STORIA
DEI MUSULMANI
DI SICILIA.
Proprietà letteraria. STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA
SCRITTA
DA MICHELE AMARI.
VOLUME PRIMO.
FIRENZE. FELICE LE MONNIER. — 1854.
SOMMARIO
INTRODUZIONE.
Non ostante la cultura delle colonie musulmane che tennero la Spagna e la Sicilia e dettero tante parti di civiltà all'Europa, egli è avvenuto che la storia loro rimanesse per molti secoli oscura e trasandata, quasi di popoli barbari. E ciò per cagione che i cronisti latini e greci del medio evo poco ne scrissero; che le opere arabiche andarono a male quando i Musulmani sgombravan da quei paesi; e che quel tanto che ne fu serbato in Affrica o in Oriente, non potea passare, senza difficoltà grandissime, dalla società musulmana alla società europea. Quegli ostacoli, superati un po' dal decimosesto al decimottavo secolo, or si vincono felicemente. La tolleranza filosofica; il genio degli studii storici; i viaggi; il commercio; le dominazioni europee in alcuni paesi di Musulmani; la influenza esercitata sopra altri; le accademie asiatiche istituite sotto varie denominazioni, in Inghilterra, Francia, Alemagna, Stati Uniti d'America e stabilimenti inglesi in India; i giornali periodici di esse; lo zelo di raccogliere manoscritti, monete antiche e monumenti; l'agevolezza ad apparare le lingue orientali; le frequenti pubblicazioni di libri arabici, han reso ormai praticabili molte ricerche tentate invano dalle passate generazioni. Così qualche opera pregevole rischiara già la storia dei Musulmani di Spagna, e sappiam che altre se ne apparecchino di maggior polso. Così gli annali delle Crociate si compiono col favor dei cronisti musulmani. Così escono alla luce o s'intraprendono di continuo tanti altri lavori storici su l'Affrica, su l'Egitto e su varii Stati dell'Asia anteriore.
La genuina tradizione dei tempi musulmani si dileguò di Sicilia al conquisto normanno, insieme coi dotti ch'emigravano in Affrica, in Spagna o in Egitto. Se ne andavano con essi i libri; o erano distrutti tra le guerre del conquisto nell'undecimo secolo; tra le sedizioni dei Cristiani nel duodecimo; tra le disperate ribellioni dei Musulmani nei principii del decimoterzo: ancorchè la Sicilia non abbia dato, nè anco in que' tempi, lo scandalo d'un auto-da-fè di manoscritti arabici, come quello del cardinal Ximenes che ne fece ardere ottantamila su la piazza di Granata, mentre Colombo scopriva l'America. Il fatto è che dalla metà del decimoterzo secolo alla metà del decimoquarto, rimanendo tuttavia in Sicilia, come n'abbiam prove, qualche notaio che intendesse gli atti distesi in arabico e qualche Giudeo che traducesse opere dei medici arabi, tal cognizione di lingua non servì a tramandare memorie storiche, ma soltanto a propalar qualche errore degli Arabi o dei traduttori. Così io penso leggendo nelle croniche latine di Sicilia a quel tempo, che dopo i casi del buon Menelao re d'Italia e di Sicilia, i Greci, mandati da Eraclio imperatore di Costantinopoli, si fossero impadroniti della Trinacria; le avessero posto nome di Sicilia, da due voci greche l'una delle quali suona fico e l'altra olivo; e che poi, ribellatosi Maniace luogotenente di Eraclio e spento a tradigione dalla corte bizantina, il figliuol suo, per vendetta, avesse dato l'isola ai Saraceni di Tunis, l'anno di Maometto centonovantotto, e ottocento ventisette di Cristo.[1] Erano i fatti di venti secoli compendiati in una vita d'uomo. Quella falsa etimologia dal fico e dall'ulivo, ignota ai Greci e ai Latini, trovasi appunto negli scritti d'Ali-ibn-Katâ' e d'Ibn-Rescîk, i quali vissero in Sicilia nell'undecimo secolo. Si incontrano poi sovente negli autori musulmani somiglianti anacronismi sugli imperatori romani, e si vede sempre citato a dritto o a torto il nome d'Eraclio, che sedea sul trono vivendo Maometto. Indi mi è paruto probabile che la tradizione detta di sopra, tutta quanta ella è, fosse derivata da unica sorgente arabica. Se altre notizie vi erano su la dominazione musulmana, i cronisti siciliani, secondo la ignoranza e pregiudizii della età loro, le doveano trascurare, o volontariamente sopprimere.
Dopo tre secoli in circa, ristorandosi gli studii storici in Italia e non rimanendo la Sicilia addietro dalle altre province, Tommaso Fazzello da Sciacca (nato il 1498, morto il 1570) rigettò le favole di Maniace; ritrovò un filo della tradizione bizantina nel MS. di Scilitze allor noto sotto il titolo di Curopalata; e, innestatovi quel po' di tradizione musulmana che gli potea fornir Leone Affricano e qualche altra notizia incerta, scrisse, nella sua nobilissima storia generale di Sicilia, due capitoli così così su la dominazione musulmana.[2] Lasciovvi una lacuna, a riempir la quale si affaticava Antonino d'Amico da Messina (morto il 1641) riportando dall'Escuriale pochi squarci di Abulfeda e di Sceaboddino (Scehâb-ed-dîn-'Omari) voltati in latino, alla meglio o alla peggio, da Marco Dobelio Citeron, professore d'arabico in Spagna: i quali rimasero inediti; ma Agostino Inveges da Sciacca (1595-1677) tradusse in italiano la traduzione e infilzolla nei suoi Annali di Palermo.[3] Giambattista Caruso da Polizzi, sopravvenuto quando la critica e la diplomatica davan più salda base alle ricerche storiche, pubblicò, nel 1720, primo tra i suoi importanti lavori, la Raccolta degli scrittori dell'epoca Saracenica in Sicilia: dove, alle memorie già citate e ad altre di minor nota, aggiunse il testo arabico della cronica di Cambridge,[4] procacciatogli con la versione latina da un dotto inglese: i fogli del qual testo si stamparono a Roma, mancando in Sicilia i caratteri e chi li sapesse leggere.
Ove si consideri come gli eruditi siciliani del decimosettimo e decimottavo secolo non fossero stati secondi a que' di alcun'altra provincia italiana o straniera nello studio dei patrii annali, forte si maraviglierà che niuno tra loro avesse pensato di apprendere l'arabico. E pur in quella stagione a Roma, in Toscana, in Lombardia si facea quel che oggidì ammiriamo in Alemagna, Francia e Inghilterra: si raccoglieano con ardore i MSS. orientali riportati da viaggiatori italiani; i missionarii della Propaganda di Roma studiavano le lingue orientali; si pubblicavano appo noi libri in arabico e in siriaco; si formavano musei asiatici; si compilavano opere di gran dottrina sul Corano, e grammatiche e dizionarii arabici, per esempio quello del Giggei: fiorivano, in somma, gli studii orientali al segno, che il Renaudot, dando fuori nel 1713 la Storia dei Patriarchi d'Alessandria, la dedicò a Cosimo III de' Medici; confessando nella prefazione che nel corso del decimosettimo secolo gli orientalisti di tutta Europa non avessero avuto altro capitale che le opere uscite dai tipi di Firenze. Ma queste tornarono inutili alla Sicilia, perchè i progredimenti dell'intelletto difficilmente si comunicavano dall'uno all'altro sminuzzolo d'Italia, e più difficilmente valicavano il mare. Nè miglior frutto cavò la Sicilia dagli ardimenti di Francesco Maria Maggio da Palermo de' Chierici Regolari (1612-1686), missionario, il quale dopo otto anni di peregrinazione in Siria, Persia, Mesopotamia, Armenia, Georgia, tornò a Roma pratichissimo degli idiomi arabico, turco e georgiano; tanto che ne scrisse le grammatiche parallele, dedicate a papa Urbano Ottavo.[5] Francesco Tardia da Palermo (1732-1778) pervenuto, non so come, ad avere una tintura di arabico, ne usò in opera di lieve momento, la edizione, cioè, d'una versione italiana di Edrisi, fatta dal maltese Domenico Macrì.[6] Le illustrazioni sue di alcuni diplomi arabici dell'epoca normanna rimangono inedite; nè sembrano gran che. Morto immaturamente il Tardia, senza far discepoli, si ricadde in tale ignoranza di arabiche lettere, che una iscrizione cufica cubitale passò tuttavia in Palermo per caldaica e scolpita poco appresso il diluvio. Gli eruditi del paese, quando lor occorrea di interpretare qualche leggenda di lapidi o monete, più corta via non trovavano che di rivolgersi ad Olao Gerardo Tychsen professore di Rostock, il quale avea gran fama, meritata non credo, in quei rami di filologia arabica.
Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella, frate cappellano dell'Ordine Gerosolimitano, il quale con quel suo dialetto mescolato d'arabico corrotto e di pessimo italiano, potea comprender tanto dell'idioma degli Arabi, quanto un contadino di Roma intenderebbe Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato il latino; e, per giunta, il Vella ignorava i caratteri, nè li apprese che a capo di parecchi anni, da uno schiavo musulmano che vivea in Palermo. Digiuno d'ogni erudizione, ma furbo, baldanzoso, sfacciato, ciarlatano che testè facea mestier di dare i numeri del lotto, il Vella aprì nuova bottega: fabbricò due codici diplomatici in arabico, dicea, ma ne mostrava la sola versione italiana; dei quali il primo intitolò Consiglio di Sicilia, e vi finse il carteggio degli emiri dell'isola coi principi aghlabiti e fatimiti d'Affrica; il secondo, Consiglio d'Egitto, e lo disse raccolta delle lettere dei principi normanni di Sicilia, i quali, per passatempo, raccontassero tutte le faccende di casa loro ai moribondi califi fatimiti d'Egitto. Annali, geografia, statistica, dritto pubblico di due epoche, fasti gentilizii, tutte le fole che gli parean profittevoli, accozzò l'ignorante impostore ne' codici diplomatici; oltre le false leggende che spacciò di monete e suggelli genuini; le monete ch'ei falsò a dirittura, come si afferma; e i diciassette libri perduti di Tito Livio, dei quali si vantò di tener sotto chiave la versione arabica. Per quattordici anni (1783-1796) si godè onorificenze, favor di governanti, pensioni, e in ultimo la grassa abbadia di San Pancrazio. Condannato dai magistrati, quando si scoprì la frode, alla reclusione in fortezza, il re gli fece espiar la pena in una deliziosa villa ch'egli avea comperato di sue baratterie; e gli fu reso il medagliere ch'egli avea raccolto, di 364 monete non false, tra le quali 219 di oro. Ma è da sapersi che un segretario del governo era stato complice, o forse promotore, della magagna del Consiglio d'Egitto, intesa a fingere un nuovo dritto pubblico siciliano del duodecimo secolo, ampliando l'autorità del principe e scorciando quella dei baroni.[7] La opinione pubblica, che sapea coteste brutture, avea prima dei magistrati condannato l'abate Vella e il governo con lui; il qual giudizio ritrasse con grazia anacreontica il Meli, nelle quartine che incominciano:
Azzardannu 'na jurnata
Visitari li murtali,
Virità fu sfazzunata;
Ristau nuda a lu spitali.
. . . . . . . . . . .
Sta minsogna saracina
Cu sta giubba mala misa,
Trova a cui pri concubina
L'accarizza, adorna, e spisa. ec.
Pur la impostura del Vella diè occasione a buoni studii. Monsignor Alfonso Airoldi, arcivescovo d'Eraclea, nobil uomo, erudito, magnifico, potente, come Giudice ch'egli era della Monarchia di Sicilia, ossia Legato del papa a dispetto del papa, accintosi ad aiutare il Vella pria che questi si scoprisse con la frode politica del Consiglio d'Egitto, fece venire a sue spese caratteri arabici dall'officina bodoniana di Milano; comperò libri; porse danaro del suo; fece istituire in Palermo la cattedra di arabico; fece decretare dal governo la provvisione di mille once all'anno, o vogliam dire 12,500 lire italiane, per una missione in Affrica in traccia di manoscritti, la quale poi non mandossi ad effetto. Di più l'Airoldi scrisse una bella prefazione, ch'è stampata nel primo volume del Consiglio di Sicilia, nella quale si additano tutte le fonti della storia dei Musulmani Siciliani conosciute a quel tempo.[8] Infine ei fece una buona collezione di monete, vetri e corniole incise, d'oltre un centinaio, delle quali monete circa 70 arabiche e il resto greche, romane e dei bassi tempi; coordinate poscia e interpretate in parte dal Morso, come ritraggo da una lettera di costui del 1828. L'arcivescovo d'Eraclea legò questo medagliere e molti libri al nipote Cesare Airoldi, già presidente della Camera dei Comuni di Sicilia; il quale ha donato l'uno e gli altri alla Biblioteca Comunale di Palermo.
Per zelo di smascherare il Vella, Rosario Di Gregorio da Palermo (1753-1809), pubblicista di gran fama, si metteva a studiar l'arabico dassè solo, con la grammatica d'Erpenio e il dizionario di Golio, e a capo di tre anni dava fuori un ottimo saggio di Cronografia musulmana, corredato di parecchi diplomi in arabico;[9] a capo d'altri quattro anni (1790) la raccolta di croniche e ricordi arabici d'ogni maniera relativi alla Sicilia, testi e versioni, la quale ha per titolo: Rerum Arabicarum, quæ ad historiam Siculam spectant, ampla Collectio. Sia notato ad onor della Sicilia, che quest'opera uscì contemporaneamente al falso codice diplomatico. Oltre gli squarci ristampati, contiene d'inedito: il Nowairi; una vasta raccolta di iscrizioni con bei rami; e qualche brano di diploma. Secondo i tempi e le condizioni in cui fu compilata, la dobbiam riconoscere maraviglioso sforzo d'ingegno e di volontà: ma la confesseremo anco opera imperfetta; poichè il Di Gregorio non arrivò mai, nè uomo il potea nelle sue condizioni, a legger francamente due righi di manoscritto arabico, a penetrarsi delle forme grammaticali, a rendersi familiari i modi di dire, com'oggi si fa nelle scuole d'Alemagna e di Francia dopo un anno di studio. Salvatore Morso da Palermo (1766-1828), successore del Vella nella cattedra d'arabico, seppe quest'idioma un po' meglio che il Di Gregorio; lavorò su la diplomatica, la epigrafia e la numismatica degli Arabi Siciliani; e lasciò, oltre parecchi manoscritti, l'opera pubblicata (1824 e 1827) col titolo di Palermo antico (sic): ov'egli abbozzò una descrizione della città nel XII secolo, e inserivvi curiosi documenti; ma parmi abbia sbagliato la pianta topografica.
Ripigliavano in questo tempo i Siciliani l'impresa di scrivere la storia, della quale si credean ormai raccolti tutti i materiali. Saverio Scrofani da Modica (morto il 1835) la trattò leggermente, nei Discorsi su la Dominazione degli Stranieri in Sicilia (Parigi 1824). Pietro Lanza da Palermo principe di Scordia e in oggi di Butera, ne fece argomento di una prolusione accademica recitata il 1832: lavoro giovanile, breve per sua natura e pur più sodo assai che quello del provetto Scrofani. Carmelo Martorana da Palermo diè fuori nel medesimo tempo le Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, che dovean far quattro libri e altrettanti volumi, ma ne son usciti due soli (Palermo 1832-1833). Oltre il Rerum Arabicarum, egli adoprò i trattati di storia ed erudizione orientale pubblicati in Italia e fuori infino al 1830: dettò una compilazione posata, fornita di nozioni su la società musulmana, condotta per lo più con buona critica: ma non parmi che salga alla dignità della storia; oltrechè vi mancano di quelle stesse notizie che si poteano raccogliere in Sicilia, se all'autore non parea superfluo d'apprender l'arabico.
Da quel tempo in poi, quel poco che si è fatto in Sicilia e altre province italiane è stato nei rami sussidiarii alla storia; se non voglia eccettuarsi il brevissimo compendio di Davidde Bertolotti, intitolato Gli Arabi in Italia, Torino 1834. Il signor Mortillaro da Palermo, discepolo del Morso, ha pubblicato un brano di diploma,[10] parecchie iscrizioni di vasi e suggelli, una lista dei MSS. arabici che sono in Sicilia, ed alcuni elementi di lingua arabica e di storia musulmana ec.: un intero volume, nel quale trovo da lodar solo i rami delle iscrizioni che sono ben fatti, e il saggio d'un catalogo delle monete e vetri arabici fabbricati in Sicilia.[11] Mi occorrerà forse di correggere qua e là qualche errore del signor Mortillaro, di quei soli che recherebbero torto alla verità storica; non dovendosi appuntare tutti gli altri nelle opere di chi non ha avuto comodo di bene studiar quella lingua. E il farò a malincuore, perchè mi annoiano mortalmente i pettegolezzi letterarii, e perchè temo che la critica non si apponga a nimistà. Ma, qualunque sia l'animo mio verso l'autore, io tengo che la condotta politica d'un uomo non abbia nulla di comune col merito dei suoi studii; e sarei il primo ad applaudir come scrittore tale o tal altro che punirei come cittadino con tutta la severità delle leggi, se mai le vicende mi chiamassero nuovamente alla esecuzione delle leggi. Così, scrivendo poc'anzi del Martorana, io rivoluzionario impenitente del 1848, dimenticava ch'ei fu allora Prefetto di Polizia in Palermo e che imprigionò gli amici miei. Tornando all'argomento, mi rimane a dir di Giuseppe Caruso, attuale professore di arabico in Palermo, il quale ha pubblicato non male tre diplomi arabici, studiati già da Tardia, Di Gregorio e Morso, che ne sapeano poco più o poco men di lui.[12] Infine dobbiamo a Domenico Spinelli da Napoli un'opera numismatica che risguarda indirettamente le colonie musulmane di Sicilia.[13]
Gli ultimi saggi storici su quelle colonie, son opera di stranieri e li ha promosso l'Istituto di Francia. A misura che si approfondivano le vicende dell'incivilimento europeo, si vedea di quale momento vi fossero stati i Musulmani di Sicilia. L'Accademia, dunque, delle Iscrizioni proponea per l'anno 1833 un premio a chi presentasse il miglior saggio storico su le incursioni e dominazioni dei Musulmani in Italia.[14] Il premio, differito più volte, fu accordato, l'anno 1838, a M. Des Noyers, bibliotecario al Museo di Storia Naturale di Parigi, in merito di un prospetto, che si stampò a pochi esemplari, nel quale l'autore tratteggiò quei conquisti con le cagioni e conseguenze loro, e diè il disegno e fin la tavola dei capitoli di un'opera da dividersi in due parti; cioè racconto storico e influenza della Sicilia musulmana nei varii rami di civiltà. Ei non compilò l'opera, nè so se l'abbia or fatto; ma di certo non l'ha pubblicato. Non conoscendo l'arabico, M. Des Noyers dovette star contento ai materiali tradotti; ai quali s'aggiunse in quel tempo il capitolo d'Ibn-Khaldûn su la Sicilia, dato in arabico e in francese, con acconcia prefazione e note di molta dottrina, da M. Noël Des Vergers. M. César Famin si affrettò a stampare nel 1843 il primo volume d'una Histoire des Invasions des Sarrazins en Italie, il quale arriva all'878; lavoro di picciol conto, di cui l'autore non so se pria di morire abbia lasciato manoscritta la continuazione.
Il premio proposto dall'Istituto avea allettato altresì Giovanni Giorgio Wenrich, professore di Letteratura biblica a Vienna, e noto per eruditi lavori su le versioni orientali degli autori greci e su la origine della poesia ebraica ed arabica. Ritoccata, dopo l'esito del concorso, cotesta novella opera, ei diella a stampa in Lipsia il 1845, sotto il titolo di: Rerum ab Arabibus in Italia insulisque adjacentibus... gestarum, Commentarii. È dettata in elegante latino, con dignità, concisione e diligenza. L'autore molto si aiutò dei lavori del Martorana; accoppiò il metodo seguíto da costui con quello di M. Des Noyers; aggiunse i fatti che risultavano da' testi arabici pubblicati dopo il Di Gregorio; ma non fe' novelle ricerche nei MSS.; talchè non accrebbe di molto il patrimonio del Martorana.
I materiali su i quali si è lavorato fin qui, mettendo da canto i greci e i latini, sono stati: la Cronica di Cambridge, parte del Nowairi, parte di Scehâb-ed-dîn-'Omari, parte d'Ibn-Khaldûn, poche biografie d'Ibn-Khallikân, pochi ragguagli biografici e bibliografici del Casiri, e qualche squarcio d'Ibn-el-Athîr messo da M. Des Vergers in nota a Ibn-Khaldûn detto. Il Martorana e il Wenrich si sono avvalsi, inoltre, d'una compilazione italiana della quale è mestieri ch'io faccia parola: cioè gli Annali Musulmani del Rampoldi. Quest'erudito italiano, morto a Milano in età avanzata il 1836, avea fatto in gioventù lunghi viaggi in Oriente; dei quali, nè delle altre vicende di sua vita non ho potuto avere ragguagli; ancorchè vi si fossero adoperati alcuni amici in Milano. Nelle opere sue ritrovo, ch'ei soggiornò in Siria e al Cairo nel 1784, al Cairo stesso nel 1785; e non so quando a Smirne:[15] pertanto è molto probabile ch'egli intendeva l'arabico volgare. Che abbia conosciuto profondamente la lingua, nol credo; mostrandosi ignaro talvolta delle più ovvie forme grammaticali, delle più trite etimologie; per esempio la voce sceikh ch'ei fa derivare dal persiano sciah (re). Di più si ritrae ch'egli attinse spesso alle versioni europee, anzichè agli originali; poichè trascrive i vocaboli arabici con ortografia or francese ora inglese e non mai italiana: come djeami (moschea cattedrale) in luogo di giami; Jannabi, Jaafar, nomi proprii, per Giannabi, Giafar, ec. Nè va preso sul serio l'infinito numero di citazioni ch'egli infilza, di nomi d'autori arabi e persiani, quand'ei non distingue quelli veduti da lui stesso dagli altri allegati su le citazioni altrui. Pei fatti di Sicilia sparsi negli Annali, il Rampoldi non sempre cita; talvolta nomina il Nowairi, dicendo tutto il contrario di lui; o segue la Cronica di Cambridge senza punto farne menzione; e in un sol caso, certe avvisaglie cioè tra Cristiani e Musulmani nell'887, si riferisce al Nighiaristan, o meglio avrebbe scritto Nigâristân. Compilazione questa è di aneddoti, scritta in persiano nel decimosesto secolo, della quale v'ha a Parigi parecchi MSS., e una edizione di Calcutta in litografia: ma nulla vi si trova intorno la Sicilia; come mi afferma il dotto orientalista M. De Frémery, ch'io pregai di percorrerla, poichè ignoro il persiano. Gli avvenimenti delle altre province musulmane, per quanto io ne abbia potuto vedere, non son trattati con maggiore diligenza. Pertanto questo gran lavoro in dodici volumi, che offre del resto giudiziose osservazioni locali, molta erudizione, idee vaste e filosofiche e fors'anco fatti genuini che invano si cercherebbero altrove, questo lavoro, io dico, rimarrà come inutile; non sapendosi il più delle volte se i racconti sian tolti da buone sorgenti, se l'autore citi con esattezza, o se aggiunga del suo altre circostanze ch'ei confusamente si ricordava o che gli pareano necessarie a compiere il cenno dei cronisti. Si potrà cavar partito dagli Annali del Rampoldi, se mai cadranno in man di qualche valoroso orientalista i MSS. arabi o persiani ch'ei lasciò, i quali non ho potuto sapere nè quanti, nè quali, nè dove fossero. Allora si potrà veder chiaro in tal miscuglio di elementi. In questo mezzo ho dovuto rigettare assolutamente l'autorità del Rampoldi.
Or ne vengo ai miei proprii lavori. Quand'io giunsi a Parigi, perseguitato per avere scritto il Vespro Siciliano, che già corre il duodecim'anno, mi parve come un obbligo di tentar la Storia dei Musulmani di Sicilia; pensando che tra tanti uomini più capaci di me, italiani e stranieri, niuno potea avere insieme lo zelo e le cognizioni locali d'un siciliano e i comodi grandissimi che a me dava il soggiorno di Parigi. Come il solo modo di riuscir nell'intento era la ricerca di novelli materiali, così io non esitai a giocar dieci anni di fatica in questa maniera di scavi d'antichità. Appresi l'arabico a Parigi; confrontai i testi del Di Gregorio coi MSS. originali; mi diedi a raccogliere frammenti storici, descrizioni geografiche, biografie, e le prose e poesie degli Arabi Siciliani, e i titoli di lor opere perdute, e quanto fosse stato scritto in arabico da Siciliani o da Arabi qualunque su la Sicilia e i suoi abitatori. Molti materiali ho trovato da me stesso nei MSS. arabici di Parigi, Oxford, Londra, Leyde: altri ne ho avuto per favor di amici da Leyde, Cambridge, Heidelberg, Madrid, Pietroburgo, Tunis, Costantina; altri son usciti alla luce dal 1842 a questa parte: e, se non ho potuto frugar tutte le biblioteche di Alemagna, Italia e Spagna, i cataloghi stampati mi assicurano che poco o nulla era da sperarne. Cotesti materiali, escluse le poesie che non abbiano importanza storica, faranno una Biblioteca Arabo-Sicula; nella quale mi è parso di dar luogo ad alcuni squarci di autori arabi relativi alla storia di Sicilia del XIII e XIV secolo, ancorchè non trattino dei Musulmani dell'isola. Alla stampa dei testi, che non era impresa da autore povero, nè da libraio d'Italia o fosse pur di Francia e Inghilterra, ha provveduto, per sommo zelo delle lettere, la Società Orientale di Alemagna, alla quale io ne feci domanda; e fu benignamente accolta, per la premura che s'era data il dottissimo professore Fleischer di Lipsia, pubblicando un prospetto di quella mia raccolta. A spese dunque di quella dotta Società si stamperanno i testi a Gottinga, in un volume. La versione italiana in due volumi con note nella parte geografica, cavate dai diplomi dell'undecimo secolo in giù, si pubblicherà, com'io spero, in Italia, nel sesto medesimo del volume arabico, in guisa da potersi vendere con quello o senza. Il duca di Luynes, benemerito dell'Italia per le edizioni di Matteo da Giovenazzo, dei Monumenti Normanni e Svevi del regno di Napoli, e dello splendido Codice diplomatico di Federigo Secondo imperatore, e per un gran lavoro, al quale attende, su le monete puniche di Sicilia, ha cortesemente assentito a fare una carta comparata della Sicilia, ordinata in questo modo: che si corregga a cura sua la carta in quattro fogli dell'ufficio topografico di Sicilia; ed egli indi vi noti i nomi antichi; io vi trasporti gli arabici ricavati da Edrisi e altre fonti; e la carta si stampi a due colori, in guisa da mostrare a colpo d'occhio il riscontro dei luoghi attuali, del XII secolo e dell'antichità. Con la solita munificenza, l'egregio archeologo francese ha profferto di far incidere questa carta a proprie spese.
Nella Biblioteca Arabo-Sicula mancheranno, come accennai, le poesie non relative a fatti storici e inoltre le notizie dei manoscritti arabi di Sicilia, i diplomi, le iscrizioni e le monete. Quanto alle prime, che prenderebbero uno o due volumi di testo, io le ho copiato; ma non sarà facile trovare i mezzi di stamparle, nè preme. Il resto son lavori male abbozzati fin qui, e da rifarsi tutti in Sicilia. Tale il catalogo dei MSS. della Lucchesiana di Girgenti, Biblioteca de' Gesuiti in Palermo, Monastero di San Martino presso Palermo, e Biblioteca Vientimilliana di Catania, i quali sommano ad una cinquantina, secondo la lista che ne mandò il signor Mortillaro al Cardinal Mai.[16] Va fatta di pianta la collezione dei diplomi arabici dei tempi normanni, la più parte inediti, pochi pubblicati, così così, da Di Gregorio, Morso, Giuseppe Caruso, Mortillaro; e un solo correttamente, il quale dobbiamo a M. Des Vergers.[17] I diplomi si dovrebbero ricercare nel Monastero di Morreale; Cattedrale, Cappella Palatina e Commenda della Magione in Palermo; vescovati di Catania, Girgenti, Patti, Cefalù, e in tutti altri archivii ecclesiastici e pubblici; e sarebbero da vedersi le copie che per avventura se ne trovassero nelle biblioteche: il quale lavoro richiederebbe e tempo e spesa e pazienza contro gli ostacoli e pratica a leggere i MSS. arabici e libertà di viaggiare in Sicilia. Similmente le iscrizioni lapidarie, o di vasi, gemme e drappi, date da Di Gregorio. Morso, Lanci e Mortillaro, e una anco da me e le molte altre inedite, voglionsi quasi tutte verificar sopra luogo da occhi esercitati, e rintracciarne delle altre sugli edifizii e nei musei e per le case. Per la numismatica, infine, è da eseguire in grande il lavoro principiato dal Mortillaro e da me sopra commendato. Cioè si debbono esaminare in Palermo le collezioni di monete e vetri dei Gesuiti, o della Università degli Studii, alla quale ne furono legate circa 300 dal Cavalier Poli; quella di Monsignor Airoldi, testè donata alla Biblioteca Comunale, e le altre di privati: si debbono estendere le ricerche a tutta l'isola; scevrare le monete false dalle vere; confrontarle coi cataloghi stampati dal Castiglioni a Milano, dallo Spinelli a Napoli; ed oltremonti, da Tychsen, Adler, Marsden, Moëller, Fraehn, Soret, ec.; ricercarne infine per tutte le grandi collezioni d'Europa, il che io ho fatto soltanto in quella di Parigi. Per necessità lascio dunque ad altre persone, o rimetto ad altro tempo, coteste ricerche, dalle quali la Storia non potrà cavar altro che qualche nome e qualche data svelati dalle monete e iscrizioni; qualche particolarità di diritto pubblico e qualche altro nome proprio e topografico forniti dai diplomi del duodecimo secolo; e qualche notizia artistica o filologica.
Da tal classe di materiali ho dovuto rigettare due notizie date dal Mortillaro. L'una risguarda Abi-Kanom ( sic ) ben Mohammed ben Osman segestano, autore del Kitabo-l-Nachli ossia Libro delle palme, MS. dell'anno 1004 dell'era cristiana, posseduto dal Monastero di San Martino presso Palermo.[18] Tal titolo e nome van corretti Kitâb-el-Nahl wal-'Asl, (Trattato delle api e del miele) di Abu-Hâtim-Sahl-ibn-Mohammed del Segestân;[19] chè di quella provincia di Persia si tratta e non di Segesta in Sicilia, distrutta molti secoli innanzi il conquisto musulmano. Perciò si tolga dal novero degli scrittori Arabi Siciliani questo Segestano postovi da alcun compilatore di Giornale di Scienze e Lettere, che un tempo si pubblicava in Palermo sotto gli auspicii della Polizia e la direzione del Mortillaro.[20] Va eliminato al pari un Hâmid-ibn-Ali, che il Mortillaro suppose siciliano, senza per altro affermarlo, nella illustrazione di un bell'astrolabio in ottone che v'ha in Palermo,[21] delineato il 343 dell'egira (954-955) dal detto Hâmid, e, com'io credo, copiato sul metallo qualche secolo appresso,[22] per uso d'un personaggio, il cui nome va letto Scerf-ed-dîn-Ahmed-ibn-Mongiâ-ibn-Nâgi-ibn-Mohammed, della tribù di Sa'd, nato o dimorante in Zenkelûn, terra in Egitto.[23] Il nome dell'autore va bene, e anco il tempo in cui visse; poichè l'astronomo Ibn-Iunis, che morì il 1008, cita appunto tra i più celebri costruttori di astrolabii questo Hâmid-ibn-Ali, da Wâset, aggiugne egli, e così toglie luogo ad ogni contesa su la patria.[24]
Raccolti e studiati i materiali, senza rimorso di lasciarne addietro che fossero di momento, ho scritto la Storia, scopo di quelle mie ricerche. E comincio a pubblicarla prima della Biblioteca Arabo-Sicula, sì che ne presento adesso il primo volume, e gli altri due intendo stamparli a un tempo con quella raccolta. Ho cavato i fatti, in primo luogo dai settanta scrittori arabi, inediti la più parte, che compongono la Biblioteca; i nomi dei quali, accompagnati di cenni biografici e bibliografici, si leggeranno nella seconda parte della Tavola Analitica in fin di questa Introduzione. Indi il lettore potrà giudicare delle autorità che si citano in tutto il corso dell'opera. Primeggian tra quelle il Riadh-en-Nofûs, la Cronica di Cambridge, Imâd-ed-dîn, Ibn-el-Athîr, il Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Tigiani, Ibn-Haukal, Edrisi, Ibn-Giobair. Dei settanta poi, qual mi ha fornito un centinaio di pagine, qual due o tre righi, qual fatti nuovi e importanti, e qual noiose ripetizioni o racconti che mal reggono alla critica. Pochi contengono tradizioni primitive; sendo perdute le migliori croniche musulmane della Sicilia, e non rimanendone che i nomi di dieci autori ch'ho noverato nella prima parte della Tavola. Pur l'uso degli annalisti arabi a copiare le croniche troncandole qua e là, anzi che rimpastare i fatti nel proprio stile, ci ha conservato in parte le prime scritture. In generale le croniche e annali arabi sono diligenti nelle date; accennano i fatti anzi che narrarli; difettan di critica; non raccontano nè cagioni nè conseguenze nè gli episodii, in cui si vegga l'indole, le fattezze e le passioni degli attori. Fa eccezione a questo qualche biografia. Lavorando su elementi di tal fatta, chi voglia scrivere la storia com'oggi la s'intende, è trattenuto ad ogni passo, costretto a indovinare, a far supposizioni, a mettere in forse, e sovente è strascinato ad imitare l'andatura monotona degli originali. Per buona sorte, la tendenza del secol nostro ai lavori storici ha fatto pubblicare, da una trentina d'anni a questa parte, molti testi, versioni e dotti comenti, mercè i quali si comprendono ormai pienamente gli ordini politici, le leggi civili, penali e di culto, l'indole delle sètte religiose, le vicende delle scienze e lettere, tutti in somma i fatti generali della Storia dei Musulmani: e ciò supplisce a molte lacune degli annali. Fra coteste opere sol ricorderò l' Ahkâm-Sultanîa di Mawerdi, trattato fondamentale di dritto pubblico, da me studiato sopra un MS. di Parigi, ed or meglio assai su la edizione che ne diè l'anno scorso il dottor Enger a Bonn. Altri lumi ho cavato dai MSS. parigini di Ibn-abd-Rabbih, Ibn-Kutîa, Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ec.
Degli scrittori bizantini e latini sarebbe superfluo a presentare una tavola analitica. Tra i primi, ho preferito sempre gli originali ai copisti; e però la Continuazione di Teofane, che ci accompagna per gran tratto di queste istorie, al Cedreno, seguíto da alcuni moderni non so per quale predilezione. Quasi sempre ho adoperato, come più recenti, le edizioni di Bonn. Oltre gli autori ch'ebbero alle mani il Martorana e il Wenrich, è adesso di ragion pubblica il libro di Eustatio, arcivescovo di Tessalonica, su la espugnazione di quella città per le armi siciliane nel 1185; dove si ritrovano particolari prima ignoti, e alcuni toccano i Musulmani che rimaneano in Sicilia. Quanto agli scrittori latini usciti in luce dopo il Muratori, ho cavato partito dalle croniche: di Giovanni Diacono di Venezia, pubblicata da Zanetti e indi nel Pertz; del monaco Amato che tanto rischiara i fatti del conquisto normanno, data dallo Champollion; di Benedetto monaco di Sant'Andrea, nel Pertz; di Marangone, nell' Archivio Storico Italiano; e dalla poesia latina su la impresa de' Pisani e Genovesi a Mehdîa nel 1088, per la quale mi son servito della edizione di M. Du Méril. Ho rigettato, per esserne evidente la falsità, i Chronici Neapolitani Fragmenta; il Chronicon Arnulphi monachi; e le interpolazioni alla Cronica della Cava: tutte fatture di Francesco Pratilli, erudito napoletano del secol passato, appigliatosi a tal tristo espediente, per ticchio di gareggiar col Muratori. Alcune agiografie greche e latine, vagliate con giusta diffidenza, mi han pure fornito fatti degni di fede: tali, tra le greche, la Vita di San Giovanni Damasceno; quella di Sant'Ignazio patriarca di Costantinopoli; quella di San Nilo il Giovane; e gli squarci di quella di San Niceforo vescovo di Mileto pubblicati da M. Hase nelle note a Giovanni Diacono Caloense; tali i testi o versioni in latino che si trovano nel Gaetani, delle quali la raccolta dei Bollandisti offre talvolta i testi greci, e sempre dà qualche correzione. I diplomi greci e latini di Sicilia mi hanno aiutato sopratutto allo studio dei nomi topografici, ch'era necessario per conoscere le città o villaggi dell'XI e XII secolo, i quali alla cacciata dei Musulmani rimasero in parte abbandonati, con immenso danno dell'agricoltura Siciliana, non riparato dopo sette secoli. Oltre le collezioni di Pirri, De Grossis, Lello, Mongitore, ec., ho cavato quei documenti dai tabularii stampati di alcune chiese, dal Giornale Ecclesiastico di Sicilia, e dalla Historia Diplomatica Friderici Secundi Romanorum imperatoris, della quale son già usciti cinque volumi, a cura di M. Huillard-Breholles e spesa del duca di Luynes. Infine ho tratto alcuni ragguagli di Storia letteraria dai MSS. latini della Biblioteca imperiale di Parigi N i. 7310, 7281, 7406, e Fonds Saint-Germain 1450. Il primo dei quali, studiato un tempo dall'Humboldt,[25] è versione dell' Ottica di Tolomeo, fatta, sopra una versione arabica, da Eugenio ammiraglio del reame di Sicilia; il quale altresì tradusse dal greco le profezie dette della Sibilla Eritrea, di cui v'ha tre MSS. a Parigi. I citati MSS. 7281 e 7406 sono compilazione latina di un Giovanni di Sicilia su le notissime tavole astronomiche, dette Alfonsine, del giudeo Arzachele da Toledo. Allo stesso Giovanni di Sicilia, o altro di tal nome, appartiene il MS. 1450 Saint-Germain, ch'è trattato di rettorica.
Lo argomento e divisione cronologica del presente lavoro è esposto a capo del primo libro. Cotesto disegno non coincide con quello dell'Accademia delle Iscrizioni, seguíto dal Wenrich. Da una mano io ho voluto ristringere il campo alla Sicilia. Le guerre dei Musulmani in Italia dal VII al XII secolo fanno due ordini di avvenimenti, dei quali il primo dà argomento a Storia particolare, l'altro no; anzi questo non si potrebbe accoppiar con quello altrimenti che negli Annali generali d'Italia. L'uno è la guerra, prima d'infestagione poi di conquisto, che movea dall'Affrica propria; portava lo stabilimento delle colonie musulmane in Sicilia; tentava la Terraferma dallo stretto di Messina al Tevere; e vi lasciava, con orribili guasti, anco qualche elemento di civiltà. L'altro ordine si compone di scorrerie minori dei Musulmani or d'Affrica or di Spagna, le quali affliggeano la Sardegna, la Corsica e la riviera dalla foce del Tevere alle Alpi Marittime: calamità disparate e senza compenso. Perciò ho accennato queste di passaggio nella narrazione delle cose operate dai Musulmani in Sicilia; ma ben ho raccontato distesamente i casi dell'Italia Meridionale, poichè sono connessi a quei di Sicilia. Da un'altra mano, dovendo esporre le condizioni d'ogni maniera in cui si vivea nell'isola innanzi il conquisto musulmano, ho preso le mosse necessariamente dai tempi più antichi in cui ebbero origine: a che non pensarono i dotti stranieri lodati di sopra. Dopo la dominazione musulmana, ho toccato i fatti principali dei monarchi normanni di Sicilia e dei due primi di Casa Sveva; e l'ho scritto tanto più volentieri, quanto i testi arabi me ne davano ragguagli ignoti per l'addietro. Mi son fermato alla deportazione dei Musulmani di Sicilia in Puglia; parendomi opera insensata ad abbozzare le vicende della colonia di Lucera su i vaghi cenni dei cronisti, quando stan sepolte nei registri angioini di Napoli centinaia di documenti su quella colonia: chè moltissimi ne vidi io stesso il 1840 e n'usai parecchi nella Guerra del Vespro Siciliano. Se un giorno avverrà che l'Archivio di Napoli sia aperto liberamente agli eruditi, altri, con migliori auspicii che i miei, intraprenderà così fatto lavoro. Ho dato poi altr'ordine alle materie. I miei predecessori conduceano la cronica dal principio alla fine, e poi ripigliavano da capo a far la storia legislativa, religiosa, morale, letteraria, artistica ed economica. In luogo d'imitarli, meglio mi è parso di presentare i fatti, di qualunque classe, a misura che sviluppansi ed operano. Pertanto ho interrotto spesso la narrazione delle guerre e vicende politiche, per descrivere i fenomeni civili e intellettuali che n'erano a vicenda effetti e cagioni: in vece di percorrere l'una dopo l'altra tante linee di racconti, le ho troncato ad epoche, e disposto i tronchi parallelamente l'uno all'altro; amando a seguire, il più che potessi senza ingenerar confusione, l'ordine dei tempi, che mi par logico sopra ogni altro. In fin del terzo volume porrò un indice dei nomi proprii e di luoghi, e una tavola alfabetica degli autori citati in tutto il corso dell'opera, indicando le edizioni o MSS. di cui mi sia servito. I nomi o altre voci arabiche saranno trascritti, rendendo le lettere e segni dell'alfabeto arabico d'Oriente nel modo che segue:
1. Elif — a italiana.
2. Ba — b id.
3. Ta — t id.
4. Tha — th inglese.
5. Gim — g italiana.
6. Ha — h latina.
7. Kha — kh italiana.
8. Dal — d id.
9. Dsal — ds id.
10. Ra — r id.
11. Za — z id.
12. Sin — s id.
13. Scin — sc avanti le vocali e , i , e sci o sce avanti le altre; sempre col suono della ch francese e sh inglese.
14. Sad — s italiana.
15. Dhad — dh id.
16. Ta — t id.
17. Za — z id.
18. Ain — suono particolare che si rende con un '.
19. Ghain — gh italiana.
20. Fa — f id.
21. Kaf — k id.
22. Caf — k id.
23. Lam — l id.
24. Mim — m id.
25. Nun — n id.
26. Hè — h , e quando è finale, si sopprime o si rende t .
27. Waw — w inglese.
28. Ia — i italiana.
La vocale fatha si rende e, e quando è seguíta dalla alef di prolungaz., â.
La vocale kesra si rende i ed î nel detto caso.
La vocale dhamma si rende o ed û nel detto caso.
Mi rimane adesso a rendere testimonianza degli aiuti altrui. Debbo ai signori Reinaud e Hase, professori, l'un d'arabico, l'altro di greco moderno, nella École des Langues Orientales vivantes a Parigi, quel che so di dette due lingue e della paleografia appartenente all'una o all'altra: debbo loro inoltre di avermi avviato allo studio della erudizione musulmana e bizantina, non meno che guidato nelle ricerche su manoscritti o libri stampati. Mi diè consigli di questa fatta, nel primo anno de' miei studii, il barone Mac-Guckin De Slane, dotto orientalista. E, in ogni tempo, i due professori lodati di sopra m'assisteano cortesemente, anzi amorevolmente, nella interpretazione di qualche passo di testo, o in altra grave difficoltà.
Dissi di sopra che altri mi procacciava copie di parecchi testi arabi. Riconosco tal favore, innanzi ogni altro, dal mio amico il dottor Dozy, or professore d'istoria nella Università di Leyde; il quale, studiando quella ricca collezione di manoscritti, ne prese quanto potea giovare al mio intento. Altri estratti di testi mi sono stati mandati cortesemente da M. Alphonse Rousseau, primo interprete della Legazione francese a Tunis; dal dottor Weil, bibliotecario a Heidelberg; dal professore Gayangos di Madrid; da M. Cherbonneau, professore d'arabo a Costantina; dal signor Wright; e dal conte Miniscalchi da Verona, benemeriti delle lettere arabiche. Tra i non orientalisti, il Conte di Siracusa mi fece ottenere nel 1846 copia di un MS. di Madrid; il duca di Serradifalco impetrò per me lo stesso anno il prestito di un manoscritto di Pietroburgo, il quale mi fu mandato a Parigi per mezzo della Legazione di Russia, con liberalità di cui debbo lodar quel governo, non ostanti le mie opinioni politiche le quali non ho bisogno di ripeter qui. L'ingegnere alemanno signor Honnegar, venendo alcuni anni fa da Tunis a Parigi, mi recò altri squarci di testo, fatti copiare per conto mio. Il lucido d'una iscrizione di Sicilia e alcune notizie bibliografiche ebbi nel 1846 per favore dell'erudito principe di Granatelli, al quale io era obbligato d'altronde per assai più efficaci prove di amistà. Altri lucidi di iscrizioni mi ha fatto copiare il duca di Serradifalco, chiaro per opere archeologiche, e ne tengo anche dal mio amico Saverio Cavallari, ingegnere e archeologo. Debbo far menzione ancora del mio fratel cognato Giuseppe di Fiore, per varie notizie raccoltemi in Sicilia; del dotto ellenista siciliano Pietro Matranga, per aver procacciato il confronto di un testo arabico alla Vaticana; e del signor Power bibliotecario a Cambridge, e del defunto Samuel Lee professore in quella Università, per altro simil favore.
Mentre io studiava in Parigi, risegnato lo impiego nel Ministero di Palermo e lo stipendio di quello che m'era unico mezzo di sussistenza, parecchi amici dal 1844 al 1846 mi soccorsero di danaro, da rimborsarsi col prezzo dell'intrapreso lavoro. Il fecero per benevolenza verso di me, e zelo per un'opera che speravano illustrasse la storia del paese: tra i quali se alcuno partecipava delle mie opinioni politiche e altri allora vi si avvicinava, altri non era meco legato che di privata amistà; nè questa associazione ebbe mai indole nè scopo politico, foss'anco di mera dimostrazione. L'associazione fu promossa dal barone di Friddani e da Cesare Airoldi, nominato di sopra; la secondarono in Sicilia Mariano Stabile, amico mio dalla fanciullezza, il principe di Granatelli e altri amici; e lo Stabile si incaricò di riscuotere il danaro in Sicilia, e, riscosso o no, me ne somministrava. Io accettai la profferta. Soscrissero Cesare Airoldi, Massimo d'Azeglio, la signora Carpi, il barone di Friddani, la famiglia Gargallo, Giovanni Merlo, Domenico Peranni, il marchese Ruffo, il duca di Sammartino, il principe di Scordia, il conte di Siracusa, Mariano Stabile, il signor Troysi, e quegli che primo mi avea confortato agli studii storici tanti anni innanzi, il carissimo mio Salvatore Vigo; i nomi dei quali ho messo per ordine alfabetico. Non tutti fornirono la stessa somma di danaro: poichè chi pagò in una volta tutte le cinque quote di ogni messa, le quali si doveano fornire successivamente; e chi fu richiesto d'una o due quote, e non fu sollecitato per le altre: i particolari del qual conto van trattati tra me e i soscrittori, e al pubblico non ne debbo dir altro che il beneficio e la gratitudine mia. Mutato alla fin del 1846 il disegno della pubblicazione, e intrapresa questa dall'editore signor Le Monnier, io non ho altrimenti usato, d'allora a questa parte, il comodo che mi aveano offerto sì liberalmente i soscrittori.
Parigi, luglio 1854.
TAVOLA ANALITICA DELLE SORGENTI ARABICHE DELLA STORIA DI SICILIA.
PARTE PRIMA. — OPERE PERDUTE.
I. Ibn-Katâ' (Abu-'l-Kasem-Ali-ibn-Gia'far-ibn-Ali, detto Ibn-Katâ') discendente della regia schiatta aghlabita, nacque in Sicilia il 433 (1041-1042); uscì dopo il conquisto normanno, e morì in Egitto il 515 (1121-1122). Di questo sommo filologo darò, a suo luogo, la biografia. Tra le molte opere ch'ei scrisse, era un Târîkh-Sikillîa (Cronica di Sicilia) ricordato da Soiûti[26] e da Hagi-Khalfa[27]. Nessuno annalista par che abbia letto quella cronica. Compose di più El-Dorra-el-Khatîra (La nobil Perla), antologia dei versi di censettanta poeti arabo-siculi[28], della quale molti frammenti ci ha conservato Imad-ed-dîn da Ispahan[29]; e ciò si vegga al nº XXVIII della parte seconda di questa Tavola.
II. Abu-Zeîd-el-Gomri, di origine berbera come sembra al nome, scrisse anch'egli una cronica di Sicilia. Lo afferma Sekhâwi, autore del XV secolo, in un suo studio di storiografia[30]; e lo ripete Hagi-Khalfa[31]. Nè il primo nè il secondo ci dicono dove e in qual tempo sia vivuto questo Abu-Zeîd; non citato per altro da alcuno annalista.
III. Ibn-Rekîk (Abu-Ishâk-Ibrahîm-ibn-Kasem-ibn-Rekîk) liberto ei medesimo, o il padre, come potrebbe argomentarsi dalla voce rekîk (schiavo), fu segretario in un oficio pubblico a Kairewân, verso la fine del decimo secolo[32]. Egli scrisse una Cronica d'Affrica, che talvolta fa menzione della Sicilia, ed è citata spesso dai compilatori: Ibn-Wuedrân, Ibn-Abbâr, Ibn-Adsari autore del Baiân, Ibn-Khaldûn, Nowairi, Tigiani, Leone Affricano. Quantunque io accetti il giudizio del dotto barone De Slane, il quale gitta su le spalle d'Ibn-Rekîk le favole che si mescolarono al racconto delle prime guerre dei Musulmani in Affrica[33], penso pure che costui potea compilar senza critica le narrazioni dei tempi andati, e scrivere schiettamente le vicende de' suoi proprii. Si badi a tal distinzione, quante volte si vedrà citata l'autorità d'Ibn-Rekîk nel corso del presente lavoro.
IV. Ibn-Rescîk (Abu-Ali-Hasan) forse di origine siciliana, nato in Affrica d'uno schiavo greco, orafo, l'anno mille; vivuto a corte dei principi Zîrîti a Mehdia e negli oficii pubblici a Kairewân; rifuggito poscia in Sicilia; e morto a Mazara, chi dice il millecinquantotto, chi il sessantatrè, e chi il settanta, fu uomo di molte lettere; del quale tratterò più largamente nel quarto libro di questa istoria. Tra le altre cose, ei scrisse una cronica di Kairewân, ove toccò talvolta i fatti di Sicilia: come si ritrae dalle citazioni di varii compilatori. L' Anmûdeg (il Tipo), opera del medesimo autore, contiene un aneddoto, trascrittoci da Ibn-Khallikân, risguardante il principe kelbita di Sicilia Iusûf. Da altri frammenti che abbiamo d'Ibn-Rescîk ei sembra informato della erudizione che potea rimanere in quel tempo tra i Greci di Sicilia: il che aumenta l'autorità sua come cronista.
V. Ibn-Iahîa (Abu-Ali-Hasan-el-Fakîh, ossia il giurista) scrisse un Târîkh-Sikillîa (Cronica di Sicilia) del quale i geografi Jakût e Kazwîni ci hanno conservato qualche squarcio. Ancorchè il soprannome e il nome proprio di costui si riscontrino con quei d'Ibn-Rescîk e l'uno e l'altro sembrin di certo vissuti al medesimo tempo, pure il divario dei nomi patronimici; la origine greca d'Ibn-Rescîk; la qualità di giurista data a Ibn-Iahîa; infine la diversità delle due croniche che s'intitolano, l'una di Kairewân e l'altra di Sicilia, fanno supporre con fondamento che ai tratti di due autori diversi.
VI. Abu-s-Salt-Omeîa (Ibn-Abd-el-'Azîz-ibn-abi-s-Salt) nato a Denia in Spagna il 1067, morto a Mehdia in Affrica il 1131 o pochi anni appresso, medico, poeta, erudito, meccanico, continuò la Cronica d'Ibn-Rekîk[34]. In questa, o altra opera, ci narra un curioso aneddoto della sconfitta dell'esercito siciliano al Capo Dimas il 1123. Imâd-ed-dîn da Ispahan, nella Kharîda, ci ha conservato alcuni squarci di poeti arabo-siculi e di loro biografie, raccolti da Abu-s-Salt[35] in un'altra opera che ha per titolo Risâla min Ahl el-'Asr (Epistola su i contemporanei).
VII. Ibn-Sceddâd ('Izz-ed-dîn-Abu-Mohammed-Abd-el-'Azîz-ibn-Sceddâd-ibn-Temîm) della tribù berbera di Senhâgia e della regia schiatta dei Zirîti, visse nella seconda metà del XII secolo, poichè l'avol suo Temîm, regnava a Mehdia dal 1062 al 1107. Secondo la espressa testimonianza di Abulfeda[36], ei compilò due istorie, di Kairewân, cioè, e di Sicilia. Di questa ultima troviamo squarci negli Annali d'Abulfeda, e perciò anche nell'opera di Scehâb-ed-dîn-Omari[37]. In fine, il Tigiani tolse da Ibn-Sceddâd il racconto della espugnazione di Mehdia nel 1160, che quel cronista sapea da un testimonio oculare[38].
Ibn-Sceddâd, di cui adesso abbiamo precise notizie[39], è appunto l'Ascanagius del Caruso, l'Al-Sanhaj del Di Gregorio, ec.[40], come si trascriveva inesattamente il nome etnico di Es-Senhâgi col quale lo denotò Abulfeda. Monsignor Airoldi, nella prefazione al Codice diplomatico dell'abate Vella, diè i suoi nomi nella forma in cui li trovava presso D'Herbelot; aggiugnendo, su la fede dello impostore Vella, che l'opera in diciotto volumi si serbasse nella Biblioteca di Fez[41].
VIII. Ibn-Bescirûn (Othmân-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-abd-er-Rezzâk-ibn-Gia'far-ibn-Bescirûn-ibn-Scebib) della tribù arabica di Azd, detto Sikîlli e Mehdi, ossia Siciliano e da Mehdia (in Affrica), perchè nato forse in uno di cotesti paesi, non sappiamo quale, e passato a dimorare nell'altro, visse nella seconda metà del duodecimo secolo. Ei compilò un Mokhtâr fi-l-Nezm wa-l-Nethr li Afâdhil Ahl el-'Asr (Scelta di poesie e prose dei più illustri contemporanei), nel quale ricordò molti Spagnuoli, Affricani e Siciliani. Imad-ed-dîn da Ispahan[42] si servì di questa raccolta, che è notata altresì nella bibliografia di Hagi-Khalfa[43]. Dell'autore diremo nel sesto libro.
IX. Gemâl-ed-dîn (Mohammed-ibn-Sâlem) cadi supremo d'Egitto, nato il 1207, morto il 1297, conobbe di persona lo imperator Federigo Secondo; fu poi mandato ambasciatore a Manfredi dal Sultan di Egitto Bibars: e dimorò in Italia parecchi anni. Egli accennò, non sappiamo in quale delle opere sue, la condizione dei Saraceni di Lucera, la sconfitta di Manfredi, e il sapere di questo re in matematica, filosofia e lettere arabiche. Di questi squarci abbiamo una trascrizione o sunto negli annali di Abulfeda[44].
X. Ibn-Sa'îd (Nûr-ed-dîn-Ali-ibn-Sa'id-ibn-Musa) da Granata, nato il 1214, morto il 1274, oltre il trattato di geografia di che sarà detto nella seconda parte di questa Tavola, e oltre un'opera istorica su l'Oriente, che non appartiene al soggetto nostro, ne pubblicò un'altra alla quale si lavorava in sua famiglia da due generazioni: opera compiuta da lui con ricerche in Oriente e segnatamente nelle biblioteche di Bagdad innanzi la irruzione dei Tartari[45]. Voglio dire del Moghrib fi Holâ-el-Maghreb (Peregrino discorso su gli ornamenti dell'Occidente), del quale scrive il Makkari, che il primo libro trattasse della Spagna, il secondo della Sicilia, il terzo della Italia e altre province del continente[46]. Pertanto è da supporre molto importante quella storia di Sicilia i cui elementi furono apprestati forse alla famiglia di Ibn-Sa'îd da dotti Siciliani rifuggiti in Spagna. Persuaso di ciò, io ho tentato per dieci anni tutti i modi di aver questo libro; guidandomi cortesemente il professore Gayangos di Madrid, ch'io richiesi dapprima, e cooperando poi meco il Dozy, che dal canto suo desiderava anco di studiare quella celebre opera, intento, com'egli era ed è, a rifare la storia della Spagna Musulmana. Ma fallirono le speranze che noi avevamo posto in sir Thomas Read, console inglese a Tunis, credendo ch'ei possedesse una copia di Ibn-Sa'îd; al quale ancorchè io avessi scritto e fattogli scrivere da persone ch'ei conoscea, non n'ebbi risposta mai. M. Alphonse Rousseau, interprete della Legazione francese a Tunis, ch'è uom gentile ed erudito, si è adoperato anco invano a trovare quel MS. a Tunis. Pur non dispero che si venga a capo dell'intento, quando che sia; parendo che una copia dell'Ibn-Sa'id si conservi nella moschea principale di Tanger, e forse un'altra ve n'abbia a Pietroburgo[47], senza contare quella di sir Thomas Read.
Queste dieci son le opere principali non pervenute insino a noi, note per espresso attestato d'altri scrittori, o per gli squarci che questi ne abbian dato; opere, dico, che di proposito o per incidenza toccavano la storia dei Musulmani di Sicilia. V'ha inoltre parecchi biografi affricani e siciliani del nono e decimo secolo, citati nel Riâdh-en-Nofûs, dei quali farò menzione nella seconda parte della presente tavola, nº XI, trattando del Riâdh. È probabilissimo che abbian detto anco della Sicilia tanti cronisti di Kairewân, i cui nomi sappiamo da Hagi-Khalfa e da altri, ma parmi inutile di trascriverli qui. Se è da prestar fede a Leone Affricano, scrisse anco la cronica di Sicilia un Ibn-Hossein[48], del quale invano ho cercato il nome presso autori più diligenti di Leone. Infine avverto i lettori che non troveranno qui il nome del Tabari, famosissimo annalista del nono e decimo secolo, che condusse sua narrazione dai tempi più remoti fino all'anno 302 dell'egira (914 e 915). Come ognun sa, que' pochi volumi che abbiamo in Europa de' molti onde si componea l'opera del Tabari, trattano di tempi anteriori al conquisto musulmano della Sicilia; e però non se ne può sperar altro che qualche notizia su le incursioni del settimo e ottavo secolo. Io ne ho cercato invano tra i frammenti del Tabari che posseggono la Bodlejana (Hunt. 198), e la Bibl. di Parigi (Supp. Ar., 744); onde mi è parso inutile di percorrere a questo effetto i tre volumi della Biblioteca di Berlino, che comprendono gli Annali, dal 71 al 159 (690-775).
PARTE SECONDA. — OPERE ESISTENTI.
I. Ibn-Abd-el-Hakem (Abd-er-Rahmân) autore del Fotûh-Misr (Conquisti in Egitto), morto verso l'874 dell'era cristiana. La Biblioteca imperiale di Parigi n'ha due copie, Ancien Fonds 653 e 785; la prima delle quali più bella, ma meno antica e men corretta dell'altra, che porta la data del 1180. È diligentissima narrazione; condotta nel primo stile storico degli Arabi, cioè nominando per ciascun fatto tutti coloro per cui bocca fosse passato, dal testimone oculare infino al compilatore. Ne ho preso pochi righi su la sconfitta navale di Costante imperatore e la uccisione di lui in Sicilia. Alcuni squarci sul conquisto d'Affrica sono stati tradotti in francese dal baron De Slane nella Lettre à M. Hase, Journ. Asiat., (série IV, tomo IV 1844), pag. 356, e nella Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, pag. 301 seg.
II. Ibn-Koteiba (Abu-Mohammed-Abd-Allah-ibn-Moslem), autore dell' Ahâdîth-el-Imâma etc. (Notizie del principato e del governo), e di altre opere molto pregiate, nacque l'828 e morì l'884. Un MS. dell' Ahâdîth è posseduto dal professore Gayangos, il quale ne ha tradotto in inglese molti importanti capitoli[49]; tra i quali, due che trattano di imprese sopra la Sicilia[50]. Di questi ultimi darò il testo; avendone avuto copia per favore del signor Gayangos. Egli dubitava che altro fosse, e più antico, lo autore di quest'opera; ma dilegua il dubbio Ibn-Scebbât[51], recando lo stesso titolo di libro e nome di autore e il testo di uno dei detti due capitoli. Veggasi su l'Autore, Ibn-Khallikân, vers. inglese di M. De Slane, tomo II, p. 22, e De Slane stesso, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 175.
III. Beladori (Ahmed-ibn-Iahîa), vissuto a corte del califfo abbassida Motewakkel, e morto a Bagdad l'892, scrisse il Fotûh el-Boldân (Conquisti de' varii paesi), MS. di Leyde (430 Warn.), notato nel Catalogo del Dozy, tomo II, p. 156, nº DCCLXXVII. Ne ho il testo di un capitoletto sul conquisto di Sicilia, mandatomi dal Dozy. Su questo diligente e giudizioso cronista arabo si veggano: Hamaker, Specimen Catalogi Bibl. Lugd. Batav., p. 7; De Slane, Lettre à M. Hase, l. c.; Reinaud, Memoire sur l'Inde, p. 16.
IV. Mas'ûdi (Abu-Hasan-Ali-ibn-Hosein), intrepido viaggiatore, arricchitosi di immensa erudizione, ma non sempre guidato da buona critica, nacque a Bagdad non si sa l'anno appunto; morì il 956; e scrisse varie opere, nelle quali allargò tanto il campo della cosmografia, da comprendervi anco la storia. Ne' due lavori principali che ci rimangono di lui, cioè il Morûg ed-dseheb (I Prati d'oro) e il Tenbîh etc. (Avvertimento e Prospetto), Mas'ûdi nominò poche volte la Sicilia, e sol per dire uno errore su la dominazione bizantina, una favola su l'Etna, e una notizia su l'uso delle pomici al tempo suo. Ho cavato cotesti brevi paragrafi dai MSS. di Parigi, Ancien Fonds 598 e Supp. Arabe 714, copie del Morûg, e Supp. Arabe 901, esemplare del Tenbîh. Del primo v'ha una versione inglese incominciata dal dottor Sprenger e non continuata. Avremo adesso il testo arabico e la versione francese, che si pubblicano a spese della Società Asiatica di Parigi dal valoroso orientalista signor Derembourg.
V. Istakhri (ovvero Estakhri, e con l'articolo Alestakhri, Abu-Ishak), che prese il nome della sua patria, Istakhr, l'antica Persepoli, scrisse, dopo il 951 un trattato di geografia, frutto di lunghi viaggi per l'Oriente, sotto il titolo di Kitâb el-Akâlîm (Libro dei Climi). È descrizione frettolosa e magra, in ciò che risguarda i paesi occidentali; onde altro non vi leggiamo della Sicilia, se non che la era fertilissima, abbondante di grani, greggi, e schiavi. Ho copiato que' pochi righi dal bel fac-simile del MS. della Biblioteca di Gotha, pubblicato in litografia dal dottor Moëller, col titolo di Liber Climatum, auctore Sceicho Abu Ishako al Faresi vulgo El Isstachri, Gothæ 1839. Su l'autore si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. LXXXI.
VI. Ibn-Haukal (Abu-'l-Kasem-Mohammed), mercatante di Bagdad, dopo una trentina d'anni di viaggi nei quali si spinse fino all'Affrica settentrionale ed alla Sicilia, diè fuori, il 976, un Kitâb el-Mesâlek wa el-Memâlek (Libro delle strade e dei Reami), nel quale inserì, corresse e accrebbe di molto il trattato di Istakhri. Un lungo capitolo contiene la descrizione di Palermo, ch'io pubblicai con la versione francese nel Journal Asiatique, IV série, tomo V (1845), p. 73, seg., e poscia in italiano soltanto nell' Archivio Storico Italiano, vol. IV, Append., nº 16 (1847). Io avea trascritto il testo dal cattivo e moderno MS. di Parigi, Suppl. Arabe 885, copia di quello di Leyde (314 Warner, Dozy, Catalogo, tomo II, p. 131, nº DCCXXII) col quale era stata confrontata la mia trascrizione, per favore del prof. Dozy e del dottor Moëller. Poscia ho riscontrato la edizione mia con l'antico MS. della Bodlejana ad Oxford (Hunt. 538). Vi ho aggiunto altri paragrafi su le città di Salerno, Napoli, Gaeta, isola di Malta e Monte Kelâl o Telâl, che M. Reinaud crede sia Frassineto, quel famoso propugnacolo dei Musulmani sul Mediterraneo: paragrafi copiati da me sul MS. di Parigi e confrontati sul MS. di Leyde dal professore Dozy. Della descrizione dell'Affrica, importantissimo documento, ha dato una versione francese il barone De Slane, Journal Asiat., III série, tomo XIII, p. 153, seg., e 209, seg. Su l'autore si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. LXXXII, seg.
VII. Cronica di Cambridge. Lascio questo titolo al Kitâb Târîkh Gezîra Sikillîa ec. (Libro della Cronica dell'isola di Sicilia ec.), che possiede la Biblioteca dell'Università di Cambridge, della stessa carta e scrittura, e legato nel medesimo volume degli Annali di Eutichio, patriarca d'Alessandria. Il MS., secondo il giudizio che me ne dava il dotto professore Samuel Lee, fu copiato dalla stessa mano di una versione arabica del Vangelo che porta la data del 1272 e si conserva anche nella Biblioteca di Cambridge. Erpenio, che aveva posseduto questa cronica, vi scrisse in piè 1613, Desunt hic quinque vel sex lineæ; onde si argomenta che possano mancarvi uno o due anni di racconto.
La Cronica di Cambridge, accennata dal siciliano Martino La Farina, poi dall'inglese Guglielmo Cave, fu ricercata su quegli indizii da Giambattista Caruso; il quale ottenne, per mezzo del sig. Tommaso Hobwart, una copia del testo e una buona versione latina. Testo e versione furono pubblicati nella raccolta del Caruso, stampandosi a Roma e ritoccandoli l'Assemani e il Fontanini: indi il Di Gregorio li diè di nuovo nel Rerum Arabicarum. Nel 1845 io andava apposta a Cambridge per confrontare questa ultima edizione col MS., ma nol rinveniva, non ostante che si affaticasse meco il signore J. Power, il quale, eletto a bibliotecario pochi mesi innanzi, avea trovato in disordine i MSS. Orientali. Dopo la mia partenza di Cambridge, questo erudito e gentile uomo, venuto a capo della ricerca, si diè la premura di mandarmi il confronto, fatto dal Lee, dal signor Pharos di Siria, e da lui medesimo: a che aggiunse una esatta descrizione del Codice; mentre un'altra me ne facea pervenire il Lee. Con aiuti sì fatti, ho potuto correggere alcune mende delle edizioni precedenti; e sopratutto metter da canto le correzioni che si eran fatte su le sgrammaticature dell'originale; per lo più scambii tra il caso retto e l'obbliquo; i quali errori trovandosi nella nostra Cronica e non già negli Annali d'Eutichio, copiati dalla medesima persona, si debbon riferire all'autor della Cronica.
L'autore, creduto dapprima Eutichio stesso, e poi Ascanagio o Senhagi del quale dissi di sopra, fu senza dubbio siciliano, e di linguaggio greco, come avvisò il Di Gregorio[52]; o piuttosto il direi di schiatta latina. A quella dei dominatori non appartenea di certo. Ei segue l'era costantinopolitana, ch'era in uso appo i Cristiani di Sicilia; ma invece dello stile ampolloso e sforzato dei Bizantini, scrive con la rozza semplicità dei cronisti d'Italia e d'altre parti d'Occidente: sì che mi par proprio qualche liberto cristiano o qualche monaco di Palermo che pensasse latino o italiano, e dettasse, o forse traducesse, in quello arabico volgare ch'ei sapeva, per far cosa grata a qualche emir di Sicilia di casa kelbita. Il racconto corre dall'827 al 964, con le solite proporzioni dei cronisti; sottile cioè in cima e largo alla base; mere note cronologiche pei tempi lontani, e narrazioni più o men particolareggiate a misura che si avvicina l'età dell'autore. Pertanto mi par quasi certo che la Cronica di Cambridge fosse stata scritta verso la fine del X secolo: e la rimarrà sempre uno dei più preziosi documenti della Sicilia Musulmana.
VIII. Il Kitâb Hiat Ascikâl el-Erdh, MS. di Parigi, Ancien Fonds 582, copiato il 1445 in bellissimi caratteri, è anco anonima compilazione, della fin del X secolo; o piuttosto copia di Istakhri, con qualche squarcio di Ibn-Haukal, e interpolazioni di notizie del XII secolo, come crede M. Reinaud. Nel capitolo, in fatti, della Sicilia, ch'io ho tolto da questo MS., si nota un giudizio su l'indole dei Palermitani, diametralmente opposto a quel sì severo che ne avea dato Ibn-Haukal: e ciò ben si adatterebbe alle condizioni della città sotto re Ruggiero. Veggasi su questa compilazione, Reinaud, Géographie da Aboulfeda, Introduction, p. LXXXVI.
IX. 'Arîb, autore d'un compendio di Tabari, con aggiunte che sono importantissime per la Storia d'Affrica e di Sicilia, dal 290 al 320 dell'egira (903 a 932). Secondo il professor Dozy, introduzione al Baiân, tom. II, pag. 31, costui scrisse tra il 973 e il 976; opinione che so contrastata dal dottor Weil bibliotecario a Gotha, scrittor della vita di Maometto e della Storia dei califi; e altresì dal baron De Slane, Histoire des Berbères par Ibn Khaldoun, tomo I, p. 261, il quale suppon l'autore identico a un 'Arîb-ibn-Mohammed, o Ibn-Homeidi, spagnuolo morto il 1097. Senza entrar nella lite, io noterò solo che l'andamento della cronica la fa supporre scritta non guari dopo gli avvenimenti che narra, e però nel X secolo. Ve n'ha un MS. nella Biblioteca ducale di Sassonia-Gotha, del quale il dottor Nicholson pubblicò la versione inglese intitolata An Account of the establishment of the Fatemite Dynasty in Africa. Il dotto signor Weil mi ha cortesemente copiato il testo dei paragrafi risguardanti la Sicilia; che poi sono stati stampati dal Dozy nel Baiân.
X. Iahîa-ibn-Sa'îd, continuatore degli Annali di Eutichio, visse verso il medesimo tempo. L'opera di lui, che corre dal 938 al 1026, si trova nel bel MS. della Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 131 A. Contiene importanti ragguagli su i Fatemiti d'Egitto; qualche notizia su i Bizantini; e pochissimi righi su l'argomento nostro.
XI. Il Riâdh-en-Nofûs (Giardino degli animi), compilato da Abu-Bekr-Abd-Allah-ibn-Mohammed-el-Maleki, è raccolta di biografie e notizie storiche dell'Affrica dai principii del conquisto musulmano fino al 963. Manoscritto unico in Europa; posseduto dalla Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 752: un vol. in-fog., mutilo in fine, di mediocre scrittura, con pochi punti diacritici e malagevole a deciferare; copiato il 1326 su due esemplari, l'uno del 1149 e l'altro del 1204[53] e racconciato, e forse legato di nuovo, il 1640, come vi si legge in una postilla assai moderna[54]. Dell'autore non ho potuto trovar notizie; nè anco par n'abbia avuto Hagi-Khalfa, poichè nota il titolo del libro e il nome dell'autore, lasciando in bianco l'anno della costui morte[55]. Parmi dettato alla fine del X o al principio dell'XI secolo al più tardi: poichè l'autore non cita giammai Ibn-Rekîk nè altri scrittori dalla metà del X secolo in poi, e all'incontro riferisce un fatto per tradizione orale di un Asdani, che lo sapea dal figliuolo di Abu-l-Arab, al quale lo avea detto Abu-l-Arab stesso, che morì il 944[56]. Aggiugnendo a questa data tre generazioni a ragion di 25 anni per ciascuna, si arriva poc'oltre il mille. Debbo avvertire che in altro luogo si dice la Sicilia in potere dei Cristiani[57]; il che ci condurrebbe un secolo più giù; ma può essere postilla del copista del 1140 inserita nel testo da chi lo trascrisse; come si vede sovente nei codici.
Il gran pregio del Riâdh è che inserisce, per lo più, squarci di biografi contemporanei agli avvenimenti; a moltissimi di Abu-l-Arab, or or citato, autore delle Tabakât-Ifrikîa, o vogliam dire Biografie classificate di illustri affricani[58], il cui nome intero è Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Temîm; parente di casa aghlabita; uomo eruditissimo e d'alto stato: sì che fu dei capi della rivoluzione del popolo di Kairewân contro il secondo califo fatemita. Tra i biografi i cui frammenti leggonsi nel Riâdh, ve n'ha uno siciliano; e di parecchi siciliani vi si danno le biografie: onde questo libro, sendo pieno di aneddoti, ci svela meglio le fattezze della colonia musulmana di Sicilia, le opinioni, le bizzarrie, le passioni predominanti, le usanze; la vita interiore, com'oggi si dice. La storia poi dei Musulmani d'Affrica non si potrà scriver degnamente, se non si intraprenderà prima l'arduo lavoro di pubblicare e tradurre tutto il Riâdh-en-Nofûs.
XII. Khodhâ'i (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Selâma-ibn-Hedher), morto il 1062, dettò una storia generale, che può passare per buona cronica dei Fatemiti d'Egitto. Si addimanda 'Oiûn el-Me'ârif etc., ovvero Tarîkh el-Khodhâ'i (Fonti di cognizioni e varii ragguagli dei califi), ovvero Cronica di quel della tribù di Khodhâ'[59]. La Biblioteca di Parigi ne ha un MS., Ancien Fonds 761, dal quale ho cavato due righi sul liberto siciliano Giawher, che conquistò l'Egitto ai Fatemiti.
XIII. Ibn-'Awwâm (Abn-Zakarîa-Iahîa-ibn-Mohammed-ibn-Ahmed) da Siviglia, verso la metà dell'XI secolo, scrisse una bella opera intitolata Kitâb et-Felâh (Libro dell'agricoltura), che è stata pubblicata con versione spagnuola dal Banqueri[60]. Quivi si descrive un modo di orticultura detto siciliano, e si trovano pochi altri squarci toccanti l'industria siciliana sotto gli Arabi. Li darò secondo il testo del Banqueri.
XIV. Bekri (Abu-Obeid-Allah-Abd-Allah-ibn-Abd-el-'Azîz), nobile arabo, nato in Spagna nella prima metà dell'XI secolo, compilò, tra le altre, un'opera geografica, intitolata El-Mesâlek wa l-Memâlek (Le vie e i Reami). Un volume staccato di questa opera si conserva nella Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 580; del quale il dotto M. Quatremère ha voltato in francese la descrizione dell'Affrica[61], scritta il 1067[62]. Io ne ho cavato qualche cenno su le prime incursioni dei Musulmani in Sicilia. Su lo autore si vegga la prefazione di M. Quatremère; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, introd., p. CV; e Dozy, Recherches sur l'histoire de l'Espagne pendant le moyen-âge, tomo I, p. 296, seg.
XV. Momaidi ( Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-abi-Nasr), della tribù arabica di Azd, nato ad Algeziras innanzi il 1029 e morto il 1095, ci dà ragguagli di tre poeti siciliani suoi contemporanei. L'opera tratta principalmente della Storia letteraria della Spagna; si intitola Gezwat-el-Moktabis ec. (Tizzone per chi accatta il fuoco della dottrina); e ve n'ha un MS., bello e antico, nella Bodlejana a Oxford (Hunt. 464, catalogo, tomo I, nº DCCLXXXIII), dal quale ho copiato ciò che fa al nostro argomento.
XVI. Bellanôbi (Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahmân) siciliano, detto il Bellanôbi ch'è a dir della città di Villanuova, fu Kâteb, ossia segretario in oficii pubblici. Le sue poesie trovansi nel MS. dell'Escuriale, nº CCCCLV, raccolte, insieme coi versi di altri poeti, dal Cadi Abd-Allah-'Othmâni, al quale erano state recitate il 1119 in Alessandria d'Egitto da un Ibn-Hamûd che le tenea dallo autore medesimo. Da ciò è chiaro che questi visse nella seconda metà dell'XI secolo. Casiri, copiato dal Di Gregorio[63], lesse il nome dell'autore Albalbuni; e, quel ch'è peggio, percorrendo il MS. più che di passo, suppose ch'egli avesse scritto a lode di parecchi principi siciliani, e segnatamente d'Ibn-Hamûd. Movendomi a curiosità questo gran nome, che fu portato da un ramo della regia famiglia degli Alidi, trapiantato in Sicilia e rimasovi celebre per liberalità e intrighi politici sotto la dominazione normanna, io feci opera ad aver copia del MS. dello Escuriale: onde pregatone il conte di Siracusa a Parigi, ei si piacque richieder la regina di Spagna, per cui volere fu fatto un bellissimo esemplare del MS. sotto la direzione del professor Gayangos. Avuto così alle mani il testo, le speranze mie si dileguavano. In vece di canti eroici o satire su la nobiltà musulmana di Sicilia, ho trovato una tenera elegia del Bellanôbi per la morte della propria madre e altri versi suoi; altri di Ibn-Rescîk, ricordato di sopra[64] che fu siciliano per soggiorno; ho scoperto, infine, che Ibn-Hamûd entra in iscena, non da protagonista, ma da rawi come dicono gli Arabi, ossia recitatore degli altrui componimenti; e dubbio pur è s'ei fosse appartenuto alla illustre famiglia siciliana di tal nome. Darò dunque nella raccolta dei testi que' pochi cenni biografici e bibliografici che si possono ricavare dal MS., le poesie non già, non contenendo allusioni istoriche. E del Bellanôbi tornerò, a parlare, a luogo suo, nel quarto libro.
XVII. Ibn-Hamdîs (Abd-el-Gebbâr-ibn-Abi-Bekr-ibn-Mohammed), nato a Siracusa, verso il 1052, di nobile stirpe arabica, emigrato in Spagna, e morto a Majorca il 1132, noverato tra i più eleganti poeti dell'Occidente, spesso fece ricordo nei versi suoi della cara patria siciliana; e in parecchi poemetti toccò i costumi dei nobili musulmani dell'isola, al tempo di sua gioventù. Darò cotesti squarci, come documenti storici che son veramente; e vi aggiugnerò qualche nota biografica che li accompagna. Li traggo dal Diwân, o vogliam dire raccolta delle poesie, di Ibn-Hamdîs, MS. della Biblioteca imperiale di Pietroburgo, copiato il 1598 e proveniente da Costantinopoli, prestatomi dal governo russo a intercessione del duca di Serradifalco, e mandatomi cortesemente infino a Parigi l'anno 1846. Lo trascrissi tutto; e gli squarci che ho accennato or ora, sono stati confrontati, per favore del nostro orientalista il conte Miniscalchi da Verona; e dell'ellenista Pietro Matranga siciliano, scrittore alla Vaticana, con un MS. del 1210 che ne possiede quella splendida Biblioteca, antico, bello e corretto esemplare[65]. Ho detto qui del Diwân apposito di Ibn-Hamdis. Molti versi suoi son dati da altri scrittori che lungo sarebbe a nominare; dalle cui opere io li ho trascritto, e alcuni me ne ha copiato l'amicissimo professor Dozy dai MSS. di Leyde.
XVIII. Ibn-Bassâm (Abu-Hasan-Ali) da Santarem, scrisse, nei principii del duodecimo secolo, un'opera di Storia letteraria, intitolata la Dsakhîra; della quale la Bodlejana di Oxford possiede una copia (Marsh. 407, catalogo, tomo I, nº DCCXLIX). Vi ho trovato due versi d'Ibn-Hamdîs. Su l'autore si vegga il Dozy, Historia Abbadidarum, tomo I, p. 189 seg.
XIX. Ibn-Besckhowal (figlio cioè di Pasquale, Abu-l-Kâsim-Khelaf) da Cordova, nella Sila fi tarîkh ec. (Dono della Storia de' principali dottori Spagnuoli), scritta il 1140, dà la biografia di un teologo musulmano di Sicilia, che io ho trascritto dal MS. della Società Asiatica di Parigi, copia moderna di un codice dell'Escuriale. Su lo autore si veggano: Ibn-Khallikân, versione del baron De Slane, tomo I, p. 191; e Dozy, Historia Abbadidarum, tomo I, p. 380.
XX. Edrisi (Abu-Abd-Allah-Mohammed) compilò la Geografia, intitolata Nozhat-el-Mosctâk ec. (Sollazzo di chi brama di percorrere le regioni), detta altresì il libro di Ruggiero, e pubblicata il 1154, pochi mesi innanzi la morte di quel re. Avrò a trattare largamente, nel sesto libro, di Edrisi e di questo lavoro geografico che primeggia tra tutti gli altri del medio evo. Basti qui notare che la descrizione fattavi della Sicilia contiene dati statistici; e però è documento importantissimo della storia. Un compendio, o piuttosto mutilazione, del Nazhat fu pubblicato a Roma il 1592 in arabico soltanto; e ristampato a Parigi il 1619 con la versione latina di due Maroniti, sotto il titolo di Geographia Nubiensis. Domenico Macrì maltese, nel 1632, voltò in italiano il capitolo della Sicilia, come lo si trovava nel compendio; la quale versione fu rinvenuta in Palermo tra i MSS. di Domenico Schiavo: e sì il 1764 comparve nel tomo VIII degli Opuscoli di autori siciliani, rabberciata, annotata, corredata di una prefazione e messovi il nome dell'autore, Scherif Elidris. E ciò per opera di Francesco Tardìa, da me ricordato nella Introduzione; il quale non avendo potuto aver alle mani il testo, si sforzò a correggere almeno i nomi topografici indovinando le lettere arabiche a traverso le trascrizioni del Macrì, e il più sovente sbagliò; ma del resto non si mostrò digiuno di erudizione arabica. Il Di Gregorio ristampava nel Rerum Arabicarum il detto capitolo, in arabico e latino, con qualche correzione. Ritrovatisi intanto i MSS. dell'opera originale, M. Jaubert, incoraggiato dalla Società Geografica di Parigi, la traducea tutta in francese[66] non senza molte inesattezze. Adesso io ho riveduto il testo del Di Gregorio; aggiuntavi la introduzione che appartiene di dritto alla Storia letteraria di Sicilia, e i molti squarci dell'originale che mancano nel compendio; e altri squarci di più che danno notizie su la Storia di Sicilia, ancorchè si trovin fuori della descrizione geografica dell'isola. Ho adoperato i MSS. seguenti, che denoterò per lettere dell'alfabeto;
A. MS. della Biblioteca imperiale di Parigi, Suppl. Arabe 893, in-fog., caratteri affricani non belli, copiato in Spagna il 1344, designato con la stessa lettera A nella versione di M. Jaubert;
B. MS. di Parigi, Suppl. Arabe 655, in caratteri neskhi di Siria o Egitto, designato da M. Jaubert con la medesima lettera B, corredato di belle carte geografiche e assai più corretto del primo, ma vi mancan parecchi fogli;
C. MS. della Bodlejana (Pococke 375, catalogo, tomo I, nº DCCCLXXXVII), mediocre copia dell'anno 1403 in caratteri neskhi. Al par dei due precedenti contien tutta l'opera.
Il MS. della medesima Biblioteca di Oxford (Grav. 3837-42), splendido e antico codice in grandi caratteri affricani, è il sol primo volume. Non contien la descrizione della Sicilia, poich'esso arriva appena alla prima parte del 3º clima: mancanza tanto più rincrescevole, quanto questo MS. è ornato di bellissime carte geografiche.
XXI. Abu-Hâmid (Mohammed-ibn-Abd-er-Rahîm-el-Mokri) da Granata diè fuori, nel 1162, una mediocre compilazione geografica, intitolata Tohfat l-Albâb ec. (Regalo agli ingegni ec.), nella quale descrive le isole del Mediterraneo, e parla dell'Etna; ma su i detti altrui, non avendo, a quanto ei pare, percorso la Sicilia quando vi approdò nel 1117. Di quest'opera v'ha quattro MSS. a Parigi, Ancien Fonds 586, e Suppl. Arabe 861, 862, 863, anche troppi per confrontare quel po' di testo che io ne ho cavato. Su l'autore veggasi Reinaud, Géogr. d'Aboulfeda, Introd., p. CXII.
XXII. Ibn-Zafer (Abu-Abd-Allah-Mohammed), morto il 1172, del quale ho dato lunghi ragguagli nella Introduzione al suo Solwân el-Motâ'[67], accenna, in varii scritti, notizie della propria vita e delle molte opere ch'ei compilò. Di queste notizie inserirò i testi nella raccolta. Li ho cavato dai MSS. del Solwân nella Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 536 e altri; del Khair el-Biscer, ibid., Suppl. Arabe 586; e dell' Anbâ Nogiabâ el-Ebnâ, ibid., Suppl. Arabe 486, 487.
XXIII. Abd-er-Rahmân-es-Sikillî (Abu-Mohammed-ibn-Mohammed) lasciò un'opera di teologia e morale musulmana, il cui titolo, forse alterato, è Alfaz Zohûr el-Anwâr, MS. di Leyde 529, copiato il 1251. Non si ritrae in qual tempo sia vivuto l'autore. Io darò la breve prefazione di questo libro, del quale mi inviò alcuni estratti il Dozy e altri ne presi io stesso a Leyde.
XXIV. Ibn-Sâhib-es-Selât (Abd-Allah-ibn-Mohammed) da Beja, morto il 1182, nella Storia di Spagna intitolata El-Mann bil-Imâma, ci indica una data su la impresa degli Almohadi contro Mehdia, tenuta allora dalle armi siciliane. Di quest'opera rimane il 2º volume soltanto a Oxford (Marsh. 433, catalogo, tomo I, nº DCCLVIII, e tomo II, p. 595), studiato dal prof. Dozy; il quale si piacque trascrivermi quei pochi righi di testo.
XXV. Ibn-Wuedrân compilò una cronica d'Affrica, nella quale il conquisto normanno della Sicilia si dice seguíto dopo l'anno 540 dell'egira (1145-46); e questo anacronismo fa pensar che l'autore, che altro non so di lui, fosse vivuto alla fine del XII secolo, se non più tardi. Nondimeno han qualche pregio gli squarci che egli inserisce delle opere perdute di Ibn-Rekîk e Ibn-Rescîk. Il MS. di Ibn-Wuedrân, del quale ignoro il titolo, si trova nella Giâmi-Zeitûna di Tunis. Il sig. Honnegar, ingegnere tedesco che fece lungo soggiorno in quella città, recommene a Parigi alcuni estratti risguardanti la Sicilia; i quali io ho diviso in paragrafi per maggior comodo nelle citazioni. M. Cherbonneau, professore d'arabico nel Collegio di Costantina, ha dato una versione del capitolo su gli Aghlabiti, nella Revue de l'Orient, Paris, décembre 1853, p. 417, seg.
XXVI. Falso Wakîdi. Il libro intitolato Fotûh es-Sciâm wa-Misr (Conquisti in Siria e in Egitto) è fattura, come pensano i dotti, di uno o parecchi compilatori moderni, l'epoca al giusto non si sa, i quali mescolaron fole da romanzo ai racconti delle prime imprese dei Musulmani; e per dar credito alla frode spacciarono questo libro sotto il nome di Wakîdi, celebre cronista del nono secolo. Tra i molti MSS. che ve n'ha in Europa, uno del British Museum (Bibl. Rich., 7361) è seguíto da appendici, una delle quali tratta la prima scorreria che fecero i Musulmani sopra la Sicilia. A me par che vi si trovi una tradizione verace, da potersi scevrare agevolmente dalle favole in cui è avviluppata; e credo potersi dimostrare che il compilatore di questa appendice sia vivuto nella seconda metà del XII secolo. Perciò la ho ammesso nella raccolta. I particolari si vedranno in una nota del presente volume, p. 86.
XXVII. Ibn-Scebbât (Il cadi Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali) da Tauzer in Affrica, commentò un poemetto scritto nell'XI secolo da Abd-Allah-ibn-Iahîa da Sciakâtis, castello presso Cafsa in Affrica. Nel commento, intitolato Diwân Sila es-Semât ec., son raccolte notizie di scrittori molto accreditati, su i conquisti di Affrica e di Spagna, ed altri ragguagli biografici e geografici. Ibn-Scebbât par vissuto nella seconda metà del XII secolo. M. Alphonse Rousseau, primo interprete della Legazione francese a Tunis, mi mandò alcuni estratti di quest'antico e bel MS. ch'ei possiede: e poi, venuto a Parigi, mi permesse di copiarne ciò che io volessi. Così ho preso da Ibn-Scebbât un cenno delle scorrerie dei Musulmani d'Affrica in Sicilia e alcuni ragguagli geografici e filologici.
XXVIII. 'Imad-ed-dîn da Ispahan (Abu-Abd-Allah-Mohammed), nato il 1125, morto il 1201, direttore di un oficio pubblico in Mesopotamia, poi professore di università a Damasco, ministro di Nur-ed-dîn e segretario del gran Saladino, coltivò le lettere con ardore; ebbe alle mani immensa copia di libri; e, alla morte di Saladino (1193), caduto in disgrazia dei nuovi principi, si messe a dettar sue opere, tra le quali le due che cel fan qui ricordare.
La prima, intitolata Kharîdat el-Kasr etc. (La perla del palagio ec.), è antologia dei poeti arabi del XII secolo e d'alcuni più antichi, della quale quasi mezzo volume è destinato ai poeti siciliani. Delle loro opere Imad-ed-dîn altre raccolse dassè, altre cavò dalle antologie dei Siciliani Ibn-Bescirûn e Ibn-Katâ' e dello spagnuolo Abu-s-Salt-Omeîa, dei quali si è fatta menzione nella prima parte di questa Tavola. Negli altri volumi di Imad-ed-dîn si trovano qua a là poesie di Siciliani o scritte in Sicilia, e fino un'elegia per la morte d'un figliuolo di re Ruggiero. Di ciascun poeta Imad-ed-dîn dà un cenno biografico e critico e squarci di poesie o prose rimate. Tutti insieme, que' ricordati nella Kharîda che appartengono alla Sicilia, son sessantotto poeti; il testo dei quali prenderebbe da 120 pagine in-8º, e quel dei soli cenni biografici che mi propongo di dare, farà sedici pagine. La Kharîda, composta di molti volumi, il numero dei quali varia secondo le diverse copie[68], va divisa in quattro parti. 1º Poeti dell'Irak, MS. di Leyde 21 A, e MSS. di Parigi Ancien Fonds 1447 e 1373. 2º Poeti di Persia, MS. di Oxford e MSS. di Leyde 21 B e 348 Warner. 3º Poeti di Siria, rive dell'Eufrate, Asia Minore ed Arabia. MS. di Leyde 348 Warner in parte, e di Parigi Ancien Fonds 1414 in parte. 4º Sezione 1, Egitto, MS. di Parigi Ancien Fonds 1374: Sezione 2, Sicilia, ed Affrica, MS. di Parigi Ancien Fonds 1375, e MS. di Londra, British Museum, Rich. 7393, che son l'uno e l'altro il volume XI di due copie analoghe; Sezione 3, Spagna, MSS. di Parigi, Ancien Fonds 1376 e Suppl. Arabe 1051.
All'altra opera Imad-ed-dîn, orgogliosamente diè il titolo di El-Feth el-Kosi fi l-Feth el-Kodsi, che sarebbe come a dire “Pezzo di eloquenza ciceroniana sul conquisto di Gerusalemme,” perocchè Kos, vescovo cristiano contemporaneo di Maometto, era tenuto il sommo oratore degli Arabi. L'autore in fatti, descrivendo quella impresa di Saladino, rincalza metafore, e vocaboli insoliti, e frasi bizzarre, e sonanti parole, oltre il solito suo stile, ch'era abbastanza ampolloso. In questo pezzo di eloquenza occorre la non felice espedizione dell'ammiraglio Margaritone, mandato da Guglielmo il Buono su le costiere di Siria con l'armata Siciliana. Son due capitoli, che ho tratto dai MSS. di Parigi Ancien Fonds 714 e 715. Veggansi su l'autore: M. Reinaud, Extraits des Auteurs Arabes..... relatifs aux Croisades, Introduzione, p. XVII e XVIII, e Ibn-Khallikân, l. c.
XXIX. Malek-Mansûr principe di Hama in Siria, scrisse, il 1205, l'Akhbâr el-Molûk..... fi Tabakât es-Scio'arâ (Notizie regie su i varii ordini di poeti), del quale la Biblioteca di Leyde possiede una copia contemporanea. Il prof. Dozy me ne ha mandato un breve estratto relativo a tre poeti siciliani. Su questa opera veggasi il catalogo del Dozy stesso, tom. II, p. 288, nº DCCCLXXXIV.
XXX. Herawi (Ali-ibn-abi-Bekr), nato a Mosûl, detto giustamente Sâih, ossia il Pellegrinante, capitò tra i suoi viaggi in Sicilia dopo il 1173, e morì ad Aleppo il 1215. Nell'opera intitolata Kitâb el-Asciârât ec. (Libro che addita i luoghi di pellegrinaggio) ei dà una notizia dell'Etna, della quale il signore Samuel Lee pubblicò testo e versione inglese, in nota ai viaggi d'Ibn-Batuta[69]. Su l'autore si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introd., p. CXXVII a CXXIX.
XXXI. Ibn-Giobair (Abu-Hosein-Mohammed-ibn Ahmed) della tribù arabica di Kinâna, nacque a Valenza il 1145; fu di passaggio in Sicilia da dicembre 1184 a febbraio 1185; e nel racconto dei suoi viaggi, intitolato Rehla el-Kinâni, scrisse importanti notizie su la condizione de' Musulmani dell'isola. Il MS. si trova nella Biblioteca di Leyde. Avuta dal professore Dozy una copia dello squarcio che risguarda la Sicilia, io ne diedi il testo e la versione francese nel Journal Asiatique, IV série, tomo VI, p. 307, e tomo VII, p. 73 e 201, (1845 e 1846), e poi la sola versione italiana nell' Archivio Storico Italiano, vol. IV, appendice nº 16, (1847). Mutò alcune lezioni del testo e alcune frasi della versione, lo Sceikh Mohammed Ailad-et-Tantawi, il primo arabista d'Oriente; al qual fine ei scrisse una lettera a M. Mohl dell'Istituto di Francia, inserita nel Journal Asiatique, IV série, tomo IX, p. 351, (1847). Il sig. W. Wright ha testè pubblicato molto correttamente e con belle note, tutto il viaggio d'Ibn-Giobair, del quale ci promette una versione inglese[70].
XXXII. Ibn-Hammâd (il cadi Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali) affricano, nel 1220 compilò, sul Târîkh-el-Kodhâ'i e su opere che noi non abbiamo, una Cronica, intitolata: Nabdat el-Mohtâgia fi Akhbâr Molûk Sanhâgia (Cenno di quanto occorre sapere dei fatti dei re sanhagiti). Il capitolo che tocca la dominazione fatemita in Affrica, dà alcuni particolari su la storia di Sicilia. Il MS., piccolo in-4 di scrittura affricana, appartiene a M. Cherbonneau, il quale ha dato in parte la versione francese nel Journal Asiatique, IV série, tomo XX, p. 470; e con somma cortesia mi ha mandato a Parigi il MS. originale, ond'ho cavato gli squarci che fanno al nostro argomento. M. De Sacy, non avendo veduto quest'opera, ne attribuì a Ibn-Hammâd ( Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 296) un'altra, di cui or si conosce il vero autore.
XXXIII. Abd-el-Wâhid (Abu-Mohammed-ibn-Ali) da Marocco, nato il 1185, dettò nel 1224 una Cronica intitolata: El Mo'gib fi Takhlîs Akhbâr el Moghreb (Maravigliosa Critica sugli avvenimenti dell'Occidente), testo stampato dal Dozy[71], il quale, avanti la pubblicazione, me n'avea inviato un capitolo su la pace fermata tra Guglielmo Secondo di Sicilia e il califo almohade Abu-Ia'kûb. Ho fatto uso di questo e di qualche altro cenno su la storia degli Almohadi.
XXXIV. Jakût schiavo greco vivuto in Siria, Mesopotamia e Persia, e morto il 1229; compilò due dizionarii geografici, l'uno dei quali, intitolato il Mosctarik etc. (Omonimie geografiche), è stato pubblicato dall'infaticabile sig. Wustenfeld[72], ed io me trarrò i pochissimi articoli risguardanti la Sicilia. Dell'altro, che s'addimanda Mo'gim el-Boldân (Ortografia de' nomi geografici), v'ha due MSS. in Inghilterra, l'uno incompleto a Oxford, Catalogo, tom. I, p. 201, n i CMXXVIII e CMXXIX, l'altro quasi compiuto al British Museum in due volumi, n i 16,649 e 16,650. Il Mo'gim propriamente è dizionario di erudizione relativa ai varii paesi. Per favore del sig. W. Wright io ho avuto copia dagli articoli del MS. di Oxford relativi alla Sicilia; e ben mi prometto di compiere cotesti estratti col MS. del British Museum. Infine ho avuto alle mani il noto compendio del Mo'gim che si crede fatto dall'autore medesimo e postillato da scrittori più moderni, e porta il titolo di Merâsid el-Ittilâ' ec.[73]. Ne ho percorso un esemplare, quello cioè di Leyde, MS. 295, del quale la Biblioteca di Parigi ha una copia moderna, Suppl. Arabe 891. Il professore Juynboll di Leyde ha cominciato a pubblicarne il testo.
XXXV. Ibn-el-Athîr ('Izz-ed-dîn-Abu-l-Hasan-Ali) nacque il 1160 di nobile famiglia arabica nella città di Gezîra in Mesopotamia; in gioventù combattè le guerre di Saladino e compiè missioni politiche a Bagdad: ma poi amò meglio chiudersi in casa a Mosûl, seppellirsi tra i libri, e non conversare con altri che gli eruditi cittadini e stranieri che andavano a trovarlo. La passata vita pubblica, il secolo delle Crociate, e, perchè no? le ruine di Ninive ch'ei potea vedere ogni dì, inchinarono l'ingegno suo alla storia. Morì il 1223. Scrisse varie opere; e tra quelle il Kâmil el-Tewârîkh, o, diremmo noi, Compiuto lavoro storico.
E in vero non è indegno del titolo; e tanto esso vale per l'Oriente, dal principio del settimo al principio del decimoterzo secolo, quanto sarebbero per la patria nostra nel medio evo gli Annali del Muratori, se fosse perduta la più parte del Rerum Italicarum Scriptores. Principia il Kâmil con un succinto discorso su la dignità della Storia; espone la cronografia seguíta dalle varie nazioni; tocca sommariamente le dominazioni antiche: Ebrei, Persiani, Arabi, Romani, e i primordii del Cristianesimo; e, venendo a Maometto, prende a narrare alla distesa le geste del Profeta e dei Musulmani. Dal principio dell'egira fino all'anno 628 (1230-31), l'autore tien quest'ordine che, anno per anno, nota gli avvenimenti di maggiore rilievo, in tanti capitoli separati: e registra alla fine di ciascun anno i casi di poca importanza e le notizie necrologiche, in un capitoletto intitolato “Ricordo di fatti diversi.” Del resto, Ibn-el-Athîr non segue il metodo cronologico sì servilmente che non raccolga nei grandi capitoli tutte le vicende d'un medesimo fatto accadute prima o appresso. Per esempio, il conquisto musulmano della Sicilia va nell'anno 212 dell'egira, quando sbarcò lo esercito musulmano a Mazara; ma il racconto incomincia con la rivolta di Eufemio, cioè uno o più anni avanti, e finisce al 223. Similmente la narrazione del conquisto normanno, posta nel 484, esordisce da quella che Ibn-el-Athîr credea la prima cagione di decadenza del principato kelbita nel 388; e si prolunga fino alla morte del conte Ruggiero nel 490 e agli ordinamenti politici di re Ruggiero. Lo stesso potrebbe notarsi in cento e cento altri luoghi.
Oltre questo eccellente metodo, dobbiamo ammirare, secondo i tempi e i mezzi dell'autore, la diligenza e il giudizio ch'ei pose nello scegliere, comparare e intessere le tradizioni: talchè nel medio evo la Cristianità non ha annalista che gli possa stare a fronte. In oggi non lo darei come modello di critica. Assai di rado cita le sorgenti, e poco o nulla ne dice nella Introduzione. Come tanti altri Arabi e non Arabi, trascrive qualche fiata autori più antichi, mutilandoli e non citandoli: ma per lo più compila dassè, con stile conciso o più tosto spolpato, imparziale o più tosto indifferente; se non che, sceso ai proprii tempi, divenendo cronista, perde la brevità, è turbato dalle passioni, si avviluppa nelle minuzie. Con tutti questi difetti il Kâmil è il più vasto e ordinato lavoro che ci rimanga su i primi sei secoli dell'islamismo, e avanza tanto gli Annali di Abulfeda, quanto questi i magri compendii di Elmacin e Abulfaragi. L'Europa darà un gran passo nello studio dell'Oriente, quando qualche dotta società intraprenderà la stampa dei dodici o più volumi in quarto che ci vogliono per lo testo e versione d'Ibn-el-Athîr.
Questo autore mi ha fornito molti ragguagli ignoti fin qui. Gli ottanta capitoli che ne ho tolto, tra lunghi e brevi, abbracciano sei secoli dal 31 al 625 dell'egira, e messi insieme fanno una storia compiuta delle relazioni dei Musulmani con la Sicilia; dei quali capitoli circa sessanta sono inediti[74]. Li ho copiato dai MSS. seguenti, dei quali segnerò con le lettere dell'alfabeto i tre primi, che occorrono a ogni passo nelle citazioni.
A. MS. di Parigi, Suppl. Arabo 740, in sei volumi, dall'anno 153 al 628, con una lacuna di mezzo secolo e molte altre minori. I sei volumi non son tutti di una mano, ma quella che ne copiò la più parte è nitida e corretta.
B. MSS. dalla Bodlejana d'Oxford.
1. Due volumi, Marsh. 324, Catalogo, tomo I, nº DCCXXXVII, comprendono gli anni dal 296 al 369.
2. Un volume, Pococke 346, Catalogo, tomo I, nº DCXCIII, corre dall'anno 502 al 572, coi quali ho supplito alle lacune del MS. A, e collazionato il resto. Gli altri quattro volumi staccati che possiede la Bodlejana, Catalogo, tomo I, n i DCXCIV, DCXCVI, DCCLXXXIV e DCCLXIV, mi han fornito qualche variante.
C. MS. di Parigi, Suppl. Arabe 740 bis, cinque volumi in-4, dal principio dell'opera all'anno 621, comperati a Costantinopoli il 1846 dal barone De Slane, per conto della Biblioteca di Parigi; il primo dei quali fatto copiare apposta, tutti riveduti da quello egregio orientalista su i MSS. delle biblioteche di Costantinopoli. È il solo esemplare intero che v'abbia in Occidente; non mancandovi altro che l'anno 27 dell'egira e parecchi frammenti. Questo MS. mi è servito a confrontare le copie che io avea già fatto su quei segnati A e B.
Allo stesso effetto ho adoperato gli altri frammenti d'Ibn-el-Athîr che possiede la Biblioteca Parigina, Suppl. Arabe 741, 743 e 744.
Finalmente mi ha aiutato a correggere il testo d'Ibn-el-Athîr uno sfacciato plagiario, lo emir Bibars Mansûri, morto il 1325; il quale nella Zobdat el Fikra fi Târîkh el Higra (Crema di riflessione su gli annali dell'egira) copiò, scorciandoli e continuandoli, gli Annali d'Ibn-el-Athîr; e gliene dobbiamo saper grado, perchè ebbe alle mani buoni MSS., e ottime copie sono quelle dei due volumi della compilazione sua che ci rimangono. Dico il V, a Parigi, Ancien Fonds 668, che corre dall'anno 252 al 322, e il VI a Oxford (Hunt. 198) che arriva con qualche lacuna al 399.
XXXVI. Boha-ed-dîn (Abu-l-Mebâsin-Iusûf-ibn-Sceddâd), n. il 1145, morto il 1235, intimo di Saladino e cadi dell'esercito suo, poi di Gerusalemme, senza dire il nome de' Normanni di Sicilia, accenna alla impresa loro d'Alessandria del 1174, nella Sîrat es-Sultân.... Selâh-ed-dîn etc., ossia Vita di Saladino. Ho preso questo squarcio dal testo pubblicato da Schultens, Leyde 1732, in-fog., p. 41; dove la impresa è raccontata assai brevemente; e ciò conferma la osservazione di M. Reinaud[75], che Boha-ed-dîn faccia più autorità per gli ultimi anni del regno di Saladino, che per le prime imprese di quello.
XXXVII. Tarîkh el-Hokemâ (Istoria dei Filosofi) per Mohammed-ibn-Ali, detto Zuzeni, è compendio di una importante opera dello stesso titolo, scritta da Gemâl-ed-dîn-Ali-el-Kifti, visir di Aleppo, morto il 1249. Dal compendio, che si trova nelle biblioteche di Parigi e Leyde, ho cavato le biografie d'Archimede e di Empedocle; e l'ultima, che un Siciliano non potea trasandare, è notevolissima per la menzione che vi si fa d'un'opera attribuita al filosofo Agrigentino, la versione arabica della quale si trovava nel XIII secolo a Gerusalemme. Mi son servito del MS. di Parigi, Suppl. Arabe 672. Veggansi sul Tarîkh-el-Hokemâ, Casiri, Bibl. Arab. Hisp., tomo II, p. 332, nº MDCCLXXIII, che lo suppone scritto nel XII secolo; Wenrich, De Auctorum Græcorum versionibus ec., Lipsiæ 1842, prefazione; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. LII, nota 4; e Dozy, Catalogo dei Manoscritti arabi di Leyde, tomo II, p. 289, nº DCCCLXXXV.
XXXVIII. Abu-Sa'îd-Îbn-Ibrahîm, Siciliano, compilò un Kitâb el-Mongih ec. (Felice Guida per curarsi senza medico da ogni sorta di morbi e infermità). Quest'opera, non citata da Hagi-Khalfa, si trova alla Bodlejana (Marsh. 173, Catalogo, tomo I, nº DLXIV), e ne ho trascritto la prefazione. Con poche varianti, il MS. corrisponde a quel di Parigi, Ancien Fonds 1027, intitolato Tekwîm el-Adwia el-Mofreda, d'Ibrahîm-ibn-abi-Sa'id-el-Maghrebi; il cui nome mostra ch'egli era figliuolo del Medico siciliano.
XXXIX. Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm, Sceriffo, ossia della schiatta di Ali, Siciliano, scrisse un altro libro di medicina, MS. di Leyde (Catalogo del 1716, nº DCCXXVII), sul quale non ho trovato titolo; e quello che si legge nel Catalogo mi par si debba correggere Kitâb el-Atibbâ fi l-Amrâdh min el Ferk ila el Kedem (Libro dei medici intorno le malattie dalla cima della testa infino al piè). Pria che io studiassi il MS., il professore Dozy mi avea mandato copia di quel tanto che occorre metterne nella Raccolta; cioè la prefazione e la tavola dei venti capitoli in cui va divisa l'opera. Hagi-Khalfa tratta al certo del medesimo autore e di un libro diverso nell'articolo seguente: “ Kitâb Hifz es-Sahha ec. (Libro d'Igiene), dello Sceriffo Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm Siciliano, Tunisino, compendiato da Abu-Fares-Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed, in ottanta capitoli[76].” Nè quel bibliografo, nè altri, dà notizie del tempo in cui visse l'autore.
XL. Ibn-el-Giuzi (Scems-ed-dîn-Abu-Mozafer-Iusûf), morto il 1256, nel Merat-ez-zemân (Specchio del secolo), MS. di Parigi, Ancien Fonds 641, dà due brevi notizie su i Musulmani di Sicilia.
XLI. Ibn-Abbâr (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Abi-Bekr) da Valenza, segretario dei governatori musulmani di quella città verso la metà del XIII secolo; poi dei Beni-Hafs di Tunis; fu messo a morte il 1260 e bruciato il cadavere coi suoi scritti, per accusa di stato e per un verso che gli avean trovato in casa contro il principe Hafsita Mostanser. Ibn-Abbâr dettò, tra le altre opere, l' Hollet Sîarâ ec. (Il Pallio striato ec.), raccolta delle biografie dei poeti di regia schiatta, in Spagna e Affrica. Da un MS. che ne possiede la Società Asiatica di Parigi, copia moderna d'uno dell'Escuriale, ho cavato pregevoli notizie su gli Aghlabiti d'Affrica e di Sicilia; poichè l'autore diligentemente raccolse e vagliò con critica molte opere istoriche a noi non pervenute[77].
XLII. Abu-Sciâma-Mokaddesi (Scehâb-ed-dîn-Abu-Mohammed-Abd-er-Rahmân-ibn-Ibrahîm) da Gerusalemme, come lo mostra il nome di Mokaddesi, nato il 1202, morto il 1267, diè fuori il Kitâb-er-Raudatein (Libro dei due Giardini), storia delle dinastie di Nur-ed-dîn e di Saladino, nella quale copiò, oltre varii libri a noi pervenuti, altri che non abbiamo e parecchi diplomi. Ho preso da questo plagiario i capitoli su le espedizioni mandate da Guglielmo il Buono in Alessandria d'Egitto e in Siria. Ho adoperato i MSS. di Parigi, Supplément Français 2503, 13 a, copia inesatta e recente, e l'altro Ancien Fonds Arabe 707 A, ch'è del XVII secolo. Su l'Autore veggansi: Reinaud, Extraits des Historiens... relatifs aux Croisades, p. 20; e Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks, par Makrizi, tomo I, parte II, p. 46.
XLIII. Ibn-Sab'în (Kotb-ed-dîn-Abu-Mohammed-Abd-el-Hakk-ibn-Ibrahîm), nato a Murcia il 1217, morto alla Mecca di propria mano il 1271; trovandosi a Ceuta, verso il 1240, dettò un trattato di filosofia intitolato El-Mesâil es-Sikillîa (Quesiti Siciliani), perchè con esso rispondeva alle tesi che avea proposto ai dotti musulmani Federigo Secondo imperatore, re di Sicilia. Quest'opera, che si trova alla Bodlejana di Oxford (Hunt. 534), sparge qualche lume su gli studii che la civiltà musulmana promoveva allora in Sicilia e nella penisola: e però appartiene al nostro argomento. Io ne ho dato un ragguaglio nel Journal Asiatique, lo scorso anno 1853. Porrò nella raccolta dei testi la prefazione e i quesiti di Federigo Secondo.
XLIV. Ibn-Abi-Oseib'a (Mowaffik-ed-dîn-Ahmed-ibn-Kâsem), nato al principio del XIII secolo e morto nella seconda metà di quello, compilò l' 'Oiûn el-Anbâ fi Tabakât el-Atibbâ (Sorgenti di notizie su le classi dei medici). Quivi, nella vita di Ibn-Giolgiol (Abu-Dâwd-Soleimân-ibn-Hasan), famoso medico della corte di Cordova nella seconda metà del X secolo, si legge un frammento d'Ibn-Giolgiol stesso, in cui si descrivono le fatiche fatte in Ispagna il 952 per compiere la versione di Dioscoride dal greco in arabico; alla quale collaborò un Abu-Abd-Allah Siciliano che parlava il greco, dice Ibn-Giolgiol, ed era pratico, alsì, in botanica e in medicina. Darò questo squarcio e un capitoletto sopra Empedocle. Il primo fu pubblicato in arabico e in francese da M. De Sacy sul MS. di Parigi, Ancien Fonds 873[78], al qual testo aggiungo le varianti degli altri due MSS., Suppl. Arabe 673 e 674. Su l'autore si veggano Sacy stesso[79], e Hagi-Khalfa[80].
XLV. Ibn-Sa'îd (Abu-l-Hasan-Ali) del quale feci menzione nella prima parte di questa Tavola, nº X, lasciò, tra le altre opere, un Mokhtaser Gighrafia (Compendio di Geografia), una copia del quale, passata per le mani del celebre Abulfeda, or si trova nella Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 1905. Ne ho preso quel che riguarda la Sicilia e le isole adiacenti: breve ma diligente descrizione. Sul merito di questo lavoro geografico si consulti Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. CXLI.
XLVI. Newâwi (Mohî-ed-dîn-Abu-Zakarîa), nato il 1253, morto il 1277, nel Tehdsîb el-Asmâ ec. (Dizionario biografico di illustri musulmani), cita un grammatico e filologo siciliano per nome Abu-Hafs-Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki. Ho tolto questo breve passo dalla edizione del Wüstenfeld, Gottinga, 1842-1847.
XLVII. Ibn-Khallikân (Scems-ed-dîn-Abu-l-'Abbâs-Ahmed-ibn-Mohammed), nacque ad Arbela il 1211, morì il 1282, fu giurista, teologo, grammatico, e cadi a Damasco e al Cairo: uomo di molta virtù, condotto agli studii storici da Ibn-el-Athîr, col quale ei praticava in gioventù sua. Di Ibn-Khallikân abbiamo il famoso dizionario biografico degli uomini illustri dello islamismo intitolato Wefiât el-'Aiân; del quale il baron De Slane ha preso a stampare il testo e una versione inglese[81], e il signor Wüstenfeld ha compiuto un'altra edizione del testo in autografia[82]. Traggo da Ibn-Khallikân non poche vite di Siciliani, che porrò nella mia raccolta, usando, oltre le edizioni dette, i MSS. di Parigi, Suppl. Arabe 702 e 704, e un altro di proprietà di M. Reinaud.
XLVIII. Kazwîni, (Zakarîa-ibn-Mohammed-ibn-Mahmûd), morto il 1283, scrisse due opere, recentemente pubblicate dal Wüstenfeld e intitolate, l'una 'Agiâib el-Mekhlûkâi (Meraviglie del Creato), e l'altra Athâr el-belâd (Luoghi notevoli de' paesi). Come sopra accennai, Kazwîni cita una cronica di Sicilia che a noi non è pervenuta. Ripete nelle dette due compilazioni varii squarci di geografi più antichi, su la Sicilia e in particolare su l'Etna. Dà un importantissimo fatto storico di Malta, cavato forse dalla detta cronica; e la curiosa notizia dell'orologio a soneria, costruito per uso di un re, probabilmente Ruggiero I di Sicilia, che fu argomento ai versi di due poeti maltesi, un dei quali è ricordato d'altronde nell'Antologia di Imâd-ed-dîn da Ispahan. Dell' 'Agiâib v'han parecchi MSS. a Parigi, cioè Ancien Fonds 990, e Suppl. Arabe 864 a 867; e dell' Athâr, due MSS., Suppl. Arabe 658 e 915. Io ne ho usato per notar qualche variante alle correttissime edizioni del Wüstenfeld, che son fatte su MSS. migliori.
XLIX. Il Baiân di Ibn-'Adsâri da Marocco, fu compilato il 1299 con gran diligenza sopra libri che noi non abbiamo; e contiene molti ragguagli novelli su la storia di Spagna, Affrica e Sicilia. MS. unico, comperato dal Golio a Marocco; posseduto dalla Biblioteca di Leyde (nº 67 Golius), e pubblicato, il testo, dal prof. Dozy, con dotte note, un glossario, e una splendida introduzione intorno i cronisti arabi di Spagna[83]. Sventuratamente il MS. è mutilo; nè d'altronde il compilatore avea trovato la serie continua degli annali dei cinque secoli che abbraccia quest'opera. Vi si contengono non pochi squarci del compendio di 'Arîb, del quale feci menzione al nº IX. Il Dozy prima della pubblicazione mi avea mandato gli estratti riguardanti la Sicilia, i quali spargono nuovo lume su le relazioni dei Musulmani con questa isola fino alla prima metà del X secolo, e nella prima metà del XII. I quali squarci io darò secondo la edizione del Dozy.
L. Tigiâni (Abu-Mohammed-Abd-Allah), uomo di alto stato nella corte di Tunis, ci ha lasciato la relazione d'un viaggio ch'ei fece in quello Stato, dal dicembre 1306 fino al luglio 1309, con l'emir hafsita Abu-Iahîa-Zakarîa, esaltato pochi anni appresso al trono di Tunis; lo scopo apparente del qual viaggio era di incalzare l'assedio del castello che tenean tuttavia le armi siciliane nell'isola delle Gerbe. Oltre le notizie che toccan questo fatto dell'istoria siciliana, il Tigiâni ne dà delle importantissime e nuove, su i tempi precedenti, cavate da diligenti ricerche su la storia letteraria e politica delle città ch'ei percorrea. Tali sono molti particolari delle imprese dei Normanni di Sicilia su la costiera d'Affrica nel XII secolo; la vita del famoso ammiraglio siciliano Giorgio d'Antiochia; il sublime sagrifizio di Abu-Hasan-Feriani da Sfax, novello Attilio Regolo che spirò sul patibolo su le sponde dell'Oreto in Palermo ec.
Quest'opera, intitolata Rehla et-Tigiâni, è stata ritrovata, non è guari, da M. Alphonse Rousseau; il quale n'ha dato una versione nel Journal Asiatique[84], ed ha donato un MS. del testo alla Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 911 bis. Dal cortesissimo M. Rousseau ebbi alcuni estratti del testo; i quali ho accresciuto poscia sul MS. di Parigi: e non saranno la parte men pregevole della mia raccolta.
LI. Il Kartâs, come comunemente si chiama una buona compilazione, fatta nel reame di Marocco il 1326 e attribuita ad Abu-Hasan-Ali-ibn-Zera', dà pochi e noti ragguagli su le guerre dei Siciliani in Affrica nel XII secolo. È testo arabico niente raro in Europa; tradotto in tedesco dal Dombay; in portoghese dal Moura; e recentemente pubblicato con versione latina dal professor Tornberg, con erudite annotazioni che contengono altri squarci di testi arabici[85]. Dall'edizione del Tornberg trascriverò i paragrafi relativi alla Sicilia.
LII. Dimaski (Scems-ed-din-Abu-Abd-Allah-Mohammed), così chiamato per essere oriundo di Damasco, morì vecchio nel 1327, dopo aver composto il Nokhbet ed-Dahr ec. (Eletta del secolo su le maraviglie della terra e del mare), opera geografica compilata, dice M. Reinaud, senza molta critica, ma pregevole per molti fatti che invano si cercherebbero altrove[86]. E così io ho trovato, in vero, il capitolo su la Sicilia e altre isole del Mediterraneo, scritto, com'e' pare, sopra osservazioni contemporanee, e, al certo, non mero compendio di Edrisi. Tolgo questo capitolo da due MSS., cioè di Parigi, Ancien Fonds 581, e di Leyde, 464 Warn., Catalogo del prof. Dozy, tomo II, p. 134, nº DCCXXXV, del quale il Dozy mi mandò un estratto.
LIII. Abulfeda ('Imâd-ed-dîn-ibn-Ali), della illustre schiatta di Saladino, nacque a Damasco il 1272; conseguì nel 1310 il principato di Hama, retaggio di sua casa; e morì il 1331. Come ognun sa, le sue opere principali sono il Tekwîm el-Boldân (Tavola sinottica dei paesi), e il Moktaser fi Akhbâr el-Biscer (Compendio dei fatti del genere umano).
Della prima è stato pubblicato il testo dai sigg. Reinaud e De Slane nel 1840; e il Reinaud ne dà attualmente una versione francese, della quale è uscito il primo volume, preceduto da una dottissima introduzione che contiene la vita di Abulfeda e la storia della geografia appo gli Arabi.
Del compendio storico, abbiam detto come gli estratti risguardanti la Sicilia pervenissero, tradotti in latino, allo Inveges e al Caruso. Il Reiske pubblicò a Lipsia, il 1754, una sua versione latina dell'opera dal principio dell'islamismo in poi; della quale si servì il Di Gregorio nel Rerum Arabicarum. Una copia del testo arabico, lasciata inedita dal Reiske, fu stampata dall'Adler con la versione latina a riscontro[87]. Non dirò delle edizioni e versioni della istoria anteislamitica e della vita di Maometto cavate dal Moktaser, poichè son lontane dall'argomento nostro. Gli Annali di Abulfeda, compilati in parte sopra Ibn-el-Athîr e in parte sopra altre opere, son compendio di compendii.
Io darò uno estratto della Geografia su la edizione del testo; e gli estratti degli Annali sul testo di Adler, confrontandolo, che ben n'è mestieri, col MS. di Parigi, autografo di Abulfeda.
LIV. Nowairi (Scehâb-ed-dîn-Ahmed-ibn-Abd-el-Wehâb) della tribù arabica di Bekr, detto il Nowairi o Noweiri, da un villaggio d'Egitto in cui nacque il 1278 o 1273, morto il 1332; accozzò con le forbici, come dicesi in Francia, tagliando una pezza di qua e una di là, un centone enciclopedico in trenta volumi, non modestamente intitolato Nihâiet el-Areb fi Fonûn el-Adeb, che sarebbe a dire: il non plus ultra dell'erudizione. Va diviso in cinque parti: Cosmografia, Nosografia, Zoologia, Botanica e Storia[88]; del quale abbiam volumi staccati in varie biblioteche, segnatamente a Parigi, Leyde, Escuriale e Roma.
Nella prima parte, il Nowairi dà un cenno geografico della Sicilia, che io pubblicherò secondo la copia fattane gentilmente per me dal Dozy sul MS. di Leyde, 273 Warn., Catalogo del Dozy stesso, tomo I, p. 4, nº V.
Nell'ultima parte v'ha le istorie di Affrica e di Sicilia, compilate, non solamente sopra Ibn-el-Athîr, ma anco sopra Ibn-Rekîk, Ibn-Rescîk, Ibn-Sceddâd, e altri, che quell'annalista o non ebbe alle mani o trascurò. Pertanto il Nowairi narra non di rado i medesimi fatti con altri particolari; cimentando i quali con buona critica, se ne può cavar partito. I racconti che toccano l'argomento nostro contengonsi nei MSS. di Parigi 702[89], e 702 A, ed Ancien Fonds 638, dai quali avean preso notizie il Cardonne, e il De Guignes; talchè il marchese Caraccioli, lodatissimo vicerè di Sicilia, avutone sentore da amici suoi francesi, fece opera ad ottenere il testo arabico, per la collezione intrapresa sotto gli auspicii suoi dal Di Gregorio. Adoperandovisi il Barthélemy, fu mandato il testo del capitolo su la Sicilia, con la versione francese di questo e di alcuni squarci della Storia d'Affrica per M. J-J. Caussin, padre dell'attuale professore d'arabico M. Caussin de Perceval. Così il Di Gregorio stampava, non senza errori, il testo, nel Rerum Arabicarum, e vi aggiugnea con la guida della francese una traduzione latina; nella quale talvolta volle rifare il verso a M. Caussin[90]; e, non essendo da tanto, sfigurò e imbrogliò di molte frasi. L'orientalista francese ne lo punì, pubblicando la propria versione ed alcune note, che contengono una critica urbana, ma severa e senza replica[91].
Il lavoro da me intrapreso mi portò a confrontare su i citati MSS. la edizione del Di Gregorio, e copiare gli squarci di testo della Storia d'Affrica tradotti dal Caussin e altri che gli erano sfuggiti. Debbo al professor Dozy altri capitoli risguardanti scrittori siciliani, copiati sul MS. di Leyde. Così ho potuto quasi raddoppiare i frammenti del nostro autore dati nel Rerum Arabicarum; senza dir dei nomi proprii e geografici che mi è occorso di correggere, nè degli squarci non bene interpretati, dei quali ho dovuto rifare la versione.
Debbo avvertire infine che M. Des Vergers pose la versione di varii capitoli della Storia d'Affrica del Nowairi in appendice alla parte di Ibn-Khaldûn pubblicata da lui; e che il baron De Slane ha tradotto in francese la prima parte della Storia d'Affrica, inserita nel Journal Asiatique, série III, tomo XI-XII (1841), e ristampata in appendice alla Hist. des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 313, seg. M. De Slane ha giudicato troppo severamente il Nowairi, incolpandolo di tutte le favole del conquisto musulmano d'Affrica, che quegli non avea fatto che copiare da altri compilatori[92].
LV. Dsehebi (Scems-ed-dîn-Abu-Abd-Allah), morto il 1347, fu compendiatore come i contemporanei suoi Abulfeda, Nowairi, e Scehâb-ed-dîn-Omari; se non che attese alla sola storia, e particolarmente alla letteraria, o, per dir meglio, alle biografie degli uomini dotti. Questo è il pregio delle opere che ci rimangono di lui. La principale intitolata Târîkh el-Islâm è tavola cronologica, divisa per decennii e corredata alla fine di ciascun decennio da una lunga serie di cenni biografici. La Biblioteca di Parigi ne possiede due volumi staccati, Ancien Fonds 626 e 646, dei quali il primo corre dall'anno 1º al 40º dell'egira, l'altro dal 301 al 370. Un altro MS. della stessa Biblioteca, Ancien Fonds 753, che abbraccia gli anni dal 581 al 620, mi pare appartenente non al Târîkh, ma al compendio che ne fece lo stesso Dsehebi, del quale v'ha esemplari a Leyde e altrove[93]. Pochissime notizie ho cavato, sì da cotesti tre volumi, sì dai due del Suppl. Arabe 746, opera dello stesso autore, intitolata Kitâb el-'iber ec. (Avvertimenti su le geste dei trapassati). All'incontro, ho preso una ventina di buoni cenni biografici di Siciliani, dal MS. di Leyde, nº 654 Warn., Catalogo del Dozy, tomo II, p. 205, nº DCCCLXXVI, compendio che fece il Dsehebi dell' Anbâ en-Nohâ di Abu-Hasan-Ali-el-Kifti, morto alla metà del XIII secolo.
LVI. Scehâb-ed-dîn'Omari (Abu-Abbâs-Ahmed-ibn-Iahîa), detto Ibn-Fadhl-Allah, soprannominato anche Dimascki, da Damasco ond'era oriundo, e 'Omari dal nome di Omar il grande, dal quale pretendea discendere; nacque verso il 1300 di famiglia benemerita ai sultani d'Egitto; fu professore di tradizion del Profeta; servì nelle cancellerie di Damasco e del Cairo; e morì il 1349. Costui accozzò una enciclopedia a modo suo, intitolata Mesâlek el-Absâr ec. (Escursioni degli sguardi sopra i varii reami della terra). Dei ventisette volumi di tal compilazione, i pochi che ci rimangono trattan di geografia, storia e antologia poetica. La parte geografica è cavata da buone opere, e, tra le altre, da Abulfeda; ma l'Omari vi aggiunse non poche notizie raccolte dassè, sia da documenti oficiali, sia dalle relazioni di viaggiatori e mercatanti ch'egli interrogava, ben usando le comodità che gli dava l'oficio suo. Pertanto il capitolo su la Sicilia, che ho tolto da un MS. della Bodlejana, Pococke 191, Catalogo tomo I, nº CM, contiene ragguagli contemporanei, anche di fatti storici. Nel medesimo volume ho veduto una descrizione della Calabria, porto di Taranto e altri luoghi d'Italia.
Dobbiamo saper grado, altresì, all'Omari degli squarci di poesie d'Arabi Siciliani ch'ei ci conservò; i quali ho copiato dal MS. di Parigi, Ancien Fonds 1372.
Allo incontro, la parte storica non può servire ad altro che a confrontare qualche passo d'Abulfeda; i cui annali l'Omari copiò sfacciatamente, trinciandoli di decennio in decennio, forse per occultare il plagio. Dissi già che alcuni estratti della Storia relativi alla Sicilia furono tradotti da un MS. dell'Escuriale, il quale poi si perdè, probabilmente nell'incendio del 1671. Il Di Gregorio ristampò la versione latina che ne avea fatto il Caruso su la italiana dello Inveges, presa dalla latina di Marco Dobelio Citeron. Io ho trovato parte del testo arabico nel MS. di Parigi, Ancien Fonds 642, il quale corre dall'anno 541 al 744, cioè dall'ultimo capitolo della versione del Di Gregorio in poi; nè posso rammaricarmi troppo della perdita dei precedenti, poichè ne abbiamo il tenore originale in Abulfeda. Nelle citazioni che mi occorrerà di farne, aggiugnerò il nome patronimico di Omari al titolo di Scehâb-ed-dîn (Fiaccola della Fede), ch'è comune a cento altri dottori musulmani; e però mal si è adoperato a significare il nostro autore. Avverto poi non esser questi il cadi Scehâb-ed-dîn-Ibn-Abi-l-Damm, da Hama, come suppose il Di Gregorio[94], traendo nel proprio errore il Wenrich[95]; perocchè quel cadi visse un secolo innanzi l'Omari, sendo morto il 1244; e Abulfeda cita sovente l'opera sua, ch'è intitolata: Tarîkh Mozafferi, e non Mesâlek el-Absâr[96]. Su Scehâb-ed-dîn-'Omari si veggano: Quatremère, nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XIII, p. 151 seg.; Catalogo della Bodlejana d'Oxford, tomo II, p. 599; Catalogo de' MSS. Orientali del British Museum, parte II, p. 273, nº DLXXV; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introd., p. CLII[97].
LVII. Ibn-el-Wardi (Zîn-ed-dîn-Abu-Hafs-Omar), morto il 1348; mezzo copiò e mezzo compendiò le notizie di Edrisi e Dimascki su la Sicilia. Quali ch'elle siano, le darò, secondo la lezione dei MSS. di Parigi, Ancien Fonds 590, 593, 594, confrontata col testo che ha pubblicato il Tornberg[98] di questa mediocre compilazione geografica, intitolata Kharîdat el-'Agiâib (Perla delle Meraviglie).
LVIII. Sefedi (Selâh-ed-dîn-Khalîl-ibn-Ibek), che morì il 1362, compose un dizionario geografico, addimandato El-Waki bil-Wefeiât (Il Conservatore delle Necrologie), diligente e giudiziosa compilazione. La Biblioteca di Parigi ne possiede due volumi staccati, Suppl. Arabe 706, che contengono le lettere dell'alfabeto arabico dalla Kha al Sad; dalle quali ho cavato tre biografie, e, delle tre, due sono di Cristiani: re Ruggiero, cioè, e l'ammiraglio Giorgio d'Antiochia.
LIX. Domairi (Kemâl-ed-dîn-Abd-Allah) scrisse nel 1371 l' Haiât el-Haiwân, opera di Storia naturale; in cui, trattando dello scorpione, l'autore cita i versi e la trista fine di un poeta del Iemen che si trovò avviluppato in una cospirazione contro Saladino, tramata da malcontenti egiziani con la corte normanna di Sicilia. Ho cavato questo squarcio dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 873.
LX. Ibn-Khaldûn (Wâli-ed-dîn-Abu-Zeid-Abd-er-Rahmân-ibn-Mohammed), nacque a Tunis il 1332 d'illustre famiglia, passata dall'Arabia meridionale in Spagna ai tempi del conquisto, e rifuggitasi in Affrica nel XIII secolo. Nobile dunque e povero, cominciò sua carriera da calligrafo nella Segreteria dei principi hafsiti di Tunis. Da costoro passò al servigio dei loro nemici i Merinidi; poi, sempre da un regolo a un altro, di que' che usurpavan oggi e cadean domani sì in Affrica e sì in Spagna: appo i quali ei fu cortigiano, agente diplomatico, ministro, professore; or arricchito e onorato, or imprigionato e perseguitato per gara di altri intriganti, e sospetti che destava quel suo far da Girella. A cinquant'anni, ristucco dell'Affrica, se n'andò in Egitto; ove diessi all'insegnamento pubblico; toccò una pensioncella dal Sultano; salì allo uficio di cadi di scuola malekita al Cairo: e sì balzano è l'animo degli uomini, che quello statista di larga coscienza fu deposto della magistratura per la rettitudine e severità ch'ei manteneva tra la corruzione degli altri giuristi. Il caso, alfine, lo fe' trovare nel 1400 sotto le mura di Damasco in mezzo alle orde dei Tartari e in presenza di Tamerlano; al quale ei fu prodigo di adulazioni, e n'ebbe onori e profferta di rimanere alla corte tartara; ma destramente ei se ne svincolò. Tornato in Egitto, salito e sceso, e risalito all'oficio di cadi, moriva il 1406. Questi particolari tolti dall'Autobiografia di Ibn-Khaldûn, non parranno troppi, quando si pensi che discorriamo del primo scrittore al mondo che abbia trattato di proposito la filosofia storica: nè saprei dir se altri v'abbian levato il velo più alto di lui.
Il lavoro istorico d'Ibn-Khaldûn, composto la più parte in Affrica, nelle brevi stagioni ch'egli ebbe di calma, è intitolato: Kîtâb el-'Iber ec., che io, discostandomi dalle interpretazioni date fin qui, tradurrei: “Libro dei concetti storici e raccolta delle origini e vicenda di Arabi, Stranieri e Berberi.” Va diviso in Introduzione, tre libri, e Autobiografia; delle quali parti, la Introduzione tratta della Storiografia e il primo libro racchiude le considerazioni generali che noi intendiam sotto la denominazione di filosofia storica. Gli altri due libri contengono la narrazione storica; cioè il secondo libro, degli Arabi e altri popoli orientali ed europei; e il terzo, dei Berberi. Disegno vasto e ben ordinato, ma colorito con man disuguale, quasi da due uomini di varia tempra d'ingegno. Da un canto, Ibn-Khaldûn, superiore alla età e società in cui visse, speculando su i fatti generali della storia, arrivava a scoprirne le leggi e s'imbatteva anco in chimere, come è avvenuto poi al Vico ed altri naviganti in quelle regioni; e ritrovava i canoni della critica; e, maravigliosa coincidenza col Vico, discorrendo di così fatti studii, conchiudeva essere scienza nuova, a meno che, aggiunse modestamente, qualche antico non ne abbia scritto, e si sian perdute le opere[99]. Dall'altro canto, Ibn-Khaldûn si messe a riempire, come un volgare annalista, i compartimenti sì bene immaginati in schiatte, dinastie, e cronologia storica di ciascuna dinastia. In questo usò molti ottimi materiali, e tra gli altri il Kâmil d'Ibn-el-Athîr; ma non digerì i fatti con la critica di cui avea già dettato i principii; non serbò proporzione nei racconti; non seppe sviluppare le cagioni immediate degli avvenimenti con la intuizione che hanno, per esempio, i Latini e il Machiavelli: in somma fece una compilazione, e, pei tempi più vicini, una cronica e nulla più. Il barone De Slane, che lo ha studiato e può giudicarne, notava che Ibn-Khaldûn scrisse la filosofia storica con chiarezza, e le narrazioni con uno stile avviluppato, saltellante e pieno di neologismi.
Lunga sarebbe la rassegna dei lavori che si son fatti, da una trentina d'anni in qua, su questa mirabile opera. Limitandomi a quei che più s'avvicinano all'argomento nostro, ricorderò il testo e versione della Storia dell'Affrica sotto gli Aghlabiti e della Sicilia, pubblicati da M. Des Vergers; la Storia dei Berberi il cui testo si è dato a stampa in Algeri a spese del Ministero della Guerra di Francia e per le cure di M. De Slane, e la cui versione è stata fatta dallo stesso orientalista, con erudite annotazioni, e n'è uscito il primo volume. I Prolegomeni, come van chiamati comunemente la introduzione e il primo libro, vedran la luce, tra non guari, per opera di M. Quatremère, uomo da reggere a questo ed a maggior peso. Mi si permetta infine che io ricordi la edizione del testo e versione italiana della storia antica di Ibn-Khaldûn, incominciata dal nostro compatriotta l'abate Arri da Asti nel 1840, e interrotta l'anno appresso per la immatura sua morte[100].
Ibn-Khaldûn nella Storia di Sicilia compendia Ibn-el-Athîr, sì che appena vi si potrebbe scoprir qualche fatto attinto ad altre sorgenti. Negli altri capitoli ci dà ragguagli più pregevoli. Da tutta l'opera io ho cavato, per inserirli nella mia Raccolta, gli squarci seguenti:
1. Uno dei Prolegomeni inedito; ove si tratta del navilio siciliano sotto i Normanni. Dal MS. del British Museum, nº 9571, bel codice in caratteri affricani.
2. La Storia di Sicilia. Dalla edizione di M. Des Vergers, riveduta su i MSS. di Parigi, e confrontata con gli estratti di un buon MS. di Tunis recatimi dal sig. Honnegar.
3. Molti squarci della Storia dei Berberi, ch'io avea copiato dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 742 quater, tomo III, e che oggi ho potuto confrontare con la edizione d'Algeri.
4. Altri squarci inediti su le prime imprese dei Musulmani nel Mediterraneo, su la Storia dei Fatemiti, e su le Crociate; che ho tolto dai MSS. di Parigi, 742 quinquies, tomo II, e 742 quater, tomo IV.
LXI. Zohri (Ibn o piuttosto Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-abi-Bekr), alla fine del XIV o principio del XV secolo, compendiò un trattato di Geografia di Kimâri, copiato o compendiato, non sappiam quando, da un libro che avea fatto compilare il califo Mamûn (815-835) e delineare insieme un planisfero. Tanto si ritrae dalla prefazione del Zohri al detto Kitâb Gi'rafîa, MS. di Parigi, Ancien Fonds 596, e dal cenno che l'autore fa a fog. 58 verso. Di certo, il Kimâri, o lo Zohri stesso, aggiunsero qualcosa alla compilazione del IX secolo; leggendosi qui i nomi di Mehdîa e della Kalat-Beni-Hammâd, che furono fondate appresso. Però non si può ben determinare l'epoca alla quale riferirsi le notizie su l'Etna e su non pochi prodotti del suolo siciliano, che si trovano nel capitolo della Sicilia e che io tolgo dal MS. di Parigi.
LXII. Makrizi (Taki-ed-dîn-Ahmed-ibn-Ali), nato al Cairo il 1364, morto il 1441, dotto e diligente compilatore di varie opere[101], tra le altre ne dettava tre che servono al nostro proposito. Sono:
Il Mokaffa, dizionario biografico, del quale la Biblioteca di Parigi possiede un volume, Ancien Fonds 675, che va dagli ultimi della lettera ta (decimasesta dell'alfabeto orientale) a parte dell' Ain; e la Biblioteca di Leyde, nº 1366, tre volumi, che prendono l' alef, Caf (22ª lettera), lam e mim[102]. Però ci mancano parecchi volumi dell'opera. Dal MS. di Parigi ho estratto io le biografie dei Siciliani; dai MSS. di Leyde lo ha fatto per cortesia verso di me il prof. Dozy.
Il Kitâb-es-Solûk ec. (Introduzione alla conoscenza delle dinastie), del quale una parte è stata tradotta in francese da M. Quatremère. Ho tolto un passo del testo arabico dal MS. di Parigi, Ancien Fonds 673 C., tomo III, e Ancien Fonds 673, A. 2.
Il Kitâb-el-Mewâ'iz ec. (Avvertimento e riflessioni su le divisioni territoriali e i monumenti), MS. di Parigi, Ancien Fonds 680, ove si fa menzione d'un astronomo siciliano dell'Osservatorio del Cairo; uno squarcio del qual testo è stato pubblicato da M. Caussin de Perceval, nella raccolta Notices et Extraits des MSS., tomo VII, p. 45.
LXIII. Zerkesci (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ibrahîm), vissuto alla fine del XV secolo, come conghiettura con buon fondamento M. Alphonse Rousseau[103], scrisse una storia dei principi almohadi e degli hafsîti di Tunis fino all'anno 1429. Quest'accurata compilazione, fatta su buoni materiali, mi fornisce due squarci, che ho tolto dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 852.
LXIV. Soiûti (Gelâl-ed-dîn-Abu-l-Fadhl-Abd-er-Rahmân), nato a Soiût nell'alto Egitto il 1445, e morto il 1505, fu compilatore infaticabile ma non sempre accurato; e basta a dir che si crede abbia scritto da trecento opere diverse.
Da quella intitolata Tarîkh-el-Kholafâ (Storia dei Califi), MSS. di Parigi, Ancien Fonds 639 e 776, ho cavato due parole di cenno storico;
Dall'altra, che s'addimanda Kitâb-el-Boghiat ec. (Libro di quanto posson desiderare i raccoglitori delle Vite dei Lessicografi e Grammatici), ho preso una ventina di biografie di Siciliani. Ho avuto alle mani due MSS., l'uno del dottor John Lee, ch'era prestato al prof. Dozy di Leyde in cui casa lo percorsi; l'altro acquistato recentemente dalla Biblioteca di Parigi, ove si conserva, Suppl. Arabe 683.
LXV. Ibn-Aiâs (Mohammed-ibn-Ahmed), nato in Egitto, scrissevi nel 1516 il Nescek el-Azhâr ec. (Fragranza dei fiori su le meraviglie delle regioni), mediocrissima compilazione su l'opera di Edrisi e altre. Nondimeno, raccogliendo tutti i testi ove si tratti della Sicilia, non ho voluto rigettar questo, che ne dà due capitoletti. Li ho copiato dai MSS. di Parigi, Ancien Fonds 595, e Suppl. Arabe 904.
LXVI. Makkari (Ahmed-ibn-Mohammed), nato presso Telemsen innanzi il 1590, e morto il 1631, lasciò una voluminosa e diligente opera su la Spagna musulmana, della quale la più parte è stata tradotta in inglese dal professor Gayangos, e adesso danno opera a pubblicare il testo arabico i signori Dozy, Dugat, Krehl e Wright. Nella descrizione di Cordova occorre al Makkari di citare versi del Siciliano Ibn-Hamdîs e darne giudizio. Porrò questo passo e pochi altri cenni nella mia raccolta, cavandoli del MS. di Parigi, Ancien Fonds 704.
LXVII. Hagi-Khalfa (Mustafa-ibn-Abd-Allah) da Costantinopoli, morto il 1658, per erudizione, critica, e altezza di ingegno, gareggia coi migliori scrittori di storia letteraria che abbiamo in Europa. Due opere sue forniscon materiali alla storia dei Musulmani di Sicilia; cioè:
Il celebre Dizionario bibliografico di 15,000 opere, quasi tutte arabiche, pubblicato dal Fluëgel, testo e versione latina; dal quale ho cavato tutti i paragrafi su opere di Siciliani, riscontrandoli per lo più coi MSS. di Parigi[104].
E il Tekwîm et-Tewârîkh, ossia Tavola cronologica, scritto in turco e in persiano e tradotto in lingua nostra da Gian Rinaldo Carli[105]. Gli estratti della versione italiana relativi alla Sicilia, furono voltati in latino e pubblicati dal Caruso e dal Muratori, e a ragione lasciati indietro dal Di Gregorio: tanto orribilmente il conte Carli avea saputo sfigurare quella semplice Tavola. Ho trascritto il testo persiano, non avendo potuto capitare la edizione turca di Costantinopoli, dal MS. turco di Parigi, Ancien Fonds 45; e l'ho confrontato con una versione latina del Reiske che v'ha nella Biblioteca di Parigi.
LXVIII. Ibn-Abi-Dinâr (Abu-Abd-Allah-Mohammed-el-Kairewâni) scrisse il 1681 un Kitâb el-Munis etc. (Libro dilettevole sugli avvenimenti dell'Affrica e di Tunis), che corre dai principii del conquisto musulmano fino ai principii della dominazione ottomana in Affrica, e contiene ragguagli topografici e di usanze: sennata e diligente compilazione, ancorchè moderna; nella quale non di rado si fa menzione della Sicilia. Alcuni estratti di questa opera mi furono recati da Tunis per favore del signor Honnegar; e li ho accresciuto notabilmente percorrendo lo esemplare che n'ha la Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 851. Di questo libro han fatto una versione francese MM. Pellissier et Remusat, nella quale l'autore è chiamato ordinariamente col nome etnico di Kaïrouani[106]: lavoro corredato di ottime note, ma fatto, com'ei sembra, sopra un cattivo MS.
LXIX. Teserif el-Aiâm ec. (Ornamento dei giorni e dei tempi e vita del Malek-Mansur). Il principe di cui si parla è Kelaûn, sultano d'Egitto verso la fine del XIII secolo: il compilatore della cronica non si sa. La Biblioteca di Parigi n'ha il solo volume secondo, Suppl. Arabe 810, splendidissimo MS. fatto senza dubbio per uso della corte di Egitto. Contiene alcune notizie intorno la guerra del Vespro Siciliano, e il testo d'un trattato politico e commerciale tra il Sultano e i principi aragonesi Alfonso re d'Aragona e Giacomo re di Sicilia. Io ho dato la versione italiana di cotesti squarci nella edizione della Guerra del Vespro, Firenze 1851, Documento XXX, p. 588 a 597. Il trattato era stato pria tradotto in francese da M. De Sacy.
LXX. Ibn-Konfûd (Abu-l-Abbâs-Ahmed-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Khatîb) nel XIV secolo dettò la Farisîa ec., ch'è parte annali e parte cronica della dinastia hafsita di Tunis. Alcuni squarci ne ha pubblicato M. Cherbonneau, professore d'arabico a Costantina, nel Journal Asiatique, IV série, tomo XII, XIII e XX, con utilissime note. Tolgo dal detto Giornale il testo relativo a due imprese di Cristiani sopra le Gerbe e Mehdia nel 1284. Questa e la precedente opera son messe fuori dell'ordine cronologico, non appartenendo propriamente alla storia dei Musulmani di Sicilia; ma come danno ragguagli su la storia di Sicilia dei tempi susseguenti, così non mi è parso di trascurarle.
LIBRO PRIMO.
CAPITOLO I.
Dai primi tempi della storia infino a noi molte genti straniere vennero a calpestare il suolo della Sicilia: Cartaginesi, Vandali, Goti, Bizantini, Alemanni, Francesi, Spagnuoli, a vicenda fecervi guerra, guastarono, messer su novelle dominazioni e poi dileguaronsi lasciando poche vestigia di sè. Tra tanti rivolgimenti superficiali quattro conquisti mutarono radicalmente il paese: che furono il greco, il romano, il musulmano e il normanno, o meglio direbbesi italiano. Le colonie doriche e ionie, nell'ottavo secolo innanzi l'era volgare, si insignorivano della Sicilia tra per la forza delle armi e dell'intelletto; vi recavano loro schiatta, genio e linguaggio; dirozzavano gli antichi abitatori, gente italica la più parte e avanzo di varii popoli orientali; facean lieta l'isola di città, di monumenti, di colti, di popolazione; fondavano Stati da rivaleggiare con quei della madre patria; correano, come li portava lor mobile natura, or alla libertà or alla tirannide: tra i quali continui travagli fiorirono nella Sicilia greca i più nobili e profittevoli esercizii degli uomini; e nacquervi, ad onor della umanità, Teocrito, Empedocle, Archimede. Il soldato romano poi che uccideva Archimede simboleggia pienamente il secondo conquisto, il quale, con effetto contrario a quel che si vide nelle altre province, in Sicilia distrusse più che non fondasse. Ma nell'ottavo secolo dopo la nascita di Cristo, seguì il terzo rinnovamento della Sicilia, per opera dei Musulmani, i quali avean tocco l'apice di lor subita civiltà; e riforniron l'isola di colonie arabiche e berbere; vi portarono altra religione, leggi, costumi, lingua, letteratura, scienze, arti, industrie, virtù militare e genio d'independenza; in guisa da ritrarre, se non il raffinamento e splendore, al certo l'attività dei tempi greci. Breve del resto il dominio musulmano, nè arrivò a compiere la assimilazione degli abitanti che avea trovato nell'isola. Sfasciandosi da un canto la società musulmana in Sicilia come per ogni luogo, e spuntando dall'altro canto la novella nazione italiana, questa trovò, come per caso, la insegna di ventura, gli egregii esempii d'ardire e gli ordini di guerra dei Normanni: talchè, verso la fine dell'undecimo secolo, passò il Faro sotto la bandiera di quelli; ripigliò la Sicilia, che le appartenea per ragione di geografia e di schiatta; si aggregò le popolazioni cristiane rimastevi, e raccolse i frutti delle proprie e delle altrui virtù. Perchè, sendo pochi i Normanni che le aveano insegnato a vincere, e ad ordinare lo Stato, la nazione italiana, per la ineluttabile maggioranza del numero, assorbì quella forte schiatta, in guisa che a capo d'un secolo ne rimasero appena i nomi di alcune famiglie. Quanto ai Musulmani, parte si dileguò nel seno della società italiana di Sicilia, parte emigrò o fu mietuta dalle spade cristiane. Ed intanto si era mandata ad effetto, sotto gli auspicii del nuovo popolo, l'opera cominciata dagli Arabi quattrocent'anni avanti: la Sicilia tornata a potenza e splendore primeggiò per tutto il duodecimo secolo tra le province italiane; s'insignorì delle parti meridionali della Penisola; e sparse in terraferma molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra che pose termine al medio evo.
La storia delle colonie musulmane di Sicilia, ch'io mi son proposto di scrivere, comprende i due detti conquisti, arabo e normanno, le conseguenze dei quali son visibili infino ai nostri giorni. Principierò con ritrarre le vicende della Sicilia innanzi la venuta degli Arabi, l'origine dello impero musulmano e le condizioni della sua provincia d'Affrica: e ciò darà argomento al primo libro. Nei tre seguenti tratterò la dominazione dei Musulmani su l'isola; nel quinto il conquisto normanno. Nel sesto libro finalmente discorrerò la condizione dei vinti e i fatti ai quali parteciparono sino alla metà del decimoterzo secolo; quando gli ultimi avanzi loro furono trapiantati di Sicilia in Puglia, e la civiltà italiana tramutò ancor sua sede, prima dall'isola alle parti meridionali della terraferma, e poi, fuggendo i capricci dei re, alle gloriose repubbliche ch'eran surte tra il Tevere e le Alpi.
La decadenza della Sicilia greca era cominciata, come avvenir suole, prima della distruzione di sua potenza politica. Le città più grosse, straziandosi in guerra tra loro e ciascuna dentro da sè stessa; snervate dal lusso, ch'è figlio di civiltà ma uccide la madre; e logore, sopra ogni altra cagione, da tre secoli di guerra continua contro Cartagine, presto soggiacquero alla rozza vigoria di Roma (anni 241-210 avanti l'era volgare). Roma usò e abusò gli avvantaggi dell'acquisto; il primo che facesse fuor la Penisola e fin allora il più ricco. Abbattuta tanto più agevolmente Cartagine quanto l'aveano stracca le guerre con la Sicilia; fatto scala di quest'isola ad altre imprese nel Mediterraneo; accattate da lei le prime dolcezze della cultura intellettuale e del viver dilicato, i vincitori non si saziarono che non divorassero la provincia. La chiamarono granaio del popol romano, e sì vollero farne un gran podere e nulla più. Per un verso o per un altro incominciò il suolo siciliano a divenire proprietà pubblica di Roma o privata dei nobili; incominciarono a formarsi in Sicilia come in terraferma i latifondi, che rimasero a proprietarii romani o d'altre parti d'Italia infino al settimo secolo, nè sparvero che al conquisto musulmano. Ma infin dal principio della dominazione romana vasti tratti di terreno si tennero a pascolo; prima degradazione, che si accrebbe affidandosi gli armenti a schiavi marchiati in fronte, ignudi o coperti di ruvide pelli; i quali armati di mazze, spiedi e bastoni, a due, a tre, poi a frotte, si davano a ladronecci per campar la vita; poichè i padroni lor davano, in luogo di salario o vitto, la impunità dei misfatti.[107] Da un'altra mano i cavalieri romani, o, come or diremmo, i cittadini della classe di mezzo, presero in fitto molte terre dell'isola per coltivarle con le braccia d'altri schiavi marchiati, incatenati, chiusi negli ergastoli la notte, menati al lavoro con la sferza.[108] A tal empio sistema d'industria agraria si aggiunse la enormità delle gravezze, che prendeano il quarto, come si crede,[109] del ritratto delle terre, senza contare i balzelli su le altre arti e commercii.
Così arricchiti subitamente i pochi intraprenditori stranieri, rovinati gli indigeni che non godeano i medesimi privilegii di dritto o di fatto, ne doveano seguitare due mali: che la proprietà ogni dì più che l'altro si tramutasse in man dei Romani, e che andassero a precipizio le industrie cittadinesche e sì il commercio con gli altri popoli fuorchè i dominatori. Dal peso e dalla vergogna del giogo nascea quella disperazione universale, che al certo attizzò la prima guerra servile (a. 134-132 av. l'e. v.), e che spinse alla seconda (a. 103-101 av. l'e. v.) non poche popolazioni libere. Pur coteste guerre avevano origine da più antica e profonda iniquità di cui non erano innocenti i cittadini greci di Sicilia. Gli schiavi di tante lingue congregati nell'isola, e forse gran parte siciliani, dopo lungo alternar della fame con la rapina, della abiezione con gli omicidii, si risovvennero della dignità umana, e invocando il cielo che credeano la dovesse vendicare, si adunarono nei più rinomati santuarii, nel tempio di Cerere ad Enna o dinanzi i tremendi altari dei Palici; bandirono la naturale uguaglianza degli uomini; e valorosamente la sostennero con le armi, aiutati più o meno dai cittadini, finchè Roma, che s'intendea meglio di quella ragione, li vinse e sterminò. E mossa dalla prudenza che accompagnava la ferocità sua, l'aristocrazia romana volle rimediare con leggi che rendessero più sopportabile la condizione dei Siciliani: ma non giovò, perchè tal minuta giustizia non troncava la radice del male, e d'altronde non si osservava, per essere elusa e soffocata a Roma dalla prepotenza dei grandi. Già la patria era perduta; già i migliori disperavano di lei. Diodoro, che fiorì l'ultimo tra i sommi ingegni della Sicilia greca e fu il primo scrittore dell'antichità che abbracciasse la storia universale, Diodoro, dopo trent'anni di viaggi e lungo soggiorno a Roma (verso l'anno 45 av. l'e. v.), par sì rassegnato alle sventure della Sicilia, che accettava come vera guarigione un sollievo passeggiero dovuto alla umanità del pretore Asillio. Nè volgare animo ebbe lo storico siciliano, nè poco amore per la patria; ma vedendola perire, par ch'ei se ne confortasse con le ineluttabili leggi dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare ormai il genere umano come unica famiglia, e il popol romano come capo di quella.[110] Dopo la morte di Diodoro seguirono le ultime guerre civili dei dominatori, che fecero campo di battaglia la Sicilia (a. 43-35 av. l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta com'essa era dalle cause economiche e morali, non potè risorgere; le antiche e nuove piaghe scoprironsi di un subito. La popolazione delle cittadi scemò orribilmente; moltissime rimasero vôte d'abitatori; abbandonata gran parte dei colti: la terra di Cerere, sì cupidamente presa dai Romani, si era sfruttata nelle mani loro.[111]
Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca, o soltanto abbia notato gli avanzi di quella prosperità nelle orazioni di Cicerone contro Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo squallore che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare. Pur ne son prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare alla rovina di parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom greco, contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di esagerarne le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando dal lato di levante Strabone trovava sol quattro città: Messina, Taormina, Catania, Siracusa; notando che le ultime due fossero state di recente ristorate da Augusto, e Siracusa ristretta a minore spazio presso la penisola d'Ortigia, in vece dello antico giro di centottanta stadii, troppo ormai agli abitatori.[112] Su la costiera meridionale, continua il geografo, v'ha Agrigento e Lilibeo e il rimanente delle città al tutto rovinate e deserte; nè la settentrionale abbonda di popolazione, ancorchè la si estenda più che le altre due, e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù, Palermo colonia romana, e lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra ei va nominando Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col magnifico tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come fortezza, Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date ad abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi delle principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del suolo, ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame, pelli, lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole di Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli accenna alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e che ai suoi tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse levato eserciti e tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto a Roma, aggiugne romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha veduto nel circo, esposto in cima a un gran catafalco in figura dell'Etna, il quale aprendosi, com'era congegnato, lasciò cadere il ribelle nelle gabbie delle fiere.[113]
Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco i soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il principato a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei cittadini, e tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di cose, la Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche mercè i pronti e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra; limosina la quale dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e continuò, per maggior onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu riedificato alcun monumento dell'isola. Succeduta poi una serie di buoni principi, che fecero dimenticare, con unico esempio nella storia, i vizii del potere assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a partecipare di quella prospera mediocrità universale dell'impero romano: parecchi villaggi ingrossati presero il luogo delle città ch'erano distrutte ai tempi di Strabone, e alcuna di queste risorse, o così potè dirsi, perchè un pugno di gente tornava ad abitar tra le rovine. Provan ciò le opere di Plinio e di Tolomeo, e l'Itinerario d'incerta epoca che porta il nome di Antonino: scritti che tornano a un dipresso alla prima metà del secondo secolo. E in vero l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta istituite recentemente, e i due geografi, con poco divario l'uno dall'altro, danno una lista di città il cui numero è quadruplo di quel di Strabone e metà di quel che si rinviene appo Stefano Bizantino, erudito di tempi più bassi, che spigolò negli antichi scritti dei Greci.[114] Le quali cifre ancorchè vadan prese ad arcata per la poca esattezza di coteste compilazioni, pur vi si raffigura il precipizio della Sicilia negli ultimi tre secoli che precedettero l'era volgare, e lo scarso ristoro nei primi due secoli che la seguirono.
Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza degli Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene ordinata azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo secolo; e tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca dei trenta tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile[115] (a. 259). Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura, continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la sede passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione (a. 395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma che potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme amministrative alla provincia arsa ed annichilita?
Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire. Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi ai confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero, trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero finalmente alle Bocche del Reno[116] (a. 278).
Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in punto di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò Palermo, prese Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da Ricimero presso Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato che occupato l'isola, cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476), ritenendo solo il Lilibeo come vedetta da custodire il suo novello reame di Affrica. Odoacre poi regnò su la Sicilia per quattordici anni; del quale ci resta il documento d'una concessione di terre presso Siracusa,[117] e prova com'ei prendesse nell'isola quella che si chiamò la parte dei Barbari. Del resto gli Eruli non passaronvi mai; forse non vi mandarono che qualche picciol presidio: a tale debolezza era condotta la Sicilia! Così ancora, vinto Odoacre dagli Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico; a persuasione di Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi fossero salvi dalla licenza dei vincitori, dei quali sol venisse nell'isola quel tanto che bastava a munir le fortezze principali. Teodorico, resse l'isola assai più umanamente che i suoi predecessori barbari e non barbari; ma non potè far che si dimenticasse l'origine sua, nè l'eresia ariana ond'era infetto: sì che un semplice romito di Lipari, alla morte del re affermò averlo veduto strascinare all'isoletta di Vulcano, scinto, scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle ombre invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il precipitarono nel cratere ardente.[118]
Tal nimistà nazionale e religiosa, comune a tutta l'Italia, fe' cadere il regno dei Goti, non guari dopo la morte di Teodorico, e spianò la strada alla dominazione bizantina, che parea meno straniera e che fu portata da Belisario, capitano degno al certo dei tempi più gloriosi di Roma. Dopo l'Affrica, e prima della terraferma d'Italia, Belisario conquistò la Sicilia entro poche settimane, con diecimila uomini al più, per la connivenza degli abitatori: ebbe Catania per un colpo di mano; Siracusa e altre città a patti; Palermo sola per ostinata battaglia; e tornato a Siracusa, capitale dell'isola, entrovvi in trionfo (a. 535), spargendo monete d'oro su la plebe, che potea credere in vero ristorato l'onor di sua nazione, sentendo parlar greco e latino tra i vincitori. La breve guerra di Totila (a. 549-551 ) fu l'ultima incursione dei Barbari settentrionali in Sicilia; i quali non l'avevan tenuto più che ottant'anni; non vi avean posto colonie militari, non vi lasciarono nè progenie, nè istituzioni, nè alcun vestigio. Indi il governo bizantino quetamente ricominciò nell'isola tutti gli abusi del romano, del quale riteneva il nome e le forme; e per un secolo intero che corse dal conquisto di Belisario al regno di Costanzo, la storia di Sicilia non ha altro fatto notabile, che la mutata natura dei legami tra l'isola e la terraferma d'Italia.
La popolazione siciliana per otto secoli avea tenuto tal consuetudine con quella dell'Italia centrale, qual se l'isola si fosse venuta a porre alle foci del Tevere: tanta era la frequenza dei negozii attenenti al governo, ai commercii, e un tempo agli studii liberali, poi alla religione; sempre e più che ogni altra cosa alla cultura delle terre. Le irruzioni degli stranieri infino a Totila nulla mutarono a questo ordine di cose; avendo l'isola con rurale docilità seguíto le sorti della terraferma, nella quale tutti i vincitori vennero a stanziare. Ma nel sesto secolo, il conquisto bizantino e il longobardo, accaduti con sì breve intervallo, scomposero que' legami. Il primo trasferì a Costantinopoli i negozii dipendenti dal governo, ch'erano molti, e importantissima tra quelli l'amministrazione dei poderi della Corona. Il secondo (a. 568-575) divise l'Italia in due parti, una dei vincitori, l'altra dell'impero bizantino; la quale si componea delle isole e di brani in terraferma frastagliati a caso come da tremuoto: la punta cioè della Penisola; alcune strisce di costiera qua e là sovr'ambo i mari; nel centro, Roma con varii pezzi di territorio infino all'Adriatico. Or la parte soggiogata dai nuovi Barbari si trovò naturalmente in guerra col governo bizantino; e più grave effetto era su l'animo d'ogni uom romano il terrore di quegli atrocissimi principii della dominazione longobarda; il macello dei maggiori cittadini, lo spogliamento delle facultà, la profanazione delle chiese, le persecuzioni e sovente il martirio degli ortodossi per man di quegli eretici ariani e dei loro ausiliari idolatri; gli ordini civili distrutti; gli abitatori degradati da ingiuriose leggi; la più parte fatti servi o poco manco. Pertanto ogni comunicazione si chiuse tra la Sicilia e le misere regioni stanza e preda dei Barbari. Al contrario mutaronsi poco o nulla i rapporti materiali della Sicilia coi paesi rimasti al nome bizantino, e i morali si strinsero ed accrebbero. E ciò intervenne per cagion dei molti Italiani che si rifuggivano nelle isole; per la fratellanza che spirava la comune oppressione di tutte le province occidentali dell'impero; e sopratutto per procaccio dei papi, che ormai aveano acquistato grandissimo séguito in Sicilia.
CAPITOLO II.
A creder le pie leggende locali, il cristianesimo ebbe precoci e splendidi principii in Sicilia. San Pietro, dicono, s'affrettò a mandarvi d'Antiochia (a. 44) i primi vescovi: Marciano a Siracusa, Pancrazio a Taormina. Vennero pochi anni appresso, Berillo a Catania, Libertino a Girgenti, Filippo a Palermo, Bacchilo a Messina. I quali tutti perseguitati e persecutori, abbattono tempii pagani, rintuzzano oracoli, uccidono dragoni; Marciano, ascoso nei laberinti sotterranei della capitale, vi compone un altare con l'effigie della Vergine ed è strangolato da' Giudei; Maria e Teja incontrano alsì il martirio a Taormina per serbar castità; e presso lor tombe s'innalza il primo monistero di donne dell'orbe cristiano. Cotesti racconti, ancorchè accettati alla rinfusa nei libri della corte di Roma, furono messi in forse pei principii del decimottavo secolo, da due grandi eruditi siciliani, Giambattista Caruso e Giovanni di Giovanni.[119] Agli argomenti loro parmi da aggiugnere, che gli Atti degli Apostoli, narrando sì minutamente il viaggio di San Paolo a Roma (a. 61 ) e com'egli fosse soprastato per tre dì a Siracusa,[120] non fan parola, secondo lor costume, di correligionarii o amici trovati in quella città; donde al certo non si confermano i fasti di San Marciano. Volgendoci a un altro ordine di critica, basta accennare che le tradizioni dette ripugnino ai fatti generali della storia ecclesiastica del primo secolo; che ci si vegga la gerarchia, non del primo ma del quinto o sesto secolo; anche passando sotto silenzio quel monastero di suore e culto d'immagini. La ignoranza poi di chi scrisse le leggende chiaro apparisce dalla poca o niuna parte che vi si dà a San Paolo, massimo propagator del vangelo nelle schiatte greca e latina.
Egli è probabile che non dall'Oriente ma da Roma venissero in Sicilia i semi del cristianesimo; nè pria delle persecuzioni di Nerone. Del rimanente si può accettare dalle leggende l'itinerario della nuova fede nell'isola, correggendovi sì la cronologia e gli episodii; perchè quel cammino non discorda dalle condizioni dei Siciliani nel primo secolo, e perchè d'altronde si sa come le agiografie contengan sempre, tra molta lega, un po' di buon metallo, e rispettino sopra ogni altra cosa la verità delle notizie geografiche. Il cristianesimo fu, in origine, l'incivilimento degli oppressi; ma non tutti gli oppressi n'erano capaci allo stesso modo. Dovea precorrere alla grossiera fede del volgo lo zelo di spiriti convinti o innamorati: e però in Sicilia quelle speculazioni metafisiche, quei peregrini principii di morale, quella tendenza d'associazione e di carità, non poteano esser compresi che nelle città; dovean trovare accoglienza tra i sottili ingegni greci, prima che nella gente latina più tenace alle realità; doveano durare grandissima fatica a penetrar quella mista e insalvatichita popolazione rurale. I pochi cristiani dell'isola, non vinta per anco la forza d'inerzia delle masse, ebbero a combattere le forze vive del principato, dell'aristocrazia e dei dotti; le quali, vedendosi ormai minacciate dalla nuova potenza che sorgea nel mondo, fecero ogni opera ad abbatterla. Indi per gran tratto del terzo secolo e nei primi anni del quarto, scorreva in Sicilia il sangue dei martiri. Si illustravano allora i nomi, rimasti sì popolari, di Agata, Lucia, Ninfa, Euplio e molti altri; Lentini, culla un tempo della rettorica greca, si rendea celebre per la eroica costanza e numero dei cristiani. Nel medesimo tempo altri discendenti de' Sicelioti si fortificavano nel culto nazionale di Cerere o di Venere Ericina, con gli argomenti di Porfirio, capitato nell'isola per osservare l'Etna e fattovisi a scrivere (verso il 270) un trattato a difesa del paganesimo. Il filosofo Probo da Lilibeo, che visse in quella età, e i molti discepoli ch'ebbe Porfirio nel suo lungo soggiorno in Sicilia, combatterono insieme con lui questa guerra neoplatonica contro il cristianesimo: e i sofismi loro tornarono vani al par che i supplizii a fronte del principio morale dei novatori. Posate le persecuzioni; succeduto alla tolleranza il favore del governo, e al favore uno impetuoso zelo, la più parte dell'isola confessava la fede di Cristo. I sanguinarii editti di Teodosio poi accrebbero per forza il numero dei proseliti; fecero chiudere gli ultimi tempii pagani; e pur non bastarono a sradicare le antiche superstizioni della popolazione rurale. Infino agli ultimi anni del sesto secolo, che appena si crederebbe, se ne scoprono le vestigia in Sicilia, come in Sardegna; poichè le epistole di San Gregorio fan parola di idolatri che il vescovo di Tindaro durasse fatica a convertire, e di schiavi pagani, comperati dai Giudei di Catania per iniziarli a lor setta.[121]
Insieme con la Chiesa Siciliana già adulta, emerse, ai tempi di Costantino, la gerarchia. Ebbe al certo origine popolare in Sicilia come per ogni luogo; ebbe stretto legame con la gerarchia di Roma per la consuetudine che passava tra i due paesi: legame di fraternità sotto la persecuzione, poi di riverenza, infine di soggezione, quando l'ordine ecclesiastico s'informò dall'ordine amministrativo dell'impero. Pertanto fin dai principii del quinto secolo veggiamo chiaramente il vescovo di Roma far da metropolitano nell'isola; consecrare i vescovi di quella; scrivere loro direttamente per gli affari di disciplina; chiamarli a sinodo a Roma; dar licenza per la dedicazione delle basiliche; delegare or uno or un altro all'esercizio di sua giurisdizione nelle cause ecclesiastiche; provvedere alla visitazione delle chiese: il quale ordinamento non fu mutato che nell'ottavo secolo, come innanzi diremo. La riverenza del vescovo di Roma in Sicilia s'accrebbe necessariamente a misura che quel s'inalzava alla supremazia ecclesiastica in Occidente, e che i conquisti dei Barbari lo rendevano protettore di tutto il clero occidentale. E la Chiesa Siciliana seguì senza contrasto tutte le dottrine e riti di Roma: fu provincia quieta ancorchè non ignorante; ausiliare fedele della metropoli, ancorchè non vi sia nato alcuno scrittore di primo ordine nè ortodosso nè eretico. Il clero non par sia stato irreprensibile; del resto non numeroso nè turbolento: pochi al certo i monaci, di regola forse basiliana; e vi si aggiunse una colonia di Benedittini a Messina, se pur v'ha questo di vero in una leggenda che ci occorrerà di esaminare nel quarto capitolo di questo libro.[122]
Ma un altro vincolo fortissimo avvinse la Sicilia al papato in quei bassi tempi; e fu la proprietà territoriale, avanzo dei vasti patrimonii acquistati dai cittadini romani tra con le arti di Marcello e di Verre, o raggranellati ora per gli sforzi d'onesta industria, or con l'usura. Non prima fu lecito alle chiese di possedere beni, che lo zelo dei nuovi convertiti, l'artifizio del clero datosi ad avviluppare le coscienze in una rete inestricabile di peccata, il baratto dei perdoni, l'assiduità al letto di morte sopra animi stemprati dalla infermità agitati da tante paure, la confusione delle opere di pietà con le opere di carità, la eloquenza e dottrina fatte retaggio esclusivo del sacerdozio; tutti questi potenti motivi, moltiplicarono le donazioni e i lasciti pii: e più dopo la occupazione dei Barbari, quando i beni mondani de' vinti divennero sì precarii e sì rinvilirono. Così furono largheggiati alle chiese italiane vasti tratti di terreno in Sicilia, che nel linguaggio dei tempi si chiamavano fondi o masse. La Chiesa di Milano nel sesto secolo possedea nell'isola un patrimonio di questa fatta;[123] un altro n'ebbe la Chiesa di Ravenna;[124] ed uno di gran lunga più dovizioso la Chiesa di Roma, che d'altronde tenea tanti altri poderi in tutta Italia e fuori. Al dir di papa Adriano I, il patrimonio di Sicilia proveniva da donazioni non meno d'imperatori che di privati. Vaste erano le possessioni e sì sparse in tutta l'isola, principalmente presso Siracusa, Catania, Milazzo, Palermo, Girgenti, che talvolta i vescovi di Roma preposero all'amministrazione due rettori che sedeano a Siracusa e a Palermo, come al tempo antico i questori nelle due province, siracusana e lilibetana. Del rimanente un autore bizantino della fine dell'ottavo secolo fa montare il ritratto in Sicilia e in Calabria a tre talenti e mezzo d'oro,[125] classica e incerta cifra statistica. I poderi, come ogni altro dell'isola, si coltivavano da conduttori e rustici, delle quali condizioni di persone tratteremo a suo luogo; notando sol qui che la Chiesa Romana riscuoteva una tassa nei matrimonii dei suoi rustici: strano transatto tra l'antica ragione che avea negato il nome di matrimonio ai congiugnimenti degli schiavi, e la nuova fede che costituivali in sacramento. Molte altre orribili avanie anco pativano i conduttori e rustici della Chiesa; avanie forse comuni a tutta la popolazione rurale della Sicilia, e per lo più aggravate dalla negligente amministrazione di mano morta, com'oggi ben si chiama.[126] Così fatti abusi furono mitigati da San Gregorio al tempo di cui dicevamo in su la fine del capitolo precedente, ed al quale convien che torni la narrazione.
La chiesa di Roma non si potea sottomettere di queto ai Longobardi, flagello della gente latina, e, oltre a ciò, incapaci ad occupare tutta la Penisola com'avean fatto i Goti. Donde, invece di piaggiare i nuovi Barbari, dovea la Chiesa far opera a scacciarli con le armi che fosse in poter suo di muovere, le bizantine cioè e le italiane; dovea rinforzare le bizantine con la riputazione sua in Italia e fuori. Sopratutto, non bastando l'impero a difendere Roma minacciata dai Longobardi e dalla fame, dovea la Chiesa salvar dassè sola la città eterna, le cui tradizioni politiche e religiose faceano aspirare il vescovo al primato in Italia e in tutta cristianità.
Così fatto intento, consigliato al paro dalle passioni e dagli interessi, ma debolmente procacciato dai papi nei primi venti anni del conquisto longobardo, par che infiammasse l'animo di San Gregorio. Uomo di illustre sangue, grande avere, illibati costumi, indole gentile inchinata alla mestizia, dotta a mo' dei tempi ancorchè nemico della letteratura classica che gli puzzava di paganesimo, facile scrittore ancorchè inelegante, pronto parlatore, posato e robusto ingegno, perseverante, saldo nei proponimenti, pieghevole nei mezzi, operoso, insinuante, sottile ricercatore dei fatti altrui, buon massaio dei denari ma non per sè stesso, caritatevole e liberale con accorgimento anzi con astuzia, destro a usare le altrui debolezze e fino gli altrui vizii, ma a buon fine; e pieno il generoso petto di giustizia, di umanità, di religione e di zelo per la Chiesa di Roma: i quali sentimenti diversi gli pareano un solo; sì che in ultimo lo zelo ecclesiastico predominò e soffocò tutti gli altri quando gli si opponeano. Gregorio, primo del nome tra i papi, santo nel calendario romano e grande nella storia, fu specchio di virtù cristiana con quelle macchie di ruggine connaturali per la umana debolezza a tal virtù, le quali crescendo in certi tempi e in certi luoghi hanno occupato e guasto tutto il terso metallo; e n'è nata la bruttura che si chiama volgarmente gesuitismo. Gregorio, pria che il pontificato lo abilitasse a mandar ad effetto il disegno politico che accennai, disperando della vittoria, volle apparecchiare, com'e' parmi, un sicuro asilo alla Chiesa ortodossa di Roma e d'Italia. La virtù delle armate bizantine e il genio dei Longobardi, alieno sempre dalle cose del mare, gli designarono a ciò la Sicilia.
Donde, lasciato appena l'uficio municipale di prefetto per cercare più certa via di potenza in un chiostro di Roma (a. 575), Gregorio fondava del proprio sette monasteri: uno in quella città e sei in Sicilia. Tal disuguaglianza di liberalità non può apporsi a capriccio. Sendo Gregorio nato a Roma, di famiglia romana e amorosissimo dei concittadini suoi che viveano in necessità e angustie spaventevoli, si è cercato di spiegare il fatto in varii modi. Altri ha imaginato ch'ei possedesse beni nell'isola, il che non pare, nè basterebbe. Altri che Silvia sua madre fosse siciliana,[127] il quale supposto è gratuito al par che insufficiente a sciogliere l'enimma. A me pare che il bandolo si trovi negli scritti di San Gregorio stesso. Non prima esaltato al pontificato, lo veggiamo provvedere con estrema sollecitudine che si raccogliessero a Messina i frati calabresi testè cacciati in Sicilia da un novello romore d'armi longobarde; i quali andavano per l'isola miseri e vagabondi.[128] Ora ognun sa che più numero assai di Italiani s'era rifuggito in Sicilia parecchi anni innanzi (a. 576), quando i Longobardi corsero le province di mezzo della Penisola; nel quale scompiglio i chierici recaron secoloro gli arredi delle chiese che poi non voleano rendere:[129] e non è mestieri di citazioni per provare quanta povertà straziasse tutti quegli esuli. Però San Gregorio non potea largire le proprie facultà in opera più caritatevole, nè più utile all'Italia e a Roma stessa, che di aprir loro un ospizio. Quella mente, in quella età, non poteva imaginare altro ospizio che il monastero. I sei che ne fondò bastavano a ricettare, se non tutti gli esuli, almeno i più degni e capaci a disciplinare e agguerrire questo nodo di frati che combattessero su i dubbii confini della religione e della politica; tenessero in Sicilia una propaganda romana contro la sede di Costantinopoli, la quale attraea le popolazioni di linguaggio greco; apparecchiassero séguito alla Chiesa di Roma, venendo alla dura estremità di riparare in Sicilia cacciata dai Barbari; e potessero in fine, secondo gli eventi, ripassare in terraferma a gridar la croce contro gli Ariani. San Gregorio mentr'era privato, com'ei pare, coltivò a questo medesimo intento l'amistà di ragguardevoli famiglie siciliane.[130]
E quand'egli, sforzato o forse secondato dallo amor dei Romani, salì alla cattedra di San Pietro, il disegno su la Sicilia si allargò, come tutti gli altri della sua mente. Non è del mio subietto discorrere di quanto momento fosse stato questo gran Romano sul secol suo con le azioni e con gli scritti; nè ricorderò la conversione di popoli lontani; la riverenza e terrore della religione aumentati; l'autorità civile arrogatasi tra per la influenza che gli usi dei tempi davano ai vescovi e per la lontananza e impotenza dell'impero bizantino; il nome della sede romana esaltato; le arti assiduamente adoperate a ciò or con animo sincero, or con malizia: la morale, cioè, la filosofia, la teologia, la disciplina e ambito del clero, la solenne liturgia, il grave canto, le leggende superstiziose; senza lasciare intentato veruno argomento che potesse scuotere l'intelletto, cattivare l'animo, illudere i sensi. L'effetto generale del pontificato di San Gregorio fu che, aspirando al primato spirituale, ei si accostò necessariamente alla dominazione temporale; dove più dove meno secondo gli ostacoli. Così a Roma e nell'Italia di mezzo il patrocinio suo con l'andare dei tempi divenne principato. Così in Sicilia l'influenza ch'ei volle esercitare ebbe men libero campo, e nondimeno lasciò tante vestigia che i papi, molti secoli appresso, con quella loro prodigiosa tenacità, si provarono a mutarla anche in signoria. L'influenza di San Gregorio in Sicilia passò al certo la più larga misura che potesse darsi al primato ecclesiastico, e si volse a due particolari intendimenti. Un fu lo antico, rincalzato ed esteso, cioè di render la Sicilia cittadella del clero italiano, nella quale il papa fosse padrone degli animi, poichè i corpi li tenea l'impero bizantino. L'altro intendimento sembra di cattar favore, perchè l'amministrazione del patrimonio papale, secondata dai governanti, dagli ottimati e dall'universale, rendesse maggior frutto, da sovvenirne largamente il popol di Roma, chè meglio si difendesse dai Longobardi e sempre più s'affezionasse ai papi.
Quanto premessero a Gregorio le cose di Sicilia si scorge dalla prima epistola che ci rimane di lui per la quale provvide a far adunare ogni anno i vescovi dell'isola a Siracusa o Catania.[131] Seguiron da presso un'altra ad amici suoi siciliani,[132] una che confortava i vescovi siciliani a mescolarsi nelle cause secolari per difendere i poveri,[133] e una che dettò profonde e diligenti riforme nell'amministrazione del patrimonio.[134] Noveransi inoltre più di dugento lettere toccanti la Sicilia, donde appariscono a chiunque i disegni suoi, e la coscienza più sollecita dei disegni che scrupolosa nei mezzi. Indi si vede che San Gregorio diè la caccia a qualche avanzo di Pagani, e allettò al cristianesimo i Manichei e gli Ebrei senza perseguitarli; anzi, quanto agli Ebrei, con una tolleranza mondana al certo, non filosofica. Più rigore usò nelle materie attenenti alla disciplina ecclesiastica; mostrando assai gelosia del patriarca di Costantinopoli; commettendo apertamente ai vescovi di tirare i popoli a passiva obbedienza verso di Roma; procacciando appo i popoli la elezione di fidati suoi alle sedi vescovili. Intese di più San Gregorio a riformare i costumi del clero secolare e regolare; nel qual capo è notevole il divieto di ammettere le donne a voti monastici avanti l'età di sessant'anni, poichè pare da più d'uno esempio che le suore giovani eran sedotte dai preti.[135] E sul punto della morale pubblica, a prendere litteralmente le parole del pontefice, l'opera sarebbe stata malagevolissima o piuttosto disperata, arrivando la corruzione al segno, com'ei diceva, di provocare il cielo a immediato sterminio della provincia: ma ce ne consola l'interesse ed uso ch'egli avea di esagerare; e ne fornisce la prova egli stesso, quando novera tra i peccati più abbominevoli i matrimonii entro il settimo grado, che due righi di dispensa or posson mutare d'incesto in sagramento. Quanto alla venalità degli officiali, San Gregorio la biasimò e la alimentò, facendo lor porgere le solite mance nei negozii del patrimonio. Con ciò patrocinava i privati appo i magistrati, largiva limosine, sovveniva questo e quello con pensioni, facea deporre il governatore Libertino che avea vietato innanzi la esaltazione sua di portar grani di Sicilia a Roma; al quale fu surrogato un Giustino, amico o ligio del papa. Più degno uso fece San Gregorio del credito che avea a corte di Costantinopoli, ricordando gli aggravii degli officiali dell'azienda imperiale in Sicilia, Sardegna e Corsica, la disperata condizione di quei popoli, e quanto errore fosse di esaurire le isole a furia di balzelli, sperando con quel danaro carico di maladizioni alimentar la guerra nella terraferma d'Italia. Infine la riforma nell'amministrazione del patrimonio papale in Sicilia va lodata di prudenza e umanità; poichè mirava ad accrescere la rendita levando a un tempo il biasimo di molestare ingiustamente i possessori vicini e di spolpare i proprii coloni. Noi ne discorreremo più partitamente trattando della condizione degli abitatori delle campagne, e diremo allora di uno errore di San Gregorio che qui vuolsi accennare. Il quale fu che, in contraddizione coi principii del cristianesimo e con le proprie azioni sue, mantenne in Sicilia la schiavitù, mentre combatteala in terraferma, e limitò la libera scelta nei matrimonii dei coloni.[136]
Tale è la somma delle cose operate da San Gregorio in Sicilia, con ambito e benevolenza; e pur con grande avvantaggio dell'isola. Ei conseguì lo effetto di trarne il danaro e il grano che aiutarono a mantenere Roma. Conseguì parimenti una smisurata riputazione in Sicilia per sè stesso e per la Chiesa di Roma; la fondazione di grande numero di monasteri col danaro dei privati, stimolati dal suo esempio; e l'aumento della dottrina e splendore della Chiesa Siciliana. In fatti, nel corso del settimo secolo i monasteri di Sicilia rivaleggiarono con quei di Roma per ricchezza, numero di frati e onore degli studii; sopratutto del canto ch'era sì in voga dopo i tempi di San Gregorio, e, com'e' pare, anco della sacra letteratura greca che in Sicilia si potea coltivare meglio che a Roma. Pertanto in quella età salivano al trono pontificale il pio Sant'Agatone (a. 678), il dotto e caritatevole San Leone II (a. 682), Conone (a. 686), Sergio (a. 687), e poi Stefano IV (768), dei quali Conone educato in Sicilia, e gli altri tutti siciliani. La Chiesa di Antiochia ebbe in quel torno due patriarchi siciliani: Teofane abate del monastero di Baya presso Siracusa (a. 681), e Costantino diacono della medesima città (a. 683).[137] Nè prima nè poi toccò alla Sicilia tanta partecipazione nei negozii della Chiesa universale. L'impulso di civiltà, chè tale era questo al certo nei bassi tempi, dato da San Gregorio, durò in Sicilia fino al tempo che l'isola, tolta alla giurisdizione del papa, ubbidì al patriarca di Costantinopoli. Ed allora il merito degli ecclesiastici siciliani si fe' strada nella nuova metropoli: onde troviamo Metodio siciliano salito a quella sede patriarcale; e Gregorio Asbesta vescovo di Siracusa, San Giuseppe Innografo e altri Siciliani, segnalarsi nelle aspre contenzioni religiose del nono secolo, sì come innanzi dirassi.
CAPITOLO III.
Mentre San Gregorio gittava le prime fondamenta della potenza temporale dei papi, un giovane pien di virtù meditava in Arabia su i principii d'una novella religione. La gente ond'ei nacque era in via d'uscire dalla barbarie. Aveva avuto, per vero, l'Arabia, in tempi remotissimi, un periodo di potenza e anco d'incivilimento. Questi s'erano sviluppati, a dispetto della natura, tra un clima ardente e un suolo penuriosissimo d'acque, sì che v'era impossibile ogni agricoltura, fuorchè in qualche lista di terreno; impossibile il soggiorno di grosse e raccolte popolazioni; negato alla più parte degli abitatori tutt'altra vita che la nomade. Donde non è maraviglia se la potenza politica si dileguasse dall'Arabia forse in tempo assai breve, come poi avvenne a quella fondata da Maometto. Dello incivilimento rimase qualche avanzo, nelle sue sedi principali: a settentrione cioè e tra ponente e mezzogiorno, ov'è più fecondo il terreno e l'Oceano tempera l'aere e agevola il commercio. Scomparvero fin anco quegli antichi popoli; dei quali altri emigrò come i Fenicii, altri decadde e menomò, altri, sterminato per violenta catastrofe, lasciò vaghe rimembranze di umana superbia, di abominazioni, di provocata vendetta del cielo.
Così durante il corso delle due civiltà greca e romana, e infino al settimo secolo dell'era volgare, l'Arabia fu poco tenuta in conto tra le nazioni. In questo periodo veggiamo nella penisola due schiatte principali. La più antica, detta di Kahtân dal vero o supposto progenitore, forse il Iectan della Bibbia, occupava le parti meridionali, ossia l'Arabia Felice degli antichi e principalmente l'angolo tra ponente e mezzodì, il Iemen, come il chiamano gli Arabi. Era schiatta mista, parlante due lingue, l'una delle quali analoga all'arabo, e l'altra no; divisa tra la vita nomade e la vita stabile: e le popolazioni stabili, dove date all'agricoltura, dove raccolte in cittadi e intese al commercio, alla navigazione, ad industrie cittadinesche; la parte più opulenta della nazione per molti secoli soggetta dove a piccioli principi, dove ad unica monarchia, in ultimo a due successive dominazioni straniere. Varie tribù erranti di cotesta schiatta, dopo soggiorno più o men durevole nell'Arabia di mezzo, come se lor indole le sforzasse ad accostarsi alla civiltà, se ne andarono verso il settentrione. Quivi fondarono due Stati: l'uno in Mesopotamia che si addimandò il reame di Hira, prima tributario, poi provincia della Persia; l'altro presso la Siria. E questo ebbe per sede Palmira; si illustrò coi nomi di Odenato e Zenobia; e, distrutta Palmira, le tribù, senza soggiornare altrimenti in grosse città, furono note sotto la appellazione di Ghassanidi: comandate alsì da un principe; soggette sempre all'impero romano, il quale occupò anche qualche città della Arabia settentrionale, Petrea, come la dissero i dominatori. L'altra gente prese il nome da Adnân, tenuto discendente di Ismaele. Più compatta della prole di Kahtân, parlava unica lingua; tenea l'ingrato e vastissimo terreno delle regioni centrali. Pastori nomadi o mercatanti di carovana, gli Ismaeliti non ubbidirono a principi; vissero nella rozza franchigia della tribù, anche que' ch'ebbero stanza ferma là dove il luogo ne concedea. Gli stranieri non s'invogliarono giammai di soggiogarli; nè essi l'avrebbero sofferto, se non che alcuna tribù riconobbe, di nome e per poco, i monarchi del Iemen, o i Persiani.
Considerati così gli abitatori dell'Arabia secondo il legnaggio, i due tronchi parranno dissimilissimi l'uno dall'altro; si comprenderà perchè si oltraggiassero a vicenda; perchè la nimistà della schiatta durasse fin sotto la potente unità dell'islamismo, fino alle remote spiagge dell'Atlantico, ove le portò insieme la vittoria. Ma se si riguardi ai costumi piuttosto che al sangue, si troveranno da una banda i soli cittadini e agricoltori del Iemen, dall'altra il rimanente di Kahtân e tutta Adnân; il grosso della nazione arabica, non ostante l'antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti ove errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe infino ai viaggiatori d'oggidì: libri sacri, poesie, istorie, romanzi, osservazioni di dotti europei. E vuolsi da noi studiare, perchè, conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
La tribù nomade, o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell'altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società non è l'individuo, ma sì la famiglia; nè risiede vera autorità che nel capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole; agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall'altrui violenza, e, quando ne recassero ad altrui, ripara il torto o affronta la vendetta. Nel numero e zelo de' suoi sta la forza del capo; la ricchezza nei servigii loro, negli utensili e negli armenti: nè è mestieri autorità di legge a mantenere insieme tal corpo.
Fuori dalla famiglia cominciano le associazioni: volontarie al tutto; ma seguon anco la parentela. Così varie famiglie fanno un circolo, come lo chiamano gli Arabi dall'uso di piantare in cerchio lor tende; al quale è preposto uno sceikh, o diremmo noi anziano, più tosto che eletto, designato senza forme di squittinio dalla riputazione della persona e importanza della famiglia; talchè l'ufizio spesso diviene ereditario per molte generazioni. È capo fittizio della parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz'arbitrio nelle cose comuni del circolo, nelle quali dee seguire il voto dei padri di famiglia. Infine lo sceikh rappresenta, come oggi direbbesi, il proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo, guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo, far guerre o leghe; sempre con l'assentimento degli sceikhi, fors'anco di altri potenti capi di famiglia. Suole altresì capitanare gli armati della tribù nelle scorrerie e zuffe; ma talvolta, e più spesso oggi che nei tempi andati, il condottiero è scelto a posta.
Tale è loro gerarchia, politica insieme e militare, chè mal si distingue appo i Beduini. Ordini civili, che meritino il nome, non ve n'ha. La forza mantiene la roba quando non vi basti il credito della famiglia; e se la forza non può, il furto divien legittimo acquisto. Un po' più efficace la guarentigia delle persone; perchè il circolo e la tribù vi si sentono tenuti in onore, e più volentieri pigliano le armi a vendicare il sangue, o contribuiscono con le facoltà a pagare il prezzo di quello ch'abbia sparso alcun de' loro. Il quale compenso, assurdo e iniquo in una civiltà, umano nella barbarie, è in uso da antichissimi tempi in Arabia, come nel medio evo in Europa, ove il portarono i nomadi del Settentrione; ma gli Arabi, men pazienti di freno che non sieno mai stati i popoli germanici, non soleano accettare il prezzo del sangue se non che esausti dopo lunga vicenda di omicidii. Le multe per omicidio, troppo gravi ad una sola famiglia, troppo fastidiose a tutta la tribù, si soglion fornire dal circolo; il quale indi si direbbe società di assicurazione scambievole nei misfatti: e può cacciar via gli uomini rotti; ond'essi rimangono senza mallevadore nè protettore, veri sbanditi.
Sembra ancora che tra la famiglia e la tribù talvolta si trovino parecchi gradi d'associazione intermediaria, per cagion della disuguaglianza grandissima che v'ha nel numero degli uomini delle tribù: chè se ne conta di poche centinaia, ovvero di migliaia, quasi popolazione d'una provincia. Il corpo politico indipendente che noi diciamo tribù, o, per prendere una similitudine molto ovvia, il ramo staccato dall'albero, si appella in arabico con nomi diversi,[138] secondo che si discosti più o meno dal tronco l'inforcatura ov'è tagliato il ramo: poichè ogni frazione di tribù consanguinea si accompagna alle altre o se ne spicca a suo piacimento nei liberi campi del deserto.
Non è mestieri aggiugnere qual divario corra tra le famiglie in punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più mal difese contro gli uomini e peggio contro i fenomeni della natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione che sta sempre in su la guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. V'ha inoltre la riputazione di nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella che noi diremmo cittadinanza si confonde con la parentela. La forma di governo della tribù torna all'aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell'ordinamento sociale. Perciò di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato.
Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori; concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorronvi stranieri, e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura che si stempera quando sta in riposo. Nondimeno sendo le armi in mano delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.
Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorchè diversi, pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo sicuro, penetrante; avviluppati la persona in ampie vestimenta, coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuffia,[139] chè da loro par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo; traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio, ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della parentela di lei; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia vieta le oneste brigate con donzelle, nè i teneri canti e i balli. Tra la libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più delicato, si comprende perchè i Beduini sentano sì altamente in poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con la frode; le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia, divorzii, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può senza pericolo; sempre le allontana da' ritrovi; cerca in vece gli stravizzi: in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati fino all'adolescenza. Son poi virtù comuni a tutta la schiatta arabica la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la perseveranza; vizii comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta, la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione alla eloquenza ed alla versificazione.
Riducendoci adesso al secolo che corse avanti la nascita di Maometto, si ponga mente a ciò, che la popolazione stanziale era meno frequente nell'Arabia di mezzo e men corrotta forse che in oggi; che la popolazione nomade vivea a un di presso nelle medesime condizioni presenti; e ch'entrambe riscoteansi insieme per quell'influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le nazioni. Lo suol rivelare al mondo il canto dei sommi poeti. Lo ravvisa la storia, nell'alacrità e brio universale d'una generazione innamorata d'ogni forma del bello; aspirante alle vie del sublime vere o false che fossero; arrivata a squarciare qua e là la ruvida scorza della barbarie che pur le resta addosso. La storia poi facendosi a spiegar così fatto commovimento non può trovar cagioni che appieno le soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora il moderno gergo di avvenimenti provvidenziali e uomini provvidenziali, or la metafora della vita umana applicata bene o male allo sviluppo dei popoli.
Varii fatti par ch'abbian portato tal periodo in Arabia. Prima operò lentamente la industria dei mercatanti, i quali soleano trasportare le derrate dell'Affrica meridionale alle ricche contrade bagnate dallo Eufrate e dal Tigri, o quelle dell'India alla Siria; in guisa che lor carovane tagliassero in croce la penisola arabica da ponente a levante e dal mare di mezzogiorno a' confini del deserto a settentrione. Andavano, com'eravi men penuria d'acqua, lungo le due catene di montagne, l'una parallela al Mare Rosso, l'altra perpendicolare che si spicca dalla prima nell'Hegiaz, provincia ove sursero la Mecca e Medina. Verso il sesto secolo, sia per la decadenza dell'impero romano, e però della navigazione nel Mare Rosso ch'era stata aumentata dai Romani, sia per le vicende delle guerre che difficultassero i traffichi in su l'Eufrate, il commercio dell'India trovò più agevole che la via dei due golfi il lungo e faticoso tragitto dell'Arabia. Si accrebbero indi i guadagni dei mercatanti dello Hegiaz, le comunicazioni con popoli più inciviliti, la popolazione e attività del paese. Da un'altra mano gli Stati arabi d'Hira e di Ghassan, intimamente uniti l'uno alla Persia, l'altro a Costantinopoli, apprendeano molte parti di civiltà; e se ne spargea qualche barlume nelle tribù dell'Arabia centrale, comunicanti con Hira e Ghassan, e anco a dirittura coi due imperii, mescolandosi talvolta nelle continue guerre di quelli. A mezzo il sesto secolo accelerossi tal movimento per le relazioni di Giustiniano con l'Abissinia, i conquisti di Cosroe Nuscirewan, e la venuta degli Abissinii nel Iemen: poi il maraviglioso progredimento materiale dello impero persiano, l'occupazione del Iemen, resero popolare in tutta l'Arabia il nome dei Sassanidi e l'ammirazione di loro possanza e civiltà. Ma da tempo più lontano varie colonie ebree avean cominciato a venire in Arabia or fuggendo la dominazione straniera, destino implacabile di lor sangue, or attirate da quel fino lor sentimento dell'utilità commerciale. Gli Ebrei recavan seco loro il genio dell'industria, i ricordi d'un antico incivilimento e le teorie d'una religione spirituale; e, contro lor costume, davan opera a far proseliti per mettere radice nel paese. Notabili anco furono i progredimenti del cristianesimo. Non portava colonie, se non che qualche mano di ostinati spinti dalle chiese ortodosse a cercare asilo in estranei paesi. Ma scuoteano gli animi fortemente quel focoso zelo dei missionarii, quei principii sì efficaci a dissodare ogni terreno inculto, e la virtù della parola di che son lodati parecchi Arabi cristiani; sopra ogni altro il vescovo Kos, vivuto alla fine del sesto secolo e passato in proverbio come il più eloquente oratore della nazione. Il cristianesimo si sparse molto più nella schiatta di Kahtân e nelle due estremità della penisola, che nel centro e presso la schiatta di Adnân.
Per tal modo nascea tra la rude aristocrazia degli Arabi una età eroica che non impropriamente si è detta di cavalleria. Cominciano ad apparire atti di magnanimità nella guerra; alcune tribù si danno giorno e luogo al combattere; cavalieri escon dalle file a singolar tenzone: nella rotta, nelle più crude nimistà, offron asilo inviolato ai vinti le tende degli stessi vincitori; spesso in vece di mettere a morte il nemico abbattuto, i forti gli tosano i capelli della fronte e lo mandan via; le compensazioni degli omicidii, dopo provato il valore, più volentieri s'accettano; è consentita una tregua di Dio in certi tempi dell'anno. E allora le tribù nemiche seggono insieme al ritrovo di Okâz e altri di minor fama, fiere annuali insieme e accademie di poesia; quivi alcuna volta i guerrieri depongono le armi presso un capo, perchè lor indole impetuosa abbia meno incitamento alle risse; e quegli, vedendo non poter evitare la rissa, la prima cosa si affretta a rendere le armi ai nemici della propria tribù. Altrove quattro valorosi fanno tra loro un giuramento di difendere gli oppressi dall'altrui violenza, senza guardare a persona; e chiamasi dai nomi loro la lega dei Fodhûl: egregio esempio imitato poscia alla Mecca. Così la forza cominciò a parteggiare pel dritto. E, maggiore progredimento, si rinunziò tal volta all'uso della forza: famiglie rivaleggianti nel principato delle tribù, anzichè correre alle armi, venivano sostenendo lor nobiltà con dicerie e versi; rimetteano il giudizio ad arbitri stranieri, come nelle corti d'amore del medio evo.
Indi si vede che insieme coi costumi più generosi apparivano gli albori della cultura intellettuale. Fa ritorno nell'Arabia centrale la scrittura, che ormai vi si tenea com'arte ignota; ma pochissimi l'apprendono; difficilmente si pratica su foglie di palma, liste di cuoio, ed ossa scapolari de' montoni; si adopera a perpetuare qualche atto pubblico, non a conservare le produzioni dell'ingegno; le quali raccomandansi tuttavia alla memoria dei raccontatori, prodigiosamente rafforzata dall'esercizio, e che parve per lunghissimo tempo più comoda e sicura che le carte scritte. Avanti questa età gli studii degli Arabi, se studio può dirsi il brancolare di barbari ciechi dell'intelletto, non erano altro che le osservazioni degli astri applicate empiricamente alla meteorologia e i ricordi delle genealogie, e geste degli eroi. A poco a poco rischiarandosi ad una medesima luce tutte le regioni intellettuali, la saviezza pratica si affinò in filosofia morale; si cercò dietro le superstizioni qualche idea astratta, fallace forse ma grande; si meditò su le origini e arcane leggi del mondo; s'intese disputare di predestinazione, di libero arbitrio; sursero scettici che rideansi dei numi di lor tribù e della vita futura; si vide il poeta guerriero Imr-el-Kais gittare in faccia all'idolo di Tebala le frecce con che gli avean fatto tirare la sorte. Ed epicureggiavano più che niun altro i poeti: donde seguì un bizzarro contrasto con la letteratura contemporanea dei Greci e Latini, i quali, non sapendo ormai cavare una scintilla di genio da' loro tesori letterarii, dettavano ponderose omelie, o scipiti inni sacri; mentre gli Arabi ignari improvvisavano poesie spiranti la indifferenza filosofica di Lucrezio e il sentimento estetico di Omero e di Pindaro. Perchè prima degli altri esercizii dell'ingegno fiorì appo di loro, come necessariamente dovea, la poesia. Ai poeti classici dell'Arabia, nati in questo tempo, non s'agguagliò nessuno delle età precedenti nè delle seguenti; nè la eccellenza dei pochi imponea silenzio ai moltissimi mediocri. Per tutte le tende suonavano in versi i vanti, così chiamarono la poesia che noi diremmo eroica, vanti di nobil sangue, di valore, di liberalità; si celebravano la bellezza, gli amori, le guerre, le cacce, le corse dei cavalli; o la satira aguzzava il pungolo contro un uomo o una gente. E cento e cento lingue andavan ripetendo i versi del poeta ch'avea il grido: i grandi lo temeano sì da comperarne a caro prezzo il silenzio o la lode; la tribù facea pubbliche feste quando saliva in fama il suo cantore: alla accademia di Okâz il poema coronato, come noi lo diremmo, si trascrive a caratteri d'oro, e si sospende alle pareti del tempio.
Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro popolo nell'arte della parola!
Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie, brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille; consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino, adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una città santa, nè il pellegrinaggio.
Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica, la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della risurrezione.
Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in ogni aspro caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era serbata nella usanza antichissima che portava le tribù al pellegrinaggio della Caaba, la quadrata, come suona tal voce; la casa di Dio, come diceano gli Arabi anco avanti lo islamismo. Vaghe tradizioni ne riferivano la riedificazione ad Abramo e ad Ismaele; la prima fondazione a niuna mano mortale, poichè il rozzo tempio scese intero dal cielo. In prova se ne mostrava, e mostrasi tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata nell'angolo orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione riferisca il vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o prodotto di eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in varii tempi alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città presso il tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono sacerdoti, sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e dettervi albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il panteon della nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del Iemen, faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi la splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per spiantare il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu esterminato lo esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che allor comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba divenne pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne fe' come capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario con le stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i Musulmani; regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione della schiatta. E vicendevolmente si ripercossero in quel centro commerciale e religioso, le opinioni che germogliavano per tutta la penisola, recate da culti stranieri: il giudaismo, cioè, e il cristianesimo dei quali ho detto; e due di assai minor momento, cioè il magismo professato da qualche tribù del Golfo Persico, e il sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e del culto de' corpi celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma par non abbia giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli avvenne che mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a loro idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero gli errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si promessero di andare per estranei paesi in traccia della vera fede d'Abramo. Le non sospette tradizioni musulmane aggiungono che que' savii in lor viaggi profondamente studiassero la Bibbia, il Vangelo, il Talmud; conversassero coi dotti delle tradizioni giudaica e cristiana: e che al fine tre di loro si facessero cristiani; l'altro tornato in patria, perseguitato come novatore, spinto in esilio, perisse dopo parecchi anni, mentre ansioso correa di nuovo alla Mecca ad ascoltar la parola di Maometto.
Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico della Mecca. Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta di Adnân; tra i quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti, mercatanti, come si vuol che significhi il nome: e certo lo meritavano per essere, più che niuna altra gente, solerti e intraprendenti nei traffichi. Un Kossai, koreiscita, impadronitosi del sacerdozio della Caaba, chiamò alla Mecca altri rami di sua tribù; cacciò o assoggettò le vecchie genti, che di allora in poi veggiamo sempre confederate o clienti di case koreiscite; e sì ridusse la potestà politica in un consiglio degli anziani koreisciti detti Sâdât, ossiano i signori;[140] aristocrazia, della quale ei si fe' capo, e come principe della città. Chiara mi sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, nè magistrati civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano cotesta anomalia. Alla morte di Kossai i discendenti di lui si contesero, e alfine si divisero l'autorità esecutiva; talchè rimaneano ereditarii in poche famiglie gli uficii pubblici: adunare il consiglio; dare i segni del comando ai capitani in caso di guerra; riscuotere una contribuzione per sussidio ai pellegrini poveri; soprantendere alla distribuzione delle acque; tener le chiavi del tempio; promulgare il calendario, cosa di grave momento, per cagion della tregua. Ma il reggimento non può dirsi oligarchia, poichè, se gli uficii eran pochi e sovente cumulati, il potere supremo risedea non in quelli ma nel consiglio. Durò tal ordine politico finchè l'islamismo non lo ridusse a municipalità. Negli ultimi anni intanto del sesto secolo, privati cittadini avean riparato al difetto delle leggi penali, nella stessa guisa che avvenne molti secoli appresso in Europa. Avendo un Koreiscita sfacciatamente preso la roba d'un mercatante straniero, parecchi generosi, e tra quelli si notava Maometto giovane di venticinque anni, s'adunarono a convito, si ingaggiarono a proteggere i deboli, cittadini o stranieri, liberi o schiavi, che ricevessero alcun torto alla Mecca da uomini di qual famiglia che si fosse. Chiamaronsi la lega dei Fodhûl, dal nome di quella più antica che ricordai di sopra: e giurarono il patto, invocando l'Iddio supremo, e libando in giro una coppa di acqua del sacro pozzo Zemzem. Questa era l'Arabia innanzi la predicazione di Maometto, ai tempi dell'ignoranza come opportunamente li nominarono i Musulmani.
Nacque Maometto (a. 570) della tribù koreiscita, della nobile progenie di Kossai per Hascem, soprannome che in lingua nostra suonerebbe Frangi-pane, e fu ricompensa data dai poveri al bisavolo del Profeta. Unico figliuolo di giovane coppia, Maometto venne al mondo dopo la morte del padre; perdè la madre a sei anni; poco appresso, l'avol paterno: rimase orfanello e povero in tutela dello zio Abu-Taleb, uomo di alto affare nella città. Secondo il costume, era stato allevato in una tribù beduina, ove si avvezzò alla dura vita del deserto; ma lo rimandarono a casa, credendolo indemoniato, per insulti di epilessia. Fe' parecchi viaggi in Siria e altrove con le carovane: e una ne condusse per conto di Khadigia, donna vedova e giovane. Avvenente e ben complesso della persona; piacevole al tratto; amato da tutti per probità, gravi costumi, saviezza e bel parlare, gli altri diergli il nome di Amîn, che noi diremmo il fidato; Khadigia invaghissene e lo sposò. Così nella tranquillità d'una mediocre fortuna e nella pace domestica, ch'ei non prese altre mogli mentr'ebbe Khadigia, visse infino ai quarant'anni, praticando le virtù che appartengono ad uom privato, amando il raccoglimento e la solitudine, senza far parlare altrimenti di sè. Non si rese chiaro nelle armi fino alla guerra civile ch'egli accese, nella quale poi non mostrossi gran capitano, e moltissimi l'avanzarono di fierezza e valor nella mischia. Da meno di tutti gli altri Koreisciti, ch'eran pure i più tristi poeti dell'Arabia, ei non fe' mai versi, non potea ripeterne senza guastarli. Vantossi di non saper leggere nè scrivere; il che non tolse ch'apprendesse le tradizioni nazionali e straniere, i principii filosofici e i libri sacri d'altri popoli, che, tra quel fermento di intelletti, gli tornavano da cento bocche diverse; tra gli altri da un parente della moglie, ch'era de' quattro ricercatori della vera religione d'Abramo.
Di quegli elementi disparati Maometto prese ciò che seppe e potè adattare ai bisogni degli Arabi. Ne compose un sistema religioso e politico, semplice, vasto, ottimo alla prova; poichè e rigenerò una nazione più prontamente che non l'abbia mai fatto altra legge, e contribuì non poco all'incivilimento d'una gran parte del genere umano, e si regge tuttavia, nè par disposto a morire. Il disegno di tal religione potrebbe adombrarsi in questo modo. Tolti da' Giudei e dai Cristiani e racconci un po' all'arabica i dommi cardinali: Dio uno, senza compagni, senza nè genitori nè figliuoli, vivente, eterno, immateriale, onnipossente; creazione; gradazione di esseri ragionevoli, angioli, demonii, genii, uomini; vita futura; giudizio universale; premio ai credenti e virtuosi di soggiornare in eterno in giardini lieti d'acque e di frutta, con modeste donzelle dagli occhi negri; supplizio agli empii il fuoco sempiterno; predestinata da Dio ogni cosa, fin chi crederebbe e chi no; ciò non ostante, come per divin trastullo, messi gli uomini tra la tentazione perpetua di Satan, e la voce dei profeti; profeti o apostoli tutti que' dell'antico testamento e Gesù Cristo; rivelati il Pentateuco e il Vangelo; ultimo e massimo apostolo Maometto; l'ultima edizione de' comandi del Creatore scritta ab eterno; recitata a brani dall'angiolo Gabriele all'apostolo illitterato, il quale venia ripetendo la rivelazione, e sì chiamolla Korân, ossia lettura. Primissimo dovere degli uomini verso Dio, la fede, anzi l'assoluto abbandono in lui; che ciò significa islâm, e indi son detti musulmani i credenti, ossia abbandonati in Dio: idea cristiana sotto nuovo nome. Il culto tra giudeo ed arabo: frequenti preghiere, pellegrinaggio alla Mecca, digiuni, con una lunga appendice di purificazioni da osservarsi e impurità da scansarsi; raccomandandosi alla coscienza di ciascuno le pratiche private, le pubbliche alla scambievole vigilanza de' cittadini. Perchè non si istituì alcun ordine sacerdotale; le preghiere in comune principiavansi dal capo politico o da ogni altro Musulmano; così anche le concioni o sermoni pubblici; e gli stessi teologi che nacquero ne' tempi posteriori non furono sacerdoti; i dervis e altre fraterie non altro che accattoni e moderni. Chiamati i fedeli a servir su la terra l'Onnipossente con la borsa e con la spada, pagando la decima e combattendo i miscredenti: l'uno statuto giudaico; l'altro effetto d'uno intendimento politico e della universale intolleranza dell'età. Precetti divini anco erano i doveri degli uomini tra di loro, dettati con forma e severità giudaica, ma ispirati dalla carità cristiana. Infatti viene innanzi ogni altro e secondo solo alla fede, espresso e positivo obbligo la limosina. La fratellanza tra i Musulmani, il rispetto delle persone e delle proprietà: donde un abbozzo di codice civile e penale, che ridusse a legge certa, universale, applicabile dall'autorità pubblica, molte male osservate costumanze degli Arabi; e sopra ogni altra la pena degli omicidii. Con ciò il Profeta correggeva, ora per espresso divieto ora per consiglio, i vizii più flagranti della società arabica: maledetto il parricidio delle bambine; proscritti l'usura, il vino, il gioco; la poligamia limitata; dati diritti di non lieve momento alle donne; la schiavitù non abolita ma mitigata e menomata, consigliandosi, e in molti casi comandandosi, la emancipazione. Da ogni parte si vede, quando si risguardi all'ordinamento sociale, come i costumi legassero le mani al legislatore, troppo superiore, non che alla sua nazione, ma al suo secolo. Per lo contrario, quell'altissimo ingegno non bastò ad improvvisare un dritto pubblico. Degli ordini politici ei non lesse altro in cielo che la uguaglianza dei cittadini tra loro e l'obbligo di ubbidire ciecamente a lui solo: principii stranieri entrambi, fecondi dapprima; e poi l'uno svanì, l'altro portò alla assurdità d'un governo assoluto senza legislatore. Questa è la somma della nuova legge. La prova dell'autorità non potendo venir che di lassù, Maometto con molta arte ne compose una sembianza. A dimostrazione del suo dio allegò e ripetè senza stancarsi quanti sapesse dei miracoli giudei e cristiani, i terrori delle tradizioni e fenomeni dell'Arabia, la bellezza del creato, la pioggia, la vegetazione, la vita, ogni beneficio che vien dalla natura, ogni mistero che l'uomo non può spiegare. In attestato della propria missione portò un sol prodigio: il divino stile, diceva egli, del Corano, che intelletto d'uomo non sarebbe arrivato giammai a comporre: e sì sfidava i miscredenti a imitarne una sola pagina. Infatti quei che noi diciamo versi del Corano ei chiamò aiât ossia miracoli. Gli altri prodigii che sogliono attribuire a Maometto i Musulmani, e, più di loro, i Cristiani, nè egli mai li vantò, nè entrano nella credenza di lor teologi: sono invenzioni di tempi più bassi e di altre nazioni; sopratutto dei Persiani che portavano nello islamismo lor fantasie indo-germaniche.
Le istituzioni musulmane, come ognun sa, furono dettate a poco a poco, abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli Arabi si beveano d'aver sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile, capriccioso ed eterno. Deriva la legge da due fonti: il Corano e la tradizione, ossia le pratiche e parole di Maometto, notate dai discepoli, delle quali noi abbiamo ricordi autentici e diligenti più che non si possa aspettare in leggende religiose; emergendo non dalle tenebre di una setta e d'una antichità remota, ma dalla storia di pochi anni di persecuzione, che si voltò in trionfo vivendo i persecutori e i perseguitati e ridivenuti fratelli. Quell'ampia raccolta, ci attesta forse meglio che il Corano la sagacità, prudenza, umanità, bontà e saviezza pratica del legislatore: ed è stata guida dei Musulmani a private e pubbliche virtù. Il Corano, assai più studiato, racchiude confusamente dommi, leggi generali, provvedimenti secondo i casi, assiomi, parabole, e gli antichi racconti religiosi ai quali accennai disopra, guasti per lo più da fallace memoria o presi a sorgenti apocrife; e ciò tra ripetizioni, contraddizioni, declamazioni; in stile vario, spezzato, incisivo, per lo più sublime, talvolta monotono: un tutto incantevole agli uditori suoi, per la proprietà e maneggio della lingua; e può ammirarsi anco da noi ancorchè non di rado vi si desiderino l'accento, il gesto, le attualità che doveano rendere sì efficaci quelle parole. Ma il prestigio che le rendeva più efficaci era al certo l'universale movimento degli animi in Arabia; era l'ebbrezza che spirano le idee dell'eterno e dell'infinito assaggiate per la prima volta; era quel lampo di giustizia che splendeva agli occhi degli uomini; il naturale amor della uguaglianza improvvisamente soddisfatto; l'usura abolita; l'assistenza reciproca sì efficacemente comandata; la gratitudine dei deboli confortati; l'impeto della democrazia sorgente sotto il nome del principato teocratico; il vasto campo che s'apriva anco alle ambizioni dei grandi. Seguendo il cammino di quella fiamma che si apprese a poco a poco e poi scoppiò in incendio, si vede come le dessero alimento a volta a volta il sentimento religioso, il sociale e il nazionale, poi tutti e tre uniti insieme.
Il Profeta incominciò a provarsi in casa. Supposta dapprima (gennaio 611) una visione dell'angiolo Gabriele, dissene alla moglie che gliene credette; poi ad Alî cugin suo, fanciullo di undici anni; a Zeid liberto e figliuolo adottivo; e, in quarto, a quegli che fu dopo lui il principale sostegno dell'islamismo, Abu-Bekr, personaggio di grandissima saviezza. Allargandosi e prendendo forma, la nuova religione fu derisa; e Maometto non se ne mosse: Cercò d'attirarsi i plebei, poichè i grandi lo spregiavano. Desta la tarda gelosia del politeismo, insospettita la nobiltà contro il novatore, fecero opera a screditarlo; poi a vicenda lo minacciarono e vollero attirarselo con promesse; gli fecero mille oltraggi; poser le mani addosso ai seguaci più deboli; costrinserli a spatriare. Maometto ciò nondimeno perseverava con mirabilissima costanza, coraggio e mansuetudine; affidando la pericolante vita all'onor della parentela, la quale non lo abbandonò ancor che fosse, la più parte, idolatra. Per virtù di quell'unico legame della società arabica, poteron anco rimanere alla Mecca pochi altri proseliti di nome. Dopo undici anni, crescendo sempre i convertiti tra le persecuzioni, Maometto si attirò cittadini di Iathrib che poi fu detta Medina; e mutò l'apostolato in congiura contro la patria. Allora gli ottimati della Mecca, posposto ogni rispetto, vollero spegnere il capo; e non potendolo fare con le leggi, chè non ve n'erano, ogni casa patrizia mandò il suo sicario per render comune il misfatto, e impossibile la vendetta della casa di Hascem. Ma i costumi posero nuovo ostacolo non preveduto: la schiera dei sicarii non osò violare l'asilo domestico del proscritto; si appostò fuori la notte: ed egli accorgendosene fuggì.
La qual notte ebbero principio un pontificato, un impero ed un'era. Questa si messe in uso diciassette anni appresso; quando, tra gli ordini che si istituivano appo i Musulmani ad esempio delle nazioni incivilite, parve fissare data comune agli atti pubblici, smettendo le epoche diverse osservate in alcune parti dell'Arabia. L'occasione è variamente riferita dai cronisti. Secondo alcuni la diè Abu-Musa-el-Ascia'ri governator di Bassora, lagnandosi con Omar califo, che gli avesse scritto lettere senza data. Mohammed-ibn-Sirîn, citato da Ibn-el-Athîr, narra in vece che un Arabo appresentatosi ad Omar gli dicesse: “Convien porre le date.” “E che è cotesto?” domandò Omar; e quegli: “È una usanza dei Barbari, i quali scrivono: tal mese e tal anno”. “Mi piace,” replicò il califo: “ponghiamo dunque le date.” Onde, convocata la dieta dei Musulmani, si disputò se fosse da prendere l'era di Alessandria, o l'usanza dei Persiani che notavano gli anni di ciascun re; ovvero far capo dalla missione di Maometto; o infine dalla hegira di lui, la emigrazione cioè, la Separazione solenne, l'atto d'un uomo libero che ripudia la società in cui sia vissuto. Fu vinto il partito della hegira, e sanzionato da Omar; il quale contemplò quello evento come divisione di due epoche: l'una d'errore, l'altra di verità. Nondimeno si contò non dal giorno della fuga, ma dal principio dell'anno in cui avvenne lasciandosi il calendario come stava, cioè l'ordine antico dei mesi, e lunare il periodo dell'anno, come per ignoranza lo volle Maometto.[141]
Fuggissi il Profeta a Medina (622); adunò i discepoli; maneggiò gli antichi e i nuovi da savio capo di parte; li infiammò, promettendo bottino e paradiso; combattè con varia fortuna; vincitore usò verso i nemici il più sovente con magnanimità; rade volte inflessibile, rade volte assentì o comandò assassinii; fu sempre giustissimo coi suoi partigiani; nè acquistò mai per sè stesso, ma per loro. Alfine traendo mezz'Arabia sotto le insegne sue, gittò via la maschera o forse il sincero proponimento della tolleranza che già gli era parsa sì bella, quando i politeisti il perseguitavano, e i Giudei si collegavano con essolui. E allora la repubblica aristocratica della Mecca piegossi a patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco appresso a salutarlo principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la Caaba dei trecensessanta idoli, per renderla al culto del Dio uno (a. 630). Le tribù beduine, le città del Iemen, tutti gli Arabi fuorchè i cristiani di Hira e di Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri, credettero, accettarono per interesse, o per forza si sottomessero; abbattuti per ogni luogo i simulacri delle antiche divinità; sforzati a tacersi, o a celebrare il Vincitore, i poeti che l'aveano nimicato sì gagliardamente; accettati i luogotenenti suoi nelle province: la nazione divenne una, e riconobbe un sol capo.
Questi intanto aspirava a cose maggiori. La religione rivelata dal creatore del mondo non potea limitarsi a un sol popolo, e il popolo arabo non potea restare in pace tra sè quando non portasse la guerra in casa altrui. Pertanto il Profeta non avea mai fatto eccezione di genti nè di luoghi alla legge di combattere gli infedeli tanto che si convertissero o pagassero tributo. Quando gli parve certa la sottomissione dell'Arabia, e prima anco di entrare alla Mecca, osò mandare messaggi ai potenti della terra, richiedendoli di far professione dell'islamismo. Dei quali il re di Persia, che si tenea signor feudale dell'Arabia, lacerò le insolenti lettere; il che intendendo Maometto, sclamava: “E così Dio laceri il suo reame:” e a capo di dieci anni i Musulmani il fecero. Il re d'Abissinia non parve ostile. Nè anco il maggior principe di cristianità, Eraclio, che sedea sul trono di Costantinopoli; il quale onorò l'ambasciatore, e lietamente udì la rivoluzione che s'operava in Arabia e tornava a danno immediato dei Persiani. Pur egli si trovò esposto il primo agli assalti de' Musulmani, poichè i suoi vassalli di Hira uccideano un altro legato di Maometto, e questi immantinente mandava a farne vendetta. Ancorchè oppressi dal numero alla battaglia di Muta (a. 629), gli Arabi addimostrarono in quello scontro la virtù che dovea soggiogar tanta parte del mondo. Ucciso il capitano, dà di piglio alla bandiera Gia'far fratello di Alî; gli è tronco un braccio, ed ei la passa all'altra mano; mozzatagli anco questa, stringesi l'insegna al petto coi moncherini, finchè spirò trafitto di cinquanta ferite: nessuna a tergo. E fu rinnalzato il vessillo da un altro guerriero; e ricondusse a Medina i gloriosi avanzi della strage.
Venuto a morte Maometto (giugno 632), mentre apprestava nuovo esercito a vendicare la sconfitta di Muta, lasciò lo Stato in sommo pericolo. Accesa la guerra esterna; falsi profeti sorgeano per ogni luogo; le tribù nomadi ricusavano le decime, e scioglieansi dal novello freno; la nobiltà cittadina vogliosa di ridividere l'Arabia in cento e cento republichette; i discepoli dell'islamismo non scevri d'ambizione, sospetti, e gare di parte: e, tra tutto ciò, non sapeasi chi dovesse prender lo Stato; perchè o una frode domestica occultò il pensiero del Profeta, o egli differì troppo a manifestarlo, ovvero, e ciò mi pare più probabile, volle seppellir seco la profezia, e lasciare il principato alla elezione, come portavano i costumi degli Arabi. Ma lasciò anco il Profeta una generazione d'uomini che potea trionfare di questi e di maggiori ostacoli. Maometto avea maturato in veraci virtù i capricci cavallereschi della nazione. Mentre allettava la comune degli uomini coi vili beni di questo mondo e gli imaginarii godimenti dell'altro, avea spirato agli animi più puri lo zelo della verità morale; ai più malinconici la fede; agli uni e agli altri una stoica abnegazione; a tutti l'amor della patria; chè patria ed islamismo furono per gli Arabi di quel tempo una sola idea. Io non dirò altrimenti della magnanimità di tanti compagni del Profeta, perch'è nota a tutti, e i nomi di Abu-Bekr, Omar, Alî, Khâled, Sa'd-ibn-abi-Wakkas agguaglian forse que' degli Aristidi, de' Cincinnati e degli Scipioni. De' sentimenti che prevaleano in tutta la nazione voglio addurre uno esempio solo; e son le parole d'un Beduino, diligentemente conservate dalla tradizione, e trascritte da Tabari, che fu il primo che dettasse gli annali dell'islamismo. Tre anni appresso la morte del Profeta, trentamila Arabi afforzandosi con sapienti mosse tra i canali dell'Eufrate inferiore, fronteggiavano centomila Persiani condotti dal più sperimentato capitano della Persia. Avanti di venire alla decisiva battaglia di Cadesia, aveano gli Arabi mandato oratori a Iezdegerd ultimo re sassanida: il quale, sentendo parlar da conquistatori que' ch'era avvezzo a risguardar come vassalli, sdegnosamente li domandò qual delirio spingesse gli Arabi a provocare le armi della Persia; gli Arabi, dicea, poveri e divisi e ignoranti e barbari più che niun altro popolo della terra. Se disperata miseria li faceva uscir da' deserti, aggiunse il re, ei li soccorrerebbe di vitto e di vestimento, lor darebbe alcun governatore pien di bontà. A che tacendo gli altri per antica riverenza, un Beduino, Mogheira per nome, così parlò: “È proprio di gentiluomo, gli disse, rispettare la nobiltà del sangue in altrui: e sappi, o re, che tal riguardo solo, non rossore, non paura, fa sì dubbiosi al risponderti cotesti compagni miei, che son nati delle case più illustri dell'Arabia. Ma esporrò io ciò ch'essi tacciono. Dicevi il vero, o re, poveri fummo, se poveri mai v'ebbe al mondo: giacevamo su la ignuda terra; vestivamo pel di cameli e lane, filati da noi stessi; la fame ci portò sovente a mangiar le cavallette e i rettili del deserto; perchè le figliuole non scemassero il cibo ai maschi, i padri vive le seppelliano. Idolatri e ignoranti, ci scannavamo l'un l'altro: e questa era la religione nostra. Quando, mosso a pietà, Iddio ci mandò un profeta, uom noto, di famiglia notissima, di tribù ch'è la prima tra gli Arabi. Ei ci guidò alla vera religione, e noi credemmo finchè Iddio non gli diè ragione con illuminare le nostre menti. Ed ora che seguiamo i comandamenti di Dio, siam popol nuovo; siam diversi da quegli Arabi di pria: lo sappia il mondo! Chiamate gli uomini al mio culto, ci ha detto Iddio: chi assente, avrà i vostri dritti e doveri; sopra cui ricusa ponete un tributo; se il dà, proteggetelo; se no, combattete contr'esso: e a' vostri morti in battaglia è serbato il paradiso, ai sopravviventi la vittoria. Scegli dunque, o re: paga il tributo con umiltà, o t'apparecchia a combattere.”
Pria che la nazione potesse levarsi a tant'orgoglio, ebbe a sostenere la breve ma durissima prova, alla quale accennai, e che fu vinta dai valorosi compagni del Profeta; indi riveriti a ragione come santi dell'islamismo. Prevengon essi la guerra civile con senno non minor che l'ardire; esaltano al sommo uficio Abu-Bekr: e questi con potente mano ridusse alla unità politica e religiosa le tribù e cittadi che tentavano di spiccarsene; e sì unite, tra per amore e per forza, pria che potessero pensare ad altre novità, lanciolle sopra i due imperi bizantino e sassanida, e le inebriò di vittorie (632-634). Abu-Bekr designò a successore Omar, che mantenne l'unità; diè principio agli ordini pubblici; estese i conquisti (634-644), e nominò alla sua morte sei elettori, i quali scelsero Othman. Sotto costui il corso delle armi musulmane non si frenò perchè non si potea: la pace interna fu distrutta; ed egli espiò col sangue la parte ch'ebbe a tale scompiglio. Succedeagli Alî per elezione fieramente contrastata, onde divampò quella guerra civile che esaltava al trono Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, capitano dell'esercito di Siria, e rendeva ereditario il principato in casa Omeiade. Ripigliavasi allora la guerra straniera, sospesa alquanto per cagion della guerra civile: i limiti dell'impero estesi entro dieci anni dopo la morte di Maometto infino alla Persia, alla Siria e all'Egitto, arrivarono, entro un secolo, allo stretto di Gibilterra dalla parte di ponente; dalla parte di settentrione e di levante alla Tartaria e alla valle dell'Indo. Ma pria di discorrere per qual modo quelle terribili armi incominciassero a infestare la Sicilia, è mestieri particolareggiare le mutazioni politiche e sociali che lo islamismo portò nella nazione arabica.[142]
Il Profeta, fatto principe, non volle o non potè rendere gli uomini uguali in società, com'eranlo per natura, diceva egli, al par dei denti d'un pettine, senza distinzione di re nè di vassalli.[143] Lasciò le donne inferiori nei dritti civili; gli schiavi affidati alla carità religiosa più tosto che a leggi espresse: e quanto agli infedeli non è uopo dire che li volle sudditi dei credenti. Ma tra i Musulmani liberi pose uguaglianza assoluta: la nobiltà, che avea governato gli Arabi da tempi immemorabili e contrastato il Profeta finchè potè, non ebbe dritti, non ebbe nome nella legge. I congiunti di Maometto, a pro dei quali parrebbe fatta un'eccezione, furon chiamati soltanto a partecipare insieme con lui, con gli orfanelli, co' poveri e coi viandanti, alla quinta parte del bottino; risguardati perciò piuttosto indigenti privilegiati che ottimati della nazione. Morto poi Maometto, e tenuto lo Stato per dodici anni da Abu-Bekr e Omar, intrinsechi e vecchi compagni che appieno conosceano i suoi intendimenti e con somma religione li applicarono e svilupparono, la nobiltà li ebbe inflessibili avversarii. Abu-Bekr, quanto il potè in un brevissimo regno e agitato, volle scompartire ogni acquisto della repubblica musulmana a parti uguali tra' credenti. Omar tenne altro modo. I conquisti della Persia, della Siria e dell'Egitto gli dierono abilità a far uno ordinamento più regolare e vasto d'assai; nel quale ebbe a scorta gli uficii d'azienda sassanidi e romani, e per sorte da dividere le immense entrate delle città datesi a patti, che intere cadeano nell'erario pubblico, non toccando ai combattenti altro che quattro quinti della preda fatta con la spada alla mano. Fe' descrivere dunque Omar, l'anno quindici dell'egira (636), nei registri o divani, come li chiamarono con voce persiana, da una parte le entrate pubbliche, dall'altra tutti i Musulmani. L'ordine della lista fu che la schiatta di Adnân, donde nacque il Profeta, fosse posta innanzi la schiatta di Kahtân; e nella prima i Koreisciti innanzi le altre tribù; e la casa di Hascem innanzi tutt'altra dei Koreisciti; senza eccezione, a favor del principe, il quale fattisi mostrare i ruoli che aveano steso, e trovandovisi il primo, “Non questo, disse, non questo io vi comandava: mettete Omar là dove Iddio l'ha messo.” Così la sua e le altre famiglie koreiscite preser grado secondo la consanguineità che legavale a quella del Profeta; il rimanente delle tribù e parentele di Adnân, secondo l'anteriorità nel professare l'islamismo; e lo stesso nelle tribù di Kahtân. Tutti parteciparono delle entrate pubbliche, patrimonio comune dei Musulmani, secondo i precetti di Maometto, che poi rimasero lettera morta ne' libri di dritto, ma rigorosamente osservaronsi in quei primi tempi in una società democratica e piena di fervore religioso. Inoltre è da considerare che sotto i califfi Abbassidi, e fors'anco prima sotto gli Omeiadi, noverandosi la popolazione musulmana a milioni, e sendo sparsa su la metà del mondo conosciuto, i divani divennero necessariamente ruoli di milizie e di impiegati, retribuiti più o meno a piacer del padrone. Ma sotto Omar, potendo tuttavia contarsi i Musulmani a migliaia, tutti Arabi e soldati dell'islâm o famiglie de' soldati, il precetto con men difficoltà mandossi ad esecuzione. Ognuno ebbe dunque in sorte una provvisione sul tesoro pubblico, ma disuguale, variando la somma in ragion composta del merito religioso, e dei bisogni e valore di ciascuno. Alle vedove del Profeta, madri dei Credenti, come le chiamavano, diè Omar dodicimila o diecimila dirhem[144] all'anno; settemila ne toccò Abbâs zio di Maometto; cinquemila ciascun fuggitivo della Mecca che avesse combattuto alla giornata di Bedr, la prima vinta da' Musulmani; quattromila il rimanente dei soldati di Bedr; e scendeasi gradatamente secondo l'anzianità nel servigio militare, con la sola eccezione che si ragionava sempre la quota del cavaliere più che quella del fante, e davasi un caposoldo ai più valorosi. Quanto agli uomini di Kahtân che sì virtuosamente combatteano allora in Siria, ebbero, come meno anziani in islamismo, duemila, mille, cinquecento, e fino a trecento dirhem. Alle donne furono assegnate pensioni proporzionali a quelle dei capi di lor famiglie, da cinquecento dirhem che n'ebbero quelle de' guerrieri di Bedr, infino a dugento. Alle altre donne e a tutti i fanciulli, e infine anco ai lattanti, cento dirhem. Gli schiavi non furono esclusi. Omar non volle per sè che il parco mantenimento suo e della famiglia: domandollo ai cittadini con dir che un tempo avea fatto il mercatante, ma avea dovuto smettere per amor dei negozii pubblici; e ottenuta la provvisione, fieramente si adirò una volta che gli amici tramarono di accrescergliela. Ma verso gli altri fu prodigo sì che non lasciò mai un obolo nel tesoro; e consigliato di serbar qualche somma per lo avvenire: “No” rispose; “sarebbe una tentazione pei miei successori.” Il valsente delle pensioni si diè ai poveri in derrate, ritraendosi che nelle alte regioni dell'Arabia centrale fu dispensata da principio una porzione di vittovaglie a ciascuno; poi due misure di farina ogni mese, quanto Omar avea ragionato il bisogno d'un uomo, facendo nudrire sessanta poveri per certo spazio di tempo. Crescendo alfine la liberalità del governo, e la delicatezza d'un popolo che pochi anni innanzi s'era cibato ed or è tornato a cibarsi di datteri e cavallette, si diè pane in luogo di farina; poi del pane condito con olio; poi vi si aggiunse un pezzo di cacio; poi si fornirono due pasti al dì: mattina e sera.[145] Così fatti particolari non mi sono sembrati indegni della storia, nè sì minuti che non meritassero luogo in un abbozzo di quadro generale, perchè valgon meglio che i giudizii degli scrittori a mostrare il súbito e maraviglioso mutamento della società arabica in quel tempo, e la prima forma che prese. Fu democrazia sociale come oggi si direbbe, la quale forma ben rispondeva ai principii fondamentali dell'islamismo: uguaglianza, e fratellanza. E si vide, con esempio avventuratamente raro nel mondo, un popolo re nudrito per tutti i deserti dell'Arabia a spese dei vinti, come l'altro popolo re l'era stato entro le mura di Roma.
Pur nascea, come ognuno se ne accorge, insieme con la novella società una gerarchia di merito civile e religioso e una disuguale partecipazione nei comodi della repubblica; le quali condizioni cominciarono a costituire nuov'ordine di ottimati, naturalmente opposto all'antica nobiltà. Omar, tra per necessità e disegno, diè un altro crollo all'antica nobiltà, mutando alquanto le associazioni per la guarentigia del sangue, prima base della società arabica; poichè volle che si tenessero per mallevadori, akila come diceano gli Arabi, non più gli uomini di una medesima parentela esclusivamente, ma gli ascritti nel medesimo divano, i quali erano ormai diversi dai primi, quando parte di molte tribù era rimasa in patria, l'altra stanziava con l'esercito nei paesi vinti, e spesso componeasi d'uomini raggranellati di varie genti.
Nondimeno l'elemento primitivo della società arabica trionfò del silenzio di Maometto e dei divani di Omar. Impossibil era di spezzare a un tratto gli antichissimi legami delle parentele; impossibile di condurre gli Arabi alla guerra altrimenti che per tribù; impossibile di dar loro capi appartenenti ad altre famiglie, fuorchè il condottiero supremo dell'esercito. Le brigate dunque, i reggimenti, i battaglioni, le compagnie, a modo nostro di dire, rimasero ordinate per parentele con poche eccezioni; capitanaronle gli antichi nobili: e tra sì rapidi conquisti il bottino accrebbe l'avere delle famiglie; i convertiti stranieri ne accrebbero il numero, ponendosi sotto la protezione degli uomini di maggior séguito, e divenendo clienti, o come gli Arabi diceano, maula. Così la nobiltà crescendo di potenza per cagion della guerra, più prestamente che non diminuisse per l'ordinamento delle pensioni d'Omar, ruppe, poco appresso la costui morte, il freno della legge. L'antagonismo delle schiatte aiutò il movimento; poichè i figli di Kahtân rifatti guerrieri e prevalenti di numero nell'esercito di Siria, non vollero restar da meno nel grado sociale e nella distribuzione dei premii. Fu offerta loro la occasione da M'oâwia capo della casa Omeiade, il quale capitanava quell'esercito e per comunanza di sangue e d'interessi trovava partigiani tra l'antica nobiltà della schiatta di Adnân, mentre l'ambizione lo piegava a favorire la rivale stirpe di Kahtân. Di cotesti elementi nacque una fazione che contese il poter dello Stato alla famiglia ed a' compagni del Profeta, che è a dire al novello ordine di ottimati religiosi. Cominciò la lotta in corte appo Othman, che fu ucciso dai nuovi ottimati, perch'ei favoriva la parte di Mo'âwia. Esaltato da loro Alî, gli Omeiadi vennero alle armi; trionfarono degli avversarii che erano divisi tra loro per le pretensioni della casa d'Alî; e così fu reso ereditario il principato in casa Omeiade. Cotesta rivoluzione scompose l'ordinamento degli ottimati religiosi, e in breve tempo li ridusse a meri dottori in legge; dal quale grado inferiore dopo due secoli tentarono di risorgere i discepoli loro. Da un'altra mano mentre combattean le due aristocrazie, la democrazia surse impetuosa contro di entrambe, ma penò tre secoli a vincere e non potè usar la vittoria. Io terrò discorso a luogo più opportuno di cotesti partigiani della ragione contro l'autorità religiosa e politica. Similmente aspetterò che occorra negli avvenimenti la influenza politica dei giuristi, per descriverne i motivi e i limiti. Per ora basti all'argomento nostro di notare le tre divisioni ch'erano nate nella società musulmana, le quali tendeano all'aristocrazia religiosa, all'aristocrazia militare, e alla democrazia; mentre il principato correva in fretta verso la tirannide.
L'autorità dei primi successori di Maometto, sendo quella medesima del Profeta, senza la profezia, restò molto indeterminata. Solamente si sentiva alla grossa, che i Musulmani non apparteneano ad alcun uomo, ancorchè dovessero ubbidire a un capo per lo comun bene spirituale e temporale: cioè che componeano una repubblica sotto un supremo magistrato che tenesse insieme del pontefice e del capo di tribù. Questa par sia stata la mente di Abu-Bekr e di Omar, quando, lasciate da canto le appellazioni degli antichi re arabi e stranieri, si chiamarono con nuovi nomi, l'uno Khalîfa (ch'è a dir successore) dell'Apostol di Dio, e l'altro anco Emir-el-Mumenîn, ossia Comandator dei Credenti. Elettivo, come s'è detto, il califo, vivea frugale quanto i più poveri Musulmani, del proprio o di uno stipendiuccio; senza lista civile; senza fasto; senza guardie: arringava il popolo; sopportava paziente le rimostranze degli infimi come dei grandi; consultavasi d'ogni provvedimento con gli altri compagni del Profeta, depositarii dei detti di quello, e però di tutte le scintille dell'eterna sapienza, che non fosse piaciuto a Dio di manifestar nel Corano. Così praticossi per dodici anni dalla morte di Maometto a quella di Omar, tra que' primi fervori del movimento religioso e nazionale: e molti savii ordini si fecero fuorchè designare i limiti legali di un potere esercitato con tanta civil modestia. Ma quando tal dichiarazione fu consigliata dalle divisioni che cominciavano ad agitare la repubblica; quando gli elettori deputati da Omar moribondo proposero patti fondamentali ad Alî, e, vedendoli rigettare da lui, esaltarono al califfato Othman che li accettava, allora non era più tempo a porre freno all'autorità. Le fazioni, pigliate le armi, spinsero necessariamente i proprii capi al potere assoluto: la nascente libertà degli Arabi perì tra le guerre civili, al par che quella di Roma e tant'altre; oppressa dall'esercito della fazione vincitrice, come lo sarebbe stata da quel della fazione vinta, se a lui fosse toccata la vittoria. Reso dunque il califato ereditario in casa Omeiade, il doge divenne czar. Una sola guarentigia restò, cioè che il califo non potea mutare le leggi, venendo quelle dal cielo, e non essendone permessa altra interpretazione che la dottrinale. Ma ognuno intende quanto debole e precario ritegno fosse la voce da' dotti ad un principe riconosciuto da loro medesimi, come conservator della fede e arbitro delle forze dello Stato. D'altronde la immobilità teocratica della legge nocque molto più che non giovasse ai Musulmani, perchè attraversò le riforme fondamentali divenute necessarie per la mutazione dei tempi e per la vastità del territorio; e fece che tante ribellioni, tanto sangue sparso, non portassero altro frutto che di tor via le persone dei governanti, senza correggere il dispotismo che li rendea sì tristi.
Venendo in ultimo a considerare il momento militare dei conquistatori, si vedran le tribù ordinate alla guerra ed esercitate fin da tempo immemorabile: avvezzi da fanciulli a maneggiare armi e cavalli, usi a condurre cameli, caricar bagaglio, mutare il campo, affrontare pericoli, ubbidire ai capi nelle mosse e zuffe, andare a torme, schiere, drappelli, secondo le suddivisioni della tribù; e i capi a computare sottilmente le distanze de' luoghi, riconoscere o indovinare il terreno, disegnare colpi di mano, agguati, ritirate, in vastissimi tratti di paese. Indi pratica di strategia nei condottieri, disciplina nei soldati: che, tra tanta ignoranza e licenza, appena si crederebbe. Indi le prime battaglie degli Arabi contro Persiani e Bizantini, sì superiori ad essi di numero, furono vinte meno per non curanza della morte e furia a menar le mani, che per la rapidità e precisione delle mosse; per le schiere compatte, spedite a rannodarsi o combattere spicciolate; pei complicati disegni di guerra mandati ad effetto con agevolezza; per l'arte, presto appresa, di afforzarsi ne' luoghi opportuni ed a tempo ricusare o presentar la battaglia. Il califo bandia la guerra sacra; nominava il capitano d'una impresa e l'investia del comando, com'era antichissima costumanza appo di loro, annodando un pennoncello in cima alla lancia del candidato. Dato il ritrovo all'oste, accorreanvi le tribù dei contorni, intere o in parte, con lor condottieri e capi inferiori fino a que' di dieci uomini e anche di cinque: gente usa a vedersi in volto, a conoscere il valore l'un dell'altro, a sostenere in ogni evento la riputazione di sua famiglia, parentela e tribù: e spesso portavan seco loro le donne, non consigliatrici a viltà; per l'amor delle quali o per l'onore, più fiate gli Arabi sconfitti tornarono alla battaglia e vinsero; o quelle difesero con le proprie mani gli alloggiamenti assaliti dal nemico. Avean cavalli e fanti; i fanti in cammino montavan talvolta su i cameli, talvolta v'andavan anco i cavalieri menando a guinzaglio lor destrieri e in altri incontri togliean essi in groppa i fanti. Armati della sottile, lunga e salda lancia arabica, spada, mazza, e altri d'archi e frecce; ma ancorchè destri al saettare poco assegnamento faceanvi: son colpi di sorte, diceva un famoso guerrier loro, sbagliano e imberciano.[146] Copriansi di giachi di maglia e scudi. In giusta battaglia aspettavano per lo più la carica del nemico; sosteneanla con rara fermezza secondo il precetto del Corano e il romano concetto di Khâled-ibn-Walîd che solea scorrer le file esortandoli: “Ricordatevi, Musulmani, che lo star saldi è fortezza, l'affrettarsi debolezza, e che con la costanza va la vittoria.”[147] Sia che dessero il primo assalto, sia che ripigliassero quello del nemico, piombavano come turbine coi loro infaticabili cavalli levando il grido di Akbar Allah (è massimo Iddio); sparpagliavansi dopo la carica, e d'un súbito rannodati faceano nuovo impeto sul nemico disordinato nello inseguirli, e sì lo rompeano e laceravano; avviluppavano e sterminavano i fuggenti. I Bizantini e i Persiani, gravi per le armadure e per la formalità degli ordini militari ai quali era mancata da lungo tempo l'anima e l'intendimento, mal resistettero a tal nuova tattica: i primi inoltre uomini senza patria, raunaticci di tante genti, tratti per forza alle armi, condotti da capitani cui scegliea caso o favore; i secondi accolti anche di varie nazioni e classi sociali diffidenti l'una dell'altra, anzi nemiche.
Dagli eserciti passando ai popoli di que' due imperii, li vedremo avviliti dal dispotismo, rifiniti dalle tasse e dalla rapacità degli officiali pubblici; scissi da assottigliamenti religiosi; i Persiani anco dalle contese sociali de' tempi di Mazdak, dalla paura dei ricchi e cupidigia dei poveri: e qual meraviglia se tra l'universale scontentamento paresse manco male la falce dei conquistatori, i quali ragguagliavano gli imi ai sommi, disarmavano la religione dello Stato, permetteano il culto cristiano sol che si pagasse un picciol tributo, o aprivan le braccia per accogliere i vinti nella loro famiglia, nella loro Chiesa e nella loro repubblica? Così le vecchie società cedeano il luogo alla giovane società dei vincitori. Così ridivenuti nazione, spinti da delirio religioso e da interessi mondani, allettati dal bottino, dalle pensioni, dalla fertilità delle terre, dai mille lucri che offrian le nuove province, i popoli arabi emigravano successivamente verso di quelle. E se non potean portare in lor colonie nè libertà, nè quiete; se negli ordini loro si nascondea l'antagonismo della legge coi costumi, del dispotismo con la nobiltà e con la democrazia; questa schiatta forte, piena d'alacrità e di speranze, operosa, industre, paziente, audace, trovandosi in condizioni geografiche favorevolissime e tirando altre schiatte alla sua lingua e religione, dava principio a un periodo novello nella storia dell'umanità.
CAPITOLO IV.
Se pur la fama di cotesti avvenimenti arrivò in Sicilia prima che gli Arabi toccassero le spiagge del Mediterraneo, niuno al certo se ne dette pensiero. Lo potean credere solito insulto de' ladroni di là della Siria, de' Saraceni, come par che s'addimandassero in quelle parti alcune tribù dei deserti; il qual nome i Bizantini dieron poi a tutti gli Arabi e infine a tutti i Musulmani.[148] Fors'erano noti in Sicilia, per cagion del commercio, il nome e i costumi degli Arabi, e un capriccio di fortuna avea mostrato nell'isola le fattezze di questo popolo balestrandovi un principe arabo, Mondsir quarto re di Hira; il quale ribellatosi da' Sassanidi agli imperatori di Costantinopoli, tradì i novelli signori, e, caduto nelle mani loro, verso l'anno cinquecento ottantadue, il clemente imperatore Maurizio non ne prese altra vendetta che di rilegarlo con la moglie e i figliuoli in una delle isolette adiacenti alla Sicilia.[149] Ma più che le rivoluzioni d'un popolo sì oscuro e lontano, premeano ai Siciliani le guerre dei Longobardi in Italia; e più che le une e le altre la novella eresia dei Monoteliti, ossia sostenitori dell'unica volontà.
Disputavasi, sopra un punto di curiosità teologica sottilissimo e oziosissimo se altro ne fu mai: se le opere del Dio fatto uomo, movessero da due volontà, divina e umana, ovvero da una sola, che i Monoteliti, ragionando su l'equivoco d'una parola, chiamaron teandrica, cioè, divino-umana. Capacitossi dell'unica volontà l'imperatore Eraclio, nel riposo ch'ebbe tra due guerre, l'una vinta gloriosamente sopra i Persiani, e l'altra perduta assai vilmente contro gli Arabi. Non prima il cacciaron essi dalla Siria, che il vecchio imperatore, sperando impetrare l'aiuto del cielo con un atto d'intolleranza, comandava che tutti i sudditi suoi credessero nell'unica volontà di Gesù Cristo. Comandavalo, come i predecessori suoi avean fatto delle altre dottrine onde si compose il domma ortodosso, usando nella nuova religione l'autorità di sommo pontefice, che appartenne già agli imperatori pagani, che gli imperatori bizantini non abdicarono giammai, e ch'è passata con tanti altri ordini loro nell'impero di Russia. E la sede di Roma tentennò tra l'antica obbedienza e il dritto fondamentale della repubblica cristiana, il quale portava che la universalità dei Fedeli fosse giudice delle proprie credenze. Papa Onorio I tentò di sfuggire alla vana contesa, e rispose dubbio o forse assentì; ma i successori suoi non vollero o non poterono dissimulare. Promulgata da Eraclio (a. 639), l'ectesi, come chiamossi l'editto imperiale che pretendea decidere la controversia, e cominciata la resistenza dal vescovo di Gerusalemme, Roma non declinò il pericoloso onore di farsene capo. Indi Costante Secondo imperatore rincalzava con un altro editto superbamente chiamato il tipo (a. 648), e papa Martino nel Concilio di Laterano (a. 649), ove sedè la più parte de' vescovi d'Italia, solennemente condannò ectesi e tipo, e ogni altro scritto monotelita. Allora la disputa si mutò in fazione politica. Costante il quale era salito sul trono a undici anni (a. 641), e, come tanti altri tiranni in adolescenza, avea principiato con belle dimostrazioni di modestia civile, spiegò l'unghia del lione per far confessare da tutti i sudditi dell'impero una opinione che nè egli nè altri comprendea.
Ma sendo più che mai deboli in Italia le armi imperiali, e stringendosi sempre più il misero popol di Roma intorno il suo vescovo ond'avea lucro e protezione, Costante non potè sforzare il papa; e, volendo almen punirlo, fu necessitato a tentare un colpo da masnadiere. Commesselo ad Olimpio, esarco di Ravenna, o vogliam dire luogotenente dell'impero nei dominii che rimaneangli in Italia; il quale, andato a posta a Roma, tramò lunga pezza di catturare e dicon anche ammazzare il papa, e fallì nell'uno e nell'altro misfatto. Secondo un pio cronista, il sicario mandato da Olimpio, mentre levava la mano per ferire, perdè il lume degli occhi; e, maggior prodigio, narrato il caso all'esarco, costui, pentito, svelò tutta la pratica al papa. Aggiugne il cronista che si rappacificassero incontanente, e che Olimpio, raccolte le genti che potea, sopracorresse in Sicilia a combattere i Saraceni.[150] La corte di Costantinopoli dal suo canto accagionò Olimpio d'alto tradimento, e il papa di complicità con lui, di connivenza coi Saraceni, e fin d'averli aiutato di danari.[151] Tra le fole del miracolo romano e le impudenti accuse del governo bizantino, il vero mi sembra che l'esarco, allettato dalla occasione che gli davano gli umori degli Italiani e le condizioni generali dell'impero, seguendo il fresco esempio del patrizio d'Affrica, abbia tentato di sciorsi anch'egli dall'obbedienza: a che papa Martino nè volea nè poteva far ostacolo.[152] Donde Olimpio lasciava star la teologia e il papa; e questi si pigliava quella insperata tranquillità, senza lodare forse nè biasimare la ribellione dell'esarco, quando lo scoppio della folgore musulmana in Sicilia li fe' stringere l'uno all'altro, sì che provvedessero insieme al comun pericolo. Perchè Olimpio, usurpatore o no, dovea combattere i Musulmani in Sicilia, come Gregorio usurpatore avealo fatto in Affrica; e Martino, posposto ogni altro rispetto, dovea aiutarlo, per salvare l'Italia dalla servitù degl'Infedeli e sottrarre alle rapaci mani loro il patrimonio di San Pietro nell'isola.
Nei dieci anni che la corte bizantina avea passato tra l'ectesi e il tipo, gli Arabi, oltre quei prodigiosi loro conquisti di là dal Tigri, s'erano impadroniti di mezzo l'impero: spintisi infino al Caucaso; occupata tutta la costiera di Siria; preso l'Egitto (a. 639); corsa e resa tributaria l'Affrica propria (a. 648); e, dopo avere soprastato un istante in riva al Mediterraneo, vi si erano ormai lanciati, e tutto l'empieano di spavento. Soprastettero già in riva al Mediterraneo, rattenuti dai comandi di Omar, non da ripugnanza a incontrare ignoti pericoli. Perocchè non mancavano arrisicati navigatori tra le popolazioni marittime d'Arabia; e gli stessi guerrieri del deserto, fin dai primi conquisti, s'erano risolutamente imbarcati sul Golfo Persico per assaltar le costiere d'India, donde eran tornati vincitori e carichi di preda (a. 636); i quali, se non ritentarono l'impresa, la cagione fu che Omar aspramente rampognò il capitano, e scrissegli che si guardasse un'altra fiata di affidare i guerrieri dell'islâm, come vermi, a un pezzo di legno galleggiante.[153] In tal modo ei volle ovviare al pericolo d'allargar troppo la guerra, o a quel di combattere sopra un elemento ove i Cristiani fossero più pratichi de' Musulmani, ch'è il concetto d'Ibn-Khaldûn. Per simili rispetti vietò all'ambizioso Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân d'assaltare l'isola di Cipro; se non che, per iscusarsi del mettere ostacolo ai trionfi dello islâm, il califo gravemente scrivea sapere che il Mediterraneo sovrastasse di gran tratto alla terra, e dì e notte domandasse a Dio di poterla inondare; ond'ei non amava a dar gli eserciti musulmani in balía a tal perfido mare.[154] Ma non andò guari che in luogo di queste baie tendenti a sconfortare dalle imprese navali, si trovò nelle tradizioni di Maometto, com'avvien sempre nelle ambagi e disordine degli scritti religiosi, un corredo compiuto di altri testi che portavano all'effetto contrario: e diceano che a durar solo la nausea del mare nella guerra sacra fosse merito uguale al morire in campo, bagnato nel proprio sangue; che l'Angelo della Morte recasse su in cielo le anime degli altri martiri, ma Dio medesimo raccogliesse quelle degli uccisi in combattimento navale; e altre somiglianti tratte su i tesori della vita futura.[155]
Ucciso Omar (a. 644), e uniti a capo di due anni i varii governi delle provincie di Siria[156] nelle mani di Mo'âwia, costui, che avea tanto séguito appo il nuovo califo, agevolmente vinse il partito della guerra navale, non ostante la opposizione di quei consiglieri che voleano mantenere i disegni politici di Omar.[157] Fatto venire grande numero di barche d'Alessandria e accozzatole con quelle della costiera di Siria, Mo'âwia assaliva (648) Cipro; ne levava tributo; tentava la munita isoletta di Arado; e, sendone respinto, vi tornava l'anno appresso con maggiori preparamenti; sforzava gli abitatori ad arrendersi e bruciava il paese. Dopo due anni i Musulmani di Siria presero l'isola di Rodi; portaron via, fatta a pezzi, la statua colossale d'Apollo che l'antichità avea tenuto tra le maraviglie del mondo.[158] E alla nuova stagione, che fu del secentocinquantadue, quattro anni appunto dopo la prima lor prova a metter piè sopra una barca nel Mediterraneo, solcavanlo a golfo lanciato, volgendo le prore alla Sicilia.
Di questa, come di tante altre imprese dei primi conquistatori arabi nelle provincie romane, troviamo notizie molto oscure negli annali loro, per una cagione che occorre spiegare. Presso gli altri popoli civili che si segnalarono nel mondo, la tradizione dei fatti, emersa una volta dalle nebbie dei tempi mitici, ha preso successivamente tre forme, che rispondono a tre diversi gradi dell'incivilimento, e sono: i canti eroici ripetuti a mente, le cronache scritte e la storia propriamente detta; nè la tradizione orale in prosa è stata altro che ausiliare, pronta, come ognun sa, a correggere o guastare gli altri ricordi. Appo gli Arabi, al contrario, la tradizione orale usurpò tutto il campo nei primi due secoli dell'egira. La nazione, sendo più incivilita nell'animo che nelle forme esteriori, non potea contentarsi oramai di racconti poetici, ma non era per anco avvezza a ricordi scritti; e l'umile arte di leggere e scrivere troppo scarseggiava tra que' guerrieri e improvvisatori che stavan sempre a cavallo e in su le armi. Pertanto non ebbero altri cronisti che i rawî, (raccontatori o direbbesi più litteralmente ritenitori), ai quali l'uso dava una prodigiosa virtù di memoria, e serbavano l'intero patrimonio letterario di lor gente: poesie, genealogie e fino i detti del profeta. Costoro, raccolti i fatti il meglio che poteano dalla bocca di questo e di quello, soleano riferirli con tutte le varianti e coi nomi di quanti successivamente li avessero tramandato. Ma tal diligenza accrebbe la mole e la confusione, più tosto che correggere i vizii della tradizione orale: il difetto cioè di precisione cronologica; lo scambio dei fatti diversi relativi a una stessa persona; la mescolanza delle fole di millantatori e detrattori; il pendío agli aneddoti maravigliosi; il silenzio su le imprese infelici. Questo cumulo di materiali par che opprimesse i primi che si provarono a scrivere, nel terzo secolo dell'egira e nono dell'era cristiana. Dei quali altri dettò storie particolari, altri osò intraprendere una cronica universale; ma nessuno seppe strigarsi dalla noiosa forma della tradizione orale, e nessuno venne a capo di chiarir bene tutti gli avvenimenti del primo secolo, ch'era più lontano da quella età. In ultimo comparvero le compilazioni e i compendii, che fecero andare in disuso quelle ponderose cronache primitive; sì che, poco o punto copiate dal duodecimo secolo in qua, non ce ne avanza che qualche volume. E per tal modo è divenuto ormai impossibile di ristorare la tradizione di alcuni avvenimenti; e i nostri sforzi non arriveranno a trovarne altro che qualche cenno.
Ma quell'assalto di Sicilia, di cui testè dicevamo, è reso certo dai ricordi europei, cioè: i documenti contemporanei che leggonsi nel processo di papa Martino;[159] un paragrafo della Cronografia di Teofane,[160] scrittore dell'ottavo secolo; e uno ch'è tratto manifestamente dalle memorie della Chiesa Romana e portato nelle vite dei pontefici che van sotto il nome d'Anastasio Bibliotecario.[161] Corretta la cronologia, il fatto compiutamente risponde alla tradizione musulmana che si raccoglie a brani dal Beladori, autore del nono secolo,[162] e da due compilazioni più recenti;[163] delle quali una assai particolareggiata si trova in un esemplare del falso Wâkidi; ma non ostante tal sospetta origine,[164] quando se ne tolgano le manifeste finzioni del compilatore, contiene un ragguaglio genuino e compie i cenni di Teofane e d'Anastasio, e però la critica non vuol che si rigetti. In ultimo è indizio dell'impresa un nome topografico rimasto in Siria infino al duodecimo o al decimoterzo secolo, chiamandovisi Sicilia, o, secondo altri, Le Siciliane, una villa in campagna di Damasco; se pur non sono due luoghi diversi. Il nome è derivato al certo da donne siciliane portatevi in cattività e probabilmente da quelle che vennervi al tempo di Mo'âwia.[165]
L'armamento musulmano mosse dall'estremo golfo orientale del Mediterraneo, forse da Tripoli di Siria, e certo egli è che non venisse dalle costiere d'Affrica donde i Musulmani s'eran ritratti tre anni innanzi. Però era mestieri allestire grosse navi e munirle a effetto di guerra; e ne parrà tanto più malagevole e arrisicata l'impresa di Sicilia, più assai che quella d'India del secento trentasei, nella quale gli Arabi aveano avuto in pronto legni e marinai della propria lor gente, usi a tal navigazione per loro commerci. Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, che già si facea strada all'impero, forse sperò con la guerra di Sicilia d'accrescere le province ed entrate del governo suo ed emulare il capitano d'Egitto Abd-Allah-ibn-Sa'd, che godea come lui la grazia del califo ed avea acquistato in Affrica tanta gloria alla religione, e ricchezza ai soldati. E forse, dall'esercito del rivale pervennero a Mo'âwia i ragguagli che spinserlo alla impresa siciliana. Affidolla a un prode che fu poi partigiano suo nelle guerre civili;[166] rinomato non meno per pietà, poichè avea visto in volto il Profeta e ne serbava i detti;[167] e testè segnalatosi sotto gli auspicii del capitan d'Egitto nella espedizione di Nubia, ove perdè un occhio per ferita.[168] Ebbe nome costui Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di Kinda[169] e continuò per venti anni a combattere per la fede in Ponente, sì che tante sue geste furono confuse dai raccontatori,[170] e quella di Sicilia, come meno avventurosa, restò oscura.
Sbarcarono nell'isola i Musulmani con forze non pari al conquisto; occuparono qualche luogo su la costiera, e a lor costume mandarono gualdane a battere il paese, le quali fean preda e prigioni, e pur non bastavano ad espugnar le terre murate. Ma tale debolezza del nemico non si potea scernere dai Cristiani tra i primi spaventi di quell'assalto, non aspettato nè creduto possibile; di quel terribil nome di Saraceni; di quelle nuove fogge, sembianti, linguaggio e impeto di combattere. Però, giunti gli avvisi a Roma, si strinsero l'esarco e il papa, com'abbiam detto. Passato Olimpio con l'esercito in Sicilia, la guerra andò in lungo: combattuta debolmente d'ambo le parti; dei Musulmani perch'eran pochi e scarsi di preparamenti; de' Cristiani perchè valean meno in arme, e travagliavali una moría che s'appigliò all'esercito. Indi le pratiche mosse dall'esarco, alle quali accennano e la narrazione del falso Wâkidi e il processo di papa Martino; le quali negoziazioni dopo la morte d'Olimpio furon costrutte in caso di maestà a fin di avvilupparvi il papa. Questi dal canto suo mandava aiuti di danaro in Sicilia: limosina a qualche servo di Dio, scriveva egli poi scusandosi, e dissimulando forse sotto tal nome il riscatto degli inquilini del patrimonio caduti in man del nemico. In ogni modo, tra scaramucce e pratiche si consumarono parecchi mesi; nel qual tempo Olimpio morì della pestilenza. I Musulmani, non isperando rinforzi, poichè non avevano altra armata in sul mare, e aspettandosi addosso il navilio bizantino, o avendo avvisi che venisse, non si lasciaron chiudere nell'isola. Mo'âwia-ibn-Hodeig rimontò su le navi in fretta, senza però abbandonare nè il bottino nè i prigioni; e, fatto vela nottetempo, ebbe a ventura, dopo felice navigazione, di sporre i suoi sani e salvi su le costiere di Siria. Tutto lieto il significava a Othman il capitano della provincia, Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, che già assai temea della sorte dell'armata. Mandava altresì al califo la quinta della preda, e dividea il resto all'esercito. Par che i prigioni, la più parte donne, rimanessero a Damasco, e presto dimenticassero gli antichi lor signori, il paese, le famiglie, fors'anco la religione. Perocchè la cronaca bizantina aggiugne qui sbadatamente, che volentieri stanziassero a Damasco: nè più crudele biasimo che questo si potrebbe esprimere in parole, contro quei miseri schiavi non già, ma contro l'ordine civile e religioso che affliggea la Sicilia.[171]
Appena allontanati dall'isola i Musulmani, Costante incalzò la persecuzione contro il papa, e fe' compiere da un nuovo esarco l'attentato ch'ei meditava. L'innocente e caritatevole Martino, vegliardo, infermo, venerando per animo forte e soavi costumi, fu preso a piè degli altari da una man di scherani (giugno 653); gittato in una barca; condotto giù pel Tevere e per la costiera infino a Messina; ove il tramutarono in altro legno; lo menarono qua e là per la riviera orientale di Calabria e per le isole dell'Arcipelago: tenuto in segreta su la nave e in terra; strapazzato, e, dopo lungo tempo, tratto innanzi i magistrati a Costantinopoli. Quivi incrudì lo strazio per le ingiuriose imputazioni, la insolenza dei giudici, la brutalità dei servidori, la profanazione del nome e forme della giustizia, la sentenza di morte pronunziata e sospesa; e sopratutto la presenza del tiranno, dinanzi al quale gli stracciarono in dosso gli abiti sacerdotali, lo condussero per la città, con un collare di ferro alla gola, preceduto dal carnefice che brandiva la mannaia. Alfine il tiranno commutò la sentenza in esilio perpetuo a Cherson, su le rive settentrionali del Mar Nero; ove Martino trasse pochi mesi di vita che gli avanzarono, torturato da' disagi e dimenticato dal clero di Roma. Molti furono anco gastigati come ricalcitranti al tipo; e, più barbaramente che niun altro, il dotto San Massimo, al quale apponeano oltre le opinioni teologiche, sì sfacciato era il governo imperiale, di aver dato ai Saraceni l'Egitto, la Pentapoli e l'Affrica.[172]
E come rinforzato per trionfo in casa, Costante volle andar subito a gastigare gli Arabi, che fatti audaci in sul mare, armavano contro Costantinopoli stessa (655). Sorgeano all'áncora le navi o barche loro, dugento e poche più, su le costiere della Licia, presso il monte Fenicio in un luogo che i cronisti arabi chiamano “Le Colonne;” senza dubbio dagli avanzi di qualche monumento dell'arte greca. Quivi drizzò la prora Costante con sei o settecento, altri dice mille, navigli; certo con strabocchevole superiorità di numero, mole e munizione delle navi. Era questa la prima battaglia marittima che si presentasse ai Musulmani. Perciò stavano in forse anco i più valorosi: il supremo condottiero Abd-Allah-ibn-Sa'd, ch'era a terra con le genti, domandava tre fiate ai capitani minori che si farebbe; e tre fiate que' si guardavano in volto l'un l'altro senza rispondere: quando si levò un guerriero, e, in luogo di disputare, recitò le parole del Corano sopra la battaglia di Saul con Golia: “Oh quante volte picciol drappello ha sbaragliato grosse schiere, permettendolo Iddio: Iddio è con chi sta fermo.”[173] Abd-Allah allora, risoluto a morire anzichè abbandonare l'armata al nemico, gridava: “Alle navi, in nome di Dio.” E alle navi corsero, seguíti da molte donne loro, che vollero partecipare al pericolo.
Appiccata la zuffa con trar dardi e saette, gli Arabi si accôrsero dell'errore di combatter da nave a nave; e senz'aspettare una prima sconfitta che li ammaestrasse, vollero provarsi da uomo a uomo. Gittano gli uncini alle galee nemiche; salgono all'arrembaggio con le sciabole e i cangiar alla mano; e con molto sangue loro e grandissima strage de' nemici, vinsero la giornata. Costante, che s'era tratto addietro quando cominciarono a fischiare per l'aria le saette, diessi a fuggire quando si venne alle armi corte; e pure a mala pena campò. All'incontro la nobile e bella Bosaisa, moglie del capitan musulmano, avea visto sì da presso il combattimento che il marito le domandò: “Chi ti è parso il più valoroso?” “Quel dalla catena” ella rispose: un guerriero che nel fitto della mischia, vedendo la nave di Abd-Allah aggrappata e portata via da un galeone nemico, l'avea liberata spezzando la catena. Questo prode era A'lkama-ibn-Iezîd, che amò ardentemente Bosaisa; la domandò in isposa; si ritrasse dall'inchiesta quando seppe che Abd-Allah aspirava alla mano di lei; e venuto costui a morte pochi anni appresso la battaglia delle Colonne, ottenne alfine il premio di sì perseverante e generoso amore.[174]
Tornato il fuggente imperatore a Costantinopoli, incrudelì per sospetti di stato; fe' uccidere il proprio fratello; continuò le persecuzioni contro i sostenitori delle due volontà; e alternando fierezza e viltà, com'è proprio de' tiranni, vezzeggiò i successori di papa Martino, e pensò di fuggire i luoghi e il popolo che gli ricordavano il parricidio. Indi si favoleggiò che uno spettro lo inseguisse porgendogli una tazza piena di sangue, e gli dicesse: “Bevi, fratello!” Dilungandosi dalla metropoli ove mai più non tornò, Costante faceva atto di sputarla per odio, e per paura vi lasciava la moglie e i figliuoli, ritenuti come pegno dal popolo tumultuante. Egli, cercando sempre il pericolo da lunge e fuggendolo da presso, venne in Italia (663) a far guerra ai Longobardi; provocolli, e poi non aspettò lo scontro loro a Benevento; e vedendo sconfitto un grosso di sue genti, in fretta visitò Roma, raccolsevi quante cose di pregio rimaneano nelle chiese, fino il bronzo ond'era coperto il tetto del Panteon; e, incalzato da' Longobardi, passò in Sicilia; si chiuse con la corte e i tesori a Siracusa. E in vero ei disegnò di porvi la sede dell'imperio; come già Eraclio l'avol suo, prima di liberarsi con eroico sforzo da' Persiani e dagli Avari, era stato per tramutarla in Affrica. Al quale pensiero sembra mosso Costante dalla spaventevole forza degli Arabi che parea dovessero occupare da un dì all'altro tutta l'Asia Minore, mentre i popoli settentrionali incalzavano da un altro lato: ed egli è evidente che, disperando di tenere Costantinopoli, non si potea scegliere più sicura nè più comoda stanza alle forze vitali dell'impero, che la fertile isola cinta dai porti di Messina, Siracusa, Lilibeo e Palermo, donde le armate avrebbero signoreggiato il Mediterraneo, e agevolmente si sarebbe ripigliata l'Italia. Le guerre civili che sopravvennero tra i Musulmani allontanarono poi quel gran pericolo; e gli avvenimenti nati in Sicilia fecero svanire al tutto il disegno.
Perchè la rapacità di Costante aiutava a maraviglia il clero siciliano, pieno di profondissimo odio contro di lui, per essere l'isola devota al Pontefice di Roma, e molto accesa contro i Monoteliti. Costante, in sei anni che soggiornò a Siracusa, fe' sentir la vicinanza dell'augusta persona, con le strabocchevoli gravezze poste su l'isola, e su le vicine terre di Calabria, Sardegna e Affrica: tasse su la proprietà, tasse su la industria, tasse per l'armamento del navilio, che a memoria d'uomo non se n'era sofferto mai tanto cumulo; e confiscati con ciò i vasi sacri, e separati, dice la cronaca, i mariti dalle mogli, i padri dai figliuoli, con che può intendersi l'imprigionamento dei debitori del fisco, o qualche partaggio dei coloni addetti ai poderi del patrimonio imperiale che fosse stato venduto e distratto. I popoli d'Affrica, per minor male, chiamaron di nuovo i Musulmani. Quei delle isole e di Calabria si credeano condotti a inevitabil morte, come troviamo ne' ricordi ecclesiastici; e coloro che scrissero tai parole, al certo ripeteanle a viva voce, e con lunghi comenti, ai disperati sudditi di Costante.
E un dì, entrato il tiranno nel bagno di Dafne, un gentiluomo della sua corte, per nome Andrea figliuolo di Troilo, che il serviva e ungeagli il corpo con sapone, gli versò addosso un'urna d'acqua bollente, e lo finì dandogli dell'urna in sul capo (15 luglio 668). Trovato morto Costante nel bagno, nessuno cercò il come; i soldati altra cura non ebbero che di gridare imperatore un nobil giovane Armeno di nascita, per nome Mizize; e tutta l'isola applaudì[175]. Il clero partecipò o esultò tanto nel regicidio, che mezzo secolo appresso Gregorio Secondo, minacciandolo Leone Isaurico della medesima sorte di papa Martino, rimbeccavagli si ricordasse egli di Costante e del cortigiano, che, accertandolo i vescovi di Sicilia della eresia dello imperatore, immantinente lo avea trucidato.[176]
Allato a cotesta spiegazione storica d'un papa si vuol porre quella degli Arabi contemporanei, per mostrar come diversamente si sciogliesse a Roma e in Oriente il noto caso: se lice uccidere re tiranno. Narrata la battaglia delle Colonne e l'abbandono d'Alessandria che ricadde nelle man de' Musulmani, i Romani, dice la tradizione, sforzaron Costante a uscire con l'armata contro il nemico: “Ma Iddio mandò sovr'essi una tempesta che affondava tutte le navi, fuorchè quella di Costante; la quale scampò, trasportandola i venti in Sicilia. Dove interrogato dalla gente e narrati i casi suoi: “Hai svergognato la Cristianità,” replicarongli i Siciliani, “ed hai fatto perire i suoi campioni. Or se ci assaltino gli Arabi, dove troveremo chi ne difenda?” E Costante rispondea: “Quando salpammo, l'armata era forte: che volete se ci scoppiò addosso la tempesta?” Ma i Siciliani, fatto scaldare un bagno vel ficcano per forza, gridando egli invano: “Sciagurati! che il mare inghiottì i vostri prodi, e voi ora ammazzate il re vostro.” “Facciam conto che sia annegato con gli altri,” replicarono; e spacciaronlo: ma lasciarono andare quanti eran venuti con lui su la nave.” Nel quale racconto ognun può scoprire non solamente uno squarcio del vero, ancorchè vestito alla foggia degli Arabi di quei tempi; ma anco un vago cenno d'assalto sopra la Sicilia. E notabil è a tal proposito lo stesso errore d'alcuni cronisti musulmani, che affrettando di quattordici anni la morte di Costante, la pongono l'anno trentuno dell'egira, il quale in parte risponde al secentocinquantadue, data della prima impresa di Sicilia.[177]
Nè andò guari che i Musulmani riassaltarono l'isola. Parmi priva di fondamento la supposizione moderna che ve li abbia chiamato Mizize, perchè gli Arabi in quel tempo non potean sembrare valido aiuto in un'isola sì lontana dalle provincia loro; nè quivi si vedea cagione di tôrsi in casa il nemico, poichè il nerbo delle armi bizantine stanziava nell'isola, e questa parea sicura al tutto dagli assalti di Costantinopoli. Ma quivi la corte, e gli officiali civili e militari, temendo non rimanesse la sede dell'Impero in Sicilia, arsero di zelo per lo giovinetto Costantino figliuolo di Costante. Dondechè con maravigliosa prestezza e precisione ragunarono tanti brani di forze terrestri e navali di Ravenna, Campania, Sardegna e Affrica; ed ebbero tanto séguito nello esercito di Sicilia, che appresentatosi Costantino a Siracusa in primavera del secentosessantanove, Mizize fu abbandonato da tutti, riconosciuto legittimo imperatore Costantino, e chiamossi ribellione il colpo di Stato fallito. Costantino a capo di pochi mesi tornossene all'antica capitale.[178] Probabil è ch'egli sguernisse di soldati la Sicilia, per tor la voglia di crear qualche altro imperatore; e che i Musulmani i quali tenean gli occhi aperti su la nuova sede dell'Impero nemico, cogliessero questa occasione di spogliarla.
Vennero d'Alessandria su dugento navi, condotti da Abd-Allah-ibn-Kais della tribù di Fezâra, arrisicatissimo condottiero che afflisse i Cristiani del Mediterraneo in cinquanta scorrerie navali; e alfine fu ucciso in luogo detto Marca, probabilmente in Italia.[179] Abd-Allah irruppe in Siracusa con molta strage; se non che i cittadini rifuggivansi nelle montagne e nelle più munite rôcche dell'isola. Dopo un mese, fatto gran cumulo di preda, prese varie terre o piuttosto battuto il paese qua e là coi cavalli, i Musulmani si rimbarcarono. Portaron via, dicono gli scrittori cristiani, i tesori delle chiese e i bronzi rubati da Costante a Roma. Dicono i Musulmani, come s'è visto sopra nel testo di Beladori, che si trovò nel bottino gran copia d'idoli fabbricati di preziosi metalli e di gemme: e che il califo Mo'âwia li mandò ai mercati degli idolatri d'India, sperando che ne conoscessero e pagassero il pregio. Ma l'universale dei Musulmani fieramente scandalizzossi di un pontefice che rivendeva i lavorii di Satan.[180]
A questa impresa del secentosessantanove, un monaco Benedettino, vivuto cinquecent'anni appresso, innestò sue fole di sanguinosa strage nel monastero dell'Ordine a Messina, e sopratutto di guasto a moltissime città e terre che i Benedettini possedessero in Sicilia. Tal racconto si trova in una serie di leggende apocrife e falsi documenti, con che si fece prova nel duodecimo secolo a gabbare i principi, e carpir qualche pezzo dell'immenso patrimonio che si fingea tolto a que' pii cenobiti. Non senz'arte, si fe' menzione dei poderi da una mano nelle geste dei martiri, dall'altra mano nei supposti diplomi; e tra le une e gli altri, si attribuì ai Benedettini la proprietà di mezza Sicilia: terreni in tutti i luoghi di cui si conoscessero i nomi nella storia antica; e intere città poste sotto la signoria loro fin dal sesto secolo, come potean esserlo nel duodecimo. Ma traditi sempre più dall'ignoranza, gli autori della frode, che mi sembran parecchi, senza escluder l'Abate di Monte Cassino a quel tempo, presero tropp'alto il volo nelle leggende: fecero cominciare gli assalti dei Musulmani un secolo avanti Maometto, e trucidare San Placido, con trenta tra frati e suore che viveano nel suo monastero di Messina, proprio l'anno cinquecentoquarantuno, da un barone agareno che lor piacque di chiamare Mamuca, mandato con l'armata spagnuola da Abdallah, capo di setta saracena in quelle parti, tiranno zelantissimo nel promuovere il culto di Moloch e della stella Lucifero. Ciò tanto o quanto potea passare nel duodecimo secolo; pur la novella non prese allora, nè fruttò. Ma verso la fine del secol decimosesto, per procaccio de' Gesuiti, si rifrustarono quelle memorie; si cercarono a Messina, e, com'è naturale, si trovarono le tombe e le ossa dei martiri, e fino il piombo, che i Barbari infedeli avean loro versato in gola; e il dotto e scaltro Sisto Quinto, in un tempo di tanta gloria letteraria della patria nostra, soscrisse un breve dato il tredici novembre millecinquecento ottentotto, nel quale comandò che si festeggiasse il giorno di quel martirio per tutto l'orbe cattolico; e infelicemente replicò i nomi dei crudelissimi Abdallah e Mamuca, tiranni saraceni, invasori della Sicilia al tempo di San Benedetto e di Giustiniano. Accorati e confusi a tanto sbalzo d'anacronismo, i dotti scrittori ecclesiastici del medesimo secolo decimosesto e dei seguenti, se ne cavarono con accettare il fatto del martirio, e dichiararne apocrifa la sorgente, che eran gli atti di Gordiano: il solo frate scampato, come diceasi, alla barbarie di Mamuca. Ma mentre la falsa leggenda rimanea così in commercio, nessuno ebbe pietà dei documenti usciti dalla stessa fucina. Il Baronio li disse falsi, nè più nè meno; il Pagi rincalzò con pari severità; il Mabillon, Benedettino, sospirando ratificò il giudizio; e il siciliano Di Giovanni li rigettò con meritato disprezzo. Tra quelli appunto si trova una supposta lettera di papa Vitaliano per lo risarcimento dei guasti recati da Musulmani ai poderi benedettini di Sicilia nella scorreria del secentosessantanove. E com'ei pareva opportuno di fare rosseggiare il sangue dei martiri, quantunque volte si trattasse dei beni del monastero, una appendice posta alla leggenda di Mamuca, aggiunse quell'episodio dei martirii al supposto saccheggio del secentosessantanove. Infine la erudizione, la ignoranza e la impudenza, sbrigliaronsi in una seconda appendice che fe' partecipare i Benedettini delle stragi e guasti della notissima impresa di Ibrahîm-ibn-Ahmed nel novecentotrè. Dove lo scrittore, dopo aver detto delle immense possessioni del monastero depredate e degli infiniti monaci uccisi in Sicilia, si ride un po' troppo dei lettori, conchiudendo: “e chi vuol sapere le passioni di tutti quei martiri, vada a cercarle nelle biblioteche di Costantinopoli.”[181]
CAPITOLO V.
Dopo le raccontate scorrerie del secentocinquantadue e secentosessantanove la Sicilia ebbe a sentire il peso dei Musulmani, non più di Levante, ma dell'Affrica, ove la schiatta arabica si rinforzò d'una potente schiatta straniera e insieme con quella divenne sì formidabile in tutte le parti occidentali d'Europa. Però è mestieri toccare alquanto le condizioni di tal nuova provincia musulmana. Il tratto di terreno che serpeggia dai confini dell'Egitto fino allo stretto di Gibilterra tra il mare e la catena dell'Atlante o i deserti, ubbidiva al nome bizantino, o romano, come affettavan chiamarlo tuttavia. Distingueano gli antichi questa regione sotto varii nomi, cominciando dalle due Mauritanie alla estremità di ponente, indi Numidia, Affrica propria che prendea lo Stato odierno di Tunis e la parte occidentale di quel di Tripoli fino al golfo della grande Sirte, e via seguitando, Cirenaica, Marmarica e la provincia Libica che confina con l'Egitto; Paese di vario aspetto; dove orrido e arso, come le più inospite regioni dell'Arabia, dove lieto di vegetazione, temperato di clima e vivificato dalla man dell'uomo. Perchè prima i Cartaginesi e poi i Romani vi avean recato il genio del lavoro, che creava più che la guerra e la barbarie non guastassero; e, pur dopo l'invasione dei Vandali, v'erano rimase importanti città e maggior tra tutte Cartagine, risorta dalle sue rovine; e vi fioriano ancora industrie e lucrosi commerci.
Teneano l'Affrica settentrionale quattro generazioni d'uomini, diversissime d'origine e di numero. La più moderna era un pugno di gente germanica che alcuni autori arabi chiaman Franchi; e Leone Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali rimasti dopo l'impresa di Belisario.[182] Innanzi a loro per numero ed anzianità di soggiorno venian le popolazioni pelasgiche, d'Italia cioè e di Grecia, portate dalla dominazione romana: le quali gli scrittori arabi a lor modo chiamano i Rum. In terzo poteansi noverare gli altri stranieri gittati, direi quasi, dal mare su la costiera, forse in parte discendenti dei Fenicii, miscuglio di tante schiatte simile a quel che oggi dicesi nell'Algeria Mori, o Moreschi, non sapendosi qual altro nome dar loro che uno indefinito e antico; e forse per la medesima ragione gli Arabi li chiamarono Afârik, o Afôrika, ossia Affricani, accorgendosi che non fossero nè Germani nè Pelasgi nè Berberi.[183]
Ma i Berberi aborigeni, come debbon dirsi non vi essendo memoria di altri abitatori innanzi a loro, vinceane di gran lunga anche per lo numero e per la estensione del territorio tutte le razze intruse. Stendeansi dall'Atlantico ai deserti non esplorati che finiscono a Levante con la valle del Nilo; correano dal Mediterraneo agli altri deserti che arrivano al Tropico e al Sûdan, o vogliam dire paese dei Negri; dimodochè le tribù berbere più o meno sottomesse penetravano per ogni luogo il territorio romano; e le tribù, o meglio diremmo nazioni independenti, lo premeano dalla parte di mezzogiorno e di ponente. La gagliarda e fiera gente berbera, inaccessibile di tutti i tempi alla civiltà, mosse d'Oriente, come il mostra la stampa della schiatta caucasica che ha in volto, e come il portano le sue tradizioni serbateci dagli scrittori romani e dagli arabi. I libri punici in fatti, consultati da Sallustio, li diceano popoli della Media e dell'Armenia venuti in Occidente con Ercole; lo scrittore armeno Moisè di Corene e Procopio li credettero Cananei cacciati di lor terra da Giosuè; degli Arabi, chi li ha fatto Himiariti[184] o vogliam dire della schiatta dell'Arabia Meridionale; e chi ha appiccato la genealogia loro anche a Canaan; tradizioni mitiche, come ognun se ne accorge, tra le quali potran decidere i dotti quando si sarà studiata meglio la lingua berbera, e si conosceranno un poco certi altri antichi idiomi dell'Asia anteriore, come sarebbero gli ariani e gli himiariti. Intanto, dalla tradizione, al par che dal linguaggio, parecchie tribù berbere sembrano senza dubbio d'origine semitica; ovvero, se tutta la gente berbera il sia, quelle sembran passate in Occidente in tempi men rimoti, talchè il dialetto loro abbia ritenuto molto più delle voci e forme semitiche. Il nome generico di Berberi par sia stato messo in uso la prima volta dagli Arabi, poichè fino ai tempi del conquisto loro la appellazione generale di coteste schiatta fu Mauri Barbari, come troviamo in Procopio; alla quale gli scrittori europei dei tempi più bassi ne aggiunsero altre, d'Affricani, e, con manifesto errore, di Punici, e fin anco Cartaginesi: oltrechè, ad accrescere la confusione, ricorre sempre negli scritti loro la indeterminata appellazione di Saraceni. Tra coteste false denominazioni etniche de' popoli primitivi dell'Affrica, quella di Mori, ch'è più antica, ci è divenuta anco familiare ne' romanzi, ne' poemi, in architettura e financo nelle storie; ma io preferirò, come assai più determinata, la voce Berberi, alla quale si son attenuti giustamente i dotti. È parso ad alcuni eruditi d'Europa che gli Arabi abbian tolto di peso tal voce dalla latina Barbari; e al contrario gli scrittori arabi traggono la etimologia dal loro vocabolo berber, che significa borbottare, e diconlo anche di parlare in gergo rozzo e straniero. Gli uni e gli altri credo si appongano al vero; poichè gli Arabi conquistatori dell'Affrica settentrionale tanto più agevolmente doveano adottare il nome che trovarono in uso tra i popoli inciviliti del paese, quanto avea significato nel loro proprio linguaggio, e il significato si confaceva appunto al caso. Ma v'ha di più: il valore primitivo di questo vocabolo nell'idioma greco, che lo comunicò a tutti gli altri dell'Europa, è identico a quel che ritenne in arabico il verbo berber. Come notollo il Gibbon, Barbaro nell'Iliade non è detto che di favella rozza e aspra; nè pria de' tempi di Erodoto si vede usata cotesta voce com'appellazione dei popoli non parlanti il greco; donde poi si venne mutando il significato, come ognun sa, fino a quel che ha preso nelle lingue moderne. La stessa voce borbottare, che mi è occorsa testè traducendo il detto verbo arabico, vi consuona tanto e sì a capello ne rende il significato, che potrebbe riferirsi per avventura alla medesima origine[185].
Tale essendo la divisione etnologica dell'Affrica Settentrionale, non è mestieri aggiungere che facean base al governo bizantino le schiatte nuove, frequenti nelle parti orientali più che nelle occidentali, industri, snervate e cristiane; anzi sì zelanti nella fede, che la Chiesa Africana ai tempi suoi levò quel grandissimo grido che ognun sa. Al contrario i Berberi, che aveano sì ostinatamente combattuto la dominazione di Cartagine, poi la romana, non lasciavan tranquilla la bizantina; ma non bastavano ad abbatterla per essere sì divisi, nimicantisi tra loro senza perchè; diversi anco di religione, adorando chi le stelle, chi un idolo, chi un altro; e qualche tribù giudea, altra cristiana di nome. Il reggimento bizantino resisteva a così fatti nemici mercè la ordinata amministrazione d'una provincia ricca, la disciplina militare, le molte fortezze, il navilio. E queste forze eran tali, che nei principii del settimo secolo Eraclio governatore dell'Affrica avea occupato il trono di Costantinopoli, e che il patrizio Gregorio, deputato da lui a regger la provincia, levossi in aperta ribellione (646) quando vide fortuneggiare l'impero assalito dagli Arabi.
Gli Arabi non prima avean messo piè in Egitto che irruppero in Affrica. A'mr-ibn-A'si occupò Barca, Tripoli e Zuâgha (641-643), gli abitatori della quale si rifuggirono in Sicilia.[186] A'mr, levata di quei paesi una grossa taglia, ardea d'andar oltre: quando il califfo Omar gli comandò di ritrarsi; temendo di far troppo grande l'Impero, e come presago del gran sangue che dovea costare l'Affrica. Similmente parecchi compagni del Profeta, pochi anni appresso, dissentivano dall'impresa proposta dal novello capitano d'Egitto al califfo Othman, che gli era fratel di latte; ma questi, sendosela fitta in mente, pose di nuovo il partito nel consiglio, e, vintolo, affrettò i preparamenti in persona; li aiutò coi proprii danari; e avviò da Medina una eletta di guerrieri delle tribù modharite e del Iemen; i quali coi rinforzi presi in Egitto sommarono a ventimila tra cavalli e fanti. Condotti da Abd-Allah-ibn-Sa'd, quel medesimo che pochi anni appresso guadagnò la battaglia navale delle Colonne, mossero, non lungi dalla costiera, infino al golfo di Hammamet, e trovarono l'esercito di Gregorio, dentro terra, tra Sufetula e Cartagine (647). Per certo non combatteano sotto Gregorio centoventimila uomini, come scrissero alcuni cronisti arabi; per certo nè quegli avea promesso la man della figliuola e centomila monete di oro a chi uccidesse Abd-Allah-ibn-Sa'd; nè Abd-Allah-ibn-Zobeir con trenta cavalieri soli andò ad uccider lui nel bel mezzo delle file bizantine, e prendersi la figliuola che pugnava a cavallo con un ombrello di penne di pavone; nè pare probabile che il pregio del bottino montasse a tal somma prodigiosa, che, toltane la quinta, ne toccò tremila dinar ad ogni cavaliere e mille a ogni pedone. Cotesti episodii, ignoti ai più antichi scrittori arabi, messi innanti da quei di tempi più bassi e accettati per necessità dagli storici europei, sono stati distrutti non è guari da un insigne orientalista.[187] Ma piacemi di poter dare, in luogo di quelli, alcuni particolari, non pubblicati per anco, e autentici come io credo, ritraendosi da un discorso, che gli Arabi serbavano tra i lor modelli di eloquenza. Abd-Allah-ibn-Zobeir, che fu l'Ulisse di quella impresa, sopraccorso con rapidissimo viaggio a Medina, narrava la vittoria in pubblica concione, permettendolo il califfo: dicea che intimato agli Affricani l'islam o il tributo, e rifiutato l'un e l'altro, i Musulmani, temporeggiarono per due settimane in faccia all'esercito nemico: poi il capitano li esortò a combattere per la causa di Dio e guidolli alla battaglia; la quale aspramente si travagliò il primo giorno con molto sangue d'ambe le parti e avvantaggio di nessuna. “Venne la notte, proseguiva Abd-Allah, e i Musulmani a recitare il Corano, che s'udiva tra loro appena un susurro, come il ronzio delle api; i politeisti a sbevazzare e trastullarsi. La dimane, ripigliata la zuffa, Iddio ci fe' star saldi e ci accordò la vittoria, verso il tramonto del sole. Grandissimo è stato il bottino; la taglia pattuita sì grossa, che il quinto solo torna a cinquecentomila monete: ma forse n'avremo altri due tanti. E così io ho lasciato i Musulmani ricreati e sazii di preda, e son venuto nunzio al principe de' Credenti.”[188] Il patto cui si allude era stato chiesto da' vinti, quando videro sparse le gualdane a battere il paese e struggere e rapire ogni cosa. Raccolto quanto tesoro potè, l'esercito musulmano si ritrasse a capo di quindici mesi dal dì che avea passato la frontiera d'Egitto.[189] Un diligente scrittore porta che in questo tempo gli abitatori della penisola di Scerik, che guarda la Sicilia, si riparassero nella lor città di Kalibia (Clypea), e di lì a poco nella vicina isola di Pantellaria; ove alzaron fortezze e stettero lunga stagione, finchè non andò a snidarli un'armata musulmana.[190] Ma più probabile mi sembra che la fuga in Pantellaria seguisse una ventina d'anni dopo, quando la infestagione si venne a mutare in conquisto.
Perocchè gli Arabi saviamente audaci, non sendo per anco cresciuti di numero con assimilarsi i popoli vinti, tennero nelle prime vittorie uno di questi due modi. Ne' paesi ove parea loro di stanziare, poneano un grosso campo come i Romani, e occupavano qualche città: di che è esempio il disegno di A'mr-ibn-A'si, che si affortificò a Fostat, presso al Cairo d'oggi, e fece d'Alessandria un ribat, o, a modo nostro di dire, una piazza di frontiera; ove lasciò in presidio la quarta parte delle genti da scambiarsi ogni sei mesi con un'altra quarta parte che scorrea la costiera, mentre le altre due quarte rimaneano col capitano.[191] Al contrario nelle regioni troppo lontane facean grosse correrie, movendo dalle piazze di frontiera e quivi tornavansene col bottino e le taglie, come abbiam detto di Cipro, della Sicilia e dell'Affrica. Ma sovente accadea che l'agevolezza della vittoria, le occasioni che nasceano, e il rigoglio delle tribù arabe presto ingrossate di clienti stranieri, allettassero ad occupar coteste provincie, come le altre di cui si è detto.
E così appunto seguì in Affrica dopo quattro novelle guerre o scorrerie, che s'avvicendarono dal secentocinquantaquattro al secentosettanta,[192] una delle quali fu ordinata dal califo Mo'âwia a chiesta di popolazioni cristiane dell'Affrica, cui la tirannide di Costante avea mosso a ribellione. Il pensier del conquisto si dee riferire ad O'kba-ibn-Nafi', il quale in gioventù avea capitanato i primi cavalli arabi passati d'Egitto a infestar la terra d'Affrica, e, più maturo, comprese che la si potea tenere facendosi strumento delle popolazioni berbere. Mo'âwia il secondò con dargli comando independente dal governatore dell'Egitto, l'anno cinquanta dell'egira (670); ed ei poneasi con diecimila cavalli a Barca, ove fe' opera ad attirarsi i Berberi dei contorni. Risoluto poi andò a piantare in mezzo all'Affrica propria un alloggiamento che fu chiamato il Kairewân,[193] ove l'esercito musulmano stesse sicuro con le famiglie e lo avere. Elesse il sito dentro terra, a una giornata di cammino dal porto di Susa, in terreno boschivo e sano, ove sorgea un picciol castello romano, che gli Arabi chiamano Kamunia. Della scelta si disputò a lungo tra il capitano e i principali dell'oste, con ragioni non da Barbari. Volean gli altri tirarsi verso le spiagge per stare più pronti alle offese; O'kba rispondea che era meglio assicurar la capitale da' subiti assalti delle armate bizantine. Temeano quelli da una vicina palude tristi esalazioni nella state e umidità nell'inverno; ma egli mostrò ch'era forza incontrare que' disagi, poichè la palude difendea un terreno da tenere in pascolo i cameli che servono a trasportare l'esercito nostro, diceva il capitano, e i Berberi e i Greci la prima cosa che farebbero, sarebbe di venirceli ad ammazzare alle porte proprio della città, con improvvisa scorreria.[194] Vinto così il partito e condotte le genti là dove ei pensava fondare Kairewan, O'kba solennemente n'espulse gli antichi ospiti. “Belve e serpenti,” gridò “noi siamo i compagni dell'Apostol di Dio; partitevi di qui o sarete sterminati.” E le bestie a sgombrare quetamente portando seco i lor nati, e i Berberi a convertirsi, dicon le croniche, nè v'ha ostacolo a crederlo. Con un'altra scena troncò le dubbiezze degli Arabi, che, messisi a fabbricar la Moschea, andavan cercando la dirittura della Mecca, la kibla, com'essi dicono, alla quale il Musulmano dee guardare quand'ei fa le preci. Mentre gli altri osservavan le stelle il meglio che poteano, egli ebbe un sogno; diè di piglio alla bandiera; seguì una voce sovrumana; e, dove quella gli disse “resta,” fisse in terra l'asta e fe' innalzar la Moschea cattedrale. Costruirono anche il palagio del governo, le case dei grandi, gli abituri della minor gente: di argilla la moschea, di canne le case, dice un antico scrittore;[195] nè pensarono per lungo tempo a mutare in lor uso gli avanzi d'architettura romana che offriva il luogo.[196] Oltre a ciò posero alberghi, o com'essi dicono menzil, pei viandanti, a giuste distanze lungo le strade della provincia.
In cinque anni questi ordinamenti progrediano, e O'kba portava le armi sempre più verso ponente tra le tribù berbere; quando il califo il depose; unì di nuovo l'Affrica all'Egitto, e un novello capitano, per nome Abu-Mohâgir, imprigionò O'kba e smantellò il Kairewân: pensando forse che invano si sarebbe prodigato il sangue dei Musulmani nell'indomabile provincia, e che piuttosto era da pigliare i Berberi con le buone. In fatti egli avea tirato a professare l'islamismo un potente lor capo per nome Koseila, quando, salito al trono Iezîd, e tornato O'kba in credito a corte e resogli il governo d'Affrica (681-2), ristorò la sua città, ripigliò con tanto più ardore i suoi disegni e alla sua volta mise in catene Abu-Mohâgir. Con ciò fe' nuovi miracoli e nuove imprese: scaturir fontane quando l'esercito era per morir di sete; debellare eserciti bizantini e orde di Berberi; e altre ne convertì, com'ei credeva, e vittorioso trascorse infino a Tanger e Sus dell'Atlantico, ove, spinto il cavallo nelle acque, levando la mano verso il cielo, profferì que' noti detti che il mare solo rattenealo dal portare il culto del vero Iddio sino agli ultimi confini del mondo.
Pur le gonfie parole accompagnan sì raro i savii fatti, che O'kba, pria d'andare a guazzare il cavallo nell'Oceano, non pensò a' Bizantini che stanziavano a Cartagine e nelle altre città del Mediterraneo troppo dure a intaccare; ma, scansandole, era ito per la regione a mezzodì dell'Aurès, donde passò a settentrione, forse nella provincia d'Algeri o d'Orano. Peggio fece a trattar come vinti quei Berberi, che cominciavano a parteggiare per lui dopo essere stati sgarati in battaglia, ma non voleano ingozzare gli oltraggi ch'ei facea loro per superbia, o sol perchè Abu-Mohâgir aveva usato umanamente con essi. Narrasi, tra gli altri fatti, ch'ei richiedesse Koseila di scannare e scorticare un montone; per la cucina, dicono i cronisti; probabilmente in sagrifizio per mangiarne e dispensarne ai poveri, com'è uso appo i Musulmani; il che ad O'kba dovea parere atto di carità e religione, e al principe convertito, servigio da beccaio. Rispose non mancargli servi che il facessero. Ma il capitan arabo persistè, minacciò e volle essere ubbidito per forza. Koseila ubbidì: quand'ebbe finito, senza fiatare, si astergea le insanguinate mani sulla barba, e, domandatogli il perchè, rispondea melenso: “fa bene al pelo.” Vi fu chi comprese la muta rabbia di quell'atto e ne ragguagliò O'kba; ma il fiero vecchio se ne rise. Koseila intanto, indettatosi coi Bizantini, si levò improvviso in arme; e corsogli addosso O'kba impetuosamente con le poche forze che avea intorno, finse di fuggire finchè tirò gli Arabi a Tahuda a piè dei fatali monti Aurès, ove circondolli con infinita moltitudine di Berberi e aiuti bizantini. Già gli Arabi sentian suonar l'ora estrema. Era tra loro Abu-Mohâgir che O'kba traeasi dietro incatenato sospettandolo di tradimento o infingendosene; il quale proruppe a recitar due versi d'antico poeta, che avea pianto d'avere i ferri mentre i suoi s'apparecchiavano alla battaglia. O'kba, all'intenderlo, scorda le offese; lo fa sciorre; gli dice che salvisi con la fuga poichè non è tenuto a combattere: e Abu-Mohâgir risponde non bramar altro che di morire coi Musulmani; e s'arma, e ponsi al fianco del capitano. Spezzarono i foderi delle spade, imitandoli gli altri guerrieri: e avventatisi tra i Berberi virtuosamente caddero; campando pochissimi dalla strage (683). Koseila tra non guari s'insignorì di Kairewân; le reliquie degli Arabi si ritrassero di nuovo a Barca. Questo fine ebbe la prima prova di occupazione permanente dell'Affrica. O'kba seppe meglio imaginarla che mandarla ad effetto: uomo di costante proponimento, e prodigioso valore in guerra; ma poco atto a maneggiar le fila di un gran disegno, e meno a raffrenare le proprie passioni; troppo uso a fidarsi in quel piglio tra di fanatico e di commediante che ha accresciuto la sua fama appo i posteri.[197]
Così mossi i Berberi a guerra nazionale contro gli invasori, cui da principio avean creduto nemici dei soli Romani, il contrasto si fe' ostinato, sanguinosissimo; ebbe fasi diverse: sospeso talvolta per stanchezza; ripigliato per novelle cagioni che si sviluppavano dalla conquista; continuato fin quando le due schiatte si unirono sotto una stessa fede e uno stesso vessillo di guerra; acceso anche in Spagna e in Sicilia; durato sei secoli: nè finì che quando gli Arabi di dominatori divennero soggetti. Nè l'impero dei califi, nel fior della sua potenza, incontrò in alcun'altra provincia popoli che più disperatamente gli resistessero: costretto suo malgrado al conquisto dell'Affrica; ove mandò cinque eserciti a far vendetta l'uno dell'altro e ad incontrar la medesima sorte.
Dirò di questa lotta assai brevemente, astenendomi dai particolari il più che potrò. Entro pochi anni, gli Arabi vendicarono la strage di Tahuda; ruppero gli eserciti collegati de' Berberi e Bizantini e ammazzaron Koseila; ma intanto un'armata, allestita in Sicilia, occupò Barca, rimasa vota di difensori (688-9); e il capitano arabo vittorioso, Zoheir-ibn-Kais, affrettandosi alla riscossa con una picciola schiera, non guadagnò che l'onore di entrare nella città e morirvi con la spada alla mano.[198] Cinque anni appresso, escita appena la casa Omeiade dalla guerra civile di Abd-Allah-ibn-Zobeir, il califo comandava al capitan d'Egitto Hassân-ibn-No'mân di pigliare tutte le entrate della provincia, tutta la gente e attrezzi da guerra, e andare a far dell'Affrica ciò che gli paresse. Il quale, messi insieme quarantamila uomini, tirò dritto a Cartagine (693-4); ruppe i terrazzani e il presidio usciti a combattere; e pose tale spavento nella città, che i principali cittadini se ne fuggirono su le navi, chi in Sicilia e chi in Spagna; ed egli, facilmente sforzati que' che rimaneano, saccheggiò, fe' prigioni, diè opera a tagliare li aquidotti e diroccare frettolosamente quanto si potea; e non tardò a tornare dentro terra contro i Berberi dell'Aurès. Tra i quali, come avvien sovente nei moti nazionali, correndo le eccitate imaginazioni alla superstizione, era surta una novella Zenobia, regina della tribù di Gerâwa, per nome Dihâ, più nota sotto l'appellazione di Kâhina che le dettero gli Arabi, che è a dire indovina; alla cui voce profetica e bizzarro furore, congeniale alla schiatta loro, s'erano unite le altre tribù. Scontratasi con l'esercito di Hassân su le rive del fiume Nini presso Bagaia, ch'oggi va nella provincia di Costantina, la Kâhina ruppe gli Arabi con memorabile strage: e di lì a poco un patrizio Giovanni, venuto con le forze navali di Costantinopoli e di Sicilia, ripigliò Cartagine; Hassân con le reliquie dell'esercito fu ricacciato di nuovo a Barca. La profetessa poi sciupò la vittoria. Da una mano rimandò liberi i prigioni arabi, fuorchè un solo che adottò per figliuolo, il quale la tradì mandando avvisi ad Hassân. Dall'altra mano scatenò i suoi a guastar le città e i colti dell'Affrica propria, per annichilare, diceva ella, que' futili beni che attiravano il nemico. Ma fe' contrario effetto, perchè le popolazioni industri delle altre schiatte, parte emigrarono in Spagna e nelle isole, parte mandarono a profferire aiuto agli Arabi, i quali s'apprestavano a nuovo sforzo di guerra.
Donde tornato Hassân con una armata e un esercito, ruppe i Berberi, e uccisa la Kâhina nella sconfitta che avea vaticinato, com'è uso dei profeti senza poterla evitare, le tribù dell'Aurès, ormai spicciolate e sbigottite, si sottomessero; pattuirono di dar dodicimila ausiliari contro i Berberi non domi e contro i Greci. Indi movea Hassân per la seconda volta all'assedio di Cartagine; prostrava in parecchi scontri le forze bizantine; rimanea padrone del golfo; e sì stringea la città per mare e per terra, che il presidio finse di domandare l'accordo profferendo il tributo, e in mezzo alle trattative imbarcata ogni cosa di notte su le navi ch'erano in porto, quetamente se ne fuggì. Tentato invano di resistere in altri punti della costiera, il patrizio Giovanni con l'armata si allontanò per sempre dall'Affrica (698): Hassân, entrato in Cartagine, compiè l'opera della distruzione col ferro e col fuoco, lasciando picciol presidio, come per vedetta, e fabbricovvi, scrivon gli Arabi, una moschea, che è a dire serbò ed acconciò a quest'uso qualche antico edifizio. Infine, tornato a Kairewân, si volse ad ordinar la provincia; posevi gli uficii d'azienda, e assoggettò al tributo fondiario gli abitatori di schiatte europee, e dei Berberi tutti quelli che non avean fatto la professione dell'islamismo;[199] ma ai Berberi convertiti diè la parte dei tributi e delle terre che lor toccava come a guerrieri musulmani. Così gli Arabi fermarono per la prima volta il dominio su quella parte dell'Affrica settentrionale che oggi è compresa nelle reggenze di Tripoli, Tunis, e provincia di Costantina, senza estendersi per anco più a ponente. Dal nome d'Affrica propria che davano i Romani alla parte più importante di questa regione, gli Arabi la dissero tutta Ifrikia; e secondo lor geografi si stende dalla grande Acaba che sorge tra Barca e Alessandria, infino a Bugia. Di lì all'Atlantico chiamarono Maghreb che suona appo noi occidente, e diviserlo in Maghreb del mezzo tra Bugia ed Orano, ed estremo Maghreb, da Orano in poi. E coteste loro denominazioni geografiche noi adopreremo per lo innanzi; se non che scriveremo a modo nostrale Affrica in luogo di Ifrikia.
Con breve intervallo succedeva ad Hâssan un grande che rappattumò le due schiatte per qualche spazio di tempo, e legolle di tal vincolo che non si spezzò più mai, non ostante che si ricominciasse la lotta. Fu costui un vecchio settuagenario, Musa-ibn-Noseir, uom di origine straniera, liberto di casa Omeiade;[200] famosissimo per lo conquisto di Spagna, e degno di maggiore gloria per l'arte di stato e di guerra con che avea prima compiuto quel d'Affrica e del Maghreb. Esordì nel governo della provincia, come un sommo capitano del nostro secolo, con arringare l'esercito, accusando d'incapacità i predecessori, e dando certe le vittorie ch'ei vedea sì chiare nella sua mente. E pagò il debito con usura. Arrivò da Kairewân all'Oceano, domandò per ogni luogo le nazioni berbere, stringendosele in confederazione dopo la vittoria, pigliandosi ostaggi per guarentigia del patto; e, in vece di spingere il cavallo in mare come O'kba, fondò la città o campo di Tanger; posevi diciassettemila Arabi e dodicimila Berberi; e provvide a far apprendere il Corano ai Berberi, che lo ripetessero alle più rimote e salvatiche popolazioni di lor linguaggio. Così in breve tempo, dice l'autore del Baiân, si vide un mutar di chiese in moschee per tutta l'Affrica occidentale. La profession di fede era facile a fare; la partecipazione nel bottino si comprendea bene da' nuovi convertiti; le armi si tenean pronte a punire gli apostati. Musa le seppe rendere più possenti, ordinando un corpo di giannizzeri, come li diremmo dal nome che lor dettero i Turchi tanti secoli appresso; giovani robusti, e in gran parte di nobil sangue, ch'ei comperava da' suoi soldati, ai quali eran toccati nel partaggio del bottino; e li educava alle armi, alla religione, a cieca ubbidienza, per farne terribile strumento di dispotismo, e, se occorresse, d'usurpazione.
Nel vasto suo disegno Musa non tralasciò di usare lo ingegno e le arti delle popolazioni cristiane dell'Affrica propria. La mercè di quelle, rifabbricava di pietre e di marmi il Kairewân, che trovò di canne e d'argilla; e intendendo, dice un cronista, da' vecchi del paese le grandi imprese marittime di Cartagine, faceva costruire a Tunis cento navi e pria scavare il canale dell'arsenale, con intendimento manifesto di tenervi sicuri i legni musulmani dagli assalti dell'armata bizantina, e da' tradimenti degli abitatori cristiani, che eran tornati certamente a Cartagine e negli altri antichi porti. Quando il navilio fu in punto, vi unì gli avanzi d'un'armata d'Egitto che avea fatto naufragio su le costiere d'Affrica; bandì la guerra sacra in sul mare; chiamovvi i più nobili guerrieri arabi, dando voce di volerla capitanare in persona; e poi affidolla al proprio figliuolo Abdallah (704). Per tal modo cominciò l'infestagione del Mediterraneo occidentale: furon corse, oltre le isole Baleari, la Sicilia e la Sardegna, come si dirà a suo luogo. Abbiamo da buone autorità che in coteste imprese del Mediterraneo e del continente d'Affrica fosser fatti trecentomila prigioni; incredibile cosa appo noi, e tal anco parve a corte del califo; ove capitata una lettera di Musa che dicea montare il quinto a trentamila, fu ridomandato se fossevi errore: “ed errore v'ha,” replicò Musa, “ma è che il segretario ha scritto trenta in luogo di sessanta migliaia.” Del rimanente la maraviglia cesserà ove si pensi che gli uomini eran forse il più lucroso bottino: gregge facile a prendere in tutti i tempi; se non che allora nol teneano in pastura, ma subito ne facean danaro rivendendolo, o co' riscatti.[201]
Musa poi sguinzagliò i suoi Arabi e Berberi su la Spagna (711); vi sopraccorse ei medesimo, non ostante il peso degli anni, a rivaleggiare col proprio liberto Tarik: ed avea forse valicato i Pirenei, i suoi aveano al certo infestato la Linguadoca, ed egli parlando de' suoi smisurati disegni correva a compierli, quando lo raggiunse un messaggio del califo, afferrò il freno della mula ch'ei montava, e intimògli di voltar cammino e andare a scolparsi a Damasco. Lo accusavano di peculato. Solimano, ch'ei trovò sul trono quando giunse alla capitale, non fe' gran caso dei discorsi del conquistatore, che si vantava non essersi giammai, nel lungo corso di sua milizia, chiuso in castella, nè trinceato in campo; e parlando del valor dei soldati esaltava, sopra tutti gli Arabi, que' del Iemen; dicea i Bizantini lioni ne' lor castelli, aquile a cavallo e donne nelle navi; sagaci a spiar le occasioni in guerra, vilissimi dopo la rotta; i Berberi somiglianti molto agli Arabi per forza del corpo, impeto e ordine nel combattere, ma traditori sopra ogni altro popolo. Nè ottenne maggior grazia mostrando al califo le primizie dei trionfi: gli ottimati fatti prigioni in Majorca, Minorca, Sicilia e Sardegna, vestiti de' lor più solenni addobbamenti; e donzelle spagnuole a migliaia; e gemme preziosissime, tra le quali aveano scoperto non so che tavola di Salomone. Il califo, picciolo d'animo, sospettoso, avaro, governato da invidi cortigiani, non perdonò la gloria a Musa. Dopo prigionia e brutali maltratti, condannollo in quattro milioni di dinar che quegli non ebbe poter di pagare; fece ammazzare a tradimento il figliuolo, lasciato da lui a regger la Spagna; e affrettò la morte del misero vecchio asmatico (716) con mostrargli la testa del figliuolo imbalsamata di canfora, e domandargli se la conoscesse.[202]
Mancato un tant'uomo, le cose d'Affrica andavan per pochi anni com'ei da principio le avviò; e quasi tutte le nazioni berbere aveano accettato l'islam, quando si raccese la lite loro con gli Arabi. Al che dette occasione la rapacità fiscale, sofisticando e facendo opera di assoggettare ai tributi come Infedeli i Berberi fatti Musulmani. Ucciser essi il prefetto ch'era venuto d'Oriente con tal vezzo (720), e il califo lor diè ragione; ma dopo alquanto tempo, ritentata la prova da altri oficiali, nè potendosi sempre spegner questi senza ribellione, i Berberi vi corsero audacemente. E forza fu di dare un altro passo a che portava la rivoluzione contro un re pontefice. I padri loro, seguaci di Koseila e della Kâhina, avean gittato il Corano in faccia ai dominatori stranieri. La generazione presente cresciuta in quegli ordini che si poteano dir civili rispetto all'antica barbarie, non sapea vivere ormai senza i conforti reali ed immaginarii dell'islamismo. Avvezza a riconoscere da Allah, giorno per giorno, un beneficio ovvero una staffilata, la pioggia, i frutti del suolo e degli armenti, la vittoria e la preda, ovvero la carestia, le morie, le sconfitte; avvezza a far tante genuflessioni ogni dì ripetendo qualche parola del Corano, o almeno il nome di Maometto, pensò di mantenersi a un tempo gli aiuti del Cielo e sciogliersi da chi tiranneggiava la terra in nome di quello: corse, in vece dell'apostasia, all'eresia.
Trovò bella e fatta la riforma presso i dominatori stessi. Fin dalle guerre civili di Alî e Mo'âwia, erano seguiti in Oriente i primi urti della ragione con l'autorità; e la ragione, come suol fare, camminando lenta e incerta, avea dato origine alle sètte che si dissero dei Kharegi, ossiano uscenti; i quali negavano l'autorità assoluta dei califi in punto di civil governo e impugnavano anco alcuni dommi di religione, non potendosi far l'uno senza l'altro. Tra quelle sètte se ne notavan due, dette, dai nomi de' fondatori, gli Ibaditi e i Sifriti; concordi tra loro nel tener necessarie qualità del Musulmano la fede e le opere, e però non noverare più tra i Musulmani i colpevoli di gravi peccati, fosser anco i compagni di Maometto e i califi stessi. A così fatti principii aggiugneano entrambe una feroce intolleranza; e nei gradi di quella si distingueano gli Ibaditi dai Sifriti, risguardando i primi come Infedeli, e però rei di morte, tutti i Musulmani che non militassero nella guerra sacra, e le loro famiglie passibili di schiavitù, e rompersi anco i legami del sangue per cagione d'infedeltà. Così fatte opinioni passarono con gli eserciti arabi in Occidente, ove s'appreser tosto ai Berberi selvatici e malcontenti. I Sifriti, côlta l'occasione che il fior della milizia araba fosse andato ad osteggiar la Sicilia (740), levaronsi nel Maghreb, condotti da un Maisar che avea fatto l'acquaiolo a Kairewân; presero Tanger; gridaron califo l'acquaiolo; e accolte senza scrupolo sotto lor bandiere alcune tribù che non professavano l'islamismo, combatterono insieme la causa nazionale contro gli Arabi. Dettero a costoro due sanguinosissime sconfitte, la seconda delle quali fu chiamata dagli Arabi la giornata dei Nobili, dal grande numero che ne rimasero morti sul campo di battaglia. Tutta la provincia si scompigliò. I Berberi presero le armi per ogni luogo da ponente a levante, infino a Cabès. Gli Arabi si ridussero in due sole città, Kairewân e Telemsen. E il precipizio si sentì anco in Spagna, e vi produsse altre rivoluzioni.
A questi avvisi il califo Hesciâm, avvampando contro Berberi ed Arabi d'Occidente, chè i secondi con loro divisioni aveano accresciuto la calamità pubblica, minacciava farebbe sentir loro la collera d'un Arabo di buona schiatta; porrebbe sotto ogni castello berbero un campo di guerrieri delle tribù modharite di Kais o di Temîm; manderebbe un esercito da toccare con la vanguardia il Maghreb, mentre il retroguardo stesse ancora in Siria. Accozzò in tutto trentamila uomini: gente sì faziosa e discorde, che si abbottinò prima di venire alle mani coi Berberi, e che, messa insieme con l'esercito d'Affrica, n'accrebbe le discordie; onde venuti gli Arabi alla battaglia presso Tanger (741), qual fuggì, qual fu tagliato a pezzi dal nemico. Ma un novello capitano per nome Hanzala-ibn-Sefwân, ebbe tanta riputazione da unire gli Arabi; tanta fortuna o arte da guerreggiare nell'Affrica propria presso le colonie di sua schiatta, piuttosto che nel Maghreb. Dispersa parte delle forze nemiche in una prima battaglia e circondato dalle altre in Kairewân, armò i cittadini, accese in tutti il fervore religioso; passò una notte a pregare, e la dimane, spezzato il fodero della spada con migliori auspicii che O'kba-ibn-Nafi', uscì contro le miriadi dei Berberi. Li vinse ad Asnam, tre miglia discosto dalla città: la quale battaglia ricordossi tra le più strepitose dell'islamismo, e vi perirono, al dir dei cronisti, centottantamila Berberi; al certo uno spaventevole numero tra que' che caddero sul campo e gli uccisi di sangue freddo, com'eretici e barbari che vincendo non soleano dar quartiere (742).
Con tal supremo sforzo la schiatta arabica ripigliò il dominio della provincia. Fu in punto di riperderlo in due altre vaste sollevazioni (757-771), senza, contar le minori; e lo mantenne col pondo di due novelli eserciti, l'un di quarantamila, l'altro di sessanta o secondo alcuni scrittori di novantamila uomini, che era il settimo venuto in Affrica nello spazio di novant'anni, contando per primo quello che perì con O'kba.[203] Alfine la popolazione de' Musulmani orientali passata in Affrica tra cotesti travagli, le forti colonie poste in luoghi opportuni, e gli altri ordinamenti dei vincitori, prevennero i moti generali de' Berberi infino ai principii del decimo secolo; se non che alcune tribù berbere fondarono tre stati indipendenti, cioè: Fez nell'estremo occidente; sotto la dinastia araba degli Edrisiti (788); Segelmessa a mezzodì dell'Atlante, sotto i Midrariti, gente berbera (783); e Taiort (che scrivon anco Tahert e Tuggurt e oggi va nel Sahra dell'Algeria), sotto i Rostemidi, famiglia, come sembra, di origine persiana[204] (754). Le altre tribù sfogarono parteggiando nelle guerre civili degli Arabi; finchè, affievolita la costoro schiatta, gli indigeni rialzaron la testa e mutaron di nuovo lo stato politico dell'Affrica e del Maghreb, sì come ci occorrerà di dire nei libri seguenti.
CAPITOLO VI.
Dalla lotta de' conquistatori contro gli indigeni volgendoci alle condizioni in cui vivessero i primi mentre occupavano a mano a mano il paese, ci si presenta una considerazione preliminare. I popoli che s'impadroniscono di territorii stranieri tengono necessariamente uno di questi tre modi: trasferimento popolare dei conquistatori, come quel de' Franchi, dei Longobardi e altri barbari che non lasciavano patria dietro le spalle; colonie, come quelle dei Greci nell'antichità e degli Inglesi in America, intraprese private che suppongono un popolo incivilito e avvezzo alla libertà; o finalmente occupazione militare a nome dello Stato, ch'è propria dei governi forti in su le armi. Di cotesti modi i due ultimi si veggono talvolta congiunti, ovvero adoperati alternativamente, da alcune nazioni che hanno in sè istituzioni miste, come i Romani che mandavano anche lor colonie in paesi occupati militarmente, e gli Inglesi ai quali veggiam tenere l'Indie con la violenza delle armi e altre provincie con le colonie.
Ma gli Arabi, vivendo in una società ove coesisteano la barbarie, la libertà e l'autocrazia, stanziarono nei paesi vinti in un modo composto; che cominciò con la occupazione militare a nome dello Stato; divenne trasferimento di intere tribù; e portò a un largo governo coloniale e indi alla emancipazione dalla madre patria. La emigrazione si fe' tanto più agevolmente, quanto que' popoli non usi a soggiorno durevole nè incatenati dalla proprietà territoriale, passavano da reame a reame con la stessa nomade alacrità con che ne' lor deserti avean mutato le tende da un pascolo all'altro. I loro accampamenti alla romana, dei quali dicemmo nel capitolo precedente, si fecero grosse città entro pochi anni; traendovi le famiglie dei guerrieri, famiglie naturali e fittizie ancora: di schiavi, liberti, affidati; e oltre i guerrieri venivano a fruir della vittoria officiali pubblici, giuristi, mercatanti, artigiani: gente arabica o nativa di regioni occupate anteriormente ed arabizzata per conversioni e clientele. Così con maravigliosa rapidità si accrebbe la schiatta loro in Affrica dopo le ultime vittorie di Hassân-ibn-No'mân e sotto il governo di Musa. Oltre le colonie di Barca, Tripoli e altre sul golfo di Cabès, ed oltre Kairewân, che fu maggiore di tutte, si vide sorger quella di Tunis ove si cominciò a scavare il porto; poi la popolazione arabica si estese verso ponente a Tanger, Telemsen e fors'anco Ceuta: e, domi tanto o quanto i Berberi, il progredimento ricominciò; il centro principale della provincia, il quale era l'odierno reame di Tunis, si circondò di piazze di frontiera a Belezma, Tobna e altre, che guardavano i nodi più formidabili di popolazione berbera; e la schiatta arabica saldamente si afforzò verso la fine dell'ottavo secolo.
Vi comparve fin dai primi principii la ovvia distinzione di militari e cittadini. I primi chiamavansi collettivamente, come in ogni altra parte dell'impero, il giund; e talvolta questo nome si dava a ciascuna legione, divisione o brigata, come noi diremmo, talchè si trova adoperato in plurale presso gli scrittori arabi.[205] Erano i guerrieri scritti nei ruoli; i quali, oltre la parte che loro tornava dal bottino, aveano uno stipendio che si togliea dai tributi posti su i popoli vinti e sopra una classe di terre dei Musulmani, e che pagavasi per lo più assegnando al tal giund le entrate di tal provincia o distretto; la qual maniera di concessione gli Arabi chiamarono Iktâ', ossia scompartimento. Ordinati tuttavia secondo le proprie parentele, come già dicemmo,[206] e capitanati da un condottiero con titolo di Kâid,[207] eran mezzo soldati stanziali e mezzo milizie feudali: gente agguerrita quanto i primi, e, come le seconde, devota al proprio capo più che al principe; l'indole della quale avea bene spiegato un savio, quando disse al califo Abd-el-Melik, parlando di alcun rinomato capo di tribù in Oriente: “S'egli s'adira, centomila spade s'adiran seco, senza domandargli il perchè.”[208] Nel giund rimanea dunque l'aristocrazia patriarcale dei tempi anteriori all'islam.
Nelle città appariva al contrario un avanzo della primitiva democrazia musulmana; come sempre avvien che si sviluppi nelle colonie qualche principio che sia stato soffocato nella madre patria. Senza istituzioni scritte, senza magistrati riconosciuti dalla legge, surse a Kairewân, e in altre città principali dell'Affrica, una vera possanza municipale figlia di quel genio democratico e dell'industria. Non le mancò il primo elemento di forza, che è il numero de' cittadini; perocchè, giugnea a tale in Kairewân al tempo della seconda sollevazione dei Berberi, che fornironsi in un estremo pericolo diecimila scelti combattenti, i quali usciti insieme con le reliquie dello esercito riportarono (741) la vittoria di Asnam.[209] Non le mancò l'uso alle armi, poichè la popolazione delle città, obbligata a combattere da un precetto religioso che andava in disuso nelle parti centrali e tranquille dell'impero, lo osservava per necessità nelle provincie di frontiera, ove spesso s'avea a respingere il nemico. V'erano inoltre in così fatte provincie i ribat, di cui già parlammo; i quali mutarono natura quando la più parte della popolazione fu musulmana, e divennero ritrovo di birboni e oziosi, che viveano di pie oblazioni sotto specie di star pronti alla guerra contro gli Infedeli, e prontissimi erano alle sollevazioni. Non mancò infine l'ordinamento delle classi e la potenza di quelle superiori per le facoltà e l'educazione, le quali classi dan sempre la pinta ai moti delle città. Da una mano troviamo, in fatti, corporazioni d'arti;[210] da un'altra cittadini proprietarii di terre, e veggiamo la efficace influenza degli sceikhi, ossiano capi delle famiglie principali. Uscian anco da queste gli uomini che professavan sapere e pietà, legittimi successori dell'aristocrazia di Omar; i quali col Corano e la tradizione del Profeta alle mani, sosteneano le larghe franchigie dei Musulmani, poste in oblio dai moderni principi: e il popolo naturalmente li seguiva e agitavasi alla lor voce.[211]
Tali essendo gli ordinamenti delle milizie e dei cittadini, fondati su i costumi, non su le leggi, e di tanto più forti, il governo della provincia poco teneva a quel dell'impero. In apparenza non differiva dal reggimento d'un paese occupato militarmente; il califo di Damasco nominava il governatore dell'esercito e del popolo musulmano; i quali riconosceano un solo re e pontefice e una sola legge a Kairewân come a Damasco o a Medina. Ma in sostanza la colonia era libera. Stava la forza in mano di corpi independenti; il califo, non che trar danaro dalla provincia, ve ne rimettea, e se voleva almeno farsi ubbidire dovea affidare il governo a potenti capi di tribù, dovea piegarsi alle passioni di quelli e agli umori del popolo. Dal che nasceva un bene e un male: il bene, la forza di vita ch'è propria delle colonie libere e che non si infonde mai negli automi costruiti dai governi matematici; il male era la rabbia delle fazioni, che gli Arabi aveano nel sangue, e che l'islamismo accrescea con la frettolosa assimilazione d'ogni gente straniera. Il male si sviluppava a misura che gli Arabi metteano radice nei paesi di ponente; e mostravasi nel giund più che nelle popolazioni cittadine. Trovandosi nel medesimo esercito le schiatte rivali di Kahtân e di Adnân, appena si prendeano a scompartire i premii della vittoria, cominciavano i torti, scoppiavano le ire; il governatore favoreggiava la sua tribù e le affini a scapito delle altre; e queste, se le mene di corte o il caso faceano succedere nel governo della provincia un di lor gente, rendeano la pariglia; e, se no, prendeano a farsi giustizia dassè.
Arrivò a tale l'antagonismo, che nol potè curare nè anco la spada dei Berberi. Dopo la infelice battaglia dei Nobili (740) il califo Hesciâm, come abbiam detto, mostrò forse minore rabbia contro i nemici Berberi che contro la schiatta himiarita la quale prevaleva in Affrica a quel tempo.[212] Gli Himiariti risposero per le rime. Come il califo prepose al nuovo esercito un Kolthûm, modharita o vogliam dire della schiatta di Adnân, e com'ei, tra gli altri rinforzi, mandò un corpo di diecimila uomini della propria casa omeiade, ottomille cioè Arabi e duemille liberti, stanziati in Siria, così ambo gli elementi sociali della colonia si volser contro il novello esercito. La cittadinanza di Kairewân, vergognando o temendo di sì fatti ausiliari, chiuse loro le porte in faccia. Il rimanente delle milizie patteggiò anche contro di essi, tanto quelle antiche d'Africa, quanto ventimila uomini delle nuove, ch'erano stati presi qua e là, come scrive Ibn-Kutîa, da varie nobili schiatte arabiche. Perlochè movendo tutte le genti ad incontrare i Berberi, i condottieri non fecero che altercare con Kolthûm; i soldati erano per venire alle mani coi diecimila Omeîadi; e finì che costoro sul campo di battaglia voltaron le spalle, e gli altri furono orribilmente mietuti dal nemico. I pretoriani disertori poi, non potendo rimanere tra l'abborrimento universale, passarono in Spagna ove accesero aspre guerre civili: e l'Affrica si perdea, se Hesciâm, rimettendo del regio orgoglio, non ne affidava il comando ad Hanzala-ibn-Sefwân di chiarissimo sangue himiarita; il quale senza nuove soldatesche d'Oriente valse a debellare i Berberi (742), come sopra dicemmo.[213]
Ma passeggiera era la concordia; le divisioni durevoli, diverse, intralciate in confusione inestricabile: e un altro subito mutamento che seguì si dee riferire agli umori avversi al governo in tutta la provincia, e, più che altrove, nella capitale. Perchè Abd-er-Rahman-ibn-Habîb di tribù koreiscita, uomo illustre per la gloria del bisavolo O'kba-ibn-Nafi' e per una strepitosa fazione che avea combattuto pochi anni innanzi sopra la Sicilia, andato poi in Spagna ad accattar brighe e stato, e vedendosene tronca la via dalla prudenza di un luogotenente di Hanzala, gittatosi a un partito disperato, ripassava il mare; sbarcava a Tunis; trovava partigiani e osava assalire in Kairewân stessa il capitano liberatore dell'Affrica. Il quale accorgendosi delle disposizioni dei cittadini, gli rifuggì il generoso animo dalla guerra civile: chiamò il cadì e i notabili della capitale; lor consegnò il tesoro pubblico, presone le sole spese del viaggio per tornarsene in Oriente; e quetamente partissi dalla colonia (744-5). Tutta l'Affrica allor si diè all'usurpatore, quantunque ei fosse della schiatta di Adnân; ma lo perdonavano forse al sangue koreiscita, al casato di O'kba, fondatore della colonia, all'audacia del misfatto, sempre ammirata dal volgo, e al merito di aver offeso la corte di Damasco. Abd-er-Rahman usò sagacemente il comodo che gli davano in questo tempo le rivoluzioni d'Oriente: stracciò in pubblica adunanza il mantello d'investitura mandatogli dal califo; scosse lungi da sè le pianelle che avea ai piedi, con dir che così anco rigettava l'autorità del califo; e governò con animo e fortuna da principe indipendente. Dopo dieci anni, il proprio fratel suo, abbracciandolo, gli passò un pugnale dalle spalle al petto; godè per poco il premio del fratricidio; e la nascente dinastia presto fu spenta (757). La colonia, straziata dalle proprie fazioni e dai Berberi, riconobbe di nuovo il potere del califato, che era passato in questo mezzo dalla casa d'Omeia a quella di Abbâs.[214]
Tal mutamento di dinastia mostrò come la schiatta arabica troppo presto cominciasse a cedere il luogo ai vinti, coi quali stringeasi nella fratellanza dell'islamismo. L'assimilazione, turbata in Affrica dalla impazienza dei Berberi, ritardata in Egitto e in Siria dalla desidia de' popoli, dal Cristianesimo e dalla tolleranza de' Musulmani inverso di quello, s'era compiuta largamente nelle regioni soggette una volta all'impero persiano. Lasciando quelle poste tra l'Eufrate e il Tigri, nelle quali predominava il sangue arabico, troviamo di là dal Tigri i figliuoli dei Persiani propriamente detti e dei Parti: valorose schiatte, fattesi tanto innanzi nella civiltà ch'eran sorti tra loro i due riformatori religiosi insieme e politici, Mani e Mazdak. Coteste schiatte volentieri abbracciarono l'islamismo che loro offriva una credenza meno assurda, e una forma sociale meno ingiusta. Mentre gli emiri arabi perseguitavano agevolmente, o tolleravan senza pericolo gli uomini più tenaci nella credenza di Zoroastro, la parte maggiore della popolazione alacremente si accomunò coi conquistatori. I liberi acquistavano issofatto la cittadinanza musulmana con profferire: “Non v'ha Dio, che il Dio e Maometto il suo profeta;” gli schiavi professando l'islamismo agevolmente conseguivano la emancipazione, e diveniano cittadini come ogni altro: e ciò che tuttavia mancava dopo la cittadinanza legale, cioè il patrocinio d'una famiglia potente, i liberi l'otteneano per clientela volontaria, i liberti per clientela necessaria. Cotesti uomini nuovi fecero aprir gli occhi ai governanti con la pratica ch'essi aveano in azienda pubblica; aiutarono con la loro dottrina alla compilazione della giurisprudenza musulmana; accesero nei popoli arabici a poco a poco il sacro fuoco delle scienze; e prima quello della libertà civile e religiosa, al modo che poteasi comprendere in quelle parti. I popoli dell'impero sassanida furono invero i maestri degli Arabi, come i Greci erano stati dei Romani; se non che il diverso genio dei popoli, e soprattutto delle istituzioni religiose e civili, portò che i maestri persiani predominassero nello Stato, al che i maestri greci mai non giunsero.
Un secolo bastò a produrre i primi effetti, che apparvero nel Khorassân, estrema provincia orientale, nella quale stanziava, come per ogni altra parte dell'impero, un pugno d'ottimati arabi. Quivi la lontananza di Damasco rendea il governo provinciale più insolente a un tempo e più debole; e spingea a desiderio di novità i Musulmani della provincia, la più parte indigeni. Vedean essi la casa d'Omeia aggravare sempre più i torti della usurpazione con un reggimento contrario ai principii repubblicani dell'islamismo; con una istancabile crudeltà contro i discendenti di Alî; con la rapacità, insolenza e discordie delle sue centinaia di principi reali, degna progenie, potean dire i Musulmani, di quegli ostinati idolatri che aveano combattuto il Profeta finchè il poterono, e adesso molestavano e scannavano la sua parentela. Perchè oltre la prole d'Alî v'era quella di Abbâs zio paterno di Maometto, capo della casa dopo la morte di lui, e primo tra gli ottimati d'Omar, come s'è detto. I figli di Abbâs avean séguito nella nazione, e particolarmente, com'ei sembra, tra le case nobili stanziate nel Khorassân; ed erano stati rispettati dagli Omeiadi; ma alfine la gelosia della casa regnante e l'orgoglio degli Abbassidi proruppero in scambievoli offese. Narrasi ancora, nè è inverosimile, che sia avvenuto tra i partigiani degli Alidi e degli Abbassidi un di quegli accordi effimeri e bugiardi, che due ambiziosi stipulano a danno d'un terzo; salvo ad accoltellarsi tra loro dopo la vittoria. L'associazione di famiglia, che rimaneva in piè secondo l'uso antichissimo degli Arabi, fu ottimo espediente a promuovere e nascondere la cospirazione degli Abbassidi; molti destri missionarii ( dâi' li dicon gli Arabi e appo noi suonerebbe chiamatori), ordinati con gerarchia e artifizio di setta, si misero a far parte nel Khorassân, a raccorre contribuzioni dai partigiani: e reggea con man maestra tutta la macchina Abu-Moslim che un buon uomo di casa abbassida avea preso ad allevare per carità, trovatolo in fasce esposto su la via pubblica. Quando la congiura, allargandosi, fu scoperta, piombò la prima ira del califo sopra Ibrahim capo della casa di Abbâs, che morì in prigione ad Harran: ma tantosto Abu-Moslim si levò in arme nel Khorassân; ruppe gli eserciti omeiadi; mosse verso la Mesopotamia; e il popol di Cufa, senz'aspettarlo, gridò califo Abd-Allah fratello del morto Ibrahim, e noto nella storia con l'atroce soprannome di El-Saffâh o diremmo noi Il Sanguinario. E in vero si versò il sangue a fiumi tra per comando suo e di Abu-Moslim, che il pose in trono, e che fu immolato dal successore di Abd-Allah per saldare i conti della dinastia. Campato sol dalla proscrizione un rampollo degli Omeiadi, rifuggivasi in Spagna; trovava partigiani; faceasi un reame di quella provincia, e lasciavalo ai suoi discendenti che presero il nome di califi.
Il rimanente dello impero ubbidì senza contrasto alla casa di Abbâs; la quale mutò ogni cosa, fuorchè il sistema del dispotismo. Le bandiere e vestimenta degli uficiali pubblici si tinsero in negro, colore prediletto dalla dinastia; i pretoriani furono, non più una fazione della aristocrazia arabica, ma i partigiani della casa in Khorassân, e poi i mercenarii turchi che consumarono la vergogna e rovina del califato; la sede del governo passò da Damasco a Bagdad, edificata a posta con imperiale splendore; i costumi della corte da arabica semplicità si volsero a lusso persiano; e l'amministrazione pubblica, tolta agli Arabi, data ai Korassaniti divenne più inquisitiva e molesta; il che fa dire a un autore arabo[215] che la casa d'Abbâs indurò il principato a modo dei re sassanidi. In somma la schiatta persiana si impadroniva del dominio non saputo tenere dagli Arabi.[216] Da ciò nacque la gloria letteraria che ha reso sì chiari gli Abbassidi. Perocchè i Persiani, venendo in servigio loro a corte e per tutte le provincia dell'impero, vi recarono le scienze; coltivaronle essi esclusivamente; messerle in voga appo i califi; trassero con lo esempio i Musulmani delle alte schiatte, pochissimi per altro dell'arabica. Ma scrivendo tutti nella lingua del Corano, tornò agli Arabi la fama di sovrastare all'umano incivilimento nei secoli più tenebrosi del medio evo.[217]
Non tardarono i guerrieri del Khorassân a passare fino all'altro capo dell'impero, per fidanza o sospetto di casa abbassida; la quale non potendo spegner tutti come Abu-Moslim, par che si provasse a farne stromento di dominazione in Affrica. Pertanto l'esercito mosso d'Oriente (761) per combattere i Berberi, undici anni appresso la esaltazione della dinastia, fu composto di trentamila uomini del Khorassân e dieci mila Arabi di Siria, che sembrano rei della medesima colpa; e, a capo d'altri dieci anni, un novello sforzo di sessanta mila soldati si accozzò di gente del Khorassân, di Siria, e dell'Irak. Cotesti eserciti, che divenian colonie, come dicemmo, più largamente e fortemente occuparono il paese: donde le città ingrossarono; crebbene anco il numero; s'ebbero nuove terre da dividere e più larghi tributi dai popoli che s'assuefaceano al giogo. Al tempo stesso la schiatta persiana fu nuovo elemento di discordia in Affrica; divenutavi dapprima tracotante per numero e favor della corte, poi disubbidiente come le altre. Nel primo periodo furono scelti in quella i governatori della provincia, e fin v'ebbe una famiglia nella quale l'officio s'avvicendò per ventitrè anni: officio usato dai Persiani non altrimenti che dai predecessori: al segno che certe milizie di Siria, dopo trent'anni di soggiorno, furono cassate dai ruoli del giund e ridotte alla condizione di ra'ia, ossia popolaccio, per mettersi in luogo loro la gente del Khorassân. Quando le altre schiatte si risentirono e il califo volle riparare, i capi persiani si divisero tra loro; i più malcontenti si rivoltarono: seguì uno scompiglio universale di Khorassaniti, Arabi Modhariti, Arabi del Iemen, Arabi venuti di Siria sotto gli Omeîadi e venuti sotto gli Abbassidi, Berberi ortodossi e Berberi eretici, che si contendevano con le armi alla mano il governo e i suoi frutti. Il potere dei califi su la provincia, di debole ch'era stato sempre, divenne precario; si sostenne a forza di espedienti; di qualche capitano fidato; del direttor di posta e spionaggio; e soprattutto dei centomila dinar sprecati ogni anno tra quelle riottose milizie e tolti dalle entrate d'Egitto. Fu in queste condizioni di cose che il magnanimo Harûn-Rascîd piegossi a dar l'Affrica, come in appalto, a Ibrahim figliuolo di Aghlab.[218]
Aghlab, nato dalla tribù modharita di Temîm, avea dato mano ad Abu-Moslim e a casa abbassida nella rivolta contro gli Omeîadi; poi a casa abbassida nell'uccisione d'Abu-Moslim;[219] ed era indi venuto (761) con alto grado nell'esercito d'Affrica; segnalatosi nella guerra; eletto a tener la frontiera dello Zâb contro i Berberi; fatto in ultimo governatore di tutta la provincia; e mortovi combattendo contro un capo iemenita ribelle (767). Però il figliuolo, gradito a corte e sottentrato, com'ei pare, nella condotta delle genti che soleano ubbidire alla sua famiglia, rimase di presidio nello Zâb, lontano dalle discordie che ferveano a Kairewân, poco invidiato dagli ambiziosi, e amato da' suoi marchigiani per liberalità, valore e saldo proponimento. Occorse poi che le altre milizie si trovassero avvolte in una generale sollevazione, nata a Tunis, compiuta a Kairewân per assentimento della cittadinanza, e provocata dal governatore Mohammed-ibn-Mokâtil, fratel di latte del califo; favorito prosuntuoso e dappoco, il quale avea scemato gli stipendii, maltrattato al paro militari e popolani e bacchettoni. Ma come costui fu preso, perdonatagli la vita e cacciato ignominiosamente dalla provincia, Ibrahim piombò sopra Kairewân coi suoi fidati marchigiani; richiamò Ibn-Mokâtil; combattè il capo della rivoluzione, congiunto suo, per nome Temmâm; col quale scambiò rimbrotti in prosa e in versi pria di venire alle armi. Tanto duravano i costumi cavallereschi de' Beduini nella numerosa nobiltà venuta a stanziare in Affrica![220] Ibrahim con fortuna e arte s'innalzò tra i turbolenti compagni. Rotti i sollevati (799), mandava alcuni lor capi incatenati a Bagdad; e, accontatosi in questo mezzo con gli altri, scrivea a corte contro il governatore ch'egli stesso avea ristorato. Rappresentò esser costui troppo odiato; la provincia troppo insubordinata; richiedersi quivi altr'uomo e più pratico del paese: e propose a dirittura sè medesimo, promettendo al califo che non solamente non gli farebbe spender più nulla in Affrica, ma gliene darebbe quarantamila dinar all'anno. Harûn accettò; non per avarizia, ma perchè altro modo non v'era; perch'ei dovea piuttosto pensare all'Oriente, base dello Impero; perchè ogni novello esercito che avesse mandato in Affrica vi sarebbe divenuto novella colonia di ribelli. Consigliollo anche a questo un suo fidato, che conoscea l'Affrica, non meno che la lealtà, il seguito e il valore d'Ibrahim-ibn-Aghlab.
Il quale, avuto il diploma del califo (800), diè opera a crear nuova forza su cui potesse fare assegnamento. Comperato un terreno a tre miglia da Kairewân per fabbricare una villa di diletto, v'innalza in vece un castello; circondalo di fossati; vi fa trasportar sottomano le armi e attrezzi che si teneano nel palagio degli emiri a Kairewân. Al tempo stesso blandisce il giund, ne prende cura particolare, ne sopporta anche la insolenza, trasceglie da quello un nodo di intimi partigiani; e da un'altra mano compera schiavi negri, dando voce di volerli adoperare ai servigii più grossolani, e sgravarne la nobil gente della milizia: e sì li avvezza alle armi; li instruisce in compagnie. Quando ogni cosa fu in punto, lasciato nottetempo il palagio di Kairewân (801), se n'andò coi famigliari, coi fidati del giund, è gli schiavi armati nella cittadella, cui pose il nome d'Abbâsia a onore della dinastia; ma poi la dissero El-Kasr-el-Kadim ossia il Castel-vecchio. E rinacquero le sedizioni; la prima delle quali mossa a Tunis da un dei notabili di schiatta arabica, per nome Hamdîs, che par sia stato progenitore del gran poeta siciliano del medesimo casato: ma Ibrahim ne venne sempre a capo, chiudendosi in cittadella quando soverchiavan le forze dei sollevati; e poi fidandosi nelle loro divisioni; fomentandole con danaro, e adoperando talvolta anco i Berberi. Consolidò il potere; rintuzzò a forza di danaro e tradimenti la dinastia edrisita di Fez; ebbe riputazione anco presso i Cristiani, coi quali si mantenne in pace: accordatosi col prefetto di Sicilia; e dimostrata molta osservanza a Carlomagno ch'era collegato con Harûn-Rascîd, per interesse politico e simpatia scambievole di due grandi ingegni, Carlo, promosso all'imperio lo stesso anno che Ibrahim al governo d'Affrica, gli mandava ambasciatori ad Abbâsia, la fortezza del fossato, come è chiamata negli annali di Einhardo, per chiedere il corpo d'un Santo sepolto a Cartagine: tesoro inutile ad Ibrahim e tanto più volentieri accordato.[221]
Venuto a morte l'Aghlabita, dopo dodici anni di governo, nel cinquantesimo sesto dell'età sua, lasciò ai figliuoli un regno sotto nome di provincia: equivoco che dura tuttavia in parecchi Stati musulmani, come per esempio in Egitto. Ritennero gli Aghlabiti, come i precedenti governatori, il titolo militare di emir e quello più generale di wâli, che appo noi suonerebbe preposto, e si dava anche ad officii minori. Il califo mandava a ogni novello principe di quella casa un diploma che conferivagli il governo, e con quello la bandiera, simbolo del comando, le vestimenta e collane, segni di famigliare liberalità: ai quali atti di regia e pontificia autorità sol mancava di potersi esercitare in favor di un altro. Il tributo dei quarantamila dinar presto mutossi in futili doni, e svanì. I principi d'Affrica fecero guerre e paci, aggravarono e abolirono le tasse, nominarono magistrati e capitani a loro arbitrio, o come portavano le necessità in casa, non come piaceva al califo; e scrissero i loro nomi su le monete insieme con le formole religiose della dinastia abbassida; in guisa che di tutte le regalíe, come le intendono i pubblicisti musulmani, rimase al califo il solo steril vanto che i popoli d'Affrica invocassero il Cielo in favor di lui nella preghiera del venerdì. Ma gli Aghlabiti, se usurpavano all'insù i dritti convenzionali del principato, non poteano soffocare all'ingiù le ragioni naturali degli uomini, sostenute dalle armi dei cittadini e del giund,[222] e più o meno dagli statuti primitivi dell'islamismo. Quantunque mal potremmo delineare tutti i limiti che la consuetudine poneva agli emiri aghlabiti, ne veggiam uno di gran rilievo, cioè il dritto di pace e di guerra esercitato dal principe insieme con la gemâ', o diremmo noi parlamento municipale, del Kairewân. N'è fatta menzione la prima volta a proposito d'un accordo col patrizio di Sicilia nell'ottocento tredici; e sappiam dalle proprie parole di un che sedea nella gemâ', come adunati dal principe gli sceikh e i wagîh, o, come suonano in lingua nostra, gli anziani e notabili della città, il trattato fu scritto e riletto in presenza, loro. E ch'e' non facessero da meri testimonii, e che i partiti liberamente si agitassero, il prova l'altra adunanza tenuta pochi anni appresso per trattar della guerra di Sicilia, dove sedettero i cadi, come i magistrati entrano nella camera dei pari in Inghilterra; e il principe fu necessitato a seguire l'opinione che preponderava.[223]
A comprender appieno come si bilanciassero i poteri dello stato aghlabita, convien discorrere l'autorità che presero in questo tempo i giuristi appo l'universale dei Musulmani. Lo studio della giurisprudenza progredendo, come ogni altro esercizio dell'intelletto, dopo la esaltazione degli Abbassidi, stava per creare nello Impero quasi un novello potere surrogato a quello dei compagni del Profeta: in luogo dell'aristocrazia dei santi, l'aristocrazia dei dottori. Costoro erano a un tempo teologi senza sacerdozio, moralisti, pubblicisti e giureconsulti; come portava l'unità e confusione delle leggi. Per necessaria contraddizione della teocrazia, i dottori vollero comandare al pontefice e re: e tanto o quanto ne vennero a capo; se non che il lione di tratto in tratto lor dava qualche zampata. Così Abu-Hanîfa (699-767), primo tra gli imâm della scienza, i dottori principi, a nostro modo di dire, era morto in prigione, martire, come Papiniano, di sue dottrine e coscienza. Ma non guari dopo Mâlek-ibn-Anas (712-795) guadagnava tanta riverenza appo Harûn-Rascîd, animo grande e civile, che il califo pensò dare virtù di legge al Mowattâ, come si addimandò l'instituta di quel giureconsulto; dal che Mâlek stesso lo ritenne, non sappiamo se per modestia, o perchè tal sanzione gli paresse illegittima, e lesiva al grado della scienza. Un'altra fiata, richiesto da Harûn di dare lezioni all'erede presuntivo della corona, Mâlek gli rispose che la scienza, nobile sopra tutt'altra umana possanza, non dovesse servire altrui ma essere servita; donde il califo, scusandosi, inviò il figliuolo con gli altri giovani della città alla moschea dove Mâlek tenea scuola. Sotto altro monarca, Ibn-Hanbal fu vergheggiato (834) perchè contro gli editti del califo sosteneva increato il Corano; ma il domma del califo andò giù, e venuto a morte Ibn-Hanbal (855), dicesi che a Bagdad accompagnassero il feretro meglio che secentomila persone, e che ventimila tra Cristiani, Giudei e Guebri si convertissero immediatamente all'islamismo, trasportati dal fervore del popolo che celebrava a una voce la dottrina e virtù di quel grande. Noi lasciamo indietro i molti esempii di virtù dei giureconsulti promossi all'uficio di cadi, i quali sapeano affrontar l'ira dei principi quanto niun altro eroico magistrato di cui faccia ricordo la storia d'Europa. Nell'ordine dello Stato mantenner essi l'autorità giudiziale independente dal principato, più e meno che noi non l'ammetteremmo con le odierne teorie di dritto pubblico. Perchè, da una parte i giureconsulti usurparono il potere legislativo mediante le interpretazioni dottrinali; e dall'altro canto, non arrivarono a divider netto la giurisdizione dei magistrati da quella del principe e dei governatori e ministri. Oltre a ciò, i vizii dell'aristocrazia militare, anzi la invincibile anarchia della società arabica, resero necessario un magistrato eccezionale, come noi lo diremmo, uficio dei soprusi lo chiamarono i Musulmani; tribunale preseduto dal principe o da un delegato di lui, spedito nella procedura e arbitrario nelle sentenze. Così di mano in mano l'indole del dispotismo occupava anco l'amministrazione della giustizia; e questa in Oriente si corruppe come ogni altra parte del governo, e presto cadde nella condizione in che or giace. La giurisprudenza musulmana fu compiuta nel nono secolo. L'assentimento universale dei contemporanei e dei posteri diè l'onore di imâm a quattro professori, cioè i tre già nominati, e Scia'fei che visse dopo. Concordavano le loro scuole nei dommi, indi accettate tutte come ortodosse. Differivano in alcuni punti di disciplina religiosa, dritto pubblico e dritto civile, non altrimenti che in oggi le compilazioni del codice francese, presso le varie nazioni che l'han preso per legge. Predominarono quale in un paese quale in un altro; e così oggi rimane in Turchia e in India la dottrina di Abu-Hanîfa, e in Affrica quella di Mâlek, introdottavi per lo primo da Ased-ibn-Forât e da altri suoi contemporanei, ma non fatta legge generale del paese che ne' principii dello undecimo secolo.[224]
Cominciò in Affrica l'opposizione pacifica dei dottori quando Abu-'l-Abbâs-Abd-Allah, figliuolo e successore d'Ibrahim (812-817), pensò di mugnere i proprietarii a beneficio proprio e delle milizie; donde avvenne che queste rimanessero chete per tutto il suo regno. Parendogli incerte e sottili le entrate della tassa fondiaria, che ragionavasi a dieci per cento su le raccolte e prendeasi in derrate, Abd-Allah, a spreto degli statuti, la volle in danaro, a tanto per aratata di terreno coltivato, senza guardare ad annata buona o scarsa. A questi ed altri soprusi risentendosi i cittadini, andavano i più rinomati e venerandi della provincia a trovarlo in fortezza; gli ricordavano, così dice un cronista, “i precetti della religione e il ben della repubblica musulmana;” e, ridendosi il despota di coteste parole, volgean essi sdegnosamente le spalle alla reggia, quando un Hafs-ibn-Hamîd, ch'era in odore di santità, s'arrestò nel cammino, e fece sostare i compagni. Lor disse ch'era da disperare ormai delle creature, non già del Creatore; poi fervorosamente intonò una preghiera a Dio che punisse lo scellerato principe; e ad ogni imprecazione gli altri in coro rispondeano: Amen. La complicità delle milizie col principe ritenne al certo i barbassori dal passar dalle scomuniche a più gravi fatti. E tosto s'ebbero ad allegrare di lor propria sagacità e del credito grande che godeano in Cielo, poichè opportunamente attaccossi un'ulcera all'orecchio di Abd-Allah, e lo spacciò.[225]
Il terrore superstizioso di questo avvenimento par abbia lavorato nella mente del novello principe Ziâdet-Allah (817), figliuolo anch'egli d'Ibrahim, uomo nel resto di fortissima tempra di animo, il quale, seguite un pezzo le orme del fratello,[226] cominciò a ritrarsene, a spiccarsi dal giund, ad ascoltare i giuristi; e tanto s'addentrò nelle ubbie religiose, che consultava i cadi su la misura di voluttà concedutagli dalla religione;[227] e, quel ch'è peggio, parlava di condanna capitale contro i poveri zindik, o diremmo noi, scettici, ospiti pericolosi sotto un governo teocratico; i quali, insieme con le schiatte persiane e con lo incivilimento, pullulavano già per tutto l'Impero, e venivano a filosofare fino in Affrica.[228] Costui ci è dipinto come bel parlatore, liberale coi poeti beduini e coi dotti che veniano d'Oriente a corte sua, animoso, costante, magnifico e giusto.[229] Ma ben mostrò ciò che intendesse per virtù, quando disse fidar nella divina clemenza il dì del giudizio universale, avendo mandato dinanzi a sè, chè questa figura usano sovente i Musulmani, quattro opere meritorie: l'edificazione della moschea cattedrale e del ponte della porta Rebî' a Kairewân, la costruzione della fortezza Ribât a Susa, e la elezione di Abu-Mohriz a cadi della capitale.[230] Affidandosi in cotesti meriti, gli parea tanto più venial peccato il sangue ch'ei facea spargere, mosso da sua natura feroce, dalle necessità della tirannide, e sovente anco dal vino che bevea. Quella indole imperiosa, non dimenticando l'antica insolenza del giund, sdegnò di accarezzarlo, o comperarlo, come avean fatto il padre e il fratello; volle essere ubbidito sol perch'ei comandava; e probabil mi sembra ch'anco offendesse il giund negli averi, disdicendo la nuova tassa di Abd-Allah. Agevole gli fu di spegnere una prima sollevazione di Ziâd-ibn-Sahl-ibn-es-Sikillîa ovvero es-Sakalîba, che significherebbe figliuol della Siciliana, ovvero della Slava (822). Ma surto in arme Amr-ibn-Mo'âwia della potente tribù di Kais, e costretto ad arrendersi, Ziâdet-Allah, come l'ebbe in mano, non seppe moderar la vendetta. Più savio di lui il giullare di corte, domandato quel dì che nuove corressero, “Si dice che tu non uccida Amr,” gli rispose; “perchè i Kaisiti farebberti pagar caro quel sangue.” Ma egli, tanto più invogliato, correa alla prigione; scannava di propria mano il ribelle con due figliuoli, e fatte porre le teste sopra uno scudo, le imbandì sul desco ove si messe a bere coi cortigiani (823). Scoppiò a tal atto di crudeltà l'ira delle milizie. Proruppero a sedizione in Tunis; si levarono per tutta l'Affrica, arrogandosi ognuno la signoria del distretto ove era alle stanze, e fecero capo dell'esercito un Arabo di illustre schiatta per nome Mansûr, detto Tonbodsi, dal nome d'un suo castello (824). Invano il despota avviava contro costui i mercenarii e il giund suo fidato, minacciando di mettere a morte chi voltasse le spalle nella battaglia. Rotti da Mansûr, passarono sotto le bandiere di lui per fuggire la vendetta del crudel signore: tutto il giund, e le milizie cittadine, e gli stuoli che accorreano in arme da ogni luogo[231], mossero sopra Kairewân; posero il campo fuor la città (agosto 825), sollecitando i terrazzani a seguirli; mentre Ziâdet-Allah co' mercenarii e la famiglia s'era chiuso in cittadella. Il popolo della capitale, non badando ai dottori che sognavano potersi camminar sempre entro i limiti della resistenza legale, aprì le porte a Mansûr, rifabbricò con l'aiuto di quello le mura abbattute da Ibrahim, capo della dinastia, e tutto diessi alla rivoluzione. Poi seguì l'usato effetto tra que' piccioli corpi feudali e municipali, ciascun dei quali avea preso a reggersi dassè. Impotenti ad espugnare Abbâsia, si divisero; e Ziâdet-Allah, uscito co' suoi, li ruppe (ottobre 825), pose in fuga Mansûr, riprese Kairewân, ed abbattè le mura, ritenendolo da maggiore vendetta, chi dice un voto ch'avea fatto a Dio mentre era stretto d'assedio in Abbâsia, chi dice le preghiere dei due cadi; e nessuno ha pensato che volendo domare il giund, dovea andare con riguardo verso i cittadini, e che Mansûr, ancorchè sconfitto, era in arme, e la provincia tutt'altro che queta. In fatti, voltata la fortuna della guerra, Mansûr tornò a Kairewân, Ziâdet-Allah tornò a chiudersi in Abbâsia, e già si parlava di accordo che lasciata la signoria d'Affrica ei se ne andasse con la famiglia e lo avere in Levante, quando uno dei suoi partigiani con audace fazione lo salvò. Costui, tolto seco un pugno d'uomini, andò verso Castilia ai confini meridionali dell'odierno Stato di Tunis, ove s'era mossa contro i ribelli la tribù berbera di Nefzâwa; ond'egli accozzando i Berberi e mille Negri armati di vanghe e di scuri, ruppe il giund di A'mir-ibn-Nafi'. Le discordie fecero il resto. Mansûr, venuto alle armi contro A'mir, fu morto a tradimento; A'mir tenne il fermo altri tre o quattro anni in Tunis; e i capi minori prima di ciò a uno a uno s'eran sottomessi; e la più parte era ita ad espiare la ribellione con la guerra sacra in Sicilia.[232]
Tali erano le condizioni dell'Affrica in questo tempo. La popolazione industriale, d'origine europea o mescolata, non avea peso nello Stato: menomata dalle emigrazioni; sottomessa d'opere e d'animo, e la più parte fatta musulmana, con tal precipizio, che la Chiesa Africana, la quale levò già tanto grido in Cristianità, potea dirsi annichilata mezzo secolo dopo il conquisto; come ce l'attestano concordemente le cronache musulmane e i documenti ecclesiastici, sia romani, sia alessandrini.[233] I Berberi, tutti oramai musulmani, tra ortodossi e scismatici, stanchi e divisi ma non domi, ubbidivano e si sollevavano; pronti ad accompagnar gli Arabi in guerra, non a sopportare i pesi del dominio; meno ostili a casa aghlabita che ai capi dei giund lor signori o vicini; ma quel sembiante di obbedienza s'andava dileguando a misura, che le tribù si allontanavano dal centro della provincia. Dei coloni arabi e persiani abbiam detto abbastanza, che le passioni di quelle milizie riottose, di que' cittadini turbolenti, di que' giuristi fanatici, eran fuoco sotterraneo che cercava d'aprirsi uno spiraglio.
Tra vicende analoghe s'agitavano in questo medesimo tempo i Musulmani di Spagna. Accennammo già come nei primi impeti del conquisto (711), valicati i Pirenei, irrompessero in Linguadoca. A capo di venti anni, fatto pianta di lor guerra quella provincia, or con eserciti or con gualdane si spinsero fino al Rodano e alla Senna da un lato, alla Loira e all'Oceano dall'altro, capitanati da emiri, cui designava il califo, ovvero il governatore d'Affrica. Ma infin d'allora svilupparonsi due serie distinte di fatti, che liberarono dal danno presente la Francia, e dal pericolo tutta l'Europa. Da una mano era la reazione delle popolazioni cristiane; la maravigliosa costanza delli Spagnuoli afforzatisi tra i monti di Gallizia, delle Asturie, della Navarra; il valore de' Franchi, e altri Germani, che sotto Carlo Martello guadagnavano la giornata di Poitiers (ottobre 732); la resistenza di parecchi signori della Francia meridionale, e possiamo aggiungere degli Italiani ancora, poichè le mosse di Liutprando affrettavano la espugnazion d'Avignone (737). L'altra serie di eventi che troncarono i passi ai conquistatori, nascea dai vizii della società musulmana in generale, e di quella d'Affrica in particolare, madre della colonia spagnuola. Pertanto in Spagna, come in Affrica e peggio, i vincitori sospettosi tra loro, pronti a straziarsi in guerra civile: Arabi contro Berberi; Modhariti contro Iemeniti; gli antichi coloni contro i nuovi; i borghesi contro i militari: ed ogni fortuna che corresse la dominazione dei califi in Affrica portava un contraccolpo di là dallo Stretto.
La provincia nondimeno si rassettò, quando spiccossi dallo Impero, per ubbidire a un principe proprio (755) della schiatta d'Omeîa, testè cacciata dal trono dei califi. Senza potere sradicar da loro montagne que' valorosi Cristiani che teneano tra ponente e settentrione della penisola, i primi monarchi omeîadi di Spagna si mantennero a un di presso a' limiti dei Pirenei, or avanzandosi fino a Carcassonne (792), ora indietreggiando a Barcellona, che perdettero per sempre (801). Ostili ai Musulmani di Affrica; duramente contrastati dalla parte di Francia, dai primi monarchi carolingi, che s'intendeano coi califi abbassidi, gli Omeîadi di Spagna non si segnalarono per conquisti,[234] ma si detter pensiero degli armamenti navali, più che non l'avessero mai fatto i governatori dei califi.[235] Intesero altresì a ordinare lo Stato a dispetto degli elementi di discordia accennati dianzi; e dettero principio a quella splendida civiltà che poi sopravvisse a lor dinastia, alle guerre civili ed alla occupazione cristiana. E perchè nel faticoso cammino della umanità è sempre avvenuto che i principii d'ordine fossero usurpati e contaminati dal dispotismo, e appena oggi si comincia a vedere qua e là nel mondo qualche popolo che sappia innestarli con la libertà, non fia maraviglia se verso la fine dell'ottavo secolo i monarchi musulmani di Spagna, volendo dar sesto alla società, cadessero nella tirannide, o piuttosto intraprendessero l'opera dell'ordine e incivilimento al solo fine incivilissimo di prevalersi senza ritegno del comando. Seguendo l'istinto che porta i tiranni a spolpare i sudditi per ingrassare le soldatesche stanziali, Hâkem-ibn-Hesciâm (796-822), terzo principe omeîade di Spagna, uom prode e di forte animo, ma beone, dissoluto e crudele, provocò di soverchio il popolo della capitale. Aggravati col nuovo balzello della decima su le vittuaglie; dispettosi del vedere armar legioni di schiavi comperati a posta e rizzare fortezze e tener cavalli schierati innanzi la reggia, i cittadini di Cordova si risentirono; rincorati dai giuristi, i quali in Spagna come in ogni altra provincia sosteneano la primitiva libertà dei Musulmani. Indi Hâkem a far morire i caporioni della resistenza legale; indi i cittadini a congiurare per deporlo dal trono; e dalle congiure i soliti tradimenti e supplizii; finchè la rattenuta ira scoppiava alle violenze d'uno schiavo soldato contro un cittadino.
Il borgo meridionale, frequentissimo di popolo, si levò incontanente a romore (25 marzo 818); dove spinti da Hâkem gli stanziali negri, il giund e sue schiere di ribaldi raunaticci, il giorno appresso il borgo fu espugnato; messo per tre dì a ruba, a sangue ed a fuoco; distruttevi dalle fondamenta case e moschee; trecento cittadini dei più notabili, sgozzati e sospesi ai pali in orrida fila lungo il Guadalquivir. Al quarto giorno, osando alla fine un cortigiano di ricordare al tiranno che quei ribelli di cui facea carnificina fossero pur creature di Dio, Hâkem perdonò la vita ai superstiti che s'andavano ascondendo per la città; ma volle che sgomberassero da Cordova e luoghi vicini, con loro donne e figliuoli, portando seco la roba che potessero: ma le soldatesche, postesi ai passi nella campagna, li svaligiarono. Molti indi si rifuggivano a Toledo e altre città di Spagna; molti su le costiere d'Affrica; e più numero andò a cercar ventura in Oriente: rimase il borgo di Cordova desolato e disabitato per quattro secoli. Hâkem, come se non fosse ancor sazio, sfogò il resto della rabbia ch'avea in petto con dettare una satira contro i ribelli; esempio, credo unico, nella storia; poichè Giuliano l'apostata, al tempo antico scrisse il Misopogon contro i cittadini d'Antiochia, senza far torcer loro un capello; e più d'un principe pagano e cristiano si è vendicato con arsioni, macelli e saccheggi, senza sapere scriver satire. L'opinione pubblica, che gastiga tai misfatti com'ella può, non perdonò al re poeta. Il volgo chiamollo “Quel dal Borgo” e “L'Efferato” ( Er-Rabâdhi ed Abu-'l-A'si ). I cronisti a gara lo infamarono e maledissero; all'infuori d'un semplice o svergognato, che con gergo cortigianesco appose il tumulto del borgo a prosperità soverchia del popolo.[236]
Il grosso degli sbanditi di Cordova (i cronisti lo fan sommare a quindicimila) si vede apparire d'un subito, otto anni dopo l'eccidio, in Alessandria d'Egitto; onde è da supporre che fosse stato respinto successivamente da più luoghi di Spagna e d'Affrica, ove cercava una patria; e che Hâkem, ovvero il figliuolo, Abd-er-Rahmân, il quale gli succedette (822), abbia fornito navi per allontanar dal reame gente sì indocile e sì ingiuriata. Senz'armi nè danaro, e, com'e' sembra, alla sfilata, passarono, cheti per forza, le Baleari e le terre italiane, cui l'armata spagnuola aveva osteggiato con successi non felici poco avanti il caso di Cordova: e si adunarono a poco a poco nei sobborghi d'Alessandria. Non andò guari che una rissa privata accese aspro combattimento tra cotesti Spagnuoli che nulla possedeano, e i cittadini che li guardavano in cagnesco; e gli Alessandrini v'ebbero la peggio: i disperati forastieri, fatti per necessità soldati di ventura, occuparono parte della città, e dopo orribili guasti e depredazioni vi s'afforzarono e posero sopra di loro un condottiere. Fu questi Abu-Hafs-Omar-ibn-Scio'aib, detto El-Ballûti da una terra presso Cordova, e il Cretese dall'isola ch'ei poscia conquistò; Apocapso, come lo chiamano i Bizantini, trascrivendo a lor guisa il primo dei suoi nomi. Ma, dopo le turbolenze intestine che avean lacerato l'Egitto e favorito la sedizione delli Spagnuoli, riordinato lo Stato da Abd-Allah-ibn-Tâher, luogotenente del califo e poi occupatore della provincia, questi fece intendere ad Abu-Hafs che si sottomettesse, o s'apparecchiasse a difendersi: e bastò il nome di Tâher a piegare Abu-Hafs all'accordo (823?). Stipularono che il governatore d'Egitto desse un sussidio di danari, e che, allestita così un'armatetta, gli Spagnuoli sgombrassero d'Alessandria, e cercassero fortuna in alcun paese cristiano non soggetto ai Musulmani. Elessero Creta ch'era vicina, mezzo disabitata,[237] e parea facile acquisto; avendovi fatto una scorreria l'anno innanzi Abu-Hafs medesimo o alcun altro condottiero musulmano con poche forze. Probabil è che Abu-Hafs, sbarcando in Creta, abbia dato alle fiamme parte de' legni rabberciati con poca spesa in Alessandria, e non atti a novella navigazione; e ciò porse argomento ai Bizantini a replicare nel conquisto di Creta il classico racconto dell'armata arsa da Agatocle, quando assalì Cartagine; a fingere che Apocapso, da lor chiamato Principe dei Credenti in Spagna, volendo sgravare il paese conducesse quella colonia in Creta, e cercasse di togliere ai suoi la speranza del ritorno; e drammaticamente fanno adirare i Musulmani alla vista dell'incendio per amor delle mogli e figliuoli che avean lasciato in Ispagna; e fanli racchetare da Apocapso con brevi parole: che ei lor darebbe in Creta donne più belle, dalle quali avrebbero quanta prole volessero. I cronisti bizantini, che ambivano d'intrecciar nella storia tante fronde di rettorica a modo greco e romano, ignoravano che disperata gente fossero i vincitori di Creta; ma ne sapeano bene alla prova il valore. Narrano pertanto molti fatti d'arme trascurati dai Musulmani nello scheletro de' loro annali. Narrano, come Abu-Hafs afforzava l'alloggiamento, che poi divenne città, e dalla voce arabica Khandak, che suona fosso, si chiamò Candia, e diè all'isola il nome che or porta. Dicono infine come Michele il Balbo, testè liberatosi dalla guerra civile di Costantinopoli, mandasse due eserciti al racquisto dell'isola, e fossero entrambi sconfitti. Dondechè, condotta una schiera di mercenarii a quaranta monete d'oro a capo, questa forte milizia, che i Greci chiamarono per invidia i Tessaracontarii, o diremmo noi Quarantini, fece miglior prova. Con un'armatetta capitanata da Orifa, che al nome par anch'egli straniero, i Tessaracontarii liberarono dai Musulmani le isolette adiacenti; Creta non già, ove la colonia si afforzò e crebbe. Seguitavano questi eventi verso l'ottocento venticinque di nostr'era.[238] I Musulmani poi di Creta, su' quali regnò la dinastia di Abu-Hafs,[239] sembra che partecipassero con le popolazioni affricane nel conquisto di Sicilia, e di certo furono principalissimi nella infestagione della Puglia e della Calabria per tutto il nono secolo: e per tal motivo ho voluto distendermi nei particolari della emigrazione loro dalla Spagna,
CAPITOLO VII.
Basta a gittare uno sguardo su la carta geografica per comprendere come, occupata l'Affrica propria dai Musulmani, la Sicilia fu involta in continua guerra. Dapprima servì di scala alle spedizioni con che il governo bizantino provossi a difendere l'Affrica: in fatto s'adunavano in Sicilia le armate che ripigliarono Barca del seicento ottantotto, e Cartagine del seicento novantasette, come abbiamo narrato. Ma stanco l'Impero a sì pochi sforzi, e sconfitta da Hassân-ibn-No'mân la terribile reina dei Berberi, i Musulmani incontanente ripigliarono l'assalto, con infestar le isole italiane. Principiarono da Cossira, ch'oggi s'addimanda Pantellaria; isoletta ferace, spaziosa, comoda di porti, e situata, come pila d'un ponte che dovesse congiungere la Sicilia e l'Affrica, a sessanta miglia dalla prima e quaranta dalla seconda. Però Cossira fu, di tutti i tempi, luogo rinomato nelle guerre che si travagliarono tra i due paesi. Molti Cristiani d'Affrica vi s'erano rifuggiti, già il dicemmo, dalle armi musulmane, e, afforzatisi nell'isola, vissero sicuri finchè gli Arabi di quelle parti non ebber agio di pensare alle cose del mare. Ma verso il settecento dell'era volgare, Abd-el-Melik-ibn-Katân, venendo forse d'Egitto, andò a gastigare que' sudditi contumaci, come al certo li chiamavano i Musulmani; s'insignorì dell'isola, e ne spianò le fortezze. Mandavalo, al dire di Bekri, il califo Abd-el-Melik-ibn-Merwân:[240] ed è evidente che questa fazione fosse il principio d'un gran disegno, attribuito da alcuni scrittori a Musa-ibn-Noseir.
Ed era di rinnalzare la potenza che la schiatta semitica avea fondato in quelle medesime regioni quindici secoli innanzi, la quale non avea ceduto che alla virtù di Roma. Narra un de' primi cronisti arabi che Musa, venuto a Cartagine, sentendo dir dai paesani berberi delle antiche imprese navali di quel popolo, si deliberasse a ritentare tal via;[241] sì come poi occupata la Spagna gli lampeggiò alla mente di tornare in Oriente a traverso la terraferma di Europa; imitando e avanzando Annibale. Altri vuole che Hassân-ibn-No'mân, predecessore di Musa, avesse pensato già prima alla guerra navale; sì che per comando o assentimento del califo s'era cominciato a sgomberare il canale tra il mare e la laguna di Tunis, per acconciar questa a porto da guerra e farvi un arsenale:[242] e avean messo mano a tai lavori, o alla costruzione delle navi, artigiani copti chiamati a posta d'Egitto,[243] indifferenti o forse lieti di lavorare ai danni de' lor antichi signori bizantini. Qual che si fosse l'autore del disegno, il tempo in cui vi si diè principio si può circoscrivere a quattro o cinque anni tra il seicento novantotto e 'l settecentotrè; e la opportunità della scelta è evidente, poichè quella laguna sì difendevole assicurava l'armata musulmana dalle superiori forze navali dei Greci; oltrechè a Tunis non v'era sospetto, come a Cartagine, d'una popolazione cristiana che desse aiuto o almeno avvisi al nemico. Musa, se non cominciò, affrettò l'opera al certo; comandò di fabbricar cento navi;[244] e non aspettò che fossero fornite,[245] per muovere un assalto contro la Sicilia; istigandolo invidia e cupidigia, che poteano pur troppo sul grande animo suo.
Perchè un'armata egiziana era testè venuta, quasi sotto gli occhi del capitano d'Affrica, a far preda su le terre dei Cristiani. 'Atâ-ibn-Rafi', della tribù di Hudseil, condottiero dell'armata, proponendosi d'assalire la Sardegna, era entrato nel porto di Susa a far vettovaglie; quando ebbe lettere di Musa, che l'ammonivano ad aspettar la primavera e non affrontar le tempeste di quella stagione; ch'era, credo io, l'autunno del settecentotrè. Odorandovi l'invidia, 'Atâ non dette ascolto al consiglio, e salpò, e giunse ad un'isola di Silsila, come leggiamo nel MS. unico d'Ibn-Koteiba: sia che gli Arabi d'allora abbian dato tal nome a Lampedusa o altra isoletta vicina; sia, come parmi più probabile, che si tratti della Sicilia e i copisti n'abbian guasto il nome. Gli Arabi d'Egitto fecervi grosso bottino d'oro, argento e gemme; ma al ritorno, un turbine di vento li colse presso le costiere d'Affrica: onde molte navi perirono, tra le quali quella di 'Atâ; altre qua e là arenarono. E Musa, risaputolo, mandava incontanente una man di cavalli a percorrere le spiagge; prendere i legni e i marinai campati al naufragio; e condurre gli uni e gli altri nell'arsenale di Tunis[246]. Entrato poi l'anno ottantacinque dell'egira (13 gennaio a 31 dicembre 704) Musa bandisce la guerra sacra sul mare; dà voce ch'ei vi andrà in persona; trasceglie i più arrisicati e forti uomini dell'esercito e il fior della nobiltà araba, e li fa montare su l'armata; che niuno ne rimase in terra, al dir dei cronisti. Quando le navi erano in punto di salpare, Musa si fe' recare l'insegna del comando, e inaspettatamente l'annodò alla lancia che tenea in mano Abd-Allah suo figliuolo; affidando alla fortuna del giovane questa che fu la prima impresa navale dei Musulmani d'Affrica, e che addimandossi la spedizione degli illustri, per la chiara fama de' guerrieri che v'andarono. Sbarcarono del settecentoquattro in Sicilia, ove presero una città della quale non sappiamo il nome; ma solo che, scompartito il bottino, toccassero cento dinâr d'oro a ciascuno, che vi si contavano tra novecento o mille uomini;[247] onde la somma, aggiuntavi la quinta del principe, torna quasi ad un milione e settecento mila lire.[248] Non andò guari che Musa fe' uscir di nuovo l'armata d'Affrica sotto A'iiâsci-ibn-Akhial, il quale irruppe in Siracusa (705), dicono i cronisti arabi, forse nella parte della città che rimaneva in terraferma, ovvero in qualche sobborgo, e tornossene sano e salvo e con gran preda.[249]
L'anno poi che principiò la guerra di Spagna (710), Musa mandò le navi in Sardegna; all'arrivo delle quali gli abitatori della città capitale non trovaron altro riparo che di gittare in fondo al porto tutto il vasellame d'oro e d'argento, e nascondere il danaro e le minutaglie più preziose nella cattedrale, tra le tegole e il soffitto. Ma, occupata la città, un Musulmano, bagnandosi in mare, inciampava in un piatto d'argento; un altro, saettando una colomba che svolazzava nella chiesa, colse un'asse del soffitto, onde caddero alquante monete d'oro: così, al dir dei cronisti musulmani, si scopersero i tesori occultati. Stendonsi poi nel narrare le magagne dei soldati che saccheggiando frodavano la parte del califo, del capitano e dei compagni; onde, per timore d'esser frugati nei panni, chi spezzò la lama della scimitarra per nasconder l'oro nel fodero, rimettendo l'elsa al suo luogo; chi sparò la carogna d'un gatto e ripiena di danaro la gittò dalle finestre d'un palagio, per ripigliarla all'uscita. A tal corruzione generale mescolavansi i terrori religiosi, e non la frenavano. Rimontati in mare i predoni, dice Ibn-el-Athîr, udissi una spaventosa voce: “Sommergili, o Dio!” e incontanente il mare tranghiottiva que' ribaldi; e, come ad accusarli, rigettava su la spiaggia i cadaveri con le cinture zeppe di moneta.[250]
Per dieci anni l'ardente cupidigia dei soldati e dei capitani si sfogò in Spagna; indi si volse di nuovo ai nostri paesi; poichè sappiamo che Mohammed-ibn-Aus, oriundo di Medina,[251] avea fatto preda e prigioni in Sicilia l'anno settecentoventi, quando, tornato in Affrica, fu preposto al governo in luogo di Iezîd, ucciso dai Berberi, come sopra accennammo. Il movimento poi di questi popoli ammorzò l'impeto degli Arabi contro la Sicilia. L'isola fu assalita il settecentoventisette da Biscir-ibn-Sefwân della tribù di Kelb, capitano d'Affrica, il quale tornò con gran copia di prigioni;[252] ma par trattasse col governatore bizantino un accordo che poi non si fermò, o non si osservò.[253] Venuto a morte Biscir, e succedutogli 'Obeida-ibn-Abd-er-Rahmân della tribù di Soleim, tentava la Sicilia con parecchie spedizioni. L'anno medesimo ch'ei capitò in Affrica, che fu il centodieci dell'egira (15 aprile 728 a 3 aprile 729), mandò in corso con l'armata un Othman-ibn-abi-Obeida; il quale sbarcato in Sicilia spiccava una schiera di settecento uomini, condotta dal proprio fratello Habîb; e questi, scontratosi col patrizio bizantino, lo ruppe e messe in fuga. Onde 'Obeida, con maggior disegno, l'anno appresso (4 aprile 729 a 24 marzo 730), allestiva centottanta barche, e inviavale a dirittura in Sicilia con Mostanîr-ibn-Habhâb; il quale per incapacità o sventura frustrò le speranze del capitano d'Affrica. Posto l'assedio ad alcuna città, tanto aspettò che sopravvenne l'inverno; e allora, partitosi con prosperi venti, ma assalito da una tempesta nel tragitto, perdè per naufragio tutta l'armata, da diciassette barche all'infuori; in una delle quali egli stesso approdava a Tripoli. Il che risapendo 'Obeida, volle dare, dice il suo biografo, un gastigo a Mostanîr e uno esempio agli altri. Commise a Iezîd-ibn-Moslim, governatore di Tripoli, di mandargli incatenato sotto buona scorta il condottiero che avea fatto perire per oscitanza i Musulmani; e avutolo in Kairewân, lo fece frustare sopra un'asina per la città; poi per lungo tempo vergheggiarlo ogni settimana; e sì il tenne in prigione finch'ei resse la provincia.[254] Thâbit-ibn-Hathîm di Ordûnn in Siria nel centododici (25 marzo 730 a 13 marzo 731), e Abd-el-Melik-ibn-Katan nel quattordici (2 marzo 732 a 19 febbraio 733), vennero anco a far bottino e prigioni in Sicilia, e salvi se ne tornarono in Affrica; al par che Abd-Allah-ibn-Ziâd, che infestò il quattordici stesso la Sardegna. Ma l'anno appresso (20 febbraio 733 a 8 febbraio 734), Abu-Bekr-ibn-Soweid, mandato da 'Obeida in Sicilia, perdeva alquante navi, distrutte dal fuoco che lanciaronvi i Bizantini.[255] Infelice al paro un'altra impresa, ordinata il cento sedici (9 febbraio 734 a 29 gennaio 735) da 'Obeid-Allah-ibn-Habhâb, il quale passò allora dal governo d'Egitto in Affrica, in luogo di 'Obeida che gli avea sì crudelmente svergognato il fratello. Le genti di 'Obeid-Allah che venivano sopra la Sicilia, imbattutesi nell'armata greca, ebbero dura battaglia e d'esito incerto; poichè i Greci sconfitti recaron seco loro molti prigioni musulmani; e tra gli altri un Abd-er-Rahmân-ibn-Ziâd, il quale non fu liberato innanzi il centoventuno (739). Del centodiciassette (735), 'Obeid-Allah facea depredar di nuovo la Sardegna da un nipote del famoso 'Okba-ibn-Nafi' per nome Habîb-ibn-'Obeida, chiaro anch'egli per vittorie su le remote rive dell'Atlantico e in cuor del continente affricano, nel Sudân.[256] Intanto, ingrandito l'arsenale di Tunis e apparecchiate assai maggiori forze che per l'addietro, e fattene venire anco di Spagna, 'Obeid-Allah le affidava ad Habîb, e scagliavale un'altra fiata su la Sicilia, con evidente disegno di conquisto. Sendo l'Affrica aspramente turbata a quel tempo, pare che il governatore musulmano si fosse deliberato alla impresa allettato da pratiche che avesse in Sicilia, ove Leone Isaurico tormentava troppo le coscienze e le borse dei popoli.
Sbarcato Habîb del centoventidue (740), e afforzatosi com'ei pare in un campo, come soleano fare i Musulmani quando prendeano ad occupare alcun paese, mandava intorno i cavalli col proprio figliuolo Abd-er-Rahmân; il quale ruppe quanti gli veniano allo scontro, e corse vittorioso in Sicilia, dicono i cronisti musulmani, più largamente che niun altro condottiero. Appresentatosi sotto le mura di Siracusa, Abd-er-Rahmân sconfisse le genti uscite a combatterlo; strinse d'assedio la città, e spirovvi tanto terrore, che un dì potè cavalcare egli stesso fino ad una porta, e percossala con la spada in atto di minaccia, lasciovvi il segno. Calaronsi infine i cittadini a pagar una taglia. Doma la capitale, Habîb volgeasi a soggiogare il rimanente dell'isola; quando fu premurosamente richiamato in Affrica, ove i Berberi s'erano sollevati di nuovo, cogliendo appunto il destro di questa impresa di Sicilia.[257] L'isola dunque fu salva mercè quella ribellione.
In mezzo alle fiere vicende che poscia intervennero in Affrica, Abd-er-Rahmân, occupata questa provincia, come altrove s'è detto, ripensò alla Sicilia. L'anno centotrentacinque (17 lug. 752 a 5 lug. 753), allestita un'armata e gastigati i Berberi di Telemsên, andò in persona, o, com'altri vuole, mandò il proprio fratello Abd-Allah all'impresa di Sicilia e poi di Sardegna; nelle quali fu fatto molto guasto e stragi e preda e prigioni: durevoli acquisti no; non concedendolo le deboli fondamenta della dominazione d'Abd-er-Rahmân in Affrica. Il governo bizantino potè quindi, avvertito da tal nuova minaccia, afforzare validamente le due isole, e massime la Sicilia che più gli premea; rizzare un castello, così scrivono i Musulmani, sopra ogni roccia atta a difesa; e ordinare un'armata che guardava que' mari, e quando il potea, corseggiava sopra i mercatanti musulmani.[258] Tra così fatti provvedimenti e le turbolenze che non cessavano in Affrica, la Sicilia ebbe respitto dai Musulmani più di mezzo secolo.
Le ultime incursioni erano state aggravate da una crudele pestilenza. Già fino dal settecentodiciotto avea menato strage nell'armata del califo che assediava Costantinopoli.[259] Proruppe indi in Affrica dal settecentoquarantaquattro al settecentocinquanta,[260] e verso il medesimo tempo in Sicilia e Calabria, donde si credè che si appigliasse alla Grecia; e del settecentoquarantotto spopolò Costantinopoli e il Peloponneso,[261] mentre non men fiera ardea tra il Tigri e l'Eufrate.[262] Nei paesi cristiani commossi allora dalla lite delle immagini, non si potea far che cotesta calamità non le fosse apposta. E perchè gli Iconoclasti, distruggendo ogni altro obietto di culto, serbavan la sola croce, il volgo ortodosso la prese in uggia: vide apparire, su le vestimenta, le case e i tempii, crocette negre a migliaia, non più simbolo di riscatto, ma segno di pestilenza e marchio dell'ira divina.[263]
Si rannoda infine alle scorrerie de' Musulmani nel bacino centrale del Mediterraneo un episodio di storia letteraria, di assai momento nella penuria di quella età. Narra una leggenda che tratta a Damasco una torma di prigioni cristiani delle isole, mentre altri era venduto, altri, non sappiamo perchè, serbato al patibolo, notavasi tra loro un bel giovane italiano per nome Cosimo, al quale i miseri compagni si gettavano ai piè, chiedendo li raccomandasse a Dio. I Barbari, che non comprendeano perchè tanto si onorasse un uomo di sì poca età e povero aspetto, maravigliati lo interrogavano dell'esser suo; ai quali rispondea, sè esser frate e dotto in filosofia cristiana ed antica: e in ciò dire gli si empiean gli occhi di lagrime. “E perchè piangi, tu, che hai ripudiato ogni bene di quaggiù?” domandollo allora un cittadino fattosi innanzi. E Cosimo a lui: “Altro non m'accora,” rispose, “che d'avere studiato indarno. Ho speso la gioventù,” continuava, “ad apprendere rettorica, dialettica, morale, fisica, aritmetica, geometria, musica, astronomia, teologia greca e teologia nostrale: ma a che pro, se or debbo morire oscuro, senza che abbia a chi lasciare tal retaggio?” — “Datti pace, o fratello, che ti troverò io gli eredi” replicò il cittadino, ch'era cristiano, facoltoso, grato al califo, e padre del giovanetto Mansur, notissimo poi sotto il nome di San Giovanni Damasceno. E il buon uomo, comperato immantinente il prigione, lo emancipò, e affidògli il figliuolo e un altro fanciullo che avea adottato; i quali felicemente apparavano le dottrine del maestro, e il primo ne salì a quella fama che ognuno sa. Tanto leggiamo nella vita del Damasceno stesa due secoli appresso, sopra certi ricordi arabici;[264] e, stralciando gli ornamenti del compilatore, non v'ha ostacolo ad accettare il fatto. Secondo la ragion dei tempi, torna ai primi anni dell'ottavo secolo; ond'ei pare che il monaco Cosimo fosse caduto in man dei Musulmani in Sicilia, forse nella spedizione degli illustri ricordata di sopra; dopo la quale ei sarebbe stato condotto al califo, tra i sessantamila prigioni che gli mandava Musa conquistatore dell'Occidente. Rinforzano tal supposto le frequenti comunicazioni, e potremmo dire la promiscuità che correa tra i monasteri di Sicilia e que' della terraferma independente dai Longobardi, negli ultimi venticinque anni del settimo secolo.
CAPITOLO VIII.
Mentre la potenza musulmana, sviluppandosi in Affrica, costringea gli imperatori d'Oriente a pensare alla difesa della Sicilia, succedeano nella penisola italiana non men gravi mutamenti di Stato. I Longobardi, tra per que' loro sciolti ordini politici e per la pochezza del numero, s'erano rimasi ai primi conquisti, e minacciavano le altre provincie, senza poterle opprimere. Gli imperatori bizantini dal canto loro le reggeano senza poterle difendere; non avendo esercito da mandare in terraferma d'Italia, nè altro che rescritti, governatori, officiali, qualche man di scherani, e ad ora ad ora un po' di forze navali. Pertanto tollerarono, o promossero, l'ordinamento delle milizie cittadine; lasciaron fare i municipii, che guadagnavan indi tutta l'autorità perduta dal principato; e a poco a poco la schiatta italica delle dette regioni ripigliò l'uso delle armi e della vita politica, e aperse la prima era dei nostri comuni. Roma primeggiò tra quelli, perchè era Roma; e perchè da San Gregorio in poi vi s'eran fatti come presidenti del municipio i papi, la cui riputazione crescea sempre più tra la rozza gente germanica, e toccavano quasi al primato su tutte le chiese di Ponente.
Il novello elemento nazionale surto così in Italia, si provò contro il governo bizantino, oppressore senz'armi, e, per giunta, molestissimo con que' suoi ghiribizzi teologici che poco assai si confaceano alla natura italiana. Attizzò il fuoco la Chiesa di Roma, rivale antica di quella di Costantinopoli, e osante ormai disputare agli imperatori l'uficio di pontefice massimo. Per tal modo lo antagonismo nazionale tra Italiani e Greci, prese forza e sembianza d'antagonismo religioso, ch'è tra tutti violentissimo. Ma al Sacerdozio solo profittò; nocque all'Italia, ch'era scissa tuttavia tra due genti: latina e longobarda; e i Latini, per loro malanno e nostro, non vedean altra stella polare che il papa.
La resistenza cominciò da Roma, ove il popolo non avea perduto nè la vigoría nè l'orgoglio; ma scarso, ozioso e povero, appena gli parea vero che un magistrato eletto da lui fosse riverito ancora in tanta parte del mondo, e ne cavasse un tributo, il frutto cioè dei patrimonii, con che il papa nutriva gli indigenti della città, manteneva una torma di officiali sacri e profani, ed accrescea lo splendore dei tempii che attiravano tanti stranieri. Per la gratitudine e interesse dei Romani, Costante avea durato fatica a compiere l'attentato sopra papa Martino. Parecchi anni appresso, il mero sospetto che un esarco venuto di Sicilia a Roma volesse offendere il papa, bastò per far levare a romore le milizie della città, e accorrere in arme quelle della Pentapoli e di Ravenna, che ai conforti del papa poi si ritrassero (702). Ma, sguainate le spade là dov'eran tante ire, non tardò a scorrere il sangue. Il patrizio Teodoro, passato anche di Sicilia con l'armata a Ravenna, fece a tradimento una efferata vendetta sopra que' cittadini; dond'essi confederaronsi coi Romani e con le città dell'esarcato (711); e côlto il destro che l'imperatore Filippico tentasse di ridestare la eresia monotelita, il senato e popol romano, con sembianze dell'antica magnanimità, decretavano disdirgli l'obbedienza, metter giù le effigie dello imperatore, e ricusar la moneta battuta a suo nome (712). Nondimeno, deposto Filippico, il movimento italiano sostò per la prudenza o debolezza degli altri imperatori, e per la dubbiezza dei papi che ripugnavano, come per istinto, a fondarsi in sul popolo.
Ma salito all'impero Leone Isaurico, mosso non da persuasione teologica, nè dai consigli degli Ebrei e de' Musulmani come scioccamente si è ripetuto, ma da saviezza d'uomo di Stato, ei si provò a una grande riforma. Vedendo consumare l'attività dei popoli tra le ubbie religiose, dentro i chiostri e fuori, e abbandonare l'industria e la milizia, Leone pensò di stornarne gli animi, togliendo dinanzi agli occhi del volgo le immagini di Santi, le quali lo stimolavano a quelle fissazioni, e aumentavano la riputazione, i guadagni, e però anco il numero dei frati. Così diè principio alla eresia degli Iconoclasti; la quale meglio si direbbe guerra del principato contro la superstizione; raro esempio nel mondo. E il principato questa volta restò di sotto. Perchè nelle provincie orientali, ove il clero più gli obbediva, durò la riforma un secolo e un poco più, finchè la opinione dell'universale non strascinò teologi e principi al suo cammino. Ma in Italia gli umori religiosi trionfarono immediatamente, perchè li rincalzavano le condizioni politiche; e perchè la quistione delle immagini era tale che il volgo benissimo la comprendea, vedendo e toccando con mano i numi tutelari che gli volea rapire un despota greco. Pertanto, promulgato il primo editto di Leone (726), Gregorio Secondo, uomo di alti spiriti quanto lo imperatore, destò un incendio: e i successori di Gregorio non lo lasciarono spegnere. Diersi i papi a sollevare i popoli; a promuovere la lega delle città italiane independenti dai Longobardi; a chiamare in aiuto i re di questa nazione, che volentieri colsero il destro d'ingrandirsi. La guerra si ruppe sotto specie di difendere la religione; e i papi fecer le viste di volersi rimanere a questo, e serbare l'obbedienza agli imperatori.
Ma tal finzione legale svanì dopo le prime vittorie della confederazione italiana. Perchè, assicurati da quelle, i papi presto dimenticarono e lo scopo della guerra, e che il Vangelo non concedesse ai sacerdoti altr'arme che il pastorale, nè altra dote che le limosine dei fedeli. Vollero le spoglie opime dei vinti; vollero, non che rendite e tesori, anco il principato: e il partaggio della preda si onestò col nome di donazione di molte città tolte ai Bizantini, che re Luitprando offerisse ai Santi Pietro e Paolo. Poi, pentitisi i principi longobardi di sì larghe concessioni, i successori degli Apostoli per mantenerle, lanciarono l'Italia in uno abbisso: impotenti con le armi, dettero principio a quella torta politica che da indi in poi non hanno mai più smesso. Chiamarono i Franchi ortodossi contro gli ortodossi Longobardi; li aizzarono tuttavia a spogliare i Bizantini che desisteano dall'eresia; sciorinarono tra le tenebre dell'ottavo secolo la falsa donazione di Costantino, per ottener più liberali le donazioni di Pipino e di Carlomagno; confusero ad arte con la signoria politica il dritto di proprietà di qualche podere; e tristo quel paese ove si contasse San Pietro tra i benestanti; che il papa stendeavi la mano a nome del principe degli apostoli. Così San Pietro divenne re di belle e buone provincie d'Italia; le quali, scorciate di qua, estese di là, disputategli dalle tre possanze che si sono avvicendate poscia in Europa, dai baroni, dai monarchi e dal popolo, lacere, frementi, insanguinate, ei tiene ancora. Nè andò guari che compissi anco a nome di San Pietro il terzo fatto, fatale all'Italia quanto il conquisto dei Franchi e quanto la dominazione temporale del papa; dico la creazione dell'imperatore d'occidente: il qual titolo per tanti secoli bastò a tenerci divisi, attirar di qua dalle Alpi le armi straniere, e dar forza al papato e quando gli imperatori patteggiavano per esso, e quando lo combatteano.
L'Italia uscì da questa rivoluzione dell'ottavo secolo divisa nel seguente modo. Tennero il settentrione i Franchi col nome di Regno d'Italia; il papa lo Stato odierno della Chiesa, aggiugnendovi parte della Toscana e altre città, e togliendone Roma con un po' di territorio infino al mare; la quale serbò forme di repubblica, e fu dominata di fatto dai papi e dagli imperatori d'Occidente.[265] Rimasero agli imperatori bizantini la Sicilia, la Calabria, Terra d'Otranto e una signoria nominale su le repubbliche sorte nel movimento nazionale di quel secolo, ma non gittatesi nella ribellione papale; come Venezia coi contorni, Napoli e poche altre città della costiera.[266] Sopravvisse alla dominazione longobarda lo Stato di Benevento che prendea il resto dell'odierno reame di Napoli; e riconobbesi vassallo di Carlomagno, ma poi si sciolse dall'obbedienza. La Sardegna e la Corsica abbandonate dai Bizantini, infestate dai Musulmani, sperando uscire di briga, si assoggettarono ai novelli re d'Italia; i quali dettero qualche aiuto, poi, non potendo, le lasciarono a lor sorte: e gli abitatori di quelle isole, poveri e valorosi, per due secoli si salvarono dal giogo degli Arabi, non dalle infestagioni, e rimasero privi dell'incivilimento musulmano non men che di quello che si sviluppò in Italia.[267]
Nel quadro che qui mi son provato ad abbozzare, v'ha una parte che vuolsi descrivere più particolarmente; ed è l'ambizione dei papi dell'ottavo secolo sopra le parti meridionali d'Italia, e sopra le isole. Cotesto disegno fu iniziato da Adriano Primo; continuato più occultamente da Leone Terzo; lasciato dopo la morte di Carlomagno; ripigliato nello undecimo secolo, è pressochè mandato ad effetto nel decimo terzo: di che resta, ultimo avanzo, ai dì nostri, la dominazione pontificia a Benevento. Il governo bizantino di Sicilia, s'oppose com'e' poteva a quelle usurpazioni. Io lascerò indietro le brighe dei patrizii coi papi, che seguirono nei principii dell'eresia iconoclastica, quando i legati di Roma agli imperatori eran sovente ritenuti in Sicilia (a. 731-732): tiri di polizia, non di politica. Ma venuti in Italia i Franchi, e voltisi però gli imperatori bizantini alla lega coi principi longobardi, antichi nemici loro, il primo partito che si presentò fu di accozzare le forze contro il novello nemico comune. Indi l'accordo trattato (758) per lo assedio d'Otranto, al quale doveano trovarsi le genti di re Desiderio e i dromoni di Sicilia.[268] Indi la passata d'un potente navilio di Costantinopoli, che insieme con l'armata di Sicilia (764) si mostrò su le costiere di terraferma,[269] a fin di cooperare coi Longobardi; il che poi non si mandò ad effetto. E dopo la prima impresa di Carlomagno e la caduta del reame longobardo (774), fuggitosi Adelchi a Costantinopoli, il patrizio di Sicilia ebbe in mano le fila di quante pratiche ordivansi in terraferma contro la novella dominazione. Perchè Adelchi, con lo irrequieto suo valore e ardenti speranze, dava opera a muovere i feudatarii longobardi soggiogati; ricordava l'onore e gli interessi del comun sangue ad Arigiso duca di Benevento, rimaso indipendente fin allora; e stigava alla guerra la pigra corte bizantina, mostrandosele tutto devoto e pronto a grecizzare egli e tutti i Longobardi, tanto che per arra ei prese il greco nome di Teodoto. Donde gli imperatori, tra la voglia e il sospetto, necessariamente provvidero che il ministro loro in Sicilia aiutasse e vegliasse que' principi cospiratori. Le pratiche si riscaldarono quando Arigiso fu sforzato a dirsi vassallo di Carlomagno, e papa Adriano, gustate le dolcezze dei dominio temporale, pensò ad allargar i confini meridionali del nuovo Stato.
Perchè veggiamo che mentr'ei piativa con Carlomagno per questa e quell'altra città dell'Italia di mezzo, noverata nella donazione e ritenuta pure in man dei Franchi; mentre allegava qua una ragione e là un'altra, e fin le testimonianze di vecchi centenarii, per provare agli oficiali del re che San Pietro avesse tenuto ab antico tale e tal possessione,[270] Adriano ebbe ricorso ad argomenti più persuasivi. Con la riputazione di San Pietro, coi titoli di proprietà del principe degli apostoli, e le armi materiali levate nel santo suo nome, aggiuntovi solo la riputazione e un po' di rinforzi di re Carlo, Adriano si promettea di spogliare i nefandissimi Napoletani, i nefandissimi Beneventani e i Greci odiati da Dio, e sgarare il nefandissimo Adalgiso e il nefandissimo patrizio di Sicilia: chè con questi predicati, nè caritatevoli nè decenti, li vien chiamando il vicario di Cristo, scrivendo di loro a Carlomagno.[271] In una lettera a chiare note gli dicea voler soggiogare quei paesi “al servigio del Beato Pietro principe degli apostoli, di re Carlo e suo proprio.”[272] Indi è manifesto il baratto, forse una novella partizione d'Italia, che venía proponendo quel grande intelletto di Adriano, al grande intelletto di Carlomagno. Adriano volea dal re le altre città pretese nell'Italia di mezzo, e gli aiuti di gente; offriagli in contraccambio l'alta signoria delle provincie meridionali, da occuparsi a nome e per dominio utile della sede di Roma.
E perchè Carlo, involto in tante altre guerre, non potè o non volle, Adriano cominciò a far da sè solo, adoperando quelle armi che seppe accozzare, e le lingue e gli orecchi dei vescovi di Napoli e di Gaeta. Sotto pretesto di ricuperare certi poderi di San Pietro nel territorio di Napoli, confiscati tanti anni addietro dagli imperatori, occupò nel settecento ottantasette Terracina: sì invogliato d'andar oltre, che non volle ascoltare proposizioni di tregua; ch'ei ritenesse cioè Terracina e accettasse quindici statichi napoletani, finchè non si richiedessero i comandi del patrizio di Sicilia su lo affare dei patrimonii. Alla ricusa del papa, i Napoletani erano costretti a respingere la forza con la forza. Sopraccorso a Gaeta il patrizio di Sicilia, le genti di lui, accozzate coi Napoletani, ripigliavano Terracina. E perchè la spada sacerdotale, sguainata così per la prima volta in Cristianità, minacciava da presso il Ducato di Benevento e i dominii bizantini in Italia, i minacciati s'intesero più volentieri fra loro. Adelchi odorando la guerra saltava pronto in que' luoghi. Messaggi andavano e venivano ogni dì tra Arigiso duca di Benevento, il patrizio di Sicilia e i Napoletani; e il papa seppe, o disse di sapere, che armavano a furia per mare e per terra per andarlo a pigliare entro Roma. Spaventato, scrisse dunque a Carlomagno chiedendogli soccorso e forze da continuare il conquisto; lo scongiurò di mandargli immantinenti le milizie di Toscana, di Spoleto e gli stessi nefandissimi Beneventani[273] ancorchè tentennassero. Così Adriano fallì il colpo; e pure, stuzzicando i nemici, sforzò Carlomagno alla guerra ch'ei voleva accendere.
Le pratiche mosse di Sicilia intanto incalzavano. Un prete di Capua svelò al papa che Arigiso fosse stato per giurare fedeltà allo imperatore di Costantinopoli, e fin vestirsi e tosarsi alla greca, a condizione che gli si desse il titolo di patrizio e la investitura del Ducato di Napoli. La cosa andò tant'oltre che due spatarii dello imperatore veniano di Sicilia a ricevere il giuramento di Arigiso, quand'egli inaspettatamente si morì.[274] Al quale succeduto il figliuolo Grimoaldo che avea appreso a corte di Carlomagno a simulare e aspettar tempo, si guastò la parte principale del disegno, la quale era fondata in su le forze dello Stato di Benevento. Grimoaldo, circondato di capitani e genti di Carlo e di spie del papa, fu necessitato a volgere le armi beneventane contro il proprio congiunto che veniva a liberarlo.
Perchè la fortuna tanto avea ancora arriso alla virtù di Adelchi, che spezzatasi la pratica di matrimonio tra lo imperatore Costantino e una figliuola di Carlomagno, e coincidendo il fatto di Terracina, la corte di Costantinopoli si lasciò trasportare da insolita collera. Spacciato in Ponente con soldati un Giovanni sacellario e logoteta, ch'erano ragguardevoli uficii d'azienda, e aggiuntevi le milizie di Sicilia capitanate dall'eunuco Teodoro, patrizio e stratego dell'isola, l'oste sbarcò in terraferma. Adelchi vi si trovò; e mossero sopra lo Stato di Benevento. Scontraronsi con le genti longobarde di Benevento e di Spoleto, capitanate dai due duchi, Grimoaldo e Ildebrando; e i Greci furono rotti con molta strage, e tra gli altri il sacellario fatto prigione e poi ucciso.[275] Adelchi ebbe peggior sorte che di restar morto in campo, com'altri ha detto.[276] Sopravvivuto alla sconfitta, vide dileguare le ultime speranze di sua schiatta che sventuratamente si fondavano sugli stranieri. Pure quella battaglia, se non ristorò il reame longobardo, mantenne i Ducati a dispetto di papa Adriano, per la gratitudine e fidanza di Carlo verso Grimoaldo e Ildebrando. A capo di pochi anni venne fatto al papa di lanciar di nuovo i Franchi verso il mezzogiorno; ma la fortuna non li aiutò: Adriano morì indi a poco, e Carlomagno si trovò men disposto che mai a continuare lo aggrandimento del dominio papale.
I patrizii di Sicilia in questo mezzo si esercitarono nei maneggi diplomatici a corte di Carlomagno, con migliore fortuna che non avessero testè fatto nella guerra. Andava a Carlo in Aquisgrana un Teoctisto, legato di Niceta, patrizio di Sicilia (797); e, non guari dopo (799), un Daniele mandato a lui da Michele successore di Niceta:[277] la causa delle quali missioni si ignora; ma ci apporremmo al vero supponendo che s'intendesse a distogliere il re da alcuno assalto sopra i dominii greci in Italia, suggerito per avventura da Leone Terzo. Certo egli è che, dell'ottocento, ito Carlomagno a Roma per cingersi la corona imperiale, si parlò di una impresa, non che sull'Italia meridionale, ma sopra la stessa Sicilia, sede delle forze che manteneano ancora quelle provincie nella devozione dei Bizantini. Questo disegno fu abbandonato al pari, perchè Carlomagno non andava di buone gambe alle guerre meridionali, e avea troppe brighe nel mondo e niuna forza navale, e volle rappacificarsi con Irene; donde nacque la falsa voce del matrimonio che si trattasse tra loro.[278] Forse Carlomagno avrebbe tentato in migliore occasione la Sicilia, perchè lo veggiamo accogliere in Roma (801) un fuggitivo siciliano, uom di assai nota, Leone Spatario, ch'ei rimandava dieci anni appresso a Niceforo imperatore.[279] Ma erano pensieri vaghi e dimenticati tra cose di gravissimo momento. Quegli che non obbliava la Sicilia era il papa. Or col pretesto di farsi mediatore di pace tra i due imperatori d'Oriente e d'Occidente, or di ricomporre le liti religiose che ripullulavano dopo la morte di Irene, o di rivendicare gli infiniti patrimonii di San Pietro, sempre trovava modo di mandare al patrizio di Sicilia alcun suo fidato che spiasse gli umori del paese, gli intendimenti del governo, le novelle della corte di Costantinopoli. E com'avrebbe fatto un ministro di polizia, puntualmente e sommessamente, il papa ne ragguagliava Carlomagno.
Gittano un baleno di luce su coteste pratiche le epistole di papa Leone allo imperatore, date dell'ottocento tredici, quando si temeva in Italia un assalto dei Musulmani. Ritraggiamo da quelle che Carlomagno avea scritto al patrizio, e mandato la lettera per mani del nunzio papale; che il patrizio, in luogo di rispondere allo imperator di Occidente, s'era indirizzato al papa; e che questi, senza dissuggellare la risposta che andava a suo nome, l'avea fatto capitare a Carlomagno; aggiugnendo gli avvisi che ritraea, dal patrizio non già, ma dalla bocca del proprio nunzio. Di più, questi era stato tenuto nel palagio del patrizio in custodia d'un segretario; guardato a vista quasi parlamentario ch'entri in una fortezza assediata. Tant'oltre andavano i sospetti o i disegni del patrizio, ch'ei ragionando con l'uom del papa in ottobre, non raccontava altrimenti i fatti di Costantinopoli del luglio, che con dire chiuso in un monastero Michele Rangabe, senza far motto del successore;[280] e che infino a mezzo novembre par che Gregorio si sforzasse a dissimulare al papa il mutamento di signoria assodato già nella capitale.[281] Da cotesti indizii non si può ritrarre se il patrizio evitasse di rispondere a Carlomagno per osservare alcuna formalità diplomatica del tempo, per eludere qualche domanda che gli recava disagio, ovvero per differire a riconoscere la esaltazione di Leone l'Armeno, sperando, sia che il Rangabe risalisse sul trono, sia che ei medesimo favorito dall'esercito di Sicilia potesse tentar novità. Ciò che di certo si vede è la importanza dell'uficio di stratego e patrizio di Sicilia in questo tempo, e la scherma di astuzie con che combatteva contro il pontefice di Roma: bizantino contro papalino, proprio maestri di buona scuola!
Morto di lì a poco Carlomagno (gennaio 814), e dopo due anni anco papa Leone Terzo, e raccesa da Leone Armeno la lite delle immagini (815), avrebbe potuto per avventura la Sicilia fare scala al racquisto dei territorii perduti dall'Impero di Costantinopoli nell'Italia meridionale. Le relazioni dell'isola con quella regione di terraferma avrebbero favorito il disegno; poichè par che fossero rese più frequenti e amichevoli dall'interesse comune dei popoli. Così veggiamo i Napoletani, sotto il regno di Leone l'Armeno, mandar a cercare in Sicilia un Teoctisto per farlo capitano di loro repubblica.[282] Così anco i Siciliani esercitare commerci sì frequenti in Calabria su i confini dello Stato longobardo di Benevento, che le gabelle pagate da loro montavano a grossa somma di danaro.[283] Pertanto un novello sforzo dell'impero bizantino avrebbe trovato condizioni assai favorevoli. Ma i due soldati che regnarono successivamente a Costantinopoli, furono distolti da altre cure. Leone l'Armeno si travagliò aspramente in guerra contro i Bulgari (813-815), poi contro i frati iconolatri dell'Impero. Michele il Balbo, che l'uccise, e gli succedette (26 dicembre 820), s'ebbe a difendere da un altro vecchio commilitone, Tommaso di Cappadocia: fattosi gridare imperatore; venuto ad assediare Costantinopoli; e spento a grandissima fatica, dopo tre anni di guerra (823). Tennero dietro a cotesti travagli, lo sbarco dei Musulmani a Creta; le sconfitte degli eserciti bizantini mandativi al racquisto (823-825). Pertanto, non che pensare alla terraferma d'Italia, Michele il Balbo, non valse a reprimere per parecchi anni i movimenti di Sicilia, dei quali si dirà nel seguente libro.
CAPITOLO IX.
Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elemento sì potente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro.[284] Le torme poi di schiavi, ragunate da tante regioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le altre schiatte.[285] I popoli settentrionali, come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o dell'Asia Minore,[286] e relegati per cagion di Stato.[287] Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia,[288] ove par che abbiano fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani[289] la espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante popolazioni avventizie, che potessero mutare le schiatte esistenti. S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi (911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti.[290] Con denominazione più esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle dominazioni romana e bizantina.
Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo.[291] Un papiro del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di certi poderi, ne contiene più greci che latini:[292] e alla fine del sesto secolo, San Gregorio ci parla degli abitatori greci e latini.[293] Gli annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma, altri a quella d'Antiochia;[294] un dei papi siciliani, Leone II (682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino;[295] e alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.[296] Finalmente, sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di Diodoro,[297] se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa da entrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di Giustiniano.[298]
Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento. Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio imperiale.[299] Donde è manifesto che la curia non va chiamata aristocrazia, ma veramente popolani grassi o borghesi.
Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera.[300] Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella medesima condizione gli antichi schiavi.[301] Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e spesseggia ai contrario quel dei coloni.[302] Io non dirò altrimenti della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che tal prescrizione, assai più lunga di quella fissata per gli schiavi, non si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a pregiudizio de' figliuoli.[303] Tal condizione dunque non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un patto sì disuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle nazioni.
Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori,[304] i quali nè anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni[305] e gli schiavi,[306] che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli appresso, non abborrirono la servitù men cruenta della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte.[307] A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri poderi.[308] Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi romani Montano e Tommaso, dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben dire: “Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù.”[309] Seppe egli ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei.[310] Ma non emancipò nè punto nè poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui;[311] fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si nascondeano in altri poderi;[312] ed è manifesto ch'ei lasciasse non uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa Conone, gli rimetteva (686) “la famiglia” del patrimonio di Sicilia e di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco;[313] la qual famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come gli armenti, e poichè la legge fiscale permettea di prendere gli schiavi[314] ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni.[315]
Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in canone su la proprietà.[316] L'azienda imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi,[317] e poco appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie, come la godeano i beni tutti del patrimonio.[318] Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola.[319]
Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato nell'isola.[320] Principal prodotto del suolo fu sempre il grano.[321] In secondo par che venisse la cultura della vite.[322] Quella dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron le prime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd, vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata un'uliva: “Ecco donde le caviamo,” disse ad Abd-Allah; “i Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro.”[323] La denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al duodecimo.[324] Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola.[325]
Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino. Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, come chiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della Sicilia.[326] I Goti nel breve dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie.[327] Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui.[328] Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo.[329]
Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini subalterni, che poco montano[330] e non differivano da quei delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodo strumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità.[331] La decadenza poi delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de' conciliatori o giudici di pace dei tempi nostri,[332] alle cure edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della voce tecnica d'allora, indicea la somma ai municipii, e questi la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle cariche municipali:[333] infelici privilegiati, disposti forse ad abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie curuli.[334] Così la necessità del fisco portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al conquisto dei Musulmani.[335]
Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo secolo, modestamente si scompartì in ventinove temi, come li dissero con voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e costiera.[336] Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego, novello nome militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità.[337]
Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli eserciti ogni dì più che l'altro diveniano bande di mercenarii. L'Impero, come aggregato fattizio di varie genti tenute insieme dall'abitudine, dalla religione e dalla forza, non potea spirare ormai ai soldati l'amore d'una patria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò s'aggiunga che la popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la progenie di que' forti che avean vinto il mondo sotto Alessandro, ora, infeminita nelle industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle armi; lasciavale prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere, ed ella si riscattava con danari dal servigio militare. Il disordine dell'azienda allentava ancora i legami che debbono stringere il soldato al paese; perocchè le entrate pubbliche, menomate insieme col territorio e con la prosperità dei popoli, dilapidate dai ministri, consumate per soddisfare all'orgoglio e spesare i misfatti del principe, non più bastando al mantenimento degli eserciti, vi si trovò un comodo e pericoloso rimedio. Già fin dal quarto secolo veggiamo che i terreni soliti a distribuirsi ai veterani si dessero col carico di far militare i figliuoli.[338] Poscia, aumentandosi le strettezze dello erario e la mollezza dei popoli, e scemando il pregio della proprietà fondiaria, s'ebbe ricorso più sovente a cotesti beneficii militari, e ne fu alterata l'indole. In vece di proprietà ai veterani, accordossi l'usufrutto ai soldati in attuale servigio, e s'affidò l'amministrazione ai capitani loro. Le terre al certo si toglieano dal patrimonio imperiale, impinguato a furia di confiscazioni; e talvolta, senza aspettare la incorporazione, si dava ai soldati il godimento dei beni mobili o stabili staggiti ai debitori del fisco. Così avvenne che pagandosi malvolentieri dal papa le tasse su i patrimonii di Calabria e di Sicilia, gli fu presa anco la famiglia di que' poderi, e data in pegno ai soldati, dice il cronista,[339] cioè conceduto loro l'usufrutto degli schiavi, che poi il crudele Giustiniano Secondo rilasciò gratuitamente al papa (686-7).
Il numero dei beneficii militari tanto andò crescendo, che nei principii del decimo secolo la più parte dell'esercito era mantenuta in tal guisa. I capitani intanto s'erano dati ad alienar le terre; a frodare lo Stato, facendo comparir nelle file paltonieri condotti a poco prezzo, in vece d'uomini usi alle armi: donde qual maraviglia, sclamava l'imperatore Costantino Porfirogenito vietando ansiosamente così fatte magagne, qual maraviglia se la repubblica così tosto è ita a precipizio?[340] Ma la viltà dei soldati non sembra il solo inconveniente del beneficio bizantino: forma di amministrazione militare scompagnata da un ordinamento sociale che le desse alcuna virtù, come avvenne nei feudi germanici e nei giund arabici. Il beneficio bizantino mutava i guerrieri dell'Impero in famigliari temporanei dei capitani; cioè peggio che vassalli feudali o socii di tribù; non contrappeso al dispotismo, ma pessimo strumento da fare e disfare despoti; non milizie capaci di abituarsi ad alcuna carità verso le provincie ove stanziavano, ma stranieri sempre rinnovati e disposti ad opprimerle con fresca ingordigia. In fine, la debolezza di tal genía di mercenarii costrinse gli imperatori a condurre con grossi stipendii schiere di veri soldati di ventura, che almeno sapessero menar le mani.
Sola eccezione tra la corrotta milizia fu il navilio, come affidato a quella classe della popolazione greca e italica, cui l'aspra vita del mare non avea lasciato agio a guastarsi. Mercè cotesta buona schiatta il navilio bizantino mantenne infino al duodecimo secolo la disciplina; avvantaggiossi sopra le altre genti per la pratica del navigare e il maneggio degli ordegni di guerra; rinnovò spesso gli esempii dell'antica virtù, e ne lasciò eredi le repubbliche italiane del Tirreno e dell'Adriatico, e la monarchia di Sicilia. Componendosi l'armata bizantina di due parti, imperiale, cioè, e provinciale, la virtù di quest'ultima fu rinforzata dalla carità del municipio, ch'era ormai la sola patria. Indi ebbero tanto valore fin dall'ottavo secolo il navilio di Venezia e quel di Napoli, città quasi independenti; e par che anco si segnalasse nelle fazioni di cui abbiamo ricordo il navilio siciliano, ancorchè spesso confuso dai cronisti con quello dell'Impero.[341]
Or divenuta la Sicilia, infin dal settimo secolo, come baluardo occidentale dell'Impero e fortezza avanzata oltre la frontiera in mezzo a due potenti nemici, i principi bizantini necessariamente vi posero grosso presidio della milizia che abbiamo descritto, e necessariamente dettero larga autorità militare, civile e anco politica al capitano supremo del presidio, o vogliam chiamarlo stratego dell'isola. E perchè coteste armi straniere soverchiavano la sola forza propria del paese, ch'era il navilio provinciale, il popol siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra, altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse, pianse, e non si mosse. Indi veggiamo dopo la raccontata sollevazione militare del seicentosessantotto, l'esercito di Sicilia provarsi tre fiate nel corso di un secolo a dare un despota all'Impero. La prima quando, stretta Costantinopoli dalle armi del califo, Sergio stratego di Sicilia fe' gridare imperatore un Tiberio, che presto fu spento per la virtù e fortuna di Leone Isaurico; il quale mandava a Siracusa Paolo suo fidato ministro: e questi svolgea gli officiali dell'esercito e l'armata di Sicilia; costringea Sergio a rifuggirsi appo i Longobardi; troncava il capo a Tiberio; ad altri il naso, per ignominia, o mozzava i capelli; altri vergheggiava o bandía; perdonava ai rimagnenti; e così ponea fine (718) al pericoloso moto.[342] Meno agevole a reprimere il secondo, che scoppiò mentre la corte era agitata dall'ambizione della ortodossa e snaturata Irene. Elpidio, uom d'alto affare, mandato al governo di Sicilia (781), per allontanarlo dalla reggia, e colpito indi a poco d'una accusa di maestà, cioè di resistere alla usurpazione d'Irene, cercò salvezza nella aperta ribellione. Aiutandolo il malcontento dei Siciliani e del presidio, prese titolo e insegne d'imperatore, e combattè le forze che veniano di Costantinopoli ad opprimerlo: se non che, vinto in parecchi scontri, si fuggì col tesoro pubblico in Affrica (782); ov'ebbe onori da principe,[343] e le croniche musulmane cel mostrano dodici anni appresso guerreggiante in Asia Minore contro i Greci, sotto i vessilli del califo.[344] La terza rivolta militare portò in Sicilia la dominazione musulmana per opera di un altro condottiero che seguì lo esempio d'Elpidio.
La prepotente massa della soldatesca fu cagione altresì che il movimento scoppiato contro gli imperatori iconoclasti nell'Italia di mezzo non si comunicasse alla Sicilia; ancorchè i popoli quivi non meno tenacemente aderissero alle dottrine di Roma, e al culto delle immagini. Anzi nei principii dell'ottavo secolo, prima che s'intendesse parlare degli Iconoclasti, s'era suscitato in Sicilia un nuovo bollore di zelo religioso, che movea dai monasteri comunicanti col clero dell'Italia centrale, e che scoppiò in Catania per provocazioni locali; forse invidia contro gli Ebrei, quivi ricchi e potenti.[345] Levò grido in quest'incontro (725) il vescovo della città, San Leone da Ravenna, detto il Taumaturgo pei molti miracoli che gli si apposero; e tra gli altri d'avere arso vivo un miscredente, tenendol fitto sul rogo con le proprie braccia, senza pur abbronzarsi le vestimenta. Dell'auto-da-fè, sventuratamente, non può dubitarsi; poichè San Giuseppe Innografo, che visse nel corso di quel secolo, ne lodava a suo modo il Taumaturgo. Oltre la tradizione dell'Innografo, se ne serbò un'altra, che con l'andare dei tempi s'accrebbe di novelle puerili, ma pur vi si scoprono le radici del mito; cioè un'ultima distruzione di monumenti dell'antichità pagana, e la persecuzione di qualche valentuomo che si allontanasse dalle superstizioni comuni: Eliodoro, come si chiamò quella vittima, nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto nemico di San Leone, e fattosi per ambizione discepolo degli Ebrei, negromante e fabbro di idoli.[346] Dopo il conquisto normanno, i frati di Catania lavoraron tanto su quelle fole, che si trovò infine una fattura del mago, un elefante di lava, ch'oggi adorna la piazza della cattedrale: e il popolo puntualmente lo chiama col nome un po' guasto di Diotro.[347] L'elefante d'Eliodoro fin dai principii del decimottavo secolo regge su la schiena un monumento più prezioso, dissepolto dalle rovine de' tremuoti, un picciol obelisco di granito, ottagono, inciso a caratteri geroglifici, recato al certo d'Egitto sotto la dominazione romana; il quale, con emblemi tanto sospetti, non so come campasse dalle mani di San Leone.
Or noi mal possiamo raffigurar nella mente quale tempesta abbia dovuto suscitare in Sicilia, in quella stagione di roghi e di miracoli, lo editto di Leone Isaurico contro le immagini (726). I Siciliani non dissimularono. Affrontaron dapprima la collera di Leone; la quale si sfogò, com'abbiam detto (733), con aggravare i tributi sopra di loro e sopra i Calabresi, che vivevano a un di presso nelle medesime condizioni. Affrontarono indi i supplizii di Costantino Copronimo; chè ci rimangono i nomi delle vittime più cospicue: un Antioco governatore di Sicilia, il quale si vede tra gli ortodossi indegnamente insultati e straziati (766) nell'ippodromo di Costantinopoli;[348] e San Giacomo vescovo di Catania, fatto morir di fame e di sete (772) in quella persecuzione.[349] Ai tempi di Michele il Balbo e di Teofilo, il sapiente Metodio da Siracusa fu lacerato a battiture; infrantegli le mascelle; sepolto per sette anni in un carcere sotterraneo con due masnadieri, un de' quali venuto a morte lasciarono putrefare accanto ai vivi il cadavere (821-836).[350] Giuseppe l'Innografo (820) andò relegato in Creta, e venti anni appresso, in fondo delle Paludi Meotidi.[351] Del rimanente non nacque alcun tumulto nell'isola; poichè il numero dei soldati e delle fortezze vi s'aumentò in questo tempo,[352] non tanto forse per la paura dei Musulmani, quanto degli ortodossi; e poichè i beni confiscati sopra costoro erano argomento da render più che mai leale e iconoclasta il presidio. Il popolo fremendo e sopportando, tirò innanzi più d'un secolo; finchè non piacque agli imperatori di ristorare le immagini: e l'impeto col quale e' festeggiò questo avvenimento,[353] mostra che non fosse rattiepidita in Sicilia l'opinione cattolica. Ma ben lo era ogni zelo per la chiesa di Roma. Si dissipò in silenzio senza lasciar vestigio, come prima gli imperatori[354] confiscarono il patrimonio papale in Sicilia (733), e condussero i vescovi dell'isola, senza far loro troppa forza, a spiccarsi dal primate ribelle, accettare la istituzione d'un arcivescovo, forse metropolitano, nell'isola, e ubbidire al patriarca di Costantinopoli.[355] I quali provvedimenti, presi per vendetta, furono mantenuti per necessità, quando si compose una prima (780) e una seconda volta (842) la lite delle immagini. E veramente il papa occupava in Italia tanti territorii tolti direttamente o indirettamente all'impero bizantino, che a cento doppii compensavano i poderi confiscatigli in Sicilia e in Calabria. Oltre a ciò, cotesti poderi, dati senza dubbio ai soldati, non si potean ritogliere sol che si volesse. Molto meno potea la corte di Costantinopoli rendere ai papi la giurisdizione disciplinare su la Sicilia, cioè una salda catena da tirare il paese alla dominazione dei Franchi. Però i papi invano dissero ch'era mestieri di quelle entrate per accendere i moccolini a San Pietro, e invano ridomandarono la giurisdizione, finchè il conquisto degli Arabi tolse luogo a ogni querela.[356]
Dal detto fin qui si vede che per due secoli non occorsero in Sicilia altre vicende che quelle d'una piazza di guerra, ove la popolazione fosse un nulla rispetto al presidio. Perciò anche la Sicilia servì di confino per casi di maestà; chè, oltre gli esempii d'un principe arabo relegatovi nel sesto secolo,[357] e d'una principessa longobarda tenutavi in ostaggio nel secol seguente,[358] sappiamo che Costantino Quinto imperatore, tramando di ripigliare lo Stato (790), avesse disegnato di farvi deportare Irene. E costei, alla sua volta, rassodatasi nella usurpazione, mandava nell'isola, il figliuolo no, che le parve più sicuro partito di accecarlo e tenerlo prigione nel palagio, ma i cortigiani più intinti nella pratica.[359] Non guari dopo (793). erano sbalzati in Sicilia, come dicemmo, da mille pretoriani, scritto pria loro in fronte a caratteri indelebili “Armeno ribelle.”[360] È notevole che narrando questi casi il cronista Teofane ricordi la Sicilia come l'estrema provincia, o diremmo noi, la Siberia dell'Impero. E a tale in vero era condotta; se non che il sole, la fertilità del terreno e la postura in mezzo il Mediterraneo, non si poteano confiscare dai despoti. Sopravvivea con ciò tra quella gente greca e latina dell'isola alcuno effetto di civiltà: avanzi di industrie e commerci, com'abbiam detto; studii ecclesiastici, di che anche s'è fatta menzione; pittura, che vedremo esercitata da soli chierici verso la fine del nono secolo; architettura;[361] e infine le materiali delicatezze della vita, che non mancano nei tempi di decadenza. Ma gli studii, ristretti al clero regolare e secolare, non servian che di ausiliarii alla superstizione; la morale insegnata dal clero, traviante lungi assai dai semplici dettami del Vangelo e intento ai proprii interessi e ghiribizzi teologici, turbava le coscienze senza correggere i costumi nè pubblici nè privati; il sentimento della dignità umana, che solo può mantenere i buoni costumi, era soffocato necessariamente in un popolo il cui intelletto gemea tra i ceppi dei frati e dello imperatore, e il corpo sotto la sferza dell'imperatore e dei soldati. In una parola, la Sicilia era divenuta dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi d'un impero in decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò.
CAPITOLO X.
Nell'ultimo secolo della dominazione bizantina in Sicilia, furono notevoli le pratiche diplomatiche dei governatori dell'isola coi principi aglabiti. S'era parlato di tregua tra la Sicilia e l'Affrica fin dal cominciamento della eresia iconoclastica; quando Leone Isaurico volea le mani libere a reprimere i popoli dell'isola, e operare da quella su la terraferma. Stipulato un patto, com'e' pare, il settecentoventotto; i Musulmani non tardarono a infrangerlo[362] per usare le difficoltà nelle quali si travagliava il governo bizantino; tanto che pensarono di soggiogare la Sicilia, come s'è detto. I forti armamenti poi dell'isola e le divisioni dei Musulmani d'Affrica, valsero più che i trattati a mantenere la pace; finchè, surto Ibrahim-ibn-Aghlab con quei suoi intendimenti di ordine pubblico, tornò al partito degli accordi scritti, pei quali meglio si favoriva il commercio, e con quello l'azienda dello stato, assicurando le persone dei mercatanti che d'Affrica andassero a soggiornare in Sicilia o al contrario. Pertanto, dell'ottocentocinque, Ibrahim fermava tregua per dieci anni con Costantino patrizio di Sicilia. Ma nè anco questa si mantenne; perocchè, succeduti varii movimenti contro Ibrahim e in particolare a Tunis e a Tripoli, e sendo soggetta l'Affrica occidentale alla dinastia degli Edrisiti, independente dai califi e dai governatori di casa d'Aghlab, e però non legata dai patti internazionali loro,[363] avvenne che dalla costiera uscissero navi musulmane addosso ai Cristiani delle isole. Ne mandava anco la Spagna, che obbediva ad altra dinastia. Così la Sardegna e la Corsica furono assalite or dagli Affricani or dalli Spagnuoli (806-821); ancorchè i Musulmani sovente facessero mala prova, non potendo congiugnere le armi loro per la nimistà ch'era tra Omeîadi, Edrisiti e Aghlabiti, e dovendo combattere contro povera e fiera gente, e contro le forze navali italiane, che a quando a quando vi mandava Carlomagno.[364] Così anco furono infestati, com'e'pare, dai sudditi degli Edrisiti, i territorii che ubbidivano al patrizio di Sicilia.
Ma succeduto a Ibrahim il figliuolo Abu-'l-Abbâs, inaugurò la esaltazione con uno strepitoso armamento navale; gli appresti del quale non poteano rimanere occulti ai mercatanti cristiani d'Affrica, che solean dare avvisi in Sicilia. Dondechè, temendo per l'isola, Michele Primo imperatore spacciava da Costantinopoli parecchi spatarii ed un patrizio; il quale chiese invano rinforzi di navi ad Antimo duca di Napoli, ma n'ebbe da Amalfi e da Gaeta; talchè, con le navi di Sicilia, raccozzò un'armata da poter tenere in rispetto i Musulmani.[365] Nel medesimo tempo, Carlomagno inviava Bernardo, figliuolo del figliuol suo Pipino, e un cugin suo per nome Walla, a capitanare l'esercito nel reame d'Italia, che si credea minacciato dall'armamento affricano e alsì dalli Spagnuoli. E veramente costoro riassaltavano (812-813) la Corsica; sconfitti al ritorno presso Majorca dal conte d'Ampurias, rifaceano l'armata; sbarcavano, dicono gli annali cristiani,[366] a Nizza, indi a Civitavecchia. Intanto l'armata aghlabita, che sommava a cento legni o barche, navigando alla volta di Sardegna, nel giugno ottocento tredici era stata pressochè distrutta da una fortuna di mare, alla quale non furono abili a reggere que' piccioli scafi, mal costrutti, mal governati e sopraccarichi di cavalli. E perchè gli uomini si studiano a scusare la incapacità loro con gli effetti di forze superiori, narravano i campati al naufragio, e pochi mesi appresso il ripeteano in Sicilia i legati musulmani, che una voragine apertasi in mare avesse tranghiottito l'armata. Confermavan cotesto annunzio lettere d'un cristiano d'Affrica al patrizio di Sicilia; aggiugnendo essere accaduto appunto il naufragio, quando sfolgorò in cielo una meteora, che dalle lor parole sembra essere stata osservata in varii punti del Mediterraneo.[367]
Non ostante il raccontato disastro, i Musulmani infestaron tutta la state le nostre isole minori. Approdarono a Lampedusa con tredici legni; oppressero sette legni sottili mandativi dal patrizio di Sicilia ad esplorare, e uccisero le ciurme; se non che, venuto il grosso dell'armata bizantina, furono a lor volta sopraffatti i Musulmani, e passati a fil di spada. Di mezz'agosto poi, con quaranta legni saccheggiavano Ponza; indi Ischia per tre dì; e si ritraeano con grossa preda di prodotti agrarii, frati e altri prigioni, uccidendo i proprii cavalli[368] per dar luogo su le barche al bottino. Forse fu questa l'armatetta che si spinse infino a Civitavecchia; e forse erano Spagnuoli ovvero gente di Telemsen, sudditi degli Edrisiti; perocchè Abu-'l-Abbas-ibn-Aghlab, mandava tantosto ambasciatori a Gregorio patrizio di Sicilia a confermare la tregua; nè dal ragguaglio di tal missione sembra che gli Aghlabiti avessero a discolparsi delle recenti scorrerie. Sappiamo all'incontro che i legati, scusandosi degli atti ostili commessi sopra la Sicilia nello spazio di dieci anni, allegavano vicende interiori le quali convengono solamente alla dinastia edrisita.[369] Aggiugneano non volersi rendere mallevadori delli Spagnuoli, i quali non ubbidiano a loro; ond'essi lasciavan libero a chiunque di combatterli, e volentieri anco avrebbero aiutato a scacciarli dalle terre cristiane. Gli ambasciatori stessi, mentre veniano in Sicilia sopra navi veneziane, imbattutisi in alquanti legni spagnuoli, aveano stigato i Veneziani ad arderli; e vantavansi di avervi messo le mani e' medesimi.[370] Certo gli è dunque che gli Omeîadi di Spagna non entrarono nel patto col patrizio di Sicilia. Pare all'incontro che fosservi inclusi gli Edrisiti; e che ambasciatori loro fossero venuti insieme con quei di casa d'Aghlab.
Il patto portava tregua per dieci anni, scambio dei prigioni, e sicurtà ai mercatanti musulmani che potessero andare d'Affrica in Sicilia e soggiornarvi per loro negozii; e volendo tornarsi a casa, non fosse lecito di ritenerli. La quale sicurtà fu senza dubbio reciproca a pro dei Siciliani che mercatavano in Affrica. Il patrizio rese immantinenti i prigioni musulmani; mandò un segretario Teopisto a ripigliare i cristiani, e procacciare la ratificazione del trattato: il quale in fatti fu promulgato solennemente nella Dieta dei notabili a Kairewân, come afferma uno scrittore arabo testimone oculare di quell'adunanza, dal quale sappiamo il capitolo commerciale testè ricordato.[371] Gli altri particolari delle pratiche e sì delle scorrerie, si ritraggono da una epistola di papa Leone Terzo a Carlomagno, data l'undici novembre dell'ottocentotredici; importantissimo documento per più rispetti. Cotesto ragguaglio tuttavia mostra che il nunzio romano in Sicilia ebbe a superare, non solo la diffidenza che spirava al patrizio ogni uom del papa, ma alsì la difficoltà della interpretazione per due lingue diverse, dall'arabo, cioè, degli ambasciatori musulmani nel greco che si parlava in Sicilia, e dal greco nel tristo latino che il papa scriveva a Carlomagno.
Il nunzio viaggiando da Siracusa a Roma, all'entrar di novembre seppe che sette navi di Mori, credo pirati o gente di Spagna, avessero testè disertato una picciola terra presso Reggio.[372] Par che la infestagione delle Calabrie fosse cominciata fin dalla state di quell'anno o rinnovata nei seguenti, poichè ci si narra che San Fantino da Siracusa, taumaturgo del quarto secolo, vivuto da solitario in Calabria, apparve un dì, ventiquattro luglio, tra i turbini e le folgori su la spiaggia di Seminara per affondare una nave musulmana venuta a corseggiare in quelle parti. E tal miracolo, di cui si dicono testimonii i Musulmani che camparono dal naufragio, va riferito ai tempi di Leone l'Armeno (813-820), poichè un buon vescovo calabrese, autore della leggenda, aggiugne che sendo stato poscia mandato a Costantinopoli dal prefetto di Sicilia per negozii appartenenti alla provincia, l'anno terzo di Leone, San Fantino liberollo prima da una tempesta nell'Adriatico, e poi dalla collera dell'eretico imperatore.[373]
In fine la Sicilia ebbe a soffrire una incursione, della quale sappiam solo che seguì nel dugentoquattro dell'egira (27 giugno 819, a' 15 giugno 820); che capitanò la impresa Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab, cugin germano del principe aghlabita Ziadet-Allah; e che i Musulmani, fatti moltissimi prigioni nell'isola, se ne tornarono in Affrica.[374] Pare indi rappresaglia, o sfogo di rabbia religiosa sotto specie di rappresaglia; poichè s'è visto che Ziadet-Allah, nei principii del regno diè favore alla fazione dei giuristi, che è a dire, al fanatismo musulmano. Del rimanente, chi primo violasse la tregua noi l'ignoriamo, nè appunto il sapean essi, non essendosi mai osservati strettamente i patti tra i due governi d'Affrica e di Sicilia, dispotici entrambi, avari e disordinati; e tra le due nazioni, che s'abborrivano per amor di Dio, ma il commercio le tirava ad usare insieme. Questo pure è certo, che tali atti d'ostilità non arrivarono al segno di tentarsi il conquisto della Sicilia innanzi l'ottocentoventisette, com'altri ha scritto sopra vaghe tradizioni.
Dico di quelle due ripetute fin qui negli annali di Sicilia, le quali vanno cancellate, non ostante la casuale coincidenza della data con la impresa di Mohammed-ibn-Abd-Allah; perchè mancano di tutta autorità, e le rende impossibili d'altronde la spaventevole guerra civile che arse in Affrica dall'ottocentoventidue all'ottocentoventisei. Vien la prima tradizione da Erchemperto, lombardo, vivuto alla fine del nono secolo; il quale assai brevemente disse: usciti “gli Agareni di Babilonia e d'Affrica” e abitata da loro l'insigne città di Palermo, e soggiogata quasi tutta l'isola; nel qual tempo, aggiugne, venuto a morte Lodovico imperatore, gli succedè Lotario.[375] In coteste parole, chiunque le legga ai nostri dì, vedrà manifestamente le vicende del conquisto di Sicilia principiato l'ottocentoventisette, e s'accorgerà che il cenno del cronista corra fino all'ottocentoquaranta, quando trapassò Lodovico. Ma nel duodecimo secolo, stagione di crociate e di leggende, trattandosi assai grossolanamente la storia, Leone d'Ostia tolse di peso quel capitoletto da Erchemperto, e v'aggiunse ad arbitrio la data dell'ottocentoventi, o l'aggiunsero per lui i copisti.[376] Poi, dimenticato Erchemperto e sostituitogli Leone, l'errore è passato di compilazione in compilazione infino a quelle della nostra età,[377] e successivamente vi si è aggiunto che i Musulmani se ne andassero via, e tornassero dopo sette anni; poichè le tradizioni bizantina e musulmana li portavano sbarcati in Sicilia l'ottocentoventisette.
Dà l'altro racconto il Fazzello; il quale accozzando quei brani che potea trovare, buoni o tristi, delle tradizioni del tempo musulmano, scrisse che Abramo Halbi (così guastavansi i nomi e la cronologia, facendo regnare Ibrahim-ibn-Aghlab nell'ottocentoventisette), ai preghi d'Eufemio, mandava in Sicilia quarantamila Saraceni, capitanati da un Halcamo. Costui, continua il Fazzello, sbarcato a Mazara, diè alle fiamme le proprie navi, occupò Selinunte, cui i Saraceni in lor favella chiamarono Biled-el-Bargoth, ossia “Terra delle pulci,” e presi i cittadini, per domare a un tratto la Sicilia con esempio atroce, li fe' cuocere in caldaie di rame. Però, le altre città immantinenti gli si arresero; ed ei volendo apparecchiarsi ad ogni evento, edificò un castello che da lui addimandossi Alcamo. Quivi in fatti i Siciliani, ripreso animo, corsero ad assediarlo: ma Halcamo valorosamente resistè; e al fine venne a liberarlo e compiere il conquisto della Sicilia, con novello sforzo di gente, Ased-Benforat. Il Fazzello cita per cotesti fatti gli annali maomettani e Leone Affricano, ma non spiega altrimenti chi abbia scritto, chi tradotto, e chi pubblicato quegli annali.[378]
Da Leone in vero egli tolse la supposta impresa di 'Alkama.[379] Leone, com'è noto, fiorì nei principii del decimosesto secolo. Nacque musulmano a Granata; rifuggitosi a Fez dopo il conquisto di Ferdinando il Cattolico, studiò e viaggiò molto nei paesi musulmani, finchè preso (1517) da corsari all'isola delle Gerbe, fu recato in dono, come avrebbero fatto d'una giraffa, a papa Leone Decimo; il quale, colto e magnifico com'egli era, l'onorò, lo stipendiò, lo battezzò, ponendogli i proprii suoi nomi di Giovanni e Leone, e gli fece apparare la nostra lingua e il latino. L'erudito di Granata voltò allora ed ampliò dall'arabico in italiano, il manco male ch'ei poteva, i suoi viaggi in Affrica ed Egitto, e scrisse in latino notizie biografiche di parecchi medici e filosofi musulmani; opere pregevoli, sopratutto in que' tempi: se non che l'autore, non avendo seco i manoscritti che gli occorreano, dovea affidarsi alla memoria o a note di taccuino; e la memoria delle cose viste con gli occhi, in lui come in ogni altro uomo, era più tenace assai che quella delle cose lette nei libri. Indi è che troviamo Leone sì verace e preciso nelle descrizioni geografiche, e sì difettivo nelle notizie storiche[380] e peggio in fatto di cronologia: oltrechè, i dettati suoi furono raccolti e pubblicati quando, venutagli a noia la città eterna e il cristianesimo, ei se n'era tornato tra i Musulmani, e non s'era inteso più parlare di lui in Europa. Probabile è che Leone, mescolando ricordanze nette ed idee dubbie e conghietture, com'egli a Roma o anco in Barbaria avea inteso il nome di Alcamo, antica città saracena di Sicilia, riconobbene di leggieri la origine da un nome proprio usato dagli Arabi antichi; e supponendo che il fondatore fosse uomo di nota vivuto nei primi tempi dei conquisto, lo accoppiò bene o male con Ased, il solo nome che gli ricorresse certo nella memoria, quand'ei pensava ai pochi righi che per avventura avea letto intorno il conquisto di Sicilia. A sincerarci ch'ei conoscesse poco assai dei fatti di Sicilia, basterà percorrere il paragrafo in cui ne tratta per incidenza, dicendo di Kairewân e degli Aghlabiti,[381] dov'ei porta come contemporanei il conquisto di Sicilia e la fondazione di Rakkâda in Affrica che seguì mezzo secolo appresso (877). Con simile anacronismo ei confuse il conte Ruggiero col re del medesimo nome, e il conquisto dell'isola sopra i Musulmani col tempo di prosperità in cui fu compilata a Palermo la geografia di Edrisi.[382]
Dove poi il Fazzello leggesse lo sbarco a Selinunte, l'arsione delle navi e lo strano supplizio dei Selinuntini, invano l'ho ricercato, nè saprei appormivi; poichè queste favole grossiere non si leggono appo Leone, e gli annali musulmani che il Fazzello cita come seconda autorità mi sembrano zibaldone inedito, o forse non li vide mai egli stesso, nè li allegò che su i detti altrui. E ben quella appellazione di Biled-el-Bargoth mi puzza d'impostura di qualche giudeo arabizzante, di que' che nel decimoquinto secolo fecer girare il cervello agli archeologi di Palermo, spacciando per iscrizioni caldaiche scolpite in pietra, poco appresso il diluvio universale, i versetti del Corano e nomi proprii che si leggeano su certe torri nella capitale della Sicilia. Perchè Beled-el-Borghût significa, sì, in arabico, Terra delle pulci; ma questo sconcio nome era moderno; era corruzione di Polluce, come or chiamano i dotti, una torre presso le rovine di Selinunte, o piuttosto di Belgia, voce arabica, o di Belich, nome di un picciol fiume tributario dell'Eufrate:[383] dall'una o dall'altro dei quali gli Arabi chiamarono Belgia un castello or distrutto, e un fiumicello che scorre lì presso, al quale è rimaso il nome di Belici. In ogni modo, il villaggio che rimase almeno fino agli ultimi del duodecimo secolo nel sito di Selinunte, avea nome, come leggiamo in Edrisi, Rahl-el-Asnâm, il borgo cioè degli Idoli, che non ve n'ha penuria tra le rovine di quei tempii colossali ben chiamate i Pilieri dei Giganti. Dond'ei mi pare evidente che l'impostore del decimoquinto o decimosesto secolo abbia tradotto in arabico il nome volgare che sapea di quel sito; e aggiuntevi le fiamme del navilio musulmano, e le caldaie di rame da bollire i Selinuntini, abbia propinato la leggenda al Fazzello; il quale se la bevve, come quelle dei giganti primi abitatori della Sicilia, delle iscrizioni caldaiche di Palermo, e non poche altre, sacre e profane. Nè era colpa di sì diligente e nobile scrittore se, quand'ei visse, non si conoscea nè la paleontologia, nè l'anatomia comparata, sì che le ossa fossili d'elefanti e ippopotami pareano reliquie di Polifemo e di Nembrotte; se pochi o niuno in Europa distingueano i caratteri cufici; s'erano sepolti que' materiali storici in greco e in arabico, or sì accessibili a chiunque; e se la critica della storia non potea germogliare in Sicilia, sotto il giogo spagnuolo, tra i roghi del Santo Officio!
LIBRO SECONDO.
CAPITOLO I.
Fu aperta la Sicilia ai Musulmani da una rivolta militare, della quale si narra variamente l'origine.[384]
Mettendo a rassegna i cronisti, e principiando dagli italiani, il più antico è Giovanni diacono di Napoli, che visse nella seconda metà del nono secolo; quando passava tanta dimestichezza tra la colonia musulmana di Sicilia e la repubblica di Napoli. Costui compilò la cronica dei vescovi napoletani, cinquant'anni appresso il grande avvenimento che avea spiccato la Sicilia dall'Impero: donde, se i critici volentieri gli accordan fede nei fatti de' tempi suoi, gliene dobbiamo anche in questo.[385] Raccontata la congiura di palagio che tolse al supplizio Michele il Balbo e lo promosse al trono (26 dicembre 820), il diacono di Napoli scrive come, immediatamente dopo la liberazione di Michele, i Siracusani, suscitati a ribellione da un Euthimio, uccidessero Gregora lor patrizio. Indi lo imperatore mandava possente esercito che ruppe i Siracusani. Euthimio, rifuggitosi in Affrica con la moglie e i figliuoli, tornò in Sicilia con un'armata di Saraceni condotta da Arcario[386] lor duce (827); la quale corse l'isola, assediò Siracusa, sforzolla a tributo, e alfine (831) s'insignorì della provincia di Palermo. Dopo alcuni particolari di quest'ultima fazione, ripigliando il filo degli eventi che succedeano a Costantinopoli e nella terraferma d'Italia, Giovanni fa menzione della guerra civile di Tommaso di Cappadocia (821-824); nè riparla dei Musulmani di Sicilia che quando cominciarono a intromettersi nelle brighe della Penisola. Da quanto ho detto, e dalle date certe che ho aggiunto tra parentesi, ognun vede che il cronista napoletano abbia collocato que' casi di Sicilia, a mo' d'episodio, nell'anno in cui principiarono, e che questo, secondo lui, torni all'ottocentoventuno.[387]
Il secondo scrittore nostrale che faccia cenno dell'evento, visse dopo cencinquanta anni, verso la fine del decimo secolo; anonimo, ma si sa che fosse di Salerno, e forse monaco e di schiatta longobarda. Ei suol fare fascio d'ogni erba, come notava il Muratori; intreccia negli annali le novellette che correano di quel tempo, e attribuisce ai personaggi della storia discorsi e sentenze di sua fattura. Pertanto lo lasceremmo indietro, se non trovassimo nel racconto le vestigia di alcuni particolari che abbiamo da altri autori degni di fede, da lui non letti per certo. Senza dissimulare nel linguaggio suo l'odio contro i Bizantini, l'anonimo di Salerno ci narra come certo grechetto, dice egli, che reggea la Sicilia, ingiuriasse mortalmente Eufemio, ricchissimo siciliano. Corrotto per danari, il prefetto violentemente toglieva ad Eufemio la fidanzata Omoniza, fanciulla di rara bellezza, per darla in braccio a un rivale. Ed Eufemio, cercando vendetta, si imbarcava coi servi suoi per l'Affrica; andava a profferire la signoria della Sicilia a quel barbaro re; il quale, colmatolo di doni, lo rimandò nell'isola con un esercito. L'ingiuriato amante, così entrato per forza d'armi in Catania e fattavi molta strage, ammazzò tra gli altri il prefetto. Tanto narra l'anonimo salernitano, senza recar la data; ma lavora di rettorica a fingere le ambasce e minacce d'Eufemio.[388]
Quest'episodio erotico, preso al rovescio con farvi Eufemio offensore invece di offeso, è quasi la sola tradizione che ci tramandino i Bizantini su la guerra di Sicilia. Come sorgente primitiva loro si allega la storia particolare e contemporanea di un Teognosto: opera perduta in oggi.[389] Rimanda in fatti a Teognosto, per più ampio ragguaglio del caso di Sicilia, la principale tra le cronache bizantine che possa fare autorità per quel tempo, la Cronografia detta di Costantino Porfirogenito imperatore, scritta per suo comando e da lui messa in ordine e postillata, la quale va in principio della continuazione a Teofane.[390] Da questa cronica, che ha data certa della metà del secol decimo, tolsero il fatto Cedreno, autore del duodecimo, che vi mutò appena qualche frase, e Zonara che lo compendiò anche nel duodecimo secolo; per non dir nulla del Curopalata Giovanni Scylitzes, il quale, come ognun sa, trascrisse di parola in parola Cedreno senza nominarlo. Pertanto non diremo altrimenti della testimonianza di così fatti copisti. Ma vuolsi fare menzione d'un compendiatore del decimo secolo, Simone maestro (che era titolo d'officio a corte),[391] il quale par abbia avuto alle mani la storia di Teognosto o altri ricordi; poichè si discosta dalla compilazione imperiale. Mentre Michele il Balbo, dice il cronista, si travagliava nella guerra civile di Tommaso di Cappadocia, gli Affricani e gli Arabi occuparono Creta, Sicilia e le Cicladi, regioni uscite “poco innanzi” dalla dominazione bizantina, pei peccati dei popoli e la iniquità dei principi.[392] E allora
. accadde che Michele, dicendo forse da senno a Ireneo maestro del palagio “Mi rallegro teco; la Sicilia s'è ribellata!” que' gli replicò: “Strana contentezza è questa, o signore;” e volto a un altro cortigiano gli sufolò all'orecchio tre versi: “Ecco il primo disastro che dovea succedere, preso lo stato dal dragone di Babilonia, balbuziente e amantissimo dell'oro.”[393] Dopo ciò, Simone racconta il primo sbarco dei Musulmani in Creta (822?).
La compilazione imperiale, senza segnar data precisa, dà un sincronismo diverso al fatto di Sicilia, portandolo insieme con l'impresa di Orifa nell'Arcipelago (825?). “Tra coteste vicende, dice la compilazione, Eufemio turmarca di milizie[394] in Sicilia, invaghito di una donzella che vivea nel chiostro, e che portava da lungo tempo l'abito monastico, avea cerco ancor da lungo tempo di soddisfare all'amor suo, prendendola in moglie: chè l'esempio non era lontano, nè potea parer cosa illecita nè brutta, quando poc'anzi l'avea praticato lo stesso imperatore Michele. Pertanto Eufemio, rapita la vergine dal monistero, portossela, riluttante, a casa.”[395] I fratelli di lei se ne richiamavano allo imperatore; e questi ingiungeva allo stratego di Sicilia che, sendo vero il misfatto, si mozzasse il naso al rapitore, secondo il rigor delle leggi.[396] Ma Eufemio, risaputo il pericolo, ordiva una cospirazione coi proprii soldati e con altri turmarchi compagni suoi;[397] e, sottrattosi allo stratego che andava per punirlo, rifuggissi appo il miramolino[398] d'Affrica; promettendo che gli darebbe la Sicilia e pagherebbegli largo tributo, s'ei gli concedesse di prender nome e insegne d'imperatore, e lo aiutasse di genti. Il barbaro principe accettava il partito, e s'insignoriva dell'isola, col favore d'Eufemio non solo, ma sì degli altri che avean messo mano con lui alla ribellione. Pervenuto a salti, come ognun se n'accorge, alla irruzione dei Musulmani in Sicilia, il cronista palatino esce di briga con additare ai lettori Teognosto; nè si sofferma che per raccontare un altro episodio drammatico: la uccisione di Eufemio.[399] Parlando dello stratego di Sicilia in quel tempo, ei non ne dà il nome; ma più sopra, nel racconto della guerra di Creta, avea detto che Michele il Balbo affidò il governo della Sicilia a Fotino protospatario e capitano d'Oriente, per racconsolarlo della sventura incontrata in quell'altr'isola (825), ove, mandato contro i Musulmani con grosso esercito, i suoi avean toccato una rotta ed ei se n'era fuggito, come pare, senza combattere.[400] Questo Fotino era bisavolo di Zoe imperatrice, madre del Porfirogenito. E ciò spiega perchè la compilazione imperiale aggravi tanto Eufemio, e non faccia parola dei casi della ribellione, nei quali Fotino par sia stato infelice e codardo quanto in Creta.
Venendo alla tradizione musulmana, che ha sembianze assai più genuine, è da avvertire come noi la tenghiamo da tre scrittori: Ibn-el-Athîr, che visse tra il duodecimo e il decimoterzo secolo; Nowairi, del decimoterzo e decimoquarto; e Ibn-Khaldûn, della fine del decimoquarto stesso: dei quali ho detto abbastanza nella Introduzione. Attinsero i fatti del conquisto di Sicilia ad unica sorgente, ignota a noi; se non che possiamo conghietturare che fosse compilazione fatta in Sicilia o nell'Affrica propria nell'undecimo secolo, sopra ricordi scritti ai tempi medesimi degli eventi, come ormai portava la civiltà dei popoli musulmani. Egli è evidente che Ibn-el-Athîr e Nowairi scorciassero entrambi quella cronica, poichè danno il grosso dei fatti nel medesimo ordine, e sovente con le medesime parole; ma dei particolari chi ne presceglie uno e chi un altro, secondo il genio suo: trovandosi in maggior copia appo Ibn-el-Athîr le cose militari e politiche, ed appo Nowairi gli aneddoti. Quanto ad Ibn-Khaldûn, in questo capitolo abbrevia Ibn-el-Athîr, senz'aggiugnervi una sillaba.
La tradizione musulmana corre nel tenor seguente. L'anno dugento uno dell'egira (816-17) secondo il Nowairi, e dugento undici (826-27) secondo Ibn-el-Athîr, il re dei Rûm prepose alla Sicilia il patrizio Costantino[401] soprannominato il Suda,[402] voce d'origine latina, grecizzata nei bassi tempi, che suona trincea; ed in Creta è nome geografico, noto, com'e' pare, nella guerra dei Musulmani. Il Trincea avendo fatto capitano dei soldati d'armata Eufemio della nazione dei Rûm, uom prode e intraprendente, caporione tra gli ottimati siciliani,[403] costui andò ad osteggiare la costiera d'Affrica; presevi mercatanti, vi fece bottino, e lunga pezza s'intrattenne a infestar que' mari. Poscia riseppe avere il principe commesso al patrizio dell'isola di torgli il comando e punirlo d'una colpa che gli era stata apposta: e datane contezza ai compagni suoi d'arme, li accese a ribellarsi con essolui. Donde, approdata l'armata a Siracusa, si azzuffò con le genti di Costantino, lo ruppe; una schiera, inseguitolo infino a Catania, lo prese e ammazzò; ed Eufemio fu gridato imperatore. Il quale chiamò al governo d'alcuna provincia un de' partigiani suoi, barbaro, dicesi, di nazione alemanna, forse Armeno,[404] per nome Palata,[405] cugino d'un Michele che reggea la città di Palermo; ma i due congiunti, messe insieme loro forze, disdiceano il nome d'Eufemio; movean contr'esso; e vintolo in battaglia, uccisigli mille uomini ed entrati in Siracusa, ei fu costretto a fuggirsi in Affrica con la gente che gli avanzava. Così scrivono di seconda o di terza mano i citati cronisti.[406] Il Riadh-en-nofûs, raccolta di biografie d'Affricani, compilata, come s'è detto nella Introduzione, verso la fine del decimo secolo o nell'undecimo al più tardi, sopra memorie scritte del nono, offre l'addentellato alla riferita tradizione, e dà i nomi di Eufemio e del Palata; se non che esclude il supposto delle incursioni d'Eufemio su la costiera d'Affrica, o almeno porta a credere che fossero esercitate contro i Musulmani di Spagna.[407]
Or i racconti che minutamente abbiamo esposto, messi al cimento dalla critica, lungi dal contraddirsi a vicenda, s'attagliano l'uno all'altro, meglio che non potrebbe aspettarsi in ricordi di origine sì diversa e di una età sì povera di scritti istorici. E prima, il nome del protagonista della rivoluzione siciliana concorda in tutti gli autori: chè se Giovanni diacono il chiama Euthimio, questa voce facilmente si potea confondere con Eufemio nella scrittura, e più nella pronunzia.[408] Convengono alsì tutte le memorie su la ribellione, la sconfitta, la fuga di Eufemio in Affrica: e l'Anonimo salernitano che parrebbe men degno di fede, prova pure essergli pervenuto qualche ragguaglio preciso, narrando la uccisione dello stratego in Catania, che sappiam solo da Ibn-el-Athîr e da Ibn-Khaldûn. Delle nozze con la suora o novizia, non pare nè anco da dubitarsi; se non che questa va tenuta circostanza secondaria, anzi pretesto della persecuzione d'Eufemio; poichè la corte bizantina, al par di ogni altro governo dispotico e bacchettone, avea due misure di morale: l'una larga pei principi e lor fautori, e l'altra rigorosa e intollerante, adoperata quando ci entrava di mezzo il furore teologico, la invidia o la nimistà politica. Politico del tutto fu dunque il movimento d'Eufemio, come il dicono i due più antichi scrittori, italiano e bizantino, Giovanni diacono e Simone maestro. Più difficile a fissarne appunto la data. Que' due accennano all'ottocentoventuno; e s'accorda con essi l'anno dell'egira segnato dal Nowairi, e la probabilità grandissima che i capitani dell'esercito siciliano si fossero sollevati, quando Tommaso di Cappadocia chiarito ribelle in Oriente movea contro Costantinopoli; come già lo stratego Sergio turbò l'isola quand'ei seppe Leone Isaurico assediato dagli Arabi nella capitale. E che la ribellione di Sicilia fosse durata cinque o sei anni, sarebbe tanto più verosimile, quanto Michele il Balbo non ebbe mai forze da reprimerla. Nondimeno, io penso che in quel movimento si debba supporre un intervallo nel quale la Sicilia avesse riconosciuto il governo di Costantinopoli; poichè gli Arabi nel loro ragguaglio sì particolareggiato e verosimile, chiamano lo stratego ucciso da Eufemio con un nome e un soprannome che ben s'adattano a Fotino, il quale fu promosso a quell'officio verso l'ottocentoventisei, come si deduce dalla cronica del Porfirogenito. E veramente nella scrittura arabica il nome di Costantino non è molto dissimile da quell'altro; e come assai più ovvio, dovea parer migliore lezione ai copisti. Al tempo stesso il soprannome di Suda sembra coniato apposta per Fotino. Infine la serie di fatti, che salta a piè pari il cronista palatino, par debba riferirsi, come già notai, all'avolo di Zoe imperatrice.
Si potrebbe argomentare da tutto ciò che il movimento siciliano avesse avuto due periodi; l'uno dalla esaltazione di Michele il Balbo alla elezione di Fotino; l'altro dalla persecuzione d'Eufemio alla sua fuga in Affrica. I quali due periodi, sì vicini tra loro, furono, com'avvien sempre, confusi in un solo dalla tradizione verbale e dai compendiatori; e in quel solo primeggiò il nome, rimase infame, d'Eufemio: e il tempo si riferì dagli uni al principio, cioè all'ottocentoventuno; dagli altri al fine, cioè all'ottocentoventisei. Dall'ottocentoventuno all'ottocentoventicinque i condottieri ch'erano arbitri della Sicilia, forse uccisero un primo patrizio Gregora o Gregorio; forse Eufemio si prevalse, al par che gli altri capitani, di quei turbamenti, ma non ne fu motore principale; forse i turbamenti non trascorsero fino all'aperta ribellione; ovvero Michele il Balbo, non potendo con un esercito, la represse con un finto perdono. Ma Fotino mandato a dar sesto alla Sicilia, sendo favorito dell'imperatore e spregiato dai soldati, prosontuoso e codardo, e volendo fare ammenda della fuga di Creta con qualche grande impresa di polizia in Sicilia, diè opera a spegnere i condottieri più baldanzosi, tra i quali primeggiava Eufemio. In luogo di ricercare il crimenlese, chè non si potea fare onestamente nè senza pericolo, trovò un sacrilegio chiarito o incerto; trovò i fratelli della sposa, tiranni domestici delusi, o pacifici cittadini ingiuriati da un soldato che si fea lecito ogni cosa: e per tal modo, col manto della morale e della religione, Fotino si provò a spezzar la prima verga del fascio. Se non che l'accusato era in sull'armi; gli altri condottieri s'accorsero dell'arte grossolana dello stratego, e videro il proprio pericolo in quel d'Eufemio: donde raccesero immantinenti la rivoluzione. Così mi raffiguro l'andamento dei fatti. Io pongo la sollevazione militare contro Fotino nell'anno ottocentoventisei. La sconfitta, la morte di costui, la effimera esaltazione di Eufemio, la sollevazione di due altri condottieri contro di lui e il novello combattimento di Siracusa, ond'ei fu costretto a fuggire, si debbono credere per filo e per segno come li narrano gli Arabi, e collocare nel medesimo anno ottocentoventisei. Soltanto aggiugnerei ch'Eufemio, detto da Ibn-el-Athîr capitano di soldati d'armata, e da tutti gli Arabi guerreggiante su le costiere d'Affrica, avesse dalla parte sua le milizie siciliane che montavano l'armata dell'isola; perchè, tra gli eventi di Costantinopoli e di Creta, non è da supporre che venisse in Sicilia il navilio imperiale. Altri soldati del presidio, stranieri e mercenarii, si sollevarono al certo con Eufemio; ma non andò guari che i loro capitani, massime i due cugini alemanni o armeni, non parendo loro aver guadagnato abbastanza, e corrotti forse dall'oro imperiale, si rivoltarono contro il novello signore, e gridarono il nome di Michele il Balbo. Riportarono la vittoria i traditori; e nondimeno rimase ad Eufemio non poco séguito tra i Siciliani, come lo dice espressamente la cronaca del Porfirogenito, e come si vedrà ancora dalla narrazione degli Arabi. È indi manifesto che i due elementi dai quali nacque il moto militare dell'ottocentoventisei, tosto si separarono. Le armi mercenarie, come pietra che si gitti in alto, ricaddero verso il loro centro di gravità, ch'era il dispotismo di Costantinopoli. Le milizie siciliane tentarono di spiccarsi dall'impero greco, sì come avean fatto un secolo innanti quelle dell'Italia centrale; ma oppresse da forze più ordinate, nè potendo trovar sostegno nello sfacelo della società civile, si gittarono per disperazione al peggior partito: chiamarono un potentato straniero; e affrettaron così la morte della nazione greco-sicola, ch'era andata decadendo e consumandosi, ormai da mille anni, dopo l'entrata di Marcello a Siracusa.
CAPITOLO II.
In questo tempo la guerra civile posava appena nello stato aghlabita, nè era spenta per anco a Tunis, principal porto di quello; ma tal commozione, in luogo di portare spossamento e abbandono come in Sicilia, avea raddoppiato l'attività della giovane colonia. Tra gli uomini grandi che producea l'islamismo in sua virtù, segnalavasi allora Abu-Abd-Allah-Ased-ibn-Forât-ibn-Sinân, cadi della capitale, vecchio settuagenario. Oriundo di Nisapûr nel Khorassân, e però di sangue straniero, era cliente costui della tribù arabica dei Beni Soleim; era nato il centoquarantadue (759-60) ad Harrân in Mesopotamia; e 'l padre venendo con l'esercito dei Khorassaniti al racquisto dell'Affrica, l'avea recato bambino di due anni a Kairewân. Fatto soggiorno in quella città, e indi a Tunis, e divenuto colono, forse proprietario, Forât avea potuto dare al figliuolo la dispendiosa educazione che s'apparteneva a giureconsulto. Donde Ased, studiato il Corano in Affrica, ripartì a diciott'anni per l'Arabia; ascoltò a Medina le lezioni di Malek-ibn-Anas, famoso tra i dottori principi dell'islamismo; e venuto quegli a morte, passò in Irak appo i discepoli di Abu-Hanîfa; e compiè poi gli studii sotto Ibn-Kâsim, onor della scuola di Malek in Egitto.[409]
Pieno la mente di quegli alti pensieri dei dottori orientali, fece ritorno Ased in Kairewân del settecento novantasette, e aprì scuola di dritto leggendovi il Mowattâ del primo suo maestro e un comento ch'ei par n'abbia fatto con la scorta d'Ibn-Kâsim; la quale opera, dal nome dell'autore, fu addimandata l'Asediìa. Crebbe la sua riputazione a tale, che in Affrica il tennero come dottore principe.[410] Donde nei moti dell'aristocrazia contro Ibrahim-ibn-Aghlab (810-811), un capo per nome Amrân-ibn-Mogiâled cercò di trarlo a sè con lusinghe, poi con minacce; ma Ased troncò le pratiche rispondendo ai messaggieri di Amrân, che s'egli fosse ito al campo dei sollevati avrebbe gridato: “l'uccisore e l'ucciso cadranno entrambi nel fuoco eterno.”[411] Da ciò si vede che, al par degli altri giureconsulti d'Affrica, abborriva sì la guerra civile, ma non parteggiava punto per Ibrahim. Ma quando Ziadet-Allah, tra' due bocconi amari che gli eran porti, amò meglio ingozzare l'opposizione legale dei dotti che la violenza delle milizie, chiamò Ased-ibn-Forât l'anno dugentotrè (818-19) a cadi di Kairewân; persuaso, dicono le biografie, dalle assidue esortazioni d'un Ali-ibn-Homeila; e non veggono che il motivo del consigliere e del principe era di dare un'arra di conciliazione alla parte moderata, nella quale primeggiava di certo Ased. Ziadet-Allah, non volendo punto deporre l'antico cadi, Abu-Mohriz-Mohammed, uom dotto e pio e particolarmente riverito da lui, sforzato quasi a dar la suprema magistratura ad Ased, glielo aggiunse nell'uficio; talchè si videro, con esempio unico o rarissimo, due cadi d'una medesima scuola nella stessa città.[412] Tal magistrato fu di grande momento nel nono secolo, quando lo innalzarono a splendore le riforme di Harun-Rascid[413] e la crescente civiltà; e quando i principi musulmani non avean per anco ministri di Stato ordinarii e permanenti, e gli interpreti della legge divina s'arrogavano di regolare tutte le umane faccende. Così veggiamo i due cadi del Kairewân fare or da giudici civili e criminali, or da padri spirituali di Ziadet-Allah; da assessori del santo ufizio che venía già in voga appo i Musulmani,[414] e da consiglieri di stato. Ben avvenne che interrogati da Ziadet-Allah, sul caso di un zindîk, o, diremmo noi, miscredente che dovea sentenziarsi dal principe, Ased e Abu-Mohriz oppugnassero insieme l'avviso d'un terzo giureconsulto, il quale volea a dirittura la morte dell'accusato: e i due cadi vinsero appo Ziadet-Allah il partito di perdonargli, pentendosi; il che quel virtuoso scettico ricusò.[415] Ma del rimanente i due giuristi, poco diversi per età e dottrina e discepoli entrambi di Malek, discordavano sempre, forse per gelosia, certo per indole; per l'animo forte dell'uno e pauroso dell'altro; per lo veder chiaro e lontano del primo e gli scrupoli del secondo. Il dissoluto e crudele Ziadet-Allah richieseli una volta su la misura di voluttà che gli fosse lecita nel bagno; e Ased pensando che il Corano concedeva il più, non volle contendergli il meno; ma Abu-Mohriz, con una distinzione degna del Padre Sanchez, seppe trovar pronto il peccato e accrescere a sè medesimo la riputazione di santo.[416]
Rifulse in ben altro caso la virtù di Ased. S'eran levate in arme contro Ziadet-Allah, come già narrammo (825), tutte le milizie d'Affrica; e capitanate da Mansûr Tonbodsi, avean messo il campo sotto Kairewân; chiamavano i cittadini a seguirle nella ribellione. Usciti allora a parlamentare i due cadi e condotti dinanzi a Mansûr che sedea tra i caporioni dell'esercito: “Su,” diss'egli ai cadi “siate con noi, s'egli è vero che questo tiranno vi sembri il flagello dei Musulmani!” “È vero: ed anco dei Giudei e dei Cristiani,” rispondeva tremando Abu-Mohriz. Ma Ased: “Non eravate voi stessi,” proruppe “non eravate poc'anzi i suoi partigiani e fratelli? Com'è che adesso ci richiedete di amistà contro di lui, quando nè egli nè voi avete mutato costumi? Ah no: se noi bastammo a tenerlo a segno quand'egli aveavi intorno, tanto meglio il faremo or ch'è solo.” A queste parole scoppiò una tempesta nel campo. I più feroci corsero addosso ad Ased e al compagno, sì che a mala pena rifuggironsi in città. E i cittadini non ascoltaron quel grande:[417] tra le ire della rivoluzione e i rancori del principe che la spense, par che Ased per brev'ora sia venuto in uggia agli arrabbiati delle fazioni estreme. E forse fu in questo tempo, e favellando per beffa a qualche sciocco il quale si credea da più di lui perchè più forte gridava, che Ased si vantò della eccellenza dei suoi nomi proprii. “Io son Ased” disse (che significa lione), “e quale belva non cede al lione? Figliuol son io di Forât” (così pronunziavano la voce Eufrate), “nè altro fiume ha miglior acqua. L'avol mio appellossi Sinân” (ch'è de' nomi della lancia), “e questa è in vero fortissima tra le armi.”[418] D'altronde, coteste millanterie erano in voga appo gli Arabi, e ve le manteneano le tradizioni poetiche di lor gente. E Ased, ancorchè d'origine straniera, n'era imbevuto, com'uom di lettere ed erudito ch'ei fu, anche meglio che giureconsulto, come pretende un biografo.[419] Più che la coltura e la dottrina, la storia dee notare in lui il gran pensiero di racchetare l'Affrica portando la guerra in Sicilia, e la forza d'ingegno e d'animo con che vinse tal partito, e lo mandò ad effetto ei medesimo, a prezzo della propria vita.[420]
Giunto Eufemio su la costiera d'Affrica, mandava incontanente a Ziadet-Allah in Kairewân a chiedere aiuti, e offrirgli la sovranità della Sicilia;[421] in questi termini: ch'ei medesimo tenesse l'isola con titolo e insegne d'imperatore, e ne pagasse tributo al principe aghlabita.[422] L'uscito faceva assegnamento sugli avanzi dell'armata siciliana che lo seguitavano, e su i molti partigiani lasciati nell'isola; e fidavasi spezzare le armi del Palata con le armi affricane, e di coteste poi disfarsi con quante magagne gli offrisse il caso o l'ingegno suo. E così pensan sempre i deboli mettendosi a scherzare coi forti; e i più avventurati, come fu Eufemio infino alla sua morte, riescon sì ad aggiustare qualche parte di lor macchina; ma, presto o tardi, necessariamente succede un contrattempo che fa rovinare il tutto, e dà l'acquisto a chi ha in mano la possanza. Da un altro canto, com'e' pare, sbarcavano in Affrica oratori del Palata, mandati a studiare il disegno del nemico:[423] e Ziadet-Allah pendeva irresoluto.
Nondimeno adunò a parlamento i notabili del paese, tra i quali fu disputato a lungo su la giustizia e utilità di quella guerra. Ingiusta pareva ai più, reggendo tuttavia la tregua dell'ottocentotredici; ma rispondeasi essere stata violata da' governanti della Sicilia, ritenendo prigioni parecchi Musulmani, com'aveva affermato Eufemio a Ziadet-Allah. Consultati su tal dubbio i due cadi, Abu-Mohriz avvisava si pigliasse tempo a chiarir meglio il fatto; Ased, all'incontro, volea che lì lì se ne domandasse ai medesimi oratori di Sicilia. “E come crederemo” ripigliò Abu-Mohriz “a ciò che diran costoro a carico o a difesa di sè stessi?” E Ased a lui: “Su le parole degli ambasciatori fermossi già la tregua, e su lor parole si spezzerà.” E focoso continuava: “Non vi sbigottite, o Musulmani, ha detto il sommo Iddio, non vi sbigottite; chiamate le genti all'islam, e avrete il primato sopra di quelle! Ubbidiamo dunque al divin precetto, in vece d'appigliarne sì tenacemente alla tregua con gli Infedeli, e rimarremo al di sopra!” Mutato per tal modo da Ased il centro della quistione, e messo innanzi un argomento al quale niun Musulmano potea dir contro, Ziadet-Allah interrogò gli oratori, tra i quali si trovava, forse da interprete, un Musulmano; i quali risposero: “È vero, sono stati imprigionati i vostri in Sicilia, ma a ragione; poich'essi non se ne andarono a tempo debito.”[424] Così non sinceraronsi punto i dotti musulmani della infrazione della tregua, nè cessarono di ripugnare alla guerra di Sicilia:[425] ma il pretesto v'era; il fanatismo religioso e le cupidigie mondane gli dettero forza di ragione; e il principe, i guerrieri, il popolo trovarono, senza meno, che il solo Ased intendesse bene la legge.
Fu discorsa insieme la utilità della impresa. Messo da altri il partito di infestare la Sicilia, senza farvi stanza nè porvi colonie, levossi a contraddirlo un Sehnûn-ibn-Kâdim. “Quanto v'ha,” dimandava costui “tra la Sicilia e l'Italia?” “Si va e viene due o tre volte dal levare al tramonto del sole,” gli risposero. “E tra la Sicilia e l'Affrica?” ripigliò; e quelli: “V'ha un giorno e una notte di viaggio.” “Oh, se pur avessi l'ale, non vorrei volar su quest'isola,” conchiudea Sehnûn; scherzando sul proprio nome che si dà in Affrica a un uccello assai scaltrito. Quest'arguzia per altro non giovò. I più, a una voce, deliberarono la guerra; ma d'incursione, non di conquisto.[426]
Allora Ased, che non si era tanto affaticato per una scorreria, pensò di portarla dassè al fine che si proponea, non ostanti tutti i dottori; e indi si fece, senza rispetti, a chiedere il comando dell'oste che ambivano parecchi altri uomini di maggior seguito per nobiltà di schiatta ed esperienza di guerra. E non curando Ziadet-Allah tal novella ambizione del giurista, forse facendosene beffe, quegli si volse al popolo, e andava brontolando: “Ve' che non mi vogliono, perchè mi tengono uom da nulla! Han saputo ben trovar nocchieri che governino le navi; che bisogno or hanno di chi le faccia andare secondo il Corano e la Sunna?”[427] Ma tanta riputazione ebbe Ased nell'universale dei cittadini da lui esortati e infiammati alla guerra sacra, che Ziadet-Allah piegossi, con tutta quell'indole sua imperiosa, e fece ammenda della passata ripugnanza. Appresentatoglisi Ased, e chiestogli che, secondo, i sacri statuti, or che l'avea fatto capitano, lo deponesse dal magistrato: “Non fia mai” rispose il principe, “ch'io te ne rimuova. Ben v'aggiungo l'officio di capitano che è di più alto grado, ma vo' che tu ritenga anco il primo, e che sii detto cadi emiro.” E così fu fatto, continua il cronista contemporaneo Ahmed-ibn-Soleiman, nè mai s'è visto prima nè poi nello Stato d'Affrica cumulare in una persona quelle due dignità.[428]
Si allestiva in questo mentre l'armata nel porto di Susa, ov'Eufemio fu mandato ad aspettare con le sue genti.[429] Quando ogni cosa trovossi in puntò, data la posta all'esercito a Kairewân, Ased movea con quello alla volta di Susa; e all'uscita della città l'accompagnavano, per fargli onore, i primarii tra i dotti con la gemâ', ossia municipalità, e tutta la corte del principe; che Ziadet-Allah non volle che rimanesse addietro alcun de' suoi famigliari. A Susa poi si fece la mostra dell'oste. Narra un testimonio di presenza che Ased, commosso dal nobile spettacolo, gli squadroni schierati in faccia, a tergo e ai fianchi, il volteggiare, delle bandiere al vento, l'annitrio dei cavalli, il frastuono dei tamburi, fatto silenzio, orò in queste parole: “Non v'ha altro Dio che il Dio uno, il Dio che non ha compagni. Affè di Dio, valorosi guerrieri, nè avolo nè padre ebbi io che mi lasciassero signoria,[430] e pur uomo al mondo non fu mai onorato di eletto séguito al par di questo; nè lo spettacolo che ci sta dinanzi agli occhi io l'ho visto mai, fuorchè negli scritti. Su, dunque, sforzate alacremente gli animi, affaticate i corpi nel cercare scienza, e fatene tesoro, nè siatene sazii giammai, nè mai vinti da' travagli ch'ella v'arreca, e sappiate che ne conseguirete il guiderdone in questa vita, e in quella ch'è da venire.”[431] Nè ci danno altro della orazione di Ased i biografi, eruditi che ne presero quel tanto che lor pareva onorasse il mestiere; come i frati cronisti del medio evo notavan solo dei principi il bene o il male fatto al monastero. Duolmi pertanto non avere ricordi più larghi, e dover sopperire con gli sforzi delle generalità, le quali se bastano a tratteggiare i tempi, mal ci aiutano a delineare le fattezze degli uomini, in cui la natura è sì svariata e capricciosa. E veramente da quelle parole di Ased trapela la vanità dell'uomo nuovo e l'orgoglio del dotto, e par vedere Cicerone pavoneggiarsi con la corazza indosso; ma son soppressi al certo, come cosa di minor momento, gli alti sensi che resero sì potente Ased nel tumulto degli animi della colonia, dico il fervore religioso e militare, la virtù del primo secolo dell'islamismo, al quale tornavan sempre col pensiero i giureconsulti di quel tempo, e forse Ased sopra ogni altro. Notevol è che il conquisto di Sicilia, promosso da questo grande, fu l'ultimo al tutto della schiatta arabica, e l'ultimo dello islamismo in Ponente. In Levante, le insegne dell'islam s'eran anco soprattenute da cento anni, nè ripigliarono la via dei conquisti che lunga pezza appresso, in mano della schiatta turca: sopra l'India, cioè, nello undecimo secolo, coi Gaznevidi; sopra l'Europa, nel decimoquinto, con gli Ottomani.
CAPITOLO III.
S'era adunato al bando della guerra sacra il fior de' guerrieri musulmani dell'Affrica: Arabi, Berberi, soprattutto della tribù di Howâra,[432] rifuggiti Spagnuoli e il giund, frequentissimo di Persiani del Khorassân;[433] e tra tutti notavansi molti uomini di dottrina e di consiglio.[434] Sommò lo esercito a settecento cavalli e diecimila fanti; il navilio a settanta o secondo altri cento barche, senza noverarvi l'armatetta d'Eufemio.[435] Sciolsero dal porto di Susa[436] il quindici di rebi' primo dell'anno dugentododici dell'egira,[437] che torna al tredici giugno ottocentoventisette; e drizzandosi alla più vicina punta della Sicilia, posero a terra le prime navi, il sedici giugno, a Mazara, ov'Eufemio avea partigiani, o volle schivare il Lilibeo come città assai munita. Ased, fatti sbarcare immantinente i cavalli, soprastette tre dì, attendendo forse il rimanente delle navi; nè fu sturbato, se non che capitò una torma di cavalli degli aderenti di Eufemio; i quali il cadi fece pigliare e rilasciolli poichè li ebbe conosciuto.[438] Pur non fidandosi di Eufemio, quando fu ora di venire alle mani, chiamatolo a sè, gli dicea breve: non aver mestieri di ausiliarii; si mettesse in disparte con le sue genti; ma pigliassero una divisa per distinguersi da' nemici, perchè i Musulmani per errore non li offendessero. E così furono costretti a fare. Un ramoscello di pianta salvatica, messo per fregio all'elmetto,[439] notò cotesti sventurati che non avean più amici nè patria, nè altra bandiera che della privata vendetta: messi per primo supplizio a guardare con la braccia incrocicchiate il successo della battaglia.
Decisiva la battaglia che sovrastava; poichè trovandosi i Musulmani su la costiera, e avendoli aspettato lungamente il Palata, e ragunato tutte le forze dell'isola, delle due cose dovea seguir l'una, o ch'ei li rituffasse in mare, o che sconfitto da loro lasciasse l'isola senza difese. Capitanava cencinquanta mila uomini, dicono certi cronisti musulmani, per non restar di sotto agli scrittori cristiani che lor n'han fatto uccidere trecentomila da Carlo Martello a Tours: pur senza dubbio l'oste siciliana avanzava molto di numero quella di Ased.[440] Saputo che il Palata si fosse venuto a porre in una pianura che prese il nome da lui[441] il cadi usciva in ordinanza da Mazara[442] il quindici luglio[443] e schierò l'oste musulmana a fronte alla greca. Aspettò, secondo il costume degli Arabi,[444] la carica de' nemici: tutto solo innanzi le file tenendo in alto il pennon del comando, ripetea sottovoce il capitolo Ja-Sin, il cuor del Corano, come lo chiamò Maometto, lugubre preghiera che suolsi recitare ai moribondi. Così tre secoli appresso stava il gran Saladino nei campi di Siria all'appiccar della zuffa. Ma a vedere un uomo incanutito su i libri e nel fôro incontrar sì securo le lance bizantine, dovea parer miracolo ai guerrieri affricani. Mentre ci tremava il cuore in petto, scrive un di loro per nome Ibn-abi-'l-Fadhl, mentre ci tremava il cuore per Ased, ei fornì tutta la sua prece, e a un tratto volgendosi a noi: “Son questi,” disse, “i medesimi Barbari della costiera d'Affrica; i vostri schiavi! Non li temete, o Musulmani!” E sparve il campo di mezzo: e Ased trovossi avvolto il primo tra gli squadroni nemici. N'uscì tutto intriso del sangue che gli scorrea per l'asta della lancia, lungo il braccio e infino all'ascella, afferma il narratore maravigliato dalla fierezza del vecchio cadi.[445] Di quella degli altri, ch'era virtù comune tra gli Arabi, non ne fa motto alcun dei cronisti; e descrivono questa giornata, come cento e cento altre, tutti con una diceria: che aspra fu la mischia; che Dio dissipò i nemici; che grandissima preda fecero i Musulmani, di cavalli, ricchezze, bagaglio; che menarono strage degli Infedeli. Il Palata rifuggissi a Castrogiovanni, ove, non tenendosi sicuro, passò in Calabria, e fu morto.[446] Donde si vede che la sconfitta, com'avviene sempre quando il popolo diffidi dei governanti, produsse incontanente nuove turbolenze tra le soldatesche e nelle città: ma nulla v'approdò la parte d'Eufemio, che si era infamata chiamando i Musulmani.
Il vincitore intanto tirava a dirittura vêr la capitale. Lasciato presidio a Mazara sotto un Abu-Zeki della tribù di Kinâna, e occupate varie altre castella che assicurassero la linea d'operazione dell'esercito, Ased ratto percorse la strada romana della costiera meridionale, com'ei pare, fino alla foce del Salso o poc'oltre; donde poi pigliò la via dei monti che mena a Siracusa per Biscari, Chiaramonte e Palazzolo, l'antica Acri.[447] Quanti Siciliani non perdettero l'animo al primo disastro, avean raccolto ad Acri, credo io,[448] le poche armi che rimaneano nell'isola; e speravano, tra la fortezza del luogo e l'astuzia, intrattenere l'esercito musulmano, tanto che si munisse Siracusa. Però, appressandosi Ased, vennero a trovarlo oratori, dei primarii del paese, con lor fole di accordo: che sottometterebbersi e pagherebbero la gezîa, purch'egli non andasse oltre. E Ased, raggirato, al dir dei cronisti arabi, soprastette alquanti dì,[449] e riscuotè una prima taglia di cinquantamila soldi d'oro, che tornano a un di presso, in valor del metallo, a settecento mila lire nostrali.[450] Forse il cadi volle anch'egli apparecchiarsi allo assedio di Siracusa, più arduo assai che non gli era paruto da lungi: volle aspettare l'armata; riordinare lo esercito, impedito dal bottino e dai prigioni, assottigliato dai presidii che avea lasciato qua e là nella lunga via, e dai predoni vaganti senza comando. Ma quand'ei vide che la dimora giovava al nemico più che a lui; quando seppe che facean diligenza ad afforzare Siracusa e le altre castella, e ridurvi i tesori delle chiese, le vettovaglie, e ogni roba di maggior pregio delle terre aperte; quando ebbe sentor delle pratiche d'Eufermio, il quale sottomano confortava i cittadini a tener fermo e combattere valorosamente per la patria; e quando i Siracusani si cominciarono a scoprire ricusando il rimanente del denaro pattuito, il condottier musulmano non differì a disdire la tregua. Sparse le gualdane per ogni luogo; sforzò o schivò la fortezza d'Acri; e col novello terrore delle stragi, delle depredazioni e de' guasti del contado, piombò sopra Siracusa.
E alla prima occupava, dice Ibn-el-Athîr, certe enormi spelonche intorno la città:[451] al certo le latomie di Paradiso, Santa Venera, Navanteri, Cappuccini, che giacciono a distanze disuguali, in una linea spezzata di più di un miglio, al confine meridionale dei quartieri di Neapoli e Acradina, distrutti tanti secoli innanzi. Tra le latomie e l'istmo giacea nel nono secolo un quartiere,[452] murato senza meno dalla parte di terra dall'uno all'altro porto; sì che doveva opporre ai Musulmani una vasta linea di fortificazioni. Pertanto Ased, non potendo altrimenti investir la città, senza macchine, senza grossi navigli, senz'altro che otto o novemila uomini, si accampò nelle latomie, raccolto e minaccioso; fece accostare l'armata che chiudesse alla meglio i due porti; diè qualche sanguinoso assalto; bruciò navi ai nemici; fece prova a stringer la città per terra e per mare; e s'affrettò a chiedere rinforzi d'Affrica.[453] Perchè la fame cominciava a travagliare il campo, più che la città; sendo ridotte in questa le vittuaglie del contado; nè potendo i Musulmani troppo allargarsi a depredare. Vennero a tale penuria, che si cibaron di cavalli, ed i soldati un dì s'abbottinarono. Scelsero ad oratore un Ibn-Kâdim,[454] il quale fattosi innanzi ad Ased richiedealo di levare l'assedio, e tornarsene in Affrica; dicendo avere l'esercito più cara la vita di un sol Musulmano che tutti i beni della Cristianità. Al quale il capitano brusco rispondea: “Non son io quegli che farà tornare addietro i Musulmani usciti alla guerra sacra, mentre hanno ancor tante speranze di vittoria.” Vedendo crescere, ciò non ostante, la insolenza dei soldati, ei rincalzò minacciando che arderebbe le proprie navi. Indi parea che dalle parole fossero per venire ai fatti; e Ibn-Kâdim andava dicendo: “Per manco di questo fu ucciso il califo Othman;” quando Ased domò i malcontenti come fanciulli: sì valoroso uomo egli era, e sì disciplinato lo esercito. Ased di mezzo a loro fe' pigliare Ibn-Kâdim, e dargli qualche staffilata, senza spogliarlo, com'era usanza: esempio, però, non supplizio, nè vendetta; e meritata vergogna di chi braveggiava per voglia di voltar le spalle al nemico. E così ebbe fine il tumulto. Il biografo chiude questo racconto con bella semplicità, dicendo che le staffilate non furon più di tre o quattro; ma che Ased tirò innanzi costante e vittorioso, tanto che diè ai Greci una fiera battaglia, e ne fe' strage, li ruppe e schiantolli dalla Sicilia.[455]
Perchè venian da una mano fresche genti d'Affrica insite coi venturieri spagnuoli di Creta;[456] dall'altra Michele il Balbo accozzò soldatesche, e indusse il doge Giustiniano Partecipazio a mandare in Sicilia l'armata veneziana.[457] Ingrossando per tal modo la guerra, si venne a un'altra giornata, al dire d'Ibn-el-Athîr, quando, giunti gli aiuti d'Affrica, il governatore di Palermo uscì alla campagna con poderoso esercito; ma non sappiamo se i Musulmani fossero sbarcati a Mazara o a Siracusa, e se l'oste di Palermo avesse lor tagliato la via, ovvero combattuto insieme contro essi ed Ased congiunti sotto Siracusa.[458] Sentendo venirsi addosso forze maggiori, i Musulmani si cinsero d'un largo fossato; e fuori da quello buccherarono tutto il terreno di pozzette, ottima difesa contro i cavalli, adoperata sovente dai Bizantini e scritta ne' loro libri di strategia. Pur dimenticando le proprie arti, caricarono con vano impeto i Cristiani; si avvilupparono nel mal terreno, e incespando i cavalli e scompigliandosi gli uomini, i Musulmani ne fer macello. Strinsero indi più fortemente Siracusa per mare e per terra:[459] che ormai durava l'assedio da dieci mesi o un anno,[460] e si venne a tale che i cittadini proponeano un accordo, e i Musulmani lo ricusavano.[461] Non poche altre terre s'eran sottomesse, onde parea da temere che presto le imitasse tutta l'isola.[462]
Quando una moría s'appiccò nello esercito; della quale, altri dice di ferite, trapassava il grande Ased-ibn-Forât, nella state dell'ottocento ventotto, ed era sepolto nel campo.[463] Lasciò desiderio di sè nell'universale dell'esercito; e al certo vi si ricordavano a gara le lodi che hanno scritto di lui i biografi: la sapienza, le lettere, la prudenza, l'antica virtù, gli strepitosi fatti che operò, le famose concioni che tenne nella guerra di Sicilia.[464] Mancato lui, la fortuna voltò le spalle ai Musulmani. Gli statichi delle varie città sottomesse fuggirono incontanente dal campo,[465] in alcuno scompiglio d'assalto o sedizione; ovvero per bella audacia, volendo andare a gridare per tutta la Sicilia ch'era tempo di togliersi d'addosso i Barbari. E tra costoro non posava la discordia; quando leggiamo che Mohammed-ibn-el-Gewâri, succeduto ad Ased, era eletto al supremo comando, non dal principe aghlabita, ma dall'esercito stesso.[466] A ciò ben si riconoscono coloro che, pochi anni addietro, avean fatto tremare Ziadet-Allah in Affrica, e affrontato il tiranno di Cordova.
D'altronde gli assedianti non poteano sperare nuovi aiuti d'Affrica, dove in quel medesimo tempo gli Italiani aveano osato portar la guerra. Bonifazio secondo, conte di Lacca, sapendo i casi di Sicilia, o provocato da qualche insulto che avesser testè fatto pirati musulmani in Corsica, accozzava le genti con Berengario fratel suo, e altri conti della Toscana; allestivano un'armatetta; e, fatto vela per la Corsica e non trovandovi il nemico, andavano a cercarlo in Affrica. Posero a terra tra Utica e Cartagine, dicono gli annali d'Einhardo; presso Kasr-Tûr, leggiamo, per tradizione di Lebîdi, nel Riadh-en-nofûs; e rotti in cinque scontri i Musulmani con molta strage, ma perduto poi per troppa temerità un po' delle proprie genti, se ne tornarono in Italia. Così Einhardo.[467] Il Lebîdi riferisce con altri particolari il medesimo successo. Narra che Mohammed, figlio di quel Sehnûn-ibn-Sa'îd, che fu giurista di alta fama in Affrica; andando da Kairewân a Kasr-Tûr a far la ispezione dei posti di guardia, e sentendo gridare accorruomo dalla gente della marina e dei villaggi assaliti dagli Italiani, occorsevi, com'era, sopra una mula da viaggio, senza perder tempo a mandare a Susa per un cavallo; vestì la corazza, s'armò di spada e lancia; adunò gli uomini del castello, le guardie della costiera e una mano di Beduini; e, caricato il nemico che s'era messo a far preda e prigioni, dopo sanguinosa zuffa, lo ruppe e sforzò a rifuggirsi su le navi.[468] La quale fazione nel cuor dello Stato aghlabita bastava a distogliere Ziadet-Allah dalle cose di Sicilia, quand'anco avesse avuto voglia d'aiutare l'esercito contumace, e forze da farlo, e quiete in casa.[469]
Soprattutto affranse gli assedianti la moría fieramente incrudelita; e il veder arrivare in questo l'armata bizantina e veneziana, piena di soldatesche. Risoluti a ciò d'abbandonare l'impresa, i Musulmani risarciscono alla meglio lor legni nel porto grande di Siracusa; e montanvi e salpano: quando le poderose forze navali de' nemici chiusero la bocca del porto. Allora, senza far vana prova a rompere la fila delle navi cristiane, i Musulmani, tornano addietro a terra; brucian le proprie, anzichè lasciarle al nemico; e, sicuri per disperazione, s'addentrano nei monti, cercando luoghi più forti e salubri. Nessun cronista ci lasciò scritte quelle perdite spaventevoli che patì necessariamente l'esercito, infetto d'epidemia, trabalzato dal campo su barche, e dalle barche a terra, spinto in fretta tra vie rotte ed alpestri, senza bagaglie, senza giumenti da portare gl'infermi. Ibn-Khaldûn solo accenna a tante afflizioni, con dire che i sopravvissuti non bramavano ormai che la morte.[470]
A una giornata di cammino da Siracusa, tra un gruppo di vulcani estinti, sorge in cima ad eccelso monte la città di Mineo, ristorata da Ducezio re dei Sicoli, cinque secoli innanti l'era volgare, quand'ei cominciò sua dura lotta contro le colonie greche. Due miglia sotto la rôcca, da un cratere vulcanico, spiccia un'acqua torbida e puzzolente, detta nell'antichità il lago dei Palici: sede d'oracoli e iddii vendicatori. Tra questi luoghi sostò lo stuol musulmano, divorato dalla pestilenza, guidato da Eufemio che, in abito e nome d'imperatore, recava seco le maledizioni di tutta la Sicilia: e parea gli antichi numi lo attirassero in loro voragini. Nella nuova religione la rôcca di Ducezio s'affidava alla protezione di Sant'Agrippina, martire romana, le cui ossa trafugate da pie donne, recate in Mineo, onorate di tempio e di culto, si teneano come palladio della città. Pertanto una leggenda greca, del decimo o undecimo secolo, favoleggiò che montati di notte i Barbari su per le mura di Mineo, appariva da quelle Santa Agrippina levando in alto una croce e mandava giù a precipizio gli assalitori, che un solo non ne campò.[471] In tal mito si ristrinsero le vicende della guerra succedute in un anno, secondo le cronache arabiche. Sappiam da queste come i disperati Maomettani, a capo di tre dì, si insignorissero di Mineo,[472] ove par si fosse dileguata da loro l'epidemia, com'avvien sovente per mutar di luogo. Rinfrancati, mandavano uno stuolo su la costiera meridionale; il quale espugnò Girgenti, città molto decaduta sotto la dominazione romana e bizantina. Indi intrapresero più importante fazione. Lasciato presidio a Mineo, si spinsero nel cuor dell'isola, sotto le formidabili rupi di Castrogiovanni. Questa è l'antica Enna, il cui nome par che già corresse mutato e guasto nella lingua del volgo. In fatti il Beladori, cronista arabo del medesimo secolo nono, lo scrivea Kasr-Iânna[473] che è trascrizione di Castrum Ennæ, pronunziata Ienna; appunto com'or si direbbe in Sicilia, soprattutto a Messina, ove la schiatta greca di Sicilia lasciò più profonde radici. Allargata poi dagli Arabi la prima sillaba, prevalse nell'isola la forma di Iânna; e con l'andar del tempo, massime nel duodecimo secolo, quando sopraggiunse nuov'onda di popolazione italiana, si piegò a Ioanni o Giovanni ch'era voce più famigliare agli orecchi, e il nome intero si mutò com'adesso lo scriviamo. Ho notato coteste minuzie, e così farò per lo innanzi quante volte me ne occorra, potendo servire agli studii di linguistica, che or vanno spargendo tanto lume nella storia.
Eufemio trovò a Castrogiovanni la morte ch'ei forse bramava. Appiccata una pratica con terrazzani o soldati, vi fu chi venne seco ad abboccamento; finse volerne consultare in città; andovvi e tornò ad Eufemio un'altra fiata nello stesso dì: e la conchiusione fu che i cittadini si disponevano a fare ogni voler suo e dei Musulmani; sarebbe disdetto il nome di Michele il Balbo, giurata fede a lui la dimane, a tal ora, a tal luogo, a distanza onesta tra le mura e il campo. La notte v'ascosero lor armi. Al nuovo dì, in vestimenta di gala, servilmente lieti, comparvero al ritrovo; e venne dall'altra parte Eufemio con picciola scorta e lasciolla anco addietro un trar d'arco. I cittadini si prostravano dinanzi al posticcio imperatore, in atto di adorazione, come si usava allora, nè è smessa per anco tal vergogna. Ma due fratelli, che par fossero stati amici d'Eufemio innanzi la guerra, si spiccano dal branco degli adoratori; corrono bramosi ad abbracciarlo: il misero, disusato da lungo tempo alle espansioni dell'affetto, si commosse, si chinò a baciare l'un dei fratelli; il quale amorosamente gli prende il capo con ambo le mani, l'afferra pei capelli, lo tiene con disperato sforzo, e l'altro fratello gli vibra un colpo su la nuca e il fa cascar morto.[474] Allor la brigata diè di piglio alle armi occultate: impuni e tripudianti i due traditori riportarono in città il capo d'Eufemio: e forse furono paragonati alla Giuditta, chiamati liberatori della patria, sì come poi la cronaca di Costantino Porfirogenito li disse vendicatori dell'onore imperiale contro un usurpatore. Questa fine ebbe il prode condottiero siciliano, strascinato dai vizii del governo e del paese a ribellarsi dall'uno, e dar l'altro in preda agli stranieri.
Ostinandosi con tutto ciò i Musulmani all'assedio, andava a rinforzare la città Teodoto patrizio, testè giunto di Costantinopoli con soldatesche di varie genti, la più parte Alemanni, come porta il manoscritto del Nowairi, ma probabilmente si dee leggere Armeni.[475] Sta Castrogiovanni in un piano scabro e inclinato che tronca la vetta d'alto monte, di costa scoscesa da ogni lato, ripida e superba da settentrione molto più che da mezzogiorno: le case sono sparse a gruppi or alto or basso, come ondeggia il suolo del rispianato; ove spiccasi in alto, verso greco, una immane rupe, stagliata intorno intorno, coronata di grosse mura e torrioni, provveduta di scaturigini d'acque, capace di grosso presidio: cittadella che può dirsi inespugnabile, perch'è stata presa rarissime volte.[476] Su la rupe sorgea nell'antichità il tempio di Cerere, quasi la Dea da quella cima vegliasse sopra l'isola sua: e quivi i Bizantini avean posto ogni speranza di difesa, afforzando il formidabil sito con gli ingegni di lor architettura militare; e il borgo che stendeasi nel rispianato, ov'è in oggi la città, potea sfidare anch'esso gli insulti nemici. Era il nemico attendato alle falde del monte, credo da mezzodì ov'è una pianura; ciò che Ibn-el-Athîr fa supporre, scrivendo, come i due eserciti si ordinassero in fila, l'uno a fronte dell'altro. Perocchè Teodoto, solo capitano degno del nome che ebbero i Bizantini in questa guerra, fidandosi in sè e nel numero de' suoi, scese giù dal monte a presentar la battaglia. E toccò una sanguinosa sconfitta; sì che s'ebbe a rifuggire a Castrogiovanni, lasciando al nemico moltissimi prigioni, tra i quali si noveravano novanta patrizii, dicono le croniche musulmane,[477] forse giovani di famiglie patrizie, e anco di nobiltà minore: ma pur ciò basta a mostrare la importanza dell'esercito bizantino.
Indi l'assedio continuò; nel qual tempo tanto ordinatamente reggeansi i Musulmani, che dell'argento preso batteron moneta. Se ne conosce non saprei dir se due esemplari, o un solo; trovandosene uno pubblicato dal Tychsen, ed uno posseduto dal Museo Numismatico di Parigi, che ben potrebbe essere il medesimo. È moneta sottile, non logora, coniata a lettere cufiche dello stesso stile dei dirhem abbassidi contemporanei; pesa due grammi e novanta centesimi; vale perciò da sessanta centesimi di lira italiana. Oltre le usate formole, la faccia dritta ha nel campo una voce di tre lettere, simbolo particolare degli Aghlabiti, poi il nome di Ziadet-Allah-ibn-Ibrahim, e infine la stessa parola composta Ziadet-Allah nel senso proprio di “Accrescimento (dato da) Dio.” Nel campo del rovescio si legge, interpolato alla formola, come ve n'ha tanti esempii, il nome di Mohammed-ibn-el-Gewâri; e in giro: “In nome di Dio questo dirhem fu battuto in Sicilia l'anno dugento quattordici.”[478] E si deve intendere dei principii di quell'anno, ossia della primavera dell'ottocento ventinove; nel qual tempo gli Arabi assediavano Castrogiovanni, e mancò di vita Mohammed-ibn-el-Gewâri.
Dopo la cui morte, rifatto capitano, per elezione dell'esercito, un Zoheir-ibn-Ghauth,[479] l'avvantaggio della guerra tornò ai Bizantini. Perchè, uscita a far preda, com'era usanza, una gualdana degli Arabi, Teodoto le mandò incontro genti che la combatterono e rupperla; e la dimane, venuti a giusta giornata ambo gli eserciti, Teodoto riportò anco la vittoria; ammazzò da mille uomini ai Musulmani, e li cacciò infino agli alloggiamenti; dove si munirono con fossati, e furono a lor volta assediati e chiusa loro ogni uscita. Apprestatisi pertanto all'estremo rimedio di tentare una sortita di notte sopra il campo bizantino, Teodoto, che lo riseppe, lasciò vôto il luogo; si appostò nei dintorni; e quando i Musulmani aveano occupato il campo, maravigliati del non trovarvi anima viva, il nemico piombò improvvisamente da tutti i lati, ne fece strage: li sbaragliati a mala pena si ritrassero a Mineo. Inseguendoli Teodoto, li assediò nella fortezza; e alfine li condusse a tale diffalta di vittuaglie, che doveano cibarsi de' giumenti e de' cani. A questi avvisi il picciol presidio di Girgenti distruggea la città, leggiam nelle cronache, forse le sole fortificazioni; e non potendo soccorrere que' di Mineo, si ridusse a Mazara. Aumentato l'esercito bizantino, e rincorato da un capitano di vaglia; avvezzi un po' gli abitatori dell'isola al romore delle armi, innaspriti dalle profanazioni, saccheggi e guasti degli Infedeli; e costoro menomati tra vittorie e sconfitte, non fidanti nel nuovo condottiero, mancato lor anco Eufemio, dileguati già prima i suoi partigiani: tali erano le condizioni degli uomini che si laceravan tra loro sul desolato terreno della Sicilia. Non rimaneva agli occupatori altro che Mazara e Mineo, disgiunte di tutta la lunghezza dell'isola, da sentieri difficili e popolazione ostile; e l'una tenea per non essere stata assalita giammai; l'altra, rôcca fortissima, era per soggiacere alla fame. Parea dunque assai vicino il termine della guerra nella state dell'ottocento ventinove, due anni dopo lo sbarco di Ased a Mazara.[480]
CAPITOLO IV.
In questo tempo capitò nei mari di Sicilia un'armatetta spagnuola condotta da Asbagh-ibn-Wekîl, della tribù berbera di Howâra, soprannominato Ferghalûsc.[481] Era gente di quella schiuma che la società musulmana di Spagna spandea ribollendo; e il caso ne faceva ladroni, eroi, martiri, conquistatori: come gli usciti di Cordova in Creta; come cento altre masnade che afflissero per un secolo e mezzo le costiere meridionali della Francia e dell'Italia di sopra, e fino i più rimoti recessi delle Alpi. Approdato Ashagh in Sicilia, e richiesto di soccorso da' Musulmani, par ne desse tanto da vettovagliare Mineo; e più ne promettea, senza far ciance, vedendo largo il campo ai guadagni. Forse giunse qualche altro aiuto d'Affrica, ove Ziadet-Allah avea spento alfine la ribellione di Tunis.[482] Dalla parte de' Cristiani la guerra allenò. L'armata veneziana, venuta di nuovo in Sicilia l'anno ottocento ventinove, o quel d'appresso, niente premurosa di mettersi a sbaraglio per solo amor dello imperatore di Costantinopoli, se ne tornò, così dice un cronista nazionale, senza trionfo.[483] Nè riportonne altrimenti il patrizio Teodoto da più d'un anno che bloccava Mineo; forse men travagliato dai nemici che dal proprio governo, dall'azienda confusa e dilapidata, dalla marea che saliva o calava a corte; tanto più che morto Michele il Balbo, d'ottobre dell'ottocento ventinove, gli era succeduto Teofilo, giovane d'animo dritto e valoroso, ma poco cervello; però capriccioso nel render giustizia, male avventurato nella guerra, crudele in casa; e spesso si gittò, come ogni altro, ad atti di perfidia, poichè il dispotismo è pendío da non potervisi trattenere il piè quando si vuole.
Sopraggiunse nella state dell'ottocento trenta il poderoso rinforzo aspettato dai Musulmani di Sicilia: trecento legni, dice un cronista,[484] i quali, per piccioli che fossero, dovean portare da venti a trenta migliaia d'uomini, se prendiamo per misura la espedizione di Ased. Uomini diversi di schiatta, d'indole, di proponimento: Arabi e Berberi d'Affrica mandati da Ziadet-Allah a proseguire il conquisto:[485] e maggior numero d'Arabi e Berberi e fors'anco antichi abitatori di Spagna, intenti solo a far correrie; capitanati da Asbagh e da altri condottieri, come il nota espressamente una cronica;[486] tra i quali un'altra nomina Soleiman-ibn-'Afia da Tortosa.[487] Gli Spagnuoli, che si doveano trovar assai male in arnese, diersi a saccheggiare, menar via prigioni che si vendean come ogni altro bottino, prender castella qua e là per taglieggiarle e lasciarle: nè mossero all'aiuto di lor fratelli di Mineo, se prima il presidio non stipulò che Asbagh avesse il supremo comando,[488] e se non furono forniti di cavalli,[489] forse dagli Affricani che teneano Mazara. Allora, occupate per via le fortezze che gli assicurassero la ritirata, Asbagh assalì Teodoto sotto Mineo; lo ruppe e uccise; e gli avanzi dello esercito bizantino corsero a chiudersi in Castrogiovanni: la quale battaglia seguì tra luglio e agosto dell'ottocento trenta.[490] Asbagh, diroccata e arsa l'infausta Mineo, marciò con tutto lo esercito sopra una città che il Baiân scrive Ghalûlia o Ghallûlia, e dalla somiglianza del nome e opportunità del luogo parrebbe la Calloniana dell'Itinerario d'Antonino, posta nel sito attuale di Caltanissetta, o non lungi,[491] in riva al Salso che taglia in due la Sicilia meridionale. Quinci i Musulmani avrebbero dominato quel che poi si chiamò val di Mazara, che si stende a ponente del fiume, ed è la regione più aperta dell'isola; avrebbero fronteggiato Castrogiovanni che s'innalza a greco di Caltanissetta a mezza giornata di cammino; e il fiume li avrebbe diviso dalla provincia che occupa l'angolo tra levante e mezzodì, montuosa e assicurata dalle armi bizantine di Siracusa. Il sito però ottimamente era eletto. Ma impadronitisi i Musulmani di Ghallûlia, si appresero malattie nell'esercito; scoppiarono in fiera pestilenza, e ne morirono Asbagh stesso e parecchi condottieri. Deliberati gli altri ad abbandonare la città, i Bizantini che n'ebbero sentore, li assalirono nella ritirata. Dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, gli avanzi dell'esercito giunsero alfine alla marina, forse di Mazara. Dove, risarciti i legni, se ne tornarono sconsolati in Ispagna.[492]
Ma mentre Asbagh s'era avviato a Mineo, un altro stuolo musulmano, la più parte Affricani, mosse, com'e' pare, da Mazara, alla volta di Palermo; e principiò l'assedio lo stesso mese di giumadi secondo del dugento quindici (25 luglio a 22 agosto 830) che fu rotto Teodoto.[493] La occupazione di Ghallûlia assicurò gli assedianti dalle forze bizantine che potessero venire ad assalirli da Castrogiovanni, ovvero da Siracusa; e il disastro dell'esercito di Asbagh tornò loro men grave, poich'e' pare che non pochi condottieri, in vece di ritrarsi alla marina verso ponente e mezzodì andassero al campo sotto Palermo.[494] Città fondata dai Fenicii innanzi la venuta delle colonie greche in Sicilia; rinomata nelle guerre puniche; prosperante o meno consumata che le altre sotto la dominazione romana; forte nel sesto secolo quando espugnolla Belisario; popolata e ricca nel settimo, come ne fan fede le epistole di San Gregorio; e durava la importanza sua nella rivoluzione d'Eufemio. Ricinta da un braccio di mare e dalle lagune, la città che occupava il centro dell'attuale, tenne il fermo per un anno contro i Musulmani; poco o punto aiutandola l'imperatore Teofilo. Però i cittadini si consumarono in una memorabilissima difesa: che da settantamila che ve n'era al principio dell'assedio, verso la fine ne avanzarono manco di tremila, e gli altri tutti perirono, se è da stare alla testimonianza d'Ibn-el-Athîr. Che che ne sia delle cifre, tal tradizione prova la grande mortalità, aumentata al certo dalla pestilenza che da quattro anni serpeggiava in Sicilia. Alfine, correndo il mese di regeb del dugento sedici (13 agosto a 11 settembre 831), il governatore s'arrese, salve le persone e la roba:[495] egli, il vescovo Luca, e que' pochi che poteano abbandonare il paese[496] senza morir di fame, se n'andarono via per mare: la popolazione del territorio fu assoggettata alla schiavitù, scrivea Giovanni Diacono di Napoli, forse alla condizione di dsimmi, o vogliam dire vassalli, senza lasciarsi ad alcuno il possesso di beni stabili.[497] Nè è a dire se nel corso dell'assedio e dopo, quelle mescolate masnade di Musulmani commettessero guasti, violenze, eccidii in tutto il paese. Però la storia può accettare dalle leggende religiose il martirio del monaco San Filareto da Palermo e di parecchi altri, i quali, volendo rifuggirsi in Calabria quando il nemico occupò il territorio o la città, furon presi; messi all'alternativa di rinnegare o morire; e virtuosamente elessero la morte.[498] Su questo fatto alcuni imaginaron lor novelle, e quel ch'è peggio fabbricaron lettere dei monaci Benedettini di Palermo dispersi dagli Infedeli.[499] Fondato poi nel decimoquarto secolo, in un sito delizioso tra i monti che sovrastano alla città, il monastero benedettino di San Martino, il novello priore spacciò e scrisse essere stato quel suo chiostro edificato da San Gregorio, illustrato dalla pietà di antichi monaci e suore, e abbattuto da' perfidi Saraceni l'anno ottocento ventisette, quand'ei li credeva entrati in Palermo.[500]
CAPITOLO V.
L'occupazione di Palermo fu vero principio a quella dell'isola. Fin qui i Musulmani non avean fatto stanza che in campo o entro piccole castella, chè tal era anco Mazara; per quattro anni le forze loro, ragunate di là dal mare in qualche boglimento di zelo religioso o di cupidigia, erano state poi rifornite a stento, e con più fatica traghettati gli aiuti nell'isola; tutti eran vivuti di rapina che si sperpera; avean guerreggiato sotto varii capi, senz'accordo nè disciplina. Ma la vasta e forte città, quasi vota d'abitatori, il fertile territorio e i contadini che il coltivavano, rimasi preda al primo occupante, allettarono la comune dei vincitori a soggiornare in Palermo; ammoniti altresì dalle sventure passate. I più veggenti doveano comprendere con ciò gli avvantaggi d'una colonia moderata da governo regolare; grossa di popolazione, da fornire uomini e materiali alla guerra; posta sì presso al cuor dell'isola, con un porto comodo e difendevole, ove le arti di costruzione navale non mancavano, o si poteano agevolmente ristorare.
Però da una parte si gittarono sul cadavere di Palermo le genti affricane e spagnuole dell'esercito; piatiron tra loro, dice Ibn-el-Athîr[501] e azzuffaronsi: senza dubbio, quando si venne al parteggio delle possessioni. Dall'altro canto Ziadet-Allah pose mano ad ordinare la colonia. Quantunque gli Spagnuoli potessero pretestare la sovranità del principe omeiade, prevaleva pur manifestamente in Sicilia il dritto della casa aghlabita per lo merito della intrapresa guerra, per la sede più vicina e le forze sue più considerevoli nell'esercito. Pertanto l'anno medesimo dugentosedici, che ne avanzarono cinque mesi dopo la dedizione di Palermo, Ziadet-Allah elesse a luogotenente in Sicilia il suo cugin germano Abu-Fihr-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab,[502] segnalatosi una volta combattendo in Sicilia, e poi con infelice lealtà egli e i suoi fratelli nella guerra civile di Mansur Tonbodsi.[503] Con la riputazione di principe del sangue, e anco forse con gente fidata, giunse Abu-Fihr in Sicilia, correndo già il dugento diciassette (6 febbraio 832 a 25 gennaio 833). Costui ne cacciò, dice la cronica, Othman-ibn-Kohreb[504] non sappiam di che nazione, certamente un de' capi di parte venuti su in que' trambusti: e leggiamo altrove che le discordie tra Affricani e Spagnuoli si composero in questo tempo.[505]
Par che la colonia si ordinasse come centro di uno stato novello, poco dipendente dall'Affrica; al che portavano quegli elementi suoi eterogenei e turbolenti, non disposti a sottomettersi al principato aghlabita senza larghissime franchigie. Ciò si vedrà dal progresso degli avvenimenti. N'è segno altresì il titolo di Sâheb dato da scrittori assai diligenti al primo governatore dell'isola; il qual titolo, posto assolutamente senz'altra voce che lo determini, tocca al capo d'uno Stato;[506] differente perciò da emir, e da wâli.[507] Sappiamo inoltre che del dugento ventuno (836) moriva a Kairewân un cadi di Sicilia;[508] donde si argomenta che questo supremo magistrato fosse stato posto fin dal principio delle nuove instituzioni nella colonia. A questo tempo appartiene un dirhem, pubblicato dal Tychsen, e ch'io non ho visto. Se non è falso, servirà a confermare che nel dugento venti dell'egira (4 gennaio a 24 dicembre 835) Mohammed-ibn-Abd-Allah reggea la Sicilia, e che battea moneta di argento col nome suo e del principe d'Affrica; sì come avea fatto sei anni innanzi Mohammed-ibn-el-Gewâri.[509]
Nondimeno per due anni non seguì fazione d'importanza, per cagion delle preoccupazioni che dava ai Musulmani l'assetto delle proprietà e d'ogni altra civil faccenda; ed anco per la riputazione di Alessio Muscegh, nuovo patrizio di Sicilia. Questo bello e valoroso giovane armeno era salito in subito favore appo Teofilo, sì che, tra' suoi ghiribizzi, lo fidanzò alla propria figliuola Maria, ancorchè bambina; lo fe' patrizio, proconsolo, maestro degli offici a corte; gli diè titolo di Cesare, e lo destinava forse a succedergli nello impero, quando insospettito per mene di palagio, volendo allontanarlo, lo prepose all'esercito di Sicilia (832). E i cronisti bizantini che dipingono sì studiosamente ogni inezia e perfidia di corte e confondono nell'ombra il resto de' fatti, si contentano qui d'aggiugnere ch'Alessio egregiamente compiè i voleri dello imperatore; potendosi al più inferire da qualche parola che, fatte genti in Calabria, cominciasse già a ristorar la guerra nell'isola. Ma tra i nemici che avea lasciato a Costantinopoli, e que' che l'invidia gli suscitò d'un soffio in Sicilia, fu accusato di pratiche coi Musulmani; di tramare ribellione: solite contraddizioni della calunnia, che Teofilo si bevve senza esame. Donde chiamato Alessio appo di sè (833), ed esitando quegli a ubbidire, il principe trovò più comodo un tradimento. Mandò a persuaderlo l'arcivescovo Teodoro Crethino, al quale fe' sacramento del gran bene che voleva ad Alessio, e gli diè un salvocondotto soscritto di sua mano, e, più sacro pegno, una croce ch'ei solea portare al petto; sì che l'onesto sacerdote, ingannato, ingannò Alessio e seco il ricondusse a Costantinopoli. Quivi il Cesare era imprigionato, vergheggiato, confiscatigli i beni. L'arcivescovo che in una solenne cerimonia della chiesa osò rinfacciar lo spergiuro allo imperatore, fu strappato dagli altari, battuto, mandato in esilio. Poi Teofilo, pentito per le rimostranze del patriarca di Costantinopoli, liberò l'uno e l'altro: ma Alessio era ristucco sì tosto del mondo, che dei beni resigli edificò un monastero e vi si serrò.[510] Così fatto imperatore, così fatto capitano, e i soldati fiacchi, il popolo rimbambito, gli ottimati di Sicilia sì saputi a calunniare, sì mal disposti a combattere, non erano al certo gli uomini che poteano salvare l'isola dai Musulmani. Il solo espediente strategico in cui si affidarono dopo la occupazione di Palermo, fu di adunare il grosso dell'esercito a Castrogiovanni; sì che gli scrittori musulmani dicono trasferita da Siracusa in quella città la sede del governo.[511] Oggidì si chiamerebbe campo di osservazione. Quivi sedea il capitan generale dell'isola, spettatore ozioso d'ogni guasto che facevano i Musulmani.
Abu-Fihr andò dritto ad assalirlo ne' principii dell'anno dugento diciannove dell'egira (15 gennaio 834 a 3 gennaio 835): uscitigli incontro i Cristiani, li rompea dopo aspra zuffa, li ricacciava negli alloggiamenti, e, tornatovi in primavera, lor dava una seconda sconfitta. L'anno appresso intraprese più grossa guerra. Principiando dal campo di osservazione, lo combattè una terza fiata (835); espugnò gli alloggiamenti, li saccheggiò, vi fece prigioni la moglie e un figliuolo del patrizio che capitanava lo esercito; e tornatosi egli in Palermo, mandò un grosso di genti con Mohammed-ibn-Sâlem infino a Taormina, su la costiera orientale, i quali fecero ricco bottino. Altre gualdane saccheggiarono altri luoghi. Tra coteste vittorie scoppiava contro Abu-Fihr una sollevazione militare in cui fu ucciso, e gli omicidi si rifuggirono presso l'esercito cristiano.[512]
Mandato da Ziadet-Allah in Sicilia, in luogo del congiunto, un Fadhl-ibn-Ia'kûb, segnalossi immantinente con due correrie, l'una sopra Siracusa, l'altra forse nelle parti di Castrogiovanni; poichè leggesi che il patrizio andò con grosso stuolo a tagliar il cammino ai Musulmani. Se non ch'essi furono pronti ad afforzarsi in un aspro terreno e boscaglie intricate, ove il nemico non osò assalirli. Aspettato invano insino a sera che scendessero quelli a combattere, le genti del patrizio, com'era l'indole delle milizie bizantine, più neghittose che vigliacche, si partirono; sciolsero gli ordini nella ritirata. Addandosene i Musulmani, saltavan fuori da loro rupi, caricavano il nemico d'una carica vera, dicono gli annali, e lo sbaragliavano: il patrizio, ferito di parecchi colpi di lancia, cadde da cavallo, ma fu valorosamente difeso da' suoi, tanto che sel portarono fuggendo così mal concio, abbandonando armi, arnesi, cavalli. Così la scorreria finì in segnalata battaglia.[513] Seguiano coteste due fazioni nella state dell'ottocento trentacinque; e si terminò con quelle la missione provvisionale di Fadhl, sendo venuto all'entrar di settembre a reggere la Sicilia un altro principe del sangue aghlabita. Fu questi Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghab,[514] cugin germano di Ziadet-Allah e fratello dell'ucciso Mohammed. Uomo di grande saviezza e vedere politico, come il mostrò promovendo le fazioni navali. Venne con una armatetta in Palermo, capitale della Sicilia, come già la chiama un cronista, di mezzo ramadhan del dugentoventi (11 settembre 835), campato da grave fortuna in cui avea perduto parecchie navi per naufragio ed altre presegli dai Cristiani.[515] Tra queste leggiamo che fosse una harrâka, e che una squadra di legni della medesima denominazione, capitanata da Mohammed-ibn-Sindi, uscì immediatamente alla riscossa, e diè la caccia al nemico, finchè la notte non glielo tolse di vista;[516] e nei combattimenti che seguirono indi a non molto, si fa menzione altresì d'una harrâka presa dai Musulmani sopra i Greci.[517] Or cotesta voce arabica significa appunto “incendiaria”; e però denota le galee da lanciar fuoco, che i Musulmani per avventura avean preso ad imitar dai Greci, tra il fine dell'ottavo e il principio del nono secolo: ancorchè tal foggia di navi in Oriente si fosse anco adoperata ad altri usi, e in Italia al commercio, riconoscendosi quello infausto nome nella appellazione di “carraca” e “caracca” che occorre sì sovente nei ricordi di Genova e di Venezia.[518] È manifesto dunque che la colonia di Palermo tentava già il gran problema della tattica navale del tempo, di costruire cioè le navi incendiarie, ed a ciò adoperava le arti conosciute in Africa, in Ispagna, e forse meglio in Sicilia, poichè di harrâke non fanno menzione gli annali arabici, della Spagna nè dell'Affrica. Abu-'l-Aghlab non lasciò in ozio tal novella forza. Mandate alcune navi in una città di cui manca il nome nei Manoscritti, sia che fosse nelle isole Eolie, o nella costiera tra Palermo e Messina, i Musulmani combatterono un'armatetta cristiana, la vinsero, depredarono il paese e tornarono addietro coi prigioni, ai quali Abu-'l-Aghlab fe' mozzare il capo. Un'altra squadra approdata a Pantellaria, vi colse un dromone,[519] nel quale, oltre i soldati greci, trovossi un uom d'Affrica fatto cristiano; e tutti al paro furon messi a morte per comando del governatore di Palermo:[520] crudeltà non comandata dalla legge, fuorchè contro i rinnegati, e non solita nelle guerre degli Arabi; onde vi si scorge lo accanimento e invidia dei vincitori contro il navilio bizantino che sì raro lor avvenia di sgarare. Al tempo stesso, una torma di cavalli, spinta verso le falde dell'Etna e tra le fortezze della regione orientale, arse le campagne, saccheggiò e sparse gran sangue; ma combattendo, non scannando prigioni.[521]
L'anno seguente (221, 25 dicembre 835 a 12 dicembre 836) fatta irruzione di nuovo nel paese dell'Etna, se ne tornarono i Musulmani in Palermo con tanta preda di roba, e sopratutto di uomini, che il prezzo degli schiavi molto rinvilì, scrive laconicamente Ibn-el-Athîr. Un'altra schiera che mosse, credo io, lungo la costiera settentrionale non mai prima infestata, arrivò infino a Castelluccio, rôcca in su i monti a mezza via tra Palermo e Messina, e vi fe' anco bottino e prigioni; ma sopraggiunta dal nemico, dopo aspro combattimento, fu sconfitta. L'armata intanto, capitanata da Fadhl-ibn-Ia'kûb, assaliva e spogliava le isolette adiacenti, senza dubbio le Eolie; espugnava poi una fortezza, che volentieri leggerei Tindaro, e parecchie altre rôcche, e vittoriosa se ne tornò a Palermo.[522] Dond'è manifesto che dopo le isole Eolie avesse scorso anch'essa la costiera di settentrione. Nel medesimo anno o piuttosto in quel d'appresso (222, 13 dicembre 836 a 1 dicembre 837) Abu-'l-Aghlab spingeva una grossa schiera capitanata da Abd-es-Selâm-ibn-Abd-el-Wehâb sul territorio di Castrogiovanni; contro la quale sceso il nemico a combattere, andarono in volta i Musulmani, lasciando assai gente sul campo di battaglia e non pochi prigioni, e tra quelli Abd-es-Selâm, che fu indi liberato, forse in uno scambio.[523] Perocchè l'armata ch'era uscita anco questa stagione, scontratasi in quella dei Bizantini, la ruppe, e presele nove grossi navigli e una salandra[524] con tutte le ciurme; e l'esercito, per far vendetta o riavere i prigioni, tornò più forte sotto Castrogiovanni, e vi si messe a campo.
Tra i quali travagli innoltratosi il verno, avvenne una notte che un Musulmano scoprì un di Castrogiovanni che si riduceva in città per viottoli ignoti; e tenutogli dietro, chetamente salì fino al sobborgo ove erano gli alloggiamenti dell'esercito. Donde tornato in fretta il Musulmano a darne avviso ai suoi, tutti s'armarono, s'inerpicarono per quel sentiero; e, superatolo, diedero il grido d' Akbar-allah (è massimo Iddio), e furono addosso ai nemici. Si rifuggivan quegli entro la cittadella, abbandonato il borgo; e fieramente indi resisteano, sicuri nella fortezza del sito. Alfine, dice il cronista, chiesero ed ottennero l'amân; e così i Musulmani carichi di preda se ne tornarono a Palermo.[525] Si deve intendere che i Cristiani profferirono una taglia, e che i Musulmani, stando all'assedio tra i dirupi da una parte e un grosso presidio dall'altra, furon lietissimi di uscir dal pericolo con onore e guadagno. Ma nè s'impadronirono della rôcca, nè rimasero nel sobborgo; perocchè egli è certo che Castrogiovanni fa combattuta per più di venti anni dopo questo accordo; e ognun vede che se i Musulmani vi fossero entrati una volta, non avrebbero di leggieri lasciato sì importante fortezza.
In questo medesimo tempo stringeano Cefalù su la costiera settentrionale, a quarantotto miglia a levante di Palermo; il cui nome gli Arabi scrissero Gefalûdi e Scefalûdi: e ciò mostra ch'abbiano trovato guasta, forse da molti secoli, la pronunzia di Kefalídion.[526] Così addimandarono quella terra i Greci dalla sembianza d'una rupe ritonda, inaccessa, sporgente in mare; la quale sovrasta alla città odierna, e sostenne l'antica oltre venti secoli, incominciando da tempi che non hanno storia; poichè vi si trovano avanzi di mura ciclopiche. Il forte sito la rese città di qualche momento nell'antichità e nel medio evo; e indi a prima vista alcun potrebbe maravigliare che i Musulmani conducessero insieme ambo le imprese di Cefalù e di Castrogiovanni, e ne potrebbe credere la colonia di Palermo assai più potente che non fu nei primi principii. Ma suppliva al numero dei Musulmani l'audacia loro e il terrore dei nemici. Una schiera solea dare il guasto al contado; porsi in luogo forte presso le mura; minacciare chiunque ne uscisse; combattere ed opprimere chi l'osava; spiare l'occasione di qualche colpo di mano: e questo chiamavasi assedio. E l'era, poichè sovente riduceva i terrazzani ad arrendersi, per amor dei poderi, per noia dei disagi, per paura di sè, della famigliuola, della roba, per tutti quei sintomi del pacifico cittadino, come il chiamano per dileggio coloro che il menano a verga. Nondimeno la fortezza del sito o del presidio faceva andare in lungo l'assedio di Cefalù, quando, dell'anno dugentoventitrè (2 dicembre 837 a 21 novembre 838), probabilmente in primavera, giunservi grossi rinforzi per mare. Eran costretti da quelli i Musulmani a levare l'assedio, a combattere molte fazioni,[527] com'e' pare, con disavvantaggio, ritraendosi sempre verso Palermo. Dove risaputa tra questi travagli la morte di Ziadet-Allah, ch'era seguita in Affrica il quattordici di regeb (10 giugno 838), la colonia se ne costernò fortemente, leggiamo negli annali; ma dileguato il primo sbigottimento, si apprestò a mostrare il viso alla fortuna.[528] Donde è chiaro che si temessero nuovi rivolgimenti in Affrica, e si disperasse indi degli aiuti che per avventura si credevano necessarii contro il nemico sbarcato a Cefalù.
Svanirono poi que' timori per lo savio e forte reggimento di Abu-I'kâl-Aghlab-ibn-Ibrahim; il quale succeduto tranquillamente al fratello Ziadet-Allah, seppe contentare le milizie, raffrenare le violenze private, tenere a freno i Berberi, ristorare nella capitale d'Affrica que' ch'eran buoni costumi secondo le idee religiose de' Musulmani. E tosto mandò nuove genti in Sicilia; onde la colonia continuava sue correrie nel dugentoventiquattro (22 novembre 838 a 10 novembre 839), dalle quali, leggiamo che i Musulmani tornassero in Palermo carichi di bottino;[529] e però si vede che la espedizione dei Bizantini a Cefalù era finita, come le precedenti, senza alcun frutto. Con più formidabili appresti i Musulmani uscirono alla campagna l'anno appresso (11 novembre 839 a 29 ottobre 840) nel quale si arreser loro a patti Platani, Caltabellotta, Corleone, e, se ben leggiamo, anco Marineo e Geraci, e molte altre rôcche di cui gli annali non portano il nome.[530] Così anco del dugento ventisei (30 ottobre 840 a 19 ottobre 841) una torma di cavalli diè il guasto al territorio di Castrogiovanni, arse, depredò, fece prigioni, senza che il presidio osasse uscirle incontro. Pertanto scorrendo oltre fino alla fortezza delle Grotte, chè così addimandavasi, scrive Ibn-el-Athîr, per trovarvisi quaranta grotte, i Musulmani la presero e saccheggiarono.[531] Il sito e il nome danno a credere che sia la città che or si chiama Grotte, presso Girgenti, ancorchè parecchi altri luoghi di Sicilia abbiano la stessa denominazione negli annali musulmani, e in Sicilia al par che in Sardegna, in Puglia, in Affrica, in Egitto e altrove, come ognun sa, si veggano assai frequenti coteste stanze tagliate nella roccia in tempi antichissimi, per albergo de' vivi o tomba de' morti. I nomi delle città arrese ai Musulmani tra l'ottocentotrentanove e il quarantuno, bastano a mostrare che fosse ormai signoreggiato da loro tutto il val di Mazara, e lasciato in pace fin qui il rimanente dell'isola. Contuttociò aveano non solo portato le armi nella terraferma d'Italia, ma, quel che più è, fattovi lega con la repubblica di Napoli.
CAPITOLO VI.
Com'ai forti non manca giammai chi abbia bisogno di loro, e, per fuggire altro pericolo più imminente, corra dassè ad avvilupparsi nella rete; così i Musulmani di Sicilia presto trovarono amici in terraferma. L'Italia dopo la morte di Carlomagno era rimasta a un tempo serva, divisa e mal sicura. I principi Franchi, signori della parte settentrionale, impediti da discordie di famiglia e dalla troppa vastità dell'impero non pensavano ad allargare i confini nella penisola. I papi, mezzi principi e mezzi cappellani del novello impero, teneano senza spada l'Italia centrale, insudiciandosi in ogni scandalo della corte di Francia. All'incontro i principi longobardi di Benevento, liberi dal timore dei papi e dei Carlovingi e padroni pressochè di tutta la regione meridionale, agognavano ad occupare quella striscia di costiera, ove, con maravigliosa costanza e poche forze, resistean loro le repubbliche di Napoli, Amalfi, Sorrento, Gaeta. Nelle vicende di cotesta lotta disuguale, Napoli ch'era come capo di quelle città, da Gaeta in fuori, avea promesso tributo ai principi di Benevento. Ma l'ottocentotrentasei, volendosene svincolare l'audace repubblica o crescendo la tracotanza del principe Sicardo, si raccese la guerra. Disperando d'avere aiuti dagli imperatori d'Oriente o d'Occidente, Andrea console di Napoli si volse ai Musulmani di Sicilia. Mandatovi a quest'effetto un segretario, i Musulmani colsero il destro: andarono a Napoli con un'armatetta; la quale costrinse Sicardo a levare l'assedio, a fare un trattato coi Napoletani, ed a render loro i prigioni.[532] Questo principio ebbe la lega della repubblica di Napoli con gli emiri di Sicilia, che durò mezzo secolo, fino al novecento, con tutte le scomuniche dei papi, le minacce degli imperatori e la rapacità e insolenza dei Musulmani. Son corsi già dieci secoli, nè la storia ci rammenta altro intimo accordo che questo tra i due paesi, cristiani, italiani e oppressi entrambi; sì che ben avrebbero avuto ed avrebbero cagione di accostarsi l'uno all'altro, d'amarsi, d'aiutarsi a vicenda!
In altro capitolo si tratterà la guerra condotta dai Musulmani in terraferma; dove si vedranno appieno le conseguenze della detta lega, e si scoprirà la man dei Napoletani che guidava que' pericolosi amici su per l'Adriatico, a fine di gittarli addosso ai Longobardi e di sviarli sempre dalla costiera occidentale. Al quale effetto occorrendo procacciar loro un porto nel lato orientale della Sicilia occupato dai Bizantini, si comprenderà di leggieri come la repubblica di Napoli aiutasse i Musulmani all'assedio di Messina; se pur non fu dessa che lo consigliò.
Andò a questa impresa con l'armata, correndo l'anno dugentoventotto dell'egira (9 ottobre 842 a 28 settembre 843), Fadhl-ibn-Gia'far della tribù di Hamadân; il quale, sbarcato in sul porto, cominciò a stringere la città insieme coi Napoletani che già gli avean chiesto l'accordo, scrive Ibn-el-Athîr. Sparse Fadhl sue gualdane per la campagna; ma nè quei guasti, nè i frequenti e gagliardi assalti dei Musulmani, valsero a sbigottire i Messinesi, eroica gente in tutti i tempi. Alfine, il capitan musulmano, mandata una parte de' suoi a girar dietro i monti e salir da quello che sovrasta alla città, presentò la battaglia, sì com'ei solea fare, dalla marina; attirò a quella parte tutte le forze del presidio: e in questo l'altra schiera irrompeva in città dall'alto; feriva alle spalle i difenditori; li scompigliava; e Messina era presa.[533] Pur non leggiamo che Fadhl vi abbia sparso molto sangue. Il medesimo anno cadde in poter dei Musulmani un'altra città che Ibn-el-Athîr chiama Meskân, o Miskân;[534] importante al certo, poich'ei ne fe' menzione; ma non ritrovo tal nome appo i geografi antichi, nè altrove. Se si leggesse Mihkân, che veggiamo in Edrisi, risponderebbe ad Alimena; la quale è terra in sito assai forte, a cavaliere su la riva del Salso e in su la strada che mena da Palermo nel Val di Noto valicando le Madonie a Caltavuturo: sentieri alpestri, tinti di molto sangue in quelle guerre.[535]
E veramente non tardava lo esercito di Palermo ad assaltare il Val di Noto. Espugnovvi dell'ottocento quarantacinque le rôcche di Modica,[536] città antica, le quali così al plurale sono ricordate nella cronica di Cambridge; e ciò mostra che parecchi castelli difendessero i poggi frastagliati da due burroni, ov'oggi siede la città. Forse l'anno medesimo, i Musulmani capitanati da Abu-'l-Aghlab-Abbâs-ibn-Fadhl-ibn-Iakûb-ibn-Fezâra, ebbero a combattere un esercito in quella provincia. Par che alla morte di Teofilo (20 gennaio 842) la ristorazione del culto delle immagini, savio provvedimento poichè tanto lo sospiravano i popoli, abbia dato riputazione alla reggenza dell'imperatrice Teodora appo i Siciliani. Scorgiamo, in fatti, da uno scritto contemporaneo[537] il bollor delle passioni che destò in Sicilia la festa della Ortodossia, istituita in quell'incontro, da far quasi dimenticare che i Musulmani occupavano mezza l'isola e guastavano l'altra metà. La reggenza, alla quale mancò la virtù ma non il ticchio della guerra, volendo usar quello zelo popolare, apprestò allora un esercito per la Sicilia. Mandovvi le milizie del tema di Kharsiano, così detto da una città dell'Asia Minore, le quali si davan vanto d'essere le più valenti dell'Impero;[538] ma fecero prova contraria in questo incontro. Venute alle mani con Abbâs nelle campagne, cred'io, di Butera, furono rotte con grandissima strage: nove o diecimila uomini uccisi, combattendo no, ma fuggendo; perocchè i Musulmani, vogliosi di esagerare l'agevolezza di lor vittoria, ebber fronte di dire che tre soli credenti vi avessero incontrato il martirio.[539]
D'allora in poi non lasciaron tranquilla quella regione. Andati l'anno dugentotrentadue dell'egira (27 agosto 846 a 15 agosto 847) all'assedio di Lentini, antica e notissima città, Fadhl-ibn-Gia'far, il vincitor di Messina, che li capitanava, trovò modo di terminar presto la impresa. Risapendo che i cittadini avessero chiesto soccorso al patrizio il quale si chiudea con le genti a Siracusa o a Castrogiovanni, e che quegli avesse ordinato con essoloro uno assalto da prendere in mezzo i Musulmani, Fadhl ritorse lo stratagemma contro il nemico. Mandato ad accender fuoco per tre notti sopra un monte a vista della città, chè tal segnale era ordinato per annunziare la venuta del patrizio al quarto dì, il capitano musulmano lasciò poche genti sotto Lentini; pose le altre in agguato; e commise alle prime che alla sortita dei cittadini facessero sembiante di fuggire verso l'agguato. E al quarto dì i Lentinesi, armatisi popolarmente per andare a sicura vittoria, la credettero guadagnata ad un soffio, quando videro i Musulmani volger le spalle: onde tutti si posero a inseguirli; nè rimase in città uom che potesse combatter bene o male. Trapassato il luogo delle insidie, i fuggenti rifan testa; le altre schiere avviluppano i Cristiani; li mettono al taglio della spada: e pochissimi ne camparono in città. Pertanto questa s'arrese, non guari dopo, salve le persone e gli averi.[540]
Tornò infelice al paro una fazione tentata l'anno appresso (16 agosto 847 a 3 agosto 848) da dieci salandre bizantine, che ponean le genti a terra nella cala di Mondello ad otto miglia da Palermo, per dare il guasto al contado, scrive Ibn-el-Athîr; aggiungendo che, smarrita la via, delusi se ne tornarono alle navi. Dal qual cenno chiunque conosca i luoghi scorgerà un disegno di maggior momento che mera scorreria. Tra i golfi di Mondello e di Palermo s'innalza tutto solo in una vasta pianura e sporge in mare il Pellegrino: monte di bizzarra forma, di quindici o venti miglia di giro; ed ha una salita aspra ma praticabile in faccia a Palermo, un'altra più malagevole assai verso libeccio, poi due o tre sentieri arrisicatissimi; e il resto scosceso, tagliato come a piombo: su l'alto si stendon pianure; ricchi pascoli per ogni luogo; nè mancan acque di pozzi e cisterne. Quivi par si fosse accampato per tre anni Amilcare Barca, nella prima guerra punica, fronteggiando le legioni di Roma. Quivi i Bizantini avrebbero potuto similmente, a voglia loro, tener sicuro un picciol nodo di soldati o nudrire un esercito; minacciando Palermo, ch'è a manco di due miglia dalla parte di scirocco. A ponente avrebbero signoreggiato la fondura di Mondello, in oggi paludosa ma coltivata; la quale fu mezza tra pantano e lago nel secolo ottavo; dal nono al duodecimo fu laguna profonda abbastanza da poterlesi dare il nome di Marsa-t-tîn ossia porto-fangoso che troviamo in Edrisi; e tre secoli innanzi l'era volgare era stato capace porto da contenere l'armata di Amilcare: tanto si è ritirato il mare, per alluvione o per sollevamento del suolo, in quello e altri punti della costiera. Il Pellegrino poteva occuparsi solamente per un colpo di mano dalla scala di libeccio: poichè, a tentare l'altra, sarebbe stato presentare battaglia a tutto l'esercito musulmano di Palermo. Però la fazione era audace, non temeraria; e però, non trovata la via, i Bizantini lasciarono ogni speranza e precipitosamente si ritrassero alle navi. Salparono anche a furia; e in una tempesta che si levò perderon sette salandre delle dieci.[541]
Guasti adunque i campi della Sicilia in ogni estate dai Musulmani, e l'ottocentoquarantadue anco dalle cavallette,[542] si patì dell'ottocento quarantotto una fame sì cruda, da farsene ricordo tra tante calamità.[543] E forse fu quella carestia che domò Ragusa, forte castello in Val di Noto, surto o appellato, sotto la dominazione bizantina, col medesimo nome della notissima città di Dalmazia. I valorosi abitatori di Ragusa in Sicilia scossero poi sovente il giogo musulmano; ma del quarantotto si arresero senza battaglia al tristo patto di abbandonare tutta la roba ai vincitori; i quali ne presero quant'ei si fidarono di portarne; e prima d'andar via abbatteron le mura. Poi, del dugentotrentacinque dell'egira (25 luglio 849 a 13 luglio 850), piombarono ne' dintorni di Castrogiovanni; e dove posero taglie, dove saccheggiarono, arsero, empierono di stragi le campagne; e impuni si ridussero in Palermo.[544]
Quivi il dieci regeb dell'anno appresso (17 gennaio 851) mancò di vita Abu-'l-Aghlab-Ibrahim, dopo sedici anni di governo. Senza uscire giammai dalla capitale, Ibrahim tutto quel tempo avea condotto gagliardamente la guerra per luogotenenti; disegnato con senno le imprese; dato riputazione alle forze navali; infestato l'Italia meridionale; corso l'isola da un capo all'altro; sì che i Cristiani appena vi si difendeano nelle fortezze principali; e, un passo fuori da quelle, nè persona nè roba stava sicura che non pagasse la taglia ai Musulmani. Meritò lode non minore nelle cose della pace; leggendosi negli autori arabi, ch'ei fortemente reggesse e con saviezza ordinasse la colonia: e attestanlo i fatti; poichè posavano al tempo di Ibrahim que' pertinaci movimenti ne' quali avea incontrato la morte Mohammed suo fratello: la tranquillità in casa, la vittoria fuori, i grossi acquisti scompartiti con equità attiravano novelle genti; onde presto crebbe lo esercito, o vogliam dire il popolo musulmano di Palermo, che è lo stesso ragionando di quella età. Nelle memorie dunque della Sicilia musulmana, il nome d'Ibrahim è degno di andar congiunto con quello di Ased-ibn-Forât: due valorosi vecchi; dei quali il giurista con impeto e furore principiò il conquisto, e il guerriero col senno lo assodò.[545]
A costui succedette un uom ferocissimo, eletto dalla colonia, Abu-l'Aghlab-Abbâs-ibn-Fadhl-ibn-Iacûb-ibn-Fezâra, chiaro per la vittoria sopra i Kharsianiti dell'ottocento quarantasei. E incontanente mandò gualdane che corsero il paese de' Cristiani; li ruppero in più scontri sanguinosi; li avvilirono, dice l'autore del Baiân;[546] e riportarono il bottino ad Abbâs, come scrivono altri annalisti:[547] il che mostra che lo eletto esercitasse ogni ragione di supremo capitano, senza aspettar beneplacito del principe d'Affrica. Questi riconoscendo il diritto della colonia, o non potendo disdire il fatto, mandò tosto ad Abbâs il diploma di elezione. Poi non si mescolò altrimenti nelle faccende di Sicilia; se non che, alla espugnazione di Castrogiovanni, si fece a scriverne lettere solenni ai califo, e gli presentò qualche fior delle spoglie opime, avute come in cortesia dall'emiro di Sicilia. Queste vane cerimonie avanzavano ormai della teocrazia musulmana sì potente e accentrata; nè la Sicilia obbediva all'Affrica, più che questa alla pontifical sede di Bagdad!
Abbâs continuò impetuosamente la guerra. Condusse ei medesimo l'esercito il dugento trentasette (4 luglio 851 a 21 giugno 852), affidando lo antiguardo al suo congiunto Ribbâh-ibn-Iakûb, che sempre segnalossi per gran valore, e resse poi la Sicilia. Abbâs dapprima assalì Caltavuturo,[548] forte rôcca nella giogaia delle Madonie, com'abbiam detto; dove per certo aveano osato i Cristiani far testa, poichè Abbâs dava il guasto al contado, ammazzava i prigioni presi in questa correria e tornavasene alla capitale. A primavera (852), sopraccorso in quel di Castrogiovanni, lo depredò e arse, senza poter tirare a battaglia il patrizio bizantino che capitanava il presidio; onde senza intoppi cavalcò gran tratto di paese, e riportonne moltissimi prigioni, non uccisi questa fiata, ma venduti.[549] Poi sendo già venuta la state, ed entrato l'anno dugento trentotto dell'egira (22 giugno 852 a 10 giugno 853), montò su l'armata per andare a fare una vendetta, di cui si parlerà a suo luogo.[550] Tornò in autunno.[551] Alla nuova stagione, senza uscire di Sicilia, battè i contadi di Castrogiovanni, Catania, Siracusa, Noto, Ragusa; tagliando gli alberi, ardendo le mèssi, facendo prigioni, spargendo scorridori d'ogni intorno; e presa Camerina, o gli abituri che ritenean quel classico nome, si arrestò sotto Butera, in giugno o luglio; poichè di due diligenti cronisti l'uno pone coteste fazioni nell'anno dugento trentotto in cui cominciarono; l'altro nel trentanove in cui finirono (11 giugno 853 a 31 maggio 854).
Fu Butera forte città nei tempi musulmani; splendida e famosa nei feudali, sì che diè titolo al primo pari del reame fino alla riforma del mille ottocento quarantotto, nella quale il parlamento siciliano abolì la paría ereditaria. Cotesto nome geografico non apparisce innanzi il nono secolo; nè fabbriche o altri avanzi mostran abitato il luogo in età più antica, e mutatone soltanto il nome sotto i Bizantini. Siede la città in cima ad un colle, a poche miglia dal mare e dal fiume Salso; domina il fertil paese che gli antichi addimandavano Campi Geloi: in guerra, è naturale rifugio di quella popolazione agricola; in tempi di servaggio, albergo dei suoi oppressori. Par che alle prime scorrerie dei cavalli musulmani in Val di Noto i villici più fiate si fossero rifuggiti in quella rôcca. Ma quest'anno ottocento cinquantatrè, Abbâs, vedendoli affollare al solito covile, pensò coglierveli a un tratto di rete: assediò strettamente Butera oltre cinque mesi; alfine pattuì coi terrazzani che gli consegnassero cinque o sei mila capi, scrivon le croniche, come se fossero capi d'armento; e l'esercito traendosi dietro tanta torma di schiavi tornossene in Palermo.[552]
Ignoriamo or noi se orrenda necessità abbia sforzato a questo accordo tutti gli assediati, o se i borghesi, per salvar la roba, abbiano avviluppato con qualche nero tradimento gli inquilini delle campagne, lor fratelli in Cristo, ospiti, o noti per lunga consuetudine, e li abbian dato schiavi al nemico risguardandoli come animali d'altra razza: chè il cristianesimo prima del decimottavo secolo non era sì scrupoloso in fatto di uguaglianza. Quanto ai vincitori, il Dio di Maometto assai più esplicitamente loro abbandonava in anima e in corpo tutti gli uomini di religione diversa; non che que' seimila villani. Perciò gongolando di gioia se li divisero i coloni di Palermo, con l'altro bottino. E parmi evidente che fossero molto ricercati gli schiavi nella colonia per coltivare le terre del Val di Mazara. Perocchè Abbâs-ibn-Fadhl, in tutto il tempo che resse l'isola, pose indistintamente taglie di danari e di uomini alle terre che si calavano agli accordi,[553] e talvolta ricusò la moneta, e volle più tosto gli uomini.[554]
E non cessò di affliggere la Sicilia ogni anno, con saccheggi, cattività, arsioni di mèssi, rovine di edifizii, che i cronisti ripetono noiosamente, per lo più senza nominare i luoghi. Così l'anno dugento quaranta dell'egira (1 giugno 854 a 20 maggio 855); così quel d'appresso (21 maggio 855 a 8 maggio 856); nel quale dippiù leggiamo che Abbâs stette per tre mesi in uno altissimo monte, donde mandava scorridori ogni dì a battere il contado di Castrogiovanni, e torme di cavalli per ogni lato dell'isola. Da ciò è manifesto che si tratti dell'Artesino, il quale giace a tramontana di Castrogiovanni, discosto poco più d'otto miglia; l'Artesino dalla cui sommità vien visto grandissimo tratto della Sicilia come in carta geografica a rilievo: e di là poteva il fier capitano abbracciare con lo sguardo la configurazione del paese; notar le principali catene di montagne; affisare su questa e quell'altra vetta le fortezze non espugnate per anco, e giù le ubertose pianure ove fosse da far preda. Forse da quel sito, egli o altro condottiero, immaginò la divisione della Sicilia in tre valli, come poi si chiamarono, i cui limiti si intersecavano non lungi dallo Artesino. Il medesimo anno Abbâs mandava con l'armata un Ali suo fratello; il quale corseggiando raccolse anch'egli e menò in Palermo gran torma di schiavi. Poi la state del dugento quarantadue (9 maggio 856 a 28 aprile 857) Abbâs condusse in persona un esercito più forte dell'usato; espugnò cinque castella di cui non sappiamo altrimenti i nomi. Del quarantatrè (29 aprile 857 a 17 aprile 858), nella sâifa come chiamavano la guerra di state, venutogli fatto di tirare a battaglia il presidio di Castrogiovanni, lo ruppe; e passò oltre a desolare le campagne di Siracusa, Taormina, e altre città. Indi pose il campo ad una fortezza, ch'altri scrive El-Kasr-el-Gedîd, ossia il Castel Nuovo; altri, con lievissima variante ortografica, Kasr-el-Hedîd, che suona il Castello del Ferro; e io credo, per la importanza sua, sia Gagliano, nominata dal Beladori che vivea di questo tempo a Bagdad. Gagliano fu rôcca di momento nelle guerre siciliane del medio evo; e serba oggi il nome con vestigia di formidabili fortificazioni di natura e d'arte. Assediolla Abbâs per due mesi; a capo dei quali, profferta da' terrazzani una taglia di quindicimila dinâr, o vogliam dire da dugento diciassettemila lire, la ricusò; strinse tuttavia il castello, ed ebbelo alfine a patti che le fabbriche fossero distrutte, che uscissero liberi sol dugento cittadini; gli altri rimanessero schiavi: e infatti menosseli in Palermo, e li vendè.[555] Lo stesso anno si arrese Cefalù la quale fu anco smantellata; ma andarono liberi tutti i cittadini: patto men tristo secondo i tempi; accordato da Abbâs, com'egli è manifesto, perchè Cefalù, stando in sul mare, non si potea di leggieri ridurre per fame.[556]
Più fortunosi eventi segnalavano l'anno dugentoquarantaquattro dell'egira (18 aprile 858 a 6 aprile 859). La state, uscivano a un tempo di Palermo l'esercito condotto da Abbâs e l'armata da Ali suo fratello: de' quali il primo depredò, senza trovare ostacolo, i contadi di Castrogiovanni e Siracusa, e fece ritorno in Palermo. Ali trovossi nei mari di Creta, non per assaltare la colonia musulmana com'altri ha pensato; ma forse accadde che scorrendo le costiere di Puglia, ove aspramente combatteano Musulmani e Cristiani, egli avesse preso a inseguire per lo Adriatico legni bizantini, o i venti lo avessero trasportato sì lungi. S'avvenne in quaranta salandre bizantine il cui capitano era detto il Cretese, e potrebbe essere quel medesimo Giovanni che resse il Peloponneso nell'ottocento ottantaquattro,[557] soprannominato il Cretese, forse dopo questa battaglia, per vezzo di romaneggiare e mancanza di più segnalate vittorie. Il Cretese, combattendo con Ali nella state dell'ottocento cinquantotto, perdea dapprima dieci navi con tutte le ciurme; poi, rappiccata la zuffa e voltata la fortuna, egli diè una sanguinosa rotta ai Musulmani, lor prese dieci navi: e Ali con gli avanzi dell'armata si ridusse nel porto di Palermo.[558]
Sopravvenuto in questo il verno, e andata, com'era usanza, una seconda gualdana nel contado di Castrogiovanni a spigolar bottino e prigioni, riportò tra gli altri in Palermo un uomo di molta nota in sua nazione.[559] Abbâs comandava di metterlo a morte, ardendo tuttavia di rabbia per lo caso dell'armata, ovvero infingendosene per cavar più grosso riscatto; o fu che quel gentiluomo nulla valea nel mercato delli schiavi, se povero e tristo egli era della persona come dell'animo. Fattosi costui ad Abbâs con patrizia disinvoltura, “Lasciami la vita,” gli disse, “e darotti un avviso che fa per te.” “Qual è?” domandogli l'emiro, trattol da solo a solo; e il traditore a lui: “Ti darò in mano Castrogiovanni. In questo verno,” proseguì, “tra coteste nevi il presidio non aspettandosi assalti, sta a mala guardia; talchè, se vuoi mandar meco una parte dell'esercito, saprò io farla entrare in Castrogiovanni.” Abbâs assentiva. Trascelti mille cavalli e settecento uomini da piè dei più valenti, li spartì in drappelli di dieci uomini; pose un capo su ciascun drappello; apprestò segretamente ogni altra cosa; e capitanando egli stesso le genti, uscì nottetempo dalla capitale. Scansò, com'ei pare, la solita via di Caltavuturo, aspra e difficilissima il verno, la quale corre quasi in filo da Palermo a Castrogiovanni su la dirittura di sirocco levante; e seguì l'altra più lunga e agevole che mena a Caltanissetta, città a sedici miglia a libeccio dalla insidiata rôcca. Leggendosi che lo stuolo musulmano sostasse a una stazione dalla montagna del lago,[560] del lago Pergusa per certo, lontano cinque miglia a mezzodì da Castrogiovanni, si dee supporre la fermata a Caltanissetta ovvero a Pietraperzia, terra vicina. Rimasovi come in agguato col grosso delle genti, Abbâs mandava a compiere la più ardua parte della fazione Ribbâh, con una mano di fortissimi eletti tra que' forti: i quali mossero senza strepito al far della notte, recando seco loro legato il traditore cristiano; che Ribbâh sel facea camminare dinanzi, nè gli levava gli occhi d'addosso. È manifesto che volendo tentar la salita dond'era più difficile e però men guardata, la schiera di Ribbâh doveasi indirizzare alla costa settentrionale del monte di Castrogiovanni, dal qual canto torreggia la rôcca: e che Abbâs dovea cavalcar poche ore dopo, alla volta del lago Pergusa per montare a Castrogiovanni dalla parte meridionale ov'era il sobborgo; e scoprirsi quando Ribbâh fosse padrone della rôcca. Così par ch'abbian fatto gli assalitori. Ribbâh, cominciato a inerpicarsi per l'erta come accennava il prigione, trovò una roccia stagliata; vi appoggiò le scale apparecchiate a quest'effetto; e si trovò alfine sotto la cittadella, cominciando a far l'alba. Ora fatale a tante fortezze assediate, parendo passato il pericolo con la notte: e così le scolte della rôcca si eran date al sonno. Il traditore menò allora i Musulmani alla bocca d'un aquidotto che s'apriva sotto le mura;[561] dove ad uno ad uno si imbucarono, e rividero il cielo ch'eran già dentro la fortezza. Si avventano impetuosi su i Bizantini; uccidono chiunque lor si para dinanzi; e schiudon la porta. Abbâs allora spronò a traverso il sobborgo; entrò nella rôcca che appena spuntava il sole, all'ora della prece mattutina dei Musulmani, il quindici scewâl dugentoquarantaquattro e ventiquattro gennaio ottocento cinquantanove dell'era cristiana. A niuno de' soldati cristiani si perdonò la vita. Figliuoli di principi, aggiugne la cronica, furon fatti prigioni; e donzelle patrizie coi loro gioielli; e il rimagnente del bottino chi il potea contare? Immantinente Abbâs inaugurava una moschea; facea drizzarvi la ringhiera; e salitovi il prossimo venerdì, il dì della unione, come il chiamano i Musulmani sapendo da' lor teologi che un tal giorno si fossero uniti insieme gli elementi del mondo, il feroce condottiero, tra le fresche stragi e 'l pianto delle vittime e gli eccessi dei vincitori, arringava i suoi: umile ed empio, riferiva ad Allâh la vittoria di Castrogiovanni.[562] La quale si noverò tra le più notabili di quel tempo:[563] e tanta fu l'allegrezza dei Musulmani, che, obbliando lor gelosie di Stato, lo emiro di Sicilia mandava spoglie opime al principe aghlabita d'Affrica; e questi trascegliea donne e fanciulli prigioni per farne presente al pontefice di sua setta a Bagdad.[564]
Sparso intanto il nunzio tra le popolazioni cristiane dell'isola, soggette o no ai Musulmani, le quali per trent'anni avean guardato alla rôcca di Castrogiovanni come a pegno di liberazione, alla prima n'ebber tale uno spavento che gli Arabi si affrettavano a scrivere avvilito e conculcato in quella stagione il politeismo di Sicilia. Ma succedendo allo sbigottimento sensi più generosi, venne fatto ai Siciliani di tirare a uno sforzo di guerra lo imperatore Michele terzo; involto com'egli era tra crapule, libidini, scempie buffonerie, raggiri di corte e gare di prelati. Della quale impresa tacciono i cronisti bizantini, preoccupati al tutto di quelle brutture; e se ne troviam ricordo, è dato dagli Arabi: però, breve ed incerto. I preparamenti sembran degni di Michele l'Ubbriaco. Fatte venire le soldatesche di Cappadocia, com'io leggerei; gittate su trecento salandre; date a capitanare a un patrizio: che altro mancava a ripigliar la Sicilia? Posero a terra a Siracusa, nell'autunno del medesimo anno ottocentocinquantanove, o nella state del sessanta: e par che tosto movessero accompagnate dall'armata, verso la costiera settentrionale. Perchè Abbâs, al dire d'Ibn-el-Athîr, uscì di Palermo ad incontrare il nemico; lo combattè, lo ruppe, lo inseguì fino alle navi, gliene prese cento, fe' orribile macello degli uomini; e de' suoi perdè tre soli, uccisi di saette, aggiugne l'annalista,[565] ricantando la stessa fola della vittoria sopra i Kharsianiti. Pur è notevole che tal vanto dei vincitori, certo argomento dell'altrui viltà, si dica in quelle due sole sconfitte di eserciti venuti d'oltremare; non mai nei combattimenti contro i Cristiani di Sicilia.
Ai quali non mancò il cuore in questo incontro. Perchè veggiamo sollevarsi al primo comparire dei rinforzi bizantini, e non piegare facilmente il collo dopo la sconfitta loro, molte castella dell'isola: Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, ricordate di sopra, e inoltre Sutera,[566] una terra che non so se vada letta Ibla, Avola o Entella,[567] Kalat-Abd-el-Mumîn,[568] e altre di cui non si dicono i nomi; che tutte avean già promesso obbedienza e tributo ai Musulmani. Abbâs sopraccorreva immantinente a gastigarle dell'anno dugentoquarantasei (27 marzo 860 a 15 marzo 861). Fattoglisi incontro lo esercito cristiano, accozzato forse da quei municipii, lo sbaragliò Abbâs con molta strage; e passando oltre, pose l'assedio a Kalat-Abd-el-Mumîn, ed a Platani. E indarno vi si affaticava, quando seppe esser giunto, dice Ibn-el-Athîr, un altro esercito bizantino: gli avanzi forse dei Cappadoci, ingrossati dalle milizie dell'isola; i quali pare che marciassero lungo la costiera settentrionale sopra Palermo. Contro costoro si volse Abbâs, lasciando lo assedio; valicò i monti; trovò il nemico presso Cefalù; e dopo una zuffa ostinata, superatolo con l'usato valore, malconcio lo rimandò a Siracusa. Egli, tornato in Palermo, fece subito ristorare le fortificazioni di Castrogiovanni, racconciare le case, e posevi un grosso presidio musulmano. Ciò mostra che universale e di momento era stato lo sforzo de' Siciliani. Ma pare che la seconda sconfitta dello esercito imperiale li abbia consigliato a posare le armi: poichè non si intende più nulla di loro; e l'anno seguente dell'egira (16 marzo 861 a 5 marzo 862) si vede Abbâs andare spensierato a saccheggiar il contado di Siracusa, come solea prima della presa di Castrogiovanni.
Al ritorno da questa scorreria, era giunto alle Grotte di Karkana[569] quando si ammalò, e trapassò al terzo giorno, il tre giumadi secondo (13 agosto 861), dopo undici anni di continua guerra; chè non passò anno, ripetono i cronisti, che la state o il verno, o in ambe le stagioni, non corresse i paesi cristiani della Sicilia, e talvolta anco di Calabria e di Puglia, ove pose colonie de' suoi. Seppellivanlo i Musulmani là dove ei morì; ma non prima furono partiti, che i Cristiani, con vana vendetta, esumarono e arsero il cadavere del crudel capitano, al cui nome tremavano ancora.[570]
CAPITOLO VII.
Fin qui gli annali arabi ci hanno mostrato della storia uno scheletro sì, ma non mutilo. Abbiam veduto la colonia di Palermo occupare alcuni luoghi importanti nel centro e su la costiera settentrionale infino a Messina; sforzare a tributo i paesi di mezzodì e levante, eccetto le grosse città murate e qualche regione montuosa; e non parlandosi di guasti nella maggior parte delle provincie odierne di Palermo e Trapani, è da credere che i vincitori tenessero quei terreni. Senza dubbio vi soggiornavano già in cittadi e castella: poco men che una trentina, come si ritrae dal Beladori che vivea di quel tempo a corte di Bagdad.[571]
Rivolgendoci alle condizioni delle due società che si contendeano la Sicilia, scorgiamo nell'una, oltre la virtù delle armi e la operosità, anco l'accordo degli animi, che ben si mantenea quando il bottino e i tributi, scompartiti con equità patriarcale, potean soddisfare alle cupidigie. Dall'altro canto i Siciliani, avviliti dalle ubbíe monastiche e dal dispotismo, non ripugnaron troppo al nuovo giogo, assicurato che lor fu lo esercizio del culto, e, come credeano, il possedimento dei beni; nè si vollero mettere a sbaraglio per diletto di pagare il tributo all'imperatore di Costantinopoli, più tosto che ai Musulmani di Palermo. Dei principati, poi, nel cui nome si combattea, quel d'Affrica aiutò la colonia con lasciar fare: chè mite animo ebbero i primi successori di Ziadet-Allah, e lieti vedeano passare in Sicilia e in Italia gli uomini più turbolenti. Il Basso Impero al contrario facea troppo e troppo poco in Sicilia! e intanto mostrava al mondo infino a che assurdità, confusione e vergogna possa giugnere il despotismo. La devota imperatrice Teodora (842-854) lasciò all'Impero tre nuovi flagelli: la proscrizione degli eretici Pauliciani, che si tirò dietro guerre atrocissime; la ambizione di Barda fratello, e la mala educazione di Michele terzo, figliuolo di lei, soprannominato l'Ubbriaco. Il quale, cacciata di corte la madre (854), ruppe ogni freno di pudore; dièssi a vita brutale; buffoni e ribaldi in favore; scialacquato il danaro pubblico; trasandata o stoltamente e vilmente condotta la guerra contro i nemici che accerchiavano l'Impero; a vicenda insultato il culto cristiano, e sontuosamente edificate chiese; infine accesa con leggerezza la gran briga del patriarcato di Costantinopoli, che fu conteso tra Ignazio e Fozio, ossia tra le fazioni del papa e della corte (857). Donde se d'alcuna cosa è da maravigliare negli avvenimenti di Sicilia, non fia la impotenza, ma sì la pertinacia delle armi bizantine. Del rimanente appaiono semplici e chiare le cagioni di quel continuo progredimento della colonia musulmana, nei trent'anni che corsero dalla presa di Palermo, alla morte di Abbâs-ibn-Fadhl.
Verso quel tempo la fortuna cominciò a variare, come ce l'attestano gli annali arabi, or confessando, e più spesso tacendo. Ma poich'essi dicon poco, e i Bizantini nulla, gli avvenimenti ci capitano sotto gli occhi sì interrotti, sì confusi, che sarebbe da metterli in forse a ogni passo, se non si conoscessero le nuove condizioni dei vincitori e dei vinti. Però è mestieri invertir l'ordine naturale del racconto; divisar prima i fatti generali che noi possiamo dedurre; e poi venirne con quella scorta ai fatti esteriori, alla scorza della storia, che ritraggono i cronisti.
Incominciando dalla colonia musulmana, ei si vede che la concordia v'era durata troppo più che non potesse. Perocchè la prospera fortuna attirò nuovi coloni; la sottomissione dei Cristiani al tributo menomò il bottino; le masnade, ingrossate e prive degli acquisti che concedea la legge, si diedero a rubare non ostante gli accordi; i Cristiani, provocati per tal modo, vennero ad atti di disperazione; e da ciò le nuove sconfitte loro, le uccisioni, le schiavitù; e occupati infine moltissimi poderi dai Musulmani, per cupidigia e necessità. Dei modi della occupazione discorreremo nel libro terzo, e basti qui notare che principalmente furon due, cioè: ispogliare a dirittura gli antichi possessori, cacciandoli o facendoli schiavi; ovvero ridurli a vassallaggio, e prender da loro una parte di ciò che fruttava il terreno. Ma le entrate che ne tornavano ai Musulmani si scompartivano in varie guise; e sempre con inevitabile disuguaglianza; avvenendo che le terre prese or si dividessero, or si tenessero in demanio; e che il ritratto dei poderi demaniali e le contribuzioni su le terre lasciate ai Cristiani si assegnassero ai corpi del giund, in una maniera che variava dal mero pagamento di stipendio infino al beneficio militare. Or i corpi del giund, consorterie autonome, civili insieme e militari, spiccandosi dalla capitale per andare ad abitar città o castella vicine ai poderi, diventano al tutto stati nello stato, portavan seco tutti i vizii della feudalità; opprimeano la popolazione rurale; molestavano i vicini musulmani o cristiani; erano per ogni verso fomiti di turbolenze. Da un'altra mano, lo assegnamento degli stipendii o beneficii e la divisione delle terre, per legge musulmana e natura stessa della cosa, davan luogo ad arbitrio e ingiustizia: onde si raccendeano le antiche ire delle schiatte, delle tribù, delle famiglie; i Berberi si sentiano lesi dagli Arabi, gli Arabi Iemeniti dai Modhariti, questa parentela da quella; e scorreva il sangue; si perpetuavano le nimistà; il governo della colonia diveniva difficil opra ogni dì più che l'altro. Tanto era avvenuto in Affrica, in Ispagna, per ogni provincia musulmana. Io lo scrivo sì francamente anco della Sicilia, perchè quegli elementi sociali portavano a quegli effetti, e ne veggiamo spuntare i segni qua e là negli annali siciliani dei tempi susseguenti.
Il principato aghlabita volle riparare a tal discordia, o trarne partito per dominare su i coloni altrimenti che di nome. La quale usurpazione, o ripetimento di dritti che dir si voglia; incominciò da uno di que' monarchi, di facil natura, Mohammed-ibn-Aghlab, che regnò, senza mai governare (841-856). Costui volendo liberarsi dalla insolenza d'un fratello che lo tenea come prigione, cospirò con Ahmed e Khafâgia, figliuoli di Sofiân-ibn-Sewâda, suoi lontani parenti;[572] i quali, come uomini di gran vaglia, fattogli conseguire l'intento, rimasero potentissimi appo di lui. Par che costoro non perdesser grado, quando, morto Mohammed, succedeagli Ahmed suo figliuolo (856 a 863). Da lui fu eletto al governo di Sicilia, a dispetto della colonia, o almeno di una grossa fazione, Khafâgia-ibn-Sofiân, detto di sopra; prode uom di guerra, ucciso a tradimento dai suoi stessi, e padre d'un altro valoroso che governò dopo lui la Sicilia, e incontrovvi lo stesso fato.
Seguì anco in questo tempo la esaltazione di Basilio Macedone (867), il riformatore del Basso Impero. Basilio, salito men che onestamente da povertà ed oscurità al favor della corte; guadagnato l'animo di Michele terzo con la vergogna di sposare una concubina ch'era venuta a noia all'imperatore e dargli in cambio la propria sorella; associato indi allo impero in merito d'un assassinio; e rimasto solo sul trono, per la grazia di Dio e perchè fe' scannare sotto gli occhi suoi Michele che dormiva ubbriaco; Basilio, dico, dopo tante brutture e misfatti, regnò con vera gloria. Riforniva lo erario senza aggravare i sudditi; cessava gli scandali ecclesiastici; raffrenava gli abusi dell'azienda; facea compilare un codice di leggi che porta il suo nome; sopra tutto ristorava la milizia, riformandovi ogni ordine, a cominciar dalle paghe, dalla leva dei soldati, dagli esercizii di mosse e d'armeggiare, fino alla virtù della disciplina e alla scienza strategica.[573] Pertanto la vittoria sotto gli auspicii suoi tornò ai vessilli bizantini; la dinastia macedone regnò più lungamente e quetamente che molte altre; parve rinfuso un po' di vita nell'impero. Basilio ripigliò anco un tratto dell'Italia meridionale, e aspramente contese la Sicilia ai Musulmani.
A questo effetto egli aiutò il moto delle popolazioni cristiane, incominciato, come s'è detto, dopo la presa di Castrogiovanni, e però parecchi anni innanzi la esaltazione di Basilio. Il moto era nato nell'isola stessa dal continuo disagio e pericolo in che viveano tante città tributarie dei Musulmani. Il caso di Castrogiovanni lo accelerò; forse perchè i Musulmani, imbaldanziti, si sciolsero a maggiori eccessi. Le popolazioni siciliane s'intesero tra loro, come trasparisce dalle fazioni che sappiamo di quella guerra. Sgarate nella prova, par che tentennassero; ma alla morte di Abbâs ripigliarono le armi con novello ardire, rincorandole la divisione de' Musulmani. Ciò mi par si tocchi con mano nei brani degli annali arabi, con la scorta dei quali ormai torneremo al racconto.
Mentre i Cristiani provocavano, insultando al cadavere di Abbâs, la colonia rifece capitano Ahmed-ibn-Ia'kûb, zio di lui; e il principe aghlabita lo confermò.[574] Pur a capo di pochi mesi, verso il febbraio dell'ottocento sessantadue, veggiamo deposto popolarmente Ahmed, surrogatogli Abd-Allah figliuolo del morto Abbâs; e disapprovato lo scambio a corte di Kairewân.[575] Nondimeno Abd-Allah avea dato opera alla guerra; e, raro esempio ai tempi del padre, in luogo di condurla in persona vi avea mandato Ribbâh, l'antico condottiero della vanguardia, quel che primo entrò nella rôcca di Castrogiovanni. Il quale or trovossi, per certo, a fronte di soverchianti forze, poichè dopo qualche lieve avvantaggio fu rotto; presegli le bandiere e le taballe che soleano stare al centro degli eserciti; e fattogli grande numero di prigioni. Campato a stento, non volle tornare a casa senza vendetta: espugnò la città del monte d'Abu-Malek, di ignoto sito; menò in cattività tutti i borghesi; arse la terra; sparse intorno le gualdane a fare i soliti guasti. La rôcca degli Armeni, la rôcca di Mosciâri'a cadeano ancora in potere dei Musulmani. Seguiano queste fazioni nella primavera dell'ottocento sessantadue.[576] Ma il principe d'Affrica, non spuntandosi di suo proponimento, mandò a reggere la Sicilia Khafâgia-ibn-Sofiân-ibn-Sewâda, di sangue aghlabita, di gran seguito a corte, come dicemmo, chiaro alsì per vittorie in Affrica: il quale arrivò in Palermo del mese di giugno.[577]
E con tutto l'ardore che il portava alle armi, e la furia di capitano nuovo, come dice il proverbio siciliano, Khafâgia mandava in sua vece alla guerra sacra il figliuolo Mahmûd: tanto ei trovò conturbata la colonia di Palermo! Mahmûd, cavalcando il contado di Siracusa, rapì, guastò, arse; ma, usciti i Cristiani a combattere, fu sconfitto e costretto a tornarsene in Palermo.[578] Nè il padre il potè vendicare; perchè l'anno che seguì, che fu il dugento quarantanove dell'egira (23 febbraio 863 a 11 febbraio 864), si sa che abbia mandato gualdane, che quelle abbiano riportato un po' di bottino; ma senza fazioni degne che se ne faccia ricordo, scrive Ibn-el-Athîr.[579] In vece delle quali troviamo cerimonie di officio: che Ziadet-Allah, succeduto al fratello Ahmed-ibn-Mohammed, confermava Khafâgia nel governo di Sicilia, e mandavagli i soliti abbigliamenti di investitura;[580] quasi a mantenere il rigor di dritto che facea amovibili i governatori a piacimento del principe.
Ricominciava da senno la guerra, composte come par le liti intestine, all'entrar dell'anno dugentocinquanta (12 febbraio 864 a 31 gennaio 865), quando i Musulmani occupavano l'antica e importante città di Noto, per tradimento di un cittadino che lor mostrò la via di penetrar nella fortezza. Saccheggiatala, e presavi, dicono gli annali, una bella somma di danaro, passarono a Scicli, su la costiera di mezzogiorno, terra della quale occorre adesso il nome per la prima volta, e fu espugnata per lungo assedio.[581] Intanto, se dee starsi alla identità d'un altro nome scritto nel solo Baiân, i Musulmani aveano abbandonato Castrogiovanni, ed era ormai riabitata dai Cristiani, perchè si legge che il dugento cinquantuno (1 febbraio 865 a 20 gennaio 866) Khafâgia andava a guastar le mèssi del contado, trascorrea fino a Siracusa, e combatteavi contro i Cristiani una fazione, forse infelice, perchè senz'altro si aggiunge ch'ei tornasse in Palermo. Donde fe' uscire una gualdana capitanata dall'altro suo figliuolo Mohammed; la quale prese il fiero soprannome di gualdana dei mille cavalieri; chè tanti ne uccise, posto un agguato, com'e' parrebbe, nelle campagne di Siracusa, e attiratovi il nemico.[582] Ciò mostri con che grosse forze si combattea. Il caso stranamente sfigurato, credo io, in qualche compilazione persiana, portò il nostro Rampoldi a scrivere negli Annali Musulmani, che l'ottocento sessantasette Khafâgia, volendo ritoglier Enna ai Cristiani, era fatto prigione dopo avere ucciso di propria mano più di mille uomini; ma il dì appresso lo riscattavano i suoi a prezzo di trentaseimila bizantini d'oro.[583] La quale prigionia di Khafâgia, non trovandosene vestigio nelle croniche arabiche scritte da senno, va messa a fascio con l'erculea prova dei mille uccisi di sua mano. Torna anco alla state dell'ottocento sessantacinque una fazione navale, in cui i Musulmani presero quattro salandre bizantine nel mar di Siracusa; ove par che l'armata fosse andata a cooperare con l'esercito, sia nella impresa di Khafâgia, sia del figliuolo.[584]
Ostinandosi a fiaccar la capitale nemica, l'anno dugento cinquantadue (21 gennaio 866 a 9 gennaio 867), Khafâgia riassaltava il contado di Siracusa, ma con poco frutto; donde tornato per le falde dell'Etna guastando per ogni luogo le campagne, veniano a chiedergli l'accordo oratori, di Taormina troviamo nelle croniche, ma forse va letto Troina.[585] Perchè ei vi mandava ad ultimar la cosa una moglie sua, forse schiava cristiana, col figliuolo; e si fermò il patto: ma poi infranto dai cittadini, Mohammed figliuolo di Khafâgia sopraccorrea con lo esercito, entrava nella terra, e menava schiavi gli abitatori: la qual facile vittoria non va con le note condizioni di Taormina, a quel tempo città grossa, fortissima di sito, avvezza agli assalti e celebre poco appresso per ostinate difese.[586] Mosse Khafâgia nella state del medesimo anno sopra Noto, che, s'era sciolta dall'obbedienza; l'espugnò di nuovo;[587] e verso l'autunno strinse Ragusa; la sforzò ad arrendersi, a patto che andasse libera parte de' cittadini con loro roba e giumenti: e ogni altra, cosa ch'era nella fortezza, anco gli animali e gli schiavi, andò a monte come bottino[588]. Par che seguendo la costiera di mezzogiorno giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finchè il capitano infermò di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga.[589] Ma non andò guarì che il rividero i Cristiani nel dugento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le mèssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch'ei spiccava dal grosso dell'esercito depredavano ogni parte dell'isola.[590]
Basilio, ch'era salito al trono in settembre di questo anno, provvide immantinente a gagliardo sforzo di guerra in Sicilia. Onde Khafâgia uscito di Palermo a dì venti di rebi' primo del dugento cinquantaquattro (19 marzo 868), e mandato il figliuolo Mohammed per mare con le harrâke, messosi a depredare il contado di Siracusa, seppe giunto di Costantinopoli un Patrizio con armata ed esercito. A duro tirocinio li avea mandato Basilio, contro tal capitano e tal milizia, cui le vittorie dell'anno innanzi avean reso l'alacrità, l'impeto, e, men durevole, la militar fratellanza. Scontraronsi i due eserciti in aspra battaglia, lunga, sanguinosa. Trionfarono tuttavia i Musulmani; uccisero al nemico parecchie migliaia d'uomini; presero robe, armi, cavalli; e più furiosamente sbrigliatisi a guastare i dintorni di Siracusa, tornarono in Palermo il primo regeb (26 giugno). Lo stesso dì Khafâgia fea salpare il figliuolo con l'armata che s'era ritratta in Palermo, schivando le superiori forze navali dei Greci. La quale andò a combattere su le costiere di terraferma, e zeppa di bottino se ne tornò in autunno, come altrove diremo.[591]
Poco mancò che a mezzo il verno, Mohammed figliuolo di Khafâgia non rinnovasse a Taormina l'audace fatto d'Abbâs-ibn-Fadhl a Castrogiovanni. Offertosi uno spione a porre i Musulmani entro la fortezza per alpestre sentiero noto a lui solo, Khafâgia mandovvi il figliuolo; il quale del mese di sefer dugento cinquantacinque (19 gennaio a 17 febbraio 869), cautamente appressavasi; poi, restando addietro egli e il grosso delle genti, mandava fanti spediti con la guida, che salsero a Taormina, secondati dalla fortuna finchè ebbero animo e prudenza. Si impadronirono d'una porta coi bastioni attigui, aspettando Mohammed che dovea venire a tal ora, ed avea lor comandato stessero raccolti senza dar mano al saccheggio. Ma que' non volendo lasciar altrui le primizie di sì ricca città, si sparsero a far prigioni e preda; scoprirono ch'erano un pugno d'uomini; onde i cittadini, risentendosi dal primo stupore, li cominciarono a incalzare: e l'ora intanto era scorsa, nè comparivano le bandiere di Mohammed. Però temendo non il nemico gli avesse intercetto il cammino, gli entrati in Taormina si tennero spacciati; diersi alla fuga; e s'imbatterono nei compagni quando la città era richiusa e fallito il colpo: nè altro partito a Mohammed restò che di tornarsi in Palermo.[592]
Già la vittoria seguiva la disciplina, passava dal musulmano campo al greco. Poco appresso il fatto di Taormina, di rebi' primo del medesimo anno (18 febbraio a 19 marzo 869), Khafâgia movea sopra Tiracia, com'io leggerei in Ibn-el-Athîr, e risponderebbe a quella che poco appresso fu chiamata Randazzo.[593] Non si sa ch'ei la espugnasse. Mandata intanto fortissima schiera, col figliuolo, a Siracusa, l'esercito cristiano uscì a incontrarla; si combattè fieramente d'ambo le parti; quando, caduto nella mischia un de' più valenti guerrieri musulmani, gli altri dier volta: inseguiti da' Greci e perduta molta gente, rifuggironsi al campo di Khafâgia. Il quale a rifarsi dell'onta marciò con tutto lo esercito a Siracusa; guastò il contado, pose l'assedio alla città; ma accorgendosi che gagliardamente la si difendesse, levato il campo, riprese la via di Palermo. Fece alto in riva al Dittáino, la notte del primo regeb; e innanzi l'aurora (15 giugno 869), mentre ognuno rimontava a cavallo per riprendere la marcia, un Berbero del giund, per nome Khalfûn-ibn-Ziâd della tribù di Howâra, lo trafisse d'una lancia a tradimento, e a spron battuto si fuggì a Siracusa. Recarono il cadavere di Khafâgia-ibn-Sofiân a Palermo, ove fu onorevolmente seppellito;[594] la cui fama chiarissima rimase tra i Musulmani d'Affrica per le vittorie guadagnate sopra i Bizantini.[595]
Nel compianto della colonia tacque per poco la gelosia, sì che rifecero in luogo dell'ucciso il figliuolo di lui, Mohammed; e il principe d'Affrica lo confermò, com'era usanza, col diploma e col dono delle vestimenta d'uficio.[596] Pure non è indizio di tranquillità che Mohammed, sì infaticabile nelle guerre del padre, promosso che fu al sommo grado nella colonia, si rimanesse in Palermo, mandando con le gualdane Abd-Allah-ibn-Sofiân; il quale andò a distruggere le ricolte in quel di Siracusa, e altro non fece.[597] Così anco l'anno dugento cinquantasei che seguì (8 dicembre 869 a 27 novembre 870) non fu segnalato altrimenti che per una impresa marittima. Perocchè alquante navi affricane, capitanate da Ahmed-ibn-Omar-ibn-Obeid-Allah-ibn-el-Aghlab, avevano occupato Malta l'ottocento sessantanove; ma, andati i Bizantini alla riscossa, stringeano d'assedio il presidio musulmano. Mohammed mandovvi allora l'esercito di Sicilia; il cui arrivo i nemici non aspettarono: e così a' ventinove agosto ottocento settanta, rimanea quell'isola in poter della colonia siciliana.[598]
Pochi mesi appresso, a' tre di regeb del dugento cinquantasette secondo l'egira (27 maggio 871), Mohammed-ibn-Khafâgia era assassinato nel palagio; in pien giorno, da' suoi servi eunuchi; i quali occultarono il misfatto infino al dì seguente, per aver agio a salvarsi. La fuga li scoprì; onde furono inseguiti, presone alcuni e messi a morte.[599] Indi la colonia eleggea capitano Mohammed-ibn-Abi-Hossein; ne scrivea in Affrica, ed era disdetta dal principe aghlabita; il quale commesse il governo a Ribbâh-ibn-Ia'kûb-ibn-Fezâra, delle cui gesta in guerra è occorso parlare, come anco della elezione e deposizione del suo fratello Ahmed l'ottocento sessantadue. Ma, come se il caso prendesse a mantenere gli agitamenti della colonia quando posavano i raggiri e le tradigioni, Ribbâh moriva tra non guari, di moharrem dugento cinquantotto (17 novembre a 16 dicembre 871).[600] Seguillo alla tomba, nel mese di sefer (17 dicembre 871 a 15 gennaio 872), il suo fratello Abd-Allah, eletto wâli della Gran Terra, il continente cioè d'Italia, che i Musulmani aspramente infestavano ormai da trent'anni.[601]
CAPITOLO VIII.
Innanzi l'impresa di Ased-ibn-Forât i Musulmani aveano piratescamente assalito le costiere occidentali della Penisola, come si narrò nel primo libro. Le varie fortune degli eserciti in Sicilia a volta a volta poi rigettavano in terraferma qualche mano di avventurieri, o troppo audaci in lor correrie, o disperati dopo alcuna sconfitta, o costretti a fuggire per furor di parti; i quali, battezzatisi per necessità, stanziarono, com'è probabile, presso Amalfi e Salerno: e rimaneanvi, nè cristiani nè musulmani, fino all'ottocento cinquanta.[602] Forse vissero ai soldi di quei piccoli Stati che si rubacchiavano a vicenda; forse furon mezzani alla repubblica napoletana, quando si volse a chiedere aiuto in Sicilia l'ottocentotrentasei.
In questo tempo la colonia di Palermo, assestata dal savio e forte Ibrahim-ibn-Abd-Allah, avvezza ormai a fazioni navali e fatta amica dei Napoletani, incominciò in ben altra guisa a infestare la terraferma. Consigliata, o no, da' Napoletani, assaltò la costiera dell'Adriatico, l'ottocento trentotto, credo io, ma non trovasi data nella cronica. Ciò che ne sappiamo è, che i Musulmani improvvisamente occupavano Brindisi; che Sicardo principe di Benevento vi sopraccorrea con grosse torme di cavalli; e che pugnossi fuor la città. I Musulmani si affidarono a uno stratagemma adoperato già nelle guerre di Sicilia. Scelto il luogo che parve opportuno, vi scavaron fosse, le coprirono di sarmenti e di terra, e appressandosi l'esercito nemico, si chiusero nelle mura. Un dì, appresso il pranzo, irrompon fuori con grande schiamazzo e fragor di stromenti; attirano il nemico nelle insidie; e quivi, dando la carica i cavalli di Sicardo e traboccando nei fossati, grande numero di Beneventani, Salernitani, e altre genti rimasero morti sul campo. Poi, come i Longobardi s'armavano a furia per ogni luogo apprestandosi a vendicare questa strage, i Musulmani, fitto fuoco a Brindisi, tornarono con l'armata in Sicilia. Tanto narra l'Anonimo Salernitano che visse alla fine del secolo seguente, e pur merita fede in questo caso, avendo avuto alle mani tanti ricordi municipali, ignoti a cronisti più antichi di lui. Il fatto non mi sembra identico con quel che riferisce Giovanni Diacono, l'aiuto cioè dei Musulmani alla città di Napoli assediata da Sicardo. E veramente le circostanze di coteste due fazioni non possono stare insieme; e disconvengono anco i tempi, dovendo porsi l'aiuto di Napoli l'ottocento trentasei, e il combattimento di Brindisi poco innanzi la morte di Sicardo.[603]
Tra questa sconfitta e la morte, il tiranno beneventano ottenne singolar favore dal cielo, dicono i cronisti narrandoci tuttavia le orribilità sue: assassinii, stupri, tradimenti, ruberie, carnificine. Avendo appreso che la superstizione potesse far ammenda dei delitti, Sicardo mandava a cercare per ogni luogo ossami di santi; spesso a rubarne: e n'avea raccolto un tesoro, quando gli capitò alle mani una reliquia miracolosissima, s'altra mai ne fu. Le navi longobarde che giravan le isole dando la caccia ai Saraceni, l'ottocento trentotto, approdate a Lipari, trovaron bello ed intero il corpo di San Bartolommeo, che chiuso in uno avel di marmo era venuto a galla dalle foci del Gange alle isole Eolie; dove riconosciuto, e come no? ebbe culto e altari, finchè i Musulmani non guastarono ogni cosa. In più lieve barca viaggiarono le reliquie da Lipari a Salerno, onde poi furono tramutate a Benevento.[604] Barca, credo io, non del navilio di Sicardo, che o non n'ebbe mai, o non avrebbe osato mandarlo sì presso alla Sicilia; ma piuttosto dei mercatanti della costiera i quali venissero a trafficare coi Musulmani, prendere a baratto il bottino delle chiese, e vendere schiavi italiani.[605] Perciò mi sembra notevole il fatto, e perciò l'ho ricordato.
Stanchi alfine di quella insolente tirannide, i cittadini di Benevento uccisero Sicardo (839); e, lasciato Siconolfo fratel suo nella prigione ove egli l'avea messo, esaltarono un Radelchi, ch'era dei primarii oficiali dello stato. All'incontro, Salerno, Capua e altre città, per procaccio, com'e' parmi, de' grossi feudatarii longobardi che mal soffrivano la dominazione di Benevento, gridarono principe Siconolfo, testè liberato dai suoi partigiani. La successione disputata portò a guerra civile, che forte incrudelì mescolandovisi i Musulmani. I quali, al saper quelle discordie, fatto un general movimento, dice l'Anonimo Salernitano, piombarono su la Calabria.[606] E prima que' di Sicilia, non aspettata pur la primavera, occuparono Taranto; e si trovarono a un tratto signori dell'Adriatico. Perocchè Venezia, sollecitata l'anno innanzi da Teofilo ch'era ormai costretto a mendicare cotesti aiuti, s'era mossa a gagliardo sforzo, tra le lusinghe dello imperatore, i danari che vi recò il patrizio Teodosio, e il sentire già in pericolo la navigazione sua: avea armato sessanta legni da guerra. Veleggiando, com'e' pare, alla volta di Sicilia, s'imbatteano a Taranto nell'armata musulmana; la quale uscita a combattere, li ruppe con orribile strage: dicono gli annali de' Veneziani che tutta lor gente vi restasse morta o presa. Nell'inseguire i fuggenti, spinsersi i Musulmani infino all'Istria; addì trenta marzo ottocento quaranta saccheggiarono e arsero Osero nell'isola di Cherso; saltarono su la riva opposta, sbarcarono alle foci del Po presso Adria, ma senza frutto; ad Ancona fecero prigioni e poser fuoco alle case; e poi, incrociando alle bocche dell'Adriatico, presero molte navi mercantili di Venezia reduci di Sicilia e d'altre regioni.[607] Intanto su la punta della penisola avean espugnato parecchi luoghi e lasciatovi presidio, come va interpretata la frase degli annali arabici, che quest'anno dugento venticinque dell'egira (11 novembre 839 a 29 ottobre 840) i Musulmani conquistavano la Calabria.[608] Nel medesimo tempo osteggiarono la Puglia, ritraendosi che Haiâ liberto di Aghlab, principe d'Affrica, assalisse Bari, ma ne fosse respinto.[609] L'armata musulmana, l'anno appresso, mostrossi di nuovo nel golfo del Quarnero, e di nuovo diè una sanguinosa rotta ai Veneziani, presso l'isoletta di Sansego.[610] In coteste fazioni non combatteron soli i coloni di Palermo. Per certo li rinforzava la gente venuta d'Affrica in Sicilia l'ottocento trentanove;[611] e v'eran anco quegli audacissimi corsari della colonia di Creta, che due anni appresso si veggono stanziare a Taranto. Affricani, Siciliani, Cretesi erano la più parte compagnie di ventura, come quelle accorse l'ottocento trenta in Sicilia; disposti ad operare insieme in alcuna impresa di momento, e far le minori ciascuno per sè. E però fondarono in terraferma le picciole colonie independenti, di cui si farà ricordo. I condottieri usurparon titolo di principi, che gli scrittori cristiani danno talvolta per nome proprio: così senza dubbio Sultano; così Saba, che parmi corruzione di Sâheb. Ed è il nome attribuito all'ammiraglio che trionfò a Taranto.[612]
Ma Radelchi, condotto alla stremo da Siconolfo, che gli avea tolto la Calabria e non poca parte di Puglia,[613] si gittò agli aiuti dei Musulmani. Per Pandone gastaldo di Bari, fe' chiamare un di que' condottieri per nome Khalfûn, uom berbero, liberto della tribù araba di Rebi'a;[614] le cui genti Pandone fe' accampar lungo la marina e sotto le mura. E una notte i Baresi, che abbastanza non se ne guardavano, videro saltare in città quelle frotte scalze, mezzo ignude, male armate, e i più di sole canne, scrissero i Cristiani,[615] maravigliati di quelle lor lance, di canne indiane, sottili e salde come d'acciaro. Saccheggiarono; uccisero chi resistea: Pandone tra gli altri fu gittate in mare, perchè volea parlare sopra il diritto delle genti. Radelchi, non potendo far altro, li lasciò padroni di Bari; se li tirò dietro; ed espilò i tesori delle chiese per pagar loro gli stipendii. Mandolli una volta con Orso suo figliuolo sopra il castel di Canne o di Canosa, chè dubbio è il nome;[616] dove sopraggiuntili Siconolfo, li ruppe sì fieramente che pochi ne camparono. Khalfûn, crepatogli il cavallo nella fuga, salvossi a piè, a mala pena, entro Bari. Nondimeno, i Musulmani agevolmente riforniti di gente, prendean aspra vendetta; scorrean predando e guastando infino a Capua; e ardean la città, che fu rifabbricata di lì a pochi anni al ponte del Casilino, non lungi dall'antico sito.[617]
Donde Siconolfo avvisandosi, dice Erchemperto, di spezzare con un mal conio il mal nodo dell'albero, chiamò contro gli Agareni libici di Radelchi gli Ismaeliti spagnuoli di Creta, capitanati da un Apolofar[618] che avea fermo le stanze a Taranto. Siconolfo li assoldò con espilar le chiese peggio che non avesse fatto Radelchi: le due generazioni di Musulmani a gara si godeano il denaro de' Cristiani amici e la roba dei nemici; e mandavano a vendere in lor paesi i prigioni d'ambo le parti. Tra loro non si sa che mai combattessero, o il fecero come i nostri condottieri del decimo quinto secolo. Nè anco si parla di loro alla giornata delle Forche Caudine, ove scontratisi l'ottocento quarantatrè i due rivali longobardi, Siconolfo sbaragliò i Beneventani con grandissima strage. L'aiutavano bensì i Cretesi nelle scorrerie ch'ei più vaste assai fece dopo questa vittoria; onde ridusse Radelchi alle due sole città di Siponto e Benevento.[619]
Narrasi che tornando a Salerno Siconolfo ed Apolofar, dopo alcuna di queste fazioni, messisi per diletto a spronare a gara i cavalli, il principe volle mostrar nuova prodezza della gente germanica all'altro che piccino era della persona, ma destro, animoso e baldanzoso. Smontati al palagio, mentre salivano per le scale, Siconolfo lo levò di peso per un braccio, e ripostolo tre gradini più su, lo abbracciò e baciò, per addolcire o aggravare tal insolenza. E il Musulmano, quando la rabbia gli permesse di parlare, proruppe esser finita da quel dì ogni amistade tra lui e Siconolfo: lo giurò per Allah; nè scuse valsero a ritenerlo che con tutti i suoi non se ne tornasse a Taranto. Di lì manda ad offerirsi a Radelchi; corre a Benevento; fa cavalcar sue gualdane alla volta di Salerno: le quali giunsero al fiume Tusciano, come s'addimandava, ad otto miglia verso mezzodì; e lasciarono in quelle parti terribile memoria del nome di Apolofar. Del quale aneddoto io non veggo perchè si debba dubitare; stando bene quel villano scherzo a un principe longobardo che si tediava già dei Cretesi, non avendone più bisogno. Il Cronista poi racconta la fine di Apolofar: segnalatosi per gran valore nella difesa di Benevento; preso a tradigione da Radelchi; impavido e altero, sì che sputò in faccia al traditore pria di andare alla morte.[620]
La tradizione popolare che troviamo in questa cronica, se pur aggiunse qualche bel colpo di lancia, qualche arguto detto, qualche drammatica commozione, non alterò la importanza degli avvenimenti. Taranto fu abbandonata di certo dai Cretesi; leggendosi negli annali arabi di Sicilia che i Musulmani la rifornissero di presidio l'anno ottocento quarantasei: il che ben s'attaglia con l'episodio di Apolofar, assediato in quel tempo entro Benevento. L'altra compagnia di Berberi e Arabi d'Affrica che tenea Bari e aiutava Radelchi, si mantenne, ma non si segnalò, dal quarantatrè al quarantasei, tacendone in questo tempo gli scrittori cristiani; e allora appunto veggiamo la colonia di Sicilia travagliarsi nell'assedio di Messina e nell'aspra guerra di Val di Noto; onde non potea mandare rinforzi in terraferma. Mancandovi dunque quelle armi che l'ottocento quaranta e il quarantadue erano parute sì terribili, i due principi longobardi continuarono rabidamente a straziarsi, ma senza frutto; che nè Siconolfo avea possa di espugnare Benevento, nè Radelchi di ripigliare la provincia.
Con novello furore i Musulmani assalivano l'Italia meridionale l'ottocento quarantasei. Insuperbiti per aver tagliato a pezzi l'esercito bizantino (a. 845) in Sicilia, spinsero agli assalti, con evidente unità di disegno, le forze della colonia siciliana e dell'Affrica. Le prime si mostrarono a un tempo sul mare Ionio e sul Tirreno: da una parte poneano grosso presidio a Taranto,[621] dall'altra si afforzavano al capo della Licosa che termina a mezzodì il golfo di Salerno; e occupavano Ponza, nè curavansi ormai se spiacesse ai Napoletani. Perchè, non temendosi più nel Tirreno i Bizantini, e non contandovi per anco le bandiere di Pisa e di Genova, signoreggiavano quel mare la confederazione di Napoli e la colonia di Palermo, con forze non disuguali, con interessi comuni e interessi contrarii: fieri amici che avean riguardo, non paura l'un dell'altro; tenean la mano all'elsa della spada, e talvolta la sguainavano, ma presto tornavano in pace. Dopo la presa di Ponza, Sergio console di Napoli vi approdò con le sue navi e quelle di Gaeta, Amalfi e Sorrento; scacciò i Musulmani da quell'isola e dalla Licosa. Rifuggitisi in Palermo, i Musulmani tornarono con più forte armata, occuparono il castel di Miseno sì presso a Napoli,[622] e pur non furono sturbati. Probabil è che l'armata andasse ad accompagnare gli stormi di barche usciti in questo tempo dall'Affrica per venire sopra Roma.
Superate agevolmente le fortificazioni che pochi anni innanzi Gregorio IV avea fatto costruire ad Ostia, del mese di agosto gli Affricani giugneano alla città eterna. Non osando assalirla, dettersi a saccheggiare le basiliche di San Pietro e di San Paolo, poste in quei dì fuor le mura: ma lo stuolo che spogliava la chiesa di San Paolo, affrontato dai contadini, fu scemato orribilmente, e tutto l'esercito s'ebbe indi a ritrarre. Marciò verso lo Stato di Benevento, ove potea trovare i suoi fratelli d'Affrica e di Sicilia; depredò per via Fondi; del mese di settembre, si pose all'assedio di Gaeta: e qui fu visto valorosamente combattere contro gli Infedeli Bertario, poi fatto abate di Monte Cassino. A Gaeta sopraggiunsero da un lato le genti di Lodovico, chiamate in fretta dopo l'assalto di Roma; dall'altro, Cesario figliuolo del console di Napoli, con l'armata napoletana e amalfitana. E i Musulmani, andati incontro ai Franchi, rupperli in uno agguato il dieci novembre; e ne faceano sterminio, se non era per Cesario che sbarcò co' suoi. Intanto un'altra schiera che era giunta a un dipresso a cinque miglia dalla badia di Monte Cassino, ardendo chiese e monasteri, fu rattenuta, dicesi, dalle acque del Carnello, ingrossate per subito rovescio di pioggia: miracolo di San Benedetto, come rivelò in sogno all'abate un altro santo dell'ordine. E il santo nulla disse del pro' Cesario, quel desso che avea fatto tornare addietro i Musulmani; e postosi indi con l'armata nel porto di Gaeta, salvò anco questa città senza combattere, come nota Giovanni Diacono. Perchè, innoltrandosi il verno, e non potendo le barche affricane reggere all'aperto; i capitani pattuirono con Cesario che li raccettasse nel porto, giurando di non far male, e, abbonacciato il mare, tornarsene in Affrica. Cesario se ne fidò; quelli mantenner la fede: ma poi perirono la più parte nel viaggio, non senza sospetto di un altro miracolo.[623]
Rifulse di nuovo a capo a tre anni (849) la virtù di Cesario, insieme con quella di Leone Quarto papa. Assai più forte stuolo di Affricani s'era adunato in Sardegna per ritentare l'assalto di Roma; mentre Leone dava opera a chiuder di mura le basiliche degli Apostoli e i sobborghi di quella parte: e con liberalità, con indefessa vigilanza, con processioni, benedizioni, esorcismi, riscaldava le immaginazioni dei cittadini. Nè eran finiti per anco i lavori, quando, saputa la mossa dei nemici, la confederazione napoletana, non volendoli a niun patto padroni di quel mare, mandava l'armata a Ostia; il papa vi sopraccorreva con soldati di Roma; ed accettava l'aiuto, non prima d'avere interrogato Cesario se venisse amico o nemico: tanto eran sospetti nelle altre parti d'Italia que' legami della repubblica di Napoli coi Musulmani! Sincerato dell'intento, il pontefice passava a rassegna gli Italiani di quelle varie città che non sapeano d'avere una medesima patria: e lor venia ricordando, invece di questo, la fratellanza del cristianesimo, i miracoli degli Apostoli, la comune speranza in Dio. Poi celebrò la messa; comunicò i guerrieri con le proprie mani; e, preparandosi ad ogni evento, se ne tornò a Roma. Avvistatesi intanto a Ostia le barche affricane, i nostri corsero alle navi con doppio ardire; appiccarono la zuffa; e poteron credere in vero ad aiuto soprannaturale, quando, non decisa per anco la sorte della battaglia, levossi una tempesta che sbaragliò gli Infedeli, non usi la più parte al mare, montati su triste barche; mentre gli induriti navigatori di Napoli, d'Amalfi, di Sorrento, di Gaeta, su lor provati legni non se ne moveano. Indi orribile la strage dei Musulmani, annegati, trafitti, sbalzati a terra, ove i baroni romani li pigliavano e li impiccavano; anche i preti osavano metter loro le mani addosso per incatenarli. Leone ornò di loro spoglie le chiese di Roma; fe' lavorare i prigioni alla fabbrica delle mura; e riportonne una gloria che pochi altri papi han saputo meritare.[624]
Non andò guari che Lodovico Secondo, figliuol di Lotario, presa la corona imperiate (850) vivente il padre, cominciava in persona a combattere i Musulmani dell'Italia meridionale, contro i quali poi si travagliò circa venticinque anni. Tra lo assalto di Roma e la sconfitta d'Ostia, gli ausiliari di Benevento non avean dato respitto al vicin paese. Capitanavali un Massar, come lo chiamano gli scrittori cristiani, l'indole generosa del quale par che ripugnasse al suo reo mestiere. Narrasi che in una scorreria di otto dì, l'autunno dell'ottocento quarantasei, uscito di Benevento, ei desse il guasto al monastero di Santa Maria in Cingla e a quel di San Vito presso Isernia; abbattesse il castel di Telese; e si spingesse fino a Monte Cassino, Aquino ed Arce, depredando e struggendo ogni cosa, fuorchè il Monastero Cassinese: ove, non che far offesa, non lasciò afferrare al proprio cane un'oca dei frati, gli corse dietro con lo scudiscio, gliela trasse di bocca, e piantossi alla porta del monastero, perchè non vi entrassero gli altri seguaci suoi, men docili del cane. Questa forse fu lealtà verso Radelchi che non amava a nimicarsi l'abate di Monte Cassino. Ma di giugno del quarantasette, squassata da' tremuoti tutta la provincia e fatta Isernia un mucchio di rovine, consigliando altri a Massar che usasse la occasione di saccheggiare quella città, rispose: “Il Signor del creato fa sentir quivi sua collera; e dovrò io aggravarla? No; non andrò!”[625] Egli o altro condottiero, questo medesimo anno, scorrea predando infino a Roma con Saraceni e Mori, come una cronica tedesca denota gli Arabi e i Berberi.[626] Ma quelle triste masnade, quali che si fossero i capi, non distingueano amici e nemici, maltrattavano a Benevento anco i nobili; flagellavanli con le strisce di cuoio, dice Erchemperto, come vili schiavi.[627]
Pertanto Radelchi avea a temere che i suoi un dì non lo abbandonassero: i popoli gridavano da ogni parte; i frati incalzavano; e i piccioli intenti politici di que' piccioli Stati mezzo independenti, che aveano mantenuto la guerra, ora portavano a cessarla perchè si uscisse di tanto strazio. Di più tornava comoda a tutti la divisione dell'antico Stato di Benevento; unico modo oramai di concordia: piaceva ai principi di Capua che si voleano spiccare da Salerno, e poco appresso il fecero; piaceva ai Napoletani che più non temeano dei Longobardi sì divisi, e pensavano a guardarsi dei Musulmani. La pratica della divisione fu condotta da Guido duca di Spoleto, francese, congiunto di Siconolfo; barattiere, dicono i cronisti, che trasse danaro a Radelchi e al cognato, ed entrambi li giuntò: ma certo trattava utilissim'opera. Sendo impossibile di compierla senza l'autorità e la forza dell'imperatore, a lui si volsero gli uomini più gravi del paese: l'abate di Monte Cassino andò a posta in Francia e agevolmente persuase Lodovico a venire. Calò senza grosso esercito. Ito con le genti sue e del duca di Spoleto sotto Benevento e minacciando l'assedio, Radelchi patteggiò sottomano. E una notte, fatti pigliare proditoriamente Massar e i suoi Musulmani, li mandò incatenati al campo di Lodovico; ove la vigilia della Pentecoste li uccisero di sangue freddo a colpi di lancia, tutti, senza eccettuarne il generoso Massar. Dopo il tradimento e la carnificina, che la necessità fe' parere gesta sante, si fermò la pace tra Siconolfo e Radelchi; si fe' il partaggio dello Stato in due principati, Benevento e Salerno; e tra gli altri patti si stipolò che nè l'uno nè l'altro si collegassero con Saraceni, nè raccettasserne, fuorchè quelli venuti prima della guerra, se fatti e rimasi cristiani.[628]
Abbâs-ibn-Fadhl che combatteva in questo tempo i Cristiani di Sicilia, non potendo ignorare l'atroce caso, andò l'anno appresso con l'armata; sbarcato in terraferma, ruppe in sanguinosi scontri i Cristiani; mandò le teste degli uccisi in Palermo, per mostrar ch'ei sapea vendicare il sangue musulmano: e continuò il terribil duce a guastare i colti, correr vittorioso le campagne, far prigioni per ogni luogo; coi quali tornossi in Sicilia.[629] Taranto, sottrattasi già ai Musulmani, fu assediata da loro e presa per fame, s'ignora se sotto altro condottiero innanzi il fatto di Benevento, ovvero da Abbâs-ibn-Fadhl.[630] Costui partendo par abbia lasciato possenti rinforzi in Puglia e in Calabria;[631] talchè, rinforzati di questi o d'altri venturieri, i coloni di Bari continuavan soli l'infestagione per moltissimi anni.
Il condottier di Bari, per nome Mofareg-ibn-Sâlem, usurpò autorità di principe; prese, al dir degli annali musulmani, ventiquattro castella; fabbricò in Bari una moschea cattedrale, e salì a tanto orgoglio che volea tener lo stato a dirittura dal califo di Bagdad: ossia non ubbidire a niuno. A questo effetto scrivea al governatore dell'Egitto per gli Abbassidi uno squarcio d'ipocrisia musulmana: non sentirsi in grazia di Dio egli, nè i suoi compagni, tenendo quella provincia senza investitura legittima; scongiurare pertanto il pontefice che gliene conferisse il governo, e facesselo uscire dal novero degli usurpatori. Ibn-el-Athîr, che al certo trascrisse coteste parole da antiche memorie, aggiugne che poi la gente di Mofareg sollevossi contro di lui; poi l'uccise; poi morì il principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Aghlab, nel cui cenno biografico è inserito tutto quest'episodio di Bari; ed altro ei non ne dice.[632] Mohammed salì sul trono in fin dell'ottocento sessantaquattro, mancò di vita nei principii del settantacinque; nel qual tempo appunto sappiamo liberato il Soldano dalle carceri di Radelchi e tornato ai suoi, capitanati allora da un suo nemico ch'egli avea bandito dalla colonia. Mofareg-ibn-Sâlem è ben dunque l'astuto demonio di cui gli annali cristiani narran tante maraviglie, e di cui i Musulmani tacquero la sconfitta e la prigionia. Il titolo di Sultano ch'ei prese, o che gli davano i suoi seguaci in Italia, andava a capello a quella dubbia sua potestà.[633] L'usurpazione spiega perchè i Musulmani di Sicilia e d'Affrica l'abbandonassero quand'ei fu condotto allo stremo dai Cristiani.
Il Sultan di Bari non tardava a correr la Puglia e la Calabria; far ladronecci per ogni luogo; occupare qua e là castella; e osò spinger sue gualdane infino a Napoli ed a Salerno. Allor l'abate di Monte Cassino chiamò di nuovo l'imperatore Lodovico, che venne in Puglia; volle ragunare le forze dei principati longobardi; fu lasciato pressochè solo, per sospetto ch'ei non prendesse lo stato ai Cristiani al par che ai Musulmani: donde fatto un vano tentativo sopra Bari, borbottando se ne tornò di là dalle Alpi (853); ed ebbe a vedere anco un feudatario contumace rifuggirsi appo il Sultano.[634] Il quale indi a ripigliare l'infestagione dello Stato di Benevento; e questo non trovò altro riparo che di venire ai patti coi Musulmani; pagar tributo; dare ostaggi. Voltosi il Sultano alle altre provincie, diè il guasto a' contadi di Capua e Conza e alla regione intorno Cuma, Pozzuoli e il Lago di Patria, detta a quel tempo Leboria o Liburia, il qual nome si estese a poco a poco a una provincia, e mutossi in Terra di Lavoro.[635] Infine i Musulmani si vennero a porre in Campo di Napoli, come si addimandavano gli orti tra porta Capuana e il Sebeto;[636] dove furon fatte orribili stragi (a. 860?): il Soldano, dice un contemporaneo, sedea su mucchi di cadaveri, e come uno schifoso cane tra quelli mangiava. Riducendosi a casa da questa correria, fu per cadere in uno agguato. Tra tanti paesi che avea desolato dall'uno all'altro mare, si trovarono due valorosi feudatarii, i gastaldi di Telese e di Boiano, che osarono ritentar la fortuna delle armi; trassero secoloro il duca di Spoleto a forza di preghiere e di danari; e con gran possa di gente appostarono lo stuolo nemico, verso il tramonto del sole, presso Bari. Salutar consiglio pessimamente eseguito, sclama il cronista Cassinese. Il Soldano, addandosi di loro, soprastette e si ordinò prontamente alla zuffa. I Longobardi e i Franchi, morti di sete, stracchi del cammino, sparpagliati e impazienti assalivano. I Musulmani, raccolti in una sola schiera, li ruppero, li tagliarono a pezzi ed entrarono in Bari. Dopo questa vittoria il Sultano, incolpando di rotta fede i Beneventani, battè di nuovo lor contadi; non lasciò terra illesa fuorchè le grosse città; occupò Telese, Alife, Sepino, Boiano, Isernia, Canosa, Castel di Venafro; saccheggiò San Vincenzo in Volturno, donde rifuggitisi i frati in luogo sicuro, lor prese tremila monete d'oro, minacciando d'ardere il monistero; e passò a Capua, traendosi dietro le carra piene di preda, e le torme di bestiame e prigioni. Mutò indi il campo a Teano. Quivi, mandatogli da Monte Cassino un Reginaldo diacono, fermò il riscatto di quella badia per altre tremila monete di oro; e si volse contro il castel di Conza che dicono abbia assediato per quaranta giorni. Queste ultime incursioni seguiano tra l'autunno dell'ottocento sessantacinque e la fine dell'inverno del sessantasei. Delle precedenti invano si cercherebbe a determinare le date, poichè i cronisti nè segnano gli anni, nè osservano l'ordine degli avvenimenti.[637] Certo egli è che per quattordici anni quella bella parte d'Italia fu preda di qualche migliaio di ladroni musulmani. L'amistà della colonia siciliana non liberò Napoli dal Sultano di Bari, che avea spezzato ogni legame con gli Aghlabiti, come sopra si disse. Il principe di Salerno si schermì quanto potea, praticando col Sultano, onorando gli ambasciatori suoi; che fino ne alloggiò nelle case del vescovo, e attaccò indi una briga con questi e col papa.[638]
Ogni pagina della nostra storia, dalla caduta dell'impero romano in qua, ripete lo stesso insegnamento: pur non fu mai sì flagrante la vergogna di questa miseranda divisione in cento sminuzzoli di Stati, che allor quando l'Italia si confessò impotente a scacciare il Sultano di Bari. Impotente perchè le armi servivano a uccidere nemici più odiati che i Saraceni, e tagliavan, sì, quando v'era sangue italiano da versare: poc'anzi Benevento contro Salerno; ed or Napoli contro Capua, Capua contro Salerno, e Capuani tra sè medesimi, e il vescovo principe di Capua contro i figli del proprio fratello. Non potendo dunque gli sciagurati fidarsi l'un dell'altro, ebbero ricorso per la terza fiata allo imperatore Lodovico; del quale sapeano che li volesse mettere sotto il giogo; ma sembrò pericolo più lontano. Riportata ch'ebbero la vittoria sotto le insegne imperiali, scacciarono Lodovico; poi riassaltati dai Musulmani lo richiamarono; ed egli sempre acconsentiva, sperando che nell'altalena un dì gli verrebbe fatto di coglierli: se non che la vita non gli bastò; e d'altronde i Bizantini a tempo rimessero il piè in Italia per dar nuovo alimento alla discordia. Questi fatti generali, mutati i nomi, durarono in Italia per molti secoli, forse durano ancora: e però è debito di cittadino, quantunque volte il possa, di squadernarli innanzi gli occhi di tutti, perchè sempre più se ne vegga la laidezza. Ripiglio adesso i particolari della guerra.
Per un editto assai rigoroso, di che abbiamo il testo, Lodovico appellava al servizio militare tutti i vassalli d'Italia (866); veniva a Monte Cassino (867); sforzava Capua, che già tentennando avea ritratto le genti dall'esercito imperiale; mostravasi nelle altre città primarie, Salerno, Amalfi, Benevento; a Napoli no, poichè il vescovo lo pregò, dice un cronista, che non amareggiasse i cittadini con l'autorità imperiale; ed egli acquetovvisi e dissimulò, non potendo sforzare. Ragunate e ordinate così le milizie del paese, fatti venir anco rinforzi di Lorena, marciò contro il Sultano di Bari; e fu sconfitto. Scrive Reginone, monaco tedesco, che dopo segnalate vittorie i guerrieri di Lorena se ne tornassero alle case loro, menomati da epidemia e dai morsi delle tarantole: caso probabile il primo; l'altra, fola che gli oltramontani ripeterono nell'undecimo secolo per palliar diffalte somiglianti. Questa di Lodovico è da apporsi alla tattica dei Musulmani, che meglio di lui sapeano la guerra spicciolata. Ma presto ei l'apparò. Ritrattosi a Benevento il dicembre del sessantasette, uscì alla nuova stagione; arse e guastò i contadi che ubbidivano ai Musulmani; snidolli da Matera per tagliare gli aiuti di Taranto a Bari; occupò dal lato opposto Canosa; ei si pose tra i monti a Venosa col grosso de' suoi; e guadagnato a poco a poco il territorio in due anni di travagli, prese ad assediare la città e batter le mura con macchine. L'assedio fu interrotto varie fiate; e occorse del sessantanove che, ritraendosi Lodovico a Benevento, il Sultano uscì addosso alle ultime schiere de' suoi; lor prese gran numero di cavalli, e andò a saccheggiare il santuario di San Michele al Monte Gargano. Poscia lo imperatore, chiestogli aiuti da' Cristiani di Calabria e proffertogli giuramento di fedeltà e tributo, egregiamente usava la occasione: vi mandava poche forze che ne raccogliean molte nel paese. Così in Calabria furono sconfitti tre emiri; tra i quali un Cincimo, che teneva Amantea, volendo vendicare i suoi, assaltò i Cristiani; fu ricacciato in città; e uscitone di nuovo per tentare un colpo di mano sopra il campo di Lodovico, questi prevenne e ruppe gli assalitori.[639] Nondimeno, vedendo che era niente ad assediare Bari se non si impedissero le vittovaglie e gli aiuti dalla parte del mare, si collegò con Basilio Macedone.
Il quale non prima salito al trono (867), sapendo che i Musulmani, di Taranto forse e di Creta, avessero preso alcune città in Dalmazia e strettovi Ragusa, mandovvi il patrizio Niceta Orifa con cento salandre; il cui arrivo i Musulmani non aspettarono.[640] Volendo cacciarli di lor nidi su le costiere d'Italia, il Macedone richiese o accettò la lega con Lodovico, che tenea la terra ed egli il mare. Cooperò egli dunque con forze navali, sì sull'Adriatico e sì sul Tirreno, ove non n'era minor uopo. Perchè Mohammed, figliuolo dello emiro di Sicilia Khafâgia, di luglio dell'ottocento sessantotto, uscendo di Palermo con l'armata, era ito ad assediare Gaeta; ove, sparse le gualdane nel territorio, e fattovi grandissima preda, se ne tornò del mese d'ottobre.[641] In tal modo la colonia di Sicilia par che gastigasse quella città dell'avere ubbidito allo imperatore e aiutatolo forse con navi. Napoli, allo incontro, sembrava in quel tempo Palermo o Affrica,[642] come leggesi in una epistola attribuita allo imperatore Lodovico. I corsali di Palermo che infestavan tutta la costiera, e specialmente gli Stati del papa, trovavano a Napoli piloti pratici che li conducessero; vi comperavano armi e vittovaglie per rivenderle a Bari ed a Taranto; inseguiti, si rifuggiano nel porto di Napoli e uscian di nuovo a predare. Indarno l'imperatore ammonì, il vescovo gridò e dolsonsi parecchi nobili cittadini: chè il console di Napoli a Lodovico non badò; incarcerò il vescovo e poi rilasciatolo lo costrinse a fuggire; e quanto ai suoi nobili scrupolosi, li messe in prigione coi ferri ai piè. Lo stratego Giorgio, inviato da Basilio con un'armatetta di salandre per assicurar quelle spiagge facea quel che potea, ma era assai poco.
I Veneziani intanto si mossero, come e' seppero il nemico sgomberato di Dalmazia, e forse diviso, e i Cretesi inseguiti da Niceta Orifa. Però il doge Orso, sopraccorso con l'armata a Taranto, cancellava (867) con una vittoria la sconfitta di sua gente del quarantadue. Due o tre anni appresso, l'armata bizantina, rinforzata di Schiavoni, Croati, e navi ragusee, pose a terra a Bari; diè qualche assalto; e presto si ritrasse per discordia surta coi Franchi e Longobardi: accusando questi i Bizantini di combattere per gioco; ed essi loro di star lì, un pugno di uomini, sempre in sollazzi e conviti, e che così mai non avrebbero espugnato la città. Niceta se ne bisticciò con lo imperatore; poi, tornatosene a Costantinopoli, fe' attaccare un pettegolezzo diplomatico tra Basilio e Lodovico: recriminazioni su la condotta della guerra; cavilli su i titoli, se l'un dovesse chiamarsi imperatore dei Franchi o imperator dei Romani, se all'altro fosse serbata la greca appellazione di basileo; le quali futilità provan solo che l'accordo tra i due potentati si dileguava nella certezza della vittoria. Lodovico tuttavia con quel pugno di allegri combattenti entrò in Bari, per forza d'armi, il due febbraio ottocento settantuno. Fecevi grande strage; dalla quale il Soldano campò, perchè afforzatosi entro una torre, si arrese al principe di Benevento, obbligato a lui, dicesi, per cagion della figliuola, ch'era stata già in man del Soldano, come ostaggio o prigione, e quegli l'avea guardato come figlia sua propria. Lodovico lasciò genti che stringessero Taranto e le altre castella dei Musulmani in Calabria; mandò a infestare il territorio di Napoli, dando voce di volere spezzata quella sacrilega amistà con gli Infedeli; e parlava di scendere tra non guari nelle Calabrie, di passare in Sicilia: il che vuol dire ch'ei si proponea di cogliere i frutti della vittoria, regnar di nome e di fatto nell'Italia meridionale.[643]
Lo zelo contro i Saraceni male occultava cotesti intendimenti di Lodovico, compresi dai savii, evidenti anco al volgo, per la tracotanza dei baroni oltramontani; gli aggravii; il dispregiare i Longobardi testè loro compagni nella vittoria; la insolenza della stessa imperatrice, della quale si racconta, rinfacciasse alle nobili donne di Benevento che lor gente non sapea pur imbracciare lo scudo. Pertanto Lodovico, abbandonato dagli Italiani, non potè stringere altrimenti i Musulmani delle Calabrie. Dalle mormorazioni poi si passò alle trame. I principi di Benevento e di Salerno s'inteser tra loro e con Napoli; incoraggiandoli forse i capitani delle armatette bizantine; ed aizzandoli, come la voce pubblica portò, il Sultano prigione.
Costui, per le qualità dello ingegno proprio, e per lo incivilimento superiore di sua gente, abbagliava que' rozzi principi cristiani. Scrive Costantino Porfirogenito,[644] che lo ascoltassero come oracolo in fatto di medicina e veterinaria; ed uno scrittore italiano, che Adelchi, gittatosi a cospirare contro l'imperatore, domandando consigli al Musulmano, questi dapprima l'avvertisse: “Bada bene a quel che fai, poichè i Musulmani san ch'io vivo ancora:” ma replicando il principe aver parecchi complici, il Sultano conchiudea: “Quand'è così, compi il disegno, e tosto: se no, sarai scoperto.” Narransi altri aneddoti: che tutto il tempo ch'ei fu prigione, stavasene accigliato e tetro; ma un dì, in presenza di Lodovico, diè in uno scoppio di risa, vedendo un carro andare per la strada; e domandato della cagione, rispose: “Penso alla fortuna degli uomini che gira come quelle ruote.” Aggiungono che con suoi lacciuoli facesse credere a Lodovico cospirazioni dei Longobardi, e a costoro colpi di stato dell'imperatore, sì che li messe alle prese.[645] Tra cotesto v'ha al certo verità e bugie: nè la dimestichezza di quei grandi col Sultano sembra inverosimile, quando trent'anni di guerra, accordi, leghe, traffichi, avean dissipato molti pregiudizii tra Musulmani e Cristiani in Italia. Il che ci torna anco da altre parti. Un Musulmano d'Affrica, il quale parecchi anni innanzi era stato per suoi negozii a Salerno, trovandosi in patria verso questo tempo, abbordò un mercatante amalfitano, e domandatogli se conoscesse Guaiferio principe di Salerno, e saputo di sì, lo trasse in disparte. “Qui s'arma,” gli disse, “contro Salerno, tel giuro per lo figliuol di Maria che voi adorate com'Iddio. Va tosto a ragguagliarne Guaiferio; e, s'ei ti domanda da chi vien lo avviso, ricordagli che tal dì un Musulmano sedea su la piazza di Salerno mentre il principe tornava dal bagno; e il Musulmano gli chiese in cortesia il fazzoletto[646] ond'ei s'avvolgea la testa; e il principe gliel donò incontanente, rispondendogli così e così, e tornossene al palagio a capo scoperto. Quel Musulmano son io.” Leggiam questo nella cronica dell'Anonimo Salernitano, che suol affastellare episodii presi nella tradizione popolare. Ma il caso ha apparenza di vero; tanto più che l'Anonimo dà il nome dell'Amalfitano e del Musulmano: Fluro l'uno; l'altro Arrane, ch'è evidentemente il nome etnico Harrani.[647]
La cospirazione si affrettò seconda il consiglio attribuito al Sultano. Del mese di agosto ottocento settantuno, mentre i pochi baroni di Lodovico erano sparsi qua e là per le castella dello Stato, e l'imperatore a Benevento con un pugno di cortigiani, la gente di Adelchi assalì il palagio: lo imperatore afforzatosi in una torre si difese valorosamente per tre dì; alfine s'arrese prigione al proprio vassallo, che sei mesi innanzi egli avea liberato dai Musulmani. Indi per tutta Italia dimenticandosi, com'avviene, i torti di Lodovico, si risguardò ai soli meriti; si lacerò la ingratitudine e perfidia del Beneventano, anche in tristi versi latini di cui serbasi il testo.[648] E si apparecchiava oltremonti la umana vendetta, quando la divina scoppiò, dice Erchemperto, entro quaranta dì, per man dei Saraceni, che piombaron di nuovo in Italia. Adelchi allora pensò sciorsi d'un grave impaccio liberando lo imperatore; fattogli far sacramento di perdonare l'offesa. Traditore quando il prese; sciocco quando il lasciò andare; e s'ei n'uscì salvo, fu colpo di sorte.[649]
La colonia musulmana delle Calabrie, che mai non si spiccò dalla madre patria, credendosi condotta agli estremi dopo la espugnazione di Bari, par che abbia chiesto aiuti in Sicilia e in Affrica; dove, tra il sentimento nazionale e religioso e la potenza delle famiglie interessate, si apparecchiò la espedizione, della quale fu avvisato il principe di Salerno. Lo scempio Signor delle Grù, come chiamavano il principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed, erudito, vivace ingegno, buon poeta, cacciatore, beone, dissipatore, in mezzo a' suoi sollazzi assentì un gran disegno, ordinato al certo dagli ottimati del Kairewân; per lo quale si componeva un esercito d'Italia di venti o trentamila uomini, e si preveniva la discordia tra quello e il siciliano, affidandoli a due fratelli, Abd-Allah e Ribâh, figliuoli di Ia'kûb-ibn-Fezâra, congiunti di quell'Abbâs-ibn-Fadhl di cui abbiamo ricordato le fiere gesta in Sicilia. Però a un medesimo tempo Abd-Allah e Ribâh erano nominati wâli l'uno della Gran Terra, l'altro dell'isola.[650] Abd-Allah sbarcava, com'e' pare, a Taranto: di là con tutto lo esercito entrava nel territorio salernitano, del mese di settembre ottocento settantuno.[651]
Diè il guasto; s'approcciò a Salerno: i principi di questa e di Benevento, che aveano accozzato le genti loro, vedendo non bastare a fronteggiarlo alla campagna, si chiusero nelle metropoli; e così il nemico anch'ei si spartì. Abd-Allah, attendatosi sotto Salerno, diessi a stringere la città: qualche gualdana corse infino a Napoli; più forti schiere marciarono, l'una sopra Benevento, l'altra sopra Capua: delle quali la prima fu rotta da Adelchi, e uccisile tremila uomini; la seconda sbaragliata dai Capuani, ne perdè mille. E in Salerno Guaiferio valorosamente si difendea; respingeva gli assalti; opponea macchine alle macchine; facea sortite; e guerrieri si appresentavano dalle porte sfidando i Musulmani a duello: gagliarde prove, vere al certo, ancorchè l'Anonimo ce le mostri con troppi ornamenti d'epopea. Tra le altre, che par l'episodio della Gerusalemme Liberata, ei ricorda un Landemaro calatosi dal muro con un'azza, fattosi, tutto solo, a guastare un immane mangano.[652] La città nondimeno cominciava a patir la fame, quando la ristorò di vettovaglie, con bell'ardire, Marino duca d'Amalfi, spezzata la lega ch'avea prima coi Musulmani. Nelle campagne orribil era il macello dei contadini, lo sperpero delle sostanze, lo scempio delle chiese. Abd-Allah, al dire dell'Anonimo, avea preso a soggiornare in quella di San Fortunato, e profanavala di scandali e di brutture. Fe' stendersi il letto su l'altare,[653] e sovente strascinovvi fanciulle cristiane; finchè alcuna trave caduta dal tetto liberò una bella vergine, uccidendo il tiranno senza lei toccare: che mostravasi ancora ai tempi del cronista il luogo onde si spiccò la trave, e tutti si capacitavano del miracolo. La leggenda qui, tra le fole che ognun vede, porta un fatto vero; poichè secondo gli annali musulmani Abd-Allah, capitano della Gran Terra, morì in questo tempo, e appunto del mese di sefer dugento cinquantotto, tra dicembre cioè dell'ottocento settantuno e gennaio del settantadue.[654] I Musulmani continuavano l'assedio di Salerno, rifatto capitano un Abd-el-Melik:[655] e, stretta ormai da un anno e affamata, la città stava per aprir le porte.
Lodovico, in questo mentre, non era uscito d'Italia. Pregato fervidamente da' nunzii di Guaiferio e dal vescovo di Capua, credendo il Salernitano complice del misfatto d'Adelchi, ricusò; poi l'indole generosa, o la speranza di recare a fine l'antico disegno, il mossero a dare aiuto. Mandò le milizie condotte dal giovinetto Guntar suo congiunto; il quale venuto a Capua, accozzatosi coi cittadini, chè anco preti vi s'armarono per andare a combattere, trovò da diecimila Musulmani non lungi dalla città, in un luogo che s'addimandava San Martino. Guntar, non ostante una fitta nebbia, diè dentro; sbaragliò i Musulmani, e restò morto gloriosamente sul campo. Quelli furono tutti sterminati con la spada o annegarono nel Volturno. Un'altra schiera, inseguita dall'esercito vincitore presso a Benevento, fu distrutta alsì; campandone pochi i quali andarono a spargere lo spavento nell'oste attendata sotto Salerno: e diceano venire a grandi giornate l'imperatore in persona con tutto l'esercito cristiano. Indarno Abd-el-Melik comandò, pregò, ricordava ai suoi che la città già trattasse d'arrendersi. Fu preso dagli ammutinati, messo per forza in nave; e salparono; e venne la solita meteora ignea a suscitare una tempesta che li inghiottì. Così i Cristiani, esagerando e contraddicendosi; poichè alcuni aggiungono che gli avanzi dell'esercito musulmano precipitosamente si ritraessero in Calabria.[656] Gli annali musulmani accennano le vittorie di Abd-Allah sopra i nemici, e poi silenzio.[657] La Cronaca di Cambridge al contrario, scritta in arabico da un cristiano di Sicilia, ricorda lo sterminio dell'esercito musulmano a Salerno.[658] E però sono alquanto dubbii i particolari, certissima la misera fine della impresa, verso il mese d'agosto ottocento settantadue.
Tanto egli è vero che questa ultima guerra era stata combattuta da milizie italiane, e la più parte meridionali, di Spoleto, Capua, Salerno, Benevento, che Lodovico, dopo le fresche vittorie de' suoi, non potè nè anco pigliar vendetta sopra Adelchi, come che ne avesse gran voglia, e fosse ito ad assediare Benevento. Tornato addietro, dondolatosi in opere di pietà, moriva presso Brescia, di agosto ottocento settantacinque. Per lui non stette di cacciar d'Italia i Musulmani, e unire sotto lo scettro imperiale la penisola dalle Alpi allo Stretto; di che non si offerì occasione più destra ad altro imperatore da Carlomagno a Federigo di Svevia. E veramente, al tempo di Lodovico, deboli appariscono più che mai gli elementi politici dell'Italia: repubbliche di qualche momento sol due, Venezia e Napoli; i grandi feudatarii, in su dal Tevere, obbedienti; quei d'in giù, divisi; il papato, come stanco dello sforzo che avea fatto per arrivare alla dominazione temporale: e d'altronde il caso volle che nol reggesse in quel tempo nè un Adriano primo, nè un Ildebrando; e Leone IV, uom forte senza tracotanza, poco visse. Nè distoglieano Lodovico, come avvenne ad altri, le cose d'oltremonti: ei fu prode e costante in guerra; giusto anzi che no; uomo senza grandi vizii nè straordinarie virtù; capacità mezzana in tutto. Perciò bastarono ad attraversargli quel disegno i principi dell'Italia meridionale, con le mene che ho ricordato, e i papi, ancorchè uomini mediocri anch'essi, con la forza dell'inerzia; ritraendosi che tra tanto pericolo dell'Italia e di Roma non profferissero mai sillaba per favorire la crociata di Lodovico.
CAPITOLO IX.
Nel detto cenno biografico sopra il principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed scrive Ibn-el-Athîr, alla sfuggita, che regnando costui (dicembre 864 a febbraio 875) “i Greci occuparono parecchi luoghi della Sicilia; e che Mohammed fe' costruire fortezze e corpi di guardia su la costiera d'Affrica;” e passa oltre l'annalista ai casi de' Musulmani a Bari.[659] L'autore del Baiân, come anche notammo, accenna che i due fratelli, capitani l'un di Sicilia, l'altro della Gran Terra, fiaccarono gli Infedeli in aspri scontri, l'anno dugento cinquantasette (870-71), e altro non ne dice.[660] Intanto veggiamo i governatori di Sicilia avvicendarsi in fretta. Mohammed-ibn-Hosein, scelto dalla colonia alla morte di Mohammed-ibn-Khafâgia, avea tenuto l'oficio per brevissimo tempo, come dicemmo. A Ribâh-ibn-Ia'kûb-ibn-Fezâra, nominato dal principe d'Affrica e trapassato verso la fine dell'ottocento settantuno, era sostituito, per elezione della colonia, Abu-Abbâs-ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, che moriva a capo di un mese.[661] A costui par tenesse dietro un Ahmed-ibn-Ia'kûb, fratel suo, o d'altra famiglia: chè variano in ciò i cronisti.[662] Mancato di vita Ahmed nel medesimo anno dugento cinquantotto dell'egira (17 nov. 871 a 5 nov. 872), era rifatto il figliuolo, per nome Hosein, ovvero, secondo il Nowairi, un Hosein-ibn-Ribâh, cui il principe d'Affrica confermò,[663] e tantosto il rimosse. Allora, che correva il mese di scewâl dugento cinquantanove (agosto 873), venne a reggere la Sicilia Abu-Abbâs-Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah, di casa aghlabita, figliuolo del primo governatore ch'ebbe la colonia di Palermo, uom litterato, tradizionista, poeta, poc'anzi prefetto di Tripoli, e tornatovi non guari dopo, e poscia promosso a ragguardevole uficio in Kairewân; donde par abbia lasciato la Sicilia, non per disgrazia a corte, ma a chiesta sua; tardandogli forse di uscire di quel vespaio e tornare in Affrica dond'era partito a malincuore.[664] Gli fu sostituito, se è da credere al Nowairi, il medesimo anno dugento cinquantanove, un altro congiunto della dinastia, Abu-Malek-Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahîm-ibn-Aghlab, soprannominato l'Abbissinio,[665] il quale a capo di quattro anni si vede anch'egli ito via.[666] De' quali sei o sette capitani ch'ebbe l'isola dall'ottocento settantuno al settantatrè, si sa in particolare una sola fazione, e mal direbbesi di guerra: che del dugento cinquantanove (6 nov. 872 a 25 ott. 873) una gualdana, andata infino a Siracusa, ridomandò trecento sessanta prigioni musulmani; avuti i quali, fe' la tregua, e incontanente si tornò in Palermo.[667]
Questi prigioni, queste reticenze degli annalisti musulmani, questi governatori sì spesso morti o scambiati, danno a vedere gravissime calamità della colonia siciliana. Dissanguata anch'essa dalle battaglie di Capua e di Benevento; lacera tuttavia dalla discordia civile, non potea fronteggiare le armi vincitrici di Basilio, che par si volgessero all'isola, mentre Lodovico e' Longobardi si travagliavano contro i Musulmani di Terraferma. Indi, non che perdere varie città, forse interi distretti in Sicilia, i Musulmani temeano anco per l'Affrica: afforzavano le costiere, secondo la testimonianza già detta d'Ibn-el-Athîr, con la quale s'accorda la Continuazione di Teofane.[668] Morto, tra tanto scapito dell'onor musulmano, Mohammed-ibn-Ahmed (febbraio 875), e lasciato un figliuolo di poca età, i grandi del Kairewân innalzavano al trono il fratello, Ibrahîm-ibn-Ahmed. Costui datosi ad apparecchiare in casa, come diremo nel terzo libro, gli stromenti dell'atrocissima dominazione sua, volle trasviare in Sicilia gli uomini che temea vicini; e ad un tempo far sentire a Basilio che più non regnava in Affrica il Signor delle Grù. Tentò dunque un'impresa, fallita già ai più illustri capitani della colonia: lanciò l'esercito sopra Siracusa.[669] La state dell'ottocento settantasette, i Musulmani, capitanati da Gia'far-ibn-Mohammed, novello governatore dell'isola, dopo distrutte le mèssi di Rametta, Taormina, Catania e altre città di cui non ricordansi i nomi, davano il guasto a quel di Siracusa;[670] occupati i sobborghi, poneansi allo assedio della città.[671]
Cinquant'anni addietro l'esercito di Ased-ibn-Forât s'era accampato alle latomie, lontano circa un miglio dall'istmo d'Ortigia.[672] Adesso il capitano degli assedianti facea stanza nell'edifizio della cattedrale vecchia fuor la città, scrive il monaco e grammatico Teodosio, che stettevi incarcerato trenta dì. Sappiamo anco da lui come una torre, abbattuta da' sassi che scagliavano i nemici dalla parte di terra, fosse posta in riva al mare, sul porto grande “nel luogo ove si stende il corno destro della città,” dice qui il narratore,[673] e poi che da quel luogo fosse presa Siracusa.
Or guardando una pianta topografica ognuno intenderà tal punta estrema essere l'istmo che separa i due porti; e però la città, al tempo dell'assedio, essere stata limitata, com'oggi, alla penisola d'Ortigia. Fuor da quella rimaneano i sobborghi, o piuttosto l'antico quartier principale della città, abbandonato da poco; quartier principale, perchè vi era stata la chiesa metropolitana; e abbandonato da poco, perchè quella, non diroccata per anco, offriva comodo alloggio al condottiero musulmano. Dal che parmi assai probabile che dopo l'assedio di Ased-ibn-Forât, comprendendo potersi meglio difendere un istmo largo poche centinaia di passi,[674] che il vasto cerchio di fortificazioni del quartiere esteriore, i capitani bizantini facessero sgombrare il quartiere o ponessero gli ordini opportuni a poterlo sgombrare d'un subito; e tra gli altri ordini quello di tramutare la chiesa metropolitana in Ortigia. D'altronde, in mezzo secolo, la popolazione di Siracusa dovea essere crudelmente menomata per guerre, pestilenze, emigrazione, povertà; talmentechè le abitazioni tra l'istmo e le latomie, com'esposte a maggiori pericoli, dovean anco, senza disegni strategici, rimaner vote d'abitatori.
Diersi dunque i Musulmani a battere le fortificazioni dell'istmo con ogni maniera di stromenti da guerra; gareggiando tra loro, così scrive Teodosio, a chi sapesse trovarne dei nuovi; e raddoppiando con quegli insoliti ingegni il terrore degli assediati. Tutto il di s'avea a ributtare assalti, aggiugne il narratore; tutta notte a guardarsi da frodi e colpi di mano. Percoteano le mura con le elepoli;[675] s'approcciavano all'aperto con le testuggini,[676] e sotterra con mine: da lor mangani lanciavano immani massi o fitta gragnuola di pietre.[677] In ultimo adoprarono macchine di tal possanza, che i sassi, in luogo di far la parabola in alto, ammazzare ricadendo qualche uomo, sfondar qualche tetto, e portare più spavento che danno, folgoravan diritto ad aprire la breccia, come le nostre artiglierie grosse. A che richiedendosi assai maggior momento di proiezione che nelle baliste ordinarie, fu giocoforza d'accrescere a dismisura la lunghezza delle vette, e con essa il volume delle macchine. Indi quei mangani di mostruosa grandezza che pochi anni innanzi avean fatto stupire i Longobardi di Salerno, e che, nel duodecimo secolo, portati dagli eserciti siciliani, battean le mura di Ravello presso Amalfi, metteano spavento ai Greci in Tessalonica, e i soldati di Saladino li guardavano con maraviglia all'assedio di Alessandria; e alfine nel decimoterzo secolo Carlo d'Angiò li mandava contro la Sicilia, maneggiati da Musulmani di Lucera. Cotesto parmi dei trovati a che allude il monaco Teodosio: nuovo, poichè, secondo gli eruditi, i tiri delle baliste adoprati a batter mura, occorrono per la prima volta nell'assedio di Siracusa, o meglio in quel di Salerno dell'ottocento settantuno, in cui si sa che una petriera, come la chiamarono gli Italiani, d'insolita grandezza, squassasse la torre Solarata. E finchè non se ne trovino altri esempii nelle guerre dei Musulmani innanzi il nono secolo, l'onore di tal trovato darassi a quei d'Affrica e di Sicilia.[678]
Sopravvenute forze navali di Costantinopoli, furono oppresse a un tratto dall'armata musulmana;[679] il vincitore restò padrone del mare; distrusse le fortificazioni dette allora i braccialetti[680] che difendeano i due porti, senza dubbio quelle dei lati opposti ad Ortigia, la punta settentrionale cioè del porto picciolo e la meridionale del grande. Così fu tolto ai cittadini ogni aiuto di fuori. I Musulmani provaronsi anco a dare assalti con lor grosse navi. Ma la città sempre valorosamente si difendea.
Maggior prova fu a durare la fame, la quale si fe' sentire, incrudì, arrivò allo strazio che riferisce il Frate Siracusano, con parole da farci prima sorridere e poi abbrividire, “L'uccellame domestico, dice in tanta tragedia Teodosio, era consumato; conveniva mangiar come si potea di grasso o di magro; finiti i ceci, gli ortaggi, l'olio; la pescagione cessata dal dì che il nemico insignorissi dei porti. Ormai un moggio di grano, se avvenia di trovarlo, si comperava cencinquanta bizantini d'oro;[681] uno di farina, dugento; due once di pane, un bizantino;[682] una testa di cavallo o d'asino, da quindici a venti; un intero giumento, trecento. I poveri, poichè mancarono loro i salumi e le erbe solite a mangiarsi, andavano scerpando le amare e triste su per le muraglie; masticavano le pelli fresche; raccoglieano le ossa spolpate, e pestate e stemprate con un po' d'acqua le trangugiavano; rosicavano il cuoio: poi, soverchiato dalla rabbiosa fame ogni ribrezzo, ogni sentimento di religione e di natura, dettero di piglio ai bambini; piangevano i cadaveri dei morti in battaglia: sol nutrimento di cui non fosse penuria. Ingeneravasi da ciò una epidemia crudelmente diversa; della quale chi subitamente moriva in orribili convulsioni;[683] chi enfiò com'otre;[684] chi mostrava tutto il corpo foracchiato di piaghe;[685] altri restava paralitico.[686] ” Così per tutto l'inverno e parte della primavera la misera cittade si travagliò; sperando che venisse l'armata di Costantinopoli a liberarla.
Da Basilio Macedone dovea in vero sperarsi aiuto. Ma la superstizione, le vergogne domestiche par che avessero stemprato quell'animo di valoroso malfattore. Tenne i soldati d'armata a edificare una chiesa di Costantinopoli,[687] mentre i mangani musulmani demolivano Siracusa. Poi mandò lo ammiraglio Adriano, uomo neghittoso o vigliacco; il quale ad agio suo salpava di Costantinopoli; andava a riposarsi nel porto di Monembasia in Peloponneso: e tanto aspettovvi un vento fresco col quale far vela per Siracusa, che certi demonii che bazzicavano nella selva d'Elos, dice gravemente la Cronica del Porfirogenito, e poi certi soldati scampati da Siracusa sur una barca, gli dettero avviso che già vi sventolassero le insegne musulmane. Allora corse a Costantinopoli a serrarsi in una chiesa e domandare pietà a Basilio; il quale gli perdonò la vita.[688]
Par che bloccata Siracusa per mare e per terra, il capitan musulmano, certo ormai di sua preda, si tornasse in Palermo; e che in primavera andasse a incalzar con nuovo furore l'assedio,[689] un Abu-I'sa, figliuolo di Mohammed-ibn-Kohreb, gran ciambellano d'Ibrahim.[690] Allora fu battuta in breccia la torre del porto grande di che si è detto di sopra. Verso la fin d'aprile un lato di quella sconquassato crollò; a capo di cinque dì, cadde anco un pezzo della cortina attigua: i Musulmani montavano agli assalti, ancorchè offesi di fianco dalla torre mezzo diroccata, alla quale gli assediati aveano ristorato il passaggio con una scala di legno; e impediti alsì dall'adito malagevole e più dal disperato valore del presidio cristiano. Battaglia da giganti, sclama Teodosio, non pensando che quivi avessero combattuto in altri tempi i giganti della storia antica: i repubblicani di Atene, di Cartagine e di Roma, contro quei di Siracusa; Marcello contro Archimede! Rattratta era la città, nel nono secolo, dal tempio di Giove Olimpico e dalle Epipoli alla penisola; rattratto l'umano ingegno da Gelone al monaco Teodosio; gli animi rimpiccioliti nell'obbedienza ai despoti bizantini, nell'egoismo della bacchettoneria; la religione lor insegnava meglio a morire che a vincere. Pur se quell'enfatico detto possa appropriarsi al sol coraggio personale, bene sta; e Teodosio ben chiama santo il patrizio che governò Siracusa in questo assedio, sapendo la fine che lo aspettava; e pur durando inesorabile a proposte del nemico o timidi consigli de' suoi; vigilante, infaticabile, esperto nelle cose di guerra, mantenitore della disciplina, tra quindici o venti migliaia di umane creature affamate.[691] Il presidio, sì come avveniva negli eserciti bizantini, componeasi di varie genti: v'erano Mardaiti, Greci del Peloponneso,[692] uomini di Tarso;[693] i Siracusani non mancarono a sè stessi; le donne aiutarono a combattere; i preti confortavano e pregavano. Per venti dì e venti notti fu difesa la breccia dai Cristiani esausti già in nove mesi di assedio e di fame. Quel fatale baluardo, detto del Malo Augurio, si coperse di cadaveri, le cui ferite descritte ad una ad una da Teodosio, mostrano che si combattesse pur con le spade, da corpo a corpo; un Cristiano contro cento Musulmani, dice egli, con iperbole che dipinge il vero. Stanchi, dispettosi d'essere trattenuti da una legione di spettri, da un mucchio di rovine, gli assalitori allenavano un istante.
La mattina del ventuno maggio ottocento settantotto[694] parea cheta ogni cosa: il patrizio e il grosso delle genti s'erano ritirati a prendere un po' di cibo e di riposo: rimaneva a guardare la breccia, d'in su la torre, Giovanni Patriano con pochi soldati. Quando, alle sei, tutte le macchine dei nemici giocano a un tratto; scoppiane come una procella; la scala di legno, onde dalla città si comunicava alla torre, imberciata dai massi che piombavano, si sfasciò con gran fracasso. Il patrizio balza da mensa, corre alla breccia; seguonlo animosi guerrieri. Ma il nemico, apponendosi al colpo fatto, s'era avventato incontanente alla torre; avea trucidato i difenditori; e già irrompeva in città. Una frotta di soldati che volle far testa dinanzi la chiesa del Salvatore, pria che potesse mettersi in schiera, fu soverchiata e tagliata a pezzi. Dan d'urto i vincitori alla porta della chiesa; abbattonla; trovano una gran calca di cittadini, fanciulli, vecchi, infermi, chierici, frati, schiavi: e ne fanno carnificina. Poi si spandono per le contrade, uccidendo, predando. Il patrizio con settanta nobili siracusani si chiude in una torre; ed è preso la dimane. Uno stuolo corre alla cattedrale, ove l'arcivescovo Sofronio[695] e tre preti, Teodosio era tra questi, si strappano d'indosso gli abiti sacerdotali, sperando non essere conosciuti; in farsetto di cuoio, si acquattano tra l'altar maggiore e il seggio vescovile; Sofronio tuttavia promette un miracolo; gli altri si domandano perdono scambievolmente delle offese, come in punto di morte: e Teodosio afferma che ringraziavano Iddio di tale tribolazione. Ecco i Musulmani nel tempio: uno brandendo la spada che stillava sangue va dietro all'altare, trae fuori i nascosi; ma senza maltratti, nè minaccioso piglio; e contemplato il venerabile aspetto dell'arcivescovo, gli domandava in greco: “Chi sei tu?” Saputolo, richiese dei vasi sacri; si fe' menare al luogo ove serbavansi, che erano cinquemila libbre di metalli preziosi di finissimo lavoro; fe' entrare nella stanza l'arcivescovo coi tre compagni, e ve li chiuse. Poi chiama gli anziani di sua nazione, scrive Teodosio, al certo i capi di famiglia ch'erano in quella schiera; li commuove a pietà; e salva la vita ai prigioni. Uomo di nobil sangue, dice il narratore, e lo chiama Semnoen forse Sema'ûn ch'è nome arabico. Niun soldato di nazione incivilita usò mai più umanamente in città presa d'assalto, nel primo impeto, verso ministri di religione avversa: nè gli eserciti dei nostri dì possono vantare molti Sema'ûn. Questo esempio di gentil animo del condottiero e disciplina dei soldati, accanto agli atti d'esecranda intolleranza che dovremo narrare, prova che miscuglio di schiatte, di costumi, di barbarie e civiltà, di cavalieri e ladroni, fosse nell'esercito musulmano ch'espugnò Siracusa. I men tristi sembrano i coloni di Sicilia; tra i quali va noverato Sema'ûn, poichè parlava il greco.
Teodosio e i compagni di prigionia furono recati allo alloggiamento del generale in capo, al vescovado vecchio, serrati in una stanza; la cui schifa descrizione legga, chi il voglia, nella epistola di Teodosio. Ma non può tacere la storia su le abbominevoli crudeltà. Cessata la strage indistinta, continuarono a scannare gli uomini d'arme, e serbare gli altri alla schiavitù.[696] E perchè mal si poteano distinguere, o intervenne qualche pia frode dei condottieri più inciviliti, fu preso tempo a scevrare le vittime: e a capo di una settimana, di sangue freddo, le immolarono fuor la città. Primo l'eroe dello assedio, quel patrizio di cui Teodosio tace il nome, per esser noto, dice egli, a chiunque: e andò alla morte a testa alta, impavido, sereno, che il capitano che il condannò lo guardava preso di stupore. Indi, i settanta presi nella torre col patrizio e gli altri prigionieri furono legati; fattane una massa, contro la quale come can villerecci, continua Teodosio, i Musulmani avventavansi: e fino all'ultimo li ammazzarono con sassi, bastoni, lance e checchè lor veniva alle mani; e arsero i cadaveri. Niceta da Tarso, notissimo ai nemici pei fieri colpi che solea menare ogni dì, svillaneggiando lor nazione e imprecando al Profeta, fu tratto in disparte; steso a terra supino; scorticato dal petto in giù; squarciategli con cento lance le viscere palpitanti; strappatogli il cuore: e gli empii lo dilaniarono coi denti; lo ammaccarono a colpi di pietra.[697] Il numero dei morti in tutte queste carnificine passò i quattromila, dice il Baiân; sommò a parecchie migliaia, dice Ibn-el-Athîr, aggiugnendo che “pochi, pochissimi camparono,” tra i quali son da noverare que' che gittatisi in una barca arrivarono in Grecia. Montò il valsente del bottino, secondo Teodosio, a un milione di bizantini[698] che ne darebbe tredici delle nostre lire; nè par troppo per tanta città; nè arriva a quello che crederebbesi, leggendo negli annali musulmani non essersi fatta mai sì ricca preda in altra metropoli di Cristianità. Comparve, dopo la espugnazione, un'armatetta greca, contro la quale usciti i Musulmani la messero in fuga, le presero quattro navi, e passarono gli uomini per le armi. Per due mesi circa abbatterono fortificazioni, spogliarono tempii e case: alfine vi messer fuoco, e andaron via, allo scorcio del mese di dsulka'd, cioè all'entrare d'agosto.[699] Questo fu il fine di Siracusa antica: rimase un laberinto di rovine, senz'anima vivente.[700] Nè un Teocrito v'era, nè un Ibn-Hamdîs che piangessero l'eccidio della patria; ma vi si provò un poeta bizantino, erede presuntivo della corona, Leone poi imperatore, detto il Sapiente, e autore d'un trattato d'arte militare; il quale, in vece di venire a far la vendetta, strimpellò sul doloroso argomento due anacreontiche, così chiamolle, che si sono perdute, nè parmi gran danno.[701] Il monaco e grammatico Teodosio dettò poi la epistola da noi sovente citata, che ben risponde ai due titoli dello autore: piena di unzione, come si dice; diffusa, studiata, pur non disadorna di stile; pregevole pei fatti che ricorda; e può passare tra i buoni scritti greci del nono secolo.
Prima di sgombrar la città, i Musulmani avviavano a Palermo il bottino e i prigioni:[702] gittati su le medesime bestie da soma; scortati da brutali negri, ch'erano addetti ai servigii più bassi nello esercito; viaggiando sei dì e sei notti, al caldo e al freddo, senza riposo. All'alba del settimo dì, i prigioni siracusani gustavano amarezza novella a vedere la fiorente città, di cui la fama tanto parlava, uscita dall'antico giro delle sue mura, coronata di sobborghi, o meglio, sclama Teodosio, forti e superbe città, “l'iniqua Palermo, che tenendo a vile d'essere governata da un contarco, si impadronisce già d'ogni cosa, ha messo noi sotto il giogo, e minaccia d'assoggettare le genti più lontane, fin gli abitatori della imperiale Costantinopoli.” Così il prigione, struggendosi d'invidia municipale, inveiva contro un nome; confondea Palermo capoluogo di provincia sotto i Bizantini, con Palermo capitale musulmana, “ridondante di cittadini e di stranieri, che pareavi adunata tutta la genía saracenica da levante a ponente et da settentrione al mare.” Un folto popolo andò a incontrare il convoglio, tripudiando alla vista di quel bottino, intonando versetti del Corano, che Teodosio chiama canti trionfali e peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo emiro supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia, “sedente in trono, sotto un portico,[703] ascosto dietro una cortina per tirannesca superbia.” L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti una breve disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si ravvisa il gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza orgoglio nè intolleranza; il pastore con dignità e circospezione. Accomiatati per tornare alla prigione, attraversavano la piazza di mezzo della città, probabilissimamente quella ch'or si chiama del Palagio Reale, seguendoli “moltissimi Cristiani che senza dissimulazione li compiangeano, e molti Musulmani tratti da curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;” dei quali Teodosio non dice che desser su la voce a que' primi, nè profferissero ingiurie. Furon chiusi poi nelle pubbliche carceri,[704] che vi si scendea per quattordici gradini e non aveano altra finestra che la porta; dove, tra il caldo, la oscurità, il puzzo, gli schifi insetti, erano accalcati Negri, Arabi, Ebrei, Cristiani di Tarso, di Longobardia e Siciliani. Il vescovo di Malta, ch'avea i ferri ai piè, levossi per abbracciare Sofronio: si contarono a vicenda lor casi; piansero insieme; e ringraziarono Iddio. Ma venuta la festa dei Sagrifizii, com'esattamente la chiama Teodosio,[705] un fanatico dottore[706] si messe a stigare il popolazzo che per maggiore allegria facesse un falò di quel sacerdote politeista; se non che gli uomini più autorevoli e i magistrati calmarono il furore, mostrando vietato da legge musulmana l'abbominevole sagrifizio[707] e doversi in altra guisa render lode a Dio della vittoria. “Così campammo, conchiude Teodosio, scrivendo dal carcere, e pur ci minacciano la morte ogni dì.[708] ” Si addoppiarono forse i timori suoi ne' tumulti della capitale, nella guerra che si raccese con avvantaggio delle armi greche; finchè, l'ottocento ottantacinque, erano riscattati i prigioni siracusani;[709] onde l'arcivescovo e Teodosio, par che tornassero in libertà.[710]
CAPITOLO X.
Lo stesso anno, se prima o appresso la espugnazione di Siracusa non si ritrae, Gia'far-ibn-Mohammed fu ucciso in Palermo dai suoi proprii famigliari, per trama di due principi del sangue aghlabita, ch'eran ritenuti prigioni nel palagio dell'emiro, mandativi al certo da Ibrahîm; l'uno, fratel di costui per nome Abu-I'kal-Aghlab-ibn-Ahmed; l'altro, fratello del padre di Ibrahîm, e addimandavasi anco Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, soprannominato Khereg-er-ro'ûna, come noi diremmo “La pazzia se n'andò.” Aghlab, matto o no, volle raccogliere il frutto dell'omicidio; prese lo Stato, affidandosi in una mano di partigiani; ma non andò guari che il popolo, sollevatosi, lo scacciò con tutti i compiici suoi, e mandolli in Affrica.[711] Succedea nel governo, per elezione, com'e' pare, d'Ibrahîm, un Hosein-ibn-Ribâh,[712] che pochi anni addietro avea retto per breve tempo la colonia.
Il quale immantinenti ebbe a combattere aspra guerra coi Cristiani. Uscito la state dell'ottocento settantanove contro Taormina, fu sconfitto più fiate. All'ultimo trionfò in sanguinosa battaglia, e uccisevi il capitano nemico che il Baiân chiama patrizio;[713] forse quel Crisafi, la cui morte ricorda in quest'anno medesimo la Cronica di Cambridge:[714] il qual nome gentilizio ricomparisce in un diploma del duodecimo secolo, non che nei ricordi de' tempi successivi, e rimane tuttavia in Sicilia. Da ciò si vede che i Politeisti dell'isola, come il Baiân chiama i cittadini delle terre non sottomesse ai Musulmani, avendo dinanzi agli occhi quello spaventevole esempio di Siracusa, vollero piuttosto affrontar la morte uniti in campo, che perire divisi, ciascuno entro il suo muro. Notevol è che la medesima disperata reazione avvenne già dopo la presa di Castrogiovanni. Or davano animo al resistere anco le discordie dei Musulmani e gli appresti che facea Basilio per cancellare l'onta delle armi sue.
Incalzavan la briga i frati, solito stromento di governo nell'impero bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori d'avvisi, anco esploratori; affidandosi nella umiltà di loro stato, nei pretesti che forniva e nella riverenza del popolo musulmano, ch'era sì caritatevole verso i poveri di qualunque religione, proclive a tutte superstizioni anco straniere, e uso a tenere in gran conto l'abnegazione monastica. Pertanto veggiamo sopraccorrere in questo tempo in Sicilia un valente frate, Elia da Castrogiovanni, la cui vita tra non guari avremo a narrare. Lasciata Gerusalemme, ov'ei facea stanza, Elia navigò alla volta d'Affrica; di lì venne sur un legno carico di mercatanzie in Palermo; vi rivide la madre; e a capo di pochi dì, appunto quando s'allestiva un'armata nel porto della capitale, ei passò a Taormina; di là a Reggio, ove il popolo era tutto sbigottito; lo rassicurò vaticinando la sconfitta degli Infedeli: e dopo i successi che siamo per narrare, Elia ricomparisce a Taormina per pochi dì; passa in Grecia; ov'è preso per spia dei Musulmani; indi viene in Calabria di nuovo; va a Roma e di nuovo a Taormina. L'intendimento di cotesti viaggi è evidentissimo. Il fatto si deve accettare da una biografia scritta non guari dopo la morte di Elia, e molto accurata nei nomi proprii e topografici, e negli avvenimenti che noi d'altronde conosciamo; verosimile e semplice negli altri; nella quale i miracoli stanno appesi come parati da festa su le mura di un edifizio.[715]
Il detto vaticinio d'Elia era di quelli che ognuno può fare. Dopo gli avvantaggi riportati dalle armatette bizantine, a Napoli[716] sopra i Musulmani d'Affrica e di Sicilia, e in Levante contro quei dell'Asia Minore e di Creta, il navilio capitanalo da Niceta Orifa, per audace fazione, avea distrutto l'armata cretese nel golfo di Corinto; aveala arso, affondato, fatti moltissimi prigioni, e messili a morte con orrendi supplizii; chi scorticato vivo, chi immerso nella pece bollente.[717] Oltre il terrore di questi fatti, stava pei Bizantini la superiorità del numero; leggendosi che l'armata affricana e Siciliana che s'accozzò in Palermo sommasse a sessanta navi,[718] ed a centoquaranta la bizantina che le fu mandata incontro,[719] capitanata da un Nasar, uom di Siria come lo mostra il nome; forse della fiera gente dei Mardaiti che valorosamente combatteano contro gli oppressori Musulmani in patria e fuori.[720] Come il navilio affricano s'era messo a depredare Cefalonia, Zante e tutte quelle costiere, con animo forse di passare in Calabria, Nasar, raccolte sue forze nel porto di Modone, ristorata la disciplina nei soldati, rinforzatili di Mardaiti e milizie del Peloponneso, uscì improvvisamente contro il nemico. Per aspro combattimento gli bruciò o prese la più parte delle navi, credo io, nei primi di agosto ottocento ottanta, su la costiera occidentale della Grecia propria, Ellade, come allor si chiamava la provincia a settentrione dell'istmo di Corinto. Rifuggitisi in Sicilia quei pochi legni che il poterono, Basilio comandava a Nasar di passar oltre verso Ponente. Così quegli veniva a Reggio; e distrutto, com'e' pare, qualche avanzo dell'armata siciliana che osava far testa, approdò non lungi di Palermo.[721]
Padroni oramai del mare i Bizantini cominciarono a dar la caccia alle navi mercantili dei Musulmani, e grande copia vi presero di ricche merci, soprattutto d'olio, il quale fu tanto che il venderono a un obolo la libbra:[722] depredazioni esiziali in quell'anno, in cui era una spaventevole carestia in Africa,[723] e però molto bisogno delle derrate di Sicilia. Al tempo stesso Nasar mandò torme di cavalli a dare il guasto ai territorii delle città fatte tributarie dei Musulmani: parecchi mesi durò frastornando il commercio della colonia, senza attentarsi ad assalirla altrimenti; finchè andossene in Terraferma ov'era più agevole a fare acquisto di territorio.[724] Ben ei lasciò una squadra di salandre a Termini, o Cefalù, con soldati che continuassero l'infestagione per terra;[725] e forse allor fu che Basilio, con intento di ordinare la guerra in Sicilia, fecevi capitano Euprassio,[726] e poi Musulice. Allora per certo si cominciò a fabbricare o afforzare una città, alla quale i Bizantini poser nome di Città del Re; com'io credo, l'odierna Polizzi,[727] la quale sorge sopra un colle in mezzo alla valle principale delle Madonie, a brevissima distanza dalle scaturigini dei due Imera, settentrionale e meridionale, o vogliam dire fiume Grande e fiume Salso. Cotesti fiumi, correndo in dirittura opposta, l'uno al Tirreno, l'altro al mar d'Affrica, tagliano la Sicilia d'una linea non interrotta, la quale segnò la divisione amministrativa sotto i Romani, e poi di nuovo nel decimoterzo secolo; e le due provincie si chiamarono la prima volta Lilibetana e Siracusana, poi Sicilia di là e di quà del Salso, ossia Occidentale ed Orientale, e l'una rispondea al Val di Mazara, l'altra a quei di Demona e Noto uniti insieme. Da quella fortezza i Bizantini tenendo il passo delle Madonie, poteano dominare l'uno e l'altro pendío; chiudere i Musulmani nel Val di Mazara; e assicurare le popolazioni cristiane di Val Demone e Val di Noto. Con pari intento il conte Ruggiero due secoli appresso affortificava Polizzi, sì che a lui ne fu attribuita la fondazione.
Scambiato per cagion di quelle sconfitte, o forse uccisovi, Hosein-ibn-Ribâh, e rifatto governatore della colonia Hasan-ibn-Abbâs,[728] i cavalleggieri musulmani prorompeano di Palermo a infestar tutta la Sicilia, l'anno dugento sessantasette dell'egira (11 agosto 880 a 30 luglio 881), nella state cioè dell'ottocento ottantuno; e Hasan col grosso delle genti, attraversata risolutamente l'isola, andava a bruciare le mèssi nel contado di Catania. Di lì passato in quel di Taormina,[729] distruggeva le ricolte e tagliava gli alberi: onde uscitogli contro Barsamio, capitano del presidio, uom di Siria come parrebbe al nome, questi toccò una sconfitta, che il biografo di Elia da Castrogiovanni dice predetta dal Santo.[730] Il vincitor musulmano, tornandosi a Palermo, dava il guasto al territorio di Bekâra, non so bene se Vicari, ovvero un castel distrutto nelle vicinanze di Gangi, che non son guari lontani nè l'uno nè l'altro dal luogo ov'eransi afforzati i Bizantini. Questi dal canto loro non intermessero le incursioni ne' territorii dei Musulmani ai quali recarono gravissimi danni.[731] Così con varia fortuna si combattea.
L'anno appresso, che fu il dugento sessantotto dell'egira (31 luglio 881 a 19 luglio 882), cominciò con atroce sconfitta e terminossi con splendide vittorie dei Musulmani. Narra Ibn-el-Athîr che una gualdana condotta da Abu-Thûr, “Quel dal Toro,” come noi diremmo, imbattutasi nell'esercito bizantino, fu tagliata a pezzi; sì che ne camparon sette uomini soli.[732] Il nome di Caltavuturo,[733] che significa la rôcca di Abu-Thûr, discosta cinque miglia da Polizzi, addita il luogo dello scontro. La quale notizia accozzata con quel rigo di annali è esempio dei materiali su cui ci tocca ordinariamente a compilare questo nostro lavoro: ragguagli talvolta precisi, ma come iscrizioni sepolcrali; nè ci dipingono le sembianze, nè ci rivelano le passioni, i pensieri, tutto quel movimento vitale che piace e giova intendere nella storia. Ma alle memorie storiche come noi le vorremmo, come l'ebbero alle mani i grandi maestri dell'arte, suppliscono un po' le leggende: almeno ci svelano in che modo allor gli uomini delirassero, che è pur segno di vita. Un'agiografia greca ed un'agiografia arabica s'abbattono entrambe, com'e' pare, nel medesimo fatto di Caltavuturo; narrando le visioni di due avversarii in alcuna sconfitta toccata dai Musulmani. Niceta Davidde di Paflagonia, nella Vita d'Ignazio Patriarca di Costantinopoli scritta in greco, novera questo tra i cento prodigii del patriarca: che Musulice, stratego di Sicilia, in un'aspra battaglia contro i Saraceni, sbigottito, nè sapendo che farsi, invocava l'anima beata d'Ignazio, e che quegli, apparso in aria sopra un possente caval bianco, gli accennava di muover le schiere contro la sinistra del nemico; e così fece il pio capitano, e, contro il solito, vinse.[734] In luogo di un vescovo che venisse a dimostrare arte di strategia, la leggenda musulmana fa scendere dall'empireo le Huri dai begli occhi negri, per chiamare a novella vita i martiri della fede unitaria. Il narratore è Abu-Hasan-Harîri, siciliano di santissimi costumi secondo sua setta, trapassato il novecento trentuno. “Al tempo, diceva egli in sua vecchiezza, al tempo che questa nostra patria nudriva prodi cavalieri, non trascorsi per anco a lacerarsi in guerra civile, io mossi con gli altri ad una impresa contro Infedeli; nella quale scontratici col nemico, fe' carnificina di noi. Tra i cadaveri trovai semivivo Abu-Abd-Selem-Moferreg, uom virtuoso, dato ad esercizii di pietà, a dura penitenza, e a combattere per la fede; il quale così mi parlò: “Ti giuro,” ei disse, “per Dio, che ho visto tante scale drizzate da questo campo infino al cielo, per le quali scendeano giovanette che mai più vaghe non ne conobbi al mondo. Tenendo alle mani uno sciugatoio di drappo verde, ciascuna s'accostò a un dei martiri nostri, e presogli il capo e posatoselo in grembo, gli astergeva il sangue; poi, levando nelle sue braccia il trafitto, se ne risaliva con esso lui in cielo. Ma la donzella che venne a me, addandosi ch'io respirassi, mi volse le spalle tutta sconsolata, esclamando: — Oh sventura, egli vive! Oh vergogna mia appo le compagne! — Ed ella mi lasciò,” finiva singhiozzando Moferreg, “ch'io la vidi con questi occhi miei aperti e risentiti. Mi lasciò la dolce sorella: or come mai potrò cessare il pianto finch'io non la ritrovi?”” Da quel dì in poi Moferreg si profondò tanto più a meditare su la divinità e su l'altro mondo; raddoppiò ogni più strano rigor di vita ascetica; si cibò d'erbe; e quando alcuno gli diceva: “Smetti, o Abu-Abd-Selem,[735] che hai fatto abbastanza per guadagnare il Paradiso;” ei gli dava su la voce: “Sciagurato ch'io non ho scusa appo il mio Signore;” e ricominciava a piangere: nel qual modo si travagliò per sei anni che gli rimaser di vita.[736]
Deposto dopo la sconfitta di Caltavuturo Hasan-ibn-Abbâs, e surrogatogli Mohammed-ibn-Fadhl, rinnovava, nella primavera dell'ottocento ottantadue, il disegno di Hasan; spargendo le gualdane per ogni luogo ove i Cristiani non fossero sottomessi; e movendo egli medesimo con lo esercito sopra Catania. Andò seco lui grande sforzo di gente, levatasi in massa alla guerra sacra, com'e' pare dal testo d'Ibn-el-Athîr.[737] Dato il guasto alle mèssi in quel di Catania, Mohammed improvvisamente si voltò contro i soldati delle salandre bizantine, i quali non si ritrae se abbiano fatto sbarco nella costiera orientale, o, per terra, tenuto dietro all'esercito musulmano; o se questo sia ito a trovarli su la costiera settentrionale, valicando i monti. Mohammed li combattè e ruppe con molta strage. Poi andò a guastare le ricolte di Taormina; e al ritorno scontrossi con più forte esercito cristiano, accozzato forse dai municipii di Sicilia. Lo sbaragliò; ne uccise tremila uomini, e mandò le teste in Palermo. Usando la vittoria, assaltò poi la Città del Re, Polizzi, se regge il mio supposto; della quale impadronissi per forza d'armi, e messe a morte tutt'i combattenti, e ogni altra persona fe' schiava.[738] Così erano sgombrati gli avanzi della espedizione di Nasar. Le forze bizantine, bastando appena alla guerra di Calabria, abbandonavano la Sicilia, o forse vi lasciavano pochissimi presidii. Il territorio cristiano pertanto si ristrinse ai monti della Peloriade, all'Etna, e alla valle ch'è di mezzo.
Quella striscia di terreno sarebbe stata poi, con lieve fatica, soverchiata dai Musulmani, se non li avesse arrestato il peggior nemico loro, la discordia. La quale nelle avversità suol trovare nuov'esca; e cova sotterra; e quando poi senta rivoltare la fortuna, s'apre spiragli, e divampa. I segni del tristo fuoco si veggono apparire poco appresso la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl: sono la debolezza e incertezza con che si sciupò la vittoria. Il dugento sessantanove (20 luglio 882 a 9 luglio 883), Mohammed affliggea con saccheggi, cattività, uccisioni i contadi di Rametta e Catania, ma tornava in Palermo tra il giugno e il luglio dell'ottocento ottantatre,[739] senza offendere altrimenti il nemico tutto quell'anno. Al vittorioso condottiero, se deposto o morto non si sa, era surrogato un Hosein-ibn-Ahmed; il quale morì l'anno dugento settantuno (28 giugno 884 a 16 giugno 885), dopo una scorreria che fe' fare nel territorio di Rametta, con guasti di poderi e preda di roba e d'uomini. Poi, venuto d'Affrica a governare l'isola Sewâda-ibn-Mohammed-ibn-Khafâgia, volendo imitare il padre e l'avolo con gagliarde imprese, desolò non solo il contado, ma forse anco i sobborghi di Catania;[740] passò a Taormina; combattè quel presidio; guastò le mèssi; e si facea più da presso, quando venuti a chiedergli accordo, com'ei pare, i decurioni della città, fermò la tregua per tre mesi e lo scambio di trecento prigioni musulmani con que' di Siracusa; ridusse lo esercito alle stanze in Palermo;[741] e spirata la tregua, riassaltò la Sicilia orientale all'entrare del dugento settandue (17 giugno 885 a 6 giugno 886) senz'altro frutto che un po' di bottino.[742]
Così per due anni allenava la guerra sacra, perchè gli animi s'apparecchiavano alla guerra civile. Alfine, aggiugnendosi alle altre cagioni di mal contentamento le vittorie che riportava in Calabria Niceforo Foca e il disordine che dovean recare dalla Terraferma nell'isola i Musulmani rifuggiti,[743] si venne in questa al sangue. I Berberi e gli Arabi combatteron tra loro, il dì appunto non si sa, tra l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette: e Sewâda con un suo fratello e tutti i partigiani, presi dal popolo di Palermo e messi in ceppi, furono mandati in Affrica. Il popolo rifece governatore un Abu-Abbâs-ibn-Ali;[744] ma par che poco durasse in ufizio, e che il principe aghlabita riescisse a chetare i sollevati; sì che non guari dopo rimandava in Palermo lo stesso Sewâda.
Breve pausa di discordie, ma ben la sentirono i nemici. Morto in questo mezzo Basilio Macedone (1 marzo 886) e venuto l'impero nelle deboli mani di Leone, era chiamato Niceforo Foca a governar la guerra in Asia Minore. I Musulmani di Sicilia allestivano allora l'armata per riassaltare la Calabria, l'anno dell'egira dugento sessantacinque (15 maggio 888 a 4 maggio 889). Allo incontro venne da Costantinopoli a Reggio il navilio imperiale; e passato lo stretto, che già avea preso il nome di Mar del Faro,[745] trovò il nemico nelle acque di Milazzo, probabilmente in settembre ottocento ottantotto. La battaglia finì con una strage spaventevole: prese tutte le navi ai Cristiani; morti dei loro cinque, forse settemila, tra di ferro e annegati: ed è da credervi, poichè al certo il vincitore musulmano non risparmiò i prigioni, dopo quelle orribili crudeltà di Niceta Orifa. Allo annunzio della quale sconfitta gli abitatori di Reggio e delle altre città e castella della estrema Calabria, fuggivano dalle case loro sentendosi sul collo la spada musulmana. Infatti l'armata vincitrice approdò; sparse gli scorridori all'intorno, e fatto gran bottino si ridusse in Palermo.[746]
Dopo la espugnazione dell'ottocento quarantatrè, il nome di Messina ricomparisce nelle memorie musulmane in questo tempo, sapendosi che Mogber-ibn-Ibrahîm-ibn-Sofiân fosse mandato a capitanare “l'esercito di Messina e terra di Calabria dopo la battaglia di Milazzo;” queste sono le proprie parole del biografo.[747] Nel mezzo secolo che corse tra l'uno e l'altro avvenimento, non si fa punto menzione di quella città; ma si ricordano, dall'ottocento settantasette in poi, i guasti di eserciti musulmani nel contado di Rametta, picciola rôcca tra i monti, a ponente di Messina ond'è lontana nove miglia in linea retta[748] e molto più pei sentieri tanto o quanto praticabili a tramontana e mezzogiorno. Rametta o Rimecta, terra di nome latino, e però antica, ancorchè non se ne faccia ricordo da storici e geografi innanzi il nono secolo; terra limitata dal sito a mediocre prosperità; forte asilo in tempo di guerra. Così ancora per tutto il corso del decimo secolo il nome di Messina s'udì poco, quel di Rametta fu famoso per battaglie e assedii; finchè la città del Faro, non molto innanzi il conquisto normanno, ripigliava l'antico lustro, e Rametta tornava alla condizione assegnatale dalla natura. Da cotesta vicenda parmi si debba argomentare che dopo l'ottocento quarantatrè i principali cittadini di Messina e gran parte del popolo si tramutassero in quelli aspri gioghi per viver liberi; e che Messina, mezzo abbandonata, rimanesse come porto ed emporio, Rametta divenisse l'Acropoli dell'antica patria.
Mogber, uom valoroso, della nobile schiatta di Sofiân collaterale di casa d'Aghlab,[749] era stato accetto un tempo a Ibrahîm-ibn-Ahmed, che solea per diletto armeggiar di lancia con esso lui; era stato preposto al governo di Laribus; ma poi, allontanato d'Affrica al par di quanti altri davan ombra al tiranno, ebbe il pericoloso comando dell'esercito a Messina. Dove gli avvenne che andato con poche galee a una correria in Calabria, l'armata bizantina, capitanata, com'ei pare, da un ammiraglio Michele, lo fe' prigione, e sì mandollo a Costantinopoli; ove dopo alquanti anni morì. Per lungo tempo rimase popolare in Affrica il nome di Mogber, recitandovisi da tutti un poemetto ch'egli avea dettato nei tristi giorni della cattività, e mandatolo al Kairewân, del quale abbiamo due squarci: poesia imitativa; versi così così; sensi di carità patria; disprezzo della fortuna, e speranza che confortasse l'animo del prigione colui che avea guardato Giuseppe dalle seduzioni, rincorato Giobbe, liberato Abramo dal furore de' Miscredenti e dato possanza al bastone di Mosè in faccia ai Maghi d'Egitto.[750]
Ma Sewâda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l'anno dugento settantasei (5 maggio 889 a 23 aprile 890) contro Taormina, e invano l'assediava;[751] col quale par che Ibrahîm-ibn-Ahmed abbia mandato in Sicilia milizie straniere sotto pretesto della guerra sacra in Calabria, e in verità per mettere un freno in bocca ai coloni. In fatti, leggiamo nella Cronica di Cambridge che di marzo ottocento novanta i Musulmani di Sicilia si levarono in arme contro gli Affricani e uccisero un Tâwâli, del quale altro non si conosce che il nome o soprannome che sia;[752] ma quella appellazione di Affricani e Siciliani, data qui dal medesimo scrittore che nell'ottocento ottantasette avea parlato di Giund e Berberi, mostra che si combattesse tra le novelle forze venute d'Affrica e gli antichi coloni, non più tra le due schiatte di costoro.[753] Resse la Sicilia l'anno dugento settantotto (14 aprile 891 a 1 aprile 892) Mohammed-ibn-Fadhl di già ricordato. Il dugento settantanove (2 aprile 892 a 21 marzo 893), il Baiân ripete il nome di costui e lo dice entrato in Palermo capitale dell'isola il due sefer[754] (4 maggio 892); la qual data, sì precisa, è indizio di avvenimento non ordinario; forse un moto di fazioni; forse una battaglia. Ne fan certi di ciò i cenni che troviamo in altri scrittori. Leggiamo nella storia d'Affrica del Nowairi, che l'anno dugentottanta (893-894) Ibrahim-ibn-Ahmed, rifatto hâgib, o vogliam dir ciambellano e primo ministro, un Hasan-ibn-Nâkid, gli conferì inoltre parecchi oficii, tra i quali l'emirato di Sicilia, e che Hasan andò con un esercito a combattere i popoli di Tunis e di tutta la penisola di Scerîk,[755] come chiamavan la lingua di terra che si termina nel Capo Bon e dritto guarda al promontorio occidentale della Sicilia. Da un'altra mano, tra l'ottocentonovantadue e il novantasei, non s'intende in Sicilia d'impresa contro i Cristiani; anzi si vede fermato un patto tra loro e i Musulmani dell'isola: fermato ai tempi di Abu-Ali, dice la Cronica di Cambridge;[756] fermato coi Saraceni di Palermo che si ribellarono dal principe d'Affrica, dice Giovanni Diacono napoletano,[757] alludendo, com'e' par certo, al medesimo accordo. V'ha luogo dunque a due supposti: o che il principe affricano abbia voluto usar la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl, per togliere le franchigie della colonia, e farla reggere dal primo ministro ch'ei si teneva allato; ovvero che i coloni siano rimasi di sopra in alcun altro scontro, e Ibrahim abbia commesso al primo ministro, che, doma la penisola di Scerîk, traghettasse il mare, e andasse a domar la Sicilia, il che poi non si effettuò. Al secondo supposto dan valore le parole di Giovanni Diacono; talchè Abu-Ali sarebbe soprannome del capo della rivoluzione in Palermo.
La pace, chè tal vocabolo adopran qui i cronisti contro l'uso ordinario degli accordi coi Cristiani, non portava ai Musulmani altro avvantaggio, che di liberar mille prigioni di lor gente. Fu stipolata tra gli ultimi dell'ottocento novantacinque e i primi del novantasei. Le fu posto il termine di quaranta mesi; e la colonia diè statichi da scambiarsi ogni tre mesi, una volta Arabi e una volta Berberi.[758] Tornò dunque a un compenso del riscatto di mille Musulmani col valsente del bottino, schiavi e guasti di ricolte, che i Cristiani avrebbero potuto patire in quattro estati; e gli ostaggi si davano dai Musulmani ai Cristiani, perchè in tal baratto questi pagavan contante, e quelli in credito. Accordo glorioso per quei tre o quattro municipii della schiatta vinta che a mala pena si difendeano, stretti e incalzati in un cantuccio dell'isola; troppo umile pei conquistatori che s'eran lasciati prender tanta gente, sia in Sicilia sia in Calabria, nè si fidavano di liberarla con la spada. Nè minore scandolo era per loro a confessare in faccia ai Politeisti la profonda scissura della colonia, con quello avvicendare degli statichi: Arabi e Berberi, non più fratelli in Islam!
Pongo termine qui alla narrazione del conquisto. Io non ho voluto arrestarmi all'ottocento settantotto alla espugnazione di Siracusa, nè proseguire infino a quella di Taormina nel novecentodue, che sarebbero parute l'una o l'altra epoche più esatte secondo i fatti esteriori. Ma il gioco delle forze politiche, al quale vuolsi risguardare piuttosto che agli accidenti delle guerre, cambiò appunto al tempo della detta pace. Allor fu che il principato bizantino lasciò la Sicilia come spacciata. Allora i pochi municipii cristiani independenti cominciarono ad operare dassè. Allora la colonia musulmana, stendendo la mano a quei generosi avanzi della schiatta vinta, gittossi nella lotta di independenza che darà materia al seguente libro.
CAPITOLO XI.
Travagliandosi per tal modo i Musulmani di Sicilia negli ultimi venticinque anni del nono secolo, la guerra che conduceano in terraferma d'Italia mutò indole e luoghi. Ciò anco venne dalle nuove condizioni dei potentati cristiani. Maturati, siccome abbiamo accennato, i frutti della riforma di Basilio Macedone, l'impero d'Oriente occupava le più vicine parti della penisola, e cercava di attirarsi con le pratiche il papa, e adescare o sforzare gli altri Stati minori della Italia Meridionale, sì che tornassero al nome bizantino. Da un'altra mano, l'Impero Occidentale, smisurata massa ed eterogenea, presto s'era scissa: i varii principi del sangue di Carlomagno, che ne avean preso chi un reame e chi un altro, litigavano tra loro; e s'era spenta con Lodovico secondo, imperatore, ogni virtù di quella schiatta. Allora quei che aspiravano al regno d'Italia ed alla dignità imperiale, non bastando a pigliarsi la corona con le proprie mani, cominciarono ad accattarla dal papa; il quale, mercè la preponderanza del clero, trovava modo a governare i suffragi dei grandi vassalli italiani. Così l'autorità imperiale avvilissi tanto più; la papale crebbe; e non ne migliorò punto la condizione d'Italia.
Perchè il papato, sì efficace a scommettere l'Italia, non ebbe mai potere di unirla, anco volendo; e questo è necessario effetto d'una ambizione senz'armi. Ciò apparve, come tante altre fiate, così al tempo di Giovanni Ottavo (872-882); il quale si accinse a compiere, a profitto della sede romana, i disegni di Lodovico Secondo imperatore contro i Cristiani dell'Italia Meridionale, sotto specie che i Musulmani aiutati da loro infestassero lo Stato della Chiesa. Giovanni si fondava, oltre l'influenza temporale dei vescovi, su le discordie e i timori di quei piccioli Stati e su le forze materiali ch'ei potesse ottener dai due imperatori: da Basilio, favoreggiandolo nel conquisto della Puglia, e accomodando la gran lite della Chiesa Costantinopolitana; e dall'imperatore d'Occidente, in baratto della corona. A lui non mancò ingegno, nè coraggio, nè attività, nè saldo proponimento, nè coscienza larga: fu sempre a cavallo, o in nave; si gittò tra le armi; scomunicò con ambo le mani in Italia; ribenedisse Fozio in Oriente; scrisse volumi di lettere; promesse largo, e attese corto; ingannò; ordì tradimenti; aiutò il vescovo di Napoli a un fratricidio: e pur non conseguì lo intento suo. E tal diffalta gli scrittori ecclesiastici non gli hanno mai perdonato. L'ira è andata sì innanzi, che altri l'accagiona di “prudenza carnale;”[759] come se Giovanni Ottavo fosse stato il solo papa ambizioso: e il cardinal Baronio, con insipida arguzia, scrive che la femminina debolezza di costui desse appicco alla favola della papessa Giovanna.[760] Così lo feriscono, senza volergli far troppo male. Il disegno, del resto, non fallì per timidità di Giovanni Ottavo, ma perchè i feudatarii imperiali dal Tevere in su non avean voglia di ubbidire a un prete; perchè dal Tevere in giù ei trovò tiepidi amici e nemici imperterriti; i quali, minacciati da lui, si strinsero coi Musulmani, e glieli scagliarono addosso.
Il paese, la cui sorte si giocava per tal modo tra l'impero d'Oriente, il papa e i Musulmani, era scompartito in questa guisa. La Calabria e Terra d'Otranto ubbidiano in parte a Costantinopoli, in parte eran tenute dai Musulmani. Da quelle due punte della penisola ai confini dello Stato Ecclesiastico, il principato di Benevento occupava tutto il pendio orientale dell'Apennino. L'occidentale era tenuto a mezzodì dal principato di Salerno, a settentrione da quel di Capua: tra i quali si reggeano validamente, appoggiate in sul mare, le repubbliche di Napoli, Amalfi e Gaeta. In tutto, sei Stati agguerriti, rabbiosi, agognanti ciascuno al danno dell'altro; sospettosi tra loro e de' potentati maggiori. Capua, spiccatasi di recente dal principato di Salerno, confiscata dall'imperatore Lodovico Secondo, era ricaduta nelle mani del vescovo: Landolfo, della famiglia di quei gastaldi o conti che voglian dirsi; uom senza legge nè fede, aborrito dai popoli e sopratutto dai frati; vacillante altresì per le gare di non so quanti nipoti, tutti degni di lui. Uno Stato così fatto, confinando da un lato con le repubbliche, dall'altro coi dominii papali, dovea essere il pomo della discordia.
Stando le cose in questi termini verso l'anno ottocento settantacinque, i Musulmani ricominciarono nell'Italia Meridionale due serie di combattimenti, anzi due guerre al tutto diverse; nell'una delle quali erano assaliti, nell'altra assalitori; nell'una operavano dal golfo di Taranto per difendere dai Bizantini gli avanzi di lor colonie; nell'altra fean base dei golfi di Salerno, Napoli e Gaeta, per depredare tutta la Terra di Lavoro e la Campagna di Roma. Pertanto, tratteremo separatamente i casi di coteste due guerre.
Principiando da quella di Calabria e di Puglia, e' si vede che, poco prima o poco appresso la morte di Lodovico, il navilio musulmano, di Taranto o di Creta, avea già risalito l'Adriatico infino a Grado, e tentatala invano, al ritorno (luglio 875) arse Comacchio. Dalla parte di terra, la colonia di Taranto, rinforzata dalle reliquie dell'esercito di Salerno, occupò gran tratto di Calabria. Preposto intanto al reggimento un Othmân, che il Sultano, al suo tempo, avea bandito di Bari, Othmân riassaltava lo Stato di Benevento. Corsero i Musulmani infino a Bari e a Canne, depredando; ruppero tre fiate le genti di Adelchi; infestarono i contadi di Benevento stessa, Telese, Alife, desolati tante volte nelle passate guerre; e alfine vennero all'accordo col principe di Benevento. Conduceano tal pratica due vecchi compagni di prigionia del Sultano, chiamati dai cronisti Abdelbach ed Annoso; nome certamente musulmano il primo, che va scritto Abd-el-Hakk, e certamente latino il secondo, onde accenna un rinnegato. Adelchi uscì di briga a buon patto, stipolando con costoro di rendere il Sultano ad Othmân; il quale nol ridomandava, credo io, per carità musulmana. Quantunque una cronaca narri i gravi danni che Saudan fece ai Cristiani, libero ch'ei fu e tornato a Taranto, parmi che quivi si parli del nuovo sultano, scambiando, al solito, il nome proprio col titolo; poichè gli annali musulmani portano la morte di Mofareg-ibn-Sâlem, appunto in questo tempo in cui la tradizione cristiana lo dice consegnato ad Othmân.[761]
Ricominciato così il terrore dei Musulmani, e rifatto imperatore Carlo il Calvo, che non poteva attendere all'Italia, Basilio Macedone mandò lo stratego Gregorio con un'armata ad Otranto. Chiamato dai cittadini di Bari, che temeano un assalto di Othmân, Gregorio andò a Bari; la occupò a nome dell'impero bizantino (876); e, per arra di buon governo, pigliò alcuni ottimati, e sì mandolli prigioni a Costantinopoli. Indi i principi di Benevento, Salerno e Capua, ancorchè fossero caldamente sollecitati da Basilio a cooperare contro i Musulmani di Calabria, e pregati con belle parole di religione, di cacciata dei Barbari, di benigna protezione dello Impero, e il resto che ognun sa, pur non se ne mossero. Napoli, che non s'era mai inchinata a Lodovico, nè spiccata dai Musulmani, si strinse ad essi più che mai; tornarono a quell'amistà Amalfi e Gaeta che tentennavan prima; e v'entrò lo stesso principe di Salerno.[762]
La Puglia e la Calabria, su le quali Basilio doveva operare ormai con la forza delle armi e le pratiche del papa, aveano ubbidito, prima della occupazione musulmana, al principato di Benevento. A quanto si può scernere nella oscurità di quel tratto di storia, predominava in quelle provincie lo elemento municipale; ma snervato, ligio, inerte, diverso d'indole dalle repubbliche di Venezia, Roma, Napoli, ch'aveano goduto libertà ormai da tre secoli. Erano comuni piccioli la più parte, o se alcuno se ne notava popoloso, come Bari, non mostrava maggior vigore che i piccini: nè la debolezza individuale dei comuni era compensata dalla unione della provincia, dagli ordini militari, amministrativi o politici, dalla affezione, o almeno abitudine dei sudditi. Tanto più che, comparsi in quelle parti i Musulmani, le aveano corso per trent'anni al par dei Franchi, dei Longobardi di Benevento e dei Longobardi di Salerno; e i municipii aveano piegato il collo a volta a volta dinanzi a chi più temeano. Dopo l'875, dileguato il nome dei Franchi, e rimasi in quelle province i sanguinosi avanzi dei Musulmani che si risentivano, facilissimo s'offriva il conquisto alle armi bizantine.
Si dierono dunque a Basilio parecchie castella della Puglia, come si ritrae dal confuso e alterato racconto della Continuazione di Teofane, compilato su le nuove ch'eran corse per le bocche di tutti a Costantinopoli. Tra cotesti fatti leggiam sublime esempio di virtù rinnovatosi in altri tempi e appo altre nazioni e di tanto più credibile. Narrasi che movendo i Musulmani contro un castello dello Stato di Benevento, e avendo i terrazzani mandato un nunzio a chiedere soccorso a Costantinopoli, quegli, tornando con promesse di Basilio, fu preso dai Musulmani; i quali gli profferian salva la vita, se togliesse ai suoi ogni speranza degli aiuti greci. Quel generoso disse di sì. È addotto dunque da una mano di soldati sotto le mura, fa chiamare i principali cittadini, espone l'ambasciata, e venuto alla risposta di Basilio: “Provvedete ai miei figli,” gridò, “chè a me avanzano pochi istanti di vita. Basilio già manda gli aiuti.” E incontanente il trucidarono i Musulmani; ma levarono l'assedio. Così le castella di questa provincia tennero fermo nella devozione dell'imperatore, conchiude la cronaca di corte;[763] non contando come interruzione tre secoli di dominio longobardo, ch'eran passati.
Nondimeno i Bizantini si travagliarono per cinque anni senza altri segnalati avvantaggi che d'avere allontanato dalla lega musulmana, per procaccio del papa, Salerno e poi Benevento; finchè distrutta l'armata affricana e siciliana su le costiere di Grecia (880), e assaliti in casa loro i coloni di Sicilia, Nasar ripassava in Calabria, come a suo luogo accennammo. Quivi Nasar cooperando coi fanti e i cavalli capitanati dal protovestiario Procopio e da Leone per soprannome Apostippi, acquistò gran tratto della provincia. Ruppe al capo di Stilo un'altra armata testè venuta d'Affrica; cacciò i Musulmani da molte terre occupate;[764] ma tornato Nasar a Costantinopoli, la invidia che Leone portava a Procopio fe' perdere una battaglia contro i Musulmani. Leone con gli avanzi delle genti sbaragliate prese Taranto, e fe' schiavi quanti vi trovò Musulmani o Cristiani.[765] Richiamato indi costui, e punitolo d'avere abbandonato il commilitone sul campo di battaglia,[766] Basilio mandava in Italia uno Stefano Massenzio, con iscelte milizie di Cappadoci e Carsianiti, che si aggiunsero alle legioni di Tracia e Macedonia. Questi avendo pur fallito un colpo sopra Amantea, Basilio, l'anno ottocento ottantacinque, gli surrogò Niceforo Foca; uom d'alto stato e grandissimo animo, avolo dell'omonimo suo che sedè sul trono di Costantinopoli.
Niceforo, recate nuove forze del tema d'Anatolia, e alsì dei valorosi Pauliciani ch'erano avanzati allo sterminio di lor setta in Oriente,[767] ultimò il conquisto. Rotti in molti sanguinosi scontri i Musulmani; strette d'assedio successivamente Amantea e Santa Severina, sforzò quei presidii a dar le castella e andarsene, salva la vita e lo avere, in Palermo e altri luoghi di Sicilia.[768] Riebbe anco Tropea; tutte le Calabrie e una parte della Puglia ridusse al nome imperiale. A capo d'un anno, quando, morto Basilio, il vittorioso capitano era chiamato a difendere le province dell'Asia Minore,[769] Niceforo, partendo dal nostro suolo, lasciovvi gratissima memoria di sè. Erano avvezzi in quelle guerre i soldati bizantini a far mercato dei prigioni, che si spartivano come ogni altra maniera di bottino: prigioni quasi tutti Italiani, abitatori delle terre che per forza avessero ubbidito ai nemici, ovvero rapiti senza pretesto dai lor fratelli in Cristo. Niceforo, volendo far combattere i ribaldi soldati, non avea potuto fin qui prevenire tal misfatto; ma alla partenza il riparò da uom savio e forte. L'esercito, ito a Brindisi per traghettare su l'opposta costiera, si traea dietro le torme di quei miseri, per venderli schiavi in Costantinopoli: nè fiatava Niceforo. Sol comandò che prima dei prigioni si imbarcassero tutti i soldati; e, quando furon su le navi, fe' sciogliere le vele, e fe' bandire ai prigioni, ch'eran liberi. La gratitudine degli Italiani alzò su la spiaggia un tempio dedicato al santo di cui portava il nome quell'eroe;[770] in commemorazione alsì delle vittorie e della umanità mostrata, nel breve tempo ch'ei resse la provincia, trattando bene i sudditi e alleviando i tributi.[771]
Basilio aveva anch'egli dato in Italia un egregio esempio di umanità. Tra i benefattori che dalla povertà e oscurità l'avean fatto salire a fortuna, si notò una ricca donna per nome Danielis, vedova di alcun condottiere slavo stanziato nel Peloponneso; dal che forse ebbe origine il soprannome di figliuol della Slava, col quale gli annali musulmani denotano il Macedone.[772] Venuta a morte la Danielis, colma di onori da Basilio imperatore, ed avendolo fatto erede di sue possessioni nelle quali vivea un grande numero di schiavi, Basilio ne affrancava tremila; e mandavali a ripopolare alcune terre di Puglia e di Calabria, desolate nella guerra dei Musulmani.[773] Ma cotesti beneficii erano rimedio passaggiero che finiva con la vita dei benefattori; e quei che loro succedeano ricadean sempre nella negligenza e soprusi del Basso Impero; e fean maledire ai popoli italiani la dominazione novella, al par delle antiche e delle stesse correrie e tirannidi dei Musulmani. Perciò gli scrittori italiani di quel tempo, ritraendo le opinioni di lor nazione, parlan dei Greci con tanto livore. Erchemperto li dice somiglianti ai bruti nelle usanze, e bruti al tutto nell'animo; Cristiani di nome; peggiori di costumi che gli Agareni; masnadieri, che andavano rubando i miseri abitatori, per tenerli come schiavi e schiave, farne traffico coi Saraceni, o mandarli qua e là a vendere in stranie terre.[774] La Cronica di San Benedetto, con parole non meno aspre, tocca la insolenza loro, le continue violenze; le donne rapite in faccia ai mariti, il rispondere a schiaffi e nerbate a chi si lagnasse della ingiuria.[775] Alla frequenza delle offese private si aggiugneano la rapacità dei governanti, il peculato, le tasse aggravate, le angherie col pretesto di armamenti, e mille altri soprusi dei quali ci avverrà far menzione. Indi si comprende perchè, nelle Calabrie e nelle parti orientali della Puglia, la dominazione bizantina sia stata sempre sì precaria, e sia caduta al primo crollo che le diedero i Normanni. Lo interesse comune poi dei principi e dei popoli le vietò di allignare nelle altre province dell'odierno reame di Napoli, delle quali or tratteremo, tornando indietro nell'ordine dei tempi.
S'accese quivi la guerra per le provocazioni di Giovanni Ottavo, come sopra si accennò. Adriano, un secolo innanzi, s'era provato a stender la mano sopra Napoli e tutto lo Stato di Benevento.[776] Giovanni ridestò la pretensione pontificale sopra Capua, quand'ei mercanteggiò la corona imperiale a Carlo il Calvo; e Carlo, al quale quella città nulla costava, ne rinnovò la concessione.[777] Che il papa l'abbia richiesto a fin di usarla e non di riporre un'altra pergamena negli archivii, lo provano direttamente gli atti di signoria feudale esercitati pochi anni appresso: le scritture pubbliche, cioè, intitolate, e la moneta battuta a Capua in suo nome;[778] la repubblica di Gaeta, fatta feudo del conte di Capua, quand'ella si calò all'autorità temporale della Santa Sede. Per arrivare allo scopo, Giovanni usò le divisioni interiori degli Stati meridionali e le nimistà tra l'uno e l'altro; onde avvenne che accostandosi a lui una parte, la parte avversa si gittò coi Musulmani, e aiutolli a loro scorrerie contro il papa. E ciò notaron bene i contemporanei; leggendosi in Erchemperto che Bertario, abate di Monte Cassino, e il vescovo di Teano, si faceano ad ammonire Giovanni Ottavo che non soffiasse nelle discordie civili di Capua, poichè il fuoco di quelle potrebbe arrivare un dì infino a Roma.[779] Le quali parole Erchemperto riferisce al tempo che si bipartì la diocesi capuana, cioè all'ottocento ottantuno; ma s'adattano piuttosto all'ottocento settantacinque, quando il fuoco stava per appigliarsi.
Tali essendo le disposizioni degli animi verso il tempo che Carlo il Calvo prese la corona a Roma, si venne alle armi, com'e' pare, nella state del settantasei. Sia che qualche corsale musulmano, riparando nei porti di Napoli, Amalfi e Gaeta, fossene uscito a far ladronecci alla volta d'Ostia;[780] sia che quelle repubbliche e il principato di Salerno avessero soltanto fermato la lega coi Musulmani, il papa con l'uno o l'altro pretesto volle far atto d'autorità, ingiungendo a quegli Stati di sciorre il patto: che tornava a dire disarmarsi, mentre egli da un lato e Basilio Macedone dall'altro si apprestavano a spogliarli. Risposero con aperti atti di ostilità. L'origine della guerra non si può comprendere in altro modo; poichè assurdo sarebbe a pensare che quegli Stati fossero entrati in lega sì pericolosa per mera cupidigia di preda. Assurdo alsì che l'avessero fatto per paura dei Musulmani, i quali appena bastavano a difendere sè stessi in Calabria, non che sforzare altrui, a mezza costiera dal Tirreno.
Dalle querele del papa si ritrae ch'essi risalivano in barche il Tevere; indi a piè o a cavallo correano la odierna legazione di Velletri; osavano mostrarsi alcuna volta sotto le mura di Roma; varcato il Teverone, depredavano la Sabina. “Corron la terra come locuste, scrivea Giovanni, ed a narrare i guasti loro sarebbero mestieri tante lingue quante foglie hanno gli alberi di questi paesi. Le campagne son fatte deserti, albergo di belve; rovinate le chiese; uccisi o imprigionati i sacerdoti; menate in cattività le suore; abbandonate le ville e castella; rifuggiti i miseri abitatori a Roma; e sì la ingombrano, che i monasteri della città non bastano a nudrirli. Il senato ha dato fondo al suo avere; io non dormo nè mangio per la sollecitudine: — e tra non guari,” aggiunse egli in una lettera del nove settembre ottocento settantasei, “tra non guari, verranno ad assalirci in Roma; poichè stanno armando cento legni e quindici navi da traghettare cavalli.” Così Giovanni Ottavo lamentavasi a Bosone vicario imperiale in Italia, poi a Carlo il Calvo, alla imperatrice, ai vescovi possenti in corte, tra il primo di settembre ottocento settantasei e la fine di maggio del settantasette, per messaggi e continue lettere, sì poco svariate nella narrazione, sì monotone nelle metafore, che sembrano stampate sopra un solo studiato modello.[781] Diversa è bensì una epistola che il papa indirizzava a Gregorio, capitano bizantino in Italia, a' diciassette aprile del settantasette, che è a dire nel bel mezzo di due lamentazioni della forma che accennai, mandate a corte di Carlo il Calvo, il primo marzo e il venticinque maggio. Nella epistola a Gregorio, il papa disinvolto il pregava che mandasse dieci salandre nel porto d'Ostia, “per tenere a segno certi ladroncelli agareni, che occultamente venivano a rubacchiare lo Stato della Chiesa, non potendo, sì com'era noto a Gregorio, depredare apertamente.” Così Giovanni Ottavo ci insegna a far la tara a quegli spaventevoli racconti composti ad uso dei devoti di Francia e Allemagna. Parlando ai capitani di Basilio Macedone, ch'eran bizantini e vicini, non si potean dire tante bugie.
D'altronde, l'intento del papa sopra gli uni e sopra gli altri era diverso. Dai Bizantini non altro richiedeva che esser difeso contro i corsali; e maggiori forze gli sarebbero state a noia, come trasparisce dalle fredde e forzate parole che aggiugneva alla lettera citata, per mostrare a Gregorio di rallegrarsi che Basilio imperatore, figliuol suo carissimo, intendesse mandare un altro esercito e un'altra armata nello Stato di Benevento. Ai Franchi, per contrario, domandava eserciti e poi eserciti, e che lo imperatore venisse in persona a liberarlo, non solo dagli Agareni, figli di concubina, ma sì dai Cristiani, falsi figliuoli di Sara, i quali lo molestavan al pari e peggio; ciò che in lingua volgare significava bramar che i feudatarii dell'Italia di sopra, e un po' anco di Francia, trottassero verso il Garigliano e il Volturno, per allargare lo Stato della Chiesa. Ma Carlo il Calvo non potè e non volle. Gli diè in tutto le milizie del ducato di Spoleto, condotte dai conti Lamberto e Guido, vicini del papa, e però nemici. Con esso loro, nei primi di novembre ottocento settantasei, mosse Giovanni alla volta di Capua e Napoli; pretendendo venire a sciogliere l'empia lega.[782] Nè tardò a tirar a sè il principe di Salerno, il quale prestandogli mano sperava ingrandirsi a scapito degli altri Stati.
Sergio duca di Napoli tentennò, adescato dal papa con belle parole e con far vescovo della città Atanasio, fratello del duca; ma poi si rassodò nell'amistà musulmana, confortandolo il principe di Benevento, e, quel che più è, Lamberto di Spoleto ch'era venuto a Napoli come sgherro del papa. Giovanni dunque, non potendo sforzare, scomunicò Sergio; gli lasciò in seno Atanasio, serpente velenoso; e pien di dispetto se ne tornò a Roma. Dopo le quali pratiche infruttuose la guerra incrudì. Napoli assaliva il principe di Salerno, mancatore alla lega. Questi, per mostrare zelo ai novelli amici, faceva uccidere un buon numero di Musulmani; e poi, cadutigli nelle mani venticinque cavalieri napoletani, lor troncò la testa, dice Erchemperto, per espresso volere del papa.[783]
Nondimeno, nè la tiepidezza di Carlo il Calvo, nè la nimistà del conte di Spoleto, nè la pertinacia delle repubbliche, non spuntavano Giovanni Ottavo dai suoi proponimenti. Quei cittadini, collegati per necessità politica col nemico della Fede, eran pure cristiani, cattolici e superstiziosi quanto apparteneasi a' loro tempi; e, se nel decimonono secolo il papa pontefice tien su il papa re, non fia maraviglia che nel secol nono i Napoletani, gli Amalfitani, i Gaetani oscillassero tra due paure: fossero disposti talvolta a lasciar la terra al successore di San Pietro, purchè lor procacciasse un cantuccio su in cielo. Indi prestarono ascolto a Giovanni Ottavo, nimichevole e ambizioso e perfido quanto lo conosceano. Indi egli nella state del settantasette ripigliò agevolmente le negoziazioni: fe' lampeggiare agli occhi dell'uno nuove folgori di scomuniche, agli occhi dell'altro l'oro d'uno stipendio; ad altri disse, mettendo da canto ogni pudore, ch'ei gli farebbe o tutto il bene o tutto il male ch'ei sapesse: mai capo di parte, fiero ed astuto, non operò con maggiore veemenza che Giovanni Ottavo in questo tempo. Tentando l'Italia settentrionale, invitò a un sinodo a Ravenna i vescovi e signori del reame, per ovviare, diceva egli, ai pericoli della Chiesa lacerata dagli Infedeli e dai mali Cristiani; ma non ostanti le minacciate scomuniche, niuno andò a questa dieta politica, ove il papa volea prendere il luogo dello imperatore: sì ch'egli fu necessitato a differirla, e poi a trattarvi soltanto di disciplina ecclesiastica.[784] Nell'Italia meridionale le pratiche, più vive, aiutate dalle intestine discordie, e, com'ei parmi, dalla riputazione delle armi bizantine, portarono il papa accosto assai al suo intento. Quasi protettore o presidente di quel piccioli Stati, tra marzo e aprile del settantasette, ordinava che il vescovo conte di Capua, e i reggitori di Gaeta, Napoli e Amalfi si adunassero a Gaeta, preseduti da due cardinali legati, per trattare lo scioglimento del patto coi Musulmani. Differito il congresso a Traietto, andovvi il papa in persona col principe di Salerno, del mese di luglio: e il risultamento fu un trattato del papa con Amalfi; e una congiura a Napoli.[785]
Il trattato portò che gli Amalfitani, rinunziando all'amistà dei Napoletani e Musulmani, servissero il papa con forze navali; guardassero le costiere da Traietto a Civitavecchia, spesati da lui di diecimila mancusi d'argento all'anno.[786] La congiura a Napoli scoppiò sul fin d'ottobre o principio di novembre. Atanasio vescovo prese il proprio fratello Sergio; si fe' duca in luogo di lui, e mandollo al Santo Padre a Roma; ove Sergio fu accecato, e poco appresso morì in prigione. Il papa, complice ed istigatore, liberalmente volle pagare ad Atanasio le spese della congiura; e, non trovandosi in pronto tutta la moneta, per iscritto gli si dichiarò debitore del rimanente, ch'erano mille e quattrocento mancusi. Con ciò, in linguaggio scritturale, solennemente ei lodava Atanasio del coraggio con che s'era fatto amputare un membro cancrenito del proprio corpo; dell'ardire con che avea liberato il mondo da un nuovo Oloferne, tiranno del popolo e persecutore di Santa Chiesa.[787]
Tra così fatti trionfi del vicario di Cristo, morto Carlo il Calvo (ottobre 877), ed eletto re d'Italia Carlomanno, il papa si messe a fargli patti per la corona imperiale, e la offriva anco a Lodovico il Balbo, succeduto nel regno di Francia: con che tiravasi addosso Adalberto, marchese di Toscana, e Lamberto, conte di Spoleto, fautori di Carlomanno. Lamberto veniva a insultare il papa a Roma; a suscitare i suoi nemici; e tra le altre cose, Giovanni lo accusò, di febbraio ottocento settantotto, d'aver mandato messaggi e doni a Taranto, per farne venire “falangi di Agareni.” Strigatosi poscia da lui e scomunicatolo, se n'andò in Francia a mercanteggiare dell'impero con altri due o tre principi.[788] E pria di questo, come ei pare, nel mese di aprile del settantotto, fe' tregua coi Musulmani, pagando taglia di venticinquemila mancusi di argento.[789] Allora le repubbliche di Napoli e di Amalfi, non volendo esser più papaline del papa, tornarono anch'esse alla pace coi Musulmani, confacente ai proprii interessi commerciali e politici. Ebbe fine così, con meritata vergogna di Giovanni, il primo periodo della guerra.
Il biasimo del secondo periodo va diviso tra Giovanni Ottavo e Atanasio vescovo di Napoli, che ambì alla sua volta di allargare i confini di quella repubblica. Trapassato (12 marzo 879) il vescovo di Capua, i feudi della contea erano stati divisi tra quattro nipoti di lui, dei quali uno ebbe anco il titolo di conte di Capua;[790] e, quasi ciò non bastasse ad alimentare la discordia, sursero dalla medesima famiglia due vescovi, tra i quali indi a poco si spartì la diocesi. Gli sciagurati cugini, volendo spogliare l'un l'altro, chiamarono i vicini, Salerno, Benevento e Napoli; Napoli fe' entrar nel gioco i Musulmani; e Giovanni Ottavo vi saltò in mezzo di gran volontà, sendo tornato in Italia senza ultimare la scelta dello Imperatore. Andato in persona a Capua, colse il destro di esercitare la pretesa signoria, con favorire Pandonolfo, conte di nome, il quale, per divenirlo di fatto, assentiva a dirsi vassallo della Santa Sede.[791] Così ridestaronsi le ire e i sospetti delle tre repubbliche contro il papa. Chiudendo gli occhi quei fieri marinai, i Musulmani, che di marzo settantanove avean preso a infestare i dominii di Pandonolfo,[792] in maggio e in giugno si mostravano nello Stato Romano; o almeno così scrivea papa Giovanni a Carlo il Grosso, a Carlomanno e a Lodovico il Balbo, sollecitando invano or l'uno or l'altro a venire con gli eserciti a Roma.[793] Con ciò ripigliava sue pratiche appo le tre repubbliche, per isforzarle a disdir di nuovo il patto coi Musulmani. Ad Amalfi anco ridomandava il denaro fornito nel settantasette; il quale non ottenendo, scomunicava la città, del mese di ottobre:[794] e perchè tal'arte non valse, tornando alle lusinghe, offriva di pagare e fin d'accrescere lo stipendio, e francar di gabelle i mercatanti amalfitani che venissero a Ostia.[795] Gaeta, che dopo alquanta resistenza ubbidì, n'ebbe in merito la perdita di sue libertà, e la rovina del commercio; volendo il papa che riconoscesse come signore il conte di Capua, supposto gran vassallo della Santa Sede; e facendosi il conte a guastare il territorio e offendere i cittadini, perchè riluttavano al nuovo giogo.[796] Napoli diè maggior travaglio, come assai più forte, e governata da Atanasio, che ne sapea quanto il papa. Schivati i pericolosi abboccamenti a che questi il volea tirare, Atanasio temporeggiò con messaggi (aprile 879), e fin si fe' ringraziar del suo buon volere.[797] Il papa poi, accortosi dello errore, venne alle armi corte: scrisse al vescovo che gli farebbe provare a un tempo la spada invisibile e la spada visibile.[798] Infatti, ei promosse o usò l'andata di un'armata bizantina nel golfo di Napoli; la quale vi ruppe i Musulmani in ottobre o novembre ottocento settantanove. Non guari dopo (19 novembre 879) il papa invitava i capitani ad andare a pigliarsi a Roma ringraziamenti e benedizioni, così leggiamo nella epistola, e pregavali intanto di mandare dromoni verso Ostia.[799] E si strinse vieppiù con Basilio, assentendo, il medesimo anno, al concilio di Costantinopoli che riconobbe Fozio patriarca.[800] Indi il pericolo della repubblica di Napoli evidentemente si aggravò.
Ciò fu cagione ad accrescere le forze dei Musulmani in quelle parti. In luogo dei corsali che ad ora ad ora entravano nel porto di Napoli, Atanasio chiamò un'intera oste di Musulmani, dandole forse le spese del viaggio, certamente stanza e occasione di far preda. Surse per tal modo tra le mura della città e il Sebeto (880) un campo musulmano, vero ribât o kairewân, dal quale uscian le gualdane addosso ai nemici del vescovo di Napoli; nè costui poteva vietare che spogliassero anco gli amici. Guastarono lo Stato di Capua, i confini di quei di Salerno, Benevento, Spoleto[801] e la campagna di Roma: monasteri, chiese, città, borghi, villaggi, monti, colline, isole, dice Erchemperto, furono saccheggiate a un paro.[802] Sovente in loro correrie i Musulmani faceano stanza ad alcun luogo forte, ch'indi divenia novello centro d'infestagione. Così poneansi (880) alla Cetara, luogo marittimo tra Salerno e Amalfi, e sforzavano i Salernitani ad uno accordo; i quali poi a tradimento li assalirono, credendoli sprovveduti: ma i Musulmani uscirono alla zuffa, recando nella prima fila in punta d'una lancia il trattato violato dai nemici, e rupperli con molta strage; dettero il guasto al paese, e fino osarono porre l'assedio a Salerno, donde poi furono cacciati per avere pochissime forze.[803] Così anche uno stuolo si afforzò a Sepiano tra Boiano e Telese: contro il quale invano mosse Guido Terzo, novello duca di Spoleto e di Camerino; sì che fu costretto a far pace coi Musulmani, dati reciprocamente statichi per la osservanza.[804] Nel medesimo tempo, altra schiera musulmana, con milizie di Napoli e Gaeta, andava ad assalire Castel Pilano nella contea di Capua, e n'era respinta. L'anno appresso (881), Musulmani e Napoletani e partigiani di Pandonolfo, chè sovente scambiavan parte quegli arrabbiati cugini di Capua e gli amici d'oggi diveniano nemici domani, mossero insieme alla volta di Capua; posero l'assedio all'anfiteatro, che si guardava come fortezza. Nello stesso anno ottocento ottantuno, il papa andò di nuovo a Capua, a comporre o raccendere le liti;[805] e, partendo in due la diocesi, consagrò vescovo un Landolfo, fratello di Pandonolfo, nella chiesa di San Pietro, che di lì a poco fu arsa dai Musulmani mandativi da Atanasio.[806] E con ciò porrò fine alle cose di Capua, ove tutti i piccoli Stati dei contorni, tutti i potentati vicini o lontani, feudatarii franchi di Spoleto, condottieri bizantini, Musulmani di Sicilia, vescovi, conti, pretendenti e il papa con essi, si avvolsero per tanti anni in un brutto laberinto di violenze e perfidie.
In questo mezzo, il papa, vergognando che il vescovo di Napoli lo avesse tenuto a bada per due anni, adunato un sinodo a Roma, del mese di marzo ottocento ottantuno, pronunziò contro Atanasio l'anatema, preludio, come ognun sa, della scomunica. Notevol è in quest'atto che il papa affermava avere profferto danari ad Atanasio, perchè spezzasse il patto coi Musulmani; e aver quegli amato meglio la parte che gli davano del bottino.[807] Ma il vescovo, niente sbigottito, spacciati suoi segretarii in Sicilia, fe' venire più forte stuolo di Musulmani; i quali con Sichaimo loro re, dice Erchemperto, forse Soheim condottiero di tribù o masnada, si accamparono alle falde occidentali del Vesuvio. La tradizione serbovvi memoria di loro per lunghissimo tempo; e n'avea ben donde: poichè, posando dalle scorrerie lontane, solean prendere sollazzo nei contorni, sì che non vi lasciarono armi nè cavalli nè giovanette, che non portassero al campo.[808]
La quale insolenza, non meno che gli anatemi del papa, scrive l'autore contemporaneo, sospinse Atanasio a disfarsi di cotesti ausiliarii.[809] Giovanni Ottavo, che già vedea i Musulmani presso Roma, o il temeva,[810] incalzò sue minacce, proponendo ad Atanasio, in prezzo della benedizione, ch'ei facesse scannare a suo potere i gregarii musulmani, pigliare a tradimento certi condottieri, di cui dava i nomi, e consegnarli ai legati pontificii, i quali avrebbero cura di mandarli a Roma.[811] Il vescovo di Napoli, avvezzo alle perfidie, assentì. Indettatosi con Salerno, Capua e altre città, con tutte le forze che poterono adunare, dettero addosso improvvisamente ai Musulmani; li cacciarono del golfo di Napoli; non però da Agropoli presso Salerno, ove que' valorosi, difendendosi, si ridussero.[812] Seguía questo evento, com'ei pare, nell'autunno dell'ottocento ottantadue. Giovanni avealo procacciato con tutte le forze dell'animo suo; e, si può dire, stando sempre con le armi alla mano contro i Musulmani, com'ei figuratamente scrivea ad Alfonso Terzo, re delle Asturie, richiedendogli una torma di cavalieri moreschi, probabilmente apostati dell'islamismo, detti con voce arabica Fâres.[813] Ma quand'ebbe conseguito lo scopo a Napoli e potea correre innanzi al compimento degli altri disegni, il papa morì avvelenato da' suoi famigliari, il quindici dicembre dell'ottantadue. Atanasio, suo discepolo e rivale nelle arti di regno, gli sopravvisse sedici anni: si provò in vece del papa ad assoggettare lo Stato di Capua; fallì in questo come Giovanni Ottavo; e alfine, dopo tanti misfatti, trapassò, cred'io, in odore di santità, ricordandosi di lui che a forza di digiuni ed esorcismi sgomberasse il territorio di Napoli dalle cavallette.[814]
Durarono alsì oltre la vita di Giovanni Ottavo i mali ch'egli avea suscitato. L'attentato suo contro la libertà di Gaeta avea spinto Docibile, primo magistrato della repubblica, a richiedere di aiuto i Musulmani; i quali venendo lungo la marina infino al lago di Fondi, s'eran accampati su i colli Formiani, come li chiama Leone d'Ostia, presso Itri; donde minacciavano il territorio di Roma. Sbigottito a ciò, Giovanni Ottavo, mostrando di pentirsi, aveva accarezzato i cittadini di Gaeta; pregatoli a disdire l'accordo: e i semplici Gaetini aveano ubbidito, affrontando doppio pericolo; l'ambizione cioè del papa, e l'ira degli ingiuriati Musulmani. La morte di Giovanni li campò del primo. Nella guerra contro i Musulmani patirono uccisioni e cattività; e alfine furono sforzati a rifare lo accordo, concedendo al nemico di stanziare un po' più discosto dagli Stati papali, su certi colli che s'innalzano non lungi da Traietto dalla parte del Garigliano, e portavano lo stesso nome della riviera. Questa fu l'origine della temuta colonia musulmana del Garigliano.[815]
La quale per più di trent'anni, flagello sopra flagello, afflisse la Terra di Lavoro, battuta anco dalle guerre civili: sì che il suolo abbandonato dagli agricoltori, divenne foresta di pruni e sterpi, al dire di Erchemperto, che il vedea con gli occhi proprii.[816] Dei particolari di tanto strazio altro non ci si narra che la distruzione di ricchi monasteri; perchè i frati cronisti poco si curavano del rimanente; perchè le proprietà laiche erano state desolate già assai prima dai Cristiani; e perchè i monasteri aveano possessioni più vaste che niun signore. Quello di San Vincenzo in Volturno, così detto dal sito presso la scaturigine del fiume, in diocesi d'Isernia, fu assalito dai Musulmani, com'ei pare, l'ottocento ottantadue, mentre stanziavano tuttavia nel golfo di Napoli; e il saccheggiarono e arsero, con uccisione, dicesi, di parecchie centinaia di frati, i quali in parte morirono con le armi alla mano.[817] Più lamentevole nei ricordi della civiltà il fato del monastero di Monte Cassino: celebre per la santità dello istitutore, l'antichità della fondazione, le sterminate ricchezze, l'autorità feudale che esercitò, la pietà, la prudenza, e, secondo i tempi, anco la dottrina dei frati suoi, ai quali si debbono croniche e biografie del medio evo, ed esemplari di molti scrittori dell'antichità. Al par che il monastero del Volturno, quel di Monte Cassino era stato più volte minacciato e taglieggiato nella prima guerra dei Musulmani. Venne adesso dal Garigliano la feroce masnada, che il disertò, l'anno ottocento ottantatrè, in due assalti; l'uno di settembre, l'altro di novembre: e furon arsi e rovinati gli edifizii, e scannato su l'altare lo abate Bertario, dicono le croniche del duodecimo secolo, ancorchè i contemporanei non ne facciano motto. Il monastero tosto rinacque dalle rovine; più splendido, più ricco, più orgoglioso; cinto di fortificazioni; sede di un abate feudatario o sovrano; capitale di uno Stato confinante col pontificio.[818] Tra queste ed altre simili devastazioni passarono tre anni fino all'ottantacinque. Intanto, tornato il vescovo di Napoli e anco il principe di Salerno a richiedere i Musulmani, costoro, allettati dal bottino, dimenticavano le passate tradigioni: una schiera, seguendo Atanasio e Guaiferio, stette a campo all'anfiteatro di Capua. Poscia, venuto un principe di schiatta aghlabita a domandare rinforzi per le colonie musulmane di Calabria, trasse gran gente di Agropoli e di Garigliano, e condusseli a Santa Severina,[819] ove Niceforo Foca ne fe' macello, come abbiam detto.
D'allora in poi quei due campi, scemati di possanza e di riputazione, recarono minor male al paese. Atanasio ora spingea qualche schiera di Agropoli a danno del principe di Salerno che si mantenne con aiuti bizantini;[820] or mandava i Musulmani a osteggiare Capua.[821] La repubblica di Gaeta ne ritenne ai suoi soldi cencinquanta; dei quali la più parte, andata con temeraria fazione a Teano contro duemila e cinquecento uomini capitanati da Landone,[822] fu tagliata a pezzi, campando sol cinque persone.[823] Guido duca di Spoleto assalì una volta il campo di Garigliano; ruppe una schiera ch'erane uscita a combattere;[824] poi, congiunto ad Atenolfo,[825] marciando da Spoleto a Capua, trovò alle Forche Caudine un Arran, fierissimo condottiero musulmano, con trecento soldati, e tutti li passò al taglio della spada (887). Morto Carlo il Calvo, e andato Guido in Lombardia (888), i Musulmani alla lor volta saccheggiavano il Ducato di Spoleto.[826] Un'altra schiera, superati in uno scontro i Capuani, difilata ne andò sopra il monastero di San Martino in Marsico; ma trovò l'abate e i monaci in arme e a cavallo; fu respinta da loro, e poi sterminata dalle milizie di Atenolfo e Landolfo.[827] Pochi anni appresso, veggiamo i Musulmani, padroni di Teano, respingere lo stratego bizantino Teofilatto, venuto da Bari.[828] Veggiamo un'altra gualdana del Garigliano assediare il castel di Rocca Monte presso Nocera; e già ridurlo, per difetto di acque, quando una pioggia rinfrancò il presidio, il dì di San Vito, non sappiam di quale anno.[829] L'ottocento ottantotto, Napoletani, Bizantini, e Musulmani erano spinti di nuovo da Atanasio sopra Capua: contro i quali uscito Atenolfo con le forze ausiliari di Aione principe di Benevento e con un'altra schiera di Musulmani, si combattè a Santo Carzio in quel d'Aversa; tra i Cristiani soli bensì, poichè i seguaci di Maometto dall'una e dall'altra parte si stettero.[830] Non andò guari che fatta una pace da Atanasio con Capua, uniti insieme tutt'i condottieri musulmani assalivano a un tempo gli Stati di Napoli e di Salerno; uno stuolo loro, rotto da Guaiferio presso Nocera, parte mettea giù le armi, parte si disperdea tra le selve; un altro insieme coi Capuani andava a dare il guasto al territorio di Napoli.[831] Chiamati poscia da Aione, che s'era spiccato dai Greci, andarono con esso a far levare l'assedio di Bari, ma furono rotti dal patrizio Costantino.[832]
Dalle quali fazioni è manifesta la condizione dei Musulmani in quelle parti: masnade di rubatori, che faceano, quando occorrea, da compagnie di ventura; e, quando stringeva il pericolo, s'annidavano ad Agropoli e al Garigliano. Par che tra loro non mancasse chi si diè al traffico, o esercitò due mestieri ad un tempo, ladrone e mercatante; ritraendosi come in Salerno una volta si sospettò che i Musulmani accorsi in grandissimo numero sotto specie di pace, disegnassero qualche mal tiro; se non che furono vegliati, e poi vietato loro di entrare con armi in città.[833] Tra così fatti commercii e l'usare con le milizie di quegli Stati cristiani, con le quali andavano in guerra e per conseguenza spartivano il bottino, i Musulmani si addimesticarono nel paese. Quel rifiuto d'Affrica e di Sicilia, a dir vero, non avea parti d'incivilimento da comunicare altrui; pure arrecava qualche usanza; promovea, poco o molto, la influenza arabica che si vide a Salerno e altrove nel decimo e undecimo secolo. Spicciolati, menomati, assuefatti ad una certa dipendenza dai Cristiani, e, sopra tutto, privi di aiuti della madre patria, rimaneano come piaga inveterata ch'uom più non pensi a curare; nè alcuno li potea temere conquistatori, fino al passaggio di Ibrahîm-ibn-Ahmed, del quale innanzi si dirà.
CAPITOLO XII.
Prendendo a studiare il popolo vinto nell'isola, la prima cosa convien tornare alla memoria i modi e la progressione del conquisto. Delle terre di Sicilia altre abbiam visto prese di viva forza, ovvero a patti che guarentissero le persone e gli averi; altre sottomettersi a tributo; altre vittoriosamente resistere. Le prime e le seconde di raro furon distrutte; talvolta i Musulmani vi posero colonie; più sovente le tennero suddite, abbattute pria le fortificazioni e presi ostaggi; nè in tutte lasciaron presidii. Non presidii nè colonie ebbero le città tributarie. Le independenti durarono nell'antico esser loro; aggiuntovi i pericoli, la gloria e la febbrile attività della guerra.
Quanto al cammino dei conquistatori, si è potuto notare che s'avanzarono quasi sempre da ponente a levante. Combattuto qua e là con varia fortuna per quattro anni (827-831) e ferme poi le stanze in Palermo, s'insignorirono entro un decennio (831-841) del Val di Mazara: regione piana anzi che no, abbondante di pascoli e terre da seminato; nella quale fondarono lor prime colonie e trasportarono gli schiavi che coltivassero i poderi occupati. Nei diciott'anni susseguenti (841-859) fu domo con più duro contrasto il Val di Noto: terreno feracissimo, ondulato, sparso di men alti monti e men vaste pianure che il Val di Mazara; nè par che i Musulmani prendessero a soggiornarvi finchè Siracusa tenne il fermo. Repressa intanto la sollevazione cristiana dell'ottocento sessanta, che fu comune al Val di Mazara e al Val di Noto, i vincitori si spinsero in Val Demone: provincia formata dalla catena degli Apennini e dall'Etna; e però tutta valli e aspre montagne, coperta d'alberi da bosco e da giardino, e difendevole assai. In Val Demone, invero, aveano occupato Messina ed alcun'altra città marittima; pure, entro sessant'anni (843-902) non arrivarono a spuntar dalla difesa le popolazioni cristiane ridotte in un triangolo, il cui vertice toccava Catania e la base stendeasi dai monti sopra Messina infino a Caronia, com'io credo.[834]
Ho seguito fin qui la divisione territoriale della Sicilia in tre province, che chiamavansi Valli, di Mazara, Demone e Noto; la quale durò, con qualche mutamento, infino al mille ottocento diciotto, e la origine sua si riferisce d'ordinario ai Musulmani. Cotesta opinione manca di prove; poichè i diplomi e le cronache dei primi tempi normanni, quando l'azienda pubblica ritenea quasi tutte le forme del governo precedente, fanno menzione del solo Val Demone.[835] I ricordi del Val di Mazara e del Val di Noto non sono nè sì antichi nè sì precisi.[836] Nondimeno io accetto il pensamento comune, parendomi la divisione in tre province ordine antico che tornasse su, dopo qualche innovazione temporanea; e riflettendo inoltre che i conquistatori arabi erano necessitati a tripartire l'isola. Volendo giovarsi degli oficii dell'azienda bizantina per la riscossione del tributo fondiario, trovavano le due provincie, Lilibetana e Siracusana, divise dallo Imera Meridionale, ossia fiume Salso; ma com'eglino non possedeano per intero la provincia Siracusana, così doveano distinguere la parte che rimaneva ai nemici, ch'era appunto il Val Demone, dalla parte musulmana che giaceva a mezzodì e chiamossi Val di Noto, e da un po' di territorio a ponente il quale confuso con la provincia Lilibetana si addimandò Val di Mazara. Secondo tal supposto lo scompartimento in tre province tornerebbe alla seconda metà del nono secolo.[837]
In quell'epoca si potrebbe trovare alsì la ragione dei nuovi nomi delle tre province; delle quali la prima e l'ultima li presero, com'è evidente, da città. La provincia Lilibetana andò chiamata forse di Mazara, per esser questa la città più vicina al Lilibeo,[838] non ristorato per anco col nome di Porto di Ali ( Marsâ-Alî, Marsala); ovvero perchè sedesse a Mazara il diwân dei beneficii militari, posto fuori dalle città di Palermo e di Girgenti ch'erano circondate di poderi allodiali. La provincia Siracusana potea ben prendere il nome da Noto che vi primeggiava, giacendo Siracusa in rovine, nè sendo risorta da quelle innanzi il decimo secolo. Quanto al Val Demone, l'etimologia si è riferita ai boschi ( Vallis Nemorum ); si è riferita ai demonii dell'Etna, tenuto spiraglio d'inferno ( Vallis Dæmonum ); altri più saviamente l'ha tratto da un forte castello, ricordato nelle memorie del nono secolo e abbandonato di certo nel duodecimo. Sembrami più probabile che i nomi della provincia e del castello fossero nati insieme dall'appellazione presa per avventura dagli abitatori di tutta quella regione: Perduranti, cioè, o Permanenti, nella fede, si aggiunga dell'impero bizantino. Perocchè un cronista greco del nono secolo, trattando delle città di Puglia rimase sotto il dominio di Costantinopoli, adopera il verbo analogo a così fatta voce;[839] e una delle varianti con che questa ci è pervenuta è appunto Tondemenon che si riferisce, senza dubbio, non al territorio ma agli abitatori.[840] La denominazione di valle potrebbe essere arabica al par che latina;[841] nel secondo dei quali casi ben potea convenire a un territorio compreso nella vallata tra gli Apennini e l'Etna; nè il nome generico latino o arabico unito a una appellazione greca, farebbe maraviglia nella Sicilia di quei tempi.[842]
I Cristiani ch'erano tuttavia la maggior parte della popolazione dell'isola, viveano in quattro condizioni diverse, cioè, indipendenti, tributarii, vassalli e schiavi; le quali partitamente prenderemo ad esaminare.
Le popolazioni independenti dai Musulmani chiuse nelle proprie mura e obbedienti, più o meno, all'impero bizantino, riteneano i magistrati e gli ordini anteriori al conquisto. Pure, nell'ultima metà del nono secolo, forza era che seguisse tra loro una vicenda analoga alla restaurazione dei comuni nell'Italia di mezzo dopo il conquisto longobardo. Non potendo l'impero porre presidii per ogni luogo dell'isola, dovea tollerare, anzi procacciare che le terre forti per sito o per numero di cittadini si difendessero dassè, come le città italiane del settimo secolo; il che inevitabilmente accresceva autorità e baldanza all'aristocrazia della curia, base dei corpi municipali. Avvezzi ormai a combattere o patteggiare coi Musulmani; a cospirare col governo bizantino quando talvolta fossero stati soggiogati dal nemico; ad ordinare mosse militari, di accordo coi capitani imperiali di Castrogiovanni o di Siracusa, le città siciliane par che a poco a poco prendessero sembianze di confederate più tosto che suddite. Pertanto le istituzioni municipali, che in Grecia e altrove si dileguarono sotto il forte governo di Basilio Macedone, sì che poi Leone il Sapiente ne cancellò anco il nome, le istituzioni municipali, io dico, doveano rinvigorire, in quel medesimo tempo, nelle città di Val Demone che mantennero l'onor del nome cristiano in Sicilia. Ciò confermano parecchi cenni delle cronache: come sarebbero le pratiche dei Musulmani a Troina l'ottocento sessantasei; la missione d'un decurione per lo riscatto dei prigioni nell'ottantatrè; e tanti casi di guerra cessata o ripresa, nei quali è manifesto che operassero i municipii, non gli oficiali dell'impero. I ricordi ecclesiastici del tempo, dei quali si tratterà in questo capitolo, danno indizio anch'essi della autorità politica assunta dagli ottimati: senza che il sacerdozio non avrebbe con tanta rabbia aguzzato contro costoro il pungolo della satira. L'autorità municipale poi occupò ogni potere, ossia i comuni independenti operarono come repubbliche, negli ultimi anni del nono e i primi del decimo secolo; quando lo impero del tutto li abbandonò.
Pari autorità civile, con minore possanza e niuna gloria, serbarono i municipii della seconda classe di popolazioni, vogliam dire le tributarie. Nei principii del conquisto, tal condizione dovea parer comoda ai vincitori al par che ai vinti; sopratutto ai capi. E veramente, i condottieri musulmani senza fatica imborsavano il danaro e poteano scompartirlo con più largo arbitrio che il bottino; e i magistrati municipali si francavan dai pericoli della guerra, pagando agli Infedeli, poco più o poco meno, quel che soleano mandare a Costantinopoli; poteano inoltre distribuire il peso tra' lor miseri concittadini con maggiore ingiustizia che loro non ne concedessero le leggi dell'impero. Nondimeno l'odio religioso, il sentimento nazionale, e le molestie nascenti dalla licenza e discordia dei vincitori, sturbavano sovente i raziocinii dell'interesse materiale e spingeano l'aristocrazia municipale a spezzare i patti. Perchè quella società non sembri troppo più generosa dell'odierna società europea, si aggiunga lo scapito dei proprietarii, i cui servi e coloni spesso fuggivansi dai poderi; spezzandosi le catene dello schiavo altrui che riparasse in paese musulmano e si convertisse all'islamismo, divenuto liberto di Dio, come dicea Maometto.[843] S'aggiunga infine il bisogno che portava le colonie musulmane ad estendersi, e si comprenderà come avvenia sì sovente che le città tributarie si ribellassero o i Musulmani le assalissero con pretesti. Ricadendo sotto il giogo, erano ridotte a vassallaggio: talchè il numero delle tributarie scemò a poco a poco, e poi del tutto mancarono.
Nel tempo che durava tal qualità di popolazioni, l'ordinamento loro è agevole a immaginare. Come nelle città independenti, così nelle tributarie l'autorità dovea risedere nei municipii. Del ritratto dei beni imperiali e comunali, aggiuntevi le contribuzioni su i cittadini, il municipio pagava il tributo detto dai Musulmani gezîa o kharâg;[844] la somma del quale dipendea dai patti, e secondo le usanze musulmane si stipolava ordinariamente per dieci anni, dando statichi per sicurtà. È probabile che s'aggiugnesse il patto di svelare ai Musulmani le trame del governo imperiale; favorir le loro imprese e rispettare le persone e averi loro, come veggiamo stipolato da Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân con gli abitatori di Cipro.[845]
Soggiaceano al vassallaggio le terre prese per forza d'armi o a patti, come dicemmo. Nelle seconde per virtù del trattato, nelle prime per umanità e interesse a non desolare il paese, i Musulmani davano l' amân, o sicurtà, come suona in nostro linguaggio. Lasciate indietro le condizioni occasionali o transitorie di che si è fatta menzione nel racconto, come di consegnare un dato numero di schiavi, abbandonare una parte dello avere e somiglianti stipolazioni, la sostanza dello amân era questa. Cessava nel paese l'autorità politica dei Cristiani. I beni dello Stato, fors'anco del comune, e tutti o in parte i beni ecclesiastici, e quei dei cittadini uccisi o usciti, passavano in proprietà della repubblica musulmana; e insieme con le terre necessariamente andavano i servi o coloni che soleano coltivarle sotto gli antichi signori. Il rimanente della popolazione continuava a vivere secondo le proprie leggi e costumanze; e tutti gli uomini liberi, qual che si fosse lor grado e fortuna, si ragguagliavano dinanzi ai vincitori in unica condizione, che s'addimandava in arabico dsimma e lo individuo dsimmi, che noi diremmo umiliato o suddito. Godeano ordinariamente pieno esercizio del dritto di proprietà.[846] La legge musulmana proteggea loro persone e averi con le medesime sanzioni penali che pei Musulmani[847] e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i Musulmani, anche i lasciti per testamento.[848] Oltre le condizioni ragionevolmente chiamate essenziali; cioè che non parlassero con irriverenza del Corano, del Profeta, nè dell'Islâm, non dicessero villania a donne musulmane, non ingiuriassero i soldati, non tentassero far proseliti tra i Musulmani e rispettassero i beni loro,[849] gli dsimmi andavano sottoposti a tre maniere d'aggravii: di finanza, di polizia civile e di polizia ecclesiastica.
Gli aggravii di finanza addimandavansi gezîa e kharâg; la prima su le persone, il secondo su i beni stabili. La gezîa che suona compensazione, aggiungasi della sicurtà data alle persone e alla roba, era una tassa testatica di quarantotto dirhem all'anno[850] su i ricchi, ventiquattro su gli uomini di mezzane facultà, e dodici su i nullatenenti costretti a vivere di lavoro manuale, escluse le donne, i bambini, i frati, gli storpii, i ciechi, i mendici e gli schiavi. Kharâg vuol dire ritratto o rendita. Si levava, come le contribuzioni fondiarie dei tempi nostri, sul fruttato presunto, in ragion composta della estensione del terreno e maniera della cultura: e in alcune province musulmane fu in origine il venti per cento; ma la somma spesso restò invariabile, talchè scemata la rendita, il dazio tornò più grave. La gezîa cessava per conversione all'islamismo. Per contraddizione fiscale, necessaria al mantenimento dello Stato, il kharâg continuava non ostante che il possessore si convertisse, o che il podere passasse in man di Musulmano.[851]
Ingiuriosi furono e molesti gli statuti di polizia civile. Vietato agli dsimmi di portare armi, montar cavalli, metter selle su' loro asini o muli, fabbricare case più alte o al ragguaglio di quelle dei Musulmani, prendere nomi proprii in uso appo i Musulmani e fin di adoperare suggelli con leggende arabiche. Proibivasi di più che bevessero vino in pubblico, accompagnassero i cadaveri alla sepoltura con pompe funebri e piagnistei; e alle donne loro di entrare nel bagno quando fosservi donne musulmane e rimanervi quando quelle sopravvenissero. E perchè non si dimenticasse in alcuno istante la inferiorità loro, era ingiunto agli dsimmi di tenere un segno su le porte delle case, uno su le vestimenta, usare turbanti d'altra foggia e colore e sopratutto portare una cintura di cuoio o di lana. In strada eran costretti a cedere il passo ai Musulmani; stando in brigata, a levarsi in piè quando entrasse o uscisse uom della schiatta vincitrice.[852]
Parrà mirabile dopo ciò la tolleranza dei regolamenti di polizia ecclesiastica, che limitavansi a vietare la costruzione di novelle chiese e monasteri, ma non già la restaurazione degli edifizii attuali.[853] Del rimanente era lecito alle chiese di redare;[854] liberissimo lo esercizio del culto nei tempii e nelle case; ma si inibiva di far mostra di croci in pubblico, leggere il vangelo sì alto che lo sentissero i Musulmani, ragionare del Messia con costoro, e suonare furiosamente campane o tabelle.[855] Non si intrometteano i Musulmani nè punto nè poco nelle materie di domma, culto, o disciplina, e proteggeano ugualmente i sudditi cristiani di qualsivoglia setta.[856]
A condizioni poco diverse il califo Omar aveva accordato l'Amân ai cittadini di Gerusalemme, il quale servì di norma in tutti i tempi, salvo i mutamenti consigliati dalle circostanze o dall'umor dei vincitori. I patti del vassallaggio si osservarono con rigore sotto i governanti duri o bacchettoni, e quando rincrudiva il fanatismo del popolo; si trascurarono più sovente per saviezza e dispregio di chi reggeva, e per la riputazione dei cristiani amministratori delle entrate pubbliche, medici, segretarii, cortigiani, grossi mercatanti, o innalzatisi in qual altro modo sappiano usare lo ingegno e l'astuzia per domare la forza brutale. Gli Ebrei, come ognun sa, e molti ne viveano allora in Sicilia, soggiaceano alle medesime leggi. È bene di notare che quanto ho qui scritto degli dsimmi, quanto dirò degli schiavi, si ritrae dagli esempii d'altri paesi; ma che si dee ritenere prescritto anco in Sicilia, per la medesimità delle circostanze e la uniformità delle costumanze musulmane. Raccoglierò in altro luogo gli attestati risguardanti l'esercizio del culto cristiano in Sicilia, ch'è stato messo in forse per erronei supposti e poca attenzione alle generalità che or ora accennai.
Se dalla condizione degli dsimmi ci volgiamo alle speciali istituzioni civili che fossero rimase loro, son da distinguere le terre abitate da soli cristiani e quelle ove stanziasse con loro qualche colonia musulmana. Nelle prime è probabile che fosse lasciato un avanzo di municipalità: magistrati eletti in qualunque modo dalla popolazione, col tristo carico di riscuotere la gezîa; con le rade cure edilizie che potessero occorrere tra tanta miseria; e di più vegliare su i mercati e amministrare la giustizia civile e penale nelle cause che non toccassero uomini musulmani. La giurisdizione di magistrati cristiani nelle terre di cui ragioniamo non può essere dubbia, quando la si esercitava per certo nelle terre che gli abitavano insieme coi Musulmani.
Queste erano le città o castella di maggiore importanza militare, ovvero economica. In esse credo aboliti i municipii e commesse ad officiali musulmani tutte le parti della polizia urbana. Ma i Cristiani ritennero di certo le corporazioni di mestiere e di quartiere, che per lo più coincideano l'una con l'altra nel medio evo. Così fatte associazioni, che si trovano negli ultimi tempi del dominio romano,[857] non furono distrutte al certo dagli Arabi, il cui reggimento n'avea d'uopo, e forse le creò laddove mancassero; perocchè la esecuzione delle leggi penali musulmane dipendea dalla responsabilità reciproca dei membri delle tribù o consorterie. A togliere ogni dubbio, è detto espressamente negli statuti penali che le ammende degli dsimmi debbano pagarsi dai loro 'akila ossiano ascritti alla medesima consorteria, e si vieta ai Musulmani di ascriversi in quelle degli dsimmi.[858] La istituzione delle consorterie necessariamente portava seco scelta di capi, vigilanza di costoro a prevenire i delitti la cui pena sarebbe ricaduta su la comunità; e infine, esercizio di giurisdizione civile affidata sia ai capi stessi, sia ad altri magistrati cui designasse la corporazione. A ciò conduceva il principio del compromesso, o vogliam dire giudizio per arbitri scelti dalle parti: giurisdizione unica degli antichi Arabi, come d'ogni popolo barbaro, accettata dai Musulmani, come da ogni popolo più civile,[859] e necessaria agli dsimmi che non avean comuni coi vincitori nè religione, nè costumi, nè ordini sociali, nè, per parecchi secoli, il linguaggio. E che tale giurisdizione volontaria fosse stata esercitata assai largamente, lo mostra un capitolo delle istituzioni musulmane relativo ai giudizii delle liti tra gli dsimmi; nelle quali era lasciato ad elezione delle parti di adire il giudice cristiano, ovvero il magistrato musulmano, il quale poi decidea secondo le proprie leggi.[860] Durano tuttavia così fatti ordini nelle popolazioni cristiane d'Oriente, ove la giurisdizione conciliativa e correzionale è attribuita per lo più alla gerarchia ecclesiastica, e la si estende molto più che negli stati cristiani, per ripugnanza della gente a richiedere il magistrato musulmano, e per timore delle molestie ed estorsioni di quello.[861]
Venendo agli uomini di condizione servile, noi lasceremo indietro que' che viveano nella società cristiana sotto l'antico giogo delle leggi romane; se non che dovea mitigarsi lor sorte nelle città independenti e tributarie, per paura che i servi e coloni non si emancipassero rinnegando la fede, e nelle popolazioni vassalle, per lo esempio dei signori musulmani. Appo costoro la schiavitù ebbe origine di tre maniere diverse: uomini liberi presi in guerra; uomini venduti da altri Musulmani o Cristiani che li avessero tolto d'altri paesi per violenza o frode; e in ultimo, com'e' non parmi dubbio, servi della gleba passati in proprietà dei Musulmani insieme coi poderi. L'origine non portava divario nella condizione. I Musulmani chiamavanli indistintamente rekîk, che vuoi dire “minuto o sottile” e memlûk, cioè “posseduto:”[862] orribile parola; ma il fatto era più mite; nè la legge tenea gli schiavi come cose più tosto che persone. Se Gregorio il grande meritò bene della umanità pei liberali precetti, non accompagnati sempre dallo esempio, a favor degli schiavi, Maometto va lodato sopra di lui per avere, venti anni appresso la morte di San Gregorio, migliorato assai più la condizione di coteste vittime della forza e dell'avarizia. Non potendo, come già il notammo,[863] cassare d'un tratto la schiavitù, fece opera ad alleggerirla ed abbreviarla. Ora in nome dell'Eterno comandava di usare carità agli schiavi come ai figliuoli, congiunti, orfanelli, mendici e viandanti,[864] e insinuava di dar loro abilità a riscattarsi col frutto del proprio lavoro.[865] Or ponea l'emancipazione d'uno schiavo ad ammenda di omicidio scusabile,[866] voto infranto, o ritrattazione di divorzio precipitoso;[867] rendea libera di dritto la schiava che avesse partorito un figliuolo al suo signore,[868] e chiamava reo di morte il padrone omicida del proprio schiavo;[869] comechè egli non abbia sempre fatto osservare questa legge e che la logica dei giuristi l'abbia del tutto annullato.[870] Tanto pure avanzò di quei caritatevoli insegnamenti, che lo schiavo, secondo legge musulmana, non può andar messo in catene;[871] e che la emancipazione, accordata volentieri dai generosi, carpita quasi dalla legge agli animi duri e taccagni, si effettuava a capo di parecchi anni di servigio; sopratutto venendo a morte il padrone, e fattosi musulmano lo schiavo.[872] Superfluo parmi d'avvertire che la schiavitù sotto gli Arabi inciviliti del nono secolo, non va punto rassomigliata a quella appo i pirati barbareschi, vergogna dell'Europa infino ai principii del secol nostro. Potrebbe per avventura farsi il ragguaglio con gli Stati cattolici e feudali del medio evo e con le due nazioni più giovani del mondo, cristiane entrambe e modello l'una di dispotismo, l'altra di libertà: e la bilancia penderebbe sempre a favor degli Arabi.
La somma è che la schiatta vinta in Sicilia vivea meno aggravata sotto i Musulmani, che le popolazioni italiche di terraferma sotto i Longobardi e i Franchi. L'ostacolo della diversa religione dovea scemare ogni dì per le apostasie dei vassalli, e assai più degli uomini di condizione servile, i quali per conseguire libertà si rifuggissero appo i Musulmani dalle città independenti o tributarie; ovvero, se schiavi di Musulmani, abbandonassero la fede dei padri loro per le sollecitazioni dei nuovi signori, la certezza di più umani trattamenti, la speranza dell'emancipazione e la lontananza dai correligionarii. La distribuzione geografica delle quattro classi della gente cristiana nel nono secolo, non mi par difficile a ritrovare. Il Val di Mazara, sede delle colonie musulmane, era pieno di schiavi e vassalli; e cotesti ultimi soggiornavano in città e terre insieme coi Musulmani, più tosto che soli.[873] Al contrario gli abitatori del Val di Noto, per un secolo in circa dalla metà del nono alla metà del decimo, sembran tutti cristiani, e le città loro più tostò vassalle che tributarie.[874] Tutte le città independenti, come già il dicemmo, e alcuna tributaria, eran ristrette in Val Demone.
Dall'ordine politico e sociale or ci volgeremo alle vicende intellettuali e morali. Avremo a scorta le memorie ecclesiastiche: unici annali dell'uman pensiero, nei tempi che il pensiero, incatenato dalla religione, in ciò solamente si esercitò che piacesse alla Chiesa; e i pochi frutti che produsse andaron a beneficio e nome di quella, com'avvien che il servo si affatichi sempre a comodo del padrone. La unità di cotesta forza motrice della società bizantina di Sicilia ci porta a seguire l'ordine cronologico, più tosto che la distinzione per materie, come sarebbero opinioni religiose, passioni pubbliche, lettere, costumi. E piacerà fors'anco al lettore a guardare, in vece di circoli ideologici, i ritratti degli uomini notabili del tempo, bene o mal dipinti che fossero.
Della storia ecclesiastica propriamente detta, ci basterà ricordare le due vicende principali; cioè la restaurazione delle Immagini e lo scisma di Fozio. L'una accrebbe potenza al clero non meno che agli imperatori, sendo stato il popol di Sicilia tenacissimo in quel culto. Lo scisma di Fozio, lite nazionale più tosto che religiosa, tra Roma e Costantinopoli, non portò scosse nell'isola, ove il papa era già caduto in obblio. Perocchè nell'ottavo secolo, senza contrasto nè rincrescimento dei popoli, s'era consumata la scissione della Chiesa Siciliana dalla sede di Roma.[875] Ubbidì la Sicilia allora al Patriarca di Costantinopoli. I vescovi di Siracusa e Catania ottennero grado di metropolitani; il secondo senza suffraganei; il primo preposto a tutte le sedi da Catania in fuori: cioè Taormina, Messina, Cefalù, Termini, Palermo, Trapani, Lilibeo, Triocala, Girgenti, Tindaro, Lentini, Alesa, Malta e Lipari.[876] Dopo il conquisto musulmano distrutta alcuna città, altra fatta stanza dei Musulmani, parecchi vescovadi caddero, o ne rimase il nome solo, non sappiam quali, nè in quali anni; perocchè in vano si cercherebbero le vestigia di cotesti mutamenti nelle copie diverse del catalogo attribuito a Leone il Sapiente. Pure il fatto è certo, perchè necessario, e perchè le soscrizioni dei vescovi siciliani scompariscono a poco a poco dagli atti dei concilii; non si parla più di loro nelle croniche; e il solo di cui si abbia memoria, verso la fine dell'undecimo secolo, è quel di Palermo, chiamato arcivescovo; del qual cenno noi tratteremo a suo luogo.
Aprendo i volumi delle agiografie siciliane reca maraviglia lo scarsissimo numero dei martiri dell'epoca musulmana. A spiegar ciò non basta la dimenticanza che necessariamente seguì nel decimo e undecimo secolo, quando la più parte della popolazione confessava un Dio solo e Maometto apostol di lui. Sendo rimasi tuttavia molti Cristiani in Sicilia, e surti in Calabria novelli monasteri ove riparavano frati siciliani, è manifesto che la tradizione non potea perire. Martiri da un'altra mano non ne mancavano. Migliaia di combattenti, fatti prigioni e proposta loro talvolta, a rigor del dritto di guerra, l'alternativa tra l'apostasia e la morte, eleggeano francamente la morte; come fecero sempre e in ogni luogo i soldati dell'impero bizantino. Ma il clero non volea santi laici, molto meno soldati; e di certo mandava all'inferno quei martiri che innanzi non fossero stati bacchettoni. De' suoi, il clero non ne forniva; perdonandosi per legge musulmana la vita ai preti e ai frati fuorchè se avessero combattuto: il che non avveniva giammai nella Chiesa Greca. Perciò sì poche le vittime cui il martirio desse titolo di santità. Si noverano tra quelle, nel primo impeto del conquisto, San Filareto e altri frati di che facemmo ricordo nell'assedio di Palermo (831): e furon presi fuggendo.
Contemporaneo di San Filareto un grande oratore sacro, Teofane Cerameo arcivescovo di Taormina: che sembra onoranza personale, se pure negli sconvolgimenti ecclesiastici e politici di quel tempo la dignità metropolitana non fu accordata e tosto ritolta alla detta sede. Di Teofane Cerameo si ha notizia per un'ampia raccolta di omelie greche, delle quali ci avanzano da quaranta esemplari,[877] la più parte col nome di lui, altri di Gregorio Cerameo, Giovanni Cerameo, Cerameo soltanto, e infine Filippo, chiamato poi, com'aggiugnesi ne' manoscritti, Filagato, monaco e filosofo.[878] Ostinandosi a riferire tutte le omelie a un medesimo autore, gli eruditi che le studiavano, disputarono vanamente su l'età in cui fosse vivuto. Lo Scorso, gesuita siciliano il quale pubblicò per lo primo a Parigi (1644) il testo e la versione latina di sessantadue omelie, le volle tirar su tutte al nono secolo; e infelicemente cavillò per adattare a quei tempi le vestigia del duodecimo secolo che si toccan con mano in alcune di coteste omelie.[879] Il dotto Guglielmo Cave, al contrario, opinò che la raccolta appartenesse al secolo undecimo, e dovea dire duodecimo.[880] Ha sostenuto questa medesima sentenza il sacerdote Niccolò Buscemi da Palermo (1832) illustrando la materia con le notizie di altri manoscritti, tra i quali uno di Madrid, che contiene altre ventinove omelie inedite, e che fu rubato probabilmente alla Sicilia.[881] Ma per vero si debbono riconoscere, come il pensò quel savio monsignor Di Giovanni,[882] almen due autori; l'uno dei quali visse di certo nel nono secolo, l'altro di certo nel duodecimo. La prova del primo assunto si vedrà or ora. Quella del secondo è che cinque orazioni,[883] come leggesi in alcuni codici, furono recitate “nel palagio di Palermo, in Palermo dinanzi il re, nel monastero del Salvatore di Messina[884] nella chiesa di Santo Stefano in Palermo e sul pulpito della chiesa metropolitana della stessa città.” A togliere il dubbio che il predicatore moderno le avesse rubato tutte all'antico, una di coteste orazioni contiene lo elogio funebre del primo cantore del detto monastero del Salvatore;[885] e un'altra la più precisa descrizione che far si possa della cappella palatina di Palermo, coi mosaici e i marmi di che la arricchirono i principi normanni.[886] Par che cotesto oratore sia appunto Filagato del quale dicemmo: e può supporsi ch'egli abbia aggiunto del suo qua e là; composto qualche omelia; tolto di peso le altre da antichi codici; e spacciato tutto per roba propria. Altri probabilmente replicò il plagio, e così andrebbe spiegata la diversità dei nomi d'autori, che s'incontrano nei varii manoscritti.[887] Quanto alle omelie che non portan sì chiara la divisa della età, molte sembrano da attribuirsi all'autore del nono secolo.[888]
Senza avvilupparci in oziose questioni, chiameremo costui Teofane, soprannominato Cerameo dalla patria o dal casato. Ei passò, come pare, da un monastero al seggio vescovile di Taormina; ed affrontando l'ira del governo iconoclasta, fu bandito dalla diocesi; come lo mostra il caldo esordio d'una omelia recitata dal pulpito di Taormina.[889] “Avea durato, ei dicea, lungi dai suoi figliuoli in Cristo, la tirannide d'un amor violento; avea bramato di rivederli come il terreno arso e screpolato brama la pioggia: e dileguinsi, ei continuava, le rughe delle nostre fronti, poichè ci è dato di tornar tutti insieme a venerare questa effigie di Maria non dipinta da man d'uomo.”[890] Non guari dopo, quel dì stesso che si festeggiò per tutto lo impero la restaurazione delle Immagini (842), Teofane esponea con dire vibrato e conciso la storia degli Iconoclasti. Certi maghi ebrei vaticinarono la futura grandezza a Leone Isaurico; e lo spinsero a dar principio all'eresia. Serpente nato di un dragone, succedeva all'Isaurico, nell'impero e nella empietà, Costantino Copronimo: e rincalzava la persecuzione un altro Leone (l'Armeno) indegno della porpora; stigandolo alla mal opra quel falso abbate, che solea rintanarsi in un casolare, e uscir come pipistrello su l'imbrunire del dì.[891] Narra poi il noto fatto di Teodora e del giullare che la scoprì; scansa prudentemente il nome del crudele Teofilo; e ne viene al concilio di Costantinopoli; alle lodi della imperatrice che rendeva alla Chiesa le immagini, quasi tolti ornamenti e segni di gloria; e sì esorta i fedeli a celebrare il fausto evento, abbominando i capi e fautori dell'empietà, venerando e baciando le immagini, non per idolatria, ma per onorare i prototipi di quelle: e conchiude, contro le premesse, con raccomandare a tutti carità, misericordia, penitenza.[892] La data dell'anno, mese e giorno è scritta quivi a caratteri indelebili. Quella del secolo si trova in due altre omelie, dove l'oratore volgeasi al cielo, pregando aiuto agli ortodossi imperatori contro gli empii figli di Agar, insultatori del culto cristiano;[893] e in un'altra ove discorre le voluttà dei Gentili, e dei nostri vicini Ismaeliti, ei dice, che si scambian le mogli.[894]
I dubbii cronologici che abbiam toccato, e la tendenza degli oratori sacri, come dei poeti satirici, ad abbozzare piuttosto caricature che ritratti, ci consigliano a molta circospezione nel dedurre dalle dette omelie i costumi della Sicilia cristiana nel nono secolo. Esagerate sembrano invero le invettive che il nostro oratore lanciava da petto a petto al popolo di Taormina, il dì festivo di San Pancrazio, primo vescovo, che si supponea, della città. Tornato in fretta di Palermo, Teofane, ancorchè spossato, com'ei dicea, dal viaggio, montava sul pulpito a sfogar sua collera. Ponea per testo le parole del Vangelo: “Son io la porta” (Giovanni, X, 9); e, spiegatele, veniane alla conchiusione, che il clero farebbe opera a non imitare i pastori mercenarii e ladri, ma i fedeli dovessero alsì fuggire l'esempio de' capretti che corrono a precipitar nei dirupi. E passando alle gesta del santo che si festeggiava: “In questa nostra isola, ei dicea, venne Pancrazio, e in questa città di Taormina; sì, città del toro e delle Menadi,[895] del furore e della mania, in questa terra ove siam dannati a soggiornare.” Poi facendo parola degli idoli Falcone, Lissa e Scamandro abbattuti da San Pancrazio, esortava i cittadini “a metter giù anch'essi i loro idoli, cioè le fiere passioni dell'animo; ad esercitarsi in buone opere; massime quei che il poteano, gli ottimati dell'empia città, ottimati, ei ripigliò, cioè più cospicui nei vizii.”[896] Il viaggio di Palermo, la perturbazione politica che si può argomentare da quella puntata contro i grandi, accennerebbero ai tempi della rivoluzione d'Eufemio, nei quali regnava Michele il Balbo, nè correan troppo pericolo gli adoratori delle immagini. Si potrebbe riferire per avventura ai principii del regno di Teofilo un'altra omelia recitata il dì di San Pantaleone, quando il sacro oratore rampognò gli uditori che venissero alla festa per vendere le merci più che a sentir la parola del Signore; e provocò al certo la potestà temporale, ricordando che Cristo avesse mandato suoi discepoli come pecore tra i lupi, e preveduto che monarchi, caporioni e tiranni sorgerebbero contro la predicazione del vangelo.[897] Un altro grave sermone tocca particolarmente i costumi privati. Spaventevole siccità travagliava il paese; il suolo non poteva intaccarsi ormai con aratro nè zappa.[898] L'oratore, costernato, parlando a gente costernata, descrive diffusamente, e pur con vivezza e forza d'immagini, la pubblica calamità. Commossi gli animi, risalisce, secondo suo mestiere, alla causa di tutti i mali, il peccato. “E questo flagello ne percuote, ei sclamava, perchè ci rodiamo d'invidia; perchè vogliamo superbire contro gl'infimi; godiamo nel mal del prossimo; ne laceriamo l'un l'altro a calunnie; ci abbandoniamo a stolte cupidigie; siam rotti a lussuria;[899] lupi affamati nell'avere altrui; stizzosi peggio che cameli; senza carità pei poverelli; senza rispetto verso la Chiesa. E i ministri della Chiesa (ei continua nell'impeto dell'orazione) non son essi i primi agli scandali; non si ingiuriano tra loro; non si odiano; non cercan vendetta; non si tendono insidie reciprocamente; e, vedendo il peccato in trionfo, non stan essi mutoli? I laici poi perchè guardan la gobba dei sacerdoti, e non la propria loro? E che! la città è piena di vizii; odo far giuramenti ogni dì, non ostante ch'io v'abbia ammonito a scansarli,[900] e vi abbia presagito la collera del cielo: qual maraviglia dunque che vi si apparecchi tal mèsse e tal vendemmia, e che Iddio gastighi tutti per le peccata dei pochi, e fin gli animali e il terreno per le peccata degli uomini?”[901] In tutta questa diceria non si trova sillaba che indichi appunto i tempi. Nondimeno quello scrupolo a far giuramenti, quella turbolenza del clero, mi fan pensare al nono secolo più tosto che alla prima metà del duodecimo.
Dello stile di Teofane ho dato esempio negli squarci che precedono. Non parmi carico di ornamenti quanto portava il gusto grosso di quei tempi. Anzi, in generale, la narrazione dei fatti semplice, tersa, impaziente, mi torna a mente il Maurolico, vivuto otto secoli appresso, nato com'e' pare della stessa buona schiatta greca del Valdemone; ma l'oratore sacro di Taormina non potea sempre mantener la sobrietà del geometra e storiografo messinese. Suole intessere le prediche con bel metodo. Dopo breve e leggiadro esordio pone il testo del vangelo; lo spiega nitidamente, e con saviezza rara a quei tempi sviluppa i principii morali più volentieri che sprofondarsi in astrazioni teologiche. Guardinsi dunque le opere di Teofane da qualunque lato si voglia, si dovran tenere come uno dei migliori esempii della eloquenza sacra appo i Greci dei bassi tempi.[902] Lascio ad altri a indagare se appartenga a Teofane un trattato didattico che si trova manoscritto a Torino; e chi sia l'autore delle altre omelie diverse che possiede, anco manoscritte, la Biblioteca di Vienna col nome di Giovanni Cerameo.[903]
Nel medesimo tempo altri Siciliani coglieano palme a lor modo, gittandosi, a Costantinopoli, nel centro della mischia contro gl'Iconoclasti. Primeggiò tra loro San Metodio, nato a Siracusa di cospicua famiglia; avviato agli studii di grammatica, storia e rettorica; mandato giovane a corte: ma l'ebbe a noia; e, persuaso da un frate, vestì la cocolla, dato prima ogni suo avere per amor di Dio ai poverelli. Così il puzzo del basso impero facea rifuggire nel chiostro gli animi generosi, che non vi fossero stati spinti già prima da preoccupazioni ascetiche; e la società civile perdea vigore; la religiosa ne prendea troppo, e sfogavalo in vane contese. Metodio pertanto si ricacciò suo malgrado tra i tumulti del mondo. Parlando speditamente, come nato in Sicilia, il greco e il latino, fu mandato una volta a Roma; tornò più caldo di zelo ortodosso e ardire contro la potestà civile; parteggiò sì fieramente per Niceforo patriarca di Costantinopoli, che, cacciato costui (814), egli fu costretto a ripararsi a Roma; e dimorovvi fino alla morte di Leone l'Armeno (820). Il papa allora l'inviava a nunzio appo Michele il Balbo; e questi, tenendo ribelle il papa e più ribelle Metodio, ch'era nato suddito suo e cadutogli tra le mani, lo fe' vergheggiare crudelmente; poi trasportare in un isolotto detto di Sant'Andrea, o secondo altri Antigono, nel mar di Marmara; chiuderlo in carcere sotterraneo con due condannati per misfatti; un de' quali venne a morte, e il cadavere fu lasciato coi compagni vivi. Dopo sette anni, Teofilo aguzzando il pazzo cervello a comprender non so che scritto, a persuasione di un cortigiano, lo mandò a Metodio; si compiacque della interpretazione; volle appo di sè il sapiente; gli diè pensione e stanza in corte; e poco appresso gli fe' sentir di nuovo il bastone e la muda, poichè l'ostinato Siciliano ripigliava sotto mano sue argomentazioni a pro del culto delle immagini. Ma liberato per novello ghiribizzo dello imperatore, Metodio, da savio, si messe a disputare con lui in persona; lo scosse; e certo lo stuzzicò in guisa, che Teofilo non sapendo star senza di lui, o temendo che facesse brogli a Costantinopoli,[904] sel tirava dietro quando egli andava a scapricciarsi alla guerra. È noto come, alla morte di Teofilo, l'imperatrice Teodora, volendo por fine alla eresia, la prima cosa cacciava per violenza il patriarca Giovanni Lecanomante. A lui fu surrogato Metodio, ch'era tenuto capo di parte ortodossa, per la dottrina, la pietà, la fortezza dell'animo, e di certo ancora per quelle pratiche già si sospette a Teofilo. Degnamente esercitò l'autorità patriarcale. Con agevolezza confuse i nemici che l'accusavano di violenza fatta a una donna; alla età sua, macerato e consunto come egli era dal carcere duro degli Iconoclasti,[905] ove avea perduto i denti e i capelli. Rese poscia gli estremi ufficii ai compagni di persecuzione, facendo opera a tramutare in Costantinopoli i cadaveri di que' ch'eran morti in esilio. E mancò l'anno appresso (847); lasciando fama di santità, e parecchi panegirici, e scritti disciplinari.[906]
Succedette a Metodio un figliuolo dello imperatore Michele Rangabe, per nome Niceta, detto Ignazio dopo la esaltazione al patriarcato: eunuco molto pio; divenuto inaspettatamente illustre e santo, perchè fu nemico di Fozio. Lo scisma di Fozio il quale covava da secoli, per la rivalità delle Chiese di Roma e di Costantinopoli, divampò per gelosia politica contro i papi, per mene di corte a Costantinopoli: pur egli è vero che la prima scintilla fosse stata gittata da Gregorio Asbesta, vescovo di Siracusa.[907] Ignazio, contro il consiglio dei suoi più fidati, avea vietato a costui di assistere alla sua consacrazione, come incolpato di non so che trasgressione disciplinare; lievissima al certo, poichè non fu mai specificata.[908] “Ma chi può spiegar con parole, sclama il biografo di Santo Ignazio, quanti scandali seguitassero da ciò; quanta rabbia di vendetta s'accendesse in petto a quel fier Siciliano,[909] che trovato Fozio lo mise su e il consagrò?”[910] Alla dura tempra dell'animo, audace, intollerante, superbo, Gregorio Asbesta congiungea chiaro ingegno, parlare insinuante, gran dottrina, pietà, costumi irreprensibili, e per colmo de' mali, ripiglia il biografo, fu anco buon dipintore:[911] ed abusonne in certo libello d'accusa, nel quale andò istoriando con sette miniature quel che bramava: il suo nemico, cioè, catturato, deposto, incatenato, messo in gogna, condannato e condotto al supplizio.[912] Prima che l'arcivescovo siracusano arrivasse a tanta rabbia, il patriarca l'avea fatto deporre in un sinodo (854). Adescato a portare la causa al papa, Gregorio sdegnò assoggettar di nuovo la sede siracusana alla romana onde s'era sciolta;[913] ovvero non gli bastò di uscir di briga, senza vendicarsi d'Ignazio. Non placato perchè questi or lo venisse piaggiando,[914] Asbesta diessi a lacerare il suo nome per tutta la città; a far brogli con vescovi e preti malcontenti; e s'aprì la via appo Fozio, primo scudiero dello imperatore, chiarissimo per sangue, ingegno e immensa dottrina, bel parlatore, uom di Stato e gradito al dotto Cesare Barda che reggea l'imperatore e l'impero. Il santo eunuco a questo, per ragguagliar le forze, gittatosi in braccio a papa Benedetto III, fece approvare da Roma la condannagione del vescovo di Siracusa;[915] il che Fozio e Barda tennero come caso di maestà. La lite s'innasprì per offese private: alfine Ignazio era cacciato dalla sede; rifatto patriarca Fozio; consagrato dal vescovo di Siracusa (858), il quale si avvilì incalzando la persecuzione contro il nemico caduto. Non occorre aggiugnere che il papa e il nuovo patriarca vennero alle prese; che, per trovar pretesto a tanto furore di rivalità mondana, si disputò sulla processione dello Spirito Santo; che Fozio osò deporre il papa (867); che si discese anco ai pettegolezzi: lagnandosi Michele III che papa Niccolò I gli scrivesse in idioma barbarico e scitico, e volea dire il latino; e rimbeccandogli Niccolò ch'era da stolto a rinvilir sì quella lingua, e volersi chiamar tuttavia imperator dei Romani.[916]
La fortuna subitamente voltò quando Basilio Macedone, per togliersi d'inutile briga (867), redintegrò Ignazio nella sede:[917] e non mancarono allora cento vescovi, che, adunati in Concilio, condannavano i lor due fratelli, rei di perduta grazia del principe. Quivi Fozio e Gregorio apparvero più grandi che prima, gettando parole di disprezzo in faccia ai vili giudici (29 ottobre 869).[918] Dieci anni appresso, mancato Ignazio, esaltato di nuovo Fozio, diè meritamente a Gregorio la sede metropolitana di Nicea; ove tosto morì (878), e la sua memoria fu onorata da un elogio del patriarca di Costantinopoli, che per dottrina superava ogni altr'uomo di quei tempi.[919] Di sì gran momento furono due Siciliani nelle principali contese ecclesiastiche che si agitarono nel nono secolo tra l'Oriente e l'Occidente: l'una terminata per man di Metodio; l'altra accesa da Gregorio Asbesta.
In entrambe comparve, ma non tra i primi, San Giuseppe, detto l'Innografo, siciliano anch'egli. Nato, non sappiamo in quale città, da un Plotino e un'Agata, riparava coi genitori nel Peloponneso per fuggire la crudeltà dei Musulmani, dice il monaco biografo e forse discepolo di lui; aggiugnendo vaghe frasi di stragi, rapine, cattività, con che i Barbari affliggessero la Sicilia, isola nobilissima per la fama di Dionisio e di San Giuseppe Innografo. Entrò questi in un monastero di Tessalonica a quindici anni: studioso, solitario, taciturno; si straziava d'astinenza; percoteasi il petto con pietre; a usanza dei monachi greci si confessava gran peccatore indegno del sacerdozio, al quale fu assunto, suo malgrado, da un santo, che voleva adoperarlo a muover sedizioni contro gli Iconoclasti.[920] Mandato dunque per le bisogne della fazione a Roma, cadeva in mano di corsari musulmani, che sel recarono a Creta; e quivi metteasi ad esortare il vescovo contro la eresia; confortava al martirio un compagno di prigione, venuto in procinto di rinnegare la fede cristiana. Egli, dileguatosi prodigiosamente dal carcere, viaggiò per aria a Costantinopoli.[921] Indi corse in Tessaglia a fondare un monastero in onor di San Bartolomeo, il quale, per rendergli cortesia, gli apparve in sogno; il benedisse e il fe' poeta. E però, conchiude il biografo, i suoi versi rendono sì svariata e celeste armonia, calman l'ira, muovono al pianto, e ogni nazione li ha voltato in suo linguaggio: e su, gettate via gli altri poeti e vi basti l'Innografo!
Sciocco quanto si voglia così fatto parlare, la storia può cavarne costrutto. La seconda favola ci attesta come l'Innografo si fosse dato a far versi in età matura, a forza di studio; e come i Greci del nono secolo tanto avessero preso ad imitare gli antichi, che lor era mestieri di rimetter su l'oficio di Apollo e investirne un santo cristiano. Cotesto movimento letterario, reminiscenza di gioventù d'una società decrepita, s'era già manifestato nella prima metà del secolo, come il provano le opere di Teofane Cerameo, la vita di Metodio, l'aneddoto di Teofilo con costui, e l'altro sì noto col matematico Leone fatto poi vescovo di Tessalonica. Par che Teofilo stesso abbia principiato,[922] e il Cesare Barda compiuto, sotto il regno di Michele Terzo, la istituzione dell'Accademia nel palagio imperiale detto la Magnaura; ove dapprima si dettero lezioni di filosofia e scienze esatte, compresavi la musica;[923] e, spartiti meglio gli studii o accresciuto il numero dei professori, si lessero filosofia, geometria, astronomia, grammatica greca: sappiamo inoltre che privati avessero preso già ad insegnare l'arte poetica a Costantinopoli, e altri fosse ito ricercando i tesori dell'antica sapienza e letteratura, qua e là, pei monasteri della Grecia.[924] Un grande istorico[925] ha attribuito così fatta ristorazione di studii a voglia che avesse la corte bizantina di gareggiare coi califi; ma questa non potea esser la sola, nè anco la primaria cagione. I movimenti intellettuali sogliono nascere nel popolo: e la lite delle Immagini, che agitava la cristianità da più di un secolo, aveva aguzzato gl'ingegni, come fa ogni grande contesa. Cercavan armi nella filosofia gli Iconoclasti; dalle cui file appunto veggiamo uscire il primo professore della Magnaura. Gli Iconolatri, al contrario, per necessità dello intento loro, si doveano raccomandare alla estetica; sforzarsi a imitare la magic'arte dei classici pagani, il manco male che potessero: nè per caso è che n'apparivano in Sicilia i primi segni; ma perchè nell'isola più caldamente e forse con minor pericolo si parteggiava. Indi il frate siciliano diessi a coltivare la poesia sacra, tentata al certo innanzi di lui, ma con minore riputazione. Ei si provò a far versi, con un po' d'orecchio in vece d'estro: la lingua greca gli prestò parole pieghevoli e sonore; le idee e i sentimenti suoi, che or ci promuovono il sonno, avean virtù allora di beare gli ascoltatori: e così fece proseliti alle immagini; e lo studio di parte, il pessimo gusto del secolo, forse la novità ch'ei recava in quelle composizioni gli procacciarono sì gran fama. Teofilo il bandì a Cherson in fondo al Mar Nero. Tornate le immagini sugli altari, il patriarca Ignazio (848) l'ebbe caro e lo deputò alla custodia dei vasi sacri d'una basilica. Dopo la morte del quale, sia per la riputazione letteraria, sia per la scaltrezza, chè ci lodan l'Innografo di leggere ogni pensiero negli occhi altrui, egli divenne intimo, dicon anche consigliere, di Fozio. Ciò nondimeno è entrato nel catalogo dei Santi.[926]
Poichè ci è occorso di toccare la poesia sacra, parleremo qui di Sergio, frate in un monastero di San Calogero, ch'era probabilmente su la montagna di questo nome presso Sciacca. Abbiam contezza di lui per un lungo inno e un frammento; il testo greco dei quali si trovò nell'antico monastero di San Filippo di Fragalà in Sicilia. L'inno fu recitato il dì della festa annuale di San Calogero, dinanzi una calca che vi traea di monaci e popolo: e tra gravi pericoli viveano essi al certo, poichè l'autore or innalzava una preghiera a San Calogero che campasse il paese dalle minacce, guasti e assalti dei nemici; or volgeasi alla madre di Cristo per impetrar la riscossa dal giogo degli Ismaeliti, e più volte ei ritornava a quest'argomento. Da ciò parmi che a quel tempo Sciacca fosse città tributaria; nella qual condizione si pativano insieme il giogo e i pericoli. La invocazione che troviamo a pro degli ortodossi imperatori non esclude tal supposto; e ci dà un barlume per iscoprire l'epoca: i primi dodici anni, credo io, del regno di Michele Terzo (842-854), quando regnava per lui la madre, e molte castella della regione ov'è Sciacca aveano fermato coi Musulmani un patto che infransero di lì a poco.[927] Non sappiamo se sia vivuto in questo tempo medesimo Costantino di Sicilia di cui ci avanza un solo epigramma, nè anco intero.[928]
Più che cotesti miseri versi d'un'epoca di decadenza, ci premerebbe di ritrovare una cronaca greca, che pare inedita e passò sotto gli occhi di alcuni eruditi del secolo decimosesto; ma poi se n'è perduta la traccia. La quale cronaca, attribuita ad un Giovanni di Sicilia, principiando, al solito, dalla creazione del mondo, correa fino all'anno ottocentoottantasei; onde si suppose che l'autore fosse morto in quel tempo. Forse egli è il Siciliano, o pedagogo siciliano, di cui fanno menzione il Cedreno e Giovanni Scilitze, tra gli scrittori dell'istoria bizantina, anteriori all'undecimo secolo.[929] Forse è lo stesso Giovanni di Sicilia che comentò l'arte oratoria di Ermogene.[930] La cronica serbavasi nella Biblioteca Elettorale Palatina, dove par l'abbia veduto il Sylburgius; su la fede del quale e del Possevino, il Vossio registrò Giovanni di Sicilia tra gli storici bizantini, e conghietturò esser passato il MS. dalla Biblioteca Palatina nella Vaticana.[931] Lo Schoëll, ignoro su qual fondamento, affermò rinvenirsi il MS. nella Biblioteca di Vienna, con una continuazione infino al milledugento ventidue;[932] ma è lecito crederlo uno sbaglio dell'illustre filologo alemanno, poichè, se nol fosse, e i dotti editori di Bonn avrebbero pubblicato questo MS. nella Bizantina, e lo si troverebbe nel Catalogo di Daniele de Nessel. Rimane dunque il dubbio se il libro siasi perduto; se giaccia dimenticato nella Vaticana; ovvero se sia pubblicato sotto altro nome, per esempio, di Michele Glycas, ch'è è detto slmilmente Siciliano e che fece un magrissimo compendio storico dal principio del mondo all'anno 1118.
Lungi dalla patria e dai pericoli vissero due altri illustri Siciliani, Atanasio vescovo di Modone e Pietro vescovo degli Argivi che scrisse lo elogio funebre di Atanasio. Facendosi a narrare i primi anni della costui vita, Pietro ricorda la Sicilia come figliuolo amorevole ancorchè rettorico: e son le sole parole di carità cittadina che troviamo negli scritti dei preti siciliani del nono secolo. “Prima fu patria d'Atanasio il Cielo, poi Catania e la Sicilia, dice l'oratore; quell'isola famosa di cui potrei lodare il sito, la vastità, la bellezza, il temperamento dell'aere, la salubrità delle acque, i boschi, i folti giardini, la sapienza, prudenza, fortezza e giustizia degli uomini, e potrei noverare tanti illustri personaggi che vi nasceano; ma basti dir di Sant'Agata, la verginella, le cui reliquie rattengono la lava quando precipita dall'Etna. Ma a me non conviensi dilettarmi nelle lodi di patria terrena, poichè Atanasio, invaghito del Cielo, sdegnò quella come luogo d'esilio. Dalle rovine e tramonto della patria spuntò la novella luce di tant'uomo. Le avversità cimentarongli l'animo, come il fuoco affina l'oro, come i turbini di venti e i torrenti straripati mettono a prova la saldezza degli edifizii. Una barbarica genía d'Ismaeliti e Agareni era venuta a punir le nostre prevaricazioni e ostinazione al peccato. Quasi carnefici che vendicassero la divina giustizia, saccheggiarono e guastaron tante cittadi; fecero strazio di borghesi e di contadini; quale uccisero col ferro, qual fecero perire di fame o ne' flutti del mare; altri dettero a perpetue catene di servitù; altri aggravarono di miserie insopportabili; altri sforzarono a fuggire di Sicilia e andar vagando in terra straniera. Tra questi ultimi furono i genitori di Atanasio, i quali, senza mormorar contro Dio, ripararono a Patrasso in Peloponneso, non potendo guardare ad occhi asciutti il gregge di Cristo, la eletta dei Santi e il regio Sacerdozio calpestati dagli empii; non comportare il superbo disprezzo e la irrisione ai nostri mali.” Dopo questo esordio, che ho tradotto scorciandolo alquanto, vien la vita religiosa: come il santo giovanetto entrasse in monastero; come ne fosse fatto superiore; indi esaltato al seggio vescovile di Modone; e quivi risplendesse d'ogni virtù che s'appartenga a pastore d'anime: pio, caritatevole, forte, consolatore degli afflitti, vendicatore degli oppressi. “Questa, sclamava l'oratore, è la verace filosofia, non quella di Socrate;” e poi, dal principio alla fine, andava lodando il vescovo di Modone della virtù che Socrate gli avrebbe insegnato meglio che niun altro: la carità civile senza ubbie religiose. Ma forse spiaceva allora al clero che i filosofi della Magnaura parlassero troppo del sapiente Ateniese. Lo elogio chiudeasi con una lista di miracoli operati alla tomba di Atanasio, ch'era morto, com'e' pare, l'anno ottocento ottantacinque.[933]
Dal quale scritto ognun vede che l'autore non isfuggì ai difetti letterarii del tempo; le troppe fronde, le declamazioni su luoghi comuni, lo sforzo a simular di fuori il calor d'affetti che mancava nell'animo. Pietro, detto Siculo dalla patria, fuggito come tanti altri nella guerra musulmana, andò a cercare fortuna nei monasteri di Costantinopoli. Basilio Macedone, verso l'ottocento settanta, il mandò a trattare il riscatto dei prigioni a Tefrica, città tra Cesarea e Trebisonda, tra l'Eufrate e il Mar Nero, la quale oggi s'appella corrottamente Divriki; allor era sede principale dei Pauliciani. Questo nome avea preso una setta che stranamente innestava alla semplicità della primitiva Chiesa cristiana, il dualismo dei Manichei: setta allignata in Armenia e altre province dell'Asia Minore; la quale, dopo varie vicende di persecuzione, poco mancò che non fosse sterminata alla ristorazione delle Immagini. Le soldatesche mandate allor da Teodora contro i Pauliciani, vantaronsi di centomila vittime uccise tra col ferro, il fuoco e gli annegamenti; ma gli avanzi del popolo proscritto disperatamente presero le armi; elessero condottieri; collegaronsi coi Musulmani: e in trent'anni di guerre si vendicarono con usura; sì infesti e ridottati nelle finitime provincie dell'impero, che Basilio Macedone esitò ad assalirli. Indi l'ambasceria di Pietro Siculo; il quale non piegò alla pace que' fieri ribelli, ma riebbe da loro i prigioni; scoprì una pratica loro coi Bulgari; ed or disputando coi dottori eretici, or confabulando con gli ortodossi che trovava qua e là, in nove mesi che soggiornò a Tefrica, raccolse i materiali di una storia di quella eresia; e la scrisse tantosto, e la dedicò al novello arcivescovo dei Bulgari. Lucidamente spiegovvi i sei punti principali di quella eresia; la origine, la trasformazione delle credenze; ritrasse con critica, ordinò, espose non senz'arte i fatti materiali nati da quegli errori di metafisica: la persecuzione, la ribellione, le guerre. Potrebbe dirsi storia superiore a que' tempi, se non vi si notassero i vizii di forma accennati di sopra, e quel ch'è peggio mille volte, la corruzione del senso morale; la compiacenza teologica con che si narrano i supplizii dei Pauliciani; la irrisione delle vittime.[934] Pietro, fatto vescovo dopo questa missione, morì, com'e' pare, verso l'ottocento novanta.
Una leggenda tratta dai menologi greci, ma non favolosa al certo, riferisce alla stessa epoca il martirio di quattro Siciliani per nome Giovanni, Andrea Pietro e Antonio; dei quali Andrea e i due ultimi eran padre e figliuoli. Fatti schiavi alla espugnazione di Siracusa; condotti in Affrica al feroce Ibrahîm-ibn-Ahmed, questi educava i due giovanetti nelle discipline musulmane; e, vedendoli capaci e costumati, li adoperava in oficii pubblici: Antonio collettor di tasse;[935] Pietro tesoriere; il che non è inverosimile. Ma poichè essi serbavano in cuore la fede dei padri loro, il caso o qualche nemico li scoprì. Ibrahim li dannò a morte come apostati: onde furono imprigionati; lacerati a battiture; spezzate loro le ossa; sconciamente mutilati con tanaglie roventi. Il tiranno, tra cotesti supplizii, fa condurre il padre e gli tronca il capo egli stesso. Tratto poi Andrea dal carcere ov'era invecchiato, gli pianta una lancia in petto; e come quegli levava gli occhi al cielo rendendo grazie del martirio, lo finì con un altro colpo e gli spiccò anche il capo. Così fatti particolari, che in altro caso renderebbero assai sospetta la narrazione, la confermano trattandosi d'Ibrahîm. Il suo nome, quel di Basilio principe contemporaneo, la espugnazione di Siracusa, che son citati nella leggenda, tutti le aggiungon fede.[936]
Di assai maggior momento nella storia i casi di Giovanni Rachetta, detto Sant'Elia il giovane, del quale già abbiam fatto menzione. Nacque di nobil gente a Castrogiovanni, l'anno ottocento ventotto o ventinove;[937] essendo fanciullo di otto anni, i Cartaginesi, dice la leggenda, irruppero nella città: il qual tempo risponde in vero alla occupazione dei sobborghi di Castrogiovanni (837). I genitori, col fanciullo e l'avanzo di loro facoltà, si rifuggirono in un Castel di Santa Maria; e vissero tranquilli, finchè una notte parve a Giovanni udir voce del Cielo che gli annunziasse cattività e missione di confortare nella fede cristiana i conservi suoi. A dodici anni, segnalandosi già nello studio delle sacre lettere, ed esercitandosi assiduamente nella preghiera, gli si cominciò a squarciare dinanzi agli occhi il velo del futuro: predisse come i nemici farebbero impeto nel castello; come il tale e il tal altro sarebbero uccisi. Ciò sembra raccontato dal Santo, provetto negli anni e professante ormai apertamente la profezia. Forse non era bugia del tutto: forse egli stesso avea creduto, e in parte credea, vedere con altri sensi che i mortali. La immaginativa sua nudrita di spavento dei Musulmani, di terrori religiosi, di calamità sovrastanti e continua intervenzione del Cielo, creò un fantasma, e le parve mandato da Dio; presentì, e le parve ispirazione; e avveratosi talvolta il presentimento, ciò parve irrefragabil prova dell'intuizione profetica. Avventuratosi ai vaticinii, il giovine non potea smettere; fatto uomo maturo li vedea tornare utili a sè medesimo e ad altrui; alle anime e ai corpi; alla Chiesa e allo impero: e mille esempii gli permetteano d'inorpellare la verità a buon fine, senza interesse; poichè agli uomini non pare interesse privato la vanagloria.
Ciò detto, potrò seguire fil filo la leggenda. Gli abitatori del Castel di Santa Maria, sbigottiti alle parole del fanciullo, traevano a lui; ed egli a riprendere i vizii, a raccomandare penitenza e carità, e che secondo il vangelo si gettasse al foco il tristo legno. Ond'altri meravigliava di tanta saviezza; ma gli stolti e la feccia della plebe voltavan le spalle, dice amaramente il biografo: e parmi naturale che i poveri non abbiano mostrato punto di zelo a difendere un ordine sociale sì iniquo. Il virtuoso giovanetto incontrò tra i primi le calamità che presagiva. Uscito a diporto dal castello, imbattevasi in una torma di cavalli musulmani; era preso; venduto a un cristiano, forse trafficante di tal merce; e imbarcato sopra un legno musulmano, con altri dugento venti schiavi. Navigando alla volta d'Affrica, liberolli un dromone greco uscito di Siracusa; e Giovanni, che avea predetto anche ciò, fu reso ai parenti. Perdè il padre dopo tre anni. Mentre lo agitavano sentimenti contrarii, la pietà della madre e la brama di peregrinare ad esaltazione della fede, il decreto divino si compì. Fatto prigione in più fiera scorreria dei nemici, fu comperato anco da un cristiano; menato in Affrica; e venduto ad un altro cristiano, ricco mercatante di cuoia; il quale, preso del bello aspetto, modestia e integrità del giovane, gli affidò il maneggio della casa sua.
Lasceremo indietro un episodio tolto di peso dalla storia di Giuseppe il Giusto; non sapendo se pur vi sia di vero, vera usanza, dico, delle cittadine cristiane d'Affrica, Sicilia o Calabria in quel tempo, il rosso e il bianco[938] di che si liscia il volto, il ferro[939] con che s'arriccia i capelli la moglie del mercatante, ostinata a sedurre Giovanni. Chiaritosi innocente, ei si ricomperò coi frutti del proprio lavoro, ch'è tra i modi di emancipazione già notati secondo legge musulmana; i quali necessariamente veniano in uso tra i vassalli cristiani. Poscia salì in fama appo Cristiani e Musulmani al paro, per miracolose guarigioni di ferite e morbi: il che da molti secoli a questa parte è intervenuto e interviene tuttavia in Oriente a chiunque abbia una tintura di medicina, o almeno astuzia e baldanza. Dell'arte sua, qual che si fosse, il santo usò a far proseliti, credo io, in Egitto. Donde accusato dai barbassori musulmani o piuttosto dal clero giacobita,[940] corse pericoli: ma il governatore della provincia lo fe' uscir di prigione; ed egli non guari dopo se n'andò a Gerusalemme. Quivi il patriarca lo onorava; gli dava l'abito monastico e con quello il nome di Elia. Soggiornò tre anni in Gerusalemme; visitò il Giordano, il Taborre, il Sinai; venne ad Alessandria, o forse Alessandretta; e accingeasi a passare in Persia; ma le turbolenze nate in quel paese lo costrinsero a sostare ad Antiochia.
La voce divina che gli solea parlare ne' sogni, al dir della leggenda, lo visitò di nuovo in Antiochia, confortandolo a tornare in patria. Fu voce di coscienza in un animo generoso che sapea voltata la fortuna contro i Musulmani in Occidente; ovvero consiglio di qualche agente bizantino; o dello stesso patriarca di Gerusalemme che solea parteggiare per la corte di Roma, intesa allora a riconciliarsi con Basilio Macedone. Elia, vissuto mezzo in Sicilia e mezzo in paesi musulmani, ardente di zelo per la religione, ricordevole dei parenti, e, perchè no? anco della patria, era proprio il caso, nell'apostolato politico che dovea accompagnare le armi di Basilio in Sicilia. Narrammo già[941] com'Elia tornasse nell'isola l'ottocento ottanta a riveder la madre; osservare le forze dei Musulmani; incoraggiare il popolo; ed esortare alla battaglia i capitani bizantini. Cammin facendo, avea con breve e dotto parlare[942] convertito parecchi Infedeli. Dopo lo sbarco di Nasar presso Palermo, il frate siciliano passava da Reggio o da Palermo a Taormina,[943] dove dimorato pochi giorni prese seco un giovane di onesta famiglia, cui diè l'abito monastico e il nome di Daniele; e presagita la sconfitta del capitano Barsamio, navigava alla volta del Peloponneso. Il biografo ci narra tuttavia frequentissimi prodigii operati da Elia, e che, ciò non ostante, egli e Daniele, verso l'ottocento ottantuno[944] erano tenuti spie a Botranto; imprigionati da un Epinio governatore; e che, liberati per la morte del ribaldo, si proponeano di andare a Roma; ma vietato loro quel viaggio, sostavano a Corfù, albergati e onorati dal vescovo; e infine veniano a fondare un romitaggio nella valle delle Saline, tra il Capo dell'Armi e Pentidattolo in Calabria, a rimpetto di Taormina. Coteste vicende, come altrove il notai, non s'adattano al mero apostolato religioso; e par che Elia da una mano conducesse pratiche contro i Musulmani di Sicilia; dall'altra parteggiasse coi frati che non si acquetavano alla ristorazione di Fozio sul seggio patriarcale, sopratutto dopo la morte di Giovanni Ottavo (882). Elia mandò ad effetto il viaggio di Roma al tempo di Stefano Quinto (885-891), dopo alquanti anni passati in Calabria spargendo odore di santità con guarigioni; vaticinii di scorrerie dei Musulmani; comandare ai venti e alla pioggia; far miracoli anche per ischerzo; e sempre cattar favore nel popolo; costringere a riverenza i grandi. Ritornato ch'ei fu da Roma, predisse ai Reggini il prossimo saccheggio della città (888); e ritrattosi opportunamente a Patrasso, si mostrò di nuovo a Reggio, quando seppe partiti i nemici; e indi tornò al suo romitaggio: ma per fuggire l'aura popolare, come dice il biografo, o piuttosto il pericoloso soggiorno in su lo Stretto di Messina, andò a fondare un monastero in altro luogo, credo io, in un monte tra Seminara e Palmi, detto di Sant'Elia, ov'è tuttavia una chiesa. Viaggiando spesso nella estrema Calabria, esortava per ogni luogo i fedeli a lasciare il vino, le lascivie, le risse, se voleano preservarsi dalle calamità di quella guerra. Gli esempii d'Epaminonda e di Scipione ch'ei talvolta frammetteva ai suoi ammonimenti, mostrano che tenesse la riforma dei costumi non solo come rimedio teologico, ma sì diretto e temporale. Aggiugne la biografia, nè stentiamo a crederlo, che un Michele capitano d'armata in Calabria, ristorata la disciplina tra i suoi per consiglio di Elia, riportasse vittoria in uno scontro; lieve combattimento, non ricordato nelle cronache.
Io ho voluto sì minutamente raccontare i casi d'Elia da Castrogiovanni, perchè parmi modello dello zelo religioso, solo raggio di virtù che rimaneva in Sicilia. Il genio della schiatta vinta si raffigura tanto meglio in questo frate cittadino, quanto la vita sua durò dai primi assalti dei Musulmani sino al compimento materiale del conquisto, la espugnazione, cioè, di Taormina. Com'ei vi andasse, con che parole e teatrali atteggiamenti avvertisse i cittadini del fato che loro sovrastava, il diremo nel libro terzo, trattando di quella guerra. D'altronde Elia, o il biografo, non imaginarono nulla di nuovo in questo incontro, in cui il santo, al solito, se ne fuggì avanti che arrivassero i nemici. Andò ad Amalfi; tornò in Calabria; operò altri miracoli; favorì un Colombo audace ribelle; lasciò morire il capitano imperiale che gli negava la impunità di Colombo; e la impetrò egli stesso da Leone il Sapiente, a prezzo d'andare a visitare l'imperatore a Costantinopoli. Leone, come ognun sa, avea deposto di nuovo Fozio per far cosa grata a Roma; blandiva e ingrassava il clero per tenersi più tranquillamente la bella Zoe; e il biografo ci afferma che avesse già richiesto il taumaturgo siciliano di pregare per lo Impero, al quale effetto quegli s'era portato a Taormina. Adesso, entrato in nave per soddisfare la novella promessa a Leone, presentì in viaggio che morrebbe di corto; e andò a spirare in un monastero presso Tessalonica, il diciassette agosto[945] novecento quattro; comandando che si rendesse il suo corpo al monastero di Calabria, come fu fatto; e aggiuntovi ricchi doni e poderi dal religiosissimo imperatore, dice il biografo. Secondo costui Elia s'appressava agli ottant'anni, il che risponde alla cronologia dei fatti storici che si citano. Convengono altresì a quella età decrepita la eccessiva collera e i capricci che si notano negli ultimi fatti della sua vita.[946]
Ma i frati contemporanei di Elia, la più parte, preferivano all'attività e ai rischi una sterile pietà. Tra loro si ricorda un San Leoluca da Corleone, non educato, dice la leggenda, nè alla guerra nè all'oziosa filosofia; il quale, stanco di pascolare gli armenti nei campi paterni, andava a tosarsi i capelli nel monistero di San Filippo d'Argira; ove ammonito da un vecchio frate delle calamità che sovrastavano alla Sicilia, non le aspettò. Peregrino e mendico fuggissi a Roma; poi fondò un monistero in Calabria: si straziò in cento balzane penitenze ed oficii servili, e morì, dicono gli agiografi, nei primi anni del decimo secolo. Ma l'origine della leggenda è sospetta; e l'autore, facendo menzione di due fughe di Leoluca, alla venuta dei Vandali e poi dei Saraceni, non s'accorse del miracolo grandissimo che fabbricava.[947]
Taccio di Santa Oliva palermitana, confinata dai parenti a Tunis; dannata a morire tra i tormenti; uscita fresca dall'olio bollente, intatta dal foco; uccisa alfine con la spada da Pagani, Vandali o Musulmani, non si sa: leggenda sì assurda da non meritare esame.[948] Dello stesso conio parmi quella di Santa Venera da Gala, ricusante di andare a marito; e uccisa, per dispetto, dai fratelli pagani.[949] Nondimeno il dotto gesuita autor della raccolta, non volendo lasciar fuori cotesti nomi sì popolari in Sicilia, e trovando troppo pochi santi nell'epoca musulmana, destramente vi allogò le due donzelle. Così arrivò a noverare una diecina di martiri canonizzati, compresovi San Procopio vescovo di Taormina; la eroica morte del quale è attestata da memorie genuine, e la narreremo nel seguente libro, insieme con lo eccidio di quella città.
Percorse le biografie che abbiamo esposto, e ricercando qual maniera di civiltà avanzasse nella Sicilia cristiana del nono secolo, si troverà la sola religione; e poi si scoprirà che l'era pianta parasita che ingombrava l'albero, gli toglieva i succhi vitali, e invece di quello germogliava. Dell'incivilimento risguarderem solo i due aspetti primarii; cioè la coltura dello intelletto e il legame morale della società. Nel primo aspetto si vede che gli studii ecclesiastici, ristorati nell'isola da San Gregorio, caduti a poco a poco, risorti nella lotta contro gli Iconoclasti, produceano, ultimi frutti, le prediche di Teofane Cerameo, i versi di San Giuseppe Innografo e di Sergio, gli scritti di Teodosio monaco[950] e di Pietro Siculo, la cultura onde si armava in sua vendetta Gregorio Asbesta, ed aiutavano alla ristorazione delle lettere nella capitale dell'Impero: ma niun laico s'incontra nella lista; nessuno studio profano. Il legame morale, massimo scopo della religione come pensavano i nostri padri latini, si vede rilasciato e inefficace. Inefficace nei costumi, nei quali si scopre sfrenamento delle passioni brutali e bacchettoneria, che per lo più vanno insieme. Inefficace nei rapporti politici, poichè la più parte della Sicilia spensieratamente piegava il collo ai Musulmani. Io non ho detto che sola causa di tanto infiacchimento fosse stata la religione, o quella che si tenea religione nel basso impero; ma affermo sì che la religione poco o nulla giovò a mantenere lo Stato di cui era solo elemento vitale. E veramente, nelle cronache e leggende dei primi tempi della guerra non v'ha vestigio di difesa nella quale avessero partecipato virilmente i ministri della religione; anzi veggiamo che i santi si affrettavano a fuggire dall'isola. Aiutò solo il sentimento religioso, quando le popolazioni disperate si sollevarono per altre cagioni; quando l'impero bizantino rinvigorito mandò eserciti; quando un nodo di popolazione, respirata l'aria della libertà, prese a mantenerla da sè stesso: e in questi eventi i preti e i frati ebber sempre parte secondaria; non surse tra loro un Pier l'Eremita nè un Savonarola. Di tali uomini non nacquero giammai nella società bizantina; la quale per ogni luogo traea sua vecchiezza tra i vizii che testè abbiamo notato nella popolazione cristiana di Sicilia al nono secolo, e che vedemmo in tutta l'isola nei tempi anteriori al conquisto. Qual fosse stata nel medesimo tempo la società musulmana nell'isola, mi ingegnerò a ritrarlo nel Capitolo primo del seguente libro.
SOMMARIO DEI CAPITOLI CONTENUTI NEL PRIMO VOLUME.
INTRODUZIONE
Progredimenti nello studio delle istorie musulmane Pag. V
Che rimase in Sicilia delle tradizioni musulmane infino al XV secolo VI
Che ne raccolsero Fazzello, D'Amico, e Giambattista Caruso VIII
Le lettere orientali prospere in terraferma d'Italia nel XVII secolo e punto in Sicilia. Orientalisti siciliani: Maggio e Tardia IX
Impostura del maltese Vella X
Zelo di Monsignor Airoldi XII
Lavori del Di Gregorio e del Morso XIII
Saggi storici di Scrofani, del principe di Scordia e del Martorana XV
Bertolotti, Mortillaro, Giuseppe Caruso XVI
Premio dell'Istituto di Francia, accordato a M. Des Noyers. Pubblicazioni di M. Des Vergers e di M. Famin XVII
Opera del Wenrich XVIII
Materiali raccolti fino al 1843. Annali del Rampoldi XIX
Ricerche mie. Disegno della Biblioteca Arabo-Sicula, e della carta geografica comparata XXI
Quali ricerche rimangano a farsi XXIII
Due notizie che van corrette XXV
Materiali su i quali ho scritto. Sorgenti arabiche XXVI
Sorgenti bizantine e latine XXVIII
Limiti che ho assegnato alla mia narrazione XXX
Aiuti che riconosco dai professori di Parigi XXXIII
Favori altrui nelle ricerche XXXIII
Soscrizione fatta nel 1844 per la stampa di questa opera XXXV
Tavola analitica delle sorgenti arabiche: Opere perdute XXXVII
Opere esistenti XXXIX
LIBRO PRIMO.
Capitolo I.
Varie dominazioni straniere in Sicilia Pag. 1
Tratterò i conquisti musulmano e normanno 3
III secolo av. G. C. Decadenza della Sicilia sotto i Romani 3
II idem. Guerre servili 5
I idem. Condizioni dell'isola al principio dell'era volgare 7
I secolo di G. C. Migliorata sotto i primi imperatori 8
III idem. Novella decadenza 10
Incursione dei Franchi 11
V idem. Vandali, Eruli, Ostrogoti 11
VI idem. Conquisto di Belisario 12
Relazioni della Sicilia con la terraferma d'Italia 13
Capitolo II.
I secolo. Primordii del Cristianesimo in Sicilia. Leggende 15
I a VI secolo. Fatti storici 16
IV e V idem. Gerarchia ecclesiastica 18
V e VI idem. Patrimonii delle Chiese di Ravenna, Milano e Roma in Sicilia 20
VI idem. La Chiesa di Roma e i Longobardi 22
San Gregorio 22
anno 575. Avanti il pontificato fonda sei monasteri in Sicilia 23
590-604. Influenza e disegni suoi nell'isola 25
Provvedimenti di San Gregorio 26
VII e VIII secolo. Splendor della Chiesa Siciliana 28
Capitolo III.
Antichi rivolgimenti in Arabia 30
Schiatte di Kahtân e Adnân 31
Cittadini e Beduini 32
Tribù nomade. La famiglia 33
Ordinamento politico 33
Leggi civili 34
Suddivisioni delle tribù 35
Aristocrazia 35
Ordine delle città 36
Indole, costumi e usanze 36
VI secolo di G. C. Principii d'incivilimento 38
Cagioni di quello: commercio, Persiani, Romani, giudaismo, cristianesimo 39
Periodo eroico 40
Cultura intellettuale. Poesia 41
Eloquenza e filologia 43
Costumi 44
Opinioni metafisiche 44
Culto. Novatori 45
Reggimento politico della Mecca 47
an. 570-611. Gioventù di Maometto 49
Dommi e precetti dell'islamismo 50
Il Corano e la tradizione 53
611-622. Predicazione di Maometto 55
622. Egira 56
622-630. Guerra civile e trionfo 57
Tentativi fuor d'Arabia 58
632. Morte di Maometto. Virtù de' suoi discepoli 59
632-661. I primi califi e lor conquisti 61
Democrazia e socialismo. Diwani di Omar 63
Nuovi ottimati 67
Reazione dell'antica nobiltà 68
Autorità dei califi 70
Ordini militari degli Arabi 71
Avvantaggi loro su i Persiani e i Bizantini 74
Capitolo IV.
630-639. Nome di Saraceni. Prime notizie che se n'ebbero in Sicilia 75
639-649. Eresia monotelita 76
654. Papa Martino e Costante imperatore 78
636-647. Prime imprese marittime dei Musulmani 79
648. Vittorie di Cipro, Arado, Rodi 81
652. Tradizioni del primo assalto in Sicilia 82
Ritratto storico di questa impresa 88
653. Prigionia e condannagione di papa Martino 90
655. Battaglia navale e sconfitta di Costante 92
655-663. Viene in Italia. Pon la sede a Siracusa 93
663-667. Sua tirannide 95
668. È ucciso 95
Tradizione arabica di questo regicidio 96
Mizize e Costantino Pogonato 97
669. Abd-Allah-ibn-Kais a Siracusa 98
Impostura fratesca su questa scorreria 100
Capitolo V.
Condizioni dell'Affrica Settentrionale 103
Schiatte: Vandali, Mori, popolazioni pelasgiche, Berberi 104
Origine orientale dei Berberi 105
Governo Bizantino. Ribellione del patrizio Gregorio 108
641-647. Varie imprese degli Arabi. Fuga di abitatori dell'Affrica in Pantellaria 109
Ordine degli Arabi nell'occupare i paesi vinti 112
670. Impresa di 'Okba-ibn-Nafi'. Fondazione di Kairewân 112
670-682. Altri Conquisti di 'Okba 115
683. È sconfitto e morto 116
Lotte dei Berberi contro gli Arabi 118
683-694. Zoheir-ibn-Kais. Hasan-ibn-No'man. Presa di Cartagine. La Kahina regina dei Berberi 118
694-698. Domi i Berberi la seconda volta 120
699-704. Musa-ibn-Noseir in Affrica 122
711-716. Sue vittorie nel Mediterraneo, in Spagna e oltre i Pirenei 124
720. Raccesa la guerra dei Berberi 126
720-740. Gli Ibaditi e i Sifriti, eretici musulmani 127
741-742. Sconfitte e vittorie degli Arabi 128
757-800. Si rassoda il conquisto musulmano 129
Capitolo VI.
Varii modi di colonie 130
670-741. Quello che tennero gli Arabi in Affrica 131
Ordini e umori delle colonie arabiche. Giund. 132
Elemento democratico nelle città 133
Governo politico. Antagonismo di schiatte 134
Guerre civili che ne seguitano 135
742-757. Dominazione della casa di Habîb in Affrica 137
Influenza delle schiatte persiane 138
750. Esaltazione degli Abbassidi al califato 139
Nuovi ordini del principato. Letteratura 141
761-771. I Persiani del Khorassan e gli Arabi in Affrica 142
761-799. Riputazione della casa di Aghlab 144
800-812. Ibrahîm-ibn-Aghlab prende il governo d'Affrica 146
Autorità di questo novello principato. Parlamenti della colonia 147
Autorità dei giuristi nell'impero musulmano 149
812-817. Opposizione legale sotto il regno di Abd-Allah 152
817-825. Ziâdet-Allah. Sollevazione del giund 153
Epilogo delle condizioni dell'Affrica 157
711-755. Eventi in Spagna 158
755-796. Primi Omeîadi di Spagna 159
818. Tumulto a Cordova 160
825. Gli usciti Spagnuoli occupan Creta 162
Capitolo VII.
700. Gli Arabi d'Affrica si volgono contro la Sicilia. Prendono Pantellaria 165
Preparamenti navali a Tunis 166
703-705. Tre prime scorrerie in Sicilia. (Vedansi le due Aggiunte , p. 535.) 168
710. Assalto in Sardegna 169
720-740. La Sicilia infestata varie volte 171
740. Habib-ibn-'Obeida ne tenta il conquisto 174
752. Altra scorreria. Gli imperatori bizantini afforzan l'isola 175
748-750. Pestilenza 176
Cosimo dotto monaco italiano 176
Capitolo VIII.
VII secolo. Risorgono i municipii nelle città d'Italia rimase ai Bizantini 178
Umori d'independenza 179
702-712. Sollevazione in Italia 179
726-741. Iconoclasti. L'Italia si ribella dall'impero 180
741-800. Brighe dei papi. Afferrano la dominazione temporale. Carlomagno 181
Divisione territoriale dell'Italia in questo tempo 183
I governatori bizantini della Sicilia dan favore ai Longobardi di Benevento 184
778-787. Papa Adriano I agogna a stendersi nell'Italia meridionale 186
787. Resistenza che incontra 187
788. Pratiche de' Bizantini con Benevento 188
Impresa di Adelchi 189
788-813. Relazioni dei governatori della Sicilia con Carlomagno e coi papi 190
815-826. Impotenza dei Bizantini a ripigliare l'Italia 192
Capitolo IX.
Secoli VII e VIII. Condizione della Sicilia sotto i Bizantini. Schiatte 194
Proporzione tra i Greci e i Latini 196
Condizione sociale nelle città: Curia 198
Popolazione rurale: coloni; schiavi 199
San Gregorio, non libera in Sicilia nè gli uni nè gli altri 201
Divisione della proprietà. Poderi in enfiteusi 204
Industria e commercio 205
Gravezze 206
Reggimento dello Stato. Municipalità 207
Governatori e oficiali dell'impero 211
Esercito; beneficii militari 213
Vizii di questa istituzione 215
Navilio provinciale 216
Impotenza politica del popolo 216
San Leone vescovo di Catania e il mago Eliodoro 218
Zelo dei Siciliani nel culto delle immagini e indifferenza verso i papi 220
La Sicilia fatta luogo di confino. Epilogo della sua decadenza 222
Capitolo X.
728-812. Trattati dei Governatori dell'isola con gli Arabi d'Affrica 224
812-813. Minacciata di nuovo l'Italia 226
813. Fazioni nelle isole minori: ambasciatori degli Aghlabiti in Sicilia 228
813. Condizioni della tregua 229
Scorrerie in Calabria 230
819. Altra in Sicilia 231
Fallacia del supposto conquisto musulmano dell'820 232
E della impresa di Halcama 233
Origine di cotesta tradizione. Leone Affricano erudito del XVI secolo 234
Altro errore del Fazzello 236
LIBRO SECONDO.
Capitolo I.
821-826. Supposte cause della rivolta d'Eufemio; tradizione di Giovanni diacono di Napoli 239
E dell'Anonimo Salernitano 240
Autorità bizantine 241
Particolari della narrazione bizantina 243
Autorità musulmane 245
Particolari che narrano 246
Critica dei racconti 248
Indole e vicende principali di questo movimento 250
Capitolo II.
759-800. Ased-ibn-Forât, giurista 253
810-819. Riputazione sua 254
825. Fortezza d'animo che mostra nella guerra civile 256
827. Eufemio chiede aiuti in Affrica 258
Parlamento del Kairewân. Si disputa su la giustizia dell'impresa 259
E su la utilità. Vinto il partito 260
Dato il comando ad Ased 261
Mostra dell'esercito 262
Capitolo III.
Sbarco a Mazara 264
Vittoria di Ased 266
Marcia sopra Siracusa 269
Assedio 272
Respinti gli aiuti bizantini 273
828. Morte di Ased. L'esercito elegge il nuovo condottiere 275
Impresa de' conti di Toscana in Affrica 276
I Musulmani si levan dall'assedio di Siracusa 278
Fazioni di Mineo e Girgenti. Assedio di Castrogiovanni 278
Uccisione di Eufemio 281
Sconfitta del patrizio Teodoto 282
829. Moneta battuta dai Musulmani nel campo 283
Vittoria di Teodoto. I Musulmani condotti allo stremo in Mineo 285
Capitolo IV.
829. Inaspettato aiuto di Spagna 286
830. Nuove forze vengono di Spagna e d'Affrica. Presa e abbandonata Ghallûlia 288
850-831. Assedio e dedizione di Palermo 290
Capitolo V.
831. I Musulmani stanziano in Palermo 294
831-832. Discordie. Governo posto nella colonia dagli Aghlabiti 294
Poco dipendente dall'Affrica 296
832-833. Alessio Muscegh. Campo bizantino a Castrogiovanni 297
834-835. Fazioni di Abu-Fihr. Ucciso da' suoi 299
835. Vittoria di Fadhl-ibn-Ia'kùb 300
Abu-l-Aghlab emiro in Sicilia. Armamenti e fazioni navali 300
836-837. Scorreria sotto l'Etna e nella costiera settentrionale dell'isola. Sconfitti i Musulmani a Castrogiovanni, vi tornano a campo 305
837. Colpo di mano sulla città. La cittadella resiste 306
837-838. Assedian Cefalù. Cacciati verso Palermo 307
839-840. Aiuti d'Affrica. S'arrendono a patto ai Musulmani Platani, Caltabellotta, Corleone e le Grotte: fors'anco Marineo e Gersci 309
Capitolo VI.
856. La repubblica di Napoli chiede soccorso ai Musulmani di Sicilia 311
E lor dà un navilio per l'assedio di Messina 313
842-843. Espugnazione di Messina e di Alimena 313
845. Presa Modica. Sconfitta dell'esercito bizantino del tema di Kharsiano 315
846-847. Presa di Lentini 316
847-848. Sbarco dei Bizantini a Mondello, presso Palermo. Fallisce l'impresa 317
848-849. Dedizione di Ragusa 319
851. Morte dell'emir Abn-l-Aghlab 320
Scorrerie del successore Abbâs-ibn-Fadhl 321
852-853. Combatte altre importanti fazioni 322
853. Sforza Butera a dargli seimila schiavi 323
Considerazioni su tal patto 324
854-857. Campo al monte Artesino; scorrerie per tutta l'isola. Prese Cagliano e Cefalù 325
858. Sconfitta dell'armata musulmana di Sicilia ne' mari di Creta 328
859. Presa Castrogiovanni per colpo di mano 329
Esercito bizantino venuto in Sicilia e sconfitto 332
860-861. I Cristiani di Val di Mazara ripigliano le armi, e Abbâs li sforza a lasciarle 334
861. Morte di Abbâs 335
Capitolo VII.
841-872. Stato dell'isola in questo tempo 336
Popolazioni musulmane e cristiane. Principati d'Affrica e dì Costantinopoli 337
Comincia a variare la fortuna 338
Discordia tra i Musulmani 339
Il principato d'Affrica stringe il morso alla colonia 340
867. Basilio Macedone 341
Movimento dei Cristiani in Sicilia 342
861-862. Scambii d'emiri in Sicilia, e loro guerre con varia fortuna 342
862-863. Khafâgia-ibn-Sofiân. Un suo figliuolo sconfitto a Siracusa 344
864-865. Occupate Noto e Scicli. Gualdana de' mille cavalli 345
866. Prese Troina, Noto di nuovo, Ragusa e Ghirân 347
867-868. Altre fazioni 348
869. Colpo di mano fallito su Taormina 349
Sconfitta dei Musulmani a Siracusa. Khafâgia ucciso e tradimento 350
869-870. Rifatto emiro il figliuolo. Occupazione di Malta 352
871. Mohammed-ibn-Khafâgia ucciso anco a tradimento. Mutazioni di altri emiri 353
Capitolo VIII.
827-837. Pochi venturieri musulmani nella Italia meridionale 354
838. I Musulmani di Sicilia prendono Brindisi e rompon Sicardo 354
Reliquie di San Bartolommeo a Lipari 356
839-840. Sconfitta dei Veneziani a Taranto. Infestato tutto l'Adriatico 357
842. I Musulmani ausiliarii di Radelchi gli prendon Bari 360
842-843. Siconolfo chiama i Musulmani di Creta 361
843. Apolofar si spicca da lui 362
843-846. Allena la guerra in Terraferma 363
846. Nuove fazioni dei Musulmani su l'Adriatico e sul Tirreno 364
Assaltano Roma. Tentan Gaeta invano 365
849. Papa Leone IV e Cesario figlio del duca di Napoli. Sconfitta degli Affricani a Ostia 366
846-847. Masar condottiero musulmano a Benevento 367
851. Venuta di Lodovico Secondo imperatore. Accordo dei Longobardi. Presi a tradimento i Musulmani a Benevento 369
852. Vendetta dell'emir di Sicilia. Ripigliata dai Musulmani Taranto e rinforzata Bari 370
853-866. Il sultano di Bari 371
Guasti ch'ei reca dall'un mare all'altro 372
866-867. Chiamato nuovamente l'imperator Lodovico 375
867-870. Assedio di Bari 376
Basilio Macedone entra nella guerra 378
871. Vittoria de' Veneziani a Taranto. Bari espugnata 379
Disegni di Lodovico. Umori surti contro di esso nell'Italia meridionale 381
Mene attribuite al soldan di Bari prigione 382
Lodovico preso da Adelchi e rilasciato 383
In Affrica è eletto un emiro della Gran Terra, il quale sbarca con l'esercito a Salerno 384
Assedio di Salerno 385
872. Sconfitte dei Musulmani 387
875. Morte di Lodovico 388
Capitolo IX.
864-873. Vaghi cenni di vittorie dei Bizantini in Sicilia. Frequenti scambii d'emiri 389
873-877. Timori dei Musulmani d'Affrica. Il nuovo principe Ibrahîm-ibn-Ahmed comanda d'investir Siracusa 392
877. Topografia della città a quel tempo 394
Comincia l'assedio 395
Occupati i due porti 397
877-878. Fame ed epidemia 398
Tardan gli aiuti di Costantinopoli 399
878. Aperta la breccia 399
Entrano gli assalitori 402
Carnificine e distruzione 404
I prigioni avviati in Palermo 407
Loro vicende 408
Capitolo X.
878-879. Congiura di palagio in Palermo 410
879. Fazioni contro i Cristiani che si risentivano. (Vedesi l'Aggiunta, p. 336.) 410
I frati van suscitando. Sant'Elia da Castrogiovanni 411
880. Sconfitta dell'armata Affricana e Siciliana nel mar di Grecia 412
Sbarco dei Bizantini presso Palermo. Scorrerie loro per mare e per terra. Afforzano una città, forse Polizzi 415
881. Fazioni combattute dai Musulmani 417
881-882. Sconfitta loro a Caltavuturo. Miracolo cristiano e miracolo musulmano in questa battaglia 419
882-885. I Bizantini sgombran dall'isola 421
Debole guerra fatta dai Musulmani ai Cristiani che tuttavia si difendono 422
887. Guerra civile degli Arabi coi Berberi in Sicilia 424
888. Sanguinosa sconfitta de' Bizantini nelle acque di Milazzo. Dato il sacco a Reggio 425
Importanza della ròcca di Rametta in questo tempo 426
889. Cattività e poesia di Mogber-ibn-Ibrahîm, capitano musulmano di Messina 427
889-894. Sollevazione di Musulmani di Sicilia contro il governo d'Affrica 428
894-895. Pace formata da loro co' Cristiani di Valdemone 431
Fu compimento del conquisto 432
Capitolo XI.
875. Condizioni degli imperii d'Oriente e d'Occidente 432
Disegni di papa Giovanni VIII 433
Varii Stati in Italia 434
Nuovamente i Musulmani vi portan la guerra 435
Fazioni in Calabria e Puglia 435
I Bizantini racquistano parte del territorio 437
Condizioni di quel paese 437
876-885. Altre fazioni dei Bizantini 439
885-886. Vittorie e umanità di Niceforo Foca 440
Colonie mandate da Basilio Macedone, e pessima condotta dei suoi successori 441
875. Pratiche dei papi su la costiera del Tirreno 443
875-876. Assalti dei Musulmani in quelle parti 444
876. Desolazione della campagna di Roma 445
Giovanni VIII non è sostenuto dagli imperatori d'Occidente. Va a Capua e Napoli 447
877. Manda ad effetto una lega 448
Ordisce una congiura contro il duca di Napoli 450
878. È sforzato a pagar tributo ai Musulmani 451
879. Traccheggia con Atanasio vescovo di Napoli 451
880-881. Guasti dei Musulmani di Sicilia, chiamati da Atanasio 454
881. Il papa pronunzia l'anatema contro di lui 456
882. I Musulmani presi a tradimento. Morte di Giovanni VIII 457
882-883. Fatti di Gaeta 458
Colonia musulmana al Garigliano 459
883-888. Fazioni dei Musulmani rimasi in Terraferma 461
888-902. Loro debolezza 463
Capitolo XII.
827-900. Stato dei Cristiani di Sicilia. Varie relazioni loro coi vincitori 464
Occupazione successiva dei distretti dell'isola 464
Divisione in tre valli 465
Origine delle loro denominazioni 467
Condizioni politiche diverse dei Cristiani 469
Municipii indipendenti 470
Città tributarie 471
Istituzioni municipali in queste ultime 473
Dsimmi ossiano vassalli 473
Loro tributi 475
827-900. Statuti di polizia civile 475
Ed ecclesiastica 476
Amân di Omar a Gerusalemme 478
Istituzioni civili lasciate agli dsimmi nelle terre non abitate dai Musulmani 479
E in quelle ov'erano mescolati coi vincitori 479
Schiavi 481
Epilogo. Distribuzione geografica delle quattro classi de' Cristiani 483
Vicende intellettuali e morali 484
Fatti principali di storia ecclesiastica 485
Pochi martiri 486
842. Orazioni sacre attribuite a Teofane Cerameo 487
Quali appartengano al IX secolo 490
Allusioni ai costumi del tempo 492
Merito letterario di quest'oratore 493
800-847. San Metodio da Siracusa, patriarca di Costantinopoli 496
854-878. Gregorio Ashesta arcivescovo di Siracusa 498
Ultime vicende della sua vita 501
800-883. San Giuseppe l'Innografo 502
Ristorazione delle lettere al suo tempo 503
842-854. Sergio monaco di San Calogero e Costantino di Sicilia 505
886. Cronica di Giovanni di Sicilia 506
827-885. Atanasio vescovo di Modene 507
827-890. Pietro Siculo autor della Storia dei Pauliciani 509
890. Martirio di quattro Siracusani in Affrica 511
828-904. Sant'Elia da Castrogiovanni 512
Sua cattività 513
Liberato, viaggia in Oriente 514
Torna in Sicilia. Sue opere in terraferma d'Italia 515
Sua morte 518
827-900. San Leoluca da Corleone 519
Leggende di Sant'Oliva e Santa Venera 520
Influenza della religione su la cadente società bizantina di Sicilia 520
FINE DEL PRIMO VOLUME.
Aggiunte e Correzioni dell'Autore,
per Notizie venutegli alle mani in corso di stampa, errori tipografici ec.
Pag. 67, lin. 1 n.: MS. p. 406 seg. leggasi: ediz. Enger, p. 345 seg.
Pag. 67, lin. ult.: notarne leggasi: descriverne
Pag. 92, lin. 15: Sâd leggasi: Sa'd
Pag. 102 lin. 19: Novecentotrè leggasi: Novecentodue
Pag. 103 lin. 3 n.: 903 leggasi: 902
Pag. 115 lin. 15: e che sarebbe tornato a leggasi: e che piuttosto era da
Pag. 119 lin. 15: correndo eccitate le leggasi: correndo le eccitate
Pag. 132 lin. 18: su le terre passate in proprietà dei Musulmani leggasi: sopra una classe di terre dei Musulmani
Pag. 168 lin. 5 a 16: dei Cristiani. Capitanata... fino a Tunisi; bandisce
leggasi:
dei Cristiani. 'Atâ-ibn-Rafi', della tribù di Hudseil, condottiero dell'armata, proponendosi d'assalire la Sardegna, era entrato nel porto di Susa a far vettovaglie; quando ebbe lettere di Musa, che l'ammonivano ad aspettar la primavera e non affrontar le tempeste di quella stagione; ch'era, credo io, l'autunno del settecentotrè. Odorandovi l'invidia, 'Atâ non dette ascolto al consiglio, e salpò, e giunse ad un'isola di Silsila, come leggiamo nel MS. unico d'Ibn-Koteiba: sia che gli Arabi d'allora abbian dato tal nome a Lampedusa o altra isoletta vicina; sia, come parmi più probabile, che si tratti della Sicilia e i copisti n'abbian guasto il nome. Gli Arabi d'Egitto fecervi grosso bottino d'oro, argento e gemme; ma al ritorno, un turbine di vento li colse presso le costiere d'Affrica: onde molte navi perirono, tra le quali quella di 'Atâ; altre qua e là arenarono. E Musa, risaputolo, mandava incontanente una man di cavalli a percorrere le spiagge; prendere i legni e i marinai campati al naufragio; e condurre gli uni e gli altri nell'arsenale di Tunis(1). Entrato poi l'anno ottantacinque dell'egira (13 gennaio a 31 dicembre 704) Musa bandisce.....
Pag. 168 n. 1: Confrontinsi ec.
leggasi:
(1) Ibn-Koteiba, Ahâdith-el-imâma, MS. del professor Gayangos, fog. 69 recto e verso, e versione inglese in appendice al Makkari, The history of the Mohammedan dynasties in Spain, tomo I, p. lxvj. L'erudito orientalista di Madrid, mandandomi copia di questo squarcio di testo per lettera dell'11 maggio 1854, ha corretto in alcune parti la detta sua versione. Quanto all'isola assalita, sul nome della quale io gli esposi i miei dubbii, egli crede doversi ritenere la lezione del MS.; perchè pochi righi appresso la voce Sicilia vi è scritta con lettere diverse. Nondimeno io inclino all'opinione contraria, riflettendo che tal variante possa provenire da una delle due sorgenti alle quali par che Ibn-Koteiba abbia attinto questo racconto. In una di quelle il nome di Sicilia potea per avventura essere scritto con la sin in luogo di sad e la Caf (XXII lettera) in luogo di Kaf (XXI lettera); nella qual forma Sikilia, facilmente si può confondere con Silsila. Io ho veduto appunto Sibila chiaramente scritto su la Sicilia in una ottima carta geografica in pergamena, delineata nel 1600 da Mohammed-ibn-Ali-es-Sciarfi, da Sfax, posseduta dalla Biblioteca imperiale di Parigi.
Mi conferma nel mio supposto la Cronologia di Hagi-Khalfa, MS. di Parigi, ove leggesi, nell'anno 82, una impresa in Sicilia di 'Attâr-ibn-Râfi'; poichè, non trovandosi questo fatto in Ibn-el-Athîr, è verosimile che Hagi-Kalfa l'abbia tolto da alcun MS. d'Ibn-Koteiba più corretto che quello del professor Gayangos.
Pag. 169 lin. 8: del settecentoquattro... fino ad un millione e quattrocento mila lire.(2)
leggasi:
del settecentoquattro in Sicilia, ove presero una città della quale non sappiamo il nome; ma solo che, scompartito il bottino, toccassero cento dinâr d'oro a ciascuno, che vi si contavano tra novecento o mille uomini;(1) onde la somma, aggiuntavi la quinta del principe, torna quasi ad un milione e settecento mila lire.(2)
Pag. 169 n. 1: Confrontinsi.... fino a The history
leggasi:
Confrontinsi: Ibn-Koteiba, fog. 69 verso, MS. del professor Gayangos, il quale, mandandomi cortesemente copia di questo passo, ha corretto la lezione, da cui risultava un errore nella sua versione inglese posta in appendice all'opera di Makkari, The history
Pag. 184 lin. 19: Io lascerò indietro le brighe dei patrizii coi papi, delle quali s'è già fatto cenno, e quelle che seguirono.
leggasi:
Io lascerò indietro le brighe dei patrizii coi papi, che seguirono.
Pag. 360 lin. ult. n. 4: riconoscere.
leggasi:
riconoscere; ovvero la voce greca dei bassi tempi ταραβείνα, di cui il Du Cange nel Glossario Greco.
Pag. 411 lin. ult. n. 2: tomo IX, p. 117.
leggasi:
tomo IX, p. 117. Un marchese Crisafi e un suo fratello, cavaliere gerosolimitano, usciti di Messina per cagion della rivoluzione contro gli Spagnuoli e rifuggiti in Francia, segnalaronsi dopo il 1691, sotto le bandiere francesi, nell'America settentrionale. Dei quali il cavaliere, audace uom di guerra e di stato, si dice sia morto di crepacuore non vedendosi punto rimeritato dalla corte di Francia; e l'altro governò il distretto delle Trois Rivières, come si legge in Charlevoix, Histoire de la nouvelle France, tomo II, p. 95 seg. Questa famiglia, dopo mille anni di nobiltà, si è estinta in Messina, come mi si dice, verso il 1840.
NOTE:
1. Veggansi: Bartolomeo de Neocastro, cap. LXXXIV; l' Anonymi Chronicon Siculum, cap. I a V, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo I, p. 115, e tomo II, p. 121, seg.; e la Lettera di Fra Corrado, presso Caruso, Bibliotheca Historica regni Siciliæ, tomo I, p. 47.
2. Historia Sicula, deca II, lib. VI.
3. Tomo II, Palermo Sacro (1650), p. 627, seg.
4. Veggasi la Tavola Analitica, parte II, nº VII.
5. Syntagmata Linguarum Orientalium, Romæ 1643, in-fog. La più estesa è la grammatica georgiana, a scriver la quale il Maggio fu il primo, o tra i primi, in Europa. La turca e l'arabica, accompagnate dai riscontri in caratteri siriaci ed ebraici, mostrano anche buoni studii e molta pratica.
6. Veggasi la Tavola Analitica, parte II, nº XX.
7. Veggansi: Scinà, Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, tomo III, p. 296 a 383; Lettera di Italinski, nella raccolta Mines d'Orient, tomo I, p. 236; e gli opuscoli tedeschi citati da Wenrich, Commentarii, § XXVIII a XXXII, p. 36, seg.
8. Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi, pubblicato per opera di Alfonso Airoldi ec. Tomi 3 in-4, Palermo, 1789-90-92.
9. De supputandis apud Arabes Siculos temporibus, Palermo, 1786, in-4.
10. Nel Catalogo dei diplomi.... della Cattedrale di Palermo, ec., Palermo, 1842, in-8.
11. Opere di Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena, tomo III. Nel tomo IV si trova la illustrazione di un bell'astrolabio, del quale mi occorrerà far parola in questa Introduzione.
12. Due nella Biblioteca Sacra, tomo II, Palermo 1834, p. 40, seg.; e un altro nel Tabularium Capellæ Collegiatæ Divi Petri in regio Panormitano Palatio, compilato dal Garofalo, p. 28, seg.
13. Monete cufiche battute da principi longobardi, normanni e svevi nel regno delle Due Sicilie, interpretate e illustrate dal principe di San Giorgio Domenico Spinelli, e pubblicate per cura di Michele Tafuri, Napoli, 1844, 1 vol. in-4, con rami.
14. Ecco la tesi dell'Accademia: Tracer l'histoire des différentes incursions faites par les Arabes d'Asie et Afrique, tant sur le continent de l'Italie, que dans les îles qui en dépendent; et celle des établissements qu'ils y ont formés: rechercher quelle a été l'influence de ces événements sur l'état de ces contrées et de leurs habitants.
15. Annali Musulmani, tomo II, p. 340, nella descrizione d'Aleppo; II, 386; III, 388 e 463.
16. Mortillaro, Opere, tomo III, p. 189, seg.
17. Journal Asiatique, octobre 1845, p. 313, seg., tradotto da me in italiano, nell' Archivio Storico Italiano, Append., nº XVI (1847).
18. Mortillaro, Opere, tomo III, p. 190.
19. Hagi-Khalfa, ediz. di Fluëgel, tomo V, p. 163, nº 10, 568.
20. Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia, nº CXXXVII (maggio 1834), p. 18 del fascicolo annessovi d'un dizionario biografico.
21. Mortillaro, Opere, tomo IV, p. 110, seg.
22. Il titolo di Scerf-ed-dîn non era punto in uso nel X e XI secolo; e però la copia sull'ottone va riferita al XII o XIII. Inoltre questo Scerf-ed-dîn non fu al certo principe, ma qualche dotto.
23. Veggasi questo nome etnico nel Lobb-el-Lobbâb, di Soiûti.
24. Notices et Extraits des MSS., tomo VII, p. 54, 55.
25. Veggasi il Cosmos, versione francese, Paris, 1848, tomo II, p. 519.
26. MS. del dottor John Lee, e MS. di Parigi, al nome Ali-ibn-Gia'far etc.
27. Ediz. di Fluegel, tomo II, p. 135, nº 2243; e tomo III, p. 203, nº 4935.
28. Soiûti e Hagi-Khalfa, l. c.
29. Imad-ed-dîn, nella Kharîda, tomo XI, MS. di Parigi, Ancien Fonds 1375, fog. 20 verso, e MS. del British Museum, Rich. 7593.
30. MS. di Leyde, 677, Warn, notato nel Catalogo del Dozy, tomo II, pag. 142, nº DCCXLVI. Debbo questa notizia al Dozy stesso.
31. Ediz. Fluegel, tomo II, p. 135, nº 2213.
32. Baiân, tomo I, p. 254, nell'anno 387 (997), cita uno squarcio d'Ibn-Rekîk sopra un magistrato per nome Iusûf, col quale ci solea fare il giro delle province per levar le tasse.
33. Lettre à M. Hase, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 349 e 350; Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 292, nota del traduttore.
34. Questo fatto si ricava da Tigiani, Rehela, versione francese, di M. Alph. Rousseau, p. 120. (Estratto dal Journal Asiatique, série IV, tomo XX, sept. 1852, p. 176.)
35. Veggansi su questo autore: Ibn-Khallikân, versione inglese, tomo I, p. 228; Dozy, Historia Abbadidarum, tomo I, p. 405, nota 52; Ibn-Abbâr, MS. sella Società Asiatica di Parigi, fog. 408 verso; Ibn-abi-Oseba, MS. della Bibl. imper. di Parigi, Suppl. Arabe, 673, fog. 191 recto, seg.
36. Annales Moslemici, tomo II. p. 446, anno 336, e presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 81 a 83. Veggasi anche la Prefazione di Reiske nel primo volume degli Annales Moslemici, p. VIII.
37. Presso Di Gregorio, op. cit. p. 59.
38. Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 141 recto, e versione di M. Rousseau, p. 261 (Estratto del Journal Asiatique.)
39. Veggansi: Ibn-Khallikân, edizione di M. De Slane, testo arabico, tomo I, 145, e versione inglese, tomo I, 282, seg.; Quatremère, Mémoires sur les Khalifes Fatimites, nel Journal Asiatique, série III, tomo II (1836), p. 131; Sacy, Exposé de la Religion des Druses, tomo I, p. CCCCLX. Il Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 295, 296, avea dato ragguagli meno esatti su questo autore.
40. Rerum Arabicarum, p. 37, 38.
41. Codice Diplomatico di Sicilia, introduzione, tomo I. p. 15.
42. Veggasi la seconda parte di questa tavola, n. XXVIII.
43. Ediz. Fluegel, tomo IV, p. 146, e tomo V, p. 438, nº 11,590.
44. Annales Moslemici, anno 697 (1297), V, p. 144. Abulfeda conoscea di persona Gemâl-ed-dîn. Su le opere di lui si vegga Reinaud, Extraits etc. des Croisades, p. XXV.
45. Riscontrinsi: Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, introduzione, tomo I, p. CXLI, e Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 150.
46. Makkari, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, versione del prof. Gayangos, tomo I, p. 204, 481.
47. Veggasi a questo proposito la Historia Abbadidarum del Dozy, tomo I, p. 215 in nota. Sui varii titoli delle opere istoriche di Ibn-Sa'id, sia che tutti denotino opere diverse, o che alcuni indichino solemente diverse redazioni, si confrontino: Hagi Khalfa, edizione di Fluegel, tom. V, p. 438 e 647, n. 11,822 e 12,488; Casiri, Bibl. Arab.-Hisp., tomo II, p. 16; Abulfeda, Annal. Moslem., tomo I, p. viii, prefazione di Adler; Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 240; e gli scrittori nostri contemporanei che ho citato nelle note precedenti.
48. Leonis Africani De Viris illustribus etc., presso Fabricius, Bibliotheca Græca, tomo XIII (Hamburgo 1726), p. 278, nella vita di Esseriph Essachali ossia Edrisi, nella quale sono confusi il conte Ruggiero e re Ruggiero suo figliuolo.
49. Nell'opera di Makkari intitolata: The History of the Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. L.
50. Ibid., p. LXVI e LXVII.
51. Veggasi il nº XXVII della presente Tavola.
52. Veggansi le prefazioni del Caruso e del Di Gregorio nel Rerum Arabicarum, p. 33 a 39. Il Wenrich. Commentarii, Introductio, § IX, p. 14 e 15, replicò le conchiusioni del Di Gregorio senz'altro.
53. Fog. 83 recto dal MS., che dovrebbe essere in fin del volume e si trova verso la metà, sendo stati trasposti i fogli nella legatura.
54. Si legge in arabico, in foglio di altro sesto, messo tra il 75 e il 76 del MS. Vi si aggiunge in italiano: è scritto questo libro doppo mille e cinquecento anni; grossolana impostura, perchè tornerebbe al VI secolo dell'era cristiana.
55. Ediz. di Finegel, tomo III, p. 521. Non trovo nè anco la data nei MSS. di Hagi Khalfa della Bibl. di Parigi.
56. MS. fog. 5 recto.
57. MS. fog. 28 recto.
58. Fa cenno di quest'opera Ibn-Abbâr, MS. dalla Società Asiatica di Parigi, fog. 14 recto.
59. Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, tomo IV, p. 293, nº 8,486, e tomo II, p. 142, nº 2,280.
60. Libro de agricultura. Su autor el doctor.... ebn el Awam Sevillano, Madrid 1802, due volumi in foglio.
61. Nell'opera intitolata: Notices et Extraits des MSS., tomo XIII (1831) p. 437, seg.
62. Ibid., p. 633
63. Rerum Arabicarum, p. 237.
64. Nella prima parte di questa Tavola, nº IV.
65. È segnato col nº CCCCXLVII, e notato nel Catalogo di Stefano Assemani, presso Mai, Scriptorum Veterum Nova Collectio, tomo IV, p. 518.
66. Géographie d'Edrisi, 2 volumi in-4. Paris, 1836, 1840.
67. Solwân ec., ossiano Conforti Politici, di Ibn Zafer. Firenze 1851.
68. Ibn-Khallikân, versione di M. De Slane, tomo III, p. 306, non pubblicato per anco, afferma che la Kharîda si componea di dieci volumi. I MSS. di Parigi e Londra provano la inesattezza di cotesta asserzione, o che si fecero altre copie, divise in maggior numero di volumi. A ciò conduce ancora il MS. di Parigi. Suppl. Arabe 1051. il quale non risponde esattamente all'Ancien Fonds 1375 nè al MS. di Londra.
69. The Travels of Ibn-Batuta, London 1829, in-4, p. 6.
70. The Travels of Ibn-Jubair, Leyden 1852, in-8.
71. The history of the Almohades by Abdo-'l-Wáhid-el-Marrékoshi, Leyden 1817, in-8.
72. Jacut's Moschtarik, Gottingen 1846, in-8.
73. Veggasi Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduc. p. CXXIV, seg.
74. Gli squarci pubblicati lo sono stati da Monsieur Des Vergers nel 1811, note a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, a Tornberg, note al Kartas, ossia Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 411, seg. Altri ne usciranno nel Recueil des Historiens des Croisades publié par l'Académie des Inscriptions, tomo I, che si stampa attualmente per cura di M. Reinaud. Il Tornberg ha pubblicato il 1850 un volume d'Ibn-el-Athîr dal 527 al 583. I signori Dozy, De Frémery e altri orientalisti han dato in varie opere il testo e la versione di capitoli dello stesso autore che non appartengono al nostro argomento.
75. Extraits des Historiens Arabes..... relatifs aux Croisades, p. XVI.
76. Edizione Fluegel, tomo V, p. 75, nº 10,057.
77. Veggansi Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo arabo stampato ad Algeri, tomo I, p. 429, seg.; Gayangos, Mohammedan Dynasties in Spain by Makkari, tomo II, p. 528, seg., nota 20; e Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 46.
78. Nell'opera: Relation de l'Egypte par Abdallatif, appendice, p. 495, seg. 549, seg. Il professore Gayangos, The History of the Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, Appendice, p. XXXV e XXXVI, ne ha dato una versione inglese.
79. Op. cit., p. 478.
80. Edizione Fluegel, tomo IV, p. 133 e 288, nº 7883 e 8640.
81. Kitâb Wafayat al Alyan, Vies ec. par Ibn-Khallikan, publiées par le B. Mac-Guckin De Slane, Paris, 1842, tomo I, in-4, testo arabo. Ibn-Khallikan's Biographical Dictionary translated ec., tomo I, II, Paris, 1842, 1843. Il terzo volume non è pubblicato; ne ho avuto alle mani parecchi fogli per cortesia del traduttore e di M. Reinaud.
82. Ibn-Challikani, Vitæ illustrium virorum, Gottingæ, 1835, in-4.
83. Histoire de l'Afrique et de l'Espagne, intitulée Al-Bayano-'l-Mogrib, Leyde, 1848, 1851, 2 vol. in-8.
84. Série IV, tomo XX (1852), e série V, tomo I, (1853). Raccolti insieme i fogli e stampati a parte, fanno un volume di 290 pagine.
85. Annales Regum Mauritaniæ, Upsal, 1843, 1846, 2 vol. in-4.
86. Géographie d'Aboulfeda, Introduz., p. CL e CLI.
87. Col titolo di Annales Moslemici, Copenhagen, 1789, 1791, 5 vol. in-4.
88. Veggansi: Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, tomo V, p. 397, nº 14,069; Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks par Makrizi, tomo II, Parte II, p. 173; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduz., p. CLI.
89. Secondo la soscrizione che si legge in fine di questo MS., sarebbe autografo. Il barone De Slane la crede bugiarda per cagion di parecchi errori del MS. La stessa soscrizione è in uno dei MSS. di Leyde secondo il Dozy, Catalogo, I, p. 5.
90. Veggansi: Di Gregorio, Rerum Arabicarum, Prefazione al Nowairi; Airoldi, Prefazione al Codice Diplomatico ec., dell'Abate Vella; e Scinà, Storia Letteraria di Sicilia nel XVIII secolo, tomo III, cap. VI.
91. Histoire de Sicile, traduite de l'arabe du Novaïri par le citoyen J. J. Caussin, in appendice al Voyages en Sicile, dans la Grande Grèce et dans le Levant, par M. le Baron de Riedesel, Paris, an. X (1802), in-8.
92. Lettre à M. Hase nel Journal Asiatique, IV série, tomo IV, p. 329, (1844).
93. Catalogo del Dozy, tomo II, pag. 148, nº DCCLXIII, seg.
94. Rerum Arabicarum, p. 57.
95. Commentarii ec., §, VI, p. 8.
96. Veggasi la prefazione di Adler nel primo volume degli Annales Moslemici d'Abulfeda, p. VIII.
97. I volumi che io conosco del Mesâlek-el-Absâr, sono i seguenti:
I. Bibl. Bodlejana, Pococke, 191, già citato. — Geografia.
III. Parigi, Ancien Fonds 583. — Altra parte di Geografia.
XIV. Parigi, Ancien Fonds 1371: British Museum, Catalogo, nº DLXXV, parte II, p. 273. — Antichi poeti arabi.
XV. Escuriale, Catalogo di Casiri, tomo I, p. 68, nº CCLXXXV. — Altri poeti.
XVII. Parigi, Ancien Fonds 1372, già citato. — Altri poeti.
XXIII. Parigi, Ancien Fonds 612. — Storia già citata.
XXIII. (Numero di volume sbagliato o appartenente a una copia divisa altrimenti). Parigi, Ancien Fonds 904. — Mineralogia e Storia antica.
Il Casiri, Catalogo, tomo II, p. 6, nº MCDXXXIV e MDCXXXV, nota un Kitâb et-Ta'rif, altra opera del medesimo autore.
98. Stampato ad Upsal il 1839, un vol in-8.
99. Saggi di Schultz, inseriti nel Journal Asiatique. Questo passo si legge nella serie I, tomo VII, (1835), pag. 293, ove il traduttore ha dato anche il testo arabico di tal frase.
100. Il baron De Slane, che ricorda spesso con affetto i lavori di questo valente giovane, dice in una nota della Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, Introduction, p. III et IV, che si erano già stampate 108 pagine di testo e 140 della versione, e che rimangono come carta inutile nei magazzini del tipografo.
101. Su l'autore veggansi: Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I. p. 112, seg.; e Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks de l'Egypte par Taki-Eddin-Ahmed-Makrizi, tomo I, prefazione.
102. Catal. del Dozy, tomo II, p. 200, nº DCCCXX.
103. Journal Asiatique, série IV, tomo XIII, (1819), p. 256, seg.
104. Lexicon Bibliographicum et Enciclopædicum a Mustapha... Haij-Khalfa ec., Lipsia e Londra. 1840, 1852, sei vol. in-4.
105. Cronologia historica di Hazi-Halifé-Mustafà ec., Venetia, 1697, in-4.
106. Historie de l'Afrique de Mohammed-ben-Abi-el-Raïni-el-Kairouani, Paris, 1845, in-4, che è il vol. VII della Exploration scientifique de l'Algérie, Sciences historiques et géographiques.
107. Diodorus Siculus, lib. XXXIV, XXXV.
108. Florus, lib. III, c. 9.
109. Palmieri, Somma della storia di Sicilia, vol. I, cap. 14. Ma egli non vede la causa principale del danno là dove pare a me di trovarla, cioè nella proprietà territoriale usurpata dai cittadini romani ai Siciliani.
110. Diodorus Siculus, lib. V, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII. A creder mio, Diodoro giudicò male la prima guerra servile, credendola un imperversare di masnadieri e nulla più. Nella seconda riconosce il malo contentamento dei Siciliani. Ma la Legge Rupilia, alla quale io ho fatto allusione di sopra, sendo stata promulgata dopo la prima guerra, ne prova chiaramente l'indole politica.
111. Palmieri, l. c., sostiene che il grano prodotto dalla Sicilia al tempo di Verre, non montasse che ad un milione di salme d'oggi (2,753,659 ectolitri); cioè due terze parti della produzione attuale. Di più, crede che tutta la Sicilia allor ne desse appena quanto il solo Stato di Siracusa sotto Gelone.
112. Gli stadii di Strabone sono ordinariamente di 700 al grado. Il perimetro della antica Siracusa indi torna a 11 miglia e mezzo delle italiane di cui entran 60 in un grado. Ho seguíto in questo passo di Strabone la interpretazione di M. Letronne, Essai critique sur la topographie de Syracuse, p. 100, seg., non quella che erroneamente portava Siracusa ristretta da Augusto, come dei nostri tempi, alla sola penisola.
113. Strabo, Rerum Geographicarum, lib. VI, p. 265, seg.
114. Stefano dà 122 nomi di città e castella, tra le quali alcune poste per errore in Sicilia, ma altre ne mancano. (Stephanus, De urbibus, passim). Strabone (l. c.) ne contava 16, tralasciando senza dubbio i luoghi meno importanti. Plinio ( Historiæ Naturalis, lib. III, cap. 14) ne ha 69, delle quali 5 colonie romane, 13 oppida, 3 popolazioni di condizione latina, e 48 tributarie. Tolomeo (Cl. Ptolomei Geographiæ, lib. III, cap. 4) novera 64 tra città e castella, accordandosi con Plinio in 47 nomi, e discrepando negli altri, forse perchè il Romano segue la geografia politica, quando Tolomeo, geografo matematico, nota i luoghi non le genti. L'Itinerario (presso Fortia d'Urban, Recueil des Itinéraires anciens, Antonini Augusti Itinerarium, numeri XXIII a XXVII, p. 26-29) non vale in questa esamina, perchè dà le sole stazioni di poste; tra le quali 26 in città note.
115. Historiæ Augustæ Scriptores, tom. II, p. 85. Trebellii Pollionis, Galliani duo, cap. 4.
116. Zosimus, lib. I, cap. 67, 71.
117. Marini, I Papiri Diplomatici, numeri XXXII e XXXIII, che si credono frammenti di unico diploma dato il 489. Indi si scorge che Odoacre aveva accordato a un Pierio, forse il conte di tal nome, 690 soldi, dei quali 450 assegnati su certi beni a Siracusa, 200 a Malta, e che per questo diploma concedeva il rimanente di 40 soldi e una frazione, sopra tre fondi diversi posti nella massa Piramitana, nel territorio di Siracusa.
118. San Gregorio, che non credea certamente a tal fola, pur l'accreditava, con mille altre somiglianti, per promuovere la superstizione; e nel presente caso anco per aizzar la gente contro i Longobardi, barbari e tuttavia Ariani come i Goti. Vedi Divi Gregorii Papæ Dialogi, lib. IV, cap. 30.
119. Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, vol. II, lib. 5. Il volume che contiene questo passo, uscì alla luce in Palermo il 1716, sotto il dominio della casa di Savoia.
Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione 1, p. 405, seg. Il primo volume di questa egregia opera, che non si continuò per cagion d'una acerba e sciocca persecuzione, fu stampato a Palermo il 1743. Dopo mezzo secolo e più, il Di Gregorio ( Introduzione al Diritto pubblico Siciliano ) onorò la memoria dello autore con una timida parola. Domenico Scinà l'ha poi vendicato degnamente ( Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII ), tom. I, p. 260 e seg.
120. Acta Apostolorum, XXVIII, 12.
121. Quest'ultimo fatto si potrebbe spiegare altrimenti, supponendo una tratta di schiavi stranieri; ma quel di Tindaro lascia pochissimo dubbio, parlandosi espressamente di idolatri che non si voleano convertire ed erano difesi dai potenti. Ciò mostra che si tratti di contadini di Sicilia schiavi dei grandi proprietarii, e che il caso sia simile a quel di Sardegna. Oltre i seguaci del paganesimo greco e romano, qualche famiglia balestrata in quelle provincie dalla servitù prestava culto agli Angeli. Veggansi le epistole di S. Gregorio, lib. II, nº 98, indiz. XI (a. 593), e lib. V, nº 132, indiz. XIV (a. 596); le quali anco si leggono presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, numeri CII e CXXVII, pag. 142 e 175. Per la missione in Sardegna riscontrinsi le epistole di San Gregorio, lib. III, nº 23, 25 ec.
In Sardegna, oltre gli idolatri indigeni, v'era una popolazione detta dei Barbaricini che si mantenea con le armi alla mano; coi quali si trattava di far uno accordo, purchè si convertissero al cristianesimo. V'ha su questo argomento altre epistole di San Gregorio, una delle quali indirizzata al capo de' Barbaricini. Par che si tratti di Berberi, come l'han pensato alcuni eruditi.
La tarda conversione degli abitanti delle campagne in Sicilia è notata espressamente nel panegirico di San Pancrazio scritto nel IX secolo, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, pag. 11; e nella raccolta dei Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, pag. 237, seg.
In generale si riscontrino Pirro Sicilia Sacra, Gaetani, Di Giovanni, Caruso, nelle opere citate, dal I al VI secolo, e il compendio del P. Aprile sì diligente a far fascio d'ogni erba ( Della Cronologia universale della Sicilia, pag. 442, seg.). Le fonti della storia ecclesiastica di Sicilia nei primi tre secoli, per lo più sono i menologi greci e i Mss. del Monastero di Cripta Ferrata e di quello del Salvatore di Messina. Dei Mss. greci si sa quanto valgano. Gli altri puzzano spesso di XII e XIII secolo.
122. Veggansi i particolari in Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, Dissertazioni II, III, IV.
123. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº 80; presso il Di Giovanni, op. cit., si trova al nº LXXIX, p. 125.
124. Tre diplomi in papiro dati il 444, risguardanti il maneggio del patrimonio di un Lauricio in Sicilia e il danaro che il suo procuratore avea pagato ai conduttori della Chiesa di Ravenna anche in Sicilia, presso Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, presso Di Giovanni, op. cit., nº 211. Agnelli, Liber Pontificalis, presso Muratori R. I., tom. II, Parte I, p. 143, ove si dice di un Benedetto diacono, rettore del patrimonio della Chiesa Ravennate in Sicilia. L'autore visse nella prima metà del IX secolo. Il fatto portato da Agnello si riferisce alla metà del VII secolo, e prova la ricchezza di questo patrimonio e la corruzione dei rettori.
125. Theophanis Chronographia, p. 631. Supponendo che si tratti di talenti attici e ragionando il peso in oro puro, i tre talenti e mezzo varrebbero circa 300,000 lire italiane; ragionando i prezzi delle cose, circa un milione d'oggi.
126. Vedi le autorità citate dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, Dissertazioni V e VI.
127. Pirro, Sicilia Sacra, p. 25, nota del D'Amico.
128. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº 39, indiz. IX.
129. Ibid., lib. III, nº 15, VII, 27, VIII, 65.
130. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº 3, indiz. IX.
131. Lib. I, ep. 1, indiz. IX.
132. Lib. I, ep. 3.
133. Epistola di San Gregorio del 16 marzo 591, presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, LXVI, pag. 106, la quale manca nella edizione delle opere di San Gregorio che ho per le mani.
134. Lib. I, ep. 42.
135. Questo provvedimento è contenuto nella epistola 11, del lib. III, indiz. XII. Si è preteso che riguardasse la elezione delle badesse, non la professione delle suore, e così anche pensa il Di Giovanni, op. cit., p. 154. Ma il testo di San Gregorio mi par sì preciso da non dar luogo alle pie sofisticherie dei comentatori.
136. Per togliere ai lettori e a me stesso la molestia di troppe citazioni, non mi riferisco qui alla raccolta delle epistole di San Gregorio nella quale sono sparse quelle che toccano la Sicilia, ma piuttosto alla scelta di queste ultime che si trova presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, numeri LX a CCLXVI. Vedi anche la Diss. III del medesimo Di Giovanni; Pirro, Sicilia Sacra, nelle notizie dei varii vescovadi dal 590 al 604; e Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 188 a 224.
137. Pirro, op. cit., p. 35 a 38; Gaetani, op. cit., tom. II, p. 1 a 4; Anastasius Bibliothecarius, presso il Muratori R. I., tom. III, 142, 145, 147, 174.
138. Sce'b si chiama il tronco, come sarebbe Adnân; la prima diramazione si dice Kabîla; la seconda, I'mâra; la terza, Bain; la quarta, Fekhid; la quinta, A'scîra; la sesta, Fasîla: imperfette denominazioni e spesso confuse. Più comunemente la tribù vien detta Kabîla. Ho seguíto in tal distinzione l'antica e pregevole opera di Ibn-Abd-Rabbih ( Kitâb-el-Ikd, Ms., tom. II, fol. 43 recto), che cita l'autorità di Ibn-Kelbi.
139. La Kufîa, Kefía o Keffieh, che si pronunzia in questi varii modi, è un fazzoletto quadro legato intorno al capo con doppii giri di una funicella di pelo, e scende al collo e alle spalle. Ordinariamente listato a verde e giallo, o tutto bianco. Il professore Dozy, Dictionnaire des noms des vêtements ec., p. 394, sostiene che la origine di questa voce sia italiana. Credo al contrario che gli Arabi l'abbian portato in Italia.
140. Sâdât è plurale di plurale, come lo chiamano i grammatici arabi, della voce notissima Sâid, signore. Con questo titolo significativo chiamansi i senatori della Mecca di quel tempo nelle antiche tradizioni che raccolse Ibn-Zafer nel libro intitolato Nogiabâ-'l-Ebnâ ossia dei “fanciulli egregii.” Se ne parla a proposito di un aneddoto di Maometto fanciullo di dodici anni, entrato per caso nella sala del consiglio, mentre vi si trattava un alto affare. Vedi il MS. di Parigi, Suppl. arabe 486, fol. 48 verso, e Supp. arabe 487..... La presente citazione si riferisca al solo titolo che non credo sia dato da altro autore. La istituzione e autorità del consiglio è nota.
141. Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. I, fol. 3 recto e verso.
Sul giorno della fuga, gli eruditi non son di accordo; ponendolo chi in giugno e chi in settembre 622. Vedi Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. I, p. 16, seg.
In ogni modo il primo anno dell'egira cominciò il giovedì 15 luglio 622, secondo gli astronomi arabi, e, secondo l'uso comune, il 16; contando gli astronomi il principio della giornata da mezzodì, e i magistrati e il popolo dal tramonto del sole. Vedi Sédillot, Manuel de Chronologie universelle, Paris 1830, tom. I, p. 340, seg.
142. Parendomi inutile e noiosissimo di far citazioni in un quadro generale, mi contenterò di ricordare ai lettori le opere principali da consultarsi su la storia degli Arabi avanti l'islamismo e nei primi tempi di quello. Sono: il Corano; le Tradizioni di Maometto, delle quali la raccolta più compiuta che si trovi data alle stampe è il Mishkat-ul-Masabih, versione inglese del capitano Matthews; Pococke, Specimen historiæ Arabum; Universal history, ancient part, tom. XVIII., modern part, tom. I; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes.
L'ambasceria degli Arabi a Iezdegerd si legge in Tabari, Annales regum, edizione del Kosegarten, tom. II, p. 274 a 281, e se ne trova un compendio nel tom. III di M. Caussin, p. 474, seg., e una versione francese di M. de Slane, Journal Asiatique 1839, tom. VII, pag. 376, seg. Sarebbe superfluo lo avvertire ch'io non ho composto il discorso di Mogheira, ma soltanto abbreviatolo, lasciandovi per lo più le parole dell'originale.
143. Hariri, Mecamêt, ediz. di M. de Sacy, p. 34, edizione di MM. Reinaud e Derenbourg, p. 39. Questa tradizione è data nel Commentario. Veggasi anche lo aneddoto raccontato da M. Caussin, Essai, tom. III, p. 507.
144. Dirhem è corruzione della voce greca e latina drachma. Significa appo gli Arabi un peso e una moneta di argento. Il valore della moneta così chiamata è stato, come sempre occorre, vario ne' varii tempi e luoghi: spesso moneta di conto, ma non effettiva. I dirhem che abbiamo dei califfi, ancorchè in tempi posteriori ad Omar, tornano in peso d'argento a sessanta centesimi di lira italiana più o meno. Parmi che questo sia stato anco il valore che s'intendea sotto la denominazione di dirhem al tempo di Omar. Si può supporre che una giornata di lavoro presso i popoli stanziali di Arabia tornasse in quel tempo circa a due dirhem; poichè lo schiavo persiano il quale per vendetta uccise quel gran principe, sendo ito a chiedergli giustizia contro il proprio padrone che l'obbligava a pagare due dirhem al giorno, Omar gli avea risposto che mettendo su un molino a vento, avrebbe potuto vivere e soddisfare quel tributo.
145. Mawerdi, Ahkâm Sultânîia, lib. XVIII, ediz. Enger, p. 345 seg. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fol. 93, seg., sotto l'anno 15. Ibn-Khaldûn, Parte II, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 171 recto. Ho seguíto a preferenza Mawerdi, antico e rinomato scrittore di dritto pubblico. Le cifre son date con qualche divario da Ibn-el-Athîr e dagli altri compilatori moderni. Ma si ricava da tutti: 1º Che fossero scritti nei divani anche i fanciulli, le donne e gli schiavi; 2º Che vi fosse un minimum come noi diremmo, al quale avea dritto ogni persona di qualunque sesso, età e condizione. Perciò le pensioni più grosse debbono riguardarsi in parte come retribuzione militare, o riconoscenza di meriti particolari, e in parte come quota dei guadagni comuni, appartenente ad ogni associato nella fraternità musulmana.
146. Omar-ibn-Madî-Karib, interrogato dal califo Omar su la virtù delle varie maniere d'armi, rispondea così per le saette; per la lancia dicea: or è tuo fratello, or ti tradisce, ec. Egli si piccava sopratutto di maneggiar la spada e l'espresse con una parolaccia alla quale il califfo rispose con lo staffile. Ibn-Abd-Rabbih, Kitâb-el-I'kd, MS., tom. I, fol. 50 verso.
147. Ibn-Abd-Rabbih, op. cit., tom. I, fol. 26 verso. Tacito avea scritto: Velocitas juxta formidinem; contatio propior constantiæ est. De Mor. Germ. Ciò che dico delle armi e tattica dei Musulmani nei primi secoli dell'islamismo si ricava anche dai varii racconti di lor guerre, non meno che dai trattati di Leone il filosofo, Leonis imperatoris Tactica, cap. 18, edizione di Meursius, p. 810, seg., e di Costantino Porfirogenito, Constantini Tactica, ibid., p. 1398, seg.
148. Gli Arabi non han preso mai il nome di Saraceni, nè altro simile; nè avvi nei loro ricordi alcuna gente così chiamata. Questa vocabolo, scritto dai Latini Sarraceni e da' Greci Σαρακηνοὶ, presso Plinio il vecchio, Tolomeo e Stefano Bizantino, denota alcune tribù e picciole popolazioni; Ammiano Marcellino e Procopio l'usano in significato più vasto; e gli scrittori occidentali dopo l'islamismo gli danno la estensione che io ho accennato. Indi si vede come successivamente si allargasse quella denominazione tra il primo e 'l quarto e poi di nuovo tra il sesto e il settimo secolo dell'era volgare. L'etimologia è incerta, ancorchè gli eruditi si siano tanto sforzati a trovarla, cominciando da San Geronimo che facea derivare il nome dei figli di Agar da Sara; e scendendo ai moderni, i quali han creduto raffigurar certi vocaboli arabi che suonerebbero uomini del deserto, ladroncelli e simili baie. Secondo una opinione più plausibile, Saraceni, sarebbe trascrizione della voce arabica sciarkiun, al genitivo (sul quale per lo più si costruiscono i derivati in tutte le lingue) sciarkiin che significa orientali; la qual voce i Greci e i Romani non poteano trascrivere nè pronunziare altrimenti che sarkin o sarakin, mancando nell'alfabeto loro la lettera scin che risponde alla ch francese e sh inglese. Veggansi Gibbon, Decline and Fall, Cap. L, nota 30, con l'annotazione di Milman; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LVI, § 24; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p. 229, 231.
149. Evagrius, Historia Ecclesiastica, lib. VI, cap. 2; Nicephorus Callistius, Ecclesiasticæ Historiæ lib. XVIII, cap. 10; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. II, pag. 133. I due scrittori greci, portando il nome del principe arabo con l'articolo, scrivonlo Alamondar.
150. Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori R. I., tom. III, pag. 140.
151. Processo di papa Martino a Costantinopoli, presso Labbe, Sacros. Concilia, tom. VI, pag. 63, 68, 69.
152. All'accusa di connivenza con Olimpio il papa rispose che non avrebbe avuto forze da opporsi; e recriminò contro uno degli accusatori il quale s'era trovato in condizioni simili.
153. Beladori, presso Reinaud, Fragments Arabes etc. relatifs à l'Inde, p. 182. I due luoghi di Ibn-Khaldûn, riferiti nella nota seguente, mi inducono a tradurre in questo modo il passo analogo del Beladori.
154. Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, nel British Museum, MS. 9547, fol. 143 verso; e Storia, sezione 2ª, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, vol. II, fol. 180 verso. In questi due luoghi si legge in due modi alquanto diversi il motto riferito da Beladori e citato di sopra; se non che è attribuito ad A'mr-ibn-A'si, il quale, interrogato da Omar che fosse il Mediterraneo, rispondeva: “Una sterminata pianura su la quale cavalcano uomini di poco cervello, piantati come vermi in un pezzo di legno.” Nei Prolegomeni lo storico arabo aggiugne riflessioni generali su le armate dei Musulmani. Nell'altro luogo citato, che contiene la storia dei primi califi, narra che Mo'âwia proponesse ad Omar l'impresa di Cipro; che quegli domandasse ragguagli ad A'mr-ibn-A'si capitano d'Egitto, e che, avutane quella risposta, vietasse l'impresa nei termini ch'io ho riferito. Il citato squarcio dei Prolegomeni si legge in inglese, con interpretazione che non risponde del tutto alla mia, nell'opera del Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain by Al-Makkari, tom. I, p. XXXIV.
155. Le indulgenze che guadagnano i Musulmani combattendo per mare sono annoverate nel Mesciâri'-el-Asciwâk, p. 49, seg. Le opinioni contrarie leggonsi presso M. Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p. 370 e 476; e Invasions des Sarrazins en France, p. 64 e 67. Tra le altre v'ha che i legisti teneano come stolto, e indi incapace a far testimonianza in giudizio, chiunque avesse navigato due o più volte per cagion di mercatura.
156. Ibn-Khaldûn, Storia, sezione 2ª, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, vol. II, fog. 180 verso.
157. Ibid., fog. 181 recto.
158. Gli annalisti musulmani son dubbii su queste date. Le pongo secondo i bizantini citati da Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LIX, § 35, 36.
159. Presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 63, 68, 69. Il papa si discolpava dell'accusa d'aver mandato lettere e danari ai Saraceni, allegando non aver fatto che qualche picciola limosina a servi di Dio andati nel paese che occupavano gli Infedeli: senza dubbio la Sicilia. Gli apponevano inoltre i magistrati bizantini il favore dato all'esarco Olimpio che praticava contro l'imperatore, come pare, quando, rappacificatosi col papa, passò in Sicilia.
160. Tom. I, p. 532, sotto l'anno del mondo 6155, secondo il conto suo, che, ridotto all'era volgare, risponderebbe al 662. Il passo di Teofane, rettamente interpretato (e posso dirlo con certezza dopo averlo messo sotto gli occhi di M. Hase), è del tenor seguente: “Quest'anno fu occupata parte della Sicilia, e (i prigioni), a scelta loro, furon fatti stanziare in Damasco.” La inesatta versione latina del testo stampato ha portato alcuni compilatori moderni a sognare un volontario esilio di Siciliani a Damasco.
161. Presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 140; e Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 3, che dà più corretto questo luogo del testo. Parlando d'Olimpio, Anastasio dice: Qui, facta pace cum sancta Dei Ecclesia, colligens exercitum, profectus est Siciliam adversus gentem Sarracenorum, qui ibidem habitabant. Et, peccato faciente, major interitus in exercitu romano pervenit, et post hoc idem exarchus morbo interiit. Secondo le correzioni del Pagi al Baronio (anno 649 e seguenti), la passata d'Olimpio in Sicilia si dee riferire al 652; la qual data è determinata con certezza dai noti casi di papa Martino, che succedettero dopo la morte d'Olimpio. Veggasi anche lo stesso Anastasio Bibliotecario, Historia Ecclesiastica, anno 22 di Costante.
162. Beladori, MS. di Leyde, p. 275: “Dicono che abbia osteggiato la Sicilia Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di Kinda, ai giorni di Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân. Egli il primo portò la guerra in quest'isola; nè posò d'allora in poi l'infestagione, finchè gli Aghlabiti vi occuparono oltre una ventina di cittadi.”...... “Narra il Wâkidi che Abd-Allah-ibn-Kaîs abbia fatto prigioni in Sicilia, e presovi simulacri d'oro e d'argento incoronati di gemme, i quali mandò a Mo'âwia (il califo) che inviolli a Bassora, a fine d'imbarcarli per l'India, e quivi farli vendere con avvantaggio.” Come ognun vede, il Beladori non confonde queste due scorrerie, che veramente furono distinte, ancorchè egli nol dica espresso. Aggiungasi che il Beladori scrive l'impresa di Sicilia immediatamente innanzi quella di Rodi, su la data della quale non v'ha dubbio. Il Wâkidi citato da lui è il cronista le cui opere son perdute, e il nome è stato usurpato dal compilatore moderno di cui feci menzione. Nel testo di Beladori si legge Khodeig in luogo di Hodeig, com'io l'ho corretto, seguendo Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fol. 171, seg. E così anco ha fatto sopra altre autorità il dotto editore del Baiân, alla p. 9.
163. La più autorevole ancorchè più recente è il Baiân, p. 9 ed 11. Quivi si distinguono le due scorrerie di cui abbiam detto nella nota precedente; ma si attribuisce alla prima una circostanza peculiare della seconda, cioè gli idoli mandati a rivendere in India. Il Baiân pone la prima nel 34 (654-5) e la seconda nel 46 (666-7): date sbagliate l'una e l'altra per lo studio di connettere queste due imprese di Sicilia con quelle d'Affrica, con le quali non ebbero che fare. Sembra che altri compilatori abbiano confuso in una sola le due imprese per la medesima ragione, e perchè supposero che la espressione del Beladori “ai giorni di Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân” significasse mentre Mo'âwia era califo (661-680), più tosto che nel tempo ch'ei governò la Siria (640-661). Cotesti compilatori sono il Bekri, citato da Ibn-Scebbât, MS., p. 7; il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 1; e Ibn-abi-Dinâr, MS., fol. 10 verso, e traduzione, p. 41. Ibn-el-Athîr non fa menzione nè dell'una nè dell'altra impresa, talchè è da supporre qualche lacuna nel MS.
164. Dopo i lavori dell'Hamaker e d'altri orientalisti, è nota la falsità del libro del conquisto di Siria attribuito a Wâkidi; sul quale Okley in gran parte compilò la sua storia de' Saraceni, e trasse nel proprio errore Gibbon e parecchi altri. Questo libro e quei dello stesso conio su i conquisti di Egitto etc., contengono insieme tradizioni genuine e fittizie, e son opere di uno o parecchi compilatori. Or tra i molti MSS. del falso Wâkidi che v'hanno nelle collezioni europee, se ne trova uno al British Museum (Bibl. Rich. 7361. Nº CCLXXXVII del catalogo stampato) che contiene lunghe appendici su i conquisti di Cipro, Rodi, Affrica, Sicilia ed Arado. Su queste appendici è da notare in primo luogo che le non sian date, come il rimanente del MS., a nome or del Wâkidi ed ora del rawî, ossia raccontatore, ma sempre di quest'ultimo. In secondo luogo si scopre in qual tempo scrisse il rawî; perchè parlando dell'Etna (fol. 118 recto) ei cita il racconto fattogli da uno sceikh siciliano per nome Abu-l-Kâsem-ibn-Hakem, che vivea a corte del califo di Bagdad. Per avventura il medesimo sceikh si vede citato da Abu-Hâmid-Mohammed-ibn-Abd-er-Rahîm-el-Mokri nella compilazione di geografia intitolata Tohfat-el-Albâb, della quale conosciam la data, cioè l'anno 557 dell'egira (1161): e sappiamo che l'autore si fosse trovato a Bagdad nel 1122 e nel 1160 (Reinaud, Géographie d'Abulfeda, tom. I, Introduction, p. CXII ). Abu-Hâmid dice aver sentito di propria bocca di Abu-l-Kâsem a Bagdad le notizie ch'ei dà su l'Etna, le quali esattamente rispondono a quelle del falso-Wâkidi ( Tohfat-el-albâb, MS. di Parigi, Ancien Fonds 586, fol. 66 recto, e Suppl. arabe, 861, 862, 863). Mi par dunque certo che il compilatore dell'appendice sia vivuto nel XII secolo, e ch'egli non abbia preteso punto di attribuir l'appendice a Wâkidi, nel qual caso non avrebbe citato il nome d'un contemporaneo, uomo assai noto. Oltre a ciò le idee e lo stile, sì dell'opera principale e sì delle appendici, tengon bene della esaltazione religiosa, della esasperazione di sentimenti nazionali, e fin della moda di romanzi cavallereschi deste in Oriente dalle Crociate. Trovo finalmente nella appendice su la Sicilia: “Il re dei Rum ha tenuto sua sede dai tempi più remoti infino a questi nostri giorni, in tre luoghi soli, cioè la Sicilia, Roma, e Costantinopoli” (fog. 119 verso); la quale asserzione s'adatta alle vicende dell'impero fino al soggiorno di Costante a Siracusa, e risponde anco più esattamente al duodecimo secolo, in cui i potentati delle provincie italiane e greche erano appunto quei tre: imperatore bizantino, re normanno di Sicilia, e re dei Romani.
Passando alla critica dei fatti, basta a percorrere le appendici per accorgersi di quel miscuglio di vero e di falso che si trova in tutte le opere dello pseudo-Wâkidi; ma è notevole che la sconfitta navale e la uccisione di Costante, e poi il conquisto dell'Affrica, siano raccontati con circostanze più vicine al vero, e in generale senza le novellette che Ibn-el-Athîr e altri rinomati scrittori accettarono come fatti storici. Che se parrebbe sospetta a prima vista la mancanza del nome di chi capitanò questa impresa di Sicilia, ciò può provare al contrario la diligenza del compilatore, poichè i ricordi antichi erano divisi su tal punto, e chi dava l'onore a Mo'âwia-ibn-Hodeig, chi ad Abd-Allah-ibn-Kais. Del rimanente sarà agevole, a creder mio, a scevrare le finzioni dai fatti che il compilatore tolse da autori antichi, forse dal genuino Wâkidi. Perciò non ho avuto scrupolo ad ammettere questi ultimi nella mia narrazione. E perchè il lettore possa rivedere il giudizio mio, gli porrò sotto gli occhi la somma della detta appendice che è questa:
I Musulmani, levata una taglia in Affrica e ritrattisi da quella provincia, volgon la mente al conquisto di Sicilia, una delle antiche sedi dei re romani, vasta isola e ferace. Mo'âwia ne scrive al califo Othman, che assente. Gli Affricani, risapendo questo, ne danno avviso in Sicilia. Il principe della quale isola s'adira del disegno, senza prestarvi molta fede. Scioglie dalla costiera (di Siria) l'armata musulmana, di trecento legni, e improvvisa piomba sull'isola, ove il principe dall'alto del suo palagio la vede venire adorna di bandiere e gonfaloni e piena di guerrieri bene armati. Il principe di Cesarea che s'era rifuggito in Sicilia, quando il cacciarono gli Arabi, consiglia a quel di Sicilia di comporre per danaro. Quei spregia l'avviso, dicendo aver tali forze da far testa agli Arabi in cento scontri e resister loro per un anno intero. Nondimeno, surta che fu all'áncora l'armata musulmana, ei mandava a parlamentare. Viene a lui un oratore musulmano che per via d'interpreti gli propone l'islamismo, il tributo, o la guerra: lungo discorso seguíto da una lunga e sdegnosa risposta del principe di Sicilia. Infine un patrizio domanda all'oratore se alcun arabo voglia misurarsi con lui. “Sì lo faranno gli infimi dell'esercito musulmano;” risponde l'oratore. Descrizione del duello, in cui il patrizio è ucciso. Sbigottito il principe a tal esempio, si chiude in fortezza; e i Musulmani danno il guasto a varii luoghi ed espugnano con lor macchine varie castella. Infine si viene a giornata. Il principe rompe l'ala sinistra de' Musulmani; ma la destra tien fermo, e la battaglia dura in fino a sera. A notte avanzata, i Musulmani lasciano il campo, e rimontati su l'armata vanno ad infestare altre parti dell'isola. Il principe siciliano scrive ai Romani (d'Italia) chiedendo rinforzi; ma essi nè anco gli rispondono. Allora il principe di Cesarea gli suggerisce di tenere a bada il capitan musulmano con simulate proposizioni di pace e mandare per aiuto al principe di Costantinopoli: a che il Siciliano replica: “Mai noi farò quando anche dovessi perdere l'isola.” Così i Musulmani continuano a depredare il paese, finchè il principe di Costantinopoli mandavi secento navi ben munite di guerrieri. Avutone avviso, i Musulmani deliberano di partire immediatamente. Lascian l'isola nottetempo; e, dopo parecchi giorni di navigazione, giungono alla costiera di Siria; dove sbarcato il bottino e i prigioni, li arrecano a Damasco a Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân. Levatone la quinta, Mo'âwia la manda ad Othman, ragguagliandolo del fatto di Sicilia, e che i Musulmani ne fossero usciti sani e salvi. Dopo ciò, i Musulmani combattono l'isola di Arado, che fu l'ultima vittoria loro sotto il califato di Othman, e seguì lo stesso anno della uccisione di lui.
165. Ibn-Scebbâtt, MS., pag. 50, dice: “Sikillia è anche nome di una dhía (villa o podere addetto a beneficio militare) nella Ghûta di Damasco.” Il Merasid-el-Ittila' MS. di Leyde, ha quest'altro breve articolo: “Sikilliât (al plurale femminino) con tre i e la l raddoppiata, dicono sia nome di luogo in Siria.” Questa opera è compendio del gran dizionario geografico di Jakut, e si attribuisce il compendio allo stesso autore che vivea nel XIII secolo. Vedi Reinaud, Géographie d'Abulfeda, tom. I, p. CXXXIII, seg.
166. Dsehebi, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 746, tom. 1, anni 37 e 38.
167. Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 430.
168. Ibid., p. 253. Quest'impresa seguì l'anno 31 (651-52); e come altri due guerrieri di nome riportarono la stessa ferita di Ibn-Hodeig, così gli Arabi chiamarono i Nubii “saettatori delle pupille.”
169. Beladori, l c.; Baiân, p. 9, il quale riferisce l'impresa al 34, mentre Mo'âwia-ibn-Hodeig era in Affrica; e però è costretto a dire ch'egli mandò ad assaltare la Sicilia.
170. Soprattutto le tre espedizioni ch'egli capitanò nell'Affrica propria gli anni 34 (654-5), 40 (660-1), e 50 (670); l'una delle quali si scambiava con l'altra fin dal tempo dei primi scrittori, come l'afferma Ibn-abd-el-Hakem, che visse nel IX secolo dell'era cristiana. Veggansi Ibn-abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 262, 263, e Ancien Fonds 785, fol. 109 recto e 122, e il Riadh-en-nofûs, fol. 9 recto.
171. Riscontrinsi le citazioni che ho fatto sopra testualmente, e si giudichi se dian prova di tutti i fatti ch'io scrivo. Veggasi del rimanente Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LX, § 6, 36, con le correzioni del Saint-Martin. Parmi errore del Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tom. I, p. 28, e, su le orme di lui, del Wenrich, di avere trascurato questa impresa, e tenuto come primo assalto de' Musulmani quello del 669.
172. Le memorie e i documenti relativi a papa Martino, dalla esaltazione infino alla morte, si leggono presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, dal principio alla p. 70. Vedi anche Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 526 a 531; il Baronio, Annales, anni 649 e 651, con le correzioni del Pagi; e Le Beau, Histoire du-Bas Empire, lib. LX, § 4, seg. La strana accusa fatta a San Massimo si scorge dagli atti, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 433.
173. Corano, II, 250.
174. Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 255 seg. Da lui solo è riferito l'episodio di Bosaisa; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fol. 185 verso e seg., il quale pone la battaglia sotto l'anno 31, ma dice che secondo altri seguì il 34 (654-5), che è la vera data secondo gli scrittori bizantini, cioè: Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 528, seg.; Cedrenus, tom. I, p. 756. Il numero di mille navi bizantine è dato da Ibn-Abd-el-Hakem, e da Isidoro de Beja scrittore cristiano di Spagna dell'ottavo secolo, presso Flores, España Sacrada, tom. VIII, pag. 282, seg., il quale riferisce la battaglia al 652.
175. Theophanes, Chronographia, p. 525, seg., il quale dice positivamente a p. 532, che Costante si fosse deliberato a trasferire la sede dell'Impero a Siracusa; Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. Paulus Diaconus, lib. V, cap. 5.
176. Questa è la significativa frase del papa, e vi si legge: πλησοφοσηθεὶς, assicurato, fatto pienamente certo. Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 19, 20; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 272. L'epistola è data del 726, o del 730. Il Gibbon perciò avea piena ragione di dire che Costante fu vittima “di una tradigione domestica, e forse vescovile,” cap. 48. Lo zelo del clero siciliano contro i Monoteliti si vede dal gran numero di vescovi dell'isola che assistettero al concilio di Laterano del 649, e da una epistola di San Massimo presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 258.
177. Ibn-Abd-el-Hakem, MSS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 258, e Ancien Fonds 785, fog. 120 recto. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fog. 186 verso, e 228 verso, narrando il fatto due volte sotto due anni diversi, 31 e 35, nota il disparere dei cronisti intorno la data, e cita il Tabari come colui che ponea la morte di Costante nel 35. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fog. 180 verso. Ibn-Abd-el-Hakem, al par che Ibn-el-Athîr, dà a Costante il nome di Costantino e lo dice figliuolo di Eraclio.
178. Theophanes, Chronographia, tom. I, 558, seg. Veggasi anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXI, § 1, con le note del Saint-Martin, che crede si debba pronunziare Megegi il luogo di Mizize.
179. Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Ar., 742 quinquies, tomo II, fog. 181 recto, fa menzione di coteste scorrerie e della morte di Abd-Allah “nella costiera di Marka, terra di Rûm;” cioè Italia o Grecia. Ancorchè quelle che or chiamiamo le Marche non fossero intese allora sotto questo nome, il vocabolo Marca appartiene piuttosto all'Italia che alla Grecia.
180. Paulus Diaconus, lib. V, cap. 13, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte I, p. 481; Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, etc., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. La seconda impresa dei Musulmani, in Affrica è raccontata da Paolo dopo questa di Sicilia nel lib. VI, cap. 10. Da coteste autorità cristiane, o per dir meglio dall'unica tradizione che ripetono questi e altri cronisti, si sa che l'armata musulmana venisse d'Alessandria, dopo la partenza di Costantino Pogonato da Siracusa, che tornerebbe alla state o autunno del 669.
Le autorità musulmane sono citate di sopra (p. 84, nota 4, e p. 85, nota 1). Tra quelle il solo Baiân assegna una data a questa scorreria, e la fa supporre mossa d'Affrica, per comando di Mo'âwia-ibn-Hodeig che guerreggiasse in quella provincia. La data è del 46 (666-7), nè si deve esitare a correggerla secondo i Cristiani; poichè que' preziosi simulacri ci fan fede della identità della impresa. Replico che il diligentissimo Ibn-el-Athîr non fa molto di que' primi assalti sopra la Sicilia. Trovo soltanto ne' suoi annali, MS. C, tom. III, fog. 42 verso, sotto l'anno 49 (8 febb. 669, a 27 gennaio 670): “Quest'anno seguì la fazione marittima d'inverno alla quale andò O'kba-ibn-Nafi' con la gente d'Egitto.”
Debbo qui avvertire che il Rampoldi, Annali musulmani, tom. III, sotto il 668 porta la impresa di Abd-Allah-ibn-Kais, citando Nowairi, e aggiugnendo di capo suo che i Musulmani sbarcassero al capo Pachino. Poi sotto il 673, e come per lo più gli avviene senza citare alcuna autorità, narra il saccheggio delle campagne di Siracusa “per una divisione della gran flotta di Mohammed Ibn Abdallah,” ch'ei nell'anno precedente avea detto uscita “di Siria e d'Egitto” a far preda sul mare Egeo. Suppongo che il Rampoldi abbia veduto questo fatto in qualche moderna compilazione, come credo, persiana, chè non suole egli attingere ad altre sorgenti che a queste o a libri stampati in Europa; e forte sospetto che si tratti della medesima scorreria del 669, portata quattr'anni appresso per errore di cronologia. Han seguíto il Rampoldi, Martorana, Notizie storiche ec., tom. I, p. 29, citandolo, e Wenrich, Commentarii etc., lib. I, cap. 2, § 42, senza citare nè l'uno nè l'altro; e peggio, mettendo insieme questa impresa con una seguíta mezzo secolo appresso, e gittandole entrambe su le spalle del Nowairi, che parla soltanto della seconda.
181. Della leggenda di San Placido vi ha due compilazioni, fatte entrambe nel XII secolo sotto gli auspicii dell'Abate di Monte Cassino. L'una va sotto il nome del prete Stefano Aniciese, il quale finse di tradurre un testo greco, che, com'è naturale, non si trova; recato, diceasi, da Costantinopoli da un vecchio centenario che capitò a Salerno il 1115, e su le prime fu ributtato dai monaci Cassinesi, o ne fecero le viste. L'altra è di Pietro Diacono, monaco Cassinese, continuatore, come ognun sa, della cronica di Leone d'Ostia, compilatore delle vite degli illustri Cassinesi, e uomo erudito, che fu il principale autore o strumento della impostura di cui trattiamo. Costui dice che per comando dell'Abate ei si fe' a ripulire e racconciare la narrazione, e in fatto v'aggiunse i due episodii del 669 e 905. Leggonsi le due compilazioni presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 172 a 184, con le Animadversiones, p. 145 a 157, dove a p. 157 si trova per tenore il breve di Sisto V. Lo scrittore del breve tradisce un po' il segreto, noverando il rinvenimento delle reliquie di San Placido e Compagni tra le grazie di Dio, quæ his calamitosis et truculentis temporibus christiano populo in dies largitur. Il Gaetani e altri han cercato di rattoppare i casi di San Placido e di Mamuca, dicendo che i corsari sbarcati a Messina forse erano Vandali, Goti, Avari ec. Resterebbe a provare come il principe di questi Barbari germanici o finnici si chiamasse in purissimo linguaggio arabo Abd-Allah.
I supposti documenti si trovano presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 374, seg., sotto i numeri 11 a 20 e 22, 23, 26, 27, dei diplomi posti in appendice come dubbii o falsi. Il giudizio del Di Giovanni si vegga nelle note ai detti documenti, e segnatamente a p. 378; que' del Baronio e del Pagi negli Annales Ecclesiastici del primo, anno 541, § 27, 28, 29, e § 8 della Critica, an. 669, § 4; quello del Mabillon negli Annales Ordinis Sancti Benedicti, lib. XV, § 73.
182. Veggasi qui pag. 121, nota 1.
183. Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 180 recto, dicendo della vera o supposta migrazione delle tribù berbere in Affrica ove dominavano i Romani, e come gli Afârik divennero tributarii dei Berberi, aggiugne “Gli Afârik erano come servitorame e preda dei Romani.” Da ciò si comprende appunto quale popolazione gli Arabi designassero col nome Afârik o Afârika. Il fatto che mutando padroni fossero divenuti vassalli dei Berberi, fu vero in molti luoghi duranti le lotte dei Berberi contro i Romani e i Bizantini. Veggasi anche Ibn-Abd-el-Hakem presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 301, in appendice; Bekri, Notices et extraits des MSS. etc., tom. XII, p. 511; e il Baiân, p. 23.
184. Prova anche questa opinione una favola che leggiamo nel Riadh-en-nofûs, MS., fol. 2 recto, cioè che un Abd-Allah-ibn-Ziâdh-ibn-An'am asseriva aver visto a Cartagine un sepolcro sul quale era scritto in caratteri himiariti: “Io fui Abd-Allah-ibn-Arâsci inviato dall'apostolo di Dio Sâlih al popolo di questa città per chiamarlo alla vera fede: chè io loro arrecava la luce; essi iniquamente mi uccisero; e appartiene a Dio la vendetta.”
185. Su la origine dei Berberi e del nome loro mi riferisco alle testimonianze degli autori dell'antichità e arabi, e alle opinioni moderne che si ritraggono dai seguenti libri: Ibn-abi-Dinâr (detto nella versione francese el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 22, 28, con le pregevoli note di M. Pelletier; Leone Africano, presso Ramusio, Navigatione et Viaggi, p. 2; De Guignes, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. II, p. 152; Pococke, Specimen historiæ Arabum, p. 56; Gibbon, Decline and fall, cap. LI, nota 162; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, pag. 2, 3, 243; Castiglione, Mémoire géographique et numismatique sur l'Afrikia, p. 83, e 94 e seg.; De Slane, Ibn Khallikan's Biographical Dictionary, tom. I, p. 35; Ibn-Khaldûn, estratti nel Journal Asiatique, série II, tom. II (1828), p. 117, seg., e lo stesso autore nel racconto del primo conquisto di Affrica, MSS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, tom. II, fog. 180 recto; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. I, p. 21, 67, 68; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. XI, § 29. Si ricordino oltre a ciò i Barbaricini di Sardegna ai tempi di San Gregorio, dei quali si è fatto parola nel cap. I, p. 18, nota 1.
186. L'occupazione di Zuâgha, ch'è forse l'antica Sabratha, si ritrae da Tigiani, Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 125, con la nota dell'erudito traduttore M. Alphonse Rousseau.
187. Il barone Mac-Guckin De Slane, Journal Asiatique, série IV, tom. IV (1844), p. 329, seg. Le autorità da cui si ritraggono le varie narrazioni son citate da lui. Veggansi ancora Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fog. 170 recto a 172 verso; Baiân, p. 3, seg., dalle narrazioni dei quali mi persuado che M. De Slane abbia accusato a torto il solo Nowairi ed abbia troppo scemato il merito che torna ad Abd-Allah-ibn-Zobeir.
188. Ibn-Abd-Rabbih, MS. di Parigi, tom. II, fol. 161 recto, seg., dà il tenor di questa orazione o Khotba, come la chiamano gli Arabi, in una raccolta di così fatti componimenti; nè veggo alcuna ragione di metterne in forse l'autenticità. Ho aggiunto la vaga parola moneta al numero che scrive l'autore, senza dir se fosse di dirhem, ovvero dinar. Nel primo caso, la taglia posta da' vincitori sarebbe appena arrivata a un milione e mezzo di franchi o lire italiane ragionando il dirhem a 0,60, poichè la somma totale del dividendo torna a 2,500,000. Se poi si trattasse di dinar, contando questa moneta a lire ital. o fr. 14,50 secondo il valore intrinseco dei dinar ben conservati e supposti di oro puro, la somma sarebbe montata a 36 milioni circa. Leggo per conghiettura in questo non buono MS. la parola che ho tradotto “due tanti.” La somma di danaro menzionata nel discorso di Abd-Allah-ibn-Zobeir, sia che si ragioni in dirhem, sia anco in dinar, messa a ragguaglio con le cifre che si danno nel racconto ordinario, presterebbe nuovi argomenti a distrugger ciò che dicono i moderni cronisti. Uno squarcio della detta orazione si legge anche nel Riadh-en-nofûs, MS., fol. 3 verso; ma non arriva che alle parole “fino al tramonto del sole.”
189. Nowairi presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 323 in appendice. I quindici mesi debbono contarsi come principiati nell'anno 26, e terminati nel 27 dell'egira, e però comprendono tutto il 647 dell'era volgare. Ibn-el-Athîr pone il principio dell'impresa nel 26.
190. Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. XII, p. 500; Tigiani, Journal Asiatique, août-septembre 1852, p. 80.
191. Ibn-Abd-el-Hakem, MS. A, p. 258, narra cotesto ordinamento di Alessandria.
192. Ibn-Abd-el-Hakem, op. cit., p. 263, 264. L'autore distingue quattro imprese negli anni 34 (654-5), 40 (660-1), 46 (666-7), e 50 (670), delle quali la penultima capitanata da O'kba-ibn-Nafi', e le altre da Mo'âwia-ibn-Hodeig. Lo stesso si ricava dal Riadh-en-nofûs, MS., fog. 3 verso, e 4 recto, e 9 recto. Quelle date e nomi son confusi negli altri cronisti, cioè Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, p. 43 verso, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 5 e 12; Baiân, p. 8 a 11; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 327, seg.
193. È la notissima voce caravana. I lessicografi arabi la credono di origine persiana e che voglia dire comitiva di viandanti ed esercito. Secondo un rinomato filologo arabo di Sicilia, Ibn-Kattâ', citato da Ibn-Khallikân ( Biographical Dictionary, tom. I, p. 35), Kairewân ha il primo di questi significati e Kairuwân il secondo. Ma Beladori e Ibn-Abd-el-Hakem, de' quali ho già parlato, lo adoperano evidentemente nel senso di campo permanente, come è stato notato dal barone De Slane ( Journal Asiatique, Série IV, tom. IV, p. 354, 361). Donde pare evidente che tal vocabolo dal nono secolo, quando scrissero que' due cronisti, all'undecimo, quando visse Ibn-Kattâ', era andato in disuso nel significato di alloggiamento e riteneva l'altro soltanto. Forse anco alcune tribù gli davano quel senso e altre no.
194. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 2 recto.
195. Ibn-Koteiba presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, by Al-Makkari, tom. I, appendice, p. LVI.
196. Il Riadh-en-nofûs, MS., fol. 4 recto, parla di due colonne rosse che rimasero nella chiesa di Kamunia fino al tempo di Zladet-Allah (817-838) che le trasportò nella sua novella moschea cattedrale.
197. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 43 verso, seg. e 76 recto, seg., sotto gli anni 50 e 62; Riadh-en-nofûs, MS., fog. 4 recto a 5 verso; Baiân, p. 12 segg.; Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn Khaldoun, tom. I, p. 327, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 10, seg.
I quattro primi danno a un dipresso il medesimo racconto; l'ultimo lo scorcia. Ibn-el-Athîr nota che Wâkidi, Tabari e gli scrittori Maghrebini, o vogliam dire Arabi d'Affrica, discordavano intorno le date dei due governi di O'kba; ed ei s'appiglia ai Maghrebini, com'anch'io ho fatto. La gloriosa morte di O'kba che Ibn-el-Athîr narra il 62 (681-2), avvenne il 63, come s'argomenta dal Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto, che dice come fuggiti gli Arabi di Kairewân, ch'era stata occupata dal vittorioso Koseila, arrivarono a Damasco il 64, dopo la morte del califo Iezîd.
198. Si confrontino: Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto e verso, che porta l'impresa nel 69; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 77 recto, sotto l'anno 69 (688-9); Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 23, che porta la data del 67 (686-7); Baiân, p. 18; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 337-338. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tom. II, p. 105, sotto l'anno 685, porta l'assalto dell'armata di Sicilia non a Barca ma a Cartagine, confondendo così due imprese ben distinte.
199. Si confrontino: Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto a 6 verso; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, p. 18 recto, anno 74; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 338, seg.; Baiân, p. 18 a 23, sotto l'anno 78; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 24 a 28, che non porta data della prima impresa e assegna alla seconda il 74; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire des Berbères, tom. I, p. 198, 208, 213, 214; Tigiani, Journal Asiatique, août-septembre 1852, p. 120, 121; Leone Africano presso Ramusio, Navigatione et viaggi. Ho seguito piuttosto il Riadh che le altre autorità nel racconto delle due espugnazioni di Cartagine. Trovo nel solo Riadh la divisione del Fei e delle terre ai Berberi musulmani. Veggansi anche Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 566, 567, (an. 690); Nicephori Breviarium Historicum, p. 44, 45, (anno 696); Pagi, note al Baronio, Ann. Eccl., anno 691 e 696, che segue Nowairi; Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXII, § 19, seg.; e Gibbon, Decline and fall, cap. LI, note 157, 158, 159. Gli Arabi discordano tra loro nella cronologia, come s'è visto, e dai Cristiani intorno gli avvenimenti principali. Io ho preso da Ibn-el-Athîr la data della prima impresa di Hassân, e dai Bizantini quella della seconda, che mi pare determinata con sicurezza dalla rivolta dei soldati d'armata tornati di Cartagine, i quali giunti in Cipro, gridarono imperatore Tiberio II. Così i Bizantini sarebbero rimasi padroni di Cartagine, non un anno come dicono gli scrittori loro, ma tutto il tempo che Hassân soggiornò a Barca dopo la sconfitta del fiume Nini.
Credo abbia errato il Gibbon supponendo un rinforzo di Visigoti a Cartagine, su la sola testimonianza di Leone Africano, il quale (fog. 72 recto) dice che vi si ridussero “i nobili Romani e i Gotti.” Il testo Arabo di Ibn-Khaldûn ci mostra con certezza che Leone tradusse Goti la voce Farangia; e come lo stesso testo porta che i Farangia insieme coi Rûm furono sottoposti al tributo fondiario quando Hassân ordinò l'azienda pubblica in Affrica, così egli è evidente che non si tratti di soldati stranieri, ma della popolazione germanica rimasta nel paese, cioè dei Vandali.
200. Iftitâh-el-Andalus, MS. di Parigi (in appendice a Ibn-Kutîâ), fog. 51 recto. Questo libro, di antico autore anonimo, dice che Musa liberto degli Omeiadi discendea da una famiglia barbara fatta schiava da Khaled-ibn-Walîd. Perciò era oriundo di Siria o Mesopotamia.
201. Si confrontino: Ibn-Koteiba, presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain by Al-Makkari, tom. I, pag. LIV a LXVI, in appendice; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 42 verso, anno 89; Baiân, p. 24 a 28; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 29, 30; Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 343, seg., in appendice; Ibn-Scebbât, MS. p. 38, 39; Ibn-abi-Dinar, MS., fog. 6 recto e 14 verso, e trad. p. 14, 57, il quale riferisce con molta diligenza le varie tradizioni su la costruzione dell'arsenale di Tunis. Al dire di Ibn-el-Athîr e di Nowairi, Musa prese il governo d'Affrica l'89 (707-8); ma è più esatta certamente la data del 79 (698-9) che si trova presso Ibn-Koteiba.
202. Ibn-Koteiba, presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain by Al-Makkari, tom. I, p. LXX a LXXXVIII; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 353 seg.; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p. 4 a 12; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 6 a 19.
203. Baiân, p. 35 a 46; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 31 a 43; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 356, seg. Ho cavato alcuni particolari su la rivolta di Tanger da Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82 recto e verso, anno 117, e altri da Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 6 recto e 7 verso.
204. Veggasi su questa origine dei Rostemidi Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, trad. di M. De Slane, tom. I, p. 242, con le note del dotto traduttore.
205. Il plurale è gionûd; ma adottando la voce giund, come ci occorrerà di farlo, useremo sempre il singolare, dicendo al plurale i giund.
206. Cap. III, pag. 68.
207. Kâid suona etimologicamente dux e condottiero. Poi in Spagna divenne titolo di magistrato civile, e in Sicilia di uficio di corte e di nobiltà.
208. Ibn-Abd-Rabbih, MS., tom. I, p. 73.
209. Nowairi, presso De Slane, op. cit., pag. 363, 364; e ancora in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 39, seg.
210. Il Baiân, p. 68, dice che Iezîd-ibn-Hâtem (771) ordinò i mercati del Kairewân, dando un luogo separato ad ogni arte. Sappiamo d'altronde che ciascun'arte presso i Musulmani facea corporazione, avea moschea propria e componea società di assicurazione per le pene pecuniarie.
211. Questi fatti ricorrono a ogni momento nelle cronache dell'Affrica dal 740 in poi, presso Ibn-Khaldûn, Nowairi, nel Baiân, ec.
212. Biscir-Ibn-Sefwân della tribù di Kelb, e però di schiatta himiarita, preposto all'Affrica e alla Spagna l'anno 721, avea pieno quei governi di uomini suoi, che furono aspramente perseguitati dal successore O'beida della tribù medharita di Soleim. Un dei perseguitati mandò allora certi versi al califo, rimproverandolo d'ingratitudine contro una gente che avea sparso il sangue per portare al trono i maggiori di lui; e il califo depose subito il governatore. Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 358; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 22.
213. Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 6 verso, 7 recto. Questo antico scrittore è quegli che dice come il corpo di soldati omeiadi si componesse d'Arabi e di liberti. Vedi anche Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82 recto, seg., anno 117; Baiân, p. 41, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 34, seg.; Nowairi, presso De Slane, op. cit., tom. I, p. 359, seg.
214. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 42, seg.; Baiân, p. 47, seg.
215. Ibn-Hazm, le cui parole citate dal Baiân, p. 52, sono queste: “Tolti i diwani di mano agli Arabi, gli stranieri del Khorassân occuparono le faccende dello Stato; talchè si venne a una dominazione aspra e Cosroita.”
216. Oltre il ricordato passo del Baiân, e le storie generali, che non occorre di citare, veggansi gli articoli di M. Quatremère, e del professore Dozy nel Journal Asiatique, Série II, tom. XVI (1835), p. 289, seg.; e Série IV, tom. XII (1848), p. 499 seg.
217. Il predominio esclusivo dei Persiani nelle scienze fu notato da Ibn-Khaldûn, e si conferma con le biografie; come si scorge dal bel quadro della storia letteraria dei Musulmani che ha delineato M. De Slane, Ibn-Khallikan's Biographical Dictionary, Introduzione, tom. II, p. v, seg.
218. Baiân, p. 61 a 81. — Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 55 a 83. — Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 367, seg. — La degradazione del vecchio giund di Siria è riferita da Ibn-Kutîa, il quale dice che il giund del Khorassân rimaneva in Affrica fino a' suoi tempi, MS. di Parigi, fog. 7 recto. Debbo qui avvertire che in un manoscritto di Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 20 recto, si dà il soprannome di Sikilli, ossia Siciliano, ad un Abd-er-Rahman-ibn-Habîb, di schiatta koreiscita, che fu cacciato d'Affrica per ribellione contro gli Abbassidi il 772, e andò a morire sotto le insegne loro in Ispagna verso il 777. Costui era nipote di quel capitano dello stesso nome che portò la guerra in Sicilia il 740, e poi usurpò l'Affrica, come abbiam detto. Ma il nome di Siciliano, che l'avolo mai non portò e molto meno poteva appartenere al nipote, è dato a costui per errore di copia in luogo di Saklabi, ossia Schiavone, come gli diceano per l'alta statura e il colore olivastro del volto: Veggasi Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 94 verso; e Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte II, cap. XVIII, che sbaglia la data del tentativo di Abd-er-Rahman in Spagna.
219. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 9 verso.
220. Ibn-Ahbâr, MS. citato, fog. 9 verso, narra che i 40,000 uomini passati in Affrica il 761 aveano centoventotto kâid (condottieri). S'intenda che ciascun di costoro capitanasse una parentela, o vogliam dire frazione di tribù. Veggasi anche il Baiân, pag. 61.
221. Confrontinsi, Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 9 verso a 15 recto; Baiân, p. 80 a 86; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 59, 60, e 82 a 94; Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 374 a 405. Intorno Abbâsia, ossia El-Kasr-el-Kadim, si vegga Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS. tom. XII, p. 477. L'ambasciata di Carlomagno a Ibrahim è portata all'anno 801 da Einhardo, Annales, presso Pertz, Scriptores, tom. I, p. 190.
222. Veggansi Ibn-Khaldûn, Nowairi e il Baiân per tutto il tempo degli Aghlabiti.
223. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. — Di quest'altra adunata della gemâ' si dirà nel lib. II, cap. II. Basti notar per ora che al dire di Nowairi vi sedeano i wagîh e i fakîh, ossia notabili e giureconsulti.
224. Afferma Ibn-el-Athîr che il rito di Mâlek fosse adottato nell'Affrica propria per comando di Moezz-ibn-Badîs, secondo principe zeirita, MS. C, tom. V, fog. 46 verso, sotto l'anno 406.
Ho lasciato come superflue le citazioni su le vicende dei quattro dottori principi, che sono notissime. Su la giurisprudenza musulmana veggansi le introduzioni di D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman; Hamilton, The Hedaya; e il testo arabo di Mawerdi, Ahkâm-sultâniia. Il barone De Slane ha fatto un bel quadro degli studii legali dei Musulmani nella Introduzione al primo volume della versione inglese d'Ibn-Khallikân, p. XXIII, seg. Veggansi altresì: M. Worms, Recherches sur la Constitution de la Propriété territoriale dans les pays musulmans, pag. 1, seg.; e M. Perron, Aperçu préliminaire al trattato di Khalîl-ibn-Ishâk nella raccolta intitolata Exploration scientifique de l'Algérie, Sciences historiques, tomo X.
225. Baiân, p. 87; ibn-Khaldûn, l. c., p. 94 a 96; e Nowairi, l. c., tomo I, p. 404. Nowairi, il solo che dia la misura di superficie resa da me aratata, dice coppia arante. Si tratta al certo di una misura geodetica; e però la ho resa con la voce aratata, che non si trova nei vocabolarii, ma ch'era in uso in Sicilia fino ai principii del nostro secolo, e indicava un po' vagamente una vasta estensione di terreno. Ho evitato la nota voce iugero, la quale etimologicamente risponderebbe all'arabico zeug del Nowairi, ma denota una misura agraria ben diversa. Il jugerum era la superficie da potersi lavorare in un dì con una coppia di buoi; e risponde a poco più di 25 ari di misura francese. Il zeug, detto oggidì in Algeria zuigia, e anche gebda ( zouidja e djebda in ortografia francese), è misura varia secondo i luoghi, e risponde più o meno al terreno che un giogo di buoi può arare in una stagione. Secondo i cenni che ne dà M. Worms, Recherches sur la propriété territoriale dans les pays musulmans, p. 421-422, credo denoti una superficie che varia dai sette ai diciotto hectares. Ciò basta a comprendere che si potessero porre 8 dinâr, ossia da 100 lire italiane, sopra ogni aratata di terreno. La voce zeug con questo medesimo significato occorre nelle memorie siciliane del X e del XII secolo, come a suo luogo si dirà.
226. Si scorge ciò dalle parole di Asad-ibn-Forât riferite da noi nel Libro II, cap. II, su l'autorità del Riadh-en-nofûs.
227. Veggasi il Libro II, cap. II.
228. Rhiad-en-nofûs, MS., fog. 29 recto.
229. Così dice Sefadi, MS. di Parigi, biografia di Ziâdet-Allah. Sefadi visse nel XIV secolo. Gli scrittori dai quali copiò tal giudizio provano che vale per tutti i popoli il detto d'Ariosto: “Non fu sì santo nè benigno Augusto ec.,” canto XXXV, st. 26.
230. Ibn-Werdan, MS. di Tunis, § 1. Quest'autore aggiugne che furono spesi nella moschea di Kairewân 86,000 dinar, ossia da 1,247,000 di lire italiane. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 30 verso, senza far menzione di ciò, narra i particolari dell'opera: che fu abbattuta l'antica moschea; rifabbricata di pietra, marmi e cemento; che il Mihrâb, ossia nicchia in dirittura della Mecca, era tutto di marmo ornato di rabeschi e iscrizioni, sostenuto da colonne di bellissimo marmo screziato bianco e nero; e che dinanzi a quello si innalzavano due colonne rosse con fregi di vermiglio vivacissimo, che più belle non se n'eran viste al mondo, e l'imperator di Costantinopoli le volea comprare a peso d'oro. La voce che per analogia ho tradotto cemento, è sahn, scritta con le lettere 14, 6, e 25 dell'alfabeto arabo d'oriente.
231. Questo è senza dubbio il significato delle parole del Baiân, copiate al certo da più antico scrittore: giund, eserciti ( giuiusc ), e turbe sopravvegnenti ( wofûd ).
232. Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, p. 405, seg.; Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto, 28 recto e verso; Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. XII, p. 478; Ibn-el-Athîr, MS. A, fog. 120 recto, C, fog. 191 recto; Baiân, p. 88 a 95; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 96, 103. Ho corretto il nome di Tonbodsa su l'ortografia che ne dà Ibn-el-Athîr.
233. Confrontinsi, Baiân, p. 28; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, MS., fog. 16 recto, e traduzione francese, p. 63; Pagi, ad Baronium, ann. 696; e le autorità citate da Gibbon, Decline and fall, ch. LI, note 207, 208, 209.
234. Mi riferisco per i particolari alle parti 1ª e 2ª dell'accurato lavoro di M. Reinaud, Invasions des Sarrazins en France.
235. Veggasi Ibn-Khaldûn presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. XXXV, seg.
236. Confrontinsi Ibn-Kutîa, MS., fog. 21 recto e verso; Baiân, tomo II, p. 78, 79, 82; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 106 verso, e 107 recto, sotto l'anno 198; e 139 verso, sotto l'anno 206; Ibn-Khaldûn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe 742 quater, tomo IV, fog. 96 verso; Hollet-es-siiarâ, presso Dozy, Notices sur quelques MSS., p. 38, seg.; Marrekosci, p. 13, 14; Nowairi, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 702, fog. 72 recto; Ed-Dhobbi, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 5 verso; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte II, cap. XXXVI. La tradizione che scolpa Hâkem si legge nel Baiân, compilazione del XIII secolo. La sorgente primitiva fu senza dubbio qualche cronica dei liberti di casa Omeîade, scrittori la cui servilità è stata notata dal professor Dozy, editore del Baiân, Introduzione, tomo I, p. 16, seg.
237. Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 146 recto e 147 verso, anno 210; Hollet-es-siiarâ; Ibn-Khaldûn; Nowairi, Conde, ll. cc. Veggasi ancora Renaudot, Historia Patriarcharum Alexandrinorum, dalla p. 251 alla 270, che porta i fatti, ma sbaglia la cronologia.
238. Theophanes Continuatus, p. 73 a 77, 79 a 81, § i 20 a 23, 25 a 26 del regno di Michele il Balbo; Symeon Magister, p. 621 a 624, § i 3, 4 del medesimo regno. — La Continuazione di Teofane, ch'è la principale tra queste autorità bizantine, riferisce il primo disegno dell'impresa dei Musulmani sopra Creta al principio della guerra di Tommaso di Cappadocia, che tornerebbe all'821. Su questi e altri riscontri vaghi al paro, i compilatori han posto la occupazione dell'isola nell'824, e l'impresa d'Orifa nell'825. Secondo Ibn-el-Athîr, loc. cit., i Musulmani spagnuoli non partirono d'Alessandria che l'anno 210 (aprile 825 ad aprile 826).
239. Ibn-Khaldûn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tom. IV, fog. 21 recto.
240. Bekri, nella raccolta Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 500. Quest'autore non assegna altra data che il califato di Abd-el-Melik-ibn-Merwân; il quale durò venti anni, dal 685 al 705. Ma senza timor di errore ne possiam togliere i primi tredici anni, quando gli Arabi aveano ben altro da fare in Affrica che perseguitare i rifuggiti di Pantellaria. Non trovandosi ricordato in questa fazione il nome di Musa, è probabile che seguisse prima della sua venuta in Affrica, la data della quale per altro è dubbia. Fa cenno di questa impresa, forse su l'autorità di Bekri, il Tigiani, Rehela, nel Journal Asiatique, août-sept. 1852, p. 80; e aggiugne essere state allora occupate le isolette vicine all'Affrica.
241. Ibn-Koteiba, Ahâdîth-el-imâma, presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, Appendice, p. LXVI.
242. Le varie opinioni degli eruditi musulmani sono esposte da due diligenti compilatori: Tigiani, Rehela, nel Journal Asiatique, août-sept. 1852, p. 65 a 71; e Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, traduzione francese, p. 1, a 20. — Ho detto “sgomberare” e non, come gli scrittori musulmani, “scavare” il canale, poichè noi sappiamo che questo e la laguna esistevano ne' tempi antichi. Veggasi a tal proposito una nota del traduttore del Tigiani, M. Rousseau, op. cit., p. 69, 70.
243. Tigiani, op. cit., p. 69, dice che il califo comandò di inviarsi dall'Egitto ad Hassân duemila Copti, tra uomini e donne, perchè si servisse dell'opera loro, e che Hassân distribuì quelle famiglie tra Râdes, presso Tunis, e gli altri porti dell'Affrica. Indi si vede manifestamente che fossero artigiani.
244. Tigiani, Rehela; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani); e Ibn-Koteiba, Ahâdîth-el-imâma, ll. cc.
245. Lo argomento da ciò, ch'ei mandò in Sicilia mille uomini soltanto, non ostante il cominciato apparecchiamento di sì grande numero di legni, i quali, per piccioli che fossero, doveano portare almeno una cinquantina d'uomini ciascuno, e però una forza totale di 5,000 uomini o più.
246. Ibn-Koteiba, Ahâdith-el-imâma, MS. del professor Gayangos, fog. 69 recto e verso, e versione inglese in appendice al Makkari, The history of the Mohammedan dynasties in Spain, tomo I, p. lxvj. L'erudito orientalista di Madrid, mandandomi copia di questo squarcio di testo per lettera dell'11 maggio 1854, ha corretto in alcune parti la detta sua versione. Quanto all'isola assalita, sul nome della quale io gli esposi i miei dubbii, egli crede doversi ritenere la lezione del MS.; perchè pochi righi appresso la voce Sicilia vi è scritta con lettere diverse. Nondimeno io inclino all'opinione contraria, riflettendo che tal variante possa provenire da una delle due sorgenti alle quali par che Ibn-Koteiba abbia attinto questo racconto. In una di quelle il nome di Sicilia potea per avventura essere scritto con la sin in luogo di sad e la Caf (XXII lettera) in luogo di Kaf (XXI lettera); nella qual forma Sikilia, facilmente si può confondere con Silsila. Io ho veduto appunto Silsila chiaramente scritto su la Sicilia in una ottima carta geografica in pergamena, delineata nel 1600 da Mohammed-ibn-Ali-es-Sciarfi, da Sfax, posseduta dalla Biblioteca imperiale di Parigi.
Mi conferma nel mio supposto la Cronologia di Hagi-Khalfa, MS. di Parigi, ove leggesi, nell'anno 82, una impresa in Sicilia di 'Attâr-ibn-Râfi'; poichè, non trovandosi questo fatto in Ibn-el-Athîr, è verosimile che Hagi-Kalfa l'abbia tolto da alcun MS. d'Ibn-Koteiba più corretto che quello del professor Gayangos.
247. Ibn-Koteiba, fog. 69 verso, MS. del professor Gayangos, il quale, mandandomi cortesemente copia di questo passo, ha corretto la lezione, da cui risultava un errore nella sua versione inglese posta in appendice all'opera di Makkari, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, p. LXVII, seg.; Ibn-Scebbât, MS., p. 38 e 39, che cita, abbreviandolo in su la fine, il medesimo passo d'Ibn-Koteiba; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, traduzione francese, p. 14 e 57, e MS., fog. 6 recto, e 14 verso.
248. Ragiono il dinâr secondo il valore del metallo, il cui peso medio dà 14 lire e 50 centesimi.
249. Ibn-Koteiba; Ibn-Scebbât; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), ll. cc.; ed il Baiân, p. 27, citando Ibn-Katân. Ibn-Koteiba porta positivamente la data dell'86, ossia 705 dell'era volgare.
250. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 47 verso, anno 92; Nowairi, MS. di Parigi, Ancien Fonds 702, fog. 10 verso, e traduzione francese del barone De Slane, Journal Asiatique (mai 1841), p. 575, 576.
Secondo la versione italiana, del Carli, Hagi Khalfa nella Cronologia porrebbe nel 92 la espugnazione di Calabria per Farich figlio di Said. Riscontrato il testo, mi accorgo che si tratti della notissima impresa di Tarik in Spagna. M. Famin, Histoire des invasions des Sarrazins en Italie, p. 60, ha seguíto così fatto errore, e aggiuntovi del suo il nome di Tharec, e che “ ses soldats exercèrent des cruautés inouies;” e si mette francamente a particolareggiarle.
251. Nowairi, capitolo della Sicilia, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2, che lo chiama Mohammed-ibn-abi-Edrîs; Baiân, p. 35, secondo il quale correggo il nome e la data. Il Nowairi, capitolo dell'Affrica, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 357, in appendice; e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 31, confondendolo con un altro governatore d'Affrica, lo chiamano Mohammed-ibn-Iezîd. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo II, p. 225, anno 720, citando il Nowairi, aggiugne di capo suo che Mohammed sbarcasse a Marsala, e riportasse in Affrica “alcune centinaia” di prigioni.
252. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 74 verso, anno 109; Baiân, p. 35; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 32; Nowairi, capitolo della Sicilia, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2; e capitolo dell'Affrica, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 357, in appendice. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo II, p. 229, anno 721, citando Nowairi, aggiugne del proprio che Biscir riportava molti idoli d'argento.
253. Si argomenta dalle pratiche d'accordo dell'813, nelle quali il governatore di Sicilia ricordava un primo trattato fatto ottantacinque anni addietro. Veggasi il Capitolo X.
254. Makrîzi, Dizionario biografico intitolato il Mokaffa, MS. di Parigi, Ancien Fonds Arabe, 675, fog. 227 recto, Vita di Obeid-Allah. Il caso di Mostanîr è narrato ancora, ma più brevemente, da Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, traduzione francese, p. 65, e testo manoscritto, fog. 16 verso. Quest'autore, invece del nome patronimico di Ibn-Habhâb, dà a Mostanîr quello di Ibn-Hârith.
255. Makrizi, Mokaffa, MS. di Parigi, Ancien Fonds Arabe, 675, fog. 227 recto, Vita di Obeid-Allah.
256. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 81 recto, e 82 recto, anni 116 e 117.
257. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82 recto, anno 117; Ibn-Scebbât, citato da Ibn-abi-Dinâr (el Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 67 e 68, e MS., fog. 17 recto; Baiân, p. 38-40; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique, trad. di M. Des Vergers, p. 34. — Lo scrittore cristiano contemporaneo, Isidoro De Beja presso Flores, España Sagrada, tom. VIII, p. 305, dice che 'Okba (Ibn-Heggiâg), governatore di Spagna, udita la sollevazione dei Mori in Affrica, vi passò, uccise tutti i ribelli: “ Sicque cuncta optime disponendo, et Trinacrios (portus) pervigilando, propriæ sedi clementer se restituit.” Accettando, come par si debba, la lezione di Trinacrios (chè v'ha le varianti Trimacrios, Tinacrios, Patrios ), le parole di Isidoro significano che qualche nave spagnuola fosse venuta con Habîb alla impresa di Sicilia. Perchè la rivolta alla quale accenna Isidoro fu al certo qualche movimento anteriore, represso dagli Arabi d'Affrica e di Spagna, non il fatto dell'anno 122, che rese necessaria la ritirata dell'esercito di Sicilia, e che, invece della strage dei ribelli, finì con la sconfitta degli Arabi. Isidoro, del resto, non assegna data a queste fazioni, se non che vanno dopo la destinazione di 'Okba al governo di Spagna, ch'ei pone l'anno 775 dell'era spagnuola, e 18º di Leone Isaurico, cioè il 733 dell'era volgare, ma che Ibn-Khaldûn riferisce al 117 (735), e il cronista seguíto da Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 26, all'anno appresso.
258. Confrontisi Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 118 recto, anno 135, e fog. 47 verso, nel capitolo della Storia di Sardegna, sotto l'anno 92; Baiân, p. 49 e 53; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 44; Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2, 3.
259. Veggansi le autorità citate da Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIII, § 22.
260. Baiân, p. 48. Quivi si dice che corressero in Affrica due specie di moria che chiamansi in arabico webâ e tâ' un. La seconda disegna particolarmente la peste. La prima è presa d'ordinario nello stesso significato, ma si estende alle malattie epidemiche in generale. Veggasi una nota di M. Reinaud nel Recueil des historiens orientaux, tomo I, p. 133.
261. Teophanes, Cronographia, tomo I, p. 651; e le altre autorità citate dal Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIV, § 13.
262. Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, anno 130, dice che infieriva la peste a Bassora; Ibn-el-Giuzi (Jauzi, secondo l'ortografia inglese) citato da De Slane, Ibn Khallikan's Biographical Dictionary, tomo II, p. 551, fa arrivare la mortalità a 70,000 persone in un dì, che si deve intendere forse di Bassora stessa.
263. Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIV, § 13.
264. Bollandisti, Acta Sanctorum, maggio, tomo II, p. 109, seg., 725, seg., testo greco e versione della Vita di San Giovanni Damasceno scritta da un Giovanni patriarca di Gerusalemme; e Ibidem, p. 731, seg., altro squarcio di agiografia attribuito a un Costantino Logoteta.
265. Non ho bisogno di ricordare quanto sieno incerti i limiti del territorio, compreso nella donazione di Pipino e di Carlomagno, e come i papi non fossero mai entrati in possesso di molte terre tra quelle che lor erano state donate senza dubbio.
266. Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, cap. 27, p, 995, dice che i Longobardi aveano occupato tutta l'Italia, fuorchè Otranto, Gallipoli, Rossano, Napoli, Gaeta, Sorrento, Amalfi. Ciò si deve intendere del tempo in cui l'impero bizantino avea perduto lo esarcato e non ripigliato per anco la Puglia; cioè tra la prima metà dell'VIII secolo e la seconda metà del IX.
267. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 47 verso, sotto l'anno 92, raccogliendo in un solo capitolo tutte le imprese dei Musulmani sopra la Sardegna, afferma che quest'isola non fosse stata più molestata dal 135 al 323 dell'egira (752 a 935), e che in questo intervallo avesserla tenuta i Rûm, che qui significa la schiatta indigena italiana. Le cronache cristiane più vicine a quei tempi si accordano in generale con tale narrazione; se non che aggiungono alcune sconfitte toccate dai Musulmani in Sardegna e in Corsica. Quanto a questa isola, è falsa evidentemente la dominazione musulmana supposta da alcuni annalisti dei paese. Veggansi Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, pag. 69; e Wenrich, Commentarium, ec., lib. I, cap. III, § 49 in nota.
268. Epistola di papa Paolo Primo, a re Pipino, Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº XV; edizione del Cenni, nº XVIII.
269. Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº XXIV; edizione del Cenni, nº XXXVIII.
270. Codex Carolinus, edizione dei Gretser, ep. LVI; edizione del Cenni, ep. LXXII.
271. Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LXIV, LXXIII, XC; edizione del Cenni, LXV, XC; LXXXIX.
272. La prima di quelle citate nella nota precedente.
273. Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LIX e LXIV; edizione del Cenni, LVII e LXV. La data del 780, che assegna alla seconda di queste lettere il Cenni, è erronea, e le si dee sostituire il 787, come lo avea mostrato prima il Muratori ( Annali, anno 787), e vi assente, contro il solito suo, lo Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo I, p. 488-489. Le ragioni che allega il Cenni per rifare il verso al nostro grande Annalista son futilissime, e basta a distruggerle il fatto che nella epistola si parla dei nefandissimi Beneventani come di vassalli di Carlomagno; il che non si potea dire innanzi la pasqua del 787. La epistola LIX del Gretser, ancorchè riferita dal Cenni al 776, mi pare scritta poco appresso l'altra, nello stesso anno 787. — Va errato bensì il Muratori, quand'ei scrive che Adelchi fosse in questo tempo patrizio di Sicilia. Ciò nè si può argomentare dalla detta epistola di papa Adriano, come lascia supporre il Muratori; nè è detto da alcun cronista; nè è punto verosimile. Il Muratori fu ingannato dall'assonanza dei nomi di Teodoto e Teodoro; dei quali il primo fu preso da Adelchi, come abbiam detto, e il secondo era il nome dell'eunuco, patrizio di Sicilia, che sbarcò in Italia con Adelchi il 788. L'Assemani, l. c., non manca di notare questo lieve sbaglio del Muratori.
274. Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LXXXVIII; edizione del Cenni, ep. XCI.
275. Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 718 (anno 6281); Historia Miscella, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 167; Einhardus, ed Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores etc., tomo I, p. 174, 175. — Due altre epistole di Adriano inserite nel Codice Carolino, sotto i numeri XC e XCII del Gretser, e LXXXIX e XC del Cenni, e poste dal Cenni nel 778, si debbono riferire, come io credo, a questo tempo. Trattano entrambe delle mene di Adelchi in Calabria; e nella seconda si dice che il patrizio di Sicilia e i due spatarii, sbarcati con esso ad Agropoli del mese di gennaio, erano iti a trovare la vedova di Arigiso a Salerno, e di lì eran passati a Napoli.
276. Tale supposizione è fondata nel racconto di Sigeberto, cronista dell'XI secolo, il quale mal interpretando la Historia Miscella, credè a proposito far morire Adelchi, protagonista da tragedia, piuttosto che il pacifico Giovanni. Non dobbiamo oggi seguire l'errore noi che abbiamo alle mani Teofane, sul cui testo fu fatta la versione compendiata detta Historia Miscella.
277. Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 182, 186.
278. Theophanes, Chronographia, tomo 1, pag. 736 (anno 6293).
279. Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo 1, p. 198.
280. Epistola citata dell'11 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VII, p. 1114; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. IV di Leone.
281. Epistola del 25 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VII, p. 1117; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. X, di Leone.
282. Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 312.
283. Anonymus Salernitanus, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte II, p. 209.
284. Diodorus Siculus, lib. V, cap. VI.
285. Ve n'era in Palermo, Catania, Girgenti ec., come si scorge dalle epistole di San Gregorio, lib. V, 132; VII, 24, 26.
286. A coteste famiglie di militari o impiegati venute di passaggio, e talvolta rimaste in Sicilia, par che appartenessero alcuni uomini dei quali il caso ci ha conservato i nomi; per esempio, Conone papa, nato in Tracia e educato in Sicilia; Sergio papa, oriundo d'Antiochia e nato a Palermo.
287. Veggasi questo medesimo capitolo, pagg. 222 e 223.
288. Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 727.
289. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto; MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.
290. Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, tomo III, p. 58. Sarebbe da approfondire il cenno etnologico di Costantino, relativamente ai Sicoli. Non saprei in quale scrittore antico egli abbia potuto trovare che Liguri fosse il nome generale de' popoli di cui facean parte i Sicoli; il qual nome, secondo la opinione del Niebuhr, non è altro che una variante di pronunzia della voce Itali.
291. Veggasi Torremuzza (G. L. Castelli), Siciliæ... veterum Inscriptionum. Ricordisi inoltre la venuta di Porfirio, che scrisse e diè lezioni in Sicilia verso il 300.
292. Papiro del 444, presso il Marini, I Papiri diplomatici; nº LXXIII, p. 108, seg. I nomi sono Zosimo, Caprione, Sisinnio, Eleuterio, Eubudo.
293. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº LXIII, indizione 2ª.
294. Pirro, Sicilia Sacra, p. 997; Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissert. III, p. 423, seg.
295. Anastasius Bibliothecarius, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, p. 145.
296. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº LXIII, indizione 2ª; e notisi la riflessione del Pirro, Sicilia Sacra, p. 34, a proposito dei matrimonii dei preti.
297. Diodorus Siculus, lib. I, cap. III.
298. L'Assemani, trattando la presente questione nel tomo IV degli Italicæ Historiæ Scriptores, cap. II, § i 1 a 22, ha sostenuto che sempre prevalesse in Sicilia il linguaggio latino al greco. Ma gli esempii che allega anzi mi rafforzano nella mia opinione. Tra gli altri, v'ha le soscrizioni greche dei vescovi di Sicilia e di Calabria che sedettero nei Concilio di Costantinopoli dell'869-70.
299. Codex Theodosianus, lib. XII, tit. XXXIII, XXXV. — Venticinque iugeri rispondono a un di presso a sei hectares di Francia, e a tre salme e mezza di Sicilia. Ma ricavandosi pochissimo dalla terra, si dovrà quella riguardare come picciola possessione.
300. Veggansi le autorità citate da Gibbon e dai suoi commentatori Guizot e Milman, cap. II, note 46 a 61.
301. Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, legge 18. Questa legge è scritta in greco, e posta tra quelle d'Onorio e Teodosio, ma senza ripetervisi i nomi di questi imperatori; talchè la data rimane incerta, e si può supporre più recente. Dice che i contadini (γεωργοὶ) altri sono ascrittizii (ὲναπόγραφοι), e i loro peculii appartengono ai padroni; altri, dopo trent'anni, divengono liberi coloni (μισθωτοὶ ἐλεύθεροι) con la roba loro, e sono obbligati a pagar canone e lavorar la terra. E ciò, conchiude la legge, è più utile ed al signore e ai contadini. Una testimonianza sì diretta non ha bisogno di comento.
302. Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, voce Colonus. Ai tempi di Teodosio si distingueano in originarii e inquilini, cioè i nati nel podere e gli avventizii. Sotto Giustiniano forse questa ultima classe di coloni si diceva ascrittizii: e talvolta son chiamati tributarii ed inquilini, talvolta rustici e coloni, Codex Theodosianus, lib. V, tit. X; lib. X, tit. XII; lib. XIII, tit. I.
303. Codex Theodosianus, lib. V, tit. IX, X, XI; Valentiniani, Novellæ, nov. IX.
304. Dei conduttori in Sicilia si fa menzione nel citato papiro del 444, Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII, e nella epistola di San Gregorio, lib. I, nº XLII, indizione 9ª, che trovasi anco presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. LXIX, p. 110.
305. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, ibidem. Oltre I conduttori distinti dai coloni, vi si parla di rustici in modo, che questa voce par sinonimo di coloni, se pur non comprende gli uni e gli altri insieme.
306. Dei servi dei fondi patrimoniali in Sardegna, e, come pensa Gotofredo, anche in Sicilia e in Corsica, si fa menzione in una legge di Costantino il Grande, Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, data forse il 325. Veggasi anco Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, num. IV, p. 5. In un papiro del 489, risguardante certi poderi nel territorio di Siracusa, leggiamo inquilinos sive servos, presso Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXXII e LXXXIII, p. 128 e 129.
307. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº XLII; e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº LXIX, p. 110.
308. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. X, nº XXVIII: “ sed in ea massa, cui lege et conditione ligati sunt, socientur. ”
309. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. V, nº XII.
310. Ibidem, lib. III, nº IX; lib. V, nº XXXI e XXXII.
311. Un fanciullo siciliano, per nome Acosimo, fu donato da lui il 593 al consigliere Teodoro, che avea ben meritato della Chiesa, e non possedea schiavi. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. II, nº XVIII, indiz, 11ª.
312. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº XVIII, indiz. 2ª.
313. Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italic. Script., tomo III, p. 147: “ Itemque et aliam jussionem direxit ut restituatur familia suprascripti patrimonii et Siciliæ, quæ in pignore a militia detinebatur. ”
314. Codex Theodosianus, lib. XI, tit. IX.
315. Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII.
316. Veggasi la legge del Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, nº 18, citata di sopra, p. 190.
317. Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, legge di Costantino il Grande, di data incerta, forse del 325.
318. Codex Theodosianus, lib. XI, tit. XVI, legge di Costanzo e Giuliano Cesare, data il 359. Questa e la precedente si leggono altresì presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n i IV e X, p. 5, 9.
319. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.
320. Il papiro del 444, che ho citato più volte (Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII), mostra che i sette poderi tra masse e fondi appartenenti in Sicilia a Lauricio, e affittati separatamente, rendeano ogni anno soldi 753, 500, 445, 200, 144, 75, 52.
321. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.
322. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VIII, nº LXIII, indizione 3ª (a. 600-601). Il podere legato da una Adeodata per fondare un monistero di donne al Lilibeo, rendea dieci soldi all'anno netti di tasse; e vi erano tre ragazzi, tre gioghi di buoi, altri cinque schiavi, dieci giumente, dieci vacche, quattro iastulas vinearum, quaranta pecore e altro. Si vegga anche il lib. XI, epistola XLIX, indizione 6ª (603, 604), ove si parla della vendita del vino prodotto delle vigne della Chiesa Palermitana.
323. Beladori, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 365.
324. Nell'880, come da noi si racconterà nel Libro II, cap. X, le forze navali bizantine venute presso Palermo presero moltissime barche cariche d'olio, certamente non esportato. Nell'XI secolo, Bekri ci attesta la esportazione degli olii da Sfax per la Sicilia e paese dei Rûm, Notices et Extraits des MSS., tom. XII, p. 465. Nel XII secolo si mandava grano di Sicilia in Affrica per levarne olio e altre derrate. Diploma del 1134, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 975.
325. Veggasi il Lib. II, cap. II.
326. Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº III, IV, IX, X, XXI, XXII.
327. Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº XLI, XLII, XLIII, XLIV.
328. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. IV, nº LXXVII, indizione 13ª (a. 595); e presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº CXVI.
329. Theophanes, Cronographia, tomo I, p. 631.
330. Veggasi Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, diss. VII, c. IV, seg.
331. Veggansi i fatti presso Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, lib. V; Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, tomo I, cap. XIV; Di Gregorio, Discorsi intorno la Sicilia, discorso XII.
332. Justiniani Novellæ, nov. 75, altrimenti 104, De præt. Siciliæ; Savigny, Histoire du droit romain, tomo I, p. 226, e 232, cap. V, § 105, 107.
333. Da questo diritto nacque senza dubbio l'uso che la curia votasse a parte dal clero e dalla plebe nella elezione dei vescovi. Due epistole di San Gregorio ci provano tal modo di votazione in Sicilia, e sono indirizzate l'una Nobilibus Syracusanis, l'altra Clero ordini et plebi Panormitanæ civitatis; lib. IV, nº XCI; lib. XI, nº XXII.
334. Codex Theodosianus, lib. XII; Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, nº XI, indizione 1ª, anche presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, nº CXLII, p. 188; Gibbon, Decline and fall, cap. XVII, con le osservazioni di Guizot e di Milman, alle note 172 e 180.
335. Confrontinsi i Diplomi seguenti:
- del 489 presso Marini, I Papiri Diplom. , nº XXXII e XXXIII.
- verso il 504 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom. , nº XXXVIII, p. 79.
- del 526-527 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom. , nº XLI e XLIII, p. 82-84.
- verso il 537 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom. , nº LI, p. 91.
Veggansi inoltre: Justiniani, Novellæ, nov. LXVIII; Di Giovanni, op. cit., diss. VI, cap. III, p. 458, seg.; Savigny, Histoire du droit romain, cap. V, § 106-108, p. 227, seg., che cita tra gli altri documenti le epistole di San Gregorio, delle quali ho fatto parola (p. 199, nota 3); e un'altra (della quale credo errata la citazione) scritta al vescovo di Tindaro intorno l'accettazione di certe donazioni, nella quale si ricorda essere bisognevoli a ciò le gesta municipalia.
Intorno i beni delle città, leggasi nel Codex Theodosianus, lib. XV, tit. I, legge 32, il rescritto di Arcadio e Onorio (anno 395) indirizzato ad Eusebio consolare di Sicilia, nel quale, provvedendosi alla conservazione delle città ed oppida dell'isola, è detto: De redditibus fundorum juris reipublicæ tertiam partem publicorum mœnium et thermarum subustioni (corretto da Gotofredo substructioni ) deputamus. Fondi appartenenti alla repubblica, secondo il linguaggio legale che prevaleva in quel secolo, non significa que' del patrimonio imperiale, ma appunto beni comunali, come l'ha spiegato il Di Gregorio nel citato Discorso XII.
336. Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, them. 10 e 11; De administrando imperio, tomo III, cap. XXVII, p. 58, 118, 121. Non occorre avvertire che la nuova divisione in temi, ancorchè si ritragga dalle opere di Costantino Porfirogenito, risalisce senza dubbio all'ottavo secolo. Ai tempi di quel povero imperatore (911-959) occupata tutta l'isola dagli atei Saraceni, com'ei li chiama, non rimanea del tema siciliano che la Calabria. Ei lo confessa nell'opera De Thematibus, dove prudentemente passa sotto silenzio Napoli e Amalfi ch'eran già repubbliche indipendenti. Nell'altro libro De administrando imperio confonde i temi di Sicilia e di Longobardia, nominando sol questo ultimo, e dicendo che dopo Costantino il Grande vi si mandassero due patrizii, uno dei quali per la Sicilia, Calabria, Napoli e Amalfi, e l'altro che sedendo a Benevento, reggea Pavia, Capua e il rimanente. Soggiugne più innanzi che Napoli era l'antica capitale dei patrizii; e chi comandava Napoli, comandava alla Sicilia; e andato il patrizio a Napoli, il duca di Napoli veniva in Sicilia. Queste parole non provan altro che l'ignoranza dell'augusto compilatore o di chi fece il lavoro per lui. Oltre la discrepanza delle notizie date nell'opera De Thematibus, è evidente qui che si prenda per regola generale qualche fatto particolare, e si faccia uno strano miscuglio dei tre sistemi diversi; cioè quel di Costantino, quello dei temi e quello intermedio adottato da Giustiniano dopo il conquisto di Belisario. Al contrario, il nome del tema, la importanza strategica della Sicilia al tempo in cui si adoperò la novella divisione territoriale, e qualche esempio di comandi dati dal patrizio di Sicilia al duca di Napoli, mostrano che la parte primaria del tema fosse l'isola, e la capitale probabilmente Siracusa. Così anche pensa l'Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo I, p. 356. Ciò è provato infine da una epistola di Adriano Primo a Carlomagno, nella quale dice che i Napoletani, prima di stipulare uno accordo col papa, voleano andare a chiederne il permesso al loro stratego in Sicilia, Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº LXIV, edizione del Cenni, nº LXV.
337. Varii suggelli di piombo danno i nomi e titoli di alcuni governatori e altri officiali pubblici di Sicilia sotto la dominazione bizantina; donde si vede come sovente variasse il titolo del governatore, o fosse data questa autorità provvisionalmente ad officiali di grado inferiore. Da una faccia del suggello si trova sempre il monogramma:
che significa Κύριε βοήθει τῷ δούλῳ σῷ “Signore aiuta il servo tuo;” e nell'altra faccia si leggono i nomi seguenti:
- Gregorio patrizio e stratego di Sicilia.
- Sergio patrizio e stratego di Sicilia.
- Giovanni patrizio spatario e proconsole.
- Andrea consolare e stratego
- Stefano consolare e spatario.
- Anastasio consolare e spatario.
- Giovanni patrizio e protospatario.
- Teodoro consolare.
- Gregorio consolare e protonotario.
- Teodoro spatario e cartulario.
- Leonzio prefetto.
- Teofilo prefetto imperiale.
- Leone spatario e logoteta del corso ( posta ).
- Anatolio conte.
- Sergio consolare e luogotenente.
Veggasi Torremuzza (Gabriello L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 212, seg. I cronisti usano sempre i titoli ordinarii di stratego e patrizio. In una epistola di papa Adriano Primo a Carlomagno del 788 ( Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº XCII; edizione del Cenni, nº XC), si legge: Cum dioecete, quod latine Dispositor Siciliæ dicitur.
338. Codex Theodosianus, lib. VII, titoli De Veteranis e De filiis veteranorum.
339. Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, p. 147.
340. Constantini Porphyrogeniti Novellæ Constitutiones, p. 1509. De militaribus fundis.
341. Si fa menzione particolare della annata di Sicilia nella epistola di Paolo Primo al re Pipino, Codex Carolinus, edizione del Gretser, nº XV; edizione del Cenni, nº XVIII; e nella epistola XXIV della prima, e XXXVIII della seconda di coteste edizioni.
342. Theophanis Chronographia, p. 611, seg.
343. Theophanis Chronographia, p. 702 e 705.
344. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 164 recto, an. 178. Il Saint-Martin, nelle note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXVI, § i 27 e 36, registra due imprese di Elpidio nell'Asia Minore, il 791 e il 794, citando per la prima Abulfaragi, per l'altra Ibn-el-Athîr. Ma probabilmente si tratta di un sol fatto, recato da que' due compilatori sotto date diverse.
345. La importanza della popolazione ebraica in Sicilia, alla fine del IV secolo, si vede da due epistole di San Gregorio, presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n i CXXVII e CXLVI.
346. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 5, 28, dà le traduzioni latine dei versi di San Giuseppe Innografo, e di tre diverse compilazioni della vita di San Leone, le quali mi sembrano dell'XI o XII secolo, e si dicono tratte da Manoscritti della Vaticana, del Monastero di Criptaferrata e del Salvatore di Messina. L'Innografo non cita il nome di Eliodoro; ma sol dice arso un che sturbava gli uditori della divina parola, e accenna a varii altri prodigii del Taumaturgo. Gli eruditi non sono stati di accordo su la età in cui visse San Leone: e alcuni, l'han tirato giù fino al 779. Ma non trovandosi tra que' prodigii alcun cenno della eresia iconoclasta, San Leone ed Eliodoro si debbon porre senza dubbio innanzi il 726, com'ha fatto ii Gaetani. Confrontisi D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 363 a 386. Veggansi ancora queste leggende di San Leone, nella collezione dei Bollandisti, febbraio, tomo III, p. 222, seg. Le due epistole a nome di Lucio governatore di Sicilia, tratte da queste fonti e pubblicate dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n i CCLXXIV e CCLXXV, sono evidentemente apocrife.
347. D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 363 a 386, parte III, p. 72 a 75, dice chiamato volgarmente il monumento Liodoro. Ma in oggi tal nome si pronunzia Diodoro, e anche Diodro e Diotro. Il Fazello, Deca I, lib. III, cap. I, dà al supposto negromante ambo i nomi: Diodoro e Liodoro. L'innesto dell'obelisco egiziano sull'elefante fu fatto nel 1736, come l'attestano due iscrizioni riferite dal D'Amico, III, p. 386. Quivi si vegga il disegno dell'obelisco, che è dato altresì dal Torremuzza, Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 307.
348. Theophanes, Chronographia, tomo I, 631.
349. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 32. Preferisco la data del 772, seguita da questo scrittore, a quella che altri ha voluto assegnare a San Giacomo di Catania, facendolo morire ai tempi di Leone Isaurico. Veggasi D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 361.
350. Theophanes continuatus, p. 48; Symeon magister, p. 642, seg.; Georgius monachus, p. 811, seg. Si vegga anche la collezione dei Bollandisti, giugno, tomo II, p. 960 a 963; Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.
351. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. II, p. 49; Collezione dei Bollandisti, aprile, tomo I, p. 266, 267.
352. Si vegga il Capitolo VII, p. 175.
353. Veggansi le omelie XI e XX di Teofane Cerameo, nella edizione di Scorso, p. 64, 125, 129 ec., e ciò che noi diciamo di questo sacro oratore nel Libro II, cap. XII.
354. Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 631.
355. Pirro, Sicilia Sacra, p. 611; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione II, p. 421.
356. Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, epistola di papa Niccolò Primo dell'860, nº CCLXXXI, p. 318, e dissertazione V, p. 452; Epistola di papa Adriano Primo del 785, Acta Conciliorum, tom. IV, p. 93, 94.
357. Veggasi il Capitolo IV, p. 76.
358. Paolo Diacono, lib. V, c. XIV. La principessa avea nome Gisa, sorella di Romoaldo signore di Benevento.
359. Theophanes, Chronographia, p. 719, 720. Per esattezza di cronologia conviene notare che l'esilio dei cortigiani seguì il 790, e l'accecamento di Costantino il 797.
360. Ibidem, p. 727. Teofane spiega il modo: cioè delinear le lettere con punture e versarvi sopra dell'inchiostro. Poco mancò che i carnefici non inventassero la stampa!.
361. Nella maggior chiesa di Mola sopra Taormina si conserva questa iscrizione, tolta evidentemente da qualche antica fortezza: ΕΚΤΙΣΘΗ ΤΟΥΤΟ ΤΟ ΚΑΣΤΡΟΝ ΕΠΙ ΚΟΝΣΤΑΝΤΙΝΟΥ ΠΑΤΡΙΚΙΟΥ ΚΑΙ ΣΤΡΑΤΗΓΟΥ ΣΙΚΕΛΙΑΣ. Torremuzza (Gabriele L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 65.
362. Tra i ragguagli dell'ambasceria affricana in Sicilia dell'813, troviamo che il patrizio rimproverava ai legati avere il governo di Sicilia pattuito con quel d'Affrica infino da ottantacinque anni, e non si essere mai osservato l'accordo. Indi il primo trattato torna al 728. Cotesti ragguagli leggonsi nella seconda delle tre epistole di papa Leone Terzo a Carlomagno, date il 7 settembre, 11 e 25 novembre 813, pubblicate dal Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VII, p. 1114 a 1117; e nel Codex Carolinus del Cenni, tom. II, ep. VIII, IX, X, di Leone; e le due prime anche dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, no. CCLXXVII, CCLXXVIII. La indizione che vi si cita, mostra che il Labbe andò errato a riferire l'epistola dell'11 novembre all'anno 812. Veggansi anche gli squarci di questi documenti presso il Pagi, ad Baronium, anno 813, § i 21, 22, 23.
363. Questo mi sembra il miglior modo di spiegar le parole attribuite agli ambasciatori musulmani nella citata epistola di Leone Terzo dell'11 novembre 813. Scusavansi delle infrazioni loro apposte dal patrizio di Sicilia, allegando che morto il padre dell' Amiramum (principe dei credenti) e rimaso costui bambino, era ita sossopra ogni cosa: liberatisi i servi; gli uomini liberi agognanti al poter supremo; tutti scioltisi a mal fare, come se non avessero principe sopra di sè. Ma in oggi, fatto adulto l' Amiramum, soggiugneano gli ambasciatori, ha ripigliato l'autorità, e farà osservare i trattati. Or non adattandosi cotesti particolari nè ai califi abbassidi di quel tempo, che erano signori degli Aghlabiti, nè agli Aghlabiti stessi, è forza supporre la relazione del papa, come pur la dovea essere, mutila e inesatta, e conviene indovinar ciò che vi manchi. A creder mio, vi manca che i legati venivano dai due stati, aghlabita e edrisita, e che quest'ultimo avea commesso le ostilità. Parmi infatti che per le accennate parole degli ambasciatori non si alluda alle guerre civili di Mamûn col fratello, come ha pensato M. Reinaud ( Invasions des Sarrazins en France, p. 123, 124), ma piuttosto alle vicende della dinastia degli Edrisiti. Il fondator di essa morendo non lasciò figliuoli; se non che una sua donna partoriva due mesi appresso (793) un bambino, per nome anche Edrîs, al quale i Berberi si accordarono di ubbidire; e fu salutato imam, ossia pontefice e principe, all'età di undici anni. Al tempo dell'ambasceria ne avea venti; avea fondato la città di Fez, e cominciato a rassodare e allargare il dominio. A questo Edrîs convengono dunque i particolari anzidetti. A ciò si aggiunga che Ibrahim-ibn-Aghlab dopo aver tentato, e forse non da senno, di spegnere questa dinastia rivale dell'abbassida, avea fatto con essa un tacito accordo, che durava ancora dell'813.
364. Veggansi i cronisti citati da M. Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p. 121 e 122, e da Wenrich, Commentarium, lib. I, cap. III, § i 46, 47. La principale autorità, fonte delle altre, è quella d'Einhardo, e degli Annales Laurissenses, che si veggano meglio in Pertz, Scriptores, tom. I, dall'anno 806 all'812.
Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 140, sotto l'anno 206 (5 giugno 821 a 25 maggio 822), nota una scorreria del Musulmani d'Affrica in Sardegna, ove fecero preda, e talvolta vinsero, e talvolta furono rotti, ma alfine se ne andarono.
365. Epistola di Leone Terzo, del 7 settembre, citata a p. 224, in nota.
366. Einhardus, presso Pertz, Scriptores etc., tom. I, p. 199. Questo cronista, copiato dai susseguenti, riferisce all'812 i raccontati avvenimenti, non esclusa la distruzione “quasi totale” dell'armata che assalì la Sardegna. Ma l'epistola di Leone Terzo dell'11 novembre, citata a p. 224, in nota, porta positivamente il naufragio nel giugno della 6ª indizione, che fu dell'813. D'altronde si può dubitare se gli assalitori di Nizza fossero stati gli stessi di Civitavecchia, e gli uni o gli altri Spagnuoli, ovvero dell'Affrica occidentale.
367. Nella citata epistola di papa Leone dell'11 novembre, dopo essersi fatto menzione della lettera del cristiano d'Affrica, si aggiugne: Et hoc factum est mense junio, quando illud signum igneum, tamquam lampadam in cœlo multi viderunt. Non si ritrae dove si trovassero quei multi, e se tutti in una stessa regione.
368. Epistola di Leone Terzo data il 7 settembre, citata di sopra. In questa gli assalitori son chiamati sempre Mauri. Nella epistola seguente si dà sempre il nome di Saraceni ai Musulmani dello stato aghlabita.
369. Veggasi la nota 1, p. 225.
370. Secondo la epistola di Leone Terzo, gli ambasciatori erano venuti in navigio Veneticorum, et sic veniendo combusserunt igne navigia quæ de Spania veniebant.
371. Veggasi il presente libro, cap. VI, p. 148-149. Il narratore è un Soleimân-ibn-Amrân, e lo squarcio della narrazione si legge nel Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. La reciproca sicurtà dei mercatanti siciliani in Affrica si suppone dal fatto che un di loro avea scritto al patrizio (si vegga sopra a p. 228). Non fa specie che Soleiman taccia il patto della reciprocità, sendo stato uso costante di tutte le tregue tra Musulmani e Cristiani, che ciascuna delle due parti promulgasse solo i patti favorevoli ai proprii sudditi e tacesse gli obblighi contratti verso i nemici.
372. Epistola dell'11 novembre 813, citata a p. 224, in nota.
373. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 160, seg., da un MS. greco del monastero del Salvatore di Messina attribuito a Pietro vescovo di Tauriano che visse sotto Leone eretico, e andò a lui, tremando di paura, il terzo anno del suo regno. Dei tre imperatori bizantini ai quali convengono tal nome e tal ingiuria, il Gaetani preferisce, come più antico, Leone Isaurico, senza badare a ciò che questi nel terzo anno del suo regno non si era per anco chiarito contro le immagini. Perciò mi par che si tratti piuttosto dell'Armeno. Il buon vescovo di Tauriano dice aver visto il naufragio della nave musulmana, e narra dopo di quello la sua missione a Costantinopoli. Alcuni versi di San Giuseppe Innografo, citati dal Gaetani, dicono anche del miracolo di San Fantino contro i Musulmani.
374. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto. L'autore, non contento di notare l'anno della egira, aggiugne che questa scorreria fu fatta circa otto anni avanti il conquisto di Ased-ibn-Forât.
375. Erchempertus, cap. XI, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. II, parte I, p. 240.
376. Leo Marsicanus, lib. I, cap. XXI, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 296, e presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 596. Nella edizione del Pertz si nota l'errore di cronologia, e che appartenga a Leone, non ad Erchemperto. Aggiugnerei che Leone nel cap. XX porta alcuni fatti dell'827, e che però è possibile che i copisti trascrivendo la data in numeri romani abbiano lasciato indietro la cifra delle unità.
377. Il Martorana par che abbia dubitato del fatto, poichè nol porta espressamente nel testo, cap. II, tom. I, p. 30; ma sì nella nota 28, nella quale cita Leone d'Ostia e il Curopalata (Giovanni Scylitzes). Il Wenrich confrontò e corresse coteste citazioni. In fatti ei toglie via quella di Scylitzes, che non ha che fare qui, e aggiugne in primo luogo l'attestato di Erchemperto. Ma, trattenendosi a mezza strada, l'erudito tedesco adatta al racconto d'Erchemperto la falsa cronologia di Leone, e così cade anche egli nell'errore di raddoppiare il fatto. Lib. I, cap. IV, § 51.
378. Fazzello, Deca II, lib. VI, cap. I.
379. Questa è la giusta ortografia al modo nostro di trascrivere l'alfabeto arabico.
380. M. Reinaud ha notato ciò nella versione francese della Geografia d'Abulfeda, tom. II, pag. 179. Aggiungo che tra gli strafalcioni di Leone ve n'ha uno, il quale prova non solo che scrivesse di memoria, ma ancora che non avesse buona memoria. Ed è che un califo fatimita d'Egitto abbia mandato Giawher a conquistare la Barbaria; e che, ribellatosi il governatore di questa provincia, il califo El-Kaim abbia scatenato sopra quella gli Arabi d'Egitto. Sarebbe lo stesso a dire che Giustiniano da Roma mandò Belisario ad occupare Costantinopoli; e che Roma fu saccheggiata dalle genti del Bastardo di Borbone per comando di Filippo il Bello.
381. Ecco questo squarcio dell'opera geografica di Leone Africano sottoscritta di Roma, il 10 marzo 1526, ch'io copio su la edizione del Ramusio, tom. I, p. 69 verso. Detto che sotto la dinastia degli Aghlabiti Kairewân crebbe di grandezza e di popolo, Leone aggiunge che il signore del paese “fece fabbricare appresso un'altra città cui pose nome Recheda, nella quale habitava egli e i primieri della sua corte. In questo tempo fu presa Sicilia dalli suoi eserciti mandativi per mare con un capitano detto Halcama, il quale nella detta isola edificò una piccola città per fortezza et sicurtà della sua persona, chiamandola dal suo nome, la quale vi è sin oggi chiamata dai Siciliani Halcama. Dapoi quest'Halcama fu quasi assediata dalli esserciti che vennero in soccorso di Sicilia; allora il signore di Cairoan mandò un altro essercito più grande con un valente capitano chiamato Ased, il quale rinfrescò Halcama, et tutti si ridussero insieme et occuparono il resto delle terre che rimaseno.” E Leone non ne dice altro.
382. Veggasi la notizia biografica che dà Leone Affricano dello Esseriph Essachali, com'ei chiama Edrisi. Presso Fabricio, Bibliotheca Græca, tom. XIII, p. 278.
383. Belgia in arabico vuol dir crepuscolo sia mattutino sia vespertino. Su i nomi geografici ai quali accenno, si vegga il capo I del lib. III.
384. Questi due righi e la esposizione delle testimonianze storiche eran già scritti, quando si pubblicò, il 1845, il lavoro del Wenrich, dove si trova (lib. I, cap. IV, § 52) una frase che a prima vista pare poco diversa e un metodo d'esamina somigliante al mio, ancorchè con altri fatti e altri risultamenti. Non essendo uso a rubare gli altrui lavori, mi basta avvertire il lettore, e lascio la forma del mio scritto com'ella stava.
385. Veggasi la prefazione del Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 287 a 289. La cronica pare scritta verso l'872, e l'autore allude a quella come ad opera giovanile in altri opuscoli assai meno importanti ch'ei dettò verso il 902.
386. El-Kadhi: il cadi Ased-ibn-Forât.
387. Johannes diaconus, Chronicon etc., presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 313.
388. Anonymi Salernitani, Paralipomena, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. II, parte II, cap. XLV, p. 163, seg.; presso Pratillo, tom. II, cap. LI, p. 119 (che varia il numero dei capitoli), e meglio presso Pertz, Scriptores, tomo III, cap. LX, p. 498. Su l'autore veggansi le prefazioni del Muratori e del Pertz. Il Muratori crede che il nome di lui sia stato Arderico.
389. Le stesse croniche bizantine denotano Teognosto come autore dei canoni grammaticali: la sola opera che ci rimane di lui, Θεογνοστου κάνονες, presso Cramer, Anecdota Græca, tom. II, Oxford 1835.
390. Theophanes continuatus, p. 3, in fine del titolo. A p. 81, § 26, di Michele il Balbo, in fin della impresa di Orifa in Creta si legge: “ed ei ci lasciò la briga di liberare l'isola dagli Agareni. Rimettasi ciò nelle mani di Dio: ma anche noi dobbiamo darcene pensiero; e dì e notte l'animo nostro se ne travaglia.” Queste parole non poteano esser dettate che dallo imperatore.
391. Veggasi Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, alla parola Magister, e Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, alla voce Μαγίστερ
392...... λαβόντος ἀρχὴν ἄρτι πρῶτον λαοῦ άμαρτίας. κ. τ. λ.
393. Symeon Magister, nel volume Theophanes continuatus, p. 621, 622, § III, del regno di Michele il Balbo. Su l'autore veggasi Fabricius, Bibliotheca Græca, tom. VII, lib. V, cap. I, § 10.
394. Τουρμάρχης τελῶν. Τέλος, che ho tradotto milizia, è voce generica e vaga. Non così turmarca, che risponde, negli ordini militari d'oggi, a generale di brigata. Comandava una turma o μὲρος, composta di tre drungæ, o μοῖραι, ciascuna delle quali, a un di presso come i nostri reggimenti, variava da 1000 a 2000 uomini. Sopra il turmarca o merarca non era che il generale in capo o stratego: sotto venivano i drungarii o chiliarchi. Veggasi la Tattica dell'imperatore Leone, detto il Sapiente, cap. IV del testo greco, e nella versione francese del Maizeroi, p. 33. Veggasi anche Ducange, Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, alle voci τουρμάρχης, τοῦρμα, μοῖραι.
Al tempo di Leone, drungario e turmarca eran titoli di capitani nelle armatette provinciali, non già nel navilio imperiale; op. cit., versione del Maizeroi, p, 146. Il Cedreno dà ad Eufemio il vago titolo di Ἑξηγούμενος.
395. La versione latina del padre Combefis, ristampata nella edizione del Niebuhr, non è molto esatta in questo luogo, nè in parecchi altri. Oso correggerla, afforzandomi dell'autorità di M. Hase, il quale, cortese quanto egli è sapiente ed erudito, si è piaciuto rivedere e postillare la versione mia.
396. In fatti si trova minacciato questo supplizio nelle Basiliche (Βασιλικῶν, lib. LX, titolo XXXVII, cap. LXXI, LXXIV, LXXV, e Liber Leonis et Constantini AA., tit. XXVIII, cap. X, XI, XII), non solo ai seduttori delle monache, ma sì a chi viziasse l'altrui fidanzata, o sposasse la propria comare. Indi si vede la confusione che portavano già nella morale le ubbíe religiose, e come, tra quelle e il dispotismo, si guastava la legge romana.
397. Συντουρμαρχῶν. Questa voce mal copiata o mal compresa nell'esemplare del Curopalata (Giovanni Scylitzes) ch'ebbe alle mani il Fazzello, gli fece scrivere che Eufemio fosse stato consigliato dalli Scythamarchi.
398. L'autore, supponendo un califo anche in Affrica, e guastando il nome di Emir-el-Mumenin, lo chiama ʾαμεραμνουνῆς. Ho scritto questo titolo secondo la elegante corruzione che ne fecero i nostri antichi.
399. Teophanes continuatus, lib. II, cap. XXVII, p. 81, 82.
400. Op. cit., lib. II, cap. XXII, p. 76, 77.
401. Così chiaramente nei MSS. d'Ibn-el-Athîr e d'Ibn-Khaldûn, ancorchè senza vocali brevi. Dei due MSS. di Nowairi, il più moderno (Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 702 A), omettendo al solito le vocali brevi, scrive anche k s n tin; ma l'altro (Ancien Fonds, 702), autografo, ovvero copiato sopra un autografo, ha una volta f s n tin, e tre volte, lasciando la prima lettera senza punti diacritici, sì che possa leggersi f ovvero k, la fa seguire da quattro lettere — s tin, ovvero da cinque — s n tin. La lezione f s tin potrebbe benissimo supporsi copiata dal nome di Fotino; perocchè la s, che v'ha di più, si confonde spesso nei MSS. con un frego di penna orizzontale che servisse di legatura tra due altre lettere. Ve n'ha infiniti esempii nei MSS., e molti nelle iscrizioni lapidari, e in quelle ricamate su drappi o rilevate su metalli.
402. Il Ducange, Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, spiega la voce Σοῦδα fossa sudibus munita, cioè fosso con palizzata. In Creta si addimandò Suda il luogo ove posero il primo campo i Musulmani. Da χάραξ che significa lo stesso in greco antico, prese nome un vicin promontorio. I Musulmani chiamarono il campo loro, poi divenuto capitale, Khandak, che significa la stessa cosa.
403. Quest'ultima frase è data dal solo Nowairi. M. Caussin de Perceval, padre, che il voltò in francese, e il Di Gregorio che lo ritradusse in latino, rendono quelle parole un des principaux patrices ed ex præcipuis inter patricios. Ma la voce del testo mokaddem significa precisamente “posto innanzi a tutt'altri” e indi “condottiero, capo di parte.” La parola seguente dice “dei suoi patrizii” riferendosi il pronome relativo a Costantino. Pertanto mi par che si tratti certamente dei patrizii siciliani. Debbo avvertire che la costruzione grammaticale del testo lascia un po' dubbio se Eufemio fosse il caporione, ovvero uno dei caporioni.
404. Ciò dal Nowairi. Il Caussin avvertì in nota che talvolta gli scrittori arabi avessero disegnato col nome di Alemanni gli Italiani; e allegò in esempio un passo di Abulfaragi, autore del XIII secolo. Il Di Gregorio non ne volle altro per tradurre a dirittura quemdam ab Italia oriundum. Ma tale interpretazione non può accettarsi. Gli scrittori arabi chiamano ordinariamente gli Italiani Rûm, che vuol dire anche Bizantini, e talvolta ci danno il nome di Ankabard, talvolta di Franchi; confondendoci con le varie razze dei dominatori. Non parlano poi dell'Italia come parte dell'Alemagna altri scrittori che que' dei tempi di Federigo II imperatore, come appunto Abulfaragi, ovvero più moderni, come Abulfeda. Questi due, se non m'inganno, sono i soli autori arabi caduti in tale equivoco, che non si può supporre affatto in uno scrittore del X o XI secolo, come quello copiato da Nowairi. D'altronde è probabilissimo che v'abbia un errore nel MS.; sì chè vi leggerei Armeni, non Alemanni. I mercenarii di schiatta germanica non aveano cominciato per anco a venire a Costantinopoli. Per lo contrario gli Armeni erano frequentissimi nell'esercito bizantino. Infine l'ortografia che troviamo in Nowairi non sarebbe corretta se si trattasse di Alemanni; ma aggiugnendovi una r, lettera non legata nella scrittura arabica e perciò facile a sfuggire, si avrebbe il nome di Armeni.
Lo stesso errore si trova nei MSS. di Nowairi, là dov'ei dice venuto in Sicilia l'828 col patrizio Teodoto un esercito, la più parte, di Alemanni. Quivi è evidente che si debba leggere Armeni. Veggasi il cap. III del presente Libro.
405. Questo nome, mancando di vocali brevi in tutti i MSS. che ho veduto, ha le sole lettere B lât h. Credo non debba leggersi Platâh come han fatto M. Caussin e il Di Gregorio; poichè gli Arabi non comincian mai le sillabe con due consonanti, e al certo, volendo trascrivere Plata, avrebbero messo avanti una alef, dando alla voce la forma di Iblâtah. Del rimanente mal potremmo apporci al vero nome. Forse è inesatta trascrizione del titolo di Curopalata, Palatino o simili. La mutazione della b in p va bene, mancando nell'alfabeto arabico la seconda di queste lettere.
406. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 122 verso; MS. C, tomo IV, fog. 191 recto; Nowairi, presso Di Gregorio Rerum Arabicarum, p. 3, 4, e versione del Caussin, p. 10, 11; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 103 a 105.
407. Riadh-en-nofûs, MS., nella vita di Ased-Ibn-Forât, MS., fog. 28 recto e verso.
408. Εὺφήμιος ed Εὺθὺμιος pronunziati Evfimios ed Evthimios, poichè in tutto il medio evo, come in oggi, e anche nell'antichità, i Greci pronunziavano la η, come la υ e l'ι; le quali lettere si trovano scambiate nella più parte dei MSS. Anche i copisti greci soleano scrivere cotesti due nomi l'uno per l'altro, come si vede dal Cedreno, edizione di Bonn, tom. II, p. 795.
409. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto; Ibn-Abbâr, MS., fog. 148 verso.
410. Riadh-en-nofûs, e Ibn-Abbâr, II. cc.
411. Questo fatto si ritrae da Ibn-Khaldûn, il quale con lieve anacronismo intitola Ased cadi in quel tempo, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, ediz. di M. Des Vergers, testo p. 35, e versione p. 92, dove mi par che debba sostituirsi la voce minacce alla frase offrir des présents. In luogo di Mogiâled forse si dee leggere Mokhâled, secondo il Nowairi, Conquête de l'Afrique, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, trad. di M. De Slane, tomo I, p. 400 e 405.
412. Il fatto della elezione e di chi la consigliava si legge nel Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. Vi si nota altresì che avanti Ased e Abu-Mohriz non si fossero mai visti due cadi a un tempo in una capitale. Parmi che nè anco se ne incontri esempii altrove. Vi furon bene nei tempi posteriori in una stessa città quattro cadi, ma delle quattro scuole diverse che viveano insieme in pace. Il Baiân, tomo I, p. 89, porta anco la destinazione di Ased a cadi l'anno 205, e la novità dell'esempio.
413. Harun-Rascid riordinò la magistratura e istituì il Kadi-'l-Kodâ, ossia cadi dei cadi, supremo giustiziere dello Stato, sedente nella capitale. Verso quel tempo i magistrati e giuristi ebbero una divisa lor propria. Veggasi Hamilton, Hedaya, tom. I, p. XXXIV.
414. Al dire d'Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 29 verso, il califo Mehdi, nella fierissima sua persecuzione contro i Zindîk in Oriente, creò un inquisitore apposta, intitolato Sâheb-ez-zenâdika, l'anno 198 (794-5). Furonvi molti mandati al patibolo e gran copia di libri dati alle fiamme. Zindîk significa in generale miscredente, scettico, ateo; ma par che in principio questa appellazione siasi data ai Manichei, forse anche ai Guebri, e si vuole nata dal nome del linguaggio zend e del libro sacro degli antichi Persiani, il Zendavesta.
415. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 29 recto. Quivi si nota che i due cadi seguirono la opinione dei giuristi dell'Irak e l'altro consultore quella dei giuristi di Medina. Que' discepoli di Malek si appigliarono dunque alla decisione più mite di Abu-Hanîfa più tosto che a quella del loro maestro. Su la prima veggasi l' Hedaya, tomo II, lib. IX, cap. IX, p. 225. La seconda è sostenuta dal compilatore del Riadh-en-nofûs, scrupoloso Malekita.
416. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso. Il caso di coscienza era: an fas esset balneum intrare cum cunctis pellicibus suis nudis. Abu-Mohriz sostenea esser lecito al signore di guardarle da capo a piè, ma non ad esse quod vicissim pudenda conspicerent.
417. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto.
418. Ibn-Abbâr, MS., fog. 148 verso.
419. Ibn-Abbâr, loc. cit.
420. La biografia di Ased si ritrae tutta dal Riadh-en-nofûs e da Ibn-Abbâr, che ho citato. M. Des Vergers, in nota a Ibn-Khaldûn, p. 105, ne ha fatto un cenno preso dalle medesime sorgenti; dal quale se io differisco in qualche parte, è che mi è parso interpretare in altro modo i testi e i fatti. Il Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 75, ha tradotto, al solito suo con errori, lo squarcio di Ibn-Abbâr. Tra gli altri, ei fa Ased congiunto (deudo) di Ibrahim-ibn-Aghlab.
421. Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 123 recto; MS, C, tom. IV, fog. 191 recto.
422. Theophanes continuatus, lib. II, cap. 27, p, 82.
423. Si ritrae dalla discussione di dritto riferita nel Riadh-en-nofûs; poichè gli ambasciatori dei quali vi si fa menzione non poteano esser que' di Eufemio, sostenendo non essere stata violata la tregua dal governo di Sicilia.
424. Soleiman-ibn-Amrân, presso il Riadh-en-nofûs, fog. 28 recto. Soleiman sedè tanto in questa adunanza, quanto in quella dell'813, nella quale era stata promulgata la tregua. Il versetto del Corano citato da Ased è il 133 della sura III; ma il testo che corre oggidì ha una lezione inferiore d'assai alla variante di Ased, dicendo più rimessamente: “Non vi sbigottite nè vi attristate; chè avrete il primato, se sarete credenti.” Il patto della tregua, come lo riferisce lo stesso Soleiman (veggasi il Lib. I, cap. X, p. 229) portava assolutamente l'obbligazione di lasciare andar liberi dalla Sicilia tutti i Musulmani che il volessero. Tuttavia è probabile che si fosse stipolata, per reciprocità, qualche clausola analoga a quelle della legge musulmana. Secondo questa uno straniero infedele venuto a mercatare come Mostamîn, ossia guarentito da una permissione in buona forma, può dimorare un anno senza molestia. Scorso il qual tempo, è costretto a pagare la gezia come gli dsimmi, ossiano sudditi infedeli, e dopo qualche tempo può essere al par di quelli ritenuto nel paese. Veggasi Hamilton, Hedaya, lib. IX, cap. VI.
425. Ahmed-ibn-Soleiman, presso il Riadh-en-nofûs, fog. 28 recto.
426. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Il personaggio di cui si parla è diverso dal celebre giurista contemporaneo, Sehnûn-ibn-Sa'id.
427. Soleiman-ibn-Amrân, presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. Il Baiân, tomo I, p. 95, dice più brevemente che Ased si presentò come candidato a Ziadet-Allah, e fu accettato.
428. Presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso.
429. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4.
430. La voce che rendo “signoria” è wilâia e welâia, che significa l'autorità del capo di famiglia o tribù, d'indole diversa, come ognun sa, dalla signoria dei baroni nel medio evo. Avrei tradotto “clientela,” se questa voce, posta assolutamente, non ci avesse trasportato a Roma antica, e dato così un significato assai più lontano.
431. Sceikh anonimo, citata da Abu-'l-Arab, scrittore della prima metà del X secolo, presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso.
432. Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 277, e testo arabico tomo I, p. 179. Vi è nominato un condottiero di questa tribù che combattè in Sicilia, Zowâwa-ibn-Ne'am-el-Half.
433. Ciò si ricava dal fatto che ho narrato nel Lib. I, cap. VI, p. 142.
434. Baiân, tomo I, p. 95.
435. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Il Baiân, l. c., dice 700 cavalli, e grandissimo numero di fanti; Ibn-Abbâr, MS., fog. 148 verso, 10,000 uomini, dei quali 700 cavalli; Abu-'l-Arab, citato nel Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso, dà ad Ased 10,000 cavalli; Ibn-Wuedran, MS., § 1, e versione francese di M. Cherbonneau, Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 424, citando Ibn-Rascîk, autore dell'XI secolo, dice che l'esercito sommò a un dipresso a ventimila uomini; Ibn-abi-Dinâr (El-Kaïrouani), versione francese, p. 83, a un dipresso a diecimila.
436. Abulfeda, Géographie, versione francese, tomo II, p. 199; Tigiani, nel Journal Asiatique, août 1852, p. 104; Ibn-abi-Dinâr, loc. cit.
437. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn portano la sola data del mese. Nowairi fa cadere il 15 rebi' 1º (16 è errore corso nella versione di M. Caussin e del Di Gregorio) in giorno di sabato. Fu veramente un giovedì. Il Rampoldi fa combattere due battaglie navali in questo passaggio; la origine del quale errore si vegga nel capitolo seguente, p. 287, nota 2.
438. Nowairi, loc. cit.
439. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, pag. 106. M. Des Vergers, secondo il MS. di Parigi ha tradotto questo passo: “Les Arabes se tenaient d'abord (par défiance) a l'écart du chef de l'île et des Grecs de son parti; mais s'étant ensuite réunis, ils mirent en fuite Palata et son armée, dont ils pillèrent tous les bagages.” Ma la lezione del MS. di Parigi è manifestamente erronea, e va corretta con quella di un MS. di Tunis, del quale io ho alcuni estratti. Indi convien tradurre: “Il Palata venne alle mani con gli Arabi; i quali fecero mettere in disparte il capo (Eufemio) e tutti gli altri Greci che (insieme con lui) li avean chiamato in aiuto contro il Palata e sua fazione. Sconfitto il Palata e i suoi, gli Arabi fecero bottino della roba loro, e il Palata fuggissi.”
Ibn-el-Athîr e Nowairi dicon solo del comando dato di mettersi in disparte: e l'ultimo aggiugne che Ased “non volle aiuto da lui.” Questa è la frase che il Di Gregorio, guastando testo e versione francese, rese in latino: eorum etenim fidem expertus non fuerat.
Secondo il Riadh-en-nofûs, la divisa fu un poco di Hascisc, che in generale significa “erba secca,” e anche pianta.
440. Soleiman-ibn-Sâlem, presso il Riadh-en-nofûs, loc. cit., con la salvaguardia d'un “si dice.” Replicarono questa esagerazione. Ibn-Rascîk, citato da Ibn-Wuedran e Ibn-abi-Dinâr che lo copia.
441. Nowairi, loc. cit. Moltissimi luoghi in Sicilia chiamansi Balata, che è la voce latina platea, guasta dagli Arabi nel suono e nel significato, e in oggi nel dialetto dell'isola significa “pietra da lastrico,” e altresì “pietra viva e liscia, non tolta per anco dal monte.” Pertanto, non sapendosi nè donde venisse il Palata, nè a quanta distanza l'andasse a incontrare Ased, sarebbe difficile determinare il luogo della battaglia, anche supponendo che ritenga tuttavia il nome. Nondimeno v'ha a sei miglia da Mazara un promontorio, detto da Edrisi Râs-el-Belât, e in oggi capo Granitola o punta di Sorello, che si stende in una vastissima pianura in parte paludosa, margiu, come noi diciamo in dialetto. La uscita di Ased da Mazara in ordinanza e la ritirata dell'esercito siciliano verso Castrogiovanni convengono benissimo ad una battaglia data in quella pianura. M. Famin, Histoire des Invasions des Sarrazins en Italie, tomo I, p. 150 in nota, promette dimostrare in appresso che la battaglia si diè a Platani, castello distrutto. Gli argomenti suoi, che non conosciamo per anco, possono esser due: la vicinanza del luogo e la somiglianza del nome. Ma il luogo è lontano da Mazara cinquanta miglia, e secondo Edrisi dovrebbe dirsi 70; il che non si accorda con la marcia in ordinanza. Il nome è diverso; poichè gli Arabi, Nowairi con gli altri, nominando quel castello di Platani che si arrese ai Musulmani l'840, scrivono Iblâtanû, non già Belât.
442. Il testo del Nowairi dice che Ased uscì di Mazara 'alâ ta'bia per andare a trovare il Palata nella pianura Palata o Balata. M. Caussin, padre, prese ta'bia per nome di luogo, e tirossi dietro il Di Gregorio, che per giunta soppresse nel testo la preposizione 'alâ, che vuol dire: “sopra, in, in stato di.” Indi tradussero, l'uno: marcha vers Taabia; e l'altro: progressus exinde fuit ex Mazara ad Taabiam. Ma ta'bia significa “schiera, ordinanza, ordine di battaglia;” e il Nowairi un rigo sotto replica il verbo 'aba, dal quale viene tal voce; oltrechè se si trattasse di nome di luogo qualunque arabo gli avrebbe messo innanzi la preposizione ila, “verso, alla volta di,” e non già 'alâ. Ibn-el-Athîr usa anch'egli in altro caso della guerra di Sicilia la voce ta'bia nel senso di schiera, ordinanza. Però non v'ha il menomo dubbio alla correzione che io fo: “Indi Ased cavalcò in ordinanza da Mazara per andare a trovare il Palata, il quale stava in una pianura che ebbe lo stesso nome di lui.”
443. Così pare, poichè sappiamo dai Musulmani lo sbarco il 13 giugno, e la Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 41, porta la occupazione dell'isola a mezzo luglio 6335, notando, com'è probabile, lo evento più segnalato, che fu questa battaglia.
444. Oltre i molti esempii nelle battaglie, questa usanza è attestata nella Tattica dell'imperatore Leone, versione francese, p. 122.
445. Presso il Riadh-en-nofûs, l. c. L'autore aggiugne il comento che “Barbari della costiera” alludesse a que' che avean preso la fuga nella prima battaglia data da' Musulmani in Affrica. Forse fu questa ricordanza che suggerì di dare 150,000 uomini al Palata, come se n'erano supposti 120,000 nell'esercito di Gregorio.
446. La ritirata del vinto a Castrogiovanni è riferita dal Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5. Il rimanente da Nowairi stesso; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 recto; MS. C, tomo IV, fog, 191; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 106.
447. Il solo Nowairi, l. c., indica il cammino tenuto dall'esercito musulmano pria che giugnesse ad Acri. Ei ne nomina due luoghi soli, il primo dei quali basta al proposito nostro, poichè si dice espressamente posto sul mare. E veramente il più breve e facile viaggio da Mazara a Siracusa corre lungo la marina fino a Terranova, e di là continua tra i monti quasi in linea retta. Secondo l'Itinerario d'Antonino, questo viaggio seguirebbe in parte il primo, e in parte il secondo dei sentieri di posta dei Romani tra Girgenti e Siracusa; l'uno dei quali costeggiava sempre il mare, e l'altro mai nol toccava. Il punto di ravvicinamento di questi sentieri era nelle poste di Plaga Calvisianis del primo, ed Hybla Haerea del secondo, situate l'una presso Terranova, e l'altra presso Chiaramonte; tra le quali due stazioni l'Itinerario non segna strada; ma v'ha oggi, e di certo non mancava al tempo dei Romani.
Determinata così con certezza la marcia di Ased, ci rimane a trovare i due punti di questa linea nominati dal cronista. Dell'uno ei dice che fu “la Chiesa di Eufemia, quella ch'è in sul mare.” Qui in luogo di Eufemia leggerei Finzia; perchè questo nome nella scrittura arabica differirebbe poco dal primo; e sopratutto perchè la stazione più notabile del detto viaggio era appunto Licata, l'antica Phinthia, fabbricata sopra una rupe ch'esce in penisola alla foce del Salso.
Il secondo nome geografico si legge in vario modo nei due MSS. di Nowairi; dei quali il più corretto ha: “La Chiesa di elm s l kîn ” (senza vocali brevi), e l'altro di: “ elsci l kîn. ” Invano ho cercato nella geografia antica, arabica, o moderna, qualche nome che somigli a cotesto. Pur dalla narrazione di Nowairi argomenterei volentieri che il sito fosse il promontorio ch'or si chiama la Pietra di San Nicola, tra Licata e Terranova, il quale nello Itinerario d'Antonino è chiamato Refugium Gelæ, e posto a cinque miglia romane a levante da Licata, e in Edrisi ha nome di Marsa-es-Sceluk ad otto miglia arabiche dalla foce del Salso. Non manca qualche debole assonanza tra i nomi.
La conghiettura che si trattasse di Sciacca non mi par che regga. Oltrechè questo nome è al certo arabico, e però posteriore all'evento; e oltre ch'è assai diverso da quello dei MSS., Sciacca si trova troppo presso al luogo donde partiva Ased, e troppo lungi da Siracusa. D'altronde, il solo autore di quella conghiettura, M. Caussin padre, la ritrattò nella versione francese del Nowairi, pubblicata da lui stesso. Veggasi la p. 14 di quell'opuscolo.
448. Nella più parte dei MSS., ove si dice di questa fortezza, il nome è scritto variamente. Dei due esemplari di Ibn-el-Athîr, il MS. A mostra (al solito senza vocali brevi) le lettere elk râ, e in fine una senza punti diacritici, che si potrebbe leggere b, t, ovvero th. Il MS. C ha elk rrâth assai nitidamente; ma la chiarezza può venire benissimo dalla ignoranza di chi scrivea questo nome geografico, come il noto vocabolo kerrâth, che significa “porro,” e ch'è altresì nome di luogo; e tra gli altri d'un isolotto alla punta di Capo Passaro, detto anche oggi l'isola dei Porri: nudo scoglio del quale al certo non si tratta nel caso presente. Passando a Ibn-Khaldûn, il testo pubblicato da M. Des Vergers secondo il MS. di Parigi ha elk râd; e quello di un MS. di Tunis (il quale mi par migliore) ha elk rat. Questa ultima lezione anche troviamo in entrambi i MSS. del Nowairi; sendo errore della edizione del Di Gregorio la lettera hé (26 ma dell'alfabeto arabico d'oriente) sostituita alla t (terza lettera).
Or la lezione del Nowairi e del MS. tunisino d'Ibn-Khaldûn mi par che renda quasi esattamente il nome di Acri: città notissima nella Sicilia antica; rimasta in piè certamente infino al quinto secolo, come lo mostrano lo Itinerario d'Antonino, le tavole di Peutinger e gli emblemi cristiani trovati nel nostro secolo tra le sue rovine; e di più, importante per lo sito, e posta proprio su la strada che dovea fare Ased. La terminazione in arabico col suono di Kerât non sarebbe più viziosa di tante altre che ne conosciamo di nomi geografici greci e latini storpiati dagli Arabi, e viceversa. Per altro ad aggiustarla basterebbe togliere la lettera l dell'articolo arabico, ovvero aggiungere dopo quella una a, di modo che facesse Akrât ovvero el-Akrât. La desinenza ât, appartenendo al plurale femminino della lingua arabica, renderebbe appunto la forma analoga αὶ Ἄκραι ed Acrae che usavano nel nome di questa città i Greci e i Latini, insieme con altre meno esatte, come Ἄκραιαι ed Agris.
Il Di Gregorio in nota al Nowairi, l. c., ha ricordato, a proposito di questa fortezza, il nome di Alcharet, che leggesi in un diploma del 1082; ma poco ci giova, poichè il sito di Alcharet si ignora, e forse si dee cercare ad Alcara delli Fusi, su le montagne che sovrastano alla costiera settentrionale. Meno lungi da Siracusa, ma pur troppo pel caso nostro, sarebbe Valguarnera Caropini (leggasi Caropipi), terra presso Castrogiovanni, alla quale pensò M. Des Vergers, p. 106 della versione di Ibn-Khaldûn, credendo preferibile alle altre lezioni quella del MS. A di Ibn-el-Athîr, e leggendovi elk râb.
449. Ibn-el-Athîr; Ibn-Khaldûn; Nowairi, ll. cc.
450. Johannes Diaconus, Chronicon Episc. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 312, dice pagato il tributo di 50,000 soldi dai Siracusani prima della occupazione di Palermo. Dalla serie del fatti si vedrà che il pagamento non potè aver luogo dopo il tempo in cui l'ho messo. Ibn-el-Athîr narra le dette pratiche in modo da far supporre che fosse stata pagata una parte della taglia.
451. Il testo dice precisamente haul “in giro.”
452. Veggasi il capo X del presente libro. Questo quartiere era stato, probabilmente, ristorato ai tempi di Augusto.
453. Ibn-el-Athîr, l. c., narra l'occupazione delle caverne e l'assedio di Siracusa cominciato per terra e per mare; il Baiân, tomo I, p. 95, l'assedio per terra e per mare, l'arsione delle navi degli assediati, e l'uccisione di lor gente. Queste due croniche ed altre dicon che poi vennero gli aiuti d'Affrica; e mi pare evidente che Ased li avesse richiesto.
454. Questi pare il Sehnûn-ibn-Kâdim che avea sconsigliato l'impresa. Veggasi a p. 260.
455. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso, racconto di Soleiman-ibn-Sâlem. Quivi non si porta data; ma la condizione dell'esercito affamato e la conchiusione del racconto non lascian dubbio che il fatto debba riferirsi al lungo assedio di Siracusa.
456. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn fanno menzione soltanto di rinforzi d'Affrica; ma Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5, e il Baiân, tomo I, p. 95, parlano espressamente di Affricani e di Spagnuoli. Credo che questi ultimi venissero di Creta; perchè non è probabile che gli Omeîadi di Spagna mandassero l'armata loro insieme con l'affricana, e perchè il Marrekosci, testo arabo, edizione di Dozy, p. 14, dice che alcuni Spagnuoli di Creta passarono in Sicilia.
457. Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 16, sotto l'anno 827.
458. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicilie, p. 43 del testo, e 106, 107 della versione, narra che, mentre Ased stava a campo a Siracusa, gli aiuti di Affrica assediarono Palermo; che i Greci assalirono Ased e furono rotti; e che Ased, morto del 213, fu sepolto a Palermo. Nella pagina seguente, Ibn-Khaldûn dice presa Palermo il 217. Vi ha dunque una manifesta confusione di tempi. Il nome di Palermo fu messo al certo per errore nella guerra del 212 e 213, e l'errore nacque dalla menzione che Ibn-el-Athîr, o altro cronista più antico, avea fatto del governatore di Palermo, intendendo del bizantino non già del musulmano. L'assedio di Palermo nel 213 è inverosimile o piuttosto impossibile. Da un'altra mano il Nowairi, senza fare menzione della battaglia, dice arrivati i navilii d'Affrica e di Spagna, e indi rincalzato l'assedio di Siracusa. Il Riadh-en-nofûs, all'incontro, senza parlare di aiuti, attribuisce ad Ased una seconda strepitosa vittoria. Parrebbe da tutto ciò che la battaglia fosse combattuta sotto Siracusa.
459. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 recto e verso; MS, C, fog. 191 verso. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, l. c., il quale nel testo dice che gli assediati respinsero i Greci venuti ad assalirli sotto Siracusa.
460. L'assedio par che cominciasse verso la fine di luglio 827.
461. Il Nowairi, l. c., scrive che i Siracusani chiedeano l' amân, che Ased lo voleva accordare, e che i Musulmani si ostinarono a continuare le ostilità. Credo più tosto un errore di questo compilatore, che mutata improvvisamente l'indole di Ased.
462. Veggasi qui appresso la fuga degli statichi che erano nel campo musulmano. Il Riadh-en-nofûs, MS. fog. 26 recto, nel narrare la morte di Ased, dice delle molte vittorie riportate e città soggiogate.
463. Secondo il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto, morì di ferite, di rebi' secondo del 213 (tra giugno e luglio 828) e fu sepolto nel campo; lo stesso dice Ibn-Rascik, citato da Ibn-Wuedrân, § 1, senza spiegare la causa della morte; così anche Ibn-abi-Dinar (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 85; e testo, MS., fog. 20 verso. Il Baiân, tomo I, p, 95, reca la morte dal mese di regeb (tra settembre e ottobre); Nowairi, presso Di Gregorio Rerum Arabicarum, p. 5, di scia'bân (tra ottobre e novembre): Ibn-Abhâr, MS,, fog. 148 verso; Ibn-el-Athîr, l. c.,; e Ibn-Khaldûn, l. c., non portano altra data che dell'anno 213. Ibn-el-Athîr lo dice morto della pestilenza; il Nowairi, in generale di malattia.
464. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto.
465. Baiân, tomo I, p. 96.
466. Così dicono espressamente Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5, e il Baiân, l. c. Ibn-el-Athîr, e Ibn-Khaldûn portano senz'altro che Mohammed-ibn-abi-'l-Gewâri succedea nel comando. Questo nome patronimico è dato dai migliori MSS., e in altri sbagliato. In una moneta, della quale ci occorrerà far menzione, è scritto Ibn-el-Gewâri; e però, non ostante l'autorità dei cronisti, mi è parso seguire questa lezione.
467. Einhardus, Annales, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 217, anno 828; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 519. Veggansi gli Annali del Muratori, sotto il medesimo anno.
468. Riadh-en-nofûs, MS., fog. 52 verso, senza data. Il giurista Sehnûn, padre di Mohammed, è diverso dal Sehnûn-ibn-Kâdim di cui abbiam detto. Ei si chiamava Abu-Sa'îd-Abd-es-Selâm-ibn-Sa'îd, e gli diceano Sehnûn, per lode o ingiuria. Debbo avvertire che secondo la biografia di Mohammed-ibn-Sehnûn, questi nacque il 202 dell'egira (817); onde il combattimento suo con gli Italiani si dovrebbe supporre diverso da quello dell'828. Invece di raddoppiare questo fatto, mi par più naturale credere a uno sbaglio nella data della nascita di Mohammed. Pare che Mohammed-ibn-Sehnûn fosse officiale delle milizie, leggendosi in fine che da quel dì in poi montò sempre cavalli andando a far la ispezione.
469. Il ribelle 'Amer-ibn-Nafi' si difese in Tunis fino alla sua morte, che seguì di giugno 829.
470. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 verso, MS. C, tomo IV, fog. 191 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 107; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5, 6.
471. Leggenda della traslazione del corpo di Sant'Agrippina, epitome del martirio e canone acrostico, dei quali il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 18 seg., diè le versioni latine, e i Bollandisti, Acta Sanctorum, mese di giugno, tomo IV, p. 458 seg., inserirono le versioni, col testo greco dell'epitome e del canone. Questi al giudizio dei Bollandisti furono scritti nel X o XI secolo in Sicilia. La critica degli stessi dotti editori ha tolto alcuni dubbi del Gaetani, correggendo il tempo del martirio di Agrippina, e mostrando che il supposto miracolo fosse operato contro i Musulmani e non contro gli Iconoclasti. L'epitome, dettata, come parmi, prima del canone, è più castigata: Agareni vero, cum præsumpsissent depredari propugnaculum templi ejus, omnigena morte interierunt (άπολεία παντελεῖ παρεδώθησαν) che meglio si renderebbe: “furono compiutamente esterminati.” Il canone, come scritto in versi, aggiugne un po' di colore, che: Santa Agrippina come una colomba d'oro armata d'una croce distruggea gli Infedeli che di notte assalivano il suo castello, ec.
472. Ibn-el-Athîr alla fine del capitolo su la prima guerra di Sicilia scrive i nomi delle città più rilevanti, lettera per lettera secondo l'uso degli Arabi. L'ortografia che assegna al nome di questa città è, mim, ia, nun, alef, waw, cioè Minâw. MS. A, tom. I, fog. 125 verso.
473. Nel MS. del Beladori della Biblioteca di Leyde, nº 772, del catalogo stampato del Dozy, p. 275, del MS., non si vede il raddoppiamento della n; ma ce lo dà Ibn-el-Athîr, l. c., scrivendo: kaf, sad, ra, ia, alef, nun raddoppiata, he.
474. Ho messo insieme i particolari di questo misfatto, riferiti variamente dal Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 6, e dalla cronica imperiale, Theophanes continuatus, libro II, cap. XXVII, p. 82, 83. Narra più brevemente quest'assassinio Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 191 verso, e l'accenna appena Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 107. Quivi in luogo di Mazara si legga Mineo, come hanno chiaramente i MSS. di Ibn-el-Athîr e di Nowairi. Quanto al luogo dell'uccisione d'Eufemio, ho seguito i cronisti arabi, non il bizantino che le porta a Siracusa. Nella versione del Nowairi si corregga la frase del Di Gregorio in terram procubuere manus ipsius comprehensuri, e si segua quella del Caussin comme pour se prosterner devant lui, o meglio si sostituisca: in atto di baciar la terra innanzi i suoi piè. Il Rampoldi, Annali Musulmani, citando Nowairi, che punto nol dice, fa andare Eufemio ad Enna “con un corpo dei suoi aderenti rinforzato da circa 1000 Affricani.”
475. Veggasi il I capitolo del presente Libro, pag. 247, nota 1.
476. Non essendo stato giammai a Castrogiovanni, mi sono affidato alle descrizioni altrui e alle notizie scritte dal diligentissimo D'Amico nel Lexicon Topographicum Siciliæ.
477. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn e Nowairi, ll. cc.
478. Il simbolo va letto non Ali, nè in alcuno degli altri modi mal trovati dai numismati del secolo passato, ma certamente gheleb, verbo trilitere che significa “occupa, conquista, vince,” e, preso all'ottativo, “conquisti, vinca etc.” Da questo verbo deriva l'aggettivo Aghlab che era insieme il nome patronimico della dinastia. Indi si capisce la etimologia di tal simbolo, il significato particolare che dava unito alla voce Ziadet-Allah, ossia “trionfi la fortuna accordata da Dio,” e il doppio scherzo di parole contenuto nella leggenda.
Veggasi Tychsen Additamentum I introductionis in rem nummariam Muhammedanorum, § 1, p. 40, e 41. Nell'esemplare di Parigi il nome el-Gewâri è preceduto dalla voce bnu (figliuolo), non da abi come lesse il Tychsen. La formula in giro della faccia dritta è cavata dalla sura IX, verso 33, del Corano.
Il signor Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, non avendo sotto gli occhi che il disegno pubblicato dal Tychsen, credè questo dirhem falsato e “avanzo della impostura di Vella.” Ma basta guardare il bel conio dell'esemplare di Parigi per dileguare ogni dubbio di falsificazione: e basta notare la esattezza delle formule e la correzione dell'ortografia e della grammatica per sincerarsi che l'ignorante Vella non ci ebbe che fare.
Nel Museo di Parigi non v'ha ricordi scritti nè tradizione, da poter affermare o negare che questo esemplare fosse il medesimo di Tychsen.
479. Scrivo questo nome secondo il MS. A di Ibn-el-Athîr. Nel MS. C, si legge men distinto. Il testo stampato d'Ibn Khaldûn ha “Ibn-'A w n” e un MS. di Tunis del medesimo autore “Ibn-'A w m;” Nowairi, secondo ambo i MSS. “Z h r-ibn-Borghuth.” Ghauth è nome di tribù arabica della schiatta di Kahtân.
480. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 191 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 108; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 6, 7.
Ho fissato la data ritenendo la morte d'Ibn-Gewâri nei primi del 214, come risulta comparando la leggenda del dirhem e lo attestato di Nowairi, e pigliando dal Baiân, il quale è molto preciso, il tempo dell'arrivo dell'armata spagnuola in Sicilia, la quale liberò i Musulmani dall'imminente sterminio. Le vicende della guerra, raccontate da Ibn-el-Athîr con poco divario nella cronologia, stanno benissimo entro questi due termini.
481. Si pronunzii come se si leggesse in francese Ferghaloûch, o in inglese Ferghalûsh. I nostri antichi lo avrebbero scritto Fergaluscio.
482. Il Baiân, più diligente in questo che le altre croniche, porta l'arrivo di Asbagh e le sue promesse il 214, e l'aiuto efficace suo il 215. Così abbiamo il bandolo da sviluppare i racconti contraddittorii di Ibn-el-Athîr e Nowairi; il primo dei quali fa venire una poderosa armata d'Affrica e nel 214; il secondo, di Spagna e nel 215.
483. Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 16. È incerto l'anno di questa seconda impresa, poichè il cronista assegna data solo alla prima, cioè dell'827, e della seconda dice che fosse mandata dal doge succeduto a Giustiniano Partecipazio, il quale si sa d'altronde che morì l'829.
Si riscontri il Dandolo, lib. VIII, cap. II, § i 1 e 9 presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XII, e la Cronica Altinate, nello Archivio Storico Italiano, tomo VIII, p. 20.
Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 237, muta le due imprese dell'827 ed 829, o 30, in due “forti combattimenti ch'ebbe a sostenere Ased traversando da Susa a Mazara con una flotta di Veneziani alleati dell'imperatore.” E quel ch'è peggio, egli cita Nowairi, il quale non dice una parola di questi fatti.
Il Martorana, Notizie Storiche ec., tomo I, p. 39, fa venire il naviglio greco l'830, sotto il comando di Teofilo, mandato dal padre Michele il Balbo (ch'era morto l'829), e fa abbottinare contro Teofilo l'armata veneziana. Delle sue citazioni a questo proposito l'una è inesatta, l'altra non vale.
484. Ibn-el-Athîr.
485. Ricordisi che Ibn-el-Athîr qui parla solo di aiuti d'Affrica; ma nel progresso della guerra fa menzione delli Spagnuoli in modo da doverli supporre assai numerosi.
486. Il Baiân.
487. Nowairi.
488. Baiân.
489. Nowairi.
490. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 191 verso; Baiân, tomo I, p. 96; Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 7; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 108; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, op. cit., p. 41.
Questa sola cronica porta la morte di Teodoto, e la dice seguita l'anno dell'era costantinopolitana 6339, quando fu presa dai Musulmani una città il cui nome nel testo arabico si legge misawa. Il Nowairi porta la sconfitta di Teodoto sotto Mineo, e ch'ei si rifuggisse a Castrogiovanni del mese di giumadi secondo del 215, cioè dal 25 luglio al 22 agosto 830, e però pochi giorni innanzi il principio del 6339, che corre dal 1 settembre 830 al 31 agosto 831. Ibn-el-Athîr e il Baiân dicono anche levato l'assedio da Mineo. Or questo nome, scritto in arabico minâw, si può scambiare facilmente con quel della cronica di Cambridge confondendovi le due lettere i n sì che rassomiglino ad una s. Però ho creduto di correggere l'arbitraria lezione di Messina che si era adottata nelle versioni di detta cronica. Si leggano con questa avvertenza i passi corrispondenti del Martorana, tom. I, pag. 41, e del Wenrich, lib. I, cap. IV, §37. Nell'831, quand'essi registrano la presa di Messina, gli Arabi combatteano ben lungi da quella provincia.
491. Callonianis è una delle poste di cavalli nella nuova linea che s'era aperta, al dir dello Itinerario, tra Catania e Girgenti. Veggasi la edizione di M. Fortia d'Urbain, Itinéraires des anciens, p. 27.
492. Baiân, tomo I, p. 97.
493. Nowairi presso Di Gregorio, op. cit., p. 7, assegna questa data al principio dell'assedio di Palermo, e la seguo, adattandosi bene alla narrazione d'Ibn-el-Athîr, al quale dobbiamo i particolari dello assedio.
494. Ibn-el-Athîr, come si dirà a suo luogo, fa cenno delle aspre contese che sorgeano tra Africani e Spagnuoli dopo la reddizione di Palermo. Perciò gli Spagnuoli eran molti; e si dee necessariamente supporre che tutti, o i più, fossero venuti con Asbagh, e non rimasti degli aiuti Spagnuoli che accompagnarono Ased, o sopraggiunsero all'assedio di Siracusa nell'827; dei quali pochissima parte potea sopravvivere alla pestilenza, alle sconfitte di Castrogiovanni, e alla fame di Mineo.
495. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 recto; MS. C, tomo IV, fog. 191 verso. La cronaca di Cambridge presso il Di Gregorio, op. cit., p. 41, accenna la occupazione di Palermo il 6340, cioè dal 1º settembre 831 al 31 agosto 832. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 108, riferisce la dedizione di Palermo al 217, scambiando questo fatto con quello di ordinarvi il governo, che veramente seguì nel 217. Il Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 7, prolunga la dedizione fino al mese di regeb del 220 (835), indotto in errore, com'è manifesto, dal supporre che là città si fosse resa a un Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab, ch'ei, per secondo sbaglio, suppone preposto ai Musulmani di Sicilia in quell'anno.
La cronaca della Cava, nella edizione di Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo IV, p. 391, reca la presa di Palermo l'anno 832; ma questa è manifestamente la notizia della Cronica di Cambridge interpolata dal Pratilli con quella misera frode che si può sospettare dalle sue proprie parole (stesso volume, p. 381), e che ormai è chiarita dopo le ricerche del Pertz e del Köpke, Archiv für ältere Teutsche Geschichts Kunde.
496. Johannes Diaconus, Chronica episcoporum Sanctæ Neapol. Eccl., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 313, dice presa la città, e liberato col vescovo Luca e pochi altri lo spatario Simeone. Par che questi fosse il governatore.
497. Ibn-el-Athîr, l. c., scrive che il governatore ( sâheb ) di Palermo chiese ed ottenne l' amân per la propria persona e della sua gente ( ahl ) e per la “sua” roba ( mâl, ossia beni mobili). La vaga significazione della voce ahl che or s'intende della famiglia o gente di casa, or del popolo, non ci permette di definire questa prima condizione del patto. Ma aggiungendosi che il governatore e i suoi se ne andavano per mare, è da credere che si trattasse di pochi ottimati, non di tutti gli abitanti. Quanto alla seconda clausola, Ibn-el-Athîr dice assicurata la roba “sua,” cioè del governatore, non la roba “loro,” come avrebbe scritto se ciò fosse stato accordato a tutti i cittadini.
Convengono così fatte espressioni con quelle di Giovanni Diacono, citato di sopra: Ad postremum vero capientes Panormitanam provinciam, cunctos ejus habitatores in captivitatem dederunt. Tantummodo Lucas ejusdem oppidi electus et Symeon spatharius cum paucis sunt exinde liberati.
Come si debba intendere questa cattività sarà detto quando tratteremo in generale della condizione dei Cristiani di Sicilia sotto i Musulmani, la quale non era uguale in tutti i luoghi. Intanto si ritenga che a que' di Palermo non fu lasciato il possesso di beni stabili. Ciò mi par che risalti manifesto dalle parole d'Ibn-el-Athîr e di Giovanni Diacono.
Il Nowairi, non badando alta importanza del passo analogo della cronica ch'egli ebbe sotto gli occhi come Ibn-el-Athîr, dice in generale presa Palermo con l' amân, ossia a patti. Da ciò il Di Gregorio suppose accordate tutte le solite condizioni dello amân che si dava alle città; e ne spiegò alcune nella nota (c) al Nowairi, nell'opera citata, p. 7. Ma le condizioni, massime in fatto di proprietà, non erano nè poteano essere uguali in ogni luogo.
498. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 42, vita di San Filareto; e la stessa nella collezione dei Bollandisti, Acta Sanctorum, dì 8 aprile.
499. Veggansi presso Francesco Aprile, Della Cronologia universale della Sicilia, pag. 487.
500. Mongitore, Palerm. santif., p. 164, che io cito su la citazione dello Aprile. Il Mongitore cavò queste notizie da un MS, del P. Angelo Sinesio, primo abate nel 1352. Della storia del monastero di San Martino presso Palermo v'ha un MS. nella Biblioteca imperiale di Parigi, intitolato Chronica Monasterii S. Martini de Scalis (Saint-Germain-des-Prés, nº 590). Questa compilazione fu fatta in Sicilia nei principii del XVIII secolo, e indirizzata al P. Massuet della congregazione di S t. Maur.
501. MS. A, tomo I, fog. 124; MS. C, tomo IV, fog. 102 recto.
502. Baiân, tomo I, p. 97, nell'anno 216; Ibn-Abbar, MS., fog. 35 recto, porta la data del 217.
503. Nowairi, Conquête de l'Afrique, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 409. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 101.
504. Baiân, tomo I, p. 97, nel 217. Leggendosi forse in alcuna delle cronache antiche che il primo luogotenente musulmano di Sicilia fosse stato eletto immediatamente dopo la dedizione di Palermo, Ibn-Khaldûn, versione di Des Vergers, op. cit. riferisce la dedizione al 217, quando venne, non al 216 quando fu eletto, Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-Fihr). Un doppio errore, di confondere cioè le date delle elezioni e i nomi dei primi governatori, condusse il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 7, a differire la presa di Palermo, fino al 220, e far cominciare il governo di Mohammed-ibn-Abd-Allah in quest'anno nel quale appunto ei fu ucciso.
505. Ibn-el-Athîr, l. c.
506. Negli annali arabi il titolo assoluto di Sâheb è adoperato promiscuamente con Malek (re), e lo dicono degli imperatori di Costantinopoli, dei re normanni di Sicilia, ec. Determinato da una seconda voce, prende altro significato: per esempio Sâheb-es-sciorta, “prefetto di polizia;” Saheb-el-istûl, “capitano del navilio,” ec. In origine Sâheb significa “compagno.” Chi sa se non vollero tradurre il titolo di comes?
507. Veggasi il Libro I, capitolo VI, p. 147.
508. Baiân, tomo I, p. 98-99. Non si dice il nome; ma par che si tratti dello stesso cadi del Kairewân Abu-Mohriz, del quale si è detto di sopra; certo di un personaggio riverito molto dal principe, e pio o grande al segno da vietare gli onori funebri che si aspettava da costui. Tuttavia dubito di qualche errore, poichè il Riadh-en-nofûs non fa menzione di ciò nella biografia di Abu-Mohriz.
509. Tychsen, Additamentum I introductionis in rem nummariam Muhammedanorum, p. 43. Il rovescio è lo stesso del dirhem del 214, di cui dicemmo a p. 283, 284. Il dritto ha la medesima formola religiosa, il nome di Mohammed-ibn-Abd-Allah, e in giro: “In nome di Dio fu battuto questo dirhem in Sicilia l'anno 220.” Quivi il nome dell'isola, scritto Iskilîa, premettendosi, cioè, una alef, ricorda la pronunzia maltese, e però l'abate Vella. Nondimeno, senza veder la moneta, non la posso dichiarare spuria; tanto più che il Vella, com'io credo, falsificò poche monete, e molte ne finse che punto non esisteano.
La leggenda di questo dirhem è stata ristampata dal signor Mortillaro, Opere, tomo III, p. 344.
510. Confrontinsi: Theophanes continuatus, lib. III, cap. 18, p. 107 a 109; Symeon Magister, nello stesso vol., p. 630 a 632; Georgius Monachus, nello stesso volume, p. 794 a 796; e Leo Grammaticus, p. 216, 217. Il nome patronimico di Alessio si legge Musele, Μουσελέ, ma lo correggo secondo il Saint-Martin, ch'è autorità competente, e lo scrive Mouschegh nelle note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIX, § 21. Mi discosto dai due eruditi compilatori francesi circa il tempo della missione di Alessio in Sicilia, che pongono nell'835; ma Symeon Magister, molto preciso in questo racconto, riferisce la elezione all'anno terzo di Teofilo, e il richiamo all'anno quarto, cioè agli anni 831-32 e 832-33, contandosi alla bizantina dal primo settembre e dalla esaltazione di Teofilo, che seguì il primo ottobre 829.
511. Confrontinsi Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8, e Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn e gli altri cronisti citati nel capitolo VI del presente libro, nella narrazione della presa di Castrogiovanni.
512. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso, dove si dicono preposti allo stuolo mandato a Taormina, Mohammed e Sâlem. Credendolo errore del MS., ho corretto Mohammed-ibn-Sâlem. Una parte di cotesti avvenimenti manca nel MS. C, tomo IV, fog. 192 recto. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 108, 109, dà un cenno della terza fazione di Castrogiovanni e di quella di Taormina. Questo nome d'altronde, che è scritto Tarmîn, si trova nel solo Ibn-Khaldûn, e nel MS. d'Ibn-el-Athîr è lasciato in bianco. Il Baiân, tomo I, p. 98, parla di una sola battaglia di Abu-Fihr, nel 220, e accenna in generale “molte altre fazioni dei Musulmani in Sicilia e in Spagna, per mare e per terra, combattute il medesimo anno.”
513. Ibn-el-Athîr, MS. A, l. c., che dà al capitano greco il titolo di patrizio e Malek (re) della Sicilia. Breve cenno in Ibn-Khaldûn, l. c.
514. Scrivo il nome secondo il Baiân, tomo I, p. 104, ove Ibrahim è chiamato principe ( sâheb ) di Sicilia. A p. 98 e 99, questo libro fa menzione di lui col solo soprannome di Abn-'l-Aghlab, che alla p. 98 si legge, al certo erroneamente, Ibn-el-Aghlab.
Il Baiân ci dà il bandolo d'una matassa in cui gli altri annalisti han confuso questo personaggio con altri governatori di Sicilia; ed ecco in qual modo.
Ibn-el-Athîr, citato di sopra, dà Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab come già esercente la carica di governatore di Sicilia nel 220. Poi narra ch'ei fu ucciso lo stesso anno, ed eletti successivamente dopo di lui, Fadhl-ibn-Ia'kûb ed Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah. (MS. A, tomo I, fog. 124 verso.) In ultimo, quasi dimenticando cotesti nomi e date, registra nel 236 la morte di Mohammed-ibn-Abd-Allah, governatore di Sicilia, dopo 19 anni di egregio governo; ma egli dubita di così fatta tradizione, aggiungendo la solita frase di scappatoia: “Del resto, la verità la sa Iddio.” (MS. A, tomo II, fog. 2 recto; MS. C, tomo IV, fog. 212 recto.)
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 120; Abulfeda, Annales Moslemici, ann. 237; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8, ed Ibn-Abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 20 verso e 21 recto, replicano il nome di Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab, e la tradizione dei 19 anni di forte e savio governo, finito per morte il 236 o il 237 e cominciato, come dice il Nowairi con evidente sbaglio di computo, il 225.
Ibn-Abbâr, infine (MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 148 verso), porta il nome di Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah- ibn-Ibrahim -ibn-el-Aghlab, che “assestò (dice egli), ed egregiamente resse la Sicilia dall'anno 221 ch'ei vi fu mandato, per tutto il tempo della sua vita.”
Comparando le quali testimonianze, e notando la fede che merita ciascuna, è evidente lo errore di tutti gli altri, fuorchè il Baiân, e Ibn-Abbâr; e che Ibn-el-Athîr, seguíto da Ibn-Khaldûn, che il vero nome dapprima, e poi con troppa fretta ripetè lo errore altrui. Lo errore stava nel confondere i tre anni di governo di Mohammed-ibn-Abd-Allah (217 a 220), e i sedici di Ibrahim (220 a 236), e far dei due fratelli un solo personaggio che avesse retto la Sicilia per 19 anni.
Chiarito or questo punto, rimarrebbe un sol dubbio, cioè se il padre di Ibrahim, chiamato Abd-Allah, fosse stato figliuolo di quell'Aghlab, dal quale prese nome la dinastia, ovvero del costui figliuolo Ibrahim primo principe d'Affrica; e perciò se il governatore mandato in Sicilia il 220 fosse stato cugino germano di Ziadet-Allah, ovvero nipote, figliuolo cioè del fratello che avea regnato prima di lui. Rimane il dubbio, io dico, per lo nome di Ibn-Ibrahim che si legge in Ibn-Abbâr, e ch'io ho scritto in corsivo nella citazione; ma come il MS. di Ibn-Abbâr che ho sotto gli occhi è copia moderna e scorretta, così io credo si debba sopprimere questo grado di genealogia, e stare al nome dato dal Baiân.
515. Baiân, tomo I, p. 98. La sola data dell'arrivo in Sicilia e il nome del nuovo governatore Abu-'l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Abd-Allah leggonsi in Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso, e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 109.
516. Baiân, l. c.
517. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso.
518. I Bizantini, il cui navilio fu sì formidabile per cagione dei legni incendiarii, non chiamavanli con nome speciale. I dromoni, ch'erano lor navi da fila, portavano uno o più tubi di metallo, onde schizzava il fuoco greco alla guisa delle lance a fuoco d'oggidì; e gli artiglieri, drizzando quella lingua di fiamma come voleano, ardean la nave nemica. Aveano oltre a ciò piccioli tubi, pentole e altri artifizii di fuoco da lanciare a mano o con macchine. Veggansi a tal proposito le Institutions militaires de l'empereur Léon, versione francese del Maizeroi, p. 136 seg.; e Reinaud et Favé, Du feu grégeois, pag. 103 a 112.
Presso i Musulmani il nome di (nave) incendiaria apparisce la prima volta, credo io, verso l'813; facendosi menzione da Ibn-el-Athîr d'una harrâka con la quale il califo Amîn solea andare a diporto sul Tigri. Poi, questa denominazione occorre al tempo delle Crociate nel significato di barca da fiume, battello, gondola; ma tuttavia alcuni scrittori arabi la definivano: “galea con un ordegno da gittar fuoco.” Da tale contraddizione tra il nome e il fatto, è nato disparere su la qualità di nave che si dovesse intendere sotto il nome di harrâka; ostinandosi i dotti a credere che si trattasse sempre di una sola qualità di nave: e le varie opinioni su tal punto si leggono nelle note dei signori Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p. 415; ed E. Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks par Makrizi, tomo I, p. 143, e tom. II, parte I, p. 24 e 25.
La menzione fatta delle harrâke dei Musulmani, e sopratutto d'una dei Bizantini, nei combattimenti di Sicilia, parmi che tronchi ormai la lite, mostrando come in varii tempi e luoghi si addimandarono così or navi da guerra, or barche da diporto o commercio. In simil guisa le “bombarde” dell'Italia meridionale ritengon oggi lo antico nome, ancorchè le si adoprino a traffico di cabotaggio e siano smesse nella guerra.
Procedendo nelle conghietture, io penso che gli Arabi abbiano costruito navi apposta, o almeno ingegni da incendiare, quando cominciarono ad appropriarsi quel che poteano delle scienze ed arti de' Greci. In questo particolare, come in parecchi altri, gli Arabi fallirono; e forse l'uso delle navi incendiarie fu abbandonato da loro, perchè non seppero mai costruire i dromoni veloci e forti come i Bizantini, e perchè fino al tempo delle Crociate non venne lor fatto giammai di scoprir la vera composizione del fuoco greco. Il nome che trovasi a Bagdad, come ho detto, nell'813, e in Sicilia nell'835, prova che il saggio fosse stato cominciato o continuato nei principii del IX secolo. E il tentativo fatto si può argomentare anco dai ricordi cristiani che abbiamo intorno il fuoco greco: cioè che recollo a Costantinopoli, verso la metà del settimo secolo, Callinico ingegnere di Siria, e che sendosi adoperato con felice successo contro i Musulmani nei due assedii di Costantinopoli, passò tra i segreti di Stato: e la corte spacciò che un angelo lo avesse insegnato a Costantino il Grande; che Iddio serbasse tremendi supplizii a chiunque lo rivelava; e che in fatti un traditore che volle darlo ai nemici fu divorato da fiamme scese dal cielo. Come gli imperatori non trascuravano i mezzi umani di guardare gelosamente quel segreto, e come i chimici musulmani non seppero indovinar bene la composizione prima del tempo delle Crociate, così i saggi di qualche officiale subalterno che passasse dai Bizantini agli Arabi, tornarono tutti vani. Forse le harrâke di Sicilia furono costruite con questo mezzo, e però imperfettamente, e però si disusarono; affidandosi meglio i Musulmani alle spade, alle lance e all'impeto e numero con che andavano all'arrembaggio.
La voce carraca, mutata poi in caracca, carrica, carraque ec., dà esattamente il suono della harrâka arabica, pronunziandosi anche così la h nella voce genovese camâlo, venuta dall'arabo hammâl, e in tante altre. La etimologia da harrâka mi pare assai più naturale che quelle imaginate fin qui, su le quali veggansi Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, alle dette voci; e Jal, Archéologie navale, tomo II, p. 211, seg.
519. Ibn-el-Athîr scrive harrâka. Ho messo la denominazione che senza dubbio davano i Greci.
520. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 109. Questi non parla del luogo della prima impresa navale dei Musulmani, ma sol dice che essi, trovata l'armata bizantina, la saccheggiarono; la quale frase, trattandosi di navi, non è più precisa in arabico che nelle nostre lingue. Nel MS. di Ibn-el-Athîr, al contrario, è lasciato in bianco il nome del paese depredato dalla armata musulmana.
521. Ibn-el-Athîr, l. c., e MS. C, tomo IV, fog. 192 recto; Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 110.
522. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 125 recto; Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 110; e il Baiân, tomo I, p. 99. Scrivo il nome di Castelluccio, perchè il testo di Ibn-el-Athîr ha K st l iâsa, e tra i tanti Castellucci, Castellacci e nomi somiglianti che si trovano nella topografia della Sicilia, il comune chiamato oggi Castelluccio è appunto su la via che dovea scorrere questa schiera di Musulmani. Poichè l'annalista la dice diversa da quella che s'era spinta fino all'Etna, cioè avea tagliato l'isola per lo mezzo; e mi pare probabilissimo che la seconda impresa di questo anno fosse intesa ad esplorare la costiera settentrionale, ove due anni appresso veggiamo assediata Cefalù. M. Des Vergers ha letto questo nome “Catania;” ma oltre l'autorità di Ibn-el-Athîr, che tratta evidentemente della stessa città di cui Ibn-Khaldûn, i MSS. di questo secondo autore portano chiaramente K t liâna.
Il nome che ho letto Tindaro si vede scritto m d nâr nel Baiân. Trattandosi di una fortezza importante, e su la costiera settentrionale, poichè l'assaliva l'armata reduce dalle isole Eolie, Tindaro mi è parso, tra tutti i nomi antichi e moderni, quel che più si avvicina al testo del Baiân. Lo scambio della prima lettera non sarebbe caso straordinario. Edrisi scrive Tindaro d n dâri. Tindaro fu città importante fino al tempo dei Musulmani, e si trova noverata tra le sedi vescovili nel IX o X secolo. Durò anco fino al XIV, leggendosi di un Vinciguerra Aragona signore di Tyndaris.
È da avvertire, in fine, che il Baiân non dice se questa impresa fosse stata fatta dall'armata o dall'esercito, che la reca nel 222, quando Ibn-el-Athîr la riferisce al 221, e l'attribuisce alle forze navali. Leggiamo in questo autore essere state prese “cittadi e fortezze;” ma la prima parola, in arabico Modonan, potrebbe essere alterazione del detto nome geografico.
523. Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn col Baiân, ll. cc., dei quali il primo pone tutte queste fazioni nel 221, e l'ultimo tutte nel 222.
524. Legno sottile adoperato per dare avvisi, fare scoperte e simili officii. Ho dato a questa voce la forma italiana del medio evo. I Greci scriveano Χελάνδιον; i Latini dei bassi tempi, Chelandium; gli Arabi s l n d s.
525. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 125 recto, dice espressamente che i Musulmani occuparono il solo borgo, e che i Cristiani si difesero nella cittadella. Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 100, narra il fatto più brevemente e vagamente. La ritirata nella fortezza mostra che il campo d'osservazione dei Bizantini questa volta fosse posto nel borgo.
526. Strabone scrive Κεφαλοίδιον; Tolomeo Κεφαλοιδίς; Κεφαλούδιος i ricordi bizantini del IX secolo; Plinio Cephaloedis; altri latini Cephaludium etc. Gli Arabi aveano non meno di quattro lettere per notare il suono della κ greca e della c latina, la quale par abbia avuto il suono di una k, per esempio Cicero pronunziata Kikero. Se contuttociò gli Arabi resero la prima lettera con una Gim o una Scin, ciò prova che la sentivano pronunziare dai Siciliani con lo stesso suono strisciante che diamo in oggi in Sicilia alla c avanti le vocali e ed i. Cefalù era sede vescovile nel IX secolo e però città importante.
527. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso; MS. C, tomo IV, foglio 192 recto.
528. Ibn-el-Athîr, l. c., Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 110.
529. Ibn-el-Athîr, l. c., (sotto l'anno 201); e MS. A, tomo I, fog. 285 verso (sotto l'anno 223); Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 111, 112.
530. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 7, 8. Lasciando indietro il secondo che non dà i nomi, è da notare che que' di Platani e Caltabellotta si trovano presso Ibn-el-Athîr e presso il Nowairi. Il nome di Corleone si legge distintamente in ambo i MSS. del primo; e in que' del secondo è scritto Kârûb. Il seguente è scritto in Ibn-el-Athîr Merw (notissima città del Khorâssan), e in Nowairi M r a con una lettera senza punti diacritici tra la r e l' a; talchè può essere b t th n i; ed io leggo per conghiettura Marineo, confrontandola col nome di questa terra in Edrisi. L'ultima è data dal solo Nowairi, Harsa in un MS., Harha nell'altro; probabilmente Gerasa, o Geragia. Si riscontrino le note del Di Gregorio in questo luogo. Io rigetto la sua correzione di Mirta, perchè Mirto è troppo lontana dalla provincia infestata l'840. Per la stessa ragione e per la diversità delle lettere non assento a leggere Kewârib il nome del Nowairi che risponde al Corleone d'Ibn-el-Athîr
531. Ibn-el-Athîr, l. c.; ove si trova, il nome di Ghirân, che significa “grotta” o “caverna”, e anche il suo singolare Ghâr; talchè non resta alcun dubbio su questa lezione; Ibn-Khaldûn, op, cit., p. 112. Il MS. di Parigi di Ibn-Khaldûn ha Ghirûn; uno di Tunis, Ghirwân; nella edizione di M. Des Vergers si legge Kairûn, e nella versione Coronia.
Il Fazzello, supponendo che il nome di Ἐρβησσὸς ed Herbesus derivasse da ἔρεβος, e che significasse “caverne,” credette riconoscere una delle due Erbesso dell'antica Sicilia nella terra delle Grotte, e l'altra non lungi da Siracusa nel burrone della rupe di Pantalica, ch'è bucherato, in fatti, di simili grotte come un alveare (Deca I, lib. X, cap. III, e lib. IV, cap. I). Veggasi su cotesti giudizii del Fazzello il Cluverio, Sicilia Antiqua, lib. II, cap. X e XI. Su le grotte destinate ad abituri o sepolture in varie parti della Sicilia, meritano di esser lette le osservazioni di M. Felix Bourquelot, Voyage en Sicile (Paris 1848), p. 164 e segg. M. Bourquelot ne cita a Castrogiovanni, altre presso il lago Pergusa, altre tra Piazza e Caltagirone, a Vizzini, Spaccaforno, Monte Aperto, Avola, Licodia, Ferla, Valle d'Ispica, e quelle infine di Pantalica, ch'ei descrive minutamente.
Il mio amicissimo Saverio Cavallari, ingegnere e archeologo, ne ha osservato altre a Lentini, Sortino, Palagonia, e crede importanti sopra tutte quelle dette “Le Grotte di San Cono” presso Caltabellotta, e “Le Grotte dei Giganti” tra Bronte e Maletto. Lo ritraggo da una lettera ch'egli ha scritto recentemente al duca di Luynes, della quale il dotto archeologo francese si è piaciuto darmi una copia.
532. Johannes Diaconus, Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolit. Ecclesiæ. presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 314. Non cito per questo fatto, nè per altri, i Chronici Neapolitani Fragmenta, pubblicati dal Pratilli, Historia Principum Langob., tomo III, perchè mi sembrano più che sospetti.
Allontanandomi dalla cronologia del Muratori, Annali d'Italia, 837, ritengo che questo assedio sia precisamente quello di cui parla l'Anonimo Salernitano; che sia cominciato in maggio 836; e che Sicardo, levando il campo, abbia stipulato l'accordo del 4 luglio, 14ª indizione, pubblicato dal Pellegrino, e indi dal Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte 1, p. 256. Gli assalti che, al dir di Giovanni Diacono, ricominciava Sicardo dopo la partenza dei Saraceni, presto si terminarono: nè Sicardo, com'io credo, fece mai altra grossa guerra alla repubblica di Napoli.
533. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; MS. C, tomo IV, fog. 212 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 118; Abulfaragi, Historia Dynastiarum, p. 237, che è la sola menzione che vi si faccia del conquisto della Sicilia; e in fine Hagi Khalfa, Cronologia, MS. turco di Parigi, sotto l'anno 228, e versione del conte Rinaldo Carli, intitolata Chronologia historica di Hazi Halifé ec., dove questo passo si corregga così: “Anno 228, gli Aghlabiti occupano l'isola di Sicilia, cioè a dire Messina.”
Dell'accordo con Napoli e degli aiuti che ne trassero i Musulmani, parla il solo Ibn-el-Athîr. Il nome della città si legge con poca difficoltà in entrambi i MSS., vedendovisi esattissimi gli elementi delle lettere, ed erronei solo alcuni punti diacritici. In ogni modo, non può rimanere dubbio su la lezione; sendo Napoli la sola città cristiana di cui sappiamo che fosse collegata in quel tempo coi Musulmani di Sicilia, e che abbia potuto dar loro un'armata ausiliare. Debbo avvertire infine che secondo la lezione alquanto incerta di un altro passo nel MS. A, l'assedio sarebbe durato oltre due anni.
534. Ibn-el-Athîr, l. c.
535. Le condizioni topografiche assegnate a Mihkân nella geografia di Edrisi, non lascian dubbio che il sito sia lo stesso dell'Alimena d'oggidì. Un diploma latino pubblicato dal Di Gregorio, De supputandis apud Arabes Siculos temporibus, p. 52, seg., contiene le versioni dal greco e dall'arabico di due documenti del 1175, nei quali si legge il nome del casale Michiken, e si vede ch'era posto in quel distretto. Al dire del D'Amico, Diction. Siciliæ Topogr., si trovano presso Alimena rovine di antichi aquidotti e sepolcri. Tra questo indizio e tra il nome di Mehkan o Mihkan, parmi si possa supporre in quel sito la Ἡμιχάρα di Tolomeo, e Imachara di Plinio.
536. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 41
537. Veggasi il capitolo XII di questo secondo Libro.
538. Il nome di Χαρσιανιτῶν si riconosce facilmente nella trascrizione arabica Kharz nîta della Cronica di Cambridge, presso di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42. Quantunque questo non si legga tra i temi, ossia divisioni militari, di Costantino Porfirogenito, non è dubbio che un corpo di truppe bizantine portasse questo nome, e che vi fosse stato un tema di tale denominazione, probabilmente unito ad altro al tempo del Porfirogenito. Veggasi Theophanes continuatus, p. 181, 183, 273 e 374.
Non credo si tratti delle milizie del duodecimo tema di Oriente, il Chersoneso, cioè, di Taurica e la Crimea d'oggi. Ma il nome di Χερσωνίται, che si dà a que' popoli, risponderebbe ancora alla trascrizione arabica.
539. Chronicon Cantabrigiense, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; e MS. C, tomo IV, fog. 212 recto. Secondo l'una, seguì la battaglia l'anno 6354 (1 settembre 845 a 31 agosto 846); secondo l'altro, il 229 (29 settembre 843 a 16 settembre 844); ma il numero dei Bizantini uccisi che la Cronica di Cambridge porta a 9000, e Ibn-el-Athîr a più di 10,000, non lascia dubbio su la identità del fatto. Forse questo seguì nell'845. Ibn-el-Athîr assegna come luogo della battaglia Sciarra, secondo il MS. A, e un nome non dissimile, ma poco leggibile nel MS. C. Gli elementi calligrafici e la topografia mi portano alla lezione probabilissima di Butera.
540. Ibn-el-Athîr, l. c.; Ibn-Khaldûn Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 119.
541. Ibn-el-Athîr, l. c. Egli dà il nome di Marsa-t-tîn che troviamo scritto con la stessa ortografia in Edrisi. A miluogo tra Mondello e Palermo, Edrisi pone un punto chiamato Barca; il qual nome poteva esser dato dagli Arabi, o rimaso dalla impresa di Amilcare. In ogni modo si è dileguato dal duodecimo secolo in qua, e quella picciola cala in oggi si chiama “La Vergine Maria.”
542. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 41.
543. Ibid., p. 42.
544. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn e la Cronica di Cambridge, ll. cc. Si crede che Ragusa occupi il sito dell' Hybla Major degli antichi.
545. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; MS. C, tomo IV, fog. 212 recto; Baiân, p. 104; Ibn-Abbâr, MS., fog. 148, verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 120; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 8; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 228 e 237.
Ho corretto il nome e la cronologia nel modo accennato di sopra, p. 301, nota 1.
Una moneta, battuta in Sicilia sotto il governo d'Ibrahim, non porta nè il suo nome, nè quello del principe aghlabita. È di argento, del peso di grammo 1,10, e perciò del valore di circa venticinque centesimi di lira: moneta sottilissima; e, dove la leggenda non è logora, notabile per la picciolezza e nitidezza dei caratteri. Il diritto ha in giro vestigia di lettere dileguate, e nel campo il simbolo aghlabita, la leggenda religiosa, e una stelletta a sei raggi. Nel campo del rovescio è un'altra formola religiosa; e in giro: “Nel nome di Dio fu battuto questo dirhem nella città di Ba n rm, l'anno 239.” Questa moneta appartiene al Cabinet des Medailles di Parigi, ov'io l'ho studiato. Tychsen ne pubblicò una simile, o forse lo stesso esemplare, nello Additamentum I Introductionis ad rem nummariam ec., p. 44. Il signor Mortillaro ha copiato la leggenda del Tychsen nel suo catalogo, Opere, tomo III, p. 346.
546. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Baiân, tomo I, p. 104; Ibn-Khaldûn, op. cit, p. 120; Ibn-Wuedrân, § 3; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), MS., fog. 21 recto; e versione francese, p. 84; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8. Sendo morto Ibrahim di gennaio 851, le prime fazioni di Abbâs debbonsi riferire alla primavera del medesimo anno; quella di Caltavuturo alla state seguente.
547. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc. In questa frase, secondo la più parte dei MSS. di Ibn-el-Athîr, e di Ibn-Khaldûn che lo copia, il verbo manca dei punti diacritici che indichino la persona. Così resterebbe incerto, a prima vista, se il bottino fosse presentato dai soldati ad Abbâs, o da questi al principe d'Affrica. Nondimeno il senso generale del periodo e la tendenza degli altri fatti portano alla prima di così fatte interpretazioni; e vi assente il solo MS. di Ibn-Khaldûn in cui la detta voce sia fornita di punti diacritici.
548. Questo è il nome attuale; la giusta ortografia arabica data dai cronisti e da Edrisi è Kala't-abi-Thûr ossia “Rocca di quel dal toro,” soprannome che occorre varie fiate nei ricordi arabi.
549. Ibn-el-Athîr, l. c.; veggasi anche Ibn-Khaldûn, l. c.
550. Veggasi il capitolo VIII del presente Libro.
551. Il Baiân, tomo I, p. 104, senza nominare Castrogiovanni nè altro luogo, porta i guasti in Sicilia il 237, e narra nel 238 l'altra impresa ch'è forza supporre in terraferma; poichè il cronista nota che Abbâs prima mandò in Palermo le teste degli uccisi, e poi tornò ei medesimo in Sicilia.
552. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Baiân, Ibn-Khaldûn, ll. cc., badando a togliere il nome di Butera, e sostituirvi Noto, nella versione di M. Des Vergers, p. 121, ed a sostituire, all'incontro, Butera a Thira, nello estratto di Ibn-el-Athîr, ch'ei dà in nota a p. 122.
Il nome che ho scritto Camerina si trova nel solo Baiân, guasto per altro dalla umidità nel MS., e non facile a deciferare; come ritraggo dal dotto amico mio, il professor Dozy di Leyde. Tuttavia vi si scoprono le lettere s h rina, s m rina, sci m rina, o simili. Tra coteste lezioni io ho preferito l'ultima 1º perchè la cronica dà a questo luogo il titolo di città; 2º perchè altra non se ne trova in Sicilia, antica nè moderna, da potersi adattare quelle lettere al suo nome; 3º perchè Camerina giaceva a poca distanza da Ragusa; 4º perchè, non ostante la nota distruzione di Camerina in tempi antichissimi, sappiamo che i Romani tentarono di ripopolarla, e le vestigia della città non sono per anco dissipate, nè il nome. Il nome di Camerana resta oggidì alla palude, a un fiumicello e ad una torre. Grandi avanzi di fabbriche vi erano tuttavia nel XVI secolo, quando, al dir di Fazello, testimonio oculare, furono tolte per costruire Terranuova. Pertanto mi pare probabile che nell'853 un po' di popolazione soggiornasse, o fosse corsa a rifuggirsi tra quelle rovine, difese dalla palude. Si potrebbe anco aggiungere il ricordo di due vescovi di Camerina nei principii del VI secolo; ma è dubbio se si tratti di Camerino nella Marca d'Ancona, come vuole l'Ughelli, ovvero di Camerina in Sicilia: su di che si vegga il Pirro, Sicilia Sacra, edizione del Mongitore, tomo I, p. 510.
Quanto a Butera, la Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42, la dice non venuta a sì tristo accordo, ma presa; nè tra l'uno e l'altro fatto corre molto divario. La detta cronica lo porta nell'anno 6362, cioè dal 1º settembre 853 al 31 agosto 854, che risponde a un di presso alla data del 239 dell'egira che troviamo nel Baiân. Butera è stata creduta la Hybla Hærea, ovvero il Mattorium degli antichi; ma senza buone ragioni, com'ho accennato nel testo, giudicando la epoca delle fabbriche di Butera, su i ragguagli che ne trovo nei libri, e su quel che ne ho inteso. In ogni modo, sono avanzi che meritano molto studio, anche da chi vorrà conoscere la architettura dei tempi musulmani.
553. Attesta ciò il Nowairi, o per dir meglio il cronista ch'ei copiava, in un passo non ben letto da M. Caussin De Perceval, e pessimamente tradotto dal Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8: Tum ipsemet profectus fuit, ec. Però mi par bene dar una versione esatta di queste parole. Nowairi dice: “Ed egli (Abbâs) or uscendo in persona, or mandando sue gualdane, straziò, afflisse, e guastò le popolazioni e territorii nemici; se non che talvolta comperavan da lui la pace con danari o schiavi.”
554. Veggasi qui appresso l'accordo di Kasr-Gedîd.
555. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso; e MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Baiân, tomo I, p. 104, 105, 106; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et la Sicile, p. 121, dove non parmi esatta la versione “et s'empara même du château neuf de cette ville (Castrogiovanni).” Beladori, MS di Leyde, p. 275, porta nel califato di Motewakkel (an. 847 ad 861) la occupazione di Castrogiovanni e Gagliano, ch'egli scrive appunto come Edrisi; e son queste le due sole città prese in Sicilia, delle quali gli par doversi ricordare i nomi.
Or io credo che il Kasr-el-Hedîd, o El-Kasr-el-Gedîd, non sia altro che un secondo nome della fortezza di Gagliano, perchè non posso supporre che gli altri cronisti abbiano trascurato questa notabile vittoria ricordata dal Beladori; e perchè il detto Kasr è la sola piazza d'importanza ch'essi dicono presa nel califato di Motewakkel senza che se ne ritrovi il nome nella geografia di Sicilia. Debbo avvertire nondimeno che Edrisi pone su la costiera tra Termini e Cefalù una Sakhrat-el-Herîr, o, secondo il MS. d'Oxford, El-Hedîd, che significherebbe la Rupe della Seta, o del Ferro; valida fortezza ai suoi tempi, ch'è il Castrum Roccellæ dei diplomi siciliani del medio evo; ed oggi ne rimangono le vestigia e il nome di Rocella, il quale si dà anco a un picciolo villaggio dentro terra, detto altrimenti Campofelice. Ma quantunque vicina a Cefalù, che fu presa lo stesso anno; e quantunque convengano nel suo nome le lezioni di alcuni MSS., non credo che questa fortezza abbia potuto mai contenere la grossa popolazione che si volea riscattare con 15,000 dinar, ec. Infine par che non si tratti di Castronovo, che sarebbe versione della lezione El-Kasr-el-Gedîd, poichè questo nome si trovava scritto in Edrisi Kasr-nubu.
556. Baiân, tomo I, p. 106. Il nome è scritto S l 'ûda, con errore di ortografia che occorre anco in alcuni MSS. di Edrisi.
557. Di Giovanni detto il Cretese, prefetto del Peloponneso, si fa menzione nella continuazione di Teofane, cap. LXII, p. 303; ma non si vede in che occasione abbia avuto quel soprannome, nè altrove si parla di lui.
558. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso, e 20 recto; MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42; Baiân, tomo I, p. 106; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 9; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 121.
La battaglia navale seguì innanzi il 31 agosto 858, poichè la Cronica di Cambridge la nota nell'anno 6366.
Ritraendosi da Ibn-el-Athîr che il navilio combattuto di Ali appartenesse ai Rûm, ossiano Bizantini, cade la conghiettura di M. Caussin De Perceval, Histoire de la Sicile.... du Nowairi, p. 19, che il Cretese fosse Abu-Hafs-Omar. Pertanto correggasi ciò che ne hanno scritto il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 315; e il Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo I, p. 43. Il Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. VIII, § 79, scansa quest'errore, ma cade nell'altro di dir seguita la battaglia navale dinanzi Siracusa; il che non si trova punto nel testo d'Ibn-el-Athîr da lui allegato sopra una citazione di M. Des Vergers.
559. Nowairi il dice “barbaro” che significa “non arabo,” ma non se ne sogliono servire per indicare i Rûm, ossiano Bizantini e Italiani; Ibn-el-Athîr lo chiama a dirittura Rûmi.
560. Gebel-el-Ghadir, scrive Nowairi. La voce che rendo stazione è Merhela che risponde alla nostra “posta.” La lunghezza del tratto di strada così chiamato, variava secondo i luoghi. Edrisi conta 18 miglia tra Caltanissetta e Castrogiovanni, e 12 tra questa e Pietraperzia. Caltanissetta poi è equidistante dal lago Pergusa e da Castrogiovanni; ma Pietraperzia, come situata a mezzogiorno libeccio, si avvicina più al lago che alla città.
561. Nowairi, dice un finestrino dal quale entrava l'acqua; Ibn-el-Athîr, una porticina dalla quale entrava l'acqua e si gettavano le immondezze.
562. Confrontasi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20 recto; MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42, Nowairi, ibid., p. 9, 10; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de le Sicile, p. 121, 122; Abulfeda, Annales Moslem., erroneamente sotto l'anno 237 dell'egira; Ibn-abi-Dinâr, MS., fog. 21 recto, e versione francese, p. 85, nella quale in luogo di Castrogiovanni si legge “il castel di Bona;” Ibn-Wuedran, §3, con l'errore del 237 come in Abulfeda.
Ibn-el-Athîr e Nowairi, con altro errore, dicono che il giorno della occupazione fosse stato un giovedì, quando il 15 scewal 244, al par che il 24 gennaio 859, caddero in martedì.
563. Infatti è una delle due città prese in Sicilia, delle quali diè i nomi il contemporaneo Beladori, MS., p. 275.
564. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 116.
565. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20; MS. C, tomo IV, fog. 215 verso. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 123, compendia il primo, e sbaglia la data. La Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42, dice soltanto: Anno 6368 descenderunt Fendanitæ; data e nome, su i quali è necessario un po' di comento. Principiando dal nome, dirò che nel MS. è composto di sei lettere, senza contarvi l'articolo, tra le quali non si trova che un sol punto diacritico. Perciò si può leggere in cento maniere diverse, e le più strane sono al certo quelle a che s'appigliarono gli editori, cioè Fendanitæ con la variante Effenditæ. Parendomi evidente che tal nome etnico si debba cercare tra i popoli che allor militavano sotto le bandiere bizantine, non esito a leggere k b d kia, con che non si alterano gli elementi di alcuna lettera del MS., ma solamente si correggono i punti diacritici, e si trova il noto nome di Cappadocia; i soldati della quale provincia sono ricordati appunto in questo tempo nelle guerre d'Oriente.
Quanto alla data, che corre dal 1º settembre 859 al 31 agosto 860, la va a capello coi fatti ricordati da Ibn-el-Athîr; il quale al certo non segue rigorosamente la cronologia, quand'ei narra lo sbarco e la sconfitta del patrizio nello stesso anno 244, di cui non avanzavan che due mesi dopo la presa di Castrogiovanni.
566. Grossa terra in Val di Mazara; oggi in provincia di Girgenti. Ha vestigia di un forte castello poco distante dal sito attuale della città. Il nome ai trova in Edrisi con lezione poco diversa. È evidentemente greco; forse dei tempi cristiani.
567. L'un dei MSS. di Ibn-el-Athîr ha Ab ta; l'altre Aita; potendo bensì in entrambe mutarsi la prima a in qualsivoglia altra vocale. Cercando i nomi geografici che possano adattarsi a quei suoni, occorre in prima la classica voce d'Ibla, chè varie città di tal nome ebbe la Sicilia antica, nella regione tra levante e mezzodì, ancorchè di nessuna si conosca appunto il sito. Viene poi Avola, terra presso Siracusa, ch'è per certo l' Abola d'un diploma del 1149, e forse la Ἀβόλλα di Stefano Bizantino. Ma non so comprendere la sollevazione di questa sola terra in Val di Noto, mentre tutte le altre che scossero il giogo stavano in un gruppo nel Val di Mazara, e Caltavuturo non era troppo lontana. Però vorrei aggiugnere una lettera, mutare i punti, e leggere Entella, fortezza antichissima di cui si veggono gli avanzi; e i Musulmani di Sicilia nel principio del XIII secolo vi si difesero lungamente contro Federigo II imperatore.
568. Non trovo questo nome in Edrisi, nè alcuno somigliante, sia nei diplomi sia nella geografia d'oggi. Dal seguito della narrazione si vede ch'era in Val di Mazara. Significa la “Rocca di Abd-el-Mumîn” nome proprio d'uomo.
569. Il solo Ibn-el-Athîr dà il nome di queste Ghirân, ossiano “Grotte,” scritto in ambo i codici senza vocali, nell'uno coi punti diacritici, nell'altro senza; sì che nel primo si dee leggere k r k na, nel secondo si può sostituire la f ad una delle k o ad entrambe. Avrei letto Caucana supponendo mutata la w in r, per errore non insolito nei MSS. arabi, se il sito dell'antica Caucana, ove stette Belisario con l'armata prima di passare al conquisto d'Affrica, fosse più certo e non si trovasse sulla riva del mare, che non era la strada di Abbâs reduce a Palermo. Le grotte, ossia i gruppi di grotte scavate in parte dalla man dell'uomo, son troppo frequenti in Sicilia perchè questa indicazione valga a determinare il luogo senza lo aiuto del nome. Perciò non si arriverà a sapere la vera lezione del nome dato dall'annalista, che quando si studieranno questi antichissimi monumenti. Intanto le conghietture posson cadere su le grotte presso Palazzolo, quelle tra Piazza e Caltagirone, o le altre tra Bronte e Maletto, o quelle di Macara presso il porto Vindicari, che ben potrebbe essere la Caucana di Procopio a 200 stadii da Siracusa. Veggansi, per le grotte che ho nominato, il Fazzello, deca I, lib. IV, cap. II, e lib. X, cap. II; Bourquelot, Voyage en Sicile, p. 183, e la mia nota al capitolo precedente, p. 310-311.
570. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20, e MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 123. Parmi errore del MS. di Ibn-Khaldûn che Abbâs assediava Kalat-er-Rum ossia “la Rocca (detta) dei Bizantini.” Si dee leggere più tosto Kalat-lir-Rum “una rocca dei Bizantini.” Accennano senz'altro la morte di Abbâs, e alcuni con divario di data, Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10; il Baiân, tomo I, p. 106; Abulfeda, Annales Moslemici, sotto l'anno 247, § 3; Ibn-Wuedran, § 3 del testo, e versione francese di M. Cherbonneau nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 427; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 21 recto.
571. Beladori, MS., p. 275, dice espressamente che gli Aghlabiti avessero preso in Sicilia oltre venti città, le quali erano tuttavia in mano dei Musulmani, quando occuparono Castrogiovanni e Gagliano. Tal numero risponde a un di presso a quello de' nomi che ricaviamo dagli altri annalisti. Ma egli è certo che dei luoghi ricordati da costoro, alcuni, come Mineo e Lentini fossero stati abbandonati; altri al contrario come Platani, Ragusa, Sutera, meramente assoggettati al tributo. Però mi sembra che non ostante la casuale coincidenza del numero, le terre di cui parla Beladori, siano le città o castella ove faceano soggiorno i Musulmani. La appellazione sua di città ( medina ) non si dee prendere qui in senso troppo rigoroso.
572. I due rami discendeano da Sâlem; l'uno per Aghlab, Ibrahim (fondatore della dinastia), e Aghlab padre del principe regnante Mohammed; l'altro per Sofiân, Sewâda, e Sofiân padre di Ahmed e di Khafâgia. Questa seconda genealogia è data da Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 verso. Veggansi, su le vicende del regno di Mohammed, il Nowairi, Conquête de l'Afrique ec., in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 417, seg.; Ibn-Abbâr, l. c.; Ibn-el-Athîr, sotto l'anno 233, capitolo degli avvenimenti diversi.
573. Questi importanti particolari della riforma dell'esercito si leggono nella continuazione di Teofane, p. 265. Per gli altri della vita di Basilio, non occorrono citazioni.
574. Baiân, tomo I, p. 106; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10. Ibn-el-Athîr non fa menzione di questo breve governo.
575. Nowairi, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS C, tomo IV, fog. 221 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 124; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 21 recto, e vers. franc., p. 85; Ibn-Wuedrân, MS., § 3, e versione di M Cherbonneau, Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 427, Abd-Allah lasciò il governo, dopo cinque mesi, in giumadi 1º del 248 (4 giugno a 3 luglio 882).
576. Confrontisi, Baiân, tomo I, p. 106, e Ibn-el-Athîr, l. c. Il nome e il caso di Ribbâh sono riferiti dal solo Baiân, il quale non porta in quale provincia si combattesse. Per certo in Sicilia; poichè il Baiân dice presa la città di Gibel-Abi-Malek, il qual nome si trova appunto in Ibn-el-Athîr insieme con que' di Kalat-el-Armenîn e Kalat-el-Mosciâri'a. Di nessuna delle tre so indovinare il sito.
577. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, 1. c., Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 124; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 10; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 247; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), MS., fog. 21 recto; e versione francese, p. 85. Ibn-Wuedrân chiama il morto Abbâs-ibn-Fadhl, sâheb (principe) di Sicilia, e dice Khafâgia emiro venuto in Sicilia dalla parte del principe aghlabita di Kairewân in luogo di Abd-Allah-ibn-Abbâs, che era stato eletto dalla colonia. Il Baiân, tomo I, p. 103, narra una vittoria di Khafâgia nel 236 (850-851) sopra certi sollevati di Tunis.
578. Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc. Il secondo dei quali dice vincitore Mahmûd sotto Siracusa; ma parmi errore del compendio ch'egli faceva troppo sbadatamente degli annali dell'altro; poichè in questi si legge senza equivoco la vittoria dei Cristiani. Ibn-el-Athîr, nel medesimo luogo, nota che secondo alcuni cronisti si arrendè, quest'anno 248, Ragusa occupata poi certamente il 252; ond'egli è in forse se il fatto del 248 sia portato per errore di data. Erroneo io il credo, leggendosi nella Cronica di Cambridge che Ragusa fu occupata la prima volta l'anno 6356, che risponde a un di presso al 233 dell'egira e 847-48 dell'era nostrale; e la seconda, l'anno 6375 che coincide in parte col 252 dell'egira e l'866-67 di Cristo. Della prima dedizione di Ragusa avea già parlato Ibn-el-Athîr stesso, da noi citato a suo luogo.
579. MS. A, tomo II, fog. 38 recto, tra gli avvenimenti diversi del 248. Ma parmi evidente che si debba riferire al 249.
580. Baiân, tomo I p. 107, sotto l'anno 249. Secondo questa cronica e quella di Nowairi, Ziadet-Allah era fratello; secondo Ibn-Khaldûn, figliuolo del predecessore Ahmed. Veggasi Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 422, in appendice.
581. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, e MS. C, tomo IV, fog. 221 recto. Veggasi Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 124, dove si legga Noto in vece di Butera.
582. Baiân, tomo I, p, 107. Vi si legge, come in altri luoghi di questa compilazione, Kasrbâna, e si dee correggere senza dubbio Kasriânna. Non si tratta di Castelbuono, nè di Castelnuovo, nè di Castronovo; poichè la lettera su la quale cade l'accento è una u non un' a; l'una delle quali non può confondersi con l'altra nei MSS. Badisi che il Baiân, per evidente lacuna, tace la presa di Castrogiovanni.
583. Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 353, senza citazioni. Il gran lavoro del Rampoldi è a un di presso inutile, per questo vezzo del non citare e di aggiugnere del proprio le circostanze che gli sembravano opportune a raffazzonare gli avvenimenti. Così leggiamo nello stesso volume IV, p. 340, sotto l'864: “Gli Aglabiti di Sicilia, i quali già da alcuni anni si erano impadroniti di Ragusi e di alcuni altri castelli di minor conto, vennero di colà scacciati da Basilio, cognato dello imperatore di Costantinopoli;” la quale impresa di Basilio, non solamente non è ricordata da alcuno, ma la critica dee rigettarla al tutto; non essendo possibile in questo caso il silenzio degli scrittori cortigiani di casa macedone. Poi sotto l'865 il Rampoldi porta la occupazione di Noto, tolta dalla Cronica di Cambridge, ancorchè senza citar questa. Infine, nell'867, incomincia: “I Greci eseguirono un felice sbarco in Sicilia, e dopo alcuni combattimenti, nei quali i Musulmani ebbero la peggio, ricuperarono la forte piazza di Noto etc.,” e qui continua con lo episodio di Khafâgia. Ma dond'ei prese questo sbarco; e donde la occupazione di Noto; e quel numero appunto dei mille cavalli, e quel nome di Castrogiovanni? Com'egli al certo non ebbe sotto gli occhi il Baiân, così suppongo che abbia trovato qualche cenno alterato del fatto nelle compilazioni persiane, sue sorgenti favorite.
Tal racconto è stato ripetuto dal Martorana, che cita il Rampoldi, Notizie ec., libro I, cap. II, tomo I, p. 47. Il Wenrich, lib. I, cap. VIII, § 80, vergognandosi di citar l'uno o l'altro, gittò la impresa di Basilio e la prigionia di Khafâgia su la coscienza di Nowairi, Ibn-Khaldûn e Abulfeda, che sono innocentissimi di queste fole.
584. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42. Nel testo stampato manca la parola lir-Rûm, che si trova nel MS. Però, in vece di troncare nella versione pubblicata dal Caruso le parole cœperunt Romæi, come ha fatto il Di Gregorio, si corregga: Captæ sunt quatuor scelandiæ Romanorum in Syracusis.
585. In caratteri arabici questi due nomi hanno lettere comuni e altre assai somiglianti, sì che l'uno si potea confondere con l'altro; e gli annalisti erano portati a preferire il nome di Taormina, come meno ignoto.
586. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS. C, tomo IV, fog. 221 recto. Veggasene il sunto in Ibn-Khaldûn, l. c., e l'anno vi si corregga 252, secondo un MS. di Tunis, che risponde qui alla cronologia degli altri annalisti.
587. Ibn-el-Athîr, l. c.; Chronicon Cantabrigiense, l. c., che porta presa Noto la seconda volta il 6374, il quale anno coincide col 252 dell'egira dal 21 gennaio al 31 agosto 866.
588. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, Chronicon Cantabrigiense, ll. cc. Quest'ultima porta la occupazione di Ragusa il 6375, che coincide col 252 dell'egira dal 1 settembre al 31 dicembre 866.
589. Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc., Baiân, tomo I, p. 108.
590. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
591. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Baiân, ll. cc., e Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 125.
592. Ibn-el-Athîr, l. c. Ibn-Khaldûn con minore verosimiglianza dice che entrato Mohammed da un altro lato della città, la prima schiera lo credè aiuto che venisse ai nemici; onde si pose in fuga.
593. In ambo i MSS. di Ibn-el-Athîr troviamo un nome senza punti diacritici, la cui prima lettera può essere b, t, th, n, i, la seconda r, la terza s ovvero sci, alla quale segua la terminazione femminile. Però non trovando nome antico che più si adatti a quei caratteri, leggo Tiracia, la quale si vuol che risponda a Randazzo. Quest'ultima è voce bizantina, probabilmente venuta da ̔Ρενδάκης o ̔Ρεντάκιος, soprannome di un patrizio Sisinnio dei tempi di Leone Isaurico e d'un ricco ateniese parente del patrizio Niceta sotto l'imperatore romano Lecapeno, ricordati l'uno da Teofane, tomo I, p. 616; l'altra nella Continuazione di Teofane, lib. VI (Romano Lecapeno), § 4, p. 399, e nei passi corrispondenti di Simeone e di Giorgio Monaco. Par che alcuno della famiglia sia passato in Sicilia poichè la Cronica di Cambridge nell'anno 934 fa menzione di un Rendâsci governatore di Taormina. Rhentacios era anche il nome di un monte di Macedonia, del quale si fa menzione nelle guerre dei Patzinaci, verso la metà dell'undecimo secolo. Veggasi Michele Attalista, recentemente pubblicato da M. Brunet de Presle, nella nuova edizione della Bizantina, Roma 1853, p. 36.
594. Confrontinsi ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, e MS. C, tomo IV, fog. 221 recto; Baiân, tomo I, p. 108; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 125; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 10; Ibn-Abi-Dinar, MS., fog. 21 verso; Ibn-Wuedrân, MS., § 3, e versione di M. Charbonneau, Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 427; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, p. 206, sotto l'anno 248.
595. Autorità citate di sopra, e Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 verso.
596. Ibn-el-Athîr, e le altre autorità della nota 1, pagina precedente.
597. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 69 recto.
598. Confrontasi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 34; MS. C, tomo IV, fog. 221 recto; Nowairi, MS. 702, fog. 21 recto, e 702 A, fog. 52 recto, e versione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 423; ove è sbagliato il nome del capitan affricano. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 117. Ibn-Khaldûn, senza dir dei Bizantini, riferisce la impresa al 255 (19 dicembre 868 a 7 dicembre 869), e però tratta del primo sbarco. Nowairi non assegna data precisa. All'incontro quella d'Ibn-el-Athîr, che torna all'870, esattamente riscontrasi con la data del 29 agosto 6378 che troviamo nella Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42.
599. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, l. c., e anche MS. A, tomo II, fog. 81 recto; Baiân, tomo I, p. 109; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 21 verso, con la erronea data del 257; Ibn-Wuedrân, con lo stesso errore; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 248, 255, 257.
600. Nowairi, l. c., e p. 11. In questo nome ho aggiunto Ibn-Fezâra, ricavandosi quest'altro grado di parentela dal nome di Abbâs-Ibn-Fadhl, nominato di sopra, p. 315 e 321.
601. Nowairi, l. c.; Baiân, tomo I, p. 109.
602. Nei capitoli della pace stipolata l'851 tra Radelchi e Siconolfo (presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 260 e seg., § XXIV) si legge un patto reciproco di cacciare i Saraceni præter illos qui temporibus DD. Siconis et Sicardi fuerunt Christiani si magarizati (cioè apostati) non sunt. Sicone cominciò a regnare l'817, e Sicardo finì l'839. Citandosi questi due principi, è manifesto che i Saraceni fossero venuti almeno due fiate diverse. Il luogo non si ritrae, e l'ho detto per conghiettura.
603. Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LVII della edizione del Muratori, LXIII del Pratilli, e LXXII del Pertz. L'autore, che non pone data, scrive il fatto dopo l'assassinio dell'abate Alfano, e avanti la occupazione di Amalfi.
Il Muratori par abbia supposto identiche le due imprese, poichè negli Annali registra l'aiuto di Napoli l'837, e non parla affatto di Brindisi. Il Wenrich, lib. I, cap. V, § 58, narra questa fazione con la data certamente erronea dell'836, e lascia indietro l'altra.
604. Veggansi le autorità citate dal Pagi nella Critica a Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 840, § 13; e inoltre, Anonymi Salernitani Paralipomena, cap. LVIII della edizione del Muratori, e LXXII di quella di Pertz; Chronicon Monasterii Sanctæ Sophiæ Beneventi, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, e Pertz, Scriptores, tomo III, p. 173; Chronici Amalphitani Fragmenta, cap. V, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 209; Benedicti Sanctæ Andreæ Monachi Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 701; Leonis Ostiensis, lib. I, cap. XXVI; Pirro, Sicilia Sacra, Notitia Ecclesiæ Lipariensis, p. 951.
605. Uno dei capitoli stipolati il 4 luglio 836 tra Sicardo e lo Stato di Napoli, Amalfi e Sorrento, vieta ai mercatanti di questo Stato di comperare uomini dei Longobardi e rivenderli sul mare.
606. Anonymi Salernitani Chronicon, edizione del Muratori, cap. LXVI; del Pratilli, LXXIV; e del Pertz, LXXXI.
607. Le due autorità principali di questa guerra dell'Adriatico sono: Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso il Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 17; e Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 185 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 192 verso, sotto l'anno 223. Dei quali il Veneziano narra i fatti, l'Arabo li accenna appena; ma entrambi convengono nella data, che l'uno porta l'anno della ecclissi solare di maggio (che avvenne il 8 maggio 840) l'altro, l'anno 225 dell'egira, che risponde all'840, dovendo intendersi della primavera e della state. Ecco le parole d'Ibn-el-Athîr: “Mosse l'armata dei Musulmani alla volta della Calabria; e vinsela. Indi, scontratisi con l'armata del principe di Costantinopoli, i Musulmani la combatterono e ruppero; ritirandosi gli avanzi di quella a Costantinopoli. E questa fu segnalatissima vittoria.” L'attestato della cronica veneta, che Osero fosse stata arsa il secondo giorno appresso Pasqua, ci porta a supporre la battaglia di Taranto qualche settimana innanzi, e però i conquisti di Calabria nel corso della primavera e della state, non già avanti il mese di marzo e la battaglia navale, come scrive Ibn-el-Athîr.
Ho reso vincere il verbo arabo fetah, il cui significato non può confondersi con quello di fare incursione, che gli Arabi dicono gheza, donde la nota voce razzia, come la pronunziano in Affrica, che già si è introdotta nel linguaggio francese.
Veggansi anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 111; e Dandolo, Chronicon Venetum, lib. VIII, cap. IV, § 6, 7, 8, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XIII. Si accorda con la data dell'840 la testimonianza di Lupo Protospatario, là dove ei nota che l'anno 919 era l'ottantesimo della entrata degli Agareni in Italia. L'Anonimo Salernitano, l. c., dice che il primo effetto del “generale movimento dei Saraceni” fosse la presa di Taranto, e poi dessero il guasto alla Puglia.
608. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
609. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 recto e verso; e MS. C, tomo IV, fog. 211 recto, non porta data; ma vale per questa il nome del principe il quale regnò da giugno 838 a febbraio 841. Si riscontri con l'Anonimo Salernitano, l. c.
610. Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 18.
611. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 185 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 192 recto, sotto l'anno 233.
612. Il Diacono Giovanni di Venezia, l. c., dà questo nome di Saba; e ripetonlo in imprese susseguenti altre croniche italiane e scritti bizantini, insieme con quello di σολδάνος, σαλδανὸς, Saothan, Saogdan, Seodan, ec. Sâheb, pronunziato volgarmente Sahb, par sia stato scritto “Saba” per le reminiscenze bibliche dei Cristiani, e perchè la h non rincalzata da vocale sfuggiva agli orecchi stranieri. Ho già accennato il valore della voce Sâheb. Sovente s'incontra Sâheb-el-Istûl nel significato di “ammiraglio,” poichè gli Arabi, per esprimere la novella idea di armata navale, adottarono la voce στόλος, e stolium.
613. Erchemperti Historia, cap. XV; Historiola ign. Cassin., cap. VIII.
614. I cronisti italiani scrivono Calfon e anche Alfonses in alcuni codici men corretti. Ritraggiamo il vero nome da Ibn-el-Athîr, il quale sbaglia la data della presa di Bari, portandola sotto il califato di Motewakkel (847-861), MS. A, tomo II, fog. 198 recto e verso; MS. C, tomo IV, fog. 211 recto. Non par sia questo Khalfûn lo uccisore di Khafâgia, del quale si è detto nel capitolo precedente.
615. Obsitis quidem vestimentis et calciamentis saltem, nec tarabere succinctis, sed solis harundinibus manibus gestantes, leggiamo nella Historiola ignoti Cassinensis, cap. VIII. Tarabere si è spiegato da alcuni “tabarro;” altri hanno corretto nec tara bene ec.; cioè “nè ben cinti di fascia:” che mi sembrano l'una e l'altra zoppe interpretazioni. Parmi che si tratti di una specie di armatura, probabilmente corazza, e potrebbe essere appunto il plurale durâri', sfigurato dai copisti in guisa da non potersi riconoscere; ovvero la voce greca dei bassi tempi ταραβείνα, di cui il Du Cange nel Glossario Greco.
616. Veggasi la nota di Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo I, p. 98.
617. Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. VIII; Erchemperti Historia, cap. XVI. Sul sito della nuova Capua, veggasi la nota del Pratilli alla Historiola ec., nell'opera citata, tomo I, p. 202.
618. Non abbiamo il nome di costui dai cronisti arabi. A prenderlo come lo scrivono i Cristiani, sarebbe Abu-l-Fâr, ossia “Quel dal topo;” Abu-'l-Fares, ossia “Quel dal cavallo ec.”
619. Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. X ed XI; Erchemperti Historia, cap. XVII; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI della edizione di Muratori, LXXIV di Pratilli, e LXXXI di Pertz.
620. Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI e LXVIII del Muratori, LXXIV e LXXVI di Pratilli, e LXXXI e LXXXIII di Pertz.
621. Ibn-el-Athîr nel capitolo “Delle guerre dei Musulmani in Sicilia” MS. A, tomo II, fog. 2, e MS. C, tomo IV, fog. 212 recto, dopo la presa di Lentini scrive: “Questo medesimo anno (232, 846-7) i Musulmani si fermarono nella città di... in terra di Lombardia e la presero ad abitare.” Il nome della città è scritto Tâbth; delle quali lettere sono certissime le prime due al par che l'accento sull' a; la b si può scambiare con una n o altra, e l'ultima può essere t, th ec. Non esito ad aggiungere una r, e leggere Târant, corrispondendo tutti gli altri elementi di lettere a quelle con che gli Arabi scrivono tal nome.
622. Johannis Diaconi Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 315; dal quale è superfluo dire che ho tolto i soli avvenimenti, non le riflessioni ch'io ne traggo. Il cronista narra in continuazione l'assalto di Roma, ed io non so perchè il Muratori negli Annali abbia riferito le fazioni di Ponza ec. all'845.
623. Confrontinsi: Historiola Anonymi Cassinensis, cap. IX e XIX; Johannis Diaconi, Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 315, 316; Anastasii Bibliothecarii Epitome Chronicor. Cassinens., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 369; Prudentii Trecensis Annales, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 442; Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 18, e parecchi altri.
624. Anastasii Bibliothecarii, Vita di Leone IV, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, parte I, p. 231, 237, seg.
625. Historiola ignoti Cassinensis, cap. XII e XIV. La data si scorge da Anastasio Bibliotecario, che nella Vita di Leone IV porta la rovina d'Isernia nella 10ª indizione.
626. Prudentii Trecensis Annales, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 443.
627. Erchemperti Historia, cap. XVIII.
628. Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. XVIII; Erchemperti Historia, cap. XIX; Johannis Diaconi Chronicon Episcoporum ec., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p, 316; Anastasii Bibliothecarii Epitome Chronicor. Cassinen., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 370; Andreæ Presbyteri Bergomatis Chronicon, § 13, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 236, ove si correggano le date; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI a LXXI della edizione di Muratori, LXXV a LXXIX di Pratilli, e LXXXII, seg. di Pertz; Adonis Archiep. Viennensis Chronicon, presso il Pertz, Scriptores, tomo II, p. 323.
L'Anonimo Cassinese discorda dal Salernitano nei particolari e nel nome del condottiero tradito, che secondo lui fu lo stesso Apolofar, di cui si è detto; ma potrebbe errare l'uno il nome, l'altro il soprannome della stessa persona, o queste esser due vittime diverse delle stesso tradimento. La testimonianza di Anastasio che porta precisamente la data dell'851; quella del contemporaneo Adone arcivescovo di Vienna che segna l'anno dell'Incarnazione 850; il titolo di imperatore dato dai più a Lodovico, e altre ragioni che lungo sarebbe ad esporre, mi han portato ad assegnare l'851 al fatto di Benevento, discostandomi in ciò dal giudizio del Muratori, Annali d'Italia, che lo riferisce all'848.
Veggasi l'accordo pubblicato anche con la data dell'851 dal Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 260, seg., e dal Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo III, p. 214, seg.
629. Baiân, tomo I, p. 104, sotto l'anno 238 (22 giugno 852 a 10 giugno 853). Come questo diligente compilatore dice positivamente che Abbâs mandò le teste in Palermo e che poi tornò in Sicilia, così è evidente che la fazione si combattesse in terraferma.
630. L'Anonimo Cassinese, innanzi la strage di Benevento scrive: Hoc videlicet tempore Tarantum, fame obsessa, a Saracenis capitur. Ma non pone data, nè vuole osservare l'ordine del tempi. Historiola ignoti Cassinensis, cap. XVII.
631. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20, e MS. C, tomo IV, fog. 215 verso, narrando la morte e ricordando i meriti di Abbâs, scrive ch'egli infestò la Calabria e la Longobardia e vi pose colonie di Musulmani. Mi par si debba riferire a questo tempo.
632. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 211 recto.
633. Il titolo di Sultano entrò molto tardi nel diritto pubblico dei Musulmani. Infino alla metà del decimo secolo dell'era nostrale si incontra di rado negli scrittori arabi e sempre per designare un principe di fatto. Cadendo in pezzi il califato, questo nome si onestò verso la fine del decimo secolo; e poi Saladino lo rese illustre.
634. Confrontinsi: Erchemperti Historia, cap. XX e XXIX; Historiola ignoti Cassinensis, cap. XXII. La tradizione in Francia portò che Lodovico avesse già aperto la breccia a Bari, quando per cupidigia, affinchè l'esercito non saccheggiasse la città, differì l'assalto alla dimane; propose un accordo; e i Musulmani la notte risarciron le mura, sì ch'ei fu costretto a partire. Fola ripetuta in tutti i tempi per dissimulare la diffalta di simili imprese. Veggasi il Muratori, Annali, 852, al quale anno è riferita, erroneamente, credo io, questa espedizione.
635. Veggasi la apposita Dissertazione del Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo III, p. 242, seg.
636. Veggasi la nota del Pratilli alla Historiola ignoti Cassinensis, nella citata raccolta, tomo I, p. 222, 223.
637. Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. XXVIII, XXX, XXXIII, le lacune della quale si suppliscano con lo squarcio aggiunto al cap. XXX dal Tosti, Storia della Badia di Monte Cassino, tomo I, p. 128; Erchemperti Historia, cap. XXIX; Anastasii Bibliothecarii Epitome Chronicor. Cassinens., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 370; Johannis Diaconi Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 316; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXIX e LXXXII, della edizione di Muratori, LXXVII, XC, di Pratilli; Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 403.
È qui da avvertire che secondo la detta aggiunta del Tosti, la quale risponde alla narrazione di Leone d'Ostia, lib. I, cap. XXXIV, il Monastero di San Vincenzo in Volturno sarebbe stato arso in questa scorreria e rimasto disabitato per trentatrè anni. Ma Erchemperto, contemporaneo e bene informato, e la Cronica speciale del Monastero di San Vincenzo, ne portano espressamente la distruzione verso l'882. Tra coteste due diverse tradizioni l'ultima mi pare più degna di fede; e però suppongo una interpolazione nel MS. della Historiola, ch'ebbe alle mani Leone d'Ostia, forse lo stesso che si conserva a Monte Cassino e ch'è servito alla detta pubblicazione del Tosti.
638. Anonymi Salernitani, op. cit., cap. LXXXIV di Muratori, XCII di Pratilli.
639. Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. V, VI, VII; Erchemperti Historia, cap. XXXII, XXXIII; Johannis Diaconi Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 316; Reginonis Monachi Chronicon, anno 867, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 578; Andreæ Presbyteri Bergomatis Chronicon, § 14, 15, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, e presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 236; Adonis Archiepiscopi Viennensis Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo II, p. 323; Annales Bertiniani, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 554.
640. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LIII, LIV, LV, correggendovi molti anacronismi su la venuta dei Musulmani in Italia. Credo che gli assalitori della Dalmazia fossero stati quei di Taranto, poichè Bari era già assediata. Constantinus Porphyrogenitus, De Admin, Imperio, cap. XXIX; e De Thematibus, lib. II, cap. XI.
641. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS. C, tomo IV, fog. 221 recto. Il nome di Gaeta è scritto senza punti diacritici, ma non si può sbagliare. La cagione di quest'atto d'ostilità non detta da alcun cronista, mi sembra evidente.
642. Africa è posto qui evidentemente come nome di città. Ma la città di Mehdia che i Cristiani chiamavano più comunemente Affrica, fu fondata nel X secolo; nè mai si era dato tal nome a Kairewân capitale dell'Ifrikia ossia Africa propria, sotto gli Aghlabiti. Ciò conferma il sospetto che la epistola fosse stata compilata o almeno interpolata e infiorata a modo suo, dallo Anonimo Salernitano, al cui tempo Mehdia era sì celebre nel Mediterraneo.
643. Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIII; Anonymi Salernitani, Chronicon, cap. LXXXVII a CVIII della edizione del Muratori, CI a CXVI di Pratilli; Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, l. c.; Johannis Diaconi, Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, l. c., Chronicon Vulturnense, l. c.; Chronica Varia Pisana, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 107; Andreæ Presbyteri Bergomatis, Chronicon, l. c.; Constantinus Porphirogenitus, De Administrando Imperio, cap. XXIX, e De Thematibus, lib. II, cap. XI. La Continuazione di Teofane, con volontario anacronismo, attribuisce ai Bizantini la presa di Bari, ch'essi occuparono parecchi anni appresso.
Ho cavato molti particolari dalla epistola di Lodovico a Basilio, inserita dall'Anonimo Salernitano e pubblicata dal Baronio e da altri. Io ho ammesso i fatti, quantunque l'epistola mi sembri apocrifa. Li ho ammesso perchè il compilatore, qual ch'ei fosse, li potè avere da tradizione come tanti altri che non cadono in dubbio; o forse que' fatti si trovavano nella epistola autentica di cui egli dà la parafrasi. Parafrasi mi sembra poi questa, sì perchè vi è fatta menzione della città d'Affrica come notai di sopra, e sì per le soverchie dissertazioni filologiche che vi si trovano. Mi pare certamente apocrifa la conclusione dell'epistola, in cui Lodovico per indurre Basilio a dargli aiuti navali, dice ch'ei si propone di ridurre la città di Napoli e conquistare la Sicilia; delle quali la prima riconoscea tuttavia il nome dello imperatore di Costantinopoli, e la seconda in parte era sua, possedendovi Siracusa, Catania, e quasi tutta la regione orientale.
644. De Administrando Imperio, cap. XXIX.
645. Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIV; Anonymi Salernitani, Chronicon, cap. CIX del Muratori, CXVII del Pratilli; Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVI, LVII; Constantinus Porphirogenitus, De Administrando Imperio, l. c.
646. Fasciolam. Se n'è voluto dedurre che il principe di Salerno portasse una specie di turbante; e non si è pensato ch'ei potesse tornare dal bagno, probabilmente di mare, col fazzoletto che avea tenuto in testa durante il bagno.
647. Anonymi Salernitani, Chronicon, cap. CX e CXI di Muratori, e XCVIII, XCIX di Pratilli.
648. Pubblicato dal Muratori, Antiquitates Italicæ, Dissertazione XL.
649. Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIV; Anonymi Salernitani, Chronicon, cap. CIX del Muratori, e CXVII del Pratilli; Chronicon comitum Capuæ, cap V, presso Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo III, p. 112, e le autorità citate dal Muratori, Annali d'Italia, anni 871 e 872.
650. Gli scrittori arabi ci dicono quel soprannome e quella indole del principe aghlabita; e, come ho già notato (cap. VII, del presente libro, p. 353, nota 3), la elezione dei due fratelli. I Cristiani danno, con poco divario tra loro, il numero dello esercito musulmano. Di loro, Andrea prete da Bergamo novera a 20,000 quei che combatterono a Capua, e aggiugne che i Musulmani levassero lo esercito quando intesero la espugnazione di Bari, tenendola grande ignominia di lor gente. Erchemperto e l'Anonimo Salernitano portano l'esercito a 30,000.
651. La data si ricava da Andrea prete di Bergamo. L'Anonimo Salernitano espressamente dice venuto l'esercito per le Calabrie.
652. Ut machinam quam nos Petrariam nuncupamus construerent miræ magnitudinis et valde turrim unam quæ nunc dicitur Splarata attererent, scrive l'Anonimo Salernitano. Veggasi il capitolo seguente, p. 305.
653..... atque in luxuriis et variis inquinamentis fervebat in tantum, ut ille Abdila thorum sibi parari jusserit super sacratissimum altare; ibique puellas, quas nequiter depredoverat, opprimebat. Sed non diu etc. Ma il prete inventor di questa leggenda non sapea che gli Orientali giacciono sui tappeti stesi in terra; e che Abd-Allah avea sessanta o settant'anni.
654. Nowairi e il Baiân, citati di sopra, cap. VII, p. 353.
655. L'Anonimo Salernitano chiama il predecessore Abdila e costui Abemelech. Si vede che a Salerno, per la frequenza dei commerci coi Musulmani, non si guastavano troppo i nomi proprii.
656. Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXV; Johannis Diaconi, Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum, tomo II, parte I, p. 317; Anonymi Salernitani, Chronicon, ediz. del Muratori, cap. CXI a CXXI, del Pratilli, cap. CXIX a CXXIX; Chronicon Comitum Capuæ, cap. V, presso Pratilli, tomo III, p. 112; e presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 205; Andreæ Presbyteri Bergomatis, Chronicon, cap. XV, presso Pertz, Scriptores, tomo II, p. 236; Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, che porta la principale sconfitta a Terracina, e il numero degli uccisi a 11,000, presso Pertz, tomo VII, p. 19; e le altre autorità citate dal Muratori, Annali d'Italia, an. 871, 872, 873.
657. Baiân, tomo I, p. 109.
658. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42, sotto l'anno costantinopolitano 6380 (871-2).
659. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 recto; MS. C, tomo IV, fog. 211. Questi due fatti sono ripetuti da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 117.
660. Baiân, tomo I, p. 109.
661. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11. Abu-Abbâs, secondo il nome dato dal Nowairi, non era fratello di Ribâh, poichè il Ia'kûb, padre di quest'ultimo, è detto figliuol di Fezâra, e però sembra d'altra famiglia. Ma può darsi che si tratti dello stesso personaggio di cui una cronica saltasse parecchi gradi di genealogia fino al ceppo della famiglia, e un'altra cronica desse il solo nome del padre. Di più, come Nowairi porta il casato e il Kenîe, che qui è Abu-Abbâs, non già il nome proprio, è possibile che questo sia stato Ahmed, e il personaggio stesso di cui fanno menzione Ibn-el-Athîr, e il Baiân, ll. cc. Il Rampoldi, Annali Musulmani, anno 872, dice Abu-Abbâs morto di una caduta di cavallo, e cita Nowairi, che non ne sa nulla.
662. Nowairi, l. c., dice surrogato ad Abu-Abbâs-ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, un fratello di cui non dà il nome, o almeno nol troviamo nei manoscritti. Da un'altra mano, Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 81 recto, anno 257, senza far motto dei governatori ricordati da Nowairi dopo la morte di Mohammed-ibn-Khafâgia, dice succeduto a costui Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Modhâ-ibn-Selma, che secondo questo scrittore “non visse a lungo, sendo morto il 258.” Il Baiân, tomo I, p. 109, dopo Mohammed-ibn-Khafâgia porta un Ahmed-ibn-Ia'kûb, fratello dello emiro della Gran Terra; ma non va più oltre nella genealogia, e il dice morto il 258, e sostituitogli il figliuolo Hosein. Abulfeda, Annales Moslemici, anno 257, porta anche surrogato direttamente a Mohammed-ibn-Khafâgia Ahmed-ibn-Ia'kûb.
Tra questa discrepanza di compilatori, sembra che il Nowairi, più diligente nelle inezie, abbia notato tre governatori, trascurati da Ibn-el-Athîr e dal Baiân per essere rimasi in uficio brevissimo tempo; e che l'Ibn-Ia'kûb, di cui Nowairi non dà il nome proprio, sia appunto l'Ahmed di quegli altri due, come notai di sopra. Debbo aggiungere che stando strettamente alle lezioni dei compilatori tre varie famiglie avrebbero tenuto in men d'un anno il governo della Sicilia, quelle cioè di Ia'kûb-ibn-Fezâra, di Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, e di Ia'kûb-ibn-Modhâ; ma è più probabile che vi sieno errori nei nomi o salti nelle genealogie. Dubito inoltre della lezione di Ibn-el-Athîr, perchè Ibn-Abbâr, che in questa materia fa più autorità, parla (MS., fog. 35 recto) di un Ia'kûb vivuto nel tempo di cui trattiamo e figliuolo di Modhâ-ibn-Sewâda-ibn-Sofiân-ibn-Sâlem, di Sâlem, dico, padre di Aghlab e avolo del fondatore della dinastia. Ia'kûb era dunque cugino di Kafâgia emiro di Sicilia. Era stato anco uomo di molto séguito a corte del principe aghlabita Mohammed-ibn-Aghlab di cui già si parlò, e i suoi discendenti furono detti, da lui, Ja'kûbîa “Giacobini:” nome che allor non portava pericolo. Mi pare probabilissimo che l'Ahmed nominato da Ibn-el-Athîr sia stato figliuolo di costui, e Modhâ non figliuolo di Selma, ma bisnipote di quel Sâlem progenitor comune di questa famiglia e degli Aghlabiti.
663. Baiân, l. c.; Nowairi, l. c.
664. Nowairi, l. c., lo chiama erroneamente Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Aghlab, facendolo supporre discendente in linea retta dal fondatore della dinastia; quando ei non era che figliuolo del figlio del costui fratello. Chiarisce tale genealogia Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 recto, il quale dà anche: 1º l'anno della elezione al governo di Sicilia, corrispondente a quello del Nowairi; 2º la notizia de' suoi meriti letterarii e degli oficii esercitati prima e dopo del governo di Sicilia; e 3º i versi che indirizzò a un intimo amico, dolendosi di doverlo lasciare, quando fu promosso a tal governo.
665. Nowairi, l. c.
666. Veggansi qui appresso i nomi del capitano di Sicilia al tempo che fu presa Siracusa, e degli altri che gli succedettero per venti anni. Perciò è manifesto errore di Nowairi che l'Abbissinio reggesse la Sicilia per ventisei anni continui. Al più si potrebbe credere deposto verso l'876, e rieletto verso l'896, quando Ibn-el-Athîr fa menzione del suo nome.
667. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 86 recto; Baiân, tomo I, p. 109.
668. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIX, p. 309. Portando con anacronismo l'assedio di Siracusa dopo le vittorie del capitano bizantino Nasar in Sicilia ed in Calabria, lo scrittor palatino comincia il capitolo così: “I Barbari Cartaginesi, per la sconfitta che avean toccato, temendo che l'armata romana non li assaltasse in casa loro, allestirono anch'essi molte navi; e com'e' seppero che in primavera non fossero uscite le forze imperiali, credendole distolte da altra guerra, mossero con lor navilio alla volta di Sicilia. Giunti alla capitale dell'isola (cioè Siracusa), la cinsero d'assedio.” Le sconfitte dei Musulmani d'Affrica, alle quali si allude, non erano al certo quelle date da Nasar, che seguirono dopo la espugnazione di Siracusa.
669. Ancorchè gli scrittori musulmani non parlino di forze mandate dall'Affrica, si può creder questo alla Continuazione di Teofane. Si vedrà in appresso, per testimonianza del Baiân, che in questo tempo erano ritenuti prigioni in Palermo, senza dubbio per comando di Ibrahim-ibn-Ahmed, due suoi congiunti.
670. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 104 verso; e MS. di Bibars (che è copia d'Ibn-el-Athîr) nella Biblioteca di Parigi, Ancien fonds arabe, nº 669, fog. 43 recto. Leggo chiaramente in quest'ultimo MS., e con poco dubbio nel primo, il nome di Rametta.
671. Ibn-el-Athîr, l. c., dice “occupato alcun sobborgo” di Siracusa. La Continuazione di Teofane, lib. V, cap. LXIX, p. 309, similmente porta dato il guasto “alla campagna ed ai sobborghi” (τὴν κώραν καὶ τά προάστεια.)
672. Veggasi il capitolo III del presente Libro.
673. Cum turris juxta mare, ad ipsum portum majorem ædificata, ubi dextrum cornu (κέρας) oppidi protenditur ec. Così nella versione di M. Hase. La penisola d'Ortigia è bislunga. Quel dei lati maggiori che guarda a ponente mette fuori due braccia, l'uno dei quali dritto verso mezzodì, e ristringe l'entrata del porto maggiore; l'altro, storcendo in su verso Maestro, forma l'istmo. Il lato di ponente che risponde al porto maggiore va detto dunque fronte della città; e l'istmo, ala o corno dritto.
674. L'istmo è largo circa un ottavo di miglio siciliano, ossia da 186 metri.
675. Ἑλέπολις, nel testo. Si sa da Ammiano Marcellino ch'era una tettoia di assi, coperta di vimini e argilla, congegnatovi sotto una trave armata di ferro da percuotere il muro. Risponde perciò al montone, gatto, ec., come si chiamò dalla foggia del ferro che stava in cima alla trave. Veggasi il Thesaurus linguæ græcæ, di Enrico Etienne, edizione di Hase e Dindorf, tomo III.
676. Χελώνη, tettoia minore che gli antichi faceano talvolta con gli scudi. Qui pare quel che poi si chiamò mantelletto per proteggere gli artefici che lavoravano a scalzare il muro.
677. Teodosio Monaco, l. c.
678. Teodosio dice soltanto che una parte della torre sul porto grande e indi un pezzo della cortina crollassero pei tiri dei mangani. Ciò non potea avvenire se i proietti non correano per curva assai lieve, da potersi chiamare linea retta ove non si parli tecnicamente. Delle macchine servite dai Saraceni di Lucera feci menzione nella Storia del Vespro Siciliano, capitolo X, p. 226, e nota a pag. 228, ediz. Le Monnier. Gli altri esempii ai quali ho accennato, occorrono nella presente Storia.
679. Ibn-el-Athîr, l. c.
680. Βραχιόλιον. Teofane, nella Chronographia, usa questa voce, prima in significato di braccialetto propriamente detto, ossia ornamento del braccio (tomo I, p. 225 e 491); e poi (p. 541), di fortificazione attenente alla Porta d'oro di Costantinopoli, negli assalti che diè l'armata musulmana nel famoso assedio del 673. Il testo di Teodosio dice nel presente luogo: Τὰ ὰμφὶ τοῖν λιμένοιν τείχη, ἂ δη βραχιόλια ὺνομάζουσιν; e la versione di M. Hase: Mœnia circa utrumque portum quæ brachiolia vocant. Parmi che τείχη si debba prender qui nel senso di fortificazione in generale, e ὰμφὶ di presso piuttosto che intorno. E veramente quelle due voci si trovano talvolta adoprate in questi significati; e basta guardare una pianta topografica, e considerare che il porto grande gira da sette miglia, per capacitarsi che non si tratti di muro intorno intorno.
681. Χρυσίνος. Ho posto il nome che dettero a questa moneta gli occidentali. Il valsente in peso di metallo, spessissimo alterato, è di 13 lire incirca.
682. Νομίσμα, voce usata nello stesso significato di χρυσίνος.
683. Τέτανος.
684. Ὁς ὰσκὸν.
685. Così è da supporre, leggendosi nel testo: καὶ τούτοις πολυμερῶς διατρήσασα; e nella versione di M. Hase: multis ex partibus terebratos.
686. Colpiti di ήμιπληξία, dice il testo qui al certo inesatto, poichè “emiplessia” significa “paralisia di un lato.” Fin qui mi riferisco sempre alla epistola di Teodosio.
687. Georgius Monachus, De Basilio Macedone. § 11, p. 843.
688. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIX, LXX, p. 309 seg.
689. Se meritasse maggiore fiducia la traduzione latina che pubblicò il Gaetani di certi versi di Teodosio indirizzati a un Beato Sofronio, che pare sia l'arcivescovo di Siracusa, si potrebbe affermare che il grosso dell'esercito musulmano si fosse ridotto alle stanze nell'inverno. Ma come farvi assegnamento, se la narrazione in prosa non ne parla, e se la traduzione dei versi è del tenor seguente?
Genus Ismael ascendit
Syracusanorum in urbem,
Ambitu ambiens hanc;
Aggressus devicit (devicitur?)
Dolose supervenit extemplo
Per annum etiam navigavit
Post decem autem menses excidit
Obsidio urbem.
690. Sappiamo da Ibn-el-Athîr che l'assedio di Siracusa fa cominciato da Gia'far-ibn-Mohammed, governatore dell'isola; e leggiamo nel Baiân, dopo la espugnazione di Siracusa, che costui fosse ucciso in Palermo lo stesso anno 264. Da un'altra mano, Teodosio chiama il capitano dello esercito vincitore Busa amiræ Chagebis filius, e lo dice diverso dall'emiro supremo ch'era in Palermo, al quale fu condotto il narratore insieme con gli altri prigioni. Attagliandosi l'una all'altra coteste due testimonianze, possiamo stare a quelle, e mettere da parte il Nowairi che ne discorda. Costui nella storia di Sicilia non parla della espugnazione di Siracusa. In quella d'Affrica, pubblicata de M. De Slane in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, p. 425, attribuisce la vittoria ad Ahmed-ibn-Aghlab; forse senz'altra ragione che di supporlo in quel tempo governatore della Sicilia, come abbiam notato nel presente capitolo.
Quanto al nome del vincitor di Siracusa, che Teodosio non poteva ignorare, mi par che vada letto Abu-l'sa, figliuolo dell' hâgeb ossia ciambellano di Ibrahim-ibn-Ahmed; poichè le due lettere latine ch sono trascrizione ordinaria della greca χ, come questa dell' ha, 6ª lettera dell'alfabeto arabico, con la quale comincia la voce hageb; e le lettere g e b similmente rispondono alle arabiche. È maraviglia a trovare sì intatta quella parola passata per mano di varii copisti e d'un traduttore; poichè di questo squarcio il testo greco si è perduto. Debbo qui avvertire, per render testimonianza al vero, che M. Famin, nella Histoire des Invasions des Sarrazins en Italie, Paris 1843, della quale è uscito solo il primo volume, e la quale avrò poche altre occasioni di citare, ha colto nello stesso segno mio, tirando a un altro. La voce Châgeb gli parve corruzione del nome patronimico di Mohammed-ibn-Kohreb; e ne disse le male parole a Teodosio, anche per aver chiamato costui emiro, e conchiuse doversi correggere il nome Mouça fils de l'émir Khareb; cioè Mohammed-ibn-Kohreb, che per caso si trova appunto lo hâgeb del principe aghlabita in questo tempo.
691. Fo questo conto su quello degli uccisi quando fu presa la città.
692. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXX, p. 511.
693. Teodosio Monaco, l. c.
694. Die prima post vigesimam mensis maij, quarta vero ab eo die quo murus corruit; dice la versione pubblicata dal Gaetani. Ma quel quarto giorno dopo la caduta del muro non risponde al conto fatto poco prima. Perciò credo inesatta la versione, e che si debba intendere quarta feria, ossia mercoledì, il giorno appunto della settimana che notano concordemente la Cronica di Cambridge e il Baiân.
695. Questo nome non è dato da Teodosio; ma il Gaetani crede su buone ragioni che così si chiamasse l'arcivescovo.
696. La Continuazione di Teofane nota espressamente che fossero uccisi tutti i soldati, e fatti schiavi i cittadini.
697. Teodosio.
698. Questo passo si trova nella parte di cui è perduto il testo greco.
699. Ibn-el-Athîr.
700. Le autorità bizantine sono: Theodosii monachi atque grammatici, Epistola de expugnatione Siracusarum, versione latina che fece un monaco basiliano, per nome Giosafà, sopra un MS. del monastero del Salvatore di Messina; e fu pubblicata dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, in appendice; poi dal Pirro, ec. Il MS. andò a male con tanti altri, perduto nei monasteri di Spagna o sepolto nella Vaticana, ove è da sperare che un giorno si trovi. Intanto abbiamo uno squarcio del testo in un MS. di Parigi, il quale sventuratamente non arriva nè anco a metà della epistola; ma capitò in ottime mani, poichè M. Hase n'ha fatto una versione latina, e pubblicatala con l'originale greco, in appendice alla Leonis Diaconi Caloensis Historia, Parigi, 1819; su la quale edizione fa ristampato a Bonn, il 1828. La pubblicazione di M. Hase ci ammonisce a non fidarci troppo della prima versione latina, che talvolta sbaglia il significato, e per lo più si perde in parafrasi. — Theophanes Continuatus, lib. V, cap. LXIX, LXX, p. 309, seg., oltre i cenni che si trovano in Georgius Monachus, De Basilio Macedone, cap. XI, p. 843; Symeon Magister, idem, p. 691; Nicetæ Paphlagonii, Vita Sancti Ignatii, presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p. 1238.
Degli autori arabi ne trattano: Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; Baiân, tomo I, p. 110; aggiungasi la Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42.
La data della espugnazione, il 21 maggio, si trova al paro in Teodosio nella Cronica di Cambridge, e nel Baiân. L'anno 878 è determinato da queste ultime due autorità. Manifesto l'errore di coloro che, seguendo la Continuazione di Teofane, han detto presa Siracusa l'880.
701. I titoli di queste due elegie sono stati rinvenuti dal dotto ellenista siciliano Pietro Matranga. Veggasi Spicilegium Romanum, tomo IV, Romæ, 1840, p. xxxix.
702. I cronisti musulmani affermano precisamente che l'esercito vincitore andasse via da Siracusa dopo due mesi. Teodosio scrive essere rimaso prigione per trenta dì; nel qual tempo i Musulmani ardeano e guastavano la città: e poi mandarono lui e gli altri prigioni in Palermo sotto la scorta dei negri; ma non che marciasse con tutto lo esercito. Queste due testimonianze perciò non si contraddicono punto.
703. Solarium, nella versione; manca il testo greco.
704. Demosterium; certamente il testo portava δεσμωτήριον.
705. Si celebra il 10 del mese di dsu-'l-haggi, che quell'anno cadde nel 12 agosto 878, secondo il conto degli astronomi musulmani, e il 13, secondo il conto comune.
706. Ex iis qui populo præerant. Qualche fakîh o sceikh.
707. Non enim hoc fas esse, leggiamo nella versione latina. I Musulmani d'altronde non fecero mai sagrifizii umani, come par che pensasse Teodosio; e la legge risparmiava la vita ai preti cristiani.
708. Tutto ciò da Teodosio, l. c.
709. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43, dice venuto a posta un che ricomprò i prigioni di Siracusa l'anno 6393. Il Rampoldi, Annali Musulmani, an. 886, al solito senza citare, scrive che fossero riscattati 4253 prigioni che si trovavano “nel solo ergastolo di Siracusa,” e quasi altrettanti al Kairewân. Ma Siracusa era distrutta; i prigioni condotti in Palermo, come dice Teodosio, che dovea saperlo; e il numero non potea essere stato sì grande, che il quinto appartenente al governo sommasse ad ottomila e più, quanti si dice che ve ne fossero tra Kairewân e lo ergastolo di Sicilia. Perciò la compilazione orientale, da cui il Rampoldi par che abbia cavato quelle cifre, o è favolosa o erronea.
710. Il Gaetani, non trovando altra memoria di loro, chè la Cronica di Cambridge per anco non si conoscea, e volendo accrescere il catalogo dei martiri siciliani, suppone che Sofronio e i compagni fossero morti per la Fede.
711. Baiân, tomo I, p. 110. Quivi non leggonsi i gradi della parentela con Ibrahîm-ibn-Ahmed, ma si argomentan dai nomi. Traduco a caso il soprannome, ch'è scritto senza vocali, onde si potrebbe leggere Kherg-er-ro'ûna, “Nugolo di pazzia.” ed è suscettivo d'altre lezioni e interpretazioni. Nel Baiân quest'omicidio è scritto dopo la presa di Siracusa. Ma ciò non prova che accadesse dopo: e le conseguenze del misfatto, riferite dal Baiân tutte nello stesso anno, fan supporre o ammazzato Gia'far nei principii, ovvero che l'autore non osservi rigorosamente la cronologia.
712. Baiân, l. c. Quivi si legge Hosein-ibn-Riiâh. Correggo Ribâh per essere famiglia illustre della colonia, e per trovarsi appo Nowairi un Hosein-ibn-Ribâh governatore della Sicilia nell'872, come si è detto a p. 391.
713. Baiân, tomo I, p. 110.
714. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15. Il nome nel MS. si trova senza punti diacritici, fuorchè su l'ultima lettera; ma credo che gli editori si fossero bene apposti nel supplire i punti che mancano. Va trascritto Khrîsâf. Il diploma del XII secolo al quale alludo, si legge in Pirro, Sicilia Sacra, p. 390. Nata contesa intorno i confini di un podere nel territorio di Cagliano, re Ruggiero, il 1142, deputò a deciderla un conte Simone e il famoso Giorgio di Antiochia; i quali intesero varii notabili, e tra gli altri un Crisafi di Troina. Fa anco menzione di questa famiglia il Bonfiglio, autore messinese del XVII secolo, e dà lo stemma gentilizio di quella, presso Burmanno, Thesaurus Antiquit. Siciliæ, tomo IX, p. 117. Un marchese Crisafi e un suo fratello, cavaliere gerosolimitano, usciti di Messina per cagion della rivoluzione contro gli Spagnuoli e rifuggiti in Francia, segnalaronsi dopo il 1691, sotto le bandiere francesi, nell'America settentrionale. Dei quali il cavaliere, audace uom di guerra e di stato, si dice sia morto di crepacuore non vedendosi punto rimeritato dalla corte di Francia; e l'altro governò il distretto delle Trois Rivières, come si legge in Charlevoix, Histoire de la nouvelle France, tomo II, p. 95 seg. Questa famiglia, dopo mille anni di nobiltà, si è estinta in Messina, come mi si dice, verso il 1840.
715. L'autore è anonimo. La leggenda fu tradotta dal gesuita siciliano Fiorito, sopra un MS. greco del monastero del Salvatore di Messina. Pubblicò questa versione il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 63, seg., e l'hanno ristampato i Bollandisti, Acta Sanctorum, 17 agosto.
716. Epistola di Giovanni VIII papa, di nº CCXL, data il 19 nov. 879, presso Labbe, Sacrosanta Concilia, tomo IX, p. 184. Il Muratori, Annali, an. 880, confonde questa vittoria con l'altra che siamo per narrare, significata da papa Giovanni a Carlo il Calvo per una epistola del 30 ottobre 880, nº CCLV (stampato per errore CCXLV).
717. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LIX-LX-LXI, p. 298, seg. Queste fazioni e le altre dell'armata bizantina in Sicilia e Calabria son riferite innanzi la espugnazione di Siracusa. Ma l'anonimo compilatore confessa (cap. LXXI, p. 313) non esser punto certo della cronologia. Io l'ho corretto con la scorta delle autorità musulmane e italiane che citerò nelle note seguenti.
718. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXII, p. 303. Che sia la stessa armata veduta da Elia nel porto di Palermo mi par supposizione necessaria.
719. Baiân, tomo I, p. 110.
720. La Continuazione di Teofane dà il solo nome Nasar. Nella Vita di Santo Elia l'ammiraglio è chiamato Basilio Nasar; ma dubito che il nome di Basilio sia quello dell'imperatore, aggiunto a Nasar per errore del MS. o della versione. Nasar è nome semitico. Da ciò, e dall'avere l'ammiraglio chiesto rinforzi di Mardaiti, argomento che appartenesse a questa gente, così chiamata dagli Arabi perchè si ribellò da loro. Erano Cristiani del Libano, della setta che si addimanda Maronita.
721. Di questa sconfitta dell'armata musulmana d'Affrica e di Sicilia abbiamo testimonianze diverse, che non è difficile a mettere d'accordo.
La Continuazione di Teofane, l. c., cap. LXII, dà il numero delle navi africane; il tempo vagamente e con errore; il luogo anche vagamente; ma dice che il nemico scorresse i mari di Cefalonia e Zante, e che Nasar uscisse da Modone, e tornassevi dopo la vittoria, e poi, chieste istruzioni a Basilio, venisse in Palermo. La epistola di Giovanni VIII, del 30 ottobre, 19ª indizione (dal 1º sett. 880 al 31 ag. 881), dando a Carlo il Calvo le nuove dei Greci e Ismaeliti, dice: quia Græcorum navigia in mari Israelitarum victorisissime straverunt phalanges; ed è evidente che debbasi leggere Ismaelitarum. Nella Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43, troviamo: “L'anno 6388 (1º settembre 879 a 31 agosto 880), i Bizantini presero le navi dei Musulmani in un luogo che s'addimanda Ellada.” Questa voce precisamente si legge, nel MS. con la l raddoppiata e la d con un punto diacritico, con la quale per lo più gli Arabi trascrivono la d greca o latina, perchè la loro d senza punto si confonde spesso con la nostra t. Ellade è appunto il nome del tema della Grecia propria, che stendeasi dall'uno all'altro mare, compresavi l'isola di Negroponte, che sta a levante, ma non Cefalonia e Zante, che giacciono a ponente; e confinava a settentrione col tema di Tessalonica, a mezzodì con quello del Peloponneso. Tal nome è scritto ordinariamente dai Bizantini Ἑλλάς, all'accusativo Ἑλλάδα, con le medesime lettere e accento della trascrizione arabica. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 109 verso; e. MS. di Bihars, fog. 49 recto, anno 266 (22 agosto 879 a 10 agosto 889), riferisce la battaglia ne' mari di Sicilia; presa la più parte delle navi musulmane, e salvatisi gli avanzi in Palermo. Il Baiân, tomo I, p. 110, dice portata la guerra dal governatore di Sicilia ai Bizantini, che fecero uscire 140 navi; scontratesi le due armate; prese le navi della musulmana; e passati i vincitori a Palermo. Ciò nel 266. Finalmente la Vita di Santo Elia dà allestita l'armata in Palermo contro Reggio al tempo dello imperatore Leone; mandato da costui Basilio Nasar con 45 navi; ito Santo Elia di Palermo a Taormina ed a Reggio, ove confortò i cittadini che non fuggissero, e Nasar che fidasse nella vittoria; uscito Nasar contro i Musulmani, cui ruppe, messe in fuga, affondò in mare, o fe' prigioni. In questa narrazione può star la data dell'880, poichè Leone, che regnava solo quando fu scritta la biografia, era già associato al padre innanzi l'880, e probabilmente, come lo accennai di sopra, il nome di Basilio nel testo va aggiunto a quel di Leone, e non dato come nome di battesimo di Nasar. Però non han luogo le conghietture cronologiche del Gaetani, op. c., p. 68, e dei Bollandisti, vol. c., p. 483. Quanto al luogo della battaglia, o fu confuso nella memoria di Elia che vecchio narrava questi casi, o dalla penna dell'agiografo, ovvero seguì un novello scontro di 45 navi bizantine con gli avanzi dei Musulmani, che uscissero di Palermo, vedendosi assaliti nelle case loro.
Dopo il detto fin qui, i fatti mi sembrano provati abbastanza. Così anche la data, non ostante una difficoltà che non voglio tacere, cioè che Giovanni VIII avesse differito sino al 30 ottobre a significare a Carlo il Calvo una sì importante sconfitta dei Musulmani seguita nei primi di agosto. Ma questa data di agosto 880 calza sì bene con tutte le memorie; e d'altronde le comunicazioni tra la Sicilia e Roma erano sì incerte, e sopratutto sì poca la voglia di papa Giovanni a dare quella nuova, a Carlo, dal quale sollecitava sempre aiuti contro i Musulmani, che ben si possono supporre passati due mesi e mezzo. Infine è da considerare che il papa non scriveva apposta quest'avviso, ma per incidenza, e rispondendo a Carlo il Calvo che gli avea domandato, forse maliziosamente, che si dicesse dei Greci e dei Saraceni.
722. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIV, p. 304-305. L'obolo rispondeva a 1 ⁄ 210 del bizantino, ossia circa 0,06 di lira italiana.
723. Ibn-el-Athîr, l. c.
724. Si confrontino: Theophanes continuatus, l. c., e Baiân, tomo I, p, 110.
725. Non mi par dubbio che la divisione di quei legni sottili vi rimanesse dopo la partenza di Nasar. Il porto dovea essere Termini o Cefalù; poichè le schiere si spingeano su la parte delle Madonie che sta a cavaliere a quella spiaggia.
726. Si confrontino: Leonis Grammatici, Chronographia, p. 258, e Georgii Monachi, De Basilio Macedone, cap. XX, p. 845. Secondo quest'ultimo ho soppresso il nome di Musulice, che Leone dà anche a Euprassio, e che sembra nome del capitano che gli succedette.
727. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 25 recto, e MS. di Bibars, fog. 62 recto, sotto l'anno 368 (881-882), dice presa dai Musulmani una fortezza “che i Greci aveano fabbricato di recente, e chiamatala la Città del Re.” — “Di recente” qui si deve intendere l'880, perchè prima erano vincitori e padroni i Musulmani in quelle parti. Quanto a Polizzi, oltre il sito ch'è designato da tutte le fazioni di guerra dell'882, accenna a quella città anco il nome, che necessariamente doveva esser greco, Βασιλεόπολις, o soltanto Πόλις, e Pólis esattamente si pronunziava nel XII secolo, come il prova la trascrizione arabica di Edrisi. Però è caduto in errore il Wenrich, il quale, lib. I, cap. XI, § 96, p. 128, ha creduto di trovare la “Città del Re” in Castroreale, senza riflettere che il nome non potea essere latino, e senza sapere che Castroreale fu fabbricata dagli Aragonesi nel XIV secolo, come si scorge dal Fazzello, deca I, lib. X, cap. I, e da Amico, Lexicon Topographicum.
728. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 120 recto; e MS. di Bibars, fog. 59 recto, anno 267; Baiân, tomo I, p. 111; e Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 21 verso, con lo errore di Iliâs in luogo di Abbâs. Questo nome patronimico è scritto El-Miâs in Ibn-Wuedrân, MS. § 6, versione francese nella Revue de l'Orient, déc. 1853, p. 429.
729. Ibn-el-Athîr, l. c.
730. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43; e Vita di Santo Elia da Castrogiovanni, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 68, e presso i Bollandisti, Acta Sanctorum, 17 ag., p. 483. Nella cronica si legge sconfitto a Taormina Barsâs; la Vita di Santo Elia dice Barsamius che mi pare migliore lezione. Infatti il nome di Barsemius, trascrizione del siriaco Barsuma, si trova in Mesopotamia dal secondo al quinto secolo dell'era volgare, com'io l'ho accennato nelle note al Solwân-el-Mota', d'Ibn-Zafer, nota 44 al capitolo V, p. 336. Il Wenrich, lib. I, cap. XI, § 96, dice uccisi 3000 Cristiani; e cita nella nota 144 Ibn-el-Athîr. Così confonde questa fazione con quella che seguì nell'882.
731. Ibn-el-Athîr, l. c. Nel MS. si legge chiaramente Bekâra, che parrebbe trascrizione di Biccarum, come troviamo scritto il nome dell'odierna Vicari nei diplomi latini dell'XI secolo; ed è terra lontana 30 miglia da Palermo, e circa la metà dalla spiaggia del Tirreno. Ma in Edrisi il nome di Vicari è trascritto Bikû, che risponde esattamente al Βοικὸς di un diploma greco dell'XI secolo, pubblicato da Buscemi, Giornale Ecclesiastico per la Sicilia, Palermo 1832, tomo I, p. 212 e 213. Dippiù, Edrisi parla di un altro castello, nelle vicinanze al certo di Gangi, terra a 14 miglia da Polizzi, il nome del quale castello nella Geographia Nubiensis è scritto Mekâra, così anche nel MS. di Edrisi d'Oxford, e Nakâra in uno dei MSS. di Parigi; nell'altro, che è il migliore, Bekâra: varianti, tra le quali è da preferirsi Mekâra, supponendosi con fondamento che fosse appunto presso Gangi la Imacara di Plinio e la Megara di Tolomeo. Posto ciò, rimane in dubbio se vada fatta ad Ibn-el-Athîr la stessa correzione di Mekâra, ovvero debba supporsi che la cronica nella quale ei lesse Bekâra, avesse così trascritto, in modo diverso da Edrisi, il nome di Biccarum. È dubbio insignificante ed impossibile a sciorre, poichè entrambi i siti di Vicari e di Gangi poteano essere occupati dai Bizantini in quella impresa. D'altronde i nomi di Biccaro, Vaccaro, Vico, Bica ec., doveano essere frequenti in Sicilia; e tanto più facilmente si poteano confondere, quanto bekkâr in arabico risponde al greco βοιχὸς e all'italiano “boaro” e “vaccaro.”
732. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 123 recto; e MS. di Bibars, fog. 62 recto, anno 268.
733. “Kalat-abi-Thûr,” in Edrisi; “Calatabutor, Galatabutur, ec.,” nei diplomi latini dell'XI e XII secolo.
734. Nicetæ Paphlagonii, Vita Sancti Ignatii, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p. 1247.
735. Parlando familiarmente, gli Arabi chiamano più tosto del soprannome che del nome o casato.
736. Riadh-en-nofûs, MS. di Parigi, fog. 79 verso. La versione mia è fedele, non litterale.
737. Egli adopera i due sostantivi, hesced, “ragunata,” e gem ', “turba.”
738. Ibn-el-Athîr, l. c. Il Baiân, tomo I, p, 111, sotto l'anno 268, accenna solo lo scambio del governatore, dando esattamente gli stessi nomi del deposto e dello eletto. La Impresa di Mohammed-ibn-Fadhl si dee riferire all'882, poichè il guasto delle mèssi determina la stagione.
739. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 135 verso, anno 269; e MS. di Bibars, fog. 72 recto. Questo capitoletto con alcuni altri è stato dato da M. Des Vergers, in nota nell' Histoire de l'Afrique et de la Sicile par Ibn-Khaldoun, p. 132, seg. Vi si sostituisca Rametta a Rita su l'autorità del MS. di Bibars. Così ancora nel capitoletto del 271.
740. Ibn-el-Athîr, con frase vaga o mutilata dai copisti, scrive: “Mosse con grande esercito verso la città di Catania, e distrusse quanto era in quella.”
741. Il Baiân, tomo I, p. 113, dà i soli nomi del governatore morto e del rifatto; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 140 recto, e MS. Bibars, fog. 83 recto, anno 271, narra le fazioni di guerra e lo accordo; il Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43, dice del solo accordo. Ecco le parole delle due croniche. In Ibn-el-Athîr leggiamo: “.... e incalzava la città, quando vennero a trovarlo oratori del patrizio dei Rûm, chiedendogli la tregua e lo scambio dei prigioni, ec.” La Cronica di Cambridge ha: “Il ûi ti recò il riscatto, e fe' uscire i prigioni di Siracusa;” come va corretta la versione latina. Quel nome, ove mancano i punti diacritici di due lettere, è stato letto Buliti, e il Di Gregorio sagacemente ha riconosciuto in questa voce la greca Βουλευτίς (o meglio Βουλευτὴς), che si pronunziava Vulevtis; dandosi dai Greci il medesimo valore della nostra v alla β e alla υ. Perciò nel supplire i punti diacritici al testo correggo Bûlebtî. Parmi sia questo il plurale Βουλευταὶ, che nella lingua dei mezzi tempi significava Decurioni, ossia, collettivamente, la Curia.
Parmi che gli annali musulmani abbian mutato cotesti magistrati municipali in oratori del capitano bizantino. Potrebbe essere ancora che il capitano del presidio abbia fermato l'accordo, e alcuni decurioni siansi recati poi in Palermo a togliere i prigioni cristiani, recando i musulmani, che forse non erano a Taormina. In ogni modo, il fatto, e la voce usata da Ibn-el-Athîr, mostrano che si trattasse di scambio, e non di mero riscatto di Cristiani.
742. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 161 verso; MS. di Bibars, fog. 85 verso, anno 272; Baiân, tomo I, p. 113.
743. Ibn-el-Athîr e Baiân, ll. cc.
744. La guerra civile tra i Berberi e il giund, ossia le milizie arabe, si legge nella Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43; il rimanente nel Baiân, tomo I, p. 114. In quest'ultimo, con la data del 273 (7 giugno 886 a 26 maggio 887); nella Cronica di Cambridge, del 6395 (1 settembre 886 a 31 agosto 887). Nel Rampoldi, Annali Musulmani, anno 887, si legge: “L'autore del Nighiaristan, dice che in Sicilia ebbero luogo forti combattimenti tra quei Cristiani e i Musulmani, con riportarne a vicenda qualche vantaggio.” Non sarebbe impossibile che il compilatore persiano, o lo italiano, abbia così interpretato i casi della guerra civile; o che il Rampoldi, per errore, abbia tolto questa notizia dalla Cronica di Cambridge, e citato il Nigâristân.
745. Così lo chiama Erchemperto.
746. Il Baiân, tomo I, p. 114, sotto l'anno 275, dice della “tremenda battaglia” vinta dai Siciliani, e che perissero dei nemici più di 7000 ammazzati, e da 5000 annegati. Forse il compilatore lesse male i testi, che riferissero due tradizioni diverse, ovvero portassero il numero dei morti in battaglia, e poi il totale, compresivi i prigioni; o che so io. Si accenna inoltre la fuga dei Cristiani dalle terre vicine ai Musulmani, che si deve intendere delle Calabrie, e sopratutto di Reggio, secondo le testimonianze della Cronica di Cambridge e di Erchemperto. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43; ove si porta a 5000 il numero degli uccisi, la battaglia a Milazzo e la data del 6397 (1 settembre 888 a 31 agosto 889). Similmente, Ibn-Abbâr, nello squarcio di cui si farà menzione nella nota seguente, parla della “battaglia di Milazzo.” Erchemperto, Historia, cap. LXXXI, la suppone nello stretto di Messina. Il Rampoldi, Annali Musulmani, anno 888, scrive così: “Terminò i suoi giorni in Palermo l'emir Iakoub figliuolo di Ahmed, della casa di Aghlab, uno dei comandanti generali in Sicilia, e governatore di Messina. Aaroun el Khams gli succedette nel governo dei Musulmani di quella città.” Ignoro donde egli abbia potuto trarre questa seconda notizia. La prima mi pare arbitraria correzione di ciò che scrisse erroneamente il Nowairi.
747. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 36 recto.
748. In miglia siciliane secondo la carta geografica. È notevole che Edrisi dà appunto la stessa distanza in miglia arabiche che rispondono alle siciliane. Nel secolo passato, la distanza si ragionava 13 miglia, certamente per altra strada meno malagevole. In oggi, la strada del corriere, che passa per Spadafora facendo un lungo giro, è di 24 miglia.
749. Ibrahîm suo padre era fratello di Khafâgia emiro di Sicilia, del quale si è detto. Sofiân, ceppo di questa famiglia, era fratello di quell'Aghlab da cui prese nome la dinastia.
750. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, l. c. Il nome dello ammiraglio greco si trova nella Vita di Santo Elia da Castrogiovanni, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 72, se pur la vittoria dell'ammiraglio Michele fu riportata nello stesso scontro in cui presero Mogber. Il Conde, Historia de la Dominacion de los Árabes en España, parte II, cap. LXXV, senza citare Ibn-Abbâr, ha dato una versione poco esatta dell'articolo biografico sopra Mogber.
751. Baiân, tomo I, p. 115, anno 276.
752. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43. Questa cronica non indica al certo col nome di Siciliani i Cristiani, i quali chiama sempre Rûm, ma sì bene i coloni di Sicilia; come tutti gli scrittori arabi dicono Sirii, Egiziani, Spagnuoli ec., i coloni di lor gente in que' varii paesi.
753. Si conferma questo significato della voce “Affricani” dal seguente passo della Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43: “L'anno 6406 i Berberi assaltarono il giund, e consegnarono agli Affricani Abu-Hosein e i suoi figliuoli.” Gli Affricani dunque non erano nè i Berberi nè gli Arabi d'Affrica venuti in Sicilia al conquisto, e scritti nei giund, ma le soldatesche mandate da Ibrahim-ibn-Ahmed.
754. Baiân, tomo I, p. 116, anni 278 e 279.
755. Questo fatto è riferito dal solo Nowairi, nella Conquête d'Afrique, ec., pubblicata da M. De Slane, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 428. Quivi, dopo il supplizio dello hâgib Ibn-Semsâma, si legge: “L'officier qui le remplaça, et qui se nommait El-Hacen-ibn-Naked, avait exercé d'autres charges, dont l'une était le gouvernement de l'île de Sicile.” Ma il testo arabico veramente dice: “E pose in sua vece Hasan-ibn-Nâkid, e unì in persona di costui parecchi oficii, tra i quali lo emirato di Sicilia.” La frase che rendo “unì in persona di costui” non lascia luogo a dubbio; poichè si compone del verbo dhâf alla quarta forma, costruito con la preposizione ila; onde significa “aggregare, congiungere.” Al par di me lo aveva interpretato M. Des Vergers, dando questo squarcio in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 130. M. De Slane, ch'è padrone della lingua arabica e che spesso è necessitato a correggere le espressioni inesatte di quegli scrittori, si è ingannato nel presente caso da uomo erudito; sapendo che non si poteano esercitare a un tempo un oficio in Affrica e il governo di Sicilia. Ma in questo appunto consistea lo abuso di autorità narrato dal Nowairi, o piuttosto da alcun antico cronista ch'ei copiava. Egli è evidente che Ibrahim-ibn-Ahmed voleva accentrare l'autorità in persona del suo primo ministro; al quale dava la missione di domare la rivoluzione scoppiata in Affrica, e sempre desta in Sicilia.
756. Chronic. Cantabrigiense, l. c. Leggiamo qui la data del 6404 (1º settembre 895 a 31 agosto 896), e nel Baiân, tomo I, p. 123, del 282 (1º marzo 885 a 17 febbraio 896). Così il fatto è limitato ai sei mesi che corsero dal 1º settembre al 17 febbraio.
757. Johannes Diaconus, Translatio Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 269.
758. Baiân, tomo I, p. 125, anno 282.
759. Severino Bini, in un'annotazione alla vita di Giovanni VIII, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 2, riprende con tal motto il papa del favore dato a Carlo il Calvo; e con teologica baldanza afferma che Iddio nel punì, facendogli pagar tributo ai Saraceni. Come se il tributo si fosse pagato col sangue del papa, non col danaro dei popoli!
760. Annales Ecclesiastici, anno 879.
761. Confrontinsi: Erchemperti Historia, cap. XXXV e XXXVIII; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXI del Pratilli; Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 20; Andreæ Presbyteri Bergomatensis Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 237; Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 403.
762. Confrontinsi Erchemperti Historia, cap. XXXVIII, XXXIX; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXI del Pratilli, la qual cronica in questo e nei tempi vicini è copia di Erchemperto; Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 403, che poco ne differisce; Lupi Protospatharii Chronicon, anno 875; Chronicon Sanctæ Sophiæ Beneventi, anno 875.
763. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVIII. Altrove ho notato che, alla fine dei fatti d'Occidente, in questo tempo, lo autore confessa la incertezza della cronologia, e, avrebbe dovuto aggiungere, anche dei particolari. Ei narra quel generoso sacrifizio dell'ambasciatore in modo da non sapersi se si debba riferire a un assedio di Capua o di Benevento; ma piuttosto parmi si tratti di altro castello, il cui nome sfuggì al compilatore.
764. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXV.
765. Confrontinsi: Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXVI; Lupi Protospatharii, Chronicon, anno 880; Chronicon Barense, anno 880. Secondo questa cronica, che Lupo ha copiato, i Musulmani “uscirono di Taranto,” nè si parla di prigioni.
766. Theophanes continuatus, l. c.
767. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXXI.
768. Confrontinsi: Theophanes continuatus, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 161 verso; e MS. di Bibars, fog. 85 verso, anno 272; e Baiân, tomo I, p. 113. La cronologia dei Musulmani risponde esattamente al tempo assegnato da' Bizantini cioè gli ultimi anni della vita di Basilio. I nomi anco si riconoscono agevolmente: Ingifûr presso Ibn-el-Athîr, e M h fûr nel Baiân, per Niceforo; o, secondo la pronunzia greca, Nikifóro (Νικηφόρος); S b z na, per Severina; e, per Amantea, M f nlia, che, correggendovi i punti diacritici, si può leggere benissimo Mantîia. Debbo avvertire che questo capitoletto di Ibn-el-Athîr, cavato dal MS. A, è stato pubblicato da M. Des Vergers, in nota ad Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 136.
769. Theophanes continuatus, l. c.
770. Cedrenus, vol. II, p. 354. Si allude alla moderazione civile di Niceforo nella Tattica dell'imperatore Leone, testo greco e versione latina, § 38, p. 742, e versione francese del Maizeroi, parte II, p. 16.
771. Leonis Imperatoris Tactica, l. c.
772. Ibn-el-Athîr lo chiama così due volte che parla di lui nei capitoli degli avvenimenti diversi, del 268 e del 270. MS. A, tomo II, fog. 123 verso, e 128 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 259 recto.
773. Theophanes continuatus, lib. V, cap. XI e LXXV.
774. Erchemperti Historia, cap. LXXXI.
775. Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 203. Questo capitolo è di quelli che gli editori alemanni hanno aggiunto al testo pubblicato dal Pellegrino e dal Pratilli; aggiunte cavate da un MS. Vaticano.
776. Veggasi Lib. I, cap. VIII, p. 187, seg.
777. Giovanni VIII scrivea a Landolfo vescovo di Capua, com'e' pare in settembre 876, essere stata a lui commessa particolarmente quella terra dallo imperatore; presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 8, epistola IX. Eutropio, prete lombardo vivuto un secolo appresso, pretese aggiungere alla dominazione di Capua la sovranità temporale di Roma, il Sannio, le Calabrie, il Ducato di Benevento, e Arezzo e Chiusi in Toscana. Veggasi Saint-Marc, Abrégé chronologique de l'Histoire d'Italie, a. 875.
778. Erchemperti Historia, cap. XLVII.
779. Erchemperti Historia, cap. XLVII.
780. Ciò si potrebbe inferire dalle parole di Erchemperto, cap. XXXIX, “che Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi, sendo in pace coi Saraceni, gravemente affliggevano Roma con le scorrerie marittime; onde Carlo il Calvo, presa la corona dello impero, diè in aiuto al papa Lamberto e Guido di Spoleto, co' quali il papa andò a Capua e a Napoli.” Ma Erchemperto suol confondere sempre l'ordine dei tempi; e qui par che lo confonda, ritraendosi che Carlo fu coronato imperatore a Roma il 25 dicembre 875, e sapendosi dalle epistole di Giovanni VIII, citate nel séguito del presente capitolo, che i Musulmani infestavano la Campagna di Roma nella state dell'876, e che il papa andò a Capua e Napoli in novembre del medesimo anno. Perciò è probabile che le incursioni verso Ostia fossero incominciate lo stesso anno 876, anzichè il precedente.
781. Veggansi le epistole di Giovanni VIII, dal nº I al XXXV, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 1, seg., e presso il Duchesne, Historiæ Francorum Scriptores, tomo III, appendice, n i I a XIV. Si riscontri Erchemperto, l. c.
782. Secondo il passo d'Erchemperto, già citato a p. 444, nota 3, parrebbe venuto il papa a Napoli e Capua in primavera dell'876 al più tardi. Il Muratori, Annali d'Italia, ha assegnato a quel viaggio la data di gennaio 877, argomentandola dalle parole di Giovanni VIII, il quale a dì primo febbraio si dolea con Aione vescovo di Benevento che: nostro itineri Neapolim nobis..... nuper advenientibus non adhæseris. Ma il nuper non si dee pigliare in senso così stretto; poichè si sa da Erchemperto che Salerno si spiccò dai Musulmani dopo la venuta del papa a Napoli; e da una epistola di Giovanni VIII al principe di Salerno, data il 17 novembre 876, si vede esser lui già d'accordo col papa. Perciò parmi di fissare il viaggio alla prima metà di novembre. Ma è da avvertire che cotesti diplomi non danno la certezza che ce ne dovremmo aspettare, poichè non sono in buon ordine cronologico; ad alcuni manca la data del giorno e mese; a tutti quella del luogo; e d'altronde la abituale simulazione di Giovanni VIII guasta sempre l'ordine e la proporzione dei fatti.
783. Erchemperti Historia, cap. XXXIX. La pratica della consagrazione di Atanasio vescovo si ritrae dalle epistole di Giovanni VIII, presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, n i V e XLI, p. 5 e 35.
784. Epistole LV, LVI, e LVII di Giovanni VIII, e Atti del Sinodo di Ravenna, presso il Labbe, vol. c., p. 45 a 47, e 299 a 304. Il sinodo si tenne in agosto 877, e vi fu presente il papa, come si ricava da un diploma soscritto da lui il sexto kalendas decembris, che il Labbe giustamente corregge septembris.
785. Epistole XXXVI, XXXVIII, XXXIX, XL, LIX, LXIX, presso il Labbe, vol. c., p. 32, seg.
786. Ibidem, epistole LXIX, LXXIV.
787. Epistole LXVI, LXVII, presso il Labbe, 1. c. Confrontinsi: Erchemperti Historia, l. c.; e Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXI della edizione del Pratilli.
788. Le lagnanze contro Lamberto si veggano nelle epistole di Giovanni VIII, n i XX, a XXVII, presso Duchesne, Historiæ Francorum Scriptores, tomo III, p. 880, seg.
789. Epistola di Giovanni VIII, nº LXXXIX, presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 74.
790. Erano tutti figliuoli dei fratelli del vescovo, per nome: Pandone, Landone I e Landonolfo.
Pandonolfo, figliuol di Pandone, ebbe il titolo di conte e i feudi di Teano e Caserta;
Landone, figliuolo di Landone I, ebbe Sessa e Berolais, ossia Capua vecchia;
Landone, figliuolo di Landonolfo, ebbe Calinio e Caiazzo;
Atenolfo, figliuolo di Landonolfo, ebbe il feudo di Calvo.
Veggasi Erchemperto, cap. XL, e la genealogia dei conti di Capua per Camillo Pellegrino.
791. Ciò è attestato da Erchemperto, cap. XLVII; e Leone d'Ostia, lib. I, cap. XLIII, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 316.
792. Si scorge dalla epistola di Giovanni VIII, data il 5 aprile, 12ª indizione, presso Labbe, op. c., tomo IX, nº CLXVIII, p. 109.
793. Ibidem, n i CLXXII, CLXXVIII, CLXXIX, CLXXXVI, CXCVII, CCXVI.
794. Ibidem, n i CCIX, CCXXV, CCXXVII.
795. Ibidem, nº CCXLII.
796. Leo Ostiensis, lib. I, cap. XLIII, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 316.
797. Epistole CLIX a CLXI di Giovanni VIII, presso il Labbe, vol. c., p. 105 e 106.
798. Ibidem, epistola CCXLI, p. 171.
799. Ibidem, epistola CCXL, p. 171.
800. Baronius, Annales Ecclesiastici, anni 879, 880.
801. I confini di Spoleto arrivavano sino a Sora e al Lago di Celano.
802. Erchemperti Historia, cap. XLIV, copiato dall'Anonimo Salernitano, cap. CXXXVI della edizione del Pratilli. Erchemperto non porta data, ma scrive questo fatto dopo un assedio di Capua che si dee riferire all'880.
803. Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXVI, ediz. del Pratilli.
804. Erchemperti Historia, cap. LXXIX; e Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXLVII della edizione del Pratilli. La data si scorge dall'ordine in che questo fatto sta con altri più noti.
805. Erchemperti Historia, cap. XLIV. L'autore non potea dimenticare questa data, perchè ei medesimo fu fatto prigione al castel Pilano, preso dai Napoletani dopo l'assedio dell'anfiteatro di Capua, il 23 agosto 881.
806. Erchemperti Historia, cap. XLVII.
807. Giovanni VIII, epistole CCLXV e CCLXX, presso il Labbe, vol. c., p. 191, 195; e la seconda anche appo il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 881, § 2.
808. Erchemperti Historia, cap. XLIX, copiato dall'Anonimo Salernitano, cap. CXL, stampato per errore CL, nella edizione del Pratilli. Ritraggo la tradizione popolare dal Caraccioli, il quale ricorda qui il proverbio che si serbava ai suoi tempi: “Quattro sono i luoghi della Saracina: Portici, Cremano, la Torre, e Resina.”
809. Erchemperto, l. c.
810. Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 882, § 2.
811. Giovanni VIII, epistola CCXCIV, presso il Labbe, vol. c., p. 210; e presso il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 881, § 6.
812. Erchemperti, Historia, cap. XLIX.
813. Baronio, l. c.: aliquantos utiles et optimos Mauriscos cum armis, quos Hispani cavallos alpharaces vocant.
814. Pietro Suddiacono, continuatore di Giovanni Diacono di Napoli, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 316.
815. Leonis Ostiensis, lib. I, cap. XLIII, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 316, 317. Non si sa ond'egli abbia tolto questo racconto, d'altronde verosimile e non sospetto. Non lo cavò certo da Erchemperto, nè dalla Cronica di San Michele in Volturno, citati per errore dal Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. X, § 88. Leone dice espressamente che i Musulmani venissero di Agropoli; il che porterebbe la fermata loro a Itri verso l'autunno dell'882, e quella al Garigliano un poco appresso, forse nell'883, dopo la morte di Giovanni VIII.
816. Erchemperti Historia, cap, LI.
817. Erchemperto, cap. XLIV, e l'Anonimo Salernitano accennano appena l'arsione del monastero; al solito loro, senza data. La Cronica del monastero, pubblicata dal Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 404, seg., racconta, com'è naturale, molti particolari; ma l'autore visse tra la fine del decimo e il principio dell'undecimo secolo; la sua narrazione pare esagerata, almeno nel numero dei frati uccisi, ch'ei porta a 500 o 900; e vi troviamo in due luoghi diversi due diverse date del fatto; cioè a p. 332 l'anno undecimo di Basilio Macedone (878), e a p. 400, l'anno 882, indizione 15ª. Si vede dunque che le memorie ch'ebbe alle mani il compilatore, com'ei medesimo confessa, non si accordavano punto. Io mi sono appigliato alla data dell'882, sapendosi che passò poco tempo tra la distruzione di questo monastero e quella di Monte Cassino.
818. Tra le varie date che si assegnano alla distruzione di Monte Cassino, mi sono appigliato a quella dell'883, che risponde alla 2ª indizione, notata da Leone d'Ostia; e che d'altronde si legge nell'Anonimo Salernitano, il quale ebbe alle mani al certo buoni esemplari di Erchemperto. La riedificazione ricominciò l'886, secondo Erchemperto, e l'884, secondo l'Anonimo. Si confrontino: Erchemperti Historia, cap. XLIV e LXI; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXVI, e CXLIV della edizione di Pratilli; Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 405; Leonis Ostiensis Historia, lib. I, cap. XLIV, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 317. Merita d'esser letta a questo proposito un'opera moderna, la Storia della Badia di Monte Cassino, di Don Luigi Tosti, dotto monaco, il quale aggiunge alcuni particolari cavati da una vita manoscritta di Bertario, e li abbellisce con zelo lodevole in lui, e con pulito e dignitoso stile; tomo I, p. 65, seg.
819. Erchemperto, cap. LI.
820. Erchemperto, cap. LIV.
821. Erchemperto, cap. LVI, LVII; Anonimo Salernitano, cap. CXLII, edizione di Pratilli.
822. Veggasi per costui la nota 1, p. 452
823. Erchemperto, cap. LV; Anonimo Salernitano, cap. CXLII, edizione di Pratilli.
824. Erchemperto, cap. LVIII; Anonimo Salernitano, cap. CXLIII, edizione di Pratilli.
825. Veggasi per costui la nota 1, p. 452.
826. Erchemperto, cap. LXXIX.
827. Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 407.
828. Erchemperto, cap. LXVI; Anonimo Salernitano, cap. CXLV, ediz. di Pratilli.
829. Anonimo Salernitano, cap. CXLV, edizione di Pratilli.
830. Erchemperto, cap. LXXIII.
831. Erchemperto, cap. LXXV, LXXVII; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli, cap. CXLVII.
832. Erchemperto, cap. LXXVI; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli, cap. CXLVII.
833. Questo fatto si legge nello Anonimo Salernitano, cap. CLVI, ediz. di Pratilli.
834. Così penso, perchè al tempo di Edrisi (1154) il Val Demone arrivava a Caronia; il qual confine va attribuito a cagione politica più tosto che a necessità di geografia fisica. Nel XIV secolo il Val Demone fu esteso verso ponente; assegnatogli un confine naturale, cioè l'Imera settentrionale, detto altrimenti Fiume Grande.
835. Veggansi questi ricordi qui appresso p. 468, nota 4.
836. Le autorità citate dal Di Gregorio, Considerazioni su la Storia di Sicilia, lib. II, cap. II, note 24, 25, 26, fanno menzione del Val di Milazzo, Val di Mazara, Val di Noto e Val di Agrigento, oltre il Val Demone. Il Di Gregorio, che non vide chiaro negli ordini anteriori ai Normanni, supponea che la divisione in tante valli “ch'era forse solamente geografica” fosse stata adottata da re Ruggiero come divisione politica. Pochi righi appresso si contraddice, affermando che re Ruggiero istituiva i tre giustizierati di Val Demone, Val di Noto, e Val di Mazara; il che mostrerebbe che le province di Milazzo e Agrigento non fossero entrate nella divisione politica. A me la spiegazione più semplice pare, che la voce vallis debba intendersi nei detti diplomi col significato indistinto di territorio, da potersi adattare a città o distretto o provincia; come appunto la voce arabica iklîm, che probabilmente si leggea nei registri dell'azienda pubblica, e fu tradotta bene o male vallis. Può anche darsi che la divisione in tre province fosse stata adoperata dagli Arabi in alcuni rami di amministrazione, e in altri rami un'altra. Per esempio, nulla toglie che gli iklîm di Milazzo e Agrigento fossero stati due circoscrizioni di beneficii militari, assegnate ciascuna ad un giund.
837. È bene qui ricordare che nella prima metà del XIII secolo, Federigo imperatore tornò alla divisione romana in due province; la quale durò almeno fino alla rivoluzione del Vespro. Poi veggiamo ricomparire i giustizieri delle valli di Milazzo, Castrogiovanni e Demona. (Diploma del 1302, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 410.) Nei principii del XV secolo la Sicilia fu divisa in quattro valli: Demona, Noto, Castrogiovanni, e Girgenti. (Censo feudale del 1408, presso Di Gregorio, Bibliot. Aragon., tomo II, p. 490.) In fine si tornò alle tre valli.
838. La mutazione del nome di Lilibeo in Porto di Ali, fa supporre che quella città fosse stata distrutta al tempo del conquisto musulmano, o forse prima. Le città non abbandonate, assai di rado presero novelli nomi.
839. Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVIII, p. 297. Καὶ τὸ ὰπὸ τούτου διέμειναν πιστοὶ βασιλεῖ τοιοὺτων έξηγούμενοι κάστρων. Questa voce si trova anche nel Nuovo Testamento, Luca, XXII, 28.
840. Il participio presente del verbo διαμένω ( permaneo, perduro ) al genitivo plurale farebbe τῶν διαμενόντων, che l'uso volgare forse contrasse in Ton Demenon.
841. L'arabico welâia significa territorio, giurisdizione o uficio di wâli; e wâli si dice di varii magistrati preposti a province, ovvero a rami speciali di amministrazione pubblica.
842. Ecco in serie cronologica gli scritti ove occorre Demona con le sue varianti, prima come nome di città, poi di provincia:
I. Anno 902. Assedio e presa di Dimnsac (con la terminazione nel suono che daremmo alla s e alla c unite dinanzi una i, ossia quello della ch in francese e sh in inglese). Veggasi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 92 e 167 verso; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars, il solo ove si legga correttamente. Ibn-el-Athîr, ancorchè vissuto nel XIII secolo, trascriveva in questo passo ricordi derivati dal IX.
II. Anno 963. Nome di Dimnasc dato a una gola di monti presso Rametta. Veggasi Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 16, correggendo la lezione secondo uno dei MSS. di Parigi. Valga, per l'antichità del ricordo, la stessa avvertenza che feci di sopra per Ibn-el-Athîr.
III. Verso la fine del decimo secolo, la Biografia di San Luca, abate del monastero di Armento in Calabria, dice costui siciliano di Demena. Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 96.
IV. Malaterra, libro II, cap. XII, scrivendo, alla fine dell'undecimo secolo, del secondo sbarco del conte Ruggiero in Sicilia (1060) dice: Hic Christiani in valle Deminæ manentes, sub Saracenis tributarii erant. Presso Caruso, Bibliotheca Historica, tomo I, p. 181, e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 539, seg.
V. Anno 1082. Diploma, del conte Ruggiero, che concede al vescovo di Troina..... in valle Deminæ castrum quod vocatur Achareth. Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 495.
VI. Anno 1084. Altro diploma del conte Ruggiero a favor del monastero di Sant'Angelo, de Lisico Tondemenon. Presso Pirro, op. c., p. 1021.
VII. Anno 1093. Diploma per lo stesso monastero chiamato qui Sancti Angeli de Lisico de valle Dæmanæ. Presso Pirro, l. c.
VIII. Anno 1096. Diploma, nel quale descrivendo i confini della diocesi di Messina, si dice: ..... usque ad Tauromenium, et respondet ad Messanam, et vadit usque ad Melacium, et respondet ad Demannam, et inde vadit per maritimam usque ad Flumen Tortum, et ascendit per flumen ec. Nello stesso diploma si ricorda la donazione del castellum Alcariæ apud Demennam. Presso Pirro, op. c., p. 383. È evidente che Demenna in entrambi i luoghi citati sia nome di provincia, poichè da Milazzo in poi non si notano più i nomi di città che sarebbero Patti, Caronía e Cefalù, ma sì il confine della provincia, il quale si sa che terminavasi a Caronía.
IX. Diploma del 1097, per lo quale il conte Ruggiero concedette certi beni al monastero di San Filippo di Demena. Questo diploma è trascritto in uno di Adelasia e del conte Ruggiero Secondo, poi re, dato l'anno 6618 (1110), che il Pirro pubblicò in latino, a p. 1027, con la data erronea del 6628. Niccolò Buscemi ha corretto quella data, stampando il testo greco con una versione italiana, nel Giornale Ecclesiastico per la Sicilia, tomo I (1832), p. 113, seg. Ma il Buscemi stampò male la voce Δε-Μεννα; poichè il tratto d'unione, come lo chiamano gli oltramontani, è segno ortografico ignoto ai Greci, e non si trova punto nell'originale, posseduto dal principe di Trabia; diploma di belli e nitidi caratteri, del quale ho depositato un fac-simile nella Biblioteca imperiale di Parigi.
X. Anno 1124. Diploma del medesimo Ruggiero Secondo, a favore di detto monastero chiamato Abbatia in valle Dæmanis. Presso Pirro, op. c., p. 1027.
XI. Anno 1131. Diploma del vescovo di Messina, che assoggetta allo archimandrita di quella città parecchi monasteri greci della diocesi; tra gli altri quello di Sanctum Barbarum in Demeno. Presso Pirro, op. c., p. 974.
XII. Anno 1134. Diploma di Ruggiero Secondo, su lo stesso argomento. Vi si noverano i monasteri assoggettati all'archimandrita, e tra quelli Sanctum Barbarum de Demenna, e alcuni altri independenti, tra i quali Sanctum Philippum de Demenna. Pirro, op. c., p. 975.
XIII. Edrisi, che pubblicò la sua famosa opera geografica il 1154, descrivendo la costiera di Sicilia a dritta di Palermo, pervenuto a Caronía, nota che quindi cominciasse la provincia ( iklîm ) di Dimnasc, come leggiamo nel migliore dei MSS. Edrisi, nella minuta descrizione che fa della Sicilia, non parla di città o castello nominato Dimnasc.
Confrontando le quali testimonianze, e avvisandomi che nei diplomi notati dal nº VI al XII si tratti anco della provincia, io credo provata la esistenza di Demana castello infino al decimo secolo, di Demana provincia dall'undecimo in poi; ma parmi assai dubbio che il castello durasse fino all'undecimo secolo, e certo che a metà del duodecimo fosse abbandonato o avesse mutato nome. Quanto al sito del castello non abbiamo argomenti da determinarlo: se non che il nome topografico, che si legge nella descrizione della battaglia di Rametta (963), dà indizio che Dimnasc si trovasse a ponente di quella città. Forse a quattro o cinque miglia, là dove è oggi Monforte: nome di castello registrato da Edrisi, e nato probabilmente dopo il conquisto normanno; nome anco di feudo nei tempi normanni, come leggiamo nel Dizionario Topografico del D'Amico.
843. Hedaya, tomo I, lib. V, cap. I, p. 435; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo VI, p. 3; Kodûri, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § X, p. 3 del testo.
844. In sostanza era l'uno e l'altro, cioè assicurazione delle persone e delle proprietà. Le cronache soglion dare al tributo la prima di queste appellazioni; Mawerdi lo denota con la seconda, nel trattato di dritto pubblico intitolato Ahkâm-Sultanîia, lib. IV, p. 83; Kodûri, op. cit., § XLVI, p. 12, lo chiama gezîa.
845. Ibn-Khaldûn, sezione II, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo II, fog. 181 recto. Il tributo annuale di Cipro, secondo Ibn-Khaldûn, sommò a 7000 dinar, quanti l'isola ne solea pagare all'impero bizantino. Le altre condizioni rispondono in parte a quelle imposte agli dsimmi.
846. Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII e XIV, p. 238 e 255, seg.; Hedaya, tomo II, lib. IX, cap. VIII, p. 211; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 95. Secondo Mawerdi, il dritto di proprietà lasciavasi talvolta intero, talvolta si riduceva a mero dominio utile.
847. Hedaya, lib. XLIX, cap. II, e lib. L, nel tomo IV, p. 280 e 332. Nondimeno questo è dei capi lasciati incerti dal Corano e dalla Tradizione, ovvero oscurati dalla logica dei giuristi. Così Mâlek e Sciafe'i combatteano la uguaglianza di pena nei reati contro gli dsimmi, al dire di Beidhawi, Comento del Corano, testo arabo, tomo I, p. 99, sul versetto 175 della sura II. Dovea parere scandaloso, in vero, che l'uccisore d'una donna musulmana pagasse metà dell'ammenda, stabilita in prezzo del sangue di un uomo musulmano, o dsimmi.
848. Hedaya, lib. LII, cap. I, tomo IV, p. 473.
849. Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 250, chiama coteste condizioni mostahekk, cioè “necessarie,” e nota non esser uopo di stipolarsi espressamente. Le altre che seguono son dette da lui mostahebb, ossia “volontarie,” e dipendono da patti espressi.
850. In peso di metallo tornerebbe a lire 28, 80.
851. Tratterò largamente questa materia e il diritto di proprietà territoriale nel cap. I del Libro III, abbozzando gli ordini della colonia musulmana di Sicilia.
852. Tra le condizioni che si dicono stipolate coi figliuoli di Witiza, in premio d'avere tradito Rodrigo alla giornata del Guadalete, si legge che andassero esenti dall'obbligo di alzarsi alla entrata o uscita dei Musulmani. Ibn-abi-Fiadh, citato da Ibn-Scebbât, MS. di M. Rousseau, p. 98.
853. Il dritto si stabilì in cotesti termini, non ostante che Omar avesse stipolato, com'egli è indubitabile, il divieto della restaurazione.
854. Su questo diritto veggasi l' Hedaya, lib. LII, cap. VI, tomo IV, p. 534, seg.; e D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 120, seg. È inutile aggiungere che in oggi tutte le Chiese cristiane in Oriente posseggono beni.
855. Ho compilato questa esposizione su le autorità seguenti: Accordo di Omar coi Cristiani di Siria, secondo Ibn-Khaldûn, sezione IV, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo IV, fog. 181 recto, seg.; Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 250, seg.; Kodûri e Sîdi-Ali-Hamdâni, testi arabi pubblicati dal Rosenmuller, Analecta Arabica, p. 13, seg., il primo, e 20, seg., il secondo; Statuti promulgati in Egitto l'anno 700 (1300), secondo Ibn-Khaldûn, l. c.; Fetwa (ossia avviso legale), di Ibn-Nakkâsc (scritto Naqquâch), dottore, morto al Cairo il 1362. Una versione francese di questo fetwa è stata pubblicata da M. Belin nel Journal Asiatique, série IV, tomo XVIII, p. 417, seg., (1851), e tomo XIX, p. 97, seg., (1852); Hedaya, lib. IX, cap. VIII, tomo II, p. 211, seg.; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 104, seg. Ho tolto via le condizioni di poco momento, e quelle che mi sembravano dipendenti da circostanze locali.
Correndo tante copie diverse dello accordo di Omar, ch'è tipo di tutti gli altri, parmi bene fare un sunto esatto del testo che ne dà Ibn-Khaldûn nel luogo citato, il quale mi sembra più compiuto di quanti se ne leggono qua e là, non escluso il testo di Kodûri. Lo credo altresì degno di attenzione per la bizzarra forma diplomatica, e perchè vi si trova il nome dei Cristiani di Egitto oltre quei di Gerusalemme e la assimilazione degli ortodossi agli scismatici.
“Questo è uno scritto indirizzato al Servo di Dio Omar dai Cristiani di Siria e d'Egitto. Quando veniste a noi, vi chiedemmo l'amân per le nostre persone, figliuoli, beni e gente di nostra religione; onde stipulammo di non fabbricare nelle nostre città o nei dintorni alcun novello monastero, nè chiesa, nè romitaggio, nè riparare quelli che andassero in rovina nelle strade abitate da Musulmani. Stipulammo di più di lasciar entrare in quegli edifizii i capi e i viandanti, e dar ospizio e vitto per tre dì ad ogni Musulmano che ce ne richiedesse. Inoltre abbiamo pattuito di astenerci dalle cose seguenti:
“Dare ricetto nelle chiese e case a spie che venissero ad esplorare le faccende dei Musulmani;
“Leggere il Corano ai nostri figliuoli;
“Promuovere la nostra religione facendo proseliti;
“Attraversare i nostri parenti che volessero farsi Musulmani.
“Di più, permetteremo ai Musulmani di sedersi nelle nostre brigate; e alla entrata loro ci leveremo in piè
“Non imiteremo lor fogge di vestimento, berretti e turbanti.
“Non piglieremo lor nomi nè soprannomi.
“Non monteremo a cavallo con sella.
“Non cingeremo spada nè altre armi.
“Non terremo suggelli con leggende arabiche.
“Raderemo i capelli su la fronte.
“Riterremo le nostre attuali fogge di vestire, ove il potremo.
“Cingeremo ai fianchi il zunnar (cintura di cuoio).
“Non mostreremo le croci.
“Non apriremo fogne nelle strade o mercati dei Musulmani.
“Non suoneremo le tabelle in alcuna città abitata da Musulmani.
“Non usciremo coi nostri doppieri, nè i nostri taghût (idoli).
“Non faremo piagnistei pei morti.
“Non li porremo presso i Musulmani.
“Non accenderemo fuochi nelle strade o mercati di Musulmani.
“Non prenderemo appo di noi gli schiavi appartenenti a Musulmani.
“Non cercheremo di guardare entro le case dei Musulmani.
“Non inalzeremo le nostre (più delle loro).”
Omar, lette tali proposizioni, aggiunse: che non battessero alcun Musulmano; che stipulassero per sè e loro correligionarii (solidariamente); e che, accettato l'amân a cotesti patti, chiunque li trasgredisse, non fosse più tenuto come dsimmi, rimanendo fuor della legge. Di più, estese l'amân ai dissidenti (cristiani), e scrissevi: “Omar accorda quanto chieggono.”
856. Veggansi l'amân di Omar in fine della nota precedente, e il passo di Mawerdi qui appresso, p. 481, nota 1.
857. Veggasi Depping, Histoire du Commerce, etc., tomo II, cap. VII.
858. Hedaya, lib. LI, tomo IV, p. 459.
859. D'Ohsson, Tableau général etc., tomo V; Hamilton, Prefazione all' Hedaya, tomo I, p. XXXIV.
860. “E quand'essi facciano scisma in religione, o contendano su loro ortodossia, non siano molestati nè costretti a palesare qual credenza tenessero. Nelle cause loro, se adiscano loro hâkim (magistrato in generale) non ne siano impediti; ma se richieggano il nostro hâkim, questi giudichi secondo ragion musulmana, e gli accusati subiscano le pene che fossero per meritare. Chi poi abbia violato il patto (di vassallaggio), ne soffra le conseguenze, e sia tenuto come nemico.” Così Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 252.
861. La giurisdizione dei consoli europei in Oriente è fondata su lo stesso principio del compromesso. L'hanno convalidato ed esteso i trattati; nel medio evo, per interesse commerciale; poscia, per necessità politica dei principi musulmani.
862. La voce 'abd, che si adopera in senso mistico, come sarebbe Abd-Allah (servo di Dio), e che nel Corano designa anche gli schiavi, fu poi ristretta dall'uso ai Negri. I Bianchi, oltre le due denominazioni che ho dato, si chiamavano talvolta gholâm, che propriamente significa “garzone.”
863. Libro I, cap. III, p. 63.
864. Corano, sura IV, verso 40.
865. Corano, sura XXIV, verso 33.
866. Hedaya, libro XLIX, cap. I, tomo IV, p. 277.
867. Hedaya, lib. IV, cap. VII, e lib. VI, cap. III, tomo I, p. 332 e 500.
868. Hedaya, lib. V, cap. VII, tomo I, p. 478, seg.
869. Mishcat-ul-Masabih, lib. XIV, cap. I, tomo II, p. 163.
870. Veggansi l'Hedaya, lib. XLIX, cap. II, tomo IV, p. 279 e 283; e Beidhawi, Comento del Corano, testo arabico, tomo I, p. 99, sul verso 173 della sura II, ove si legge che Maometto una volta fe' vergheggiare e bandì per un anno un Musulmano uccisore del proprio schiavo. La ragione non spiegata dai giuristi musulmani, mi sembra pur evidente. La legge non ammetteva azione pubblica per l'omicidio; e l'azione privata, nel caso d'uno schiavo ucciso dal padrone, apparteneva allo stesso omicida.
871. Hedaya, lib. XLIV, tomo IV, p. 126; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, lib. III, tomo IV, p. 276.
872. Veggasi D'Ohsson, op. c., lib. VI, tomo VI, p. 58; e su i varii modi e gradi dell'emancipazione tutto il libro V dell' Hedaya, tomo I, p. 419, seg.
873. Nella guerra civile del 938, si vede avvolto un gran numero di città o castella del Val di Mazara. Indi è probabile che in ciascuna stanziassero colonie musulmane, almen da una o due generazioni.
874. Dall'867 in poi non si leggono scorrerie dei Musulmani in Val di Noto, fuorchè nel territorio di Siracusa; e ciò porta a supporre la condizione di vassallaggio, parendo difficile che città tributarie non avessero tentato di spezzare il freno. Nelle guerre civili della prima metà del decimo secolo non è nominata alcuna città del Val di Noto; ma nella guerra civile del 969 si parla della regione di Siracusa.
875. S'ignora la data, che in vero non potè essere precisa. L'Assemani, Italicæ Historiæ Scriptores, tomo III, p. 475, la riferisce al 737.
876. Non ricorderò le opinioni messe fuori dal Pirro, Disquisitio de Patriarca Siciliæ, nella Sicilia Sacra, p. LXXV, seg., e da parecchi altri eruditi palermitani, messinesi e di varie città, che rabbiosamente e puerilmente si azzuffavano a proposito dei sognati metropolitani dell'isola avanti l'VIII secolo. Veggasi bene il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione II, p. 413, seg. L'autore fu indegnamente perseguitato, perchè dimostrò un fatto storico: ma oggi nella Chiesa Siciliana non vi ha chi dissenta da lui.
Il catalogo delle Chiese siciliane e il grado dei metropolitani si ritraggono dall'editto degli imperatori bizantini, noto agli eruditi sotto il titolo di Dispositio, e attribuito a Leone il Sapiente, ma di certo pubblicato con vario tenore in varii tempi, dall'VIII al XIII secolo. Io ho messo insieme i nomi che si trovano in due esemplari, probabilmente l'uno del principio, e l'altro della fine del IX secolo, dei quali uno si legge presso il Di Giovanni, op. c., diploma CCXCII, p. 341, e presso l'Assemani, op. c., tomo III, p. 490, e il secondo nello stesso volume dell'Assemani, p. 493. L'ordine delle città, con poche eccezioni, è nel primo diploma quello che incontrerebbe chi girasse la costiera di Sicilia uscendo da Siracusa per a mezzogiorno; e nel secondo diploma, al contrario, di chi movesse per a settentrione. Nel primo, inoltre, manca Lentini, e Triocala è detta Cronio; nel secondo non si leggono nè Lipari, nè Trapani, e Catania va tra i suffraganei di Siracusa. Le varianti di altri esemplari, tratte da moltissimi codici della Vaticana, si leggono presso l'Assemani, op. c. p. 475 a 531.
Sono apocrife le notizie dei metropolitani di Messina e di Palermo nell'ottavo e nono secolo, com'è provato dall'Assemani, l. c., p. 497 seg., e dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 399.
Il titolo di arcivescovo di Taormina, dato in alcuni MSS. di omelie a Teofane Cerameo, come si dirà in questo medesimo capitolo, non basta a dimostrare che quella sede fosse stata metropolitana.
877. Il Buscemi, nel lavoro di cui or ora si dirà, novera 34 MSS. in alcune Biblioteche d'Europa. Non mi par ch'egli abbia notato tutti quelli della Biblioteca imperiale di Parigi, che sono i seguenti: Ancien Fonds 572, 760, 772, 1021, 1183, 1184, 1185, 1185 A, 1206, 1207; Supplément grec, n i 34 e 371 del catalogo MS. di M. Hase, e nº 277 della Bibliotheca Coisliniana. Nessuno di questi MSS. è più antico del XIII secolo. Molti non contengono che una sola omelia. Aggiungansi i codici della Biblioteca di Vienna, notati nel Catalogo di Nessel, parte 1, p. 163, 276, 360, 386, n i 82, 189, 257 e 279.
878. Filosofo, era titolo di oficio ecclesiastico, al par che cantore. Si trova nei diplomi delle Chiese Siciliane del XII e XIII secolo.
879. Sapientissimi et eloquentissimi Theophanis Ceramei, Archiepiscopi Tauromenitani, Homiliæ etc., Lutetiæ Parisiorum 1644, in-folio, greco e latino. Il Baronio, il Gaetani e altri eruditi avean dato alcuna di coteste omelie, e alcun'altra era tradotta, ma non pubblicata, quando lo Scorso, col favore di parecchi MSS., corresse e compiè la versione, e la diè alla luce insieme col testo. Le premesse una gonfia dedica alla città di Taormina; una confusa dissertazione biografica e critica; e sparse molta inutile erudizione nelle note.
880. Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p. 132. La data del 1040, che l'autore assegna a re Ruggiero, è sbagliata d'un secolo.
881. Il Buscemi morì giovane or son pochi anni, dopo avere pubblicato una biografia di Giovanni di Procida e molte dissertazioni, illustrazioni di diplomi, e articoli di giornali, aggirandosi sempre sulla storia di Sicilia del medio evo. Ricercatore infaticabile, esperto a diciferare manoscritti, erudito nelle cose sacre; ma ellenista così così, critico alla grossa, faccendiere, parteggiante, e però di rado imparziale, il Buscemi recò pur molto giovamento agli studii storici in Sicilia, se non altro perchè rimestava i materiali.
Il suo lavoro su Teofane Cerameo, pubblicato nel Giornale Ecclesiastico di Sicilia, Palermo 1832, n'empie le prime 48 pagine. Contiene accurate notizie bibliografiche e un indice alfabetico dei principii delle omelie, ove sono messe insieme le pubblicate dallo Scorso e le manoscritte di Madrid, secondo il catalogo d'Iriarte. Del rimanente, il Buscemi non mostra nè buona critica nè gusto in questa monografia. Son lieto d'intendere che Pietro Matranga, dotto ellenista siciliano e Scrittore della Vaticana, abbia preso a fare ricerche e studii su le Omelie di Teofane Cerameo. Così possiamo sperare su questo argomento un lavoro profondo e compiuto.
882. Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 316 e 410. Il Di Giovanni bene avvisò che il Teofane monaco, al quale si vede indirizzata una epistola di Fozio, non poteva essere l'arcivescovo di Taormina. Ma troppo facilmente ei suppone due arcivescovi di Taormina, Teofane e Gregorio, vissuti l'un prima e l'altro dopo il conquisto musulmano.
883. Quelle notate dallo Scorso coi n i 55, 26 e 6, e le inedite del MS. di Madrid, n i 36 e 67.
884. Fu fondato il 1094.
885. La 6ª della edizione di Scorso. Il titolo di cantore si legge nel MS. di Madrid.
886. La 55ª della edizione di Scorso.
887. Il Buscemi immaginò che Teofane avesse mutato nome quattro o cinque volte, e portato successivamente tutti quelli che si leggono nei MSS. La usanza di prendere altro nome insieme con l'abito di frate, è notissima; ma basta solo a spiegare il primo cangiamento.
888. Secondo me, tutte quelle di cui si legge nel MS. di Madrid “Recitata dal pulpito dell'arcivescovado,” che sono ventisei pubblicate, e tre inedite. E ciò perchè somigliante avvertenza è fatta per alcune delle omelie appartenenti senza dubbio al IX secolo. Non saprei far conghiettura su l'epoca di molte altre. In alcune si legge soltanto la festa in cui furono recitate; in altre, il nome della chiesa e non della città. La inedita del MS. di Madrid, nº 79, fu recitata a Reggio. La 51ª della edizione dello Scorso fa cenno d'un Musulmano che avesse durato una tempesta insieme con l'autore nello stretto di Messina; ma così fatto accompagnamento potea avvenire nel IX, come nel XII secolo.
889. Omelia 11ª nella edizione dello Scorso. Quella del MS. di Madrid, nº 40, ha la postilla: “Recitata dal pulpito dell'arcivescovado al ritorno in Sicilia.”
890. Ἀχειρότευκτον. Forse si tenea venuta dal cielo; reliquia da rivaleggiare con la lettera della Madonna ai Messinesi.
891. Accenna a Sabbatio, il cui nome troviamo presso gli scrittori bizantini. Tenea costui lo stesso romitaggio di un altro furbo che avea presagito lo impero a Leone l'Armeno. Consultato di nuovo l'oracolo da messaggi di Leone già fatto imperatore, Sabbatio gli mandò a dir villania, e che non sperasse nulla di bene, fin tanto che adorasse gli Idoli. Leone allora volle andare travestito a parlargli; e Sabbatio, che n'avea avuto avviso da un cortigiano, gliene sciorinò tante più; si fece credere ispirato, ec. Veggansi Theophanes continuatus, lib. I, cap. XV e XVI; Symeon Magister, De Leone Armeno, cap. III.
892. Omelia 20ª, nella edizione di Scorso. L'oratore qui fa menzione della effigie di Maria dipinta da San Luca con la cera e i colori, che si conservava tuttavia in Costantinopoli; p. 129. Il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 842, diè uno squarcio di questa omelia.
893. Omelia 6ª, p. 26, e omelia 40ª, p. 288. Nella prima, il MS. di Madrid nota essere stata recitata dal pulpito arcivescovile. Quivi la invocazione è per gli imperatori al plurale; e nella seconda, al singolare: sembrano dunque composte, l'una avanti, e l'altra dopo l'854.
894. Omelia 13ª della edizione di Scorso, p. 80. Al tempo di re Ruggiero v'erano tuttavia molte popolazioni musulmane in Sicilia; ma il predicatore li avrebbe chiamato sudditi, non vicini.
895. Πόλιν ταύρου καὶ μενείας.
896. Omelia 57ª della edizione dello Scorso, p. 385: Ὁί τε γὰς τῆς ὰσεβοῖς προέχοντες πόλεως, τουτέστιν ὁί επὶ κακία περιφανέστεροι.
897. Omelia 58ª della edizione di Scorso. Questo linguaggio non si usava certamente dal pulpito sotto il regno di Ruggiero.
898. Ὀύτε τῆν σκάφησιν. Da questa voce greca par derivata la voce “scalzare” che si pronunzia in dialetto siciliano squasari, e si usa particolarmente parlando delle viti. Credo pertanto che l'autore qui alluda alla cultura delle vigne.
899. La decenza del nostro secolo non permette di tradurre litteralmente la frase di “cavalli θηλυμανείς,” che è tolta da Geremia, cap. V, v. 8.
900. Infatti, nella omelia 21ª della edizione di Scorso si trovi una ammonizione a cessare i litigii, e non giurare. Nè di questa nè della omelia 62ª si ritrae dove fossero state recitate.
901. Omelia 62ª della edizione di Scorso.
902. Tale è il giudizio del Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p. 132; del Fabricio, Bibliotheca Græca, tomo X, p. 232; per non dir nulla di quello dello Scorso, che assai men vale. Pure il gesuita palermitano, scrivendo egli stesso sì gonfio, riprendea Teofane di ampollosità.
903. Codice CCXXII della Biblioteca di Torino, e CCXXIX di quella di Vienna, citati dal Buscemi, p. 13, dal quale tolgo questa notizia. Il MS. di Vienna or citato si trova nel catalogo di Daniele de Nessel, parte I, p. 163. Codd. Theolog., nº LXXXII.
904. Così pensa l'Autore della Continuazione di Teofane.
905. Metodio, al dir della Continuazione di Teofane, si difese in pien tribunale la questo modo: Paulum se a throno subrigens, sinumque ad se colligens, verenda nuda ostendit, miraculo arefacta. Raccontò poi il miracolo; cioè, che sendo a Roma, e pregando San Pietro di liberarlo dagli stimoli della concupiscenza, gli apparve l'Apostolo in sogno, ed eam tangendo partem, libidinis sensum omnem extinxit. Sì indecenti erano que' bacchettoni!
906. Si riscontrino Theophanes continuatus, lib. II, cap. VIII; lib. III, cap. XXIV; lib. IV, cap. III, VI, X; Symeon Magyster, De Theophilo, cap. XXII, XXIII, XXIV, e De Michaele et Theodora, cap. I, III, IV; Georgius Monachus, De Michaele et Theodora, cap. I, II, III; Acta Sanctorum, 14 giugno, p. 960 a 973, e le altre autorità citate dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.; e Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LXVIII, § 28; LXIX, § 24; e LXX, § 4, 5, 7, 14.
907. I documenti e scrittori papalini, i soli che abbiamo sul fatto suo, lo chiaman sempre vescovo; non ammettendo la novella dignità metropolitana.
908. Nicetæ Paphlagonii Vita Sancti Ignatii, ec., greca e latina, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p. 1199, lo dice “gravato a Costantinopoli di qualche accusa (ὲπ’ ενκλήμασι δὲ τισιν) e condannato da Roma per infrazione ai canoni.” Ma la epistola di Niccolò I, del 13 novembre 866, nello stesso tomo, p. 326, smentisce la seconda asserzione. Simeone, De Michaele et Theodora, cap. XXXII, lo dice deposto già dal patriarca Metodio, per avere ordinato (forse vescovo di Taormina) uno Zaccaria, inviato di Metodio alla corte di Roma, e per altri falli. E tal deposizione è smentita da Niceta, che l'attribuisce appunto al patriarca Ignazio. Insomma, alla esaltazione di costui, Gregorio era accusato, e non altro.
909. Niceta, op. c., p. 1199. Il gesuita tirolese Rader, che scrisse nel decimosettimo secolo, non so per che vezzo, rendea questa frase: et improbitatem illius probi Siculi. Il testo ha: καὶ μνησικακίαν τοῦ δεινοῦ εκείνου Σικελοῦ.
910. Καθηγητὴς καὶ ἱεροτελεστὴς.
911. Ζωγράφος.
912. Niceta, op. c., p. 1226. L'autore aggiugne che il volume fu poi preso in casa di Fozio, presentato al Concilio dell'867, e dato alle fiamme.
913. Si fa menzione di questo appello nelle epistole di Niccolò I, presso Labbe, op. c., tomo VIII, n i VII, VIII, IX, XI, p. 288, 289, 303, 320, 326, 335, 375, e in altri atti pontificii, a p. 1274, 1283, 1295, 1332. Tutti son dati in un tempo in cui la prima accusa contro Gregorio si confondea con quella, assai più grave, di aver fatto parte del concilio di Costantinopoli dell'861. Veggansi anche Niceta, op. c., p. 1199; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 854.
914. Niceta, op. c., p. 1199.
915. Questo fatto si legge nel secondo decreto del Concilio di Roma, dell'863, presso Labbe, vol. c., p. 1322; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 863.
916. Veggasi la epistola nº VIII di Niccolò, presso Labbe, vol. c., p. 298.
917. Sarebbe inutile di accumulare citazioni sul notissimo fatto dello Scisma, che si ricava dagli atti dei Concilii, dalla Vita di Sant'Ignazio, ec.
918. Veggansi le loro risposte nelle due diverse compilazioni degli atti di questo Concilio, l'una greca, l'altra latina, presso il Labbe, vol. c., p. 1061 e 1307, 1311, seg.
919. Niceta, op. c., p, 1258; Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 878.
920. Il biografo mette i nomi di San Gregorio Decapolita e di Leone, senza dubbio l'Armeno. Ma questi morì prima che i Musulmani occupassero la Sicilia. Perciò, se non è bugiardo il fatto, van corretti i nomi.
921. San Niccolò, apparsogli in sogno, gli diè a mangiare uno scritto di squisito sapore, e di tanta virtù, che le catene si sciolsero, le mura si aprirono, e San Giuseppe si vide trasportato per aria a Costantinopoli.
922. Così dice Symeon Magister, De Theophilo, cap. XX.
923. Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXVI e XXVII. L'anonimo cronista riferisce la fondazione a Barda, ma ricorda espressamente che la ristorazione degli studii fosse cominciata prima.
924. Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXIX.
925. Gibbon, Decline and Fall, cap. LIII.
926. Due compilazioni v'hanno della biografia di San Giuseppe Innografo, pubblicate, l'una dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 43, seg., e dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, p. 266, seg.; l'altra, dai soli Bollandisti, l. c.; e il testo greco della prima, corretto sopra un MS. Vaticano, si trova in fin del volume loro, p. XXXIV. L'originale si crede scritto da un diacono Giovanni, su le notizie che gli forniva un Teofane, discepolo dell'Innografo. Oltre i miracoli, vi ha sbagli madornali di cronologia: seguendo i quali, il P. Gaetani fe' vivere l'Innografo 170 anni. I Bollandisti ne diffalcarono un secolo; ma tuttavia non tolsero la contraddizione del biografo che portava Giuseppe fuggito di Sicilia fanciullo dopo la occupazione musulmana, la quale cominciò l'827, e fatto già sacerdote ai tempi di Leone l'Armeno, che morì l'820. La morte di San Giuseppe Innografo è riferita per conghiettura all'883.
927. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 128, seg. e Bollandisti, Acta Sanctorum, 18 giugno, tomo III (di giugno), p. 596, seg., ove leggonsi pochi frammenti del testo greco. Il Gaetani, seguíto in ciò dai Bollandisti, riferì la composizione dell'inno all'870.
928. Schoëll, Histoire de la Littérature grecque profane, versione francese del 1824, tomo IV, p. 48.
929. Veggasi Cedrenus, edizione di Bonn, tomo I, p. 4 e nota, nel tomo II, p. 748. Cedreno il chiama ὁ Σικελιώτης, e un altro MS. vi aggiugne διδάσκαλος. Secondo il luogo che gli assegna Cedreno, costui sarebbe vivuto verso la fine del X secolo.
930. Danielis de Nessel, Catalogus.... Bibl. Vindobonensis (1690), parte I, p. 14, nº X, § 3.
931. Vossius, De Historicis Græcis (Leyde, 1650), lib. IV, cap. XXI, p. 499; esattamente citato dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, p. 313.
932. Histoire de la Littérature grecque profane, versione franc. del 1824, tomo VI, p. 370.
933. Questo elogio funebre, che porta il nome dell'autore, fu tradotto in latino sul testo greco del monastero del Salvatore di Messina, e pubblicato dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 52, seg., e con molte correzioni dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 31 gennaio.
934. Petri Siculi Historia de Manichæis, versione latina di un MS. della Vaticana, nella Maxima Bibliotheca Patrum, tomo XVI. Veggansi anco, su le persecuzioni dei Pauliciani, Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XVI; e Gibbon, Decline and Fall, cap. LIV.
935. Nella versione pubblicata dal Gaetani si legge Genicus, e si spiega “riscuotitore.” E veramente il verbo gena ha significato di “raccogliere,” e il derivato genâia vale “multa” e “tassa in generale;” come l'ha notato il Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks, tomo I, p. 199. Gêni significherebbe appunto collector.
936. Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 59.
937. Il biografo dice che morisse il 904, ottuagenario; il che significa soltanto che s'avvicinava agli ottanta.
938. Nella versione latina si legge fuco et cerussa. Si sa che questo è il bianco di piombo; l'altra è espressione vaga. Se nel testo greco si trovasse, com'è probabile, φῦκος, indicherebbe il rosso cavato da una specie d'alga.
939. Calamistrum.
940. La leggenda attribuisce l'accusa ai principali ismaeliti; dice che fu portata al califo ( ameramnem ), e che contenea due rubriche, 1º dispregio del Profeta e dei suoi vaticinii; 2º “predicare una novella religione, e sostenere il figliuol di Maria coeterno e consustanziale a non so che Spirito e al padre.” Or questo non mi pare nè linguaggio da Musulmani, nè invenzione del biografo. Non ostante qualche difficoltà, che sparirebbe forse se avessimo il testo greco, l'accusa sembra scritta dai fanatici della Chiesa Copta; e però la persecuzione seguita in Egitto. Alla stessa conchiusione porterebbe il fatto della liberazione ordinata dal governatore della provincia, non ostante il richiamo al califo.
941. Cap. X, p. 411, seg.
942. Leggasi nella biografia citata presso il Gaetani, tomo II, pag. 67, 68.
943. Il biografo dice che Sant'Elia venne in Palermo; che, partita quinci alla volta di Reggio l'armata musulmana, ei ritenne i Reggini i quali volean fuggire; e poi che da Palermo andò a Taormina. Se non v'ha qualche confusione nel testo, potrebbe supporsi ch'ei fosse tornato in Palermo, forse con l'armata bizantina, e di lì ito a Taormina.
944. Questo fatto è dato come contemporaneo alla sconfitta di Barsamio presso Taormina che seguì nell'881. Veggasi il Capitolo X, pag. 417.
945. Così nel testo greco, presso i Bollandisti, agosto, tom. III, p. 508. Nella versione latina si legge XVI kalendas augusti, che torna al 17 luglio, e si additerebbe meglio al caso di Tessalonica, seguito pochi giorni appresso.
946. Vita anonima di Santo Elia il giovane, tradotta sopra un MS. greco del monastero del Salvatore di Messina, e pubblicata dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 63, seg., e dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 17 agosto, p. 483, seg. Non ho atteso alle note cronologiche delle due edizioni, trovando guida più certa nelle date della occupazione del sobborgo di Castrogiovanni e della espugnazione di Tessalonica. Ho tralasciato la ripetizione di molti miracoli, e il minuto ragguaglio della traslazione del corpo di Sant'Elia in Calabria.
947. Questa biografia latina, cavata da MSS. di Palermo, Mazara e Corleone fu pubblicata dal Gaetani, Vitæ ec., tomo II, pag. 80, e dai Bollandisti, con lo aiuto di un MS. di Roma, Acta Sanctorum, 1 marzo, pag. 27.
948. Presso Gaetani, Vitæ ec., tomo II, pag. 84, da un MS. della chiesa palermitana.
949. Op. cit., tomo II, pag. 86.
950. Veggasi il capitolo IX di questo IIº Libro.