per censo di ottomila once di oro all'anno, e servigio militare al bisogno. Cento patti sottilissimi dettò il papa a vietare l'ingrandimento del re: che nè allo impero aspirasse, nè ad altra signoria in Italia, a sicurtà della {27} romana corte, la quale il volea possente sì, ma non da soverchiare lei stessa. Con ciò mutilati i dritti del principe nelle elezioni ai vescovadi e agli altri beneficî ecclesiastici; toltigli i frutti delle sedi vacanti; tolta ogni partecipazione nelle cause ecclesiastiche, e riserbatene le appellazioni a Roma; fermata la franchigia de' chierici dalle ordinarie giurisdizioni e dai tributi; e altre condizioni men rilevanti. Tra quegli squisiti accorgimenti di regno, si risovenne pur Clemente degli uomini del paese non suo che vendea: stipulò per loro i privilegi goduti già sotto Guglielmo II, il re più mite e giusto, e temperante dallo aver dei sudditi, che nelle siciliane istorie si registrasse[10].

A furia allor si misero in punto le armi, e gli armati per la guerra a Manfredi. Corsi erano ormai diciassette anni dalla sconfitta dell'esercito crociato: ridondava la Francia {28} di baroni, e cavalieri, e uomini d'arme, fastiditi del viver civile sotto le leggi, bramosi di operare, e di acquistar gloria e sustanze. Veniano di Fiandra per la cagione stessa altri guerrieri di ventura. Venian di Provenza, la quale appartenne negli antichi tempi al reame di Francia; spiccossene dietro la morte di Carlo Magno nel secol nono; fu feudo dello impero; poi, rompendo il debil freno, si resse {29} per suoi conti sovrani; ed or da Beatrice, ultima di quel sangue, era stata recata in dote a Carlo d'Angiò. Quell'acerba signoria, onde la Puglia poi pianse e la Sicilia insanguinossi, spaziavasi già in Provenza: fraude e forza aveano spogliato di lor franchige repubblicane Marsiglia, Arles, Avignone: tra cupida dell'altrui avere, e tremante del suo tiranno, correa Provenza alle armi per aggrandirlo. Smugneanla di danari Carlo e Beatrice; costei fino i suoi gioielli impegnò; altra moneta fornì re Lodovico; altra ne tolse in presto il conte d'Angiò da Arrigo di Castiglia, e da mercatanti e baroni. Così raggranellando di che provvedere ai preparamenti, si raccolsono i guerrieri, ai quali il bando della croce era pretesto, scopo l'acquisto: e venivano sotto la insegna di ventura dell'Angioino, chi condotto per soldo, chi conducendo del suo un picciol drappello, quasi messa di gioco o di commercio, per guadagnar poderi nell'assaltato reame. Sommavano a trentamila, tra cavalli e fanti: e però esercito lo appellano le istorie, non masnada di ladroni, congregati di là dei monti a riversarsi in Italia, a scannar per rubare, e comandar poi, e ribellione chiamar la difesa.

Per arrisicato viaggio di mare, schivando l'armata fortissima di Manfredi, Carlo con un pugno d'uomini venne in Italia: di giugno milledugentosessantacinque prese l'uficio di senator di Roma, assentitogli temporaneamente dal papa: d'autunno le sue genti, valicate le Alpi, non trovarono {30} riscontro nei Ghibellini d'Italia; dei quali chi fu compro, e chi tremò. E così la fortuna, che annulla d'un soffio gli umani consigli, volgea le spalle a Manfredi. Le divisioni d'Italia a lui nocquero fieramente, risorgendo i Guelfi a quelle novità; nocquegli la possanza della Chiesa; ma il voltabile animo de' suoi baroni fu che disertollo; e la mala contentezza dei popoli, causata dalle spesse e gravi collette, dal piover degli anatemi, dai mali tanti che la lotta con Roma avea partorito. Sdegno e necessità di assicurarsi, aveano cacciato innanzi Manfredi in tutto il tempo del suo regno; nè avea ascoltato i richiami de' popoli, che lunghi anni si sprezzano, ma suona un'ora alfine che morte ne scoppia e sterminio.

Quest'ora già rapiva Manfredi: e sentiala il grande, ma volle mostrare il volto alla fortuna. Tedeschi e Italiani accozzava, e quanti Pugliesi credea fedeli, e i Saraceni siciliani trapiantati in terraferma, che odiosi a tutti teneano a lui solo: e attendeva a ingrossare l'esercito, e temporeggiarsi col nemico, cui l'indugio era ruina. Correa rigidissimo il verno. Carlo d'Angiò con la regina, s'era incoronato già in Vaticano a dì sei gennaio del sessantasei: stringealo la diffalta di danari a vincer tosto, o sciogliere l'esercito. Ondechè difilato e precipitoso veniane, con un legato del papa, con aiuti de' Guelfi: e a Ceperano pria si mostrò; dove tradimento o codardia sgombravagli il passo del Garigliano[11], e per lieve avvisaglia schiudeagli {31} San Germano et Rocc'Arce; e valicar gli facea senza trar colpo il Volturno. Solo a Benevento si pugnò, a dì ventisei di febbraio, perchè v'era Manfredi, nè Carlo udir volle di pace. Pugnaron, dico, i Tedeschi, e i Saraceni di Sicilia; fuggiron gli altri; vinse con grande strage l'impeto francese. Allor Manfredi avventossi tra' nemici a cercar morte; e se l'ebbe. Tra mille cadaveri trovato il suo, gli alzarono i soldati nemici una mora di sassi; e poi pur quell'umile sepoltura gli negò l'odio del legato pontificio: e le ultime esequie dello eroe svevo, fur di gettarlo a' cani sulle sponde del Verde.

E Napoli fe' plauso al conquistatore: la ribellione, la rotta dello esercito, il fato del re, fecer piegare il resto di Puglia e di Calabria, e la Sicilia arrendersi; sol tenendo fermo que' Saraceni fortissimi in Lucera. Alla grossa partironsi i tesori del vinto, tra Carlo, Beatrice, e lor cavalieri: s'ebbono quei soldati di ventura, dignità e terre. E i popoli, che per mutar di signori rado mutano al meglio lor sorti, ne avean pure l'usata speranza; parendo che nella pace s'allevierebbero i tributi, ordinati a sostenere quella pertinacissima guerra contro la corte di Roma.

NOTE

[1] Manfredi nacque di Federigo, e di una nobile donna della famiglia de' Lancia, che poi vicina al morire fu sposata dall'imperatore, divenuto già vedovo. Con questo alcuni pretendeano legittimare Manfredi.

[2] Scorrendo rapidamente i preliminari, e toccando punti istorici notissimi, io lascerò indietro le citazioni infino al cominciamento della dominazione angioina. Le noterò solo in alcun luogo più importante. Così è questo delle pratiche di papa Innocenzo a fomentare gli umori repubblicani in Puglia e in Sicilia. Esse ritraggonsi non solo dagli storici contemporanei, ma sì da' brevi del papa, dati a 24 aprile 1246—23 gennaio e 13 dicembre 1251—18 ottobre e 2 novembre 1254, recati da Raynald, Ann. eccl., negli anni rispettivi, §§. 11—2, 3, 4—63, 64. Quod vobis sicut gentibus coeteris aliqua provenirent solatia libertatis:—universitas vestra in libertatis et quietis gaudio reflorescat:—habituri perpetuam tranquillitatem et pacem, ac illam iustissimam et delectabilem libertatem qua coeteri speciales Ecclesiæ filii feliciter et firmiter sunt muniti —queste e somiglianti son le frasi del papa.

[3] Il numero delle città grosse era considerevole in Sicilia, molto più che nel regno di Napoli, come io farò osservare in piè del Docum. II.

È da avvertire che il di Gregorio (Considerazioni su la storia di Sicilia, lib.2, cap. 7; lib. 3, cap. 5, e lib. 4, cap. 3) non sembra molto esatto nelle sue idee su l'importanza de' comuni siciliani, nei secoli duodecimo e decimoterzo. Forse i tempi sospettosi in cui scrisse questo valente uomo, l'indole morbida, i timori, le speranze, i riguardi di lui, ch'era istoriografo regio e prelato, lo portarono a presentare in tal guisa l'elemento democratico, se così può chiamarsi, dell'antica nostra costituzione. Sforzato dai molti documenti, egli accetta che alcune città avessero proprietà comunali, che le adunanze popolari deliberassero sopra alcuni negozi municipali, ed eleggessero alcuni officiali pubblici; accetta la tendenza, com'ei dice, pericolosissima delle nostre città alle forme repubblicane, e il sospetto che n'avea preso l'imperator Federigo, e le caute concessioni alle quali si mosse; e con tutto ciò, credendo commesso ad officiali regî il maneggio di faccende che piuttosto poteano appartenere a' magistrati municipali, conchiude assai frettolosamente, che infino a' tempi di Federigo imperatore non v'ebbero in Sicilia forme municipali propriamente dette; che quegli ne creò un'ombra; e che i comuni non presero stabilità e forza che ai tempi aragonesi. Io credo che ben altro risulterebbe da una ricerca de' documenti, da una investigazione delle tradizioni storiche, da una istoria infine delle municipalità siciliane, che con tempo, spesa, fatica, si potrebbe compilare. E pur mancando questo lavoro, parmi poter giudicare l'importanza di quelle municipalità nel secolo decimoterzo: in primo luogo dalla loro tendenza repubblicana, evidente ancorchè immatura; e in secondo dall'esistenza delle adunanze popolari, le quali son certamente l'elemento più forte di governo municipale, e poco importano del resto i nomi e gli ufici dei sindichi, giurati, borgomastri o somiglianti magistrati esecutivi. S'aggiunga a questo, che il di Gregorio cita i maestri de' borghesi ne' tempi normanni, e poi non ne fa più caso; e che il suo argomento, fondato su poche carte, potrebbe valere forse pei tempi nostri in cui la legge municipale è uniforme e universale, ma non per que' secoli in cui non v'erano che privilegi speciali, difformi l'un dall'altro, dati in tempi e in circostanze diverse. E ricordinsi infine le parole di Ugone Falcando egregio istorico del secol XII, che narrando la ripugnanza de' borghesi siciliani a soffrire i dritti pretesi da qualche novello barone francese, li chiama cives oppidanos, cives liberos; e nota espressamente ch'essi godeano libertà e franchige, non juxta Galliæ consuetudinem. Il vocabolo cives liberos, usato con tal significazione, ci rende certi della esistenza delle corporazioni municipali.

Perciò io tengo per fermo, che le nostre municipalità, avanzo de' tempi greci, romani, bizantini, e forse non distrutte da' Saraceni, i quali non aveano la smania di vestir tutto il mondo alla lor foggia, furono parte dell'ordine dello stato nei tempi normanni: che anzi, crescendo gli umori municipali in Sicilia sì come nella terraferma italiana l'imperator Federigo pensò ripararvi dall'una parte con le minacce, dall'altra con le concessioni: che, falliti i disegni repubblicani del 1254, le municipalità sotto Manfredi e Carlo d'Angiò continuarono ad essere un utile strumento di governo, massime nella riscossione delle entrate pubbliche, nell'armamento delle navi, de' fanti, e simili bisogni pubblici: che nella rivoluzione del vespro senza dubbio si levarono a maggior potenza, senza mutare perciò i loro ordini semplici e gagliardi: e che sotto gli Aragonesi la esclusione de' nobili dagli ordini municipali, e la istituzione dei giurati, furono senza dubbio grandi passi, ma non costituirono l'importanza del governo comunale, che stava nelle adunanze popolari. I giurati furono dapprima un tribunato, o un pubblico ministero, che vegliava alla retta amministrazione della giustizia nel proprio comune, e alla condotta degli uficiali regi; nè amministravano in quella prima istituzione le cose del municipio, ch'è stato per lo più un uficio insignificante, e, come dicono gl'Inglesi, «servente il tempo,» e stromento docilissimo del potere assoluto.

Oltre a ciò è noto, che nelle monarchie feudali le nazioni furon piuttosto aggregati di vari piccioli corpi politici, che comunanza di uomini regolata dall'azione diretta del governo. Il poter sovrano in molte parti dell'ordinamento civile non operava su gl'individui, ma su i loro rappresentanti: volgeasi a ciascun corpo di vassalli feudali per mezzo del barone, a ciascun corpo di borghesi per mezzo della municipalità. Ondechè, se in tutt'altra monarchia feudale de' secoli XII e XIII era ormai necessaria la esistenza delle municipalità, sembrerà impossibile che mancassero in Sicilia, ove la feudalità nacque sì moderata; ov'erano molte proprietà allodiali, grosse e superbe città, e perciò una vasta massa di popolazione su la quale il governo non avrebbe saputo agire senza il mezzo de' corpi municipali, massime in ciò che risguardasse la contribuzione ai bisogni, pubblici, sia con servigio personale, sia con moneta.

[4] Chron. Mon. S. Bertini, presso Martene e Durand, Thes. nov. Anec. tom. III, pag. 732.

[5] Questo è il medesimo cognome di Dante, che si scrivea Aldigherius nel secolo XIV, come veggiamo nel comento di Benvenuto da Imola. Ma non v'ha alcuna memoria del comun lignaggio tra Leonardo Aldighieri e 'l poeta fiorentino.

[6] La narrazione di questa repubblica in Sicilia è cavata da:

Bart. de Neocastro, Hist. sic., cap. 2, 4, 5, 47, 87.

Saba Malaspina, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, pag. 726 a 736, e 753, e in Muratori, R. I. S. tom. VIII.

Nic. di Jamsilla, in Muratori, R. I. S. tom. VIII.

Cronaca di Fra Corrado, in Caruso, Bibl. sic., v. 1, anni 1254 e 1255.

Appendice al Malaterra, in Muratori, R. I. S. tom. V, pag. 605.

Raynald, Ann. eccl., 1254, §§. 63 e 64, e 1256, §§. 30, 31, 32.

Breve di papa Alessandro IV ai Palermitani, dato a 21 gennaio 1255, tra' Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 2; pubblicato dal Pirri, Sic. sacra t. II, p. 806, dove si legge: ut per convenciones et pacciones inter civitates et castra et alia loca tocius loci Siciliæ inhitas, nec non et per privilegia super iis eis concessa, vobis in Ecclesiæ romanæ devocione persistentibus et civitati vestræ nihilum in posterum præjudicium generetur. Un altro breve di Alessandro al podestà, consiglio, e comune di Palermo, dato di Laterano l'8 gennaio an. 2º, li ammonisce alla restituzione del castello, rocca, e altri beni occupati da loro al vescovo di Cefalù. Ne' Mss. della Biblioteca com. di Palermo Q. q. G. 12; e citato dal Pirri, Sic. sacra, tom. II, pag. 806.

Breve dato di Napoli a 29 gennaio 1255, indirizzato a frate Ruffino de' minori, cappellano e penitenziere del papa, vicario generale in Sicilia e Calabria del cardinale Ottaviano legato.

Bolla data di Anagni a 21 agosto 1255, al medesimo frate Ruffino, che comincia così: Eximia dilecti filii nobilis viri Roglerii Finectae fidelis nostri merita sic preeminent et prefulgent, etc. Il papa, non sapendo abbastanza premiar questo Ruggiero Fimetta, gli concedeva in feudo Vizzini, Modica, Scicli, e Palazzolo, castelli che rendeano, dice la bolla, a un di presso dugento once all'anno.

Bolla del 27 agosto del medesimo anno al medesimo frate Ruffino. Concedesi in feudo a Niccolò di Sanducia, fratel cognato di Ruggier Fimetta e testè tornato in fede della Chiesa, il casale Scordiæ Suitan situm in territorio Lentini.

Questi tre diplomi, cavati da' registri Vaticani, Epistole n. 574 e 121, leggonsi in Luca Wadding, Ann. minorum, Roma, 1732, tom. III, pag. 387, 537 e 539.

Breve di Urbano IV, cavato da' diplomi della Chiesa di Girgenti, e pubblicato dal Pirri, Sic. sacra, tom. I, p. 704, nel quale si fa parola dell'imprigionamento del vicario frate Ruffino.

Di costui in fine dà notizia un altro breve del 13 novembre 1254, recato dal Pirri nello stesso luogo; nel quale diploma è notevole, che il papa concedea al vescovo di Girgenti alcuni dritti del regio fisco.

Il guasto dei poderi della corona in Caltagirone, si scorge da un privilegio in favore di quella città, dato da Manfredi, balio di Corradino; il quale è citato dal P. Aprile, Cronologia della Sicilia, cap. 27.

[7] Si narra che in una festa a corte di Francia, Beatrice, contessa di Provenza, fu cacciata dal gradino ove sedeano le due sorelle minori, regine, l'una di Francia, l'altra d'Inghilterra (la terza, ch'era assente, fu moglie di Riccardo d'Inghilterra, re de' Romani); ond'ella si tornò dispettosa e piangendo alle sue stanze; e Carlo, saputa la cagione di questo femminile cordoglio, baciandola in bocca, le dicea: «Contessa datti pace, che io ti farò tosto maggiore reina di loro:» e ciò lo stigava oltremodo all'impresa di Sicilia.

Gio. Villani, lib. 6. cap. 90. ed di Firenze 1323.

Ramondo Montaner, cap. 32.

Cron. di Morea, lib. 2, pag. 39, ed. Buchon 1840.

[8] Raynald, Ann. eccl., an. 1253 e seg.

Si vegga altresì Hume, Storia d'Inghilterra—Arrigo III, cap. 12, dov'è citato Matteo Paris.

Duchesne Hist Franc. Script. tom. V, pag. 869 a 873.

I documenti delle pratiche de' papi per la concessione del reame ad alcuno de' principi nominati, leggonsi presso:

Lünig, Codice diplomatico d'Italia—Napoli e Sicilia—tom. II, n. 30 a 42.

Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, ed. Londra, 1739, tom. I, pag. 477 e seg. ove son citati questi documenti:

3 agosto 1252.—Innocenzo IV, a re Arrigo III, tom. I, pag. 477.

28 gennaio 1253.—Diploma d'Arrigo III, pag. 893.

14 maggio 1254.—Innocenzo IV all'arcivescovo di Canterbury, etc., pag. 511.

Questo è il primo documento ove si parli della concessione al principe Edmondo. Il papa comanda si accatti danaro per la impresa, con sicurtà su i beni delle chiese d'Inghilterra.

14 maggio 1254.—Altri quattro brevi d'Innocenzo IV, pag. 512 e 513, dall'ultimo de' quali si vede che re Arrigo era stato dubbioso a muovere contro un principe congiunto suo, e che il papa il confortava.

22 maggio 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III. Che non ispenda danaro in cose profane, nè sacre, e tutto serbi alla impresa di Sicilia, p. 515. Allo stesso effetto ci è una epistola alla regina, una a Pietro di Savoia.

23 maggio 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.

31 detto.—Innocenzo IV ad Arrigo III.

9 giugno 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.

14 ottobre 1254.—Arrigo III, come tutore di Eduardo re di Sicilia a' prelati, conti, baroni, militi e liberi nomini di questo reame, p. 530.

17 novemb. 1254.—Innocenzo IV ad Arrigo III.

…… 1255.—Alessandro IV. È uno scritto delle condizioni alle quali si concede il reame di Sicilia e Puglia a Edmondo, p. 893.

21 aprile 1255.—Alessandro IV ad Arrigo III. Perchè paghi una somma di danaro, spesa dalla corte di Roma per l'occupazione di Puglia, pag. 547.

3 maggio 1255.—Alessandro IV commuta nella impresa di Sicilia il voto preso da re Arrigo per Terrasanta, pag. 547.

7 detto.—Altra bolla sullo stesso soggetto, p. 548.

11 detto.—Alessandro IV scrive aver commutato alla impresa stessa il voto del re di Norvegia e de' suoi, pag. 549.

12 detto.—Altra bolla allo effetto stesso.

13 detto.—Alessandro IV ad Arrigo III, p. 550.

15 detto.—Bolla dello stesso perchè si riscuotessero da Arrigo per la impresa siciliana que' denari in cui erano stati mutati i voti presi da molte persone per guerreggiare in Terrasanta; e si richiedessero anche dagli eredi, p. 551.

16 detto.—Bolla dello stesso pel voto del re Arrigo III, pag. 552.

21 detto.—Per lo giuramento di Edmondo alla corte di Roma. Pag. 553

30 novembre 1255.—Per lo giuramento di Edmondo alla corte di Roma. pag. 573

5 febbraio 1256.—Alessandro IV al vescovo di Hereford, perchè sulle decime d'Inghilterra si pagassero i debiti contratti dal papa per l'impresa di Sicilia, pag. 581.

27 marzo 1256.—Arrigo III al papa. Scrive non potere, per le turbazioni del regno suo, mandar forze in Italia, nè fare al papa il pagamento, ch'ei volea prima di ogni altro, per le spese sostenute da Roma negli assalti del regno. Era di 135,541 marchi; e dice Arrigo: Non enim credimus quod hodie princeps aliquis regnet in terris, qui ita subito tantam pecuniam possit habere ad manus.

Altre lettere simili a vari cardinali leggonsi a pag. 587.

…. 1256.—Eduardo primogenito di Arrigo III, dà un giuramento per questo negozio di Sicilia, pag. 586.

11 giugno 1256.—Alessandro IV a re Arrigo III, pag. 593.

27 settembre 1256.—Bolla che proroga il termine dato ad Arrigo per l'impresa di Sicilia, pag. 608.

…. detto.—Bolla che obbliga i prelati di Scozia a pagare il danaro tolto in presto dal papa per la guerra di Sicilia, pag. 608.

6 ottobre.—Alessandro ad Arrigo III, pag. 611.

9 novembre.—….. pag. 612.

10 maggio 1257.—Arrigo III al papa. Scrive avere con l'arcivescovo di Morreale, legato del papa, ordinato l'impresa, e scelto il capitano, pag. 620.

.. Maggio 1257.—Arrigo al papa. A questo effetto ha fermato pace col re di Francia.

3 giugno 1257.—Alessandro IV al suo nunzio in Inghilterra. Riscuota il danaro tolto in presto sulle decime, non ostante il divieto del re, che già si noiava della spesa.

E moltissime altre, che sarebbe lungo e non utile a noverare.

Leggonsi anche questi ed altri documenti negli Ann. eccl. di Raynald, tom. II et III. Nè li ho citato, parendomi inutile replicare le autorità per fatti sì certi.

[9] Le trattative leggonsi in una bolla d'Urbano IV, data d'Orvieto il 26 giugno 1263, che contiene a un di presso le condizioni della bolla di concessione di Clemente IV; se non che il papa domandava o quelle ricche province col censo di due mila once d'oro, o, per tutto il regno, il censo di dieci mila; riserbandosi sempre Benevento. Si contentò poi di dare tutto il regno per once otto mila all'anno. Questa bolla sarà in breve pubblicata dall'erudito sig. Alessandro Teulet, che l'ha cavato dagli Archivi del reame di Francia, e me l'ha gentilmente comunicato.

[10] Lünig, loc. cit. n. 43.

Ecco il sommario di questa bolla, data di Perugia il quarto dì anzi le calende di marzo dell'anno primo di Clemente IV.

Discorso a lungo della concessione precedente a Edmondo d'Inghilterra, la quale si replica esser nulla, per le non adempiute condizioni, e per la mancanza di un atto in buona forma; il regno di Sicilia, con tutta la terra tra lo stretto e i confini dello stato della Chiesa, è dato a Carlo d'Angiò, che prima della festa prossima di san Pietro, vada a Roma per l'investitura, mentre il cardinale delegato a questo negozio in Francia gli darebbe un sussidio sulla decima delle chiese, e predicherebbe la croce contro Manfredi.

Le condizioni della concessione sono:

1. Resti Benevento alla Chiesa.

2. Carlo, e i suoi, e gli eredi non possano avere proprietà, nè autorità in alcuna terra appartenente alla Chiesa di Roma.

3. Diansi alcuni privilegi a Benevento.

4. Ordine della successione, con la ricadenza alla Chiesa, in difetto di eredi legittimi e del sangue.

5. Censo di ottomila once di oro alla Chiesa, in ogni anno; e scomuniche e caducità dal regno se non si paghi.

6. Dopo l'acquisto del reame, in tutto o in parte, Carlo paghi alla Chiesa 50,000 marchi per le spese sostenute da lei.

7. Presenti al papa un palafreno bianco ogni tre anni.

8. Ne' bisogni della Chiesa mandi 300 uomini d'arme (cioè da 900, a 1,200 cavalli) per tre mesi in ciascun anno; il qual servigio si possa rendere in vece con navi armate.

9. I re di Sicilia e Puglia prestin omaggio ad ogni papa.

10. Non dividano il territorio. Qui è la formola del giuramento ligio che debban rendere a Roma.

11. Non possano essere imperatori, nè re de' Romani, o di Teutonia, nè signori in Lombardia, o Toscana.

12. Gli eredi loro, se eletti ad alcuna di queste signorie, lasciala.

13. Le eredi del regno non si maritino a principi di quelle regioni.

14. Stabilito un giuramento per le condizioni dell'art. 12.

15. Se il re sia eletto imperatore, emancipi il figlio, e gli lasci questo reame.

16. Simile condizione per le donne eredi del trono.

17. La donna erede del trono non si mariti senza piacimento del papa.

18. Esclusi i bastardi dalla successione.

19. Il regno non si unisca mai ad altro d'Italia, nè all'impero.

20. Caducità e scomunica, se il re occupi terre della Chiesa.

21. Restituiscansi, sotto gli occhi di commissari del papa, i beni mobili e immobili tolti alle Chiese.

22. Libertà delle elezioni ecclesiastiche, salvo il padronato regio. Facciansi in Roma le cause ecclesiastiche.

23. Rivocazione degli statuti svevi contro le immunità ecclesiastiche.

24. Immunità degli ecclesiastici da' giudizi ordinari.

25. E dalle gravezze.

26. Restino alla Chiesa i frutti delle sedi vacanti.

27. I feudatari e i sudditi abbiano le immunità e i privilegi goduti sotto Guglielmo II.

28. Rientrino gli esuli a piacer della Chiesa.

29. Divieto di ogni lega contro la Chiesa.

30. Liberazion de' prigioni sudditi del papa. Restituzione dello stato al duca di Sora. Rivocazione delle concessioni di feudi o altri beni per Federigo, Corrado, e Manfredi.

31. Carlo venga all'impresa, con esercito non minore di 1,000 uomini di arme (contando 4 cavalli per ogni uomo di arme), 300 balestrieri, ec, ec.

32. Venga in tre mesi dopo la concessione.

33. Le condizioni scritte di sopra valgano pei successori di lui.

34. E compiuta che sia l'impresa, abbia il privilegio di concessione con la bolla di oro.

35. Non tenga per tutta la sua vita l'uficio di senator di Roma.

36. Lascilo anzi nel termine di anni tre; e intanto lo eserciti a favor della Chiesa, e disponga per lei i Romani.

[11] Tutti questi casi della conquista di Carlo ritraggonsi da:

Saba Malaspina, lib. 3, cap. 1.

Ricordano Malespini, cap. 179, ambo, presso Muratori R. I. S., tom. VIII, e da molti altri contemporanei.

Del resto ved. Muratori, Annali d'Italia, 1266.

E ricordisi in Dante:

A Ceperan, là dove fu bugiardo Ciascun Pugliese. Inf., c. 28.

L'ossa del corpo mio sarieno ancora In co' del ponte, presso a Benevento, Sotto la guardia della grave mora: Or le bagna la pioggia, e muove 'l vento Di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, Ove le trasmutò a lume spento. Purg., c. 3.

CAPITOLO III.

La vittoria di Carlo innalza parte guelfa in Italia. Risorgon pure i Ghibellini, e chiaman Corradino all'impresa del regno. Sollevasi per lui la Sicilia. È sconfitto a Tagliacozzo, e dicollato a Napoli. Carlo spegne la rivoluzione in terraferma con rigore, in Sicilia con immanità. Eccidio d'Agosta. 1266-1268.

S'eran riscossi i Guelfi alla passata di Carlo, aiutato l'aveano all'impresa, ed ora partecipando della vittoria, tutta Italia ingombravano, rafforzati dalla riputazione e dalle armi del re. E vacando tuttavia l'imperial seggio, papa Clemente, che alcuna autorità non n'avea, dette al re il titolo di vicario dell'impero in Toscana, per aprirgli la strada a più larga ambizione. Così mutossi per parte guelfa lo stato di tutte le province italiane; al nome ghibellino non restando che Siena e Pisa: gli altri uomini di questa parte, attoniti più che spenti, cedeano il campo, chi esule, chi acquattato in patria; e tutti covavan rancori. Ond'e' guardarono in Lamagna a Corradino, entrato già nell'adolescenza, e verace signore di Sicilia e di Puglia; i quali stati, com'or feano piegar le bilance pe' Guelfi, l'avrebber mandato giù, se renduti a casa sveva. Con loro s'intendeano gli usciti di que' reami, e i partigiani che s'eran sottomessi a Carlo; i quali non avean saputo difender Manfredi, ed or pensavano a rifar guerra. Rincoravali la mala contentezza di questi popoli, che sotto Carlo non sentiano scemare i tributi, crescer anzi la molestia de' ministri e degli officiali infiniti del re, ingordi, inquisitivi, superbi, più insopportabili come stranieri, e in Sicilia peggio, perchè ai non domi con le armi peggio puzza un'insolente dominio. Amaramente piangean Manfredi, da loro lasciato correre alla morte come quei che togliea parte {33} di lor sostanze, per trovar ora chi tutte rapiale, e per ammenda le persone manomettea.

Entro un anno dunque dal subito conquisto, risvegliansi, congiurano e Ghibellini, e usciti del regno, e baroni sottomessi a Carlo, e stranieri principi. Adunan moneta i Ghibellini; volenteroso entra Corradino nell'impresa; il duca d'Austria il segue, giovanetto e congiunto suo; seguonlo per amor di parte o d'acquisto molti baroni e uomini d'arme di Lamagna. Fin d'Affrica sursero per lui due perduti uomini del sangue regio di Castiglia, Arrigo e Federigo; che di lor patria fuggiti, combatteano a' soldi del re di Tunisi; e infastiditi, o a lui venuti in sospetto, rituffaronsi nelle brighe de' battezzati: ma Arrigo ancora cocea privato rancore contro Carlo, perchè avendogli dato in presto, quand'ei si preparava alla impresa, una grossa somma di danari raccolta da lui in Affrica e serbata a Genova, Carlo, preso il regno, nè dette feudi o stati ad Arrigo, nè rendea la moneta, ma menzogne di cortesia; e stucco de' richiami dello Spagnuolo, gli parlò leonino[1]. Perciò Arrigo cercava vendetta. Ad annodar que' fili giravan di qua, di là i più vivi partigiani; Corrado Capece corse e ricorse tra Lamagna e Tunisi. E fur sì destri, che l'anno stesso sessantasette Corradino, con quattro migliaia di cavalli tedeschi e parecchie di soldati a piè, calava in Verona: Roma tumultuando chiamava senatore don Arrigo di Castiglia: si levavano da per tutto i Ghibellini: tumultuava la Sicilia contro re Carlo.

Perchè don Federigo e Capece non prima sepper la passata di Corradino, che mosser d'Affrica, sì come s'era ordinato, a rizzare in quest'isola l'insegna sveva. Con una ventina di cavalli, e poche centinaia di fanti raunaticci, spagnuoli, toscani, tedeschi, saraceni, posero sulle spiagge meridionali {34} a Sciacca. Capece si promulga vicario del re; spaccia messaggi ai già disposti e consapevoli; bandisce la proclamazione di Corradino, esortante i popoli a sorger nella santa causa di lui: fanciullo, l'avevan tradito il fratel del padre suo, il pastor supremo della Chiesa; or adulto, e in sull'armi, e affidato nella lealtà dei sudditi, veniva a scacciare l'oppressor loro, l'usurpatore del regno. Rapida corse dell'arrisicato sbarco la fama, gratissima ai nostri, poco formidabile dapprima a' Francesi, che fecer sembiante di spregiarla; e Fulcone di Puy-Richard, reggitor dell'isola per Carlo, tutto sdegnoso mosse con forte oste de' suoi e di milizie feudali siciliane a schiacciare gli assalitori. I quali come videro il nimico vicino, fidati nelle lor pratiche, escon tosto al combattimento: e al primo scontro i feudatari siciliani s'infingon di fuggire; poi s'arrestano, straccian le bandiere d'Angiò, spiegan le sveve, e minacciosi stringonsi a schiera. Fulcone allora, lasciato il campo, più che di passo si rifuggì in Messina. E questa, con Palermo e Siracusa, restaron sole in fede; nel rimanente della Sicilia divampò un subito incendio, gridando tutti il nome di Corradino: nè a lui però ubbidirono, nè a Carlo, ma a posta sua ciascun disordinatamente si prevalse. Sbigottite e poche le armi provenzali; poche e disordinate quelle di don Federigo e di Capece; il malo studio delle parti, entrato già in questa terra, non crescea forza ad alcuno de' contenditori, ma sfogavasi in particolari vendette. Perocchè alla venuta di re Carlo, un talento servile, o una speranza di guadagno e autorità, molti precipitò a prostrarsi alla nuova dominazione, lor viltà onestando sotto specie di parteggiare per quella; molti più profondamente l'abborrirono. Ferracani i primi, Fetenti s'appellarono gli altri: nomi d'ignota origine, che nelle nostre istorie son oscuri, e mertanlo; perocchè s'udian solo in questa rivoluzione, l'uno e l'altro per villani misfatti. Il mal governo poi di re Carlo fu {35} amara ma certa medicina a dileguar queste fazioni in un ferocissim'odio comune. E così nel vespro appena si vide un'ombra di parte; ma restò solo per detto di contumelia e villania il nome di Ferracano; che traditor della Sicilia suonava, e partigiano de' tiranni stranieri.

Nè a particolareggiare i casi atroci di quest'anarchia del sessantasette, vo' dilungarmi or io dal bello argomento propostomi. Dirò solo quali odî seminassersi allora, che render doveano il vespro più sanguinoso e più grande; perocchè spesso nasce il bene dai mali estremi; e convien sia colma la misura a far che gli uomini tra lor mense, e amori, e guadagni, e ambizionucce, ed ozi onesti, ed ozi vituperevoli, ricordinsi d'esser cittadini, talchè, arrischiando per poco questa vita sì breve e amara, nella causa pubblica risorgano. La quale altra è che lo sciogliersi a misfare senza modo nè grande intento, come allora in Sicilia avveniva. Baroni, borghesi, vassalli con rapine e omicidî e violenze d'ogni maniera laceravansi tra loro: i deboli, al solito oppressi da' nemici e dagli amici, non sapeano cui ubbidire: era piena la Sicilia di sangue: di fame e di pestilenza perivano i campati alla rabbia degli uomini. Invano qui venne per Corradino il conte Federigo Lancia con una armatetta di galee pisane. Invano per Carlo il prior Filippo d'Egly, degli Spedalieri, frati combattenti, i quali in queste nostre risse mescolavansi più volentieri che nelle sacre guerre di Palestina. Avversi ai carlisti i popoli; i tre capi corradiniani disputavansi l'autorità suprema; e loro forze dividendo, disertaron sè stessi e la causa del principe. Queste parti dunque, delle quali niuna potea vigorosamente ordinarsi e metter giù l'avversa, dilaniarono senza pro la misera Sicilia; finchè, spento Corradino, venner da Napoli a risanarla i carnefici[2]. {36}

Non uso a questi subiti italiani movimenti, sbigottì Carlo a veder mezza la penisola in romore per Corradino; la Sicilia perduta; la Puglia piena d'umori di ribellione; e Corradino, che per diffalta di danari era sostato dapprima a Verona, vincer sull'Arno, accrescersi in Roma pe' favori d'Arrigo di Castiglia, e, non curando scomuniche, minaccioso venire alla volta del regno con dieci migliaia di cavalli, e più numero di fanti, tra tedeschi, spagnuoli, italiani, e usciti di Puglia. Nè tanta moltitudine avea Carlo in sull'armi; ma eran Francesi i più, e in migliore disciplina, e con altri capitani: ond'ei come animoso, fè testa ai confini. Presso a Tagliacozzo si pugnò, nel pian di San Valentino, a ventitrè agosto del sessantotto: ed era di Corradino la giornata, quando la terza schiera francese instrutta dal vecchio Alardo di Valery e da Guglielmo principe di Morea, diè dentro; e ruppe e mietè i disordinati per fidanza della vittoria. Presi i maggiori dell'esercito; scannata a frotte la plebe; nella quale trovando parecchi Romani, Carlo {37} non fu contento della lor sola morte, in vendetta del toltogli uficio di senatore della città. Comandava nel primo boglimento di rabbia, che fosser mozzi i piè a quei prigioni; ma per timore che portassero miserando spettacolo, da rinfocare contro di lui gli animi in Roma, l'ordine rivocò, e chiuder li fece entro una casa, e vivi brugiare. Quest'era il campion della Chiesa! Corradino fuggendo fu conosciuto ad Astura, e preso a tradimento. I partigiani ch'eran tuttavia grossi di numero, perdetter l'animo a quella rotta; si sbrancarono; pensò ciascuno a salvar sè solo; e tutti furon perduti[3]. Quel d'Angiò, come avea preso tanto stato, così il mantenne, per una sola battaglia. Ma per che modo sì assicurava e vendicava, m'è duro a narrarlo.

E comincio da Corradino, comechè pria del suo sangue scorresse già quel de' sudditi a fiumi. Altri appone a Clemente il mal consiglio, altri lo scolpa; io penso che il papa e il re d'un animo volesser la morte del giovanetto, stimolati entrambi da rabbia d'aver tremato, e sospetto dell'avvenire. Nè sicari in carcere, ma rappresentanti della nazione in faccia alla nazione e a Dio, bruttavansi del comandato assassinio. Convocò re Carlo un parlamento di baroni, e sindichi, e buoni uomini delle città di Puglia; a scherno osservar fece tutte del giudizio le forme: talchè par vedere altri tempi a leggere con che sillogismi quella straordinaria corte dannava a morte Corradino e i seguaci suoi, come in tali casi è costume. Ed ebbe animo ad opporsi un Guidone da Suzara, famoso professor di dritto civile, che non era suddito di re Carlo nè si curava della sua grazia; e lor coscienze rimordean gli altri; e piangeano in cuore i buoni; i Francesi stessi esecravano il crudele atto del re: ma il re volea, e tremavano i giudici, onde ogni schermo fu vano. Un fanciullo di sedici anni, ultimo erede di tanti imperatori {38} e re, dritto signore egli stesso di Sicilia e di Puglia, il dì ventinove ottobre del sessantotto, tratto era al patibolo in piazza di mercato a Napoli; seguendolo una funata di vittime, perchè più largamente si vendicassero gli sturbati ozi della tirannide. A paro a paro con esso veniva il duca d'Austria, statogli compagno amantissimo dall'infanzia: biondi ambo e gentili, impavidi nel sembiante, a fermo passo andavano al palco. Di porpora era coperto il palco, quasi a regia pompa; con torvi armati all'intorno; foltissimo il popolo in piazza; dall'alto d'una torre guardava quella tigre di Carlo. Salì Corradino, mostrossi, e lettagli in volto la sentenza che il chiamava sacrilego traditore, ne protestò nobilmente al popolo e a Dio. A queste parole susurrava la moltitudine un istante; e poi ghiacciata di paura tacque; stupida e scolorata affisò Corradino. Il quale nell'abbassar lo sguardo su quell'onda di spaventati volti infiniti, ghignò di amaro disprezzo, poi gli occhi alzò al cielo, e ogni terren pensiero depose. Lo scosse un colpo: vide il capo del duca d'Austria già tronco sul palco; ond'avidamente il raccolse Corradino, se lo strinse al petto, il baciò cento volte, baciò gli astanti, baciò il carnefice, pose il capo sul ceppo; e la scure piombò. Narran che prima gittasse il guanto a significar la investitura de' reami a Pier d'Aragona, genero di Manfredi; narran che il conte di Fiandra, marito d'una figliuola di re Carlo, non reggendo all'empio sagrifizio, di sua mano uccidesse Roberto di Bari fabbro e dicitore della sentenza. Ben i bizzarri costumi dell'età aggiugnerebber fede a cotesti fatti; ma più certi e atroci prendo io a narrarne, affrettandomi a uscir di tanti orrori[4]. {39}

In terraferma quanti eran rimasi fedeli a Carlo, o, dubbiosi finchè fu dubbia la vittoria, or voleansi purgar dal sospetto, fecersi giudici insieme e carnefici degli scoperti ribelli. Il parlamento avea offerto regie vittime al re; gli uomini delle province immolavangli i partigiani, e guadagnavan possessioni in premio della fedeltà o de' misfatti[5]. Presero i beni, rapirono, uccisero, accecarono, straziarono: fu tanto, che Carlo trattenne al fin lo immane zelo che facea del regno un deserto, perdonò al fine[6]. Ma ai Siciliani nulla mercè[7]. A farne macello manda i suoi baroni francesi: e Guglielmo l'Estendard era il primo; uom {40} di guerra e di strage, che la pietà avea a scherno, più crudele d'ogni crudeltà, dice Saba Malaspina, e di sangue ebbro, e tanto più sitibondo quanto più ne versasse. Costui valicò lo stretto con un drappello di Provenzali fortissimi, e di forti Siciliani l'accrebbe a vergogna nostra; abbattè senza ostacolo la parte di Corradino, cui speranza non restava alcuna. Ma in Agosta mille cittadini in sull'armi, con dugento cavalli toscani, fieramente difendeansi, aiutati dal sito inespugnabile; onde Guglielmo, postovi il campo, gran pezza indarno affaticossi: e a tanti doppi ne crescea quella sua natural ferità. Sfogolla alfine senza battaglia, perchè sei traditori, schiusa di notte una postierla della città, indifeso diergli in preda quel valente presidio: ed ei nè valore rispettò, nè innocenza, nè ragione d'uomini alcuna. Ivano i suoi per la città, contaminando ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercavano lor vittime per fin entro le cisterne e le fosse del grano. Ma dopo la prima strage, quando fu satollo il furor de' soldati, non si spense nel crudo animo del ministro del re. Chiama al macello un manigoldo d'estrema forza: al quale adduconsi legati gli Agostani; e quegli li spaccia con un largo brando; e quand'è spossato gli si porgon colmi nappi di vino, che tracanna insieme col sudore e sangue di che gronda tutto; e con fresche forze ripiglia l'opera scellerata. Alzò sulla marina una catasta di capi e di tronchi; dove tra le misere vittime loro andavano a monte i sei figliuoli di Giuda, ben premiati così da Guglielmo. Non rimase persona viva in Agosta. Molti fuggendo al mare, sì precipitosamente accalcaronsi sopra un legnetto, che diè alla banda e si sommerse. Gavazzavano intanto i Francesi nella insanguinata città, che deserta e squallida fu poi per lunghissimi anni[8]. Nè queste immani stragi, nè questi immani tripudi ricordavano {41} i più degli storici narrando con tanto studio la strage del vespro, che misura fu per misura! A quella carnificina tenner dietro negli altri luoghi i supplizi. Corrado Capece s'affortificò in Centorbi: ma visto balenare i suoi, uscì solo a darsi nelle mani di Guglielmo; e quegli il fe' accecare, e trarre a Catania, e per la gola impiccare. Marino e Giacomo fratelli di lui periano anco sulle forche a Napoli; per altri casi gli altri principali partigiani: sol campò Federigo di Castiglia, che si difese in Girgenti, ma Guglielmo come congiunto di re Carlo gli diè di partirsi con una nave. Sulle misere città di Sicilia, o state ribelli, o state fedeli, piombò intanto la rapace man d'Estendard, con imprestiti e altri mal dissimulati ladronecci[9]. Lucera di Puglia, ove i Saraceni siciliani fatto avean sì bella difesa, s'arrendè poco appresso per gli strazi d'orribilissima fame: trionfò Carlo da per tutto senz'alcun freno. Così crescon per doma ribellione e peggiorano i principi, stimolati da sdegno e sospetto, nè mansuefatti da timore alcuno de' sudditi; i quali per diffidar l'un dell'altro e spossamento comune, forz'è che lungo tempo servano, e stiansi.

NOTE

[1] Questa ragione della nimistà d'Arrigo di Castiglia è riferita da Bernardo D'Esclot, Istoria di Catalogna, cap. 60, ed. Buchon, 1840.

[2] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 3 e seg.

Bart. de Neocastro, cap. 8 e 9.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 20 al 23.

Raynald, Ann. eccl. 1267, §§. 2, 12 e seg., 1268, §§. 2 a 29.

Nic. di Jamsilla, in Murat. R. I. S. tom. VIII, pag. 614 e seg.

Veggansi anche i seguenti diplomi del r. archivio di Napoli:

Diploma di Carlo I, dato di Viterbo 11 aprile undecima Ind. (1268) al segreto di Sicilia, per le spese di fra Filippo d'Egly dello Spedale di S. Giov. di Gerusalemme. Reg. di Carlo I, segnato 1268, O fog. 18.

Altro dato dal campo sotto Lucera il 2 giugno undecima Ind. (1268) a Falcone di Puy-Richard vicario di Sicilia, perchè munisse con estrema cura Messina, tamquam portum et portam Sicilie. Ibid. fog. 18.

Altro dato di Capua a 10 dicembre duodecima Ind. (1268) pel castel di Licata, che avea sostenuto assai guasti da' ribelli. Ibid. fog. 22.

Conti resi da Bartolomeo di Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso, per l'amministrazione dal 14 ottobre 1268, a tutto novembre 1269. Ibid. fog. 75.

Da una partita di questo conto si scorge, che il giustiziere mandava al re, Nicolò di Marchisano a chiarirgli falsa la voce dello sbarco del re di Tunisi in favor de' ribelli; e che avea pagato un'oncia a Lorenzo di Trapani, il quale con la sua barca portò questo corriere da Palermo in Principato, ov'era il re.

[3] Gio. Villani, lib. 7, cap. 24 al 27.

Bart. de Neocastro, cap. 9.

Saba Malaspina, lib. 4, cap. 13.

[4] Bart. de Neocastro, cap. 9 e 10.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 28 e 29.

Saba Malaspina, lib. 4.

Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 9.

Ricobaldo Ferrarese, Hist. imp. an. 1268, etc.

Un verso di Dante, se bene o mal interpretato non importa, diè luogo ai primi comentatori poco discosti dal secol XIII a narrare un aneddoto intorno la morte di Corradino. Nella loro età dicessi, che Carlo I d'Angiò, per superstizione mezzo pagana venuta di Grecia, avesse fatto cuocere una zuppa, e mangiatola su i cadaveri di Corradino e degli altri guastati con esso; il quale rito s'avea per fermo che purgasse il peccato dell'omicidio, o troncasse il corso alla vendetta. Il verso è questo:

…. Ma chi n'ha colpa creda, Che vendetta di Dio non teme suppe. Purg., c. 33.

Io non rido di tal comento come fa il Biagioli, perchè tutte le memorie degli uomini portano superstizioni, empie e ridicole almen quanto il mangiare una zuppa sul cadavere dell'ucciso. Nè Carlo I d'Angiò fu spirito forte, come diremmo in oggi. Ma non trovando questo fatto in alcuno degli scrittori contemporanei di parte contraria a lui, conchiudo che, o la favola nacque dopo la loro età, o ch'essi come favola manifesta la tacquero. Perciò ho lasciato indietro questo, che pur sarebbe un forte tratto di pennello sul carattere di Carlo, su i tempi, e sulla natura della condannagione di Corradino. Su le opere di Guidone da Suzara, veg. Tiraboschi, Storia letteraria d'Italia, tom. IV. Suzara è città nel distretto di Mantova.

[5] Veggansi le molte concessioni di feudi e altri beni fatte da re Carlo in questo tempo, che leggonsi nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 1 ed 8. Tra gli altri si trova a fog. 6, a t. e duplicato al 114, a t. un diploma del 15 genn. tredicesima Ind. (1269) pel quale furon date all'arcivescovo di Palermo le case che possedeva in Napoli Matteo de Termulis, fellone.

[6] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.

Capitoli del regno di Napoli, pag. 14. Misericordiam, etc.

[7] Capitoli del regno di Napoli, pag. 16. Nel preambolo si legge essere stati i ribelli di Sicilia, conculcati, et gladio ultori perempti.

[8] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.

[9] Conto reso da Bartolomeo de Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso. Nel archivio r. di Napoli, reg. di Carlo I (1268), O, fog. 75.

Da questo si veggono gl'imprestiti sforzati fatti per ordinamento di Guglielmo Estendard, maresciallo e vicario generale in Sicilia, di Guglielmo di Beaumont, ammiraglio, e di Fulcone di Puy-Richard. Un altro argomento di estorsione, come si ricava da' medesimi conti, fu l'assedio di Sciacca, non so bene se quel del primo sbarco di Federigo di Castiglia, o un secondo quando trionfò la parte angioina. Richiedeansi le città di mandar forze a quest'assedio, e invece d'uomini si prendea da esse denaro. Sul cumulo di queste composizioni furono assegnate all'ammiraglio per ordine del re once 621.

Da' medesimi conti ricavasi, che in questo tempo il prezzo del grano montò a venti tarì a salma.

CAPITOLO IV.

Re Carlo continua e trapassa gli abusi della dominazione sveva. Immunità ecclesiastiche. Novello baronaggio. Gravezze, e modi del riscuoterle. Demani, e bandite. Servigi, e soprusi che nascon da quelli. Amministrazione della giustizia, crimenlese, matrimoni, violenze alle donne. Violazione dei dritti politici. Riscontro delle condizioni di Sicilia e di Puglia. 1266-1282.

Temperavansi a vicenda nell'antica siciliana costituzione il principato e 'l baronaggio; nè illimitati dritti avea questo sulle persone, nè gravissimi sulle facoltà: i villani men servi che altrove; non eran servi i rustici; i borghesi e cittadini, fin delle terre feudali, sentivano lor libertà, lor immunità sosteneano[1]. Il poter giudiziale dipendendo direttamente dal principe, non serviva a tutte voglie della feudalità. Comportabili le gabelle; miti i servigi; rarissimi gli universali tributi: e i parlamenti soli accordavan questi; i parlamenti conoscean solennemente le leggi dal re dettate. In questi termini, dopo ondeggiar molto del potere tra i baroni e 'l principe, il buon Guglielmo ristorò gli ordini politici: la feudalità di nuovo turbolli: Federigo imperatore più monarchicamente li assestò, come nel capitolo {43} primo s'è detto. Molti statuti e savi ei dettò, fiaccando i baroni: bandì, or col voto dei parlamenti ed or senza, le universali contribuzioni, ch'erano per ordine fondamentale limitate ai noti quattro casi feudali[2], ed ei per violenza le rese più frequenti: moltiplicò le gabelle sulle derrate: di alcune merci riserbossi esclusivo lo spaccio; accrescendo così senza modo le entrate regie. Pentito in ultimo, o infigendosi, per testamento abrogò queste violazioni alla costituzione: disdisserle anco i suoi figliuoli; e le praticaron pure, sospinti dai bisogni della guerra[3]. Esse dettero a Manfredi il crollo; esse a Carlo d'Angiò preparavanlo. Giurato avea Carlo tra le condizioni della pontificia investitura, di cessar gli abusi, di ridurre il governo ai termini del Buon Guglielmo; e i tempi del Malo ricondusse, e fe' peggio, non sapendo astenersi da tanto comando, da tanta moneta. Sottilmente anzi investigando tutti i mal'usi, che dritti si dicean del fisco, accrebbe peso e molestia: poi dalla ribellione per Corradino trasse pretesto a scioglier sè e' suoi ad ogni misfare. Le leggi e i registri che ne restan di lui; quelle che dopo il nostro vespro a moderar la pessima signoria promulgaronsi in Puglia dagli angioini, da que' di Aragona in Sicilia; e le rimostranze de' Siciliani al papa; i brevi pontificî; gli attestati degli storici contemporanei, fosser nostri o avversi, tutte ne mostrano scolpitamente le calamità della Sicilia in quei tempi. Fremendo io le scrivo; ma ne racconterò la vendetta[4].

E prima dirò della slealtà con la Chiesa. Avea Clemente {44} conceduto il regno a patto che gli ecclesiastici godessero tutte lor pretese franchezze, dagli Svevi negate; e che si rendessero i beni occupati dagli Svevi a chiese o usciti. Giurollo Carlo, e da re nol dovea: preso il regno poi, avarizia il vinse a romper la fede; non già negando apertamente, {45} ma peggio, con cavillare in parole, e persister nei fatti. Perciò, lagnandosi invano papa Clemente, le comuni gravezze ei riscosse dai chierici, e da lor case; nè sazio a questo, ai beni ecclesiastici diè di piglio; i dritti dei porti di Cefalù, Patti, e Catania occupati dagli Svevi nella guerra con Roma, nella pace ei ritenne[5]. E non potè contendere che un legato, inquisitore, o esecutore (così intitolavasi) della Santa Sede nel reame di Sicilia sopra la restituzione de' beni ad esuli, chierici, e chiese, il quale fu dapprima Rodolfo vescovo d'Albania, rendesse ragione d'autorità del papa; non seppe nè anco ricusare i rescritti che dessero virtù esecutiva a quelle sentenze; ma lascionne la più parte senza effetto, come avvenne per lo casal di Calatabiano, che Vassallo d'Amelina a nome del re prese violentemente alla chiesa di Messina, e per un altro casale e un podere della medesima, che il fisco tenea, nè per decisione del legato, nè per ammonizion dei papi, e in particolare di Gregorio X, si disserravano a renderli le avare mani di Carlo[6]. Gli Spedalieri, e i Templari che nei {46} suoi reami veniano, taglieggiò senza rispetto; alla corte stessa di Roma non n'ebbe, quando giunse a vietar che i suoi sudditi con gli stati di quella mercatassero[7]. Così adoperava coi papi. La siciliana repubblica dell'ottantadue, incontanente redintegrò la chiesa di Messina nel possesso di quei beni[8]: e la corte di Roma fieramente malediva la siciliana repubblica, perchè si ristorasse la prepotenza di Carlo[9]!

Di gran momento sembrami in cotesto nuovo principato la novazione del baronaggio. Perchè il picciol signore d'Angiò e di Provenza, armando per tanta macchina di guerra, avea tolto in presto molto danaro, molte schiere condotto di speranza più che di stipendio; onde gli era forza soddisfare a' conquistatori e sostegni del suo trono; e appena messovi il piè, al gran lotto diede opera[10]. E nulla erano gli ufici pubblici lucrativi, ancorchè a' soli suoi li serbasse; nulla i benefici ecclesiastici, che conferiva a quei soli; di terreni, di feudi facea d'uopo. Entrò Carlo dunque in una inchiesta strettissima dei demanî, de' baronaggi tutti, delle sostanze di Manfredi e de' suoi; non a cercare, ma a trovare vero o supposto vizio nel possedimento. A ciò {47} i veltri del fisco, affamati, sagaci, invidiosi, ivano in traccia, svolgean vecchie carte, su dritti e usanze cavillavano, vinceano in diligenza lo stesso re. A vetustà di possesso, a prescrizione non s'attende; richieggonsi i titoli de' feudi tutti; minacciano spogliamento gl'ingordi ministri, e per danaro acquetansi. L'hanno, e all'inchiesta, all'espilazione dopo breve tratto ritornano: feudo non fu, nè baronia che due o tre volte non si fosse ricattato in tal guisa[11]. Con severità maggiore si ricercò de' regi demanî: orribili furono le confiscazioni per crimenlese, come innanzi dirassi. Perilchè occupando terre, e castella, e poderi innumerevoli, largheggiavane re Carlo co' suoi per feudale concessione[12]; e tanti diplomi ce ne rimangon ora, che alcuno, senza badare al rapace acquisto, nè alla sforzata liberalità coi maggiori dell'esercito, magnifico ne dice il re. I novelli baroni poi a lor uomini gratificavano con subalterne concessioni: così i condottieri, i soldati d'oltremonti prendeano stanza nelle nostre terre; sospettosi, odiosi, pronti a ripigliare le armi; e ritraente dalla primitiva occupazione de' barbari, una feudalità novella sorgeva {48} appo noi. Essa fu incentivo grandissimo ai turbamenti dell'ottantadue, perchè e l'insolenza portava della vittoria, e 'l dispetto di signoria forastiera, e l'uso a dritti o angherie, radicati in Francia, ignoti in Sicilia[13]. Però insopportabili qui rendeansi i novelli feudatari. Con insolite esazioni aggravavano le industrie; rapiano apertamente; taglieggiavano vassalli, e viandanti; tenean private carceri pei colpevoli e più per gl'innocenti; intrigavansi di forza ne' negozi de' comuni; ad ogni eccesso le violente mani stendeano[14]. Del che più largamente diremo, divisando i soprusi de' famigliari e degli altri officiali del re; ch'essi e' feudatari eran di una genía tutti, senza ragione nè patria, tutti accozzati di varie genti, Francesi, Provenzali, Fiamminghi, e trapiantati nell'inimico paese, presero come venturiera masnada una sembianza propria e nuova, un'indole rapace, crudele, pessima; nè Francesi li direi, se non fossero stati i più, e l'uso delle tradizioni e istorie nostre non mi sforzasse. Rimessi se ne stavano intanto i baroni siciliani, dal re bersagliati e dai feroci compagni, ed usi a vivere negli antichi termini co' vassalli. Quanto del baronaggio dico io dunque, s'intenda del nuovo. Nè maravigli alcuno a vederlo sì sfrenato sotto sì dispotico principe; avvegnachè, riguardo all'autorità regia, tenealo egli a segno; i dritti sovrani geloso {49} riserbavasi nelle concessioni[15], ed esercitavali, non perdonando a tributo, nè a servigio; infino a sancir la morte contro gli usurpatori de' demani, e a dichiarare, e per questo soltanto, che regnicoli e Provenzali e Francesi senza distinzione ubbidissero[16]. Abbandonava nel resto il freno, perchè diverso dagli altri principi dell'età sua Carlo regnava. Quelli con la riputazione delle municipalità, sforzavansi a raffrenare i baroni; ei condottiero ancora del suo baronaggio, da quello era mantenuto sul trono[17]. Nimici {50} ambo de' popoli, ambo s'affaticavano insieme a tenerli sotto il giogo, e 'l sangue sugger loro e i midolli, come vivamente dice, e famigliar del papa era e guelfo, l'istorico Saba Malaspina[18].

E meglio stan queste amare parole ove si risguardi alla amministrazione delle pubbliche entrate, levate non per bisogni pubblici, ma da istinto d'avarizia e disegni d'ambizione; la quale rapacità copriano i partigiani di Carlo con dir ch'era uopo dimagrar que' contumaci sudditi, affinchè contro il principe non alzasser la cresta[19]. Era nei tempi feudali, altrimenti che ai nostri, ordinata l'azienda degli stati; e più discrete apparian le gravezze a cagion de' minori bisogni, e degli usi sotto i quali esse ascondeansi. Perchè i demani[20] somministravano la più parte delle spese della corte; a quelle del pubblico suppliano i popoli, non pur con danaro, ma sovente col servigio delle persone, e delle cose loro. Così gli eserciti, le navi, dai feudatari forniansi e dalle città; così era debito albergar le corti del principe e de' maestrali; così ai lavori pubblici andavan tenuti gli uomini di minor taglia, ai trasporti, e a somiglianti disagi. Servigi s'appellavan questi; e collette le contribuzioni dirette e generali; gabelle poi le tasse sulle derrate, che per privativa nella vendita sovente si riscuoteano. Delle quali parti l'entrata dello stato componeasi in Sicilia ancora; ma la moderata costituzione tutti i pesi rattemprava. Turbaron gli Svevi quella bilancia, sì come io notai: Carlo le diè il tracollo, arso, dice dolorando il suo istorico, arso d'idropica sete di danaro[21]; e ne venne quasi all'aperta rapina. {51}

Ne restan di Clemente quarto, a lui indirizzate nei primi principî del regno, due epistole, che son modello di politica prudenza e umanità; ma Carlo sen rise, come fanno i despoti ad ogni buon consiglio. Toccatisi in quelle tutti gli ordini dell'amministrazion dello stato; e sulle tasse illegalmente levate: «consigliamti, o figliuolo, scrivea il papa, che, chiamati i baroni, i prelati, e i maggiori uomini delle città, i tuoi bisogni lor esponga, e l'utilità del difendersi, e con l'assentimento di essi stabilisca il sussidio a te dovuto. Di quello poi, e de' tuoi dritti sia tu contento; lascia tu liberi i sudditi… Ordina col parlamento in quali casi richieder possa la colletta ai vassalli tuoi o de' baroni»[22]. E il pio re, nè parlamenti adunando, nè misura osservando alcuna, nè per bisogno pubblico, bandiva l'un sull'altro, più fiate entro un anno, quegli universali tributi; or aggravando e spesseggiando i consueti; ora speculandone nuovi e insoliti, come fu quello de' legnami e marinai: e talvolta tumido e frettoloso lasciava ai ministri suoi che a lor talento ordinasserli[23]. Si promulgan {52} così gli editti; saltan fuora i riscotitori; non bastando i {53} sudori della industria[24] alla gravezza diretta, spessa, immite, fuggono i miseri dai lor focolari[25]; e se non ne han cuore, strappansi il pan dalla bocca, pagano una parte, e veggonsi pure rapir le suppellettili, e gli animali, e gli strumenti della agricoltura[26], e fin diroccare le case, le persone trarre in carcere. Ivi son incatenati con manette di ferro; lor negasi il cibo e il bere; popolani e nobili, {54} vecchi, fanciulli, adulti, donzelle serransi alla rinfusa come un sol gregge; occasione, o pretesto a violenze maggiori[27]. «Mille nuove arti (sclama, trasportandosi a' tempi del servaggio, una rimostranza de' Siciliani ammoniti dopo il vespro a tornarvi), mille nuove arti insegnava a costoro l'inestinguibil sete, il furore dell'avarizia. Sulle liste dei riscuotitori gli uomini son cresciuti; ma ben le liste di proscrizione li scemano. Nostri non sono i beni; per costoro ariamo il suolo. Oh si lasciasse ai coltivatori un tozzo di pane! Oh mangiassero, ma non divorassero! Ma no; le persone non difendono i beni; nè i beni salvano le persone. Tutto bevono, tutto succhiano questi vermi insaziabili. Appena ci è concesso disputare ai corvi i brani delle carogne[28].»

Tra la moltitudine de' poveri straziata a tal modo, i ricchi non compravano almeno la sicurezza delle persone col sacrifizio de' beni. Pagavan le tasse, e non bastava; ricusandosi dagli officiali la scritta del ricevuto, finchè non avessero una grossa mancia[29]. Il re dal suo canto vuol da loro tutta la colletta del paese, immantinenti, in moneta; pensin essi a riscuoter dagli altri. Chi ricusa, in prigione, in catene, finchè non prenda l'uficio; nè esce poi per questo, senza pagar nuova taglia per riscatto dalla prigione. Uno n'esce; un altro sen trova, ch'è pelato con lo stesso argomento fiscale: strano ed esorbitante peso in quei tempi, in cui sì alto montavan le usure del danaro. Frequentissimi {55} inoltre i violenti comandi a giustizieri, a portulani, a segreti per anticipazioni delle tasse da riscuotersi; e non meno eran gli imprestiti, che da privati, da comuni richiedea il re, e a sua voglia faceane i patti, e pagava a sua voglia[30].

Peggiore, e universal danno recò l'alterazion delle monete, {56} tanto o quanto ben governate dagli Svevi, mentre nella più parte degli stati d'Europa il fisco ne traea grossa entrata; che è a dir le magagnava grossamente[31]. E Carlo, imitatore degli Svevi nel mal solo, seguì in questo gli esempi di fuori, e andò oltre com'ei solea. Fa coniare in Napoli, in luogo degli antichi agostali, carlini e mezzi carlini d'oro, con vocabolo preso dal suo nome e pervenuto infino a questi presenti tempi, del medesimo valore degli agostali, com'affermava, e di metallo purissimo; e nello editto stesso smentiasi, affidando il corso di questo suo conio al terror de' supplizi; perchè comandava con la solita immanità, che dando o ricevendo carlini di oro per valor minore dello edittale, gli officiali suoi ne avessero pena la pubblicazion de' beni e 'l taglio della mano; i privati fosser marchiati in faccia con la propria moneta arroventata su i carboni ardenti[32]. Ogni anno poi, e talvolta entro un anno più volte, stampava a Messina ed a Brindisi la bassa moneta, d'una trista lega di molto rame con pochissimi grani d'argento, di quella specie chiamata un tempo erosa, ed or biglione; il qual conio addimandavasi danari, e perchè altrimenti non si potea mettere in circolazione, si dispensava per forza agli abitanti di ciascuna terra o città, che dovean torselo al disorbitante valor edittale, e pagarne tanta buona moneta d'oro o d'argento. Guadagnavaci il fisco l'ottanta per cento e più; perdeanci i privati strabocchevolmente, {57} perchè nè comando nè supplizio mai die' valore a ciò che non n'ha; onde a capo a quattro o cinque giorni cinquanta danari valean sei, passata la settimana calavano ad uno[33]. I sinistri effetti di tali alterazioni credea menomare, ma li aggravava il re, con un divieto all'uscita degli schietti metalli, e di tutt'altra moneta che la sua[34]. Taglia questa non era, nè balzello, ma pretta rapina {58} di falsario; e per giunta soffocava e struggeva i commerci: non pur pensando l'avarizia cieca a quell'avvenire non lontano, in cui invan farebbe prova a smugnere i sudditi, condotti alle ultime stretture di povertà.

E quanto al commercio, nè era questo il sol danno, nè avea per misura i soli errori economici della età, l'ingordigia con la quale re Carlo mercatava egli stesso di molte derrate, e il traffico delle altre in mille guise forzava. Riserbata al principe o da balzelli oppressa la uscita del sale, de' grani, e di tutta vivanda: infinite le esazioni de' porti, le visite, le investigazioni, i riti molestissimi, i ladronecci de' doganieri, il terror degli officiali maggiori, che co' beni e col capo doveano rendere ragione al re della osservanza di tutti quegli ordinamenti[35]. E mentre così il fisco tiene {59} i traffichi esterni, e li interdice agli altri, gl'interiori travaglia e soffoca con quei, che nuovi statuti chiamò l'imperator Federigo, e nuovi balzelli eran per vero su varie derrate, e privativi dritti del vender sale, acciaio, seta, e altre merci[36]. Nei traffichi allora addentrandosi re Carlo con quella guida delle angherie baronali, qui fabbrica mulini, e comanda non possa alcuno macinar altrove i frumenti; qui spianando pane, se ne fa ei solo venditore ai sudditi l'amorevole monarca[37]. Forni, e mulini, e antiche gabelle, balzelli nuovi, terratichi, multe, esazioni dell'amministrazione della giustizia, ei dà in fitto ove il possa; ondechè l'ingordigia dei pubblicani con la sua si mesce a travaglio de' popoli[38]. Ma, se pubblicani non trova, adocchia i più ricchi uomini; sforzali a toglier quegli ufici, come allor diceano, in credenza; cioè, che riscuotano per loro, paghino al re quel tanto ch'ei ferma a suo arbitrio, ragionando in tempi sì mutati e calamitosi il {60} ritratto sull'ultim'anno del regno di Manfredi, nel quale al doppio e al triplo dell'odierno sommava[39].

Nè mancò infine l'arte delle spugne di Tiberio. Da molti documenti ritraesi che gli officiali, convinti di mal tolto nel dare i lor conti, componeansi per danaro col re; il quale in tal guisa non solamente rifaceasi del frodato a lui, ma anco partecipava de' ladronecci su i popoli; e spesso fingea il mal tolto contro un ricco uficiale per aver, come pareagli, onesta cagione a pelarlo[40].

Possedea vasti demani re Carlo. E i cortigiani[41] anelanti a precorre il principe ne' suoi vizi, pieni di zelo con lui borbottavano: dilapidarsi da' coloni que' suoi poderi; niun frutto ritrarsene; essere i sudditi ricchi troppo; a questi addossasse il maneggio de' beni, con patti accorti: non era egli il signore di lor vita e sostanze? Società d'industria agraria delibera dunque il re: agli agricoltori vicini dà in soccio a forza, tenute, e armenti, e greggi, e scrofe, e polli, e gli sciami fin delle api. La quantità delle produzioni o de' parti che a lui si debba, stabilisce egli a sua posta: sia sterile poi l'anno o fecondo, mortifera o generativa la stagione, {61} riscuote quel tanto, nè a mercè piegasi mai. Di questi non dubbi guadagni anzi invogliato sempre più, non è nei poderi suoi vil cosa cui non attenda; mette a entrata fine il letame delle greggi[42], manda gli armenti a satollarsi nelle altrui terre, entro i pascoli non pure, ma nei seminati più belli: e tristo chi si lagni di sofferto dannaggio[43]!

Volgeasi per le campagne il guardo, e da per tutto era bandita del re; non a sollazzo suo, a dispetto de' popoli. Occupansi a capriccio i côlti de' privati; tramutansi in foreste; proclamasi il fatal bando della caccia; ed è uom perduto chi non pure un cervo uccida o un camoscio, ma solamente in que' luoghi soggiorni o passi, e a' boscaiuoli regi non aggradi. Incessanti perquisizioni fan quelli, per fame e selvatichezza più intristiti: alla insolenza aggiugnendo l'insidia, spesso ripongon di furto ne' tuguri alcuna pelle o altro avanzo di cacciagione; e frugan poi; s'infingon trovarlo, e la misera famigliuola inabbissano. Lor parchi allargavan anco i baroni ad esempio del re; con pari giustizia acquistandoli, con pari umanità guardandoli. Infinita la molestia dunque: e ben era ragione che per procacciar {62} un'ora di diporto a quegli eletti, lagrimasse e affamasse lunghi anni la vile bordaglia[44].

Il gran Federigo, aggravando le tasse, disusato avea i servigi almeno; ineguali maniere di contribuzione, ai sudditi molestissime, disdicevoli al governo, e male accordantisi con quel sì ordinato dispotismo, ch'avea egli in mente. Or la nuova avarizia assottigliata in ogni parte, i servigi richiese, senza tor le gravezze poste in luogo di quelli. Onde non solo volle il militare servigio, e l'armamento delle navi, non mai discontinuati per l'addietro, ma solo talvolta ricattati con la contribuzione ch'adoa appellavasi o adoamento; ma cento altri ne ricercò de' più riposti e strani. Scrivonsi a servir sulle regie navi marinai e non marinai: chi s'asconde o fugge, è perseguitato senza mercede: i genitori, i fratelli, le sorelle imprigionansi, affinchè il contumace per amor loro si dia volontariamente nelle rabide mani de' commissari[45]. Intanto costretti i comuni a mandar il danaro delle collette in ogni luogo ove al re piaccia[46]: costretti i cittadini a portarlo tra i rischi e i disagi, fabbricati dal mal governo medesimo. Se attende uom quetamente a sua industria, il mandan corriero con lettere e spacci, o a custodir prigioni; e sol per danaro trar si può di briga[47]. Alle vetture, alle barche dan piglio gli officiali, i famigliari del re, de' magistrati, dell'azienda pubblica, de' castellani, dei feudatari: e servigio gridan del {63} re, servigio del barone; traggon giù i padroni; sforzanli a remigare o a far da guida; e dan percosse in mercede, e a lor agio s'accomodan essi[48]. Così senza prezzo la vivanda tolgono in mercato, ch'è mestieri, dicono, al fisco; i vini suggellan così, toccando al re, a' suoi tutti la scelta, agli abbietti proprietari il rifiuto: ma per danaro si mitigan poi[49]. In mille così vilissimi aggravî, per le piazze, per le osterie, nel lezzo delle taverne la cupidigia degli infimi famigliari si spazia, rivaleggiando con quella dei potenti. Grandi ed infimi, che in tante bisogne della uggiosa signoria svolazzavan per Sicilia tutta a stormi, s'intrudeano nelle case de' cittadini, abusando quel già gravoso dritto d'albergo. Entrano a dritto o a torto; scaccian la famiglia; sciupan letti, masserizie, vestimenta, quanto trovano; poi, se lor talenta, il portan via, se no, il buttano in faccia agli ospiti, e vanno[50]. L'ingiuria de' servigi personali passò ogni costumanza, ogni limite della stessa ingiuria sociale della feudalità, e venne all'eccesso del capriccio, del più strano e brutale dispetto. Vidersi nobili e onorandi uomini costretti vilmente a recar su le spalle vivande e vini alle mense degli stranieri; vidersi nobili giovanetti tenuti in lor cucine a girar lo spiedo come guatteri o schiavi[51]! {64}

Ma se di ragione alcun parla, se d'aggravio si lagna, se di presente non ubbidisce, alzan lo staffile i protervi, snudano il ferro; di ferro cinti essi sempre, inermi i nostri per feroce divieto: e percuotono, uccidono; o peggio del ferire, traggono in prigione gli oltraggiati cittadini che osin parlare; e alla violenza privata allor sottentra la violenza pubblica, e se non si ripara con danaro, il magistrato invocando la legge e Dio condanna a morte, a prigione, ad esiglio[52]. Di qui dunque ci avvieremo ad esaminar l'amministrazione della giustizia.

Illustre fu dator di leggi l'imperator Federigo: le forme d'applicarle ei dettò con senno e dottrina; se non che mescolovvi l'ingordigia fiscale. Così gli ordini giudiziali al governo angioino pervennero; nel quale essendo avarizia maggiore, e non altezza alcuna di consiglio, il buono ei contaminò di quegli ordini, il tristo ne accrebbe; e i tempî d'Astrea fe' bordelli. A magistrati affidolli, di que' che ben allignano sotto la tirannide; e più venali allor erano, perchè a' giudici annuali delle terre, anzichè darsi stipendio, richiedeasi un dritto per la loro elezione[53]. Strani decreti {65} Carlo dettò secondo i parziali bisogni; ogni misura passò; ogni dritto confuse. E già dissi come a' satelliti suoi la giustizia fosse strumento e non freno: onde suonano ipocrisia brutta quanti statuti ne restano, che fan sembiante di protegger persone e proprietà, da quelli manomesse a man salva[54]. Leggiamo così, nè per volger di secoli ne inganna re Carlo, i severi gastighi da uno statuto suo minacciati agli occupatori dei beni altrui per frode o forza[55]. Così ne rivelano gli effetti del mal reggimento, e non la cura o efficacia di quello, le promulgate leggi contro i rubatori di strada: che prove qualunque bastassero a condannarli: che le città o terre ristorassero de' furti avvenuti in contado: che non armandosi gli abitanti a scacciare i masnadieri, il comune si componesse per danaro col fisco: le ville, le case rustiche arderebbersi ove que' trovassero asilo, o a denunziarli non si corresse. Verghe, marchio, e bando pei furti infino al valor di uno augustale[56]; infino a un'oncia taglio della mano; oltre un'oncia la morte[57]. Applicavasi al fisco la terza parte de' furti ricuperati[58]. {66} Una grossa multa in ragion della popolazione si riscuotea sulle terre, ove, seguito un omicidio, il reo non si scoprisse: per la occultazione studiata, gastighi maggiori[59]. E avvenia che il magistrato (giustiziere chiamavasi, e girava per tutta la provincia) intendendo il misfatto, correa, minacciava, investigava; addottogli l'accusato, negava di rilasciarlo sotto malleveria, ch'era beneficio della legge[60]; ma strettosel tra le ugne e pelatolo, l'assolvea spesso poi per moneta; e il re godeane, riscuotendo la multa sul comune, come per non trovato delinquente[61]. Le prigioni di tal giustizia penale ognuno le immagini, e condanni d'esagerazione poi la rimostranza de' Siciliani che citammo di sopra! «Altri, essa dice, è inghiottito dall'abisso di perpetuo carcere; carcere non quale costruì la giustizia, o la severità stessa delle leggi, a custodia, non a gastigo de' malfattori. È vinta la umana immaginativa dagli orrori ch'io vidi. Giace a Napoli sotto il pendio d'immensa rupe una spelonca, fatta carcere da questi stranieri, tetra e negra oltre natura, flagellata sempre dal mare che la circonda, scrollata e minacciata dalle tempeste. Orrida è di torture, di supplizi: che mostrano a' prigioni qual termine s'apparecchi a lor guai: un acerbo dolore ti trafigge all'udirvi gemiti, stridi, sospiri, aneliti de' languenti in catene. Questo fu tanti anni il covile de' miseri abitanti del regno; il sollazzo de' tiranni. Lo costruì il furor della spada: or passiamo alla fame dell'oro,» dice lo scritto, e continua le {67} maledizioni[62], meritate dal governo in cui la trasgressione delle leggi s'ammendava con la crudeltà; l'avarizia del fisco, la corruzione de' magistrati, la rapacità de' lor famigliari moltiplicando senza limite que' disordini, rendean prima sorgente di mali l'amministrazione della giustizia, che del viver civile esser dee legame e comodo primo[63].

E la detta fin qui parrebbe mansuetudine e clemenza, al paragone de' procedimenti contro i delitti di maestà. Vinto Corradino, il dicemmo, orribilmente vendicavasi il re; ma al superbo animo non bastava. Comandò che per volger di tempo non si lasciasse giammai la caccia de' ribelli: presi, s'impiccassero tosto per la gola: alle forche con loro chi pietoso li ricettasse: chi veggendoli non facesse la spia, ad arbitrio del re sarebbe punito[64]. Generali intanto e parziali inquisizioni criminali, sitibonde, infaticabili, inaccesse a pietà, sovr'ambo i reami si stendono[65]; fanno a gara con le inquisizioni dell'azienda; alle persone miran dapprima, ai beni poi de' sospetti; registrano sottilmente tutte le entrate; rintracciano le decorse; ai mobili dan di piglio[66]. Tutto confisca il re: divide la preda co' suoi; e {68} loro assicura il mal dato con una prescrizione brevissima alle ragioni dei terzi su que' beni[67]. E i signori in questo mezzo, trucidati cadeano, o trafugavansi in esiglio; scacciate dalle avite case le lor famiglie, nobili già e opulente, accattavan per Dio, o, dolor più acerbo, invan supplici al re per alcuno scarso sussidio[68]; e il re il ricusava spesso; e spogliò d'ogni cosa una moglie che delle proprie sostanze l'esule sposo avea sovvenuto[69]. Questa rabbia infine confondendo ogni principio, portò Carlo a una legge: che i figliuoli de' rei di stato non potessero maritarsi senza espressa licenza del re, quasi razza d'animali feroci da non lasciarsi riprodurre senza pericolo[70]. Pari divieto, guidate dalla feudal ragione, stabiliron già le nostre leggi normanne per le eredi de' feudi; usollo Federigo severamente; e a suo costume abusaval re Carlo. Ma congiunti or quei due statuti, davano all'autorità pubblica l'assentir o vietare la più parte de' matrimoni. Qui perchè i feudi ricadano al fisco, re Carlo condanna a celibato perpetuo le eredi. Qui, trapassandosi da abuso ad abuso, le più ricche o leggiadre donzelle sono sforzate a nozze con gli odiosi stranieri, coi partigiani loro vilissimi, o se talvolta si concede il matrimonio con uomo italiano, si tolgono i beni[71]. Natura, società, {69} religione, i più santi legami violava quella insensata tirannide!

Nè d'un solo essa era; del principe era, de' baroni, de' seguaci, dei partigiani suoi tutti. Supplivansi i vizi a vicenda, chè non ne mancasse un solo a strazio de' popoli: onde se tra que' di Carlo non si noverava la libidine, l'ammendavano i suoi con usura; per un principe non licenzioso, dissoluti manigoldi a migliaia. Di seduzione, di violenza ogni mezzo è in lor mano. Le ospitalità forzate, l'esercizio e la riputazion del comando, e 'l vietar nozze o assentirle, e le perquisizioni, gl'imprigionamenti per casi di stato, per leve marittime, per debiti delle collette, per mille torte cagioni, e l'esser tra gli spolpati popoli sol essi ricchi, schiudon loro e case disoneste e case oneste; agli ingiuriosi amoreggiamenti dan via. Qui alle arti di seduzione la violenza è sviluppo; rapiscon qui senza maschera alcuna; insultan le donne al cospetto de' mariti; non riguardano a candor di donzella, a castità di vedova; minacciano, o feriscono i parenti, o col braccio dell'autorità pubblica li allontanano: ridonsi de' pianti; della virtù si fan gabbo; menano al paro le ingannate, le dubbiose, le riluttanti vittime; a quegli abbominevoli amori ritegno alcuno non è[72]. {70}

E il principe sì religioso e austero si fa sordo a' richiami; e fieramente ributta chi si lagni di villania, di rapina, di mortal ferita: dolenti vanno a lui i sudditi e dolentissimi sen tornano, quando in pena della temerità non li chiude il carcere, non li punisce il bastone, o non li calpestano i cavalli degli uomini d'arme, mentre essi si sforzano a giugnere sino ai piè del tiranno. Così la rimostranza già citata. Carlo sorride ai focosi suoi sgherri: giovanili trapassi que' loro, o giuste vendette; le querele e' richiami son calunnie di gente ribelle[73]. Invano Clemente parlò, scrisse, mandò legati a Carlo più volte[74], fin pregò re Ludovico che il moderasse: Gregorio X invano nel ripigliò in Toscana, e l'ira del cielo minacciogli, e 'l flagello d'inaspettato tiranno che piomberebbe su lui. «Che suoni tiranno, rispondea Carlo, io lo ignoro; ma so che il sommo Iddio mi ha guidato, e così ho fidanza che mi regga sempre.» E raddoppiò i balzelli su i Templari e gli Spedalieri; e si rise delle rimostranze che Marino arcivescovo di Capua fea tuonar poco appresso nel concilio di Lione; e dell'orrore desto tra quei prelati al suo dire; de' legati che il concilio deputava a correggerlo; e delle epistole del papa a re Filippo di Francia[75].

Un dì avrebbe forse il sicilian parlamento chiesto riparazione a tanti torti; e '1 voto solenne de' rappresentanti della nazione, avria fatto impallidire quel Carlo[76]; ma il {71} parlamento più non era, ch'ei non l'adunò in Sicilia mai, come sopra si è detto. E più: se i re normanni furon tutti coronati ed unti in Palermo; se qui soggiornarono, coi grandi uficiali della corona, con la maestà tutta del regno; e se gli Svevi non mutavan punto di quegli augusti ordini, ancorchè secondo i casi delle guerre lungi dalla metropoli vagassero; or Carlo presa la corona dell'usurpazione oltre il Garigliano, continuò bene a chiamar Palermo capo e sede del regno, a far protestazioni menzognere del grande amor che le portasse[77], ma insieme trapiantava primo la regia sede in Napoli, non per legge, di fatto; perchè a Francia, a Provenza, alla corte del papa, alla agognata Italia di sopra, più vicin fosse, nè chiuso dai mari. Perciò non solamente offendea la dignità e 'l dritto della Sicilia, ma anco i materiali interessi. Spegnea le industrie, fondate in sul lusso della corte e de' baroni; quanti per gli ordini antichi viveano d'un modo o d'un altro, dannava a squallida povertà; le ricchezze traea fuori senza scambio; il danaro delle tasse sperdea, da non lasciarne ricader nè una gocciola sola a refrigerio de' contribuenti. E con ciò la pestilenza de' reggitori subalterni; la disuguale amministrazione della giustizia; l'izza del governo, che odiato odiava, tra i sospetti ognor travagliandosi. Pertanto più acerbi assai della Sicilia i mali, che delle province di terraferma, ancorchè le stesse mani governasserle, straniere e crudeli. Ma in terraferma il novello acquisto della sede {72} del governo rattemperava que' danni; e quanto la Sicilia perdea, la Puglia acquistava. Fioria Napoli per lo soggiorno della corte, per l'affluenza di tante faccende: ristorò Carlo la sua università degli studi, la ornò di splendidi edifizi, di feste e di spettacoli la fe' lieta. Lagrime, e terrore nell'isola intanto. Manomessa la nazione, manomessi i privati; non magistrato che rendesse ragione; non principe che riparasse i torti; nè un domestico asilo rimanea dove l'abbominato accento straniero non penetrasse a ricordare più scolpitamente la servitù. Delle facoltà loro non eran padroni; vilipesi nelle persone; ingiuriati nelle donne; della vita in sospetto sempre e in periglio. A tanto la Sicilia venne per le violate leggi, e 'l dominio straniero! Tal era nel secolo decimoterzo una tirannide!

NOTE

[1] Non proverò con citazioni questi ordini notissimi del nostro dritto pubblico. Quanto a' doveri de' vassalli verso i feudatari, è bene ricordare ciò che scrive Ugone Falcando al proposito delle pretensioni d'alcuni novelli baroni francesi in tempo de' Guglielmi, cioè nel secol XII, e delle risposte de' vassalli siciliani. At illi libertatem civium oppidanorum Siciliæ prætendentes, nullos se reditus aiebant, nullas exactiones debere, sed aliquoties dominis suis, urgente qualibet necessitate, quantum vellent sponte et libera voluntate servire: e appresso: multorum civium et oppidanorum odia suscitarent, dicentes: id eum proponere ut universi populi Siciliæ reditus annuos et exactiones solvere cogerentur juxta Galliæ consuetudinem, quæ cives liberos non haberet. In Caruso, Bibl. sic. tom. I, pag. 475. Gli abusi feudali per altro furon seguiti in Francia dalla famosa rivoluzione comunale del secolo XII.

[2] Erano, come ognun sa: 1º. invasione o grave ribellione nel regno: 2º. prigionia del re: 3º. armamento a cavaliere di lui, o del figliuolo: 4º. nozze della figliuola, o sorella del re.

[3] Capitoli di re Corrado I, dati in Foggia di febbraio 1251.

[4] Non credo che in questo quadro generale si debba far parola delle leggi suntuarie della città di Messina, confermate da Carlo per diploma del 16 giugno 1272, sulla domanda che ne fe' il comune per ambasciadori apposta: Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 102; e Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2.

Tralascio ancora, come di niuna importanza, un frivolo privilegio di re Carlo I al comune di Palermo, al quale, per la sua dignità, e lealtà nelle recenti turbazioni di Corradino, lasciò la elezione dei maestri di piazza, catapani, e altri uficiali minori. Diploma dato di Napoli a 24 ottobre 1270, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2. Nello stesso volume si trova un altro diploma dei 28 settembre 1275 dato di Venosa, in cui re Carlo mezzo confermava e mezzo no un privilegio dell'imperator Federigo ai Palermitani, per le inquisizioni dei giustizieri nei delitti pubblici e privati.

Nè si farà menzione de' nomi dei vicari che ressero la Sicilia per Carlo, oscuri ministri di un pessimo principe, non segnalatisi nè anco per iniquità che passasse la volgare. Furono, se alcuno pur ama saperli, Fulcone di Puy-Richard, Guglielmo di Beaumont, Adamo Morhier, Erberto d'Orléans. Caruso, Storia di Sicilia, parte 1ª, tom. II.

Il Sismondi nella Istoria delle repubbliche italiane, tom. II, cap. 7, afferma, che sotto la dominazione di Carlo I, i baroni siciliani malcontenti furono spogliati e oppressi, ma nè tutti presi, nè tutti cacciati dall'isola; e che i Francesi facean soggiorno nelle città e su le costiere, ma osavan di raro addentrarsi nelle montagne interiori, ove i signori al par de' contadini serbavan tutta la loro indipendenza. A provar questi due fatti sì gravi non allega alcun documento; nè per vero ne potea; nè percorrendo le memorie del tempo sapremmo apporci quale abbia potuto dar luogo al Sismondi a credere limitata e contrastata la dominazione dei Francesi in Sicilia. Per lo contrario tutti gli avvenimenti, le leggi, gli atti di questo governo mostrano, che dal 1268 al 1281 senza la menoma eccezione o resistenza, levò per tutta la Sicilia quanti danari volle, fè concessioni feudali ai baroni francesi nei luoghi più riposti dell'isola, e per ogni luogo comandò, vessò, ingiuriò. Se dunque il Sismondi non parla de' baroni che malediceano e obbedivano, come tutti gli altri Siciliani, senza dubbio la inesatta narrazione del Villani intorno la congiura di Giovanni di Procida, e la ignoranza di molti particolari di Alaimo di Lentini, furon quelli che il portarono a conchiudere frettolosamente, che restassero nell'isola, dopo i tempi di Corradino, baroni in istato d'aperta ribellione. L'altro supposto, ch'è di molto più fallace, forse fu suggerito dalle parole di Saba Malaspina su gli abitatori «de' monti de' Lombardi» e la prontezza della colonia lombarda di Corleone a seguir il tumulto palermitano. Ma Saba Malaspina in quel luogo narra largamente gli aggravi sofferti da' Corleonesi al par d'ogni altro Siciliano, o peggio. E ciò mostra piuttosto quanto poco si godesse in quelle contrade la indipendenza che ci vede il Sismondi.

[5] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 2.

Per la chiesa di Cefalù Carlo ritenne i dritti del porto, a quella tolti dagli Svevi, come si legge in un diploma del 14 luglio 1266, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12, pubblicato dal Pirro, Sic. sacra, tom. II, pag. 806. Lo stesso ritraesi per Catania, da un diploma del 10 settembre 1266. Pirro, Sic. sacra, tom. I, pag. 535.

[6] Diplomi de' 24 marzo e 24 settembre 1267. Breve del 13 dicembre 1274. Nei Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. H. 4, fog. 83, 85, 91.

Il diploma in cui fu resa esecutiva e trascritta la sentenza del legato sopra la restituzione di vari beni alle chiese di Messina, Catania, ec. si trova nel r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1268, O fog. 19, a t. e fog. 6, che per mal accurata legatura del volume è la continuazione del detto foglio 19. La data del diploma è del 9 agosto undecima Ind. (1268).

[7] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 3.

Nic. Speciale, lib. 1. cap. 11.

[8] Diploma del …. 1282 ne' citati Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. H. 4, fog. 117.

[9] La rimostranza de' Siciliani, ch'io pubblico al doc. VII s'intrattiene lungamente su i torti fatti dal governo angioino agli ecclesiastici.

[10] Parecchi diplomi spargon luce su questo punto. Uno dato di Napoli a 20 febbraio tredicesima Ind. (1299), accetta che Elia di Gesualdo milite si fosse esposto a gravi pericoli per Carlo I nella guerra con Manfredi, e gli avesse fornito in prestito una grossa somma di danaro, senza la quale Carlo non avrebbe potuto compiere la impresa; ond'ei gli diè in merito la baronia di Gesualdo, confermata poi da Carlo II col presente diploma. Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, segnato 1299-1300, C. fog. 54, a t.

Si vegga ancora ciò che dicemmo a pag. 33 per lo imprestito di Arrigo di Castiglia, riferito dal d'Esclot.

[11] Saba Malaspina, lib. 6.

Capitoli del regno di Sicilia, cap. 23 di re Giacomo.

Epistole di Clemente IV a Carlo, in Raynald, Ann. ecc. 1267 §. 4 e 1268 §. 36.

Diploma del 14 luglio 1266, dall'archivio della chiesa di Cefalù, tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12.

Diploma di Carlo I dato il 13 giugno 1270, nel quale si comanda una inquisizione per le concessioni di Federigo dopo la sua deposizione, di Corrado, e di Manfredi. Dal r. archivio di Napoli, Papon, Hist. gen. de Provence, tom. III, Docum. 8.

[12] Gio. Villani, lib. 7, cap. 30.

Veggansi ancora i vari diplomi ricordati da monsignor Scotto nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 50 e 179, e que' che abbiamo tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2, tutti cavati da' registri del r. archivio di Napoli, e dati di Taormina 12 gennaio 1271, di Messina 23 gennaio 1271, di Monforte 23 settembre 1272. Moltissimi altri se ne trovano ne' registri del detto archivio di Napoli.

[13] Veggasi la nota in principio del presente capitolo sulla esorbitanza de' dritti feudali di Francia al paragon de' nostri in que' tempi; e Vivenzio, Storia del regno di Napoli, tom. II, pag. 12 e 13.

È da notare che que' medesimi atti dei quali si lagnano gl'istorici nostri e del continente d'Italia, come d'oppressioni insopportabili de' Francesi in Sicilia, riferisconsi dagli istorici del dritto pubblico francese, come leggi, dure sì ed ingiuste, ma ricevute universalmente in Francia ne' secoli di mezzo. E questa è un'altra prova del divario grandissimo tra la feudalità francese e la siciliana, di gran lunga men barbara, del secolo XIII.

[14] Capitoli del regno di Napoli, pag. 39 e 40, capitoli dati il 10 giugno 1282.

[15] Vo' notare, perchè mostri le condizioni di tutte le altre, una concessione fatta da Carlo I, a dì 8 luglio 1278 (o 1266), che leggiamo tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 4.

Il re dà in feudo nobile a Ponzio di Blancfort, milite e famigliare suo, il castel di san Pietro sopra Patti, che si tenesse in capite dalla corona, per lo servizio di due militi e mezzo, ragionati a 20 once d'oro annuali per ciascuno, secondo gli usi del regno di Sicilia. Eccettuansi dalla signoria coloro che tenessero direttamente dal re feudi o altro in que' luoghi; e le saline, gli armenti regi, i demani, le spiagge fino al gitto della balista: riserbasi ancora il re il dritto al giuramento ligio; i giudizi criminali di morte, taglione, o esilio; e la imposizione delle collette o monete generali.

[16] Capitoli del regno di Napoli, an. 1272, pag. 8. Questa differenza che Carlo mettea tra sudditi francesi e italiani, senza saviezza politica, e certo senza giustizia, si scorge sempre, anche in fatti di minore importanza. Così nel chiamare i baroni al servigio feudale, distinguea gli uni dagli altri; e abbiamo da vari diplomi che una volta ai Latini ingiunse di recarsi a quest'effetto a san Germano il 26 dicembre 1275, a' Francesi il 14 gennaio 1276. Da' registri del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1260 O fog. 68 a t. e 69.

[17] Carlo non solamente volle una feudalità di gente francese nel reame di Puglia, che mirò ancora a stabilirvi intere popolazioni. Così a ripopolar Lucera, dopo aver domato que' fieri Saraceni, invitò con promessa di proprietà e immunità larghissime gli abitanti della Provenza, raccomandando portasser seco loro le armi. Diploma del 20 ottobre 1273 dal r. archivio di Napoli, in Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, Doc. 12. Veggasi ancora quant'altro scrive il Papon nello stesso tom. III, pag. 58.

Questo fatto è provato inoltre da' privilegi di colonia provenzale, che Carlo II nel 1300 concedette ai Catalani dell'armata. Diplomi del 3 gennaio tredicesima Ind. nel reg. del r. archivio di Napoli, segnato 1299-1300, C fog. 50 a t.

[18] Presso il Caruso, Bibl. sic., tom. II, pag. 780.

[19] Saba Malaspina, continuazione presso di Gregorio, Bibl. arag. tom. II, pag. 332.

[20] Così furon chiamati ne' mezzi tempi, per corruzione della voce dominio, le terre appartenenti propriamente alla corona.

[21] Saba Malaspina, lib. 6.

[22] Raynald, Ann. ecc. 1267, §. 4. La prima è senza data; l'altra di Viterbo, il 6 febbraio 1267.

[23] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 1 di re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, pag. 26.

Bart. de Neocastro, cap. 12.

I diplomi del r. archivio di Napoli ci forniscono più minuti ragguagli, dei quali accennerò qui alcuno.

1º. Le collette o sovvenzioni eran bandite per varie cagioni, e spesso se ne richiedean molte in un medesimo anno; come sovvenzioni generali: per gli stipendi de' soldati mercenari: per l'armamento delle galee: pei legnami e marinai, diversa dalla precedente: per la festa d'armar cavaliere il figliuolo del re; e simili bisogni reali o immaginari. Notisi che in un reame in cui il servigio militare era a carico dei feudatari, si levava un'altra imposta per le truppe mercenarie.

2º. La somma era esorbitante. Per esempio, nel 1276 la sovvenzione generale per gli stanziali montò ad once 60,170. 11. 11.

Questa somma scompartissi per le province nel seguente modo:

Abbruzzo 6573 13 16 Terra di Lavoro e Contado di Molise 8080 » » Principato e terra Beneventana 5566 12 17 Capitanata 3300 24 1 Basilicata 4286 29 1 Terra di Bari 5446 21 » Terra d'Otranto 3547 14 8 Val di Crati e terra Giordana 5725 27 16 Calabria 2631 28 12 Sicilia di qua dal Salso (Sicilia orientale) 7600 » » Sicilia di là del Salso (Sicilia occidentale) 7500 » »

Totale 60,170 11 11

come si legge in un diploma del 13 febbraio quarta Ind. (1276) nel registro di Carlo II segnato A, 1201, fog. 90. Lo stesso dì fu bandita in alcune province di terraferma un'altra imposta per le galee, come si vede da un altro diploma del 20 febbraio quarta Ind. (1276), ibidem. Altre once 1,674 per soldi della gente delle galee di guardia intorno la Sicilia, si veggon pagate, la più parte dalla città di Palermo, in tre diplomi del 24 e 25 gennaio e 2 febbraio quinta Ind. (1277) reg. 1268 O fog. 47.

Abbiamo oltre a ciò le scritte del danaro che appare ricevuto dai due giustizieri di Sicilia nei mesi di maggio e giugno 1277 per sovvenzioni generali, nella somma di once 10,801, che certo non appartiene all'imposta de' soldati; e perciò il danaro pagato dalla Sicilia in quell'anno passò di molto le 30,000 once. Non è dubbio che quelle partite appartengano a un medesimo anno, cioè alla quinta Ind. 1276-77, perchè gli editti si mandavan fuori prima del cominciamento della indizione, e il danaro s'incassava nel corso della medesima. Queste scritte trovansi nel registro 1268 A fog. 40, 41, 42, 43. Da quella data il 29 maggio, fog. 41 a t., si scorge che la sovvenzione pei soldi della gente delle galee nel giustizierato di qua dal Salso era da 800 a 900 once all'anno.

3º. La proporzione della colletta tra il reame dell'isola e quel di terraferma, era come di uno a quattro; il che fa argomentare che a un di presso la popolazione stava nella stessa ragione, che è anche quella d'oggidì.

4º. I magistrati preposti a riscuoter le collette o sovvenzioni erano i giustizieri.

Su quali elementi l'amministrazione angioina prendesse a scompartir la somma tra le varie terre, s'ignora. Forse avea qualche abbozzo di censimento, non sappiam se di beni o di popolazione; ma è certo che dalla corte veniva la distribuzione; e ciò veggiamo per la distribuzione della moneta nuova nel diploma del 12 agosto 1279, che si pubblica Docum. III. La somma poi gravata sopra ogni terra, si contribuiva dagli abitanti su i ruoli che stendeano gli oficiali, chiamati giudici nelle terre demaniali, e maestri giurati nelle feudali, che erano eletti a questo scopo di comun voto degli abitanti. Tra molti altri documenti, il prova il diploma del 13 agosto 1278, pubblicato Docum. II, e l'altro del 12 settembre 1277, registro citato, 1268 O fog. 1, nel quale si legge…. precipias ex parte nostra universitatibus terrarum et locorum tam demanii quam ecclesiarum comitum et baronum jurisdictionis tue, sub pena unciarum auri decem per te a contumacibus exigendis, ut universitates terrarum demanii judices sufficientes, ydoneos et juris peritos si poterint inveniri in numero consueto, et universitates ecclesiarum comitum et baronum magistros juratos bonos, sufficientes, ydoneos et fideles, quilibet in dicta universitate….. unum in magistros juratos de comuni voto omnium eligant ….. Questa era una lettera circolare a tutti i giustizieri delle province di terraferma e al vicario in Sicilia ne' due giustizierati dell'isola. Onde si scorge ancora che la cancelleria di Carlo I, ora scrivea direttamente ai due giustizieri di Sicilia, come a quei di terraferma, ed or facealo per mezzo del vicario, sedente allora a Messina. Il diploma del 13 febbraio 1276, citato di sopra, accenna la medesima forma di distribuzione della tassa, per sindichi eletti dalle università, ossiano comuni.

Da un diploma che leggesi in Vivenzio, Storia del regno di Napoli, tom. II, pag. 351, si ricava, che in Principato la proporzione ordinaria della sovvenzione generale era di un agostale a focolare, ossia famiglia.

[24] Nic. Speciale, lib. 1 cap. 2.

Bart. de Neocastro, cap. 12 e 13.

[25] Diploma dato di Melfi a 16 settembre 1269, dove si confessa, che gli abitanti di alcuni casali di Calabria appartenenti al monastero del Salvadore di Messina: de necessitate coguntur proprium deserere incolatum, dum nullatenus possint tam gravia onera sustinere. Dal r. archivio di Napoli, si legge nei Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2.

[26] Capitoli del regno di Napoli, anno 1272, pag. 4.

[27] Lettera de' Siciliani al papa Martino IV, nello Anonymi chronicon siculum, cap. 40, presso di Gregorio, Bibl. arag. tom. II, pag. 154.

D'Esclot, cap. 88. Questi assicura che si levavano infino a quattro collette in un anno, ed aggiugne un'altra crudeltà, non rapportata dai nostri, e perciò men da credersi; cioè che marchiavano in fronte cui non pagasse le collette, e che i riscuotitori portavano due collari colle catene appesi all'arcion della sella, e vi attaccavano pel collo i debitori.

[28] Docum. VII.

[29] Capitoli del regno di Napoli, pag. 26.

[30] Saba Malaspina, cont. loc. cit., pag. 333.

Bart. de Neocastro, cap. 12.

Capitoli del regno di Sicilia, cap. 8 di re Giacomo.

Diploma del 27 gennaio 1281, nel citato catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 227.

Diploma del 29 novembre tredicesima Ind. (1269) nel r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 203 a t.

I nomi de' cittadini palermitani da' quali si tolse in presto il danaro di cui tratta questo diploma, sono: Failla, de Pulcaro, Riccio, Tagliavia, ed Afflitto.

Diploma del 15 marzo 1278 per compensarsi col danaro dato in prestito dal comune di Caltagirone, il debito ch'esso avea per la imposta de' legnami e marinai, nella somma di once 727. R. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog.143.

Da molti diplomi si vede che re Carlo richiedea tali imprestiti a tutti i magistrati preposti all'amministrazione delle entrate pubbliche, cioè i giustizieri, i segreti, i portulani, e i maestri di zecca. Diploma dato di Viterbo il 15 novembre quinta Ind. (1276), nel quale si comanda ai giustizieri di terraferma di dare in prestito al re once 500 per ciascuno, e a que' di Sicilia 1,000 once per ciascuno; nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 1. Altro simile, ibid., fog. 2, dato di Brindisi, il 16 aprile (forse 1277). Altro, ibid., fog. 3, dato di Venosa il 1 giugno quinta Ind. (1277), pel quale si domandarono ai giustizieri di Sicilia once 2,000 per ciascuno. Altro, ibid., fog. 22, a t., ai segreti, portulani, e maestri di zecca. In Sicilia ci avea un segreto solo, un sol portolano, e il Siclarius di Messina. Il pretesto dell'accatto era l'urgenza di pagare i soldati mercenari, e il censo alla corte di Roma. E in molti luoghi fu mandato, come era solito, a sollecitare il pagamento un Droetto da Genlis. Altri del 23 febbraio, 5 e 30 marzo (1276) per simili imprestiti. Richiedeansi ai giustizieri once 2,000 per ciascuno; nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1291, A, fog. 93, 94, a t. 95 e 102.

Diploma del 5 settembre, sesta Ind. (1277) a' giustizieri, che mandino incontanente danaro, tam de pecunia ipsa mutuanda per te, quam de recipienda mutuo a divitioribus et melioribus dicte jurisdictionis tue a quibus statim et brevi manu haberi possint, ita quod mutuum ipsum generale non sit nec in eo pauperes, etc. R. archivio di Napoli, reg. 1268 O, fog. 3.

Conto dei giustizieri di Sicilia, ibid., fog. 75, ove si parla d'altri imprestiti somiglianti.

Altri diplomi su imprestiti non restituiti da Carlo I, son citati dal Vivenzio, Storia di Napoli, tom. II, pag. 12.

[31] Memorie storiche ed economiche sopra la moneta bassa di Sicilia, di Antonino della Rovere, Palermo, 1814, cap. 3.

[32] Documento II.

Molti particolari per la monetazione d'oro in Napoli si trovano in un diploma del r. archivio di Napoli, reg. 1268, O, fog. 91.

[33] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 10 di re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282, pag. 25.

Saba Malaspina, cont. loc. cit., p. 332.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.

Bart. de Neocastro, cap. 12.

D'Esclot, cap. 88.

Diplomi del 18 e 25 maggio 1275, ai maestri della zecca di Messina, allegati dal sig. della Rovere nell'opera citata, cap. 4; ove si legge che nella nuova moneta di denari entravano 7 tarì e mezzo di argento in ogni libbra di lega; e sopra ciò si ragiona il guadagno dell'80 per 100, che risponde a' detti del Neocastro e del D'Esclot; il primo de' quali afferma che il valor edittale della nuova moneta montò a trenta volte sopra l'antico, non che sopra l'intrinseco; e il secondo attesta il rapidissimo calar di questa moneta dopo la distribuzione.

Moltissimi diplomi ci ha poi, su le sforzate distribuzioni della bassa moneta, nel r. archivio di Napoli; un de' quali dato il 13 agosto sesta Ind. (1278) si trova nel registro segnato 1268, A, fog. 127. Un altro del 5 settembre sesta Ind. (1277) per la distribuzione di libbre 8,830 di moneta nuova, alla solita ragione di 3 libbre ad oncia di valore, talchè se ne doveano ricavare, continua il diploma, once 2,943. 11. 10, reg. 1268, O, fog. 3; e parecchi altri veggonsi notati nell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli per monsig. Scotto, tom. I, Napoli, 1824.

Una di queste pergamene contien la distribuzione alle città e terre della Sicilia di là del Salso (regione occidentale); e questa, perchè mostra particolari importanti, l'ho io trascritto dall'originale, e la pubblico qui, Docum. III.

Che Carlo I d'Angiò avesse la monetazione come un capo di entrata pubblica, si ricava da molti altri diplomi del r. archivio di Napoli; un dei quali indirizzato al vicario in Sicilia Adamo Morhier per la zecca di Messina il 13 marzo 1278, si trova nel registro segnato 1268, A, fog. 142.

[34] Elenco citato delle pergamene, ec., tom. I, p. 181 e 184, diplomi del 4 e 31 agosto 1279.

[35] Bart. de Neocastro, cap. 12.

Capitoli del regno di Napoli, 26 gennaio e 20 febbraio 1274, pag. 1.

Alla tratta dei grani, e alle altre esazioni dei porti eran preposti i maestri portolani; e in Sicilia n'era di que' tempi un solo, come si scorge dai diplomi del r. archivio di Napoli, 10 giugno, quinta Ind. (1277), reg. 1268, A, fog. 22 a t.—10 e 15 aprile, sesta Ind. 1278, indirizzati a Giovanni di Lentini milite, e Matteo Rufulo di Ravella, portolani e procuratori in Sicilia (ma erano due individui che esercitavano, o per dir meglio avean preso in affitto, un solo uficio), ibid., fog. 96, 97.

De' dritti di tratta del grano si trova notizia in molti altri diplomi, e, per non citarne un eccessivo numero, veggasi quello del 15 marzo 1278, reg. 1268, A, fog. 142, e un altro del 26 novembre 1279, indirizzato al portolano di Eraclea in Sicilia. In questo si leggono tutte le estrazioni di grani da Eraclea, ossia Terranova, in quattordici mesi dal 10 luglio 1278 al 24 settembre 1279. Il dritto di estrazione era venticinque once ogni mille salme di frumento per fuori regno, e la metà pei luoghi del regno. Nel detto periodo si trassero da Terranova salme 11,709 di frumento e 3,690 d'orzo, delle quali 150 sole per Genova, 560 senza dichiarar luogo, e le une e le altre furono imbarcate con legni genovesi e oltramontani. Il rimanente con bastimenti siciliani o del regno di Napoli fu portato ad Amalfi, Gaeta, Napoli, e la più parte a Messina. I carichi per Napoli furono del frumento e orzo del re. Dal r. archivio di Napoli, reg. 1270, B, fog. 36 a t. Io ne ho depositato una copia nella Bibl. com. di Palermo.

[36] Veggasi di Gregorio, Considerazioni sulla storia di Sicilia, lib. 3, cap. 6 e 7.

Il segreto amministrava queste gabelle, ed era in Sicilia un solo, se non che talvolta più persone prendeano in fitto questo uficio, come il mostra un diploma del 29 ottobre ottava Ind. (1279) per alcune decime e prestazioni alla chiesa di Messina, nel cui margine leggesi Alaymo de Lentini et sociis secretis Sicilie, r. archivio di Napoli, reg. segnato 1270, B, fog. 9; e un altro diploma del 23 settembre dello stesso anno, ibid., fog. 8, per la elezione d'Arrigo de Riso e Arrigo Rosso da Messina a segreti di Calabria. Da un altro diploma del 27 marzo ottava Ind. (1270), ibid., fog. 3, si rileva, che le entrate della segrezia di Sicilia per la ottava Ind. montassero ad once 19, 310, 26, 10. Veg. anche diploma del 15 marzo 1278, ibid., reg. segnato 1268, A, fog. 142, indirizzato al segreto di Sicilia; e un altro al medesimo, ibid., reg. 1270, B, fog. 11, dato il 27 febbraio, ottava Ind. 1280, per dritti di riva e bucceria di Palermo.

[37] Diploma del 6 agosto 1281 nell'Elenco dalle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, p. 228.

[38] Ibidem. Ad ogni pagina si leggono diplomi riguardanti questi affitti.

[39] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 11 di re Giacomo.

Anon. chron. sic., cap. 40.

[40] Leggonsi moltissime di queste transazioni coi veri o supposti frodatori, nel registro del r. archivio di Napoli segnato 1283, A, fog. 96, 98, 103, 108 a t. 112, 113, a t. Si scorge ancora il mal uso dal diploma del 26 marzo 1284, ibid., fog. 125 a t., in cui fu mascherato sotto tal pretesto il riscatto di Arrigo Rosso da Messina, fatto prigione nel combattimento di Milazzo l'anno 1282.

[41] A proposito de' mali consiglieri di re Carlo, è da ricordare un diploma del principe di Salerno, dato di Nicotra il 22 giugno 1283. Dietro lo scoppio del vespro, la casa di Angiò volle gittar sui ministri tutto il carico del mal governo. Il principe dunque di Salerno, erede presuntivo della corona, denunziò a' popoli del regno di terraferma quattro Marra fratelli, e due Rufulo padre e figliuolo «inventori di tutti i modi di spogliare i popoli, pei quali la Sicilia s'era ribellata. Or io, conchiudea, li punisco.» Da' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1, pubblicato dal sac. Niccolò Buscemi nella vita di Giovanni di Procida, Docum. 5.

[42] Saba Malaspina, cont. pag. 331, 332.

Bart. de Neocastro, cap. 12.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.

Anon. chron. sic. loc. cit.

D'Esclot, cap. 88.

Al proposito della estrema cura di Carlo pe' suoi orti si legge un curioso diploma dell'8 febb. 1278 a Adamo Morhier vicario in Sicilia, cui il re raccomandava il palagio e il giardin di Palermo, e que' della Cuba, dell'Assisa, della Favara, e del Parco; nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 37 a t. Ivi a fog. 37 è un altro diploma del 5 febb. a un Giordano detto Marzono per la custodia de' palagi e giardini medesimi.

[43] Capitoli del regno di Napoli del 10 giugno 1282.

Il dritto di pascer gli armenti regi era certamente antico sui i feudi; ma Carlo l'abusò, come fece di ogni altra prerogativa della corona.

Saba Malaspina, cont. p. 357.

[44] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 28 e 64 di re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 11.

Bart. de Neocastro, cap. 12.

Saba Malaspina, cont. pag. 331.

[45] Bart. de Neocastro, cap. 12.

Capitoli del regno di Sicilia, cap. 44 di re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, pag. 26 e seg.

[46] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 13 di re Giacomo.

[47] Saba Malaspina, cont. pag. 333.

Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.

[48] Saba Malaspina, cont. pag. 334.

Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.

Epistola di Clemente IV, in Raynald, Ann. ecc. 1267, §. 4.

[49] Saba Malaspina, cont. pag. 334.

Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282.

[50] Saba Malaspina, cont. pag. 333.

D'Esclot, cap. 88.

Anon. chron. sic. cap. 40, loc. cit. pag. 155.

Capitoli del regno di Sicilia, cap. 19 e 20 di re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, pag. 20.

Veggasi ancora il diploma di re Carlo I, a 31 luglio 1276, per le materasse che gli officiali prendeano ai giudici del comune di Messina, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 105.

[51] Nic. Speciale, lib. 1 cap. 11.

[52] Anon. chron. sic. pag. 154.

Bart. de Neocastro, cap. 14.

Nic. Speciale, lib. 1 cap. 2.

Saba Malaspina, cont, pag. 333 e 353.

Rade volte, com'avvien pure, il re prendea a riparare qualche caso particolare. Un diploma del 24 febbraio, non si vede di qual anno, fa scritto al vicario in Sicilia, per le violenze fatte al canonico Stefano d'Ala, e la sua prigionia arbitraria. Nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, O fog. 88 a t.

Un altro diploma del 7 maggio quarta Ind. (1276) riguarda un simil caso di Deponto da Nicastro, cui un Raoul de Teretis milite, con una sua masnada, avea cattivato, portato alla Catona, e indi nel castel di Scilla.

[53] Si sa che sotto Federigo imperatore i baiuli erano insieme giudici civili di prima istanza, officiali dell'azienda regia, e magistrati municipali. Par che siano stati sostituiti, forse da Carlo, a questi baiuli i giudici nelle terre demaniali, e i maestri giurati nelle feudali o ecclesiastiche. Questi pel rescritto della conferma della loro elezione pagavano, oltre le mance ai notai, un dritto di tarì d'oro diciotto e mezzo al fisco. Veg. diploma del 13 agosto 1278, docum. II. e conto del giustiziere della Sicilia oltre il Salso, nel reg. del r. archivio di Napoli segnato 1268, O fog. 75, ove è messo a entrata questo dritto.

[54] Che questa non sia una supposizione mia lo attestano tutti gli storici di sopra citati, e gli statuti stessi che promulgò Carlo appresso il vespro. Ricordisi la legge sulla occupazione de' demani citata di sopra, ch'è la sola obbligatoria anche pei Francesi e Provenzali.

In un diploma del 16 aprile 1274, re Carlo commette al vicario di Sicilia, che gli abitanti di Eraclea non sian molestati nè spogliati dai vicini, che non sono nè Francesi nè Provenzali; che è una diretta confessione, o almen prova quali suonassero i richiami del pubblico. Tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1.

[55] Capitoli del regno di Napoli, pag. 4, 15 marzo 1272.

[56] Questa moneta valea la quarta parte di un'oncia.

[57] Capitoli del regno di Napoli, pag. 10, anno 1269.

[58] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 42 del re Giacomo.

[59] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 45 del re Giacomo.

Capitoli del regno di Napoli, pag. 21 e 22. Ved. anche un diploma nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, O fog. 75, nel quale si leggono i conti di un giustiziere della Sicilia oltre il Salso, e tra le altre partite d'entrata se ne trova una di multa per gli omicidi clandestini.

[60] Capitoli del regno di Sicilia, cap. 15 di re Giacomo.

Epistola di Clemente IV, in Raynald, Ann. ecc. 1267 §. 4.

[61] Saba Malaspina, cont. pag. 333.

[62] Docum. VII. Par fuori d'ogni dubbio che si parli d'una prigione nel Castel dell'Uovo, che per altro era il carcere de' rei di stato, ove si ritenea Beatrice figliuola di Manfredi, Arrigo Rosso messinese preso il 1282, nel combattimento di Milazzo, ecc.

[63] È confessato ne' capitoli di re Carlo del 10 giugno 1282.

[64] Capitoli del regno di Napoli, pag. 15, 15 dicembre 1268.

[65] Epistola di Clemente IV, del 1267, loc. cit.

Scorgesi ancora da tutti gli storici da noi citati, e cento diplomi il confermano; de' quali per brevità noterò due soli del 1269 e del 1270. Il primo, tratto da' reg. del r. archivio di Napoli, si legge tra' Mss. della Biblioteca com. di Palermo Q. q. G. 1 fog. 102; l'altro nell'elenco delle pergamene dell'archivio stesso di Napoli, tom. I, pag. 34.

[66] Diploma del 29 gennaio 1269, da' reg. del r. archivio di Napoli, tra i Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 1.

Diploma del 10 novembre 1270, nell'elenco citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 41.

Altro del 7 maggio 1271, ibid. pag. 58, e altri dieci del 1275, ibid. pag. 100 a 112. Nel conto del giustiziere della Sicilia oltre il Salso, reg. del r. archivio di Napoli segnato 1268, O fog. 75, si veggono messe a entrata le terze parti de' mobili de' contumaci.

[67] Capitoli del regno di Napoli, pag. 16, 26 gennaio 1278.

[68] Diploma del 3 febbraio 1270, tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. F. 70, pubblicato dal sac. Niccolò Buscemi nella vita di Giov. di Procida; e altri—del 20 febbraio 1271, nel catalogo citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 49—del 2 giugno 1271, ibid. pag. 63—del 1 novembre 1271, ibid. pag. 79.

[69] Ibid. diploma del 21 dicembre 1271, pag. 82.

[70] Capitoli del regno di Napoli, pag. 23, 22 novembre 1271.

[71] Epistola di Clemente IV, del 1267, loc. cit.

Nic. Speciale, lib. I, cap. 2 ed 11.

Capitoli del regno di Sicilia, cap. 22 di re Giacomo.

Rimostranza de' Siciliani, Docum. VII.

In un diploma del 14 luglio 1266, che cavato dagli archivi delle chiese di Cefalù abbiamo nella Bibl. com. di Palermo tra i Mss. Q. q. G. 12, si fa cenno di un censimento di tutte le contee, baronie, «e delle pulzelle in capillo che vivessero nelle terre scritte in pie'.» Mi è corso alla mente che quella lista di fanciulle si stendesse anche per vegliare su i loro matrimoni.

I permessi di matrimonio, anche senza beni feudali, sono frequentissimi ne' reg. angioini del r. archivio di Napoli. Molti se ne trovano, per lasciar gli altri, nel reg. seg. 1268, O fog. 23 e 24, dati da aprile a giugno 1274.

[72] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.

Bart. de Neocastro, cap. 22.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2. ed 11.

Anon. Chron. sic. loc. cit. pag. 154.

Lettera di Clemente IV, a re Carlo, in Raynald, Ann. ecc. 1268, §. 36. Francesco Pipino, in Muratori R. I. S., tom. VIII, lib. 3, cap. 10.

D'Esclot, cap. 88.

Rimostranza de' Siciliani, citata di sopra.

[73] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2.

Saba Malaspina, cont., pag. 332 e 353.

Rimostranza de' Siciliani, citata di sopra.

[74] Raynald, Ann. ecc. 1267. §. 4, e 1268, §§. 36, 37.

[75] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 3, 4 e seg.

[76] Scrivendo queste parole non si è dimenticato la imperfezione di quegli antichi parlamenti, i quali non eran sempre generali, nè aveano il potere legislativo sì netto come in oggi, nè rappresentavano la nazione in quel significato ch'or suona appo noi. Ma secondo gli umori dei tempi (e son più costanti i parlamenti d'oggi?) raffrenavano anch'essi gli abusi; come nel progresso di queste istorie si vedrà de' parlamenti di Santo Martino e di Foggia nel reame di Napoli, e di quelli adunati in Sicilia sotto Giacomo e Federigo d'Aragona.

[77] Nos autem qui civitatem eamdem speciali prerogativa diligimus et fovemus, eo quod Caput et Sedes Regni nostri exsistit, etc. leggesi in un diploma di Carlo I, dato di Napoli a 29 ottobre 1270 in favore del clero palermitano, presso Inveges, Ann. di Palermo, tom. III, pag. 741.

CAPITOLO V.

Relazioni straniere di Carlo I d'Angiò. Crociata e trattato di Tunisi. Carlo aspira all'impero greco. S'ingrandisce in Italia. È raffrenato da Gregorio X. Disegni di Niccolò III e nimistà di lui con Carlo. Pretensione di Pier d'Aragona al reame di Sicilia: supposte pratiche di lui per mezzo di Giovanni di Procida. Preparamenti di guerra in Aragona. Esaltazione di Martino IV. Armamenti di Carlo per l'Oriente. Sentimento nazionale manifestato in Italia contro i Francesi. Novelli aggravi che soffrono i Siciliani: richiami, umori, disposizioni loro. 1266-1282.

Dal governamento interiore or trapasseremo alle brighe di fuori, senza le quali non sarebbero tutte spiegate le cagioni del vespro; perchè l'infrenabile ambizione di re Carlo fu quella che gli suscitò contro i potenti offesi o minacciati, e insieme condusse a disperazione i sudditi, torturati per supplire a sforzi che di gran lunga passavano il poter loro. Ebbe Carlo dalla liberalità di san Luigi la contea d'Angiò; quelle di Provenza e di Forcalquier, dal matrimonio con Beatrice; i domini italiani, dal papa e dal proprio valore: e tal prosperità invasò tutto d'ambizione l'animo suo, nato a questo; foltissimo e costante anzi caparbio nel volere; audacissimo all'eseguire; non risguardante a giustizia nelle cose politiche, e manco nelle civili e private; non mitigato dal più fugace sentimento d'umanità; per temperanza religiosa, o abitudine e disposizione del corpo, non isvagato da amori; brusco nel tratto; spiacente e ingrato fino ne' cattivi versi che dettò; avaro, rapace, durissimo al rendere; non severo però nè scarso co' satelliti della sua ambizione. Crebbe da fanciullo nelle armi; seguì il fratello alla prima impresa d'Affrica; acquistò chiaro nome in guerra per valore, e anco per le qualità della persona da spirar nella moltitudine fidanza o terrore: un robusto, {74} grande, dal volto nasuto, olivastro, spirante fierezza, non composto mai a sorriso, sobrio, vigilante; e solea dir che i dormigliosi ne perdon tanto di vita. La quale austerità e attitudine alla guerra sembran le sue sole virtù: e più sarebbe stata la religione, se non l'avesse inteso a suo modo: riverire il sacerdozio quando non gli contrastasse ambizione; donare a monisteri; erger chiese; e credere che si serve a Dio con ciò solo, calpestando il vangelo nei sublimi precetti della carità. Per tali vizi e virtudi e fortuna era costui molto ridottato in cristianità, come potente, bellicoso, irresistibile [1]. Per le stesse cagioni, sospinto da sua natura e fatto cieco dalle prosperità, ei montò agevolmente, e inaspettatamente cadde. Non prima occupò il trono di Manfredi, che prese a guardar di là dal mare l'impero greco, di là dal Garigliano l'Italia superiore; lacerati, l'un da eresia, tirannide, e pretensione di due schiatte di principi, l'altra dalle parti politiche; e la {75} potenza di Roma vedea presta ad aiutarlo, là col pastorale, qua con la spada guelfa. Pertanto si die' Carlo, dall'anno sessantasei all'ottantadue, a novelle ambizioni, che senza tenerci strettamente all'ordine dei tempi, ma più al legame de' fatti, discorreremo a parte a parte.

E pria direm come da que' disegni re Lodovico il chiamò a sterile impresa. Ardente di pio zelo faceasi Lodovico a ritentar l'affricana terra, fatale a Francia; per tutta cristianità bandiva la crociata, sforzandosi a ricondurvi il secolo già inchinato ad altre brame, e il fratello che amava meglio a spiegar la croce contro i ricchi cristiani. Gli ambasciatori di Francia mandati a sollecitar Carlo alla crociata, richiedeanlo inoltre della restituzione del danaro sovvenutogli quand'egli era povero principe del sangue reale, e non reso or che il re di Francia si trovava in bisogni assai maggiori de' suoi [2]. Nè Carlo ebbe fronte di ricusar l'invito alla guerra; ma temporeggiò, consigliando sotto specie del ben della impresa l'util proprio: che si facesse il primo impeto sopra il reame di Tunisi, tributario a Sicilia infin da' tempi normanni, e allora ricalcitrante a quel peso. Infine ragunata in Sicilia l'armata, passò in Affrica re {76} Carlo, ad avvantaggiarsi ei solo nella perdita de' suoi. Trovò l'oste di Francia a campo a Tunisi, diradata da fame, pestilenza, ferro nimico: il fratel suo non trovò, il santo e forte Lodovico, il quale colto dalla contagione, rendè l'ultimo fiato, pur mentre Carlo sbarcava, il venticinque luglio milledugentosettanta. Delle cui brame non curossi Carlo, nè del sepolcro di Cristo; e come nell'altra crociata, appena ricattatosi di prigione, avea abbandonato il fratello per andare a molestar i novelli suoi sudditi di Provenza, così or patteggiò col re di Tunisi: sgombrasse l'esercito battezzato, con restar libero in quelle province il cristian culto; stipulò per sè stesso una grossa somma di danaro, e l'aumento del tributo[3]. Allor dissero vendetta celeste dell'abbandonata guerra, una tempesta che fracassò nel porto di Trapani l'armata ritrattasi d'Affrica, sì che l'acquistato danaro rimase preda delle onde[4]. Peggio ne andò in pezzi per cristianità tutta il nome di Carlo, per aver dato di piglio nelli avanzi di quel miserando naufragio; spogliato i guerrieri della croce, i fratelli suoi d'arme, sotto specie di uno statuto di Guglielmo il Malo, che appropriava al fisco le robe dei naufraghi[5]. Ma a Carlo eran ciance: vedea solo i tesori via alla possanza; la possanza via ai tesori.

Per isfrenata signoria di una corrotta corte e d'un clero {77} accanito in teologici assottigliamenti, l'imperio di Costantinopoli cadeva in quel tempo: senza buone armi; nemico per fiero scisma ai cristiani di ponente; da' barbari scemo di vastissimo paese. Un'oste crociata di Veneziani e di Francesi s'era già impadronita della capitale stessa; avea locato un conte di Fiandra sul solio di Costantino. Ma, a danno maggiore, non pure allignando quella nuova dominazione, i principi greci fuggenti ripigliavan animo a combatterla: Michele Paleologo infine, usurpato per misfatti il rinascente imperio di gente greca, rinnalzaval con animo e senno, occupando Costantinopoli nel milledugentosessantasette, e scacciando al tutto gli stranieri; ma la forza e dignità dello imperio non potè ristorare. Prendendo allor a peregrinare in ponente, Baldovino, il latino imperatore, dopo vano accattar aiuti dagli altri principi ortodossi, gittavasi infine in braccio a re Carlo[6]. Innanzi la passata a Tunisi, innanzi la guerra di Corradino, appena messo il pie' in Italia, macchinò Carlo l'occupazion dell'impero greco: chè ciò eran manifestamente i patti, che a corte e nelle stanze medesime di papa Clemente, ei fermò con Baldovino; vero accordo tra potente e mendico. Perchè riguardando, scrivea l'Angioino, alle calamità di Terrasanta, a' travagli della Chiesa, alla desolazione di Grecia, e commiserando l'abbietta fortuna dell'imperatore, promettea portare entro sei anni un esercito al racquisto dell'impero; ma da questo andavano scorporati a favor suo il principato di Acaia e Morea, e 'l reame di Tessalonica; e tornavagli dippiù la terza parte de' conquisti, e l'aspettativa del solio stesso di Costantinopoli, mancando il sangue de' Courtenay; oltrechè la bambina Beatrice di Carlo fidanzavasi a Filippo unico erede di {78} Baldovino[7]. Mirò pochi anni appresso al dominio utile del principato di Morea, di cui per tal trattato avea acquistato il diretto dominio; ond'avvenne che i Francesi quivi trapiantati, i quali molto s'eran allegrati della vittoria di Carlo sopra Manfredi, allor tutto sentirono il peso dell'amistà con un vicino forte e ambizioso, che non abborrì dall'arricchirsi delle spoglie della dinastia francese de' Ville-Hardoin. Perchè Guglielmo di questa gente, principe di Acaia e Morea, incalzato dal Paleologo, dandosi anch'egli in balía di Carlo, disposò a Filippo figliuol dell'Angioino, Isabella sua figlia ed erede: e venuto esso a morte, e anco Filippo, i sovrani di Napoli presero il titolo di quel combattuto principato; ritennero la Isabella come prigione in Napoli; e usurpavano il paese del tutto, tra protezione e alta signoria, se non era per la guerra di Sicilia[8]. Nel medesimo tempo si apriva la strada Carlo I {79} alla selvatica Albania con le solite arti: si facea da quei turbolenti chiamare al trono: e legavasi ad essi col vecchio ludibrio de' giuramenti; con sì bella scambievole fidanza, che a sicurare i suoi uficiali e guerrieri mandati in quelle regioni, richiedea statichi albanesi, e in Aversa li custodia strettamente[9]. Per tal modo approcciavasi alla sede dell'impero greco, circondavala, insidiavala d'ogni dove[10].

E in Italia, spento Corradino, e con lui l'ardir novello de' Ghibellini, l'usato gioco fe' montar parte guelfa: per la cui riputazione, e del papa, e della vittoria, s'aggrandiva re Carlo; ridendosi ormai de' limiti che la gelosia della romana corte aveagli assegnato nella investitura del reame. Ripigliò in Roma l'uficio di senatore: tornò a comandare in Toscana da vicario imperiale, e a perseguitare senza freno i Ghibellini[11]: saltò in Piacenza: in Piemonte molte cittadi occupò; molte in Lombardia, {80} talchè quivi poco mancò nol creassero principe. Genova dapprima insidiò con gli usciti; poscia assaltò scopertamente con le armi; e innanti che denunciasse la guerra, spogliò i Genovesi che ne' suoi reami mercatavan sicuri: onde se la forte repubblica il fiaccava nelle battaglie di mare, non gli mancò pasto all'avarizia. I suoi intanto, non era violenza o ingiuria che non osassero. Guidone da Monteforte, a Viterbo, nel tempio, tra i riti del sacrifizio di Cristo, levava l'empie mani a trucidare e trascinare Arrigo, principe reale inglese; e, sgridato più che punito, il sacrilego assassino campò. Altri ad altri misfatti si sciolsero, men ricordati dalle istorie perchè versavasi men illustre sangue[12]. Ma la rabbia delle parti accecava gli uomini a questi evidenti mali della signoria straniera; e in que' primi tempi della passata di re Cario, la fece {81} anzi richiedere in varie città. Ed egli alternando forza e frode, qui mettea piè da signore, là da protettore; spogliata una provincia, con quell'oro assoldava masnade che ne occupassero un'altra; ai pochi e forti, perchè gli fosser sostegni, prostituiva le sostanze e i dritti più santi dei cittadini: e s'avanzava a gran passi al dominio di tutta la penisola.

Tuttavia quella che l'avea suscitato cominciò a reprimerlo: la romana corte, che di sgherro già sentival padrone. Clemente non fe' che ammonirlo, perchè poco visse oltre la vittoria. Vacò il pontificato poi tre anni; ne' quali cresciuta la possanza di Carlo, i fratelli del sacro concistoro, non bastando a frenarla, ne colser odio e terrore. Indi esaltato Gregorio X nell'anno milledugentosettantuno, come vivuto fuori d'Italia e delle parti, ed entrato ne' nuovi sospetti della romana corte, nuovi consigli tentò. Aveano i predecessori fomentato le divisioni d'Italia, ed ei fe' ogni opera a risanarle; aveano difficultato la elezione dell'imperatore, ed ei la procacciò; sì che fu data quella corona a Ridolfo d'Hapsburgo, picciol signore, ma uomo di grandissimo animo, fondator della grandezza della casa d'Austria. Il Paleologo intanto a schivare i colpi dell'avara pietà di ponente, sforzava i suoi che assentissero la processione dello Spirito Santo dal Padre e sì dal Figliuolo, ch'era l'importanza dello scisma; e per maneggi e supplizi non persuase il clero greco, ma n'ebbe una sembianza di rassegnazione. Allor Gregorio potendo con onor del pontificato fermar la pace col Greco, onde si toglieva il pretesto all'ambizione di Carlo, correndo il settantaquattro ribenedì il Paleologo nel concilio di Lione, e nel grembo della Chiesa l'imperio orientale raccolse. Mal potremmo apporci or noi qual deliro miscuglio di pensieri fervesse nel tempo di questo concilio nella mente di Carlo; religioso a un tempo, e ardente di tutte {82} tirannesche voglie[13]. Gravi autorità portano[14] ch'un suo medico propinasse veleno a san Tommaso d'Aquino, morto nell'andata al concilio; perchè il re temea non si spiegasse a suo danno quel possentissimo ingegno, che il nimicava per odio di famiglia o abborrimento della pessima signoria, e nel suo libro del governo de' principi, quantunque partigiano della monarchia, avea sfolgorato con le più fiere invettive la tirannide d'un solo, e fattone uno specchio, nel quale Carlo potea guardarsi e riconoscere le sue sembianze[15]. Reo o no Carlo, quest'accusa almen prova di che fosse tenuto capace. Più certa la rabbia con che posava, sforzato da' decreti di Lione, le armi apprestate contro il Greco. Al tempo stesso vedeasi tagliati i passi {83} anco in Italia dalla riputazione di Ridolfo, per avviluppato che costui si trovasse nelle guerre tedesche. E fu tanto, che nel settantaquattro, riscotendosi primi gli Astigiani dall'insopportabile giogo, Carlo avea perduto il Piemonte e Piacenza; e negli altri dominî dell'Italia di sopra ormai vacillava. Il prudente pontefice l'abbassava, senza venir con esso a manifesta discordia[16].

Morto Gregorio nel corso di sì alto disegno l'anno milledugensettantasei, si rinfrancò l'Angioino; e pensando di qual momento gli fosse un papa a sua posta, ogni pessim'arte adoprò nelle elezioni de' tre pontefici, ch'entro un anno fur visti regnare e morire. Ripigliò i preparamenti allora della guerra col Paleologo: ravvivò le pratiche in Acaia, ove mandò innanzi picciole forze, dai Greci agevolmente oppresse[17]: infine il titolo di re di Gerusalemme a' tanti suoi aggiunse. Vano nome quest'era ormai, disputato da parecchi principi cristiani. Federigo II imperatore aveal preso in dote; passato era poi col dritto al reame di Sicilia ne' figli di Manfredi; e altri pretendeanvi, e tra essi una Maria d'Antiochia, principessa tapina e raminga; dalla quale Carlo il comprò per vitalizio di quattromila lire tornesi sul contado d'Angiò, parendogli scala a nuove grandezze, e nuovo pretesto all'impresa di Grecia, perchè teneasi che quell'impero, nido d'eresiarchi e sleali, tagliasse la via ai luoghi santi, e che indi il re di Gerusalemme onestamente potesse assaltarlo[18]. Per tal {84} modo ripigliava con maggior vigore tutte le antiche ambizioni; e circuiva a ciò ogni conclave con violenza ed inganno, quando l'anno settantasette, abbassata tra' cardinali la parte francese, valse più della malizia di lui l'italian consiglio, che condusse al pontificato Niccolò III[19].

Di grande animo, di smisurati pensieri fu Niccolò[20]; superbo, sagace, chiuso nei disegni, veemente all'oprare, non curante della giustizia ne' mezzi purchè il fine conseguisse, ch'era ingrandir la Chiesa per ingrandire gli Orsini; e a nobile effetto il menava: sgombrare l'Italia d'ogni dominazione straniera. In Italia disegnava fondar novelli reami, e darli ad uomini di sua schiatta: vedeva ostacoli a questo l'imperatore e il re; battea dunque Carlo con Ridolfo; Ridolfo con Carlo; ambo con l'autorità della Chiesa. Al Tedesco strappò la concessione della Romagna, tenuta infino allora feudo imperiale: tolse al Francese l'uficio di senator di Roma, il vicariato di Toscana; e con forte mano il trattenne dall'impresa di Grecia, ch'egli sempre più affrettava; fomentando da un canto gli scandali tra i Greci intolleranti del domma nuovo, mal insinuato con le prigioni, gli accecamenti, e i patiboli; e dall'altro canto {85} accagionando il Paleologo di questi turbamenti medesimi, e sleale chiamandolo, e falso nella ritrattazione dall'eresia. Contuttociò il pontefice gli negò sempre favore alla impresa[21]: ond'ei si volse a sfogar contro gli occupatori di Soria la rabbia e il natural talento di rapacità: mandovvi Ruggier Sanseverino conte di Marsico, con titol di vicario del reame di Gerusalemme, e genti e navi, che dalla presa di Acri in fuori, tornarono senza alcun frutto[22]. Tra Niccolò e Carlo privato sdegno rinvelenì l'odio di stato, quando chiesta dal papa per un suo nipote una donzella di casa d'Angiò, ricusavala Carlo. «Perch'ei s'abbia rosso il calzamento, rispose stracciando le lettere di Niccolò, suo principato non è retaggio; non può il suo mescolarsi col sangue de' reali di Francia.» Que' detti, riportati, furon punta di coltello al cuor del pontefice, che tenea la gente Orsina niente inferiore a casa d'Angiò, e sè molto di sopra: onde serbolli a rugumarne e alimentare lo sdegno; ancorchè durassero tra lui e 'l re le sembianze di pace[23], per mutua simulazione, e perchè quegli in ogni altra cosa usò riverente col pontefice, ondeggiando sempre tra ambizione e paura del Cielo. Ma non era uom per {86} l'Orsino, il quale sciolto d'ogni riguardo, maturava i colpi, e aspettava il destro a vibrarli[24]. Profonda intanto sembrava in tutta Europa la pace[25].

D'altra parte altri elementi sorgeano a conturbarla. Costanza figliuola di Manfredi, sposa di Pietro re d'Aragona, pretendea, com'erede ultima degli Svevi, la corona di Sicilia e Puglia[26]; e Pietro salito sul trono lo stesso {87} anno della esaltazione di Niccolò III, ancorchè in picciol reame più magistrato che principe, uom di mente e d'animo grandissimo era. Divisa la Spagna in quel tempo in parecchi stati: alcuno ne teneano i Mori; gli altri, riconquistati da' cristiani, con larghi ordini reggeansi, misti di monarchia, d'ottimati e di popolani, convenienti a liberi uomini, che per la nazionale indipendenza e la religione, mille pericoli avean durato insieme e duravano. Riconoscean lo stesso principe i reami di Aragona e Valenza, e la Catalogna o contea di Barcellona, ma la sovranità pressochè tutta dalle corti di ciascuno di quegli stati esercitavasi; composte di prelati, baroni, cavalieri, e rappresentanti di città; altere di lor franchezze; scienti della propria possanza. Somigliante agli efori di Sparta stava in Aragona a petto a petto col re l'inviolabile Justiza; il quale a nome dei baroni giuravagli il dì del coronamento: «Essi che valeano ciascun quanto il re, tutti insieme assai più di lui, ubbidirebbergli se lor franchezze mantenesse; e, se no, no[27].» Indi alti spiriti nei soggetti, miti costumi eran quivi nei re; sopra tutt'altri di que' tempi, facili alle udienze, dimestichi, senza riti di sussiego o sospetto, compagnevoli, e umani[28]. Con questi {88} ordini, con questi sudditi, poveri d'altronde e parteggianti, non potea Pietro divisare conquisti; e pur le qualità dell'uomo vinsero gli ostacoli della società in cui vivea. Inoltre per indole imperiosa e severa, avea concitato contro a sè durante il regno del padre i baron catalani, usi all'anarchia; avea mal purgato il suo nome dall'infamia del fratricidio di Ferrando Sanchez figliuol bastardo di re Giacomo, ch'egli assediò, e pressel fuggente, e il fe' annegare, scusandosi che Ferrando praticasse contro la sua vita con Carlo d'Angiò[29]. Ma insieme s'era segnalato l'infante Pietro per coraggio e gran vedere nelle guerre di Valenza e di Murcia[30]; avea saputo adoperar la divisione degli ottimati; e salito in grande rinomanza militare, e dotato di quella forza che rapisce e costringe gl'intelletti minori, poteva egli bene adunar a un'impresa di ventura quei suoi avvezzi a star sempre in sulle armi, or contro i Mori, or contro le altre genti spagnuole, or tra sè stessi, ed or piratescamente assaltando questa e quell'altra città del Mediterraneo. Picciol'oste sarebbe a fronte di re Carlo; ma audacissima, spedita, fatta a posta a guerre irregolari, e subite fazioni.

Le quali condizioni bilanciando in mente, taciturno, e come s'ad altro attendesse, ascoltava Piero le continue rampogne della sua donna. Perchè da lei non dileguandosi per volger d'anni il cordoglio dell'ucciso padre, dello occupato reame, del patibolo di Corradino; l'acceso femminil {89} pensiero incusava di viltà ogni differimento alla vendetta: e pregava Costanza, e sdegnavasi, e chiamava dappoco lo sposo, e ai figliuoli insegnava che careggiandolo, e abbracciandogli le ginocchia, ricordassero senza stancarsi l'invendicata morte dell'avolo[31]. Sorridea Pietro; e a disegni, non a querele, si ristringea con Ruggier Loria, Corrado Lancia, e Giovanni di Procida[32].

Di questi il primo, nato di gran legnaggio, nella terra di Scalea in Calabria[33], imparentato colla siciliana famiglia de' conti d'Amico, e signor di feudi in Sicilia e in Calabria[34], venuto era fanciullo seguendo la regina Costanza, con madonna Bella madre sua, nutrice della reina; e a corte d'Aragona si era educato nelle armi e nelle astuzie. Pietro molto amore gli pose; il fe' cavaliere con Corrado Lancia, giovanetto congiunto della reina; e una sorella di Corrado a Ruggiero sposò. I due cognati prestantissimi {90} si fecero in armi: e avvenne che Corrado, pria dell'altro che tanto dovea vantaggiarlo di gloria, ebbe nome, e segnalossi capitan di navi catalane, in fatti audacissimi sopra Saraceni[35]. Giovanni di Procida per altra via più combattuta venne in grazia al re d'Aragona. Nacque costui, o fu allevato in Salerno; ebbe alto stato appo l'imperator Federigo e Manfredi, e oltre il feudo di Procida molti beni allodiali in Salerno; fu medico assai riputato[36]; e tradusse dal greco in latino, o compilò in latino, le massime di filosofia morale degli antichi sapienti[37]. Narrano alcuni, {91} a ringrandir Giovanni e rendere più patetici i suoi casi, che volontario ivane in bando, trafitto di mortal rancore perchè uomini francesi per violenza contaminasser la moglie e la figliuola di lui, uccidessero il figlio che difendeale; e di tanto misfatto negassegli giustizia il re[38]. Ma non sì drammatico appar questo esilio dai documenti, che attestan Giovanni fatto ribelle innanzi il milledugentosettanta, probabilmente per la guerra di Corradino, e se gittan qualche barlume su i suoi domestici torti, dan {92} luogo a tal sospetto più tosto dopo l'esilio che innanzi[39]. Come noto nella corte di Manfredi, Giovanni cercò asilo appo la reina Costanza in Aragona; ov'ebbe da Pietro le signorie di Luxen, Benizzano, e Palma; cortigiano suo fidatissimo divenne, e consigliere[40]: ch'uomo fu di molta saviezza e dottrina, aguzzato anco la mente da un intenso odio, e dalle aspre sue vicende ammaestrato a maneggiare questi sì vari e sfuggevoli animi degli uomini. Quegli usciti, dall'amaro soggiorno in corte straniera non volgendo altro nell'animo che la patria loro e la vendetta contro quella rea mano che li cacciò, forte stigavano il re. Tritavan insieme con esso le condizioni delle cose; la mala contentezza de' popoli in Sicilia e Puglia; la tirannide stolta di Carlo; i disegni del papa; i timori del Paleologo: aver {93} questi oro e non armi; Aragona il contrario; Roma saette d'altra tempra: s'accozzerebber pure; battesse l'ali questo Carlo, gli aggiusterebbero il colpo. E spiavan, vegliavano; ad ogni nuovo eccesso di Carlo, spuntava nel cupo consiglio d'Aragona un sorriso[41]. Memorabil epoca in cui i quattro principi che tenean la più parte delle regioni europee bagnate dal Mediterraneo, furono ad un medesimo tempo di gran valore, e di grandi vizi, degni se non di lode, certo di fama. In Oriente il Paleologo, usurpatore, ma ristorator d'un impero, fraudolento più che forte, tremava di re Carlo. Questi agognando a tal vastità di dominio, distruggea col mal governo la propria base in Sicilia ed in Puglia. Di ponente il re d'Aragona più giovane, più sagace e meno potente, torvo e cheto pigliava lena per islanciarsi addosso al conquistatore. Inaccessibile a timore sulla cattedra di san Pietro, rigoglioso nella smisurata autorità, e non meno nel proprio ingegno, e nella non ben acquistata ricchezza, l'italiano pontefice guardava le passioni di quegli stranieri: e chi sa a quali speranze non ne saliva? Forse un viver più lungo di Niccolò III avrebbe spento in altra guisa la dominazione angioina, e mutato le sorti d'Italia. Ma volle il Cielo che re Carlo non fosse umiliato da' potenti, ma sì dalla plebe; e che la sua rovina si consumasse nel modo che men poteva uomo immaginare: per una rissa di volgo, in Palermo!

Pietro ordinavasi a sforzo di guerra, sì come è mestieri, dice Montaner, con amistà, danari, segreto. Fe' tregua di cinque anni col re di Granata[42]: con Castiglia lega; e meglio se n'assicurò prendendo due giovanetti principi più vicini alla corona che non era Sancio loro zio, chiaritone erede, onde il re d'Aragona potea così a ogni piè sospinto {94} sturbare il vicin reame[43]. Provossi da un altro canto a serbare l'antica benivolenza con Filippo di Francia, marito della sorella, statogli amicissimo in gioventù, e or molesto coll'occupazione di Montpellier[44]. Con lo stesso re Carlo o coprì i disegni e mostrò l'odio, come scrive il Montaner, che sarebbe stata anco arte sopraffina, o dissimulò gli uni e l'altro, come Carlo stesso poi rinfacciavagli, venendo a dimostrazioni d'amistà, e trattato di matrimonio tra un figliuol suo con una figlia dell'Angioino[45]. Con ciò messe in punto gli arsenali di Valenza, Tortosa, Barcellona[46]; e maneggiò sì accortamente i suoi baroni e borghesi, che richiestili di sussidi per tale impresa, dicea, da tornarne grande utile al reame, con insolita docilità porgean essi il danaro[47]. Queste disposizioni, e i preparamenti d'armi e di navi che ne seguitarono, attestan gl'istorici più degni di fede.

Taccion del rimanente le pratiche con l'imperator di Costantinopoli e coi baroni siciliani, da altri storici meno autorevoli composte come in azione drammatica. Giovanni di Procida, al dir di costoro, esule volontario per la supposta ingiuria atroce, n'è protagonista; rassomiglian ombre gli altri personaggi, che la istoria figura ben altrimenti: Pier d'Aragona, Michele Paleologo, Niccolò III, {95} Alaimo da Lentini, e più altri nobili uomini di Sicilia. Non pensan, non osan essi senza Procida: al sol vederlo ogni fiata rompono in lagrime come fanciulli; ei solo, sospinto da amor di patria e desio di vendetta, va, torna, muta sembianti, ignoto ha credenza da' grandi; ei solo disegna, comincia, e fornisce l'impresa. Ignorando che Giovanni fosse esule dal sessantotto o sessantanove, come il mostrano i diplomi, e fatto uom di re Pietro, favoleggian costoro che venutogli in mente il disegno di tor la Sicilia a re Carlo, da sè solo cominciava a trattarlo con principi di fuori, e congiurati in casa. A Costantinopoli si portò l'anno settantanove, com'uscito che cercasse in quella corte asilo e stipendio; spacciandosi medico, ed uom di stato, delle cose di Sicilia espertissimo. Trovò sì piana la via appo il greco imperadore, che quegli in segreto luogo sopra una torre venne ad abboccamento con esso: e quivi Procida il tentò con favellar degli armamenti di Carlo a' danni suoi; a lui perduto d'animo e piangente fe' balenare innanzi agli occhi una speranza. Onde Michele, che l'imperio vedea sossopra, e Carlo sì intento e minaccioso a mala pena trattenuto da papa Niccolò, avidamente abbracciava il partito di turbargli i reami; e profferia centomila once d'oro: fermata l'impresa, le porgerebbe. Si infinse allor Procida scacciato dalla bizantina corte. Vestiti i panni di frate minore, furtivo in Sicilia entrò, che per esser più oppressa, o più disposta per le città più grosse, l'indole degli uomini, e la difesa dei mari, più opportuna gli parve al gran colpo. Appena Procida a' noti suoi del sicilian baronaggio disse di congiura, deliberati vi si tuffarono. Con lui vengono a parlamento Gualtier da Caltagirone, Alaimo da Lentini, Palmiere Abbate, ed altri valenti baroni: Procida accenna la via d'uscire dall'insoffribil servaggio: rivela gli aiuti dell'imperatore greco; i disegni sullo aragonese: ordina con loro che annodate tutte {96} le fila, sollevin la Sicilia a ribellione: e richiedeli di lettere credenziali, che della congiura re Pietro certificassero. Avutele, sotto i panni stessi di frate, passa a corte di Roma.

Correa già l'anno milledugentottanta, e papa Niccolò a castel Soriano soggiornava, quando un fraticello gli fe' chiedere occulta udienza; e raccolto, incominciò ad avvolgersi in misteriosi parlari, toccando la eccessiva potenza di Carlo, le ingiurie private al pontefice, le condizioni d'Italia. Procida nominossi alfine: all'attonito pontefice aperse quant'erasi ordito. Aggiungono, e par fola manifesta, ch'ei con l'oro bizantino comperasse l'assentimento del papa; il quale sì altamente ambiva, nè facea di mestieri corromperlo, perchè si volgesse a' danni di Carlo[48]. Dicono, e la credo dello stesso conio, ch'entrato nella congiura, Niccolò per segretissime lettere confortasse l'Aragonese; e del siciliano reame investisselo. Ma guadagnato il papa, sopraccorrea Giovanni in Catalogna; trovava re Pietro lontano, così continuano quegli storici, da ogni speranza dell'impresa; ed egli ne presentava il pensiero, esponea le trame ordinate, mostrava i trattati e le lettere. Così svolse a' suoi intenti il re d'Aragona. A ragguagliarne gli altri congiurati, ripiglia il viaggio: sbarca a Pisa; rivede il pontefice a Viterbo; i siciliani baroni a Trapani; quinci una galea veneziana sconosciuto il reca a Negroponte; di lì a Costantinopoli. E vien ultimato col Paleologo il trattato della guerra contro Carlo: a dar guarentigia più salda, un altro se n'appicca di parentado tra le {97} corti di Grecia e d'Aragona; il quale non si nasconde, ma serve di colore al Paleologo per mandar legato un suo cavaliere, messer Accardo di Lombardia; cui son affidate trentamila once d'oro delle promesse, che a Pietro le rechi. Accardo e Procida insieme entrarono in nave.

In questo la morte di papa Niccolò fu per distrugger tutto l'ordito. Per viaggio seppela Giovanni da una nave pisana, e a messer Accardo la occultò. Approdarono a Malta, come s'era ordinato prima co' baroni siciliani: in segreto luogo i cospiratori adunaronsi. Ed eran muti, ansiosi, parlavan sommesso della perdita del congiurato pontefice; e chi temporeggiar volea, chi lasciar ogni pensiero della ribellione, quando Procida surse a rampognarli, a confortarli: fosse amico o avverso il papa novello, ormai non mancherebbero le forze: Accardo, e loro il mostrava, non venirne ozioso spettatore: qui il sussidio bizantino; pronti in Aragona guerrieri e naviglio; e che temeano? perchè con animi sì femminili entrare in congiure? Ma a loro, già intinti sì profondamente, non gioverebbe lo starsi; risaprebbesi la trama, e morrebber da cani. Con tai rimbrotti li rapì seco all'estrema conclusione. Fu in Aragona da poi; rappresentò a Pietro l'ambasciatore di Grecia, e l'oro; vinse i rinascenti timori del re. Gli armamenti affrettaronsi allora; il dì fermossi e il modo che la Sicilia sorgerebbe a vendetta[49].

Tale il racconto della congiura, che dicon si conducesse per due o tre anni. I particolari nè niego, nè affermo io, perchè non ne ho fondamenti; ma non mi sembran verosimili {98} al tutto. Che tra Pietro e 'l Paleologo si maneggiasse un trattato per togliere a Carlo il reame di Sicilia, il tengo io certo, per quel che disse e fece poi contro ambidue papa Martino; e perchè Tolomeo da Lucca afferma aver veduto l'accordo; essere stato trattato da Giovanni di Procida e Benedetto Zaccaria da Genova, con altri Genovesi dimoranti in terra del Paleologo; e aver questi fornito danari allo Aragonese[50]. Le trame con alcuni baroni di Sicilia, non rafforzate di valida autorità istorica, il replico, probabili mi sembrano, ma non certe. Falso è che la pratica, si strettamente condotta, fosse a punto riuscita a produrre lo scoppio del vespro; perchè questi compilatori della congiura ci pongon fole da romanzo, e imbattonsi in cento errori manifesti; perchè i successi discordan dalla supposta cagione; perchè gli scrittori più autorevoli il tacciono, come nel capitol seguente diremo, e più largamente nell'appendice. Vagliate tutte le memorie de' tempi tornano a questo: che Piero agognava alla corona di Sicilia: che s'armava: che praticò per aiuti di danaro con l'imperator di Costantinopoli, minacciato da re Carlo; che Procida fu tra i suoi messaggi: che si tramò forse con alcun barone siciliano: ma che maturavano e preparavano tuttavia, quando il popolo in Sicilia proruppe. In questo intendimento al fil della istoria io torno; il quale non si smarrisce per la dubbiezza di quelle pratiche tenebrose, che nella rivoluzione punto o poco operarono[51]. {99}

Riseppersi innanzi la morte di papa Niccolò gli appresti del re d'Aragona. Era nei porti suoi e di Majorca una fervid'opra a costruire, a spalmar galee e navi da trasporto; fabbricar armi; adunar vittuaglie: scriveansi i marinai; si prometteano stipendi per un anno a chi militar volesse a cavallo o a pie': talchè per quanto Piero si studiasse a far chetamente, il romore s'udiva da lungi. Onde i Mori di Spagna e d'Affrica, avvezzi a questi aragonesi assalti, affortificavansi alla meglio; nè stavan senza sospetto i cristiani principi: tra i quali Carlo assai per tempo avvisò aversi a guardare sì in questi domini italiani, e sì in Provenza; oppressa al paro, vicina alla Spagna, e dai Catalani osteggiata altre volte[52]. Apparecchiava Carlo in questa stagione la detta impresa di Soria; ma non lasciò di munirsi in casa con forze navali, che guardasser le costiere; e in Sicilia aumentò oltre il doppio le provvedigioni delle regie fortezze[53]. Intanto bramoso d'investigar l'animo dell'Aragonese, {100} a Filippo di Francia ei scrisse: e questi per legati e lettere amichevolmente domandò a Pietro la cagion di tanto {101} armamento; se contro infedeli, proffersegli aiuti d'uomini e danari. S'avvolse allora in ambagi lo Spagnuolo: non accennare al re di Francia per certo, nè a suoi collegati: a chi, vedrebbesi ai fatti: ma prima, nol saprebbe persona al mondo: ch'ei s'armava senz'aiuti di niuno, onde a niuno dovea spiacere il silenzio. Somiglianti risposte ebber da lui il re di Majorca fratel suo, quel di Castiglia, quel d'Inghilterra[54]. Invano il ritentò più vivo Filippo, con mandargli anco moneta nel supposto dell'impresa contro i Mori[55]. Onde il re di Sicilia incerto pur dello scopo, inviò in Provenza Carlo figliuol suo principe di Salerno, in voce ad adunare armati per l'impresa d'Oriente, in realtà per vegliar da vicino, e guardare il paese[56].

In questo momento la fortuna arrise a Carlo l'ultima volta. Tra que' sospetti ch'egli avea di Pietro, ira contro il Paleologo, dispetto della nimistà del papa, vide trapassare il papa d'agosto milledugentottanta: e respirando, e non istando un attimo a pensarsela, se alla morte di Gregorio avea tant'osato a governare il conclave, or gittavasi ai più rotti partiti. Sommosse il popol di Viterbo, sì che traea fuor dal conclave tre cardinali di casa Orsina. Serrò il rimanente; tolse loro ogni cibo fuorchè pane e acqua[57]; e {102} forse di furto, come in una elezione antecedente, recar fece altre vivande ai cardinali francesi perchè stessero più forti a negare il voto a quei di parte italiana[58]. Per queste arti, di febbraio milledugentottantuno, Martino IV di nazione francese fu papa, o ministro di Carlo. Congiunta dunque nel re la sua possanza, e la smisurata del roman pastore, a grandi eventi si dava principio. Divampò d'un subito in Italia la guelfa rabbia. Affidò il papa a Francesi i governi tutti di Romagna; rifece Carlo senator di Roma; con una crudele persecuzione de' Ghibellini servì a sue ambizioni[59]. Duro viso mostrava intanto a re Pietro. Come gli oratori di lui veniano a complire per la esaltazione del papa, e sollecitavan la canonizzazione di frate Ramondo da Pegnaforte, santo uomo spagnuolo, gittando anco qualche parola su i dritti della Costanza al sicilian reame, brusco replicava Martino: non isperasse il re d'Aragona mai grazia alcuna dalla santa sede, se non pria soddisfattole il censo; il quale la romana corte pretendea, interpretando per ligio omaggio la pia peregrinazione d'un di quegli antichi principi a Roma[60]. Di lì a poco, tentando nuov'arte, parve più dolce Martino. Mandò a Piero un frate Jacopo dei predicatori, a richieder, tra autorevole e benigno, contezza di quel sì occulto disegno; inibire ogni atto ostile contro principi cristiani; contro infedeli profferire benedizioni e sussidi. Ma chiuso, e pur non mendace, ringraziavalo Piero: pregasse il Cielo per l'esito della guerra; lo scopo nol domandasse. «Tanto ho caro, conchiudea, questo segreto, che se la mia manca il sapesse, con la dritta la mozzerei.» All'ostinato silenzio crebber nella {103} parte francese i sospetti. Ma poco vi stette sopra re Carlo, che teneasi ormai secondo a Dio solo; onde sfogò con superbe parole: saper bene falso e sleale questo Pietro; ma nascondesse il segreto a sua posta, ei, Carlo d'Angiò, non curare sì picciol reame, nè principe sì mendico[61].

E parendogli già sua la Grecia sospirata per dieci anni, smisurate forze apparecchiava: bandìa la guerra; e la croce prendea, la croce del ladrone, sclama Bartolomeo de Neocastro, non quella di Cristo[62]. L'afforzò il papa di scomuniche, e di danari; le prime contro il Paleologo e i Greci indurati nello scisma; i danari presi dalle decime ecclesiastiche, pretestandosi rivolte al racquisto di terrasanta le pie armi del re[63]. Si collegaron con esso i Veneziani, per brama di popol mercatante a tornar signore in quelle regioni sì commode a' commerci: e forniano una flotta; e patteggiavano partizione de' conquisti[64]. La Sicilia e la Puglia intanto s'empian di guerrieri: suonavano di preparamenti di guerra. Immensi materiali raccolgonsi nell'arsenal di Messina, e in altri porti dell'isola e di terraferma: {104} sudano i valenti artigiani di Messina e Palermo a fabbricar arme ed arnesi: scemansi a fornir la cavalleria gli armenti di val di Mazzara; munizioni d'ogni sorta s'apprestano in ogni luogo[65]. Cento galee di corso, dugento uscieri, che navi eran da trasporto, e teride, e altri legni assai metteansi in punto. Capitanati da quaranta conti, ben diecimila cavalli e un'oste innumerevole di fanti s'istruivano al gran passaggio[66]. Debolmente potrebbe resistere il Paleologo; sarebbe occupata Costantinopoli, la Morea, tutto l'impero; darrebbesi corpo ai titoli regî d'Albania, di Gerusalemme. Non delirava Carlo, se pensava a questo; e immaginava l'Italia spartita tra lui e il papa; e vedea brillare nelle sue mani la spada di Belisario e lo scettro di Giustiniano.

Ma l'Italia ch'era base a que' vasti disegni, già mancava a Carlo d'Angiò. Dico di tutta l'Italia dal Lilibeo alle Alpi, perchè in tutta veggo sparse uguali opinioni. L'amor patrio di municipio, che tanto giovò, e tanto nocque alla Italia, per sua natura sdegnava le dominazioni straniere; e tendeva a scacciarle, quando le avea messo su l'interesse d'una fazione. I Guelfi stessi e i Ghibellini, mentre nimicavano la nazione contraria a lor nome, non troppo si fidavano dell'amica: e similmente la corte di Roma chiamava gli oltramontani per signoreggiar l'Italia col mezzo loro, e non altro. Così tra il tumulto di tante passioni di municipio, di parte, e del pontificato stesso, parlava agli animi la segreta voce del sentimento nazionale latino. La schiatta, il clima, le usanze, la postura de' luoghi, le leggi di Roma, le lettere latine, le splendide tradizioni istoriche, tutto destava questo pensiero; che non può sconoscersi {105} nell'Italia del medio evo: ed era argomento ad alte speranze; perchè gl'Italiani si sentian cuore quanto gli altri popoli, e civiltà assai maggiore. I più vasti intelletti pertanto pensavano, che unite le forze dell'Italia, si sarebbe non solo racquistata l'indipendenza, ma fors'anco la gloria di Roma antica; e faceansi a sciorre il problema in vari modi. Niccolò III divisava quattro reami italiani; Dante, poco appresso, sospirava la ristorazione dell'impero romano sotto i re di sangue germanico; Niccolò di Rienzo, non guari dopo, intraprese la rigenerazione della repubblica in Campidoglio, e il Petrarca con maschio canto esaltava l'impresa. Nè mancò nell'universale il desiderio di quei grandi intelletti; che anzi s'era assai propagato a' tempi della lega lombarda sotto il colore guelfo contro la schiatta tedesca; e tutto si volse contro la francese, quando Carlo d'Angiò la fece stanziare in Sicilia e Puglia, e in molte altre parti d'Italia, e diè luogo al contrasto de' costumi, all'invidia dei privilegi, alla insolenza degli uni, alla intolleranza degli altri, alla superbia delle due genti venute a contatto. Cooperaronvi la resistenza misurata di Gregorio X, la passione di Niccolò III, e per contraria ragione l'ambizione di Carlo, la connivenza di papa Martino. S'accostava questo novello sentimento agli umori di parte ghibellina, tendea temporaneamente allo stesso scopo, ma in sè stesso era molto più grande, più nobile, più puro. Esso rapì Dante a parte guelfa; esso trovò un nome diverso dal ghibellino, come diversa era l'indole. Le due genti con antichi vocaboli si chiamavano i Latini e i Gallici; ed evocavano tutte le nimistà de' tempi di Brenno, anche quando avveniva che si combattesse sotto una medesima bandiera guelfa, nelle relazioni politiche di tanti piccioli stati.

Spicca negli scritti siciliani, si vede manifestamente ne' fatti di quel tempo, il sentimento nazionale latino. Esso {106} fu che nel primo assedio di Messina, nella tempesta dello assalto universale che dava l'esercito angioino, misto d'oltramontani e di abitatori del reame di Napoli e d'altre province italiane, consigliò ai Messinesi di risparmiar nei tiri le schiere italiane, che certo combatteano con uguale riguardo. Veggiamo indi Pier d'Aragona cogliere l'util politico della carità latina, e liberare i prigioni di questa nazione. Veggiamo i popoli in Calabria e in Puglia sforzarsi per tanti anni a seguire la rivoluzione siciliana. Nè ricorderò le parole degli altri scrittori, che sono noti, e si allegheran sovente in appresso; ma, quelle della rimostranza de' Siciliani contro la prima bolla di papa Martino che li ammonì a tornare sotto il giogo, sono sì opportune e significative, che meritano special menzione. Perchè l'orgoglio del lignaggio italiano anima e infoca tutta questa epistola, che s'indirizzava al collegio de' cardinali quasi fosse il senato di Roma. Gl'improvera il favore dato ai Francesi contro gl'Italiani; mette a riscontro distesamente i costumi delle due nazioni; incolpa gli stranieri del loro clima, della barbarie delle nazioni vicine; e di libidine, d'avarizia, d'ebbrezza, di crapula, d'ogni torto che aveano, d'ogni torto che non aveano. Si compiace al contrario a ricordare la doppia nobiltà del lignaggio d'Italia, che allude all'etrusco e al troiano, o al romano e al greco; a notar la prudenza, il contegno, la prontezza degli intelletti, la serenità de' volti, e con aperto errore anche la tolleranza degli animi italiani; chiama in aiuto Lucrezia, Virginio, Scipione; motteggiando i Francesi perchè prendessero a imitare più tosto le ispide genti del settentrione, che la civile moderazione e libertà degl'Italiani; e mostrando che la sorte dà i regni, ma la virtù li mantiene, e che più si guadagna con la saviezza che con la forza. Questo scritto batte con una stessa sferza i governi angioini di Sicilia, di Napoli, di Romagna; allude al vespro col {107} vanto che gli stranieri non avesser dato il guasto impunemente alle campagne d'Italia: sclama al papa con veemenza: «Sdegna, o padre, l'Italia, sdegna le dominazioni straniere!» L'autore imbrattò questo nobil pensiero con l'arroganza tutta e la ferocia de' Quiriti; com'ei mescolò alla giusta difesa della rivoluzione, l'apologia di orrori che dovea condannare; ma non men fortemente ciò prova che il sentimento latino era sparso in Italia[67].

E che l'antagonismo di nazione fosse reciproco, e che fosse sentito in tutta l'Italia, si vede, tra cento altri fatti, dalle parole di Guglielmo l'Estendard, vicario di re Carlo in Roma; il quale, poco innanzi l'ottantadue, ascoltando un nobile romano che si lagnava della misera condizione della patria, non ebbe rossore a risponder preciso, squarciando il velo della tirannide: non credesse al fine che spiaceva al re veder consunto e dissipato quel popolo turbolento; Roma fatta una bicocca[68]. In quel medesimo tempo una rissa accesa in Orvieto tra Latini e Francesi, divenne tumulto; e vi si gridò morte ai Francesi; e Ranieri capitano della città, portato dagli umori di nazione più che da que' dell'uficio, negossi con un pretesto dal racchetarla[69]. Non andò guari che in Forlì cadeano da due mila Francesi, o per una frode di guerra, o per una meditata vendetta, che non si sa bene, ma in ogni modo è manifesto l'odio più che di giusta guerra che portò questa strage; e le favole stesse che l'attribuirono a Guido Bonati astrologo e filosofo, mostrano in che bollore fosse l'opinione pubblica[70]. S'era insinuato l'odio di nazione già da gran tempo ne' penetrali della corte di Roma, tra il contegno e la senile prudenza de' fratelli del sacro collegio; {108} che si divisero non in Guelfi e Ghibellini, ma in Latini e Francesi; e lottavano nelle elezioni de' pontefici; ed erano a tale innanti l'esaltazione di Martino, che senza la scoperta forza di Carlo, qualche altro fier latino succedeva a Niccolò III. Nel pontificato di Niccolò, la romana corte s'era data già a lacerare apertamente il nome francese. Tra gli altri un Bertrando, arcivescovo di Cosenza, uom di lettere, pratico del mondo e dabbene, nel biasimar severamente i soprusi della gente di Carlo, si fece una volta a profetarle sterminio. «Chi avrà vita, disse Bertrando, chi avrà vita vedrà masnadieri abietti sorger contro questi superbi, e scacciarli dal regno, e abbatter loro dominazione: e tempo verrà che si creda offrir olocausto a Dio al trucidare un Francese[71].» Così la politica romana o presagiva o affrettava il passaggio da' pensieri alla vendetta e alle armi! I pensieri eran comuni a tutta l'Italia: particolari cagioni ne fecero scoppiare in Sicilia la rivoluzione del vespro.

Con gli appresti alla guerra di Grecia, crebbero le estorsioni, crebbero gli aggravî; e quindi a dismisura la mala contentezza de' popoli. Sono sforzati i baroni a fornir non solo le milizie feudali, ma anco le navi; se alcun tarda, gli si occupano i beni[72]; nobili e vassalli, obbligati e non {109} obbligati al militare servigio, strascinansi all'esercito. Cominciarono indi in Sicilia a prorompere disperate voci; lagnandosi il popolo, che dovesse portar guerra alla Grecia amica, in servigio dell'oppressor francese; e mormorando lo scarso stipendio per tre mesi soli, al quale si darebbe fondo prima di giugnere in Romania, senza lasciar pure di che vivere alle famiglie in Sicilia. Ripugnavano alla impresa; ma tremavan al re. «Oh fuggiamo! gridavano; fuggiamo dalle case nostre, per asconderci in boschi e in caverne; e sarà viver men duro. Anzi di Sicilia si fugga, ch'è terra di dolore, di povertà, di vergogna. Non fu più schiavo di noi il popol d'Israello sotto re Faraone: e risentissi, e spezzò le catene. E ne narran poi le glorie degli antichi nostri! Vili bastardi siam noi; snervati dalle divisioni, da' vizi: noi di cristianità il popol più abbietto![73]»

E quanti si tenean da più del volgo impetuoso, non isgannati da sperienza, ritentavan pure la ignobil via delle querele. A Roma si volsero, non ostante le ostili opinioni che la Sicilia avea contro la corte di Roma più che tutto altro popolo cristiano, senza perciò vacillare nella fede di Cristo. Sì fatte opinioni eran sì vive, che i Francesi per villania chiamavanci paterini[74]; e segno non men dubbio ne {110} danno gli scritti nostri di quel tempo, ne' quali il rozzo stile, al toccar della corte di Roma, rinfocasi a un tratto, sfavilla d'immagini scritturali, suona le aspre parole del ghibellin poeta. Il che nascea in parte dagli universali umori d'Italia; e dalla cultura delle lettere, in cui primo tra gli altri popoli italiani s'esercitò quel di Sicilia sotto gli Svevi[75]; in parte dall'antica indipendenza de' nostri principi dal papa, dagli spessi contrasti loro, dalle spregiate censure, dalle vicende stesse della repubblica del cinquantaquattro, messa su dai papi e abbandonata dai papi; e dal tristo dono infine di quest'angioino re. Nondimeno, perch'ei, come usurpatore, conoscea feudal signore il papa, e la religione a quei dì teneasi come pauroso fantasma, non patto di giustizia e di pace, parve ai nostri, che il sommo pontefice solo riparar potesse lor torti, pastor egli e sovrano. Perciò allo scoppiare del vespro i Siciliani poi gridavano il nome della Chiesa. Perciò al francese Martino supplici or ne venivano a nome di Sicilia tutta, due sacerdoti eletti tra i più venerandi e savi del regno. Bartolomeo vescovo di Patti, e frate Bongiovanni de' predicatori fur questi. Forniano con grande animo la missione consigliata da credula miseria. A corte del papa, presente Carlo, orarono: e «Mercè, Bartolomeo cominciava, mercè o figlio di David; il demonio la figliuola mia fieramente travaglia:» e tra pianti e rampogne sponea la grave istoria. Superfluo è a dire che si fe' sordo Martino. Carlo dissimulò: ma usciti i due oratori dal palagio, i suoi scherani li circondarono; trasserli in duro carcere. Macerato da quello il frate espiò a lungo la sua virtù cittadina; corruppe i custodi il vescovo di Patti, e fuggissi[76].

E niente domato dalla violenza, tornò in Messina; e contò {111} i suoi casi: e la gente all'udirli, piangea di rabbia. In questo mezzo quanti vengan da Napoli affermano essere al colmo l'ira del re, per quella contumace ripugnanza alla guerra di Grecia, per quella missione al papa; ch'ei volgerebbe l'adunato esercito contro la Sicilia; che vorrebbe sterminar questa genia querula e incontentabile; dar la terra ad altri abitatori, e farla colonia[77]. Queste voci spargeansi per insensata iattanza di cortigiani, o tema di popol tiranneggiato; ed eran se non altro misura dell'odio. Il quale, per comunanza di mali e di brame, avea dileguato ogni ruggine tra le nostre città, tra le famiglie, tra i vassalli e i siciliani feudatari. Pochi pel re teneano; talchè accresceangli l'odio, non le forze. Il clero seguiva o precorrea l'opinione pubblica; com'è manifesto dalla missione di Bartolomeo e Bongiovanni, e dallo zelo con che andò in tutto il corso della rivoluzione, ad onta delle infinite scomuniche papali. I nobili siciliani, pochi e oppressi, non potendo far parte da sè medesimi, ingrossavan la popolare: quanti eran complici, s'anco si voglia, di re Pietro, ammalignavan le piaghe, suggeriano sommesso qualche speranza. Il malcontento mise in un fascio le persone de' governanti e i principî del governo, e die' alla parte popolare tal forza, tal numero, che avanzava d'assai le condizioni ordinarie, e che sollevava la Sicilia mezza feudale alle idee de' più democratici popoli italiani. Faceansi a ricordare i tempi del buon Guglielmo, tempi di pace, e dovizie, e franchezze; a deplorare la svanita repubblica del cinquantaquattro; e abbellito dall'immaginativa, con invidia a dipingere il viver lieto delle italiane cittadi, senza re, senza feudatari, senza Francesi. Nè solo travagliavali il martello di povertà, e gli aggravî nell'avere e nelle persone, e 'l timore del peggio; ma sopra tutto la gelosia delle donne, usurpate {112} dagli stranieri per forza, o prezzo, o seduzione di vanità e di fortuna. Era stampato in tutti gli animi inoltre quel Carlo, brusco, vecchio, avaro, crudele, spregiator d'ogni dritto, alla Sicilia nimicissimo. Il viver di violenza, in sedici anni avea potentemente operato sull'indole niente morbida del sicilian popolo, e n'avea tramutato le sembianze. Di festevole si fe' tetro: increbbero i conviti, i canti, le danze: «e mute pendeano (scrissero i Siciliani poscia a papa Martino ) pendean mute l'arpe dal caprifico e dal salice infruttuoso.»—«Febbrili battean tutti i polsi, dice un'altra rimostranza del misero popolo; dubbiosi scorreano i giorni, ansie le notti, e fino i sogni conturbati dalle minacciose sembianze degli oppressori; nè viver si potea, nè pur morire tranquillo.» Quel poetico brio degli animi siciliani, a cupa meditazione die' luogo, a tristezza, a vergogna, a nimistà profonda, a brama ardentissima di vendetta. Feroci passioni, che propagaronsi da chi soffriva le ingiurie in sè, a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a' tardi; dagl'iracondi ai miti; dagli animosi a' dappoco; e invasarono ogni età, ogni sesso, ogni ordine d'uomini. La foga delle passioni private, l'abbaco de' privati interessi, tacquero un istante, o anch'essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più possente di ogni macchina di congiura, perchè spregia il vegliar sospettoso de' governanti, e li soperchia a cento doppi di forze[78]. Così entrava in Sicilia l'anno milledugentottantadue. Alcuni cronisti, pargoleggiando col volgo, notavano, che di febbraio, mentr'era papa Martino in Orvieto, una foca presa alle spiagge di Montalto, e portata a corte del {113} papa come nuova generazione di belva, mise muggiti sì lamentevoli e paurosi, che la gente n'agghiacciò di orrore; e dietro i successi di Sicilia, non restò dubbio esser venuto quel mostro a presagire al papa le calamità che pendeano[79].

NOTE

[1] D'Esclot, cap. 64.

Cronica di Morea, lib. 2.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.

Paolino di Pietro, in Muratori R. I. S. tom. XXVI, ag.

Montaner, cap. 71.

Benvenuto da Imola, comento alla Divina Commedia, al verso:

Cantando con colui dal maschio naso. Purgat., c. 7.

Carlo d'Angiò, con quest'indole niente poetica, fece pure qualche verso, perchè n'avea sempre agli orecchi nella corte di Provenza. Il sig. C. Fauriel, ne' cenni biografici intorno a Sordello, Bibliothèque des Chartes, tom. IV, nov. et déc. 1842, ha dato una traduzione della risposta ritmica di Carlo ad alcuni versi di Sordello che il tacciavano d'ingratitudine. Sordello vivea alla corte del conte di Provenza; l'avea seguito all'impresa contro Manfredi; ma ammalatosi in Novara di Piemonte, vi restò lungo tempo dimenticato, in preda alla malattia e alla povertà. Le istorie di Francia ci danno molti esempi della sfacciata avarizia mostrata da Carlo in Francia, prima che la potesse spiegare in più vasto campo sul trono di Sicilia e di Puglia; e ci attestano insieme la giustizia di san Luigi che l'obbligava a rendere il mal tolto.

[2] Diploma senza data d'anno, negli archivi del reame di Francia, J. 513, 51. È il ragguaglio che davano a san Luigi l'arcidiacono di Parigi, e il maresciallo di Francia, incaricati di questa missione. Essi trattarono: 1º. della crociata, richiedendo Carlo d'andarvi e procacciar soccorsi di navi, d'uomini e di vittuaglie: 2º. del pagamento di 8,000 marchi per la dote della regina moglie di san Luigi (su la contea di Provenza); di 7,000 marchi dovuti per testamento del conte di Provenza (Raimondo Berengario); e di 30,000 lire sovvenutegli al tempo dell'altra crociata e della sua prigionia: 3º. dell'affare d'una gabella, che non si spiega altrimenti.

Gli ambasciatori davan conto della missione compiuta a voce, insistendo per una risposta categorica; e fin qui il diploma corre in francese. Trascriveano poi la carta lasciata a re Carlo negli stessi sensi, la quale è in latino, lingua diplomatica del tempo. Vi si legge ch'essi avean trattato sino al martedì in festo inventionis sancte crucis.

[3] Raynald, Ann. ecc. 1270, §. 23.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 37.

Muratori, Ann. d'Italia, 1270.

Saba Malaspina, lib. 5, cap. 1.

Gesta Philippi III, di frate Guglielmo de Nangis, in Duchesne Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 516.

[4] Gio. Villani, lib. 7, cap. 38.

Raynald, 1278, §. 24.

[5] Annali genovesi, in Muratori R. I. S., tom. VI, pag. 551.

Diploma di Carlo I, dato di Trapani a 2 settembre decimaquarta, Ind. (1270), tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 2, fog. 60.

[6] Gibbon, Decline and fall of the Roman Empire, cap. 62, e i contemporanei citati da esso.

[7] Questo trattato dato di Viterbo il 27 maggio 1267, è pubblicato dal Buchon, in annotazione alla Cronica di Morea, lib. II, ed. 1840, pag. 148 e seg. Il matrimonio tra la Beatrice e Filippo si mandò ad effetto nel 1273. Morto Baldovino si confermò tra Carlo e il genero, divenuto imperatore titolare, il trattato del 1267, per un atto dato di Foggia il 4 novembre 1274, una copia del quale data da Filippo il Bello nel 1306, e autenticata col suggello reale di Francia, si trova negli Archivi del reame di Francia, J. 509, 15, ed è pubblicata dal Du Cange, Histoire de l'Empire de Constantinople, Docum., pag. 24. Questo genero poi vivea a spese di re Carlo, come il mostrano i diplomi del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 3, 5, 6, 7, 10, dati a 2 maggio 1277, 4 settembre e 10 dicembre 1276; ultimo febbraio e 23 maggio 1277, e 6 ottobre 1276; pei quali porgeasi danaro a Filippo, allora titolato imperatore di Costantinopoli per la morte del padre.

[8] Cronica di Morea, citata di sopra, lib. 2.

Raynald, Ann. ecc. 1269, §. 4.

Saba Malaspina, cont., loc. cit., pag. 336.

D'Esclot, cap. 64.

E i diplomi accennati nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98, nota 4.

In un altro diploma del medesimo archivio segnato 1268, A, fog. 152, dato il 8 maggio 1278, si legge un Eustasio capitan generale di Carlo in Acaia.

[9] Diplomi indicati, e un d'essi pubblicato nel citato catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 98 e 120.

In un altro diploma dato di Napoli il 25 febbraio, non si sa di quale anno, nel r. archivio di Napoli reg. segnato 1268, O, fog. 87 a t. si legge:

« Karolus Dei gr., rex Sicilie et Albanie, Gazoni Chinardo militi, in regno Albanie vicario generali, etc. » Ed altri due diplomi della stessa data a Guglielmo Bernardi marescalco di quel regno.

I diplomi risguardanti il regno d'Albania sono citati ancora dal Papon, Hist. de Provence, tom. III, pag. 52 e 68.

[10] Fornisce intorno a questi preparamenti qualche particolarità un diploma dato di Napoli il dì 8 aprile tredicesima Ind. 1270. Per questo è condotto al servigio di re Carlo, con soldo di 8,000 lire tornesi per un anno, Ferrando di Sancio del sangue reale di Aragona (forse dee dire Castiglia) con 40 militi a cavallo, 40 scudieri e 20 balestrieri a cavallo, a condizione di militare nel regno o nell'impero di Costantinopoli, e di trovarsi in punto a Trapani il 1 agosto di quell'anno. Ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2, fog. 17.

[11] Diploma di Carlo I al comune di Siena perchè facesse diroccare le case dei Ghibellini che rifiutavano di sottomettersi. È dato del 1272, e pubblicato dal sig. Buchon, Nouvelles recherches historiques sur la Principauté française de Morée, tom. I, pag. 27 e 28.

[12] Muratori, Ann. d'Italia, 1268 a 1272, ossia i contemporanei quivi citati da lui.

Saba Malaspina, lib. 4 e 5.

Annali genovesi, lib. 9, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 554 e seg.

In un diploma dato del 1277 dal r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 29, leggesi questo titolo: Regnante domino nostro Karolo, Dei gratia illustrissimo rege Sicilie, Ducatus Apulie et principatus Capue, Alme Urbis Senatore, Andegavie, Provincie et Forcalquerii comite, ac Romani Imperii in Tuscia per Sanctam Romanam Ecclesiam Vicario generali.

Quanto all'assassinio del principe Arrigo, è indubitata la colpevole indulgenza di re Carlo verso gli omicidi. Benvenuto da Imola nel comento su la Divina Commedia al verso: «Mostrocci un'ombra dall'un canto sola, ec.» Inf., c. 12, riferisce il dilemma che si facea a biasimo di Carlo: «Se il sapea fu un ribaldo; se no, perchè nol punì?»

Ma quanto men volea punire, tanto più romor ne fece, anche per riguardo alla corte di Roma. Un diploma del 23 marzo (1271) nel r. archivio di Napoli, reg. 1268, O, fog. 99, porta queste parole: che il re volea vendicare tal misfatto come se commesso in persona d'un suo figliuolo. Nondimeno il provvedimento contenuto in questo diploma è di staggir le castella e i beni feudali de' fratelli Simone e Guidone da Monteforte; ch'era un gastigo non molto spiacevole al re, il quale per lo momento incamerava que' beni.

[13] Muratori, Ann. d'Italia 1271 a 1274, e i contemporanei ivi allegati, che sarebbe superfluo citare altrimenti.

Gibbon, cap. 62.

Raynald, Ann. ecc. 1271 e 1275.

[14] Gio. Villani, lib. 9, cap. 218, di maggiore autorità in questo, perch'ei fu guelfo:

Carlo venne in Italia, e per ammenda Vittima fe' di Corradino, e poi Ripinse al ciel Tommaso per ammenda. DANTE, Purg., c. 20.

e il comento di Benvenuto da Imola, che accredita il sospetto dell'avvelenamento. Io l'ho posto in dubbio, non trovando noverato questo tra i misfatti di Carlo dagli scrittori che non glien'avrebbero perdonato punto, come sono il Neocastro, lo Speciale, Montaner, D'Esclot. Ma dall'altro canto la innocenza non mi par dimostrata sì netta, come crede il cav. Froussard nella dissertazione su Pietro Glannone, e 'l regno di questo Carlo I.—Atti dell'Academia di Lucca, tom. VIII.—Il sig. Froussard si lascia trasportar dalla gloria militare di Carlo, fino a scagionarlo de' vizi suoi più noti. Chiama ambizioso e superbo, ma non crudele, colui che facea mozzare i piè a' disertori, arder vivi i presi in battaglia, e marchiar colla moneta rovente gli accorti cittadini che non passassero al valor edittale i suoi carlini d'oro. Nel modo stesso siamo assai lontani dell'accettare l'apologia del Froussard per la iniqua condannagione di Corradino.

[15] De regimine principum ad regem Cypri, san Tommaso d'Aquino, opusc. 20, nel tom. XVII della ediz. Venezia, 1593.

[16] Muratori, Gibbon, Raynald, loc. cit.

[17] Saba Malaspina, cont., p. 336 e 337.

[18] Saba Malaspina, cont., pag. 336.

Mss. della vittoria di Carlo I di Angiò, pubblicato in Duchesne, Hist. Franc. Script., tom. V, pag. 850.

Joannes Iperius, Chron. monast. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, p. 754.

D'Esclot, cap. 64.

Raynald, Ann. ecc. 1272, §. 19, e 1277, §. 16.

Giannone, Ist. civ., lib. 20, cap. 2.

E i diplomi citati nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 137, con la nota di monsig. Scotto; e tom. II, pag. 151 e 225.

Tra questi son da notarsi il diploma del 26 dicembre 1294, alla citata pag. 151, per pagamento di once 800 all'anno a questa Maria, dicte quondam domicelle de Hierusalem; e l'altro del 21 agosto 1292, dal quale si ricava, con un certo divario dall'attestato de' cronisti, che il primo accordo con Carlo d'Angiò s'era fatto per 400 lire tornesi e 10,000 bizantini saraceni d'oro all'anno; che la corte di Napoli tardò i pagamenti; che Maria n'ebbe ricorso al papa; e che così si prese una via di mezzo a pagarla, con molto suo discapito.

[19] Saba Malaspina, cont., pag. 337.

[20] Il suo nome anzi di salire al pontificato, era Giovanni Gaetani di casa Orsina.

E veramente fui figliol dell'Orsa, Cupido sí per avanzar gli Orsatti, Che su l'avere, e qui me misi in borsa. DANTE, Inf., c. 19.

[21] Muratori, Ann. d'Italia, 1277 a 1280.

Raynald, Ann. ecc., 1277 a 1280.

Saba Malaspina, cont., pag. 338.

[22] D'Esclot, cap. 64.

Questa impresa d'Acri ci attestan anco moltissimi diplomi del r. archivio di Napoli, dati a 3, 4, 12 e 28 febbraio 1278, e molti in marzo, aprile, maggio, giugno, luglio e agosto seguenti: registro segnato 1268, A, fog. 136, 138, 71 a t. 130, 141, 142, 78, 84, 144 a t. 135 a t. 85, 86, 87, 99, 100, 165. Ma resta in dubbio se tutti quegli armamenti, dei quali non è espresso lo scopo, fosser volti alla impresa di Siria, o se parte si volea serbare alla custodia di Sicilia e di Puglia; su di che veggasi il seguito di questo medesimo capitolo.

[23] Ricordano Malespini, cap. 204.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 54.

Cronaca sic. della cospirazione di Procida, in di Gregorio, Bibl. arag. tom. I, pag. 254.

[24] Da tutti gli storici contemporanei, e meglio dai fatti si ritrae ciò manifestamente.

Si ricordino ancora i versi di Dante:

Però ti sta che tu se' ben punito, E guarda ben la mal tolta moneta Ch'esser ti fece contro Carlo ardito. Inf., c. 19.

[25] Saba Malaspina, cont., pag. 339.

[26] Credeasi allora che i figli maschi di Manfredi fossero morti, perchè Carlo d'Angiò li tenea in carcere, forse con grandissimo segreto, accreditando la voce della morte, per toglier qualunque speranza ai partigiani di casa sveva. I figli di Manfredi eran bambini quando Carlo prese il regno; nè egli si volle bruttare di quattro assassinî di tal sorta, d'altronde non utili, e ben suppliti da una prigionia segretissima e sepolcrale. Così gli storici contemporanei portano spenta la discendenza maschile di Manfredi, e sol di lui rimasa Costanza, e la seguente sorella Beatrice, che fu liberata nel 1284 per la vittoria dell'armata siciliana nel golfo di Napoli. La diplomatica, la quale sovente corregge le tradizioni istoriche, ci ha mostrato che vivessero a lungo dopo la morte di Manfredi i suoi figliuoli Arrigo, Federigo ed Enzo. Alcuni istorici napoletani trassero dagli archivi di quel reame dei diplomi per gli alimenti che forniansi in carcere a quegli sventurati principi sotto il regno di Carlo II; e il Buscemi nella vita di Procida ne pubblicò uno dato di Melfi il 30 giugno settima Ind. (1294), nel quale, forse per errore di chi l'avea copiato da' registri di Napoli, l'ultimo de' giovanetti è chiamato Anselmo in vece di Enzo. Io mi sono avvenuto rifrustando que' registri in due documenti, che sembranmi più importanti perchè attestano che i detti principi vivessero insino al 1299, e che allora si ordinasse di escirli dalla prigione, e liberi mandarli a Carlo II con un cavaliere. Ciò avvenne al tempo che Giacomo di Aragona aiutava gli Angioini contro il fratello Federigo e i Siciliani, e appunto pochi giorni anzi la sua vittoria del Capo d'Orlando; talchè sarebbe da congetturarsi che il re di Napoli volle far cosa grata a Giacomo, ch'ei cercava in tutti i modi a tenersi amico ed ausiliare. Ma par che quest'atto di generosità tosto si fosse dileguato, e che fossero tornati in altra prigione i figli di Manfredi. Giacomo andò via da Napoli poco men che nemico: e Carlo non avrebbe osato turbare il governo di Federigo in Sicilia con questi altri pretendenti, che poteano ben sollevare contro di lui lo stesso reame di Napoli.

I due citati diplomi del 1299 leggonsi, Docum. XXIX e XXX.

[27] Ved. Surita, Ann. d'Aragona.

Blanca, Comment. rer. Aragon.

Mariana, Storia di Spagna.

Robertson, Vita di Carlo V. Introd. sez. 3, note 31, 32.

[28] Montaner, cap. 20, vivamente rappresenta che i re di Aragona viveano assai familiari co' loro sudditi, con giustizia ed affabilità. Ma in fatto sotto questo linguaggio accenna le libertà del paese, dicendo che ognuno era sicuro della proprietà e persona: e perciò «i Catalani e gli Aragonesi sono più alti di cuore, vedendosi così trattati a lor modo; e nessuno può esser valente uomo di guerra se non è alto di cuore.» Aggiugne, che ognuno a suo piacere fermava per via i re, e parlava ad essi, o li invitava a nozze, o desinari, e ch'essi sovente albergavano nelle case private.

[29] D'Esclot, cap. 68, 69, 70.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica di Baluzio, ed. 1688.

[30] Montaner, cap. 10, 13, 14.

D'Esclot, cap. 65, 67, 74.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

[31] Bart. de Neocastro, cap. 16.

Veggansi anche, Montaner, cap. 37.

Saba Malaspina, cont., pag. 342.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

[32] Saba Malaspina, cont., pag. 340 a 342.

Per vero egli non scrive il nome di Corrado Lancia, ma solo di Loria e Procida, e, aggiugne, altri usciti italiani. Ma ritraendosi dal Montaner la grande riputazione di Corrado a corte d'Aragona per armi e consiglio appunto in questo tempo, non è dubbio che quel nobile siciliano avesse partecipato in tutti i disegni.

[33] Diploma negli archivi della corona aragonese, citato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, Paris, 1827, tom. I, pag. 93.

[34] Bart. de Neocastro, cap. 87.

Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II segnato 1291, A, fog. 88, si legge un diploma dato il dì 8, forse di gennaio 1275 o 1276, ch'è un attestato del servigio feudale prestato a Capua da Riccardo Loria per sè, Giacomo, Roberto, Ruggiero, e due donne tutti della stessa famiglia, che aveano diviso tra loro i castelli di Loria, Lagonessa e Castelluccio in Basilicata.

Ruggier Loria fu nipote di Guglielmo d'Amico, primo marito di Macalda Scaletta. Villabianca, Sicilia nobile, part. 2, lib. 3, pag. 528 e 529.

[35] Montaner, cap. 18, 19, 30, 31.

[36] Di Gregorio, Annotaz. alla Bibl. aragon., tom. 1, pag. 249 e 250.

Ved. altresì il Giannone, Ist. civ. e Buscemi. Vita di Giovanni di Procida, e i documenti da noi citati nel cap. XV, intorno i beni del Procida.

È noto il marmo della chiesa di Salerno, dato il 1260, pubblicato dal Summonte, e trascritto dal Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 249, dal quale si hanno i titoli di Giovanni di Procida, e ch'ei facesse costruire quel porto. Un altro pregevol monumento per Giovanni di Procida ha trovato il mio concittadino Francesco Saverio Cavallari, egregio artista, zelante e infaticabile nel ricercare, abilissimo nel delineare, e intelligente nello illustrare gli antichi monumenti d'arte, non solo per tutta la Sicilia, ma sì in parte della terraferma italiana. Nella cappella di san Matteo della cattedrale di Salerno, sotto la effigie del santo in mosaico, il nostro artista s'accorse di una picciola figura in ginocchio ch'ei ritrasse diligentemente, in pie' della quale si leggono questi due versi:

Hoc studiis magnis fecit pia cura Johannis De Procida, dici meruitque gemma Salerni.

A' documenti fin qui pubblicati per dimostrare l'alto stato ch'ebbe Giovanni di Procida presso Manfredi, aggiugnerò la notizia d'un altro che si legge nel r. archivio di Napoli, reg. 1269, D, fog. 9. È un diploma di Carlo I dato il 22 giugno tredicesima Ind. (1270), nel quale se ne cita un di Manfredi del 25 agosto ottava Ind. (1265), dato per Joannem de Procita, e indirizzato a Risone Marra intorno l'uficio di maestro segreto e portulano di Sicilia. Questo diploma conferma che Giovanni fu cancelliere di re Manfredi.

[37] Ho veduto tra' Mss. della Biblioteca reale di Francia, nel volume segnato 6,069. V. un manoscritto latino del secolo XIV che porta il titolo: Incipit liber philosophorum moralium antiquorum et dicta seu castigationes Sedechie, prout inferius continetur, quas transtulit de greco in latinum magister Johannes de Procida. È una raccolta o compendio delle massime che correano sotto i nomi di Sedecia, Hermes, Omero, Solone, Pitagora, Diogene, Socrate, Platone, Aristotile, Alessandro, Tolomeo, Gregorio, ec., e finisce con un capitolo, intitolato Sapientium dicta. Io la credo piuttosto una compilazione che una traduzione. Il titolo di magister mi accerta della identità della persona dell'autore col nostro G. di Procida, il quale non par che guadagni in fama letteraria quanto ha perduto in fama politica. È qui da ricordare qual fosse la corte di Federigo imperatore e di Manfredi. Federigo, educato fin dalla sua fanciullezza in Sicilia era perito negli idiomi tedesco, francese, latino, greco, arabo; poetò in volgare; amò gli studi filosofici; dettò un opuscolo di storia naturale; e promosse gli studi in tutta l'Italia. A lui forse si deve il pronto sviluppo della lingua illustre d'Italia. Manfredi fece alcune aggiunte al libro di Federigo, scrisse versi italiani, favorì molto i letterati e gli studi. Sul particolare delle lettere greche e dello studio de' filosofi greci, noi sappiamo che Bartolomeo di Messina per comando dell'imperatore voltò dal greco in latino l'etica d'Aristotile, e un libro su la cura de' cavalli, e che Moisè da Palermo nello stesso tempo scrisse una somigliante traduzione d'un libro d'Ippocrate. Veg. Tiraboschi, Stor. lett. d'Italia, tom. IV; di Gregorio, Discorsi. Dopo ciò si comprendrà più facilmente come Giovanni di Procida fosse avviato a questi studi; e senza dubbio si riferirà al ministro di Federigo, di Manfredi e di Pietro e Giacomo d'Aragona la citata raccolta di sentenze degli antichi filosofi.

[38] Petrarca, Itinerario Siriaco.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.

Boccaccio, De casibus virorum illustrorum, lib. 9, cap. 19.

Veg. altresì il cominciamento della istoria anonima della cospirazione del Procida, tralasciato dal di Gregorio nella sua Biblioteca aragonese, che leggesi tra' citati Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. e si trova pubblicato nell'opera di Buscemi, doc. n.4.

[39] Diploma del 29 gennaio 1270 per la inquisizione de' beni confiscati a una lunghissima lista di ribelli, tra i quali si legge Giovanni di Procida.

Diploma dato di Capua del 3 febbr. 1270, pel quale Carlo I die' un sussidio, su i confiscati beni dotali, a Landolfina moglie di Giovanni di Procida da Salerno, come non partecipe della colpa del marito, «il quale per alto tradimento commesso, come dicesi, contro la maestà nostra, allontanossi dal regno.» Questi diplomi cavati dal. r. archivio di Napoli conservatisi ne' Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. F. 70, e sono stati pubblicati dal Buscemi, nella Vita di Procida, docum. 2 e 3.

Quantunque sembri favola che l'ingiuria alla moglie fosse cagione della fuga del Procida, non è improbabile che durante il suo esilio la moglie, per nome Landolfina di Fasanella, avesse dato ascolto allo amore di alcun barone della corte di Carlo; e che da ciò fosse nato quello episodio nel romanzo storico (tale io il credo) di Giovanni di Procida. Traggo questo concetto da tre diplomi: 1º. quello or ora citato del 3 febbraio 1270 pel sussidio a Landolfina; 2º. un altro della stessa data che le accordò salvocondotto e sicurezza a dimorare in Salerno, che leggesi in fine della presente opera, docum. I; 3º. un altro che fe' pagar dall'erario regio once cento prestate a Landolfina da un Caracciolo, che è citato ne' Discorsi di don Ferrante della Marra, Napoli, 1641, pag. 154, ed è tratto come i precedenti dal. r. archivio di Napoli, reg. segnato 1269, C, dove quelli si leggono a fog. 118 e 214, e questo a fog. 211.

[40] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 13.

[41] Saba Malaspina, cont., pag 340 a 342.

[42] Montaner, cap. 37, 44.

[43] Montaner, cap. 40.

Bernardo d'Esclot, cap. 76.

[44] D'Esclot, loc. cit.

Montaner, cap. 38, 39.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

[45] Montaner, cap. 38, 42. L'asserzione contraria si legge in un manifesto di re Carlo I recato da Muratori, Ant. Ital. Dissert. 39, tom. III, pag. 650; e ve n'ha un cenno nel Memoriale dei podestà di Reggio, Muratori, R. I. S., tom. VIII, p. 1155.

[46] Montaner, cap. 36.

[47] Ibid., cap. 41.

Veggansi ancora per questi particolari Bart. de Neocastro, cap. 16; Cron. del mon. di S. Bertino; Surita, Ann. d'Aragona, ec.

[48] Alcuni han creduto legger questo nei versi di Dante:

E guarda ben la mal tolta moneta, ec. Inf., c. 19.

Nell'appendice, io tento d'accostarmi ad una migliore spiegazione di questo luogo della Divina Commedia.

[49] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57, 59, 60.

Ricordano Malespini, cap. 206 a 208.

Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 249 a 263.

Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 952 e 953.

Cronica di frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 11, 12, in Muratori, R. I. S. tom. IX, pag. 686.

[50] Tolomeo da Lucca, lib. 24, cap. 4, in Muratori, R. I. S. tom. XI, pag. 1186-87.

Pachymer, lib. 6, cap. 8, parla di una grande alterazione nella moneta d'oro fatta in questo tempo dal Paleologo, per fornir sussidi agli Italiani.

Che i Genovesi mischiassersi molto a favore di lui, l'attesta Caffari negli Annali di Genova, Muratori, R. I. S. tom. VI, pag. 576, ove è detto che i Genovesi mandarono una galea a posta al Paleologo per avvertirlo degli armamenti di re Carlo.

[51] Veg. l'appendice.

[52] Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.

Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.

[53] Questi preparamenti son taciuti dagli storici contemporanei, che anzi accagionan Carlo di soverchio disprezzo. Ma ne' registri della sua cancelleria trovansi date nel 1278 delle provvisioni che non si possono in alcun modo attribuire all'impresa di Soria. Perchè, lasciando i molti armamenti navali citati in questo capitolo, pag. 85, nota 2, che possono anche parer troppi, considerate le poche forze che in fatto andarono in Asia, leggiamo evidentemente ciò che ho detto nel testo, in due diplomi, l'un del 13 marzo sesta Ind. 1278, e l'altro del 6 agosto medesimo anno, r. arch. di Napoli, reg. di Carlo I segnato 1268, A, fog. 95 e 89.

Quel di marzo risguarda le galee destinate alla custodia delle marine di Principato e Terra di Lavoro; l'altro è per le provvedigioni di miglio nei castelli di Sicilia.

Il re comandava di aumentarle dal 1 settembre vegnente in questo modo:

Fortezza di Messina da salme 112½ a 240 di Scaletta 20 » 48 di Milazzo 45 » 100 di San Marco 30 » 99 di Odogrillo 27 » 55 Castel di Siracusa 27 » 57 Palagio di Siracusa 9 » 60 Castel superiore di Taormina 27 » 77 Castello inferiore 22½ » 50 di Agosta 10½ » 57 di Cefalù 85½ » 325½ Palagio di Palermo 18 » 200 Castell'a mare di Palermo 29 » 100 di Licata 40 » 90 di Monteforte 27 » 104 di Vicari, che non avea provvedigione » » 50 di Caronia » » 27 di Castiglione » » 30 di Lentini » » 100 di Marineo » » 100 di Geraci » » 60 di San Filippo » » 100 di Caltanissetta » » 30 di Santo Mauro » » 30 di Avola » » 30 di Caltabellotta » » 30

Varie cose sono da notarsi in questo documento. La prima che non si vittovagliavano tutte le fortezze regie di Sicilia, ma a un di presso due terze parti delle medesime, tralasciandone molte sì in monte e sì in maremma. La seconda che per la provvedigione si preferiva il miglio al frumento; o per lo minor caro, o per lo minore rischio di ribollire e guastarsi. Lo stato delle fortezze regie sei anni innanzi si legge in un diploma del 3 maggio 1272 cavato anche dal r. archivio di Napoli e pubblicato dall'er. Michele Schiavo nelle memorie per la storia letteraria di Sicilia, tom. I, parte 3, pag. 49 e seg. In questo leggonsi oltre i notati nel diploma del 1278 che or ora trascrissi, i castelli di Rametta, San Fratello, Nicosia, Castrogiovanni, Mineo, Licodia, Modica, Garsiliato, Calatabiano, Corleone, Sciacca, Girgenti, Carini, Termini, Favignana, Camerata; ma vi mancano quelli di Odogrillo e Castiglione, e il castel disottano di Taormina. Si scerne di più dal diploma del 1272, che erano affidati alcuni a castellani col soldo di due tarì al giorno, altri a castellani scudieri col soldo di tarì uno e grana quattro, e vi erano consergî col medesimo stipendio, e servienti con grana otto al giorno. La maggior forza de' servienti, o vogliam dire soldati a pie', era nei 1272 nelle fortezze di Messina, Castrogiovanni, Cefalù, e Nicosia. Ma nel 1278 par che si volesse adunare più gente in quelle di Cefalù, Palermo, Messina, Monteforte, Milazzo, Lentini, Marineo, San Filippo; nè la posizione geografica basta a spiegare questa mutazione di disegni militari. Forse gli umori delle popolazioni, lo stato delle fabbriche di queste fortezze, e altre circostanze meno a noi note vi contribuirono, e l'essersi dato in feudo (che di tutte non fu certamente) alcuna di quelle terre.

[54] Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.

Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.

[55] Ric. Malespini, cap. 208.

Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 261.

[56] Saba Malaspina, cont., pag. 345.

[57] Saba Malaspina, cont., pag. 346.

Ric. Malespini, cap. 207, e gli altri contemporanei citati dal Muratori, Ann. d'Italia, 1281.

[58] Saba Malaspina, lib. 6.

[59] Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 762.

Saba Malaspina, cont., pag. 349, 351.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 58.

[60] Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 13 e 16.

[61] Cron. sic. della cospirazione di Procida, l. c., pag. 262.

Ric. Malespini, cap. 208.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 60.

Montaner, cap. 42, con qualche diversità. Al capitolo 49 porta come data da Pietro al conte di Pallars quella risposta del mozzar la mano sinistra se sapesse il segreto.

[62] Bart. de Neocastro, cap. 13.

[63] Raynald, Ann. ecc. 1281, §. 25, e 1282, §§. 5, 8, 9, 10, e nota del Mansi al §. 13.

Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186.

La scomunica del Paleologo si legge altresì nella cronaca di Eberardo, pubblicata dal Canisio, antiche lezioni, tom. I, pag. 309.

[64] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.

Saba Malaspina, cont., pag. 350.

Il trattato di Carlo I con Venezia fu stipulato a 3 luglio 1281, e si trova negli archivi di Francia, citato dal Buchon, Recherches et matériaux pour servir à une histoire de la domination française aux XIIIe, XIVe et XVe siècles, dans les provinces démembrées de l'empire Grec. Première partie, p. 42.

[65] Saba Malaspina, cont., pag. 350.

[66] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.

Ric. Malespini, cap. 206.

Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 251.

[67] Docum. VII.

[68] Saba Malaspina, cont., p. 352.

[69] Nangis, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 357 e seg.

Muratori, Ann. d'Italia, 1282.

[70] Muratori, ibid.

[71] Saba Malaspina, cont., pag. 338, 339.

Le parole della profezia son queste: Tempus adhuc videbit qui vixerit, quod Scarabones ejicient de regno Gallicos et in multitudine, etc. Io ho creduto che Scarabones suoni in italiano masnadieri, saccardi, soldati irregolari; perchè questa parola, che non si trova nel glossario del Du Cange, è identica a Scaranii, Scaramanni, Scamari, Scarani, Scarafonus, vocaboli che vengono dalla radice Scara ( acies, cuneus copiæ militares ), o piuttosto da Scara, una delle angherie feudali, onde si dicevano Scaranii, ec. i famigliari de' magistrati, i fanti incaricati della riscossione di alcuni balzelli, e in generale gli armigeri della più disordinata e spregevole maniera di milizia. Indi l'italiano scherani.

[72] Diplomi dell'8 novembre 1280, 21 aprile e 27 giugno 1281 nel catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 218, 222 e 227.

[73] Saba Malaspina, cont., pag. 350, 351.

[74] Ibid. pag. 355.

Anonymi Chr. sic., loc. cit., pag. 147.

Le leggi dell'imperator Federigo II, contro le eresie portano una ventina di nomi diversi d'eretici; tra i quali v'hanno i paterini. In un diploma suo dato di Padova il 22 febbraio duodecima ind. si spiega così l'origine di quel nome di paterini: Horum sectæ veteribus vel ne in publicum prodeant non sunt notatæ nominibus, vel quod est forte nefandius, non contentu, ut vel ab Arrio Arriani, vel a Nestorio Nestoriani, aut a similibus similes nuncupantur; sed in exemplum martyrum qui pro fide catholica martiria subierunt, Patarenos se nominant, velut expositos passioni. In Luca Wadding, Ann. Minorum, tom. III, p. 340, §. 13.

[75] Dante Alighieri, De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12.

[76] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.

[77] Bart. de Neocastro, cap. 13.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.

[78] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2 e 4.

Epistola de' Siciliani a papa Martino, nell'Anonymi Chr. sic., cap. 40, l. c.

Bart. de Neocastro, cap. 13.

Docum. VII.

[79] Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., T. III, pag. 609.

Mss. della vittoria di Carlo d'Angiò, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 851.

Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd. tom. III, pag. 762.

Francesco Pipino, Chron. lib. 4, cap. 29, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

CAPITOLO VI.

Nuovi oltraggi de' Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31 marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica. Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardi che prende. Lettere de' Palermitani ai Messinesi, i quali seguon la rivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si prepara alla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione.—Marzo a giugno 1282.

I Siciliani maledissero e sopportarono infino a primavera del milledugentottantadue. Nè gli appresti di guerra in Ispagna si vedean forniti; nè in Sicilia, se alcun era che li sapesse, potea aver luogo a prossime speranze. Stavan sul collo al popolo gli smisurati armamenti di re Carlo contro Costantinopoli: l'isola imbrigliavano da quarantadue castelli regi, posti o in luoghi foltissimi, o nelle città maggiori[1], e più numero che ne teneano i feudatari francesi[2]: raccolti e in sull'arme gli stanziali: pronte a ragunarsi a ogni cenno le milizie baronali, ch'erano in parte di suffeudatari stranieri. E in tal condizione di cose, che i savi meditando e antiveggendo non avrebbero eletto giammai ad un movimento, gli officiali di Carlo prometteansi perpetua la pazienza, e continuavano a flagellare il sicilian popolo.

La pasqua di resurrezione fu amarissima per nuovi oltraggi in Palermo; capitale antica del regno, che gli stranieri odiarono sopra ogni altra città, come più ingiuriata e {115} più forte. Sedeva in Messina Erberto d'Orléans vicario del re nell'isola: il giustiziere di val di Mazzara governava Palermo; ed era questi Giovanni di San Remigio, ministro degno di Carlo. I suoi officiali, degni del giustiziere e del principe, testè s'erano sciolti a nuova stretta di rapine e di violenze[3]. Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini di Palermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovarono più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all'accorrente moltitudine: «Pagate, paterini, pagate.» E il popolo sopportava[4]. Il martedì appresso la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo[5], una festa si celebrò nella chiesa di Santo Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi di sopportare. Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni di fede n'han tramandato.

A mezzo miglio dalle australi mura della città, sul ciglion del burrone d'Oreto, è sacro al Divino Spirito un tempio[6]; del quale i latini padri non lascerebber di notare, come il dì che sen gittava la prima pietra, nel secol dodicesimo, per ecclisse oscuravasi il sole. Dall'una banda {116} il dirupo e il fiume; dall'altra corre infino a città la pianura, la quale in oggi ingombrasi per gran tratto di muri e d'orti, e un chiuso, negro di cipressi, tutto scavato di tombe, e sparso d'urne e di lapidi rinserra la chiesa con giusto spazio in quadro; cimitero pubblico, che si costruì al cader del decimottavo secolo, e la dira pestilenza del milleottocentotrentasette, esiziale a Sicilia, in tre settimane orribilmente il colmò. Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da' rei travagli un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero, e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l'usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne: e qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente ammonilli se n'andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i rissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean tra loro: «Armati son questi paterini ribaldi, ch'osan rispondere»; e però rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispetto frugarli indosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino. Già d'ambo i lati battean forte i cuori. In questo una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto[7], con lo sposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta {117} o licenza, a lei si fa come a richiedere d'armi nascose; e le dà di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo sposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una volta questi Francesi!» Ed ecco dalla folla che già traea, s'avventa un giovane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forse cade ucciso al momento, restando ignoto il suo nome, e l'essere, e se amor dell'ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero il movessero a dar via così al riscatto. I forti esempi, più che ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e 'l grido, come voce di Dio, dicon le istorie de' tempi, eccheggiò, per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittime dell'una e dell'altra gente: e la moltitudine si scompiglia, si spande, si serra; i nostri con sassi, bastoni, e coltelli disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè; cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi festivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la strage de' nostri: ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento[8].

Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassando le rapite armi, gridando l'onta e la vendetta: {118} «Morte ai Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola, l'arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol tutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè condottiero, Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: e il popolo ingrossava; spartito a stuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogni angolo, ogni latebra: «Morte ai Francesi!» e percuotonli, e squarcianli; e chi non arriva a ferire, schiamazza ed applaude. S'era il giustiziere a tal subito romore chiuso nel forte palagio: e in un momento, chiamandolo a morte, una rabbiosa moltitudine circonda il palagio; abbatte i ripari; infellonita irrompe: ma il giustiziere le sfuggì, che ferito in volto, tra le cadenti tenebre e 'l trambusto, inosservato montando a cavallo con due famigliari soli, rapidissimo s'involò. Intanto per ogni luogo infuriava la strage; nè posò per la notte soppraggiunta; e rincrudì la dimane; e l'ultrice rabbia non pure si spense, ma il sangue nemico fu che mancolle[9]. Duemila Francesi furono morti in quel primo scoppio[10]. Negossi ai lor cadaveri la sepoltura de' battezzati[11]; ma poi si scavò qualche carnaio ai miserandi avanzi[12]; e la tradizione ci addita la colonna sormontata di ferrea croce[13], che pose in un di quei luoghi la pietà cristiana, forse assai dopo il tempo della {119} vendetta. Narra la tradizione ancora, che il suon d'una voce fu la dura prova onde scerneansi in quel macello i Francesi, come lo shibbolet tra le ebree tribù; e che se avveniasi nel popolo uom sospetto o mal noto, sforzavamo col ferro alla gola a profferir ciciri, e al sibilo dell'accento straniero spacciavanlo. Immemori di sè medesimi, e come percossi dal fato gli animosi guerrieri di Francia non fuggiano, non adunavansi, non combatteano; snudate le spade, porgeanle agli assalitori, ciascuno a gara chiedendo: «Me, me primo uccidete»; sì che d'un gregario solo si narra, che ascoso sotto un assito, e snidato coi brandi, deliberato a non morir senza vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turba de' nostri disperatamente, e tre n'uccidesse pria di cader egli trafitto[14]. Nei conventi dei minori e dei predicatori irruppero i sollevati; quanti frati conobber francesi trucidarono[15]. Gli altari non furono asilo: prego o pianto non valse; non a vecchi si perdonò, non a bambini, nè a donne. I vendicatori spietati dello spietato eccidio d'Agosta, gridavano che spegnerebber tutta semenza francese in Sicilia; e la promessa orrendamente scioglieano scannando i lattanti su i petti alle madri, e le madri da poi, e non risparmiando le incinte: ma alle siciliane gravide di Francesi, con atroce misura di supplizio, spararono il corpo, e scerparonne, e sfracellaron miseramente a' sassi il frutto di quel mescolamento di sangui d'oppressori e d'oppressi[16]. Questa carnificina di tutti gli uomini d'una {120} favella, questi esecrabili atti di crudeltà, fean registrare il vespro siciliano tra i più strepitosi misfatti di popolo: che vasto è il volume, e tutte le nazioni scrisservi orribilità della medesima stampa e peggiori; le nazioni or più civili, e nei tempi di gentilezza, e non solo vendicandosi in libertà, non solo contro stranieri tiranni, ma per insanir di setta religiosa o civile, ma ne' concittadini, ma ne' fratelli, ma in moltitudine tanta d'innocenti, che spegneano quasi popoli interi. Ond'io non vergogno, no di mia gente alla rimembranza del vespro, ma la dura necessità piango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coi supplizi, consunta dalla fame, calpestata e ingiuriata nelle cose più care; e sì piango la natura di quest'uom ragionante e plasmato a somiglianza di Dio, che d'ogni altrui comodo ha sete ardentissima, che d'ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rabido alla vendetta, sciolto in ciò d'ogni freno quando trova alcuna sembianza di virtù che lo scolpi; sì come avviene in ogni parteggiare, di famiglia, d'amistà, d'ordine, di nazione, d'opinion civile o religiosa.

La ferocità del vespro, togliendo ai mezzani partiti ogni via, fu pur salute a Sicilia. Quella insanguinata notte medesima del trentuno marzo, tra la superbia della vendetta, e lo spavento del proprio audacissimo fatto, il popolo di Palermo adunato a parlamento si slancia di lunga più innanti: disdice il nome regio per sempre: statuisce di reggersi a comune, sotto la protezion della romana Chiesa. Alla quale deliberazione il mosse quel mortalissim'odio {121} contro re Carlo e suoi governi; e la rimembranza del duro fren degli Svevi; e per lo contrario quella sì gradita della libertà del cinquantaquattro; e l'esempio delle toscane e lombarde repubbliche; e il rigoglio di possente cittade, che infranto da sè stessa il giogo, nella propria virtù s'affida. Il nome della Chiesa s'aggiunse a disarmar l'ira papale, o piuttosto a tentar l'ambizione, o ad onestar la ribellione sotto specie che scacciando il pessimo signore immediato, non si violasse lealtà al sovrano onde quegli teneva il regno. Ruggier Mastrangelo, Arrigo Barresi, Niccoloso d'Ortoleva cavalieri, e Niccolò di Ebdemonia, furono gridati capitani del popolo, con cinque consiglieri[17]. Al {122} baglior delle faci, sul terreno insanguinato, tra una romoreggiante calca d'armati, con la sublime pompa del tumulto s'inaugurò il repubblican magistrato; e i suonatori dìer nelle trombe e nei moreschi taballi; e migliaia di voci gioiosamente gridarono «Buono stato e libertà!» L'antico vessillo della città, l'aquila d'oro in campo rosso, a nuova gloria fu spiegato; e ad ossequio della Chiesa v'inquartaron le chiavi[18].

A mezza notte Giovanni di San Remigio si restò dalla rapida fuga a Vicari[19], castello a trenta miglia dalla capitale; dove a fretta e furia picchiando, la gente del presidio avvinazzata nelle medesime feste che avean partorito tanta strage in Palermo, a stento riconobbelo; e ammettendolo, stralunava a veder il giustiziere fuor di lena, insanguinato, senza stuolo, a tal'ora venirne. Tacque allor Giovanni: la mattina a dì appellava alle armi i Francesi tutti de' contorni, agguerrita gente, e vera milizia feudale; e, rotto il silenzio, confortavali a scansare e vendicar forse il fato dei lor compagni. Ed ecco l'oste di Palermo, che a cercar del fuggente s'era mossa co' primi albori, entrata sulla traccia, a gran passo a Vicari giugne. Accerchiò confusamente la terra: bruciava di slanciarsi, e non sapea veder modo all'assalto: perciò diessi a minacciare, e intimar la resa; profferendo salve le persone, e che Giovanni e sua gente, poste giù le armi potessero imbarcasi per Acquamorta di Provenza. Essi sdegnando tai patti, e spregiando l'assaltante bordaglia, fanno impeto in una sortita. E al primo {123} l'arte soldatesca vincea; e sparpagliavansi i nostri: se non che entrò nella battaglia una potenza maggiore dell'arte, il furor del vespro, rinfiammatosi a un tratto nelle sparse turbe, che arrestansi, guardansi in viso: «Morte ai Francesi, morte ai Francesi!» e affrontatili con urto irresistibile, rincacciano nella rocca laceri e sgarati i vecchi guerrieri. Vana prova indi fu de' Francesi a riparlar d'accordo. Sconoscendo tutta ragion di guerra, i giovani arcadori di Caccamo saettarono il giustiziere affacciatosi dalle mura; e lui caduto, avventossi la gente tutta all'assalto; occuparon la fortezza; trucidarono tutti i soldati; i cadaveri gittarono in pezzi ai cani e agli avvoltoi. Tornossi l'oste in Palermo[20].

Intanto volando strepitosa la fama di terra in terra, fu prima in que' contorni Corleone a levarsi, come principale di popolazione e importanza, e anco per cagion de' molti lombardi nimici al nome angioino e guelfo[21], e degli insoffribili aggravî che le avea portato la vicinanza de' poderi del re. Questa città, soprannominata poi l'animosa, gittandosi certo con grande animo appresso alla capitale, mandavale oratori Guglielmo Basso, Guglielmo Corto, e Guigliono de Miraldo, ad offrir patti di unione, fedeltà e fratellanza tra le due cittadi; scambievole aiuto con arme, persone, e danaro; reciprocità de' privilegi di cittadinanza, e della franchigia di tutte gravezze poste su i non cittadini. Ignoriamo or noi se venne da' reggitori repubblicani di Palermo o dai patriotti di Corleone il pensiero della lega, ma a chiunque si debba, esso per certo dà a veder preponderante in que' primi principî l'elemento municipale, e sostituito alla connessione feudale il legame federale {124} de' comuni, che fu il vessillo sotto il quale la rivoluzione del vespro occupò tutta l'isola. Convocato il popol di Palermo, assente a una voce que' patti; e per suo comando, i capitani e 'l consiglio della città giuranti sul vangelo co' legati di Corleone a dì tre aprile, e stendonsi in forma d'atto pubblico[22]; promettendo anco Palermo aiutar l'amica città alla distruzione del fortissimo castel di Calatamauro[23]. Intanto un Bonifazio eletto capitan del popolo di Corleone, con tremila uomini uscì a battere il paese d'intorno: dove fur messi a ruba e a distruzione i poderi del re; domati all'uopo della siciliana rivoluzione gli armenti che si nudriano con tanta cura per l'esercito d'Oriente; espugnate le castella dei Francesi; saccheggiate le case; e tanto spietata corse la strage, che al dir di Saba Malaspina, parea ch'ogni uomo avesse a vendicar la morte d'un padre, d'un fratello o d'un figlio; o fermamente credesse far cosa grata a Dio a scannare un Francese[24]. Così {125} propagavasi in pochissimi dì il movimento per molte miglia all'intorno, da medesimità di umori, prepotenza d'esempio, e vigor de' sollevati. Ebbe pure in parecchi luoghi una sembianza, che inesplicabile sarebbe a chi volesse non ostante il detto di sopra trovar ordimento e cospirazione in codesti tumulti. Perchè le popolazioni di gran volontà mettevano al taglio della spada gli stranieri, ma dubbiavan poi a disdire il nome di re Carlo[25]. Per altro pochi giorni tentennarono, che le rapì quell'una comun passione, e la forza dei ribelli: onde a mano a mano chiarironsi anch'esse, scelsero i condottieri di loro forze a combattere i Francesi, scelsero lor capitani di popolo; e questi alla capitale inviarono, la cui riputazione le avea fatto sì audaci, e tutte in essa or affidavansi e speravano[26].

Raccolto in Palermo questo nocciol primo dei rappresentanti della nazione, ispirolli quel valor medesimo onde in una breve notte erasi innalzato a grandezza di rivoluzione il tumulto palermitano. Rincoravanli col brio dei maschi petti la plebe, mescolata de' sollevati di tutte le altre terre, che discorrea la città raccontando impetuosamente d'uno in uno i durati oltraggi e la vendetta, e alto gridando: «Morte pria che servire a' Francesi.» Onde appena congregato il parlamento de' sindichi della più parte di val di Mazzara, assentiva il reggimento a repubblica sotto il nome della Chiesa, «Evviva, romoreggiava il popolo interno, evviva! libertà e buono stato;» e tutti ad osar tutto accendeansi, quando Ruggier Mastrangelo, a rapirseli sì innanzi che potesser dominare gli eventi, risoluto sorgeva ad orare in questa sentenza:

«Forti parole, terribili sagramenti ascolto, o cittadini, ma all'operare niun pensa, come se questo sangue che si versò, compimento fosse di vittoria, non provocazione a {126} lotta lunga, mortale! E Carlo, il conoscete voi, e i manigoldi suoi mille, e vi trastullate a dipingere insegne! Lì in terraferma le genti, le navi pronte alla guerra di Grecia; lì brucian di vendetta i Francesi; entro pochi dì su noi piomberanno. Trovin porti schiusi allo sbarco; trovin l'aiuto de' nostri vizi; ed ecco che si spargono per la Sicilia; gl'incerti popoli sforzano con l'arme; ingannanli co' nostri odî malnati; seduconli a promesse; li strascinano a tutt'obbrobrio di servitù, e a impugnar contro noi l'armi parricide. Libertà o morte or giuraste; e schiavitù avrete, e non tutti avrete la morte: chè stanchi alfine i carnefici, serbano a lor voglie il gregge de' vivi. Siciliani! ai tempi di Corradino pensate. Sterminio ne sarà lo starci; l'oprare, gloria e salvezza. Col nerbo di nostre forze, bastiamo a levar tutto infino a Messina il paese; e Messina or no, non sarà dello straniero: comuni abbiano legnaggio, e favella, e glorie passate, e ignominia presente, e coscienza che la tirannide e la miseria delle divisioni son frutto. Insanguinata la Sicilia tutta nelle vene degli stranieri; forte nel cuor dei suoi figli, nell'asprezza de' monti, nella difesa de' mari, chi fia che vi ponga pie' e non trovi aperta la fossa? Il Cristo che bandìa libertà agli umani, ei che ispirovvi questo santo riscatto, ei vi stende il braccio onnipossente se da uomini or voi vi aiutate. Cittadini, capitani dei popoli, io penso che per messaggi si richieggan tutte le altre terre di collegarsi con esso noi nel buono stato comune: che con le armi, con la celerità, con l'ardire s'aiutino i deboli, si rapiscano i dubbiosi, combattansi i protervi. A ciò spartiti in tre schiere corriam l'isola tutta a una volta. Un parlamento generale maturi i consigli poi, unisca le volontà, e decreti gli ordini pubblici; chè Palermo, ne attesto Iddio, Palermo non sogna dominio; ma la comun libertà cerca, e per sè l'onor solo de' primi perigli.»

«E il popolo di Corleone, ripigliò Bonifazio, seguirà {127} le sorti di questa generosa città, della Sicilia ornamento e presidio. Tremila suoi prodi Corleone qui manda, a vincere o morir con voi. Sì, ma se morir dovremo, cada insieme chiunque patteggi per lo straniero nell'ora del sicilian riscatto. Ruggiero, animoso tu nella pugna, savio tu nel consiglio, la parola di salvezza parlavi. Orsù tradisce la patria chi tarda; prendiamo l'armi, ed andiamo.[27]»

«Andiamo andiamo!» risposegli tonante la voce del popolo[28]: e con meravigliosa prestezza cavalcarono i corrieri, s'adunarono gli armati, e in tre schiere spediti mossero. L'una a manca ver Cefalù, l'altra a dritta su Calatafimi prese la via, la terza s'addentrò nel cuor dell'isola per Castrogiovanni[29]: e le insegne spiegavano del comune, con le chiavi della Chiesa dipinte intorno intorno; e la fama precorreale, e il desio degli animi. Indi senza contrasto ogni terra disdisse il nome di re Carlo; con una concordia bella, se non era anco nello spargimento del sangue francese. A' Francesi dieron la caccia per monti e selve; li oppugnarono ne' castelli; perseguitaronli in cento guise, con tal rabbia che ai campati dalle mani dei nostri venne in odio la vita, e dalle più munite rocche, dagli asili più riposti si dier nelle mani del popolo che chiamavali a morte; taluno dall'alto di una torre si lanciò. In qualche luogo per vero furono, per virtù loro o fortuna, {128} scacciati soltanto, spogli sì d'ogni cosa; e rifuggiansi questi a Messina[30]. Ma avrà eterna fama il caso di Guglielmo Porcelet, feudatario o governatore di Calatafimi, stato giusto ed umano tra lo iniquo sfrenamento de' suoi. Nell'ora della vendetta e nei primi impeti, giunta a Calatafimi l'oste di Palermo, non che perdonar la vita a Guglielmo e ai suoi, lo confortò e onorò molto, e rimandollo in Provenza: il che mostri come il popolo degli eccessi suoi n'ha ben d'onde[31].

A guadagnar Messina in questo mezzo ogni sforzo fu posto[32], non essendo chi non vedesse l'importanza del sito, del porto, della grossa e opulenta città; nella quale stava il nodo della guerra; e necessità stringea di trarsela amica, o piombar tutti disperatamente su lei. Di Messina temeasi per le ruggini antiche; ma se ne sperava per essersi aperti gli animi nelle afflizioni recenti, ed anco per aver molti Messinesi in Palermo soggiorno, e cittadinanza, e appicco di commerci e parentele. Si die' opera alle pratiche dunque; che delle private e più efficaci non è passata infino a noi la memoria; delle pubbliche ne resta una lettera data di Palermo il tredici aprile, che fu spacciata per messaggi, e incomincia: «Ai nobili cittadini dell'egregia Messina, sotto re Faraone schiavi nella polve e nel fango, i Palermitani salute, e riscossa dal servil giogo col braccio di libertà. E sorgi, dice l'epistola, sorgi o figliuola di Sionne, ripiglia l'antica fortezza…. abbian fine i lamenti che partoriscon dispregio; dà di piglio alle armi tue, l'arco e la faretra; sciogli i vincoli dal tuo collo;» e Carlo or va chiamando Nerone, lupo, lione, immane drago; e or volta {129} alla città di Messina sclama: «Già Iddio ti dice: togli in collo il tuo giaciglio e va, che sei sana,» or i cittadini esorta «a pugnare con l'antico serpente, e rigenerati nella purezza de' bambini, succhiare il latte di libertà, cercar giustizia, fuggire calamità e vergogna[33].» Mentre i Palermitani con tai faville bibliche tentavano que' cittadini, Erberto d'Orléans s'afforzava nelle armi straniere, e nei nobili Messinesi di parte angioina, che s'eran prevalsi in cento soprusi contro i lor concittadini, ond'ora strettamente per lo vicario teneano. E dapprima inviò ad osteggiar Palermo sette galee messinesi, sotto il comando di Riccardo Riso, colui che nel sessantotto con poche navi aveva osato affrontar tutta l'armata pisana, e or correa nella guerra civile a perder l'onore di cittadino e il nome di prode. Perchè congiuntosi con quattro galee d'Amalfi, che ubbidiano a Matteo del Giudice e Ruggier da Salerno, a bloccare il porto di Palermo si pose: e com'altro non potea, approcciato {130} alle mura facea gridare il nome di Carlo, e a' nostri minacce e villanie. Ma rispondean essi nella mansuetudine dei forti: «Nè le ingiurie renderebbero, nè i colpi: fratelli i Messinesi e i Palermitani; sol nemici i tiranni: quelle armi contro i tiranni volgessero.» E inalberavan su i muri a canto all'aquila palermitana, lo stendal della croce di Messina[34].

E la città di Messina, o que' ne teneano il municipal governo, a dimostrazione di lealtà, il dì quindici aprile mandavano cinquecento lor balestrieri capitanati da un cavalier Chiriolo messinese, a munir Taormina, che non l'occupassero i sollevati[35]. Il popolo al contrario, sentendosi bollire il sicilian sangue nelle vene, com'incalzavan gli avvisi del tumulto di Palermo, e degli altri, e dello eromper de' sollevati per l'isola, delle stragi, delle fughe, de' mille casi accresciuti o composti dalla fama; e come i Francesi vedea pavidi e ignudi riparar anelando in Messina, cominciò a digrignar contro i soldati d'Erberto[36], ch'erano un grosso di secento cavalli tra francesi e calabresi, condotti da Pier di Catanzaro; e pareano al vicario sì duro freno che il popolo non sel trarrebbe giammai[37]. Onde il popolo che ciò sapea, una volta proruppe in ferocissime parole, che per poco si rimase da' fatti: e quei vedendosi mal sicuri in città, parte si ritraeano nel castel di Matagrifone, parte nel real palagio presso Erberto, il quale in mal punto volle far mostra di gagliardo; con che {131} il popol dubbio si doma, il risoluto s'affretta. Perchè mandati novanta cavalli con Micheletto Gatta ad occupare le fortezze di Taormina, quasi non fidandosi de' Messinesi del presidio, costoro che li vedean salire sì alteramente in ostile sembianza, stimolati da un cittadino per nome Bartolomeo, li salutarono con un grido di ingiuria e una grandine di saette; e appiccarono la zuffa. Caddervi quaranta Francesi: gli altri a briglia sciolta si rifuggiro nel castello di Scaletta: e i nostri, abbattute le insegne di Carlo, su Messina marciarono a sforzarnela a ribellione.

Dove tra' mille che voleano e non osavano, Bartolomeo Maniscalco popolano, con altri molti congiurò a dar principio ai fatti. Intanto preparandosi le armi a respingere i sollevati di Taormina, deploravano i cittadini più posati la imminente effusione del civil sangue; il popolo stava a guinzaglio[38]; nè erano neghittosi i cospiratori. Forse allor fu, ch'entrata in porto una galea palermitana, dandosi a trucidar alcuni Francesi, affrettava l'evento[39]: ma raro avviene in così fatti incendi scerner netto qual fosse la prima scintilla. Era il ventotto aprile. Scoppian tra la commossa plebe le grida «Morte ai Francesi, morte a chi li vuole!» e incominciano gli ammazzamenti: pochi allora, perchè il minacciar sì lungo avea sgombrato dalla città la più parte de' Francesi. Maniscalco in questo coi suoi fidati, innalza in luogo dell'abborrita insegna d'Angiò la croce messinese: per poco ei capo del popolo; ma fosse modestia sua, o forza de' cittadini maggiori che prevalson sempre nell'industre Messina, per loro consiglio la notte stessa risegna il reggimento al nobil uomo Baldovin Mussone, poche ore innanzi tornato con Matteo e Baldovin de Riso dalla {132} corte di Carlo. La dimane poi ragunato in buona forma il consiglio della città, Mussone fa salutato a pien popolo capitano: e invocando il nome santo di Cristo, si bandì la repubblica sotto la protezion della Chiesa: con grandissima pompa fu spiegato il gonfalone della città. Eletti insieme a consiglieri del nuovo reggimento, i giudici Rinaldo de' Limogi, Niccoloso Saporito, l'istorico Bartolomeo de Neocastro, e Pietro Ansalone; e gli officiali tutti, financo i carnefici, quasi a mostrare che la spada della giustizia sottentrasse a disordinata violenza; ma troppo presto era ciò per tanto rivolgimento. Richiamaronsi il dì trenta aprile le galee da Palermo; inviaronsi in vece messaggi di amistà e federazione[40].

Erberto, non più sicuro nella sua rocca, all'intendere que' casi ripigliò il vecchio ordegno delle divisioni, senza migliore fortuna. Della famiglia Riso[41], che s'era con lui {133} serrata per coscienza di colpe, spacciò Matteo a tentare il Mussone. Al quale venuto Matteo, dinanzi gli altri consiglieri {134} ammonivalo con le parole d'una torta politica: ripensasse alla smisurata possanza del re: questo pazzo tumulto rapire a Messina il premio che già se le apparecchiava per la ribellione palermitana: che gli erano i Palermitani ch'avesse a insanir con loro? in che re Carlo avea offeso lui o la città? «Tu, diceagli, poc'anzi leale al re, a noi amico, e nel viaggio compagno, tu quest'odio covavi nel cuore! E or, non che trattenere il popol da tanta ruina, furibondo lo sproni! Per te, per la patria ormai fa senno; tempo ancor n'è[42].» Ma sdegnoso gli die' in sulla voce Baldovino, meglio intendendo l'onore e gl'interessi della città, che quei medesimi della Sicilia erano; nè i consiglieri e' cittadini dubbiarono tra il far Messina meretrice dello straniero, o libera sorella delle altre siciliane città. Rigettati però que' volgari inganni, Baldovino solennemente innanzi al Riso rinnovava il giuramento di mantenere la siciliana libertà o morire; ed esortollo a seguir egli stesso la santa causa: conchiuse, tornasse ad Erberto a offrir salva la vita a lui e ai soldati, se lasciato armi e cavalli e tutt'arnese, dritto ad Acquamorta navigassero, promettendo non toccar terra di Sicilia, nè altra vicina. I quali patti assentì il vicario; e li infranse appena con due navi ebbe valicato mezzo lo stretto; che in Calabria tutto pien d'ostili disegni approdò, a congiungersi[43] con {135} Pier di Catanzaro; il quale avvisato di quanto s'ordiva, s'era già prima imbarcato co' suoi Calabresi, abbandonando sì cavalli e bagaglio all'ira del popolo[44].

Alle condizioni medesime del vicario s'arreser poi con tutte lor genti Teobaldo de Messi, castellan della rocca di Matagrifone, e Micheletto co' rifuggiti a Scaletta: de' quali il castellano, imbarcato sur una terida, più volte dal porto fe' vela, e i venti o il suo fato vel risospinsero; l'altro nel castello fu rinchiuso, e i soldati suoi nel palagio della città, a sottrarli al furor della moltitudine. Nè campavan essi perciò. Ritornavano il dì sette maggio le galee da Palermo, portando prigioni due di quelle d'Amalfi state lor compagne, e gli animi o dallo esempio accesi, o esacerbati dal dispetto della snaturata e inutil fazione contro Siciliani: onde a sfogarli chiedeano sangue francese. I cittadini rinnaspriva intanto la rotta fede d'Erberto. Perilchè, come la galea di Natale Pancia, entrando in porto, rasentò la terida del castellano, fattole cenno di terra, salta la ciurma su quella nave, afferra e lega i prigioni, e li scaglia a perir miseramente in mare. A tal esempio ridesto subitamente il furore in città, corresi al palagio; i soldati presi a Scaletta popolarmente son trucidati. A stormo suonavano le campane; i radi partigiani de' Francesi tremando rannicchiavansi; armato e insanguinato il popol calava a torrenti. Al suo furore non fecero argine i maggiori della città: chè anzi, scrive il Neocastro partecipe al certo de' consigli, presero a camminare più franchi nelle vie della rivoluzione, vedendovi sì intinta e ingaggiata la moltitudine[45]. {136}

Per tal modo entro il mese di aprile[46], cominciata in Palermo con disperato coraggio, comunicata a tutta l'isola con attività e consiglio, si fornì in Messina questa memoranda rivoluzione, che dall'ora del primo scoppio s'addimandò il vespro siciliano. Vi fur morti, dice il Villani[47], da quattro mila Francesi; e, qualunque sia stato il numero, che non abbiamo da più sicure fonti, certo vasta corse e miseranda la strage, ma necessaria in quel tempo; onde a ragione il popol nostro orgogliosamente serba infino ad oggi le memorie di quell'antica feroce virtù. E ben gli scrittori d'Italia contemporanei, disserla, chi maravigliosa e incredibile, chi opera diabolica ovvero divina; quando non solamente franse il potere di re Carlo, tenuto fino allora invincibile; ma nella stessa prima conflagrazione, invano tentarono i governanti di ridur Palermo con le undici galee, invano di fortificare o tener in fede {137} gli altri luoghi più vicini a Messina: e non vi fu inespugnabil fortezza che non cadesse sotto le mani de' liberatori, non città o terra che non li seguisse. Ricorda pur la tradizione, e d'oggi in poi il proverà anche un documento, come il castel di Sperlinga, capitanato da Pietro Lamanno, solo in tutta l'isola facesse lunga difesa, per virtù del presidio, e fede de' terrazzani; che passò poi in proverbio: «Ciò che ai Siciliani piacque, Sperlinga sola negò;» e il popolo tuttavia punge con tal motto chi discordi da un voler comune. Onde i soldati del presidio e i terrazzani n'ebbero sorte diversa; e ciascun secondo suo merto: i primi lodati e guiderdonati dal governo angioino[48]; i secondi passati appo la nazione con ingrata memoria, per tal pertinacia in un reo partito, che non merta dirsi costanza. Ma da queste poche centinaia in fuori, è maravigliosa la unanimità di quegli antichi nostri; tanto più, quanto eran prima, e furon appresso del ricordato periodo, straziati da divisioni municipali, e tutte nel vespro si tacquero; anzi Messina generosamente si die' al movimento comune, non ostante che allora il vicario di re Carlo sedesse in Messina, e che dopo il vespro Palermo ripigliasse l'influenza antica nel governo dell'isola. Ma la unanimità nelle grandi masse agevol è per uguaglianza di brame e forza di esempio. E per tal cagione i fatti di Palermo con le medesime sembianze nacquero successivamente in ogni luogo, e si ebbero i medesimi ordini, de' quali or faremo parola. {138}

Il reggimento a comune sotto il nome della romana Chiesa, prendean, come s'è narrato, tutte le città e terre[49], fors'anco le baronali, di cui molte avean cacciato i feudatari francesi, tutte godeano il privilegio di municipalità, secondo gli ordini pubblici de' tempi normanni e svevi. Fatte dunque repubbliche, il popolo elesse, dove uno, dove parecchi capitani, e vario numero di consiglieri; i quali dapprima furono popolani, o nobili senza grandi vassallaggi, militi, che è a dir cavalieri, scelti come ogni altro cittadino per propria riputazione; e se alcun d'essi nascea d'illustre sangue, il poco avere e l'ambizione il rendea popolano[50]. E ciò intervenne in un reame stato due secoli feudale, perchè i baroni stranieri e nuovi, abborriti per quegli aggravî ch'erano inusitati in Sicilia, caddero involti nella medesima ruina del governo regio; i baroni antichi, pochi di numero, battuti delle proscrizioni e dalla povertà, non eran forti abbastanza. Per tali cagioni, e per l'impeto del movimento che nacque dal popolo, par siano stati democratici al tutto quegli ordinamenti repubblicani d'aprile milledugentottantadue. E in vero le deliberazioni più importanti si presero dal popol convocato in piazza[51]. Come le città libere d'Italia, le nostre si tenner l'una dall'altra indipendenti; ma ammonite dal pericolo che ognun vedea sovrastare, si strinsero in lega a mutua difesa e guarentigia[52]; se per marche o province {139} o unitamente nell'isola tutta, non ben si ritrae da' pochi diplomi avanzati infino a' nostri tempi, nè da' cronisti, che dir delle leggi o non sapeano, o sdegnavano. Dubbio indi è se per deliberazione della lega venissero sostituiti agli antichi giustizieri, o se fossero stati eletti capitani di popolo da tutti i comuni d'una o più province, que' che Saba Malaspina registra: Alamanno[53], capitano in val di Noto e poi in tutta l'isola; Santoro da Lentini, in val Demone e nel pian di Milazzo; Giovanni Foresta, in quel di Lentini; Simone da Calafatimi nei monti {140} de' Lombardi; e altri in altre regioni e città[54]: uomini ed ordini oggi oscuri, perchè nulla operarono, o perchè poco durarono; sendo sopraggiunto a capo di cinque mesi re Pietro, e prima prevalsa la fazione che, messa giù la repubblica, chiamollo al trono. Nè sembra che questi, o altri siano stati rivestiti della potestà che or chiameremmo esecutiva; perchè niun vestigio di loro autorità abbiamo nelle carte pubbliche nostre[55], o nelle fiere invettive della corte di Roma; ma in tutti i ricordi del tempo si scorge che le città, soprattutto Palermo e Messina, che vantaggiavano ogni altra di riputazione e di forza, operassero come corpi politici, collegati con le altre e non contaminati da discordia, ma independenti. I Palermitani infatti mandavano oratori al papa a ragguagliarlo de' successi, e impetrare la protezione della Chiesa[56]. I Messinesi più gradito messaggio spacciarono all'imperador Paleologo, un Alafranco Cassano da Genova, che per amor del popolo di Messina navigò tra gravi pericoli infino a Costantinopoli[57]. Nelle altre parti del governo dello stato, da sovrani operarono i magistrati del comune. Molti accordaron franchige: e quel di Messina rendeva all'arcivescovo il castel di Calatabiano, e {141} altri beni tenacemente negati dal fisco sotto la signoria di re Carlo[58].

Del rimanente certissimo appare che gl'interessi comuni dell'isola si maneggiassero per un'adunanza federale; la quale per l'antico uso si chiamò parlamento, ma in altro modo che i soliti parlamenti si compose; mancandovi il principe, e fors'anco i baroni: poichè nel primo principio di questa repubblica, sol veggonsi legami tra municipio e municipio, sol dicono gli storici di congregati sindichi delle città, d'invito a tutte le terre ad entrare per sindichi nel buono stato comune, e simili parole che suonano rappresentanza cittadinesca e non baronale. E come i parlamenti regi, senza tempo nè luogo certo, in quella età a comodo del re si adunavano; così questi, secondo i bisogni della nazione, in Palermo o in Messina[59]. Sovrastando le armi di re Carlo, i parlamenti prendean opportune deliberazioni: si fornisse di vittuaglia per due anni Messina: i valenti arcieri e balestrieri de' monti rafforzasser quella città: con uomini e navi si custodissero Catania, Agosta, Siracusa, importanti città sulla costiera di levante; e su quella di settentrione, Milazzo, Patti, Cefalù. Nascean tali appresti dall'uno irremovibil proposito di non tollerar mai più il giogo francese, nel quale tutti accordavansi, ancorchè nei mezzi si dissentisse; {142} quando chi pensava accostarsi alla Chiesa più strettamente e ribadir gli ordini di repubblica, e chi chiamare alcun principe straniero con giusti patti[60]. Ma senza sangue, senza accanite fazioni ciò si trattava. Bello indi l'immaginare questa siciliana famiglia, rinata a vita novella, che senza gelosia, senza veleni d'interiore nimistà, fervea nell'opera della comune difesa, strigneasi ne' consigli, adunava le forze, e pacata deliberava ad ordinare più stabile reggimento. Sperandosi durevole il presente, si pensò contar nuov'era dal gran fatto della rivoluzione; talchè in parecchi diplomi leggiamo l'intitolazione: «Al tempo del dominio della sacrosanta romana Chiesa e della felice repubblica, l'anno primo[61].»

A Procida, alla congiura, come nel capitol dinanzi accennammo, davano alcune cronache l'onore di questa nobil riscossa; e l'han seguito i più, talchè istorie e tragedie e romanzi e ragionari d'altro non suonano ormai. Io sì il credea, finchè addentrandomi nelle ricerche di queste istorie, mi accorsi dell'errore. Degli autori primi d'esso, pochi sono contemporanei, gli altri qual più qual meno posteriori, tutti sospetti da studio di parte, e vizio manifesto in alcuni fatti. Ma i contemporanei di testimonianza più grave, e italiani e stranieri, alcuno de' quali candidissimo, segnalato tra tutti Saba Malaspina, che fu pur marcio guelfo, e segretario di papa Martino, e informato meglio che niun altro de' casi di Sicilia, dicono al più di vaghi {143} disegni di Pietro; della cospirazione con Siciliani non fan motto; molto manco de' congiurati raccolti in Palermo: e portan come gl'insulti de' Francesi in quel dì, e più la «mala signoria che sempre accora i popoli soggetti, mosser Palermo»; che è la sentenza del sovrumano intelletto d'Italia[62], contemporaneo, veggente più che altr'uomo, e rigorosamente verace. Nè le scomuniche e i processi dei papi, nè gli atti diplomatici susseguenti contengon l'accusa della congiura motrice immediata del vespro; ma biasman Pietro d'aver preso il regno dalle mani de' ribelli, e averli sollecitato per messaggi dopo la rivoluzione. Concorre con l'autorità istorica la evidenza delle cagioni necessarie d'altri fatti che son certi: Pietro non essere uscito di Spagna, nè pronto, allo scoppio della rivoluzione: in questa nessuno scrittore far menzione del Procida: niuno de' maggiori feudatari primeggiar ne' tumulti, o nei governi che ne nacquero: la repubblica, non il regno di Pietro, gridarsi, e per cinque mesi mantenersi: popolani tutti gli umori: Pietro passar dopo tre mesi, e non in Sicilia, ma in Affrica: allora, stringendo i perigli, i baroni impadronitisi dell'autorità chiamarlo alfine al regno. Da questi e da tutti gli altri particolari, si scorge essere stata la rivoluzione del vespro un movimento non preparato, e d'indole popolana, singolare nelle monarchie dei secoli di mezzo. Se no; baroni che congiurano con un re, e gridan repubblica; cospiratori che senza essere sforzati da pericolo, danno il segno quando non hanno in punto le forze; fazione che vince, e abbandona lo stato ad uomini d'un ordine inferiore, sarebbero anomalie inesplicabili, contrarie alla natura umana, non viste al mondo giammai. Le varie narrazioni degli istorici, e i ricordi diplomatici leggonsi nell'appendice. A me par se ne raccolga: che Pietro {144} macchinava: che i baroni indettati con esso aizzavano forse il popolo, ma non si sentivano per anco forti abbastanza, e bilanciando e maturando forse non avrian mai fatto ciò che la moltitudine compì senza rifletterci. Il popol era mosso senza saperlo dall'antagonismo nazionale; ma ben sapea i suoi mali, e che rimedio ce n'era un solo. Gli aggravî per l'impresa di Grecia, gli oltraggi della settimana innanzi pasqua in Palermo, l'intollerabile insulto di Droetto colmaron, colmaron la misura: si trovò tra le tante migliaia una mente o leggiera o profonda, con una mano risoluta, che cominciò. Prontissimo il popol di Palermo di mano e d'ingegno, si lanciò in un attimo a quell'esempio, perchè tutti voleano a un modo, da parer congiura a mediocre conoscitore, che non pensi come sendo disposti gli animi, ogni fortuito caso accende sì eguale, che trama od arte nol può. Que' che si fecer capi del popolo allora preser lo stato; ordinaronlo a comune, come portavano gli umor loro; per la riputazione del successo il tennero, finchè la influenza de' baroni lentamente spiegossi, e il pericolo si fe' maggiore. Allora la monarchia ristoravasi; allora esaltavan re Pietro; allora, io dico, operava la congiura, se v'ebbe congiura; nel vespro non mai. Al meraviglioso avvenimento poi tutto il mondo cercò una cagione meravigliosa del pari: dopo breve tempo, il fatto del vespro e quel della venuta di Pietro si ravvicinarono e si confusero: scorsi alquanti più anni, trapelava qualche pratica anteriore: alcuno forse l'accrebbe, vantandosi. E nel reame di Napoli, e nell'Italia guelfa, e in Francia con maggiore studio si propalò quella voce della congiura; parendo gittar biasimo su i Siciliani, e scemarne al reggimento angioino. Così via corrompendosi il fatto, si passò dalla congiura di Procida con tre potentati, a quelle strane favole della uccisione di tutti i Francesi in Sicilia in un dì, anzi in un'ora, della cospirazione di una intera nazione per {145} molti anni; non che non vere, impossibili cose. L'ignoranza, le difficili comunicazioni, la rarità delle cronache, gli animi inchinati sempre più al meraviglioso che al vero, diffusero anco l'errore; come nei tempi nostri, in condizioni materiali che son tutto il contrario, avviene ancora. Gl'istorici successivi copiaronsi l'un altro; molti riferirono, senza dar giudizio, le due opinioni della congiura, e della sommossa spontanea. Tacendo qui gli altri, noterò come Gibbon dubitò, e solo perchè fu ingannato da uno anacronismo; Voltaire della congiura si rise. Non è baldanza dunque se affidato in tutte queste ragioni e autorità, la espressata opinione io sostengo[63].

NOTE

[1] Veggansi le liste de' castelli regi a p. 99 e seg.

[2] Parlandosi di tempi feudali questo non ha bisogno di prova. Nondimeno ricorderò il castel di Calatamauro, alla cui distruzione collegaronsi i Corleonesi e i Palermitani; e quel di Sperlinga, ove i Francesi fecer testa: i quali erano fortissimi senza dubbio, e pur non leggonsi nella lista dei castelli del re.

[3] Bart. de Neocastro, cap. 14.

[4] Anon. Chron. sic., cap. 38.

[5] È certo che in quell'anno la pasqua si celebrò a dì 29 marzo. Giovanni Villani porta il fatto di Palermo il lunedì 30 marzo, lib. 7, cap. 61; Bartolomeo de Neocastro similmente il 30 marzo, capit. 14. Ma Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 4, dice il 31; la storia anonima della cospirazione di Procida, e Bernardo D'Esclot, cap. 81, il martedì appresso la pasqua; e l'Anon. Chron. sic., l. cit., p. 145, e gli Annali di Genova, Muratori R. I. S., tom. VI, portano espressamente il 31 marzo, martedì appresso la pasqua. Ho seguito dunque questa autorità.

[6] Allora apparteneva a un monastero di Cisterciensi.

[7] I contemporanei tacciono il nome di costei, e della famiglia. Mugnos, scrittor del secento e favoloso, la disse figliuola di Ruggier Mastrangelo. Perchè ei non cita autore alcuno de' tempi, nè d'altronde si raccomanda per alcun lume di critica, nol citerò nè in questo, nè in altro luogo della narrazione.

[8] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.

Bart. de Neocastro, cap. 14.

Saba Malaspina, cont., pag. 354.

Montaner, cap. 43.

D'Esclot, cap. 81.

Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S. Tom. VI, pag. 576.

Giachetto Malespini, cap. 209.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.

Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit, pag. 264.

Nello Speciale si legge l'insulto del Francese altrimenti, e con troppa chiarezza: temerarius illam in…. titillavit.

Veggansi ancora gli altri contemporanei citati nell'appendice.

[9] Bart. de Neocastro, cap. 14 e 15.

Saba Malaspina, cont., pag. 355.

Veggansi ancora Montaner e d'Esclot ne' luoghi citati.

Il palagio di Palermo era una importante fortezza, come si scorge dal diploma del 6 agosto 1278, citato sopra a pag. 99, nota 2.

[10] Bart. de Neocastro, cap. 22.

La Cron. anonima della cospirazione dice tremila, a pag. 265.

[11] Bart. de Neocastro, cap. 15.

[12] Fazello, Istoria di Sicilia, deca 2, lib. 8, cap. 4.

Ai tempi del Fazello si mostravan di queste sepolture presso la chiesa di San Cosmo e Damiano.

[13] Questa colonna restò lungo tempo in piazza Valguarnera; e oggi, rimossa dal centro, si vede nell'angolo orientale dell'isolato del convento di Sant'Anna la Misericordia. È assai rozza, nè gli artisti la credono del secolo XIII. Ma ciò non dee toglier fede alla tradizione; perchè la colonna potè essere alzata, o rinnovata molto tempo appresso.

[14] Saba Malaspina, cont., pag. 355.

[15] Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 264, ove leggesi: « Andaru, a li lochi di frati minuri, e frati predicaturi, e quanti ci ndi truvaru chi parlassiru cu la lingua francisca li aucisiru 'ntra li clesii. » Ciò si riscontra con la tradizione dell'uccider cui parlava con l'accento straniero.

[16] Saba Malaspina, cont., pag. 355 e 356.

Cron. anon., loc. cit., pag. 265.

Bart. de Neocastro, cap. 14.

Chron. S. Bert. in Martene e Durand, Anec., tom. III, pag. 762.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.

Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.

Franc. Pipino, ibid., pag. 686.

Giachetto Malespini, cap. 209.

E gli altri citati nell'appendice.

[17] Bart. de Neocastro dice Mastrangelo capitano con parecchi consiglieri. Questi furono, Pierotto da Caltagirone, Bartolotto de Milite, notaio Luca di Guidalfo, Riccardo Fimetta milite, e Giovanni di Lampo. I quali nomi e quei degli altri tre capitani di popolo, si leggono nel diploma riportato, Docum. IV.

Questo diploma, inedito e poco o niente conosciuto, ci mostra anche il principio della federazione tra le nascenti repubbliche siciliane, e la forma del novello governo municipale di Palermo.

Il bajulo, negli ordini normanni e svevi, era il magistrato d'ogni comune, con giurisdizion civile, e carico della riscossione delle entrate regie, e di quella che in oggi si dice amministrazione civile. Nell'esercizio della giurisdizione l'assisteano uno o più giudici. Su le faccende più rilevanti, deliberavano talvolta i cittadini adunati a consiglio. Nella rivoluzione, preso dal popolo il poter politico, la parte esecutiva s'affidò a quegli stessi capitani di popolo che l'imperator Federigo avea vietato tanto severamente, e ad alcuni consiglieri. In fatti la proposta della lega con Corleone è fatta a questi nuovi magistrati, stando presenti soltanto il bajulo e i giudici; ma questi ultimi poi nella stipolazione dell'atto federativo che contenea anche reciprocità di franchige dalle tasse municipali, non restarono spettatori oziosi, nè intervennero per la sola forma come il notaio e i testimoni, ma insieme col capitano e i consiglieri, e tutti a nome e per mandato del popolo, fermarono i patti, e giuraronli. Anzi i loro nomi sono scritti immediatamente dopo que' de' capitani e prima de' consiglieri. Donde è chiaro che nell'affidarsi il novello potere a' nuovi magistrati, si lasciò agli antichi il maneggio della parte amministrativa, perchè era tempo da pensare ad altro che a riforme di questa natura.

Del capitan del popolo di Palermo dopo il vespro, d'Esclot non dice il nome, ma che fu un cavaliere savio e valente. Saba Malaspina nomina il Mastrangelo, che forse fu il principale, ed ebbe tutta la riputazione. Montaner lo confonde con Alaimo da Lentini.

[18] Bart. de Neocastro, cap. 14.

Anon. Chron. sic., pag. 147.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.

[19] Il castel di Vicari in fatto si legge tra le fortezze regie di Sicilia nel citato diploma del 6 agosto 1278.

[20] Bart. de Neocastro, cap. 15; e con errori la Cron. anon. sic., a pag. 264.

[21] Veggasi il diploma del 20 febbraio 1248, citato qui appresso, cap. 13.

[22] Veggasi il documento IV. Corleone era città di molta importanza. Oltre le tante memorie che ne dà l'istoria, non è superfluo notare che addimandavasi di Corleone un antico ponte su l'Oreto, del quale gli avanzi ritengono l'antico nome, e si veggono a mezzo cammino a un di presso tra i novelli due ponti della Grazia e delle Teste. Si ricordi che nella distribuzione di moneta del 1279 (Docum. III), Corleone fu tassata poco men che il terzo di Palermo, e quasi al paro di Trapani. Questo rincalza la testimonianza del Malaspina pe' 3,000 nomini che Corleone mandò in oste pochi giorni dopo il vespro.

[23] Castello a dieci o dodici miglia da Corleone, tra i comuni di Contessa e Santa Margherita; e or i contadini il chiamano Calatamaviri. Se ne veggono le rovine sulla sommità di un poggio di base triangolare, inaccessibile da due lati, aspro ed erto del terzo, che sta a cavaliere alla strada tra quei due comuni, a manca di chi dal primo vada al secondo. Due ordini di grosse mura cingeano per tutta la larghezza quella sola costa accessibile del monte; sorgea sulla cima una torre, della quale restan le vestigia, e sì delle case sparse ne' due ricinti. Entro il secondo v'ha una cisterna capace, ben costruita, e ben conservata. Da tai ruderi si può anche argomentare la importanza di questa fortezza, che tenea in molto sospetto i vicini.

[24] Saba Malaspina, cont., pag. 356.

[25] Bart. de Neocastro, cap. 18.

[26] Saba Malaspina, loc. cit.

[27] Questi discorsi di Ruggiero e Bonifazio son portati da Saba Malaspina, cont., pag. 356 a 358, non sappiamo se per uso istorico, o perchè ei li seppe veri. In ogni modo mi è parso conservarli; e molte inutili frasi n'ho tolto, poco o nulla aggiuntovi del mio.

[28] Saba Malaspina, cont., pag. 358.

Di questa mossa parla anche d'Esclot, cap. 81, con minore esattezza nei particolari, ma sano giudizio dell'intento; scrivendo come que' di Palermo rifletteano che non uscirebber salvi da questa rivoluzione, se non procacciando il medesimo effetto per tutta l'isola.

Anche Montaner, cap. 43, accenna questo progresso della rivoluzione; ma al solito suo con molti errori.

[29] Anon. chron. sic., pag. 147.

[30] Saba Malasplna, cont., pag. 358.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.

La uccisione progressiva de' Francesi è anche riferita dal Montaner, cap. 43.

[31] Bart. de Neocastro, cap. 15.

[32] Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.

[33] È pubblicata questa epistola dall'Anon. chron. sic., pag. 147 a 149, nella Bibl. arag. del Gregorio, tom. II; dal Lünig, Codex Italiæ diplomaticus, tom. II, n. 49, ma con errore di data; e in altri libri.

Mi è parso pregio dell'opera trascrivere nel docum. V questa epistola, importantissima per l'argomento e per lo stile.

Essa fu tenuta in molto pregio in que' tempi, e si trova in molte collezioni epistolari. Avvene una copia nella Bibl. reale di Francia, MS. 4042, ch'è un volume di epistole di Pietro delle Vigne, del card. Tommaso da Capua e d'altri. È seguita immediatamente dalla prima bolla di scomunica di Martino IV, e da una risposta a quest'atto del papa, indirizzata a' cardinali, che io pubblico al docum. VII.

L'autenticità di questo documento per altro è convalidata dal d'Esclot, cap. 81, il quale ne porta una parafrasi, sovente con le medesime parole del nostro originale; se non che la data, certo erronea, è del 14 maggio.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, dice ancora di tali pratiche «di quegli di Palermo contando le loro miserie per una bella pistola, e ch'elli doveano amare libertà, e franchigia, e fraternità con loro.»

Bart. de Neocastro a cap. 19 e 20 foggia a suo modo, lontanissimo da ogni verosimiglianza, e l'epistola e la risposta, con quella che gli pareva arte oratoria, e quel che gli pareva amor della sua patria.

[34] Bart. de Neocastro, cap. 15.

Anon. chron. sic. pag. 147.

Fazzello, deca 2, lib. 1, cap. 2, racconta una battaglia tra queste navi messinesi e le palermitane, capitanate da Orlando de Milio esule di Palermo. Seguendo il mio proposito di non prestar fede che ai contemporanei, ho taciuto questo fatto, niente certo e brutissimo.

[35] Bart. de Neocastro, cap. 24.

[36] Bart. de Neocastro, ibid.

[37] Saba Malaspina, cont. pag., 358.

[38] Bart. de Neocastro, cap. 24.

[39] Anon. chron. sic., pag. 147.

D'Esclot, cap. 81, porta troppo brevemente la rivoluzione di Messina, e non senza inesattezze.

[40] Bart. de Neocastro, cap. 24, 25, 30.

I nomi di quei giudici si ritraggono da un diploma del 10 maggio 1282, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116, trascritto dal tabulario della chiesa di Messina. Ivi si legge l'intitolazione:

Tempore dominii Sacrosanctæ Romanæ Ecclesiæ et felicis communitatis Messanæ anno I. Residente Capitaneo in Civitate Messanæ nobili viro domino Baldoyno Mussono una cum suscriptis judicibus civitatis ejusdem, etc. Or questo una cum, fa comprendere che i detti giudici, nome che allor davasi a tutti i legisti, fossero compagni nel governo al capitano, cioè i consiglieri de' quali parla il Neocastro, ch'era un d'essi appunto.

[41] Da tutte le memorie del tempo appare, che questa famiglia de Riso da Messina fu nobile, e potente, e piena d'uomini valorosi, ancorchè sventuratamente si fossero gittati al tristo cammino di parteggiare contro la patria. Di ciò fu punita severamente questa schiatta: spentane la più parte; gli altri condotti a mendicare un pane da' nemici del lor paese. De' tre fratelli di cui fa menzione il Neocastro, per nome Riccardo, Matteo, e Baldovino, questi ultimi furono morti a furia di popolo in Messina di giugno 1282; il primo dicollato sopra una galea alle bocche del golfo di Napoli dopo la battaglia del 6 giugno 1284, nella quale avea portato le armi contro i suoi concittadini. Giacomo e Parmenio loro nipoti, de' quali anche parla il Neocastro, e Arrigo, Niccoloso, un altro Matteo, Squarcia, Scurione, e Francesco, di cui veggonsi i nomi in parecchi diplomi, si rifuggirono in terra di nimici, e da loro ebbero sussidi, ufici lucrativi, e aspettativa di feudi. Mi par bene porre qui una lista di documenti risguardanti questa famiglia.

1274.—Niccoloso de Riso era giustiziere in Bari. Diploma del 27 maggio quinta Ind. (1277), r. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 29, a t.

1286, 9 luglio.—Diploma di re Giacomo di Sicilia. Concede a Guglielmo Conto, e a Venuta da Messina alcuni beni di maestro Palmiero (forse Parmenio) de Riso, fellone, e di Niccoloso de Riso figliuolo del fu Corrado; il qual Niccoloso era stato preso nella battaglia del porto di Malta, ed era prigione tuttavia. Pubblicato dal di Gregorio, Bibl. arag., tom. II, pag. 500.

1287, 15 gennaio.—Sussidio di once dodici all'anno, dato da' governanti di Napoli alla famiglia di Parmerio de Riso uscito di Sicilia. Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 21.

1292, 8 luglio.—Sussidio di once due al mese ad Arrigo de Riso, che per fedeltà al re avea perduto ogni cosa. Ibid., pag. 94.

1298, 29 settembre e 10 ottobre.—A Squarcia de Riso, giustiziere d'Apruzzo oltre il fiume di Pescara. Ibid., pag. 207.

1299, 19 marzo.—Diploma di Carlo II, pel quale è conceduto Squarcie de Riso Messane militi dilecto familiari et fideli suo il castello e terra Sancti Filadelli situm in valle Demonis (San Fratello) in luogo di quel di Sortino datogli olim serviciorum tuorum intuito, ma non occupato dalle armi regie. Reg. del r. archivio di Napoli. 1299, A, fog. 48, a t. 1299, 9 aprile.—Per consegnarsi della moneta dalla zecca di Napoli ad Arrigo de Riso da Messina fedele del re, ec. Ibid., fog. 31, a t.

Detto, ultimo aprile.— Mattheo de Riso militi statuto super recollectionem presentis donj in Aversa. Ibid., fog. 66.

Detto, 2 maggio.— Henrico de Riso de Messana militi, per altre faccende di re Carlo. Ibid., fog. 66.

Detto, 5 maggio.—Assegnata una rendita di 30 once all'anno in dote a Cecilia de Riso, figliuola di Squarcia, in merito della fedeltà di costui, e dei gravi danni sostenuti ne' suoi beni. Ibid., fog. 55, a t.

Detto, 9 giugno.—Accordate cent'once in dote alla figliuola di Scurione de Riso milite, ch'era esule e soffrente per lealtà.—-Ibid., fog 90, a t.

Detto, 23 giugno.—Conceduta a Squarcia de Riso la terra di Melise in val di Crati. Ibid., fog. 96.

Detto, 14 luglio.—Conceduta a Matteo ed Arrigo de Riso militi, e a Francesco de Riso da Messina la terra di Geremia in Calabria. Ibid.

[42] Son le parole stesse del Neocastro voltate in italiano, e in qualche luogo abbreviate.

[43] Bart. de Neocastro, cap. 25, 26.

Alcuni istorici de' secoli appresso affermarono che Erberto fosse stato ucciso a Messina. La verità della testimonianza di Bartolomeo de Neocastro è confermata da vari diplomi, che mostrano Erberto vivente e al servigio di Carlo, dopo la rivoluzione di Messina. Leggonsi nel r. archivio di Napoli, il primo nel reg. 1283, A, fog. 81, ch'è dato di Napoli il 21 giugno duodecima Ind. (1284); l'altro a fog. 50 dato di Cotrone il 19 agosto dello stesso anno; e tra il fog. 15 e il 18 parecchi altri indirizzati a questo Erberto giustiziere di Principato, o riguardanti lui stesso.

[44] Saba Malaspina, cont., pag. 358.

[45] Bart. de Neocastro, cap. 27, 28, 29, 30.

Conferma che Teobaldo de Messi sia stato castellano del castello di Messina, appunto come dice il Neocastro, un diploma del 21 marzo 1278; dal quale anco si vede che al presidio di quella rocca eran posti cavalieri e fanti oltramontani, pagati i primi alla ragione di un tarì d'oro, gli altri di grana otto al giorno. R. archivio di Napoli, reg. segnato 1268, A, fog. 143.

Sembra che vi fossero stati, ancorchè pochissimi, oltre la famiglia Riso altri partigiani de' Francesi.

In un diploma di Carlo I dato il 20 settembre duodecima Ind. (1283) è ordinato al capitano di Geraci di fornir sei once d'oro a Francesco de Tore da Milazzo, che per seguire il re avea perduto tutti i suoi beni in Sicilia; il qual danaro si dovea togliere da' beni de' traditori in Geraci. Dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A fog. 56, a t.

Un altro diploma del 24 settembre 1299 accordava l'uficio di giudice in Girgenti, al momento che quella città si ripigliasse pel re, ad Arrigo d'Agrigento, esule e spogliato d'ogni cosa per amor del re. Reg. 1299-1300, C. fog. 70, a t. Ma resta in dubbio se costui fosse uscito fin dall'82, o ribellato nel 99.

Per un altro del 19 maggio tredicesima Ind. (1300) Carlo II raccomandava a Roberto guerreggiante in Sicilia, di rendere ragione a Benincasa da Paternò, spogliato de' suoi beni per fedeltà al re. Il padre di costui anche fedele, e perciò preso da Corrado Capece, avea venduto, per riscattarsi, alcuni beni dotali senza assentimento della moglie e de' figli, che or li voleano rivendicare. Ibid., fog. 368.

[46] Anon. chron. sic., pag. 147.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.

[47] Lib. 7, cap. 61.

[48] Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit, ho inteso dire cento volte da quei che amano i motti latini. Il popolo con maggior vivezza suol dire solamente: «Sperlinga negò.» E questo proverbio parmi testimonianza istorica sì valevole da correggere gli scrittori contemporanei che tacquero il caso di Sperlinga; i nazionali per non perpetuare una memoria spiacevole, gli stranieri per non saperla. Il docum. XIII. mostra che alcuni soldati di Carlo si eran lungamente difesi nel castel di Sperlinga, il che sarebbe stato difficilissimo senza la volontà degli abitanti.

[49] Anon. chron. sic., pag. 147.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.

Saba Malaspina, cont., pag. 358 e 359.

[50] Eriguntur in terris populares rectores, et capitanei fiunt in plebibus ad Gallicos persequendos, etc. Malaspina, cont., pag. 336.

[51] Diploma del 3 aprile 1282, docum. IV.

Bart. de Neocastro, cap. 27, 37, 41.

Saba Malaspina, cont., pag. 356, ec.

[52] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576. Ivi si legge: Et missis sibi invicem nuntiis, conjuraverunt se ad invicem.

Saba Malaspina, cont, pag. 358.

Bolla di Martino IV, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §§. 13 a 18. Per questa son disciolte le confederazioni per avventura fatte tra i comuni di Sicilia ribelli. È notevole che si parla sol di comuni di Sicilia, anche nelle ammonizioni a tornare all'ubbidienza, e nelle minacce di gastighi; quando il divieto d'aiutar questi ribelli è fatto largamente a principi, conti, baroni, e comuni esteri. Novella prova dell'indole tutta popolare della rivoluzione del vespro, e della condizione de' ribelli, che già si sapea a corte di Roma il 9 maggio, data della bolla.

D'Esclot, cap. 81, e Saba Malaspina, loc. cit., suppongono che le altre città di Sicilia avessero giurato ubbidienza al comune di Palermo. Tra quelle non fu per certo Messina: e i diplomi citati nel corso di questo capitolo, e tutte le altre autorità portano piuttosto a confederazione, che a dominio di Palermo. Forse l'avea di fatto, non di dritto, come prima nella rivoluzione, come antica capitale, e più forte di popolo.

[53] Troviam del nome di Lamanno o Alamanno molti uomini e di parte nostra e di parte angioina nelle memorie di questi tempi. Il docum. XIII mostra che un Alamanno era il castellano di Sperlinga assediata da' nostri, e un altro dello stesso nome tra i guerrieri del presidio. Un diploma del 9 febbraio 1278 dal r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 63, a t., è indirizzato a Guidone di Alemania giustiziere di Capitanata. Un Bertoldo Alemanno si legge tra i guerrieri di Messina fatti prigioni nel combattimento di Milazzo a 12 giugno 1282, veg. il capitolo seguente. Raimondo Alemanno nel 1287 fu con Giacomo all'assedio di Agosta, veg. il cap. 13.

Per altro è probabile ch'esistessero diverse famiglie di tal cognome, preso, com'era solito in que' tempi, dalla patria di questo o quell'altro Alemanno che veniva ad abitare in Italia.

[54] Saba Malaspina, cont., pag. 358.

[55] Dal Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 18, sappiamo che Bartolomeo de Neocastro, in una sua storia in versi, riferiva essere stati dal parlamento generale che si tenne in Messina, eletti sei uomini al governo provvisionale dell'isola in questo tempo. Gli altri storici non ne fanno motto; nè lo stesso Bartolomeo nella sua cronaca in prosa. Indi non mi è parso per questo sol barlume allontanarmi dalle altre memorie tutte. Forse Neocastro mal espresse l'uficio de' capitani delle province; forse Surita mal comprese quel gergo latino, che se è oscuro in prosa, peggio dovea invilupparsi in poesia. Chi ami più minuti ragguagli di questo perduto poema o racconto, vegga il di Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 11 e 12.

[56] Bart. de Neocastro, cap. 18.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.

Giachetto Malespini, cap. 210.

[57] Bart. de Neocastro, cap. 50.

[58] Diploma del ….. 1282 dal tabularlo della chiesa di Messina ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. II. 4, fog. 117. Questo è dato certo di luglio o agosto, perchè vi si legge il nome di Alaimo capitano della città, e la decima Ind. Vi son contrassegnati come testimoni Gualtiero da Caltagirone, Bonamico, Natale Ansalone, e altri nomi noti in queste istorie.

[59] I parlamenti tenuti in Palermo si son citati sopra, e un altro se ne leggerà nei capitoli seguenti. Quel che deliberò gli appresti alla difesa fu tenuto in Messina, come si può congetturare da un luogo di Saba Malaspina citato qui appresso; e da un altro della perduta istoria in versi di Bartolomeo de Neocastro, del quale fa menzione Surita, negli Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 18.

[60] Saba Malaspina, cont., pag. 359 e 360.

[61] Diploma del 15 agosto 1282, recato dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.

Atto del 10 maggio 1282, cavato dal tabulario della chiesa di Messina, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116.

Diploma del….. 1282, ibid., fog. 117.

Fors'anco si scrisse negli atti l'anno primo della repubblica, seguendo l'uso della corte di Roma e di tutti gli altri principati del tempo, ove si notava la indizione e l'anno del principe, e anche talvolta del feudatario, piuttosto che l'anno dell'era volgare.

[62] Paradiso, canto 6.

[63] Veggasi l'appendice.

CAPITOLO VII.

Dolore e rabbia di Carlo all'annunzio della rivoluzione. Ordina la passata in Sicilia, con l'esercito disposto alla guerra di Grecia. Bolla del papa contro i ribelli; risposta loro, e legazione del cardinal Gherardo da Parma. Preparamenti di Carlo, e de' Messinesi. Rotta dei nostri a Milazzo. Sbarco di re Carlo. Principî dell'assedio. Pratiche del cardinale entrato in Messina. Assalti minori. Stormo generale contro la città. Respinti i Francesi. Tentata la fede d'Alaimo capitano del popolo di Messina. Aprile a settembre 1282.

A corte del papa, ebbe Carlo dall'arcivescovo di Morreale l'annunzio della siciliana strage; che il colpì di presentimento di ruina, e fè nascere in quel superbissimo animo, prima dell'ira stessa, una disperata rassegnazione; ond'ei si volse tutto umile al cielo, e fù udito pregare: «Sire Iddio! dappoi t'è piaciuto farmi avversa la mia fortuna, piacciati che il mio calare sia a petitti passi[1].» Sopraccorse ansando a Napoli; e trovate le nuove del progredimento della ribellione, diessi a furor bestiale, senza serbar contegno alcuno di re. A gran passo misurava le stanze; forsennato, muto, torvo agli sguardi, rodendo un bastone come cane in rabbia; finchè prese a sfogarsi in parole: andrebbe, sì, gli parea mill'anni, andrebbe in Sicilia a schiantar città, a bruciar contadi, a sterminare con orrendi supplizi tutta la ribalda generazione; lascerebbe quello scoglio spopolato, ignudo, esempio della giustizia d'un re, terrore alle età più lontane. E i Siciliani, certo innocenti, ch'erano in Napoli per cagion di commerci, furon costretti a nascondersi o fuggire. Intanto {147} egli mettea insieme i soldati scritti per l'impresa di Grecia; facea rassegne, esortava, preparava, e attendea impazientissimo gli altri avvisi; che tutti furon sinistri, finchè venne quell'ultimo della rivoluzione di Messina, che il fece prorompere a nuovi eccessi di rabbia[2]; ma nel fondo del cuore, l'agghiacciò. Spacciò incontanente al re di Francia, dettata certo da lui stesso, una lettera che mal cela l'animo sconfortato e abbattuto: essere rivoltata la Sicilia; sovrastar grandi mali se non vi si correa con grosso esercito; piacesse al re di Francia mandar subito cinquecento uomini d'arme col conte d'Artois, o altro valente capitano, e fornir le spese, delle quali sarebbe ristorato senza ritardo[3].

Mentr'egli, in tal subito rovescio di fortuna, implorava soccorso di gente dalla madre patria, la corte di Roma aiutavalo di consigli, di danari forse, di preghiere al cielo, e di maledizioni su i ribelli senza misura[4]. Il dì dell'Ascenzione, Martino IV bandiva da Orvieto a tutta la cristianità: che niuno s'attentasse a favorir questa rivoluzione; i disubbidienti, se vescovi o prelati, sarebber deposti, se principi o signori, spogliati de' feudi e sciolti lor vassalli dal giuramento; cassate e annullate quante confederazioni si fossero fatte tra le città di Sicilia; aspramente ammoniti i Palermitani e gli altri capi del movimento, che tornassero sotto re Carlo; minacciati, a chi s'indurasse {148} nella fellonia, mille gastighi nell'avere, nella persona, e nell'anima[5].

Ma gli fu risposto con parole riverenti, e fermo proposito; sì che Martino, uditi gli oratori di Sicilia, replicò ch'e' facean come i manigoldi intorno a Cristo: «salutavanlo re dei Giudei, e davangli uno schiaffo[6].» E tal era alla corte di Roma, se non la prima ambasciata, certo una rimostranza indirizzatale dopo la sua ammonizione o dopo la prima scomunica, la quale rivolgesi ai padri coscritti, così chiama i cardinali, partecipi della piena potestà del pontefice, sedenti nel sacro collegio per tener le bilance della giustizia, e intendere all'util pubblico, spogliandosi d'ogni privato riguardo; e, con stile spesso ridondante, talvolta confuso, e più spesso vivo e poetico, duolsi che la romana corte favorisse gl'iniqui governi di Carlo d'Angiò, venuto dall'estremo Occidente fino alle spiagge della Sicilia, e comandasse ai Siciliani di tornar sotto la servitù d'Egitto e il giogo che aveano scosso per ispirazione e aiuto divino; barbarico giogo, che il papa non conoscea, e volea rimetterlo sul collo gonfio e insanguinato dall'averlo portato tanti anni. Con pari intemperanza di rettorica, mette a confronto le due genti francese e latina, esagera il biasimo dell'una, la lode dell'altra. «Costoro, dice, ci dovean reggere, costoro amministrar la giustizia! Chi sosterrebbe le loro mani pronte alle ingiurie e al sangue, i truci volti, i minacciosi aspetti, l'arrogante parlare, l'alito stesso? O morte, speranza de' tribolati, riposo ancora ai felici, ti sospiravano le anime nostre, impazienti d'esser tratte al cielo o all'inferno, finchè questi condannati nostri corpi nulla servirono al ben della patria! Non è ribellione, o padri coscritti, quella che voi mirate; non ingrata {149} fuga dal grembo d'una madre; ma resistenza legittima, secondo ragion canonica e civile; ma casto amore, zelo della pudicizia, santa difesa di libertà. Rivanghiamo la voragine de' nostri mali; traggiamo a riva l'alga corrotta nel profondo del mare. Ecco le donne sforzate al cospetto de' mariti; viziate le donzelle; accumulate le ingiurie, sì che par non resti luogo ad altre nuove: ecco le battiture su le spalle; le mani che s'alzano a percotere una faccia ritraente l'immagine del Creatore; gli omicidî; le prigionie; le rapine; il disprezzo; l'occupazion de' beni delle chiese; la brutal forza che comanda; il principe fatto solo arbitro de' matrimoni. Nè la corte di Roma ignorava, nè potea ignorar questi mali, notissimi alle genti più lontane. Avvi, o padri coscritti, un estremo furore della sventura, una forza di necessità, una reazione dell'umana libertà: e allora nessun eccesso di crudeltà è tanto immane, che non giovi con l'esempio, reprimendo i malvagi. Fu squarciato il corpo alle donne; furono uccisi i bambini anzi che nati: la storia il narrerà ai secoli più lontani; e così periscano i vizi prima di venire alla luce; si dissipi il veleno con la prole de' serpenti.» A queste empie parole non manca la sublimità della disperazione e della ferocia. «A voi, ripiglia l'ignoto autore, lasciando i cardinali e addentando il papa, a voi si volge ora il sermone; su voi voterò il calice. Fremono d'ogni intorno le guerre; minacciano i nemici; tremano le nazioni, lacerate dalle guerre civili e dalle straniere: son questi, o padre, i frutti delle opere vostre!» E qui tocca la connivenza alla sommossa di Viterbo, e tutti gli abusi di re Carlo in Roma; e ritrova non pochi torti a Martino; e gli ricorda che, seguendo un interesse di parte, menomasse l'autorità del pontificato; che i misfatti permessi perchè piacciono, portan poi i misfatti che spiacciono; ch'ei non dovea promuovere i suoi partigiani, e trascurar le altre faccende {150} della Chiesa; che i disordini consuman sè stessi: «la scure è alzata; accenna di percuotere; fate d'impugnarla voi stesso pria che tronchi l'albero alla radice.» Con queste, e molte altre parole è esortato papa Martino a mutar via, se gli preme la sua salvazione. Alle idee, allo stile, agli eccessi della passione, l'autore sembra chierico, non ignorante, e patriotta audacissimo. Niuno potrebbe o affermare o negare che tal rimostranza si mandasse a corte di Roma, quando si conobbe chiusa la via del perdono, e altro non restava che protestare fortemente. Ma se i governanti della Sicilia non scrissero in quelle parole, scrissero per certo in que' sensi: e in ogni modo il documento che ci resta è irrefragabilmente del paese e del tempo; ha la rovente impronta della rivoluzione; estinto quel fuoco, non si potea contraffare[7].

La corte di Roma, vedendo che i Siciliani nulla non rimoveansi da' loro proponimenti, tentò nuovi consigli. Deputò con autorità straordinaria il cardinal Gherardo da Parma pontificio legato nel regno[8]. «Mossi, dicea la bolla, da sviscerato amore alla Sicilia, e dolentissimi degli scandali con che il nemico dell'uman genere la vien turbando, te mandiamvi, o fratello, angiol di pace; e svelti tu, struggi, dissipa, sperdi, edifica, pianta; tutta usa l'autorità nostra ad onor di Dio e riformazion del reame[9].» L'accorgimento de' consigli sacerdotali trasparisce ancora da uno statuto promulgato di quel tempo da Carlo, dove accagionando del mal governo gli officiali inferiori, moderava i più grossi aggravî del fisco, dei magistrati, e di lor famigliari; e sì la crudeltà di alcuna legge, le usurpazioni {151} de' castellani nelle faccende municipali, e lor violenze nei contadi[10]. Lusinghe a' Siciliani eran queste; blandimenti ai popoli di Puglia e Calabria, che, dalla medesima signoria travagliati, non si muovessero all'esempio, ma grati e soddisfatti aiutassero il re. E per vero assai difficoltà nel raccorre quelle feudali milizie ebbe egli a vincere con la sua passione e potenza[11]. Aggiunsevi mille Saracini di Lucera, co' fanti e' cavalli di Firenze e d'altre città guelfe di Lombardia e Toscana; i Francesi, tra vassalli e stipendiati, furono il nerbo dell'esercito. Genova e Pisa mandaron galee; quelle del regno s'accozzaron tutte; altre ventiquattro chiamonne di Provenza il re, poichè la più parte delle preparate alla impresa d'Oriente era chiusa nel porto di Messina. Forniti inoltre uscieri, teride, trite quanti abbisognassero a traghettar le genti. Ordinò Carlo che si ritrovasser le genti a Catona, picciola terra di Calabria, posta sullo stretto di contra a Messina, ch'egli volea prima assaltare; e mandò innanzi quaranta galee, e gran copia di grani e altra vivanda, e ogni cosa bisognevole all'esercito. Quivi poi rassegnò pronti a servir sua vendetta da quindicimila cavalli e sessantamila pedoni, con cencinquanta o dugento legni, tra di trasporto e di corso[12]: macchina {152} enorme di guerra, che non parrà esagerata riflettendo esser Carlo apparecchiato di già a grande impresa, e aiutato da mezza Italia, dalla Francia e dalla corte di Roma; e che pria della lotta tra principato e baronaggio, e dell'uso delle bande stanziali che ne seguì, gli eserciti d'Europa si poteano adunar numerosi poco meno ch'ai nostri tempi, con un sol bando a' baroni per la cavalleria, e poca moneta per lo scarso stipendio de' pedoni. Un cardinale armato di censure e di piena balìa; un re uso a vittoria, indurato nelle battaglie; un esercito grossissimo, ansioso di vendetta, assetato di preda; un bollor francese, un'astuzia di Roma, un furor d'offeso tiranno, tutte l'arti di guerra, tutte l'arti di regno a conquider l'isola ribelle, minacciando si raggrupparono sulla estrema punta d'Italia.

Reina del Faro, siede tra due mari in faccia ad oriente, maestosa e lieta Messina; che a manca, il Peloritan promontorio sta contro il Tirreno; a destra, il braccio di san Ranieri sì ardito mette nel mare Ionio, rientrando come punta in falce contro la curva del lido, che un vasto cinge, e profondo, e da tutti venti sicurissimo porto. In mar bagnansi le falde de' colli, talchè parte non poca della città {153} s'appoggia su la pendice; donde il seno, lo stretto, l'opposta Calabria magnifico teatro spiegano alla vista. Largheggia un po' di pianura a settentrione; e più vasta ad ostro, amena per vigneti e ville: boscosi i poggi, e più di que' tempi ch'ai nostri. Non è mutata del resto la sembianza del paese, nè il sito della città, quantunque più d'una catastrofe l'abbia percosso; e poco men che spiantata da' tremuoti del millesettecentottantatrè, si sia murata nuova dalle fondamenta.

Questa nobil città gli animi e le braccia apprestava a difesa; più intenta a munirsi nel porto che altrove, perchè non s'aspettava sì pronto un esercito ad assaltarla di terra. Rispianano a settentrione la campagna, svelte le viti, e abbattuti gli sparsi casolari; del legname di questi risarciscono le mura; fabbrican macchine ed armi: oper non sì compiute, da non dovercisi affaticare e sudar poi nel maggior uopo. Ma salde catene di ferro, legate a travi galleggianti, gittavan a traverso l'imboccatura del porto, a chiuderlo contr'ostili navigli: il braccio di san Ranieri afforzavano d'eletta gioventù, sotto il comando di Niccolò Bivacqua, e Giacomo de Brugnali, stanziata nella chiesa del Salvadore, sulla estrema punta, ov'oggi è una fortezza del medesimo nome. E un buon augurio fu principio alla guerra, quando il due giugno, viste far vela da Catona quaranta nimiche galee, i Messinesi ne mandavano trenta allo scontro. I nemici non aspettandole, in fretta rifuggironsi a Scilla; e sbarcarono le ciurme, spiegandosi a lor protezione in battaglia i cavalli d'Erberto d'Orléans, e del conte di Catanzaro: ma la traversia che levossi, non la mostra del nemico, fu quella che rattenne i nostri, anelanti a dar dentro, e abbruciare le navi[13].

L'animo d'un frate siciliano ammiraron gli stessi nemici in quel tempo. Veniva re Carlo il dieci giugno alla Catona {154} con un grosso di genti; arrivavan da Brindisi ogni dì le allestite navi; e a tanto romor del nemico, i Messinesi struggeansi di saperne a punto le forze e i disegni. Allora a' preghi del consiglio della città, Bartolomeo da Piana de' frati minori, uom litterato, di specchiati costumi, e di gran nome, prese a esplorarli; non vile spiatore d'eserciti, ma cittadino, ch'all'uopo della patria affronti la mannaia, com'altri la spada. Nè furtivo, nè dimesso va dunque in Calabria il frate; dove addotto a Carlo: «A che da' miei traditori ne vieni?» brusco domandavalo il re. Ed ei più fermo: «Non io traditor, disse, nè terra di tradimento lasciai. Mosso da religione e coscienza vengo ad ammonir qui i frati minori, che non seguano queste tue ingiustissime armi. La Provvidenza ti commise un'innocente popolo, e tu lo lasciavi a dilaniare a lupi e mastini: tu indurasti il cuore alle querele, a' pianti: e allor noi ci volgemmo al Cielo; e il Cielo ne ascoltò, e ci fe' vendicare santissimi dritti. Ma se speri oggi vincendo chiamar ciò fellonia, sappi, o re, che indarno tant'armi a' danni de' Messinesi aduni. Torri hanno e mura, e forti petti rinfocati dal divin raggio di libertà; onde maggiori che uomini, ti aspettan pronti a morire. A Faraone tu pensa!» Per terror di lassù, o istinto d'accarezzar Messina, il re si ritenne dall'offendere il frate. Die' sfogo all'ira con ordinare una prima fazione: e Bartolomeo tornandosi a' suoi, narrava la potenza dell'oste, e le truci voglie di Carlo[14].

Contro Milazzo quell'assalto si drizzò, perchè traeane Messina le vittuaglie, che il parlamento avea deliberato di provvedersi; e mal s'era fatto tra l'universale sospezione e penuria. I conti di Brienne e di Catanzaro, Erberto d'Orléans, e Bertrando d'Accursio, capitani di questa fazione, aveano a bruciar le messi, dar guasto al paese, rapire gli armenti per uso dell'esercito, e occupar indi Milazzo: {155} i quali a dì ventiquattro giugno, con cinquecento cavalli e mille pedoni, sur una sessantina di barche salpavano dalla Catona. Contro tal forza, e cento altri legni che si vedean surti alla spiaggia, il capitan della città non volle mettere a rischio la sua poca armata, ma piuttosto sull'asciutto far testa. Frettoloso armò dunque cinque cento cavalli, e grosse bande di fanti; co' quali, poichè la flotta francese girava il capo, ei valicò i colli della Peloriade, e lunghesso la settentrionale riva, a Milazzo conducea le genti, come i nemici a quella volta pur via navigavano. Molte miglia da Messina si dilungan così i nostri; non usi all'andar in ischiera; trafelanti dal caldo, dalla via, dal peso dell'armi, ciascun dassè, sparsi chi a cercar ombre o acqua, chi a chiamare ad oste i contadini: quando presso il canneto di San Gregorio, alla fonte d'Aleta, il nimico vedendoli sì mal presi tra quelli scogli, d'un subito approda. Baldovino pensava sostare, e, raccolti gli sbrancati, mandare per rinforzo a città; ma dandogli sulla voce Arrigo d'Amelina per nimistade privata, tutti appigliaronsi al partito che parea più generoso. Audaci sì, ma radi e stanchi, investono il nimico: il quale ordinato e fresco, li sbaragliò al primo scontro. Quell'Arrigo stesso d'Amelina, Anfuso de Camulio, Bertoldo Alamanno, Pietro Cafici, cavalieri; Bartolomeo Mussone, Martin di Benincasa, Abramo d'Ambrosio, Niccolò Rosso, e di minor nome mille a un di presso, nella zuffa o nella fuga fur morti. Assai n'andar anco prigioni; tra' quali notan le istorie i nomi di Roberto de Mileto cavaliere, che perì ne' ceppi francesi, e d'Arrigo Rosso mercatante, ricattatosi per mille once d'oro dopo la fine dell'assedio[15]. {156}

Come la sconfitta si riseppe in città, il popolo infellonito da rammarico, e più stigandolo Baldovin Mussone, l'inesperto capitano che a discolparsi gridava tradimento, levasi a romore in cerca di traditori. Chiama al supplizio i partigiani de' Francesi, gli odiati de Riso: tratti Baldovino e Matteo dalla rocca di Matagrifone, ove li avea chiuso da pria, li mette in pezzi; Giacomo decollato per man del carnefice; strascinati i cadaveri per la città; senza tomba gittati; con tanto eccesso d'ira, che gli amici non osavano pur piagnerli, e i congiunti a mala pena si sottrassero. La moltitudine intanto, come se quelle morti fosser vittoria, {157} scordata già l'infelice fazione, girava tripudiando intorno le mura della città, e per le strade gavazzava. Ma in brev'ora il popolo stesso a una voce, persuadendol forse i più savi, deposto d'uficio il Mussone, gridò capitano Alaimo da Lentini, nobil di sangue, nobil di fama, vecchio robusto e animoso, espertissimo in guerra. Fu somma ventura di Messina e di tutta l'isola. Ei, preso appena il comando, con più alto militare argomento ordinò le difese della città, riparò, sopravvide, indefesso addestrò il popolo all'armi[16]. Catania e i comuni tutti del vasto tratto di paese da Tusa ad Agosta, il crearon anco, ignorasi se prima di Messina o appresso, lor capitano di popolo[17].

Nei preparamenti d'ambo i lati un altro mese volgeasi: poscia con tutto il pondo dell'oste il re mosse a dì venticinque {158} luglio[18]. Le salmerie, le vittuaglie, i cavalli, indi le genti imbarcò; ultimo egli ascese la sua nave superbamente parata di porpora, che parea tenere in pugno le sorti del mondo; e con tutto ciò, schivato quel formidabil porto di Messina, fe' porre a quattro miglia ver mezzodì, alla badia di Santa Maria Roccamadore; nuovamente sperando trar lungi i cittadini alla pugna. Ma Alaimo affrenò l'intempestivo ardore, che s'era pur desto. Deluso dunque, attendavasi Carlo; e trucidar fea, dice Neocastro, i monaci della badia, che io nol credo, perchè taciuto dagli altri istorici, e dissonante dai consigli del re, che cominciarono con simular clemenza. Ben lasciò a marinai e soldati metter a guasto il paese, sperando che i Messinesi per salvar le facultà chiedessero accordo; ma fe' il contrario effetto. Come da Roccamadore infino al torrente di Cammàri sparve il ridente giardino, tagliati gli alberi, stralciate le vigne, saccheggiate masserie e canove, diroccate le case, quanto rubar non poteasi distrutto; e come il dì appresso, mutati gli alloggiamenti, lo sterminio s'avvicinò, i Messinesi che a niente guardavano fuorchè all'onore e alla libertà, con tanto maggior dispetto si fecero a provocar l'Angioino. Appiccan fuoco a settanta galee delle costruite contro i Greci; fabbrican armi delle ferrerie tratte dalle ceneri; {159} disfatte altre navi, ne riattano mura e steccati; il borgo di Santa Croce, posto a mezzodì ove in oggi è quel di Zaera, non potendol fortificare, abbandonano. Occupollo al terzo giorno re Carlo; da quella banda ponendo il campo, sì stretto alla città, ch'appena nel partiva il picciol torrente di porta de' Legni. Egli alberga nel munistero de' frati predicatori che sorgea sul poggio, da ciò chiamato vigna del re; e fa alzar su i comignoli una torricella di legno, per ispecolare dentro la città, e anco offenderla con macchine. Ma i Messinesi se n'avvidero appena, che dato di piglio a' mangani, a furia di pietre sconficcaron la torre[19]: e furon questi i primi saluti all'antico lor principe.

Or se la città debbasi assaltare impetuosamente pria che s'avvezzi al pericolo, o travagliar tanto d'assedio che stanca ed affamata s'arrenda, agitano tra loro i capitani, ristretti a consiglio. I più focosi diceano andarne, l'onor di tant'oste contro una plebe assiepata con legni e macerie, non muta: l'impeto vincer le guerre: a che tardare sì giusta vendetta? Dubbio altri opponea il successo dell'arme: grossa la città: presa d'assalto, metterebberla a sacco i ribaldi[20] del campo; e qual pro al monarca? Senza sangue certissimamente s'avrà per tedio o paura. A questo appigliossi Carlo, contro la sua natura feroce; perchè il vinse avarizia, e lusinga che Messina si lascerebbe prender sempre a lusinghe[21]. {160}

Perciò rimanendosi alla espugnazione dei posti più avvantaggiosi di fuori, il dì sei agosto movea possente stormo contro il monistero del Salvatore, chiave di quell'assedio, per tener la bocca del porto. Cento Messinesi il difendeano: i quali nè sbigottiti dal numero degli assalitori, nè scossi dal battito della prima affrontata, fieramente combattendo dalle soglie e da' muri, li ributtarono; tantochè Alaimo venia con freschi combattenti dalla città: e allora più aspra mescolandosi la battaglia, con morti ed onta si ritrasse alfine il Francese. A questa prima vittoria l'animo de' cittadini oltremodo si rinfrancò. Indi il dì otto, con pari fortuna fu combattuta maggior fazione al monte della Capperrina; il quale signoreggiando la città da libeccio, l'avea fortificato Alaimo di steccato e fosso e giusta guardia d'arcieri. Or avvenne ch'essi, come nuova milizia, quel dì a un rovescio di gragnuola e di pioggia spulezzaron da' posti; onde i Francesi e i Fiorentini, colto il tempo, pronti saliano per gli uliveti, e guadagnavan già l'erta. Seppelo Alaimo; comprese ch'a un altro istante era perduta Messina; e di tutto fiato si lanciò alla riscossa, traendo con sè il popolo: e urtò; e ripigliò il ridotto; e in faccia a' nemici affranti per molta strage, caduta già la notte, a lume di fiaccole risarcir fe' le barrate. La notte del Campidoglio fu questa a Messina. S'eran gli ufici ordinati per tal modo nella città, che scritti in drappelli, dì e notte s'avvicendasser gli uomini a vegliare in scolte e poste; girassero in pattuglie le donne. Ritentando i Francesi a notte scura l'assalto della Capperrina, superati chetamente i ripari, abbattonsi in una delle donnesche guardie. {161} Dina e Chiarenza, donnicciuole di cui l'istoria ingiusta ne tramanda appena il nome, salvaron allora la patria: e fu prima la Dina a gridare all'arme, scagliando insieme un masso che atterrò parecchi soldati; l'altra a martellare a stormo le campane: onde il romore si leva, si spande: «Alla Capperrina il nemico» altro il popol non sa, e nel buio, nel rovinio, non misura il periglio, sì il cerca. Sugli attoniti e delusi nemici piombò col suo fortissim'Alaimo; nè solamente rincacciolli, ma saltando fuor dal ridotto, borghesi i nostri e a piè, incalzavano fin sotto il padiglione di Carlo quei fanti vecchi spalleggiati da cavalli[22].

L'insperata virtù di codesti scontri miracol parve a' nemici, e a' nostri stessi: il che accrescea i miracoli veri e naturali. Donna in bianco paludamento sorvolar lunghesso le mura; stender soave un velo contro a' colpi, e ribatterli; innanti sue divine sembianze cascar l'animo agli assalitori; presi d'un ghiaccio volgersi in fuga; e saette inchiodarli, che il feritor non vedeasi; tribolato anco il campo di mortifera epidemia: tanto narravano i nemici soldati a' nostri, facendosi sotto le mura a parlamentare. L'attestavano con sacramento per lo Iddio adorato da tutti gli umani, i Saracini stessi di Lucera; e chiedeano una volta qual fosse la diva, e più diceano, se non che surto un subito allarme dileguaronsi. Pertanto tenacissima surse in Messina, sprone a fatti più egregi, la fede di quest'aita soprannaturale della Vergin Madre, nella quale teneansi inespugnabili. Sgombro poi che fu l'assedio, alla celestiale proteggitrice alzavano un tempio nel lieto nome della Vittoria: il miracol tramandossi di generazione a generazione, e la facile istoria il registrò[23]. {162}

Or narrinsi i miracoli umani: fornite le fortificazioni nel tempestar dell'assedio: fatto un popol di soldati: nè età, nè sesso provarsi imbelle: null'opra dura a niuno: vigilie, interminabil disagio, penuria sostenuti senza fiatare: uno scherzo la morte: e più, invidia e discordia incatenate: pensiero in tanta moltitudine un solo, far salva Messina. In pochi dì, là dov'era accostevole a scale, arduo drizzasi il muro; ove fiacco, si rassoda; ove il luogo nol comporta, steccati, argini di botti, fascine: a giusta distanza dalle cortine esteriori fabbricano un contramuro. E cavan fondamenta, e murano, e assestan travi, e insieme combattono, quanti son umani nella città; vincendo lor passione gl'infermi corpi, le schive usanze, le vanità degli ordini. Nobili, giuristi, mercatanti, artigiani, infima plebe, sacerdoti, e frati, e vecchi, e fanciulli all'opra tutti secondo lor posse; intenti ed ansiosi, dice Saba Malaspina, quale sciame ch'affatichi intorno a suoi favi. Donne cresciute in dilicatissimo vivere, d'ogni età, d'ogni taglia fur viste a gara sudar sotto il peso di pietre e calcina; e lì, tra il fioccar de' colpi, recarne a' lavoranti; girare per le mura dispensando pane e polenta, dissetandoli d'acqua, mescendo vini; e più di belle parole confortavanli: «Animo, cittadini! Nel nome della Beata Vergine, durate alle fatiche. Vi serbi alla patria Iddio. Egli il vede e difenderà Messina.» In questo gli altri Siciliani, eludendo l'oste pe' tragetti de' monti, aiutavano la città di gente, d'armi, e di vittuaglie. Crebbe la virtù de' Messinesi con l'uopo e coi rischi, durò tutto l'assedio, e più valida ogni giorno rendea la difesa[24]. {163}

Perseverando siffattamente i cittadini, e stando fermo Carlo nel disegno di ridurli senza battaglia, s'aprì una pratica per mezzo del cardinal Ghepardo, ch'entrovvi, richiedente o richiesto (varian su di ciò le istorie),[25] e carico certamente di clemenze del papa e del re; ma uom non era da maneggiarle con inganno. Il preso reggimento portò che i cittadini l'accogliessero con onori di principe, come legato del pontefice; onde fu condotto tra' plausi alla cattedrale; appresentategli le chiavi della città, e da Alaimo il baston del comando. Pregavanlo prendesse lo stato nel nome della santa romana Chiesa; desse un reggitore alla città; a questi pagherebbero i tributi debiti al sovrano; ma lungi, lungi i Francesi; dalla terra della Chiesa li scacciasse per Dio. A che Gherardo, secondo suoi mandati, rispondea: gravissime lor peccata; pure la Chiesa richiamarli con affetto di madre; a lui commesso di riconciliar {164} Messina col suo re, e lietamente il farebbe; ma non parlasser di patti, che non n'è luogo tra sudditi e monarca; sperassero in Carlo, magnanimo, clemente, il quale perdonar saprebbe alla città, serbare i gastighi a' soli efferati omicidi; vano architettar altre pratiche; ubbidissero, e ne rimarrebber contenti. «Messina, conchiudea, s'affida nel grembo della Chiesa; in suo nome la risegno io a re Carlo.» E Alaimo: «A Carlo no,» con voce di tuono proruppe, e gli strappava il baston del comando: «No, padre, vaneggi: i Francesi mai più, finchè sangue e spade avrem noi!» Somiglianti parole in suon di varie voci scoppiarono dalla moltitudine; alla quale invan replicava Gherardo, invan essa a lui: perilchè cessando il negoziato a pien popolo, deputaronsi trenta de' più notevoli cittadini, a cercare in ragionar più queto, qualche strada agli accordi.

Venian proponendo patti al re disdicevoli, a Messina pericolosissimi, e peggio al rimanente della Sicilia: perdonasse Carlo alla città; gli bastasser l'entrate de' tempi del Buon Guglielmo; nè soldato nè ministro francese in Messina mettesse pie'; la si reggesse per uom latino a scelta dal re: dai quali termini il legato non valse a rimuoverli un passo. Onde, o ch'ei se ne riferisse al re, e questi ricusasse tutt'altri patti che di resa a discrezione, com'alcuno scrive; o che il cardinale conoscesse la mente di Carlo sì addentro da non averla a ricercar nuovamente, risoluto ei disdisse l'accordo; con isdegno grandissimo de' cittadini. E tra i popolani più ardenti, che fremeano e schiamazzavano a tal niego, alcuno drizzandosi a Gherardo il rimbrottò[26]: «Vedi candor di pastori che consiglianti ignudo {165} porgere il collo al manigoldo perch'abbia clemenza! Quante ore dura la clemenza di Carlo? Lungi da noi cuor di selce, torti ingegni, insidiose lingue: voi ne vendeste al Francese; ci riscattammo con l'arme noi; ed or che vi offriamo temperata signoria della bella Sicilia, la schifa Martino, e si fa mezzano al Francese, non vicario del Cristo di mansuetudine e amore. Oh temete, temete la giustizia del Cristo! E tu riedi al tiranno angioino, per dirgli che nè lioni nè volpi mai più entreranno in Messina!» Allibito al minaccevole aspetto del popolo, frettoloso uscia Gherardo; scomunicata pria la città; e ingiunto a tutti chierici che in tre dì ne sgomberassero; ai rettori del comune, che in quaranta dì comparissero a corte del papa[27].

Tacqui d'una epistola di Martino, che Giachetto, il Villani, e la Storia della cospirazione portan come letta da Gherardo a' Messinesi, non riferita punto dagli scrittori degni di maggior fede, e zeppa d'ingiurie, fuor dal sonante stile della romana curia, da' concetti della bolla che deputava Gherardo, e dall'oprar tutto del papa e di Carlo in que' primi tempi. Fabbricata la giudico perciò da' detti autori, che mal intrecciano, com'altrove notai, queste istorie del vespro. Nè meglio regge l'altro supposto[28], che Gherardo suggerisse a Carlo d'assentir l'accordo con Messina, {166} e violarlo, insignorito che fosse della città; perocchè s'ai Messinesi spiacque nel caldo di loro speranze la ripulsa del legato, ammirava tutta la Sicilia poi, com'afferma Speciale, quel suo onesto e franco negoziare; talchè se l'ebbe in rinomanza di santo[29].

Com'ei scornato e mesto fe' ritorno al campo, tanto furor prese i soldati, assetati della vasta preda della città, che, non aspettato comando, tumultuosi diero a stormeggiar le mura: e venner indi con più agevolezza respinti[30]. Bella prova anco feano i nostri ne' minori ma ordinati assalti rinnovellati poscia ogni dì; perchè Carlo, vedendo che per sole minacce non si piegava la città agli accordi, volle farle sentir più viva la punta del coltello alla gola. Ma ne seguì l'effetto contrario; perchè la vigilanza de' nostri deludea tutt'ingegni dell'inimico; il loro saettame l'affliggea di morti e ferite; la fortuna favorevole in ogni fazione a' cittadini dava a' loro animi la sicurezza della vittoria; ne togliea la speranza ai soldati di Carlo. E invano il re, fatte venir le genti da Milazzo, poneale a campo nel borgo di San Giovanni, ov'oggi, estesa la città oltre l'antico cerchio, è il Priorato e indi il borgo di San Leo, e così l'accerchiava da settentrione e da mezzogiorno, ove il terreno parea più comodo alle offese; lasciando libero solo l'aspro colle guardato dal castel di Matagrifone. Questo a' Messinesi fu nulla; se non che temendo pei difficoltati sussidi qualche stremo di penuria, mandaron via, duro ma inevitabil partito, la minutaglia più inetta all'arme; la quale tapinando per le campagne, cadde, inutil preda, in man dei nemici. Con molto lor sangue ritentavan essi poi con forti impeti, il dì quindici agosto la Capperrina, il due settembre le mura a settentrione. Ributtati sempre, sfogarono risarchiando con nuove scorrerie il contado; {167} steser fino alle chiese le mani ladre; manomisero i sacerdoti; trascinarono al campo il sacro arredo, la croce, la effigie della divina madre, e li barattarono vilmente[31]: atti d'impotente furore, che dovean mostrare a' più veggenti come Carlo disperasse già dell'impresa.

Acerbe novelle conturbavano l'animo di Carlo: venuto d'Affrica con forte stuolo di navi Pier d'Aragona; cintagli in Palermo la corona del reame; gli animi de' Siciliani avvalorarsi; adunarsi le forze; riguardare all'assediata città, che non fiaccavasi nè per insulto di guerra, nè per fame. A un assalto pertanto si deliberò, universale ed estremo[32]. Era il quattordici di settembre. Allo schiarire del dì, appresentossi l'oste a cerchio, dal piano, dal monte in ordinanza, con macchine e infiniti ordegni; splendenti in lor armature cavalcano per le schiere i baroni; Carlo esorta i suoi a combatter no, sclamava, ma a far macello de' vili borghesi. A un tempo l'armata con una tramontana gagliarda, a golfo lanciato investia la bocca del porto; ed era primo in fila uno smisurato naviglio, pien d'uomini e di macchine, guernito di cuoia contro i fuochi, il quale col possente urto spezzasse {168} la catena. Ma questa Alaimo avea con maravigliosa cura affortificato. Schieravansi dentro dalla catena quattordici galee armate di strenua gioventù, e tramezze sei navi cariche di mangani e altri ingegni; fuori, s'ascondean tese sott'acqua, grosse reti che rompessero il momento degli ostili navigli: sorgea sulla riva un ridotto di forte legname; e in quello munitissimi d'arme i combattenti più feroci.

Quivi la prima zuffa appiccossi. Difilandosi la maggior nave sopra il ridotto d'Alaimo, impigliasi nelle reti, con sassi e dardi tempestanla i nostri, le gittano i fuochi, le squarcian le vele; e mentre pur tenea la battaglia, saltato il vento a ostro, tutta sdrucita e sgomenata fu forza che si ritraesse, e la flotta con lei. Il perchè tutta la virtù de' difenditori alla parte di terra fu volta; ove terribile e diverso tante turbe portavan l'assalto. Qui a far breccia drizzano i gatti[33] contro la muraglia, o sottentrano a zapparla da pie'; qui ov'è più bassa, appoggian le scale, approcciano le cicogne[34]; gli altri stuoli co' tiri delle saette fan prova a cacciar dallo spaldo i Messinesi. Ed essi rispondeano virilmente con un grandinar di ciottoli e frecce; versavan olio e pece bollente su i più innoltrati: gittavan massi e fuoco greco alle scale. Nell'ondeggiar della sorte in sì accanita {169} lotta, ascesero alquanti sul muro; ma non n'ebber che diversa la via della morte, non bersagliati da lungi, spacciati da petto a petto co' brandi. Alaimo sfavillante in volto, corre per ogni luogo, agli steccati, agli spaldi, ov'è maggior l'uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede i movimenti del nimico, regge tutta la difesa, rifornisce gli stanchi co' freschi guerrieri, supplisce l'arme, esorta, e combatte. Con esso i condottieri, i cittadini di maggior nome adopran tutti secondo la prova estrema e disperata: in tutto il popolo è una virtù. «Viva Messina e libertà;» e torna la lena a' petti, e s'addoppia il vigore alle braccia, e non è chi curi di colpi e di morte. Nel fitto nembo de' tiri vedeansi le donne sopraccorrer franche, piene i grembiali di sassi, cariche di saette a fasci, di fiaschi e cibi a ristorare i forti fratelli. E quali mostrando lor bambini in braccio, ricordavano che li sgozzerebbe quello spietato straniero; e che vedrebbero rapite le sacre vergini, contaminati i casti letti, strage e vergogna, e spianata Messina, se fino al l'ultimo fiato non si pugnasse. Così infiammati i nostri da' più santi affetti dell'animo, i nimici da avarizia e paura de' duci, travagliavansi da mattino a vespro; ma la furia dello assalto indarno contro la nobil cittade si consumò. Stendeasi a pie' delle mura spaventosa ghirlanda di fracassate macchine, spezzate armi, cadaveri mutili e abbronzati atteggiati in ogni più strana convulsione di morte; e fu maggiore assai il macello de' Francesi che degli Italiani dell'oste, perchè, noti alle insegne, men li bersagliavano i nostri. Il re sul limitare della chiesa di Santa Maria, rodeasi di rabbia agli impotenti assalti, quando un dottor Bonaccorso[35] l'imberciò dalle mura con bel tiro di {170} mangano. Cadderne due cavalieri francesi, fattisi innanti in quell'attimo per caso, o eroic'atto; e il re lasciava precipitosamente il luogo, perdendo nell'avversa fortuna quell'indomito suo coraggio. Alfine visto ch'anelanti e sanguinosi d'ogni dove piegavano i suoi e il tristo dì volgeva a sera, fece suonare a raccolta. Un grido rintronò a questo per tutta la corona de' muri; e impetuosamente i cittadini saltando fuora, inseguiano i ritraentisi come in rotta, motteggiavanli e ammazzavanli; che infin sotto gli occhi del re spogliarono i cadaveri. E seguiva in città un abbracciarsi a vicenda, un lagrimar di gioia, un tripudio cui null'altro al mondo agguaglia. Alaimo, l'eroe di Messina, ricordava le geste, rendea merto a' più valorosi a nome della patria, e tra i più valorosi alle donne, delle quali alcuna riportò onor di ferite in quella tenzone. Poco lutto a queste gioie si mescolò, per aver pugnato i nostri da' ripari. La notte uno stuolo condotto da Leucio arrisicatissimo combattitore, con nuova strage si saziò dei nemici, sorprese gli assonnati, i desti contenne con la paura, e tornossi carico di bottino.

Indi quanta esultanza nella città, rammarico e spavento lasciava quel sanguinoso giorno nel campo. Qual toro sgarato, dice il Neocastro, gittossi Carlo a giacere, men da fatica che dal cruccio dell'animo: e girava intorno lo sguardo, e vedea scoramento; ripensava a Messina, alla Sicilia, a Piero, e maggiori dispetti il dilaniavano. L'assalto non rinnovò più mai; ma con forti posti occupò le uscite; pose i mangani a scagliar contro le porte una tempesta di sassi[36]. Scese anco il superbo a tentar la fede {171} d'Alaimo, senza comprendere che da tanta altezza di virtù non si precipita al più schifo ed esecrando vitupero della tradigione. Offrivagli occultamente: perdonata ogni colpa a Messina, fuorchè a sei de' più facinorosi; a lui diecimila once d'oro, rendita di annue once dugento, onori e dignità a suo grado: mandavagli pergamena bianca col suggello reale: Alaimo scrivesse. E Alaimo, fattagli fiera risposta, tornava ad esortare i cittadini; tornava a provveder le difese: e a rallegrar la plebe afflitta dallo stretto blocco, apriva i granai occultati da antiveggenza nei primi tempi. Del resto non si patì penuria; sovvenendo anco la pescagione, sì abbondante che Bartolomeo de Neocastro l'appone a miracolo[37]. Messina vincitrice rideasi ormai dell'assedio, quando l'avvenimento di Pier d'Aragona l'accelerò a lietissima fine.

NOTE

[1] Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, 62. Queste son le parole, ch'egli mette in bocca a re Carlo.

Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit. pag. 265.

Giach. Malespini, cap. 210.

[2] Bart. de Neocastro, cap. 31.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.

[3] Docum. VI. La rivelazione di Messina era accaduta il 28 aprile; il 9 maggio Carlo scrisse questa lettera a Filippo l'Ardito. Abbiamo nella citata raccolta di Rymer, tom. I, part. 2, pag. 204, l'avviso che Ferrante di Castiglia dava a re Eduardo d'Inghilterra il 26 maggio della rivoluzione di Sicilia, ma senza particolareggiare i fatti.

[4] Saba Malaspina, cont., pag. 361.

Gio. Villani, Giachetto Malespini, e Cron. della cospirazione di Procida, ne' luoghi citati di sopra.

[5] Bolla in Raynald, Ann. ecc. 1282, §§. dal 13 al 18.

[6] Ave rex Judeorum, et dabant ei alapam; ave rex Judeorum, et dabant ei alapam. Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.

[7] Docum. VII.

[8] Saba Malaspina, cont., pag. 361, Villani, Giachetto Malespini, e la Cron. della cospirazione nei luoghi citati.

[9] Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 20.

La bolla è data d'Orvieto a 4 giugno 1282.

[10] Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282. Post corruptionis amara discrimina, pag. 26 e seg.

[11] Saba Malaspina, cont., pag. 367.

[12] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64, 65.

Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, pag. 88.

Anon. chron. sic., cap. 39.

Saba Malaspina, cont., pag. 367, 368, 381.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.

Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 270.

Montaner, cap. 43.

Bart. de Neocastro, cap. 32.

D'Esclot, cap. 82.

Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.

Diversamente essi riferiscono il numero dell'oste. Barlolomeo de Neocastro, magnificator delle lodi messinesi, porta 24 mila cavalli e 90 mila fanti. Speciale novera soltanto le navi a 300. L'Anonymi chron. sic. dice solo: cum magno, immo cum maximo exercitu. Il Villani dà a Carlo «più di 5 mila cavalli e popolo senza numero», e 130 legni grossi, senza contar gli altri di servigio. Saba Malaspina, cont., pag. 381, 60 mila fanti dopo le stragi dell'assedio. Montaner 15 mila cavalli, e 100 navi, e fanti senza numero. D'Esclot 15 mila cavalli, 150 mila fanti, e 80 tra teride e galee, senza i legni minori, nè le grosse navi. Il frate autore delle Geste de' conti di Barcellona, a cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio, dice 14 mila i cavalli di re Carlo. Scrivean 60 mila fanti e 22 mila cavalli gli Annali di Genova, aggiugnendo ut comuniter fertur ab omnibus. In questo luogo degli Annali di Genova è da notare che, certo per error di copia o di stampa, si dice portato quest'esercito dal Dictus vero rex Petrus, quando il capitolo parla dell'Angioino, e dello sbarco a Santa Maria di Roccamadore; e di re Pietro avea già narrato l'arrivo a Trapani, e tante altre particolarità da non lasciar luogo a dubbio. La Cron. an. sic. porta 15 mila cavalli.

[13] Bart. de Neocastro, cap. 31.

[14] Bart. de Neocastro, cap. 32 e 34.

[15] Bart. de Neocastro, cap. 33, 35, 36.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.

Dei quali il primo porta 500 cavalli e 5,000 fanti su 35 tra teride e galee; il secondo con maggiore verosimiglianza, 1,000 uomini su 60 navi; e l'altro 800 cavalieri e più pedoni.

Saba Malaspina, cont., pag. 373, porta 500 cavalli e 1,000 pedoni, ma riferisce questa fazione come avvenuta dopo il cominciamento dell'assedio di Messina. In questo s'accordan con esso Gio. Villani, e la Cron. della cospirazione, loc. cit., pag. 266.

A me è parso, quanto al tempo, seguir Neocastro e Speciale, sì per esser nazionali, e sì perchè non è probabile che i Messinesi quando furono assediati da tanto esercito, volessero o potessero mandar gente alla difesa di Milazzo.

I documenti che è venuto fatto di trovare ai tempi presenti, aggiungono molta fede all'autorità del Neocastro e dello Speciale, attestando irrefragabilmente molti particolari riferiti da loro. Tale il riscatto di Arrigo Rosso, di cui il Neocastro. Si ritrae dal diploma ch'io pubblico nel docum. XII, e da un altro dato di Avellino il 26 marzo 1284, che al par di moltissimi altri citerò senza pubblicarlo, per non raddoppiar la mole di questo libro, che non è codice diplomatico. La somma di tal diploma del 26 marzo, tratto come il primo dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A. fog. 125, a t. è questa: «per misericordia» abbiam liberato Arrigo Rosso da Messina, preso nel conflitto di Milazzo: egli ha domandato quetanza dall'amministrazione della Segrezia di Calabria che un tempo maneggiò, ed ha offerto a ciò mille once: accettiamo il danaro, e accordiam la quetanza.

Ma notisi che l'ordine della liberazione è dato il 29 marzo, e la quetanza per le mille once il 26, nella quale si dice, per salvar le apparenze, essersi già messo in libertà il prigioniero. Il ripiego fu trovato naturalmente perchè non volea confessarsi riscatto per un cittadino non preso, come credeano gli angioini, in giusta guerra, ma ribelle colto con le armi alla mano.

[16] Bart. de Neocastro, cap. 36 e 37.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.

[17] Diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.

Diploma del ….. 1282, nei Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 117.

Si ritrae che questo nobil uomo era stato nel 1274 giustiziere in Principato e terra Beneventana, da un diploma di agosto 1274, pubblicato dal sacerdote Buscemi nella vita di Giovanni di Procida, docum. 4, sopra una copia ms. della Bibl. com. di Palermo, cavata dal r. archivio di Napoli; nella quale è l'errore: Alaymo de Lentini militi Justitiario Principatus et Terræ Laboris in vece di Terre Beneventane, come dice l'originale, ch'io ho riscontrato nel registro segnato 1273, A, fog. 267 a t.

In un altro diploma del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1270, B, fog. 9, a t. in data del 29 ottobre 1279, per alcune prestazioni alla chiesa di Messina, si legge al margine: Alaymo de Lentini et sociis secretis Sicilie. Donde si conferma che Alaimo era nobile uomo, adoperato ne' maggiori ufici dello stato, e ricco da prender in affitto quel della Segrezia. Un altro diploma del penultimo febbraio 1278, r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 141, è indirizzato a Giovanni di Lentini milite, consigliere e famigliare del re: e questo Giovanni si vede portulano e procuratore di Sicilia in molti altri diplomi dello stesso anno 1278, reg. citato, fog. 96, 137, 138, ec.

[18] Bart. de Neocastro, cap. 38.

Gli Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, portan lo sbarco a 3 agosto, forse confondendolo col cominciamento degli assalti.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 65, seguendo Giachetto Malespini, cap. 211, dice a 6 luglio.

Saba Malaspina, cont., nota come le ciurme si dessero a mangiar le uve già mezzo mature per la bella esposizione del luogo; il che ne' primi di luglio non potea certo avvenire.

E ciò sempre più mi conferma della poca fede che meritino il Villani e i suoi guidatori, o seguaci in queste istorie del vespro.

D'Esclot, cap. 82, dice senza data lo sbarco a Santa Maria de Rocha-Mador.

[19] Bart. de Neocastro, cap. 38.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5 e 7.

Saba Malaspina, cont., pag. 368 e 369.

D'Esclot, cap. 82.

Il Neocastro dice, che in questa torricella si ascondeva un pantaleone. Forse era nome proprio di quelli che si davano alle macchine, come oggidì alle navi e alle campane. D'Esclot, cap. 42, e Buchon, nota, pag. 597, ed. 1840.

[20] Ribaldi si diceano i saccomanni, o i soldati più vili. Questa voce appunto in sua latinità adopra lo Speciale.

[21] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 6.

Saba Malaspina, cont., pag. 369-70.

Giachetto Malespini, cap. 211.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 68.

Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 268.

Fra Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 21, cap. 6, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

[22] Bart. de Neocastro, cap. 39. Si noti che qui e in altri luoghi io talvolta riporto le parole medesime dello storico contemporaneo, là dove mi sembrano più vivaci.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 68.

[23] Bart. de Neocastro, cap. 40.

Rocco Pirri, Sicilia Sacra, tom. I, pag. 407.

[24] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 7.

Saba Malaspina, cont., pag. 372.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 6º.

Giachetto Malespini, cap. 211; i quali due trascrivono il principio della canzone:

Deh com'egli è gran pietate Delle donne di Messina, Veggendole scapigliate Portando pietre e calcina. Iddio gli dea briga e travaglia A chi Messina vuol guastare, ec.

Bart. de Neocastro, cap. 42, narrando un assalto dato alla città, fa menzione degli stessi particolari.

Gli aiuti delle altre città confermansi da un diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131, nel quale si legge il titolo: Tempore dominii sacrosanctae Romanae Ecclesiae, et felicis Communitatis Messanae anno primo. Nos Alaimus de Leontino, Miles, Capitaneus civitatum Messanae, Cataniae, et a Tusa usque ad Aguliam Augustae; consilium et comune praedictae civitates Messanae, etc.

Per questo fu accordata ai cittadini di Siracusa nel comune e distretto di Messina, la franchigia delle dogane, dritti di pesi e misure, e altre gravezze, in merito d'aver mandato giusta forza di cavalli e di fanti, nel presente assedio dell'ingente esercito di re Carlo, e d'aver tenuto fede a Messina.

[25] Bart. de Neocastro tien la prima di queste opinioni; Giachetto Malespini, seguito dal Villani e dalla Cron. an. sic., la seconda; Saba Malaspina, senza dir nè l'uno nè l'altro, porta il fatto della venuta del cardinale a Messina.

[26] Saba Malaspina, cont., pag. 371, scrive quidam Antropi cives archipopulares. Alla interpretazione dell' Antropi indarno mi sono affaticato. L'egregio mio amico G. Daita, professor di eloquenza in Palermo, giovane d'alto ingegno e molta perizia nelle lettere latine, pensa che con quella voce, che in greco suona uomo, Malaspina volesse significar filantropi, o veramente scaltri, bravi, uomini di tutta botta. Io aggiognerei che forse l' Antropi (che si vede così con la prima lettera maiuscola nel testo pubblicato dal di Gregorio) potrebbe essere nome proprio di qualche famiglia.

[27] Bart. de Neocastro, cap. 41.

Saba Malaspina, cont., pag 370-71.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 66 e 67.

Giachetto Malespini, cap. 211.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 267.

Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.

La risposta d'Alaimo, e le rampogne de' Messinesi al legato quando si ruppe il trattato, l'ho cavato in gran parte da Neocastro e da Malaspina.

[28] Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.

[29] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.

[30] Saba Malaspina, cont., pag. 371.

[31] Bart. de Neocastro, cap. 41.

Saba Malaspina, cont., pag. 371-72-73.

Di questo tempo v'hanno nel r. archivio di Napoli pochi diplomi, com'è ben naturale. Ne noterem tre, i quali se non ispargon molta luce su i fatti che narriamo, servono ad attestare la permanenza di re Carlo nel campo. L'uno è dato in castris in obsidione Messane, a 3 settembre undecima Ind. (1282) per armenti in terraferma; l'altro nello stesso luogo il 10 settembre per alcuni cavalieri mercenari, reg. segnato 1283, E, fog. 1 e 14. Ibid., a fog. 14 si legge un diploma più importante, con la stessa data del campo sotto Messina a 7 settembre. Carlo rifiutava tre galee di Marsiglia che voleano entrare ai suoi soldi, e diceva egli averne pur troppe. Su queste galee la principessa di Salerno sua nuora, era andata da Marsiglia fino alla riviera di Genova, ove sbarcò per venire a Napoli per terra col marito. Le galee erano andate anco a Napoli, e s'offrivano ai servigi del re.

[32] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.

[33] Stromento da batter le mura, che terminavasi in un capo di gatto, come appo gli antichi l'ariete.

Chiamavasi anche gatto una fortissima tettoia mobile su ruote o altrimenti, di che coprivansi gli assalitori mentre percotean le mura. Era la tettoia di grosse travi a graticcio, coperta di assi, e foderata di cuoio, e talvolta anche sormontata di uno strato di terra, da scemare e sostener l'urto di ciò che gettasser d'in su i muri gli assediati. Vedi d'Esclot, cap. 161 e seg., e Bartolomeo de Neocastro, cap. 110, che ne fanno menzione, l'uno nell'assedio di Girona, l'altro in quel d'Agosta.

[34] Torricciuole di legno mobili su ruote interiori. In cima v'era congegnata una lunga trave, che serviva di ponte agli assalitori, calandosi sul muro quand'era approcciata la torricella. Questa così somigliava a una cicogna che stenda il lungo collo; e propriamente si chiamava cicogna o telone la trave. Veg. Niccolò Speciale, lib. 3, cap. 22, nell'assedio del Castel d'Aci.

[35] Bartolomeo de Neocastro dice maestro. Questo vocabolo aggiunto a titoli d'uficio era dignità: maestro giustiziere, maestro de' conti; aggiunto ad arte avea il significato che oggi conserva in Italia. Ma par che ai soli dottori in medicina o altra scienza si dicesse assolutamente maestro, in titolo d'onore: di che, per lasciar le tante memorie pubblicate e notissime de' secoli XIII e XIV, citerò solo le numerose cedole reali ad avvocati, medici, e cerusici, chiamati tutti assolutamente magister, ch'è appunto il dottore o professore d'oggidì.

[36] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.

Bart. de Neocastro, cap. 42.

[37] Bart. de Neocastro, cap. 43.

CAPITOLO VIII.

Cagione della debolezza del governo preso nella rivoluzione. Si pensa a Pier d'Aragona. Sua partenza di Catalogna per Affrica; fatti militari; ambasceria a Roma. Parlamento in Palermo, che sceglie Pietro a re. Com'ei guadagna gli animi de' suoi, e accetta la corona. Viene a Trapani. È gridato re in Palermo. Disposizioni per soccorrer Messina; oratori di Pietro a Carlo; ultimi fatti d'arme nell'assedio. Carlo sen ritrae con perdita e onta. Giugno a settembre 1282.

Degno argomento è di considerazione come venendo re Carlo sopra la Sicilia, debolmente qui si reggesse lo stato, poco appresso rivoluzione sì violenta, e mentre le municipalità vigorosamente operavano. Perciocchè in queste gli uomini, vedendosi in viso, s'intendean tra loro molto vivamente ne' bisogni comuni; e i capitani e i consigli di popolo lor forze drizzavano a pronti fatti. Ma nella nazione, i parlamenti gridando il nome della Chiesa s'eran rimasti dal creare una signoria, o, come oggidì suona, potere esecutivo; e indi mancava nel maggior uopo la virtù del comando. Non ebbela il parlamento, perchè non si fe' permanente; e perchè d'altronde la riputazion dello stato, passando in questo tempo dai popolani ne' nobili, nell'atto del mutamento non era forte in alcuno. Dapprima, il dicemmo, tutto fu brio di repubblica, e ordini democratici. Poi, dileguandosi quella spinta, la parte baronale preponderò, per l'avvantaggio delle sostanze, e le consuetudini degli uomini; e perchè all'ostil contegno di Roma, agli armamenti di re Carlo, il popolo non pensò più a tenere il governo dello stato, ma soltanto a fuggir l'empio giogo; onde affidossi a coloro che sopra ogni altro parean savi e possenti. Perciò al primo capitan di Messina succedea Alaimo, e chiamavanlo allo stesso uficio tutte le terre per gran tratto delle costiere di settentrione {173} e levante; perciò Macalda, moglie d'Alaimo, ne tenea le veci in Catania[1]; perciò se nei primi parlamenti leggiam solo di sindichi e capitani di popolo, vanta Speciale in cotesti successivi la frequenza degli adunati nobili e savi personaggi[2]. La quale mutazione condusse a un'altra maggiore. Degli ottimati, alcuni per le pratiche anteriori tenean forse a Pietro: riconosceano i più il dritto della Costanza: tutti la monarchia più che la repubblica amavano; nè vedeano in tanto pericolo altro migliore partito che ubbidire ad un solo. A chiamarlo intesero dunque; e in ciò affidati si rimaser da tutt'altro generoso imprendimento, mentre Messina fortuneggiava, e con lei la comun libertà. Solo con le forze che vi s'eran chiuse, e con quegli spessi ardimenti di trafugarvi armati e vivanda[3], soccorreanla, chè tenesse contro l'esercito nemico infino all'avvenimento del re d'Aragona.

Questi diversi umori de' popolani e de' nobili, questo mutamento dello stato da' primi ne' secondi, richiedendo e tempo e opportune circostanze al pien loro effetto, ne seguì che irresoluti e divisi ondeggiarono i Siciliani a lungo sul partito di chiamar l'Aragonese. Le pratiche s'incominciaron private ed occulte da' partigiani, non in modo pubblico dalle città. Indi vaghe notizie abbiamo del primo appicco di quelle; che i diversi scrittori diversamente narrano, perchè pochi potean saperne, o amavano a dirne il vero[4]. Ma certo e' pare che Pietro dopo la rivoluzione caldamente {174} si fece a brigar qui coi suoi partigiani per usarla a suo pro; e ch'ei della Sicilia avea brama assai più ardente, che non la Sicilia di lui.

S'armava e tacea tuttavolta il re d'Aragona, quando l'isola si sollevò; restando sepolti per sempre in quel cupo animo i primitivi disegni; che tal non sembra la finta guerra d'Affrica, perch'ei non avrebbe operato da savio a tacerla sì pertinace al papa e a re Filippo, con certezza di fomentare i sospetti. Ritraesi inoltre, che segretissime pratiche avesse ei tenuto col principe di Costantina; il quale minacciato dal re di Tunisi, gittavasi a implorar cristiani aiuti, e a Pietro[5], profferia riconoscerlo per signore, e aprirgli la via a larghi acquisti in Affrica, dove alle armi d'Aragona si sarebber voltati i moltissimi cristiani che a' soldi di Tunisi militavano[6]. Sia dunque che Pietro tentasse doppio gioco, d'Affrica e di Sicilia, o che macchinasse quella impresa come scala a quest'altra, cominciò a scoprirsi alquanto con mandare un oratore a chieder al papa aiuti per guerra contro Saraceni: a che non rispondendo Martino[7], l'Aragonese in fin di primavera, {175} quando gli erano pervenuti senza dubbio gli avvisi de' fatti di Sicilia, affrettò ogni suo apparecchiamento alla guerra. L'opra d'un mese, dice Montaner, in otto dì fornivasi sotto gli occhi del re. Adunossi picciola forza di cavalli, e molta di eletti fanti leggieri[8]: la più parte dell'oste si trovò a porto Fangos presso Tortosa il dì venti maggio[9]: e allor Pietro con estrema cura ogni cosa ordinò all'assetto della regia casa e del regno. Accelera il matrimonio d'Alfonso suo con Eleonora figliuola d'Eduardo I d'Inghilterra; deputando i vescovi di Tarragona e di Valenza a dare per lui il paterno assentimento[10]. Destina a reggenti dello stato il medesimo Alfonso e la regina Costanza. Fa testamento, con istituire Alfonso erede de' reami d'Aragona e Valenza e del contado di Barcellona: e leggiamo ancora che di presente ne cedea la sovranità al figliuolo, chiamando in gran segreto testimoni alla rinunzia, Pietro Queralto, Gilaberto de Cruyllas, Giovanni di Procida, Blasco Perez de Azlor, e Bernardo de Mopahon; atto consigliato da antiveggenza dì ciò che avrebbe fatto contro di lui la corte di Roma, o piuttosto finto dopo la deposizione, per eluderla nelle forme, e mostrar ceduta la corona al figliuolo, innanzi che il papa si avvisasse strapparla al padre[11]. Il tre giugno {176} infine[12], accomiatatosi dalla reina, e benedetti con molta tenerezza i figliuoli, salpa con l'armata: ed era tuttavia {177} segreta l'impresa. Discosto che fu venti miglia, l'ammiraglio percorrendo sur un battello tutte le navi, fè volgere a porto Maone; diè ad ogni capitano un plico suggellato da aprirsi poi all'uscir da quel porto. Stettervi pochi dì finché, avuti avvisi da Costantina, Pietro comandò di far vela: e allora l'almossariffo di Minorca, saracino e minacciato sempre dalle armi d'Aragona, appostosi al vero disegno dal corso delle navi e altri indizi, ne mandò avviso in Affrica per una saettia, che passò inosservata oltre la flotta catalana[13]. Arrivò questa il ventotto di giugno[14], con dieci o dodici migliaia tra fanti e cavalli[15], al porto di Collo[16] nella provincia di Costantina. {178}

Trovò Pietro mutata quivi ogni cosa per l'annunzio precorso, o loquacità del Saraceno alleato, o tradimento altrui. Abbandonato era in Collo il porto, e la città: e da mercatanti pisani seppe indi a poco, ucciso il signore, e Costantina in man dei nemici: ma quanto più perduta parea l'impresa, tanto più per grand'osare e gran vedere ei rifulse innanti i Catalani, e con la gloria si cattivò quegli indipendenti animi. Al veder solinga e muta la spiaggia, il soldato temea frode de' barbari; esitava fino al predare; e negava entrar nella terra, se non era pel re. Tutto solo con un compagno si fa egli alle porte; smonta di cavallo, mette l'orecchio a fior di terreno per coglier qualche leggiero rimbombo: e fatto certo che persona viva non v'ha, rassicurando i suoi, entra egli primo. Solo indi, o con pochi, cavalcava a riconoscere il paese; con pronte arti rafforzava il campo; guardava i passi; spiava ogni movimento dei nemici: e venendosi alle mani, tra i più feroci quasi temerario pugnava. Le geste non ci faremo a narrare, scorgendone le memorie maravigliose tutte, e diverse tra loro; perchè gli ambasciadori mandati al papa, o i soldati che raccontaronle o scrisserle, ingrandian favoleggiando le migliaia di migliaia di barbari; gli spaventevoli scontri; il macello; la virtù dei fedeli; i memorabili fatti de' baroni dell'oste. La somma è, che da religione e abborrimento di violenza straniera, le torme de' cavalli arabi piombaron su i Catalani, che li avanzavano d'arte e d'animo e li respinser indi con molta uccisione. Ma non bastavan essi nè ad espugnar Costantina, nè ad innoltrarsi altrimenti nel nimico paese[17]. {179}

Dopo questi fatti d'arme, nuov'arte, suggerita da Loria e dagli altri usciti italiani, divisava il re ad aggirar le genti sue; e insieme tener a bada il papa, che non vibrasse anzi tempo i suoi colpi; onestare appo gli altri potentati la meditata impresa; vincer le ultime dubbiezze in Sicilia. Chiamati i principali dello esercito, di loro assentimento inviò al papa con due galee Guglielmo di Castelnuovo e Pietro Queralto, che sponessero la sconfitta degli infedeli, e chiedessero i favori soliti in tali guerre: legato apostolico; bando della croce; protezion della Chiesa sulle terre del re e de' suoi in Ispagna; e le decime ecclesiastiche, raccolte già e serbate. Queste grazie, ei pensava, consentite renderebbel sì forte da potersi scoprir senza pericolo, negate darebber pretesto a volgersi ad altra impresa[18]. Ma gli oratori navigando d'Affrica a Montefiascone, ove papa Martino fuggiva il caldo della state, o i romori già surti in Italia contro parte guelfa[19], approdarono, come se sforzati da' venti, in Palermo; mentre i baroni e i sindichi delle città ragunati a parlamento, in gravissima cura si travagliavano[20].

Nella chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio, bel monumento de' tempi normanni, ch'or addimandasi della Martorana, sedeva il parlamento costernato e ansioso per {180} l'assedio di Messina, trovando scarsi tutti i partiti, e dall'uno correndo all'altro, com'avviene negli estremi pericoli. E parlava alcun già da disperato di fuggir dalla misera patria, quando il Queralto, testè arrivato, appresentossi in parlamento a mostrare una via di salvezza: chiamassero al regno Pier d'Aragona, principe di gran mente, di gran valore, vicino con gente agguerrita, spalleggiato da indisputabili dritti alla corona. Messo questo partito dunque tra i consapevoli e gli sbigottiti, d'un subito fu vinto; deliberandosi d'offrire a Pietro la corona, a patto ch'osservasse tutte leggi, franchige, e costumi del tempo di Guglielmo il Buono, e soccorresse la Sicilia con le sue forze fino a scacciarne i nimici[21]: del quale messaggio mandavansi apportatori in Affrica con lettere e pien mandato di tutte le siciliane città, Niccolò Coppola da Palermo e Pain Porcella catalano[22]. Bartolomeo de Neocastro aggiugne {181} fede alle sollecitazioni del re d'Aragona e alle disposizioni degli animi nel parlamento, col narrar semplicemente[23], che Giovanni Guercio cavaliere, il giudice Francesco Longobardo professor di dritto, e il giudice Rinaldo de' Limogi, inviati già prima da Messina a Palermo per trattar la chiamata di Pietro, avvenutisi in Palermo con gli oratori del re, speditamente il negozio ultimavano. Mentr'ei così scrive, il semplice Anonimo porta il Queralto approdato per caso in Palermo; e il cortigiano Speciale o favoleggia o simboleggia d'un vecchio ispirato, fattosi di repente nel costernato parlamento ad arringare. Ma niuno non vede che nè fortuito caso fu, nè miracolo questo meditato colpo di scena, sviluppo delle pratiche de' nostri ottimati con re Pietro. Se tramaron essi fin dai tempi di Niccolò III, se v'ha parte di vero ne' maneggi del Procida in Sicilia, trionfava in questo parlamento, non già nel vespro, l'antica congiura.

Giunti Castelnuovo e Queralto a Montefiascone, lietamente li udì il papa; per vero credendo rivolto addosso a' Mori quel sospettato armamento del re; ma non assentia di leggieri le inchieste, avvolgendosi negli indugi della romana curia; e dicea le decime ecclesiastiche servire a' soli luoghi santi, non a tutta guerra contro Saracini: tanto che gli ambasciadori, sdegnati o infingendosi, tolto commiato appena, tornavansi in Affrica[24], ammoniti forse da cardinali nimici a parte francese, che Pietro nulla sperasse da papa Martino, ma pensasse egli a' suoi fatti[25]. E in Affrica già aveano gli oratori siciliani con accomodate parole {182} offerto a Pietro il trono[26]; ed ei sceneggiando avea replicato: gradire questa lealtà al sangue svevo: stargli a cuore la Sicilia: pure gli desser tempo a risolversi su partito sì grave. Rappresental tosto, dissimulando quel suo ardentissimo desiderio, agli adunati baroni e notabili dello esercito; tra' quali chi consigliava l'andata al bello e facile acquisto, e chi dissuadeala, mostrando: provocherebbe sul reame d'Aragona l'ira del papa, le armi di Francia; per ambizione di novella corona metterebbesi a repentaglio l'antica; essere Carlo potente troppo; e le genti di Aragona use a battagliar co' Mori, non contro cavalleria sì forte; rifinite chieder la patria e il riposo; ripugnare a una aggression sopra cristiani: e d'altronde come prenderebbesi guerra sì grande senza la sovrana autorità delle corti di Catalogna e Aragona? A quegli ostacoli tacque parecchi dì Pietro, nè fiatò perchè molti, senza tor pure commiato, facean ritorno in patria[27]: ma lavorando occulto, prese a poco a poco gli animi de' principali dell'oste. Quando ne fu sicurato, rispondeva agli oratori di Sicilia: accettar la corona secondo gli ordini del buon Guglielmo, e promettere la difesa[28]; scrivea al re d'Inghilterra, e forse {183} anco ad altri potentati, lasciare pe' nieghi del papa la guerra sopra infedeli, e chiamato in questo dalle città di Sicilia, andarvi a rivendicare i dritti della Costanza e dei suoi figli[29]. Risolutamente poi comanda la partenza, con ciò che libero sia ciascuno a rimanersi; che se i compagni d'arme l'abbandonino, ei solo andrà. Per queste arti, seguito da' più, con ventidue galee, una nave, e altri legni minori, e poche forze di terra diè ai venti le vele[30].

Il dì penultimo d'agosto, dopo cinque di viaggio, prese terra a Trapani, con giubilo grande del popolo, e maggiore de' nobili, affaccendati a gara nelle cerimonie della corte che quel dì risorgeano in Sicilia: e baroni montarono sulla nave del re, lo addussero a città, resser su quattro lance il pallio di seta e d'oro sotto il quale egli incedeva; e fu più lieto chi tenne le redini del destriero; gli altri a piè seguianlo, e con essi giovanetti e donzelle, danzando e cantando al suon di stromenti; il popolo a gran voce: «Benvenuto, gridava, il suo re, mandato dal Cielo a liberarlo dall'atroce nemico.» In queste prime allegrezze Palmiero Abate il presenta di ricchi doni, e largamente dispensa grano alle soldatesche. Pietro cavalcò il quattro settembre alla volta della capitale: mandovvi con l'armata e le bagaglie Ramondo Marquet. E quivi a maggiori dimostrazioni s'abbandonò il popolo, più frequente, e stato primo nella rivoluzione, onde peggiore aspettavasi la vendetta angioina. Per ben sei miglia si fece incontro al principe, il menò a trionfo, e all'entrare in città sì forte surse {184} il plauso della moltitudine, il grido de' soldati, e lo squillo delle trombe, che rintronò, scrive Saba Malaspina, fin a Morreale, città a quattro miglia in sul poggio a libeccio di Palermo. Con tal gioia andò Pietro in palagio; ebber le sue genti larga ospitalità per le case de' cittadini[31].

Ma da' festeggiamenti, le luminarie, le ferie de' lavorieri, e i presenti di danaro, che Montaner dice ricusati dal re, si venne a solennità più augusta. Al terzo dì, scrive d'Esclot, adunavasi in Palermo il parlamento de' baroni, cavalieri, e rappresentanti delle città e ville. Ai quali Pietro domandava, se per vero deliberato avessero la profferta della corona fattagli in Affrica dagli ambasciadori: e un cavaliero rispondea di sì; e poichè tutto il parlamento a una voce l'assentì: «Degnisi ora il re, ripigliava quel cavaliero, accordar le franchige de' tempi del buon re Guglielmo, e lascerà memoria di sè gratissima, eterna, e cattiverà i Siciliani a ogni voler suo.» Pietro accordolle; e ne promesse i diplomi. Allora tutti i parlamentari levandosi in piè, gli giuravano fedeltà; un gran banchetto imbandivasi al re e a' cavalieri[32]. Ma non credo vero, com'altri scrive, che indi si cingesse a Pietro la corona {185} dei re di Sicilia, e che tal cerimonia fornisse il vescovo di Cefalù[33]. Allora a nome della Sicilia indirizzossi al papa un {186} altro nobile scritto, più misurato della prima rimostranza; come portava il novello governo regio e baronale. In esso, replicate a lungo le enormezze della tirannide straniera, toccossi della signoria profferta dopo il vespro al sommo pontefice, e ricusata; onde la nazione s'era volta ad altro principe; e il sommo Iddio, in luogo del vicario di san Pietro, un altro Pietro, scherza così lo scritto, aveale mandato. Con ciò ricordarono a Martino severamente, ch'ei francese, sulla cattedra dell'apostolo dovea ascoltare la verità, non le passioni di parte; nè a dritta piegar nè a manca; nè proceder contro i Siciliani sì tempestosamente[34]. {187}

Ristretti in questo mezzo col re i più intinti nella rivoluzione, e tutti gli esuli del regno di Puglia, affollantisi pieni di speranza alla nuova corte, deliberavan sulle fazioni da imprendere contro il nemico[35]. Del che eran tanto più solleciti, quanto ne' privati ragionari si mormorava già la trista sembianza della gente catalana; male in arnese; lacera e abbronzata ne' travagli d'Affrica; ondechè i nostri poc'aiuto la estimaron dapprima contro i cavalier francesi, nè se ne sgannarono che ai fatti[36]. E però avvisatisi di far assegnamento sulle lor sole braccia, e su' militari consigli del re, ansiosamente chiedeano i Siciliani d'esser condotti a Messina; che a tutti tardava liberar la generosa città[37]. Pietro usando questo ardore, allor mandò intorno la grida: che tutt'uomo da' quindici anni a' sessanta si trovasse in Palermo entro un mese, armato, e con vivanda per trenta dì[38]. Ed ei con molta prestezza con le milizie più spedite mosse per la strada di Nicosia e Randazzo; seguendolo, ciascuna come potea, le altre schiere che s'ivano adunando: e fece veleggiare il navilio alla volta del Faro. Manifesto disegno era dunque affamar Carlo nel campo, tagliandogli per mare le comunicazioni con la Calabria, e su pei monti ogni via a foraggiare nell'isola; il qual consiglio appone a Giovanni di Procida chi il fa protagonista della tragedia del vespro. Con certezza istorica si sa che Pietro, disposte così le forze, bandiva solennemente la guerra; e a Carlo a quest'effetto spacciava Pietro Queralto, Ruy Ximenes de {188} Luna, e Guglielmo Aymerich, giudice di Barcellona, con giusta scorta d'armati[39].

Per due frati carmelitani domandaron costoro salvocondotto a re Carlo[40]; il quale sognando potere in brev'ora parlar da vincitore, ai frati rispondea darebbelo a capo a due dì; e comandava quel generale assalto del quattordici settembre, che gli tornò sì funesto. Al secondo dì dalla battaglia, ancorchè giacesse in letto, tutto rappigliato, spossato, affranto, arso d'infermità e peggio di rabbia[41], assentì a veder gli ambasciatori, che già venuti al campo, e cortesemente raccolti con grossiera ospitalità, sotto guardia strettissima aspettavano[42]. Ammesso Queralto dinanzi al re sedente in letto su ricchissimi drappi di seta, presentò le credenziali; e Carlo a lui, troncando le cerimonie: «Alla buon ora di' su;» e datagli un'altra lettera di Pietro, senza guardarla, gittavala sulle coltri; ardea tutto d'impazienza {189} aspettando il dir del Catalano. Perciò questi brevemente si fe' ad esporre l'ambasciata del suo signore, richiedente il conte d'Angiò e di Provenza che lasciasse la terra di Sicilia, a torto occupata, atrocemente manomessa, in cui aiuto il re d'Aragona s'era mosso come signor naturale, pel diritto dei suoi figliuoli. A queste parole, i brividi della febbre preser l'antico monarca; convulso ammutolì. Poi rosicando il bastone, com'ei solea per soperchio furore, interrotto e minaccioso rispondea: non esser la Sicilia nè sua, nè di Pietro d'Aragona, ma della santa romana Chiesa; ei difendeala, e saprebbe far pentire il temerario occupatore. Queste ed altre superbissime parole, secondo altri cronisti, scrisse a Pietro[43]. E intanto per far sembiante di non curare, o per ingannar loro e i Messinesi, lasciò {190} andar alla città gli ambasciadori stessi a profferir tregua d'otto dì. Fu vano, perch'Alaimo non conoscendo i legati, {191} li ributtava; ond'eglino tornavano al campo francese, ed eranvi senza risposta intrattenuti finchè il campo si levò. {192} I Messinesi poi, che non avean creduto a Queralto l'avvenimento del re d'Aragona[44], n'ebber certezza entro pochi dì per Niccolò de' Palizzi messinese e Andrea di Procida, entrambi nobili usciti, mandati dal re in lor soccorso con cinquecento balestrieri delle isole Baleari. Costoro, valicati {193} per tragetti e alpestri sentieri i monti a ridosso alla città, da quella banda non istretta per anco da' nemici, di notte appresentaronsi alla Capperrina; e riconosciuti i condottieri, e con grande allegrezza raccolti, spiegavan su i muri lo stendardo reale d'Aragona[45].

Già fin dal primo arrivo degli ambasciadori, teneano i nemici novello consiglio, a disputare non più dell'assalto o blocco della città, ma della lor propria salvezza. Perciocchè sapendo per sicura spia uscite dal porto di Palermo molte galee sottili armate di Catalani e Siciliani, Arrighin de' Mari, ammiraglio di Carlo, rimostravagli vivamente non potersi difendere; in tre dì sarebbegli addosso il nemico ad affondare e bruciare i trasporti[46]. Quant'aspro il caso, apparvero diverse allora le menti. Affrontar la flotta ad un tempo, e correr sopra il re d'Aragona: accamparsi in alcun forte sito presso la città co' balestrieri mercenari, accomiatando le milizie feudali: prender pria de' nemici i passi de' monti: star all'assedio tuttavia con l'esercito intero, finchè consumasser la vivanda, che n'avean anco per due mesi; tra disegni sì fatti vagavano i parlatori più feroci. Pandolfo conte d'Acerra, e molti con lui, mostran all'incontro dileguata ogni speranza di ridur la città con quell'esercito scoraggiato, stracco, assottigliato per morbi {194} e partenza di gran gente ch'avea fornito il servigio feudale: ma le genti nemiche inanimirsi, ingrossare per la riputazion del re d'Aragona: ben costui saprebbe adoprare i Siciliani su le montagne: e il mare, il mare tra le autunnali tempeste il terrebbero i nimici, padroni di sicurissimo porto: romperebbero i legni napoletani su quelle aperte spiagge: e intanto chi raffrenerebbe Reggio, invasa già dagli umori della ribellione? E come ritrarsi poi se la estrema Calabria tumultuasse? Esausta aggiugnean la Calabria di viveri: il paese intorno Messina, fatto da loro stessi un deserto: per fame e avvisaglie perirebbe l'esercito, assediato alla sua volta tra 'l mare, i monti, e quella indomabile Messina. Per tali ragioni, dietro dibatter lungo, deliberossi il ritorno[47]; ma per allora si tacque.

E Carlo sfogò il dispetto con atti disperati ed assurdi. Sguinzaglia i suoi a un ultimo sterminio delle campagne; che cadde su i luoghi sacri, poich'altro non rimaneva men guasto; e andò sì oltre, che fin le colonne e le travi strascinarono al campo; e nel monistero di nostra Donna delle Scale spogliarono gli altari, e ruppero e contaminarono ogni cosa. Poi il re saltando all'estremo opposto, offre ai Messinesi di rimetter tutte lor colpe, consentir tutte inchieste, sol che tornino sotto il suo nome: ed essi con onta e scherno rifiutano[48]. I tradimenti anco tentò, praticando col giudice Arrigo de Parisio, il notaio Simone del {195} Tempio, Giovanni Schaldapidochu, e un Romano, che di furto mettesser in città le sue genti; i quali furono scoperti e puniti nel capo. L'insospettito popolo di Messina allora, tumultuando chiamava al supplizio Federigo di Falcone, che forse avea consigliato la resa, brontolando «il mal fatto ne basti;» e minacciava anco Baldovin Mussone, il deposto capitano, che intendendo la venuta di Pietro, occultamente era uscito dalla città per andarne al re; ma i contadini di Monforte, credendol indettato coi nemici, l'avean preso e condotto a Messina. Alaimo salvò entrambi, imprigionandoli nel castel di Matagrifone[49].

Soprastato in questi vani pensieri alcun dì, intese Carlo con maggiore rammarico l'esser della città da un Morello, ch'uscito in sembianza di paltoniere, e preso da' soldati, affermava il tenacissimo proponimento alla difesa; e aggiugnea sue favole di sterminate provvedigioni di vittuaglie; bande novellamente scritte; disegni contro la vita del re, imminenti, atroci, ordinati con cinquecento cavalieri spagnuoli e duemila pedoni messinesi, che giurato avvessero al comune d'irrompere disperatamente nelle regie tende in una improvvisa sortita de' cittadini, nella quale il grido di guerra sarebbe «al campo, al campo[50].» Fosse arte o caso, questo dir del prigione che parve cominciato ad avverarsi in pochi giorni, diede la pinta al re; il quale ripugnando a partirsi, aspettava e differiva.

A toglier ch'altri stuoli entrassero in città sull'orme di Palizzi e d'Andrea Procida, il dì ventiquattro settembre re Carlo avea fatto occupare il palagio dell'arcivescovo, poco lungi dalle mura. Un de' suoi più fidati mandovvi con dugento soldati, che muniti di steccato e fosso nello edifizio per sè fortissimo, teneano il passo della via di Sant'Agostino a ponente della città. Ma Alaimo incontanente divisa {196} un bel colpo. Di suo comando, Leucio e altri condottieri arrisicatissimi, in gran segreto con iscelte bande di giovani, usciti a notte da Messina, per vie diverse giungono intorno al palagio; e tre da tre lati si appressarono; Leucio dall'altra banda, tenutosi indietro, in un uliveto imboscossi. Come il disco della luna spuntò dai monti di Calabria, ch'era il segno prefisso da Alaimo, i primi mettendo altissimo un grido «Cristo già vince,» dan dentro ferocemente ne' ripari; tagliano a pezzi il presidio; il capitano colto nel suo letto stesso, vergheggiano a morte. Quanti di lor mani fuggono all'uliveto, son dalle genti di Leucio ammazzati. E repente da' silenzi della città uno scoppio di voci «Al campo, al campo,» uno stormeggiar di campane, un dar nelle conche e nelle trombe, un percuotere caldaie e panche, rintronano orrendamente: schiuse le porte, accanite turbe prorompono. Sorse atroce scompiglio nell'oste. Senz'ascoltar comando o rampogna, mezz'ignudi fuggian qua e là per gli alloggiamenti; e chi ai poggi, e alla marina i più, sentendosi già sul collo il formidato re d'Aragona. Saltando dal sonno, Carlo corse gran tratto con gli altri al mare, percosso dal presagito grido: «Al campo, al campo;» finchè tornato a sè stesso, vergognando sostò, e si fece a racchetare il tumulto. Carichi di preda rientrano i Messinesi in città: e raggiornando, ostentano su per le mura il tronco braccio del capitano del ridotto, con villanie appellando Carlo coi suoi tutti che vengano a rimirarlo[51]. {197}

Allor Carlo non più soprattenne la levata dell'assedio, che divulgata non ostante il segreto, finì di rovinare i soldati; al segno che nè onta de' nimici li raccendea, nè per militare orgoglio almeno serbavan contegno. Al primo dì valicò la regina, venuta a questo campo come a teatro: e le macchine da guerra e' lavorieri fur traghettati, tanto o quanto posatamente. Ma imbarcatosi il re[52], nei due giorni appresso le altre genti si precipitarono al passaggio con tal pressa, e confusi ordini, e obblio di lor cose e di sè stessi, che rassembrava sconfitta. Un andare e tornar di vele per lo stretto, un abbaruffarsi intorno le barche, un bestemmiar gli avari marinai, e lor noli eccedenti il pregio delle cose; e abbandonati come portava il caso, per gli alloggiamenti, per la marina, cavalli disciolti o uccisi dai propri padroni, e arnesi, e robe, e botti di vini, legnami da macchine, grani, vittuaglie accatastati o mezzo arsi per pressa, attestavan la condizione di quel dianzi fioritissimo esercito. I nostri martellaronlo nella ritirata con impetuose sortite; talchè a protegger l'imbarco si costruì alla meglio un riparo, e ordinovvisi forte banda di cavalli sotto il conte di Borgogna. Con tutto ciò da cinquecento uomini furon trucidati, e salmeria grandissima di preda riportata in città[53]. Recarono tra le altre spoglie il padiglion grande {198} del comune di Firenze, nella cieca fuga mal difeso o gittato; e l'appendeano in voto nel maggior tempio[54].

Ebbe questo memorabil esito l'assedio di Messina. Tra le gare, fanciullesche sì ma parricide, onde la patria nostra cadde lacera e schiava, splende indivisa la gloria delle due maggiori città nella rivoluzione del vespro. Ne levò l'insegna Palermo; rapì seco la Sicilia intera al gran fatto: non assestato il reame per anco, e minacciato da tant'oste, Messina il salvò con quella eroica difesa. Indi la fama a celebrar di Messina il capitano, i cittadini, le donne; e di codeste animose e gentili cantava la rinascente musa d'Italia; e le altre siciliane spose e donzelle, come da ammirazione si fa, prendeano ad imitare il lusso di lor fogge e ornamenti; che dileguato il pericolo, ripigliossi ogni dilicato vivere tra i commerci, le industrie, le ricchezze della valente città[55]. Di stranieri non pugnavano per lei nello assedio che sessanta Spagnuoli: v'eran da cento Genovesi, Viniziani, Anconitani, Pisani[56]. Del resto nè cittadini esercitati all'arme pria dell'assedio, nè avea fortificazioni, se non che rovinose, e slegate tra loro[57]: onde in molte parti fu mestieri supplirvi con le barrate; e pressochè senz'avvantaggio di luogo molti affronti si combatterono. Diversa in vero da quella dei nostri dì, e men {199} dura agli oppugnati, l'arte degli assedi allor era; men destre e compatte che i nostri stanziali quelle antiche milizie; ma quant'arte di guerra fiorì in quei guerrieri tempi, l'avea esercitato, può dirsi fin da fanciullo, tra il sangue delle battaglie, il vincitor di Manfredi; sperimentati i suoi capitani; ferocissimi quegli oltramontani avventurieri; i soldati d'Italia nè inesperti in quella età nè inviliti. Provveduti di tutte macchine, obbedienti, ordinati, sommavano a un di presso a settantamila al cominciar dell'assedio: nè a tanto numero forse giugneano, presi tutti insieme d'ogni sesso coi poppanti e i decrepiti, quanti umani rinserrava la città. Per sessantaquattro giorni la campeggiò tanto esercito, venuto in sua baldanza, che copriva il mare; e tornossi sgomenato, mutilo, a fronte bassa, ingozzando oltraggi, poco men ch'a dirotta fuggendo. Altri dirà che nell'assedio della città, che ne' disegni della guerra contro l'isola, fallava in molte parti re Carlo; ma posto pur ciò, non son da supporre sì grossolani gli errori, nè che ei non sapesse ripararli: e certo è che molti assalti diede con tutte le forze di mare e di terra, ne' quali la virtù de' cittadini fu che il rispinse. A questa dunque si dia la vittoria dell'assedio. Alla vittoria di Messina, alle difficoltà de' monti e del mare, al cuor degli altri Siciliani, e alle forze ormai concentrate per la riputazione di Pietro si dia, che null'altro danno tornasse al rimanente dell'isola da tanta mole di guerra, e primo furor di vendetta[58].

NOTE

[1] Bart. de Neocastro, cap. 43.

[2] Lib. 1, cap. 8 e 9.

[3] Questi aiuti, che il Neocastro dissimula un poco, sono accennati da Speciale, lib. 1, cap. 7 e 16.

[4] Non merita piena fede Bartolomeo de Neocastro, che le attribuisce (cap. 21) ai Palermitani, narrando come sbigottiti a veder nimico il papa, e Messina leale ancora a casa d'Angiò, deliberassero, persuasi da un Ugone Talach, di gittarsi in braccio all'Aragonese, con tanta prestezza, che Niccolò Coppola orator loro, sciogliea per Catalogna il dì 27 aprile. Il Neocastro incespa nel computo del tempo, con dir che giunto Niccolò in otto giorni alle Baleari, una fortuna di mare spingealo sulle spiagge d'Affrica; dove s'avvenne in re Pietro, che egli medesimo afferma partito di Spagna il 17 maggio, e per più autorevole testimonianza si sa approdato in Affrica il 28 giugno. Segue a intessere il suo racconto: che non volendo il re entrare in quella impresa senza intender l'animo dei Messinesi, rispondea manderebbe a ciò suoi fidati, ma nulla prometteva intanto. Così dà tempo e sembianze a questa pratica, a maggior vanto di Messina sua; senza pure accorgersi che Messina splendea di tanta gloria verace, da doversi sdegnar l'accattata.

Lo Speciale, il d'Esclot, il Montaner, e Saba Malaspina non parlan d'altro, che dell'ambasceria pubblica, della quale ora diremo.

I racconti del Villani, lib. 7, cap. 69, e della Cronaca anonima della cospirazione son sì lontani da tutte queste testimonianze istoriche, da nemmeno farsene parola. Essi non mancano di mandare orator dei Siciliani a Pietro il loro protagonista Giovanni di Procida.

[5] Saba Malaspina, cont., pag. 361.

Cron. S. Bert., in Martene e Durand, Thes. Nov. An., t. III, p. 762.

[6] Montaner, cap. 44.

D'Esclot cap. 77 e 78.

[7] Diploma di Pier d'Aragona del 19 (agosto?) 1282; Docum. VIII.

[8] D'Esclot, cap. 77 e 78.

Montaner, cap. 46, 4º.

[9] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 13.

Veg. anche Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio.

[10] Diploma dato di Port Sangos o Fangos il 1 giugno 1282, in Rymer, atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 210.

[11] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.

Parecchi documenti confermano l'esistenza di questa donazione segreta; lasciandoci sempre nel dubbio, se il re l'avesse fatto veramente in giugno 1282, o finto nel 1283. Sono essi:

1º. Un breve di Martino IV a Filippo l'Ardito, d'Orvieto 10 settembre 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 5. Il re avea mandato due ambasciatori per sapere se la concessione del regno d'Aragona ad uno de' suoi figliuoli, che allor si trattava, potesse incontrare ostacolo nella rinunzia di Pietro in favor d'Alfonso. Il papa rispondea che non s'era allegata questa eccezione, ma che in ogni modo egli e 'l collegio de' cardinali, la teneano come futilissima e di niun valore.

2º. Una rimostranza degli arcivescovi, vescovi e altri prelati, de' maestri de' Templari, Ospedalieri e altri ordini religiosi militari, de' conti, visconti, baroni, delle università di città e ville e di tutti i popoli infine de' reami d'Aragona e Valenza e della contea di Barcellona, indirizzata a papa Onorio IV, e a tutto il collegio de' cardinali, scritta in carta bombicina, con la nota d'essersi copiata in quatuor foliis papiri, e mandata alla corte romana; negli archivi del reame di Francia J. 588. 27. La nazione Aragonese e Catalana chiedea la rivocazione della concessione, che Martino ingannato avea fatto a favore di Carlo di Valois; e pregava il papa che non la sottomettesse alla dominazione francese, ma lasciasse pacificamente regnare Alfonso. Tolta la rettorica, le ragioni erano: che Giacomo il Conquistatore, con assentimento di Pietro suo figliuolo allora infermo, avea fatto donazione de' regni al nipote Alfonso: che il dì della coronazione di Pietro in Saragozza, tutti i baroni aveano giurato di ubbidire dopo la sua morte ad Alfonso: che Pietro, secondo gli usi di Spagna, donò inter vivos i suoi stati al figliuolo, e dichiarò che li terrebbe da lui in usufrutto durante la propria vita: che infine li avea lasciato per testamento al medesimo Alfonso: e che tutti questi atti erano antecedenti all'impresa di Sicilia, e a qualsiasi altra offesa che Pietro avesse recato alla santa sede. Sostenuto così il dritto perfetto d'Alfonso, si allega ch'egli non n'era punto decaduto, perchè non avea avuto alcuna parte all'impresa di Sicilia. S'aggiugne che la nazione anche ignorava questa impresa, e di buona fede credea preparato l'armamento contro i nemici del nome cristiano; maxime cum hoc idem Dominus P. (Petrus) aperte diceret se facturus, ac se hoc velle facere ipso facto probaret, dum ad partes Sarracenorum, cum decenti bellatorum societate se contulit, et pro debellandis inimicis fidei, romane Ecclesie auxilium postulavit.

3º. Finalmente si fa parola della donazione ad Alfonso nella bolla di Bonifazio VIII, data il 21 giugno 1295, per la quale furon resi a Giacomo i regni, come li tenea Pietro, antequam Ecclesiam offendisset in aliquo, et de predictis regnis et comitatus in quondam Alphonsum primogenitum ejus, donationem, ut dicitur, contulisset. Raynald, Ann. ecc., 1295.

[12] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.

Per le date ho seguito, ancorchè non contemporaneo, questo autore, che potè correggerle compilando gli annali su i contemporanei e i diplomi.

[13] Montaner, cap. 49, 50.

D'Esclot, cap. 79, 80.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20. Almossariffo era il titolo del feudatario, o principe saraceno di Minorca; forse da un vocabolo arabo che suonerebbe in italiano: nobile, esaltato, salito a dignità.

[14] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, e Geste dei conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit., i quali ho creduto seguire piuttosto che Neocastro, che porta la partenza di Spagna il 17 maggio, e Villani, lib. 7, cap. 69, il quale seguendo Giachetto Malespini, la differisce infino a luglio.

All'autorità degli Annali genovesi e del contemporaneo catalano per queste date, aggiungon fede il testè citato diploma del 1 giugno 1282, e il testamento di re Pietro, del quale è una copia tra i Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, fog. 119, dato di porto Fangos il 2 giugno.

[15] Gli Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, dicono 10,000 fanti, 350 cavalli, 19 galee, 4 navi, ed 8 teride. Saba Malaspina, cont., pag. 364. allegando per questa impresa d'Affrica una relazione presentata al papa, porta 1,400 cavalli, e 8,000 fanti con le picche, oltre i balestrieri. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, dà a Pietro 50 galee, molti legni di carico, e 800 cavalli. Bartolomeo de Neocastro, ch'è sempre in sull'ingrandire, dice 900 cavalli, 30,000 fanti, 24 galee, 10 navi, e 10 vascelli a remi. D'Esclot 800 cavalli, 15,000 fanti, e 140 vele. Montaner 20,000 fanti, 8,000 balestrieri, oltre i cavalli, e 150 vele. A me è parso tenermi piuttosto agli Annali di Genova, ch'han maggiore autorità, s'accostano a d'Esclot, e portano il numero più credibile.

[16] Il nome di questa terra è storpiato diversamente ne' diversi ricordi de' tempi; de' quali un la dice Ancalle, uno Antola, altri Altoy; i più esatti Alcoyl o Alcolla, che è il giusto nome preceduto dall'articolo arabico al.

[17] Saba Malaspina, cont., pag. 361 e 367.

Bart. de Neocastro, cap. 17.

D'Esclot, cap. 80, 83, 89.

Montaner, cap. 51, 53, 55, 85.

[18] Saba Malaspina, cont., pag. 375.

Montaner, cap. 52.

D'Esclot, cap. 84, 85.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

Diploma di Pier d'Aragona, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 208.

Surita, lib. 4, cap. 21.

Il Montaner e il d'Esclot portan come sincera e schietta questa missione al papa.

[19] Saba Malaspina, cont., pag. 376.

[20] Anon. chron. sic., cap. 40.

Queste sollecitazioni a' Siciliani sono apposte a Pietro dal Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 539; e sì da papa Martino nel processo, che leggesi appo Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 21.

[21] Queste condizioni, taciute dagli altri, e pur necessarie, son riferite dal d'Esclot, cap. 90, 91.

[22] Anon. chron. sic., cap. 40.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 8 e 9.

Saba Malaspina, cont., pag. 373, 374.

Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.

Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, agg. pag. 37.

D'Esclot, cap. 87.

Montaner, cap. 54.

Giach. Malespini, cap. 212.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.

Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 269. Questi tre ultimi, in loro errore, portano Giovanni di Procida ito ambasciador de' Siciliani a re Pietro.

Lasciando da parte il Montaner, che nulla dice della deliberazione del parlamento siciliano, e racconta l'ambasciata in modo assai strano, è notevole che il d'Esclot porta espressamente questo parlamento in Palermo nel tempo dell'assedio di Messina, e lo accordo generale nella esaltazione di Pietro, a proposta del capitano del popolo. Non dice la persona, nè indica l'uficio di costui in modo più particolare. Potrebbe indi supporsi che presedesse in quell'incontro al parlamento, il primo de' capitani del popolo di Palermo, Ruggiero Mastrangelo, che alla esaltazione di re Pietro ebbe, forse in merito di tal servigio, la carica di giustiziere ne' territori di Geraci, Cefalù, e Termini. Diploma dell'8 febbraio 1283, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 12.

[23] Cap. 44.

[24] Saba Malaspina, cont., pag. 378, 379.

Montaner, cap. 56.

D'Esclot, cap. 86.

[25] D'Esclot, loc. cit.

[26] Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

Montaner, cap. 54 e 57, narra assai goffamente questa ambasceria de' Siciliani, che fa venir con vele negre alle navi, in vesti negre, e dirottamente piangendo ai piè dello Aragonese, implorarlo con parole di paura e servitù. Non s'addicean certo queste abbiette dimostrazioni ai Siciliani del vespro, venuti ad offrire a Pietro una sovranità assai limitata. In fatti D'Esclot, cap. 88, presenta in ben altre sembianze gli ambasciadori, e riferisce i patti della esaltazione. Le testimonianze degli altri istorici portano anche a questo.

[27] Bart. de Neocastro, cap. 23.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 12 e 13.

Surita lib. 4, cap. 22.

Montaner, cap. 57, e d'Esclot, cap. 88, da partigiani del re, tacendo i dispareri, dicon presa la guerra di Sicilia con grande accordo e gioia di tutta l'oste, che fu a un di presso l'esito della faccenda.

[28] D'Esclot, cap. 90.

[29] Docum. VI.

[30] Bart. de Neocastro, cap. 23 e 46.

Saba Malaspina, cont., pag. 379.

Anon. chron. sic., cap. 40.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.

Giachetto Malespini, cap. 212.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.

Veggansi anche Montaner, cap. 58, e d'Esclot, cap. 90.

[31] Bart. de Neocastro, cap. 45.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.

Saba Malaspina, cont., pag. 379.

D'Esclot, cap. 90 e 91.

Montaner, cap. 60.

Gio. Villani, e Giachetto Malespini, loc. cit., Cron. della cospirazione di Procida, pag. 270.

I particolari non leggonsi tutti a un modo, in ciascuna di queste cronache.

[32] D'Esclot, cap. 91.

Del parlamento fa cenno il Montaner, cap. 60.

E più distintamente lo scrittore delle Geste dei conti di Barcellona, le cui parole, cap. 28, loc. cit., son queste: Apud Palermum cum regnicolis omnibus in genere celebre curiam celebravit, in qua omnibus pristinis libertatibus siculis restitutis, ac de thesauro regio muneribus elargitis, etc.

[33] Afferman la coronazione Giachetto Malespini, cap. 212, e Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, che copia il Malespini.

Montaner, cap. 63, la scrive anche, senza espressare qual vescovo l'avesse fatto.

Finalmente ne darebbe testimonianza una dipintura a fresco, che sbiadata e guasta si vede tuttavia nel muro a rimpetto il lato occidentale della cattedral di Palermo, in quell'antico edifizio ov'era la cappella di Santa Maria Incoronata, detta così perchè vi s'incoronavano i nostri antichi re. Di questa dipintura e de' versi che vi sono scritti, fece una descrizione sul cominciamento del secol passato il chiarissimo canonico Mongitore; la quale si legge tra i suoi Mss. nella Biblioteca di Palermo, e io la pubblico al docum. XLV.

Con tutto ciò ho dubbi validissimi intorno la coronazione di Pietro d'Aragona. E il primo è il silenzio di Niccolò Speciale, Saba Malaspina e Bernardo d'Esclot, che trattan tutti i particolari dell'avvenimento di re Pietro in Palermo; e il d'Esclot, cap. 91, dice del parlamento, e dell'omaggio fatto al re, e del banchetto che seguì; ma non fa parola nè punto nè poco del coronamento, che in que' tempi, come sa ognuno, era tenuto essenziale e impreteribile.

Aumentano il sospetto l'Anon. chron. sic., cap. 40, parlando del titolo di re di Sicilia preso da Pietro il 30 agosto 1282, e non già del coronamento; e Bartolomeo de Neocastro, cap. 45, scrivendo che Pietro in Palermo, novi diadematis titulo coronatur; la quale circollocuzione sarebbe assurda per riferire il coronamento, ma è un'ambage non straniera al Neocastro, nel supposto che ci volesse significare come, senza la material cerimonia dell'imposizione del diadema, il re fu abbastanza esaltato con quel titolo che gli dava il voler della nazione.

La Cronaca siciliana, in Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 270, dice espressamente che, per l'assenza degli arcivescovi di Palermo e Morreale, Pietro non fu coronatu si non chiamatu di lu populu.

E quanto alla dipintura della cappella di Santa Maria l'Incoronata, oltre che lo stile, per quanto io ne sappia vedere, non è del secolo XIII, e molto meno appartiene a quel tempo la forma de' caratteri, mi par manifesto che essa sia piuttosto rappresentazione simbolica, che di un fatto vero e reale. Perchè son dipinti nell'alto dell'incoronazione Pietro e Costanza; quando si sa dalla Istoria, che Costanza venne in Sicilia nel 1283, mentre Pietro era in Calabria; e che queste due persone reali non si trovaron giammai insieme in Palermo. Di più, in cima del dipinto si vede l'addogato giallo e rosso di casa d'Aragona inquartato colle aquile sveve, che fu la divisa di Federigo II, re di Sicilia, ma non mai di Pietro suo genitore. Per queste ragioni io credo l'affresco fattura degli ultimi del secol XIV; e che forse si volle con esso figurare il coronamento di Pietro e di Costanza, perchè realmente non era stato giammai, e parea bene riparare questa interruzione e mancanza nella serie dei re legittimi coronati in quella cappella. Certo egli è che questo dipinto, non contemporaneo e con due anacronismi, non è tal monumento da aggiugner fede al fatto taciuto o negato dai cronisti nazionali e dal d'Esclot.

D'altronde è naturale che Pietro cominciando a camminare con molto riguardo verso la corte di Roma, si rimanesse dall'aizzarla con questa altra cerimonia, che si potea volgere a carico di lui in sacrilegio. E per vero il papa ne' suoi processi contro Pietro, ricordando di avergli vietato di nominarsi re di Sicilia e di servirsi del suggello reale con tal nome, e accagionandolo fin delle più minute colpe, non toccò mai del coronamento; nè abbiamo memorie di scomunica al vescovo che il coronò, quando ci restano quelle fulminate contro i prelati che fornirono tal cerimonia con Giacomo e Federigo.

Ognun vede che dopo questa disamina su i contemporanei e i monumenti, non mi trattengo a parlare di ciò che scrivono del coronamento di re Pietro il Surita, il Pirri, il Fazzello, il Maurolico, e gli altri moderni.

[34] Si legge questo documento nell'Anon. chron. sic., cap. 40, e altrove; ed è accennato in Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 19.

Il Pirri, tom. I, pag. 150, non saprei su quale autorità, dice mandata la lettera con Pietro Santafede arcivescovo di Palermo. Per lo contrario io crederei piuttosto che quell'arcivescovo fosse stato tutto di parte angioina. È valido argomento a supporlo dimorante in Napoli in questo tempo, un diploma dato di Napoli a 2 maggio duodecima Ind. (1284), in quel r. archivio, reg. seg. 1288, A, fog. 117, dal quale si vede che tra gli altri danari tolti in prestito dalla corte angioina, v'ebbero once 200 dagli esecutori del testamento venerabilis patris quondam Petri Panormitani archiepiscopi.

[35] Saba Malaspina, cont., pag. 379.

[36] D'Esclot, cap. 91.

Montaner, cap. 64, dicon ciò; il primo de' Palermitani, il secondo de' Messinesi.

[37] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16.

[38] Montaner, cap. 62.

D'Esclot, cap. 92, dice data la posta a Randazzo.

[39] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16 e 17.

Bart. de Neocastro, cap. 45.

Anon. chron. sic., cap. 41.

Saba Malaspina, cont., pag. 379.

D'Esclot, cap. 92.

Montaner, cap. 61 e 63.

Giachetto Malespini, cap. 212.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 70.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 271.

Ho scritto secondo il d'Esclot i nomi degli ambasciadori, de' quali alcuno è diverso in altri autori de' citati di sopra.

Il consiglio di affamar Carlo mandando la flotta aragonese, è dato a Giovanni di Procida dal Malespini, dal Villani, e dalla Cronaca della cospirazione.

[40] D'Esclot, cap. 92.

Bart. de Neocastro, cap. 45.

[41] Bart. de Neocastro, ibid.

Saba Malaspina, cont., pag. 380.

[42] D'Esclot, loc. cit., descrive l'albergo dato in una chiesa, senza letti, nè coltri, se non che trovaron fieno a ufo; e la imbandigione di sei pani bruni, due fiaschi di vino, due maiali arrosto, e un caldaio di minestra.

[43] Questa prima ambasceria è rapportata dagli scrittori contemporanei in vario modo, ma tutti tornano a questo: che stando Carlo d'Angiò all'assedio di Messina, Pier d'Aragona, già salutato in Palermo re di Sicilia, mandava a ingiungerli che subito si partisse dall'isola; e Carlo fremente per dispetto, ritorcea su lui questa intimazione con molte minacce.

Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 17, Bartolomeo de Neocastro, cap. 45 e 49, Montaner, cap. 61, Bernardo d'Esclot, cap. 92 e 93, dicon di sola ambasciata, senza riferire le lettere. Secondo essi la somma delle ragioni di Pietro era: il dritto della moglie e de' figli, e la elezione de' Siciliani; onde a lui appartenendo il reame, facea avvertito Carlo a sgombrarlo, e levarsi dalle offese di Messina. Poco scrivon della risposta di Carlo; forse non amando a ripetere ingiurie contro il re di Aragona.

Saba Malaspina, cont., pag. 379 a 381, porta una epistola, ch'ei dice breve e non è. Al magnifico uomo Carlo re di Gerusalemme e conte di Provenza, Pietro d'Aragona e di Sicilia re. Trovandone in Barbaria a guerreggiar contro infedeli, vennero oratori di Sicilia ad esporre la tirannide che li opprimea. Perchè questo reame appartiene alla consorte e a' figli nostri, non potemmo ricusare il nostro aiuto alla Sicilia. Qui saputo l'assedio di Messina, mandiamo a richiedervi che lo sciogliate; e, indugiando, muoveremo con le nostre forze. Questo è il compendio dell'epistola. Somiglianti parole mettonsi in bocca agli ambasciadori. Carlo risponde loro a voce: maravigliarsi della non provocata offesa del re d'Aragona; a sè appartenere il reame per concession della Chiesa; Pietro usurpane il titolo per false ragioni; ma troppo ei si affida in sè e in sua gente, se viene in arme contro a noi. Mostreremgli adesso com'ei s'è gittato a impresa da stolto.

Nella cronaca del monastero di San Bertino, Martene e Durand, Thes. Nov. Anec., tom. III, pag. 763, a un di presso è riportata nell'istessa guisa la lettera di Pietro; se non che s'aggiugne la circostanza, che a lui guerreggiante in Barberia, la corte romana negò ogni aiuto; sulla qual ragione, come si ritrae da diverse memorie, egli facea molto assegnamento. La risposta di re Carlo fu aspra e villana; e conchiudea, che se Pietro avesse voluto conservare ombra di riputazione, non avrebbe dovuto cacciar fuori il capo dalla sua spelonca. Vedrebbesi al fatto, se questo giovane sarebbe tanto audace da sostener i prodi Francesi pronti a combatterlo.

In sensi non molto diversi, ma in tenore più breve, si leggono le due epistole nella Cronica di Rouen, presso Labbe, Bibl. manuscripta, tom. I, p. 380.

Nell'Anon. chron. sic., cap. 40, si legge al contrario una epistola di Carlo a Piero, e la risposta: lunghe oltremodo, intessute di frasi bibliche, e di ingiurie, tra le quali nuotano le reciproche ragioni, che sono a un di presso quelle accennate dianzi. Le stesse due epistole son trascritte da Francesco Pipino nella sua Cronaca, lib. 3, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Ma in Giachetto Malespini, cap. 212, Giovanni Villani, lib.7, cap. 71 e 73, e nella Cronica della cospirazione di Procida, pag. 271 e 272, trovansi in forma assai diversa le due lettere: intorno le quali poco io m'affaticherei, per la poca fede che do a quegli scrittori, se non fosse che leggonsi con alcune varianti nella raccolta degli atti pubblici d'Inghilterra per Rymer, tom. II, pag. 225, senza data.

La lezione del Rymer è questa; nella quale noterò le varianti del Malespini e del Villani, e quelle della Cronica siciliana che non si limitino alla diversità del dialetto:

«Piero d'Araona e di Cicilia re (Piero di Raona re di Cicilia— Malespini ), a te Carlo re di Jerusalem et di Proenza conte.

«Significando (Significhiamo— Malesp. Villani ) a te il nostro advenimento nell'isola de Cicilia sì come nostro giudicato a me per autorità di Santa Chiesa e di messer lo papa (papa Niccolaio e dei suoi frati cardinali— Malesp. e di lu santu apostolicu papa Nicola terzu— Cron. sic. della cospirazione ) et de' venerabili Cardinali;

«Et poi (però— Malesp. Villani ) comandiamo a te che veduta questa lettera ti debbi levare dall'isola con tutto tuo podere et gente:

«Sappiendo che se nol facesti (altramente— Malesp. ) i nostri cavalieri et fideli vedresti di presente in tuo dannaggio offendendo la tua persona e la tua gente.»

«Carolo per la Dio gratia di Jerusalem et di Cicilia re prence di Capoa, d'Angiò et di Folcachier et di Proenza conte, a te Piero d'Araona re et (conti di Barcellona— Cron. sic. ) di Valenza conte.

«Maravigliamoci molto come fosti ardito di venire in sul reame di Cicilia giudicato nostro per autorità di Santa Chiesa Romana;

«Et però ti comandiamo (e perzò ti cummannamu per l'autorità di nostru cummannamentu chi immantinenti viduti, Cron. sic. ) che veduta nostra lettera ti debbi partire dal reame nostro di Cicilia sì come malvagio traditore (tradituri o di presenti vidirriti lu meu adventu e di li nostri cavaleri li quali disianu trovarsi cu la tua genti— Cron. sic. ) di Dio et Santa Chiesa Romana:

«Et se nol facessi (E se ciò non farai ti disfidiamo, e di presente ci vedrete in vostro dannagio— Malesp. ) diffidiamti come nostro inimico et traditore; et di presente ci vedrete venire in vostro dannaggio però che molto desideriamo di vedere (voi e la vostra gente— Villani ) noi et la nostra gente con le forze nostre.»

Or sulla prima di queste epistole è da notare che Pietro allega la sola fallace e ignota ragione della concessione di papa Niccolò terzo, non accennata da lui nel manifesto scritto d'Affrica a Eduardo, docum. VIII, nè ricordata da alcun documento, o memoria degna di fede; e che per lo contrario tace le buone e solide ragioni del dritto della regina Costanza, e della elezione dei Siciliani, e l'altra, ch'ei tanto metteva innanzi, dei denegati aiuti del papa contro gl'infedeli; le quali ragioni leggonsi nel detto manifesto, in Saba Malaspina, nella Cron. di S. Bert., e negli istorici siciliani e catalani più informati del linguaggio della corte aragonese in quest'incontro. Questa circostanza sola basta a mostrare apocrifa la lettera. È impossibile che Pietro passando sotto silenzio i veri suoi dritti si fondasse tutto in su quella vaga asserzione; e ciò contro il detto ai potentati d'Europa; e ciò nel primo atto in buona forma ch'ei mandava allo usurpatore; e ciò mentre papa Martino solennemente favoreggiava e sostenea costui, onde sarebbe tornata vana qualunque anteriore concessione di Niccolò III. Aggiungasi che se fosse stata vera questa lettera di Pietro, la corte di Roma non avrebbe lasciato di smentirlo; e che egli all'incontro, quando fu deposto dal reame d'Aragona appunto pel fatto di Sicilia, avrebbe protestato di certo, pubblicando la concessione di Niccolò III.

Tradiscon di più la risposta di re Carlo, quelle parole «malvagio traditore di Dio,» nostro inimico e traditore. Si ponga mente in prima, che nei diplomi autentici del duello dei due re, questi gravi sfregi non si leggono, ma che Piero fosse entrato nel regno di Sicilia contro ragione e in mal modo. E quando, fallito il duello, Carlo rinfacciava al nimico le ingozzate offese (diploma in Muratori, Ant. ital., tom. III, Dissertazione 39), faceasi con molta cura a spiegare, che per quelle parole «contro ragione e in mal modo» avesse voluto significare, il più cortesemente che si poteva in carteggio di re, l'accusa di traditore; che Pietro d'altronde avea compreso benissimo, e dettolo agli araldi che gli portaron la sfida. Egli è evidente che re Carlo, se avea già scritto letteralmente «malvagio traditore» in quella prima epistola, ricordava adesso queste parole, e non silloggizzava di averle adombrato in quel composto e misurato linguaggio.

A ciò s'aggiunga, che le due epistole son rese d'altronde sospette dalle varianti tra i testi di Rymer, Malespini, Villani, e della Cronica della cospirazione; e che a stento crederebbesi che due principi, l'uno francese, l'altro catalano, le scrivessero in volgare d'Italia; quando il carteggio tra' grandi, e gli atti pubblici dettavansi di quel tempo in latino, e si sa essere stati scritti in latino appunto e in francese i diplomi ne' quali fermossi poscia il duello. Per queste ragioni le tengo apocrife, come giudicarono il Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 5, e il Muratori, Ann. d'Italia, 1282, che le disse fatture de' novellisti d'allora; l'uno e l'altro anche senza avere per le mani il manifesto di Pietro, nè la continuazione dell'istoria di Saba Malaspina. Nè importa che trovinsi nella collezione degli atti pubblici d'Inghilterra, quando nè erano scritte da quella corte, nè ad essa drizzate; onde ben potè avvenire, che per via degli ambasciadori mandati poi da Eduardo ai due re, o altrimenti, fosser capitate a corte d'Inghilterra le copie che giravano per l'Italia di que' supposti diplomi, ne' quali chiara si scorge l'impronta di mano guelfa.

Io penso che, se lettere si scrissero in quell'incontro, fossero ne' sensi riferiti da Saba Malaspina e dalla Cron. di S. Bert., che più si avvicinino a que' degli altri contemporanei, e ben ritraggono del manifesto di re Pietro ad Eduardo d'Inghilterra più volte ricordato di sopra.

Nei particolari dell'ambasceria di Pietro a Carlo ho seguito a preferenza il d'Esclot, che vien raccontandoli assai minutamente, in guisa da mostrarsene informato da vicino.

[44] D'Esclot, cap. 93.

Bart. de Neocastro, cap. 45 e 50.

[45] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.

Montaner, cap. 62, il quale dice mandati in Messina dal re 2,000 almugaveri. Di questa milizia farem parola nel cap. IX.

[46] Gio. Villani, lib. 7, cap. 74, seguendo Giachetto Malespini, cap. 212, e portando com'esso il numero delle galee siciliane e aragonesi a sessanta. Questo è manifestamente esagerato secondo gli umori guelfi di que' cronisti; perchè si vedrà nel capitolo seguente come Pietro, dopo ch'ebbe armato le galee di Messina, non potè mettere in mare che cinquantadue galee.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 272, 273, con l'errore, che Loria fosse l'ammiraglio aragonese, e che Arrighino mostrasse non aver tanti legni da fronteggiare il nemico. Egli avrebbe detto una evidente bugia, essendo di gran lunga più forte l'armata di re Carlo, come si ritrae bene dal capitolo seguente.

[47] Saba Malaspina. cont., pag. 381 a 383.

Bart. de Neocastro, cap. 46.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.

Fra Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 6, in Muratori, R. I. S, tom. XI, pag. 1188.

Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 608.

Il d'Esclot, cap. 93 e 94, accenna solo questo consiglio. Il Montaner, cap. 65 e 66, dice anco del timore di movimenti in Calabria, e forse nello stesso esercito angioino.

[48] Bart. de Neocastro, cap. 49.

[49] Bart. de Neocastro, cap. 47, 48.

[50] Bart. de Neocastro, cap. 49.

[51] Bart. de Neocastro, cap. 50.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.

Questi porta la fazione dell'arcivescovado pria dell'assalto generale; ma m'è paruto seguir piuttosto il Neocastro, che in ciò non avrebbe ragione ad alterare il vero.

Il Montaner, cap. 64, dice d'una sortita gloriosa degli almugaveri mandati dal re. Forse fu questa; ed ei tace la virtù de' Messinesi, come il Neocastro quella degli ausiliari.

[52] Le date del Neocastro si riscontran perfettamente con quella che si scorge da un diploma del 29 settembre 1282 (Docum. IX), dove Carlo attesta essersi ritirato da Messina il 26 settembre.

[53] Bart. de Neocastro, cap. 50.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.

Anon. chron. sic., cap. 41.

Saba Malaspina, cont., pag. 383, 384.

D'Esclot, cap. 94.

Montaner, cap. 65, 66.

Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S. Agg., tom. XXVI, pag. 8.

Giachetto Malespini, cap. 212.

Gio. Villani. lib. 7, cap. 75.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.

Questi due ultimi dicon lasciato da Carlo un grosso di genti in agguato per ferir ne' Messinesi che uscisser sicuri; di che essi accorgendosi, bandian pena del capo a chi andasse fuori della città. Il tacciono gli altri; anzi Malaspina, d'Esclot e Montaner dicono degli assalti dati alla coda dell'esercito che ripassava il mare; e 'l Neocastro aggiugne, che facean battere i contorni temendo appunto quell'insidia, ma non trovavano alcuno.

I particolari della ritirata non son tutti rapportati da tutti questi scrittori.

[54] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64.

[55] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 15.

[56] Bart. de Neocastro, cap 50.

[57] Montaner, cap. 43, dice che Messina non era allor murata; e si vede anche dagli altri fatti riferiti da noi al principio del cap. VII.

[58] Veggasi il giudizio delle operazioni militari di re Carlo, che fa Montaner a cap. 66 e 71, che io non ho seguito del tutto, perchè ridonda di preoccupazioni nazionali. Nondimeno è da attendere alla conchiusione del Montaner, che Carlo si portò con molta saviezza, nè potea fare altrimenti. Montaner era condottiero sperimentato; e la sua cronaca è piena di precetti militari, com'io credo, non ispregevoli.

CAPITOLO IX.

Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d'Alaimo. Fazioni navali. Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania. Trattato del duello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche in Calabria. Carlo parte lasciando le sue veci al principe di Salerno. Almogaveri. Vittorie di Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co' figli in Sicilia. Principi di scontento tra i baroni siciliani e il re. Parlamento in Messina; ove Giacomo è chiamato alla successione, e ordinato il governo. Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier da Caltagirone. Partenza di Pietro per Catalogna. Ottobre 1282 a maggio 1283.

Levato l'assedio, prima cura de' Messinesi fu di riconoscere le campagne, se vi si coprisse agguato di cavalleria nemica; ma fatti certi che l'oste s'era pienamente dileguata, non soggiornarono a mandare oratori a Pietro a Randazzo, invitandolo a città; com'eran essi impazienti di salutare il re nuovo, obbligato loro della invitta difesa, ed essi a lui del soccorso. E Pietro, fatta acconcia risposta, ove si rammaricava pur della fortuna, che gli avesse tolto di provarsi con l'arme in mano contro il Francese, mosse immantinenti alla volta di Messina con tutta l'oste siciliana e spagnuola; battendo la via delle marine settentrionali, perchè volea prima scacciar da Milazzo una punta di mille Francesi, lasciata in quel castello per fretta della ritirata, o appicco a nuovi disegni. Posato a Furnari perciò con le genti, mandava il dimane Giovanni de Oddone da Patti a intimare a quel presidio la resa: il quale non isperando veruno aiuto, rassegnati col castello le armi e i cavalli, passava sotto sicurtà in Messina e in Calabria. Nella terra di Santa Lucia l'Aragonese albergò[1]. {201}

E qui prendiamo a narrare un fatto di femminil vanità o peggior debolezza, perch'ebbe seguito ne' casi dello stato, e dipinge al vivo re Pietro. Seconda moglie d'Alaimo fa Macalda Scaletta, disposata prima a un conte Guglielmo d'Amico, esule al tempo degli Svevi. Vedova di costui, dopo lungo vagare in abito da frate minore, e soggiorno men che onesto a Napoli ed a Messina, riavuti i suoi beni sotto il dominio di Carlo, maritossi Macalda ad Alaimo: si gittò gagliardamente poi nella rivoluzione dell'ottantadue, sconoscendo i beneficî dell'Angioino, o pensando che ogni rispetto privato dileguar si dovesse nella causa della patria; ma certo è da condannarsi per la tradigione de' Francesi di Catania, cui finse ricettare negli strepiti dopo il vespro, e poi li spogliò, e dielli in balìa al popolo. Governò indi Macalda quella città durante l'assedio di Messina[2]: ed or intesa la venuta di Pietro a Randazzo, affrettavasi a complire con esso. Superba nella baronale riputazione e nel gran nome del Leontino, appresentavasi al re con molta pompa, coperta a piastra e a maglia, trattando una mazza d'argento; e non ostante il suo quarantesim'anno, pur altrimenti pensava conquidere il re. Il quale, non badando ad amori in quel tempo, finse non la intendere; e di rimando davale cortesie; l'onorava assai nobilmente; con un corteo di cavalieri ei medesimo riconduceala all'albergo. Ma a ciò non fatta accorta Macalda, prese a seguirlo nel viaggio; e parvele il caso la fermata a Santa Lucia, onde con aria incerta e confusa veniane al re chiedendo ricetto, ch'erano occupati gli alberghi nè {202} altro luogo trovavasi nella picciola terra. Pietro, rassegnate a lei le sue stanze, passa ad altro albergo; e lì trova ancora, come a visitarlo, Macalda. Perciò schermendosi alla meglio, chiama nella stanza i suoi cavalieri, incomincia vacui ragionamenti: tra' quali pur domandava a Macalda qual cosa più temesse al mondo, e «La caduta d'Alaimo» ella rispondeagli; e richiesta qual fosse il suo maggior desiderio, «Mio non è, replicava, ciò che più bramo.» Ma il re sordo, pur moralizzava e novellava; e alfine gli si aggravaron gli occhi di sonno. A questa sconfitta la donna s'accomiatò, struggendosi tutta. E venuta in Sicilia la reina Costanza, Macalda mai perdonar non le seppe questa fedeltà dello sposo; e tanto crebbe nell'odio e nell'arroganza, che sè stessa e il canuto Alaimo precipitò[3].

Ripigliato la notte stessa il viaggio, al nuovo dì, che fu il due ottobre, su pei luoghi arsi e guasti dalla nimica rabbia, che nè contadino vi si scernea, nè armento, nè vestigia di côlti venivano a stuoli i Messinesi a incontrare il re. Il quale festevolmente raccoglieli, e ringraziali, e Alaimo sopra ogni altro: che ponselo al fianco, e in pegno d'amistà gli viene svelando i sospetti, che sulla fede sua e de' Sicilian tutti avea cercato stillargli un tristo vegliardo, Vitale del Giudice, presentatogli a Furnari, com'esule, spoglio al mondo d'ogni cosa, per amor, dicea, della schiatta sveva, cui furo nimicissimi un tempo quest'Alaimo, questi or sì caldi parteggiatori. Tra cotali parole {203} pervenuti alla città, col folto popolo si feano innanzi al re i sacerdoti, i cittadini più autorevoli, e la sinagoga de' reietti Giudei, per loro ricchezze or carezzati, or manomessi in quei secoli. Solo cavalcava Piero con tutti onori di monarca: le strade al suo passaggio trovava parate a drappi di seta e d'oro; il suolo sparso di verdi ramoscelli ed erbe odorose. Smontato subito al duomo, rende grazie a Dio, entra in piacevoli parlari coi cittadini, affabile e grato in ogni atto; e loda i monumenti della città, e richiede d'ogni minuta sua cosa. Passò indi alla reggia, raccolto dalle più nobili donne, tra le quali non mancò la Macalda: ed ella ed Alaimo sedean anco a mensa col re. A ciò seguiron le pubbliche feste, splendidissime per la ricchezza, liete per l'affratellarsi dei cittadini coi seguaci di Pietro. Sciolsersi i voti fatti al Cielo nel tempo dell'assedio; nè altro spirava il paese, dice Bartolomeo de Neocastro, che ilarità, pace, e sollazzo[4].

Ma ripigliaronsi in pochi dì le fatiche dell'arme, come vedeansi per lo stretto le nemiche navi a stuoli ritornar da Catona ai vari porti del regno. Era entrato il nove ottobre in Messina con ventidue galee catalane Giacomo Perez, natural figliuolo del re; e altre quindici delle disarmate in quel porto n'avea fatto allestir Piero tra gli stessi primi {204} festeggiamenti. Accozzate in tutto cinquantadue navi da battaglia, diè dunque principio a travagliare il nimico, non ostante la disuguaglianza delle forze; ma pensava esser quello scoraggiato e discorde, i suoi in su la vittoria. Nè ascoltò chi sconsigliava quest'impresa; montò ei medesimo sulle navi catalane; arringò alle ciurme; nel nome di Dio le benedisse promettendo vittoria, e sbarcò. Il dì undici ottobre, tornando i Catalani dall'inseguire invano un primo stuolo angioino pe' mari di Scilla, avvistatone un altro più grosso verso Reggio, mettono insieme coi Messinesi l'armata; contro vento e corrente vogan robusti sopra gli avversari. A ciò salito in furore re Carlo, facea tutte escir le sue navi al numero di settantadue, ma nè bene in attrezzi, nè in uomini; donde sbigottite a quel difilarsi de' nostri sì destri e bramosi della zuffa, rifuggironsi a terra. Spintesi allor le catalane e siciliane navi fin sotto le fortezze, chiamano a battaglia i nimici; li aizzano con le ingiurie; sfidanli coi tiri delle saette; nè traendoli fuori con ciò, tornansi bravando a Messina. Tre dì appresso, salpati da Reggio quarantotto legni, perchè speravan che il vento ripingesse in porto l'armata di Sicilia, essa li investì con tanta virtù sua e scoraggimento degli avversari, che una schiera di quindici galee nostre, trovandosi innanti nella caccia, pur sola diè dentro, e ventidue ne prese tra di Principato, marsigliesi e pisane. Quando di Calabria videro ingaggiare l'inegual conflitto, ch'era presso il tramonto del dì, non tenendo dubbia la vittoria, con luminarie la festeggiarono; onde molta ansietà ne surse in Messina; e s'accrebbe la dimane, scorgendo un grosso stormo di vele che drizzavansi al porto. Si distinser poi le insegne; sventolanti in alto le aragonesi e siciliane, strascinate in mare quelle d'Angiò; e tra l'universale giubbilo preser porto le navi, recando, narra il d'Esclot, quattromila cinquanta {205} prigioni. Caduto il dì, con fuochi e lumi sfolgoranti per tutta Messina, rendeasi cenno delle fallaci dimostrazioni della notte innanti in Calabria[5].

Più nobil tratto e di più atto argomento Pietro adoperò co' prigioni. Due dì appresso, ritenendo soltanto i Provenzali, fatto adunar gli altri sul prato a porta San Giovanni[6], benigno parlava: conoscessero or lui e Carlo di Angiò; questi avrebbe messo a morte ogni prigione; ei liberi a lor case rimandavali senza riscatto, sol che promettessero non portare le armi contro Sicilia, e recasser lettere per Puglia e Principato, invitando que' popoli a mercatare nell'isola, che sarebbervi sicuri e graditi, venendo con intendimenti di pace. Offrì i suoi stipendi a chi volesse; agli altri fornì barche e vivanda; e fe' dispensare un tornese d'argento per capo. Talchè essi lietamente si tornavano, a spargere nel reame di terraferma le lodi del nuovo re di Sicilia; confortandoli {206} a gara i Messinesi con savie parole: nulla da' Siciliani temessero, nimici solo agli stranieri oppressori; alla gente italiana non già, che tratta a forza a questa guerra, benediva in suo cuore[7] la rivoluzione siciliana.

Così entro due settimane, rincorati i Messinesi con tali ardimenti di naval guerra, cavata a' nemici ogni fantasia di ripassare in Sicilia, e gettata anco l'esca a' popoli di terraferma, Pietro cavalcò il sedici ottobre per Catania, a mostrare in val di Noto il viso e la benignità del principe nuovo. Onde in un parlamento di quanti sindichi di comuni si poteano in fretta adunare, ei stesso orò nella cattedrale di Catania: dalle unite forze avrebbero ormai sicurezza; godrebbersi lor franchigie, e giustizia nel governo, e riparazione di tutti gli abusi angioini; che il ben de' sudditi, dicea, è ben del monarca; la tirannide li avea spolpato, la libertà porterebbe rigoglio e dovizie. Cassò di presente le collette; abolì i dritti odiosissimi dell'armamento delle navi; bandì non tornerebber quelli mai più sotto il governamento suo, nè dei successori; mai la corona non leverebbe d'autorità propria generali nè parziali sovvenzioni. Il parlamento gli accordò allora i sussidi per sostenere la guerra: e a questo effetto ei torna senza dimora a Messina il ventiquattro di ottobre[8]. {207}

Permutate lor sorti, la Sicilia si faceva ad assaltare, a portar fomite e aiuto ai popoli scontenti, a turbar di là dallo stretto ogni cosa: e Carlo alla meglio recavasi in atto di difesa nel discredito della sua diffalta. La vien palliando perciò con iscrivere ai magistrati di terraferma, affinchè non restin presi alle ciance del volgo, com'ei, dato spaventevole guasto alle campagne di Messina, percossa e condotta agli estremi la città, da non poterle ormai giovar nulla il sospeso assedio, sopravvenendo il verno, s'era consigliato, per la comodità delle vittuaglie e la sicurezza delle navi, a ritirar gli alloggiamenti un pocolin[9] di qua dallo stretto; per tornar poi a migliore stagione, con più formidabile apparecchiamento, da schiacciar sotto i suoi piè le corna dei protervi ribelli[10]. Cotesti vanti tradiva con una sollecitudine estrema di custodir le spiagge da tutta incursione di que' che pur chiamava pirati; e ponea velette e pattuglie; ordinava segnali, di fuoco la notte, di fumo il dì, che desser l'allarme scoprendo la nostra bandiera[11]: perchè in vero l'aragonese e siciliana flotta correa vincitrice il Tirreno; armandosi di più parecchi galeoni a corseggiare[12]; onde grave il danno, e maggior lo spavento, stendeasi per le marine di tutto il reame di Puglia. A mettervi riparo ordinò Carlo ancora di racconciar prestamente tutte le galee, e cento teride[13]. Rimandate le milizie feudali del regno e gl'italiani aiuti, tenne insieme i soli Francesi e {208} stanziali, che sommavano a sette migliaia di cavalli e dieci di fanti. Alla Catona e in altri luoghi marittimi di Calabria li spartì in grosse schiere: a Reggio ei rimase con la più forte[14]. E, per non sembrare inoperoso, un messaggio di rimbrotti mandò a re Pietro, già tornato a Messina.

Per Simon da Lentini, frate de' predicatori, il mandò, che affidato nella chierca, rinfacciava al re d'Aragona: l'ingannevole risposta su i primi armamenti suoi; la guerra non denunziata, portata mentre fingeva amistà e trattava parentado; l'occupazione ingiusta del reame: con l'arme gliel proverebbe re Carlo. A que' detti che suonavano slealtà e tradimento, balzò Pietro dal seggio, concitato nei passi, alterato il sembiante; ma in un attimo tornando padrone di sè, gli fea bilanciata risposta: tra lui e 'l conte d'Angiò gli omicidî di Manfredi e Corradino aver già da lungo tempo rotto la guerra: a ragione tener questo reame, per eredità ed elezione de' popoli: mentir però chi gli apponea tradigione: e sì che il sosterrebbe in duello[15]. Onde due messaggi inviò a re Carlo, coi quali delle condizioni {209} del duello si disputò lunga pezza; perciocchè re Carlo non amando a misurar le declinanti sue forze con la robusta età dell'Aragonese, volea compagni molti al combattere, chè tanti sì prodi, avvisava, non potrebbe trovar l'avversario: e questi, tenendosi al singolare combattimento, offria venirne senz'arnese contro Carlo coperto di tutt'arme; e sì ricusava il duello in Calabria, a meno che non gli si desse in istatico il principe stesso di Salerno. Accordaronsi al fine che i due re con cento cavalieri per ciascuno s'affrontassero a provare: «Carlo, come provocatore, esser Piero entrato nel reame di Sicilia contra ragione e in mal modo, senza sfidarlo dapprima: e il re di Aragona, come difensore, che l'occupazione e tutt'altro fatto contro Carlo, non fossero macchia all'onor suo, nè opera da vergognarne dinanzi a dignità di tribunale o cospetto d'uom giusto.» Ad ultimar la scelta del luogo e del tempo, si deputavan sei cavalieri dell'uno e sei dell'altro, per lettere patenti date il ventisei dicembre. I quali, convenuti nel real palagio di Messina, ferman, che si combatta in campo chiuso nel contado di Bordeaux in Guascogna, come vicino a Francia e ad Aragona, e tenuto dal giusto Eduardo re d'Inghilterra: il primo giugno milledugentottantatrè si presentin quivi i {210} due principi a Edoardo, o a chi egli manderà, o, in difetto, a chi per lui regga la terra; ma, salvo nuovo accordo, non si venga allo scontro, se non presente Eduardo; aspettandolo infino a trenta dì, sotto fede di non si offendere reciprocamente in Guascogna infino al duello e otto dì appresso. Stipulano in ultimo che qual manchi ad appresentarsi co' suoi campioni, tengasi d'indi in poi «vinto, spergiuro, falso, fallito, infedele e traditore, spoglio del nome e onore di re». Ratificaron ambo i principi questi capitoli con sacramento sugli evangeli. E com'era costume, chiamandosi a guarentigia dei re i veri arbitri dello stato, quaranta per ciascuna parte de' primari baroni e capitani giuravano sul sacro libro, che legalmente e di buona fede secondo lor potere procaccerebbero l'osservanza di que' patti: che se il lor principe fallasse, mai più non vedrebbero la persona di esso, nè aiuto di braccio gli presterebbero, nè di consiglio. Da loro soscritti e dai re in buona forma, si stendean di tutto ciò due atti, dati, quel di parte aragonese di Messina, l'altro di Reggio; ambo il trenta dicembre: e in questo leggesi, tra molti nobili nomi francesi, un Giovanni Villani, congiunto forse del fiorentino istorico[16]; nel primo notansi Alaimo di Lentini, il conte Ventimiglia, Ruggier Loria, Gualtiero di Caltagirone, e Pietro fratello, Giacomo Perez, natural figliuolo del re[17]. Gli scrittori parteggianti {211} per l'uno o per l'altro dei principi li accusavan poscia vicendevolmente d'inganno. Dissero i nostri, che Carlo pretestando il duello volesse trar di Sicilia il rivale, per riassaltar l'isola più francamente, e spegner il fomite di ribellione in terraferma[18]. Di pari astuzia i Guelfi accagionavan l'Aragonese, supponendolo erroneamente provocatore al duello, come se per tema delle forze superiori di Carlo divisasse differir tanto la guerra, che inoperosi morissero nel meridional clima i Francesi[19]. Pensasserlo o no, Carlo e Pietro uomini eran ambo da meritare l'accusa. Ma forse la sfida non fu che un appello alla opinione pubblica alla guisa dei tempi; come un Pietro e un Carlo d'oggidì {212} farebbero con promulgar dicerie d'umanità, legittimità, bilancia di potere, comodi de' commerci, bene de' popoli.

E Pietro ebbe il destro d'esplorar pei messaggi affaticantisi in que' riti cavallereschi, la condizione e postura de' nimici, su i quali s'apprestava a portar la vera guerra[20]: e volle incominciarla con infestagion di truppe leggiere, che riconoscesser meglio il paese, e gli coprisser lo sbarco. Ondechè sapendo da Bertrando de Cannellis, reduce dal campo francese, come duemila cavalli e altrettanti pedoni a mala guardia se ne stessero alla Catona; mosso ancora dal pregar degli almogaveri, ch'anelavan battaglia e bottino, il sei novembre appresso il tramonto, fea partir chetamente da Messina quindici galee con un grosso di fanti sotto il comando del suo natural figliuolo; cui pur non affidò altrimenti il disegno, che in un plico da schiudersi in mare. Colto all'improvvista così a profonda notte il presidio della Catona; fatto assai strage e prigioni; volti in fuga i più; e incalzati infino a Reggio: che fu trapasso degli ordini, pericolosissimo perchè raggiornava. Spiacque al re sì forte la temerità di Giacomo, che per amor che gli portasse, nè per merito della vittoria e preda, non si trattenne dal torgli il comando: e a stento ad intercession de' baroni gli perdonò gastigo più grave; pensando che solo uno estremo rigor di ordini potesse render sicuri[21] quegli audacissimi {213} colpi tra tante grosse poste nimiche. Per pratiche ebbe intanto la terra di Scalea in Principato; al cui reggimento il dì undici novembre mandò Federigo Mosca conte di Modica[22]. Cinquecento uomini pose sulla estrema punta di Calabria: i quali annidatisi negli antichi boschi di Solano, costernavano il presidio di Reggio, con iscorrere in masnade pei contorni, rapir vittuaglie, infestare le strade, tutte comunicazioni troncargli[23].

Tra queste scaramucce e 'l trattato del duello, il sanguinoso anno ottantadue chiudeasi chetamente, lasciando i semi sì di lunghissime guerre; alle quali non erano per mancare nè motivi, nè danari, nè uomini. Perchè oltre la propria potenza di Carlo, la corte di Roma vedendo tornar vane le prime prove, cominciò a rinforzare i comandi spirituali e le pratiche, co' sussidi di moneta; le città guelfe d'Italia, necessitate da lor maligna stella a sostener la casa d'Angiò, mandaron tuttavia molte genti, e talvolta anco danaro; ed oltre le Alpi la guerriera schiatta francese era pronta sempre a dare il suo sangue. Infin dal primo annunzio della strage in Sicilia, il principe di Salerno corse di Provenza a Parigi, a rincalzar le inchieste del padre, a comporre le liti che questi avea con la regina Margherita di Francia per cagion delle contee di Provenza e di Forcalquier[24]. {214} Ottenne da Filippo l'Ardito un sussidio di quindici mila lire tornesi[25], e favore a levar a un di presso mille uomini d'arme. Questi condotti dal principe e da' conti d'Alençon, Artois e Borgogna del sangue reale di Francia, e spesati in parte dal papa[26], con assai altri cavalieri passavano in Italia in due schiere, tra la state e l'autunno ed[27] alle Calabrie avviavansi, dove sempre furono combattute le guerre dei due reami di Sicilia e di Puglia, e gli uomini per somiglianza d'indole e paese, più tennero a' vicini d'oltre lo stretto, che a que' di terraferma. Al tempo medesimo, il papa consentiva a Carlo, che ne' presenti pericoli dello stato mettesse presidio nelle fortezze di Monte Casino, e in tutt'altre possedute da corpi ecclesiastici nel regno suo, sotto fede di restituirle a ogni cenno della Chiesa[28]. Ed egli, sentendosi per tali aiuti più sicuro in quelle province, partì come per andarsi al duello, che ancor gliene avanzavano cinque mesi; ma fu che volle ultimar da sè stesso le pratiche con Francia e col papa[29]; o {215} sforzato da' tempi a moderare in Puglia la dura dominazione, gli rifuggì l'animo superbo dal farlo con le mani sue proprie. Pertanto, creato vicario generale del regno il principe di Salerno, unico figliuol suo, per nome anche Carlo, e da vizio della persona detto lo zoppo, comandò da Reggio il dodici gennaio milledugento ottantatrè ai magistrati e officiali, che a costui ubbidissero come alla persona sua stessa[30]. Altresì gli commetteva lo esercito[31]. Ma pria per consiglio de' conti di Alençon, Artois, Borgogna, Squillace, Acerra, Catanzaro, mutò la linea di difesa dalla riva del Tirreno al corso del Metauro; o perchè i nostri tenendo il mare e i boschi di Solano affamavan tutta la estrema punta delle Calabrie[32], o perchè ei pensò adescarli tant'oltre, che in mezzo ai suoi formidabili cavalli s'avviluppassero[33]. Perciò, abbandonata Reggio e i contorni, accampò il grosso delle genti nelle pianure di Santo Martino e di Terranova; e posò forti schiere in alcuna terra all'intorno. E pria che sgombrasse Reggio, i cittadini tanta finser nimistà coi Messinesi, e paura e incapacità a difender la terra senza presidio francese, che il re assentia si desser pure al nemico, se così portasse la fortuna, e non ne avrebber nota di fellonia. Com'ei volge le spalle, i Reggiani, {216} per oratori raccomandati ai Messinesi, offron sè stessi e la città a re Pietro[34].

Avea già questi messo in punto ogni cosa al passaggio; affidato al pro Ruggier Loria il comando della flotta[35]; accozzato in Messina tra Catalani e Siciliani gran podere di gente[36]; chiamando al militare servigio i baroni dell'isola, ch'alacremente il seguiano[37]. Quell'oste il re ordinava con poca man di cavalli, ed elette bande d'arcieri, balestrieri, e sopra tutto almugaveri: fanteria spedita, chiamata così dagli Spagnuoli con moresco vocabolo. Breve saio a costoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa, calzati d'uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fianco una spada corta e acuta, alle mani un'asta con largo ferro, e due giavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poi nell'asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri, guide piuttosto che capitani, chiamavansi, anche con voce arabica, adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non aveano stipendi, ma quanto bottino sapessero strappare al nimico, toltone un quinto pel re; nè questo medesimo contribuivano, quand'era cavalcata reale, ossia giusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagioni, ad asprezza di luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comune degli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi di scorrerie, del resto mangiavan erbe silvestri ove altro non trovassero: e senza bagaglie, senza impedimenti, avventuravansi {217} due o tre giornate entro terra di nimici; piombavano di repente, e lesti ritraeansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balze e boschi più che in pianura; fortissimi ovunque i cavalli non potesser combattere. Ben seppe farne suo nerbo alla guerra delle montuose Calabrie re Pietro; e agevolmente li ordinò, perchè gli alpigiani Spagnuoli solean darsi a quest'aspra milizia, ed or parea fatta pei Siciliani, nati tra montagne, svelti, audaci, di mano e d'ingegno prontissimi[38].

Con sì fatta gente a valicare lo stretto si apprestava re Pietro, saputo l'indietreggiar de' nemici, quando l'ambasceria di Reggio sì l'affrettò, che il dì appresso che fu il quattordici di febbraio, navigava a quella città; recando seco nella sua galea medesima tra i più fidati baroni Alaimo di Lentini. Accolsero tanto più lieti i Reggiani, quanto, aperto il mare, dopo lunga penuria, ogni vivanda appo loro abbondò. L'oste parte albergava per le case; parte, non bastando quelle, attendavasi alla campagna. Tutta la Calabria allora piena della riputazione del re, cominciò {218} occultamente a inviargli messaggi: e prima Geraci scoprissi, ov'ei mandò Ruggier Loria, e Naricio Ruggieri conte di Pagliarico, l'uno a prender, l'altro a regger la terra[39]. Egli intanto disegnando accostarsi al nemico esercito, il dì ventitrè febbraio, con un sol compagno a cavallo, trenta almugaveri e una guida, per cupi sentieri di valli e boschi infino agli alloggiamenti si spinse a riconoscere. Tornatosi a Reggio, conduce i suoi pei boschi di Solano; e ad otto miglia dal grosso delle genti francesi, e non guari lontano dalle altre lor poste, li accampa in un rispianato che ha nome la Corona, sopra alpestri e salvatichi monti, sicuro da assalti, comodo portarne su i luoghi bassi d'intorno. Quivi i Greci del paese, usi a praticar senza sospetto tra i nimici, d'ogni fiatare di quelli il ragguagliavano. Cheto aspettando ei posava, come se quelle foreste lo avessero inghiottito; tantochè in Calabria il bucinavano già uom dappoco e acquattatosi per paura[40].

Quand'ecco stando agli alloggiamenti a Lagrussana presso Sinopoli cinquecento cavalli capitanati da Ramondo de Baux, mentre stanchi di gozzoviglia senza scolte straccurati giaceansi una notte, repente un fracasso li riscuote; gli almugaveri come torma di lupi saltano tra gli alloggiamenti; scannano, rapiscono; sconosciuto tra i gregari ammazzan Ramondo; e prestissimi dileguansi col bottino[41]. Non andò guari che un Arrigo Barrotta tesoriere di Carlo, recando sei mila once per gli stipendi dello esercito, nella terra di Seminara albergò; stanza in quel tempo di ottocento cavalli francesi. Avutane spia re Pietro, l'adescò lor mala guardia, e più la moneta. Onde il tredici marzo a sera, {219} ei stesso con trecento cavalli e cinquemila almugaveri calavasi chetamente da Corona: e giunto a tre miglia da Seminara, fatte posar le genti svelò il meditato colpo. Quel generoso Alaimo il contrastava. Qual lode a re, dicea, da notturna rapina, e disutile strage? Vano il pensier sarebbe di tener Seminara sì presso al campo nimico. Lasciata dunque la misera terra, al campo si vada: lì il principe di Salerno, il fior della corte di Francia, sbadati, sicuri; investisserli risolutamente; che l'audacia partorirebbe fortuna, o gloria certo. Taccion le istorie il contegno del re, le parole, che furon certo pacate, i proponimenti, forse fieri e sinistri, che gli si ribadirono in mente contro l'eroe di Messina. Ostinato a Seminara ei marciò. Dove mentr'una schiera accostavasi al muro debolmente combattuta delle guardie, gli altri occupate velocissimi le porte, troncano ogni difesa. Il re, come se pratichissimo della terra, dritto sprona all'albergo del tesoriero: nè la moneta pur trova, mandata al principe il dì innanzi. Allora, postosi fuor dalle mura, alle riscosse contro gli aiuti che potesser venire dal campo, inondan Seminara gli almugaveri. Il Barrotta, d'ordine chierico, soldato a' costumi, desto dal fracasso, lasciando una donna che seco avea, sorge, dà di piglio all'armi, e fieramente difendendosi è morto. Cadon altri resistendo; e fuggono i più, qual senza panni, quale a piè, qual balzando sull'ignudo cavallo; ma era gente sì ordinata, che, non ostante il subito scompiglio, da cinquecento rannodaronsi di lì a una mezza lega aspettando il dì, e partendosi poi i nostri, rientrarono in Seminara. Messa questa intanto a ruba e a guasto: per severo divieto del re furon salve tuttavia le vite degli abitanti, che fuggendo si dileguaro. Al nuovo albore straccarichi di preda rinselvansi i Catalani e i Siciliani alla Corona; non molestati dal nemico, il quale agli avvisi dei fuggenti s'era desto a tumulto, ma sorpreso e scoraggiato sì fattamente, che volendo {220} il principe di Salerno muover pure a un assalto, niuno nol seguì. La dimane ei manda un drappel di cavalieri a Seminara; da' quali intendendo non potersi munir contro nuova fazione, perchè non n'abbia comodità il nimico, la fa sgombrar anche da terrazzani, spartiti per le altre terre di Calabria ad accattare il pan dell'esilio[42].

Con questo notturno guerreggiare e occulto adoprare, il re d'Aragona occupò parecchie terre intorno il campo stesso nemico; menomandosi ad ogni dì le speranze nei Francesi, che senza ferir colpo consumavansi. Per lo contrario crescea Pietro di riputazione e di forze; e la catalana e siciliana gente imbaldanziva per la fortuna dell'arme e per lo ricco bottino: che per lo bottino, scrive un guelfo, assalivan le terre; per la moneta del riscatto facean prigioni, e per le cuoia rapivan gli armenti[43]: e anco dal catalano Montaner s'intende come quelle masnade a gara chiedesser le più rischiose fazioni per arricchirsi, e cupide e animose nè a numero nè a forza de' nemici badassero[44]. E {221} già, come signor de' mari, stendendosi Pietro più a dilungo, prende sull'Adriatico Geraci, chiamato da' terrazzani. Quivi, serratosi nella rocca a' movimenti primi de' cittadini il presidio francese capitanato da un Guidone Alamanno, il re d'Aragona gli dava assalti ogni dì; e per fame e sete già riducealo, quando un sospetto d'umori nuovi in Sicilia, il fe' precipitare al ritorno[45].

In questo tempo la regina Costanza, chiamata da Pietro, fin quando pattuivasi il duello perchè restasse al governo in Sicilia, era venuta di Catalogna in Palermo co' minori figliuoli suoi, Giacomo, Federigo, e Iolanda[46]; seco recando cortigiano o consigliero quel Giovanni di Procida, che sulle memorie degne di maggior fede or la prima volta appar venuto in Sicilia, nè più se ne facea menzione dopo quegli antichi disegni tra esso, Loria, ed il re[47]. Vedendo dunque la figlia di Manfredi, e i giovanetti principi di vago e nobil {222} sembiante, la moltitudine esultava e plaudiva; soddisfatta alsì dalle novità, e dalle vittorie di terraferma. Ma tra i baroni e' l re nasceano molti sospetti. Perch'avendogli dato quei la corona, superbia in loro, e nel re dispetto del troppo beneficio, lavoravan tanto, che a' baroni non bastava guiderdone o favore, al re parea fellonia ogni picciolo scontento; e cominciava egli a giocare con suoi scaltrimenti per abbattere i più audaci. È probabile inoltre che cagionasse dispiacere la pattuita e mal osservata ristorazione agli ordini pubblici de' tempi di Guglielmo il Buono[48], di cui s'avean idee indefinite e pressochè favolose: onde tanto più ardentemente li vagheggiavano i popoli, tanto più diveniano difficili a soddisfarsi; nè Pietro era principe arrendevole, nè mantenitor di franchige che menomassero l'autorità regia. Pungea fors'anco i nostri invidia de' Catalani, e del non aver parte abbastanza ne' pubblici affari; onde alcun pensava non aver mutato la tirannide in libertà, ma la persona del principe e la nazione de' signori: i quali umori è naturale che da' baroni passassero anco ne' popolani più veggenti, nè ignoti restassero al re. Stando Pietro così sotto il castel di Geraci, avvenne che il dì otto aprile, preso uno spion de' nemici, rivelava pratiche del principe di Salerno in Sicilia. Confessò, dice il Neocastro, essersi indettato Gualtier da Caltagirone a dargli in balìa tutta l'isola, se alla partenza di Pietro per Bordeaux, mandasse {223} in alcun porto di val di Noto cinquanta galee con un grosso di cavalli francesi. Il quale Gualtiero, signor di Butera e d'altri feudi, possente sopra ogni altro in val di Noto, e famoso appo i narratori della congiura di Procida, al primo avvenimento del re avea chiesto d'andar tra i cento campioni al duello; ma poi deluso nelle sue ambizioni, o sospicando de' governanti, venne a tanta contumacia, che solo tra' siciliani baroni, per inviti che replicassegli il re, niegò di seguirlo in arme in Calabria. Ciò dunque a' detti della spia aggiugnea fede[49]. Saba Malaspina sol narra, che mandata la spia prima della forca a' tormenti, svelato avesse vaghe macchinazioni in Sicilia; e che questo indizio, riscontrato co' sospetti anteriori, conducesse a supporre una cospirazione contro la reina e i figliuoli, trattata con parecchi baroni da Palmiero Abbate, oriundo di Trapani, cittadin palermitano, ricchissimo in val di Mazara per terreni ed armenti, prode in arme, picciol di persona, grande di fama[50]. Del resto poco montano i nomi, e certo ritraesi nata nel baronaggio una trama, o supposta e spacciata da Pietro perchè la temea. In quel tempo stesso gli giunse la nuova dello arrivo della reina in Palermo; e andò in Calabria a trovarlo Piero fratel suo, ansioso tornandogli alla mente il solenne patto del duello; che il dì sovrastava; che {224} mai spergiuro non infamò il sangue regio d'Aragona; non si mostrasse egli primo a tutta cristianità mancatore e codardo. Stretto dunque a tornar di presente in Sicilia e affrettarsi al duello, fremendo Pietro si restò dalla impresa di Calabria; le terre occupate abbandonò; sciolse l'esercito: e lo stesso dì Gualtier da Caltagirone alfin veniva al campo di Solano: tardo consiglio in vero a purgar sì gravi sospetti[51].

A dì quattordici aprile, con le genti e il vasto bottino, Pietro valicava lo stretto. Il ventidue la reina co' figli, chiamata da Palermo, con lui si trovò a Messina[52]. Dove adunati a parlamento il dì venticinque i sindichi delle città, per ordinare lo stato prima ch'ei si partisse dall'isola, con assai dimostrazione di affetto, il re lor presentava que' suoi carissimi pegni, e: «Partir, dicea, m'è forza da questa terra, che amo quanto la stessa mia patria. Io vado innanti a tutta cristianità a confondere il superbo nostro nimico; a vendicare il mio nome nel giudizio di Dio. Perchè tutto io ho commesso alla fortuna per amor vostro, o Siciliani; e nome, e persona, e regno, e l'anima stessa. Nè men'incresce già, vedendo coronata l'impresa dall'onnipossente man del Signore; il nimico lungi di Sicilia; inseguito e prostrato in terraferma; ristorate le vostre leggi e franchige; voi crescenti a ricchezza, a gloria, e prosperità. Lasciovi una flotta vincitrice, capitani provati, fedeli ministri, la reina vostra e i nipoti di Manfredi. Questi giovanetti, la più cara parte delle mie viscere, io v'affido, o Siciliani, nè tremo per essi. Anzi, com'aspri e dubbi sono i casi della guerra, ecco novissima guarentigia a' vostri dritti: Alfonso avrassi alla mia morte Aragona, Catalogna e Valenza; Giacomo, secondo figliuol mio, mi succederà sul {225} trono di Sicilia. La reina e Giacomo terranno finch'io sia lungi le veci di re. E voi docili serbatevi al paternale impero; forti contro i nimici, e sordi alle insidie di chi cerca novità per vendervi ad essi.» Poi volto ad Alaimo: «Sian tuoi figli, disse, la mia consorte, i miei figli! e voi qual padre onoratelo[53].» Assentiva il parlamento la successione di Giacomo, proposta forse dal re, perchè il parlamento e la nazione voleanla; non soffrendo che l'antico reame ridivenisse provincia d'altro più lontano, e ubbidisse a gente straniera. Così riparato alla principal cagione di scontento, volle anche rafforzarsi della virtù e gloria di Alaimo. Il creò gran giustiziere[54]; ma gli altri maggiori ufici die' a suoi fidati: fatti Ruggier Loria grande ammiraglio[55]; Giovanni di Procida gran cancelliere, e il catalano Guglielmo Calcerando vicario, forse nel comando dell'esercito; e anco l'armò cavaliere. Gli ufici minori accomunò ancora tra Catalani e Siciliani: volle che in tutto il maneggio dello stato nulla senza saputa della regina non si comandasse. Ciò ordinato, cavalcò via da Messina il ventisei aprile; e prima investì Alaimo delle signorie di Buccheri, Palazzolo e Odogrillo; e baciatolo affettuosamente, gli donò il suo {226} proprio destrier da battaglia, la spada, l'elmo, e lo scudo[56].

Con questi ordinamenti Pietro a tempo racchetò la nazione, e potè senza pericolo, pria ch'ei lasciasse l'isola, assicurarsi con pronti fatti de' pochi tuttavia discredenti e {227} immansueti. Volle mostrar da vicino la regia autorità per le terre più affette a Gualtier da Caltagirone. Però comanda che l'infante ed Alaimo il seguan tosto; ed ei va a Mineo il ventotto aprile: dove intendendo essersi gridata già a Noto la ribellione, a stigazion di Gualtiero, da Bongiovanni di Noto, Tano Tusco, Baiamonte d'Eraclea, Giovanni da Mazzarino, Adenolfo da Mineo e altri molti, aspetta Alaimo e il figliuolo; consultane con essi di sopraccorrere su i sollevati senza dar loro tempo a ordinarsi; e avvia que' due a Noto; ei cavalca per Caltagirone a trovar dritto Gualtiero. L'irresoluto non l'aspettò; ma borbottando co' suoi che non sosterrebbe il sembiante di questo principe, cortese a lui sì, ma soperchiatore e pessimo nella signoria, si ridusse nella forte terra di Butera. Il re vedendolo dileguare e spregiandolo, senz'altro indugio fu a Trapani ad affrettare il viaggio[57].

Alaimo intanto spegnea senza sangue i ribelli. All'entrar di maggio appresentatosi a Noto con Giacomo, lascia il giovanotto poco lungi dalla città; egli fattosi con quattro uomini soli alla serrata e non difesa porta, e abbattutala, al popol grida a gran voce, che corra all'incontro del re. E il popolo, aggreggatoglisi intorno a que' detti, docilmente correva a salutare l'infante; perchè se il nome di Gualtiero e' l romor de' suoi seguaci il sommossero un istante, non potea per anco bramar gagliardamente nuove mutazioni di stato; nè senza forte volere il popol resiste a grandi nomi ed opere risolute. Indi ognuno abbandonò Bongiovanni, che minacciando era accorso; ma forza gli fu arrendersi ad Alaimo, e gittargli ai pie' le sue armi. Tano Tusco fuggendo è preso, e alla tortura svela ogni cosa[58].

Ignorando questi eventi, Gualtiero se ne stava in Butera, armato come in ribellione, e spreparato d'animo e di guardie {228} come in piena pace; quando il tre maggio con grossa scorta l'infante ed Alaimo vi cavalcarono: e fermatosi a riva il fiume Giacomo con le genti, Alaimo ascese il poggio; sforzò le porte senza contrasto, come a Noto; ed entrando esortò anco la moltitudine a farsi innanti a Giacomo con dimostrazioni di lealtà e di gioia. Onde i terrazzani, i quali a Gualtiero non eran sì devoti, ma li tenea sospesi spargendo partito il re, ita sossopra in Sicilia la dominazione d'Aragona, ora al nome di Alaimo, al saper sì presso l'infante, non pensarono ad altro che a fargli onore; e maledicendo Gualtiero e sue fole, chi affollavasi alle porte, e chi si calava da' muri, e tutta la moltitudine scendendo al fiume per quella pendice si sparse. Alaimo non s'arrestò che non trovasse prima Gualtiero. Smonta al palagio; entra: e da sessanta masnadieri toscani tutti armati a mensa sedeano con Gualtiero, banchettando e bravando, allorchè il fier vecchio fattosi innanti, franco salutò la brigata. Ammutolirono per maraviglia e dubbiezza: pendean tutti dal lor signore, che nulla si mosse; appoggiò la guancia sulla mano, il gomito sul desco; e affisava il volto d'Alaimo senza fiatare, se sbigottito o minaccioso non sel sapeva egli stesso. Alaimo si pentì quasi del troppo osare. Tacque un attimo; e risoluto: «Che vaneggi, o Gualtiero? gli disse. E tu al più vil de' tuoi mercenari stenderesti la mano, renderesti il saluto; ed Alaimo cavaliero, Alaimo amico, nelle tue stanze così raccogli! Or più che non pensi amico io vengo. Vedi in chi ti affidavi! Vedi i tuoi vassalli precipitarsi incontro all'infante Giacomo, e menarlo a trionfo! Su, vien meco a fargli omaggio ancor tu, mentre ti avanza un altro istante a campar da ruina certissima[59].» Tentennò Gualtiero: chiedea sicurtà che nol menerebbero oltre i mari al conflitto de' cento; al che rinfacciavagli {229} Alaimo: averlo ambito egli stesso a malgrado del re, che non chiedeva da lui nè braccio nè consiglio: e infine l'irresoluto si piegò a simulate dimostrazioni d'onore. L'infante, senza credergli, l'accolse benigno; parendogli abbastanza avere spento le prime scintille di aperta ribellione, ed evitato o differito quella di barone sì possente. Mostratosi indi a Palermo, sopraccorre a Trapani, ove ansioso aspettavalo il re. Lieto ei fu del successo. Ordinò punirsi di morte i capi della congiura di Noto; strettamente vegliarsi Gualtiero[60]: e il dì undici maggio, raccomandati novellamente ad Alaimo i suoi e 'l reame, sciolse da Trapani con una nave e quattro galee. Seco addusse, campione, al combattimento di Bordeaux, Palmiero Abbate, per gratificare, scrive lo Speciale, al suo zelo e guerriera indole; e Malaspina dice, per catturarlo in bel modo, a cagione de' raccontati sospetti di stato[61].

NOTE

[1] Bart. de Neocastro, cap. 50.

Montaner, cap. 65, parla del rammarico dimostrato dal re per non aver potuto combattere coi Francesi.

D'Esclot, cap. 95, attesta il medesimo, e che marciò con Pietro alla volta di Messina tutta la gente sua e quella del regno di Sicilia.

[2] Bart. de Neocastro, cap. 43 e 87, e dal cap. 91 si scorge la età di Macalda. Il d'Esclot, che le è favorevole quanto nemico il concittadino di lei Neocastro, la dice, cap. 96, molt bella e gentil e molt prous et valent de cor e de cos e llarga de donar; e aggiugne che valesse quanto un uom d'arme, e con trenta cavalieri andasse battendo la città. Ho seguito il Neocastro che dovea saper meglio de' fatti di costei, e la dice in Catania nel tempo dell'assedio di Messina.

[3] Bart. de Neocastro, cap. 50, 51, 52, narra il proposito di Macalda con una strana chiarezza: illa enim flammam urentem gerebat inclusam, quam sub quodam taciturnitatis velamine quærebat si posset…… comprimere, credens inde suis circonvencionibus juvenem excitare, etc.

Tutto al contrario il d'Esclot, cap. 96, afferma che com'ella vide il re in Messina, que null temps nol havia vist, fon molt enamorada axi com de senyor valent e agradable, no gens per mal enteniment. Ma s'accorda meglio co' fatti la malignità del Neocastro.

[4] Bart. de Neocastro, cap. 53.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.

D'Esclot, cap. 96.

Montaner, cap. 65.

Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 274.

Quanto a' Giudei non è dubbio che in Messina e in molte altre città della Sicilia, fossero in gran numero e considerazione per le industrie e i commerci. Le nostre leggi del tempo, per non dir di tante altre memorie, ne fanno spesso menzione. E si ritrae che in Messina i Giudei, al par che i cristiani, fossero molto addetti all'industria delle tintorie, da un diploma del 24 gennaio 1292, che leggiamo presso il Testa, Vita di Federigo l'Aragonese, docum. XV.

[5] Bart. de Neocastro, cap. 53.

D'Esclot, cap. 98.

Saba Malaspina, cont., pag. 384.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.

Montaner, cap. 65, 66, 67, 68, 69.

Anon. chron. sic., cap. 41.

Giachetto Malespini, cap. 212.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.

Cron. sic. della cospirazione, pag. 274.

Ho seguito a preferenza il Neocastro e gli altri due primi, che narrano con poco divario questi fatti.

Non attesi al Villani e al Malespini che portano bruciati da' nostri da 80 legni nimici, perchè Saba Malaspina e gli scrittori di parte nostra non l'avrebbero pretermesso; e Montaner accenna questo incendio (cap. 65) ma come avvenuto sulla spiaggia di Messina, che è forse quello de' principî dell'assedio (Veg. cap. VII del presente lavoro). Il Montaner in questa impiastra tre fazioni: la caccia data alle 70 navi, la presura delle 22, e il saccheggio di Nicotra, seguito nel 1284; che è nuovo argomento della poca esattezza di questo autore, il quale scrivendo vecchio e molti anni appresso, confondea nella sua memoria l'ordine e le particolarità de' fatti.

[6] Questa porta più non esiste, sendosi da quel canto ampliata la città.

[7] Bart. de Neocastro, cap. 53.

Saba Malaspina, cont., pag. 385.

D'Esclot, cap. 98.

Montaner, cap. 74, il quale porta questa liberazione in altro tempo, e la abbellisce con una munificenza incredibile; facendo dispensare camicia, farsetto, brache, cappello, cintura, coltello catalanesco, e un fiorin d'oro per ciascuno, a 12,000 prigioni.

[8] Bart. de Neocastro, cap. 54.

Diplomi dell'8 e 15 febbraio 1282 (cioè 1283, contandosi l'uno appo noi dal 25 marzo), docum. X ed XI; il secondo de' quali è citato ancora dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 135, con un altro privilegio del 20 aprile, che abolì tutti gli statuti e le leggi di re Carlo.

Forse a questo o altro simil diploma allude il Fazello (Deca 2, lib. 9), che il dice conservato infino a' suoi tempi; e il Pirri, Sicilia sacra, Not. ecc. catan. ann. 1283 che cita il parlamento e il diploma.

Che Pietro avesse abolito i dritti de' marinai è detto anco chiaramente nel capitolo 44 di re Giacomo, Cap. del regno di Sicilia.

[9] Aliquantulum.

[10] Diploma del 29 settembre 1282, docum. IX.

[11] Diploma del 2 ottobre 1282, citato nell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 244, e anche in parte trascrittovi nella nota che continua infine a pag. 246.

[12] Saba Malaspina, cont., pag. 395.

[13] Elenco delle pergamene sud., tom. I, pag. 247.

[14] Saba Malaspina, cont., pag. 384.

Bart. de Neocastro, cap. 54.

D'Esclot, cap. 97.

Cron. della cospirazione di Procida, pag. 274.

Veggasi anche Montaner, cap. 67 e seg. Il soggiorno di re Carlo a Reggio per tutto questo tempo, è confermato dalla data de' citati diplomi e dei seguenti altri: Reggio penultimo ottobre, undecima Ind. Ibid. 26 novembre, undecima Ind. Ibid. 1, 5 e 6 dicembre, undecima Ind. Nel r. archivio di Napoli, registro segn. 1283, E, fog. 1, 1 a t. e 4.

[15] Bart. de Neocastro, cap. 54.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 23, 24.

Saba Malaspina, cont., pag. 385, 386, 387.

D'Esclot, cap. 99.

Montaner, cap. 72.

Raynald, Ann. ecc. 1283, §. 5.

Diploma di re Carlo, in Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 651. Sul quale e su i due diplomi citati qui appresso, ho corretto lo errore di alcuni storici, che dicon fatta la sfida da re Pietro. Del rimanente la più parte di quegli scrittori si riscontra appunto co' diplomi.

I nomi degli ambasciadori di Pietro son portati variamente. Certo che vi fosse il giudice Rinaldo dei Limogi messinese, perchè, oltre l'attestato d'alcuno istorico nostro, leggiamo il suo nome ne' diplomi. Notisi che il d'Esclot diversifica in qualche circostanza. Secondo lui, due famigliari di Carlo vestiti da frati portavano a Pietro parole d'ingiurie: egli si pose a ridere, e mandò con loro per ambasciatori, suoi cavalieri onorati e d'alto affare, per intender da Carlo se i due finti frati ne avessero avuto mandato; e saputo di sì, questi legati fermarono il duello, e tornarono in Messina con gli inviati di Carlo per ordinarne le condizioni. Montaner al contrario dice il grande sdegno di Pietro al sentirsi dar quelle accuse. Io ho seguito ne' particolari piuttosto Speciale, Malaspina, e 'l Neocastro; nè è mestieri notar tutte le minute differenze degli altri cronisti.

[16] Da una scritta che ti trova nel r. archivio di Napoli, reg. segnalo 1268, A, fog. 35, si vede che fosse tra' cortigiani di re Carlo, Rinaldo Villani da Siena milite.

Un altro diploma del 28 aprile (forse 1268) che si legge nel medesimo archivio, reg. segn. 1268, O, fog. 30 a t., comanda a' regi inquisitori d'investigare i carichi dati pe' fatti di Corradino a Giovanni Villano da Aversa milite.

Non mi preme il ricercare se costoro fosser della medesima famiglia, e se tra i mallevadori di Carlo fosse stato un Pugliese o un Toscano. Perciò me ne rimango a queste semplici notizie.

[17] I diplomi leggonsi presso:

Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 226 a 234.

Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 655.

Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 101.

Lünig, Codex Ital. Dipl., tom. II, pag. 986 e 1015.

Registro di Carlo I, segn. 1280, B, fog. 151 a t., citato dal Vivenzio, Ist. del regno di Napoli, tom. II, pag. 353.

E infine li cita Michele Carbonell, Chroniques de Espanya, ed. 1567, affermando trovarsi gli originali negli archivi di Barcellona, de' quali egli era il conservatore; e similmente Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11, cap. 17. Negli archivi del reame di Francia ho veduto io ancora in buona forma un di questi diplomi: e dal gran numero di copie che se ne trova, si può ben conchiudere che si volle dare a quest'atto la maggiore pubblicità che fosse possibile.

Perfettamente rispondono a questi diplomi:

D'Esclot, cap. 100, che porta anco esattamente i nomi de' cavalieri mallevadori.

Montaner, cap. 72, 73.

Saba Malaspina, cont., pag. 388, 389.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.

Bart. de Neocastro, cap. 54.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hisp. del Baluzio.

Chron. S. Bert. in Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 763; ed altri che lungo sarebbe a noverare, or più or meno esatti.

[18] D'Esclot, Montaner, Neocastro, Speciale nei luoghi citati.

[19] Nangis, vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, H. Fr. S., tom. V, pag. 541.

Breve di papa Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 86.

[20] Saba Malaspina, cont., pag. 386.

[21] Ibidem, pag. 389, 390.

Bart. de Neocastro, cap. 55, 56.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 19.

Bernardo d'Esclot, cap. 102, il quale aggiugne la valente ritirata di 30 almogaveri restati in terra, e le straordinarie prove d'un condottiere di questa gente.

Ramondo Montaner, cap. 20, narra diversa e strana questa fazione, e vi fa uccidere il conte di Alençon, da lui detto di Lauço, il quale morì alcuni mesi appresso nel campo di Santo Martino, e non in questa fazione. E veramente ei fu uno dei capitani che consigliarono nel cominciar del seguente anno 1283 il tramutamento del campo da Reggio al piano di Santo Martino, come si scorge da un diploma del principe di Salerno, cavato dal r. archivio di Napoli, e citato da D. Ferrante della Marra. Discorsi, Napoli, 1641, pag. 46, a t.

Veggasi anche l'altro diploma del 20 aprile 1283, citato al cap. X di questo lavoro.

Nelle Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, si dice ferito nelle fazioni di Calabria il conte Pietro d'Alençon, e mortone qualche tempo appresso.

[22] Che il conte Federigo Mosca nominato dal Neocastro fosse conte di Modica, si ritrae da Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 27, e da' nostri noiosi scrittori delle genealogie nobili.

[23] Saba Malaspina, cont., pag. 390.

Bart. de Neocastro, cap. 56.

[24] Diploma dato di Parigi a 20 giugno 1282, col quale Carlo principe di Salerno promettea di comporre amichevolmente questa faccenda. Negli archivi del reame di Francia, J. 511. 2.

[25] Diploma del 1303, ibid. J. 512. 24, nel quale sono noverati vari debiti di Carlo II con la corte di Francia, e in primo luogo queste 15,000 lire tornesi pagate a 18 giugno decima Ind. 1282.

[26] D'Esclot, cap. 101.

[27] Nangis, loc. cit., pag. 541.

Giachetto Malespini, cap. 217.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 62, 85.

Saba Malaspina, cont., pag. 385, 392.

Cron. an. sic. della cospirazione, pag. 266.

Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 580.

Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 610.

Chron. s. Bert. in Martene e Durand, Thes. Nov. Anec. tom. III, pag. 764.

Montaner, cap. 70, toltone l'errore della uccisione del conte d'Alençon.

[28] Breve dato di Montefiascone, 9 dicembre 1282, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §. 27.

[29] D'Esclot, cap. 100.

Montaner, cap. 73, 77, 78.

[30] Questo diploma leggesi nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 248.

Montaner, cap. 73.

D'Esclot, cap. 100.

Saba Malaspina, cont., pag. 395.

[31] Bart. de Neocastro, cap. 54. Questi porta la partenza di re Carlo a 2 novembre, ch'è manifesto errore secondo gli allegati diplomi. Pur non è da toglier fede nelle altre cose al Neocastro, il quale, come in paese nemico, potea ben errare in qualche particolare, e conoscere appieno gli altri fatti.

[32] Bart. de Neocastro, cap. 57.

Saba Malaspina, cont., pag. 391. Il consiglio dei principi e capitani nominati di sopra, si scorge dal diploma citato qui innanzi a pag. 213, al proposito del conte d'Alençon.

[33] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.

[34] Neocastro, Speciale, Malaspina ne' luoghi citati. Il primo porta questo permesso come dato dal principe di Salerno.

La ritirata del principe di Salerno al pian di Santo Martino leggesi anco in d'Esclot, cap. 102.

[35] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 20.

[36] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.

Saba Malaspina, cont., pag. 391.

Bart. de Neocastro, cap. 59.

Montaner, cap. 75.

[37] Bart. de Neocastro, cap. 61.

[38] Saba Malaspina, cont., pag. 390, 391, 396.

D'Esclot, cap. 67, 79, 103.

Montaner, cap. 62, 64.

Da questi autori si vede che almugaveri non era nome di nazione, ma sì di milizia, come oggidì si direbbe: granatieri, cacciatori, ec.

I particolari della sussistenza e ordinamento irregolare di questi almugaveri si scorgono da Montaner, cap. 70, e da due diplomi del 7 marzo e 4 aprile 1299, docum. XXVI e XXVII, nel primo dei quali si vede la distinzione tra stipendiarii, almugaveri, et malandrini; nel secondo leggesi la divisione della preda inter se, juxta eorum consuetudinem atque usum. Nell'uno e nell'altro i cognomi ben mostrano che queste masnade fossero mischiate di Spagnuoli e Siciliani.

L'altro diploma del 27 dicembre, quarta Ind. (1290), docum. XXV, mostra la niuna disciplina degli almugaveri; per la quale il re di Sicilia espressamente li avea eccettuato dalla tregua fermata col nemico, non promettendosi che ubbidissero.

In somma il modo lor di combattere era il medesimo delle bande o guerrillas, segnalatesi nelle moderne guerre di Spagna, e la disciplina assai peggiore.

[39] Bart. de Neocastro, cap. 59.

Saba Malaspina, cont., pag. 391.

[40] Bart. de Neocastro, cap. 60.

Saba Malaspina, cont., pag. 395.

[41] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.

[42] Saba Malaspina, cont., pag. 395, 396.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 22.

Bart. de Neocastro, cap. 61.

E con meno particolarità, d'Esclot, cap. 102.

[43] Saba Malaspina, cont., pag 395, 397.

[44] Montaner, cap. 70, 75.

Il quale scrittore porta con molta confusione e inesattezza questa prima guerra di Calabria, talchè inutile opera sarebbe a notar d'uno in uno i suoi errori.

Il d'Esclot, più accurato sempre, non dice che la fazion di Seminara. Ei passa sotto silenzio la cagione del sollecito ritorno di Pietro in Sicilia.

È da notare che, raccontando come gli almugaveri nell'infestar le Calabrie spingeansi fino agli alloggiamenti nemici, d'Esclot, a cap. 103, porta il seguente fatto. Preso da' nimici un almugavero, e portato al principe di Salerno, questi vedendol piccino, male in arnese, e orrido d'aspetto, sclamò che gente sì cattiva e selvatica non potea aver cuore. E l'almugavero replicava: ch'egli era l'ultimo di sua gente, ma pur si proverebbe col miglior cavaliere francese, a patto che vinto rimanesse a discrezione, vincitore avesse la libertà. Nella bizzarria dei tempi il principe assentiva. Talchè rese all'almugavero le sue armi, e fatto venire un valente cavalier francese, fuor le trincee si die' luogo al duello. Il cavaliero preso del campo si serra sull'almugavero; il quale schivando d'un salto la lancia, trasse al cavallo un fermo colpo di giavellotto alla spalla; e, abbattutolo, vien addosso al cavaliero, tagliali i lacci dell'elmo, e con la coltella già l'uccidea. Allora il principe donatagli una veste, libero il rimandò a Messina. E Pietro gareggiando in cortesia, rendea al Francese dieci prigioni anco vestiti, dicendo che così sempre darebbe dieci per un de' suoi.

[45] Saba Malaspina, cont., pag. 397.

Bart. de Neocastro, cap. 55 e 61.

[46] Bart. de Neocastro, cap. 62.

Anon. chron. sic., cap. 42.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.

D'Esclot, cap. 103, dice anche venuta la regina Costanza in aprile.

[47] Saba Malaspina, cont., pag. 397.

Montaner, cap. 59 e 99, il quale portando questo fatto dopo il giorno del duello, scordò certo il tempo del viaggio della regina per Sicilia, ma rammentava bene tutte le minuzie personali, e dice venuti con essa Giovanni di Procida e Corrado Lanza. Il Montaner fa menzione al cap. 97 e al 99, al proposito di questa venuta della regina Costanza in Palermo, di due nostri notissimi monumenti nazionali; la cappella del real palagio di Palermo, che esiste ancora in tutta la sua bellezza, ed era, dice il Montaner, una delle più ricche cappelle del mondo; e la sala verde dello stesso palagio ove teneansi i parlamenti.

Quivi, continua il Montaner, s'adunò un parlamento per la venuta della regina, ove Giovanni di Procida parlò per lei, e Matteo da Termini rispose a nome del parlamento: ma agli altri particolari non è da attendersi, scrivendo Montaner nel falsissimo supposto che ciò fosse stato dopo la partenza di Pietro, e dopo il duello.

[48] Si vedrà nel progresso di questo lavoro come la costituzione di Guglielmo il Buono fu la stella polare de' popoli di Sicilia e di que' di Puglia in quel tempo; e come i Napoletani l'ottennero nei capitoli di papa Onorio; i Siciliani in que' di re Giacomo.

[49] Bart. de Neocastro, cap. 61.

[50] Saba Malaspina, cont., pag. 397.

Palmiero Abbate nel 1272 fu castellano del castel di Favignana per Carlo I, come si vede in un diploma pubblicato dall'er. Michele Schiavo, Memorie per la istoria letteraria di Sicilia, tom. I, par. 3, pag. 49 e seg.

Tutti gli scrittori Trapanesi voglion Palmiero lor concittadino, i Palermitani lo contendon loro; gli uni e gli altri senza provarlo abbastanza. Nel testo io ho trascritto le parole di Saba Malaspina, senza tener punto nè poco alla cittadinanza palermitana di Palmiero Abbate; perchè la Sicilia è la mia patria, non questo o quell'altro muro, in cui infelicemente i Siciliani per l'addietro chiudeano i loro affetti nazionali.

[51] Bart. de Neocastro, cap. 62.

[52] Bart. de Neocastro, cap. 62.

D'Esclot, cap. 103 e 104, si riscontra appunto con queste date.

[53] Bart. de Neocastro, cap. 63, riferisce in questi sensi l'orazione di re Pietro al parlamento.

[54] Così il Neocastro e lo Speciale.

Ma forse Alaimo era stato eletto prima Maestro Giustiziere, perchè con questo titolo è sottoscritto nel diploma del 30 dicembre 1282, citato da noi a pag. 211.

[55] Diploma di re Pietro dato di Messina a 20 aprile 1283, pel quale Ruggier Loria è eletto ammiraglio di Catalogna e di Sicilia, pubblicato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, tom. II, pag. 176.

La data di questo diploma corrisponde bene a quelle portate dal Neocastro e dal d'Esclot, diligenti cronisti, i cui detti riscontrati co' documenti acquistano sempre maggior fede. Sembra per altro che il re prima di partire, abbia accordato solennemente e permanentemente i primi ufici dello stato a coloro cui li avea già affidato. Loria era stato già incaricato del comando della flotta, veg. p. 216, e forse Alaimo esercitava nello stesso modo l'autorità di gran giustiziere.

[56] Bart. de Neocastro, cap. 62, 63.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.

Montaner, cap. 75, 76, 99, 100.

D'Esclot, cap. 104, il quale dice che Pietro pria di partire nominò i suoi ministri e vicari per tutta l'isola, che ubbidissero alla reina e a Giacomo; e che raccomandò la moglie e i figli a' Siciliani, e in particolare a' Messinesi. Perchè questi ordinamenti di Pietro non son riferiti da tutti gli storici nella stessa guisa, io mi son tenuto al Neocastro, che forse si trovò presente e tra gli affari pubblici, e narra la cosa in quel modo ch'era necessario tenersi da re Pietro. Altri particolari ho cavato da Speciale e Montaner, l'ultimo de' quali porta le circostanze essenziali, sbagliando nel tempo e nel modo. Questi due scrittori dicon poi lasciato il regno di Sicilia a Giacomo per testamento del padre. Ma come nel testamento che noi abbiamo, e che d'Esclot anche riferisce con estrema diligenza, non si fa menzione del regno di Sicilia, così è mestieri che Pietro avesse fatto riconoscere Giacomo dal parlamento, nel modo che appunto riferisce il Neocastro, e accenna lo stesso Montaner.

Certo egli è che infino alla morte di Pietro l'autorità regia in Sicilia fu esercitata dalla regina Costanza, aiutandosi costei dell'opera di Giacomo, riconosciuto successore al trono. In fatti nel capitolo 2 delle leggi di Federigo II di Sicilia, è fatta menzione di concessioni della regina Costanza; e vari diplomi ci restan di lei, l'un de' quali dato di Palermo a 25 febbraio duodecima Ind. 1283 (1284 secondo il computo comune), si legge a pag. 87 nel Tabulario della cappella del reale palagio di Palermo, Palermo 1835. Il titolo è: « Constantia D. G. Aragonum et Siciliæ Regina. »

Questa forma di governo finalmente si prova con un atto politico del tempo. Nel trattato fermato in giugno 1286, tra Pietro di Aragona e il re di Tunis, che è pubblicato dal Capmany, Memorias historicas del comercio de Barcelona, tom. IV, docum. 6, allo art. 40, si legge: «La qual pace noi Pietro per la grazia di Dio re d'Aragona e di Sicilia sopraddetto, accordiamo pel regno di Sicilia, per noi e per la nobile regina nostra moglie e per l'infante Giacomo nostro figlio, che dev' essere erede dopo di noi nel detto regno, dai quali la faremo fermare e accordare; e pe' regni nostri d'Aragona, di Valenza e di Catalogna, per noi e per l'infante don Alonzo nostro primogenito, erede dopo di noi ne' detti regni, ec.»

[57] Bart. de Neocastro, cap. 64.

[58] Bart. de Neocastro, cap. 65.

[59] Son riferite a un di presso queste parole da Bartolomeo de Neocastro.

[60] Bart. de Neocastro, cap. 66.

[61] Bart. de Neocastro, cap. 67.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.

Saba Malaspina, cont., pag. 398.

Della partenza di Pietro da Trapani fanno seccamente menzione il d'Esclot, cap. 104, e il Montaner, cap. 76.

CAPITOLO X.

Nuovi preparamenti degli Angioini contro la Sicilia. Capitoli del parlamento di Santo Martino nel regno di Napoli. Nuove intimazioni del papa a re Pietro e a' Siciliani: bando della croce: sentenza di deposizione di Pietro dal reame d'Aragona, e altre pratiche. Aperta ribellione di Gualtiero da Caltagirone. Vittoria dell'armata siciliana su la provenzale, nel porto di Malta, il dì 8 giugno 1283, e conseguenze di essa. Pratiche del papa a sturbare il duello. Andata di re Pietro in Catalogna e a Bordeaux: esito della scena del duello. Umori dei popoli del regno di Napoli. I nostri occupano alcune terre in val di Crati. Preparamenti di una nuova impresa sopra la Sicilia. Loria assalta con l'armata il regno di Napoli. Battaglia del golfo di Napoli il 5 giugno 1284, e presura di Carlo lo Zoppo. Sollevazione della plebe in Napoli. Maggio 1283 a giugno 1284.

In questo tempo il nimico apprestossi a una seconda prova contro la Sicilia; di che s'eran maturati i disegni a corte di Roma, quando Carlo, tornato di Calabria, appresentossi al papa e a tutto il sacro collegio a chiedere aiuti[1]. Tentar doveasi il colpo nella state dell'ottantatrè, per cogliere il destro dell'assenza di Pietro. A ciò preparavansi navi e armi, men poderose che l'anno innanzi, per diffalta di moneta, e perchè faceano assegnamento maggiore sugli animi de' popoli, simulando mansuetudine quand'era tornata vana la forza. Par che in Sicilia tenessero a questo disegno, secondo l'indizio della spia presa a Geraci, i principi di controrivoluzione testè detti. Al medesimo effetto or trattavasi più solenne e larga la riforma del mal governo in terraferma. E 'l papa suscitava i nemici di Piero; spaventava gli amici; e a sviar le forze di lui, principiava a minacciare il reame d'Aragona.

Re Carlo dunque nell'andar di Roma a Parigi, era soprastato {231} alquanti dì in Marsiglia; ove al suo vicario di Provenza avea commesso che, allestite in fretta venti galee, e armatele della miglior gente di mare di tutta Provenza, mandassele in Puglia, d'aprile o di maggio al più lungo[2]: ed ei medesimo poco appresso, tornato a Marsiglia, e trovate le galee munitissime di attrezzi e armi e ciurma al doppio dell'ordinaria, aveale affidato a Guglielmo Cornut e Bartolomeo Bonvin, marsigliesi; giurando Guglielmo che darebbegli morto o prigione l'ammiraglio nimico[3]. Il principe di Salerno al tempo stesso armava nel reame di Puglia novanta tra teride e galee, che a mezzo giugno si trovassero a Reggio[4]. Abbandonato egli avea nel corso d'aprile gl'infelici alloggiamenti di Santo Martino, ove per disagio e febbri consumavasi come in atroce pestilenza la gente francese; ch'eravi anco morto con grande compianto Piero conte di Alençon, e sì scarseggiavan le vittuaglie e lo strame. Presso Nicotra sulla marina il principe s'attendò, per esser più pronto all'imbarco: otto galee fe' racconciare in quel porto; tutto intendendo al passaggio sopra la Sicilia[5]. {232} Ma prima di mutare il campo avea tenuto nelle pianure stesse di Santo Martino un solenne parlamento, del quale è mestieri qui far parola.

Perchè ai «prelati, conti, baroni, cittadini e probi uomini,» in grande numero adunati (novella temperanza de' governanti angioini), chiedeva il principe i sussidj; e gli erano assentiti in merito della riforma, mal abbozzata già nei capitoli del dieci giugno dell'ottantadue, e peggio osservata; {233} della quale or trattandosi con quei grandi e rappresentanti della nazione, nuovi capitoli sancironsi e pubblicaronsi in questo parlamento medesimo, il dì trenta marzo milledugentottantatrè. Cominciavano con accettare apertamente in che orrendo servaggio e povertà fosse venuto il reame, per vecchia colpa, diceasi, dei tiranni Svevi, e fresca malizia de' ministri e officiali del re, tradenti il suo paternale buon volere. Larghissimi indi i favori conceduti e raffermi agli ecclesiastici, per lor averi, persone, case ed autorità; chè si corse fino ad accordare la franchigia delle tasse su lor beni ereditarj, e, strano capitolo in una riforma di abusi, si ordinò la punizion civile degli scomunicati. Gli aggravj che più ai baroni incresceano furon rivocati; moderato il servigio militare; disdetto ogni impedimento a' matrimonj delle figliuole, e alla scossione dei giusti aiutorj (quest'era il vocabolo) su i vassalli; ristorato il privilegio del giudizio de' pari; cessata la molestia dei servigi al fisco. A beneficio di tutta la nazione, il principe francò di dogane il trasporto delle vittuaglie da luogo a luogo nel regno; promesse coniar buona moneta; vietò le inquisizioni spontanee de' magistrati; menomò la taglia per gli omicidj non provati; consentì i matrimonj delle figliuole de' rei di fellonia; corresse gli abusi de' servigi, e le baratterie degli officiali, simul, il fisco non rivendicasse beni, altrimenti che per decisione di magistrato; non incorporasse le doti alle mogli degli usciti; nè gli artieri si sforzassero a racconciar le navi regie, nè la città a murar nuove fortezze; i giustizieri e altri ufficiali, usciti dalla carica, restasser nel paese quaranta dì a rispondere di mal tolto. Quanto alle collette e altre imposte generali o parziali, il principe bandì: godessero i cittadini del reame di terraferma tutte le franchigie e gli usi de' tempi di Guglielmo il Buono. Ma sendone oscure ormai le memorie, rimetteva in papa Martino descriver quelle consuetudini entro due mesi; comandava che due legati d'ogni giustizierato, a tale effetto si trovassero prestamente innanzi il papa: intanto nulla fornirebbero le città o provincie, nè anco in presto, fuorchè nei casi stabiliti dalle costituzioni. In ultimo, richiamò in vigore i recenti capitoli di re Carlo; {234} a vegliar la osservanza dei presenti, deputò inquisitori a posta in ogni città e terra. Questi nuovi frutti raccoglieano i popoli di terraferma dalla siciliana rivoluzione[6]!

Intanto papa Martino senza studiarsi ad occultar la fiera passione dell'animo suo, vibrava anatemi sopra anatemi contro Piero, e' ministri, e' guerrieri, e' Siciliani tutti. Da Montefiascone a diciotto novembre dell'ottantadue, dichiarolli involti nelle scomuniche comminate già prima; e a Pietro ricantò: sgombrasse di presente la Sicilia; non usurpasse il titolo, non esercitasse atto alcuno di re. Al Paleologo, scomunicato d'altronde, comandò per nuovi scongiuri di spezzar ogni legame con l'Aragonese. E, altro che minacciar non potendo, diè nuovi termini a obbedire; a Piero ed a' dimoranti in Italia, infino al due febbraio; al Greco e agli altri, infino ad aprile e a maggio: fornito il qual tempo, i trasgressori si rimarrebbero spogliati d'ogni feudo, possessione o diritto; sciolti lor vassalli dal giuramento; date le facultà e le persone in balìa de' fedeli che volessero occuparle, quest'era la formula, tolto il pericolo di mutilazione e di morte[7]. {235}

Ma poco appresso proruppe a comandar guerra e morte, non aspettato pure il decorso de' termini, «Sorga il Signore, esordiva da Orvieto a tredici gennaio milledugentottantatrè, sorga il Signore, giudichi la sua causa, per le offese che gli stolti vengongli recando ogni dì:» e sermonando del racquisto di Terrasanta, attraversato da Piero e da' Siciliani con molestar la Chiesa, «Iddio però, ripigliava, muova contr'essi a battaglia; e noi, per divina misericordia forti dell'autorità degli apostoli, esortiamo i cristiani tutti a levarsi per noi, per Carlo nostro figlio diletto; qual muoia nella impresa sciogliam dalle peccata, come se in guerra di luoghi santi[8].»

In fine, a diciannove marzo, fulminò da Orvieto l'altra sentenza. Rinfacciò a Piero i primi suoi armamenti in Catalogna; il passaggio sopra l'Affrica, con forze non pari a tanta impresa; i messaggi a' Palermitani per indurarli nella ribellione; le perfide ambascerie alla corte di Roma; la fraudolenta occupazione del reame di Sicilia. Ma la Sicilia, dicea, terra è della Chiesa; e anco feudo nostro l'Aragona, per l'omaggio prestato a papa Innocenzo terzo dall'avol di Pietro. Questo dunque sleale vassallo per tradigione deponghiam noi dal regno d'Aragona; altri ne investiremo a piacer nostro. Con ciò scomunicollo una terza volta: scagliò interdetto su quantunque città tenessero per lui[9]. Nella quale sentenza allegò Martino l'avviso dei cardinali; onde, se non mentì netto, cavillò; leggendosi nelle istorie del suo medesimo segretario, come parecchi fratelli del sacro collegio forte la dissentissero. Di ciò, segue il Malaspina, arduo sarebbe, e più da indovino che da fedel narratore, a scrutar la cagione: e anco toccando l'autenticità dei titoli del papa sopra Aragona, e {236} il suo diritto alla deposizione di Piero, si dilegua in ambagi, con meschin temperamento tra istorico e cortigiano[10].

Instava il papa inoltre a dissuadere Eduardo d'Inghilterra dal matrimonio della figliuola col primogenito di Pietro; costui dicendo persecutor di santa Chiesa; incesto il nodo per un quarto grado di consanguineità[11]. Sturbava per un vescovo suo fidato gli accordi tra l'Aragonese e la repubblica di Venezia, vogliosa dell'equilibrio del potere in Italia; onde parecchi suoi cittadini avean ricevuto messaggi di Pietro, e a lui mandatone[12]. Consentiva a Carlo differisse pure il pagamento del censo alla Chiesa[13]. Esortava nel reame di Castiglia i prelati, i Templari, i Gerosolimitani, e altre fraterie armeggianti a muover contro Sancio, presuntivo erede della corona, ribellatosi al padre, e collegato con re Pietro[14]. Liberava e preponeva al comando degli eserciti della Chiesa in Romagna il conte di Monteforte, quel sacrilego uccisore del principe Arrigo d'Inghilterra[15]. E come or tutte ritrar le brighe d'un tal potentato, stigato da ira di parte e vicin pericolo? Aspramente in vero travagliossi la pontificia corte in Italia a quel fortuneggiare di Carlo: smugneasi di danari per sovvenirlo[16]: vedea la Romagna corsa dal conte Guido da Montefeltro e sollevata; Roma più che mai immansueta[17]; {237} e, vero o non vero, si disse di pratiche di que' cittadini con lo stesso re di Aragona[18].

La tempesta preparata per cotal modo, cominciò a scaricarsi appena allontanato di Sicilia re Pietro, quando Gualtiero da Caltagirone ripigliando animo, levossi alfine scopertamente; assalì in Caltagirone i leali stretti a schiera sotto lo stesso stendardo del re; e sparso assai sangue, occupò la terra, destò per tutto val di Noto uno spavento di novità. Ma l'infante Giacomo, che percorrendo la region settentrionale dell'isola, giovanetto vivo e benigno, era stato per ogni luogo onorato come re, e con grande amore accolto, e giuratagli fedeltà, sapute in Palermo le rie novelle di Gualtiero, insieme co' suoi consiglieri sen turbò forte, ma forte provvide. A Guglielmo Calcerando vicario, e a Natale Ansalone da Messina giustiziere in quella provincia, fu scritto: andassero mansueti a Caltagirone; cautamente facesser gente e armi; poi d'un colpo di mano, per forza o per frode, prendesser Gualtiero. Fecerlo; chè pari allo stato non era animo nè senno in costui, nè la ribellione avea altre radici: e furono catturati con esso Francesco de' Todi e Manfredi de' Monti; sì prestamente, che l'infante cavalcando appresso i suoi spacci, non era giunto a Piazza che 'l seppe. Andò il ventuno maggio a Caltagirone: il dì appresso Gualtiero e i consorti, convinti dall'aperto sollevamento, e sì dalle confessioni {238} di Bongiovanni e Tano Tusco, furono dal gran giustiziere Alaimo condannati, e immantinenti nel pian di Santo Giuliano dicollati; gridando il popolo: ammazza, ammazza. Bongiovanni e l'altro morian sulle forche a Mineo. A dì venzette maggio, racchetata ogni cosa, entrava l'infante, applaudito e festeggiato, in Messina[19].

Dove fu mestieri allestir subito l'armata contro una prima fazione del nimico; il quale ignorando che la controrivoluzione fosse stata spenta sì tosto con arte e fortuna, si mostrava ne' mari di Sicilia in questa stagione. Perchè venute a Napoli di maggio le venti galee provenzali, e tolti secoloro assai cavalieri del regno e Francesi, e sette legni da ottanta remi, a Nicotra s'erano avviate a trovare il principe. Il quale vedendo così rassicurati i mari da' corsali siciliani, e mercatanti di Terra di Lavoro e Principato ricominciare a navigarvi, e recar vittuaglie alle sue stanze; e sentendosi già forte alle offese, per prima dimostrazione, mandò l'armata provenzale a girar intorno la Sicilia dal mar Tirreno e dall'Affricano, e, s'altra occasione non si presentasse, vettovagliare il castel di Malta, che i nostri sotto Manfredi Lancia, occupata l'isola, stringean d'assedio, e con macchine percoteano[20]. {239}

Ruggier Loria stavasi pronto nel porto di Messina con ventidue galee catalane e siciliane, quando ebbe avviso della nemica flotta da' suoi legni sottili, o da barche di Principato, che navigavano con frutta e vini furtivamente alla volta di Sicilia; le quali imbattutesi nella flotta provenzale presso Ustica, se ne liberavano fingendo esser indirizzate per Tunisi, e poi, volto il corso, approdavano a Palermo, a Messina e a Trapani[21]. Presupposta a quell'avviso la fazion de' nemici, la regina incontanente spacciò a Malta un legno da quaranta remi a comandar che lasciato l'assedio della rocca, s'afforzassero i nostri in città: e Loria, cercando la flotta di Provenza, die' ai venti le vele. D'Ustica la seguitò a Trapani e a Terranova, restando indietro sempre due giorni; onde com'ei toccò Gozzo, a Malta la seppe, che già avea sbarcato le genti, e investito, ancorchè invano, gli assedianti in città. Indi a mezza notte innanzi l'otto giugno milledugentottantatrè, salpando dal Gozzo, fu surto a traverso la bocca del porto di Malta, con le ventidue galee ordinate a scaglioni. Questa era la prima impresa che Ruggiero governava da ammiraglio: tra la sua gente e la provenzale s'aveva a contendere il primato ne' fatti di mare. Perciò, sdegnando assaltare il nemico sprovveduto, fa suonare a {240} battaglia tutti gli stromenti; manda un legno a sfidare Cornut; e accorgendosi come cento uomini francesi dal castello correano ad imbarcarsi, da non curante li aspetta. Fe' il nimico ammiraglio riconoscer le nostre galee; e più baldanzoso per falso avviso che fossero sol dodici, co' suoi ventisette[22] legni impaziente die' dentro, che appena facea l'alba.

Uguagliavansi i combattenti di cuore, d'orgoglio, e a un di presso di forze; perchè il nimico ci vantaggiava nel numero degli uomini e de' legni; cedea negli ordini del combattere, per cagion di que' suoi terzi vogatori[23], nè pratichi nè aitanti al saettare, da meno assai de' balestrieri stanziali, freschi e spediti, ch'avea l'ammiraglio nostro, contento di due uomini soli a ciascun remo. Dapprima s'affrontano con ugual furore, con saette e sassi e calce e fuochi; ma Loria comanda a' suoi, che copransi alla meglio, e sostengan lo scontro, lasciando i soli balestrieri a ferire: e così infino a mezzogiorno si battagliò, e si sparse assai sangue; incalzando gli uni, difendendosi gli altri soltanto. Ma come Loria s'accorse che già mancavano i tiri a' Provenzali, i quali invano li aveano sparnazzato; e che prendean essi a lanciare fino gli utensili delle {241} galee, passò a ripigliar vivamente l'assalto. Leva il gridò: «Aragona sovr'essi!» e robusti arrancando i nostri, feriscon di sassi e dardi, e tutte lor armi i Provenzali, sprovveduti e stracchi; urtan di costa le navi; spezzan remi, fianchi, prore; saltan all'abbordo con le spade alla mano. Quest'impeto trionfò. Nol sostenne Bonvin, che con otto galee sdrucite e insanguinate, a randa a randa la punta del porto, prese largo alla fuga. Facil preda caddero i rimagnenti. Ma Guglielmo Cornut disperatamente strignesi a combattere con Loria; spicca un salto sulla galea catalana, o quei sulla provenzale, che in ciò variano i racconti; e il Marsigliese cercando l'emulo suo, tanto menò a cerchio d'un'azza, che sgombrò la ciurma, con lui scontrossi sotto l'albero della nave. Ferillo alla coscia d'un lanciotto; e 'l finiva con l'azza, se un colpo di pietra non gliela traea di mano: onde Ruggiero, colto il tempo, strappandosi l'asta dalla ferita, ritorcegliela in petto, e 'l passa fuor fuora. Così fornissi la zuffa. Cinquecento rimaser de' nostri tra feriti ed uccisi; ottocento sessanta i nimici prigioni; morti poco più. Bonvin, sostato a cinque miglia da Malta, fea gittare i cadaveri, affondar tre galee incapaci a mareggiare; e con le altre cinque, sol avanzo dell'armata, tornò portatore di lutto alle costiere di Provenza, ove pochi erano che non avessero congiunto o amico da piangere. S'arrese poi a Manfredi Lancia il castello: Malta e il Gozzo presentaron Ruggiero di munizioni, gioielli, moneta. Egli, approdato a Siracusa, fa cavalcar corrieri per tutta l'isola col nunzio della vittoria; spaccialo con un legno al re in Aragona. Tornasi indi a Messina, strascinando a ritroso le navi cattivate, e le nimiche bandiere, e tanto stuol di prigioni; de' quali la reina mandava a Piero in Ispagna dodici cavalieri; i gregari fea lavorar nell'arsenale di Messina e al risarcimento delle mura; fu chiuso in carcere Nicoloso de Riso, perdonandogli la pia regina {242} quella morte ch'ei ben meritava per le portate armi contro la patria[24]. Ma l'ammiraglio non posando a pascersi di lodi in corte, di plausi e festeggiamenti in città; e volendo trarre del tutto a' nemici la voglia di venir sopra l'isola, rifornita in pochi giorni la flotta, spingeasi lungo le costiere di Calabria e Principato; presentandosi minaccioso infino allo stesso porto di Napoli. Il presidio fe' prova a rispingerlo saettando; ed ei, messi all'opra i suoi balestrieri, spazzò la riva. Allora fa appiccar fuoco a navi, attrezzi e munizioni navali, accatastati nel porto: passa indi a Capri e ad Ischia; prende d'assalto quelle deboli castella; e pieno di preda, torna in Sicilia a svernare[25].

Intanto i due re in ponente menavano gran rumore per lo duello, del quale è bene i particolari tutti narrare. Ad ovviarlo s'era adoprato papa Martino, solo in questo moderato e pio tra tanta intemperanza d'ira: di che ci restano irrefragabili documenti, e distruggono una fola di Giachetto e del Villani, che favoleggiaron pattuito innanzi Martino il combattimento; posta premio al vincitore la corona di Sicilia; Pietro, per la diffalta a quella tenzone, scomunicato e spoglio del regno[26]. Tutto al contrario, il papa indirizzò a Carlo una grave epistola il dì cinque febbraio {243} dell'ottantatrè. Severo assai perchè assai l'amava (così scriveagli), il riprenderebbe di quegli stolti patti, di quelle disoneste imprecazioni stipulate nei diplomi, di quella, non prova di ragione, ma di vanità e ferocia. E non s'accorgea della magagna dell'Aragonese, che, minore assai di esercito, l'adescava a misurarsi da uguale? Vietati, dicea, dalla religion del vangelo questi certami alle private persone, non che ai reggitori de' popoli. Pertanto non s'attentasse a combattere: ei, vicario di Cristo, lo sciogliea da' giuramenti presi; persistendo, minacciavalo di censure, e di quanti i altri gastighi sapesse trovar contro di lui la romana corte[27]. Rincalzò lo scritto con la viva voce del cardinale di san Niccolò in carcere Tulliano, e di quel di santa Cecilia, mandato in Francia con lo stesso Angioino[28]. A re Eduardo, per un'altra epistola del cinque aprile, sotto l'usata minaccia, inibì di star guardiano del campo, di far entrare in Guascogna i combattenti[29]: al medesimo effetto, scrisse non guari dopo a Filippo l'Ardito[30]. Ma alfine lasciò fare, o perchè vide non poter vincere la pertinacia di Carlo, o perchè entrò nei disegni di Carlo e della corte di Francia, che sembrano men lievi e men innocenti d'uno sfogo cavalleresco[31].

E l'Inglese, richiesto da Carlo, dopo alquanto differimento, rispondea, gli manderebbe messaggi; e Goffredo {244} di Grenville e Antonio Bek inviò, portatori d'una lettera, ove conchiudea: non se a lui ne tornassero ambo i reami di Sicilia e Aragona, lascerebbe compier tanta crudeltà al suo cospetto, nè in sua terra, nè in altro luogo ove potess'egli attraversarla[32]. Significò al principe di Salerno avere risposto a Carlo un no assoluto[33]: gli stessi legati mandò a re Pietro[34]. Alfine, a trarsi d'impaccio del tutto togliendo ogni luogo all'assicurazione del campo, comandava al siniscalco di Bordeaux, che tenesse la città a disposizione di Carlo e del re di Francia[35].

Ma i due nemici re tuttavia sceneggiavano. Pietro, di Sicilia commise ad Alfonso in Aragona, che scegliesse i campioni; che ne scrisse poi cencinquanta, perchè in ogni caso non mancassero i cento; ed eran Catalani, Aragonesi, Italiani, Siciliani, Alamanni, e anco un figliuol del re di Marocco, disposto a convertirsi alle fede di Cristo se n'uscisse con vittoria. Carlo dal suo canto fabbricar facea a Parigi cento armadure finissime; e, partitosi da corte di Francia, tutto ordinava al duello, o a farne mostra; e raccolse infino a trecento campioni, per la ragion medesima dell'avversario; che de' cento primi, sessanta eran Francesi, Provenzali il resto. Vi si pose in lista ancora {245} Filippo; e a tutti i suoi baroni comandò si trovassero al duello[36]: onde tal romore ne corse per lo reame, che in ogni luogo la nobiltà fremeva arme, cavalcava, sperando entrar nella battaglia, o, se non altro, vederla: e traeano a torme a Bordeaux, come se già si rompesse la guerra. Indi in que' piani re Carlo fe' costruire assai capace la lizza, bislunga, girata di gradi a guisa d'anfiteatro, saldissima di legname e di ferro, con due alloggiamenti per le due bande nimiche, affortificati di steccato e fosso; l'uno all'un capo, l'altro all'opposto presso la porta, ch'unica se n'aprì per l'entrata e l'uscita. Ma queste vicine stanze ai Francesi, le prime assegnavansi a que' d'Aragona; onde si bucinò, che divisassero i Francesi, restando vincitore il nimico, occupar con gente di fuori la porta, e, chiuso nello steccato, farne macello. Maggiori sospetti destava il raccontato armamento universale di Francia, e 'l sapersi tutti i passi d'intorno Bordeaux occupati da gente francese.

Navigò Pietro di Trapani ver ponente a golfo lanciato; ch'entrato in mare il dì undici maggio, forte il travagliava un timore di non giugnere a tempo. A ostro da Sardegna, l'investe un tempo fortunale; ed egli accorgendosi che a vele non si facea, rinforzate di remiganti due delle galee, passavi dalla sua nave con tre soli cavalieri: comanda di guadagnar l'isola a ogni costo, mare e venti spregiando, e i pirati frequentissimi; e a Ramondo Marquet, l'ammiraglio, che lo scongiurava non si gettasse tra tanti rischi: «No, rispose, perch'io mi trovi alla battaglia, quanto mortale far possa, io il farò. Il mio fato, qual che siasi, è scritto, è immutabile; e meglio conviene a' mortali darsi impavidi alla fortuna, che far vani sforzi a fuggirla.» Con tale animo, rifocillatosi a terra un istante, si commette di nuovo sul legno, contro un ponente che il traportò fino a vista d'Affrica. Maledisse allora i fati che 'l traeano a parer {246} mancatore e spergiuro: per ansia e travaglio tre dì non prese alimento. Ma fur sì destri i suoi, che al terzo giorno toccavan Minorca. Quivi il re cibossi; valicò il mar fino a Cullera; e co' tre soli cavalieri, si trovò il diciannove maggio a Valenza.

Trafelato ancor dal viaggio, ivi intende que' sospetti e quel romoreggiar de' Francesi, fatto, se non altro, a spaventarlo sì che non vada a Bordeaux. Pensava non poter con sè condurre tant'oste da fronteggiarli; nè fallar volea la promessa, nè sprovveduto gittarsi in gola ai nimici: ma poco penò a trovare un partito. Ai suoi campioni, già pronti e venuti presso i confini, comanda che ciascun resti là dove abbia saputo prima il sopruso degli avversari. Spaccia Gilberto Cruyllas al siniscalco del re d'Inghilterra, a domandarlo di sicurare il campo; e gli fa cavalcar appresso un nuovo messaggio ogni dì, per aver frequenti avvisi, e render solita per quelle strade la vista d'uomini del re d'Aragona. Ei co' tre fidatissimi cavalieri, Blasco Alagona, Berengario Pietratallada e Corrado Lancia, cavalcò senz'altra brigata con Domenico Figuera da Saragozza, mercatante di cavalli, usato a trafficare in Guascogna, pratichissimo de' luoghi; dal quale volle sagramenti terribili del segreto; nè altri in corte seppe questo viaggio, non lo stesso infante Alfonso. Armossi il re d'un giaco di maglia sotto i panni, d'una celata sotto il berretto, s'avvolse in un vecchio mantello azzurro, prese in mano una zagaglia, la valigia sul caval suo per parer famigliare del mercatante; e gli altri più poveramente si vestian da mozzi; il Figuera in onorevole arredo e sembianza; li maltrattava, albergava solo; servialo a mensa il re, e gli dava acqua alle mani. Così prendeano la via di Tarragona, montati su veloci palafreni, mutandoli di posta in posta; così richiesti ai passi, rispose il mercatante che con que' famigliari andasse per sue faccende; e, deluse le insidie, il dì trentuno maggio a nona si trovarono sotto Bordeaux. {247}

Incontanente il re manda a città Berengario, figliuolo del Cruyllas, chè trovato segretamente costui, venir facesse fuor le mura il siniscalco inglese Giovanni di Greilly, con dir che un cavaliere amico suo il dovea richiedere d'alto affare, e sì menasse un notaio. Giovanni a sera andò: al quale Piero, infingendosi ambasciador novello, ridomandava se venir potesse il re d'Aragona; e quei risoluto rispondea che no: saper vicine grosse torme di cavalli francesi: re Eduardo non aver assicurato mai il campo: nè or, volendo, il potrebbe, congiunte ancor le sue forze a quelle del re d'Aragona: ciò aver ei poco innanzi protestato a Gilberto. E Piero il pregava che gli mostrasse la lizza: alla quale condotto, gittatosi alle spalle il cappuccio, al siniscalco si appalesò. Que' premurosamente lo scongiura, s'involi per Dio ai nemici. Il re montato il suo destrier di battaglia, tre volte accerchia l'arena; surto nel mezzo, dice solennemente al siniscalco e al notaio, esser venuto a mantener la sua fede; non restar per lui che non si combatta, ma per la perfidia de' nemici. Una protestazione fe' stenderne in buona forma; attestandovi il Greilly la venuta del re d'Aragona, e l'ordine d'Eduardo di rassegnar la città a Filippo ed a Carlo. Lasciò all'Inglese il re d'Aragona le armi sue; pregollo che soprastasse alquanto a divulgare il fatto; e speditamente galoppò, tornandosi per la via di Baiona. Giunto a questa città tutto spunto e rabuffato, che da tre dì non chiudea ciglio, promulga una protestazione; manda lettere e nunzi a' principi di cristianità; e aspettandosi la guerra, richiama in patria i sudditi suoi che si trovassero in Francia.

Carlo dall'altro canto, trovatosi infin dal venticinque maggio a Bordeaux, come il dì stesso del duello seppe dal siniscalco la venuta dell'avversario, indragato mandava cavalli a inseguirlo, che per l'avvantaggio delle mosse invano s'affaticarono; e col Greilly n'ebbe acerbissime parole, {248} e trapassò infino a farlo sostenere in palagio, ma tosto liberollo vedendo ammutinarsi i cittadini a tal violenza. Poi quel dì stesso, armato di tutto punto coi suoi campioni, stette Carlo infino a meriggio nel campo: e una oste francese, chi dice di tremila cavalli, chi di cinquemila, e chi assai più, baldanzosa ingombrava i dintorni della città. Carlo protestò superbamente, gridando in palese falso e codardo re Pietro; ma entro di sè mordendosi, dice lo stesso Saba Malaspina, d'aver ordito tela di ragni: e narra d'Esclot, ch'ei chiamava questo fier nimico: non uomo, sì demonio d'inferno, e peggiore, perchè al segno della croce il diavol dileguasi, ma contro costui non avvi argomento; tel credi lungi le mille miglia, e tel senti sul collo. L'undici giugno infine lasciata Bordeaux, non tardava il Francese a promulgar in Italia una interminabile diceria de' torti di Pietro, e delle ingiurie ch'avea ingozzato costui. Così la commedia terminossi. Nei raccontati fatti a un di presso accordansi tutti gli storici contemporanei, ancorchè diversi in qualche particolare, e secondo lor parte sforzantisi ad accusar chi Pietro e chi Carlo. Noioso e inutilissimo parmi entrare in questo giudizio. Ma è indubitato che il Francese con tanto stuolo, Pietro nascosamente, ambo pur s'appresentarono: ch'Eduardo non v'era, nè assicurava il campo. Il giurato patto portava di trovarsi a Bordeaux il primo giugno, non di combattere, se non dinanzi il re d'Inghilterra, o secondo nuovo trattato. Amendue perciò in realtà elusero il bizzarro lor patto, osservarono in apparenza; e da ciò trassero argomento a gittar l'uno su l'altro la vergogna; il che in fondo era il solo intento di entrambi[37]. {249}

Le trame di Gualtiero distratte, la sconfitta di Malta, l'audace correria del nostro ammiraglio, sforzarono il principe di Salerno a rimetter pure l'impresa all'anno appresso; mentr'egli, allestite in Brindisi altre galee e teride, già col conte d'Artois da un dì all'altro pensava imbarcarsi[38]. Indi con quell'adoprar attivo e solerte, ch'è pur dote de' mediocri, ma gli effetti il distinguono dal valor vero, questo Carlo che, degenere dal padre, in sua vita molto si arrabbattò e nulla mai fece, preparò grandi macchine e videle ruinare a un soffio, or tutto inteso al passaggio di Sicilia dell'anno vegnente, la prima cosa perdè l'intento ch'avea sudato a procacciare testè con le riforme e promesse a' sudditi. Perchè non dismettea le antiche gravezze, le esacerbava anzi con francarne i Provenzali[39] {250} e altri stranieri; ridomandava imprestiti ai comuni di terraferma; nè facea senno all'aperto niego di quelli[40]. Errò ancora a credere i popoli bambini troppo, quando appresentatisi al papa i deputati delle province per la promessa riforma dei tributi, Martino, che giocava d'accordo con Carlo, diessi a pretestare memorie incerte, necessità di una sottile esamina, e questa commise al cardinal Gherardo, legato a Napoli[41]; tanto più affrettandolo per lettere quanto più bramava mandar la cosa a dilungo. Perciò nel reame di Napoli gli umori desti dalla siciliana rivoluzione e da' travagli che durava casa d'Angiò, e anco dalle benevole dimostrazioni di casa d'Aragona, tornavano ad agitarsi. In Sicilia al contrario, allontanato quel valor molesto di Pietro, quetavano i popoli nel mite reggimento della regina Costanza: e sì tranquillo corse quell'anno, che sol de' casi di fuori scrivono i nostri storici; e Montaner afferma, irrefragabil prova del buon governo, che dopo la comun gloria della battaglia di Malta, Siciliani e Catalani più che mai s'affratellavano e strigneansi d'amistà e di parentadi[42]. Per questi cagioni la regina di Sicilia potè allor tentare, e 'l vicario di Napoli non seppe rintuzzare nello stesso cuor del suo regno, un'assai temeraria fazione.

Ebbe in quel verno gran caro di vittuaglie in Italia. Donde Scalea, Santo Lucido, Cetraro, Amantea, mosse dalla penuria o dalla mala contentezza (chè Scalea l'anno innanzi era stata la prima in terraferma a darsi a re Pietro), si proffersero alla regina Costanza, s'ella provvedessele di viveri e difendesse; la qual pratica condussero alcuni {251} Scaleotti usciti per omicidî e riparati in Sicilia; e volentieri l'assentì la regina. Mandovvi pertanto con otto galee un forte di almugaveri, e alcune teride cariche di grano; onde il pregio di esso d'un subito si ammezzò[43], a grande sollievo dei terrazzani. Ma gli almugaveri, messo piè a terra, diersi a infestare tutto val di Crati e Basilicata: contro i quali movendo il giustiziere di val di Crati con grosse torme di cavalli, aspettatolo a lor uso in una stretta gola, rupperlo con strage, e l'inseguirono infino a un castello del vescovo di Cassano, ove poser l'assedio. Sopraggiunto di Sicilia il conte di Modica, e con esso pochi cavalli e più feroci frotte d'amulgaveri, peggior travaglio diè a Basilicata. Prese alcune castella e la terra di San Marco; quivi della chiesa de' frati minori fe' un ridotto assai forte; mal conci ne rimandò Rizzardo Chiaramonte e altri baroni venuti con maschio valore contr'esso; i quali non furon punto imitati dagli altri feudatari del regno, scontentissimi del governo angioino. Invano di maggio dell'anno seguente si fece un altro appello alle milizie feudali del reame di Puglia per venire a oste a Scalea, e anco mandovvisi, sotto il comando di Ruggier Sangineto, gente assoldata in Toscana; perchè sempre tennero il fermo i nostri: e patiron quelle province correrie, ladronecci, notturni assalti[44]; che appena si crederebbe, standovi {252} a manca il campo di Nicotra, a destra la capitale, e per tutto il regno guerriere voci e apparecchi.

Il papa, non vinto pe' falliti disegni dell'anno innanzi, ma rifacendosi ad ogni ostacolo sempre più pertinace e voglioso, sforzavasi a ritentar ora la prova, fin trascurando i propri pericoli e bisogni: Roma per carestia tumultuante; accanita ad assediare in Campidoglio il vicario di re Carlo[45]; esausto l'erario pontificio; necessitato a incettar grani in Puglia, perchè i Romani non facesser peggio[46]. E pria rinnovò le scomuniche il dì della cena del Signore, quel dell'Ascensione, quel della dedicazione della Basilica di san Pietro, con molto studio a promulgarle per tutta l'Italia, e massime a Genova[47]; ove molti cittadini per interesse di parte ghibellina eran disposti ad aiutare il nuovo principato in Sicilia, e pendeano anco a questo i magistrati della città, tentati invano da Filippo l'Ardito a collegarsi con la Chiesa e Carlo contro il re d'Aragona e a stento tirati a promettere una stretta neutralità[48]. Le decime, {253} non per anco scadute, delle chiese di Provenza, d'Arles e degli altri domini di Carlo a lui assegnò per la siciliana guerra; dando autorità ai legati pontificî di sforzare i vescovi al pagamento[49]. A Venezia s'adoprò, sollecitato dal principe di Salerno dopo la sconfitta di Malta, ad armargli una ventina di galee, offrendo porger da' tesori apostolici cinquemila once d'oro: ma l'accorta repubblica rispose: «Nè al re d'Aragona, nè ad altri cristiani moverebbe mai guerra senza cagione[50];» e richiamò in osservanza un'antica legge per la quale vietavasi ai privati di prender l'armi per alcuno stato straniero, senza permesso del doge e d'ambo i consigli; bello statuto secondo ragion pubblica e delle genti, del quale sdegnossi pure la corte di Roma come d'offesa, e pel cardinale di Porto, legato, scomunicò Venezia, ribenedetta poi nell'ottantacinque da papa Onorio per maggior prudenza di stato[51]. Tre legati del principe venivano inoltre a Martino, a ridomandar moneta pel passaggio di Sicilia; ed ei dando di piglio nei tesori delle decime di tutta la cristianità, levate già per la impresa di Terrasanta da papa Gregorio e dal concilio di Lione, or ne forniva per la guerra siciliana ventottomila trecentonovantatrè once d'oro, non picciola somma, secondo que' tempi: ordinando bensì che la più parte si maneggiasse dal cardinal Gherardo, in cui più fidava[52]. {254} Altri danari da altre epistole di Martino appaion sovvenuti al principe di Salerno. Il quale spintosi infino a chieder le genti pontificie che in Romagna militavano condotte dal prò conte Giovanni d'Eppe, le assentia Martino, senza curarsi della sua stessa vacillante dominazione in que' luoghi[53]. Alfine il due giugno, tre dì innanzi il precipizio dell'impresa, papa Martino da Orvieto la rincalzava con bandire la crociata contro cristiani. A sue accuse vecchie e stracche aggiunse: ricettarsi eretici in Sicilia; vietarsi agl'inquisitori di perseguitarli; torsi a Terrasanta le vittuaglie. Donde commise al cardinal Gherardo, che predicasse contro re Pietro e' Siciliani scomunicati; e, attendendo solo a far numero, desse a tutt'uomo la croce, senza guardare a sua origine o nazione[54].

Nel medesimo tempo re Carlo attendeva in Provenza ad accattar danari e allestir navi a questo nuovo assalto di Sicilia[55]; e al medesimo effetto il figliuolo, fatta dimora a Nicotra infino all'autunno del mille dugentottantatrè, e lasciato quivi con l'esercito il conte d'Artois, tornossi a Napoli, donde secondo i casi sopraccorreva qua e là per tutta Puglia[56]. A raccor danaro studiossi sopra ogni altra cosa, perchè senza fine ne ingoiava la guerra. Ondechè, usando l'autorità datagli dal padre a torre in presto infino a centomila once d'oro con sicurtà su tutti i suoi beni e reami, non contento ai sussidi del papa, nè ai tributi generali {255} del reame di Puglia[57], accattava grosse somme da mercatanti toscani con guarentigia dello stesso Martino e delle decime ecclesiastiche[58]: e quando il bisogno più strinse, {256} impegnò per poca moneta vasellame e arnesi d'argento[59]; smunse la borsa del cardinal Gherardo e d'altri privati[60]; richiese altre sovvenzioni alle città più docili[61]; vendè il perdono di misfatti[62]; sforzò nuovamente il valor della bassa {257} moneta[63]; e con la riputazione del cardinale, in un concilio di tutti i prelati convocato a Melfi, strappò loro la promessa di due anni più di decime ecclesiastiche, e a riscuoterle deputò immantinenti suoi commissari; dagli ordini dei frati cavalieri ottenne aiuto di gente o compenso di danari[64]. E {258} gente richiedea per tutta Italia, in Toscana, in Romagna, in Lombardia, da comuni, da privati condottieri, cui assicurava del pagamento con sì efficaci parole, che mostrano quanto si dubitasse de' fatti[65]. Chiamò al servigio feudale tutti i baroni; che, fatta a Napoli la mostra, n'andassero in Calabria all'oste di Artois[66]; molti allettò con sue concessioni novelle[67]. A' capitani di parte guelfa in Firenze {259} raccommandò sollecitasser le galee promesse da Pisa[68]; n'assoldò Genovesi[69], oltre le pisane che veniano con l'armata del padre. Il comando della sua flotta affidò a Iacopo de Brusson, vice ammiraglio; provvide con estrema diligenza ad allestir navi, raccor vittuaglie, fornire smisurate macchine da guerra, maneggiate da' Saraceni della colonia siciliana di Lucera, de' quali molti anco assoldò arcadori a cavallo, uomini d'arme, e fanti: nè altro si legge in quella stagione nei registri della cancelleria di Napoli, che di soldati, munizioni, quadrella per l'armata. Fino una nuova armatura per sè fece fabbricare in Napoli questo principe, correndo con gran furore nella militar carriera, nella quale a capo di pochi mesi trovò tal duro contrattempo, che non osò ripigliarla più mai[70]. Questo spaventevole strepito d'arme empieva il reame di Napoli di primavera d'ottantaquattro, perchè i governanti angioini, dopo l'esito infelice dell'anno innanzi, fidando or meno nella via delle opinioni, vollero ritentare {260} una prepotente forza d'armi, come nell'ottantadue; se non che Carlo tenne tuttavia qualche pratica con baroni di Sicilia, sì infruttuosa quant'eran deboli qui gli {261} umori di controrivoluzione. Nondimeno temendo qualche assalto dell'audace flotta nostra mentre esso armavasi, pose il nemico in questo tempo una straordinaria cura a guardar le costiere di terraferma[71]. Suo intendimento era insignorirsi al tutto del mare, schiacciando la nostra armata {262} se s'attentasse uscire, e se no, inchiodandola ne' porti; e poi, sbarcato l'esercito nell'isola, non più campeggiar luoghi forti, ma dare il guasto al paese, bruciar le messi, divider le città, e desolate sforzarle a sottomettersi. Vietava Carlo al figliuolo qualunque fazione pria ch'egli venisse di Provenza con la flotta[72]. Trenta galee tenea pronte il principe a Napoli, quaranta a Brindisi. Entro pochi dì, operata la congiunzione di tutta l'armata ad Ustica[73], cento navi da battaglia e più assai da trasporto, verrebbero a por la Sicilia a soqquadro.

A tempo il seppe Giovanni di Procida, gran cancelliere, pei suoi molti rapportatori che in terraferma vegliavano assidui il nimico. Onde nel consiglio della regina, considerato il grave frangente; lungi il re; non esercito pronto; poca l'armata, l'audace partito si deliberò in cui solo era salvezza: assaltare gli Angioini risolutamente pria che tutte adunasser le forze. A ciò trentaquattro galee e più legni minori s'armano in fretta nel porto di Messina, di scelta gente catalana e siciliana, di finissime armi, di nobili arredi. Come la flotta fu in punto, Costanza fatto a sè venire, coi capitani minori e i piloti, l'ammiraglio, nudrito seco del medesimo latte, educato in sua corte, con vive parole rimembragli l'affetto della casa reale d'Aragona: tutto per lei andarne su quest'armata; l'onor del re, la corona, sè stessa e i figliuoli a due soli commetteva, a Dio e a Ruggier Loria. A questo dire le s'inginocchiava ai {263} pie' l'ammiraglio, e co' riti dell'omaggio feudale, poste le sue nelle mani della regina: «Non fu unque vinto, le rispose, lo stendardo reale d'Aragona; nè oggi il sarà. Fidane, o regina, nel sommo Iddio.» Non senza lagrime allora gli altri guerrieri giurarono; li accomiatò Costanza; li salutò il popolo allo scioglier dal porto; e a Dio, alla Vergin Madre ne pregavan vittoria. Fece porre l'ammiraglio a una vicina spiaggia; in terra fe' la mostra di tutte le genti; con brevità da soldato arringò: avrebbero entro due settimane una grandissima battaglia: andrebbero incontro a due flotte, l'una surta nel porto di Napoli, l'altra che venia di ponente. «Son settanta galee; ma come noi ci troviamo armati, o guerrieri, non paventiamo le cento.» E le soldatesche risposer d'un grido: «Andiamo andiamo, nostra è la vittoria.» Costeggiate le Calabrie, tennero il golfo di Salerno. Da ciò in Napoli nacque una voce, che Piero, tornato d'Aragona subitamente con tutta l'armata, navigasse pe' mari di Principato. Mandovvisi a far la scoperta un genovese Navarro con legno da sessanta remi[74]: e costui un altro falso avviso riportò, frettolosamente riconosciuta la flotta da lungi per sole venti galee e poche fuste. Vantò dunque, tornato, che sarebbero anco troppe le ventotto galee del principe e la sua nave. Talchè salito in superbia il giovane Carlo, ordinava d'uscir contro al nimico; ma i Napoletani, che punto l'amavano, non vollero armarsi per lui.

Ruggiero in questo volteggiava cautamente fuori il golfo di Napoli, ignorando ove fosse re Carlo con la flotta provenzale; e volea cogliere il tempo a slanciarsi o su lui o sul principe. A Capri dunque ancorò dapprima, divisando {264} fare una dimostrazione sopra Baia, e indi appressarsi se potesse trar fuori il principe con avvantaggio; e, se no, far prora verso la Sicilia, e poi la notte volgere a Ponza, e in quel canale aspettare l'armata del re. Ma non uscito alcuno da Napoli come ei si pose a scorrere per isolette e lidi, guastando i colti e mettendo a taglia e a sacco le terre; e venutagli presa in questo una saettia di re Carlo, onde seppe che con trenta galee provenzali e dieci pisane venisse ad una o due giornate d'ordinario viaggio, Loria, vedendo sovrastar la temuta unione delle due flotte nimiche, consultane di nuovo coi suoi più pratichi; e si deliberò di combattere quella del principe, immantinenti, a ogni costo. Ondechè venuto a Nisita la notte, e prese in quel mare due galee di Gaeta, Ruggiero armolle per sè, spartiti i prigioni in tutta l'armata, la quale sommò a trentasei galee, oltre i legni sottili. Inviò il catalano Giovanni Alberto con una fusta a riconoscer la flotta di Napoli; e seppene il vero numero, e che tutta la spiaggia luccicava di fuochi e d'armi. Indi all'alba minacciando con gran mostra, apparve fuori il capo di Posilipo, alla Gaiola.

Era il cinque giugno milledugentottantaquattro. Le depredazioni e gli oltraggi de' nostri nei dì innanzi; i conforti de' nobili che tenean per la corte; questa recente ostile baldanza, commossero sì gli animi, che avuto avviso la notte stessa dell'armata siciliana surta a Nisita, il popolo preso di novello ardire, chiede battaglia; suona le campane a martello; Francesi, regnicoli, cavalieri, plebei alla impazzata rapiscon le armi, corrono a' legni, in tanta pressa che per poco non li fecero andare alla banda. E gli ottimati, per parere, dice Saba Malaspina, chi fedele e chi gagliardo, consigliavano sì il combattere: sopra ogni altro il conte d'Acerra, favorito del principe Carlo, stigollo a montar in nave egli stesso, per dar animo ai combattenti. Indi nè ragione, nè autorità il trattenne del cardinal Gherardo, {265} il quale, non perduta la memoria di quelle aspre battaglie di Messina, ammonialo ad esser cauto contro i Siciliani, ubbidire i comandi del padre, aspettare l'armata e con essa la vittoria; non si gittasse al laccio tesogli da Ruggier Loria. Ma da queste parole anzi aizzato, più ratto il principe s'imbarcò: e prima ordinò d'imbandire a corte uno splendido convito per festeggiar la vittoria. Con lui furono Iacopo de Brusson vice ammiraglio, Guglielmo l'Estendard, Rinaldo Galard, i conti di Brienne, Montpellier e Acerra, frate Iacopo da Lagonessa, e più altri baroni. A ventotto o trenta sommarono le lor galee, tutte del regno; armate le più di regnicoli, poche di Provenzali e Francesi.

Loria allora quasi fuggendo si difilò a Castellamare, per guadagnar l'avvantaggio del sole alle spalle, o per trarre in alto mare i nemici, e lasciarli disordinar nella caccia. Schiamazzando e urlando l'inseguon essi: volano innanzi a tutte le altre, due galee capitanate da Riccardo Riso e Arrigo Nizza, Siciliani rinneganti la patria, che chiamano Loria a gran voce, ed «Ove fuggi eroe? gridangli; ma invano t'involi, invano; vedi, i tuoi ceppi son qui!»; e mostrangli le catene. E muti i nostri a vogare. A quattro leghe restano; rivoltan le prore; l'ammiraglio in un battello scorreva a rincorarli: «Mirateli, scompigliati da sè stessi; gente che non vide armi, o non vide mare giammai: gridan essi, e noi feriremo.» A linea di battaglia ordinò venti galee, serrate tra loro; fe' rassettare i remi, sgombrar le coverte; schierovvi i balestrieri; il rimanente delle navi pose a retroguardo, che non entrasser nella mischia senza un estremo bisogno. Allor si die' nelle trombe; levossi il grido «Aragona e Sicilia:» e piombò la nostra armata su i nemici, già a tal variar di consiglio attoniti e palpitanti.

E ruppeli in un attimo; chè, non aspettato lo scontro, diciotto galee di Napoli, Sorrento, e Principato diersi a fuggire; {266} lasciando solo il principe con la sua galea, e quattro di Napoli, due di Gaeta, una di Salerno, una di Vico, una di Scio, a disputar l'onore, non più la vittoria. I Francesi, ancorchè non avvezzi nè fermi in nave, combatteano con maschio valore. Più numerosi e franchi al maneggiar le navi, Catalani e Siciliani urtavan di prua, spezzavano i remi al nimico, gittavan fuochi alle tolde, sapone e sego sui banchi, polvere di calce alle viste, scagliavan sassi e saette: e pure gran pezza non li spuntarono dalla difesa. La strage indi si mescolò; spenta gran parte di quei prodi cavalieri di Francia, il numero vinse. Sola restava la galea del principe: accerchiata, squarciata, invasa da' nostri la prua, e mezza la nave; ma un fior di gagliardi stretti a schiera intorno al principe, che piccino e zoppo mal s'aiutava, fecero incredibili prove; e sopra tutti Galard, uomo d'erculee forze, quanti colpi tirava tanti feriva o uccidea, o di peso scaraventava gli uomini in mare. A tal pertinacia, Loria comanda che si sfondi la nave; e i nostri già saliti le dan d'entro coi pali; un Pagano, trombetto e marangone fortissimo, attuffò per bucarla con un ferro: rotta in sei luoghi calava la galea, gridavano i marinai, ma non udianli i combattenti. Addandosene alfine Galard: «Salvatene, sclamò, vostra è la fortuna; qui il principe, qui a voi s'arrendono le migliori spade di Francia!» Gridava l'Estendard, sacra fosse la persona del principe. E questi togliendosi la spada, tra i nostri domandò: «Qual v'ha cavaliero?» e rispostogli dallo ammiraglio, a lui la rendè; e accettò la mano stesagli da Ruggiero perchè lesto sulla sua nave salisse, che l'altra già sommergeasi. Nove galee fur prese: una delle quali velocissima involandosi, Ruggiero le spiccò alla caccia la galea catanese di Natale Pancia; e parendogli perder lena i remiganti, minacciò di farli tutti accecare se non tornassero colla nimica nave: talchè per mortali sforzi la sopraggiunsero; sapendo Ruggiero uom {267} da tener la cruda parola, grande nelle virtù, grande nei vizi, di smisurato valore e brutale ferocia[75]. {268}

Alla battaglia seguì un ridevol caso. Avea fatto Ruggiero assai onore al principe: e questi riccamente armato, in mezzo a molti cavalieri sedea nella capitana, quando una barca di Sorrento si appressò con messaggi del comune; i quali, credendolo l'ammiraglio, offriangli quattro cofani di fichi fiori e dugento agostali d'oro «per un taglio di calze; e piacesse a Dio, seguiano, che com'hai preso il figlio, avessi anco il padre; e sappi che noi fummo i primi a voltare.» Sorrise il principe, e a Loria disse: «Per Dio, ch'ei son fedeli al re[76]:» ma lamentando la slealtà dei soggetti, scordava il giovin Carlo chi fosse stato il primo a infrangere il social patto, e la crudeltà scordava del suo governo, l'avarizia, la superbia, la tirannide sconcia e brutale.

E al castel dell'Uovo[77] suonavano di pianti femminili le stanze della principessa, ch'era salita sul più rilevato scoglio {269} fin quando Carlo salpò; e fitti gli occhi sulle navi, avea visto l'affrontata, e la fuga, e sparir la galea capitana; nè sapea spiccarsi dal guardare, dileguata anco la flotta napoletana, e caduto il dì. Pallido e ansioso a lei venne il cardinale, spaventato dal minaccevole aspetto della plebe: e pensando insieme a que' prodi, or li temeano uccisi, or li speravan prigioni; quando due galee siciliane approdarono con una lettera del principe. A lui, trepido di sua sorte in guerra spietata, l'ammiraglio avea richiesto sciolta di presente la Beatrice, giovanetta e bella figlia di Manfredi, ch'orfanella passò dalla cuna al carcere di Carlo, e ivi stette come sepolta. Scrivea il principe dunque, si rendesse immantinenti la donzella: e i Siciliani aggiugneano che se no, lì, sulla galea, in faccia a Napoli a lui mozzerebbero il capo. Indi la principessa a cercar Beatrice, a donarle gioielli e femminili arredi, e gittarsele ai pie' che salvasse per Dio la vita a Carlo suo. Recarono alla flotta con molto onore Beatrice; e si sciolser le vele. Alle bocche di Capri, Riso e Nizza, come traditor maledetti, furon sulla galea di Loria dicollati. Entrò l'armata nel porto di Messina[78].

Dove al primo scoprir quelle vele, con susurro e ansietà precipitava il popolo alla marina, d'ogni età, d'ogni sesso; ma visti i segni della vittoria, e le galee prese, e saputo prigione il principe di Salerno con tanti baroni, inenarrabile allegrezza si destò. Sbarcate le turbe de' prigioni, proruppe il volgo, com'e' suole in ogni luogo, a insultarli; {270} ricordando a gara la tirannide, l'assedio, le scambievoli offese, e molti le abborrite sembianze de' baroni stati loro oppressori: onde aprian la calca i più avventati, e feansi a guardarli faccia a faccia, e dir dileggiando: «Chi fuvvi maestro a battaglie di mare? Oh sventura! dar le spade voi a Catalani ignudi, a Sicilian galeotti! Eccovi la seconda fiata trionfanti in Messina!» A schivar peggio, il principe sbarcò travestito da soldato catalano. Ma la regina, i figli, i cittadini autorevoli raffrenarono la cieca ira, che già correva a suonar le campane a stormo, coll'antico grido «Morte ai Francesi.» Nel palagio reale dapprima fu sostenuto il principe; indi nel castel di Matagrifone con Estendard; non incatenati, nota un istorico, ma sotto gelosa guardia di cittadini e soldati: e vietò la generosa Costanza ai figliuoli, che vedessero in quella misera condizione il figlio di Carlo d'Angiò. Furono assegnati i cavalieri in custodia per le case de' maggiori della città. La reina con molte lagrime abbracciava la sorella, campata come per miracolo dalle mani de' nemici[79].

Ebbe tempesta in Napoli la dominazione angioina a quella sconfitta. Levato il popolazzo a romore, gridava per le strade «Muoia re Carlo e viva Ruggier Loria:» sfrenavasi per due dì a saccheggiar case francesi; e pochi cadutigli in mano ammazzò; la più parte usciti dalla città con cinquecento di lor cavalli scamparono. I quali pensavan ritrarsi in Calabria appo il conte d'Artois, se non {271} che il cardinale e i baroni mandavano a confortarli: si riducessero intorno il castel Capuano, e non temesser pure la minuta plebe e quel foco di paglia, chè la nobiltà napoletana sarebbe tutta con essi. E in vero, o vinti dall'autorità e arte del cardinale, o mansuefatti all'alito della corte, i nobili di Napoli si fecero sostegno all'usurpatore in quel fortunoso momento. Perciò la plebe volle scacciare i Francesi, e non potè; contrariata dai suoi stessi, e repressa e castigata due dì poi dal medesimo re Carlo[80]. Si propagò il movimento a Gaeta e molte altre terre, che strepitarono un poco, scrivea re Carlo con l'usato disprezzo, e per le medesime cagioni si tacquero[81].

NOTE

[1] Montaner, cap. 77, 78, narra queste pratiche di Carlo a corte di Roma.

[2] Bart. de Neocastro, cap. 74.

[3] Montaner, cap. 81.

D'Esclot, cap. 110.

[4] Diploma dato di Nicotra il 13 maggio 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 250, nota 3.

Altri due diplomi si trovano nel r. archivio di Napoli, reg. segnato 1283, E, fog. 10 a t. e 11 a t., l'uno per fornirsi in Nicotra sei teride oltre sei più che n'eran pronte, il quale è dato di Nicotra il 20 aprile undecima Ind. (1283), e la cura n'è commessa a Riccardo de Riso, lo sciagurato uscito siciliano, e a Gerardo di Nicotra. L'altro è diverso dal notato nell'Elenco delle pergamene, ma dato ancora di Nicotra il 13 maggio, pel biscotto delle 20 teride di Principato e Terra di Lavoro, da armarsi a mo' di galee.

[5] Saba Malaspina, cont., pag. 398.

La testimonianza di questo diligentissimo storico è rinforzata nel presente luogo dai diplomi.

E prima, il mutamento del campo da Santo Martino a Nicotra si vede dal registro del regio archivio di Napoli segnato 1288 E, dove a foglio 10 è un diploma dato in castris in planicie sancti Martini, il dì 7 aprile, undecima indizione (1283); un altro dato di Nicotra il 14 dello stesso mese; e un terzo di Nicotra il 21 aprile per lo trasporto delle tende; e a foglio 10 a t. un altro del 20 aprile per trasporto di vini a Nicotra sotto scorta di legni armati; il che mostra ancora come que' mari erano infestati da' Siciliani.

V'ha allo stesso foglio 10, un altro diploma risguardante il conte Piero d'Alençon, carissimi consanguinei nostri, scrivea Carlo lo Zoppo. Questo è dato di Nicotra a 20 aprile, undecima Indizione (1283), e provvede che si supplisse del denaro regio il bisognevole a soddisfar tutti i lasciti del testamento dì Alençon. Questi era dunque gravemente infermo. E morì in Puglia il giovedì dopo la festa degli Apostoli Pietro e Paolo, come si legge in un diploma di Filippo l'Ardito dal 24 giugno 1283. Collection des Documents inédits sur l'histoire de France, tom. I, Paris 1839, pag. 318, Documento 244.

Malaspina dice ch'ei fosse mancato di malattia; l'autore delle Gesta Comitum Barcinon., cap. 28, che morisse lentamente delle ferite riportate nella guerra. Sbaglia pertanto Montaner che lo fa cadere all'assedio della Catona, cioè di novembre 1282.

I luoghi ove dimorò Carlo lo Zoppo vicario generale si veggon ancora dai diplomi del regio archivio di Napoli. Nel registro segnato 1283 E, n'abbiamo uno dato di Terranova (presso Santo Martino) il 20 febbraio undecima Indizione (1283), a foglio 11; poi vi hanno quegli altri del mese di aprile citati di sopra: e moltissimi dati di aprile, maggio, luglio ed agosto, tutti di Nicotra, se ne trovano foglio 9, 3, 3 a t., ed 8; e uno dato di Matera il 7 luglio, foglio 3 a t.

È notevole tra questi diplomi, che la Corte angioina, tra tanti suoi travagli, dovea pur mandare qualche sussidio alle sue genti in Acri e Durazzo. Ciò si scorge da due diplomi dell'8 e 9 maggio, foglio 9, per 20 cavalli saraceni e pochi viveri imbarcati per Durazzo e da un diploma del 27 aprile, foglio 11, per 400 salme di grano inviata ad Acri pro usu gentis nostre, da consegnare a Odone Polliceno, Vicario regio in regna Jerhusalem.

[6] Pe' sussidi accordati in questo parlamento, veggasi il diploma del 29 aprile 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 250, e la nota 2, alla pag. 254.

Quanto al resto, Capitoli del regno di Napoli, tom. II, capitoli di Carlo principe di Salerno promulgati a 30 marzo 1283.

Saba Malaspina, cont., pag. 402, 403, riferisce questo parlamento; ma sbaglia il tempo e il luogo, confondendolo col sinodo diocesano che s'ebbe in Melfi.

Intorno il detto uficio di censura a favor de' governati, oltre lo statuto de' capitoli, abbiam due diplomi di Carlo lo Zoppo, dati di Nicotra a 26 settembre duodecima Ind. (1283), nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1283, A, fog. 60. Sono eletti Rostano de Ageto milite, il vescovo di Troia, e il giudice Gualtiero di Catanzaro avvocato del fisco, per investigare e punire in tutto il reame dal Faro ai confini degli stati ecclesiastici, le trasgressioni alle costituzioni di Carlo I, ed ai capitoli per nos in plano sancti Martini olim editorum.

[7] Raynald, Ann. ecc., 1282, §. 23, 24, 25.

Saba Malaspina, cont., pag. 392.

[8] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 2, 3, 4.

[9] Raynald, Ann. ecc., 1283, §, 15 a 23.

Saba Malaspina, cont., pag. 392, 393.

[10] Saba Malaspina, cont., pag. 392, 393, 394.

[11] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 36, 38, breve del 6 luglio.

[12] Ibid., §. 39, breve del 7 giugno.

[13] Ibid., §. 47, breve del papa a 26 giugno, ed epistola di re Carlo a 23 novembre.

[14] Ibid., §. 54 a 57.

[15] Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542.

Bolla di Martino, da Orvieto, a 9 maggio 1283. Ibid., pag. 886.

[16] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 51.

[17] Ibid., §. 28 e seg.

Giachetto Malespini, cap. 215.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 80 e seg.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1188.

[18] Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 610.

Lo stesso carico si dà a Pier d'Aragona nella bolla del 10 maggio 1284, con cui il papa comandava contro di lui la predicazione della croce: Et ut nihil omitteret ad persecutionem nostram et ipsius ecclesie intemptatum, ad pacificum statum urbis, Patrimonii beati Petri, aliarumque terrarum ipsius ecclesie, necnon et aliarum partium Italie subvertendum, et urbem, terras, ac partes easdem a nostre obedientie debito avertendas, sicut ex multorum fida relatione percepimus, nunc per nuncios, nunc per litteras, variis machinationibus nitebatur et nititur, ac nisibus fraudulentis institit et insistit, etc. Negli archivi del reame di Francia, J. 714, 6.

[19] Bart. de Neocastro, cap. 75.

[20] Saba Malaspina, cont., pag. 398.

D'Esclot, cap. 110.

Nic. Speciale, lib. I, cap. 26.

Montaner, cap. 81.

Quanto al numero delle navi provenzali, il Malaspina dice 27 galee, ch'è esattamente il numero de' legni che combatterono a Malta tra galee e d'altro nome; d'Esclot porta venute di Provenza 20 galee; e gli altri qual più qual meno, ma con pochissimo divario: talchè riscontransi col diploma dato di Nicotra il 2 giugno (1283), nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, E, fog. 12, col quale si comandava di fornir viveri per due mesi a' vascelli venuti di Provenza, cioè 18 galee, un Panfilio, ed 8 vaccettas.

Ibid. a fog. 13, diploma dato di Nicotra il 3 giugno per lo stesso affare, nel quale si parla di Bartolomeo Bonvin, e si dice che le galee eran già venute a Napoli.

[21] Il d'Esclot, cap. 110, dice espressamente questo caso delle barche di Principato cariche di frutta e vini per Sicilia. Io dapprima non sapea piegarmi a credere che dal reame di Napoli si portassero di tali derrate in Sicilia, massime i vini. Ma bisogna accettar questo fatto economico, alla irrefragabile testimonianza di due diplomi dati di Napoli il 2 maggio duodecima Ind. (1284), pei quali si fece severo divieto alla furtiva estrazione di vini per Sicilia, che si commettea in Sorrento e in Castellamare di Stabia, infingendosi imbarcarli per terre fedeli al re. Dal r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 85, a t. 88, a t. E sempre più si vede la grandissima informazione e diligenza del d'Esclot.

[22] E in vero 27 erano tutti i legni, secondo il diploma del 2 giugno 1283, citato di sopra. La differenza con d'Esclot non sarebbe nel numero totale, ma solo in quello delle galee.

[23] Montaner, cap. 83 e 131, dà lunghe lezioni militari intorno il vantaggio de' balestrieri scritti, o vogliam dire stanziali, e l'impaccio de' terzi remiganti, che nel combattimento facessero da balestrieri. Ei li chiama tersols; ed è una voce ch'io non seppi comprendere nell'originale catalano, ma la veggo benissimo spiegata dal Buchon nella sua versione francese, ed. Paris, 1840, pag. 288, rameurs surnuméraires, attachés en tiers au service d'une rame. I balestrieri stanziali son detti da Montaner en taula, perchè l'uficio dell'arruolamento si chiama taula in catalano. A quest'ordine di balestrieri, non gravati d'altra fatica sulle galee, Montaner dà le continue vittorie de' Catalani in giusta battaglia navale; ma pur confessa che in un'armata era necessario un certo numero di galee co' terzi vogatori, per potere al bisogno dar più vigorosamente una caccia.

[24] La presura di costui nella battaglia di Malta si ritrae da un diploma di re Giacomo, dato di Messina il 19 luglio 1286, in di Gregorio, Bibl. arag., tom. II, pag. 500.

[25] D'Esclot, cap. 110, 114 e 116.

Montaner, cap. 82, 83, 84, 93.

Bart. de Neocastro, cap. 76.

Nic. Speciale, lib. I, cap. 26.

Saba Malaspina, cont., pag. 398, 399.

Il solo d'Esclot, degnissimo di fede, narra quest'ultima correria a Napoli. Montaner, sovente poco esatto, la scrive con qualche divario, e pria della vittoria di Malta.

[26] Giachetto Malespini, cap. 217, 218.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 86, 87.

Nello error loro cadde ancora l'autore del Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1156.

[27] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8 a 12, breve dato d'Orvieto a 3 aprile.

Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 541.

[28] Raynald, ibid., §. 13; e Nangis, ibid., pag. 542.

[29] Raynald, ibid., §. 7.

Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 242 a 244.

Questo divieto del papa è affermato ancora nella Cronaca del Monastero di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 763.

[30] Breve del 20 aprile 1283. Negli archivi del reame di Francia, J. 714, 3.

[31] Nangis, loc. cit.

[32] Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, diplomi del 25 marzo e 5 aprile 1283, tom. II, pag. 239, 240.

Ivi nell'epistola a re Carlo si legge: Kar sachez de verité qe pur gainer teus deus Reaumes come celui de Cezile e de Aragon nous n'en serrions gardeins du chaump où la susdite bataille se fest; mes mettroms peine et travail en totes les maneres qe nous saverons qe pes e acord fust mist entre vous, come celui qe mout le vodroit.

[33] Ibid. La frase è, avere rifiutato tut outre.

[34] Ibid., pag. 241.

[35] D'Esclot, cap. 104.

Questo attestato, che non si legge in alcun altro contemporaneo, toglie tutte le contraddizioni che si troverebbero nell'operare di Eduardo, il quale negava prima il campo, e lasciava poi costruir la lizza, e venire i combattenti. Consegnata per que' giorni la città a' Francesi, s'impediva il duello senz'altra briga.

[36] Questo è accettato dal Nangis, e da altri scrittori di parte francese.

[37] Tutto questo racconto, nel quale non mi è paruto possibile scriver le citazioni a ogni parola, è tratto da:

Saba Malaspina, cont., pag. 399 a 402.

D'Esclot, cap. 104, 105.

Montaner, cap. 80, 85 e seg.

Bart. de Neocastro, cap. 67, 68, 69.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.

Anon. Chron. sic., cap. 44.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 7, ed 8, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1188.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, op. cit.

Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 17, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Ferreto Vicentino, ibid., pag. 954.

Vite di Martino IV, ibid., tom. III, pag. 609, 610.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 31, 32.

Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script, tom. V, pag. 542.

Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., agg. tom. XXVI, pag. 39.

Giachetto Malespini, cap. 218.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 87.

Memoriale dei podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1155, 1156.

Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 764.

Il manifesto di re Carlo al comune di Modena contro Pier d'Aragona, si legge in Muratori, Antiquitates Italicae Medii Ævi, tom. III, Diss. 39, pag. 650.

[38] D'Esclot, cap. 115.

[39] Diploma del 24 gennaio 1284, citato nel seguito di questo capitolo in nota.

[40] Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, diplomi a pag. 254, 255, 259 e le annotazioni, pag. 254.

[41] Raynald, Ann. ecc., 1283, breve del 25 novembre, a §. 46.

Saba Malaspina, cont., pag. 403.

[42] Montaner, cap. 84.

[43] Da quaranta a venti tarì la salma, dice il Malaspina.

[44] D'Esclot, cap. 119.

Saba Malaspina, cont., pag. 403, 404.

Il primo dice dell'occupazione di quelle quattro terre; il Malaspina della sola Scalea.

I due appelli al servigio feudale nel reame di Puglia si leggono nel diploma del 30 ottobre 1283, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 257; e nei diplomi del 21 e 31 maggio 1284, ibid., pag. 266, 298. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A. fog. 81 a. t., leggesi un diploma dato di Napoli a 28 aprile duodecima Ind. (1284) per 100 balestrieri e 200 lancieri a piè, venuti poco prima da Firenze, che si mandavano a Ruggiero Sangineto per ingrossar l'oste all'assedio di Scalea.

Montaner, cap. 113, nomina alcuna delle terre occupate, e dice del mal contento nel reame di Puglia; ma confonde questa fazione con quella dell'armata che combattè poi nel golfo di Napoli.

[45] Saba Malaspina, cont., pag. 404.

[46] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 52.

[47] Ibid., 1284, §. 1.

[48] Risposta del podestà, capitani, consiglio e comune di Genova al re di Francia negli archivi del reame di Francia, J. 499, 42.

Il re avea inviato due ambasciadori a richieder Genova che desse favore, aiuto e giovamento al papa e al re di Sicilia, zio del re di Francia, contro il re d'Aragona, che avea operato contro la Chiesa, contro le inibizioni del papa, e contro il re di Sicilia, la qual cosa ognun sapea quanto interessasse la corona di Francia. Genova risponde essere in pace col re d'Aragona da 170 anni, e non aver cagione di rompere; ma promette che non darà aiuto di navi nè d'armi al re d'Aragona. Non vi ha data in questo diploma, nè nomi sia dei magistrati di Genova, sia dei re; ma le narrate particolarità, infallibilmente il pongono tra gli anni 1282 e 1284. È uno lungo ruolo di pergamena scritto in caratteri del secol XIII, con suggello in cera verde, pendente da una stretta striscia di pergamena e impresso da un lato solamente. V'ha un grifone alato, chiuso in un poligono ad angoli salienti e rientranti a forma di stella, e fuori il poligono la leggenda: Sigillum Comunis et populi Janue.

[49] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 10.

[50] Ibid., 1283, §. 40. Il breve al principe Carlo, posteriore al fatto, è dato il 22 aprile 1284.

D'Esclot, cap. 115, riferisce la risposta dei Veneziani.

[51] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 63 e 64.

Quivi si legge la bolla di Onorio, data di Tivoli il 4 agosto, anno 1.

[52] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 40, nel detto breve del 22 aprile 1284.

Saba Malaspina, cont., pag. 418. Veggansi anche i diplomi citati qui appresso per vari imprestiti del papa.

[53] Raynald, Ann. ecc. 1284, §. 13 e 48.

[54] Raynald, ibid., §. 2 e 3.

[55] Saba Malaspina, cont., pag. 402.

[56] Saba Malaspina, ibid.

I viaggi del principe di Salerno si veggono dai vari suoi diplomi, dati di Nicotra, Napoli, Foggia, Brindisi, Bari, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 260, 261 e 263; da que' citati nelle annotazioni seguenti, cavati dai registri del medesimo archivio; e da altri dati di Napoli 1 gennaio, Foggia 24 e 29 gennaio, Barletta 1 febbraio, Brindisi 23 a 26 febbraio, Spinacchiola 6 marzo, Melfi 10 a 16 detto, nel registro 1283, A, fog. 15, 16, 16 a. t. 28, 28 a. t.

[57] Diploma dato di Nicotra il 25 novembre duodecima Ind. (1283), indirizzato a tutti gli uomini di tutti i giustizierati del reame di Puglia. Proponendosi il principe di Salerno di andar nella vegnente primavera sopra la Sicilia, con grandissima flotta ed esercito, al totale sterminamento dell'isola, chiedea per tutte le province di terraferma il sussidio «che non pativa differimento, ed era appunto conforme alle recenti costituzioni del re suo genitore.» Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 71.

Altro diploma, ibid., fog. 80 a t., dato di Napoli il 26 aprile duodecima Ind. (1284). È una sollecitazione del sussidio per la impresa contro i ribelli.

Diploma dato di Foggia il 24 gennaio duodecima Ind. (1284) sulle querele universorum gallicorum et aliorum ultramontanorum in civitate Neapolis commorantium, lagnantisi che da lor si volesse riscuotere la presente sovvenzione generale. Il principe di Salerno comandava non fossero molestati; perocchè per privilegio di re Carlo erano stati francati da tutte le collette e sovvenzioni, pel passaggio contro la ribelle isola di Sicilia. Ibid., fog., 19, a t.

Diploma dato di Melfi a dì 8 marzo duodecima Ind. (1284), pel quale furon cedute a un condottiere, pei suoi stipendi, once 400 su le sovvenzioni generali dovute da alcune terre. Si legge bandita la sovvenzione in subsidium expensarum futuri nostri passagii in proximo futuro vere contra rebellem insulam Sicilie. Ibid., fog. 2, a t.

Un altro diploma, ibid., dato di Napoli 12 aprile duodecima Ind. mostrava queste sovvenzioni non eccedere i limiti, che s'eran posti nei capitoli del parlamento di San Martino.

[58] Diploma del 2 dicembre duodecima Ind. (1283). È la scritta del ricevuto per once 15,000, che la compagnia de' Bonaccorsi di Firenze avea pagato per conto del principe di Salerno in Roma, nel corso dell'anno 1283, in carlini e fiorin d'oro, i primi ragionati a 4, i secondi a 5 per oncia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A fog. 75.

Altro del 13 febbraio duodecima Ind. (1284), ibid., fog. 99, dato di Bari, dove il principe di Salerno confessa avere ricevuto once 10,000, da papa Martino, tolte in prestito per virtù del permesso di accattare infino a 100,000 once con sicurtà su i beni qualunque della corona; permesso datogli dal padre, con un altro diploma che si trascrive, dato Salorum in Andegavia, 1283, 14 luglio undecima Ind., anno 7 del regno di Gerusalemme e 19 di Sicilia.

Conti di Adamo de Dussiaco tesoriere, dal 1 settembre a tutto febbraio duodecima Ind. In que' sei mesi si eran maneggiate meglio che 36 mille once, ritratte da varie partite, tra le quali sono notevoli: once 10,175 di tasse straordinarie, once 16,319 per decime pagate dal papa e da mercatanti lucchesi, once 500 prestate del suo dal cardinal Gherardo, once 695 da mercatanti romani a usura, che sono per l'argento impegnato come nel docum. XII. Le spese sono per arredi, soldi alla famiglia del re, e a cavalli e fanti dell'esercito di Calabria con Artois: e 5,000 once per acconciamento di galee, delle quali once 4,000 mandate in Provenza. Vi si leggono i nomi di vari condottieri: Goffredo di Joinville, il visconte di Tereblaye, Ugone de Grenat, Giovanni de Alnect, Pietro de Bremur, Giovanni de Montfort conte di Squillaci, ec. Nel citato reg. 1283, A, fog. 132, 134.

Diploma dato di Melfi a 16 marzo duodecima Ind. (1284) per l'imprestito di once 1,918 da mercatanti senesi. Ibid., fog. 29.

Diploma dato di Napoli a 26 aprile duodecima Ind. (1284). Carlo principe di Salerno a papa Martino. Per l'autorità datagli dal padre di accattare infino a 100,000 once d'oro, avea tolto altre somme di danari. Confessa qui avere ricevuto da Bullono e Vermiglietto, mercatanti lucchesi, once 15,608 di oro sul danaro delle decime ecclesiastiche accordate per la guerra, con guarentigia della santa sede. Richiede il papa che ne dia credito a que' mercatanti. Ibid., fog. 131.

[59] Diploma del 24 settembre duodecima Ind. (1283), Docum. XII. Ivi si leggono i nomi delle varie maniere di vasellame impegnato, e il peso, e quel de' rottami d'argento, e fin di alcuni baltei con borchie d'argento. Vi si trova ancora il riscontro co' pesi di Cologna; talchè pare documento assai importante per cui si travagli delle antichità di que' tempi.

[60] Veg. i conti di Adamo de Dussiaco, citati nella pagina precedente, e un altro diploma del 2 maggio duodecima Ind. (1284) pei danari che lo stesso tesoriero avea tolto in prestito a nome del fisco. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 117. Ibid., a fog. 75 a t., leggesi un altro diploma per altro imprestito da uomini di Solmone.

[61] Diploma dato di Napoli il 29 novembre duodecima Ind. (1283), pel quale si voltavano alle spese della flotta le seguenti somme promesse da città in sovvenzione della presente guerra: da Napoli once 1,000, da Salerno 500, e 100 delle once 200 che avea promesso Nocera. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 74.

[62] Diploma del 27 maggio duodecima Ind. (1284), pel quale si rendea la grazia regia e, mercè once 1,000, anco i beni ai figliuoli di Galgano di Marra giustiziato. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 149. Ibid., a fog. 119 a t., leggesi un altro diploma del 6 maggio duodecima Ind. a favor di Giovanni di Marra figliuolo di Angelo, ch'era stato appiccato, suis culpis exigentibus; cioè i mali consigli dati al governo per iscorticare i sudditi.

[63] Diploma dato di Napoli a 25 maggio duodecima Ind. (1284), reg. 1283, A, nel r. archivio di Napoli, fog. 136. Divieto all'entrata de' carlini d'argento stranieri, perchè non si ravvilissero que' del governo, ai quali s'era fissato il valore di grana 12 per ciascuno.

[64] Diploma dato di Napoli il 1 giugno duodecima Ind. (1284). Son lettere circolari per tutte le province, per le quali si destinano commissari regî sopra la esazione delle decime dei beni ecclesiastici. Sane Reverendus in Cristo pater Dominus G. Sabinensis Episcopus Apostolice Sedis legatus, provida nuper ordinacione decrevit quod super exactionem decimarum omnium fructuum reddituum et provetuum Ecclesiarum quarumlibet existencium in decreta vobis provincia, duorum annorum videlicet, per universos prelatos et Clericos Regni Sicilie citra farum domino patri nostro et nobis gratanter in ipsius legati presencia commissarum, ec.

Perciò il vicario del re provvedea che N. N. dilectus et devotus noster in quo nos plene confidimus debeat personaliter interesse, ec., nella esazione di queste decime. Nel r. archivio di Napoli, registro 1283, A, fog. 147 a t. Ibid. fog. 148, leggesi la circolare indirizzata al medesimo effetto a' prelati, nella quale son da notarsi le seguenti parole: Quum pridem Reverendo in Cristo Domino G. dei gratia venerabili episcopo Sabinensi apostolice sedis legato apud Melfiam residente, prudentia vestra diligenter attendens quod dominus pater noster et nos sumus sacrosancte romane Ecclesie Speciales filii et athlete, quodque in prosecucione finalis exterminii Sicule factionis….. decimas omnium fructuum, ec….. in ipsius legati presencia, pro ut veridico relatu didicimus, per biennium liberaliter obtulit et gratiose promisit, ec. Ibid. a fog. 154, altro diploma dato di Napoli il 2 giugno al medesimo effetto.

Mi par che resti dubbio se questi due anni di decime promesse nel concilio di Melfi per influenza del legato Gherardo da Parma, cardinale vescovo di Sabina, siano state oltre quelle accordate già dal papa; ovvero se il legato abbia voluto richiedere di faccia a faccia tal promessa a' prelati per incontrar minori ostacoli a quel pagamento, che d'altronde dovean fare per lo comandamento del papa. Io penderei al primo di tali supposti.

In questo o in altro concilio di Melfi, gli ordini religiosi militari furon tassati di gente, ma forse poi detter danaro in compenso. Ciò si vede da un diploma dato di Napoli il 26 aprile duodecima Ind. (1284): Fratri Falconi de ordine militie Templi Vice Preceptori in Apulia. Cum pridem in Concilio per Venerabilem in Christo patrem Dominum G. Sabinensem Episcopum apostolice sedis legatum apud Melfiam sollempniter celebrato, quatuor milites et sexdecim scutiferos armigeros equis et armis decenter munitis, ec., furono promessi da voi; mandateli senza dimora, o, in vece di essi, once 50. Reg. med. 1283, A, fog. 83. Al fog. 123 a t. si leggon altri simili diplomi dati il 29 aprile, indirizzati agli Spedalieri di S. Giovanni in Barletta e Capua.

[65] Diploma dato di Napoli 5 maggio duodecima Ind. Il vicario chiama alcuni armigeri pisani in suo aiuto, a' suoi soldi. Nel r. archivio di Napoli reg. cit. 1283, A, fog. 131 a t.

Ibid. diploma di Napoli 7 maggio duodecima Ind. A tutti i soldati che dovean venire a' suoi stipendi sotto Giovanni de Apia (d'Eppe). Promette loro che appena messo piè in Napoli, avran la moneta del soldo par tre mesi; e che non vedendosi pagati, vadano pur via.

Ibid. diploma del dì 8 maggio a Giovanni d'Eppe, negli stessi sensi, aggiungendo che a S. Germano toccherà i primi tre mesi di stipendio, e poi sarà pagato di trimestre in trimestre.

Ibid. diploma del 19 maggio, docum. XVII.

Ibid. diploma del 20 maggio. Mandato fatto ad Adamo Forrer capitano del patrimonio di San Pietro, a richiedere con qualche condizione quegli aiuti ch'avean profferto i comuni di Perugia, Viterbo, Orvieto e altri degli stati pontificî.

[66] Diplomi del 28 gennaio, 24 febbraio, 3, 7, e 17 aprile, 3, 4, 5, e 21 maggio 1284, dalle pergamene del r. archivio di Napoli, nel citato elenco, tom. I, pag. 260 a 266.

[67] Concessioni di beni allodiali e feudali se ne trovan molte fatte in questo tempo, reg. cit. 1283, A, fog. 117 a t. 126, ec.

[68] Docum. XVI.

[69] Diploma dato di Napoli a 15 maggio duodecima Ind. (1284) per pagarsi once 100 per nolo della nave genovese di Simone Malleno. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 104 a t. E un altro del 20 giugno 1284, per la nave di un genovese Navarro, citato nel seguito del presente capitolo.

[70] Dapprima il principe di Salerno avea affidato l'armata a Guglielmo Alamanno, e Arrigo Girardi. Diploma dato di Nicotra il 27 settembre duodecima Ind. (1283), nel citato registro 1283, A, fog. 59 a t.

Nel mese di novembre cominciò a incalzare nei provvedimenti per la flotta; e preposevi un uomo di maggior nome, Iacopo de Brusson, come si vede da' seguenti diplomi del medesimo registro.

Napoli 24 novembre per l'armamento delle navi in Napoli, fog. 71, a t.

Napoli 26 novembre, parecchi diplomi per le navi in Salerno, ibid.

Napoli 26 novembre a Iacopo de Brusson vice ammiraglio. Lunghi ordinamenti a racconciar la flotta; e si dice data ad extaleum in Napoli la costruzione di dodici galee per la somma di once 120 per ciascuna, fornite di tutto, fog. 73.

Napoli 27 novembre, altri provvedimenti; e si fa nota la elezione di Brusson a vice ammiraglio, fog. 72.

Napoli 4 gennaio, duodecima Ind. (1284), per farsi biscotto da servire alla flotta nel passaggio di Sicilia, nella primavera vegnente. Ibid. fog. 15.

Altro ibid. fog. 16, dato di Foggia il 29 gennaio al medesimo effetto.

Altri ibid. fog. 42, dati di Brindisi, 20 e 24 febbraio allo stesso fine.

Nella primavera del 1284, come strignea il tempo all'impresa, il governo angioino raddoppiava le sue cure per la flotta.

Diploma dato di Napoli a 15 aprile duodecima Ind. vietando che niuna nave uscisse da' porti di Puglia, poichè tutte servivano alla imminente impresa siciliana. Reg. cit. 1283, A, fog. 30, a t.

Diplomi dati di Napoli l'ultimo aprile duodecima Ind. perchè fosser subito varate le galee in Gaeta, e fornite di tutto per l'immediato passaggio in Sicilia. Reg. citato, fog. 84 a t. e 89 a t.

Altri diplomi della stessa data e del 3 aprile, ibid. fog. 88, 100, a t. e 30, dai quali si vede raccolta su i porti dell'Adriatico, grande copia di grasce e altre vittuaglie per l'impresa di Sicilia.

Diploma dato di Melfi a 13 marzo, per dar favore ad alcuni mercatanti de' Bonaccorsi, incaricati dal re ad incettar frumento. Se i proprietari facessero mal viso, fossero sforzati a dar il grano a giusto prezzo. Reg. citato, fog. 43.

Altro diploma del 26 aprile, perchè dalle regie armerie si fornissero all'ammiraglio 400 giachi, e due casse di quadrella, da armarne nove galee in Salerno. Ibid., fog. 121.

Altro del 1 maggio, dato anche di Napoli, perchè si consegnassero 20 migliaia di quadrella di due piedi e 40 migliaia d'un piede, per uso della flotta. Ibid. fog. 113 a t. E al medesimo effetto parecchi altri diplomi che tralascio per brevità; ma è da notarne uno del 12 maggio indirizzato al castellano di castel Capuano di Napoli, ov'eran le armerie, la zecca, ec. Da questo si veggono i nomi delle varie maniere d'armi da consegnarsi al vice ammiraglio: balistas, quarrellos ad unum et duos pedes, conuculos pro….. igne, lanceas, Jaccarolos, rampicullos, prodas cum catenis earum, scuta, squarzavella, pavensia, et queque alia arma, fog. 113. a t.

Nello stesso tempo Carlo lo Zoppo, che fu questa sola volta guerriero in tutta la sua vita, si facea fabbricare armature per sè. Un diploma del 27 febbraio, ibid. fog. 114, accenna il pagamento di cent'once fatto a questo fine; e un altro del 12 maggio provvede al soddisfacimento del compiuto prezzo. Ibid. fog. 108.

Si prepararono ancora molte macchine da guerra, delle quali par che fossero espertissimi i Saraceni della colonia siciliana trapiantata in Lucera dall'imperator Federigo, una o due generazioni innanzi quest'epoca. Due diplomi del 23 aprile, reg. citato, fog. 91 a t. e 104 provvedono di mandarsi a Manfredonia per l'impresa di Sicilia, quattro de ingeniis curie della fortezza di Lucera de' Saraceni.

Un altro del 6 maggio, ibid. fog. 91 a t., per assoldar cento Saraceni al servigio di queste macchine, le quali indi si vede che dovean essere molto grandi e importanti. Per un altro diploma del 13 maggio, ibid. fog. 103, si veggono assoldati nell'oste di que' Saraceni 9 militi, 90 cavalli e 500 fanti. Altri diplomi dati di Melfi il 12 marzo duodecima Ind. (1284) provvedeano 300 archi d'osso pei Saraceni militanti nell'esercito, 290 cavalli per gli arcieri saraceni, 200 spalleria, suprapunta, cocceros, et faretras pei medesimi; reg. 1283, A, fog. 43 e 44: ed ivi a fog. 44 a t. altri diplomi del 20, 21 e 23 marzo per armi e cavalli di altri 170 arcieri saraceni di Lucera. Altri diplomi leggonsi nel medesimo reg. fog. 103, uno dato il 23 aprile per cuoia di buoi e bufali, un altro il 6 maggio per altri materiali e stromenti, tutti per l'impresa di Sicilia. In quest'ultimo si legge di fornirsi 200 lapidum finarratorum pro ingeniis.

[71] È notevole la cura che il governo angioino di Napoli si prendea per custodir le sue spiagge, pur mentre preparava un'armata e un'oste d'invasione contro la Sicilia. Ciò prova in quale riputazione già fosse appo i nemici la flotta catalana e siciliana. Cel mostrano i diplomi del r. archivio di Napoli, nel citato reg. 1283, A, de' quali, lasciando indietro perchè non mostra cura straordinaria, un diploma del 21 aprile (1284) risguardante il pagamento degli stipendi al presidio del castel di Capri, ricorderemo i seguenti:

Diploma del 30 novembre (1283) fog. 72, perchè si munissero, con molta cura le castella di Calabria, massimamente quelle di contra a Messina.

Diploma dato di Napoli il 2 maggio, fog. 85 a t. È commesso a Iacopo de Brusson vice ammiraglio di far osservare gli ordini già dati nei segnali allo scoprir legni nemici: cioè fumo il dì, fiamme la notte, che volgarmente si dicean fani, e se ne dovea levar uno per ciascun legno avvistato. Inoltre erano stabilite excubias seu custodes in tutte le terre e luoghi opportuni, che vegliassero dì e notte. La spesa si fornisse da' comuni, e, in mancanza, da qualunque danaro regio. Somiglianti disposizioni son date, ibid. fog. 127 a t., per aversi particolar cura delle costiere da Policastro a Castellamare di Stabia.

Diploma del 2 maggio, ibid. fog. 86 a t., per 75 fanti toscani mandati di presidio in Montane Amalfie, ov'era capitano un Rambaldo de Alemanni.

Altro della stessa data, Ibid. 88 a t., al capitano di Gaeta si raccomandano i fani.

Par che in vero dopo la battaglia di Malta i nostri corsali avessero ripreso le infestagioni ne' mari del regno di Napoli. Un diploma dato di Nicotra a 28 ottobre duodecima Ind. (1284) parla di un galeone siciliano di un tal Galfono che corseggiasse.

[72] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 27.

[73] Bart. de Neocastro, cap. 76.

[74] Questo particolare è scritto dal d'Esclot. A mostrar la somma sua diligenza noteremo che per vero da un diploma del 20 giugno 1284 si vede che fosse a' soldi del governo di Napoli la nave di questo genovese Navarro. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 4, a t.

[75] Questa narrazione è ritratta da' seguenti contemporanei, che portanla con poco divario tra loro:

Bart. de Neocastro, cap. 76, 77.

Nic. Speciale, lib. 1. cap. 27.

Saba Malaspina, cont., pag. 404 a 408.

D'Esclot, cap. 119 a 127.

Diario anonimo, nella Raccolta di cronache del regno di Napoli, da' tipi del Perger, tom. I, pag. 109.

Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 93.

Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1157, 1158.

Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anec., tom. III, pag. 764.

Nangis, Gesta Philippi III, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio.

Montaner. cap. 118.

Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 812.

E la più parte degli altri contemporanei, che dicono il fatto senza i particolari.

Il giorno della battaglia è confermato da molti documenti, tra' quali citeremo una lettera di Carlo I al papa, data il 9 giugno 1284, pubblicata dal Testa, nella vita di Federigo II re di Sicilia, docum. 2.

I suddetti scrittori portan variamente il numero delle navi; e i più pongon l'avvantaggio del numero dalla parte de' Napoletani. Scrivendo solo per narrare quel che mi sembra più vero, mi son tenuto a d'Esclot catalano, perchè meno esagerato, e minutissimo ne' particolari. Saba Malaspina disse 11 le nostre navi e 30 le nemiche. Speciale 41 le nostre e 70 le nemiche. Il Neocastro 28 le prime e 30 le seconde. Il Villani 35 le napoletane e 45 le nostre. Il Montaner 40 le galee di Sicilia e 38 con molti altri legni le napoletane. La Cronica di Parma, morti d'ambo le parti 6,000, presi da' nostri 8,000, tra' quali il figlio dei conte di Fiandra, il conte di Monforte, Rinaldo d'Avella, Oddone Polliceno e altri baroni, in tutto 32, prese 42 galee armate, sommerse cinque e fuggite quattro.

Vi hanno nel r. archivio di Napoli parecchi diplomi di Carlo I, per l'amministrazione de' beni feudali comitum et baronum qui dudum in marino prelio cum Karulo primogenito nostro per proditores Messanenses et inimicos nostros Aragonenses mortui sunt vel capti. Queste parole appunto leggonsi in un diploma dato di Brindisi il 13 settembre tredicesima Ind. (1284), reg. 1283, A, fog. 176; e uno somigliante, dato il dì 11 giugno duodecima Ind. (1284) se ne legge indi a fog. 188; un altro a fog. 12 a t. dato di Brindisi il 3 ottobre tredicesima Ind. (1284).

Un altro del 17 giugno 1284, dato anco di Napoli, provvide in particolare all'amministrazione dei beni di Raynaldo Gaulardo miles preso col principe di Salerno, reg. segn. 1291, A, fog. 4.

Un altro del 21 giugno dello stesso anno 1284, nel medesimo registro 1291, A, fog. 21, accordò dei sussidi alle mogli de' prigioni, Rinaldo Galard, Iacopo de Brusson e Guglielmo Estendard.

E tre altri dati il 14 giugno per l'amministrazione de' beni di Galard, de Brusson ed Estendard, leggonsi nel ridetto registro 1291, A, fog. 4, e 4 a t.

[76] Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 93.

[77] Saba Malaspina dice Castrum ad mare, e che la principessa salì scopulum castri. D'Esclot anche parla di castello di san Salvatore al mare, e fa supporre che nello stesso trovavasi prigione la Beatrice; Montaner porta costei serrata nel castel dell'Uovo.

Queste circostanze riunite non lascian dubbio, che anche il primo parlasse del castel dell'Uovo, che sorge su rilevato sasso in mezzo al mare, come penisola.

[78] Bart. de Neocastro, cap. 77.

Saba Malaspina, cont., pag. 408, 409.

D'Esclot, cap. 128.

Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1158.

Montaner, cap. 113.

La condanna di Riso e Nizza è riferita dal Neocastro, che solo tra gli scrittori della battaglia fa menzione di quei due sciagurati.

[79] Saba Malaspina, cont., pag. 410.

Bart. de Neocastro, cap. 77.

Nic. Speciale, lib. 1, 27.

D'Esclot, cap. 129.

Montaner, cap. 113.

Queste autorità, e massime il Malaspina, provano ch'è bugia la uccisione di 200 e più prigioni all'arrivo loro in Messina, favoleggiata o portata con anacronismo da Ricobaldo Ferrarese e Francesco Pipino, in Muratori, tom. IX, pag. 142 e 694.

[80] Saba Malaspina, cont., pag. 410, 411.

Cron. di San Bert., loc. cit., tom. III, p. 765.

Epistola di re Carlo a papa Martino, data di Napoli il 9 giugno 1284, in Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 2, ove leggesi: Nonnulli leves et viles contumaci crassantia excessissent, etc.

Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. VIII, pag. 1158.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.

Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 610.

Giachetto Malespini, cap. 222.

Le parole di Saba Malaspina intorno il messaggio a' Francesi usciti dalla città, che mostran gli umori di parte tra i nobili e la minutaglia di Napoli, son queste: Significant enim dictis Gallicis legatus et nobiles memorati, quod etiam in iis concitationibus populi non oporteret eos timentium assumere animos vel pavere, quia contra hujusmodi populum stolidum concitatum, praedicti nobiles cum ipsis Gallicis volunt esse.

[81] Saba Malaspina, cont., pag. 411.

Epistola citata di re Carlo a papa Martino.

Diploma di re Carlo, docum. XVIII.

CAPITOLO XI.

Carlo, fatta cruda vendetta in Napoli, s'appresta a un ultimo sforzo contro la Sicilia. Vano assedio di Reggio. Seconda ritirata di Carlo, e audaci fazioni de' nostri, che occupano molte terre in Calabria, val di Crati e Basilicata. Impresa dell'isola delle Gerbe. Sospetti del governo aragonese, e ruina d'Alaimo. Casi dei prigioni in Messina. Morte di re Carlo e di papa Martino. Provvedimenti della corte di Roma. Capitoli di Onorio. Insidia di due frati messaggi suoi in Sicilia.—Giugno 1284-1285.

Il dì medesimo della battaglia, re Carlo trapassava dai mari di Toscana a quei del regno, avendo seco da quaranta galee, portato da prosperi venti, da novelle speranze, finchè a Gaeta il nunzio incontrò, scrivealo al papa egli stesso, di sollecitudine e angoscia. Più che la perduta flotta, il trafisse la morte e prigionia de' suoi gagliardi; del figliuolo sol rammaricossi perch'era un pegno in man dei nemici; talchè nel solito abbandono di rabbia, o infingendosi, imprecavagli: «Foss'ei morto com'è prigione! Che m'è a perdere un prete imbelle, uno stolto che si da sempre a' consigli peggiori[1]?» I terrazzani di Gaeta, che già a stigazion de' loro usciti erano per ribellarsi agli avvisi di Napoli, cagliarono vedendo inaspettato con una flotta il re: il quale non curolli, tirato da vendette maggiori; che tra due pendeva, o inseguir Loria di {273} presente, o sfogare su Napoli[2]. A questa come più vicina si volse. Approdatovi il dì otto giugno, ricusava smontare nel porto; soprattenutosi al Carmine, minacciava arder Napoli; talchè a mala pena il dissuasero Gherardo e i nobili, i quali scusando il popolazzo con dirgli: «Sire, e' furono folli.—E io, rispondea, punirò i savi che ciò soffersero ai folli[3].» Lasciò dunque torturare i rei, o creduti[4]; investigò, borbottò; commosso infine a clemenza, contentossi di cencinquanta, o poco più, impiccati per la gola: ma sperava rifarsene con più largo sagrifizio nell'isola[5]. Le popolazioni di Puglia, che fortuneggiando il governo avean levato in capo, or s'umiliavano di tanto più basso; profferiano al re averi e persone: ed egli a tal apparenza dell'antico vigor di comando, col gran cuore che allora il portò sì alto, si fidava pure vincer la prova. Mette in punto a Napoli e l'armata sua e le reliquie della disfatta del principe; comanda si fornisca l'altra di Brindisi; scambia nell'armata del regno i capitani, nel civil governo gli officiali; non curante scrive per l'Italia: essersi involata innanzi a lui la flotta de' ribelli Siciliani, dissipata la codarda e mobil canaglia che gridava in terraferma; avanzargli soldati, marinai, ottantasei galee, teride altrettante, numerosa prole del figliuol suo per la successione {274} al trono; già movea a compiere il meritato sterminio dell'isola[6]. Al papa aggiugne: sol ch'abbia moneta, trionferà questa volta; il papa col solito amore provegga all'ultimo sforzo. Temendo pure esausto quel cieco zelo o il tesoro, il dì stesso commette al vescovo di Troia e a Oddone Polliceno, consiglieri suoi, che procaccino uno imprestito con l'intesa di fidati officiali del papa; vadano a corte di Roma, in Toscana, in Lombardia; richieggan città, compagnie, mercatanti, tutto purchè abbian cinquanta mila once d'oro. Pochi dì appresso raccomandavasi a maestro Berardo da Napoli notaio del papa, dicendo accatto non più, ma sussidio[7]. Nè invano il chiese a Martino, che fatto per lui tanto sperpero delle decime dell'orbe {275} cattolico[8], or entro un mese gli fornì novellamente quindicimila e seicento once di oro; spigolandole dalle lontane chiese di Scozia, Dacia, Svevia, Ungheria, Schiavonia, Polonia; e allegando sempre l'onore e 'l pro della navicella di Pietro[9].

Il quarto poderoso armamento adunava dunque Carlo, con le forze ausiliari della più parte delle città italiane; e die' superbamente il ritrovo a Reggio, occupata allora dai nostri[10]. A Brindisi ei cavalcò il ventiquattro giugno; di Napoli fe' salpar la flotta sotto due ammiragli, l'un provenzale, italiano l'altro, che, girato intorno alla Sicilia, per accrescer terrore a' nemici, e schivar essi il passaggio dello stretto, niente sicuro con Loria e i Messinesi al fianco, alla flotta dell'Adriatico si congiungessero. Navigando costoro s'avvennero in una nave mercatantesca catalana; e presala, gli uomini tutti, da pochi Romani e Pisani in fuori, gittarono in mare, come se ciò riparasse l'onta della sconfitta di Napoli. Insultate poi qua e là le costiere dell'isola, appresentansi un momento provocando alla catena del porto di Messina; vanno a trovare l'altra armata a Cotrone; e riforniti di vivanda, a mezzo luglio, pongonsi all'assedio di Reggio. Quivi per terra andò il re con l'esercito di diecimila cavalli e quaranta migliaia di pedoni, se da creder è a Bartolomeo de Neocastro. Sommarono a cencinquanta o dugento i legni grossi. Carlo si pose alla Catona con parte dell'oste; il grosso lasciò a campo a Reggio: presala, e come no? si passerebbe in Sicilia[11].

E Reggio, debol di sito e di mura, tenne inopinatamente, {276} per la virtù di Guglielmo de Ponti catalano, e d'un picciol presidio di Catalani e Siciliani, nel quale si noveravan Messinesi trecento. Sostennero i nostri ogni più duro assalto; e la vigilanza alle guardie faticosissima ai pochi: e con fino saettar dalle mura scemavano gli assedianti, gente vendereccia o venuta a forza, odiante forse il vecchio re cui la fortuna volgeva le spalle, e mormorante per la penuria delle vittuaglie, non provvedute abbastanza dal principe di Salerno, e scarsissime d'altronde quell'anno {277} per tutta Calabria[12]. Indi a rinfrancarsi i Messinesi dopo il primo terrore[13]. Indi a sgomenarsi in un attimo, nelle maestre mani di Carlo, la mal costrutta macchina di questa guerra. Tra il sì e il no di valicare lo stretto[14], Carlo aspettò alla Catona infino allo scorcio di luglio[15]; e vedendo che l'assedio di Reggio era niente, corse a incalzarlo egli stesso; e il quattro agosto passò oltre ad Amendolia; il cinque alle spiagge di Bruzzano: e facea venir vittuaglie e stromenti da guerra, e par che quivi aspettasse l'esito di qualche tradimento in Sicilia[16], e disegnasse qualche altro assalto su la costa orientale dell'isola[17]. Perchè tentando {278} anco l'esca delle concessioni, forse per chiesta de' Siciliani con cui praticava, creò vicario generale in Sicilia con pien potere il conte Roberto d'Artois, fidando in esso, dice il diploma, come nella sua persona medesima, e dandogli di poter dispensare perdoni e guarentigie, che il re ad occhi chiusi confermerebbe: e pensava mandarlo in Sicilia con un grosso di genti[18]. Questo disegno non fu recato ad effetto. Rivien Carlo sopra Reggio; tentata senza pro una scaramuccia, sciogliene l'assedio il tredici agosto[19]; e tornasi alla Catona con quanto avea d'oste e di navi.

E incontanente in Messina Ruggier Loria, non potendo per tale smisurato divario di forze uscir con l'armata, ordinò schiere di cavalli su le spiagge: il popol tutto intrepido e lieto ripigliava le armi; l'infante Giacomo confortavalo con la sua presenza; nè andò guari che i Messinesi con sottili barche a remeggio dier principio a molestar le galee nimiche, motteggiando e saettando se potessero trarle presso al porto di Messina[20]. Provocarono invano, perchè il nemico non pensava ormai che a ritrarsi. {279}

Incredibil fine di tanto sforzo: onde degli scrittori del tempo, altri disse che re Carlo mandasse due cardinali a trattare in Messina del riscatto del figliuolo, e che Pier d'Aragona li intrattenesse finchè fu passata la stagione acconcia alla guerra[21]; altri die' a vedere l'Angioino arrestatosi a un tratto dal passaggio, perchè i nostri minacciasser di mettere a morte il principe di Salerno[22]. Tal minaccia che, mandata ad effetto, pur sarebbe stata alto e salutare consiglio rinforzando i Siciliani con la virtù della disperazione, io non la credo da tanto da trattener Carlo fidante nella vittoria. Errar più manifesto è quel de' primi, perchè Pietro non tornò giammai di Spagna in Sicilia, nè di mezzo agosto si potea creder finita la stagion di combattere. Ma ben altre invincibili necessità volsero questa seconda fiata negli amari passi di fuga il guerriero angioino. Malaspina allega la sola mancanza delle vittuaglie, come poi scrisse il medesimo re Carlo[23]. Più forti cagioni ne mostrano altri diplomi del re. L'esercito mormorava, fremea, faceasi di giorno in giorno più immansueto; questa contumacia apprendeasi agli abitanti delle Calabrie[24]. Cominciò l'armata {280} ad assottigliarsi per molti disertori; passò tal contagio nell'oste; non menomavasi per guardie che il re facesse mettere ai passi; non per le ordinate inquisizioni strettissime de' disertori; nè per un atroce comando, che mostra in Carlo le smanie della tirannide al guardare qual precipizio già il trascinava. Perch'ei, quasi non sapendo ritener altrimenti i regnicoli che non lo abbandonassero, assomigliando a fellonia la fuga che snervava l'esercito regio, ordinò prima il sette agosto da Bruzzano, e più volte appresso, si mozzasse il pie' a tutti i disertori; ma disse il pie' indistintamente pei Saraceni; pe' cristiani, da carità maggiore, designò che si troncasse il sinistro. Gran pezza continuarono per tutta la ritirata e queste fughe e questi orrendi gastighi[25]: nulla giovarono al re. Avea alle spalle Reggio intera e minacciosa; in Sicilia s'incalzavano gli armamenti; il proprio esercito si assottigliava, si disfacea, {281} dileguavasi. A che cercar altre cagioni alla ritirata di Carlo?

Il caso l'affrettò con una crudele tempesta, che percosse di notte le navi ancorate alla Catona senza schermo: le quali per manco male si lanciavano in alto mare; e tornate a dì, dopo aver corso gravi pericoli, trovaron l'esercito in terra poco men di loro travagliato dalle folate del vento e dell'acqua. A mezzodì, splendendo in Messina un bel sereno, di nuovo si scaricarono le procelle su' lidi opposti; che parea, dice il Neocastro, ch'anco il cielo e 'l mare scacciassero gli stranieri[26]. Ma più degna è di nota la virtù di Ramondo Marquet catalano, vice ammiraglio d'Aragona. Costui, mandato dal re con quattordici galee, quando si seppero in Catalogna i novelli apparecchiamenti {282} del nemico, navigava nel mar di Milazzo. Vistol da terra, un Villaraut cavalier catalano comandante di quella città, spiccasi ansioso sur una barchetta a dirgli dell'enorme flotta nimica ingombrante lo stretto; e Ramondo a lui: «Comandommi il re di condur queste navi a Messina; innanzi ad umana forza non volterò:» e seguitava il suo corso. Villaraut ne spacciò tosto avviso all'infante. E lo stuol delle navi nostre, gareggiando coi pro' Catalani, escì di Messina a incontrarli infino a torre di Faro. Entrambi in faccia al nimico, non molestati, si ridussero in porto[27].

Dopo questi fatti non tardò Carlo a sgombrare; e scorgendo ciò i nostri, davansi a molestarlo, come già nell'ottantadue, mettendo in mare, tra catalane e di Sicilia, cinquantaquattro galee. Le quali come fur pronte, Ruggier Loria, convocati in piazza di San Giovanni Gerosolimitano comiti e ciurme e le altre genti, fatto grande silenzio per la riverenza dell'uomo, così parlò: «Ecco la seconda fuga dell'usurpatore di Napoli! Vedete confusi in quel navilio, Provenzali da noi in mare sconfitti due volte; Francesi inesperti; e, diversi ben di costumi e di voglie, Toscani e Lombardi stipendiati, regnicoli disaffetti: italica gente tutta, che di noi ricorda i renduti prigioni, il mite adoprare in guerra, e, perchè no? la cacciata stessa di quegli stranieri insolenti. Ma voi, Catalani e Siciliani, diversi di lingua solo, una gente siete d'affetto e di gloria; provati insieme in battaglia: e che è a voi la mal ragunata moltitudine di là? Assalitela dunque, sperdetela, mentre nostra è la fortuna[28]!» E il popolo a una voce: «Alla battaglia, gridava, alle navi;» e tumultuoso correavi; nè aspettato comando, salpò. Portavanli vento e corrente gagliardissimi {283} a Reggio, forse a ineluttabile perdita, quando un comito di galea: «Restate, sclama, restate! si raccolgan le vele;» e ubbidito senza intender perchè, come in moltitudine avviene: «Non v'accorgete, seguiva, che in secco andiamo, a darne senza combattere a' Francesi!» Costui salvò la flotta. Rivolte le prore, ancorossi al Peloro, a dodici miglia dalla nemica.

Ivi chieser le genti, o l'ammiraglio disegnò un assalto sopra Nicotra, tenuta dal conte Pietro di Catanzaro, con cinquecento cavalli e duemila soldati da pie' e altrettanti terrazzani; spensierati per fidar nelle vicine forze del re. Loria, trascelte dieci galee, piombavi a mezza notte; non sì improvviso pure, che il conte non facesse pria sfondar otto galee ch'avea in arsenale, e con tutti que' della terra fuggisse. Poco sangue perciò fu sparso; ma fatto grande e ricco bottino. Appiccan fuoco dispettosi i nostri alle galee e alla città, per toglier comodo al nimico, che fatto aveane sua stanza principale in quella guerra: e ne tornò ai Nicotrini che senza patria miseri paltoneggiando, riparar dovettero qua e là per Calabria, e i più a Monteleone e a Mileto. Preso fu quella notte un Geraci da Nicotra cavaliere, e dicollato a Messina per fellonia; sendosi una volta recato in parte per lo re di Aragona, e po' fallitogli. Pietro Pelliccia, cavaliere alsì e da Nicotra, incontrò più crudo supplizio. Costui, governando Reggio per noi, da invidia e malvagio animo, avea fatto a furia di popolo ammazzare sette de' maggiori uomini della città: indi catturato per comando di Pietro; e dal carcere si fuggì. Coltolo a Nicotra, l'ammiraglio il da in balìa a' figliuoli di quegli uccisi; che fecerlo in pezzi.

Tornatosi alla sua flotta allo schiarire del dì, l'ammiraglio vide quella di re Carlo far vela per lo mare Ionio, rimontando a Cotrone; onde messosi a inseguirla, trovaronsi a sera, distanti quattro miglia tra loro, alla marina di Castelvetere. Ciò allettò Ruggiero ad esplorar da sè {284} stesso i nimici. Perchè montata una barchetta peschereccia, cheto sguizzando tra le lor navi, ebbe a udire il cicaleccio delle genti; ch'altri lodava lui stesso ancorchè nimico; altri lacerava re Carlo, malurioso e fatto dappoco; e i più anelavano tornarsi a lor case. Corse allor l'ammiraglio un gran rischio, e, come mille altre volte, l'aiutò la fortuna. «Chi è dalla barca?» gli gridò una scolta; e l'ammiraglio pronto: «Povero pescatore; e m'affatico per servigio del re.» Ma tornato di presente al suo navilio, prendevi una man di trecento tra Catalani e Siciliani, per assalire Castelvetere, terra a quattro miglia dalla spiaggia. Taciti giungono sotto le mura; non hanno scale, e fansele con le aste delle armi legate insieme; sulle quali un Fasano messinese montò primo tra tutti. Abbattutosi con le guardie ch'eran deste, ne uccide quattro costui, ucciso è dalle rimagnenti; ma pochi altri Messinesi seguendolo schiudean le porte; ondechè fu messa la terra a sacco, con assai più sangue che a Nicotra. La notte appresso, spintosi infino a Castrovillari, quindici miglia entro terra, se n'insignorisce l'ammiraglio; e nel tornarsi alle navi, anco di Cerchiaro e Cassano; e rientrato in nave, assaltò Cotrone. Fe' vela indi per Sicilia; lasciando il re che in fretta riconducea in Puglia navilio ed esercito.

Dal canto del Tirreno peggio precipitaron gli eventi. Matteo Fortuna, condottier di due mila almugaveri, impavido era rimaso tutta la state nelle occupate terre di Basilicata; che non si crederebbe, ma forse Carlo, per troppa fretta del passaggio in Sicilia, lo sprezzò. Costui inanimito agli esempi dell'ammiraglio, una piovosa notte, d'un sol colpo guadagnava Morano, terra e castello; e poscia Montalto, Regina, Rende, Laino, Rotonda, Castelluccio, Lauria, Lagonegro, e altre terre in val di Crati e Basilicata. Eran le armi del re fuggitive e lontane; per contrario, presente nei popoli l'esempio di Nicotra, vivi gli umori di ribellione; ed ivano attorno con molti altri eccitando gli {285} uomini di maggior seguito, due frati calabresi della famiglia dei Lattari: talchè tutti alla nuova dominazione si volser gli animi; fecersi occultamente le bandiere con le insegne di Sicilia; e un soffio a' Calabresi bastava a chiarirsi. Il fe' Tropea, mossa da due frati; e Strongoli, Martorano, Nicastro, Mesiano, Squillaci. E sì certo pareva il tracollo della signoria di Carlo, che principiando a fallirgli i suoi stessi, Giovanni de Ailli, o Alliata, francese, signore di Fiumefreddo in val di Crati, venne a Messina a fare omaggio all'infante Giacomo; il quale confermavagli quel feudo, e un altro ne concedeva. Mileto, Monteleone e altre terre tentennarono ancora: tutte le Calabrie perdeansi, se non era pel conte d'Artois. Questi, seguito alquanto il re, com'ebbe quegli avvisi, pronto voltò coi suoi cavalli; ponendosi a Monteleone a raffrenare i vogliosi di novità, e troncare i passi a una picciola banda di almugaveri, che da Tropea tentava le usate scorrerie ne' casali d'intorno. I quali, or battuti dagli almugaveri ed ora dal conte, più maledivano lui che i nemici; perchè a nudrir le sue genti iva dissotterrando i grani occultati nella durissima carestia di quell'anno. Arrigo Pier di Vacca, aragonese, uomo di nome e valente in arme, mandato dall'infante Giacomo, forse in Tropea, a maturare con l'autorità di vicario del re quegli importanti moti delle Calabrie, poco operò per aver poche forze[29]. {286}

Colpa dell'ammiraglio che potendo col temuto navilio osar la fortuna di quelle prime fazioni, e distrugger la flotta nemica, e compier se non altro la sollevazione delle Calabrie e di Basilicata, non curandosi di ciò che avveniva dalla parte del Tirreno, per invidia o avarizia, disegnò una impresa da pirata, come se non ci fosser nemici più da combattere. In alto mare, mette il partito di assalire la fertil isola delle Gerbe, poche miglia discosta dal continente {287} d'Affrica, tra Tunisi e Tripoli; impresa, dicea, al nome cristiano gratissima, a loro utilissima, perchè quei can maumettisti securi e imbelli nelle ricchezze nuotavano. Gli fan plauso le ciurme: invocan Dio e la Vergine; e arsi di cupidigia navigano alle Gerbe. Giunservi il dodici settembre. La notte posta una galea nel canale tra l'isola e la terraferma, breve e guadoso a basso fiotto, e tolto così lo scampo, agl'indifesi abitatori dan di mano. Qual rimorso con infedeli? Ammazzato al par chi resiste e chi fugge; quanti ascondeansi in cave sotterra, sbucati come volpi col fumo; i più menati schiavi; e d'oro, argento, masserizie fu grandissima la preda. Due mila i prigioni, secondo il Montaner, sei mila secondo il Neocastro; e gli uccisi sommarono quattro mila, ch'è orribile a dirsi, ma forse vero, perchè non credo uno scrittore sì insensato da cercar vanto qui nell'esagerare. Ciò temo del Montaner quando leggo il bottino di questa e somiglianti imprese; onde parmi, che da soldato avventuriere ch'egli era, contava sogni d'invidia, scrivendo come tolte tutte le spese, tanta preda si spartisse tra le genti di Loria, che sdegnavan poi a gioco tutt'altro conio che d'oro, e appena avrian sofferto nella bisca chi ponesse mille marchi d'argento. Si riscattarono gl'isolani avanzati alla schiavitù o alla spada; giurarono omaggio alla corona di Sicilia[30]; e l'ammiraglio {288} fabbricovvi una fortezza, e s'ebbe poi l'isola in feudo[31]. In questo tempo un Margano principe d'Arabi, cavalcando con grande stuolo alla volta di Tunisi lunghesso la riva, fu appostato, e preso dalla gente d'un galeon catalano, e recato allo infante, che il tenea, scrive Neocastro, come preda, non come prigion di guerra, nel castello di Messina[32], per istrana avventura compagno di carcere al principe di Salerno. Ma la cattività dell'Affricano, nè nocente a noi nè nemico, fu trapasso di ladroneccio e avarizia da pirati, non gloria alle nostre armi. Nol fu tutto questo fatto dell'isola delle Gerbe, se non che il malo acquisto si mantenne poi con onor della nazione. Restò alla corona di Sicilia, non ostante la ribellion dell'ammiraglio che aspirava alla sovranità di quell'isola, e non ostanti le guerre e calamità in cui fummo avvolti; nè si perdè che negli ultimi anni di Federigo II, quando l'aristocrazia sfrenata e patteggiante, consumò tutte le forze nella esecranda guerra civile. Ruggier Loria riducendo l'armata in Messina a svernare, empiè la Sicilia di schiavi gerbini, e ripassò in Calabria con un grosso di cavalli. Quivi s'insignorisce di Agrataria e Roccella; combatte un Iacopo d'Oppido, feudatario; il rompe; mette a sacco e a fuoco il paese. Voltosi a Nicotra con altro animo, rifà le mura, afforza le castella, richiama gli sparsi abitatori: e incontanente, come per ammenda di quest'opra di umanità, torna in Sicilia a sfogare con altre enormezze quell'animo irrequieto, sanguinario, {289} ambiziosissimo e superbissimo oltre ogni dire[33].

Perchè la gelosia dell'impero, crescendo per lontananza di luogo nell'animo di Pietro e per invidia in Ruggiero e negli altri ministri dell'infante Giacomo, si portava già in Sicilia a crudeli consigli; come è nelle cose di stato assai incerto il confine tra il guardarsi e l'offendere. E sembra in vero che, tenendo una parte de' nostri baroni a ristrigner la balìa della corte aragonese, e tirandosi sempre all'opposizione, alcun di loro si mostrò benigno ai prigioni francesi, e massime al principe di Salerno; altri tenne forse pratiche con re Carlo: e che la fazion della corte aragonese, ingrossata dagli usciti calabresi e pugliesi, esagerò quelle pratiche, le appose ugualmente a chi le avea maneggiato e a chi sol volea mantener le franchige della nazione; e tutti accagionò di tradimento, per aver pretesto a spegner chi le paresse, e trovare riscontro nel popolo, abborrente sempre da' suoi antichi tiranni. Però dopo il ritorno della flotta dall'isola delle Gerbe, e la ritirata e scompiglio dell'esercito di re Carlo, la fazione aragonese, ormai secura dalle armi di fuori, diessi a riurtar contro gl'interni oppositori; e fece spegnendo pochi dei più grandi o più audaci, e nel medesimo tempo menando grande strepito di condannagione del principe di Salerno[34]. E prima due nobili uomini, Simone da Calatafimi e Pieraccio {290} d'Agosta, eran puniti nel capo; questi, confessa il Neocastro, a stigazion degli emuli suoi, come fautor di parte francese; l'altro perchè, noto già come avverso alla rivoluzione e al nuovo principato, s'era partito di Sicilia sotto colore d'andarsene colla moglie e' figliuoli in Inghilterra al servigio di quel re, ma poi fu preso che riparavasi in Napoli contro il dato giuramento[35]. Poi il grande Alaimo soggiacque ancora alla giovanile perfidia di Giacomo; del quale Montaner fa lode col proverbio catalano: «Spina non punge se non nasce acuta[36]:» e tal fu l'infante; ma acuto e precoce al male; a vent'anni maturo già ai tradimenti.

Affrettossi la ruina d'Alaimo per la moglie tracotante, che sfatava, non ch'altri, Costanza stessa; negando chiamarla reina, ma sol madre di don Giacomo; schifava le sue carezze; infrequente a corte, se non era a lussureggiar di nuovo spendio di ornamenti; e una volta andovvi a tastar gli animi quando il principe di Salerno venne prigione. Costei sendo incinta, volle come maggior d'ogni legge, pretestando malattia, far soggiorno nella casa dei frati minori a Messina, per l'amenità e solitudine del luogo; dove ita Costanza a visitarla, il nimichevole animo non placò. Partorita Macalda, mandava per Alaimo la regina, offrendo con Giacomo e Federigo tener al fonte il bambino; e la donna se ne scusò con dir che temea pel nato dal freddo dell'acqua; ma tre dì poi fecelo da popolani battezzare in chiesa. Notavasi ancora come un'altra stagione in Palermo, sapendo che la regina inferma fosse andata in barella al santuario della Vergine a Morreale, il dì appresso Macalda, {291} nè per cagionevole salute nè per voglia di visitar santuari, si fece portare in una barella coperta di scarlatto per le strade della città; e fu vista poi viaggiare di Palermo a Nicosia nella stessa guisa, che parve strana in quei tempi; e di crudo verno a capriccio affaticar soldati e vassalli sotto il peso della bara. Questi femminili dispetti o vanaglorie, a corte eran misfatti. In tal colore li scrive il Neocastro, aggiugnendo più nero, che Macalda dall'infeminito Alaimo si facesse dar sacramento di fuggir la corte, non mischiarsi in consigli contro i Francesi, e fin procacciare che riavessero il reame. Di fatti palesi, narra come girando l'infante in quel tempo d'una in una le terre della isola, e intrudendosi ad accompagnarlo Macalda come avea costume, questa fiata non solo agguagliavalo in lusso e corteggio, ma con arroganza novella, essa facea da giustiziere quanto il marito: e peggio temeasi, vedendola, col principe scortato da soli trenta cavalli, trar dietro a sè trecento sessanta uomini d'arme, di dubbia fede o sospetti, spigolati apposta da varie terre.

Allora nei consigli di Giacomo si tramò un colpo di stato. Portatosi in Palermo, ei dà segretissimo avviso ai Catalani de' vicini luoghi, fosser cavalieri, officiali del fisco, o fanti di presidio in castella, che tutti trovinsi a Trapani a tal dì; mandavi nove galee catalane delle quattordici di Marquet; vi sopraccorre egli stesso con buono stuol di cavalli; nè il fa intender che alcuni dì appresso ad Alaimo, il quale ripudiato dalla corte, per altra via andò a Trapani con Macalda. Ma un dì, quasi tornandolo in grazia, adunato il consiglio, Giacomo chiama inaspettatamente Alaimo[37]: e rivolto a lui, toccava i pericoli che si vedean sovrastare non ostanti le fresche vittorie; il padre non muoversi per lettera o messaggio a mandar grossi aiuti; non veder, {292} dicea, chi potesse svolgerlo, se non che Alaimo; salvasse egli la patria e la corona; andasse al re, sulle galee lì pronte a tornare in Catalogna: e finito il dir dell'infante, più efficaci di lui i consiglieri facean ressa ad Alaimo. Li comprese; non vide scampo il grande; li guardò in volto; e rispose che andrebbe. Lo stesso giorno dunque, che fu il diciannove novembre dell'ottantaquattro, entrò in nave; ebbe cruda tempesta a Favignana, sì che una galea ruppe a Levanzo; con le rimagnenti a Barcellona arrivò. Quivi tutto lieto in volto l'accoglie re Pietro; ascolta, loda, promette che faranno insieme ritorno in Sicilia: vezzi leonini, che nè Alaimo nè altri ingannarono[38].

Comandato avea senza dubbio Pietro medesimo questo rapimento d'Alaimo, in un con la dimostrazione di condannare il principe di Salerno, strettamente connessavi, com'anzi dicemmo, e dagli storici, per amor di parte o dubbiose notizie, narrata variamente sì, ma in modo da non dilungarsi gran tratto dal vero, e lasciarci vedere in fondo che fu artifizio per ritrovare i ligi della corte e i resistenti; per troncar tutte pratiche, spaventando e i nostri e i prigioni; per ridestar le antiche passioni del popolo a tanto strepito; e prepararsi lodi di longanimità con trattener la scure che sospendeasi sul capo al figliuol di re Carlo. E avea Alaimo, o in adunanza pubblica o in maneggi privati, contrastato questa condannagione del principe; il che forse fu cagion principale del suo precipizio[39]. Ma divulgato {293} questo in un baleno per tutta l'isola, con maraviglia e dolore dell'universale, caddene l'animo ai partigiani d'Alaimo, crebbe a que' della corte. Ond'ecco l'ammiraglio con la fama delle recenti imprese, seguito da una mano d'usciti del reame di Napoli, gittasi a sollevar la plebaglia di Messina, gridando tradimento contro i migliori che teneano per Alaimo. Rabbiosa e diversa, chiamando a morte i prigioni francesi, corre la canaglia alle case d'Alaimo, ove assai n'erano, e al palagio del re, che serravane cencinquanta sotto la guardia di venti soldati catalani: e qui seguia grand'esempio di virtù da una parte, di atrocità dall'altra, a mostrare a che estremi opposti portinsi gli uomini. Perchè i Catalani alla prima fecer testa; ma vedendosi sforzati, sciolgono i prigioni, e armatili alla meglio, lor dicono: «Insieme, per le vostre vite combatteremo,» e da finestre, da tetti, coi tegoli, con le armi ributtano gli assalitori, ancorchè ingrossati al romore. Allora gli usciti gridarono al fuoco; e mettean cataste intorno il palagio. {294} Soffocati dal fumo, quei miseri saltan dalle finestre, chieggon mercè; ma son trafitti, ripinti semivivi nelle fiamme; e narra Malaspina degli usciti tal altro orrore, che nè il credo io, nè il dirò[40]. Prigioni e guardie, ei ripiglia, tutti periano. Il Neocastro tace quelle crudeltà, scema anco i prigioni a sessanta; altri li porta a dugento, e ricorda le fiamme[41]. L'umanità della regina, e la fortezza di Matagrifone, salvarono con molti altri il principe.

Poi si tenne un parlamento in Palermo a deliberare di lui; dove, dice il Neocastro, tutti accordavansi a mandarlo a morte in vendetta di Corradino, se non che dissentirono i Messinesi con Giacomo e la reina. A questo aggiungon fede, non ostante il divario delle circostanze, il Montaner, Giachetto Malespini, il Villani, e sì una lettera di re Alfonso di Aragona a Eduardo d'Inghilterra, nella quale trattando di pace con Carlo II si afferma condannato lui dai Siciliani, e scampato dal re. Favoleggiò un altro contemporaneo, che la regina un venerdì facesse intendere a Carlo d'apparecchiarsi alla morte; e che poi gli perdonasse per la sua fortezza a tal nunzio, e la rassegnazione a morire lo stesso dì che si ricorda la passione di Cristo; ma tal novella nacque manifestamente dal vero fatto narrato dianzi. Certo è che il principe in questo tempo, per tor luogo ad attentati in favor di lui, o contro, fu tramutato nel castel di Cefalù. Liberati gli altri prigioni, tutti sotto fede di {295} non militar contro noi; ma non altri che Galard poi la osservò[42].

Macalda intanto, sol essa non isbigottita tra tanti suoi partigiani, sperando tuttavia volger sossopra ogni cosa, andata era in Messina: ma con tal audacia fe' rincrudire i governanti, i quali incontanente promulgan reo d'alto tradimento Alaimo; spoglianlo dei beni, e dispensanli a lor favoriti o partigiani; fan perir di mannaia a Girgenti il tredici gennaio Matteo Scaletta, fratel di Macalda, confessante, diceasi, congiura col cognato. Indi a diciannove febbraio incarcerarono nel castel di Messina la stessa Macalda co' figli; alla quale era nulla tal rea fortuna, sì che ilare e contegnosa passava il tempo a giocare col principe arabo e co' famigliari; e una volta, quando portossi l'ammiraglio a strapparle i titoli del feudo di Ficarra, essa, come nell'alto della possanza, il garrì: «Bel merto ne rende il padron tuo! Compagno, non re, il chiamammo; ed egli usurpa lo stato, e di soci fatti n'ha servi[43]. Bene a noi sta; ma digli che non muterei questi miei ceppi nè il palco, col suo trono pien di misfatti!» Sembra tuttavia che la sventura consumasse quest'animo che non potea domare; e che Macalda tosto morisse in prigione, perchè la storia null'altro ne dice di lei. Non andò guari che Alaimo co' nipoti Adenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, nel campo di Pietro in Catalogna fur sostenuti. Un corriero diceasi preso con lettere di Alaimo al re di Francia, piene di tradimenti: ch'ei domandava sicurtà per sè e' nipoti, e l'andrebbe a trovare, e fiderebbesi con dieci galee rivoltar {296} la Sicilia a casa d'Angiò. Mostrolle Piero ad Alaimo, il quale negò; onde fu lasciato, e vegliato: ma i nipoti indi a poco uccisero un segretario che le avea scritto. Scoperto l'omicidio, un famigliare e Adenolfo alla tortura il confessano, e Adenolfo anche la tentata tradigione con Francia; e però con Alaimo e Giovanni è chiuso nel castel d'Ilerda. Re Pietro fin qui. Più crudo il figlio, salito al trono di Sicilia procacciava lor morte[44]. Poco del resto è da credere a questi misfatti, come li spacciò da lontano la corte aragonese. Que' che s'apposero ad Alaimo in Sicilia non son meno incerti. Ne tacciono i due scrittori catalani, come per coscienza di colpa de' lor signori. Malaspina scrive, che Giacomo nimicava il leontino per aver contrariato la condannagione del principe. Il Neocastro nol fa nè reo nè innocente, ma portato dalla superbia della moglie; e parla incerto, come ammirator dell'eroe di Messina, e ministro insieme di re Giacomo. Di documenti non avvi altro che il mandato del supplizio d'Alaimo nell'ottantasette, sì scuro[45], che, se delitto prova, è di Giacomo, il quale senza forme di giudizio assassinò il glorioso vecchio. Portò costui la pena d'aver puntellato di tutta la sua riputazione re Pietro contro Gualtiero di Caltagirone e' sollevati dell'ottantatrè. E del rimanente furon sole sue colpe, gli obblighi di casa d'Aragona, la gloria della difesa Messina, del dato reame, la riverenza e amor di tutta Sicilia, la grandezza con poca modestia, e sopra tutto l'invidia di Procida e Loria, non cittadini ma venturieri, pronti a sagrificare ogni cosa a chi lor dispensava beni e comando.

Mentre que' primi casi d'Alaimo travagliavano la Sicilia, re Carlo consumava le forze del regno e sè stesso, nel delirio di tornar sopra l'isola. Ritirandosi, inseguito dall'armata nostra, sostò pochi giorni a Cotrone; ove crebbe a {297} cento doppi lo scompiglio de' moltissimi disertori: e indi tutto dispettoso e truce passò il re a Brindisi[46]; e trovò per conforto gli avvisi d'un altro insulto di quel Corrado di Antiochia, che adoprò sì caldo nell'impresa di Corradino. Costui, adunati esuli del regno e altra gente presso i confini, ove imperava in nome la Chiesa, in effetto ogni sfrenato feudatario o ladrone, entrò a mano armata in Abruzzo al racquisto della contea di Alba. Il conte di Campania li fronteggiò e ruppe[47]: ei rife' testa, aiutato di danari dalla reina Costanza[48]. Un Adinolfo surto in quel tempo stesso a turbar la Campania, disfatto fu da Giovanni d'Eppe con le genti pontificie. Perugia ancora, Urbino, Orvieto e altre città d'Italia levarono in capo contro la Chiesa e parte guelfa, tuttavia poderosa, ma duramente percossa in re Carlo[49].

E questi vinto dal disagio, convalescente di quartana, rodeasi tra mille cure: in man dei nemici il figlio: saltati essi in terraferma: perduto armamenti, uomini, spesa: affogar nei debiti del danaro accattato in Francia, e per ogni luogo d'Italia: e come sopperire agli smisurati bisogni della guerra, se i popoli di Napoli sbuffano, e negan quasi apertamente e gabelle e collette[50]? Nondimeno dissimulando alla meglio, e facendo sempre gran dire della guerra che porterebbe la vegnente primavera ei stesso in Sicilia {298} e il re di Francia in Aragona[51], provvede a racconciar le navi; scrivere por forza i marinai; vittovagliar tutte le castella; adunar grani; preparar biscotto; fabbricar immenso numero di saette e altre arme e arnesi fabbrili: alletta i feudatari al militare servigio, permettendo che levassero nuove sovvenzioni da' vassalli[52]. E anelando sempre {299} danari, poich'ebbe esauste le altre fonti[53], portato dall'antico vizio, bandì una colletta generale, calandosi pure a persuadere e pregar quasi i popoli. Bandiva ad essi, che se Dio fosse ancor Dio, egli ch'avea domi i re e' regni a un girar di ciglio, espugnerebbe sì quest'isoletta di Sicilia; e avrebbel fatto incontanente, aggiugnea, se non che sursegli improvviso nimico il ribaldo Pier d'Aragona; onde fu mestieri altrimenti ordinar la guerra, ingaggiarsi al duello, muover Francia contro il reame d'Aragona; e tornato in Italia, la sola carestia gli avea tolto di mettere sotto il giogo i Siciliani. «La mia causa, sclamava, è vostra; domi i ribelli, avran fine i travagli; pace e giustizia faran fiorire il reame.» Ma perchè a quello sforzo bisognava moneta, chiedea quest'anno a tutti i comuni la colletta usata, e undici per cento di più a chiunque non tenesse a molestia di sovvenire alquanto più largamente il suo re[54]. Così, tentennando tra bisogno di danaro e necessaria temperanza, comandava si riscuotesse la colletta anzi tempo; e insieme {300} chiamava parlamento in Foggia per lo dì primo dicembre. A Melfi indi il tramutò per lo minor caro del vitto. Ebbe sospetto in quel tempo, e forse da calunnie, che tre giudici suoi, tra quali un Quintavalle, e Tommaso di Brindisi, barese, praticassero tradimento di bruciargli la flotta; onde chiamatili a sè, mandolli alle forche come ladroni, non risguardando all'onore e privilegio dell'uficio. Dopo questi esempi non grati a' sudditi, conturbato e febbricitante va a Melfi, sperando nel parlamento gran cose.

Perciò impaziente il fa adunare, rimanendosi egli in palagio, infermo, o per dispetto delle note disposizioni degli animi: e negatigli novelli tributi, a precipizio lo scioglie. Indi al solito rifugio tornò di papa Martino; che prodigalissimo del non suo, gli avea dato poc'anzi un'altra decima per tre anni su tutte chiese d'Italia, e ribandito avea la croce contro l'isola dei ribelli. Corrieri sopra corrieri mandavagli il re; sognando già danari, indi uomini ed armi, e nuova guerra: e dissimulava ad altrui ed a sè medesimo il morbo che lo tirava alla tomba[55].

In grave età, colpito al petto, distrutto di rammarico e rabbia, cadde in una febbre continua; talchè a fatica di Melfi si trasse a Foggia, a incontrar la regina Margherita, che tornava di Provenza; con la quale assai dolorosa la vista fu, e Carlo appena ebbe forza di stender a lei le tremule braccia[56]. Allor fu la prima volta che senza inganno {301} sollecitò il papa alla riforma del governo[57]. Raccomandò al papa lo straziato e pericolante reame, che per la prigionia del figliuolo non potea lasciare a certo successore; se non che sostituirvi, e non sappiamo con quali condizioni, Carlo Martello, primogenito del principe di Salerno, giovanotto di dodici anni, col conte d'Artois per tutore o baiulo, come si disse, e per capitan generale Giovanni di Monforte, conte di Squillaci; salvo sempre il piacimento del sommo pontefice. Istituì Filippo l'Ardito tutore delle contee, non della persona del novello conte, di Provenza e d'Angiò, finchè Carlo lo Zoppo non fosse liberato della prigione, o, morendovi, non uscisse di minorità Carlo Martello, o il seguente fratel di costui; al quale effetto scrisse a Filippo un dì pria di morire, chiamandolo sola speranza e rifugio della schiatta d'Angiò, e scongiurandolo pei vincoli del comun sangue che non ricusasse la tutela. Indi con molta pietà confesso delle peccata e comunicatosi, infino all'ultimo fiato ingannò il mondo o sè stesso, dicendo che sperava perdono da Dio per aver fatto l'impresa di Sicilia e di Puglia più a onor di santa Chiesa e ben dell'anima sua, che da cupidigia di regno. Così a Foggia spirava il dì sette gennaio milledugentottantacinque, nel sessantesimoquinto anno dell'età sua, diciannovesimo del regno[58]. {302} Villani guelfo, favoleggia che lo stesso dì predicossi la sua morte a Parigi per frate Arlotto de' minori e Giardin da Carmignola maestro dello studio, ambo lodati astrologhi[59]. Il siciliano Speciale notò, come in quel tempo spaventevol tremuoto scosse l'Etna; e poi squarciandosi il fianco orientale del monte, ne sgorgò fiume di lava che correa sulla chiesa del romitaggio di santo Stefano, ma giuntavi, si spartì in due rami senza pure lambirla[60]. Un frate spagnuolo in vece di prodigi sul fato di Carlo, scrisse il nobil contegno del re d'Aragona, che risapendolo all'assedio d'Albarazzin, senz'allegrezza sclamò, esser morto un dei più prodi cavalieri che fossero stati unque al mondo[61]. {303}

Mancato un tanto re, papa Martino faceasi a riparare la ruina del regno, e avvantaggiarne la romana corte. Incontanente, col voto del sacro collegio, die' compagno ad Artois il cardinal Gherardo legato; ambo dicendo deputati dalla romana Chiesa a baiuli del regno, finchè il principe di Salerno non esca di prigione, o il papa altrimenti non voglia[62]: sottile accorgimento, che ammoniva la casa d'Aragona a non fidar troppo sul valore del pegno ch'avea in mano; e ricordava al mondo la pretensione del dominio del papa sul reame di Sicilia, di cui teneasi vacante il trono, o dubbia la persona del re. Indi i diplomi del tempo variamente s'hanno intitolati e senza legge, or col nome di Carlo primogenito del principe di Salerno, or con quello più vago di eredi e successori di Carlo I, e talvolta vi si aggiungono i nomi de' due baiuli, o leggonsi questi soli[63]. Più salutare consiglio fu quello di mandare ad effetto la riforma, non compiuta nei capitoli di Santo Martino, ove la principalissima parte, rimessa al papa, restava incerta come per l'addietro. Or Martino da senno volle i nuovi ordinamenti; come alla giustizia si ha ricorso ove adoprar non puossi violenza. Scrivea essere stato richiesto di quella riforma da re Carlo al tempo dell'andata a Bordeaux, e or novellamente; averla maturato a lungo; di presente promulgherebbela[64]. Aggiunse un sussidio di centomila lire tornesi perchè Artois s'armasse alla difesa[65]. {304} Le quali provvisioni e la saviezza e robusta man dei reggenti, massime d'Artois, sostennero il trono, o vacante, o dubbio tra un prigione e un fanciullo, con sudditi vogliosi di novità[66], e nimico vicino, quantunque indebolito per sospetti in Sicilia, e in Aragona turbolenze civili e guerra straniera. Pertanto Corrado di Antiochia riassaltando gli Abruzzi, fu rincacciato[67]: nelle altre province non si voltarono a re Pietro che tre ville marittime Gallipoli, Cerchiaro, e San Lucido[68].

Ma riparata appena la perdita di re Carlo, un'altra ne piombò sul governo di Napoli, non apposta come quella prima a cordoglio d'ambizione o fatiche di guerra. Allo scorcio di marzo, in Perugia, papa Martino, nimico fierissimo di Sicilia, morì, dicono alcuni, d'una scorpacciata d'anguille, che solea nudrir di latte e in vernaccia affogare: di che leggiadramente l'avea morso una satira del tempo[69], intitolata Primo principio de' mali, effigiando lui in manto e triregno, con una bandiera alla man destra, in segno delle attizzate guerre, e a sinistra un'anguilla ergentesi verso un augellino, che posato sulla mitra, reggendosi con le sparse ali s'inchinava a beccarla[70]. Altri scrive, ben altramente di Martino[71]. Ma i cardinali senza indugio, {305} chè punto non ne pativano i tempi, rifean pontefice Giacomo de' Savelli, romano, non per anco sacerdote, attratto e invalido della persona, destro d'ingegno, procacciante l'util de' suoi più che l'altrui danno; il quale si nomò Onorio IV[72]. Costui senza la prontezza ligia di Martino, tenne lo stesso metro, per l'antico disegno della romana corte. Avrebbe forse Onorio raffrenato il re di Napoli potente e ambizioso; dovea sostener adesso quel trono vacillante, che metteva in pericolo tutta la parte guelfa in Italia. Porse moneta dunque ad Artois[73]; confermò ai bisogni della guerra di Sicilia le decime delle chiese italiane[74]; raccomandò agli stranieri principi gli eredi di Carlo d'Angiò: e ne resta di lui una lettera a Ridolfo imperadore, perchè non contendesse il pagamento delle decime ecclesiastiche dei suoi dominî al re di Francia, già involto in assai spese per la guerra sopra Aragona[75].

E noti sono nelle istorie del reame di Napoli i due statuti, ch'Onorio sanciva a sedici settembre di quest'anno ottantacinque, preparati già da Martino. Nel primo dei quali raffermavansi con l'apostolica autorità tutti i privilegi ecclesiastici decretati nel parlamento di Santo Martino, come dianzi ricordammo[76]. L'altro risguarda il governo civile; dove dopo lungo preambolo, che apponea al tutto la ribellione di Sicilia alle avanie e ingiustizie del governo, trascrissersi e ampliaronsi le leggi del medesimo parlamento di Santo Martino, e molte più se ne dettero a guarentigia delle persone e dell'avere di ogni classe di sudditi. {306} Si disdisse l'iniquo spogliamento dei naufraghi: a favor delle famiglie de' baroni si estese ai fratelli e lor discendenti il dritto di redare i feudi: il militare servigio o l'adoamento si limitò alle guerre entro i confini del regno: e soprattutto si vietaron le collette, fuorchè nei quattro casi feudali; e si assegnò la somma da potersi levare in ciascuno di quelli. Io non so se debbasi lodar come guarentigia più forte dei sudditi, o biasimar di usurpazione sulla autorità regia, il richiamo de' comuni alla santa sede, decretato nelle costituzioni medesime; e lo interdetto sulla privata cappella del re alle prime violazioni di queste franchige, la scomunica persistendovi[77]: ma certo non potea la corte di Roma adoprare a miglior intento civile le spirituali armi. Questi capitoli Onorio fe' con molta sollecitudine promulgare da Gherardo per tutto il reame di Napoli, e massime nei luoghi più vicini a Sicilia[78]; e osservaronsi per poco. Poi increbbero ai governanti, come imposti da Roma, o larghi troppo; nè ebber luogo nel corpo delle leggi di quel reame[79].

Insieme con queste buone leggi Onorio adoprava non buone arti, suscitando in Sicilia congiure. A ciò mandovvi furtivamente due frati predicatori, Perron d'Aidone, siciliano, e Antonio del Monte, pugliese; i quali iti a Randazzo, recavano a Guglielmo abate di Maniace lettere pontificie con autorità di largheggiar indulgenze a chiunque per la Chiesa si ribellasse. Sospesi eran gli animi per la strepitosa guerra del re di Francia contro Aragona; freschi i torti d'Alaimo, e gli umori che ne dieron pretesto; le costituzioni di papa Onorio, più larghe de' presenti ordini pubblici in Sicilia. Indi l'abate con gravi parole di religione, trovò tosto seguaci due nipoti suoi, per nome {307} Niccolò e Francesco, messinesi, Bonamico de Randi milite, Giovanni Celamida da Traina, e più altri di Randazzo; indettatisi con giuramento a tradire, non so qual credeano, la patria o il re. E sì l'autorità del papa accecava le menti, che i due frati, passati a Messina, avean ricetto nel chiostro delle suore di santa Maria delle Scale; dal qual sicuro nido misteriosi usciano ad annodare lor fili. Ma la cospirazione allargandosi trapelò. Un Matteo da Termini, messovi sulle tracce dall'infante Giacomo, appostò alfine i due frati predicatori, aiutato da due frati minori, Simone da Ragusa e Raimondo, catalano; i quali il fecer cogliere a casa una femminuccia mendica. Addotti allo infante, senza pur minaccia, svelavan per ordine il trattato; e rimandati erano a Napoli con vestimenta, danaro, e barca apposta; per clemenza non già, ma contemplazione e paura del papa. L'abate fuggì: preso a Palermo, il mandavan prigione a Malta; indi a Messina; e infine libero a corte di Roma. I men rei, al contrario, gastigati severamente: dicollati a Messina i nipoti dell'abate; Celamida alle forche; Bonamico, gittatosi nei boschi dell'Etna a levar mano di disperati, fu accarezzato e svolto a parte regia dalle arti di Matteo da Termini[80]. Così la congiura si dissipò in Sicilia; mentre in Aragona terminava, senz'altro frutto che d'atti crudeli e mortalità infinita, la guerra che, tornando alquanto indietro nei tempi, ci faremo a narrare.

NOTE

[1] Saba Malaspina, cont., pag. 411.

Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.

Memoriale de' podestà di Reggio, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1158.

Tolomeo da Lucca, ibid., lib. 24, cap. 11, pag. 1190 e 1294.

Ferreto Vicentino, Ibid., tom. IX, pag. 955.

Cron. di San Bertino, op. cit., tom. III, pag. 765. Epistola di Carlo a papa Martino, data il 9 giugno 1284, nel Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 2.

Il numero delle galee di re Carlo è cavato dai diplomi, che s'accordano con d'Esclot, cap. 119. Ho scritto numero tondo, perchè ci sarebbe il divario di due o tre, che nascea dal computare or le sole galee, or anco i galeoni e qualche altro legno grosso.

[2] Saba Malaspina, cont., pag. 411.

[3] Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.

[4] Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.

Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 693.

[5] Giachetto e Villani come sopra. Con minori particolarità ne scrivon anco Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 28; e l'autor della vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611.

[6] Docum. XVIII.

[7] Lettere di Carlo, date il 9 e il 14 giugno, nel Testa, Vite di Federigo II di Sicilia, docum. 1 e 2.

In un'altra del 10 giugno, che si legge, come le precedenti, nel r. archivio di Napoli, registro segnato 1283, A, fog. 150, Carlo chiedeva al papa le bande di Giovanni d'Eppe, scrivendo tra le altre efficaci parole che: Sicut capitis sanitas vel languor in membris, sic in meis negotiis eiusdem Ecclesie status et dispositio sentiatur. E con ciò forse voleva far intendere al papa la posizione inversa, del bisogno che la Chiesa avea di lui. Veggansi inoltre:

Diploma dato di Napoli il 10 giugno 1284, per armarsi e fornirsi di vivanda le 19 galee e 2 teride, ch'erano nel porto di Napoli (le fuggitive della battaglia del dì 5), r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 188, a t.

Diploma dato di Napoli il 20 giugno, duodecima Ind. (1284) per consegnarsi ad Arrigo Macedonio 2,000 lanzones ferratos, per l'armata che dovea andare in Sicilia, reg. medesimo, fog. 157.

Diploma dato di Napoli a 20 giugno duodecima Ind. (1284), pei viveri a due galeoni di 72 remi, capitanati da Giovanni di Coronato, e Navarro, genovesi, r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, seg. 1291, A, fog. 4, a t.

Diploma dato di Napoli a 21 giugno duodecima Ind. (1284), Giovanni de Burlasio giovane, e Rinaldo d'Avella sono eletti capitani dell'armata di Principato e Terra di Lavoro, r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 155.

Molti altri scambi di officiali pubblici veggonsi in tutto questo registro dalla venuta di Carlo I, in giugno 1284, fino alla ritirata a Brindisi.

[8] Saba Malaspina, cont., pag. 418.

[9] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 41, ove è una epistola del 24 luglio 1284.

[10] Saba Malaspina, cont., pag. 412: Gentes per totam fere Italiam auxiliatrici conventione collectae, etc.

[11] Saba Malaspina, cont., pag. 412, 413.

Bart. de Neocastro, cap. 78.

Nic. Speciale, lib. 1, cap, 28.

Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.

Da questi scrittori non si vede che Carlo durante l'assedio di Reggio stesse per lo più alla Catona; ma il mostrano senza alcun dubbio i diplomi del r. archivio di Napoli, su i quali ho compilato il seguente itinerario: e valga a raffermare, e in qualche luogo a correggere, le tradizioni istoriche intorno a quest'ultima impresa di Carlo I.

1284—9 a 21 giugno—Napoli—reg. 1283, A, fog. 18 a t. 150, 155, 157, 188 a t.; e 1291, A, fog. 4, a t.

19 luglio—Catona—reg. 1283, A, fog. 5, a t.

20 a 29 luglio—Fossa di Catona—reg. 1283, A, fog. 5, 34 e 54.

31 luglio a 2 agosto—Campo allo assedio di Reggio—reg. 1283, A, fog. 5 a t. 34, 166, 166 a t. e 167.

4 agosto—Campo presso Amendolia—reg. 1283, A, fog. 167.

5 a 10 agosto—Campo alla spiaggia di Bruzzano—reg. 1283, A, fog. 5 a t. 24, 34, 34 a t. 45, 50, 158, 167; e reg. 1283, E, fog. 2.

17 agosto—Cotrone—reg. 1283, A, fog. 159.

18 a 20 agosto—Cotrone e Brindisi—reg. 1283, A, fog. 9, 174 a t. 158, 158 a t. 34 a t. 35; e 1283, E, fog. 2.

22 agosto—Cotrone—reg. 1283, A, fog. 160 e 170.

23 agosto a 7 ottobre—Brindisi—reg. 1283, A, fog. 6, 8 a t. 12 a t. 24, 25, 35 a t. 36, 174 a t. 175.

8 ottobre—Melfi—reg. 1283, A, fog. 179, a t.

10 ottobre a 15 novembre—Brindisi—reg. 1283, A, fog. 6 a t. 7, 7 a t. 8, 26, 27, 27 a t. e 47, a t.

26 novembre—Barletta—reg. 1283, A, fog. 12, a t.

1 a 21 dicembre—Melfi—reg. 1283, A, fog. 8 a t. 13 a t. 50, 179 a t.; e reg. 1283, E, fog. 2.

1285—7 gennaio—Foggia—reg. 1285, A, fog. 14 a t. Quest'ultimo fu dato il medesimo giorno della morte di Carlo I. Contiene una concessione a Guglielmo de Griffis, milite e famigliare suo. È scritto con altro inchiostro, e carattere frettoloso; e può al par indicare o una beneficenza di lui negli ultimi istanti della sua vita, o forse una frode.

[12] Bart. de Neocastro, cap. 78.

Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414.

[13] Saba Malaspina, ibid.

[14] Si scorge tal dubbio da' seguenti diplomi:

Diploma dato in Fovea Cathone a 29 luglio duodecima Ind. Ai mercatanti e preposti alle vittuaglie per l'esercito in Cotrone. Subito navighino pel capo di Bruzzano, e riceveranno gli ordini suoi, reg. 1283, A, fog. 166 a t.

Diploma dato al Campo sotto Reggio il 31 luglio duodecima Ind. a tutti i vegnenti allo esercito reale. Non piglin la via di Monteleone e del piano di S. Martino, ma di Cotrone e Gerace. A Gerace avranno nuove del re e dell'esercito, per sapere ove trovarli. Ibid., fog. 166.

Della stessa data del 31 luglio v'ha un diploma pel quale il re confermava agli uomini di Seminara le immunità, libertà e privilegi conceduti dal principe di Salerno in contemplazione della loro fedeltà e de' danni ch'avean sostenuto dal nemico. Ibid., fog. 166 a t.

[15] Veg. sempre l'itinerario posto in nota alla pagina precedente.

[16] Argomento le pratiche in Sicilia:

1º. Dalle parole del d'Esclot, cap. 119, che dice come in primavera dell'84 il principe di Salerno si apprestava a passare in Sicilia, con volentat de alguns homens traydors qui eren en Cecilia. Costoro dovean certo continuare col padre le pratiche tenute col figlio pochi mesi innanzi.

2º. Dalla reazione che avvenne in Sicilia dopo la ritirata di re Carlo, per opera dei più accaniti partigiani della casa d'Aragona e della rivoluzione del vespro.

3º. Dalla elezione del conte Roberto d'Artois a vicario generale in Sicilia, con pien potere di perdonare e dar guarentigie, docum. XX e XXI.

[17] Diploma dato in Castris in licore Brutzani a 5 agosto duodecima Ind. (1284). Si mandin subito al re per mare alcune macchine e stromenti da guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 167.

Diploma dato dello stesso campo di Bruzzano il 6 agosto perchè da Mantea si portassero subito all'esercito le macchine e i picconi già preparati per ordine del principe di Salerno, ibid., fog. 167.

Vari diplomi dati in Fovea Cathone a 29 luglio e in Castris in lictore Brutzani a 5 e 6 agosto, perchè si mandassero a Brindisi e Cotrone quantunque grani, legumi, carni salate e macchine da guerra, ibid., fog. 189.

Diploma in Castris in lictore Brutzani a 7 agosto. All'abate di S. Stefano del Bosco perchè incontanente faccia costruire per uso dello esercito 500 assi e piuoli per scale, e gliene mandi con istromenti da falegname, ibid., fog. 168 e 169.

Diploma dato ivi l'8 agosto, per gran copia di frumenti e vittuaglie, Ibid., fog. 169.

[18] Docum. XX e XXI.

[19] Questa data si ritrae dal Neocastro; e compie appunto l'intervallo dal 10 al 17 agosto che rimarrebbe nello itinerario compilato su i diplomi.

[20] Bart. de Neocastro, cap. 78 e 80. Da quest'ultimo si scorge che Giacomo era in Messina.

[21] Giachetto Malespini, cap. 222.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 94, che dice ancora della mancanza delle vittuaglie.

[22] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 28.

Anon. chron. sic., cap. 48.

[23] Saba Malaspina, cont., pag. 413, 414.

Docum. XXIII.

[24] Provano lo scompiglio dell'esercito e dell'armata di Carlo, i diplomi citati nella nota seguente.

Gli umori de' popoli in Calabria e nelle province di sopra, si argomentano da' provvedimenti di Carlo che, mentre era lì con un esercito per occupar la Sicilia, creava capitani generali ad guerram in quei luoghi, come si vede da' seguenti diplomi.

Diploma dato in Fovea Catune a 20 luglio duodecima Ind. (1284) per mettersi danaro e vittuaglie a disposizione di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, capitan generale in Calabria, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 5.

Diploma dato in Fovea Cathone a 27 luglio duodecima Ind. al medesimo conte di Catanzaro con lo stesso uficio di capitan generale in Calabria, ibid., fog. 166 e 172.

Tre diplomi dati al campo sotto Reggio il 1 e il 2 agosto duodecima Ind. Ruggier Sanseverino conte di Marsico è eletto capitan generale in val di Crati. Gli è commesso di difender quella provincia dai nemici e ribelli che la travagliavano, ibid., fog. 166 a t. e 167.

Diploma dato di Cotrone a 22 agosto duodecima Ind. (1284). Per informazioni pervenute al re si diede lo scambio al conte di Catanzaro nel detto uficio di capitan generale in Calabria; e gli fu sostituito Tommaso di Sanseverino figliuolo del conte di Marsico, ibid., fog. 160.

[25] Docum. XIX e XXII.

Diplomi dati in campisin obsidione Regii a 2 agosto duodecima Ind. (1284). Agli uomini di Martorano e d'altre città. Mandino subito catturati i marinai e subsalientes (erano quelli destinati al maneggio delle vele) che senza commiato lasciavano l'armata regia, e si spacciavano campati dalle mani de' Siciliani, r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 166.

Diplomi dati del campo a Bruzzano il 6 agosto duodecima Ind. perchè a Squillaci e in altri luoghi si ricercassero i disertori della flotta, e a prevenir quelli dell'esercito si ponessero guardie de' terrazzani a tutti i passi vicini al campo, cioè: Nicastro, S. Biaggio, e altri. Si guardi che non passino travestiti da mercatanti, ibid., fog. 167, a t.

Diploma dato del campo a Bruzzano il 7 agosto, per custodirsi come sopra, per cagion de' disertori, i passi di Cotrone, Sanseverino, Tatina, Rocca Bernarda e vicinanze, ibid.

Diploma dato del campo di Bruzzano il 9 agosto duodecima Ind. (1284). Ordinovvisi di fare per tutte le terre marittime, una rigorosa inquisizione di coloro che avessero ricevuto stipendi per l'armata, e l'avesser lasciato; e di prenderli e mozzar loro il piè sinistro, ibid., fog. 54.

Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castrovillari, che facciano stretta guardia per catturare questi disertori dell'armata, ibid., fog. 159.

Diploma dato di Cotrone a 17 agosto, agli uomini di Castellamare, per mandargli prigioni i marinai disertori, ibid., fog. 169, a t.

Diploma dato di Brindisi il 7 settembre tredicesima Ind. perchè da Taranto gli si mandassero alcune galee delle isole e costiere del golfo di Napoli, abbandonate senza permesso da' nocchieri, vogadori e sussalienti, ibid., fog. 161.

Diploma dato di Brindisi a 9 settembre tredicesima Ind. (1284) per farsi catturare i marinai delle navi provenzali che, disarmata la flotta, fuggissero, ibid., fog. 6.

Due diplomi, dati di Brindisi il 9 settembre, perchè si ritenesse, anche con la forza, Giovanni de Coronato genovese, che da Taranto si volea partire per Genova col suo galeone, ibid., fog. 162.

Diploma dato di Brindisi a 12 ottobre tredicesima Ind. È un'altra lettera circolare per catturarsi i disertori della flotta, ibid., fog. 6, a t.

[26] Bart. de Neocastro, cap. 79.

[27] Bart. de Neocastro, cap. 80.

Saba Malaspina, cont., pag. 414.

[28] Saba Malaspina, cont., pag. 414, 415.

[29] Tutte queste fazioni con poco divario leggonsi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 82.

Saba Malaspina, cont., pag. 415 a 417.

Le confermano ancora i documenti qui notati:

Diploma dato del campo sotto Reggio il 2 agosto duodecima Ind. (1284) a Riccardo Claremont, riguardanti sei terrazzani di Chiaramonte presi da costui per lor mali portamenti, adherendo et favendo Frederico Musca proditori et mugaveris inimicis nostris. Nel r. archivio di Napoli, reg. segn. 1283, A, fog. 166, a t.

Diploma dato di Brindisi il 3 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo di Lauria e ai cittadini di Maratea. Sapendo i danni e le molestie che tuttodì soffrivano dai nemici, il re esortavali a tener fermo, promettea aiuto e compensi larghissimi; fidassero nella sua possanza e virtù, ibid., fog. 163, a t.

Diploma dato di Brindisi il 5 settembre tredicesima Ind. Avendo testè inteso l'eccellenza del re che gl'infedeli almugaveri fossero corsi in masnade infino alle terre di Riccardo di Chiaramonte nei confini delle province di Basilicata e Principato, comandava a quei due giustizieri di adunar le loro forze di cavalli e fanti, e combattere questi nemici, ibid., fog. 60, a t.

Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. indirizzato a Riccardo di Claremont, permettendogli di richiedere ostaggi da alcuni suoi vassalli, sospetti nelle presenti turbazioni; e di ridurre sotto le fortezze gli abitanti de' casali in pianura, ibid., fog. 161.

Diploma dato di Melfi a 8 ottobre tredicesima Ind. per fornirsi danaro a Roberto conte d'Artois, vicario generale In Calabria, al quale n'era mestieri per vari negozi, ibid., fog. 179, a t.

Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre tredicesima Ind. Giovanni di Salerno è eletto capitan generale ad guerram contro i ribelli e nemici di Scalea. Comandasi di aiutarlo a' giustizieri di Basilicata, Principato e val di Crati, agli uomini di quelle province, ed a Riccardo di Chiaramonte, ibid., fog. 51, a t.

Diploma dato di Brindisi il 26 ottobre per destinarsi un capitano in Maratea, avendo i nemici occupato Scalea e i luoghi vicini, ibid., fog. 51, a t.

Diploma dato di Brindisi a 8 novembre tredicesima Ind. Il giustiziere di Basilicata per mezzo di Bellono Bello da Messina, notaio e familiare del re, gli avea domandato quale eseguir prima tra tanti suoi ordini; cioè di raccorre la moneta della sovvenzione, d'aiutare Riccardo Chiaramonte, ec. Carlo scrivea che pensasse alla moneta, e differisse il resto, ibid., fog. 52.

Diploma dato di Brindisi il 14 novembre per mandarsi 100 salme di frumento a Maratea, che soffriva la penuria, oltre le scorrerie e gl'insulti de' nemici, ibid., fog. 52, a t.

[30] Bart. de Neocastro, cap. 83 e 84.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 30.

Montaner, cap. 117, il quale porta con anacronismo questa correria dopo il passaggio di Giacomo in Calabria, e la confonde con le altre che Loria fece di quel tempo in Levante.

Del resto la descrizione geografica di questi istorici, si riscontra con quante oggidì n'abbiamo più accurate. Quest'isola è detta anche Zebiba, e tolse il nome o il diè, a quella qualità d'uva che chiamiam così in Sicilia. Giace a 34° 10' di latitudine sett. e 9° di longitudine orientale dal meridiano di Parigi. La cinge una sirte di qualche dieci miglia di raggio, e da 3 a 7 braccia di profondità, che si stende a guisa d'istmo infino al continente, e potea una volta passarsi a guazzo. Plinio scrive che i barbari ruppero un ponte che la congiungea alla terraferma. Produce quest'isola ulive, fichi, uva, e il famoso loto de' Greci antichi.

[31] Ciò non fu immediatamente dopo la conquista, perchè fino al gennaio 1285, i suoi titoli erano: ammiraglio di Aragona e di Sicilia, signor di Castiglione, Francavilla, Novara, Linguaglossa e Tremestieri. Da un diploma del 25 gennaio 1285, nei Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, pag. 147.

[32] Bart. de Neocastro, cap. 85.

[33] Bart. de Neocastro, cap. 86.

[34] Queste riflessioni nascono dalla esamina di tutti i fatti sparsi nel presente capitolo, e in particolare da que' d'Alaimo, e dell'eccidio de' prigioni in Messina, e del giudizio contro il principe di Salerno. Pei sospetti di pratiche angioine in Sicilia, veggasi ciò ch'è detto di sopra a pag. 277, nota 5. Confermali il Nangis nella vita di Filippo l'Ardito, Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544, ove si legge: Sed quia Siculi principem Salernae Carolum quem captum tenebant, de urbe Messanae ad quoddam castellum Siciliae transtulerant, volentes cum ipso, sicut sibi dictum fuerat, reconciliari, timens Siculorum infidelitatem, etc. I quali umori poteano esser veri, ancorchè il Nangis apertamente errasse nella cagione del tramutamento del principe di Salerno da Messina a Cefalù, che fu appunto la contraria.

Veggasi anche Saba Malaspina, cont., pag. 420 e 421; e il Neocastro, cap. 86, 88, 89.

[35] Bart. de Neocastro, cap. 86.

[36] Montaner cap. 95.

[37] Bart. de Neocastro, cap. 87.

[38] Bart. de Neocastro, cap. 88.

[39] Secondo il catalano Montaner, cap. 113, 114, i governanti di Sicilia, liberata la minutaglia dei prigioni della battaglia di Napoli, domandavano al re a Barcellona: che far de' nobili, che del principe? e convocavano di lì a due mesi, per dar tempo alla risposta, un parlamento a Messina. S'ebbero incontanente lettere del re, segretissime, fuorchè alla regina, a' figli e all'ammiraglio; ma tutto che s'oprò fu dettato da quelle. Indi adunato il parlamento de' nobili, sindichi delle città, e Messinesi a pien popolo, Giacomo tornava a mente i fatti di Manfredi e Corradino, quasi chiedendone vendetta nel sangue dell'unico figliuolo di re Carlo: onde tutti il chiamarono a morte, e la sentenza fu distesa; ma Giacomo inaspettatamente, per campare il principe di Salerno, lo fè imbarcare alla volta di Catalogna: il che prova quanto mal ricordavasi il fatto Montaner, e quanto volea inorpellarlo a lode di Giacomo. Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421, scrive ancora del parlamento in Messina, supponendo che gli usciti napoletani persuadessero la regina a quella vendetta; perilchè chiamati dall'isola tutta i nemici più fieri del nome francese, fu posto il partito; ma contrastandolo i Messinesi, il parlamento scioglieasi a tumulto; e gli esuli sfogavano con ammazzare quanti colsero de' prigioni. Questo scrittore aggiugne, che Giacomo fieramente nimicava parecchi nobili per aver negato di andare al parlamento, o di condannare il principe; tra i quali Alaimo di Lentini, famoso e caro per tutta Sicilia, onde per torlo dal centro delle sue forze, a tradimento l'addusse in Palermo, e poi in Aragona il tramandò. Il Neocastro, cap. 87, 88, non dice di parlamento in Messina, ma in Palermo, adunato dopo il tumulto contro i prigioni in Messina. Dalle quali testimonianze si vede dubbio se prima dell'ammazzamento de' prigioni ci fosse stato un parlamento in Messina; ma risaltan sempre scolpitamente gli umori e le cagioni che io scrivo nel testo.

[40] Multorum quoque viscera, quae crudeli gladio nonnulli delectabantur exules aperire, ignis subiecti torrent in pruina, et iam assata in naturali cupiditate famelica lambunt, et immittunt etiam in crudelem stomacum velut cibum, etc.

[41] Bart. de Neocastro, cap. 88.

Saba Malaspina, cont., pag. 420, 421.

Giachetto Malespini, cap. 224.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.

Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.

Francesco Pipino, ibid., cap. 18.

[42] Bart. de Neocastro, cap. 88, 89.

Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 18.

Giachetto Malespini, cap. 224.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 96.

Epistola di Alfonso a Eduardo, data il 4 gennaio 1289-90, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II.

[43] Bart. de Neocastro, cap. 88, 89, 91.

[44] Bart. de Neocastro, cap. 96.

[45] Leggasi in Bartolomeo de Neocastro, cap. 109.

[46] Veggasi l'itinerario posto di sopra, e a pag. 280, i diplomi dati di Cotrone e di Brindisi pe' disertori.

[47] Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 15.

Saba Malaspina, cont., pag. 419.

Diploma dato di Brindisi a dì 8 novembre tredicesima Ind. (1284), dal quale si vede che Stefano Angelone avea dato un castello su i confini del contado di Molise ai traditori, tra i quali era Corrado d'Antiochia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 8.

[48] Saba Malaspina, ibid.

[49] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 16.

[50] Saba Malaspina, cont., pag. 417.

[51] Veggasi il docum. XXIII.

Diploma dato di Brindisi il 6 settembre tredicesima Ind. (1284) a Riccardo Milite e a' Saraceni di Lucera. «Per appagare il vostro desiderio vi diciamo esser giunti salvi in Brindisi, e soggiornarvi sani ed ilari; intendendo virilmente e potentemente alla confusione de' nemici e ribelli siciliani. Si custodiscan bene le corazze e gli archi d'osso dei Saraceni che sono stati al nostro esercito, e si aspetti la nuova impresa.» Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 161, a t.

[52] Malaspina, loc. cit., e i seguenti documenti:

Diplomi dati di Cotrone dal 21 al 24 agosto duodecima Ind. (1284) e di Brindisi dal 2 al 27 settembre tredicesima Ind. (1284), che i feudatari chiamati al servigio militare potessero riscuotere sovvenzioni, ossia aiutori da' lor vassalli. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 9.

Altro dato di Brindisi il 2 ottobre, col quale si comanda di portar legname per la riparazione dell'armata. Ibid., fog. 46, a t.

Diploma dato di Brindisi il 2 ottobre tredicesima Ind. Proponendosi nella vegnente primavera tornare in Sicilia con armata ed esercito, ordina che nessun uomo di mare esca dai porti del regno, ma che tutti aspettino per servire nell'armata. Ibid., fog. 177, a t.

Diploma dato di Brindisi il 7 ottobre tredicesima Ind. È una lettera circolare perchè si fabbrichi gran quantità di quadrella di uno e due piè. Ibid., fog. 6, a t.

Altro diploma dato di Brindisi il 9 ottobre tredicesima Ind., per farsi subito 50 mila saette per archi, ben astate, ferrate, e impennate di penne d'avoltoio. Ibid., fog. 46.

Altra circolare data anche di Brindisi il 10 ottobre, perchè s'adunasse copia di frumento e d'orzo pe' bisogni dell'esercito. Ibid., fog. 7.

Altra circolare data di Brindisi il 20 ottobre, per munirsi con estrema cura le fortezze di viveri per un anno. Ibid., fog. 7, a t.

Altra data di Brindisi il 21 ottobre, per farsi biscotto. Ibid., fog. 38, a t.

Altra del 15 novembre, per biscotto, Ibid., fog. 47, a t., e altre disposizioni al medesimo effetto, fog. 46 a 58.

Diploma dato di Barletta il 25 novembre tredicesima Ind., per vari arnesi fabbrili necessari all'esercito. Sarebbe importante a chi volesse illustrare l'arte militare di quel tempo. Ibid., fog. 48.

Altra circolare data di Melfi il 1 dicembre, per vittovagliarsi le fortezze. Ibid., fog. 8, a t.

[53] Diploma dato di Brindisi a 5 settembre tredicesima Ind. (1284). È una circolare ai giustizieri perchè prendan moneta per ogni verso, e subito la mandino al re, pei suoi ardua et immensa negotia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1283, A, fog. 6.

Diploma dato di Brindisi il 15 settembre tredicesima Ind. È la scritta del ricevuto di once 1,400 da mercatanti di Pistoia, la più parte in fiorin d'oro alla ragione di 5 per oncia, per conto dell'imprestito di once 28,890, fatto a Carlo principe di Salerno dalla santa sede, sulle decime ecclesiastiche destinate all'impresa di Terrasanta. Ibid., fog. 162.

Veggasi anche un altro diploma dato di Brindisi a 10 novembre tredicesima Ind. È una lettera circolare con disperata chiesta di danari, pe' tanti bisogni, e massime per la riparazione della flotta che nella vegnente primavera, con l'aiuto di Dio, passerebbe sopra i ribelli di Sicilia. Ibid., fog, 8.

[54] Docum. XXIII.

[55] Saba Malaspina, cont., pag. 417, 418, 419. Anche Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142 e 252. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29, e lib. 6, cip. 10; Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 695, e parecchi altri attribuiscon la morte di re Carlo al dolore e dispetto di que' casi della guerra di Sicilia.

[56] Saba Malaspina, cont., pag. 421.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 11; in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Un diploma di Carlo I dato di Melfi il 14 dicembre tredicesima Ind., provvide alle spese per lo viaggio della regina. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1283, A, fog. 8, a t.

[57] Bolla di Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 3.

[58] Saba Malaspina, cont., pag. 422.

Giachetto Malespini, cap. 223.

Bart. de Neocastro, cap. 90.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 95.

Montaner, cap. 118.

Cronache del Regno di Napoli, editore Perger, tom. I, pag. 31 e 58. Quivi si dice la morte di Carlo nel 1284, contando gli anni dal 25 marzo.

Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.

Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 955; e la più parte degli altri contemporanei.

L'istituzione di Filippo l'Ardito a tutore delle contee di Provenza e d'Angiò si legge nel docum. XXIV. Dopo ciò ho creduto mettere in dubbio la tradizione de' citati scrittori che portano lasciato a dirittura il regno a Carlo Martello. Carlo I non volle certamente dividere il regno dalle contee, perchè lasciò anche queste a Carlo Martello nel caso della morte di Carlo lo Zoppo. Non sembra dunque probabile ch'egli avesse stabilito due ordini diversi di successione, chiamando Carlo Martello al regno appena uscisse di minorità, e alle contee solamente dopo la morte del padre in prigione. Dall'altro canto può darsi che Carlo I credesse provvedere abbastanza al governo della Provenza e dell'Angiò durante la prigionia del signor naturale, con quello espediente di fare un tutore delle contee piuttosto che del conte; ma non giudicasse nè legittimo nè sicuro partito di lasciar la corona reale a un prigione, o vôto il trono fino alla sua liberazione. La riconosciuta sovranità suprema della corte di Roma, e il non trovarsi preveduto il caso nella legge dell'investitura accresceano forse la difficoltà: nè è impossibile che Carlo non potendole scegliere, le abbia saltate rimettendosene al papa. Io non ho voluto supplire con l'analogia alla mancanza del fatto; ed ho lasciato in dubbio i termini della sostituzione di Carlo Martello, come restarono negli atti de' governanti di Napoli fino alla liberazione di Carlo II.

La età di Carlo I erroneamente rapportata dalla Cronaca d'Asti, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 164, si ricava dal P. Anselme, Hist. généalogique et chronologique de la Maison royale de France, tom. I, cap. 14, pag. 191.

La elezione del conte di Squillaci si conferma dal diploma 1º del tom. II dell'Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, notato qui appresso; la condizione della scelta d'Artois leggesi in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 5.

[59] Gio. Villani, lib. 7, cap, 95.

[60] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 29.

[61] Geste de' conti di Barcellona, cap. 26, nella Marca Hispanica del Baluzio.

[62] Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 5, 6, 7, 8, bolla del 14 febbraio.

[63] Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, diplomi dalla pag. 1 a 43, e annotazione 1 alla pag. 2.

[64] Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 3, bolla del 9 febbraio.

[65] Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd., tom. III, pag. 765.

Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 543.

Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, pag. 611.

Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom, IX, pag. 726.

[66] Nangis, loc. cit.; Francesco Pipino, loc. cit.

[67] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 9.

[68] Bart. de Neocastro, cap. 90.

[69] È attribuita a un abate Gioacchino. Francesco Pipino, loc. cit., lib. 4, cap. 20.

[70] Dal Torso fu, e purga per digiuno Le anguille di Bolsena e la vernaccia. DANTE, Purgat., c. 24.

e ciò che nota in questo luogo Benvenuto da Imola.

Francesco Pipino, lib. 4, cap. 21, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 726, il quale rapporta i due versacci:

Gaudeant anguille quod mortuus est homo ille. Qui quasi morte reas excoriabat eas.

Della morte di questo pontefice e non della cagione, dicono ancora Giovanni Villani, lib. 7, cap. 106. Ricobaldo, loc. cit., ec.

[71] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 12.

[72] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 14.

Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 24, cap. 13, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

[73] Nangis, loc. cit., pag. 544.

Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 16.

[74] Raynald, ibid.

[75] Raynald, ibid., §. 23, breve del 1º agosto 1285.

[76] Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 43, e seg.

[77] Raynald, Ann. ecc., 1285, §§. 29 a 51.

[78] Ibid., §. 53.

[79] Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, lib. XI, cap. 1.

[80] Bart. de Neocastro, cap. 98.

CAPITOLO XII.

Opere della corte di Roma contro Pietro d'Aragona. Concessione di quel reame a Carlo di Valois. Protestazioni e pratiche di Pietro. Contese di lui con le Corti di Aragona. Lega di que' baroni; grande esercito e armata che apparecchiansi in Francia. Invasione del Rossiglione, poi della Catalogna. Straordinaria fortezza e perseveranza di re Pietro; assedio di Girona. Morìa nel campo francese. Pietro ripiglia le offese. Fazioni di mare. Loria con l'armata siciliana riporta segnalata vittoria su i Francesi. Ritirata di re Filippo, e sua morte. Carlo lo Zoppo mandato prigione in Catalogna. Morte di Pietro. 1282-1285.

La guerra sopra Aragona, pensata al primo fallir dell'impresa di Sicilia, per avviluppar Pietro in tal briga nel suo antico reame, che lasciasse la difesa del nuovo, si macchinò poco men che tre anni, tra Carlo, papa Martino e Filippo l'Ardito. Di leggieri crederò a Martino, che parecchi baroni francesi stigavano a quella il re, dicendo insopportabili ormai le offese di Pier d'Aragona, e vergogna al sangue reale e a tutta la nazion francese, se non ne pigliasse vendetta[1]; perchè par che il risentimento della strage del vespro tutto si fosse volto contro il re d'Aragona, quando si vide ch'ei ne raccoglieva i frutti, e incalzava e sfregiava sempre più la casa d'Angiò, e facea scorrer nuovo sangue francese ne' combattimenti di Calabria. Le arti de' grandi infiammaron certo il sentimento pubblico; menando tanto romore del duello; gridando Pietro codardo perchè lo schivava, e traditore perchè avea assalito Carlo in Sicilia senza disfida. D'altronde la corte di Francia, sollecitata e piaggiata assiduamente da casa d'Angiò[2], e allettata dall'onore di ristorarla in Italia, ben potea desiderare una impresa, che insieme promettea larghi {309} acquisti oltre i Pirenei. La nazione, pronta per indole alla guerra, v'era anco sospinta dalle condizioni sociali, e dall'uso alle crociate: chè perfetta crociata fu questa, sì alle bandiere, e sì all'intento de' crocesegnati, divenuto sì basso e profano nel secolo decimoterzo. È notevole che nel trattare tal impresa detta sacra e suscitata dalla corte di Roma, si manifestò ne' consigli di Filippo una insolita gelosia e diffidenza contro lei, un desiderio a spillare i danari ecclesiastici, un accorgimento e contegno di cui Martino si maravigliò, si adontò, ma gli fu forza sopportarlo. I principî d'ordine monarchico, prevalsi nel regno di san Luigi e messi già in opera contro la feudalità, si sollevavan contro la potenza papale; e preparavano la lotta di Bonifazio con Filippo il Bello.

Il primo divisamento in Francia fu di muover la guerra senza frasi: volean le decime delle rendite ecclesiastiche, ed eran pronti a pigliare le armi: il vescovo di Dol e Raoul d'Estrées, maresciallo di Francia, portarono al papa questa ambasceria di Filippo sul fin dell'anno ottantadue. Ma quegli rispose che volea meglio colorire la cosa; aspettar che Pietro persistesse nella occupazione della Sicilia fino a un termine dato; e poi con forme di giustizia e gravi sentenze compilar l'atto della disposizione del regno d'Aragona: e così fece, scrive egli, con molta prestezza, fidando in Dio e nella Francia, che fosse pronta sempre ad eseguir con le armi il giudizio della corte di Roma[3]. Ad accrescere il premio, mise fuori un'altra bolla che spogliava Pietro del reame di Valenza[4]. Volle impedire l'ingrandimento della Francia nella guerra che si dovea sostener col suo sangue, dichiarando contro il voto di parecchi {310} cardinali[5] che concederebbe que' reami a un de' figliuoli di Filippo l'Ardito, a scelta del re o della santa sede s'ei tardasse, eccetto il primogenito sempre. Nè lasciò occasione d'allungar la mano nei patti fondamentali della nuova dinastia; pretendendo immunità ecclesiastiche larghissime, omaggio e censo a Roma[6]. A trattar queste e le altre condizioni dell'impresa, avea già inviato legato pontificio Giovanni Chollet, cardinal di Santa Cecilia; che venne a corte di Francia con Carlo d'Angiò innanti il dì del duello[7]; e con quell'autorità, scrive Montaner[8] che dalla terra annoda e scioglie ne' cieli, annullò i giuramenti della lega di Filippo con Pier d'Aragona. Durò assai più fatica a vincer le opinioni de' consiglieri del re, dette di sopra e accettate da' prelati e baroni, che componeano il parlamento, non scaduto per anco a mera corte di giustizia, e rappresentante, com'or direbbesi, gl'interessi della nazione, o delle classi privilegiate che se ne arrogavano il nome.

Nè credo confondere i nomi e le idee d'oggidì con quei del secol decimoterzo, se dico che non solo la corte di Francia volle far patti accorti con Roma, ma che anco il parlamento non amava gittar su la nazione tutto il peso d'una guerra che a lei nulla giovava, ma a Carlo d'Angiò, alla {311} corte di Roma e ad alcun de' figli di Filippo l'Ardito. Perchè nel primo disegno detto dinanzi si chieser le sole decime per tre anni in quel ch'era allora il reame di Francia; ma trattandosi l'investitura come voleala il papa, si domandarono le decime per tutta cristianità, o almeno per quattro anni nella più parte del territorio francese d'oggidì; e le prime annate dei beneficî ecclesiastici nuovamente provveduti; i legati pii, e altri sussidi; oltre le indulgenze, l'autorità della commutazione de' voti; e alcune condizioni che mantenessero la dignità del re verso la corte di Roma; e si sostennero le libertà ecclesiastiche de' popoli d'Aragona: ma soprattutto si pretesero tai favori del papa sia che il parlamento consigliasse il re, sia che lo sconsigliasse, che è a dire se la nazione concorresse o no alla impresa in favor del figliuolo del re. Adirossene il papa; rispose a Filippo il nove gennaio dell'ottantaquattro, chiamando scandalosa l'inchiesta delle annate dei beneficî; orribile a udirsi quella delle concessioni nel caso che il parlamento sconsigliasse; assurda l'altra delle decime in tutta cristianità; e in bel modo rimproverò Filippo e il parlamento di mala fede, d'incostanza, d'ignavia, d'abbandonar la santa sede e la casa d'Angiò, di macchiare il nome francese e dar argomento alle lingue de' suoi nemici. Ma, come fa chi ha maggior voglia, cominciò a piegarsi alle stesse inchieste di cui lagnavasi[9]; mandò al legato, in tante lettere diverse, l'assentimento alle varie condizioni; e gli commise che persistendo il re, gli cedesse[10]. Queste concessioni e le arti del legato conseguiron l'intento.

Chiamati in Parigi i prelati e i baroni, il venti febbraio milledugentottantaquattro, il re lor significava le ultime negoziazioni; e metteva il partito della guerra. Presero tempo d'un giorno a deliberare, di tre a rispondere; e il dì {312} ventuno assai per tempo adunavansi nel palagio reale; divisi in due sale i prelati da' baroni, e assente il re. Il legato che non era lontano nè si rimase a man giunte, fingea poi gran maraviglia della ispirazione per cui virtù le due camere, lontane e ignare de' procedimenti l'una dell'altra, deliberassero la guerra in un medesimo istante. La camera de' baroni mandò prima il messaggio a' prelati; il legato non tardò a far venire il re co' suoi cortigiani; e il medesimo giorno in pien parlamento, innanzi a gran moltitudine l'arcivescovo di Bourges e Simone de Nigel annunziavano a Filippo la deliberazione; Filippo ringraziava, e assentiva l'impresa: il giorno appresso, convocato di nuovo il parlamento, fe' intender la scelta fermata in persona di Carlo di Valois, suo secondo figliuolo[11]. Giurò per costui il padre; il cardinale conferì al fanciullo l'investitura de' regni d'Aragona e Valenza e del contado di Barcellona[12] con istrano rito di porgli in capo un cappello; onde, perchè la terra poi non ebbe, re del cappello il motteggiavano[13]. Ratificò il papa a dì primo marzo; die' la bolla di concessione in buona forma il tre maggio[14]. Lo stesso giorno trasferisce al cardinal di Santa Cecilia piena autorità in Francia, Navarra, Aragona, Valenza, Maiorca, e tutt'altre province ov'era intendimento di levar genti, o {313} portar la guerra; concede per quattro anni le decime dei beni ecclesiastici nel reame di Francia, e nelle province del Viennese, Lione, Liege, Metz, Verdun, Toul, Besançon, Tarantaise, Embrun; e fino in città appartenenti allo impero e altre lontane contrade[15]. Indi commette al legato di predicar la croce; accorda le indulgenze come in guerra di luoghi santi[16]; e oltre le decime, anco i legati pii[17], e un prestito su le somme già raccolte per l'impresa di Gerusalemme, e altri favori che il re domandava, uno dei quali era richiesto da' baroni, dichiarando tenuti i crociati a pagar loro le taglie e prestazioni solite[18]. Ebbe anche le decime ecclesiastiche ne' suoi dominî Giacomo re di Maiorca e conte del Rossiglione, fratello di re Pietro. Ei volendosi scioglier dall'omaggio feudale alla corona aragonese, avea colto il destro di voltarsi contro il fratello, mostrando d'ubbidire alla Chiesa[19]. Fu di tanto più vile, che dissimulò a lungo lo accordo co' nemici della sua {314} schiatta, fermato nell'ottantatrè, riconoscendo anco tener dal re di Francia Montpellier e Lans; e che promise per solenne scritto di dargli i passi della Catalogna, vittuaglie, fortezze, e di combatter contro il fratello: patti d'empietà che giurò sul vangelo[20], e che attiraron su la sua patria le più atroci calamità.

Ma Pietro saputa la prima sentenza del papa, e preparandosi a renderla vana coi fatti, volle combatterla anco nelle forme. Richiamossene prima per ambasciadori; dei quali altri dal nimico fu preso, alla romana corte pervennero Arnaldo di Rexach e Bernardo de Orlè[21]; che esposte le ragioni del re, per lui chiedean sicurtà a difendersi in persona innanti il sacro collegio; e proponean compromesso in cinque principi di cristianità; ma rispinti dal papa assai duramente, protestarono, e della sentenza appellaronsi, scrive il Montaner, a Dio e a san Pietro, con uno scritto in buona forma per man di notaio[22]. Fantasia che bene sta ai tempi; e nascea da un giusto argomento di re Pietro, comune a' più alti ingegni di quell'età, e fortemente scolpito in tutte le memorie nostre d'allora, ch'era, distinguer sempre la religione dalla Chiesa; lagnarsi ove occorresse del papa, ma esaltar sempre la fede cristiana. Nè da altro forse fu dettato il motto degli agostali d'oro battuti in Sicilia con l'aquila siciliana nel dritto, e il nome della regina Costanza e sopra quello il motto «Cristo vince, Cristo regna, Cristo comanda;» e nel rovescio l'armi d'Aragona, il nome di Pietro, e su quello «La somma possanza in Dio è[23].» Apparecchiavasi come ultimo {315} capo di difesa, per ischivar anco la quistione del dritto della corte di Roma, quella donazione de' reami ad Alfonso, di cui parlammo di sopra[24]; ma Pietro non l'usò perchè la lite si trattò poi con la spada. Anzi sentendo la propria sua forza nel navilio, e negli ordini d'entrambi i reami d'Aragona e Sicilia, scherzava su la sentenza del papa, chiamandosi non più re, ma Pier d'Aragona, cavaliere, padre di due re, e signor dei mari[25]. Con la stessa non curanza e col brio d'un cavalier trovadore, ei poetò in provenzale: turbarlo sì questa mostra de' gigli; ma si vedrebbe alle prove se gli torrebbero il baston giallo e vermiglio, o se troverebbe la perdizione in Ispagna chi verrebbe a cercarvi la perdonanza: per sè ei non chiedeva armadura in questa guerra, sol che la sua donna lo confortasse con un sorriso[26].

Un'altra ambasceria inviò in Francia a dolersi della rotta fede; ove ai suoi legati non pur fu dato di vedere il {316} re[27]: e lo stesso avvenne alla reina Margherita, madre di Filippo, che parlar volle di pace[28]. Indarno ancora ne mosse pratiche Eduardo, re d'Inghilterra, prima per suoi ambasciadori in Guascogna, poscia per lettere all'abate di San Dionigi; perchè il legato, ben trascelto da papa Martino, sturbò ogni mite consiglio[29]. Nondimeno non potè Pietro portar l'Inglese alla guerra contro Francia, che pur non ne mancavano altre cagioni. Non altrimenti gli tornò il chieder soccorsi all'imperatore Ridolfo, profferendo cedergli suoi dritti sulla contea di Savoia, e aiutarlo in Italia contro parte guelfa[30]. Più assegnamento facea sopra Sancio di Castiglia, da lui favoreggiato nella ribellion contro il padre; il quale or morto, e usurpato il reame da Sancio, venne Pietro con esso lui a spessi abboccamenti, e fermarono aiuto scambievole, e larghe promesse n'ebbe, ma all'uopo non sel trovò[31]. Nei quali maneggi affaticatosi indarno il re d'Aragona da giugno dell'ottantatrè infino allo entrar dell'ottantacinque, vedea già le armi di Francia alle porte, nè era un sol potentato straniero che si levasse per lui.

Nè meglio avea da sperare in casa, ove a que' liberi spiriti spagnuoli forte increbbe l'impresa di Sicilia, cominciata {317} senza voler delle corti, compiuta senza pro del reame: che anzi per aver Pietro occupato gli altrui, vedeano in tanto rischio i propri lor focolari; e frugavali anco la paura del cielo[32], perchè papa Martino, sapendo non osservato l'interdetto, ribadillo per aspri comandi all'arcivescovo di Narbona[33]; ond'or vedeansi serrate le chiese, furtiva e tetra celebrar una sola messa ogni settimana, null'altro sagramento che il battesimo ai nati, la penitenza ai moribondi, maledetta miseramente la terra che i lor maggiori aveano bagnato di tanto sangue per la cristiana fede. Perciò in lor dispetto, chiamavan Sicilia l'isola del dolore[34]. Adontavali inoltre quel cupo governar di Pietro, senza consiglio delle corti nè di uomini del reame, ma d'usciti italiani o sudditi di Sicilia. Ma sopra tutto doleansi delle non osservate franchige, o, come suonano in lor idioma, fueros del paese; della negata restituzione dei beni occupati una volta a torto da re Giacomo; della quinta ossia balzello sugli armenti, che assentito per la guerra di Valenza, ma riprovato dalle corti d'Exea, tuttavia si levava; dell'autorità del Justiza tenuta in non cale; delle turbate giurisdizioni de' magistrati, e somiglianti abusi. Rinnaspriali il timore di molto scempio in questa guerra; perchè da re Filippo s'aspettavano audacissimi fatti, e spaventava l'oro e la riputazione di Roma[35].

Poco appresso l'avventura di Bordeaux questi umori parver fuori, a una prima scorrerìa che re Filippo movea in segno d'animo ostile dal finitimo regno di Navarra, già {318} da lui occupato[36]. Molte migliaia di cavalli e pedoni francesi entraron per quattro leghe a dare il guasto in terra d'Aragona; nè pur ciò bastava a spuntare gli Aragonesi che al re ubbidissero, sopraccorso in Tarragona, e chiamanteli alle armi. Indi ei convocò le corti a Tarragona. Dove baroni e cavalieri e popolani, con meraviglioso accordo, prepostisi di troncare i passi alla usurpazion del potere, faceano il dì primo settembre milledugentottantatrè gravissimi richiami; conchiudendo, consultasse il re con loro intorno l'imminente guerra. Altero rispose, non reggersi a consigli altrui; richiederebbe le corti al bisogno. Ripigliaron dunque, riparasse gli aggravî; ed ei, che tempo era non a disputare, ma a combattere. A ciò le corti, addandosi che le parole erano niente, secondo lor esempi antichi, strinsersi in una lega, o giura, come si chiamava dal giurar tutti, che le libertà della nazione manterrebbero con avere e persone; chi fallasse tal giuramento sarebbe sfidato a duello da tutti gli altri, come fedifrago e vile; tutti difenderebbero i perseguitati dal re senza condanna del Justiza e de' pari; se Pietro s'ostini, chiamisi al regno il figliuolo; si sforzi con l'arme chiunque ripugni alla lega. Allor Piero con vaghe promesse differì le corti al tre ottobre, in Saragozza: e quivi, trovandole anzi più salde e disposte a qualunque sbaraglio, piegossi a confermar le franchige, sperando pur farsene gioco ne' fatti; e pronto alle frontiere di Navarra volò. Ma que' della lega che il conosceano, pria di tornarsi a lor case, adunati nel tempio del Salvadore a Saragozza, rinnovano il giuramento; rafforzanlo con istaggir ville o castella a guarentigia comune; {319} e trascelgono lor deputati col nome di conservatori, che veglino al ben del paese, e richieggano gli altri di entrar nella lega[37].

Queste civili dissensioni d'Aragona non ritrarrò più largamente, perchè fuor del mio disegno sarebbe. Giova sol ricordare, che il medesimo confermamento di franchige assentì Pietro al reame di Valenza; e più volentieri a' Catalani, quando nel richiesero all'entrar dell'ottantaquattro, assembrate lor corti a Barcellona; perchè lì vedea pronti a seguirlo in tutte imprese, e a' fatti di Sicilia pensava. {320} Ma sforzato da' bisogni o dalla sua propria natura, indi a poco raccese gli sdegni con la lega d'Aragona, richiedendo anzi tempo la moneta delle tasse: onde i collegati, spagnuoli quant'esso, adunavansi in arme, spregiavano i comandi del re, da sè trattavano col governador di Navarra e col papa. Più volte poscia, costretto dalla lega, ei con Alfonso erede del trono, ripromesse por fine agli abusi; più volte le promesse eluse. Tardi e male perciò l'aiutarono gli Aragonesi, nella guerra che fuor di loro confini in Catalogna si combattè[38]. E intanto alle discordie senz'armi si mescolavan turbamenti d'altra indole. Stigato da Francia, ribellossi don Giovanni Nuñez di Lara signore di Albarazzin, ma non ebbe seguito; tantochè quella città dopo lungo assedio s'arrese[39]. Entratovi il re, aduna quante forze ei può; passa l'Ebro; cavalca a sua volta terra di nimici; e tornane con molto bottino. Indi accomiatatosi con mal piglio dai collegati in Saragozza, sopraccorre a Barcellona, poco men che repubblica, ove macchinava pericolosi movimenti contro i nobili un Berengario Oller, popolano: e i seguaci di costui sperde Pietro con la riputazione del venir suo; dissimula con Berengario; il cattura egli stesso; e lo fa con altri sette impiccare per la gola il dì di Pasqua dell'ottantacinque[40]. Repente poi tolta con se picciola mano d'uomini d'arme, che non sapeano dove si andassero nè a che, valica i Pirenei; piomba su Perpignano, ov'era il re di Maiorca, già pronto a scoprirsi {321} per Francia, e darle passaggio per lo Rossiglione, terreno di gran momento nella guerra che sovrastava. Occupata da Pietro la città; guardato per lui il castello; Giacomo fuggì da una fogna, lasciando prigioni moglie e figliuoli; e senz'altro aspettare passò a' nimici[41].

I quali, deliberata che fu in Francia la impresa, adunarono da mezz'Europa forze smisurate. Correano al bando della croce e del soldo, Francesi, Piccardi, Provenzali, Guasconi, Borgognoni, Tolosani, Brettoni, Inglesi, Fiamminghi, Alemanni, Lombardi; e più fu l'italica gente nell'armata, di navi pisane e genovesi, oltre quelle di Provenza e Guascogna. Cencinquanta galee, navi di trasporto assai più, e nell'esercito noveraronsi diciassettemila uomini d'arme, diciottomila balestrieri armati da capo a pie', sopra centomila fanti, e più numero di guastatori, saccomanni, e bagaglioni, e ottantamila vetture; nel che accordansi a un di presso gl'istorici tutti dei tempi, e il grave d'Esclot aggiugne non potersi credere da chi non l'avesse visto con gli occhi. Tardamente questa gravosa moltitudine si adunò alfine a Tolosa, nelle feste di pasqua del l'ottantacinque. Ivi la mostra si fece[42]; si spiegò l'orifiamma: e la seguiano con molta baronia lo stesso re Filippo e' figliuoli {322} Filippo il Bello e Carlo, col re di Maiorca, e il legato. Primo stigatore di crudeltà fu costui in tutto l'esercito, quasi ereditando le passioni di papa Martino; e innestavale a natura inflessibile ed efferata. Filippo il Bello, al contrario, da ammirazion di re Pietro fratel della madre, o invidia di Carlo novello re d'Aragona, veniva di mala voglia, guardando bieco il legato. Cominciò l'astio a scoppiare un dì a corte; ove lacerandosi il nome di Pietro, come autor di scandali e più ladrone che re, il giovane aspramente dava sulla voce al legato; e ne bisticciò col padre e col fratello, costui nel calor della disputa chiamando re del cappello, e che sol questo guadagnerebbe dalla concessione del papa. All'entrar di maggio irruppe la formidabil oste in Rossiglione[43].

Spartita mosse in sei schiere o piuttosto eserciti; un dei quali col gonfalon della Chiesa ubbidiva al legato. E prima inviperito costui, perchè la sola Elna resistesse nell'occupazion di Perpignano e di tutto il contado, raccende i soldati a metter tutti gli abitatori al taglio della spada; chè contro nimici della Chiesa o non era peccato, o ei l'assolvea. Quindi nè ad età, nè a sesso, nè a religione perdonaron entro la misera villa le genti crociate: e violaron le suore ne' monisteri, e trucidarono i sacerdoti, e le donne dopo averle sforzate, e infransero a' muri i tenerelli bambini[44], perchè Pier d'Aragona non potesse aiutar la Sicilia, e restasser soddisfatte le voglie di casa d'Angiò, di parte guelfa, della romana corte in Italia. Ma dopo il facil conquisto {323} del Rossiglione, l'esercito forza fu che s'arrestasse alle chiuse de' Pirenei, sotto il colle di Paniças, donde valicar disegnava, per non discostarsi gran tratto dall'armata e dal mare. A tal intoppo la immensa moltitudine si disordinò: tutti doleansi; molti partiansi dall'oste; i quali a dileggio andavan prima a pie' del colle con tre sassi, e scagliandoli, «Questo, diceano, per l'anima di mio padre, questo di mia madre, questo alla mia:» e preso un pugno di terra spagnuola, riponendoselo in tasca, «Questo, aggiugneano, guadagnerammi la perdonanza.» Donde il legato, impaziente e inesperto di guerra, tanto peggio sbuffava. Garrì una volta di poco animo i capitani francesi; al che re Filippo non potè starsi, che non rispondesse brusco: gran parlar militare ei facea; prendesse le sue schiere e salisse ei primo le chiuse. Un'altra ne toccò il legato da re Pietro, quando ingiuntogli per messaggio superbamente di sgombrare dalla terra della Chiesa e di Carlo re d'Aragona: «Poco, Pietro lor disse, poco questa terra costa e a chi donolla e a chi l'accettò: i miei maggiori la guadagnavano col sangue; chi la vuole, comprila adesso a tal prezzo[45].»

Nè millantavasi il grande, il quale con maravigliosa costanza, audacia, e intendimento di guerra si resse tra cotanta rovina, ancorchè da tutti abbandonato, in pena della sua violenza troppa al comando; chè nè esercito avea per sè, nè flotta, nè danaro, nè zelo de' popoli. Com'adunata seppe l'oste di Francia a Tolosa, ma non qual via terrebbe, fidando pur nell'indole de' suoi, che a niun patto non avrebbero sofferto dominazione straniera, chiama all'armi {324} i nobili e le città d'Aragona, che guardino lor confini; ingiunge lo stesso in Catalogna alle città e a' cavalieri del Tempio e di san Giovanni; a Barcellona con la campana a martello, com'era usanza, leva il popol all'arme. Indi, agli avvisi dell'occupato Rossiglione, corre a quelle frontiere; quivi dà ritrovo a ragunarsi le genti; ed egli, soprastato alquanto a Junquera per esser senza forze, penetrando che il nemico presenterebbesi la dimane, gittasi il dieci maggio a prevenirlo alle chiuse, o almeno morirvi re: con ventotto cavalli soli e settanta pedoni, monta sul colle di Paniças, che risguarda da un canto il golfo di Roses, dall'altro sovrasta a una stretta gola di monti, aspra sì, ma la meno in quelle giogaie. Quivi la notte fe' porre sparsi e molti fuochi per finger grand'oste; e guadagnati con tale stratagemma uno o due dì, attendovvi poi le genti di Catalogna che s'andavano ragunando; la gola afforzò di ridotti, e munizion di botti piene di sabbia, e massi da rotolare dall'alto. Gli altri passi guardò con le poche forze che tor si potea d'allato; più tosto velette che schiere. Al campo di Paniças veniano a Pietro gli ambasciatori di Bohap, re di Tunis; e quivi stipulossi il due giugno un trattato di tregua e commercio per quindici anni, che dava reciprocamente sicurezza e favore alla navigazione e al commercio de' sudditi dei due re, compresi espressamente in que' di Pietro i Siciliani; e fruttava a Pietro il pagamento dell'antico tributo di Tunis alla corona di Sicilia, co' decorsi di esso non pagati a Carlo d'Angiò. Con tal sicuro animo il re d'Aragona affrontò l'immensa ruina che gli sovrastava! Tenne ben tre settimane a pie' de' Pirenei l'esercito di Francia, che una volta fe' prova a sforzar le chiuse, e funne respinto[46].

Ma, come avviene, non mancò (e fu questa volta dei {325} monaci d'una badia tra que' monti) un traditore che mostrasse altro passo al nemico[47] per burroni asprissimi, e però men guardati; pei quali alfine traghettava di mezzo giugno l'oste francese. Allor Pietro, lasciata l'inutil postura di Paniças, muta secondo necessità i modi e gli ordini della guerra; licenzia le genti; vieta consumar le forze a difesa di picciole terre; egli stesso abbandona dietro breve avvisaglia Peralada, che i suoi bruciarono; mal si ritrae se per antivenir nel saccheggio i nemici, o da eroico pensiero del visconte di Rocaberti, signor della terra, ch'altro modo non vedea d'arrestare per poco il Francese. Indietreggiò dunque Pietro per Castellon e Girona; chiamò frettoloso i rappresentanti delle città. I quali vedendo presi dallo spavento ch'erasi sparso per Catalogna, sì che molti si rifuggiano in Valenza, li riconforta con franco volto; spiega ad essi il disegno di spossare il nemico con guerra guerriata; chiede poca moneta per tener insieme poche forze. Avutala, munisce Girona alla meglio di viveri; comanda che sgombrila in tre dì la gente da non portar arme; l'afforza di bastioni e spianate, e d'un picciol presidio di cento cavalli e due mila cinquecento tra almugaveri e balestrieri, sotto il comando di Ramondo Folch, visconte di Cardona. E re Filippo con tutto l'esercito, innondata la Catalogna settentrionale che i popoli abbandonavan dassè, pose il campo a Girona; e, come se fosse compiuto il conquisto, il legato coronò Carlo re d'Aragona; a' cavalier di lui fu spartito in feudi il paese. Al medesimo tempo tutte le {326} costiere infino a poche miglia sopra Barcellona furono ingombre dallo immenso navilio collegato[48], segnalatosi solo per enormezze al capo di San Filippo; ove l'ammiraglio richiamò i miseri abitanti fuggiti al venir suo, e li fece arder vivi ne' lor casolari[49].

Pietro in questo tempo affortificò Barcellona con molta cura; armovvi undici galee; e dava principio a colorire i suoi disegni, richiedendo il militare servigio del reame d'Aragona. Ma dinegatogli per le stesse cagioni dette dianzi; ei fa sembiante di non curar nè ciò, nè i Francesi, nè la corona o la vita: dà a sollazzarsi spensierato in desinari e cacce; sdegnando venirne a più umil patto coi sudditi, e aspettando che l'insulto nimico facesse ciò che il comando suo non potea. E per vero i cavalier catalani, maneggevoli d'altronde, e or più per sentire il fuoco in casa, tra non guari vennero disperati a pregarlo un dì a Barcellona che li conducesse pur contro il nimico; ai quali Pietro fermo rispondea: stare in questa guerra ei solo da una parte, tutto il mondo dall'altra; e con tutto ciò potrebbe da' presenti danni lampeggiar fuori più viva gloria, se gli {327} uomini non poltrissero. Non era, no, aggiugnea, vergogna di Pier d'Aragona tal nemico guasto di tutta la Catalogna. Ei, sol che avesse un destriero e una spada, saprebbe viver lieto quanto niun cavaliere; e nulla era il regno a lui, ma molto a' Catalani lo giogo straniero: però non comandava, non isforzava; se voleano, s'armasser pure, ed ei mostrerebbe come farsi la guerra. Ubbidito, ordinolli in due grosse poste a Besalu e ad Hostalric, a fianco del nemico. Talchè punti dagli atroci oltraggi del Francese, adescati dal bottino, i Catalani diersi a infestar tutto il paese intorno intorno all'esercito. La lega d'Aragona pur si mosse a mandar qualche picciolo aiuto. E Pietro a poco a poco levandosi, e pensando anco al mare, inanimito dagli audacissimi fatti de' suoi corsari, lasciò salpar di Barcellona l'armatetta regia, capitanata da Ramondo Marquet e Berengario Mallol[50].

Ma ne' vasti comprendimenti di Pietro, le fazioni navali, non che restarsi a tal corseggiare, eran parte principalissima di questa guerra; perchè sul mare avrebbe meglio bilanciato le forze l'armata siciliana, sulla quale ei facea molto assegnamento, per le fresche vittorie di Malta e di Napoli, e le genti audacissime, pratiche, leste, la straordinaria virtù dell'ammiraglio. Sapea inoltre il re, spezzata la flotta francese in varie squadre, a guardia di porti o convoglio delle navi, che di Provenza recavan vittuaglie all'esercito: talchè le galee di Sicilia potrebber ferire alla sprovveduta qualche gran colpo; e, intercetti i sussidi del mare, l'esercito affamerebbe nella Catalogna, diserta e infestata {328} per ogni luogo dalle masnade paesane. Perciò Pietro con lettere e messaggi incalzava l'infante Giacomo, incalzava l'ammiraglio, perchè venisse incontanente la flotta; e ad una volta mandò tre spacci, per una galea e due legni sottili, divisi, affinchè se l'uno mal capitasse, non mancasse un altro: sendo in tutte le imprese di Piero, e massime in quest'ultima guerra, maravigliosa la cura ch'ei ponea nell'ordinare e grandi e picciole cose dassè. Comandava ancora al figliuolo d'inviargli il prigione principe di Salerno, come pegno di salvezza nelle sue estreme fortune. Ma Giacomo, ormai tenendosi in Sicilia come re, e non amando privar sè stesso della flotta nè del principe per accomodarne il padre in Aragona, indugiava; nè fu senza comandi più gravi del re, o forse voler dello stesso ammiraglio, che al fine la flotta partì. Eran da quaranta galee, siciliane la più parte, che osteggiando sull'Adriatico, avean preso Taranto e altre città, e speravano acquisti maggiori, quando fu forza voltare per Catalogna. Di questo viaggio narra Speciale, che la vigilia dell'Assunzione della Vergine, navigando presso la Goletta di Tunisi, festeggiavano i nostri con luminarie, com'era costume in Sicilia, ed è anch'oggi. In quel brio avvennesi nel navilio un altro messaggio del re: e, facendo da ciò buon augurio, confortate dall'ammiraglio, più alacri volaron le ciurme a quelle estranie guerre[51].

Tutta la state tenne fermo in Girona il visconte. Re Filippo moveagli assalto ogni dì; percotea le mura coi gatti, la città coi tiri delle briccole, dava scalate, fea scavar le cortine; ma il presidio punto non se ne mosse, opponendo ingegni agl'ingegni, armi alle armi; e in sortite bruciò le {329} macchine, e i balestrier saraceni con mirabili colpi imberciavano, non pure gli scoperti, ma i riparati dietro macchine o case, e gli infermi per li spiragli delle finestre, e chi che fosse a gittata d'arco con due dita di luce da ficcarvi un quadrello[52]. E l'oste francese era già scompigliata e consunta. Arsevi, da disagi o aer malsano, una cruda morìa; infierita per la corruzion delle carogne dei cavalli, che a migliaia morivano da punture di tafani velenosi, ingombranti a nugoli la campagna, usciti la prima volta, così il volgo favoleggiò e qualche isterico con esso, dal sepolcro del beato Narciso, profanato dalla nimica rabbia[53]. Appigliossi la pestilenza al naviglio sì fieramente, ch'entro poche settimane le ciurme s'ammezzarono, e poi scesero al terzo, e più basso[54]. I Catalani intanto dalle poste di Besalu ed Hostalric scorrazzavano per tutto il paese; rapiano i traini delle vittuaglie, in quella carestia portate per mare a Roses, indi su vetture a Girona; sorprendeano le picciole schiere francesi; tagliavano a pezzi gli sbandati; s'arricchivano delle spoglie; vendeano i prigioni; saziavansi del sangue: infaticabili, pratichi, arrisicatissimi, e crudeli. Il mare stesso non era più sicuro ai nemici, poichè le undici galee di Barcellona, disperatamente investite venticinque delle francesi, rotto aveanle e preso; e indi i privati corsali, inanimiti, uscivan in maggior numero a tentar la fortuna[55]. {330}

Allor Pietro manda intorno la grida della misera condizione dell'oste, e ch'uno sforzo la metterebbe al nulla: fa bandir da Alfonso la levata in arme in Aragona: ei stesso chiamavi i Catalani; da tutti con maggiore alacrità ubbidito, come portava la rivoltata fortuna. Cavalca indi al santuario di santa Maria di Monserrato, famosissimo per tutta Spagna: passavi una intera notte a pregare all'altar della Vergine: e la dimane uscendo la prima volta in campo, come se avvalorato dal Cielo, conduce cinquecento cavalli e cinquemila fanti dritto a Girona; e con quel pugno di gente, in faccia al nimico volteggiò, senz'altro schermo che le acque del Tar. Poggia indi al vicin monte di Tudela; e, abbandonatolo per non parergli opportuno, movea alla volta di Besalu, quando con poche forze trovossi in una terribile zuffa[56].

Solo con dodici cavalli, uscito di schiera e di via, la notte innanzi il quindici agosto, andava a dar dritto in una torma di cinquecento cavalli francesi; se non che una parte de' suoi uomini d'arme e poche centinaia d'almugaveri, che lui smarrito cercavano, s'accorsero de' nimici. Senz'arnese il re cavalcava. Ma come di qua, di là correr vede e venirsi alle mani, sprona nel mezzo, e grandissime prove fe' della sua persona. Leggiamo che recisegli le redini del cavallo, accerchiato da molti cavalieri, si sviluppò fieramente, uccidendone molti con la mazza; e che un lanciotto vibratogli da presso, si piantò nell'arcion della sella: che d'Esclot vide con gli occhi suoi l'arcione e la spezzata punta. Aspro l'affronto delle altre genti anco si {331} travagliava: almugaveri leggieri contro gli uomini d'arme, cavalli contro cavalli; dove sopra tutti i bravi lodati di parte catalana veggiamo quel siciliano Palmier Abate, giovane che non avea visto unquemai battaglia, rapito fuor della diletta patria per astuzia del re, e segnalatosi or tanto in sua difesa, che il catalano Montaner lasciandosi portare all'estro della cavalleria, gli altri prodi agguaglia a' Lancilotti e a' Tristani, e lui ad Orlando. Straziatisi con tal disperato coraggio Francesi e Spagnuoli, stracchi alfine lasciarono il campo; ed entrambi poi vantaron vittoria. Errore è d'alcuni istorici, che ivi fosse ferito re Pietro. Venne anzi battendo a Besalu, e alle altre poste; continuò a dar gangheri, porre agguati, saltar qua e là intorno allo estenuato esercito di Francia: e pensava anco qualche stratagemma per vittovagliare Girona; quando il ventiquattro agosto, lasciato ogni altro pensiero, a spron battuto volò a Barcellona per lietissimo annunzio[57].

E fu questo l'arrivo della siciliana flotta: onde sfavillò Pietro in volto, a vedere nel porto di Barcellona trenta galee, schierate in bell'ordine, dipinte intorno intorno con le armi d'Aragona e Sicilia, luccicanti di scudi e balestre, {332} parate di bandiere, pennoncelli, tende di seta vermiglia su i castelli di poppa; che non s'era più vista, continua il d'Esclot, armata in migliore arredo. Un lietissimo grido misero le ciurme siciliane al vedere il re; che montò su le galee, soppravvide ogni cosa, e si strinse a consiglio con Ruggier Loria. Questi, posato tre dì, sciolse pel golfo di Roses[58]: e mandonne avviso all'armatetta catalana, che era uscita assai prima a ritrovar briga in quei mari, e le dava caccia la flotta francese.

Menomata dalla mortalità delle genti, e ignara del tutto della sorvenuta armata di Sicilia, la francese avvennesi in lei agli scogli delle Formiche, sotto il capo di San Sebastiano; e Loria la scoperse senza essere riconosciuto da quella: nè altro aspettò, ma spiccata una punta delle sue galee a tramettersi in mezzo la terra e 'l nimico, ei l'investe di fuori col grosso del navilio; ordinate molte fiaccole per ogni galea, perchè non si desser d'urto tra loro, e spaventassero il nimico con la paruta di maggior numero. Ed ecco entrati a gitto di balestra, d'un subito accendon le fiaccole i nostri, levano il grido «Sicilia, Aragona, Maria delle Scale di Messina;» e l'ammiraglio con la prora urta di costa sì fieramente una galea provenzale, che ribaltandola, da cinque o sei uomini in fuori, tutta la gente sbalzò in mare. Poco ressero gli sprovveduti a tal furia d'assalto. Dodici galee scamparono, contraffacendo i segnali de' fuochi e il motto Aragona e Sicilia; delle altre, qual fu presa, qual diè in secco; restando compiuta la vittoria a' nostri. In questi fatti a un di presso accordansi tutti gli istorici del tempo, con qualche divario nel numero delle navi e negli ordini della battaglia. Ma le espresse parole degli uni, lo stesso silenzio degli altri, e i fatti seguenti dan fuori ogni dubbio che l'armata siciliana distruggesse {333} quella notte il nerbo delle forze marittime di Francia. Meglio che cinquemila tra Provenzali e Francesi caddero in questo abbattimento delli scogli delle Formiche; e furono pur più felici de' prigioni, per la spietata rabbia che portavano i tempi, e l'accanimento tra Spagnuoli e Francesi. Prendendo a scernere i cattivi, Ruggier Loria ne tolse cinquanta cavalieri di paraggio, che potean pagare grosso riscatto; gli altri mandò in Barcellona a Pietro: e questi fa legare a una gomena trecento feriti, accomandare il capo della gomena a una galea; e la galea vogò allora, trasse dietro a sè la funata de' prigioni, e consumò l'orrendo supplizio, a veggente di chi veder volesse, scrive freddo il d'Esclot. Dugentosessanta non feriti fur tutti accecati, d'uno all'infuori al quale re Pietro fe' cavare un sol occhio perchè guidasse la brigata a Filippo; infermo dell'epidemia, straziato dallo sterminio che la morte in tante orrende guise facea del suo popolo[59]. {334}

Ruggier Loria entro pochi giorni spazzò il rimagnente della flotta nemica, mandate le galee catalane a raccorre {335} quante reliquie se ne ritrovavano a Palamos e a San Filippo; ed ei difilandosi al golfo di Roses, bruciò e prese venticinque più navi; e ponendo a terra, stormeggiò il castello per impadronirsi delle molte vittuaglie serbatevi[60]. Raro esempio in quell'età di sostenersi da fanti ignudi lo scontro di grave cavalleria, intervenne allo sbarco di Roses. Perchè movendo da vicina terra contro le ciurme di Loria il conte di Saint-Pol con un grosso di cavalli, si circondano i nostri di fossi mascherati, e intorno intorno di gomene tese su' piuoli, e con l'arme da gitto li aspettano. Piombarono a briglia sciolta i Francesi; e parte ne' fossi precipitarono, parte respinti da' ripari si scompigliaro: saltaron fuori i nostri e finirono lo sbaraglio. Il conte, abbattutoglisi il cavallo, fu ucciso; e troncagli una mano, che i nemici poi ricomperavano per settemila marchi d'argento. Rimbarcatosi l'ammiraglio, fece altre ricche prede su i mari; tagliò tutti sussidi di vittuaglie allo esercito[61]. E allor fu che andato a lui il conte di Foix, chiedendo tregua a nome di re Filippo, negolla Ruggiero superbamente. Disse che, pur accordata dal re d'Aragona, a Provenzali e Francesi ei non osserverebbe tregua giammai; e ripigliando il conte, non salisse in tanta superbia, perchè la Francia potrebbe metter in mare trecento galee: «Vengano, ei riprese, e trecento e duemila; con cento delle mie fidereimi tener tutti i mari; nè legno solcherebbeli senza salvocondotto di re Pietro, nè pesce v'alzerebbe la testa senza lo scudo delle armi regie d'Aragona[62].» {336}

In questo mentre Ramondo Folch, ch'avea fatto tai prodigi alla difesa di Girona, e a gran pezza non s'era curato della fame, non che delle minacce e promesse del nimico, venuto a stremo di penuria, cominciò ad ascoltar parole d'accordo; di voler anco di re Pietro, il quale nè potea far levare l'assedio per battaglia, nè vedea cagione di gettarsi a tal rischio[63]. In questa pratica narra una cronaca francese, ch'ito al campo degli assedianti l'arcivescovo di Saragozza, il legato troncavagli ogni parola, fremendo: «Non misericordia, non patti,» quando Filippo il Bello, bruscamente il domandò, che farebbe de' bambini e delle donzelle prendendo Girona d'assalto? «Muoian tutti,» il cardinale riprese; e il giovin principe a lui: «Niuno muoia, che non può difendersi colla spada.» Indi all'arcivescovo segretamente palesò travagliar peggio gli assedianti che gli assediati; perciò tenesse fermo nel chiedere i patti[64]: e chi sa quanto operarono sul giovanil animo queste prime ire contro la romana corte, per disporlo all'offesa di Anagni? Il visconte pattuì venti giorni per arrendersi, se non gli giugnesse soccorso; e non avendone, il dì sette settembre uscì con armi e bagaglio e tutti onori di guerra, e ammirazione grandissima de' nemici[65].

Ma nè gioia nè comodo ne tornò a' Francesi in tal tempo, perchè perduto il mare, la fame finiva già l'esercito, straziato dalla pestilenza e dalla spada nemica; e l'ansietà crescea per trovarsi in pericolo lo stesso re Filippo, che preso dalla morìa nel campo di Girona, per mutar sito non rinfrancossi, e sopraggiunto il disastro della flotta, il sangue {337} gli si rivelenì per tutte le vene. Tra questi travagli comandava Filippo la ritirata, lasciando presidio a Girona. Intanto di Catalogna, d'Aragona, di tutto il reame traeano a gara armati alle bandiere di Pietro; il quale rinfiammò tal zelo con far dassè ciò che per altezza d'animo ostinatamente avea negato nelle più dure strette; ed ora nel montar della fortuna gli era tanto maggior lode. Assembrati i baroni in concione pubblica, egli accetta: queste calamità pubbliche esser fattura sua, e della maligna sorte che gli fe' chiuder gli orecchi a' leali consigli de' baroni: Iddio aver punito il superbo, e trattener ora il flagello levato sul suo capo: ond'ei ripentito, vedendo la man del Signore, chiedea perdono a' suoi sudditi; consigliava loro di temperarsi nella vendetta sopra i nemici sbaragliati e fuggenti, a' quali gli Spagnuoli avessero misericordia poichè Dio l'avea avuto di loro: così ei pensava, dicessero lor sentenza i baroni. Col medesimo accorgimento accarezzò gli Aragonesi sopra tutti; e fe' piangere, dice d'Esclot, di tenerezza quegli animi sì indocili, a tal umile e benigno parlare.

Adunato un giusto esercito, marciando di costa alle reliquie del nemico, giunse al passo di Paniças; e nol contese, dicon gli storici di sua parte, per pietà del re infermo a morte, e preghiere di Filippo il Bello; ma forse perchè metter non volle a disperazione il nemico, tuttavia più poderoso di lui. Ed ecco il trenta settembre[66] quattromila cavalieri, che sol tanti ne rimaneano montati, e inutili turbe di fanti, e confusione di salmerie, lasciandosi a dietro, per falta di vetture, tanti doppi più d'arnesi e robe e argenterie, anelanti e mesti ripassavan le chiuse: stretti a schiera i cavalieri intorno all'orifiamma e alla {338} barella del re moribondo, co' principi del sangue, il legato, e' principali dell'oste. Ardeano gli almugaveri di dar dentro, e li trattenne il re finchè fur valicati gli uomini d'arme; poi su fanti e bagaglie sbrigliaronsi. Di là dai monti, in Rossiglione, il medesimo scempio nel sangue e nella roba de' fuggitivi facea Loria, sbarcato con le feroci genti dell'armata; talchè per gran tratto di paese non fu che cadaveri e moribondi di ferite, di morbi, di fame, e assalti, e ladronecci; salvandosi a pena il forte nodo de' cavalli. Il sei ottobre morì re Filippo a Perpignano: non riportarono in Francia i rimagnenti che lutto, pestilenza, ferite, e peso gravissimo di debito pubblico[67].

Ma Pietro, non tardo a usar la vittoria, strignea d'assedio Girona; e voltavasi anco all'isola di Maiorca, dicea, non per vendetta contro il fratello, ma per aver meglio di che fermar la pace con Francia e Roma. Con pratiche tra gli abitatori dell'isola si spianò la via; cinquecento cavalli apprestò con l'armata di Loria, sotto il comando di Alfonso. Erano in ponto a salpare, quando il re partendo da Barcellona per Saragozza il ventisei ottobre, colpito dal freddo del mattino, e preso di violenta febbre a San Clemente, dopo breve fermata, ostinavasi a rimontare a cavallo; ma vinto dal morbo, recaronlo in lettiga {339} a Villafranca di Panadès[68]. Quivi temendosi già di lui, venne ansioso Alfonso; e il re che non pensava alla propria vita, ma all'impresa di Maiorca, sgridavalo: «A che lasciare l'armata? Or se' tu medico da stare attorno al mio letto! Di me sia ciò che Dio vorrà, ma tanto più preme occupar di presente Maiorca[69].»

Andò dunque l'infante, e se n'insignorì tra pratiche e forza d'arme, con picciol contrasto[70]. Risplendeva in quello incontro il valore de' nostri; perchè fortificatisi in una rilevata chiesa fuor la città i più fedeli al re di Maiorca, con Francesi e Provenzali, avean ributtato i replicati assalti della gente catalana e dell'isola: ma quando Alfonso, per pensiero dell'ammiraglio, fece sottentrar nel combattimento i Siciliani dell'armata, «Viva Sicilia» levan essi il grido; danno nelle trombe, e montando su per scale e remi, d'un solo stormo impetuoso fur dentro, e finirono la guerra[71].

Nel medesimo tempo navigava que' mari Carlo II d'Angiò, mandato di Sicilia dall'infante, dice il Neocastro, pe' comandi risoluti di Piero, e' consigli di Procida, che ammonialo a posporre a' doveri verso il padre ogni utilità sua propria e dell'isola; ma piuttosto fu che Giacomo col re fortuneggiante avea disputato, al vincitore ubbidiva[72]. Perciò dopo alcune pratiche, che son da supporsi e forse ancora con l'intesa di Roma (ritraendosi data licenza dalla romana corte d'aprile milledugentottantacinque a {340} due frati inglesi Ugone di sant'Edmondo e Gualtiero di Seggefelt di venire in Sicilia per lo re Eduardo a visitare e consolare il prigione[73]), affrettavasi Giacomo a fare per sè, pria che il prigione gli escisse di mano. Va a trovarlo egli stesso a Cefalù; ottien promessa da lui per impazienza del carcere o saputa degli eventi d'Aragona, che cederebbegli ogni ragione su l'isola, darebbegli sposa Bianca sua figliuola, e con altri parentadi strignerebbersi le due case d'Aragona e d'Angiò. I quali patti, quanto men valeano per la prigionia di Carlo e 'l dubbio diritto di Giacomo a fermarli, tanto più Giacomo volle rafforzar di giuramenti sul vangelo e doppio scritto, l'un per sè stesso, l'altro per ispacciarlo al padre. Allor trascelti i fidatissimi cavalieri Ramondo Alamanno, Simone de Lauro, e Guglielmo de' Ponti, si fa dar sacramento, che la persona di Carlo rassegneranno a re Pietro; e avvenendosi nel viaggio in forze nimiche, a lor potere difenderansi, ma, sopraffatti, troncheranno il capo al prigione, e gitteranlo in mare, perchè nè anco il cadavere riavessero i nimici. Di Cefalù a Palermo; quindi coi tre cavalieri Carlo s'imbarcò per Barcellona; e giunsevi nelle ore estreme di Pietro[74].

Il quale, poichè Alfonso si partì da lui, sentendo la mortal forza del morbo, lasciar volle solenne discolpa {341} della guerra contro il papa, sì come Carlo d'Angiò fatto avea in punto di morte per la guerra suscitata dal papa. Chiamati dunque l'arcivescovo di Tarragona, co' vescovi di Valenza ed Huesca e altri prelati e baroni, attestò: non ad offesa della santa sede, ma secondo sue ragioni aver preso il reame di Sicilia; le scomuniche acerbe di Martino non aver meritato, ma sì come cristiano osservatole; ed or presso al divin giudizio, chiedeva all'arcivescovo l'assoluzione, promettendo che s'ei campasse, e qui ripigliava le ambagi, obbedirebbe secondo giustizia al pontefice sommo, al quale rappresenterebbesi di persona o per legati. Il giurò; e l'arcivescovo ribenedillo. Consigliato a perdonare i nimici, fe' liberare prigioni, non però que' d'alto affare; non mutò il testamento dettato a Port Fangos nell'ottantadue; ad alta voce si confessò a due frati; e poi a grande sforzo surse di letto, mal reggentesi e tremolante, vestissi, s'inginocchiò lagrimando e pregando dentro da sè, ed ebbe l'Eucaristia. Seppe indi arresa Girona; venuto di Sicilia Carlo, che gli restava appena un barlume di sensi, nè potè profferire risposta; ma fe' croce delle braccia, levò gli occhi al cielo, e il dieci novembre spirò [75]. {342}

Questo fine ebbe di quarantasei anni, verde di forze, nel maggior vigore della mente, nel colmo della fortuna; vedendo dissipata l'oste di Francia; confuso il re di Maiorca; mancati Carlo, Filippo l'Ardito, papa Martino; il novello re di Napoli nelle sue forze; scompigliato quel reame; la Sicilia sicura e obbediente; la sua flotta signoreggiante il Mediterraneo; per sè la riputazion della vittoria, da por freno in ogni luogo agli stessi suoi sudditi. Grande fu e ben fatto della persona, robusto di braccio, d'animo audacissimo, perseverante, ingegno da abbracciare gran disegni e non saltar le minuzie, scaltrito, chiuso, infaticabile; tutte le parti ebbe di capitano egregio. Gli furon queste nelle cose di stato or vizi or virtù, secondo la giustizia dell'intento, a che mai non attese. Indi la discordia, non da savio, con le corti d'Aragona; le dubbie vie contro i baroni di Sicilia; le frodi e gl'inganni che macchinò con arte profonda; le vendette efferate ne' suoi nemici, alle quali proruppe per l'atrocità de' tempi, per la fierezza dell'animo, non curante strazio e morte nè in sè nè in altrui, per la crudeltà della mente assorta negl'intenti politici, fatta cieca alla conoscenza de' veri beni propri ed altrui, miscredente a' dritti degli uomini, ghiacciata contro ogni alito di lor carità. Avventurosa la Sicilia che sel trovò nel pericolo, e sen disfece tosto; perchè era di tempra da agognar sempre o fuori o in casa. Gli uomini poi scordarono i danni di quella molesta fortezza, e diergli il meritato soprannome di Grande[76]. {343}

Per questa ragione medesima gli scrittori del tempo, anco i nostri, e fin il sommo poeta d'Italia[77], che di tanto fu più grande di quei re combattenti, esaltavano a canto all'Aragonese, l'emolo Carlo d'Angiò, lodato per valor pari e più chiare vittorie, biasimato al paro di slealtà, ma senz'arte alla violenza nè alla frode, onde Pietro, che meglio se n'intendea, lo raggirò e vinse. Più pesante tiranno fu Carlo, invidioso e uggioso ne' costumi privati, e nello stato avarissimo, connivente ai suoi sgherri, inumano, spregiator delle genti italiane[78], calpestator d'ogni dritto, nimico fin dalla prima sua dominazione di Provenza a tutte franchige, anzi odiatore de' suoi stessi sudditi; e punito del maggior martiro che il Cielo serbar poteagli, mancando di lenta morte, nella rabbia di veder lieta e forte quella Sicilia che straziata lo maledisse, gli rese onte per onte, sangue per sangue, spezzò il suo scettro, troncò il corso alle sue esterne ambizioni, la sua schiatta per due secoli combattè.

Invano ad aiutar questo Carlo intendea con tutto lo sforzo del pontificato, Martino, la cui vita e la morte non sarebber da istorie, se non che preoccupato da umori di nazione e di parte, e ritenendo sotto il gran manto gli antichi ossequi, proruppe ai narrati scandali, onde le due penisole bagnò di sangue, espilò tutte le chiese d'Europa, profanò l'armi della croce.

Da costui suscitato e da volgar vanità e cupidigia, Filippo {344} terzo di Francia corse oltre i Pirenei a guerra disutile e ingiusta; lasciovvi sessantamila vite d'uomini, e la sua stessa; smentì il nome d'Ardito[79] con gli smisurati preparamenti e l'esito miserando, e fatto notevol nessuno, se non furon gli ammazzamenti d'Elna e di San Filippo.

Sotto questi quattro principi, mezz'Europa s'agitò per la siciliana vendetta del vespro. Mantennela con vittoria il più debol tra loro, contro le unite forze dei tre potentissimi; tutti mancarono nel medesimo anno ottantacinque; e dalle loro ambizioni altre ambizioni, indi altri mali rinacquero. Ma la Sicilia, sciolta dal legame della comune signoria con Aragona, sola ne restò a guerreggiar contro il reame di Napoli e 'l papa; e s'ordinò con migliori leggi; e per maggiori fatti d'arme rese chiaro il suo nome.

NOTE

[1] Veg. il docum. XIV.

[2] In questo tempo stesso Carlo I e la vedova regina di Francia, fecero compromesso per le questioni insorte tra loro, intorno la eredità di Ramondo Berengario conte di Provenza. Diplomi del 10 novembre 1283, e 23 marzo 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 511. 3.

[3] Docum. XIV.

[4] Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 34 e 35.

[5] Saba Malaspina, cont., pag. 394.

[6] Bolla del 27 agosto 1283, in Raynald., Ann. ecc., 1283, §§. 25 a 32; e in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 252 e seg.

[7] Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Veg. anche Saba Malaspina, loc. cit., e Geste de' conti di Barcellona, cap. 28.

Gl'intendimenti di casa di Francia in questa guerra, e le sollecitazioni di Carlo I d'Angiò son detti apertamente da costui nel diploma del 5 ottobre 1284, docum. XXIII.

[8] Montaner, cap. 79.

[9] Docum. XIV.

[10] Brevi del 10 gennaio 1284, in Rymer, op. cit., tom. II, pag. 263.

[11] Bolla di Martino IV, in Rymer, loc. cit., pag. 267.

Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 542, contro i documenti allegati da noi, porta questo parlamento di Natale dell'83.

[12] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 5 e seg.

Rymer, loc. cit., p. 267.

[13] D'Esclot, cap. 136, il quale trasporta questa investitura al 1285, aggiugnendovi del rimanente con grande esattezza quanto sopra si è ritratto dai documenti di Raynald e Rymer.

Montaner, cap. 119 e altrove, chiama Carlo di Valois «re del cappello.»

Surita, Ann. d'Arag., lib. 4, cap. 41.

[14] Raynald e Rymer, nei luoghi citati.

[15] Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 4 e 10.

Bolla del 5 maggio 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714. 6.

Saba Malaspina, cont., pag. 394.

Nangis, loc. cit., pag. 542.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap 12, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Le decime estese in Alemagna si ritraggono da un breve d'Onorio, in Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 23.

Veggansi ancora Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.

Bart. de Neocastro, cap. 70, 71 e 91, per questi preliminari dell'impresa d'Aragona.

[16] Brevi di Martino IV, dati d'Orvieto, il 10 e il 26 maggio 1284, trascritti in un diploma del cardinal di Santa Cecilia, dato di Vaugirard il 7 luglio seguente, negli archivi del reame di Francia. J. 714, 6.

Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 24 e 35.—1284, §. 4.

Saba Malaspina, cont., pag. 394.

[17] Breve dato d'Orvieto, il 25 giugno 1284, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 7.

[18] Breve dato di Perugia, il 30 ottobre 1284. Ibid. J. 714, 8.

[19] Raynald, Ann. ecc. 1285, §. 25. In questa bolla forse è errato l'anno, o il nome del papa.

[20] Diplomi di Giacomo, re di Maiorca, dati di Palayrac, il 16, e di Carcassonne, il 17 agosto 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 598, 4, 5.

[21] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 42.

[22] Montaner, cap. 104.

[23] Lello (Michele del Giudice) Descriz. del tempio di Santa Maria di Morreale, parte 2, pag. 21. Maurolico, Hist. Sic., lib. 1, pag. 15, ed. Messina 1716; il quale aggiugne ch'eran d'eccellente oro, e n'entravan 72 in una libbra.

Paruta, Numismatica Sic. in Burmanno, Thes. Ant. Sic., tom. VI, pag. 1231.

Vero egli è che nel secol XIII la leggenda «Cristo vince» fu posta in varie monete siciliane, costantinopolitane, e di altri stati; ma sembra che da Pietro fosse scelta apposta all'intendimento che io ho detto; e la rincalzò con quell'altra più significativa «La somma possanza in Dio è.»

[24] Veg. il cap. 8.

[25] Gio. Villani, lib. 7, cap. 87.

Accenno senz'altro una diceria di papa Martino su la deposizione di Pietro d'Aragona, e una risposta di Pietro, scritte in versi leonini, che ho trovato nei Mss. latini della Bibl. reale di Parigi, 2477, fog. 83. Quattordici di questi versi son regalati al papa, quattordici al re; e tutto è manifestamente la fattura d'uno dei più ottusi ingegni del tempo, senza una sola frase che possa meritare attenzione, sia istorica, sia letteraria.

[26] Le Parnasse Occitanien, ou Choix de Poésies originales des Troubadours, Toulouse, 1819, pag. 290, 291. Ivi si leggono questi versi di Pietro d'Aragona, e le risposte del trovadore Pietro Selvaggio e del conte di Foix.

[27] D'Esclot, cap. 108 e 109.

Montaner, cap. 104.

[28] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 52.

[29] Diploma del 12 gennaio 1284, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 264.

La politica d'Eduardo è spiegata in un'altra lettera del 12 gennaio 1283, presso Rymer, loc. cit. Edoardo rispondeva alla regina Costanza, che governando l'Aragona in assenza di Pietro, avea caldamente pregato il re d'Inghilterra a intervenire in suo favore contro le minacce di Filippo l'Ardito. Eduardo promettea di fare a ciò ogni sforzo con le negoziazioni; nessuno con le armi.

[30] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 52.

[31] Montaner, cap. 102 e 120.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 34, 47, 51, 59.

[32] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 37.

[33] Raynald, Ann. ecc., 1284, §§. 11 e 12.

[34] Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nel Baluzio, Marca Hispanica. « Quae recte doloris insula nuncupatur,» scrive della Sicilia il frate cronista, a proposito delle scomuniche e guerre che per cagion di lei erano piombate addosso al suo paese.

[35] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 37, 38.

[36] D'Esclot, cap. 106.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 83, 85.

Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script. tom. V, pag. 542.

Montaner, cap. 111.

[37] D'Esclot, cap. 132.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 38 e 39,

Bart. de Neocastro, cap, 91.

Carbonell, Chron, fog. 76. Carbonell scrisse nel secolo XV, ma con gli archivi d'Aragona a sua disposizione. Ei dice che i Catalani furono men baldanzosi verso Pietro, «così ne ottennero maggiori concessioni, o per dir meglio la restituzione di quelle franchige che Pietro avea annullato per collera e naturale avversione. Il Carbonell narra in quest'incontro un fatto assai bizzarro: che i Catalani chiamati al servigio militare, vi si presentarono con le lance senza ferri e le guaine senza spade né pugnali; e richiesti di tale strana apparenza, risposero umilmente: esser così venuti per non fallare il giuramento al re, che avea bruciato lor carte di costituzioni, libertà, e privilegi; e che a rischio di perder beni e persone il seguirebbero così inermi dovunque ei volesse. Pietro, mitigato a tal sommissione, rese le franchige per un diploma dato di Barcellona a dì 11 gennaio 1283 (1284 secondo il nostro computo dell'anno che comincia dal 1º gennaio). Veg. anche Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11. cap. 17.

L'autor delle Geste de' conti di Barcellona (nella Marca Hispanica del Baluzio), che è catalano assai caldo, si lagna de' nobili e comuni d'Aragona che negarono gli aiuti al re, ma non fa parola delle dissensioni civili di Catalogna, che in vero furono men aspre.

Del rimanente io ho ritratto più particolarmente quest'abbozzo delle discordie di Pietro coi sudditi dal diligentissimo Surita, il quale, ancorchè non contemporaneo, compilò gli annali su' documenti e scritti de' contemporanei; perchè il Neocastro le accenna appena ancorchè con candore; il d'Esclot sa di troppo cortigiano.

Montaner, cap. 110, con manifesta bugia loda il grande accordo delle corti di Saragozza col re, e la loro prontezza alla difesa. A un di presso dice il medesimo a cap. 112, per le corti di Barcellona.

[38] Surita, Ann. d'Aragona lib. 4, cap. 39, 40, 41, 45, 54, 58, 63.

[39] D'Esclot, cap. 117 e 118

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 44 e 46.

[40] D'Esclot, cap. 130, 132, 133.

Bart. de Neocastro, cap. 91.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 53 a 55.

Montaner, cap. 111, riferisce solamente la scorreria degli Aragonesi in Navarra. In tutti gli altri fatti che gli parean disonorevoli al re, o tace o mentisce.

[41] D'Esclot, cap. 134, 135, 136.

Geste de' conti di Barcellona, cap. 28.

Bart. de Neocastro, cap. 91.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 56.

[42] D'Esclot, cap. 181 e 187.

Montaner, cap. 119.

Bart. de Neocastro, cap. 91.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 102.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit. Il cronista dice 20,000 i cavalli, e infiniti i fanti.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 54.

Veggasi anche il Nangis, nella Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 544.

[43] D'Esclot, cap. 136.

Montaner, cap. 103, 119 e 121.

[44] D'Esclot, cap. 137, 138, 140, 141.

Montaner, cap. 121.

Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, loc. cit., pag. 545, che narra le istigazioni del legato, e scrive male il nome di questa città, Janua: e il Villani, Janne, nel lib. 7, cap. 102.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

[45] D'Esclot, cap. 144 e 145.

L'autor delle Geste de' conti di Barcellona, loc. cit., narra anche delle pietre scagliate a voto contro gli Spagnuoli per guadagnar l'indulgenza. Ma non lo dice fatto a dileggio, nè dai soldati, ma dalle turbe inermi, anche di donne, che avean seguito l'esercito a questo solo fine. Trasporta il fatto all'assedio di Girona.

[46] D'Esclot, cap. 139, 140, 142, 143 il quale porta il capitolo delle consuetudini di Barcellona, che prescrivea la leva in massa in caso d'invasione.

Montaner, cap. 119 e 120.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 53 a 60.

Nangis, loc. cit., pag. 545.

Veg. il trattato col re di Tunis, in Capmany, Memorias, etc., tom. IV.

[47] D'Esclot, cap. 146.

Montaner, cap. 122.

[48] D'Esclot, cap. 147 a 155.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

Bart. de Neocastro, cap. 92.

Montaner, cap. 123 a 127.

Forte da questo tempo Carlo di Valois cominciò ad usare il suggello di re d'Aragona, che si vede in molti suoi diplomi fino al tempo della rinunzia in mano di Bonifazio VIII. Da un lato v'ha il re armato di tutto punto, montato sopra un destriero che corvetta ed è coperto di un lungo drappo sparso a gigli: il re tien la spada in alto e lo scudo al petto in atto di combattere. Dall'altro lato il re siede sur una scranna, in sottana e manto reale, con la corona a punte di gigli, e un giglio alla sinistra, alla destra uno scettro sormontato anche del fiordaliso. La leggenda è: Karolus Dei gracia rex Aragonie et Valencie, comes Barchinonie, filius regis Francie. Archivi del reame di Francia, J. 587, e in altri fascicoli.

[49] Montaner, cap. 127.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

[50] D'Esclot, cap. 157.

Montaner, cap. 128 e 129.

Bart. de Neocastro, cap. 92.

Nangis, loc. cit., pag. 546.

Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom. III, pag. 766.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 61 a 63.

[51] Bart. de Neocastro, cap. 92.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 2.

Montaner, cap. 112, 129, 135.

Veggasi anche d'Esclot, cap. 158 e 165.

[52] D'Esclot, cap. 160 a 164.

[53] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 1.

Bart. de Neocastro, cap. 92 e 97.

D'Esclot, cap. 160.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

Montaner, cap. 128.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 102.

Nangis, loc. cit., pag. 546.

Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.

[54] Bart. de Neocastro, cap. 92.

[55] D'Esclot, cap. 157, 158.

Montaner, cap. 128 a 133.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

Nangis, loc. cit., pag. 546.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 63, 64.

[56] D'Esclot, cap. 159.

Bart. de Neocastro, cap. 92.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 65.

[57] D'Esclot, cap. 159 e 165.

Montaner, cap. 134.

Bart. de Neocastro, cap. 92.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit. Quivi si legge che Pietro escì col peggio da questo combattimento.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 65.

Di questa scaramuccia fan motto ancora Gio. Villani, lib. 7, cap. 103, Nangis, loc. cit, pag. 547, la Cronaca di S. Bertino, loc. cit., pag. 766, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, la Cronaca di Parma, Tolomeo di Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S. tom. XI, e l'Anonymi Chron. sic. narrando brevemente la guerra d'Aragona ne' luoghi citati. Secondo essi, Pietro ebbe una ferita e poi ne morì. Di questa ferita non parlano i contemporanei catalani e siciliani, che potean meglio sapere i particolari, e non aveano ragione a occultar con manifesta menzogna, che un re guerriero morisse di ferita tre mesi appresso la battaglia.

[58] D'Esclot, cap. 165.

[59] Bart. de Neocastro, cap. 93, 94, 95.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 3, e lib. 4, cap. 13.

D'Esclot, cap. 166.

Montaner, cap. 131 e 135.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 104.

Anon. chron. sic., cap. 45.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 68, che cita un diploma di re Pietro, relativo al numero de' nemici morti in questa battaglia.

Di questi scrittori, il Neocastro porta a 36 il numero delle galee siciliane, più le 12 catalane di Marquet, che secondo lui si trovarono nella battaglia. L'armata francese era di 40 galee, oltre 15 lasciatene a Roses. Riferisce la particolarità delle 18 galee mandate da Loria a porsi tra la terra e l'armata francese, e delle 30 rimagnenti, con le quali ei di fuori assalì, con le fiaccole accese.

Lo Speciale dice 40 le galee di Loria, 10 le catalane, non assegna il numero delle francesi, ma lo confessa un po' minore.

D'Esclot porta a 30 le galee siciliane recate da Loria, 4 che vennero a raggiugnerlo di Sicilia, e 10 catalane; e oltre a queste, 48, tra saettie e altri legni sottili. Le galee provenzali secondo lui furono 25, ma sì ben armate d'uomini, da valer 40 galee ordinarie.

Montaner dice, 80 le galee tra francesi e italiane, 66 quelle di Sicilia, e che l'armatetta catalana non si trovò nella battaglia.

L'autor delle Geste de' conti di Barcellona, tacendo i particolari, afferma pur l'importanza della cosa; cioè, che Ruggier Loria presso Roses distrusse tutta la flotta nemica, e prese l'ammiraglio G. de Lodeva.

Gli altri o forniscono men particolari, o son da attendersi meno. Ma tra' cinque sopraddetti, e massime tra Montaner e d'Esclot, è grandissima la disparità quanto al numero delle navi francesi. Io terrei pel d'Esclot, che suol essere più veridico del Montaner e più informato; ma mi fa molta specie: 1º. ch'ei non dice il luogo della battaglia, indicato dagli altri con esattezza, ancorchè i più minuti la portino alli scogli delle Formiche, e gli altri al capo di San Filippo, che son luoghi presso il capo di San Sebastiano: 2º. ch'ei confessa, al par che tutti gli altri senza eccezione, distrutta in questa battaglia la flotta francese, da lui portata di sopra a 150 galee; onde ancorchè si voglia supporre disarmata la più parte, e menomate le ciurme, non è probabile che perdute 13 galee delle 25, Filippo l'Ardito non avesse potuto con le 12 fuggite ristorare una flotta uguale almeno a quella di Loria: 3º. che il numero de' morti, e de' prigioni, ch'ei porta a 5,560 e si dee riferire nella più parte alle galee prese, fa sempre supporre la flotta francese assai più numerosa di 25 galee. Computando a un di presso per 210 l'equipaggio d'ogni galea munita al doppio del solito, com'ei dice in questo incontro, e avea già riferito della battaglia di Malta del 1284, si avrebbero da 26 le galee prese o affondate alle Formiche, come furon 12 senza dubbio quelle guadagnate a Malta, le cui genti montavano a un di presso a 2,600 uomini secondo il numero de' prigionieri e de' morti che assegna d'Esclot, anche aggiugnendovi tanti altri feriti quanti morti, e non contando que' delle 8 galee fuggite con Bonvin alla detta battaglia di Malta: 4º. che finalmente i vanti di Ruggier Loria riferiti dallo stesso d'Esclot e gli effetti della battaglia, mal s'accorderebbero con la facile vittoria di 44 galee e tanti altri legni contro 25 galee. Perciò io penso, che il testo del d'Esclot sia stato corrotto da qualche copista, e che si debba creder poco disuguale la forza delle due armate, forse di 40 galee nella nemica, e di poche più nella siciliana; stando al Neocastro il quale si mostra assai bene informato, e poteva esserlo. Ei sbaglia solamente, se non è questo un errore del copista o dell'editore della sua istoria, il giorno della battaglia, che dice avvenuta il 1 ottobre 1285. Credo senza dubbio che seguì nel primo o ne' primi di settembre, da' riscontri di d'Esclot, Speciale, e della ritirata de' Francesi, che fu conseguenza di questa battaglia, ed avvenne certamente in fin di settembre.

[60] Montaner, cap. 136.

[61] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 4.

Bart. de Neocastro, cap. 95.

La sconfitta de' cavalli francesi a Roses è riferita anco dal Montaner, cap. 136.

[62] D'Esclot, cap. 166.

[63] D'Esclot, cap. 165.

Nangis, loc, cit., pag. 546.

[64] Chron. Mon. S. Bertini, loc. cit., pag. 766.

[65] D'Esclot, cap. 167.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

[66] Fu questo dì nel 1285 la prima domenica appresso san Michele, nella quale incominciò secondo il d'Esclot il passaggio dell'oste francese.

[67] D'Esclot cap. 166 e 167.

Montaner, cap. 137, 138 e 139.

Bart. de Neocastro, cap. 97.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 5.

Gio. Villani, lib. 7, cap. 105.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 15 e 17, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Nangis, loc. cit., pag. 548.

Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 807.

Ricobaldo Ferrarese, ibid., pag. 142.

Francesco Pipino, ibid., pag. 693.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 69.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

[68] D'Esclot, cap. 168.

Montaner, cap. 140, 141, 142.

Bart. de Neocastro, cap. 97, 100.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 71.

[69] Montaner, cap. 143.

[70] Montaner, cap. 144.

Bart. de Neocastro, cap. 97.

[71] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 6.

[72] Bart. de Neocastro, cap. 99.

[73] Diploma in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 296.

[74] Bart. de Neocastro, cap. 99; ed a cap. 112 replica questi patti la bocca dello stesso Carlo, quando liberato vedea per la prima volta il papa.

Montaner a cap. 115 narra con manifesto anacronismo questo passaggio di Carlo lo Zoppo in Catalogna.

Il Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 72, afferma che ci fossero strumenti pubblici de' preliminari di Cefalù.

In un breve d'Onorio IV, dato il 4 marzo 1287, presso Raynald, Ann. ecc., detto anno, §. 6, si legge che Carlo lo Zoppo, essendo prigione in Sicilia, avea trattato la cessione di quest'isola con le adiacenti e la diocesi di Reggio.

Veggasi anche Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, bolla di Niccolò IV, data a 15 marzo 1288.

[75] D'Esclot, cap. 168.

Montaner, cap. 145, 146.

Geste de' conti di Barcellona, loc. cit.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 7.

Bart. de Neocastro, cap. 100.

Cronaca di Parma, Ricobaldo Ferrarese, Francesco Pipino, ne' luoghi citali.

Bofarull, tom. II, pag. 245, non porta di Pietro altro testamento che quello di Port Fangos.

Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 71, il quale contro il detto del Montaner prova che Pietro non fe' altro testamento. Così dunque non die' alcuna ultima disposizione per lo reame di Sicilia, evitando un passo che l'avrebbe privato della assoluzione della Chiesa, e non lasciando men saldo sul trono di Sicilia Giacomo, fatto riconoscere già dal parlamento di Messina. In morte d'Alfonso senza figliuoli, sostituì al trono d'Aragona successivamente Giacomo, Federigo, e Pietro.

[76] Queste particolarità son cavate da tutti gli storici del tempo che inutile sarebbe citare. Alcune ne dobbiamo al Surita, lib. 4, cap. 71.

Quel che par sì membruto, e che s'accorda Cantando con colui dal maschio naso, D'ogni valor portò cinta la corda.. . . . . . . . . . . . . . . Tant'è del seme suo minor la pianta, Quanto, più che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta. DANTE, Purg., c. 7.

Carbonell, op. cit., fog. 70, scrive, che Pietro fu chiamato ancora il Francese: ma il vanto mi sembra troppo; e questo soprannome si è dimenticato a ragione.

[77] Purgatorio, canto 7.

[78] Questa particolarità è riferita da Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 19.

[79] Morì fuggendo e disfiorando 'l giglio. Purg., c. 7.

FINE DEL PRIMO VOLUME.

INDICE.

CAPITOLO PRIMO.

Intendimento dell'opera. Viver civile del secolo XIII. Potenza della Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d'Italia e dei reami di Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II imperatore; e papa Innocenzo IV…. Pag. 1

CAPITOLO II.

Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa le province di terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia. Manfredi ristora l'autorità regia; e l'usurpa. A spegner lui, la corte di Roma pratica con Inghilterra e con Francia. In fine concede i reami a Carlo conte di Angiò. Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto, e morto a Benevento. Carlo prende il regno. Dall'anno 1251 al 1266…. 11

CAPITOLO III.

La vittoria di Carlo innalza parte guelfa in Italia. Risorgon pure i Ghibellini, e chiaman Corradino all'impresa del regno. Sollevasi per lui la Sicilia. È sconfitto a Tagliacozzo, e dicollato a Napoli. Carlo spegne la rivoluzione in terraferma con rigore, in Sicilia con immanità. Eccidio d'Agosta. 1266-1268…. 32

CAPITOLO IV.

Re Carlo continua e trapassa gli abusi della dominazione sveva. Immunità ecclesiastiche. Novello baronaggio. Gravezze, e modi del riscuoterle. Demani, e bandite. Servigi, e soprusi che nascon da quelli. Amministrazione della giustizia, crimenlese, matrimoni, violenze alle donne. Violazione dei dritti politici. Riscontro delle condizioni di Sicilia e di Puglia. 1266-1282…. 42

CAPITOLO V.

Relazioni straniere di Carlo I d'Angiò. Crociata e trattato di Tunisi. Carlo aspira all'impero greco. S'ingrandisce in Italia. È raffrenato da Gregorio X. Disegni di Niccolò III e nimistà di lui con Carlo. Pretensione di Pier d'Aragona al reame di Sicilia: supposte pratiche di lui per mezzo di Giovanni di Procida. Preparamenti di guerra in Aragona. Esaltazione di Martino IV. Armamenti di Carlo per l'Oriente. Sentimento nazionale manifestato in Italia contro i Francesi. Novelli aggravî che soffrono i Siciliani: richiami, umori, disposizioni loro. 1266-1282…. 73

CAPITOLO VI.

Nuovi oltraggi de' Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31 marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica. Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardi che prende. Lettere de' Palermitani ai Messinesi, i quali seguon la rivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si prepara alla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione. Marzo a giugno 1282…. 114

CAPITOLO VII.

Dolore e rabbia di Carlo all'annunzio della rivoluzione. Ordina la passata in Sicilia. con l'esercito disposto alla guerra di Grecia. Bolla del papa contro i ribelli; risposta loro. e legazione del cardinal Gherardo da Parma. Preparamenti di Carlo. e de' Messinesi. Rotta dei nostri a Milazzo. Sbarco di re Carlo. Principî dell'assedio. Pratiche del cardinale entrato in Messina. Assalti minori. Stormo generale contro la città. Respinti i Francesi. Tentata la fede d'Alaimo capitano del popolo di Messina. Aprile a settembre 1282…. 146

CAPITOLO VIII.

Cagione della debolezza del governo preso nella rivoluzione. Si pensa a Pier d'Aragona. Sua partenza di Catalogna per Affrica; fatti militari; ambasceria a Roma. Parlamento in Palermo. che sceglie Pietro a re. Com'ei guadagna gli animi de' suoi, e accetta la corona. Viene a Trapani. È gridato re in Palermo. Disposizioni per soccorrer Messina; oratori di Pietro a Carlo; ultimi fatti d'arme nell'assedio. Carlo sen ritrae con perdita e onta. Giugno a settembre 1282…. 172

CAPITOLO IX.

Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d'Alaimo. Fazioni navali. Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania. Trattato del duello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche in Calabria. Carlo parte, lasciando le sue veci al principe di Salerno. Almugaveri. Vittorie di Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co' figli in Sicilia. Principî di scontento tra i baroni siciliani e il re. Parlamento in Messina; ove Giacomo è chiamato alla successione, e ordinato il governo. Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier da Caltagirone. Partenza di Pietro per Catalogna. Ottobre 1282 a maggio 1283…. 200

CAPITOLO X.

Nuovi preparamenti degli Angioini contro la Sicilia. Capitoli del parlamento di Santo Martino nel regno di Napoli. Nuove intimazioni del papa a re Pietro e a' Siciliani: bando della croce: sentenza di deposizione di Pietro dal reame d'Aragona, e altre pratiche. Aperta ribellione di Gualtiero da Caltagirone. Vittoria dell'armata siciliana su la provenzale, nel porto di Malta, il dì 8 giugno 1283, e conseguenze di essa. Pratiche del papa a sturbare il duello. Andata di re Pietro in Catalogna e a Bordeaux; esito della scena del duello. Umori dei popoli del regno di Napoli. I nostri occupano alcune terre in val di Crati. Preparamenti di una nuova impresa sopra la Sicilia. Loria assalta con l'armata il regno di Napoli. Battaglia del golfo di Napoli il 5 giugno 1284, e presura di Carlo lo Zoppo. Sollevazione della plebe in Napoli. Maggio 1283 a giugno 1284…. 230

CAPITOLO XI.

Carlo, fatta cruda vendetta in Napoli, s'appresta a un ultimo sforzo contro la Sicilia. Vano assedio di Reggio. Seconda ritirata di Carlo. e audaci fazioni de' nostri, che occupano molte terre in Calabria, val di Crati e Basilicata. Impresa dell'isola delle Gerbe. Sospetti del governo aragonese, e ruina d'Alaimo. Casi dei prigioni in Messina. Morte di re Carlo e di papa Martino. Provvedimenti della corte di Roma. Capitoli di Onorio. Insidia di due frati messaggi suoi in Sicilia. Giugno 1284-1285…. 272

CAPITOLO XII.

Opere della corte di Roma contro Pietro d'Aragona. Concessione di quel reame a Carlo di Valois. Protestazioni e pratiche di Pietro. Contese di lui con le corti di Aragona. Lega di que' baroni; grande esercito e armata che apparecchiansi in Francia. Invasione del Rossiglione. poi della Catalogna. Straordinaria fortezza e perseveranza di re Pietro; assedio di Girona. Morìa nel campo francese. Pietro ripiglia le offese. Fazioni di mare. Loria con l'armata siciliana riporta segnalata vittoria su i Francesi. Ritirata di re Filippo, e sua morte. Carlo lo Zoppo mandato prigione in Catalogna. Morte di Pietro. 1282-1285…. 308

FINE DELL'INDICE DEL PRIMO VOLUME.