STORIA
DEI MUSULMANI
DI SICILIA.
Volume Terzo — Parte Seconda
STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA
SCRITTA DA MICHELE AMARI.
VOLUME TERZO Parte Seconda.
FIRENZE. SUCCESSORI LE MONNIER. — 1872.
Proprietà letteraria.INDICE
LIBRO SESTO.
CAPITOLO I.
Trapasserei di molto i limiti ch’io mi proposi mettendo mano a quest’opera, s’io continuassi a trattare per filo e per segno la storia della Sicilia fino al tempo che vi rimasero abitatori musulmani. Nel presente libro io dunque toccherò per sommi capi le vicende della corte e de’ popoli cristiani, quanto basti a rischiarar quelle de’ Musulmani, delle quali noterò ben tutti i particolari che siano pervenuti infino a noi. Aggiugnerò le relazioni del principato co’ Musulmani di fuori; sì per la connessione del subietto, e sì per la novità dei fatti che, la più parte, si raccolgon ora per la prima volta negli scritti arabici.
Mancano gli annali cristiani della Sicilia dal primo al ventunesimo anno del duodecimo secolo, quando Ruggiero il giovane comparisce a un tratto uom di Stato, potente per armi e ricchezze, conquistatore del ducato di Puglia e nemico audacissimo de’ papi. Riscontrando co’ diplomi le poche parole che ne dicono i cronisti, ritraggiamo appena in questo periodo che, morto il primo conte Ruggiero (1101) rimasero di lui due bambini, Simone e Ruggiero, l’uno di otto anni, l’altro di sei; che la contessa Adelaide resse la Sicilia e la Calabria a nome del primo, infino al millecento cinque[1] ed a nome di Ruggiero infino al cento dodici;[2] e che l’anno appresso, il giovanetto rimanea padrone di sè medesimo e dello Stato. La madre andava in Palestina a rimaritarsi con Baldovino I, re di Gerusalemme; gli recava i tesori della Sicilia: ma il Crociato, quando gli ebbe sciupati, sciolse il matrimonio, connivente il papa, il patriarca ed un concilio (1116); sì chè l’Adelaide tornossi oltraggiata in Sicilia, dove poco stante (1118) morì.[3] Una cronica dice vagamente che Simone nel “breve suo consolato avea durate gravi molestie da’ Pugliesi;[4] ” ond’e’ parrebbe che baroni di quella provincia, o forse il duca, si fossero provati ad occupare le Calabrie. Orderico Vitale, monaco francese di quella età, asseriva che un Roberto figlio del duca di Borgogna, fu dalla Adelaide chiamato in Sicilia, adoperato a reprimere i baroni, maritato ad una sua figliuola e poi scelleratamente morto di veleno:[5] ma il nome non torna nei ricordi siciliani;[6] nè un misfatto, sì leggermente supposto in tutti i tempi, può credersi a quel frate, ghiotto di favole e punto benigno all’Italia. L’abate di Telese, biografo del re, dice poco della sua fanciullezza: che lo Stato fu governato dalla prudentissima Adelaide sua madre; che Ruggiero non vedea mendico nè pellegrino che non gli desse tutti i danari ch’egli avea in tasca e que’ che domandava alla madre; e che, vivente il padre, giocando a battagliare con gli altri bambini, ei sgarava sempre il maggior fratello e lo scherniva: “lascia a me la corona e le armi, ch’io ti farò vescovo o papa di Roma.[7] ” Cotesti aneddoti mostrano, oltre gli alti spiriti del fanciullo, che a corte non si parlasse de’ papi con tanta riverenza, e che si tenesse in gran pregio la carità, precipua virtù dei Musulmani; ma non delineano di certo la storia del tempo.
La penuria de’ racconti pur vale a provare che sotto la reggenza non seguì alcuno strepitoso avvenimento; cioè che la contessa e i suoi consiglieri seppero usare, e forse compiere, i buoni ordini posti dal primo Ruggiero; e ch’e’ tennero salda la mano su quella nuova mescolanza di uomini, la quale parrebbe proprio il simbolo della discordia. La feudalità che tosto volse ad anarchia nel ducato di Puglia, non osò levar la testa in Sicilia: la quale generalità è compendiata, s’io ben mi appongo, nelle parole dei notabili di Traina, Centorbi ed altre terre della Sicilia centrale, i quali il millecenquarantadue attestavano in giudizio il seguente fatto de’ tempi della reggenza. Querelandosi un Eleazar,[8] signore di San Filippo d’Argirò, che il vescovo di Traina, signore di Regalbuto, gli avesse usurpato un tratto di terreno, Adelaide commetteva il giudizio a Roberto Avenel e ad altri nobili uomini; i quali andati su i luoghi co’ notabili e i litiganti, Eleazar proruppe ch’ei volea dividere i confini con la spada; ma ripreso da Roberto e da tutti si acquetò: onde fu proceduto alla prova testimoniale ed alla decisione, come in tempi civili.[9] Tal forza del governo venìa dall’assetto che avea dato alla feudalità il conquistatore; ed anco dal prudente ardire dell’Adelaide e de’ suoi consiglieri, i quali, facendo assegnamento in su i Musulmani, fermarono la sede del principato in Palermo.
Da Mileto nè da Traina non si potea reggere a lungo il nuovo Stato. Ragion volea che la capitale stesse in Sicilia e in sul mare. Sembra anzi che il primo Conte, finch’ei non ebbe signoria in Palermo, avesse eletta Messina; poichè non solamente ei rafforzolla e vi tramutò la sede vescovile di Traina;[10] ma va riferita al suo tempo, ovvero ai primordii della reggenza, la fondazione della zecca,[11] della reggia,[12] e credo anco dell’arsenale, in quella città. Se non che acquistata (1093) la metà di Palermo e cominciato con gran lucro a maneggiare l’azienda della città per sè medesimo e per lo duca di Puglia,[13] Ruggiero trovò in Palermo le basi da rifabbricare tutta l’azienda dell’isola.
I diwani istituiti da’ primi emiri e riordinati da’ Kelbiti, non erano al certo distrutti quando i Normanni presero la città: rimaneano, fossero anco stati negletti per alcun tempo, i casamenti, gli archivii, la zecca, gli arsenali;[14] rimanea qualche segretario e computista: nè Roberto era uomo da lasciare inoperosa macchina così fatta, nè Ruggiero. I diwani, serbati e ristorati, attiravano la corte di Adelaide; l’attirava una città di due o trecentomila abitatori, con quei suoi maestosi edifizii, industrie fiorenti, lusso e ricchezze che la facean rivale di Cordova. L’esperienza dovea mostrare a’ governanti che se da Messina avrebbero tenuta meglio la Calabria, poteano all’incontro, da Palermo far sentire più pronta e più forte la mano in Sicilia; e che l’oro, il ferro e la necessaria fedeltà dei Musulmani di Palermo avrebbero rinforzato il principe contro i baroni: ch’era il gran problema di governo nel medio evo. D’altronde quella corte latina non avea cagione d’amar meglio il soggiorno di Messina popolata di Greci, che di Palermo scarsissima di Cristiani. Adelaide, senza lasciar del tutto la sede di Messina, prese a stanziare in Palermo, e la rifece veramente capitale dell’isola. Ciò avvenne ne’ principii del secolo, e direi appunto il millecentododici; poichè la confermazione dei privilegi dell’arcivescovo e capitolo di Palermo, accordata solennemente il primo giugno di quell’anno, da «Adelaide contessa e dal suo figliuolo Ruggiero, ormai cavaliere e conte di Sicilia e di Calabria, sedenti in Palermo, nell’aula del palagio di sopra, con molti lor chierici, baroni e cavalieri,» mi sembra proprio il compimento d’una cerimonia inaugurale. Soscrissero questo diploma da testimonii, parecchi baroni italiani e francesi noti nelle carte del primo Conte e con essi un Cristoforo, ammiraglio.[15]
È qui il luogo di ricercare l’origine di cotesto ufizio, il quale per la prima volta comparve tra Cristiani alla corte di Palermo, e lì, mutando natura, divenne quel ch’oggi suona in tutte le lingue d’Europa. Ammiraglio è corruzione della voce arabica emîr, che i Bizantini trascrissero fedelmente al nominativo, ma ne fecero al genitivo ἀμήραδος;[16] onde passò con tal desinenza a’ Cristiani occidentali, sì com’egli è avvenuto ad altre voci greche. E veramente gli scrittori della bassa latinità non altrimenti chiamarono gli emiri musulmani che amiratus; se non ch’e’ raddolcirono talvolta il suono in amiralius, talvolta lo resero più aspro in admirarius, o admiratus per dargli alcun significato in loro linguaggio.[17] Come già dicemmo, Roberto Guiscardo, assettando il reggimento in Palermo vi prepose un de’ suoi con titolo di ammiraglio.[18] A città musulmana ei lasciava magistrati musulmani, chè altrimenti non potea fare; tra i quali era primo l’emir di provincia, capo politico e militare, giudice sopra i reati di Stato:[19] e torna allo stesso ufizio ed allo stesso titolo ch’ebbero i governatori della Sicilia sotto gli Aghlabiti e i Fatemiti. E’ par che il conte Ruggiero, quand’ei prese a mezzeria la città di Palermo, v’abbia fatto emir un suo segretario, greco di Calabria o di Sicilia, per nome Eugenio; del quale ritraggiam solo ch’egli ebbe quel titolo, ch’ei possedette beni in Palermo e che fondò un monastero in Traina.[20] Dopo lui, Cristoforo ammiraglio testè ricordato, soscrive, quasi ministro di Stato, una donazione data di Messina nel febbraio 1110;[21] e poi, con gli altri grandi della corte, il citato diploma del giugno 1112;[22] si sa in fine ch’egli ebbe una casa in Messina, la quale tornò, dopo la sua morte, al regio demanio.[23] Segue un Cristodulo ammiraglio, nominato in varii diplomi dal 1123, o forse dal 1119, al 1139, qual ministro civile ed ufiziale di corte, onorato alfine col gonfio titolo di protonobilissimo.[24] Ma questo somiglia forte al benservito che suol darsi agli invalidi; perocchè ormai da parecchi anni primeggiava nel governo dello Stato quel Giorgio di Antiochia, che fu ammiraglio di nome e di fatto, come s’intende oggidì. Lo veggiamo il 1123 aiutante o guida del capitano dell’armata siciliana, chiamato dagli Arabi Abd-er-Rahman-en-Nasrani, ossia il Cristiano; il quale potrebbe essere per avventura lo stesso Cristodulo testè nominato;[25] e l’identità della persona darebbe ragione di parecchi fatti, come or or si vedrà. Giorgio, secondo i diplomi, era a Corte il 1126, ammiraglio al par di Cristodulo o Crisiodoro e del proprio figliuolo Giovanni; il 1132 ei s’intitolava ammiraglio delli ammiragli e arconte degli arconti, e tal rimanea sino alla sua morte.[26] Egli esercitò, al par che i predecessori, atti di ministro di Stato e delegato del principe in cause civili, e capitanò l’armata; ma non si ritrae quale uficio tenessero gli altri ammiragli soscritti in qualche carta insieme con lui,[27] se di capitani o di ministri subalterni, e se alcuno non ebbe altro che il titolo, sì come abbiam detto de’ kâid.[28] Sol veggiamo preposto alle navi del re nella guerra dell’Italia meridionale, Giovanni figliuolo di Giorgio.[29] Dopo la morte di Giorgio gli si ragguagliò di titoli e di ufizio Majone; il quale ebbe ammiragli contemporanei e fu quasi padrone del re e dello Stato, come gli emir-el-omrâ, ossia emir degli emiri, di Baghdad al declinare del califato; ma non capitanò mai il navilio in guerra.[30] E finì con Majone l’autorità ed il titolo d’ammiraglio delli ammiragli. Divenuto primo ministro il cancelliere, o esercitato l’ufizio da un consiglio di tre famigliari del re, l’ammiraglio rimase ministro regio per le cose del mare;[31] ed entro un secolo passò quel vocabolo in altri paesi, col significato esclusivo di capitano del navilio;[32] talchè gli eruditi arabi del XIV secolo, trovando sì diverso il suono del vocabolo e la giurisdizione dell’ufizio, non riconobbero più l’emir loro, nell’ammiraglio degli Italiani o delli Spagnuoli.[33]
In Sicilia dunque ed alla metà del duodecimo secolo mutossi l’ufizio dell’emir, lungo tempo dopo che il vocabolo avea presa sembianza greca e latina. La quale trasformazione come avvenisse non risulta da documenti, non è detto da cronisti, ma sendo nata di certo dalle condizioni particolari dell’amministrazione pubblica in Sicilia, ne possiam noi rintracciare l’origine senza troppa audacia di conghietture. L’autorità dell’ammiraglio cristiano di Palermo, viceregia sotto Roberto e il primo Ruggiero, limitata pure alla città e al suo territorio, dovea necessariamente alterarsi quando la corte stanziò nella capitale e vi s’accrebbe la popolazione cristiana. Conforme all’assioma del diritto siciliano di quel tempo, che ogni gente si governasse con sua legge, dovea ristringersi l’autorità dell’ammiraglio da un lato, allargarsi dall’altro; lasciare agli altri ministri del principe le cose dei Cristiani della città; ed estendersi a quelle de’ Musulmani in tutta l’isola, secondo la propria sua natura, cioè di comando militare e di piena potestà civile, fuorchè nei giudizii riserbati ai cadì. Ma nel reggimento militare de’ vinti Musulmani di Sicilia era ormai di momento il solo navilio. I fanti e i cavalli non si chiamavano in arme se non che al bisogno, e in piccol numero al paragon delle milizie feudali; e finita l’impresa rimandavansi a lor case, eccetto qualche compagnia stanziale: possiam supporre inoltre che Palermo, come altre città demaniali, fosse esente dal servizio militare di terra ed obbligata soltanto al marittimo. Con ciò egli è da riflettere che l’armata, unica forza permanente dello Stato, richiedea continua vigilanza su la disciplina de’ marinai e sul mantenimento di navi, attrezzi, armi, vettovaglie: e ch’essa era montata in parte da uomini musulmani[34] e le cose affidavansi alla cura de’ Musulmani di Palermo, essendo stato secondario di certo, infino alla metà del XII secolo, l’arsenale di Messina.[35] Indi l’ammiraglio, oltre il suo ufizio civile, tornava a quel ch’oggi sarebbe il ministro della marina e inoltre capitanava in guerra il navilio, quand’egli era uomo da ciò; e sempre esercitava giurisdizione civile e criminale sopra i soldati e’ marinai.[36] Nel regno intanto del secondo Ruggiero, accentrandosi e ordinandosi ogni ramo di amministrazione pubblica, s’accrebbe il numero de’ funzionarii; gli affari della popolazione musulmana ne richiesero parecchi, ai quali fu dato anco il titolo di emir; e il ministro di Stato per gli affari musulmani, ch’era Giorgio d’Antiochia, come superiore agli altri, fu detto emir degli emiri. Abilissimo amministratore e fortunato capitano d’armata, Giorgio tenne veramente l’ufizio di primo ministro, il doppio visirato della spada e della penna come lo si chiamava in parecchi Stati musulmani, dell’undecimo e duodecimo secolo: nè sembra poi cosa tanto strana che un cristiano, ministro per gli affari musulmani, fosse quel ch’or diremmo presidente del Consiglio. Ma gli ufizii di grande ammiraglio e di Cancelliere urtavansi per la natura stessa e per lo incerto confine loro, variabile secondo l’arrivo di nuovi coloni e la conversione degli antichi. Il quale antagonismo, s’e’ non nocque al tempo di Ruggiero e di Giorgio, mandò sossopra lo Stato nel regno di Guglielmo primo e, spento Majone, gli sopravvisse quel disordine. Alfine par che il Cancelliere e poi il consiglio di Cancelleria, prendessero a trattar le faccende civili dei Musulmani, le quali scemavano insieme col numero e con la ricchezza loro. Scomparvero allora i meri ammiragli, sorgendo in vece loro altri ufiziali con titoli europei; e solo rimase in piè quel saldo reggimento delle cose del mare, insieme con l’ammiraglio che vi era preposto. Questa unione, poi, del comando, del ministero e del tribunale, come noi diremmo in oggi, questa unica volontà che preparava nella pace, conduceva in guerra e presedeva a’ giudizii speciali su le persone e le cose appartenenti alla marina, parve buona agli altri Stati; ond’essi imitarono più o meno fedelmente il grande ufizio e gli dettero lo stesso nome che avea in Sicilia. Così io suppongo e ritorno al filo degli avvenimenti, nel quale occorre in primo luogo l’ammiraglio Giorgio.
Le memorie arabiche degli ultimi principi ziriti suonano molto diverse dagli annali siciliani su la origine di costui. Non si ritrae su quale autorità il Pirro l’abbia supposto figliuolo dell’ammiraglio Cristodoro o Cristoforo, ed abbia aggiunto il casato di Rozio, che mi par lezione erronea di qualche sigla veduta ne’ diplomi greci.[37] Secondo gli scrittori arabi, Giorgio fu di que’ ministri di ventura, giudei o cristiani, ai quali i principi orientali sovente commetteano l’amministrazione dell’erario, per difetto di sudditi musulmani versati in quelle materie. Egli e il suo padre per nome Michele, cristiani d’Antiochia, capitarono a corte di Temîm, principe di Mehdia (1062-1108), amante di così fatti avventurieri;[38] appo il quale Giorgio si fè strada, sapendo per bene l’arabico ed avendo con molta lode esercitata in Siria la computisteria,[39] o, come io credo, la pratica dell’azienda pubblica di quella provincia. Temîm indi il prepose ad ufizio simile nello Stato di Mehdia: dove crebbero sua mercè le entrate. Ma alla morte di quel principe (marzo 1108), temendo la vendetta di Iehia che gli succedette, il quale odiava, come avvenir suole, il ministro favorito dal padre, Giorgio s’indettò con la corte di Ruggiero,[40] che ricercava di così fatti strumenti, avendo sudditi musulmani da mugnere e principi vicini da insidiare. Mandatagli apposta di Sicilia una nave, sotto specie di recare spacci alla corte di Mehdia, Giorgio, un venerdì, colse il tempo della preghiera solenne, e mentre i musulmani salmeggiavano, egli e tutti i suoi, travestiti da marinai, andarono sul legno siciliano sì destramente che i terrazzani s’accorsero della fuga quando e’ videro veleggiar quello in alto mare. Arrivati gli avventurieri antiocheni in Sicilia, Abd-er-Rahman il cristiano, ministro di finanza,[41] come noi diremmo, adoperolli nella riscossione de’ tributi; nella quale guadagnaron fama di solerzia e probità. Occorrendo intanto al re di mandare uom fidato in Egitto, Abd-er-Rahman gli propose Giorgio; e questi compiè sì bene la commissione e riportonne tanto guadagno, ch’egli entrò subito in grazia del re.[42] Così il Tigiani: ond’e’ si vede che il negozio commesso a Giorgio fu mercatantesco, di que’ che fruttarono denari e potenza ai principi di Sicilia nel XII e XIII secolo.[43] Con la narrazione degli Arabi s’accordano i diplomi, assai meglio che coi supposti del Pirro. Giorgio d’Antiochia comparisce verso il 1111 nell’umile ufizio di stratigoto di Giattini;[44] il 1123 accompagna Abd-er-Rahman capitano dell’armata siciliana nella infelice impresa del Capo Dimas;[45] il 1126 è soscritto in un diploma col titolo d’ammiraglio e nulla più; indi lo veggiamo per la prima volta il 1132[46] ammiraglio delli ammiragli. Da un’altra mano i supremi uficii d’azienda e di guerra che i cronisti musulmani attribuiscono al cristiano Abd-er-Rahman tra il 1108 e il 1123, non si adatterebbero in Sicilia ad altro personaggio notevole che all’ammiraglio Cristodulo, il qual nome anco torna con poco divario ad Abd-er-Rahman.[47] E parrebbe un de’ musulmani siciliani di schiatta italica o greca, ritornati al cristianesimo dopo il conquisto e adoperati dal principe negli ufizii pubblici.
La testimonianza degli scrittori arabi al par che de’ diplomi cristiani della Sicilia intorno Giorgio di Antiochia, conferma l’autorità civile delli ammiragli, che che si pensi de’ miei supposti su l’origine sua. Questa particolarità del diritto pubblico siciliano alla quale si è badato assai poco fin qui, ci aiuta a comprendere le vicissitudini dello Stato sotto i due Guglielmi, assai meglio che non faremmo col mero ordinamento dei sette grandi ufizii della Corona,[48] supponendo col Gregorio, che fosse stato fin da’ tempi di re Ruggiero qual si ritrae negli ultimi di Guglielmo il Buono, e che l’autorità di quegli ufizii si fosse estesa a tutti i sudditi, cristiani o musulmani. Erano gli elementi dell’azienda musulmana che tornavano a galla quando fu ristorata l’antica capitale. E dico delle istituzioni ed anco degli uomini. Guerrieri che avessero seguito in Terraferma il primo conte, uomini di mare, giuristi, segretarii, mercatanti, pedagoghi, camerieri; qual più qual meno caritatevoli, dissoluti e picchiapetto; bilingui e trilingui, barcheggianti tra due o tre religioni, versati nella letteratura arabica e nella scienza greca, dilettanti dell’arte bizantina e delle forme che prese in Siria, in Egitto o in Spagna: tali mi sembrano que’ Musulmani e Greci di Sicilia che la novella corte attirava, senza volerlo, nel castel di sopra di Palermo, insieme co’ Levantini della tempra di Giorgio e coi prelati, i chierici e i nobili d’Italia e di Francia. Que’ costumi dissonanti s’armonizzaron pure un gran pezzo e produssero, nel corso del duodecimo secolo, due grandi Statisti: orfani entrambi, maturati precocemente tra le agitazioni della corte di Palermo, somiglianti anco l’uno all’altro per tempra e cultura dell’intelletto, legislatori, buon massai, vaghi d’ogni scienza e filosofi più che cristiani: Ruggiero primo re e Federigo secondo imperatore; i due sultani battezzati di Sicilia, a’ quali l’Italia dee non piccola parte dell’incivilimento suo.
L’educazione orientale del novello principe non giovò a’ vicini Stati musulmani. Mentr’egli in casa ordinava l’amministrazione, l’esercito e l’armata, e mantenea severamente la sicurezza pubblica;[49] mentre attaccava briga col duca di Puglia, e maggior pericolo minacciavagli con l’amistà,[50] Ruggiero agognava in Affrica all’eredità d’un altro principato moribondo. I Ziriti di Mehdia s’erano sforzati invano, dallo scoglio loro, a ristorare l’antico dominio contro i Ziriti di Bugia, gli Arabi nomadi e i regoli di schiatta arabica o berbera che usurparono a volta a volta le città della costiera.[51] Temîm, invero, dopo l’assalto della Lega italiana (1087) avea ridotti, perduti e ripresi varii luoghi,[52] e perfino, mostrato il viso a’ Cristiani, non sappiamo di qual nazione, i quali del quattrocentonovantotto (22 sett. 1104 a 11 sett. 1105) riassaltarono Mehdia, chiusero la darsena con formidabile ordinanza di galee spalleggiate da ventitrè navi; ma l’armata zirita, rompendo la fila, non senza strage li rincacciò.[53] Iehia, figliuolo e successore di Temîm, racquistò anch’egli qualche pezzo del territorio; mandò l’armata in corso contro Cristiani, con vario successo;[54] fornilla di fuoco greco;[55] e tanta molestia diè, o tanti comodi offerse al commercio bizantino, che Alessio Comneno, l’anno cinquecentonove dell’egira (1115-6) inviava ambasciatori in Mehdia a presentare doni, e trattare un accordo.[56] Continuava intanto la pace che il primo conte di Sicilia fermò con Temîm:[57] s’accresceano i commerci al segno che, il millecendiciassette, Ruggiero secondo tenea parecchi fattori in Mehdia a maneggiar grosse somme di danaro, sì come vedrassi nel seguito della narrazione. Questa mostrerà anco gli effetti delle pratiche fatte dalla corte di Palermo appo gli Arabi occupatori dello Stato e’ governatori ribelli delle città marittime. E perchè gli Ziriti di Mehdia non avessero avversario che amico non fosse di Ruggiero, anco i Beni-Hammâd gareggiavano con essolui di cortesia. De’ monaci Benedettini, al dir di Pietro Diacono, tornando di Sardegna in Terraferma erano stati presi da corsari affricani, ed era stata la nave cacciata da’ venti in Sicilia, quando il conte, pregato di liberar que’ frati, in vece di strapparli a dirittura dalle mani degli Infedeli, mandò ambasciatori al re della città Calamense detta da’ Saraceni Al-Chila; il quale immantinenti rilasciava i prigioni.[58] Indi gli è manifesto che un trattato legasse i principi normanni della Sicilia con quel ramo di casa zirita. Dopo la fuga degli Antiocheni, tutte queste mene di Ruggiero non poteano essere occulte alla corte di Mehdia: pur si manteneano, per interesse reciproco, le apparenze dell’amistà.[59]
Venuto a morte Iehia (aprile 1116), Alì, giovane d’alti spiriti, non imitò la prudenza del padre. Rafi’-ibn-Makkan-ibn-Kâmil, capo d’Arabi, mezzo governatore e mezzo usurpatore di Kâbes, avea fatta costruire una grossa nave mercatantesca, con assentimento di Iehia; il quale financo gli fornì legname e ferro: ed era in punto ogni cosa, quando il nuovo principe, arrogandosi il diritto privativo del commercio di mare,[60] fece intendere a Rafi’ che, se la nave uscisse dal porto, ei sì la farebbe pigliare. E mandò con questo in Kâbes sei harbiè e quattro galee.[61] Rafi’ allora si volse a Ruggiero, fingendo, come ci dicono, ch’egli avesse allestita la nave per mandargli certi suoi presenti; ma più verisimile è che i ministri di Sicilia avessero già appiccate pratiche in Kâbes per condurvi i traffichi del fisco: e quali che fossero i particolari, ognun vede che Ruggiero stava lì alle vedette, come il potente quand’ei vuol entrare in casa de’ vicini. Promesse dunque aiuto a Rafi’ e tosto mandò una squadra di ventiquattro galee che, tolta seco la nave, scortassela in Sicilia. Correa l’anno cinquecentoundici dell’egira (4 maggio 1117 a’ 22 aprile 1118). Pareva a Ruggiero che il principe zirita non avrebbe osato di risentirsi. E veramente, quando fu vista da Mehdia l’armata siciliana veleggiare nel golfo, quando Alì toccò con mano la connivenza di Ruggiero che poc’anzi gli era parsa una fola, i grandi dello Stato, consultati, avvisarono si dissimulasse, piuttosto che spezzare i patti con la corte di Palermo. Alì die’ loro su la voce: comandò che il rimanente dell’armata corresse dietro a’ Siciliani per mantenere il divieto ad ogni costo. Seguinne, secondo il Tigiani, sanguinosa zuffa tra i marinai ziriti e que’ di Ruggiero, arrivati pria di loro e assisi già ad un banchetto, che Rafi’ loro aveva imbandito;[62] secondo altri i due navigli entrarono insieme; onde Rafi’ non osò far salpare la sua nave, nè si venne altrimenti alle mani:[63] tutti affermano poi che i Siciliani, non potendo usare aperta violenza, scornati si ritrassero.[64] Indi i cortigiani d’Alì a lodare la sapienza e valore del principe; i poeti ad ammontar metafore sopra metafore, come veggiamo in una kasîda scritta allora dal siciliano Ibn-Hamdîs, irridendo agli Infedeli che non aveano saputo affrontare il taglio delle sciabole d’Alì, nè le lingue di fuoco lanciate dalle sue navi.[65] I brani di memorie contemporanee che troviamo qua e là nelle compilazioni musulmane più moderne, danno con evidenti interruzioni il seguito degli avvenimenti. Narrano che Rafi’, chiaritosi ribelle, condusse alcune tribù d’Arabi a campo a Mehdia; che Alì corruppe quegli Arabi; e che, dopo varie fazioni, i due musulmani, spossati si rappattumarono.[66] Ruggiero, intanto, avea mandato il naviglio in aiuto di Rafi’, con ordine d’infestare la costiera e tenere in rispetto il naviglio zirita; ma questo gli diè una sconfitta; e par n’abbia anco toccate, aggiugnendosi dopo ciò che il signore di Mehdia riforniva l’armata.[67] La varia fortuna de’ combattimenti navali apparisce anco dalle pratiche delle quali abbiamo ragguaglio più particolare: che il principe di Sicilia mandò a richiedere imperiosamente la rinnovazione del trattato e la restituzione de’ danari staggiti in Mehdia a’ suoi fattori; che Alì assentivvi e liberò i fattori imprigionati; che Ruggiero, non soddisfatto, reiterò l’ambasciata, fuor d’ogni uso cancelleresco, con parole aspre e villane; che il musulmano sdegnò di rispondere, e che indi sfogaronsi a minacce; l’uno di venire con l’armata a Mehdia, l’altro di collegarsi con gli Almoravidi per assaltare la Sicilia.[68] Entrambi già si apparecchiavano a grossa guerra. Alì muniva sue fortezze, armava dieci navi harbîe e trenta corvette, le empiva d’uomini, di munizioni e di nafta; e tenne pratiche veramente con gli Almoravidi. Scorsero così quattro anni, tanto che l’audace zirita morì (10 luglio 1121), nè in guerra nè in pace con la Sicilia.[69]
La potenza che Alì incautamente stava per attirarsi in casa a fine d’allontanare i Siciliani, era surta come un turbine dalle profondità del Sahra: occupate in brev’ora le regioni ch’or diciamo del Marocco e dell’Algeria, avea passato il Mediterraneo e portati via, la più parte, i regoli musulmani della Spagna. Il nome attesta l’origine di quella dominazione. Alla metà dell’XI secolo, mentr’era venuta meno ogni forza vitale negli splendidi califati di Baghdad, del Cairo e di Cordova, l’islam ripullulò con l’antica violenza ne’ Berberi di Sanhagia, i quali si diceano musulmani perchè sapeano il nome del profeta e il precetto di rubare e ammazzare i Negri finitimi. Il capo de’ Lamtuna, tribù della nazione di Sanhagia, per dirozzare i suoi, chiamò (1039) un dottore di Segelmessa. Il quale, deriso e poi scacciato, in odio delle virtù ch’ei predicava e non delle favole religiose di che le condìa, si ritrasse con pochi proseliti in un isolotto del Senegal, per vivere a suo modo e adescar altri co’ prestigii della penitenza: il qual eremo appellarono, all’uso arabico, ribât, e sè medesimi morâbit, ch’è derivato di quella voce: marabutti, come son detti in oggi i santocchi in Affrica; e gli Spagnuoli d’allora, premesso l’articolo e fatte le solite permutazioni di consonanti, pronunziarono Almoravidi. Ingrossata l’associazione e venuta in fama per miracoli, die’ mano alla guerra contro forastieri e connazionali che non intendessero l’islam al modo professato nel ribât (1042); nè andò guari che gli Infedeli, combattuti e spogliati, presero anch’essi l’utile mestiere di santi. Per la forza dell’ordinamento e della volontà, i pochi vinsero, al solito, i molti disgregati; le affinità di schiatta favorirono il movimento sociale vestito di religione; e la confederazione aggressiva fu pattuita agevolmente tra i barbari pastori del Sahra, che riferivano al Settentrione tutte le dolcezze e i comodi della vita, nè soleano veder pane se non quando n’avea seco un pezzo qualche mercatante di que’ paesi, venuto a comperare, credo io, schiavi negri. Una carestia spinse gli Almoravidi (1058) sopra Sus dell’Oceano. Rivoltisi, prima e poi, alla catena dell’Atlante, occuparono alfine (1061) Segelmessa; dove sottentrò ai primi un capo politico e guerriero, per nome Iûsuf-ibn-Tasciufin. Questi seppe stringere più fortemente i legami della confederazione; s’intitolò emiro dei Musulmani; vinse altre battaglie; gittò le prime fondamenta dalla città di Marocco (1062); si fece ubbidire da’ deserti al Mediterraneo, e dall’Atlantico a’ confini occidentali dell’odierna provincia di Costantina. I Musulmani di Spagna, incalzati dalle armi di Alfonso di Castiglia, chiesero aiuto a Iûsuf; ond’ei, valicato lo Stretto, ruppe i Cristiani a Talavera (1086), ma poco stante spense ad uno ad uno que’ che l’avean chiamato (1090- 1100) e quand’ei morì (1106) si pregava a suo nome in mille e novecento moschee cattedrali: quasi tutto l’Occidente musulmano, del quale ei s’era fatta dar l’investitura dal povero califo di Baghdad. Alì figliuolo di Iûsuf, estese i confini a levante infino a Bugia; ed aggiunse all’impero le isolette che fecero suonare terribile in Italia questo nome di Almoravidi.[70]
Dico le isole Baleari, le quali, dopo la morte di Mogêhid,[71] ubbidirono, insieme con Denia, al suo figlio Alì e indi al nipote Abu-’Amir e rimasero solo retaggio della dinastia, quando fu Denia occupata da Moktadir di Saragozza.[72] I successori di Mogêhid scansarono dapprima il giogo almoravide, sia che Iûsuf non pensasse alla Baleari, sia ch’ei non avesse forze navali da affrontare que’ pirati. Ma, provocati da loro correrie, i Pisani, il conte di Barcellona, quello di Montpellier, il visconte di Narbona ed altri signori cristiani, fatta lega tra loro, assalivano (1113) le Baleari, tenute allor dall’eunuco Mobascer, liberto dei Mogehiditi. Dopo ostinatissima difesa, morto l’eunuco, espugnavano il castello di Majorca (1115), prendeano il giovane Burabe (Abu-Rebi’a?) ultimo rampollo della dinastia, il quale fu condotto in Pisa, come il suo antenato Alì un secolo innanzi: se non che, ritornato a casa il navilio pisano, Alì-ibn-Iûsuf occupò le Baleari senza contrasto.[73] Il che par sia avvenuto per procaccio d’una valente famiglia di corsari di Denia, i Beni Meimûn, un uom della quale è ricordato tra i difensori di Majorca e dopo la morte di Mobascer fu mandato a Denia, per chiedere aiuto al principe almoravide.[74] I Beni Meimûn, pochi anni appresso, capitanavano l’armata di Alì-ibn-Iusuf, ordinata e forse creata da loro;[75] e nella precipitosa decadenza della dinastia, rifornirono l’esercito suo di giovani cristiani ch’essi andavano rubando ne’ mari e su per le costiere di Spagna, d’Italia e de’dominii bizantini.[76] Quando nulla valse a cansare la caduta degli Almoravidi, i Beni Meimûn affrettaronla, qual gittandosi co’ ribelli spagnuoli[77] e qual passando (1145) con l’armata sotto la bandiera d’Abd-el-Mumen, capo degli Almohadi.[78] Tra coteste vicende, la casa loro salita era a tale potenza che, per gran tratto del duodecimo secolo, gli annali nostri ricordano i combattimenti o gli accordi dei Beni Meimûn con Siciliani, Genovesi e Pisani.[79]
Or nella state del millecentoventidue, un Ibn-Meimûn, suddito degli Almoravidi, piombò con sua armatetta sopra Nicotra di Calabria: saccheggiò, arse, uccise, rapì le donne e i bambini; assalì qualche altro luogo e illeso tornossene in Ponente.[80] Gli scrittori musulmani da’ quali sappiamo i casi della guerra che Ruggiero portò incontanente in Affrica,[81] appongonla a dirittura a questa fazione di Nicotra; dicendo che il conte di Sicilia la credè primo frutto delle istigazioni d’Ali, anzi della sua lega con gli Almoravidi.[82] E veramente cotesta guerra ci pare più tosto subita vendetta, che meditata impresa di conquisto; poichè i disegni di Ruggiero a tal effetto non sembrano ben maturi, ed all’incontro, in quel medesimo tempo, l’Italia meridionale lo chiamava a maggiori travagli e maggior premio.[83] Fors’egli sperò di fare, entro poche settimane, un colpo di mano sopra Mehdia, tramato con gli Arabi, e agevole in ogni modo contro Hasan, fanciullo di tredici anni, succeduto poc’anzi ad Ali.[84]
Affrettossi Ruggiero, adunò navi ed uomini di varie parti d’Italia,[85] ritenne entro i suoi porti i legni mercantili che caricavano per Affrica o Spagna; e nel mese di giumadi primo del cinquecento diciassette, (27 giugno a 26 luglio 1123) fece salpare dal porto di Marsala trecento legni, tra di carico e di battaglia, con trentamila uomini e mille cavalli.[86] De’ quali numeri è da accettare l’ultimo soltanto: l’altro significa solo che l’armamento fu grosso. Capitanavano l’impresa, Abd-er-Rahman-en-Nasrani e Giorgio d’Antiochia, nominati di sopra.[87] La corte di Mehdia, dal suo canto, sapendo i preparamenti di Ruggiero, avea risarcite le fortezze della capitale, assoldata gente, raccolte armi e bandita la guerra sacra. Onde turbe infinite d’Affricani ed alcune tribù degli Arabi occupatori del paese, accorreano a Mehdia; attendavansi fuor le mura,[88] con gran sospetto de’ cittadini[89] che non si capacitavano come que’ ladroni veramente venissero a difender le loro vite e sostanze.
Così trepidavano gli animi, quando un legno siciliano gittato su la spiaggia da fortuna di mare, portò nuove dell’armata.[90] Battuta dalla tempesta e scema di assai legni che fecero naufragio, s’era l’armata siciliana ridotta alla spicciolata in Pantellaria,[91] com’avveniva il più delle volte, nelle spedizioni mosse dalla Sicilia contro l’Affrica o viceversa:[92] e però tanto uman sangue fu sparso in quella terra mezzo italiana e mezzo affricana, dove, alla fine dell’undecimo secolo, vedeansi biancheggiare ancora in una landa le ossa de’ Cristiani immolati dal furor musulmano.[93] Il furore crociato adesso ne prendea la vendetta. I Siciliani sbarcati in Pantellaria davano di piglio nelle persone e nella roba degli abitatori; finchè ragunate le navi, agognando maggior preda, salparon di nuovo alla volta dell’Affrica. Il sabato venticinque[94] di giumadi primo (24 luglio 1123), al tramonto del dì, gittarono le ancore, una diecina di miglia a tramontana di Mehdia, nell’isolotto di sabbia or nominato “Le Sorelle” ed allor Ahâsi,[95] che un breve passo, guadoso a cavalli ed a fanti,[96] disgiugnea dal Capo Dimas. Questo par abbia preso il nome da alcun antico edifizio che vi rimanesse; e s’appellava anco Dimas la terra murata che sorgea proprio in su lo Stretto, e racchiudeva in sè un castello fortissimo.[97]
Al dir degli Arabi, avea comandato Ruggiero che, occupata la terra e il castello, i cavalli e i fanti movessero in ordinanza sopra Mehdia, e le galee vi si appresentassero al tempo stesso; in guisa da assalirla a un tratto dalla terra e dal mare.[98] Chiaro egli è che i Siciliani fecero assegnamento sopra alcun capo d’Arabi, indettato da Abd-er-Rahman-en-Nasrani; che gli Arabi non poterono dare a’ Siciliani la terra di Dimas, perchè le milizie di Media li prevennero; e che, impedita perciò la mossa rapida di tutte le genti, il colpo di mano sopra Mehdia fallì. La notte stessa dello sbarco, piantate le tende de’ due capitani e de’ baroni dell’oste nell’isola di Ahâsi, un grosso di cavalli innoltrossi per parecchie miglia nel paese;[99] sorto poi il nuovo dì, i capitani con ventitrè galee[100] navigarono verso Mehdia, sopravvidero la fortezza, corsero fino al lido di Zawila: e per ogni luogo lor si appresentavano formidabili difese e grosse schiere d’armati; ma non si vedeano spuntar le insegne di Sicilia. Frustrati dunque, se ne tornarono ad Ahâsi; e seppero, per giunta, che una mano di soldati di Mehdia e d’Arabi aveano osato assalire il campo, uccider gente e far bottino, mentre i cavalli cristiani scorazzavano indarno la Terraferma.[101] A questo, i capitani fanno mettere a terra gli altri cinquecento cavalli;[102] attendano tutta l’oste in Ahâsi. Il dì appresso, che fu il terzo dopo lo sbarco, ebbero, per tradimento di un capo d’Arabi, il castello di Dimas, dove posero presidio di cento uomini;[103] la terra no, perchè vi trassero d’ogni luogo le turbe degli Arabi fedeli all’islam, e da Mehdia vi andò anco un grosso di soldati, per condurre l’assedio del castello.[104] Mutate le veci, gli assalitori siciliani si difendeano nel castello e nell’isolotto di Ahâsi, dal quale al capo Dimas non si passava senza fatica, sull’istmo inondato o Stretto guadoso che dir si voglia.
Quando una notte che fu la quarta dallo sbarco[105] e la trentesima[106] di giumadi primo (26 luglio), le turbe musulmane che occupavano Dimas, movendo assalto al castello, diedero a un tratto nel grido di Akbar Allah, che fece tremar tutte le piagge. Risentendosi a quel tuono, i Siciliani son presi da timor panico, si credono assaliti proprio nel campo; nè pensano allo Stretto, o lo tengono varcato già da tutta l’Affrica in arme. Gridano alle navi, alle navi; e corronvi senza guardare s’altri li insegua: i più valorosi arrestansi tanto da uccidere i proprii cavalli, perchè non se li abbia il nemico. Il quale, risaputa la rotta, passò in Ahâsi quando l’isolotto era pressochè sgombro; fece bottino di macchine da guerra, arnesi, armi, robe e di quattrocento cavalli, chè secento eran lì morti ed un solo n’era stato rimbarcato: due soli, disse un altro de’ retori che narrarono cotesto prospero successo dell’islam, gareggiando tra loro di tropi, arzigogoli, assonanze e ampollosità d’ogni maniera. Per otto dì, l’armata rimanea spettatrice degli assalti mossi contro il castello: ma non trovando modo di aiutare il valoroso presidio, nè potendo stare più lungamente tra quelle secche, diè le vele ai venti e man mano si allontanò, a vista di centomila pedoni e diecimila cavalieri, che le imprecavano da lungi:[107] il qual numero non sembra troppo, quand’altra fatica non rimanea che gridare Akbar Allah, raccogliere il bottino e scannar poche vittime. Rifiniti dal combattere dì e notte scarseggiando d’acque e di vitto, i cento chiesero d’uscire salva la vita; alcun di loro profferse larghissimo riscatto;[108] e la corte di Mehdia, per umanità, o timore che avesse tuttavia della Sicilia, pendeva allo accordo;[109] ma le fu vietato dalla moltitudine, fanatica e sanguinaria, degli Arabi. Dopo sedici giorni, i cento, affamati, arsi di sete, irruppero fuor del castello con la spada alla mano, e furon morti dal primo all’ultimo. Cento navi sole ritornarono in Sicilia delle trecento che n’erano partite.[110]
Sappiam noi le allegrezze che allor si fecero nella corte di Mehdia; abbiamo squarci d’una delle relazioni in prosa rimata che Hasan mandò per tutti i paesi musulmani;[111] abbiamo una kasîda d’Ibn-Hamdîs, che chiama eroe il fanciullo assiso sul trono di Mehdia e gioisce della desolazione di que’ medesimi Rûm che avean desolata la patria sua.[112] Ma nessuno scrittore nostrale ci descrive il lutto della Sicilia e dobbiam anco agli Arabi un racconto che dipinge al vivo l’onta e la rabbia della popolazione cristiana. Abu-s-Salt che poetava in quel tempo alla corte di Mehdia, dice essergli stato riferito da un Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Azîz, che un dì, nelle sale di re Ruggiero, gli venne visto un cavaliere franco, il quale lisciando la lunga sua barba, dicea fieramente: “per la santa fè di Cristo non ne raderò un pelo, se prima non piglierò vendetta di que’ cani di Mehdia.” “Che ha costui?” domandò Abd-er-Rahman: e gli fu risposto che nella rotta di Ahâsi ei s’era strappati i baffi con tal furore, da insanguinarsi tutto il volto.[113] Maggiore sdegno ardeva in cuore al magnanimo principe, che vide finir con tanto danno la prima impresa grossa del suo regno. Ma il disastro, anzi che sgomentarlo e spuntarlo dai suoi propositi, gli insegnò a scansare gli errori: e sì felice conoscitore degli uomini fu Ruggiero, ch’ei non tenne da meno l’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, dopo la sventura del capo Dimas.
La guerra continuò debolmente d’ambo le parti; poichè tacciono gli annali dell’una come dell’altra. Avvenne, sì, del luglio millecenventisette, che uno dei Beni Meimûn, ritornato con l’armata almoravide ne’ mari di Sicilia, assalì Patti, minacciò Catania e sbarcato in Siracusa, appiccò fuoco alle case, ammazzò, prese roba, donne, fanciulli, e riportonne quanto capìano le navi; scampato a mala pena il vescovo con molti cittadini.[114] A questa impresa probabil è che avessero partecipato i Musulmani d’Affrica; poichè Guglielmo di Tiro l’attribuisce del tutto a loro, ancorchè le memorie siciliane e le musulmane faccian parola de’ soli Spagnuoli. Ruggiero uscì incontanente con l’armata ad affrontare gli assalitori della sua terra; sapendosi ch’ei, nelli ultimi giorni di luglio, avea ripresa Malta e poneva ogni studio a togliere altre isole e terre a’ Musulmani, quando conobbe per tardo avviso la morte di Guglielmo Duca di Puglia: ond’ei lasciata a mezzo l’impresa, navigò in furia alla volta di Salerno con sette galee.[115]
E, tra le fatiche della nuova guerra, ei pensò pure ai Musulmani della costiera orientale di Spagna. Un documento degnissimo di fede ci fa sapere che l’inverno seguente, posando Ruggiero in Palermo e riordinando le forze, trattò una lega con Raimondo III, conte di Barcellona; per la quale cinquanta galee siciliane doveano andare la prossima state a combattere contro i Saraceni spagnuoli, insieme con le genti di Raimondo, a patto che le terre conquistate e sì i prigioni e il bottino, fossero divisi in parti uguali tra i due principi. Il conte di Barcellona avea mandati a questo effetto oratori in Palermo un Pietro Arcidiacono e un Raimondo; e Ruggiero, con lettere date dal palazzo di Palermo il diciassette gennaio millecenventotto, gli rinviava, ambasciatori suoi, Guglielmo di Pincinniaco e Sansone di Sordavalle; in man de’ quali il Barcellonese dovesse giurare le condizioni della lega, secondo una minuta che fu distesa lo stesso dì.[116] Se Raimondo III abbia ratificato, non si ritrae. Di certo l’impresa non fu eseguita; nè potea, perchè Ruggiero, al tempo prefisso, fronteggiava ancora l’esercito papale.
CAPITOLO II.
«Siccome un tempo Iddio volle o permesse che la violenza de’ sopravvegnenti Normanni calcasse la dominante malvagità dei Longobardi, così ora è stato di lassù conceduto o sofferto a Ruggiero di abbattere con la spada l’immensa iniquità di cotesti nostri paesi. Quale scelleratezza qui ci mancava? Perpetravansi continuamente, senza ritegno di timore alcuno, omicidii, furti, rapine, sacrilegi, adulterii, spergiuri, oppressioni di chiese e di monasteri, dispregi a’ servi di Dio e cento altri misfatti: perfino i pellegrini che viaggiano per amor di Dio, erano svaligiati e talvolta uccisi, per nascondere il ladroneccio. Da’ quali eccessi gravemente offeso, Iddio ha tratto Ruggiero dall’isola di Sicilia, come tagliente spada dal fodero; e, impugnatala, ha percossi i prevaricatori a fine di reprimerli; ha ricondotti con quel terrore, alle vie della giustizia, gli incorreggibili, tollerati sì a lungo.» Così l’abate di Telese;[117] il cui criterio teologico non toglie fede alla testimonianza dei fatti. Ne’ principii del duodecimo secolo, il ducato di Puglia e tutta la terra che stendesi fino allo Stretto di Messina, era caduto in pretta anarchia. Tra il papa, il duca, i grandi suoi feudatarii e i principi o municipii rimasi indipendenti, non si sapea pur chi fosse il sovrano; onde ognun volea fare a suo modo e nessuno ubbidire.
I signori della Sicilia ch’aveano tronca ormai da molti anni la quistione della sovranità,[118] entrarono in quelle brighe per cagion della Calabria; dove i baroni, imitando i lor vicini di Puglia, si provavano a chiamare il duca per sottrarsi al conte.[119] Ma il secondo Ruggiero non solamente domolli, ei colse anco il destro a ingrandirsi. Or passava in Calabria con grande esercito ad ardere le castella de’ contumaci (1121); ora, negoziando col duca Guglielmo, ricusava la mediazione del pontefice romano (1122) per fermare gli accordi da solo a solo (1123). Ne’ quali, parte con danari, parte con aiuti di milizie, fece rinunziare il duca ad ogni diritto su la Calabria: poscia comperò da lui l’altra metà di Palermo; e in fine la successione al ducato, se morisse Guglielmo senza figliuoli.[120]
Avverassi questo caso entro un anno. Ruggiero allora (agosto 1127) lasciata, come dicemmo, l’impresa navale contro i Musulmani, sopraccorse a Salerno, principale città del ducato; piaggiò municipii e feudatarii; combattè quei che non s’acconciavano; e fu riconosciuto duca di Puglia da tutti, fuorchè dal papa, che ambiva anch’egli quelle province. Indi le scomuniche; l’andata di Onorio II a Troia, dov’ei si fece dar dai baroni giuramento di cacciare o uccidere Ruggiero;[121] e, seriamente, rimesse tutte le peccata a chi morisse in questa guerra e la metà delle peccata a chi n’uscisse vivo.[122] Divampando a tali incitamenti la guerra civile, Ruggiero andò a rifornirsi di gente in Sicilia e ripassò in Terraferma; Onorio mossegli incontro con più grosso esercito di Romani e dissidenti Pugliesi: ma tenuti a bada dal siciliano, si diradarono a poco a poco; e il gran sacerdote combattente miglior partito non ebbe che di concedere a Ruggiero l’investitura del ducato (agosto 1128). Ruggiero domò poi i baroni più ostinati; vide riconosciuta l’autorità sua dal principe di Capua e dal duca di Napoli: convocato un parlamento a Melfi, bandì la pace pubblica; che i baroni non guerreggiassero l’un contro l’altro; e non opprimessero, nè lasciassero opprimere i prelati, frati, pellegrini, mercatanti, artigiani, agricoltori (1129). Tenuto non guari dopo un convegno di ottimati pugliesi a Salerno e un parlamento generale in Palermo, Ruggiero si fece dar titolo di re, e ne prese la corona, con lusso orientale, nel duomo della metropoli siciliana, il venticinque dicembre del millecentotrenta.[123]
Atto audace, parso temerario a contemporanei in Italia e fuori, e pur consigliato da senno politico e dalle idee di governo che prevaleano a corte di Palermo, tolte dal diritto pubblico bizantino, dal musulmano e dalla riforma degli ordini feudali che quella generazione stessa avea inaugurata in Inghilterra ed a Gerusalemme. Il principe della Sicilia gareggiava ormai per territorio e forze militari coi primari monarchi d’Europa e vinceali tutti di ricchezza: ond’era giusto si ragguagliasse in dignità a loro, ed al papa nel poter temporale, e s’innalzasse di molto sopra i baroni. A ciò s’aggiunga che l’opinione del secolo attribuiva singolari prerogative ai re unti e coronati; e tra quelle la suprema giurisdizione criminale, ch’era appunto il massimo bisogno dei popoli in Puglia e la più nobile ambizione di Ruggiero. Non volle egli forse costituire quel che or diremmo Stato unitario, ma vi si accostò di molto, creando un reame di Sicilia e di province annesse, alle quali poi dette il nome d’Italia, com’avean talvolta fatto i duchi di Puglia suoi predecessori. Attribuì il titolo regio alla Sicilia soltanto; e scusossi quasi dell’ardire, pretestando ch’egli, lungi dal far novità, ripigliasse l’antica prerogativa dell’isola: con che, s’io mal non mi appongo, si alluse agli emiri Kelbiti, piuttosto che ai tiranni greci. Del rimanente mancano molti particolari di questa transizione di diritto pubblico, perchè Ruggiero, studioso d’offendere la corte di Roma il men ch’ei potesse, mutò volentieri le parole, mantenendo sempre il fatto, il quale mandava a monte la pretesa sovranità feudale del papa su la Puglia e la Calabria.[124] E però le precauzioni cancelleresche, nè l’arte di gittar questo dado mentre la Chiesa romana si travagliava in uno scisma, non tolsero che Innocenzo II, succeduto ad Onorio, ridestasse immantinenti la guerra civile contro Ruggiero, il quale seguì le parti di Anacleto antipapa. E sursero contro il re molti di que’ medesimi baroni e municipii di Terraferma che gli aveano testè assentita la corona.
Durò da nove anni la guerra, nella quale Ruggiero ebbe ad affrontare or le grandi città, or i baroni collegati, or i navilii pisani, or i grossi eserciti dell’imperatore Lotario, or le filippiche di san Bernardo e sempre il braccio spirituale e temporale del papa. Combattè Ruggiero per mare e per terra; conseguì vittorie e toccò sanguinose sconfitte; s’aiutò con le arti non meno che con la forza, e con la strategia più che con l’impeto; spaventò i ribelli con atti crudeli e con la feroce licenza delle sue genti. Usava ogni anno svernare in Sicilia, raccogliervi forze e tornare in Terraferma all’entrar di primavera; e molto gli giovarono le numerose navi da guerra, e le compagnie stanziali; molto la fierezza de’ Musulmani di Sicilia e la perizia de’ loro ingegneri. Rimaso al re l’avvantaggio, papa Innocenzo volle ritentare per l’ultima volta la fortuna delle armi. E fu sconfitto e preso il ventidue luglio del millecentrentanove, presso San Germano: dove il vincitore e i suoi figli umilmente gli si gettarono a’ piedi; ma con ciò gli fecero soscrivere il dì venticinque la pace e il dì ventisette la bolla che investiva Ruggiero e i successori del regno di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capua; non senza ricordare i meriti dello zio, Roberto Guiscardo e del padre Ruggiero, e il grande amore che la sede apostolica avea sempre portato a lui stesso.[125]
Or l’argomento nostro richiede che si tratti più largamente della parte ch’ebbero i Musulmani in questa guerra. Scarse notizie se ne ritraggono, poichè i narratori cristiani, amici o nemici di Ruggiero, ricordano più volentieri i vizii che le virtù di quegli Infedeli, i quali spargeano il sangue per rassodare un trono, fondato in parte con gli elementi stessi di loro civiltà. Ci si racconta che Bari stette una volta per ribellarsi, perchè gli ingegneri saraceni mandati dal re a murare novella fortezza, aveano ucciso in rissa il figliuolo d’un nobile cittadino; onde furono popolarmente ammazzati parecchi di loro e sospesa la costruzione.[126] Nè bastò ai Baresi questa vendetta; poichè, occupata la città dal papa e dall’imperatore Lotario ed espugnata la fortezza del re, impiccarono tutti i Saraceni del presidio.[127] Sappiamo che nell’assedio di Montepeloso (1133), celebre per valore e costanza d’ambo le parti, Ruggiero espugnò un bastione circondato di profondo fosso, facendovi appressare una torre mobile a ruote, dalla quale i Saraceni, giunti ch’e’ furono al ciglione del fosso, gittaron dentro travi ed assi per far ponte e s’ingegnavano a coprire il legname con terra tolta a’ ciglioni e sassi divelti dalle mura a forza d’uncini, quando gli assediati appiccarono il fuoco e i saraceni lo spensero con acqua condotta per un doccione di legno; sì che alla fine fu varcato il fosso, preso il bastione e con esso la città.[128] Romualdo Salernitano scrive che il medesimo anno si noveravano nell’esercito del re tremila cavalli e seimila tra fanti, arcieri e Saraceni;[129] e Falcone Beneventano rincalza che furon tutti Saraceni, che fecero inorridire il paese con la crudeltà e libidine loro, e che Ruggiero, degno capitano di tal gente, commesse atti d’inaudita barbarie sopra i Cristiani.[130] Per vero i seguaci delle due religioni incrudeliano a vicenda. Nella prima guerra di Ruggiero, il presidio d’un castello assediato da Siciliani, Calabresi e Saraceni, fatta una sortita, al dir di Romualdo Salernitano, avea dilagato il campo nemico di sangue.[131] Il millecentrentadue, nella ritirata del re da Benevento a Salerno, fu colto da’ nemici un drappello di Saraceni, ne furono ammazzati non pochi e mandata a Capua la testa del più famoso; di che Ruggiero accorossi molto e ne giurò vendetta.[132] L’abate Guibaldo, che scrisse in quel tempo (1137) all’imperatore Lotario de’ guasti recati allo Stato di Monte Cassino da’ Musulmani di Sicilia e non men di loro da’ Normanni e dai Longobardi dello esercito, esagera al certo ma par non mentisca del tutto, quand’ei narra che dopo saccheggiate le case, tagliavano gli alberi, prendeano i frati e i contadini, li legavano con ritorte o metteanli a’ ceppi e alla tortura e li vendeano schiavi; ardean le chiese, e non contenti, atterravano le mura che fossero rimase in piè; mentre il Cancelliere del re, venuto al monastero, lo mutava in fortezza, cacciava i monaci e riportava in Sicilia tutto il tesoro e la suppellettile.[133]
Nella varia fortuna di coteste guerre, non dimenticò Ruggiero le cose dell’Affrica. Sette anni dopo la rotta del Capo Dimas, i vinti erano mutati in patroni. Hasan avea fermata la pace con Ruggiero a patti che in Affrica parvero disonorevoli; i quali dettero al principe di Bugia occasione o pretesto di muover contro Mehdia, chiamato da alcune tribù di Arabi e da cittadini sdegnati, che gli prometteano di aprir le porte. Correva il cinquecenventinove dell’egira (22 ottobre 1134 a 10 ottobre 1135). Hasan chiese aiuti a Ruggiero; e stretto per mare e per terra, fece ammenda della pusillanimità de’ consigli, con la prodezza della persona: finchè arrivate venti galee di Sicilia, alle quali il re avea data commissione di stare a’ comandi di Hasan, bloccarono immediatamente il navilio nemico e distruggeanlo, se non li riteneva il principe zirita, ripugnando, com’ei disse, allo spargimento di sangue musulmano e bramando per certo di fuggir l’odio che gli sarebbe venuto da quest’altro scandalo. Que’ di Bugia si ritrassero a precipizio; l’armata cristiana ritornò in Sicilia; ma ricomparve indi a poco innanzi le Gerbe.[134]
Fertilissim’isola del golfo di Kâbes, congiunta alla Terraferma per una tratta di seccagne che danno quasi non interrotto il guado a’ cavalli; celebre nell’antichità; coltivata d’ogni tempo coi prodotti del suolo europeo e dell’affricano; ricca anco d’industrie: ma gli abitatori, Berberi di varie famiglie e seguaci di due sette musulmane molto invise all’universale, s’erano, per giunta, dati alla pirateria in su la fine dell’undecimo secolo e ricusavano obbedienza a’ Ziriti quantunque volte non fosservi costretti con la forza. Bella era dunque la preda, indifesa e legittima agli occhi stessi de’ Musulmani.[135] Ruggiero mandovvi un’armata, montata da Musulmani e Cristiani di Sicilia, con un drappello di eletti cavalieri; la quale giunse in su lo scorcio di settembre o l’entrar d’ottobre del millecentrentacinque. Le navi circondarono l’isola per togliere ogni scampo. I Gerbini pugnarono valorosamente per le famiglie e la roba loro; ma, dopo varii scontri, furono sopraffatti, uccisi a migliaia; rapito ogni cosa; le donne e i bambini recati in Sicilia a vendere ai Musulmani. I superstiti ottennero l’amân da Ruggiero; ricomperarono le donne e’ figliuoli;[136] ma i più furon fatti servi della gleba, e l’isola affidata ad un ’âmil[137] come le altre terre demaniali della Sicilia.
Sarà agevol cosa ritrovare a un di presso i patti che strinsero in questo tempo lo Stato di Mehdia al reame normanno d’Italia. È da supporre in primo luogo la permissione reciproca del commercio e la sicurtà delle persone ed averi de’ naviganti e de’ mercatanti avventizii o residenti: precipua condizione de’ trattati che si fermarono tra Italiani e Musulmani per tutto il medio evo.[138] E n’abbiam prova positiva nel presente caso: i fattori di Ruggiero imprigionati e i capitali staggiti, nella briga del millecendiciassette.[139] Cotesti patti ed altri secondarii, duravano, com’egli è verosimile con mutazioni di poco momento, fin dal millesettantotto:[140] stipulati sempre per pochi anni e rinnovati; e par si ripigliassero dopo il millecendiciassette, fino alla guerra del Capo Dimas (1123). Il millecentrentacinque, non che la pace, occorre, com’abbiam testè accennato, una lega, quantunque non se ne conosca appunto la data, nè la cagione, nè i capitoli. Ibn-Abi-Dinâr scrive che “Hasan temendo la malvagità del re, mandògli be’ presenti e soscrisse tutti i patti che piacquero a quel Maledetto.”[141] Dopo l’assedio degli Hammaditi e l’aiuto navale, ripiglia il compilatore, che Hasan “ringrazionne il Maledetto e gli promesse di stare ormai ad ogni suo comando o divieto; onde i due principi divennero più intimi che mai e le faccende di Hasan si raddrizzarono:” e, narrato il caso delle Gerbe che seguì a capo di pochi mesi, ei viene a questa sentenza che “le Gerbe e lo Stato di Mehdia si sottomessero al re di Sicilia e tutta l’Affrica (propria) lo temè; onde il Maledetto insolentì peggio che mai contro il povero Hasan, il quale si schermiva, com’ei potea, con le buone parole.”[142]
Fatta la tara, tuttociò vuol dire che tra il millecenventisette e il trentaquattro, mentre Ruggiero si rassodava sul trono dell’Italia meridionale, la povertà e i pericoli dello Stato di Mehdia e sopratutto la carestia, aveano condotto Hasan ad accettare, oltre i commerciali, de’ nuovi patti politici; tra i quali è da supporre una lega difensiva e un prestito di danari o di grani.[143] Debole Stato e debol principe, circondati di nemici, gittavansi in braccio del più lontano, più potente, e, come lor parea più generoso. Spirato poi o infranto quel trattato nel millecenquarantuno e rincrudita la fame, “il Maledetto, al dire d’Ibn-Abi-Dinâr, volle onninamente altri patti; i quali Hasan, avendo accettati, divenne suo vassallo, anzi un de’ suoi governatori di città, e il trattato veramente non fu che una solenne perfidia.”[144] La narrazione proverà tantosto che, tra le altre cose, Hasan assentì fosse buono acquisto a Ruggiero ogni paese independente di fatto da Mehdia ed obbligossi ad aiutare il re di Sicilia contro i Musulmani che, disdetta la dominazione siciliana, volessero tornare a quella degli Ziriti. Il biasimo che Hasan si fosse fatto ’âmil di Ruggiero, mi porta a supporre che i patti economici furono tanto leonini quanto i politici e che il re di Sicilia pose commissarii sopra le dogane di Mehdia per sicurtà dei crediti suoi; i quali doveano montare a somme grossissime di danaro e proveniano, tutti o la più parte, da prezzo di grani forniti dal re: prezzo di carestia, fissato da un creditore padrone di eserciti e d’armate. A costui favore dovea traboccar anco la bilancia in ogni altra condizione accessoria risguardante il traffico; di che abbiamo vestigie certe nel numero delle chiese e de’ Cristiani ch’erano in Mehdia il millecenquarantotto. Fondata da Obeid-Allah il novecentoquindici, quella città non ebbe chiese, essendo vietato da legge musulmana di murarne delle nuove:[145] e se i bisogni commerciali e la coscenza larga de’ Fatemiti, dan luogo a supporne tollerate con l’andar del tempo ne’ fondachi cristiani, par non fossero gran cosa il milleottantasette; poichè non se ne fa parola dagli scrittori affricani, nè dai nostri, in quell’assalto di Mehdia. E posto pur che i fondaci italiani si fossero allargati pei trattati fermati con Genova e con Pisa dopo quel caso, ognun vedo che l’ingrandimento del quartiere cristiano e l’edificazione delle chiese van riferiti piuttosto agli ultimi anni, quando Ruggiero comandava almeno quanto Hasan nel rimpiccolito territorio de’ Ziriti. Giorgio d’Antiochia, primo ministro di Sicilia, lo conoscea dentro e fuori; vi tenea suoi rapportatori;[146] facea partigiani tra gli Arabi della campagna e nella popolazione mista delle città e villaggi, e insieme col re aspettava che il frutto fosse ben maturo, per coglierlo comodamente.
Ed aiutavano a maturarlo. Il cinquecentrentasei dell’egira (6 agosto 1141 a 26 luglio 1142) la carestia s’era aggravata orribilmente in que’ paesi: una morìa le tenne dietro. Parve allor a Ruggiero proprio il caso di riscuotere i danari che Hasan avea tolti in prestito da’ suoi fattori in Mehdia: e rispondendo l’Affricano ch’ei non poteva, e chiedendo nuove dilazioni, il re mandò improvvisamente Giorgio con venticinque corvette; il quale prese e menò in Sicilia certi legni mercatanteschi venuti d’Egitto, ricaricati in Mehdia, e pronti a partire, come avvisavano le spie dello ammiraglio. Si cita in particolare la nave rifatta recentemente da Hasan co’ materiali d’una del califo fatimita d’Egitto testè naufragata:[147] e cotesti episodii provano sempre più il traffico onde arricchivansi i principi musulmani d’Egitto e d’Affrica, e ad esempio loro i Normanni e gli Svevi di Sicilia. Giorgio, piombato un’altra volta entro il porto di Mehdia, presevi il Mezzo Mondo, com’addimandossi una nave che Hasan avea con molta cura allestita per l’Egitto e aveavi imbarcato, per farne dono al califo Hâfiz, gran copia di robe preziose, degne di un re.[148] Invano Hasan tentò di mitigare il re di Sicilia rimandandogli buon numero di prigioni cristiani.[149] S’ei volle torsi dinanzi gli occhi Giorgio d’Antiochia ed avere un po’ di grano dalla Sicilia, convenne far ogni voglia di Ruggiero, stipulando nuovo trattato, quello appunto che ai Musulmani sembrò vero atto di vassallaggio.[150]
Ecco l’anno seguente (27 luglio 1142 a 15 luglio 1143) l’armata siciliana appresentarsi a Tripoli di Barbaria; la quale città, sciolta dalla signoria di Hasan, si reggea per un senato della tribù de’ Beni-Matrûh. Il nove dsu-l-higgia (25 giugno 1143) sbarcarono i Siciliani, tentarono l’assalto e cominciarono a far breccia nel muro con gli uncini, come già nell’assedio di Montepiloso; e vincean la prova, se non che il dì appresso, accorsi gli Arabi dalla campagna, i cittadini ripigliaron cuore, fecero tutti insieme una sortita; nella quale ricacciarono gli assalitori alle navi, e lor presero armi, attrezzi e cavalli.[151] Ritornato il navilio in Sicilia e rifornitosi, approdò alla piccola terra di Gigel, soggetta agli Hammaditi di Bugia. Gli abitatori, non aspettato lo sbarco, si rifuggirono ne’ monti e nelle campagne; la terra fu saccheggiata ed arsa; distrutta anco dall’incendio una villa de’ principi Hammaditi, che ben s’addimandava la Nozaha, e suona “Delizia” in nostro linguaggio.[152] Il cinquecentrentanove (4 luglio 1144 a 23 giugno 1145) l’armata corse la costiera d’Affrica, pigliò la terra di Bresk a ponente di Scerscell (Cherchell); uccisevi gli uomini, menò prigioni le donne per rivenderle a’ Musulmani in Sicilia.[153] Toccò la stessa sorte il cinquecenquaranta (24 giugno 1145 a 12 giugno 1146) all’isoletta di Kerkeni; la quale sendo vicina troppo alla capitale, Hasan osò lagnarsi con Ruggiero e ricordargli il trattato; ma quei gli rispose non averlo infranto, sendo que’ di Kerkeni ribelli come gli altri abitatori della costiera.[154]
Dov’era intanto l’armata di Mehdia? Le memorie musulmane non ne fanno ricordo dopo la morte di Ali-ibn-Iehia (1121) e, se uno scrittore cristiano le attribuisce il saccheggio di Siracusa (1127) par ch’ei prenda la parte pel tutto.[155] Rimanean forse al principe zirita poche navi, le quali furono adoperate a’ traffici con la Sicilia e l’Egitto, piuttosto che alla guerra; eran qua e là ne’ porti, nelle cale e nelle isolette dell’antico Stato, fedeli o ribelli, molte barche grosse da potersi armare, e corsari anco di mestiere; ma tuttociò non facea navilio: la povertà dello Stato, fors’anco la trascuranza de’ reggenti di Hasan, avea sciupato quell’organo vitale della dinastia. Ormai da Barca a Tunis, gli abitatori della costiera s’ausavano a vedere il possente navilio siciliano, in vece delle poche harbîe zirite, ed a temer quello soltanto, a sperarne aiuto contro il principe disdetto o le fazioni cittadine.
Ruggiero non lasciò invendicata a lungo la sconfitta di Tripoli. Due anni appresso, un’armatetta siciliana avea dato il guasto ai dintorni e riportatone bottino e prigioni.[156] A capo d’altri due anni, uno sforzo di dugento vele portò a compimento l’impresa. L’oligarchia arabica dei Beni-Matrûh era stata di recente scacciata da una parte avversa. Berberi com’e’ sembra, i quali avean chiamato a reggere il paese un emir almoravide, capitato in Tripoli con piccolo stuolo che andava in pellegrinaggio alla Mecca. Ancorchè nol dicano i cronisti, gli è da supporre che Giorgio d’Antiochia, capitano dell’armata siciliana, si fosse indettato coi Beni-Matrûh. Il tre di moharrem del cinquecenquarantuno (15 giugno 1146) principiò Giorgio gli assalti; e combatteva ancora il dì sei, quando d’un subito si videro scomparire i difensori d’in su le mura; perchè i Beni-Matrûh, avvisati da’ partigiani della città, erano rientrati con le armi alla mano e s’era appiccata la zuffa. I Siciliani allora, prese le scale, superavano le mura, occupavan la terra, co’ soliti effetti di strage, saccheggi, distruzione, cattività di donne; e gli uomini d’ambo le parti si rifuggiano nel contado, chi presso gli Arabi, chi presso i Berberi. Soddisfatto all’onor della bandiera e alla cupidigia de’ soldati, Giorgio non tardò a dimostrare che il governo siciliano volea veramente impadronirsi dell’Affrica. Bandisce amân generale, talchè tutti i fuggitivi ritornano a lor case; li ammonisce a stare in pace tra loro; promulga piena guarentigia de’ diritti civili, sol che si paghi la gezìa al re di Sicilia. Ristorò intanto le mura della città; circondolla d’un fosso: e lasciatovi forte presidio di Cristiani e Musulmani di Sicilia, presi statichi de’ Tripolitani e con essi portato via l’Almoravide e i Beni-Matrûh, ritornò con l’armata in Sicilia, sei mesi dopo l’espugnazione. Di lì a poco, la corte di Palermo rese gli statichi, fuorchè que’ dello sceikh Abu-Jehia-ibn-Matrûh, della tribù arabica di Temîm, eletto governator della terra; posevi cadì il berbero Abu-Heggiâg-Jûsuf-ibn-Ziri, autor di un’opera di giurisprudenza malekita, e pattuì, dice il Tigiani, che il capitan cristiano del presidio non potesse mai disdire i provvedimenti del governatore, nè del cadì. Ripiglia Ibn-el-Athîr che in tal modo il reggimento di Tripoli fu condotto egregiamente; che trasservi di Sicilia e di tutta Italia i mercatanti e le merci. Aggiugnesi in un codice d’Ibn-Khaldûn che fu bandita in Sicilia una grida per la quale era invitato ad emigrare in Tripoli con franchige al certo, chiunque volesse: “onde la gente vi affluì, e la città fu ripopolata.” In breve la divenne prospera e ricca,[157] mentre il rimanente della Barbarìa e gran parte dell’Asia anteriore sentian le dure strette della fame.[158]
La quale, rincrudita, sì come abbiam detto, il millecenquarantuno, straziò que’ paesi affricani nell’inverno dal quarantasette al quarantotto. Dalle aperte lande, dalle ville e da’ villaggi traean pastori e contadini alle terre murate, dove si tenea in serbo un po’ di vivanda: ma i cittadini sbarravano le porte, ributtavano con l’arme le turbe affamate, onde quei miseri si uccideano e spesso mangiavansi tra loro, quando non li prevenia la morte di pestilenza o digiuno. La Barbarìa spopolossi; i benestanti fuggivano in altri paesi, la più parte in Sicilia, a cercar pane e sicurezza: ma anch’essi ebbero a patire orribili stenti.[159]
Tra tanta desolazione surse da un harem di Kâbes tal briga che fe’ cader di queto la città nelle mani di Ruggiero. Morto il cinquecenquarantadue (2 giugno 1147, 21 maggio 1148) Rescîd, successore di quel Rafi’-ibn-Kâmil del quale ci è occorso di far parola,[160] e diseredato il primogenito Mo’mir, fu retto lo Stato dal liberto Jûsuf, a nome del fanciullo Mohammed, minor figliuolo di Rescîd. Jûsuf usurpò anco le donne del suo signore: tra le quali una giovane de’ Beni-Korra, tribù d’Arabi, non soffrendo l’ingiuria, scrisse a’ suoi fratelli; i quali ridomandaron la donna, ma Jûsuf ricusolla. Chieserne giustizia ad Hasan, e questi, credendo ancora di regnare entro i confini antichi, comandò a Jûsuf di rendere la schiava; disubbidito minacciò; e deriso, apprestava le armi. Jûsuf allora profferse al re di Sicilia di tenere lo Stato di lui a nome di Mohammed-ibn-Rescîd, nei termini stessi con che Abu-Iehia reggea Tripoli: Ruggiero accettò; mandò al vil servo un diploma di nominazione e le solite vestimenta officiali, al dire d’Ibn-el-Athîr; un diploma e le decorazioni usate tra i Cristiani, scrive più precisamente Ibn-Abi-Dinâr. Jûsuf convocò solennemente gli ottimati; fe’ leggere in pubblico il diploma; indossò la divisa e cominciò a condurre il governo e riscuotere l’entrate a nome di re Ruggiero. “Scampami oh Dio, sclama qui il compilator tunisino del diciassettesimo secolo, scampami da tai maledizioni! Si hanno a chiamar Musulmani costoro, o Satanassi? Ahi, che precipitolli a tanta vergogna la cupidigia de’ beni mondani e della dominazione: la cupidigia che rende l’uom cieco e sordo!” Invece di moralizzare, il soldato di Saladino che mette in carta, freddo e accurato, gli annali musulmani, allarga qui lo stile a narrar la punizione di Jûsuf e de’ suoi satelliti. In un capitolo apposta, intitolato: “Racconto di un caso dal quale convien si guardi chi ha giudizio,” ei narra che, trovatisi insieme a corte di Ruggiero un legato di quell’usurpatore ed uno di Hasan, e trascorsi a bisticciarsi tra loro, quel di Kâbes ne disse quante ei ne sapea contro il signor di Mehdia. L’altro se le serbò. Ripartito di Palermo ad un tempo con l’avversario, mandò ad Hasan uno spaccio a collo di colomba: onde legni armati uscirono di Mehdia, appostarono il legno di Kâbes, presero l’ambasciatore, lo condussero dinanzi Hasan; il quale, rinfacciatogli il tradimento e le ingiurie, lo fe’ condurre in giro per le strade di Mehdia, legato sopra un cammello, con un berrettone in capo guarnito di sonagli e il banditore allato che gridava “Ecco il guiderdone di chi da’ a’ Franchi i paesi dell’Islâm.” Arrivato nel bel mezzo della città, il popolaccio lapidò quello sciagurato e appese il cadavere a un palo. Si levò poi il popolo di Kâbes contro Jûsuf, al comparire d’un piccolo esercito ch’avea accozzato Hasan, insieme con Mo’mir, e con Mohriz-ibn-Ziâd, capo d’Arabi, il quale, afforzato ne’ ruderi di Cartagine, iva sognando gran cose.[161] Jûsuf, serrato nel castello, si difese quant’ei potè; alfine ei fu preso e consegnato a Mo’mir, e da questi a ’Beni-Korra, i quali lo fecero perire di supplizio osceno ed atroce. Un Isa, fratello di Jûsuf, recò i figliuoli di lui, fors’anco il fanciullo Mohammed-ibn-Rescîd, in Sicilia, chiedendo vendetta.[162]
In questo tempo Giorgio d’Antiochia con l’armata infestava le isole Jonie e il Peloponneso.[163] Par dunque fossero state assai poche le navi siciliane che andarono immantinente ad assediare Kâbes e ritornarono senza frutto.[164] D’altronde a che affaticarsi intorno una bicocca? Ruggiero ormai dovea smettere l’impresa d’Affrica o compierla subito a Mehdia stessa; poichè Hasan già s’accostava a possenti capi Arabi: poc’anzi contro Kâbes, ed ora contro Tunis. Era forza, inoltre, che si risentisse in Affrica il contraccolpo della crociata di San Bernardo. Ruggiero, pacificato co’ fautori del papa, ma ad un tempo minacciato da’ due imperatori, entrò nelle pratiche della crociata, per assicurarsi da quello di Germania e volgere le armi della croce contro il bizantino; profferse aiuti, die’ consigli: e non ascoltato, volle far le viste di pugnar anch’egli per la Fede, mentre Tedeschi e Francesi, passato il Bosforo (settembre ed ottobre 1147) travagliavansi indarno in Siria; e i Cristiani di Spagna, insieme con Inglesi e Normanni, combattevano gli Infedeli in Portogallo, e insieme coi Genovesi, lor prendeano Almeria e s’apprestavano ad espugnare Tortosa. Assaltando l’Affrica dunque nella state del quarantotto, il re di Sicilia comparia per la prima volta nel grande accordo cattolico; ne usava gli avvantaggi; e ci guadagnava anco di esercitare alla guerra e mantenere ad altrui spese il grosso navilio, armato l’anno avanti contro Manuele Comneno e necessario tra non guari a difendersi dall’impero bizantino, ovvero ad assalirlo nuovamente.[165] I compilatori musulmani, ignari di tuttociò, appongono a Ruggiero più crudele malizia: ch’ei volle usare la carestia ond’era afflitta l’Affrica, e che affrettossi, temendo non gli fuggisse l’occasione. Nè forse vanno errati del tutto. Dobbiam noi supporre nella più parte dell’Affrica propria quel che sappiamo di Mehdia: disordinate, cioè, per cagion della fame, le milizie, morta la più parte de loro cavalli, esausto l’erario, e prostrate tutte le forze sociali.[166] Que’ notabili, infine, venuti a cercare scampo in Sicilia, eran buoni strumenti in man d’uomini come Ruggiero e Giorgio, se non foss’altro, per dare ragguagli. Nè potea mancar la tradigione in quel manifesto precipizio di casa Zirita. Sappiamo che un kâid, venuto negli ultimi tempi, messaggiere di Hasan in Palermo, se ne tornò a casa coll’ amân di Ruggiero che gli assicurava la vita e la roba, per sè e’ suoi.[167]
Entrando la state, Giorgio salpò dai porti di Sicilia, con dugencinquanta legni carichi di uomini, d’armi e di vittuaglie. Approdato alla Pantellaria, fece prendere improvvisamente una barca mandata da Mehdia a sopravvedere le sue mosse; vi trovò le gabbie de’ colombi messaggeri; giuratogli dall’ufiziale di Hasan non essere stato spacciato altro avviso, costrinselo a scrivere di propria mano, come de’ legni testè arrivati di Sicilia portavano che l’armata degli Infedeli fosse partita per l’Arcipelago. Grande allegrezza destò in Mehdia cotesto annunzio; ma non durò oltre l’alba del lunedì, due sefer del cinquecenquarantatrè (22 giugno 1148) quando comparve all’orizzonte tutto il navilio siciliano, che a forza di remi penosamente s’avvicinava, contrastato da un gagliardo vento. Avea Giorgio misurato il cammino in guisa da por la gente su l’istmo innanzi giorno; talchè all’aprir le porte della città, le si trovassero guardate di fuori ed anima viva non ne scampasse. Ma fallito, per cagion del vento, cotesto disegno, l’Antiocheno cercò di tener a bada i cittadini finchè tutta l’armata potesse arrivare a terra. Gittata l’àncora lungi dal porto, mandò per un suo legnetto veloce a dire ad Hasan, non temesse; ei veniva amico e leale osservatore de’ trattati; chiedea soltanto gli desse in mano gli uccisori di Jûsuf e, non potendo, inviasse le sue genti per combattere insieme con quelle del re contro gli occupatori di Kâbes. Convocati dal principe i dottori della legge e gli ottimati, non era chi non capisse che suonava l’ultim’ora di casa Zirita: nondimeno i più animosi consigliarono la difesa. Hasan, fosse abnegazione o sgomento, e ch’e’ si vedesse intorno visacci da traditori, troncò la disputa. Ricordò le milizie poche e lontane, a campo a Tunis; la città aver appena vivande per un mese; circonderebbela il nemico per mare e per terra e la prenderebbe inevitabilmente per battaglia o per fame: ed allor che avverrebbe? Più che il regno, più che i suoi palagi, egli amava i Musulmani; volea camparli dalle uccisioni, dal saccheggio, dalla cattività. “Io non manderò mai, conchiuse, i miei insieme coi Cristiani a combattere Musulmani: nè a prezzo di tanta infamia pur salverei la città, sol darei tempo al nemico di coglierci tutti alla rete. Non v’ha scampo che nella fuga. Io monto a cavallo e chi vuole mi segua.” E fatto un fascio delle cose più preziose e manesche, andò via in fretta, con la famiglia e gli intimi suoi. Molti cittadini gli tenner dietro; portando seco le donne, i figliuoli, il danaro e la roba di pregio, come ciascun potea. Molti si nascosero nelle case de’ Cristiani e nelle chiese.
Sbarcato Giorgio in su l’ora di vespro,[168] senza trar colpo, fece da buon massaio, pratico de’ luoghi e delle usanze, e da statista savio ed umano. Corre difilato alla reggia; la quale trovando intatta, mette i suggelli alle porte de’ tesori, pieni di belli e preziosi arredi e d’ogni cosa più rara, accumulata per due secoli dalla schiatta di Zîri; fa serrare in una palazzina le donne dell’harem e alquanti bambini di Hasan, lasciati addietro nella fuga. Conservato così quanto il fisco poteva usare o vendere, Giorgio raffrenò i suoi che avean dato il sacco alla città per un paio d’ore: bandì si cessasse dal sangue e dalla rapina. Con maggior cura avea messi in salvo i Cristiani, facendoli uscir di Mehdia e di Zawila; e rizzò per loro le tende nel piano che dividea la fortezza dal sobborgo, o vogliam dire l’una dall’altra città, come le chiamano entrambe gli scrittori arabi di quel tempo.[169]
Al tramonto del sole era assettato ogni cosa; talchè la sventura di Mehdia principiò e finì con quella giornata. La gente del paese chiamò questo il caso del lunedì, notando con altri giorni della settimana due o tre altre depredazioni de’ Rûm.[170] La dimane pensò l’ammiraglio ai fuggitivi. Mandò a ricercarli i lor concittadini stessi delle milizie rimasi in Mehdia; li provvide di giumenti, per riportar le donne e i bambini: e bandì, con questo, l’ amân: che potesse chiunque ritornare in città, sicuro della persona e dell’avere. Furono salve così le migliaia che stavano per morir di fame e di sete in quelle lande, ancorchè fosse tra loro chi avea lasciato a casa, dicon le croniche, ogni ben di Dio. Giorgio chiamò anco in città gli Arabi che vagavano pe’ dintorni; li allettò con larghi doni e buoni trattamenti: dispensò denari e vittuaglie a’ poveri di Mehdia; prestò capitali a’ primarii mercatanti, perchè continuassero lor traffichi; pose a rendere giustizia un cadì accetto all’universale. Altro aggravio non ebbero i Musulmani che la gezìa. I bambini di Hasan, con le schiave emancipate[171] lor madri, furono ben trattati dal vincitore e mandati in Sicilia. A capo d’una settimana, tutti gli abitatori di Mehdia e di Zawila, rassettati ne’ loro focolari, attendeano alle industrie, queti e forse contenti. Parve a Giorgio che gran parte dell’armata si potesse allontanare senza pericolo.[172]
Mandò pertanto una squadra a Susa, un’altra a Sfax; delle quali la prima occupava di queto la città, il dodici sefer (2 luglio); poichè il governatore, Ali, figliuolo di Hasan, risaputa la fuga del padre, era andato a ritrovarlo con seguito di pochissimi cittadini e gli altri immantinenti si arresero. Viveano a Sfax uomini di tempra più dura, come si vedrà nel progresso degli avvenimenti. Accorse molte torme d’Arabi in aiuto di Sfax, i cittadini resistettero a’ Siciliani sbarcati dalla squadra; s’arrischiarono anzi ad una sortita. E i Cristiani a fuggire, tanto che li attirarono ben lungi dalle mura. Quivi rifan testa; si gittano di mezzo a’ disordinati; li sbaragliano, cacciando chi alla campagna, chi alla città; rinnovano la battaglia sotto le mura: alfine entrarono il ventitrè di sefer (13 luglio). Gran sangue indi fu sparso; poi si die’ mano a far prigioni e in ultimo si bandì l’ amân, come a Tripoli ed a Mehdia: i fuggiti ritornarono, riscattarono le donne e i figliuoli. Fu lasciato anco un presidio cristiano nella fortezza; e posto un’ âmil a reggere la città. Fu questi Omar-ibn-abi-l-Hasan-el Foriani, il cui padre, con magnanimo intento, volle andare statico in Sicilia.[173] Stette saldo, con l’aiuto degli Arabi, il forte castello di Kalibia; anzi i Musulmani, usciti a combattere fecero strage degli assalitori, sicchè la squadra ritornò malconcia a Mehdia.[174] Ci sembra in vero che il re di Sicilia non abbia voluto stendersi troppo verso Ponente, dove i Beni-Hammâd, per l’asprezza de’ luoghi e l’amistà degli Arabi, stavano assai più saldi che i lor congiunti di Mehdia. Rattennerlo anco i pensieri della guerra bizantina, alla quale era uopo che presto o tardi ei si volgesse; nè ebbe ad aspettar più d’un anno. Il conquisto in Affrica limitossi, dunque, a quella parte della costiera che si stende da Tripoli di Barbaria al Capo Bon.[175] Fu compiuto entro un mese. Ruggiero approvò gli ordinamenti dell’ammiraglio; concedendo all’Affrica propria un amân, generale. Del quale atto, ancorchè manchi il tenore, la sostanza era quella che abbiamo esposta ne’ singoli casi: continuassero i Musulmani a vivere secondo lor leggi e con loro magistrati; pagassero la gezìa; governasseli a nome del re di Sicilia un ’âmil, il quale mandava statico in Palermo alcun suo stretto parente. Come fosse pagata la gezìa non si ritrae, se immediatamente da ciascun musulmano o giudeo, ovvero dalle comunità, che mi sembra più verosimile. Credo inoltre fossero state mantenute le gabelle che solea riscuotere il fisco zirita, non però le più odiose ed apertamente illegali; poichè gli scrittori arabi lodan tutti la giustizia del governo cristiano sotto Ruggiero, ed affermano che le belle promesse date nel suo amân furono fedelmente osservate finch’ei visse. Leggiamo in particolare nella storia d’Ibn-Abi-Dinâr, che il kharâg, o vogliamo dire tributo fondiario, fu riscosso con benignità.[176]
Non isfuggì agli storici musulmani il fatto, che i conquisti siciliani in Affrica, sostarono per la guerra di Grecia. E di questa dicono essere stata aspra e lunga, e danno l’episodio, notissimo nelle croniche latine, che Giorgio d’Antiochia osò entrare nel porto di Costantinopoli, prendervi parecchie navi e trar saette alle finestre della reggia. Aggiungono che la vittoria sempre rimase al re di Sicilia, ancorchè il principe di Costantinopoli fosse di que’ tali “che niuno si scalda al medesimo fuoco con esso loro;” ch’è, come noi diremmo: era uomo da non lasciarsi posar mosca sul naso.
A Giorgio d’Antiochia dan merito gli scrittori musulmani d’ogni trionfo in Affrica e in Levante; notano che alla sua morte le armi siciliane si arrestarono, non sapendo il re a chi affidarle: ed a lui, sì come a Ruggiero, è aperto un capitolo apposta nelle biografie degli illustri Musulmani per Sefedi, autore del decimoterzo secolo. Il quale, al paro che Ibn-el-Athîr, intitola Giorgio “vizir del re Ruggiero, l’occupatore del regno di Sicilia:” dond’e’ si vede che i Musulmani di Sicilia, i quali davano ragguagli della corte di Palermo a’ loro correligionarii, teneano l’ufizio di grande ammiraglio identico a vizir, che torna in que’ tempi a primo ministro. Dobbiam anco a’ Musulmani le note necrologiche di questo valente cristiano; ritraendosi da loro soltanto ch’ei morì, con grande allegrezza de’ Credenti, l’anno cinquecenquarantaquattro dell’egira (11 maggio 1149 a 29 apr. 1150) straziato di tante infermità, massime le morìci e il mal di pietra.[177]
Già la fortuna voltava le spalle a Ruggiero. Non fermi per anco i suoi acquisti in Affrica, li minacciarono gli Almohadi; setta di Berberi, fieramente avversa agli Almoravidi, i quali or cadeano con la stessa prestezza con che eran surti mezzo secolo innanzi. Abd-el-Mumen, conquistata sopra gli Almoravidi la Spagna e gran parte dell’odierno impero di Marocco, s’avanzava alla volta di Levante, con trentamila Unitarii, chè così suona Mowahhidi (Almohadi); occupava (maggio 1152) quelle che si chiaman oggidì le province d’Algeri e di Costantina, le quali rispondono a un di presso allo Stato dei Beni-Hammâd di Bugia: talchè questo cadde a un tempo con lo Stato de’ Ziriti. Jehia-ibn-el-Azîz, ultimo principe dei Beni Hammâd, avea tenuto quasi prigione l’infelice Hasan, che gli chiese ospitalità dopo la caduta di Mehdia.[178] Or l’hammadita ebbe a ventura d’imbarcarsi per la Sicilia, altri dice per Genova; e non guari dopo ei ritornò a Bona e, rincorato, fece prova a mantenersi nella inespugnabile rôcca di Costantina.[179] Ripararon anco in Sicilia Hareth ed Abd-Allah,[180] suoi fratelli.
In vero, s’egli rimanea scampo a que’ principi ed ottimati della costiera settentrionale da Algeri a Tripoli, era nelle due genti straniere che ultime occuparono il paese: i Cristiani di Sicilia con loro trecento navi, e gli Arabi co’ cinquantamila cavalli. Tengo io certo, ancorchè nol dica alcun cronista, che que’ rifuggiti abbiano procacciata la lega tra Ruggiero e gli Arabi, che sola potea salvar la patria loro da nuovi barbari di Ponente. Perchè sappiamo che il re mandava a profferire agli emiri arabi il rinforzo di cinquemila suoi cavalieri, a condizione che le tribù gli dessero statichi, com’era costume; ma ch’essi lo ringraziarono e ricusarono, dicendo non aver uopo d’ausiliarii, nè poterne accettare che Musulmani non fossero. Quei masnadieri fidavano nel numero loro e nella santità del legame con che s’erano testè confederati; avendo tutte le tribù dell’Affrica Settentrionale, da Tripoli a Costantina,[181] fatta la giura di combattere quella che chiamano la guerra della famiglia: onde portaron seco loro le donne, i figli, il bestiame ed ogni cosa che possedeano, risoluti a difenderli fino all’ultimo soffio di vita. E scontratisi con gli Almohadi nelle montagne di Setif, il primo sefer del cinquecenquarantotto (28 aprile 1153), pugnarono per tre giorni; finchè, mietuti i più, fu preso il campo. Allora Abd-el-Mumen fe’ condurre le donne e i bambini, illesi da tutt’oltraggio, a Marocco, e poi li rese agli Arabi; e questa fu vera vittoria che domò quegli animi feroci.[182]
Dileguata così ogni speranza di collegarsi con le tribù, Ruggiero pensò ad assicurare il nuovo dominio contro gli Almohadi, mandando in Ponente l’armata, condotta da un Filippo di Mehdia, apostata musulmano, del quale occorrerà dire largamente nel capitol che segue. Il quale assalì Bona, testè abbandonata dal governatore hammadita, ma non occupata per anco dagli Almohadi; espugnolla di regeb del medesimo anno dell’egira (4 novembre a 3 dicembre 1153) con l’aiuto degli Arabi del contado, e fecevi prigioni e bottino; ma chiuse gli occhi alla fuga degli ’ulemâ e di altri uomini di nota: sì che uscirono illesi dalla città con lor sostanze e famiglie. Dopo una diecina di giorni, partiva l’armata per Mehdia, con un po’ di prigioni; e non guari dopo tornava in Sicilia,[183] lasciando Bona assai malconcia, sotto uno de’ Beni-Hammâd, che non isdegnò farsi ’âmil di Ruggiero.[184] S’erano sollevati, il medesimo anno, alle nuove, com’ei pare, della irruzione degli Almohadi, gli abitatori delle Gerbe e aveano fatta strage de’ Cristiani. L’armata andovvi, credo io, avanti l’impresa di Bona; vendicò il sangue col sangue; mandò prigioni in Palermo quanti potè; lasciando nel paese un pugno di gente da nulla, per coltivar la terra tanto o quanto e servir nelle case i padroni cristiani.[185] Fu ripresa anco l’isoletta di Kerkeni, com’e’ sembra, con lo stesso effetto.[186] Troviamo in Ibn-el-Athîr che quel medesim’anno cinquecenquarantotto (29 marzo 1153 a 17 marzo 1154) l’armata siciliana abbia saccheggiata Tinnis in Egitto.[187] Io leggerei più volentieri Tenes, città vicina al mare, sul confine dell’odierna provincia di Algeri con quella d’Orano. La prima cosa, e’ non sembra verosimile che il re di Sicilia abbia attaccata quest’altra briga in Levante, oltre quella coll’impero bizantino e col reame di Gerusalemme, mentre gli rimanea tanto da fare contro gli Almohadi. Sappiamo, al contrario, da Romualdo Salernitano che Ruggiero, a suo proprio utile ed onore, così il cronista, avea allora fermata la pace col califo fatemita.[188] Il Makrizi tace quell’assalto, nella diligentissima descrizione dell’Egitto, dov’ei nota con l’anno cinquecencinquanta (7 marzo 1155, 24 febbraio 1156) il guasto dato dal navilio siciliano a Tinnis, Damiata, Rosetta ed Alessandria,[189] quando Ruggiero era morto e la saviezza politica fuggita per sempre dalla corte normanna di Palermo. Mancando per l’appunto questa ultima scorreria in Ibn-el-Athîr, parmi verosimile ch’ei, nell’acconciare a forma d’annali i fatti che trovava in tante storie particolari, abbia sbagliata qui la data; ovvero abbia letto Tinnis in luogo di Tenes e per soverchia diligenza, v’abbia aggiunto “in terra d’Egitto.” Per vero Tenes e Tennis rassomigliansi nella scrittura arabica quanto nella nostrale; onde facilmente si poteano scambiar que’ due nomi da’ copisti ed anco dai più accurati compilatori. Che che ne sia, l’armata siciliana in quegli ultimi tempi del gran re normanno, infestava ogni anno la costiera dello Stato di Bugia, occupata oramai la più parte dagli Almohadi. Edrîsi, che scrisse il millecencinquantaquattro a corte di Palermo, narra che gli abitatori di Gigel e di Collo, allo scorcio dell’inverno, “quando vien la stagione che salpa l’armata,” soleano abbandonar le case della marina ed emigrare nei monti, portando seco ogni cosa.[190]
Coteste frequenti scorrerie a ponente del capo Bon e la procellosa anarchia nella quale vissero per molti anni que’ popoli, abbandonati dai Beni Hammâd, divisi tra loro, e minacciati a un tempo dagli Arabi, da’ Siciliani e dagli Almohadi, m’inducono a creder vera una pratica di Ruggiero con Tunis, della quale troviamo vestigie molto incerte nelle memorie cristiane, al par che nelle musulmane. Dei contemporanei, il solo Roberto, abate del Monte di San Michele, registrò nella cronica essere stata quella città occupata dalle armi del re di Sicilia, il millecencinquantadue: e potrebbe essere un altro sbaglio del nome di Tenes.[191] Abd-el-Wahid da Marocco scrivea il milledugenventiquattro, nella storia degli Almohadi, che quand’essi presero Tunis (1159) vi regnava Ruggiero, il quale aveala affidata a un ’âmil, per nome Abd-Allah-ibn-Khorasân.[192] Un secolo appresso, il Dandolo, nell’accennare a’ conquisti affricani del millecenquarantotto, aggiungea che Ruggiero si fe’ tributario il re di Tunis.[193] E ciò mi sembra che più s’accosti al vero. Tunis non fu mai occupata dall’armata siciliana. Secondo le notizie ben connesse e precise che ne dà l’autore del Baiân e Ibn-Khaldûn, quella città, popolosa, ricca e piena d’alti spiriti, ma torbidi e parteggianti, avea disdetta da lungo tempo la sovranità zirita, e riconosciuta di nome quella degli Hammaditi, e di fatto il governo di uno sceikh del paese, il quale chiamerei volentieri presidente della gemâ’. Rimase per molti anni cotesta autorità nella casa de’ Beni-abi-Khorasân; poi cadde in altre mani, e del tutto dileguossi in que’ frangenti di carestia e vicin romore di Cristiani. Il popolo che s’apparecchiava con molto ardore a respingerli, tumultuò un giorno, vedendo caricar del grano sur una barca che si sospettò partisse per luoghi occupati da Giorgio d’Antiochia; ond’e’ si venne a pretta anarchia ed a guerra civile, tra la fazione della Soweika (il mercatino) e quella della Gezîra (l’isola), che mi sembrerebbero popolani e nobili: alfine la plebe richiamò i Beni-abi-Khorasân, pria che fosse corso un anno dal conquisto di Mehdia. Abd-Allah-ibn Abd-el-Azîz, che si può dire l’ultimo di quella famiglia, regnò per dieci anni da tiranno; respinse gli Almohadi in un primo assedio (1157); e la città, poco appresso la sua morte, cadde sotto il pondo dell’oste d’Abd-el-Mumen.[194] Come ognun vede, tra questi fatti che si ritraggono con certezza storica, non entra la supposta signoria del re di Sicilia. Ma poichè il tiranno di Tunis, nelle ricordate condizioni di quei paesi, non potea sperar aiuto da altra banda, mi par verosimile ch’egli abbia segretamente fermato con Ruggiero qualche accordo non dissimile da quello dell’ultimo Zirita di Mehdia, promettendo di spesare forze ausiliari o di pagar la tratta de’ grani di Sicilia. Se le passioni umane allora non operavan diverso da ciò che veggiamo nella storia prima e poi e fin oggi, la corte di Palermo per vanità, il popol di Tunisi per sospetto geloso, quando trapelò quel trattato, gridarono a una voce che l’Ibn-abi-Khorasân s’inginocchiava, tributario e vassallo, a’ piè di Ruggiero; non altrimenti di quel che dissero di Hasan gli scrittori seguiti da Ibn-abi-Dinâr. E più incerta dovea rimanere la memoria del fatto, dopo il mutamento di regno, che di lì a poco spezzò tutte le fila ordite in Palermo e dopo la terribile reazione che seguì in Affrica contro i Cristiani e lor fautori, della quale noi diremo nel regno di Guglielmo il Malo.
CAPITOLO III.
Ritornando un po’ addietro ne’ tempi, egli è da ricordare che il riconoscimento del novello reame non tolse a Ruggiero l’ambizione, nè alla corte di Roma la voglia di molestarlo; donde or il papa ricusò di consacrare i vescovi[195] e cavillò su le prerogative della corona;[196] ora il re mandò eserciti ad occupare i dominii papali. Ma quando Corrado III, imperatore eletto, parlò di calare in Italia, e Arnaldo da Brescia infiammò i Romani a ristorare il Senato sotto il trono d’un Cesare tedesco, allora, quell’altalena fatale che tolse per mille anni ogni assetto e riposo alla patria nostra, spinse il papato ad accostarsi al regno, guelfo per sua natura. Udiasi allora per la prima volta cotesto nome di parte, sendosi levato in arme contro l’imperatore il duca Welf: al quale il papa e Ruggiero dettero aiuto per alimentar la guerra civile in Germania. Le ricchezze guadagnate sopra i Musulmani d’Affrica, l’industria della Sicilia, l’ubertà della Puglia, fornirono i danari che Ruggiero somministrava ai ribelli:[197] e porgeane anco al papa, per corrompere o combattere i Romani, promettendogli inoltre rinforzi di gente. E tra quelle tenerezze il papa a confermare il privilegio della Legazione apostolica di Sicilia;[198] a favorir le pratiche di Ruggiero in Germania. Nel corso delle quali avvenne che i partigiani del papa in Roma ricettassero occultamente i messaggi del re e che il Senato li catturasse con le lettere ch’e’ recavano e con loro famigli saraceni; ma poi lasciolli andare.[199] Possedendo in grazia di Ruggiero il nervo della guerra, il papa e i cardinali si vantavano di serrare in un canile “come veltri e mastini, gli imperiali e i Greci di Venezia, sì che non potessero mordere il Siciliano, ausiliare di Santa Chiesa.”[200]
Intanto i veri capi della Chiesa annidati, come già abbiam detto, ne’ monasteri di Francia, aiutavano con lo ingegno e co’ raggiri la fuggitiva corte di Roma e favorivano di rimbalzo il re di Sicilia. San Bernardo, barattando le carte, come soglion far sempre, e mutando in caso di teologia la quistione politica, si messe a fulminare Arnaldo per tutte le scuole e le corti d’Europa; tanto che l’imperatore Corrado non osò accostarglisi. La crociata, poi, predicata dall’apostolo cattolico, venìa sì bene in acconcio alla corte di Roma, da far credere ch’egli avesse voluto a un tempo stender la mano a’ travagliati Cristiani di Siria e mandare Corrado a coglier allori, e fors’anco la palma del martirio, lì verso l’Eufrate, in vece di calare in Italia a’ danni del papa. Dopo la rotta e il ritorno de’ Crociati, s’interpose tra Corrado e Ruggiero un altro prelato francese di gran fama, Pietro, detto il Venerabile, Abate di Cluny, negoziatore volontario di faccende politiche in tutta Europa, assiduo viaggiatore in Italia e Spagna, scrittore di polemica contro l’islamismo ed auspice della prima traduzion latina del Corano.[201] Costui, ragguagliando di sue pratiche il re e domandandogli intanto qualche larghezza a prò de’ monaci, gli sciorinava quante lodi ei sapesse accozzare in suo latino e diceagli bramar “che fosse unita al felice reame di Sicilia la misera Toscana e qualche provincia finitima.”[202] Così Ruggiero usava gli amici ecclesiastici ed essi lui. Che se adoperolli invano nelle trame contro Ramondo principe d’Antiochia, il cui stato ei pretendea com’erede del cugino Boemondo,[203] conseguì pure l’intento suo principale, ch’era di trattener Corrado di là dalle Alpi. La costui morte, succeduta a tempo (1152) fu attribuita a veleno ed apposta a Ruggiero[204] dai Ghibellini più ardenti; i quali sel trovavano sempre in mezzo a’ piedi, col suo danaro, con le sue arti di regno, con la sua fama di adetto in ogni scienza umana o infernale.
Giovò l’impedimento di Corrado a render vani gli sforzi di Manuele Comneno, che s’era collegato con lui contro la nuova potenza surta nell’Italia meridionale. Ruggiero non aspettò l’assalto de’ Bizantini. Affidato, com’e’ pare, nei novelli amici ch’eran sì possenti in Francia, ei volle tirar Lodovico VII a una lega contro Manuele: e pensando che cosa fatta capo ha, ruppe la guerra appunto quando i Crociati passavano nell’Asia minore; onde il bizantino si trovava impacciato; il francese vicino, adirato e disposto a punire la perfidia di quello. Mandò Ruggiero dunque in Levante Giorgio d’Antiochia; il quale, salpando da Brindisi (settembre 1147?) occupava Corfù; correa fino alla punta meridionale del Peloponneso; dava il guasto a Monembasia. Ma non assentendo Lodovico alla lega contro il Comneno, tornò addietro d’un subito l’armata siciliana, in guisa da fare scorger nella ritirata il dispetto dell’occasione fallita. Giorgio si messe a depredar le costiere dell’Etolia e dell’Acarnania; entrò nel golfo di Corinto; mandò le gualdane infino a Tebe; prese Corinto stessa e la sua rôcca; per ogni luogo frugò i ricchi con piglio da masnadiere, fece fardello d’ogni roba preziosa, menò cattivi gli Ebrei e i benestanti, uomini e donne; rapì anco l’industria, portando via gli operai della seta. Quindi altri opinò che i prigioni di Tebe e di Corinto avessero primi recato il setificio in Palermo, non sapendo che quivi da molto tempo l’esercitavano i Musulmani.
Correndo la state del quarantotto, l’armata siciliana andò all’impresa d’ Affrica. Ma allo scorcio dell’anno, Manuele, libero dalla paura de’ Crociati, s’apparecchiava alla vendetta. Acconciatosi co’ Veneziani, sì che gli fornirono possente navilio; vinti i Patzinaci, Manuele assediava Corfù, difesa da mille uomini dello esercito siciliano; respingea l’armata vegnente all’aiuto, e dopo due anni riducea per fame l’inespugnabile fortezza (1150). Seguì durante l’assedio quell’arrisicata fazione delle quaranta galee siciliane ch’entrarono nel porto di Costantinopoli, sbarcarono ne’ giardini imperiali e tirarono saette affocate nelle finestre della reggia; di che la fama giunse ne’ paesi musulmani.[205] In uno degli scontri del navilio siciliano col bizantino trovossi avvolto il re di Francia che mesto ritornava dalla crociata; il quale fu preso da’ Greci, liberato da’ Siciliani e condotto a Ruggiero, che gli fece grandissimo onore (agosto 1149). Le guerre poi sul Danubio, le fortune di mare, la dappocaggine delli ammiragli e la morte di Corrado, ritardarono la impresa di Manuele Comneno fino alla morte di Ruggiero.[206]
Il quale terminò il glorioso regno con un auto da fe’. Qual che fosse l’origine di Filippo di Mehdia, sia musulmano dell’isola detto Mehdiano dalla patria de’ suoi maggiori, o sia nato veramente nella capitale zirita, era egli battezzato, come gli altri paggi del re, nè cristiani nè musulmani, nè uomini nè donne. Cresciuto a corte, mostratosi buon massaio, il re l’avea preposto all’azienda del palagio, indi creato ammiraglio alla morte di Giorgio e mandato all’impresa di Bona; il che mi conduce a crederlo creatura dell’Antiocheno e suo compagno nelle guerre d’Affrica. Leggiamo il caso negli annali d’Ibn-el-Athîr, che forse il togliea dagli scritti del contemporaneo Ibn-Sceddâd; e più largamente ne tratta un luogo di Romualdo Salernitano, interpolato com’è parso ad autorevoli critici, ma contemporaneo in ogni modo, e degno di fede. L’un racconto come l’altro fa scoppiare improvvisa la collera del re contro Filippo, al suo ritorno da Bona: non ostante il trionfo e la riportata preda, al dire del latino; e al dire dell’arabo, appunto per aver chiusi gli occhi tanto che i notabili musulmani si messero in salvo. Fu accusato di simular la fede; e davano gli amminicoli: che entrasse in chiesa per apparenza, ma frequentasse occulto le moschee, fornissevi l’olio alle lampadi, inviasse offerte al sepolcro di Maometto, si raccomandasse ai sacerdoti del luogo e non rifuggisse dal cibarsi di carne il venerdì e ne’ giorni della quaresima. Così il narratore latino. L’arabo compendia l’accusa in questo che Filippo e gli altri paggi convertiti mangiassero lietamente quando il re digiunava. E non occorre dire che testimonii provarono il delitto, ancorchè l’accusato negasse ostinatamente. Fu tradotto, secondo il narratore musulmano, dinanzi i vescovi, i preti e i cavalieri; secondo il cristiano, dinanzi i conti, i giustizieri, i baroni e i giudici. Abbiam dalla stessa fonte cristiana ch’egli implorò grazia, e che Ruggiero, tanto più adirato, piangendo di collera, esortò il tribunale a severissima giustizia, dicendo: aver allevato in corte questo ribaldo, amatolo come fedel servitore; il quale se avesse offeso lui medesimo, se avesse rubato mezzo il tesoro regio, ei gli perdonerebbe; ma volea vendicare l’oltraggiata religione; sapesse bene il mondo che per questa santa causa egli farebbe pur cascare il capo del suo proprio figliuolo. Trattisi in disparte, dopo lunga deliberazione, dettarono questa sentenza: “che Filippo, delusore del nome cristiano, dedito all’opera della infedeltà sotto il velame della fede, sia arso da ultrici fiamme; affinchè, non avendo eletto il fuoco della carità, senta quello del rogo; nè rimanga alcuno avanzo di cotesto scellerato, ma, fatto cenere, ei passi dal fuoco temporale all’eterno, dove per sempre arderà.” Ho tradotte le parole della cronica, la quale par abbia copiata la sentenza del magistrato laico, passando sotto silenzio il giudizio ecclesiastico che dovea precedere. Di questo riman vestigia nella narrazione musulmana la quale nomina insieme i due ordini di giudici, quasi avessero composto un sol tribunale. Il Gregorio riconobbe nel caso di Filippo la giurisdizione dell’alta corte de’ Pari;[207] ma non volle rimestare di troppo quella prima gesta del Tribunal della Santa Inquisizione, il quale, quando scrisse il gran pubblicista, dava ancora i brividi all’onesta gente in Palermo, essendovi stato abbattuto appena da venti anni.
Alzarono il rogo di faccia al palagio stesso del re; presedette al supplizio il giustiziere. L’eunuco, legato a un cavallo indomito, fu strascinato infino al rogo, e quivi disciolto e gittato semivivo nelle fiamme. I complici e consorti, puniti anco di morte, aggiugne laconicamente la narrazione cristiana e finisce esclamando, con la stesse parole con che principia: ecco quant’era cristiano il buon re Ruggiero! Porta la narrazione arabica che Filippo fu arso del mese di ramadhan, il qual mese sacro dei Musulmani tornava nel 1153 tra il novembre e il dicembre; che Iddio non fece sopravvivere Ruggiero a lungo e che questo supplizio fu il primo tracollo de’ Musulmani di Sicilia.[208] S’io ben m’appongo, questo detto, confermando le altre condannagioni alle quali accenna la narrazione cristiana, prova esser seguita in Sicilia, allo scorcio del millecencinquantatrè, una vera e grave persecuzione religiosa.
Perchè la mosse Ruggiero? Di certo le vittorie degli Almohadi in Affrica, gli armamenti di Manuele Comneno nell’Adriatico, la morte di tre figliuoli e di due mogli entro nove anni, la malattia che consumava la sua propria persona in quell’inverno, non poteano non agitar profondamente il suo spirito, nudrito di credenze soprannaturali, tra ortodosse, astrologiche e musulmane. Ci si dice inoltre che in quegli ultimi tempi, allontanatosi alquanto dalle cure mondane, egli s’adoprò “in tutti i modi” a convertire musulmani e giudei e profuse più che mai danari nel culto.[209] Potremmo supporlo dunque diventato bacchettone per indebolimento di cervello, siccom’è avvenuto a tanti altri dotti e forti uomini. Ma più verosimile è che Ruggiero abbia voluto dar uno esempio e riformare a suo modo la corte, dove i vinti guadagnavan la mano a’ Cristiani. Egli mandò al rogo Filippo un mese dopo quell’impresa di Bona sciupata, come parve, per contemplazione verso i Credenti: onde non occorre ch’altri ci narri le querele che ne sursero nell’armata, nel baronaggio, nel clero, contro i favoriti musulmani del re. E questi era avvolto oramai nelle fila della diplomazia ecclesiastica, niente amica, al certo, di ministri così fatti. Un monarca d’oggi li avrebbe congedati; un del secolo decimosettimo, gittati in fondo d’un carcere; Ruggiero, che visse nel duodecimo e ch’era tenuto crudelissimo anche allora, arse il principale, mozzò il capo agli altri e si rallegrò forse di avere assettata la corte, soddisfatto al popolo, a’ grandi, a’ potentati amici e guadagnato, chi sa? il paradiso.
Morì a capo di due mesi, il ventisette febbraio millecencinquantaquattro, all’età di cinquantotto anni,[210] sospinto alla tomba dalle voluttà, come notarono i prelati della corte. Delle sue virtù, de’ vizii e delle cose operate al di fuori abbiam già detto quanto basta al nostro argomento. Ci riman ora a trattar con la stessa misura l’interno reggimento del paese e la tempra e coltura dell’ingegno di questo gran principe; di che noi caverem le notizie dagli scrittori musulmani al par che da’ cristiani; poich’egli lasciò orma di sè in ambo le civiltà del tempo suo. Ed entrambe lo dipinsero in loro stile. L’una per man dello Abate di Telese, di Romualdo arcivescovo di Salerno, d’Ugo Falcando, di Pietro il Venerabile: prelati italiani e francesi, nutriti di letteratura latina. L’altra, or con l’asiatico lusso delle immagini, nella Prefazione dell’Edrîsi, letterato, scienziato e rampollo di principi; or con le secche note di cronaca raccolte da Ibn-el-Athîr negli Annali, e dal Sefedi nell’articolo biografico, intitolato appunto a Ruggiero.[211]
Il Falcando loda in lui l’abbondanza degli spiriti vitali, il pronto ingegno, l’operosità, la vigilanza, la maturità di consiglio nelle faccende pubbliche.[212] Edrîsi, dopo lunga parafrasi di queste medesime idee, le stringe nell’epigramma che Ruggiero fea più dormendo che ogni altr’uomo vegghiando.[213] Parco allo spendere, fuorchè nelle cose della guerra, nelle scienze e ne’ monumenti, studiosissimo ei fu di accrescere le entrate dello erario[214] e sì diligente nell’amministrarle, che ne’ ritagli di tempo metteasi a frugare i conti.[215] La sicurezza, la pace e la prosperità di che si godea ne’ suoi dominii, recarono stupore all’Europa in quell’età di violenze feudali:[216] onde non esagera Edrîsi, là dov’ei dice, che Ruggiero fe’ piegare il collo ai tiranni[217] e che, inalberando il vessillo della giustizia e dando al popolo quiete e buon governo, ei costrinse i regoli a ubbidirlo, a vestire la sua divisa, a consegnargli le chiavi di ciascun paese.[218] Riformò gli ordini giudiziali; fece osservare le leggi con rigore, anzi crudeltà, di che il Falcando lo scusa con la necessità del regno nuovo. Nell’opera di perfezionare il civil governo in Sicilia e d’assuefar a quello i baroni e le città di Terraferma, egli studiò gli esempii di fuori e chiamò in aiuto valenti uomini d’ogni linguaggio e d’ogni setta.[219] Donde un francese vanta la predilezione del re pei Francesi;[220] un musulmano gli dà lode di proteggere ed amare particolarmente i Musulmani;[221] similmente un bizantino avrebbe potuto affermare il privilegio della schiatta greca, nominando Giorgio d’Antiochia; ed un italiano avrebbe forse vinta la gara, ricordando che Arrigo de’ marchesi Aleramidi fu quel desso che fabbricò la corona al nipote.[222]
Abbozzato già nel quinto libro il reggimento normanno, io vo’ ricordar qui di volo quelle istituzioni che riferisconsi con certezza a re Ruggiero, anzi che al padre. Delle quali gravissima parmi l’ordinamento de’ magistrati provinciali, ignoto sotto il primo conte, necessario a far sentire da presso una mano assai più forte ch’esser non potea quella degli ufiziali del principe in ciascun comune, sopraffatti per avventura da’ vicini feudatarii e da’ prelati. Seguendo l’uso di tenere unita l’autorità che noi distinguiamo in amministrativa e giudiziale, Ruggiero sostituì ai vicecomiti i baiuli, delegati generali del governo nella città e primi giudici in materia civile e correzionale.[223] Egli istituì primo i camerarii e i giustizieri, magistrati provinciali: preposti gli uni all’azienda, con giurisdizione d’appello nelle cause civili e di prima istanza in quelle concernenti i feudi secondarii e in ciò ch’or diciamo il contenzioso amministrativo; giudici gli altri delle liti civili relative ai feudi principali e delle cause criminali ch’eccedessero la competenza dei baiuli e delle curie baronali.[224] Certo al pari e’ mi sembra che re Ruggiero abbia data migliore forma ad un tribunale supremo preseduto dal principe, simile a quello de’ Bizantini nelle materie civili[225] e de’ Musulmani pei delitti di maestà.[226] E veramente la tradizione arabica afferma che Ruggiero, succeduto al padre, imitò i principi musulmani con creare i giânib, gli hâgib, i selâhia, i giandâr e altri simili ufiziali; ch’egli scostossi dagli usi de’ Franchi, i quali non aveano idea d’ordini così fatti; e che pose il Diwân-el-mozâlim, (noi diremmo, la Corte de Soprusi) al quale si recavano le querele degli offesi; e il re facea giustizia a costoro, foss’anco contro il proprio suo figlio.”[227] Degli altri ufizii diremo or ora. Ravvisò il Gregorio in questa Corte de’ Soprusi la Magna Curia, che i pubblicisti siciliani solean prima di lui riferire a Federigo imperatore; ed ei tirolla su ai tempi di Ruggiero, la distinse dall’alta corte de’ Pari, la paragonò alla corte del Banco del re, ch’ei suppose istituita in Inghilterra da Guglielmo il conquistatore.[228] Ma i pubblicisti inglesi confessano in oggi non veder chiaro nell’XI secolo quel sistema di giurisdizione suprema che comparisce appo loro al principio del XIII; ond’essi pensano che, ne’ primi tempi de’ re normanni, l’Inghilterra non abbia avuta altra corte di giustizia che quella de’ Pari, talvolta piena e più sovente ristretta; non essendo stato in quella età agevol cosa ragunare i feudatarii ad ogni uopo della giustizia ordinaria. Nè più di questo parmi si possa affermare della Sicilia nel XII secolo; se non che aggiugnerei avere Ruggiero composta regolarmente la corte de’ Pari ristretta, facendovi sedere i giustizieri ed anco de’ giudici, e adoperandola come magistrato ordinario e supremo, senza restringere la sua giurisdizione ai grandi feudatarii. E parmi sia stata questa in Sicilia la corte che condannò al fuoco Filippo di Mehdia: innanzi alla quale dicea Ruggiero, secondo la narrazione cristiana, che non gli sarebbe rifuggito l’animo dal punire il proprio figlio:[229] le medesime parole per l’appunto, con che la tradizione musulmana esprime l’alto impero e severa giustizia del Diwân-el-mozâlim, preseduto dal re.
Lascio indietro gli ordinamenti proprii della popolazione cristiana, sempre più cresciuta nell’isola al tempo di Ruggiero; la colonia e il vescovado ch’ei fondava in Cefalù; l’archimandritato istituito in Messina per ordinare i monasteri greci e forse le popolazioni; le sue leggi che ci venga fatto di spigolare;[230] i grandi ufizii della corona ch’egli imitò dalle corti occidentali: cancelliere, giustiziere, camerario, protonotaio, connestabile; qualificati di grandi per significar l’autorità superiore.[231] Delli ammiragli ho discorso a lungo.[232] Ho toccato anco dei servigi della corte affidati la più parte a’ paggi.[233] Secondo uno scrittore che allegammo poc’anzi,[234] Ruggiero ordinò ad esempio delle corti musulmane quegli ufizii domestici, le cui denominazioni, arabiche o persiane, attestano la origine, che torna sovente ai Fatemiti d’Egitto. Erano gli hâgib, propriamente uscieri, spogli bensì del gran potere ch’ebbero a Cordova e altrove;[235] i giânib, come sarebbe a dire aiutanti di campo;[236] i selâhia che torna a scudieri;[237] i giandâr o forse giamdâr, vestiarii;[238] ed altri, dice il testo, alludendo a note denominazioni:[239] a quella gerarchia di servitori intrecciata con le dignità dello Stato, la quale i Bizantini tolsero da’ despoti persiani e detterla ai Musulmani ed ai re dell’Occidente. Il più delle volte non era divario che nel nome. Il gran siniscalco non potea mancare in Sicilia; ancorchè si vegga al tempo stesso di quello il magister latino, che risponde all’uficio e sembra testo o traduzione dell’orientale ostadâr.[240] Son qui da ricordare i kâid de’ quali si è trattato a lungo, or capitani propriamente detti di pretoriani, or segretarii, computisti e per fin camerieri,[241] come un ferrâsc che appo noi suona “rifa’ letti.”[242] V’era anco un paggio musulmano ispettore della cucina,[243] ed uno preposto al tirâz.
Con tal voce persiana chiamaronsi le vestimenta di seta ricamate e l’opificio in cui le si lavoravano: parte essenziale d’una corte musulmana, poichè soleano i principi donar que’ pallii in segno di favore, o mandarne a’ grandi oficiali nel dar loro l’investitura,[244] come appunto si disse in cristianità, per cagion di usanza non dissimile. Ci è occorso di narrar come Ruggiero avesse inviati di tali abbigliamenti al traditore che gli fece omaggio di Kâbes.[245] E rimane del tirâz di Palermo un lavorio sontuoso, il pallio semicircolare, trapunto nell’area ad oro e perle con figura d’un lione che abbatte un camelo, e in giro con bellissime lettere cufiche, portanti il nome e le qualità di Ruggiero e la data della capitale di Sicilia e dell’anno cinquecentoventotto (1133); il qual regio manto, per dono di alcun re di Sicilia o rapina di Arrigo VI, andò in Germania; ed è serbato ora a Vienna tra le reliquie del defunto impero di Carlomagno.[246] Sappiamo dalla storia come quell’opificio fosse stato rifornito il millecenquarantasette di belle corinzie e tebane,[247] e durasse in fiore nel centottanta, quando l’eunuco prepostovi diceva all’orecchio a Ibn-Giobair che le giovani musulmane del suo ovile tiravano spesso all’islam lor compagne di nazione franca. Sembra da ciò che Ruggiero abbia voluto onestare con quel nome l’ harem della reggia.[248] Da lui o da’ successori fu anco usato l’ombrello di gala, ad imitazione dei califi fatemiti.[249]
Alla corte musulmana rispondean gli usi orientali della cancelleria arabica, distinta, com’e’ mi sembra, dalla cancelleria latina, e addetta a trattar le faccende degli antichi abitatori, sì come la latina quelle de’ coloni. Mentre quest’ultima usava il linguaggio latino, la data dell’èra volgare, e il suggello co’ titoli occidentali, l’altra cancelleria adoperava or il greco or l’arabico, secondo le genti, e talvolta l’una e l’altra lingua insieme. In testa de’ rescritti arabici o bilingui non soscritti di propria man di Ruggiero, si ponea all’uso musulmano lo ’alâma, ossia il motto trascelto da ciascun principe e scritto della man di segretario apposito, con che si dava autenticità al diploma. Lo ’alâma di Ruggiero fu El hamd lilaah sciakran linia’mih ossia “Lode a Dio per riconoscenza de’ suoi benefizii.”[250] Copiando un po’ i principi Musulmani e un po’ i Bizantini, Ruggiero si fece intitolare ne’ diplomi El malek el mo’adzdzam el kadîs o diremmo noi “Il re venerando e santo”[251] e nelle monete, or El malek el mo’adzdzam el mo’tazz billah, ossia “Il re venerando, esaltato per favor di Dio”[252] ora Nâsir en nasrâniah che suona “Difensor del Cristianesimo”[253] Nè altrimenti par lo addimandassero in corte; sendo detto egli da Edrîsi “il re venerando, Ruggiero, esaltato da Dio, possente per divina virtù,[254] re di Sicilia, Italia, Lombardia, Calabria, (sostegno dello) imâm di Roma, difensore della religione cristiana”[255]; e chiamata El-mo’tazzia, dal poeta Abd-er-Rahman da Trapani, la regia villa di Mare-dolce presso Palermo.[256] Nei diplomi della cancelleria bilingue soscrisse Ruggiero sempre in greco, rendendo que’ titoli di conio orientale con la formola “Ruggiero in Cristo Dio, religioso e possente re, difensore dei Cristiani”[257] e quest’ultimo attributo si ritrova anco tradotto nell intitolazione di alcun diploma latino.[258] Si scorge infine dalle monete e dall’uso degli scrittori arabi contemporanei, che Ruggiero, intitolatosi secondo di tal nome pria ch’ei prendesse la corona reale, continuò sempre a distinguersi dal padre con quella appellazione, ancorchè ei fosse stato il primo re.[259]
Non pensava forse Ruggiero che il passatempo della scienza gli avesse a fruttar tanta gloria, quanto le assidue cure dello Stato e le fatiche della guerra. E pur l’Europa civile, se in oggi non ha scordato del tutto il fondatore della monarchia siciliana, onora assai più il dotto principe al quale è dovuta la maggiore opera geografica del medio evo. Differendo a trattare il pregio di cotesta opera nella rassegna scientifica e letteraria del presente periodo, noi qui toccheremo della parte che torni a ciascuno de’ due creduti autori: Edrîsi, sotto il cui nome corre in oggi il libro, e il re al quale l’attribuirono gli eruditi musulmani chiamandolo “Il libro di Ruggiero” oltre il titolo proprio, ch’è “Il sollazzo di chi ama a girare il mondo.”
Taccion le memorie cristiane di questa vaghezza del re per gli studii geografici, male interpretata da Falcone Beneventano, là dove ei racconta l’aneddoto, ch’entrato Ruggiero trionfante in Napoli, allo scorcio di settembre millecenquaranta, fece una notte misurare l’ambito delle mura; e la dimane, ragionando co’ principali cittadini intorno le franchige da confermare, per mostrarsi tenero assai delle cose loro, “Ma sapete voi, lor domandò, quanto giri la città vostra?” e rispostogli di no, “ecco ch’io vel dico, replicò: son dumila trecensessantatrè passi, per l’appunto.”[260]
Edrîsi descrive la formazione dell’opera con particolari di gran momento.[261] Ei dice dottissimo il re nelle scienze “astruse e nelle operative”[262] ossia le matematiche e le dottrine dell’amministrazione pubblica; e che in cotesti due rami di sapere “egli creò modi novelli maravigliosi e inventò peregrini trovati.” Allargato il regno, “ei volle sapere con precisione e certezza le condizioni di ciascun paese soggetto: quali fosserne i confini e le vie di comunicazione per terra e per mare; a qual clima appartenesse, quali mari lo bagnassero, quai golfi vi si aprissero. Volle conoscere, altresì, ogni altro paese e regione de’ sette climi ideati da’ filosofi e determinati da’ narratori e da’ compilatori in loro pergamene[263] e ricercar volle quanta parte di ciascuno Stato entrasse in ciascun clima.” Nominati poi dodici trattati geografici, tra d’antichi e d’arabi, che furono raccolti per comando di Ruggiero, continua Edrîsi “che in tutti si notarono discrepanze, omissioni ed errori; e che i geografi, chiamati apposta e interrogati dal re, non ne sapeano più che i libri. Egli allor fece venire da ogni parte de’ suoi dominii uomini esperti ed usi a’ viaggi, e ordinò che interrogati per un suo ministro,[264] tutti insieme e poi spicciolati, si tenesser buoni i ragguagli ne’ quali ciascun s’accordava e si rigettassero gli altri. Durò quindici anni cotesta esamina; nel qual tempo non passò giorno che il re non vegliasse sul lavoro, non pigliasse conto de’ ragguagli raccolti e non facesse opera ad appurarli. Indi ei volle vedere se tornassero precisamente le distanze su le quali s’erano accordate le relazioni.[265] Fe’ recar dunque una tavola graduata[266] e trasportarvi col compasso, ad una ad una, quelle distanze; tenendo anco sott’occhio i libri citati dianzi e ponderando le opinioni diverse: e tanto studiò sul complesso di quei dati, ch’egli arrivò a determinare le vere posizioni. Fe’ allor gittare, di puro argento, un gran disco diviso in segmenti,[267] che pesò quattrocento rotl italici, di cento dodici dirhem ciascuno,[268] e fevvi incidere i sette climi con le loro regioni e paesi, le marine e gli altipiani, i golfi, i mari, le fonti, i fiumi, le terre abitate e le disabitate, le strade battute, con lor misure in miglia, le distanze (marittime) e i porti: nella quale incisione fu copiato per filo e per segno il planisfero delineato già nella tavola. Ordinò in ultimo si compilasse una descrizione corrispondente alle figure della mappa, aggiuntovi le condizioni di ciascun paese e contado: la natura organica,[269] il suolo, la postura, la configurazione, i mari, i monti, i fiumi, le terre infruttifere, i cólti, i prodotti agrarii, le varie maniere di edifizii, i monumenti, gli esercizii degli uomini, le arti che fiorissero, le merci che si introducessero o si traesser fuori, le maraviglie raccontate e le supposte; e in qual clima giacesse il paese ed ogni qualità degli abitatori: sembiante, indole, religioni, ornamenti, vestire, lingua.” I manoscritti che ci han dato il testo fin qui con poco divario, si discostano venendo alla intitolazione di Nozhat el Mosctâk, la quale, secondo un codice, fu messa da Edrîsi, ma gli altri due, e tra questi il più prossimo all’originale, riferisconla a Ruggiero stesso;[270] poscia tutti d’accordo notano quella che noi diremmo pubblicazione, fatta nella prima metà di gennaio millecencinquantaquattro, che è a dir cinque o sei settimane innanzi la morte del re.
La quale sendo avvenuta dopo lunga infermità, possiamo supporre che Edrîsi abbia affrettato ed anco precipitato il lavoro da presentare, e che per tal cagione quello sia venuto fuori men corretto, che non portasse il disegno e non permettessero i mezzi del re. Ma di ciò meglio a suo luogo. Fatta intanto nelle parole d’Edrîsi la tara dell’adulazione e della rettorica, ognun vi legge che il dotto affricano stese la descrizione, dopo avere raccolte e coordinate le relazioni orali e confrontatele, se si voglia, coi trattati di geografia; ch’ei forse die’ consigli su gli studii da fare e sul metodo; ma che il concetto, l’impulso, l’ordinamento e perchè no? un’assidua cooperazione, si deve a Ruggiero, nella cui mente le tradizioni musulmane si univano alle bizantine ed alle latine, al genio cosmopolita dei Normanni ed alla curiosità statistica del principe e del capitano.[271] Tornano anco a ciò i ragguagli del Sefedi. Ruggiero o Uggiero, egli dice, amando le dottrine filosofiche dell’antichità, fece venir dall’ ’Adwa[272] lo sceriffo Edrîsi; indusselo a stanziare appo di lui e fuggir i pericoli che la sua nascita regia gli attirava ne’ paesi musulmani d’Occidente; Ruggiero gli assegnò entrate da principe; l’onorò tanto che solea levarsi quand’egli veniva a corte e andargli incontro e metterselo a sedere allato. La prima cosa, costruì Edrîsi pel re una grande sfera armillare d’argento e n’ebbe in guiderdone de’ milioni.[273] “Ruggiero poscia si consultò con Edrîsi intorno i migliori modi d’appurare i ragguagli geografici con certezza, non già copiando libri; ed entrambi consentirono in questo, che si avesse a mandare apposta per tutti i paesi di levante e di ponente, uomini sagaci e dotti, accompagnati da disegnatori, a fin di ritrarre la figura d’ogni cosa notevole. E il re mandolli di fatto: i quali come riportavano lor disegni, così Edrîsi li verificava; e compiuta che fu la raccolta, ei distese la compilazione intitolata il Nozhat.”[274] Opera collettiva questa fu dunque, lavoro d’una specie d’accademia istituita da Ruggiero nella corte di Palermo, preseduta da lui stesso; e il rampollo degli ultimi califi di Cordova n’era il Segretario perpetuo, se ci sia permesso dar nomi nuovi e precisi a un abbozzo del medio evo. Ognun poi vede che appo i letterati musulmani, Edrîsi dovea a poco a poco ecclissare Ruggiero, ancorchè di questi rimanesse pure onorato ricordo.[275] Non essendo stato il libro, per la intempestiva morte del re, tradotto in latino, l’Europa l’ha riavuto dopo cinque, anzi sette secoli, col nome del compilatore che forse gli rimarrà per sempre. E così è avvenuta al regio autore fortuna contraria a quella de’ Grandi d’oggidì che fan lavorare altrui e voglion per sè la lode.
Quando verremo a trattare particolarmente la storia letteraria di cotesto periodo, noteremo altre vestigie dell’accademia rogeriana e delle dotte elucubrazioni del re, bastandoci qui far cenno degli uomini e delle opere che vi si riferiscono. Oltre l’Edrîsi, veggiamo nella reggia di Palermo Abu-s-Salt-Omeia da Denia, medico, meccanico, astronomo, dotto nella scienza che gli antichi addimandavan la musica, poeta e cronista; il quale girando, come soleano i letterati Musulmani, per tutte le corti amiche agli studii, passò dal Cairo in Palermo e indi a Mehdia, prima che la fosse occupata da’ Siciliani. Diverso da costui par sia stato l’autore dell’orologio ad acqua, congegnato per comando di Ruggiero, come attesta una lapida trilingue della Cappella palatina di Palermo e una notizia trasmessaci dal cosmografo Kazwini. Credo si debba a incoraggiamento del re la versione latina dell’Ottica di Tolomeo, fatta dall’ammiraglio Eugenio, sopra una versione arabica del testo greco e sì la versione delle Profezie della Sibilla Eritrea, tradotte, come dissero, dal caldaico in greco per opera di un Doxopatro, e lo stesso Eugenio voltolle dal greco in latino. Il quale Doxopatro, sembra il Nilo venuto a corte di Ruggiero da Costantinopoli, autore del famoso libro su le sedi patriarcali; molestissimo al papa, come quello che dimostrò aver la sede di Roma preso il primato in Cristianità perchè la città era capital dell’impero e averlo perduto di diritto con la traslazione a Costantinopoli; e i vescovi di Sicilia essere stati soggetti al patriarca bizantino, fino al conquisto del Conte Ruggiero.
Non affermeremmo noi che il re avesse onorato Nilo Doxopatro per cagion di questa opera istorica e canonica, più tosto che per la versione della Sibilla Eritrea. Come certe malattie, così corrono in ciascun secolo certe aberrazioni di mente, dalle quali raro avvien che campino i sommi ingegni: di che abbiam cento esempii antichi e odierni. Ruggiero, tra gli altri, credette alle scienze occulte. Narra il Dandolo che un famigerato astrologo inglese, richiesto dal re, gli facea trovare le ossa di Virgilio nel masso della collina presso Napoli e ch’ei comandava di riporle nel Castel dell’Uovo, sperando costringere a suo bell’agio con gli scongiuri l’ombra del Mantovano, sì che gli rivelasse tutta l’arte della negromanzia.[276] Attesta del paro Ibn-el-Athîr cotesti vaneggiamenti del re, con tal racconto che ritrae al vivo una scena della reggia palermitana. Sedendo un giorno il re co’ suoi intimi in una loggia che guardava il mare, fu visto entrare un legnetto reduce dalla costiera d’Affrica; dal quale si seppe che l’armata del re avea fatta sanguinosa scorreria ne’ dintorni di Tripoli. Sedeva allato a Ruggiero un dotto e pio musulmano, onorato da lui sopra ogni altro uom della corte e preferito a’ suoi preti ed a’ suoi monaci, tanto che bucinavano essere il re nè più nè men che musulmano.[277] Or parendo che il barbassoro non avesse posta mente alle nuove di Tripoli, “hai tu inteso?” interrogollo Ruggiero; e saputo che no, ricontò il fatto e domandò per celia “dove era dunque Maometto quando i Cristiani acconciarono così il popol suo?” — “Vuoi ch’io tel dica davvero? rispose il musulmano: egli era alla presa di Edessa, dove in quell’ora medesima e in quel punto irrompeano i Credenti.” E i Cristiani a scoppiar dalle risa. Ma Ruggiero, rifatto serio in volto, li ammonì non pigliasser la cosa a gabbo, chè quel savio non avea mai fatta predizione che non si avverasse. Ed a capo di alquanti giorni si riseppe che Zengui, il padre di Norandino, aveva occupata Edessa.[278] Mi viene in mente che quel savio sia stato forse lo stesso Edrîsi.
Non poteano mancare, in corte così fatta, i poeti arabi. Ancorchè i bacchettoni musulmani, compilatori d’antologie, abbiano soppressi di molti versi, massime que’ che più ci premerebbe di leggere, abbiam pure alcuni frammenti di kasìde, presentate a Ruggiero da Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan di Malta, dal filologo Abu-Hafs-Omar, da ’Isa-ibn-Abd-el-Moni’m, da Abd-er-Rahman di Butera, da Ibn-Bescirûn di Mehdia e da ’Abd-er-Rahman di Trapani; de’ quali i primi due, perseguitati, imploravano la clemenza del re; il terzo volea consolarlo della morte del figliuolo; e gli ultimi lodavan il regio Mecenate, descrivendo il sontuoso palagio, le ville e il viver lieto della corte, dove solean girare, colme di biondo vino, le coppe, e il suono della lira accompagnar la voce di cantori, paragonati ai più celebri della corte omeiade di Damasco.
Il genio di civiltà che risplende nella vita tutta di re Ruggiero, si scerne ancora in que’ monumenti suoi che il tempo ha rispettati: la cattedrale di Cefalù, la Cappella palatina di Palermo, il Monastero di San Giovanni degli Eremiti nella stessa città, i sepolcri di porfido del Duomo palermitano e qualche iscrizione arabica dove occorre il suo nome. D’altri edifizii ch’egli innalzò abbiam qualche avanzo da poterne argomentare la eleganza o la magnificenza: voglio dire la villa della Favara, ossia Maredolce, e quella dell’Altarello di Baida: entrambe alle porte di Palermo. I cronisti finalmente e i diplomi ci ragguagliano di parecchi altri monumenti edificati per suo comando; come sarebbe una parte della reggia di Palermo e il Monastero del Salvatore di Messina, de’ quali non è agevole scorgere ora i vestigii tra le costruzioni sovrapposte. Di certo Ruggiero non creò tutte le arti che fiorivano in Sicilia fin da’ tempi musulmani, ma le ristorò dopo le vicende della guerra, ed altre ne promosse per lo primo: v’ha di certo nei monumenti siciliani della prima metà del secolo l’impronta d’un intelletto superiore che raccolse, dispose e riformò. La mole, le graziose e nuove proporzioni, la leggiadria e ricchezza degli ornamenti, rivelano unità di concetto, sentimento del bello, altezza d’animo e profusione di danaro, da confermare che il primo re di Sicilia fu possente e grande in ogni cosa.
CAPITOLO IV.
Nell’operoso e lungo regno di Ruggiero le condizioni sociali dell’isola mutaron da quelle dei primi anni del secolo XII. Verso la metà del secolo era già la Sicilia ripiena di coloni cristiani, arricchita coi traffichi d’Affrica e delle Crociate; il conquisto inoltre della Terraferma, reagendo sul centro del governo, recava elementi novelli nella corte, la quale era divenuta già primario corpo dello Stato per cagion degli ufici pubblici che vi s’accentravano: corpo di gran mole, vario di origine, reso omogeneo dallo interesse; onde, salvo le gelosie, fraternizzavan quivi gli arcivescovi coi liberti musulmani, i chierici d’oltremonti coi borghesi delle Puglie, i condottieri francesi coi corsari greci di Messina. Mancata quella man ferma del re, le nuove parti sbrigliaronsi. Il baronaggio, provocato o no, cercò di ripigliare lo Stato in Terraferma e di far novità anco in Sicilia. La corte volle possedere, sotto il nome di Guglielmo, l’autorità ch’essa avea esercitata sotto il comando di Ruggiero. Per lei teneano i Musulmani e fors’anco le schiatte più antiche dell’isola; per lei, in tutto il reame, i cittadini, bramosi di sicurezza e di franchige: se non che i baroni avean sèguito anch’essi nelle città e talvolta prevaleanvi per l’invidia che desta sempre il governo e gli interessi ch’egli offende. Avveniva ancora nell’isola che il popolo delle grandi città e i coloni lombardi delle montagne, si accostassero al baronaggio per odio de’ Musulmani e cupidigia dell’aver loro. Coteste parti che talvolta, com’egli avviene, mutavano sembianze, compariscono chiaramente nelle tragedie di Guglielmo il Malo; nelle commedie delle quali fu spettatore il Buono; anzi l’azione è da riferirsi a loro più tosto che ai personaggi aulici, descritti dalla mano maestra del Falcando, con le bellezze e la imperfezione dell’arte antica.
Al di fuori, la monarchia siciliana si travagliava contro i soliti tre nemici; con questo avvantaggio che tutti non si poteano collegare, nè pur durava a lungo l’accordo tra due. Il papa, incorreggibile, colse immantinenti l’occasione del nuovo regno, per ritentare l’Italia meridionale. Federigo Barbarossa ambì anch’egli quelle estreme province; richiese le forze navali a Genova ed a Pisa, nemiche del regno per gare di mercatanti; ma nulla ei conchiuse. I Bizantini all’incontro aveano in punto ogni cosa per assaltare la Puglia. Da lungi, gli Almohadi minacciavano gli acquisti d’Affrica. E rompeasi di presente la guerra contro i Fatimiti d’Egitto, non sappiamo appunto l’anno nè il perchè; dopo la morte di Ruggiero, credo io, e per cagion di commercio; potendo supporsi che i Pisani, ben visti allora a corte del Cairo, avessero fatto disdire i privilegi stipulati poc’anzi con la Corona di Sicilia.[279]
Guglielmo era indolente, feroce, superbo, avaro. Majone da Bari, promosso dal padre ai maggiori ufizi pubblici, fatto ammiraglio alla esaltazione del nuovo re, non torna nè quel valente e savio statista che dice l’Arcivescovo di Salerno, nè quel forsennato malfattore che vuole il Falcando. Parmi si personificasse in costui la corte con tutti i suoi vizii: e la testimonianza non sospetta de’ Musulmani ci assicura che la voce pubblica attribuì alla malvagità sua e del re tutti gli sconvolgimenti che inaugurarono il regno.[280] Divampò la ribellione feudale in Terraferma (1155); s’apprese in Sicilia; il re in persona domolla quivi con le armi e con la clemenza; la represse con immanità (1156) in Calabria e in Puglia, dov’era aggravata dall’invasione de’ Bizantini, dall’aggressione del papa e dalle mene del Barbarossa. E furono scacciati i Bizantini; poi sconfitti di nuovo in grande battaglia navale[281] a Negroponto (estate del 1157): dopo la quale Guglielmo fermò la pace col Comneno (1158). Aveala già ottenuta dal papa in grazia delle sue vittorie (luglio 1156). E pria l’armata, di giumadi secondo del cinquecencinquanta (agosto 1155) avea dato il guasto a Damiata, Tennis, Rosetta, Alessandria e riportatone gran preda d’oro, argento e vesti preziose.[282] In quel torno i Masmudi, dice una Cronica, saccheggiarono il castel di Pozzuoli; ma sopraccorse le navi regie, furono presi e tagliati a pezzi.[283] Così le armi di Guglielmo trionfarono per ogni luogo. Nè par ch’egli abbia gittato via il danaro con che volle tagliare i passi a Federigo, che veniva a incoronarsi in Roma. Narra Ottone di Frisingen che nel tumulto surto il dì stesso dell’incoronamento (18 giugno 1155) i soldati imperiali dando addosso ai Romani, gridavano: «Prendete questo ferro tedesco in cambio dell’oro arabico! Questa mancia vi dà il Signor vostro. Ed ecco come i Franchi accattan l’impero!»[284] S’io ben m’appongo, l’oro arabico che i soldati imperiali maledicean tanto e lo cercavano sì avidamente nelle tasche dei Romani, erano i tarì d’oro coniati da’ principi di Sicilia di quel tempo con leggende arabiche: bella e comoda moneta comunissima allora nell’Italia meridionale. Il fatto è che, tra il movimento di Roma, la scarsezza delle vittuaglie e la morìa, l’esercito imperiale, anzi che calare in Puglia, fu costretto a ritornare frettoloso in Germania.
Mentre Guglielmo per tal modo si assodava sul trono, perdette i conquisti del padre in Affrica. Comparvero immediatamente in quelle province gli effetti del mal governo: i presidii cristiani cominciarono ad aggravare i Musulmani. Vivea da otto anni in Palermo Abu-l-Hasan-Hosein-el-Forriâni dotto e religioso sceikh di Sfax, del quale abbiam detto[285] che designato a governar la sua terra per lo re di Sicilia, avea chiesto lo scambio in persona del figliuolo Omar, e si era dato statico egli stesso in man de’ Cristiani. Ei sapeva il figlio uom di grande animo e risoluto. Nel partire di Sfax per la Sicilia, «Vedi, io son vecchio, gli disse; io m’avvicino alla tomba: questo fiato di vita che m’avanza, lo vo’ consacrar tutto ai Musulmani. Quando ti si offra il destro, sorgi tu contro il nemico cristiano; distruggilo senza badare ad altro; e fa conto ch’io sia già morto.» Risaputi i soprusi de’ Cristiani a Sfax, viste da presso le cose in Palermo, il Forriâni scrive al figliuolo che l’ora è suonata; che si affidi in Dio e rivendichi i diritti dei Musulmani.
Omar convocava una notte i cittadini; esortavali a pigliar l’arme: ch’altri si mettesse a guardia delle mura, altri corresse alle case de’ Franchi e di tutti i Cristiani e sì li trucidassero. «E lo sceikh, domandarongli, il signor nostro e padre tuo, che sarà di lui?» — «Egli stesso me l’ha comandato, rispose Omar. Se cadranno insieme con lo sceikh mille e mille cristiani, ei no, non morrà.»[286] Levandosi il sole, era consumata la strage, dalla quale nessun cristiano campò. Era il primo giorno dell’anno cinquecencinquantuno dell’egira (25 febb. 1156).
Risaputo il caso in Palermo, il re chiamava il Forriâni; gli intimava di scrivere ad Omar che ritornasse all’obbedienza, se volea salvar la vita al padre. Il vecchio rispose tranquillamente: «Chi è corso tant’oltre non tornerà addietro per forza d’una lettera.» E fu chiuso in prigione coi ceppi ai piè; e mandato a’ ribelli un messaggio con minacce e promesse. Il quale arrivato a Sfax, non gli permessero di sbarcare quel dì. Venuta la dimane, dalla nave ei sentì gran clamore in città; vide aprir la porta di mare e uscirne la gente in processione, salmeggiando: «Iddio è grande. Non v’ha dio che il Dio; Maometto è l’apostol suo:» e recavan sulle spalle una bara. La messer giù; Omar si fece innanzi; recitò la preghiera; fe’ sotterrar la bara: e tutti gli furono attorno, com’era uso ne’ funerali, poi dileguaronsi a poco a poco. Instando l’ambasciatore presso le guardie perchè lo conducessero ad Omar, dissergli: «Lo sceikh è occupato nella cerimonia del duolo, sendo stato sepolto poc’anzi il padre, quel desso di Sicilia. Riferisci ciò ch’hai veduto e non occorre altra risposta.» Nè tardò guari in Palermo il supplizio dell’Attilio Regolo musulmano. Alzaron la forca su le sponde del Wadi-’Abbâs, come s’addimandava l’Oreto appo i Musulmani, e torna appunto alla pianura di Sant’Erasmo, or tutta ingombra di fabbriche e di giardini, nella quale un tempo si eseguivano le sentenze capitali e fuvvi acceso nel secol decimottavo l’ultimo rogo dell’Inquisizione. Malmenato da’ carnefici, strascinato al patibolo, Abu-l-Hasan recitava impavido e posato il Corano; e con le sacre parole in bocca morì.[287]
All’esempio di Sfax sollevaronsi le popolazioni delle Gerbe e di Kerkeni, dissanguate com’elle erano.[288] Tripoli tardò alquanto; sia che il presidio sapesse guardarsi meglio, sia che le due fazioni da noi già citate mal si potessero accordare insieme. Si trattò dapprima un caso legale. Per comando, com’egli è verosimile, della corte di Palermo, il capitano del presidio volea che da’ pulpiti delle moschee fosse recitato un sermone contro gli Almohadi, eretici, usurpatori, e quel ch’era peggio, possenti, vicini, e sospetti di pratiche in Tripoli. Rispondeano i cittadini che, secondo la capitolazione, nessun potea costringerli a cosa contraria all’islâm; e che tal sarebbe stato il detrarre pubblicamente ad altri Musulmani, fosser pure di rito diverso. Il giureconsulto che tenea la magistratura[289] allegò coteste ragioni al capitano; e conchiuse che s’ei non fosse persuaso, il popolo di Tripoli gli lascerebbe la città e andrebbe con Dio. Il Siciliano accettò, buona o trista, la scusa e stette in guardia; i Musulmani passaron dalle parole ai fatti. Fu il governator della terra, Jehia-ibn-Matrûh, quel desso che ordì coi notabili del paese la congiura di dar addosso al presidio, una notte di luna piena, per attirarli fuor della fortezza e avvilupparli in lor trappole. Venuta l’ora, congegnano per le strade legname e funi e levan quindi il romore. I soldati del presidio prendono incontanente le armi, montano in sella e spronano addosso alla turba: quand’ecco i cavalli incespano, s’avviluppano; i cavalieri son presi senza potersi difendere. Così del cinquantatrè (2 febb. 1158 a 22 genn. 1159) la città di Tripoli scosse il giogo e rimasene capo lo stesso Jehia-ibn-Matrûh.[290] Come a Sfax ed a Tripoli, così anco a Kâbes rivoltavasi il governatore del re di Sicilia, per nome Mohammed-ibn-Rescîd.[291] Gli Almohadi intanto, occupata Bona, stendeansi verso levante fin presso Tunis.[292] Rimanea soltanto alla corona di Sicilia la città di Mehdia, col borgo di Zawila e con Susa.[293]
Nel primo impeto della riscossa, Oraar-el-Forriâni avea mandata gente a sollevare Zawila, sì che i Cristiani fossero minacciati nel centro delle forze loro. Gli Arabi del vicinato eran pronti a correre ad ogni odor di preda; de’ Cristiani in Zawila par vivessero pochi o nessuno. Agevol cosa fu dunque a gridar nel borgo “morte ai Rûm” e tentare un colpo a Mehdia stessa, nel mese di scewâl del cinquantuno (17 novembre a 15 dicembre 1156). Il qual colpo ancorchè fosse fallito, i sollevati con l’aiuto di que’ di Sfax e d’altre terre e anco degli Arabi, si mantennero in Zawila, intercettando dalla parte di terra le vittuaglie alla fortezza. Guglielmo inviò allora venti galee con rinforzo d’uomini, armi e provigioni; onde si ripigliò l’offensiva. Dicono i Musulmani che il capitan di Sicilia corruppe gli Arabi e che uscito il presidio a combattere, essi presero la fuga, lasciando nella mischia quei di Zawila e di Sfax. Che che ne sia, furono i Musulmani circondati e rotti con molto sangue. Que’ di Sfax fuggirono a’ legni che avean pronti alla spiaggia, onde ne campò di molti; ma gli uomini di Zawila stessa non trovaron asilo nel borgo, del quale furon chiuse le porte. Cadder essi lì combattendo; mentre i vecchi, le donne, i fanciulli cercavano di salvarsi, qual per mare, qual per terra, come ciascun potea. Ma non bastò il tempo a tutti. I vincitori, superato ch’ebbero il debil muro, non perdonarono a sesso nè ad età; rapirono o distrussero ogni cosa. Avvenne cotesto strazio il cinquantadue (13 febbraio 1157 a 1 febbraio 1158). Par che la penisola da Mehdia a Susa e forse più a ponente verso il Capo Bon, sia tornata allora in poter di Guglielmo; poichè gli annalisti musulmani dicono che i Siciliani stetter saldi in Mehdia d’allora infino all’assedio d’Abd-el-Mumen;[294] e Roberto dal Monte scrive che il millecentocinquantasette presa dall’armata di Guglielmo Sibilla, capitale dell’isola di Gerx, il re vi fece stanziare i Cristiani e lor prepose un arcivescovo.[295] Parrebbe da questo cenno che fossero stati accolti in quel territorio, e principalmente in Zawila, gli abitatori cristiani che la ribellione avea cacciati dalla costiera di levante, e la dominazione almohade da quella di ponente. S’ignora in vero il nome dell’arcivescovo, e se il cronista riferisca esattamente la dignità: ma non mi sembra punto inverosimile che la corte di Palermo abbia voluto nominare un metropolitano nelle sue possessioni d’Affrica; la quale dignità e le contese che nascer ne doveano tra il re e il papa, siansi dileguate insieme con la dominazione siciliana in quelle parti.[296]
Gli Almohadi in questo tempo non si erano risentiti, attendendo Abd-el-Mumen a mutar la costituzione dello Stato; farsi, di capo elettivo dell’aristocrazia masmuda, monarca assoluto ed ereditario, egli straniero alla tribù; togliere i governi delle province ai capi masmudi e affidarli a’ proprii figliuoli. Il colpo gli venne fatto di queto, senza immediato spargimento di sangue.[297] Nè era ch’ei non pensasse all’Affrica propria. Ricettò nella sua corte Hasan, il signor di Mehdia; per dieci anni potè ragionare con lui delle condizioni di que’ paesi; e narrasi che quando i miseri sopravissuti al caso di Zawila andarono a Marocco a chiedergli vendetta, ei li sovvenne di danari, li ascoltò con gli occhi pieni di lagrime, tacque un pezzo e poi, levando il capo, «Fate cuore, lor disse, io vi aiuterò; ma convien aspettare.» Ordinato intanto l’impero sì com’ei volle, si apparecchiò per tre anni alla guerra, grossa e lontana, ch’era necessaria a cacciare non solamente i Cristiani di Mehdia, ma a domare tutti que’ regoli o capi Berberi, quelle tribù d’Arabi ladroni che da un secolo e più viveano senza alcun freno tra Tunis e Barca. Dei quali preparamenti gli annalisti ci danno molti particolari, cavati com’e’ pare da Ibn-Sceddâd, il quale si trovò (1159) al campo almohade sotto Mehdia ed era stato tre anni innanzi in Palermo.[298]
Ci narrano dunque che Abd-el-Mumen fece far numero infinito di grandi sacca di cuoio per l’acqua e di otri e di truogoli; fece scavar pozzi lungo il cammino disegnato per l’esercito; che d’ordine suo per tre anni furono in quelle province segate le messi senza trebbiare e ammontati i covoni e ricoperti di creta, che parean tante colline; che fu messa insieme, tra Spagna ed Affrica, un’armata di settanta galee, senza contar le teride nè le salandre, e affidata a Mohammed-ibn-Abd-el-Azîz-ibn-Meimûn, di quella celebre casa di guerrieri di mare, scrisse Ibn-Sceddâd;[299] che noveravansi nell’esercito centomila combattenti e altrettanti saccardi; che nella marcia, passando pe’ luoghi cólti, nessun osava coglier pure una spiga di grano; e che facendo la preghiera sotto l’imâm, tutti intonavano l’”Akbar Allah” come un sol uomo. Cotesti racconti provano la maraviglia che recò nell’Affrica propria quello spettacol nuovo d’un’oste immensa, disciplinata e ben provveduta. La vanguardia mosse di Marocco allo scorcio del cinquecencinquantatrè (gennaio 1159): e nel sefer del cinquantaquattro (22 febbraio a 22 marzo dello stesso anno) era passato quasi tutto l’esercito.[300]
Abd-el-Mumen prima assalì Tunis (mag. 1159); dove trovando resistenza e non essendogli pur giunte le forze navali, andò a Kairewân ed a Susa, entrò in Sfax; poi ritornò sotto Tunis (13 luglio), dielle un assalto che la sforzò ad arrendersi: e quindi perdonò a tutti la vita, cacciò Ahmed-ibn-Abi-Khorasân, lasciò l’avere a pochissimi cittadini, agli altri tolse la metà de’ beni mobili o stabili; a’ Giudei ed a’ Cristiani diè la eletta tra l’islamismo e la morte: e chi non rinnegò fu trucidato. Quel terribil nembo dopo tre giorni piombò sopra Mehdia: la quale fu stretta per mare e per terra.[301]
Sgomberata Zawila all’appressar di tant’oste, i Cristiani si chiusero nella fortezza, con alquanti Musulmani, com’ei pare, leggendosi che vi fosse il principe zirita Jehia-ibn-Hasan-ibn-Tamîm.[302] Militava nel presidio la più eletta gioventù del regno, per nobiltà e valore;[303] sommavano i combattenti a tremila, secondo un compilatore che mi par bene informato.[304] Del sito e fortezza di Mehdia abbiam detto altrove: grossissime le mura da potervi correr due cavalli di fronte e altri scrisse anco sei; accessibile dalla parte di terra per una porta sola e un istmo stretto e ben munito; formidabile dalla parte di mare per le difese e per la prontezza all’offendere, poichè niun di fuori vedea le galee surte nell’arsenale che belle e armate usciano improvvisamente dalla bocca del porto.[305] Spaventevole all’incontro il numero degli assedianti. Al primo arrivo, Zawila deserta divenne come una gran capitale, scrivono maravigliati i Musulmani; pur non bastò a tutti i soldati, ribaldi e mercatanti, e fu forza che parte s’attendassero di fuori: poi trasservi anco Arabi de’ dintorni e Berberi della tribù di Sanhagia, ai quali Abd-el-Mumen non potea vietar di combattere la guerra sacra. Furono piantati i mangani e le ’arrâde;[306] a muta a muta i Musulmani davano l’assalto dì e notte: ma gli assediati se ne rideano; anzi con frequenti sortite batteano aspramente i nemici; sì che Abd-el-Mumen per difesa de’ suoi, fe’ tirare un muro a ponente della città:[307] e stava egli tutto il dì al campo, sotto una tenda, dormiva la notte in un palagio di Zawila.[308] Montata poi una galea con quell’Hasan ch’era stato signor della città, fecero il giro della fortezza; guardarono; discorsero e si persuasero che non vi era modo a dar la battaglia. “Or come fu che l’abbandonasti al nemico?” sclamò Abd-el-Mumen: ed Hasan “Mancavano le vittuaglie, io non avea di chi fidarmi: e poi così volle il destino!” “Ben dici,” replicò Abd-el-Mumen. Smesso il pensiero d’un assalto per mare, ordinò il blocco; dispose l’esercito a svernare a Zawila; onde, fattovi trasportare tutto il grano e l’orzo che si potè, ne fecero due masse tanto alte, che gli scrittori tornano al facile paragon delle colline, dicendo che quanti non avevan visto il campo da parecchi giorni, domandavano come fossero venuti su que’ due monticelli. Nè bastaron questi a prevenire il caro del vitto; onde s’arrivò a vendere sette fave per un dirhem mumenino, che tornava a mezzo dirhem legale, e però a trenta centesimi della nostra lira.[309] Ma il presidio era minacciato di pretta fame. Si argomenta dalle narrazioni musulmane che l’armata almohade avesse già chiuso il mare del tutto: onde ormai la sorte della fortezza dipendea da una battaglia navale.
L’armata siciliana il millecencinquantasei avea cooperato possentemente a cacciare i Bizantini dalle costiere di Puglia. Nel cinquantasette, capitanata da Stefano fratel di Majone, essa avea prese cittadi e fortezze in Romania, desolate province e distrutta quasi del tutto a Negroponto l’armata greca: vittoria assai più gloriosa che niun’altra di Giorgio d’Antiochia. Perchè non mandarono immediatamente quest’armata a Mehdia con lo stesso Stefano? Era ita, in vece, alle Baleari; condotta da un eunuco Pietro, forse per intercettare le navi dei Beni-Meimun; ma altro non avea fatto che dare il guasto all’isola di Ivisa. Avea pieni gli scafi di prigioni e di preda, quando un ordine del re chiamolla a soccorrere Mehdia.[310]
Dove il lunedì ventidue di scia’bân (8 settembre) comparvero in lunghissima fila cencinquanta galee siciliane, oltre le teride e altri legni:[311] accennaron poi ad entrare nel porto: sì che alcune galee calavan le vele, ed una degli assediati uscì loro all’incontro. Le settanta galee almohadi, se non eran tirate a terra, come dice il Falcando, sorgeano in luogo sicuro e di certo non presentavan battaglia. Sospettando forse uno sbarco fuori la fortezza, Abd-el-Mumen schierò tutto l’esercito su la spiaggia: e stava a guardar le mosse del nemico, quando Ibn-Meimun viene in fretta; gli mostra le galee siciliane che s’avanzano sparpagliate per cagion del vento;[312] dice potersi tentar la battaglia, non ostante il disavvantaggio del numero. Abd-el-Mumen non rispose. Il marinaio spagnuolo, prendendo quel silenzio per assentimento, corre alle navi; fa montare le ciurme; esce e dà di fianco nella fila del nemico. Spezzatala, ricaccia nel porto di Mehdia le galee più vicine a terra; volta le prore contro le altre; le quali combattono un poco, poi, sbigottite le ciurme, dicono i Musulmani, dalla immensa moltitudine d’armati che vedeano a terra, prendono il largo, spiegan le vele: il navilio musulmano che non ne avea, rimase addietro nella caccia; talchè ghermite sette galee siciliane fu costretto a tornare. Abd-el-Mumen fin dal principio della battaglia, prostrato a terra, si spargea polvere sul capo, fervorosamente pregava: “Grande Iddio, non fiaccar tu i sostegni dell’islam.” Così Ibn-Sceddâd, ch’era presente. Gli scrittori musulmani che attinser in parte da lui, narrano questa giornata con poco divario l’un dall’altro. De’ cristiani, il Falcando afferma a dirittura che l’eunuco Pietro per tradimento, fuggì senza combattere, e Romualdo salernitano scrive ch’ei pugnò, fu vinto e perdette molte galee. Ma pochi anni appresso veggiamo Romualdo compagno o complice dell’eunuco Pietro nelle fazioni di corte.
Con aulica serenità, prosegue l’arcivescovo a dir che il presidio, scarseggiando di vittuaglie e non avendo speranza di soccorsi, fe’ pace coi Masmudi; lasciò loro la città e tornò in Sicilia, ciascuno con la sua roba. Il Falcando, all’incontro, rincalza le accuse in quest’ultimo tempo dell’assedio: che gli eunuchi della corte assicuravano per lettere Abd-el-Mumen non si manderebbero aiuti; ch’egli offerì ai Cristiani di prenderli a’ suoi soldi o rinviarli in Sicilia; che stretti dalla fame promessero di lasciare la fortezza se chiesto soccorso l’ultima volta non l’ottenessero entro pochi dì; e che giunto il messaggio loro a corte, Majone diè ad intendere al re non mancar punto le vittuaglie in Mehdia; onde que’ prodi alfine, delusi e affamati, la consegnarono al nemico. Non parmi punto verosimile quell’ultimo messaggio in Sicilia. Al dir degli scrittori musulmani, quando il presidio ebbe mangiati tutti i cavalli e stava per morir di fame, che fu in su la fine di dsu-l-higgia (primi di gennaio), dieci gentiluomini scesero dalla fortezza a domandar salva la vita, la roba e la libertà. Rispondendo loro Abd-el-Mumen che più tosto abiurassero, replicarono: non esser venuti per questo, ma per implorare la magnanimità sua; che nulla aggiugnerebbe alla sua gloria il far perire di fame tanti cavalieri; che al contrario, s’ei li rimandasse alle case loro, gli sarebbero obbligati per tutta la vita. Andaron e ritornarono più d’una volta, finchè il monarca almohade, ammirando la fortezza dell’animo loro, il signorile sembiante e le oneste parole, o temendo, com’altri dice, che re Guglielmo non si vendicasse della morte loro sopra i Musulmani di Sicilia, accettò la resa e fece traghettare con navi tutto il presidio in Sicilia. Entravano i Musulmani nella fortezza la mattina del dieci di moharrem del cinquecencinquantacinque (21 gennaio 1160). Aggiungono gli scrittori arabi, ma il silenzio del Falcando mi distoglie dal crederlo, che la più parte dei reduci periva per naufragio. Intanto aveano gli Almohadi ridotte altre terre dell’Affrica settentrionale; sì che l’impero di Abd-el-Mumen si misurò da Sus dell’Oceano infino a Barca; da’ confini settentrionali dell’Andalusia alle estremità meridionali del Sahra.[313]
La cronologia, trascurata pur troppo da’ due cronisti di Guglielmo, ci mostra che il caso di Mehdia rinfocò le ire nel regno. Già da parecchi anni la parte feudale, per onestar la rivoluzione, movea di strane accuse contro Majone: ch’egli ambisse il trono, attentasse alla vita di Guglielmo, lo spingesse agli atti più crudeli per farlo comparire tiranno: or aggiunsero, troppo sottilmente, che avesse fatta cader Mehdia a bella posta per gittar novello odio sopra il re.[314] Ma non mancavano forti sospetti contro la corte tutta quanta: la connivenza degli eunuchi co’ Musulmani e di Majone con gli eunuchi; la nimistà del ministro e del re contro i nobili, che tanti ve n’era in Mehdia; e la voglia di liberar l’erario di quella dispendiosa e disutile dominazione.[315] Perchè non avean arso l’eunuco Pietro come Filippo di Mehdia?[316] Perchè non aveano rimandato il navilio in Affrica con un ammiraglio, uomo e cristiano, che sapesse vendicar la bandiera di Sicilia e liberar dalla fame il presidio? I cronisti scrivon poco o nulla di tai querele e notan secco il grave fatto che, il medesim’anno sessanta, Majone avea disarmati i Musulmani di Palermo.[317] Di che non ci si dice la cagione: se per punire i soldati musulmani dell’armata che fuggì nelle acque di Mehdia, o per reprimere la baldanza mostrata dopo le vittorie di Abd-el-Mumen, o per pratiche scoperte, o per querele dei Cristiani sbigottiti e umiliati. Di certo Abd-el-Mumen in quella stagione riordinava la costiera d’Affrica in guisa da dar molto pensiero ai vicini.
Pochi mesi eran corsi dalla dedizione di Mehdia e già, in Terraferma, città e baroni facean la giura che non si ubbidisse più a comandi sottoscritti da Majone: nè andò guari ch’egli stesso cadde una notte (10 novembre 1160) presso le case dell’arcivescovo di Palermo, intrattenuto a bella posta dal reo prelato che gli s’era giurato fratello, trafitto da Matteo Bonello, nobil giovane, creatura sua, confidente e satellite, il quale infingendosi più fedele che mai, tramava coi baroni malcontenti; e dopo il misfatto divenne l’eroe popolare di Palermo e di tutto il reame. E Guglielmo dapprima l’ebbe a ringraziare che gli avesse morto il primo ministro. Dissipato lo spavento, la combriccola dei prelati e degl’eunuchi di corte, incominciò a minacciare Matteo: indi parve ai malcontenti di affrettare il gran colpo, ch’era, deporre il re, esaltare il fanciullo Ruggiero suo figliuolo e regnar essi.
Non riuscì della congiura se non che l’esordio. Principi del sangue legittimi e bastardi e baroni e cavalieri, ai quali diè mano un capitan di guardie e prestaron forza soldati mercenari e uomini della plebe, presero Guglielmo nelle stanze del consiglio; si spartirono i tesori accumulati dal gran Ruggiero e le donne dell’harem; saccheggiarono la reggia; (9 marzo 1161) condussero per le strade della città il successore designato.[318] Non versarono i congiurati altro sangue che di Musulmani: e ciò mostra quali fossero i loro principali nemici. Quanti eunuchi trovarono, li messero a morte nella reggia e fuori, mentre andavano a nascondersi a casa gli amici; ucciser anco i Musulmani che stavano negli ufizi a riscuotere le gabelle, o ne’ fondachi a vendere lor merci; e spogliarono i cadaveri. Al qual romore i Musulmani del Cassaro, ch’era il quartiere più ricco della città, si ridussero nel borgo occidentale, asserragliarono le viuzze che vi mettean capo, e così, sprovveduti pur d’armi, fecero testa agli assalitori. Non picciol numero di Musulmani perì in questa sedizione.[319] Tra gli altri, il poeta Jehia-ibn-Tifasci, oriundo di Kafsa, cittadino di Kâbes, il quale forse, spazzate ch’ebbe Abd-el-Mumen le piccole corti d’Affrica, era venuto a tentar la fortuna in quella di Palermo.[320] Possiam supporre che fosse andato via dopo quell’eccidio l’Edrîsi, il quale era rimaso dapprima a corte di Guglielmo; poichè sappiamo da un contemporaneo ch’egli avea dedicata al nuovo re una edizione ampliata del Nozhat, la quale non è pervenuta infino a noi.[321]
Matteo Bonello era assente; tra i congiurati entrò subito la discordia; il popolo di Palermo che avea guardata la scena curioso e perplesso aspettando che vi comparisse Matteo, cominciò a mormorare che non si potea lasciar lo Stato a un’accozzaglia di facinorosi, buoni a saccheggiare il palazzo, scannare gli inermi e nulla più. I prelati ch’aveano tentennato e i più erano stati quatti, presero animo a questo, eccitarono il popolo a liberar il re: dai pochi, dice il Falcando, passò la voce alla moltitudine; come al comando di capitano audacissimo, come sospinti da una voce del Cielo, corsero alle armi: che ci par leggere i principii stessi di tutti i tumulti di Palermo, dal Vespro siciliano infino ai nostri dì. Il popolo circonda la reggia; e i congiurati, non bastando a difender quel vasto ricinto di mura, patteggiano col re, vanno via perdonati ed ei riman padrone (11 marzo); concede nuove franchige ai Palermitani; si assicura col navilio chiamato da Messina e con le forze che vengono a lui spontanee da varie parti dell’isola; e rimette su la sconquassata macchina del governo. Uscì allora in persona a combattere i baroni chiaritisi ribelli nella Sicilia orientale; li vinse (estate del 1161); e domò con pari fortuna e crudeltà maggiore i moti delle province di Terraferma (1162). Fece poi prendere a tradimento Bonello, accecarlo e sgarettarlo. Una seconda sollevazione tentata in palagio, finì con la morte di tutti i congiurati (1173). Come ognun vede, le città maggiori dell’isola teneano pel re contro i baroni, che lor pareano tiranni assai più molesti.[322]
Parteggiarono al contrario pei baroni ribelli le popolazioni lombarde, delle quali abbiam già notati gli umori e ordini municipali. La causa del divario mi sembra questa, che nella regione lombarda i comuni eran frammisti a feudatarii della stessa origine; onde l’umor della schiatta prevalea sopra quello del ceto; ed anco l’interesse, sendo negli uni come negli altri contrario a’ diritti degli antichi abitatori che la corte sempre difendea. E sappiamo dal Falcando che Ruggiero Schiavo, un de’ capi ribelli, tirate a sè Piazza, Butera e “altre terre di Lombardi” lor diè, gratissimo premio, il sangue, ed io correggo, la roba, de’ Musulmani; i quali, al dir di Falcando, in quelle regioni abitavano alcune terre insieme coi Cristiani e parte soggiornavano soli in lor case rurali. I Lombardi dando addosso improvvisi a quelle popolazioni agricole (primavera del 1161), ne uccisero moltitudine innumerevole; non perdonarono ad età nè a sesso. Camparono pochi dalla strage, chi fuggendo per boschi e monti, chi sgusciando travestito da cristiano; e ripararono nelle castella della Sicilia meridionale abitate da’ correligionarii loro: dove soggiornavano ancora quando scrisse il Falcando (1188), e tanta paura aveano del nome lombardo, che non solo non voleano ritornare alle case loro, ma non c’era modo di farli passar dal contado.[323]
L’odio di religione sopito per due o tre generazioni, ridesto dalle guerre civili, operava poi, come cieco e furibondo ch’egli è, senza distinguer parte, nè interessi. Militando nell’esercito di Guglielmo Cristiani e Musulmani, surse tra loro sanguinosissima zuffa, mentre insieme distruggeano la città di Piazza, nè valse a raffrenarli la voce de’ capitani, nè il comando del re, pria che cadessero uccise centinaia di Musulmani.[324] Tornati su intanto gli eunuchi, incominciò la reazione musulmana. Un gaito Martino, rimaso al governo della reggia e della capitale mentre il re osteggiava i ribelli, si messe a vendicare sopra i veri o supposti rei di maestà, un fratello suo ucciso dai congiurati: faceva accusar questo e quello; facea sostener l’accusa da accoltellatori ne’ giudizii di Dio e da testimonii infami ne’ giudizii secondo legge romana; e i condannati erano impiccati per la gola, straziati di battiture, al cospetto dei Saraceni che se ne facean beffe, scrive il Falcando.[325] Il gaito Pietro, quello stesso eunuco, traditore dell’armata a Mehdia,[326] ritornato a galla dopo la ristorazione di Guglielmo, facea sue vendette per man di un carceriere o boja cristiano, reo di mille turpitudini, cagnotto e mezzano dei Musulmani. S’egli è da credere senza limite all’onesta ira del Falcando, tutti i magistrati dello Stato, giustizieri, camerarii, stratigoti, catapani, creati dalla fazione de’ paggi di corte, servivano a quella ed alle proprie passioni, taglieggiavano ed opprimevano a man salva.[327]
La morte intanto di Abd-el-Mumen, (26 maggio 1163), la quale sciolse da gran timore i Cristiani di Spagna,[328] par abbia desta a speranze la corte di Palermo, o datole animo ad una dimostrazione contro gli Almohadi: con che i prelati della corte pare abbian voluto ostentare zelo per la religione e la patria; nè gli eunuchi, Pietro sopra tutti, poteano senza scortesia ricusar loro questo bel giuoco. Perchè leggiamo negli annali musulmani d’Occidente, che il cinquecencinquattotto (10 dic. 1162, 29 nov. 1163) i Rûm sbarcati a Mehdia, o credo io a Zawila, recarono spavento e danno; che quindi il navilio improvvisamente piombò sopra Susa, tenuta allora a nome degli Almohadi da un Abd-el-Hakk-ibn-Alennas; che i Cristiani fecero di molti prigioni, ammazzarono gente, distrussero il paese e portarono via in Sicilia il governatore co’ suoi figliuoli, i quali poi furono riscattati; ma Susa non era per anco ripopolata nel decimo quarto secolo.[329]
Guglielmo, stanco di quel secondo suo sforzo contro i ribelli, aveva abbandonato il governo alle mani dei ministri, non volea più sentir parlare di guai. Rivaleggiando col padre ne’ passatempi soli, ei si messe a fabbricare tal palagio che fosse più splendido e sontuoso di que’ lasciatigli da Ruggiero. Fu murato in brevissimo tempo, con grande spesa, il nuovo palagio e postogli il nome di El-’Aziz, che in bocche italiane diventò “La Zisa” e così diciamo fin oggi.[330] Il qual nome suona “il Glorioso,” sottintendendo palagio o castello; ed è arabico, come le iscrizioni di che rimangono deboli vestigie nella cornice e lunghi squarci nella sala terrena, come i rabeschi, le colonnine, gli ornamenti; anzi come la struttura stessa e com’era forse la più parte degli artefici e quasi tutta la corte, con quella mistura, sì, d’incivilimento cristiano che abbiam notata altrove; la quale mescolanza con l’andar del tempo, riuscì più leggiadra nell’arte che non fosse proficua nel reggimento della cosa pubblica. Circondavano il castello ridenti giardini ed orti, acque correnti e vivai.[331]
Pria che si desse l’ultima mano alla Zisa, morì Guglielmo di quarantasei anni, il quindici maggio millecensessantasei;[332] nelle esequie del quale, che duraron tre dì, trasse immensa folla di cortigiani e cittadini, vestiti di gramaglie; ma tra tutti, nota il Falcando, e ben glielo crediamo, le sole donne musulmane piangeano davvero, mentre vestite di sacco, scarmigliate le chiome, giravano per le strade dietro una brigata di ancelle, mettendo lamenti e rispondendo con flebil canto al suono dei cembali.[333]
CAPITOLO V.
Singolare fortuna ebbe Guglielmo II a raccogliere della tirannide paterna i frutti buoni, scansare l’odio, e tra la saviezza de’ tutori e la giustizia e mansuetudine dell’animo suo, guadagnar l’amore de’ contemporanei e le lodi dalla storia, in casa e fuori. Sia virtù o vizio del popolo, l’affetto in lui prevale sempre alla ragione; onde i posteri hanno perdonato a Guglielmo il Buono quella debolezza e levità di consiglio che alla sua morte fe’ aprire un abisso: la corte divisa, il reame insanguinato, l’Italia in preda all’impero, nonostante la vittoria di Legnago e la pace di Venezia. Il padre, al contrario, avea fiaccato in ogni modo il baronaggio, nemico massimo dello Stato; mantenuta l’amministrazione di Ruggiero, se non che vi mancava il re, e dopo la morte di Majone anco il primo ministro; poichè fu partita l’autorità tra un vescovo, un segretario ed un gaito, i quali personificavano le sole tre classi di sudditi favoriti a corte.
A que’ medesimi Guglielmo I aveva affidata la tutela del figliuolo; preposta loro la regina Margherita, la navarrese, nè inetta donna, nè debole, amica de’ ministri operosi: onde la dissero amante di Majone, poi di Stefano, e per poco non messero in lista l’eunuco Pietro. La reggenza fece opera, la prima cosa, a rabbonire le classi più offese: creò nuovi conti; die’ in feudo terre e villaggi; condonò debiti; abolì la tassa della “redenzione” che aggravava, com’e’ pare, i ribelli perdonati o i sospetti; concesse franchige ai cittadini; liberò schiavi della corte o del demanio.[334] Guglielmo II, biondo e soave in viso, giovanetto di quattordici anni, ben avviato alle lettere, fu coronato in Palermo tra speranze ch’ei non ismentì giammai volontariamente.
Posando dunque gli umori di ribellione, e perfino di scontento, scoppiò la discordia in corte: e tra le gare delle persone venne fuori l’antagonismo degli indigeni contro gli stranieri. Abbiam noi mostrato fin dal regno di Ruggiero, come la fazione cattolica d’occidente, monastica, francese e papalina, stendesse le trame fino alla corte musulmana di Palermo.[335] La provvedea di avventurieri ecclesiastici, dei quali non solamente veggiamo i nomi tra gli arcivescovi, i vescovi, i grossi prelati e i precettori dei re, ma scopriamo anco il linguaggio ne’ segretarii o copisti; poich’essi, ne’ diplomi, trascriveano il più delle volte i vocaboli arabici conforme alla pronunzia francese.[336] Le mandava anco avventurieri di spada, i quali occorrendo chiappassero qualche feudo.
Un parente, così, della regina Margherita, divenuto conte di Gravina, congiurò insieme con Riccardo Palmer inglese, vescovo eletto di Siracusa, contro l’eunuco Pietro, ch’era primo tra i ministri e forte nel favore della regina, nel seguito de’ cortigiani e de’ pretoriani e nella pratica dell’amministrazione. La briga si riscaldò tanto, che l’eunuco, uomo di poco animo, dice il Falcando, temendo per la propria vita, fuggì dalla corte e dal reame. Munita una buona saettia di marinai, d’armi e d’ogni cosa, e fattovi portar nottetempo gran copia di danaro, Pietro, la sera appresso, montò a cavallo con pochi eunuchi suoi fidati, pretestando di andare ad un nuovo palagio ch’egli avea fatto murare nel quartier della Kemonia;[337] e voltosi al porto, entrato in legno, riparò in Affrica, appo il re de’ Masmudi. Così il Falcando e, con poco divario, l’arcivescovo di Salerno.[338]
Scrive Ibn-Khaldûn che un Ahmed detto il Siciliano, nato nelle Gerbe della famiglia di Sadghiân ch’era ramo della tribù berbera di Seduikisc, preso dall’armata siciliana sulle costiere di quell’isola, educato in Sicilia, entrato al servigio particolare del re e fatto suo intimo, cadde in disgrazia appo il successore per suggestioni de’ suoi rivali; ond’egli, sentendosi in pericolo, fuggiva in Tunis, governata allora da un figliuolo di Abd-el-Mumen e passava indi in Marocco, appo il califo Jûsuf. Dal quale ei fu accolto con grande onoranza, arricchito di doni e preposto all’ordinamento dell’armata. E Ahmed la rese grande e possente, qual non era mai stata, nè fu poi; e con quella segnalossi contro i Cristiani per splendide fazioni e famose vittorie.[339] Ora Jusuf regnò dal millecensessantatrè al centottantaquattro. Al par che il tempo, coincidono le condizioni riferite al gaito Pietro e all’Ahmed Sikilli: l’uno ammiraglio siciliano dinanzi Mehdia e primo ministro alla corte di Palermo, accusato di pratiche con gli Almohadi; l’altro rifuggitosi appo quelli con gran tesoro, accolto a braccia aperte a Tunis e Marocco e immediatamente adoperato nelle cose navali; entrambi schiavi, saliti ad alto grado nella corte di Palermo e cacciati per nimistà di parte. E notisi che a Pietro apponeasi piuttosto tradimento che viltà pel fatto di Mehdia.[340]
Perduto appena il gaito Pietro o Ahmed Sikilli ch’ei fosse, la combriccola degli indigeni fortuneggiò gravemente, per novella irruzione di avventurieri che la fazione cattolica di Francia e d’Inghilterra mandava al conquisto della corte di Palermo: una trentina d’uomini, capitanati da un bel giovane congiunto della regina, Stefano Des Rotrous,[341] dei conti di Perche (1167). Premeva ai tutori oltramontani del papato che il governo di Sicilia fosse in mani sicure, mentre si decidea la gran lite d’Italia; nella quale il reame di Sicilia, co’ suoi tesori e le sue armi, avrebbe fatta piegare la bilancia, s’e’ si fosse gittato risolutamente alla parte d’Alessandro III, invece di baloccarsi, come fece la corte di Palermo per opera de’ consiglieri indigeni, sospettosi al par dell’imperatore e del papa. Con questa occasione si tentava anco un bel colpo di rimbalzo a pro del Becket, il celebre arcivescovo di Canterbury, il quale avendo attaccata briga col suo signore ed aspettandosene la decisione da Roma, la corte e il clero francese voleano che la corona di Sicilia proteggesse il turbolento arcivescovo appo il papa e i cardinali. Provan ciò le epistole di Pietro da Blois, Giovanni da Salisbury, Luigi VII re di Francia e del Becket stesso; il quale una volta scrisse alla regina Margherita, mandarle a nome suo proprio e del monastero di Cluny, un tale che le avrebbe palesata a voce “la mente di tutta la Chiesa occidentale.”[342] E bastin tai parole a svelare la sètta.
Il nobil giovane, audace e amante della giustizia, venne in Sicilia in compagnia d’uomini dotti, di satelliti valorosi ed anco di faccendieri affamati: accolto dalla regina come parente e campione e dicono più di questo; creato immantinente gran cancelliere del regno e non guari dopo arcivescovo di Palermo, con grande allegrezza del papa. Stefano si messe incontanente a ripulire i tribunali e gli ufizii pubblici, dove lo esercitato comando avea lasciate di molte sozzure. La giustizia allora diede occasioni e pretesti di vendetta contro i paggi e lor fautori, tanto più che, con le leggi giuste, si adoperaron anco le inique, condannando per apostasia, a sollecitazione de’ Cristiani di Palermo, parecchi Musulmani accusati di mentir la fede.[343] L’esempio di quegli sventurati incoraggiò la cittadinanza a domandare il supplizio d’uno scellerato protetto a corte, Roberto di Calatabiano, incolpato di brutti eccessi e, tra quelli, d’avere ristorata una moschea nel Castello a mare e di tener bettole, dove fanciulle e giovanetti cristiani erano prostituiti a’ Musulmani. Poco mancò che per cagion di costui non si sfasciasse tutta la macchina del Becket; poichè i paggi s’eran gittati a’ pie’ della regina, scongiurandola non abbandonasse il fedel servidore ed ella avea resistito per la prima volta a Stefano e vietatogli di procedere. Il giovane di buona scuola, smesse allora le accuse capitali appartenenti alla giurisdizione laica; indossò i panni arcivescovili e tirò innanzi per le materie che la Chiesa avocava a sè nella confusione del medio evo. Adunata pubblicamente, con gran rumore, la curia ecclesiastica, Roberto fu convinto di spergiuro, incesto, adulterio e condannato alle verghe, al carcere ed alla confiscazione de’ beni; ond’ei morì negli stessi ergastoli dove solea tormentare altrui. Esempii di giustizia non meno strepitosi die’ Stefano a Messina: per ogni luogo ei soddisfece a’ clamori del popolo e ne cattò il favore. Benedivanlo i Lombardi di Randazzo, Vicari, Capizzi, Nicosia, Maniaci e d’altre castella di montagna; e poco appresso, quando fu uopo, gli offriano ventimila uomini in arme, per combattere le città e i baroni sollevati contro di lui.
Perchè i cortigiani, acquattatisi ai primi romori di giustizia, aveano cominciato pian piano a malignare, calunniare, mormorare contro l’insolenza straniera, contro la rapacità dei famigliari, contro gli aggravii de’ cavalieri francesi, ai quali Stefano concedea qualche feudo per attirarli in Sicilia e ingrossar le schiere sue fidate, necessarie ogni dì più che l’altro a mantenergli il comando. Sospettavasi che il vicecancelliere Matteo d’Ajello, l’eunuco Riccardo e Gentile, vescovo di Girgenti, praticassero di farlo uccidere da sicarii; e più certo è che parecchi baroni di Terraferma, mettendo su un Arrigo fratello della regina, concertarono contro Stefano drammi parlamentarii, prepararono armi feudali, suscitarono sedizioni di plebe in Messina. Già, tra gli errori de’ Francesi e le arti degli indigeni, l’aura popolare per ogni luogo avea girato contro il Cancelliere. Ond’egli, ritornato in Palermo (marzo 1168), s’apprestava alla guerra civile, quando fu messo giù con un colpo di mano.
Al quale ajutarono i Musulmani. Scrive il Falcando[344] ch’essi, ne’ primi tempi, amarono il Cancelliere; nei primissimi forse, quando non s’era incominciato a lavorare co’ giudizii d’apostasia. Ed Abu-l-Kâsim, nobilissimo e potentissimo uomo, del quale or ora diremo più largamente, fattosi amico del Cancelliere, continua il Falcando, e presentatolo di molti doni, s’era poi dato a suscitare i Musulmani contr’esso, tenendosi ingiuriato perchè Stefano usava familiarmente con un gaito Sedicto (Siddîk?) musulmano ricchissimo, privato nemico d’Abu-l-Kâsim. Il Falcando ripete qui, come ognun vede, le parole di Stefano o de’ suoi satelliti e scorda le principali cagioni, dico le persecuzioni religiose e le usurpazioni de’ feudatarii francesi sopra i vassalli.[345]
Tra queste disposizioni de’ Siciliani d’ogni origine e religione, Matteo e il gaito Riccardo, l’un prigione, l’altro confinato in palagio, tentarono di rapire o uccidere il primo ministro, proprio sotto gli occhi della regina e del re. Adoperarono i servi e gli arcieri stanziali della reggia, i quali, non potendo cogliere il Cancelliere entro lor mura, corrono a cercarlo fuori; si tiran dietro, con promessa di bottino, i facinorosi abitatori di via Coperta e della parte superiore di via Marmorea;[346] assalgono il palagio arcivescovile; e mentre i Francesi difendeansi col solito valore, i trombetti e i tamburini del re suonavano la chiamata contro il capo del governo. Trasse in arme tutto il popolo; Cristiani e Musulmani irruppero nel palagio. Rifuggito nel campanile, Stefano pattuì d’uscire di Sicilia con tutti i suoi seguaci (1168) e andò a Gerusalemme, dove non guari dopo morì.[347]
La regina senza partigiani, il re sempre fanciullo, non potean far che gli autori dell’attentato e i loro amici venuti di Messina con forze militari, non si appropriassero i frutti della vittoria. A nome di Guglielmo II, un decemvirato, se tal può dirsi, prese il reggimento della cosa pubblica; e furono: l’inglese Riccardo vescovo eletto di Siracusa, Gentile vescovo di Girgenti, Romualdo arcivescovo di Salerno, Giovanni vescovo di Malta, Ruggiero conte di Geraci, Riccardo conte di Molise, Arrigo conte di Montescaglioso fratello della Regina, Matteo d’Ajello salernitano, il gaito Riccardo e l’inglese Gualtiero Offamilio, decano di Girgenti e precettore del re. Ma poco appresso, avendo Guglielmo compiuto il diciottesim’anno, Gualtiero che in questo mezzo con pessime arti s’era fatto eleggere da’ canonici arcivescovo di Palermo, si fe’ fare dal re primo ministro; prese a compagni del governo Matteo e il Palmer, e congedò ogni altro. Il Falcando termina la storia con tali fatti e con queste gravissime parole: “che allora la potestà del regno e la somma degli affari cadde nelle mani di Gualtiero, attaccatosi al re con dimestichezza assai sospetta, sì che parea governasse non tanto la corte, quanto lo stesso monarca.”[348]
Pur Guglielmo fuggia talvolta di mano all’arcivescovo; al quale non venne fatto mai di allontanare il cancelliere Matteo, espertissimo nell’amministrazione pubblica e terribile maestro d’inganni. Era Matteo a corte capo della parte nazionale, nella quale noveravansi principi del sangue e nobili, con tutti i gaiti, con l’arcivescovo di Salerno ed altri prelati. Cotesta parte avean seguita i due inglesi Offamilio e Palmer contro Stefano e i suoi Francesi; e nella divisione delle spoglie s’eran prese le due sedi arcivescovili della Sicilia. Ma separandosi i complici quand’ebbero fatto il colpo, si trovò dall’un de’ lati Matteo con gli indigeni; stettero dall’altro, capitanati oramai da Gualterio, gli oltramontani d’ogni linguaggio e qualche barone: e le parti rimasero quali erano state nei primi anni del regno; rinsavite pur tanto che non proruppero a sedizioni, nè a scandali fuor della reggia. La quale moderazione venne, com’io penso, dalla bassa estrazione dei capi, uomini nuovi e cortigiani entrambi; dalle disposizioni del popolo che non avrebbe sofferta sedizione contro il buon re; e dall’indole stessa di Guglielmo, il quale contentava a vicenda i due ministri e maneggiava bene le fazioni ch’ei non sapea reprimere: savio nelle piccole cose e insufficiente alle grandi. Dopo il suo matrimonio (1177) vedendo ch’ei non avea prole, studiossi ciascuna delle due parti a designar il successore: gli indigeni cercarono di tirar su il principe Tancredi, non ostante la nascita illegittima; gli oltramontani vollero assicurare i diritti della Costanza, maritandola a un gran principe, e piombasse poi il diluvio su l’Italia meridionale. Si scorgono vestigie di quel piato in alcuni avvenimenti che noi narreremo; poche o nessuna nell’amministrazione interna, la quale era sì ordinata e salda che le discordie della corte non la turbarono. E veramente del regno di Guglielmo il Buono si posson dare due giudizii al tutto diversi, secondo che si consideri il governo in casa, o l’azione politica al di fuori. L’un comparisce giusto senza debolezza; ordinato senza avarizia nè severità; condotto secondo le leggi fondamentali, fuorchè nelle materie ecclesiastiche; sollecito della sicurezza de’ cittadini in casa e fuori: la quale fu piena e maravigliosa, come ai tempi di re Ruggiero, favorita anco ed accompagnata dalla prosperità economica. Al di fuori non si può chiamar Guglielmo nè pacifico, nè guerriero; poich’ei fece tante guerre che non dovea; scansò la sola che occorreagli, grande e necessaria; e vivendo ne’ suoi palagi e giardini, tra studii gentili e passatempi onesti, sciupò in imprese lontane forse più vite d’uomini e più tesori che non avessero mai consumati l’avolo e il bisavolo nei loro conquisti.
Continuando il disegno di narrar quelle sole azioni esteriori, che toccarono Stati musulmani, dobbiamo ricordar che Guglielmo il Buono, per bocca degli oratori mandati al congresso di Venezia (1177) si vantò di non aver mai fatta guerra a principi cristiani; e che tra quelli, ei solo ormai perseguitasse per terra e per mare i nemici di Cristo, sì che ogni anno, senza perdonare a spesa, mandava “sue triremi” con milizie a combattere gli Infedeli e assicurar il mare a’ Pellegrini de’ Luoghi Santi.[349] Le quali protestazioni se dovessero tenersi fronde oratorie e se lo scopo delle imprese fosse stato di favorire il commercio del reame in Affrica e in Levante, parrebbe assai più savia la corte di Palermo. Il vero è che Guglielmo prendea sul serio le Crociate, ancorch’ei fosse in sua schiatta il primo che fuggì i pericoli e le fatiche del campo e che vide il più delle volte ritornare malconci i suoi soldati. I Musulmani, a lor volta, risero dell’insolito zelo della corte di Palermo. Abbiamo una epistola di Saladino, il quale, scrivendo al califo di Bagdad per man di un retore arabo, compiangea quel ragazzo di quindici anni che avea dato fondo al suo tesoro nella spedizione contro Alessandria, per mera vanagloria e ticchio di mostrare al mondo ch’ei pur sapesse provarsi contro un nemico il quale avea respinte poc’anzi da Damiata le prime spade di cristianità.[350]
Nè le armi di Guglielmo eran rimase addietro in questa impresa di Damiata, con la quale Manuele Comneno ed Amerigo re di Gerusalemme aveano sperato aprirsi la via al conquisto dell’Egitto, nel primo scompiglio della usurpazione di Saladino. Ritraggiamo dagli storici musulmani che i collegati, venuti con mille dugento legni, assediarono Damiata per cinquantacinque giorni, nei mesi di novembre e dicembre del millecensessantanove; ch’ebbero ajuti di Sicilia e d’altre terre cristiane; ma ch’e’ si ritrassero con perdita di trecento legni, essendo stata soccorsa la città da Saladino con uomini, danari e vittuaglie, e da Norandino con una impetuosa diversione in Siria.[351]
Il quale esempio non bastò ad ammonire la corte di Palermo che non si gittasse ad un’impresa assai più temeraria, quando Saladino avea già spento l’ultimo califo fatemita, rinnalzato in Egitto il pontificato degli Abbasidi, spartiti i beneficii militari a’ suoi Curdi e Turchi e mostrato al mondo che sorgeva tra i Musulmani un nuovo conquistatore. Uomini d’alto stato, mossi da un ardente sciita del Jemen, per nome Omâra-îbn-Abi-l-Hasan, giurista e poeta di nome in quel tempo, cospirarono a ristorare la dinastia fatemita; trovaron seguaci tra i cortigiani, e le milizie d’Egitto, tra i Negri mercenarii e tra gli emiri stessi di Saladino; e pur non fidando nelle proprie forze, chiamarono in aiuto il re di Gerusalemme e quel di Sicilia, profferendo e danari e cessione di territorii. Omâra intanto, sendosi insinuato nella corte di Saladino, spinse Turan-Sciah fratello di lui ad una impresa nel Jemen, per allontanarlo dall’Egitto; ma il perfido consiglio tornò a gloria di casa ajubita, poichè quegli insignorissi di Zobeir, di Aden e di tutto il paese.[352] L’ordine della congiura in Egitto era che, sbarcati i Cristiani, se il Saladino correva a combatterli con l’esercito, i partigiani al Cairo sollevassero il popolo e rimettessero in trono i Fatemiti; e s’egli, mandate le genti contro il nemico, rimanea con pochi soldati al Cairo, s’impadronissero i congiurati della sua persona. Designato il nuovo califo e gli ufiziali della corte fuorchè il primo ministro, altro non s’aspettava che l’assalto de’ Cristiani, quando Alì-ibn-Nagia, predicatore d’una moschea, scoprì la trama a Saladino e rimase, per costui comando, tra’ congiurati a far la spia. Saladino poi seppe da’ suoi rapportatori in Gerusalemme che dovea venir un ambasciatore di Amerigo a negoziare in apparenza con lui e in realtà con Omâra e i consorti; onde arrivato l’ambasciatore, gli pose addosso un cristiano suo fidato ed ebbe i nomi de’ congiurati. Dissimulò il tradimento degli emiri suoi, allora e sempre; mandò gli altri capi al supplizio, il due di ramadhan del cinquecensessantanove (6 aprile 1174) e gli parve finita ogni cosa.[353]
E veramente il re di Gerusalemme abbandonò l’impresa. Ma quel di Sicilia tirò innanzi ed apprestò sì grande armamento, che tenne in sospetto il califo almohade, e l’imperatore bizantino. I reggitori soli d’Alessandria non ci badarono, nè seppero il pericolo pria che il nemico s’affacciasse al porto, il ventisette dsu-l-higgia[354] del cinquecensessantanove (28 luglio 1174). Erano dugento sessanta galee, montate da cencinquanta uomini ciascuna, trentasei teride pei cavalli, sei grosse navi per gli ordegni da guerra e quaranta legni da carico per le vittuaglie: e recavano cinquantamila uomini, dei quali trentamila combattenti, tra fanti e marinai, mille uomini d’arme, cinquecento cavalleggieri Turcopoli[355] ch’erano, com’io penso, musulmani di Sicilia; e il resto gente di servigio, mozzi di stalla, carpentieri navali e manifattori d’artiglierie.[356] Tra queste notarono gli Alessandrini tre mangani di mole non più vista, che lanciavano con gran forza di tiro immani massi di pietra negra recati a bella posta dalla Sicilia, e tre torri mobili, piene d’armati e munite in piè d’un ariete, come si chiamava la ponderosa testa di ferro messa al capo d’una trave.[357] Delle macchine minori, si ricorda il gerkh, da trar grossi dardi.[358] Capitanava l’oste, dice Ibn-el-Athîr, un cugino del re: forse quel Tancredi conte di Lecce, che salì sul trono alla morte di Guglielmo.
Approdate le prime navi poco appresso mezzodì, cominciarono a sbarcare le genti presso il faro;[359] e nelle ultime ore del giorno i Siciliani caricavano gli Alessandrini, usciti a impedire lo sbarco, contro il divieto del wâli della città che ammonivali a combattere dalle mura. E veramente e’ furono respinti, con perdita, a’ ripari. L’armata intanto sforzò l’entrata del porto, ch’era pieno di navi mercantesche e da guerra e appiccovvi il fuoco; se non che i Musulmani, accorgendosi della mossa, corsero per terra e arrivati a tempo, affondarono la più parte dei legni loro. Fatto buio tra coteste scaramucce, i Siciliani rimasero sul terreno occupato, dove rizzarono trecento tende.
Al nuovo giorno avean già piantati i mangani; messe su le torri, appressatole alle forti mura della città,[360] le quali furono fortemente difese dal popolo e da’ pochissimi soldati del presidio. Respinti anco gli assalitori il martedì trenta luglio, ricominciavano il mercoledì la tempesta di lor tiri co’ mangani, riconduceano le torri verso il muro; ed erano arrivati a una gittata d’arco, quando si videro piombare addosso i Musulmani, rinforzati dalle milizie de’ contorni le quali, il secondo giorno, erano accorse in città da lor terre di beneficio militare e ne vennero anco dal Cairo. Chetamente aveano gli Alessandrini disserrate le porte più vicine alle macchine nemiche, lasciando chiuse le imposte di fuori;[361] gli emiri delle milizie aveano ordinati lor cavalli dentro dalle porte e il popolo armato s’affollava a tergo. Spalancate d’un subito le imposte, si gettarono disperatamente d’ogni lato cavalli e fanti, sopra i Siciliani; irruppero infino alle macchine; vi poser fuoco e sostennero il combattimento tanto che le videro consumate. Lieti rientravano in città a far la preghiera del vespro, quando trovarono tal nunzio che li risospinse immediatamente alle armi.[362]
Fin dallo sbarco de’ Siciliani, il wâli d’Alessandria avea mandato a Saladino uno spaccio per colombi. Era egli attendato con l’esercito a Fâkûs, su i confini orientali del Basso Egitto; dove ricapitato lo spaccio il martedì, ei mandava immantinenti una schiera a rinforzare il presidio di Damiata, temendo anco per questa; partiva ei medesimo col grosso delle genti alla volta d’Alessandria e spacciava innanzi, a dar l’avviso, un fido schiavo con tre cavalli menati a guinzaglio, da ricambiarsi via via. Il quale giunse il mercoledì a vespro, percorsi in men di ventiquattr’ore, a un di presso dugento chilometri.[363] Assembrato il popolo, si bandisce il prossimo arrivo di Saladino: ed ecco, scrive Ibn-el-Athîr, che dimenticandosi la fatica e le ferite, parendo ad ognuno di avere allato, testimone del proprio valore, il gran capitano, riaprono le porte e tornano addosso a’ Cristiani.
Stracchi dalla prima battaglia, colti quando men se l’aspettavano, in sull’imbrunire del giorno, sentendo quel frastuono d’un popolo impazzato e gridare il nome di Saladino, i Siciliani mal difesero il campo. Entrovvi il nemico; fe’ macello dei fanti; fece bottino d’ogni maniera d’armi e ricche suppellettili: mentre nobili e vassalli, capitani e soldati correano confusamente al mare; accostavano a terra le galee; montavano come ciascun potea: chi trattasi l’armatura gittasi a nuoto, chi arrampicandosi casca in mare. E i Musulmani a’ fianchi loro, inseguonli entro le stesse galee, o tuffan sotto con ferri a sfondarle, o v’appiccano il fuoco; sì che più d’una perì. Il navilio, riordinato alla meglio la notte, salpava la dimane, primo agosto, recando in Sicilia i miseri avanzi dell’esercito. Trecento cavalieri che nella rotta si erano ritratti in un’altura, pugnaron tutta la notte e la mattina appresso, contro le turbe musulmane crescenti di numero e di furore; ma infine la moltitudine sgomenò quel nodo di prodi: tutti li uccise o fe’ prigionieri, che non ne campò un solo. Così dalle sorgenti musulmane. Le pisane che qui son tronche, riferiscono con poco divario il numero delle navi, senza dir l’esito dell’impresa. Vi accenna un po’ Guglielmo di Tiro, cronista delle crociate. Il Falcando e Romualdo Salernitano avean tronco il racconto pria di quell’anno. Un anonimo contemporaneo suppone sbarcato Guglielmo in persona ad Alessandria e dopo sette dì tornato addietro con vergogna. E la magra cronica di Monte Cassino dice che il 1174 l’armata del re andava in Alessandria e nulla più.[364] Ciò nondimeno alcuni moderni, volendo dare al buon re anco gli onori del trionfo, han fatta espugnare Alessandria e riportarne in Sicilia preda ricchissima.[365]
Abbandonati da’ proprii testimonii, cotesti scrittori trovano insperato soccorso ne’ musulmani. Dai quali sappiamo che un anno appresso la sconfitta, ossia il cinquecensettantuno (22 luglio 1175 a 9 luglio 1176), quaranta galee di Sicilia assediavano Tinnis per due giorni e andavan via. Del settantatrè (30 giugno 1177 a 18 giugno 1178) l’armata siciliana combattè più gloriosa fazione. Una quarantina di navi riassalirono Tinnis e dopo due giorni di combattimenti se ne insignorirono. L’ammiraglio musulmano, Mohammed-ibn-Ishak, al quale il nemico avea tagliata la via di ritornare al navilio, si ritrasse allora chetamente con una sua schiera al mosalla, o vogliam dire pianura aperta dove si fa la preghiera; e al cader della notte piombò in città sopra i Siciliani, che non s’aspettavano assalti; prese centoventi uomini e lor mozzò il capo. Ricacciato al mosalla e combattuto aspramente, lasciò sul terreno settanta de’ suoi: col rimanente ei si rifuggì a Damiata. I Siciliani rientrati in città, la saccheggiavano, ardeanla e cariche le navi di preda, zeppe di prigioni, ripartiano alla volta d’Alessandria. Durò quattro giorni cotesta fazione di Tinnis.[366] Che facesse l’armata ad Alessandria non sappiam punto.
Nelle note frettolose con che si chiude la prima parte del Baiân-el-Moghrib, leggiamo che il medesimo anno cinquecensettantatrè (1177-8) Mehdia era afflitta da un’irruzione di Cristiani, la quale fu detta il caso del venerdì: sì come i cittadini aveano designati con altri giorni della settimana gli assalti del milleottantasette, del cenquarantotto e del censessantatrè.[367] Questo del settantotto è da apporre a Genovesi o Pisani, non essendo verosimile che l’armata di Sicilia tentasse a un tempo una grossa fazione nel golfo di Kâbes ed una alle bocche del Nilo.[368] Pare al contrario che la corte di Palermo bramasse la pace con gli Almohadi, a fin di ristorare il commercio dell’Affrica propria, decaduto o spento dopo i fatti del cinquantasei. Nè poteva la Sicilia aspettar altro che male da’ novelli turbamenti nati in que’ paesi: nella parte orientale, dico, le imprese de’ masnadieri turchi venuti d’Egitto a tentar la sorte a nome di Saladino;[369] e qua e là capi berberi e tribù arabiche immansuete che disdiceano la signoria almohade, vedendo il nuovo califo Abu-Iakûb troppo avviluppato nelle guerre di Spagna. Pure, quando la rivolta messe radice in Kafsa, Abu Iakûb mosse di Marocco con l’esercito; sostò a Bugia, sede del suo luogotenente nell’Affrica propria; andò poi a Kafsa e se ne insignorì, il primo giorno del cinquecensettantasei (28 maggio 1180) dopo tre mesi di assedio.[370] Nel ritorno, soffermatosi a Mehdia, ei vi trovò ambasciatori di Guglielmo II.
Se meritasse piena fede Roberto abate del Monte a San Michele, si direbbe che Abu Iakûb fu vinto dalla cortesia del re Guglielmo, il quale gli avea rimandata libera una sua figliuola, presa dall’armata siciliana sopra un legno almohade che la conducea sposa a certo re saraceno. Ma il fine del racconto scema autorità al cominciamento, portando che l’Almohade alla sua volta restituisse al re di Sicilia le due città di Affrica e Zawila; il che non fu, nè poteva essere.[371] Secondo il Marrekosci, Guglielmo chiese la pace ad Abu-Iakûb per la gran paura ch’avea di lui e si obbligò a pagargli tributo, oltre i doni ricchissimi che gli fece e, tra gli altri, un rubino detto l’unghia di cavallo, per la forma e la grandezza; il quale gioiello, trascendente ogni prezzo, si vedea fino alla prima metà del decimoterzo secolo spiccare sopra tante altre gemme incastonate nella rilegatura d’un corano, di que’ che il califo Othman mandò nelle province quand’ei promulgò il testo ortodosso.[372] Ed anco in questo racconto è manifesto errore, poichè i Normanni di Sicilia non si abbassarono di certo a comprar la pace; si può supporre anzi che alcuna città dell’Affrica propria abbia pagato tributo a loro, sì come sarà detto a suo luogo.
Il fatto certo è che una tregua per dieci anni fu fermata tra Abu-Iakûb e Guglielmo II, il millecentottanta, stipulata a Mehdia dagli ambasciatori di Sicilia nel giugno o luglio, e ratificata da Guglielmo in Palermo, nell’agosto.[373] Della quale tregua fa menzione Ibn-Giobair, quattro anni appresso, nel diario del suo viaggio.[374] Gli interessi commerciali de’ due paesi danno il motivo del trattato, senza che s’abbia ricorso alle vaghe voci raccolte dall’abate Roberto in Francia, e dal Marrekosci nel Maghreb. Tanto più che in quella state l’Affrica propria avea mestieri più che mai de’ frumenti di Sicilia; sapendosi che mancassero le vittuaglie e lo strame perfino nell’esercito almohade, onde Abu-Iakûb, come prima e’ fermò l’accordo, ritornò frettoloso in Marocco.[375]
E’ fu di certo a protezione dei naviganti siciliani, che Guglielmo, nell’inverno dal millecentottanta al centottantuno, mandò l’armata alle Baleari; le quali per mutar signori non ismettevano la pirateria. Dopo i discendenti di Mugeto e l’effimera dominazione messa su dai Pisani (1115), aveano occupate quelle isole gli Almoravidi; e cadendo tal dinastia, se n’erano insignoriti i Beni-Ghania, della tribù berbera di Mussufa. Un valente scellerato di quella famiglia, per nome Ishak-ibn Mohammed, usurpato lo Stato (1151), seppe ordinar sì bene il corso contro Cristiani, ch’egli arricchissi e divenne potente come un re, scrive il Marrekosci.[376] L’armamento siciliano, fortissimo di galee e di uscieri per la cavalleria che doveva occupare Majorca, andato prima a Genova con Gualtiero di Modica grande ammiraglio del reame, passò tutto l’inverno a Vado: così gli Annali genovesi e più non ne dicono; ma aggiungono che la città in quella stagione fu afflitta fieramente da una morìa.[377] Forse fu questa che distolse i Genovesi dal mandare lor navi insieme con le siciliane, come par fosse già fermato tra le due parti, poichè l’armata siciliana entrò nel porto di Genova e svernò nel dominio. Sembra che il morbo stesso abbia sforzato Gualtiero a ritrarsi in Vado. Ma non andò guari che l’arcivescovo e i Consoli di Genova, seguendo l’esempio dei Pisani,[378] nel mese di sefer del cinquecensettantasette (17 giugno a 15 luglio 1181) stipulavano tregua per dieci anni col signore di Majorca.[379] Guglielmo, l’anno appresso, reiterò la spedizione con tanto strepito che mentre la s’apparecchiava, Saladino, temendo nuovo insulto in Egitto, vi sopraccorse dalle parti orientali di Siria, non ostante la brama ch’egli avea di soggiogar tutti que’ regoli. Le navi siciliane non arrivarono poi alle Baleari; disperse da una tempesta; affondate, quali a Savona, quali ad Albenga, quali a Ventimiglia, alcune forse su la costiera di Spagna: e fu scritto che ne perì quaranta all’incirca.[380] Ritraggiamo che pochi anni appresso, quando Alì-Ibn-Ghania assalì l’Affrica settentrionale con una mano di Almoravidi, avendo saputo in Tripoli che i partigiani degli Almohadi gli avessero ritolte le Baleari, ei mandò in Sicilia il fratello Abd-allah; il quale imbarcatosi per Majorca, ripigliò lo Stato.[381] Non dicono i cronisti, nè mi par verosimile, che la corte di Palermo abbialo aiutato in questa seconda impresa. Forse niun seppe che costui fosse venuto tra’ molti Musulmani che dall’Affrica riparavano continuamente in Sicilia, fuggendo la fame rincrudita e la rapacità dei ladroni arabi, turchi e berberi, messi insieme da’ Beni Ghania.[382]
Ferveano allora in Sicilia preparamenti di gran guerra, dei quali fu testimone Ibn-Giobair e da lui sappiamo le voci che corsero in Trapani nel gennaio millecentottantacinque, quando si riteneano nei porti tutte le navi mercantesche, per adoperarle al servigio dello Stato: chè cento onerarie volea re Guglielmo aggiugnere alle trecento galee e teride dell’armata. La quale, altri dicea dovesse osteggiare Alessandria, altri Majorca ed altri l’Affrica propria, dond’era testè giunta la nuova dello sbarco di Alì-ibn-Ghania a Bugia. Ma pensava Ibn-Giobair che il re volesse mantenere la tregua con gli Almohadi e ch’ei piuttosto disegnasse di rimettere sul trono di Costantinopoli Alessio II, campato, come si favoleggiò, da’ sicarii di Andronico.[383] E veramente piombava, non guari dopo, su la Grecia questo sforzo di guerra, condotto in apparenza dal principe Tancredi. Cinquemila cavalli, dugento legni di corso, ottantamila uomini, scrivea con esagerazione un testimonio oculare, salparono l’undici giugno millecentottantacinque; occuparono Durazzo (24 giugno); presero per assedio Tessalonica (24 agosto); se non che i capitani indugiarono a muover sopra la capitale dell’impero; e rotti a Monopoli, poi traditi (7 novembre), si ritrassero in Italia, scemati di diecimila morti e quattromila prigioni. I Musulmani di Sicilia militarono in questa infelice impresa come diremo più innanzi.[384]
Saladino intanto stendea l’impero su tutti i paesi musulmani dal Nilo al Tigri, dove signore immediato, dove protettore o sovrano feudale; lasciando pure al misero califo di Bagdad i vani onori di pontefice e imperatore. Così accentrate le forze, ei prese a compier l’opera di Norandino contro i Cristiani. Occupata Gerusalemme (23 ottobre 1187) e tutta la Palestina, fuorchè quattro castella; provatosi indarno contro le fortezze di Tiro e il valore italiano che difendeale, Saladino ripigliò la guerra in primavera del millecentottantotto; e trovò, tra i primi, su la costiera, il navilio siciliano.
Perchè il caso di Gerusalemme avea commossa l’Europa: mentre la Germania, la Francia e l’Inghilterra apparecchiavano eserciti, l’Italia, avendo pronte le armate e aperto il mare, die’ principio alla terza Crociata. A secondare l’audace proposito di Corrado di Monferrato, correano gli Italiani sobrii, disciplinati, liberi e forti, scrisse allora l’abate di Ursperg.[385] Nella epistola indirizzata pochi anni innanzi al califo di Bagdad in nome di Saladino, si legge che i Veneziani, i Genovesi e i Pisani soleano bazzicare assidui in Levante; ove or accendeano un fuoco da non si spegnere di leggieri, or offrivano presenti, recavano le merci più elette de’ loro paesi e vendeano perfino le armi ed ogni altra cosa necessaria alla guerra; stringeano amistà, dice l’epistola, del tutto a comodo nostro e danno di cristianità.[386]
Parteciparono i popoli meridionali in quello sforzo comune dell’Italia. Guglielmo, disposto pur troppo a così fatte imprese, fu sollecitato a viva voce dall’arcivescovo di Tiro, e rampognato del danno ch’egli avea recato ai Latini di Terrasanta, trattenendo per la sua sciagurata impresa di Grecia i pellegrini e le navi che facean sosta in Sicilia. Per ammenda, egli ora fornì a Corrado di Monferrato copia di vittuaglie, con cinquanta galee, dicono i cronisti occidentali, e cinquecento uomini d’arme, capitanati da due conti; le quali forze rincoravano Antiochia, difendeano Tripoli, mantenean Tiro. Giovò, sopra ogni altro, all’eroico presidio di questa città, l’armata che fece sgomberare i corsari musulmani e assicurò la via a’ soccorsi spicciolati d’uomini e di vivanda. L’ammiraglio di Sicilia, per nome Margarito da Brindisi, impadronitosi di alcune isole, tenne sì ostinatamente le acque di Siria, ad onta delle tempeste e de’ nemici, che maraviglionne la Cristianità tutta e chi chiamollo Nettuno, chi re o lione del Mare. Corrado di Monferrato lo mandò con gente da Tiro a Tripoli; dove i Cristiani, credendolo nemico, s’apprestavano alla difesa, ma poi distinsero le insegne della croce e l’armamento europeo; e la città ne fu talmente rinforzata che Saladino non osò assalirla.[387]
Gli scrittori musulmani giudicano altrimenti questo “tiranno Margarit, preposto al navilio del tiranno di Sicilia:[388] sessanta galee, ciascuna delle quali pareva una rôcca o una roccia[389], montate da diecimila uomini avvezzi a scorazzare e desolare i paesi. Ma questo famigeratissimo tra i più fieri oppressori e i più brutti demonii, entrato con gran fracasso nel porto di Tripoli, non seppe di miele nè di fiele, non giovò nè nocque, e com’egli aprì bottega di sue vittuaglie, così rinacque in Tripoli la carestia. Tirò verso Tiro e tornò a Tripoli; guazzò per quelle acque, avanti e dietro, a dritta e a manca per parecchi mesi, senza saper che si facesse; finchè il suo navilio si sparpagliò, il suo valore tramutossi in codardia, la sua gente fuggì alla sfilata ed ei se ne tornò a casa, con poca gente e molte miserie.” Così un contemporaneo, prendendo a celebrare i fatti di Saladino, straziava la rettorica ed anco un po’ la storia, narrando dell’ammiraglio siciliano le imprese fallite, non quelle compiute e tacendo sopratutto la cacciata de’ corsari musulmani.[390] Del rimanente, l’autore attesta la fama di Margarito; il nome di tiranno ch’ei gli dà, s’accorda con quel di potente principe che leggiamo in Marino Sanudo;[391] e il predicato di pessimo demonio non differisce tanto da’ titoli di pirata, archipirata e principe de’ pirati, con che lo chiamano gli scrittori bizantini, gli italiani e’ tedeschi.[392] Par che la corte di Palermo, dopo le sventure dell’impresa di Grecia, abbia affidata l’armata a questo valente uomo di mare, il quale prese in Cipro settanta galee bizantine andate a soggiogar quell’isola.[393] Sappiamo da scrittori inglesi contemporanei ch’egli possedea le isole di Scarpanto, Cefalonia e Zante;[394] nè sembra inverosimile ch’egli abbia lasciato col mestiere anco un soprannome datogli dapprima e che Margarito, conte di Malta, sia lo stesso Sifanto, corsaro ausiliare del re di Sicilia, entrato innanzi ogni altro per la breccia di Tessalonica (24 agosto 1185), ricordato con gratitudine dall’arcivescovo Eustazio che fu suo prigione.[395]
Nei due episodii nei quali Margarito si trovò a fronte di Saladino, meritano fede ’Imad-ed-dîn e Ibn-el-Athîr, i quali militavano entrambi nell’esercito musulmano. Il sultano, ragunato l’esercito presso Emesa, andò con una gualdana a far la scoperta a Tripoli, guastò il contado, differì l’assedio e tornando addietro, si volse al principato di Antiochia. Occupata Tortosa il sei giumadi primo (3 luglio 1188), indi Marakia, movea alla volta di Gebala, costretto a passare a randa a randa del mare, per iscansar la montagna e il fortissimo castello di Markab, ch’era tenuto dagli Spedalieri. Angustissima con ciò e malagevole la via; talch’era forza valicarla ad uno ad uno. L’armata siciliana allora salpando da Tripoli, attelossi lungo la spiaggia: con catapulte e balestre[396] facea grandinare dardi e saette sulla strada. Saladino a questo, fatti recare i mantelletti e altri ordegni d’assedio,[397] dispose dietro quelli le catapulte e gli arcieri; sì che a lor volta le navi siciliane furono costrette ad allontanarsi e tutto lo esercito passò. Presa Gebala senza contrasto a’ diciotto del mese (15 luglio), egli entrò a capo di due settimane in Laodicea; dove trovò abbandonate le case, rifuggiti i Franchi in due castella, e surto di faccia al porto il navilio siciliano.
Il quale, venuto ad ajutare e trovato perduta ogni cosa, cominciava a prender chiunque fuggisse per mare. Erano i Siciliani adirati contro i cittadini per la viltà di sgomberare sì presto la terra, non aspettando gli amici, nè i nemici. Ma l’effetto dei mali trattamenti fu che que’ di Laodicea si affrettarono a scendere dalle castella e ritornare a lor case, stipulando di pagare la gezîa. Saladino, ordinato il reggimento della terra, era già in su le mosse con tutto l’esercito, quando l’ammiraglio siciliano, volendo abboccarsi con lui, mandò a chiedergli salvocondotto ed ei lo diè. Sopraffatto, dice un testimone oculare, dall’aspetto del principe, s’inchinò Margarito, all’uso orientale, in atto di baciar la terra; raccolse gli spiriti, pensò, e alfin prese a parlare per mezzo del turcimanno. Fatto un esordio di lodi, egli ammonì Saladino a dar piena sicurtà a’ Cristiani, tanto gli indigeni, com’e’ parmi, quanto gli europei, mostrandogli che, se il principe li ascrivesse al suo giund, lo aiuterebbero a conquistare i paesi vicini e i lontani. E finì con la minaccia che se, al contrario, fossero maltrattati i Cristiani di Siria, verrebbero di là dal mare le migliaia di guerrieri congregati d’ogni terra di cristianità, con tanto sforzo di guerra, che niuno lor potrebbe far testa. Saladino rispondeagli, avere Iddio comandato ai Musulmani di ridurre tutto l’orbe alla vera fede; ch’egli combattea per osservare questo precetto; che Iddio l’aveva aiutato e l’aiuterebbe: onde se tutto il resto del genere umano, dagli estremi gradi di longitudine e di latitudine, si adunasse contro i Musulmani, ei non conterebbe i nemici, sì li combatterebbe; e forse che lor farebbe provar di nuovo le sciabole e le catene de’ Musulmani. Vedendo accolti in tal modo i suoi consigli, Margarito si fe’ il segno della croce e andò via. Così, con parole poco diverse, ’Imad-ed-dîn e Ibn-el-Athîr, testimoni oculari forse entrambi, il primo di certo.[398] Nè parrà inverosimile la somma del dialogo, quando si consideri che Margarito non poteva ignorare le ambizioni di Saladino contro varii principi musulmani, nè le disposizioni d’animo che i Crociati attribuivano al formidabile nemico loro; onde i cronisti affermarono ch’egli, del millecentonovantadue, avesse proposta ai re di Francia e d’Inghilterra una lega contro gli eredi di Norandino.[399]
Guglielmo venne a morte (18 novembre 1189) mentre apparecchiava assai maggiore armamento, per mandarlo o menarlo egli stesso in Levante, insieme con Filippo Augusto e Riccardo cuor di Leone; avendo già stipulato con Arrigo II di fornire gran copia di vino, orzo e frumento e cento galee armate e provvedute per due anni.[400] Pria di quel funesto evento che par abbia costretta l’armata a tornare immantinente in Sicilia, Margarito avea cominciato a sciogliere le promesse di Laodicea. Uno scrittore anonimo, contemporaneo sì e benissimo informato, narra che l’ammiraglio siciliano avea, da vero maestro dell’arte, chiuse le vie del mare a’ presidii musulmani di San Giovanni d’Acri e d’altre fortezze di Palestina; e che un giorno, colte le navi di Saladino che recavano armi e vivanda in Acri, ei le combattè e vinse e messe a morte quanti le montavano.[401] Van riferiti questi avvenimenti allo autunno dell’ottantanove, sendo cominciato l’assedio d’Acri ne’ primi di settembre.
Guglielmo secondo, voglio io qui replicarlo, merita tanto biasimo nelle cose di fuori, quanta lode nell’interna amministrazione dello Stato. Fuorchè la pace con gli Almohadi e il gastigo dato a quando a quando ai pirati musulmani, non va commendato nel suo regno alcun atto di politica esteriore. Fece Guglielmo sempre guerre disutili e infelici; nelle vicende della Lega Lombarda ei non seguì consigli nè savii, nè generosi, nè coerenti; ed annullò gli effetti della Lega per quanto uomo il poteva, con un partito pessimo e stoltissimo: il matrimonio della Costanza nella casa di Svevia, nemica naturale degli Hauteville, del papato e dell’Italia tutta. Quand’anco non cel affermassero i contemporanei, vedremmo ad ogni respiro di Guglielmo ch’ei tentennò sempre tra i due ministri Gualtiero Offamilio e Matteo d’Ajello. Matteo per far dispetto, come dicono, al rivale, avea consigliato Guglielmo a fondare l’arcivescovato di Morreale, alle porte proprio di Palermo (1182). Pria di ciò, l’impresa d’Alessandria, affidata al principe Tancredi (1174) era stata, com’e’ sembra, opera del Cancelliere, bramoso di dare riputazione e potenza di capitano al candidato ch’ei destinava al trono. Con minor dubbio il diciamo della spedizione di Grecia, la quale sappiam fatta contro l’avviso di Gualtiero e di Riccardo Palmer.[402] E fu appunto nella catastrofe di quello esercito (autunno del 1185) che riuscì Gualtiero a fermare il parentado con casa di Hohenstaufen, celebrato indi in gran fretta (27 gennaio 1186); nel quale alcuni contemporanei ravvisarono la vendetta del metropolitano di Palermo per la mutilata diocesi.[403]
Sotto un principe sì mansueto e benigno, i Musulmani di Sicilia non durarono aspre persecuzioni, ma non furon sicuri dalle occulte e lente. Conferma questo fatto Ibn-Giobair, il dotto pellegrino spagnuolo, capitato in Sicilia con molta riputazione di pietà, il quale solea scrivere ogni dì le cose viste, o udite, e in quattro mesi di soggiorno, visitò i centri principali delle popolazioni musulmane, conversò con uomini d’ogni ordine, dai servitori di corte infino al primo nobile dell’isola, rampollo della sacra schiatta d’Alì. Ne’ principii, quand’egli non avea visti se non che gli eunuchi della corte, Ibn-Giobair loda il giovane re, tollerante, amico anzi de’ Musulmani. Dice ch’ei parlava l’arabico, che usava ne’ rescritti l’alâma, che vivea tra’ Musulmani, convertiti in apparenza; e che, non ignorando la occulta fede loro, solea chiudere gli occhi quando, all’ora della preghiera, li vedea scantonare ad uno ad uno. Racconta Ibn-Giobair che nel tremuoto di febbraio millecensessantanove, Guglielmo giovanetto, girando attonito per la reggia, udì le donne e i paggi invocare Allah e il Profeta, e vedendoli sbigottiti al suo arrivo, li confortò con queste auree parole: «Che ciascuno preghi il Dio ch’egli adora! Chi avrà fede nel suo Dio, sentirà la pace in cuore.» Intenerito della gran bontà del principe, Ibn-Giobair prega Iddio che lo serbi in vita per lunghissimi anni. Ma a capo di due mesi, risaputa meglio la condizione de’ suoi correligionarii, il viaggiatore dà del tiranno a Guglielmo; l’accusa d’avere afflitto e umiliato Ibn-Hammûd, d’avere sforzato all’apostasia il giureconsulto Ibn-Zura’; e raccapricciando narra che costui, fatto giudice, rendea ragione, or secondo il vangelo, or secondo il Corano e perfino avea mutata in chiesa una sua moschea.[404] In quel torno (1179) veggiam anco una moschea di Catania destinata al culto cristiano da un Giovanni da Messina e consacrata con la invocazione del novello santo, Tommaso di Canterbury.[405]
Ancorchè l’indole di Guglielmo non renda inverosimili le contraddizioni, ognun vede come quel molesto proselitismo piuttosto che a lui, sia da apporre al clero, impaziente di stendere l’autorità sopra tanta parte della popolazione, di accrescere le decime, i casuali, i lasciti. Era imbaldanzito il clero per la potenza dell’arcivescovo di Palermo; e armavasi già dei fasci della giustizia, se non delle scuri. Perchè Guglielmo, tirato alle dottrine oltramontane, cominciava ad abbandonar quelle seguite da’ suoi maggiori; ponea le cause de’ chierici sotto la giurisdizione delle curie ecclesiastiche;[406] facea tradurre dinanzi a queste i Musulmani accusati di ratto in persona di donne cristiane. Contro i quali egli è vero che i vescovi non pronunziavano sentenze di morte, nè mutilazione; ma poteano condannar sì a multe e battiture, com’è detto in un rescritto di papa Alessandro III, indirizzato all’arcivescovo di Palermo.[407] Ed egli è da supporre assai frequenti le condanne, per la interpretazione larghissima che si dava a quel capo d’accusa e per lo guadagno che ne tornava ai giudici. Ma i Cristiani impunemente strappavano i figliuoli, maschi e femmine, alle famiglie musulmane, sotto specie di convertirli; aggravavan di multe i ricchi; rendeano loro insopportabile il soggiorno in Sicilia: talchè i più timorati pensavano a vendere ogni cosa e andar via; i padri davano le figliuole a’ pellegrini di Spagna o d’Affrica senza richiedere dotario; e i savii già prevedeano che l’islamismo tra non guari sarebbe stato spento in Sicilia, sì com’era testè avvenuto in Candia.
E pur l’universale della popolazione non aborriva per anco dai Musulmani. In viaggio erano salutati cortesemente; la voce del muezzin non facea ribrezzo nelle grandi città; i Cristiani di Trapani tranquillamente vedeano passare le turbe de’ Musulmani, che al suon di corni e taballe, preceduti dall’hâkim, andavano al mosalla a far la preghiera pubblica del Beiram.[408] Che se guardiamo alla reggia, vi troviam l’una accanto all’altra, le sorgenti della persecuzione e del favore: da una parte le sollecitazioni de’ prelati oltramontani; dall’altra le consuetudini, spesso più forti che la volontà, onde gli eunuchi, gaiti o paggi che dir si vogliano, esercitavano gli uffici di corte sotto quel velo sottilissimo d’ipocrisia che li facea parere cristiani.[409] Splendean costoro per lusso di vestimenta e di cavalli. Guglielmo accogliea con onore i Musulmani stranieri, medici e astrologhi[410] e largìa danaro a’ poeti.[411] Afferma altresì Ibn-Giobair che le donne musulmane della reggia talvolta guadagnassero a Maometto alcuna lor compagna cristiana. E le dame franche o italiane di Palermo, riconosceano tacitamente la superiorità dell’incivilimento orientale, vestendo a foggia delle musulmane.[412]
Nè era mica rallentato il legame morale tra gli abitatori musulmani dell’isola. I cittadini, egli è vero, aiutavan poco o nulla i correligionarii loro servi della gleba, uomini di varie schiatte, lontani dall’occhio e dal cuore; ma nel grembo delle popolazioni urbane fervea la carità musulmana e ne davano l’esempio, non senza rischio loro, i finti cristiani della corte. La quale carità di setta, di stirpe e di patria, che ormai tornava ad un sentimento solo, si mantenea tanto più calda in Palermo, la città, come chiamavanla per antonomasia i Musulmani di Sicilia. Quivi i Musulmani soggiornavano in alcuni sobborghi senza compagnia di Cristiani; un cadì amministrava loro la giustizia; frequentavan essi le moschee e ciascuna era anco scuola; fiorivano i loro mercati ne’ quali, come fu uso generale nel medio evo e dell’Oriente in tutti i tempi, dimoravano gli artigiani, divisi per contrade, secondo i mestieri. Dalle parole d’Ibn-Giobair possiamo argomentare che i mercatanti della città fossero, la più parte, musulmani. Il culto pubblico era tuttavia liberissimo in Palermo; se non che la preghiera solenne si faceva nella moschea cattedrale con la invocazione pei califi abbasidi, vietata solamente l’adunanza del piano aperto o vogliam dire il mosalla;[413] parendo pericoloso, com’io penso, di mettere insieme le migliaia degli Infedeli.
Le quali migliaia quante fossero nella capitale e nelle province, non sappiamo; ma tutta insieme la popolazione musulmana, uomini e donne, passava di certo il numero di centomila che dà uno scrittore contemporaneo, come si vedrà in quest’altro capitolo. Il seguito dei fatti anco mostrerà come, allo scorcio del duodecimo secolo, i Musulmani di Sicilia fossero ridotti in Val di Mazara, e come gran parte di loro coltivassero il suolo in quelle cento miglia quadrate di territorio che l’improvvido Guglielmo donò, insieme con gli abitatori, al Monastero di Morreale, chiudendo gli occhi alle conseguenze politiche, non meno che al danno economico dello Stato.[414] I nomi delle città e villaggi recati da Ibn-Giobair occorrono, eccetto sol Siracusa, nella costiera da Messina a Palermo, e su la strada dalla capitale a Trapani. Un pugno di Musulmani in Messina; maggior numero in Cefalù; in Termini un borgo abitato al tutto da loro; un paesello intero a Kasr-Sa’d, il quale parmi risponda al monticciuolo che or si addimanda la Cannita, presso Villabate; gran popolazione in Palermo; tutti gli abitanti in Alcamo e ne’ villaggi e ville ond’eran gremiti i fertili terreni, e allora ben coltivati, che si stendono dalla capitale a Trapani: e in questa, gran parte della popolazione, professava l’islamismo.[415] Professavanlo forse alcuni abitatori di Catania.[416] Al dir di Burchardo, vescovo di Strasburgo, ambasciatore del Barbarossa appo Saladino, Malta e Pantellaria erano in questo tempo abitate al tutto da Musulmani; e ubbidia la prima al re di Sicilia, a nessuno la seconda, la quale producea poco grano; talchè gli uomini viveano di pastorizia, mezzo selvatichi, pronti a rintanarsi nelle caverne, quando sbarcasse gente più forte di loro.[417]
Partecipavano tuttavia i Musulmani degli ufizii civili e militari, come abbiam già detto trattando dei gaiti, poichè le testimonianze citate tornano la più parte al regno di Guglielmo il Buono.[418] Alle quali è da aggiugner quella di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, studiosissimo a descrivere le genti che disertarono il suo paese (1185), le quali eran chiamate siciliane, dice egli, perchè le accozzò Guglielmo, conte, re, o tiranno della Sicilia, e votò l’erario per fornire la spesa, maggiore assai delle scarse entrate dell’isola.[419] Erano in quell’oste uomini d’arme e arcieri a cavallo, fanti leggieri e di grave armatura e compagnie franche, dette del rizico, le quali senza caposoldo nè stipendio, combatteano per la sola preda.[420] I Musulmani di Sicilia, noverati forse tra gli arcieri a cavallo, facean l’ufizio ch’or è dato a carabinieri o gendarmi negli eserciti europei. Perocchè narra Eustazio che nella prima licenza del saccheggio, mentre una mano di soldati insanguinava e profanava sozzamente la chiesa di San Demetrio e commetteva ogni maniera di oltraggio sopra i Greci che vi s’erano rifuggiti, un eunuco, ammiraglio[421] del re, entrò a cavallo nel tempio, brandendo una mazza di ferro, seguito da prodi sergenti, e fece sgombrar que’ masnadieri.[422] Ma durante l’occupazione della città, continuando i Latini a sfogar l’odio su i vinti, i Saraceni di Sicilia giravano per le strade la notte a far la scolta; entravano nelle case ov’era acceso, contro il divieto, lume o fuoco; sforzavan le porte; menavan via le donne e le fanciulle adocchiate nel giorno; e prendean talvolta i danari per dote.[423] In una orazione recitata dopo quel gran flagello, Eustazio, prorompendo contro un sacrilego, dicea che gli atti suoi somigliassero a que’ degli Affricani di Sicilia.[424] A’ Musulmani io riferirei volentieri l’artifizio dei due mangani smisurati, chiamati da lui “le figlie del tremuoto” i quali aprirono la breccia nel muro di Tessalonica:[425] ond’e’ si vede che facean tiri diretti, come le artiglierie moderne; e vanno per conseguenza identificati con quelli che abbiamo descritti nell’assedio di Siracusa dell’ottocentosettantotto e testè nell’impresa di Alessandria,[426] e fors’anco con gli altri che Carlo d’Angiò apparecchiava (1284) contro la Sicilia, maneggiati da’ Saraceni di Lucera.[427] Dopo li artiglieri de’ mangani, Eustazio fa menzione “di quelli che lavoravano a riempir di polveraccio le insidiose fosse, per iscuoter e abbattere i muri”: nel qual luogo la voce insolita greca ch’io rendo a bella posta con una voce oscura del nostro linguaggio, se la non denotasse i minuzzoli di combustibili da appiccar fuoco a’ sostegni de cuniculi, sarebbe forse da riferire a quella composizione di fuochi da guerra che condusse alla invenzione della polvere, ma non essendo per anco sì perfetta, in vece di scoppiare, schizzava, operando con la sola forza del rincalcio. Il quale ingegno tornerebbe anco ai Musulmani di Sicilia, poichè simili fuochi, in questo tempo, erano in uso appo i lor fratelli d’Affrica e di Levante.[428]
Il numero dunque, le ricchezze, la cultura intellettuale, la ingerenza ne’ servigii pubblici, il favore della corte, davano forze a’ Musulmani di Sicilia, molestati com’essi erano dal clero e da qualche ministro del re, e persuasi che loro sovrastassero gravi calamità. Con ciò le bandiere almohadi sventolavano a vista quasi della Sicilia; nè mancavano nell’isola i capi d’un movimento. Le vestigia che scopronsi negli scrittori cristiani e ne’ musulmani, conducono a un gran personaggio di casa Edrisita, del ramo de’ Beni Hammûd, e com’io credo della stessa famiglia di quello sciagurato signore che die’ Castrogiovanni al conte Ruggiero. Era chiamato dai più, secondo l’uso arabo, col keniet o diremmo noi nomignolo, Abu-l-Kâsim e talvolta col keniet d’uno de’ suoi progenitori, Ibn-abi-l-Kâsim, o infine, col nome del casato, Ibn-Hammûd. Ai tempi di Guglielmo il Buono primeggiava costui nell’aristocrazia ereditaria;[429] e della sua ricchezza e seguito tra i Musulmani di Sicilia ci ragguaglia anco il Falcando, che lo nota tra i più possenti nemici del cancelliere Stefano, come s’è detto.[430] Similmente Ibn-Giobair, pochi anni appresso, narrò ch’egli era stato perseguitato per supposte pratiche con gli Almohadi; confiscatigli i beni ed espilati trentamila dinar; condotto indi alla povertà ed a vivere d’uno stipendio a corte: uomo per nascita, liberalità, beneficenza, ingegno e costumi, sì riverito appo i Musulmani di Sicilia, che s’egli avesse abiurato, tutti si sarebber fatti cristiani, dice il viaggiatore spagnuolo.[431] Ritraggiamo che Ibn-Kalakis d’Alessandria, giureconsulto e poeta di nome, venuto a corte di Guglielmo nel cinquecentosessantacinque (25 settembre 1169-13 sett. 1170), dopo aver lodato il re in un poemetto e averne ottenuto alcun dono, dedicò a questo Hammûdita un’opera intitolata «Il fior che sorride mirando le virtù d’Ibn-el-Kâsim» e n’ebbe splendido guiderdone e sì grato rimase al Mecenate siciliano, che ripartendo per l’Egitto gli indirizzò altri versi. Per la liberalità sua, com’e’ sembra, gli avean dato il nome d’Ibn-el-hagiar.[432] Ritornò in Sicilia nello stesso tempo Ibn-Zafer, nato nell’isola, emigrato in Oriente, erudito, poeta, filologo ed elegante scrittore; il quale nella sua povertà, sovvenuto e consolato da quel nobil uomo, gli dedicava tre opere inedite e la seconda edizione della più popolare di tutte le sue compilazioni, il Solwân-el-Motâ’.[433] Nella cui prefazione, tramezzate a luoghi comuni, leggiam parole che non sembrano gittate a caso: l’augurio «che Iddio conduca questo signor de’ signori e condottiero dei condottieri, a compiere i proponimenti ispiratigli da Lui stesso.... che lo esalti sempre nei seggi del potere e renda vane le frodi de’ suoi nemici;» la lode che «l’animo suo bastava ad ogni fortuna.... che i popoli non avean da temere disastri seguendo uom di proposito così saldo.»[434] Costui non potea vivere tranquillo in quelle condizioni de’ compatriotti suoi musulmani. Com’egli parteggiò contro il cancelliere Stefano, così è da supporlo favorito da Matteo, e tanto più sospetto a Gualtiero Offamilio, quando questi prese la bandiera di parte oltramontana. Abu-l-Kâsim, o altri della famiglia dicerto, si trovò avvolto nelle rivoluzioni contro il principato cristiano, ritraendosi che i suoi beni fossero stati confiscati. Abbiamo infatti nel milledugento un diploma della reggenza per lo quale, compiendo al comune di Genova la promessa falsata da Arrigo VI, gli erano fatte concessioni larghissime, e tra le altre cose gli si donava il palagio posseduto un tempo in Trapani dal Gaito Bulcasimo.[435] E sedici anni appresso, Federigo già emancipato, concedeva alla chiesa di Palermo certi beni di Ruggiero Hamuto, che par sia stato, nell’undecimo secolo, lo stipite di quella nobil casa in Sicilia.[436]
CAPITOLO VI.
Avea Falcando, per disdegno o lontananza, interrotta la grave sua storia al principio del governo personale di Guglielmo II. Ripigliando la penna dopo venti anni per deplorare le calamità piombate su la Sicilia alla morte del re, ei notava tra i maggiori pericoli la reazione de’ Musulmani. “Se i popoli della Sicilia, dice Falcando, esaltassero al trono uom di provato valore, e se i Cristiani non discordassero dai Saraceni, potrebbe il re eletto respingere le armi straniere e ristorar la cosa pubblica che or sembra perduta.... Ma tra tanto scompiglio, mancato il timore dell’autorità regia, difficil è che i Cristiani si trattengano dall’opprimere i Saraceni, e che questi, diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in armi, non prendano qua un castello su la marina, là una rôcca tra i monti. Il che se avvenisse, come potrebbero i Siciliani difendersi con una mano dalle scorrerie de’ Saraceni e con l’altra combattere dure battaglie contro i Teutoni?... Oh piaccia al cielo che nobili e plebe, Cristiani e Saraceni, accordinsi unanimi nella elezione d’un re; e con tutte le forze, con estremi conati s’adoprino a stornare l’irruzione de’ Barbari!” Con ciò, l’autore va rampognando i Pugliesi, i Messinesi, la regina Costanza, tutti fuorchè i due veri colpevoli: Guglielmo e l’arcivescovo. E tocca i pregi delle primarie città della Sicilia; e assai più largamente descrive Palermo, ch’egli amava quasi cittadino e premeagli di salvar quivi le bellezze della natura e l’opera della civiltà.[437]
Cotesto appassionato discorso politico su i principali eventi che seguirono in Sicilia e in Puglia dall’autunno dell’ottantanove alla primavera del novanta, racchiude, a creder mio, un racconto sotto specie di vaticinii, timori e speranze; perocchè l’epistola fu dettata in primavera, se non all’entrar della state, e allor l’autore vivea fuor di Sicilia e forse oltremonti.[438] Or non avvenne mai a profeti di predire i fatti per filo e per segno; nè egli è verosimile che il Falcando abbia, per cagion d’esempio, ignorata dopo tre o quattro mesi la esaltazione di Tancredi, quando in tutta Europa, massime in Ponente, gli appresti della Crociata rendeano frequenti le comunicazioni co’ porti meridionali, e la gente ansiosamente procacciava le nuove di que’ paesi. Più che un caso di avventurata sagacità, è qui da supporre un artifizio oratorio. Se il Falcando avesse voluto ammonire l’arcivescovo di Palermo a secondare ormai i voti dell’universale e salvar la sua patria adottiva, ei non avrebbe potuto usare forma più discreta, nè più arguta che quella; nè avrebbe potuto indirizzare meglio il sermone che ad un famigliare dell’arcivescovo. Or ei l’intitola per l’appunto a Pietro, tesoriere della Chiesa palermitana; onde si direbbe col proverbio moderno che la soprascritta andava a costui; la lettera a Gualtiero Offamilio.
Presagiti o narrati, i fatti pur avvennero così. Il giuramento prestato a Costanza per comando di re Guglielmo, non valse a far accettare di queto, dai baroni e da’ grandi, la dominazione tedesca. Seguirono giorni d’anarchia, ne’ quali molti Cristiani di Palermo, sì com’era avvenuto nella sedizione del millecensessanta,[439] dettero addosso ai Musulmani. La città fu allagata di sangue. Gli scampati alla strage rifuggironsi nelle montagne, dicono i cronisti:[440] e deve intendersi del centro occidentale dell’isola, poichè dall’orientale aveanli già cacciati i Lombardi[441] e d’altronde, i ricordi che abbiamo de’ Musulmani nella seconda metà del duodecimo secolo tornan tutti al val di Mazara. A quelle montagne trassero, al dir di un altro cronista, con le famiglie loro e con le greggi, i Pagani servi di re Guglielmo, sperando sottrarsi al giogo di Tancredi e sommavano a centomila tra uomini e donne:[442] il qual numero, dato così in arcata, mi par troppo scarso. Erano i villani del demanio e quei, credo anco, de’ poderi che Guglielmo avea testè donati al Monistero di Morreale appunto in que’ luoghi. Capitanavano la sollevata popolazione musulmana cinque suoi regoli, dice Riccardo da San Germano.[443] Dopo aver fatti danni gravissimi a’ Cristiani, i ribelli si sottomessero, quando la pace fermata con Riccardo Cuor di Leone in Messina, die’ forza e riputazione a Tancredi.[444] Durò dunque la rivolta de’ Musulmani dallo scorcio dell’ottantanove all’ottobre del novanta, o in quel torno. Sforzati dalle persuasioni piuttosto che dalle armi e pure riluttanti per rancore e sospetto, i capi ritornavano a lor case in Palermo; i villani a lor glebe e davano statichi.[445] I guasti di tal guerra civile non sono ricordati particolarmente nelle frettolose e scarse memorie del tempo; ma si possono misurare dal caso di alcuni poderi di mano morta in val di Mazara. Arrigo VI, appena salito sul trono, per diploma dato di Palermo il trenta dicembre millecentonovantaquattro, in favor del monastero di Santa Maria De Latina in Messina, tra le altre cose permetteagli “di riedificare i suoi casali, distrutti nella guerra che avea divampato alla morte di re Guglielmo.[446] ” Il giardino che Ibn-Giobair vide in quei luoghi pochi anni innanzi, cominciava dunque a diventare foresta.
La fuga de’ Musulmani dalla capitale, la sollevazione de’ contadini, i cinque regoli che vuol dir uomini di nobil sangue, non marabutti fanatici surti nello scompiglio, mostrano la gravità di questo movimento sociale, che finì di corto con la dispersione delle schiatte musulmane dell’isola. Prevedeanla i savi loro, come dicemmo; pur non si aspettavano sì vicino il martirio. Primi a tirar la spada i Cristiani; accaniti al resistere e forse preparati i Musulmani: e sembra che que’ delle campagne fossero stati spinti a disperazione dalle avanie de’ nuovi lor signori tonsurati, più ingordi e più duri al certo che gli ufiziali, mezzo musulmani, della corte. Provaronsi a ripigliare le lance e gli archi de’ lor padri, ed una sembianza dell’aristocratico reggimento della tribù; vissero di preda; si volsero forse ai lor fratelli dell’Affrica propria, che non li poteano aiutare: ed a capo di parecchi mesi, la vita nomade venne a noia a que’ cittadini e agricoltori. Dileguata ogni speranza; vedendo rassodato re Tancredi e pronte le armi sue e quelle de’ Crociati che fean sosta a Messina, i Musulmani s’affidarono piuttosto nella protezione delle leggi normanne, e ripigliarono il vivere consueto. Li mansuefece altresì, com’io penso, la riputazione e l’arte del Cancelliere Matteo, ch’era stato sempre amico de’ Musulmani e ch’or trionfava della fazione oltramontana. La quale, per vero, non sarebbe calunniata da chi la facesse promotrice immediata della sedizione; poichè, chiarito il popolo a favor di Tancredi, giovava a lei sola il partito d’istigare i Cristiani di Palermo contro i Musulmani; di gittar la fiaccola della guerra civile, che ritenesse in Sicilia le forze del nuovo principe, mentre i Tedeschi assalivano la Puglia: appunto il caso al quale allude il Falcando. Così io mi raffiguro il principio e la fine della ribellione musulmana.
Agli altri eventi accennerò appena, sendo notissimi e rischiarati ora dalla critica moderna.[447] Tancredi fu eletto per opera del cancelliere Matteo, pur con assentimento della maggior parte de’ regnicoli e con gran plauso della corte di Roma. Educato un po’ nel regno e un po’ ne’ paesi bizantini, uom colto secondo i tempi, ma pusillanime o almeno irresoluto, e disgraziatissimo capitano, fe’ prova pure di saviezza politica, egli o il cancelliere Matteo. S’acconciò a forza di danari con Riccardo d’Inghilterra, ospite pericolosissimo;[448] racchetò in Sicilia i Musulmani; si difese in Terraferma da’ nemici di dentro e di fuori; ma venuto a morte dopo quattro anni (20 febbraio 1194), lasciò la corona a un bambino; la reggenza a una donna che non va noverata tra le illustri. Era morto, con ciò, il cancelliere; all’incontro, Arrigo VI, divenuto imperatore, strigatosi da’ suoi avversarii in Germania, impinguatosi col riscatto di Riccardo Cuor di Leone, armava mercenarii; conducea vassalli tedeschi e italiani; si facea prestare con bugiarde promesse le armate di Genova e di Pisa; assicuravasi il passo nell’Italia centrale, dando in preda al popol di Roma il sangue, l’avere e perfin le mura de’ Tusculani, affidatisi in un presidio imperiale. La corte romana che avea favorito Tancredi, or s’avvilì dinanzi ad Arrigo. Il quale in tre mesi occupò il regno con lieve resistenza, e non fu men crudele per questo.
Tra’ pochi fatti d’arme di quella guerra, seguì in Catania uno scontro di maggior momento che non sembri a prima vista nelle memorie del tempo. I Catanesi avean gridato il nome di Arrigo; onde la vedova di Tancredi avea mandate a domar quella città le sue genti, tra le quali si notavano delle schiere di Musulmani. Tanto narrano gli Annali genovesi e aggiungono che il navilio della repubblica andò da Messina in aiuto degli assediati e ruppe i Musulmani con molta strage.[449] Un annalista tedesco, senza far menzione di Musulmani nè di Genovesi, attribuisce la vittoria ad Arrigo di Kallindin; dice raccolti in Catania tutti i baroni con esercito innumerevole; fattane grande strage; entrati i vincitori insieme coi fuggiaschi in Catania; arsa la città; arsa la chiesa di Sant’Agata, col popolo che avevavi cercato asilo; preso anco il vescovo e tutti recati prigioni ad Arrigo.[450] Donde si vede che ciascuno de’ due scrittori trascelse i fatti che gli andavano più a genio: ma le due mezze narrazioni s’attagliano bene una all’altra, e messe insieme, bastano a mostrare che le ultime forze della dinastia normanna in Sicilia, piuttosto disordinate che poche, si provarono contro il nemico fuor di tempo e di luogo; talchè la guerra fu precocemente decisa allo scorcio d’ottobre del novantaquattro, sì com’io credo. Tanto più sicuro allor mosse l’imperatore sopra Palermo.
Da’ versi di Pietro d’Eboli, brutto adulatore ma scrittor vivace,[451] dalla ingenua parola di Ottone di San Biagio, si ritrae lo stupore onde furon presi i capi dell’esercito imperiale allo scoprir quel mondo nuovo, ch’era per essi la Sicilia del duodecimo secolo: la Sicilia feracissima di preziosi metalli;[452] Palermo, città felice, dotata di popolo trilingue, paradiso irrigato di miele.[453] Appressandosi ostilmente alla capitale, avea già Arrigo ammirata la magnificenza del suocero nella regia villa della Favara.[454] Il parco regio che stendeasi fino alle mura della città, avea fornita cacciagione all’esercito. Crebbe la maraviglia quando, fermato l’accordo, entrando Arrigo solennemente in Palermo, (30 novembre 1194) uscirongli incontro i cittadini a ceto a ceto, preceduti da bande di musica, vestiti a festa e i ricchi montati su bei destrieri.[455] In città, l’esercito trionfante trovò i palagi adorni di tappeti e ghirlande, le contrade olezzanti di profumi orientali. Parve strano a’ fieri Germani che il popolo, i soli Musulmani credo io, facessero omaggio all’imperatore prostrandosi con la fronte al suolo.[456] Venuto alfine Arrigo alla reggia, gli eunuchi presentavangli le chiavi dei tesori; e quale apriva i forzieri pieni di moneta, gemme e robe preziose; qual mostrava i libri delle entrate regie in Calabria, Puglia e Sicilia, e perfino in Affrica.[457] Delle preziose spoglie, parte fu dispensata a’ nobili ed a’ capitani e parte mandata al malauguroso castello di Trifels, insieme co’ prigioni da mutilare o serrar nelle mude.[458] Sembrano avanzi di quella gran rapina i più bei drappi delle insegne imperiali, serbate in oggi a Vienna, dico il mantello di Ruggiero, la tunica e le gambiere di Guglielmo II, ricamati tutti d’oro e di perle, a caratteri arabici di varie forme, con figure e rabeschi; i guanti, i sandali rabescati con la stessa maniera di disegni, e parecchi tessuti di seta o d’oro, anch’essi di fattura siciliana del duodecimo secolo.[459]
Le memorie di questo soggiorno di Arrigo VI in Palermo, dànno a veder la civiltà orientale, non solamente nelle suppellettili e nelle usanze, ma perfino ne’ nomi di luogo. Leggiamo negli Annali di Genova che i deputati di quel Comune, compiuta felicemente, come lor parea, l’impresa, andarono a trovar l’imperatore in una palazzina del giardino regio detto Giloloardo, chiedendo il guiderdone pattuito; e ch’ei prima differì la risposta e alfine ricusò con ingiurie, e con la minaccia di spiantare Genova e di ritorle anco i privilegii commerciali goduti in Sicilia sotto i Normanni.[460] Dall’altra mano, un documento contemporaneo dice del campo che messe lo esercito della reggenza (luglio 1200), nel giardino regio di Januardo:[461] ed una cronica siciliana del decimoquarto secolo riferisce la tradizione, vera o falsa, che Arrigo avesse fatto arder gente nel piano di Genoardo, fuor le mura del palagio di Palermo, presso il giardin della Cuba dalla parte di Ainisindi.[462] I quali nomi riferendosi evidentemente ad unico luogo, è da ritenere erronea una sola lettera della prima lezione, e le altre due tornano ad una denominazione piuttosto pronunziata in fretta che veramente alterata. Sarebbe a creder mio « Gennolard » apocope di Gennet-ol-Ardh, che suona «il paradiso della Terra» e si legge, col solo divario d’un sinonimo, nell’ultimo verso della iscrizione arabica ond’è adorna la sala terrena della Zisa.[463] I Musulmani e i Giudei dell’isola si sottomessero ad Arrigo e rimasero ne’ luoghi e nelle condizioni di prima;[464] nè si fa menzione di essi nelle atroci vendette dell’imperatore. Andato in Germania e ritornato quindi in Sicilia (1196), Arrigo rassettò l’amministrazione, mandò l’armata nelle isole adiacenti, per ridurle all’obbedienza e riscuotere i tributi. Fors’anco ne levò nelle isole della costiera africana;[465] al qual fatto par che alluda un verso di Pietro d’Eboli.[466]
Debbo far qui una digressione, perchè autorevoli critici tedeschi, invaghiti d’Arrigo VI per la potenza ch’egli accrebbe all’impero e per la monarchia universale ch’ei sognò, hanno impreso in questi ultimi anni a scolparlo delle gravi accuse accumulate dalla storia sopra il suo nome. E bene hanno essi cancellato qualche episodio che scrittori moderni cavaron già da guaste tradizioni orali e li esagerarono per le passioni dell’animo loro; bene han fatto a rassegnare le testimonianze contemporanee e pesarne sottilmente il valore;[467] ma poi, quando la critica dee levarsi a indovinare il passato e ricomporre il quadro degli avvenimenti con tanti brani sparsi, sovente inorpellati da’ contemporanei stessi, allora, io dico, gli odierni partigiani di casa sveva son caduti in falli molto simili a que’ ch’e’ rinfacciano a’ compilatori del decimosesto secolo e de’ seguenti. Un eruditissimo scrittore vivente, non ostile all’Italia, ma disposto a far plauso, ad ogni costo, al Cesare che la flagellò allo scorcio del duodecimo secolo, volendo provare che Arrigo non fu poi quel perfido tiranno che ognuno ha detto, pon mano alle recriminazioni, allega che i suoi nemici erano cento volte più tristi di lui; che gli abitatori della Sicilia, figli di astuti Normanni, di perfidi Greci e di feroci Musulmani, erano genìa sanguinaria e traditora; che se l’imperatore non li avesse trattati com’ei fece, i Tedeschi tutti che soggiornavano in Sicilia il millecentonovantasette, avrebbero incontrata la sorte che toccò, ottantacinque anni appresso, ai Francesi.[468]
Non essendo disposto, com’io credo, chi ha scritte queste parole a condannare i Tedeschi, che cospirarono contro i Francesi ne’ principii del secolo XIX, gli si potrebbe domandare qual assioma di giustizia obbligava i Siciliani, nel XII e nel XIII secolo, a lasciarsi calpestare da’ conquistatori stranieri, e se, in tesi generale, i popoli datisi con certe condizioni, sieno tenuti in coscenza ad ubbidir il vincitore, anche nel caso ch’egli infranga i patti o trapassi ogni limite. Noterò inoltre che i popoli men civili non sono sempre i più virtuosi; che non vanno presi per oro schietto nè i regni Saturnii della favola, nè i costumi de’ Germani secondo Tacito; che il reame di Sicilia, da’ tempi di Ruggiero a que’ di Guglielmo II, fu invidiato da tutta Europa, per la sicurezza pubblica e l’osservanza delle leggi; che quivi, pochi anni appresso la morte di Guglielmo, la rapina, la violenza e la crudeltà furon chiamati costumi tedeschi; e che quando si volesse compilare, sulle cronache e i diplomi, la statistica penale dell’Europa nel Medio Evo, non si vedrebbe tra la Germania e l’Italia quel gran divario ch’ei suppone. Il vero è che la morale pubblica, per ogni parte di Europa, allor fu quale poteva essere avanti la ristorazione del dritto romano, avanti la riforma di Lutero, la caduta della feudalità, la filosofia del decimottavo secolo e la rivoluzione francese. Sforzandomi a trattare questo argomento senza preoccupazioni patriottiche, esporrò il concetto ch’io traggo dalle diverse testimonianze contemporanee; dalla natura degli uomini in tutti i tempi e in tutti i luoghi; dalle peculiari condizioni di quelli che si disputarono il terreno e le ricchezze dell’Italia meridionale allo scorcio del duodecimo secolo, e dalla indole stessa d’Arrigo, la quale nessuno disconosce: indole ambiziosa, violenta, astuta, avara, necessaria, mi si dirà forse, ad abbattere la potenza de’ papi, ad unificare la Germania e ad assoggettarle il mondo; ma capace d’infrangere i più ovvii principii della giustizia; di tradire, per cagion d’esempio, i Tusculani e di fare una truffa da mariuolo ai Genovesi ed ai Pisani.
I principali capi d’accusa da esaminare son due: l’ingiustizia delle persecuzioni e la immanità delle pene; e nel primo è da distinguere due serie di fatti; nel secondo è da risguardare a’ costumi del tempo. Incominciando da ciò che avvenne in Palermo negli ultimi giorni del novantaquattro e primi del novantacinque, i ricordi tedeschi, che son molti e uniformi da due all’infuori,[469] o fan parola appena della cattura e deportazione de’ grandi, senza aggiugnerne la causa, o notano brevemente una congiura contro Arrigo, rivelata pochi dì appresso il suo coronamento; alla quale si accenna, pressochè con le loro stesse parole, in una lettera scritta da Arrigo all’arcivescovo di Rouen, pochi giorni dopo il fatto.[470] Venendo alle testimonianze particolareggiate, noi lasceremo addietro, come ogni giudice farebbe, quella di Pietro d’Eboli, la quale val quanto le parole del suo monaco rivelator della congiura, e prova soltanto la notizia officiale data in corte a quei giorni.[471] Ci occorre quindi in una cronica italiana che «Arrigo, ricapitate certe lettere fittizie e bugiarde contro la regina Sibilla, il figliuolo Guglielmo ed altri personaggi, ai quali egli e i grandi della corte avean data sicurtà, tutti li prese, e avviolli in Germania ed alcuni anco accecò.[472] Un altro italiano aggiugne che Arrigo ingannò, con falso giuramento, il re fanciullo e i conti del reame, e che, messili in ceppi e preso tutto l’oro e l’argento che potea, mandò ogni cosa in Germania.[473] Similmente è scritto nelle Gesta d’Innocenzo III che l’imperatore, dopo avere stipulato a favor della vedova e del fanciullo la concessione degli Stati di Lecce e Taranto, “còlta una occasione,” imprigionò l’una e l’altro e parecchi ottimati, de’ quali molti accecò; e tenne in carcere duro la Regina, i figli e l’arcivescovo di Salerno.[474] Ma cotesti scrittori son guelfi.
I fautori della parte contraria, tanto più autorevoli, confermano il medesimo sospetto; se non che essi non fanno distinzione tra la prima persecuzione e la seconda. Così Riccardo da San Germano, ufiziale di casa sveva, una ventina d’anni appresso, scrivea che convocato il parlamento in Palermo, Arrigo fece condannare il re, la regina e parecchi vescovi e conti «apponendo loro alto tradimento;» de’ quali, altri accecò, altri bruciò, altri impiccò, altri mandò in Germania.[475] Nè men grave l’attestato di Ottone di San Biagio, monaco tedesco, quel desso che loda tanto Arrigo «per l’arte e il valore con che avea ristorata l’antica potenza dell’impero.» Ottone ristrinse il conquisto del regno in due capitoli; nel primo dei quali egli accennò ai casi di Terraferma e della Sicilia orientale; e nel secondo narrò con molti particolari la occupazione di Palermo e terminolla dicendo della famiglia di Tancredi, menata in prigionìa di là dai monti. Ma nel primo di que’ capitoli si legge, che gli ottimati siciliani presi da Arrigo di Kallindin, nel combattimento di Catania (1194) e condotti all’imperatore, «per disperazione si proposero di ucciderlo; che a fin di conseguire lo scopo, gli prestarono ubbidienza;[476] ch’ei, volendoli vincere d’astuzia, li ammesse a corte; e che poi, chiamati alla sua presenza, quando men se l’aspettavano, andarono senza sospetto e furon còlti tutti a una rete. Brutta cosa gli è a vendicare la perfidia, con la perfidia.» sciama qui lo scrittore, e seguita narrando «la studiata crudeltà dei supplizii.»[477] Dond’egli è chiaro che Ottone volle seguir la connessione de fatti più tosto che l’ordine rigoroso de’ tempi, o il fece senza volere: poichè gli uomini d’arme, e i cortigiani d’Arrigo, i quali dopo la sua morte, cacciati da Costanza, ritornavano dispettosamente in Germania, doveano raccontar tutti, in un fascio, i casi avvenuti in Sicilia dal novantaquattro al novantasette e doveansi allargare sui più recenti, come quelli ne’ quali il signor loro era stato provocato alla vendetta e i loro nemici erano stati calpestati e straziati.[478] In ogni modo e’ non è da maravigliare che i cronisti abbian gittato il peso delle congiure e delle vendette tutto in un posto, chi sul principio del regno d’Arrigo e chi su la fine; poichè niun contemporaneo potea vantarsi di veder chiaro ne’ labirinti della reggia di Palermo o nelle mude del castello di Trifels.
Noi diciamo dunque che i critici odierni a ragione distinguono le due proscrizioni; e lor concediamo volentieri che Arrigo abbia sparso men sangue nella prima, e che, in quel tempo, i grandi laici ed ecclesiastici della Sicilia, sottomettendosi alla forza, abbiano serbata la speranza, o il proponimento di liberarsi, e fors’anco n’abbiano parlato tra loro. Ma una grande cospirazione, contro l’esercito vincitore, non si può supporre incominciata e compiuta in quattro settimane. Arrigo riseppe i pensieri, acconciò i rapporti delle spie in disegno di congiura bella e fatta, e avvolsevi tutti i grandi che gli davan ombra o gli faceano impaccio, incominciando dalla sventurata famiglia di Tancredi, la quale ei volea frodare del compenso pattuito. Adunò il parlamento, cioè gli ottimati partigiani suoi; poichè gli avversari eran lì ammanettati, condotti a funate, come li veggiamo nelle figure del codice di Pietro d’Eboli. Il parlamento condannolli per lesa maestà; chi potea dir contro? E Arrigo perdonò loro la vita, poich’era più sicuro partito farli maturare ne’ ferri di Trifels, che immolarli pubblicamente sì presto. Tale mi sembra il vero aspetto della persecuzione, con la quale Arrigo inaugurò in Sicilia il suo regno e l’anno millecentonovantacinque.
Ma, come avviene ne’ profondi movimenti de’ popoli, tolta di mezzo con le prigioni e co’ patiboli una prima fila, due o tre nuove si rannodavano: partigiani malcontenti, uomini dabbene spaventati che ripiglian animo, sangui tiepidi che si riscaldano per interessi offesi, per novelle speranze, per l’orgoglio nazionale calpestato, per la pietà stessa dei proscritti. I feudi conceduti a’ Tedeschi erano di certo tanti stecchi negli occhi a tutti i regnicoli. Quando Arrigo poi, racchetati i suoi nemici di Germania, con la riputazione e coi guadagni delle vittorie meridionali, chiamò la nazione a nuove imprese in Costantinopoli e in Palestina, e ritornò in riva al Mediterraneo con l’esercito, ei s’accorse che il suolo gli tremava sotto i piè. Già in Puglia la gente, conversando coi Crociati alemanni, dicea loro a viso aperto ritornassero a casa, per l’amor del cielo, e non servissero, per troppa bonarietà, di sgherri a un tiranno.[479] Costanza stessa, donna d’alto animo e innocente causa di tanta ruina, mal soffrì lo strazio de’ compatriotti, la ingorda rapina dei tesori aviti, l’avvilimento del paese e il suo proprio. Arrigo, assai più giovane di lei, l’avea quasi abbandonata; l’avea lasciata in Palermo a comandar di nome, mentre i grandi ufiziali dell’impero comandavan di fatto. Fors’ella rimostrò contro alcun provvedimento, o biasimò la condotta dell’imperatore e de’ ministri; nè ci volle altro perchè i Sejani d’Arrigo allor la dicessero partecipe delle trame e poi ne spacciassero tante altre favole suggerite dall’odio grandissimo che le portavano.[480] In tale condizione di cose fu scoperta una congiura; il che si ritrae con certezza storica, ma ignoriamo i particolari, e quel po’ che ne sappiamo fa supporre tentata più tosto la ribellione che il regicidio.
Nè la natura poi di quella trama, nè la ferocia stessa de’ tempi, basta a scolpare Arrigo de’ supplizii che allora parvero sì atroci in Germania, in Francia e in Inghilterra, sì come in Italia. I critici tedeschi de’ nostri giorni cancellano que’ supplizii con un filosofico frego di penna, per la sola ragione che lor sembrano troppo insoliti e crudeli; ma n’abbiam noi tante e tali testimonianze che non s’arriverà mai a smentirle. In Italia la voce pubblica ripetea, come si ritrae dalle epistole d’Innocenzo III, de’ casi d’uomini e donne, laici e sacerdoti, mutilati, annegati, arsi, o bolliti nello strutto;[481] e tre annalisti tedeschi ed un bizantino s’accordano per lo appunto nel dir che Arrigo fece inchiodare una corona in capo a Giordano, uomo di schiatta normanna, com’e’ parmi dal nome, designato da’ congiurati al trono e alla man di Costanza.[482] Io non veggo perchè la invenzione di sì barbari supplizii s’abbia da riferire ai cronisti italiani, francesi, inglesi, bizantini e tedeschi più tosto che ai carnefici d’Arrigo!
Da coteste orribilità all’infuori, è molto oscuro l’ultimo periodo della vita dell’imperatore in Sicilia. Venuto a minacciare la moglie e punire i congiurati, trovò tra costoro chi volle vender cara la vita. I fratelli d’Aquino s’eran difesi in Roccasecca di Puglia; un Guglielmo Monaco, feudatario o castellano di Castrogiovanni, si ribellò, e afforzossi in quel sito inespugnabile. Andò l’imperatore in persona all’assedio,[483] il quale par si prolungasse: ed egli intanto, per fazione di guerra, o caso di caccia o di viaggio, fu còlto di freddo su quelle alture, una notte d’agosto, e ritornò in Messina infermo di dissenteria. Parve poi migliorasse, tanto che fece partire i Crociati tedeschi adoprati nel pericolo della ribellione, ed ei medesimo si messe in via alla volta di Palermo; ma una ricrudescenza della malattia lo tolse di vita, il ventotto settembre del novantasette.[484] Fu sepolto in Palermo, nell’arca sontuosa dove giacciono ancora le sue ossa, dalla quale si legge ch’egli avea fatto gittar fuori i cadaveri di Tancredi e del suo figliuolo.[485]
CAPITOLO VII.
Padrona ormai del suo regno, Costanza messe da canto il testamento del marito che chiamava alla reggenza il gran siniscalco imperiale Marcualdo de Anweiler; accomiatò i condottieri tedeschi; fe’ venire in Palermo Federigo, bambino di quattro anni; domandò per lui l’investitura papale; e, senza aspettar quella, fecelo incoronare re di Sicilia (17 maggio 1198).[486] Dell’affrettarsi ella avea ben donde. Sendo morto Celestino poco appresso l’imperatore, e rifatto pontefice Innocenzo III (8 gennaio 1198), apparve fin dai primi istanti quel genio dominatore, del quale noi riconosciamo la possanza, ma dobbiamo condannare talvolta gli intenti e le vie; mentre gli scrittori papalini ed anco alcuni acattolici levanlo al cielo, invaghiti del dispotismo religioso e politico ch’egli esercitò a tutta possa. Innocenzo gridò: fuori i Tedeschi; ma volle stender la mano su i territorii occupati da loro nell’Italia di mezzo; ei fece plauso alla regina di Sicilia iniziatrice di quella riscossa nazionale, ma volle dar corpo all’ombra dell’alta sovranità pontificia su la Puglia e cancellare le regalìe ecclesiastiche in Sicilia.[487] Morì Costanza (27 novembre 1498) mentre si schermiva come potea contro quel molesto amico; e per manco male, chiamò lui stesso tutore di Federigo e del reame, affidando, con tutto ciò, il governo a quattro ministri: che fu buona cautela e salvò la corona, ma sprofondò il paese per dieci anni nella guerra civile.
Dei ministri reggenti, l’arcivescovo di Capua venne presto a morte;[488] il gran cancelliere Gualtiero de Palearia, vescovo di Troja, diffidava forte del papa; al contrario, Caro arcivescovo di Morreale parteggiava per lui; e Bartolomeo Offamilio arcivescovo di Palermo, fratello di quel Gualtiero che fu sì malaugurato consigliere di Guglielmo II, pendeva a parte tedesca. La quale rinacque per timor dell’ambizione romana, che i regnicoli non poteano dimenticare e non sapeano rintuzzare da sè soli. I condottieri d’Arrigo creati feudatarii nel reame, i quali s’erano rannicchiati alla morte del signor loro, levarono il capo alla morte di Costanza, perchè nel regno parvero assai comodi ausiliari: buone spade contro i partigiani del papa e pur sì poche da non portare pericolo al paese. Crebbe la parte tedesca quando Innocenzo, nel furor della lotta, adoprò stranieri contro stranieri; favorì il conte di Brienne, il quale, sposata una figliuola dell’ultimo re normanno, venìa di Francia, pretendente armato, facendo le viste di rivendicare i soli feudi di Taranto e Lecce.[489] Ma chi mai si sarebbe fidato di trattenerlo nel corso delle vittorie, se una morte immatura non l’avesse tolto di mezzo? E chi sapea se Innocenzo, viste le noie ch’eran venute per sessant’anni alla corte di Roma da quel re di Sicilia mezzo vassallo e mezzo indipendente, non volesse or porre uno o parecchi grandi feudatarii in Terraferma ed un regolo nell’isola? Certo egli è che questo o simile disegno trasparisce nella condotta del papa, da’ principii del milledugento, quand’egli accolse Brienne in Roma, infino alla metà del dugento otto, quand’ei tenne un parlamento a San Germano, esercitando atti da signore diretto piuttosto che sovrano feudale.
Le quali cose io ho voluto avvertire, quantunque non siano immediatamente connesse col mio subietto, affinchè si rifletta meglio su la storia di questo periodo. Il prestigio d’un gran nome, la materia degli avvenimenti fornita la più parte dalle epistole d’Innocenzo o dall’anonimo biografo suo, la moda religiosa del nostro secolo, han fatta pendere troppo la bilancia a favor del papa. Secondo me, un’esamina imparziale fa comparire men reo il cancelliere, meno candido il papa e niente sciocca la cittadinanza di Palermo e di Messina, la quale seguì i consigli del cancelliere e fu vero sostegno del trono, pria con Innocenzo contro Marcualdo e poi con questo ed altri condottieri contro Innocenzo. Con gli altri errori va cancellata la generosità cavalleresca, che suolsi in oggi attribuire ad Innocenzo per avere educato Federigo alle scienze e alle lettere, contro l’interesse della corte di Roma. Se vero fosse il fatto e dimostrato l’interesse, Innocenzo meriterebbe soltanto la lode che, potendo, ei non avesse tradito il suo pupillo. Ma certo è che nè il figlio di Arrigo VI, nè la reggia di Palermo dov’egli fu educato, nè il governo della Sicilia, non caddero mai nelle mani di Innocenzo, nè de’ suoi partigiani. Se il papa scrisse lettere paternali, se talvolta mandò in Palermo uomini di garbo a visitare il fanciullo e tentare il passo, ei trovò sempre chi gli rispose con parole, inchini e niente altro: e n’abbiamo la confessione nelle epistole sue stesse.[490]
In questo interregno, come va chiamato per essere stata tanto disputata l’autorità pubblica, tre uomini vi stendean la mano, cioè il papa, Marcualdo e il cancelliere, il quale sbarazzossi presto de’ ministri compagni. I pretendenti, scarsi di forze tutti e tre, prevalsero a volta a volta in grazia de’ corpi secondarii dello Stato, i quali secondo le proprie passioni e gli interessi veri o supposti, si aggregavano or con l’uno or con l’altro. Voglio dire le città, i feudi, le Chiese vescovili, i ricchi monasteri e perfino i capitoli di alcune Chiese nell’assenza del vescovo e in Sicilia anco i Musulmani; i quali seguendo interessi più chiari e durevoli che que’ d’ogni altro corpo, operarono con senno, fortezza e concordia.
Al principio dell’interregno era consumato un gran fatto, del quale non abbiamo ricordi espressi, nè sappiamo per l’appunto come nè quando fosse avvenuto: i Musulmani erano scomparsi di Palermo e teneano le montagne del val di Mazara. Perchè nel luglio del milledugento li veggiamo assediar la capitale con Marcualdo, senza che si faccia parola di correligionarii loro che rimanessero dentro le mura. La prova negativa risalisce anco a’ primi tempi dopo la morte di Costanza; nel quale scompiglio se i Cristiani di Palermo non rinnovarono le stragi del sessantuno e dell’ottantanove, convien che loro ne fosse mancata la materia. Dopo il dugento, i diplomi e le cronache danno notizie de’ soli Musulmani di provincia, e se qualche nome avanza nella capitale, rassomiglia a que’ rottami che attestano il naufragio: qua un ricordo che l’imperatrice Costanza avea donato al cancelliere il giardino d’uno Scedîd entro le mura di Palermo;[491] lì un diploma del cancelliere che, in nome del re bambino, rimeritava i servigi d’Elia canonico del Duomo, concedendogli la metà d’una vigna del trapassato notaio saraceno Buccahar.[492]
Agevol cosa è a comprendere come sia seguito cotesto gran mutamento sociale entro i dieci anni che corsero sotto Tancredi, Arrigo e Costanza. La condizione legale de’ Musulmani rimanea forse la stessa; ma la riputazione a corte, la sicurezza delle persone, de’ beni, delle industrie, era ita per sempre. Possiamo tener certo che i fuggitivi dell’ottantanove non ritornaron tutti in Palermo l’anno appresso, e che de’ ritornati, molti non rimasero a lungo; quand’era sì facile ai mercatanti e agli artigiani delle città di emigrare in Affrica alla sfilata. I Musulmani poi delle terre e delle ville, doveano andarsene molto volentieri alla montagna, quando i lor poderi passavano dal demanio a feudatari laici o ecclesiastici, e però i vassalli avean che fare con padroni uggiosi ed avari, anzichè coi lontani e condiscendenti eunuchi della corte. Nè le concessioni a preti e soldati scarseggiavano tra que’ tempestosi mutamenti di dominio. Ci avanza, per attestare il fatto, qualche titolo di proprietà ecclesiastica che risguarda villaggi musulmani ed appartiene appunto a questo periodo.[493]
Innocenzo aggravò il male per imprudenza, come spesso avveniagli. Mettendo sossopra l’Europa per adunar uomini e sopratutto danari che servissero, come diceasi, al racquisto di Terrasanta, ei mandò in Sicilia a bandire la Crociata (luglio 1198) due commissarii; i quali non cavarono un quattrino dai ricchi prelati dell’isola. Indi il papa a capo di sei mesi, quand’era già morta la imperatrice, rincalzava con un rescritto (5 gennaio 1199) che si pigliassero tutte le entrate ecclesiastiche, toltone appena le spese del vitto e del culto: onde si vede qual terribile aggravio cadea su i preti e i frati, i quali ben s’intende che lo scaricavano su i loro vassalli, la più parte musulmani.[494] Come se ciò non bastasse, Innocenzo scrivea lo stesso giorno al vescovo di Siracusa, primo commissario della Crociata: già in Sicilia i Pagani convertiti ricader nello errore; gli eretici risentirsi: scomunichi, dunque, gli apostati ed ogni lor fautore; bandisca la maledizione per tutta la provincia, ogni giorno festivo, a lumi accesi e suon di campane; faccia confiscare dal principe i beni degli scomunicati; badi che gli altri Saraceni battezzati non seguano lo esempio; li esorti a ciò; anzi li costringa e li faccia costringere dall’autorità pubblica.[495] La data di questo scritto prova che alla morte di Costanza i Musulmani, sentendo venire i tempi grossi, gittarono la maschera e si messero in parata; poichè supponendo somma celerità negli spacci di Sicilia e nella risposta di Roma, si dee ritenere corso un mese da’ primi segni del movimento alla data della lettera pontificia. Il movimento senza dubbio fu che i Musulmani, i quali s’erano già infinti cristiani nelle città, per amore del queto vivere e nelle campagne per trovare grazia presso i nuovi signori, s’accorgeano che oramai l’ipocrisia non valesse a salvar la pelle nè la borsa; ovvero vedeano giunta l’occasione di spezzare il giogo, onde correano alla montagna, alle forti castella tenute da’ correligionarii loro. Parecchi diplomi degli anni seguenti certificano la fuga de’ villani che pare incominciata, innanzi il milledugento.[496] Possiamo dunque immaginarci il rimescolamento di popolazione e di proprietà che avvenne in Val di Mazara. Qua gli abitatori Musulmani delle castella e ville cacciavano i fattori de’ signori cristiani laici ed ecclesiastici: là i contadini musulmani lasciavano la gleba per andare a coltivare i territorii rivendicati, pascolare le greggi in que’ monti o guadagnar la vita depredando e saccheggiando.
I due brevi del papa potean destare un terribile incendio. E’ si vede che Innocenzo volle mandare ad effetto, dopo la morte di Costanza, la solita sua minaccia di bandire la croce contro i Musulmani di Sicilia: chè altro non significa quel raccogliere tutto il danaro delle chiese, quel ripetere sì spesso i riti della scomunica per tutta l’isola; quel chiamare il braccio secolare contro i neofiti che tentennassero. Era il segnale d’una persecuzione, anzi d’una proscrizione non meno sanguinosa di quella che lo stesso uomo eccitò a capo di pochi anni contro gli Albigesi. Ma in Sicilia le istigazioni papali valser poco appo i Cristiani; e i Musulmani se ne risero in loro forti recessi. Nè andò guari che il papa fu costretto a piaggiar que’ nemici della fede, con lettere infiorate di filosofia e di tolleranza.
Com’egli è dimostrato dai fatti susseguenti, i Musulmani si strinsero tra loro, si chiusero nelle fortezze e, su le prime, stettero a vedere. In qual si potean fidare dei tre aspiranti alla reggenza? Nell’imâm dei Nazareni no al certo; e poco meno nei ministri, tutti vescovi, e, per giunta incapaci di raffrenare, se pur l’avessero voluto, il clero e i baroni, e niente disposti ad usare verso i Musulmani quella moderazione che Innocenzo cominciò a raccomandare quando non era più tempo. Si volsero dunque i Musulmani a Marcualdo che lor dovea parere il vero reggente, vindice delle leggi, nemico di quel clero che aveva usurpato il patrimonio de’ lor maggiori, e chiamato dal buono imperatore Arrigo alla tutela di Federigo legittimo principe loro. Com’e’ s’ordinassero, non sappiamo: se ubbidirono a quel capo che fu poi morto nella battaglia di Morreale, ovvero se fecero una lega di sceikh delle castella e villaggi, come sembra dalla epistola che Innocenzo loro indirizzò poco appresso. Il territorio occupato prendea gran parte delle odierne province di Palermo, Trapani e Girgenti.
Marcualdo, cacciato dalla Marca d’Ancona, incalzato tuttavia in Puglia dalle armi e dalle pratiche del papa, ribenedetto e nuovamente scomunicato con tanto maggior furore, prese l’audace partito di passare in Sicilia per impadronirsi della capitale e del re. Aiutato di navi e genti dai Pisani, ei s’imbarcò in Salerno; pose a terra a Trapani,[497] in su lo scorcio d’ottobre del centonovantanove. Sperava di certo ne’ Musulmani e nella perturbazione del paese; ma in quelle prime scene della tragedia, i comuni e la più parte dei feudatarii, non che i reggenti, abborrirono dal satellite d’Arrigo VI. Come prima si seppe ch’egli era arrivato, i ministri reggenti chiesero aiuti al papa.
E Innocenzo immantinenti (20 novembre 1199) a suscitare i conti, baroni, cittadini e gli abitatori tutti della Sicilia contro questo nemico di Dio, della Chiesa e del re; questo ribaldo che adesca i Saraceni, dando lor a bere sangue cristiano e abbandonando a lor voglie le rapite donne cristiane: donde il sommo pastore concede indulgenze di crociata a chiunque prenda le armi contro Marcualdo; sendo certo che, s’egli coi Saraceni arrivi a insignorirsi della Sicilia, sarà chiusa la via di Terrasanta.[498] Pochi giorni appresso il papa accarezza quegli stessi infedeli contro i quali ha bandita la croce: ei scrive “a tutti i Saraceni di Sicilia, con augurio di serbarsi fedeli alla Chiesa ed al re.” Loda la inconcussa lealtà di lor gente; dice, romaneggiando, esser nota a chiunque “la mansuetudine della Sede apostolica, usa a resistere a’ superbi e favorire gli umili e i soggetti;” s’allarga su la tirannide e perfidia di Marcualdo; avverte i Saraceni che un giorno costui li tradirà a fine di riscattarsi col sangue loro, quando tutta la Cristianità armata piomberà in Sicilia, pria d’andare al riscatto del Santo Sepolcro. Li esorta dunque il papa a star saldi sotto il principato, loro antico sostegno; mentre il Legato e i capitani della Chiesa portano contro Marcualdo le armi temporali, con espresso comando di astenersi da tutta offesa contro i Saraceni e di proteggerli, all’incontro, e contentarli di nuove franchige.[499] Ognun vede da coteste parole che il papa sperava ancora di spiccare da Marcualdo i Musulmani, non chiaritisi punto ribelli. E chi ha in pratica l’eloquenza ecclesiastica di tutti i tempi, capirà bene che que’ Saraceni propiziati, com’avea testè scritto il papa ai Siciliani, con vittime cristiane d’ambo i sessi, non erano il grosso della nazione, ma qualche mano di servi della gleba fuggitivi, corsi all’odor della preda e mandati da Marcualdo a dare il guasto ai paesi che non voleano riconoscere l’autorità sua.
Se non che a poco a poco la più parte degli abitatori del val di Mazara, Musulmani e Cristiani, seguirono Marcualdo; ond’egli, nella state del milledugento, avea accozzate tante forze da muover sopra la capitale. I reggenti, munitala come potean meglio, recarono Federigo per maggiore sicurezza, in Messina. Il papa mandò loro un po di danari, un Jacopo suo congiunto, maresciallo della Chiesa, alla testa di dugento cavalli, un cardinale legato e i due arcivescovi di Taranto e di Napoli, l’ultimo de’ quali conducea genti e navi. Accozzatevi in Messina le milizie siciliane, l’esercito mosse alla volta di Palermo, parte per terra e parte su le navi.
Con buono augurio giunsero gli uni e gli altri alla stessa ora, il diciassette luglio, quando la città, assediata per venti giorni, cominciava a patire penuria. Alloggiò l’esercito negli orti regii detti Genuardo:[500] ed apprestavasi a combattere la dimane; quando Marcualdo mandò un Ranieri di Manente, pisano, a trattare accordo o piuttosto a spiare e menare per le lunghe, tanto che gli assedianti raccogliessero nuove forze e che gli assediati consumassero quel po’ di danaro e di vittuaglie che rimanea loro. Così argomentava Anselmo arcivescovo di Napoli, caldo partigiano d’Innocenzo e narratore del fatto; il quale aggiugne ch’egli stesso e gli arcivescovi di Morreale e di Taranto s’opposero all’accordo e ch’eran quasi sopraffatti da’ fautori, il cancelliere, cioè, l’arcivescovo di Messina e il vescovo di Cefalù, quando un Bartolommeo, segretario d’Innocenzo, troncò i dubbii leggendo un breve che proibiva assolutamente di patteggiare con Marcualdo. Rincalzavano i soldati e il popolo, gridando morte allo scomunicato. Talchè dopo quattro giorni perduti, si venne alle mani, il ventuno luglio del milledugento.
Marcualdo era sceso in pianura per la valle dell’Oreto, il cui asse, prolungato a monte fino al pendio che guarda il mare Affricano, riesce a Giato ed alle altre fortezze de’ Musulmani ch’erano manifestamente la base della guerra. Aveva egli occupate a sinistra, con cinquecento Pisani e grandissimo numero di Saraceni, le alture di Morreale e posti gli alloggiamenti, com’e’ pare, tra i due luoghi chiamati in oggi la Rocca e il Ponte della Grazia, cioè tra il piè del monte e la sponda del fiume. L’esercito regio gli s’attelò di faccia, capitanando la destra il conte Gentile, fratello del cancelliere, coi fanti; la sinistra il maresciallo pontificio coi cavalli: il quale afforzavasi in un castello, che io credo la Cuba e stava a riscontro di Marcualdo. S’appiccò la zuffa alle nove del mattino, quando Gentile, Malgerio ed altri nobili salirono l’erta di Morreale, occuparono la terra, tagliarono a pezzi i Musulmani, uccisero, tra gli altri, Magded condottiero di quelli e di tutta l’ala sinistra;[501] campando appena, con un pugno d’uomini, Benedetto capitano de’ Pisani. Nel piano intanto Marcualdo co’ cavalli tedeschi e saraceni avea respinto per ben due volte gli assalti; ma al terzo scontro, il maresciallo si fece innanzi co’ suoi, sì che tutta l’ala sinistra de’ regii caricò il nemico, lo sbaragliò, irruppe nel campo: ch’eran le tre dopo mezzogiorno. Marcualdo fuggì; Ranieri, pisano, fu preso con molti altri uomini di nota; si sparpagliarono i vinti fuggendo pei monti e per le valli. Grande la strage; grandissima la preda; chè non bastò il rimanente della giornata a riportare in città tante ricchezze, tra le quali fu preso uno scrigno che conteneva proprio il testamento di Arrigo VI.[502]
La quale vittoria giovò poco, perchè il cancelliere, sempre più sospettando del papa, tagliò i passi al maresciallo e al legato, sì che frustati si tornarono a Roma; ed egli, arbitro del governo in Sicilia, ruppe una seconda fiata Marcualdo a Randazzo;[503] ma poi s’accordò con lui, per far contrappeso a Brienne: e per lo stesso motivo, credo io, tutta la Sicilia,[504] fuorchè Palermo e Messina, parteggiò pel condottiero ghibellino. Continuò infino all’emancipazione di Federigo quella tenzone tra il pastor della Chiesa universale e il vescovo di Troja, il quale alla fine fu sgarato dal possente avversario, o piuttosto l’uno prevalse in Terraferma, l’altro nell’isola; onde avvenne che non potendo conseguire intero, nè l’uno nè l’altro, il proprio intento, s’accordarono entrambi a favor del pupillo; secondati anco dalla fortuna che fe’ morire immaturamente i loro campioni, Brienne e Marcualdo. Tralasciando i particolari che son brutti, noiosi e intralciati, noi toccheremo soltanto la condizione in cui rimase Federigo, e diremo più largamente dei Musulmani.
Il re fanciullo fu ricondotto dopo la sconfitta di Marcualdo in Palermo;[505] dove presero cura di lui amorevolmente i cittadini e in particolare i canonici della cattedrale i quali par abbiano avuto molto seguito nel paese. Ebber Federigo in custodia successivamente il cancelliere, il conte Gentile suo fratello, Marcualdo, Guglielmo Capparrone condottiero tedesco, Diopoldo uom della stessa nazione, famigerato in tutta la guerra civile, e poi nuovamente il cancelliere; il quale, assentendo il papa, emancipò il giovanetto a quattordici anni e l’ammogliò con Costanza, sorella di Pietro II re di Aragona, vedova di Emmerico re d’Ungheria. Così dall’agosto del milledugento a’ primi di gennaio dugento otto, si educava alla scuola dell’avversità il re filosofo del decimoterzo secolo; chiuso nella città e forse nell’ambito della reggia e de’ giardini reali, per maggiore sicurezza della sua persona o gelosia di coloro che comandavano. Quand’egli uscì all’aperto, menato per mano dalla moglie, trovò usurpato, scompigliato, dissipato il reame. Nulla diremo della Terraferma, dove il papa mal potea domare l’anarchia feudale e pur usurpava egli stesso alcuni diritti del re e concedea feudi al proprio fratello e ad altri suoi congiunti. In Sicilia era distratta la più parte del demanio regio, tra usurpazioni e concessioni fatte da’ reggenti per abuso o necessità; Siracusa inoltre e parte della provincia teneasi da’ Genovesi, a’ quali la reggenza avea compiute finalmente le promesse di Arrigo VI sperando aver da loro qualche aiuto contro Pisa. Serbò fede il popolo e il clero delle altre città primarie, Palermo, Messina, Catania, Caltagirone, Nicosia, come Federigo stesso riconobbe con le parole e con le opere:[506] le quali città se valsero a difenderlo e fornire le spese della corte quand’egli fu emancipato, i loro fanti non bastavano a ridurre all’obbedienza il rimanente dell’isola. Donde la regina fu costretta a far venire il conte di Provenza, congiunto suo, con cinquecento cavalli assoldati, i quali condussero Federigo da Palermo a Catania e Messina (1209) e l’aiutarono tanto o quanto a farsi riconoscere da’ feudatarii ed a riscuotere un po’ di danaro; ma una epidemia decimò cotesti ausiliarii e la povertà della corte non permesse di rifornirli.[507] Molto meno poteva il re con forze sì scarse reprimere i Musulmani, che fin dal milledugentotto s’erano chiariti ribelli.
Il movimento de’ Musulmani a pro di Marcualdo (1200) non ebbe taccia di ribellione, poichè la più parte dell’isola riconoscea reggente il gran Siniscalco a preferenza del papa e del cancelliere. Quando il cancelliere poi s’acconciò con Marcualdo e questi entrò nella reggia di Palermo, i Musulmani andavan chiamati fedeli a tutta prova; nè smentironsi nelle vicende successive della corte. Il papa stesso, sapendoli forti e leali, avea data licenza al cancelliere, nell’ottobre, com’e’ pare, del milledugento, di far accordo con essi, mentre lo vietava con Marcualdo.[508] Qualche anno appresso Innocenzo li tenea sudditi incolpabili, poichè ficcatisi certi monaci di Morreale nelle castella di Giato e Calatrasi, feudi del monastero, ch’erano abitati senza il menomo dubbio da’ Musulmani, il papa scrisse aspre rampogne a que’ ribaldi, rinfacciò loro i patti fermati con Marcualdo, le pratiche fatte col Capparrone contro l’arcivescovo, ma non fece motto della società coi Musulmani, che sarebbe stata pure un bel capo d’accusa.[509] E v’ha più di questo. Nel settembre del milledugentosei, quando Innocenzo credea d’avere ridotto all’obbedienza il cancelliere e i condottieri tedeschi di Sicilia, egli scrivea benignamente «al cadì e a tutti i kâid di Entella, Platani, Giato e Celsi e agli altri kâid e Saraceni tutti della Sicilia, con augurio di comprendere e amare la verità, ch’è Dio stesso.» Dopo questa definizione, più musulmana che cristiana e più filosofica che musulmana, il tollerante pontefice si rallegrava con que’ capi, che la misericordia divina li avesse difesi dalle tentazioni di tante maniere, con che altri avea cerco di trarli fuor dalla via dritta e li avesse mantenuti fedeli al signor loro, il re di Sicilia: e infine li esortava a continuare in quel partito onesto ed anco savio, poichè il re, prossimo alla età del discernimento, avrebbe saputo rimeritarli.[510]
Pur cotesta ammonizione, chiesta al papa, com’egli è evidente, da’ reggitori di Palermo, fa supporre ch’e’ già sapessero malcontenti i Musulmani e si studiassero a prevenire la ribellione loro. Della quale era apparecchiato il motivo. I capi guelfi e ghibellini del regno accordatisi alfine, come abbiam detto, a corte di Palermo, trovavano appunto esaurita, la comoda sorgente de’ beni demaniali, quando facea mestieri di attingervi nuovamente per soddisfare a tutte le cupidigie de’ loro partigiani e degli avversarii, pria dell’emancipazione del re. Ed appunto e’ sembra che gli ultimi territorii rimasi in demanio fossero abitati da Musulmani. Erano abitate di certo da loro le castella e le ville che Guglielmo II e i successori aveano concedute a varii corpi ecclesiastici, come la mensa vescovile di Girgenti, il monastero di Morreale e il clero di Palermo, sì benemerito a corte e sì potente nella capitale. Cotesti beni, tenuti ora da’ Musulmani si dovean rendere, poichè altro non v’era da dare in cambio; cioè a dire che i Musulmani doveano pagare lo scotto della reggenza. Così è bell’e fatto il comento d’un capitoletto delle Geste d’Innocenzo, che senza ciò mal si comprenderebbe. Scrive l’anonimo autore, tra varii avvenimenti da riferire al milledugentotto, che mentre il cancelliere soggiornava col re in Palermo e tentava ogni modo di togliere il palazzo regio al Capparrone, si trattò un accordo tra i costui partigiani e que’ del cancelliere; e che i Saraceni rifuggiti nelle montagne, avendone sentore, non solo si chiarirono ribelli, ma calati giù da’ loro recessi, dettersi a infestare i Cristiani, presero il castello di Corleone e minacciavano di far peggio.[511] Corleone era appunto la maggiore delle terre concedute da Guglielmo II al monastero di Morreale. A chiarir meglio il motivo di questa aperta ribellione, noi troviamo due anni appresso un diploma di Federigo, per lo quale sono rinnovate a favore della chiesa di Palermo larghissime concessioni del tempo di Arrigo o piuttosto di Costanza; e tra gli altri beni sono nominati de’ villaggi musulmani ed anco il tenimento di Platani,[512] dove i Musulmani fecero testa poi per tanti anni, a Federigo salito all’apice della sua possanza.
Federigo, quand’egli uscì di tutela più tosto che di fanciullezza, non pensava al certo di andar a trovare i Musulmani entro i lor monti. Molto meno poteagli venire in capo di racchetare que’ ribelli, stracciando i diplomi pei quali i beni or tenuti da loro erano stati conceduti alle Chiese o a’ baroni della sua corte. Pertanto ei lasciò stare questi, come tanti altri occupatori dei demanii dello Stato o de’ feudatarii, in Terraferma e nell’isola. E la ribellione dei Saraceni, durava ancora, anzi facean essi uno Stato dentro lo Stato, quando Ottone, eletto imperatore, venuto a Roma a prender la corona, si volse al conquisto del regno, favorito al par da’ Guelfi e da’ Ghibellini. Per procaccio allor de’ Pisani e di Diopoldo che si chiarì per lui, Ottone, occupate ch’egli ebbe Napoli e Aversa (1210), appiccò pratiche in Sicilia: onde corse la voce ch’ei fosse stato invitato da’ Musulmani e da alcuni feudatarii dell’isola a passar quivi con l’esercito, al quale si prometteano validi aiuti per cacciar Federigo.[513] Perfin si disse che questi, sentendosi in pericolo, tenea bella e pronta sotto la reggia una galea per fuggire in Affrica.[514]
CAPITOLO VIII.
Ma Federigo prese via più sicura assai che la fuga. Il papa cercava un anti-imperatore ghibellino per abbattere l’imperatore guelfo, sua propria fattura: avea pertanto scomunicato Ottone; sciolti i sudditi dal giuramento; disseppellita la elezione del figliuolo d’Arrigo VI; accesa la guerra civile in Germania; e procacciata in un’adunanza a Nuremberg la deposizione dell’uno e la elezione dell’altro, ch’indi fu detto da’ Guelfi “il re de’ preti” e talora “il ragazzo di Puglia.”[515] Questo animoso giovane di diciotto anni, fastidito di regnar senza governare nell’anarchia dell’Italia meridionale, gittossi a capo chino nella rivoluzione di Germania. Chiamato in fretta dagli elettori, diede a Innocenzo tutte le guarentigie di sommissione ch’ei richiedeva; e lasciati in Sicilia la moglie e il figliuolo Arrigo, navigò di Messina a Gaeta (marzo 1212); trovò il papa a Roma; andò per mare a Genova; e cavalcando per Pavia, Cremona e Trento, arrivò a Basilea (26 settembre), scansate a mala pena le poste de’ Guelfi. Ottone, ritornando addietro, lo inseguì invano. La guerra ingrossò, per la lega d’Ottone con l’Inghilterra e con altri nemici e ribelli della Francia; onde Filippo Augusto si fece tanto più volentieri paladino del papa. Ottone, vinto dal valor francese alla battaglia di Bouvines (27 luglio 1214), abbandonato da tutti, morì a capo di pochi anni (1218). E Federigo necessariamente gli sottentrò nella tenzone contro il papato; al quale era mancato in quel tempo Innocenzo (1216), ma avea lasciati dietro di sè funesti esempi d’ambizione e di violenza.
Dopo otto anni, Federigo, composte le cose in Germania, ritornò in Italia: incoronato imperatore in Roma (22 novembre 1220), calò nel regno a ristorare l’autorità ch’era tanto cascata abbasso in quegli ultimi trent’anni. Al quale effetto, in Terraferma ei convocò parlamenti, promulgò rigorose leggi, sforzò con le armi i baroni ricalcitranti. Passato nell’isola, gli bastò la riputazione a ridurre i Cristiani. Ma i Musulmani gli detter travaglio.
Perchè tra loro e i Cristiani tutti insieme, governanti e governati, baroni e clero e cittadinanza, era divenuto impossibile ogni accordo. Non esacerbava gli animi qui, come avvenne poi in Spagna, l’intolleranza religiosa del principe, nè del popolo: anco a considerare il clero solo, e’ ci sembra più cupido che fanatico fin dal regno di Guglielmo II;[516] anzi abbiam visto che Innocenzo, nel cento novantotto, tentò invano d’aizzare i Siciliani alla caccia degli Infedeli.[517] Ma del sangue se n’era sparso, della roba depredata e distrutta d’ambo le parti: e il maggior ostacolo era la condizione sociale de’ Musulmani e la condizione politica de’ Cristiani. Vivendo da più di venti anni nelle terre occupate, o come pensavan essi, rivendicate, del Val di Mazara, i Musulmani non si poteano sottomettere senza accettare la povertà e il servaggio; poichè il principe doveva onninamente restituire beni e villani ai concessionarii, la più parte dignitarii ecclesiastici. I quali essendo i veri partigiani del trono, convenia che Federigo se li tenesse amici nella lotta alla quale ei s’apprestava, contro il papa e i baroni del regno. Veggiamo in fatti che l’imperatore, (luglio 1220) a domanda di Caro arcivescovo di Morreale, confermò la concessione di tutte le città, castella, casali, ville, chiese, possessioni, villani e diritti di quella Chiesa, i quali nel turbamento erano stati occupati, e tuttavia si tenevano illecitamente, da Saraceni o da Cristiani.[518] A comprender meglio l’importanza della cosa, notisi che cotesto diploma fu replicato dopo otto mesi a Brindisi (marzo 1221) e fuvvi aggiunto che gli affidati e i villani allontanatisi dal territorio, ritornasservi con tutte le robe; e s’e’ fossero morti, si prendessero i beni de’ figli.[519] Per somigliante concessione erano stati donati all’Ordine teutonico, nel dugento diciannove, il casale di Miserella, i villani di Polizzi dovunque e’ si trovassero, il podere di Artilgidia presso Palermo ed altri possedimenti e diritti in varii luoghi.[520] Occorrendo nel medesimo tempo di pagare debiti vecchi o nuovi, Federigo dava de’ casali, abitati, com’e’ sembra, da Musulmani; dei quali atti, due soli ci sono pervenuti: la concessione di Scopello alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio in Palermo, per prezzo del vasellame d’oro e di argento, preso all’uopo della guerra;[521] e la donazione di Mussaro e Minzaro al vescovo di Girgenti, in compenso di settemila tarì d’oro forniti un tempo alla corte.[522]
Nè Federigo dovea tanto assicurare il possedimento de’ concessionarii, quanto difender mezza l’isola dalle scorrerie di gente ormai straniera. Minacciati, i Musulmani aveano risposto come li portava lor indole fiera e rapace. Oltre i fatti raccontati poc’anzi,[523] sappiamo che il milledugentodiciannove “i nemici della Croce” avean già dato il guasto allo Spedale di San Giovanni de’ Leprosi, proprio alle porte di Palermo.[524] Ritraggiamo ancora che Orso vescovo di Girgenti, fu preso da’ Saraceni e tenuto prigione per quattordici mesi nella rôcca di Guastanella, dalla quale ei si riscattò per danaro; e che intanto i beni del vescovato erano occupati, impedito l’esercizio dei diritti, e stanziavano i Saraceni nel campanile della cattedrale e nella casa attigua, sì che i Fedeli non osavan pur andare in chiesa a far battezzare i figliuoli: il qual fatto si dice avvenuto a’ tempi di Federigo imperatore e torna al dugentoventuno.[525] Nella Sicilia occidentale le scorrerie, o almeno i pericoli, arrivavano dall’uno all’altro mare, da Girgenti a Cefalù: essendo stato provato non guari appresso, dinanzi a commissarii papali, che il fisco levò danaro in Cefalù e in Pollina, dominii del vescovo, per difenderli contro i Saraceni; e che mandò presidio nella rôcca di Cefalù, non meno per diritto di regalìa, che per assicurar la città, situata nella Marca de’ Saraceni.[526]
La quale denominazione, transitoria com’e’ pare e pervenuta a noi in questo luogo solo, non può significare altro che contrada di popolazione mescolata, esposta agli assalti, sì per la vicinanza alle sedi dei ribelli, e sì per la frequenza de’ villani musulmani in varie terre.[527] La Marca dunque tornava, su per giù, alle odierne province di Palermo, Trapani e Girgenti; al val di Mazara del secolo scorso; alla Sicilia di là dal Salso del periodo svevo; alla provincia lilibetana de Romani. E par che quella divisione in due province partite dal Salso, sia stata principalmente consigliata a Federigo dalla diversità degli ordini sociali e dei costumi. Da’ fatti che precedono e da que’ che seguono, parmi che i Musulmani occupassero sempre il centro montuoso di codesta regione, dove s’erano afforzati all’entrare del secolo; se non che or li veggiamo ingrossare alle foci del Drago e del Platani, sia per novello movimento loro, sia perchè i bricioli di lor memorie che il caso ci ha serbati, si riferiscono a questo periodo ed a questi luoghi.
In vece de’ centomila Saraceni di Ruggiero De Hoveden,[528] abbiam ora i ventimila combattenti di Lucera, secondo Giovanni Villani,[529] e più autorevole attestato, quel di Riccardo da San Germano, cioè che diecimila soldati Saraceni moveano di Lucera a’ comandi dell’imperatore il milledugentrentasette,[530] quando non erano stati per anco deportati tutti i Musulmani di Sicilia. Possiamo dunque supporre in quella sola terra di Puglia, atteso le circostanze peculiari, un cinquanta o sessanta migliaia di coloni. Ed altrettanti, per lo meno, è da credere siano rimasti nell’isola, senza contare gli artigiani e i servi delle città, dei quali abbiam qualche ricordo, nè i villani che l’interesse o la carità dei padroni ritenne, com’egli è probabile, nelle campagne. Del resto verosimil sembra che il numero de’ ribelli variasse da stagione a stagione, per causa de’ villani che dalle parti centrali e dalle orientali dell’isola corressero alla montagna del val di Mazara, o al contrario fuggissero dalle bandiere de’ ribelli, per andare a vivere tranquilli.[531] Si può supporre, secondo me, nel periodo culminante della rivoluzione, un venticinque o trenta migliaia di combattenti musulmani.
Le consuetudini immobili di quei popoli e i cenni che veggiamo nelle memorie contemporanee,[532] ne fanno certi che i ribelli si ressero, anche in questo movimento, per Kaid e Sceikhi. Ebber essi un capo militare famigerato, morto nel primo anno della guerra, il cui nome si legge in una cronica Benavert, per falsa correzione, cred’io, del copista che si ricordava troppo d’aver letti i casi dell’ultimo signore musulmano di Siracusa.[533] Le copie di Riccardo da San Germano, scrittore di tanta autorità, hanno Mirabetto; la qual voce parmi guasta dalle bocche de’ Cristiani che la ripeteano: e andrebbe corretta Morabit o, diremmo noi, frate guerriero, Marabutto, Almoravida.[534] Possiamo anco supporre chiamato con tal denominazione un uomo il cui casato, aggiunto ad un titolo notissimo, suonava Emir-Ibn-’Abs, e indi Mir-’Abs. Ibn-Khaldûn racconta, nella storia degli Hafsiti di Tunis, che morto il sultano Abu-Zakaria-Jehia, (2 ottobre 1249) i Cristiani di Palermo dettero addosso a’ Musulmani, in favor de’ quali egli avea stipulato col signore dell’isola la sicurtà delle persone e de’ beni urbani e rurali; che i Musulmani, rifuggitisi nelle fortezze e nelle rupi, presero per capo un fuoruscito della schiatta de’ Beni-’Abs e resistettero al tiranno cristiano; che assediati, circondati e costretti ad arrendersi, furono tramutati a Lugêrah, popolosa terra d’Italia; e che indi il tiranno andò a Malta, caccionne i Musulmani, mandolli insieme con quegli altri, e impadronitosi di tutte le isole adiacenti, cancellò il nome musulmano in Sicilia.[535] L’identità del qual fatto è evidente, al par che l’anacronismo di mezzo secolo nel principio della ribellione, e al par che l’errore su la causa di quella; le quali mende, del resto, non debbono rimandare dubbio sul nome del condottiero. La possente tribù arabica, di ’Abs, dalla quale nacque Antar, il famoso poeta classico ed eroe da romanzo, sembra stanziata, fin dai primi tempi del conquisto musulmano dell’Affrica, nella penisola di Scerîk, detta oggi Dakhel, la quale termina col capo Bon, di faccia al Lilibeo.[536] Verosimil’è che i Beni-’Abs siano venuti in Sicilia coi conquistatori; oppure che, rimanendo la tribù nel Dakhel, un uomo facinoroso di quella, forse un pirata, si fosse gittato in Sicilia al rumor della guerra; poichè il predicato che gli dà Ibn-Khaldûn torna qui a masnadiere, facinoroso, o ribelle.[537]
Federigo passò nell’isola, di maggio del ventuno; tenne un parlamento a Messina;[538] fece il giro delle città principali fino allo scorcio dell anno;[539] ed attese di certo a preparare gli animi e le cose alla guerra, con provvedimenti di maggiore rilievo che non ne veggiamo nelle cronache e ne’ diplomi.[540] Talchè, sperando facile vittoria o dicendolo, egli andò a trovare (febbraio 1222) Onorio III a Veroli; gli promesse di bandire quanto prima la Croce a Verona; e ritornato nel regno, messosi a strignere il ribelle conte di Celano, fu necessitato a lasciar quello e sopraccorrere in Sicilia contro Mirabetto, che infestava fieramente il paese.[541] Io penso che il caso fosse di maggiore momento che nol dicano i cronisti; poichè Federigo avea fin dall’anno innanzi offesi gravemente i Genovesi, a’ quali non mancava nè l’animo nè il modo di vendicarsi: e in fatti veggiamo avvolto in questa ribellione un de’ più valorosi marinai di lor gente.
I luoghi, i tempi, le fazioni della guerra capitanata da Federigo, sono pressochè ignoti: sappiamo soltanto che l’imperatore, dalla metà di luglio fin oltre la metà di agosto, stette all’assedio di Giato;[542] che quivi o in altro luogo ei prese Mirabetto e due suoi figliuoli, con Guglielmo Porco da Genova, poc’anzi capitano d’armata in Sicilia, ed Ugo Fer da Marsiglia, il quale avea, molti anni prima accalappiati a migliaia de’ fanciulli francesi e tedeschi, col pretesto di recarli alla Crociata, ma li avea venduti schiavi in Affrica e in Egitto, e dopo lunghe vicende s’era gittato, insieme col genovese, in Sicilia. Federigo fece impiccare in Palermo Mirabetto e compagni; ma con ciò non pose fine alla guerra.[543]
A ripigliarla con maggiori forze, ripassava l’imperatore in Puglia, spegneavi altre faville di ribellione feudale, muniva le città e le castella e nella state del ventitrè,[544] veniva in Sicilia, per incalzare da presso i ribelli Musulmani. Leggiamo senz’altro che parte gli s’arresero; i quali ei fece trasportare a Lucera; parte, fidandosi nella fortezza de’ luoghi, tennero fermo.[545] Argomentiamo da due documenti che i primi fossero abitatori dell’odierna provincia di Girgenti;[546] e sappiamo che si arresero all’entrar della state, poichè Federigo, in una lettera scritta allora a Corrado vescovo di Hildesheim, si rallegrava che ogni cosa accadesse secondo i suoi voti, “chè perfino egli avea fatti scendere alla pianura tutti i Saraceni afforzatisi pria ne’ gioghi de’ monti e in altri luoghi inespugnabili.[547] ” Le quali parole, riscontrate con quelle che l’imperatore scriveva un anno appresso a papa Onorio, ci mostrano che smessi i combattimenti e gli assedii, ei s’era appigliato al disegno, lento sì ma sicuro, di stringere i Musulmani con la fame, guastando le ricolte loro ne’ monti e intercettando ogni altra vittuaglia. Così avea dunque costretti alla resa i deportati di Lucera; così sperava trionfare degli altri: e, sendo necessaria a quella maniera di guerra molta gente e ben disciplinata, l’imperatore, come si ritrae da Riccardo di San Germano, lo stesso anno ventitrè e i due seguenti, chiamò i baroni al servizio militare e levò danaro per assoldare stanziali.[548] La guerra de’ Saraceni era cagione e talvolta anco pretesto; come sembra nel caso de’ quattro conti di Terraferma, i quali, venuti in Sicilia a prestare il servigio feudale (1223), furon presi e confiscati loro i beni.[549] Similmente l’epistola di Federigo ad Onorio, alla quale abbiamo testè accennato, ricorda un fatto vero: e pur non sarebbe calunnia ad affermare che l’imperatore l’usò per differire la crociata, alla quale Onorio lo sforzava con animo di tagliargli i passi in Lombardia. Scrisse Federigo, dunque, al papa da Catania, il cinque marzo del ventiquattro, che allestiansi ne’ porti del reame, da poter salpare nella prossima state, cento galee, cinquanta uscieri pe’ cavalli, e navi e legni senza fine e ch’egli stava già per partire alla volta di Germania a fin di chiamare alle armi i Crociati, quand’ecco il capitan generale dell’esercito che osteggiava i Saraceni, gli avea menati in Catania i Kaid e gli Anziani, i quali a nome di tutti i Saraceni della montagna, venivano a trattare di sottomissione. Federigo continuò che, convocato il consiglio di Stato, era parso a tutti non doversi il principe allontanare in quell’incontro, per timore che i ribelli si pentissero e che, prolungata la negoziazione, arrivassero a segare i grani, e addio pace per quell’anno! Conchiuse pertanto l’imperatore ch’ei rimarrebbe in Sicilia tanto che ultimasse l’accordo; che manderebbe Hermann, gran maestro de’ cavalieri teutonici, a bandir la Croce di là dei monti e che nella state, a Dio piacendo, ogni cosa sarebbe in punto ed ei scioglierebbe il voto della Crociata.[550] Il fatto andò allora per le bocche di tutti in Germania, leggendosi con poco divario negli annali di Colonia; i quali aggiungono essere stata profferta la sottomissione da’ Saraceni del monte Platano;[551] ma non sappiamo se s’abbia a intendere del forte castello di tal nome che sorgea sulla sponda del Platani a sette miglia dalla foce, o se piuttosto si volea significare tutta la regione montuosa, bagnata da quel fiume.[552] Il fatto fu che nè Federigo partì allora per Terrasanta, nè i Musulmani furono altrimenti sottomessi o rappacificati in Sicilia. La sola impresa del dugentoventiquattro par sia stata di cacciarli di Malta, tutti o parte; poichè, oltre il cenno d’Ibn-Khaldûn, ritraggiamo che Federigo mandava in quell’isola gli abitatori di Celano di Puglia, espulsi di lor terra quando l’avean presa le forze del re, e poi richiamati in patria, per coglierli alla rete e tramutarli in Sicilia.[553] Il bando de’ Musulmani da Malta sembra tanto più verosimile, quanto in quel tempo le genti di Federigo avean dato il guasto all’isola delle Gerbe e fattavi gran copia di schiavi.[554] L’occupazione delle isolette adiacenti alla Sicilia, attestata da autori arabi e da latini, è da riferire al medesimo tempo.[555] Coteste imprese marittime, compiute in una o due stagioni, sembrano le prime prove dell’ammiraglio, forse genovese, sostituito ad Arrigo conte di Malta, il quale era stato deposto e privato del feudo, per l’oscitanza appostagli nella guerra contro i Musulmani d’Egitto, o, com’altri scrisse, di Sicilia;[556] se pur Federigo non colse il destro di liberarsi dal fiero marinaio, la cui prepotenza e ambizione egli avea temuta di certo nei primi anni del suo regno ed or gli dava sospetto la vecchia amistà di lui co’ Genovesi, o faceva ombra a’ Pisani parteggianti per l’impero.[557]
Secondo Riccardo da San Germano, Federigo nel dugentoventicinque chiamava alle armi tutti i baroni regnicoli, per dar l’ultimo crollo a’ Saraceni di Sicilia, e andava egli stesso in Puglia a ragunare l’esercito;[558] secondo un monaco tedesco, assiduo raccoglitor di nuove, ei riportò nobile trionfo de’ Saraceni che tenean le montagne di Sicilia:[559] un anonimo poi, che par sia vissuto in Sicilia ed abbia scritto poco oltre la metà del decimoterzo secolo, mette insieme que’ due fatti quasi con le stesse parole, nella decimaterza indizione, da riferirsi, com’io credo, al dugentoventicinque, ed aggiugne che le genti dell’imperatore davano il guasto ogni anno alle terre dei Saraceni, ond’essi furono costretti con gran vergogna a scendere di lor monti e Federigo li fe’ dimorare ne’ casali della pianura.[560] Poi per diciott’anni nè gli scrittori, nè i documenti fanno parola di popolazioni musulmane ribelli: danno bensì notizie di singoli musulmani ubbidienti nell’isola e de’ grossi stuoli che la colonia di Lucera forniva agli eserciti ghibellini tra il Garigliano e le Alpi. Si può inferir da cotesti indizii che, l’anno venticinque, quel grande armamento abbia portato l’effetto che l’imperatore si proponeva; cioè che i ribelli abbiano piegato il collo senza combattere. Plausibile anco il supposto che que’ della provincia di Girgenti fossero stati mandati in Terraferma come i vinti di due anni innanzi;[561] e che que’ delle altre due province fossero stati lasciati nel possedimento di terre o nell’esercizio d’industrie, dati pria gli ostaggi secondo i costumi di lor gente. Certo egli è che i Musulmani di Sicilia non molestaron punto nè poco lo imperatore, infino al dugentoquarantadue, mentr’ei si travagliò nelle guerre di Palestina, del Regno, di Lombardia e della Sicilia orientale.
Nelle prime caldezze della esaltazione all’impero, Federigo fe’ voto di prender la Croce;[562] lo rinnovò il giorno dell’incoronamento e più volte giurò o promesse d’andare, sforzato da’ papi; i quali non sognavano forse la ricuperazione del Santo Sepolcro, ma lor premea che l’imperatore, in vece di signoreggiare l’Italia, ne toccasse in Levante come Corrado, o vi morisse come il Barbarossa. Il cui nipote, non potendo disfare il cappio ch’ei s’era messo al collo, domandò respitto al papa che il tirava duro; ed allegò sovente la guerra de’ Saraceni di Sicilia.[563] Furbo contro furbi, ei passò tutto l’anno ventiquattro e i primi mesi del seguente in Sicilia, fermo la più parte in Catania,[564] come s’egli avesse voluto stare in bilico tra la Crociata e la guerra de’ Musulmani indigeni, guardando da un lato Otranto e Brindisi, ritrovo delle armate e degli eserciti crocesegnati, e dall’altro la via di Girgenti, più sicura di lì che da Palermo e più facile e breve che da Messina. Privo alfine della scusa de’ Saraceni, incalzato dal violento Gregorio IX, s’imbarcò a Brindisi, nonostante la morìa che mieteva i Crociati (8 settembre 1227); tornò a terra infermo; fu scomunicato dal papa e assalito anche con la spada; e partì di nuovo (28 giugno 1228) con poche forze, fidandosi nella divisione de’ principi aiubiti che occupavano la Siria e nelle negoziazioni intavolate col più possente tra loro. L’ira studiata di Gregorio lo perseguitò mentr’egli liberava il Santo Sepolcro; i Cristiani di quelle parti pretestarono le scomuniche per attraversargli l’esaltazione al trono di Gerusalemme, recatogli in dote dalla nuova sua sposa: contuttociò, savio ed ardito, ei condusse a termine il trattato, come sarà detto nel capitolo seguente.
Ritornò Federigo in Italia dopo undici mesi, a cacciare i papalini da’ suoi dominii e gastigare i sudditi che s’eran gittati dalla parte loro. Sforzò il papa a giurar la pace e s’avvolse nelle guerre della seconda Lega Lombarda, nelle persecuzioni de’ Paterini d’Italia e di Germania: la maledizione del falso impero romano, trascinava quest’uom sì civile a combattere ciecamente contro la libertà e ad accendere i roghi dell’Inquisizione. Gli umori di libertà municipale, ridesti in Sicilia tra le popolazioni greche e un po’ tra le lombarde, per gli esempii guelfi di Terraferma, per le istigazioni dei frati e, come io credo, anche de’ Genovesi, portarono i moti che Federigo represse co’ supplizii a Messina,[565] Siracusa[566] e Nicosia; e ch’ei punì a Centorbi, Capizzi, Traina e Montalbano con la distruzione delle case e il bando dei cittadini, sforzati a dimorare in altre città.[567] Ma cedendo un poco all’opinione pubblica, Federigo nello stesso tempo rese ordinarie le tornate de’ parlamenti regionali e chiamovvi espressamente i Comuni.[568]
Rinforzaronlo nelle guerre di Terraferma le colonie di Musulmani siciliani, stanziate dapprima a Lucera, come si è detto; ma poi ne veggiamo un’altra a Girofalco ed anco ritraggiamo che l’imperatore adoperasse spicciolati gli uomini di quella gente, in Puglia e in Calabria a’ servigi suoi:[569] de’ quali il più profittevol era di tenere a mezzeria delle mandrie di buoi, tra domi e salvatici.[570] Pur traeva i Musulmani sì forte l’amor del luogo natìo, che quando n’aveano il destro, tentavano di ripassare clandestinamente in Sicilia:[571] onde Federigo comandò nel trentanove fosser tutti raccolti a Lucera.[572] E quivi rimase infino al milletrecentotrè, quella celebre colonia militare; quivi si notano tuttavia gli avanzi delle fortificazioni, con le quali i principi svevi assicurarono il soggiorno de’ lor fidi pretoriani.[573] Che se negli scritti contemporanei il nome geografico si legge spesse volte Nocera, l’è stato errore ed è nato dall’uso, che suol sempre sostituire le parole comunali alle insolite; onde si preferì il derivato d’un vocabolo familiare al nome d’un’antica città, la quale era molto scaduta ne’ principii del secolo decimoterzo. Si confermò l’errore per due circostanze fortuite, cioè che Nocera s’addimandava De’ Pagani ed anco, per antitesi, De’ Cristiani e Lucera fu detta de’ Saraceni; e che entrambe erano da lunghissimo tempo sedi vescovili. Del resto quelle due città giacciono molto lungi l’una dall’altra, divise dall’Appennino: Lucera in Capitanata, Nocera in Principato, o, per usare i nomi odierni, quella in provincia di Foggia, questa di Salerno; nè alcun documento prova, nè egli è verosimile, che Federigo abbia raccolta una seconda colonia di Musulmani in Nocera, come alcuni compilatori hanno scritto e come si dice anch’oggi in que’ paesi.[574]
Gli ordinamenti di cotesta colonia e la fama ch’essa ebbe in guerra per tutto il rimanente della dominazione sveva e nei primordii dell’angioina, son degno argomento d’una storia particolare; per la quale anzi tutto occorre di esaminare di pagina in pagina i registri angioini e le molte pergamene contemporanee che serbansi nell’archivio di Napoli. Secondo il proposito annunziato parecchi anni addietro, io mi rimarrò da cotesto lavoro, al quale allor mi mancava il comodo di ricercare le sorgenti, ed ora mi par troppo tardi.[575] Contuttociò, portato dal mio subietto a investigare l’origine di quella popolazione, dico crederla al tutto siciliana. E se or non fosse sospetta da capo a fondo la Cronaca di Matteo Spinelli, io metterei sempre in forse quel luogo nel quale si afferma che del dugentrentaquattro Federigo facea venire in Calabria diciassette compagnie di Saraceni di Barbarìa. Sì grave fatto, taciuto dai contemporanei, e incompatibile con le condizioni dei Musulmani dell’Affrica settentrionale in quella età, sembra foggiato in un tempo in cui gli eruditi, ignorando la storia de’ Musulmani di Sicilia, non sapevano spiegare altrimenti quel gran numero d’Infedeli che conduceva in sue guerre l’imperator Federigo.[576]
Mentre gli esuli di là dal Faro s’acconciavano nella nuova patria, i rimasi in Sicilia erano in parte allontanati da lor sedi. Il volume che ci avanza de’ registri di Federigo, scritto nell’indizione che corse tra il trentanove e il quaranta, ci fa fede che de’ Musulmani erano stati mandati a servire, non sappiam se da soldati o da manovali, ne’ castelli regii di Siracusa e di Lentini,[577] ch’è a dire all’altra estremità dell’isola. Nello stesso anno gli abitatori di parecchi casali, della provincia, credo io, di Palermo, non ribellatisi o perdonati, veniano alla capitale, nel quartiere di Seralcadi, che nel decimo secolo era stato detto degli Schiavoni, ed or s’addimanda parte il Capo e parte la Bandiera. I quali non parendo ben deliberati a farvi stanza come bramava lo imperatore, scrivea questi a’ suoi ufficiali che efficacemente li esortassero a ciò e lor promettessero favore e grazia, ed allo stesso fine mandava lettere regie indirizzate a que’ Saraceni.[578] Un altro rescritto di Federigo, spacciato prima o dopo di questo, ci fa sapere che il Segreto della provincia oltre il Salso, avea con soddisfazione dello imperatore, persuasi i Saraceni a migliorar loro abituri; provvede siano affittate le bajulazioni di cotesti Saraceni; e mostra anco esser lieto l’imperatore che que’ “della provincia, usi ed occulti misfatti, già smettano, e già temano d’essere malvagi.”[579] Non sappiam di che nazione fossero, nel dugenquaranta, gli uomini de’ casali di Arcuraci e Andrani, a’ quali si comandava di passare ne’ nuovi casali fondati a levante e a ponente di Girgenti.[580] Abbiamo bensì valido argomento di credere che nel dugentoquarantadue, il territorio di Cefalà in provincia di Palermo, fosse stato ancora abitato, tutto o parte, da contadini musulmani. Un Goffredo, chierico della Cappella Palatina di Palermo, non sapendo precisamente i limiti di un podere appartenente allo Spedale di San Lorenzo di Cefalà, ch’egli teneva in beneficio dalla Chiesa di Girgenti, domandò al Segreto di Sicilia che fossero determinati da’ magistrati della vicina terra di Vicari, su la testimonianza de’ Buoni uomini e degli Anziani. E il Segreto, per nome Uberto Fallamonaca, fatti appurare que’ confini come gli era stato richiesto, ne spedì un attestato in lingua arabica e latina, ed appose il suo suggello in pie’ della pergamena, aggiugnendo in lingua arabica la formola, “Scritto d’ordine nostro.” Il qual documento non essendo estratto da antichi defetarii compilati in quella lingua, ma bensì atto nuovo, e’ mi sembra manifesto che la spedizione arabica fu fatta ad uso degli abitatori del luogo.[581] Che poi de’ Musulmani vivessero ancora in Val di Mazara la vita di pastori, lo provano i rescritti del novembre del trentanove e del marzo del quaranta, per lo primo dei quali è provveduto alla riscossione del fitto da’ Saraceni che prendano a mezzeria le greggi del demanio[582] e nel secondo si fa menzione di settecento pecore consegnate dal saraceno Gufulone (Khalfûn?), le quali insieme con altre si davano in gabella, per conto della corte.[583]
Despota, mercatante e gran proprietario di terreni rivendicati o confiscati, Federigo, col suo genio novatore e audace, spesso usò quel violento rimedio di tramutare le popolazioni; il quale d’altronde nel decimoterzo secolo riusciva meno difficoltoso e forse men crudele, che non sarebbe nella società moderna, per cagion della proprietà sicura e suddivisa e de’ comodi maggiori ai quali or son avvezzi gli uomini. Ci è occorso testè di ricordare alcuna delle città che l’imperatore distrusse e di quelle ch’ei fondò, portandovi di peso la popolazione delle prime.[584] Io credo inoltre che la ribellione musulmana abbia turbato l’equilibrio della popolazione in un altro modo che nessun ricordo contemporaneo fin qui ci attesta; cioè che fece emigrare in Affrica gli abitatori ricchi o industri delle città. Poichè veggiamo appunto in quel tempo assottigliati due grossi nuclei di borghesi musulmani: Trapani, dove all’entrar del dugenquaranta si distribuivan terre a nuovi abitatori;[585] e Palermo dove nel dicembre del trentanove furono concedute a novelli abitatori alcune terre presso il palagio della Zisa, a fine di piantar vigne. Si scorge dallo stesso diploma che delle casipole erano state abbandonate nel bel mezzo della città; che mancavano gli agricoltori ad una vasta piantagione di palme nel regio podere della Favara, e che non era più in Palermo chi sapesse estrarre lo zucchero. Allora una colonia di Giudei del Garbo, cioè di Spagna o dello Stato di Marocco, dissidenti da’ Giudei di Palermo e sì grossi che volean fabbricare una sinagoga per sè soli, domandarono certi casalini nel Cassaro; ma l’imperatore, per antivenir, com’e’ pare, le querele de’ Cristiani, permesse di conceder loro uno stabile in altro luogo della città e che rifabbricasser pure qualche antica sinagoga, ma non volle ne innalzassero una di pianta. Questo diploma infine ci fa sapere che i Giudei del Garbo, oltre il palmeto della Favara dato loro a mezzerìa, avean ottenuta nello stesso podere la concessione d’altre terre per seminare l’indago e l’henna, non coltivati allora in Sicilia.[586]
Improvvisamente comparisce in una cronica questo cenno: che in luglio della terza indizione, l’anno dugentoquarantatrè, tutti i Saraceni di Sicilia ribellati salirono alle montagne e presero Giato ed Entella,[587] castelli fortissimi per natura e lontani l’un dall’altro una ventina di miglia, de’ quali ci è occorso far parola.[588] Si argomenta dal fatto stesso che le popolazioni musulmane in questo tempo non erano rimaste se non che in piccola parte del Val di Mazara. Ancorchè i cronisti taccian la causa di questa sollevazione, noi sappiamo che, quattro anni innanzi, i pastori saraceni che avean prese in affitto le greggi della Corte, doveano al fisco da lungo tempo, delle grandi somme di danaro. Federigo comandava al Segreto che pigliasse l’aver loro e, non bastando, le persone e li facesse lavorare in servigio della corte, badando sì ad aggravarli di fatiche durissime, affinchè gli altri apprendessero che col re non si scherza, e chi non può soddisfare l’affitto, nol chiegga.[589] Disperati dunque, maltrattati, avvezzi com’essi erano a’ delitti, e risapendo forse le prodezze che faceano i lor fratelli di Lucera sotto le insegne imperiali, si rituffarono nella ribellione o guerra, come dir si voglia, contro tutti i padroni di questo mondo: il qual moto, principiato in un luogo, dovea comunicarsi con prodigiosa rapidità a tutti gli altri, nel sospetto continuo, nell’odio crescente ogni dì, nello stato permanente di violenza in cui viveano ormai Cristiani e Musulmani. Gli iloti siciliani del decimoterzo secolo si riconosceano al viso, a’ panni, al linguaggio, al simbolo della fede, alla miseria: se un branco irrompea, doveano seguirlo tutti gli altri. Quantunque la povertà non sia buon ausiliare in guerra, par che gli ultimi avanzi di quel fiero popolo abbiano resistito più di tre anni alle armi imperiali. Dice la cronica che l’imperatore, nella quinta indizione, anno dugenquarantacinque, mandò con l’esercito il conte Riccardo di Caserta, il quale li cacciò di Sicilia; ma va aggiunto un anno alla data, leggendosi nel quarantasei, verso l’agosto, una sdegnosa epistola di Federigo, per la quale è detto ai ribelli che, s’e’ fosser uomini, non starebbero con quella bestiale fidanza, ad aspettare che lor calasse sul capo la spada della vendetta, e conchiudea che s’e’ non smettessero entro un mese, vedrebbero sì gli effetti di queste minacce.[590] E del novembre, com’e’ par, di quest’anno, l’imperatore scriveva al terribile Ezzelino, esser ormai libero dalle brighe che l’avevano impedito fin qui di soccorrere gli amici: tra le altre, la temerità di cotesti Saraceni, i quali ostinatamente resisteano, afforzati nelle montagne, ed alfine sono scesi a chiedere misericordia.[591] Ciò prova che non furono vinti per battaglia, ma presi per fame. Federigo li fe’ tramutare in Lucera.[592] Manca d’allora in poi ogni notizia di Musulmani in Sicilia: ond’egli è manifesto che se alcuni ve ne rimasero, abbracciarono la religione de’ vincitori e, com’avean fatto tanti altri uomini di lor gente in un secolo e mezzo dal conquisto, si confuser essi nel novello popolo, nel quale già si andavano dileguando le distinzioni di origine.
Come l’Oreste della favola greca, Federigo sembra spinto dal Destino a immolare gli educatori suoi, fossero personificazioni come le municipalità, il baronaggio e il papato, o fossero persone come il Cancelliere Gualtiero De Palear, il conte di Malta e Pietro Della Vigna. E veramente il nipote di Barbarossa, venuto al mondo in Italia, cresciuto tra i nemici naturali del suo nome, dovea sforzarsi a ritor loro quella possanza che pareagli rubata alla sua casa: ond’ei si disfece delle persone quando potè; assalì le personificazioni, volgendo la spada contro gli uomini che le sosteneano, e combattendo le idee ostili con le armi della ragione. Le quali si spuntarono su l’eterna tempra della libertà ond’erano cinti i municipii, e valsero un poco a intaccare il triregno, fabbricato di teocrazia giudaica, dispotismo romano, e barbarie settentrionale. I Musulmani di Sicilia subirono la stessa sorte d’ogni altro maestro del lioncello svevo, non già per sua rabbia, ma perch’ei non ebbe tanta forza che li salvasse da’ nemici loro, com’ei forse bramava e il provò mutando i ribelli in pretoriani. Chè del resto, le consuetudini dell’adolescenza, il genio dell’incivilimento, l’amore degli studi e l’antagonismo filosofico e politico contro Roma, portavano l’imperatore, meglio che niun altro uomo europeo del suo secolo, ad onorarli e favorirli.
CAPITOLO IX.
Il genio dell’incivilimento, l’utilità politica e più assai gli interessi commerciali della Sicilia e i suoi proprii, portarono Federigo a frequenti accordi coi principi musulmani. Abbiano noi accennato ai patti fermati con esso loro dalle nostre repubbliche marittime ed abbiamo descritti quei del conte Ruggiero e del re suo figliuolo coi Ziriti, e di Guglielmo II, col novello impero degli Almohadi.[593] A’ tempi di Federigo, questo era già dimezzato, rimanendogli, a un dipresso, l’attuale Stato di Marocco e parte della Spagna; nè v’ha ricordo allora di ostilità tra quello impero e la Sicilia, nè se ne vede cagione: anzi sembra continuata la pace de’ tempi normanni. Perchè sappiamo che Uberto Fallamonaca che fu de’ primarii magistrati di Federigo in Sicilia[594] andava il dugenquarantuno ambasciatore a Marocco.[595] Alla quale missione, od altra che l’abbia preceduta o seguìta, si accenna nel trattato delle “Tesi siciliane” d’Ibn-Sab’în, leggendovisi che l’imperatore signor della Sicilia, avea mandati per nave apposta, con un suo ambasciatore, al califo almohade i quesiti di logica e metafisica; de’ quali noi diremo nel capitol seguente.
Intanto la decadenza della dinastia almohade avea fatto rinascere lo Stato dell’Affrica propria, più forte sì che al tempo degli Ziriti e chiamato ormai da’ Cristiani il reame di Tunis, perchè gli Almohadi avean fatta capitale della provincia quella città, primaria per popolo e commercio e più aperta alle armi loro che non fosse la malaugurosa fortezza di Mehdia. Seguì allora la necessaria vicenda delle grandi province musulmane. Il terzo califo almohade En-Nâsir, non sapendo come tener la provincia, ne fe’ governatore (1207) un uomo fidatissimo della dinastia: Abu-Mohammed, figliuolo di Abu-Hafs-Omar, ch’era stato sceikh della tribù berbera di Masmuda, primo per valore e consiglio tra i capi della confederazione almohade, braccio dritto d’Abd-el-Mumen e sostegno de’ suoi figliuoli. Ma nella generazione seguente, i Beni-Hafs, come si chiamarono dal nome familiare del capo di lor casa, avean messe radici profonde nella provincia; i califi, lontani, peggiorati di padre in figlio, non aveano riputazione nè forza da cacciar via cotesti prefetti: onde Abu-Zakaria, figliuolo d’Abu-Mohammed, colta un’occasione, disdisse (1228) l’obbedienza al califo El-Mamûn, com’empio e tiranno. Non guari dopo (1236), tolto l’equivoco, ei fece fare a suo proprio nome la preghiera del venerdì, con qualità di Emir, lasciando a’ cortigiani il vanto d’aggiugnervi “de’ Credenti” per compiere il sacro titolo, onde fregiaronsi Abd-el-Mumen, Harûn-Rascîd e il grande Omar, che gli Hafsiti falsamente vantavano lor progenitore.[596] Notisi che gli Hafsiti usarono sempre chiamarsi col Keniet, o diremmo noi soprannome familiare, e che il padre e l’avolo di Abu-Zakaria s’addimandarono meramente sceikh, ch’era il titolo della dignità loro nella tribù, e però il vero fondamento della loro potenza.[597]
Cotesti particolari ho io notati a rischiarare il trattato dello imperatore Federigo, del quale abbiam solo una traduzione latina molto arruffata, ma non tanto che non trasparisca spesso il genuino testo arabico e talvolta gli errori di chi interpretollo. È dato del quindici giumadi secondo dell’anno secentoventotto (20 aprile 1231), quando Abu-Zakaria avea già ricusato d’ubbidire al califo Mamùn, senza per anco chiarirsi independente dal califato; del quale stadio d’usurpazione rendono testimonianza alcune parole del trattato. Se questo poi non è stipulato a nome dell’emîr Abu-Zakaria, ma dello «illustre e magnifico sceikh[598] Abu-Ishak, figliuolo del defunto sceikh Abu-Ibrahim, figliuolo dello sceikh Abu-Hafs,» non dobbiamo noi mettere in forse l’autenticilà del documento. Si può spiegar bene con due supposti plausibili e compatibili tra loro: che Abu-Zakaria abbia avuto quest’altro cugino, ignoto ne’ nostri ricordi[599] e che l’abbia lasciato luogotenente in Tunis, quand’egli avventurossi infino a Wergla, dando la caccia a quell’Ibn-Ghania che avea sì fieramente molestato il paese per quarantacinque anni.[600]
Del resto le forme del trattato rispondono a quelle che conosciamo in atti somiglianti, autentici di certo; e le condizioni parte si riscontrano con quelle solite a stipular tra i Musulmani di Ponente e le repubbliche italiane del Mediterraneo, parte si adattano alle relazioni particolari dello Stato di Tunis, con la Sicilia. Noveransi tra le prime la tregua fermata per dieci anni, la reciproca restituzione dei prigioni non convertiti alla religione del paese; che mercatanti e viaggiatori di Sicilia, Calabria, Principato e Puglia siano liberi di tutta esazione e vessazione in Affrica e, reciprocamente gli affricani in quelle province; che rendansi le prede fatte da corsari sudditi di Federigo, esclusi espressamente Genovesi, Pisani, Marsigliesi e Veneziani, i quali aveano stipulati patti apposta col califo almohade.[601] La mancanza di reciprocità in questo patto, se non venisse da dimenticanza del traduttore, mostrerebbe che, soverchiati dalle forze navali italiane, gli Affricani aveano smessa in quel tempo la piraterìa. Che i Cristiani, al contrario, la esercitassero nelle parti meridionali del Mediterraneo e fin dentro terra, si scorge da’ capitoli successivi, pei quali Federigo assicura dalle offese de’ mercatanti e militi suoi, i Musulmani che viaggino da un luogo d’Affrica all’altro, o d’Affrica in Egitto, sì in nave, e sì in caravane; ed anco promette che i suoi sudditi non parteggino nelle fazioni civili dell’Affrica, non vi facciano rapine, nè menin cattivi per seduzione nè per forza; e perfino che, riparati per fortuna di mare su le spiagge d’Affrica, non offendano gli abitatori: nei quali casi tutti è stipulato il risarcimento dei danni. Per un capitolo aggiunto in fine, Federigo permetteva a’ Musulmani di recare e trarre merci dal suo reame, pagando la decima del valore.
L’ignoranza de’ copisti, non corretta infino al tempo nostro da critici, ha affibbiato alla Corsica un importante capitolo di questo trattato, risguardante, senza alcun dubbio Cossira, o, com’oggi si chiama, Pantelleria. Per questa isoletta gli Stati contraenti fecero a mezzo: stipularono che i Cristiani, non avessero alcuna giurisdizione sopra i Musulmani, ma che un prefetto musulmano eletto dal re di Sicilia reggesse gli Unitarii, o, com’io tradurrei più volentieri, i Wahabiti, e che l’entrata pubblica del paese andasse divisa tra i due Stati, metà e metà.[602] Cotesti patti di Pantellaria rispondono su per giù a quelli che Ibn-Khaldûn suppone stipulati tra gli stessi due principi a favor di tutti i Musulmani di Sicilia; onde la tradizione storica di certo aggiugne fede al documento.[603] Ma il documento, secondo me, serve a correggere la tradizione più tosto che a convalidarla, sendo evidente che quelle condizioni poteano star bene per un’isoletta gittata tra l’Europa e l’Affrica, non già per tutte le colonie musulmane rimaste in Sicilia dopo le deportazioni del ventitrè e del venticinque. Penso doversi leggere Wahabiti perchè, da una mano, non sappiamo, nè ci pare verosimile che fosse stata trapiantata in Pantellaria una colonia di “Unitarii”, che in quel tempo significherebbe Almohadi, e molto meno possiam credere che tal colonia della tribù dominante, fosse stata lasciata sotto un prefetto siciliano e quindi inferiore agli altri musulmani del paese.[604] Dall’altra mano sappiamo che Pantellaria non aveva abitatori cristiani nella seconda metà del duodecimo secolo;[605] che i geografi musulmani del decimoterzo tenean tutta la popolazione come wahabita,[606] seguace, cioè, d’una setta che appigliatasi tra’ Berberi nel nono secolo, rimase nell’isola delle Gerbe[607] almen fino al decimoquarto; e che i Pantellereschi eran chiamati da’ Musulmani contemporanei con l’odioso nome posto a’ Credenti che subissero il giogo cristiano.[608] Non mi sembra verosimile il supposto che Musulmani di Sicilia si fossero, al tempo della ribellione, rifuggiti in Pantelleria e che alludesse a loro il capitolo di cui ragioniamo.
Il trattato del milledugentrentuno, come ognun vede, suppone antecedenti ostilità, o per lo meno lunga desuetudine degli accordi di Guglielmo II; e ciò si riscontra con le imprese dell’armata siciliana nel dugenventiquattro.[609] Ma il patto fu mantenuto e forse rinnovato, non ostante i dissapori che a quando a quando sorgeano; come nel caso, credo io, di ’Abd-el-Azîz, nipote del re di Tunis, il quale, per accusa di maestà, rifuggissi in Puglia pria della state del trentasei; e l’imperatore l’accolse e spesollo almen fino alla primavera del quaranta, allorchè lo vediamo soggiornare in Lucera con tre scudieri e con un Perrono da Palermo, addetto a servirlo o guardarlo. Federigo n’ebbe che dire col papa, il quale volea gli fosse mandato quel gran personaggio a Roma, pretendendo che costui era venuto in Italia apposta per farsi cristiano e che l’imperatore lo ritenea. Ma questi negò e la vocazione e l’impedimento; nè volle ad alcun patto levarsi di mano tal pegno, per darlo al papa ed a’ suoi amici guelfi.[610]
I quali in vero non se ne stavano oziosi in Tunis. In su lo scorcio del trentanove, l’imperatore s’accorse del favore che godeano in Tunis i Genovesi e’ Veneziani suoi nemici; ond’ei si dispose a mandar ambasciatore Arrigo Abate appo l’emiro Abu-Zakaria e avvertì il grande ammiraglio Niccolino Spinola, che stesse pronto, e intanto osservasse la tregua conceduta per imperiale clemenza a quel principe.[611] La quistione, qual che fosse la origine, finì con un bel colpo da mercatante. Sendo afflitto lo Stato di Tunis dalla solita carestia, i Genovesi veniano in Sicilia a incettare grano per conto d’Abu-Zakaria, e ci faceano grossi guadagni. Ecco che allo scorcio di febbraio del quaranta, l’imperatore fa chiudere i porti; fa caricare su le sue navi cinquantamila salme di frumento e commette all’ammiraglio che mandi a venderle in Tunis.[612]
Ciò conferma, s’io non erro, il detto di Saba Malaspina, che al tempo della seconda crociata di san Luigi, il re di Tunis pagava al re di Sicilia una prestazione o censo ( redditum sive censum ) annuale, per ottenere che dall’isola si recassero liberamente le vittuaglie in quello Stato e che le sue navi fossero salve da’ corsari siciliani.[613] Tornava dunque ad una composizione o transatto, com’oggi si dice, per la uscita de’ grani. E veramente il fatto de’ Genovesi venuti a comperare a nome del re di Tunis e l’espediente al quale si appigliò Federigo per frustrarli, ci conducono necessariamente a supporre un patto che assicurava a quel re la tratta libera ovvero soggetta a dazio fisso e moderato. Poco monta che in qualche documento il transatto si chiami tributo, e che il Malespini aggiunga all’avvantaggio della tratta quello della sicura navigazione; potendo supporsi ch’ei non fosse bene informato de’ particolari e che la voce pubblica confondesse le condizioni pecuniarie della tratta, con le politiche della tregua del dugentrentuno, della quale si è fatta menzione. Che che ne sia, la prestazione montava, negli ultimi trent’anni del secolo decimoterzo, a trecento trentatremila trecento trentatrè bizantini, ed un terzo, i quali valgon oggi, secondo il peso dell’oro, trecenventicinque mila lire nostrali ed a quel tempo tornavano in mercato a più d’un milione de’ nostri, per quanto si possano ragguagliar le valute alla distanza di sei secoli, con le mutate condizioni economiche e sociali. Venendo in giù dal tempo di Federigo, noi veggiamo intermesso il pagamento della prestazione nel dugensessantacinque, alla caduta di casa sveva; ripigliato nel settanta, per lo trattato di Monstanser con Filippo l’Ardito e con Carlo d’Angiò, al quale si stipulò di soddisfare i decorsi e raddoppiar la somma annuale in avvenire; sospeso di nuovo nell’ottantadue, per la guerra del Vespro; indi promesso da Abu-Hafs a Pier d’Aragona, nella somma primitiva e coi decorsi di tre anni, per lo trattato stipulato a Paniças l’ottantacinque; finchè nel trecento le case d’Angiò e d’Aragona si disputano il tributo, ma non si ritrae che gli Hafsiti lo soddisfacciano.[614] E non parmi verosimile che il pagamento fosse incominciato al tempo di Federigo. Nei capitoli ch’ei dettò per l’ammiragliato di Sicilia pria del dugentrentanove, concedendo a Niccolino Spinola larghissima potestà e guadagni senza limite, gli diè, tra le altre cose, il dieci per cento di ciò che “con la sua prudenza ed arte arrivi a riscuotere da Saraceni qualunque, sia de’ tributi soliti a pagarsi ai re di Sicilia, sia degli insoliti e novelli imposti da lui stesso.”[615] Or lo Stato di Tunis non sembra sì piccolo, nè sì scompigliato in quel tempo, da assoggettarsi a tributo per caso tanto lieve da non rimanerne vestigia negli annali suoi o della Sicilia. Pertanto il tributo va noverato più tosto tra i soliti. E veramente, da Federigo in su, occorre l’imperatore Arrigo VI ch’ebbe da Marocco, l’anno mille centonovantacinque, de’ carichi d’oro e di robe preziose,[616] ne’ quali par si ascondesse la prestazione dell’Affrica propria, non chiarita per anco ribelle a gli Almohadi. E in cima si scorge il trattato di Guglielmo secondo col califo Abu-Ja’kub: onde si può ritenere che la composizione per la tratta de’ grani, o prestazione, censo o tributo che dir vogliamo, si fosse cominciato a riscuotere sopra i califi almohadi nel millecentottanta, per cagione della carestia; e si può supporre che qualche città dell’Affrica propria l’avesse pagato fin da tempo più antico. Nè è da maravigliare che il trattato del milledugentrentuno non ne faccia menzione, poichè non era necessario scrivere la consuetudine di quel transatto in un pubblico strumento politico e commerciale; e quand’anco fosse stata scritta nel testo latino, potea mancar nell’arabico, sola sorgente alla quale noi attingiamo il fatto, per mezzo di una traduzione assai più recente. Confrontando il testo arabico e il testo latino di parecchi trattati stipulati nel medio evo tra Musulmani e Cristiani, avviene talvolta che si trovi mutilo l’uno o l’altro, perchè ciascuno solea sopprimere nel testo da pubblicare in casa propria, le condizioni delle quali egli arrossiva. A un dipresso han fatto così i principi d’Europa nei trattati segreti o negli articoli segreti di trattato solenne.[617]
Adescato dal commercio onde arricchiansi Venezia, Pisa e Genova, e trascinato contro sua voglia dalle ultime onde della Crociata, Federigo tenne frequenti pratiche coi principi musulmani di Levante, delle quali ci son rimasi non pochi ricordi e dobbiamo tenerne perduti assai più. Ma il supposto ch’egli abbia mandati ambasciatori al califo abbasida, è nato da un errore, cioè che il classico nome di Babilonia col quale gli scrittori cristiani del medio evo designavano il Cairo vecchio,[618] significasse, in vece, Bagdad. Poco verosimile parrà d’altronde quel supposto, quando si pensi che i successori di Harûn-Rascîd contavano ormai poco o nulla nel mondo. Fin dallo scorcio del duodecimo secolo, la frontiera settentrionale del territorio musulmano da Barca alla foce dell’Oronte ed all’Eufrate, era occupata da’ figliuoli, fratelli e cugini di Saladino. Vasto impero feudale o federale che dir si voglia, discorde al certo e lacerato da cupidigia, violenza e slealtà; nel quale disputaronsi per poco il primato due figliuoli del conquistatore, che avea lasciata (1193), all’uno la Siria e all’altro l’Egitto: ma non andò guari che Malek Adel, fratello di Saladino, raccolse il frutto di quella discordia. Insignoritosi di Damasco (1196) e del Cairo (1200), Malek-Adel lasciò ai suoi proprii figli l’esempio e il comodo della usurpazione, facendo Malek-Mo’azzam erede della Siria e Malek-Kâmil dell’Egitto.
Insolito documento ci attesta aver Federigo mandata un’ambasceria a cotesti due sultani, credo io nel dugendiciassette, quando Malek-Adel avea già divisi i dominii a’ suoi figliuoli, prima di venire a morte (31 agosto 1218). Dico d’un compartimento a mosaico, rimaso infino al decimoquarto e fors’anco al decimosesto secolo, nel portico della cattedrale di Cefalù, dov’era effigiato Federigo in atto di accomiatare Giovanni Cicala detto il Veneziano, vescovo di Cefalù, con questo scritto: “Va in Babilonia e in Damasco; trova i figli di Paladino (Safadino?) e parla ad essi audacemente in mio nome....”[619] La recente esaltazione di papa Onorio; la ressa ch’ei facea per la crociata e il bisogno che avea di lui Federigo, disponendosi a venire in Italia e quasi a riconquistare i proprii suoi Stati, danno la ragione di cotesta ambascerìa, o piuttosto vana minaccia; alla quale par che il sultano di Damasco abbia risposto per le rime, nella forma che or or si dirà.
A capo di pochi anni, quando Kâmîl s’innalzò su tutti i principi aiubiti e l’imperatore, sposata la erede del reame di Gerusalemme, cominciò a considerare quell’impresa con altro intento che di sciorre il voto sul Santo Sepolcro, ei diessi a coltivare in particolar modo l’amistà del sultano d’Egitto. E poichè coteste pratiche in breve tempo condussero alla restituzione di Gerusalemme, che parve calamità pubblica a’ Musulmani, gli scrittori arabi ce ne danno tanti particolari da confermare, e in parte raddrizzare e allargare, le narrazioni di origine cristiana.[620]
Corse voce in Levante che Federigo avesse ridomandata Gerusalemme a Malek-Mo’azzam, e che il valoroso e dotto principe avesse risposto all’ambasciatore: “Di’ al signor tuo che per lui io ho la spada e niente altro.” Questa sentenza, a dir vero, si potrebbe supporre foggiata in odio di Kâmil, dopo l’abbandono di Gerusalemme e la morte di Mo’azzam: pur non sembra inverosimile nè la pratica di Federigo, nè lo sdegnoso rifiuto, s’e’ si riferisse al dugendiciassette, com’abbiamo notato poc’anzi.[621] Più certo è che Mo’azzam, mal soffrendo la supremazia del fratello (1226) tentò di muovergli contro tutti i principi aiubiti e infine collegossi con Gelâl-ed-dîn, principe dei barbari Kharezmii, i quali, cacciati da orde più feroci di loro, venian ora dalle rive del Caspio a desolare l’Armenia e la Mesopotamia. Kâmil in tal frangente, per guastare i disegni del fratello, chiamò Federigo promettendogli Gerusalemme[622] e gli altri acquisti di Saladino.[623] S’appiccò la pratica, com’e’ pare, il milledugenventisette, quando, venuto al Cairo l’arcivescovo di Palermo, legato dell’imperatore, il sultano fece immediatamente ripartire con esso lui Fakhr-ed-dîn, gran personaggio a corte d’Egitto;[624] il quale poi piacque tanto a Federigo, ch’ei gli concedè lo stemma di casa sveva, poichè i Musulmani s’erano già invaghiti di coteste vanità occidentali, nelle prime Crociate.[625] L’arcivescovo e Fakhr-ed-dîn, ritornavano l’anno appresso in Egitto; insieme coi quali andò un cavaliere, portatore di splendidi presenti:[626] il proprio destrier di battaglia dell’imperatore, con sella d’oro tempestata di gemme preziosissime,[627] ed altri nobili cavalli, vestimenta, minuterie d’oro, falconi e tante rarità.[628] Il Sultano fece spesare gli inviati siciliani fin dallo sbarco in Alessandria; uscì egli stesso fuor del Cairo a incontrarli; die’ loro sontuoso ospizio; lor fece ogni maniera d’onoranza[629] e ricambiò Federigo con molte preziosità d’India, Jemen, Persia, Mesopotamia, Siria ed Egitto, che valeano, come si dice, tanti doppi de’ doni suoi.[630]
E tantosto ei mosse con le genti (agosto 1228);[631] occupò Gerusalemme ed altre terre de’ dominii di Mo’azzam,[632] il quale era morto da nove mesi (11 novembre 1227) ed eragli succeduto il figliuolo Dawûd, col titolo di Malek-Nâsir.[633] Seguendo le pratiche iniziate dal padre,[634] avea questi intanto chiamato lo zio Malek-Ascraf, principe di Khelât in Armenia; il quale s’affrettò a venire a Damasco con le forze che aveva in pronto.[635] Onde, sbarcato l’imperatore ad Acri (7 settembre 1228), tre eserciti si trovarono a fronte, nessuno de’ quali sapeva con chi avesse ad azzuffarsi; se non che i furbi capitani avean poca voglia di venire alle mani, quand’era lì in mezzo il povero Dawûd per pagar lo scotto a tutti. E in vero Kâmil ed Ascraf, dopo breve carteggio pien di belle sentenze sopra l’onore di casa aiubita e la gloria dell’islam,[636] abboccaronsi (10 novembre 1228) presso Ascalona, ridendo sotto i baffi; divisero a lor modo i dominii del nipote,[637] e stettero insieme un gran pezzo a veder come acconciare la cosa con Federigo.[638] Il quale ridomandava Gerusalemme e la costiera tutta di Siria e chiedea con ciò la franchigia d’ogni gabella in Alessandria. Tanto ei diceva essere stato profferto al suo luogotenente in Palestina durante la guerra di Damiata; ond’egli or non voleva accettar meno di ciò che era stato concesso all’ultimo de’ suoi paggi.[639] Rincrebbe a Kâmil di trovarsi addosso[640] quest’ausiliare, contro il quale ei non potea tirar la spada, perchè l’avea chiamato egli stesso e perchè la guerra avrebbe sciupati i suoi disegni, appunto quand’ei stava per compierli, scrive un cronista,[641] alludendo di certo al partaggio dello Stato di Dawûd, ch’era lo scopo di tutti que’ raggiri. Ma Federigo, accorgendosene, afforzava Sidone,[642] Cesarea, Giaffa[643] e racchetava alla meglio, come sappiamo dagli scrittori occidentali, i Crociati, ippocriti o bacchettoni e turbolenti tutti. Le negoziazioni dunque si prolungarono e con esse le cortesie tra il campo crociato e l’egiziano.[644] Giunto appena ad Acri, Federigo avea mandati oratori a Kâmil, con doni da re, Balian signor di Sidone e Tommaso conte di Acerra suo vicario in Terrasanta; i quali furono accolti a grandissimo onore.[645] Seguì un continuo andirivieni di ambasciatori.[646] Kâmil adoprava a tal uficio degli uomini di scienze e di lettere sì accetti all’imperatore: Fakhr-ed-din, già nominato;[647] il poeta Selâh’-ed-dîn di Arbela[648] e lo sceriffo Scems-ed-dîn da Ormeia, cadì dell’esercito:[649] mandava in dono gioielli, preziose vestimenta ed utili animali, dromedarii, cavalle, muli;[650] e un’altra volta fe’ venire apposta d’Egitto il solo elefante che rimanea vivo di que’ donatigli da Malek-Mes’ûd, principe d’Arabia.[651] Federigo poi, non avendo al campo altri tesori, proponeva al Sultano problemi di filosofia o di matematica e quegli li facea risolvere dal celebre scrittore ’Alem-ed-dîn, giurista di scuola hanefita.[652]
Corsero per tal modo sei mesi, allo scorcio dei quali è da supporre Federigo stanco di soffrire gli insolenti Cristiani armati o disarmati della Palestina, ed impaziente di star lungi dal suo reame, ch’era commosso e osteggiato dalle armi papali. E sembra ch’egli abbia abbassate alquanto le pretensioni; ma di certo seppe mostrarsi a’ Musulmani più tranquillo e forte che mai. Disse chiaro a Fâkhr-ed-dîn, che gli premea poco di regnare in Terrasanta, ma che volea mantenere il credito suo in Europa; e se non fosse per questo, non infastidirebbe il Sultano con tanta pertinacia.[653] Nè egli fece, secondo le circostanze, un magro accordo. Tutti gli scrittori arabi narrano che Kâmil fuvvi sforzato da lui: e, chi scrive che il Sultano comprese non potersi cavare altrimenti dal mal terreno in che avea messo il pie’;[654] chi afferma ch’ei non potea resistere in verun modo alle armi di Federigo;[655] chi l’accusa di avere scansata la guerra, perchè lo avrebbe frustrato nello intento per lo quale ei s’era mosso d’Egitto e stava ormai per conseguirlo,[656] che vuol dire la usurpazione di mezzo lo Stato di Damasco. Quando poi Federigo fermò quel patto, il legato Salâh-ed-dîn d’Arbela, affrettossi a scrivere al suo signore, scherzando in versi, come s’egli avesse fatto un bel tiro, che “l’imperatore s’immaginava di conchiuder la pace a suo modo; ma or ha stesa la destra a giurare; ch’ei se la roda, quando si pentirà di ciò che ha fatto.”[657]
Gli assentì anco il Sultano d’includere nel patto, per la signoria di Thoron, una principessa che gli scrittori arabi chiamano la figlia d’Umfredo.[658] Kâmil poi si vantò coi suoi, che, rimanendo in mano loro i santuarii musulmani di Gerusalemme, si veniva a ceder poco o nulla all’imperatore: de’ mucchi di case e chiese cadenti, circondate di terre musulmane, sì che ad un cenno si potrebbero ripigliare senza contrasto.[659] Così fu fermata tra i due monarchi la tregua per dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni,[660] contati dal ventotto di rebi’ primo del secenventisei (24 febbraio 1229), e i capitoli principali furono: che si rendesse a Federigo la città di Gerusalemme, con Nazareth, Betlemme, Ludd, Ramla e gli altri villaggi su la via d’Acri e di Giaffa e inoltre il territorio di Thoron e la città di Sidone; che la moschea d’Omar e la cappella della Sakhra, o diremmo noi del Sasso e s’intenda di quello nel quale Maometto lasciò l’orma del piede nello spiccare il volo alle regioni di lassù, fossero custodite da Musulmani e vi si officiasse secondo loro legge, ma potessero i Cristiani visitar que’ santuarii; che i poderi del territorio rimanessero ai possessori musulmani governati da un prefetto di loro nazione.[661] Aggiungono i Musulmani una clausola data ad intender loro da Kâmil, per la quale era vietato di rifabbricare le mura di Gerusalemme; ma Federigo affermò espressamente il contrario all’Europa e scrisse poter anco fortificare Giaffa, Cesarea, Sidone ed un castello dei Templari presso Acri.[662] Del resto avvenne tra’ Musulmani lo stesso che in Cristianità: che il volgo dei fanatici maledisse Kâmil e la ignominiosa sua pace;[663] e il papa di Bagdad se ne crucciò come quel di Roma, ma s’acquetò assai più facilmente.[664]
Federigo andò a prender possesso di Gerusalemme, accompagnato da un commissario di Kâmil,[665] ammirato da’ Musulmani per dottrina, arguzia, tolleranza o, come dicean essi, inclinazione all’islamismo, e irrisione del cristianesimo; onde altri lo definì dahri che oggidì suonerebbe panteista:[666] e tutti maravigliarono di questo imperatore, filosofo e guerriero, calvo, losco, rossigno, che al mercato degli schiavi non n’avresti dati dugento dirhem.[667] Tra i molti aneddoti che se ne legge, noteremo sol quello ch’ei menò seco a Gerusalemme il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie, tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di Omar; ed anco l’imperatore avea a grado quella cantilena, nè s’adirava che si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati politeisti.[668] Sepper poco i Musulmani di quella scandalosa nimistà del papa, del patriarca Gerosolimitano, de’ frati guerrieri e di quanti s’affaticavano a tagliare i passi di Federigo in questa Crociata:[669] delle quali brighe trapelò negli annali arabici sol quella, riferita anco da’ latini, cioè che avendo alcuni Crociati profferto a Kâmil di uccidere Federigo, il sultano mandò a lui stesso le lettere de traditori.[670] Del resto gli Arabi ci danno con precisione tutti i particolari dell’impresa, perfino il giorno che l’imperatore sbarcò, reduce, in Italia.[671]
La possessione precaria di Gerusalemme condusse l’imperatore a più strette pratiche nelle province che stendonsi dall’Istmo di Suez all’Eufrate, nelle quali, frati e baroni cristiani e principi musulmani, grandi e piccini, attendevano or più che mai a svaligiarsi tra loro, collegandosi a viso aperto coi nemici della propria fede, contro i fratelli in Cristo o in Maometto. Spregiatori dell’uno e dell’altro, e però maledetti, perseguitati, ridotti allo stremo e pur temuti per le inespugnabili fortezze e pe’ sicarii audacissimi, rimaneano ancora gli Ismaeliani, detti in Cristianità Assassini, e il loro sceikh, o capo setta, chiamato, con versione troppo letterale, il Vecchio della Montagna.[672] E su quel brulichìo di feudi dominavano le due potenze del Cairo e di Damasco, finchè l’una inghiottì l’altra.
Ascraf, insignoritosi di Damasco (1229) mentre Kâmil cedea Gerusalemme, collegato con lui contro i Kharezmii, quindi inimicatosi, e morto il seicentrentacinque (1237), avea lasciata la sua parte di Siria al fratello Ismaele; e Kâmil non avea tardato a spogliare quest’altro ed a farsi, tra signoria diretta e signoria feudale, sovrano di tutti i dominii aiubiti. Ma trapassato egli stesso sei mesi dopo Ascraf (marzo 1238), e lasciata la Siria ad un figliuolo e l’Egitto ad un altro, si ripigliò l’usanza di famiglia; onde l’un fu morto, l’altro, intitolato Malek-Sâleh, occupò tutto il dominio (giugno 1240). Intanto nuovi Crociati, non curando gli accordi di Federigo, ruppero la guerra; afforzarono a modo loro Gerusalemme; ritentarono l’Egitto, e toccarono quivi una sconfitta. In que’ trambusti, Nâsir, che i due fratelli del padre avean già spogliato (1229) di Damasco e lasciatogli il principato di Karak, volle ripigliare la roba sua; onde saputa la rotta de’ Cristiani, piombò sopra Gerusalemme, uccise o fece schiavi quanti v’eran dentro, e demolì le fortezze (1241). Nello stesso tempo Ismaele, nominato dianzi, riprese Damasco, e si collegò con chi potè, senza distinguere religione: onde seguirono nuovi scontri e stragi, e guasti, e tregue fino al dugenquarantaquattro; quando i Kharezmii piombarono addosso a tutti.[673]
Molte vestigia ci rimangono delle negoziazioni di Federigo in quel periodo. Sappiamo venuti a lui in Puglia, del dugentrentadue, ambasciatori del sultano di Damasco;[674] ch’era in quell’anno Ascraf, il quale, soverchiato da’ Kharezmii in Armenia, avea perfin chiesto aiuto al suo fratello Kâmil.[675] In questo, o in altro incontro, Federigo donò ad Ascraf un orso bianco; del quale i Musulmani scrissero con maraviglia ch’e’ rassomigliava il lione per la qualità del pelo e che tuffava in mare a prender pesci. Si notò anco il dono d’un pavone bianco.[676] A’ dì ventidue luglio del medesimo anno, Federigo imbandiva a Melfi un gran convito agli ambasciatori del sultano d’Egitto e del Vecchio della Montagna, dov’ebbe a mensa parecchi vescovi e molti cavalieri tedeschi;[677] spettacolo di tolleranza assai più strano a corte imperiale che l’orso bianco a Damasco. Ma non si ignoravano in Germania coteste relazioni con gli Ismaeliani; e s’era perfin detto l’anno innanzi che gli Assassini avessero pugnalato il duca di Baviera per pratica dell’imperatore, suo nemico mortale.[678] Così fatta calunnia, ripetuta volentieri tra i clericali di quell’età, die’ origine ad una delle nostre Cento novelle antiche, nella quale si legge che andato Federigo alla “Montagna del Veglio,” volendo costui mostrargli la sua possanza, “vide in su la torre due Assassini: presesi per la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro incontanente.”[679]
Il legame col sultano d’Egitto si ristrinse dopo la resa di Gerusalemme e divenne schietta amistade al dir d’uno scrittore musulmano,[680] confermato dalla espressa accusa di papa Innocenzo IV.[681] Pare anco siasi fermato tra Federigo e Kâmil, lo stesso anno dugenventinove, o poco appresso, com’egli è più verosimile, un trattato politico e commerciale, sì civile, che si potrebbe rifare con poco divario nel secolo decimonono. Dico una lega offensiva e difensiva e reciproche sicurtà e franchige pei sudditi, poco diverse da quelle che furono stipulate il milledugentottantanove tra il sultano Kelaun e il suo erede presuntivo da una parte, e re Alfonso d’Aragona, re Giacomo di Sicilia con due loro fratelli dall’altra; i quali capitoli, afferma il cronista della corte del Cairo in quel tempo, essere stati proposti da casa di Aragona secondo la pace che avea fatta un tempo Malek-Kâmil coll’imperatore.[682] Di certo nelle negoziazioni di Gerusalemme s’era discorso di franchigia doganale nel porto d’Alessandria:[683] e il genio de’ due principi e delle due corti portava ad allargare e concretare quelle idee, anzi che lasciarle svanire. E se la splendidezza de’ doni fosse argomento della importanza del patto, quello di cui diciamo si potrebbe riferire allo stesso anno trentadue, quando gli ambasciatori d’Egitto, festeggiati nel convito di Melfi, avean recato all’imperatore un capo lavoro d’arte e di scienza, ricchissimo dono apprezzato ventimila marchi di Colonia: un padiglione la cui vôlta fingeva il firmamento, dove il sole e la luna, movendosi per occulto congegno, notavan le ore del giorno e della notte; la qual macchina lo imperatore fe’ serbare a Venosa.[684] Degli ambasciatori egiziani di questa o d’altra legazione sappiam che uno, per nome Makhlûf, morì in Messina e fu sepolto nella spiaggia di Mosella, dove la sua tomba si vedea sino allo scorcio del secol decimoterzo.[685] E forse de’ cavalieri venuti in somiglianti missioni del sultano, furono notati nel campo dello imperatore sotto Brescia (1238).[686]
Non mancò con la vita di Kâmil l’amistà delle due corti. L’anno novecencinquantotto de’ Martiri (29 agosto 1241, a 28 agosto 1242) approdava in Alessandria una nave siciliana, ben chiamata il Mezzomondo,[687] poichè recava, come si disse, novecento uomini e merci senza fine e con esse i doni che mandava l’imperatore al novello sultano, affidati a due ambasciatori, de’ quali il maggiore in dignità, alla descrizione che ne fa il cronista copto, parrebbe alcun frate fatto arcivescovo, se noi non sapessimo ch’ei fu Ruggiero degli Amici.[688] I due legati aspettarono lunga pezza la licenza di presentarsi al sultano; avutala, essi e il seguito, che montava ad un centinaio di persone, furono menati alla capitale, con lungo giro per Faium, le piramidi, e Giza; trovarono il nuovo e il vecchio Cairo parati a festa, l’esercito schierato in mostra, la cittadinanza uscita loro all’incontro. Il sultano avea lor mandati due cavalli di Nubia e fornita di palafreni la famiglia: ei li fece alloggiare in due palagi principeschi, li colmò di doni, provvide in abbondanza ad ogni lor comodo. Si rinnovò la festa il giorno della presentazione solenne al castello del sultano, e durò questa larga ospitalità tutto l’inverno ch’e’ rimasero al Cairo, in liete brigate, conviti e feste e cacce, e tiri a segno con le balestre.[689] Un altro ambasciatore arrivò l’anno appresso ad Alessandria con un buzzo che s’addimandava anch’esso il Mezzomondo, della cui mole la gente maravigliò. Si dicea portasse un immenso carico di olio, vino, caci, miele ed altre derrate e con ciò trecento marinai, senza contare i passeggieri.[690] Altri fatti provano le strette relazioni tra la Sicilia e l’Egitto. Del dugenquarantacinque o quarantasei, l’affermava il Sultano stesso al papa, il quale non avea sdegnato di scrivergli chiedendo una tregua pe’ Cristiani di Palestina.[691] Una nave approdata in Alessandria il secenquarantaquattro (19 maggio 1246 a 7 maggio 1247) recò, svisate alquanto ma vere in fondo, le nuove della gran lite che ardeva in Europa: il papa perseguitar l’imperatore com’apostata e mezzo musulmano; avere perciò stigati tre baroni regnicoli ad ucciderlo, promettendo all’uno la Sicilia, all’altro la Puglia, al terzo la Toscana; ma che l’imperatore, saputo dalle spie che i congiurati doveano assalirlo mentr’ei dormiva, fe’ coricare nel proprio letto uno schiavo, s’appostò con cento cavalieri, e mentre gli assassini pugnalavano il servo, ei li trucidò tutti di sua mano, fece scorticare i cadaveri e le pelli piene di paglia appese alla porta d’un suo castello. Come ognun vede, cotesta favola raffigurava, direi quasi, a scorcio le congiure scoperte allora nel napoletano. La novella, ritornando alla pura verità, conchiudea che, fallito quel colpo, il papa mandò un esercito contro l’imperatore.[692] Scrivon anco i Musulmani che Malek-Sâleh fu avvertito da lui della mossa di San Luigi contro l’Egitto:[693] e veramente il trattato di Kelaun, dianzi citato, porterebbe a creder questo racconto, poichè Alfonso d’Aragona e Giacomo di Sicilia, tra le altre cose, s’obbligarono a dar somiglianti avvisi al Sultano.[694] Abbiamo infine nelle memorie musulmane di questo periodo, il titolo che usava la cancelleria del Cairo scrivendo a Federigo, cioè: “il gran re, illustre, eccelso, potentissimo, re di Alemagna, di Lombardia e di Sicilia, custode della santa città (di Gerusalemme), sostegno dell’imâm di Roma, re dei re cristiani, difensore de’ reami franchi, duce degli eserciti crociati.”[695]
Che così fatta amistà co’ sultani d’Egitto non sia stata interrotta sino al fine della dominazione sveva, si argomenta dal dono del sultano Bibars il quale mandò a Manfredi una giraffa.[696] Più espressamente l’attestava ad Abulfeda il suo maestro Gemâl-ed-dîn, cadì supremo di scuola sciafeita in Hama, storico, matematico, giurista, autore di varie opere e, tra le altre, d’un trattato di dialettica, dedicato a re Manfredi e intitolato l’(epistola) imperatoria; poichè i Musulmani chiamarono anco imperatori i figliuoli di Federigo II. Narrava Gemâl-ed-dîn che Bibars mandollo ambasciatore a Manfredi il secencinquantanove (dal 6 dicembre 1260, al 25 novembre 1261) e ch’ei ripartì dalla corte sveva quando il papa stava per concedere il reame a Carlo d’Angiò. Raccontava essersi abboccato parecchie volte col re, in una città di Puglia distante cinque giornale da Roma e vicina assai alla terra di Lucera, i cui abitatori eran tutti Musulmani, oriundi di Sicilia; che in Lucera osservavasi il rituale musulmano, anco la preghiera solenne del venerdì; che nella gente di Manfredi molti erano di quella schiatta e che nel campo si facea pubblicamente l’appello alle cinque preghiere quotidiane. Affermava che Federigo e i successori Corrado e Manfredi, ai quali e’ dava anco il titolo d’imperatori, erano stati tutti scomunicati dal papa per la benevolenza loro verso i Musulmani, e narrava su la elezione di Federigo all’impero una novelletta che gli avean data ad intendere a corte: la solita magagna del candidato che raccoglie tutte le voci, promettendo la sua propria a ciascuno elettore.[697]
Tanto si ritrae delle relazioni politiche della corte di Palermo con quella del Cairo e con altre di Musulmani, nella prima metà del secolo decimoterzo. Del commercio tra i popoli, il quale a volta a volta fu causa ed effetto di quelle consuetudini de’ principi, toccheremo nei capitoli seguenti, passando a rassegna le parti di civiltà che si notano in quest’ultimo periodo delle colonie musulmane della Sicilia.
CAPITOLO X.
Dagli emiri Kelbiti la storia letteraria di Sicilia passa a re Ruggiero, saltando pressochè un secolo, che cominciò con la guerra civile de’ Musulmani e terminò con l’assetto de’ conquistatori cristiani d’oltre il Faro e d’oltre le Alpi: nel qual tempo molti Credenti cultori delle scienze e delle lettere, lasciata l’isola, s’illustravano in altre terre musulmane; ed all’incontro i germi della civiltà occidentale, parte indigeni e parte stranieri, penavano a fiorire in sì profondo mutamento di religione, di lingua, d’ordini politici e sociali. I germi indigeni non eran morti. Que’ trecento codici che il Prete Scholaro legava al nascente suo monastero di Messina, l’ultim’anno appunto dell’undecimo secolo,[698] attestano che gli studii non fossero dimenticati; nè parmi inverosimile che tra le omelìe, i canoni e i breviali, si fosse intruso nella biblioteca del fondatore qualche classico, qualche libro di storia o di matematica. A capo di mezzo secolo, Giorgio d’Antiochia, uomo d’altra origine e d’altra tempra, fondando in Palermo la chiesa di Santa Maria che in oggi s’addimanda della Martorana, le donò tra tante ricchezze «non pochi libri.»[699] Dond’ei si argomenta che coteste collezioni erano già tenute bell’ornamento ne’ palagi de’ grandi siciliani, e suppellettile necessaria negli stabilimenti ecclesiastici: i quali sendo tanto cresciuti nella prima metà del XII secolo, doveva aumentarsi anco il numero de codici raccolti e la tentazione di guardarci dentro.
Ma pervenuti alla emancipazione di Ruggiero, secondo conte e non guari dopo re di Sicilia, smettiamo le induzioni, possedendo testimonianze espresse e fatti permanenti. Abbiamo già notato il grande ingegno di quel principe, lo zelo per la scienza, la lode meritata nella compilazione della Geografia che ebbe nome da lui: abbiamo altresì fatta menzione dei dotti della corte di Palermo, tra i quali ei primeggia sempre per l’altezza della mente, come per la dignità del grado. Or diremo di que’ valentuomini e delle opere loro, secondo le poche notizie pervenute infino a noi.
Gli Arabi salvarono dal naufragio della scienza antica, tra tante altre opere, quelle di Tolomeo; le tradussero in loro linguaggio, nel nono secolo dell’èra volgare: e così l’Europa, assai prima di possedere il testo greco, studiò l’«Almagesto» ritradotto dallo arabico in latino. La «Geografia» che veniva per la stessa via, s’arrestò in Sicilia, come or sarà detto. Ma perduto è il testo dell’«Ottica,» nè altro or ne abbiamo che la traduzione latina, elaborata dall’ammiraglio siciliano Eugenio sopra una versione arabica. Questo scritto che fu ecclissato dalle altre due compilazioni dello stesso autore, le quali abbagliavan la gente con la vastità del subietto, vale assai più che quelle, secondo il giudizio della scienza moderna. Qui Tolomeo, invece di sviare con grosse ipotesi le menti degli studiosi, fonda la teoria su gli sperimenti e su le verità matematiche. Donde i dotti del medioevo che aspiravano a scoprir le leggi fisiche, tra gli altri Ruggiero Bacone e Regiomontano, usarono come libro classico l’Ottica di Tolomeo: la quale se in oggi può servire solamente alla storia della scienza, vi segna pure un gran progresso, svolgendo per bene la teoria della refrazione, alla quale gli altri scrittori antichi aveano appena accennato. Così pensava Alessandro Humboldt.[700] L’ammiraglio Eugenio, in brevissimo proemio, tocca la importanza di quel trattato, il diverso genio delle lingue, onde tornava sì difficoltoso a voltare l’arabico in greco o in latino, e protesta che in alcuni luoghi, anzichè tradurre verbalmente, ei cercherà di cogliere il pensier dell’autore e renderlo quanto più concisamente per lui si possa. Avverte con ciò che nella versione arabica mancava il primo de’ cinque discorsi ond’è composto il trattato, e che de’ due codici ch’egli aveva alle mani, uno era buono sì, ma non vi si trovava nè anco il primo discorso.[701] Dond’e’ si vede che Eugenio sentiva molto innanzi in fisica e in filologia; oltrechè scrivea molto bene, secondo i suoi tempi, il latino. Pertanto lo direi siciliano di nazione, non già greco di Levante come Giorgio d’Antiochia. L’opera non è stampata finora, ma spero esca alla luce tra non guari in Italia, sette secoli dopo che fu fatta la traduzione nel nostro suolo stesso. Basti qui aggiungnere, che il nome e il titolo officiale del traduttore si leggono in tutti i testi a penna quasi senza varianti; tal non sembrando a chiunque abbia pratica d’antiche scritture, lo scambio d’una lettera, onde alcuni codici hanno ammiraco in luogo d’ammirato. E che l’autore sia stato contemporaneo di re Ruggiero, si argomenta dalla qualità stessa dell’opera; si prova coi diplomi; e lo conferma, secondo me, un’altra versione latina che si attribuisce a questo medesimo ammiraglio.
Dico le profezie della Sibilla Eritrea, scritte in caldaico in forma di epistola ai Greci, quand’essi andavano alla guerra di Troja; voltate in greco da un Doxopatro e quindi in latino da Eugenio, ammiraglio del reame di Sicilia, dove capitò il libro greco, sottratto dal tesoro di Manuele imperatore. Veramente il nome dell’ultimo traduttore potrebbe esser falso quanto quello dell’autrice ispirata, e l’epoca di Manuele Comneno potrebbe essere supposta come quella di Priamo: tanto più che gli avvenimenti ai quali si allude sotto strano velame di leoni, serpenti, aquile, vulcani, tremuoti, tempeste del cielo e misfatti degli uomini, sono evidentemente quei che commossero l’Italia e l’Europa nel duodecimo e decimoterzo secolo. Pur egli è da riflettere che cotesti libri profetici, dall’antichità fino agli ultimi tempi del medioevo, sono stati piuttosto copiati e interpolati che rifatti di pianta. Onde non parmi inverosimile che qualche barattiere abbia venduto a re Ruggiero, a peso d’oro, alcun manoscritto greco, lacero e insudiciato, vantandosi d’averlo rubato proprio al rivale Comneno; ovvero che l’impostore, vissuto nel secolo seguente, abbia scritto a dirittura in latino, fingendo al paro i nomi dell’imperiale possessore e dello ammiraglio siciliano, i quali ognun sapeva essere stati contemporanei, e l’uno perduto nell’astrologia, l’altro famoso per traduzioni d’opere scientifiche dalle lingue del Levante.[702] Nel primo caso, il Doxopatro, supposto traduttore dal caldaico, sarebbe forse il retore Giovanni, autore dei Comentarii d’Aphthontio e d’altre opere che sembran dettate allo scorcio dell’undecimo secolo.[703] Nell’altra ipotesi, potrebbe dirsi che il falsario volle mettere innanzi quel Nilo Doxopatro venuto di Grecia alla corte di Ruggiero, e ch’ei finse anco il nome del traduttore latino, per allontanare sempre più dal secolo decimoterzo le favole ch’ei spacciava.
Avendo esaminato altrove[704] qual parte ebbe Ruggiero nella composizione della geografia che in oggi corre sotto il nome d’Edrîsi, e avendo toccato il soggiorno di questo dotto musulmano a corte di Palermo, convien or dire quant’altro sappiamo della sua vita, e provarci a dar giudizio dell’opera.
Sua Eccellenza Edrîsi, chè a ciò torna il titolo di Scerîf dato a lui come ad ogni rampollo d’Alì e di Fatima, esciva della linea di un Edrîs, discendente in quarto grado dalla figliuola del Profeta; il quale, cercato a morte per ribellione contro il califo di Bagdad, era fuggito l’anno centrentanove (786) dallo Hegiâz fino all’odierno impero di Marocco, dove i Berberi lo gridarono califo (789) e dove il suo figliuolo fondò poi Fez (807). Cadde la dinastia di Edrîs nel decimo secolo; e toccata la stessa sorte, ne’ principii dell’undecimo, a’ califi omeiadi di Spagna, salì al trono loro Alì, figliuolo d’un edrisita per nome Hammûd: onde questo novello ramo fu appellato de’ Beni-Hammûd. I quali non tennero a lungo il califato di Cordova. Quando si sfasciò, essi detter di piglio a Malaga e ad Algeziras (1035-1038), e perdute anche queste, signoreggiarono qualche altra terra dell’Affrica settentrionale. Un uomo di lor gente venuto in Sicilia, ebbe Castrogiovanni e consegnolla al conte Ruggiero.[705] Il geografo, nato nei Beni-Hammûd di Malaga, par abbia preso questo nome d’edrisita più tosto che hammudita, per distinguere il suo casato da quello di Sicilia, ovvero per ricordare insieme il glorioso capo della dinastia in Occidente e l’Edrîs bisavol suo, primo principe di Malaga.[706]
Nè il nobil sangue nè la dottrina bastarono ad ottenere in onor dell’Edrîsi una biografia, tra le mille e mille che compilavano assiduamente gli autori arabi del medio evo.[707] Leone Affricano che ci si provò nel secolo decimosesto, per troppa brama di soddisfare la curiosità letteraria degli Italiani, scrisse di memoria e in parte di fantasia; oltrechè il suo abbozzo ci è pervenuto per lo mezzo, niente diafano, di una doppia traduzione.[708] Frugando qua e là, pur si è raccolta, in questi ultimi anni, qualche notizia degna di fede. Edrîsi ebbe nome Abu-Abd-Allah-Mohammed, figlio di Mohammed, figlio di Abd-Allah, figlio di quell’Edrîs che prese a Malaga (1035) il titolo di Principe de’ Credenti e il soprannome di El’-âli biamr-illah.[709] Dicesi che il geografo fosse nato in Ceuta il quattrocennovantatrè dell’Egira (1100) e avesse fatti gli studi a Cordova:[710] di certo ei viaggiò nella penisola spagnuola fino alle rive dell’Atlantico; vide in Affrica Costantina e le regioni meridionali del Marocco; e in Levante arrivò per lo meno infino a Nicea, poichè egli scrive essere entrato l’anno cinquecentodieci (1116) nella grotta de’ Sette Dormienti, sì celebri nell’agiografia musulmana.[711]
Men oscuro il periodo ch’ei visse in Sicilia, onde fu chiamato siciliano; com’era uso di trarre i nomi etnici da’ luoghi, sia della nascita, sia dell’educazione o del soggiorno. E però abbiam detto ne’ capitoli terzo e quarto di questo libro come, allettato dalla munificenza di Ruggiero, venne Edrîsi dalla costiera d’Affrica in Palermo, dove il sangue hammudita gli portava onore senza pericolo, e com’egli rimase alla corte di Guglielmo primo.[712] In qual paese poi fosse andato e quando fosse morto, non si ritrae;[713] poichè le ultime notizie che abbiam di lui vengono da Ibn-Bescirûn, autore del Mokhtar-el-Andalusiin, ossia «Scelta di [poeti] Spagnuoli,» il quale incontrò Edrîsi in Palermo, e dice ch’egli avea compilato il Nozhat per Ruggiero e che scrisse per Guglielmo primo, su lo stesso argomento, il Rûdh-el-Uns wa nozhat-en-nefs ossia «Giardino del diletto e sollazzo dell’intelletto.» Imâd-ed-dîn Ispahani trascrive questo e molti altri squarci dell’Antologia d’Ibn-Bescirûn, nella Kharida, fonte principale delle nostre notizie su i poeti arabi in Sicilia. Ed ambo gli antologisti, senza dir altro delle opere geografiche di Edrîsi, mettonsi a lodare con iperboli e bisticci le poesie, che il primo dice aver avute dall’autore stesso e il secondo ce ne serba varii squarci, che sommano a trentacinque versi.[714] I quali potrebbero stare nella raccolta degli Arcadi nostri. Immagini copiate per la millesima volta, sonvi espresse con grazia e lindura. La lingua stessa in coteste poesie non è tanto leccata quanto nella geografia; dove Edrîsi intarsiò tanti pezzi di rettorica e ricami d’arcaismi che, invece d’infiorare la descrizione, la rendono monotona e talvolta anche ambigua.
Passando dalla forma alla sostanza, è da rammentare in primo luogo qual fosse la condizione degli studii geografici alla metà del secol duodecimo. L’antichità greca e romana aveva insegnato a misurar la terra con le osservazioni del cielo; avea cominciato a notare le distanze delle città, il corso dei fiumi, la configurazione de’ mari; a descrivere la natura organica e le schiatte ed opere degli uomini; avea lasciati abbozzi di carte e d’itinerarii figurati: i quai lavori, ancorchè fossero imperfetti per vizio degli strumenti, scarsezza di osservazioni e abuso delle ipotesi, pur mostrano che la scienza era fondata. Il trattato di Tolomeo la ricapitolava tutta insieme, coordinandovi gli errori proprii del compilatore. Sopravvenute le tenebre della barbarie, la geografia rimbambì in Europa, come ogni altra scienza; si ridusse a scarabocchi informi, a compendii di compendii; peggiorando sempre in Occidente, dal quinto all’undecimo secolo dell’èra cristiana:[715] e appena v’incominciava col duodecimo una ristorazione, promossa dalle Crociate. De’ Bizantini si potrebbe dir ch’e’ serbarono i libri di geografia, senza studiarli giammai. Ma entrati gli Arabi nel consorzio de’ popoli, ricercarono con impeto giovanile le scienze geografiche. Alle quali erano predisposti dalla vita nomade, da’ viaggi di carovana, dalla curiosità dei segni celesti, fors’anco da’ commerci con gli abitatori della Mesopotamia che almanaccarono ab antico sul firmamento. Allettò poi gli Arabi all’astrologia, quella continua vicenda di loro società riottosa; e da un altro canto, il culto li obbligò a sciogliere problemi di cosmografia, richiedendo, in paesi lontanissimi del Settentrione e dell’Occidente, qual fosse la kibla, ossia dirittura della Mecca, e quali le cinque ore della preghiera, variabili secondo la lunghezza de’ giorni.
Si stese l’ordito della geografia generale co’ lavori della Persia sassanide, dell’India e della Grecia, soprattutto co’ libri di Marin da Tiro e di Tolomeo, tradotti in arabico da’ testi greci o da versioni siriache. La geografia descrittiva, iniziata con le relazioni de’ capitani che reggeano i reami conquistati, con gli itinerarii postali, coi catasti, e con ogni altro ritratto ufiziale di loro sottile azienda, s’impinguò coi frequentissimi viaggi che i pellegrini, i mercatanti, i letterati vagabondi, faceano nell’immenso territorio musulmano.[716] Dalla fine così dell’ottavo secolo alla prima metà del duodecimo, i Musulmani rimisurarono il grado del meridiano terrestre; rifecero a poco a poco le tavole delle latitudini e longitudini; allargarono la cognizione dell’abitato fino alle estreme costiere orientali dell’Asia e, in Affrica, fino all’equatore; compilarono itinerarii, descrizioni, abbozzi statistici; rinnovarono il planisfero e delinearono carte parziali.[717] Quantunque e’ non fossero arrivati a dileguare alcune favole geografiche, anzi ne avessero aggiunte delle proprie loro; quantunque non si fossero liberati al tutto dal giogo di Tolomeo ed avessero conosciuta molto imperfettamente l’Europa, gli Arabi pur batteano le vere vie della scienza, mentre in Occidente la feudalità chiudeva in angusti limiti i corpi e le menti.
S’accinse Ruggiero in questo, a compilare la geografia universale, usando insieme le cognizioni dell’Oriente e dell’Occidente e il ritratto di nuovi studii: la qual opera, nella prima metà del duodecimo secolo, il solo re di Sicilia e dell’Italia meridionale poteva intraprendere. Nella prefazione d’Edrîsi già riferita[718] leggonsi i nomi di dodici geografi, studiati, come si dice, dal re; de’ quali, dieci son arabi, Tolomeo greco e l’ultimo sembra Orosio, il celebre compendiatore latino de’ bassi tempi.[719] Degli arabi, sei ci son noti: Mas’ûdi, Geihani, Ibn-Khordabeh, Ibn-Haukal, Ja’kûbi, Kodama, ottimi compilatori di geografia descrittiva;[720] ma gli altri quattro, cioè Ahmed-ibn-el-’Odsri (ovvero el-’Adsari), Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kîmâki,[721] Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, ed Ishak-ibn-el-Hasan, detto l’astronomo, non sono noti, nè sappiam qual ramo abbian trattato; se non che l’ultimo, dalla qualità attribuitagli, si può supporre autore di geografia matematica, o forse compilator di tavole delle latitudini e longitudini.[722] Mancano dunque tra le autorità di Edrîsi i più celebri scrittori arabi di questo ramo della geografia, vissuti prima di lui, come sarebbero Albateni, Abu-l-Wefa, Ibn-Iûnis, Albiruni;[723] ma può darsi che Ishak-ibn-el-Hasan abbia raccolti i dati, almen dei primi tre. In geografia descrittiva mancano Mokaddesi[724] e Bekri, lodatissimi autori dell’undecimo secolo.[725] Se cotesti libri veramente rimasero ignoti a corte di Palermo, si comprende tanto meglio che Ruggiero gittò via quegli altri, accomiatò gli pseudo-geografi viventi ch’egli avea chiamati in soccorso, e deliberossi a rifare di pianta il disegno della superficie terraquea, secondo le relazioni d’uomini pratici. Ognuno intende che Ruggiero prese questa via, inorridito del mostruoso parto ch’esser doveva un planisfero a modo di Tolomeo e de’ suoi correttori arabi, le proporzioni del quale, senza dubbio, erano smentite, chiaro e tondo, dagli itinerarii terrestri e sopratutto dalle carte di navigare del Mediterraneo.
Quando avverrà che si appuri meglio il testo di Edrîsi e la nomenclatura delle carte ond’è fornito, si scopriranno forse altre sorgenti dell’opera, non confessate nella prefazione; poichè alcuni dati che veggiamo qua e là, non vengono da quelli che noi conosciamo tra gli autori testè citati, nè par si possan trovare appo gli ignoti, che son tutti arabi, eccetto Orosio o quel ch’e’ sia. Così è da trovare l’origine d’una misura nuova o antichissima dell’equatore, la quale torna a settantacinque miglia al grado,[726] non miglia arabiche, ma romane, quelle medesime che Edrîsi adopera nel capitolo della Sicilia e che rispondono, quasi a capello, alle odierne miglia siciliane.[727] Alcuni nomi topografici della Sicilia stessa ci sembrano presi da antiche carte greche o romane, anzichè da carte arabiche, o dall’uso volgare del duodecimo secolo.[728] Similmente in Grecia, nell’Italia di sopra e in qualche parte della Francia, i nomi spesso hanno sembianza antica; mentre in altre regioni della Francia, in Germania e in Inghilterra prevale la forma degli idiomi novelli e si vede chiara l’origine da relazioni o itinerarii del XII secolo.[729]
Ripigliando il racconto sotto la scorta di Edrîsi, veggiamo che furono interrogati e confrontati assiduamente, per lo spazio di quindici anni, gli uomini pratici, che vuol dire, secondo me, i navigatori italiani, e i viaggiatori d’altre parti d’Europa[730] i quali capitavano in Sicilia, chi per cagion di commercio, chi nell’andare alla Crociata; e con essi anco de’ Musulmani pellegrini, mercatanti e girovaghi.[731] Dopo tre lustri d’investigazioni, l’ufizio geografico della corte pose mano a rettificare il mappamondo, come si scorge dal passo d’Edrîsi che abbiam noi tradotto. Ed or comentandolo diciamo, che si delineò una carta geografica,[732] nella quale si cominciò a trasportar col compasso, ad una ad una, le linee itinerarie orientate,[733] ritratte dalle relazioni; che si riscontrarono via via cotesti dati con quelli de’ libri geografici; che si sciolsero o si troncarono i dubbii surti nel confronto, e che, fissate in tal guisa le posizioni de’ paesi e le figure della terra e delle acque, furono incise in un planisfero d’argento, ch’avea per raggio un metro o poco meno ed era diviso in segmenti, per maneggiarsi più comodamente.[734] Così mi sembra eseguìto il mappamondo, il quale mal si può giudicare dalle figure che ne abbiamo in due antichi manoscritti alquanto dissimili tra loro, ridotte alla quinta o alla sesta parte e delineate senza proporzioni più precise, che quelle che dar potesse la mano e l’occhio del copista.[735] Possiam noi supporre adoprata nel primo abbozzo una carta generale o un sistema di carte parziali: possiamo immaginare l’una o le altre, copiate da esemplari antichi o arabi, ovvero costruite appositamente su le tavole di latitudine e longitudine de’ Greci, corrette dagli Arabi; sempre la base dell’operazione si riduce alla figura che raccapezzavasi dalla scienza di quel secolo; e gli elementi della correzione sempre tornano alle distanze itinerarie appurate di recente. Non si può interpretare altrimenti il detto di Edrîsi; nè immaginare altrimenti l’uso de’ dati novelli che avea procacciati il re; i quali dati non poteano venire da una rimisurazione di tutte le latitudini e longitudini del globo, ma doveano consistere in itinerarii moderni di terra e di mare, carte nautiche e forse immagini latine, come quella d’Alfredo il Grande e l’altra che abbiamo nella Biblioteca dell’Università di Torino.[736] Veggiam noi la riprova di tal dimostrazione, nel libro stesso d’Edrîsi, il quale rimanda a Tolomeo per le favolose terre settentrionali di Gog e Magog;[737] la veggiamo nelle carte parziali del codice parigino, le quali dànno soltanto delle latitudini e longitudini per le regioni dell’Affrica sotto i Tropici,[738] per le quali è da supporre che la corte di Palermo non avesse trovati itinerarii recenti. Gli itinerarii, accompagnati dalla direzione di ciascuna linea secondo i punti cardinali del globo, potean servire a verificar le carte terrestri in un modo analogo a quello che usarono ab antico i marinai del Mediterraneo per abbozzare lor carte marittime, fissando le posizioni con l’osservazione dei corpi celesti. Che se le buone carte da navigare, italiane e catalane, che si sono ritrovate fin oggi, risalgono appena al principio del decimoquarto secolo, quand’era già comune l’uso dell’ago magnetico, e se quell’uso non si può tirar su alla prima metà del duodecimo secolo, quando si compilava la geografia in Palermo, questo non vuol dir che mancassero a Ruggiero delle carte nautiche abbastanza esatte da ispirargli diffidenza contro i geografi dotti, e da suggerire la verificazione pratica degli schemi immaginati da costoro.[739]
Passando alle sessantanove carte particolari, o, per dir meglio, itinerarii figurati, un de’ quali sta a capo di ciascun de’ dieci compartimenti d’ ogni clima nel prezioso codice d’Assoliti,[740] cominceremo da quella ch’esser doveva, ed è, la migliore di tutte, la carta, dico, della Sicilia. Basta metterla allato ad una mappa costruita secondo Tolomeo, per vedere la enorme differenza delle figure: l’una quasi uguale a quella delle nostre carte d’oggidì; l’altra sì scontraffatta, quanto apparrebbe per avventura il mappamondo di Edrîsi a paragon di quello di Mercator.[741] Si dee pensar dunque che Ruggiero abbia profittato degli studii de’ Musulmani di Sicilia del decimo e undecimo secolo[742], ed anco fatte determinare astronomicamente alcune posizioni;[743] onde, con relazioni esatte e con la minuta esplorazione della costiera, si compose nell’ufizio geografico di Palermo una figura, la quale il copista non potè guastar tanto che non sembri maravigliosa pel suo tempo.
Delle rimanenti son pubblicate finora tre sole per intero, e si è stampata anco la riduzione di tutte in piccolo. Per quanto si può giudicare da copie cosiffatte, coteste carte non erano proporzionali alle figure del mappamondo; nè la differenza veniva da studio di projezione: poche d’altronde sembrano costruite secondo le latitudini e le longitudini. Vi si nota sempre, come in tutte le carte primitive, l’errore d’ingrandire le regioni meglio conosciute e rimpiccolire le altre, per farle pur entrare nei limiti che assegnava lo schema generale dei climi, de’ continenti e de’ mari. Così la figura dell’Italia dal Tevere in giù, dove Ruggiero comandava, torna assai meno erronea della mezza Italia di su, rattratta e rimpicciolita sconciamente. Lo stesso dicasi della Sardegna, della Corsica e di tutto il Mediterraneo occidentale, di cui la Sicilia usurpa gran parte. L’ecclettico lavoro de’ geografi siciliani sparse luce in certe regioni, altre lasciò nelle tenebre delle ipotesi. Cavaron essi, per esempio, dai sogni di Tolomeo il continente africano sotto l’equatore, allungato verso Levante, sì che correa parallelo alle costiere meridionali dell’India e della Persia, e chiudea l’Oceano Pacifico quasi un altro Mediterraneo. All’incontro, le Isole Britanniche, il Baltico, la Polonia, sembrano illustrati da recenti relazioni; non vedendosi in quelle carte i grandi errori delle geografie antiche o degli Arabi.[744] Gli itinerarii della Grecia mostrano che Ruggiero sapea per benino come stessero in casa i suoi nemici;[745] nè fa maraviglia che fosse ben conosciuta l’Asia minore e il rimanente de’ paesi musulmani.
Da coteste figure passando alle descrizioni, veggiamo le stesse disuguaglianze: dove copiosi e genuini ragguagli; dove le favole orientali del paese di Gog e Magog; le isole fantastiche dalla leggenda di San Brandano;[746] le maraviglie di Roma, inventate da qualche giudeo errante, o nate da equivoci di traduzione.[747] Nè possiamo scusare Edrîsi allegando che egli qui non descrivea già le carte delineate dai geografi, ma compilava su libri e racconti. Il vero è che non s’ha a pretender critica sottile da un letterato, sia musulmano o sia cristiano, del duodecimo secolo. Ci sembra di più ch’Edrîsi abbia fatto d’ogni erba fascio, per fretta di presentare l’opera al re, pria che la consunzione, già manifesta, lo portasse alla tomba.
La morte del re non avrebbe forse attraversato il compimento del suo libro, se a capo di sette anni non fosse avvenuto in Palermo quel sanguinoso tumulto nel quale andò a ruba la reggia e si gridò morte ai Musulmani. Edrîsi era rimasto a corte, come dicemmo; avea presentata a Guglielmo primo una nuova edizione della geografia; nè ci pare inverosimile che si fosse compiuta, o almeno incominciata per uso della corte, una traduzione latina di opera sì utile e dilettevole. Perì forse la traduzione nel sacco della reggia; nel quale è cosa molto verosimile che sia andato a male il gran planisfero d’argento, frutto di tante fatiche, condannato, in grazia del prezioso metallo, a durar poco, com’era già accaduto alle tavole geografiche di Carlomagno. I geografi e scrittori arabi che non furon uccisi, fuggirono al certo: ed è ventura che Edrîsi abbia potuto recar seco, o mandare in Affrica pria della fuga, la copia del suo libro; il quale sortì gran fama appo i Musulmani e servì di guida a Ibn-Sa’id, Abulfeda ed altri. L’Europa, ridesta a’ buoni studii, non n’ebbe sentore fino allo scorcio del decimosesto secolo, quando uscì a Roma, co’ tipi medicei, il testo arabico di un compendio anonimo, o direi meglio mutilazione, di quest’opera. Del quale compendio fu poi pubblicata a Parigi una traduzione latina, e le fu dato il titolo di Geographia Nubiensis, perchè in principio della seconda sezione del primo clima, citandosi la Nubia, si leggea per errore di copia «terra nostra» invece di «terra di essa» (Nubia);[748] onde i traduttori Maroniti credettero avere scoperta la patria dell’anonimo autore. Adesso abbiam noi, del testo compiuto, alcuni codici, alcuni capitoli stampati ed una mediocre traduzione francese di tutta l’opera. Si aspetta un orientalista, pratico di geografia comparata e disposto a consacrare molti anni di lavoro, sì ch’egli appuri il testo co’ suoi mille e mille nomi di luogo e ne dia una edizione critica ed una buona traduzione,[749] come han fatto non è guari due dotti olandesi per l’Affrica e per la Spagna.[750] La nostra storia civile sarà illustrata al certo dalla pubblicazione dei capitoli che risguardano l’Italia, dei quali un solo è uscito alla luce e fin oggi senza traduzione, quello cioè che contiene la descrizione della Sicilia. Perchè se questa è la più particolareggiata di tutta l’opera, pure gli squarci che trattano delle altre province italiane, racchiudono nomi, itinerarii e notizie topografiche, civili e commerciali, tanto più pregevoli quanto ci manca ogni opera di tal fatta, nella prima metà del duodecimo secolo.
Il libro di re Ruggiero, poichè convien che gli si renda il vero titolo, entrerà nei fasti della nostra storia scientifica. Compilato nella più civile delle nostre capitali del duodecimo secolo, opera collettiva del monarca di mezza Italia e di uomini forse la più parte italiani, si smarrì nella letteratura arabica. Rivendicato dall’europea, gli eruditi l’accolsero con gran plauso.[751] Vennero poi le appuntature: trascuratavi la geografia matematica,[752] accettatevi delle favole ch’altri avea già contraddette, copiati i ragguagli d’altri autori.[753] Mal fondata mi sembra la prima di coteste accuse, perchè la geografia matematica non si avrebbe a cercare nella descrizione d’Edrîsi, ma nelle carte genuine che noi non abbiamo; e perchè il metodo conche i geografi di Palermo delinearono l’orbe conosciuto, fu veramente il migliore che allor si potesse adoperare, anzi quel medesimo che produsse la riforma delle carte geografiche nel decimosesto secolo.[754] Del plagio non parlo, quando una compilazione di geografia descrittiva non si può fare altrimenti che con le compilazioni antecedenti e le relazioni di chi è stato sui luoghi. E quanto alla critica de’ fatti, io lo replico, qual sommo uomo dell’antichità o del medio evo rimarrebbe in piedi, se avessimo a buttar giù tutti quelli che ripetean favole di fisica o di storia naturale? Non è giusto qui il biasimo. Un dei critici più severi di questo libro lo disse pur monumento di scienza da stare allato all’opera di Strabone:[755] ma chi meglio lo approfondisca e tutte imberci le lezioni del testo originale, lo riconoscerà meco, ottimo de’ trattati geografici del medio evo.[756]
Nè la geografia fu la sola scienza applicata a’ comodi civili, che allor si coltivasse nella splendida corte di Palermo. L’epigrafe trilingue d’una lapida incastrata nel muro esteriore della Cappella Palatina, ci attesta avere il re, l’anno millecenquarantadue, fatto costruire «un orologio,» dice il testo latino; «uno strumento da notar le ore,» dice l’arabico: e il testo greco celebra «questo miracol nuovo, che il possente sovrano Ruggiero, re scettrato da Dio, raffrena il corso del liquido elemento, dispensando infallibile cognizione delle ore del tempo.»[757] Mercè la rettorica bizantina, sappiam noi dunque che l’era una clepsidra: la stessa forse, o compagna, di quella che «un meccanico di Malta avea fabbricata per comando del suo re, in effigie d’una donzella che battea le ore, gittando una pallina nel seng,» o bacin di metallo che noi diremmo, di che ci ragguaglia il cosmografo Kazwini, nella sua descrizione di Malta. Abu-l-Kasem-ibn-Ramadhan, dice egli, vista quella macchinetta, improvvisò un emistichio, sfidando Abd-Allah-ibn-Sementi a fornire il verso. E quegli, quasi recitando, aggiunse di botto il secondo emistichio e due altri versi, con questo concetto: che la gentil suonatrice incalzava il tempo; e che il maestro che la fece, era salito prima in cielo, ad osservar le sfere, i segni dello zodiaco e i gradi dell’eclittica.[758] Or noi troviamo nella Kharida, de’ versi che questo medesimo Ibn-Ramadhan dettò a lode di Ruggiero, implorando licenza di ritornare a Malta: onde par si provi che la clepsidra fu opera appunto di quel secolo, e probabilmente fatta apposta per quel re.[759] Delle macchine costruite allo stesso effetto, ognun sa che Harûn Rascîd ne mandò in dono a Carlomagno una che suonava le ore con palle buttate in un bacino, da automi in figura di cavalieri che, aprendo uno sportello,[760] usciano di lor finestrini al punto dato: il quale ingegno taluno erroneamente credette orologio a ruote. Ibn-Giobair, nella seconda metà del secolo di Ruggiero, descrisse la mangana, come la chiamarono gli Arabi con vocabolo greco, mossa dall’acqua in un edifizio attiguo alla moschea cattedrale di Damasco. Dove, sopra un verone, vedeasi quel che noi diciamo il quadrante: un grand’arco tondo che abbracciava dodici coppie di finestrini arcuati, da ciascuna delle quali venian fuori, ogni ora del giorno, due falconi d’ottone, ed aprendo il becco facean cascar palline ne’ sottoposti piattelli d’ottone. Per la notte poi erano apparecchiati nel muro dodici forami tondi, chiusi con vetri ed accerchiati di rame, de’ quali uno in ciascun’ora s’illuminava di luce rosseggiante.[761] E che gli Arabi usassero così fatti orologi, si conferma col titolo di un trattato che Zuzeni, nella istoria de’ filosofi, attribuisce ad Archimede: “Il libro delle ore, ossia (descrizione) dello strumento idraulico che butta le palline.”[762]
Illustrossi allo scorcio di quel secolo, l’ingegnere siciliano Abu-l-Leith, educato, com’ei sembra, alla scuola che produsse i monumenti normanni di Sicilia, e costretto, al par di tanti altri, ad emigrare, quando quel soggiorno divenne incomportabile a’ Musulmani. Aveva allora il califo almohade Abu-Ja’kûb-ibn-Jûsuf, gittate in Siviglia le fondamenta d’una sontuosa moschea cattedrale; alla quale ei die’ l’ultima mano correndo il millecentonovantasette dell’èra volgare, come ricordano gli annali musulmani di Ponente, ed aggiungono essere stati messi in cima del minaretto, che si chiama oggidì la torre Giralda, de’ globi di metallo dorato sovrapposti l’uno all’altro e scalati a piramide, i quali fabbricò e levò sull’altissima torre, questo Abu-l-Leith, mo’allem, o vogliam dire maestro. A comprendere la grandezza dell’opera, basti che per far uscire sul ballatoio del minaretto un di cotesti globi, e pur non era il più grande, convenne tagliare gli stipiti dalla porta praticata ad uso del muezzin; che l’asta di ferro che reggea gli immensi pomi, pesò quaranta roba’, ossia più di censessanta chilogrammi; e che la doratura prese tanto metallo da valere centomila dinâr, o diremmo noi, più che un milione e mezzo di lire.[763] Così gli scritti musulmani. La cronica di San Ferdinando narra che quel pinacolo d’oro fece sbalordire i conquistatori cristiani; che i globi eran quattro; e che il più basso teneasi unico al mondo, sì per la bellezza del lavoro e sì per la mole: sul quale quando ferivano i primi raggi, parea che splendesse un altro Sole.[764]
Nè la meccanica stette inoperosa nelle guerre che i Musulmani di Sicilia combatteano sotto i vessilli normanni. Raccogliendo i cenni che ne fanno le cronache, abbiam noi già notata l’efficacia delle torri mobili, condotte (1133) da ingegneri musulmani all’assedio dì Montepeloso;[765] le quali nella medesima guerra, drizzate appena sotto Nocera, costringeano alla resa quella terra, fortissima di sito e di munizione.[766] Le torri di legno sono ricordate dagli scrittori musulmani nell’infelice impresa di Guglielmo secondo sopra Alessandria di Egitto (1174): da’ quali sappiamo ch’eran armate di possenti arieti e che l’oste siciliana usò anche de’ mangani smisurati, i quali scagliavano massi, com’e’ sembra, di lava, recati a bella posta dalla Sicilia.[767] E dieci anni appresso (1185), cotesti mangani, che l’arcivescovo Eustazio chiama «le figlie del tremuoto,» aprian la breccia nelle mura di Tessalonica.[768] A capo d’un secolo, i Saraceni di Lucera furon tratti con lor mangani alla seconda guerra che Carlo d’Angiò volle portare in Sicilia; nel quale incontro sappiamo da’ diplomi napoletani del milledugentottantaquattro, che si richiedeano cento uomini a maneggiar quattro di cotesti strumenti;[769] onde possiamo supporli analoghi a’ testè ricordati dell’impresa di Alessandria, ed a quelli forse che avean aperta a’ Musulmani (878) la torre del porto grande di Siracusa, i quali, a quanto ei sembra, operavano per tiri orizzontali.[770] Se mal non ci apponghiamo, è da tenere che l’uso di questa maniera di mangani fu serbato in Sicilia; non vedendosi, per quanto sappiamo, negli altri ricordi del medio evo. Al quale supposto si aggiunga quell’altro de’ fuochi da guerra adoperati alla espugnazione di Tessalonica.[771] Quanto all’architettura militare, sappiamo noi dal fatto di Bari che re Ruggiero vi adoperava ingegneri musulmani:[772] ed è molto verosimile che la cittadella di Lucera, fondata dall’imperatore Federigo quando vi tramutò i Musulmani di Sicilia, sia stata opera anch’essa de’ loro ingegneri.[773]
Onoravasi in que’ tempi, assai più che l’arte militare, l’astrologia, confusa com’essa fu per tutto il medio evo, con l’astronomia: e poichè re Ruggiero si travagliò molto nelle vanità di quella scienza,[774] lice supporre che le verità fossero state anco studiate a corte di Palermo. Fiorì in quel secolo, verso la metà com’ei sembra e in Palermo, Mohammed-ibn-Isa-ibn-Abd-el-Mon’im, musulmano di Sicilia, il quale, al dire del Zuzeni, esercitò con gran lode la geometria e l’astronomia e con le sue teorie faceva autorità tra i dotti del paese.[775] Possiamo supporre dunque ch’egli attendesse anco alla applicazione di quelle scienze, alla architettura cioè o meccanica, da una parte, ed all’astrologia dall’altra.
Prevaleano le vanità nella scienza del cielo al tempo di Guglielmo il Buono,[776] di Federigo ed anco di Manfredi, poichè Stefano da Messina dedicò a questo principe la traduzione latina dei Fiori di astrologia, attribuiti da un impostore arabo al gran savio Hermes, padre dell’arcana scienza e della medicina.[777] Che la vera scienza poi fosse stata coltivata ancora nel paese, lo prova il comento delle tavole d’Arzachele, compilato in Parigi allo scorcio del decimoterzo secolo, da un Giovanni di Sicilia, del quale non abbiamo altra notizia che questa;[778] ma se la forma del nome lo dà a vedere cristiano, la vocazione lo fa supporre piuttosto musulmano o giudeo mezzo convertito. Duolmi non poter ammettere le conghietture di coloro che hanno attribuiti alla Sicilia due di que’ non pochi astrolabii arabi che rimangono ne’ musei pubblici o privati:[779] ma non mi farebbe maraviglia, che un dì o l’altro se ne trovasse alcuno di fattura siciliana, atteso le condizioni generali della cultura del paese infino al secolo decimoterzo, e il grand’uso che astrologhi, astronomi e piloti allor faceano dell’astrolabio.
Non volendo interrompere l’abbozzo della cultura scientifica sotto re Ruggiero, io ho lasciata addietro, nel cominciar questo capitolo, la matematica pura, del cui studio non tratta alcuna memoria di quell’età; quantunque e’ non si possa dar che sia stata negletta in Sicilia, quando vi fioriano sì felicemente i rami di scienza applicata. Ma se il caso mutilò in questa parte, come in tante altre, la storia letteraria, il dotto zelo della presente generazione ha provato che l’aritmetica e la geometria furono onorate alla corte di Federigo, degno erede dell’avol materno. Abbiam noi fatto cenno de’ problemi di geometria ch’egli mandò a Malek-Kâmil mentre negoziava per l’acquisto di Gerusalemme.[780] Altri ei ne indirizzò al dotto ebreo spagnuolo, Giuda Cohen ben Salomon, che venne poi a stanziare in Italia.[781] Gli scritti di Leonardo Fibonacci, dati non è guari alla luce, attestano che questi, nel dugenventicinque o pochi anni appresso, dedicò all’imperatore il libro de’ quadrati; che Federigo leggea volentieri il suo Liber Abbaci; e che «dilettavasi, son proprio le parole dell’autore, di apprendere certe sottilità appartenenti alla geometria ed ai numeri.»[782] Ritraggiamo da un altro opuscolo del Fibonacci intitolato a modo arabico «Il Fiore,» che a Pisa, in presenza di Federigo, ei sciolse certi problemi proposti da un maestro Giovanni da Palermo, filosofo della corte;[783] che maestro Teodoro, filosofo palatino anch’egli, avea presentate in altra occasione al Fibonacci delle tesi intorno i numeri quadrati;[784] che il pisano fece sapere per epistola a Teodoro i suoi trovati recenti su le regole di società;[785] e ch’ei mandò all’imperatore, per un Robertino donzello della corte, alcuni corollarii della teoria delle frazioni.[786]
Dei quali nomi proprii i due primi ci sono noti d’altronde; e similmente l’ufizio di filosofo che comparisce nella corte bizantina fin dal quarto secolo, e ritorna in alcune chiese di Sicilia all’epoca normanna.[787] Giovanni da Palermo era de’ notai, o diremmo oggi segretarii, di Federigo; il quale lo mandò ambasciatore a Tunis il dugenquaranta: onde argomentasi ch’ei sapesse l’arabico e forse fosse di schiatta musulmana.[788] Maestro Teodoro comparisce in corte, se non tra i grandi, certo tra i più intimi dell’imperatore: mandatogli apposta il dugentrentanove un legnetto per ritornare nel reame, dond’erasi allontanato con licenza e forse con missione del principe;[789] spacciatogli non guari dopo un foglio bianco col sigillo regio, affinch’ei vi scrivesse in arabico le credenziali degli ambasciatori di Tunis;[790] richiestogli di manipolare per uso della corte degli sciroppi e dello zucchero di viola;[791] e quel ch’è più, affidatogli il geloso ufizio di spiare negli astri il momento propizio alle fazioni di guerra:[792] nè sappiamo s’ei fu «de’ negromanti astrologi e vati, ministri di Belzebù e d’Astarotte» che Federigo perdea (1248) nella strepitosa sconfitta di Parma.[793] Siciliano o antiocheno di nascita, arabo o greco di stirpe,[794] questo Teodoro, al par che Giovanni da Palermo, ben simboleggia la scienza arabica rimasta in Sicilia nella prima metà del decimoterzo secolo: un po’ di tutte le dottrine matematiche e naturali; sogni misteriosi e germi di verità, e tra i più proficui, l’aritmetica e la geometria. Nelle quali Giovanni e Teodoro doveano pur sentire molto innanzi, s’e’ proposero de’ problemi a quel gran concittadino di Galileo, quando, studiata la scienza in Barbaria, la perfezionò e venne a promuoverla in Italia.
Ed ecco la mia navicella a vista della prima restaurazione degli studii in Italia, anzi in Europa; ond’è forza arrestarmi, sì perchè non basterebbero le mie forze a continuare il viaggio, e sì perchè quell’incivilimento si debbe a tanti altri fattori, non meno efficaci che la tradizione scientifica e letteraria de’ Musulmani di Sicilia. La qual nazione, estinguendosi, lasciava sì il picciolo suo peculio a’ Latini che l’avean morta; ma essi già s’erano arricchiti d’altre parti, come si dimostra per l’esempio di Gerardo da Cremona, Leonardo Fibonacci, Guido Bonatti, Gerardo da Sabbionetta, Brunetto Latini, Simone da Genova e tanti altri.
Pertanto io mi rimango a pochi cenni, e, passando dalle matematiche alle scienze naturali, debbo ricordare in primo luogo, che la fama accusò l’imperatore di profana curiosità ne’ misteri della creazione. I Frati minori, suoi nemici accaniti, andavano buccinando quelle che il Salimbeni chiama le superstizioni di Federigo: or ch’egli avea fatti sventrare due uomini per indagare la fisiologia della digestione.; or che dava ad allattar de’ bambini, vietando alle balie di vezzeggiarli con parole, sì che lo sperimento mostrasse qual idioma balbetta l’uomo dassè solo, se l’ebraico, come dice la Scrittura, ovvero il latino, il greco, l’arabico; ma aggiugneano i Frati che le povere creaturine n’eran morte di tristezza.[795] I dotti israeliti intanto lodavano il genio di Federigo per la Storia naturale.[796] E questo è provato in vero da fatti notissimi: gli animali esotici ch’ei raccolse;[797] la storia degli animali d’Aristotile compendiata da Avicenna e, per commissione dell’imperatore, tradotta in latino da Michele Scoto,[798] indi in ebraico non si sa da chi nè nè quando;[799] il libro della fisionomia, composto per lui dal medesimo Scoto;[800] il trattato della caccia co’ falconi, opera propria di Federigo;[801] il libro d’ippiatrìa, compilato secondo i suoi dettami da Giordano Ruffo di Calabria[802] e tradotto in ebraico da un anonimo;[803] il trattato di veterinaria attribuito ad Ippocrate, e tradotto dall’arabico in latino per maestro Mosè da Palermo.[804]
Non è questo il luogo di toccare la scuola medica di Salerno, nella quale i dotti latini gareggiarono co’ giudei[805] e co’ musulmani; e i medici di Sicilia vi recarono il tributo di lor dottrina, come si argomenta dal nome di Pietro Siciliano che comparisce nella seconda metà dello undecimo secolo, seguito da un Giovanni figlio di Costantino siciliano.[806] Sappiam noi come Guglielmo secondo onorasse di molto, al par che gli astrologhi, i medici musulmani che capitavano in Sicilia;[807] come Federigo non solo provvide con le leggi allo studio della medicina, ma par abbia promossa la pubblicazione di alcuna opera medica e la traduzione d’alcun’altra;[808] sappiamo l’accoglienza che trovò a corte di Palermo, verso la metà del decimoterzo secolo, il medico Taki-ed-dîn, il quale venendo a Bugia da’ paesi di Levante, soffermossi in Sicilia.[809] E visse nell’isola infino alla seconda metà del secolo decimoterzo chi seppe sì bene la lingua arabica e la medicina, da poter voltare dal testo in lingua latina, la grande opera medica di Razi, intitolata El-Hawi, ossia «Il Comprensivo,» della quale Carlo primo d’Angiò avea domandato ed ottenuto un codice dal re di Tunis. Il traduttore, per nome Farag, figliuolo di Salem, ebreo di Girgenti, portò a compimento, nel febbraio del milledugentosettantanove, questo lavoro; il quale sendo stato approvato da eletti medici di Napoli e di Salerno, ne fu fatta per uso della corte una bellissima copia in pergamena, divisa in cinque grossi volumi; la quale dopo quattro secoli capitò nella collezione di Colbert, ed or è serbata ne’ tesori della Biblioteca nazionale di Parigi.[810] Cotesto lavoro non solamente è pregevole per la storia letteraria, ma potrà servire tuttavia agli scienziati ed a’ filologi, terminando con un indice ed un ampio glossario di medicamenti semplici, al quale è messo a riscontro il nome latino con l’arabico e spesso anco col greco, scritti in caratteri nostrali.[811]
Quantunque gli Arabi, togliendo, come noi, dai Greci il vocabolo filosofia, l’abbian usato in senso diverso da quel ch’ebbe in Europa nel medio evo, e l’abbiano ristretto alle speculazioni metafisiche e fisiche dell’antichità, pure io non credo che re Ruggiero siasi mai dato a così fatta disciplina, sì come affermano Sefedi ed Omari da me citati.[812] Edrîsi, nella dedica della geografia, gli dà lode soltanto per le scienze delle due classi che noi chiameremmo politica e matematica:[813] e da tutto quel che sappiamo di questo gran principe, ei ci sembra inclinato alle scienze pratiche e positive, più tosto che alle astrattezze su la natura e le relazioni degli esseri. Quindi è verosimile che que’ due scrittori arabi del decimoquarto secolo, indotti in errore dalla fama che tuttavia predicava la corte sveva di Sicilia com’emporio d’ogni bel sapere, abbiano attribuita a Ruggiero una lode che andava piuttosto al figliuolo della sua figlia. Pure nella seconda metà del duodecimo secolo, gli studii filosofici propriamente detti eran già progrediti di molto in Italia e particolarmente nelle regioni meridionali. A quegli studi par che accenni, e non alla scienza e alla coltura in generale, il dotto fiorentino, Arrigo da Settimello, nel carme latino dettato allo scorcio del secolo, là dov’ei dice che la filosofia tenea corte bandita in Sicilia.[814]
Il genio dunque dei tempi, l’adolescenza passata a corte di Palermo, la quotidiana provocazione di papi ambiziosi e tracotanti, ed anco la sottigliezza del cervello germanico, disponeano Federigo alla metafisica. Si potrebbe supporre a priori ch’ei fosse stato educato alla scuola peripatetica degli Arabi, poichè l’Europa cristiana in quel tempo non soleva attingere ad altre fonti che a quella. Cresce l’argomento col noto fatto ch’ei menò seco alla Crociata un musulmano di Sicilia, col quale avea studiata già la dialettica.[815] Ed abbiamo per prima prova l’opinione generale del secolo, quando la Corte papale e i frati, e i nemici dell’impero e la turba infinita de’ ciechi di quella età, più arrabbiati assai che i ciechi d’oggidì, accusavano Federigo di miscredenza e gittavangli addosso le più sciocche calunnie;[816] e, quel ch’è più, i Cristiani mormoranti contro Roma in Italia e fuori, lo biasimavano di liberi pensieri, e persino il Poeta che avea messi in inferno tanti papi, lo chiuse entro un’arca ardente della città di Dite. Ma da pochi anni in qua son venute fuori notizie dirette e precise intorno la scuola ch’ei seguì.
Un codice arabico della Biblioteca bodlejana d’Oxford, intitolato «I Quesiti siciliani» racchiude le quistioni filosofiche «mandate a’ dotti di Levante e di Ponente dal re de’ Romani, imperatore e principe della Sicilia, e le risposte che fecevi in Ceuta, per volere di Rascid califo almohade, il dottissimo sceikh ’Abd-el-Hakk-ibn-Sab’in.» Cotesto re de’ Romani era ben Federigo, poichè il riscontro delle date, conduce per l’appunto al suo regno. Ed ecco il tenor de’ quesiti:
Primo. «Il filosofo (Aristotile) in tutte le opere sue dice espresso esistere il Mondo ab aeterno: ei così pensava di certo. Or, s’ei lo dimostrò, quali furon le prove; e se no, in che maniera ei ne discorre?»
Secondo. «Qual è lo scopo della scienza teologica e quali sono i suoi postulati preliminari, se postulati essa ha?»
Terzo. «Che cosa sono le categorie? E come quelle dieci che ne conosciamo servon di chiave ad ogni maniera di scienza? Ma le son veramente dieci; e perchè non se ne può togliere nè aggiugnere alcuna? Come poi si prova tuttociò?»
Della quarta tesi non è trascritto il testo, ma si ritrae che risguardava la natura dell’anima, la sua immortalità e la contraddizione che appariva in questo subietto tra Aristotile ed Alessandro d’Afrodisia.
Quinto, «Come vanno spiegate queste parole di Maometto: «Il cuor del Credente sta tra due dita del (Dio) Misericordioso?»
Bastano così fatte domande a svelare lo scettico. Ibn-Sab’în che non l’era meno di Federigo, rispose pure in tutti i capi da specchiato ortodosso musulmano, pratico dell’arsenale della scienza e bene informato della storia de’ filosofi greci; poichè oltre i molti peripatetici, ei cita a proposito dalla immortalità dell’anima, «il divino Piatone e Socrate suo maestro,» non che il Corano, il Vangelo, il Pentateuco, i Salmi e i Fogli ( Sohof ), antichissima rivelazione, com’e’ pare, de’ Sabii. Ma di sotto il casto ammanto uscìa la zampa di Satan. Discorrendo della teologia e de’ suoi fondamenti scientifici, Ibn-Sab’în scrivea che, se l’imperatore pur volesse chiarirsene meglio, venisse in persona a parlargli o mandassegli alcun suo scolastico ( motekallim ) o almeno un uom fidato al quale consegnare sicuramente lo scritto: tanto più che coteste sospette proposizioni eran già note a tutti in quel paese, come fuoco che s’accenda in alto: e v’era di molti barbassori ignoranti e maligni, che al solo odore di quesiti così fatti, davano dell’asino al proponente e di matto all’interrogato. Leggiamo nel preambolo di questo dotto squarcio peripatetico, che il messaggier dell’imperatore, avuto lo scritto, offrì grossa somma di danaro per mani del governatore di Ceuta; che Ibn-Sab’în la rifiutò, e ch’ei ricusò al paro i ricchi doni mandatigli da Federigo, quand’ebbe sotto gli occhi la risposta. La proposizione de’ Quesiti Siciliani va riferita, su per giù, al milledugenquaranta.[817]
Noi non ritraggiamo se Federigo abbia soddisfatta la curiosità filosofica, al modo che gli proponeva Ibn-Sab’în. Questo sapiente, che allor avea forse venticinque anni, e s’era già, di Murcia sua patria, rifuggito in Ceuta per una prima persecuzione religiosa, fu costretto nuovamente a mutare soggiorno, da’ teologi Musulmani che non gli perdonavano l’audacia, nè il sapere. Passò da Ceuta a Bugia, indi a Tunis e al Cairo, e infine alla Mecca; precorso e avviluppato sempre dalla fama di zindik e panteista, ancorchè ei cercasse di nascondersi sotto il mantello del sufismo e delle scienze mistiche. Ebbe, come gli antichi filosofi, gran seguito di discepoli e di gente che ammirava la sua dottrina ed eloquenza, o gli era grata per la inesauribile carità. Ma prevalendo i nemici, ei, con esempio singolare appo i Musulmani, si fe’ segar le vene e morì da stoico: onde crebbe l’ammirazione de’ suoi discepoli e il trionfo de’ nemici.[818] Se non fallisce un cronista anonimo trascritto dal Makkari, la fama di questo filosofo arrivò in Italia. Abd-Allah signore di Murcia, della dinastia de’ Beni Hûd, spogliato improvvisamente da Alfonso di Castiglia che avea accettato da lui l’omaggio feudale, tentò un appello al papa pel falsato giuramento, com’io credo. Mandò a quest’effetto in Roma un fratello d’Ibn-Sab’în, per nome Abu-Taleb; il quale presentatosi al papa, s’accorse che questi al vederlo si messe a parlare di lui “in lingua barbara” co’ suoi cortigiani; onde informatosi arrivò a sapere aver detto il papa che il suo fratello era in vero il principe de’ teologi musulmani. Tornando l’ambasceria al dugenquarantatrè, perchè allora i Castigliani occuparono Murcia; si dee riferire quel giudizio ad Innocenzo IV, uomo di molta dottrina e testè amico dell’Imperatore. E sembra cosa molto verosimile che Innocenzo avesse anco lette le risposte ai Quesiti Siciliani, le quali di certo levarono gran romore tra gli adètti della scienza.[819]
In tal frequenza di commerci intellettuali, non poteano rimanere ignote a corte di Sicilia le opere del gran filosofo israelita di Spagna morto nei primi anni di quel secolo, Musa-ibn-Meimûn, chiamato dagli scrittori cristiani Maimonide. E già l’erudizione moderna, frugando gli scritti degli Israeliti italiani, ha scoperte vestigia dell’abboccamento di Federigo con un dotto, non sappiamo se ebreo o musulmano, col quale lo imperatore si maravigliò che Maimonide non avesse spiegato nella «Guida de’ Dubbiosi» nè tra le «Ragioni de Precetti» l’origine del rito mosaico di purificazione con le ceneri della giovenca rossa ( Numeri, cap. XIX); e soggiunse parergli che quell’uso fosse nato per vero dall’olocausto del lione fulvo, ch’egli ritraea dal «Libro de’ Sapienti indiani»[820] Da cotesto cenno si è conchiuso a ragione, che Federigo ebbe alle mani la versione ebraica, o piuttosto l’originale arabico, della famosa «Guida;» e si è supposto con verosimiglianza ch’egli stesso n’abbia fatta far la prima traduzione latina.[821] Speriamo che ulteriori indagini rischiarino cotesti particolari di Storia letteraria. Intanto non è da porre in dubbio tal aneddoto, che allarga sempre più il campo delle cognizioni da attribuirsi a Federigo.
Nè egli coltivò la filosofia sol per utile e diletto proprio, ma sì la promosse ne’ suoi domimi e in tutta Cristianità. Accenneremo appena alla Università fondata in Napoli; a’ sussidii assegnati per gli studenti poveri; ai “dottori chiamati da ogni parte del mondo, come dice il Jamsilla, con liberali premii e provvisioni.”[822] Raccolti nella sua biblioteca moltissimi codici arabici e greci, Federigo li facea tradurre in latino, per comodo pubblico. Ci rimane la nobile epistola con la quale ei mandava in dono ai professori ed agli studenti di Bologna la versione di «certi scritti di Aristotile e d’altri filosofi su la dialettica e la cosmologia,» affinchè giovassero a propagare la scienza, «senza la quale, ei dicea, la vita dei mortali non si conduce liberalmente.» Impossibile e’ sembra che Federigo non abbia arricchita, di quelli e d’altri trattati, la sua cara Università di Napoli; e si ritrae che Manfredi, imitando l’esempio del padre, inviò all’Università di Parigi, forse le stesse opere e di certo la stessa epistola, ricopiata e mutatovi il nome.[823] Pensano gli eruditi che coteste versioni siano state, tutte o parte, opera di Michele Scoto.[824] Non guari dopo, Bartolomeo da Messina, per commissione di Manfredi, tradusse dal greco in latino l’Etica d’Aristotile;[825] e un tedesco per nome Hermann voltò in latino, per voler dello stesso principe, le parafrasi arabiche, o compendii del medesimo e d’altri libri d’Aristotile.[826] Aggiungansi le altre versioni d’opere di matematica, di medicina, di storia naturale, d’astronomia o astrologia, dovute al patrocinio di Federigo o del figliuolo, delle quali abbiam già fatta menzione. Come poi i Giudei furono in Occidente, per tutto il medio evo, gli interpreti più assidui della dottrina araba, così Federigo favorì, insieme con le latine, le traduzioni o compilazioni ebraiche degli scritti arabi di scienza. Oltre i supposti che abbiamo riferiti poc’anzi intorno la versione della «Guida de’ Dubbiosi,» si ritrae per positive testimonianze che Giacobbe figlio di Abba Mari, medico di Marsiglia, stipendiato largamente dall’imperatore, e venuto a Napoli, compì quivi il dugentrentuno la versione ebraica dell’Almagesto, e il trentadue, quella del comento di quattro libri d’Aristotile per Averroes.[827] Similmente si ritrae che Giuda Cohen figlio di Salomone, ebreo spagnuolo, compilatore di una grande enciclopedia scientifica ch’ei dettò in arabo e tradusse in ebraico, passò in Italia del quarantasette, dopo avere risposto per ben due volte ai quesiti scientifici di Federigo:[828] onde possiamo argomentare che questi l’abbia chiamato di qua dalle Alpi, allettandolo con quella savia liberalità che usò verso ogni altro scienziato.
Quindi si è creduto che Federigo intendea l’ebraico; ed altri ha aggiunto, con maggiore verosimiglianza, il greco, poichè v’ha una versione greca delle sue costituzioni,[829] e si sa che al suo tempo questo idioma prevaleva in alcune città della Sicilia e del Napoletano. Per buoni argomenti si ritiene che Federigo seppe il provenzale e il francese;[830] nè è da mettere in forse ch’ei parlò, qual meno e qual più spedito, l’italiano, il latino, l’arabico e il tedesco.[831] Dubbio è che in latino e in provenzale,[832] certo ch’egli abbia verseggiato in italiano, al par che alcuni suoi figliuoli e cortigiani: il che non vuol dir che Federigo inventò la nostra poesia, nè che fondò, propriamente parlando, un’Arcadia in Palermo, come sognavano gli eruditi del secol passato; ma che primo, o tra i primi, egli introdusse in Italia la moda arabica e provenzale di recitare a corte, de’ versi dettati nella lingua che ciascun parlava. La quale usanza aulica, promosse la nostra letteratura assai più ch’e’ non sembri a prima vista. Federigo rese popolari le novelle rime, con le attrattive del canto e dei suoni.[833] E se ben mi appongo, suscitossi nell’animo de’ contemporanei una indefinita ma irresistibile brama di civiltà, a veder il nipote di Barbarossa, che scendea dal trono per conversare co’ dotti e mescolarsi negli esercizii delle arti liberali e ne’ sollazzi: gentile, piacevole di tratto, arguto, tollerante degli altrui detti,[834] vivace e versatile ingegno, ed a volte profondo, nudrito e non soffocato dalla erudizione, splendido ed elegante negli arredi e negli edifizii ch’ei fece costruire.[835] Con la potenza, la ricchezza e l’alto animo, egli cooperò quanto niun altro uomo del medio evo, a’ progredimenti dell’intelletto umano in Europa.
Noi non abbiamo qui a giudicar Federigo statista, nè legislatore; non abbiamo a biasimar, nè a scusare i vizii che lo macchiarono, l’avarizia, la crudeltà, la dissolutezza, la perfidia: vizii di tutti i tempi e maggiori assai nel medio evo che in oggi. A considerar la sola tempra dello intelletto, Federigo ci sembra uom del secolo decimottavo, venuto su nei principii del decimoterzo, come quelle piante che per singolar caso di natura o per arte dell’uomo, fioriscono fuor di clima e di stagione. Così fatti fenomeni morali, la Storia non arriva a spiegare pienamente, poichè la più parte delle cause si sottraggono alla critica: può nulladimeno, investigare le condizioni di cose che abbiano favorito lo sviluppo d’un buon germe. Or l’intelletto di Federigo prese forma e vigore tra due serie di fatti non ordinarii, alle quali noi abbiamo accennato; cioè il turbine politico che l’aggirò fin dai suoi primi anni e l’ambiente di civiltà nel quale ei fu educato. Il nostro subietto ne conduce a ricapitolare quanto su quest’ultimo punto si è detto da altri e da noi stessi.
All’entrar del secolo decimoterzo, la civiltà musulmana, con le sue parti buone e triste, s’era infiltrata un poco in tutta Europa, molto nella terraferma italiana e moltissimo in Sicilia; dove, oltre i frequenti commerci con le rive meridionali del Mediterraneo, rimaneano avanzi degli ordini e delle schiatte musulmane. Tra gli avanzi di quelle schiatte, ci sono occorsi nella infanzia di Federigo de’ famigliari della corte di Palermo e n’abbiamo visti nel suo seguito a Gerusalemme e per tutta Italia, in pace, in viaggio, in guerra; maestri o collaboratori di studio, essi e i Giudei e i Musulmani avventizii d’altri paesi, cortigiani, ufiziali, ministri di passatempi onesti, o di lusso e talvolta di non lodevol costume. Giovanni detto il Moro, celebre per misfatti nei regni di Corrado e di Manfredi, nato d’una schiava di corte, segretario dell’imperatore, tesorier generale del reame, quel desso ch’ebbe feudi da Innocenzo IV e volle tradire Manfredi a Lucera, Giovanni somiglia, così d’origine come di vita e di costumi, ad un liberto di reggia musulmana di Spagna, Affrica o Egitto.[836]
La corte sveva d’Italia parve musulmana a tutti i buoni Cristiani dell’Occidente, secondo l’attestato di Carlo di Angiò, che appellava Manfredi il Sultano di Lucera. Avendo largamente discorso in questo capitolo e nei precedenti del patrimonio intellettuale che Federigo prese da’ Musulmani, accenneremo qui ai costumi e alle usanze passate per la medesima via. Gregorio IX denunziò all’orbe cattolico l’imperatore che in Acri avea fatte venir ballerine per offrire spettacolo o peggio, a’ suoi ospiti Saraceni:[837] e si ritrae da testimonianze autorevoli che anco in Europa ei si sollazzava con le pantomime, i giochi di equilibrio, i suoni e i canti di quelle saltatrici.[838] Innocenzo IV, accagionandolo ingiustamente per le relazioni politiche col Cairo, gli rinfacciava di tenere paggi saraceni e di far custodire la sua moglie da eunuchi.[839] E ch’egli s’era acconcio un serraglio a Lucera e n’aveva un altro da campo nelle guerre d’Italia, lo provano documenti e scrittori contemporanei.[840] Così i vizii avean preso a corte di Federigo le sembianze musulmane; non ch’e’ mancassero o fossero men laidi nelle reggie cristiane del medio evo. Musulmano anco il lusso. Parrebbe che Federigo volesse imitar qualche sultano Gaznevida dell’India, quand’egli all’assedio di Pontevico (1237) fece menare da Saraceni un elefante, che portava sul dosso una torricciuola con le bandiere imperiali.[841] Parrebbe ch’egli avesse voluto recare in Europa le apparenze tutte dell’Oriente, quando si legge il rescritto, col quale comandava a’ suoi ufiziali in Palermo di trascegliere subito nella famiglia della corte alquanti schiavi negri in su i venti anni, e comperarli al bisogno, i quali apprendessero a suonare, chi la tromba e chi la trombetta, e fossero subito mandati allo imperatore.[842] E sia caso, o che i più be’ paramenti della corte uscissero ancora dal tirâz di Palermo, si è perfin vista una iscrizione arabica, trapunta in oro, su i paramani della tunica nella quale fu composto nell’avello il grande imperatore del secolo decimoterzo.[843]
CAPITOLO XI.
Mentre le scienze fisiche e filosofiche manteneansi in onore appo i soggiogati Musulmani di Sicilia, e la poesia arabica suonava gradita nella reggia cristiana di Palermo, gli studii religiosi e legali decaddero e con essi la filologia. Nè dovea succedere altrimenti, quando si dileguavano a mano a mano gli uomini eletti per educazione e virtù, lasciando nell’isola que’ delle infime classi e gli ufiziali e servitori di corte. L’emigrazione de’ migliori, attestata negli annali arabici dell’undecimo secolo, taciuta in que’ del duodecimo che dimenticavano già la Sicilia, comparisce ormai dalle biografie.
Secondo l’ordine posto ne’ libri precedenti, farem di principiare la rassegna con le scienze coraniche. Delle quali troviam solo cultore un letterato, diremmo quasi, enciclopedico, rinomato appo i Musulmani infino ad oggi. In luogo di scompartire i ragguagli per tutto il capitolo, ritornando a questo valentuomo in ciascuna delle classi cui vanno ascritte le svariate opere sue, discorrerem di tutte insieme; e daremo per primo la biografia, che si ritrae da ’Imâd-ed-dîn d’Ispahan, contemporaneo; da Ibn-Khallikân, scrittore del secolo decimoterzo e da quattro eruditi compilatori del decimoquarto e decimoquinto.[844]
L’autore, per nome proprio Mohammed, per patronimico ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer, ebbe il nome familiare d’Abu-Hascim,[845] i titoli onorifici di Hogget-ed-dîn e Borhân-el-islâm (Dimostrazione della fede e argomento dell’islamismo) e gli veggiam dati i nomi etnici di Sikilli e Mekki, or l’uno, or l’altro, ed or entrambi; il quale raddoppiamento accade spesso appo i Musulmani, com’altrove abbiam detto.[846]
Ibn-Khallikân afferma a drittura ch’ei nacque in Sicilia e fu educato alla Mecca; il che ripete Abulfeda; e il Makrizi dice di più che il nostro autore, oriundo della Mecca, fu educato in Maghreb e stanziò in Hama, dopo breve fermata in Egitto. Da un’altra mano ’Imâd-ed-dîn, che lo conobbe di persona ad Hama, lo novera tra i poeti dell’Arabia propria; lo dice meccano “d’origine”, maghrebino di educazione, vissuto in Siria: e notisi che la voce asl, usata da questo scrittore, risponde appunto alla nostra “origine,” e si adopera più propriamente per designare la patria del padre. All’incontro il Fasi, che compilò nel decimoquinto secolo gli annali della Mecca sua patria, lo fa oriundo del Maghreb, ma nato e cresciuto nella santa città. Egli cita il Katifi, annalista di Bagdad; il quale alla sua volta allega un discepolo d’Ibn-Zafer, che avea sentito dalla propria bocca di lui, esser nato alla Mecca, di scia’bân quattrocennovantasette (maggio 1104): e il discepolo aggiugnea che una volta ch’ei giunse ad Hama di rebi primo del cinquecensessantasette (novembre 1171), domandando d’Ibn-Zafer, seppe esser morto pochi dì innanzi. Secondo la raccolta di biografie dei dottori Malekiti, dalla quale cavò notizie un cronista d’Egitto citato dallo stesso Fasi, Ibn-Zafer partì fanciullo dalla Mecca; studiò con varii dottori in Alessandria, Affrica e Spagna; tenne conferenze pubbliche nelle moschee; dal Maghreb poi passò in Sicilia; andò a Damasco e stanziò alfine in Hama. I quali dati non accordandosi tra loro e molto meno con quei d’Ibn-Khallikân, il Fasi se ne cava fuori con la formola di critica musulmana, che il vero lo sa Iddio. Il Soiuti par abbia avuti alle mani questi ed altri ricordi. Ei nota la nascita alla Mecca, l’andata in Egitto; poi fa vivere Ibn-Zafer lunga pezza in Affrica e soggiornare per l’appunto in Mehdia quando la fu presa da’ Cristiani (1148); indi lo fa vagare in Sicilia, Egitto, Aleppo e gli fa scrivere la più parte delle opere in Hama. Infine la nota anonima di un antico codice del Solwân, dice l’autore nato in Sicilia e rimasovi nella prima gioventù.[847]
Io non vo’ sciorre la quistione con la sola autorità degli scrittori, la quale pende pur da un lato: poichè, se Imâd-ed-dîn è dubbio, sta per la Sicilia il gran biografo de’ Musulmani, con Abulfeda signore di Hama dove Ibn-Zafer fu sepolto e lasciò più ricordi che altrove, e con Makrizi, sì avveduto e diligente; e al contrario sta per la Mecca un contemporaneo citato dal Katifi e notato di contraddizione in alcuni particolari;[848] il Fasi alquanto incerto e il Soiuti, fecondissimo tra tutti gli scrittori del mondo, e però frettoloso, oltrechè egli die’ queste notizie in un’opera giovanile e senza citazioni.
Considerata dunque la incertezza dell’uno e le due opposte sentenze degli altri, occorre il sospetto che sien corsi falsi o equivoci ragguagli fin dal tempo dell’autore stesso. Nè mancherebbe il perchè. Il nome siciliano dovea suonar male in Siria nella seconda metà del duodecimo secolo, quando ardea quivi tanto fanatismo religioso, e Ibn-Zafer ritornava in quel paese con animo di rimanervi: onde non sarebbe inverosimile che l’autore medesimo, o gli amici, anzi che ripetere il nome della Sicilia, avessero vantata ed allargata nel significato l’origine meccana. Se tuttavia rimase ad Ibn-Zafer l’appellazione etnica di Siciliano, è da supporre ch’ei non se la potè levare d’addosso, sia ch’egli fosse nato propriamente in Sicilia, o che vi fosse stato educato.
Parmi inoltre che l’errore potè sorgere o confermarsi per date mal appurate; le date io dico che talvolta pongonsi nei codici musulmani per affermare che tal testo fu, in tal mese ed anno e in tal paese, consegnato dall’autore al rawi, ossia ripetitore, con licenza di leggerlo altrui e darne copie. Occorre anco nelle notizie biografiche dei dotti, e specialmente de’ tradizionisti, che segnisi la data in cui il tale «ascoltò» da un tal altro, come chiamano tecnicamente il prendere lezioni della tradizione profetica. All’una o all’altra sorgente mi sembra ch’abbia attinto il Soiuti. Ma documenti analoghi ci abilitano a correggere alcuni errori suoi ed a provare un fatto, ignoto finora a tutti i biografi, cioè che Ibn-Zafer dimorò in Siria ben due volte in tempi diversi; il qual fatto rende poco verosimile il racconto di chi dice quel dotto andato nella sua fanciullezza in Maghreb e ritornato in Levante dopo il breve soggiorno di Sicilia. Cotesto itinerario par fondato sul supposto che Ibn-Zafer abbia dato in Sicilia la prima, anzichè la seconda edizione del Solwân: ma si prova appunto il contrario.
Il primo documento del soggiorno in Siria si trova nel Kheir-el-biscer, dedicato da Ibn-Zafer a un Sefi-ed-dîn-Ahmed-ibn-Kornâs, direttore, com’io credo, di qualche medresa, o vogliam dir liceo, in Aleppo o in Hama.[849] L’autore, fraseggiando nella prefazione, racconta come partito da’ “remoti paesi occidentali” per cercare asilo nel possente reame di Norandino, quel che abbatte con la sua grandezza gli animi di tutti i re di Levante e di Ponente e copre i suoi nemici con la polvere della distruzione, ec. «il destino l’avea balestrato ne’ precipizii, l’avea ricolmo di affanni e gli avea fatto vedere in pien meriggio la stella Soha;»[850] se non che Iddio gli mandò nel maggior uopo questo suo fratello ed amico, Sefi-ed-dîn, al quale, volendo mostrare gratitudine e rimeritarlo con la celebrità, gli presentava quel libro. Qui possiam segnare la data: poco più o poco meno il millecenquarantotto; poichè Nur-ed-dîn-ibn-Zengui si impadronì d’Aleppo alla morte del padre (1146), ed entro pochi anni allargò il dominio e la fama; mentre Mehdia cadea nelle mani di re Ruggiero.
Ci occorre, non guari dopo, quella che abbiam chiamata, a modo nostro, la prima edizione del Solwân, in fondo della quale l’autore pone il catalogo de’ libri compilati da lui, che incomincia così:[851] “Or ch’esce quest’opera dal mio scrittoio e passa nelle mani de’ rawi (ripetitori), sendo questo l’ultimo de’ miei libri, miei per tesnif (composizione) e talîf (dettato), nei quali mi sono studiato a dilettare i lettori con l’eleganza e ad ammonirli co’ precetti, ragion vuole ch’io conchiuda il volume, notandovi i titoli e gli argomenti di que’ miei lavori, quantunque i ribaldi abbiano fatta rapina di molti tra’ volumi così intitolati.” E seguono diciannove trattati, tra i quali si legge il Kheir-el-biscer, ond’è manifesto che era stato già scritto; ed all’incontro mancano, le tre opere dedicate ad Abu-l-Kasim in Sicilia, dond’è certo al pari che non erano state composte e che perciò la prima edizione del Solwân non è quella che porta il nome del nobile siciliano. Comparisce in capo del catalogo il Janbû’, gran comento del Corano, il quale l’autore avverte avere scritto per la seconda volta, sendogli stata rubata la copia: onde par che egli alluda con questo e col cenno precedente, al fatto narrato dal Soiuti, cioè che gli Sciiti d’Aleppo, dando addosso un giorno ai Sunniti, saccheggiarono la medresa ortodossa d’Ibn-Abi-’Asrûn e quivi rapiron tutti i libri d’Ibn-Zafer.[852]
Cotesta edizione del Solwân è preceduta da tale dedica che allude, senza dubbio, ad un fatto politico nel quale l’autore trovossi avvolto. Un re suo benefattore ed amico intimo e palese, dice egli senza dare il nome, principe savio, illustre, ed amante della scienza, viveasi in grandi angosce, minacciato e stretto da un ribelle, il quale avea a volta a volta assaliti e sedotti i suoi sudditi; e, arrivato a guadagnare tutti gli ottimati, stava già per cacciarlo dal trono. Bramando conforto a’ suoi mali, il tradito principe avea chiesto all’autore (oh beati tempi!) un libro di filosofia e d’erudizione, che fosse composto ad imitazione delle favole di Kalila e Dimna; e Ibn-Zafer, non sapendogli ricusar nulla, gli offria cotesto libro, scritto a bella posta per lui.[853] E veramente nel Solwân, gli squarci del Corano, le tradizioni, i fatti storici, le novelle, gli apologhi, ogni pagina, ogni linea, accenna a que’ termini estremi d’un principato, e tende a consolar il signore che precipiti giù dal trono. Di certo non son rari cotesti casi nelle storie musulmane del duodecimo secolo; pur nessun principe cadente somiglia tanto a quello d’Ibn-Zafer, quanto Mogir-ed-dîn, che tenea Damasco alla morte di Zengui. I costui figli incontanente si messero attorno a Mogir-ed-dîn, sotto specie di aiutarlo contro i Crociati; e Norandino entro pochi anni il finì. Gli s’infinse amicissimo; gli imbeccò tante trame da fargli spegnere ad uno ad uno tutti que’ capitani che non potè indettare per sè medesimo. E quando Mogir-ed-dîn si trovò senz’armi nè amici, il conquistatore appresentossi sotto Damasco; guadagnò il tratto ai Crociati, chiamati in aiuto: e i traditori gli aprirono le porte; il tradito venne a’ patti e, ingannato anche in questi, andò a finir la vita in un collegio fondato a Bagdad. Entrava Norandino in Damasco di sefer del cinquecenquarantanove (maggio 1154).[854] Cotesta data sta bene con le altre due che abbiam certe delle vicende d’Ibn-Zafer, cioè la dedica del Keir-el-biscer verso il millecenquarantotto e quella della seconda edizione del Solwân, nel cinquantanove. Ognun poi vede come, supponendo che il re innominato fosse Mogir-ed-dîn, l’amico e generoso scrittore non potea rimaner in Siria dopo l’occupazione di Damasco. Chi ha pratica delle biografie de’ letterati musulmani del medio-evo e conosce lor vivere irrequieto e vagabondo, la vanità e il bisogno che li spingeano da una corte all’altra, non ripugnerà a supporre che il gran monarca del Keir-el-biscer fosse divenuto entro cinque o sei anni il ribelle del Solwân.
Ma del cinquecencinquantaquattro (1159) il Solwân si volta al nome dello splendido kâid siciliano Abu-l-Kasim, preceduto da tre compilazioni che hanno per titoli: Asâlib-el-Ghaiat, El-Mosanni, e Dorer-el-Ghorer e accompagnato da caldi attestati di gratitudine, i quali compongono un’altra prefazione, messa in vece di quella che alludea già ai casi del re innominato.[855] Breve tempo dimorò poi Ibn-Zafer in Sicilia: allontanatosi forse nella sedizione de’ Cristiani di Palermo contro il re Guglielmo I e contro i Musulmani. Ei ricomparisce ad Hama, stentando la vita al dire d’Ibn-Khallikân, con una piccola provvisione che gli procacciarono, di professore, credo io, in qualche medresa. In Hama ei divulga, tra le altre opere, il Solwân della seconda edizione e il Kheir-el-biscer, mutilato della dedica a Sefi-ed-dîn. E veramente la copia del Solwân stampata non è guari a Tunis (1862), è tolta da un testo che l’autore stesso avea comunicato al ripetitore in Hama, del mese di regeb del sessantacinque (aprile 1170);[856] il qual testo, al par del maggior numero de’ codici che abbiamo in Europa, confronta con quello dedicato ad Abu-l-Kasim. E ciò prova che l’autore avea messo da parte l’altro del re innominato. La prima edizione corse per pochi anni, come si argomenta dal picciol numero delle copie che ne rimangono, in confronto delle molte della seconda edizione.[857] Nè altrimenti dovea succedere nel supposto che il nemico di quel re troppo buono fosse stato il gran Norandino; perocchè splendendo sempre più in Levante la gloria militare e la virtù religiosa del conquistatore, i Musulmani non avrebbero sopportata una voce che ricordasse le sue perfidie, nè l’autore stesso avrebbe affrontato il pericolo di uscir nuovamente dalla Siria.
Comunque sia, l’indigenza accompagnò Ibn-Zafer fino alla tomba, e poco prima l’avea sforzato a maritar la figliuola ad uom di condizione inferiore alla propria, ch’è peccato in legge musulmana. Il genero, per giunta, portò via la giovane e la vendè schiava in altro paese. Morì Ibn-Zafer in Hama, come abbiam detto: ei fu piccino e mal complesso della persona; ma bello in volto,[858] generoso d’animo, pio, onesto, lodato per chiaro ingegno, vasta erudizione e delicato gusto letterario. Donde possiam pensare che quest’ultimo scrittore della Sicilia musulmana avrebbe lasciate opere più grandi, se la povertà non l’avesse obbligato a filarne una trentina.
A capo delle quali ei pose nel citato catalogo il Janbû’, ec. (Sorgente d’eterna felicità nell’esegesi del Savio Ricordo) dettato due volte, come s’è detto, con lo stesso titolo[859] e chiamato anche il Gran comento letterale del Corano.[860] Abbiamo in Europa, per quanto io sappia, un solo volume del Janbû’, che torna forse ad una ottava parte dell’opera e che ne dà bel saggio, s’io giudico dirittamente.[861] Va noverato anco tra gli studii coranici il Fewâid-el-Wahi, ec. (Brevi ed utili cenni su le gemme della miracolosa Rivelazione) che racchiude la definizione de’ nomi dati alla divinità nel Corano; de’ quali alcuni differiscono di forma e di significato, come Kerîm e ’Azîm; altri, al contrario, derivano da unica radice, come Rahmân e Rahîm, ovvero possono usarsi indistintamente come Khabîr e ’Alîm.[862] Nella medesima classe è da porre l’ Asâlib-el-Ghaiât, ec. (Vie che portano a spiegar bene un versetto) ch’è appunto l’ottavo della sura quinta e risguarda le abluzioni;[863] l’ Iksir-Kimia-et-tefsîr (Elixir della chimica dell’esegesi);[864] il Kitâb-el-Borhaniat, ec. (Libro degli Argomenti che conducono alla spiegazione de’ nomi di Dio).[865] Non si cita d’Ibn-Zafer alcun trattato di tradizione musulmana propriamente detta. Pur non è dubbio ch’egli abbia studiata quella prima sorgente delle scienze dell’islam, poichè i biografi fanno menzione della sua presenza nelle scuole di tradizione,[866] e d’altronde lo provan le opere sue, come innanzi diremo.
Delle due opere giuridiche notate nel catalogo autentico, noi sappiam poco più che i titoli: e sembrano l’una e l’altra compendii. S’addimanda una il Mosanni (La Manoduzione), trattato di scuola malekita, nel quale avverte l’autore ogni tesi essere seguìta dalla sua dimostrazione: e parmi questo il medesimo libro che l’autore dedicò ad Abul-Kasim in Sicilia, allungando un po’ il titolo: “Manoduzione per chi vuole imbeversi della Ma’ona e dell’ Iscraf “, delle quali l’una è compilazione classica di dritto malekita, e l’altra pare opera di confronto tra le dottrine delle varie scuole ortodosse.[867] Il secondo lavoro giuridico d’Ibn-Zafer è poemetto didascalico sul partaggio delle eredità e su i diritti di clientela.[868] Non presto fede alla notizia, al medesimo tempo riferita e messa in forse dal Fasi, che Ibn-Za-fer avesse date lezioni di dritto sciafeita;[869] sembrandomi che s’egli studiò quella scienza, non l’approfondì tanto da poter insegnare in altra scuola che la malekita. L’errore nacque forse da somiglianza di nome, e questa sarebbe per avventura una delle cagioni che han resa dubbia la patria del letterato siciliano e fatta notare da alcuni nel cinquecensessantacinque la sua morte, che seguì per vero due anni appresso.
Da’ titoli delle opere di teologia, chè que’ soli abbiamo e qualche cenno nel catalogo autentico, sembra che Ibn-Zafer siasi gittato nelle contese degli scolastici musulmani dell’età sua. Messo da canto il Teskhir (La Connessione) del quale non sappiamo altro che la classe,[870] ci occorre il Mo’adat (I luoghi sacri), libro ortodosso, scrive l’autore medesimo, pien di salutari avvertimenti ed atto a chiarire ogni dubbio.[871] Segue il Mo’atibat-el-Giari, ec. (Riprensione all’audace che condanna l’innocente), il quale trattava, se dobbiam credere al Makrizi, delle dottrine teologiche di Abu-Hanifa e di El-’Asciari; onde par che l’autore abbia assunta la difesa del primo contro il secondo.[872] Svela ira più acerba il titolo del Kescf-el-Kescf (Smascheramento dello Smascheramento), confutazione d’un’opera ch’era uscita col titolo di Kescf, contro la famosa “Risurrezione delle scienze teologiche” per Ghazali.[873] Abbiamo infine con un titolo che parla dassè, il Gennet fi ittikâd-ahl-es-sunneh (Il Paradiso nella Ortodossia de’ Sunniti).[874]
Ma più che a combattere ne’ deserti della scolastica, s’adattava il delicato intelletto d’Ibn-Zafer alla filosofia morale. Si leggono nel catalogo i titoli di quattro opere, con l’avvertenza che fossero parenetiche, cioè: El-Khowads-el-wakiat, ec. (Gli elmetti sicuri e gli amuleti degli incantesimi);[875] Riâdh-ed-dsikra (I Giardini dell’Ammonizione);[876] En-nesâih (I buoni consigli);[877] Mâlek-el-idskâr, ec. (L’angelo che ricorda le vie delle Riflessioni).[878] Delle quali opere nè conosciamo codici, nè troviamo ragguagli; pur la tendenza morale si può argomentare con sicurezza dalle opere istoriche e dalle pseudo-istoriche del medesimo autore.
Delle prime ci rimane il Kheir-el-biscer, ec. (I migliori annunzii sul miglior dei mortali) dianzi citato, nel quale si discorrono le predizioni ch’ebbe il mondo dell’apostolato di Maometto.[879] Il trattato si divide in quattro capitoli, secondo la diversa origine de’ vaticinii; cioè a dire, que’ contenuti nei libri sacri degli Ebrei e de’ Cristiani e quelli usciti di bocca dei dottori, dei Kahin (arioli arabi) e dei ginn (genii o demoni). Nei primi due capitoli l’autore cita ad ogni passo il Pentateuco, i Salmi, il libro d’Ezechiele e i Vangeli, con le diverse opinioni degli espositori; talvolta ei confronta col testo la versione siriaca del Vecchio Testamento; esamina con erudizione il cammino percorso dai libri che compongono il Nuovo, e sostiene pertinacemente il paradosso musulmano che il Paracleto della Scrittura simboleggi Maometto. Parmi che cotesti due primi capitoli possan giovare in qualche modo alla storia degli studii biblici. Nel terzo e nel quarto si possono spigolare, per quel che valgano, degli aneddoti di storia preislamitica, e v’ha sempre da raccogliere note filologiche tra le sentenze sibilline conservate bene o male dalla tradizione. La fama che ha goduta e gode questo libro in Oriente, è provata dai molti codici che ne avanzano, dalle citazioni che ne fanno gli scrittori,[880] e dalla recente edizione del Cairo.[881] Sembra compendio del Kheir-el-biscer lo ’Alâm-en-nobowah (Segni della Missione profetica) che manca nel catalogo autentico, e dee perciò riferirsi agli ultimi anni dell’autore.[882]
Si allarga alquanto il campo storico nell’ Anbâ-nogiabâ-el-ebnâ (Notizie dei giovanetti illustri),[883] al quale non manca il suo compendio, chiamato Dorer-el-Ghorer (Le perle frontali).[884] Caso raro nella letteratura arabica, il titolo del primo di cotesti libri espone chiaramente il subietto. Dividonsi quelle biografie in cinque capitoli, ciascun de’ quali ha intitolazione particolare e il primo, detto “La gemma solitaria ed unica,” racchiude gli aneddoti di Maometto fanciullo. I tre seguenti trattano dell’infanzia di tre generazioni diverse di Musulmani; il quinto de’ fanciulli celebri degli antichi Arabi e de’ Persiani. È libro di adâb, come si chiama l’erudizione miscellanea; e contiene esempii di bella memoria, sagacità precoce, predestinazione alla grandezza religiosa o mondana. Cotesto libro, al paro che il Kheir-el-biscer, potrà giovare tuttavia a’ lessicografi ed a’ ricercatori della storia orientale del medio evo.
Com’ogni altro letterato arabo, scrisse Ibn-Zafer di grammatica. Leggiamo nel suo catalogo un El-Kawâ’id wal-biân, ec. (Le basi e la spiegazione della grammatica): ma egli stesso lo chiama compendio.[885] E’ sembra invero che Ibn-Zafer poco siasi curato della scienza grammaticale, ancorch’egli dicerto non l’abbia trasgredita nello scrivere, perocchè le sue opere pervenute infino a noi scarseggiano di note grammaticali, quanto abbondano delle lessicografiche. I biografi poi ci hanno tramandato un pettegolezzo che attesterebbe i rimorsi d’Ibn-Zafer; cioè, che trovandosi ad Hama in una tornata accademica con Tag-ed-dîn-el Kendi, questi gli propose una difficoltà grammaticale e poi un dubbio filologico: ai quali Ibn-Zafer rispose e in sul fine della tornata sclamò: “Il dottore Tag-ed-dîn è più valente di me in grammatica, ma io lo vinco in filologia.” — “Oibò, rispose il pedante, conceduta la prima tesi; controversa la seconda.”[886]
Lasciato da canto El Gewd-el-wasib (La pioggia continua),[887] al quale non sapremmo assegnar classe e il Kitab-el-isciarât, ec. (Cenni su la scienza dell’interpretazione) che par tratti d’oneirocritica,[888] entriamo nella filologia, che dopo la filosofia morale, fu in vero la disciplina prediletta del nostro autore. Come già dicemmo,[889] spirava allora nella letteratura arabica il secento e lucea, stella polare de’ filologi, l’arguto e vivacissimo Harîri. Ibn-Zafer lo comentò, sforzato dal genio de’ tempi; ma lo combattè anco. Nel Sefr (Il sentiero) ei dichiarò le voci insolite e rare e i proverbii che occorrono nelle Mekamet o “Tornate” di Harîri, come suona in italiano;[890] la stessa cosa par abbia fatto, su per giù, nel Nakîb, ec. (Lo scrutatore delle espressioni peregrine delle Tornate) e non sappiamo se il comento di Harîri, attribuito a Ibn-Zafer, sia copia di quelle due opere messe insieme, ovvero nuova compilazione.[891] Con l’ Awhâm-el-Ghawwâs, ec. (Errori del Marangone che taccia d’errore i Sommi) ei rifà il verso all’Harîri, il quale nella Dorret-el-Ghawwâs, ossia “Perla del Marangone,” avea sindacati i più celebri scrittori.[892] Fuor dall’agone della critica, ci occorre il Mulah-el-loghat (Sali di filologia), glossario alfabetico de’ vocaboli suscettivi di parecchi significati;[893] l’ Isctirak-el-loghewi, ec. (Consorzio filologico e genesi de’ significati)[894] e il Nogiob-el-amthâl (Proverbii eletti).[895]
Assai brevemente dirò del Solwân, ch’è pur il capo lavoro d’Ibn-Zafer ed ha mantenuta per sette secoli, e manterrà ancora per lungo tempo, la fama dell’autore presso i popoli musulmani. Venti anni or sono, io tradussi questo libro in italiano, rividi una bella versione inglese fatta su quella mia, e nella Introduzione trattai le sorgenti istoriche e letterarie alle quali l’autore avea attinto. Detti altresì tutte le notizie bibliografiche venutemi fin allora alle mani e v’aggiunsi molti, forse troppi, schiarimenti, per far comprender meglio il libro a’ lettori che non avessero studiate di proposito le cose dell’Oriente. Mi basti, dunque, di ricapitolare quella Introduzione, della quale confermo tuttociò che non correggerò espressamente.
Solwân-el-Motâ fi ’odwân-el-etbâ vuol dire “Rimedii del principe, quand’egli è nimicato da’ suoi seguaci.” Propone l’autore cinque rimedii, che danno argomento ad altrettanti capitoli: e son l’Abbandono in Dio, ossia l’affidarsi alla giustizia della causa; il Conforto, ossia non sbigottire nei pericoli; la Costanza, ossia perseverare; il Contentamento nella propria sorte; e l’Abnegazione, o piuttosto il disprezzo delle cose del mondo. Ciascun rimedio è esposto per sintesi e per analisi: da una mano i precetti del Corano, le tradizioni di Maometto, le sentenze de’ savii ed alcune massime dell’autore in prosa e in verso; dall’altra mano, squarci di storia, novelle fabbricate su fatti storici e prette favole ed apologhi. Gli argomenti storici son tolti per lo più da’ tempi classici dell’Arabia, da’ primi secoli dell’islamismo, dalla Persia sassanida e talvolta dalle agiografie cristiane dell’Oriente; le narrazioni favolose sono imitate, copiate non già, da’ modelli indiani. Troviamo testualmente una novella delle Mille ed una Notte:[896] ond’è da supporre che alcuno degli ultimi compilatori di quel dilettevolissimo libro, l’abbia tolta dal Solwân, non già il contrario. Del resto, non pochi altri squarci sembrano parafrasi o forse traduzioni di testi pehlewi, ch’è a dire, frammenti tolti dal naufragio della letteratura persiana nell’epoca de’ Sassanidi. Nelle massime morali s’alterna, come nella più parte de’ libri pervenutici dall’Oriente, la fierezza dello stoicismo e la pieghevolezza cristiana: savii sono del resto i consigli politici; ingenuo e vivace il dettato e la lingua arabica pura e scorrevole, se non che a volte s’inciampa in un pezzo di secento. Le due edizioni citate dianzi, le quali chiamerem l’una di Siria e l’altra di Sicilia, si distinguono non meno per le prefazioni diverse, che per la pulitura. Nella seconda son tolte via quelle citazioni continue, è semplificato l’intreccio; ma qualche bel racconto è soppresso e v’è passata, s’io non erro, la lima di una censura volontaria.[897]
Pregio principale del Solwân mi sembra la via nuova che l’autore tentò, nuova pei Musulmani, cioè d’inculcare massime morali con l’esempio di fatti immaginarii. Perchè pria di lui la letteratura arabica possedea sì delle versioni e delle imitazioni di favole persiane e indiane, ma non si ritrae che alcuno scrittore le abbia usate in opera di serio e grave argomento:[898] ond’è che Ibn-Zafer si sforza nella prima edizione a mostrar come i santi dell’islam non rifuggivano da arte oratoria così fatta, e nella seconda replica che legge non vieta il suo dettato, nè orecchio dee rifuggir da quello. E per vero, non ostante gli scrupoli del tetro genio semitico, parecchi orientali hanno tradotto questo libro, imitatolo o fattone parafrasi,[899] o presone squarci,[900] ed altri scrittori il citano.[901] In somma, il Solwân è stato sempre in voga appo i Musulmani, come lo provan anco le molte copie che n’abbiamo nelle biblioteche europee e la recente edizione di Tunis.
Tra i lavori d’Ibn-Zafer io non ho notate le poesie, perchè poche ne conosciamo oltre i versi intessuti nel Solwân; i quali d’altronde non differiscono dalle sue prose rimate, se non che per la misura e per la rima più rigorosa. Ciò non ha ritenuti i biografi dal chiamar belle le poesie d’Ibn-Zafer, giudicandole sopra un tipo di bellezza diverso dal nostro. Imâd-ed-dîn, ch’era penetrato infino all’osso del gusto letterario di quel secolo, dice che Ibn-Zafer, “passando in Siria gli ultimi anni della sua vita, irrigò con la eloquenza le Accademie de’ bramosi di sapere. Ei fu principe, al suo tempo, nell’esegesi del Corano e nella erudizione. Lo vidi io in Hama, che gli amatori della Scienza pendevano attoniti dal suo labbro. Lasciò eleganti composizioni e ben ordinate compilazioni: tra le altre opere il Solwân, ch’io ho percorso e trovatolo utile libro, come quello che unisce le due bellezze, delle idee e della lingua, e ti ammaestra or accennando, or esortando; il quale libro fu composto da lui in Sicilia, ec.” Arriva il biografo a dire che questo uom valentissimo sorpassò nella scienza tutti i dotti suoi contemporanei.[902] Che se non vogliamo fidarci di Imâd, ampolloso scrittore, facile a lasciarsi trasportar dalle antitesi e dalle consonanze, staremo al giudizio di Ibn-Khallikân, il quale, educato com’egli era in una scuola storica aridissima, pur novera Ibn-Zafer tra i principali eruditi e i più valenti uomini del tempo, e lo dice autore di pregevoli compilazioni.
Il doppio nome etnico non ha cagionati dispareri su la patria del tradizionista Abu-Ali-Hasan-ibn-Abd-el-Bâki, droghiere e dottore malekita, noto sotto nome d’Ibn-el-Bâgi,[903] detto Siciliano e Medinese, e morto il cinquecennovantotto (1201-2).[904] Al quale va aggiunto un Abd-el-Kerîm-ibn-Iehia-ibn-Othman, soprannominato “L’onor de’ Grammatici,” perch’ei fu maestro del precedente e discepolo di Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Mosallem, da Mazara; onde sembra anch’egli nato, o domiciliato in Sicilia.[905] Siciliano per nascita l’altro emigrato e tradizionista Abu-Zakaria-Jehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn Abd-el-Mo’nim, oriundo di Fez, discendente della tribù araba di Kais; il quale chiamossi anco Dimiski e Isfahani, dalle due città ov’ebbe soggiorno, e nella seconda delle quali morì, il secentotto (1211-12). Sappiamo ch’ei vagò per molti paesi, che seguì la scuola sciafeita, lasciando, com’e’ pare, la malekita, perchè non prevaleva in quelle regioni di levante. Si conosce di lui l’ Er-raudat-el-anîkah (Il dilettoso giardino), che sembra raccolta di tradizioni; ma egli non passava per fedel raccontatore.[906] Visse nel medesimo tempo e fu maestro di tradizione, il giurista Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abi-l-Kasim, siciliano, della tribù di Koreisc.[907] Il cieco Abu-Abd-Allah Mohammed-ibn-Abi-Bekr-ibn-Abd-er-Rezzâk, soprannominato Scerf-ed-dîn (Gloria della religione), par sia uscito di Sicilia con le ultime famiglie ch’emigravano; leggendosi ch’ei nacque il secenventuno (1224), che studiò e insegnò in Egitto e morì al Cairo. Uomo di molta dottrina, carità e religione, venuto in fama di santo che portasse benedizione altrui con le preghiere, ei professò tradizioni e lettura del Corano.[908] Parmi che Mohammed-ibn-Mekki-ibn-Abi-d-dsikr abbia preso il nome di Siciliano dal villaggio presso Damasco che si addomandava Le Siciliane; poichè lo dicono nato in Damasco, di regeb secenquattordici (ottobre 1217): il quale fu noto come lettor del Corano e tradizionista, ancorchè addetto al mestier di ricamatore a Damasco e poi nell’opificio del tirâz al Cairo, dove morì il secennovantanove (gennaio 1300).[909] Furon poi detti entrambi Ibn-es-Sikilli, come egli è probabile dalla nazione dei padri loro rifuggiti in Egitto, due giureconsulti egiziani di scuola sciafeita; il primo de’ quali, Mohammed-ibn-abî-l-Fadhl, della tribù di Rebî’a, soprannominato Scerf-ed-dîn (Gloria della religione), nacque in Misr il secentotto (1211), fu magistrato di polizia urbana e morì il secennovantadue (1293);[910] l’altro, Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Mohammed, soprannominato Fakhr-ed-dîn (Vanto della religione), scrisse un trattato giuridico, fu cadi di Damiata, indi magistrato al Cairo e morì il settecenventisette (1327).[911]
Ritornando ai Siciliani propriamente detti e alla classe della filologia nella quale ci è occorso il ramingo Ibn-Zafer, troviam ora un Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Ibrahîm-ibn-Ali, chiamato Ibn-el-Mo’allim (Il figliuol del maestro di scuola), che al dire di Dsehebi segnalossi molto in grammatica e in lessicografia, ebbe scrittura bellissima, studiò la medicina, interpretò i sogni, e morì il cinquecentrentadue (1137-38). Mettendolo il Dsehebi, l’ho messo anche io:[912] e più alacremente prendo a dir degli scrittori in prosa e in verso.
Giova qui ripetere che le notizie e gli squarci sui quali abbiamo a giudicare, derivano la più parte dall’antologia d’Imâd-ed-dîn; il quale trascelse secondo il gusto e l’intento suo, e non secondo il nostro. Indi è che tra le opere degli Arabi siciliani di quest’ultimo periodo, ei ci dà tre soli esempii di poesie che, in significato assai largo, chiameremo popolari. I due primi son versi da cantare, dettati da un buon letterato e poeta, senza tanto artifizio, ma senza scostarsi da’ metri soliti: onde ne tratteremo in appresso. L’altro esempio muove la sete e ne lascia a bocca arsa. Sono stanze, proprio stanze, con versi brevi e rime intrecciate: ond’io penso che scopriremmo per avventura più intimi legami tra queste e le prime poesie italiane della Sicilia, se il secentista pedante che fè la raccolta, ci avesse serbato qualche altro componimento di tal fatta. Ma di certo gli parve strano e barbarico il metro, del quale ei perfino ignorava il nome o sdegnò di ripeterlo, poichè ci trascrive i versi con la intitolazione “Di que’ che si recitano con cinque misure.”[913]
Gli scrittori arabi di Ponente ci ragguagliano dell’origine e progresso di cotesto novello uso di verseggiare, il quale non differiva nel metro soltanto della genuina poesia arabica. I componimenti furon chiamati propriamente Mowascehât, o Azgiâl. De’ quai vocaboli il primo è plurale dell’aggettivo femminino mowascehah, che vuol dire “ornata di wisciâh,” sorta di bustino di pelle, trapunto a fili alterni di perle e d’altre gioie. Forse chi primo usò tal nome, volle paragonar la nuova canzone ad una cantatrice abbigliata per andare a corte, o volle accennare alla gaiezza delle rime, avvicendate come que’ fili paralelli che si incrocicchiavano sotto il petto, nelle due punte del wisciâh. E veramente in linguaggio tecnico appellano simt, ossia filo, il verso la cui rima rilega tutte le stanze, e ghosn, ossia ramo, i versi di ciascuna. La voce zegel, al plurale azgiâl, rende l’idea di suono ripetuto, significando nella lingua classica: grido, chiasso, gorgheggio ed anco susurro come di venticello.
Le mowascehe s’intesero dapprima a corte di Cordova, allo scorcio del nono secolo; furon molto in voga in Affrica e Spagna dall’undecimo in giù; e quella moda occidentale trovò favore anco in Egitto e in Siria e dura finoggi.[914] Sia fioritura d’un germe che s’ascondea nella stessa poesia nazionale degli Arabi,[915] sia novità tolta in prestito dalla Persia, sia pure imitazione delle strofe e rime di bassa latinità che correano per avventura nel clero e nel popolo di Spagna al tempo del conquisto, la mowasceha alleggerì ogni maniera di peso della poesia classica: i versi lunghi, divisi per emistichii; l’unica rima de’ componimenti maggiori; i vocaboli insoliti o vieti messi lì per forza della rima o lusso di lingua; e nelle kaside, la macchina della bella che ha mutato il campo, dell’amante che visita le vestigie di quello e simili cose.
I versi brevi, scompartiti a stanze, costruiti più spesso con gli accenti a modo nostro che con le regole della prosodia arabica,[916] rimano con leggi svariate, or alternati come nelle nostre terzine, ora con rima intermittente come nelle canzoni e in molti altri antichi metri nostri; e così anche si tramezzano versi di varie misure, per esempio di quattro o cinque sillabe, con que’ d’otto o dieci. Secondo Ibn-Khaldûn, i zegel non si distingueano altrimenti da quell’altro metro, che per la lingua, volgare del tutto:[917] ma par che vi si usassero stanze più piccole e versi più corti; ed a ciò menava di certo la soppressione delle vocali finali nella più parte de’ vocaboli, ch’è proprio dell’arabo volgare; e l’uso di accompagnare i versi col canto e talvolta col ballo.[918] E però gli eruditi han chiamate le mowascehe, odi o canzoni e i zegel, ballate e sonetti; la quale ultima denominazione parrebbe più propria se si riferisse all’antico sonetto nostro.[919] Del resto richieggonsi altri studii pria di ammettere la parentela, che comparirebbe a primo aspetto dalla somiglianza di qualche metro e di qualche denominazione. Se pur si trovassero compagne le fogge del vestito, le muse neo-arabiche avranno sempre altro temperamento e altra indole che le neo-latine. Le prime, soprattutto quand’esse abbandonansi nei zegel, si allontanan sì dall’Arcadia del deserto, ma non s’avvicinano per questo alla scuola de’ Trovatori di qua nè di là dalle Alpi; e più spesso, ne’ loro nuovi metri, le immagini, il colorito, le transizioni, l’adulazione, il biasimo, i vanti, i monotoni piagnistei dell’amore, son gittati sulla forma arabica, quella, già s’intende, dei tempi di decadenza.
L’unica poesia di tal fatta, riferita a Siciliani nella Kharîda, è opera del segretario Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahmân-ibn-abi-l-Biscir, es-Sikilli, el-Ansari, cioè siciliano di stirpe medinese, messo in primo luogo nel capitolo de’ Siciliani contemporanei d’Imâd-ed-dîn, onde tornerebbe alla metà del sesto secolo dell’egira e duodecimo dell’èra cristiana. Più precisamente parmi da collocare Abu-l-Hasan tra lo scorcio dell’undecimo e i principii del duodecimo, poichè il raccoglitore cavò questa notizia dall’epistola di Abu-s-Salt su i poeti della età sua propria (1067-1134). Il componimento è di sei stanze, ciascuna di tre versi d’otto sillabe, ed ogni verso rima col suo simmetrico in ciascuna stanza, il primo cioè col primo e così il secondo e il terzo: e però lo chiamerei zegel, più tosto che mowasceha.[920]
Io mi ristringo al metro, ch’è la sola parte notevole di questo squarcio, e nulla dico de’ concetti e dello stile; parendomi gli uni volgari e l’altro pesantuccio, quando Abu-l-Hasan ne’ componimenti ordinarii tratta più vivacemente il subietto dell’amore mal corrisposto,[921] e le sue parole una volta si direbber anco tenere e spontanee.[922] Lasciato da canto Abu-s-Salt, che si dilettava di paragonare co’ suoi proprii versi e con gli altrui, un distico d’Abu-l-Hasan su i raggi di luce ripercossi dalle acque,[923] noi dobbiamo notar con lode gli epigrammi scherzevoli di questo autore[924] ed uno serio, dove spira l’orgoglio serbato da nobile e forte gente tra le amarezze che non mancavano ai vinti Musulmani di Sicilia.[925]
Par che Abu-s-Salt non abbia scritti in lista altri poeti siciliani, poichè Imâd-ed-dîn, senza citarlo altrimenti, continua questo capitolo con la scorta d’un anonimo che ne avea messi parecchi in una raccolta compilata di recente in Mehdia.[926] Tornano essi dunque alla prima metà del duodecimo secolo, com’anco s’argomenta dalle poesie dedicate a re Ruggiero.
Primo ci occorre in questa raccolta Abu-Musa-’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, es-Sikilli, lodato dall’anonimo antologista, come “giureconsulto di gran seguito, valoroso nelle allegazioni e negli argomenti, l’avvocato principe del suo paese, (lo scrittore) dai concetti nuovi, elevatissimi e dal linguaggio (fiorito come) i giardini cui rigan piogge continue.” ’Imâd-ed-dîn, sopraccaricando figure, continua che “a sentire i suoi dettati, ogni ferita risana; che il fulgore di quel bello stile dissipa le angosce; che le parole rassembran perle cavate dalle conchiglie e stelle raggianti. Ed ecco, conchiude Imâd, una delle sue peregrine poesie d’amore, la quale è più dolce che un desiderio soddisfatto.[927] ” Ma al nostro palato sanno meno salvatichi i versi dettati per una bella ragazza bionda[928] e per una bruna vezzosa.[929] Oltre varii epigrammi, un de’ quali indirizzato ad Abu-s-Salt per chiedergli in prestito un libro,[930] abbiam di lui il principio della kasida funebre scritta per un Abu-Ali-Abd-Allah, e sembranmi nobili versi.[931] È meraviglia che uom sì grave abbia dettate, nello stesso metro solenne, delle poesie oscene, come ben le definisce Imâd e ne reca in esempio una kasida intera ed un verso tolto da un’altra, del quale non oso pur dare la traduzione latina: e il laido concetto è espresso in termini astrologici che lo rendono più disgustoso.[932] I trentacinque versi ond’è composta l’altra, cominciano con la imitazione servile d’Imro-l-kais; arrivano ai vocaboli sudici e finiscono con una apologia insipida e impertinente.[933] Pur non si può negare il pregio della lingua in cotesti componimenti, nè in quelli di futile argomento, ammessi al par nella Kharîda: un’epistola in prosa a lode d’un bel saggio di calligrafia;[934] una in versi, nella quale sono evitate le due lettere elif e lam, sì frequenti nella lingua arabica.[935]
Abu-Abd-Allah-Mohammed, figliuolo del precedente e giureconsulto, segretario e poeta, ebbe gran fama, a quanto ci si dice, come geometra e astronomo o astrologo.[936] Più solenne giudizio troviamo intorno le sue opere letterarie. Scrivono i biografi “ch’ei passeggiava su le vette dell’eleganza; lo chiamano campione rinomato ne’ tornei de’ dotti; scoprono nelle sue poesie tale virtù da esilarare gli animi, e inebriare gli astanti come se si facessero girar tra loro delle tazze di vin prelibato.”[937] ’Imâd, accennando alle elegie di Mohammed-ibn-’Isa, esclama che, se ascoltassero di tai versi, si metterebbero sulla buona strada anco i malvagi.[938] E per vero una lunga kasida, scritta, com’e’ sembra, in morte d’alcun de’ Beni Labbana, procede maestosa e patetica: e comprendiam che dovesse parer capolavoro a chi possedea la lingua, a chi tenea sovrane bellezze i tropi, le metafore, le antitesi, che or ci muovono a riso.[939] La buona gente ascoltò, fors’anco tutta commossa, un’altra elegia che esordisce col pianto dei cavalli.[940] Perdonati i difetti del secolo, Mohammed-Ibn-Isa può dirsi buon poeta; migliore al certo del padre, poichè seppe scansarne la scurrilità. Ne’ suoi versi d’amore ci occorre, tra i luoghi comuni, qualche immagine graziosa.[941] Il componimento che ho citato dianzi come poesia popolare, ha concetti semplici, linguaggio facilissimo, versi non tanto lunghi e adatti al canto; del resto corron tutti sopra unica rima a modo antico.[942] Abbiamo di questo poeta gli squarci di due altre kaside, d’una epistola in rima, di due in prosa e di due tramezzate dell’una e dell’altra, onde veggiamo che lo stile familiare non gli facea smetter sempre le ampollosità.[943]
Seppe scansarle, quanto allor poteasi, un altro siciliano contemporaneo, del quale ’Imad-ed-dîn ci dà soltanto otto versi, tolti in parte dal principio e in parte dal seguito di lunga kasida che fu scritta in morte d’un nobil capo musulmano di Sicilia. E duolci che ’Imâd non abbia serbato il nome di costui, nè il rimanente dell’elegia, nel quale si sarebbero trovati per avventura de’ cenni storici e de’ versi più belli; poichè l’antologista trascelse di certo quelli che a noi possono piacer meno. Pur ci si veggono sentimenti vigorosi, concetti poetici e nobiltà di forma; in grazia anche del maestoso metro ch’è il tawîl, ossia “lungo.”[944] Il poeta chiamossi Othman-ibn-Abd-er-Rahman, soprannominato Ibn-es-Susi, dice ’Imad-ed-dîn; ma questo a me pare piuttosto soprannome di qualche antenato, oriundo di Susa in Affrica, il quale abbia fatto stanza e lasciata progenie in Malta; poichè si ammira tuttavia in quell’isola la lapida sepolcrale di Meimuna, figliuola di un Hassân-ibn-Ali, della tribù di Hodseil, detto Ibn-es-Susi.[945] Il poeta appartenne di certo alla stessa famiglia, poichè l’antologista continua dicendo che “Malta fu il luogo della sua nascita,[946] la stanza di sua gente e la produttrice del suo vino; quivi fu coltivato il suo ingegno, quivi egli apprese lettere umane dal proprio padre. Abitò quindi Palermo; elessela a (seconda) patria e vi trovò riposo. Ei visse oltre i settant’anni, procreò figliuoli; le sue poesie (lodansi per) sano concetto, bella struttura e buon gusto. Avea recitata egli stesso, pochi giorni pria di morire, quella elegia all’autore della raccolta.”[947]
Siciliano parmi senza dubbio un Abu-d-Dhaw-Serrâg-ibn-Ahmed-ibn Regiâ, del quale ’Imad-ed-dîn non dà cenno biografico, ma il cita a proposito del carteggio ch’ei tenne con Abu-s-Salt.[948] Parmi siciliano, perchè nella seconda metà del duodecimo secolo abbiamo di quel casato un cadì di Palermo, il cui padre e l’avolo aveano esercitata la stessa magistratura;[949] e d’altronde l’elegia dettata in morte d’un figliuolo di Ruggiero, prova ch’egli ebbe grazia a corte di Sicilia o ne cercò. Al dire di Imâd-ed-dîn, faceasi menzione di questo poeta nell’opera d’Ibn-Bescrûn, della quale tra non guari tratteremo. Si lodavano ampiamente i suoi rari pregi e le sue risplendenti qualità: sobrietà di descrizioni, possente immaginativa, intuizione sicura, acume d’intelletto, poesia ben tessuta e indirizzata ad alto scopo.[950] E sì che la fantasia non venne meno ad Abu-d-Daw tra questo turbine d’immagini orientali, evocate in mezzo al profondo lutto del re.
Altri poeti celebrarono la magnificenza di Ruggiero con carmi i quali, quantunque scorciati da Imâd-ed-dîn “perchè, dice egli, suonan lode degli Infedeli ed io dal mio canto non la vo’ confermare,” han pure singolar pregio appo noi, provando che così fatti omaggi erano graditi a corte di Palermo, e valendo anco a illustrare luoghi di delizia che da gran pezza han mutato aspetto. Così l’antica reggia di Palermo, oltraggiata dal tempo e dai vicerè spagnuoli, l’anfiteatro romano, chiamato nel medio evo la Sala verde e adeguato al suolo più di tre secoli addietro, i giardini e il castello di Maredolce o della Favara, le vestigie dei quali non sono dileguate del tutto, ci tornano alla memoria ne’ versi di Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed-ibn-Omar, della città di Butera in Sicilia.
Fu questi, come leggiamo nella Kharîda, “recitator del Corano non inferiore a nessuno al suo tempo, dottissimo nelle varianti del sacro libro: e verseggiò con mirabile originalità di pensiero. Egli stesso recitò all’anonimo mitologista una kasida, nella quale lodando Ruggiero il Franco, principe della Sicilia, descrisse gli eccelsi edifizii di quel re. Nel qual poema si legge tra le altre cose:[951] ”
“Su, fa girare il (vin) vecchio[952] di color d’oro; e attacca la bevuta mattutina con quella della sera.
Bevi al suon della lira bicorne e de’ canti ma’bediani.[953]
Non si vive davvero, se non che nel beato soggiorno di Sicilia,
(All’ombra) d’un principato che s’innalza sopra quello de’ Cesari.[954]
(Vedi) i palagi vittoriosi, dinanzi a’ quali la gioia arresta il ronzino:
Ammira questo soggiorno che Iddio ha colmo d’abbondanza,
Il circo che superbisce sopra tutti gli edifizii (innalzati) dall’arte;[955]
I giardini della Rupe,[956] ne’ quali torna ridente il mondo,
E i lioni della fonte che buttan acque di paradiso.
La primavera con le sue bellezze veste quei giardini di splendidi ammanti;
Il mattino li incorona con colori di gemme.
E imbalsaman essi le aurette de’ zefiri, dall’alba ed al tramonto.”
Descrisse più particolarmente i giardini della Favara Abd-er-Rahman-ibn-Abi-l-’Abbâs, da Trapani, il Segretario:[957]
“Favara da due mari[958] tu contenti ogni brama di vita dilettosa e di magnifica apparenza.
Le tue acque diramansi in nove ruscelli: oh bello il corso delle acque così spartito!
Là dove si congiungono i due mari, là s’affollano le delizie.
E sul canal maggiore s’accampa l’ardente desiderio.
Oh quanto è bello il mare dalle due palme e la (pen)isola[959] nella quale s’estolle il gran palagio!
L’acqua limpidissima delle due polle somiglia a liquide perle e il bacino a un pelago.[960]
Par che i rami degli alberi si allunghino per contemplare il pesce nell’acqua e gli sorridano.
Nuota il grosso pesce in quelle chiare onde, e gli uccelli tra que’ giardini modulano il canto;
Le arance mature dell’isola sembran fuoco che arda su rami di smeraldo;
Il limone giallo rassomiglia all’amante che abbia passata la notte piangendo per l’assenza (della sua bella);
Le due palme hanno l’aspetto di due amanti che siansi riparati in asilo inaccessibile, per guardarsi da’ nemici,
Ovvero, sentendosi caduti in sospetto, s’ergan lì ritti per confondere i susurroni e lor ma’ pensieri.
O palme de’ due mari di Palermo! che vi rinfreschino continue, non interrotte mai, copiose rugiade!
Godete la presente fortuna, conseguite ogni desio: e che dorman sempre le avversità!
Prosperate con l’aiuto di Dio; date asilo a’ cuori teneri e che nella fida ombra vostra l’amor viva in pace!
Quest’è genuina (descrizione) da non mettere in dubbio. Ma s’io sentissi (raccontare) cose simili, mi parrebbero proprio favole.”[961]
Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan, il grammatico Siciliano, al dir dell’anonimo citato nella Kharîda, “fu principe in lessicografia e in grammatica; rinomato per le sane e sobrie dottrine filologiche; lodato per l’orditura giusta e l’andamento scorrevole e ben ordinato de’ suoi versi. Messo in carcere da’ Franchi di Sicilia, continua l’autore, e travagliato con ogni maniera di angherìe, dalla sua prigione ei dettò una kasida a lode di re Ruggiero.” Della quale Imâd-ed-dîn dà il principio e due squarci, ma poi tronca netto la citazione, mormorando che quantunque gli piaccia la poesia, quelli augurii gli danno noia, nè vuol ratificare le lodi degli Infedeli, che Iddio si affretti a precipitarli nel più cocente ardore del suo fuoco.[962] Pur ei conchiude che il poeta è scusabile, come prigione.[963] Il quale, quasi a smentire il critico che dovea lodarlo del felice disegno, sbalza con transizione spropositata dal classico amante di So’àd[964] al magnifico re di Sicilia; ma, tra le esagerazioni, sbozza pur qualche bella immagine e sempre esprime i concetti con rara eleganza.[965]
Per incontinenza poetica, o perchè volle anch’egli adular il vincitore dell’Affrica, ripetea le lodi di Ruggiero un letterato di Mehdia, il cui nome ci è già occorso: Othman-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-Abd-er-Rezzâk-ibn-Gia’far-ibn-Bescrûn-ibn-Scebîb, della tribù di Azd, il quale par abbia fatta lunga dimora in Sicilia, poichè porta anche il nome di Sikilli. Dà notizia di lui Imâd-ed-dîn, trascrivendo nella Kharîda molte poesie, tolte dal libro che die’ fuori questo Ibn-Bescrûn nel cinquecensessantuno (1165-6) col titolo di El Mokhtar, ec. ossia “Scelta di poesie e di prose rimate degli egregii contemporanei.”[966] Quivi dice l’autore che, avendogli Abd-er-Rahman da Butera mostrata la kasida a lode di Ruggiero e avendolo richiesto di un componimento compagno di metro e rima, ei cantò:[967]
“Evviva la Mansuria, tutta splendente di bellezza;
Col suo castello saldissimo di struttura, elegante di forma; con le eccelse logge;[968]
Con le sue belve,[969] con le acque copiose e le fonti che potrebbero stare nel Paradiso.
Quivi i giardini lussureggianti veston ricchi drappi,
Chè tutto il suolo è coperto di broccato[970] del Sind.
Il zeffiro (che vi passa) ti arreca la fragranza dell’ambra.
Qui vedi gli alberi carichi d’ogni più squisita sorta di frutta;
Qui gli uccelli, senza posa, dalla mattina alla sera si ricambiano (il canto).
Che qui s’innalzi (sempre) in sua gloria Ruggiero, re de’ re cesarei,
E (goda) lungamente le dolcezze della vita, ne’ ritrovi che fan suo diletto.”[971]
Dopo i poeti cesarei, Imâd-ed-dîn registra El Gâun-es-Sikilli, ossia il “Ribelle siciliano,” come fu chiamato Abu-Ali-Hasan-ibn-Wadd: e nulla ci dice su l’origine di quel terribil nome, ma sol nota aver trovati di molti sbagli ne’ versi. E dà uno squarcio di kasida; poi de’ versi d’amore, accozzati di luoghi comuni, senza alcuno di que’ bizzarri concetti ed espressioni ricercate ch’eran tanto in pregio. I quattro versi che ci rimangono della kasida, odorano di apologia; poichè l’autore si lagna delle vicende della fortuna e de’ partigiani che l’hanno abbandonato. Ingenuo lo stile anche qui, non vela il dispetto nè l’orgoglio, e mostra che il Ribelle non verseggiava per far versi, ma per isfogare la passione dell’animo.[972]
Visse sotto re Ruggiero Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan da Malta, detto il cadi, ancorchè non si fosse mai dato alla giurisprudenza, ma solo alla poesia; nella quale i critici del tempo in loro stile sentenziavano che “egli ebbe un mar di pensieri ed una scaturigine bollente d’estro,” e aggiugneano che moltissimi versi ei scrisse a lode di Ruggiero, chiedendo licenza di ritornare in Malta, ma non ne cavò altro che aspre ripulse.[973] Imâd-ed-dîn non trascrive pur un di que’ versi e mal ce ne compensa con due epigrammi, l’uno fredduccio, l’altro bello ma amaro.[974] La coincidenza del nome patronimico, della patria e della età, mi fa credere sia questi il medesimo Abu-l-Kasim-ibn-Ramadhan, del quale il cosmografo Kazwini ci ha serbato l’emistichio ch’egli improvvisò vedendo una clepsidra. E starebbe bene, del resto, che Imâd l’avesse notato col nome proprio Abd-er-Rahman, e il Kazwini col soprannome familiare Abu-l-Kâsim. In ogni modo va aggiunto ai poeti siciliani Ibn-es-Sementi, che compiè il verso e il madrigale, sì come abbiam detto.[975]
E così venuti alle poesie minori, ci occorre Abd-el-Halîm-ibn-Abd-el-Wâhid, il quale, educato nell’Affrica propria, Siciliano, dice Imâd-ed-dîn, per soggiorno, come quegli che stanziò in Palermo, “apprese ogni bel sapere da’ letterati di quella città, e dettò versi che rassembrano a’ grappoli dell’uva ed orazioni che sembran collane.” Affettuoso il suo distico su la terra che gli die’ ospizio:
“Amai la Sicilia nella prima gioventù. Essa parea giardino d’eterna felicità.
E non m’incomincian per anco a biancheggiare i capelli, che eccola, già divenuta gehenna ardente!”[976]
Anche i suoi versi d’amore son eleganti ed arguti.[977]
Un altro musulmano di Mehdia, venuto in Sicilia qualche mezzo secolo dopo Abd-el-Halîm, dettò alcuni versi sopra un giovanetto cristiano, garzon di bettola in Palermo, i quali vo’ tradurre come ricordo dei costumi, non che io ci vegga tante bellezze. Il poeta si addimandò lo sceikh Abu-l-Hosein-ibn-es-Sebân; e sappiamo ch’ei passò di Sicilia in Damasco, dove morì il cinquecensessanta (1164-5), dopo il soggiorno di più di dieci anni.[978]
Credo nato in Sicilia Abu-l-Fadhl-Gia’far-ibn-el-Barûn, non solo perch’egli è detto Siciliano nell’antologia, ma altresì perchè una iscrizione arabica di Termini ricorda un Barûn, paggio della corte siciliana, fondatore di non so qual monumento.[979] Forse Barûn fu soprannome e divenne casato in persona de’ figli. Tra quali si può noverare questo Gia’far “uno degli unici nell’arte di far ottimi versi,” scrive Imâd-ed-dîn, e accenna particolarmente ad alcuni in lode del vino, ma non li dà. I versi d’amore, dei quali ci rimangono quattro squarci, sembrano eleganti e non senza originalità.[980] Que’ di metro più breve corrono sopra unica rima come gli altri.[981] Gareggiano i due antologisti nelle lodi del giureconsulto siciliano Abu-Mohammed-ibn-Semna; del quale l’anonimo dice ch’ei seppe unire l’arte poetica alla scienza del diritto; ch’ebbe indole vivace, pronta e arguta risposta, conversazione amena e scherzevole. Imâd-ed-dîn rincalza: parergli le costui poesie, lavoro sublime e frutto maturo. Ma si avverta che la critica è scritta in prosa rimata, con vocaboli contrapposti, assonanze e bisticci, che l’è una maraviglia. Piacque soprattutto un battibecco tra questo Ibn-Semna e ’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, e la cortese risposta, fatta in otto versi, ai rimbrotti, che ’Isa, punto da parole riportategli, avea scritti in tre versi[982] dello stesso metro e rima.
Visse in Egitto, uscito di Sicilia non sappiam quando, e fu primo segretario del califo fatemita Fâiz-billah (1155-60), un Abd-el-Aziz-ibn-el-Hosein, di sangue aghlabita, detto Sikilli e Sa’di,[983] e soprannominato El-kadhi-el-Gialîs (Il cadi compagnevole); il quale morì d’oltre settant’anni, il cinquecensessantuno (1165-6). Parecchi squarci delle sue poesie, serbati da un biografo del secolo decimoquarto, cel mostrano poco diverso da’ poeti minori contemporanei; chè al par d’ogni altro ei sciorina le pupille omicide, le fonti di lagrime e tutto il resto.[984] Pur v’ha di lui qualche grazioso epigramma,[985] e il principio dell’elegia dettata per un suo figliuolo, che morì per naufragio, ci sembra pien d’affetto.[986] L’era forse tutta la kasida e per questo appunto parve sì scipita al biografo; il quale ne dà un solo verso, confermando con ciò che, da ’Imad-ed-din a lui, il gusto de’ letterati arabi di cattivo era fatto pessimo.
Son questi gli ultimi poeti arabi che verseggiarono in Sicilia. Agli stranieri è da aggiugnere Jehia-ibn-et-Teifasci da Kâbes, ucciso in Sicilia da’ Franchi, dice Imad-ed-dîn, dopo il cinquecencinquanta (1155) quand’e’ fecero la carnificina de’ Musulmani:[987] ch’è da riferirsi, secondo me, alla rivoluzione del millecensessantuno. Scrittore e poeta di maggior fama, venne in Sicilia (1168), com’abbiamo detto,[988] il cadi Ibn-Kalâkis d’Alessandria, il quale ripartì con un ambasciatore egiziano che di Palermo tornavasi al Cairo. Par che Ibn-Kalâkis abbia soggiornato parecchi mesi nell’isola, poich’egli vide Palermo, Termini, Cefalù, Patti, Lipari, Caronia, Messina, Siracusa. Oltre il libro dedicato ad Abu-l-Kasim e i versi che gli scrisse quand’ebbe a toccar l’isola di nuovo per fortuna di mare, sappiam ch’ei lodò re Guglielmo in una kasida e abbiamo i versi ch’ei dettò, a proposito delle mentovate città di Sicilia, trovando sempre a ridire: qua sul nome, là sul clima o su le acque; ed or lamentando i disagi della navigazione, or le molestie degli uomini, or l’uggia del veder cavalieri cristiani serrati in fila con le spade sguainate, come i denti di qualche belva che stèsse per avventarsi addosso a’ Musulmani.[989] Al contrario lodava l’umanità della corte siciliana un de’ Beni-Rowaha, il quale, preso dall’armata mentr’ei navigava, chiese grazia con versi non tanto studiati, dicendo aver lasciati a casa una madre vecchia e de’ figliuoli piccini in grandi strettezze, i quali, volesse Iddio, conchiuse il poeta, che fossero qui prigioni, “poichè appo voi non ci manca vitto nè vestito.” E si narra che il re liberò costui, gli donò mille dirhem, e lo rimandò appo i suoi, spesato di tutto. Ma non sappiamo a chi si debba riferire il beneficio, poichè Scehâb-ed-dîn-’Omari, che trascrive cotesti versi, non dà il nome del re, nè il tempo, nè altro particolare che il casato del poeta.[990]
CAPITOLO XII.
Ormai tra il libro di re Ruggiero e i diplomi suoi e de’ successori; tra Falcando, Ibn-Giobair e gli altri cronisti e geografi, si può delineare un prospetto delle condizioni topografiche ed economiche della Sicilia nell’ultimo periodo delle colonie Musulmane. Si posson anco particolareggiare alcuni compartimenti del quadro. A chi abbia sotto gli occhi la descrizione dell’Edrîsi, accurata com’essa è in alcune parti, viene in mente la prima cosa di cercare quali mutamenti siano accaduti nella geografia fisica dell’isola. E la curiosità delusa ci ricorda qual breve spazio siano sette secoli nella cronologia del globo. All’infuori di Panaria, la quale manca di certo per dimenticanza,[991] noi troviamo intorno la Sicilia le stesse isolette; delle quali, allora appunto com’oggi, ardean sole Stromboli e Vulcano, e quest’ultima con rarissimi intervalli.[992] Sarebbe sì da notare, come vestigia d’antichi fatti geologici, la diversità di certi quadrupedi in diverse isolette; poichè Edrîsi dice che viveano in Pantellaria capre domestiche rinsalvatichite,[993] in Vulcano, capre selvatiche, e in Marettimo, capre e antilopi.[994] Ma non sappiamo quanta fede meritino così fatte distinzioni, nè se meglio sarebbe aggiugnere a quegli animali i cervi di Favignana che ricordansi nel decimottavo secolo,[995] e raccoglierli tutti quanti in unica specie, quella per lo appunto onde par sia venuto il nome di Egadi alle isole vicine a Trapani e quello di Capri, Caprera, Capraia ad altre più settentrionali.
Abbiam toccato in uno dei precedenti libri la quistione del menomato volume delle acque fluviali in Sicilia.[996] A quella or si rannoda la deteriorazione che parrebbe avvenuta in alcuni porti: ma è da ricordare che Edrîsi estende l’appellazione di marsa, ossia porto, a’ piccoli scali; e che in quella età, ancorchè non mancassero navi capaci al par delle nostre fregate, pure si adoperavano ordinariamente piccoli legni e soprattutto men cavi che i nostri. Contuttociò non è da negare assolutamente la differenza di profondità che comparisce nel fiume di Lentini e nelle foci di que’ che prendono il nome da Mazara e da Ragusa, quando Edrîsi scrive che le navi arrivavano con tutto il carico entro la prima di quelle città, posta a sei miglia dentro terra;[997] che legni addetti al traffico con Calabria, Affrica ed altri paesi, caricavano e scaricavano alla imboccatura del fiume di Ragusa;[998] e che navi salpavano e barche svernavano presso la città, nel fiume Mazaro.[999] Indi possiamo supporre avvenuto in cotesti luoghi un interrimento o un sollevamento del suolo, di che abbiamo tanti esempii in Sicilia e fuori. Possiamo creder anco rimpiccioliti per simili cagioni i porti di Catania, Girgenti e Trapani, i quali or si lavora a ristorare, quando sappiam che al tempo di re Ruggiero erano i due primi gremiti sempre di navi;[1000] il terzo sicurissimo da tutti i venti e immune della risacca, onde vi si svernava.[1001] Dei due porti di Siracusa leggiamo che il piccolo fosse più frequentato che l’altro.[1002]
Edrîsi fa menzione della fonte intermittente, detta Donna Lucata,[1003] presso Scicli e dell’Amenano che scorre sotterraneo in Catania e talvolta irrompe nelle strade.[1004] Dobbiam altresì, a chi raccolse le notizie topografiche, un abbozzo di statistica archeologica dell’isola, leggendosi col predicato di azali, che appo noi suonerebbe “aborigene,” le castella di Termini, Tusa, Kala’t-el-Kewârib (Santo Stefano), Caronia, Taormina, Noto, Ragusa, Girgenti, Marsala, Trapani, Kala’t-et-Tirâzi (Calatrasi presso Corleone), Battelari (presso Bisacquino) e Calatafimi; oltrechè son chiamati kadîm, ossia «antico» il castel di San Marco e Noto or or nominata: e si dice a Termini del teatro e de’ bagni; a Girgenti degli antichi avanzi che dimostrano la possanza alla quale arrivò un tempo il paese; a Taormina del ponte, del teatro romano, testimone della grandezza di chi edificollo, e di un colle che addimandavasi Tûr, celeberrimo per miracoli e pratiche di devozione.[1005]
Passando alla geografia politica, novello studio sul testo di Edrîsi e su le altre memorie di quei tempi, mi sforza a confessare che mancano ne’ documenti del duodecimo secolo le prove della tripartizione amministrativa della Sicilia, ch’io, seguendo il Gregorio, supponea ristorata da re Ruggiero.[1006] Se altre carte non ci daranno ragguagli più precisi, è da ritenere che sotto i Normanni la Sicilia sia stata divisa in varie province o distretti, di estensione assai disuguale e fors’anco mutabile.[1007]
Con maggiore certezza ritraggiamo da Edrîsi la distribuzione degli abitatori sul territorio dell’isola. Noveravansi in questa centrenta grossi paesi, escluse, com’espressamente ci avverte il compilatore, le ville, i casali e le terre minori. Percorrendo i centrenta, veggiamo che trentuno, posti la più parte su la marina, aveano de’ mercati, ossia, secondo l’uso dell’Oriente e dell’Europa del medio evo, delle contrade abitate da artigiani dello stesso mestiere o venditori della stessa merce. Undici paesi, de’ quali un solo dentro terra, vanta van de’ bagni;[1008] Palermo avea de’ magazzini di grandi mercatanti;[1009] Palermo stessa, Lentini e Marsala, de’ fondachi;[1010] Catania, Siracusa, Mazara e Marsala, de’ khân:[1011] ed oltre Palermo, Messina, Catania e Siracusa, segnalavansi, per palagi e grandi edifizii, Castrogiovanni, Noto, Butera, Girgenti, Carini: e notavansi le larghe vie di Mazara, e le villette di delizia intorno i bagni Segestani.[1012] Delle isolette adjacenti, erano abitate per tutto l’anno Malta e Pantellaria; Lipari soltanto in certe stagioni, ma avea pure un castello:[1013] disabitate sembrano le altre, non facendovisi ricordo di popolazione nè di agricoltura, ancorchè quelle isolette fossero state esplorate diligentemente, come si argomenta dalla descrizione dei porti loro, delle acque dolci, della legna che vi si trovava, e della frequenza de’ navigli che soleano cercarvi asilo nelle fortune di mare.[1014] Leggiamo con maraviglia essere abbandonata, senza guardia d’armati nè pur d’un custode, la inespugnabile fortezza dell’Erice, chiamato allora Gebel-Hâmid;[1015] quando Ibn-Giobair, trent’anni appresso, la dicea vegliata sì gelosamente.[1016] Il libro di Ruggiero pone entro la fortezza di Giato una segreta pe’ rei di maestà;[1017] dice tramutata in Sciacca la popolazione di Caltabellotta, fuorchè un piccol presidio;[1018] e ci fa saper che la ròcca di Kala’t-es-Sirût, che torna al Golisano del medio evo, o Collesano, com’è piaciuto poi di scrivere, era stata spiantata, per comando del re, e tramutati i terrazzani in sito men difendevole.[1019] Del qual episodio non fanno menzione le croniche; ma sta bene nella tragedia che si travagliò per tanti anni tra re Ruggiero e Rainolfo conte d’Avellino, marito d’una sua sorella e nemico implacabile del cognato. De’ centrenta grossi paesi, poi, una trentina sono scomparsi oggidì dal novero de’ comuni, e ne riman appena il nome in qualche villa o in qualche castello abbandonato e sovente rovinoso. Giacciono, la più parte, nelle province di Palermo, Trapani, Girgenti, o vogliam dire in quello che fu val di Mazara.[1020] Guardando una carta geografica, si vede ancora la cicatrice della gran piaga che vi fu aperta alla fine del duodecimo e prima metà del secolo seguente.
Il qual fatto mi conduce a chiarirne un altro, assai più grande e funesto. Raccogliendo tutti i nomi de’ luoghi abitati che occorrono negli scritti geografici o storici e ne’ diplomi, dal principio dell’ottavo al principio del decimoquinto secolo, si notano in Sicilia più di mille nodi di popolazione, tra piccoli e grandi; dal qual numero si può togliere forse una dozzina per nomi raddoppiati, ma vanno aggiunte parecchie centinaia di nomi ignoti finadesso, o perduti del tutto con tanti diplomi pubblici e privati. A fronte dei mille luoghi e più, che si debbono supporre abitati nel tempo più florido della Sicilia del medio evo, ossia nel regno di Guglielmo il Buono, mettiamo le cinquecensessanta abitazioni che si contavano, tra comuni e villaggi, alla fine della dinastia borbonica, e si vedrà la enorme mancanza d’una metà per lo meno.[1021] Or supponendo l’attuale popolazione della Sicilia uguale a quella del duodecimo secolo, e tale io la credo senza timor di grosso sbaglio, perchè il numero è cresciuto rapidamente da cento anni in qua, egli è evidente che gli uomini sparsi una volta nelle campagne si sono raccolti nelle grosse terre; il che vuol dir che l’agricoltura è andata a male. Notissima cosa ella è veramente che in Sicilia la più parte de’ contadini abita lungi dal suolo da coltivare, ossia che si sciupano molte ore della giornata o molti giorni della stagione propizia, e che la più parte delle terre di Sicilia rende assai meno di quel che potrebbe, serbate d’altronde tutte le altre condizioni attuali, che non sono al certo le migliori. Cotesta rovina economica principiò, a creder mio, con le molestie suscitate contro i Musulmani fin dagli ultimi anni di Guglielmo II; si accrebbe a volta a volta nelle vicende successive, e Federigo II, filosofo e buon massaio quant’ei si fosse, dievvi pure una dura spinta. Le guerre del Vespro siciliano non eran fatte al certo per guarir quella piaga; la quale squarciossi vieppiù nell’anarchia feudale del decimoquarto secolo, e gangrenì sotto la dominazione spagnuola, sotto le giurisdizioni baronali e la possessione di tante manimorte. Giova sperare che i cresciuti commerci dell’età nostra, lo aumentato valor delle terre, e con ciò il vigor di novella vita nazionale, l’aria libera che respiriamo, le savie leggi civili, gli studii promossi, e la sicurezza pubblica, s’e’ verrà fatto di ristorarla, riconducano a’ campi le popolazioni che ora stentan la vita nelle città.
La mutata proporzione tra cittadini e contadini che, certissima in fondo, ma senza particolari, abbiamo ritratta dal riscontro de’ nomi topografici, comparisce molto precisa ne’ territorii di Giato, Corleone e Calatrasi, che noveransi tra le centrenta città e castella descritte nel libro di Ruggiero. I quali essendo stati donati da Guglielmo II al monastero di Morreale (1182), ne abbiam noi ne’ diplomi di concessione le note catastali, onde si scorge che que’ tre territorii contigui conteneano cinquanta tra castella e casali. La superficie, la quale su per giù prende mille chilometri quadrati, è in oggi suddivisa ne’ territorii di dodici comuni, de’ quali il solo Corleone serba l’antico nome:[1022] il che basti a mostrare i rivolgimenti sociali di quelle parti dell’isola. La proporzione, poi, di tre grossi paesi a cinquanta piccoli nel duodecimo secolo, e de’ cinquanta castelli o casali d’allora, a’ dodici comuni della nostra età, non si può di certo applicare a tutte le altre regioni dell’isola: contuttociò si badi che, a quella stregua, tornerebbe scarso il numero de’ mille paesi abitati che abbiam trovati nelle memorie del medio evo, e dovrebbe raddoppiarsi, o accrescere almeno d’una metà.[1023]
Venendo in particolare alle sorgenti della pubblica ricchezza, e prima ai minerali, ci accorgiamo di non pochi mancamenti nel libro di Ruggiero. Il quale accenna al ferro cavato dalle montagne di Messina ed esportato ne’ paesi vicini,[1024] alle saline di Trapani,[1025] alle pietre molari del territorio di Calatubo;[1026] ma dimentica molti altri simili capi di commercio, che noi abbiamo ricordati nel periodo precedente, nè egli è verosimile, fossero mancati:[1027] e, quel ch’è più, tace dello zolfo e del petrolio. E qui si potrebbe credere studiato il silenzio della relazione ufiziale, per celare quanto più si potesse gli ingredienti del fuoco greco;[1028] perchè l’estrazione di quelle due produzioni minerali era stata descritta da Ahmed-ibn-Omar-el-’Odsri, o el-’Adsari, uno appunto degli autori di geografia citati nella Prefazione di Edrîsi.[1029]
Secondo il luogo di Ahmed, che raccattiamo dalle citazioni di due autori più moderni, lo zolfo giallo di Sicilia, miglior di quello di tutt’altro paese, trovavasi nell’Etna, ovvero, se preferiamo un’altra lezione, nell’isola di Vulcano; lo cavavano picconieri pratici in così fatto lavoro, ai quali talvolta accadea che lo zolfo scorresse liquefatto, onde lor bastava scavare de’ fossatelli, e quand’era rappreso lo tagliavano con le accette. A’ picconieri, aggiugne Ahmed, che solean cascare i capelli e le unghie, per la natura calda e secca di quel minerale, dice egli, con le idee fisiche del suo tempo.[1030] Più precise notizie dava Ahmed dell’”olio di nafta:” che questo sgorgava nel mese di scebbât[1031] e ne’ due seguenti, entro certi pozzi vicini a Siracusa; che scendeasi in quei pozzi per gradini; che l’uomo si cammuffava il volto e turava ben le narici, perchè se mai avesse respirato laggiù sarebbe morto all’istante; che raccolto da costui il liquido, lo si metteva a riposare in truogoli, e poscia l’olio che rimaneva a galla era riposto in fiaschi e quindi adoperato.[1032] E parmi stia bene tal descrizione. Ma nel cavamento dello zolfo manca forse il principio, e si confonde la liquefazione col caso d’incendio d’alcuna miniera; oltrechè è corso, a creder mio, qualche errore nel designare la regione solforifera. Accenna Ibn-Ghalanda generalmente alle acque minerali della Sicilia;[1033] Edrîsi dice soltanto delle termali di Segesta[1034] e di Termini.[1035]
Alla scarsa industria delle miniere, possiamo contrapporre la grande prosperità dell’agricoltura, attestata da tutti gli scrittori e, meglio di loro, dal gran commercio che la Sicilia esercitò nel duodecimo e decimoterzo secolo. Nè Edrîsi è parco di frasi quand’ei tocca la fertilità dell’isola; nè sdegna i particolari, poichè, in ottanta dei centrenta contadi ch’ei rassegna, fa menzione espressamente degli estesi terreni da seminare. Vero egli è che non distingue la specie del raccolto, se frumento, o altre granaglie, o civaie; e che in alcuni luoghi rimane al tutto ne’ generali, ed usa, tra gli altri, un vocabolo tanto vago, quanto sarebbe appo noi a dir derrate. Ei nota che nelle campagne di Aci “il caldo temperamento del terreno” portava a mieter, pria che nel rimanente della Sicilia.[1036] In più di trenta luoghi sparsi per tutta l’isola ei dice di orti, o giardini, e dell’abbondanza delle frutte. Fa menzione di vigne in cinque soli, Caronia, Oliveri, Hisn-el-Medârig (Castellamare), Paternò e Capizzi; il che mi par confermi che le piantagioni di vite fossero scarse anzi che no in Sicilia nel corso di quel secolo; ma non mi farà mai credere che si limitassero a’ luoghi nominati.[1037] Forse il compilatore intese dir anco della vite, quand’e’ ricordava genericamente i giardini: e lo stesso parmi dell’ulivo, poich’Edrîsi non ne fa ricordo se non che nella descrizione di Pantellaria.[1038]
D’altronde la coltura della vite e dell’ulivo, ricordata espressamente dal Falcando,[1039] si può ben supporre accresciuta, ma non incominciata appena nel mezzo secolo che separò quei due scrittori. Il Falcando ricorda anco gli ortaggi dell’agro palermitano e le macchine da adacquarli;[1040] e non contento al dir che i giardini “davano ogni maniera di frutte,” nomina singolarmente quelle che pareano più rare a un transalpino[1041] e non l’erano punto agli occhi di Edrîsi. Il quale, rimanendosi, com’io penso, a particoleggiare le specie preferite dal commercio, fa ricordo soltanto di Carini, dalla quale si esportavano per tanti paesi delle frutta secche: mandorle, fichi, carrube.[1042] Il territorio di San Marco producea della seta in abbondanza;[1043] s’imbarcava da Milazzo gran copia d’ottimo lino,[1044] e assai se ne coltivava in terre irrigue a Galati,[1045] al qual territorio noi possiamo aggiugnere quel di Ragusa.[1046] Frequentissime, dice Edrîsi, in quel di Partinico le piantagioni del cotone, della henna, pianta tintoria molto usata dagli Arabi, e di altre leguminose:[1047] e da un diploma si argomenta che il cotone sia stato coltivato anco nelle vicinanze di Catania al tempo di re Ruggiero.[1048] Della henna e dell’indago poi sappiamo che al tempo dell’imperator Federigo si pensava di piantarne alla Favara presso Palermo.[1049] E forse Edrîsi, avvezzo a’ viaggi d’Affrica e di Levante, sdegnò di ricordare le palme dell’agro palermitano; ma supplisce al suo silenzio Ugo Falcando:[1050] e noi ben sappiamo che nel secolo decimoterzo si diè opera a far fruttare il palmeto, il quale dalla Favara stendeasi fino alla sponda dell’Oreto,[1051] e che il milletrecentosedici i soldati angioini venuti all’assedio della città tagliaron quel bosco,[1052] del quale avanza tuttora qua e là qualche pianta.
A dimenticanza manifesta è da apporre il silenzio del compilatore su le piantagioni di cannamele e sull’opificio dello zucchero. Perchè lo zucchero di Sicilia si consumava nella capitale dell’Affrica propria fin dalla prima metà del decimo secolo;[1053] e, nella seconda del duodecimo, il Falcando fa menzione non sol delle cannamele, ma anche della cottura del melazzo e del raffinamento dello zucchero.[1054] Un diploma del secolo duodecimo fa ricordo dei frantoi o strettoi da cannamele;[1055] uno del decimoterzo mostra la sollecitudine che si prendea l’imperator Federigo per ristorare le raffinerie di zucchero in Palermo.[1056] La coltivazione poi delle cannamele e la manipolazione dello zucchero continuarono in Sicilia fino alle età più malaugurate della sua storia economica;[1057] e non è punto verosimile che così fatte industrie sieno state intermesse al tempo di Ruggiero. Poco dice Edrîsi de’ boschi: nomina la binît di Buccheri, e spiega come torni in arabico a pineta;[1058] fa menzione del catrame e della pece che si esportava da Aci,[1059] del gran traffico di legname che faceasi a Randazzo,[1060] delle navi che costruivansi a San Marco con gli alberi tagliati in quei monti.[1061] Vi si può aggiungere, secondo un geografo del duodecimo secolo ed uno del decimoterzo, il mastice di Pantellaria cavato da’ lentischi e lo storace odorifero.[1062] La coltura degli aranci e altri agrumi, della quale non fa motto Edrîsi, è attestata ampiamente dal Falcando, da un diploma dell’undecimo secolo e dai poeti arabi che cantarono le lodi di re Ruggiero.[1063]
Della pastorizia, come dell’agricoltura, è forza confessare che quel compilatore, o trascurò le notizie, o gli bastò accennarvi da lungi; poichè non fa menzione di pascoli nè di greggi nè d’armenti, se non che nei capitoli di Malta,[1064] Rahl-el-Merat,[1065] Mineo,[1066] Golesano,[1067] Montalbano, Mangiaba[1068] e Galati.[1069] Ma parmi superfluo dimostrare che questo ramo d’industria agraria sia stato importante in Sicilia nel duodecimo secolo: basti ricordare il diploma dell’imperator Federigo che attesta come, ai tempi di Guglielmo II, il fisco dava in fitto a’ Musulmani grandissimo numero di buoi, tra indomiti e mansi.[1070] Da un’altra mano supplisce Pietro d’Eboli al libro di Ruggiero, lodando nel suo carme i cavalli trinacrii, montati in una grande solennità da’ nobili di Salerno:[1071] onde veggiamo nel duodecimo secolo la continuazione delle razze lodate già nell’undecimo.[1072] E la cura che prendea l’imperator Federigo per mantenere de’ cameli in Malta, ci conduce a supporre che quegli animali v’attecchissero ancora.[1073] Si facea del miele, a detta di Edrîsi, in Malta, Caltagirone e Montalbano.[1074]
Tra i prodotti del mare primeggiava l’ottimo corallo di Trapani, e notavasi l’abbondante, anzi, dice Edrîsi, “strabocchevole copia di pesci che si prendeano in quelle acque,” non escluso il tonno grande, così lo chiama, al quale si tendean ampie reti.[1075] E similmente ei fa ricordo delle reti da tonno nella marina dei Bagni Segestani;[1076] delli ordegni con che lo si pescava a Milazzo;[1077] della quantità grande che se ne prendea ad Oliveri;[1078] della rete messa in mare dinanzi Caronia,[1079] e del tonno che si pescava anco nel porto, non so se di Termini o di Trabìa.[1080] Ei non fa menzione di tonnare su la costiera di Levante nè di mezzogiorno, nè della pescagione minuta in altri mari che di Trapani e Catania. Dice pur del rei, il quale compariva in primavera nel fiume di Termini;[1081] de’ pesci grossi e squisiti che dava il Simeto;[1082] degli svariati e copiosissimi che si prendeano nel fiume di Lentini e si mandavano per ogni luogo,[1083] e di quei del fiume Salso, pingui e saporosi.[1084] Il povero Oreto anch’esso par sia stato più pescoso che in oggi, quando l’imperator Federigo rivendicava al demanio regio una pescaia che v’avean fatta, cheti cheti, i monaci della Trinità di Palermo.[1085]
Tarbi’a, che suona la “quadrangolare” e noi n’abbiam fatto Trabìa, era amena villa, al dire di Edrîsi: le grosse polle d’acqua, che sgorgan quivi a piè della roccia, movean di molti molini; e vasti casamenti erano addetti a lavorare l’ itria, o vogliam dir le paste e particolarmente i vermicelli,[1086] de’ quali si caricavano bastimenti e spedivansi in Calabria e in tanti altri paesi di Cristiani e di Musulmani:[1087] onde si vede come l’industria cittadina raddoppiava il valore prodotto dall’industria agraria, e apprestava materia di nuovi guadagni alla navigazione e al commercio.
Pochi altri ragguagli possiam cavare da Edrîsi intorno l’industria cittadina, appartenendo tanto agli artigiani quanto a’ bottegai, i mercati ch’egli va notando in varie città e terre.[1088] Fa menzione poi, in Girgenti, Mazara, Alcamo, Naro, Castrogiovanni e Randazzo, d’altri artefici, tra i quali credo sian di quelli che in oggi chiameremmo artisti:[1089] e ognuno intende che se il compilatore non ne parla nella descrizione delle città primarie, è forse che gli parea superfluo; nè dobbiamo dimenticare ch’egli non bramava già di tirar con regola e compasso degli specchietti statistici a modo nostro, ma volea soprattutto fare sfoggio d’eleganza nella lingua e nello stile. Donde noi cercheremo i particolari in altri scritti, o in qualche avanzo di manifatture che è pervenuto per buona ventura infino all’età nostra. Al punto stesso in cui i Musulmani sgombravano dalla Sicilia, noi veggiamo in Melfi, Canosa e Lucera, legnaioli, intarsiatori, armaiuoli, magnani ed “altri maestri” saraceni, salariati dall’imperator Federigo, insieme col fattore d’un suo vivaio, e co’ famigli addetti ai cameli, alla lonza da caccia ed ai mangani, s’io ben leggo.[1090] Di cotesti o altri intarsiatori abbiamo anco i nomi proprii e sembran tutti siciliani.[1091] Il vocabolo stesso di tarsîa, arabico puro, sembra passato di Sicilia nella Terraferma italiana, e prova meglio che il dir di qualunque scrittore come quell’arte sia fiorita dapprima nell’isola. S’altro attestato occorresse, avremmo delli scrigni intarsiati con epigrafi arabiche che si conservano tuttavia in Sicilia;[1092] e se dubbio rimanesse ancora, mostrar potremmo gli avanzi di due grandi e magnifiche iscrizioni, intarsiate su marmo bianco, in pietre dure di colore, a quel modo che in oggi si chiama mosaico fiorentino,[1093] tra il quale e l’intarsiatura in legno o avorio non è altra differenza che la materia. Si ritrova in Sicilia nel duodecimo secolo, come ognun sa, l’arte di lavorare il porfido, attestata non solamente dagli avelli regii del duomo di Palermo, ma altresì dagli ornati sì frequenti nelle chiese normanne, ai quali si deve aggiungere un lavorìo minuto e difficilissimo: una profonda coppa da bere, fornita di anse, che serbavasi nella Cappella Palatina di Palermo infino a’ principii del decimoquarto secolo.[1094]
Chi sa quanto sia moderno il gusto di far collezioni delle stoviglie del medio evo, mi condonerà se in questo capitolo dell’industria siciliana io tocco, semino dubbii e passo. Palermitani e senza alcun dubbio siciliani sono gli orci e le brocche di terra cotta, varii per la grandezza e per la forma, grossolani di fattura, e alcuni con tappo fisso, bucherato, e la più parte sciupati al forno, dei quali si trovò, com’io ritraggo, un piccol numero nel demolire la chiesa di San Giacomo la Marina in Palermo (1864), e poi se n’è cavato parecchie centinaia sopra le vòlte della Martorana, ponendo mano (1870) alla ristorazione di questo prezioso edifizio, che torna alla prima metà del secolo duodecimo. Credono i periti che questo insolito materiale s’abbia a tenere contemporaneo delle prime fabbriche. Che che ne sia, si scorge in quel vasellame una grossiera imitazione di motti e ornati arabi; onde non andrebbe riferito a’ tempi in cui le colonie musulmane serbavan la lingua loro, e potrebbe scendere alla seconda metà del duodecimo o fors’anco del decimoterzo secolo.[1095]
Ammetto io volentieri, coi trattatisti di ceramica medievale e moderna, che sia stata in Sicilia, fin dai tempi musulmani, una scuola di maioliche; ancorchè io non mi affidi del tutto alla pratica di quegli antiquarii che battezzano, con data e patria, questo o quell’altro lavoro.[1096] Pur oso dir che i più preziosi ch’io abbia mai visti, i due stupendi vasi di Mazara, mi sembrano spagnuoli, sia delle isole o della terraferma.[1097] È forza poi che io ricusi la cittadinanza di certi elegantissimi orcioletti arabi da armadio e da salotto, i quali a prima giunta si potrebbero dir siciliani, essendo frequentissimi nelle collezioni della Sicilia e rari nelle altre d’Europa. Ma la data segnata nella più parte di siffatte stoviglie par che torni a’ principii del decimoquarto secolo, quando gli ultimi residui de’ Musulmani erano usciti di Sicilia fin da tre o quattro generazioni, e se rimaneano le tradizioni delle industrie ed arti loro, la lingua era perduta e dimentica o celata la origine.[1098]
Si veggono ne’ musei di Sicilia, come in tutti gli altri d’Europa, delle ciotole di bronzo o rame, di quelle che i Musulmani usano per bere, e alcune grandi catinelle o dischi degli stessi metalli, ma nessuno indizio ci porta a rivendicarli all’industria siciliana; anzi, tornando comunemente così fatti lavori al decimoterzo, decimoquarto o decimoquinto secolo, e somigliando perfettamente a quei notissimi di Siria e di Egitto, è da supporre che li abbia recati in Sicilia il commercio, sì come fece in altre parti d’Italia, e più che ogni altra in Toscana.[1099] Pur si ritrae che i Musulmani di Sicilia lavoravano egregiamente i metalli. Il museo del Louvre possiede un piccolo mesciacqua di rame, in forma d’un pavone, in petto al quale si legge, preceduto da una croce, il motto Opus Salomonis erat, e sotto quello in arabico, Fattura di Abd-el-Melik-en Nasrâni, ossia il Cristiano. Il dotto archeologo, che ha illustrato cotesto vaso, lo riferisce al duodecimo secolo ed alla Sicilia, sì per la forma de’ caratteri, per la coincidenza de’ due idiomi e per l’apostasia dell’artefice musulmano, e sì per la somiglianza di quest’opera con altre dell’arte arabo-sicula. Dimostra inoltre l’autore con molti esempii, che “opera di Salomone” significava allora “sottil congegno;” e sostiene che un cannellino, del quale rimane ancora vestigia, era adattato sul dorso del pavone affinchè, mescendosi l’acqua dal becco, l’aria entrata dal cannellino rendesse un sibilo.[1100] Nel gabinetto poi delle antichità in Parigi è esposta una coppa di bronzo, ageminata in argento con figure d’animali e rabeschi di stile arabico, la quale, ne’ tre soliti cartelli tondi, invece di motti arabi, porta lo stemma d’un arcivescovo di Morreale del decimoquarto secolo; onde l’erudito autore del catalogo ha ben’aggiudicata quest’altra opera alla scuola arabica di Sicilia.[1101] Abbiamo in cotesti bronzi parigini il simbolo de’ due ultimi stadii dell’industria arabo-siciliana: l’uno, cioè, quando i Musulmani si convertirono alla religione de’ vincitori e appresero la loro lingua oficiale, senza smettere la propria; e l’altro quando, mutata lingua e religione, ritenner pure le tradizioni di lor arte: finchè nel decimosesto secolo furono attirati dal maggior astro che risorgea nella terraferma d’Italia.
Abbiam già fatta menzione del tirâz regio di Palermo,[1102] nel quale, si tesseano e ricamavansi i drappi di seta, come afferma precisamente il Falcando.[1103] E però non ne daremmo or che un cenno, se non fosse uscita alla luce, dopo il secondo volume della presente istoria, una erudita e sontuosa illustrazione delle insegne dell’antico Impero germanico, serbate in Vienna; la qual collezione è composta in gran parte di ricami e drappi siciliani.[1104] L’abbondante materia vuol che si tratti separatamente di quelle due manifatture, e si torni anco addietro al periodo al quale arrivammo nel quarto libro.
Poichè ci sembra con molta verosimiglianza lavoro del tirâz di Palermo, il pallio che il gran ribelle di Puglia donò all’imperatore Arrigo II; il qual cimelio si ammira oggidì nel duomo di Bamberg.[1105] E veramente il disegno somiglia in generale a quello del manto di re Ruggiero; e il planisfero celeste, ch’evvi raffigurato con qualche nota astrologica, torna per l’appunto agli studii ed a’ gusti musulmani di quel secolo, non ostante le figure di santi, tramezzati alle costellazioni in grazia del pio personaggio pel quale era fatto il pallio. Si scorge anco la mano straniera nelle iscrizioni latine con lettere trasposte e alcuna capovolta.[1106] Oltre a ciò manca ogni fondamento a supporre un tirâz in altra città d’Italia;[1107] nè è mestieri andarlo a cercare in Affrica o Spagna, quando l’abbiamo in Sicilia e sappiam la lega di que’ Musulmani (1011) con Melo o Ismaele, come or non si può esitare a chiamarlo, leggendo il nome nel pallio.[1108] Seguono nell’ordine de’ tempi il notissimo pallio di re Ruggiero,[1109] con la data del cinquecenventotto dell’egira (1133); il camice di seta bianca, ornato con larga fimbria di porpora e d’oro e con lunga iscrizione bilingue, che porta in latino e in arabico i titoli di Guglielmo II e l’anno millecentottantuno;[1110] le gambiere col nome e i titoli dello stesso principe ricamati in lettere arabiche.[1111] L’editore, il quale ha studiati, meglio che niun altro erudito europeo, i paramenti ecclesiastici del medio evo, attribuisce anco agli artefici musulmani di Sicilia i guanti di seta rossa trapunti in oro; due cinti da spada; un paio di ricchi sandali; il manto chiamato d’Ottone IV, e altri lavori che non hanno data nè lettere arabiche, ma gli ornamenti e lo stile di essi confrontano con que’ del tirâz palermitano[1112]. Contro il qual giudizio non abbiam che dire: se non che il merito del lavoro va scompartito tra’ Musulmani di Sicilia e i Greci, quando si sa dalle croniche il fatto de’ lavoranti di Tebe e Corinto, uomini e donne, menati prigioni in Palermo; i quali di certo non dettero principio a quell’opificio, ma non si può ammettere neanco che non abbiano giovato nulla a perfezionare i lavori.[1113] Vanno ricordati infine i ricami in lettere e disegni arabici della veste con la quale fu sepolto l’imperator Federigo: onde le prove materiali di quell’arte arrivano infino alla metà del decimoterzo secolo.[1114]
Circa i drappi fabbricati in Palermo, le prove materiali e gli attestati scritti forniscono particolari sì copiosi da convenire più tosto ad apposito e tecnico trattato, che alla presente rassegna. Basti dunque citare i drappi de’ pallii ricamati, de’ quali testè abbiamo discorso e i soppanni di quelli, tutti opera siciliana, a giudizio dell’autore della descrizione; i quali sono tessuti con bell’artifizio a figure di animali e di piante, rilevati ad oro ed a colori diversi; e rassomigliano per la fattura agli scampoli rimasi nelle cattedrali di Palermo e di Cefalù, dei quali l’autore pubblica qualche disegno.[1115] Vengon poi i vestiti che si osservarono nelle tombe regie del duomo di Palermo, quando la ristorazione del monumento die’ occasione ad aprirle.[1116] Leggiamo nella cronica dell’Abate di Telese che, nelle feste dell’incoronazione di re Ruggiero, le mura del palagio eran parate di pallii e per fino gli infimi servitori vestiti di seta.[1117] Nella seconda metà del medesimo secolo, il Falcando attesta la varietà de’ drappi di seta tessuti nel palazzo reale e ricamati ad oro e perle, e la copia altresì de’ drappi stranieri e de’ pannilani che vendeansi nel vico degli Amalfitani entro il Cassaro di Palermo;[1118] e Ibn-Giobair nota il lusso di vestimenta delle dame cristiane di quella capitale ed anco delle musulmane che davano, com’or direbbesi, il figurino.[1119] V’ha memoria d’un gran padiglione di seta da sedervi a mensa dugento persone, che Riccardo Cuor di Leone pretese da re Tancredi, insieme con altri tesori, dopo la baruffa di Messina.[1120] Le antiche poesie francesi ricordano lo sciamito e il zendado di Palermo.[1121] I diplomi siciliani, citando quelle e tante altre maniere di drappi operati o ricamati, mostrano la grande attività del commercio e dell’industria indigena.[1122] Danno simile testimonianza le denominazioni de’ dazii ordinati dai re normanni e svevi;[1123] e perfino il dialetto siciliano attesta l’origine e la importanza di quella industria, chiamando i tessitori in generale col vocabolo arabico careri.[1124] Gli opificii della seta decaddero in Sicilia, al par che tante altre sorgenti di pubblica ricchezza, nella seconda metà del decimoterzo secolo, per le varie cagioni a che abbiamo accennato; tra le quali non è da dimenticare la emigrazione de’ Musulmani. Delle città di Terraferma, Lucca fu la prima a raccogliere la eredità della Sicilia. Rivaleggiarono poi con quella città, Firenze, Venezia, Genova: e artisti italiani recarono tal ricca industria a Lione, a Tours e in altre città della Francia. Pur la esportazione de’ drappi di seta rimase bel capo di commercio in Sicilia infino al decimosesto secolo.[1125]
E nessuna maniera d’opificii, necessarii al vestire ed anco al lusso, potea mancare in Sicilia nel duodecimo e decimoterzo secolo, s’egli è vero che le industrie si rannodan tra loro, e che una ne favorisce un’altra e sovente la porta con seco necessariamente. Così, in un paese celebrato pe’ drappi di seta, la gabella su l’arco del cotone,[1126] che parmi voglia dire la battitura de’ bocciuoli per cavar la bambagia, fa supporre i telai da tesserne il filo. Abbiamo precise testimonianze per le tintorie[1127] e per gli opificii di pelli dorate, che si adopravano in varie manifatture e segnatamente negli stivaletti da donna.[1128] I guanti di seta tessuti a maglia, che si rinvennero nell’avello di Arrigo VI, sono da riferire anch’essi all’industria siciliana.[1129] Nè può dubitarsi che i fermagli smaltati e gli ornamenti gittati in oro, che furon cuciti in alcune delle vestimenta imperiali, non siano opera degli orefici palermitani; que’ medesimi a’ quali sono da attribuir le corone dell’imperator Federigo e della sua prima moglie Costanza d’Aragona.[1130]
Verosimil cosa è, ma punto provata, che nel periodo, del quale trattiamo, si fosse lavorata in Sicilia della carta da scrivere. Furon gli Arabi, come ognun sa, que’ che recarono in Occidente la carta di cotone, fabbricata nel Khorasân ad imitazione di quella della Cina, ch’era fatta di seta o d’erbe;[1131] nè cade in dubbio che opificii di carta siano surti in Spagna e particolarmente a Xativa, donde, nella prima metà del duodecimo secolo, se ne mandava in Levante e in Ponente, al dir di Edrîsi.[1132] Il silenzio del quale, nella descrizione della Sicilia, sarebbe grave argomento contro il mio supposto, se in questo medesimo capitolo non avessimo trovate più volte fallaci le prove negative fondate su quel libro. Ritraggiam noi che, allo scorcio dell’undecimo secolo, i diplomi normanni di Sicilia, perfino que’ che portavano concessioni territoriali, furono scritti in carta di cotone; onde, in men di mezzo secolo, re Ruggiero volle rinnovare tutti i titoli di proprietà, con l’occasione o il pretesto che molti originali fossero logori, cancellati o corrosi dalle tarme.[1133] Continuossi, ciò nonostante, a copiare in carta di cotone gli atti privati ed anco i pubblici, finchè, a capo d’un secolo, l’imperator Federigo dichiarò nulli que’ di certe classi che non fossero scritti in cartapecora;[1134] ma la sua cancelleria, in Sicilia e nella terraferma d’Italia, usò tuttavia la carta negli atti che parea non dovessero passare alla posterità.[1135] Il basso prezzo della materia, provato da cotesti fatti, fa credere più tosto a fabbricazione indigena che ad importazione dalla Spagna o dall’Oriente.[1136] S’aggiunga che la denominazione di carta di papiro, occorrendo per la prima volta nelle Costituzioni di Federigo, sembra nata in Sicilia, per essere questo il solo paese d’Europa che produce quella pianta, e che l’usò comunemente nella cancelleria dello Stato fino alla seconda metà del decimo secolo;[1137] quando egli è probabile che la carta di cotone a poco a poco sia stata surrogata al papiro, e con l’ufizio ne abbia preso anco il nome.[1138]
La narrazione de’ fatti politici in questo e nel precedente libro, e la rassegna delle produzioni del suolo nel presente capitolo, ci ha condotti a toccare le notizie commerciali, in guisa che, volendo or trattarne appositamente, basterà di accennare alle cose già dette, le quali sono confermate da’ trattati di commercio[1139] dalle generalità che affermano alcuni scrittori.[1140] Hanno avuta i lettori occasione di riflettere che i principi della Sicilia, massime re Ruggiero e Federigo, indirizzarono spesso le pratiche e imprese loro a scopo di utilità mercantile; e che poservi zelo tanto maggiore, quanto eran essi i primi mercatanti del paese. E veramente le vaste possessioni demaniali, la riscossione delle gabelle in derrate, l’esempio degli Ziriti di Mehdia, e da un’altra mano la forma del principato feudale, sospingeano a quell’errore economico, il quale pur fruttava gran parte dell’entrata dello Stato, o della Corte che dir si voglia.
Principalissimo capo del commercio siciliano furono i grani, nel duodecimo secolo,[1141] al par che ne’ seguenti infino al decimottavo, e continuo sbocco di quelli fino al secolo decimosesto, fu la costiera di Barbaria, travagliata sempre dalla fame.[1142] Mandava la Sicilia in Venezia de’ grani ed altre vittuaglie e, con rammarico d’un uomo di Stato di que’ tempi, ne traeva gran copia di merci e poco denaro.[1143] Si è già detto delle paste lavorate della Trabia, imbarcate per varii paesi cristiani e musulmani.[1144] Dopo le granaglie, erano capi d’esportazione, importanti nel duodecimo secolo, ed, a quanto parrebbe, assai più nel seguente, le frutte secche e il cotone;[1145] il quale ritraggiamo che sino ai principii del decimosesto secolo si mandava perfino in Inghilterra grezzo e filato:[1146] ed è anco da mettere in conto il corallo, il mastice di Pantellaria e lo storace odorifero.[1147] Nè possiam supporre scarso a’ tempi normanni il traffico dello zucchero, poichè quello di prima coltura e le frutte giulebbate andarono sino al decimoquinto secolo dalla Sicilia in Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e Inghilterra, non che ne’ mercati della nostra Penisola[1148]. Da un’altra mano esportavansi dei drappi di seta per le regioni occidentali d’Europa.[1149] Documenti del duodecimo secolo attestano l’associazione di mercatanti genovesi e siciliani per intraprese commerciali in varii paesi.[1150] Sappiamo delle navi siciliane ancorate ne’ porti di Barcellona e di Alessandria d’Egitto:[1151] e ritraggiamo da altre sorgenti il traffico della Sicilia in que’ due grandi emporii[1152] e in quelli di Pisa,[1153] Marsiglia[1154] Amalfi,[1155] Calabria e Malta.[1156] Di certo le navi genovesi conduceano gran parte di que’ commerci in Sicilia come in tutto il Mediterraneo;[1157] pure gli altri navigatori italiani rivaleggiavano sempre con essi, ed anco i Siciliani; poichè sappiamo delle costruzioni navali di San Marco e del gran traffico di legname che faceasi a Randazzo, per trasportarlo, com’e’ sembra verosimile, nel porto di Messina.[1158] Il quale ritolse a Palermo il primato della navigazione, in quel gran movimento che per tutto il duodecimo secolo spinse l’Occidente, a traverso il Faro, in Palestina e in Siria: onde Messina nella seconda metà del secolo divenne la stazione principale del navilio da guerra, in vece di Palermo.[1159] Nè son pochi gli emporii minori nominati da Edrîsi: Termini, Cefalù, Kala’t-el-Kewâreb (Santo Stefano), Milazzo, Taormina (ossia Giardini), Aci, Catania, Siracusa, Scicli, Ragusa, Olimpiade (Licata), Girgenti, Sciacca, Mazara, Marsala, Trapani, Kala’t-el-Hamma, Calatubo, Carini, San Marco.[1160]
Continuando a ciò che abbiam detto intorno le monete del primo conte di Sicilia,[1161] è da notare che sotto Ruggiero e i due Guglielmi furono coniati in grandissima copia dei quartigli d’oro, volgarmente detti Tarì, e citati con tal denominazione negli atti pubblici di quel tempo. De’ quali son pieni i musei pubblici e privati d’Europa, e se ne trova sempre qualcuno presso gli orafi e i rivenduglioli in Sicilia ed anche fuori; oltrechè sappiamo come e’ corsero per le contrade in due grandi rapine, una volta in Palermo e una volta in Roma.[1162]
L’ampia collezione pubblicata dal principe di San Giorgio Spinelli ci aiuta a conoscere le monete normanne di cotesto periodo, meglio che la non abbia fatto per quelle dell’undecimo secolo; quantunque non ci spiri, nè anche qui, piena fiducia per le date ed altri amminicoli.[1163] Userò io, dunque, cotesto libro per quel ch’e’ vale, col sussidio di altre opere e delle monete che ho vedute con gli occhi miei.[1164]
Lascio addietro, perchè non battuta in Sicilia, nè, a quanto parmi, col fine di soddisfare a bisogno economico, la moneta di rame, che ha da una faccia la protome di San Niccolò con iscrizione greca e dall’altra, in caratteri cufici, la data di Bari, anno cinquecenquarantaquattro dell’egira (1149).[1165] Le altre monete arabiche de’ Normanni di Sicilia coniavansi in Palermo e in Messina, talvolta con leggende bilingui, cioè arabico e latino, ovvero arabico e greco. Quelle di Ruggiero secondo hanno, la più parte, nel rovescio un segno, che altri ha creduto figura della croce tronca in cima, altri iniziale del classico nome di Trinacria. E per vero l’è sigla, secondo l’uso dei tempi e delle dinastie normanne d’Italia; ma compendia, a creder mio, il nome di Tancredi, padre di Roberto Guiscardo e del primo conte Ruggiero: Tancredi di Hauteville, ceppo della dinastia, della quale i due rami sovrani regnarono insieme in Palermo dal millenovantuno al millecenventitrè, e governarono la città con unica amministrazione.[1166] Ognuno intende che non vi tenean essi al certo due zecche, nè poteano trovare miglior simbolo, per l’unica moneta loro, che la sigla di Tancredi. Ciò non togliea che il vecchio conte Ruggiero e i due successori immediati battessero moneta per conto proprio loro in Messina, nè che Ruggiero duca di Puglia tenesse in opera la zecca di Salerno.[1167] E si ricordi che la T di varie forme, e variamente rabescata e ornata di puntini, comparisce più sovente nelle monete d’oro, quelle cioè che doveano avere corso più largo ne’ dominii normanni e fuori.[1168] Noi sappiam che allo scorcio dell’undecimo secolo i grandi della corte di Sicilia invocarono talvolta la buona fortuna della progenie di Tancredi,[1169] e che re Ruggiero si vantò sempre erede non men del padre che dello zio; ond’e’ par ch’abbia potuto usare molto volentieri la sigla di Tancredi. Mi conferma in tal concetto l’ornato bizzarro, dato ai due rami della T in alcune monete e nel gran pallio di Nuremberg: il quale è diviso in due quadranti dalla medesima lettera, se non che l’asta perpendicolare, grossa e rabescata, rassomiglia ad un tronco di palma.
Afferma lo Spinelli[1170] che Ruggiero, assunto il titol di re, abbia mutato cotesto tipo monetario, prendendo quello che fu serbato da’ due Guglielmi, nel quale rimase da una faccia il nome del principe, ma fu sostituito nell’altra alla formola musulmana il noto motto greco “Gesù Cristo vince.” Ma l’autore stesso ci fa veder pure l’antico tipo dopo il millecentrenta:[1171] e il vero è che un fatto di sì gran momento non si potrà accertare se pria non saranno rivedute da occhi più pratici tutte le date e le leggende. Aggiungo aver osservata io stesso nel Museo di Napoli una moneta che ha da una faccia la formola musulmana e dall’altra la T rabescata, con la leggenda arabica “Per comando — del re — Ruggiero.” Io ritengo che la formola musulmana era già disusata negli ultimi anni di Ruggiero; ma che l’aveano abbandonata a poco a poco, e adoperata per molti anni promiscuamente col tipo che portava la croce e il motto bizantino. Chi voglia, poi, applicarsi all’iconografia delle varie monete arabiche dell’epoca normanna e sveva, e soprattutto di quelle figurate con immagini sacre, o d’animali e di piante, troverà campo larghissimo nell’opera dello Spinelli.
Non si alterò sotto i tre primi re normanni la forma, nè, a quel che parmi, il valore intrinseco de’ tarì o robâ’i fatemiti. Di raro par si fossero coniati de’ dînâr o mezzi dinar,[1172] nè ci avanza gran copia di monete d’argento con iscrizioni arabe o bilingui; ma si rinvengono spesso delle monete di rame. Per cagion del breve regno e delle popolazioni musulmane, che sempre più si dileguavano, coniò poche monete arabiche Tancredi, poche Arrigo VI; e scarseggiano similmente quelle di Federigo, il quale mutò il sistema monetario, surrogando coll’agostale le frazioni del dinar. Ma ancorchè sieno estranee al nostro argomento le monete latine dei re di Sicilia, non vogliam passare sotto silenzio che i Guelfi, tra le altre singolarità attribuite all’imperator Federigo, narrarono ch’egli avesse data fuori della moneta di cuoio,[1173] come la tradizione popolare di Sicilia dice di Guglielmo il Malo. Ed ancorchè nessuno antiquario n’abbia vista fin qui la prova materiale, non ripugna al vero la imitazione di tal trovato, quando noi sappiam che i Cinesi, precorrendoci anche nelle teorie del credito, adoperaron moneta di cartone fin dal settimo secolo dell’èra volgare. La corte di Roma, nella gran salmeria de’ motivi che accompagnavano la scomunica del milledugentrentanove, chiamò Federigo “falsario di nuovo genere,” apponendogli d’aver fatto coniare del rame coperto di sottile foglia d’argento:[1174] e io debbo dire che, non ostante la nota audacia di tali accusatori, mi sembra anco verosimile questo fatto, perchè n’abbiamo esempii nella numismatica antica ed anco nella musulmana,[1175] e perchè l’imputazione è di quelle che niun osa fare quando manca il corpo del delitto.
CAPITOLO XIII.
Ho differito fin qui il ragionamento su l’architettura e le arti ausiliari, perchè mi è parso bene toccarne in quest’ultimo capitolo, ordinato a notare i vestigii che le colonie musulmane lasciarono in Sicilia; de’ quali nessun altro è più splendido e più certo di que’ che scorgonsi ne’ monumenti del duodecimo secolo. Io non dico de’ secoli precedenti, non sapendo, in vero, se in tutta l’isola rimanga oggi in piè alcun edifizio surto nella dominazione musulmana. Que’ che i padri nostri le riferivano con piena fede, ormai scendono ai tempi normanni. Sognarono alcuni eruditi del secento che l’Annunziata de’ Catalani in Messina fosse stata, in origine, mausoleo d’un supposto Messala, re di supposti Alamidi; del quale essi leggean proprio l’epitaffio nelle tavole di marmo bianco, spezzate in parte e capovolte, onde sono rivestiti gli stipiti della porta maggiore di quella chiesa.[1176] Ed ecco che, deciferando senza tanta fatica l’elegante scrittura neskhi intarsiata in quelle tavole a caratteri di serpentino e rabeschi di porfido, se ne raccapezza de’ versi, pei quali re Ruggiero invitava i grandi della corte ad entrar nel suo paradiso terrestre: senza dubbio la reggia di Messina, dove l’iscrizione adornò qualche vestibolo o corse su le pareti di qualche sala.[1177] Per errore meno indegno di scusa furon credute, e da taluno credonsi ancora, opera saracenica i palagi della Zisa e della Cuba e le rovine di Mimnerno, o meglio direbbesi Menâni, presso Palermo. Ma la Cuba mal nascose l’età sua agli occhi di Girault de Prangey; e infine è stata tradita da quella medesima iscrizione arabica che parea documento dell’origine musulmana, poich’evvi intagliato a caratteri cubitali il nome di Guglielmo II e l’anno millecentottanta del Messia.[1178] La Zisa anch’essa dopo averci tenuti tutti in rispetto con quel suo sembiante arcaico, giudicata or che abbiamo migliori lezioni d’una cronica e d’una epigrafe e che sappiam l’età della Cuba, torna a Guglielmo il Malo e in parte anco al figliuolo.[1179] Menâni poi è attribuito da una cronica a re Ruggiero; nè le sue rovine danno indizio che ci porti a mettere in forse quell’attestato.[1180]
Si può assegnare, sì, origine più antica al castello di Maredolce[1181] ed ai Bagni di Cefalà;[1182] se non che la forma primitiva di que’ due monumenti è mutata, tra pei guasti del tempo e per fabbriche sovrapposte. Diciam lo stesso della Porta della Vittoria[1183] e dell’edifizio di San Giovanni de’ Lebbrosi.[1184] Poco poi è da sperare in certi castelli d’aspetto saracinesco, abbandonati, anzi mezzo distrutti, come que’ del monte Bonifato,[1185] d’Entella e di Calatamauro in val di Mazara[1186] e qualche altro in val di Noto,[1187] non parendo che dalle ruine di fortilizii si possa ritrarre un compiuto sistema d’architettura. Io non ho fatta menzione delle chiese che chiamiamo normanne, perchè le son tutte evidentemente del duodecimo secolo, e se in una o due si potesse scoprire qualche lavoro degli ultimi lustri dell’undecimo, non porterebbe divario nell’epoca.
Del rimanente bastano gli edifizii del duodecimo secolo per determinare l’indole dell’arte che fiorì in Sicilia in tutto il periodo delle colonie musulmane. Gli autori moderni, ai quali è occorso quest’argomento, notan tutti nell’architettura siciliana de’ tempi normanni uno stile peculiare, molto diverso da quello delle nazioni europee contemporanee e perfin della Spagna musulmana;[1188] onde lo dicono misto di varii elementi, bizantino, normanno, moresco, e che so io; ai quali ogni scrittore pur attribuisce proporzioni diverse. Altri sostiene che l’architettura volgarmente chiamata gotica, della quale par che i Goti non abbian saputo mai nulla, venne dal Levante e pria di passare nel Settentrione, dov’era destinata a produrre tanti miracoli d’immaginazione, fe’ sosta in Sicilia. Allargandosi per tal modo la quistione, io sono costretto ad entrarvi, male armato com’io mi sento: onde chiederò aiuto ai maestri dell’arte, innanzi tutti al Coste, il quale studiò lungamente gli edifizii del Cairo e si valse dell’erudizione musulmana. A questa fonte attingerò anch’io qualche notizia su l’origine e i progressi dell’architettura appo gli Arabi: e sarà gran fatica, poichè non è trattato quest’argomento da nessun de’ loro scrittori ch’io m’abbia letti. Ibn-Khaldûn, nei Prolegomeni, lo tocca con alte considerazioni di filosofia storica; egli scende fino alle pratiche de’ muratori e de’ legnaioli; ma, proprio su l’origine, dice una volta che gli Arabi appresero l’architettura da’ Persiani e par lo neghi in un altro capitolo.[1189]
Gli Arabi, come ognun sa, non aveano altra parte d’incivilimento da recar seco loro fuor della Penisola, se non che un linguaggio copiosissimo, rigoglioso e ben coltivato. Meno che ogni altr’arte avea potuto svilupparsi l’architettura in quella nazione, il cui corpo era nomade e le estremità, se possedeano edifizii, li doveano a’ popoli finitimi: a settentrione Petra e Palmira piene di monumenti romani; a levante Hira con le fabbriche de’ tempi sassanidi e il famoso castello di Khawarnak, edificato ne’ principii del quinto secolo dall’architetto greco Sinimmar per comando del re arabo Nomân;[1190] a mezzogiorno il Iemen, con quell’architettura che gli potean recare i Persiani, ovvero i Cristiani d’Abissinia imitatori de’ Bizantini. La ragione storica, dunque, portava che, emigrando gli Arabi nella Mesopotamia, nella Persia, in Siria, in Egitto, nell’Affrica propria e nella Spagna, ed occorrendo loro di fondare cittadi, edificare moschee, castella, palagi, e adattare agli usi proprii gli edifizii sacri e profani de’ popoli vinti, dovessero cercare architetti nelle schiatte straniere; sia tra i vinti medesimi, schiavi, liberti, tributarii, ovvero fatti musulmani e concittadini; sia tra i sudditi dell’impero romano o degli usurpatori delle sue province. E le memorie musulmane provano che l’architettura penetrò appunto per coteste vie nella nazione arabica, ringiovanita e ingrandita prodigiosamente per numero e territorio. Le medesime vie, diciamo, per le quali i Musulmani appresero gli ordini di pubblica amministrazione de’ Sassanidi e de’ Bizantini e la medicina, le matematiche, la geografia, la chimica, la logica, la metafisica; le quali scienze tutte essi tolsero in prestito dall’antichità e le tramandarono alla rozza Europa del medio evo, più sollecitamente che non abbian fatto i Greci, eredi del gran nome romano. Pur sembra che, tra gli abitatori dell’impero musulmano, que’ di schiatta ariana abbian tanto superati i padroni loro nell’esercizio dell’architettura, quanto nelle scienze e nella pratica della pubblica amministrazione; nelle quali discipline gli uomini più notevoli erano d’origine straniera, ancorchè la lode di tutte lor fatiche fosse stata usurpata dagli Arabi, che loro aveano imposta la religione e donata la propria lingua.
Fin da’ primissimi conquisti, i Musulmani adoperarono nella costruzione l’ingegno e la mano dei nuovi sudditi. Arde, entro un anno forse dalla fondazione (638), il misero aggregato di baracche che era allor Cufa, ed ecco i coloni arabi pensano a fabbricar case di mattoni e calce; il califo Omar assente, a condizione che non le faccian tanto alte;[1191] ma commette a un gentiluomo di Hamdân (Ecbatane), per nome Ruzabeh, di disegnare un grande edifizio da porvi insieme la moschea e il tesoro pubblico: e per la moschea si tolgono colonne da’ tempii sassanidi[1192] e altri materiali dai palagi di Hira.[1193] Ruzabeh costruiva anco i mercati di Cufa a mo’ di portici;[1194] ed a capo di un secolo furono fabbricate in quella gran città delle botteghe con vòlte di mattoni e gesso, per comando di Khaled-ibn-Abd-Allah-el-Kasri,[1195] governatore dell’Irâk (725-739), celebre pei canali, i ponti ed altri pubblici lavori, di cui arricchì la provincia, per le grosse entrate che ne cavò, e pel favore che dette agl’Infedeli.[1196] Ma già a quel tempo l’architettura era progredita appo i Musulmani. Sappiamo che, occorrendo rifare più spaziosa la moschea cattedrale di Cufa, Ziad, ufiziale del califo Moawia (661-680), consultossene con architetti persiani, ai quali sforzossi di significare il concetto ch’egli avea in mente, ma non lo sapea spiegare. Pure un vecchio ingegnere dei re sassanidi lo capì; gli rispose che si doveano alzare colonne di trenta braccia, tutte di pietra di Ahwaz, assicurata con arpioni di ferro e saldature di piombo; che poi s’avea a costruire il tetto, murar le navi laterali e l’abside in fine. “Ecco per l’appunto ciò ch’io pensava,” ripigliò Ziad: e così fu fatta l’opera.[1197]
Più audace e maestosa comparisce l’arte sotto il califato di Walîd (705-715), il quale rizzò di pianta molti edifizii e molti ingrandì e decorò. Era già surta a Wâset di Mesopotamia (703) una fabbrica detta El-Kubbet-el-Khadrâ, ossia la Cupola Verde.[1198] Walîd ne fece innalzare un’altra nel maggior tempio di Damasco; della quale si narra che quando il severo Omar-ibn-Abd-el-’Azîz (717-720) si proponea di rimuovere dalla moschea tutti i vani ornamenti accumulati con molta spesa dal predecessore, venne a Damasco un ambasciatore bizantino, il quale, entrato nella moschea con parecchi mercatanti di sua nazione, alzando gli occhi alla cupola si turbò fieramente, e richiesto del perchè, rispose avere già sperato che la fortuna degli Arabi durasse poco, ma or che vedea quali edifizii sapessero fabbricare, si aspettava diuturna la possanza loro.[1199] Grande opera sembra anch’essa, alla metà dell’ottavo secolo, la cupola che edificò sul palagio di Khawarnâk, testè ricordato, un partigiano degli Abbasidi, persiano d’origine, quand’egli ebbe in dono il palagio, all’esaltazione della nuova dinastia.[1200] Nella prima metà del nono secolo, l’emir aghlabita Ziadet-Allah, sotto il cui regno fu conquistata la Sicilia, rifabbricando tutta di mattoni e di pietra la vecchia moschea cattedrale del Kairewân, fece innalzare una cupola sul mihrâb, ossia nicchia che designa la dirittura della Mecca.[1201] Allo scorcio del medesimo secolo se ne vide sorger anco nelle loggette dei giardini, dove posavano mollemente gli emiri d’Egitto;[1202] mentre il feroce Ibrahim-ibn-Ahmed alzava nella moschea del Kairewân un’altra bella e maestosa cupola, sostenuta da trentasei eleganti colonne di marmo.[1203]
Ma ritornando a Walîd, è da notare che in particolar modo ei promosse l’ornato. L’anno ottantotto dell’egira (707), quand’egli volle ampliare la moschea del Profeta a Medina, Giustiniano secondo gli mandò centomila dinar, cento artefici e quaranta some di materiali da mosaico; le quali non bastando, il bizantino ne fe’ cercare, terribile accusa della Storia, per tutte le città abbandonate dell’impero.[1204] Walîd fu anco il primo che ornasse la moschea di Damasco con mosaico a ramoscelli e fogliame, disegnati in varii colori su fondo d’oro.[1205] In quella della Kaaba alla Mecca egli aggiunse degli archi con iscrizioni a mosaico bianco e nero, e rivestì i pilastri di marmi a due colori alternati, e talvolta anco a tre, bianco, rosso e verde.[1206] Due secoli appresso, la corte di Costantinopoli donava similmente del materiale da mosaico al califo omeiade di Spagna, Abd-er-Rahman, quand’egli diè l’ultima mano alla moschea cattedrale di Cordova. Tra gli altri ce l’attesta Edrîsi, dicendo che gli archi del mihrâb «eran tutti vestiti di mosaico, da parere smaltati come tanti orecchini, e che ci si ammirava un lavorìo, sì pari, sì elegante e sì fine, che nè Musulmani nè Rûm arrivarono mai a tanta perfezione.»[1207] Notevoli parole in uno scrittore che avea forse sotto gli occhi i mosaici della Cappella Palatina di Palermo!
Su lo stesso argomento degli ornati è da ricordare che nell’Affrica propria Ziadet-Allah rivestì il mihrâb di marmi da capo a piè; ornollo di iscrizioni e rabeschi; vi pose intorno intorno delle colonne picchiettate di nero e bianco (granito?) e n’alzò di faccia al mihrâb due di splendido rosso (porfido?), che non se n’era mai viste più belle in Ponente nè in Levante; per le quali l’imperatore di Costantinopoli profferì tant’oro quanto elle pesavano, ma Ziadet sdegnò di venderle.[1208] La favola di tal profferta attesta, secondo me, il commercio con architetti bizantini di Costantinopoli, del Napoletano o piuttosto della Sicilia. E poichè l’arte bizantina si estese talvolta, insieme con la protezione politica, infino all’Abbissinia, va ricordata qui la tradizione che Abd-Allah-ibn-Sa’d, governatore d’Egitto (645-656), abbia avuto in dono da quel re il bel pulpito di legno intagliato, che fu collocato nella moschea cattedrale dal legnaiolo B..kt..r di Dendera, mandato a bella posta dall’Abbissinia.[1209]
Molto ci aiuta in coteste ricerche l’Egitto, sì per le profonde radici che vi messe la schiatta arabica fin da’ primi principii del conquisto; sì per la inesauribile ricchezza, nutrice delle arti, e infine perchè quivi i monumenti del medio evo sono stati, meglio che in tutt’altro paese musulmano, illustrati dagli scrittori indigeni e studiati dagli europei. Il Makrizi, diligentissimo raccoglitore delle notizie sparse negli annali del suo paese, fa la cronaca di ciascun monumento. Sappiam da lui le vicende della moschea cattedrale di Amru, o meglio si scriva ’Amr, al Cairo vecchio,[1210] ristorata varie volte e riedificata al tempo di Walîd; per cui comando fu abbattuto (710) il tetto che parve troppo basso, e ricominciato il nuovo edifizio (maggio e giugno 711), fu terminato a capo di tredici mesi per opera di un Ichia-ibn-Henzela, liberto de’ Beni ’Amir-ibn-Liwâ,[1211] onde sembra anch’egli di schiatta persiana e forse di Hamdan stessa.[1212] In vero, nei disegni che noi abbiamo della moschea di ’Amr, l’arco dei portici, formato di due curve che s’incontrano, ritondato bensì al vertice e un poco rientrante nel pièritto, par che racchiuda gli elementi dell’arco aguzzo e di quello a ferro di cavallo, che poi svilupparono l’uno nelle parti orientali e l’altro nelle occidentali dello impero musulmano. Vi si scorge anco la costruzione con pietra di due colori alternati; e verosimil sembra che quegli archi rimangano in piè fin dall’ottavo secolo.[1213] Ma non ragioneremo su le probabilità, quando abbiamo la certezza nella moschea d’Ibn-Tulûn. Il Makrizi ci dà ampii ragguagli e precisi di questo monumento, edificato proprio nel secol d’oro della civiltà musulmana: che anzi la schiatta araba già declinava, già prendeva a nolo spade straniere per godersi meglio i piaceri dell’intelletto e de’ sensi, e già le province spiccavansi dall’impero, del quale restava il nocciolo spolpato a Bagdad. Allora Ibn-Tulûn, soldato di schiatta turca, mandato a governare l’Egitto e fattosene padrone, edificava, in quel ch’oggi chiamasi il vecchio Cairo, stanze di soldati, palagi, acquidotti, spedali; e tra gli altri monumenti immaginò una nuova moschea cattedrale. Narrasi com’avendo flagellato e messo nel carcere di polizia l’architetto cristiano che poco prima gli avea costruito un acquidotto, Ibn-Tulûn chiamò altro architetto per la moschea; ma che sentendosi chiedere trecento colonne da raccattare nelle chiese cristiane per tutto l’Egitto, ei ripugnava a tal partito e non sapea che si fare. Il cristiano allor gli scrive dalla prigione che ei fidasi di murar la moschea senz’altre colonne che le due del mihrâb: chiamato dal principe, gli abbozza il disegno sopra una pelle, e quegli approva il partito; fa rivestire l’architetto d’un pallio, com’or sarebbe attaccare al petto una decorazione; gli fa noverare centomila dinar e dà carta bianca per lo rimanente della spesa: onde l’opera fu fornita a capo di due anni, il dugensessantacinque dell’egira (878- 879). La moschea d’Ibn-Tulûn abbandonata, ristorata, ma non mai mutata sostanzialmente,[1214] è stata osservata dal Marcel,[1215] studiata dal Coste ed ammirata da tutti gli Europei, com’uno dei più bei monumenti del medio evo e come il più antico edifizio costruito con archi acuti.[1216] E veramente i disegni che ne dà il Coste, ci mostrano in quegli archi sostenuti da robusti pilastri il sesto acuto poco allungato e similissimo a quello degli edifizii siciliani del duodecimo secolo[1217] ed anco a quello del Nilometro di Raudha,[1218] il quale era stato fabbricato il dugenquarantasette dell’egira (861), al dir di Makrizi.[1219] Questo scrittore poi ci attesta il gran lusso d’architettura, di che sfoggiarono i successori d’Ibn-Tulûn, allo scorcio dello stesso secolo, e più di loro i Fatemiti nel decimo e nell’undecimo.[1220] E s’egli non ci sa dir la patria di tutti gli architetti, nè anco del cristiano d’Ibn-Tulûn, pur ci narra che tre porte del Cairo, innalzate verso il millenovanta dell’èra volgare, furon opera di tre fratelli nati in Edessa.[1221]
Non occorre particolareggiare altrimenti le memorie de’ monumenti egiziani del secolo decimo e dell’undecimo, poichè l’arte rimanea la medesima, ancorchè il gusto forestiero si fosse insinuato negli ornamenti.[1222] Lo stesso Ibn-Tulûn, dotto e pio musulmano, non rifuggì dal porre due leoni di stucco dinanzi una porta del suo castello.[1223] Il figliuolo Khamaruweih, che gli succedette, fece ritrarre sè e le sue cantatrici in una palazzina de’ sontuosissimi suoi giardini, le mura della quale eran tutte d’oro e d’azzurro, e le figure dipinte in una larga fascia e ornate di corone, orecchini e altri gioielli di gran valore.[1224] Conquistato poi l’Egitto da’ Fatemiti per mano di Giawher, liberto siciliano di schiatta greca o latina, l’uso delle immagini si fece più frequente; e perfino nella celebre moschea dell’Azhar (972) furono scolpite sui capitelli certe figure di volatili e si spacciò fossero talismani da tener lungi dal tempio le passere, le tortore e le colombe.[1225] II vero è che gli architetti dei principi egiziani dal decimo secolo in poi s’erano invaghiti de’ capricci e de’ complicati ornamenti; sì come avvenìa già nella letteratura arabica, com’avvien sempre nelle arti dopo un’epoca di bella semplicità.[1226] Contuttociò non fu abbandonato l’arco aguzzo, se non che comparisce insieme con esso qualche arco tondo o trilobato; ma non si mutò essenzialmente lo stile, nè si può dir che sia succeduta a’ be’ tempi del Nilometro e della moschea tolunida una età barocca, come quella che ingombrò l’Europa nel decimosettimo secolo. Anzi e’ parmi che dopo le Crociate l’arte arabica d’Egitto siasi ritemprata nell’antica severità. I monumenti di Kelaûn, di Berkûk, di Kaitbai, surti nel decimoterzo, decimoquarto e decimoquinto secolo, ci danno argomento di meraviglia e di riflessione, per la somiglianza loro con gli squisiti edifizii fiorentini di quelle medesime età.
Da un’altra mano ci rimarrem noi dall’esame dell’arte arabica in altri paesi; poichè a levante dell’istmo di Suez i monumenti musulmani anteriori al duodecimo secolo, per quel po’ che se n’è studiato, non mostrano forme diverse da quelle d’Egitto; e se guardiamo a ponente di Barka, non troviamo nell’Affrica propria altri edifizii di quella età che la inesplorata moschea del Kairewân. Lasciam anco da parte la Spagna, dove gli Arabi esordirono seguendo da presso l’arte romana dell’Europa occidentale e di Bizanzio, e poi continuarono con lo stile, bene o mal chiamato, moresco: ma nè questo nè il primo rassomiglian allo stile siciliano del duodecimo secolo, se non che nell’ornato.
Limitandoci dunque all’Egitto, noi chiameremo col Coste architettura arabica pura quella che vi si ammira ne’ monumenti del nono e del decimo secolo:[1227] e conchiuderemo che cotesta forma d’arte nacque su le due sponde del Tigri, e fu esercitata per lungo tempo dalle schiatte de’ vinti. Nel qual giudizio ci conferma l’esempio d’un’arte affine, quando sappiamo che, devastata la Mecca da una inondazione, il califo Abd-el-Melik, l’anno ottanta (700), mandava un ingegnere cristiano a costruire gli argini che difendessero in avvenire la città e il tempio; il qual cristiano aveva appresa l’arte, com’egli è verosimile, nelle irrigate pianure della Mesopotamia.[1228] Non dico io già che l’arte arabica sia stata creata dal nulla. Si formò al certo di antiche tradizioni della Mesopotamia, della Media e della Persia e di tradizioni bizantine, miste a lor volta di stile romano e d’orientale e pervenute nel centro del novello impero arabico per doppia via; cioè a dirittura dalle province che ubbidivano a Costantinopoli, e, di rimbalzo, dall’abbattuto reame sassanida, il quale aveva apprese tante arti e scienze dalla Grecia e dalla nuova Roma. E sì che questa gran sede di civiltà sparse luce al paro su l’Europa e su l’Asia: e in Santa Sofia diè splendido esempio delle cupole e delle iscrizioni cubitali messe a ricordo e insieme ad ornamento; le quali furon poi sì largamente usate da’ Musulmani di ogni regione. Ma con tutta la parentela e la rassomiglianza di molte parti, non si può al certo chiamare bizantino lo stile arabico, nel quale nessuno negherà lo elemento persiano. La storia ci dice l’origine dei primi architetti dei Musulmani; i monumenti sassanidi son lì ancora, con lor vòlte ovoidi per ogni luogo, e con l’arco ellittico del Taki-Kesra, per attestare che nel quinto e sesto secolo dell’èra nostra[1229] le curve descritte da unico centro non bastavano più al gusto orientale, ancorchè i Bizantini non le avessero barattate giammai.[1230]
Dove e quando sia stato per la prima volta appuntato l’arco dello stile arabico, non si ritrae da quei pochi studii che gli Europei han fatti fin qui nelle regioni adiacenti al Tigri ed all’Eufrate. Mi s’affaccia l’ipotesi che sia avvenuto nell’ottavo secolo alla Mecca. Noi sappiamo che i Musulmani, quando fabbricavan di pianta le moschee, copiavano il disegno di quella che cinge la Kaaba.[1231] Sappiam che questo santuario dell’islam era circondato di case; in modo che, ingrandito il ricinto, avvenne che da varie parti rimanessero tra l’una e l’altra angusti passaggi per aprire novelle porte al tempio. Abbiam anco, da un autore meccano del nono secolo, il numero delle porte, ciascuna delle quali era costruita ad uno, due, o parecchi archi, e sappiamo la dimensione di ciascun arco,[1232] la quale il più delle volte si adatta meglio che al tondo, al sesto acuto, che realmente si osserva oggidì nelle nuove strutture di quel tempio.[1233] Verosimile egli è dunque che cotesta forma d’arco, la quale si sparse rapidamente per tutto l’impero musulmano, eccetto l’estremo Occidente, siasi vista assai per tempo alla Mecca. L’arco ellittico della Persia ne dava il principio; lo spazio angusto consigliò forse di ravvicinare i due rami della curva sì che si tagliarono; o forse l’idea venne dall’intersezione di due o tre archi tondi nelle porte divise da quattro o cinque colonne. Ed ho messo nell’ipotesi l’ottavo secolo, perchè nel corso di quello la moschea della Kaaba fu ingrandita tre volte, e perchè l’arco aguzzo, non per anco sviluppato nelle fabbriche della moschea di ’Amr che vanno riferite a Walîd (714), si vede già bello e compiuto nel tempio d’Ibn-Tulûn (879).
Ignoriam noi come e quando siasi cominciato in Sicilia a smettere lo stile romano o bizantino. Le nuove costruzioni cominciarono di certo nel nono secolo, allorchè gli emiri aghlabiti ristoravano e ingrandivano Palermo;[1234] al qual tempo è da riferire la prima origine della strada maggiore del Cassaro, copiata forse dal mercato centrale di Kairewân, ch’era lungo quasi due miglia.[1235] Può darsi ancora che l’impulso fosse venuto da Mehdia, allorchè i Fatemiti, venti anni appresso lor nuova capitale, fabbricarono la Khâlesa (937) nella capitale della Sicilia;[1236] ovvero a capo di trent’anni, nel rinnovamento degli ordini pubblici intrapreso da’ Kelbiti,[1237] del qual periodo abbiamo i frammenti dell’iscrizione monumentale di Termini[1238] e sì, in rozzi disegni, gli avanzi di quella che coronava Bab-el-Bahr,[1239] com’or veggiamo nella Zisa e nella Cuba; oltrechè Ibn-Haukal fa menzione d’altre fabbriche nuove ch’ei notò (872).[1240] Un secolo appresso viene il conte Ruggiero ad affermarci lo splendore degli edifizii ch’avea trovati e distruttane gran parte:[1241] e di que’ che rimanevano in piè nella prima metà del duodecimo secolo ci fa fede il libro di re Ruggiero, o di Edrîsi. Questi accenna, tra gli altri, all’antico tempio di Palermo, sacro al culto cristiano, poi fatto moschea e infine cattedrale cristiana di nuovo, nella quale si ammiravano “sì peregrini lavori ed opere di dipintura, doratura e calligrafia, sì eleganti ed originali da vincere ogni immaginativa.”[1242] In ogni modo egli è certo che prima del conquisto normanno l’architettura fioriva in Palermo e in altre città della Sicilia; nè men certo che continuò a fiorire. Lo stesso Edrîsi descrive la cittadella normanna, della quale or non rimane che la cappella palatina e parte d’una gran torre. “S’erge, dice egli, nel più elevato luogo del Cassaro la nuova cittadella del gran re Ruggiero, edificata con ciottoloni[1243] e massi di pietra da taglio: fortezza ben complessa, munita d’alte torri, di saldi minaretti e robusti propugnacoli che difendono i palagi e le sale.”[1244] Si confronti cotesto ragguaglio con que’ d’Ibn-Giobair, di Romualdo Salernitano e di Ugo Falcando, i quali non occorre replicar qui; ricordinsi gli edifizii suburbani, de’ quali abbiam detto in principio di questo capitolo; vi si aggiungano le molte chiese e monasteri e gli edifizii privati di che veggiam qualche avanzo, o ne fanno menzione le antiche scritture, e si comprenderà quanto e quale sia stato il lusso architettonico della Sicilia nel duodecimo secolo.
Ma lo stile degli edifizii che rimangono di quel tempo torna all’arabico dell’Egitto. Ecco gli archi, moderatamente acuti, delle chiese in Palermo, in Cefalù, in Morreale; que’ della Badiazza presso Messina,[1245] del monastero di Maniaci,[1246] del ponte dello Ammiraglio, di Maredolce, della Zisa, della Cuba, simili, diciamo con rigore geometrico, a que’ del Nilometro e della Moschea d’Ibn-Tulûn! Ecco nelle fabbriche esteriori della Martorana, del chiostro di Morreale e in un muro anco di quel Duomo gli spigoli delle vòlte e varii membri degli ornati alternarsi bianchi e neri come nell’Azhar del Cairo! Ecco le cupole di San Giovanni degli Eremiti, della Cappella Palatina, della Martorana, di San Cataldo, di San Giovanni de’ Lebbrosi, e quella che copre la loggetta del giardino di casa Napoli presso la Cuba, e l’altra più piccina, vera sebîl che disseta ancora i viandanti nello stradale tra Villabate e Misilmeri![1247] Tornan tutte queste cupole ad una sezione di sfera, sostenuta sopra spazio quadrilatero con bel congegno di archetti pensili che s’aggruppano a ciascun angolo in forma di pina scavata, e tutte discostansi dalla costruzione delle cupole bizantine, in guisa da doversi riferire piuttosto a quella che par sia passata dalla Mesopotamia in Egitto[1248] e in Affrica. Cotesti riscontri notansi nelle parti essenziali della struttura, con tanti altri che gli uomini dell’arte hanno descritti più particolarmente.[1249]
Nè il comune legnaggio arabico apparisce men chiaramente negli ornati, ancorch’essi appartengano ad arte accessoria, capricciosa per natura e per vezzo particolare degli Arabi, e derivata anch’essa dalle province bizantine. Un fino conoscitore nota la somiglianza degli ornati siciliani con que’ de’ monumenti musulmani più antichi, per esempio della cattedrale di Cordova.[1250] Il palco di legno della moschea di Cordova, come cel descrive Edrîsi, era compagno di quel ch’ora veggiamo nella Cappella Palatina di Palermo, se non che i cassettoni, o canestri che voglian chiamarsi, erano parte circolari e parte esagoni a Cordova[1251] e in Palermo han figura di ottagono inscritto in una stella. A chi guardi il fregio di mosaico che corona le tavole di marmo bianco della Cappella Palatina di Palermo e del Duomo di Morreale, par che l’abbiano disegnato le stesse mani che fecero il modello de’ merli e de’ parapetti straforati delle moschee d’Ibn-Tulûn, di Hâkem, di Hasan o di quella detta l’Azhar. Gli arabeschi che ammiransi ne’ pulpiti di quelle moschee sembran originali o copie di quei che rendon sì vaghi i pavimenti e i troni regii della Palatina o di Morreale.[1252] E perchè nulla manchi al paragone, l’iscrizione arabica cristiana, che si è scoperta non è guari dentro la cupola della Martorana, è dipinta su assi, appunto come quelle del Cairo. Da un’altra mano lo stile di Maredolce, della Zisa e della Cuba, ch’è pur manifesto nelle rovine del palagio di re Ruggiero all’Altarello di Baida, s’accompagna quivi ad un altro elemento, offrendo ne’ pochi avanzi della gran sala terrena una reminiscenza dell’arte sassanida: una nicchia grande, o piccola abside che voglia dirsi, la quale s’innalza da un’area rettangolare e chiudesi al vertice in sezione ellittica con l’asse maggiore perpendicolare, in guisa da ritrarre uno spaccato di cupola ovoide.[1253] Ritornano in campo per tal modo negli edifizii siciliani del duodecimo secolo alcune delle prime fattezze dell’arte arabica ch’erano rimase latenti negli anelli intermedii della catena, sì come avviene nella generazione degli animali per quella legge che i naturalisti or chiamano atavismo. Non reca minor maraviglia il vedere in alcuni capitelli dei monumenti sassanidi la medesima forma di quelli, de’ quali abbiam tanta copia ne’ monumenti normanni di Sicilia.[1254]
Va notata altresì la rassomiglianza de’ giardini di sollazzo. A legger quelle pagine che si direbbero tolte da’ racconti arabi, nelle quali il prosaico e diligente Makrizi, su la fede di autori più antichi, descrive i palagi suburbani, le peschiere, i canali, le loggette, i verzieri degli emiri tolunidi e de’ califi fatemiti,[1255] ci par di vedere, un poco più particolareggiati, i medesimi ragguagli che danno gli scrittori del duodecimo secolo, cristiani, musulmani ed ebrei, intorno le delizie dei re normanni di Sicilia. Come il Cairo, Palermo ebbe quella che Ibn-Giobair chiama collana di ville regie:[1256] la Zisa, Menâni, la Cuba e Maredolce, le quali giravano quasi a semicerchio intorno la città da ponente a libeccio e scirocco. Non traviarono dal gusto orientale i fondatori della Zisa, quando la gran sala terrena, splendidamente ornata come una Ka’ah moderna d’Egitto,[1257] ha in fondo una fonte ed è tagliata in mezzo dall’aperto canale di marmo, pel quale l’acqua va a raccogliersi fuori il castello in una gran vasca, nel cui centro surse elegante loggetta fino allo scorcio del decimosesto secolo.[1258] Nella Cuba, la base del prospetto rivestita di cemento idraulico, la porta più alta del suolo, e gli avanzi degli argini, attestano che il castello rispondea sopra un laghetto artificiale;[1259] e le vestigie del medesimo cemento si scorgono nelle rovine di Menâni.[1260] Più lunga la cronica di Maredolce, o Favara che vogliam dire. Sappiamo che fu villa regia di sollazzo fino al principio del secolo decimoquarto;[1261] che Arrigo imperatore, allo scorcio del duodecimo, dimorò nel castello e trovò il parco pien di cacciagione.[1262] Pochi anni innanzi, Beniamino da Tudela, o il viaggiatore copiato da lui, faceva andare a diporto sul lago il re normanno con le sue femmine;[1263] del quale lago, disseccato in oggi, possiam noi misurare il circuito lungo la radice del monte e gli avanzi degli argini; e l’altezza si scorge dall’intonaco idraulico ond’è rivestito in alcune parti il muro del castello.[1264] I poeti di re Ruggiero, nella prima metà del secolo stesso, aveano descritti i nove canali scavati alle acque, e i pesci, gli uccelli, i boschetti di aranci e le due palme che s’innalzavan come vessillo su que’ giardini d’Armida.[1265] I quali già nel secolo precedente avean mosso a maraviglia il conte Ruggiero, quand’egli irruppe (1071) nella pianura di Palermo;[1266] ed erano stati acconci forse in sul principio del secolo, poichè il castello, fino al tempo d’Ibn-Giobair (1184), si addimandò Kasr-Gia’far;[1267] dond’egli è verosimile che l’abbia edificato l’emir Kelbita di quel nome (998-1019). L’attiguo bosco di palme, che stendeasi fino all’Oreto,[1268] va noverato forse tra i luoghi di sollazzo che Ibn-Haukal avea visti in riva al fiume, verso la metà del decimo secolo[1269] e che i Pisani aveano depredati il millesessantatrè.[1270] Dobbiamo far menzione ancora della vasta bandita che, al dire di Romualdo Salernitano, avea creata re Ruggiero in alcuni boschi e monti presso Palermo, circondatili a quest’effetto d’un muro di pietra, piantatovi nuovi alberi, e messavi gran copia di daini, caprioli e cinghiali; il qual parco dalla reggia stendeasi per parecchie miglia a libeccio oltre i gioghi de’ monti e chiamavasi, com’io credo, Menâni, col nome stesso del castello.[1271] Romualdo aggiugne che il re passava l’inverno alla Favara e l’estate a cacciare ne’ boschi del Parco. La loggetta sormontata di cupola che rimane intatta tra Menâni e la Cuba, torna sempre, qual che fosse l’età sua, al gusto dei giardini regii dell’Egitto.[1272]
Se i principi normanni seguirono gli usi dei Kelbiti, questi a lor volta aveano imitati i califi del Cairo. E la storia ce ne mostra il perchè. La casa kelbita dei Beni-abi-Hosein, mandata da Moezz a mettere, se possibil fosse, un morso in bocca a’ riottosi Musulmani di Sicilia, avea gran seguito a corte di quel califo. Sotto i degeneri successori di Moezz crebbe la possanza de’ Kelbiti, al segno ch’e’ prevalsero ne’ consigli del Cairo più facilmente che lor non avvenisse di comandare nella capitale della Sicilia.[1273] Dalla intima relazione delle due corti, seguì naturalmente maggiore frequenza di commerci tra’ due paesi: il qual fatto, se occorre nelle memorie del duodecimo secolo, del decimoterzo e fino al decimoquarto,[1274] era nato al certo avanti le Crociate e avanti il conquisto normanno dell’isola.
Dopo il detto fin qui, noi possiamo senza ambagi chiamare arabica l’architettura siciliana del duodecimo secolo; e possiamo conchiudere che quest’arte seguì il corso di ogni altra appartenente all’incivilimento esteriore che rimase in Sicilia fino alla caduta della dinastia normanna. Quello che alcuni eruditi supponeano stile ibride, nato al contatto de’ nuovi con gli antichi abitatori del paese, mi sembra mera specie dello stile arabico d’Oriente; poichè io non veggo nel siciliano quel profondo divario che porta a far genere novello. Anzi, parendomi che i confini tra il genere e la specie non sieno meno incerti in architettura che in zoologia, mi rimarrei da una quistione di parole, se non pensassi che l’altrui giudizio è fondato sopra erronei dati storici intorno i tempi e i luoghi. Io credo che altri abbia errato, considerando l’arte arabica più tosto nel tramonto del medio evo, che nel pien meriggio dell’incivilimento musulmano; più tosto a Granata, che al Cairo. Parmi altresì che quella influenza bizantina, che tutti i maestri dell’arte hanno notata negli edifizii siciliani del duodecimo secolo, non sia mica peculiare del paese nè del tempo, ma si scorga medesimamente in ogni stile architettonico del medio evo; nell’arabico di Egitto, come in quello di Spagna; nel sassanida, come nel lombardo e in tutt’altro che prevalse fino a’ principii del decimoterzo secolo nella Terraferma d’Italia ed oltremonti, non esclusa la Spagna dei Visigoti. Anzi ne’ monumenti sassanidi occorrono più frequenti e più schiette le linee bizantine. L’arte siciliana le ereditò dall’arabica. E ne sia prova il gran divario di stile che corse nel duodecimo secolo tra la Sicilia e l’Italia meridionale, soggette entrambe a’ principi normanni: delle quali regioni la prima contava tre secoli di dominazione arabica, la seconda era uscita da poco di man de’ Bizantini e, se ripugnava alla dominazione, seguiva la civiltà loro e talvolta chiamava artisti da Costantinopoli.[1275] Or l’arco acuto usato ordinariamente, anzi esclusivamente, in Sicilia, non passò lo stretto di Messina pria della metà del decimoterzo secolo. Una sola eccezione che ve n’ha conferma la regola: ed è da maravigliare che non se ne trovino assai più all’entrar del duodecimo secolo, quando i principi non solo, ma anco molti baroni d’ambo i lati dello Stretto discendeano dalle stesse famiglie.[1276] Io non ho fatto parola d’arte normanna, parendomi non si possa mettere in campo ne’ primi principii del secolo, quando i Normanni, sia di Francia, sia d’Inghilterra, usavano ancora lo stile dell’uno o dell’altro paese, il quale non somiglia per nulla a quello della Bassa Italia, nè della Sicilia, signoreggiate, nol dimentichiamo giammai, da guerrieri di ventura di tante nazioni, ai quali fu dato il nome di Normanni, perch’era questa la gente che primeggiò tra loro.
È da avvertire che ci limitiamo nel giudizio nostro all’arte predominante in Sicilia nel duodecimo secolo, quella, cioè, che si ritrae da’ monumenti delle regioni occidentali e da quelli che furono innalzati nelle orientali da’ principi normanni. Noi non supponghiamo già che si fosse dileguata al tutto in Valdemone un’arte indigena più antica, sorella dell’arte dell’Italia meridionale e molto vicina a quella di Costantinopoli; ma pochi monumenti ne avanzano nella Sicilia orientale, e tutti poco più o poco meno alterati da successive costruzioni. Pertanto noi non ragioneremo di quest’arte che non appartiene propriamente alla Sicilia musulmana, e in ogni modo non se ne vede grande effetto nell’architettura del duodecimo secolo; e sol possiamo supporre che nel decimo e nell’undecimo abbia dato in prestito qualche accessorio agli architetti musulmani della Sicilia. La ragione è che entrati i Greci di Sicilia e di Calabria nella corte normanna di Palermo, insieme coi vincitori Oltramontani o italiani di Terraferma, tutte quelle genti cristiane cominciarono a dar nuovo indirizzo alle lettere, alle scienze morali e ad alcuna delle arti figurative: ma l’opera fu lenta al par che l’aumento della popolazione cristiana.[1277] Avvertiamo ancora che, chiamando arabica l’architettura siciliana, intendiamo dire delle fattezze principali; non potendosi tenere diversità di stile que’ lievi mutamenti che richiede or il subietto dell’edifizio, ora il comodo o il capriccio del padrone. L’arte arabica, sì ricca e versatile, potea soddisfar appieno a coteste modificazioni senza necessità di trasnaturarsi. Basta osservare la pianta delle principali chiese normanne di Sicilia che han forma di basilica (diversa bensì da quella della Terraferma d’Italia, al par che dalla chiesa bizantina e dalla moschea),[1278] e ve n’ha alcuna costruita precisamente a croce greca; onde ognun vede che gli architetti seguivano i dettami de’ prelati e de’ principi fondatori, a un dipresso come i due architetti persiani abbozzarono successivamente il disegno della giâmi’ di Cufa secondo i cenni di Omar e di Ziad, e come l’architetto cristiano d’Ibn-Tulûn delineò la moschea senza colonne. E mi sembra che gli architetti musulmani di Palermo ben serbassero l’integrità dell’arte loro, dando alle chiese, ch’e’ fabbricavano, talvolta una forma di mezzo tra l’occidentale e l’orientale e talvolta la forma greca a dirittura. Si può ammettere similmente che artisti siciliani abbian delineato qua e là, per voler dei principi e de’ baroni, il fregio ad angoli salienti e rientranti usato in Francia e in Inghilterra col nome di chevron o zigzag, e lo stesso diciamo di alcun’altra parte accessoria; ma nessuno ne inferirà che l’arte arabica rimanesse alterata per questo, nè tributaria delle arti settentrionali. Credo anch’io che re Ruggiero, vago delle matematiche applicate e capace d’altissimi concetti, abbia dato indirizzo agli artisti che gli fabbricarono San Giovanni degli Eremiti, la Cappella Palatina, il Duomo di Cefalù, i palagi e le ville: e pur non dirassi ch’egli abbia rinnovata con ciò l’arte arabica in Sicilia.
La quale par sia stata allora esercitata quasi esclusivamente da’ Siciliani, sia di schiatta arabica o berbera, sia di schiatte indigene, fatti musulmani e alcun di loro già riconvertito al Cristianesimo, da senno o per gabbo. E veramente la moda d’intagliare iscrizioni arabiche negli edifizii de’ principi normanni, come alla Cuba, alla Zisa, e perfino nella torre della distrutta chiesa di San Giacomo la Màzara,[1279] fa necessariamente supporre artisti la più parte di linguaggio arabico. Il qual uso d’intagliare le iscrizioni nelle mura esteriori de’ monumenti accettò anco le due altre lingue che si parlavano in Palermo, la greca cioè nella chiesa della Martorana,[1280] e la latina in quella contigua detta di San Cataldo; ma l’arabico non cedè il luogo ne’ castelli della Cuba e della Zisa, ancorchè più moderni.[1281] L’arabico entrò ne’ santuarii cristiani, come ognun vede nel palco della Cappella Palatina e nella chiesa della Martorana, nella quale, astrazion fatta delle due colonne con iscrizioni, tolte evidentemente da moschee, la cupola di mosaico con epigrafi greche è fasciata alla base, com’abbiamo testè accennato, d’una iscrizione che comincia col simbolo greco bizantino e continua sino alla fine in arabico, con formole cristiane tradotte da inni antichissimi della Chiesa orientale.[1282] Convien dire anzi che gli architetti fossero rimasi, se non musulmani, per lo meno arabizzanti fino alla seconda metà del duodecimo secolo, poichè nel soffitto della chiesa della Magione, che fu edificata in quel torno, si veggono ancora, su le correnti del comignolo, le voci Vittoria, Salute, Possanza, Contentezza ed altri augurii scritti in arabico, or a caratteri neri su fondo bianco, or il contrario, ed ora in rosso con fili gialli su fondo nero; e coteste correnti alternansi tra loro e con altre che portan figure, le une di pesci e le altre di uccelli.[1283] Era capriccio degli artefici, o piuttosto superstizione d’astrologia; ma pur sempre la lingua pura e i caratteri netti e franchi provan la nazione degli autori principali di quell’opera.
Spero io che questa definizione della architettura siciliana del duodecimo secolo, messa innanzi dall’Hittorf, confortata da’ lavori del Coste e, se mal non mi avviso, anche dal dotto giudizio dello Springer e corredata delle notizie ch’io ho aggiunte qui, sia decisa inappellabilmente, quando lo studio di nuovi testi arabi e di altri monumenti della Siria e della Mesopotamia designerà precisamente il tipo ch’ebbe l’architettura arabica orientale dall’ottavo all’undecimo secolo. Coi quali studii troncherassi fors’anco quell’altra lite su l’origine dell’architettura, impropriamente detta gotica, del Settentrione. Uno de’ più eletti ingegni del secol nostro[1284] ha trattato questo argomento, sostenendo, con molta erudizione e molto amor patrio, come lo stile gotico non consista nell’arco acuto e come sia nato dalle idee filosofiche, politiche e religiose che nella prima metà del duodecimo secolo andavano germogliando entro le congreghe ecclesiastiche dell’Isola di Francia. Ma s’egli ha dimostrata la novità dello stile settentrionale e il merito di coloro che primi l’usarono in Francia, o, com’altri vuole, in Germania o in Inghilterra, non si potrà negare da un altro canto che l’arco acuto è pur parte principale dell’arte del Settentrione; che si vedea già bello e compiuto nella moschea d’Ibn-Tulûn nel nono secolo, e che s’ammirava anco in Sicilia alla fine dell’undecimo e nella prima metà del seguente. Non va rigettata dunque l’opinione del Coste e dell’Hittorf.[1285] I pellegrini normanni e tedeschi che visitavano Gerusalemme e il Sinai avanti la prima Crociata; i guerrieri dell’Occidente, nobili e plebei, laici e chierici, che ritornavano a lor case dopo sciolto il voto della liberazione, riportarono, com’egli è verosimile, l’idea dell’arco acuto ed altre movenze dell’arte arabica; la quale con la sua vaghezza e grandezza non potea non abbagliare gli inculti popoli dell’Europa. Nè parmi supposto temerario che, sostando in Sicilia, alcun de’ reduci abbia vista l’arte medesima fiorir sotto lo scettro cristiano e servire agli edifizii sacri. Senza dubbio que’ concetti germogliarono in menti preparate dalle tradizioni dell’architettura romana e da un cupo sentimento religioso ignoto nell’Europa meridionale; senza dubbio la qualità de’ materiali di costruzione e i bisogni del clima, per esempio i tetti acuminati, richiesero delle modificazioni e suggerirono di tentare un arco assai più aguzzo che non si fosse mai veduto in Egitto, nè in Sicilia; e spesso, com’egli avviene, la necessità parve virtù, e la bizzarrìa, volo del genio o sublimità dell’affetto. Spuntò per tal modo quello stile che non è romano, nè lombardo, e neanco arabico, nè bizantino, quantunque abbia preso di questo e di quello, ma pur costituisce una forma nuova dell’arte e va noverato tra le poche creazioni felici del medio evo.
Ritornando al mio argomento e toccando delle arti accessorie all’architettura, io non sosterrò che tutti i be’ mosaici siciliani del duodecimo secolo sien opera della schiatta musulmana. I soggetti cristiani delle immagini poteano esser comandati anco a Musulmani; ma i tipi immutabili della Chiesa bizantina copiati fedelmente, il disegno, i colori, le epigrafi in greco, rivelan la mano di artisti di quella schiatta, sia che fossero venuti apposta da Levante, come quei che avea testè chiamati l’abate Desiderio a Monte Cassino, sia degli indigeni di Sicilia e della Bassa Italia. Nè ripugno al supposto che uomini nati di schiatte italiche nell’una o nell’altra regione abbian presa parte al lavoro e lasciatovi per segno le epigrafi latine. Non escluderò nè anco gli Arabi, quando Edrîsi, nel paragrafo della cattedrale di Cordova testè citato,[1286] disse che nè Musulmani nè Rum avean mai fatti mosaici più belli. Oramai non si può allegare, e reggerebbe poco nel caso nostro, il supposto orrore d’ogni fedel musulmano contro le immagini d’uomini o d’animali: contuttociò egli è probabile che i Musulmani, più tosto che alle istorie bibliche ed alle rappresentazioni de’ santi, abbiano lavorato a quello che soleano far più sovente, cioè nelle chiese agli ornamenti e negli edifizii profani alle immagini di fantasia, come quelle della sala terrena della Zisa e della stanza normanna del palazzo reale. Del resto egli è noto che valenti critici hanno studiati i mosaici di Sicilia e li hanno giudicati superiori a que’ contemporanei della nostra Terraferma.[1287]
Accennerò appena alle dipinture su legno che rimangono ne’ cassettoni ottagoni del palco della Cappella Palatina di Palermo, tutti intagliati, divisi da lunghe aguglie capovolte a mo’ di stalattiti, ornati d’oro, d’azzurro, di bianco e d’iscrizioni arabiche. Le dipinture son da riferire alla prima metà del duodecimo secolo, come la più parte de’ cassettoni; sapendosi da scrittori contemporanei che il palco era ornato per l’appunto con que’ disegni e que’ colori, e rimanendovi intatte, la più parte, le iscrizioni arabiche. Ma a quell’altezza arriva poca e trista luce dalle finestre sottoposte, sì che le iscrizioni furono ignote fino al principio di questo secolo, e le figure e i rabeschi dipinti entro i cassettoni non si conoscono altrimenti che per le piccole fotografie fatte due anni addietro a luce riflessa da uno specchio, quand’io mi accinsi a pubblicare le iscrizioni. Nessuno ha osato poi di giudicar le dipinture senza osservarle da presso: onde convien tacerne per ora ed aspettare qualche occasione, che permetta ai conoscitori di studiare a loro bell’agio questi avanzi di un’arte siciliana del duodecimo secolo.[1288]
Venendo alla scultura, non veggo alcuna ragione di negar ai Musulmani di Sicilia il lavorìo degli ornati in alto e basso rilievo e in particolare de’ capitelli elegantemente scolpiti, che ammiriamo in varii monumenti dell’epoca normanna, massime nel chiostro di Morreale. Perocchè il grande numero e la forma de’ capitelli esclude il supposto che fossero tolti da più antichi edifizii, e, come dicemmo pocanzi trattando de’ mosaici, non regge il vecchio canone che là, dove si veggono effigie, sia da escludere l’origine musulmana. Buoni giudici spassionati hanno notata la eccellenza di così fatta opera di scultura.[1289] De’ fonditori di bronzo abbiamo toccato nel capitolo precedente. Passando dal mestiere a quella che in oggi si chiama propriamente arte, noi non rivendicheremo alla scuola musulmana le due porte di bronzo del Duomo di Morreale, contemporanee e pur di stile molto diverso, nell’una delle quali si legge il nome di Bonanno da Pisa, nell’altra quel di Barisano da Trani.[1290] Pure la imitazione degli ornati arabi è notabile in alcuni compartimenti della porta di Bonanno: e più assidua, dico anzi servile, si scorge in un lavoro anteriore almen di ottant’anni, cioè le porte di bronzo della camera sepolcrale di Boemondo a Canosa, ch’erano una volta ageminate in argento. Nelle quali non solamente i fregi e il campo son tutti arabeschi finissimi e complicati, ma l’artista perfin copiò delle lettere cufiche nei tre cerchi che occupano il campo del battente sinistro; talchè si direbbe opera orientale, se non vi si leggessero allato in latino le lodi di Boemondo e se la soscrizione, parimente latina, non portasse il nome di Ruggiero campanaio di Amalfi, autore delle porte e d’un candelabro.[1291] Possiam noi supporre questo Ruggiero musulmano di Sicilia, battezzato col nome del padrone normanno che l’emancipò; possiamo supporre che, nato in Amalfi, avesse appresa l’arte, com’altri suoi concittadini ed altri Italiani, in Costantinopoli, oppure in Sicilia o nel Levante musulmano; ch’egli avesse gittato il bronzo ed altri disegnati i modelli: ma in nessun caso è dubbia la scuola, alla quale appartiene questo lavoro. A ciò s’aggiunga che i Musulmani di quella età, con opera diversa e assai meno agevole, fabbricavan porte di ferro istoriate a figure di animali. Noi lo sappiamo precisamente delle porte di Mehdia,[1292] della qual città si è visto ch’ebbe fin dalla sua fondazione strette relazioni con la Sicilia. E non sembra inverosimile che fossero state della stessa fattura le porte di ferro che Roberto Guiscardo riportò di Palermo in Troja di Puglia, insieme con varie colonne e capitelli di pregio:[1293] il qual fatto spiana la via all’ipotesi che artisti musulmani di Palermo abbiano partecipato al disegno dei lavori di bronzo gittati un secolo appresso pel Duomo di Morreale.
Ma ritornando alle costruzioni dopo il lungo discorso su le arti ausiliari, ci occorre un ramo d’ingegnerìa assai coltivato in Palermo, per l’abbondanza delle acque che sgorgano alle radici de’ monti vicini. Il biasimo che fa Ibn-Haukal a’ Palermitani, perchè la più parte bevesser acqua di pozzo, ci ha condotti, contro l’opinion comune, a conchiudere che la vasta ramificazione di acquedotti e condotti minori, che in oggi recano l’acqua infino a’ piani più elevati delle case, non si dovesse riferire alla dominazione musulmana. Ma da un altro canto quel congegno non può esser nato dopo il duodecimo secolo. Arabica è la voce giarra, che designa in Sicilia una parte principale del sistema, cioè i pilastri, ne’ quali si fa montar di tratto in tratto l’acqua per lasciarla ricadere giù e renderle in parte la forza perduta nel cammino: le quali costruzioni furono usate allo stesso effetto in Ispagna e lo sono tuttora nell’Affrica settentrionale.[1294] Che se il vocabolo catusu, il quale in Sicilia vuol dire doccia di terra cotta, ha etimologia greca e latina, noi veggiamo che gli Arabi, toltolo in prestito, come tanti altri vocaboli, da’ popoli civili, mutarono alquanto il significato da “urna o brocca” in “secchia,” e in Occidente vi aggiunsero il significato di “condotto o doccia;” onde questa voce siciliana si deve immediatamente agli Arabi.[1295] Infine è arabica di pianta la voce darbu, misura d’acqua corrente, usata fino ai nostri giorni in Palermo e scritta in un diploma arabico del duodecimo secolo.[1296]
Dalle cose passando agli uomini, sarebbe da investigare per lo primo quali avanzi di sangue arabo e berbero fossero rimasi negli odierni Siciliani. A tal quesito parmi non sappia rispondere l’anatomia nè la fisiologia, dopo sette secoli, nel corso de’ quali la schiatta italica, di gran lunga predominante, ha avuto agio di assorbire ogni altra. E là dove mancano i rigorosi metodi scientifici, dobbiamo diffidare delle apparenze, delle opinioni preconcette, delle osservazioni parziali e de’ subiti giudizii. Per la medesima ragione mettiamo da canto le conghietture che suggerisce qua e là una diversa sembianza e indole degli uomini in qualche regione o città dell’isola, e ci ristringiamo ai fatti storici e linguistici.[1297]
Abbiamo notate a lor luogo le crisi della popolazione musulmana. La quale, oltre le stragi della guerra e delle proscrizioni, scemò per la emigrazione in Affrica, incominciata il millesessantotto e non cessata al certo fino al compimento del conquisto; cresciuta dopo breve sosta, pei supplizii del cencinquantatrè, e per le stragi del censessantuno; continuata pian piano sotto Guglielmo il Buono; accelerata dalle sedizioni del centottantanove, e dai terrori del cennovantanove, fino alle ribellioni del dugenventuno e dugenquarantatrè, per le quali, altri si rifuggì in Affrica o in Egitto, ed altri cercò scampo nella religione de’ vincitori; mentre il grosso de’ ribelli era deportato in Puglia e scompariva, tra per apostasia e per emigrazione, ne’ principii del secolo decimoquarto. Verosimil sembra che, in tutte queste vicende, la più parte degli usciti fossero oriundi di schiatte straniere, più tosto che antichi abitatori dell’isola. In tale opinione mi conferma il fatto che i Saraceni di Lucera parlavano, o per lo meno intendean bene, l’italiano;[1298] il che conviene per l’appunto alla popolazione rurale sottomessa dai Musulmani e lasciata sotto il giogo dai Normanni, nelle platee dei quali ci occorrono tanti villani musulmani di origine italica o greca.[1299] Ma dopo la seconda deportazione in Puglia scomparisce nell’isola, sì come abbiam detto di sopra, ogni notizia di abitatori musulmani;[1300] si veggono famiglie siciliane in Egitto e in Affrica;[1301] il linguaggio arabico si spegne d’un subito in Palermo stessa: sì che ne avanza appena, nella seconda metà del decimoterzo secolo, una soscrizione in atto pubblico[1302] e il ricordo di traduttori dall’arabico in latino, tra i quali veggiamo degli Israeliti.[1303] Mancano in Sicilia nella stessa generazione le iscrizioni sepolcrali arabiche:[1304] e se i nomi di città, villaggi e grandi tenute duran la prova del mutato linguaggio, quei delle strade in città e de’ piccoli poderi cambiano o si corrompono,[1305] sì che pochi ne avanzan oggi.[1306] Potrebbe supporsi, in vero, da’ capitoli di Federigo l’Aragonese, che fosse rimaso qualche avanzo di popolazione musulmana infino alla prima metà del secolo decimoquarto;[1307] ma quando si riflette al silenzio di ogni altra memoria per sessant’anni, sembra più verosimile che quelle leggi abbian avuto di mira i mercatanti musulmani stanziati o passeggieri nelle città marittime, e gli schiavi recati dalla costiera d’Affrica, e soprattutto dall’isola delle Gerbe, dopo il milledugentottantaquattro.[1308]
La somma de’ ricordi storici dunque è, che nei primi del trecento rimanea nella Sicilia propriamente detta poco o punto di quelle schiatte orientali ed affricane. Delle isole adiacenti, al contrario, Pantellaria, secondo l’attestato degli scrittori musulmani del decimoterzo secolo,[1309] non avea mutata schiatta nè religione, se non ch’era soggetta ai re di Sicilia, e che poi fu occupata temporaneamente da avventurieri genovesi; ma fino al decimosesto secolo, ancorchè gli abitatori professassero già il Cristianesimo, “avean comune co’ Saraceni l’abito e la favella,” al dir del Fazzello.[1310] Non sappiamo se in Malta la dominazione romana abbia spento del tutto il linguaggio punico, nè se v’abbiano fatto stanza, come a me par verosimile,[1311] degli antichi abitatori insieme coi Musulmani che se ne insignorirono e furono soggiogati a lor volta dal conte Ruggiero. Il quale, avendo istituito immantinente un vescovado, non cade in dubbio che soggiornassero allora in Malta de’ Cristiani, e sembra assai verosimile che la schiatta italiana fosse penetrata o piuttosto cresciuta con la dominazione siciliana in quell’isola.[1312] Meglio che co’ barlumi delle croniche, la mescolanza della schiatta si prova con l’idioma maltese, il cui dizionario e, quel ch’è più, la grammatica, è mezzo italiano e mezzo arabo; onde gli abitatori, senza avere appresa mai altra lingua, agevolmente conversano coi Barbareschi.[1313]
Qual dialetto dell’idioma arabico abbiano usato i Musulmani di Sicilia non è agevol cosa a determinare, quando del parlar volgare altro non resta che un oscuro esempio in tre diplomi del duodecimo secolo,[1314] ed al contrario gli altri documenti son dettati nell’inelegante, ma corretto stile degli atti pubblici;[1315] nè le opere de’ poeti e de’ prosatori disconvengono alla lingua dotta di quell’età. Il significato preso da alcuni vocaboli conferma bensì il plausibile supposto che fosse prevalso in Sicilia l’arabo occidentale o maghrebino che voglia dirsi: e meglio si farà il paragone quando uscirà alla luce il gran dizionario maghrebino che apparecchia il Dozy. Per dar qualche esempio noteremo che wed in Sicilia, come in Spagna, suonò “fiume,” non “valle,” come nella patria della lingua; che marg, passando nel dialetto siciliano, piegò la significazione originale di “prato” in quella di “padule;” che rahl, “stazione,” designò in Sicilia assolutamente un “casale;” sciarr, “mala opera,” si ristrinse a “rissa:” e molte altre differenze di tal fatta potremmo notare riscontrando i dizionarii classici, sia che le voci abbiano veramente mutato di valore, sia che i lessicografi, come lor avviene in tutte le lingue, abbiano ignorati molti significati ammessi in alcune regioni e presso alcune tribù.
Meno male possiam noi discorrere della pronunzia, della quale ci fanno testimonianza, fin dall’undecimo e duodecimo secolo, moltissimi nomi proprii trascritti in greco o in latino, e la sentiamo ancora nei nomi topografici e ne’ vocaboli siciliani derivati dall’arabico; se non che nel primo caso avvien talvolta che il mal noto s’abbia a spiegare con l’ignoto, e nelle parole viventi il suono può essere alterato. Aggiungasi che in uno de’ diplomi di maggior momento, dico la gran pergamena arabo-latina di Morreale, la versione è opera di un chierico francese, di que’ che trassero a corte di Palermo ne’ primi anni di Guglielmo il Buono; onde alcune lettere latine notan suono diverso da quel che rendono in bocca nostra.[1316] Contuttociò la materia non manca. Uscito che sia alla luce l’egregio lavoro del professor Cusa intorno i diplomi arabi e greci di Sicilia, si ricaveranno con maggiore certezza le leggi che i suoni del parlare arabico seguivano passando nel greco e nel volgare della Sicilia: il quale studio renderà più agevole il gran lavoro d’un glossario di vocaboli siciliani derivati dall’arabico. Intanto ecco quanto ritraggo dalle ricerche fatte fin qui intorno l’influenza che quell’idioma esercitò sul volgare siciliano.
Com’io ho detto a suo luogo,[1317] la Sicilia, al punto del conquisto musulmano, era bilingue, parlandovisi il greco e il latino, o per dir meglio un idioma italico, il quale negli atti pubblici vestiva i panni del latino e pur non gli riusciva di celare al tutto le umili sembianze native. A provar ciò mancano per vero in Sicilia delle scritture del settecento, ottocento e novecento, come quelle che abbiamo in varii luoghi della Penisola;[1318] ma nei primi diplomi latini, greci ed arabi di Sicilia che tornano allo scorcio dell’undecimo secolo, è manifesta la forma volgare di alcuni nomi proprii o topografici, che non erano nati al certo in quella medesima generazione. Tra i primi abbiam già notati Bambace, Diosallo, Mesciti, Notari, La Luce, Saputi, Caru, Francu, Fartutto, Pacione, Pitittu, Strambo ed altri di antichi abitatori.[1319] De’ secondi, un diploma greco del milleottantotto ricorda il fiume dei Torti;[1320] uno del millenovantaquattro conduce i confini d’un podere ad serram dello Conte e quindi ad petram serratam quae vocatur La Castellana;[1321] uno del millecento cita La Schala di Lampheri e il monte de Cavallo, ed accenna al corso di una valle per ostro sive Xirocco.[1322] Il latino notarile del medio evo, che torna ordinariamente a traduzione mentale dal volgare, comparisce già in un diploma del conte Ruggiero dato il millenovantuno, nel quale, oltre il fraseggiare tutto italiano, ci occorre verbo accrescere:[1323] e più apertamente si mostra in un altro diploma dello stesso principe, datato del millenovantatrè e contrassegnato dal suo notaio, o, diremmo noi, segretario, Antonio della Mensa, il quale se fosse siciliano o calabrese io non so, ma di certo scriveva in una lingua ch’egli credea latina in grazia delle sole desinenze e di qualche preposizione.[1324]
A cotesti avanzi del siciliano anteriore al conquisto, ne aggiugnerò altri del duodecimo secolo. Non dimenticando che in quella età la Sicilia s’empiva a poco a poco di colonie della Terraferma, io metto da canto l’attestato del bando latino di Patti (1133) spiegato in volgare,[1325] e lascio indietro molti altri esempii di vocaboli che si potrebbero riferire tanto al siciliano, quanto al pugliese, al toscano, al genovese, al monferrino o che so io,[1326] e noto in un diploma del millecentrentatrè il campo Lu Marge,[1327] ch’è bello e buono vocabolo arabico, vivente oggidì in Sicilia. Ci occorrono in un’altra carta i nomi topografici Luhrostico e Tremula,[1328] de’ quali il secondo è certamente siciliano; in un’altra del cencinquantasei, il sostantivo Olivastro;[1329] nel centottantadue Scuteri;[1330] nel dugenventisei Gabbaturi;[1331] nel dugenquaranta Ienchi e Ceramiti.[1332] E qui fo sosta, poichè non mette conto a spigolare qua e là dei vocaboli nel decimoterzo secolo, che ci ha lasciati degli scritti interi in siciliano. Anzi mi sarei già fermato alla metà del duodecimo, se avessi potuto credere contemporanei all’originale i transunti di due carte greche pubblicate per lo primo dal Morso;[1333] delle quali l’una è data il millecencinquantatrè, e l’altra, che ha soltanto la indizione, è stata ben collocata nel millecenquarantatrè.[1334] Ma non avendo esaminati i testi, e sorgendo gravi difficoltà su l’epoca de’ transunti, mi convien rinunziare a prova sì comoda e lesta.[1335] In ogni modo son persuaso che il volgare siciliano avea già presa nel duodecimo secolo una forma assai somigliante all’attuale: e che già aspirasse a divenir lingua cortigiana lo provano le prime poesie italiane dettate in Sicilia. Le leggende della maggiore porta del Duomo di Morreale, gittata in bronzo da Bonanno pisano, sendo latine con abbreviature e con qualche parola prettamente toscana, non danno esempio, a creder mio, del linguaggio parlato in Sicilia allo scorcio del duodecimo secolo;[1336] dimostrano piuttosto, che l’uso della corte di Palermo rincorava gl’Italiani delle altre province a farsi innanzi con lor volgari, somiglianti l’uno all’altro e tutti al latino. E mi pare molto verosimile che in quel primo assetto delle colonie continentali in Sicilia fossero stati più disformi l’un dell’altro i dialetti di varie regioni dell’isola, i quali ritengono fino ai nostri giorni tanti vocaboli e modi di dire diversi.
La robusta pianta del parlare italico resistè meglio che ogni altra lingua all’invasione dell’arabico. Dalla Siria, dalla Mesopotamia, dall’Egitto, scomparvero gli antichi idiomi entro breve tempo dal conquisto degli Arabi, rimanendo nella sola liturgia cristiana; dileguaronsi in un baleno nell’Affrica settentrionale, insieme con la religione, gli idiomi trapiantati ne’ tempi istorici; perfin l’aspro berbero autoctono fu respinto dal parlare arabico verso mezzodì e verso ponente. Ma in Spagna l’esotico latino cedè poco terreno e ripigliò tosto il perduto, serbando inviolata la grammatica. La qual diversa fortuna, se va apposta precipuamente ad altre cagioni, come sarebbero la distanza dall’Arabia, il numero de’ conquistatori stanziali e la durata del dominio loro, pure è da riferire in parte all’indole della lingua e al gran tesoro di civiltà che Roma avea profuso in Occidente insieme con quella. Le cagioni della corruzione dovean operare in Sicilia più debolmente assai che in Spagna; ed a quelle dovean anco resistere i Siciliani per la remotissima antichità di lor idioma italico e per la parentela di esso col greco, che gli avea disputata l’isola fin dall’ottavo secolo avanti l’èra volgare.
L’arabico pertanto ha lasciati nel parlare siciliano minori vestigi che non si creda comunemente: veruno nella grammatica,[1337] un’ombra nella pronunzia, poche centinaia di vocaboli nel dizionario, e qualche modo di dire. Io non posso entrare ne’ particolari, poichè richiederebbero il glossario accennato dianzi, il quale alla sua volta dovrebbe fondarsi sopra un dizionario etimologico, che niuno fin qui ha compilato con gli aiuti della linguistica moderna. Dirò dunque per sommi capi, che ne’ derivati siciliani l’accento rimane quasi sempre al posto dov’è ne’ vocaboli arabi corrispondenti, sia che la vocale si prolunghi nella lettera analoga, sia che le s’attacchi la consonante che segue. Delle tre vocali arabiche, la prima suona in siciliano or a, or e; la seconda sempre i; e la terza quasi sempre u. Delle consonanti la b (2ª lettera dell’alfabeto arabico) rimane per lo più inalterata come in “balata, burgiu, burnìa;” talvolta, soggiacendo alla legge della pronunzia greca, si muta in v come nelle voci “vava, vattali.” La th (4ª lettera) divien sempre t come in “Butera, tumminu.” La g (5ª lettera) serba il suono, come in “giarra, giubba,” o l’addolcisce in c, come Muncibeddu, e raddoppiata nel vocabolo hâggem, suona alla greca ng nel casato “Cangemi:” ma la voce “zubbiu” (fosso profondo) è esempio della permutazione in z, che il Dozy ha notata in molte voci spagnuole. L’ h (6ª lettera) si aggrava in c, come nel detto nome Cangemi e in “coma, camiari,” o sparisce, per esempio nel nome topografico Mars-el-Hamâm, divenuto Marzamemi. Similmente la kha (7ª lettera) si muta in g, per esempio “Gausa, gasena,” e può quasi scomparire come in “maasenu” (magazzino). La d araba (8ª lettera), ch’era molto vicina al t, come si vede in tanti esempii di vocaboli tolti dal greco, s’identificò alcuna volta con la d nostra come in “darbu, Dittainu” ( Wadi-t-Tîn ), o mutossi in t come in “Targia, tarzanà ( Dar-es-sena’h, darsena, arzanà, arsenale). La ds (9ª lettera) non occorre in derivati certi; la z (11ª lettera) ha il suono italiano in “Zisa, zizzu,” o prende quello della s, come in “magasenu” citato dianzi. Al contrario, la s (12ª lettera) inalterata in “Sutera, senia,” si muta in z nelle voci “zicca, zuccu ( suk, tronco d’albero), zotta” (frusta). Frequentissima nei derivati dell’arabico, la sc (13ª lettera) rende il suono arabico in “Sciacca, sciabica,” che un tempo si scriveano con la x. L’altra s (14ª lettera), che c’è già occorsa in “darsena,” fa ora s, ora z, e suona aspra di molto in “zabara” e “zurriari” (stridere de’ denti). Come la d, la dh (15ª lettera) fa d nel siciliano “dagala, dica” (ambascia), e diviene t in “reticu,” derivato da radhi’ (bambino lattante). La z (17ª lettera), che altri trascrive dh, par abbia preso l’uno e l’altro suono in Sicilia, rimanendo l’attestato del secondo nell’antico vocabolo “annadarari” (invigilare su i pesi e le misure) e argomentandosi il primo dal nome topografico “Zaèra,” del quale diremo più innanzi. L’ ain (18ª lettera dell’alfabeto), sola tra le arabe che non si possa rendere con l’alfabeto romano e però notata dagli orientalisti con un’apostrofe, mi par si pronunzii arabicamente da’ Siciliani in un verbo d’uso frequentissimo.[1338] E suona cotesta lettera nell’accento di “tarzanà,”[1339] citato or ora; ovvero si muta in consonante italiana, come nello allegato esempio di reticu; al che risponde la trascrizione dell’ ain seguita ne’ diplomi arabo-greci di Sicilia, ne’ quali quella consonante, o si perde nella vocale, come in Ὀθουμέν e in Ἄβδ ( ’Othman, ’Abd), o la si muta in γ, per esempio in Νίγμε, Σεγίτ, ( Ni’ma, Sa’îd ); ed altri nel duodecimo secolo tentò di notarla con l’ h, come poi fece nel decimosesto Leone affricano, poichè leggiamo in un diploma il nome di Habes, invece di ( Wed- ) ’Abbâs, ch’era l’Oreto. Il gh (19ª lettera) o rimane g forte come in “gana,” o si muta anche in c come in “Cutranu,” che si scrive, e forse un tempo si pronunziò, “Godrano.” La k (21ª lettera) suona in Sicilia c, come in “Calata, cammisa, coffa;” ma par abbia avuto un tempo anco il suono della g che le danno gli Egiziani, poichè leggiamo “caitus,” e “gaitus” negli scritti latini del duodecimo. Nè altrimenti l’altra k (22ª lettera) che ricorre in “gaffa, mingara, cuscusu” e nell’avverbio “a cuncumeddu.” E quando il parlare arabico si sparse in Sicilia, la pertinace d che i Sardi e i Siciliani sostituiscono alla l della nostra Terraferma, si trovava radicata sì profondamente, che trasformò anco la l (23ª lettera arabica) in alcuni vocaboli tolti dall’arabico, come gebel in Mongibello, pronunziato “Muncibeddu” e il verbo “sciddicari” (sdrucciolare), che viene da zeleg e zelek. L’ultima h (26ª lettera), al par che le sue sorelle, si rende talvolta con una g, come in “zagara;” talvolta svanisce, poichè altri pronunzia lo stesso vocabolo “zaara:” ed abbiamo in Zaèra, nome d’un sobborgo di Messina, un altro esempio di questa attenuazion di suono; ma l’origine arabica non si può dimostrare, se non con l’omonimo palagio degli Omeiadi in Cordova. Il w (27ª lettera) suona v come in “Favara;” ma, se iniziale, par sia stato pronunziato u, ovvero o, come “Odesuer” ( Wadi-es-Sewâri ), ed anche sia scomparso al tutto come supposto articolo, il che si argomenta da Dittaino ( Wadi-el-Tîn ), che un tempo suonò di certo “Udittain.” Le altre lettere t, r, t, f, m, n, j (3, 10, 16, 20, 24, 25, 28 dell’alfabeto) non hanno suono diverso dall’italiano, nè mutan mai.
Chi compilerà il glossario delle voci arabiche passate nella nostra lingua illustre e nei dialetti,[1340] dovrà resistere a tentazioni frequenti; poichè i suoni dell’arabo sono sì svariati e il dizionario sì prodigiosamente ricco, che col metodo de’ vecchi etimologisti, la cui schiatta non è spenta del tutto, si potrebbe rannodare all’arabo ogni vocabolo dell’italiano e di altre lingue ancora. Da un’altra mano, le leggi fonetiche ricavate fin qui non imperano assolutamente in tutti i tempi e i luoghi; e chi non ammettesse eccezioni e talvolta non osasse scostarsi dal fil della sinopia, non avanzerebbe mai in un lavoro etimologico. Ho voluto dir questo per iscusarmi se non presento qui una lista de’ vocaboli siciliani che sono evidentemente, o mi sembrano, derivati dall’arabico; e se differisco ad altro tempo, o rimetto a’ posteri, un lavoro che richiede anzi tutto più diligente ricerca de’ vocaboli siciliani per ogni luogo dell’isola e, in quanto si possa, per ogni tempo. Perocchè leggendo nel dizionario del Pasqualino le voci disusate al suo tempo, le quali ei prese da antichi glossarii, ne veggo bandite di tempo in tempo molte di vero conio arabico. Ed è ben ragione che l’elemento straniero si elimini a poco a poco: ma questo fatto per lo appunto va notato in una esamina storica della lingua.
Rimanendo sempre su i generali, dirò che i vocaboli siciliani di origine arabica si riferiscono la più parte alle cose rurali, alle industrie cittadinesche, alle vestimenta, ai cibi, ed a qualche istituzione di polizia urbana. Come nello spagnuolo e nel portoghese che ne son ricchi, così nel siciliano che n’è povero, occorrono voci arabiche, assai più sovente ne’ sostantivi che negli aggettivi: ed al contrario i verbi, scarsi in quelle due lingue al segno che si è dubitato se alcuno se ne trovasse,[1341] non mancano nel siciliano.[1342] Sono da notar anco de’ traslati o modi di dire tradotti litteralmente dall’arabico;[1343] e come per contrapposto i proverbi arabi si contano a dito nelle raccolte de’ siciliani.
Non voglio pretermettere che buon numero dei vocaboli arabi passati nel siciliano si trova anco nella lingua illustre; anzi che occorrono in questa e in qualche altro dialetto delle voci arabiche ignote in Sicilia, per esempio nel genovese, camâlo, mésaro, macrama; in Arezzo cáida;[1344] a Pisa un tempo calega;[1345] in Liguria e in Toscana, maona o magona[1346] e nella lingua illustre acciacco, azzurro, butteri, carciofo, collare (per salpare), petronciana, scialbo, tarsia. Altri son comuni al siciliano: ammiraglio, barda (siciliano varda ), camicia (siciliano più correttamente cammisa ), canfora, cifra e zero (trascrizioni diverse dello stesso vocabolo), dogana, gabella, garbo, gelsomino, fondaco, liuto, magazzino, sensale, tariffa, vasca: oltrechè i termini scientifici, come alambicco, alcali, almanacco, giulebbe, taccuino, zenit, corrono nella più parte delle lingue viventi d’Europa. La Terraferma d’Italia, di certo, li ebbe or dalla Sicilia, or dalla Spagna, or direttamente dalle costiere meridionali del Mediteraneo.
Senza disputare altrimenti delle origini del parlare siciliano, su le quali hanno lavorato e lavorano ancora i letterati dell’isola,[1347] e senza gittarmi nella mischia che ferve intorno a Ciullo d’Alcamo,[1348] io ammetto che verso la metà del duodecimo secolo il siciliano parlavasi tanto o quanto in tutta l’isola e tendeva alla forma attuale, senza essere giunto però, non dico già alla mèta, chè le lingue vive non si congelano, ma a quel tratto del corso che soglion varcare quetamente senza notabili alterazioni. Così dovea succedere per la presenza delle colonie testè venute da varie parti della Terraferma, unite da commerci tra loro e molto più strettamente col grosso dell’antica popolazione di linguaggio italico, o, per dir meglio, siciliano. Nella quale condizione di cose dovea nascere un idioma cortigiano o legionario che chiamar si voglia, non altrimenti che quello che s’ode da dieci anni in qua nel nostro esercito; e quel parlare dovea, con l’andar del tempo, sempre più accostarsi al dialetto indigeno, prendendone molto più che non gli desse.
Da cotesta vena di linguaggio, torbida ancora per la sospensione delle parti che duravano fatica a compenetrarvisi, emerse la poesia italiana propriamente detta. Se ciò sia avvenuto alla metà del duodecimo secolo o nei principii del seguente non si potrà sapere per l’appunto, se il caso non ci farà trovar prove più chiare di quelle allegate fin qui. Ma parendo assai verosimile che il linguaggio più comune a corte di Federigo imperatore, de’ Guglielmi e fors’anco di re Ruggiero, sia stato un dialetto italiano, e concorrendovi la espressa testimonianza di Dante, per non citare tutti gli altri, possiamo tener certo il fatto. E per vero nessun altro luogo d’Italia si può immaginare più adatto che la Sicilia al nascimento delle muse italiane. Lo studio della poesia araba, approfondito da mezzo secolo in qua, ha dissipati gli errori di chi la credea madre della poesia spagnuola, provenzale ed italiana. Nè la ragion poetica, nè la macchina, nè la rima delle poesie neolatine può riferirsi in alcun modo alle arabiche. La moda sola, credo io, delle splendide corti musulmane della Spagna fece entrare ne’ castelli cristiani dell’Occidente, insieme con altri argomenti di lusso, il sollazzo di ascoltare poesie in lingua volgare del paese: i premii e gli onori incoraggiarono i poeti nazionali a recitare nelle brigate principesche i versi che si sentiano per lo innanzi negli oscuri crocchi delle città e delle campagne; talchè la poesia volgare, meglio che nata, si dee dir emancipata e nobilitata in quel tempo. Lo stesso è da supporre nella corte musulmana dei re normanni e svevi di Sicilia; a’ quali forse avvenne d’ascoltare lo stesso giorno de’ poeti arabi e de’ poeti siciliani e di largire agli uni come agli altri una manata di tarì d’oro. Solo legame tra le poesie neolatine e le arabiche mi sembrano i metri delle mowascehe e de’ zegel, dei quali ho fatta parola nel capitolo undecimo di questo libro.[1349] Io spero che nuove ricerche in tal campo riescano a rischiarare quel periodo della nostra storia letteraria: ma si può ritenere fin d’ora che la Sicilia debba agli Arabi, e la Terraferma italiana debba alla Sicilia, chè del primato dell’altra grande isola io dubito forte, la inaugurazione della poesia nazionale.
Si possono spigolare qua e là altri bricioli del patrimonio che la popolazione musulmana legò alla Sicilia. Il nome arabico di Sciorta o Xurta, com’è scritto nei Capitoli de re Aragonesi di Sicilia,[1350] prova come l’istituzione d’una guardia cittadina, che vegliasse alla pubblica sicurezza nelle città, risaliva fino alla dominazione musulmana. Venìa da quella parimente il sistema metrico che fu in uso nell’isola fino alla fondazione del reame d’Italia; chè non solo alcuni nomi delle misure d’acque correnti, da noi citati già in questo capitolo, e il verbo stesso testè ricordato che significa la vigilanza della pubblica autorità su’ pesi e le misure di piazza, derivano manifestamente dall’arabico, ma altresì alcune denominazioni in varie parti del sistema: la canna nelle misure lineari;[1351] la salma e il tumolo nelle misure di superficie e nelle cubiche per gli aridi;[1352] il cafiso in quelle de’ liquidi;[1353] il rotolo e il cantaro ne’ pesi.[1354] Che se ne’ multipli e nelle suddivisioni troviamo vocaboli latini, gli è naturale effetto della mescolanza dei popoli e si può supporre che que’ nomi fossero entrati dopo la dominazione musulmana o durante quella. Le denominazioni metriche della Sicilia passarono, com’e’ sembra, nella Bassa Italia quando soggiacque alla dominazione de’ Normanni in Sicilia; e forse alcuna v’era stata recata prima dal commercio, come abbiam provato per le monete.[1355] Il rubbio di Roma, Lombardia, Piemonte e Genova, anch’esso d’origine arabica; il rotolo, ch’era in uso a Genova, sì come a Napoli; il carato, peso usato dagli orafi anche nelle altre province che non ebber colonie musulmane, furono evidentemente recati dal commercio.[1356]
Quando si riflette su la catastrofe delle popolazioni musulmane di Sicilia, seguìta più tosto per fatto delle genti cristiane che del governo, si noterà con minore maraviglia che non sia durata nell’isola alcuna foggia di vestire de’ Musulmani. De’ nomi stessi di quelle fogge pochi sono arabi e questi comuni alla Sicilia ed alla Terraferma.[1357] Altri ha riferito a’ Musulmani i manti neri, di che nel secolo passato e ne’ principii del corrente soleano avvolgersi le donne siciliane andando a messa, ed anche a diporto, i quali non sono scomparsi del tutto in alcuni paesi di Sicilia; ma tal supposto mi sembra fondato piuttosto su l’analogia de’ costumi gelosi, che su la rassomiglianza di quella foggia siciliana a’ camicioni ed a’ veli delle donne musulmane.
Direbbesi che all’incontro i Cristiani di Sicilia avessero prese volentieri da’ loro concittadini circoncisi quelle usanze che soddisfacean meglio alla gola. Più che le vivande, sono rimasi arabi di nome e di fatto in Sicilia i camangiari,[1358] massime i dolciumi, antica manifattura del paese; poichè ritroviamo in Affrica, fin dallo scorcio del nono secolo, delle torte condite con lo zucchero di Sicilia.[1359] Un Ducange arabo, se mai l’avremo, ci spiegherà molti vocaboli di tal fatta che or leggiamo inutilmente nelle istorie e nei racconti; e per tal modo ci svelerà tutte le rassomiglianze de’ buon gustai siciliani con que’ dell’Egitto: gli uni e gli altri grandi consumatori dello zucchero prodotto ne’ due paesi e scambiato assiduamente tra loro infino al decimoquinto secolo, in grazia forse della qualità diversa o delle raffinerie, mantenute in Egitto, mancate presto in Sicilia.[1360] Perocchè nelle descrizioni del prodigioso lusso della corte fatemita, serbateci dal Makrizi, le feste del ramadhan al Cairo, per la quantità e qualità della roba che si mangiava, somigliano perfettamente alla novena del Natale, al Carnovale e alla Pasqua in Palermo. A casa de’ grandi officiali dello Stato, e con maggiore profusione a corte, solean imbandirsi delle figurine e de’ castelli di zucchero e panforti finissimi e varie maniere di paste dolci, delle quali e d’altre vivande più sostanziali, acconciate con vaghi colori, ed ammonticchiate in vassoi d’argento, d’oro e di porcellana della Cina, si facea come una cuccagna.[1361] Allo scorcio del medio evo, e infino a’ nostri tempi, si veggon usati in Egitto de’ canditi simili alla zuccata di Sicilia[1362] ed una specie di gelatina dolce estratta dal pollo pesto:[1363] e la cuccìa di Sicilia, pasta di grano immollato, mescolato con latte, si mangiava e si mangia in Egitto e si chiama ancora kesc.[1364] Perfin si rassomigliano le frasi, con le quali vanno gridando per le strade i venditori di frutte del Cairo e que’ di Palermo.[1365]
Maraviglierà taluno ch’io scenda a tai piccolezze, tenute a vile dagli storici delle passate generazioni, e non tocchi di quella eredità di vizii e di virtù, ch’altri credea lasciata da’ Saraceni al popolo della Sicilia. E sì che talvolta è parso anche a me di scoprirne qualche avanzo, ma poi mi sono accorto della incertezza di così fatte induzioni. Una matura riflessione su l’indole e i costumi de’ Siciliani paragonati a quei degli altri popoli italiani non mostra tal divario che non si possa spiegare con la geografia e con la storia e s’abbia quindi a ricercare negli arcani delle schiatte. Per altro, quando la storia e la lingua ci hanno mostrata identica la massima parte della schiatta, sarebbe temeraria quella critica che s’accignesse a inforsare il fatto con cagioni, le quali è più facile immaginare che provarle. Assai più che l’incerta mescolanza di un fil di sangue straniero, sarebbe da valutare l’esempio de’ costumi che le colonie arabe o berbere abbian lasciato per avventura alle popolazioni della Sicilia occidentale, più pronte in vero alla violenza che quelle della regione di levante: ma anche in questo fatto le cagioni son dubbie e diverse, e chi sa se non v’abbiano operato più che ogni altro le condizioni topografiche e sociali? La sola conchiusione certa è che il conquisto musulmano recò in Sicilia nel nono secolo, e mantennevi fino all’undecimo, uno incivilimento ed una prosperità ignoti allora alle altre regioni italiane, i quali nel duodecimo e per gran parte del decimoterzo rifluirono su la Penisola e contribuirono allo splendore della patria comune.
Compio nella patria unita e libera un lavoro, al quale m’accinsi nell’esilio, trent’anni addietro, mosso da brama irresistibile di guardar nelle tenebre che avvolgeano la Storia di Sicilia avanti i Normanni, ed allettato dall’agevolezza che mi offriano le scuole e le biblioteche di Parigi. Incominciai l’arduo lavoro con animo di siciliano che bramava la libertà d’un piccolo Stato e desiderava l’unione dell’Italia, senza sperarla vicina: lo termino confidando che tutti gli Italiani sempre più si affratellino; che veggano nella unità e nella libertà la salvezza e l’onore di tutti e di ciascuno; che quindi il paese cresca di sapienza, di saviezza, di possanza, di ricchezza, e che la nuova Roma, per ammenda dell’oppressione armata dell’antichità e delle male arti de’ tempi appresso, promuova ormai nel mondo la giusta libertà dell’opera e la illimitata libertà del pensiero.
INDICE DE’ NOMI DI PERSONE.
( L’articolo el e i vocaboli abu e ibn non contano nell’ordine alfabetico, fuorchè nei capoversi.)
A
Aaroun el-Khams (?), 426.
Abate Arrigo, III, 629.
Abba Mari, III, 708.
’Abbad (Mohammed-ibn), principe di Siviglia, soprannominato Mo’tadhedbillah, II, 501, 502, 523, 544.
Abbadidi, II, 523, 544.
Abbàs, zio di Maometto, 65.
Abbasidi, 65, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 149, 225, 371; II, 50, 97, 111, 112, 114, 118, 120, 133, 150, 182, 240, 255, 281, 457, 458; III, 446, 506, 829.
Abbâs-ibn-Amr (Abu-Fadhl), II, 481.
Abbâs-ibn-Fadhl (Abu Aghlab), 315, 316, 321, 322, 325, 326, 327, 328, 329, 331, 333, 334, 335, 338, 342, 349, 370, 371.
Abda, II, 448.
Abdallah, supposto ammiraglio, 101.
Abdallah, servo di Federigo II, III, 792.
Abd-Allah-ibn-el-Abbâs, 343, 344.
Abd-Allah-ibn-Abd-el-Azîz-ibn-abi-Khorasân, III, 429, 430.
Abd-Allah I (Abu-’l-Abbâs), emir aghlabita, 152, 153, 155, 226, 228; II, 12.
Abd-Allah (Abu-Ali), III, 747.
Abd-Allah-el-Ansari, III, 325.
Abd-Allah-ibn-el-Azîz, III, 423.
Abd-Allah-ibn-Bera, II, 511.
Abd-Allah-ibn-Ghania, III, 520.
Abd-Allah, padre di Giawher, II, 283.
Abd-Allah-ibn-Habib, 175.
Abd-Allah-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezara, 353, 385, 386, 388.
Abd-Allah II, ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed (Abu-l-Abbâs), emir aghlabita, 52, 53, 58, 59, 64, 65, 66, 67, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 124, 125, 126, 127, 128.
Abd-Allah-ibn-Iehia-ibn-Hammûd, Hazimi (Abu-Mohammed), XLIII; II, 522.
Abd-Allah-ibn-Iehia, da Sciakatis, XLV.
Abd-Allah-ibn-Kaddâh, II, 118; corr. el-Kaddâh e v. Abd-Allah-ibn-Meimûn.
Abd-Allah-ibn-Kais, 84, 86, 98, 99, 100.
Abd-Allah-ibn-Khorasân, III, 428.
Abd-Allah-ibn-abi-Malek-Mo’sîb, II, 512, 542.
Abd-Allah-ibn-Meimûn, detto el-Kaddâh, II, 114, 115, 116, 118.
Abd-Allah-ibn-Mekhlûf (Abu-Mohammed), II, 541.
Abd-Allah-ibn-Menkût, II, 420, 425, 504, 505, 547; III, 308.
Abd-Allah-ibn-Mo’ezz-ibn-Badis, II, 377, 378, 385, 387, 388, 390, 391, 396, 418, 419, 421, 424, 426; III, 79.
Abd-Allah-ibn-Mohammed, emir Kelbita, II, 331.
Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Abbâs), emir di Sicilia, 391.
Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Aghlab, 392.
Abd-Allah-ibn-Mohammed, el-Maleki, (Abu-Bekr), XLII.
Abd-Allah, signore di Murcia, III, 704.
Abd-Allah-ibn-Musa, 124, 169.
Abd-Allah, Othmani, XLIII.
Abd-Allah-ibn-Saba, II, 106.
Abd-Allah-ibn-Sa’d, 88, 92, 93, 109, 206; III, 831.
Abd-Allah-es-Saffâh, 141.
Abd-Allah-ibn-Sâigh, II, 142.
Abd-Allah-ibn-Selmân (Abu-l-Kasim), II, 538.
Abd-Allah-ibn-Sementi, III, 685.
Abd-Allah-ibn-Sofian, 352.
Abd-Allah-ibn-Tâher, 163.
Abd-Allah, Tonûkhi, II, 335.
Abd-Allah-ibn-Ziâd-ibn-An’am, 106, 173.
Abd-Allah-ibn-Zobeir, 109, 110, 119.
Abdelali, II, 434.
Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed (Abu-Fares), XLVIII.
Abd-el-Azîz-Bellanobi, II, 541; III, 628.
Abd-el-Azîz-ibn-Hâkem — ibn-Omar (Abu-Mohammed), II, 541.
Abd-el-Azîz-ibn-Hosein, III, 766.
Abd-el-Azîz-ibn-Sceddâd-ibn-Tamîm (Abu-Mohammed), soprannominato ’Izz-ed-dîn, v. Ibn-Sceddâd.
Abdelbach ( corr. Abd-el-Hakk), 436.
Abd-el-Gebbâr-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Sirîn, II, 516.
Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdîs, XLIII, LV; 406, II, 308, 517, 519, 525, 526, 527, 528, 530, 532, 533, 534, 543, 544, 547; III, 367, 368, 371, 377, 381, 384, 386.
Abdelguaiti, III, 264.
Abd-el-Hakk, 436.
Abd-el-Hakk-ibn-Alennas, III, 490.
Abd-el-Hakk-ibn-Harûn (Abu-Mohammed), II, 478, 487.
Abd-el-Hakk-ibn-Sab’in, III, 702, 703, 704, 705.
Abd-el-Halîm-ibn-Abd-er-Wâhid, III, 763, 764.
Abd-el-Hamîd-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Scio’aîb, II, 453.
Abd-el-Kerîm-ibn-Iehia-ibn-Othmân, III, 735.
Abd-el-Kerîm (Abu-Mohammed), II, 463.
Abd-el-Melik, califo, 133, 166; III, 837.
Abd-el-Melik, condottiero, 387.
Abd-el-Melik, gaito, III, 256.
Abd-el-Melik-ibn-Katân, 166, 172.
Abd-el-Melik-en-Nasiâni, III, 796.
Abd-el-Mumen, III, 236, 377, 379, 422, 423, 424, 429, 473, 475, 476, 477, 478, 479, 480, 481, 482, 483, 484, 486, 489, 490, 496, 622, 623.
Abd-er-Rahîm-ibn-Mohammed-ibn-Nobâla, II, 513.
Abd-er-Rahman-ibn-Abi-l-Abbâs, da Trapani, III, 450, 462, 756.
Abd-er-Rahman-ibn-Abd-Allah-ibn-Zeidûn, el-Karawi (Abu-Tâher), III, 214.
Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Aziz, III, 363, 387.
Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghanî (Abu-l-Kâsim), II, 477, 494, 540.
Abd-er-Rahmân-ibn-Abi-Bekr-ibn-’Auk-ibn-Khelef, detto Ibn-Fehhâm, II, 474, 476, 488, 511, 540.
Abd-er-Rahman, da Butera, III, 462.
Abd-er-Rahman-ibn-Francu, III, 206.
Abd-er-Rahman-ibn-Habib-ibn-abi-Obeida-el-Fihri, 174, 175; III, 6.
Abd-er-Rahman-ibn-Habib-es-Sikilli (es-Saklabi), 144.
Abd-er-Rahman-ibn-el-Hâkem, califo di Spagna, 462.
Abd-er-Rahman-ibn-Hasan, detto Mostakhles-ed-dawla, II, 537.
Abd-er-Rahman-el-Lewâti, III, 256.
Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû, soprannominato Sceikh-ed-dawla, II, 427, 539.
Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed (Abu-Mohammed), il Siciliano, XLIV; II, 495.
Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed-ibn-Omar, III, 754, 760.
Abd-er-Rahman-en-Naser-Iidin-illah, II, 219, 249, 250; III, 830.
Abd-er-Rahman-en-Nasrani, v. Cristodulo, III, 362, 363, 364, 381, 383.
Abd-er-Rahman-ibn-Omar-ibn....-el-Lewâti, II, 37.
Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan, di Malta (Abu-l-Kasem), III, 462, 685, 762, 763, 768.
Abd-er-Rahman-ibn-Ziâd, 173.
Abd-es-Selâm-ibn-Abd-el-Wehâb, 306.
Abd-es-Selâm-ibn-Sa’îd, soprannominato Sehnûn, giurista, 277; II, 220, 222, 223.
Abd-el-Wâhid Marrekosci, xlvi; III, 428, 739.
Abd-el-Wehâb-ibn-Abd-Allah-ibn-Mobârek, II, 541.
Abdi Malach, gaito, III, 264.
Abela Gian Francesco, III, 872, 884.
Abelardo, principe normanno, III, 148.
Abissinio, v. Ahmed-ibn-Ja’kub, 392.
Abramo, 45, 47, 50.
Abramo Halbi (Ibrahim-ibn-Aghlab), 233.
’Abs, tribù, III, 598.
Abu-l-Abbâs-ibn-Ali, 425.
Abu-l-Abbâs-ibn-Ja’kûb-ibn-Abd-Allah, 390.
Abu-l-Abbâs-Kalawri, II, 479.
Abu-l-Abbâs-ibn-Mohammed-ibn-Kâf, II, 540.
Abu-Abd-Allah (il kaid), soprannominato Mamûn, II, 523.
Abu-Abd-Allah, maestro di scuola in Affrica, II, 196.
Abu-Abd-Allah-ibn-Meimûn, III, 377.
Abu-Abd-Allah-el-Mo’aiti, III, 4, 5.
Abu-Abd-Allah-es-Sci’i, II, 120, 121, 123, 127, 128, 131, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 141, 142, 144.
Abu-Abd-Allah-ibn-Seffâr, II, 500.
Abu-Abd-Allah, siciliano, XLIX; II, 219.
Abu-Abd-Allah-ibn-Zorâm o (Rigâm), II, 115.
Abu-l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 58.
Abu-l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed (diverso dal precedente?), II, 85.
Abu-l-’Ala, da Mearra, II, 101.
Abu-l-’Ala-Sâ’id, II, 497.
Abu-Ali, 430, 431.
Abu-Ali, Ghassâni, II, 488.
Abu-Ali-ibn-Hasan-ibn-Khâlid, II, 540.
Abu-Ali-ibn-Hosein-ibn-Khâlid, II, 515.
Abu-Ali, da Tanger, II, 226, 230.
Abu-l-Arab, v. Mohammed-ibn-Ahmed e Mos’ab-ibn-Mohammed.
Abu-Bekr, v. Beco.
Abu-Bekr, il califo, 55, 60, 62, 64, 70, 105, 123; II, 359, 360, 453.
Abu-Bekr, conciatore, III, 256.
Abu-Bekr-ibn-Nebt-el-’Orûk, II, 477.
Abu-Bekr, Sikilli, v. Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Musa.
Abu-Bekr-ibn-Soweid, 173.
Abu-Bekr-ibn-Zohr, III, 739.
Abu-Dekâk, II, 185.
Abu-’Einan, principe merinita, III, 868.
Abu-l-Fadhl, giurista, III, 785.
Abu-l-Fadhl, scrittore, II, 430, 431, 455.
Abu-l-Farag, II, 522, v. Mawkifi.
Abulfaragi, xlvii; 247.
Abulfeda, VIII, XXXVIII, XXXIX, XLI, XLII, XLIV, XLVI, XLVII, XLIX, LI, LII, LIII.
Abu-l-Forûh-ibn-Bodeir, Meklati, soprannominato Sind-ed-dawla, II, 539.
Abu-l-Geisc, v. Mogêhid-ibn-Abd-Allah.
Abu-Gia’far, 375; II, 345, v. Ahmed-ibn-Jûsuf.
Abu-Gia’far, II, 287, v. Abu-Kharz.
Abu-Gia’far-ibn-’Awn-Allah, II, 481.
Abu-Ghofâr, II, 154.
Abu-Hafs, v. Omar-ibn-Scio’aib, el-Balluti; Omar-ibn-Iehia-ibn-Mohammed, e Omar-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid.
Abu-Hâmid, da Granata, XLIV; 85, 86; II, 440.
Abu-Hanifa, 149, 151, 254; III, 726.
Abu-Harûn, Andalosi, II, 225.
Abu-Hasan-ibn-Abd-Allah, da Tripoli o da Trapani, II, 541.
Abu-Hasan, da Gerusalemme, II, 491.
Abu-Hasan-Hariri, 420; II, 226, 230, 231.
Abu-Hasan, Lakhmi, II, 488.
Abu-Hasan, Sikilli, II, 541.
Abu-Hâscim, sufita, II, 493.
Abu-Hâscim, v. Mohammed-ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer.
Abu-Hodseifa, Coreiscita, II, 496.
Abu-Hogir-ibn-Ibraim-ibn-Ahmed, II, 85, 86.
Abu-l-Hokm-ibn-Ghalanda, III, 781.
Abu-Hosein-ibn-Jezîd, 429, II, 62, 63.
Abu-Hosein-ibn-es-Sebân, II, 764.
Abu-Ja’kûb, xlvi, v. Ja’kûb-ibn-Abd-el-Mumen.
Abu-Iehia-ibn-Matrûh, III, 409, 411, 471, 472.
Abu-Jezîd, v. Mokhalled-ibn-Keidâd.
Abu-’Isa-ibn-Mohammed-ibn-Kohrob, 399, 400.
Abu-Ishak, Hadhrami, II, 479.
Abu-Ishak-ibn-Abi-Ibrahim-ibn-Abi-Hafs, III, 624.
Abu-Junis-ibn-Noseir, II, 226.
Abu-Ka’b, II, 376, 379.
Abu-l-Kâsim, v. Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Hammûd.
Abu-l-Kâsim-Gioneid, da Bagdad, II, 480.
Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, II, 440, 494.
Abu-l-Kâsim, Tirazi, II, 141.
Abu-Kelef-ibn-Harûn, II, 194.
Abu-Kharz o Abu-Khereg, II, 287.
Abu-l-Leith, III, 686, 687.
Abu-Ma’d, II, 77.
Abu-l-Mehâsin, II, 448.
Abu-Mehell, II, 247.
Abu-Modhar, v. Ziadet-Allah-ibn-Abd-Allah.
Abu-Moh’âgir, 115, 116, 117.
Abu-Mohammed-ibn-’Atusc, III, 496.
Abu-Mohammed, Dami’a, II, 512, 542.
Abu-Mohammed, da Kafsa, II, 306.
Abu-Mohammed-ibn-Omar-ibn-Menkût, II, 539.
Abu-Mohammed-ibn-abi-Hafs-Omar, II, 622.
Abu-Mohammed-ibn-Semna, III, 767.
Abu-Moslim, 140, 141, 142; II, 111, 112.
Abumoslimiti, II, 112.
Abu-Musa-el-Ascia’ri, 56.
Abu-Nasr, II, 514.
Abu-Nottâr, detto il Negro, II, 187.
Abu-Râti’, II, 354.
Abu-Sa’id-ibn-Ibrahim, XLVIII; II, 467, 469, 470.
Abu-s-Salt-Omeia, XXXVIII, XLV; II, 535; III, 363, 371, 387, 460, 743, 745, 747, 752.
Abu-Scerîf (famiglia), II, 868.
Abu-Sciâma-Mokaddesi, XLIX; III, 670.
Abu-Sewâb, da Castrogiovanni, II, 515.
Abu-Taib, figliuolo di Stefano, III, 262, 316.
Abu-Taleb, 49.
Abu-Taleb-ibn-Sab’in, III, 705.
Abu-Târ, II, 187.
Abu-Thûr, 419.
Abu-l-Wefa, III, 670.
Abu-Zakaria, v. Iehia-ibn-Abd-el-Wahid.
Abu-Zarmuna, II, 230.
Abu-Zeid, el-Gomari, XXXVII; II, 517.
Abu-Zeki, 269.
Acosimo, 203.
Adalberto, marchese, 451.
Adelaide o Adelasia, moglie di Ruggiero, conte di Sicilia, I; 460; III, 195, 196, 197, 198, 200, 221, 225, 226, 268, 275, 301, 302, 335, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351, 806.
Adelaide, di Susa, III, 199.
Adelasia, v. Adelaide.
Adelchi, 185, 187, 188, 189, 382, 384, 387, 388, 436.
Adelicia, III, 290.
Ademaro (monaco), III, 26.
Adeodata, 205.
Adler, XXIV, LI, LIII; II, 6; III, 450.
Adnân, 32, 40, 47, 64, 69, 135, 136, 137; II, 32, 33, 37, 233.
Adriano, 199.
Adriano, ammiraglio, 399.
Adriano I, papa, 21, 184, 185, 186, 187, 188, 190, 212, 389, 443; II, 169.
Afârik e Afârika, 105; II, 361; III, 6.
Afdhal, II, 463, 489, 506, 510.
Affrica (Chiesa di), 108, 157; III, 417, 475.
Affricani (Musulmani detti), 429.
Afrina, II, 253.
Afrodisia (d’) Alessandro, III, 702.
Agar, 75.
Agareni, II, 164, 407, 414.
Agata, madre di Giuseppe Innografo, 502.
Aghlab, 144, 284, 340, 391; II, 227, 233, 300.
Aghlab-ibn-Ahmed (Abu-’Ikal), 410.
Aghlab-ibn-Ibrahim (Abu-Ikâl), 309.
Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, 410.
Aghlabiti, XLV, XLIX, LIV; 84, 147, 206, 225, 226, 229, 236, 253, 278, 295, 314, 332, 337, 340, 353, 375; II, 4, 5, 6, 7, 10, 24, 32, 38, 40, 46, 49, 58, 61, 74, 75, 76, 88, 124, 126, 128, 129, 131, 132, 133, 135, 137, 138, 139, 141, 142, 143, 146, 148, 151, 162, 218, 221, 224, 227, 235, 238, 352, 361, 369, 371, 456, 506.
Agisa, tribù berbera, III, 212.
Agnese, monaca, III, 353.
Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm, XLVIII; II, 470, 471.
Ahmed-ibn-Ali (Abu-Fadhl), Coreiscita, II, 539.
Ahmed-ibn-Ali, es-Sciâmi (Abu-l-Feth), II, 541.
Ahmed, conciatore, III, 256.
Ahmed Gabrini, III, 698.
Ahmed-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein (Abu-l-Hasan), emir Kelbita, di Sicilia, II, 249, 254, 256 a 263, 266, 271, 272, 274, 276, 290 a 294, 319, 372, 537, 538.
Ahmed-ibn-abi-Hosein-ibn-Ribbâh, II, 140, 141, 143.
Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Abd-Allah’, 390.
Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezara, 342, 343, 353, 391.
Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Modhâ-ibn-Selma, 391.
Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahim-ibn-Ahglab (Abu-Malek), detto l’Abbissinio (390, 391?), 392; II, 63.
Ahmed-ibn-Ibrahim, Razi, II, 485.
Ahmed-ibn-Ibrahim, Waddâni (Abu-l-Kâsim), II, 540.
Ahmed-ibn-Iehia (Abu-l-Abbas), detto Ibn-Fadhl-Allah ed Omari, soprannominato Scehab-ed-dîn, VIII, XIX, XXXVIII, LII, LIII; III, 699.
Ahmed, emiro Ikhscidita, d’Egitto, II, 281.
Ahmed-ibn-Jûsuf (Abu-Gia’far?), soprannominato Akhal e Teaîd-ed-dawla, II, 345, 351, 354, 364, 366, 368, 369, 370, 371, 374, 375, 376, 377, 378, 379, 393, 418, 419, 423, 424, 426, 519, 551; III, 80.
Ahmed-ibn-Kâsim, II, 489, 539.
Ahmed-el-Kasri, II, 221.
Ahmed-ibn-abi-Khorasân, III, 477.
Ahmed-ibn-Korhob, II, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 167, 173, 182, 185.
Ahmed-ibn-Kornâs, soprannominato Seti-ed-dîn, III, 718, 722.
Ahmed Marwazi, II, 482.
Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, 341, 400.
Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia (Abu-Bekr), II, 220, 225, 226, 359, 360.
Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Kâf (Abu-Ali), II, 515, 540.
Ahmed-ibn-Mohammed, Nuri (Abu-Hosein), II, 480.
Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Rafi’, III, 868.
Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah (Abu-Malek), II, 63, 64.
Ahmed-ibn-Omar-ibn-Obeid-Allah-ibn-el-Aghlab, 352.
Ahmed-ibn-Omar, el-’Odsri o el-’Adsari, III, 669, 780, 781.
Ahmed-ibn-Roma o Romea, III, 206.
Ahmed-ibn-Sa’d-ibn-Mâlek(-Ibn-Abd?-) el-’Azîz, II, 453.
Ahmed, detto il Siciliano, III, 495, 496, 497.
Ahmed-ibn-Sofian-ibn-Sewâda, 340.
Ahmed-ibn-Soleiman, 262.
Ahmed-et-Temimi (Abu-l-Abbas), III, 256.
Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-ibn-Korhob, II, 145, 148, 150.
Ahwâl, II, 125, 127.
Aiello (Matteo di), III, 500, 501, 502, 503, 530, 531, 542, 548, 549.
A’ilâsci-ibn-Akhial, 169.
Aione, principe di Benevento, 462, 463.
Aione, vescovo, 447.
Airoldi Alfonso, XII, XXIV, XXXVIII, LI.
Airoldi Cesare, XIII, XXXV.
Aiûb-ibn-abi-Jezîd, II, 202.
Aiûb-ibn-Kheirân, II, 199.
Aiûb-ibn-Têmim-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, III, 94, 109, 110, 111.
Aix (Alberto d’), III, 106, 107.
Akhal, v. Ahmed-ibn-Jûsuf.
Akiprando, di Rieti, II, 165.
Alamidi, III, 817.
Alamondar, v. Mondsir.
Alarico, II, 11, 44.
Albalbuni, II, 522.
Albateni, III, 670.
Alberico, duca di Camerino, II, 166.
Alberico, frate, III, 701.
Alberto, patriarca d’Antiochia, III, 694.
Albigesi, III, 576.
Albiruni, III, 670.
Alduino, vescovo di Cefalù, III, 635.
’Alem-ed-dîn, III, 642.
Aleramidi, III, 196, segg., 225, 227.
Aleramo, conte, III, 198.
Alessandro il Grande, III, 154.
Alessandro II, papa, III, 101, 123.
Alessandro III, papa, III, 497, 533.
Alessio Comneno, III, 144, 367, 508.
Alessio II, III, 521.
Alessio Muscegh, 297, 298.
Alfano, abate, 356.
Alfieri, III, 221.
Alfonso III, d’Aragona, LVI; III, 650, 653.
Alfonso III, re delle Asturie, 457.
Alfonso VI, di Castiglia, III, 375, 704.
Alfonso I, di Sicilia, III, 291.
Alfredo il Grande, III, 675.
Ali-ibn-Abd-Allah, di Giattini, III, 512.
Ali-ibn-Abd-Allah-ibn-Sciami, II, 536.
Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Abdûn, II, 507.
Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Waddâni (Abu-Hasan), II, 477, 512.
Ali-ibn-Abd-el-Ghani, el-Husri, II, 525.
Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-abi-l-Biscir, (Abu-l-Hasan), II, 520.
Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-abi-l-Biscir, es-Sikilli, el-Ansari (Abu-l-Hasan), III, 742, 743, 744, 745.
Ali-ibn-Abd-er-Rahman, il Siciliano (Abu-l-Hasan), II, 497, 512, 513, 521.
Ali-ibn-abi-Bekr, II, 436.
Ali-ibn-Badîs (Abu-l-Hasan), II, 429.
Ali-ibn-Abi-l-Geisc-Mogêhid-ibn-Abd-Allah, III, 4, 5, 9.
Ali-ibn-Fadhl, 326, 328.
Ali-ibn-abi-Fadhl-ibn-Mohammed-ibn-Taher (Abu-l-Hasan), II, 455.
Ali-ibn-Fartutto, III, 206.
Ali-ibn-Ghania, III, 520.
Ali-ibn-Gia’far-ibn-Ali-ibn-Mohammed-ibn-....Kattâ’ (Abu-l-Kasim), VII, XXVII, XLV; 113; II, 429, 482, 506 a 511, 513 a 516, 518, 522, 536, 538, 541, 542, 544.
Ali, Haiûli, II, 499.
Ali-ibn-Hammûd, III, 662.
Ali-ibn-Hamza (Abu-l-Hasan), II, 491, 492, 493.
Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali, emir Kelbita, di Sicilia, soprannominato il Martire (Abu-l-Kâsim), II, 290, 291, 293, 294, 314, 315, 316, 322, 323, 324, 327 a 329, 330, 350, 372, 414.
Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali, di casa zirita, III, 419.
Ali-ibn-Hasan-ibn-Habîb (Abu-Fadhl), II, 512, 542.
Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi (Abu-l-Hasan), II, 516, 518, 525, 543.
Ali, Hodseilita, III, 213.
Ali-ibn-Homeila, 255.
Ali-ibn-abi-Hosein, II, 191, 234.
Ali-ibn-Ibrahim-ibn-Ali (Abu-l-Hasan), chiamato Ibn-Mo’allim, III, 737.
Ali-ibn-Ibrahim-ibn-Waddâni (Abu-l-Hasan), II, 501.
Ali-ibn-Iehia, principe zirita, II, 529; III, 367, 369, 370, 371, 372, 373, 407.
Ali-ibn-Isa-ibn-Meimûn, III, 377.
Ali-ibn-abi-Ishâk-Ibrahim-ibn-Waddâni (Abu-l-Hasan), II, 515.
Ali-ibn-Jûsuf, Kelbita, II, 350, 351, 352, 376.
Ali-ibn-Jûsuf-ibn-Tasciufin, III, 375, 376.
Ali-ibn-abi-Khinzir, II, 143, 147.
Ali, Kifti (Abu-l-Hassan), LII.
Ali, Kifti, intitolato Gemâl-ed-din, XLVIII.
Ali-ibn-Korhob, II, 149.
Ali-ibn-Meimûn, III, 378.
Ali-ibn-Moferreg (Abu-l-Hasan), II, 481.
Ali-ibn-Môgehid, III, 375.
Ali-ibn-Mohammed-ibn-abi-Fewâres, II, 140, 141, 142.
Ali-ibn-Mohammed, di Kerkûda (Abu-l-Hasan), II, 512.
Ali-ibn-Nagia, III, 507.
Ali-ibn-Ni’ma, soprannominato Ibn-Hawwâsci, Hawâs o Giawâs, II, 420, 421, 425, 547, 548, 551; III, 66, 71, 72, 73, 79, 80, 81, 84, 85, 94, 109, 110, 111, 308.
Ali-ibn-Omar, Bellewi, II, 145, 147.
Ali-ibn-Othmân-ibn-Hosein, Rebe’i, II, 488.
Ali Strambo, III, 206.
Ali-ibn-Tabari, II, 206, 210.
Ali-ibn-Tâher, II, 455, 512, 517, 542.
Ali-ibn-abi-Taleb, il Grande, 55, 60, 62, 69, 71, 127, 129, 140; II, 57, 103 a 108, 115, 121, 132 a 136, 139, 155, 486, 493, 494, 546; III, 173, 176, 263, 380, 531, 662.
Ali-ibn-Temîm-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, III, 94, 109, 110.
Ali, Waddâni, II, 540.
Ali-ibn-Zera’ (Abu-l-Hasan), L.
Ali (El-) biamr-illah, v. Edrîsi.
Alice, regina di Cipro, III, 643.
Alidi, XLIII; II, 119, 120.
’Alkama-ibn-Jezîd, 93.
Alliku, II, 164.
Almanzor, v. Ibn-Abi-’Amir.
Almohadi, XLIV; III, 81, 158, 377, 379, 422, 423, 424, 425, 426, 427, 428, 429, 439, 465, 467, 471, 472, 475, 481, 483, 490, 495, 496, 497, 505, 520, 521, 530, 540, 553, 621, 622, 627, 632.
Almoravidi, II, 528, 529; III, 372, 374, 375, 377, 378, 379, 380, 422, 518, 520.
Al-Sanhaj, XXXVIII, v. Ibn-Sceddâd, Abd-el-Azîz.
Alvares Lodovico, III, 260.
Alvaro, III, 288.
Alverada, III, 49.
Aly-el-Bonifati, III, 264.
Aly-el-Petruliti, III, 264.
Amalfitani (console degli), III, 219.
Amato, monaco, XXVIII; III, 21, 24, 31, 33.
Ambrogio, vescovo di Patti, III, 221.
Amer, califo fatimita, II, 463.
Amerigo, re di Gerusalemme, III, 505, 506, 507, 643.
Ami, figlio di Gualtiero, III, 62.
Amici (degli) Ruggiero, III, 651.
Amico Antonino (di), VIII.
Amilcare Barca, 318, 319.
Amîn (soprannome di Maometto), 50.
Amîn, califo abbasida, 303.
Amîn-ed-dawla, II, 331.
’Amir-ibn-Liwa (tribù), III, 832.
’Amir-ibn-Nafi’, 156, 157.
Abu-’Amir, III, 375.
’Ammâr, II, 251, 252.
’Ammâr-ibn-Mansûr (Abu-Mohammed), II, 481, 488, 538.
’Ammâr, paggio, II, 263.
Ammiano Marcellino, 75; III, 443.
’Amr-ibn ’Asi, 80, 109, 112; III, 832, 840.
’Amr-ibn-Mo’âwia, 155.
’Amrân, II, 147.
’Amrân-ibn-Mogiâled (o Mokhalled), 254.
Anacleto, antipapa, III, 393, 395.
Anastasio, consolare, 213.
Anatolio, conte, 213.
Andalusi, cognome, III, 212.
Andalusi, v. Iehia-ibn-Omar-ibn-Jûsuf.
Andara, tribù berbera, II, 35.
Andrani o Andarani, II, 35; III, 614.
Andrea, consolare, 213.
Andrea, console di Napoli, 312.
Andrea, figliuolo di Troilo, 95.
Andrea, martire, 511.
Andronico Comneno, III, 223, 521.
Angioini, II, 86; III, 531, 808.
Anna Comnena, III, 41.
Anquetil (Drengot?), III, 25.
Ansâri, II, 521.
Anselmo, de’ marchesi Aleramidi, III, 199.
Anselmo, arcivescovo di Napoli, III, 579, 581.
Ansgerio, III, 307.
Anspach, III, 828, 830.
Ansruna (da) Bartolommeo, III, 288.
Antar, III, 598.
Antimo, duca di Napoli, 227.
Antioco, governatore di Sicilia, 220.
Antonini (gli), 10, 199.
Antonino, 289; II, 109
Antonio Veneziano, III, 128.
Anweiler (de) Marqualdo, III, 566, 567, 570, 571, 576, 577, 578, 579, 580, 581, 582, 583, 584, 585, 586.
Apocapso, 162, v. Omar-ibn-Scio’aib (Abu-Hafs).
Apolofar, 361, 362, 363, 370, corr. Abu-Gia’far.
Apolafar Muchumet, II, 375, 377, 393, 394.
Aragonesi, II, 86; III, 631, 650, 807.
Arcadio, 211; III, 57, 59.
Arcario, 240.
Archifredo, III, 124.
Archimede, XLVIII; II, 272, 463, 686.
Arderico, 241.
Ardoino, II, 380, 389, 390, 392, 423; III, 24, 29, 30, 31, 33, 35, 52, 219.
Argiro, figlio di Melo, II, 30, 35, 36, 38, 41, 42, 44, 48, 114.
Argivi, III, 125.
Ariani (setta), 24.
’Arîb, XLI, l.
Arigiso, 185, 187, 188, 189; II, 377.
Arisgoto di Pozzuoli, III, 99, 133, 134, 156, 300.
Aristotile, II, 100, 101, 301, 308, 462; III, 696, 702, 706, 707, 708.
Arnaldo, da Brescia, III, 431, 432.
Arnoldo, II, 325.
Aroldo dalla bella chioma, III, 17.
Aroldo il Severo, II, 383, 384, 385, 386; III, 22.
Arone (Harûn), II, 342.
Arran, condottiero, 462.
Arrane (Harrani?), 383.
Arri, da Asti, LIV.
Arrigo, conte di Montescaglioso, III, 502.
Arrigo, de’ conti di Champagne, III, 643, 649.
Arrigo, figliuolo di Federigo II, III, 590, 601.
Arrigo, figliuolo d’Ugo, re di Cipro, III, 643.
Arrigo I, imp., III, 29.
Arrigo II, imp., III, 7, 26, 27, 28, 42, 47, 529, 798.
Arrigo III, imp., III, 40.
Arrigo IV, imp., III, 143, 144, 145, 199.
Arrigo VI, imp., III, 294, 296, 448, 542, 544, 547, 549, 550, 551, 552, 554, 555, 556, 558, 559, 560, 561, 562, 563, 564, 565, 566, 568, 570, 572, 573, 577, 581, 584, 588, 589, 594, 632, 804, 815, 848.
Arrigo, dei marchesi Aleramidi, III, 200, 221, 225, 226, 239, 268, 301, 302, 442, 488.
Arrigo, di Navarra, III, 216, 500.
Arrigo il Pescatore, conte di Malta, III, 601, 606, 607, 620.
Arrigo, vescovo di Augsburg, II, 325.
Arrigo, vescovo di Leocastro, III, 814.
Arsiccio, v. Catacalone.
Arzachele, XXX; III, 690.
Asbagh-ibn-Wekîl, 286, 287, 288, 289, 290, 291; II, 35.
Asbesta Gregorio, 30.
Ascanagius (Es-Sanhagi), XXXVIII, XLI.
Ascari, II, 467.
’Asciari (El-), III, 726.
Asdani, XLII.
Ased-ibn-Ali-ibn-Mo’mir, Hoseini, II, 507.
Ased-ibn-Forât, 151, 153, 231, 234, 235, 236, 253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 265, 266, 267, 269, 271, 272, 273, 274, 275, 287, 288, 291, 320, 354, 394, 395; II, 35, 220, 436.
Asillio, 6.
Askar Niccolò, III, 256, 325.
Assassini, II, 102, 117; III, 647, 649.
Asselîn, III, 677, 678.
Assemani, XLI, XLIII.
Assemani G. S., II, 453.
Assiropulo, II, 250.
Astari, casato, III, 221.
Atanasio, vescovo di Modone, 507, 508, 509.
Atanasio, vescovo di Napoli, 448, 450, 452, 453, 456, 457, 458, 461, 462, 463; II, 175.
Atenolfo, 462: II, 163, 170, 325; III, 35.
’Atik-ibn-Abd-Allah-ibn-Rahmûn (Abu-Bekr), II, 477, 478, 540.
Atîk-ibn-Ali-ibn-Dâwûd (Abu-Bekr), II, 490.
Attâ-ibn-Rafî, 168.
Atto, conte, II, 340.
Atto, da Spoleto, II, 312.
Augusto, 7, 8, 9, 10.
Augustolo, II, 90.
Avari, 94.
Avenel, casato, III, 347.
Avenel Adamo, III, 290.
Avenel Rinaldo, III, 363.
Avenel Roberto, III, 347, 349.
Averroès, II, 469; III, 708.
Avicenna, II, 469; III, 696.
Awa (o Uwa)-es-Seâ’ri, II, 158.
Azd tribù, II, 195, 488, 499, 525, 526; III, 210, 211, 212, 759.
’Azîz-billah, II, 330, 331, 355.
Azrâkiti, II, 104, 105.
B
Babek, II, 113, 114, 115, 520, 521.
Bacchilo, 15.
Bacone Ruggiero, III, 658.
Badîs-ibn Mansûr, principe zirita, soprannominato Nasr-ed-dawla, II, 356, 357, 358, 359.
Balalardo, III, 62.
Balchaot, III, 7, v. Ibn-Hawwasci.
Baldovino, re di Gerusalemme, III, 189, 335, 346.
Balian, III, 641.
Bambace, cognome, III, 205, 875.
Banqueri, XLII.
Barbaricini, 18, 108.
Barcellona (conte di), III, 376.
Barda, 338, 500, 503.
Bardesane, v. Ibn-Daisân.
Bargawata, tribù berbera, III, 212.
Baribavaira, toscano, III, 288.
Barisano, da Trani, III, 862.
Barmek, II, 100.
Barrani, III, 211.
Barsamio, 418.
Barthélemy, LI.
Bartolomeo, da Neocastro, VII.
Bartolomeo, segretario di Innocenzo III, III, 580.
Basile Gian Battista, III, 819, 846.
Basiliani (monaci), 19.
Basilio, di Gerace, III, 88.
Basilio il Macedone, 341, 342, 346, 348, 349, 378, 379, 380, 381, 393, 399, 411, 414, 416, 425, 432, 433, 437, 438, 439, 440, 441, 445, 447, 454, 471, 501, 509, 510, 512, 515; II, 70. Suo Menologio, III, 838.
Basilio II, II, 313, 365, 366.
Basilio Pediadite, II, 392, 393.
Basilio, protocarebo, II, 251, 252, 263.
Basilio, stratego, II, 320.
Bàteni, II, 101, 102.
Bavari, II, 322.
Baviera (duca di), III, 649.
Becelino, II, 325.
Becket Tommaso, III, 497, 498, 499, 532.
Beco (Abu-Bekr?), III, 156.
Bedîr o Bodeir, II, 421.
Bedr-ibn-’Ammâr, II, 334.
Beduini, 34, 36, 37, 145; II, 144, 221, 542.
Begiawi, III, 211.
Behrnauer, III, 799.
Bek’ai, II, 381.
Bekkari, III, 213.
Bekri, XLII, 85, 105, 112, 147, 157, 166; II, 429; III, 670.
Beladori, XI.
Bulbas (de) Raoul, III, 347.
Belcamuer, v. Ibn-Hawwasci, III, 76.
Belezmi, II, 182.
Belisario, 12, 13, 104, 212, 291; III, 178.
Bellanôbi, XLIII; II, 433, 521, 522, 541, 543.
Bencimino o Bentimino, III, 162, 163, v. Ibn-Thimna.
Benedettini (monaci), 19, 100, 102, 293; III, 22, 84, 468.
Benedetto, diacono, 20.
Benedetto, monaco, XXIX.
Benedetto, notaio, III, 868.
Benedetto III, papa, 500.
Benedetto VIII, III, 7, 8, 11, 26.
Benedetto, pisano, III, 581.
Beni-Genâ, II, 212.
Beni-l-Asfar, III, 746.
Beni-’Abs, III, 598, 599.
Beni-Ghania, III, 518, 520.
Beni-abi-Hafs o Beni-Hafs, v. Hafsiti.
Beni-Hammâd, II, 363; III, 173, 368, 369, 420, 423, 425, 427, 540.
Beni-Hammûd, di Malaga, III, 662, 663.
Beni-Hassân, II, 527.
Beni-Hûd, III, 704.
Beni-abi-Khorasân o Beni-Khorasân, II, 224; III, 429, 430, 540.
Beni-Korra, III, 411, 413.
Beni-Labbana, III, 748.
Beni-Malrûh, III. 406, 408, 409.
Beni-Mawkifi, II, 521.
Beni-Meimûn, signori di Cadice, III, 376, 377, 379, 387, 480.
Beni-Menkût, II, 549.
Beni-Midrâr, II, 133.
Beni-Rowaha, III, 768, 769.
Ben-Soleim, 253.
Beni-Somâdik, II, 535.
Beni-Tabari, II, 33, 206, 207, 208, 211, 212.
Beni-Talût, II, 22.
Beni-Tolûn, v. Tolunidi.
Beniamino, da Tudela, III, 484.
Berberi, LIV; 18, 105, 106, 107, 113, 114, 115, 118, 119, 120, 121, 123, 125, 126, 127, 128, 129, 132, 133, 135, 136, 138, 142, 143, 144, 147, 156, 174, 264, 288, 309, 340, 363, 369, 424, 429, 431, 432; II, 12, 21, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 62, 63, 75, 121, 122, 123, 128, 131, 133, 135, 136, 138, 139, 142, 143, 146, 148, 149, 150, 151, 154, 157, 168, 183, 184, 191, 192, 197, 198, 200, 207, 217, 263, 267, 283, 287, 288, 292, 350, 351, 355, 358, 361, 372, 373, 383, 393, 418, 424, 434, 462, 496, 547; III, 6, 73, 81, 92, 209, 211, 373, 381, 400, 408, 409, 422, 475, 479, 599, 628, 662, 879.
Berdwil, supposto re franco, II, 328; III, 62, 189.
Berengario, conte di Barcellona, III, 12.
Berengario, de’ conti di Lucca, 277.
Berengario, duca del Friuli, II, 166, 167.
Berillo, 15.
Berkûk, III, 836.
Berlais Roberto, III, 347.
Bernardino, conte, III, 594.
Bernardo Michele, III, 390.
Bernardo, figlio di Pipino, 227.
Bertario, abate, 365, 444, 460.
Bertoldo, II, 325.
Bertolotti, XV.
Besciâr-ibn-Bord, II, 113.
Bibars, XXXVIII, XLVIII; III, 654.
Biscir-ibn-Sefwân, 135, 171; II, 233.
Bizantini, XLI, XLII; 72, 74, 75, 118, 125, 173, 241, 278, 283, 290, 309, 313, 316, 318, 319, 323, 329, 331, 338, 349, 352, 364, 376, 380, 413, 415, 418; II, 34, 48, 70, 71, 80, 81, 83, 100, 155, 166, 168, 171, 172, 176, 179, 193, 204, 213, 241, 243, 244, 246, 247, 250, 251, 252, 253, 263, 266, 267, 269, 271, 272, 291, 311, 312, 313, 317, 322, 333, 338, 340, 357, 364, 365, 372, 376, 378, 379, 389, 390, 393, 394, 396, 399, 415, 417, 421, 422, 423, 426, 459, 460, 501, 519; III, 1, 14, 25, 26, 30, 31, 53, 194, 217, 218, 223, 351, 366, 433, 443, 447, 450, 465, 466, 480, 666, 746, 825, 836, 838, 839, 852, 860.
Bizantino Impero, II, 141, 166, 168, 169, 172, 176, 183, 215, 242, 243, 255, 260, 274, 278, 308, 310, 311, 367, 375, 379, 383, 386; III, 5, 26, 50, 114, 282, 413, 508.
Blettiva, III, 51.
Blois (di) Pietro, III, 216, 497.
Boch (dott. Franz), III, 798, 800.
Bochlor, III, 329.
Bodeir-ibn-el-Meklâti, II, 539.
Boemondo, principe d’Antiochia, III, 144, 146, 165, 183, 184, 186, 188, 433, 863.
Boha-ed-dîn, XLVIII.
B’ht’’r, di Dendera, III, 832.
Boioanni, II, 365, 366; III, 34.
Bolukkin-ibn Ziri, II. 238, 288, 289, 290, 355, 358.
Bonaini Francesco, III, 376.
Bonanno, da Pisa, III, 862, 863.
Bonaparte (de) Luciano, III, 594.
Bonatti Guido, III, 695.
Boncompagni Baldassarre, III, 658.
Bonelli, casato, III, 221, 233.
Bonello Matteo, III, 232, 485, 486, 487.
Bonello Ruggiero, III, 221.
Bonifazio, conte di Lucca, 276.
Bonifazio del Vasto, III, 199.
Bonifazio, marchese d’Incisa, III, 199.
Bonifazio, marchese degli Italiani, III, 196.
Bonifazio, marchese di Monferrato, III, 197.
Bonincontri Lorenzo, III, 11.
Bonnella Riccardo, III, 221.
Bono Odone, marchese, III, 221, 226.
Borboni di Napoli, III, 101, 279, 309.
Borello Goffredo, III, 312, 340.
Borello Roberto, III, 221.
Borgogna (duca di), III, 347.
Bosaisa, 93.
Boscera, II, 199, 200, 228.
Bosco (marchesi del), III, 199.
Bosone, 446.
Botayctor Niccolò, III, 288.
Botoniate Niceforo, III, 144.
Bouillon (casa di), III, 189.
Bourquelot, 311.
Boweidi, II, 278.
Brachimo (Ibrahim-ibn-Ahmed), II, 81, 96.
Brahim, gaito (Ibrahim), III, 264.
Brancaleone, II, 247.
Brienne (conte di), III, 568, 569, 582, 585.
Brioschi Francesco, III, 456.
Broch, II, 383, 384, 386; III, 39.
Bruno, III, 288.
Bruzii, III, 196.
Buatère Gilberto, v. Drengot.
Buccahar, III, 572.
Bucoboli, II, 312.
Buddisti, II, 108.
Buidi, v. Bowiedi.
Bulcassimo, II, 328, v. Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali (Abu-l-Kasim), e Ibn-Hammûd, III, 512.
Bulgari, 193, 510; II, 153, 173, 365.
Burabe (Abu-Rebi’a?), III, 376, 377.
Burcardo, II, 325.
Burcardo, vescovo di Strasburgo, III, 536.
Burgi o Bergi, III, 211.
Burgio, casato, III, 174.
Burgio Giovanni, III, 794.
Busca (marchesi di), III, 199.
Buscemi Niccolò, 469, 488, 489.
Busilla, III, 194.
Busito (Abu-Sa’îd), II, 340.
C
Cahtân, II, 233 ( corr. Kahtàn).
Calatabiano (di) Roberto, III, 499.
Calatabutur (de) Sir Ricalinus, III, 215.
Calatafimi (di) Simone, III, 225.
Caligola, 9; II, 550.
Callinico, 303.
Callisto II, papa, II, 396; III, 314.
Calonimo, II, 326.
Calzola, casato, II, 453.
Camerano (da) Bonifacio, III, 224.
Cammarata (di) Lucia, III, 250.
Campalla, casato, III, 205.
Camulio Niccolò, III, 57.
Cangemi, casato, III, 881.
Canna (de) Gualterius, III, 221.
Canterbury (di) Tommaso, v. Becket.
Capeti, III, 18.
Capialbi, III, 344.
Capizzi (da) Adamo, III, 288.
Capparone Guglielmo, III, 583, 585, 586, 587, 594.
Caraccioli, LI.
Cardonne, LI.
Carini Isidoro, III, 594, 635.
Carli G. Rinaldo, LV.
Carlo d’Angiò, 396; II, 45; III, 538, 631, 654, 688, 698, 712, 820, 868.
Carlo II, d’Angiò, III, 612, 627, 631.
Carlo il Calvo, 414, 415, 437, 443, 444, 445, 446, 448, 451, 462; II, 299.
Carlo il Grosso, 453.
Carlo Magno, 147, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 194, 192, 212, 224, 226, 227, 230, 312, 389, 433; II, 169, 278, 338; III, 17, 189, 196, 198, 448, 680, 685.
Carlomanno, 451, 453.
Carlo Martello, 158.
Carlo il Semplice, III, 18.
Carlo lo Zoppo, v. Carlo II, d’Angiò.
Caro, arcivescovo di Morreale, III, 568, 592.
Carpi, XXXV.
Carretto (marchesi del), III, 199.
Carsianiti, 440.
Cartaginesi, II, 203, 357, 382, 393.
Cartomi Elia, III, 156, 162, 184.
Caru- (ibn-) Jûsuf, III, 206, 875.
Caruso Gian Battista, VII, VIII, XLI, LII, LV; 15, 18.
Caruso Giuseppe, XVI, XXIII.
Casiri, XIX, XXXIX, XLVIII, LIII.
Cassidoro, 12.
Castellani, casato, III, 212.
Castello (da) Roberto, III, 288.
Castiglia Benedetto, II, 13.
Castigliani, III, 188, 705.
Castiglioni, XXIV; 108; II, 6; III, 450.
Catacalone, II, 393, 394; III, 56.
Catania (vescovo e Chiesa di), III, 212, 238, 239, 245, 246, 264, 301, 308, 320, 323, 330, 450, 451, 597, 806.
Caterina, da Demona, II, 409.
Catrobarba Riccardo, III, 291.
Caussin J. J., LI, LII; II, 204, 206.
Caussin de Perceval, LI, LV; 57, 63, 76, 108, 246; III, 322.
Cavallari Francesco Saverio, XXXIV; 311; II, 452, 454; III, 821, 844.
Cave Guglielmo, XLI; 488.
Cedreno, XXVIII; 242, 506.
Cefalù (vescovo e Chiesa di), III, 215, 236, 250, 262, 316, 451, 474, 575, 580, 806, 872.
Celano (conte di), III, 600.
Celestino III, papa, III, 566, 567.
Cerameo Teofane, 488; III, 695.
Ceriani Antonio, III, 659.
Cesario, 365, 366, 367.
Ceva (marchesi della), III, 499.
Champollion-Figeac, XXVIII.
Chamut, v. Ibn-Hammûd.
Chapzis (Hamza), III, 262.
Cherbonneau, XXXIV, XLV, XLVI, LVI; III, 704.
Chrisione, II, 81.
Cibo Andreuccio, III, 260.
Cicala Giovanni, III, 635.
Cicerone, 7.
Ciclopi, II, 86.
Cincimo, 377.
Cirenaici, II, 203.
Citeron, LII.
Ciullo d’Alcamo, III, 888.
Clavesana (marchesi di), III, 499.
Cohen Giuda, III, 692, 708.
Colbert, IIII, 698.
Coloman, re d’Ungheria, III, 194.
Colombo, calabrese, 548.
Comparetti, III, 539.
Conde, 129, 136, 144, 161, 163.
Conone, 29, 195, 203.
Copti, 167; II, 496.
Corace, II, 463.
Coreish, v. Marisc.
Corrado..., II, 325.
Corrado, frate, VII; II, 415.
Corrado III, imp., III, 431, 432, 433, 609.
Corrado IV, III, 225, 711.
Corrado, di Monferrato, III, 522, 523, 643.
Corrado, re d’Italia, III, 192, 195, 199.
Corrado il Salico, III, 28, 29.
Corrado, vescovo di Hildesheim, III, 602.
Cortemiglia (marchesi di), III, 199.
Cosimo III, de’ Medici, ix.
Cosimo, monaco, 177, 178.
Cosroe Nuscirewan, 40.
Costantino Caramalo, II, 79, 80, 87.
Costantino, diacono, 29.
Costantino Duca, III, 144.
Costantino Gongile, II, 260.
Costantino I, imp., 18, 182, 198, 200, 201, 208, 211, 212, 303; III, 47, 305.
Costantino III, 99.
Costantino IV, 220.
Costantino V, 189, 222.
Costantino VI, 73, 196, 212, 145, 242, 245, 250, 252, 282, 316, 382; II, 153, 204, 215, 242, 243, 246, 250; III, 283.
Costantino VIII, II, 313, 367.
Costantino IX, II, 386, 395; III, 42, 44.
Costantino X, II, 416.
Costantino, corr. Costanzo, II, 97, 98.
Costantino, patrizio dell’Italia meridionale, 463.
Costantino, patrizio di Sicilia, 225, 246, 247.
Costantino, di Sicilia, poeta, 506.
Costanza, d’Aragona, moglie di Federigo II, imp., III, 583, 590, 804.
Costanza, moglie di Arrigo VI, III, 503, 530, 543, 544, 545, 547, 552, 561, 564, 565, 566, 567, 568, 572, 573, 574, 576, 588, 601.
Costanza, figliuola di Ruggiero, conte di Sicilia, III, 195.
Costanza, figliuola di Abu-l-Fadhl, III, 256.
Costanzo o Costante, XXXIX; II, 13, 77, 78, 84, 86, 90, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 99, 113, 180, 207.
Coste, III, 824, 834, 837, 858, 859.
Crambéa, II, 251.
Cremona (da) Gerardo, III, 695.
Crinite, II, 203, 204.
Crisafi, 411.
Crisonica, II, 406.
Crispi Francesco, III, 213.
Cristiani, XLII; 51, 53, 150; II, 42, 43, 44, 56, 57, 61, 69, 73, 74, 77, 80, 82, 83, 87, 92, 101, 106, 107, 108, 109, 141, 143, 148, 152, 162, 163, 165, 167, 183, 206, 210, 212, 238, 239, 240, 245, 248, 255, 262, 267, 269, 273, 276, 278, 293, 343, 345, 353, 362, 371, 373, 377, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 403, 405, 412, 414, 415, 422, 443, 460, 461, 466, 471, 494, 528, 551; III, 1, 8, 10, 12, 13, 14, 54, 56, 58, 65, 68, 71, 77, 80, 83, 93, 95, 96, 100, 132, 162, 167, 170, 171, 175, 176, 181, 487, 189, 210, 248, 249, 253, 254, 262, 281, 285, 303, 319, 327, 334, 338, 345, 349, 351, 358, 366, 375, 379, 381, 383, 384, 398, 400, 404, 409, 411, 416, 417, 419, 421, 424, 425, 429, 430, 451, 462, 469, 472, 473, 475, 477, 487, 489, 490, 496, 498, 506, 507, 508, 513, 515, 518, 522, 523, 526, 528, 530, 533, 534, 535, 543, 545, 546, 547, 572, 576, 578, 579, 587, 591, 592, 594, 595, 597, 609, 612, 617, 619, 622, 625, 626, 633, 642, 645, 647, 648, 652, 701, 706, 711, 716, 722, 728, 763, 780, 790, 816.
Cristodulo o Crisiodoro, III, 354, 355, 361, 364.
Cristoforo, III, 351, 353, 361.
Croati, 380; II, 169.
Crociati. II, 328, 386; III, 99, 107, 188, 193, 214, 299, 421, 432, 433, 434, 435, 464, 505, 522, 529, 545, 548, 565, 566, 573, 574, 585, 600, 604, 609, 633, 636, 637, 638, 640, 641, 643, 646, 647, 667, 673, 704, 721.
Curdi, III, 506.
Curopalata, viii.
Currucani, cognome, III, 205.
Cusa Salvatore, III, 204, 262, 316, 325, 450, 451, 494, 806, 850, 874.
Custasin (de) Sir Bonom, III, 214.
Cutzaniti Leone, III, 291.
Cuvier, III, 789.
D
Daher o Zâhir, califo fatimita, II, 241.
Dahmân, tribù arabica, III, 384.
Daisaniti, II, 109.
Dami’a, v. Abu-Mohammed.
Damiano, II, 88.
Dani, III, 15.
Daniele, profeta, II, 262.
Daniele, da Taormina, 516; II, 80.
Danielis, 442.
Dante Alighieri, III, 889.
D’Aquino, casato, III, 565.
Dato, II, 21.
D’Auceto Roberto, III, 876.
Daumas, II, 38, 39.
Dawûd, III, 639, 640.
D’Azeglio Massimo, XXXV.
Dedone, II, 325.
De Fraehn, XXIV.
De Frémery, XX, XLVII.
De Grossis, XXIX.
De Guignes, LI; 108.
De Hammer, II, 13.
Del Giudice Giuseppe, III, 202.
Della Mensa Antonio, III, 875, 876.
Della Noce Ruggiero, III, 288.
Della Vigna Piero, III, 620, 634, 707.
De Longuerue, II, 453.
De Meo, III, 33.
De Maramma Luca, III, 868.
Dennis Giorgio, III, 857.
Derenbourg, XL; 63; II, 172.
De Riedesel, barone, LII.
Derràg, II, 481.
Dervis, 52.
De Sacy, XXXVIII, XXXIX, XLVI, XLIX, LIV; 63; II, 13, 20.
Desiderio, re, 185.
Desiderio Abate, III, 22, 169, 853, 860.
De Simoni Cornelio, III, 197.
De Slane, XXXIII, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLIII, XLV, XLVIII, L, LI, LII, LIV; 63, 108, 110, 113, 142, 152, 430; III, 872.
Des Noyers, XVII, XVIII.
D’Este Ugo, III, 141.
Des Vergers, XVIII, XIX, XXIV, XLVII, LII, LIV; 430.
Dhaif. v. Musa-ibn-Ahmed.
Dhobbi, 161.
D’Herbelot, XXXVIII.
Diama-ibn-Mohammed, II, 224.
Di Biondo Leone, III, 868.
Di Fiore Giuseppe, XXXIV.
Di Giovanni Bono Giorgio, III, 868.
Di Giovanni Giovanni, 15, 18, 19, 20, 21, 27, 28, 96, 102, 103, 489.
Di Giovanni Vincenzo, III, 878, 887, 888.
Di Gregorio, v. Gregorio (Rosario).
Dihà, v. Kàhina, 119.
Dimiscki (Scems-ed-din), LI, LIII.
Dimiscki, v. Iehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Mo’nim.
Diocleziano, 10.
Diodoro Siculo, 4, 6, 194, 197; II, 406.
Diogene Laerzio, II, 101.
Dionisio, giudice, III, 868.
Diopoldo, III, 587, 588.
Diosallo, cognome, III, 205, 875.
Dioscoride, II, 218, 219.
Ditmar, conte, II, 325.
Doceano, catepano, II, 388.
Docibile, 458.
D’Ohsson, 452.
Domairi ( corr. Demiri), LIII.
Dombay, L.
Dominic (de) Raffaello, III, 390.
Donas o Donus, III, 205.
Donolo, II, 171, 172.
Dorn B., III, 691.
Doxopatro, v. Nilo Doxopatro, III, 660, 661.
Dozy, XXXIII, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLII, XLIII, XLIV, XLVI, XLVII, XLVIII, L, LI, LII, LIV, LV; 142, 162; III, 4, 873.
Drengol Gilberto, o Buatere, Rainolfo, Anquetil e Ormondo, III, 25.
Drogone, III, 39, 40, 42, 46, 48.
Drusi, II, 102, 117, 137.
Drusiana (da) Ruggiero, III, 287, 288.
Dsehebi, LII; 88; II, 514.
Dsimari, III, 211.
Dualisti, II, 98.
Du Caurroi, II, 13.
Ducezio, 278, 279.
Duchesne Andrea, III, 56, 58, 59.
Dudone, di S. Quintino, III, 20, 22.
Dugat, LV.
Du Meril, XXIX.
E
Eadmero, III, 187, 188, 271.
Eberwin, abate, II, 413.
Ebrei, 27, 40, 51, 57, 150, 195, 203, 218, 219, 408, 478; II, 32, 56, 101, 106, 307; III, 209, 234, 249, 252, 253, 254, 291, 296, 297, 328, 330, 434, 477, 555, 617, 618, 697, 708, 711, 728, 764, 870.
Eccelino (Azo), II, 325.
Edrîs, III, 662.
Edrîs, figlio del precedente, 226; III, 662.
Edrîs, principe di Malaga, III, 663, 664.
Edrîsi Mohammed, figlio di Mohammed, di Abd-Allah, di Edrîs (Abu-Abd-Allah), X, XXIII, XXVII, XXXIX, XLIII, XLIV, LI, LIII, LV; 236, 318; II, 67; III, 452 segg., 662, 663, 664, 666, 670, 671, 672, 680, 699, 830, 841, 842, 845, 860.
Edrisiti, 129, 225, 226, 229; II, 135; III, 173, 540, 662.
Eduardo I, d’Inghilterra, III, 40.
Einhardo, 147, 277.
Eleazar, III, 348, 349.
Elena, figlia di Niccolò, figlio d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Elia, canonico, III, 572.
Elia (il Giovane), da Castrogiovanni, 412, 418, 512, 515, 516, 517, 518, 619.
Elia, profeta, III, 84.
Elia, romito, II, 407, 408.
Eliodoro, 219.
Elisabetta, di Norvegia, II, 384.
Eliseo, di Segelmessa, II, 134, 135.
Elmacin, XLVII.
Elpidio, 217, 218.
Emir-Ibn-’Abs, Mir-’Abs, v. Mirabetto.
Emma, figliuola del conte d’Evreux, III, 84.
Emma, figliuola del conte Ruggiero, III, 195.
Emmanuele, casato, III, 454, 505.
Emmanuele Comneno, III, 413, 414, 433, 434, 435, 439, 467, 660, 661.
Emerico, re d’Ungheria, III, 583.
Empedocle, XLVIII, XLIX; II, 100, 101, 302, 463.
Enger, XXVIII.
Epaminonda, II, 80.
Eraclio, VII; 58, 76, 77, 94, 97, 108.
Erastotene, III, 671.
Erberto Braosense, III, 220.
Erchemperto, 232, 233, 361, 369, 384, 442, 445, 447, 448, 454, 459.
Eremberga, 85, 195.
Ermanno Contratto, III, 40.
Ermenseda, contessa, III, 12.
Ermogene, 507.
Erpenio, XIII, XLI.
Eruli, 12.
Essaconte, II, 271.
Esseriph (Es-Scerîf), III, 267.
Etiopi, II, 317.
Euclide, II, 462.
Eufemio, XLVII; 233, 241, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 258, 259, 262, 264, 265, 269, 279, 281, 282, 286, 291; III, 86.
Eugenio, ammiraglio, XXX; III, 347, 460, 657, 658, 659, 660, 661.
Eugenio, detto il Bello, III, 316.
Eugenio, emiro, v. Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Euplio, 17.
Euprassio, 416.
Eusebio, consolare, 211.
Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, XXVIII; III, 351, 521, 537, 538, 539, 688.
Eustazio, drungario, II, 80, 88.
Eustazio, stratego di Calabria, II, 153.
Euthimio, 240, 249.
Eutichio, patriarca d’Alessandria, XL, XLI.
Eutropio, lombardo, 443.
Evagrio, 76.
Evisando, III, 157.
Evreux (conte di), III, 84.
Ezzelino (Azo), III, 619.
F
Fabricius, XXXIX.
Fadhl (per errore in luogo di Fatemita?), II, 174.
Fadhl-ibn-Gia’far, 313, 314, 317; II, 32.
Fadhl-ibn-Ia’kûb, 300, 301, 305.
Fadhl-ibn-abi-Iezîd, II, 202, 203, 207.
Faiz-billah, califo fatimita, III, 766.
Fakhr-ed-dîn, III, 638, 641, 642.
Fakri, III, 212.
Falcando Ugo, III, 216, 251, 440, 481, 492, 543 a 545, 842; II, 308.
Falco (di) Roberto, III, 288.
Fallamonaca Uberto, III, 615, 622.
Famin, XVIII; 170.
Farag-Mohammed, II, 243.
Farag-ibn-Salem, III, 698, 868.
Farangia (I Vandali), 121.
Farich (?), figlio di Said, 170.
Faresi, II, 475.
Fartutto, cognome, III, 206, 875.
Fasi, III, 715, 716.
Fatima, II, 115, 132, 662.
Fatimiti, XLI, XLII, LIV; II, 6, 39, 53, 118, 120, 122, 132, 133, 135, 137, 140, 144, 151, 152, 154, 158, 162, 167, 176, 179, 182, 188, 192, 195, 197, 198, 199, 218, 227, 228, 233, 240, 254, 257, 280, 285, 286, 287, 289, 312, 313, 332, 356, 361, 372, 426, 451, 458, 459, 523, 547; III, 157, 260, 322, 352, 404, 449, 454, 465, 506, 834, 835, 844, 847.
Fazzello, VIII; 233, 234, 236, 237.
Federico, d’Aragona, re di Sicilia, III, 631, 870, 890.
Federigo Barbarossa, III, 11, 12, 219, 222, 465, 468, 508, 536, 620, 710.
Federico II, imperatore, XXXVIII, XLIX; 389; II, 193, 345, 347, 433, 463, 471; III, 86, 173, 224, 234, 240, 253, 265, 266, 288, 294, 297, 298, 318, 328, 357, 359, 363, 365, 406, 444, 445, 491, 542, 567, 568, 569, 570, 571, 575, 576, 579, 582, 583, 584, 588, 589, 590, 691, 592, 593, 594, 695, 596, 598, 599, 600, 601, 602, 603, 604, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 611, 612, 613, 614, 616, 618, 619, 620, 621, 622, 623, 625, 626, 629, 630, 631, 632, 633, 635, 636, 637, 638, 639, 640, 641, 642, 643, 644, 646, 647, 648, 649, 650, 651, 652, 653, 654, 655, 689, 690, 691, 692, 693, 694, 695, 696, 697, 700, 701, 702, 703, 705, 706, 707, 708, 709, 710, 711, 712, 773, 778, 785, 786, 788, 790, 791, 800, 804, 806, 807, 808, 815, 816, 820, 867, 888.
Fendaniti, 333.
Fenicii, 31, 104, 291; III, 3, 6.
Fer Ugo, III, 600, 601.
Ferdinando il Cattolico, 234.
Ferghalûsc, v. Asbagh-ibn-Wekil.
Ferran-love, III, 260.
Fezara, tribù arabica, II, 32.
Fibonacci Leonardo, III, 692, 695.
Fichi Raimondo, III, 868.
Filagato, monaco, III, 695.
Filargato, II, 318.
Filippico, 180.
Filippo, arabo, monaco, III, 208.
Filippo, di Gregorio, III, 166.
Filippo, di Mehdia, III, 425, 436, 437, 438, 439, 445, 484.
Filippo, monaco, 488.
Filippo I, re di Francia, III, 195.
Filippo II, di Francia, III, 524, 529, 590.
Filippo III, di Francia, III, 631.
Filippo II, re di Spagna, II, 282.
Finni, II, 169; III, 15.
Fiorelli Giuseppe, III, 452.
Fleischer, XXII; II, 271, 504; III, 743, 755, 762, 782.
Florenti, supposto re di Palermo, II, 338.
Fluegel, XXXVII, XXXIX, XLII, LI, LV.
Fluro, 383.
Foca, condottiero, II, 192, 193.
Fodhûl, 41, 49.
Furiani, L; III, 420, corr. Forriani, e v. Omar e Hosein.
Fortia, d’Urban, 10.
Fotino, 245, 250, 251.
Fozio, 338, 434, 454, 485, 489, 499, 500, 501, 505, 517, 518; III, 49.
Francesco II, di Francia, 690.
Francesi, II, 144, 442; III, 218, 367, 414, 442, 500, 501, 557, 558, 758.
Franchi, 11, 104, 182, 183, 184, 186, 190, 222, 312, 365, 374, 380, 438, 447; II, 72, 89, 322, 337, 372, 552; III, 79, 81, 82, 188, 189, 218, 319, 412, 420, 444, 468, 469, 512, 527, 767.
Francu, cognome, III, 206, 875.
Fredesenda, III, 42, 45.
Friddani (barone di), XXXV; III, 230.
Fridleif, re di Danimarca, II, 385.
Frode I, re di Danimarca, II, 386.
Fulci Innocenzo, III, 887.
Fusaiolo, v. Michele Doceano.
Fusco, III, 344.
G
Gabriele, 51, 55.
Gaetani Ottavio, XXIX; 18, 28, 29, 103.
Gafiki, III, 212.
Gaietani Costantino, III, 3, 11.
Gaitane Giovanni, III, 208.
Gala Niccolò, III, 208.
Galabeta Roberto, III, 291.
Galileo, III, 295.
Galli, 372.
Gallo, imperatore, II, 109.
Gallo Agostino, II, 454.
Gallo Niceta, III, 208.
Gambro Riccardo, III, 291.
Gargallo Tommaso, XXXV.
Garibaldi Giuseppe, III, 97.
Gaun-es-Sikilli (el), v. Hasan-ibn-Wadd.
Gauthier, III, 107.
Gayangos Pasquale, XXXIV, XXXIX, XL, CLIII, XLIX, LV; 81; III, 626.
Gazeli ( corr. Gazàli), II, 493.
Gaznevidi, 264.
Gazolin de la Blace, III, 62.
Geberiti, II, 99.
Geihani, III, 669.
Gelâl-ed-dîn, III, 637.
Gemâl-ed-dîn, III, 654, 655.
Gembloux (di) Guglielmo, III, 85.
Gemmellaro G. G, III, 780, 795.
Genova (da) Simone, III, 695.
Genserico, 11.
Gentile, conte, III, 580, 581, 583.
Gentile, vescovo di Girgenti, III, 500, 502.
Gerâwa, tribù, 119.
Gerberto, v. Silvestro II, papa.
Gerlando, vescovo di Girgenti, III, 307.
Germani antichi, III, 557.
Gerusalemme (patriarca di), III, 644, 645, 646.
Gesù Cristo, 51, 76, 77; II, 86; III, 701, 814.
Gesuiti, 101; III, 191, 414.
Gevehardo, II, 325.
Gewara, tribù berbera, III, 627.
Gewhari, II, 504.
Gezîra (fazione della) in Tunis, III, 429.
Ghâli. v. Ghôla.
Ghassan, tribù arabica, 32, 39, 58; II, 222.
Ghibellini, III, 433, 588, 601.
Gholâ, II, 106.
Giâber-ibn-Ali-ibn-Hasan, II, 329, 330.
Giacobbe, III, 186.
Giacobbe, figlio di Abba Mari, III, 708.
Giacobiti, II, 302.
Giacomo, re di Sicilia, lvi; III, 650, 654.
Gia’far-ibn-Ahmed-ibn-Jûsuf, emir kelbita di Sicilia, soprannominato Thiket-ed-dawla, II, 345, 368, 538.
Gia’far-ibn-Ali, II, 237, 238.
Gia’far-ibn-Ali-ibn-Kattâ’, II, 505, 542.
Gia’far-ibn-el-Barûn (Abu-l-Fadhl), III, 764, 765.
Gia’far-ibn-Habîb, II, 336, 337.
Gia’far-ibn-Jûsuf, emir kelbita di Sicilia, soprannominato Tag-ed-dawla, II, 335, 336, 342, 348 a 355, 374, 376, 538; III, 820, 849.
Gia’far-ibn-Mohammed, emir di Sicilia, 394, 400, 410.
Gia’far-ibn-Mohammed, emir kelbita di Sicilia, II, 330, e forse lo stesso a pag. 536.
Gia’far-ibn-Obeid (Abu-Ahmed), II, 171, 172, 173, 290, 291.
Gia’far, condottiero, II, 345.
Gia’far-ibn-Taib, II. 538.
Gia’far-ibn-abi-Taleb, 59.
Gia’far, detto il Verace, II, 116.
Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kimâki, III, 669.
Giândewân, II, 113.
Giannizzeri, II, 169.
Giawâs, v. Ali-ibn-Ni’ma.
Giawher il Siciliano, XLII; 235; II, 137, 282, 283, 284, 285, 286, 288, 290, 291; III, 260, 835.
Giggei, IX.
Giobbe, 32.
Giodsami, III, 211.
Gioneîd (Abu-I-Kâsim), II, 480.
Giordano, III, 564.
Giordano, figliuolo di Riccardo, principe di Capua, III, 123, 142, 151, 152, 155, 156, 161, 162, 163, 164, 166, 167, 177, 178, 181, 195.
Giordano, figliuolo di Ruggiero, conte di Sicilia, III, 315.
Giorgio, d’Antiochia, L, LIII; III, 262, 354 segg., 360 segg., 381, 387, 405 a 422, 429, 434, 436, 442, 449, 480, 607, 656, 660.
Giorgio Probato, II, 368, 376.
Giorgio, stratego, 379.
Giovanna, d’Inghilterra, moglie di Guglielmo I, III, 357.
Giovanna, papessa, 434.
Giovanni, ammiraglio, III, 262, 355, 356.
Giovanni Cerameo, 488, 496.
Giovanni il Cretese, 328.
Giovanni, diacono (IX secolo), 505.
Giovanni, diacono caloense, XXIX.
Giovanni, diacono di Napoli, 239, 240, 249, 292, 355, 366, 430, 434; II, 64, 70, 71.
Giovanni, diacono di Venezia, XXVIII; 96, 99.
Giovanni, duca di Napoli, II, 164.
Giovanni, eunuco, II, 379, 390.
Giovanni, figlio di Costantino, siciliano, III, 697.
Giovanni, figlio d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Giovanni, gaito, III, 263.
Giovanni, nipote d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Giovanni, intarsiatore, III, 792.
Giovanni Lecanomante, 498.
Giovanni Logoteta, III, 83.
Giovanni Longobardo, III, 294.
Giovanni il Lungo, v. Macrojoanni.
Giovanni, martire, 511.
Giovanni, detto il Moro, III, 711.
Giovanni Orseolo, II, 366, 367.
Giovanni II, papa, 12.
Giovanni VIII, papa, 415, 433, 434, 443, 444, 445, 446, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 456, 457, 458, 517; III, 161, 299.
Giovanni X, papa, 161, 165, 166, 170.
Giovanni, padre di San Luca di Demona, II, 408.
Giovanni Patriano, 402.
Giovanni, patrizio, 119, 120, 213.
Giovanni, patrizio e protospatario, 213.
Giovanni Pilato, II, 246.
Giovanni Rachetta, v. Sant’Elia il Giovane, 512, 513, 514.
Giovanni, retore, III, 664.
Giovanni Romeo, III, 256.
Giovanni, sacellario, 189.
Giovanni, di Sicilia, XXX; 506, 507.
Giovanni, vescovo di Malta, III, 502.
Girault de Prangey, III, 818, 819, 831.
Girgenti (vescovo e Chiesa di), III, 247, 256, 264, 573, 587, 593, 594, 615, 872.
Girgir, v. Maniace Giorgio.
Gisulfo, principe di Salerno, II, 459; III, 142, 143, 144, 148.
Giuditta, d’Evreux, III, 84, 91.
Giulio..., cristiano. III, 256.
Giustiniano, 40, 101, 195, 198, 200, 212.
Giustiniano, secondo, 203, 215; III, 829.
Giustiniano Partecipazio, 274, 287.
Giustino, 28.
Glycas Michele, 507.
Goffredo, III, 62.
Goffredo, di Buglione, III, 207.
Goffredo, chierico, III, 615.
Goffredo, figliuolo del conte Ruggiero, III, 195.
Goffredo, di Hauteville, III, 45, 51, 57, 59.
Goffredo Ridelle, o Rindelle, III, 59, 63, 65, 69.
Goffredo, vescovo di Messina, III, 346.
Golio, XIV, L.
Gordiano, 101.
Goti, 12, 22, 104, 121; III, 159, 823.
Gorresio Gaspare, III, 676.
Graffeo, III, 257, 258.
Granatelli, XXXIV, XXXV; II, 455.
Grantimesnil (di) Guglielmo, III, 185.
Grantimesnil (di) Roberto, II, 84, 192.
Gravina (conte di), III, 489, 495, 496.
Gravina (don Dom. Benedetto), III, 862.
Greci, 194, 196; II, 32, 85, 99, 137, 169, 170, 174, 175, 244, 262, 268, 270, 299, 301, 312, 321, 322, 326, 329, 382, 385, 390, 398, 399, 405, 415, 416, 450, 461, 503, 515, 542, 660; III, 23, 24, 27, 33, 36, 41, 42, 53, 58, 90, 102, 142, 205, 206, 207, 208, 228, 251, 254, 267, 270, 280, 293, 296, 297, 299, 303, 306, 324, 351, 365, 432, 435, 467, 537, 539, 556, 675, 699, 800, 811, 826, 837, 854, 870.
Greco, intarsiatore, III, 792.
Gregora, patrizio, 240, 251.
Gregorio, supposto arcivescovo di Taormina, 489.
Gregorio Asbesta, 499, 500, 501, 502, 521.
Gregorio, capitano Bizantino, 446, 447.
Gregorio, catapano, II, 341.
Gregorio Cerameo, 488.
Gregorio, consolare e protonotaro, 213.
Gregorio, console, II, 90, 95.
Gregorio Decapolita, 502.
Gregorio, duca di Napoli, II, 163.
Gregorio II, papa, 96, 181.
Gregorio IV, 365.
Gregorio V, II, 318.
Gregorio VII, 389; II, 348: III, 42, 48, 143, 144, 145, 146, 191, 199, 303, 304.
Gregorio IX, III, 609, 612, 701, 712, 867.
Gregorio, patrizio d’Affrica, 79, 108, 109.
Gregorio, patrizio di Sicilia, 192, 213, 228.
Gregorio Rosario, VII, XIII, XIV, XVII, XVIII, XXI, XXIII, XXIV, XXXVIII, XLI, XLIX, LI, LII, LV; 15, 247.
Gregorio, stratego, 437.
Grillo Tommaso, III, 868.
Grimualdo, 188, 189, 190.
Grion, III, 888.
Guaiferio, 383, 385, 387, 461, 463.
Guaimario, principe di Salerno, III, 36, 37, 116, 124.
Gualtiero de Moac, ammiraglio, III, 357.
Gualtiero, vescovo di Girgenti, III, 210.
Gualtiero, arcivescovo di Palermo, III, 275.
Guarino, cancelliere, III, 356.
Guebri, 150.
Guelfi, III, 588, 590, 815.
Gufulône (Khalfûn?), III, 646.
Guglielmo Appulo, III, 22, 23, 24, 31, 33.
Guglielmo, di Castrogiovanni, III, 565.
Guglielmo, duca di Puglia, III, 388, 392.
Guglielmo, figliuolo di Tancredi, re di Sicilia, III, 559.
Guglielmo il Grosso, III, 607.
Guglielmo, di Hauteville, II, 380, 382, 386, 387, 389; III, 24, 29, 31, 35, 37, 38, 39.
Guglielmo, fratello del precedente, III, 38, 39, 45, 50.
Guglielmo, di Malmesbury, III, 39.
Guglielmo Malo Spatario, III, 236.
Guglielmo Orfanino, III, 565.
Guglielmo I, re d’Inghilterra, III, 20, 326, 364, 444.
Guglielmo II, d’Inghilterra, III, 187, 213, 216.
Guglielmo I, di Sicilia, III, 58, 78, 217, 218, 223, 226, 228, 229, 262, 339, 360, 364, 430, 445, 464, 465, 466, 467, 468, 473, 482, 483, 485, 486, 488, 489, 491, 492, 493, 494, 497, 591, 665, 680, 722, 768, 811, 814, 816, 819, 888.
Guglielmo II, di Sicilia, XLIX; II, 335, 429, 451; III, 159, 173, 218, 232, 235, 243, 246, 253, 262, 263, 265, 299, 308, 318, 325, 339, 357, 364, 435, 450, 465, 489, 493, 494, 498, 502, 503, 504, 505, 512, 513, 514, 516, 517, 518, 519, 520, 523, 529, 530, 531, 532, 533, 534, 535, 537, 540, 541, 543, 545, 546, 547, 553, 557, 568, 587, 591, 594, 611, 621, 628, 632, 688, 690, 697, 777, 778, 788, 799, 811, 814, 818, 819, 867, 874, 888.
Gugliotta (da) Pietro Francesco Paolo, III, 288.
Guibaldo, abate. III, 398.
Guidi Ignazio, III, 857.
Guido di Sessa, II, 325.
Guido, duca di Spoleto, 369, 445, 447.
Guido III, duca di Spoleto, 455, 461.
Guglielm (Sir), banchiere in Cefalù, III, 215.
Guntar, 387.
Guntero, II, 325.
Gurmund, II, 385.
H
Habib-ibn-Obeida, 173.
Habib-ibn-abi-Obeida, 172, 174.
Hadding, re di Danimarca, II, 385.
Hadi, califo abbasida, II, 112.
Hadhrami, II, 62, 63.
Hadhramaut (tribù dell’), II, 63; III, 210.
Hâfiz, califo fatemita, III, 406.
Hafs-ibn-Hamîd, 152.
Hafsiti, XLIX, LV; II, 471; III, 599, 623, 631.
Haftariri, II, 142.
Haggi-Abu-l-Fadhl, III, 256.
Haggi Khalfa, LV.
Haià, 359.
Hâkem-biamr-Illah, califo fatimita (Mansur), II, 40, 137, 331, 348, 356, 360, 364, 448.
Hâkem-ibn-Hesciâm, califo omeiade, di Spagna, 160, 161, 162.
Halcamo, 233, 234, 236.
Haldor, II, 386.
Hamaker, XL; 85.
Hamar, III, 264.
Hamadân, dinastia, II, 278, 365.
Hamdân-ibn-Asci’ath, II, 116, 117.
Hamdis, 146, II, 525.
Hamdûn, II, 536.
Hâmid-ibn-Ali, da Wâset, XXV, XXVI.
Hamilton, 152.
Hammâd-ibn-Bolukkîn, II, 358, 359.
Hammaditi, III, 402, 407, 429.
Hamûd, corr. Hammûd, III, 662.
Hamuto Ruggiero, III, 542, v. Ibn-Hammûd.
Hamza, kaid, III, 264.
Hanefia, II, 115.
Hanzala-ibn-Sefwân, 128, 136, 137.
Hareth, fratello di Iehia-ibn-el-Azix, III, 423.
Hariri, scrittore, II, 495, 514; III, 730.
Harrani, 383.
Hartwig Ottone, III, 299.
Harûn-Rascîd, 144, 145, 149, 150, 255; II, 279, 462, 623, 634, 685, 704, 705, 805, 816.
Hasan-ibn-Abbâs, 417, 421.
Hasan-ibn-Abd-el-Bâki (Abu-Ali), detto Ibn-el-Bâgi, III, 735.
Hasan-ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-Koleib, soprannominato Ibn-abi-Khinzîr, II, 142 a 145, 147, 150, 151, 156, 191.
Hasan-ibn-Ali-ibn-Ge’d (Abu-Mohammed), II, 489.
Hasan-ibn-Ali, grammatico, II, 496.
Hisan-ibn-Ali, Hodseilita, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 213, 751.
Hasan-ibn-Ali-ibn-abi-Hosem (Abu-l-Kasim), primo emiro kelbita in Sicilia, II, 202 a 204, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 234, 235, 238, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, 255, 263, 269, 270, 372, 373, 414, 449.
Hasan-ibn-Ali, principe zirita, di Mehdia, II, 529; III, 367, 380, 386, 399, 402, 403, 404, 405, 406, 407, 408, 411, 412, 413, 415, 416, 417, 418, 419, 421, 423, 429, 430, 475, 479.
Hasan-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 107, 115.
Hasan-ibn-’Ammar, II, 257, 259, 266, 267, 270, 271, 331, 332.
Hasan-ibn-Ibrabim-ibn-Sciâmi (Abu-Fadhl), II, 539.
Hasan-ibn-Iehia (Abu-Ali), XXXVII; II, 429, 516, 517.
Hasan-ibn-Jûsuf, soprannominato Simsâm-ed-dawla, emir kelbita, II, 375, 379, 393, 419 a 422, 424, 425, 427, 548, 551; III, 66.
Hasan-ibn-Mohammed, di Bâghâia, II, 352, 354.
Hasan-ibn-Nâkid, 429, 430; II, 53.
Hasan-ibn-Omar-ibn-Menkûd (Abu-Mohammed), II, 420, 539.
Hasan-ibn-Rescîk (Abu-Ali), v. Ibn-Rescik.
Hasan-ibn-Sabbah, II, 117.
Hasan-ibn-Wadd (Abu-Ali), detto El-Gaun-es-Sikilh, III, 761.
Hâscem, 49, 56, 64.
Hâscem-ibn-Jûnis (Abu-l-Kâsim), II, 514, 536.
Hasdai-ibn-Bescrût, II, 219.
Hase Carlo Benedetto, XXIX, XXXIII, XXXVII, XXXIX, LII; 84; II, 416.
Hassân-ibn-No’man, 119, 120, 122, 131, 165, 166.
Hauteville (casa di), III, 23, 31, 39, 40, 45, 52, 53, 111, 119, 122, 131, 133, 143, 146, 258, 274, 304, 332, 530.
Hawwâs, v. Ali-ibn-Nima.
Hazima, tribù arabica, II, 522.
Heggiâg-ibn-Jûsuf, II, 4.
Hegiazi, III, 212.
Herawi, XLVI; II, 436, 441.
Hermann, III, 604.
Hermes, III, 690.
Hesciâm, califo omeiade, 128, 135, 136.
Hilâl, tribù arabica, II, 547; III, 93.
Himiariti, II, 233, 336, 520.
Hittorf, III, 858, 859.
Hobwart, XLI.
Hodseil, tribù arabica, II, 213, 751.
Hohenstaufen, III, 531.
Holwâni, II, 120.
Homaidi, XLII; II, 491.
Honnegar, XXXIV, XLV, LIV, LVI.
Hosein-ibn-Ahmed-ibn-Ja’kûb, 391, 423.
Hosein-ibn-Ali-el-Kindi, III, 256.
Hosein-ibn-Ahmed, da Sana’, detto lo Sciita, v. Abu-Abd-allah-es-Sci’i.
Hosein-el-Forriâni (Abu-l-Hasan), III, 420, 468, 469, 470.
Hosein-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 107, 115.
Hosein, da Cassaro, III, 264.
Hosein, gaito e stratego, III, 316.
Hosein-ibn-Giawher, II, 288.
Hosein-ibn-Homâm, II, 267.
Hosein, di Palermo, III, 256.
Hosein-ibn-Ribbah-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezâra, 391, 410, 417.
Hosein-ibn-Sentir, III, 206.
Howâra, tribù berbera, 264, 286, 351; II, 52, 198; III, 211.
Huillard-Bréholles, XXX.
Humboldt, XXX; III, 658.
Humur, di Michiken, III, 264.
Hurter, III, 570.
I
Iacopo, congiunto di Innocenzo III, III, 579, 581.
Ia’kûb, califo almohade, III, 496.
Ia’kûb-ibn-Ahmed, emir aghlabita, 426.
Ia’kûb-ibn-Ali-Roneidi, II, 512, 542.
Ia’kûb-ibn-Fezâra, II, 140.
Ia’kûb-ibn-Ishâk, II, 180.
Ia’kub-ibn-Jûsuf, califo almohade, III, 686.
Ia’kub-ibn-Modhâ-ibn-Sewâda-ibn-Sofiân-ibn-Sàlem, 391.
Ia’kûbi, III, 669.
Ia’kûbia, famiglia, 391.
Iakût, XXVII, XLVI; 87; II, 429, 510, 515, 517, 522.
Ia’isc, II, 291, 292, 293.
Iamsilla (de) Niccolò, III, 706.
Iânis il Siciliano, II, 356, 357.
Iaroslaw I, II, 384.
Jaubert, XLIV.
Iazuri, II, 547.
Ibaditi, 127; II, 120, 197.
Ibelin (principe d’), III, 643.
Ibn-el-Abbâr, XXXVII, XLII, XLIX; 144, 145, 154.
Ibn-Abd-el-Berr, II, 482, 503, 542.
Ibn-Abd-el-Hakem, XXXIX; 88, 89, 93, 96, 105, 112, 113.
Ibn-Abd-Rabbih, xxviii; 35, 73; III, 133.
Ibn-Adsâri, XXXVII, L.
Ibn-Aiâs, LV.
Ibn-Ali, II, 158.
Ibn-abi-’Amir, detto Almanzor, II, 472, 497, 521; III, 4.
Ibn-’Ammâr, II, 291.
Ibn-’Amrân, II, 185.
Ibn-Asciath, II, 204, 205.
Ibn-Abi-’Asrûn, III, 720.
Ibn-el-Athîr, XIX, XXVII, XXVIII, XLVII.
Ibn-’Attâf, II, 195, 204, 205, 206.
Ibn-el-Awwâm, XLII; II, 447.
Ibn-Ba’ba’, II, 552.
Ibn-el-Bâgi, v. Hasan-ibn-Abd-el-Baki.
Ibn-Baruki, III, 256.
Ibn-Baskowâl, XLIII; II, 475, 476.
Ibn-Baslûs, II, 253.
Ibn-Bassâm, XLIII; II, 500, 524, 525, 535.
Ibn-Batuta, XLVI.
Ibn-Besâl, II, 447.
Ibn-Bescirûn, XXXVIII, XLV; II, 535; III, 462.
Ibn-el-Bessâr, III, 509.
Ibn-Dâia, II, 183.
Ibn-Dhaisân, o Bardesane, II, 109.
Ibn-abi-Dinâr, LV.
Ibn-Fadhl-Allah, v. Ahmed-ibn-Iehia.
Ibn-Abi-l-Fadhl, 268.
Ibn-Fassâl, II, 447.
Ibn-Fehhâm, v. Abd-er-Rahmân-ibn-Abi-Bekr.
Ibn-Fûregia, II, 512, 513.
Ibn-Ghalanda, v. Abu-l-Hokm.
Ibn-Ghania, III, 496, 599, 624.
Ibn-Ghazi, da Susa, II, 225.
Ibn-Giâbir, II, 487.
Ibn-Giobair, XXVII, XLVI; II, 308; III, 520, 685, 842, 844, 847, 848.
Ibn-Giolgiol, XLIX; II, 219.
Ibn-el-Giuzi, XLVIII; II, 552.
Ibn-el-Hagiar, v. Ibn-Hammûd (Abu-l-Kâsim).
Ibn-Hamdîs, v. Abd-el-Gebbâr.
Ibn-Hamdûn, III, 377.
Ibn-Hammâd, XLVI.
Ibn-Hammûd, signor di Castrogiovanni, v. Chamut e Hamutus, III, 173, 175, 176.
Ibn-Hammûd (Abu-l-Kâsim, o Ibn-abi-l-Kâsim detto) ed anche Ibn-el-Hagiar, e v. Bulcassimo, III, 173, 263, 500, 532, 540 a 542, 719, 721, 722, 725.
Ibn-Hammûd, Hazimi, v. Abd-Allah-ibn-Iehia.
Ibn-Hanbal, 150.
Ibn-Hâtim-Adsrei, o Adserbi, II, 488.
Ibn-Haukal, XL, XLI; II, 158, 216, 239, 294, 295, 305, 306, 308; III, 669, 841, 849, 864.
Ibn-Hausceb, II, 120.
Ibn-Hawwasci, v. Ali-ibn-Ni’ma.
Ibn-Hazm, 141.
Ibn-Herawi, II, 429, 436.
Ibn-Homeidi, XLI.
Ibn-Hosein, citato da Leone Affricano, XXXIX.
Ibn-Hosein, Rebe’i (?), Fâresi, II, 454.
Ibn-Ia’kûb, 391.
Ibn-Iehia, v. Hasan-ibn-Iehia.
Ibn-abi-Ifren, III, 214.
Ibn-Iûnis, II, 484; III, 670.
Ibn-Kaddâh, II, 116, 117, 119.
Ibn-Kâdim, 273.
Ibn-Kalakis, II, 429; III, 541, 768.
Ibn-Kattâ’, famiglia siciliana, v. Gia’far-ibn-Ali e Ali-ibn-Gia’far, II, 503.
Ibn-Kelbi, 35.
Ibn-Kellas, II, 330.
Ibn-Kereni, II, 516.
Ibn-Kerkûdi, II, 541.
Ibn-Khaldûn, XVIII, XIX, XXVII, XXVIII, LIII.
Ibn-Khallikân, XIX, XLIX.
Ibn-Khami, II, 153.
Ihn-abi-Khinzîr, v. Hasan-ibn-Ahmed.
Ibn-Khordabeh, III, 669.
Ibn-Konfûd, LVI.
Ibn-Korhob, v. Ahmed.
Ibn-Koteiba, XXXIX.
Ibn-Kufi, II, 195, 204.
Ibn-Kûni, II, 498, 516, 536.
Ibn-Kutia, XXVIII.
Ibn-Labbâna, II, 529.
Ibn-Meimûn, III. 378, 480.
Ibn-Mekki, II, 482, 488, 540.
Ibn-Meklâti, II, 37, 421, 425, 547, 549; III, 64, 308.
Ibn-Menkûd, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.
Ibn-Mo’allim, teologo, II, 484.
Ibn-Mo’allim, v. Ali-ibn-Ibrahim.
Ibn-Modebbir, II, 521.
Ibn-Modû, II, 191.
Ibn-Mogêhid, III, 581.
Ibn-Moweddib, da Mehdia, II, 333, 334.
Ibn-abi-Oseib’ia, XXXVIII, XLIX.
Ibn-Rekîk, XXXVII, XXXVIII, XLII, XLV, LI; II, 44.
Ibn-Rescîk, VII, XXXVII, XXXVIII, XLIII, XLV, LI; II, 490, 499, 500 a 503, 505, 515, 517, 519, 520, 522.
Ibn-Saba, II, 107.
Ibn-Sab’în, XLIX, da aggiugnere ad Abd-el-Hakk-ibn-Sab’în.
Ibn-Sâhib-es-Selât, XLIV.
Ibn-Sahl, II, 113.
Ibn-Sa’îd, XXXVIII, XXXIX, XLIX; II, 508, 510; III, 681.
Ibn-Scebbât, XL, XLV; 85, 87, 124, 169; II, 509.
Ibn-Sceddâd (Abd-el-’Azîz), XXXVIII, LI; III, 441.
Ibn-Sceddâd (Jûsuf), v. Boha-ed-dîn.
Ibn-Scerf, II, 501.
Ibn-Sebâia, II, 187.
Ibn-Selma, II, 183.
Ibn-es-Sementi, III, 763.
Ibn-Semsâma, 430; II, 59.
Ibn-Sir’în, II, 541.
Ibn-Soliân, II, 120.
Ibn-es-Susi, v. Sid-es-Sarkusi, Hasan-ibn-Ali, e Othman-ibn-Abd-er-Rahmân.
Ibn-Tazi, II, 494, 513, 536, 543, 544.
Ibn-et-Theiri, v. Edrîsi, III, 664.
Ibn-Thimna, v. Mohammed-ibn-Ibrahim.
Ibn-Tulûn, III, 833, 834, 835, 840, 843, 845, 853, 859.
Ibn-Wahb, II, 145.
Ibn-el-Wardi, LIII.
Ibn-Wuedrân, XXXVII, XLIV, XLV; 154.
Ibn-Zafer, v. Mohammed-ibn-abi-Mohammed.
Ibn-Zura’, III, 532.
Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab (Abu-’l-Aghlab), 300, 304, 305, 320, 354.
Ibrahim-ibn-el-Aghlab, 144, 145, 146, 147, 152, 156, 223, 226, 233, 254. 340; II. 4, 22, 525; III, 599.
Ibrahim-ibn-abi-l-Aghlab, II, 129, 130, 131.
Ibrahim-ibn-Ahmed, 102, 393, 400, 427, 428, 429, 431, 464, 511, 512; II, 5, 22, 23, 30, 42 a 47, 49 a 54, 56 a 65, 69, 73, 74, 75, 76 a 87, 88, 89, 90, 92, 93, 95, 97, 121, 123, 124, 126, 128, 146, 148, 161, 163, 169, 212, 213, 215, 217, 227, 237, 400, 404; III, 352, 829, 851.
Ibrahim, figliuolo di Buccahar, III, 572.
Ibrahim, di Castrogiovanni, III, 134, 135.
Ibrahim-ibn-Khelef, Dibâgi, II, 453.
Ibrahim-ibn-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, II, 550.
Ibrahim-ibn-Mohammed, Koresci, III, 256.
Ibrahim-ibn-abi-Sa’îd, Magrebi, XLVIII.
Ibrahim-ibn-Selâma, III, 829.
Ibrahim-ibn-Sofiân, 427.
Iconoclasti, 176, 181, 218, 491, 498, 504, 521.
Iectan, 31.
Iehia-ibn-el-Azîz, principe hammadita, III, 423.
Iehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Mo’nim, detto Dimiski e Isfahani (Abu-Zakaria), III, 735.
Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid (Abu-Zakaria), principe hafsita di Tunis, III, 597, 623, 624, 629.
Iehia-ibn-Hasan-ibn-Temîm, principe zirita, III, 477.
Iehia-ibn-Henzela, III, 832.
Iehia-ibn-Omar-ibn-Jûsuf, Andalosi, II, 188, 220, 221, 225.
Iehia-ibn-Sa’îd, XLI.
Iehia-ibn-Temîm, principe zirita, II, 529, 530; III, 362, 366, 367, 368, 369.
Iehia-ibn-et-Tifasci, III, 486, 767.
Jersey (di) Ugo, III, 151, 152.
Ie’isc-ibn-Gelasia, III, 206.
Iemen (le tribù del), II, 490, 526; III, 210, 211, 506, 639.
Iezdegerd, 60, 68.
Iezîd-ibn-Hàtem, 134, 171.
Iezid-ibn-Moslim, 172.
Ignazio, patriarca di Costantinopoli, 338, 420, 498, 499, 500, 501, 505.
Ikhscid (dinastia di), II, 278, 279, 281.
Ifren, tribù berbera, II, 198, 202.
Iften, III, 212.
Iknizi, III, 212.
Ildebrando, lombardo, III, 221, 223.
Ildebrando, v. Gregorio VII.
Ildebrando, duca di Spoleto, 189, 190.
Imâd-ed-dîn, da Ispahan, XXVII, XLV.
Imamîa, II, 118.
Imro-’l-Kais, 42; II, 535, 747.
Incisa (D’) Aloisio, III, 226.
Incisa (D’) Arrigo, III, 226.
Incisa (D’) Bonifazio, III, 226.
Incisa (D’) Giovanni, III, 226.
Incisa (marchesi di), III, 199, 226.
Incisa (D’) Simone, III, 226.
Ingulfo, II, 325.
Innocenzo II, III, 395, 396.
Innocenzo III, III, 266, 564, 566, 567, 568, 570, 573, 574, 576, 577, 579, 580, 581, 585, 586, 587, 589, 590, 591, 603, 610, 629.
Innocenzo IV, III, 649, 705, 711, 712.
Inveges, VIII, LI, LII.
Jomard, III, 677.
Iosfré (Jeoffroi), III, 291.
Ippocrate, II, 462; III, 697.
Ippolito, vescovo di Sicilia, II, 214, 262, 263, 402, 412.
Irene, 191, 217, 222.
Irmfrido, II, 325.
’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, es-Sikilli (Abu-Musa), III, 462, 746, 766.
’Isa-ibn-Giàber, III, 804.
’Isa-ibn-Giorgir, III, 206.
’Isa, da Kâbes, III, 413.
Isabella, di Lusignano, III, 643.
Isernia (da) Andrea, III, 328, 330.
Ishâk Bostâni, II, 187.
Ishak-ibn-Hasan, III, 669, 670.
Ishak-ibn-Mâhili (Abu-Ibrahim), II, 306.
Ishak-ibn-Minhâl, II, 143.
Ishak-ibn-Mohammed, III, 518.
Ismaele, 32, 45.
Ismaele, v. Melo.
Ismaele, condottiero, II, 313.
Ismaele, fratello di Malek-Ascraf, III, 647.
Ismaeliani, II, 97, 102, 115, 116, 117, 118, 133, 198, 225, 234, 254, 647, 649.
Isma’il-ibn-Ali-ibn-Miksciar, II, 506.
Isma’il-ibn-Gia’far, alida, II, 116, 119, 132.
Ismail-ibn-Kelef-ibn-Sa’id-ibn-’Amrân (Abu-Tâher), II, 475, 476.
Isma’il-ibn-Mohammed, soprannominato Mansûr-biamr-Illah, califo fatimita, II, 201, 202, 205, 206, 207, 210, 234, 235, 237, 238, 243, 248.
Isma’il-ibn-Tabari, II, 208, 209, 211.
Israeliti, III, 291.
Istachael, v. Michele, re degli Slavi, II, 176.
Istakhri, XL, XLI.
Italiani, II, 137, 160, 175, 322, 328, 340, 380, 394, 398, 460; III, 30, 33, 34, 37, 41, 43, 52, 53, 145, 188, 217, 218, 259, 323, 357, 402, 522, 803.
Italia (d’) Giuseppe, III, 287, 288.
Italinski, XII.
Iûsuf-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Fotûh), emir kelbita di Sicilia, soprannominato Thiket-ed-dawla, XXXVII; II, 331, 332, 333, 334, 335, 336, 337, 342, 348, 350, 353, 354, 355, 376, 417, 421, 502, 518.
Iûsuf-ibn-Abd-el-Mumen, califo almohade (Abu-Ja’kûb), XLVI; III, 496, 515 a 518, 632.
Iûsuf-ibn-Ahmed-ibn-Debbâgh (Abu-Jakûb), II, 497.
Iûsuf-abu-l-Fotûh, soprannominato Seif-ed-dawla, v. Bolukkin-ibn-Ziri, II, 288.
Iûsuf-ibn-Caru, III, 206.
Iûsuf-ibn-Gennaro, III, 206.
Iûsuf, da Kâbes, III, 411, 412, 413, 415.
Iûsuf-ibn-Tasciufin, principe almoravide, III, 374, 375.
Iûsuf-ibn-Ziri (Abu-Heggiâg), III, 409.
K
Kabili, II, 292.
Ka’b-ibn-Zoheir, III, 758.
Kaddàh (el), II, 133, e v. Abd-Allah-ibn-Meimûn.
Kaderiti, II, 99.
Kafûr, II, 281, 284.
Kâhina, 119, 120, 126.
Kahtân, 31, 32, 40, 64, 66, 69, 135; II, 32, 37, 522, 526.
Kâim (el) -biamr-Illah, v. Mohammed-ibn-Obeid-Allah.
Kairouani, v. Ibn-abi-Dinâr.
Kais, tribù arabica, 128, 155; II, 52; III, 210, 212, 736.
Kaisân, II, 106.
Kaisaniti, II, 106.
Kaitbai, III, 836.
Kalesciani, II, 182.
Kallindin (di) Arrigo, III, 550, 561.
Karîma, figliuola di Ahmed-Marwazi, II, 482.
Karmati, II, 102, 116, 117, 118, 205, 278, 281, 286, 293, 312.
Kâsim-ibn-Hasan, kelbita, II, 314.
Kâsim-ibn-Nizâr (Abu-Mohammed), II, 538.
Kâsim-ibn-Thâbit, di Saragozza, II, 481.
Katifi, III, 715.
Kattâni, v. Mohammed-ibn-abi-Fereg.
Kazwini, L.
Kelaûn, LVI; III, 323, 650, 653, 807, 836.
Kelb, tribù arabica, 135; II, 32, 191, 202, 233, 234, 290, 366, 364, 488.
Kelbiti, dinastia di Sicilia, II, 37, 226, 227, 234, 235, 238, 239, 240, 290 a 292, 308, 330 a 332, 338, 343, 351, 369, 372, 374, 400, 420, 421, 424, 427, 428, 456, 476, 481, 497, 502, 516, 519, 520, 537, 538; III, 85, 350, 394, 665, 841, 849, 851.
Kerni, o Kereni, II, 464.
Khadigia, 50.
Khafâgia-ibn-Sofian, 340, 341, 343, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351, 360.
Khaira (?), supposto avolo del conte Ruggiero (Ugo, Geir, Haby, Habwu?), III, 39.
Khâled-ibn-Abd-Allah-el-Kasri, III, 827.
Khâled-ibn-Iezîd-ibn-Moa’wia, II, 99.
Khâled-ibn-Walîd, 60, 73, 122.
Khalf ( corr. Khelef) -ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-Koleib, II, 142.
Khalfûn, liberto di Rebi’a, 360, 361.
Khalfûn-ibn-Ziâd, 351, 360.
Khalîl-ibn-Ishak, il giurista, III, 484.
Khalîl-ibn-Ishâk-ibn-Werd (Abu-l-Abbâs), II, 188, 189, 190, 191, 194, 195, 196, 197, 199, 203, 204, 205, 213, 216, 351, 400.
Khalîl, preposto della “Quinta,” II, 145, 148.
Khalîl, sultano d’Egitto, III, 264.
Khamaruweih, III, 829, 835.
Khâregi, 127; II, 39, 102, 103, 104, 105, 113, 117, 139, 184, 197, 198, 201, 287, 546.
Kharezmii, III, 637, 638, 639, 647, 648.
Khattâb, II, 127.
Khorramii, II, 110, 114.
Kharsianiti, 333.
Khaulân, tribù arabica, II, 477.
Khawâf, II, 111.
Khelef-ibn-Ibrahim-ibn-Khelef, soprannominato Ibn-Hassâr, II, 478, 487.
Khidhr, il cadi, II, 455.
Kholûf-ibn-Abd-Allah, II, 477, 497, 542.
Khorassâni, II, 264.
Khorassaniti, II, 369.
Khozari, II, 365.
Kimâri, LIV.
Kinàna, tribù arabica, XLVI; 269, II, 32, 160, 539.
Kinda, tribù arabica, 84; II, 32, 526; III, 210.
Kirmani, III, 212.
Kirmit, v. Hamdân-ibn-Asci’ath.
Kirmiti, v. Karmati.
Kodama, III, 669.
Kodhâ’a, tribù arabica, XLII; II, 233, 336.
Kodhâ’i, XLII.
Kolthûm, 136.
Koreisc, tribù arabica, 47, 49, 50, 64; III, 211, 736.
Kos, XLV; 40, II, 513.
Kosegarten, 63.
Koseila, 115, 116, 117, 118, 126.
Kossai, 48, 49.
Kotâma, o Kutâma, tribù berbera, II, 36, 39, 40, 52, 53, 75, 76, 120 a 124, 128, 130 a 139, 142, 157, 159, 160, 168, 182, 183, 186, 202, 207, 233, 234, 281, 287, 289, 292, 293, 331, 332, 355, 421; III, 157, 211.
Krehl, LV.
Kutâma, v. Kotâma.
L
La Farina Martino, XLI.
Lakhm, tribù arabica, II, 516, 539; III, 210.
La Luce, III, 205, 875.
La Lumia Isidoro, III, 286, 287, 290, 299, 635, 774.
Lamberto, di Spoleto, 445, 447, 448, 451.
Lamtuna, tribù berbera, III, 373, 379.
Lanci Michelangelo, XXIV.
Lancias, cognome, III, 205.
Landemaro, 386.
Landolfo, calabrese, II, 408.
Landolfo, figliuolo d’Atenolfo, principe di Capua, II, 163, 164, 165, 166, 168, 170.
Landolfo, figliuolo di Pandolfo Capo di ferro, II, 313.
Landolfo, fratello di Pandolfo Capo di ferro, II, 312.
Landolfo, principe di Benevento, II, 153.
Landolfo, principe di Capua (982), II, 325.
Landolfo, vescovo di Capua, 435, 443, 462.
Landolfo II, vescovo di Napoli, 456.
Landone, figliuolo di Landone I, 452, 464.
Landone, figliuolo di Landonolfo, 452.
Landonolfo, 452.
Lane, III, 329.
Lascari, III, 203.
Lanza Pietro, XV, XXXV.
Lasinio Fausto, III, 706.
Latini, 42; II, 465; III, 142, 283, 296, 523, 538.
Latini Brunetto, III, 695.
Lavardino (di) Giovanni, III, 251.
Lebidi, 277.
Lee John, XXXVII, LV; II, 224, 510.
Lee Samuel, XXXV, XL, XLI, XLVI.
Lega Lombarda, III, 530, 610.
Legiati, III, 212.
Lello (Michele Del Giudice), xxix.
Le Monnier, XXXVI.
Leone Affricano, VIII, XXXVII, XXXIX; 104, 107, 121, 234, 235, 236; II, 267, 883.
Leone Apostippi, 439, 440.
Leone, arcivescovo di Tessalonica, II, 48.
Leone Foca, II, 262.
Leone III, imperatore, detto l’Isaurico, 96, 174, 180, 184, 207, 217, 220, 224, 250, 350, 491; II. 184.
Leone V (l’Armeno), 192, 193, 231, 491, 497, 502.
Leone VI (il Sapiente), 73, 243, 406, 415, 425, 471, 486, 518; II, 70, 79, 80, 86, 88, 163; III, 279.
Leone, logoteta, III, 347.
Leone Opo, II, 377, 381.
Leone, d’Ostia, 233, 458; III, 24, 31, 33.
Leone II, papa, 29.
Leone III, papa, 184, 190, 194, 192, 224, 230, 231.
Leone IV, papa, 366, 367, 389.
Leone IX, papa, III, 41, 42, 43, 44, 46, 47.
Leone X, papa, 234.
Leone, schiavo, figlio di Malacrino, III, 234.
Leone, spatario, 191.
Leone, spatario e logoteta, 213.
Leone, da Tripoli di Siria, II, 88, 89.
Leone, vescovo di Catania, II, 402.
Leone, vescovo di Sicilia, II, 172, 214, 402, 405.
Leone, vescovo di Tessalonica, 503.
Leonzio, prefetto, 243.
Letronne, 8.
Lewâta, tribù berbera, II, 32, 37, 52; III, 211.
Lewati, III, 211.
Libertino, 15, 28.
Liguri, 196; III, 423.
Lipari (abate e vescovo di), III, 276, 356, 363.
Liutprando, re, 158, 182.
Liutprando, scrittore, II, 214, 262.
Lodovico I, imperatore, 232; III, 47.
Lodovico II, imperatore, 365, 367, 369, 370, 373, 376, 377, 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 387, 388, 389, 393, 433, 435, 436, 437; III, 107.
Lodovico II, re di Francia, detto il Balbo, 451, 453.
Lodovico VII, re di Francia, III, 433, 434, 435, 498.
Lodovico IX, re di Francia, III, 630, 631, 638, 653.
Lokmàn-ibn-Jûsuf (Abu-Sa’îd), II, 222.
Longobardi, 12, 22, 23, 24, 26, 76, 94, 178, 184, 185, 217, 313, 355, 369, 374, 380, 381, 393, 408, 438; II, 32, 162, 163, 168, 169, 240, 251, 322, 337, 372, 385; III, 5, 23, 183, 223, 319, 391, 398.
Longpérier (de) Adriano, III, 792, 797, 812.
Loreto (marchese di), III, 199.
Loria Ruggiero, III, 357, 358, 831.
Lotario I, imperatore, 238, 368.
Lotario II, imperatore, III, 395, 397, 398.
Luca, vescovo, 292.
Luce, casato, III, 205.
Lucio, governatore di Sicilia, 219.
Lucrezio, 42; II, 101.
Lucullo, II, 90.
Lupino, III, 167.
Lupo, II, 565.
Lupo, protospatario, III, 24, 33.
Lutero, III, 559.
Luynes (duca di), XXII, XXX; 311; III, 202.
M
Ma’ad-ibn-Isma’il (Abu-Tamim), v. Mo’ezz-li-dîn-illah.
Mabillon, 102, 103.
Macedoni, dinastia bizantina, II, 41, 153.
Machiavelli, LIV; II, 52, 176.
Macri Domenico, X, XLIV.
Macrojoanni, II, 244.
Madiûna, tribù berbera, II, 36.
Madonna dello Naupactitesse, confraternita, II, 298.
Maffei Annibale, II, 453.
Maffei Scipione, II, 453.
Magadèo (Ibn-Mogêhid?), III, 580.
Magded (Ibn-Mogêhid?), III, 580.
Maggio Francesco Maria, IX.
Maghâga, tribù berbera, II, 36.
Magi, II, 106, 108, 109, 112, 115, 261.
Magiari, II, 162, 169.
Magonza (arcivescovo di), III, 544.
Mahdi, califo abbasida, II, 112, 113; III, 816.
Mahmûd-ibn-Khafâgia, 344.
Mai, XXIII, XLIII.
Maimon, gaito, III, 264, 378, 379.
Maimonide, v. Musa-ibn-Meimûn.
Mainieri, di Acerenza, III, 177, 178.
Majone, III, 217, 232, 356, 360, 466, 482, 483, 484, 485, 493, 607.
Maisar, 127.
Makhlûf, III, 650.
Mâkkâri, LV.
Makrizi, LIV; III, 832, 833, 834, 846, 893.
Malaceno, II, 245.
Malacrino, III, 234.
Malaterra Goffredo, III, 23, 24, 33.
Malati, III, 212.
Maleditto Guglielmo, III, 291.
Maledotto, casato, III, 221.
Malek-Adel, III, 634, 635.
Malek-ibn-Anas, 149, 150, 151, 253, 256, 474; II, 12, 23, 220, 222, 371.
Malek-Ascraf, III, 639, 640, 647, 648, 649.
Malek-Kâmil, III, 634, 636, 637, 638, 639, 640, 641, 642, 643, 644, 645, 646, 647, 648, 649, 650, 651, 692.
Malek-Mansûr, XLVI; II, 521.
Malek-Mes’ûd, III, 641.
Malek-Mo’azzam, III, 634, 637, 638, 639.
Malek-Nâsir, III, 639, 647.
Malek-Salih, III, 492, 647, 653.
Malek-Sciah, III, 520.
Malekiti, giuristi, II, 335; III, 716.
Malgerio, conte di Capitanata, III, 45.
Malgerio, figliuolo del conte Ruggiero, III, 195.
Malgerio, nobile siciliano, III, 580, 581.
Maloto, III, 7, 9.
Malta (da) Paólino, III, 788.
Maltzan (barone di), III, 831.
Mamuca, 101, 102, 103.
Mamûn, califo abbasida, LIV; 226; II, 100, 466, 505, 623, 624, 674.
Manca Filippo, III, 208.
Mandralisca (barone di) III, 822.
Manfredi, re di Sicilia, XXXVIII: II, 347; III, 266, 594, 654, 690, 698, 707, 711, 712.
Manfredo, marchese aleramida, III, 199, 200.
Mani, 138; II, 109.
Maniace Giorgio, VII; II, 346, 376, 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 385, 386, 387, 388, 389, 390, 391, 392, 395, 410, 415, 416, 417, 418, 422, 423, 487, 517; III, 30, 31, 34, 39, 56, 327, 843.
Manichei, 27, 510; II, 109, 110, 111, 113, 117.
Mansûr, v. Isma’il-ibn-Mohammed.
Mansûr. v. San Giovanni Damasceno, II, 100.
Mansûr, califo abbasida, II, 112; III, 840.
Mansûr, figliuolo di Bolukkin, II, 355, 356, 362.
Mansûr, v. Hâkem-biamr-illah.
Mansûr-ibn-Nâsir-ibn-’Alennâs, II, 529, 530.
Mansûr Tonbodsi 155, 156, 257, 295.
Manuele Foca, II, 213, 214, 262, 264, 266, 267, 271, 273, 382, 413; III, 56.
Maometto, XLI, XLV, XLVII, LI; 30, 43, 44, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 62, 63, 68, 70, 81, 101, 472, 482, 483; II, 13, 14, 15, 16, 74, 105, 107, 117, 132, 136, 229, 231, 233, 235, 269, 280, 436, 453, 454, 456, 460, 461, 478, 484, 492, 493, 495; III, 1, 49, 436, 462, 470, 532, 534, 644, 647, 701, 702, 724, 727, 729, 732, 758.
Marabuti, II, 38; III, 374.
Maracava Niccolò, III, 288.
Maraldo, III, 196.
Marangone, XXIX.
Marano, gaito, III, 447.
Marcel, III, 834.
Marchia (de) Angelo, III, 688.
Marchisi, casato, III, 221.
Marcioniti, II, 109.
Marcualdo, o Marqualdo, v. Anweiler (de).
Mardaiti, 401, 413, 414.
Margam-ibn-Sabir, III, 627.
Mario, II, 90.
Margarito, da Brindisi, detto Margaritone, XLVI; III, 523 a 529, 534, 558, 607.
Margherita, regina di Sicilia, III, 256, 493, 495, 498.
Mari (de) Ansaldo, III, 357.
Maria, martire, 45.
Maria, figliuola di Teofilo, 297.
Mariano Argino, II, 250, 251, 252.
Maringo Giambattista, II, 298.
Marino, duca d’Amalfi, 386.
Maris, Marisc o Marîsh, II, 211.
Marocco (re di), III, 379.
Maroniti, XLIV; II, 405, 681.
Marozia, II, 160.
Marrekosci, v. Abd-el-Wàhid.
Marsden, XXIV; III, 450, 816
Marilnez Marco Antonio, II, 303, 304.
Martino, gaito, III. 263, 489.
Martino I, papa, 77, 78, 79, 84, 89, 91, 94, 96.
Masmuda, tribù berbera, III, 622.
Masmudi, v. Almohadi.
Massar, 368, 370.
Mas’ûdi, XL; III, 669.
Matilde (la contessa), III, 143, 191.
Matilde, figliuola del conte Ruggiero, III, 195.
Matranga, XXXIV, XLIII; 489.
Matteo, arcivescovo di Capua, III, 568.
Matteo, notaro, III, 324.
Matthews, 63.
Maugerio, III, 38.
Maurizio, imperatore, 76.
Maurolico, 495; II, 59.
Mawerdi, XXVIII.
Mawkifi, Mohammed e Abu-l-Farag, II, 521, 522.
Mazari, v. Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-Mohammed, e Mohammed-ibn-Mosallim.
Mazdak, 74, 138; II, 109, 110, 111, 112, 113.
Mazdakiani, II, 110, 112, 117.
Me’àfir, tribù arabica, II, 541; III, 210.
Medini, casato, III, 212.
Medkur, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkut.
Megber-ibn-Mohammed-ibn-Megber, II, 522, 523.
Mehdi, almohade, v. Mohammed-ibn-Tumert.
Mehdi, fatimita, v. Obeid-Allah.
Meimûn-ibn-Amr (Abu-’Amr), cadi, II, 222, 225.
Meimûn, capitano d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 53, 54.
Meimûn, carnefice d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 60, 61.
Meimûn-ibn-Ghania, II, 415.
Meimûn. figlio di Hosein, da Palermo, III, 256.
Meimûn(Abu-Mohammed), III, 377.
Meimûn-ibn-Mohammed-ibn-Meimûn, III, 378.
Meimûn-ibn-Musa, II, 185, 186.
Meimuna, figlia d’Hassân-ibn-Ali, Hodseilita, III, 213, 751.
Meimuna, figlia di Hawwasci, II, 418, 549, 550.
Meklata, tribù berbera, II, 37, 421; III, 212.
Meledio, III, 97, 101.
Meles, III, 291.
Melfi (casato), III, 211.
Meli, XII.
Melo (Ismaele), II, 342; HII, 22, 25, 26, 27, 29, 30, 53, 799.
Menelao supposto re di Sicilia, VII.
Menkûr, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.
Mercator, III, 678.
Merinidi, LIII
Merlo Giovanni, XXXV.
Merwan, II, 99.
Mesciti, casato, III, 205, 875.
Mesrata, tribù berbera, III, 212.
Messala, III. 817.
Messia, II, 106, 128.
Messina (archimandrita di), III, 309, 337, 525.
Messina (arcivescovo di), III, 245, 256, 286, 308, 321, 441, 580.
Messina (da) Bartolommeo, III, 707.
Messina (da) Giovanni, III, 532.
Messina (da) Stefano, III, 690.
Mes’ûd, II, 171.
Mes’ûd Bâgi, II, 66.
Mes’ûd Koresci, III, 256.
Mes’ûdi, III, 212.
Metkud, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.
Metodio, 20, 220, 496, 497, 498, 499, 502, 503.
Meursius, 73.
Meziza, tribù berbera, II, 35.
Miceli Dionisio, III, 605.
Michele, ammiraglio, 428.
Michele, capitano in Calabria, 517.
Michele Characto, II, 79.
Michele Doceano, il Fusaiolo, II, 381, 390, 392, 393; III, 30, 31, 32, 33.
Michele, governatore di Palermo, 248.
Michele I, imperatore, detto Rangabe, 192, 227, 498.
Michele II, detto il Balbo, 164, 193, 194, 220, 239, 242, 243, 245, 250, 251, 252, 274, 281, 287, 288, 494, 497.
Michele III, imperatore, 332, 338, 341, 501, 503, 506; II, 48.
Michele IV, imperatore, detto il Paflagone, II, 379, 384, 393.
Michele V, imperatore, detto Calafato, II, 384, 394.
Michele VII. imperatore. III, 144.
Michele, medico, III, 868.
Michele, padre di Giorgio, d’Antiochia, III, 361.
Michele, patrizio di Sicilia, 190.
Michele, re degli Slavi, II, 176. Per errore Istachael, ivi.
Micheret de Iatino, III, 264.
Midrariti, 129.
Miknas o Miknasa, tribù berbera, II, 36.
Milanesi Carlo, III, 700.
Minimi di San Francesco di Paola. III, 120.
Miniscalchi, XXXIV, XLIII; III, 368.
Minoartino, casato, III, 221.
Mirabetto, III, 597, 600.
Mir-’Abs, v. Mirabetto.
Mizize, 96, 98.
Mo’aiti, v. Abu-Abd-Allah-el-Mo’aiti.
Mo’àwia-ibn-abi-Sofiân, califo omeiade, 62, 69, 80, 81, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 99, 113, 127, 473; II, 103; III, 827.
Mo’âwia-ibn-Hodeig, 84, 88, 90, 99, 113.
Mobascer, III, 376.
Modhar, ceppo di tribù arabiche, 109, 143, 158, 340; II, 233.
Modica (di) Gualtiero, III, 518, 519.
Moëller, XXIV, XL.
Mo’ezz-ibn-Badîs, II, 39, 359, 360, 363, 364, 366, 368, 374, 376, 378, 385, 397, 417, 418, 419, 423, 492, 500, 501, 518, 519, 547, 548, 550, 551; III, 13, 79, 80, 81, 82, 92, 93.
Mo’ezz-li-dîn-illah (Ma’ad-ibn-Isma’il, Abu-Tamim), califo fatimita, II, 39, 237, 238, 249, 254, 256, 257, 258, 259, 260, 262, 263, 267, 269, 272, 274, 275, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 310, 312, 313, 322, 330, 355, 364, 456, 459; III, 851.
Moferreg-ibn-Sâlem, 371, 372, 373, 374, 375, 377, 380, 436.
Moferreg (Abu-Abd-Selem), 420, 421; II, 226, 229.
Mogber-ibn-Ibrahim-ibn-Sofiân, 426, 427, 428.
Mogêhid-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Geisc), soprann. Amiri (Musetto), III, 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 169, 375, 518.
Mogêhid, v. Magadeo.
Mogehiditi, III, 376.
Mogheira, 61.
Mogir-ed-dîn, III, 720, 721.
Mohammed..., II, 211.
Mohammed..., II, 522.
Mohammed (Abu-Bekr), II, 511.
Mohammed-ibn-Abd-Allah (VII secolo), 100.
Mohammed-ibn-Abd-Allah (XII secolo), III, 371.
Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-Abd-Allah), II, 488.
Mohammed-ibn-Abd-Allah(Abu-Bekr), II, 478, 542.
Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab (Abu-Fihr), 231, 232, 292, 295, 296, 299, 301, 320.
Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Iûnis (Abu-Bekr), II. 486, 487, 499.
Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Mesarra-ibn-Nagîh, II, 101.
Mohammed-ibn-Abd-el-Aziz-ibn-Meimûn, III, 379, 476.
Mohammed-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdis (Abu-Hascim), II, 528, 535.
Mohammed-ibn-Abdûn, II, 210.
Mohammed-ibn-’Abdûn, da Susa, II, 334, 335.
Mohammed-ibn-Aghlab, 340, 341, 391.
Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Aghlab, 372, 384, 389, 390, 393; II, 46.
Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, detto il Siciliano, II, 226.
Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Korhob, II, 150, 151, 156.
Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Temîm (Abu-l-Arab), XLII.
Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr (Abu-Bekr), II, 540.
Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ, III, 752.
Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abd-el-Berr (Abu-Bekr), II, 504, 505, 506, 507.
Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-Mohammed, detto Mazari e Temîmi (Abu-Abd-Allah), II, 483, 484, 485, 486, 488.
Mohammed-ibn-Ali, Sciarfi, 168.
Muhammed-ibn-Ali-ibn-Sebbâgh (Abu-Abd-Allah), il Segretario, II, 501, 515, 519.
Mohammed-ibn-Ali (Abu-Tâher), da Bagdad, II, 492.
Mohaiumed-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 115.
Mohammed-ibn-Asci’ath, II, 204.
Mohammed-ibn-Attar (Abu-Abd-Allah), II, 516, 541.
Mohammed-ibn-Aus, 171.
Mohammed-ibn-abi-Bekr-ibn-Abd-er-Rezzâk (Abu-Abd-Allah), III, 736.
Mohammed-ibn-abi-Edrîs, 171.
Mohammed-ibn-Fadhl, 421, 422, 423, 429, 431.
Mohammed-ibn-abi-l-Fadhl, III, 737.
Muhammed-ibn-Fâs, II, 454.
Mohammed-ibn-abi-Fereg-ibn-Fereg-ibn-abi-l-Kâsim, Kattâni (Abu-Abd-Allah), II, 498, 499.
Mohammed Gebasût, III, 206.
Mohammed-ibn-Genâ, II, 210.
Mohammed-ibn-el-Gewari, 276, 284, 297.
Mohammed-ibn-Haiûn (Abu-Abd-Allah), II, 476.
Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali, di casa kelbita, II, 191, 330, 333.
Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali-Rebe’i (Abu-Bekr), II, 488.
Mohammed-ibn-Hasan — ibn-Kereni (Abu-Abd-Allah), II, 464, 542.
Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Tazi(Abu-Abd-Allah), II, 471, 511.
Mohammed-ibn-Hamw, II, 187.
Mohammed-ibn-Haukal (Abu-l-Kasim), II, 294, 295, v. Ibn-Haukal.
Mohammed-ibn-Hosein-ibn-Kerkudi (Abu-l-Feth), II, 515.
Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi (Abu-Gia’far), II, 224.
Mohammed-ihn-abi-Hosein, 353, 390.
Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Musa (Abu-Bekr), II, 480, 493.
Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, soprannominato El-Kâdir-billah, II, 418, 420, 421, 422, 548 a 552; III, 60, 62, 63, 65, 70, 71, 72, 73, 74, 76, 77, 78, 79, 80, 82, 86, 87, 93, 109, 117, 162, 218, 266, 308, 326.
Mohammed, cugino d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 75.
Mohammed-ibn-Iezid, 171.
Mohammed-ibn-Isa-ibn-Abd-el-Mon’im (Abu-Abd-Allah), III, 689, 690, 748.
Mohammed-ibn-Ishak, III, 514.
Mohammed-ibn-abi-Ishak-ibn-Giâmi’, III, 496.
Mohammed-ibn-Isma’il-ibn-Gia’far, alida, II, 116.
Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid (Abu-Abd-Allah), II, 516, 539.
Mohammed-ibn-abi-l-Kâsim (Abu-Abd-Allah), III, 736.
Mohammed-ibn-Khafâgia, 345, 347, 349, 350, 352, 353, 378, 390, 391.
Mohammed-ibn-Khorassân (Abu-Abd-Allah), II, 224, 225, 496.
Mohammed-ibn-Korhob, II, 52.
Mohammed-ibn-Mansûr, Sem’àni, II, 498, 499.
Mohammed-ibn.... v. Mawkifi.
Mohammed-ibn-Meimûn, III, 378.
Mohammed-ibn-Mekki-ibn-abi-d-Dsikr, III, 736.
Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Edrîs (Abu-Abd-Allah), v. Edrîsi.
Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Mohammed, soprannominato Fakhr-ed-din, III, 737.
Mohammed-ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer (Abu-Hascim), XLIV; III, 541, 714, 715, 716, 717, 718, 720, 721, 722, 723, 724, 725, 726, 727, 729, 730, 731, 733, 734, 735, 737.
Mohammed (Abu-Mohriz), 154, 255, 256, 259, 296.
Mohammed-ibn-Mokâtil, 145.
Mohammed-ibn-Mosallim, Mazari (Abu-Abd-Allah), II, 486; III, 735.
Mohammed-ibn-Obeid-Allah (Abu-l-Kàsim), soprannominato El-Kaimbiamr-illah, 235; II, 133, 135, 179, 180, 181, 188, 195, 196, 199, 200, 201, 202, 205, 234, 237; III, 260.
Mohammed Pacione, III, 206.
Mohammed-ibn-Rescîd, III, 414, 413, 472.
Mohammed-ibn-Sâbik (Abu-Bekr), II, 482, 494.
Mohammed-ibn-Sados (Abu-Abd-Allah), II, 512, 542.
Mohammed-ibn-Sahl (Abu-Bekr), detto Rozaik, II, 515, 537.
Mohammed-ibn-Sâlem, 299.
Mohammed-ibn-Sâlem, soprannominato Gemàl-ed-dîn, XXXVIII.
Mohammed-ibn-Sarcusi, II, 140, 146.
Mohammed Scîli, II, 493.
Mohammed-ibn-abi-Se àda, II, 453.
Mohammed-ibn-Sehnûn, 277.
Mohammed-ibn-Sindi, 302; II, 34.
Mohammed-ibn-Sirîn, 56.
Mohammed-ibn-Tûmert, detto il Mehdi, II, 485.
Mohammed-ibn-Ziadet-Allah, II, 58.
Mohibb-ed-dîn-ibn-Niggiâr, II, 491.
Mohl, XLVI.
Mohriz-ibn-Ziâd, III, 412.
Moisè, maestro, III, 868.
Moisè, III, 701.
Moisè, di Corene, 105.
Mokaddesi, v. Abu-Sciâma.
Mokanna, II, 112, 115.
Mokhalled-ibn-Keidâd (Abu-Iezîd), II, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 205, 206, 207, 229, 237, 287.
Moktader-billah, califo abbasida, II, 149, 150.
Moktader-billah, principe di Saragozza, III, 375.
Moloch, 101.
Mombeilard (conte di), III, 199.
Mombrai (di) Ruggiero, III, 347.
Mo’mir, figliuolo di Rescîd, III, 411, 412, 413.
Mondsir, re di Hira, 76.
Mongitore, XXIX.
Monoteliti, 76, 77, 95, 96, 180.
Montano, schiavo di San Gregorio, 202.
Monti Vincenzo. III, 884.
Montpellier (conte di), III, 376.
Morgii, II, 99.
Mori o Mauri, 104, 106, 228; III, 40, 57, 58.
Moriella, III, 39, 270.
Moroleone, II, 251.
Morra, tribù arabica, II, 267.
Morso, XIII, XIV, XVII, XXIII, XXIV; III, 878.
Mortain (di) Pietro, III, 178.
Mortillaro, XV, XVI, XXIII, XXIV, XXV; 284, 321; II, 6, 456 segg.; III, 343, 812.
Mos’ab-ibn-Mohammed-ibn-abi-Forât (Abu-l-Arab), II, 524, 525, 543.
Moscerif-ibn-Râscid (Abu-l-Fadhl), II, 520, 544.
Moslim, il Tradizionista, II, 483.
Mostanîr-ibn-Habbâb, 172.
Mostanser-billah (Abu-Temîm), califo fatimita, II, 456.
Mostanser-billah, principe hafsita di Tunis (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid, soprannominato), XLIX; III, 631.
Mo’tamid-ibn-Abbâd, II, 524, 525, 527, 528, 529, 530, 535.
Mo’tasem, principe d’Almeria, II, 535.
Mo’tadhed-billah, califo abbasida, II, 58, 74, 75, 76.
Mo’tadhed-billah, di Siviglia, v. Abbâd-ibn-Mohammed.
Motazeliti, II, 98, 99, 105.
Motenebbi, II, 334, 365, 509, 512, 513, 535.
Mowahhidi, v. Almohadi.
Motewakkel, califo abbasida, XL; 327, 360.
Moura, LI.
Mowalled, spagnuoli, II, 371.
Mozaffer, II, 488.
Mukhlûf, III, 262.
Munch P. A., II, 383.
Muratori, XXVIII, XXIX, XLVII, LV.
Muriella, III, 39.
Musa-ibn-Giâfar, alida, II, 116.
Musa-ibn-Abd-Allah, II, 494.
Musa-ibn-Ahmed (Abu-Sa’îd) soprannominato Dhaif, II, 156, 157, 159, 160, 182, 190.
Musa-ibn-Asbagh, Morâdi, II, 496.
Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, III, 669.
Musa-ibn-Meimûn, detto Maimonide, III, 705.
Musa-ibn-Noseir, 122, 123, 124, 125, 131, 166, 167, 168, 169, 170, 178; II, 4.
Musa Santagat, III, 246.
Musetto e Mugeto, v. Mogêhid-ibn-Abd-Allah.
Mussufa, tribù berbera, III, 518.
Musulice, stratego, 416, 420.
Musulmani, XL, XLV, L, LIV; 52, 53, 54, 56, 59, 63, 64, 70, 73, 75, 78, 80, 81, 82, 87, 88, 89, 90, 92, 95, 96, 97, 98, 99, 101, 102, 129, 139; II, 41, 42, 48, 53, 61, 65, 67, 70, 71, 74, 75, 78, 81, 82, 85, 89, 91, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 111, 117, 118, 119, 120, 144, 146, 149, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 175, 180, 193, 205, 206, 213, 216, 217, 228, 229, 236, 238, 239, 240, 242, 245, 247, 248, 250, 251, 252, 253, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 263, 264, 266, 268, 269, 271, 273, 276, 286, 290, 295, 299, 300, 301, 302, 305, 309, 310, 312, 314, 315, 316, 319, 322, 323, 327, 328, 330, 335, 336, 338, 339, 340, 341, 342, 347, 353, 364, 365, 367, 370, 371, 372, 377, 378, 382, 387, 388, 392, 393, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 402, 404, 406, 407, 409, 412, 415, 417, 419, 422, 423, 427, 435, 436, 443, 445, 449, 450, 452, 455, 461, 477, 479, 484, 485, 492, 493, 494, 496, 505, 521, 527, 544, 545; III, 1, 2, 3, 4, 6, 7, 9, 12, 13, 14, 25, 28, 54, 55, 58, 60, 64, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 73, 74, 80, 85, 86, 90, 91, 92, 93, 95, 97, 102, 105, 106, 109, 112, 113, 117, 121, 122, 125, 127, 129, 132, 135, 136, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 162, 163, 164, 167, 169, 170, 172, 176, 178, 180, 181, 182, 186, 187, 188, 189, 190, 194, 200, 208, 217, 218, 228, 236, 242, 248, 253, 254, 255, 256, 262, 265, 267, 269, 270, 281, 285, 291, 293, 297, 298, 300, 303, 305, 308, 318, 324, 329, 334, 335, 338, 345, 348, 349, 350, 358, 359, 360, 365, 367, 374, 377, 382, 383, 388, 392, 396, 400, 402, 409, 411, 416, 417, 418, 420, 424, 431, 434, 438, 442, 443, 446, 447, 464, 465, 468, 469, 472, 473, 477, 478, 482, 484, 485, 486, 487, 488, 498, 499, 500, 501, 505, 506, 508, 509, 510, 511, 520, 523, 528, 531, 532, 533, 534, 535, 536, 537, 538, 543, 546, 547, 550, 551, 553, 555, 557, 572, 573, 574, 575, 576, 577, 578, 579, 580, 583, 584, 585, 586, 587, 588, 591, 592, 593, 595, 597, 598, 602, 603, 606, 609, 613, 614, 616, 919, 925, 626, 628, 633, 638, 642, 644, 645, 646, 648, 654, 655, 668, 673, 681, 686, 689, 704, 711, 714, 715, 716, 722, 723, 729, 733, 734, 754, 767, 768, 778, 779, 780, 788, 790, 795, 796, 797, 799, 803, 816.
Musulmano Impero, II, 100, 105, 106, 108, 110, 118, 462.
Muzaito, III, 12, Musetto, v. Mogêhid.
Muzalone Giovanni, II, 153.
N
Nabatei, II, 447.
Nabili, III, 212.
Nahd, tribù arabica, II, 522.
Napoli (casato), III, 843, 849.
Napoli (duca di), III, 393.
Narbona (visconte di), III, 376.
Narducci Enrico, III, 884.
Nasar, 393, 413, 414, 415, 416, 422, 439, 516.
Nâsir, califo almohade, III, 622.
Nâsir-ed-dawla-ibn-Hamadân, II, 521.
Nasr-ibn-Ibrahim (Abu-l-Feth), II, 100.
Nasrûn-ibn-Fotûh-ibn-Hosein, Kherezi, II, 506.
Nazardino o Zefedino, III, 634.
Nazareni, III, 576.
Nefûsa, tribù berbera, II, 57.
Nefzâwa, tribù berbera, 156; III, 212.
Negri, 408; II, 32, 137, 168, 196, 217, 292, 351, 362, 385; III, 373, 447, 506.
Negro, v. Abu-Nottâr.
Nekkariti, II, 139, 197, 198, 200, 202, 287.
Nerone, 16.
Nessel (de) Daniele, 507.
Newâwi, XLIX.
Niccolò, ambasciatore bizantino, II, 279, 280, 313.
Niccolò, ammiraglio, III, 356.
Niccolò, camarlingo, III, 347.
Niccolò, figliuolo di Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Niccolò, detto Farrâsc, III, 262.
Niccolò, di Filippo, III, 208.
Niccolò Logoteta, III, 262.
Niccolò, monaco, II, 219.
Niccolò I, papa, 500, 501.
Niccolò II, papa, III, 44, 47, 48, 49.
Niccolò, protonotario, III, 416.
Niccolò, di Vitale, III, 209.
Niceforo Callistio, 76.
Niceforo Foca, 424, 425, 440, 441, 461; II, 42.
Niceforo, governatore di Nauplia, II, 367.
Niceforo I. imp., 191; II, 403.
Niceforo (Foca) II, imp., II, 174, 253, 259, 260, 261, 262, 263, 268, 273, 278, 279, 280, 281, 310, 311, 312, 313, 322, 323.
Niceforo, maestro, II, 313.
Niceforo, patriarca, 497.
Niceforo, vescovo di Mileto, II, 264.
Niceta, 350.
Niceta Davidde, 420.
Niceta, eunuco, II, 279.
Niceta, moglie di Niccolò, figliuolo d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Niceta Orifa (an. 871-880), 378, 379, 380, 413, 425, v. Orifa.
Niceta, patriarca, v. Ignazio, 498.
Niceta, patrizio di Sicilia, 190; II, 184.
Niceta, protospatario, II, 261, 264, 271, 272.
Niceta, da Tarso, 405.
Nicholson, XLI.
Nicodemo, arcivescovo di Palermo, II, 396, 402; III, 130, 131.
Nicola-ibn-Leo, III, 205.
Nicola Nomothetis, III, 205.
Nilo Doxopatro, III, 460, 461, 661.
Nilo, monaco, II, 391, 411, 444, 446.
Ninfa, madre di Giorgio, d’Antiochia, III, 255.
Nizâr, tribù arabica, II, 488.
Nizâmiti, II, 99.
No’man, re di Hira, III, 893.
Norandino, XLV, XLIX; III, 462, 505, 520, 522, 529, 718 a 721, 723, 764.
Nordbrikt, II, 384.
Normanni, II, 64, 193, 300, 301, 344, 372, 380, 382, 388, 389, 392, 394, 395, 396, 398, 399, 401, 402, 403, 416, 417, 421, 422, 428, 436, 451, 452, 458, 460, 488, 513, 524, 527; III, 12, 15, 16, 18, 19, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 38, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 49, 52, 53, 54, 55, 56, 61, 62, 63, 64, 65, 68, 69, 73, 75, 77, 78, 79, 81, 83, 84, 86, 87, 90, 91, 93, 94, 96, 98, 99, 100, 104, 107, 108, 109, 110, 111, 113, 114, 115, 116, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 127, 128, 129, 130, 133, 136, 145, 148, 149, 152, 155, 162, 163, 164, 165, 174, 177, 200, 207, 209, 213, 222, 233, 253, 254, 268, 276, 299, 309, 326, 327, 328, 335, 339, 341, 350, 367, 394, 398, 406, 414, 458, 517, 554, 656, 772, 780, 812, 821, 853, 854.
Normanni, dinastia di Sicilia, XXXI, L, LIV; 443; III, 298, 335, 381, 460, 867, 889.
Notari, casato, III, 205, 875.
Nowairi, XIV, XIX, XX, XXVII, LI.
Nûr-ed-dîn (Mahmûd-ibn-Zengui, soprannominato), v. Norandino.
Nûri, sufita, II, 480.
O
Obeid-Allah-ibn-Habâb, 172, 173.
Obeid-Allah, detto il Mehdi, primo califo fatimita, v. Sa’îd-ibn-Hosein, II, 118, 120, 132 a 139, 141 a 146, 150, 151, 154 a 156, 159, 160, 168, 170, 173, 174, 176, 179, 182, 183, 188, 225, 234, 237, 242, 456; III, 404.
’Obeida-ibn-Abd-er-Rahman, 135, 171 a 173.
Obeiditi, v. Fatimiti, II, 132.
Oca Filadelfo, II, 291.
Occidente (impero di), III, 5, 26, 40, 144.
Occimiano (marchesi di), III, 199.
Oddone, lombardo, III, 224, v. Odone e Otone.
Odenato, 31.
Odilone, abate di Cluny, III, 13.
Odin, II, 512; III, 15, 16, 18.
Odoacre, 11, 12; II, 90.
Odone, duca, II, 325.
Offamilio Bartolommeo, III, 568.
Offamilio Gualtiero, III, 256, 502, 503, 530, 531, 542, 545, 563.
’Okba-ibn-Heggiâg, 174
’Okba-ibn-Nafi’, 100, 113, 114, 116, 117, 123, 129, 137, 173.
Okley, 85.
Olaf, re di Norvegia, II, 384, 385, 386.
Olga, II, 385.
Olimpio, esarco, 78, 79, 84, 89, 90.
Oma-er-Rahman, II, 454.
Omar-ibn-Scio’aib-el-Belluti (Abu-Hafs), 162.
Omar il Grande, LII; 56, 57, 60, 62, 64, 65, 66, 67, 68, 70, 71, 79, 80, 81, 109, 134, 476, 477, 478; II, 17, 18, 26, 30, 105, 123, 279, 359, 360, 623, 645; III, 826, 855.
Omar-ibn-Abd-Allah (Abu-Hafs), II, 516, 536.
Omar-ibn-Abd-el-’Azîz, califo omeiade, III, 828.
Omar-ibn-Ali, da Siracusa, II, 511, v. Othman-ibn-Ali.
Omar-el-Bellûti (Abu-Hafs), 162, 163, 164.
Omar-ibn-Crisobolli, III, 206.
Omar-ibn-Fulfûl (Abu-Hafs), III, 423.
Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), contemporaneo di re Ruggiero, III, 462, 758.
Omar-ibn-Hasan-ibn-Setabrîk (Abu-Hafs), II, 540.
Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), spagnuolo, II, 523.
Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), (Ibn-Kuni?), II, 498.
Omar-ibn-Hasan-ibn-Kûni (Abu-Hafs), II, 464, 511.
Omar-ibn-abi-l-Hasan-Hosein-el-Forriâni, III, 419, 469, 470, 472, 473.
Omar-ibn-Hosein-et-Tamîmi, III, 256.
Omar-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid (Abu-Hafs), principe hafsita di Tunis, III, 631.
Omar-ibn-Iebia-ibn-Mohammed (Abu-Hafs), ceppo della dinastia hafsita, III, 622.
Omar-ibn-Ieîsc, da Susa, II, 498, 521.
Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki (Abu-Hafs), XLIX; II, 509, 513, 514.
Omar-ibn-Madî-Karîb, 73.
Omar-ibn-Scio’aib (Abu-Hafs), II, 376, 377.
Omâra-ibn-abi-l-Hasan, III, 506, 507.
Omeia, v. Abu-s-Salt.
Omeiadi, 62, 65, 69, 71, 119, 136, 138, 139, 140, 141, 144, 159, 226, 229; II, 97, 99, 107, 200, 210, 219, 283, 355, 358; III, 5, 337, 446, 662, 883.
Omero, 42; III, 207.
Omoniza, 240.
Onorio, imperatore, 200, 211.
Onorio I, papa, 77.
Onorio II, papa, III, 392, 393, 395.
Onorio III, papa, III, 600, 603, 635.
Orazio, II, 519.
Oreste, eunuco, II, 365, 367, 377.
Oriente (impero di), II, 338; III, 36, 40, 144, 162.
Orifa (an. 825), 164, 242, 243, v. Hiceta Orifa.
Orlando Diego, III, 300.
Ormondo, v. Drengot.
Orsello, di Baliol, III, 98, 99.
Orseolo Pietro, doge di Venezia, II, 341, 377.
Orso, figliuolo di Radelchi, 361, 379.
Orso, vescovo di Girgenti, III, 593, 594.
Ostrogoti, 12.
Othman-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-Abder-Rezzâk-ibn-Gia’far-ibn-Bescrûn-ibn-Scebîb, III, 759.
Othman-ibn-Abd-er-Rahman, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 751.
Othman-ibn-Affân, califo, 62, 69, 86, 87, 90, 109; II, 103, 453, 472, 473; III, 517.
Othman-ibn-Ali-ibn-Omar, da Siracusa (Abu-Amr), II, 476, 511, 542.
Othman-ibn-’Atik (Abu-Sa’îd), II, 535.
Othman, di Bari, 436.
Othman-ibn-Harrâr, II, 306.
Othman-ibn-Heggiâg (Abu-Omar), II, 489.
Othman-ibn-Jûsuf, Howari, III, 256.
Othman-ibn-Korhob, 295.
Othman-ibn-abi-Obeida, 172.
Othman, pellegrino, III, 236.
Otone o Oddone, capitano del conte Ruggiero, III, 156, 225.
Otone I, imperatore, II, 262, 263, 278, 311, 312, 321, 409; III, 199.
Otone II, imperatore, II, 308, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 344; III, 62.
Otone III, imperatore, II, 318, 338, 339; III, 47.
Otone IV, imperatore, III, 588, 589, 590, 800.
Otone, marchese aleramide, III, 199.
Ottomani, 264.
P
Pacione, cognome, III, 206, 875.
Pagani, 26; II, 442; 66, 101, 123, 131, 207, 574, 612.
Paladino, III, 635, v. Saladino e Malek-Adel.
Palata, 248, 258, 259, 266, 267, 268; II, 269.
Palear (de) Gualtiero, vescovo di Troja, III, 568, 569, 571, 572, 620.
Palermitani, II, 65, 66, 120, 121, 122, 124, 126, 130, 131, 140, 141, 142, 147, 158, 186, 190, 223, 306, III, 487, 793.
Palermo (arcivescovo di), III, 128, 137, 304, 474, 498, 502, 533, 543, 545, 565, 638, 641.
Palermo (Chiesa di), III, 238, 239, 247, 256, 275, 310, 312, 325, 328, 542, 565, 573, 588.
Palermo (clero di), III, 587.
Palermo (da) Giovanni, III, 692, 693, 694, 695.
Palermo (da) maestro Mosè, III, 697.
Palermo (da) Perrono, III, 628.
Palmer Riccardo, III, 217, 495, 502, 503, 531.
Panciroli Guido, III, 803.
Pandolfo Capo di ferro, II, 311.
Pandone, 360, 452.
Pandonolfo, 452, 455.
Panteisti, II, 98.
Paolo, diacono, 96, 99.
Paolo, ministro di Leone Isaurico, 217.
Paolo Orosio, II, 219; III, 659, 671.
Pari (corte de’) in Sicilia, III, 444.
Parti, 138.
Pasquale II, papa, III, 193.
Pasquale, stratego, II, 245.
Pasqualino Francesco, III, 203, 884, 885.
Paterini, III; 610.
Patricola Giuseppe, III, 794, 848, 856.
Patti (Chiesa di), III, 221, 305, 308, 338, 876.
Patti (di) Ansaldo, III, 57.
Patzinaci, 351; III, 434.
Pauliciani, 338, 440, 510, 511; II, 261, 392 394.
Pellegrino Cammillo, III, 46.
Pellissier et Rémusat, LVI.
Pepoli, di Trapani, III, 795.
Peranni Domenico, XXXV.
Perron, 152.
Pertz, XXVIII, XXIX.
Pharos, XLI.
Picingli Niccolò, II, 166.
Picone Giuseppe, III, 614, 884.
Pierio, 12.
Pier l’Eremita, III, 223.
Pietraszewschi, III, 450.
Pietro II, re d’Aragona, III, 583, 631.
Pietro, arcidiacono, III, 389.
Pietro, arcivescovo di Lipari, III, 276.
Pietro, diacono, 102; III, 76.
Pietro, eunuco, III, 481, 484, 489, 490, 493, 494, 495, 496, 497.
Pietro, gaito, III, 480, 481, 493 a 497.
Pietro, martire, 511.
Pietro, prete..., III, 256.
Pietro, siciliano, III, 697.
Pietro Siculo, vescovo degli Argivi, 507, 508, 509, 510, 511, 521.
Pietro, tesoriere della Chiesa di Palermo, III, 545.
Pietro il Venerabile, abate di Cluny, III, 414, 432, 440.
Pietro, vescovo di Tauriano, 231.
Pincinniaco (di) Guglielmo, III, 389.
Pipino, 182.
Pirro Rocco, XXIX; 18, 23, 28, 29.
Pisa (da) Adaleta, III, 796.
Pistona (da) Vitale, III, 288.
Pitittu, casato, III, 205, 875.
Pitrè, III, 887.
Platone, III, 703.
Plinio, 9, 10, 75, 199.
Plotino, 502; III, 90, 91, 92.
Plutarco, 199.
Pococke, 63, 108.
Poli, XXIV.
Police Andrea, III, 208.
Ponzone (marchesato di), III, 199.
Porco Guglielmo, III, 600, 601, 607.
Portirio, 17, 196; II, 438.
Potho, catapano, II, 346.
Power J., XXXV, XLI; II, 64.
Prassinachio, II, 214, 264, 405, 412.
Pratilli Francesco, XXIX.
Probo, filosofo, 17.
Probo, imperatore, 10.
Procopio, 75, 105, 106; III, 478.
Procopio, protovestiario, 439.
Procopio, vescovo di Taormina, II, 84.
Provenza (conte di), III, 584.
Provenzali, III, 13.
Pugliesi, II, 166; III, 31, 42, 116, 120, 145, 182, 347, 393, 543.
Putheolis (de) Ugo, III, 221.
Q
Quatremère Etienne, XXXVIII, XLII, XLIX, LI, LIV, LV; 142.
R
Radalgiso, II, 338.
Radelchi, 354, 357, 360, 361, 362, 363, 368, 369, 370, 372.
Rader, 499.
Rafi’-ibn-Makkân-ibn-Kâmil, III, 369, 370, 371, 372, 373, 411.
Râik, tradizionista, II, 481.
Raimondo, principe d’Antiochia, III, 433.
Raimondo III, conte di Barcellona, III, 388, 389, 390.
Raimondo, conte di Tolosa, III, 195.
Raimondo, oratore di Raimondo III, conte di Barcellona, III, 389.
Raimondo, vescovo, III, 594.
Rainolfo, conte d’Avellino, III, 776.
Rainolfo, v. Drengot.
Rainolfo, conte d’Aversa, III, 28, 29, 30, 277.
Rakamuwêih, II, 33, 65, 69.
Rampoldi, XIX, XX, XXI; 100, 119, 171, 346.
Ramun, di Michiken, III, 264.
Ranieri, di Manente, pisano, III, 579, 581.
Raoul, prete, III, 256.
Rascida, figliuola di Mo’ezz-li-dîn-illah, II, 448.
Rawendi, II, 112.
Raxdis (Rascîd), governatore di Messina, III, 56, 60.
Rayca, II, 345; III, 30.
Razi, III, 698.
Razionalisti, II, 98.
Read Thomas, XXXIX.
Reb’a, tribù arabica, III, 211.
Rebâb, tribù arabica, III, 829.
Rebî’ (Abu-Soleiman), II, 230.
Rebi’a, tribù arabica, 360; III, 211, 737.
Redhwân, II, 521.
Regiâ-ibn-Genâ, II, 211.
Regiâ-ibn-abi-l-Hasan-Ali-ibn-abi-l-Kasim-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ (Abu-l-Fadhl), III, 752.
Reginaldo, 374.
Reginone, 377.
Regiomontano, III, 658.
Reidân, II, 357.
Reinaud, XXXIII, XXXVIII, XL, XLI, XLII, XLIV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, L, LI; III, 202.
Reiske, XXXVIII, LI, LV.
Reland Adriano, II, 453.
Renan, III, 858.
Renaudot, IX; III, 681.
Rendacium, v. Sisinnio.
Rendasc, II, 184.
Rendâsci, 351.
Renò (Reinault?), canonico, III, 291.
Repostel Guglielmo, III, 25.
Rescîd-ibn-Mo’tamid-ibn-’Abbâd, II, 528.
Rescîd, schiavo d’Ibrahim, II, 53.
Rescîd, signore di Kàbes, III, 411.
Rhentacios, 351.
Riâh, tribù arabica, III, 384.
Ribbah-ibn-Ia’kûb-ibn-Fezara, 330, 331, 343, 353, 385, 390; II, 140.
Riccardo, conte d’Aversa, III, 43, 45, 49, 53.
Riccardo, conte di Caserta, III, 619.
Riccardo, conte di Molise, III, 502.
Riccardo Cuor di Leone, III, 529, 546, 549, 802.
Riccardo I, duca di Normandia, III, 39.
Riccardo II, duca di Normandia, II, 413; III, 26.
Riccardo, gaito, III, 263, 500, 501, 502.
Riccardo, principe di Capua, II, 23, 47, 116, 122, 123, 142, 143, 144, 146, 186.
Richar, II, 325.
Ricimero, 11.
Ricon (?), gaito, III, 263.
Righa, tribù berbera, III, 211.
Righi, III, 211.
Robaldo, III, 288.
Robertino, III, 692.
Roberto, abate del Monte di San Michele, III, 428.
Roberto, arcivescovo di Messina, III, 317, 346.
Roberto, conte di Clermont, III, 195.
Roberto, duca di Normandia, III, 13, 25.
Roberto, figliuolo del duca di Borgogna, III, 347.
Roberto Guiscardo, II, 349, 386, 397, 412, 416; III, 21, 22, 23, 27, 38, 42, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 59, 60, 62, 63, 65, 67, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 87, 88, 89, 102, 104, 105, 106, 107, 108, 112, 114, 115, 116, 117, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 133, 134, 136, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 147, 148, 150, 158, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 182, 183, 184, 191, 196, 207, 214, 265, 266, 271, 273, 274, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 326, 331, 335, 338, 339, 342, 350, 352, 358, 396, 451, 813, 864.
Roberto, vescovo di Traina, III, 192, 193.
Roberto, vescovo di Tricarico, II, 407.
Roctè (?) Giovanni, III, 288.
Rodeina, II, 336.
Rodofilo, II, 89.
Rodolfo, v. Drengot, III, 25, 26.
Rodolfo, conte d’Ivry, III, 20.
Rodolfo Glabro, III, 12.
Rodrigo, 476.
Roll, III, 17, 18, 53, 213.
Roma (corte e Chiesa di), 15, 19, 21, 22, 29, 77, 84, 91, 95, 96, 179, 183, 192, 197, 202, 218, 221, 444, 485, 498, 500, 502, 515, 518; II, 402; III, 11, 45, 46, 48, 49, 192, 193, 205, 207, 217, 274, 304, 348, 389, 394, 395, 430, 432, 468, 549, 569, 570, 574, 595, 701, 816.
Roma (da) Paolo, arcivescovo di Morreale III, 797
Romani, 39, 76, 78, 87, 96, 104, 118, 206, 417; II, 165, 203, 204, 264, 321, 328, 329, 348, 337, 443; III, 58, 145, 393, 431, 468, 550, 566, 593, 746.
Romano I, imperatore (Lecapeno), II, 153, 154, 174, 175, 184, 219.
Romano II, imperatore, II, 259.
Romano III, imperatore (Argirio), II, 366, 367, 379.
Romualdo, arcivescovo di Salerno, III, 438, 440, 466, 481, 495, 502, 503, 558, 560, 842, 849.
Romualdo, principe di Salerno, II, 338.
Rostemidi, 130.
Rotrou (di) Stefano, dei conti di Perche, III, 224, 497, 498, 499, 500, 501, 503, 540, 542.
Rouen (arcivescovodi), III, 49, 217, 559.
Rouen (da) Stefano, vescovo di Mazara, III, 307.
Rozaik, II, 515, v. Mohammed-ibn-Sahl.
Rousseau Alphonse, XXXIV, XXXVIII, XXXIX, XLV, L, LV; II, 429.
Ruffo, casato, III, 221.
Ruffo Giordano, III, 697.
Ruffo Guglielmo, III, 288.
Ruffo, marchese, XXXV.
Ruggiero, di Amalfi, III, 863.
Ruggiero, conte di Geraci, III, 502.
Ruggiero I, conte di Sicilia, XXXIX, XLVII; 236, 417, 469: II, 383, 396, 397, 401, 403, 404, 450, 552; III, 23, 44, 45, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 75, 78, 79, 82, 83, 84, 85, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 104, 105, 106, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 119, 120, 124, 125, 126, 127, 128, 130, 131, 133, 134, 136, 139, 140, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 156, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 201, 207, 214, 217, 218, 225, 229, 230, 233, 236, 238, 241, 245, 247, 254, 255, 257, 258, 261, 266, 267, 269, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 284, 291, 298, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 309, 310, 311, 312, 313, 315, 324, 326, 327, 329, 331, 332, 333, 334, 335, 339, 340, 343, 345, 348, 349, 350, 351, 352, 353, 358, 368, 396, 446, 451, 485, 540, 621, 662, 794, 806, 813, 820, 821, 841, 848, 871.
Ruggiero I, duca di Puglia, III, 22, 146, 165, 178, 183, 184, 185, 186, 187, 239, 271, 272, 274, 343, 813.
Ruggiero, figliuolo di Guglielmo I, di Sicilia, III, 485.
Ruggiero Guiscardo, personaggio supposto, II, 412.
Ruggiero Nanainà, II, 416.
Ruggiero, re di Sicilia, XXXIX, XLI, XLIII, XLV, XLVII, L, LIII; 236, 466, 469, 470, 488, 492, 494; II, 414, 429, 445; III. 48, 58, 153, 190, 195, 196, 198, 200, 215, 223, 226, 228, 234, 252, 255, 262, 267, 275, 276, 277, 284, 290, 294, 295, 296, 308, 309, 314, 323, 326, 332, 333, 339, 343, 344, 345, 346, 348, 350, 351, 359, 360, 362, 363, 364, 365, 366, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 376, 378, 379, 380, 381, 383, 387, 388, 389, 390, 391, 392, 393, 394, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 402, 403, 404, 405, 406, 411, 412, 413, 414, 415, 417, 420, 421, 422, 423, 424, 425, 426, 428, 430, 431, 432, 433, 434, 433, 437, 438, 439, 440, 441, 442, 443, 444, 445, 446, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 456, 458, 459, 460, 461, 462, 463, 464, 465, 468, 474, 491, 493, 494, 504, 552, 557, 621, 655, 657, 660, 661, 662, 663, 665, 669, 670, 673, 677, 678, 679, 680, 681, 682, 684, 685, 689, 691, 693, 699, 700, 719, 746, 752, 754, 755, 758, 759, 760, 762, 769, 771, 772, 773, 775, 778, 780, 781, 784, 786, 787, 798, 799, 801, 805, 806, 808, 811, 813, 814, 818, 819, 841, 842, 846, 848, 849, 855, 888.
Ruggiero Schiavo, III, 223, 226, 448.
Ruggiero, di Traina, III, 290, 291.
Ruggiero, vescovo di Siracusa, III, 307.
Rûm, 86, 104, 206, 247, 329; II, 73, 194, 242, 251, 269, 273, 310, 362, 439, 501, 532; III, 6, 218, 325, 366, 367, 382, 386, 418, 472, 490, 830, 860.
Rûm-Afarika, II, 6.
Rumâniùn, III, 366.
Ruzabeh, III, 826.
Ruzaik-ibn-Abd-Allah, II, 541.
S
Saba, 359.
Sabatier Francesco, III, 861.
Sabato, III, 209.
Sabbatio, 491.
Sabbioneta (da) Gerardo, III, 695.
Sâber, v. Sareb, II, 179.
Sabii, III, 703, 764.
Saccano Iacopo, III, 57.
Sa’d, tribù arabica, II, 33; III, 766.
Sa’d-ibn-abi-Wakkâs, 60.
Sa’d-ibn-Zeid-Monat, tribù, II, 505.
Sadr-ed-dîn, Kunewi, II, 493.
Safadino, v. Malek-Adel.
Safi, capitano, II, 341.
Sahl-ibn-Mohammed, Segestani (Abu-Hâtim), xxv.
Sa’îd-ibn..., II, 299.
Sa’îd-ibn-Heddâd, II, 217.
Sa’îd-ibn-Fethûn-ibn-Mokram, da Cordova, II, 472.
Sa’îd-ibn-Jûsuf, da Calatayud, II, 481.
Sa’îd-ibn-Hosein, v. Obeid-Allah, II, 118, 120, 132.
Sa’îd-ibn-Othman, II, 222, 225.
Sâih, XLVI.
Sâin, v. Saber e Sareb, II, 176, 177, 178, 179.
Sakhr, tribù arabica, III, 384.
Saklab, II, 433.
Saladino, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, LI; 267, 396; II, 240; III, 264, 412, 505, 506, 507, 508, 509, 510, 511, 512, 513, 515, 519, 521, 522, 523, 524, 526, 527, 528, 529, 530, 536, 634, 637, 638, 649.
Sâlem, 340.
Sâlem-ibn-Ased-ibn-Râscid-el-Kenâni (Kotami?), II, 160, 170, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 195, 204.
Sâlem-ibn-Râscid, v. Sâlem-ibn-Ased, ec., II, 160.
Salinas Antonio, III, 129, 795, 856.
Salisbury (da) Giovanni, III, 496.
Salomone, 125.
Salomone Marino, III, 887.
Sallustio, 105.
Sambucino (abate di), III, 574.
Sammartino (duca di), XXXV.
Samuele, maestro, III, 868.
Samuele-ibn-Tibbon, III, 706.
Sanâb o Sebâb, II, 362.
Sant’Adriano (cardinale di), III, 571.
Sant’Agatone, 29.
Sant’Agrippina, 279.
Sant’Agrippino, II, 253.
Sant’Ambrogio, II, 389.
Sant’Anseimo, arcivescovo di Canterbury, III, 187, 188.
Sant’Antonio, siciliano, II, 409.
Sant’Antonio, eremita, II, 317.
San Bartolommeo, 356, 503.
San Benedetto, 101, 366.
San Bernardo, III, 395, 413, 432.
San Brandano, III, 679.
Sant’Elia, da Castrogiovanni, II, 70, 80, 81, 96, 441.
Sant’Elia, da Reggio, II, 410.
San Fantino, 230, 231.
San Filareto, 293, 487, 490.
San Filippo, 45.
San Gennaro, II, 253.
San Gerlando, III, 210, 339.
San Geronimo, 75.
San Giacomo, vescovo, 220.
San Giorgio, II, 385; III, 99.
San Giorgio (principe di), v. Spinelli Domenico, III, 812.
San Giovanni Damasceno, 177.
San Giovanni Therista, II, 346, 412.
San Giuseppe Innografo, 30, 219, 221, 231, 502, 503, 505, 521.
San Gregorio, 12, 18, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 85, 196, 202, 203, 204, 205, 207, 291, 293, 482, 520; II, 403, 433, 490.
Sanhâgia, Senhâgia e Sinhâgia, tribù berbera, VIII, XXX; II, 36, 202, 287, 288, 355, 358; III, 92, 373, 478.
Sant’Ignazio, patriarca di Costantinopoli, 420; II, 385.
Sant’Ilarione, II, 317.
San Leoluca, 519.
San Leone, di Ravenna, 218, 219, 220.
San Luca, 492, II, 92.
San Luca, di Demona, II, 346, 403, 407, 408, 409, 410, 412.
San Marciano, 15, 16.
San Massimo, 91, 96.
San Niccolò, di Bari, III, 812.
San Niceforo, vescovo, II, 213, 214.
San Nilo il Giovane, II, 313, 317, 318, 319, 320, 321, 346.
Santa Oliva, 520.
San Pancrazio, 15, 18, 493; II, 80.
San Pantaleone, 494.
San Paolo, 15, 16; II, 167.
San Pietro, 15; II, 90, 95, 167.
San Placido, 101, 103.
San Procopio, vescovo di Taormina, 520; II, 59, 402.
San Quintino (Giulio, dei conti di), III, 197.
San Ranieri, III, 796.
San Saba, abate, II, 410; III, 258.
Sari Severino, II, 91, 92, 95.
San Simeone, II, 412, 413.
San Teodoro, siciliano, III, 409.
San Teodoro (cardinale di), III, 571.
San Vitale, di Castronovo, II, 403, 406, 407, 412.
Sant’Agata, 17, 508.
Santa Lucia, 17; II, 391.
Santa Lucia (abate di), III, 309.
Santa Ninfa, 17.
Santa Venera, da Gala, 520.
Saluti Pietro, II, 205, 875.
Sara, 75.
Saraceni, 75, 76, 84, 85; II, 87, 88, 153, 165, 170, 171, 181, 215, 312, 319, 321, 322, 328, 329, 338, 342, 343, 385, 408; III, 2, 8, 13, 41, 58, 65, 83, 102, 105, 108, 120, 123, 132, 138, 142, 145, 159, 184, 185, 186, 192, 194, 206, 251, 264, 266, 296, 321, 326, 344, 368, 388, 389, 397, 398, 489, 498, 530, 538, 543, 545, 574, 575, 577, 580, 585, 586, 587, 588, 592, 593, 594, 595, 596, 601, 602, 603, 604, 607, 609, 611, 612, 613, 614, 616, 618, 620, 632, 641, 688, 712, 713, 788, 792, 870, 891.
Sardegna (giudici di), III, 7.
Sâreb, v. Sâin e Saber, II, 179.
Sassanidi, 40, 76, 142; II, 109, 110; III, 732, 825, 837.
Sassoni, II, 322, 372; III, 40.
Sato (Sa’îd?), II, 342.
Saudan (sultano), 436.
Savoia (casa di), III, 803.
Savonarola, II, 485.
Scaldi, II, 380.
Scandinavi, II, 380; III, 15, 16, 17, 20.
Sceaboddino, v. Abmed-ibn-Iehia.
Scedîd, III, 572.
Scehâb-ed-dîn-ibn-Abi-l-Damm, LIII.
Scehâb-ed-din ’Omari, v. Ahmed-ibn-Iehia.
Sceikh-ed-dawla, v. Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû.
Scekr, detto il Siciliano, II, 228.
Scems-ed-dîn, da Ormeia, III, 641.
Scerf-ed-dawla, 359.
Scerf-ed-dîn-Ahmed, Zenkeluni, XXVI.
Scherif-Elidris, v. Edrîsi.
Schiavi, 4, 5, 10, 28.
Schiavo Domenico, XLIV; III, 286.
Schiavoni, 380; II, 88, 129, 158, 169, 297, 298, 299, 362.
Scolaro, prete, II, 400; III, 234, 257, 258, 338, 656.
Schultens, XLVIII.
Sciabtai Donolo, II, 319.
Sciafe’i, 474; II, 507.
Sciahuan, III, 368, 371.
Sciami, III, 211.
Scî’i, v. Sciiti.
Sciiti o Scî’i, II, 102, 105, 108, 115, 119, 124, 125, 128, 131, 136, 359, 360, 361; III, 719.
Scilitze, VIII.
Scinà Domenico, XII, LI; 15.
Scipione, 60; II, 80.
Sclavi, II, 174, v. Slavi.
Scorso, 488, 489.
Scoto Michele, III, 696, 697, 707.
Scrofani Saverio, XV.
Sedicto (Siddik?), gaito, III, 263, 500.
Sédillot, 57.
Seduikisc, tribù berbera, III, 495.
Sefedi, lii; 154; III, 699.
Sefetiti, II, 99.
Sehnûn, v. Abd-es-Selâm-ibn-Sa’îd.
Sehnûn-ibn-Kâdim, 264.
Seif-ed-dawla, della dinastia di Hamadan, II, 365.
Seif-ed-dawla, v. Jûsuf-abu-l-Fotûh
Seif-el-islam, principe aiubita, III, 264.
Sekhawi, XXXVII.
Selâh-ed-din, di Arbela, III, 641, 642.
Seleuro, 8.
Sema’ûn?, 404.
Sementari, II, 482, 490, 491, 493.
Semiti, II, 496.
Semnoen v. Sema’ûn, 403.
Semoul (di) Gualtiero, III, 105.
Seneca, 199.
Senhâgi, XXXVIII, XLI.
Senhâgia, v. Sanhâgia.
Serbi, II, 169.
Sergio, da Castronovo, II, 406.
Sergio, consolare, 213.
Sergio, console di Napoli, 364.
Sergio, duca di Napoli, 448, 450.
Sergio, monaco, 505, 521.
Sergio, papa, 29, 195.
Sergio, patrizio di Sicilia, 213, 217, 250.
Serlone, III, 64, 95, 98, 99, 101, 133, 134, 135, 136, 300.
Serradifalco (duca di), XXXIV, XLIII; III, 819.
Serrâg-ibn-Ahmed-ibn-Regiâ (Abu-d-Dhaw), III, 752, 753.
Settimello (da) Arrigo, III, 700.
Sewâda, II, 56.
Sewâda-ibn-Mohammed-ibn-Khafagia, 423, 424, 425, 428.
Sibilla Eritrea, XXX; III, 460, 461, 660.
Sibilla, regina, III, 559, 560.
Sicani, II, 31.
Sicardi, vescovo di Cremona, III, 352.
Sicardo, 312, 354, 355, 357.
Sichaimo, v. Soheim, 456.
Sichelgaita, III, 146.
Sicilia (di) Giovanni, III, 690, 691, 693.
Siciliani a Damasco, 84.
Siciliani, appellazione di coloni musulmani, 429.
Siconolfo, 354, 357, 360, 361, 362, 369, 370.
Siculi, 194, 196.
Sid-es-Sarkusi, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 213.
Sifanto, III, 526.
Sifriti, 127, 133; II, 287.
Sikilli, casato, III, 212.
Silefi, tradizionista, II, 476, 489.
Silvestro II, papa, III, 3.
Silvestro, conte di Marsico, III, 784.
Silvia, 23.
Simeone, re dei Bulgari, II, 173, 174.
Simmaco, 12.
Simone, maestro, 242, 243, 249.
Simone, figliuolo d’Arrigo, dei marchesi Aleramidi, III, 226, 488.
Simone, figliuolo del conte Ruggiero, III, 183, 195, 345, 346, 347, 806.
Simsàm-ed-dawla, v. Hasan-ibn-Jûsuf.
Sinagia, v. Sanhâgia.
Sinan, detto il Vecchio della Montagna, III, 649.
Sind-ed-dawla, v. Abu-l-Fotûh-ibn-Bodeir.
Sinhagia, v. Sanhâgia.
Sinimmar, III, 825.
Siracusa (Leopoldo, conte di), XXXIV, XXXV, XLIII; II, 522.
Siracusa (vescovo di), III, 304, 574.
Sicelioli, 196.
Sisinnio, 350; II, 184.
Sisto V, papa, 101, 103.
Sittelkiul, figlia del Kaid-Se’ûd, III, 256.
Slavi, II, 50, 169, 170, 176, 177, 179, 199, 217, 218, 292, 366; III, 15, 157.
Smagardo, II, 340, 342; III, 25.
So’àd. III, 758, 759.
Società Orientale di Germania, XXII.
Socrate, 509; III, 703.
Socrate, legato bizantino, II, 253.
Sofian-ibu-Sewàda, 340, 427.
Sofronio, 403.
Soheim?, 456.
Soiûti, XXVI, XXXVII, LV; III, 716.
Soleim, tribù arabica, 135; II, 547.
Soleiman-ibn-Afia, 288.
Soleiman-ibn-Amran, 230, 260.
Soleiman(Abu-Dàwûd), II, 479.
Soleiman-ibn-Hasan, II, 116.
Soleiman, Kurdi, II, 484.
Soleiman-ibn-Iehia-ibn-Othmàn-ibn-Abi-Duma, II, 487.
Soleiman-ibn-Mohammed, da Trapani, II, 535.
Solimano, califo omeiade, 125; II, 28.
Sordavalle (di) Guglielmo, III, 221.
Sordavalle (di) Roberto, III, 162, 221.
Sordavalle (di) Sansone, III, 389.
Soret, XXIV.
Soweika (fazione della), III, 429.
Spedalieri, frati. III, 646.
Spelecte (Sant’Elia, di Reggio), v. Sant’Elia.
Spinelli Domenico, XVII, XXIV; III, 343, 344, 812 a 815.
Spinola Niccolò, III, 357, 359, 629, 632.
Spinola Oberto, III, 379.
Spoto, barone. III, 605.
Sprenger, XL.
Springer, III, 858, 862, 879.
Stabile Mariano, XXXV.
Stefano, ammiraglio greco, II, 379, 391, 392, 393.
Stefano, ammiraglio, figliuolo di Majone, III, 356.
Stefano Aniciese, 102.
Stefano Bizantino, 9.
Stefano, consolare, 213.
Stefano, dei conti di Perche, III, 215, 216, 493.
Stefano, figliuolo di Niccolò, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Stefano, fratello di Majone, III, 356, 480.
Stefano Massenzio, 440.
Stefano IV, papa, 29.
Stefano V, papa, 517.
Stefano IX, papa, III, 45.
Stefano, patrizio, II, 366.
Stefano, di Siria, II, 218.
Stefano, vescovo, II, 90.
Steinschneider, III, 706.
Stesicoro, III, 542.
Strabone, 7, 8, 9; III, 684.
Strambo, cognome, III, 206, 875.
Strato, cognome, III, 221.
Struppa Salvatore, III, 816.
Subula, casato, III, 205.
Sufiti, II, 492, 536.
Sultano, supposto nome proprio, 359, 360.
Sultano o Soldano di Bari, v. Moferreg-ibn-Sàlem, 372, 380, 382, 383, 436.
Sultano di Sicilia, II, 233, 240.
Sunniti, II, 98, 108, 131, 136; II, 719, 727.
Svevi (dinastia), XXXI; II, 300; III, 406, 530, 889.
Symeon, magister, 164.
T
Tabat, abate, III, 246.
Tabari, XXXIX, XLI; 60.
Tacito, 73; III, 557.
Tafuri Michele, II, 459; III, 344.
Tag-ed-dawla, v. Gia’far-ibn-Jûsuf.
Tag-ed-dîn, Abu-Abd-Allah-es-Singiàri, III, 734.
Tag-ed-dîn, el-Kendi, III, 730.
Taghleb, tribù arabica II, 511.
Tàher-ibn-Mohammed-ibn-Rokbâni, II, 511, 342
Taheriti, dinastia, II, 4.
Taki-ed-dîn, III, 698.
Tamerlano, LIII.
Tarmîm, v. Temîm.
Tancredi, conte di Lecce, III, 509.
Tancredi, conte di Siracusa, II, 396.
Tancredi, di Hauteville, III, 38, 39, 42, 45, 49, 112, 451, 813, 814, 815.
Tancredi, re di Sicilia, III, 342, 503, 521, 531, 544, 546, 548, 550, 555, 558, 560, 562, 566, 568, 592, 594, 802.
Tantawi, XLVI.
Taormina (di) Timeo, III, 671.
Taranto (arcivescovo di), III, 579.
Tardia, X, XVII, XLIV; III, 203.
Tarik, 125.
Tâwâli, 429.
Teaîd-ed-dawla, v. Ahmed-ibn-Jûsuf, II, 364.
Tedeschi, 247, 248, 282; II, 322, 348; III, 43, 46, 298, 413, 543, 544, 548, 552, 557, 558, 563, 564, 567.
Teja, martire, 15.
Telemsen (re di), III, 379.
Telese (abate di), III, 347, 440.
Temîm-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, principe Zirita, XXXVIII; II, 92, 93; III, 92, 93, 94, 109, 110, 136, 150, 158, 167, 168, 169, 170, 172, 173, 189, 361, 362, 366, 368.
Temîm (tribù di), II, 480, 488, 504, 505, 506; III, 211, 409.
Temistocle, II, 272.
Temmâm, 145.
Templari, III, 645, 646.
Teobaldo, priore di Crepy, III, 498.
Teocrito, II, 542.
Teoctisto, 190, 193.
Teodicio, figliuolo d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Teodora, 492.
Teodora, di Roma, II, 160.
Teodora, imperatrice, 315, 338, 498, 510.
Teodorico, 12, 211.
Teodoro, ammiraglio, figliuolo di Niccolò, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353, 356.
Teodoro, consigliere in Roma, 203.
Teodoro, consolare, 213.
Teodoro Crethino, 298.
Teodoro, filosofo, III, 692, 693, 694, 695.
Teodoro, spatario e cartulario, 213.
Teodoro, patrizio, 180, 188, 189.
Teodosio, 17, 200.
Teodosio, monaco, 394, 398, 401, 403, 404, 405, 406, 408, 409, 521; II, 32.
Teodosio, patrizio, 357.
Teodoto, 185, 188, 248, 282, 283, 285, 288, 289, 290.
Teofane, abate, 29.
Teofane Cerameo, 486, 487, 488, 489, 490, 491, 493, 495, 496, 503, 521; II, 439.
Teofane, discepolo di San Giuseppe Innografo, 505.
Teofane, istorico, 21, 84, 86, 91, 93, 96, 98, 121, 223.
Teofania, imperatrice, moglie di Ottone II, II, 326, 327.
Teofano, principessa greca, II, 311, 312.
Teofilatto, 462.
Teofilo, imperatore, 220, 291, 297, 298, 315, 357, 492, 494, 497, 498, 503, 505.
Teofilo, prefetto imperiale, 213, 287, 288.
Teognosto, 241, 242, 244.
Teopisto, 229.
Tessaracontarii, 164.
Thâbit il Siciliano, II, 487.
Tharec, 170, v. Tarik.
Thâbit-ibn-Hathîm, 172.
Thedibia, II, 408.
Thelgi, II, 111.
Thierry, vescovo di Metz, II, 326.
Thiket-ed-dawla, II, 332, 336, v. Jûsuf-ibn-Abd-Allah.
Tiberio, 9.
Tiberio II, imperatore, 121.
Tiberio, usurpatore, 217.
Tigiani, XXVII, l.
Togibiti, II, 472.
Tolomeo, XXX; 9, 10, 75; II, 432, 433, 437, 469; III, 178, 657, 658, 669, 670, 671, 679, 707.
Tolunidi, II, 4, 50, 76, 77; III, 847.
Tommaso, schiavo di San Gregorio, 202.
Tommaso, conte d’Acerra, III, 641.
Tommaso, di Cappadocia, 164, 193, 240, 242, 250.
Tommaso, conte di Savoia, III, 810.
Tonûkh, tribù arabica, II, 220, 335.
Torceto (de) Rogerius Acquinus, III, 221, 223.
Tornberg, XLVII, L, LI, LIII.
Toscana (marchese di), II, 2.
Toscana (granduchi di), III, 681, 682.
Traina (vescovo e Chiesa di), III, 341, 349, 353.
Traina Antonino, III, 884, 887.
Traina (da) Viviano, III, 288.
Traci (di) Pietro, III, 116.
Trani (conte di), III, 123.
Trasimondo, marchese di Spoleto, II, 312.
Tribellio Pollione, 10.
Tricari Basilio, III, 281.
Troia (vescovo di), III, 582.
Trostaino, III, 29.
Troysi, XXXV.
Tunis (re di), III, 630.
Tûra, supposto re di Taormina, II, 439.
Turan-Sciah, fratello di Saladino, III, 506.
Turchi, 123; II, 371, 462; III, 282, 506.
Turcopoli, III, 508.
Turungi, III, 212.
Tusculani, III, 550, 558.
Tychsen, X, XXIV; 283, 296, 321; II, 6; III, 342.
U
Ugo I, re di Cipro, III, 643.
Ula, III, 258.
Ulf-Ospaksson, II, 386.
Umberto, di Savoia, III, 199.
Umberto, monaco, III, 402.
Unfredo, conte di Puglia, III, 38, 39, 40, 43, 45, 46, 47, 48, 142.
Unfredo, signore di Thoron, III, 643.
Unger Fr. W., III, 862, 879.
Ungheri, II, 161.
Unitarii, II, 98; III, 626, 627.
Urbano II, II, 414; III, 22, 177, 185, 187, 191, 192, 193, 194, 274, 304, 305, 306, 567.
Urdin, tribù berbera, III, 212.
Ursperg (abate di), III, 523.
V
Vadiperto, II, 325.
Valentino, imperatore, 210.
Vallachi, II, 365.
Vandali, 11, 104, 121, 519, 520; II, 357, 365.
Varangi, II, 365, 380, 383, 384, 385, 386; III, 34.
Vasto (marchesi del), III, 199.
Vecchio della Montagna, III, 647, 648, 649, v. Sinan.
Vella, abate, X, XXXVIII, LI; 284, 297; III, 202, 342.
Venere Ericina, 17.
Venezia (congresso di), III, 504.
Veneziani, II, 169, 341; III, 144, 172, 260, 434, 513, 522, 625, 629, 774.
Venuti Vincenzo, III, 176.
Vernese Lorenzo, III, 376.
Verre, 7.
Vico Giovan Battista, LIV; II, 270.
Vigo Leonardo, III, 878, 887.
Vigo Salvatore, XXXV.
Vinisauf, III, 107.
Virgilio, III, 461.
Visconti Pietro, III, 677.
Visigoti, III, 852.
Vitale Odorico, III, 85.
Vitaliano, papa, 102.
Vittore III, papa, III, 169.
Vlatto, arcivescovo, II, 320.
Vulcano, catapano, II, 366.
W
Waldemaro, re di Danimarca, III, 603.
Wahabiti, III, 626, 627.
Wakîdi (falso), XLV; 84 e segg.
Waldeck (conti di), II, 328.
Walîd I, califo omeiade, II, 110; III, 824, 828, 829, 830, 832, 840.
Walla, 227.
Waring, III, 845.
Wasâmâ, II, 191.
Wâsil (Abu-Sari), II, 226.
Weil, XXXIV, XLI; III, 4.
Welf, duca, III, 431.
Wenrich, XII, XVIII, XIX, XXVIII, XXX, XLI, XLVIII, LIII; 90, 100, 233; III, 884.
Werner, abate di Fulda, II, 325.
Werrû, tribù berbera, III, 212.
Wezdâgia, tribù berbera, II, 36.
Weberto, arcidiacono di Toul, III, 44.
Wiccardo, famigliare, III, 792.
Wilmans Ruggiero, III, 22.
Witiza, 476.
Wright William, XXXIV, XLVI, LV.
Wuezdâgia, tribù berbera, II, 52.
Wüstenfeld Ferdinando, XLVI, XLIX, L.
Wüstenfeld Teodoro, III, 197, 224, 227.
X
Ximenes, cardinale, VI.
Z
Zaccaria, condottiero, II, 313.
Zaccaria, papa, II, 169.
Zaccaria, vescovo, 499.
Zàhir, v. Daher.
Zakaria (Abu-Iehia), emir hafsita, L.
Zanetti, XXVIII.
Zefedino, v. Nazardino.
Zegawa, tribù berbera, III, 211.
Zeid, liberto di Maometto, 55.
Zeid, tribù arabica, III, 384.
Zeidân, II, 357.
Zeinab-bent-Abd-Allah-Ansari, III, 256, 325.
Zenata, tribù berbera, 36, 39, 198; II, 287, 293, 355, 358; III, 92, 211.
Zengui, padre di Norandino, III, 408, 462.
Zenobia, 31.
Zerkesci, LV.
Ziâd..., III, 827, 855.
Ziâd-ibn-Sahl-ibn-es-Sikillîa (o Sakalîba), 155.
Ziadet-Allah, emir aghlabita d’Affrica, 115, 153, 154, 155, 156, 231, 254, 255, 256, 257, 259, 260, 261, 262, 276, 278, 284, 287, 288, 295, 300, 301, 309, 337; III, 829, 831.
Ziadet-Allah II, emir aghlabita, 345.
Ziadet-Allah-ibn-Abd-Allah (Abu-Modhar), ultimo emir aghlabita d’Affrica, II, 77, 85, 126, 127, 128, 129, 130, 134, 140, 141, 142, 456.
Ziân (Abu-l-Feth) il Siciliano, II, 228.
Ziero, III, 209.
Zimisce, II, 312, 313.
Zîri-ibn-Menâd, II, 202; III, 417.
Ziriti, dinastia, XXXVII, XXXVIII; II, 238, 241, 287, 288, 289, 355, 358, 360, 362, 363, 372, 378, 379, 421, 448, 529, 550; III, 73, 80, 81, 92, 93, 109, 150, 158, 169, 332, 366, 367, 368, 371, 373, 400, 404, 405, 414, 416, 423, 621, 622, 780, 808.
Zobeir, II, 524; III, 506.
Zoe, figliuola di Teodicio, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.
Zoe, imperatrice, 245, 250, 518; II, 153, 166, 174, 379, 384, 385, 386, 393, 394.
Zogba, tribù arabica, III, 212.
Zoheir-ibn-Ghauth, 285; II, 32.
Zoheir-ibn-Kais, 118.
Zohri, LIV.
Zonara, 242.
Zoroastro, 139.
Zotico e Zotica, casato, III, 205.
Zowâwa-ibn-Ne’am-el-Half, 264.
Zupano, II, 176.
Zuzeni (Mohammed-ibn-Ali), XLVIII.
INDICE TOPOGRAFICO.
A
Abal, III, 664.
Abbâsia, 146, 147, 156.
Abissinia, 40, 46, 58; III, 825, 831, 832.
Abragia, III, 311.
Abu-’l-Feth (torre di), II, 49, 50.
Abu-Himâz (contrada di), II, 297.
Acaba, 122.
Acarnania, III, 434.
Acerenza, III, 178.
Achareth, 469, v. Alcara.
Aci, II, 73, 85, 86, 433; III, 205, 208, 212, 213, 238, 245, 261, 311, 320, 326, 782, 783, 787, 811.
Acireale, II, 86; III, 309.
Acquaviva, II, 35; III, 219.
Acradina, II, 258.
Acri, 269, 270, 272; III, 529, 530, 639, 641, 644, 645, 646, 712.
Adana, 401.
Aden, III, 506.
Aderbaigian, II, 110, 113, 488.
Adernò, II, 431; III, 96, 285, 311, 312, 774.
Adgabia, corr. Agdabia, II, 290.
Adîna, II, 503, 504.
Adramito, II, 368.
Adrano (bosco di), II, 443.
Adria, 358.
Adriatico, 315, 328, 354, 357, 358, 378, 436; II, 164, 169, 170, 179, 263, 341; III, 162, 232, 315, 439, 467, 675.
’Adwa, III, 458.
Affrica propria, Affricani, XXXI, XXXIX, XLI, XLII, XLIV, XLV, XLVI, XLIX, L, LI, LII, LIII, LVI; 12, 79, 85, 86, 88, 91, 94, 95, 98, 103, 104, 109, 112, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 126, 136, 137, 138, 143, 144, 148, 157, 158, 161, 162, 165, 168, 174, 175, 176, 205, 206, 218, 224, 225, 227, 229, 232, 234, 240, 241, 248, 252, 253, 258, 261, 264, 272, 273, 274, 276, 287, 291, 296, 304, 309, 321, 322, 332, 337, 340, 343, 351, 352, 353, 359, 364, 365, 366, 379, 383, 384, 390, 391, 392, 397, 412, 413, 415, 427, 513, 514; II, 4, 6, 10, 12, 21, 22, 31, 32, 36, 37, 38, 39, 43, 45, 48, 51, 61, 62, 63, 64, 66, 67, 72, 74, 75, 77, 78, 86, 92, 105, 108, 120, 121, 126, 127, 128, 131, 132, 133, 134, 135, 137, 139, 141, 142, 147, 150, 151, 152, 159, 161, 165, 168, 170, 173, 175, 176, 177, 182, 183, 184, 188, 191, 194, 195, 198, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 210, 216, 217, 218, 220, 221, 223, 225, 226, 227, 228, 229, 233, 235, 236, 237, 238, 240, 241, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 255, 257, 259, 263, 267, 272, 275, 282, 283, 286, 287, 288, 289, 290, 292, 293, 295, 320, 322, 332, 335, 338, 343, 348, 349, 351, 355, 356, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 377, 383, 384, 385, 387, 388, 391, 405, 418, 419, 420, 424, 427, 428, 432, 444, 445, 446, 448, 450, 453, 465, 477, 478, 479, 484, 486, 488, 495, 496, 499, 513, 519, 525, 526, 527, 528, 530, 533, 534, 535, 540, 547, 548; III, 2, 3, 6, 12, 13, 14, 72, 73, 80, 82, 92, 93, 94, 95, 104, 109, 110, 111, 122, 124, 125, 136, 150, 151, 158, 167, 173, 177, 188, 189, 190, 196, 211, 212, 213, 260, 261, 303, 310, 332, 333, 334, 337, 352, 359, 362, 363, 366, 367, 369, 374, 378, 379, 380, 381, 382, 385, 388, 399, 402, 403, 406, 407, 409, 410, 414, 417, 419, 420, 421, 422, 424, 430, 431, 434, 436, 438, 439, 461, 464, 465, 467, 468, 474, 475, 476, 478, 483, 484, 486, 489, 490, 495, 504, 515, 516, 517, 518, 520, 533, 538, 539, 548, 553, 573, 589, 598, 599, 600, 613, 617, 622, 624, 625, 626, 627, 632, 633, 651, 662, 663, 664, 665, 668, 676, 678, 681, 682, 684, 711, 716, 735, 740, 751, 759, 763, 771, 783, 785, 787, 799, 810, 811, 825, 831, 836, 844, 867, 868, 879, 892.
Affrica, città, 379, 387, v. Mehdia.
Affricano, mare, 417.
Agdabia, II, 290, 362.
Aghmat, II, 528, 665.
Agiàs, II, 356.
Agosta, III, 166, 213, 338.
Agri, II, 408.
Agrigento, 8; III, 210, v. Girgenti.
Agropoli, 457, 459, 465, 463; II, 161, 344.
Aguglia, III, 264.
Ahâsi, v. Le Sorelle.
Ahmar, monte, III, 865.
Ahwàz, II, 114; III, 827.
Aidone, III, 224, 225, 227, 269.
’Ain-el-Bottiah, III, 820.
’Ain-el-Farkh, III, 820.
’Ain-Liel, III, 312.
’Ain-el-Meginuna, III, 844.
’Ain-el-Menâni, III, 820.
’Ain-Abi-Sa’îd, II, 300.
’Ain-Scindi, II, 33, Dannisinni, cf. Ainisindi.
Ainisindi, III, 554, 555, 870, cf. Ain-Scindi.
Ainuni, III, 212.
’Akabet-et-Tûr, III, 869.
Akdam (moschea dell’), II, 522.
Alamût, II, 117.
Alba (porto di), III, 315.
Albenga, III, 199, 519.
Albergaria (quartiere dell’), III, 495.
Albergo de’ Poveri in Palermo, III, 555.
Alcamo, 234, 235; II, 278, 431, 432, 434; III, 159, 312, 536, 780, 791.
Alcantara, II, 387.
Alcara di Val Demone, o delli Fusi, 270, 469; III, 208, 286, 288, 295, v. Acharet e Alcharet.
Alcharet, 270.
Al-Chila, III, 369.
Aleppo, XLVI, XLVIII; II, 279, 441, 487; III, 455, 691, 716, 718, 719.
Alesa, 8, 485; II, 402.
Alessandretta, 515.
Alessandria d’Egitto, Alessandrini, XLIII, XLIX; 56, 81, 96, 98, 99, 112, 122, 162, 163, 164, 396, 515; II, 48, 182, 250, 276, 325, 402, 474, 485, 486, 488, 489, 522; III, 352, 406, 426, 467, 505, 507, 508, 509, 510, 511, 512, 513, 514, 520, 527, 531, 538, 639, 650, 651, 652, 688, 716, 809, 810, 845.
Alga, v. Halka.
Algeri, LIV; 116; II, 190, 292, 358; III, 423, 424, 426, 455.
Algeria, 104; II, 38, 292, 535; III, 373.
Algeziras, XLIII; II, 517, 529; III, 173, 662.
Alhambra, II, 452, 794, 795.
Alicante, II, 186.
Alife, 374; II, 164.
Alimena, 315.
Alitea, III, 616.
Almadia, III, 172, v. Mehdia.
Almeria, II, 250, 535; III, 377, 379, 414.
Alpi, 287; II, 167, 278, 394, 408; III, 25, 27, 28, 34, 214, 433, 608, 654, 708, 742.
Alsazia, III, 696.
Altarello di Baida, v. Menani.
Altavilla, III, 219.
Alunzio o Calacta, III, 77.
Alvernia, III, 672.
Amalfi, Amalfitani, 183, 212, 227, 312, 354, 356, 357, 364, 367, 376, 396, 435, 437, 444, 449, 450, 451, 453, 455, 518; II, 81, 96, 163, 175, 227, 338, 449, 450, 458, 459; III, 51, 52, 140, 142, 158, 169, 182, 185, 211, 232, 277, 289, 297, 810, 863, 864.
Amalfitani (vico degli), in Palermo, III, 218, 801, 810.
Amantea, 377, 440; II, 42.
Amendolara, II, 347.
Amenano, fiume, II, 437; III, 771.
Ammiraglio (ponte dell’), III, 118, 843.
Amorium, III, 665.
Amru (moschea di), II, 476; III, 832.
Anapo, III, 180.
Anatolia, 440.
Anattor, III, 95.
Ancona, 358.
Andalusia, III, 483.
Angoulême, III, 672.
Annisinni, v. Ainisindi.
Annunziata de’ Catalani (chiesa dell’), III, 792, 817, 818.
Antigono (isolotto di), 497.
Antiochia, 15, 29, 197, 515; II, 279, 495; III, 188, 361, 523, 526, 784, 839.
Anversa, III, 235.
Appennini, 465, 468; II, 339; III, 50, 55, 97, 147, 158, 433, 612.
Aquino, 368.
Aquisgrana, 190; III, 16.
Arabia, Arabi, XLIII, XLV, XLVII, LIV; 30, 31, 32, 36, 37, 38, 39, 41, 44, 45, 49, 50, 53, 54, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 66, 68, 71, 72, 73, 75, 76, 79, 80, 82, 88, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 112, 125, 128, 130, 131, 141, 142, 143, 264, 288, 363, 369, 408, 424, 431, 432, 480; II, 10, 16, 26, 32, 34, 35, 37, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 52, 53, 59, 62, 63, 65, 68, 75, 85, 92, 98, 99, 101, 106, 112, 113, 114, 115, 116, 118, 123, 126, 127, 128, 130, 131, 132, 136, 138, 139, 141, 142, 143, 144, 146, 148, 149, 150, 151, 154, 160, 168, 173, 184, 192, 193, 200, 207, 217, 221, 233, 246, 256, 260, 265, 266, 267, 268, 272, 275, 278, 282, 287, 292, 299, 345, 349, 355, 357, 361, 362, 371, 372, 383, 404, 418, 420, 427, 430, 431, 432, 434, 437, 438, 439, 441, 442, 443, 445, 446, 449, 450, 451, 452, 459, 460, 461, 462, 463, 465, 466, 468, 469, 470, 471, 472, 473, 477, 478, 483, 491, 496, 500, 503, 504, 505, 506, 510, 512, 513, 514, 515, 517, 521, 527, 530, 531, 532, 533, 536, 542, 544, 547, 548; III, 73, 80, 81, 82, 92, 93, 94, 95, 100, 104, 109, 111, 122, 171, 172, 231, 320, 324, 330, 332, 349, 355, 363, 366, 367, 368, 369, 371, 380, 381, 383, 384, 386, 387, 399, 405, 406, 409, 412, 413, 418, 419, 420, 424, 425, 428, 458, 472, 473, 474, 475, 478, 490, 599, 644, 646, 657, 667, 668, 669, 672, 675, 679, 685, 686, 699, 701, 715, 718, 724, 729, 732, 738, 739, 741, 742, 746, 770, 784, 805, 809, 812, 824, 826.
Arabi cristiani, 40, 43; II, 291, 292.
Arado, isola, 81, 85, 87.
Arafat, monte, II, 245.
Aragigun, III, 212.
Arbela, L.
Arce, 368.
Arcipelago, 91; II, 364, 384, 413.
Arcuraci, III, 614.
Arena, fiume, II, 445.
Arezzo, 443.
Argira, II, 399, 403, 406; III, 286.
Argo, II, 133.
Arîn (cupola di), II, 437.
Arles, III, 16.
Armeni (castello degli), 195, 343.
Armenia, Armeni, 223, 247, 282, 510; II, 110, 114, 203, 260, 269, 365, 379, 393; III, 637, 639.
Armento (monastero di), 469; II, 407, 408, 409.
Artalia, II, 85.
Artesino, monte, 326.
Artilgidia, III, 592.
Asaro, II, 185.
Ascalona, III, 335, 383, 640.
Ascîr, II, 275, 362.
Ascoli, di Capitanata, II, 244, 344; III, 32.
Asia, II, 97, 108, 110, 229, 368; III, 212, 668.
Asia Minore, XLV; 94, 195, 218, 413, 425, 441, 510; II, 77, 240, 250, 262, 279; III, 38, 410, 433, 679.
Asnâm, d’Affrica, 129, 133.
Asnâm, di Sicilia, III, 776.
’Asra, II, 185.
Assiria, II, 250.
Assorus, II, 185.
Asti, III, 199, 277.
Asturie, 153.
Atene, 48; II, 503, 504; III, 167.
Atlante, 103, 129; II, 133, 355, 363; III, 374.
Atlantico, 122, 173; II, 284; III, 374, 664.
Attica, II, 184.
Augsburg, II, 325; III, 673.
Augusta, di Sicilia, III, 616.
Aulina (monastero di), II, 410.
Aumale, II, 38.
Aurès, 116, 117, 119, 120; II, 52, 122, 198, 201, 352.
Avellino, II, 164.
Aversa, 463; II, 172; III, 28, 29, 30, 31, 34, 35, 37, 47, 52, 133, 186, 196, 277, 588.
Avignone, 158.
Avola, 311, 334.
Azhar (moschea di), II, 283, 286; III, 835, 843, 845.
B
Bâbel (Babilonia), II, 110.
Bab-el-Bahr, II, 302; III, 841.
Bab-el-Ebnâ, II, 302.
Bab-el-Hadîd, II, 302.
Bab-er-Riâdh, II, 302.
Bab-es-Scefà, II, 302.
Bab-es-Sudân, III, 325.
Bab-Ibn-Korhob, II, 302.
Bab-Rûtah, II, 302.
Bab-Sciantaghàth, II, 302.
Babilonia (Bagdàd?), 232; II, 87, 338.
Babilonia (il Cairo Vecchio), III, 352, 633, 635, 651.
Baccani (campo di), II, 165.
Badiazza (monastero di Santa Maria della Scala o della Valle, detto La), III, 843, 844.
Baghaia, 119; II, 122.
Bagdàd, XXXVIII, XL, XLVII; 85, 86, 141, 145, 150, 303, 322, 326, 332, 337, 371; II, 75, 77, 110, 114, 120, 149, 150, 218, 224, 278, 279, 280, 281, 295, 309, 402, 403, 438, 440, 454, 464, 480, 492, 494, 497, 498, 504, 547, 549; III, 264, 356, 373, 375, 423, 505, 522, 634, 638, 645, 662, 715, 721, 816, 833.
Bàgia, Begia, o Beja, II, 66, 199.
Bagni Segestani, III, 789.
Bahrein, II, 117, 336.
Baich (torre di), II, 303, 452, 453.
Baida, II, 67, 68, 208, 297, 434.
Balata, 266.
Baleari, isole, 124, 162; III, 3, 5, 10, 12, 14, 375, 376, 377, 480, 518, 519, 520.
Bâles, II, 186.
Balharâ, II, 34, 300.
Bâlîs, II, 186.
Ballarò, mercato in Palermo, II, 34, 300; III, 870.
Bâlmi, III, 795.
Baltah, isolotto, III, 382.
Baltico, II, 380, 383, 386; III, 15, 679.
Bamberg, II, 92; III, 26, 42.
Bamberg (duomo di), III, 798.
Bandiera, contrada in Palermo, III, 614
Barbarìa, III, 410, 613, 695, 809.
Barca, 109, 113, 117, 118, 119, 122, 165, 319; II, 284, 356, 477, 497; III, 212, 408, 420, 476, 483, 515, 634, 836.
Barcellona, 159; III, 12, 389, 459, 810.
Bardhali (?) (monastero di), III, 256.
Bari, Baresi, 359, 360, 361, 363, 371, 372, 373, 374, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 384, 390, 436, 437, 438, 462, 463; II, 162, 244, 311, 339, 340, 341, 342, 344, 345, 350, 392, 416; III, 25, 26, 30, 35, 36, 41, 45, 102, 114, 115, 116, 124, 125, 139, 143, 232, 280, 297, 335, 397, 689, 812.
Bartanobûa, II, 72.
Bartibûa e Bartibû, II, 72, 73.
Basciu, v. Dakhel.
Basente, II, 329.
Basentello, II, 328.
Basilea, III, 590.
Basilicata, II, 247, 329, 407.
Bassora, 56, 84; II, 33, 116, 522.
Battelari, III, 316, 772.
Baviera, II, 325.
Bayeux, III, 19.
Bebelagerin, III, 869.
Bebilbachal, v. Bab-el-Bahr.
Bec (monastero del), III, 190.
Beccheria Vecchia di Palermo, II, 69.
Bedd o Bedsds, II, 113, 114.
Bedr, 66.
Begiaia, II, 186.
Beirût, II, 312: III, 107.
Beja, XLIV; II, 66.
Bekâra, 418, v. Vicari.
Belezma, 132; II, 52, 53, 122, 123.
Belgia, 237; II, 33.
Belich, 237; II, 33, v. Belici.
Belici, 337; II, 33, 35; III, 86.
Bellût, II, 433, v. Caltabellotta.
Benarvet o Benavert, III, 149, 151, 152, 153, 154, 162, 163, 165, 166, 167, 172, 177, 230, 269, 597.
Benevento, Beneventani, 94, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 193, 212, 312, 355, 356, 357, 362, 363, 365, 368, 369, 370, 371, 373, 374, 376, 377, 380, 381, 383, 385, 387, 388, 393, 435, 436, 437, 438, 439, 443, 447, 448, 452, 454; II, 153, 163, 164, 166, 168, 247, 278, 311, 321, 329, 340, 344, 377; III, 25, 27, 35, 42, 44, 52, 183, 289, 398, 616.
Benfesc, v. Mico.
Benfratelli (monastero dei), II, 69.
Berolais, 452.
Berry, III, 673.
Betlem, II, 413; III, 644.
Bibbona, III, 219.
Biccari, III, 219. v. Vicari.
Biccarum, 418, 419. v. Vicari.
Bico, II, 86.
Bifara, III, 174.
Bikesc, v. Mico.
Biled-el-Bargoth, 234, 236, 237.
Bileka, II, 33.
Bisacquino, III, 772.
Biscari, 269; III, 795.
Bisignano, II, 319, 342, 345; III, 220.
Bitonto, II, 313, 344.
Bivona, II, 443; III, 219.
Blaland, II, 385.
Bocchigliero, II, 347.
Bocca di Falco, II, 67; III, 582.
Boiano, 374, 455.
Bokhara, II, 34; III, 211.
Bologna, III, 673, 706.
Bologna (biblioteca di San Salvadore in), III, 707.
Bona, II, 122, 199, 501; III, 13, 212, 421, 423, 425, 436, 438, 439, 472.
Bonifato, II, 431, 432; III, 822.
Bordeaux, III, 16.
Borgetto, III, 779.
Borgio, III, 219.
Bosforo, II, 77; III, 414.
Bosolbi, III, 175.
Botranto, 516.
Bouvines, III, 590.
Bova, II, 315.
Bovino, II, 311, 315, 316.
Brescia, 388; III, 651.
Bresk, III, 407.
Brettagna, III, 17.
Briatico, III, 257.
Briga (Santo Stefano di), III, 219.
Brindisi, 355, 441; III, 434, 592, 609.
Broccato, III, 776, v. Brucato e Burkâd.
Broglio, III, 219.
Brolo, II, 404; III, 219.
Brolpasino, III, 219.
Bronte, 311, 336.
B....rtûn, II, 231.
Brucato, v. Broccato e Burkâd, III, 103, 104, 301, 311.
Bruges, III, 696.
Bruzzano, II, 171, 246, 247; III, 672.
Buccheri, II, 443, 786.
Bucello, III, 340.
Bufurera, III, 341.
Bugamo o Buagimo, III, 107, 111, 236, 270.
Bugia, 122; II, 38, 122, 359, 465, 529, 530; III, 80, 81, 92, 211, 366, 369, 375, 399, 407, 421, 423, 427, 467, 496, 516, 520, 698, 704.
Bulâk, III, 329.
Bulchar, II, 300.
Burgimilluso, III, 602.
Burgio, III, 219.
Burkâd, v. Broccato e Brucato, 212; III, 776.
Busento, II, 93.
Butera, 316, 323, 324; II, 95, 96, 97, 158, 175, 176, 177, 192; III, 223, 226, 269, 301, 302, 306, 488, 754, 760, 774, 881.
C
Caaba, 45, 46, 58, 118; III, 830, 839, 840.
Cabés, corr. e v. Kâbes.
Cáccamo, III, 232, 233, 251, 301, 311.
Cadara, v. Chadra.
Cadesia, 60.
Cadice, III, 377.
Cafsa, XLV; II, 275, 306; III, 421.
Cagliari, III, 7, 10.
Caiazzo, 452.
Cairo, L, LII, LIII, LIV, LV; 112; II, 40, 66, 238, 241, 279, 280, 283, 286, 287, 291, 330, 331, 356, 357, 402, 463, 465, 476, 484, 488, 489, 507, 511, 521, 522, 547; III, 330, 352, 373, 447, 460, 466, 492, 506, 510, 634, 638, 639, 647, 650, 651, 652, 653, 655, 677, 704, 712, 718, 728, 736, 737, 768, 804, 824, 833, 835, 845, 846, 847, 851, 852, 893, 894.
Cala (La), porto minore di Palermo, II, 157, 158, 298; III, 118, 672.
Calabria e Calabresi, LII; 21, 24, 91, 95, 165, 176, 183, 189, 193, 203, 207, 212, 214, 222, 230, 268, 293, 297, 336, 357, 359, 360, 371, 372, 377, 380, 381, 384, 388, 412, 422, 424, 425, 426, 428, 431, 434, 435, 436, 437, 439, 441, 442, 443, 445, 461, 469, 517, 518, 519; II, 41, 42, 44, 69, 70, 71, 80, 87, 89, 90, 91, 148, 152, 153, 161, 166, 168, 171, 172, 173, 175, 176, 178, 179, 192, 203, 213, 215, 217, 242, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 251, 252, 263, 272, 278, 308, 311, 312, 313, 314, 315, 318, 319 a 322, 323, 328, 329, 339, 343, 344, 345, 346, 347, 365, 367, 374, 375, 377, 386, 392, 394, 398, 401, 402, 403, 405, 406, 407, 408, 410, 411, 439, 479, 480, 551; III, 14, 22, 23, 25, 31, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 53, 54, 57, 65, 68, 75, 78, 79, 83, 84, 85, 86, 89, 94, 100, 106, 107, 116, 120, 123, 125, 145, 146, 147, 150, 151, 153, 156, 160, 164, 165, 176, 177, 183, 184, 185, 192, 193, 194, 196, 204, 232, 233, 235, 237, 238, 248, 250, 258, 272, 273, 274, 275, 280, 281, 282, 299, 302, 303, 317, 318, 346, 347, 350, 353, 378, 392, 394, 395, 398, 450, 466, 553, 611, 613, 616, 625, 697, 701, 771, 790, 803, 810, 854.
Calacta, v. Alunzio.
Calascibetta, III, 75, 150.
Calata (La), II, 193; III, 605.
Calatafimi, II, 278; III, 772, 780.
Calatalfano e Catalfano, II, 49.
Calatamauro, III, 773, 776, 822.
Calatayud, II, 481.
Calathammeth, v. Kala’t-el-Hamma.
Calatrasi, v. Kalat-et-Tirazi, III, 325, 585, 776, 778.
Calatubo, III, 773, 780, 811.
Calbo, Calvus (monte), III, 876.
Calcare (Le), III, 67.
Caldia, v. Chaldia.
Calinio, 452.
Calle (La), v. Marsa-Kharez.
Calloniana, 289.
Caltabellotta, 310, 311, 334; II, 33, 185, 193, 194, 275, 433; III, 313, 775.
Caltagirone, 311, 336; III, 153, 225, 228, 229, 230, 231, 268, 269, 278, 296, 309, 338, 584, 599, 788.
Caltanissetta, 290, 330; II, 435; III, 78, 109, 174, 309, 311, 776.
Caltavuturo, 315, 322, 330, 334, 419, 421; II, 192, 385; III, 95, 96, 285.
Calvo, 452.
Cambray, III, 673.
Cambridge, II, 64.
Camelo (battaglia del), II, 103.
Camerata e Cammarata, II, 433; III, 209, 212, 219, 285.
Camerina, 323, 324; II, 402; III, 229, 230.
Camerino, 455; II, 72, 89, 166, 402.
Campagna di Roma, II, 164.
Campania, 98.
Campofelice, III, 776.
Campofiorito, III, 779.
Camporeale, III, 159, 779.
Camuka (La), III, 876.
Cancelliere (monastero del), III, 256.
Candia, 164; III, 534.
Canne, 361, 436; III, 21, 27, 28, 29.
Cannita, III, 536.
Canosa, 361, 374, 377; II, 164; III, 143, 791, 863.
Cansaria, Chanzaria, Ganzaria e Cancheria, III, 231.
Cantariddoheb, III, 870.
Capaccio, II, 344.
Capitanata, II, 316; III, 37, 45, 51, 612, 788.
Capizzi, III, 97, 224, 282, 285, 293, 499, 610, 616, 783.
Capo (quartiere del), III, 614.
Capo d’Anzio, II, 170.
Capo dell’Armi, 576; III, 50.
Capo Boèo, II, 431, 433.
Capo Bon, 430; II, 465; III, 420, 429. 473, 598.
Capo Circeo, II, 449; III, 672.
Capo di Gallo, III, 309.
Capo Granitola, II, 435.
Capo Miseno, II, 90.
Capo dei Molini, II, 86.
Capo Passaro, II, 127.
Capo Sant’Alessio, III, 795.
Capo San Marco, II, 192, 193.
Capo di Santa Croce, III, 166.
Capo Scalambri, III, 178.
Capo Scaletta, II, 85; III, 795.
Capo Spartel, III, 458.
Cappadocia, 333, 335, 440.
Capraia, III, 770.
Caprera, III, 770.
Capri, III, 770.
Captedi, III, 573.
Capua, città e principato, 188, 212, 357, 361, 369, 373, 374, 376, 385, 387, 388, 393, 435, 437, 443, 444, 445, 447, 450, 452, 453, 454, 455, 457, 458, 461, 462, 463; II, 161, 163, 166, 168, 311, 318, 327, 340, 344; III, 25, 27, 28, 39, 49, 52, 133, 142, 143, 183, 186, 187, 192, 193, 195, 306, 393, 395, 396, 398, 451.
Capuana, porta, 373.
Caputo, III, 582, 849.
Carcassonne, 159.
Cariati, III, 48.
Cariddi, II, 271.
Carini, II, 67; III, 301, 575, 774, 784, 811.
Carnello, fiume, 365.
Carona, III, 219.
Caronia, 455, 459, 470; II, 275, 388, 390, 433; III, 102, 147, 219, 313, 768, 772, 783, 789.
Cartagena, II, 186.
Cartagine, 4, 104, 106, 116, 119, 120, 123, 147, 165, 166, 167, 277; II, 139, 444, 501; III, 13, 412.
Cartama, III, 157.
Casa del Rifugio, II, 119.
Casa della Sapienza, II, 119.
Casale Butont, v. Rahl-Butont.
Casal Monferrato, III, 198.
Casalino, v. Ghirân-ed-dekîk.
Casba, III, 285.
Caserta, 452; II, 453.
Caserta Vecchia, III, 853.
Casilino (ponte del), 361.
Caspio, III, 637.
Cassano, II, 244, 346, 407.
Cassaro di Palermo, II, 68, 69, 274, 296, 298, 300, 301, 302, 303, 304; II, 118, 298, 617, 801, 841, 842.
Cassaro, casale, III, 264, 285.
Cassibari, III, 776.
Castana, III, 219.
Castania, III, 219.
Castelbuono, 346; II, 391; III, 776.
Castel d’Aci, II, 86.
Castel di Mola, II, 82.
Castel Giovanni, III, 118, 120, v. Castello di Iehia.
Castellammare del Golfo, II, 432, 783.
Castelmarre (fortezza di), in Palermo, III, 136, 139, 499, 565.
Castellana (La), III, 875.
Castel dell’Uovo, III, 461.
Castello, III, 257.
Castello di Iehia, III, 821, v. Castel Giovanni.
Castello di Sopra, v. Halka.
Castelluccio, 305.
Castel Lucullano, II, 90, 92.
Castelnormando, III, 215.
Castelnuovo, 346
Castel Pilano, 455.
Castel Sant’Angelo, II, 344; III, 145.
Castel Vecchio, II, 46, 49, 52, 142, 221.
Castelvetrano, II, 35.
Castiglione, II, 191.
Castilia, in Affrica, 156.
Castrogiovanni, 268, 270, 280, 281, 283, 284, 289, 290, 291, 299, 300, 306, 307, 308, 310, 311, 317, 319, 322, 323, 326, 328, 329, 330, 332, 335, 337, 342, 345, 346, 349, 471, 518; II, 31, 275, 411, 420, 424, 425, 432, 433, 436, 437, 521, 548, 549, 551; III, 71, 72, 73, 75, 76, 77, 79, 81, 82, 93, 94, 95, 96, 112, 134, 135, 136, 150, 156, 164, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 224, 225, 256, 257, 269, 285, 311, 327, 540, 565, 662, 773, 774, 791.
Castrogiovanni (val di), 467.
Castronovo, 327, 346; II, 400, 403, 406, 412, 420; III, 156, 301, 315, 340, 341.
Castroreale, 416.
Castrovillari, II, 347; III, 185.
Catalfano, v. Calatalfano.
Catalogna, III, 389.
Catania, 7, 13, 15, 18, 21, 26, 218, 219, 241, 247, 323, 348, 394, 417, 421, 422, 423, 465, 485, 486, 508; II, 71, 73, 86, 387, 402, 421, 425, 432, 433, 435, 436, 438, 448, 549, 554; III, 62, 64, 65, 78, 84, 85, 109, 110, 116, 117, 174, 149, 152, 153, 162, 163, 166, 205, 208, 209, 212, 228, 231, 234, 261, 268, 269, 285, 296, 297, 303, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 317, 320, 326, 327, 331, 338, 378, 387, 532, 536, 546, 550, 560, 595, 599, 603, 604, 609, 771, 774, 776, 784, 789, 795, 811.
Catanzaro, II, 316.
Catena (chiesa della), II, 158.
Catona, II, 450; III, 66.
Cattolica, III, 605.
Caucana, 336; III, 178.
Caudine (Forche), 362, 492.
Caucaso, 79.
Cava (monastero della), II, 458.
Cavallo (De), monte, III, 875.
Cefalà, II, 275, 451, 452; III, 314, 615, 821.
Cefalà (bagni di), III, 820.
Cefalonia, 414; III, 525.
Cefalù, 8, 307, 308, 309, 327, 328, 335, 416, 469, 485; II, 390, 402, 432, 435, 436, 443; III, 94, 103, 104, 147, 205, 208, 211, 231, 235, 279, 291, 296, 308, 309, 310, 338, 445, 463, 536, 595, 768, 773, 774, 776, 800, 811.
Cefalù (cattedrale di), III, 463, 843, 856.
Celano, III, 605.
Celsi o Celso, III, 266, 586.
Celso (contrada del), II, 69.
Centorbi, 8; III, 284, 285, 286, 314, 317, 348, 610, 616.
Cerami II, 385; III, 96, 97, 98, 101, 104, 105, 108, 109, 134, 135, 284.
Cesarea, 86, 87, 510; II, 180, 640, 645.
Cetara (Cetrara?), 455.
Cetaria, II, 433.
Ceuta, XLIX; 132; II, 48, 362, 476, 477; III, 664, 701, 703, 704.
Ceylan, III, 681.
Chadra e Cadara, II 434.
Chalces, v. Halka.
Chaldia o Caldia, II, 203.
Cherchell, III, 407.
Cherso, isola, 358.
Cherson, 91, 505.
Chersoneso, di Taurica, 316.
Chiaramonte, 269; III, 219.
Chinzica, III, 2.
Chiusi, 443.
Chrysas, II, 435.
Ciambra, III, 215.
Cianciana, III, 605.
Cicladi, 242; II, 367.
Ciculi, II, 164, 165.
Cilicia, II, 88.
Ciminna, III, 284, 285, 776.
Cina e Cinesi, II, 306; III, 762, 805, 816.
Cinisello, III, 219.
Cinisi, II. 433; III, 160, 219.
Cipro, 80, 81, 85, 182, 124, 483; II, 309, 466; III, 525, 530, 606.
Circia (punta della), v. Marsa-s-Scegira.
Cirenaica, 104.
Città del re, 416, 422, v. Polizzi.
Civita, sul Fortore, III, 43, 44, 45.
Civitavecchia, 227, 228, 450; III, 672.
Civitella, III, 22.
Clermont, III, 673.
Cluny (monastero di), III, 13, 190, 191, 498.
Clypea, 111; II, 77, 465.
Coblentz, III, 46.
Collegio Nuovo, in Palermo, III, 501.
Collesano, v. Golisano, II, 33, 192; III, 103, 104, 246, 289, 290, 775.
Collo, III, 427.
Colonia, III, 46, 604, 650.
Colonne (Le), 92, 93, 96, 109.
Comacchio, 436.
Conte (Dello). III, 875.
Contessa comune, III, 779.
Conza, 373, 374.
Copenhagen, LI; II, 383.
Coperta (Via), III, 501.
Cordova, XLIII, XLIX, LV; 160, 161, 162, 276, 287; II, 6, 33, 101, 190, 219, 302, 305, 454, 482, 481, 487, 488, 496, 508, 521; III, 4, 160, 161, 173, 350, 373, 459, 662, 664, 830, 845, 883.
Coreglia, III, 219.
Corfù, 516; II, 367; III, 146, 434, 435.
Corinto, 413, 414; III, 434, 435, 800.
Corleone, 310; II, 34, 36, 432, 433, 449; III, 86, 160, 211, 219, 224, 225, 226, 247, 309, 310, 311, 325, 341, 587, 772, 778, 779.
Corsica, XXXI; 28, 183, 184, 201, 207, 226, 276, 277; II, 180; III, 626, 627, 678.
Cosentini (quartiere de’), III, 219.
Cosenza, 11; II, 44, 90, 92, 95, 96, 314, 339, 342; III, 106, 178, 184, 257.
Cossira, v. Pantelleria.
Costantina, XLV, LVI; 119, 121; II, 52, 122, 233, 358; III, 374, 423, 424, 496, 664, 665.
Costantinopoli, XLIII, XLVIII; 10, 14, 24, 28, 29, 39, 46, 58, 76, 78, 86, 87, 91, 92, 93, 94, 98, 102, 119, 164, 185, 189, 191, 192, 193, 217, 220, 221, 222, 227, 231, 240, 250, 252, 282, 287, 297, 298, 303, 337, 338, 346, 349, 380, 397, 399, 407, 425, 428, 434, 437, 438, 439, 441, 454, 468, 472, 485, 492, 497, 498, 499, 501, 502, 504, 509, 518; II, 48, 69, 70, 72, 73, 77, 79, 87, 88, 90, 96, 100, 141, 153, 154, 171, 173, 174, 175, 192, 193, 214, 215, 219, 242, 246, 252, 253, 255, 262, 263, 271, 272, 278, 279, 281, 305, 306, 312, 318, 321, 326, 332, 376, 379, 380, 384, 385, 386, 391, 392, 393, 394, 395, 402, 403, 413, 416, 422; III, 26, 27, 30, 34, 36, 41, 114, 144, 192, 194, 284, 303, 368, 421, 434, 435, 460, 521, 524, 530, 563, 809, 824, 830, 831, 837, 864.
Cotentino, III, 38.
Cotrone, II, 324.
Coutances, III, 19, 38.
Crati, II, 92, 347.
Crati (val di), III, 43, 89.
Cremano, 457.
Cremona, II, 263; III, 590, 696.
Creta, Cretesi, 163, 164, 193, 221, 245, 246, 251, 252, 274, 237, 328, 359, 361, 362, 363, 378, 379, 413, 436, 502; II, 162, 247, 260, 261, 309, 376, 466, 480; III, 530.
Crimea, 316.
Cristiania, II, 383.
Cronio, 486.
Cuba, palagio, II, 451; III, 554, 555, 580, 582, 818, 819, 841, 843, 846, 847, 856.
Cuba, piccola fonte, III, 843, 844.
Cufa, 141; II, 116, 494; III, 826, 827, 855.
Cuma, 373.
Cumìa, II, 36.
Cuscasin o Custasin, III, 285.
Cutemi, Cutema, Gudemi, II, 36.
Cyaxo, III, 175.
D
Dafne (bagno di), 95.
Dakhel (Ed-), II, 275; III, 474, 599, e v. Scerîk.
Dalmazia, 319, 378, 379; II, 176; III, 315.
Damasco, XLV, L, LI, LII, LIII; 84, 87, 90, 125, 134, 139, 141, 177, 302; II, 486, 503; III, 463, 634, 635, 636, 639, 647, 648, 649, 685, 716, 720, 721, 736, 737, 764, 824, 828, 830.
Damiata, II, 276; III, 426, 467, 505, 511, 514, 606, 638, 640, 737.
Daniele (museo di casa), II, 453, 488.
Danimarca, II, 385, 386; III, 14, 15, 19, 124.
Danubio, III, 435.
Deilem, II, 110.
Delfinato, III, 307.
Dellys, II, 38.
Demona, città, 468, 469, 470; II, 71, 73, 85, 86, 143, 144, 148, 265, 266, 275, 400, 404, 407, 412, 432; III, 282, 313, 317, 772, 773.
Demona (val di), 417, 465, 466, 467, 469, 470, 471, 484, 495; II, 24, 69, 85, 141, 148, 149, 213, 216, 255, 275, 276, 396, 397, 398, 401, 403, 435; III, 71, 77, 78, 79, 102, 109, 133, 134, 147, 161, 164, 208, 210, 233, 267, 274, 308, 313, 773, 854.
Dendera, III, 832.
Denia, III, 4, 5, 9, 10, 12, 375, 376, 377, 379.
Dennisinni e Dannisinni, II, 33, 300, v. ’Ain-Scindi e Ainisindi.
Desisa, III, 316.
Dîmâs (Capo), XXXVIII; II, 226; III, 363, 384, 385, 386, 387, 399, 402.
Dîmâs, castello, II, 226.
Dinnamare, II, 264.
Dittaino, 351; II, 435; III, 72, 881, 884.
Divriki, v. Tefrica.
Donna Lucata (Ain-el-Aukât), III, 771.
Dordona, in Puglia, III, 616.
Drago, fiume, III, 596.
Dublino, III, 16.
Durazzo, III, 144, 145, 521.
E
Ecbatane, v. Ilamadân.
Edessa, III, 408, 462, 835.
Efeso, III, 665.
Egadi, III, 770.
Egitto, Egiziani, XXXVIII, XLI, XLII, LI, LII, LIII, LV, LVI; 62, 64, 79, 80, 85, 88, 91, 103, 104, 109, 113, 119, 123, 138, 143, 147, 162, 163, 166, 167, 234, 254, 371, 477, 514; II, 4, 13, 33, 39, 50, 76, 77, 88, 89, 118, 121, 129, 131, 133, 137, 150, 151, 169, 182, 183, 200, 227, 234, 235, 237, 238, 239, 240, 249, 275, 276, 278, 280, 281, 282, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 293, 294, 299, 302, 322, 325, 330, 331, 332, 333, 348, 349, 354, 355, 360, 362, 363, 364, 369, 393, 404, 427, 428, 445, 446, 448, 450, 458, 474, 477, 480, 482, 487, 489, 496, 506, 507, 508, 521, 522, 523, 527, 538, 547, 552; III, 211, 212, 260, 321, 322, 328, 332, 336, 363, 365, 405, 406, 408, 421, 426, 446, 454, 455, 465, 466, 467, 505, 506, 508, 510, 513, 515, 519, 541, 600, 608, 625, 634, 636, 638, 639, 641, 642, 647, 648, 649, 650, 652, 653, 654, 711, 716, 736, 737, 740, 766, 773, 789, 796, 796, 804, 807, 825, 829, 831, 832, 833, 836, 837, 843, 844, 847, 851, 852, 859, 867, 868, 879, 893.
El-Bâgi, v. Aci.
Elettorale (biblioteca Palatina), 507.
Ellade, 414; II, 367.
Emesa, II, 116; III, 526.
Emmelesio, III, 72.
Enna, 5, 8; II, 85, v. Castrogiovanni.
Entella, 334; III, 86, 266, 586, 618, 822.
Eolie (Isole), 304, 305, 306; III, 769.
Epte, III, 20.
Eraclea, II, 401; III, 338, 616.
Erice, 8; III, 775.
Escuriale, VIII, LI, LIII; II, 476, 477, 522.
Etna, XL, XLIV, XLVI, L, LIV; 8, 17, 85, 86, 305, 347, 422, 465, 467, 468, 508; II, 79, 86, 216, 387, 403, 406, 438, 440, 441, 442, 443; III, 55, 92, 150, 158, 215, 268, 544, 781, 783.
Etna, città, 8.
Etolia, III, 434.
Eufrate, xlv; 39, 60, 138, 176, 510; II, 33, 186, 286, 404, 432, 634, 646; III, 839.
Eure et Loir, III, 497.
Europa, II, 37, 169, 429, 430, 462, 465, 476, 495, 533, 542, 543; III, 182, 185, 190, 191, 198, 207, 227, 237, 239, 264, 276, 289, 323, 342, 351, 394, 432, 441, 452, 459, 522, 544, 557, 573, 627, 633, 642, 644, 652, 657, 660, 667, 669, 673, 681, 695, 699, 701, 710, 711, 712, 713, 722, 724, 773, 789, 795, 796, 805, 807, 810, 811.
Evonymos, III, 769.
F
Faenza, III, 815.
Fahsimeria, III, 869.
Fahs-Maria, III, 869.
Faium, II, 284; III, 652.
Fâkûs, III, 510, 511.
Falconara, III, 822.
Faraglioni, II, 86.
Farfa, II, 164.
Faro di Messina, 425; II, 90, 152, 214, 243, 244, 264, 272, 327, 346, 365, 377, 381, 390, 423, 432, 465, 552; III, 30, 31, 61, 63, 64, 67, 76, 82, 106, 116, 123, 179, 257, 391, 613, 655, 811, 853.
Fars, II, 110; III, 824.
Fatanasino, III, 153, 228.
Favara o Mare dolce, II, 300, 335, 350, 445, 451; III, 120, 450, 463, 552, 617, 618, 754, 756, 785, 820, 821, 843, 846, 847, 848, 850, 853, 884.
Favignana, III, 770.
Fenicio, monte, 92.
Fergana, II, 34.
Ferla, 311; III, 257.
Ferro (isola del), II, 437.
Fez, 129, 147, 226, 234; II, 284, 355, 662; III, 735.
Fiandra, III, 17.
Ficana, II, 193.
Ficarazzi, III, 844.
Ficuzza, III, 159, 341.
Finzia, 269.
Fiorentini (rua de’), III, 218.
Fitalia, III, 282, 284, 286.
Firenze, III, 46, 63, 130, 688, 796, 803, 816.
Firenze (biblioteca Laurenziana di), III, 707.
Fiume Salso, 417; III, 95, 773.
Fiume Grande, 417, 465; III, 95, 104, 112, 147, 773.
Flagella, III, 616.
Fleury (monastero di), III, 190.
Floresta, III, 776.
Foggia, III, 612.
Fondi, 365, 458.
Fontane (piano delle), III, 75.
Formiani (colli), 458.
Forriana, III, 468.
Fortore, II, 346; III, 43.
Fostât, 112; II, 284, 285.
Fragalà, III, 257.
Francavilla, III, 215.
Francescani (convento dei), in Trapani, II, 454.
Francia, 287, 369, 447, 451; II, 167, 257, 299, 372, 381, 384; III, 15, 16, 17, 18, 19, 26, 39, 106, 190, 214, 216, 217, 218, 252, 259, 279, 290, 365, 432, 433, 497, 517, 522, 529, 544, 564, 568, 590, 672, 803, 855, 858.
Francia (Istituto di), XVII.
Francoforte, II, 64, 174.
Frassineto, II, 162, 167.
Frazzanò, III, 71, 73.
Frigento, II, 164; III, 35.
Friuli, II, 166.
Fulda, II, 325.
Furno o Furnari, III, 63.
G
Gabbaturi (via del), III, 877.
Gabriele, fonte, II, 300; III, 870.
Gaeta, Gaetini, XL; 183, 187, 227, 312, 364, 365, 366, 367, 378, 435, 437, 444, 449, 450, 453, 455, 458, 461; II, 162, 163, 166, 458; III, 52, 277, 590.
Gagliano, 326, 327, 337; II, 152, 285, 286; III, 219.
Galati, III, 71, 282, 784.
Galcula, v. Halka.
Galea, v. Halka.
Galga, v. Halka.
Gallico, v. Leuca.
Gallipoli, 183, 316.
Gallizia, 158.
Gancia (convento della), III, 128.
Gange, II, 461.
Gangi, 418, 419.
Garbo (Ponente), II, 420, 617.
Garbyumara, III, 869.
Gardsuta, III, 776.
Gargano, 377; II, 35, 170, 247, 347; III, 22, 27.
Garigliano, 447, 459, 460, 461, 462, 463; II, 155, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 170, 171, 175, 338, 347, 459; III, 53, 183, 205, 314, 608.
Garopoli, II, 316.
Garraffu e Garraffeddu, II, 300; III, 870.
Gausa, v. Khâlesa.
Gavarrello, fiume, III, 789.
Gebâl, II, 110; III, 524, 526, 527.
Gebel-Hâmid, III, 775.
Gebel-Sindi, II, 34.
Gefîra (capo di), II, 247.
Gela, III, 231.
Geloi (campi), 323.
Gelso, fiume, II, 432, 445.
Genoardo, Genovardo, Ianuardo (giardino regio); III, 554, 555, 579.
Genova, Genovesi, 364; II, 179, 180, 181, 297, 500, 501; III, 1, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 15, 13, 14, 158, 169, 170, 171, 190, 198, 219, 223, 229, 230, 232, 260, 277, 290, 297, 357, 367, 377, 379, 404, 414, 453, 465, 513, 515, 518, 519, 522, 523, 530, 542, 550, 554, 558, 584, 590, 600, 601, 606, 607, 610, 625, 629, 630, 633, 774, 803.
Genovese (podere del), III, 219.
Geraci, Gerace, 310; II, 243, 244, 245, 246, 248, 249, 339, 391, 398; III, 83, 87, 88, 89, 219, 257, 280, 301.
Gerbe, Gerbini, LVI, 234; II, 197; III, 399, 400, 401, 402, 425, 471, 474, 495, 605, 628, 871.
Gerîd, tunisino, II, 198.
Germania, 447; II, 169, 322, 323, 327, 384, 413; III, 8, 15, 26, 190, 413, 431, 448, 468, 522, 549, 555, 557, 558, 559, 560, 561, 563, 564, 565, 566, 589, 590, 601, 604, 610, 649, 672, 859.
Gerusalemme, XLV, XLVIII, XLIX; 77, 412, 478, 515; II, 100, 343, 386, 413, 491, 503; III, 3, 26, 139, 189, 212, 394, 426, 501, 507, 522, 530, 578, 608, 609, 634, 635, 636, 637, 639, 640, 643, 644, 645, 646, 648, 649, 650, 651, 653, 692, 711, 824, 859.
Gerx, III, 473, 474, v. Scerîk e Dakhel.
Gezira, XLVII.
Geziret-el-Kerrâth, II, 127.
Ghadîr-el-Kuk, III, 869.
Ghalûlia, 289, 290.
Ghirân, 348, v. Grotte.
Ghirân-ed-Dekîk, II, 388.
Ghirbâl, v. Gabriele.
Ghûta, di Damasco, 87.
Giaffa, III, 524, 640, 644, 645.
Giampileri, II, 85.
Giardinello, III, 159.
Giardini (marina di), II, 81, 811.
Giato, Ieta o Iato, II, 36, 277, 278; III, 159, 160, 211, 247, 266, 286, 292, 310, 312, 316, 317, 580, 585, 586, 600, 618, 773, 775, 776, 778, 859.
Giattini, II, 433, 444, 512; III, 285, 292, 293, 317, 363.
Giawher (bagni di), III, 330.
Gibellina, II, 33.
Gibilterra, 62, 103; II, 461, 466.
Gigel, III, 407, 427.
Giordano, 515; II, 386, 413; III, 646.
Giorgio Antiocheno (chiesa di), III, 749, v. Martorana.
Giralda, torre, III, 686, 687.
Girgenti, 11, 15, 21, 205, 269, 311, 348, 467, 485; II, 34, 35, 36, 43, 64, 65, 66, 86, 142, 143, 147, 154, 157, 158, 160, 184 a 186, 189, 190, 191, 193, 194, 195, 234, 242, 273, 397, 398, 420, 433, 435, 488, 548; III, 75, 78, 82, 94, 104, 107, 109, 110, 111, 112, 164, 172, 174, 175, 176, 210, 211, 220, 231, 305, 308, 309, 310, 327, 330, 577, 594, 595, 599, 602, 608, 609, 614, 615, 698, 771, 772, 774, 776, 791, 795, 811.
Girgenti (provincia di), 334.
Girgenti (val di), 466; III, 773.
Girio, II, 416.
Girofalco, III, 611.
Giudei (borgo de’), II, 217, 297, 298.
Giza, III, 652.
Godrano, II, 434; III, 311, 779, 833.
Gog e Magog, III, 676, 679.
Golisano, II, 33; III, 775, 788, v. Collesano.
Gozzo, III, 179.
Grado, 436.
Granata, XXXVIII, XLIV; 234; II, 440, 482, 488; III, 787, 852.
Granitola, 266.
Gran-Terra (La) (l’Italia), 353.
Gravina, II, 314, 315, 316; III, 219.
Grecia, 42, 45, 76, 214, 412, 471; II, 194, 362, 367, 384, 395, 400, 416, 518; III, 144, 146, 164, 169, 214, 257, 273, 279, 319, 335, 337, 421, 521, 523, 525, 531, 662, 668, 671, 679.
Grottaferrata, II, 318.
Grotte (Le quaranta), 310; III, 72.
Grotte, fortezza, 310, 311, 348; II, 177.
Guadalquivir, 160.
Gualtieri, III, 219.
Guastanella, III, 174, 593, 594.
Gudemi, v. Cutemi.
Guidda (bagni della), III, 330.
Guiscardo, ponte, III, 89.
Gurfa, III, 264, 285.
H
Habes (Wadi-l-’Abbâs), v. Oreto.
Hager-ez-Zenati, II, 36.
Hakem-biamr-Illah (moschea di), III, 845.
Halka (El-), III, 137, 138, 139, 298, 323, 325.
Hama, XLVI, LI, LIII; II, 521, 654, 715, 716, 718, 722, 723, 729, 734.
Hamadân, II, 110; III, 826, 832.
Hammamet (golfo di), 109; II, 139, 200; III, 474, 485.
Harran, 141, 253.
Hasan (moschea di), III, 845.
Hasserinorum, contrada, III, 869.
Hastings, III, 16, 20, 22, 53, 673.
Hauteville, terra, III, 38.
Hegiâz, 39; II, 490, 662.
Herat, II, 436.
Herkla, II, 200.
Hicesia, III, 769.
Hira, 31, 39, 58, 59, 76; III, 825, 826.
Hisn-el-Genûn, ossia Kala’t-el-Khinzâria, III, 230, 231.
Hisn-el-Medârig, III, 783.
Hybla Haerea, 324.
Hybla Major, 319.
I
Iaci, v. Aci.
Iali, III, 285.
Iâlis (?), II, 186.
Iartinûa (?), II, 72.
Iathrib, II, 504, v. Medina.
Iato, v. Giato.
Ibla, 334.
Ibn-Khalfûn (via di), III, 869.
Ibn-Menkûd (castello di), II, 420.
Iccara, II, 86.
Iemen, 31, 32, 40, 58, 109, 125, 143, 158, 340; II, 63, 120; III, 825.
Ieta, v. Giato, III, 159.
Ifrikia, v. Affrica propria.
Ifscîn, II, 520.
Ikgiân, II, 122, 123, 132.
Iklibia, II, 77, v. Clypea.
Illiria, II, 367.
Imachara, 315, 418.
Imera, v. Fiume Grande (Imera settentrionale) e Fiume Salso (Imera meridionale), 417.
Imera, città, II, 264.
India, 80, 84, 85, 88, 108, 109; II, 445; III, 639, 668, 679, 712.
Indo, 62; II, 295.
Inghilterra, Inglesi, II, 372; III, 15, 16, 17, 20, 124, 290, 394, 414, 444, 497, 522, 529, 544, 564, 590, 672, 673, 809, 855, 859.
Ionie (Isole), III, 413.
Ionio, 364; II, 264, 347.
Irâk, XLV; 143, 254; II, 4, 336, 480, 349; III, 827.
Ischia, 228.
Isernia, 374, 459.
Islanda, II, 380.
Isola dei Porri, v. Geziret-el-Kerrâth.
Isole Britanniche, III, 679.
Ispahan, II, 66, 499, 508; III, 211.
Ispica, 311.
Istakhr, XL.
Istria, 358.
Itala, III, 876.
Italia, XXX, XXXI; II, 44, 73, 77, 90, 91, 160, 162, 166, 167, 170, 175, 176, 194, 240, 243, 244, 250, 257, 278, 295, 328, 338, 344, 346, 362, 367, 370, 372, 377, 381, 384, 390, 394, 395, 480, 545; III, 1, 14, 21, 22, 23, 25, 26, 28, 35, 39, 40, 41, 46, 49, 53, 114, 115, 143, 146, 182, 193, 198, 201, 218, 222, 227, 259, 272, 273, 280, 289, 297, 312, 347, 365, 367, 375, 377, 393, 394, 401, 409, 431, 432, 433, 450, 454, 493, 497, 521, 523, 530, 556, 557, 564, 609, 610, 620, 636, 646, 660, 672, 678, 682, 692, 695, 700, 701, 704, 711, 786, 796, 797, 799, 807, 809, 824.
Italia centrale, III, 550.
Italia meridionale, II, 28, 71, 72, 176, 179, 311, 321; III, 20, 26, 42, 48, 54, 62, 87, 114, 132, 133, 222, 223, 240, 277, 280, 380, 465, 468, 503, 590, 669.
Italia superiore, II, 327; III, 215, 222, 225, 268, 307, 671.
Itri, 458.
Iudica, III, 153, 154, 228, 230, v. Zotica.
Ivisa, III, 480.
K
Kaaba, v. Caaba.
Kâbes, 128, 131; II, 139, 290, 356, 362; III, 80, 369, 370, 371, 373, 399, 410, 411, 412, 413, 416, 448, 472, 486, 515.
Kabilia grande, II, 38.
Kafsa, II, 362, 486, 515, 516, 517.
Kairewân, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XLII; 113, 114, 115, 117, 121, 122, 123, 127, 128, 131, 133, 134, 136, 137, 144, 145, 146, 148, 154, 155, 156, 172, 230, 236, 253, 254, 255, 257, 258, 262, 277, 296, 343, 379, 385, 392, 393, 428; II, 10, 46, 47, 48, 49, 50, 54, 55, 61, 76, 122, 125, 129, 131, 135, 138, 139, 141, 142, 147, 162, 182, 190, 196, 197, 199, 200, 201, 207, 217, 221, 222, 230, 289, 334, 358, 359, 360, 362, 426, 432, 465, 499, 500, 501, 502, 548; III, 80, 211, 420, 477, 785, 829, 836, 841.
Kala’t-Abd-el-Mumin, 334.
Kala’t-beni-Hammâd, LIV.
Kala’t-el-Bellût, II, 33.
Kala’t-el-Fâr, III, 776.
Kala’t-el-Hamma (Calathammeth), III, 782, 811.
Kala’t-el-Kewârib, III, 772, 811.
Kala’t-el-Khesceb, v. Rocca del Legno.
Kala’t-el-Khinzâria, v. Hisn-el-Genûn.
Kalat-er-Rum, 336.
Kalat-es-Sirât, II, 192; III, 775.
Kalat-et-Tarîk, III, 776.
Kalat-et-Tirazi, v. Calatrasi, II, 449, 772.
Kalatubi, III, 776.
Kalbara, II, 192.
Kalbi, III, 330.
Kalesciana, II, 182.
Kalibia, v. Clypea.
Kalsa, v. Khâlesa.
Kâmil (borgo di), II, 361.
Kamûna, II, 540.
Kamunia, 114, 115.
Kanbâr, II, 107.
Karâfa, II, 489, 522.
Karak, III, 648.
Karches, II, 35.
Karkana (grotte di), 335.
Karkesia ( errato per Corsica), II, 180.
Kasr, v. Cassaro.
Kasr-el-Gedid (El), 326, 327.
Kasr-Giâ’far, II, 335; III, 120, 848.
Kasr-el-Hamma, II, 31.
Kasr-el-Hedîd, 326, 327.
Kasr-el-Kadim (El), v. Abbâsia.
Kasr-ibn-Menkûd, III, 776.
Kasr-Sa’d, II, 33; III, 312, 536, 766, 844.
Kasr-Sâlem, II, 184.
Kasr-Tur, 277.
Kastilia, III, 515.
Keitonat-el-Arab, v. Capo Circeo.
Keitun, v. Catona.
Kelâl, XL.
Kemonia, III, 495.
Keneh, III, 796.
Kerkeni, III, 407, 426, 471.
Kerkent, v. Girgenti, II, 35.
Kerkûd, II, 35, 433, 512; III, 776.
Kerkûr, II, 433. v. Kerkûd.
Khaibar, II, 107.
Khâlesa, II, 158, 184, 190, 191, 274, 292, 296, 298, 301, 304, 354, 375, 378, 426, 432, 434; III, 118, 122, 126, 127, 128, 129, 130, 138, 298, 821, 841, 870, 881.
Khandak (Candia), 164.
Kharadja (corr. Reggio), II, 248.
Kharsiano, 316, 333.
Khassu, III, 776.
Khawarnak, III, 825, 829.
Khazân, III, 776.
Khelât, III, 639.
Khorassân, 139, 140, 142, 143, 253, 264; II, 33, 110, 111, 112, 224, 369, 490, 498, 507, 805; III, 829.
Kiâna, II, 201.
Kosîra, v. Pantelleria.
Kubbet-el-Hawâ, III, 829.
Kubbet-el-Khadrâ (El), III, 828.
Kuzeh, II, 114.
Kuzistân, II, 114.
L
Lampedusa, 228.
Lamta, II, 150, 152, 156.
Laodicea, II, 279; III, 527, 529.
Laribus, 427; II, 275.
Laterano, 77, 96; III, 145, 807.
Lattarini, III, 870.
Lavello, III, 31.
Latomie, di Siracusa, 394.
Lauricio, 20.
Lazio, III, 47.
Lecce, III, 560, 569, 672.
Legnano, II, 328; II, 493.
Lenno, II, 88.
Lentini, 8, 17, 311, 316, 317, 337, 364, 485, 486; II, 49, 213, 263, 443; III, 219, 614, 618, 771, 774, 790, 822.
Leonforte, II, 185.
Lepanto, II, 298; III, 672.
Leuca o Gallico, II, 152.
Levante, II, 240, 372, 461, 508; III, 340, 422, 426, 434, 435, 504, 522, 524, 529, 539, 609, 633, 637, 660, 661, 664, 679, 698, 701, 718, 723, 785, 789, 805, 823.
Leyda, XXXIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, L, LI, LII, LIV, LV; II, 370, 470.
Li Aci, v. Aci.
Liâgi, v. Aci.
Libia, III, 421.
Libica, provincia, 104.
Librizzi, III, 206, 208.
Liburia, 373.
Licata, 269; II, 35; III, 94, 174, 330, 338, 602, 672, 773, 811.
Licia, 92; II, 368.
Lico, fiume, II, 193.
Licodia, 311.
Licosa, 364.
Li Gresti, torre, III, 822.
Liguria (riviera di), II, 180.
Lilibeo, 8, 11, 94, 169, 205, 265, 467, 485; II, 431; III, 314, 339, 598.
Lilibetana, provincia, 417, 466, 467.
Limona, III, 247.
Linario, monte. II, 443.
Linguadoca, 125, 158.
Lione, III, 803.
Lipari, 356, 485, 486; II, 170, 305, 308, 338, 768, 775.
Liporaco, II, 407.
Lipsia, LI.
Lisbona, III, 16, 664.
Lo False, III, 71.
Lognina, III, 166.
Loira, 158; III, 16, 17.
Lombardia, Lombardi, 462; II, 161; III, 28, 34, 196, 216, 222, 223, 224, 225, 226, 252, 297, 325, 450, 486, 487, 499, 530, 546, 603, 608, 654.
Londra, XLV; III, 16.
Longobardia, 212; III, 8, 223.
Longobardo (porto di), III, 178.
Longobuco, II, 347.
Lorena, 377; II, 402.
Loristan, II, 31.
Louvre (museo del) III, 796.
Lucca, III, 803.
Lucera, XXXI, XXXVIII; 396; III, 253, 318, 538, 596, 598, 602, 603, 608, 611, 612, 616, 619, 620, 628, 654, 688, 689, 712, 791, 792, 867.
Ludd, III, 644.
Lugêrah, III, 598, v. Lucera.
Luhrostico, III, 877.
Luni, III, 4, 7, 8, 9, 13, 16, 22.
Luoghi Santi, III, 185, 189.
M
Macara (grotte di), 336.
Macasoli, fiume, II, 193.
Macedonia, 440; II, 250, 365, 367, 392, 394.
Madonie, 315, 322, 417; II, 192.
Madonna del Paradiso, chiesa, III, 794.
Madrid, 489.
Magagi e Maghâghi, II, 36.
Maghreb, 122, 127, 128; II, 535; III, 420, 517, 715, 716, 718.
Magione (chiesa della), III, 238, 857.
Magione (commenda della), II, 434.
Magnaura, 503, 504, 508, 509; II, 48.
Magnisi (penisola di), III, 213.
Maine, III, 151.
Majorca, XLIII; 125, 127; II, 529; III, 5, 10, 376, 377, 518, 519, 520, 530, 821.
Makara, III, 776.
Malaga, III, 173, 662, 663, 664.
Maletto, 311, 336.
Malfiteri, III, 330.
Màlis, II, 186.
Malta, XL, L; 12, 352, 408, 485; II, 208, 260, 329, 422, 448, 516; III, 116, 117, 177, 178, 179, 180, 213, 269, 296, 309, 318, 388, 536, 553, 598, 605, 606, 607, 684, 685, 751, 752, 762, 775, 787, 788, 810, 871, 872.
Mandanici, II, 85; III, 776.
Manfredonia, II, 164.
Mangiaba, III, 788.
Maniace, terra, II, 388; III, 71, 73, 77, 224, 257, 499, 776, 843.
Mansuria, II, 362, 432; III, 606, 760.
Marakia, III, 526.
Marca e Marka, 98, 99.
Marca Aleramica, III, 200, 225, 228, 230, 289.
Marca d’Ancona, III, 577.
Marca de’ Saraceni, III, 595.
Mare dolce, v. Favara.
Mare Rosso, 39; II, 413.
Marettimo, III, 770.
Margana, III, 311, 776.
Marge (Lu), III, 877.
Marigny, III, 38.
Marineo, 310; II, 186; III, 311.
Markab, castello, III, 526.
Marmara (mar di), 497.
Marmarica, 104.
Marmorea (Via) III, 501.
Mar Nero, 91, 510.
Marocco, XLVI, L; II, 36, 133, 137, 283, 363, 437; III, 373, 374, 422, 424, 475, 477, 483, 495, 496, 498, 516, 518, 553, 617, 622, 632, 662, 664, 739.
Marsala, 171, 467; II, 275, 420, 427, 431, 432, 434, 453; III, 339, 380, 772, 773, 774, 811.
Marsa-l-Kharez, II, 362, 465.
Marsa-s-Scegira, II, 435.
Marsa-s-Sceluk, 269.
Marsa-t-tin, 318, 319.
Marsa-z-Zeitûna, III, 427.
Marsiglia, Marsigliesi, III, 625, 671, 708, 810.
Martorana (chiesa e monastero della), XV, XVI, XVIII, XIX, XXVIII; 90, 100, 233, II, 13; III, 351, 353, 355, 592, 593, 656, 793, 843, 846, 856, 857.
Marzamemi, III, 881.
Mascali, II, 433, 438; III, 356.
Ma’skar, III, 137.
Massa, III, 257.
Matera, 377; II, 340.
Mattorium, 324.
Maurienne (contea di), III, 676.
Mauritanie, 104.
Mawkif, II, 522.
Mazar, II, 31.
Mazara, XXXVII, XLVII; 233, 265, 266, 267, 269, 274, 285, 286, 289, 294, 467; II, 35, 62, 143, 191, 192, 193, 207, 208, 212, 252, 275, 278, 420, 421, 427, 432, 433, 445, 455, 486, 501, 502, 504, 520, 539; III, 94, 133, 139, 147, 149, 150, 151, 164, 232, 269, 276, 291, 292, 305, 308, 309, 310, 312, 320, 341, 663, 771, 774, 791, 794, 795, 811.
Mazara (val di), 290, 311, 325, 334, 417, 465, 466, 467, 484; II, 24, 25, 35, 192, 216, 217, 239, 276, 277, 396, 397, 400, 403, 419, 420, 435; III, 109, 210, 264, 265, 266, 267, 536, 546, 547, 571, 575, 579, 591, 594, 595, 596, 616, 618, 773, 776, 787, 822.
Mazaro, fiume, II, 36; III, 771.
Me’arra, II, 101.
Mecca, XLIX; 39, 41, 46, 47, 49, 51, 55, 56, 57, 58, 65; II, 77, 117, 118, 120, 245, 286, 335, 477, 482, 487, 496; III, 264, 408, 668, 703, 704, 715, 716, 722, 829, 830, 837, 839, 840.
Mechinesi, II, 35.
Media, Medi, II, 308; III, 837.
Medina, 39, 56, 57, 59, 109, 110, 134, 253; II, 286, 475, 476, 504, 521; III, 210, 824, 829.
Mediterraneo, XLIV, LI, LIV; 75, 79, 80, 82, 95; II, 169, 170, 231, 295, 309, 332, 357, 362, 363, 386, 445, 450, 466, 501; III, 2, 12, 13, 109, 169, 323, 336, 337, 373, 374, 563, 625, 670, 675, 676, 678, 679.
Megara, 418.
Mehdia, XXIX, XXXVII, XXXVIII, XLIV, LIV, LVI; 379; II, 33, 139, 150, 171, 173, 179, 180, 190, 196, 199, 200, 201, 202, 203, 206, 207, 239, 241, 247, 249, 250, 254, 272, 278, 279, 280, 290, 291, 356, 360, 361, 362, 364, 420, 432, 449, 485, 499, 501, 528, 529, 530, 535, 546; III, 14, 24, 80, 81, 93, 136, 158, 168, 169, 170, 171, 172, 174, 190, 332, 361, 362, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 386, 387, 399, 401, 402, 403, 404, 405, 406, 407, 410, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 418, 419, 420, 421, 423, 425, 429, 430, 460, 472, 473, 474, 475, 476, 477, 478, 480, 481, 482, 483, 484, 489, 490, 496, 515, 516, 517, 622, 651, 716, 719, 746, 759, 764, 780, 802, 808, 841, 864.
Melfi, Melfitani, II, 389; III, 24, 27, 30, 31, 32, 34, 35, 37, 40, 46, 51, 141, 192, 211, 240, 393, 598, 648, 650, 696, 791.
Melgia-Khalîl, III, 776.
Melicocca, II, 410.
Melîla, v. Melilli.
Melilli, Melila, Melili e Melîla, II, 36; III, 212.
Melitene, III, 212.
Menâni, III, 463, 819, 820, 846, 847, 849, 850, 851.
Menasciin, corr. Monastir, II, 485.
Menfi, di Sicilia, III, 790.
Mengiaba, III, 776.
Mersebourg, II, 328; III, 8.
Mentana, III, 367.
Menzaleh, lago, III, 511.
Menzil-Jûsuf, III, 246, 311.
Menzil-Sindi, II, 34; III, 776.
Merhela Gulielm, III, 215.
Mernak, presso Tunis, II, 485.
Mertu, III, 285.
Merw, II, 33, 224, 498.
Mesîd-Bâlîs, II, 186.
Mesisino, II, 35.
Meskân, 314.
Mesopotamia, XLV, XLVI, XLVII; 31, 141; II, 33, 98, 278, 310, 513; III, 637, 639, 667, 825, 837, 844, 858, 879.
Messina, XXXI; 7, 15, 18, 19, 24, 91, 94, 100, 101, 280, 304, 305, 313, 314, 336, 363, 426, 427, 428, 465, 469, 485, 486, 489, 517; II, 35, 36, 70, 71, 72, 73, 89, 213, 214, 243, 244, 259, 263, 264, 266, 271, 313, 314, 315, 327, 382, 383, 390, 393, 394, 396, 397, 398, 400, 402, 421, 424, 432, 433, 435, 437, 443, 450, 453, 466, 467, 552; III, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 71, 73, 75, 76, 78, 85, 86, 102, 109, 132, 133, 147, 161, 162, 166, 180, 192, 201, 202, 208, 209, 216, 218, 219, 220, 228, 229, 232, 233, 235, 254, 257, 269, 274, 275, 286, 288, 289, 290, 291, 295, 297, 298, 305, 308, 309, 310, 320, 330, 333, 339, 340, 346, 349, 350, 351, 353, 354, 359, 445, 463, 464, 487, 499, 500, 502, 536, 543, 544, 546, 547, 548, 550, 559, 564, 565, 566, 569, 570, 579, 582, 584, 590, 599, 609, 610, 627, 650, 656, 678, 696, 768, 776, 780, 792, 802, 811, 812, 813, 818, 843, 853, 883.
Messina (duomo di), III, 817.
Messina (museo di), II, 454.
Mezzoiuso, v. Menzil-Jûsuf.
Mezzomondo, nave, III, 651.
Mezzo Morreale, III, 554.
Michiken, 315; III, 264, 285.
Mico o Vico (Bikesc, Benfesc, Tifosc, Minisc, Minis, Mikosc, Mikos), II, 85, 265, 266; III, 776.
Micolufa, III, 174, 175.
Migeti (terra di), III, 278.
Mihkàn, 315, v. Michiken.
Mikosc e Mikos, v. Mico.
Mîla, II, 123, 233, 335.
Milano, 20; II, 389; III, 672.
Milazzo, 21, 425, 426, 469; II, 432; III, 63, 64, 102, 338, 340, 784, 789, 811.
Milazzo (val di), 466, 467; III, 301, 312.
Mileto, II, 214, 261, 322, 552; III, 51, 57, 59, 60, 62, 78, 84, 87, 88, 151, 176, 177, 235, 273, 305, 314, 315, 349.
Milga, III, 286.
Mili, II, 265, 432, 433.
Militello, III, 822.
Millaga, monte, III, 605.
Mimnerno, v. Menàni.
Mineo, 278, 279, 280, 285, 286, 287, 288, 289, 291, 337; II, 432, III, 787.
Minisc e Minis, v. Mico.
Minorca, 125.
Minsciàr, II, 36; III, 573, 592.
Minzaro, v. Minsciàr.
Minzecio, III, 573.
Mirabella, III, 219.
Miragia, III, 776.
Mirto, III, 208, 282, 284, 286.
Misanelli, II, 408.
Miseno, 364.
Miserella, III, 592.
Misilmeri, II, 186; III, 108, 111, 113, 285, 292, 302, 311, 592, 843.
Mismar, III, 213.
Misr, II, 182, 488, 538; III, 737, v. Egitto.
Mistretta, II, 161, 229, 232, 233, 286.
Modica, 315.
Modiuni, fiume, II, 35.
Modone, 414, 508, 509; III, 435.
Moezzia, II, 259.
Mojo, II, 191.
Mola, 223.
Molise (contea di), III, 497.
Monakh-el-Bakar, II, 315.
Monastir, II, 474, 484, 485.
Mondello, 317, 318, 319.
Monembasia, 399; III, 434.
Monferrato, III, 197, 199.
Monforte e Monteforte, 470; II, 85, 265; III, 71.
Mongibello, II, 442; III, 881, 883.
Monopoli, III, 35, 521.
Monpileri, III, 215.
Montalbano, III, 71, 610, 788.
Monte di Abu-Malek, città, 343.
Monte Aperto, 311; III, 107.
Monte Cassino, 101, 102, 365, 368, 369, 373, 374, 376, 460; II, 87, 318, 392; III, 21, 24, 27, 28, 41, 45, 52, 123, 140, 141, 190, 398, 440, 853, 860.
Monte Cuccio, II, 67.
Monteleone, III, 616.
Monte Maggiore, III, 34.
Monte Negro, presso Antiochia, III, 784.
Monte Pellegrino, II, 443
Montepeloso, II, 342; III, 34, 35, 40, 397, 406, 688.
Monte San Girolamo, III, 210.
Monte di San Pietro, III, 340.
Monte Saraceno, II, 347.
Montescaglioso, II, 341.
Monte Scuderi, II, 85.
Monte delle Tarantole, III, 107.
Morreale, II, 34, 36, 300, 432, 434, 120; III, 215, 219, 251, 309, 312, 322, 324, 325, 494, 577, 580, 581, 582, 585, 595, 843, 849.
Morreale (monastero e arcivescovato di), III, 237, 238, 213, 246, 250, 310, 311, 322, 324, 341, 450, 451, 531, 536, 546, 574, 579, 587, 588, 778, 806, 874.
Morreale (duomo di), III, 514, 815, 862, 864, 870, 879.
Mortelleto, III, 152.
Mosa, III, 17.
Moschea (regione della), II, 297, 298.
Mosciàrra, 343.
Mosella, III, 650.
Mosul, XLVI, XLVII; II, 497.
Motta, III, 220.
Msila, II, 362, 444, 499; III, 212.
Mueli (monastero di), II, 282.
Muluia, III, 212.
Murcia, XLIX; III, 703, 704, 705.
Mussaro, III, 592, v. Muxaro.
Muta, 59.
Mutata, III, 340.
Muxaro, III, 174, v. Mussaro.
Muxaro (Sant’Angelo di), II, 36.
N
Nàiis, II, 186.
Napoli, XXXI, XXXII, XL; 183, 186, 187, 189, 193, 212, 216, 227, 239, 311, 312, 313, 314, 354, 355, 357, 364, 367, 369, 373, 375, 376, 379, 381, 385, 389, 413, 435, 437, 438, 443, 444, 445, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 455, 457, 458, 459, 461, 462, 463; II, 90, 91, 92, 95, 161, 162, 163, 164, 166, 167, 175, 178, 236, 251, 253, 295, 299, 312, 315, 316, 340, 344, 376, 377, 445, 449, 450, 453, 458, 459, 460, 488; III, 28, 52, 112, 186, 196, 212, 235, 237, 238, 453, 461, 566, 579, 588, 608, 631, 698, 706, 708, 709.
Napoli, d’Affrica, III, 212.
Napoli (archivio di), III, 201, 202, 241, 613.
Napoli (museo di), III, 452, 814.
Napoli (università di), III, 707.
Nardò, II, 72; III, 672.
Narni, II, 164, 165.
Naro, III, 174, 791.
Naso, III, 282, 284, 286.
Naupactitesse (monastero detto delle), II, 298, 415, 416.
Nauplia, II, 367.
Nazareth, III, 644.
Nè (comune di), III, 221.
Negroponte, 414; III, 466, 467, 480, 679.
Nepi, II, 164, 165.
Neritinû, v. Nardò.
Neritum, v. Nardò.
Nesterawa, II, 275, 276.
Nettunii (monti), II, 264.
Nicea, 501; III, 664, 665.
Nicosia, III, 90, 135, 224, 225, 227, 229, 268, 278, 287, 288, 294, 295, 309, 338, 499, 584, 610.
Nicotra, III, 150, 151, 165, 257, 378, 379.
Nilo (Il), II, 122, 284, 418, 463, 500, 530, 548; III, 73, 80, 82, 92, 511, 515, 521.
Nini, fiume, 119.
Ninive, XXVII.
Nisapur, 253; II, 111, 507.
Nizza, 227.
Nocera, 462, 463; III, 611, 612, 620, 688.
Noja, II, 408.
Normandia, II, 343, 380, 413; III, 18, 20, 23, 27, 29, 37, 38, 39, 213, 214.
Norvegia, II, 380, 383, 384; III, 14, 15, 17, 19, 39.
Noto, 323, 324, 345, 346, 348, 467; II, 275, 433, 435; III, 167, 175, 176, 177, 269, 301, 306, 309, 314, 774.
Noto (val di), 315, 319, 323, 363, 417, 465, 466, 467, 484; II, 24, 213, 216, 255, 276, 396, 397, 435, 526; III, 85, 109, 149, 151, 153, 154, 210, 267, 314, 773, 822.
Novara, III, 220, 225.
Nozaba, III, 407.
Nûba, II, 77, 78.
Nubia, III, 681.
Numidia, 104.
Nuova Regione, II, 297, 298.
Nurembergh, III, 448, 589, 814.
N»zh»r»d, III, 316.
O
Obbiano, II, 345.
Occidente, II, 120, 140, 221, 231, 233, 282, 286, 309, 404, 461, 462, 499, 522, 528, 535; III, 13, 25, 303, 447, 454, 458, 490, 663, 664, 668, 669, 708, 711, 805, 811.
Oceano, II, 284; III, 16, 337, 374, 679.
Odesuer (Wadi-es-Sewâri), III, 884.
Ofanto, III, 34.
Oiûn-’Abbâs, II, 435.
Okâz, 41, 42.
Olivella (monastero dell’), III, 869.
Olivento, III, 31.
Oliveri, II, 433; 111, 102, 774, 783.
Oppido, III, 251, 282, 284.
Orano, 116, 122, 292; II, 362; III, 426.
Ordona, II, 312.
Oreto, fiume, L; II, 68, 299, 300, 301; III, 103, 118, 470, 580, 582, 785, 790, 849, 883.
Oria, II, 170, 171, 172, 175, 316.
Oriente, II, 100, 101, 102, 104, 134, 178, 221, 227, 255, 269, 278, 282, 286, 361, 362, 365, 404, 446, 474, 481, 495, 496, 498, 504, 518, 519, 522, 533; III, 14, 25, 315, 324, 328, 447, 513, 535, 541, 669, 694, 713, 728, 731, 732, 733, 774, 802, 807.
Orne (dipartimento dell’), III, 497.
Oronte, III, 634.
Orta, II, 164.
Ortigia, 7, 394, 395, 397; II, 259, 391.
Osero, 358.
Ostia, 365, 366, 367, 368, 444, 445, 446, 453, 454.
Osra (?), II. 185.
Otranto, 183, 185, 437; II, 171, 172, 177, 243, 244, 252, 316, 431; III, 108, 116, 609.
Oxford, XLIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVIII, XLIX, LIII; II, 467.
Oxford (biblioteca Bodlejana di), III, 701.
P
Pace (porta della), II, 156.
Pachino, 100; II, 435, 448.
Padova, III, 803.
Paesi Bassi, III, 1.
Paflagonia, III, 672.
Palagio comunale di Palermo, II, 69.
Palagio nuovo, v. Halka.
Palagio reale di Palermo, III, 138.
Palagonia, 311.
Palasciano, II, 345.
Palazzolo, di Sicilia, 269, 336; III, 220.
Palazzuolo, presso Firenze, III, 220.
Palermo, XL, XLI, XLIV, L; 8, 11, 13, 15, 21, 94, 205, 206, 232, 240, 248, 271, 274, 290, 291, 293, 294, 299, 302, 304, 305, 307, 308, 309, 315, 317, 318, 319, 320, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 330, 333, 335, 336, 337, 344, 345, 348, 349, 350, 351, 352, 354, 359, 364, 371, 378, 379, 392, 399, 407, 412, 413, 414, 417, 422, 423, 424, 425, 426, 440, 465, 467, 485, 486, 487, 489, 493, 516; II, 5, 12, 24, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 43, 48, 64, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 77, 78, 79, 96, 140, 141, 144, 145, 147, 150, 151, 152, 155, 157, 158, 159, 160, 172, 177, 178, 179, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 192, 193, 195, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 212, 214, 215, 216, 222, 225, 236, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 250, 251, 252, 257, 263, 266, 269, 270, 272, 274, 278, 292, 293, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 320, 329, 333, 335, 337, 338, 349, 350, 373, 375, 387, 388, 390, 391, 392, 394, 396, 402, 403, 412, 414, 415, 416, 418, 419, 420, 421, 422, 425, 426, 427, 428, 431, 432, 433, 434, 435, 436, 437, 442, 443, 449, 452, 454, 455, 465, 467, 481, 486, 498, 501, 506, 513, 516, 518, 524, 535, 547, 548, 549, 551, 552; III, 14, 66, 69, 73, 75, 76, 78, 79, 80, 92, 93, 94, 96, 97, 100, 101, 102, 103, 106, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 125, 128, 129, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 147, 148, 149, 150, 153, 159, 160, 164, 173, 176, 185, 204, 205, 207, 209, 210, 212, 214, 216, 217, 218, 219, 225, 226, 228, 229, 230, 232, 233, 236, 237, 245, 248, 251, 253, 254, 256, 257, 261, 262, 263, 266, 267, 269, 275, 277, 285, 286, 287, 290, 292, 297, 298, 299, 300, 308, 309, 310, 311, 315, 316, 317, 320, 321, 322, 323, 324, 327, 330, 331, 334, 335, 339, 340, 341, 343, 349, 350, 351, 353, 358, 359, 365, 368, 370, 388, 389, 390, 392, 393, 394, 395, 401, 409, 415, 420, 422, 423, 425, 426, 427, 430, 434, 438, 439, 448, 450, 451, 459, 460, 468, 469, 470, 471, 474, 475, 476, 484, 485, 486, 487, 490, 494, 496, 497, 500, 504, 505, 506, 515, 517, 520, 525, 531, 534, 535, 536, 544, 545, 547, 548, 551, 552, 558, 560, 561, 564, 565, 566, 567, 570, 571, 572, 577, 579, 581, 582, 583, 584, 586, 587, 589, 592, 594, 595, 597, 599, 600, 609, 610, 614, 615, 617, 618, 655, 656, 657, 662, 665, 670, 672, 676, 678, 680, 683, 684, 689, 690, 698, 700, 709, 711, 713, 722, 752, 754, 756, 757, 763, 764, 766, 768, 773, 774, 776, 785, 786, 797, 798, 800, 801, 802, 811, 812, 813, 815, 816, 818, 819, 820, 840, 841, 842, 843, 855, 856, 864, 866, 868, 874, 893, 894.
Palermo (archivio di), III, 203, 215, 234, 246, 291, 318, 635, 806, 872.
Palermo (cappella Palatina di), III, 463, 475, 492, 684, 792, 793, 831, 842, 843, 845, 847, 848, 856, 857, 861.
Palermo (duomo di), III, 463, 793, 801.
Palermo (museo di), III, 792, 795, 869.
Palermo (università degli studi di), II, 69; III, 869.
Palestina, III, 346, 522, 529, 530, 563, 608, 640, 652, 811.
Palici (lago dei), 5, 279.
Palma, di Calabria ( corr. Palmi), II, 317.
Palma (spiaggia di) sotto Roccalumera, in provincia di Messina, III, 795.
Palma, in Majorca, III, 821.
Palmi, 517; II, 410; III, 57.
Palmira, 31; III, 825.
Paludi Meotidi, 221.
Panaria, III, 769.
Paniças, III, 631.
Pantalica, 311; III, 180, 181.
Pantelleria, 111, 112, 165, 166, 304; II, 367, 448, 508; III, 81, 82, 169, 381, 382, 415, 536, 553, 598, 626, 627, 628, 631, 632, 770, 774, 783, 787, 809, 870.
Panteon di Roma, 94.
Paola, di Calabria, II, 314.
Paolotti (chiesa de’), in Palermo, III, 121.
Papireto, III, 138.
Papireto, fiume, II, 158, 299, 501.
Parco, III, 779, 849, 850.
Parigi, XVII, XXI, XXV, XXX, XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XLI, XLII, XLIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, L, LI, LII, LIV, LV; II, 51, 272, 467, 484; III, 16, 17, 213, 230, 700, 797.
Parigi (biblioteca nazionale di), II, 272; III, 698. Parigi (museo di), II, 456, 457, 458.
Parigi (università di), III, 707.
Parma, III. 694.
Partanna, III, 776.
Partinico, II, 86, 432; III, 460, 301, 317, 784.
Patané, II, 86.
Paterno, III, 220.
Paternò, III, 72, 73, 150, 152, 220, 226, 268, 301, 311, 312, 783.
Patitelli (porta dei), II, 303.
Patrasso, 508, 547.
Patria (lago di), 373.
Patti. 469; II, 432; III, 56, 220, 221, 225, 232, 236, 278, 296, 308, 309, 331, 340, 356, 378, 387, 768.
Pavia, 212; III, 590.
Pellegrino, monte, 318.
Peloponneso, 176, 328, 401, 414, 442, 502, 508; II, 169; III, 413, 434.
Peloriade, 422; II, 79.
Pentapoli, 91, 180.
Pentidattolo, 516.
Perche (contea di), III, 497.
Pergusa, lago, 311, 330; III, 75.
Persepoli, XL.
Persia, Persiani, XLV, XLVI; 31, 39, 53, 56, 58, 59, 60, 62, 64, 72, 74, 77, 94, 138, 142, 515, 517; II, 4, 17, 31, 32, 33, 37, 66, 98, 99, 100, 105, 108, 109, 110, 111, 114, 115, 116, 117, 118, 140, 173, 269, 278, 490, 492, 493, 544; III, 36, 639, 649, 668, 679, 729, 732, 741, 824, 825, 837, 840.
Persico (golfo), 80.
Petra, III, 825.
Petra de Zineth, II, 36.
Petracucca, II, 246, 247.
Petralia, II, 397; III, 85, 86, 112, 281, 285, 315, 340, 341.
Petralia Soprana, III, 85.
Petralia Sottana, III, 85.
Petrazzi, II, 67.
Pettinengo, III, 220.
Pettineo, III, 220.
Phinthia, 269.
Piana de’ Greci, III, 159, 779, 850.
Piazza, 311, 336; III, 220, 223, 225, 226, 227, 229, 268, 269, 309, 488, 822.
Piazza della Marina, in Palermo, II, 158.
Piemonte, II, 167, 225.
Pietà (monastero della), in Palermo, III, 128.
Pietrapennata, II, 247.
Pietraperzia, 330; II, 275; III, 311.
Pietra di Roseto, II, 407.
Pietra di Serlone, III, 135.
Pietroburgo, XXXIV, XXXIX, XLIII; II, 383.
Piramitana (Massa), 12.
Pirenei, 125, 158, 159.
Pisa, Pisani, 364; II, 311, 313, 500, 504; III, 1, 2, 3, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 97, 101, 102, 103, 158, 168, 169, 170, 171, 172, 190, 223, 232, 260, 277, 341, 367, 376, 377, 379, 404, 429, 465, 466, 467, 513, 515, 518, 519, 522, 523, 530, 550, 558, 577, 580, 581, 584, 588, 601, 606, 625, 633, 692, 774, 810, 849.
Pisana (torre), in Palermo, III, 218.
Pitirrana, III, 262, 270, 311, 776.
Pizzuto (contrada del), II, 158.
Platanella, II, 193.
Platani, 310, 334, 335, 337; II, 193, 194, 195; III, 174, 266, 573, 586, 588.
Platani, fiume, III. 174, 596, 604, 605.
Platano, monte, III, 604, 605, 776.
Po, 358; II, 394; III, 34, 198, 222, 672.
Poitiers, 158.
Policastro (golfo di), II, 339.
Polizzi, 416, 417, 419, 422; II, 33, 285; III, 275, 592.
Pollina, III, 595.
Polluce (torre di), 237.
Polonia, II, 384, 679.
Pommersfeld, III, 696.
Ponente, v. Occidente, III, 379, 420, 424, 425, 544, 625, 686, 701, 718, 739, 805.
Ponte dell’Ammiraglio, III, 785.
Ponte della Grazia, III, 580.
Pontevico, III, 641, 712.
Ponza, 228, 364; III, 226.
Porri (isola dei), 270.
Porta Negra, torre, II, 413.
Porta Nuova, in Palermo, III, 120, 121, 128, 137.
Portella di Mare, III, 844.
Portici, 457.
Porto di Ali, 467; II, 431, v. Marsala.
Portoferraio, III, 672.
Portogallo, II, 505; III, 414, 735.
Porto Palo, III, 790.
Potenza, III, 221.
Pozzolo Superiore, II, 85.
Pozzuoli, 373; II, 453; III. 467.
Praroli, o Tre Laghi, III, 63.
Principato, III, 612, 625.
Principato Ulteriore, III, 37, 45.
Prizzi, II, 443, III, 311.
Puglia, e Puglia (ducato di), XXXI; 165, 328, 336, 359, 360, 371, 372, 373, 435, 437, 438, 441, 442, 443, 468; II, 153, 168, 175, 176, 244, 245, 311, 313, 314, 345, 316, 345, 346, 365, 380, 389, 392, 416, 784, 798; III, 14, 22, 23, 25, 26, 27, 30, 31, 33, 35, 36, 37, 40, 41, 43, 45, 46, 47, 48, 53, 61, 63, 66, 69, 78, 94, 100, 102, 104, 106, 112, 123, 136, 146, 147, 162, 165, 183, 185, 214, 226, 233, 237, 271, 272, 274, 277, 302, 309, 315, 338, 342, 348, 351, 366, 391, 392, 394, 395, 396, 431, 451, 464, 465, 466, 468, 481, 544, 548, 553, 563, 565, 567, 577, 590, 596, 601, 606, 611, 612, 616, 620, 625, 628, 648, 653, 654, 701, 867, 868.
Punta Saracena, II, 347.
Q
Quarnero, 359.
R
Raalginet e Ragalzinet, II, 36.
Racalmuto, II, 36.
Raccamo (via del), III, 870.
Raffadali, III, 594
Ragusa, di Dalmazia, 378; II, 367.
Ragusa (fiume di), II, 443.
Ragusa, di Sicilia, 319, 323, 337, 344, 346, 348; III, 212, 301, 771, 772, 784, 811.
Rahl, III, 174.
Rahl-el-Armel, III, 776.
Rahl-el-Asnâm, 237.
Rahl-Butont, III, 850.
Rahl-el-Kâid, III, 776.
Rahl-el-Mara, III, 776, corr. Merat.
Rahl-Menkûd, II, 275.
Rahl-el-Merat, III, 787, v. Rahl-el-Mara.
Rahl-es-Scia’rani, III, 312.
Rahl-ez-Zenati, II, 36.
Raia, II, 45, 370; III, 311, 776.
Rakal Stephani ( corr. Rahl), III, 573.
Rakka, II, 33.
Rakkâda, 236; II, 49, 52, 53, 54, 55, 68, 129, 131, 134, 135, 136, 139, 141, 142, 151, 156, 285.
Ramelia, III, 575.
Rametta, 394, 423, 426, 470; II, 85, 86, 242, 247, 259, 260, 293, 265, 266, 269, 270, 271, 280, 290, 291, 308, 315, 322, 331, 382, 383, 400, 401, 414; III, 63, 64, 65, 70, 71, 206, 208, 284.
Ramla, di Siria, III, 644.
Ramla (Er-), presso Mehdia, III, 418.
Randazzo, 350; II, 184, 191, 433; III, 223, 224, 252, 269, 296, 499, 567, 582, 787, 791.
Rappaco, II, 408.
Rapolla, II, 407, 408.
Râs-el-Belât, 266; II, 435.
Rasigelbi, II, 435.
Raudha (nilometro di), III, 834, 836, 843.
Ravanusa, III, 174.
Ravello, 396.
Ravenna, 20, 78, 98, 180, 449; III, 696.
Rebî’ (porta di), 154; II, 197.
Rebuttone, III, 849.
Regalbuto, III, 285, 312, 321, 349.
Regensburg, III, 673.
Reggio, 230, 412, 415, 425, 426, 516, 517; II, 70, 71, 72, 73, 152, 154, 170, 171, 243, 246, 248, 251, 252, 271, 315, 329, 338, 339, 341, 346, 350, 365, 366, 381, 408, 410, 414, 449, 453; III, 2, 3, 31, 46, 47, 48, 50, 51, 52, 54, 55, 57, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 116, 165, 257.
Reggio, dell’Emilia, III, 803.
Rekka-Basili, III, 776.
Rendag, v. Randazzo.
Resina, 457.
Ribât degli Almoravidi, III, 374.
Ribât, di Susa, 154.
Ribera, III, 605.
Rieti, II, 165.
Rif, del Marocco, II, 36, 285.
Rimini, III, 672.
Rocca (La), presso Morreale, III, 580.
Rocca d’Asino, III, 165.
Rocca Imperiale, II, 347.
Rocca del Legno, II, 177.
Roccamena, III, 779, 787.
Rocca Monte, 462.
Rocca di San Martino, III, 43.
Roccasecca, III, 565.
Roccella, 327; III, 776.
Rodano, 158; III, 16.
Rodi, 88, 85; III, 530.
Roma, XLI, XLIV, LI; 4, 6, 8, 14, 16, 22, 23, 24, 29, 71, 78, 86, 89, 94, 99, 179, 180, 183, 187, 191, 208, 230, 235, 318, 365, 366, 367, 368, 369, 389, 412, 435, 438, 443, 444, 445, 446, 448, 450, 451, 453, 454, 456, 457, 458, 497, 498, 516, 517, 519; II, 90, 161, 164, 165, 166, 169, 175, 278, 318, 327, 338, 399, 403, 406; III, 2, 16, 26, 31, 41, 44, 46, 143, 145, 146, 182, 184, 193, 417, 431, 450, 497, 530, 559, 569, 582, 588, 590, 621, 629, 645, 653, 654, 679, 680, 681, 701, 705, 811, 881.
Romania, III, 480.
Roseto, II, 247.
Rosetta, II, 182, 276; III, 426, 427.
Rossano, 183; II, 313, 315, 317, 319, 320, 322, 323, 326, 329, 336.
Rostoch, II, 455.
Rouen, II, 413; III, 17, 18, 21.
Ruga Keleb, III, 369.
Russia, Russi, XXXIV; 77; II, 261, 269, 365, 380, 383, 384, 385; III, 26.
S
Sabina, II, 164, 165.
Sabra, II, 362.
Sabratha, 109.
Ságana, II, 34, 277.
Saghâniân, II, 34.
Sâhel, III, 212.
Sahra, 130; III, 373, 374, 483.
Sa’îd, II, 285.
Saint-Clair sur Epte, III, 18.
Saint-Evrault (monastero di), III, 84.
Sakhra (cappella della), III, 644.
Sakhrat-el-Harîr, 327; III, 776.
Sala, III, 220.
Salemi, II, 36; III, 575.
Salerno, XL; 189, 240, 241, 354, 355, 356, 357, 362, 369, 370, 373, 375, 376, 381, 383, 385, 387, 388, 396, 397, 435, 436, 437, 438, 439, 444, 445, 448, 450, 452, 454, 455, 457, 461, 463, 464; II, 166, 168, 178, 241, 311, 312, 317, 321, 322, 329, 343, 344, 377, 380, 449, 450, 459, 488; III, 25, 27, 28, 29, 37, 38, 39, 45, 46, 47, 49, 52, 122, 142, 146, 193, 232, 274, 275, 280, 388, 392, 393, 398, 552, 554, 555, 577, 612, 697, 698, 788, 813.
Saline (valle delle), 516; III, 50, 51.
Salso, fiume, 269, 290, 315, 323, 417, 466; II, 192, 216, 427; III, 311, 595, 614, 773, 790.
Salvatore (braccio del), III, 57, 64, v. San Giacinto.
Salvatore (monastero del), in Messina, 489, 490; II, 400; III, 234, 463, 783.
Salvatore (chiesa del), III, 287, 288.
Salvezza (vicolo della), III, 128.
Samanteria, II, 433, v. Sementara.
Samarkand, II, 34.
Sambuca, III, 220.
Sambuco, III, 220.
Sambughetto, III, 220.
Sanâ, 46; II, 120.
Sanagi o Sinagia, II, 36.
Sant’Adriano (monastero di), presso Basidia, II, 407, 408.
Sant’Andrea degli Amalfitani, II, 297; III, 138.
Sant’Andrea, isola, 497.
Sant’Andronico (chiesa di), III, 65.
Santangelo (museo di casa), III, 344.
Sant’Angelo di Brolo (monastero di), III, 305.
Sant’Angelo de Lisico (monastero di), 469; II, 404.
Sant’Antonio (parrocchia di), II, 69.
Sant’Apollinare (chiesa di), in Bari, III, 36.
Santarem, XLIII; II, 505, 506.
San Barbaro di Demona (monastero di), 470; III, 208, 234, 313.
San Bartolommeo, di Capitanata, II, 347.
San Bertario (chiesa di), II, 92.
San Brunone (monastero di), III, 187, 196, 235, 241.
San Calogero (monastero di), 505.
San Carlo, comune, II, 431.
San Cataldo (chiesa di), III, 843, 856.
Santo Ciro (rupe di), III, 756.
San Cono (grotte di), 311.
Santo Carzio, presso Aversa, 462.
San Domenico (chiesa di), II, 158.
Sant’Elia d’Ambola o d’Eubulo (monastero di), III, 83, 340.
Sant’Elia, monte, 517.
Sant’Erasmo (piano di), III, 470.
San Felice (grotte di), II, 72; III, 95, 96.
San Filareto (monastero di), II, 317, 395, 410, 411, 412, 442.
San Filippo, d’Argira, 519; II, 399, 403, 406, 408, 410; III, 224, 269, 284, 301.
San Filippo di Demona (monastero di), 469, 470; II, 404; III, 282, 313.
San Filippo di Fragalà (monastero di), 505; III, 206, 208, 305.
San Francesco d’Assisi (chiesa di), in Palermo, II, 454.
San Francesco di Paola (monastero di), III, 120.
San Fratello, comune, III, 224, 227.
San Gennaro, comune, III, 396, 569.
San Giacinto (isola di), III, 57, 58, 64, v. Salvatore.
San Giacomo (quartiere di), III, 137.
San Giacomo la Marina (chiesa di), III, 793.
San Giacomo la Màzara (chiesa di), III, 856.
San Giorgio (chiesa di), III, 230.
San Giorgio dei Genovesi (chiesa di), II, 297.
San Giovanni, d’Acri, III, 508, 529.
San Giovanni degli Eremiti (monastero di), III, 138, 463, 594, 843, 856.
San Giovanni dei Lebbrosi, ospizio, II, 445; III, 118, 119, 593, 783, 821, 843.
San Giuliano (monastero di), II, 408.
San Giuseppe li Mortilli, in oggi San Giuseppe Jato, II, 36; III, 159, 779, 849.
San Gregorio (chiesa di), III, 117.
San Leonardo (fiume di), III, 147, v. Termini.
San Lorenzo di Cefalà, spedale, III, 615.
San Marco, comune, II, 445; III, 71, 75, 77, 78, 94, 102, 161, 164, 186, 206, 208, 221, 282, 284, 286, 293, 773, 774, 784, 787, 811.
San Marco di Venezia (campanile di), III, 687.
San Martino, presso Capua, 387.
San Martino, in Marsico, 462.
San Martino de Scalis (monastero di), 293; II, 413; III, 792, 795, 869.
San Matteo (chiesa di), III, 193.
Santo Mauro, comune, III, 776.
San Mercurio (monastero di), II, 317, 318, 319.
San Michele (chiesa di), II, 92, 95, 415.
San Michele (monastero di), III, 575.
San Michele Arcangelo (monastero di), II, 404; III, 305, 324.
San Nazario (monastero di), II, 317, 318.
San Niccolò (chiesa di), in Messina, III, 58, 161.
San Niccolò (chiesa di), in Reggio, III, 165.
Sannio, 443.
San Pancrazio (chiesa di), II, 92.
San Pietro e Paolo (monastero di), III, 305, 306.
San Pietro e Paolo (chiesa di), III, 139.
San Quirico, II, 408.
San Remo, III, 277.
Sansego, isolotto, 359.
Sanseverino, III, 148.
San Severo, di Puglia, III, 616.
Santo Stefano (chiesa di), 489.
San Vincenzo in Volturno (monastero di), 374, 375, 459, 460.
San Vito, presso Isernia, 368.
Sant’Agata (monastero di), III, 254, 550.
Sant’Agata la Guilla, II, 69.
Sant’Agata, di Reggio, II, 315.
Sant’Agata (ròcca di), II, 171.
Sant’Anastasia, III, 212, 311.
Santa Caterina (monastero di), II, 69, 415.
Santa Chiara (monastero di), II, 69.
Santa Ciriaca, III, 130, 339.
Santa Cristina, III, 779.
Santa Croce, di Firenze, III, 707.
Sant’Eufemia (monastero di), III, 84, 307.
Santa Lucia (chiesa di), III, 291.
Santa Lucia, comune, III, 223, 252, 296.
Santa Margherita, comune, II, 33.
Santa Maria dell’Ammiraglio, III, 592, v. Martorana.
Santa Maria, castello in Sicilia, 512, 513.
Santa Maria di Cammarata, terra, III, 251.
Santa Maria in Cingla, 368.
Santa Maria del Faro, III, 66.
Santa Maria della Grotta (chiesa di), III, 131, 138, 139, 355.
Santa Maria de Gurguro (monastero di), III, 324.
Santa Maria in Josaphat (monastero di), III, 239.
Santa Maria de Latina (monastero di), III, 547.
Santa Maria di Mili (monastero di), III, 305.
Santa Maria Vergine (chiesa di), III, 139.
Santa Maria di Rifesi (chiesa di), III, 594.
Santa Maria di Roccamadore (badia di), III, 67.
Santa Maria di Vicari (monastero di), II, 397, 403; III, 305.
Santa Maria Maddalena de Galca (via di), III, 138.
Santa Severina, 440, 451; II, 42, 406.
Santa Sofia (tempio di), III, 837.
Saponara, III, 220.
Sara, monte, III, 605.
Saracena, presso Castrovillari, II, 347.
Saraceno (monte), II, 347.
Saracinesco, presso Tivoli, II, 347.
Saragozza, II, 475, 476, 481; III, 450.
Sardegna, Sardi, XXXI; 18, 28, 95, 98, 124, 125, 168, 173, 175, 183, 184, 201, 204, 207, 226, 227, 366; II, 180, 181, 287, 433, 449; III, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 367, 368, 679.
Sardegna, villa in Affrica, II, 287.
Sassonia Gotha, XLI.
Savona, III, 198, 199, 230, 288, 673.
Scalea, III, 87.
Scaletta, III, 220.
Scarpanto, III, 525.
Sceliata, III, 776.
Scerîk (penisola di), 111, 430, 431; III, 474, 598, v. Dakhel.
Schala di Lampheri, III, 875.
Schiavoni (quartiere degli), II, 158, 297, 298; III, 298, 614.
Sciacca, 505, 506; II, 35, 275, 420, 432, 434, 489; III, 176, 211, 301, 310, 313, 330, 338, 341, 602, 773, 775, 795, 811, 882.
Sciakâtis, XLV.
Sciarabbu, fonte, III, 870.
Sciarra (Butera?), 316.
Scicli, 345; III, 771, 811.
Scilla, II, 73, 271.
Sclafani, II, 192.
Scopa, III, 220.
Scopello, II, 432, 433; III, 220, 224, 592.
Scrible (castello di), III, 43, 107.
Scuteri (grotta dei), III, 877.
Sebeto, 373, 454.
Seffein, II, 103.
Segeballarath, II, 300, v. Ballarò.
Segelmessa, 129; II, 133, 134, 135, 136, 284, 363, 369.
Segesta, II, 31, 86; III, 775, 782.
Segestan, II, 31, 186.
Segestano (emporio), 8.
Selamîa, II, 116, 120, 132, 134.
Selinunte, 233, 236, 237; II, 33, 36, 435; III, 776.
Selinus, II, 36, v. Modiuni.
Sementara, II, 433, 490; III, 212.
Seminara, 231, 517; II, 317, 410; III, 257.
Senegal, III, 373.
Senem, II, 184.
Senna, III, 16, 18.
Sepiano, 455.
Sepino, 374.
Seracino, fiumicello, II, 347.
Seralcadi, quartiere, III, 298, 614, v. Schiavoni.
Serkland, II, 385.
Sessa, 452.
Setfura, II, 275.
Setif, II, 38, 121; III, 424.
Setra, II, 163.
Sette Dormienti (grotta dei), III, 664, 665.
Settentrione, III, 668, 823.
Sewâd, II, 17.
Sfax, 806; II, 151, 152, 362, 433, 449; III, 80, 92, 410, 419, 420, 421, 468, 469, 470, 472, 473, 477.
Sibilla, v. Zawila.
Sibkha, di Tunis, II, 75.
Sicchiaria, fonte, III, 870.
Sicilia (archivio regio di), III, 774.
Sicilia di qua e di là dal Salso, 417; III, 595.
Siciliane (Le), villa presso Damasco, 87; III, 736.
Sidone, III, 107, 640, 644, 645.
Simeto, v. Wadi-Musa, II, 387, 435, 448; III, 71, 72, 95, 96, 135, 790.
Sinagra, III, 250, 251.
Sinai, 515; II, 413; III, 859.
Sind, II, 186; III, 760, 762.
Sinopoli, II, 410.
Siponto, 362; II, 164, 176.
Siracusa, 7, 11, 12, 13, 15, 16, 21, 26, 86, 94, 95, 99, 100, 169, 174, 201, 212, 217, 230, 240, 247, 248, 252, 269, 271, 272, 274, 275, 278, 290, 291, 299, 300, 317, 323, 326, 328, 329, 333, 335, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 351, 352, 392, 393, 394, 395, 397, 401, 404, 406, 410, 411, 432, 465, 471, 485, 486, 496, 499, 500, 501 a 513; II, 32, 35, 146, 216, 258, 263, 275, 293, 299, 382, 383, 387, 391, 396, 412, 413, 425, 433, 436, 437, 453, 474, 476, 525, 549; III, 56, 109, 151, 152, 163, 165, 166, 167, 168, 169, 174, 181, 208, 209, 213, 231, 251, 264, 269, 291, 297, 301, 305, 308, 309, 310, 312, 317, 318, 327, 338, 378, 388, 407, 536, 538, 574, 578, 583, 597, 601, 610, 614, 618, 689, 768, 771, 774, 776, 780, 781, 811.
Siracusana (provincia), 417, 466, 467.
Siria, Siri, XLV, XLVI; 31, 49, 62, 64, 66, 69, 79, 81, 82, 85, 86, 87, 88, 90, 128, 136, 138, 143, 477; II, 33, 88, 89, 100, 118, 131, 132, 133, 170, 180, 218, 278, 279, 281, 286, 301, 310, 312, 349, 369, 379, 404, 405, 406, 445, 450, 477, 490, 496; III, 211, 212, 362, 365, 414, 508, 523, 528, 609, 634, 639, 640, 643, 647, 649, 715, 717, 718, 721, 723, 732, 734, 740, 796, 811, 825, 858, 879.
Siviglia, XLII: II, 501, 508, 523, 524, 527, 529, 530; III, 16, 172, 686.
Slavi (quartiere degli), II, 179, v. Schiavoni.
Soiût, LV.
Solûk, in Affrica, III, 212.
Solunto, II, 48, 86.
Sommatino, III, 776.
Sordivolo, III, 221.
Sorelle (Le), isolotto, III, 382, 383, 384, 385, 387.
Sorrento, 183, 312, 357, 364, 367.
Sort, II, 284, 290.
Sortino, 311.
Spaccaforno, 311.
Spadafora, II, 265, 266, 267.
Spagna, Spagnuoli, XXXI, XXXIX, XLIII, XLIV, XLV, XLIX, L, LIII; 118, 119, 124, 125, 128, 135, 136, 137, 141, 144, 158, 159, 160, 161, 162, 165, 171, 226, 227, 228, 229, 230, 264, 286, 288, 290, 291, 295, 296, 304, 340; II, 4, 6, 10, 21, 22, 33, 97, 100, 101, 155, 167, 170, 186, 200, 210, 219, 220, 227, 233, 249, 250, 282, 283, 295, 302, 309, 355, 362, 369, 371, 405, 428, 442, 445, 447, 450, 453, 462, 471, 472, 476, 477, 481, 487, 491, 494, 496, 497, 499, 502, 508, 522, 523, 528, 530, 533, 535, 547, 548; III, 2, 3, 4, 5, 7, 11, 12, 16, 20, 75, 76, 78, 80, 106, 157, 169, 172, 173, 188, 211, 212, 217, 260; III, 261, 310, 337, 357, 365, 367, 373, 374, 377, 378, 379, 380, 388, 389, 390, 414, 432, 476, 490, 516, 517, 533, 591, 617, 622, 626, 662, 682, 684, 687, 705, 711, 712, 716, 738, 740, 741, 799, 805, 807, 810, 811, 823, 825, 830, 836, 852, 880, 889.
Spartivento (capo di), II, 246.
Spasimo (piazza dello), III, 821.
Spasimo (bastione dello), in Palermo, III, 128.
Spedal grande di Palermo, II, 69.
Spoleto, 187, 189, 369, 370, 388, 447, 454, 455, 462; II, 72, 89, 166, 312.
Squillaci, III, 52.
Squillaci (vescovado di), III, 245, 275.
Stiklestad, II, 384.
Stilo, 439; II, 324, 329, 372; III, 235, 241, 317.
Strobilo, II, 368.
Stromboli, II, 440, 441, 448; III, 769.
Sudân, 173; II, 363.
Suez, II, 286; III, 511, 836.
Suez (istmo di), III, 646.
Sufetula, 109.
Sus, 115; III, 374, 483.
Susa, 113, 154, 168, 262, 264, 277, 287; II, 48, 73, 77, 154, 188, 199, 200, 222, 223, 275, 280, 281, 334, 362, 421, 442, 449, 498, 550; III, 92, 212, 213, 419, 421, 472, 473, 474, 477, 490, 491, 751.
Sutera, 334, 337; III, 174, 882.
Sutri, II, 165.
Svezia, III, 14, 15.
Svizzera, II, 167.
T
Tabarca, II, 66, 465, 466.
Taberistân, II, 33; III, 212.
Tabor, 515.
Tâgi (Et), v. Aci.
Tahuda, 117, 118.
Taiort (Tahert, Tuggurt), 130; II, 135.
Taki-Kesra, III, 838.
Talavera, II, 528; III, 375.
Tâlis, II, 186.
Tanaro, III, 198.
Tanger, XXXIX; 115, 123, 127, 128, 129, 132; II, 226, 230.
Taormina, 7, 15, 299, 326, 347, 349, 350, 351, 394, 411, 412, 418, 422, 428, 432, 469, 485, 486, 487, 488, 491, 492, 495, 499, 516, 518; II, 69, 70, 73, 78, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 148, 183, 184, 215, 216, 242, 255, 257, 258, 259, 263, 290, 291, 387, 400, 402, 414, 433, 438, 439; III, 56, 94, 147, 157, 159, 166, 269, 338, 772, 811.
Taranto, LII; 357, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 364, 371, 377, 378, 379, 380, 385, 435, 436, 440, 451; II, 162, 172, 176, 177, 312, 315, 322, 323, 329, 340, 341, 433; III, 140, 560, 569, 579.
Targia, III, 881.
Tarso, 431, 438; II, 48.
Tartaria e Tartari, XXXVIII, LIII; 62; II, 32, 34, 109.
Taurasi, II, 164.
Taurga, II, 84.
Tauzer, XLV; II, 198, 515.
Tavi, III, 213, 776.
Teano, 374, 444, 452, 461, 462.
Tebaide, II, 406.
Tebala, 42.
Tebe, III, 434, 800.
Tefrica, 510.
Telal, XL, v. Kelâl.
Telemsen, LV; 128, 132, 175, 228.
Telese, 368, 374, 455.
Tenes, II, 362; III, 426, 427, 428.
Termini, 416, 485; II, 252, 263, 264, 266, 274, 275, 433, 452; III, 104, 112, 211, 263, 276, 310, 311, 315, 536, 765, 768, 772, 774, 783, 789, 811, 841.
Termini (fiume di), 111, 147, v. San Leonardo.
Termoli, II, 179.
Terra di Bari, III, 37.
Terracina, 187, 189; II, 406.
Terra di Lavoro, 373, 435, 459; III, 616, 701.
Terraferma d’Italia, II, 72, 160, 182, 292, 315, 316, 338, 346, 350, 365, 388, 390, 394, 396, 400, 406, 410, 415, 449; III, 9, 77, 92, 104, 108, 112, 119, 122, 123, 133, 141, 146, 147, 148, 163, 165, 176, 178, 184, 191, 192, 205, 206, 214, 218, 219, 222, 232, 234, 254, 259, 268, 273, 276, 279, 293, 303, 308, 323, 331, 365, 368, 384, 393, 395, 396, 400, 441, 464, 466, 484, 487, 500, 549, 560, 569, 582, 583, 588, 590, 603, 608, 610, 611, 792, 803.
Terranova, di Sicilia, 269; III, 616.
Terra d’Otranto, 183, 434; II, 171, 172, 316.
Terrasanta, II, 338, 386, 413, 523, 573, 578, 605, 635, 637, 641, 642.
Tessaglia, 502.
Tessalonica, 396, 414, 502, 578; II, 88, 89; III, 57, 223, 521, 526, 538, 688, 689.
Tevere, XXXI; 91, 389, 445; II, 164, 278, 346, 449; III, 182, 678, 680.
Teverone, 445.
Thoron, III, 643, 644.
Tîfesc, v. Mico.
Tigri, 79, 138, 176; II, 301, 404; III, 521, 837, 839.
Tindaro, 8, 18, 211, 305, 485; II, 86; III, 56, 63.
Tinnis, III, 426, 427, 467, 514.
Tiracia, 350.
Tiro, III, 107, 378, 522, 523, 524.
Tirreno, 364, 378, 417, 445; II, 162, 177, 264, 449; III, 3, 30, 71.
Titeri (montagne di), II, 362.
Tivoli, II, 347.
Tobna, 132; II, 128.
Tolceto, III, 221.
Toledo, 161; II, 303; III, 188.
Tolosa, III, 16.
Torino, 496; III, 199, 675.
Torino (università di), III, 803.
Torolts, III, 816.
Torre del Greco, 457.
Torre Saracena, II, 347.
Torretta, II, 67.
Torri (Le), II, 315.
Torto, fiume, I, 469; III, 309, 315, 340, 773.
Torti (dei), fiume, III, 875.
Tortona, III, 199.
Tortorici, III, 776.
Tortosa, 288; III, 414, 526.
Toscana, Toscani, 183, 187, 277, 443, 451; II, 371; III, 223, 433, 539, 544, 566, 653, 796.
Tournus (abbadia di), II, 299.
Tours, III, 16, 803.
Trabia, III, 311, 789, 790, 795, 809.
Trabla, v. Trapani, III, 154.
Tracia, Traci, 440; II, 250, 261, 367, 368; III, 33.
Traietto, 450, 458; II, 163, 164.
Traina, Trainesi, 347, 471; II, 385, 387, 388, 390, 391, 395, 396, 398, 404, 410, 418, 419; III, 82, 83, 85, 86, 89, 90, 92, 95, 96, 97, 100, 103, 104, 105, 117, 152, 158, 161, 164, 177, 186, 192, 208, 257, 269, 281, 282, 284, 285, 286, 289, 290, 291, 304, 305, 309, 311, 314, 315, 340, 348, 349, 353, 610, 616.
Trani, III, 36, 141.
Transoxiana, II, 110.
Trapani, 337, 485, 486; II, 35, 64, 66, 67, 78, 86, 157, 160, 275, 420, 421, 427, 433, 435, 454, 466, 467, 535, 541; III, 53, 56, 57, 78, 109, 133, 147, 154, 155, 159, 164, 210, 211, 213, 232, 269, 309, 318, 338, 520, 534, 536, 542, 577, 595, 599, 617, 770, 771, 772, 773, 776, 780, 788, 789, 795, 811.
Trebisonda, 510, 203.
Tre Fontane, II, 435.
Tre Laghi, v. Praroli.
Tremestieri, terra, III, 68.
Tremiti, II, 247.
Trento, III, 590.
Treveri, II, 412, 413; III, 16.
Trevi, II, 165.
Tribunali (palazzo de’), in Palermo, II, 158.
Tricarico, II, 407.
Trifels, III, 553, 561, 562.
Trinacria, Trinacrii, 174; III, 813.
Trinità (monastero della), III, 790.
Triocala, 485, 486.
Tripi, III, 71.
Tripoli, di Barbaria, 104, 109, 121, 131, 172, 225, 391; II, 57, 78, 84, 129, 130, 133, 141, 151, 152, 182, 188, 200, 228, 290, 294, 355 a 357, 362, 465, 466, 541; III, 24, 154, 408 a 411, 419 a 421, 424, 461, 462, 471, 472, 520, 526.
Tripoli, di Sicilia, II, 433.
Tripoli, di Siria, 88; II, 80, 327, 312; III, 523, 524, 526.
Troia, di Puglia, III, 62, 140, 392, 864.
Tronto, II, 339; III, 183.
Tropea, 441.
Tropici, II, 357; III, 676.
Tûb, castello, II, 518.
Tunis, VII, XXXIX, XLV, XLIX, L, LIII, LIV, LV, LVI; 104, 121, 124, 131, 132, 137, 145, 146, 155, 156, 157, 167, 168, 173, 225, 253, 287, 429, 520; II, 48, 53, 54, 57, 58, 66, 67, 74, 75, 123, 126, 127, 198, 199, 222, 224, 359, 465, 471, 484, 485, 513, 547; III, 80, 132, 158, 172, 212, 260, 332, 333, 408, 413, 416, 421, 428, 429, 430, 458, 472, 474, 476, 477, 496, 498, 553, 599, 622, 624, 625, 627, 628, 629, 631, 632, 693, 694, 698, 704, 722, 734, 774.
Tûr, III, 772.
Turi, II, 407, 408.
Tusa, II, 433; III, 94, 772.
Tusciano, fiume, 362.
U
Umbria, III, 672.
Ungheria, III, 315.
Upsal, LI, LIII.
Utica, 277.
Utrecht, III, 16, 673.
V
Vaccarizzo, II, 315.
Vado, III, 518, 519.
Valdemone, v. Demona (val di).
Valenza, XLVI, XLIX.
Valenza, sul Rodano, III, 16.
Valguarnera Ragali, presso Partinico, III, 779.
Valguarnera Caropipi, 270.
Valledolmo, III, 215.
Varano (lago di), II, 347.
Vaticana (biblioteca), 507; III, 838.
Velez Blanco, II, 186.
Velletri, 445.
Venafro (castel di), 374.
Venezia, 183, 216, 229, 278, 287, 357, 358, 376, 377, 379, 389, 438; III, 432, 493, 504, 523, 530, 633, 803, 809.
Venosa, 377; II, 164; III, 31, 650.
Ventimiglia, III, 519.
Vergine Maria (spiaggia detta la), 319.
Vergini (monastero e chiesa delle), in Palermo, II, 69, 454.
Veroli, III, 600.
Verona, II, 326, 600, 602.
Verona (museo di), II, 453.
Verrua, III, 198.
Vesuvio, 458; II, 366.
Vicari, 418, 419; II, 36, 397, 403; III, 209, 213, 219, 224, 285, 292, 309, 311, 315, 340, 499, 573, 615, 616.
Vico, v. Mico.
Vienna, 496, 507; III, 448, 553, 798.
Viesti, II, 347.
Viilabate, III, 536, 843.
Villafranca, III, 179.
Villanuova, XLIII; II, 433.
Vindicari, 336.
Vittoria (chiesa della), III, 120, 126, 128, 129, 821.
Vittoria (piazza della), III, 128.
Vittoria (porta della), III, 128, 821.
Vizzini, 311; III, 822.
Volturno, 387, 447; II, 170, 186.
Vulcano, isola, 12; II, 438, 441; III, 770, 781.
W
Wadi-l-’Abbâs, v. Oreto.
Wadi-Musa, II, 435, v. Simeto.
Wadi-t-tîn, v. Dittaino.
Walhalla, III, 15.
Waset, II, 480; III, 383, 826, 828.
Wergla, III, 624.
Worms, 152, 153; II, 13, 20, 21.
X
Xalces, v. Halka.
Y
Yhale, III, 264.
Z
Zab, 144; II, 36.
Zaèra, III, 882, 883.
Zandewend, III, 826.
Zante, 414; III, 525.
Zânzûr, II, 357.
Zarchante, casale, III, 575.
Zarniwah ( erronea lezione di Otranto?), II, 177.
Zawila, II, 432; III, 170, 172, 384, 416, 418, 472, 473, 474, 475, 477, 478, 479, 490, 516.
Zecca di Palermo, II, 158.
Zemzem, 49.
Zisa (palagio della), II, 451, 452; III, 491, 492, 555, 617, 818, 819, 841, 843, 845, 846, 847, 849, 856, 861, 881.
Zotica, v. Iudica.
Zuagha, 109.
Zucac Almucassem, vicolo, III, 870.
Zucac Germes, vicolo, III, 869.
INDICE DE’ VOCABOLI.
A
Abbacari sicil., III, 886.
Abd-Allah ar. (uso di questo nome), II, 219.
Abuged ar., II, 468, 469.
Accanzari sicil., III, 885.
Acciacco, III, 887.
Adab ar., II, 483.
Addijri sicil., III, 885.
Agem ar., II, 269.
Aggibbari sicil., III, 886.
Ahl ar., II, 276.
Akbar-Allah ar., 73; II, 83.
Akila ar., 68.
Alâma ar., III, 449.
Alambicco, III, 887.
Alcali, III, 887.
Alliffari sicil., III, 886.
Almanacco, III, 887.
Almugaveri, II, 165.
Amân ar., II, 64, 72, 131, 258, 285, 400, 401, 415, 418, 420, 421.
’Amil ar., II, 185, 189.
Amira lat., II, 320, v. Emîr ed Ammiraglio.
’Aml ar., II, 275, 276.
Amlak ar., II, 371.
Ammiraglio, III, 351, segg., 887.
Annacari sicil., III, 886.
Annadarari sicil., III, 882, 886.
Arcon gr., III, 281.
Arcontia gr., III, 283.
Arcontichia gr., III, 283.
Arrâda ar., II, 260.
Arruciari sicil., III, 886.
Arsenale, III, 881, 882.
’Asr ar., II, 268.
Assammarari sicil., III, 886.
Awagi ar., II, 532.
Azeg ar., III, 827.
Azizzari sicil., III, 886.
Azzannari sicil., III, 886.
Azzeccare e Azziccari sicil., III, 886.
Azzurro, III, 887.
B
Balata sicil., 266; III, 881.
Barda, III, 887.
Bardadâr pers., II, 185.
Beiram turco, III, 534.
Beit-el-Mal-el-Ma’mur ar., III, 323.
Burgiu sicil., III, 881.
Burnîa sicil., III, 881.
Butteri, III, 887.
C
Cabella bueberie, III, 330.
Cadi, v. Kâdhi, 296; II, 7, 8.
Cafisu sicil., v. Kafiz, III, 890.
Cáida tosc., III, 886.
Cálega tosc., III, 886.
Cália sicil., III, 892.
Camálo genov., III, 886.
Camellotto, III, 892.
Camicia e Cammisa sicil., III, 887.
Canfora, III, 887.
Cangemia (diritto di), III, 330.
Canna sicil., e Kamah ar., III, 890.
Cantàro e Kintâr ar., III, 890.
Carato, III, 891.
Carcariari sicil., III, 886.
Carciofo, III, 887.
Cassata sicil., e Kas’at ar., III, 892.
Catusu sicil., III, 865.
Caudu di testa sicil., III, 886.
Ciaramiti sicil., III, 877.
Cifra, III, 887.
Collare (salpare), III, 887.
Cubbaita sicil., e Kobbeit ar., III, 892.
Cuccía sicil., e Kesc ar., III, 894.
Cuntari in aria sicil., III, 886.
Cuscusu sicil., III, 892.
D
Dagala sicil., III, 882.
Dâ’i ar., 140; II, 116, 118, 119, 120, 136.
Darâri ar. (? ), sing. Dorrâ’ah (giubbone), II, 360.
Darbu sicil., III, 866, 881.
Darsena, v. Arsenale.
Dekka ar., III, 829.
Dewadâr ar. pers., III, 447.
Dhia’ ar., II, 22, 25.
Dica sicil., III, 882.
Difter, plur. Defêtir ar., III, 324.
Difter-el-Hodûd ar., III, 324.
Dinâr ar., 169; II, 50, 51, 334, 458.
Dirhem o Dirhim, ar., 65; II, 50, 256, 459, 460; III, 455.
Diwân-el-Khazânat-el-Ma’mûrah ar., III, 323.
Diwân-el-Mozâlim ar., III, 444.
Diwân-et-Tahkîk-el-Ma’mûr ar., III, 322, 323.
Dogana, III, 887.
Dhohâ ar., II, 245.
Dohana de Secretis lat., III, 323.
Dra, v. Dsira’.
Dsimmi ar., 292; II, 56, 255, 258, 276, 285, 397.
Dsira’ o Dra’ ar., II, 178; III, 828.
Dsui-l-Mekena ar., II, 10.
E
Elepoli, gr., 396.
Emîr ar., 147, 296; II, 2, 5, 6, 7, 8, 235, 236, v. Ammiraglio.
Emîr-el-Mumenîn ar., 70; II, 457.
Emîr-el-Omrâ ar., II, 331, 521.
F
Fakih ar., 149; II, 10.
Fei ar., 121; II, 27, 28, 30, 41, 152, 257, 292, 293, 370.
Ferrâsc ar., III, 447.
Fesifisâ ar., III, 830.
Fondaco, III, 887.
Fosus, sing. Fass ar., III, 842.
G
Gabella, III, 887.
Gaito o Caito, III, 262, 883.
Ganghi di lu sennu sicil., III, 886.
Garbo (bel modo), III, 887.
Gasena sicil., III, 881.
Gebda ar., 153.
Gelsomino, III, 887.
Gemâ’ ar., 148, 262; II, 9, 10, 11, 12, 38, 208, 296, 426, 427, 547, 549; III, 111, 130.
Gerâid ar., III, 246.
Gesia, v. Gezîa.
Gezîa ar., II, 27, 86, 255, 276; III, 132, 330.
Ghosn ar., III, 740.
Giâmi’ ar., XX: II, 190, 201, 228, 274, 275, 277, 301; III, 131, 855.
Giandâr pers., III, 444, 446.
Giânib ar., III, 443, 446.
Giarra sicil., III, 865, 881.
Ginn ar., 45.
Giubba, III, 881, 891, 892.
Giukandâr pers., III, 447.
Giulebbe, III, 887.
Giund ar., 132; II, 17, 25, 26, 27, 29, 62, 63, 128, 131, 132, 188, 256, 258, 267, 361, 369, 370, 423, 424, 546; III, 528.
H
Haggiâm o Haggêm ar., III, 330, 881.
Hâgib ar., III, 444, 446.
Hâkim ar., II, 7, 8, 208.
Hârat ar., II, 296.
Harbia ar., III, 369.
Harrâka ar., 302, 304; III, 776.
I
Idsân ar., II, 131.
Ienchi sicil., III, 877.
Iklîm ar., II, 274, 275, 277; III, 309.
Iktâ’ ar., 132; II, 28, 29, 276.
’Ilg, plur. ’Olûg ar., II. 269; III, 361.
Imâm ar., 149, 151; II, 117, 121.
Imâm mestûr ar., II, 116.
’Irâb ar., II, 475.
Islam ar., II, 58, 97, 111, 117, 119, 220, 221, 229, 231, 267, 269, 276, 277, 304, 334, 353, 370, 405, 462; III, 13, 108, 131, 255, 294, 394, 412, 481, 533, 598, 640.
K
Ka’ah ar., III, 847.
Kabîla, plur. Kabâil ar., II, 292.
Kâdhi ar. (cadi), II, 386.
Kâid ar., v. Gaito e Caito, 132, 145; II, 187, 386.
Kafîz ar., III, 330.
Kâil, plur. Akiâl ar., II, 39.
Kasîdah ar., II, 334, 335, 336, 517, 518, 520, 521.
Kasr-Ma’mur ar., III, 323.
Kâtib ar., II, 515.
Ke’k ar., III, 892.
Kelâm ar., II, 471, 483, 491, 498.
Khalîfa (califo), 70.
Kharâg ar., II, 18, 19, 20, 21, 22, 27, 28, 30, 37, 128, 255, 276, 289, 352, 353, 369, 370, 371, 374, 375, 421.
Khatîb ar., II, 277.
Khil’a ar., II, 254.
Khirka ar., II, 492, 493.
Khotba ar., II, 135, 150, 277, 285, 549.
Kibla ar., 114.
Kufiâ, Kefia, o Kefie ar., 37.
L
Lattata sicil., III, 886.
Liuto, III, 887.
M
Macráma genov., III, 886.
Magazzino, III, 881, 887.
Magistri Sorterii, v. Sciorta, II, 9.
Maks ar., III, 243, 250.
Mali suttili sicil., III, 886.
Malva siciliana, II, 447.
Maona e Magona tosc. genov., III, 886.
Marabutto, v. Morabit.
Marg ar., e Margiu sicil., III, 873, 877.
Maula ar., 68.
Mehallet ar., III, 243, 250.
Mésaro genov., III, 886.
Menzîl ar., 115.
Merhela ar., 330; II, 466, 467.
Me’sker ar., II, 297, 298.
Mezâlim ar., II, 7.
Mihrab ar., 154; III, 829, 830, 831, 833.
Milk o Molk ar., v. plur. Amlak.
Mithkâl ar., II, 269.
Mmalidittu sicil., III, 886.
Mohtesib ar., II, 8, 9, 11, 120.
Montezeh ar., II, 335.
Morabit ar. (Marabutto, Almoravidi), II, 374; III, 597.
Mosciaiad ar., II, 186.
Mote abbed ar., II, 229.
Motewalli ar., II, 204, 228.
Mowasceha, plur. Mowascehât ar., III, 739 segg., 889.
Muezzin ar., II, 248.
Mufti ar., II, 7.
Mulatto (Mowalled ar. ), II, 371.
N
Naca sicil., III, 886.
Nâib ar., III, 446.
Nahw ar., II, 475.
Ncarracchiari sicil., III, 886.
Nucatula sicil., III, 892.
Nzitari sicil., III, 886.
O
Ogive fr., III, 827, 858.
Olivastro, III, 877.
Ostadâr pers., III, 447.
P
Pani e Sputazza sicil., III, 886.
Petronciana tosc., III, 887.
Picchiu e Picchiuliari sicil., III, 886.
R
Rahaba (diritto di), III, 330.
Rahaba ar., III, 869.
Rahadina (diritto di), III, 330.
Rahl ar., III, 873.
Rebâ’i e Robâ’i ar., II, 178, 334, 457, 458, 459, 460.
Rekk, plur. Rokûk ar., II, 221.
Reticu sicil., III, 882.
Ribâ’ ar., II, 25.
Ribat ar., 133; II, 304.
Rotolo (Rolt e Ritl ar. ), III, 455, 890, 891.
Rubbio, III, 891.
Rûmi ar., II, 137, 442, 499.
S
Sâheb ar., 296, 360; II, 5, 236, 550.
Sâheb-el-Leil ar., II, 9.
Sâheb-el-Medina ar., II, 9.
Sâheb-es-Sciorta ar., II, 9, v. Sciorta.
Sâheb-Sikillia, II, 427.
Salma sicil., e Saum ar., III, 899.
Sammuzzari sicil., III, 886.
Sceikh ar., xix; 33, 34, 148; II, 10.
Sceikh dei Credenti, II, 198.
Sceikh-el-Beled ar., II, 11.
Sciabica sicil., III, 882.
Scialbo, III, 887.
Sciarr ar., Sciarra e Sciarriari sicil., III, 873, 886.
Sciddicari sicil., III, 883, 886.
Scikka o Sciukka ar., II, 448.
Sciorta, Sorta, Surta, o Xurta sicil., II, 9; III, 890.
Sciura ar., II, 10, 11.
Sebîl ar., III, 843.
Sedekât ar., II, 14.
Selâhia ar., III, 444, 446.
Semid e Semids ar., III, 893.
Senia sicil., III, 882.
Sensale, III, 887.
Sfinci sicil., III, 892.
Sicilia (falsa etimologia del nome), VII.
Simât ar., II, 302.
Simt ar., III, 740.
Soha ar., III, 718.
Sultân ar., 372; II, 239.
Sunna ar., 158; II, 128, 285.
Surta, v. Sciorta.
T
Tabakât ar., II, 224.
Tabardâr pers., III, 447.
Tabi’ ar., II, 436.
Taccuino, III, 887.
Taliari sicil., III, 882, 886.
Tareni, v. Tarì.
Tarì, II, 458, 459; III, 811.
Tarì-peso o Trappeso, II, 460.
Tariffa, III, 887.
Tarsia, III, 887.
Tarzanà sicil., v. Arsenale.
Terrieri, III, 276.
Thaghr ar., II, 275, 276.
Thaub ar., II, 178.
Tibu sicil., III, 892.
Tignusu sicil., III, 886.
Tirâz ar., II, 449; III, 447.
Trappeso, v. Tarì-peso.
Tremula sicil., III, 877.
Tumolo e Tumminu sicil., Thumn ar., III, 881, 890.
U
Ukîa ar., II, 460.
’Ulemâ ar., III, 455.
V
Vasca, III, 887.
Vattali sicil., III, 881.
Vava sicil., III, 881.
W
Wagîh ar., 148, 149; II, 10.
Wakf ar., II, 21.
Wâli ar., 147, 296; II, 5, 142, 235, 236.
Wark ar., II, 221.
Wâsita ar., II, 331; III, 454.
Wed e Wâdi ar., III, 873.
Wisciâh ar., III, 739.
Z
Zabara sicil., III, 882.
Zabbatiari sicil., III, 886.
Zágara sicil., 883.
Zaim ar., III, 264.
Zegel, plur. Azgiâl ar., III, 739, segg., 889.
Zekât ar., II, 14, 15, 22, 28, 30.
Zenit ar., III, 877.
Zero, III, 877.
Zeug e Zuigia ar., 153.
Zicca sicil., III, 882.
Zindîk ar., 153, 255, 256; II, 102, 112, 113.
Zizzu sicil., III, 881.
Zohr ar., II, 268.
Zotta sicil., III, 882.
Zubbiu sicil., III, 881.
Zuccu sicil., III, 882.
Zurriari sicil., III, 882, 886.
SOMMARIO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL TERZO VOLUME.
LIBRO SESTO.
Capitolo I.
1101-1111. Reggenza di Adelaide 345
1112-1118. Ruggiero, II conte, prende il governo. Morte di Adelaide 346
» Roberto di Borgogna 347
» Fanciullezza di Ruggiero II 348
» Forte governo della reggenza. Sede trasferita in Palermo 349
» Ufizio del grande ammiraglio di Sicilia 351
1108? Giorgio di Antiochia fugge di Mehdia in Sicilia 361
» Abd-er-Rahmân-en-Nasrâui 362
» La corte di Palermo 365
1078-1116. I Ziriti di Mehdia 366
» Pratiche di Ruggiero contr’essi 368
» Rafi’ governatore di Kâbes 369
1117-1118. Aiutato invano dal conte di Sicilia 370
» Guerra coi Ziriti e accordo 372
» Gli Almoravidi 373
» I Beni Meimùn, corsari ivi
1122. Assalgono Nicotra 378
» Ruggiero muove guerra a Mehdia 380
» Sbarco al Capo Dimas 382
1123. Rotta 385
1127. Nuova scorreria dei Beni Meimùn 387
1127. Ruggiero a Salerno 388
» Fa lega con Raimondo conte di Barcellona ivi
Capitolo II.
» Condizioni della Puglia 391
» Ruggiero succede al duca Guglielmo 392
1130. Prende la corona di re in Palermo 393
1130-1139. Sua guerra in Terraferma 395
» Quale parte vi prendono i Musulmani di Sicilia 396
1135. Ruggiero aiuta gli Ziriti di Mehdia 399
» Occupazione delle Gerbe 400
1142. Trattati con Mehdia 401
» Come Ruggiero riscuote i suoi crediti contro quel principato 403
1143. Assalto a Tripoli e ad altri luoghi 406
1146. Presa Tripoli 408
» Fame in Affrica 410
1147. Fatti di Kâbes 411
1148. Impresa contro Mehdia 413
» Occupazione di quella città 415
» Di Susa, Sfax e altri luoghi 419
1149-1150. Notizie arabiche su la morte di Giorgio d’Antiochia 421
» Conquisti degli Almohadi nello Stato di Bugia 422
1152. Pratiche di Ruggiero con le tribù arabiche 424
1153. Occupate Bona, le Gerbe e Kerkeni, e assalita Tenes o Tinnis 425
1154-1157. Condizioni di Tunis 427
Capitolo III.
1139-1153. Accordo di re Ruggiero col papa contro Corrado III 430
» Guerra contro Emmanuele Comneno 433
1153. Filippo da Mehdia arso per delitto d’apostasia 435
» Cagioni di cotesta persecuzione 439
1154. Morte del re 440
» Sue qualità 441
» Riforme nell’amministrazione 442
» Ufizi di corte a modo musulmano 445
» Cancelleria arabica 449
» Trattato di geografia compilato da Edrîsi 452
» Accademia di Ruggiero 460
» Altri dotti musulmani e greci presso Ruggiero 461
» Poeti arabi 462
» Monumenti 463
Capitolo IV.
» Parti politiche alla esaltazione di Guglielmo I 464
» Relazioni estere 465
» Guglielmo reprime la ribellione nel regno e trionfa al di fuori 466
1156. Insurrezione di Sfax. I due Forriani 468
1156-1158. Supplizio del padre 469
» Sollevazione di Tripoli 471
» E di Zawila 472
» Preparamenti degli Almohadi 475
1159. Abd-el-Mumen prende Tunis e altri luoghi e stringe Mehdia 477
» Battaglia navale 480
1160. Il presidio s’arrende 481
» Si ridesta la rivoluzione feudale nel regno 483
» Ucciso Majone 484
1161. Preso re Guglielmo 485
» Liberato dai Palermitani 486
» I Lombardi danno addosso ai Musulmani 487
» Reazione della Corte 488
1163. Assalti sulle costiere d’Affrica 489
» Guglielmo fabbrica la Zisa 491
1166. E muore 492
Capitolo V.
» Esaltazione di Guglielmo il Buono; reggenza 493
» Fazioni che ne derivano 494
1167. Ahmed-es-Sikilli, forse lo stesso che il gaito Pietro 495
» Il cancelliere Stefano, creatura de’ cattolici oltramontani 497
» Suoi primi atti 498
» Reazione de’ regnicoli 499
» E de’ Musulmani 500
1168. Tumulti: cacciata del Cancelliere 501
1171. Governo di re Guglielmo, ossia di Gualtiero Offamilio e di Matteo da Salerno 502
» Atti di politica esteriore 504
1174. Cospirazione in Egitto 506
» I Siciliani ad Alessandria 507
» Sconfitta loro 511
1175-1178. Altre ostilità in Egitto 514
» Relazioni con la Barbaria 515
1180. Pace di Guglielmo con gli Almohadi 516
1181. Impresa delle Baleari 518
1185. Guerra di Grecia 520
1188. L’ammiraglio Margarito da Brindisi alla Crociata 524
» Abboccamento di lui con Saladino 527
1189. Nuove imprese di Margarito 529
» Giudizio sul governo di Guglielmo il Buono 530
» I Musulmani perseguitati pian piano 531
» Loro condizione sociale 534
» Loro forze e disposizioni 537
Capitolo VI.
1190. Parti e condizioni del paese alla morte di Guglielmo II 543
» Eccidio de’ Musulmani e fuga loro alle montagne 545
» Tancredi, esaltato al trono, li rappacifica 548
1194. E muore 549
» Impresa di Arrigo VI imperatore 550
» Combattimento di Catania ivi
» Occupazione di Palermo 551
» Giardino regio detto Genoardo 554
1197. Digressione su la tirannide di Arrigo 555
Capitolo VII.
1198. Regno di Costanza 567
» Varii pretendenti alla reggenza di Federigo 568
» Avvertenze su la condotta d’Innocenzo III 569
» I Musulmani usciti di Palermo e raccolti ne’ monti del Val di Mazara 571
1199. Tentata proscrizione di questo popolo 573
» Il quale sta su le difese 576
» E pende per Marcnaldo De Anweiler 577
» Epistola di Innocenzo III a’ Saraceni di Sicilia 578
1200. Marcnaldo co’ Saraceni assedia Palermo 579
» È sconfitto 580
1200-1208. Vicende dell’interregno 582
» Educazione di Federigo 583
» Condotta de’ Musulmani 584
1208. Nuova epistola scritta loro dal Papa 586
» Si chiariscono ribelli al tempo della emancipazione del re 587
1210. Pratiche loro con Ottone imperatore 588
Capitolo VIII.
1212-1218. Esaltazione di Federigo all’impero, e caduta di Ottone 589
1220. Federigo torna in Italia 590
» Condizione de’ Musulmani di Sicilia 591
1221. Infestano tutto il Val di Mazara 593
» Numero loro 596
» Ordinamenti 597
» Mirabetto dei Beni ’Abs 599
1222. Assedio di Giato e morte di Mirabetto ivi
1223. I Musulmani della provincia di Girgenti deportati a Lucera 601
1225. Cacciati que’ delle isole adiacenti 605
» Altri anco si sottomettono 607
1224-1228. Negoziati di Federigo col papa 608
1229-1242. Colonie musulmane di Terraferma 611
» Condizione de’ Musulmani rimasti in Sicilia 613
1245-1246. Sollevatisi, occupano Giato ed Entella 618
» E sono soggiogati e deportati 619
Capitolo IX.
1241. Relazioni di Federigo II co’ califi almohadi 621
1228. Origine della dinastia Hafsita di Tunis 622
1231. Trattato di Federigo con questi principi 623
» Condizioni di Pantelleria 626
» Dissapori tra Federigo e gli Hafsiti 628
» Del tributo di Tunis 630
1217? Ambasciatori di Federigo presso gli Aiubiti di Damasco e del Cairo 633
1226. Pratiche per Gerusalemme 637
1228. Crociata di Federigo 639
1229. Trattato 642
1229-1241. Condizioni della Siria 646
» Ambascerie e doni tra Federigo, gli Aiubiti e gli Ismaeliani 648
» Nuovo trattato con l’Egitto 649
1242-1250. Continuano le relazioni tra Federigo e i successori di Malek-Kàmil 651
1260-1265. E tra quelli e Manfredi 654
Capitolo X.
Secoli XII e XIII. Delle lettere in Sicilia allo scorcio dell’XI secolo 655
» Scienza arabica nella prima metà del secolo XII 657
» L’ammiraglio Eugenio; sua traduzione dell’Ottica di Tolomeo ivi
» E delle profezie della Sibilla Eritrea 660
» Notizie biografiche sopra Edrîsi 662
» Studi geografici degli Arabi 666
» Il Libro di re Ruggiero; sorgenti delle notizie 669
» Metodo della compilazione 673
» Carte geografiche 677
» Descrizioni 679
» Vicende del libro 680
» Giudizio 682
» Meccanica. La clepsidra della reggia di Palermo 684
» L’ingegnere Abu-l-Leith 686
» Ingegneri militari 688
» Astrologi. Mohammed-ibn-Isa 689
» Stefano da Messina, Giovanni di Sicilia. Astrolabii 690
» Studi matematici. Fibonacci, Giovanni da Palermo, maestro Teodoro 691
» Cenni su la Storia naturale e le scienze affini 695
» Medicina 697
» Traduzione dell’ Hawi del Razi 698
» Studi filosofici 699
» I Quesiti Siciliani d’Ibn Sib’In 701
» Critica di Federigo sopra un passo di Maimonide 705
» Versione d’Aristotile 706
» Letterati giudei 708
» Federigo poliglotta, influenza di lui su le lettere e le scienze 709
» Qualità del suo intelletto 710
» Elementi orientali della sua cultura 711
Capitolo XI.
» Decadenza di altri studi 713
» Scienze coraniche. Vita ed opere d’Ibn Zafer 714
» Ibn-el-Bagi, Abd-el-Kerim ed altri tradizionisti 735
» Altri di famiglie emigrate 736
» Ibn-el-Mo’allim, grammatico 737
» Poesia. Metri detti Mowascehe e Zegel 738
» Abu-l-Hesan-ibn-abi-l-Biscir 742
» Abu-Musa-ibn-Abd-el-Mo’nim 746
» Abu-Abd-Allah suo figliuolo 748
» Ibn-es-Susi 751
» Elegia d’Abu-d-Dhaw-Serrag in morte d’un figliuolo di re Ruggiero 752
» Lodatori del re. Abd-er-Rahmân da Butera 754
» Abd-er-Rahmân da Trapani 756
» Abu-Hafs-Omar 758
» E Ibn-Bescrûn 759
» El Gâun-es-Sikîlli 761
» Abd-er-Rahmân-ibn-Ramadhân 762
» Abd-el-Halim 763
» Ibn-es-Sebân 764
» Ibn-el-Barûn 765
» Ibn-Semoa e Abd-el-’Aziz l’aghlebita 766
» Ibn-et-Teifasci da Kâbes, ucciso in Sicilia 767
» Ibn-Kalâkis d’Alessandria ed un poeta affricano da’ Beni-Rowaha 768
Capitolo XII.
» Geografia fisica della Sicilia nel XII secolo 769
» Porti 770
» La fonte di Donna Lucata e l’Amenano 771
» Avanzi di antichità 772
» Geografia politica; divisione in province ivi
» Numero di città importanti e fortezze 774
» Numero dei nodi di popolazione 776
» Antichi territorii di Giato, Corleone e Calatrasi 778
» Produzioni minerali 780
» Dello zolfo in particolare e del petrolio 781
» Agricoltura; frumento 782
» Orti e giardini 783
» Vite ed ulivo ivi
» Frutta, cotone, henna 784
» Palme, canne da zucchero 785
» Boschi 786
» Agrumi. Pastorizia 787
» Corallo 788
» Tonni e altri pesci 789
» Paste lavorate 790
» Artigiani 791
» Tarsia 792
» Stoviglie 793
» Bronzi 796
» Drappi di seta e ricami 798
» Tele di cotone 804
» Se la Sicilia abbia avute manifatture di carta 805
» Commercio 808
» Navigazione 810
» Monete 814
Capitolo XIII.
» Architettura; supposti monumenti arabi; Annunziata de’ Catalani 817
» Zisa, Cuba e Menâni 818
» Maredolce; Bagni di Cefalà 820
» Porta della Vittoria; San Giovanni de’ Lebbrosi 821
» Calatamauro, Entella ed altre rovine 822
» Origine dell’architettura siciliana del XII secolo 823
» Architettura degli Arabi 824
» Cufa 826
» Cupole 828
» Mosaici nelle moschee di Damasco, di Medina e della Mecca 829
» Marmi nella moschea del Kairewân 831
» Monumenti d’Egitto; moschea d’Amr 832
» E d’Ibn-Tulûn 833
» Altri monumenti 835
» Poco mutato lo stile in Egitto fino al XV secolo 836
» Levante, Affrica e Spagna ivi
» Architettura della Media e della Mesopotamia 837
» Influenza bisantina ivi
» Ipotesi sul primo sviluppo dell’arco acuto 839
» Come venne in Sicilia 840
» Rassomiglianza dell’arte arabica d’Egitto con quella di Sicilia 843
» Giardini di sollazzo 846
» Fu arabica l’architettura siciliana del XII secolo 851
» Poche modificazioni fattevi 854
» Origine dell’arco acuto nel settentrione d’Europa 858
» Arti accessorie. Mosaici 860
» Dipinture 861
» Sculture in marmo e getti in bronzo 862
» Sistema de’ condotti delle acque 864
» Se rimangano vestigi della popolazione musulmana nelle schiatte odierne della Sicilia 866
» I Musulmani di Sicilia scemarono per emigrazioni, conversioni ed eccidii 867
» Il parlare de’ Saraceni di Lucera ivi
» Mancò d’un subito la lingua arabica in Sicilia 868
» Saraceni del XIII secolo 870
» Pantellaria e Malta 871
» Dell’idioma arabico che si parlava in Sicilia 872
» Pronunzia 873
» Dialetto italico di Sicilia avanti il conquisto musulmano 874
» E nel XII secolo 876
» Supposta scrittura volgare del 1153 878
» Iscrizioni nella porta del Duomo di Morreale 879
» Vicende del parlare arabico ne’ paesi conquistati ivi
» L’arabico lasciò deboli vestigi in Sicilia 880
» Difficoltà di un glossario etimologico 884
» Delle voci arabiche rimase nel siciliano, nell’illustre o in entrambi 885
» Lingua cortigiana surta in Sicilia nel XII secolo 888
» Gli Arabi influirono nella nostra poesia col solo esempio 889
» Istituzioni ed usanze che risaliscono ai Musulmani 890
» Conchiusione 895
Indice de’ nomi di persone 897
Indice de’ nomi di luoghi 935
Indice de’ vocaboli 961
FINE DEL VOLUME TERZO ED ULTIMO.
Correzioni ed Aggiunte.
Pag. lin.
361 4 n. 1. 352 355
435 18-19 n. 2. del quale il Brompton del quale la cronica attribuita a Benedetto di Peterborough, edizione dello Stubbs, Londra, 1867, II, 199 e indi il Brompton,
455 1 distanza linee itinerarie orientate
» 6 n. 2. itinerarie itinerarie. Spiego più largamente il mio concetto nel cap. X, pag. 673, 674, e nelle note corrispondenti
462 22-23 ’Isa-Ibn-Abd-el-Moni’m Abu-d-Dhaw-Serrâg
491 13 n. 1. xj xiij
517 1 n. 1. 181 182.
536 4 quelle cento miglia quadrate que’ mille chilometri quadrati.
» 1 n. 1. volume. volume, dove si è detto del territorio di Giato. Al quale aggiugnendo i territorii di Corleone e Calatrasi, conceduti insieme con esso al Monastero di Morreale pel diploma del 1182, si vede che lo stato del Monastero era circondato da’ territorii di Palermo, Partinico, Alcamo, Masera, Calatamauro (oggi supplito da Contessa), Bisacquino, Prizzi, Chaso (oggi Ciminna) e Cefalà-Diana. Or nella carta di Sicilia, pubblicata non è guari dal nostro Stato Maggiore, la superficie dei tre territorii così determinata prende quasi tutto il foglio 41 (Corleone) e quasi un quarto del 31 (Palermo). Torna ciascun foglio di quella ottima carta topografica ad un rettangolo di chilometri 35X25=875; a’ quali aggiugnendo la quarta parte 218 e togliendone le diecine, per le frazioni di altri territorii compresi ne’ rettangoli, si vede che il numero di 1000, così in arcata, è piuttosto scarso che troppo. Oltre a ciò Guglielmo II, per altri diplomi del 1183 e 1184, concedette il territorio di Bisacquino ed altri, che non mettiamo nel conto.
582 8 frustati frustrati
669 18 Ahmed-ibn-el Ahmed-ibn-Omar-el
» 22 che l’ultimo che il primo è citato dal Kazwini, e l’ultimo
699 4 al quale nel quale
829 15 di marmo di marmo. Nè erano poi rare così fatte costruzioni nell’Affrica settentrionale. Nella famosa moschea Zeituna di Tunis era stata innalzata una cupola, nella quale uno scrittore del diciassettesimo secolo [1366] affermava essere scritto il nome del califo Mosta’în e l’anno dugencinquanta dell’egira (864-5). E Scekr detto il Siciliano, che un tempo governò Tripoli d’Affrica, facea fabbricare, nel lato meridionale della moschea maggiore, una cisterna sormontata di cupola, della quale fu gittata la prima pietra il dugensessantanove (852-3), come riferisce il Tigiani. [1367]
NOTE:
1. Intorno l’età dei due figliuoli di Adelaide, si vegga il libro precedente, cap. vij, pag. 195 di questo volume.
Adelasia e Simone sono nominati ne’ seguenti cinque diplomi: anno 1101, ottobre, presso Spata, Pergamene, pag. 191; anno 1102, Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1028; anno 1105, Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. ij, nota 30; anno 1105, maggio, due diplomi, Spata, op. cit., pag. 203 212. La data poi della morte di Simone si scorge da un diploma presso Pirro, op. cit., pag. 697, dove l’anno 1108 è contato quarto del consolato di Ruggiero. È da avvertire che nell’Ughelli, Italia Sacra, ediz. Coleti, tomo IX, pag. 291, si trova un diploma di Ruggiero conte di Calabria e di Sicilia del 1104, XIIª indizione. Forse l’anno è da correggere 1119, poichè, oltre il nome di Ruggiero che non era per anco salito al trono il 1104, v’ha quello di Goffredo vescovo di Messina, il quale par sia stato promosso alla sede verso il 1108 e sia vissuto fino al 1120: il Pirro, op. cit., pag. 385, reca un diploma del suo predecessore Roberto, dato il 1106.
2. Di Ruggiero secondo, con Adelaide o solo, abbiamo, oltre l’or citato diploma del 1108, i seguenti: anno 1109, Spata, op. cit., pag. 214; anno 1110, febbraio, Neapolitani Archivii Monumenta, tomo VI, pag. 180, e presso Ughelli, tomo citato, pag. 129 (erroneamente citato dal Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. vj, nota 16, con la data del 1113); anno 1110, aprile, Spata, op. cit., pag. 223; anno 1110, Pirro, op. cit., pag. 1028; anno 1111, Pirro, op. cit., pag. 772; anno 1112, marzo, dato di Messina, Spata, op. cit., pag. 229; anno 1112 giugno, Pirro, op. cit., pag. 81; anno 1112, novembre, Spata, op. cit., pag. 233.3. Alberti Aquensis, lib. II, cap. 13, 14; Fulcherii Carnotensis, anni 1113, 1116, 1117; Anonymi Historia, Hierosolimitana, anni 1113, 1116; Wilelmi, Arch. Tyrensis, lib. XI, cap. 21, 29; Odorici Vitalis, Hist. Eccles., lib. XIII; Bernardi Thesaur., cap. 100, presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tomo VII; Sicardi Ep. Cremon. presso Muratori, tomo cit., pag. 590, 591. La data della morte di Adelaide si ha dalla lapide sepolcrale, presso Pirro, Chronologia Regum Siciliæ, pag. xiv, e presso Gualterio, nella raccolta del Burmanno, tomo VII, pag. 1219, nº lxxxiij.4. Anonymi Historia Sicula, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 856 e versione francese, nella edizione dell’Amato, Ystoire de li Normant, pag. 312. Replica coteste parole Romualdo Salernitano, negli annali, presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tomo VII.5. Historia ecclesiastica, lib. XIII, presso Duchesne, Hist. Norm. Script., pag. 897. Si confrontino gli estratti di questa cronica presso Caruso ( Bibl. Sic., pag. 920) al quale parve cosa lodevole mutilare il racconto, per toglier tutti i fatti e le parole che potessero ingiuriare Ruggiero o la madre.6. Le cronache italiane non danno tal nome, nè lo troviamo nei diplomi. Pur quello del maggio 1105, citato nella pagina precedente, nota 1, contiene i nomi dei ministri di quel tempo, ossia gli Arconti: Niccolò camarlingo, Leone logoteta, ed Eugenio, che potrebbe essere per avventura l’ammiraglio di tal nome. Non è segnato nè anco Roberto nell’importante diploma di giugno 1112, che ricordammo or ora, del quale ci occorrerà dire più largamente. Un diploma del 1142, del quale abbiamo uno squarcio dal Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. vj nota 9, dà i nomi de’ commissarii deputati da Adelaide per decidere una importante lite feudale, cioè Roberto Avenel, Ruggiero de Mombrai, Raoul de Belbas e Roberto Berlais. La nota famiglia Avenel non ha che fare co’ duchi di Borgogna; e Roberto era in Sicilia molto tempo pria della reggenza, leggendosi il suo nome ne’ diplomi del primo conte.7. Alexandri Abbatis, etc. presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 258, 259.8. Nel Gregorio si legge Lieraris. Questo è errore di trascrizione del traduttore latino, poichè le copie del testo greco, hanno Αιεζερις, Αιεζαρις. Probabilmente Liezeri è trascrizione del nome Eleazar che portava il signore di Galati figlio di Guglielmo Mallabret, secondo un diploma greco del 1116, presso Spata, Pergamene, pag. 241. Alla forma, questo Eleazar si direbbe soprannome arabico, el-Azhar, ossia “il risplendente:” e non sarebbe nuovo, dopo quello del Cid (Sid), questo esempio d’una appellazione che i Cristiani avessero tolta dalla lingua degli Arabi. Men verosimile parmi l’imitazione del nome giudaico Eleazar.9. La versione latina di questo diploma, fu pubblicata in parte dal Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. vj, nota 9. Noi n’abbiamo già data notizia più largamente nel lib. V, cap. x, pag. 286 del volume, nota 1.10. Si vegga il lib. V, cap. vj e x, pag. 161 e 305 segg. del volume.11. V’ha delle monete arabiche e latine dei re normanni di Sicilia, battute in Messina, e delle arabiche battute “nella capitale di Sicilia,” cioè Palermo. Messi dunque da canto i molti scritti pubblicati in Sicilia ne’ secoli passati su questa materia, gli è certa la coesistenza delle due zecche nel XIIº secolo.12. Oltre i diplomi del primo conte dati in Messina, uno del 1101, presso Ughelli, Italia Sacra, tomo IX, pag. 429, dice di vescovi e baroni convocati nella Cappella di Messina dalla contessa Adelaide e dal figliuolo Ruggiero; un altro del 1126, presso De Grossis, Catana Sacra, pag. 79, fa menzione di corte tenuta dal Gran Conte Ruggiero nel palazzo di Messina, ec.13. Si vegga il lib. V, cap vij, pag. 185 del presente volume.14. Edrîsi nota espressamente che l’armata e gli eserciti, ai suoi tempi, come ne’ tempi andati, moveano alla guerra da Palermo. Testo nella Bibl. Ar. Sicula, pag. 28. Della Zecca abbiam detto nella nota precedente e dei diwani nel lib V. cap. x, pag. 322 segg.15. Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 81, 82.16. Ἀμὲρ si legge nel mosaico della Chiesa della Martorana, pubblicato dal Morso, Palermo Antico, pag. 78; ἀμιρᾶς, anche al nominativo, presso Eustazio arcivescovo di Tessalonica, ediz. di Bonn, pag. 472. Nei diplomi greci di Sicilia che citiamo nel presente capitolo, si legge ἀμηρ, ἀμμήρας, ἀμμιρᾶς e al genitivo ἀμήραδος, ed ἀμμηρὰ. Si vegga, del rimanente, cotesta voce nel Glossario greco del Ducange, il quale la notò per la prima volta nella Continuazione di Teofane.17. Si vegga Ducange, Glossario latino, alle voci amir, admiralius, etc. La voce Amiratus fu usata, credo io, la prima volta da Einbardo, Annales presso Pertz, Scriptores, tomo I, pag. 490, sotto l’anno 801, dove è chiamato così Ibrahim-ibn-Ahmed, l’Aghlabita, emiro d’Affrica. Sicardi vescovo di Cremona, presso Muratori, Rer. Ital. Script., tomo VII, pag. 605, anno 1188, chiama Admiratus il capitan del navilio siciliano e admirandus un emir di Saladino. Marangone, nell’Archivio Storico italiano, tomo VI, parte ij, pag. 18, dà al capitano della armata di Sicilia, l’anno 1158, il titolo di Admiratus e poi di Almirus; Pietro Diacono, lib. IV, cap. xj, presso Muratori, op. cit, tomo IV, pag. 499, fa parola d’un Ammirarius di Babilonia (ossia del Cairo). Le traduzioni latine e italiane del secolo XV, che troviamo ne’ Diplomi arabi dell’Archivio fiorentino, danno le voci Armiratus, pag. 353, 356 e Armiraio, pag. 347, 350 a 354, per significare l’emir di Alessandria; e veggiamo anco in una traduzione del XII secolo, pag. 260, un Admirator galearum, musulmano. Si aggiungan questi al molti esempii che porta il Ducange, e si vedrà che sempre Amiratus, con le sue varianti, rispondeva ad emir. Si ricordin anco Ugo Falcando e Romualdo Salernitano, i quali chiamano Amiratus i dignitarii siciliani di tal nome, ma il primo dà il titolo di Magister Stolii ad un kaid Pietro, che capitanò una volta l’armata siciliana.18. Libro V, cap. v. pag. 139 di questo volume.19. Libro III, cap. j, pag. 2 segg. del 2º volume.20. Il Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1016-17, pubblicò due diplomi risguardanti questo Eugenio. Nel primo, dato del 1093, egli è chiamato notaio, che allor significava segretario. Il conte Ruggiero, a sua domanda, gli concedette un monastero fuor la città di Traina, a fin di riedificarlo, e gli conferì il patronato e il governo di quello. Ciò condusse il Pirro a vestir Eugenio monaco basiliano e crearlo abate. L’altro diploma di re Guglielmo, dato il 1169, trascrivendo il precedente ed accordando anco altri beni al monastero, intitolò Ammiraglio quell’Eugenio. Sembra dunque che il segretario del 1093, in vece di chiudersi nel suo monastero, fosse stato mandato dal conte a governare la città di Palermo. Non è inverosimile che questo Eugenio sia il gran personaggio nominato senz’altro titolo che di Arconte nel diploma del maggio 1105, presso Spata, Pergamene, pag. 263. Più certa vestigia ne troviamo in un diploma greco del 1142, presso Morso, Palermo antico, pag. 313 segg. e nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo stessa, pag. 20 segg., donde si scorge come alcuni discendenti di Eugenio ammiraglio, abbiano venduti alla Chiesa detta in oggi della Martorana, degli stabili che la famiglia possedeva in Palermo. Furono venduti da Niccolò ed Agnese monaca, figliuoli dell’Ammiraglio Eugenio, Niceta moglie di Niccolò, e Giovanni, Teodoro, Stefano ed Elena loro figliuoli; dichiarando tutti costoro che fosse ricaduta a lor pro la parte di Teodicio figliuolo di Eugenio, ereditata da Zoe figliuola di Teodicio la quale era morta anch’essa. Togliendo dunque dal 1142 il corso ordinario di due generazioni, si torna allo scorcio dell’XI secolo e si può supporre con fondamento che quell’ammiraglio Eugenio fosse il medesimo del diploma del 1093.
Notisi che in due altri diplomi greci, pubblicati dal Morso, op. cit., pag. 345 e 353, il primo de’ quali senza data va riferito al 1143 (Cf. Mortillaro, Catalogo del Tabulario della Cattedrale di Palermo, pag. 23) e l’altro è dato del 1204, si trova il nome di un Giovanni, figliuolo dell’ammiraglio Eugenio. Cotesti due ammiragli Eugenii mi sembrano diversi. Il primo si può supporre contemporaneo del gran conte Ruggiero, ma il secondo torna alla metà del XII secolo. A lui credo sia da attribuire, più tosto che all’altro, la traduzione latina dell’Ottica di Tolomeo e delle profezie della Sibilla Eritrea, di che diremo nel seguito del presente libro.
21. Abbiam testò citato questo diploma a pag. 346, nota 2, e avvertito come presso il Gregorio porti una data erronea.22. Si vegga qui innanzi a pag. 351.23. Diploma del 1159, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 98, e presso De Vio, Privilegia Panormi, pag. 6. Cristoforo allor era morto.24. Si fa parola di una precedente donazione dell’ Admiratus domino Christodulos, nei diploma di Ruggiero conte, che l’Ughelli pubblicò con la data del 1104 e che, supponendo esatta l’indizione XIII che v’è scritta, va riferito al 1119; come abbiamo avvertito in principio di questo capitolo, pag. 340, nota 1.
Cristodulo è detto protonobilissimo in un diploma del 1123, presso Spata, Pergamene, pag. 410. Se il sig. Spata ha ben letta la sigla del titolo onorifico e del nome, e se non v’ha errore nella data, convien pur supporre che quel titolo fosse stato accordato pria del notissimo diploma del 1139. In un diploma del 1126, tradotto dal greco, pubblicato con molte varianti, o piuttosto in tenore assai diverso, prima dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 326, e quindi dal De Grossis, Catana Sacra, pag. 79, 80, si vede soscritto, pria di “Georgius de Antiochia amiratus” e di “Admirati filius Gentilis ( sic ) Joannes,” un “Chrisiodorus,” e secondo il De Grossis “Christodorus, amiratus et Riodotus.” Quest’ultima lezione, sbagliata al certo, par che venga da una sigla non capita dall’ignoto traduttore latino, e potrebbe per avventura essere la medesima che fu letta Rozius in altro diploma; onde il Pirro die’ tal casato a Cristodulo. Il Chrisiodorus o Christodorus va corretto, secondo me, Christodulus; e il Rozius potrebbe essere, nè più nè meno, che il notissimo nome di Ruggiero, poichè i Greci di Sicilia soleano trascrivere la g latina o arabica con le due lettere τζ. Cristodulo, ammiraglio e protonotaro, è citato in un diploma greco del 1130, presso Trinchera, Syllabus, pag. 138. Un altro diploma greco del 1136, presso Spata, op. cit., pag. 266, fa menzione di Cristodulo già ammiraglio. In ultimo è da noverar quello del 1139, che accorda il titolo di Protonobiiissimo, pubblicato dal Montfaucon e poi dal Morso, e nel Tabulario della Cappella palatina di Palermo, pag. 10. È superfluo di avvertire, dopo ciò ch’io ho detto, come non si debba fare assegnamento su la lista delli ammiragli di Sicilia ne’ tempi Normanni, data dal Pirro, Chronologia Regum Siciliæ, pag. XXV.
25. Si vegga il seguito del presente capitolo, a pag. 362, nota 3.26. Giorgio ha titolo di ammiraglio nel diploma del 1126 citato nella nota 2, della pag. 351. In un diploma latino del 1132 presso Spata, op. cit., pag. 426 segg. egli è detto dal re “amiratus amiratorum qui praeerat toto regno meo”. In uno del 1133, tradotto dal greco, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 774, egli è detto Ammiraglio delli ammiragli; è sottoscritto αμήρας in due diplomi del 1140 e 1143 nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 13 e 16; è intitolato ammiraglio in un diploma tradotto dal greco, di maggio 1142, presso Pirro, op. cit., pag. 390, e ammiraglio delli ammiragli in uno latino della stessa data, op. cit., pag. 698. Nel mosaico della Martorana ei prese il titolo di αμήρ soltanto, come ognun può vedere, e leggesi in Morso, Palermo Antico, pag. 78. Pare che Giorgio, per modestia o per amor di brevità, si contentasse ordinariamente di questo. Di rado ei solea aggiugnere quello di Arconte degli Arconti; ma un suo figliuolo lo nominava sempre con questo attributo.
È da ricordare la iscrizione greca che leggevasi a’ tempi del Pirro in una Chiesa di Santa Maria de Crypta in Palermo, nel sito dove surse la “Casa Professa” de’ Gesuiti, della quale iscrizione il Pirro, op. cit., pag. 300, 301, dà una traduzione latina. Era inciso il testo su la sepoltura di Ninfa, madre di Giorgio, primum principum universorum, (Ἀρχοντῶν ἄρχον) morta il 6648 (1140). Quivi non si fa parola del padre dell’ammiraglio; ma il Pirro e con lui il Morso, op. cit., pag. 108, 109, non hanno lasciata questa occasione di nominare Cristodulo e di farlo marito della Ninfa.
27. Così Giovanni ammiraglio, figliuolo, com’e’ pare, di Giorgio, nel citato diploma del 1126 e nell’altro del 1142, presso Pirro, pag. 698. Secondo un diploma del 1133, presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. v, nota 4, l’ammiraglio Teodoro fu incaricato di decidere, insieme con Guarino Cancelliere del re, una lite sorta tra il vescovo di Lipari e i cittadini di Patti, suoi vassalli. Il citato diploma del 1126, secondo il testo di De Grossis, fa menzione di un ammiraglio Niccolò, il quale nel tempo che esercitava l’ufficio di Stratego, com’e’ pare, di Mascali, era stato incaricato dal principe di descrivere i confini di quel territorio.28. Lib. V, cap. ix, pag. 262-5.29. Abate di Telese, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 267 et passim.30. Majone è soscritto in latino Ammiratus Ammiratorum, in un diploma arabico del 1154, presso Gregorio, De Supputandis, pag. 38. Ordinariamente lo chiamavano il grande ammiraglio, come si vede dal Falcando e dagli altri cronisti; e questo titolo modificato era ormai sì comune, che Giovanni figlio di Giorgio d’Antiochia lo riferì al proprio padre soscrivendosi μεγάλου αμήραδος ὐίος, in un diploma del 1172, Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 29. In un diploma latino del 1157, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 98, messo fuori a nome del re da Majone “grande ammiraglio degli ammiragli” si leggono, tra i testimonii dell’atto, Stefano ammiraglio figliuolo del grande ammiraglio, un altro Stefano ammiraglio, che si sa dal Falcando essere stato fratello di Majone, ed un Salernitano ammiraglio. Visse inoltre in que’ tempi l’altro ammiraglio Eugenio, del quale si è fatta menzione poc’anzi, pag. 353, nota. 1.31. È noto il diploma di febbraio 1177, per lo quale Guglielmo II di Sicilia costituì il dotario alla sua sposa Giovanna d’Inghilterra. Tra i grandi del regno soscritti in questo diploma secondo l’ordine di loro dignità, si legge 25 mo, Ego Walterus de Moac Regni (sic) fortunati stolii admiratus; prima del quale vengono gli arcivescovi, i vescovi, il vicecancelliere, i conti, e dopo Gualtieri si leggono i nomi del siniscalco, del conestabile, del logoteta, di due maestri giustizieri e d’un giustiziere. Seguiamo l’edizione di Rymer, Foedera, etc., tomo I, pag. 17 (London, 1816).
Margaritone, celebre capitano navale di Sicilia alla fine del XII secolo, è intitolato, senz’altro, ammiraglio del re di Sicilia, nella Cronica di Sicardo vescovo di Cremona, anno 1188, presso Muratori, Rer. Italic. Script., tomo VII, pag. 605.
32. Par che i Genovesi l’abbiano usato i primi dopo la Sicilia. Negli Annali del Caffaro e nelle continuazioni di quelli, si trova un admiratus di Genova il 1211 e quindi due armiragii il 1263 etc. presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tomo VI, colonne 486, 530, ec. È notevole che la prima nominazione d’ammiraglio fu fatta in Genova del 1241, quando Federigo II surrogò Ansaldo de Mari, genovese, al suo ammiraglio Niccolò Spinola ch’era venuto a morte.33. Il Nowairi, citato da M. Reinaud, Invasions des Sarrazins, pag. 69, nota 1, dice d’un emir-el-ma’ (emir dell’acqua) in Spagna. Ma non posso assentire al mio maestro di arabico che sia questa l’origine della voce ammiraglio, quando ne vediamo sì chiaramente le successive mutazioni negli scrittori e ne’ diplomi europei. Per la medesima ragione è da respingere la etimologia ammessa dal Dizionario della Crusca, cioè da emir-el-bachar (meglio bahr) ossia emir del mare. Questa dignità non mi è occorsa mai negli scritti arabi. Ibn-Khaldûn, nei Prolegomeni, testo di Parigi Parte II, pag. 32 e traduzione francese del baron de Slane parte II, pag. 37, ignorando l’etimologia della voce almeland, la suppone franca; e nella Storia de’ Berberi par ch’ei prenda per nome proprio il titolo dell’ammiraglio Ruggier Loria (leggasi El miralia in luogo di El-murakia che non ha significato), testo di Algeri, tomo I, pag. 423, Biblioteca arabo-sicula, pag. 492, e traduzione del Baron de Slane, tomo II, pag. 397. Non posso seguir l’opinione del dotto traduttore, il quale crede Merakia alterazione di Marchese. Ruggier Loria non ebbe mai questo titolo.34. Confermano questo fatto, nelle imprese di re Ruggiero in Affrica, il Nowairi e Ibn-Abi-Dinar, nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 534, 537.35. Edrîsi citato poc’anzi a pag. 350, nota 1.36. Credo si possa affermare la giurisdizione civile e penale del grande Ammiraglio nella prima metà del XII secolo, ancorchè la non si ritragga da documenti se non che a capo di cento anni. Ognun sa che in generale l’Imperatore Federigo ristorò l’ordinamento dei re normanni, anzichè rifarlo: e non v’ha ragione di supporre ch’egli abbia innovato alcun che nella istituzione del grande ammiraglio. Or il suo diploma, pubblicato per lo primo dal Tutini e ristampato dallo Huillard-Bréholles nella Historia Diplomatica Friderici secundi, tomo V, pag. 577 segg., anno 1239, per lo quale fu nominato, vita durante, ammiraglio di Sicilia, Niccolò Spinola da Genova, dà a costui ampia autorità: 1º di costruire e racconciare le navi dell’armata regia; 2º dar patenti di corsari e fare ristorare i danni recati da loro a sudditi di nazioni amiche; 3º giudicare sommariamente, secundum statum (statutum?) et consuetudinem armate, le cause civili e criminali delle persone appartenenti all’armata, agli arsenali regii ed a’ legni corsari, e ciò con autorità di delegare altrui i giudizii; 4º dare in feudo gli ufici di comiti nell’armata quando venissero a vacare; 5º prender danaro dalle casse regie pei bisogni dell’armata: e seguono i diversi e grandissimi lucri accordati all’ammiraglio, in guerra come in pace, su lo Stato e sui marinai e naviganti. Intorno i tribunali dipendenti dall’ammiraglio e la legislazione eccezionale di quelli, si vegga il Giannone, Storia Civile del Regno di Napoli, libro XI, cap. vi, § 2, e le opere citate da lui.37. Si vegga la nota 3 della pag. 354. Questo casato non comparisce in alcuno de’ diplomi dati dal Pirro ne’ quali sia nominato Cristodulo o Giorgio; neppure nella iscrizione sepolcrale della madre di Giorgio di che abbiam fatta parola poc’anzi nella pag. 352, nota 2. Romualdo Salernitano, che forse lo conobbe di persona, non dice altro che: Georgium virum utique maturum, sapientem et discretum, ab Antiochia abductum. Presso Muratori, Rer. Ital. Scr. tomo VII, pag. 195.38. Il Baiân, testo di Leyde, pag. 322, e nella Bibl. ar. sicula, pag. 373, dice che il padre di Giorgio era uno degli òlûg (stranieri o barbari) di Temîm.39. Hisâb.40. I testi dicono con Ruggiero; ma il seguito della narrazione mostra che il principe non l’adoperò a prima giunta in affari gravi.41. Ibn-Khaldûn, nella Storia de’ Berberi, testo di Algeri, tomo I, pag. 208, Biblioteca arabo-sicula, pag. 487, e versione francese del baron de Slane, tomo II, pag. 26, aggiungeva il nome patronimico d’Ibn-Abd-el’Azîz, all’Abd-er-Rahman che insieme con Giorgio capitanò l’armata Siciliana, nell’impresa del 1126 contro l’Affrica. Io credo che costui fosse quel medesimo che il Tigiani, dicendo de’ principii di Giorgio l’Antiocheno, chiama Abd-er-Rahman-en-Nasrani, ossia il Cristiano. Ma rifletto che il Tigiani, d’ordinario molto diligente, non avrebbe qui omesso il nome patronimico onde cadea sul ministro siciliano una macchia d’apostasia; e che al contrario Ibn-Khaldûn bada alle cose più tosto che ai nomi, oltrechè i suoi scritti, copiati e ricopiati per quattro secoli, ci sono pervenuti assai malconci. Non vorrei che, saltando qualche rigo, com’avvien sovente là dove è ripetuta la stessa voce, si fosse attribuito al ministro di finanze di Ruggiero il nome patronimico di Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Aziz, il quale scrisse appunto di questa impresa del 1126, ed è citato da Abu-s-Salt, e questi dal Baiân, pag. 317 del testo di Leyde e 372, della Bibl. ar. sicula. L’ufizio attribuito dal Tigiani ad Abd-er-Rahman-en-Nasrani è di Sâhib-el-Ascghal, che nell’Affrica propria e nel XII secolo, al quale luogo e tempo è da riferire la cronica qui copiata o compendiata dal Tigiani, era il tesorier generale o ministro di finanze che dir si voglia. Veggasi Ibn-Khaldûn, Prolegomènes, traduzione del baron de Slane, Parte II, pag. 14-15.42. Si confrontino nella Bibl. ar. sicula: il Baiân, anno 543, pag. 373; Tigiani, pag. 392; Ibn-Khaldûn, pag. 487, 501. I particolari più minuti si hanno dal Tigiani.43. Si vegga il lib. V, cap. v, pag. 332 di questo volume, e ciò che diremo in appresso de’ traffichi di re Ruggiero in Affrica. Sono poi noti quei dell’imperatore Federigo II.44. Diploma latino del 1133, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 773-4. Il nome proprio è scritto una volta per sbaglio Gregorius, e il topografico in luogo di Catinae va letto Jatinae, come abbiamo avvertito nel lib. V, cap. x, pag. 317 nota 2. Da questo atto non si vede appunto in qual tempo Giorgio abbia preso quell’ufizio in Giattini; ma fu di certo avanti il 1111, perchè egli nella detta qualità descrisse i limiti di un podere donato quell’anno da Rinaldo Avenel all’Abate di Lipari. Cf. Pirro, op. cit., pag. 772-3.45. Tigiani e Ibn-Khaldûn, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 394, 487, e il primo anco nella traduzione francese di M. Rousseau, pag. 246, il secondo in quella del baron de Slane, Histoire des Berbères, tomo II, pag. 26.46. Abbiamo citati poc’anzi questi due diplomi a pag. 354, nota 2, e pag. 355, nota 2.47. L’uno è “Schiavo di Cristo” e l’altro “Schiavo del Misericordioso.”48. Il Gregorio, nel descrivere l’ordinamento del governo sotto re Ruggiero e i sette grandi ufizii della Corona, si riferisce assai di rado a documenti contemporanei. Prende quei della fine del XII secolo ed anco del XIII; o argomenta su i detti del Falcando, che scrisse allo scorcio del XII; e talvolta non allega altro che l’analogia col suo favorito sistema di Guglielmo I, d’Inghilterra. Si veggano le Considerazioni, lib. II, cap. ij, e particolarmente le note 37 segg.49. Abate di Telese.50. Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rer. Ital. Script., tomo VII, pag. 183, anni 1121-2.51. Si vegga il lib. IV, cap. viij e xv, pag. 355 segg. 364, 547 del secondo volume, e lib. V, cap. iij e vj pag. 80, 158, 169 segg. di questo terzo volume.52. Ibn-el-Athîr, anni 476, 482, 488, 489, 491, 493, edizione del Tornberg, tomo X, pag. 85, 119, 164, 175 191 e 202. Si confronti Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione del baron de Slane, tomo II, pag. 22 segg.53. Baiân-el-Moghrib, ediz. Dozy, tomo I, pag. 311 ed estratto nella Bibl. ar. sicula, pag. 370. Il compilatore, che avea chiamati Rûm gli assalitori del 1087, dà a quelli del 1105, il nome di Rumâniûn. Se fossero stati Bizantini?54. Ibn-el-Athir, anni 501, 509 e 510, edizione del Tornberg, tomo X, pag. 315, 359, 365, e Ibn-Khaldûn, vol. citato della traduzione, pag. 24, 25.
Secondo Ibn-el-Athir, anno 503, vol. citato, pag. 336, Iehia mandò quell’anno quindici galee contro i Rûm, l’armata de’ quali le combattè e ne prese ben sei. Secondo il Baiân, nella Bibl. ar. sicula, luogo citato, e nella edizione del Dozy, vol. I, pag. 314, l’armata zirita, di rebi’ secondo del 507 (mezz’ottobre a mezzo novembre 1113) riportò in Mehdia gran numero di cattivi, presi nel paese di Rûm. E torna forse alle scorrerie nel Salernitano, delle quali dicono gli annali della Cava, an. 1113, presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tomo VIII, pag. 923. Ibn-Khaldûn, op. cit., tomo II, pag. 25 della traduzione di Slane, dice che l’armata, della quale Iehia prendea cura particolare, fece molte scorrerie contro i Cristiani francesi, genovesi e sardi, sì che furono costretti a pagargli tributo. Il testo arabico pubblicato dallo stesso dotto orientalista, tomo I, pag. 207 sembra guasto nella voce che significherebbe tributo. In ogni modo, il nome di Farangia (franchi) può significare i paesi cristiani della Spagna e quelli anco d’Italia, e il tributo può essere stato pattuito temporaneamente con qualche giudicato della Sardegna, più tosto che con Genova o Pisa. Ibn-Khaldûn non bada alle minuzie.
55. Questa è la prima volta, per quanto io sappia, che si fa menzione appo i Musulmani d’Affrica del fuoco greco, o, come lo chiamano gli Arabi, la nafta. I Musulmani di Sicilia l’adoprarono nella guerra contro i Normanni, se ad un episodio di quella si riferiscono i versi d’Ibn-Hamdis, ch’io ho citati nel lib. IV, cap. xiv, pag. 532 del secondo volume, e lib. V, cap. vj, pag. 165, nota 3, del presente. In Egitto era conosciuto di certo, poichè Makrizi nel Kitâb-el-Mowâ’iz, testo di Bulâk, tomo I, pag. 424, raccontando l’incendio che consumò una delle armerie del Cairo il 461 (1068-9), dice che v’arsero diecimila Kirbe (otri o vasi) di nafta e altrettante zarrake, o vogliam dire tubi da lanciare quel combustibile. Nondimeno parmi che l’effetto della nafta de’ Musulmani non fosse terribile quanto quello del fuoco greco. Gli scrittori normanni non ne fanno mai parola nella guerra di Sicilia, nè in quelle d’Affrica che noi trattiamo nel presente capitolo; nè la vittoria arrise mai in quella età al navilio zirita contro gli Italiani.
Ibn-Hamdis medesimo e qualche altro poeta che cantava nella povera corte di Mehdia in sul tramonto della dinastia zirita, ricordano la nafta, come orribile strumento di distruzione: “una maraviglia” sclamava Ibn-Hamdis, senza aver letta la relazione della battaglia di Mentana. Al dir di que’ poeti, la nafta: 1º galleggiava su l’acqua e non si spegnea; 2º dava baleno, fumo, tuono e puzzo d’inferno; 3º era lanciata in lingua di fiamma da tubi di rame o bronzo che fossero; ovvero, 4º con dardi; e 5º cotesta nafta, o una specie di essa, era bianca com’acqua. Ciò nei regni di Iehia, Alì, Hasan, ch’è a dire nella prima metà del XII secolo. Si veggano i versi pubblicati nella Biblioteca arabo-sicula, pag, 393 e 565 e altri inediti del Diwano d’Ibn-Hamdis, nella copia del Ms. della Vaticana, fatta dal prof. Sciahuan per uso del conte Miniscalchi, pagg. 75, 77, 118, 213, 241, 271, rime in di, di, ri, mi, na e sa. Il Nowairi accenna anco alla nafta dell’armata zirita, Bibl. ar. sic., pag. 456. Ho fatte queste citazioni in aggiunta a’ fatti pubblicati nella dotta opera Du feu grégeois, etc. par MM. Reinaud et Favé, Paris, 1845, in-8.
56. Questo fatto, del quale non danno alcun cenno gli annali bizantini nè i musulmani, si ritrae precisamente dal diwano d’Ibn-Hamdîs, nella citata pag. 213, della copia del prof. Sciahuan, dove si legge che una delle ragioni che mossero “il reggitore di Costantinopoli la maggiore a schermirsi col calam dal taglio della spada zirita” fu il timore “di quel dardo incendiario, che con maraviglioso effetto lanciava il fuoco nell’onda agitata e ardeavi.”
Ibn-Hamdîs, oltre questa, scrisse a lode di Iehia altre otto lunghe kaside, che leggonsi nella copia dello Sciahuan a pagg. 24, 49, 116, 169, 204, 208, 210, 267, rime in ab, ah, ru, li, mi, im, ma, ka, e la prima, la sesta e l’ottava anco nel Ms. di Pietroburgo, fog. 62 recto e verso e 63 recto. Della prima ho dati due versi nella Bibl. ar. sicula, pag. 572, e sette versi della terza leggonsi in Ibn-el-Athîr, anno 509, op. cit., pag. 280, e nella edizione del Tornberg, tomo X, pag. 359.
57. Si vegga il lib. V, cap. vj e x, pagg. 158, 168 e 332 di questo volume.58. Lib. IV, cap. 50, presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tomo IV, p. 523. I Beni-Hammâd erano chiamati comunemente i signori della Cala (kalà’t) dal nome della prima loro capitale, ancorchè avessero verso il 1090 tramutata la sede in Bugia. Veggasi Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione de Slane, tomo II, pag. 43 segg.59. Il fatto è bene espresso dalle parole di Ibn-el-Athîr che, prima del favore dato da Ruggiero a Rafi’-ibn-Makkan, era tra lui ed Alì amistà e inganno. Cotesta disposizione d’animi si dee tirar su infino al tempo di Iehia.60. È bene riferire testualmente l’affermazione degli scrittori musulmani, che rischiara un punto importante del diritto pubblico del tempo, in Affrica e fors’anco in Sicilia. Secondo Ibn-el-Athîr, Alì dichiarò “Non abbia alcuno nell’Affrica (propria) a competer meco nella spedizione di navi con mercanzie;” e secondo Tigiani, quel principe mal soffriva che alcuno nell’Affrica (propria) rivaleggiasse con lui nella spedizione di navi.61. Traduco “galea” secondo l’uso comune, la voce arabica sciana e scenîa, e serbo l’altra nella forma arabica, non sapendo appunto a quale specie di navi la risponda. Per ragione etimologica, harbiia significherebbe “guerresca.” Il legno di Rafi’ è detto Merkeb, ossia “nave” genericamente e in particolare “grossa nave” da Ibn-el-Athîr e da Nowairi; ma il Tigiani la chiama safina, che vuol dir nave in generale, e specialmente da corso.62. Questo diligente scrittore dice che i Siciliani, già seduti a mensa, sapendo l’arrivo dell’armata affricana corsero a lor galee; ma alla più parte fu tagliata la via del mare, e molti rimasero uccisi. “E salvossi di costoro,” continua il Tigiani citando testualmente il contemporaneo Abu-s-Salt, “chi si potè salvare, avendo volato nella sua fuga, per paura della morte, non già per leggerezza di gamba.” Il Tigiani infine dà alcuni versi scritti in questo incontro a lode di Alì, da un Mohammed-ibn-Abd-Allah.
In cotesti versi, per vero, è detto della ritirata del naviglio siciliano e della paura che gli avean fatta le navi zirite, ma non si fa parola di zuffa, nè di sangue sparso. Similmente la kasida d’Ibn-Hamdis che si legge nel solo Ms. della Vaticana, a pag. 127 della copia del professor Sciahuan, non allude menomamente a fazione combattuta, ancorchè la si estenda di molto descrivendo il terribile aspetto delle harbîe mandate dal signore di Mehdia contro le galee venute di Sicilia a Kâbes (così va corretto il nome di Fas, ossia Fez), l’anno 512. Dal silenzio de’ cronisti e sopratutto da quello de’ due poeti, argomento che il Tigiani, avendo per le mani qualche racconto non compiuto di Abu-s-Salt, abbia confusa la prima spedizione di cui trattiamo, con qualche fazione della guerra che poi si combattè tra Alì e Rafi’ aiutato da Ruggiero; forse la vittoria navale degli Ziriti alla quale accenna Ibn-Khaldûn, con data che pare erronea.
63. Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Abi-Dinar.64. Ibn-Khaldûn non cita questo fatto.65. Poesia citata nella nota 2 della pagina precedente.66. Ibn-el-Athîr, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Ibn-Abi-Dinar.67. Ibn-Khaldûn.68. Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Tigiani, Ibn-Abi-Dinar.69. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 511, testo nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 280 seg. e nella edizione del Tornberg, vol. X, pag. 370; Tigiani, testo nella Bibl. citata, pag. 382 segg., 392 segg. e traduzione francese di M. r Rousseau, pag. 93 e 244 (ne’ quali luoghi la traduzione va corretta per migliori lezioni di un altro Ms. acquistato di poi da M r. Rousseau); Nowairi, sotto gli anni 511 e 512, testo nella Bibl. citata, pag. 454; Ibn-Khaldûn, Storia de’ Berberi, testo nella Bibl. citata, pag. 486 e 488, testo di Algeri, tomo I, pag. 208 e 215, e versione francese del baron de Slane, tomo II, pag. 26 e 36; Ibn-Abi-Dinar, testo nella Biblioteca citata, pag. 535, e versione francese ( Histoire de l’Afrique de.... Kaïrouani, traduite par MM. Pellissier et Rémusat), pag. 152.
Ibn-Khaldûn, nel primo de’ luoghi citati, dice che l’armata siciliana veniva in aiuto di Rafi’ per infestare la costiera ed appostare il naviglio zirita, e che Alì rinnovò il suo navilio. Nell’altro luogo accenna con pari laconismo ad una vittoria navale dagli Ziriti sopra i Siciliani, ma aggiugne che Alì arruolò allora tribù arabe e navi e andò allo assedio di Kâbes il 511. La cronologia non è osservata di certo in questo secondo frammento; nè lo si può mettere di accordo col primo, se non che supponendo la guerra navale, condotta con varia fortuna. Il Baiân, testo, ediz. del Dozy, pag. 316, e nella Bibl. ar. sic. pag. 370, sotto l’anno 512 fa parola soltanto delle ambascerie di Ruggiero a Mehdia.
70. Cotesti fatti, d’altronde notissimi, sono raccontati, con qualche diversità nelle date e ne’ particolari, da Ibn-el-Athîr, anno 448, edizione del Tornberg, vol. IX, pag. 425 segg.; dagli Annales Regum Mauritaniæ, edizione del Tornberg, vol. II, pag. 100 segg.; e da Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. del baron de Slane, tomo II, pag. 67 seg. Secondo la traduzione degli Annales, per Tornberg, pag. 106, il ribât sarebbe stato in mare. Ma il testo ha bahr, che si dice anco di gran fiume, e così la tradizione s’accorderebbe con quella, molto precisa d’Ibn-Khaldûn.71. Si vegga il lib. V, cap. I, pag. 12, del presente volume.72. Ibn-el-Athîr, testo, anno 407, edizione Tornberg, vol. IX, p. 205. Si riscontri il Dozy, Histoire des Musulmans d’Espagne, tomo IV, pag. 304, e Recherches, etc. seconda edizione, tom. II, pag. XXIX XXX, dove è notato un anacronismo d’Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. del baron de Slane, tomo II, pag. 79. L’occupazione di Denia per Moktadir torna, secondo gli autori seguiti dal Dozy, al 1079, ancorchè Ibn-el-Athîr la riferisca al 478 (1085-6).73. Abbiamo la narrazione di questa impresa per Lorenzo Vernese, contemporaneo, il quale dà preziosissimi ragguagli, e più importanti compariranno quando il Bonaini ristamperà, com’egli ha promesso, questa cronica, sopra un Ms. ch’ei ne ha alle mani, molto migliore di quello che servì al Muratori. Per ora usiamo la edizione del Rerum Italic. Script., tomo VI, pag. 111, segg. Si confronti con la Chronica varia Pisana, nello stesso tomo del Muratori, pag. 101 segg. e con Marangone, nell’ Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 7 e 8. Degli Arabi si vegga il Baiân-el-Moghrib, testo, ediz. del Dozy, tomo I, pag. 314, e Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. de Slane tomo II, pag. 206.74. Lorenzo Vernese, op. cit., pag. 154; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, l. c., dice che Mobascer domandò gli aiuti ad Alì-ibn-Jûsuf.75. Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, testo di Parigi, parte II, pag. 37, e traduzione francese del baron de Slane, parte II, pag. 43. La data si vede dalle scorrerie ne’ dominii di Ruggiero, le quali or or narreremo.76. Dozy, Histoire des Musulmans d’Espagne, tomo IV, pag. 263, nota 4.
In due elegie scritte da Ibn-Hamdis l’anno stesso ch’ei morì (527= 1132-3) per un kaîd Ibn-Hamdûn, si fa ricordo anco del trapassato kaîd Abu-Mohammed-Meimûn; ma le vaghe lodi di virtù guerriera prodigate a costui, non danno alcuno indizio ch’egli appartenesse alla famiglia della quale noi trattiamo. Coteste elegie si trovano nel Diwan d’Ibn-Hamdis, Ms. di Pietroburgo, fog. 60 verso e 61 verso; della prima delle quali io ho dato il titolo nella Bibliot. ar. sicula, pag. 572. Mancano entrambe nel Ms. della Vaticana.
77. Il Marrekosci, testo, edizione del Dozy, pag. 149, narra che i Musulmani di Almeria, disdetto il nome almoravide, voleano far principe il kaîd-Abu-Abd-Allah-ibn-Meimûn, ma ch’egli ricusò dicendo: esser uomo di mare, facessero assegnamento sopra di lui contro le armate nemiche, ma dessero il principato ad un altro.78. La rivolta dell’ammiraglio è accennata da Ibn-Khaldûn, il quale nella Histoire des Berbères, vol. II, pag. 183 della traduzione, gli dà il nome di Ali-ibn-Isa-ibn-Meimûn; e ne’ Prolegomeni, l. c., parla di tutta la famiglia de’ Beni-Meimûn “signori di Cadice.” Si vede ch’e’ stavano a cavallo sul mare, tra le Baleari, Denia, Cadice e Almeria.79. Mi par bene raccogliere qui i luoghi degli annali, ne’ quali si fa menzione di questa famiglia:
1114. Alle Baleari, Maymonus, Lorenzo Vernese, e Ibn-Khaldûn, ll. cc.;
1122. A Nicotra, Abu-Abd-Allah-ibn-Meimûn, secondo il Baiân, testo I, 317. Ibn-Khaldûn, Berbères, II, 26, traduzione, lo chiama Mohammed: e pare lo stesso personaggio, sendo solito tra’ Musulmani, ad onor del profeta, di porre il keniet, ossia soprannome, di Abu-Abd-Allah, a chi si chiamasse Mohammed. Ma il Tigiani, nella Bibl. ar. sicula, pag. 393, dà al capitano di questa correria il nome di Ali-ibn-Meimûm, e potrebbe essere per avventura l’ Alas e all’accusativo Alanta, spagnuolo, che Lorenzo Vernese dice rimaso capitano del castello di Majorca dopo la fuga di Burabe, e scampato a nuoto quando i Pisani entravano nella fortezza. È da avvertire che Tigiani, op. cit., pag. 398, accennando a quel Meimûn-ibn-Mohammed-ibn-Meimûn che assalì la Sicilia dopo il 1123, aggiugne “aver già fatta menzione di costui” Pare da ciò che nei Mss. sia stato sbagliato il nome di Alì o quello di Mohammed.
Le sorgenti siciliane dicono Gaytus Maymonus, senz’altro.
1127. A Patti e Siracusa, Meimûn-ibn-Mohammed-ibn-Meimûn, capitano dell’armata almoravide. Prendo il nome dal Tigiani, nella Bibl. ar. sicula, pag. 398, quantunque la prima voce sia mutila, Maimu e manchi altresì l’ ibn seguente. Indi si potrebbe supporre il Maimu scritto per sbaglio dal copista e non cancellato, e questo personaggio tornerebbe a Mohammed-ibn-Meimûn, lo stesso capitano, cioè, della correria sopra Nicotra del 1122. Ibn-Khaldûn, Storia de’ Berberi, testo nella Bibl. ar. sic., pag. 487, e traduzione francese del baron de Slane, II, 27, dice di questa seconda scorreria di Mohammed-ibn-Meimûn dopo l’impresa di Dimas, senza porre data precisa. Gli altri autori arabi non fanno parola della impresa del 1127.
Ma parecchi de’ cristiani ne danno notizia. E primo, l’Appendice al Malaterra, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 249, porta che il 17 luglio 1027, il Gaitus Maymonus, saraceno spagnuolo, assalì Patti e Siracusa, dievvi il guasto, uccise, arse, fe’ preda e riportò prigioni uomini e donne. Lo stesso avvenimento, con le medesime parole e con errori di copia, si trova nella Epistola di fra Corrado, presso Caruso, op. cit., pag. 47, con un’aggiunta di fole, o fatti e nomi sì guasti da non potersi ravvisare. La tradizione dell’assalto del Gaito Maimono evidentemente è unica; e alla data scritta nelle due cronache non manca altro che una C per fare 1127, in luogo di 1027, che fu probabilmente cattiva correzione dei compilatori, entrambi del XIII secolo.
E così il fatto risponde a quello raccontato da Guglielmo arcivescovo di Tiro, lib. XIII, cap. 22 (estratto presso Caruso, op. cit., pag. 1001), che avendo Ruggiero assalita invano l’Affrica con 40 galee, gli Affricani, armatone 80, si vendicarono dando il guasto a Siracusa. La data torna bene, poichè il cronista nel capitolo seguente nota la primavera del quarto anno dalla espugnazione di Tiro, la quale avvenne il 30 maggio 1124.
Negli atti della traslazione del Corpo di Sant’Agata, (1126) presso il Gaetani, Vitæ sanctorum siculorum, tomo I, pag. 60, è attribuito a quella Santa il miracolo che, un anno appresso il trasporto della reliquia a Catania, i cittadini furono avvisati del prossimo assalto di pirati di Spagna; onde il nemico, trovandoli preparati, voltò la prora sopra Siracusa; dove uccise, fece prigioni “e portò via ogni cosa fuorchè le mura” dice lo scrittore contemporaneo.
Sicardi, vescovo di Cremona, presso Muratori, Rer. ital. Scr., VII, 597, scrive sotto il 1127, Barbari Syracusanam civitatem invadunt, comburunt et cuncta diripiunt.
1133 (1134 pisano). Pace fermata tra i Pisani, il re di Morroch, (Marocco) il re di Tremisiana (Telemsen) et Gaidum Maimonem. Marangone, nell’Archivio Storico ital., tomo VI, Parte II, pag. 8.
Il Makkari, testo di Leyde, vol. II, pag. 184, dice in generale delle scorrerie del Kaid-ibn-Maimûn sopra i Cristiani, e ch’egli stava in Almeria.
1137. Ne’ mari di Spagna, 22 galee genovesi inseguono le 40 di Gaito Maimone d’Almeria. Caffaro. Ann. Januenses, presso Muratori, Rer. Ital. Scr., tom. VI, pag. 259.
1159. Mohammed-ibn-Abd-el-Azîz-ibn-Meimûn, capitano dell’armata del principe almohade Abd-el-Mumen all’assedio di Mehdia, respinse l’armata siciliana venuta in soccorso del presidio. Il nome è ricordato dal Tigiani (Ms. di Parigi Supp. Arabe 911. bis, fog. 140 verso) aggiugnendo ch’ei fosse “di quella casa sì celebre di capitani navali”; ma queste parole mancano a lor luogo nella traduzione francese che fece sopra altro Ms. M r. Alphonse Rousseau, della quale si veggano le pagg. 262, 264. Il fatto di Mehdia è raccontato dallo stesso Tigiani nello squarcio ch’io pubblicai nella Biblioteca arabo-sicula, testo pag. 402.
1161. Oberto Spinola, con 5 galee si presenta nel porto di Denia, dove Lupo, re di Spagna, gli paga 10,000 marabot (moneta degli almoravidi) e gli concede libero il commercio. Caffaro, op. cit., pag. 267. Secondo Ibn-Khaldûn, Berbères, traduz. II, 207, Lob (Lupo) ibn-Meimûn era ammiraglio degli Almohadi in quel tempo. La pace fermata tra lui ed i Genovesi è attestata anco da un diploma del 1162, nel Liber Jurium Reipubl. Januensis, tomo I, pag. 210.
Si vegga anco, su i fatti de’ Beni Meimûn, il Gayangos, traduzione del Makkari, Mohammedan Dynasties in Spain, tomo II, pag. 547, nota. Non assento al dotto traduttore che cotesta famiglia fosse berbera, della tribù di Lamtuna. Mi pare piuttosto spagnuola e forse di origine cristiana. Meimûn era de’ nomi che i Musulmani solean dare a’ liberti.
80. Valgano le autorità citate nella nota precedente sotto l’anno 1122. Si aggiunga Ibn-el-Athîr, anno 517, nella Bibl. ar. sic., pag. 282, il quale, senza dare il nome d’Ibn-Meimûn, dice saccheggiata Nicotra da un’armata degli Almoravidi.81. Ibn-el-Athîr, loc. cit.; Baiân, testo del Dozy, pag. 317 e della Bibl. ar. sic., 371, anno 516; Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, nella Bibl. ar. sic., pag. 487 e nella versione francese, II, 27; Tigiani, Rehela, testo nella Bibl. ar. sic., pag. 394 segg. e nella versione francese, pag. 245 segg.; Ibn-Abi-Dinar, testo, nella Bibl. ar. sic., pag. 536 e nella versione francese pag. 153. Cotesti scrittori, che visser tutti dopo il XII secolo, par abbiano compilata la guerra del 1123 sopra due o tre cronisti contemporanei e su le relazioni ufiziali delle quali si farà menzione. De’ Cristiani abbiam solo Guglielmo di Tiro, citato poc’anzi a pag. 378 in nota. L’Abate di Telese allude alle conseguenze di questa impresa, quando, nel raccontare fatti del 1127, ei dice: “ Cumque ( Rogerius ) ad alias iterum occupandas insulas terrasque attentius persisteret, etc. ” Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 259.82. Baiân, Ibn-el-Athîr, Tigiani, Ibn-Khaldûn.83. Veggasi Romualdo Salernitano, anni 1121-1122, presso Muratori, Rer. Italic. Scr., tomo VII, pag. 183.84. Si veggano le condizioni della corte di Mehdia in questo tempo dal Nowairi, testo, nella Bibl. ar. sic., pag. 456.85. Baiân.86. Si confrontino Ibn-el-Athîr, il Baiân, e la Relazione ufiziale trascritta in parte dal Tigiani.87. Tigiani e Ibn-Khaldûn.88. Ibn-el-Athîr, Baiân, Tigiani. È notevole che il Baiân dica delle Kabile chiamate e degli Arabi condotti. Evidentemente la prima denominazione indica qui gli abitanti antichi, arabi e berberi. Tigiani dice: le Kabile di Arabi e altri. Kabîla in arabico significa tribù.89. Baiân.90. Relazione, presso Tigiani.91. Ibn-el-Athîr, Baiân.92. Si vegga il nostro lib. I, cap. v, vij, pagg. 111, 112, 165 del 1º volume e il cap. ij del lib. V, pag. 81 del presente.93. Questo fatto non si ritrae da’ cronisti, ma da una kasîda d’Ibn-Hamdîs, scritta a bella posta dopo il caso di Dimas. Nella quale il poeta, vantando il conquisto musulmano della Sicilia e le scorrerie nelle quali i Musulmani avean prese le donne dei Rûm, continua:
“E Cossira, dove si veggono i teschi degli avi loro; i teschi de’ cui rottami è cosparso tuttora il terren brullo!”
94. Così il Tigiani. E veramente il 21 luglio, secondo il calendario cristiano, cadde in sabato. Questo prova che l’autore seguito dal Tigiani abbia tenuto il conto civile dell’egira, non l’astronomico, che comincia un giorno innanzi. Ibn-el-Athir dice negli ultimi di Giumadi primo, senza specificare il giorno. Così anche il Baiân.95. Cotesto nome è dato dal Baiân e dal Tigiani. La relazione ufiziale, co’ suoi vezzi di prosa rimata, dice “un’isola piena di ahsau.” Or, secondo i dizionarii, questo vocabolo è plurale di hisâ, o husâ “acqua che s’infiltra nella sabbia, e la sabbia stessa:” mentre huswa, singolare di ahasi, vuol dire sorso o centellino. Il Quatremère nella versione francese di Makrizi, Sultans Mamlouks, tomo I, parte 1, pag. 19, nota 19, spiega, con moltissimi esempii, hisa “puits creusé dans le sable.” Io ritengo che i due vocaboli siano stati usati promiscuamente, come sono simili le radici e vicino il significato, e che l’isolotto fosse stato detto Ahasi per cagion de’ pozzi che vi si cavassero.
Più importante osservazione è che gli Arabi contemporanei abbian parlato di un isolotto, mentre or ve n’ha due. Trascuraron essi il minore: o ve n’era un solo che poi si è spezzato; oppure le sabbie n’han formato un altro dal XII secolo in qua?
Nella carta di Smyth, nuova edizione del 1860, sono segnati a settentrione del Capo Dimas i due isolotti Baltah, divisi dalla terra ferma per uno strettissimo canale di basso fondo. I medesimi, col nome di “Isole Sorelle,” si veggono nella bella carta del Sahel, ossia costiera tunisina, pubblicata dal sig. Enrico De Gubernatis, nel primo Fascicolo del Bollettino della Società geografica italiana, Firenze, agosto 1868. Nella carta si vede il tratto di costiera da Mehdia a Dimas, del quale noi parliamo nel testo; e le Osservazioni aggiunte a pag. 245, del Bollettino, §7, danno l’odierna larghezza dello Stretto tra Dimas ed Ahasi.
96. Relazione.97. Il Merâsid-el-Ittila’, ediz. di Leyde, tomo I, 443, ricorda de’ luoghi di questo nome a Waset e ad Ascalona, e dice che esso significhi carceri. Si potrebbe supporre che il nome del Capo fosse venuto da alcun edifizio romano che era o pareva una prigione, poichè negli atlanti marittimi si vede il segno di antiche rovine sul lato settentrionale del capo. In Makrizi, Mowâ’iz, ediz. di Bulâk, tomo I, pag. 482, 483, è intitolata così una specie di navi. Questo vocabolo poi par derivato dalla lingua greca e congenere a Dâmâs e Dâmûs “volta sotterranea.” Nel dialetto siciliano, “dammusu” vuol dire “tetto a volta” ed anco “cella sotterranea di prigione.”
Secondo Ibn-el-Athîr, Dimas, terra murata, racchiudeva un castello posto in riva allo Stretto; poi ch’egli dice che i Cristiani aveano occupato il castello, e che i Musulmani lo assediavano.
98. Tigiani.99. Baiân e Tigiani.100. Baiân.101. Baiân e Tigiani. Ma Ibn-el-Athîr dice che i Siciliani aveano assalita la terra di Dimas ed erano stati respinti dagli Arabi.102. Relazione.103. Tigiani porta l’occupazione del castello il terzo giorno dallo sbarco; il Baiân a dì 28 giumadi primo, correggendosi il testo com’io ho fatto nella Bibl. ar. sic., pag. 371, nota 4. Il primo aggiugne che favorirono in questa fazione il nemico “alcuni Arabi corrotti da’ due capitani di Sicilia”. Secondo la Relazione fu “un de’ ribelli tiranni Arabi” che, per colpo di mano, fece entrare i Cristiani nel castello. Ibn-Hamdîs, nel verso 25 della citata kasîda, esclama: “Lo comperarono (il castello di Dimas) e vendettero alcune anime (de’ loro) alla distruzione. Dimmi s’essi hanno perduto o guadagnato in tal baratto?”104. Relazione. In questo stesso documento, ridondante di figure, si dice degli assediati che “il fuoco li arse, che sembrava quel dell’inferno”. Se ne può dedurre che nell’assedio fosse stata adoperata la nafta.
Le tribù di Arabi che segnalaronsi in queste fazioni, secondo i versi 51 a 58 della citata kasîda, furon quelle dei Riâh, Dahmân, Zeid e Sakhr.
105. Tigiani.106. Baiân.107. Questo numero è dato dal solo Ibn-Abi-Dinar, compilatore moderno, ma esatto e non tanto rettorico. Forse trovavasi in alcuna delle relazioni ufiziali contemporanee; perocchè negli squarci serbati dal Tigiani si legge lo stesso numero di centomila, erroneamente dato, e forse per mero sbaglio di copista, al presidio cristiano del piccol castello di Dimas. Si vegga nella Bibl. ar. sic. la nota 5 della pag. 397.108. Ibn-Hamdîs, nella kasîda citata, verso 35, dice “molti provarono a riscattarsi dalla dura lor sorte con tant’oro quant’e’ pesavano; e l’oro non fu accettato!”109. Baiân, senza dire il motivo al quale io attribuisco la longanimità del governo zirita.110. Ibn-el-Athîr, porta la catastrofe il mercoledì 15 giumadi 2º; il Baiân il 15 giumadi; Tigiani il mercoledì 14 giumadi. I fatti sono raccontati con poco divario in quelle tre opere. E lo stesso in Ibn-Khaldûn e Ibn-Abi-Dinar.111. L’è data da Tigiani. Ibn-el-Athîr fa menzione di questa Busera, “la grida” diremmo noi.112. Questa poesia, che manca nel Ms. di Pietroburgo, si legge in quello della Vaticana, pag. 127 della copia del prof. Sciahuan. La pubblicherò in appendice alla Bibl. ar. sicula.113. Baiân, testo, nella Bibl. ar. sic., pag. 382, e nella edizione del Dozy, pag. 317. Si vegga il cenno biografico di Abu-s-Salt, nella nostra Introduzione, vol. I, pag. xxxviij, n. IV. Ibn-Khallikân, quivi citato, riferisce che Abu-s-Salt andò a Mehdia il 506.114. Si vegga la pag. 378, in nota, anno 1127.115. Alessandro di Telese, presso Caruso, Bibl. sic., pag. 259. Il cronista dice che Ruggiero “si rammaricò del non aver saputo a tempo la morte del Duca.” Or noi ritraggiamo da Falcone Beneventano e da Romualdo Salernitano, che l’era seguìta il 20 luglio.116. Lettera di Ruggiero al conte di Barcellona e minuta della risposta che gli si richiedea; chè tal è di certo sendo scritta a nome del conte di Barcellona e data dal Palazzo di Palermo lo stesso giorno. La copia è cavata dall’Archivio regio di Barcellona, come si scorge dalla sottoscrizione dello archivario del tempo. Io la tolgo dalla Biblioteca comunale di Palermo, volume segnalo Q. 9. G. 1. ch’è de’ manoscritti di Antonino Amico il quale riportò di Spagna in Sicilia preziosissima raccolta di documenti storici. A questi due diplomi si riferì, al certo, il Di Biasi ( Storia del Regno di Sicilia, libro VII, cap. xvi) chiamandoli “Monumenti tratti dal Regio Archivio”, senza dir di qual paese.
La data dal 1127 dell’Incarnazione, torna al 1128, poichè si tratta del mese di gennaio. Se pur non ci fosse per dimostrarlo la indizione 6ª, basterebbe il titolo di Duca di Puglia dato a Ruggiero, il quale nol potea prendere innanzi l’agosto 1127. Lascio da canto il mese di marzo, scritto per sbaglio, quando il XV. Kal. februarii indica precisamente il gennaio. La prossima state riferita alla 7ª indizione, mentre correa la 6ª, mi fa supporre usata qui per anomalia, l’indizione che si rinnovava il 25 marzo, di che v’ha esempii appo la stessa corte di Roma, nell’XI e nel XIIº secolo. Del resto, la cancelleria siciliana adoperava ordinariamente la indizione costantinopolitana. Ei non è verosimile che l’impresa fosse stata proposta per la state della 7ª indizione 1129, a capo, cioè, di 17 mesi dalla data del diploma.
Su i combattimenti che seguirono allora in Catalogna, si vegga il Surita, Anales de la corona de Aragon, lib. I, cap. xlix.
Or ecco i due diplomi:
I. Ego R (Rogerius) Dei gratia Princeps, et Dux Apuliae, Siciliae, et Calabriae Comes, concedo tibi Domino R (Raimundo) eadem gratia Comiti Barcinonensi, per honestissimos legatos tuos, videlicet Petrum Archidiaconum; et Raimundum, venientes ad nos Panormum, gratia (?) requirendi auxilium, et consilium propter guerras, et multiplices incursus Saracenorum in partibus Hispaniae, hanc subscriptam pactionem. Concedo tibi per securitatem baronum meorum, videlicet Roberti de Terona, et Roberti de Miliaco, quia si in praesentia legatorum meorum, videlicet Guilelmi de Pincinniaco, et Samsonis de Surda-valle, ad praesentiam tuam proficiscentium, iuraveris, infra octo dies eorum aduentus ad te, cartulas praesentes mearum pactionum, legatis tuis, vel legato, pro hoc negotio ad me venturis, vel venturo, iurabo quia in futura aestate septimae indictionis, in mense Julii, vel ante, galeas quinquaginta in servitium Dei, et auxilium exercitus, ad exercitum in Hispaniam, excepta occasione, quae propter hoc non sit reperta, mittam. Facta Panormi in palatio Domini Ducis, anno Dominicae Incarnationis M centesimo XXVII, Mense Martii (Januarii) XVº Kal. Februarij, indictione sexta.
II. Ego R (Raimundus) Dei gratia Barcinonensis Comes iuro, et assecuro tibi Domino Rogerio eadem gratia duci, quod ibo in Kal. Julij septimae Indictionis, vel ante, cum exercitu meo in Hispania, in servitium Dei, et auxilium tuum, et adiuvabo homines tuos terra, et mari per fidem: et in auxilio tuo, et hominum tuorum permanebo quandiu classis tua, quae Extolyum dicitur, terra, et mari Hispaniae fuerit. Ego galeis tuis, et aliis navibus tuis, et hominibus Extolij tui, et rebus eorum secura receptacula in mari, et in terra, in Civitatibus, Castellis, et Villis dabo ad posse meum, et liberam victualium, et stipendiorum emptionem: et assecuro tibi de universa adquisitione nostra, tempore exercitus lui, terra, et mari in partibus Hispaniae, scilicet Civitatum, Castellorum, Castrorum, burgorum, casalium, villarum, omnium denique terrarum, hominum, auri, argenti, et rerum omnium, tam mobilium, quam etiam stabilium, integram medietatem habendam tibi, et hominibus tuis super hanc causam tua illusione ordinatis, sine contrarietate, vel contradictione, vel vi eis illata; ei non queram, neque querere faciam, neque consentiam quomodo eam perdas. Et adiuvabo tibi eam tenere, defendere, et hominibus, et baiulis tuis per fidem, sine fraude, et ingenio, contra omnes homines, et foeminas, qui praedictam partem tibi, vel hominibus tuis ad tollendum invaserit. Quod si forte de his praedictis pactionibus aliquid minus factum in exercitu tuo factum fuerit. Infra octo dies emendabo, vel emendari faciam per iustitiam, si inde requisitus fuero, vel per concordiam, quae sit grata illi, vel illis, cui, vel quibus, minus facium fuerit factum, si ex eo, vel ex eis, qui recipere debet non remanserit. Haec attendam, et observabo per fidem sine fraude, et ingenio tibi, et baiulis tuis, et hominibus tuis; sicut supra scriptum est in praesenti cartula. Facta Panormi in palatio Domini Ducis, anno Dominicae Incarnationis M centesimo XXVII, mense Martij (Ianuarij) XV. Kal. Februarij, indictione sexta.
A carta recondita in scrinio mensae Aulae inferioris Regij Archivij.
Michel Bernardo Archivario del Regio Archivio de Barcelona. Raphael de Dominic.
117. Presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 257, 258. La Cronica di Falcone Beneventano e gli Annali di Romualdo Salernitano mostrano i particolari di questo brutto quadro.118. Si vegga il Libro V, cap. X, pag. 271 segg. di questo volume.119. Nel Capitolo 1º del presente libro, pag. 347, abbiamo accennato ad alcuni casi sotto la reggenza. Romualdo Salernitano, Annali, 1126, dice espressamente che i baroni seminavano zizzanie tra Guglielmo e Ruggiero.120. Romualdo Salernitano, op. cit., dal 1121 al 1127.121. Alessandro abate di Telese.122. Falcone Beneventano.123. Si confrontino: Alessandro abate di Telese, lib. I, e Falcone Beneventano, anni 1127 a 1129, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 259 segg. 329 segg.; e Romualdo Salernitano, anni 1126 a 1130, presso Muratori, Rer. Ital. Script., VII, pag. 184 segg. Lascio da parte le dispute che si son fatte su l’assentimento dell’antipapa Anacleto, su la doppia incoronazione del re, ecc.124. Le scarse sorgenti istoriche di questo fatto non ci permettono di ritrarre precisi i particolari. Abbiamo in primo luogo la bolla dell’antipapa Anacleto, data il 27 settembre 1130, pubblicata in parte dal Baronio e poi dal Pirro, Chronologia, pag. XV e XVI, per la quale concedeasi a Ruggiero la corona del regno di Sicilia, Calabria e Puglia, dichiarandone capo la Sicilia. Ma noi non sappiam se questa bolla sia stata mai spedita, e sopratutto se Ruggiero l’abbia accettata. L’abate di Telese, scrittor di corte, non ne fa parola. Ei narra il fatto come proceduto dal solo voto del Parlamento e limita il titolo regio alla Sicilia. Ma questo abate cortigiano scrisse dopo la pace del re con Innocenzo II; onde si potrebbe supporre ch’egli avesse trascurata ad arte la concessione dell’antipapa e ridotto il titolo regio ne’ termini che poi assentì Innocenzo. La bolla, in fine, di questo papa, data il 27 luglio 1139, pare una transazione, ammettendo il titolo di re per la Sicilia e mantenendo quel di duca per la Calabria e la Puglia, pretesi feudi della Santa Sede.
Ho detto transazione, perchè il titolo usato da Ruggiero tra il 1130 e il 1139 fu Sicilie atque Italie rex, come si legge nei diplomi di settembre 1131, presso Pirro, Sic. Sacra, pag. 386, 387; del 1133 e 1137, presso Ughelli, Italia Sacra; e vedeasi a rilievo in una campana del duomo di Palermo, detta la Guzza, gittata in Palermo il 1136, indiz. xiv, della quale il Pirro, Chronologia, pag. XVI, riferisce la leggenda. Occorre anco in un diploma di Ruggiero, dato di novembre 1137 e trascritto da Falcone Beneventano, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 367. Cotesto titolo ricomparisce talvolta nei diplomi de’ due Guglielmi: ma più ordinariamente fu usato quello di re di Sicilia, del Ducato di Puglia e di Calabria, e del Principato di Capua. Si corregga con questi particolari il saggio storico ch’io scrissi nella mia prima gioventù, stampato il 1835 nelle Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, fasc. 35, sotto il titolo di Osservazioni intorno un’opinione del Signor Del Re, ecc.
125. Si confrontino: Alessandro abate di Telese, lib. II, III; Falcone Beneventano, anni 1130 segg.; Romualdo Salernitano, negli stessi anni. Marangone, nell’ Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 9, dice dell’armata di Ruggiero. L’abate di Telese, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 282 e 295, fa menzione delle compagnie stanziali. La bolla d’Innocenzo II è stata già citata nella pag. precedente, in nota.126. Alessandro abate di Telese, presso Caruso, op. cit., pag. 274.127. Otone di Frisingen, Chronicon, lib. VII, cap. 20.128. Abate di Telese, nell’op. cit., pag. 275, 276.129. Anno 1133.130. Anno 1133, presso Caruso, op. cit., pag. 351.131. Anno 1127.132. Falcone Beneventano, presso Caruso, op. cit., pag. 345.133. Epistole, presso Martene e Durand, Veterum Scriptorum, ecc. tomo II. Parigi, 1724, pag. 183, 186 segg.134. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 529; Tigiani, Ibn-Khaldûn, e Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 284, 398, 487 e 536. Nessuno di questi compilatori ci dice appunto in qual mese dell’anno musulmano fossero succeduti gli avvenimenti ch’e’ narrano. La durata dell’assedio e i due fatti che seguono, sono riferiti dal solo Ibn-Abi-Dinâr, nell’op. cit., pag. 537. Tutti pongono l’assedio di Mehdia prima del saccheggio delle Gerbe, del quale abbiamo la data precisa dall’Edrîsi.
Al citato luogo d’Ibn-Khaldûn risponde la versione francese di M. De Slane, vol. II, pag. 27; la quale, nello stile scorrevole e netto dell’egregio traduttore, dà talvolta ai fatti quella precisione che lor manca nel testo e li ravvicina l’uno all’altro e connette più strettamente che non abbia fatto l’autore. Così il passo “Roger prit aussitôt la résolution, etc.” rappresenta come avvenuti entro pochi mesi, due fatti tra i quali corsero nove anni, cioè dal 1127 al 1135.
135. Ho dati alcuni ragguagli su le cose di questa isola nella Storia del Vespro Siciliano, edizione del 1866, tomo I, pag. 309 segg. e in una lettera indirizzata al signor Federigo Odorici, tra gli Atti e memorie delle regie deputazioni di storia patria per le province modenesi e parmensi, vol. III. N’ho fatta anco menzione nel presente lavoro, libro III, cap. X, vol. II, p. 197.136. Si confrontino: Edrîsi; Ibn-el-Athîr, anno 529; Baiân, anno 530; Tigiani; Abulfeda, anno 529; Nowairi; Ibn-Khaldûn e Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 73, 286, 372, 384, 415, 456, 494 segg. 498 e 537. La versione e il testo di Edrîsi si veggan anco nella Description de l’Afrique et de l’Espagne par MM. Dozy et de Goeje, Leyde, 1866, pag. 151-152; quella d’Ibn-Khaldûn, nella Histoire des Berbères, per M. De Slane, tomo I, 245; II, 397, 427; III, 63 segg. 87, 122; e quella di Tigiani, per M. Rousseau, nel Journal Asiatique, Aôut-sept. 1852, pag. 170 segg. Debbo avvertire il lettore che il paragrafo d’Ibn-el-Athîr su le Gerbe ed alcuni altri citati nel corso del presente capitolo, sono stati tradotti dal baron De Slane, in appendice al II volume della Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun, pag. 578 segg. anni 529, 537, 541, 543, 544, 546, 547.
Fuorchè il Baiân, gli altri portano il fatto nel 529, e l’Edrîsi, ch’è il solo contemporaneo e lo potea ben sapere, lo riferisce allo scorcio dell’anno. Ibn-Khaldûn, in un luogo, dice l’occupazione avvenuta il 529 e in un altro il 530.
137. Ibn-Abi-Dinâr, compilatore, com’ho avvertito altre volte, moderno ma diligentissimo, il quale, senza dubbio, copiò questo squarcio da qualche cronista contemporaneo, scrive che il re “pose i Gerbini superstiti nella condizione di Khewel suoi.” Questa voce significa “famigliari, servi, uomini che lavorano pel padrone.” Ibn-Khaldûn, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 498, dice che gli abitatori furono lasciati nell’isola e sottoposti alla gezìa. Lo stesso autore, narrando in altro luogo ( Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 496) che l’isola si ribellò e fu ripigliata il 1153, dice che i Siciliani adoperarono al lavoro i raia’ (infime classi del popolo) e i contadini: le quali parole il dotto baron De Slane ha tradotte ( Histoire des Berbères, tomo III, pag. 64) “et [les Siciliens] y établirent des agents chargés d’administrer les gens du peuple et les cultivateurs.” Anco il Tigiani, nel luogo citato, fa supporre diversa la condizione de’ Gerbini avanti e dopo la ribellione; poich’ei dice del conquisto del 1135, che gli avanzi della popolazione rimasero sotto il dominio de’ Siciliani, e di quello del 1153 che gli abitatori furono la più parte menati prigioni in Sicilia e non rimase nella Gerbe se non che la gente da nulla. Anco Edrîsi parla della cattività in Palermo il 1153.
E questa parmi la principale differenza de’ provvedimenti dati nelle due imprese. Nell’occupazione del 1135, confiscati i possessi, ma lasciata nel paese la gente, che non fu menata in cattività prima che si promulgasse l’ amân. In quella del 1153, fatti schiavi quanti non furono uccisi e lasciato un pugno d’uomini, sì poco da non potersene temere altra sollevazione.
138. Si veggano i Diplomi Arabi dell’Archivio fiorentino, Introduzione, § XVII, pag. xxxix, segg. e Mas-Latrie, Traités de paix, etc., au moyen-âge, Paris, 1866, in 4. Introduzione, pag. 83 segg.139. Si riscontri il capitolo precedente, pag. 372.140. N’abbiam fatta parola nel Libro V, cap. VI, pag. 156, di questo volume.141. Nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 536.142. Op. cit., pag. 537.143. Si riscontri ciò che abbiam detto nel Lib. V, cap. X, pag. 332, sul commercio de’ grani con l’Affrica. Ibn-el-Athîr, anno 536 (1141-2) nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 286, narra che Hasan, dopo le prede fatte a Mehdia dall’armata siciliana, mandò a implorare pace da Ruggiero, “per aver grani dalla Sicilia; perocchè la fame era orribile quell’anno e grande la mortalità.” Noi abbiam notato più volte che la carestia e quindi il bisogno dei grani di Sicilia, era ormai permanente nell’Affrica propria. Sappiamo inoltre da Ibn-Abi-Dinâr, citato nel seguito di questa narrazione, che Hasan, lo stesso anno 536, dovea a Ruggiero grosse somme di danaro.144. Nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 537-8.
Questo del 536 dell’egira (1141-2) par sia stato l’ultimo trattato. Come si è detto altre volte, tali patti erano sempre temporanei, e nel XII secolo soleano stipularsi per dieci anni. Or Ibn-el-Athîr, il quale narra cotesti fatti più largamente che ogni altro compilatore, dice in principio del capitolo su la presa di Mehdia il 543, che il trattato durava allora per altri due anni. Ammettendo, com’io fo, cotesta lezione, si riterrebbe che il trattato fosse stato stipulato il 1141-2, per dieci anni. Ma il duale sanatein del testo si può supporre scritto per isbaglio, con lievissima mutazione, in luogo del plurale sanîn, che significherebbe alcuni anni e lascerebbe perciò indeterminata la data del trattato più recente.
145. Si vegga il nostro Libro II, cap. XII, pag. 476, del volume I.146. Il Baiân, testo del Dozy, tomo I, pag. 322 e nella Bibl. arabo-sicula, pag. 373, dice che Giorgio “conosceva appunto i lati deboli di Mehdia e degli altri paesi” (dello Stato); il Tigiani nella Bibl. arabo-sicula, testo, a pag. 399, ch’ei “conoscea di Mehdia ogni cosa: l’abitato come la campagna” ed a pag. 398, ch’egli tenea spie in Mehdia.147. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 536; il Baiân, sotto lo stesso anno; Tigiani; e Ibn-Abi-Dinâr, tutti nella Bibl. arabo-sicula, pag. 286, 372-3, 388-9 e 537. Ancorchè questi compilatori narrino diversamente alcuni particolari e il Tigiani non ponga data, evidentemente trattano tutti dello stesso avvenimento.148. Tigiani nell’op. cit., pag. 399. Un altro Mezzo Mondo, carico di merci, fu mandato di Sicilia ad Alessandria d’Egitto, il 1242, dall’imperator Federigo.149. Ibn-Abi-Dinâr nell’op. cit., pag. 537-8.150. Ibn-Abi-Dinâr, l. c.151. Ibn-el-Athîr, anno 537; Baiân nello stesso anno; Abulfeda, idem; Ibn-Khaldûn; e Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 287, 373, 415, 498, 538.152. Le stesse autorità, fuorchè il Baiân e Abulfeda. Gigel rimase mezzo abbandonata e al tutto impoverita fino al tempo in cui scrisse Edrîsi. Veggasi questo autore, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 72, e nella edizione de’ sigg. Dozy e De Goeje, Description de l’Afrique, ec., pag. 114, della versione.153. Ibn-el-Athîr, e Abulfeda, anno 539, nell’op. cit., pag. 287 e 415.154. Ibn-el-Athîr, anno 540, e Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 288 e 538. Ibn-Abi-Dinâr, porta questo fatto nell’anno 537, ma forse è errore del manoscritto.155. Si vegga il Capitolo precedente, pag. 388.156. Si ritrae da un aneddoto che Ibn-el-Athîr riferisce sotto l’anno 539, nel capitolo su la occupazione di Edessa per Zengui, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 288, e nella edizione del Tornberg, tomo XI, pag. 66.157. Confrontinsi: Edrîsi; Ibn-el-Athîr, anno 541; Tigiani; Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Ibn-Abi-Dinâr, Ibn-Khallikân, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 73, 289, 388, 415, 457, 500, 538, 642. L’Edrîsi e il Tigiani portano il fatto nel 540; ma la differenza sarebbe di pochissimi giorni, poichè le ostilità cominciarono il terzo giorno del 541. Il Tigiani, per manifesto sbaglio, dice presa Tripoli dopo Mehdia e Sfax. Il codice d’Ibn-Khaldûn del quale ho fatta speciale menzione, è quello seguito dal Tornberg, Ibn-Khaldûni, ecc., de Expeditionibus Francorum, Upsal, 1840, pag. 37. L’Anonimo Cassinese, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 510, registra la presa di Tripoli nel 1145, contando forse l’anno dell’èra volgare sopra la indizione, senza badare al mese. Roberto abate del Monte di San Michele, presso Pertz, Scriptores, tomo VI, pag. 497, la porta il 1146.158. Ibn-el-Athîr, anno 542, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 292, ed anno 543, testo, del Tornberg, tomo XI, pag. 90. Ho usata la moderna appellazione di Barbarìa, come quella che meglio rende, in questo caso, il Maghreb de’ testi. L’Affrica propria non n’era che la parte orientale.159. Ibn-el-Athîr, loc. cit., e tutte le altre autorità arabiche che noi citeremo or ora pei fatti di Kâbes e di Mehdia.160. Nel Capitolo precedente, pag. 369.161. Cotesto abituro degli Arabi, ch’era nella parte più alta dell’antica città, fu chiamato la Moa’llaka, che vuol dir la “sospesa in alto.” Si vegga Edrîsi, edizione de’ sigg. Dozy e De Goeje, Description de l’Afrique, ec., pag. 112 del testo, e 131 della versione.162. Si confrontino: Ibn-el-Athir, anno 542, Tigiani; Ibn-Khaldûn e Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 290 segg. 384, 489, 500 e 538.163. Citerò gli scrittori contemporanei nel capitolo seguente dove occorrerà dare un cenno della guerra di Ruggiero contro Emmanuele Comneno. Basti qui ricordare che la cronologia degli avvenimenti, incerta presso gli annalisti bizantini, è bene determinata da Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXXVII, § 22 a 39, e dal Muratori, Annali, 1146 a 1149. La cronaca della Cava, presso Pertz, Scriptores, tom. III, pag. 192 e presso Muratori, Rer. Ital. Script., tom. VII, porta appunto nel 1147, le prime ostilità contro l’impero bizantino.164. Tigiani, loc. cit.165. Non occorrono citazioni pei fatti notissimi della Crociata. Le pratiche de’ Gesuiti di quel tempo con re Ruggiero si rivelano in una epistola che scrivea a questo principe Pietro il Venerabile, abate di Cluny, la quale è stata ristampata dal Caruso, Bibl. Sicula, pag. 980.166. Tigiani.167. Ibn-el-Athir, anno 513, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 205.168. Il Tigiani dice seguito lo sbarco sette ore dopo l’arrivo dell’armata. Secondo Ibn-el-Athir, eran corsi due terzi della giornata. Or, nel giugno, il sole spunta in Mehdia verso le cinque del mattino e tramonta poco dopo le sette della sera: onde la giornata dura 14 ore. Ambo le relazioni si accordano, dunque, a porre lo sbarco tra le 2 e le 3 dopo mezzogiorno, se noi contiamo le sette ore del Tigiani, non dall’alba quando si videro i primi legni, ma dalla riunione di tutto il navilio, per la quale dovettero passar due o tre ore.169. I Cristiani di Mehdia in questo tempo erano, com’e’ mi sembra, in parte indigeni dell’Affrica propria e in parte stranieri. Chi voglia notizie più particolari su’ Cristiani dell’Affrica settentrionale nell’XI e XII secolo, potrà consultare la introduzione storica dell’opera del signor Mas-Latrie, intitolata Traités de paix, ecc., pag. 7 ed 11 e 67 segg. Ancorchè io ritenga lontani dal vero alcuni particolari, quivi narrati, delle guerre che seguirono tra gli italiani e i Musulmani d’Affrica nell’XI secolo, (pag. 7, 8, 9,) ed ancorchè l’autore, per troppa tenerezza, esageri qui i meriti della Corte romana, mi piace pur di attestare la diligenza delle ricerche, la copia della erudizione e il bell’ordine di tutto il lavoro.
Oltre i fatti citati dal signor Mas-Latrie su quel favorito argomento, va ricordata una testimonianza di cronisti arabi su le chiese dell’Affrica propria nel 955. ( Storia de’ Musulmani di Sicilia, tomo II, pag. 248, lib. IV, cap. II) e il detto del continuatore di Sigiberto da Gembloux: che Ruggiero, nel 1148, rimandò libero alla sua sede il vescovo di Affrica, il quale era ito da servo a consecrarsi in Roma, (presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 950). Ci occorrerà anco nei capitoli seguenti di aggiugnere qualche altro particolare su questo subietto.
170. Quelle del sabato e del venerdì, il 558, e il 573, dell’egira, secondo il Baiân, ediz. del Dozy, tomo I, pag. 326, e nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 374. Edrîsi descrive cotesto piano che dividea le due città e chiamavasi Er-Ramla, ossia “La Sabbia;” presso Dozy et De Goeje, Description, ec., pag. 128.171. In linguaggio legale sono chiamate Omm-walid, ossia “madre di figlio.”172. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 543; Baiân, stesso anno; Tigiani; Abulfeda, stesso anno; Ibn-Khaldûn; Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 292 segg. 373, 399, 416, 500 segg. 539. Abulfeda, per errore, com’ei pare, avendo del resto compendiato o piuttosto mutilato il racconto d’Ibn-el-Athîr, dice che la fuga fu consigliata ad Hasan dagli ottimati. Negli scrittori cristiani si fa un cenno appena della occupazione di questa città, alla quale è dato, al solito, il nome d’Affrica. Così Romualdo Salernitano e il Dandolo, anno 1148, presso Muratori, Rer. Ital., tomo VII, pag. 191, e XII, pag. 283. Si veggan anco: Continuazione di Sigeberto da Gembloux, anno 1148; Appendice al Malaterra, luglio 1149; Ugo Falcando, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 950, 250, 410. La continuazione di Sigeberto è stata ultimamente ristampata dal Pertz, Scriptores, tomo VI, pag. 453-4, dove i nomi delle città prese sono scritti: Africa, Suilla, Asfax, Clippea.173. Stesse autorità citate nella nota precedente. Edrîsi dice anco presa Sfax il 543, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 72, e nella Description, ecc. di Dozy e De Goeje, traduzione, pag. 126.174. Ibn-el-Athîr, loc. cit.175. Il capitolo d’Ibn-el-Athîr citato dianzi a questo proposito ( Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 297) ha un passo che va corretto secondo la copia litterale che ne fece il Nowairi ( Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 458, nota 1): “Il dominio de’ Franchi si stese da Tripoli del Garbo fin presso Tunisi, e dai deserti del Maghreb a quelli di Kairewâu.” Deserto del Maghreb pare che qui significhi quello di Barca.176. Si confrontino gli stessi autori citati per l’occupazione di Mehdia nella pag. 418, nota 3. I Cristiani, dicendo dei conquisti di Ruggiero in Affrica, danno, oltre il nome di Mehdia, que’ di Susa, Bona, Cafsa, Sfax e Tripoli.
Chi legga gli Annali Musulmani del Rampoldi, crederà ch’io qui defraudi il pubblico d’un tesoro di fatti storici. Il Rampoldi, portata nel 1149 la presa di Mehdia, aggiunge di capo suo che 60 mila crociati francesi e italiani sbarcarono in Libia; che Ruggiero li seguì per visitare i recenti acquisti delle sue armi; ch’ei volea varcare il deserto per andare in Egitto; che Hasan signore di Bugia si oppose (!!), ma che costui fu sconfitto e i Cristiani, lasciato presidio a Bugia, passarono veramente in Egitto, ecc.
177. Ibn-el-Athîr, anno 544, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 297; Sefedi, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 657. Il proverbio ch’è nel testo di Sefedi, si legge con poche varianti nel Meidani, ediz. di Freytag, tomo II, pag. 588, ed anco nel Dizionario dello stesso dotto orientalista, tomo II, pag. 517.178. Ibn-el-Athîr, anno 543, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 295, 296.179. Il Kartâs, pag. 126 del testo e 169 della traduzione latina, ha ch’ei fosse andato a Genova. Nella Storia de’ Berberi, per Ibn-Khaldûn, testo arabico, tomo I, pag. 231, e versione francese, tomo II, pag. 58, è un luogo che M. De Slane ba tradotto: “Yahya s’embarqua pour la Sicile, afin de se rendre, de là, à Baghdad. Au lieu de pousser jusqu’à cette île, il alla débarquer à Bòne, etc.” Or l’autore, nella sua concisione, spesso frettolosa ed oscura, ha qui litteralmente: “Jehia s’imbarcò per la Sicilia, proponendosi di passare indi a Baghdad; poi si volse a Bona,” ecc. in guisa da far capire più tosto, che, arrivato in Palermo ei fosse ito a Bona, in vece di Baghdad; il qual significato ed esce più spontaneo dalle parole dell’autore, e s’adatta meglio agli altri fatti che noi conosciamo, cioè i fratelli di Jehia venuti in Sicilia; la lega proposta da Ruggiero agli emiri arabi, ecc. L’andata a Genova, nè la sembra inverosimile, nè incompatibile col viaggio in Sicilia; poichè gli Hammaditi, a Bugia a Bona e in altri loro porti, praticavano co’ Liguri, sì come co’ Siciliani, e conosceano per prova la potenza navale degli uni e degli altri nel XII secolo.
Il Marrekosci, testo arabico, pag. 147, raccontando alla grossa, dice che Abd-el-Mumen, il 540, assediò Bugia e che Jehia, vedendo non potersi difendere, fuggì sin ch’ei venne a Bona e di là a Costantina.
180. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc. Il soggiorno di questo Abd-Allah in Sicilia è attestato anco da Ibn-Bescirûn, il quale dà alcuni versi di Abu-Hafs-Omar-Ibn-Fulfûl, recitatigli dall’Hammadita quando s’incontrarono in Sicilia. Veggasi la Kharîda di Imâd-Eddîn, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 599, 600.181. Gli Arabi correvano quasi sino ai limiti occidentali dell’odierna provincia di Costantina. Si vegga Edrîsi, Description de l’Afrique, ec., traduz. de’ sigg. Dozy e De Goeje, pag. 92 a 97 del testo, e 107 a 114 della versione.182. Ibn-el-Athîr, anni 547, 548, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 297, segg. e nel testo del Tornberg, tomo XI, pag. 103, 122.183. Ibn-el-Athir, anno 548, e Ibn-Khaldûn, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 299, 502. Ne fa un cenno l’Anonimo Cassinese, anno 1151, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 510.184. Edrîsi, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 73 e nella Description de l’Afrique ecc. traduzione de’ sigg. Dozy e De Goeje, pag. 136. Il prudente geografo, che pubblicò il suo libro poco appresso il supplizio di Filippo, si limita a dire che Bona fu conquistata “da uno degli uomini del gran Re.” Si vegga anco Ibn-Khaldûn, op. cit., pag. 491.185. Confrontinsi: Edrîsi, Tigiani e Ibn-Khaldûn, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 74, 384, 385 e 496; il primo anco nella citata versione de’ sigg. Dozy e De Goeje, pag. 151, e l’ultimo nella versione del baron De Slane, Histoire des Berbères, tomo III, pag. 64.
La verosimiglianza e il positivo attestato del Tigiani, portano a riconoscer buona nell’Edrîsi la lezione medinat, che torna a Palermo, ed esclude il dubbio espresso dall’erudito traduttore di Edrîsi nella nota 2.
Del rimanente si vegga qui sopra la nota a pag. 400.
186. Edrîsi, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 73, e nella Description ecc., pag. 150, della versione.187. Ibn-el-Athîr, anno 548, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 300, e nella edizione del Tornberg, tomo XI, pag. 125. Abulfeda lo copia.188. Presso Muratori, Rer. ital. script., tomo VII, pag. 191.189. Kitâb-el-Mowâ’iz, testo di Bulâk, tomo I, pag. 214, 215, nel capitolo di Damiata. Si riscontri il capitolo di Tinnis, a pag. 179-180, dello stesso volume. Egli è da notare che il Makrizi, a pag. 180, registra un assalto dell’armata di Sicilia a Tinnis l’anno 348; e che non è da supporre sbaglio di cifra nelle centinaia, poichè dopo quel fatto di cronica municipale, il Makrizi ne porta altri del quarto e del quinto secolo dell’egira e poi, venendo al sesto secolo, descrive l’assalto dato a tutta la costiera il 571, del quale diremo a suo luogo.190. Nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 72 e nella Description, ecc., dei sigg. Dozy e De Goeje, pag. 114, 120.
È da avvertire che nel Ms. B dell’Edrîsi si attribuisce a Marsa-ez-Zeitûna ciò che il Ms. A dice più correttamente di Koll. Seguasi pertanto il testo della Description, pag. 102, ultimi due righi e primo della pag. 103, che rispondono alla pag. 120 della versione francese.
191. Tunetam urbem maximam in Africa, si legge senza varianti nella edizione del Pertz, Scriptores, tomo VI, pag. 503. Questo passo, copiato con gran parte della cronica di Roberto, si trova a pag. 977 della Chronica Normanniæ, pubblicata dal Duchesne, Historia Normannorum Scriptores, con la variante Tonisam in luogo di Tunetam. Evidentemente è questo il frammento stesso della Chronica Normanniæ, ristampato dal Caruso, Bibl. sicula, pag. 921. Or la variante Tonisam, ch’era senza dubbio in uno de’ manoscritti di Roberto, ben si adatterebbe a Tenes: e l’ urbem maximam in Africa, potrebbe essere supposizione di Roberto, o anco aggiunta del copista. D’altronde Tenes era città importante pel suo commercio, come afferma Edrîsi, edizione del Dozy e De Goeje, Description de l’Afrique, ec. pag. 96 della versione.192. Nel testo di Dozy, pag. 162 segg. e nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 318 segg. L’autore qui nota ch’ei scrive il 621 (1224).193. Presso il Muratori, Rer. Ital. Script., tomo XII, pag. 283.194. Si confrontino: Baiân, testo del Dozy, tomo I, pag. 323 a 326, del quale io ho ristampato uno squarcio nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 373; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione del baron de Slane, tomo II, pag. 29 segg. Sembra errore del Tigiani, Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 399, che Tunis fosse tenuta da un Ibn-abi-Khorasân quando l’assediavano le milizie di Mehdia, mandate da Hasan poco avanti la occupazione de’ Siciliani. La vittoria sopra gli Almohadi fu significata da Abd-Allah ai Pisani, per una carta bilingue del 10 luglio 1157, ch’io ho pubblicata ne’ Diplomi Arabi dell’Archivio Fiorentino, Nº I, della prima serie e VI della seconda. Si vegga l’ Introduzione a quella raccolta, § XXII, dove io ho corretto il casato di questi principi secondo il testo del diploma.195. Questo fatto si ritrae da Romualdo Salernitano, il quale sotto l’anno 1146, da correggersi 1149, nota la conceduta consacrazione, presso Muratori, Rer. Italic., VII, 193. Non occorrono citazioni per gli altri avvenimenti notissimi ai quali io accenno.196. Lo suppongo dall’accordo che poi fu fatto, secondo Ottone di Frisingen, di che alla nota 3 di questa pagina.197. I sussidii al duca Guelfo sono attestati da Goffredo di Viterbo, presso Muratori, op. cit., VII, 460. Quelli ad altri feudatarii tedeschi si leggono nella epistola di Giovanni notaio a Wibaldo, abate di Stavelot e di Corvey, data del 1151, presso Martene e Durand, Veterum Scriptorum, Parigi, 1724, tomo II, pag. 422.198. Epistola, presso Ottone di Frisingen, Gesta Frider., lib. I, cap. 28.199. Epistola citata di Giovanni Notaio.200. Ibid.201. Si vegga, per questo Abate di Cluny, l’ Histoire littéraire de la France, tomo XIII, pag. 241 segg.202. Epistole del 1139, 1145, 1150, ristampate dal Caruso, nella Bibl. sicula, pag. 977 a 980.203. Si vegga Guglielmo di Tiro, lib. XIV, cap. 9 e 20, su coteste pratiche, alle quali ho voluto accennare perchè le veggo trascurate dagli storici di Sicilia.204. Ottone di Frisingen, Gesta Frider., lib. I, cap. 63.205. Si vegga il capitolo precedente, pag. 421 di questo volume.206. Si confrontino: Niceta Coniate e Cinnamo, presso il Caruso, Bibl. sicula, pag. 1159, segg. 1174 segg.; Ottone di Frisingen, op. cit., lib. I, cap. 33; Continuazione della Cronica di Sigeberto, presso Pertz, Scriptores, VI, 453, 454 (anni 1147 a 1149); Cronica della Cava, anno 1147, presso Pertz, Scriptores, III, 192; Romualdo Salernitano e Dandolo, presso Muratori, Rer. Italic., VII, 191; XII, 282 segg.
Di cotesti scrittori i bizantini e Ottone non portan data. Gli altri pongono i fatti nel 1147. Io credo incominciate le ostilità nel mese di settembre, perchè i due scrittori bizantini le fanno coincidere col passaggio de’ Crociati; e Niceta aggiugne che allora in Costantinopoli si sospettò un accordo tra’ Siciliani e i Tedeschi. Or noi sappiamo da Ottone, op. cit., lib. I, cap. 45, che questi ultimi si trovarono presso Costantinopoli nel mese di settembre. La critica del Muratori e del Le Beau, i quali ho citati nel capitolo precedente, pag. 413, nota 2, accerta del resto le date delle due imprese dell’armata siciliana in Levante, quella cioè del 1147, segnalata per la occupazione di Corfù e le scorrerie nel golfo di Corinto e quella condotta dal 1149 in poi, più gloriosa quantunque men felice. Credo sia da riferire alla prima il guasto dato a Modone del quale il Brompton, nell’ Historiae Anglicanae Scriptores, tomo I, pag. 1218.
Quanto alla prigionia e liberazione di Lodovico VIII, si vegga il Muratori, Annali, 1149, e il Di Blasi, Storia di Sicilia, lib. VIII, cap. xxj. Si aggiunga la testimonianza del continuatore di Sigeberto, loc. cit., e la epistola di Lodovico VII a Guglielmo il Buono, data del 1169, pubblicata il 1839, nella Collection de Documents inédits sur l’Histoire de France, tomo I, pag. 3. Non so come l’erudito editore, Champollion-Figeac, seguendo i pregiudizii di molti compilatori francesi, abbia allegate le parole di Lodovico per oppugnare l’opinione del Muratori, che anzi me ne pare confermata.
207. Considerazioni, lib. II, cap. ij, alla nota 34.208. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 548, e Ibn-Khaldûn, testo, nella Bibl. ar. sicula, pag. 299, 300, 503, e Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rerum Italic., VII, 194, 195, e presso Pertz, Scriptores, XIX, 426.
Il dottor Arndt, editore di Romualdo nella raccolta del Pertz, ha eliminato dalla cronica il presente capitolo, non trovandolo nel testo del codice vaticano. Ei confessa, per altro, non saper conghietturare l’origine di questa interpolazione; mentre di tutte le altre l’ha ritrovata o supposta con fondamento. E che il capitolo sia stato aggiunto dopo il primo dettato del cronista, ognun lo vede leggendo la fine di quello che precede nella edizione del Muratori e il principio di quel che segue, tra i quali due luoghi non si può supporre interruzione. Ciò mal si scorge nella edizione del Pertz, poichè il dott. Arndt, non badando alla data dell’impresa di Bona, riferì il capitolo al tempo di quelle d’Affrica, notate tutte insieme, per un’altra inavvertenza, con l’anno 1146. Il capitolo a me pare estratto dalla originale sentenza della corte de’ Pari, e però non oserei dir che non l’avesse inserito lì lo stesso arcivescovo di Salerno; ancorchè di certo non vi si scorga il suo stile, nè la tiepidezza religiosa d’un uom di Stato par suo, il quale nelle gare della corte di Palermo pendè pur troppo a parte musulmana. Ma cosifatti ostacoli vengon meno ove si consideri che l’autore avrebbe copiata qui una sentenza, dove l’ampollosità delle parole corrisponde all’atrocità del fatto. Che che sia, opera di Romualdo o di altro statista contemporaneo, o foss’anco più moderno che avesse avuta alle mani la sentenza, il ricordo è da tenere genuino e preziosissimo, trapelandone perfino i dubbii che correano su l’ortodossia del re.
209. Romualdo Salernitano, presso Muratori, vol. citato, pag. 193, 194.210. Si riscontri Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rer. Italic., VII, 196, e l’obituario di Monte Cassino, pubblicato dal Caruso, Bibl. sicula, pag. 523.211. Non occorre ch’io replichi i titoli delle sorgenti cristiane citate in questo capitolo e nel precedente. Le sorgenti musulmane contemporanee, sono Edrîsi ed un cronista seguito da’ compilatori i quali io nomino nel testo. Forse egli è quell’Ibn-Sceddâd, di cui feci parola nella Introduzione, vol. I, pag. xxxviij, N. VII. Edrîsi dice di re Ruggiero in due luoghi della Prefazione della sua geografia, i quali si leggono nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 15, 16. Gli squarci de’ compilatori si trovano nella stessa mia raccolta, cioè Ibn-el-Athîr, a pag. 278, 279, 300; Scehâb-ed-dîn Omari, a pag. 152; Abulfeda, pag. 114; Nowairi, pag. 448; Ibn-Khaldûn, pag. 498, 503; Ibn-Abi-Dinâr, pag. 534; Sefedi, pag. 657, 658.212. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 410.213. Letteralmente: “e i sonni suoi (eran come le) veglie della gente.” Nella Bibl. ar. sicula, testo pag. 16.214. Romualdo Salernitano, Falcando, ec.215. Alessandro di Telese, lib. IV, presso Caruso, op. cit., pag. 294.216. Alessandro di Telese; Pietro il Venerabile, nelle epistole che abbiam citate in questo capitolo.217. Nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 15.218. Op. cit., pag. 27. Ho tradotto regoli il plurale Molûk, che propriamente significa re. Gli Arabi dell’XI e XII secolo lo dissero anco dei grandi baroni cristiani, ed inoltre fu titolo dato a grandi personaggi musulmani che non vantavan punto diritti di sovranità.219. Falcando, l’Abate di Telese e tutti gli altri contemporanei.220. Falcando, presso il Caruso, Bibl. sicula, pag. 410.221. Ibn-el-Athîr, anno 484, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 278.222. Alessandro di Telese, lib. I, presso Caruso, op. cit., pag. 266.223. Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ij.
Il Wenrich, Rerum ab Arabibus, etc., pag. 309, scorge in questo titolo il wâli arabico. Non è mestieri ch’io ricorra alle leggi di permutazione per provare l’error di cotesta etimologia. La voce Βαίουλος e bajulus è usata dagli scrittori greci e latini molto innanzi l’XI secolo; tra gli altri da Ammiano Marcellino. Veggasi il Ducange, Glossario latino. Io feci già questa osservazione nel Journal Asiatique del marzo 1846, pag. 230, nelle note a Ibn-Giobair.
224. Gregorio, loc. cit. Su la circoscrizione provinciale si vegga il nostro libro V, cap. X, pag. 313, 314 del presente volume.225. Quantunque l’ufizio della corte suprema di giustizia preseduta dall’imperatore, fosse di dettar secondo i casi novelle norme di diritto, essa pure giudicava cause speciali. Si vegga Mortreuil, Histoire du droit byzantin, tomo III, pag. 83, 84.226. Si vegga il nostro libro III, cap. primo, pag. 7, 8 del 2º vol.227. Ibn-el-Athîr, nell’anno 484, testo, nella Bibl. ar. sicula, pag. 278, è il più antico che noi conosciamo de’ copisti di quella tradizione. Il Gregorio la cavò, come ognun sa, dal Nowairi, Rerum Arabicarum, pag. 26, e Considerazioni, lib. II, cap. ij, nota 30.228. Considerazioni, cap. cit.229. Qui innanzi a pag. 437.230. Nelle Costituzioni del Regno di Sicilia, promulgate da Federigo II imperatore, alcune leggi portano il nome di re Ruggiero; ma non è indizio certo. Si vegga a questo proposito il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. viij.
Son usciti alla luce, in questi ultimi tempi, i frammenti delle Assise dei re di Sicilia (Hall, 1856, in 4 to ) che il Merkel trovò in un codice vaticano; i quali sono stati riferiti da alcuno a re Ruggiero, da altri a Guglielmo II. Si vegga la Storia della Sicilia sotto Guglielmo il Buono, per Isidoro la Lumia; la critica di Otto Hartwig, nell’Archivio storico del Sybel, band xx, e la risposta del La Lumia nella Rivista Sicula di febbraio 1869 (Palermo, 1869). Quanto a me, il preambolo di que’ frammenti mi conduce più tosto a riferirli a Guglielmo I, alla quale opinione pendeva il Merkel.
231. Gregorio, Considerazioni, lib. Il, cap. ij.232. Si vegga il cap. I del presente libro, pag. 351 segg. del volume.233. Libro V, cap. ix e lib. VI, cap. primo, pag. 262. seg. e 365 di questo volume.234. Pag. 443, 444. Si noti che il Gregorio, non comprendendo coteste denominazioni, ch’ei trovava nel Nowairi e che M r. Caussin avea saltate per la stessa cagione nella traduzione francese, suppose che le fossero predicati dei principi Musulmani presi ad esempio da Ruggiero; onde tradusse come gli parve “comitate, benevolentia et patrociniis insignium,” Rer. Arabic., pag. 26.235. Ne fa parola Ibn-Giobair, testo arabico del Wright, pag. 328 e nella Bibl. ar. sicula, pag. 83. Ho data la traduzione francese di questo squarcio nel Journal Asiatique di dicembre 1845, pag. 539, e l’italiana nell’ Archivio Storico, Appendice N. 16 (1847), pag. 26.
L’ hâgib, primo servitore a corte degli Abbasidi, fu primo ministro degli Omeiadi di Spagna; fu primo dopo il nâib appo i Sultani di Egitto e via dicendo; poichè l’autorità degli ufiziali così chiamati variò di molto secondo le dinastie e i tempi. Ne tratta Ibn-Khaldûn, nei Prolegomeni (testo di Parigi, parte II, pag. 14, e traduz. francese, pag. 17); De Sacy nella Chrestomathie arabe, tomo II, pag. 157, 159; Gayangos nella versione di Makkari, Mohammedan dynasties in Spain, tomo I, pag. 102, seg. 397 e XXIX.
236. Significa literalmente chi sta allato. Si dice anco de’ cavalli di ricambio, menati a guinzaglio. Risponderebbero i giânib, per avventura, ai protospatarii della corte bizantina. Un Niccolò protonotaro, camerlingo e protospatario, è citato in un diploma greco di Ruggiero il vecchio, dato del 1090, ch’è trascritto in uno di Ruggiero, secondo conte, dato del 1147, presso Spata, Pergamene, pag. 247.237. Altrimenti detti selâhdâr, ossia “porta armatura,” dall’arabico selâh armi e dal persiano dâr, portatore. Si vegga Quatremère, nella versione di Makrizi, Sultans Mamlouks, tomo I, parte I, pag. 159.238. Il testo ha giandâr, voce composta di due, persiane entrambe, che significherebbe carnefice, o, per eufemismo, littore. Si vegga del resto una nota del Sacy, op. cit., tomo II, pag. 178, 179, e Ibn-Khaldûn, loc. cit.
Giamdâr, con una m, composta dello stesso vocabolo dâr e di giameh anche persiano, suona tenitore degli abiti, come dice il Quatremère, op. cit., tomo I, parte I, pag. 11. Può darsi che, col noto scambio di consonanti, sia stato usato il primo di questi vocaboli per indicare i vestiarii.
239. Al Cairo e in Oriente era il dewadâr “porta-calamaio” ossia primo segretario; l’ ostadâr, “maggiordomo;” il tabardâr “porta scure;” il giukandâr, “porta-racchetta” pel gioco della palla a cavallo, ec. Si vegga la citata opera del Sacy, II, 178, 179, 268, 269 e la citata del Quatremère, I, I, pag. 25 segg, 121 segg.240. Il diploma del 1167, che abbiano citato nel lib V, cap. ix, pag. 263. In nota, ha la soscrizione di un Gaytus Maranus, domini regis magister et familiaris.
Il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ij, non cita documenti del tempo di Ruggiero pel gran siniscalco; nè trovonne il laborioso Di Biasi, il quale scrisse lungamente de’ grandi ufizi della corona. Si vegga la sua Storia di Sicilia, libro VI, capo xxiij, articolo 3º. Ma il primo conte Ruggiero ebbe un siniscalco.
241. De’ capitani degli arcieri sono soscritti nel diploma del 1172, che abbiam citato nel libro V, cap. ix, pag 262, nota 3. Un capitano de’ Negri della corte è nominato, con parecchi altri ufiziali, da Ibn-Giobair nello squarcio che citammo poc’anzi.242. Diploma del 1172 citato nella nota precedente.243. Ibn-Giobair, loc. cit. e propriamente a pag. 539. del Journ. Asiat. di dicembre 1845, ed a pag. 26 della Appendice dell’ Archivio storico italiano.244. Si vegga il Sacy, Chréstomathie arabe, tomo II, pag. 287, 305. Noi abbiam fatto cenno di questa divisa nel libro IV, cap. i ed viij, pag. 240 e 356 del 2º volume.245. Capitolo ij del presente libro, pag. 411.246. L’ultima e più splendida pubblicazione di questo pallio, che chiamavasi di Nuremberg dal luogo dove fu tenuto infino al XVIII secolo, è stata fatta dall’abate Bock nell’opera intitolata: Die Kleinodien des heil. röm. Reichs, Vienna, 1864.
In vece di questo libro, ch’è rarissimo per cagion del prezzo, citerò il Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 172, il quale die’ il disegno della iscrizione e il Reinaud che rifece, correggendola alquanto, la trascrizione e traduzione, nel Journal Asiatique di aprile 1846, pag. 583.
247. Si vegga qui sopra la pag. 434.248. Ibn-Giobair, testo, ediz. del Wright, pag. 325 e Bibl. ar. sicula, pag. 84. Io ne detti la traduzione francese nel Journ. Asiat. di dic. 1845, pag. 541, e l’italiana nell’ Archivio storico, Appendice cit., pag. 27. Si confronti il nostro Libro IV, cap. xiij, pag. 448 del 2º vol.249. Ibn-Hammâd, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 317.250. Diploma greco-arabico della Cappella palatina di Palermo, dato del 6651 (1143) e soscritto da Giorgio d’Antiochia. Il Morso che lo pubblicò nel Palermo antico, pag. 302 e il Caruso che aiutò il Garofalo a ristamparlo nel Tabularium della stessa Cappella, pag. 13, lesser male le due ultime parole; e però tradussero Laus Deo, excelso, magno. Correggo su l’originale ch’io riscontrai nell’ottobre 1860.
La diplomatica e la storia ci hanno serbati gli ’alâma di molti principi musulmani. Si vegga a questo proposito Reinaud, Monuments,.... du Musée Blacas, tomo I, pag. 109, e Documents inédits sur l’Histoire de France, Mélanges, tomo II, p. 52; Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione del baron de Slane, tomo I, pag 27, 31, 42; II, 92, 197, 356; Tigiani, nel Journ. Asiatique di agosto e settembre 1852, pag. 163; il Kartâs, ediz. del Tornberg, pag. 190, 202, della traduzione latina, ec. Io ho dato un altro ’alâma nelle note a Ibn-Giobair, Journal Asiatique di marzo 1846, pag. 214, e dettone anco ne’ Diplomi arabi di Firenze, pag. lxviij e ne’ luoghi quivi citati in nota.
251. Diplomi arabo-greci della Chiesa di Catania, dati di settembre e marzo 6653, de’ quali ho avuta copia per cortesia del prof. Cusa.252. Sangiorgio Spinelli, Monete Cufiche, pag. 41, 43, 47, N. clxxxij, cc, ccxxvij, e molte altre. Ve n’ha anco nelle raccolte di Adler, Pietrazewschi, Castiglioni, Marsden; e molte ne ho viste inedite nel Gabinetto di Parigi. Si confronti Mortillaro, Opere, tomo III, pag. 406 a 410, dove nella moneta inedita, N. cij, a pag. 408, è sbagliato al certo il titolo di Ruggiero dal principio alla fine.253. Sangiorgio, op. cit., pag. 47, 48, N. ccxxviij e ccxxix.254. El Moktader bi-kodratih. Il titolo di Moktader fu portato da un califo abbasida, da un principe di Saragozza, ec.255. Edrîsi, testo, nella Bibl. ar. sicula, pag. 15. Ho aggiunta tra parentesi, innanzi imâm di Roma, la voce sostegno, che fu evidentemente dimenticata dal copista. La si trova in un titolo analogo di Guglielmo II, nel diploma arabico della cattedrale di Palermo dato il 6677 (1169) ed è replicata in un diploma della Chiesa di Morreale del 6686 (1178) e 6691 (1183) l’ultimo de’ quali fu pubblicato da M. Des Vergers, nel Journ. Asiat. di ottobre 1845, e de’ primi due ho avute copie dal prof. Cusa lodato di sopra.256. Nella Bibl. arabo-sicula, testo pag. 584.257. Ρογέριος ἐν χριζῶ τῶ θεῶ εὐσεβὴς κραταιὸς ρὶξ καὶ Χριζιανῶν βοηθὸς, soscrizione dello splendido diploma della Cappella palatina di Palermo, pubblicato dal Monfaucon e ristampato nel Tabulario di essa Cappella, pag. 10 e altrove. La stessa soscrizione si legge ne’ diplomi pubblicati dallo Spata, Pergamene greche, pag. 224, 430, (veggasi a pag. 411, il titolo di Conte di Calabria e di Sicilia e difensore de’ Cristiani, in un diploma del 1133); in que’ del Trinchera, Syllabus graecarum membran., p. 138, 155, 182, (veggasi a pag. 101, un diploma del 1115, col titolo di Conte di Calabria Sicilia e paese italico e difensore de’ Cristiani); e similmente nei diplomi arabo-greci delle Chiese di Catania, Morreale e Cefalù del tempo di Ruggiero, dei quali ho avute copie dal prof. Cusa. Si veggano anco i documenti citati dal Di Blasi, Storia di Sicilia, lib. VII, cap. xxij.258. Diploma della Trinità della Cava, dato il 1130, allegato dal Di Blasi loc. cit., ed altro del 1137, nella cronica di Falcone Beneventano, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 367. Si vegga anche qualche altro diploma originale latino nel Pirro. Ma il gran suggello latino del re, com’ egli è noto, avea soltanto: Rogerius Dei gratia rex Sicilie ducatus Apulie et principatus Capue.259. Edrîsi, nella Bibl. ar. sicula, testo pag. 27, dice che alla morte del malek Ruggiero figlio di Tancredi, ereditò lo stato il suo figliuolo, il malek Ruggiero secondo.
Lasciando da parte, come ho avvertito nel lib. V, cap. x, pag. 342 e segg. di questo volume, le monete attribuite al primo conte Ruggiero, a Roberto Guiscardo e al duca Ruggiero figliuolo di costui, le quali, secondo me, van tutte rivedute, v’ha non poche monete arabiche appartenenti senza alcun dubbio a re Ruggiero, le quali si posson supporre battute prima della coronazione. Dico quelle che hanno da una faccia la formola musulmana e dall’altra un T rabescato, da un lato del quale si legge biamr, sopra Rogiâr e dall’altro lato eth-thâni, ossia “per comando di Ruggiero secondo:” monete d’oro non rare, delle quali io ho viste parecchie nel gabinetto numismatico di Parigi. La stessa leggenda e lo stesso tipo di T un po’ svariato, si scerne nelle figure dell’opera di Sangiorgio Spinelli, tavola V, N. 4 a 9; VI, N. 1 a 14; VII, N. 1 a 7, 24, 25, 26; XXIV, N. 20, 21; XXVII, N. 3, fino all’ultimo e XXVIII, N. 1 a 9. Lo stesso ho letto distintamente in tre impronte di monete del museo di Napoli mandatemi non è guari dal Fiorelli; le quali pur ignoro se trovinsi tra quelle pubblicate del Sangiorgio. Credo non sian punto diversi il N. cxviij del Museo Naniano di Assemani, nè i N. lxiv, lxv, e lxvj del Borgiano di Adler. Di questo lxv, posso poi affermarlo, avendo attentamente osservata nell’ottobre 1864 la moneta, che serbasi nel museo di Parma. In generale e’ mi sembra che la voce biamr letta amir e il thâni. che spesso è mutilato ed è stato interpretalo a vanvera, abbiano prodotte molte delle erronee interpretazioni che son corse, come quella di emîr o l’altra di en nâr “Normanno” che ha messa fuori il Mortillaro nel Medagliere arabo-siculo, pag. 51. I principi di Sicilia che dettero il titolo d’ amir ad un ministro loro, nol presero al certo per se stessi, e molto meno egli è verosimile che abbiano storpiato così sconciamente il nome di loro schiatta.
260. Falcone Beneventano, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 380.261. Testo nella Bibl. ar. Sicula, pag. 16, segg. Una parafrasi, non sempre esatta, di questa parte della prefazione si legge nella versione francese di M. Jaubert, tomo I, pag. xvj a xviij.262. Riiâdhiiât e ’amaliiât. Secondo i bibliografi arabi, la prima di coteste classi conteneva l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica; la seconda la morale, l’economia domestica, l’amministrazione pubblica, i doveri dei re e de’ ministri e l’arte della guerra. M. Jaubert, pag. xviij, tradusse questa seconda classe littérature, sbaglio sì grosso che parmi da attribuirlo a lezione erronea del Mss.263. Defêtir, sul qual vocabolo si vegga il nostro libro V, cap. x, pag. 324 del presente volume.
Questa voce insolita, e non usata qui per necessità della rima, mi fa pensar che l’autore abbia voluto anco accennare alle carte geografiche. E però ho tradotto servilmente “pergamene” anzi che “registri” ovvero, più genericamente “scritti.”
264. Il significato litterale sarebbe che i chiamati eran tutti sudditi di Ruggiero e che lor si domandavano le notizie de’ proprii paesi. Ma evidentemente si tratta di viaggiatori qualunque, o per lo meno d’Italiani, e di relazioni su tutte le regioni ch’e’ conoscessero. Edrîsi che scrivea pel mondo musulmano, affigurava Ruggiero come re di tutta Italia, anzi come una specie d’imperatore di Occidente.
Ho tradotta genericamente “ministro” la voce wasitah che significa propriamente “intermediario” e che M. Jaubert rese interprète. Ma nè i dizionarii, nè il fatto speciale, nè l’uso degli scrittori moderni confermano questo arbitrio di versione. Un passo di Makrizi e una nota di M. De Sacy ( Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 94 e 126) provano che sotto i Fatemiti d’Egitto il wasitah era segretario di Stato e che talvolta fu chiamato così il primo ministro. In ogni modo, qui si tratta manifestamente d’un direttore di statistica nella segreteria del re; se pure Edrîsi non era egli stesso il wasitah, e non usò a bello studio questo vocabolo che non rispondeva ad alcun ufizio costituito.
265. Letteralmente “le lunghezze delle distanze e le larghezze di esse;” ossia le distanze in dirittura dei meridiani e de’ paralelli. E in vero, i pratici de’ luoghi non poteano dar che le distanze secondo le vie conosciute e la direzione delle stesse vie secondo la rosa de’ venti; e questo appunto è ciò che noi troviamo nella geografia di Edrîsi; ma i gradi di longitudine e latitudine, si doveano domandare agli astronomi antichi o a’ viventi. Montava poi di verificare reciprocamente le tavole di longitudine e latitudine e le distanze riferite da’ pratici: e questo è appunto ciò che Edrîsi dice essere stato praticato quando il re fece riportare col compasso quelle distanze sopra un planisfero graduato, e ricercare da qual parte fosse l’errore, nel caso di discrepanza tra le tavole e gli itinerarii. Pertanto non mi sembra precisa la traduzione francese, pag. xx: “Ensuite il voulut savoir d’une manière positive les longitudes, les latitudes” etc.266. “Planche à dessinner” mi pare espressione troppo vaga. Il testo ha “tavola del tarsîm, o, diremmo noi dell’abozzo, dello schizzo o simili.” Come ognun vede, non si trattava di un foglio da disegno, ma di un foglio già delineato, una mappa, sia che fosse graduata soltanto per costruirvi le figure geografiche, sia che vi fosser anco delineati i contorni e segnati i punti principali, per verificarli, confrontandoli con le distanze itinerarie.267. Mofassel significa propriamente diviso in pezzi, o composto di varii pezzi. Però mi discosto dall’opinione del mio dotto maestro Mr. Reinaud, che credea meramente diviso in gradi il disco d’argento, nel quale doveasi incidere il planisfero. Edrîsi stesso dà alla seconda forma del verbo fazel il significato di tagliare, adoperandola nel descrivere il lavorio del corallo a Ceuta (Dozy et de Goeje, Description de l’Afrique, etc., par Edrîsi, pag. 168 del testo, 201 della versione). D’altronde il planisfero d’un pezzo d’argento che pesava 150 chilogrammi ed avea per diametro poco men che due metri, non sarebbe stato punto maneggevole.268. Il peso chiamato dirhem, variò e varia tuttavia ne’ paesi musulmani: la media tra i dirhem odierni di Egitto, Aleppo, Algeri, torna, evitando le frazioni troppo minute, a grammi 3,35; moltiplicato il qual numero per 112, si avrebbe il rotl rumi, ossia libbra italiana, poco oltre i grammi 375, cioè 13 grammi più della libbra di Bologna e 26 più di quella di Roma e Firenze: e il peso del planisfero monterebbe a 150 chilogrammi. Supponendolo grosso cinque millimetri e ritenendo la qualità di argento data da Edrîsi, il diametro tornerebbe a metro 1,90, secondo il calcolo che ha fatto a mia richiesta l’amico senatore Brioschi.269. Credo risponda precisamente a questo, nel presente luogo, la voce Khalk del testo, “creazione” e cose create in generale, e “cosa ordinata, disposta ec.,” in particolare; sì che talvolta si ristringe agli esseri ragionevoli, secondo le idee musulmane, cioè gli uomini e i ginn.270. La prefazione si legge intera ne’ codici ch’io ho designati con le lettere A. C. (Introduzione, vol. I, pag. xliv, e Bibl. arabo-sicula, testo, pagina 14, nota 1) e ne avanzano pochi righi nel D. Traduco ora le tre lezioni:
A. “.... il vestire, la lingua. E ho dato a questo (libro) il titolo di Nozhat, ec. Esso è stato messo insieme, coordinato, licenziato e connesso (rilegato?) verso lo scorcio di scewâl del 548. Comincio or a trattar, la prima cosa, della figura della Terra, ec.”
C. “.... il vestire, la lingua; e (continua a reggere comandò il re) che fosse posto a questo libro il titolo di Nozhat, ec. Ed ecco che io ubbidisco a così fatto comando, e compio questa prescrizione, cominciando la prima cosa, a trattar della figura della Terra, ec.”
D. Vi manca, coi primi fogli tutta la prefazione innanzi la voce “questo” della quale si scerne qualche vestigio, e segue “K « t » b (il titolo) di kitâb (libro) del Nozhat, ec. E ciò è stato ne’ primi dieci (giorni) di ianîr, corrispondente al mese di scewâl, dell’anno 548. Ed ecco ch’io ubbidisco a così fatto comando e compio questa prescrizione, cominciando, la prima cosa, a trattar della figura della Terra, ec.”
Riman qui a spiegare il vocabolo arabico che ho notato con le sole tre lettere della radice, mancandovi le vocali; il quale per omissione se mia o del tipografo non so, fu saltato nel testo della Biblioteca, linea 10 della pag. 19. Non potendo suppor cotesto vocabolo scritto erroneamente, in sì bel codice e in luogo sì cospicuo del testo, invece di Kitâb (libro), la qual voce viene immediatamente dopo, mi par sia da leggere Katb, “scritto” onde il passo intero tornerebbe “ed (ha comandato il re) che si desse a questo scritto il titolo di libro del Nozhat, ec.”
Or ognun vede che i codici D e C appartengono a ramo diverso dal codice A; che il più vicino al ceppo, per continuare la mia similitudine, è D dove si legge il mese di gennaio; che questo vocabolo non arabico e però mal compreso fu soppresso dal copista di C; e che il copista di A seguì un testo diverso, dato fuori com’egli è verosimile, quando il compilatore, fuggito ne’ tumulti della Sicilia, rivendicò, o si arrogò l’invenzione del titolo. Se mai si pubblicherà il testo compiuto del Nozhat, vedran più chiara i dotti la distinzione de’ tre citati codici ed anco di quello designato con la lettera B, nel quale non si può decifrare la prefazione. Duolmi che, confrontando i due Mss. della Bodlejana, io non abbia potuto, incalzato sì com’era dal tempo, notare le varianti di tutta l’opera o almeno di più lunghi squarci. Il mese di scewâl 548 corre dal 20 dicembre 1153 al 17 gennaio 1154.
271. Il più importante lavoro scientifico che abbia trattato di questa geografia, quello cioè del Lelewel, Géographie du moyen-âge, tomo I, pag. 92 a 107, §§ 54 a 64, vi ammette l’influenza delle dottrine geografiche dell’Occidente e la partecipazione diretta di Ruggiero.272. Gli Arabi del medio evo chiamavan così il tratto della costiera settentrionale d’Affrica che corre da Tunis a Capo Spartel.273. Non credo che Sefedi abbia confusa la sfera armillare, da lui per altro descritta precisamente, col planisfero di che dice Edrîsi nella prefazione. Secondo il biografo, il re mandò a Edrîsi, per costruire la sfera, dei pezzi di argento del peso di 400,000 dirhem; del qual metallo fu adoperata una terza parte e due terzi avanzarono. Ruggiero ne fece dono a Edrîsi; aggiunse altri centomila dirhem e poi una nave carica di merci latine preziosissime proveniente da Barcellona.274. Testo nella Bibl. ar. sicula, pag. 657, 658. Si trova una buona traduzione francese di questo squarcio, nell’opera di M r. Reinaud, Géographie d’Aboulféda, tomo I, Introduzione, pag. cxlv e cxv.275. Scehâb-ed-dîn-Omari, grande erudito del XIV secolo, ricordando il Nozhat come il miglior trattato di geografia ch’ei conoscesse, loda Ruggiero di profonda dottrina in filosofia antica e in geometria e dell’avere speso molto tempo e danaro nella compilazione di quella grande opera. Nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 152.276. Presso Muratori, Rer. Italic., tomo XII, pag. 283.277. Conferma l’accusa Goffredo da Viterbo (presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 947) dicendo: «Rogerius Paganus erat de more vocatus.»278. Annali, an. 539, testo nella Bibl. ar. sicula, pag. 288 e nella edizione del Tornberg, tomo XI, pag. 66. Si vegga anco la traduzione francese di M r. Reinaud, negli Extraits des auteurs arabes, etc., rélatifs aux Croisades, pag. 77.279. Lascio come superflue le citazioni, fuorchè per questa briga con l’Egitto. Si guardi ciò che io n’ho detto nel cap. II, del presente libro, pag. 426, e i cenni che pria n’avea dati nei Diplomi arabi del reale Archivio fiorentino, Introduzione, § XXX, diplomi II, III, IV e V della seconda serie e note ai medesimi, dalla pag. 452 alla 458, intorno le relazioni di Pisa con l’Egitto in questo tempo.280. Ibn-el-Athir, anno 547, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 300.281. Limitando le citazioni com’ho fatto di sopra, le darò per questa battaglia di Negroponto, le cui circostanze non sono state ben determinate fin qui. Ne fanno parola Niceta Choniate e il Cinnamo, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 1163, 1176; la Continuazione di Sigeberto da Gembloux e Romualdo Salernitano, presso Pertz, Scriptores, VI, 455 e XIX, 429; e il Marangone, nell’ Archivio Storico italiano, tom. VI, parte II, pag. 18. I Bizantini, al solito, trascuran la data; Romualdo non la dà precisa; la Continuazione di Sigeberto (che il Caruso, op. cit., pag. 951, attribuisce a Roberto del Monte) la segna con l’anno 1154 e aggiugne una circostanza riferita altresì dal Cinnamo, cioè che l’armata siciliana ritornava appunto dall’Egitto, carica di preda. Or come noi sappiamo dal Makrizi la scorreria d’Egitto dell’agosto 1155, così parrebbe a prima vista che star si dovesse alla data della Continuazione, differendola bensì d’un anno. Ma il Marangone, il quale pon la battaglia nel 1158 pisano, dà su la guerra di Guglielmo I nell’Adriatico e su questa di Negroponto tanti e sì precisi particolari, da mostrar che in quel tempo i Pisani teneano ben gli occhi aperti su i movimenti del navilio siciliano. D’altronde tutte le narrazioni portano a credere che la battaglia di Negroponto sia succeduta, non al principio ma allo scorcio della guerra.
Ritengo io pertanto, col Marangone, la data del 1157 comune. Quella coincidenza con le depredazioni in Egitto si spiega benissimo ammettendo due o più scorrerie dell’armata siciliana, delle quali i cronisti d’Egitto avessero notata una sola, la più strepitosa. E così anche si spiegherebbe l’error di data della Continuazione, il cui autore avrebbe per avventura risaputa la grande scorreria d’Egitto del 1151 o 1155 e la gran vittoria navale sopra i Greci al ritorno dall’Egitto, onde avrebbe creduta identica la data.
282. Makrizi, Mowa’iz, testo di Bulak, tomo I, pag. 214. Oltre la data dell’anno e del mese, il compilatore dice ch’era califo Fâiz e vizir Telai’-ibn-Ruzaik, del quale si sa essere entrato in ufizio il 1º giugno 1154. Si vegga anco la Continuazione di Sigeberto testè citata, la quale sembra molto bene informata degli avvenimenti dell’Egitto in questo tempo. Infine il dispaccio di quel vizir ai Pisani, che si legge ne’ Diplomi del regio Archivio fiorentino, nº V, della seconda serie, pag. 253, il quale pare dell’anno 1156, dice espressamente della recente scorreria de’ Siciliani in Tennis.283. Continuazione di Sigeberto, l. c. Masmudi eran detti gli Almohadi dal nome della tribù che tenne l’egemonia di quella setta religiosa. Gli assalitori eran dicerto pirati spagnuoli o della costiera d’Affrica a ponente di Bugia.284. Gesta Friderici, lib. II, cap. 22.285. Cap. ij di questo libro, pag. 419, 420. Il dotto baron De Slane, nella versione d’Ibn-Khaldûn, Hist. des Berbères, Appendice del vol. II, 587, ha letto Ghariani, dopo aver seguita nelle pag. 37-38 dello stesso volume la lezione Feryani. Non ostante l’autorità di un erudito di tanto nome, parmi stare alla lezione Foriâni ch’è nei Mss. citati, raddoppiandovi la seconda radicale, come si legge nel Lobb-el-Lobâb, parte I, pag. 196 e nel Merasid-el-Ittila’. Quel nome etnico si riferisce a Forriana, villaggio presso Sfax.286. Non aggiungo una parola del mio in tutto questo racconto.287. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 551; Tigiani e Ibn-Khaldûn, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 300 segg., 381 segg., 490, 503, 504.288. Ibn-el-Athîr, l. c. Si ricordi ciò che abbiam detto nel cap. ij di questo libro, pag. 425, 426 del volume, intorno le condizioni in cui fu lasciata l’isola delle Gerbe il 1153.289. Si vegga il cap. ij del presente libro, pag. 409 del volume.290. Si confrontino Tigiani e Ibn-Khaldûn, nella Bibl. ar. sicula, testo pag. 389, 489, 504. Ibn-el-Athîr, l. c., fa menzione della ribellione di Tripoli, senza data, nè altri particolari; se non ch’ei la dice seguita dopo quella di Sfax e pria che quella di Kabes.
Ibn-Khaldûn scrive che que’ di Tripoli dando addosso a’ Cristiani “li bruciarono col fuoco.” Credo sia stato qualche stratagemma come quel delle funi e travi apparecchiate al chiaro della luna, piuttosto che un auto da fe dei prigioni. I costumi de’ Musulmani non portavano queste crudeltà.
291. Ibn-el-Athîr, l. c. Ibn-Khaldûn nella citata pag. 504.292. Ibn-el-Athîr, l. c., e pag. 304. Questo capitolo degli annali, ancorchè posto nel 551, contiene fatti posteriori, come quello di Tripoli, di cui altri scrittori segnan la data precisa.293. Ibn-el-Athîr, cap. cit, pag. 301.294. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, l. c.; Ibn-Khaldûn, testo nella Bibl. ar. sicula, pag. 504 e il Baiân nella stessa raccolta, pag. 374, il quale porta soltanto le date della sollevazione contro i Cristiani in Mehdia e della ricuperazione di Zawila, le quali mancano nel racconto d’Ibn-el-Athîr. Questi narra la sollevazione di Zawila innanzi il supplizio del Forriâni; ma non è verosimile che Guglielmo abbia differita quella vendetta per un anno e qualche mese.295. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 951, con l’anno 1158 e presso Pertz, Scriptores, VI, 506, con l’anno 1157. Nella prima di coteste edizioni il nome dell’isola di cui si suppone capitale Sibilla (Zawila) è scritto Gerx; nella seconda Gerp, la quale lezione credo sia stata preferita come vicina a Gerbe, della qual isola parve al dotto editore si trattasse. Io credo che per isola si debba qui intendere penisola (gli Arabi hanno un sol vocabolo per l’una e per l’altra), e che sia da preferire la lezione Gerx, come quella che più si avvicina a Scerik, nome della penisola che separa i golfi di Tunis e di Hammamet, la quale oggi si chiama El-Dakhel, ma gli Arabi del medio evo or la dissero di Scerik, da un nome proprio d’uomo, or di Bâsciu (Basso?) nome della città principale. Non è verosimile che i Siciliani avessero ripigliata allora cotesta penisola, ma pare che Mehdia o Zawila fosse considerata allora come capitale di un piccolo stato che prendesse il nome dalla penisola vicina. A me par certo che sendo padroni di Mehdia e di Susa, i Siciliani lo fosser anco di una parte della costiera, e in ispecie della penisoletta di Monastir, appendice di Mehdia. Si vegga, su la topografia di cotesti luoghi, l’Edrîsi nella edizione dei sigg. Dozy e De Gœje, pag. 108, 109, del testo, e 126-8, della versione. Edrîsi dice che i tre villaggi o castelli di Monastir erano abitati da religiosi, come d’altronde si può supporre da quel vocabolo.296. In primo luogo non mi par dubbio che il re di Sicilia credesse allor appartenere alla sua corona il diritto d’istituire sedi vescovili, come l’esercitarono gli imperatori bizantini. Si noti la fondazione del vescovado di Cefalù e il titolo di Arcivescovo di Sicilia, dato a quel di Palermo in un diploma di re Ruggiero, presso il Pirro, Sicilia Sacra, pag. 95, 96.
In secondo luogo è da ricordare che, per antica costumanza, il metropolitano di Palermo, ricordando solennemente ogni anno i suoi suffraganei, solea nominare tra quelli il vescovo di Tripoli d’Affrica, su di che si vegga il Pirro, op. cit., pag. 21.
Si consideri inoltre che tra i diplomi della Cappella Palatina di Palermo, nel Tabulario di essa, pag. 34, seg. nº XV, è l’inventario della suppellettile della Chiesa d’Affrica, nel quale si legge che una parte era stata fatta a spese dell’ Arcivescovo. Mi par si alluda più tosto a quello d’Affrica che a quel di Palermo. D’altronde il fatto di trovarsi quell’inventario nella Cappella Palatina, può indicare che la Chiesa d’Affrica si volesse far dipendere dal Cappellano Maggiore, o che per lo meno la suppellettile si conservasse a cura dì questo, come proveniente da una regia fortezza.
297. Ibn-el-Athîr, anno 551, testo del Tornberg, vol. XI, pag. 139, 140. Si confronti il Kariâs versione del Tornberg stesso, tomo I, pag. 170 a 173; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione del baron De Slane, tomo I, 254 segg. e tomo II, 173, 190 segg.298. Il soggiorno d’Ibn-Sceddâd in Palermo l’anno 551 dell’egira, è attestato dal Nowairi, in un luogo del quale diè la versione francese M. Rosseeuw de Saint-Hilaire, Histoire d’Espagne, tomo III (Paris, 1838). Pièces justificatives, nº IV, par. 511. Questo squarcio, tradotto da M. Vincent e tolto da un Ms. arabico di Parigi che non si cita, contiene un aneddoto dì Abd-el-Mumen che il cronista riferiva essergli stato raccontato da un mercatante musulmano di Mehdia, ch’egli incontrò l’anno 551 nella capitale della Sicilia.299. Presso Tigiani, che abbiam citato di sopra, nel cap. ij, pag. 379, in nota. L’ Holâl-el-Mausciah dà il nome di Abd-Allah-ibn-Meimûn.300. Si confrontino: Ibn-Sahib-es-Selât; Ibn-el-Athîr, anno 554; Marrekosci; Ibn-Khaldûn, nella Bibl. ar. sicula, testo pag. 197, 303-304, 319, 504. Non cito il Nowairi, perch’egli qui copia di parola in parola Ibn-el-Athîr. Cotesti scrittori non son d’accordo sul tempo della mossa da Marocco e si comprende benissimo.301. Secondo alcuni cominciò l’assedio il 18 regeb (5 agosto 1159). Secondo altri tornerebbe al 12 luglio.302. Marrekosci.303. Ibn-el-Athir, Marrekosci, ec. dicono anche figliuoli di Molûk, ch’è il plurale di Mâlik, re; ma diceasi anco de’ grandi feudatari, come abbiamo avuta occasione di notare. Non mi par che meriti molta attenzione un luogo di Marrekosci, compilatore del XIII secolo, nel quale ei chiama i soldati del presidio “compagni del Duca.”304. L’autore anonimo dell’ Holâl-el-Mausciah.305. Gli scrittori musulmani esprimono questo fatto al rovescio, cioè, che la galea entrava nell’arsenale bella e armata senza mettere a terra un sol uomo306. Macchine da lanciar sassi, più piccole che i mangani. Il Kartas, in vero, ch’è qui il solo che faccia menzione di macchine oltre i mangani, le chiama ra’ade, cioè “tonanti,” il qual nome fu dato alle artiglierie. A me par che l’autore, il quale visse nel XIV secolo e non conoscea per l’appunto quando fosse stato fatto il primo uso della polvere nelle armi da gitto, abbia sostituito di capo suo quella nota voce ad ’arrâde che al suo tempo e nel suo paese potea parere antiquata. Forse fu errore dei copisti, e in ogni modo le lettere radicali, che son le stesse, disposte sì in altro ordine, si prestavano all’equivoco. Nello stesso modo va spiegato un luogo d’Ibn-Khaldûn, autore anch’egli del XIV secolo, secondo il quale le “tonanti” sarebbero state usate in Affrica nel XIII. Si vegga su questo dubbio il bel trattato dei sigg. Reinaud et Favé, Du feu grégeois, Paris, 1845, pag. 75 segg. e si confrontino: Dozy, Historia Abbadidarum, II, 202 e 264 e Ibn-Batuta, Voyages, Paris, 1853-58, tomo III, 148, 194, 238, 396.307. Ibn-el-Athîr, ec.308. Zerkesci.309. Questo fatto è riferito dal solo Marrekosci.310. Falcando.311. Secondo l’ Holâl-el-Mausciah, sarebbero state una cinquantina, poichè il numero totale delle navi si fa montare a dugento.312. Ibn-Sceddâd, presso il Tigiani.313. Si confrontino: Ibn-Sahib-es-Selât; Ibn-el-Athir; Marrekosci; il Baiân; Tigiani; il Kartâs; Abulfeda; Ibn-Khaldûn; Zerkesci; Ibn-abi-Dinâr, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 197, 303-308, 319-320, 374, 401-402, 403-404, 417, 504-506, 523, 540, e l’ Holâl-el-Mauscîah ec. (il Pallio variopinto che ricorda gli avvenimenti di Marocco) compendio anonimo, scritto l’anno 783 dell’egira (1381-2) Ms. della Bibl. imp. di Parigi. Ancien fonds, 825, pag. 116. Non cito il Nowairi perch’egli copia letteralmente Ibn-el-Athir in questi capitoli. Di cotesti scrittori ho notate alcune differenze. L’ Holâl inoltre attribuisce agli ambasciatori del presidio cristiano appo Abd-el-Mumen, l’adulazione di avergli detto ch’egli era appunto il predestinato alla monarchia universale di che parlavano i loro libri. Del racconto di Tigiani abbiam anco una traduzione francese di M. Alph. Rousseau, nel Journal Asiatique di febbraio 1853, pag. 209 segg. I capitoli più importanti d’Ibn-el-Athir sono stati tradotti in francese dal baron De Slane, nella Histoire des Berbères d’Ibn-Khaldûn, tomo II, Appendice, pag. 585 segg. Similmente i luoghi d’Ibn-Khaldûn, che abbiam citati nel presente Capitolo, si trovano nella citata versione di M. De Slane, tomo II, pag. 38, 39, 193. Il Conde, Dominacion de los Arabes en España, Parte III, cap. xliv, narra distesamente questa impresa di Mehdia, con alcuni de’ particolari notati da noi ed altri che non troviamo ne’ nostri testi. Ma la compilazione del Conde non può tener luogo de’ testi che ci mancano.
Degli autori cristiani son da vedere il Falcando e Romualdo Salernitano, sì discrepanti l’un dall’altro, il primo nel Caruso, Bibl. sicula, pag. 420, 421, il secondo in Muratori, Rer. Italic., VI, 199, e presso Pertz, Scriptores, XIX, 429.
314. Si confrontino il Falcando e Romualdo Salernitano, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 412 segg., 419, 421, 865, 866.315. Di questa sola ragione d’economia fa parola il Falcando, op. cit., pag. 421.316. Questo rimprovero l’ho aggiunto io. Pietro era forse caduto in disgrazia o tenuto com’oggi diremmo “in disponibilità.” Ma tornò ben in favore a capo di due anni.317. Falcando, op. cit., pag. 135.318. Si confrontino sempre Falcando e Romualdo Salernitano.319. Si confrontino Falcando e Romualdo Salernitano, op. cit., pag. 434 segg., ed 866.320. Imâd-ed-dîn, nella Kharida, testo nella Bibl. ar. sicula, pag. 599, dice che “l’ammazzarono i Franchi di Sicilia dopo l’anno 550 (1155-6) nella carnificina ch’ei fecero dei Musulmani.” Mi pare da riferir questo caso alla sedizion di Palermo, piuttosto che alla proscrizione che fecero non guari dopo i Lombardi nell’interno dell’isola.321. Ibn-Bescrûn, citato da Reinaud, Géographie d’Aboulfeda, Introduzione, pag. CXXI. Il titolo era: Rudh-el-Uns wa Nozhat-en-Nofs, ossia “Giardini dell’Umanità e diletto dell’anima.”322. Si confrontino sempre il Falcando e Romualdo.323. Falcando, op. cit., pag. 440. Ne fa cenno appena Romualdo, op. cit., pag. 868. Si ricordi ciò che abbiam detto di Ruggiero Schiavo e delle popolazioni lombarde nel libro V, cap. viij, pag. 222 seg., 226 segg., di questo volume.
Si noti che Butera fu sempre feudale, e che Piazza era stata tenuta, come qui dice il Falcando, dal padre di Ruggiero Schiavo, cioè il conte Simone, figlio di Arrigo, dei marchesi Aleramidi.
324. Falcando, op. cit., pag. 442.325. Op. cit., pag. 444-445.326. Nei principii del regno di Guglielmo il Buono, quand’egli arbitro dello Stato se n’era fuggito in Affrica per paura de’ baroni nemici suoi, il Conte di Gravina lo chiamò dinanzi la regina “servum saracenum qui stolium dudum prodiderat.” Falcando, op. cit., pag. 454.327. Falcando, op. cit., pag. 448.328. Abd-el-Mumen fu dei più grandi uomini di Stato de’ suoi tempi; dotto anco nelle scienze filosofiche e nelle matematiche, come il prova una sua compilazione delle vere o supposte lezioni del Mehedi, che fondò primo la potenza almohade; la quale opera si trova manoscritta nella Biblioteca imperiale di Parigi, Supplément arabe, n. 238. Abd-el-Mumen, presa Mehdia, fece fare un catasto dell’Affrica settentrionale, misurar la superficie in parasanghe quadrate, dedurre un terzo pei monti, i fiumi e le paludi, e impose, in ragione della superficie rimanente, una tassa che le tribù dovean pagare in grano o in moneta. Ei cominciò a tramutare in Spagna i feroci Arabi d’Affrica. Fece allestire, dicono, 700 navi; fabbricare 10,000 quintali di saette ogni dì; scrivere 500,000 uomini, ec. Su questi preparamenti si vegga Ibn-el-Athîr, anni 555, 558, edizione del Tornberg, tomo XI, pag. 162 segg., 191 segg. del testo; Marrekosci, testo, pag. 168; Kartâs, edizione del Tornberg, testo pag. 129, 131, 132, e versione, 174, 176, 177; e Ibn-Abi-Dinâr (El-Kairouani) versione francese, pag. 196.329. Si confrontino: il Baiân, anno 558, e Tigiani, entrambi nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 374 e 378, 379.
Il primo pone la data, dice d’uno sbarco di Rûm in generale, del novello “caso,” com’ei lo chiama, di Mehdia e dell’occupazione di Susa; il secondo fa menzione del governatore che avean messo gli Almohadi a Susa dopo che s’impadronirono di Mehdia, e poi accenna alle stragi, rapine e cattività di que’ di Susa ed a’ prigioni riportati in Sicilia dall’armata. Indi non è dubbia la identità del fatto.
330. Falcando non dà il nome del palagio. Il testo di Romualdo ha Lisam, nelle edizioni antiche; ma quella di Pertz, Scriptores, XIX, 434, dà più correttamente Sisam, con l’avvertenza in nota “Hodie Cisa,” la quale lezione rende forse la pronunzia all’orecchio di qualche straniero, ma io non l’ho mai vista in alcuna scrittura nostrale. Al contrario, i diplomi latini del XIII e XIV secolo ed una cronaca anch’essa del XIV, hanno Zisa, e Asisia, ed un diploma del 1238, presso Mongitore, Sacrae domus Mansionis.... Monumenta, contien la concessione d’un terreno in regione Assisii, al mascolino. Finalmente avverto che l’aggettivo El-’Azîz, anche al mascolino, poichè si sottintende El-Kasr (il palagio), occorre in fin della iscrizione arabica della sala terrena, pubblicata dal Morso, Palermo Antico, 2ª edizione, pag. 184. Ma di ciò mi propongo di trattar più lungamente nel Cap. xj del presente libro. Notisi intanto che la lezione Sisa, risponde precisamente alla trascrizione del nome Abd-el-’Azîz, il quale in un diploma del 1239, nel registro dell’imperator Federigo II, ediz. del Carcani, pag. 398, è scritto Abdellasis.331. Si confrontino sempre Falcando e Romualdo, nell’op. cit., pag. 448, 449 e 870, 871. Anche nelle piccole cose si dimostra la nimistà dell’uno e lo studio cortigiano dell’altro. Falcando, per esempio, si compiace a notare che Guglielmo non arrivò a veder finita l’opera della Zisa; Romualdo la fa credere compiuta, e parla più largamente delle acque e de’ giardini di quel sito reale, de’ mosaici aggiunti da Guglielmo nella Cappella palatina, ec.332. Ho corretto il giorno della morte secondo la Cronica Cassinese e il libro mortuario dello stesso monastero, presso Caruso, op. cit., pag. 512 e 522.333. La parte presa dalle donne, secondo il Falcando, nelle esequie di Guglielmo I, somiglia perfettamente a quella che è attribuita loro nei funerali di Malek Salih al Cairo (1249) in un luogo d’Abu-l-Mehasin, del quale M. Quatremère ha dato testo e traduzione nella Histoire des Sultans Mamlouks, tomo I, parte II, pag. 164. Per parecchi giorni le schiave andavano per le strade battendo i cembali, e le gentil donne le seguian senza velo, piangendo e picchiandosi il volto.334. Si veggano i fatti nel Falcando, presso Caruso, Bibl. sic., pag. 451 a 453.
Non mi pare inverosimile che alcuno di cotesti provvedimenti sia stato comandato nel testamento di Guglielmo I. Almeno un passo del Falcando, op. cit., pag. 454, prova che l’eunuco Pietro era stato emancipato nel testamento e che fu confermata la manomissione dai reggenti.
335. Si vegga il cap. III di questo medesimo libro, pag. 432, 433, 439 del volume.336. I diplomi arabi e greci di Sicilia che stamperà il prof. Cusa di Palermo, daranno larga materia ad osservazioni di questa natura. Intanto io voglio notare un esempio, tolto dal diploma arabico di Morreale del 1182, del quale mandommi copia il lodato professore, e la traduzione latina si trova nel Lello (Michele del Giudice) Descrizione del real Tempio.... di Morreale, Appendice dei Privilegii e Bolle, pag. 8 e segg. In questo diploma la voce hârik, ordinariamente usata in Sicilia col significato di collina, è tradotta “terterum”, voce francese latinizzata; il nome di luogo Descîsc è trascritto “Dichichi”; el-Andalusin (gli Spagnuoli) “Hendulcini”; Giabkalîn, “Chapkalinos”, ec.337. Quello che or si dice dell’Albergaria.338. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 454 e 872. L’arcivescovo, ch’era partigiano dell’eunuco, confessa che costui insieme con altri, fuggì “et ad regem de Maroccho veniens, multam secum pecuniam transportavit.” Si vede dal Falcando che l’accusavan anco di aver portato seco le insegne reali, ma la regina affermò non essere stato tocco il tesoro regio.339. Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, testo arabico di Parigi, parte II, pag. 37, 38 e nella Bibl. arabo-sicula, pag. 462, e versione francese del baron De Slane, parte II, pag. 43. Lo stesso autore, nella Storia dei Berberi, testo arabico di Algeri, tom. I, pag. 326 e versione del baron De Slane, II, 208, dice che il 581 (1185-6) il califo almohade Jakûb, sapendo la mossa d’Ibn-Ghania sopra Costantina, mandò contro di lui l’armata capitanata da Mohammed-ibn-Abi-Ishak-ibn-Giâmi’, insieme con Abu-Mohammed-ibn-’Atusc, e con Ahmed-Sikilli, e che quest’ultimo kaid, con la sua squadra prese Bugia.340. Applicato il diritto de’ tempi al racconto d’Ibn-Khaldûn, ognun vede che il giovanetto Ahmed era venuto schiavo in Sicilia. Ora il Falcando attesta precisamente ch’egli fosse tenuto tale a corte, dicendo che il conte di Gravina, saputa la sua fuga, rimproverò alla regina vedova la stoltezza d’avere innalzato a tanta potenza un servo saraceno che aveva già tradita l’armata; ed aggiunse esser anzi maraviglia ch’ei non avesse fatti entrare occultamente i Masmudi nella reggia, per portar via il re con tutto il tesoro. Il conte di Molise partigiano di Pietro, negava che costui fosse servo, quando Guglielmo I l’aveva emancipato nel testamento e il nuovo re e la regina aveano confermata l’emancipazione. Presso Caruso, Bibl. sic., pag. 454.341. Si vegga su questa nobile famiglia, Gilles Bry, Histoire du pays et comté du Perche, Paris, 1620, in-4. Il territorio della contea di Perche rispondea quasi a quello degli odierni dipartimenti di Orne ed Eure et Loir.342. Si leggano: Petri Blesensis Epistolæ;, n i 10, 46, 66, 90, 93, alcune delle quali ristampò il Caruso, op. cit., pag. 489, 501; Thomæ Canterburiensis Epistolæ, lib. I, ep. 56, 57, 58, della edizione di Bruxelles, 1682; Epistole di Giovanni da Salisbury, dal Codice Vaticano, lib. II, epistola 61 e lib. III, ep. 80, presso Baronio, Annales, anno 1168, §62, e si confronti anno 1169, §2; Epistola nº 2 di Lodovico VII di Francia a Guglielmo II di Sicilia, anno 1169, nella Collection de Documents inédits sur l’histoire de France, Série 1. Lettres des Rois, etc., tomo I, Paris, 1839, pag. 3. Questa lettera fu mandata alla corte di Palermo per un Teobaldo priore di Crépy, procuratore del monistero di Cluny, al quale dovea servire di credenziale presso Guglielmo II.343. «Panormitani.... multos apud eum accusaverunt apostates de Christianis Saracenos effectos, qui sub eunuchorum protectione diu latuerant.» Così il Falcando, op. cit., pag. 461. Mi par si debba intendere de’ Musulmani già fatti Cristiani, non già di Cristiani nati, dei quali se alcuno mai si fece musulmano, il caso doveva essere rarissimo in quel tempo.344. Op. cit., pag. 463.345. Gaytum Sedictum, nelle edizioni del Falcando. I buoni mss. della Biblioteca imperiale di Parigi, Mss. latins, 5150 e 6262, e Saint-Victor, 164, hanno “Se dictum.” Mi sembra migliore la prima lezione che si avvicinerebbe ai nomi di Siddik ovvero Sadâka, non venendomi alla memoria alcuno che si potesse pronunziare Se.346. La via Marmorea è quasi la stessa ch’or si chiama il Cassaro; ma nel XII secolo la parte più alta di quella tornava al tratto che corre dal Collegio Nuovo all’odierno palagio arcivescovile, poichè la Piazza della reggia era allora in gran parte occupata dall’ Halka, della quale si è detto nel lib. V, cap. V, pag. 136, 137, di questo volume.
La Via Coperta, che conducea dall’antica reggia all’antico duomo, rispondeva alla contrada che or giace sotto il piano del Papireto.
347. I fatti si ritraggono confrontando il Falcando, partigiano, non cieco però, di Stefano, e Romualdo Salernitano che fu de’ congiurati. Si vegga anco Guglielmo di Tiro, lib. XX, cap. 3.348. Op. cit., pag. 486.349. Romualdo Salernitano, presso Caruso, op. cit., pag. 898-899.350. Abu-Sciama-el-Mokaddesi, nella Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 336. Si riscontri Reinaud, Extraits.... relatifs aux Croisades, pag. 184, secondo il quale la epistola fu scritta il 1182.351. Confrontisi: Ibn-el-Athîr, anno 565, testo del Tornberg, tomo XI, pag. 231 e Makrizi, Mowa’iz, testo di Bulâk, tomo I, pagina 214-215. Compendiò entrambi il Reinaud, Extraits.... relatifs aux Croisades, pag. 143-144.352. Questa impresa del Jemen è narrata da Ibn-el-Athîr, anno 569, testo del Tornberg, XI, 260 segg.353. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 569, testo, nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 308 segg. e nell’edizione del Tornberg, tomo XI, 292; Ibn-Khaldûn, op. cit., pag. 506 segg.; Ibn-Khallikân nella vita di questo Omâra, versione inglese del baron De Slane, tomo II, pag. 367. M. Reinaud, negli Extraits.... relatifs aux Croisades, pag. 172, dà la traduzione francese di uno squarcio d’Ibn-el-Athîr.354. Si vegga, per questa data, la nota che ponghiamo in fine del racconto.355. Questa particolarità è aggiunta da Ibn-el-Athîr. Secondo Ducange, quel vocabolo, composto del nome etnico e di ποῦλος che in greco de’ bassi tempi significò “figlio”, par abbia designato in origine i figli de’ mercenarii turchi dell’impero bizantino. Poi si addimandarono così i soldati palatini di Alessio Comneno; e i Cristiani di Siria dettero tal nome a’ cavalleggieri. L’appellazione pareva appropriata, per tutti i versi, a’ Musulmani che militavano sotto le bandiere della Sicilia.356. Lo stato delle forze si ritrae dalla lettera di Saladino. Ibn-el-Athîr quasi la copia; Ibn-Khaldûn accresce i cavalli a 2500; Makrizi dice le galee 260; il qual numero io accetto, per la grande accuratezza di quello scrittore nelle cose dell’Egitto e perchè meglio corrisponde ai 50.000 uomini.357. Behâ-ed-din, narrando l’assedio di San Giovanni d’Acri per Barbarossa, descrive la debbâba de’ Cristiani: grande struttura di legno, vestita di lamine di ferro, mobile su ruote, montata da molti combattenti, armata di una trave che terminava in un collo con capo di ferro, e chiamavasi “montone”, la quale, mossa da molti uomini, percotea le mura. Dice egli anco d’una macchina simile che consisteva in una tettoia, sotto la quale gli uomini moveano una trave armata d’un ferro in forma d’aratro; e questa chiamavasi “gatto.” Vita Saladini, pag. 141, 143.
Debbâba è traduzione di “testuggine.”
Si vegga anco Reinaud, Extraits, etc., pag. 291-292. Nell’impresa de’ Siciliani sopra Alessandria occorrono simili denominazioni. La somma della lettera di Saladino, distinguendo i varii corpi dell’esercito siciliano, nomina “gli artefici delle torri e delle debbâba.” Poi nella narrazione dell’assedio leggiamo: “e rizzarono tre debbâba coi loro kebasc (che vuol dir “montone”).... le quali debbâba somigliavano a torri, sì grosso era il legname, sì maravigliosa l’altezza e la larghezza, e sì grande il numero degli uomini che le montavano.”
358. Nella somma della lettera di Saladino che ci dà Abu-Sciama-el-Mokaddesi, leggiamo d’un Ibn-el-Bessâr ucciso nel primo assalto da un dardo di gerkh. Op. cit., pag. 333-334. Nella vita di Saladino occorre il plurale giurûkh.359. Ai tempi di Edrîsi, il faro sorgeva a un miglio dalla città per mare e tre per terra. Versione de’ signori Dozy e De Goeje, pag. 166.360. La saldezza delle mura di Alessandria è attestata da Edrîsi, l. c.361. Le lasciaron chiuse, dice il sunto della lettera di Saladino, coi kosciûr. Il singolare kiscr significa “scorza, corteccia” e però ho messo il significalo di “imposte” che non trovo ne’ dizionarii. Par che abbiano alzate quelle che noi diciamo saracinesche, le quali si poneano a varie distanze dentro la lunga volta d’una porta di città o fortezza, ed abbian lasciata socchiusa la porta esteriore.362. Dalla somma della lettera di Saladino parrebbe ciò avvenuto il secondo giorno di combattimento; ma di certo v’ha errore, poichè nello stesso squarcio si dice che lo spaccio era arrivato a Saladino il martedì che fu il terzo giorno dello sbarco (e secondo di combattimento) e il corriere di Saladino ad Alessandria il quarto dello sbarco (e terzo di combattimento) che fu il mercoledì. Ibn-el-Athîr dice espressamente fatta la sortita il terzo giorno di combattimento.363. Ibn-el-Athîr, dal quale sappiamo la spedizione di questo corriere, dice che arrivò “lo stesso giorno della partenza.”
Fâkûs giace sull’estremo braccio del Nilo verso levante, ai confini del deserto di Suez, poco lungi dal lago Menzaleh.
364. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 570, nella Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 310 segg. e nella edizione del Tornberg, XI, 272 seg.; Abu-Sciama-el-Mokaddesi, nella stessa Biblioteca, pag. 332 segg., il quale dà la somma di una lettera scritta da Saladino ad un suo emir in Siria; Ibn-Khaldûn, op. cit., pag. 508; Makrizi nella stessa Biblioteca, pag. 518 dove la prima data si corregga 569. Nel Mesciâri-el-Ascwâk, ediz. di Bulâk 1242 (1826-7) pag. 196, 197, è un compendio dello stesso racconto di Abu-Sciama e d’Ibn-el-Athîr. Ne fa anche parola un contemporaneo, nell’opera geografica posseduta dalla Bibl. imperiale di Parigi, Suppl. Arabe, 966 bis, foglio 47 verso. Behâ-ed-din, Vita Saladini, edizione di Schultens, cap. XII, pag. 41, dà un cenno di questa impresa de’ Franchi, senza dir ch’e’ fossero que’ di Sicilia. Aggiunge ch’essi ritiraronsi dopo tre giorni con gravi perdite; dà loro 600 legni e trasporta la data al mese di sefer 570 (settembre 1174). Oltre le teride e le galee, l’autore qui nomina le botse, ch’è alterazione della nostra voce “buzzo.”
Per lieve che sia, non è da passare sotto silenzio uno sbaglio di cronologia de’ compilatori musulmani. Abu-Sciama, il quale trascrive il testo perduto di ’Imâd-ed-din, dice in principio sbarcati i Siciliani la domenica, 26 dsu-l-higgia 569 e rotti il 1º di moharrem 570. Lo stesso scrive Ibn-el-Athîr; di modo che gli assedianti, escluso il giorno dello sbarco, sarebbero stati sotto le mura di Alessandria per cinque giorni interi, poichè, sendo il 569 dell’egira quel che noi diremmo anno bisestile, il mese di dsu-l-higgia ebbe allora 30 giorni invece di 29. Da un’altra mano, sendo incominciato quell’anno di domenica e il mese di dsu-l-higgia, di mercoledì, il giorno 26 cadde in sabato e non in domenica.
Ma la somma della lettera di Saladino come l’abbiamo da Abu-Sciama, nota i soli giorni della settimana: cioè, sbarco la domenica, assalti il lunedì e il martedì, sortita e rotta il mercoledì, ritirata dell’armata il giovedì. Il giovedì appunto, 1º agosto 1174, principiò il mese di moharrem e l’anno 570 secondo il conto astronomico dell’egira, che muove dal mezzodì del 15 luglio 622, anzichè dal 16 come lo si conta più comunemente, comprendendovi la notte che precede. Onde si vede che il giorno assegnato dai compilatori alla sconfitta de’ Cristiani, fu quello in cui l’armata si allontanò d’Alessandria, non quello dell’ultima battaglia, e ch’essi per errore posero lo sbarco il 26 invece del 27. Gli imperfetti metodi di cronologia usati in Oriente e la superstizione di contare il primo del mese quando proprio si vede la luna, spiegano cotesti errori. Le giornate di quella infelice impresa van così notate:
Domenica 27 dsu-l-higgia 569 28 luglio 1174, sbarco
28-29 » » 29-30 » » assalti
30 » » 31 » » sortita; rotta de’ Siciliani
Giovedì 1º moharrem 570 1º agosto 1174 ritirata dell’armata. — Strage dei 300 cavalieri.
M. Reinaud ha dati alcuni squarci de’ citati autori arabi, ne’ suoi Extraits, etc., pag. 173. Debbo avvertire che la nota n. 1, del mio dotto maestro non è esatta. I Veneziani, i Pisani e i Genovesi, non sono già nominati nel testo come ausiliari di Guglielmo II in questa impresa, ma soltanto noverati tra i Cristiani che soleano molestar l’Egitto.
Degli autori cristiani, Marangone, nell’ Archivio storico italiano, tomo VII, parte 2ª, pag. 71, sotto l’anno pisano 1175, dice partita l’armata siciliana il 1º luglio; forte di 150 galee e 50 dromoni pei cavalli, con 1000 cavalieri, molti arcieri e balestrieri e molte macchine ( ædificia ) e che l’armata, appena arrivata in Alessandria, prese una nave pisana proveniente da Venezia: e qui finisce il racconto e la cronica. Veggansi inoltre: Guglielmo di Tiro, lib. XXI, cap. 3; la Chronica pisana, presso Muratori, Rer. Italic., VII, 191, la quale qui copia il Marangone; infine la Cronica anonima nella Historia diplomatica Friderici II, dell’Huillard-Bréholles, tomo I, pag. 890. È da notare che il Caruso, Memorie storiche, parte II, vol. I, pag. 186, 192, suppose due spedizioni d’Alessandria, nel 1174, cioè e nel 1178, togliendo l’una da Guglielmo di Tiro e l’altra dalla cronica Pisana.
365. Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, vol. II, pag. 285. Il buon Di Biasi suppone che que’ tesori fossero stati spesi nella fabbrica del Duomo di Morreale. Merita tanta maggior lode, dopo ciò, il mio amico Isidoro La Lumia, il quale, invaghito com’ei sembra di Guglielmo II, ha riconosciuto, pag. 146-147, l’errore del Caruso e degli altri, e dato un cenno di questo fatto di Alessandria, secondo gli scrittori contemporanei cristiani e le poche notizie de’ musulmani che gli fornisce il compendio del Renaudot, Hist. Patr. Alexandriæ, Parigi, 1713 in-4, pag. 540.366. Makrizi, Mowa’iz, testo di Bulâk, tomo I, pag. 180. A coteste frequenti molestie si allude nello squarcio anzi citato della relazione di Saladino al califo di Bagdad, dove leggiamo ( Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 336), “che del navilio del re di Sicilia si era parlato sovente e del suo esercito non si ignoravano i casi.”367. Baiân-el-Moghrib, testo, nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 374. Si veggano i capitoli ij e iv del presente libro, pag. 418 e 490 del volume.368. A rigore si potrebbero supporre anco due imprese estive nello stesso anno 573, che cominciò in fine di giugno 1177 e terminò il 18 giugno 1178.369. Ibn-el-Athîr, anni 568 e 576, testo, nella edizione del Tornberg, tomo XI, pag. 256, 309.
L’epistola di Saladino al califo di Bagdad, inserita nell’opera di Abu-Sciama-el-Mokaddesi, della quale ho dati alcuni squarci nella Biblioteca arabo-sicula, dice occupate a nome del Sultano, Barca, Kafsa, Kastilia e Tauzer, ms. arabo della Biblioteca imperiale di Parigi, Ancien Fonds, 707 A, fog. 128 verso.
370. Ibn-el-Athîr, anno 576, loc. cit. Si confronti il Kârtas, edizione del Tornberg, testo, pag. 139 e traduzione pag. 186; e Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione, di M. De Slane, II, 34, 203.371. Anno 1180, presso Pertz, Script., VII, 528. M. De Mas-Latrie, nella Introduzione ai Traités de Paix, ec., pag. 51, accetta ed amplifica il racconto dell’abate Roberto e dà alla restituzione delle due città il significato plausibile, che il principe almohade abbia permesso ai Siciliani di tenervi loro fondachi. E accomoda anco la differenza della data tra Roberto e l’anonimo Cassinese, affermando che le negoziazioni furono cominciate il 1180 e terminate in agosto 1181.372. Marrekosci, nella edizione del Dozy, pag. 181 e nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 320. Si corregga in questo modo la traduzione del Marrekosci, ch’io detti già in nota a Ibn-Giobair, nel Journal Asiatique di marzo 1846, pag. 234 e nello Archivio storico italiano, appendice nº 16, pag. 71.373. Si confronti Ibn-el-Athîr, loc. cit. con l’anonimo Cassinese, presso Caruso, Biblioteca sicula, pag. 543. L’uno dice che Kafsa fu presa il primo giorno del 576 (28 maggio 1180) e che Abu-Iakûb dopo ciò andò a Mehdia, dove trovò gli ambasciatori e fermata la tregua se ne tornò in fretta a Marocco; l’altro che Guglielmo fece la tregua in Palermo d’agosto 1181. Indi suppongo la stipulazione a Mehdia e la ratificazione a Palermo. Ma quanto all’anno, sto alla data de’ cronisti arabi i quali non sogliono scrivere i numeri in cifre e sono in generale molto più esatti. Non mi par verosimile poi che la ratificazione sia stata differita per più di un anno fino all’agosto 1181.374. Si vegga qui appresso la nota 1, alla pag. 521.375. Ibn-el-Athîr, l. c. Si direbbe quasi ch’egli accennasse al motivo, continuando, immediatamente dopo aver fatta menzione della tregua: “L’Ifrikia era straziata allora, ec.”376. Testo del Dozy, pag. 193 segg. Si confronti Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione del baron De Slane, II, 188, 207, il quale differisce in alcuni fatti secondarii.377. Presso Muratori, Rerum Italic., VI, 355-356. Vi si legge l’anno della natività 1181, indizione XIII, la quale all’uso di Genova risponde alla XIV del conto più comune, e però l’anno torna appunto al 1181 del calendario romano.378. Par che Pisa in questo tempo rinnovasse ogni dieci anni la tregua con Majorca; poichè abbiamo notizie delle pratiche del 1161 e del 1173, dal Marangone, nell’ Archivio storico italiano, tomo VI, parte 2ª, pag. 25 e 68. Il trattato originale del giugno 1184 è stato pubblicato da me ne’ Diplomi Arabi del Regio Archivio fiorentino, parte I, n. IV, pag. 14, seg. nella quale opera, Introduzione, pag. XXXVI, è da correggere la citazione del Caffaro e la data della spedizione di Guglielmo II, della quale ci ragguaglia la cronica anonima, pubblicata nella Historia Diplomatica Friderici II, etc.379. Testo arabico del regio Archivio di Torino, pubblicato dal Sacy, nelle Notices et extraits des mss., XI, 7, segg.380. Si confrontino: Guglielmo di Tiro, lib. XXII, cap. viij, nel Recueil des Historiens des Croisades, Historiens Occidentaux, tomo I, parte I, p. 1076, e la cronaca anonima del XIII secolo, pubblicata da M. Huillard-Bréholles nella Historia Diplomatica Friderici secundi, etc., tomo I, pag. 890. Questa non mette data e dice che Guglielmo II abbia voluto ajutare un principe musulmano scacciato da Majorca; il qual fatto ci condurrebbe al 1183, ed agli anni seguenti. Guglielmo di Tiro, dal Cap. v. al vij dello stesso libro, dice di avvenimenti del 1180 e della state del 1181, e incomincia il cap. viij con la morte di Malek-Sciah figliuolo di Norandino, la quale sappiamo d’altronde che avvenne di novembre 1181. Per questo dobbiam supporre il naufragio seguito nell’inverno 1181-1182 e non già nella prima spedizione, della quale abbiamo la data precisa dal Caffaro.381. Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione del baron De Slane, II, 208 a 210.382. Di queste orribili condizioni dell’Affrica propria troviamo il racconto in Ibn-el-Athîr, anni 580 e 581, nella edizione del Tornberg, tomo XI, p. 334, 342 segg.383. Ibn-Giobair, testo e traduzione francese, nel Journal Asiatique di dicembre 1845, pag. 526 segg. e di gennaio 1846, p. 88 segg. Il testo si legge anco nella edizione del Wright e nella Bibl. arabo-sicula; e la versione italiana, nell’ Archivio storico, Appendice n. 16, pag. 35 segg.384. Fan cenno di questa impresa Niceta Coniate, Guglielmo di Tiro, Sicardi vescovo di Cremona ed altri cronisti del tempo; ma quei che più largamente la narra, anzi con infiniti particolari e troppa rettorica, è un testimonio oculare che soffrì i disagi dell’assedio e tutte le onte della occupazione straniera: l’arcivescovo di Tessalonica stessa, Eustazio, dotto commentator di Omero. Il suo testo su l’eccidio di Tessalonica, fu pubblicato per la prima volta a Francoforte il 1832, e ristampato con versione latina, nella collezione bizantina di Bonn, il 1842. Isidoro La Lumia è tra gli scrittori italiani il primo che abbia fatto uso del testo di Eustazio nella sua Storia di Guglielmo il Buono. L’anonimo dianzi citato ( Historia Diplomatica Friderici secundi, tomo I, parte 2, p. 890) dice anch’esso di questa infelicissima impresa; e il contemporaneo Rodolfo De Diceto, decano di San Paolo in Londra, la riferisce con grande esagerazione delle forze siciliane, nientedimeno che 85,000 fanti e 30,000 cavalli! Nell’ Historiæ Anglic. Scriptores, Londra, 1652, pag. 628.385. Conradi a Liechtenaw, Chronicon, Argentorati, 1609, in fol. pag. 228.386. Epistola di Saladino al califo di Bagdad. Non ostante l’ampollosità dello stile, questo documento è importantissimo. Saladino volea mostrare all’universale de’ Musulmani, più tosto che al povero e negletto pontefice, come la usurpazione sua, anzi lo spogliamento di tanti piccoli usurpatori, non escludendo que’ della casa di Norandino, fosse necessario a ristorare l’impero musulmano e cacciare gli Infedeli dal territorio. Questa epistola fu mandata verso il principio del 1182. Si vegga Reinaud, Extraits.... des Croisades, pag. 184. Io ho dato nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 336-7 il testo dello squarcio dove si dice del re di Sicilia e delle repubbliche di Venezia, Pisa e Genova.387. Si confrontino: l’anonima Historia Hierosolimitana, presso Bongars Gesta Dei, ec., vol. I, pag. 1155 segg.; Marino Sanudo, lib. III, parte ix, cap. 9, op. cit. tomo II, pag. 194; Sicardi vescovo di Cremona, presso Muratori, Rer. Italic., VII, 530; Francesco Pipino, Chronicon, lib. I, cap. xij, op. cit., IX; Bernardi Thesaur. cap. clxix, clxx, op. cit., VII; Chronica Anonima presso Huillard-Breholles, Hist. Diplom. Friderici secundi, ec., tom. I, pag. 890, 894; Continuazione francese di Guglielmo di Tiro, lib. XXIV, cap 5, 7, 11, nel Reçueil des Historiens des Croisades — Historiens Occidentaux, tomo II, pag. 114, 115, 119 e segg.
Le prime imprese di Margarito fecero tanto romore in Levante, che gli ambasciatori di Filippo Augusto a Costantinopoli, ragguagliando il re delle notizie della guerra, diceano presa Giaffa da Margarito, uccisivi 500 Turchi, fatti prigioni otto emiri e presa anco Gebala e trucidati quanti uomini vi si trovarono. Questa lettera è trascritta da Rodolfo De Diceto, op. cit., pag. 641 ed anco dall’autore della Gesta regis Henrici II, attribuita a Benedetto abate di Petersborough, ediz. Stubbs, Londra, 1867, vol. II, pag. 51. Pipino e Bernardo accrescono infino a 200 il numero delle galee siciliane; Sanudo dice 70 galee, 500 uomini d’arme e 300 turcopoli.
388. Gli Arabi musulmani chiamano taghiat indistintamente i principi stranieri. Quella voce significa in origine, violento, ingiusto, prevaricatore, ec.389. Traduzione litterale del bisticcio arabo kala’t e tala’t.390. ’Imâd-ed-dîn, nella Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 206, 207. Si confronti Abu-Sciamâ, nella stessa raccolta, pag. 337.391. Secreta Crucis, presso Bongars, Gesta Dei, ec., II, 194.392. Niceta Choniate, De Isaaco Angelo, lib. I, § 5, pag. 483, 484; Sicardi presso Muratori, Rer. Italic., VII, 615; Conradi a Liechtenaw, pag. 232, dell’edizione citata; Continuatio Cremifanentis, presso Pertz, Scriptores, IX, 548; S. Rudberti Salisburgensis Chron., vol. cit. pag. 778. Continuazione di Otone di Frisingen, op. cit., XX, 325; Annales Aquenses, op. cit, XVI, 687; Contin. Weingart., op. cit, XXI, 474 e molti altri cronisti tedeschi. Margarito stesso confessava i tristi principii della sua vita, nel 1194 quand’egli, grande Ammiraglio di Sicilia, conte di Malta, ricchissimo e potentissimo, donava all’Archimandrita di Messina un suo casale “per espiazione dei suoi misfatti.” Chi non ne avea su le spalle di grossi e conosciuti, li solea chiamar peccati. Si vegga presso il Pirro, Sicilia Sacra, pag. 980, questo diploma il quale attesta la patria dell’Ammiraglio: “Nos Margaritus de Brundusio, etc.”393. Si confrontino Niceta Choniate, De Isaaco, lib. I, § 5, e la cronica intitolata Magni Presbyteri, presso Pertz, Scriptores, XVII, 511, la quale inserisce una relazione contemporanea.394. Gesta regis Henrici II, attribuite a Benedetto abate di Petersborough, edizione di Stubbs, Londra, 1867, tomo II, p. 199. Si vegga la pag. xlvij della Prefazione, nella quale il dotto editore dimostra che questa parte fu scritta verso il 1192. Lo squarcio era stato pubblicato prima, sotto il nome di Brompton, nell’ Historiæ Anglic. Script., Londra, 1652, I, 1218.395. Eustazio di Tessalonica, Opuscula, Francoforte, 1832, pag. 292, 294, e nella edizione di Bonn, 1842, pag. 457, 464, 466.396. Nel testo d’Imâd-ed-dîn leggiamo “che i Cristiani messero su le gerkh” e “spianarono le zambûrek.” Della prima di coteste armi si è fatta menzione nell’assedio di Alessandria. La seconda è citata da Behâ-ed-dîn, edizione di Schultens, pag. 150 e da Reinaud, Extraits, etc. pag. 416.397. Paolo Santini da Duccio, nel bel ms. della Biblioteca imperiale di Parigi, pubblicato in parte da MM. Reinaud et Favé ( Du feu gregeois, etc., Paris 1849 in -8) dà la figura del mantellectus del XIV secolo, un asse cioè, inclinata a 45° e sostenuta da due fiancate triangolari, in forma di leggìo, dietro la quale riparavasi il soldato. Traduco mantelletti la voce giafati che si legge in Imâd-ed-dîn e con lieve variante in Ibn-el-Athîr. Questi nomina inoltre le târakîa, che M. Reinaud, con l’approvazione di M. De Sacy ( Chréstomathie Arabe, tomo I, pag. 273, della 2ª edizione) credette analogo a θώραξ. Ma qui evidentemente non si tratta di corazze, e se pure quel vocabolo greco diè origine all’arabico, variò in questo il significato, vedendosi nel Vocabulista Arabico della Riccardiana resa “scutum” la voce Derak o Tarak. Credo sia appunto la nostra “targa”, ossia scudo grande del medio evo. E questo si adatta molto meglio che corazza, nel luogo di Makrizi, citato da M. De Sacy. Si riscontri Quatremère, Histoire des Mongols de la Perse, tomo I, pag. 289. Imâd-ed-dîn, in luogo di questa voce, ne mette due, cioè tirds “scudi” e satâir, che mi par usato genericamente per significare “ripari”.398. Si confrontino: ’Imâd-ed-dîn da Ispahan e il suo compendiatore Abu-Sciama-el-Mokaddesi, nella Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 205 segg. 337 segg. e Ibn-el-Athîr, anno 584, op. cit., pag. 312 segg. e nella ediz. del Tornberg, tomo, XII, pag. 2 segg. M. Reinaud ha dato un cenno di cotesto racconto ne’ suoi Extraits.... relatifs aux Croisades, pag. 226-227.399. Gesta regis, etc. attribuita a Benedetto di Petersborough, dianzi citata, tomo II, pag. 175, 180. Si confronti quel testo con Ruggiero de Hoveden.400. Si confrontino: la continuazione francese di Guglielmo di Tiro, lib. XXIV, cap. 7, nel Recueil des historiens des Crosaides, Historiens Occidentaux, tomo II, pag. 114-115 e la citata Gesta regis Henrici II, attribuita a Benedetto abate di Petersborough, tomo II, pag. 133, alla quale corrisponde Ruggiero de Hoveden, presso Caruso, Bib. Sic., pag. 960.401. Gesta regis Henrici II, or or citata, II, 54. Come si ritrae dalla prefazione dello Stubbs, l’autore anonimo era informatissimo degli affari della corte inglese, negli ultimi tempi di Arrigo II e ne’ primi di Riccardo. Il qual principe avendo passato l’inverno del 1190-1 in Messina, dove ei conobbe Margarito, e la state seguente all’assedio d’Acri, i suoi intimi doveano sapere benissimo que’ fatti recenti dell’armata siciliana ne’ mari di Palestina. Ecco le parole del cronista: “Eodem vero anno, quidam vir potens et terra et mari, natione Sigulus (siculus), nomine Margaritus, per auxilium domini sui Willelmi regis Siciliæ, profectus cum quingentis galeis bene munitis, et viris bellicosis et victu et armis, in auxilium Cristianorum, et vias maris tanta calliditate obstruxit, quod Sarracenis qui Acram civitatem et cæteras terræ Jerusalem civitates et munitiones circa maritima occupaverant, nullus securus patebat egressus. Contigit autem quadam die, quod dum milites et servientes Saladini veherent arma per mare, et victualia ad subventionem filii Saladini et familiæ suæ qui erant apud Acram, occurrit eis predictus Margaritus cum suis; et commisso cum eis prœlio, illos devicit et omnes interfecit.” Il numero di 500 galee è sbagliato evidentemente dal copista, che dovea scrivere 50.
Il compendio delle Crociate per Ahmed-ibn-Alì-el-Harîri, ms. della Bibl. imp. di Parigi, Suppl. Arabe, 1905 attesta che le forze siciliane si trovavano all’assedio d’Acri il 585 (1189) insieme con quelle di Costantinopoli, Roma, Genova, Pisa, Majorca, Rodi, Venezia, Creta, Cipro e Lombardia.
402. Eustazio, De Excidio Thessalon., edizione di Francoforte, pag. 282, e di Bonn, pag. 421.403. Riccardo da S. Germano in principio della Cronica.404. Ibn-Giobair, testo e traduzione francese, nel Journal Asiatique di dicembre 1845 e gennaio 1846 e traduzione italiana nell’ Archivio Storico, Appendice, nº 16.405. Pirro, Sicilia Sacra, pag. 531.406. Constitutiones Regni Siciliæ, lib. I, titolo 45, 68, lib. III, tit. 83.407. Decretales Gregorii, libro V, titolo xvij, cap. 4. “De raptoribus”, pag. 1728 della edizione di Roma, 1632.408. Ibn-Giobair, op. cit.409. La prova di ciò è in tutti i fatti narrati ne’ capitoli di questo libro V.410. Ibn-Giobair, op. cit.411. Si vegga qui appresso a pag. 541, il cenno sopra Ibn-Kalakis.412. Ibn-Giobair, op. cit.413. Ibn-Giobair, op. cit.414. Si vegga il Cap. vj del V libro, pag. 159 di questo volume.415. Ibn-Giobair, op. cit.416. Si vegga la nota 2 della pag. 532.417. Epistola detta Itinerario di Gherardo, inserita nella Chronica Slavorum di Arnoldo di Lübeck, lib. VII, cap. 10 della edizione del 1659. Nella raccolta del Pertz, Scriptores, XXI, 103, e 235, nota 77, il dotto editore Sig. Lappenberg, corregge il nome dell’autore dell’epistola, e pone l’ambasceria nel 1175.418. Lib. V, cap. ix, pag. 262 segg. di questo volume.419. Edizione di Francoforte, pag. 283, e di Bonn, pag. 422.420. Pag. 304 dell’una e 504 dell’altra ediz. Il testo ha uomini τοῦ ρὶζικου. Si vegga questa voce nel dizionario greco del Ducange, secondo il quale la significazione primitiva sarebbe stata “gitto del dado,” indi “sorte, fortuna.” Parmi che il sig. Tafel nel suo Komnenen und Normannen, Stuttgard, 1870, pag. 196, abbia ristretto troppo il significato traducendo Freibeuter e corsari.421. Ἀμερᾶς. Si aggiunga alle citazioni che ho date nel cap. primo del presente libro, pag 351 del volume.422. Pag. 296 dell’una e 472, 473 dell’altra edizione.423. Op. cit., pag. 301 e 492.424. Orazione inaugurale, tra gli opuscoli della citata edizione di Francoforte, pag. 157.425. Op. cit., pag. 285, della prima edizione e 430 dell’altra.426. In questo medesimo capitolo, pag. 508.427. Diplomi del 23 aprile e 6 maggio 1284, citati nella mia Guerra del Vespro Siciliano, cap. X, edizione del 1866, tomo I, pag. 383 in nota.428. Eustazio, op. cit. p. 285 della prima ediz. e 431 dell’altra. Il traduttore latino qui ha reso “zolfo” la voce συρφετὸς, piuttosto, com’io credo, per conghiettura, che per l’autorità di altri esempii. Il vocabolo ch’io uso, corrisponde in Toscana al “pulvis stercoribus permixtus” che danno i lessici greci, insieme con quello di spazzature e di polvere delle strade; la quale in Sicilia si chiama appunto così ( pruvulazzu ).
Debbo avvertire che, consultato su quel vocabolo il dotto professore Comparetti dell’Università di Pisa, ei mi conferma nell’opinione che non s’abbia a intendere zolfo; ma crede che qui significhi spazzature di combustibili, come sarebbero trucioli di legno e simili: quelle materie appunto che si adoperavano nelle mine, secondo gli antichi poliorcetici greci. Tuttavia mi resta il dubbio che, appo i Greci del XII secolo, le spazzature, tecnicamente dette, fossero di qualche sostanza incendiaria, di quelle note nel medio evo sotto il nome generico di fuoco greco. Ed ho voluto accennare a tal supposto, perchè ulteriori ricerche o nuovi testi, possano rischiarare questo punto di erudizione tecnica.
Su l’antico uso delle composizioni incendiarle di salnitro e zolfo, o vogliam dire polvere da sparo imperfetta, si vegga l’opera di MM. Reinaud et Favé, intitolata Du Feu Gregeois, etc., e il cap. ij di questo medesimo nostro libro, pag. 367 del volume, nota 1.
429. Si vegga il lib. V, cap. vj e ix, pag. 173 e 263 di questo volume.
Il divario tra i nomi di Abu-l-Kâsim e Ibn-abi-l-Kâsim non fa alcuna difficoltà, perchè gli Arabi soleano scorciare così fatte appellazioni. Ne abbiamo un esempio vicino nei Beni Khorasân di Tunis, il qual casato correttamente si addomandava de’ Beni-abi-Korasân. Si vegga il capitolo ij di questo libro, pag. 429 del volume, nota 1.
430. Si vegga nel principio di questo stesso capitolo la pag. 500.431. Ibn-Giobair, op. cit.432. “Il figlio della rupe”, ossia l’acqua, simbolo di beneficenza. Si confrontino: Ibn-Khallikân, Biografia degli illustri Musulmani, testo, nella edizione del Wüstenfeld, IX, 67, vita, nº 772, e X, 64, vita nº 815; ed Hagi-Khalfa, Dizionario bibliografico, III, 545, nº 6680. Ho ristampati i testi nella Biblioteca arabo-sicula, pag. 631, 643, 702.433. Si vegga la mia prefazione al Solwân-el-Motâ’ d’Ibn-Zafer, pag. XXIV segg.434. Op. cit., pag. 2, 3.435. Liber Jurium Reipub. Januens., tomo I, pag. 463, n. CCCCXXXVII, nei Monumenta hist. patriæ.
Il testo ha domum ed io traduco “palazzo” perchè la “casa” donata in Messina per lo stesso diploma, era stata quella di Margarito, cioè il palagio dove soggiornò Riccardo Cuor di Leone il 1190-91; la casa donata in Siracusa era quella di Gualtiero di Modica già grande ammiraglio; il fabbricato donato in Napoli, era il fondaco regio in porta Morizini, etc. Questo importante documento uscì alla luce la prima volta nella Hist. Dipl. Friderici II, tomo I, 66.
436. Si vegga la citazione a pag. 173, del presente volume, nota. 1.437. Presso Caruso, Bibl. sic., pag. 404, 405. Questa e le altre edizioni mettono a capo della Storia la citata epistola, la quale evidentemente fu scritta molto tempo dopo quella. E si legge dopo la Storia nel bel ms. della Bibl. imp. di Parigi, S. Victor, nº 164.438. L’autore non solamente dice e replica ch’egli scrivea “quando le tepid’aure” sottentravano alla neve ed al gelo, ec. Egli accenna anco alla occupazione della Puglia, di che gli duole un tantino, ma la sopporta purchè i Tedeschi non passino nell’isola. E continua: “Atque utinam Constantia cum rege Teuthonico, Siciliæ fines ingressa, perseverandi constantiam non haberet, nec ei detur copia Messanensium agros aut Aetnæi montis confinia transeundi!” Eccoci dunque al giugno 1190; poichè egli è noto che Arrigo mandò l’Arcivescovo di Magonza allo scorcio d’aprile e che il maresciallo imperiale di Toscana passò i confini del regno di Puglia in maggio. Nè Costanza, nè Arrigo erano con quell’esercito; ma si capisce che potea correrne la nuova o potea l’autore supporre la presenza dei due principi o anche fingerla tra le sue favorite ipotiposi; se pur non lo strascinò il bisticcio che gli veniva tra’ piedi col nome di Costanza.
Nè si dica che l’autore vivendo in qualche monastero di Francia o d’Inghilterra, dovesse sapere le notizie di Sicilia da una stagione all’altra. Nel medio evo i monasteri erano appunto gli emporii del mondo, e i frati ne andavano in traccia come i giornalisti d’oggidì.
439. Si vegga il cap. iv di questo libro, pag. 485 segg. del volume.440. “Panormi oritur inter Christianos et Sarracenos dissentio. Sarraceni, multa suorum strage facta, exeunt et inhabitant montana.” Così l’Anonimo cassinese, anno 1189 presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 514. Similmente Riccardo da S. Germano scrisse.... “quinque Sarracenorum regulos, qui ob metum Christianorum ad montana confugerant.” Pietro d’Eboli, dopo aver chiamata Palermo città trilingue, dice de’ tumulti che scoppiarono: Scismatis exoritur semen in urbe Ducum:
In sua versa manus præcordia, sanguinis hausit
Urbs tantum, quantum nemo referre potest.
441. Si vegga il cap. iv di questo libro, pag. 488 del volume. Credo che M r De Cherrier sbagli supponendo che i Musulmani minacciarono Catania, Lutte des papes, etc., lib. I, cap. V, pag. 216 della 2ª edizione. Il fatto di Catania fu ben diverso e seguì nel 1194, come si vedrà più innanzi.442. Gesta Regis Henrici, etc., edizione Stubbs, Londra, 1867, vol. II, pag. 141. Cotesta cronica, attribuita a Benedetto abate di Peterborough che la fece copiare, fu scritta, come pensano gli eruditi, a corte di Riccardo Cuor di Leone; e però ha autorità, non solamente di contemporanea, ma ancora di conterranea pei fatti siciliani del 1190, quando Riccardo passò parecchi mesi in Sicilia. Leggonsi a un dipresso le medesime parole in Ruggiero de Hoveden (presso Caruso Bibl. sicula, pag. 965) il quale inserì quella cronica nella sua, con parafrasi, mutazioni ed aggiunte, e, sendo contemporaneo anch’egli, rafforza la testimonianza col fatto stesso del plagio.443. Anno 1190, presso Caruso, op. cit., pag. 547.444. Gesta Regis Henrici e Ruggiero de Hoveden ll. cc.445. Si confrontino Riccardo da San Germano e le Gesta II. ec.446. Presso Pirro, Sicilia sacra, pag. 1132, il quale afferma aver copiato l’autentico diploma. Questo è citato in un altro della imperatrice Costanza dato d’ottobre 1198 o 1199, nella Historia Diplomatica Friderici Secundi, I, 12.447. Si vegga il gran lavoro di M r De Cherrier, Histoire de la lutte des papes et des empereurs de la Maison de Souabe, lib. I, cap. 5 segg.; la monografia del dottor Teodoro Toeche, De Henrico VI. Romanorum imperatore. Normannorum regno sibi vindicante, Berlino 1860; e le critiche di questo dotto opuscolo fatte dal Sig. Adolfo Cohn nel Forschungen zur deutsche Geschichte, tomo I, pag. 437 segg. e dal Sig. Otto Hartwig, nel Selzer’s Monats’blätter di Marzo 1862.
Quanto agli scrittori contemporanei, oltre le antiche edizioni, si possono ora confrontare quelle del Pertz (fino al tomo XXII) e le recenti edizioni delle Gesta Regis Henrici e dello Hoveden (tomo I) pubblicate a Londra del professore Stubbs. La raccolta del Pertz, inoltre, schiude alcune sorgenti che furono ignote ai compilatori della storia di Sicilia.
448. Non è superfluo avvertire che il prof. Stubbs, dando nella edizione delle Gesta, ec., II, 133, il capitolo sulle negoziazioni di Riccardo Cuor di Leone con Tancredi, ha ben corretto salmas la voce salines e spiegata tari nel glossario, (II, 257) la voce terrins, ch’era stata variamente alterata e perfino ridotta a terris; le quali voci il Caruso ( Bibl. sic., pag. 960) avea lasciate tal quali, ancorchè la prima indicasse evidentemente una misura di frumento, e la seconda non potesse denotare altro che piccole monete, poichè 1,000,000 di quelle tornava, secondo lo stesso luogo del cronista, a 20,000 once d’oro.449. Annales Januenses, presso Muratori, Rer. italic., VI, 370.450. Ottone di San Biagio, presso Pertz, Script., XX, 325 e presso Caruso, Bibl. sic., pag. 935.
Io non veggo perchè il Toeche nel citato lavoro, sì pregevole per diligenza e critica, metta in forse l’autorità della Continuazione Sanblasiana, ch’è pure molto particolareggiata in questi eventi, nè ripugna alle testimonianze degli altri contemporanei. Il signor Cohn, al contrario, ha mostrato degno di fede quello scrittore contemporaneo, op. cit., pag. 447, 450. Quanto ad Ottobono, autore degli Annali genovesi di questo tempo, il dotto Toeche dubita della esattezza del suo racconto, perchè gli pare inverosimile che la Regina di Sicilia avesse raccolto un esercito e che in questo militassero dei Musulmani. Il primo fatto, attestato dal cronista genovese al par che dal tedesco, è naturalissimo; nè si vede ragione di negarlo. Il secondo, se non al Burigny citato dal signor Toeche, si creda alle autorità che io ho allegate in varii luoghi del presente libro. Che se a lui non parve probabile che i Musulmani avessero prese le armi a favor della dinastia cadente, si potrebbe domandare all’incontro per qual ragione gli stanziali, o anco la milizia, di quella classe dei sudditi avrebbero disubbidito al comando di combattere gli stranieri. Tanto debbo far osservare sul giudizio del Toeche, pag. 54, nota 148. Erroneo parmi quello del signor Hartwig, (op. cit. pag. 189) il quale, convinto dalla magnanimità di Arrigo VI e della scelleratezza dei Siciliani, trasporta di peso al 1197 la narrazione di Ottone di San Biagio intorno questo combattimento di Catania. Per vero il buon cronista avea messo il fatto a suo luogo, innanzi la resa di Palermo; nè può supporsi anacronismo, quand’egli, dopo lo imprigionamento dei grandi che aveano combattuto, accenna alla sorte incontrata finalmente da loro, la quale noi abbiamo buone ragioni di protrarre infino al 1196 o 1197.
451. Ho avuta alle mani, parecchi anni addietro la edizione di Engel, Bâle, 1744, ma mentre riscrivo questo capitolo non posso citare se non che la ristampa del signor Giuseppe del Re ( Cronisti e Scrittori sincroni napoletani, Napoli, 1845, in-8 grande, pag. 401, segg.) ove è la traduzione italiana del signor Emmanuele Rocco e le note di entrambi. Debbo avvertire che l’Engel non pubblicò tutte le figure del prezioso ms. di Bâle e che perciò si può dir manchi una parte dell’opera, poichè le figure di quel codice rischiarano talvolta i fatti e danno de’ nomi. Si vegga anco Cherrier, Lutte des papes, etc., lib. II, ij, pag. 232 della 2ª ediz. et passim.452. Ottone di San Biagio.453. Pietro d’Eboli.454. Pietro d’Eboli.455. Ottone di San Biagio. “Trinacriis pars, fertur equis, etc.”, dice Pietro d’Eboli descrivendo l’entrata dell’imperatrice Costanza in Salerno, il 1191.456. Ottone di San Biagio.457. In questo passo di Pietro d’Eboli, si legge tra le altre cose: Haec (apodixa) quantum Calaber, seu quantum debeat ater
Apulus, aut Siculus debeat orbis, habet. Cotesti versi ricordarono ai due eruditi editori napoletani, quell’altro notissimo della spada di re Ruggiero, onde l’uno e l’altro lessero Afer in luogo di ater. Di certo il poeta pugliese non avea ragione di chiamare negri i suoi compatriotti; e il credito acceso nella Tesoreria di Sicilia contro l’Affrica, si spiega benissimo col tributo di Tunis. Fors’anco si può riferire a quello di Malta e di Pantellaria, popolate allora di Musulmani, come si vede nel capitolo precedente pag. 536 di questo volume. Ho detto positivamente del tributo di Tunis, perchè l’autore degli Annales Colonienses Maximi, (presso Pertz, Scriptores, XVII, 803) benissimo informato de’ casi di questa impresa di Sicilia, scrive sotto l’anno 1195: “Marroch rex Africæ 25 summarios, auro et lapide precioso, multisque donis oneratis imperatori mittit.” Si è già detto che Tunis ubbidiva in questo tempo alla dinastia degli Almohadi, residente in Marocco, che il cronista qui prende per nome proprio d’uomo.
458. Ottone di San Biagio alla divisione della preda accenna anco Pietro d’Eboli.459. Si vegga il cap. iij di questo libro, pag. 448 del volume. Chi voglia giudicare la quantità e qualità della preda, convien che legga, da capo a fondo, l’opera dell’abate Bock, e guardi non solamente le figure cromolitografiche, ma ancora le incisioni in legno, intercalate nel testo dalla pag. 129 in giù.
L’autore degli Annales Marbacenses (presso Pertz, Scriptores, XVII, pag. 166) dicendo, come tutti gli altri cronisti tedeschi, dell’oro e dell’argento riportato dalla Sicilia il 1195, aggiunge particolarmente “cum multis pannis pretiosis de serico.”
460. Annales Januenses, presso Muratori, Rer. italic., VI, 370, dove si legge Gruloardus. Nell’edizione del Pertz, Mon Germ., XVIII, 109, è preferita la lezione Gilolo Ardus, la quale, come ognun vede, non differisce da Gennolardus che per la permutazione dell’ n in l, e per lo scambio, facile al paro, dell’ i in e.461. Anonymi Fuxensis Gesta Innoc. III, cap. xxvj, nella edizione di Baluzio, tomo I, pag. 40. Il nome è sbagliato nella edizione di Caruso, Bibl. sic., pag. 645. La descrizione della battaglia, che ci occorrerà nel capitolo seguente, mostra bene il sito del campo, nel borgo ch’oggi si chiama Mezzo-Morreale, fuor la porta “Nuova.”462. Anonymi Chronicon Siculum, cap. xxj, presso Gregorio. Rerum Aragonens., II, 129. Fecit quidem dictus imperator Henricus comburi in plano Genoardi, quod est extra mœnia palatii Panormi juxta jardinum Cubbæ versus Aynisindi, omnes episcopos qui fuerant in coronatione regis Trankedi. La favola di tutti i vescovi bruciati nascea certo da non falsa tradizione di supplizî dati in quel luogo per comando di Arrigo. In ogni modo il sito non è dubbio e risponde a quello ov’è in oggi l’Albergo de’ poveri. Dietro questo a N. O. scaturisce la fonte Ainsindi, in oggi detta Dannisinni.463. Gennet-ed-dûnia, nell’ultimo verso della iscrizione ch’io ho pubblicata nella Rivista Sicula di febbraio 1870. Il divario è come se in italiano si dicesse “il paradiso del Mondo” invece di “il paradiso della Terra.”464. Ruggiero De Hoveden, ediz. di Francfort, 1601, pag. 746.465. “Insuper insulas maris vectigales faciens, imperium admodum dilatavit, etc.” Così Ottone di San Biagio, cap. xliij presso Muratori, Rer. italic., VI, 901.466. Carmen. Si vegga qui sopra la nota 1 della pag. 553.467. Si vegga il citato opuscolo del Dottor Toeche, pag. 61, 62, nota 164, 166, 168.468. Hartwig, op. cit., pag. 188, 189.469. Cioè, Ottone di San Biagio e Arnoldo di Lübeck. Non dò i nomi degli altri, perchè li ha citati il Toeche, pag. 59, nota 160. Ai quali è da aggiugnere:
Cont. Weingart., Perz, XXI, 474, che accenna alla congiura del 1196, con un “si dice:”
Annales Marbacenses, Pertz, XVII, 166, anno 1195, dove, senza far menzione di congiura, si dice imprigionata la vedova di Tancredi, il di lui figliuolo e tre figliuole, l’arcivescovo di Salerno e dieci magnati, tra i quali Margarito.
Annales Colonienses Maximi, Pertz, XVII, 803, dove non è supposta congiura nel 1195, ma sì bene nel 1197.
Annales Stadenses, Pertz, XVI, 352, dove si fa un cenno, sotto l’anno 1195, della cattura e accecamento del solo Margarito, il quale voleva uccider l’imperatore a tradigione.
Annales Piacentini Guelphi, Pertz, XVIII, 419, anno 1194.
Chronologia di Roberto di Auxerre, nel Recueil des historiens des Gaules, etc., tomo XVIII, 261, 262. Questo scrittore francese contemporaneo, nota nel 1193, che Arrigo, ritornando in Germania, riportò seco la moglie e il figliuolo di Tancredi e alcuni ottimati che aveano cospirato contro di lui; e nel 1196 fa parola di un’altra congiura, dalla quale Arrigo scampò appena e poi “conspirationis auctores horrendo discerpit supplicio.”
470. Radulphi De Diceto, Imagines historiarum, negli Hist. Angl. Script., Londra, 1632, pag. 678. La breve epistola è data il 20 gennaio (1195) “apud S. Marcum,” com’e’ pare, quel della provincia di Messina.471. Carmen, libro II. “At Deus impatiens, etc.472. Anonimo Cassinese, anno 1194, presso Muratori, Rer. italic., V, 143. Si confronti con le parole d’un altro codice nello stesso volume, pag. 73, e presso Caruso, Bibl. sic., pag. 517. Parecchi anni appresso, Corrado di Liechtenaw vide a Roma gli accecati.473. Chronicon Fossenovæ, presso Caruso, op. cit., pag. 74.474. Presso Caruso, op. cit., pag. 636.475. Presso Caruso, op. cit., pag. 552, sotto l’anno 1194, che, secondo il calendario seguito da Riccardo, finiva in marzo 1195.476. “Se et omnia sua, potestati ejus contradiderunt.”477. Presso Muratori, Rer. ital., VI, 896, e Pertz, XX, 325, 326.
Anche il dottor Toeche, sì imparziale in altri luoghi, vuol negare, pag. 60, cotesti supplizii e indebolire l’autorità di Ottone di San Biagio, difesa, com’abbiam detto, dal Cohn.
478. Corrado di Liechtenaw, Chronicon, ediz. cit., pag. 238, anno 1198, nota le origini di cotesti racconti e i dubbii che ispiravano. Così anco Gotfredo monaco, nella raccolta del Freher, tomo I, pag. 361; e così altri cronisti tedeschi.479. Arnoldo abate di Lübeck, lib. V, cap. xxv, xxvj, secondo l’edizione di Pertz, XXI, 203.480. Arnoldo, op. cit., pag. 201.
Si confrontino Annales Stadenses, Pertz, XVI, 352, anno 1196; Annales Marbacenses, Pertz, XVII, 167 segg., anno 1197; Corrado di Liechtenaw, ediz. cit., pag. 232, anno 1198; Annales Colonienses Maximi, Pertz, XVII, 804, anno 1197, dove anche questa congiura è riferita con un “conspirasse dicebantur” e la connivenza dell’imperatrice con un “rumor.... varia seminat” e con un “vulgabatur.”
L’ira di Arrigo contro la moglie è attestata da Riccardo da San Germano, il quale, narrando l’ultima andata dell’imperatore in Sicilia, (cioè a Messina) continua “ubi ad se duci imperatricem iubet. Qua in Panormi, palatio constituta, quidam Guilielmus, etc.,” presso Caruso, Bibl. sic., pag. 553. Or il comando di menargli l’imperatrice, somiglia molto ad una nobile cattura. Le reticenze stesse dei contemporanei tedeschi, fan supporre assai gravi i fatti politici che si apponeano alla Costanza; ma erano ciarle de’ cortigiani e de’ condottieri, com’abbiam detto, e i cronisti naturalmente le aggravarono, scrivendo dopo la morte d’Arrigo, quando Costanza avea cacciati tutti i Tedeschi dal Regno.
481. Si vegga l’edizione del Baluzio, lib. II, n. 221 e si confrontino le epistole, lib. I, n. 26, 557, ec.482. Annales Stadenses, presso Pertz, XVI, 352; Arnoldo abate di Lübeck, Pertz, XXI, 201; Niceta Choniate, Annales, Parigi, 1647, pag. 310. Annales Marbacenses, l. c. al dir de’ quali Arrigo fece eseguire il supplizio in presenza della moglie. Si riscontri inoltre il passo di Roberto di Auxerre, citato dinanzi, pag. 558 nota 1.483. Riccardo da San Germano, presso Caruso, Bibl. sic., pag. 553. Secondo lui, Arrigo venuto in Sicilia (di certo a Messina) comanda che menino a lui l’imperatrice. Guglielmo Monaco s’era ribellato. Andando Arrigo ad assediarlo, ammalatosi, partì (dall’assedio) e morì.
Si fa menzione d’un Guglielmo Monaco nel diploma di giugno 1198, per lo quale Costanza concedette alla Chiesa di Palermo la casa del fu Guglielmo Orfanino, castellano di Castello a mare di Palermo, venduta un tempo al Monaco dall’Arcivescovo di Palermo. Indi pare che l’Orfanino avesse acquistato quello stabile dal Monaco: ma non v’ha indizio che faccia supporre l’identità della persona.
484. Annales Marbacenses, presso Pertz, XVII, 167. Secondo questi, Arrigo partì di Germania per la Puglia il 24 giugno 1196. Nel 1197 si trovò in Sicilia, dove la moglie malcontenta avea suscitate per tutte le città e castella congiure contro di lui. Delle quali erano consapevoli i Toscani, i Romani e diceasi il papa stesso (Celestino nonagenario e timidissimo). I congiurati voleano uccidere l’imperatore in una selva, mentre egli andasse a caccia; ed aveano raccolti 30,000 uomini! Avvertito, ei si chiuse in Messina e mandò Marqualdo de Anweiler con una mano di pretoriani e di Crociati; i quali uccidono o pigliano tutti i congiurati. Il personaggio che i congiurati voleano far re, è punito in presenza della imperatrice, inchiodatagli in capo una corona e gli altri affogati in mare, ec. Una notte freddissima poi (6 agosto) Arrigo, trovandosi in un luogo a due giornate da Messina, fu preso dalla dissenteria. Verso la festa di San Michele, si sentì meglio e volle andare in Palermo; ed era già partita la sua famiglia per mare a quella volta, quand’egli peggiorò e venne a morte. Del qual racconto minuto e partigiano si vede chiaramente l’origine. Erano i cortigiani e i condottieri che tornando in Germania dopo l’esaltazione di Costanza e d’Innocenzo III, narravano le gesta loro e del padrone, e i monaci le scriveano. E non è difficile discernervi il vero dal falso.
Roberto d’Auxerre l. c. fa supporre molto gravi i casi della tentata rivoluzione, dicendo l’imperatore “per fugam elapsus.”
Gli Annales Colonienses maximi, Pertz, XVII, 804, 805, hanno meno particolari e meno fiducia in que’ racconti. E dicono Arrigo sepolto a Napoli.
Secondo la Cronica di Sessa, ei sarebbe morto a Randazzo, che ben s’accorderebbe con gli Annali di Marbach; poichè Randazzo è su la via da Messina a Palermo.
485. Il dottor Toeche non vuol credere a cotesta violazione di sepoltura, perchè la racconta De Hoveden, (ediz. di Francforte, 1601, pag. 746), inglese e però nemico di Arrigo VI. Ma la s’accorda benissimo con gli altri atti di avarizia, rabbia e crudeltà, che non si possono revocare in dubbio.
Io ho abbozzati questi ultimi movimenti nel modo che mi pare risulti da’ due racconti, non incompatibili, di Riccardo da San Germano e degli Annali di Marbach. Così mi discosto da M r De Cherrier, op. cit., lib II, cap. 5, pag. 323 segg., e molto più dal signor Hartwig il quale segue il racconto degli Annali di Marbach, senza citarli, nè mettere in forse nessun “si dice” del cronista. Anzi il sig. Hartwig suppone una vera congiura del papa coi baroni normanni, com’ei li chiama ancora, di Sicilia. Ei fa notare che Arrigo andò in furore vedendo tanti tradimenti: ed è la sola scusa data per quelle crudeltà, le quali d’altronde il signor Hartwig non nega, nè biasima.
486. Questa data precisa non si ritrova se non che nell’Anonimo, pubblicato dal Bréholles, Hist. dipl. Friderici Secundi, I, 892.487. Oltre gli attestati de’ cronisti contemporanei, si vegga la bolla del 20 ottobre 1198 per la quale Innocenzo, contro il notissimo privilegio di Urbano II, mandò in Sicilia un legato con pien potere, presso Breholles, op. cit., I, 14. Avverto che io citerò sempre l’opera del Breholles, anche per quelle epistole d’Innocenzo III che sono state ristampate nella sua raccolta sopra le edizioni del Baluzio e del Brequigny.488. L’Anonimo pubblicato nell’op. cit., I, 892, dice che Matteo arcivescovo di Capua, morì poco appresso l’imperatrice. E il documento citato dal De Meo, Annali di Napoli, IX, 143, prova ch’ei non era più in vita il 10 giugno 1201.489. Si leggano attentamente i fatti nelle Gesta Innocentii III, presso Caruso, Bibl. sic., p. 642 e segg., e si badi alle date. Fu ne’ principii del 1200 che il papa propose ai ministri reggenti di concedere que’ feudi a Brienne, facendo gran ressa a scolparsi del sospetto ch’ei favorisse un pretendente al trono del suo proprio pupillo. Il primo ministro Gualtiero de Palearia, ch’era stato fin allora di accordo con Innocenzo, risaputa quella proposta in Messina, die’ in un gran furore, sparlò pubblicamente del papa, e si cominciò a guardare da’ suoi consigli e dagli uomini suoi. Questa è la chiave di tutta la storia dell’infanzia di Federigo; nel qual tempo il papa a volta a volta scomunicò ed accarezzò il cancelliere, e conchiuse sgridando Federigo adulto, perchè l’aveva allontanato dalla corte. Nelle vicende di questa lite accadde un tratto che abbandonato il cancelliere da’ suoi partigiani, carico di scomuniche e ridotto allo stremo, il papa gli profferse di ribenedirlo, sol ch’ei si rappacificasse con Brienne: al che egli rispose nol farebbe, se pure S. Pietro scendesse a bella posta dal cielo, inviato da Gesù Cristo per comandarglielo.
Sì gravi parole in bocca d’un vescovo, sembrano dettate da lealtà verso il suo principe, anzi che dalla rabbia dell’ambizione.
490. Giuseppe La Farina, mancato immaturamente alla patria e alle lettere, dimostrò questo fatto contro Hurler, negli Studii sul secolo XIII, Firenze, 1842, p. 786. Riscontrando gli avvenimenti di tutto il periodo della reggenza, dei quali io non posso far che un cenno, si vedrà che nel corso di quegli otto anni, gli uomini del papa non ebbero adito appo Federigo che per cinque o sei mesi e che non comandarono mai nella reggia e molto meno nel paese. D’altronde il medesimo Innocenzo confessa questo fatto tanto nelle epistole con che ei si lagna del cancelliere (1200-1202), quanto in quella del 29 gennaio 1207 per la quale ei si rallegra col pupillo della sua liberazione e lo conforta a seguire i consigli di “coloro che la madre avea deputati a educarlo e de’ succeduti in loco eorum qui ex ipsis decesserant,” presso Breholles, op. cit, I, 124. Or in quel tempo stava allato al giovanetto il cancelliere Gualtiero, riconciliato col papa, il quale nel 1210 scrivendo a Federigo, come abbiam accennato nella nota precedente, affinchè lo reintregrasse nell’ufizio dal quale avevalo rimosso, dice chiaramente che questa era una ragazzata e un atto d’ingratitudine contro colui che lo avea fin allora custodito e nutrito ed avea durato molte fatiche e sollecitudini e strette di danari per difendere lui e il reame. Presso Breholles, op. cit., I, 170. Dunque è stata esagerata stranamente la parte ch’ebbero i cardinali di Sant’Adriano e di San Teodoro nella educazione di Federigo. Si veggano anco le epistole del papa date in novembre 1200 e luglio 1201, presso Breholles, op. cit., I, 60, 82.491. Questa donazione, che va riferita al 1198, è ricordata in un atto di aprile 1209, per lo quale il cancelliere Gualtiero de Palearia ridonava il giardino al Capitolo della cattedrale. Presso Amato, De principe templo panormitano, p. 127.492. Diploma di settembre 1200, pubblicato dal signor Mortillaro nel Catalogo del.... Tabulario della cattedrale di Palermo, pag. 49, ristampato dal Breholles, op. cit., I, 54.
È da avvertire che l’altra metà del podere apparteneva attualmente ad un Ibrahim, figliuolo del notaio.
493. L’imperatore o la imperatrice donò alla chiesa di Palermo Rakal Stephani nel territorio di Vicari e tutto il tenimento di Platani e di Captedi; la quale concessione è citata nel diploma del 1211, che la confermò, presso Breholles, op. cit., I, 194. Torniamo dunque al 1195-97, ovvero al 1198 ed ai territorii dove arse la ribellione musulmana.
Per un altro diploma di aprile 1200, citato dal Pirro, Sicilia Sacra, p. 703, la reggenza concedette al vescovo di Girgenti i casali di Minsciar e Minzeclo; onde non ci discostiamo dal tempo, nè dalla regione.
494. La commissione di bandire la Crociata in Sicilia fu data al vescovo di Siracusa e ad un abate di Sambucino dell’ordine de’ Cisterciensi, quello stesso cioè del ricco monastero di Morreale che possedea tante terre e persone di Musulmani. Si veggano le epistole d’Innocenzo nella edizione di Baluzio, lib. I, n. 302, 343, 358, 508: dall’ultima delle quali, data il 5 gennaio 1199, si ritrae che in Sicilia alcuni laici avean presa la croce, altri avean profferto contribuzioni di vittuaglie o arnesi, ma che gli arcivescovi, i vescovi e gli altri ecclesiastici non voleano dar nulla. Indi i due commissarii proposero e il papa assentì, di prendere per la Crociata tutte le entrate ecclesiastiche, fuorchè le somme strettamente bisognevoli al mantenimento ed al culto; e di gittar anco la mano su le entrate delle sedi vacanti e sul danaro de’ monaci che vivessero fuor dal chiostro.
Ci possiamo immaginare lo scompiglio che portò questo provvedimento in Sicilia, dove tanta parte della proprietà fondiaria, forse un terzo o più, era posseduta dalle Chiese. I titolari necessariamente mugneano i vassalli e i villani. E nelle cento miglia quadrate coltivate da’ Musulmani per conto del monastero di Morreale, possiam supporre venuto proprio il finimondo. Que’ “monaci che viveano fuor del chiostro” eran forse i fattori del monastero: e ch’e’ prendessero tutto per sè e parteggiassero contro l’arcivescovo e contro il papa, lo sappiamo da una terribile epistola d’Innocenzo, data il 17 giugno 1203 che citeremo più innanzi.
495. Epistola n. 509, del libro I, nell’edizione di Baluzio.496. La fuga de’ villani e il guasto delle ville si confermano coi diplomi seguenti:
1201. Federigo, nel mese di aprile, concede al monastero di donne, detto di S. Michele in Mazara, le terre del distrutto casale Ramella, nel territorio di Salemi. E ciò per avere sofferti molti danni, intervasionis tempore, e avere perdute tutte le entrate. Ms. della Bibl. comunale di Palermo, Q. q. r. 171.
1202. Nel territorio di Carini, casale di Zarchante, una Sorbina possedea già sei villani per sentenze del giustiziere e del cadì dei Saraceni; ed erano andati via come tutti gli altri villani, Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vij, nota 7.
Verso lo stesso tempo si erano liberati i villani della chiesa di Cefalù, ibid.
1205 aprile. Federigo conferma agli Spedalieri le concessioni precedenti, alle quali egli aggiugne due poderetti in Palermo e tutti i villani del casale di Polizzi, ubicumque sunt. Presso Breholles, op. cit., I, 113.
497. Il luogo dello sbarco, riferito dal solo Anonimo che ha pubblicato il Breholles, op. cit., I, 893, si adatta benissimo a tutti gli altri ragguagli che abbiamo di questa impresa.
Oltrechè una schiera di Pisani combattè per Marcualdo nella battaglia di Morreale (1200), essi continuarono a dargli aiuti. Si vegga l’epistola 4 del libro V, data di Laterano il 4 marzo 1202, per la quale Innocenzo sollecita il Potestà e il Comune di Pisa a richiamare dalla Sicilia i cittadini loro, partigiani di Marcualdo.
498. Presso Breholles, op. cit., I, 34.499. Op. cit., I, 37.500. Si vegga il capitolo precedente, pag. 554, del volume.501. Il Caruso, Bibl. sicula, 647, ha “Magadeo.” Io seguo più volentieri la lezione del Breholles, op. cit., I, 48, la quale rappresenta il noto vocabolo Mogêhid, ch’è talvolta nome proprio e talvolta soprannome. Si vegga il libro V, cap. 1, pag. 4 segg. di questo volume. Un Ibn-Mogêhid possedeva una casa in Palermo, secondo il diploma arabico del 1190, del quale il Gregorio ha dato uno squarcio. De supputandis, etc. pag. 40.502. Questa battaglia è raccontata da Anselmo arcivescovo di Napoli testimonio oculare, nella epistola ch’ei scrisse a Innocenzo, com’e’ pare, il giorno appresso; la quale si legge in tutte le edizioni delle Gesta Innocentii III, cap. xxvj. Fa cenno della vittoria, l’Anonimo pubblicato dal Breholles, op. cit., I, 893 e Riccardo di San Germano. L’occupazione di Morreale pria dell’assedio di Palermo è attestata, inoltre, da una epistola d’Innocenzo, libro III, n. 23, edizione di Bréquigny, II, 27 e Raynaldi Annales, 1200, § 3, 8.
Anselmo, scrivendo al papa, vuol dare tutto il merito della giornata a Jacopo congiunto di quello e maresciallo di Santa Chiesa, e lascia addietro quant’ei può il conte Gentile, fratello del cancelliere, ch’era sì poco gradito al papa fin da que’ primi tempi. Ma la verità trapela nell’epistola stessa, là dove si dice che fin dal principio della battaglia. Gentile e Malgerio alla testa de’ fanti, “potenter ascenderunt, transcenderunt et obtinuerunt montana, et omnes fere quot ibi inventi sunt in ore gladii posuerunt.” Or se Gentile fin dal mattino avea rotta sì fieramente la sinistra di Marcualdo, egli ebbe, per lo meno, tanto merito nella vittoria, quanto il maresciallo “qui in extremo locatus, castellum tenebat, immo ipse castellum erat exercitus.” Anzi l’è verosimile che, verso le tre, quando fu preso il campo nemico, i fanti scendendo da Morreale sul fianco sinistro o alle spalle del nemico, cooperassero efficacemente alla vittoria. Aggiungasi che l’Anonimo or citato dice rotto Marcualdo in Morreale; onde parrebbe che lì fossero state decise le sorti della battaglia.
Il castello del quale fa menzione Anselmo nel passo or or trascritto, non può esser altro che la Cuba, se pur non si voglia supporre un altro castello o palagio vicino, del quale non fosse rimasa vestigia nè memoria. Marcualdo conduceva un grosso di cavalli ed appoggiavasi co’ fanti a Morreale. Quale fianco appoggiava egli dunque? Il sinistro di certo; perchè delle due valli che sboccano nella pianura d’ambo i lati di Morreale, quella dell’Oreto è piana ed aperta; quella di Boccadifalco stretta e tortuosa; l’una è continuazione delle falde di Morreale, l’altra è disgiunta da quel luogo per gli aspri gioghi del Caputo. Però mi sembra non resti alcun dubbio sul campo della battaglia, nè su la posizione de’ due eserciti.
Il testo di Riccardo di San Germano, del quale d’altronde non si ricava alcun particolare, è evidentemente guasto in questo luogo, come notò il Muratori negli Annali. Si vegga nel Caruso, op. cit., p. 556, dal quale non si allontana qui l’ottima e recente edizione del Pertz.
503. Questo fatto è riferito dal solo Anonimo, presso Breholles, op. cit., I, 893.504. L’Anonimo, op. cit., I, 893, il quale dice di Marcualdo vinto due volte: “Et nihilominus omnes Siculi a sua fidelitate non discedebant.”505. Un diploma, presso Breholles, op. cit., I, 53, prova che Federigo era di nuovo in Palermo nel mese di agosto.506. Si veggano presso Breholles, op. cit., i diplomi a favor di città o Chiese di Sicilia negli anni 1200, 1201, 1207, 1209, 1210, 1211, vol. I, 45 segg., 85 segg., 128, 913, 180, 182 segg. e specialmente a p. 194.507. Questi due importanti fatti sono narrati nella continuazione di Guglielmo di Tiro, lib. XXIV, cap. 59, 60, presso Martene e Durand, Amplissima collectio, V, 676, 677.508. Nelle Gesta Innocentii III, presso Caruso, op. cit., pag. 649 e presso Bréholles, op. cit., I, 57, è una epistola senza data, indirizzata, com’e’ pare, ai reggenti, da riferirsi di certo a’ primi tempi dopo la sconfitta di Marcualdo, nella quale il papa replica il divieto di far pace con costui; ma permette di perdonare a’ Saraceni, quantevolte dessero sicurtà. Innocenzo conchiudea con la solita minaccia di mandare contro essi e gli altri traditori, i principi cristiani già bell’e armati per la Crociata. E nel 1202, Innocenzo, scrivendo all’arcivescovo eletto di Palermo per raccomandargli Brienne, ch’egli allora volea far passare in Sicilia, significa al suo fidato di avere indirizzate a’ Saraceni le lettere ch’ei gli aveva chieste. Presso Bréquigny, Diplomata, etc. tomo II, p. 98, ep. 39 del libro V.509. Epistola del 17 giugno 1203, presso Bréholles, op. cit., I, 102. Tra le altre cose, il papa rinfaccia a que’ monaci di avere propalato un segreto ch’essi dovean celare gelosamente; ond’erano nati tanti mali in Palermo e per tutta la Sicilia. Li accusa poi di appropriazione delle entrate, violazione di sepolture, sevizie agli uomini del loro arcivescovo, assalto contro quel prelato e corruzione del Capparrone; al quale avean dato danaro, ed alla sua moglie de’ grandi nappi d’argento ed una dalmatica de hulla (è voce arabica) che valea più di mille tarì.
Si noti bene che la epistola del settembre 1206, è indirizzata, tra gli altri, ai capi musulmani di Giato, della quale fortezza il papa avea chiamati occupatori, tre anni innanzi, i monaci di Morreale. Or egli è evidente che i Musulmani non avean data di certo a que’ frati la principale fortezza loro; onde la così detta occupazione non poteva essere che il soggiorno in qualche fattoria sotto la protezione del Capparrone, il quale col titolo di capitano generale teneva Palermo e rappresentava la legittima autorità.
Egli è probabile che, dopo l’accordo del cancelliere con Marcualdo, fosse ritornato qualche musulmano in Palermo. Noi veggiamo in un diploma del 1202, presso Mongitore Sacrae Domus mansionis.... Panormi Monumenta historica, cap. IV, la soscrizione d’un ’Amineddal, olim magister regii stabuli.” È manifestamente il titolo onorifico di Amîn-ed-daula (il fidato della dinastia) dato a qualche gaito de’ primarii della corte. Del resto non si può supporre allontanati assolutamente di Palermo tutti i Musulmani, convertiti o no; nè è inverosimile che quel vecchio servitore di corte, come parecchi altri non sospetti o dimenticati, fossero anco rimasi in città nel principio del 1200, quando la popolazione cristiana doveva essere più concitata contro gli altri Musulmani.
510. Epistola di settembre 1206, presso Bréholles, op. cit., I, 148.511. Presso Caruso, op. cit., p. 658. Si vegga anco un diploma di Federigo, dato di luglio 1208, per lo quale fu approvato un accordo tra i monaci di Morreale e l’arcivescovo, partigiani i primi di Diopoldo, e l’altro di papa Innocenzo. Presso Bréholles, op. cit., I, 135.512. Diploma d’ottobre 1211, presso Bréholles, op. cit., pag. 191 segg. Conferma questo mio supposto il diploma del 15 gennaio del medesimo anno, citato nella stessa opera p. 184, per lo quale Federigo die’ all’arcivescovo di Morreale autorità di prendere i beni e le persone dei Saraceni che non adempissero gli obblighi loro verso quella Chiesa.513. Quest’ultimo fatto si legge negli Annales Colon. Maximi, presso Pertz, XVII, 825.
È da avvertire qui uno sbaglio nel quale cadde il Tychsen e dietro lui il Gregorio. Aperto nel 1781 il sepolcro di Federigo in Palermo, si trovò ricamata nelle maniche della sua veste una iscrizione arabica, della quale fu mandato un disegno al Tychsen. Questi credette leggervi il nome di Ottone; onde il Gregorio lo lesse anco, e stampò nel Rerum Arabicarum, pag. 179, segg., una dotta dissertazione per dimostrare come i Musulmani di Sicilia avessero ricamata quella veste per farne dono ad Ottone, e come questo, con altri vestimenti imperiali, fosse venuto in potere di Federigo. Nè sol quivi, ma in parecchi vasi di bronzo, il Gregorio credè trovare il nome di Ottone (op. cit., p. 183-185). Sventuratamente, altro non v’ha che la voce sultan, la quale fu letta in quel modo, per poca pratica della calligrafia arabica: onde casca tutto lo edifizio de’ doni inviati da’ Musulmani di Sicilia all’imperatore guelfo. Notò primo quello errore il De Fraehn, indi il Lanci, ed anch’io ne ho detta qualche parola nella Rivista Sicula, fasc. 2º (Palermo, febbraio 1869), in un Discorso preliminare su le epigrafi arabiche di Sicilia.
514. Albertus Bohemus, citato dal Bréholles, Historia Diplomatica, etc. Introduction, pag. XCLXXXI.515. Quest’ultimo soprannome si legge nella Continuatio Bergensis, presso Pertz, Scriptores, VI, 440.516. Si veggano i capitoli iij, v, viij di questo libro, pag. 439 segg., 534 segg., 573 segg. Quantunque l’antagonismo nazionale e religioso sia trascorso talvolta al sangue nel regno di Guglielmo I, come si legge nel Cap. iv, pag. 485, 488 e nel Cap. vi, pag. 543, pure que’ tumulti non sembrano opera immediata del clero, nè effetto di passioni religiose, ma piuttosto di rapacità e ferocia.517. Cap. viij, pag. 573 segg.518. Presso Bréholles, op. cit., I, 800.519. Op. cit., II, 150, 152.520. Diplomi di aprile 1206 e febbraio 1219, presso Mongitore, Sacrae domus mansionis.... Panormi, Monumenta. Dalle annotazioni si scorge che Miserella giacea presso Misilmeri, e Hartilgidia fuor delle mura di Palermo. L’ultimo di questi diplomi si vegga anco presso Brébolles, op. cit., I, 586. Una parte dei beni era stata già conceduta in dicembre 1202, vol. cit., pag. 96.521. Diploma del 15 agosto 1221, citato dal Fazzello, Deca I, cap. 1, e indi dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1359. Temo che questa, con le altre pergamene del monastero della Martorana, sia stata trafugata nell’infausto mese di settembre 1866, quando si mandò ad effetto lo sgombero di quel monastero, senza guardare ciò che portavan seco le suore e i preti.522. Diploma di novembre 1221, presso Pirro, op. cit. pag. 703, ristampato dal Bréholles, op. cit., II, 222.
Evidentemente cotesti due casali sono gli stessi ch’erano stati conceduti al vescovo di Girgenti nell’aprile del 1200, secondo un altro luogo del Pirro (pag. 703, prima colonna) citato da noi nel capitolo precedente, pag. 573. Ma s’intende bene che in quei tempi la concessione era rimasta nella pergamena. In questo diploma del 1221 l’atto è formulato con le parole concedimus.... et perpetuo robore confirmamus.
523. Si vegga il capitolo precedente, pag. 587.524. Diplomi di febbraio 1219 ed aprile 1221, presso Mongitore Sacrae Domus mansionis etc. e il secondo anche presso Bréholles, op. cit., II, 197.525. Cotesti particolari si ricavano da un atto del 20 giugno 1250 (correggasi 1255), IIIª indizione, secondo anno del regno di Manfredi, del quale serbasi una copia tra’ Mss. della Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. H. 6, donde l’ha ricopiato, non è guari, per farmi cosa grata, il sig. Isidoro Carini, addetto all’Archivio regio di Palermo, giovane conosciuto per ottimi studii su la Storia di Sicilia. E spero ch’egli possa un giorno pubblicare questo curioso documento, e che anco se ne trovi l’originale nel prezioso e negletto tabulario della Chiesa agrigentina.
L’atto, rogato in Palermo da un giudice regio, ad istanza di un procuratore del vescovo di Girgenti, racchiude la risposta di quarantacinque testimoni interrogati intorno il possedimento della chiesa di Santa Maria di Rifesi, che la Chiesa agrigentina volea rivendicare sopra l’abate di San Giovanni degli Eremiti di Palermo, fondandosi sopra un titolo di concessione, che era stato perduto al tempo delle guerre. Alcuni testimoni affermavano dei fatti di sessant’anni addietro, altri di 50 altri di 40 e via scendendo. Il decimoterzo tra i testimoni uditi, si chiamava Luciano de Bonaparte.
Lasciando gli avvenimenti che non fanno al nostro subbietto, vi si legge che il vescovo Orso era stato cacciato dalla sede ben tre volte: la prima da Arrigo VI che lo supponea figliuolo di re Tancredi; la seconda da Guglielmo Capparone, mentre ei signoreggiava Girgenti, al quale il vescovo Orso non volle prestare giuramento di fedeltà; la terza al tempo dell’imperatore Federigo. Questa fiata egli fuit captus a Saracenis et detenctus in Castro Guastanelle per XIV menses; ed allora la Chiesa perdè i suoi privilegii e i beni, et Saraceni etiam tenebant ecclesiam, campanile, et domos ecclesie, etc. Un altro testimonio, contadino, ricordando cose avvenute da sessanta anni, diceva essere stata, dopo la morte di re Guglielmo, mossa guerra in Val di Mazara, da Cristiani e da Saraceni; sì che non audebant homines de contrata exire de terris in quibus habitabant, usque ad labores (i seminati fin oggi si chiamano lavori in Sicilia) vel vineas eorum, per timor de’ Saraceni e di alcuni Cristiani; e che Orso non sarebbe stato liberato in Guastanella, nisi se ipsum per pecuniam redimisset. Un altro narrava che, dopo la morte di Guglielmo, Orso era stato cacciato, e la Chiesa occupata da’ Saraceni e dalla moglie del conte Bernardino. Un altro finalmente attestava aver militato nell’esercito, col quale il vescovo eletto Raimondo, o altro, dovea muovere contro la detta contessa.
Ognun vede ch’è questo appunto il supposto diploma di Manfredi, del quale il Gregorio pubblicò un estratto, Considerazioni, lib. III, cap. 1º, nota 5, ec. Il Pirro avea letto quel documento e forse qualche altro, poichè cita i medesimi fatti a pag. 704 ed aggiugne che Orso era stato riscattato dalle mani de’ Saraceni per cinquemila tarì.
La distrutta rôcca di Guastanella, sorgea non lungi da Raffadali, ad una diecina di miglia a settentrione di Girgenti.
526. Diplomi di dicembre 1224 e 28 ottobre 1238. presso Bréholles, op. cit., II. 918 segg. e V, 251; nel primo de’ quali si tratta soltanto de’ richiami della corte di Roma per torti fatti al vescovo di Cefalù, e il secondo risguarda Cefalù, Morreale, Catania.
Per Morreale si ritrasse che i Saraceni aveano fatte prede fino alle mura della Chiesa e cacciati tutti i Cristiani da’ luoghi vicini. Ma alle lagnanze l’imperatore rispondea che que’ Saraceni non ubbidivano lui nè il papa, e ch’egli avea durati tanti travagli e tante spese per costringerli, e gli era venuto fatto.
527. Alla metà del XII secolo, il vescovo di Cefalù possedea molti villani musulmani, come si scorge dalla platea che noi abbiam citata nel libro V, cap. viij, pag 205, 211 del presente volume.528. Si vegga il lib. V, pag. 546 di questo volume.529. Giovanni Villani, lib. VI, cap. 14.530. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 613.531. L’inquisizione riferita nel diploma del 28 ottobre 1238, presso Bréholles, op. cit., V, 251, ci fa sapere che “al tempo della guerra” molti uomini del demanio s’erano rifuggiti ne’ possedimenti del vescovo di Catania, allettati dal “luogo sicuro e fertile,” e che il demanio, secondo il diritto de’ tempi, li avea richiamati alle loro sedi. In vero non si dice che fossero stati musulmani.532. Le citazioni si vedranno nel seguito del racconto.533. Appunto è l’Appendice al cronista Malaterra, il quale raccontava tanti fatti di Benavert, presso Caruso, op. cit., pagina 250.534. Si vegga il cap. primo del presente libro, pag. 374 del volume.535. Nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 491 segg. e nella Histoire des Berbères, traduzione del baron De Slane, II, 335; il quale, avendo seguita una lezione che lasciava in bianco il nome del luogo, e non ricordandosi di Lucera, ha supplito tra parentesi Melfi.
L’errore del nome proprio sarebbe stato facilissimo, se Riccardo da San Germano avesse scritto “Mirabs”, ed il copista avesse supposta un’abbreviatura nelle ultime sillabe.
L’anacronismo d’Ibn-Khaldûn non dee far maraviglia. Oltre ch’egli scrivea di memoria, la tendenza sistematica del suo ingegno lo portava ad accomodare almeno le date alle cagioni da lui supposte. Fors’anco furono estese per errore alla Sicilia, da lui o dagli autori de’ ricordi ch’egli usava, quelle condizioni che il governo hafsita avea pattuite con Federigo per l’isola di Pantellaria, delle quali noi tratteremo nel capitolo seguente.
536. Bekri, Description de l’Afrique, testo arabico pag. 45 e versione di Quatremère, nelle Notices et Extraits, tomo XII, pag. 499-500, afferma che la penisola di Scerîk prese il nome da Scerîk-Ibn-’Abs, che fu uno dei governatori musulmani. Chiunque sappia l’importanza del legame di tribù nei primi secoli dell’islamismo, terrà molto verosimile il soggiorno della tribù in que’ luoghi. Non è meno probabile il passaggio loro in Sicilia, poichè questa famiglia era stata una delle ribelli a Ibrahim-ibn-Aghleb; e dopo quel tempo occorse più volte di prendere da quel territorio le milizie che si mandavano in Sicilia. Di questa penisola abbiamo trattato più distesamente nel cap. iv, di questo libro, pag. 474.537. Il testo d’Ibn-Khaldûn ha thâir, che vuol dir vendicatore e può significar anco sollevatore, demagogo, capo-banda, ec. Il baron de Slane, con felice infedeltà, ha tradotto “aventurier.”
Egli è da ricordare che l’Affrica propria, negli ultimi venticinque anni del XII secolo e ne’ primi del XIII, era stata agitata dalla reazione degli Arabi e de’ Berberi almoravidi contro la dominazione almohade; onde l’assalto dell’almoravide Ibn-Ghania, una lunga guerra guerreggiata e infine la fondazione del principato Hafsita di Tunis.
538. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 169. Le leggi promulgate, al dir del cronista, in questo parlamento, son di quelle che or chiamiamo regolamenti di polizia municipale.539. I diplomi pubblicati dal Bréholles, op. cit., II. 181 a 224, provano che Federigo in questo tempo fu a Messina, Catania, Caltagirone, Palermo, Trapani, Palermo di nuovo, Girgenti e Catania. La data di Girgenti non mi par tanto certa: e le parole del Bréholles, op. cit., II, 223, nota 1, mi fanno credere che ne abbia dubitato egli stesso.540. De’ diplomi di questo periodo risguardanti la Sicilia, un solo è notevole, cioè la conferma de’ privilegi singolari che erano stati conceduti alla città di Palermo il 1200 e 1210, nella infanzia di Federigo, o piuttosto, durante l’anarchia.541. Riccardo da San Germano, op. cit., pag. 571.542. Si veggano i diplomi dati “in castris in obsidione Jati,” dal 17 luglio al 18 agosto 1222, presso Bréholles, op. cit., II, 255 a 265.543. Si confrontino Riccardo da San Germano, loc. cit. e l’Appendice al Malaterra, presso Caruso, op. cit., pag. 250. Del quali il primo dà soltanto il nome di Mirabetto; la seconda lo sbaglia, ma il nome del luogo che vi si aggiugne (erroneamente stampato Jacis ), non lascia dubbio su l’identità della persona.
L’Anonimo pubblicato dal Bréholles, op, cit., I, 895, nota in questo tempo che Federigo vinse tutti i ribelli, fuorchè qualche castello dei Saraceni, posto in arridis montibus.
Dicono brevemente l’esito di tutte le guerre di Federigo contro i Saraceni di Sicilia l’Anonimo Vaticano (Niccolò de Jamsilla), il Monaco Padovano, e l’Abate di Usperga, ossia Corrado de Liechtenaw, presso Caruso, op. cit., pag. 677, 939, 971, e l’Anonimo Sassone, negli Scriptores Rer. Germ. Lipsia, 1730, tomo III, 121.
L’episodio de’ rubati fanciulli è riferito nella cronica d’Alberico Trium fontium, Hannover 1698, pag. 459, 460, nella quale quel tradimento è apposto “come diceasi” ad Ugo Fer e Guglielmo Porco, mercatanti marsigliesi. Tolto il caso di una coincidenza di nome che sembra assai poco verosimile, noi possiamo correggere ciò che la voce pubblica, ripetuta dal cronista tedesco, dicea di Guglielmo Porco. Questo valente uom di mare, di nobile famiglia genovese, nel 1205 vinse prima i Pisani in un combattimento navale; e poi insieme con Arrigo conte di Malta, liberò Siracusa, stretta dall’armata pisana. Nel 1211 ei prese e menò in Sicilia due navi marsigliesi. ( Annali Genovesi, presso Muratori, Rer. Italic., VI, 391, 401.)
Nel 1216 egli accompagnò di Sicilia in Germania la imperatrice Costanza col figliuolo Arrigo, come si argomenta da due diplomi presso Bréholles, op. cit., I, 485, 489; nel primo dei quali si accenna a lui con le parole “ammiraglio di Messina”, e nel secondo egli è soscritto da testimonio, tra i grandi della corte imperiale, col titolo d’ammiraglio del regno. Ma nel 1221, voltosi Federigo contro i Genovesi che teneano Siracusa e godeano possessioni e privilegi in tutto il reame, comandò, tra le altre cose, di catturare costui, ond’ei salvossi con la fuga. ( Annali Genovesi, presso Muratori, vol. cit., pag. 423.) Or egli è molto verosimile che Guglielmo Porco, il quale, come tutti gli uomini di mare in quel tempo, doveva essere un po’ corsaro se non pirata, abbia cercato di favorire i ribelli di Sicilia e siasi unito senza scrupolo con quel ribaldo venditore dei fanciulli. Bastava ciò perchè i Ghibellini lo spacciassero complice di quel misfatto, come riferisce il cronista Alberico; nel qual caso non sappiam se lo calunniasse o s’apponesse al vero. Del resto io credo che Guglielmo Porco sia stato in Sicilia ammiraglio, ma non grande ammiraglio, la quale dignità sembra tenuta in quel tempo da Arrigo conte di Malta. Si confrontino il Bréholles, op. cit. Introduction, pag. cxliij, e il sig. Ed. Winkelman, De Regni Siculi administratione, etc. Berlino, 1859, pag. 40 e 41, i quali non si accordan tra loro.
544. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 572.
Gli Annali Di San Rudberto di Saltzburg, presso Pertz, Scriptores, IX, pag. 782, attestano che l’imperatore, trattenuto da affari in Sicilia, non potè andare alla mostra di baroni tedeschi e italiani, bandita in Verona pel dì di San Martino del 1222.
545. Ancorchè il Muratori, negli Annali, porti la emigrazione a Lucera il 1224, parmi sia da riferire all’anno precedente.
Si confrontino a questo proposito: Riccardo di San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 572, dove si aggiunga la data del 1223; e i cronisti citati nell’ultimo paragrafo della nota 3 della pag. 600. L’Appendice al Malaterra, op. cit., pag. 251 (sotto la indizione XIII, e l’anno che si legge per errore di stampa 1232 e che il Muratori corresse 1224) nota che l’imperatore mandò grande esercito contro i Musulmani di Sicilia; che essi rimasero nelle montagne; che l’imperatore ogni anno facea gran guasto sopra di loro, e che infine “scesero con gran vergogna, ed ei li fece dimorare nelle pianure di Sicilia, ne’ casali.” Nella edizione del Pertz, Scriptores, XIX, 495, è aggiunta la data del 1224.
Ognun vede che qui non si fa parola del tramutamento di là dallo Stretto, e che le operazioni dell’esercito regio si fanno durare parecchi anni. Parmi che a questo paragrafo si debba assegnare la data del 1225, che risponde appunto alla XIII indizione, notata nel testo della cronica, e s’accorda con la testimonianza di due altri scrittori che citeremo più innanzi.
546. Ciò si ritrae da un diploma del 1254, presso Pirro, op. cit., pag. 704. Un diploma di Federigo, dato il 17 novembre 1239, pubblicato prima dal Carcani e poi dal Bréholles, op. cit., V, 504, contiene, tra gli altri, il provvedimento di far un casale nelle terre del demanio a Burgimilluso (Menfi), un altro tra Girgenti e Sciacca, ed un terzo tra Girgenti e Licata: il che dà a credere che i luoghi fossero rimasti senza abitatori.547. Presso Bréholles, op. cit.; II, 393. La data che manca si supplisce con poco divario, perchè Federigo fa menzione della cattura di Wadelmaro re di Danimarca, la quale si sa essere avvenuta il 9 maggio 1223.548. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 573, 574.549. Op. cit., pag. 572.550. Presso Bréholles, op. cit., II, 409, seg.551. Annales Colonienses Maximi, presso Pertz, Scriptores, XVII, 837. Il Bréholles avea già dato, in calce al diploma di cui nella nota precedente, lo stesso squarcio col nome di Goffredo di Colonia, secondo la citazione del Boehmer, Fontes, II, 355.552. Secondo Edrîsi, la grossa terra di Platano, forte di sito e fertile di territorio, giacea su la riva sinistra del fiume dello stesso nome a sette miglia dalla foce ( Bibl. ar. Sicula, pag. 48, 51). Il Fazzello, similmente, pon su la destra riva del Platani il monte chiamato allora Platanello, ingombro di ruine d’antica città (Deca I, libro X, cap. 3). Per tal modo il sito risponderebbe a quello che or s’addimanda il monte Sara, tra gli odierni comuni di Cattolica e Ribera, fondati entrambi nel XVII secolo (Amico, Dizion. topogr. ). Ma i ragguagli che ho richiesti, non avendo mai visitati que’ luoghi e non bastandomi le carte topografiche, mi portano a dubitare. Il signor barone Spoto, sindaco di Cattolica (1870), al quale io mi rivolsi, mi ha mandata con molta cortesia una pianta del perito agrimensore sig. Dionisio Miceli, corredata di note topografiche; dalla quale veggo che il monte Sara, accessibile da tutti i lati, è privo di antiche ruine; e che all’incontro, su la riva sinistra del fiume, a poca distanza da Cattolica, v’ha altri colli scoscesi, pieni degli avanzi di muraglie, di cisterne, di sepolcri e di tutti i segni di vetusta e grossa abitazione. Avverte anco il signor Miceli che il Platani ha mutato alveo più volte e inghiottiti di molti ponti. E da un’altra mano la carta del nostro Stato maggiore, mi mostra un poco più su verso Cianciana, il monte Millaga ( Melga ossia Rifugio?) con un “Castellazzo” quello forse che nella carta del 1826 è nominato “La Calata.” Convien dunque differire il giudizio su la identità del luogo. Ma pur si dee ritrovare in un quadrilatero descritto tra Cattolica e Cianciana al S. E. e il fiume Macasoli al N. O.553. Riccardo da San Germano, op. cit., pag. 573, anno 1224.554. Appendice al Malaterra, sotto l’anno 1223, presso Caruso, op. cit., pag. 251. Il fatto è replicato nella lettera di fra Corrado, op. cit., pag. 49. Questi squarci si veggono senza varianti di importanza nel Pertz, Scriptores, XIX, 495.555. Ibn-Khaldûn citato di sopra a pag. 598, nota 1 e l’ Anonimo Sassone, negli Scriptores Rerum German. Lipsia, 1730, III, 121.556. La prima di coteste opinioni è riferita da Riccardo da San Germano, anno 1221, presso Caruso, op. cit., pag. 569; la seconda negli Annali genovesi, anno 1223, presso Muratori, Rer. ital. script., VI, 432. Tra due scrittori contemporanei tanto autorevoli, parmi che il genovese abbia detta la cagione, e il regnicolo il pretesto spacciato da Federigo per prender due colombi a un favo: liberarsi, cioè, dall’ammiraglio e presentare un’altra nobile vittima al papa, il quale aveva apposta a Federigo la perdita di Damiata e dell’esercito crociato, innoltratosi pazzamente verso Mansura.
Ei par certo che l’armata siciliana, di quarantacinque galee, arrivò a Damiata dopo la resa dell’esercito crociato e, saputala, ripartì immediatamente. L’attesta la Storia de’ Patriarchi d’Alessandria, testo nella Bibl. arabo-sicula, pag. 322. Da quella autorevole cronica ha preso il fatto M r. Reinaud, Extraits.... relatifs aux Croisades, pag. 417. Ma un documento prova che i capi dell’armata siciliana voleano anzi difendere Damiata. È lo squarcio d’una epistola del gran maestro dei Templari, stampato da Bréholles, op. cit., II, pag. 201, nota 1; col quale si confronti l’altro documento nello stesso volume, pag. 355, nota 1.
557. Veggasi nel Liber Jurium reip. Januensis Nº. D. col. 553 segg., un trattato di questo conte di Malta con la repubblica di Genova (25 luglio 1210) per l’acquisto dell’Isola di Cipro. Il conte fa menzione appena della fedeltà dovuta a Federigo per Malta; e del resto tratta come s’ei fosse principe sovrano. Si confronti ciò che dice delli ammiragli di Federigo, il Bréholles, op. cit. Introduction, pag. cxliij segg., e si vegga anco il Winkelmann, op. cit., pag. 40, seg. Il titolo di conte di Malta usato in questo diploma, mi fa supporre che Arrigo fosse stato fin d’allora grande ammiraglio; poichè quel feudo era stato conceduto successivamente ai due grandi ammiragli Margaritone da Brindisi e Guglielmo il Grosso, suocero di Arrigo. Arrigo, per casato o per soprannome Pescatore, sembra genovese di nascita. Durante la fanciullezza di Federigo, egli aiutò sempre con forze navali i Genovesi, nelle frequenti baruffe ch’ebbero co’ Pisani nelle acque di Sicilia. Si veggano coteste fazioni negli annali Genovesi, 1204, 1205, ec., presso il Muratori, Rerum Italic., VI, 389, 391, etc.
Pertanto io non credo col Bréholles che Arrigo Pescatore sia stato eletto grande ammiraglio di Sicilia dopo la persecuzione di Guglielmo Porco, della quale si è detto nella nota 3, pag. 600, seg. Parmi più tosto che Guglielmo, nel 1216, avesse il titolo di semplice ammiraglio, come se n’era visti nel 1126, 1132, 1142 e 1157, sotto i grandi ammiragli Giorgio d’Antiochia e Majone da Bari (libro V, cap. 1, pag. 355, 356 di questo volume). D’altronde la fuga di Guglielmo e la disgrazia di Arrigo, imprigionato e spogliato del feudo di Malta, successero quasi al medesimo tempo. Genovesi entrambi o partigiani ardenti di Genova, andaron giù a corte di Federigo, insieme col credito di quella repubblica: se non che Arrigo, chinato alquanto il capo, si rialzò e Guglielmo venne all’aperta violenza e ci lasciò la pelle.
558. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 574.559. Alberici Trium Fontium Chronicon, Hanovre 1698, pag. 518.560. Appendice al Malaterra, citata poc’anzi nella pag. 602, nota 2.561. Così penso, perchè nella ribellione del 1245 non ricompariscono Musulmani in quella regione, e perchè tutti i villani della Chiesa agrigentina erano andati a Lucera, come si è visto a pag. 602, nota 3.562. Raynaldi, Ann. eccl., 1220, § xxj, pag. 474, della ediz. di Lucca. Riccardo da San Germano, anno 1215, presso Caruso, op. cit., pag. 564.563. Si vegga il diploma del 1224, testè citato a pag. 604, nota 1.564. Si veggano le date de’ suoi diplomi dal febbraio 1224 al marzo 1225, presso Bréholles, op. cit., II, 398 a 477.565. Riccardo da San Germano, anni 1232, 1233, ed Appendice al Malaterra, anni 1231, 1232, presso Caruso, op. cit., pag. 605, 606 e 251.566. Appendice al Malaterra, l. cit.567. Riccardo da San Germano, op. cit., anno 1233, pag. 607, lo dice di Centorbi soltanto. L’Anonimo vaticano, (Niccolò de Jamsilla) op. cit., pag. 678, aggiunge al nome di Centorbi quegli altri due, ma non nota per nessuno il tempo della distruzione.
Par sia stato lo stesso, leggendosi in un diploma del 1239, (Carcani pag. 297 e Bréholles, op. cit., V, 596) il comando dell’imperatore che gli uomini già abitatori di Centorbi e di Capizzi soggiornassero in Palermo e che fosse punito chiunque volesse ritenerli in altro luogo di Sicilia. Lo stesso provvedimento è citato nel diploma del 27 febbraio 1240, presso Carcani, pagina 352 e presso Bréholles, V, 770. L’Anonimo, presso Bréholles, op. cit., I, 905, dice distrutte dalle fondamenta Centorbi, Traina, Montalbano ed altre terre di Sicilia. Da’ nomi delle città argomento le schiatte.
568. Si vegga il Gregorio, Considerazioni, lib. III.569. Diploma del 16 dicembre 1239, presso Carcani, pag. 294 e presso Bréholles, V, 590.570. Per diploma del 25 dicembre 1239, presso Carcani pag. 307, e presso Bréholles, op. cit., V, 627, 628, Federigo comandava si dessero ad partem (e poi è detto ad laborem ) mille buoi a’ Saraceni di Lucera, com’essi li aveano avuti in Sicilia, a’ tempi di Guglielmo il Buono.571. Dipl. del 16 dicembre, citato poc’anzi.572. Dipl. del 25 dicembre 1239, pubblicato dal Carcani pag. 307 presso Bréholles, op. cit., V, 626, 627.573. Per la munificenza del fu duca di Luynes (Honoré Théodoric), le ruine della cittadella di Lucera sono state illustrate col testo di M r Huillard-Bréholles e co’ disegni di M r Victor Baltard, nell’opera intitolata Recherches sur les Monuments etc., dans l’Italie Méridionale. Paris, 1844, gr. in folio. Si vegga anche ciò che ne ha scritto più recentemente lo stesso Bréholles, nella Historia Diplomatica etc. Introduction, pag. CCCLXXV seg.574. L’errore sembra contemporaneo, poichè in una epistola che scrisse Gregorio IX a Federigo (presso Bréholles, op. cit., IV, 452) richiedendolo di far ascoltare pazientemente i frati Predicatori da que’ Saraceni “che si dicea capisser bene l’italiano,” la città è chiamata Nuceria Capitanatae; il qual nome di provincia non lascia alcun dubbio su la città della quale si trattasse. Ma in Riccardo da San Germano, ne’ diplomi di Federigo e in molti altri della Curia romana, si legge correttamente Lucera.
Lo scambio del nome fu notato ben da Giovanni Villani, Lib. VI, cap. xiv, là dove ei disse de’ Saraceni di “Licera, oggi Nocera in Puglia”; ma i compilatori, dimenticando questa avvertenza, hanno trasmesso di generazione in generazione quell’errore, il quale rimarrà, forse per lungo tempo, nelle bocche e nelle scritture di chi studia la storia ne’ compendii frettolosi.
Ed errore anco è che a Nocera di Principato sia stato mutato il soprannome a’ tempi di Carlo II d’Angiò, come si crede comunemente. Un diploma del 1221, tolto dal Bullario Cassinese e ricordato dal Bréholles nell’op. cit., II, 119, ha il predicato di “Nuceria Christianorum.” Sembra verosimile che quello di “Paganorum” sia stato dato per cagione de’ molti villaggi (pagi) de’ dintorni, o della tarda conversione di quegli abitatori. Si vegga Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva. Napoli, 1703 in-4, parte I, 195; e parte III, 106, ne’ capitoli di Nocera e Lucera.
575. Introduzione, pag. XXXI, XXXII.576. Sapendo che un erudito napoletano si apparecchia a confutar l’opinione del Bernhardi che tien falsa la cronica di Spinelli, aspetto la difesa pria di dar giudizio sopra sì grave quistione.577. Diploma del 17 novembre 1239. Carcani, pag. 270; Bréholles, V, 509.578. Frammento inedito del registro di Federigo, dato alla luce dal Bréholles, op. cit., V, 426, 427.579. Diploma del 16 dicembre 1239. Carcani, pag. 297; Bréholles, V, 595, 596.580. Diploma del novembre 1239, poc’anzi citato, presso Bréholles, V, 505.581. Il Pirro die’ parte della spedizione latina di questo diploma, nell’op. cit., pag. 764, senza fare menzione del testo arabico, ch’è scritto in capo della pergamena originale. Io ho copiato il testo in Girgenti, nel maggio 1868, quando mi richiese d’interpretarlo il sig. avvocato Giuseppe Picone, zelante cultore della storia del suo paese. La data è del 10 gennaio del 675, come appunto la riferisce il Pirro. La scrittura arabica, brutta e intralciata, è ben diversa da quella de’ diplomi dell’epoca normanna, e mostra anch’essa la decadenza dei Musulmani di Sicilia in quel tempo; contuttociò le regole della grammatica e dell’ortografia sono osservate con pochissime eccezioni.
I notabili richiesti di fare testimonianza, sono chiamati nel testo arabico “uomini illustri” e sceikh; la prima delle quali denominazioni è traduzione dei “Buoni uomini” delle municipalità latine e la seconda è propriamente arabica; ma sembra qui adoperata come traduzione di Anziani e non prova, secondo me, che soggiornassero tuttavia in Vicari de’ notabili musulmani.
Il suggello in cera verde ha, intorno l’effigie, la leggenda Ubertus Fallamonaca, che serve a dar correttamente questo casato, alterato dalle desinenze latine nei diplomi, e serve a mostrare il buon conio italiano de’ vocaboli che lo compongono.
582. Presso Carcani, pag. 268, e presso Bréholles, V, 504-505.583. Diplomi del 12 marzo 1240, presso Carcani, pag. 370-372, e presso Bréholles, V, 822 segg.584. Nella cronica dell’Anonimo (Niccolò de Jamsilla), presso Caruso, op. cit. pag 678, si nota ch’ei fondò in Sicilia Augusta ed Eraclea (s’intende parlare di Terranuova); in Calabria Monteleone ed Alitea; Dordona e Lucera in Puglia; e Flagella in Terra di Lavoro e che spiantò in Sicilia Centorbi, Capizzi e Traina; nella provincia di Benevento la città di tal nome e in Puglia San Severo.585. Diploma dell’11 gennaio, presso Carcani, op. cit., pag. 318, e presso Bréholles, op. cit., V, 668.586. Diploma del 13 dicembre 1249, presso Carcani, op. cit., pag. 290 e presso Bréholles op. cit., V, 574, seg. Un altro diploma del 28 novembre, Carcani, 279, dà il ragguaglio che i Giudei i quali avean promesso di far fruttare quel palmeto della Favara, erano arrivali di recente in Palermo.587. Appendice al Malaterra, presso Caruso, op. cit., pag. 252.588. Lib. V, cap. iij e vj, pag 86 e 159 segg. di questo volume.589. Diploma del 17 novembre 1239. Carcani, pag. 268, e Bréholles, V, 504. In questo diploma, pag. 505 della edizione del Bréholles, si legge “et eos per opera maran [ orum ] curie nostre facias applicari.” Sostituirei la voce maram[ me ] che significava “la fabbrica.” Oltre che la nostra voce “marrani” non ha che far qui, abbiam visto poc’anzi che Federigo in quel tempo adoperava de’ Saraceni ne’ suoi castelli di Siracusa e di Lentini.590. Presso Bréholles, op. cit., V, 456.591. Op. cit., V, 471. Manca la data in questo diploma.592. Appendice al Malaterra, op. cit., pag. 252.
Nell’epistola di fra Corrado, presso Caruso, op cit., pag. 49, è copiato, come tanti altri, questo capitolo dell’Appendice, ma vi si legge Lucera in vece di Nocera.
Niccolò de Jamsilla, presso Caruso, op. cit., pag. 677 segg., dà in principio questo bel compendio della guerra: «che Federigo voltosi in Sicilia contro i Saraceni, i quali nella sua infanzia, ribellatisi, stanziavano in alte montagne, ne li cacciò al piano, con le armi della sua potenza e saviezza; e prima una parte, e con l’andar del tempo quasi tutti, mandolli a soggiornare in Puglia, sotto giusto vincolo di servitù, nel luogo che si chiama Lucera.»
593. Si vegga il libro V, cap. vj e x, e il presente libro, cap. j, ij e v, pag. 158, 168, 332, 368, 401 e 517.594. Si vegga il capitolo precedente, pag. 645.595. Appendice al Malaterra, presso Caruso, op. cit., pag. 252.596. Si vegga la vera e la falsa genealogia, in Ibn-Khaldûn, op. cit., II, 281 della versione francese.597. Ibn-Khaldûn, Berbères, II, 280 a 298, descrive i primordii degli Hafsiti infino all’usurpazione d’Abu-Zakaria.598. “Senior” nella versione latina.599. In primo luogo avverto non potersi ammettere il supposto dell’erudito amico mio Huillard-Bréholles, cioè che l’ Abbuissac della traduzione sia da leggere Abou-Zak, e che questo sia abbreviazione di Abou-Zakaria. Oltrechè non v’ha esempli di cotesta contrazione, nè le lettere corrisponderebbero, non torna il nome del padre, il quale qui è Abu-Ibrahim, quando il padre di Abu-Zakaria si chiamava Abu-Mohammed.
Il nome d’Abu-Ishak non sarebbe nuovo nella famiglia hafsita. Si chiamava così un figlio dello stesso Abu-Zakaria, secondo Ibn-Khaldûn, op. cit., II, 341, 355.
Abu-Ibrahim, padre dì colui che soscrive il trattato, figliuolo di Abu-Hafs e però cugino di Abu-Zakaria, comparisce nel 1223 governatore di Castilia in Affrica per l’altro fratello Abu-Mohammed (Secondo) ch’era allor prefetto d’Affrica. Questo leggiamo in Ibn-Khaldûn, op cit., II, 297; ond’egli è verosimile che Abu-Zakaria abbia adoperato in alto ufizio questo figliuolo del cugino.
600. Ibn-Khaldûn op. cit., II, 301 narra che Abu-Zakaria, appena insignoritosi dell’Affrica propria, si messe a perseguitare Ibn-Ghania. Di questo capo almoravide abbiamo fatta menzione nel presente libro, cap. v, pag. 520 del volume.601. “Cum declaratum sit quod isti populi pro personis et statu jam pacem inierint cum domino nostro califa, sacerdote, imperatore Fidelium”. Così la traduzione. La voce resa sacerdote è senza dubbio imam; tutti e tre i titoli messi insieme corrispondono appunto a que’ che presero i principi almohadi.602. Questo trattato, tradotto dall’arabico in latino per un Marco Dobelio Citeron, fu pubblicato dapprima da Leibnitz, Codex jur. gent. dipl., II, 13; poi da Lünig, Codex Ital. dipl., II, 878; dal Dumont, Corps dipl., I, 168; dal Bréholles, op. cit.. III, 276, con buone varianti tolte da un ms. di Parigi; e infine dal Mas-Latrie, Traités de paix et de commerce etc. Paris, 1866, pag. 153 segg. Temo che l’originale sia perito nello incendio dell’Escuriale, poichè il dotto prof. Gayangos, che ne interrogai molti anni addietro, mi rispose non trovarsi più in Ispagna, per quante ricerche ei n’avesse fatte.
Parmi che il Citeron abbia letti male parecchi vocaboli nel capitolo che risguarda Pantellaria, il quale incomincia “Et etiam detur illis dimidium tributi insule C.... signatum et ordinarium tempore messis solite.” Ho creduto al contrario, accettare la versione “sint navigantes et iter facientes cum caravalis euntibus ad Africam” ond’io ho scritto “sì in nave e sì in caravana.” Ancorchè la voce caravana si legga sovente ne’ diplomi latini di Federigo, col significato di compagnia di barche, o come or dicesi, “convoglio”, il senso del periodo porta più tosto a carovana di terra; nè so che al tempo di Citeron si dicesse ancora de’ convogli di barche. D’altronde non mancano esempli di scorrerie de’ marinai cristiani sbarcati in Affrica. Nel 1284, cioè mezzo secolo dopo il trattato di Federigo II, un galeone catalano dell’armata di Sicilia prese Margam-ibn-Sabir, capo della tribù araba di Gewara, mentr’egli cavalcava alla volta di Tunis e recollo a Messina, dove fu compagno di prigionìa di Carlo lo Zoppo.
Avvertasi che il Gregorio, discorrendo di questo trattato nelle Considerazioni, lib III, cap. viij, ritenne la erronea lezione di Corsica.
603. Si vegga il capitolo precedente, pag. 597 del volume.604. Si legge nella traduzione “neque habeant christiani.... jurisdictionem super ullum mahometanum, preter prefecium mahometanum, missum... ad regendum tantummodo populos unitatis.” Non potendosi ammettere, per le ragioni dette nel testo, che questi Unitarii sieno gli Almohadi, nè che “populos unitatis” qui significhi in generale i Musulmani, suppongo che Citeron abbia letto Wahabiti, e che ignorando questo nome di setta, nato da quello del fondatore Abd-al-Wahhâb, abbia tradotto a caso “Unitarii”, ricordando che Wahhâb si novera tra’ novantanove titoli di Dio. S’egli non è così, il traduttore saltò di certo un periodo, secondo il quale il governatore degli Almohadi o de’ Musulmani acconciatisi con loro, doveva essere destinato da Tunis.605. Si vegga il cap. v del presente libro, pag. 536 del volume.606. Jakût, nel Mo’gem-el-Baldân, di cui ho dato l’estratto nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 124. Sul dominio che esercitava il re di Sicilia lo Pantellaria, veggansi Ibn-Sa’ld e Scebab-ed-dîn Omari, nell’op. cit., pag. 134, 150.607. Si veggano Tigiani e Ibn-Khaldûn, citati nel cap. ij del presente libro, pag. 400, nota 2.608. Mudeggian, pronunziato anco Mudegiar (Mudejar) e Mudeggial. Si confronti il citato luogo di Scebab-ed-dîn Omari, con Dozy, Glossaire des mots espagnols, ec. nel supplemento delle aggiunte, pag. 322.609. Si vegga il capitolo precedente a pag. 605, 606, di questo volume.610. Diplomi del 24 giugno e 20 settembre 1236, e 28 ottobre 1238, presso Bréholles, op. cit., IV, 872, 912, V, 255.
A pag. 626 e 907 son due altri diplomi del 25 dicembre 1239 e 17 aprile 1240, per le spese necessarie a quel principe.
611. Diplomi del 23 gennaio e 6 febbraio 1240, presso Carcani, op. cit., pag. 324, 339, e presso Bréholles, V, 687, 726.612. I diplomi leggonsi nelle due raccolte citate, a pag. 356, 360 della prima, e V, 782, 793 della seconda.613. Saba Malaspina presso Caruso, op. cit., pag. 806. Guglielmo di Nangis, Gesta Phil. III, nella collezione di Dom Bouquet, XX, 476, lo dice “tributo;” la Cron. de rebus in Italia gestis, etc., edizione di Bréholles, pag. 322, lo chiama censo, che solea pagarsi all’imperatore Federigo.614. Saba Malaspina, loc. cit., dice che il re di Tunis, al tempo dell’impresa di San Luigi, avea sospeso da tre anni il pagamento di questo tributo. Io ho dati i particolari e le citazioni nella Storia del Vespro siciliano, cap. v e xij, edizione di Firenze, 1866, tomo I, pag. 82 segg. e 350. Si vegga anche il Gregorio, Considerazioni, lib. III, cap. viij; la raccolta del Mas-Latrie poc’anzi citata, pag. 52 dell’Introduzione, e i documenti a pag. 156 segg.; ed Alphonse Rousseau, Annales tunisiennes, Alger, 1864, in-8, pag. 422 segg. Ma io non assento la correzione che fa M r Rousseau nel testo di Marrekosci, nè la sua opinione intorno al tributo.
Aggiungasi che, del 1300, il grande ammiraglio Ruggier Loria, passato al servigio di Carlo II di Napoli, fu inviato dal novello suo signore a Tunis per cavar quant’ei potesse del tributo che gli Angioini pretendeano, prima di far la pace con Federigo l’Aragonese. Ciò si ritrae da un diploma del regio Archivio di Napoli, registro 1299-1300. C. fog. 224. L’ultimo documento poi in cui si parli di quel tributo, sembra un lodo del re di Aragona che, nel 1309, lo dichiarò appartenente a Napoli, salvo alla Sicilia di far valere i suoi diritti con le armi. Surita, Annali di Aragona, lib. V, cap. lxxv, citato dal Gregorio, Considerazioni, lib. IV, cap. vij.
Prima di lasciare questo argomento, avverto che non si può supporre alcuna analogia tra il tributo di Tunis e la metà della entrata pubblica in Pantellaria. Oltrechè questa si dovea pagare dalla Sicilia a Tunis e non da questo a quella, poichè la Pantellaria era amministrata da un governatore siciliano, si incontrerebbe la inverosimiglianza della somma annuale pattuita. La Pantellaria non potea produrre pur la decima parte della somma del tributo, il quale tornava ad un peso d’oro che in oggi varrebbe 325,000 lire italiane. Secondo il catasto più recente, che fu terminato nel 1853, la rendita annuale di tutte le proprietà urbane e rurali della Pantellaria montava appena a 100,000 lire. Or quell’isola, dopo le aspre vicende dell’XI secolo, non era di certo meglio coltivata che al tempo nostro, nè più ricca.
615. Presso Bréholles, op. cit., V, 577 segg. Si vegga, quanto alla data, la nota del diligentissimo editore.616. Annali di Colonia, citati qui innanzi nel cap. vj, pag. 553.617. Così ho io detto nella Introduzione a’ Diplomi arabici del Reale Archivio fiorentino, pag. V, VI, LXXII, secondo l’autorità di M. De Sacy e le mie proprie osservazioni. M. De Mas-Latrie ha contrastato il fatto nella pregevole opera citata, Introduction, pag. 290 segg., ma non ha potuto negare alcune differenze, ch’ei chiama lievi e veramente nol sono.618. I documenti citati, per questa immaginaria legazione, dal Gregorio, Considerazioni, lib. III, cap. viij, nota 5, portano tutti il titolo di sultano di Babilonia.
Non occorre esaminare chi sia il Nazardino o Zefedino delle due epistole pubblicate tra quelle di Pietro Della Vigna, lib. II, cap. xviij, xix, fattura di qualche frate dilettante di politica in que’ tempi. Evidentemente i nomi rispondono ai titoli notissimi di Nasir-ed-dîn e Seit-ed-dîn; ma non credo col mio amico Bréholles, op. cit., V, 397, nota 3, che il falsario abbia voluto indicare col primo un figliuolo di Malek-Kâmil. Piuttosto penserei al suo nipote Dawud, Malek-Nâsir il quale possedea Damasco e Gerusalemme innanzi il partaggio del 1228. Gli scrittori cristiani dicono che questi si oppose fieramente alla cessione di Gerusalemme e si sa ch’egli riprese la città nel 1239. Si vegga qui appresso, a pag. 637, la risposta attribuita al suo padre, da alcuni scrittori musulmani.
619. Questo mosaico vedeasi al tempo del Pirro, com’egli dice espressamente nella Sicilia Sacra, pag. 805, ma in oggi non ne rimane vestigia, essendo stato rifatto in gran parte quel portico. Se ne fa menzione in una notizia manoscritta su la chiesa di Cefalù, opera del XIV secolo, serbata in oggi nel regio archivio di Palermo, come ritraggo da’ signori Isidoro la Lumìa e Isidoro Carini, che l’hanno presa in esame per farmi cosa grata. Gli stessi eruditi amici mi hanno significato trovarsi nel detto archivio un ultimo diploma del vescovo Giovanni, dato del settembre 1213, ed un atto del 14 marzo 1218, nel quale è nominato Alduino vescovo di Cefalù. Si aggiunga ciò alle notizie che dà il Pirro, loc. cit., su quei due vescovi.
Le parole che, al dire del Pirro, leggeansi sotto le due figure erano: “Vade in Babyloniam et Damascum et filios Paladini quaere et verba mea audacter loquere ut statum ipsius valeas melius reformare.” Poco dubbio v’ha nel correggere la voce Paladini, che dee dire Saladini o meglio Safadini. Con questo titolo, che risponde a Seif-ed-dîn, i Cristiani solean chiamare Malek-Adel; e mi par migliore lezione che quella di Saladini, la quale farebbe supporre che la precedente parola filios fosse stata adoperata per errore, in vece di nipoti. Ma suppongo una lacuna nell’ultimo inciso, non potendosi ragionevolmente riferire l’ ipsius a Malek-Adel, ma più tosto a Gerusalemme, o alla Terra Santa in generale. Forse il pezzo di mosaico che contenea l’iscrizione era già guasto, quando furon copiate quelle parole dal Pirro o da altri.
Che Malek-Adel avea, pria della sua morte, divisi gli Stati a’ figliuoli e datone loro anco il governo, si legge negli Annali d’Ibn-el-Athîr, testo del Tornberg, XII, 230, sotto l’anno 615. Si vegga anche Reinaud, Extraits, etc., pag. 393.
620. Le sorgenti arabiche, inedite avanti il 1857, si trovano quasi tutte nella Bibl. arabo-sicula; cioè: la Storia de’ Patriarchi d’Alessandria, cronaca diligentissima e contemporanea di un cristiano copto, a pag. 322 segg. e gli scrittori musulmani: Ibn-el-Athîr, pag. 314, segg.; Abulfeda, pag. 418 segg.; la raccolta falsamente attribuita a Jafei, pag. 510 segg. la quale contiene preziosi frammenti d’Ibn-Kethîr, Abu-Sciâma, Bibars, Nowairi, Ibn-el-’Amîd, e Ibn-el-Giuzi; e in fine, Makrizi, pag. 518, segg. Ho avuto anco sotto gli occhi il quinto volume della Storia universale d’Ibn-Khaldûn, stampata non è guari in Egitto, nel quale è un compendio delle Crociate e giova, non ostante la troppa brevità. Si veggano le pag. 350 seg. di quel volume.
Il mio maestro M. Reinaud, del quale serbo sempre gratissima la memoria, compilò su questi medesimi testi i §§ 78, 79, 80, dei suoi Extraits etc., relatifs aux Croisades. Piacemi anche dover citare intorno a cotesti avvenimenti, due altri miei carissimi amici francesi, l’autore, cioè, della Lutte des papes et des empereurs de la Maison de Souabe, lib. V, cap. iij, e l’Huillard-Bréholles, nella Introduzione alla sua Hist. Diplom., etc. Chi voglia considerare la tradizione ghibellina, com’ella raffazzonò cotesti avvenimenti a capo di mezzo secolo, legga Bartolommeo de Neocastro, presso il Gregorio, Bibl. Arag., I, 199 segg., al quale si può contrapporre uno scrittore francese de’ tempi nostri. Dico M. De Mas Latrie, da me citato per altri suoi dotti lavori, il quale nella diligentissima Histoire de Chypre, Paris, 1852-61, narra la Crociata di Federigo e le pratiche precedenti e contemporanee, come l’avrebbe fatto un guelfo sfegatato del XIII secolo, s’egli fosse stato armato dalla erudizione del XIX.
Citerò via via le sorgenti arabiche, con la pagina che prende il testo nella Bibl. arabo-sicula.
621. Ibn-Kethîr e Abu-Sciâma, pag. 510; il secondo de’ quali aggiugne alla risposta: “Dì... che io non somiglio a certi altri e che non ho, ec.” Cotesti frizzi postumi, sono rivolti manifestamente contro il fratello Malek-Kâmil.622. Ibn-Kethîr, Abu-Sciâma, Bibars, Abulfeda, Ibn-Khaldûn e Makrizi; dei quali altri dice promessa Gerusalemme, altri tutti i conquisti di Saladino, in Terrasanta s’intende, e altri una parte de’ conquisti.
Ibn-el Athîr, arrivato allora all’età di 69 anni e morto il 1233, o non seppe, o tacque a disegno, le pratiche di Mo’azzam col Kharezmio e di Kâmil con l’imperatore. Può darsi benissimo l’uno o l’altro caso; il primo perchè quelle pratiche doveano tenersi molto segrete, e il secondo perchè il vecchio compagno di Saladino volea dissimulare le vergogne de’ discendenti. Soltanto ei narra nell’anno 623 (Tornberg, XII, 302, 303) che Mo’azzam, dopo aver cooperato efficacemente alla vittoria di Damiata, rimase malcontento di Kâmil e ch’egli era anco sospinto contro costui dal califo di Bagdad: onde si rappacificò con Ascraf, a fine di resistere verso ponente a Kâmil e dall’altro lato a’ Kharezmii.
623. Pseudo Jalei.624. St. de’ Patr., anno 944, dell’èra dei Martiri (29 agosto 1227 a 28 agosto 1228.) Quivi non si dà, in vero, il nome dell’ambasciatore siciliano, ma si dice essere lo stesso ch’era venuto in Egitto l’anno innanzi. Or noi sappiamo da Riccardo da San Germano, che il 1228 fu mandato ambasciatore al Cairo l’arcivescovo di Palermo. Il nome dell’ambasciatore musulmano è dato da Bibars, Abulfeda, Nowairi, Makrizi.625. Questo fatto è raccontato da Joinville, testimonio oculare al tempo della Crociata di San Luigi. Si vegga la edizione di M. Francisque Michel, Paris, 1859 in-12, pag. 62-63. “L’on disoit que l’emperiere Ferris l’avoit fait chevalier.... En ses bannieres portoit les armes de l’empereur etc.”626. Storia de’ Patr., ec.627. Makrizi.628. Storia de’ Patriar. Parmi vada reso meglio “minuterie d’oro” il vocabolo mesâgh, che M. Reinaud, negli Extraits ec., pag. 247, ha tradotto “objets de fonte.” Con questa espressione di “minuterie” il cronista de’ Patriarchi d’Alessandria volle significare forse la sella d’oro, ec. del Makrizi.629. Storia de’ Patr. e Makrizi.630. Makrizi.631. Ibn-el-Athîr dice di scewâl del 625, che risponde al settembre; la St. de’ Patr. d’Alessandria, il 29 abîb del 994 (4 agosto 1228).632. Tutti gli scrittori arabi.633. Ibn-el-Athîr, anno 624, ediz. del Tornberg, XII, 308.634. Abulfeda e Ibn-Kethir.635. Ibn-el Athîr, anno 625, senza fare menzione del patto precedente coi Kharezmii.636. Ibn-el-Athir, nell’anno 623, narrate le pratiche di Dawûd con Ascraf, e le negoziazioni de’ due fratelli, trascrive un pezzo della supposta lettera di Kâmil, il quale, secondo il cronista, minacciò di andarsene e lasciare il fratello solo a fronte de’ Crociati. Questo capitolo che manca nella Bibl. ar. sic., si legga nella edizione del Tornberg, XII, 313.637. Cf. la St. de’ Patr. d’Aless. e Ibn-el-Athîr. Abulfeda attesta la partizione tra i due fratelli.638. Questo fatto risulta chiarissimo da tutte le narrazioni arabiche. Gli scrittori arabi affermano che Ascraf rimase al campo del fratello, mentre si negoziava con l’imperatore.639. Makrizi.640. Il testo dice proprio “si trovò addosso.” Il vocabolo, tolto al certo da una cronaca contemporanea, è replicato da Abulfeda e da Bibars.641. Bibars.642. Tutti gli scrittori arabi.643. St. de’ Patr. ec.644. Tutti gli scrittori arabi.645. St. de’ Patr. Aggiungo il nome del primo e il titolo del secondo, su la fede degli scrittori occidentali.646. Tutti gli scrittori arabi.647. Ibn-el-’Amîd, pag. 511; Bibars, pag. 514; Makrizi, pag. 519.648. Ibn-el-’Amîd, pag. 511.649. Makrizi, pag. 520.650. St. de’ Patr. Matteo Paris, Historia Anglorum, ediz. di Londra, 1866, in-8, tom. II, 303, nota in questa occasione le “xenia multa et pretiosa in auro et argento et olosericis et gemmis et bestiis mirabilibus, quas Occidens non vidit aut cognovit.”651. Stor. dei Patr. ec. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit., pag. 580, nota nell’anno 1228 questi curiosi doni dello elefante, e de’ muli, mandati dal sultano per mezzo dell’arcivescovo di Palermo. Potrebbe esser questo il medesimo elefante che il 1237, all’assedio di Pontevico, portava sul dosso una torricciuola con le bandiere imperiali, scortato da molti Saraceni, come dice il Salimbene, Parma, 1857, pag. 48.652. Conf. Bibars, pag, 514 e Makrizi, pag. 522.653. Bibars, pag. 514; Makrizi, pag. 521.654. Abulfeda e Nowairi.655. Makrizi, pag. 520.656. Bibars, pag. 514.657. Ibn-Khallikân, testo, edizione del baron De Slane, I, 88; di Wüstenfeld, fascicolo I, pag. 103, Vita N. 75; e nella Bibl. ar. sic., pag. 624.658. Ibn-el-’Amîd, op. cit., pag. 511. Il nome del padre è scritto h n f r i e, mettendovi le vocali, tornerebbe a Hunfroi, o meglio Humfroi. Nella nota 5 di quella pagina, io proposi di leggerlo Henri, parendomi si accennasse ad una principessa parteggiante per Federigo II: Alice, vedova d’Ugo re di Cipro, e reggente per lo figliuolo Arrigo, la quale, allontanata dalla reggenza per opera dei principi d’Ibelin che furono nemici di Federigo, vivea in Siria quand’ei vi passò. Alice era figliuola di Arrigo, de’ conti di Champagne e di quell’Isabella di Lusignano ch’ebbe per primo marito Umfredo signore di Thoron; ma, separata da lui per intrighi politici ed ecclesiastici, sposò successivamente Corrado di Monferrato, Arrigo di Champagne ed Amerigo di Lusignano, dal quale ebbe Ugo I, re di Cipro e marito d’Alice.
Riflettendo meglio, mi accorgo che Alice non potè ereditare la signoria di Thoron, la quale non so d’altronde che le sia stata mai conceduta da Federigo. Potrebbe darsi dunque che si trattasse nel testo di una figliuola di Umfredo di Thoron, nata d’altra madre, dopo il suo divorzio da Isabella; nel qual caso starebbe bene la lezione del testo. E qui mi rimango, non avendo alle mani i documenti che occorrerebbero per verificare questo dubbio di genealogia feudale del regno di Gerusalemme.
Della terra di Thoron compresa nella pace, fa anche menzione Marin Sanudo, Secretorum fidelium Crucis, lib. III, parte xj, cap. 10, 11, 12, presso Bongars, Gesta Dei par Francos, II, 210 segg. il quale è benissimo informato de’ particolari di questa Crociata, ed ebbe alle mani qualche scrittore arabo, s’io mal non mi appongo.
659. Bibars, pag. 513-514.660. Così il Makrizi, che vide al certo qualche documento. Gli altri scrittori arabi, al par che i latini, notano gli anni soltanto.661. Si confrontino i citati scrittori arabi e i documenti latini di parte imperiale e di parte papale, raccolti dal Bréholles, op. cit., III, 86 a 110, tra i quali è la supposta traduzione francese del testo arabico del trattato, mandata dal patriarca di Gerusalemme al papa, con le sue proprie osservazioni in latino. Questo fiore di diplomazia ecclesiastica è stato ristampato dal Mas-Latrie, Histoire de l’île de Chypre, III, 626 segg. Ma di certo non risponde al trattato originale, mancandovi i nomi de’ paesi ceduti all’imperatore. Così il miglior documento rimane sempre la costui circolare, come or si chiamerebbe, data di Gerusalemme il 18 marzo, nella quale si dice stipulato il trattato a 18 febbraio. La data del 24 che recano gli Arabi, potrebbe esser quella in cui Malek-Kâmil ratificò.
Ludd è nominata ne’ soli scritti musulmani; Ramla nella sola St. de’ Patr. Secondo Ibn-el-’Amid, pag. 511, furono ceduti a Federigo tutti i villaggi tra Gerusalemme e Jaffa.
662. Così nel citato diploma del 18 marzo; nè il patriarca di Gerusalemme osò affermare il contrario nel suo scritto sì capzioso e sì violento.663. Ibn-el-Athîr, pag. 316; Nowairi, pag. 513; Bibars, pag. 514; Ibn-el-’Amîd, ibid. Si veggano gli aneddoti narrati e le poesie scritte in questa occasione, presso Reinaud, Extraits, pag. 433 segg. Gli aneddoti si leggono anco nel testo d’Ibn-el-Giuzi, pag. 515.664. Reinaud, Extraits, pag. 433.665. Bibars, pag. 514.666. Dahri litteralmente “eternista,” cioè negante la creazione.667. Ibn-el-Giuzi, pag. 515.668. L. c.669. Così mi pare, non ostante ciò che dice la Continuazione di Guglielmo di Tiro, nello squarcio che trascrive il Bréholles, op. cit., III, 85.670. M. Reinaud, Extraits, pag. 429, su l’autorità di Dsehebi, narra che alcuni Crociati proffersero a Kâmil d’uccidere Federigo, e che il Sultano mandò a lui stesso la lettera originale. Non mi venne fatto di ritrovare questo testo a Parigi, quand’io raccolsi gli altri per la Biblioteca arabo-sicula; ma senza meno, lo avremo ne’ volumi della Bibliothèque des Croisades, che si stampano a cura dell’Accademia delle Iscrizioni.
Matteo Paris, nella Hist. Anglorum, ediz. citata, II, 313, riferisce la voce che i Templari e gli Spedalieri avessero avvisato Kâmil della prossima andata di Federigo da Gerusalemme al Giordano, e che Kâmil avesse mandata la lettera loro all’imperatore. Ma nella Abbreviatio Chronicorum, ediz. citata, III, 259, l’autore messe la postilla ch’eran calunnie dei nemici di que’ religiosi.
671. Makrizi, pag. 522, dice l’ultimo di giumadi secondo del 625 (25 maggio 1229). La St. dei Patr. ch’egli entrò in Gerusalemme nei primi di quaresima del 945 (1229), che stettevi altri due giorni e che, andato ad Acri, ripartì per l’Italia dopo la Pasqua.
Nowairi pone anco la consegna di Gerusalemme in rebi’ secondo del 626 (marzo 1229.)
672. Ormai è certo che gli Ismaeliani erano chiamati hasciscin, dalle note preparazioni d’ hascisc, ossia cannabis indica, e che, divenuti celebri pur troppo nel tempo delle Crociate, il loro nome volgare, pronunziato assassin, diè questo brutto vocabolo ad alcune lingue europee.673. Ibn-Khaldûn, Storia univ. ed. del Cairo, tomo V, pag. 352, segg.; Reinaud, Extraits, ec. §§. LXXIX ed LXXX, pag. 436. segg.674. Riccardo da San Germano, presso Caruso, op. cit. pag. 603.675. Ibn-Khaldûn, vol cit., pag. 433.676. Reinaud, op. cit., pag. 435, citando pel primo fatto lo Pseudo Jafei e per l’altro Abu-l-Mehâsin.677. Annales Colon. Maximi, presso Pertz, Script., XVII, 843.678. Op. cit., pag. 842.679. Novella xcviij delle antiche edizioni. Questa favola era stata pria raccontata più volte in tempi diversi, mutando sempre i personaggi. Nel IX e X secolo fu attribuita agli Ismaeliani di Persia; nel XII a que’ di Siria, quando Saladino andò a trovare Sinan. Un continuatore di Guglielmo di Tiro, copiato da Marin Sanudo, fece spettatore del suicidio Arrigo, conte di Champagne, poi re di Gerusalemme. Si veggano le citazioni nel diligente lavoro di M. De Frémery, Nouvelles Recherches sur les Ismaeliens. Paris, 1855, estratto dal Journal Asiatique del 1854.680. Bibars, op. cit., pag. 515.681. Epistole del 1245 e 1246, presso Bréholles, op. cit., II, 325, 427.682. Si vegga il principio del § III della Cronica di Kelaûn, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 341, e la traduzione che io ne ho data nella Guerra del Vespro Siciliano, tomo II, pag. 333 segg. della edizione del 1866.683. Si vegga l’attestato del Makrizi, qui sopra a pag. 640.684. Annales Colon. Maximi, presso Pertz, Scriptores, XVII, 812.685. Bartolommeo de Neocastro, cap. L, presso Gregorio, Rerum Aragon., I, 73. Il nome proprio si legge Malbalusus. Il nome topografico, che vive ancora, significa, in arabo, luogo di preghiera, e propriamente il piano aperto dove si fa la preghiera solenne.686. Chronicon De Rebus in Italia Gestis, edizione Bréholles, pag. 174. Non assento al Bréholles, Historia Diplom., etc. Introduction, pag. ccclv, nota 2, che fossero venturieri arabi, e molto meno che Federigo ne abbia fatti venire d’Affrica. Il mio dotto amico prestava troppa fede a Matteo Spinelli.687. Nusf-ed-dunia. Si ricordi la nave di Mehdia così denominata, della quale abbiam detto nel presente libro, cap. ij, pag. 406 del volume.688. Nell’Appendice al Malaterra, presso Caruso, op. cit,. pag. 252, si legge sotto l’anno 1240, XV, indiz. “Rogerius de Amicis ivit ad Soldanum Babiloniae” e nel 1241, Iª indiz. “Soldanus de.... et.... insiluerunt (in) christianos qui habitabant Jerusalem et ceperunt illos, occiderunt et captivos duxerunt.... Et in illis diebus Dominus Rogerius de Amicis manebat (in) Babiloniam et in Cayrum cum Soldano.” La data e questa circostanza del soggiorno lungo, provano la identità della persona dell’ambasciatore principale con quella designata dalla Storia de’ Patriarchi d’Alessandria. In questa poi si legge: “E del maggiore di questi due ambasciatori dicono ch’ei porti su le carni una veste di lana.” Abbiamo dunque la flanella nel XIII secolo: o l’uso delle camicie di lino e di cotone non era sparso per anco in Sicilia?689. Storia de’ Patr. d’Aless., nella Bibl. ar. sicula, pag. 324, 325. Cf. Reinaud, Extraits, ec., pag. 441, 442.690. Storia de’ Patr. d’Aless., op. cit., pag. 326.691. Raynald., Annales Eccles., 1246. Si confronti, per la data, il Bréholles, op. cit., Introduction, pag. ccclxvij.692. Pseudo-Jafei, nella Bibl. ar. sicula, testo, pag. 516, 517.693. Op. cit., pag. 517.694. Testo, nell’op. cit., pag. 346; e traduzione nella mia Storia del Vespro siciliano, II, 341 dell’edizione del 1866.695. Ibn-Giuzi, trascritto dallo Pseudo-Jafei, nella Bibl. ar. sic., testo, pag. 517.696. Pseudo-Jafei, citato da Reinaud, Extraits, ec. pag. 436. nota 1. Alberto Magno, Opera, tomo VI, Lione, 1651, De Animalibus, tract. II, cap. I, § De Anabula, descrive questo animale chiamato dagli “Arabi e dagli Italiani” Seraph, e continua: “Unam harum secum, temporibus nostris, habuit Federicus imperator, in partibus nostris.”697. Abulfeda, Annali, 698, nel quale anno morì questo Gemâl-ed-dîn. Nella edizione di Reiske, V, 144, e nella Bibl. ar. sic., testo, pag, 420.
Cotesta novella simboleggia pure l’arrisicato viaggio del 1212, dicendo che appena fatta la elezione, Federigo si pose in capo la corona e scappò via con uno squadrone di cavalieri tedeschi ch’egli aveva appostati, e così fece ritorno al suo paese.
698. Si vegga il Cap. viij del libro V, pag. 259 di questo terzo volume.699. Diploma greco del 1143, citato nel Cap. iij del presente libro, pag. 449, del volume, dove ho corretto il testo dello ’alâma arabico di questo diploma, pubblicato dal Morso e dal prof. Caruso. La clausola arabica del diploma non fu letta meglio che lo ’alâma. Il Morso la tradusse a suo modo: “Mense maii; indictione sexta, rogatus fuit Dominus noster Rex augustus, sanctus, cujus regnum Deus perpetuet, ut imprimeret suum nobile signum in hoc diplomate, ut sciatur quod ejus potentia, ordinatione divina constituta, hoc etiam concessit annuitque responsione, et se contentum declaravit, impressitque suum sublime signum. Sufficiens est Deus et propitius ei qui confidit in illo.” E segue immediatamente la soscrizione di Giorgio.
Parendomi che la formola della omologazione regia di somiglianti atti, dia molta luce alla diplomatica ed alla legislazione del tempo e che la lezione del Morso in parte sia sbagliata, do qui una nuova versione del testo arabico, com’io l’ho letto nell’originale molto chiaramente: Del mese di maggio, sesta indizione, io ho chiesto al nostro padrone il re venerato e santo, il cui regno Iddio eterni, di far porre il suo eccelso ’alâma in questo diploma, affinchè si sappia ch’Egli, la cui possanza Iddio mantenga, abbia permesso e ratificato questo (atto). Ed Egli ha impartita l’approvazione, omologato (l’atto) e fatto porre in testa di quello il sublime ’alâma suo. Facciamo assegnamento in Dio, che ben provvede.
700. Cosmos, edizione francese del 1848, tomo II, 233, 519. Veggansi inoltre Venturi, Commentarii sopra la Storia e le teorie dell’Ottica, Bologna, 1814, in fol., tomo I, pag. 34 a 59; Caussin, nelle Mémoires de l’Institut de France, Acad. des Inscriptions, tomo VI (1822). N’avea trattato lo stesso Humboldt nella Raccolta di Osservazioni astronomiche, tomo I (1811), pag. lxv a lxx, e poi il Delambre nella Storia dell’Astronomia etc.
L’Humboldt studiò il ms. di Parigi, Ancien Fonds, 7310; il Caussin questo e un altro della medesima biblioteca, del quale ei non dà il numero, nè io ho potuto rinvenirlo: finalmente ei cita con dubbio un altro codice della Bodlejana. In Italia, poi, abbiamo i due codici dell’Ambrosiana che citerò nella nota seguente; uno della Vaticana nº 2975; due della Bibl. nazionale di Firenze (Raccolta Magliabechiana) segnati XI, D. 64 e II, II, 35; cd uno del principe Baldassare Boncompagni di Roma, descritto nel catalogo di Enrico Narducci, Roma, 1862, pag. 136, seg., nº 314.
Mentr’io correggo queste pagine, so che si prepara appo noi la pubblicazione di questo libro che avea già intrapresa il Venturi allo scorcio del secol passato, e poi dovette abbandonarla. Spero che i dotti editori odierni, da me ben conosciuti, trovino Mss. più antichi di quelli che ho visti io, i quali tornano alla fine del XVI, e principii del XVII secolo, e, s’io ben mi appongo, son tutti italiani ed anco stretti parenti l’un dell’altro. L’età e il paese ben rispondono al movimento scientifico rivelato dall’accelerata propagazione delle copie.
701. Ecco questo proemio che ho copiato sul ms. 7310 di Parigi (XVII secolo) e confrontato e corretto con una copia dello stesso squarcio, mandatami nel 1856 dal dotto e cortese Antonio Ceriani, in oggi prefetto dell’Ambrosiana. Questa copia fu fatta sul codice Ambrosiano T. 100, con le varianti del Codice D. 451. Inf. (XVII secolo). Non fo il confronto con gli altri codici delle nostre biblioteche, perchè appartiene ai novelli editori; e sol dirò che i codici magliabechiani e i romani, hanno anch’essi ammiraco in luogo di ammirato. Tralascio gli errori manifesti e le varianti di minore importanza e seguo l’ortografia attuale.
“Incipit liber Ptolomæi de Opticis, sive aspectibus, translatus ab amirato (cod. par. ammiraco ) Eugenio Siculo, de Arabico in latinum.”
“Cum considerarem Optica Ptolomæi necessaria utique fore scientiam diligentibus et rerum perscrutantibus naturam, laboris onus subire et illa in presenti libro interpretare non recusavi. Verumtamen, quia universa linguarum genera proprium habent idioma, et alterius in alterum translatio, fideli maxime interpreti, non est facilis; et præsertim arabicam in græcam aut latinam transferre volenti, tanto difficilius est, quanto major diversitas inter illas, tam in verbis et nominibus quam in litterali compositione reperitur, unde, quia in hoc opere quaedam forte non manifesta apparent, dignum duxi intentionem auctoris ab arabico libro evidentius intellectam, breviter exponere, ut lectoribus via levior efficiatur. In primo quidem sermone, quamvis non sit inventus, tamen sicut in principio secundi exprimitur, continetur quo visus et lumen comunicant et ad invicem assimilantur, et quo differunt in virtutibus et motibus, nec non differentiae eorum et accidentia. In secundo etc.”
Così il traduttore continua l’indice de’ capitoli e poi ripiglia:
“Incipit sermo secundus Opticorum Ptolomæi, olim de græca lingua in arabicam, nunc autem de arabica in latinam, translatorum ab amirato (cod. par. ammiraco ) Eugenio Siculo, ex duobus exemplaribus, quorum novissimum, unde presens translatio facta fuit, veratius est: primus tamen sermo non est inventus.”
Gli argomenti dei cinque discorsi, o libri come si vogliano chiamare, son questi: 1º Ipotesi su la visione per raggi lucidi emanati dall’occhio; 2º Correzione degli errori ottici per mezzo degli altri sensi; 3º Catottrica; 4º Degli specchi concavi in particolare; 5º Diottrica.
702. Primo di tutti il Caussin citò queste profezie nella sua Memoria su l’Ottica di Tolomeo, per determinare l’età in cui visse l’ammiraglio Eugenio, del quale ei non aveva altre notizie.
Ricercati e trovati i mss. nella Biblioteca Nazionale di Parigi, io ho visto che dànno, con poco divario, il nome e l’ufizio d’Eugenio e la misteriosa provenienza di quell’opera. Son essi notati: Mss. Latins, Ancien Fonds, 3595, 6362, 7329, e Sorbonne 316, dei quali il primo e il terzo sembrano del XIV secolo, il secondo del XV, e il quarto è del XVI. Il libro è intitolato anche: Vasilographi, idest imperialis, nel 6362. L’uficio poi d’Eugenio è scritto admiratus in questo, nel 3595. (fol. 37 segg.) e nel 316 Sorbonne, ed ammiratus nel 7329, (fol. 98 recto), il qual ms. comincia con l’ Astrologia Guidonis Bonati de Forlivio. Il traduttore greco è detto, dove toxapater, dove Dox pater dove daxopetri e lasciato in bianco nel 7329.
703. Si vegga Walz, Rhetores Græci, nei Prolegomeni del vol. II, pag. 11, e nel vol. VI, pag. 11. Tolgo questa citazione dalla Nouvelle Biographie etc. del Dott. Hoefer, articolo Doxipater, non avendo alle mani, mentre io scrivo, l’opera del Walz.704. Si vegga il Cap. iij di questo libro, a pag. 452 segg. del volume.705. Libro V, Cap. vj, pag. 173 segg. di questo volume.706. Ibn-Khaldûn, ne’ Prolegomeni, espressamente lo dice hammudita e capitato in Sicilia dopo la espulsione de’ suoi progenitori da Malaga, della quale eran signori. Questo passo fu citato pel primo dal baron De Slane, in un importantissimo articolo ch’ei pubblicò su la geografia di Edrîsi, nel Journal Asiatique, 3 me série, tomo XI (1841) pag. 362 segg.707. Il baron De Slane, ch’è de’ più assidui e dotti ricercatori di manoscritti arabi, die’ nel citato articolo, pag. 574 segg., una lunga lista di opere ch’egli avea percorse senza alcun frutto, per trovare notizie biografiche d’Edrîsi.708. Il trattato De Viris illustribus apud Arabes, dove Leone Affricano dà a cap. XIV la biografia dello “Eseriph Essachali,” com’ei lo chiama, fu scritto o pensato in arabico, tradotto dall’autore stesso in quella specie d’italiano ch’ei possedeva, e pubblicato in latino dall’Hottinger, poi dal Fabricius, Bibl. Græca, tomo XIII (1726), pag. 278, e infine dal Gregorio, Rerum Arab., pag. 238. Al dir di Leone, l’autore del Nushat alabsar nacque in Mazara, fu mandato da’ suoi concittadini a re Ruggiero conquistatore della Sicilia e gli presentò quel libro. Il re, fattoselo tradurre in latino, fu preso della bellezza dell’opera sì fattamente, ch’ei donò ad Eseriph non so qual castello e lo invitò a stare a corte: ma quegli, non amando tal soggiorno, vendè il castello per un milione di ducati e se ne andò in Affrica dove morì il 1122. Questo pasticcio non farà alcuna maraviglia a chi abbia lette le nostre osservazioni su le opere di Leone Affricano, nel Cap. x del I libro, pag. 234 segg.
Il Gregorio, l. c. notando la confusione de’ due Ruggieri, corresse conte il titolo di re; trasportò l’opera alla seconda metà dell’XI secolo; fece quindi due Edrîsi e due geografie, ed arrivò a biasimare il Casiri, perchè non si era accorto della diversità delle opere dei supposti due geografi.
709. Questo nome si legge nel ms. della Bodlejana, n. 887 del catalogo di Uri, mediocre codice del XV secolo. Il capitolo della Kharida, del quale io ho pubblicato il testo nella Bibl. arabo-sicula, pag. 610, dà soltanto il nome di Mohammed, figlio di Mohammed e aggiunge il nome etnico Kortobi e il soprannome d’Ibn-et-Theiri, secondo un ms., e d’Ibn-et-Th..ri secondo un altro; ma amendue le lezioni mi sembrano erronee. Anche Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, VI, 333 e Bibl. arabo-sicula, p. 706 del testo, dà i soli due nomi di Mohammed figlio di Mohammed, lo Sceriffo Edrîsi siciliano. Il Dozy, nella prefazione alla Description de l’Afrique et de l’Espagne, pag. III, ammette la tradizione di parentela che risulta dal ms. bodlejano, alla quale in vero, io non veggo alcun ostacolo.710. Così il Casiri, Bibl. arabo-hisp., II, 13, senza citare le sorgenti; ma i dati suoi stanno bene con quelli che abbiamo d’altre parti, e lo studio a Cordova è anche provato dal soprannome di Kortobi, dato all’Edrîsi nella Kharida. Si confrontino lo Slane e il Dozy ll. cc.711. Dice egli stesso, nella geografia, che fu a Lisbona (traduzione francese, tomo II, 26); che vide la marea dell’Atlantico (I, 95), e le miniere di mercurio ad Abal (II, 66); che aveva notato parecchie volte il ghiaccio nelle strade di Aghmat (I, 212) e ammirato il ponte di Costantina (I, 243); che era disceso nella grotta de’ Dormienti, non già presso Efeso, ma in una montagna tra Amorinm e Nicea (II, 300). Conf. Reinaud, Aboulfeda, Introduction, pag. CXIII, CXIV.712. Pagine 453 segg., 486 segg. di questo volume.713. Leone Affricano lo dice morto il 516, che torna al 1122-3 e però è sbagliato di certo. Il baron de Slane, nel lavoro critico che testè lodammo, propone la plausibile conghiettura che Leone o il suo traduttore, abbia scritto l’anno dell’egira 516, in luogo di 560, con che la morte di Edrîsi tornerebbe al 1164-5.714. Il testo delle notizie biografiche si legge nella Bibl. arabo-sicula, pag. 610, 611. Quivi non pubblicai i versi di Edrîsi, ch’io già avea copiati dai due mss. parigini della Kharida, cioè Anciens Fonds, 1376, fog. 49 recto, segg. e Asselin, 369, fog. 12, verso, segg.
Il primo componimento, nel quale si narra il solito sogno erotico dei poeti arabi, incomincia con questo verso:
“Ella venne a trovarmi al buio, quand’io, fatta la vigilia, m’era buttato a dormire, ed anima vivente non ci sentiva.”
Or il sostantivo rakib, al quale ho dato il significato generico di “vigilante” si dice di chi fa la scolta, di chi aspetta, di chi fa un’osservazione astronomica, ec. Edrîsi doveva essere un po’ astronomo o astrologo anch’egli. Ma ne’ versi seguenti non v’ha nulla che porti all’un di que’ significati, più tosto che all’altro.
Nel secondo squarcio, il geografo confessa “aver passate di molte notti a bere in nobili ed elette brigate, nelle quali il vino, ammantato di giallo e ornato d’una collana di schiuma, avea sì ben lavorato, che l’aurora trovò i commensali distesi a terra, tra fiumi, rigagnoli e prati; donde e’ si levavano tutti sbalorditi, ma ricominciavano a far girare le coppe infino a sera.”
Par che Edrîsi, quand’ei comunicò le sue poesie a Ibn-Bescirûn, avesse già varcata quella felice età; poichè nell’ultimo madrigale, pesante anzi che no, ei non pensa che alla morte, ai proprii peccati ed alla misericordia di Dio.
715. Mi riferisco pei particolari ai capitoli 5 ed 11 dell’opera di Lelewel, intitolata: Géographie du Moyen-âge, monumento di erudizione, amor della scienza e volontà ostinata contro gli oltraggi della fortuna. Sventuratamente il libro non è ben ordinato, ed è scritto in un tal francese, che spesso non si capisce, e sempre stanca il lettore.716. Si veggano: Reinaud, Géographie d’Aboulfeda, Introduction, § II; Lelewel, op. cit. Epilogue, cap. 87 a 61; Sédillot Prolégomènes des Tables d’Oloug Beg., pag. viij segg. e Sprenger, Die Post-und Reiserouten des Orients, Leipzig, 1864.717. Su la cartografia presso gli Arabi, si vegga Reinaud, op. cit., pagine xliv, xlv, ccliii, e Lelewel, op. cit. passim.718. Nel cap. iij del presente libro, pag. 453 segg.719. Il testo ha in tutti i mss. ..r..sios-el-Antaki, senza vocale dopo la r, e senza alcun segno che determini la prima lettera, se sia a, i, ovvero o. Paolo Orosio da Tarragona, potea forse venir chiamato Antiocheno da qualche traduttore siro o arabo, per cagion del suo viaggio in Oriente. Egli è d’altronde il solo storico latino di cui facciano menzione gli Arabi; sul quale si vegga Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, V, 171, num. 10,626. Intorno le nozioni geografiche contenute nella Storia di Paolo Orosio, si confronti Lelewel, op. cit., cap. 28 del volume intitolato Epilogue, pag. 35.720. Si vegga su questi autori, Reinaud, op. cit. Introduction, § II, pag. lvij, lx, lxj, lxiij, lxii, lxxxj.721. I nomi proprii, al par che l’etnico, dànno a vedere che quest’autore era di schiatta tartara.722. Le ricerche del Reinaud, del Lelewel, dello Sprenger, del Sédillot, e di M. Barbier de Meynard, non ci dànno alcuna notizia su cotesti autori.723. Reinaud, vol. cit., Introduction § II, pag. lxij, xciij, xcv, cij; Barbier de Meynard, Le Livre d’Ibn-Khordadbeh, nel Journal Asiatique, di gennaio 1865; Sprenger, op. cit. prefazione.724. Sprenger, op. cit., p. XVIII segg.725. Su l’importantissima opera geografica di Bekri si vegga la nostra Introduzione, nel primo vol., pag. XLII, XIV. Il baron De Slane ha pubblicato poi il testo arabico ed una nuova traduzione francese.726. Venticinque parasanghe da tre miglia ciascuna. A questa misura s’appiglia l’autore, traduzione francese, I, 2, il quale cita quelle degli Indiani e d’Erastotene e tace la misura di Tolomeo. Si veggano a questo proposito le osservazioni di Lelewel, op. cit., cap. 60, tomo I, pag. 100.727. Lelewel, op. cit. cap. 247 e 60, tomo I, pag. LIX e 101. Si vegga anche la mia Carte comparée de la Sicile, Notice, pag. 13, 14. Il miglio romano è valutato, secondo le ultime ricerche, a metri 1481, e il siciliano, secondo il sistema del 1809, torna quasi allo stesso, cioè 1487 metri. Si avverta che Edrîsi, ne’ diversi itinerarii, e perfino in que’ della Sicilia, adopera talvolta altre specie di miglia; il che or dovea produrre errori ed or no, sembrando che gli autori dell’opera siciliana abbiano conosciuto i rapporti di alcune di quelle specie di miglia.
Il Lelewel conchiude che la misura di 75 miglia al grado era “positiva, siciliana, tradizionale in Sicilia....” quella appunto di Pytheas da Marsiglia, trapiantata in Sicilia da Timeo di Taormina.
Si ricordi inoltre che il sistema metrico siciliano del 1809 innovò poco le antiche misure, le quali non erano, per altro, uniformi in tutta l’isola.
728. Per esempio Gaud..s -Gaulos (Gozzo); Nabbudi -Anapus; Marsa-el-Julis -Odyssæum portus.
Non metto in lista qualche altro nome il quale si può supporre mantenuto fino al XII secolo, come Libniados, ch’Edrîsi dà a Licata e che si trova scritto Limpiados e Ολυμπίαδος, in un diploma bilingue del 1144.
Non mi pare impossibile che i geografi di Palermo abbiano trascritto da carte greche alcuni nomi che non si trovavano nelle arabiche. Noi sappiamo dal Masûdi, Les Prairies d’or, testo e traduzione, Paris, 1861, I, 185, che gli Arabi non sapeano leggere alcuni nomi nelle carte di Tolomeo, perchè erano scritti in greco. Il che non si deve intendere di tutti i nomi, ma di quelli de’ quali i traduttori arabi non avean saputo trovare il riscontro, o non l’aveano cercato per la poca importanza del luogo.
729. Si veggano nel vol. II della traduzione di M. Jaubert:
- N..b..kta , p. 121, Naupactos (Lepanto).
- † sck..la , p. 125, Scyllaeum.
- Ellak..d..mona , p. 125, Lacedemona.
- † ghr..b..s , p. 296, Euripos (Negroponte).
- † blakhonia , o †flakhonia, p. 299, Paphlagonia.
- M.diolân , p. 240, Mediolanum.
- Arinminis , p. 247, Ariminum.
- Badi , p. 253, Padum.
- Ang..l..zma , p. 227, Aequolesima (Angoulême).
- Albernia , p. 368, Alvernia (Auvergne).
E da un altro lato:
- L..g , p. 116, Lecce.
- B.rzâna , p. 417, Bruzzano.
- † nbria , p. 240, Umbria.
- S..gona , p. 249, Savona.
- G..b..t B.ka , p. 250, Civitavecchia.
Di Nardò si dànno due nomi, p. 119. Nudrus (correggasi Nardros)e Neritos; proprio il nuovo e l’antico.
È certo poi che i geografi di Palermo ebbero sotto gli occhi qualche carta o relazione araba della costiera d’Italia, poichè non poteano trovare altrove il porto di Khinziria che suona “cinghialeria” (forse Porto Ferraio) pag. 250, nè il secondo nome di Keitûna-el-Arab “Cala degli Arabi” che si dava al Monte G..rgio (Capo Circeo), pag. 256. Il vocabolo Keitûn, del quale Edrîsi dà qui la forma femminile, è preso manifestamente da Κοιθὠν, che dall’antico significato di letto e camera da letto, passò nel greco bizantino a quello di “cala” o di “scalo.” Si vegga l’annotazione che fa M r Hase a questa voce, nella nuova edizione del Thesaurus.
- B..lonia , p. 240, Bologna.
- B..ri , pag. 241, Berry.
- † kl..rm..nt , pag. 241, Clermont.
- Auzb..rg. . p. 246, Augsbourg.
- † nk..rt..ra , p. 356, Inghilterra.
- † nkl..sin , p. 356, Inglesi.
- K..mrâi , p. 366, Cambray.
- † strik , p. 367, Utrecht.
- H..stings , p. 374. Hastings.
- R..ng B..rg e Rinscb..rg , p. 570, Regensburg.
Centinaia di nomi si potrebbero aggiugnere all’una o all’altra classe, ma i nuovi abbondan più ne’ paesi di lingue germaniche.
Si avverta che abbiamo segnate con puntini (..) le vocali brevi che mancano quasi sempre nel ms. e con una crocetta (†) l’ elif arabica, la quale, secondo le vocali aggiuntevi, può suonare a, i, o, e talvolta è premessa meramente per eufonia innanzi due consonanti, come noi usiamo l’ i avanti la s impura.
730. Si vegga il cap. iij del presente libro, pag. 454, nota 2.731. Edrîsi parla di soli compatriotti di Ruggiero; ma non si può supporre esclusi i Musulmani, quando lo scrittore, e forse molti altri collaboratori, professavan quella religione. Tutte le memorie del XII secolo, e particolarmente il viaggio d’Ibn-Giobair, provano il frequente passaggio di viaggiatori musulmani in Sicilia.732. Come ho avvertito a pag. 455, nota 2, Edrîsi dice che, per fare tal confronto, si prese la tavola del tarsîm. Quest’ultimo vocabolo significa “fare il rasm ” e vale, secondo i dizionarii, “vergare, segnare per bene” e specialmente “tirar linee, listare.” Così avremmo tavola lineata, o in altri termini, graduata.
Ma la voce rasm, qual che si fosse il suo valore primitivo nella lingua arabica, fu dal tempo di Mamûn in giù, adoperata da’ geografi per indicare i contorni del mondo conosciuto; onde agli eruditi è parsa mera trascrizione di όρισμας. (Cf. Lelewel, op. cit., cap. 15, tomo I, pag. 21, e Reinaud, op. cit., Introduzione, pag. xlv.) Abbiamo in fatti varii Rasm el rob’ el ma’mûr ossia “Figura del quarto (di superficie terrestre) abitato.” Ora egli è perfettamente conforme all’uso della lingua arabica che si cavi da un sostantivo la seconda forma del verbo analogo a quella radice, e gli si dia il significato di fare o produrre la cosa designata dal nome; in guisa che tarsîm vorrebbe dire precisamente, l’atto di delineare il rasm, cioè la supposta figura della terra abitata.
Ognun vede, finalmente, che nel nostro caso i due lavori designati da que’ due vocaboli tornavano allo stesso effetto. La tavola graduata (sia a gradi di latitudine e longitudine, sia coi sette climi che faceano da paralelli e con dieci suddivisioni per ciascun clima che supplivano a’ meridiani) serviva a delinearvi il mappamondo secondo le tavole di latitudine e longitudine compilate dagli astronomi; e il rasm era il mappamondo copiato da un esemplare ch’era stato precedentemente costruito o corretto secondo le medesime tavole.
733. Che mi sia permesso questo neologismo per significare con un sol vocabolo la linea itineraria accompagnata dalla sua direzione rispetto ai punti cardinali. Si vegga l’errata, nel quale ho corretto così la espressione ch’io tradussi vagamente “distanze” nella pag. 455, spiegandola bensì nella nota 1 della pagina stessa.734. Si vegga la pag. 455, nota 3.735. Ho citati i codici e le loro carte geografiche, nella Introduzione, vol. I, pag. XLIII seg. num. XX, e poi nella Carte comparée de la Sicile, pag. 10.
Il mappamondo del codice della Bodlejana (Grav. 3837-42) è delineato in un gran foglio, e quello del ms. di Parigi (Suppl. arabe 892) sopra uno più piccolo. Da coteste due copie manoscritte M r Jomard trasse il disegno, pubblicato poi da M r Reinaud, Géographie d’Aboulfeda, pag. cxx. Il Lelewel, dopo averne fatto un diligentissimo studio nel cap. 57 della sua opera ed aver copiata nella tavola Xª (n. XX, 39) del suo atlante la figura del mappamondo, ricostruì questo in un rame ch’è il secondo tra quelli annessi ai suoi Prolegomeni. Ei nota (op. cit., cap. 62 nel tomo I, pagina 103), tra gli altri errori di coteste immagini, la lunghezza del Mediterraneo, molto diversa da quella che risulta dal testo.
736. Lelewel, capp. 8, 9, 10 e 50, e nell’Atlante, tavole VII e IX, figure xj e xvij. È da notare che nel mappamondo di Torino sono raffigurati i quattro venti cardinali, i quali mancano nelle precedenti immagini del mondo di origine latina. Del resto, la figura del Mediterraneo e dell’Adriatico toglie ogni sospetto che questo mappamondo possa essere stato mai cavato da carte nautiche.
Il sagace Lelewel lo ha supposto delineato, o almeno ricopiato, nella contea di Maurienne, poichè vi ha scoperto, non ostante gli errori, il nome di quel piccolo paese. Si vegga la descrizione del codice e la incisione della carta, presso Pasini, Codices mss. Bibl. reg. Taurinensis Athenaei, II, 26, segg. Ritraggo di più da una lettera del dotto bibliotecario Gaspare Gorresio, che il codice va riferito alla fine del XII secolo, se non al principio del XIII, e che la carta fu fatta, o per lo meno scrittovi i nomi, dalla stessa mano che copiò il codice.
737. Versione francese, II, 421.738. Si veggano i fac-simile, in fin del primo volume della versione francese. Il Lelewel, op. cit., cap. 60, 246, pag. liv e 99, del 1º volume, trascrive le cifre delle latitudini e longitudini che si trovano soltanto per 26 posizioni, una delle quali appartiene al secondo clima e tutte le altre al primo.739. Mi sembra che il Lelewei, tomo I, pag. 99, abbia compresa l’operazione in questo stesso modo, quantunque egli fosse incatenato dalla traduzione francese di M. Jaubert, la quale rendea così il passo di Edrîsi: “il voulut savoir d’une manière positive les longitudes et les latitudes et les distances respectives des points.” Ma veramente questo passo, che si riferisce a Ruggiero, significa “volle vedere se tornassero precisamente le linee itinerarie orientate,” come ho detto poc’anzi nella nota 3, pagina 673 seg.
Delle carte nautiche del medio evo ha trattato il Lelewei, op. cit., cap. 256, tomo I, pag. lxxxij, e cap. 108, tomo II, pag. 16 seg. Egli attribuisce ai perfezionamenti successivi di quelle, la nuova èra delle scienze geografiche. Si vegga anche il discorso letto da M r D’Avezac alla Società Geografica di Parigi, intorno la proiezione delle carte. Paris, 1863, § XI.
Si ricordi che la prima carta conosciuta fin oggi, è quella genovese di Pietro Visconti (1318). Ma la prima menzione dell’ago calamitato si legge in Pietro d’Ailly e in Guyot de Provins, cioè a dire verso il 1190.
740. Asselin, console francese al Cairo ne’ principii del nostro secolo, riportò una bella collezione di Mss. comperata poi dalla Biblioteca parigina. Vien da cotesta collezione il prezioso codice denotato con la lettera B nella versione di M r Jaubert, in questa mia storia e nella Biblioteca arabo-sicula.
M r Jomard, che creò poi la magnifica collezione di carte posseduta dalla Biblioteca Parigina, fece copiare queste di Edrîsi, come si scorge dal Reinaud, op. cit., pag. CXIX. L’industre Lelewei ne incise egli stesso nell’op. cit., una riduzione alla decima parte (da 0,32 × 0,18 a 0,03 × 0,02).
741. Nella Carte comparée citata dianzi, io ho messa a riscontro la Sicilia del ms. Asselin con quella cavata da un bel ms. greco di Tolomeo, posseduto dalla stessa Biblioteca Parigina.742. Si vegga il nostro libro IV, cap. xiv, pag. 446 del 2º vol.743. Mi fa pensar questo la posizione rispettiva di Messina e di Palermo. Nella periferia dell’isola, veggiamo troppo alterata la parte che guarda l’Affrica. Ma si rammenti che la copia è fatta ad occhio.744. Si vegga Lelewel, op. cit., vol. III pag. 71 e 220, dove l’autore esamina la descrizione con critica da maestro, ma sbaglia talvolta per poca pratica della lingua e scrittura arabica.745. Il baron de Slane, nell’articolo sopra Edrîsi, pag. 388 del citato volume del Journal. asiat., riferisce il giudizio di M. Hase ed accenna al confronto de’ nomi geografici di quelle regioni, sul quale l’illustre ellenista faceva un lavoro, di cui v’ha qualche saggio nella traduzione del Jaubert, II, 286 segg.746. Reinaud, Géographie d’Aboulfeda, II, 263 segg.747. Tomo II, 250 segg. della traduzione francese. Edrîsi le tolse in parte da Ibn-Khordadbeh, il quale alla sua volta le avea raccolte da autori più antichi. Si vegga la citata traduzione d’Ibn-Khordadbeh, nel Journal asiatique di giugno 1865, pag. 482 segg. con le note di M. Barbier de Meynard, il quale attribuisce a mercatanti musulmani ed ebrei questa descrizione di Roma, degna delle Mille ed una notte, come ben dice l’erudito traduttore. Edrîsi lasciò indietro alcune favole più grosse. Ma ripetè quella del Tevere foderato di rame; l’origine della quale è un equivoco sul flavus Tiber, come lo nota M. Reinaud, Géogr. d’Aboulfeda, pag. 310, 311 nota, poichè sofrah in arabico significa ad un tempo “giallo” ed “ottone.”748. A foglio 10, recto, lin. 5 del testo mediceo. Non posso citare altrimenti, poichè le pagine non sono numerate. I traduttori, nella prefazione, dissero cristiano l’autore perchè nomina G. C. “il signor Messia.” Ma una lettura alquanto più estesa delle opere di Arabi musulmani avrebbe fatto cader subito così fatto argomento; e in ogni modo quella espressione, usata nella corte di Ruggiero, non dovea far maraviglia, nè potea provar punto nè poco la professione di fede dello scrittore.
L’errore da me citato è di copia, non di stampa, leggendosi anco nel ms. di Parigi, Suppl. arabe 894, ch’è lo stesso sul quale fu fatta la edizione di Roma, e pervenne, non si sa come, nelle mani dell’Abate Renaudot e indi nella Biblioteca di Saint Germain des Près. V’ha l’ imprimatur della censura di Roma e la nota di qualche passo tolto da’ censori: per esempio, il racconto che nell’isola di Ceylan rimanea l’orma del pie’ di Adamo. Sempre gli stessi!
Secondo il catalogo di Assemani, n. CXI, pag. 162, la Laurenziana possederebbe un codice del Nozhat, o per lo meno del compendio. Ma il manoscritto CXI, oggi rilegato con un altro e segnato di n. 49, non è altro che la seconda metà dell’ Agidib-el-Mekhlûkat di Kazwini. Di due cose, dunque, l’una: o il catalogo di Assemani è sbagliato in questo, come in tanti altri luoghi, o il codice fu barattato dopo la compilazione del catalogo; cioè che lo Edrîsi scomparve e che per surrogarlo si spezzò in due il Kazwini. Non si può metter da parte tal sospetto, quando abbiamo certissimi i due fatti: 1º che il Suppl. 894 di Parigi è quel desso che servì a stampar l’opera nella tipografia medicea; e 2º che il codice passò per la biblioteca del Renaudot, sì gradito a corte dei Gran Duchi di Toscana al suo tempo. Ognuno intende ch’io non accuso con ciò quello illustre trapassato. Si può dare che la corte di Toscana gli avesse regalato il codice; che gli fosse stato prestato dal bibliotecario, ec.
749. Il signor Reay lavorava a così fatta edizione, come si scorge dal rapporto di M. Mohl, nel Journ. asiatique di luglio 1840, pag. 124. Ma non se n’è più parlato.750. Description de l’Afrique etc, par R. Dozy et M. J. de Goeje. Leyde, 1866, in 8º.751. Si veggano gli Atti della Società geografica di Parigi in quel tempo, e il citato articolo del baron De Slane, nel Journal Asiatique.752. Reinaud, op. cit. Introduction, pag. CXX.753. Sprenger, Die Post- und Reiserouten, già citato, pag. xvij.754. Il libro di Ruggiero, per quanto io sappia, non è stato studiato addentro se non che dal Lelewel; il quale l’ha confrontato con le opere anteriori ed ha rifatto, com’ei potea meglio, il mappamondo e alcune carte parziali. Non è cosa facile il citare dei passi dell’opera di Lelewel. Si veggan pure i capitoli 54 a 68, e 246 a 254, le carte X, XI e XII, dell’Atlante, quelle date ne’ Prolegomeni, l’ Epilogue, cap. 73 segg. e tutta l’ Analyse.... d’Edrîsi nel III volume. Ritornando su l’argomento nell’Epilogue, cap. 72, pag. 126, il signor Lelewel indovinò felicemente gli altri elementi del mappamondo siciliano; ma costretto, lo voglio replicare, dalla versione di M. Jaubert, a credere che si fossero trasportate nell’abbozzo «le latitudini e longitudini» e non già «le linee itinerarie orientate», ei non potè scoprire il merito principale dell’opera.755. Reinaud, Géog. d’Aboulfeda, Introduzione, pag. CXX.756. Questo giudizio ch’io dètti una volta, è stato ratificato dal Dozy, nella prefazione all’opera citata su l’Affrica e la Spagna.757. Il testo latino di questa iscrizione fu pubblicato dal Fazzello, Deca I, libro viij, cap. 1, indi dal Pirro; e, co’ testi greco ed arabico, dal Gregorio, Rerum Arab., pag. 176; dal Morso, Palermo antico, pag. 27 segg., e in parte poi dal Buscemi e dal Lanci. Io ho data una lezione, com’io credo più esatta, de’ testi, accompagnata di alcuni schiarimenti, nella Rivista Sicula, Palermo, vol. I, pag. 339 segg. (maggio 1869.)758. Kazwini, Athâr el Belâd, nella edizione del Wüstenfeld, Zaccaria.... Cosmographie, II, 373; e nella mia Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 143.759. Estratto della Kharida di Imad-ed-dîn, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 581. Ibn-Ramadhan è indicato quivi col nome di Abd-er-Rahmân e da Kazwini col cognome di Abu-l-Kasem, il che non prova nulla contro la identità della persona.760. Eghinardi, Annales, anno 806.761. Testo del Wright, pag. 281 segg. Di questo squarcio ho data la traduzione italiana, nel mio articolo su la iscrizione trilingue della Cappella Palatina, pag. 346, 347 della citata Rivista Sicula.762. Nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 617. Il Casiri, Bibl. arabo-hispanica, I, 384, dando il medesimo squarcio, tradusse erroneamente: “De instrumentis hydraulicis, ubi de cochleis ad aquas exhauriendas.”763. Kartâs, ossia Annales Regum Mauritaniae, ediz. del Tornberg, testo, I, 151, e versione latina, pag. 200. Ho ragionata la roba’, o arrova, come in oggi scrivono gli Spagnuoli, a 400 libbre da 400 grammi. I dinâr di cui si tratta qui, dovrebbero esser quelli dei primi califi almohadi, dei quali que’ che possiede il gabinetto numismatico di Parigi pesano, su per giù, grammi 4,75, e son d’oro purissimo. Onde tornano a un di presso a 17 lire ciascuno. Se li supponessimo dinâr ordinarii, la somma scemerebbe a lire 1,450,000.
Il partito di portar su una di quelle sfere per l’interno della torre, si comprende bene riflettendo che la Giralda, come il campanile di San Marco in Venezia, suo coetaneo e compagno, ha la scala non a gradini ma a piani inclinati. Si vegga su questo particolare Girault de Prangey, Essai sur l’architecture des Arabes. Paris 1841, pag. 105 seg.
764. Cronica del sancto rey D. Fernando, cap. 73.
Si confronti il signor De Schack, Poesie und Kunst der Araber in Spanien etc., Berlino, 1865, II, 241, segg. dal quale traggo questa citazione, non avendo potuto trovare il testo nelle biblioteche di Firenze.
765. Cap. ij del presente libro, pag. 397 del volume.766. Abate di Telese, presso Caruso, Bibl. Sicula, p. 279.767. Cap. V del presente libro, pag. 508.768. Ivi, pag. 538.769. Diplomi del 23 aprile 1284, citati nella mia Guerra del Vespro Siciliano, ediz. di Firenze, 1866, I, 283, nota.
Si faccia attenzione altresì a un diploma del 6 maggio quivi citato, nel quale è detto di una quantità di sassi lavorati ( finarrati ) pei mangani.
770. Libro II, cap. ix, vol. I, pag. 399.771. Cap. V del presente libro, pag. 539.772. Cap. ij di questo libro, pag. 397.773. Si vegga la nota 5 della pag. 611 di questo stesso volume, cap. viij.774. Si vegga il cap. v di questo libro, pag. 461.775. Turikh-el-Hokamâ, nella Biblioteca arabo-sicula, testo, pag. 619. La famiglia era siciliana, come lo dice espressamente il Zuzeni e come si vede dal nome del padre, Isa-ibn-Abd-el-Mon’im, giureconsulto e poeta, del quale ci occorrerà di far parola nel capitolo seguente, tra i poeti e i giureconsulti. Secondo la notizia biografica che abbiamo nella Biblioteca citata, pag. 586-587, questo Isa visse nella prima metà del secolo.776. Falcando, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 481, narra che il cancelliere Stefano, aspettando la congiunzione di corpi celesti che gli astrologhi cercavan favorevole a lui, differì la mossa da Palermo alla volta di qualche altra fortezza.777. Il ms. latino 7316 della Biblioteca di Parigi, che comincia con l’ Introductorium Albumazar, ha un opuscolo di cento brevissime proposizioni con questo titolo: “Domino manfrido inclito regi Sicilie, Stephanus de Messana hos flores de secretis astrologie divi ermetis transtulit.” Comincia a fog. 152 verso e finisce a fog. 154, recto di questo buon codice latino di mano francese del XV secolo, posseduto un tempo da Francesco II.
Il gran credito di Hermes trismegisto si può argomentare da’ libri che gli attribuiscono gli Arabi, presso Hagi-Khalfa, edizione di Fluegel, N i 6177, 6257, 6259, 7733, 7873, 9197, 9815, 9831, 10523, 10620, ec. ec.
778. Il Mongitore, Bibliotheca Sicula, pag. 314, citò un Codice di quest’opera posseduto dalla Biblioteca di sant’Antonio in Venezia, quello appunto di cui il Tomasini ( Bibliothecæ venetæ, Mss., pag. 5) dà il titolo: “Tabulae Toletanae Joannis de Sicilia super Canonibus Arzachelis.”
Io ne ho visti due altri nella Biblioteca parigina e sono segnati Mss. Latins, Ancien Fonds, 7281 e 7406. Il primo de’ quali torna al XV secolo, ed è intitolato: “Exposicio Jo. De Sicilia supra canones Arzachelis, facta Parisius (sic) anno Christi 1290,” com’io lessi con l’aiuto dell’illustre M. Gerard. L’altro del XIII o XIV secolo ha per titolo, “Canones in tabulas toletanas quos exposuit Joannes de Silicia (sic) 1290.” E sul bel principio occorrono i metodi della riduzione degli anni dell’egira a quei dell’èra volgare, della bizantina, etc.
779. Del primo di cotesti astrolabii ho trattato nella Introduzione alla presente Storia, tomo I, pag. XXV, XXVI. Sul secondo si vegga Sédillot, Matériaux pour servir à l’histoire des sciences mathematiques etc. Paris 1815 (1819?) in 8º pag. 347. Questo astrolabio del XII secolo, trovato nella cittadella di Aleppo, fu descritto dall’illustre orientalista R. Dorn dell’Accademia di Pietroburgo, il quale lo credette siciliano, per cagion de’ caratteri magbrebini. Ma il Sédillot non giudica sufficiente tal prova, e mi par abbia ragione.780. Capitolo IX di questo libro, pag. 641.781. Huillard-Bréholles, op. cit., Introduction, pag. DXXVI, seg.782. Opuscoli di Leonardo Pisano, pubblicati dal principe Baldassarre Boncompagni, 2ª edizione. Firenze, 1836, in 8º, pag. 55.
L’erudito signor Huillard-Bréholles, nella Introduzione, op. cit., pagina DXXXV, ha sostenuto con buone ragioni che la data del 1225 sia quivi sbagliata e che le si debba forse sostituire 1230.
783. Opuscoli citati, pag. 2, 17.784. Opus. cit., pag. 114.785. Opus. cit., pag. 44.786. Opus. cit., pag. 20.787. Il monaco Filagato, contemporaneo di Ruggiero ed autore di alcune delle omelie che si attribuirono a Teofane Cerameo, ha in alcuni mss. il titolo di filosofo, come notammo nel libro Iº di questa istoria, vol. I, pagina 488. In un diploma greco del 1172 ed in uno latino del 1173, nel Tabulario della Cappella palatina di Palermo, pag. 30 e 33, è citato Giovanni, filosofo e prefetto della Cappella. Su questa dignità ecclesiastica si vegga il glossario latino del Ducange.788. Diplomi del 1221 e del 1210, presso Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica, vol. II, 185, e V, 720.
Il nome preciso di maestro Giovanni di Sicilia è preposto ad un trattato latino di stile epistolare, il quale, con altri opuscoli somiglianti, si ritrova nel codice di Parigi, Fonds saint Germain, 1450, scrittura, come parmi del XIV secolo. Questo trattato prende 12 fogli, dal 3 recto, dove si legge “Incipit rectorica magistri Joannis de Sicilia in arte dictandi” infino al 14 verso, dove incomincia un’altra “Summa dictaminis.... composita per magistrum Laurentium de Aquilegia lombardum, juxta stilum romane curie et consuetudinem modernorum.” Segue la “Summa Britonis”, opuscolo dello stesso genere. Meglio che le due ultime terze parti del volume sono occupate da un dizionario latino etimologico, nel quale è soscritto Petrus Thibodi, monaco in Parigi, con la data del 1298. Forse questo segretario latino maestro Giovanni di Sicilia, visse anch’egli allo scorcio del secolo ed è pertanto diverso dal filosofo di Federigo II.
789. Diploma dato di Sarzana il 15 dicembre 1239, presso Bréholles, op. cit. V, 556.790. Diplomi del 6 e 10 febbraio 1240, op. cit., V, 727, 745.791. Diploma del 12 febbraio 1240, op. cit., V, 750-751.792. Si riscontrino gli aneddoti di cotesti astrologhi di Federigo, nella cronaca vicentina del Godi, presso Muratori, Rer. Ital., VIII, 83 e in quella di Rolandino, vol. cit., 228, dove è nominato maestro Teodoro; e notisi infine ciò che ne dice in generale frate Francesco Pipino, Muratori, op. cit., IX, 660.793. Si veggano i versi latini citati dal Bréholles, Introduction, p. DXXXI seguente.794. Il prologo d’una traduzione francese del notissimo Libro di Sidrac dice che “un homme d’Antioche qui ot non Codre le philosophe” intimo di Federigo, procacciò e mandò ad Obert, patriarca d’Antiochia, la traduzione latina di quel libro, fatta da un frate palermitano per nome Ruggiero, che l’imperatore avea mandato apposta a Tunis, sapendo che quel re possedesse il testo arabico. M r Huillard-Bréholles, dalla cui Introduzione tolgo questa notizia (pag. DXXIX), non la crede apocrifa, com’altri ha pensato e riconosce nell’ Obert, Alberto patriarca d’Antiochia, e nel Codre il nostro Teodoro. Le quali correzioni mi sembrano ottime. Chiunque ha pratica di paleografia latina, sa quanto spesso si confonda la t con la c. E lo scorciamento di Theodoros in Todros è comunissimo in Oriente, come ognun sa.
Il nome dell’Imperatore comparisce anco in una traduzione latina del “liber novem judicum, quem misit Soldanus Babiloniae Friderico imperatori” di che nel Catalogue Mss. Angliae, II, 346, n. 8509, citato dello Steinschneider nel Giornale della Società orientale di Germania, tomo XXIV, parte III (1870), p. 387. Probabilmente i “Sette Savii” divennero “Nove Giudici” pel doppio significato della voce arabica hakim e il facilissimo scambio de’ vocaboli sette e nove nella scrittura neskhi.
795. Salimbeni, Chronica, Parma, 1857, p. 168, 169.796. Si vegga Perles, Rabbi Salomo, etc. Breslau, 1863, citato dallo Steinschneider, Hebräische Bibliogr., n. 39, pag. 64.797. Si vegga il capitolo precedente, pag. 641 di questo volume. Il Bréholles, op. cit. Introduction, pag. CXCIII, segg. dà i particolari: gli animali messi in mostra a Ravenna il 1234, in Alsazia il 1235; l’elefante donato alla città di Cremona etc.798. Op. cit. Introduzione, pag. DXXIV, e tomo IV, 384 seg., dove si citano i Mss. di Bruges e di Pommersfeld. Si aggiunga quello della Laurenziana, Plut. XIII, sin., cod. 9, proveniente dalla Bibl. di Santa Croce (catalogo del Baudini, IV, pag. 109). Questo bel codice di pergamena, in foglio, è intitolato: “Aristotelis de Animalibus, interprete Michaele Scoto” e si compone di tre opere diverse:
1. “De animalibus” tradotto dall’arabico in latino per maestro Michele (Scoto) in Tellecto, del quale fu finita la copia il 24 sett. 1266 (fol. 56, recto).
2. Lo stesso, col nome intero di Michele Scoto, principia: “Frederice domine mundi” etc. come nel catalogo del Bandini e in fine vi si legge “expletus est per magistr. Henrigum colloniensem etc. apud Messinam civitatem Apulee, ubi dominus Imperator eidem magistro hunc librum premissum commendavit anno 1232,” finita la copia il 14 novembre 1266 (fol. 38, recto).
3. “De partibus animalium” tradotta anche da Michele Scoto. Secondo il catalogo, la traduzione sarebbe stata fatta sul testo greco; ma ciò non si legge nel codice, il quale è scritto della stessa mano, con maggior fretta che nelle due prime parti. È da accettare per cagione della data, la correzione del Bréholles, che sostituisce Melfi a Messina.
Michele Scoto fu celebre in Italia per tutto il secolo XIII, come si scorge dal Salimbeni, Chronica, pag. 169.
799. Si vegga Steinschneider, Hebräische Bibliographie, n. 39, (maggio 1864) pag. 65, nota 7.800. Bréholles, op. cit., pag. DXXV.801. Op. cit., pag. DXXXVI.802. Op. cit., pag. DXXXVII.803. Wolf, tom. IV, p. 861, citato dallo Steinschneider, nell’opuscolo di cui si è detto poc’anzi.804. Codice della Biblioteca di Modena, citato dal Tiraboschi, tomo IV, parte II, pag. 342. La versione italiana manoscritta (XV secolo) che possiede la Biblioteca nazionale di Firenze, non ha nome d’autore, nè di traduttore.805. Su la parte ch’ebbero i Giudei in questo celebre insegnamento, si vegga il Carmoly, Histoire des Médecins juifs, Bruxelles, 1844, in 8º, tomo I, § XXIII, e il De Renzi, Collectio Salernitana, Napoli, 1852, tomo I, pag. 106, 119, et passim ed anco ne’ tomi II, III, IV.806. De Renzi, op. cit., III, 328.807. Ibn-Giobair, da noi citato nel cap. v, di questo libro, pag. 534 del volume.808. Mi riferisco pei particolari e per le citazioni, al Bréholles, op. cit., Introduction, pag. DXXXVIII, DXXXIX.809. Articolo di M r Cherbonneau, nel Journal asiatique di maggio 1856, pag. 489, nel quale si dà ragguaglio d’una raccolta di biografie musulmane del XIII secolo, per Ahmed-Gabrini. L’Autore dice che Taki-ed-dîn fu benaccolto da El-ibratur, re cristiano dell’isola; la qual voce va corretta di certo imbiratûr, e forse designa Manfredi, come pensa l’erudito Mr De Freméry, l. c.810. Mss. Latins, 6912. Ho cavate le notizie su l’origine di questa versione, dall’opera stessa, vol. I, fog. 1, 2, e vol. V, fog. 189 verso, e n’ho dato ragguaglio nella mia Guerra del Vespro Siciliano, edizione del 1866, I, 81, 82, in nota. Il codice fu copiato in Napoli (vol. V, ult. pag.) da Angelo de Marchla.811. La tavola delle malattie e de’ membri del corpo umano, tomo V, fog. 86, segg. è scritta a due colonne, col titolo di Sinonimum nell’una, e di Expositum nell’altra; nella prima delle quali colonne si legge il vocabolo tecnico arabico o greco, nella seconda il latino.
La Tabula medicinarum corre dal fog. 90 verso al 134 del medesimo volume, anco a due colonne: per esempio “Alebros = Agnus castus;” Alhon = Rosa fetens etc,” ma alcuni quaderni mal rilegati guastan qui l’ordine alfabetico. Poi v’ha, dal fog. 190 recto, una descrizione de’ semplici, condotta anco nell’ordine dell’alfabeto arabico, della quale parmi bene dare il seguente articolo, che piacerà forse ai botanici.
Rubea tinctoris. Arabice appellatur fuatelsabg (Fuwwat-es-sabgh, a nostro modo di trascrivere) et est quedam herba, cujus radix est rubea, qua utuntur tinctores ad tingendum rubeum; et ideo dicitur rubea tinctoris: et ista herba expanditur et suspenditur cum arboribus; et virgulta ejus sunt quadrata, alba et subtilia, nodulosa et in quolibet nodulo sunt octofolia aut sex, aut quatuor, aspera, parva, similia foliis ysopi montani. Capud ( sic ) ipsorum est acutum et in ipsis nodulis est flos parvus, citrinus, declinans ad albedinem et in loco floris egreditur granus similis coriandro; et radice ejus est utendum (vol. V, fog. 207).
Hadoshaon, hadoydodayon, Rubea tinctoris (fog. 100, recto).
812. Cap. iij di questo libro, pag. 441, nota 1.813. Cap. citato, pag. 453.814. Arrighetto, ovvero Trattato contro all’avversità della Fortuna, Firenze, 1730. Quivi (lib. IV, pag. 38) è posto in bocca della filosofia questo distico: Et mihi sicaneos, ubi nostra palatia, muros,
Sic stat propositum mentis, adire libet. Ma gli antichi traduttori italiani pensaron bene di scrivere Parigi in luogo di Sicilia; come si vede nella edizione citata, pag. 76 e nella variante di un codice della Riccardiana, che ha data il Milanesi nella edizione del 1864 ( Il Boezio e l’Arrighetto ), pag. 341.
Il Mebus, nella vita di Ambrogio Traversali, Epistolæ etc., Firenze, 1759, in foglio, sostiene con ottime ragioni che il carme di Arrigo da Settimello fu scritto nel 1193.
815. Ibn-el-Giuzi, da noi citato nel capitolo precedente, pag. 615.816. Si vegga la cronica del Salimbeni, il quale lo chiama (pag. 3) “pestifer et maledictus, schismaticus, haereticus et epicureus, corrumpens universam terram”; e altrove (p. 168) gli attribuisce come bestemmia lo scherzo: che Dio non avrebbe lodata tanto la Terra Promessa, s’egli avesse vista Terra Di Lavoro, Calabria, Sicilia e Puglia. Il tedesco frate Alberico ( Chronicon, Hannover 1868), gli appone il detto che “Tres Baratores seu guittatores fuerunt in mundo”, cioè Moisè, Cristo e Maometto. Racconta poi che Federico, vedendo un Sacerdote portare l’eucaristia, sclamò “Heu me, quamdiu durabit truffa ista!” La sentenza dei tre “trufatores” è citata anco nella vita di Gregorio IX, presso Muratori, Rerum Italic., tomo III, parte I, 585. E questa frase ha dato origine al supposto che Federigo abbia scritto il famoso e incertissimo libro “De tribus impostoribus.”817. Ms. della Bodlejana, Hunt, 534, n. cccclxvj del Catalogo arabico, dove è sbagliato il nome del principe, autore de’ quesiti. Io ho dato un esteso ragguaglio di questo opuscolo, nel Journal asiatique del 1853, février-mars, pag. 240, segg. ed ho ristampati alcuni brani del testo nella Bibl. arabo-sicula, pag. 573, segg. Mi riferisco al lavoro del Journ. asiat. per le prove e pe’ riscontri delle date e de’ nomi.
Secondo gli autori citati, Ibn-Sab’în nacque a Murcia il 614 (1217-18) e morì alla Mecca il 660 (1271). Il califo almohade Rascîd, regnò dal 1232 al 1242.
818. La biografia di questo filosofo musulmano si ricava da Ibn-Khaldûn, Makkari, ed Abu-l-Mehâsin, da me citati nel Journ. Asiat. Ibn-el-Khatib, citato dal Makkari, fa menzione di cotesti Quesiti Siciliani, che i dotti Rûm aveano mandati per confondere i Musulmani e che furono sì felicemente risoluti dal giovane Ibn-Sab’în. Dopo la pubblicazione dell’articolo, l’erudito M. Charbonneau, professore ad Algeri, mandommi un’altra biografia d’Ibn-Sab’în, estratta dal libro di Gabrini (si vegga qui innanzi a pag. 698, nota 2) suo contemporaneo, la quale non contiene nulla di nuovo per noi, essendo stata copiata negli scritti degli autori più moderni che mi eran prima venuti alle mani.819. Makkari, edizione di Leyda, I, 594; e nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 574 in nota. Si veggano gli Schiarimenti che io dètti a questo proposito nel citato articolo del Journal asiatique.820. Il nostro professore Fausto Lasinio, notò questo passo in un codice ebraico alla Laurenziana e ne mandò copia al dottore Steinschneider; il quale l’ha pubblicato, con eruditi comenti, nella Hebräische Bibliographie, n. 39 (maggio 1864), pag. 62, segg.; ed ha aggiunto nel n. 42 (novembre 1864), pag. 136, un passo di altro ms. ebraico, nel quale si fa parola di un abboccamento ch’ebbe Federigo con Samuele-ibn-Tibbon, traduttore ebraico della “Guida.”821. Steinschneider, op. cit., n. 39, pag. 65.822. Anonymi, etc. (Niccolò de Jamsilla) presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 678.823. Mi basti citare per l’unico testo delle due epistole, l’ Historia Diplomatica etc. del Bréholles, IV, 383, segg. dove si leggono le varianti delle edizioni fattene un tempo nelle Epistole di Pietro della Vigna e nella collezione del Martène. La data della epistola di Federigo torna a un dipresso al 1230. L’argomento degli opuscoli è spiegato nel testo, con le parole in sermonialibus et mathematicis disciplinis, delle quali ho resa la seconda cosmografia, poichè trattasi, secondo l’opinione del Jourdain, de’ libri della Fisica e delle Meteore d’Aristotile e fors’anco dell’Almagesto di Tolomeo. Si confronti il Bréholles, op. cit., IV, 384, nota e Introduzione, pagina DXXVI.824. Bréholles, l. c.825. Il codice del convento di Santa Croce di Firenze, passato alla Laurenziana e segnato Plut., XXVII, dext. n. 9, contiene, tra gli altri opuscoli, uno intitolato (fog. 476 o piuttosto 353) “Incipit liber magnorum ethicorum aristotelis, translatus de greco in latinum a magistro bartholomeo de Messini, in curia illustrissimi maynfridi, serenissimi regis sicilie, scientie amatoris, de mandato suo.” Si vegga anco il catalogo del Bandini, IV, 689, nel quale è notato che la stessa versione, mutila però e senza nome, si trova nell’altro codice di Santa Croce Plut. XIII, sin., cod. VI, n. 6, notato in catalogo a pag. 106, del medesimo volume. Il qual codice è composto tutto di opuscoli d’Aristotile; ma non me n’è occorso alcuno che si riferisca al tempo e al paese di cui trattiamo.
Il Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, tomo IV, parte II, lib. III, cap. 1, § 1, p. 341, oltre il primo de’ suddetti mss. di Santa Croce, ne cita uno della Biblioteca di san Salvatore a Bologna.
826. Renan, Averroès, partie II, chap. II, § 3.827. Carmoly, Histoire des médecins Juifs etc., Bruxelles 1841, § lx; Steinschneider, Hebräische Bibliographie, n. 39, (1864) pag. 63, 64; Renan, Averroès, partie II, chap. 4, § iv. Si confronti Bréholles, op. cit., Introduction, pag. DXXVI.828. Wolf, De Rossi, e Krafft, citati dal Bréholles, nella stessa Introduzione, pag. DXXVII.829. Si confronti il Bréholles, op. cit. Introduz., pag. DXXXIX.
Sul testo greco delle Costituzioni di Federigo, si vegga la medesima opera, IV, 1, 2.
830. Bréholles, op. cit. Introd., p. DXLI, DXLII.831. Il Salimbeni, Chronicon, pag. 166, dice in generale ch’ei parlò molte e varie lingue; Ricordano Malespini, cap. 170 scrive: “E seppe la nostra lingua latina e il nostro volgare e tedesco, francesco, e greco e saracinesco; e di tutte vertudi copioso, largo e cortese, ec.”832. Bréholles, op. cit. Introd., pag. DXL, DXLI.833. Salimbeni, op. cit., pag. 166.834. Salimbeni, loc. cit., fa vedere chiaramente quanta ammirazione ei sentì conversando con quest’empio. Si confronti ciò ch’ei dice a pag. 170.835. Su i monumenti, si vegga il Bréholles, op. cit. Introd., pag. CXLVI, segg.836. Non occorre citazione pe’ fatti di Giovanni il Moro. Le concessioni papali a suo favore, si veggano nel Registro d’Innocenzo IV, lib. XII, n. 284, 327, citato da M. De Cherrier, Histoire de la lutte des papes, etc., vol. III, 19, della seconda edizione.837. Squarcio d’una epistola del 1229, dato da Matteo Paris, presso Bréholles, op. cit., III, 140, in nota.838. Matteo Paris, citato da Bréholles, op. cit. Introduct., pag. CXCII, CXCIII. A pag. DXLV, si cita un diploma, nel quale l’imperatore ordina di scritturare per la corte un valente ballerino saraceno, a quel ch’e’ pare, di Spagna.839. Epistole del 17 luglio 1245 e 23 maggio 1246, presso Bréholles, op. cit., VI, 325, 427. Si veggano le memorie contemporanee, citate dallo stesso autore. Introd., pag. CLXXXIX.840. Le citazioni son date dal Bréholles, op. cit. Introd., pag. CXC, CXCI. La prima, ch’è cavata dalla Historia Diplomatica, V, 486, prova che quelle donne vestivano alla musulmana.841. Si vegga la citazione nel Capitolo precedente a pag. 641 di questo volume, nota 8.842. Diploma del 28 novembre 1239, presso Bréholles, op. cit., V, 535.843. Presso Gregorio, Rerum Arabicar., pag. 178.
Si vegga intorno a cotesta iscrizione il cap. vij del presente libro, pag. 589, nota 1.
844. ’Imâd-ed-dîn, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 603; Ibn-Khallikân, op. cit., pag. 630 e nella edizione del baron De Slane, I, 724 e III, 106 della versione inglese; Abulfeda, Annali, op. cit., pag. 418 e III, 628 della edizione di Reiske; Taki-ed-dîn-el-Fasi, op. cit., pag. 659; Makrizi, op. cit., 665; Soiuti, op. cit., 671.
Si confrontino coi testi le notizie ch’io, prima di stamparli, avea date nella versione italiana del Solwân-el-Motâ’, Firenze, 1851, Introduzione, pag. XVIII segg. e nella versione inglese, Londra, 1852, vol. I, 20 segg.
845. Imâd-ed-dîn lo chiama Abu-Abd-Allah, e il Soiuti, Abu-Gia’far.
Non giova notare le varianti de’ titoli onorifici, che son molte.
Io non ho argomenti da credere che il disparere su la patria sia nato dalla diversità di coteste appellazioni secondarie, anzi tengo fuor di dubbio che l’autore di tutte le opere sia stato un solo. E ciò si vedrà chiaramente nel seguito del presente capitolo.
846. Si vegga il Capitolo precedente, pag. 665 di questo volume.847. Codice arabico, n. MDXXX, del British Museum, nel catalogo di M. Riew, pag. 695. II Ms. porta la data del 759 dell’egira (1358), appartiene alla prima edizione e contiene il catalogo delle opere dell’autore.848. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 660, 661.849. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 692. Lascio in dubbio la città, perchè non ho trovato il nome di questo Sefi-ed-dîn nelle biografie degli uomini notevoli di Aleppo, il Kheir-el-biscer è stato autografato al Cairo dal Castelli, con la data del primo dell’anno 1280 (18 giugno 1863). Il testo, comunicato dall’autore il 566 ad un primo rawi, comparisce trasmesso da questi il 588. Vi manca affatto la dedica a Sefi-ed-dîn.850. Chiamano gli Arabi così la più oscura stella dell’Orsa Maggiore.851. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 688.852. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 671. Il Soiuti dice positivamente che Ibn-Zafer compose il contento in quella medresa. L’autore lo chiama: “Il primo e più eccellente de’ suoi libri.”853. Op. cit., pag. 686, segg. Si confronti la versione italiana del Solwân, pag. 216, 217 e l’inglese, I, 115, segg.854. Valga per tutte le autorità Ibn-el-Athîr, anno 549, ediz. Tornberg, XI, 130, segg.855. Si vegga il testo nella Bibl. arabo-sicula, pag. 681, segg. e nella edizione di Tunisi, pag. 1, segg. Si riscontri la versione italiana, pag. 1, segg.
L’anno della dedica ad Abu-l-Kâsim è notato da Ibn-Khallikân.
856. Testo di Tunis, pag. 2, linea 7.857. Nelle biblioteche d’Europa, per quanto io ne abbia ritratto, abbiamo cinque codici della prima e circa diciassette della seconda edizione, ed anco in uno di quei cinque, il principio, supplito d’altra mano, appartiene alla seconda edizione.
Il Makrizi, Bibl., pag. 667, fa menzione d’una copia del Solwân legata dall’autore stesso al ribât del califo alla Mecca, la quale, dalla descrizione che se ne fa, apparteneva alla prima edizione. Par che v’accenni anco Hagi-Khalfa, là dove ei dice che l’autore aggiunse poi due quaderni al Solwân. Io credo, al contrario, ch’ei ne tolse nella seconda edizione, la cui prefazione è molto più breve; talchè il bibliografo ha scambiato il posto delle due edizioni.
858. Nel testo d’Ibn-Khallikân seguito dal Wüstenfeld, e in Makrizi, in vece di “nè bello in viso,” si legge “se non che era bello in viso.”859. Così l’autore, Bibl. arabo-sicula, pag. 688.860. Soiuti, pag. 671, lo chiama Gran Comento, senza il titolo speciale di Sorgente. Così anco Hagi-Khalfa, pag. 701, della Bibl. arabo-sicula.861. Questo codice è serbato nella Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 248. È il secondo volume dell’opera, e corre dalla sura III, v. 86, alla fine della sura VI. Il comento non è fatto a verso a verso, ma prende un tratto del testo e indica le varianti; spiega poi le voci o modi di dire che lo richieggano. Seguono le osservazioni filologiche e grammaticali; indi la erudizione storica, tolta dalle tradizioni del Profeta e dalle leggende degli antichi Arabi, e infine i corollarii legali, ove occorrono.862. Bibl., pag. 688 e più correttamente secondo il Makrizi, nella pag. 668, linea 3.863. Bibl., pag. 684, 666, 671.864. Bibl., pag. 666, 671.865. Bibl., pag. 666.866. Taki-ed-dîn, Bibl., pag. 659, 660 e Makrizi, pag. 667.867. Così nel catalogo autentico, Bibl., pag. 689, 666. Si confronti coll’altro Mosanni, notato nella prefazione alla seconda edizione del Solwân, Bibl., pag. 684. Ma avvertasi che i primi due vocaboli del titolo son diversi in alcuni Mss. ed anco nella edizione tunisina del Solwân, pag. 3, ultima linea.
Il titolo confronta in entrambe al par che il subbietto. Si vegga la mia versione italiana, Introduzione, pag. XXXIV, XXXVI e 3, 4. Correggendo gli or citati luoghi della Introduzione, io ritengo unica Opera le due quivi notate ai n i 3 e 21 del catalogo. La Ma’ona, citata a pag. 684 del testo e 3, 4, della versione, è senza dubbio la compilazione di dritto malekita del celebre dottore, il cadi ’Jiâdh, notata nella continuazione di Hagi-Khalfa, edizione Fluegel, tomo VI, pag. 651, n. 149, e più correttamente nell’abbozzo di catalogo de’ Mss. arabi della Lucchesiana di Girgenti, ch’io detti in litografia nel 1869, n. XV. Circa l’ Iscraf, io credo che tra le varie opere designate con questo titolo da Hagi-Khalfa, Ibn-Zafer volle dir di quella d’Ibn-Mondsir-en-Nisaburi, edizione Fluegel, I, 318, n. 783.
868. Bibl., pag. 690, 671.869. Questa notizia è riferita da Katifi, pag. 660. Il Fasi a pag. 661 dice parergli verosimile che sia accaduto qualche scambio di nome.870. Bibl., pag 689, dove si vegga una variante ed a pag. 666, dov’è l’altra che ho preferita.871. Bibl., pag. 689.872. Bibl., pag. 689, 671, 705 e soprattutto a pag. 666, dov’è il testo di Makrizi.873. Bibl., pag. 690 e 666, dove è da trasporre nella linea 17 i cinque vocaboli intermedii della linea 15.874. Bibl., pag. 666.875. Bibl., pag. 690, 666.876. Bibl., pag. 690, 666.877. Bibl., pag. 690, 666.878. Bibl., pag. 690, e meglio a pag. 666. Quest’opera manca nel catalogo autentico del Ms. 1530 del British Museum, come si legge nel catalogo di M. Riew, pag. 695.879. Bibl., pag. 689, 630, 666, 671, 701; ed a pag. 692 il principio del testo, secondo il Ms. di Parigi, Suppl. arab., 586, del codice del 724 dell’egira. Si vegga anco la nota del baron De Slane, nella versione inglese d’Ibn-Khallikân, tomo III, pag. 107, nota 2.880. Mi sovviene, tra le altre, una citazione d’Ibn-Abi-Dinâr.881. Citata qui innanzi a pag. 718, nota 1.882. Bibl., pag. 700.883. Bibl., pag. 630, 666, 671, 700, 706; ed a pag. 690, il principio del libro secondo i due Mss. di Parigi. Suppl. Arabe, n i 678, 679.
Si vegga anco la citata versione inglese d’Ibn-Khallikân, pel baron De Slane, tomo III, pag. 107, nota 3.
884. Bibl., pag. 680, 605. Si vegga anche Casiri, Bibl. arabo-hisp., II, pag. 156, n. 1697. La biblioteca di Gotha ha un esemplare del Dorer-el-Karer, come ha letto il dott. Moeller, nel catalogo, pag. 14, n. 72, traducendo il titolo: Margaritæ Frigidæ.885. Bibl., pag. 690, 666, 671.886. Ibn-Khallikân e Makrizi, ne’ luoghi citati.887. Bibl., pag. 667.888. Bibl., pag. 666. Hagi-Khalfa, edizione Fluegel, I, 307, n. 760, attribuisce ad altri un libro che porta il medesimo titolo.889. Libro IV, cap. xiv, a pag. 495 del secondo volume.890. Bibl., pag. 689.891. Ibid. ed a pag. 666. Il Soiuti, pag. 671, scrive il titolo Et-tankib, che vale lo stesso e dà col titolo di El-Mitwal (Le redini) un altro comento che tornerebbe al precedente. Si legge anche Et-tankib in Hagi-Khalfa, pag. 706. Ibn-Khallikân fa menzione di un “Comento delle Tornate” e di glose marginali della Dorret-el-Ghawwâs, i quali due libri, al suo dire, compongono due Comenti, grande e piccolo. Accenna anco a due comenti il Makrizi. Qual che sia la forma, il comento d’Ibn-Zafer fu adoperato dallo Scerisci, come si legge nella prefazione di M. De Sacy, Hariri, seconda edizione, Parigi, 1847, tomo I, pag. 5.892. Bibl., pag. 689, 630, 666, 671, 702. Il testo della Dorret è stato pubblicato dal sig. Thorbecke, Lipsia, 1871.893. Bibl., pag. 689, 666, 671.894. Bibl., pag. 666, 671, 699.895. Freytag, Proverbia Arabum, vol. III, parte 2ª, pag. 188, n. 26, dove si corregga il nome dell’autore.896. Nel cap. IV, § ix, del Solwân. È la novella del Mugnaio e l’Asino, Notti 387, 388, nella edizione di Bulak, I, 569, 570, e nella versione inglese del Lane, 1ª edizione, II, 582.897. Si veggano le due prefazioni nella Bibl. arabo-sicula, a pag. 681, segg., e 686, segg. e nelle versioni italiana ed inglese, II ec.898. Kitâb-el-Fihrist, testo, Lipsia, 1871, pag. 304.899. Hagi-Khalfa, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 703, e nella edizione di Fluegel, III, 611, n. 7227, cita la parafrasi in versi che ne compilò nel XIV secolo Tag-ed-dîn-Abu-Abd-Allah-es-Singiâri; e dice esserne state fatte varie traduzioni, delle quali poi cita soltanto una molto libera in persiano, intitolata “Giardini dei re” ec. Nella copia stampata dal Fluegel si aggiugne una traduzione turca di Khalil-Zadeh, scritta nella prima metà del XVIII secolo.
La bibliografia de’ Mss. che abbiamo in Europa, si vegga nella versione italiana, Introduzione, pag. LXV, segg. e nell’inglese, I, 93, segg. Si aggiungano: il Ms. parigino, Ancien Fonds, 374, che parmi del XVI o XVII secolo ed appartiene alla prima edizione; il Ms. di Monaco, n. 608, del catalogo del sig. Aumer, pag. 266; e i due Mss. del British Museum, n i 1444 e 1330, del catalogo di M. Riew, che son l’uno della seconda e l’altro della prima edizione.
900. Si vegga la raccolta di Mohammed-ibn-Ali, Ms. MC del British Museum, nel catalogo di M. Riew, pag. 302.901. Tra gli altri, l’autore del Giâmi’-el-Fonûn, compilazione enciclopedica, Ms. di Parigi, Ancien Fonds, pag. 377.902. Bibl., pag. 605.903. Ossia “figliuolo di quel da Begia.” Si ricordano cinque luoghi di tal nome, due de’ quali in Affrica ed un altro in Portogallo (Beja).904. Dsehebi, Ms. di Parigi, Ancien Fonds, 753, fog. 100 verso.905. Soiuti, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 623.906. Si confronti Dsehebi, op. cit., fog. 171 recto, con Hagi-Khalfa, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 702 e nella edizione di Fluegel, III, 498, n. 6633, dove il nome è intervertito: Abu-Iehia-Zakaria.907. Biografia di tradizionisti, per Iehia-ibn-Ahmed-en-Nefzi-el-Himiari, detto Es-serrâg, Ms. della Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 382, fog. 77 verso, nella vita di Omar-el-’Abderi, che nacque il 694. Stanno due tradizionisti tra lui e il siciliano, e però par che questi sia vivuto al principio del decimoterzo secolo.908. Makrizi, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 663.909. Makrizi, op. cit., pag. 668.910. Makrizi, loc. cit.911. Makrizi, op. cit., pag. 665. Nel Dizionario di Hagi-Khalfa, edizione Fluegel, II, 440, n. 3655, e conseguentemente nella Bibl. arabo-sicula, pag. 701, la parte del nome che si legge Ibn-Mohammed-es-Sikilli va corretta, Ibn-es-Sikilli, secondo il Ms. di Parigi, Ancien Fonds, 875.912. Dsehebi, Anbâ-en-nohat, nell’op. cit., pag 645.913. Non voglio tradurre “in quinta rima,” perchè il confronto di cotesti nuovi metri degli Arabi occidentali con que’ delle lingue neo-latine e soprattutto della nostra, va fatto con lungo studio e sopra moltissimi esempii dell’una e dell’altra parte. Avverto intanto che la voce wazn, “peso, modo,” trattandosi di versificazione, è usata col significato di “misura;” il quale credo relativamente moderno, e forse nato in Spagna insieme con cotesti novelli metri.
Le cinque “misure” invero non si trovano, per diritto nè per rovescio, in questo componimento, dove le rime son tre; i versi di otto sillabe ciascuno, a modo nostro di scandere, e a modo dei grammatici arabi, di due piedi o di sei, se vogliasi considerare come verso l’intera stanza; e le stanze, infine, son sei. Potrebbero forse contarsi in ciascun verso cinque di quelle misure elementari che gli Arabi chiamarono “corde, piuoli e tramezzi” (si vegga Sacy, Grammaire arabe, 2ª ediz., II, pag. 619) come parti del verso, il quale appellano beit, ossia “tenda, casa” e in generale stanza. Ma coteste misure elementari non so che siano state mai dette wazn. Ho ragione piuttosto di credere che nelle nuove poesie il metro più comune sia stato di stanze da cinque versi e che perciò Imâd-ed-dîn, facendo un fascio di tutti i metri occidentali, li abbia battezzati “Quinte rime.” Si badi bene ch’ei non dice che questo componimento abbia cinque wazn, ma “che sia di que’ che recitansi con cinque wazn.” Mi conferma, nel mio supposto, il codice della Riccardiana di Firenze segnato col n. 194 e intitolato Megmû’-Kâmil, ossia “Raccolta compiuta” di Abu-l-Abbâs-el-Bekri. Tra le poesie della nuova maniera che il raccoglitore trascrive, scompartite per generi e specie, occorrono non pochi componimenti in cui le stanze, distinte sempre col titolo di beit ad inchiostro rosso e caratteri grandi, si compongono di cinque versi ciascuna. Lo stesso codice Riccardiano ha varii esempii di tekhmis o diremmo noi “quintuplicazione” di poesie altrui, che facevasi aggiugnendo quattro altri versi a ciascuno del testo; ma questo uso notissimo non ha che fare nel caso nostro.
Debbo avvertire infine che lo squarcio di poesia trascritto nella Kharida, mi sembra mutilato e mutatovi l’ordine de’ versi. In fatti il primo verso della terza stanza esce di rima, e la metafora obbligata della luna piena che spunti sopra un sottile tralcio di ben, vuol che segua immediatamente a quello il primo verso della quarta stanza. Similmente il senso richiederebbe che l’ultimo verso della seconda stanza seguisse immediatamente all’ultimo della prima. Si capisce bene che i copisti orientali del XII e XIII secolo si doveano imbrogliare spesso, avendo dinanzi agli occhi quell’insolito intreccio di rime e di versi, scritti con altre divisioni che non son quelle degli antichi emistichii.
Aggiungo che, anche in Ponente, i letterati teneano in non cale le mowascehe. Abd-el-Wahid da Marocco (testo del Dozy, pag. 63) che scrivea nel 1224 dell’èra cristiana, si vergogna di far parola delle eccellenti poesie dettate in tal metro da Abu-Bekr-ibn-Zohr.
914. Dopo il Freytag, Darstellung, ec. (1831) il barone De Hammer chiamò l’attenzione de’ dotti, su questa nuova maniera di poesia, nel Journal Asiatique di agosto 1839 (pag. 153 segg.) e di agosto 1849 (pag. 249 segg.); ma, al solito suo, trattò il subietto con leggerezza. Or l’hanno rischiarato orientalisti di vaglia, come il baron De Slane, il professore Dozy e il barone De Schack. Si vegga, dello Slane, la versione francese de’ Prolegomeni d’Ibn-Khaldûn, parte III, pag. 422 e segg.; del Dozy, le osservazioni critiche su questo lavoro dello Slane, nel Journal Asiatique di agosto 1869, pag. 186 segg., e dello Schack la Poesie und Kunst, ec. vol. II, § xiij, pag. 47 segg.
Ibn-Khaldûn, nella parte or or citata de’ Prolegomeni, dà ampii ragguagli sul nuovo genere di poesia, ch’ei non spregiava come Imâd-ed-dîn, e ne aggiugne moltissimi squarci ed anco interi componimenti.
Tocca un poco la mowascehe e i zegel Averroes, nel Contento medio su la poetica di Aristotile, a pag. 3 del testo arabico, che si stampa per le cure del dotto professore Fausto Lasinio, sul codice unico della Laurenziana, insieme con l’antica versione ebraica e con versione italiana e note. I luoghi d’Ibn-Bassâm ai quali accenna il Dozy, op cit., pag. 186, 187, rischiarano anco il subietto; e chi volesse studiarlo profondamente, troverebbe una vasta e sistematica raccolta nel codice della Riccardiana, del quale ho fatta menzione nella nota precedente.
915. Questo dubbio, che ognuno avrebbe a priori, è degno di ricerche positive. Il citato codice 191 della Riccardiana ci dà due serie di “Cantilene ( neghm ) dell’Irâk,” con versi brevi e mutazione di rime. Nell’Irâk si può supporre, al par che l’araba, l’influenza persiana.916. Dozy, op. cit., pag. 187, 188; De Schack, vol. cit., pag. 52. Quantunque i versi di alcune mowascehe e zegel, ammettendo molte licenze poetiche, si possano ridurre a’ metri ordinarii degli Arabi, pure la misura per sillabe e accenti mi par che torni più costantemente esatta.917. Prolegomènes, III, 441. Si confronti lo Schack, vol. cit., pag. 52.918. Per evitare quattro consonanti di fila, scrivo mowasceha e non mowascsceha, come si dovrebbe. Il Vocabulista in Arabico, pubblicato non è guari a Firenze, dà, invece di quel vocabolo, il maschile mowascsceh, col riscontro latino “versus” e zegel, col riscontro “Cantilena vel versus,” pag. 111, 199, 279, 624.919. Il barone De Hammer ( Journal Asiatique, agosto 1839, pag. 153) non esitò a definire le ottave rime, invenzione degli Arabi, e dopo dieci anni, rincalzando (op. cit., agosto 1849, pag. 249) identificò il sonetto col zegel. Ma questo articolo è quello appunto in cui egli fa derivare dall’arabo la voce cancan!920. Si legge il testo nella Bibl. arabo-sicula, pag. 580, dove si intendan fatte le correzioni che furon proposte dall’illustre prof. Feischer.
Eccone la traduzione verso per verso:
1.
“Cotesta gazzella adorna d’orecchini
Mi canta le nenie quand’io son lungi
E quando vede ciò che m’è avvenuto.
2.
Come (s’io fossi in un) giardino variopinto,
Quand’ella è meco, non mi cale (d’altro)
Poichè per l’amor suo mi consumo.
3.
Il suo volto è luna che spunta:
Superbisce quand’ha occupati tutti gli affetti miei,
Dond’io mi travaglio.
4.
Sur un tralcio sottile,
Si sollazza nel mio lungo dolore,
Allontanasi ed io sto per morire.
5.
Sdegnosa, inaccessa a pietà,
Non rifugge dal romper la fede,
Non ha (per me) che il silenzio.
6.
Tiranna, ingiusta,
Mutata da quella che fu una volta;
Sì ch’è felicità rarissima a trovarsi con lei!”
Trascrivo tre stanze del testo per dare un’idea del metro:
1.
Wa ghazalin musciannefi
Kad retha li ba’da bu’di
Lamma rea ma lakeitu.
2.
Mithlu raudhin mufawwefl
La obâli wahwa ’indi
Fi hubbibi ids dhâneitu.
3.
Waghuhu l-bedru tâli’an.
Taha lemma haza wuddi
Fainnani kad sciakeitu
Fi kadhlbin mohfahefi, ec.
Si ricordino le osservazioni che abbiam fatte nella nota 2 della pag. 738, intorno la scorrezione del testo.
921. Stesso Ms, fog. 3 recto, 6 verso.
“Scritto è nel Codice degli innamorati: morire o fuggir pria (che si sentano) le ripulse e i tormenti.
Se mi è parsa lunga una notte, ecco che l’aurora spunta con la dolorosa (rimembranza) di colei ch’è nascosa agli occhi miei.
Chi me ne dà contezza? Per la sua assenza i solchi delle lagrime mi rigan le guance.
S’io penso a lei, le palpebre degli occhi miei sembran ramo di tamarisco molle di pioggia, quando il vento lo scuote.”
922. Ms. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 3 recto.
“M’incresce di rimanere in vita finchè non ritorni certa persona assente, che non lascia prender sonno agli occhi miei.
Come bramar la vita lungi da costei, tanto amata, che avrei data tutta la eternità per un sol giorno goduto con lei!
Io mi querelava quando non la vedeva, e pur l’era presso; ed ora conosco che cosa sia la lontananza!
Io bramo di potere svelare il tuo nome a tutto il mondo: ed ecco i malevoli a dir che non mi curi di te!”
923. Stesso Ms., fog. 2 recto.
“Dal tramonto del Sole infino all’aurora, bevemmo temperato un (vino biondo come il) Sole,
Quando i raggi del Sole battean sul Nilo, come punte di lance su le corazze.”
924. Ibid.
“Una smilza che quando balla dinanzi la brigata, fa ballare il cuore a chi guarda: tanto eccelle nell’arte!
Sì leggiera al passo, che quand’ella gira e atteggiasi dinanzi a chi ha gli occhi infiammati, questi non si duole del mal di capo.”
Stesso Ms., fog. 4 recto.
“O gazzella che il Creatore plasmò tutta di bellezza e leggiadria,
Ch’io mi sollazzi in questi giardini, senza trascorrere, nè cogliervi frutto:
Io non vengo mica a far male; ma soltanto a rallegrare lo sguardo.”
925. Ms. citato, fog. 2 recto.
“Ne’ contrattempi e ne’ frangenti, noi tenghìamo consiglio coi segreti degli animi nostri;
Ciascun fa sue querele, e così comprendiamo a che siam giunti, senza timor di spie, nè di scolte.”
Si riscontri il cap. xiv del libro IV, vol. 2º, pag. 520, 524, dove si fa menzione d’un Abu-l-Hasan, che ha gli stessi nomi di costui, fuorchè l’ultimo “ibn-abi-l-Biscir,” invece del quale si legge “ibn-el-Biscir:” e potrebbe essere errore di copia ed anche variante d’uso. Anche l’età coinciderebbe. Ma da un lato mi farebbe maraviglia che fossero sfuggiti a Imâd-ed-dîn i versi a lode de’ ministri egiziani; e dall’altro è da notare che nella Kharîda il nome è anche scritto una volta ibn-abi-l-Besciâir.
926. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 581.927. Kharîda, op. cit., pag. 586.
“O Beni-l-Asfar (gente bionda) voi dovete il prezzo del mio sangue: de’ vostri è il mio uccisore, il ladrone che m’ha spogliato.
È bello dunque il fuggir chi t’ama? È lecito ciò nella religione del Messia?
O tu dall’occhio languente senza malattia, quando tu alluci un (ferito in) cuore, eccol già sano!
Ogni sorta di bellezza, dacchè io vi ho visti (o gente bionda), par brutta agli occhi miei.”
Si ricordi che gli Arabi chiamavan Beni-l-Asfar i Romani e i Bizantini.
928. Ms. di Parigi, fog. 11 verso.
“Le mie lagrime già scopron l’amore: non reggo più alla passione che m’ispira questa verginella, guardandomi con due occhi d’antelope. La bionda che ama il vestito bianco e tinge il velo nel rosso del cartamo.
Oh quel camiciotto e quel velo riflettono il colore su chi la guarda; ond’egli (a vicenda) si fa bianco e arrossisce!
Crisolito ella è, legato in lamina d’argento e coronato di vermiglia corniola.”
929. “Una fanciulla mi ha rapito il cuore di mezzo il costato: l’adesca assiduamente co’ suoi vezzi!
Donzella dalla guancia (porporina) come il suo camiciotto; dal velo bruno come le sue ciocche:
Le pietre preziose del suo monile tondeggiano come il suo seno; le minuterie ond’ella s’adorna, hanno il colore dell’afflitto mio viso.
Ella, col suo wisciâh, col velo e con gli ornamenti, sembra a chi la affisi, un Sole vestito di splendore, coronato di fitte tenebre e circondato di stelle.”
930. Kharîda, op. cit., pag. 601. I versi ai quali s’accenna, leggonsi nel citato Ms. di Parigi, fog. 116 recto e verso. Il poeta siciliano ne scrisse tre, per chiedere il libro: ed Abu-s-Salt gliene mandò con sette versi su la stessa rima.931. Ms. di Parigi, fog. 11 verso, 12 recto.932. Fog. 12 recto.933. Fog. 12 recto a 13 recto.934. Fog. 13 recto.935. Fog. 13 recto e verso.936. Si confronti la notizia di Imâd-ed-dîn, Bibl. arabo-sicula, pag. 587, con quella di Zuzêni, op. cit., pag. 619. Questa seconda notizia fu già pubblicata, non senza errori, dal Casiri, Bibl. arabo-hisp., I, 434, e quindi dal Gregorio, Rer. Arab., pag. 237, e citata dal Wenric, Rerum ab Arabibus, ec. pag. 305.937. Anonimo, presso Imâd-ed-dîn, loco citato.938. Imâd-ed-dîn, nel Ms. parigino della Kharîda, fog. 16 recto.939. Ms. citato, fog. 16 recto segg. L’elegia principia:
“Difficile è il conforto; immensa la separazione e la perdita; e ne piomba nell’anima più dolore ch’ella non cape.
Piangete, occhi, lagrime schiette e sangue; poichè a questo colpo non v’ha schermo!
················
Non bastava la Terra a’ suoi benefizii, ed or basta al suo corpo la fossa che gli hanno scavata.
Chi rimane agli orfani ed a’ viandanti, che le sue mani soleano dissetare e saziare?
················
Vengono gli Angeli della Grazia ad annunziare ch’egli è asceso agli eterni giardini.
Chè già le sue azioni gli aveano apparecchiato l’albergo ne’ luoghi dove posano le anime generose.
Che è questo che gli uomini sanno bene ch’e’ s’ha a morire, e poi, mettendosi in viaggio, non pensano a provvedersi del vitto?”
940. Ms. citato, fog. 17 recto.
“Lo piangono i destrieri di battaglia e spezzano il morso, non sentendo più i suoi sproni.
Vanno di passo, ancorch’e’ siano purissimi di sangue tra tutti i cavalli, valentissimi al corso e smilzi sopra ogni altro.
Per poco le spade indiane non si torcono dal dolore, sì che i foderi si spezzino allo sguainarle.”
941. Ms. citato, fog. 16 recto.
“Guancia lussureggiante di gelsomino e di rosa; bocca rivale della camomilla e del vino,
Per Dio, io t’amo, sì che lungi da te non reggo alla passione dell’animo:
La mia vita sta nella (speranza di) trovarmi un giorno con te; la mia morte nel (timor) che duri questa nostra lontananza.”
I poeti arabi usano spesso cotesto paragone della camomilla per significare la bianchezza dei denti.
Nel ms. citato, fog. 14 recto, si legge una kasida nella quale il poeta si lagna della:
“Smilza, che l’antelope del deserto le invidia tanto il collo; e l’aurora al par che il tramonto, desidera il (colorito del) suo volto.”
E conchiude con questi versi:
“Messi tutto l’animo mio nell’amore e inghiottii (anche) il disprezzo. Ed or mi son rivolto alle bellezze dello stile; mi son gettato a briglia sciolta nell’ippodromo loro.
Accortomi del buon sentiero e del tempo perduto dietro gli errori,
Ho abbandonato l’amore, ho cacciate via le (male) usanze, mi sono scostato dall’amor volgare ed egli s’è scostato da me.”
942. Ms. citato, fog. 15 recto. Questa poesia sembra fatta per cantarsi da qualche donna di un harem. “O mio padrone, luce del mio cuore, anzi luce di tutti i cuori,
Non vedi tu come il mio corpo è dimagrato e smunto (il viso);
Quanta arsura m’è entrata nel cuore e qual bàttito?
E tu sempre mi respingi, senza mia colpa!
Chè, se colpa ho io, tu puoi cancellarla:
Ma ch’io ti offenda, è molto lungi dalla mente di chi ha fior di senno!
Al mio male non v’ha medicina e non v’ha medico,
Per me non v’ha farmaco che di abbracciare chi amo.
O mio padrone, s’io mi struggo d’amore, non è maraviglia!
Spegni tu la sete del mio cuore con una visita, e tosto:
Chè nel nocciolo del mio cuore arde la gehenna!”
943. Così egli descrive la lettera dell’amico, nello squarcio di versi tramezzato alla prosa d’una epistola, ms. di Parigi, fog. 17 verso.
“N’esalò, quand’io ruppi il sigillo, un’auretta impregnata di muschio, di legno d’aloe e d’ambra.
L’occhio mio sollazzossi in giardini, dove biancheggiava il giglio, il mirto e la rosa:
Una pagina (nitida come) splendore diurno, su la quale spiccavano righi di tenebre nerissimi;
E lessi parole di rubini infilzati nella collana con (altre) pietre preziose e con perle;
(Parole che) se le sentisse l’egro, gli cesserebbero ogni dolore; anzi desterebbero un cadavere dal sonno della tomba. “
944. Si leggono questi versi nel ms. di Parigi, fog. 20 recto.
“Lo stuolo delle virtù si ferma (nel cammino) per cagion del dolore; l’eccelso monte della nobiltà rovina e precipita.
Oh qual seguito di mali s’appressa, mentre (da un altro lato) s’allontana ogni prospetto di gioia!
Che avverrà mai della luce del Sole e di quella che gli dà lo scambio, se questo faro di laude e di gloria è demolito?
(Soprattutto) ci accora che, mentr’egli pur alberga in uno degli elementi, la scellerata (morte) toglie alla sua mano di strignere (la spada) e d’allargarsi (donando).
Come colomba alle colombe, così ei s’accomuna con le anime de’ generosi che va incontrando.
O trafittura crudele! O rammarico che (strappa) le lagrime (dagli occhi)! O sorte nemica! O morte fiera!”
Pazienza, pazienza! La morte pria d’oggi ha cancellati tanti re, come si cancella la scrittura ne’ libri!
945. Questa bella iscrizione è stata pubblicata tante volte e l’ultima da M. Fresnel, con la versione inglese di Farès Schidiâk, nel Journal Asiatique di novembre 1847, pag. 439. La scrittura, e, con certezza non minore, l’uso della lingua, vogliono che il passo, reso dal sig. Schidiâk “an attendant of Ibn-es-Soosee” si legga, “ch’era chiamato Ibn-es-Susi.” L’epitaffio è dato il 569 (1174). Si vegga il Cap. viij del libro V, a pag. 213 di questo volume, nota 3.946. La frase comunissima che traduco così, suona letteralmente “il luogo dove cadde la sua testa (nascendo).”947. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 588, 589.948. Op. cit., pag. 600 segg.949. Diploma arabico di settembre 1161, appartenente alla Commenda della Magione, serbato oggidì nell’Archivio regio di Palermo. Il cadì si chiamava Abu-l-Fadhl-Regiâ, figlio di Abu-l-Hasan-Ali, figlio d’Abu-l-Kasim-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ. Tra i testimonii si legge anco Mohammed-ibn-Ali-ibn Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ.950. Bibl. arabo-sicula, pag. 600 segg., del qual testo il baron De Schack ha data nella sua Poesie und Kunst, ec. II, 44 segg., una traduzione in versi tedeschi, talvolta libera, ma sempre elegante.
Ecco gli squarci dell’elegia.
“Si piange! Oh come scorrono le lagrime dagli occhi e dalle palpebre stanche! Oh come struggonsi i cuori e i petti!
La luna più splendida s’è occultata e s’è oscurato il mondo; crollan le pietre angolari della magnanimità e della gloria.
Ahi, quand’egli fu perfetto in sua bellezza e maestà, onde superbivano di lui tutte le regioni della possanza,
Lo rapì allora di furto il crudel fato: la morte traditora, infesta alla sua gloria.
Così anche accade alle lune nel meglio: quando le son piene, la vicenda del tempo vuol ch’esse manchino!
Ben è ragion che si pianga per lui, con lagrime sparse sopra guance di perle e di coralli;
Che petti ardano, animi ammalino, affanni aggravinsi, cordogli ingrossino,
Sgorghino doglienze, occhi abbondino di pianto: sì che il flusso delle onde vada a incontrarsi co’ fuochi!
Lo piangono le sue tende e i suoi palagi; le lance e le spade gli recitan l’elogio funebre;
Il nitrito si fa gemito nelle gole de’ cavalli, quantunque costretti dai morsi e dalle testiere.
E per chi piangono, se non per lui, le bigie de’ boschetti? Se comprendessero, anche i rami piangerebbero insieme con le colombe.
Oh gran perdita! Oh sventura, maggior d’ogni costanza, rifuggente da ogni conforto!
Oh giorno d’orribile spavento, di terrore che fe’ incanutire i fanciulli!
Come se l’(angiolo) banditor del Giudizio fosse venuto a convocare le creature, e tutte lì lì fossero surte;
Così bastava appena il terreno alla gente (uscita di casa all’annunzio) e trassero a stuoli in un prato, uomini e donne.
E cuori si squarciarono, non che i vestiti, e usignuoli ripeteano il verso, e animi (forti) sbigottirono ed (alti) intelletti.
Eran vestiti a festa come candide colombe, e ritornarono che parean corbi, con le gramaglie del dolore.”
Ho tradotto “bigie” il plurale wurk, che ha in origine tal significato, e indi vuol dir “colombe:” ma non si può rendere in italiano il bisticcio che fa questo vocabolo con werek “fronde,” in guisa che permette al poeta di ripigliare la figura nell’altro verso, dicendo che piangerebbero anche i rami, ec. Nel penultimo verso il verbo che ho tradotto “ripetere,” nasconde un’altra malizietta del poeta, significando al tempo stesso “gorgheggiare” e “recitare il motto: Noi appartenghiamo a Dio ed a lui ritorneremo.” Cotesta sentenza, tolta dalla sura II, v. 151, del Corano, sogliono borbottare i Musulmani ne’ maggiori pericoli o calamità. Come si fa a riportare in italiano gioielli di tal pasta?
951. Bibl., pag. 582. Questo e i due squarci di Abd-er-Rahman da Trapani e d’Ibn Bescrûn, che daremo or ora a pag. 756 e 759, furono pubblicati per la prima volta, con traduzione francese, dal baron De Slane nell’articolo del Journal Asiatique, II serie, tomo XI, pag. 362 segg. (1841), nel quale ei die’ ragguaglio della traduzione della Geografia di Edrîsi, per M. Jaubert.
Io ho confrontato il testo col Ms. del British Museum e l’ho ristampato nella Bibl. arabo-sicula, con le varianti e con le lezioni ch’io presceglieva e quelle anco che m’erano gentilmente proposte dal dotto professore Fleischer. Il barone De Schack, op. cit., II, 41, 42, 261, ha data di questi squarci una buona traduzione tedesca, in versi, fondata sul testo della Biblioteca.
952. Il baron De Slane ha letto ’Akîk “corniola.” Ma ’Atîk “vecchio” significa specialmente vino; e mi conferma in questa lezione la desinenza femminile dell’aggettivo che segue.953. Ma’bed fu celebre cantatore della corte omeiade in Damasco.954. Ho seguite in questo verso due lezioni diverse da quelle dello Slane.955. Evidentemente allude a quella che un tempo fu chiamata “la Sala verde;” su la quale si vegga una erudita dissertazione del barone Raffaele Starrabba, nelle Nuove Effemeridi Siciliane del 1870.956. Altrimenti detti della Favara. Una delle due sorgenti d’acqua del parco regio che racchiudea la villa alla quale fu dato tal nome, si chiamava della Rupe; come l’attesta Ibn-Haukal, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 9 e nel Journal Asiatique, serie IV, tomo V (1845), pag. 99. Il nome veniva dalla rupe ora detta di Santo Ciro, sotto la quale sgorga quell’acqua, che si addimanda ancora di Maredolce, dal lago che faceva un tempo.957. Bibl., pag. 581 segg.958. Io veramente non son certo che la voce “ bahrein ” s’abbia qui a tradurre due mari, più tosto che due laghi. Nel primo caso, l’un de’ mari sarebbe il golfo di Palermo e l’altro il lago d’acqua dolce, doppio o scempio che si voglia supporre. Nel secondo caso, il poeta potrebbe alludere a’ due laghetti formati dalle sorgenti di Maredolce e della Favara propriamente detta, le quali sono distanti quattro chilometri l’una dall’altra. La prima alimentava certamente un lago; ma che questo si estendesse fino alla seconda non è provato, per quanto io sappia, da scritture, nè dalla topografia.959. Ancorchè il lago di Maredolce sia prosciugato fin dai principii di questo secolo, il letto della parte superiore si scorge benissimo, e non v’ha dubbio che il castello o villa regia sporgea dentro il lago, ma rimanea congiunto alla riva.960. Seguo le lezioni proposte dal Fleischer, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 585.961. Leggo il secondo emistichio in modo da mutare affatto il significato supposto dal baron De Slane.962. Corano, sura LXXXI, verso 12.963. Bibl. arabo-sicula, pag. 587 seg. e 616, dove si legge una breve notizia che ne dà il Dsehebi, nelle Biografie de’ Grammatici.964. Così anche il suo prototipo, Ka’b-ibn-Zoheir, nel celebre poema che gli valse il perdono di Maometto, incomincia piangendo per l’allontanamento della bella So’àd e passa d’un salto alle lodi del Profeta.965. “Cercando sollievo, ei volea porre altra (bella) in vece di So’àd nel nocciolo del suo cuore;
E sperava che, per principio, l’immagine di lei venisse a visitarlo (in sogno): ma il gran dolore gli negò la dolcezza del sonno.
Oh se vi fosse stato il re Ruggiero, quel che fa conoscere agli amici la magnificenza del suo affetto,
Non avrebbe (il poeta) ricusato di bere nella tazza preziosa, il giorno che (So’âd) allontanossi; ma avrebbe visto nell’oroscopo del re la faccia della gloria.
················
Pronto a’ doni, com’è pronta l’indica spada ch’ei brandisce a due mani il giorno della mischia,
Rifulge nelle tenebre l’aurora della sua fronte, talchè diresti che la luce del Sole invidia anch’essa questo (eroe).
Egli ha piantata la tenda là dove spuntano i Gemini: le Plejadi e i due grandi luminari gli fan da piuoli;
E quando s’arruffano le cose, allora il suo brando affilato scrive coll’inchiostro suo, in guisa da far tornare bianchi que’ che parean più neri.
················
O monarca, roccia di granito su la quale la fierezza tien saldi i pie’;
Tu che, provocato dagli spiriti dei nemici, li disperdi scherzando, percossi dai tagli delle tue spade.”
966. Dozy, Catalogus CC. OO., Bibl. Acad. Lugduno Batavae, tomo II, pag. 263, tra i titoli de’ capitoli e i nomi de’ poeti che leggonsi nella Kharîda d’Imâd-ed-dîn. Si confronti la Bibl. arabo-sicula, pag. 599, 601.
Il Mokhtar è registrato da Hagi-Khalfa, edizione Fluegel, IV, 146, n. 7901 e V, 438, n. 11590 e nella Bibl. cit., pag. 704, 705. Notasi inoltre in Hagi-Khalfa, III, 593, n. 7146, un Sirr-el-Kimia (Segreti dell’Alchimia) dello stesso Ibn-Bescrûn.
967. Bibl., pag. 583. Si riscontrino le spiegazioni che abbiam date per alcuni vocaboli, trattando di quell’altro componimento qui innanzi a pag. 755 segg.
Anche qui ho preferita qualche lezione diversa da quella che seguì il baron De Slane nella sua prima pubblicazione.
968. La voce ghoraf, plurale di ghorfah, è stata dal baron De Slane tradotta un po’ vagamente étages. Il significato di “loggia, belvedere,” si scorge preciso ne’ passi di Makrizi, Kitâb-el-Mowâ’iz, testo di Bulâk, tomo II, pag. 250, lin. 19, e di Ibn-Giobair, ediz. Wright, pag. 271: e così lo dà anche il Cuche, nel Dizionario Arabo-Francese, Beirut, 1862. Intorno gli altri significati, si vegga la voce “Algorfa” nel Glossaire des Mots espagnols, etc. per Dozy ed Engelmann.969. Ho amato meglio lasciar questo vocabolo indeterminato com’esso è nel testo. Pur sembra che il poeta, più tosto che alla cacciagione del parco reale, abbia voluto alludere a’ lioni di marmo notati dal poeta di Butera, al quale ei risponde, seguendo non solamente il metro e le rime, ma facendo anco la parafrasi di ciascuna idea, come in un indirizzo parlamentare con cui l’uso vuol che si riscontri per filo e per segno il discorso del trono.970. Il testo ha la voce dibag e la mette al plurale. Di questa voce abbiam già fatta menzione e la traduciamo broccato, perchè dinota ricco e grave tessuto di seta.971. Mi par che in questo verso il verbo s’abbia a supporre all’optativo, che in arabico è il passato. Mi discosto in ciò dal baron De Slane che ha tradotto “Il est là” etc. Intendo poi in modo affatto diverso gli ultimi due vocaboli, ch’egli ha resi “admirables monuments.” Mesched, di cui abbiamo qui il plurale, significa luogo di adunanza, luogo dove si fa testimonianza, e indi “martirio, santuario;” ma non so che gli Arabi abbian mai chiamato così un sontuoso edifizio in generale. Seguendo questo pensiero, che non è arabo, nè del XII secolo, il dotto traduttore ha dovuto usare forza all’ultimo vocabolo e farne uno degli aggettivi che oggidì si accoppiano inevitabilmente con “monumento.”972. Bibl. arabo-sicula, pag. 586. I versi leggonsi nel Ms. di Parigi, fog. 10 verso. Ed ecco que’ della kasida:
“Quanti uomini eccelsi la fortuna ha messi giù, in condizione inferiore, dopo aver sorriso ad essi!
Quanti uomini da nulla si sono rimpannucciati: han salito ogni monte, arrampicandosi fino alla cima!
Maledetta la fortuna che ha depressa l’altezza del mio grado; m’ha scemati i fratelli e moltiplicate le ingiurie!
Quand’ella oscura la riputazione d’un uomo, eccotelo stecchito: a chi lo guardi, par ch’ei dorma (l’ultimo sonno).”
973. Bibl. arabo-sicula, pag. 581.
Il primo epigramma è scritto ad “un certo capo” che non si era lasciato veder da lui. Il professore Fleischer, rivedendo le stampe della Biblioteca, propose di leggere “tempo” in vece di “capo,” la quale lezione avrebbe riportato a Ruggiero il fatto del ributtare il poeta. Ma non ostante il gran rispetto che io ho per quel sommo maestro, non veggo ragione di mutare la mia traduzione. E i versi mi sembrano sì impertinenti, da non potersi credere che il poeta li abbia indirizzati a Ruggiero.
974. Ms. di Parigi, fog. 8 recto. Il primo epigramma è questo:
“Superbì colui ch’io andai a visitare e si chiuse, lasciandomi fuori, mentre egli non si ascondeva a questo nè a quell’altro.
Pria di conoscermi egli avea fatti stendere drappi del Sind e della Cina (per farmi onore).
La mia sventura vien tutta da lui. Così foss’io morto pria di questo (affronto).”
Ecco l’altro epigramma:
“Gli amici della tua fortuna, fa di accoglierli come nemici, con l’arme in mano.
Nè ti illuda (se loro spunti in volto) il sorriso, chè la spada ti ammazza luccicando.”
975. Si vegga il Capitolo precedente, pag. 684, di questo volume.976. Bibl. arabo-sicula, pag. 582. Questi due versi portano a credere che l’autore sia vissuto nella seconda metà dell’XI secolo, ancorchè la raccolta, in cui Imâd-ed-dîn dice averli trovati, si riferisca alla seconda metà del XII. Pure un musulmano che avesse vista la Sicilia verso il 1150 e poi verso il 1162, avrebbe potuto pensare anche così.977. Nel Ms. di Parigi, fog. 8 verso e 9 recto.
Sono tre squarci, dei quali traduciamo quel che ci sembra il migliore.
“Mi lamentai, ed ella disse: Tutto questo mi dà noia! Che Dio sollevi il tuo cuore dall’amor che senti per me!
Ma quand’io nascosi la passione, eccola a tentarmi: Troppo hai sofferto (in silenzio). Non fa così chi è afflitto profondamente.
Dunque s’io mi appresso, ella mi respinge, e s’io mi allontano per farle piacere, me l’ascrive a colpa.
Le querele divengon fallo; la pazienza la fa andare in collera; s’affanna quand’io sto lungi, e fugge quando son presso.
Oh vicini, se sapete qualche artifizio (che mi tolga da quest’impaccio) consigliatemelo e che Dio ve ne rimeriti!”
978. Bibl. arabo-sicula, pag. 599. Imâd-ed-dîn dice ch’egli “arrivò al tempo di Nûr-ed-dîn e morì, ec.” Dunque era già in Damasco quando se ne impadronì Norandino.
“Ve’ l’accinto, che tien la croce appesa al collo e s’avvolge l’evangelo attorno il farsetto!
Ei spegne il fuoco a notte inoltrata e in vece di candela adopra la fragranza del fiasco.
Il suo bicchiere comparisce al viaggiatore notturno come stella che lo conduce infino all’aurora.”
Ho tradotto “accinto” l’aggettivo mozanner, ossia “cinto di zonar,” cioè quella cintura che, secondo le leggi musulmane, dovean portare gli “ dsimmi ” ossia Cristiani, Giudei e Sabii, per distinguersi dal popolo dominante. Qui vuol dir meramente, cristiano. Non so se i Cristiani di Palermo nel XII secolo usassero una fascia al cinto; ma dicerto non v’erano obbligati.
Ho reso “farsetto” la voce wisciâh, della quale si è detto poc’anzi. Il poeta, senza dubbio, adopera la voce vangelo per significare qualche preghiera cristiana scritta su striscia di pergamena, qualche “Postiglione di San Francesco di Paola” usato in quei tempi.
Il secondo verso allude evidentemente al notissimo statuto normanno del coprifuoco.
979. Si vegga la Rivista sicula di novembre 1869, pag. 378 segg.980. Bibl. arabo-sicula, pag. 581. I versi nel Ms. di Parigi, fog. 6 verso.
“Costei che t’ammalia con gli occhi e sembra una huri fuggita dal Paradiso,
Sorridendo ti fa vedere perle e gragnuola, sparse in mezzo all’acceso color della corniola.
La sua bellezza ecclissa la luna del Cielo; e quando tu affisi le sue pupille, ti senti inebriare.
Il viso splende com’oro al par del Sole; il petto e il grembo sono un mucchio di gioielli.
Io le dissi, fuor di me pel dolore, accecato ch’io era da’ raggi della sua luce,
O superba, tu mi respingi perchè ne gioisca il mio detrattore!
Ed ella a me: Io ho un cuor duro, da far malo augurio allo spasimante che prende a gioco l’amore.
E andò via, come la luna nella sua altezza, con superbo incesso, senza voltarsi.”
981. Ms. citato, fog. 7 recto.
“Io ti racconto, o signor mio, cose che uomo non ha mai patite;
Calamità che m’erano scritte su la divisa dei capelli, con le quali or compio il mio destino.
Fui preso, ahimè, e (lo giuro) per la tua vita, io non me ne accorsi:
La vidi che stava sopra un talmik (?) come se il ramo avesse portata (per frutto) la luna.
Ed avventommisi addosso fieramente. Che opera così l’uom generoso quand’ei può?”
982. Bibl. arabo-sicula, pag. 582. I versi leggonsi nel Ms. di Parigi, fog. 7 verso, seg. Lasciando la proposta e risposta, alla quale ho accennato, tradurrò alcuni altri di simile argomento.
“Smettono le ingiurie e scansano la collera. Capisco e lor concedo favori,
E perdono il mal che mi han fatto; (perdono) di tutto cuore, pienamente.
Volentieri sentirei, e valuterei molto, una parola di rincrescimento: essa porterebbe via, tondo, ogni mal fatto.
Mi seppe salmastra l’acqua del vostro affetto e pure la bevvi, e volli mescere (in cambio) dell’acqua dolce!”
983. Come Aghlabita egli apparteneva alla tribù di Sa’d. Tuttavia questo nome etnico si potrebbe riferire al Kasr-Sa’d presso Palermo, di cui Ibn-Giobair, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 88 e nel Journal Asiatique di gennaio 1864, pag. 75, 76.984. I versi e il cenno biografico si leggono nel Fewât-el-Wafiâl, di Mohammed-ibn-Sciakir-el-Kotobi, stampato al Cairo il 1283 (1866), pagina 354 segg.
Troviamo a pag. 355:
“Bianche (donzelle) con uno sguardo sfoderano spade affilate, le (cui) guaine sono le palpebre.
E (indi nelle nostre) gote le lagrime scavano solchi e gli occhi abbondano come fonti.”
985.
“Hai neglette le faccende tutte quante, senza adoprarti perchè andasser bene, nè affliggerti (del contrario).
Pur l’uno e l’altro, ancorchè contrarii, tornano allo stesso effetto, cioè far andare a male ogni cosa.
Ecco che noi si scrive questo, si ordina quest’altro, e poi si ritorna com’eravam prima.”
986. “Ed io con ogni aura gli mandava un saluto, per tutto il tempo che soffiavan l’aure, mattina e sera!”987. Bibl. arabo-sicula, pag. 599. Si vegga il capitolo iv di questo libro, pag. 485 del volume.988. Cap. v di questo libro, pag. 541.989. Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 107, 109, 111, 112, 124, 126, con le varianti date nella mia Prefazione, pag. 42.990. Bibl. arabo-sicula, pag. 152, 153. La tribù dei Beni-Rowaha stanziava ne’ dintorni di Barka.991. Secondo alcuni Panaria è l’Evonymos degli antichi e secondo altri l’Hicesia; ed altri dà il primo o il secondo di cotesti antichi nomi ad altra delle isole Eolie. Non è facile decidere simili dubbii, essendo le Eolie vicinissime tra loro, ed alcune sì piccole, che nella descrizione talvolta si trascurano come scogli. Pure le latitudini e longitudini delle varie isole Eolie, secondo Tolomeo, aggiungon fede alla opinione che identifica Hicesia con Panaria.992. Bibl., testo, pag. 22, 23.993. Op. cit., pag. 24. M. Jaubert ha tradotto poco esattamente questo luogo nel vol. II, pag. 73, lin. 2, 3.994. Op. cit., pag. 24. Traduco “antilope” il vocabolo zabia, tzabia, dhabia, thabia, ec., che gli Arabi forse apposer vagamente a novella specie del genere cervus, o del genere capra, forse il camoscio o il capriolo, quando la videro per la prima volta ne’ paesi occidentali. Il Vocabulista in arabico dà i due significati diversissimi di “capra” e “damma.”995. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, nel capitolo di Favignana.996. Lib. IV, cap. xiij, pag. 443 del II volume.997. Bibl., pag. 36. Il testo ha precisamente merkeb; voce generica, usata per le navi con ponte.998. Op. cit., pag. 38.999. Op. cit., pag. 40, 41. L’autore si serve dei vocabolo merkeb nel primo caso, e di kârib nel secondo. Credo che i merkeb siano stati, in generale, più grandi che i “lautelli” e altri legnetti ai quali or dà ricovero quel porto.1000. Op. cit., pag. 35, 39.1001. Op. cit., pag. 41.1002. Op. cit., pag. 36.1003. Op. cit., pag. 38. Il nome arabico, or corrotto in quella strana forma, è ’Ain-el-aukât. “La fonte (che sgorga) a momenti.”1004. Bibl., pag. 35.1005. Op. cit., capitolo VII, sotto i nomi citati.1006. Ho toccato quest’argomento nel libro II, cap, vj, xij; lib. IV, cap. iv; lib. V, cap. x: vol. 1, pag. 326 segg., 465 segg.; vol. II, pag. 275 segg.; vol. III, pag. 309 segg. Tre volte par di afferrare il bandolo nella descrizione d’Edrîsi, e subito lo si perde. L’ iklim di Demona non può rispondere al valle, perchè ve n’ha tanti e tanti altri nell’isola; e non può significar territorio di comune, perchè Edrîsi non descrive Demona, nè la nomina in altro luogo che questo. Sembra poco appresso di trovare il riscontro in ’aml, che vuol dir governo e territorio sul quale si estende; tanto più che questo vocabolo occorre in Noto (pag. 37 dei testo), la quale ha “un ’aml di larga superficie ed un iklim di eccellente condizione:” e il dubbio par divenga certezza in Castrogiovanni, col suo “ ’aml di larga superficie e i suoi iklîm di larghe condizioni;” il qual bisticcio mostrerebbe almeno che un ’aml potea contenere parecchi iklîm. Ma ecco l’ ’aml e lo iklîm, al singolare, anche in Marsala; i vasti iklîm di Mazara e di Trapani, alle quali non si dà ’aml (pag. 40); e gli iklîm di Cefalù, Calatamauro, Calatubo e Licata, e Sciacca, ch’era «come la città capitale degli iklîm e degli ’aml dei dintorni.» Da ciò si potrebbe conchiudere che que’ due vocaboli non avessero significato tecnico in Sicilia, come l’avevano in Egitto (cf. vol. II, 275, nota 4), o che Edrîsi li adoperasse a capriccio, o infine che gli iklîm fossero due soli nella Sicilia orientale, e assai numerosi nella regione a ponente di Castrogiovanni.
A quest’ultimo supposto mi par che conduca l’ordine seguìto da Edrîsi nella descrizione de’ paesi posti dentro terra. Ciò ch’io dico, si capirà meglio quando si legga la descrizione di Edrîsi con una carta alle mani, e si pongano su i paesi de’ segni di colore diverso, cambiandolo ogni volta che l’autore torna addietro. Così il Valdemone, ch’è l’ultimo nella descrizione, si vedrebbe ben distinto dal Val di Noto, ch’è il penultimo. Ma a ponente del Salso e di Fiume Torto i colori si moltiplicherebbero. Quivi l’autore si va aggirando con uno scopo, che non mi par quello di seguire le vie di comunicazione. Perocchè movendo da Palermo, com’ei dice, alla volta di Castrogiovanni, cioè dell’E.S.E., s’arresta quivi ad un terzo del cammino su la sponda sinistra del fiume Torto, donde salta a Giato, una cinquantina di chilometri a ponente, nè ripiglia la via di Castrogiovanni pria d’avere percorso in varie direzioni la più parte del Val di Mazara. Ma nemmeno ei compie la descrizione di tutti i paesi e de’ fiumi che appartennero a quello nella nota tripartizione dell’isola. Dico sempre dei paesi dentro terra; poichè quei della marina sono descritti in fila, movendo da Palermo per levante e ritornando dal lato opposto, senz’altro cenno d’ iklîm che quel di Demona, il quale d’altronde si dice dove principii, ma non dove finisca.
Ora l’ordine de’ paesi dentro terra dà indizio che la descrizione sia stata fatta su carte parziali, ovvero relazioni parziali, le quali non sappiamo con quale ragione fossero state distese. L’antica divisione de’ due Imera, rinnovata dall’imperator Federigo, non fu osservata di certo al tempo di re Ruggiero; poichè l’autore si ferma la prima volta al fiume Torto, non già al fiume Grande, ossia Imera settentrionale. Egli poi passa e ripassa l’Imera meridionale, ossia fiume Salso, in guisa da far credere che pria del Val di Noto voglia descrivere quel che veggiamo al principio del secolo XV col titolo Val di Girgenti e di Castrogiovanni, o piuttosto che percorra l’una dopo l’altra le due province riunite sotto tale denominazione nel XV secolo. La circoscrizione in quattro valli, cioè i tre notissimi e quello di Girgenti e Castrogiovanni, si scorge dal censo del 1408, pubblicato dal Gregorio nella Biblioteca aragonese, II, pag. 490 segg.
1007. Ritraggo dal mio dotto amico Isidoro La Lumìa, direttore dell’Archivio Regio di Sicilia, che, tra i documenti trovati infino al settembre 1871, il primo che portasse la circoscrizione dei tre valli torna al 1477.1008. Palermo, Termini, Cefalù, San Marco, Oliveri, Catania, Siracusa, Mazara, Marsala, Carini, Adernò.1009. Il testo ha qui il plurale della voce hanût, ma la spiega meglio con quel che segue. Ho tradotto magazzini per avvicinarmi al significato nostro attuale, ancorchè questa voce, araba anch’essa, abbia in origine un significato diverso.1010. Si ha ad intendere i magazzini e alberghi de’ mercatanti stranieri, grandi stabilimenti come que’ de’ Pisani, Genovesi e Veneziani ne’ paesi musulmani. Ognun sa che la voce italiana fondaco viene da quella, ma non ha lo stesso significato. All’incontro in Sicilia, come in Tunis, denota adesso gli alberghi d’infima classe per gli uomini e per le bestie da soma.1011. Sono questi in Oriente gli alberghi pei viaggiatori di carovana. Mi par che Edrîsi adoperi un po’ a capriccio le denominazioni delle varie specie di alberghi e botteghe.1012. Edrîsi nella descrizione di quelle città.1013. Bibl., pag. 23.1014. Op. cit., pag. 22 a 25.1015. Op. cit., pag. 42.1016. Op. cit., pag. 93.1017. Op. cit., pag. 45. Il testo ha “prigione motabbak,” cioè coperta. Coperta senza dubbio di vòlta e probabilmente sotterranea.1018. Op. cit., pag. 40.1019. Op. cit., pag. 63.1020. Mancano oggidì in provincia di Palermo: Burkâd (Broccato castello), Sakhrat-el-Harîr (Roccella, ossia Campofelice, presso Cefalù), Khazân, Pitirrana, Giato, Calatrasi, Kala’t-et-Tarîk, Raia, Margana, Khassu, Menzil-Sindi, Calatamauro, Harraka, Makara, Rekka-Basili, che fan 15; in provincia di Trapani, El-Asnâm (ossia gli Idoli, Selinunte), Kalatubi, Rahl-el-Mara, Miragia, Rahl-el-Kaid, Rahl-el-Armel, Kasr-ibn-Menkud, che son 7; in provincia di Girgenti, Platano, Gardsuta, Kerkudi, 3; in provincia di Caltanissetta, Tavi, 1; in provincia di Catania, Sceliata, Kala’t-el-Fâr e Melgia-Khallî, 3; in provincia di Siracusa, Cassibari, 1: e in provincia di Messina Kaisi, Maniaci, Mengiaba e Mikosc, 4. Ma quest’ultimo torna forse a Mandanici o Fiumedinisi, e Mengiaba a Floresta o Tortorici. Similmente a Kerkudi sembra sostituita Sommatino; Partanna a Gardsuta; Castelbuono o Santo Mauro a Rekka-Basili; e nel sito di Kassn, o non lungi, è sorta Ciminna. Il numero dunque si può ridurre da 34 a 28, cioè 22 in val di Mazara e 6 nella Sicilia orientale.1021. Si vegga la Introduzione alla mia Carte comparée de la Sicile, Paris, 1859, pag. 21 segg., ed a pag. 27 segg., l’Indice topografico cavato dagli scrittori e da’ diplomi. Mi son venuti poi alle mani molti altri nomi di luoghi abitati nel medio evo; e un grandissimo numero se ne dee tenere perduto o non ancora scoperto. Se ne può già raccogliere buon numero ne’ pochi lavori usciti alla luce dopo quel mio scritto; tra i quali citerò solo le Mem. stor. Agrigentine del sig. avvocato Giuseppe Picone, 1866-1870, e la bellissima carta della Sicilia, pubblicata non è guari dal nostro Stato Maggiore. In questa, non ostante i molti errori che son corsi nella trascrizione de’ nomi topografici, si riconoscono bene quei dell’età musulmana, dati evidentemente a casali, villaggi o castella, essendo costruiti coi vocaboli rahl, menzil, kala’t. Da un’altra mano, il numero de’ comuni e villaggi moderni si cava da notizie officiali, nelle quali sarà forse qualche errore; ma di unità, non già di diecine. Al principio di questo secolo la Sicilia avea da 354 tra città, terre e casali, come si legge nella Prefazione al Nuovo dizionario geografico, ec. della Sicilia, per Giuseppe Emmanuele Ortolani, Palermo, 1819, in-8º. Lo Stato generale delle Poste, Palermo, 1839, correttivi i raddoppiamenti di nomi e gli errori di villaggi segnati come comuni, ha 357 comuni e 204 villaggi. Secondo il censimento del 1861, il numero de’ comuni era di 361: ed ora se ne contano 359, per la solita vicenda della piccole popolazioni che si uniscono a’ comuni maggiori o se ne spiccano.1022. I comuni odierni son questi: Borgetto, secolo XIV; Parco, XVI (?), Santa Cristina, XVII; Godrano, XIV; Corleone; Campofiorito, XVII; Contessa, XV; Roccamena, XIX; Camporeale, XVIII; San Giuseppe Jato (o dei Mortilli), XVIII; Piana de’ Greci, XV; Valguarnera, XVI. I tempi della istituzione in comuni o villaggi son tolti dal Dizionario topografico dell’Amico, con le aggiunte del traduttore signor Di Marzo.
Su la misura del territorio si vegga, nell’errata, la correzione alla pag. 536 del presente volume.
1023. Si potrebbe dir per avventura che se 3 de’ 130 grossi paesi del XII secolo suddivideansi in 50 luoghi minori abitati, questi ultimi doveano tornare in tutta l’isola a 2166; e se il territorio di 42 comuni odierni contenea nel XII secolo 50 di que’ luoghi minori, il territorio de’ 361 comuni del 1861 doveva essere, nel XII secolo, occupato da più di 1500 luoghi. Io non intendo già applicare la regola del tre alla topografia comparata; ma ognun vede come le proporzioni confermano il numero dedotto dalla lista dei nomi che ci è venuto fatto di raccogliere. Aggiungo che il divario delle condizioni etnografiche e topografiche, il quale esclude nel presente caso ogni rigor di proporzione, porta anco de’ compensi. Per esempio, le terre, la più parte frumentarie, dei tre paesi nominati, non ammetteano tanti agricoltori quanto i giardini presso le grandi città; e da un’altra mano, quelle colline coltivate da Musulmani erano suscettive di maggiori spostamenti di popolazione, che le montagne boschive del Valdemone, abitate sempre da Cristiani. Perciò gli elementi del calcolo tornano meno fallaci, che non parrebbe a prima giunta.1024. Bibl., pag. 34.1025. Op. cit., pag. 41.1026. Op. cit., pag. 42. Edrîsi distingue due sorte di pietra molare; l’una delle quali detta da acqua, e l’altra fârisi, ossia persiana. Non trovo cotesta varietà nel Kazwini. Il mio dotto amico, il professor G. G. Gemmellaro, benemerito per importanti ricerche geologiche su la Sicilia, ha osservata nelle vicinanze di Calatubo, Alcamo e Calatafimi, una estesa formazione di arenaria, che in certi punti diviene eccellente pietra molare.1027. Si vegga il libro IV, cap. xiij, pag. 442, 443, del II volume.1028. Nessuna memoria ci attesta che i Normanni di Sicilia abbiano adoperato il fuoco greco. Tuttavia si potrebbe supporre senza tanta inverosimiglianza, quando si sa che l’armata degli Ziriti di Mehdia conosceva quel segreto, e v’ha ragion di credere che non lo avessero ignorato i Musulmani di Siracusa. Si vegga il nostro libro V, cap. vj, e il libro VI, cap. j, e pag. 165 e 367 del presente volume.1029. Si vegga il cap. x di questo libro, pag. 669 del volume, con la correzione fatta nell’errata.1030. Questi ragguagli, dati largamente da Ibn-Scebbât e in poche parole da Kazwini, sono attribuiti dal primo ad Abu-l-Hokm-ibn-Ghalanda, e dal secondo ad Ahmed-ibn-Omar. Di questi due autori noi non abbiamo opere nè notizie biografiche, se non che Ibn-Scebbât annunzia il suo Abu-l-Hokm come continuatore del Bekri, e dichiara darne estratti compendiati; e che Edrîsi novera il secondo tra gli autori delle opere geografiche studiate da re Ruggiero. All’incontro la notizia su la estrazione del petrolio è più compiuta ed anche più corretta in Kazwini, il quale dà sempre i passi di Ahmed, senza dir ch’ei li scorci. Dalla identità de’ fatti e di molte parole argomento che il testo sia un solo. E poichè d’Ibn-Ghalanda non sappiamo quante generazioni sia vissuto dopo il Bekri, ma di Ahmed egli è certo che abbia scritto avanti il 1154, dobbiamo attribuire a lui le due descrizioni, finchè non ci occorra prova in contrario. Così il fatto narrato risale alla prima metà del duodecimo secolo.1031. Questo mese siriaco risponde al febbraio.1032. Si confrontino le due compilazioni nella Bibl., pag. 142 e 210. Secondo il Kazwini, che dà il testo di Ahmed-ibn-Omar, il petrolio si separava in vasi chiamati iggiana e si riponeva nelle kârûra. Ibn-Ghalanda, o il suo compendiatore, usa, per indicare i primi, un vocabolo che par s’abbia a leggere, col Fleischer, kasa’h.1033. Bibl., pag. 210.1034. Op. cit., pag. 12. Sorgeva allora presso i bagni un castello che prendeva da quelli il nome di Kala’t-el-Hamma, trascritto Calathammeth in un diploma del 1100.1035. Op. cit., pag. 30.1036. Bibl., pag. 35. Parmi che, allora com’oggi, varii paesi delle falde orientali dell’Etna portassero il nome di Aci, poichè il paese è designato nel testo arabico con le lettere Liâg, che par bell’e buono Aci, preceduto dal nostro articolo maschile plurale. Si confronti il libro III, cap. iv, nel II vol., pag. 85, nota 4.1037. Op. cit., pag. 32, 49, 59, 62. Si confronti il lib. IV, cap. xiij, a pag. 445, del II vol.1038. Op. cit., pag. 24. Certamente la Sicilia non producea molto olio nel medio evo. Si vegga il cenno che abbiam fatto di questa vicenda economica, nel libro II, cap. x, pag. 415, del I volume; si riscontri il libro IV, capitolo xiij, pag. 443, del II volume, e si ricordi particolarmente il diploma del 1134, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 975, nel quale è conceduto al Monastero del Salvatore in Messina di esportare per l’Affrica 200 salme di frumento “ad emendum oleum et reliqua necessaria eis, quae in Africa sunt.” In un diploma del 1249, presso Mongitore, Sacrae Domus Mansionis.... monumenta, è nominato l’uliveto di San Giovanni de’ Leprosi, presso Palermo, contiguo alla piantagione delle palme.1039. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 408.1040. Presso Caruso, loc. cit.1041. Ibidem. Negli orti i cetriuoli, i cocomeri, i poponi; ne’ giardini melegrane, arance, cedrati, lime, noci, mandorle, fichi, carrube.1042. Bibl., pag. 43.1043. Op. cit., pag. 32.1044. Op. cit., pag. 33.1045. Op. cit., pag. 65.1046. Diploma di Silvestro conte di Marsico, dato del 1140, presso De Grossis, Decacordum, Catania, 1642, I, pag. 77.1047. Bibl., pag. 43. Gli Arabi chiamano katniah, al plurale katâni, le piante leguminose; come si conferma con Lane, Lexicon, lib. I, pag. 440, colonna 2ª, alla voce giullugiân, e col Vocabulista in arabico, pag. 523, al vocabolo vicia. Il Ms. arabico di Parigi, Ancien Fonds, 78, fog. 696 verso, chiama anche così i legumi di che si cibavano ne’ giorni di magro i frati del monistero del Monte Negro, presso Antiochia. Si vegga infine il Riadh-en-Nofûs, Ms. di Parigi, Ancien Fonds, num. 752, fog. 50 recto.1048. Diploma del 1140, che abbiam citato nel libro IV, cap. xiij, a pag. 448 del II volume, nota 2. Il cotone era coltivato in Puglia e in Sicilia ne’ principii del XIV secolo, come attesta Marino Sanuto, Secreta Fidelium Crucis, lib. I, parte I, cap. 2.1049. Diploma del 15 dicembre 1249, presso Bréholles, Hist. Diplom. Friderici II, tom. V, pag. 571 segg.1050. Falcando, presso Caruso, op. cit., pag. 408.1051. Diploma del 1249, citato poc’anzi.1052. Niccolò Speciale, libro VII, cap. ix, ed Anonymi Chronicon Siculum, cap. lxxxvj, nella Biblioteca aragonese del Gregorio, tomo I, pag. 475, e tomo II, pag. 207. Del dattileto della Favara si fa menzione in parecchi diplomi della Commenda della Magione dal 1258 al 1267, delle cui date ci informa il Mortillaro nell’ Elenco delle pergamene della Magione, pag. 37 segg., 41, 42 segg., 53, 54, 57. Si noti che sono concessioni di terreno nel dattileto, fatte la più parte a fine di piantar vigne. Un altro diploma del 1316, pubblicato nello stesso volume, pag. 214, 216, fa menzione dello stesso dattileto che arrivava al Ponte detto dell’Ammiraglio.1053. La conghiettura ch’io già feci nel libro IV, cap. xiij, pag. 445 del secondo volume, nota 3, è confermata da un aneddoto che si legge nel Riadh-en-Nofûs, Ms. di Parigi, Ancien Fond s, n. 752; il qual luogo, sfuggitomi quand’io percorsi quel prezioso codice, mi è stato non è guari trascritto dal dotto amico il professor Dozy. Un Abu-l-Fadhl, celebre tra’ giuristi ortodossi del Kairewân che aborrivano sì forte dalla novella dominazione fatemita, ricusò un pezzo di torta mandatogli in dono da un amico, perch’egli supponea fatta la torta con lo zucchero di Sicilia, il quale, cavandosi da poderi che avea conceduti l’usurpatore, i più scrupolosi lo teneano derrata di origine illegale, da non potersi comperare nè accettare in dono.1054. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 408.1055. Diploma dell’agosto 1176, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 453.1056. Diplomi del 28 novembre e 15 dicembre 1239, citati in questo libro, cap. viij, pag. 618, del volume.1057. Il Gregorio trattò quest’argomento in un opuscolo ristampato a pag. 753 segg. della edizione del 1853, dal quale si vede che la coltivazione dello zucchero si mantenne importante in Sicilia fino allo scorcio del XV secolo; decadde nel XVI, quando passava nel Nuovo Mondo la cannamela, trapiantata, come si dice, dalla Sicilia nelle Canarie; ed era al tutto mancata nei principii del nostro secolo. La produzione dello zucchero in Sicilia ne’ principii del XVI secolo è attestata da Marino Sanuto, Secreta Fidelium Crucis, lib. I, parte I, cap. 2. Più ampii ragguagli si trovano in Bartolomeo De Pasi, Tariffa de’ pesi e misure, ec., Venezia, 1540, fog. 60 verso, 152 verso, 187 recto et passim, e nella Pratica della Mercatura di Niccolò da Uzano (1442), presso Pagnini, Della Decima, ec., volume IV, pag. 162, 195. Queste due preziose opere sul commercio dell’Italia, le quali provano la parte che vi prese la Sicilia, rimasero ignote, come parmi, al Gregorio.1058. Bibl., pag. 57.1059. Op. cit., pag. 35.1060. Op. cit., pag. 64.1061. Op. cit., pag. 32.1062. Zohri e Ibn-Said, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 159, 134. Il primo di questi autori attesta che si esportavano dalla Sicilia per l’Affrica noci e castagne, e inoltre per varii paesi molto cotone, storace e corallo. Coteste notizie vanno riferite al XII secolo, ritraendosi dal manoscritto di Zohri, fog. 45 verso e 46 recto, che l’autore si trovava presso Granata il 532 dell’egira (1137). E pertanto si corregga la notizia ch’io dètti su lo Zohri nella Introduzione, a pag. LIV, del primo volume.1063. Si vegga il Capitolo precedente a pag. 757 di questo volume, e il libro IV. cap. xiij, a pag. 445 del secondo volume.1064. Bibl., pag. 24.1065. Op. cit., pag. 46. Secondo le distanze che leggiamo in Edrîsi, questa terra, or distrutta, giacea di mezzo a’ due moderni comuni di Vita e Roccamena, nel centro del Val di Mazara.1066. Op. cit., pag. 57.1067. Bibl., pag. 63.1068. Op. cit., pag. 65. Si vegga la nota 1, a pag. 776 del presente capitolo, su questa terra che forse non ha mutato se non che il nome.1069. Op. cit., pag. 65.1070. Diploma del 25 dicembre 1239, già citato nel cap. viij di questo libro, a pag. 611 del volume, nota 2. Si vegga presso Bréholles, Historia Diplomatica, ec., tomo V, 504, un’altra lettera del 17 novembre 1239, su le greggi del demanio date in fitto a’ Saraceni.1071. Si vegga la citazione di Pietro d’Eboli, nel cap. vj di questo libro, pag. 552 del volume, nota 4.1072. Si vegga il libro IV, cap. 13, a pag. 446 del II volume, nota 1-2.1073. Diploma del 17 novembre 1239, presso Bréholles, Hist. Diplomatica, ec., tomo V, 524. Questa lettera è indirizzata a un Paolino da Malta, il quale, per ordine dell’imperatore, avea mandati otto cameli in Capitanata e ne ritenea tre in Malta per continuare la razza.1074. Bibl., pag. 24, 55, 65.1075. Bibl., pag. 44.1076. Op. cit., pag. 42.1077. Op. cit., pag. 33.1078. Loc. cit.1079. Op. cit., pag. 32, 65.1080. Op. cit., pag. 30. Il testo, dopo la descrizione di Trabìa, ch’era mehall, o diremo noi “borgo,” conservandogli il genere mascolino, nota che si pescava il tonno nel porto “di essa;” onde si dovrebbe riferire a Termini, di cui ha trattato poco prima, chiamandola, al femminile, kala’t, ossia “rocca”. Ma il tonno si pesca in oggi a Trabìa e non a Termini, ond’è da supporre piuttosto sbagliato nel testo il genere d’un pronome, che mutato il passaggio di quei pesci.1081. Op. cit., pag. 30. M. De Sacy, nella traduzione d’Abdallatif, pag. 285 segg., ha fatta una lunghissima nota sul rei d’Egitto, dalla quale si può conchiudere che questo non somiglia ad alcun pesce de’ fiumi d’Europa. E M. Geoffroi De Saint-Hilaire, nella Histoire naturelle des poissons de l’Egypte (Description de l’Egypte, Hist. Naturelle, I, 50), non gli dà nè anco nome europeo. Se poi il signor De Goeje, nella traduzione del capitolo di Edrîsi su l’Affrica, lo traduce saumon, citando anche il passo qui dianzi notato della Bibl. arabo-sicula, s’ha a intendere del genere e non della specie: dico il genere salmo, ch’è sì vasto nel sistema di Linneo ed anco in quel di Cuvier; non già la specie salmo vulgaris, ec. notissima in Europa co’ nomi di salmone, o sermone, saumon, salmon, lachs, ec. Qui si tratta forse di qualche specie di trota, non rara nei fiumi di Sicilia. È da notar che il vocabolo Salmûn, col quale è designato il salmone in Egitto (v. Bochtor alla voce “saumon” e il Dizionario arabo e italiano, Bulâk, 1822, pag. 171 e 213), si trova per l’appunto in Edrîsi, qual nome del fiume or chiamato Gavarrello, che scende da Menfi di Sicilia e mette foce a levante di Porto Palo ( Bibl. arabo-sicula, pag. 51).1082. Bibl., pag. 35.1083. Op. cit., pag. 36. Edrîsi dice espressamente nel fiume e non fa mai menzione del lago; il quale allora forse non esistea, e di certo non fu ingrandito che in tempi più vicini a noi.1084. Op. cit., pag. 39.1085. Diploma del 12 marzo 1240, presso Bréholles, Historia Diplom. Federici II, tomo V, 820.1086. In Palermo le paste lunghe e non bucate, dette vermicelli di tria, sono assai sottili. Quel vocabolo è passato anche nello spagnuolo eletria, che si vegga in Dozy ed Engelman, Glossaire, etc. Il Kamus spiega il vocabolo itria “cibo di farina in forma di fili.” La gabella su l’itria facea parte de’ diritti fiscali ne’ tempi normanni. V. Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. 4, nota 21.1087. Bibl., pag. 30.1088. Si vegga qui sopra a pag. 774.1089. La radice di questo vocabolo è sana’, donde i vocaboli “darsena, arsenale, ec.,” e implica sempre l’idea di arte, non men che di lavoro materiale.
Edrîsi dice di que’ sani’, artefici o artisti, nella descrizione de’ citati paesi a pag. 39, 40, 49, 52, 64.
1090. Diploma del 21 febbraio 1240, presso Bréholles, Hist. Dipl. Frederici II, tomo V, pag. 764. Dopo la lonza si legge et Tabaccorum; il qual vocabolo, ignoto nella latinità del medio evo, fe’ pensare all’erudito Bréholles, che si trattasse di altri animali, i quali fossero chiamati così per avventura con voce arabica o persiana. Mi sembra assai più naturale correggere: et trabuccorum. Abbiam detto a suo luogo de’ trabucchi, ossia mangani, maneggiati da’ Saraceni di Lucera infino allo scorcio del XIII secolo.1091. Diploma del 15 aprile 1240, presso Bréholles, vol. cit., pag. 905. I tarrasiatores sono: maestro Giovanni, maestro Greco e Abdallah servo. È nominato con loro un maestro Wiccardo tappetarius. Questo tedesco par cameriere più tosto che fabbricante di tappeti, poichè l’ufizio che gli si attribuisce è traduzione letterale dall’arabico ferrâsc, che ci è occorso nel cap. iij di questo libro, pag. 447 del volume, nota 4.1092. Per esempio, il bellissimo scrigno della Cappella Palatina di Palermo e varie scatole di avorio intagliato, una delle quali, proveniente dallo abolito monastero di San Martino De Scalis, è conservata ora nel regio Museo di Palermo. Il dotto M. De Longpérier ( Revue archéologique del 1865, articolo intitolato: Vase arabo-sicilien de l’œuvre Salémon ), crede anche opera siciliana lo scrigno d’avorio della cattedrale di Bayeux, ornato di borchie d’argento con dorature e lavoro a niello, e segnato d’una iscrizione arabica.1093. Il primo di cotesti frammenti fu donato dalla Casa reale al Museo regio di Palermo; gli altri sono incastrati, tutti capovolti o di traverso, negli stipiti della porta maggiore della chiesa dell’Annunziata de’ Catalani in Messina e in una finestra di quel duomo. Io ho pubblicati i detti frammenti nella Rivista Sicula di agosto 1869, vol. II, pag. 93 segg., 99, 100.1094. Non occorrono citazioni per le prime due parti. Nell’inventario della Cappella Palatina, dato il 1309 ( Tabularium, etc. n. LXIII), si legge a pagina 102: “Item cannatam unam de porfido cum manicis, munitam in ore de argento deaurato.” Un altro inventario, citato nella nota 20 dello stesso documento, ha: “Phiala de porfido cum manicis vacua.” Cannata, in siciliano vuol dir gran boccale di terra cotta, con manico e con una scanalatura dal lato opposto, per la quale si versa il vino.1095. La narrazione particolareggiata del ritrovamento sarà data alle stampe dall’ingegnere Giuseppe Patricola, il quale indefessamente lavora a ristorare l’antica chiesa di Giorgio Antiocheno, liberandola dalle goffe appendici dei tempi successivi.
Il motto arabico che si volle imitare parmi: Lillahi-l-molk, “La possanza in Dio è,” frequentissimo negli arnesi musulmani; lo stesso che si legge ne’ vasi di Mazara, di cui nella seguente nota 3.
1096. Si vegga Marryat, A history of pottery, etc., London, 1857, 2ª ediz., in-8º, pag. 14 segg; Demmin, Guide de l’amateur des faïences, etc., 2ª ediz., Parigi, 1863, pag. 208 segg.; e lo stesso autore, Histoire de la céramique en planches phototypiques, Paris, 1869, in fol., in corso di pubblicazione.
In quest’ultima opera, molto notevole per le figure, il Demmin (Livraison XIII, pl. 25), tratta della scuola “Siculo-musulmana.” Sventuratamente il preziosissimo vaso di speziale, che, secondo l’autore, risalisce “audelà de la conquete de Roger le Normand (1058)” (sic) ed ha intorno il collo una iscrizione “en vieil arabe, qui veut dire Gloire au Victorieux,” non è de’ tempi normanni; e la supposta iscrizione, nitidissima nella figura, non dice nulla. Essa non è altro che una seguenza di elif e lam e altre lettere arabiche sfigurate, le quali provano, più tosto che la vecchiaia, la morte o l’assenza della lingua araba nel paese ove fu fatto il lavoro. Forse è del XV secolo, come l’altro della stessa tavola e come un altro della tavola 26.
1097. Vidi questi due vasi in Mazara, nel 1868, l’uno in casa del nobile uomo e cortese, il signor Giovanni Burgio de’ Conti Palatini; l’altro nella sagrestia della Madonna del Paradiso, piccola chiesa alle porte della città. Sono entrambi di terra cotta, smaltata a foggia di maiolica, alti più di un metro ciascuno, forniti di anse e terminati in punta come le anfore antiche. Somigliano molto, per la forma e per l’opera, l’uno all’altro, ed entrambi per la sola forma, al celebre vaso detto dell’Alhambra. Nella pancia si legge, in grandi e be’ caratteri cufici, lillahi-l-molk; e intorno il collo del vaso Burgio son replicati indefinitamente i due vocaboli “prosperità e compimento:” solito augurio che leggesi nelle iscrizioni ornamentali, sì di Sicilia e sì d’altri paesi musulmani, e che campeggia esclusivamente, con piccola variante, nel vaso dell’Alhambra. Questo per altro ha caratteri neskhi, non cufici: differisce ancora per la distribuzione degli ornati e pel colore dello smalto, ch’è verde, bianco e oro; mentre ne’ vasi di Mazara risaltano sul campo bianco i caratteri e i disegni d’un bel bruno di terra d’ocria, luccicante come se fosse metallo.1098. Ho avuto alle mani quasi un centinaio di coteste stoviglie, nelle collezioni del museo regio di Palermo, museo dell’abolito monastero di San Martino, casa Trabia, professore Salinas, museo Biscari in Catania, casa Pepoli in Trapani. Non ostante la varietà delle forme, de’ punti del colore che in fondo è sempre bianco, e degli ornamenti, tutti graziosi e di gusto arabico purissimo, coteste stoviglie fanno una classe distinta da ogni altra manifattura ceramica antica, medievale e moderna, per la estrema sottigliezza e leggerezza che le fa parere, per dir così, di carta. Del gran numero che n’ho viste, poche avean perduto il marchio di fabbrica; nelle altre ho trovato otto maniere di marchi, la più parte con la data un po’ frusta e col nome dell’artefice o la qualità, ch’è chiamata ’aml tin “opera di terra,” tin mohtawa “terra ritenente” o diremmo noi impermeabile, e tin ’amali “terra plastica.” In altri è il nome d’Ibrahim; in altri quel di Bâlmi, non so se proprio o topografico. Ancorchè Palma, tra il Capo di Scaletta e quel di Sant’Alessio, sia scritta ne’ codici di Edrîsi in modo da doversi leggere Bâlmi, parmi non si possa pensare a questo luogo, sì per la data recente delle stoviglie, e sì perchè l’argilla che vi si trova, come ritraggo dal dotto ed operoso professore G. G. Gemmellaro, non può dare affatto vasi impermeabili, rassomigliando a quella di Sciacca e di Girgenti, che serve a far le stoviglie porose da rinfrescare l’acqua, come la dorrak di Egitto. Debbo avvertire che M. Demmin ha pubblicato uno di questi orcioletti nella citata Histoire, etc., tavola XII, figura 23, tra varie stoviglie egiziane di remota antichità, e senza assegnar data, l’ha attribuito a dirittura alla manifattura di Keneh (Alto Egitto). Aggiungo, a scusa dell’autore, che il vaso, come scorgo dalla nitidissima figura in fototipia, non ha marchio, forse perchè, essendosi spezzato, era stato rattoppato lo sdrucito, come io ho visto in parecchi di cotesti vasi in Sicilia.1099. Fino al 1860 erano comunissime in Firenze le ciotole di rame con iscrizioni arabiche: molti bottegai se ne servivano per tenere gli spiccioli, e i rivenduglioli di antichità le davano a basso prezzo.
L’uso di queste ciotole sembra molto antico in Toscana. Nella vita di San Ranieri, Acta Sanctorum, III, 448 (17 giugno), si legge che una Adaleta da Pisa recò a Ranieri un “urceolum opere saracenico factum,” pregando il brav’uomo di benedir l’acqua che v’era dentro. San Ranieri morì il 1160.
1100. Vase arabo-sicilien de l’œuvre Sulèmon, par M. A. De Longpérier, nella Revue Archéologique del 1865.1101. Chabouillet, Catalogue général des Camées, etc., exposés dans le Cabinet des médailles et antiques, Paris, 1858, in-8º, n. 3194, pag. 548. Lo stemma è di Paolo da Roma, arcivescovo di Morreale (1379-1393); onde la coppa si può credere fabbricata in Palermo.1102. Nel capitolo iij di questo libro, a pag. 417 segg. del volume.1103. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 407: “Nec vero nobiles illas palatio adhaerentes silentio praeteriri convenit officinas, ubi, in fila variis distincta coloribus, serum vellera tenuantur, et sibi invicem multiplici taxendi genere coaptantur.... in quibus et sericis aurum intexitur et multiformis picturae varietas, gemmis interlucentibus, illustratur.” Come ognun vede, non ci manca altro che la denominazione arabica di tirâz.1104. Boch (Dott. Franz), Die Kleinodien des heil. romischen Reiches deutschen Nation, etc. Vienna, 1864, grandiss. in fog.1105. In appendice all’op. cit., pag. 191 segg., e tavola XLI, fig. 64.1106. Leggesi in giù, a caratteri minuti e con abbreviature: Descriptio totius orbis † pax ismaheli qui hoc ordinavit; e intorno intorno il pallio semicircolare, a caratteri grandi molto ornati: O Deus Europae cesar Heinrice beare, Angeat (augeat) impreium (imperium) ibti (tibi), rex qrenwine (qui regnat in aevum).
Tra le altre leggende, v’ha sotto il Cancro: Hoc sidus Caucbi fert nociva mundi. Il dotto editore ha corretto facilmente cancri; ma io cancellerei volentieri la correzione e leggerei in questo luogo il vocabolo arabo kaukab, (abbreviato kaukb ) “stella,” scritto in caratteri latini. Il ricamatore arabo, m’immagino io, vedeva una stella, non capiva il nome, e quindi lo lesse a dirittura in arabo come, per esempio, i nostri marinai fecero Negroponte da Εύριπος.
1107. Certamente si ricamava in tutte le parti d’Italia pria che i Musulmani venissero in Sicilia; ma la voce ricamare, derivata senza dubbio dall’arabo, dà luogo a supporre che quest’arte sia stata, nel resto d’Italia, perfezionata ed estesa da’ Siciliani dopo l’undecimo secolo. Non v’ha ragione di attribuire agli Spagnuoli il vocabolo nuovo e il miglioramento dell’arte ch’esso attesta. D’altronde nel tirâz musulmano si tessevano anco i drappi di seta: e noi non abbiamo alcun ricordo di tali drappi fabbricati in terraferma d’Italia avanti il XIII secolo.1108. Si vegga il nostro libro IV, cap. vij, pag. 342, del II volume. Il nome di Ismahel, ricamato nel pallio, tronca ora la quistione.1109. Si vegga il cap. iij del presente libro, pag. 448, nota 3.1110. Boch, op. cit., tavola VII, fig. 9, testo pag. 32, 35. Avverto che in questa tavola e nella XXIV veggo molto confusa la iscrizione che io lessi chiaramente, fuorchè due vocaboli all’ultimo, sopra un bellissimo lucido che mi mostrò il signor Boch, l’anno 1858, in Parigi. E su que’ vocaboli e qualche altro io dissento dalla trascrizione e versione del dottor Behrnauer, pubblicata nell’opera del Boch.1111. Op. cit., tavola XII, fig. 15, 16, e pag. 56 segg.1112. Op. cit., tavola IV, fig. 6; VIII, fig. 10; X, fig. 13; XII, fig. 15, 16, e pagine 36 segg., 49 segg., 56 segg., 60, 61, 65 del testo.
Si guardi anco, nelle tavole III e XXX, ed a pag. 153, una tunica azzurra con fimbria e paramani rossi ricamati in oro, opera del XII secolo, al dir dell’erudito autore, la quale parmi anche siciliana.
1113. Si veggano le citazioni di Niceta Coniate, Cinnamo e Ottone di Frisingen, nel cap. iij di questo libro, pag. 433, nota 2.1114. Daniele, I regali sepolcri del Duomo di Palermo, tavole C. F. R.; Gregorio, Discorsi VI, VII, VIII, nella edizione del 1853, pag. 698 segg., e Rerum Arabicar., pag. 178 segg. Si vegga anche il Lanci, Simboliche rappresentanze, tomo II, pag. 479, tavola L, n. 4. Dell’erronea lezione che die’ il Gregorio in questo luogo, ho trattato nella Introduzione alle iscrizioni arabiche di Sicilia, Rivista sicula di febbraio 1869, pag. 93, 94.1115. Boch, op. cit., pag. 149, 150, 207.1116. Si veggano le citazioni testè fatte nella nota 4 a pag. 800, e in particolare le Dissertazioni VII ed VIII del Gregorio.1117. Presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 267.1118. Presso Caruso, op. cit., pag. 407.1119. Journ. Asiatique, di gennaio 1846, pag. 82.1120. Gesta regis Henrici, etc., edizione di Stubbs, Londra, 1867, vol. II. pag. 132; e Ruggiero De Hoveden, ediz. Stubbs, Londra, 1870, voi. III, pagina 61: il quale si vegga anche presso il Caruso, Bibl. sicula, pag. 960.1121. Francisque Michel, Recherches sur.... étoffes de soie, etc., Paris, 1852, I, 172, cita i versi del Romans d’Alixandre, tra i quali si legge: D’un semit de Palerme vermeil ou vermenus.
A pag. 210 dello stesso volume si leggono, cavati anche dal romanzo d’Alessandro, i versi ne’ quali si descrive un colpo di lancia sì gagliardo che la punta, passando la corazza, entrò con tutto il pennone, e
Parmi le cors li met l’ensegne de Palierne.1122. Tabularium della Cappella Palatina di Palermo, 1835, nell’inventario della Sagrestia della chiesa di Africa (ossia Mehdia, 1160), pag. 34 segg.; e nell’altro della Cappella palermitana, dato il 1309, pag. 101 segg. Chi volesse ripigliare le orme dell’erudito francese citato nella nota precedente, troverebbe in que’ due diplomi la descrizione e la denominazione di molti drappi, la più parte de’ quali intessuti con figure di animali, e v’ha perfino delle aquile a due teste. V’ha anco dei pallii “con lettere saraceniche;” de’ pallii vergati; altri di “opera di Spagna;” altri cangianti, o con frange, ec.1123. Si veggano i diplomi che abbiamo citati nel libro V, cap. x, pag. 330, di questo volume, nota 1. La domus setae era ben de’ dritti antichi, cioè dell’epoca normanna, e similmente la dohana paliariorum.1124. In arabico si chiaman così i lavoranti o mercatanti di seta. Oggi trascriviamo hariri; ma si può provare con molti esempii che nel medio evo si rendea più volentieri la h arabica con la c nostra.
Anche la voce filugello vien d’Oriente. V. Journ. Asiat., di aprile e maggio 1857, pag. 547.
1125. Si veggano i particolari, per l’origine delle manifatture francesi, e per la parte che v’ebbero gli Italiani, in Francisque Michel, op. cit., II, 270 segg. a 278; ed anco pel commercio di seta tra l’Italia e la Francia, nello stesso volume, pag. 261 segg.
L’erudito autore cita, tra le altre autorità, un’antica traduzione francese del Rerum Memorabilium di Guido Pancirolo; ma sbaglia in due punti, poichè attribuisce alla Calabria un fatto raccontato di Reggio dell’Emilia, ed all’erario di Venezia la somma che, secondo il Pancirolo, guadagnava il paese. Ecco la traduzione latina di Enrico Salmuth, che tien luogo del testo italiano, non mai pubblicato. Tolgo il passo dalla edizione di Amberg, 1608, vol. II, pag. 729. Nel capitolo “De textis sericis” il Pancirolo dice: “Annis abhinc 50 in tantum excrevit textura ista, ut Veneta duntaxat regio, singulis annis, 500 millia et vel sola mea patria, quae Rhegium est, 10,000 aureorum, plus vero etiam multo Sicilia inde lucratur: ac uno verbo dicam artificium hoc tamquam unicus jam mercatoribus nervus sit lucri et certissimum laborantium fulcimantum.”
Il Pancirolo, eminente giureconsulto, segnalatosi anco per sana critica nella storia, nacque in Reggio dell’Emilia il 1523; morì professore a Padova il 1599; e scrisse, oltre tanti altri, quel trattato di erudizione per un principe della Casa di Savoia, dalla quale egli era stato chiamato all’Università di Torino.
1126. Presso Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. 4, nota 21, squarci di parecchi diplomi del 1266, 1270, 1274, 1280, 1309. La lezione “artis cuthonis,” ch’è nel diploma del 1309, troncherebbe ogni dubbio; ma contuttociò mi par migliore la prima. Secondo il diploma si pagavano in Palermo due dritti diversi, arca (arcus?) cuctonis e caha cuctonis. La voce kâ’ah era ed è usata in Egitto per significare sala, aula e “loggia” a terreno. Il Makrizi, Mowâ’iz, ediz. di B’ulâk, II, 48, dice della kâ’ah dell’oro al Cairo, quella cioè dove si tirava il metallo per lavorare i drappi di seta e d’oro.1127. Gregorio, nota citata or ora, diploma del 1274.1128. Ibn-Giobair dice degli stivaletti dorati delle donne palermitane; e la cabella auripellium si legge nel diploma del 1274, citato poc’anzi.1129. Gregorio, Discorsi VI e IX, a pag. 708 e 734, della citata edizione del 1853. Si confronti Boch, Kleinodien, citato dianzi, tavola VIII, fig. 10, pag. 37, 38.1130. Boch, Kleinodien, pag. 153; conf. pag. 144. Si confronti il Gregorio, Discorsi VI, VIII, pag. 710, 711, 718, della citata edizione del 1853. Si avverta che gli ornamenti trovati sul teschio dell’imperatrice Costanza sono serbati adesso nel tesoro della Cattedrale. Il motto inciso nella gemma principale della corona, letto erroneamente dal Tychsen, ripetuto dal Gregorio e poi con poco divario dal Mortillaro, Opere, tomo IV, pag. 10, 11, va tradotto, secondo il Reinaud, “In Dio == ’Isa-ibn-Giâber == confida.” Onde ognun vede che quel gioiello fu fatto, in origine, per un musulmano.1131. Su questo argomento il Kitâb-el-Fihrist, testo, Lipsia, 1871, pag. 21, e nelle Mémoires de l’Acad. des Inscript., 1ª serie, tomo L, pag. 434 segg.; i Prolegomeni d’Ibn-Khaldûn, ediz. di Parigi, II, 350; e il Mowâ’iz di Makrizi, ediz. di Bulak, I, 91, danno ampii ragguagli, ma incerti ed anche contradittorii. Tra le altre cose ritraggiamo che la carta della Cina si facea d’erbe ( hascisc ); che fu imitata in Samarkand con lino o, secondo altri, bambagia; e che il kaghed, ossia carta di cotone, fu fabbricato nel Khorasân, ma non si adoperò nei registri dell’azienda musulmana, se non che al tempo di Harûn Rascid. Sembra che allora siasi incominciata a vedere in Europa questa maniera di fogli.
Merita d’esser letta la dissertazione popolare che M. Louis Viardot pubblicò a Parigi, una ventina d’anni addietro, nella Liberté de penser, sotto il titolo: L’Europe doit aux Arabes le papier, la boussole et la poudre à canon.
1132. Edrîsi, Description de l’Afrique et de l’Espagne, pag. 492 del testo, de’ signori Dozy e De Goeje, e pag. 235 della traduzione. Si vegga inoltre nel Casiri, Bibl. arabo-hispanica, la descrizione di molti codici arabi di Spagna scritti in carta bombicina.1133. Si tenne a quest’effetto un parlamento in Palermo di marzo 1145, come si vede da un diploma pubblicato dal Mongitore, Bulla Privilegia, etc., pag. 32, del quale il testo greco leggesi presso il Mortillaro, Tabulario della Chiesa di Palermo, pag. 26. Parecchi diplomi del vecchio conte Ruggiero e della Adelaide, reggente di Simone e poi di Ruggiero secondo, furono rinnovati “de carta cuttunea in pergamenum,” come si vede da’ nuovi diplomi, presso il Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1027. Il testo greco d’uno di cotesti diplomi, dato il 1099 e rinnovato, com’e’ pare, il 1114, si legge presso Spata, Pergamene, pag. 237. Un altro diploma greco del 1097, rinnovato il 1110, fu pubblicato nel Giornale ecclesiastico di Sicilia, pag. 116.
Da tre diplomi arabi, di settembre 1144, 3 febbraio e 24 marzo 1145, appartenenti alle Chiese di Catania, Cefalù e Morreale e gli ultimi due serbati in oggi nell’Archivio regio di Palermo, si scorge il medesimo fatto del rinnovamento dei diplomi di concessione “per essere logori e dileguatane la scrittura.” Spero che tra non guari i testi escano alla luce nella raccolta del professor Cusa.
1134. Nel Tabularium della Cappella Palatina di Palermo si legge, a pag. 60, un testamento del 1213, transuntato il 1232, perchè si trovava scritto in carta bumbiana che jam camulari inceperat.
Il provvedimento di Federigo (1224) si legge nelle Costituzioni, lib. I, titolo 80, presso Bréholles, Hist. diplom., etc., II, 445, dove si adoperano come sinonimi le denominazioni di papiri chartae e chartae bombycinae. L’uso grande che si faceva in Sicilia di questa maniera di carta, è attestato dal diploma del 3 gennaio 1329, presso De Vio, Privilegia urbis Panormi, pel quale è approvata la spesa di due once d’oro, già erogate per copiare in pergamena, secondo le leggi del regno, il volume delle Consuetudini della città, le quali “cum scriptae sint in cartis de papiro.... erant quodammodo quasi deletae et minus honorifice factae.”
L’inventario della Cappella Palatina di Palermo, dato il 1309 e pubblicato nel Tabularium, etc., n LXIII, fa menzione, a pag. 100, lin. 7, 27, 30 e pag. 103, lin. 11, di parecchi titoli di concessione, non che d’altre scritture in carta de papiro, dal XII al XIV secolo. E tralascio i due celebri diplomi della medesima Cappella, scritti a lettere d’oro, in carta bombicina: il primo dei quali, dato il 1139, fu pubblicato dal Montfaucon, Paleographia graeca, pag. 380, 408; poi, su le orme sue, dal Morso, Palermo antico, 2ª edizione, pag. 301, 397; e in ultimo ristampato nel detto Tabulario, n. IV, pag. 10. Noi n’abbiamo già fatta menzione nel cap. i di questo libro, pag. 354. L’altro, in carta bombicina azzurra, è dato dal 1140 e citato nello stesso Tabulario, n. V, pag. 11, nota 1.
1135. Le prove di questo fatto si veggono nella erudita Dissertazione dell’Huillard-Bréholles, che uscì nelle Mémoires de la Société impériale des Antiquaires de France, tomo XXIII, col titolo Sur l’emploi du papier de coton, etc., Paris, 1856, in 8º pag. 13 segg., dell’estratto.1136. Il Bréholles, op cit., pag. 28, nota A, dicendo non aver trovate prove della esistenza di opificii di carta in Sicilia, ricorda, per mostrarne la probabilità, che il cotone si coltivava negli Stati italiani di Federigo.1137. Ibn-Haukal, nel Journal asiatique, di gennaio 1843, pag. 98.1138. Debbo qui correggere un errore corso nella traduzione del trattato che stipulò, il 1290, Kelaun, sultano d’Egitto, coi re di Sicilia e di Aragona. La versione italiana, che io ho pubblicata nella Guerra del Vespro siciliano, ediz., del 1866, vol. II, pag. 335 segg., ha all’art. XI, che fosse lecito al sultano di trarre dagli Stati de’ principi contraenti “ferro, carta e legname.” Io seguii la rispettabile autorità di M. De Sacy, rendendo “carta” la voce arabica biiâdh, ossia “bianco,” alla quale veramente i dizionarii arabi dan questo, tra molti altri significati. Ma, riflettendoci meglio, or mi pare che in questo patto i principi di Casa d’Aragona prometteano di contravvenire al divieto generale dell’esportazione del ferro, armi e legname ne’ paesi musulmani, divieto prescritto, come ognun sa, nel Concilio Laterano del 1179, e replicato da varii papi. Non è dubbio, dunque, che biiâdh qui significhi armi o acciaio: e forse v’ha qualche relazione tra questo traslato e quello di “armi bianche,” che noi usiamo per opposizione ad “armi da fuoco.” Può servire d’interpretazione autentica a cotesto articolo del trattato del 1200, il provvedimento che di fatto lo abrogò, cioè il capitolo LXXXII di Federigo l’Aragonese re di Sicilia, promulgato dopo i noti accordi col papa e con Casa d’Angiò, per lo quale fu vietato di portar “armi, ferro e legname” nei paesi musulmani.1139. Si vegga il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ix e lib. III, cap. viij, e si riscontrino le relazioni con Venezia nelle Fontes rerum Austriacarum, vol. XII, n. xxj seg.1140. Pietro il Venerabile abate di Cluny, tra le lodi che fa a re Ruggiero per la sicurezza di cui godeasi viaggiando e dimorando ne’ suoi dominii, cita gli “onustos pecuniis et diversibus mercibus mercatores,” presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 977, 978.1141. Capitolo ij del presente libro, pag. 402, 403, 406, 410, 418; cap. iij, pag. 466; cap. ix, pag. 624, 629, 632, 640, 649, 651, 655. Si vegga anco il libro V, cap, vij, a pag. 189, di questo medesimo volume.1142. Leone Affricano, presso Ramusio, Navigationi et Viaggi, Venezia, 1563, vol. I, fog. 7, dice che gli Arabi della Barbaria occidentale davano i loro figliuoli in pegno a’ Siciliani per averne in credito del grano, e che que’ giovani, non soddisfatto a tempo il prezzo, diveniano schiavi.1143. Romualdo Salernitano, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 890, 891.1144. Edrîsi, citato qui sopra a pag. 790.1145. Edrîsi, citato qui sopra a pag. 784. Si veggan anco i trattati geografici di Ibn-Sa’id e di Zohri, nella Bibl. arabo-sicula, testo pag. 137, 159, e la nota 5, a pag. 787 di questo capitolo.1146. Bartolomeo De Pasi, Tariffa de’ pesi e misure, ec. Venezia, 1510, fog. 187 recto.1147. Si confronti il Zohri, testo citato nella pag. 787, nota 5, con Ibn-Sa’id, Bibl. arabo-sicula, pag. 134, capitolo di Pantellaria, dove la voce kitrân si corregga kutûn.1148. De Pasi, op. cit., fog. 42 verso, 60 verso, 187 recto.1149. Si veggano le citazioni fatte qui innanzi a pag. 803, nota 1.1150. Liber Jurium, diplomi del 1155, 1156, 1261, n i. 266, 304, 1167, nel tomo I, pag. 303, 326, 962, e per tutti i due volumi; Marangone, anni 1166, 1167, nell’ Archivio storico italiano, tomo VI, parte II, pag. 42, 44.1151. Beniamino di Tudela, traduzione inglese di Asher. Londra, 1840, pag. 32 segg., 157.
Si vegga anco, pel commercio della Sicilia con Barcellona ne’ principii del XIV secolo, Capmany, Memorias Historicas, etc., parte I, tomo I; parte II, pag. 34.
1152. Si riscontrino i fatti citati in questo sesto libro, cap. iij, pag. 458, nota 3; cap. ix, pag. 651, 652.1153. Si veggano gli Statuti Pisani, vol. III, pag. 105, 373, 416, 423, 574, 577, 590.1154. Diploma di Tommaso conte di Savoia, del 1226, citato da Pouqueville, Mémoires.... sur le Commerce, etc., nelle Mémoires de l’Acad. des Inscriptions, X, 538.1155. Basta citare il vico degli Amalfitani in Palermo, nel XII secolo.1156. Edrîsi, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 37.1157. Non occorrono citazioni per questi fatti notissimi. Dirò soltanto che i pellegrini musulmani di Spagna e d’Affrica, nella seconda metà del XII secolo, toccavano per lo più la Sicilia. Si vegga il viaggio di Ibn-Giobair, edizione Wright, e particolarmente a pag. 62.1158. Edrîsi, citato qui innanzi a pag. 787, note 3, 4.1159. Edrîsi (1154) attesta che l’arsenale regio era allor, come prima, in Palermo. Ibn-Giobair (1185) lo trovò in Messina; e Falcando, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 405, afferma, con un po’ forse d’anacronismo, lo stesso fatto, dicendo che i Messinesi avean fiaccati i Greci, depredata l’Affrica e la Spagna e riportatone tanta preda.1160. Edrîsi, nella Bibl. arabo-sicula, testo, sotto que’ nomi.1161. Lib. V, cap. x, pag. 342 segg., e si riscontri il libro IV, cap. xiij, pag. 458 segg., del II volume.1162. Si vegga il capitolo iv del presente libro, a pag. 468 e 485 del volume.1163. In molti casi bastano a chiarir l’errore le stesse incisioni dello Spinelli: per esempio, nel n. 223, pag. 46, tavola VIII, 21, dove l’autore lesse l’anno 547, supponendo scritto il 40 senza la lettera ain, mentre si vede chiaro e corretto il numero 30. Nella stessa pagina, n. 212, tavola VI, 28, il nome di Messina è trascritto erroneamente msânâ, in vece di msîni che si legge nell’incisione, secondo la ortografia usata dagli Arabi: quest’errore torna in molti altri luoghi. Mi sembra poi molto dubbia, al n. 155, pag. 35, tavola V, 5 e altrove, la doppia data di zecca, cioè “Capitale della Sicilia” (Palermo) in una faccia, e “Messina” nell’altra. Così molte altre leggende o non possono stare, o si trovano diverse nell’incisione.1164. Le citazioni di altri trattati di numismatica si veggano nell’indice del Mortillaro, intitolato Il Medagliere arabo-siculo, Palermo, 1861, pagina 39 segg. Io ho studiate nel gabinetto numismatico di Parigi da venti monete arabo-normanne e altrettante qua e là, e molte più ne ho viste senza aver tempo di studiarle. Debbo notare soprattutto due di Parigi, che hanno da una faccia il simbolo musulmano e dall’altra la T con un puntino sopra ed uno da ciascun lato, e portan le date, l’una del 503 e l’altra del 506 (1109, 1112), confermate dall’autorevole giudizio di M. De Longpérier, il quale con ospital premura m’iniziò nella numismatica arabica, correndo il 1843.1165. San Giorgio Spinelli, op. cit., pag. 41, 42, n. 183 a 191, tavola VIII.1166. Si vegga il libro V, cap. vij, e il cap. ij del presente libro, a pag. 185 e 392.1167. Lo Spinelli, senza trattare di proposito la permanenza della Zecca in Salerno sotto la signoria di Ruggiero II conte di Sicilia, l’ammette implicitamente, ed ha ragione. Si veggano i numeri 36 a 63, a pag. 15 e segg. del suo libro, e le note a pag. 251.1168. Le monete di rame latine, evidentemente battute in Terraferma, con la croce da una faccia, la T dall’altra e il nome di Ruggiero conte di Calabria e di Sicilia, si veggono nella vignetta a pag. 15 dello Spinelli, il quale giustamente le attribuisce a Ruggiero II.1169. Si vegga in Malaterra, lib. IV, cap. xxv, presso Caruso, Bibl. sicula, pag. 244, l’aneddoto di Arrigo vescovo di Leocastro, assalito dai pirati.1170. Monete cufiche, pag. 255, nota al n. 73.1171. Si veggano nell’op. cit. i numeri 226, 227.1172. Lo deduco dal peso delle monete d’oro che ho avute alle mani, e da quello costantemente notato nell’opera dello Spinelli. È da sapere che parecchi diplomi greci o latini di Sicilia del XII secolo contano i valsenti in tarì d’oro da un acino (κόκκος), ovvero “ad granum unum” e talvolta da due grani. Ma si tratta forse del peso, del quale si tollerava la mancanza in ciascun tarì. Altrimenti cotesto acino non risponderebbe affatto al peso chiamato oggi con lo stesso nome di grano o cocciu, il quale, secondo il sistema metrico osservato in Sicilia fino al 1860, e poco diverso dall’antico sistema di Palermo, torna alla sedicesima parte d’un grammo. I tarì pesano sempre un grammo, scarso o traboccante.1173. Giovanni Villani, lib. VI, cap. 21, dice che Federigo, all’assedio di Faenza (1240), scarseggiando di danari fece fare “una stampa di cuoio di sua figura, stimandola in luogo di moneta siccome la valuta di uno agostaro,” ec. e che poi questa specie di cartamoneta fu cambiata in oro.1174. Presso Raynaldi, Annales Ecclesiastici (Lucca, 1747), anno 1239, § xij, tomo II, 213. Si confronti la Vita di Gregorio IX, pel Cardinal d’Aragona, presso Muratori, Rerum Italic., III, parte prima, pag. 584.1175. Ho avute alle mani due monete musulmane di rame, ricoperte, l’una di foglia d’oro e l’altra d’argento. La prima, ch’io vidi nel 1868 presso il sig. Salvatore Struppa in Marsala, porta, con qualche interruzione, la stessa leggenda che il dinar di Harun Rascid del 177, presso Marsden, n. 37: e vi si legge il nome di Gia’far, come nell’incisione del Marsden, il quale poi lo tralasciò, non so perchè, nella descrizione. Ma notisi che il Marsden nella descrizione del n. 36, ch’egli dice simile al 37, fa menzione di un dinar di bronzo del medesimo lavoro. La moneta foderata di argento fu comperata da me in una vendita pubblica a Firenze, nel marzo 1869, per conto della Biblioteca comunale di Palermo, che or la possiede. Ha il nome del califo Mahdi, la data di Bagdad, anno 160, e la leggenda dei dirhem abbasidi, intera e in caratteri molto nitidi.
Si ricordi che Ottone di San Biagio, cap. 42, presso Muratori, Rerum Italic., VI, pag. 899, narra che il 1195 i Musulmani comperarono il castello di Torolts da’ Cristiani che lo difendeano, dando loro “corruptum aurum metallo sophistico, auro in superficie colorato.”
1176. Samperi, Iconografia della gloriosa Vergine, ec., Messina, 1644, pag. 615-622, dove è data la trascrizione e traduzione del Padre Kirker, corretta, a modo suo, dal Padre Magri da Malta. Il Gregorio ristampò l’epigrafe nel Rerum Arabicarum, pag. 190, dopo aver dato a pag. 189 altri frammenti che sono murati in una finestra del Duomo di Messina stessa: ed avvertì che in quella città se ne trovava parecchi della medesima fattura. Il Gregorio non era uomo da ripetere la favola del Messala; ma nè egli nè il Tychsen indovinarono una parola de’ frammenti, sia dell’Annunziata o sia del Duomo.1177. Io ho letti alcuni squarci di cotesti versi nel 1868, e li ho pubblicati nelle Iscrizioni arabiche di Sicilia, classe I, n i. 3, 4 ( Rivista sicula di agosto 1869), aggiungendovi le fotografie. Si vegga nella stessa opera, classe I, n. 5, un frammento di tavola di marmo trovato nel palazzo regio di Palermo, nel quale era intarsiata, a caratteri neskhi di stile diverso, una iscrizione in versi, che somiglia molto, pel concetto e per l’andamento, a quella di Messina.
Cotesta iscrizione dell’Annunziata de’ Catalani, messa lì per caso, ha tratti fuori di via alcuni scrittori di cose architettoniche, come il Gally-Knight, The Normans in Sicily, Londra, 1838, pag. 120 segg. Il Padre Gravina, Duomo di Morreale, pag. 33, ci ha applicato subito il suo supposto delle costruzioni siciliane del VI secolo: onde ha fatta sorgere l’Annunziata de’ Catalani a’ tempi di S. Gregorio e poi l’ha mutata in moschea e nuovamente in chiesa. Qual che sia stata l’origine, la forma attuale torna evidentemente al XIV secolo.
1178. Iscrizioni arabiche di Sicilia, classe I, n. 11, nella Rivista sicula di ottobre 1870. Io lessi per lo primo cotesta iscrizione nell’aprile 1849 e la pubblicai nella Revue Archéologique, Paris, 1851, pag. 669 segg.
Essendo tutto l’edifizio della stessa pietra e fattura del coronamento, nel quale è intagliata la iscrizione, non mi metterò a combattere il supposto di alcuni eruditi palermitani, al quale si acconcia il dotto barone De Schack ( Poesie und Kunst, etc., II, 269), cioè che il palagio fosse edificato assai prima, e che Guglielmo II l’avesse ristorato. Tal supposto non ha fondamento storico nè artistico. Debbo qui attestare che il Girault de Prangey, pochi anni dopo aver assentita dubbiamente la comune opinione dell’origine musulmana ( Essai, etc., pag. 87 segg.), e due anni prima ch’io leggessi la iscrizione, pensò che la Cuba fosse opera del XII secolo. Trovandomi un giorno a Parigi con lui e col duca di Serradifalco nel 1847, cadde il discorso su la Cuba. Il Serradifalco sostenea con molto calore l’origine musulmana e tra le altre cose allegava l’iscrizione; e il Girault de Prangey, dopo che gli ebbe dette le sue ragioni in contrario, si messe a replicargli ogni volta “Oui, mais c’est normand!”
1179. Ho toccato quest’argomento nel cap. iv del presente libro, pag. 491 del volume e più largamente nelle Iscrizioni, ec., classe I, n i. 9, 10 ( Rivista sicula di febbraio 1870). Si corregga dunque il supposto ch’io avea messo innanzi, nel libro IV, cap. xij, vol. II, pag. 451.
Tra i molti autori che hanno scritto della Zisa, merita particolare menzione Leandro Alberti, Isole appartenenti all’Italia, Venezia, 1581, fog. 47 verso segg. Il Girault de Prangey, Essai, etc., dicendo a pag. 86 della sala terrena, aveva anche qui indovinata l’età, poich’egli accenna a Guglielmo II.
1180. Si vegga il cap. iv del presente libro, pag. 463 del volume. Leandro Alberti, nell’opera citata, fog. 47 verso, ricordò per lo primo questo palagio senza scriverne il nome. “Sono oltre di ciò, egli dice, lunge un miglio da Palermo le ruine di due illustri palagi, col terzo pure in piedi, ma mal condotto per esser hora (prima metà del XVI secolo) habitatione di animali.” I due illustri palagi sono la Zisa e la Cuba, dei quali l’Alberti non descrive che il primo.
Dopo questo viaggiatore, n’ha trattato il professore G. B. Basile dell’Università di Palermo, in due articoli del giornale palermitano La Ricerca, n i. 1, 2 (30 aprile e 9 maggio 1856), e il D. Marzo, op. cit., I, 269.
Io credo s’abbia a dare a questo palagio il nome di Menâni più tosto che quello di Mimnernum, col quale l’hanno designato fin qui gli eruditi siciliani. Questo si legge per vero in alcuni codici, e nelle edizioni del Falcando (veggasi Caruso, Bibl. sicula, pag. 448), ma sembra un po’ strano a sentir presso Palermo un vocabolo che non ha altro significato se non che il nome proprio d’un antico poeta. Il vocabolo, all’incontro, di Minenium è scritto chiaramente nel vetusto e bel codice del Falcando, posseduto dalla Biblioteca di Parigi (Saint-Victor, 1604, fog. 45 recto) e si riconosce anco in un diploma arabico di aprile 1132, serbato nel tabulario del Duomo di Palermo, del quale il Gregorio pubblicò uno squarcio nel suo opuscolo De supputandis apud Arabes siculos temporibus, pag. 44, ed ora l’intero testo è stampato correttamente dal professor Cusa, ne’ suoi diplomi greci ed arabi di Sicilia, vol. I (non ancor pubblicato), pag. 6 segg. Per cotesto atto un musulmano di Palermo permutava una parte dell’acqua dell’ Ain-el-Menâni con le acque dell’ Ain-el-Farkh e dell’ Ain-el-Bottiah, possedute da un altro musulmano; le quali sorgenti eran tutte “nelle regioni occidentali di Palermo” e la prima irrigava la campagna detta Burg-el-Battâi, della quale sappiamo altresì il sito da Ibn-Haukal, nella Biblioteca arabo-sicula, testo pag. 9, e nel Journal Asiatique di gennaio 1845, pag. 29.
È da notare che questo castello non comparisce tra’ siti reali dell’agro Palermitano, notati ne’ diplomi di Federigo imperatore, nè di Carlo d’Angiò. Direbbesi che fosse stato distrutto innanzi il XIII secolo: e forse nella battaglia del 21 luglio 1200, la quale cominciò per l’appunto in quei luoghi, come si vede dal cap. vij di questo libro, pag. 580.
1181. V’ha buona ragione di credere che questo castello, col suo bagno, di cui rimangono gli avanzi, col suo parco e col lago artificiale or disseccato, sieno opera dell’emir kelbita Gia’far (997-1019). Si vegga il nostro libro IV, cap. vij, a pag. 350 del vol. 2, e il lib. V, cap. iv, a pag. 120 del presente volume. Eran proprio questi “il palagio e i deliziosi giardini irrigati d’acque e ricchi di frutta,” i quali, al dir dell’Amato, furono occupati dal conte Ruggiero, quando sboccò nell’agro Palermitano il 1071.
Degli avanzi di Maredolce han trattato, nelle opere citate, il Gally-Knight, a pag. 305; l’Hittorf, a pag. 6 (tavola LXXIV, fig. 2); il Girault de Prangey, pag. 92; il Di Marzo, vol. I, pag. 270 e segg.
1182. Il Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 188, pubblicò un pessimo disegno della iscrizione cufica che si vedeva al sommo delle mura e ch’ei non si provò a tradurre; nè io lo tenterò senz’altro aiuto che quella incisione. Il Gregorio aggiugne esser molto belli i caratteri ed aver l’edifizio l’apparenza di molta antichità; ma non dice che l’abbia veduto egli stesso. Il Girault de Prangey, op. cit., pag. 93, e tavole VII e XIII, n. 4, diè l’interno de’ bagni e una bella copia d’un brano della iscrizione, i cui caratteri direi molto antichi, se la paleografia cufica desse prove certe de’ tempi. Ma poichè mi si dice sia cascata giù, fin da molti anni, l’iscrizione, non possiamo sperare per ora, nè forse mai, di arrivare all’origine di quel monumento. Si vegga anco il Gally-Knight, op. cit., pagina 324. Del resto il disegno della sala principale del bagno somiglia molto a quello del bagno di Palma in Maiorca, che ci dà il Girault de Prangey, op. cit., tavola II: e le differenze sono gli archi, acuti a Cefalà ed a ferro di cavallo in Palma, e il lavoro assai più delicato nel primo che nel secondo di quegli edifizi.1183. Si è discorso degli avanzi di questa porta nel libro V, cap. iv, pagina 128 del presente volume, nota 2. Dopo avere scritto quel capitolo, mi è occorso di visitare io stesso nel 1868 la chiesa della Vittoria, in compagnia dell’architetto dottor Cavallari, e vi sono ritornato nel 1871. Io ho riconosciuta la esattezza delle notizie che me ne diè dapprima il dotto professore Salinas, le quali io usai nella nota. Ho veduta di più, mostratami dal Cavallari, la faccia esteriore di questa porta dal lato del vecchio muro della città, al quale è ora addossata una casuccia che risponde sulla piazzetta chiamata della Vittoria a’ Bianchi, e vi si distingue benissimo l’arco acuto, ora tutto ripieno e ragguagliato alla faccia della parete. Dall’altra parte del vecchio muro sta la chiesa della Vittoria; nella quale la prima cappella, a destra di chi entri dall’ingresso maggiore in piazza dello Spasimo, risponde per lo appunto all’antica porta. La metà superiore della qual cappella è occupata dall’affresco ch’io già descrissi, moderno e ritoccato in tempo ancor più recente. Ma nella metà inferiore, e per l’appunto dietro l’altare ch’ora è congegnato in guisa da scostarlo quando si voglia, veggiamo la metà inferiore d’una antica e robusta porta di legno, la quale è da supporre conservata fin dall’XI secolo; e tanto più lo dobbiam credere dell’arco acuto, il quale potrebbe anco risalire alla fondazione della Khalesa, cioè al X secolo. Avvertasi che rimangono avanzi robustissimi ed antichi di costruzione, tanto in altra parte della chiesa, quanto in una casipola attigua su la piazza dello Spasimo.1184. Ho riferite nel cap. iv del libro V, pag. 118 del presente volume, nota 3, le proprie parole di Amato, le quali fanno credere che il sito di San Giovanni de’ Lebbrosi sia lo stesso del Castello di Iehia, ossia Giovanni, preso dal conte Ruggiero dopo quello di Maredolce. Ma la chiesa attuale non v’era al certo; nè alcun documento prova che i Normanni l’abbiano fabbricata immediatamente.1185. Una veduta di questo castello rovinato, che sovrasta ad Alcamo, si trova nell’opera del Duca di Serradifalco, Del Duomo di Monreale e di altre chiese normanne, pag. 43, in vignetta. Vi si scorgono parecchie finestre ad arco acuto.1186. D’Entella si è fatta menzione nel libro V, cap. ij, pag. 86 di questo volume, nota 1. Era al certo castello fortissimo pria della guerra normanna. Un amico mio, che visitò quelle rovine quattordici anni addietro e n’abbozzò anco una pianta, vi osservò una cisterna con vòlta a sesto acuto, il quale nell’abbozzo ha le medesime proporzioni che negli edifizii normanni del XII secolo.
Calatamauro non è nominato negli annali normanni; ma Edrîsi ne fa menzione e ne indica il sito. Andrebbe dunque riferito ai tempi musulmani, quando anche non attestasse quella origine il nome, composto di due notissimi vocaboli, arabico il primo e latino o greco il secondo, il quale fors’anco ci condurrebbe ai primi tempi del conquisto musulmano. Un documento ch’io allegai nella Guerra del Vespro Siciliano, cap. VI, edizione del 1866, tomo I, pag. 139, nota 2, prova l’importanza di questa fortezza nel XIII secolo. L’amico mio, che visitò Entella, esaminò anco Calatamauro, che giace in quelle stesse montagne ed era assai più vasto: nelle cui rovine egli osservò una gran cisterna, anch’essa con vòlta a sesto acuto, intonacata di cemento idraulico e molto ben conservata.
1187. Il barone di Mandralisca da Cefalù, tolto immaturamente all’Italia ed agli studii, mi affermava nel 1861 aver vista, più di venti anni innanzi, una iscrizione arabica nella torre detta Li Gresti, che facea parte d’una masseria ed occorrea nel sentiero che mena da Piazza a Lentini, il quale allor si chiamava strada. L’iscrizione si vedeva in una scala della torre, parte fabbricata e parte tagliata nel sasso.
Sarebbe da ricercare questa torre ed anco i due monumenti citati da Houel, Voyage pittoresque, etc., vol. III, pag. 69 e 122, l’un de’ quali sorgea nella via da Militello a Vizzini; e l’altro nel feudo della Falconara, a tre miglia da Noto.
1188. Si veggano: Hittorf, Architecture moderne de la Sicile, Parigi, 1835, gr. in foglio, con rami.
Gally-Knight, The Normans in Sicily, Londra, 1858, in-8º, con atlante in foglio.
Serradifalco (Domenico Lo Faso, duca di) Del Duomo di Monreale e di altre chiese normanne, ec., Palermo, 1838, in foglio, con rami, e Il Castello della Zisa, nella raccolta intitolata: L’Olivuzza, ricordo del soggiorno della Corte imperiale russa, ec., Palermo, 1866, in 4º, con litografie.
Girault de Prangey, Essai sur l’architecture des Arabes et des Mores, Parigi, 1841, in-8º gr., con litografie.
Di Marzo, Delle Belle Arti in Sicilia, ec., Palermo, 1858, due vol. in-8º gr., con litografie.
Buscemi, Notizie della basilica di San Pietro, detta la Cappella regia di Palermo, Palermo, 1840, in-4º, con litografie.
Schack (A. F. von) Poesie und Kunst der Araber in Spanien und Sicilien, Berlino, 1865, due vol. in-12º.
Springer, Die mittelalterische Kunst in Palermo, Bonn, 1869, in-4º.
Gravina (Dom. Benedet. cassinese), Il Duomo di Monreale illustrato, Palermo, con la falsa data del 1859, da correggere 1871, gr. in foglio, con tavole cromolitografiche e fotografie.
Si vegga ancora gli articoli critici sull’opera del Serradifalco, scritti dall’abate Niccolò Maggiore, nelle Effemeridi Siciliane, n i. 64, 65, 66 (Palermo, 1839) e da Giambattista Castiglia nel Giornale Letterario, n. CXCV, (Palermo, 1839).
1189. Prolégomènes, traduzione francese del baron De Slane, parte II, 274. Nel testo, parte II, pag. 231, 239, della edizione di Parigi, leggesi il nome etnico di Fars, cioè popoli della Persia propriamente detta, escluse le province settentrionali ed orientali del reame attuale. Si veggano anco tutte le pag. 241 segg. e 365 segg.
Nella stessa opera, traduzione francese, II, 375, l’autore scrive che il califo Walid-ibn-Abd-el-Melik fece venire architetti da Costantinopoli per costruire le moschee di Medina, Gerusalemme e Damasco. Par ch’egli contraddica così ciò che avea detto della origine persiana: e pure i due fatti stanno benissimo insieme. Come vedremo or ora, gli artisti bizantini furon chiamati pei lavori di mosaico e forse per altri ornamenti; e i persiani fabbricarono i primi edifizii. In ogni modo il racconto è manifestamente erroneo, poichè quelle moschee esistevano di già; onde non si trattava di fabbricarle di pianta. A me pare che Ibn-Khaldûn, al solito suo, abbia messi qui a fascio varii fatti. E così talvolta ei dava nel segno e talvolta lo sbagliava netto.
1190. Caussin de Perceval, Essai sur l’Histoire des Arabes, II, 55.1191. Ibn-el-Athir, anno 17, testo del Tornberg, vol. II, pag. 411, 412.1192. Kela’i, El-Ikitfâ, ms. di Parigi, Ancien Fonds, n. 653, fog. 94 verso. Si confronti con Ibn-el-Athir, loc. cit.1193. Beladsori, Liber Expugnationis, etc., testo del De Goeje, pag. 286, e Ibn-el-Athîr, loc. cit.
Notisi che la più parte de’ monumenti musulmani surti ne’ primi secoli dell’egira dallo Stretto di Gibilterra al Golfo Persico ed all’Oxus, furono costruiti con le spoglie degli antichi edifizii. Non occorrono citazioni per questo. Leggiamo anco in Beladsori, op. cit., pag. 290, che furon messe nella moschea cattedrale di Waset, in Mesopotamia, delle porte tolte da Zandewend e da altre città di quella regione; gli abitatori delle quali si querelarono di cotest’atto di violenza, contrario ai patti ch’essi aveano stipulati coi Musulmani.
1194. Ibn-el-Athîr, loc. cit.1195. Beladsori, op. cit., pag. 286. Il vocabolo che traduco “vòlta” è azeg. Parmi sia da porvi mente nel ricercare la recondita radice del francese “ogive,” poichè gli Spagnuoli confondeano la pronunzia delle due lettere g z (gim, za) che sono le ultime di quel vocabolo arabico. Avremmo così le prime due sillabe di “ogive,” e l’ultima si potrebbe riferire alla nota desinenza dell’aggettivo derivativo in lingua arabica.1196. Ibn-el-Athîr, anni 105, 121, edizione del Tornberg, V. 93, 163 segg.
Il Beladsori, op. cit., 286, 287, fa un cenno de’ lavori pubblici dovuti a Khaled e cita, tra gli altri, una chiesa ch’egli edificò, come dicesi, in Cufa, in grazia della sua madre cristiana. Questo fatto non è stato dimenticato dal Weil, Geschichte der Chalifen, I, 621.
1197. Kela’i, loc. cit. È notevole che questa pianta somigli a quella delle chiese cristiane. Traduco “abside” il vocabolo arabico, che significa letteralmente parti posteriori. Traduco “braccio” il vocabolo dsira’, che vi corrisponde ne’ due significati di membro del corpo e di misura lineare. La dsira’ variò di lunghezza secondo i luoghi e i tempi. Quella dell’antico Nilometro di Rauda, misurata dal Coste, op. cit., pag. 45, è di metro 0,5415.1198. Beladsori, op. cit., pag. 290.1199. Frammenti del testo d’Ibn-Sciakir, pubblicati dal professore Anspach, in nota al suo Specimen e literis orientalibus, etc., Leida, 1853, in-8º, pag. 8 e 9. Si vegga nello stesso opuscolo, a pag. 9, il testo della cronica anonima di Walîd, la quale dà all’ambasciatore il titolo di patrizio e narra lo stesso fatto con altre parole.
Dal canto mio, temperando una iperbole troppo grossa, ho tradotto: “si turbò fieramente” il luogo del testo, che dice propriamente “cadde svenuto.”
Su la moschea di Damasco si consulti Edrîsi, versione francese di M. Jaubert, I, 351, dove si fa menzione di un’altra cupola detta La Verde e di varie maniere di ornamenti.
1200. Beladsori, op. cit., pag. 287, 288. Costui si chiamava Ibrahim-ibn-Selâma; era liberto della tribù di Rebâb, ed era stato uno degli emissarii che prepararono la sollevazione del Khorasân a favore degli Abbasidi. I Rebâb si veggono tra i primi conquistatori del Khorasân, secondo un passo del Beladsori, op. cit., pag. 404.1201. Bekri, Description de l’Afrique, testo di Parigi, pag. 23, e traduzione nel Journal Asiatique di ottobre 1858, pag. 471.1202. Makrizi, Mowâ’iz, testo di Bulâk, tomo I, pag. 317, dice che l’emiro tolunida Khamaruweih fabbricò di faccia alla Kubbet-el Hawâ, ossia “Cupola dell’Aria,” un’altra cupola chiamata Dekka, ossia “Belvedere,” ch’era aperta da’ lati (ossia da’ quattro archi, com’e’ parmi, che sosteneano la cupola), ma questi si chiudeano, quando si volea, con cortine. Dalla Dekka si scoprivano tutti i giardini e i palagi dell’emiro, il deserto, il Nilo, e i monti.1203. Bekri, op. cit, pag. 24 del testo e 472 della traduzione.1204. Tabari, ms. della Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe, n. 744, pag. 132, 133. Si confronti Ibn-el-Athîr, anno 88, testo di Tornberg, IV, 422. Si confronti anco lo scrittore anonimo del califato di Walîd, ec., pubblicato dall’Anspach, op. cit., pag. 4, nel quale, per errore di copia, com’e’ sembra, si dà il numero di 100,000 artefici, allegando l’autorità del Wakîdi.1205. Mohammed-ibn-Sciakir, nell’opera citata dell’Anspach, pag. 5, nota, scrive che Walîd domandò all’imperatore di Costantinopoli dodicimila artefici del suo paese, venuti i quali, fece rivestir le mura della moschea “delle pietruzze d’oro che addimandansi fesifisâ (ψῆφος), frammiste a varie maniere di peregrini colori in figura di piante, ec.” Si confrontino i luoghi d’Ibn-Khaldûn, testè citati, pag. 824 in nota.1206. Azraki, testo pubblicato dal Wüstenfeld, nelle Chroniken der Stadt Mekka, tomo I, pag. 309, 323 segg.1207. Dozy e De Goeje, Description de l’Afrique et de l’Espagne, par Edrîsi, Leida, 1866, testo pag. 209. Si vegga a pag. 269 la versione, dalla quale ho creduto dovermi scostare un pochino.1208. Ibn-el-Abbâr, Hollet-es-Siarâ, ms. della Società asiatica di Parigi, fog. 30 verso. Si confronti Bekri, citato nella nota 2, pag. 839; il quale aggiugne che le colonne, alzate a sostegno della cupola che costruì Ibrahim-ibn-Ahmed, erano tutte ornate di intagli (o mosaici).
Questa moschea, sì vicina al nostro mare, si può dire inesplorata fin oggi, perchè i Cristiani assai difficilmente entrano nella città santa dell’Affrica, ed a nessuno è venuto fatto fin qui di penetrare nella moschea. Dopo Shaw e Desfontaines, lo tentarono invano Girault de Prangey (op. cit., pag. 63, 64) e Sir Grenville Temple; e, pochi anni addietro, l’intraprendente barone di Maltzan non potè notar altro che gli avanzi di colonne e altri lavori dell’antichità, che si vedean di fuori, ed un’alta cupola e un minaretto con iscrizioni cufiche ( Reise in den Regentschaften Tunis und Tripolis, Leipzig, 1870, vol. II, pag. 70).
1209. Makrizi, Mowâ’iz, testo di Bulâk, vol. II, pag. 248.1210. Makrizi, vol. cit., pag. 246 a 256.1211. Makrizi, op. cit., vol. II, pag. 248. Si confronti il Coste.1212. Argomento ciò dal Beladsori, op. cit, pag. 309. I Beni ’Amir-ibn-Liwa, gentiluomini della Mecca, combatterono nelle prime guerre dell’islam e un di loro si trovò alla presa di Hamadan (643). Indi è molto verosimile che la famiglia abbia fatta stanza in quella città e che il suo liberto fosse stato di schiatta indigena.1213. Veggansi i disegni nell’opera egregia del Coste, Architecture arabe, ou monuments du Kaire, Parigi, 1837, gr. in foglio, tavole I, II, III, e si confronti il testo, pag. 30 segg.1214. Makrizi, op. cit., vol. II, pag. 265 segg.1215. Univers pittoresque; Egypte moderne, par M. Marcel, 1848, pag. 72 e seguenti.
Sanno gli eruditi che parecchi volumi di quest’ampia raccolta non son mere compilazioni fatte a tanto il foglio. Il Marcel, orientalista, visse a lungo in Egitto, studiò seriamente le antichità di quel paese nel medio evo, e pubblicò varie altre opere importanti. Chi ha letti i testi del Makrizi e d’altri autori arabi, s’accorge subito che il Marcel li studiò e ne diè sovente una traduzione fedele.
1216. Owen-Jones, Grammaire de l’Ornement, Londra e Parigi (senza data), ediz. in-4º, nella descrizione della tavola XXXI.1217. Coste, op. cit., pag. 32 segg.1218. Coste, op. cit., tavola LXX, e il testo a pag. 45.1219. Makrizi, op. cit., II, 185.1220. Si vegga il Makrizi, op. cit., I, 384, e in molti altri luoghi.1221. Makrizi, op. cit., I, 318. Le tre porte si addimandavano Bab-Zawila, Bab-en-Nasr, e Bab-el-Fotûh.1222. Si vegga il Coste, op. cit., pag. 34.1223. Makrizi, op. cit., I, 315.1224. Makrizi, op. cit., I, 316, 317.1225. Makrizi, op. cit., II, 273.1226. Si veggano, nel Coste, op. cit., le tavole VII, VIII, e il testo, pag. 33 e seguenti.1227. Coste, op. cit., pag. 32.1228. Azraki, testo arabico pubblicato dal Wüstenfeld, nelle Chroniken der Stadt Mekka, Leipzig, 1858, I, 396.1229. Flandin et Coste, Voyage en Perse (1840-1841), Parigi, senza data. Si veggano le tavole 24 (Sarbistan), 42 (Firuzabad), 216 (rovine sassanide dette Taki-Kesra a Ctesifone), e il testo pag. 43, 173. Si notino le cupole molto frequenti e per lo più ovoidi, ossia generate da un’ellisse che gira perpendicolarmente su l’asse maggiore. Nel Taki-Kesra il grande arco, che arriva al colmo della gran sala, è a sesto acuto con la punta arrotondata, come que’ della moschea d’Amr al Cairo vecchio.1230. Il Gally-Knight, The Normans in Sicily, pag. 351, mette innanzi due conghietture, delle quali la prima mi pare molto plausibile e la seconda molto strana: cioè che l’arco acuto sia passato in Sicilia dal Kairewân, e che ve l’abbia recato un architetto bizantino. A sostegno di questa seconda opinione, l’autore allega l’arco acuto che si vede nel menologio dell’imperatore Basilio Macedone alla Vaticana.
Questo preziosissimo codice greco in carta pecora, ch’è segnato nella detta Biblioteca col n. 1613, contiene le agiografie de’ primi sei mesi dell’anno, cominciando dal settembre; ed è illustrato in ogni pagina con una bella miniatura, che ne prende almeno la terza parte e che rappresenta spesso degli edifizii.
Il testo greco con traduzione latina, stampato in Urbino il 1727 in tre volumi in foglio, col nome del cardinale Annibale Albano del titolo di San Clemente, nei primi due volumi riproduce in rami quelle miniature.
Ora esaminata la splendida edizione d’Urbino e visto anco il codice originale, debbo dir che l’erudito inglese cadde in errore. Arco acuto propriamente detto non si vede mai nel menologio dell’imperatore Basilio. V’ha soltanto (edizione di Urbino, II, 67, 69, 78, 90, 107, 121, 127, ec.) intorno alcune figure di santi, una specie di trittico formato da quattro colonne o pilastri e terminato nella parte superiore da un angolo rettilineo tra due archi di circolo, o, al contrario, da un arco circolare tra due angoli rettilinei. Ma, come ognun vede, queste tornano a mère cornici, non son veri membri di architettura: e d’altronde l’angolo rettilineo, adoperato sovente come ornato in architettura, non si è chiamato mai arco, nè può farne l’ufizio.
In un sol posto, a pag. 102, cioè, del I volume, si rappresenta propriamente un portico, formato di colonne che sostengono, invece di archi tondi o aguzzi, degli angoli rettilinei della fattura che abbiamo testè descritta. Di due cose dunque l’una: o il dipintore delineò il portico per ghiribizzo, mettendo un ornato in vece di un arco; ovvero ei volle imitare rozzamente gli archi a sesto acuto, che al suo tempo, cioè nella seconda metà del IX secolo, erano in uso appo i Musulmani. La scena di questa miniatura è per l’appunto in Antiochia, occupata allora da Musulmani. E così il dipinto prova che i Bizantini, non che costruire archi acuti nei loro edifizii, non li sapeano nemmeno, o non li voleano, imitare col pennello.
1231. Burckhardt, Travels in Arabia, Londra, 1829, vol. I, pag. 284; e Burton, Personal narrative of a pilgrimage, etc., Londra, 1855, vol. I, cap. vj, pag. 138. Si veggano a pag. 131 segg. le idee del Burton su l’architettura sacra dell’Oriente.1232. Azraki, op. cit., pag. 323 segg.
Questo lavoro, fondato su le tradizioni d’un erudito meccano che visse al principio del IX secolo, fu scritto alla metà dello stesso secolo e vi furon fatte aggiunte nel X. Noi vi leggiamo l’altezza e la larghezza di ciascuno dei 43 archi, i quali, scempii, ovvero uniti a due, a tre ed a cinque, formavano le 23 porte (nel 1814 erano 19) della gran moschea quadrilatera della Mecca, com’essa era dopo le costruzioni de’ califi Walîd (705-715), Mansûr (754-755) e Mahdi (775-785), descritte nell’opera stessa, pag. 300 segg. Alla più parte di cotesti archi si dà l’altezza di 10 o 13 dsira’ (ossia braccia, che supponghiamo da metri 0,54) su la larghezza di 7 dsira’ poco più o poco meno. Un solo è molto basso, cioè 10 di altezza per 9 di larghezza; altri, al contrario, molto allungati, cioè di 9 sopra 5 e di 10 sopra 5, intere o scarse.
1233. Burckhardt, op. cit., vol. I, pag. 243, 277 segg.1234. Libro II, cap. v e ix nel vol. I, pag. 294, 407.1235. Bekri, Description de l’Afrique, testo di Parigi, pag. 25, e traduzione nel Journal Asiatique di ottobre 1858, pag. 475-476.1236. Libro III, cap. ix, vol. II, pag. 190.1237. Libro IV, cap. iv, vol. II, pag. 274.1238. Dissi di cotesta iscrizione nel libro IV, cap. iv, vol. II, pag. 274, e poi l’ho letta io stesso e pubblicata, nelle Iscrizioni arabiche di Sicilia, classe I, n. 1, Rivista sicula di marzo 1869.1239. Nello stesso libro IV, cap v, vol. II, pag. 303.1240. Libro IV, cap. v, vol. II, pag. 294 segg.1241. Libro IV, cap. xiij, vol. II, pag. 450, nota 4.1242. Edrîsi, testo, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 28, 29. Pur mi rimane il dubbio di qualche lacuna in questo luogo del testo. La descrizione si adatta perfettamente alla Cappella Palatina. Come supporre che Edrîsi non abbia fatta menzione di questa splendida opera del suo mecenate; e come immaginare che i Normanni abbiano lasciate nel Duomo le iscrizioni, le quali doveano esser tratte dal Corano?1243. Fosûs, plurale di fass, ch’è tolto di peso, come notò il Fleischer, da πεσσός “pietruzza,” ed è usato per designare il materiale da mosaico dorato, nel luogo di Ibn-Sciâkir che abbiam testè citato a pag. 828, nota 2. Si confronti una nota del Dozy, nella Description de l’Afrique, par Edrîsi, pag. 360. Parrebbe dunque a prima vista che Edrîsi avesse voluto alludere a’ mosaici della Cappella Palatina e della sala del palagio. Ma come adattare alle pietruzze da mosaico l’aggettivo che segue, giâfiah, cioè “ruvide” o “pesanti,” sul quale si vegga il Dozy, op. cit., pag. 278, dove è ricordato per l’appunto il presente luogo di Edrîsi? Convien dunque prendere fosûs nel significato primitivo e persuaderci che l’autore volle fare al solito suo l’antitesi dei grossi o grezzi ciottoli co’ massi di pietra da taglio. D’altronde non si fabbrica col mosaico, nè Edrîsi stesso avrebbe osato di arrivare ad una metafora di tal calibro.1244. Edrîsi, testo, nella Bibl. arabo-sicula, pag. 29, da correggere secondo il Dozy, op. cit., pag. 308, avvertendo che ne’ Diplomi arabi di Sicilia si trova la voce r..kkah col significato italiano di rôcca, e talvolta è tradotto “castellum.”1245. Così chiamano volgarmente le rovine del monastero di Santa Maria della Valle o della Scala, fondato nel XII secolo. Io lo cito soltanto per la parte che rimane dell’edifizio primitivo, essendo il rimanente del secolo XIV. Si vegga Gally-Knight, op. cit., pag. 126; e meglio Geo. Dennis, nel Murray handbook... Sicily, Londra, 1864, pag. 513.1246. Sugli avanzi di questo monastero fondato nel 1174 si vegga il Gally-Knight, op. cit., pag. 168 segg.1247. Sebîl, ossia “Via (di Dio),” chiamano gli Arabi alcuni lasciti pii, e quelli specialmente che sono addetti a dar da bere a’ viandanti.
Questa fonte, alla quale riman finoggi il nome arabico di Cuba, non è stata descritta da altri, per quanto me ne sovvenga. Essa è molto piccola in vero. L’incontra a man destra chi, andando da Villabate a Misilmeri lungo lo stradale, ha oltrepassato il villaggio detto Portella di Mare ed è arrivato al sommo dell’erta, dal quale poi si scende nella valle del fiume detto de’ Ficarazzi. Sorge quivi a sinistra la collina della Cannita, ov’era di certo il Kasr-Sa’d, ricordato da Ibn-Giobair. E forse questa cupoletta è proprio su la sorgente detta Ain-el-Meginûna, ossia “Fonte della pazza,” di cui il viaggiatore spagnuolo, nella descrizione di Kasr-Sa’d, Biblioteca arabo-sicula, testo pag. 88, e Journal Asiatique di dicembre 1845, pag. 516, e di gennaio 1846, pag. 76.
La cupoletta oggi è sepolta in parte sotto una frana, che mi parve recente quand’io vidi per la prima volta questo monumentino nel maggio 1870. È fabbricata, come quella molto più grande di casa Napoli tra Palermo e Monreale, sopra un dado, nel quale si entra dalla parte dello stradale per un arco molto aguzzo e pur sì picciolo che un uomo dee chinarsi per passarvi. L’acqua, in oggi assai scarsa, scaturisce in fondo ed è condotta per un canale artificiale in una pila di sasso, al margine dello stradale. Questo poi è più basso e discosto da otto metri.
1248. Il prof. Saverio Cavallari, ricordato più volte nel presente lavoro, ha notata la costruzione delle cupole de’ monumenti normanni di Sicilia diversa da quella di stile bizantino, nel quale la superficie della sfera concava si adatta alle pareti interne del prisma quadrilatero per mezzo di una muratura in forma di vela. Egli ha osservate nella “Badiazza” presso Messina le radici di una cupola normanna che ora è cascata. Si vegga il suo confronto nel fascicolo di saggio della splendida opera cromolitografica testè intrapresa in Palermo col titolo di Cappella del real palazzo di Palermo, disegnata e dipinta da Andrea Terzi, ec.1249. Si vegga Girault de Prangey, op. cit., pag. 91, e tavola X, n. 2.1250. Girault de Prangey, op. cit., pag. 89, 96 segg., 100, 119. Si osservino anco gli ornati della Zisa e di Cordova, messi a riscontro nella stessa opera, tavola IV.1251. Dozy e De Goeje, Description de l’Afrique et de l’Espagne, par Edrîsi, pag. 209 del testo e 258 della traduzione.1252. Si tratta in generale di questo argomento nell’opera di Owen-Jones, intitolata Grammaire de l’ornement, Londra e Parigi, senza data, edizione in-4º, illustrata con cromolitografie. Si vegga la descrizione della tavola XX, lavoro del signor Waring, il quale ha fatto lungo studio su i monumenti bizantini, e nota l’influenza del disegno bizantino sugli Arabi, come si vede, dice egli, al Cairo, in Alessandria, in Gerusalemme, in Cordova e in Sicilia.1253. Questo è quello che il professor Basile definì Arco persiano, nel citato articolo del giornale “ La Ricerca.”1254. Veggansi le tavole XVII, XXVII, XXVIII, della lodata opera dei signori Flandin e Coste.1255. Mowâ’iz, edizione citata, I, 384.1256. Nella Bibl. arabo-sicula, testo pag. 91, e nel Journal Asiatique di gennaio 1846, pag. 80.1257. Si vegga la figura in Lane, Modern Egyptians, vol. I, cap. 1, o in ogni altra raccolta di disegni architettonici dell’Oriente.1258. Leandro Alberti, Isole appartenenti all’Italia, Venezia, 1581, fog. 49, recto e verso.1259. Si confronti Fazzello, Deca I, libro viij, cap. 1, e Girault de Prangey, op. cit, pag. 88. Ecco le parole del Fazzello: “Piscina erat ingens in medio, in qua vivi pisces coercebantur, antiquo, quadrato, ingentique lapide, mira crassitudine instructa. Quae hodie (1558) incorrupta est, aquasque solum et pisces requirit.”1260. L’afferma il professor Basile, negli articoli della “Ricerca” citati qui sopra a pag. 819, nota 2.1261. Diploma del 28 giugno 1307, citato dal Fazzello, Deca I, libro viij, cap. 1.1262. Si vegga il cap. vj di questo libro, a pag. 552 del volume.1263. Benjamin of Tudela, versione inglese di A. Asher, vol. I, pag. 160.1264. L’ho visto io medesimo ne’ primi giorni di quest’anno 1872, in compagnia del professore Giuseppe Patricolo. Ho cagione di sperare che questo valente architetto studii profondamente l’edifizio di Maredolce, del quale hanno trattato sì il Gally-Knight e il Girault de Prangey, ma i lavori loro non mi sembrano soddisfacenti.1265. Si vegga il cap. xj di questo libro, pag. 755 segg.1266. Amato, citato nel libro V. cap. v, pag. 119, di questo volume.1267. Bibl. arabo-sicula, testo pag. 89, e traduzione nel Journal Asiatique di gennaio 1846, pag. 76.1268. Si vegga nel presente libro, cap. xij, la pag. 785, note 1, 3.1269. Bibl. arabo-sicula, testo pag. 10, e traduzione nel Journal Asiatique di gennaio 1845, pag. 93.1270. Si vegga il libro V, cap. iij, pag. 103, di questo volume.1271. Si è mostrato in principio di questo capitolo, pag. 819, nota 2, che tra le due lezioni del Falcando è da preferir quella di Minenium, la quale torna al nome della fonte El-Menâni, citata nel diploma arabico del 1132.
A me par che lo stesso nome siasi dato a tutto il chiuso, e che questo, movendo dalle mura della città, abbia oltrepassata la costa dove il nome di Parco, dato al comune moderno, attesta l’antica qualità del luogo; e similmente chiamasi Parco vecchio un monte vicino. E che il chiuso incominciasse proprio dalla città, si vede dal Fazzello, il quale dice che al suo tempo chiamavan Parco il giardino regio dov’era la Cuba e la loggetta del giardino Napoli, sormontata di cupola. La quale, giacendo tra la Cuba e l’Altarello di Baida, ci fa parer molto verosimile che nel XVI secolo il giardino regio arrivasse infino al castello di Menâni. Nel XII v’era compresa al certo la Zisa. Ciò dalla parte della città, ch’è a dire a levante. A ponente prendea, senza dubbio, il monte Caputo e tutta la costa ove poi sorse Morreale.
Da libeccio poi e mezzogiorno il chiuso abbracciava il territorio di Rebuttone e correva in mezzo agli odierni comuni di Parco e di San Giuseppe Iato. Rebuttone è nome di un gorgo d’acqua (nella carta dello Stato Maggiore pubblicata il 1870, per erronea trascrizione, in vece di Gorgo, in siciliano gurgu, fu messo Urvo di Rebuttone). Rebuttone s’addimanda parimente una vecchia torre, lontana parecchie miglia dal gorgo, e così anco i luoghi di mezzo, i quali giacciono a levante dello stradale che mena dal Parco alla Piana dei Greci, dieci o dodici miglia lungi da Palermo. Or questo Rebuttone è corruzione di Rahl-Butont, casale appartenente nel XII secolo allo Spedale di San Giovanni de’ Lebbrosi, come si scorge da un diploma di Guglielmo I, dato di maggio 1156, pubblicato dal Mongitore, Sacrae Domus Mansionis.... Monumenta cap. xiij; citato altresì dall’Amico nelle note alla Sicilia Sacra del Pirro, fog. 1345 recto dell’edizione del 1733. Leggiamo in questo diploma “Casale Butont in contrata Mennani.” Da un’altra mano, il diploma arabo-latino del 1182, il cui testo latino fu pubblicato dal Lello, Monastero di Morreale, appendice di Privilegii e Bolle, ed è stato ristampato, insieme col testo arabico, del professor Cusa ne’ Diplomi arabi e greci, volume I (non ancora uscito alla luce), nella descrizione dei confini del territorio di Giato con quel di Palermo, ha che il territorio di Giato salisce alla torre detta Elfersi “et pervenit ad murum parci et vadit per murum murum usque ad portam putei, etc.” (Lello, pag. 9; Cusa, pag. 180, lin. 23). Ma il testo arabico, dal quale senza dubbio fu cavato il latino nel XII secolo, ha in riscontro del luogo latino che abbiamo stampato in corsivo (Cusa, pag. 203, lin. 12) le parole ila haiti hauzi l mebâni, che suonerebbe “al muro del chiuso degli edifizii:” e ciò mi par si accordi assai male con l’”ad murum parci;” oltrechè non sembra punto verosimile che una foresta cinta di mura si chiamasse “Chiuso degli edifizii.” Ma trasponendo nello stampato un punto diacritico, il quale non si trova nell’originale, e se si trovasse turberebbe poco assai chi ha pratica di manoscritti arabici, trasponendo io dico un punto, si leggerà in luogo di mebâni la voce menâni, la stessa del diploma arabico già citato del 1132, la stessa che si legge in latino nel diploma del 1156: e si comprenderà come il parco ampliato da re Ruggiero abbia preso il nome dalla sua villa, o castello che dir si voglia; poichè la Zisa e la Cuba non erano ancor fabbricate e Maredolce giacea lungi a levante.
Ecco finalmente, per dare un’idea precisa di quel gran barco, le parole di Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rer. Italicar., tomo VII, pag. 194, anno 1149: “Interea Rex Rogerius.... Et ne tanto viro aquarum et terræ deliciæ tempore ullo deessent, in loco qui Fabara dicitur, terra multa fossa pariter et effossa, pulchrum fecit vivarium, in quo pisces diversorum generum de variis regionibus adductos jussit immitti. Fecit etiam juxta ipsum vivarium pulchrum satis et spaciosuin ædificari palatium. Quosdam autem montes et nemora quæ sunt circa Panormum, muro fecit lapideo circumcludi, et parchum deliciosum satis et amœnum, diversis arboribus insitum et plantatum construi jussit, et in eo damas, capreolos, porcos sylvestres jussit includi. Fecit et in hoc parcho palatium, ad quod aquam de fonte lucidissimo per conductos subterraneos jussit adduci.” E sembra questa per l’appunto l’acqua della fonte El-Menâni.
1272. Si ricordi il luogo del Makrizi, citato in principio del presente capitolo, pag. 829, nota 3.1273. Si vegga il libro IV, capitoli iv, vij, a pagine 270 e 330 del secondo volume.1274. Si veggano i capitoli ij, ix, xij del presente libro, pag. 426, 649 segg., 652, 654, 809 del volume.1275. Si vegga il noto passo di Leone d’Ostia, con le osservazioni che v’ha fatte di recente il Caravita, I Codici e le Arti a Monte Cassino, vol. I, pag. 488 segg., sostenendo che le arti del mosaico e del bronzo non erano spente in Italia, e che gli artisti, che chiamò di Costantinopoli l’abate Desiderio per lavorare a Monte Cassino, non fecero risuscitare quelle arti, ma soltanto contribuirono a perfezionarle.1276. Il Gally-Knight, non ostante l’opinione preconcetta del miscuglio d’arte arabica, bizantina e normanna, dice nell’opera citata, pag. 327, che i Normanni usarono in Sicilia uno stile d’architettura diverso al tutto da quello che avevano seguito in Francia e in Inghilterra, ed ugualmente lontano da quello degli edifizii innalzati da loro in Calabria. E rincalza nella pagina seguente, che l’arco acuto di Sicilia non passò il Faro che ai tempi dell’imperator Federigo II. Ei replica questa osservazione nella Ecclesiastical architecture of Italy, Londra, 1842-44, pag. viij e ix.
Pur v’ha una eccezione, ch’io ritrovo nell’opera postuma di Schultz, Denkmaeler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresda, 1860, tomo II, pag. 183 segg., e tavola LXXII. Nella cattedrale di Caserta Vecchia, che si dice incominciata nei primi anni del XII secolo e finita il 1158, l’acuto osservatore notò lo stile normanno di Sicilia. Tuttavia non evvi che qualche arco acuto, e il resto sono tondi. La cupola somiglia a quella piccina di Maredolce presso Palermo, nascendo sopra un cilindro, non già sul solito prisma quadrilatero, ridotto prima ad ottagono per mezzo di archetti pensili che riempiano i quattro canti.
1277. Si vegga il libro V, cap. v ed viij, e il cap. j del presente libro, a pagina 130, 132, 232, 351 di questo volume.1278. Su la forma particolare delle chiese normanne di Sicilia disputò dottamente il duca di Serradifalco nell’opera citata, pag. 42 segg., e il Di Marzo, op. cit., pag. 108, 109.1279. Si veggano le mie Epigrafi arabiche di Sicilia, classe I, n i. 6, 7, 9, 10, 11, nella Rivista sicula di ottobre e novembre 1869, febbraio e settembre 1870.1280. La ristorazione dell’antico edifizio, alla quale si lavora per cura dell’architetto professor Giuseppe Patricolo, ha messo in luce la più parte della iscrizione greca, la quale per la sua postura rimase pressochè ignota, mentre durò il monastero di donne. Il professore A. Salinas ha dato nella Rassegna archeologica di Sicilia del gennaio 1872 ( Rivista sicula di febbraio 1872) un bel ragguaglio dello stato dell’edifizio e de’ lavori intrapresi per ristorarlo.1281. Si veggano le iscrizioni citate in principio del presente capitolo a pag. 818, nota 2, e 819, nota 1.1282. Delle 16 assi che conteneano l’iscrizione, 5 sono state rinnovate e 4 son sì guaste da non potervisi raccapezzare altro che qualche lettera. Dopo una croce con le solite lettere greche IC XP NI KA a’ quattro canti, l’iscrizione arabica incomincia in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo e finisce con l’invocazione dell’ Agnus Dei. Ricercando pertanto le formole di cotesta invocazione usate da’ Cristiani di linguaggio arabico, e richiesto tra gli altri quel dotto giovane ch’è il signor Ignazio Guidi da Roma, egli mi ha mostrato l’Inno mattutino pubblicato a pag. 38 dell’ Anthologia graeca carminum Christianorum, per W. Christ e M. Paranikas, Lipsia, 1874, nel quale Inno leggonsi alcuni versi che troviamo letteralmente tradotti in arabico nell’ultima parte della iscrizione della Martorana. Mi propongo di trattare più particolarmente questo subietto in altra occasione.1283. L’erudito signor Dennis, autore della Guida di Sicilia, nella collezione del Murray, e in oggi console generale britannico in Palermo, mi fe’ conoscere per lo primo coteste iscrizioni e mi menò a vederle nel maggio 1871.
Le travi maggiori son piene di varii stemmi dipinti, alcuni de’ quali sembrano più moderni.
1284. Rénan, nella Histoire littéraire de la France au XIV siécle, tomo II, pag. 223 segg. Tuttavia l’eruditissimo autore confessa, a pag. 231, che l’Oriente usò l’arco acuto pria dell’Occidente, e crede anche che il vocabolo ogive, o augive, possa avere origine arabica, ancorchè non sia stato usato anticamente a designare l’arco acuto. Ogive potrebbe venire dal vocabolo ’augiâ “arco,” ovvero da azag, che abbiam citato nel presente capitolo a pag. 827, nota 2. Ma non va fatto assegnamento su coteste somiglianze di suoni e di significati, quando l’etimologia non abbia prove più sode.1285. Hittorf, op. cit., pag. 12, 15; Coste, op. cit., pag. 26, il quale attribuisce il nuovo stile alle società di muratori, i capi delle quali erano stati alla Crociata e ritornavano in Francia e in Germania, meravigliati della bellezza dell’architettura orientale.1286. A pag. 830.1287. Su i mosaici di Sicilia si vegga una lettera del signor Francesco Sabatier, pubblicata nel Giornale officiale di Sicilia, del 21 giugno 1858; Di Marzo, op. cit., I, 32; Hittorf, op. cit., pag. 22; Springer, op. cit., pag. 33, 34.1288. Il palco attuale è descritto precisamente nella Storia del Falcando e in una omelia greca attribuita per errore a Teofane Cerameo, la quale sembra opera del monaco Filagato e fu recitata nella inaugurazione della Cappella stessa, il 1139 o 1140. Io n’ho trattato nelle Epigrafi arabiche di Sicilia, classe I, n. 6, Rivista sicula, fascicolo di ottobre 1869, nel quale furono pubblicate le fotografie dei cassettoni.1289. Springer, op. cit., pag. 29, 30.1290. Si confrontino: Gravina, op. cit., pag. 70, 71; Caravita, op. cit, I, 191 segg.; Springer, op. cit., 27 segg., ed un articolo scritto dal signor Fr. W. Unger sul lavoro dello Springer, nelle Göttingische gelehrte Anzeigen, del 1869, pag. 1592 segg.
Il Gravina suppone che la maggior porta di Morreale sia opera di tre artisti, uno de’ quali musulmano: e in vero non sembra impossibile che i modelli di legno adoperati nella forma del getto fossero opera in parte di Bonanno e in parte d’altri artisti innominati. Lo Springer muove il dubbio, se Bonanno fosse nato veramente a Pisa, poichè gli pare di scorger il dialetto siciliano nelle iscrizioni; il quale argomento ribatte l’Unger, ma a spiegare lo stile diverso delle due porte di Morreale mette innanzi la conghiettura d’un’arte che, nata nelle isole Britanniche, sia passata successivamente in Francia, in Germania e nell’Alta Italia, e arrivata finalmente in Puglia.
1291. Schultz, Denkmaeler, etc., tomo I, pag. 55, e tavola X. La chiesa di Santa Sabina in Canosa, dov’è questa camera sepolcrale, fu dedicata il 1401: nè sembra verosimile che le porte siano state gittate molti anni appresso. I tre cerchi, de’ quali ho fatta menzione, sono formati da un gruppo di caratteri che si replica dal principio alla fine; caratteri di quella scrittura capricciosa di cento forme diverse che mal si è addimandata Carmatica, ed io la chiamerei piuttosto cufica barbara. Ciascun gruppo è composto di cinque lettere, delle quali le due prime sono identiche alle due ultime, ma messe in senso inverso, per far simmetria. E ci si potrebbe scorgere il noto motto l l h (da leggere lillah, cioè “a Dio”), scritto da sinistra a destra e da destra a sinistra, rimanendo comune la prima lettera, come si vede spesso nelle epigrafi dell’Alhambra.
Traduco Amalfi la patria del fonditore ch’è scritta Melfie, perchè ognun sa che in quel tempo si confondeano i nomi di Melfi e di Amalfi; ma egli è verosimile che Ruggiero fosse nato in Amalfi, come i fonditori di varie altre porte di chiese della Bassa Italia, principiando da Pantaleone che gittò il 1076 in Costantinopoli quella della Grotta di Monte Santangelo, pubblicata dallo Schultz, op. cit., tomo I, 242, e tavola XXXIX.
1292. Bekri, testo di Parigi, pag. 29, e versione francese del baron De Slane, nel Journal Asiatique di ottobre 1858, pag. 485. Si confronti la versione del Quatremère, nelle Notices et Extraits, XII, 480; e l’altro testo arabico, Description de l’Afrique, etc., del prof. A. De Kremer, Vienna, 1852, pag. 8.1293. Si veggano le citazioni nel V libro, cap. v, a pag. 140 di questo volume.1294. Edrîsi descrive questo congegno nell’articolo di Merida, edizione de’ signori Dozy e De Goeje, pag. 182 del testo, e 221 della versione; dov’è citato in nota l’uso che se ne fa a Costantinopoli e nell’Affrica settentrionale.
Il verbo giarr in Arabico vuol dire “trarre,” e forse da ciò venne il nome in Sicilia; poichè in Spagna i pilastri si chiamavano altrimenti. Occorre nella storia della Mecca di Azraki, edizione del Wüstenfeld, Stadt Mekka, I, 478, il nome El-Giarr o El-Giorr, dato a un ricettacolo d’acqua piovana sul monte Ahmar, dal quale ricettacolo l’acqua scorreva in un secondo detto mizâb, che significa canale o gronda.
Oltre a questo la voce arabica giarra s’applica in Sicilia a’ grandi vasi di terra cotta usati ordinariamente a serbare l’olio; si dice anco del vasellino da prendere sorbetti: e in questo significato di vaso piccolo o grande con bocca larga l’abbiamo in italiano con le varianti giara e giarro, e s’è fatta strada in tutte le lingue d’Europa.
1295. Si vegga l’articolo Alcaduz nel Glossaire dee mots espagnols, etc., de’ signori Dozy e Engelmann. Il significato di “doccia” è cavato dal Bekri, celebre scrittore spagnuolo dell’XI secolo, e quel di “secchia” è comune all’arabo orientale. Aggiungo l’autorità del “Vocabulista in arabico,” Firenze, 1871, nel quale Kaidûs è reso “canalis.” I Siciliani han serbato il κάδος e “cadus” in catu, ossia secchia; ond’è più certa la provenienza arabica di “catusu.” Nell’uno come nell’altro vocabolo, la d è mutata in t, come per altro è avvenuto ne’ derivati toscani “catino, catinella, ec.”1296. Diploma di aprile 1132, pubblicato in parte dal Gregorio e per intero dal professor Cusa nei Diplomi arabi e greci (non ancora uscito alla luce), pag. 7, lin. 7 ed 11. Darb in origine significa porta, o sportello. Delle altre misure d’acqua corrente usate in oggi, non direi che fosser tutte derivate dall’arabo. E son queste: Zappa = 4 darbi, = 16 aquile o tarì = 48 dinari = 336 penne. Ma zappa si potrebbe riferire alla radice arabica sabba; tari e dinar sembrano venuti dal greco e dal latino per mezzo della lingua arabica. In due diplomi della Magione, dati del 1197 e del 1219 presso Mongitore, Sacrae Domus, etc., Panormi, cap. iv, si trova una misura d’acqua corrente detta palma, che sembra rispondere alla zappa.1297. Il dotto professore Carlo Maggiorani ha letta nella Accademia dei Lincei il 10 dicembre 1871 una memoria su l’antropologia della Sicilia, dalla quale duolmi non poter trarre insegnamento sul nostro subietto, perchè risguarda più particolarmente il periodo anteriore al conquisto romano.1298. Epistola di Gregorio IX a Federigo II, data di Anagni il 27 agosto 1233, e risposta del 3 dicembre dello stesso anno, presso Bréholles, Cod. Dipl. Friderici II, tomo IV, pag. 452 e 457, de’ quali documenti il primo è stato già citato da noi nel cap. viij del presente libro, pag. 612 nota. Il papa avea scritto de’ Saraceni di Lucera: “italicum idioma non mediocriter, ut fertur, intelligunt;” e Federigo rispose positivamente: “qui intelligunt italicum idioma.”1299. Libro V, cap. viij, pag. 205 a 210 di questo volume.1300. Si vegga il cap. viij del presente libro, pag. 620, e si riscontri con la pag. 614 segg.1301. Si ricordino i nomi di Scerf-ed-dîn e di Fakr-ed-dîn, che abbiamo notati nel cap. xj del presente libro, pag. 736 e 737.
È da notare altresì che Ibn-Khaldûn, nella Storia de’ Berberi, traduzione francese, IV, 276, fa menzione di un Abu-l-’Abbas-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Rafi’, di schiatta alìda e della famiglia degli Abu-Scerîf, la quale avea abitata la Sicilia. Cotesta menzione occorre verso il 1348, nella rivolta del principe merinita Abu-Einan contro il proprio padre; ma non sappiamo in qual tempo gli Abu-Scerîf avessero fatto dimora nell’isola.
1302. Mortillaro, Elenco delle Pergamene della Magione, Palermo, 1859, pag 53. L’atto è dato in Palermo il 16 gennaio 1265.1303. Diploma degli 11 febbraio 1258, pubblicato dal Mongitore e ristampato in parte dal Gregorio, De Supputandis, etc., pag. 30. Simonide Filippo, giudice, e Benedetto, pubblico tabellione in Palermo, transuntavano in latino un atto pubblico dell’anno 549 dell’egira e 6663 dell’èra costantinopolitana (1154), tradotto da’ cittadini palermitani Giudice Dionisio, notaio Raimondo Fichi, maestro Michele medico, e notaio Leone di Biondo.
Diploma del 5 agosto 1286, pubblicato dal Gregorio, op. cit., pag. 52 segg., e dal signor Giuseppe Spata, Pergamene greche, pag. 451 segg., pel quale Tommaso Grillo, giudice, e il notaio Benedetto, pubblico tabellione in Palermo, transuntavano in latino un atto greco ed arabico del 26 agosto 571 (1175), del quale il testo arabico era stato interpretato da due notai, Luca de Maramma e Giorgio di Giovanni Bono, e da due medici giudei, maestro Mosè e maestro Samuele.
Ho citata nel capitolo X del presente libro, a pag. 698 segg. del volume, la traduzione latina della grande opera medica di Razi, che Farag, figlio di Salem, giudeo di Girgenti, compilava per comando di Carlo d’Angiò e terminavala nel 1279.
1304. Delle quarantatrè iscrizioni sepolcrali di Sicilia e Napoli ch’io ho preso a pubblicare nella Rivista Sicula, due sole tornano al XIII secolo. L’una edita dal Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 156, con l’erronea data del 539 dell’egira, è in vece del 636 (1238). L’altra, op. cit., pag. 162, porta veramente la data del 674 (1276), ma non è provato punto che la sepoltura fosse stata in Sicilia. Entrambe le lapidi serbansi nel Museo nazionale di Palermo, dopo l’abolizione del Monastero di San Martino e della Casa dell’Olivella, che le possedeano ai tempi del Gregorio.
Un’altra iscrizione dell’859 (1454) pubblicata dal Gregorio, pag. 154, con l’erronea data del 359 e serbata ora al Museo, e prima nella Università di Palermo, o non fu trovata in Sicilia o fu messa, il che mi par meno verosimile in quel tempo, su la tomba di un musulmano morto di passaggio in Sicilia. Su l’altra faccia è intagliato uno stemma gentilizio, fattura del XVI o XVII secolo, il quale era sostenuto su la facciata d’una casa per mezzo d’un anello di bronzo, incastrato proprio nel centro dalla iscrizione.
1305. In varii diplomi del XII e XIII secolo, che sarebbe troppo lungo a notare, leggiamo in lettere greche o latine i seguenti nomi arabici di luoghi in Palermo:
Γαδήρ ελκοῦκ, sobborgo ( Ghadîr, etc., ossia Stagno del Kuk, sorta d’uccello aquatico).
̔Ρύμνη ἒῶεν Χάλφουν (via d’Ibn-Khalfûn).
Ἄκῶε ετ Τοὐρους ( ’Acabat et-Tûr. La salita del colle).
̔Ράχαῶ ( Rahba, rahaba o rahab, nome generico di “piazza o cortile”).
Hartilgidia, e altrove Χαριτελτζητητε ( El Hârit el Giadida, ossia “il quartiere nuovo”).
Αγρὸν Μαρὶας che si legge anco in un diploma arabico d’aprile 1132, Fahs Maria (“il Campo di Maria”).
Ruga Keleb (.... el kelb, ossia “del Cane”).
Contrata Hasserinorum (strada de’ lavoranti di Hasir, ossia stuoie, donde forse il siciliano Gassina ).
Fahssimeria, ch’è “Fausumeli,” come dice il Mongitore, notissima campagna presso Palermo ( Fahs-el-emîr ).
Bebelagerin ( Bab-el-Haggeriin, “Porta de’ tagliapietre”).
Vicus qui dicitur Zucac germes ( Zokâk-el-Kirmiz? ossia “Vicolo del Chermisì”).
Garbuymara ( Gar bu ’imâra, col volgare bu in luogo di abu. “Grotta di Abu ’Imâra”).
Zucao elmucassem ( Zokâk el-Mokassem, ossia “Vicolo di Mocassem” o “del Bello”).
Cantariddoheb ( Kantarat-ed-Dseheb, “Ponte d’oro”).
A questi si aggiungano i nomi di Halka, Genuardo ed altri che ci sono occorsi altre volte.
La piazza oggi detta Ballarò e ricordata da Fazzello, secondo le antiche scritture, col nome di Segeballarat, si addimandava di certo Suk-el-Balharà, “mercato di Balhara,” dal nome del villaggio che sorgea presso l’odierna Morreale.
1306. Kalsa negli scritti, e Gausa a viva voce, è il noto quartiere Khalesa. Si ricordino inoltre Cuba, Zisa, Favara, ec. La contrada detta finoggi Lattarini era di certo Suk-el-’Attariin, “il mercato de’ droghieri;” chè così chiamansi alcune contrade di Tunis e d’altri paesi musulmani.
È da notare che le sorgenti d’acqua hanno serbato quasi tutte i nomi arabi, con poco guasto: Gabriele, Sciarabbu, Danisinni (’Ain-es-Sîndi?), Sicchiaria, Garraffu, ec. Mi occorre qui un nome arabico nato nella seconda metà del duodecimo secolo. Un vicoletto dietro il Duomo di Morreale si appella del Raccamo, scritto così a caratteri cubitali nella lapida; nè sembra verosimile che tal forma volgare del vocabolo “ricamo” sia stata solennemente ammessa lì, allato al Seminario arcivescovile ch’ebbe fino alla metà del nostro secolo un’ottima scuola di lettere latine e italiane e dove l’arcivescovo fu signore feudale della città fino a’ principii del secolo. D’altronde non so che sia stato mai in quel posto un opificio di ricamo, nè, se vi fosse stato, la lingua siciliana l’avrebbe chiamato così. Ma rakkâm in arabico suona “marmoraio, scarpellino, segatore di marmo” ed è cosa naturalissima che di cosiffatti artigiani fossero dimorati presso il luogo, dove surse quel labirinto di preziosi marmi ch’è il Duomo di Morreale, e che da loro fosse nato il nome del vicolo.
1307. I capitoli 69 a 72 di Federigo l’Aragonese trattano della conversione de’ Saraceni liberi o servi; il cap. 65 vieta a’ Saraceni di comperare servi cristiani; il 66 loro comanda di portare un nastro rosso di traverso sul petto, affinchè non si confondessero co’ Cristiani. Ma egli è da riflettere che altri capitoli pubblicati nello stesso giorno stabiliscono somiglianti restrizioni alla libertà de’ Giudei e che il cap. 72 tratta de’ Greci di Romania fatti schiavi e convertiti all’ortodossia romana. Indi è probabile che i Saraceni, a’ quali si riferiscono queste leggi, sieno i mercatanti che ancora affluivano in Sicilia, o i novelli schiavi. Ricordisi che le leggi siciliane chiamavano “villani,” non “servi,” i contadini musulmani vincolati alla gleba.1308. Si vegga la mia Guerra del Vespro Siciliano, edizione del 1866, vol. I, pag. 309 segg., e vol. II, pag. 397 segg.1309. Iakût, Ibn-Sa’id, Scehâb-ed-dîn-’Omari, nella Bibl. arabo-sicula, testo, pag. 124, 134, 150. Abbiamo riferito nel capitolo v del presente libro, a pag. 536 del volume, ciò che ne scrisse nel XII secolo il vescovo Burchardo. Si vegga anco il trattato dell’imperatore Federigo II col principe hafsita di Tunis, di che nel cap. ix di questo stesso libro, pag. 626.1310. Deca I, lib. I, cap. i.1311. Si ricordi il fatto che noi abbiamo riferito sull’autorità del Kazwini, nel lib. IV, cap. xij, a pag. 422 del secondo volume.1312. Si vegga il libro V, cap. vj, e il presente libro, capitoli j, vj, viij, a pag. 178, 388, 555, 603.
La testimonianza del vescovo Burchard, testè citata, dee cedere il luogo alla prova contraria, ch’è la fondazione del vescovado e la successione non interrotta de’ vescovi fin dal principio del XII secolo.
1313. Gian Francesco Abela notò il primo l’indole di cotesto idioma, nella Descrizione di Malta, ec., Malta, 1647, la quale fu tradotta in latino nel tomo XV del Thesaurus di Graevio e Burmanno, e ripubblicata con aggiunte da Giovanni Antonio Ciantar, Malta, 1772-80, due vol. in foglio.
Son comparsi poi glossarii, grammatiche e proverbii maltesi, di Vassallo, Panzavecchia, Falzon, Taylor ed altri: ma quegli che con maggiore autorità ha trattato questo subietto è il baron De Slane, nel Journal Asiatique del 1846 (Serie IV, vol. 7, pag. 471 segg.).
1314. Questi tre diplomi, appartenenti tutti e tre alla Chiesa di Cefalù e serbati in oggi nel Regio Archivio di Palermo, van riferiti alla prima metà del XII secolo, ancorchè un solo, ch’è scritto in lettere rabbiniche, abbia data, e questa scritta in cifre alfabetiche che non sembrano esatte. Lo stile volgare di coteste carte comparisce talvolta dal verbo “essere” pleonastico, talvolta da’ casi costruiti con la preposizione mta’, e sempre dalle lungaggini e ripetizioni. È da notare anco in uno di cotesti diplomi il iâ, ossia elif breve, mutato in elif, all’affricana.1315. Anche l’ultimo de’ diplomi arabi di Sicilia ch’io m’abbia visti, cioè l’arabo-latino del 1242, appartenente alla Chiesa di Girgenti, è scritto correttamente, se si eccettui lo stile pesante e le voci straniere civis e judex scritte in carattere arabico, alle quali pur è data, quando occorre, quella forma di plurale che la grammatica araba prescrive per le voci di tale origine.1316. Si vegga il cap. v di questo libro, a pag. 494, nota 3.
Avverto che quand’io scrissi quella nota si cominciava appena la stampa dei diplomi arabi e greci del professor Cosa, la quale oggi è condotta fino alla pagina 448 e già comprende poco men che cento diplomi.
1317. Lib. I, cap. ix, pag 196 segg., del primo volume.1318. Mi basta citare la dissertazione XXXIIª del Muratori e gli atti pubblicati ne’ Regii neapolitani Archivii monumenta, Napoli, 1845-1861, sei volumi.1319. Libro V, cap. viij, pag. 205, 206, di questo volume.1320. Spata, Diplomi greci, Torino, 1870, pag. 90, dove si legge dei confini che arrivano εἰς τὸν ῶοτ αμὸν τῶν τόρτων. Si confronti la versione latina, credo contemporanea, pubblicata dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 382 segg., dove si legge “usque ad flumen Tortum.”1321. Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1012, traduzione dal greco in latino.1322. Pirro, op. cit., pag. 1046, traduzione dal greco in latino.1323. Pirro, op. cit., pag. 521. Questo Diploma par sia stato scritto originalmente in latino.1324. Pirro, op. cit., pag. 1034 seg. Vi si legge, per esempio, “cum bono proponimento.... cum plena deliberatione absque aliquo tardamento et pentimento.... cum augmento plenario de victu.... arbores domesticas.... quod persona aliqua de mundo non habeat aliquam potestatem in hujusmodi bonis.... donandi impedimentum nec controversiam.... cannatam unam plenam vino” e simili. Il Pirro, che suole avvertir sempre quand’ei dà traduzioni, qui non ne fa parola, anzi dice il diploma “transuntato,” negli atti di un notaio di Messina, il 1379. A fronte di questi fatti e del nome italiano del segretario di Ruggiero, non monta che il diploma porti la data dell’èra costantinopolitana che solea notarsi nelle carte greche. Trattandosi di un monastero basiliano in Itala, o Gitala, comune presso Messina, è naturalissimo l’uso dell’èra greca, ancorchè il diploma fosse scritto in latino. D’altronde questo nome d’Itala, che, se mal non mi appongo, comparisce qui per la prima volta nella geografia della Sicilia, accenna ad origine continentale. E lo stesso nome di Roberto de Auceto, genero del conte Ruggiero, che d’ordine di lui soscrive il diploma insieme col notaio Lamensa, ci ricorda l’odierno villaggio di Aceto in provincia d’Alessandria o Diacceto in provincia di Firenze.1325. Si vegga il libro V, cap. viij, pag. 221, del presente volume.1326. Tal mi sembra nel diploma arabo-latino di Morreale, dato il 1182, il nome di monte Kâlbu, “mons qui vocatur Calvus,” onde non sappiamo se si pronunziasse allora calvu o calvo, presso Lello, op. cit., appendice de’ privilegi a pag. 20 e nella raccolta del professor Cusa (non pubblicata per anco) a pag. 198 e 236. V’ha inoltre l»b, “lupo,” a pag. 9 del Lello, e 181 e 205 del Cusa; e La Camuca, presso Lello, pag. 14, e presso Cusa, pag. 188 e 217, dove l’articolo femminile può appartenere al siciliano come ad ogni altro dialetto italico. Ometto, per la medesima ragione, in un diploma del 1156, presso Pirro, op. cil., pag. 1157, la voce bosco, la doppia denominazione di Monte Gibello che comparisce qui per lo primo, e il nome topografico Terroneto de Cretaccio; e nel diploma del 1142, citato qui appresso, la espressione mizano vallone.1327. Pirro, op. cit., pag. 774, diploma latino con la data dell’èra volgare “et inde dividit per medium Lumarge, quod pantanum, vel terra sylvestris latine nuncupatur.” E notisi che il vocabolo marg, il quale in Sicilia ha preso il significalo di padule, ha in arabico quello di prateria.1328. Il Pirro, op. cit., pag. 390, 391, nel dar questo diploma secondo una copia fattane in Messina il 1335, avverte essersi astenuto, al suo solito, di correggere gli errori dell’esemplare ch’egli ebbe alle mani. Molti in vero ve n’ha, e la più parte, a creder mio, debbono riferirsi non al copista del XVI secolo, ma allo scrittore del XII, il quale par non sapesse il latino. Forse egli era di linguaggio greco, come il mostra l’h messa innanzi la r di Luhrostico, in vece dello spirito aspro del greco. Tra le altre cose vi si accenna il confine “allo mizano vallone,” del quale abbiam detto poco fa. Cotesto diploma, contro l’uso costante, porta la doppia data del 6650 e 1142, la quale anomalia, insieme con altre circostanze, mi conduce a supporre che la pergamena latina non sia l’originale, ma un’antica e forse contemporanea versione dal greco.1329. Diploma del 1156, citato nella pagina precedente, nota 3.1330. Diploma del 1182, citato qui innanzi, presso Lello, pag. 22, lin. 18, e presso Cusa, il testo arabo, pag. 238, lin. 12 e il latino, pag. 199, lin. 10.
Il latino ha Spelunca Scutiferorum, e il testo arabico Es-Sakâtirah, plurale arabo d’un singolare che non appartiene a quella lingua e che dovea suonare scuteri; il qual vocabolo in siciliano è lo stesso al singolare e al plurale.
1331. In un diploma greco di Messina, dato di quell’anno, presso Trinchera, Syllabus græcarum membranarum, etc., Napoli, 1865, pag. 378, si dice di una casa posta nella ρρουγαν τοῦ γαῶατούρι, in Messina.1332. Presso Bréholles, Historia diplomatica Friderici II, tomo V, pag. 869.1333. Palermo antico, seconda edizione, pag. 334 segg., e 344 segg. Li ha citati poi il sig. Leonardo Vigo, ne’ Canti popolari siciliani, Prefazione, pag. 19. I due transunti sono stati ristampati dal professor Vincenzo Di Giovanni, in una epistola a Vincenzo Zambrini, data del 1865, e inserita nella Filologia e letteratura siciliana del medesimo professore, vol. I, pag. 255 segg. I testi greci, infine, il secondo de’ quali ha ancora quattro righi in arabico, si leggeranno nella lodata raccolta del professor Cusa, pag. 99 segg, e 31 segg.1334. Mortillaro, Catalogo dei Diplomi.... della Cattedrale di Palermo, pag. 23.1335. Si avverta che il buon Morso, op. cit, pag. 406, nelle note 21, 22 e 23 de’ diplomi, non sembra niente certo che il transunto di quello del 1153 fosse contemporaneo. Mentre il testo ha la data costantinopolitana del 6662, il transunto scrive a dirittura, in lettere, 1062, prendendo le diecine e le unità di quell’èra e ponendo a caso le prime due cifre; la quale disgrazia non potea succedere di certo ad un contemporaneo. Inoltre i nomi de’ testimoni son tutti sbagliati: indi la presunzione che lo scrittore abbia saputo malissimo il greco; e si potrebbe scendere al XIV o XV secolo, la qual data non sarebbe disdetta dall’ortografia nè dallo stile.
Nell’altro diploma non c’era data da sbagliare; ma i nomi furon guasti del pari nel transunto ch’io crederei dello stesso tempo di quel primo. Avverto che nè il primo nè il secondo de’ due lodati scrittori è scevro di dubbi. Il Vigo non giudica pro nè contro; il Di Giovanni domanda “uno studio un po’ accurato su la grafia delle pergamene.”
1336. Il signor A. Springer, nella erudita dissertazione, Die Mittelalterische Kunst in Palermo, sostenne trovarsi in alcune di quelle leggende non dubbii vestigii del dialetto siciliano. All’incontro il signor Fr. W. Unger, in una bella critica di cotesto scritto, uscita nei Göttingen gelehrte Anseigen del 1869, ha mostrato, a pag. 1596, che coteste forme non son altro che abbreviature del latino. E per la più parte egli ha ragione; tanto più che l’apparente desinenza italiana “plasmavi, adoravi, ec.” non converrebbe alla terza persona del perfetto, che qui è manifestamente adoperata. Ma “Èva serve a Ada.... ucise frate suo.... fuge in Egitto.... la quarantina.... battisterio....” han forma precisamente italiana.1337. Si potrebbe forse eccettuare la forma frequentativa, come casa casa (per la casa), muru muru (lungo il muro), ciumi ciumi (lungo il fiume), ec.; ma è usata anco in altre lingue. Il randa a randa della lingua illustre è originale o copia del siciliano ranti ranti.
Oltre a ciò l’uso siciliano del passato rimoto in luogo del passato presente si potrebbe riferire alla lingua araba, la quale salta dal perfetto all’aoristo, ed ama poco le gradazioni dei tempi. Ma ciò non basta per dir che in due lingue si somigli la conjugazione de’ verbi.
1338. “Taliari” (guardare) dall’arabo tala’, ha mutata l’ ain nell’ a del dittongo. Si sente poi perfettamente nel siciliano “tale’,” imperativo dello stesso verbo.1339. Dar-es-sena’h, oggi “arsenale” e “darsena,” si scrivea arzanà al tempo di Dante, e si pronunziava tarzanà in Palermo, dove credo che alcun uomo del volgo lo pronunzii ancora così, e dove l’antica forma resta integra nel nome di una strada vicina alla Cala.1340. Senza risalire fino alla Dissertazione XXXIIIª del Muratori, voglio ricordare che nella Proposta di Vincenzo Monti, vol. II, parte 1ª, Milano, 1829, uscì una breve lista de’ vocaboli italiani derivati dall’arabico. Men felicemente ne diè un’altra il Wenrich, nel Rerum ab Arabibus in Italia.... gestarum, pag. 309 segg. In ultimo n’ha pubblicati de’ saggi il signor Enrico Narducci da Roma, nel 1858 e nel 1868.
Pel siciliano in particolare non conosco altro lavoro che quello dell’Abela, il quale nell’opera su Malta ricordata dianzi dà, in appendice alle voci maltesi, sedici vocaboli siciliani derivati dall’arabico. Parmi ch’egli abbia imberciata l’etimologia in tutti quelli ch’io ho intesi. Due o tre non li conosco altrimenti che pel Pasqualino, filologo dei secolo passato, il quale li cavò da più antichi glossarii manoscritti, e quattro non li trovo nemmeno nel copiosissimo dizionario del signor Traina ch’è in corso di stampa. L’avvocato Giuseppe Picone ha dato, non è guari, un altro saggio di etimologie arabiche nella Vª delle elaborate sue Memorie storiche agrigentine, ma non posso accettare tutti i suoi giudizii.
1341. Si vegga la noia del Dozy alla seconda edizione del Glossaire des Mots espagnols et portugais dérivés de l’Arabe, par MM r Dozy et Engelmann. Paris, Leida, 1869.1342. Per esempio: accanzari, cavar profitto, conseguire; addijri (?) scegliere; aggibbari, sottomettersi; alliffari, attillare; annadarari, aggiustar pesi e misure; arrucciari, spruzzare, aspergere (non usato nel significato di “arroser,” bensì in quel dell’arabo rasscia ); assammarari, ammollare i panni; azziccari, azzeccare; azzannari, rintuzzare il taglio di un’arme; azzizzari, abbellire, acconciare; abbacari, cessare, calmarsi, del vento, della febbre, del bollore, ec.; carcariari, chiocciare; annacari, da naca, culla; ncharracchiari, dormire profondamente; nzitari? innestare; picchiuliari, da picchiu, pianto, piagnisteo; sammuzzari, tuffare; sciarriarisi, intransitivo da sciarra, rissa; sciddicari citato di sopra; taliari citato di sopra; zabbatiari, dimenare; zurriari, stridere de’ denti.1343. Caudu di testa è versione di harr-er-râs, e somiglia meno a “testa calda.”
Cuntari in aria, computare a mente, è perfettamente arabo come si dimostra nel titolo d’un manuale sullo Hisâb-fil-hawâ (Del computo in aria), presso Hagi Khalfa, Dizionario bibliografico, V, 639, nº 12435.
Mali suttili, tisi ( homa-d-dikk ).
Lattata, emulsione di mandorle ( talbina ).
Ganghi di lu sennu, ultimi denti molari ( adhrâr el-’akl ).
Tignusu, tarantola ( burs, che vuol dir anche tignoso).
Pani e sputazza, (mangiar) pane asciutto ( Kubz-reik ).
Mmalidittu, il diavolo ( el-la’in ).
1344. Strisce di panno o d’altro con che si reggono i bambini che non sanno camminare. Kâida è femminino di kâid “conduttore.”1345. Scritto anche galicha. Veggansi i Diplomi arabi del Regio Archivio fiorentino, pag. 298, 299 e 406, ultima nota.1346. Ma’ûnah, aiuto, braccio forte, come suol dirsi, aiuto reciproco, indi società commerciale o industriale. Nel significato primario la usarono i Genovesi fin dal XII secolo; nell’ultimo par sia passata in Toscana, dove significò “ferriera” ed oggi è limitata a’ grandi magazzini di ferro. L’etimologia è chiara da tanti testi arabi; onde non si può ammettere quella greca suggerita dal Canale, Nuova istoria di Genova, I, 277. L’origine della istituzione, spiegata da questo erudito nel tomo II, pag. 317, conferma la derivazione del vocabolo.1347. Lasciando come troppo numerosi i lavori generali su l’origine dei parlari d’Italia, debbo ricordare che il siciliano è stato ed è argomento delle assidue ricerche di varii letterati dell’isola. Delle origini ha trattato ampiamente il signor Lionardo Vigo nella Prefazione alla sua raccolta de’ Canti Popolari; poscia il professore Vincenzo Di Giovanni in varii scritti, raccolti ora in due volumi sotto il titolo di Filologia e Letteratura siciliana.
Su la grammatica ho letto un buon lavoro del professore Innocenzo Fulci, Catania, 1855. I Canti Popolari sono stati illustrati dal Vigo, dal Pitrè, dal Salomone Marino.
De’ dizionarii infine se ne conta una diecina di stampati dal 1549 in fino ad oggi, oltre parecchi manoscritti, ed è molto innanzi nella stampa un nuovo dizionario del signor Antonino Traina, il quale ha aggiunti molti altri vocaboli, raccolti per tutte le regioni dell’isola. Duolmi non potere citar tutti gli scritti critici e i lavori di minor mole pubblicati in questa materia nelle riviste e ne’ giornali, perchè son molti e non presumo conoscerli dal primo infino all’ultimo.
1348. Si conoscono bene in Italia gli articoli critici del professore Grion di Padova su la famosa Canzone di Ciullo e la risposta fattagli dal professore Vincenzo Di Giovanni da Palermo, nell’opera dianzi citata.1349. A pag. 738 e segg.1350. Capitula Regni Siciliæ, cap. LVI di re Giacomo, e XVII di Federigo l’Aragonese.1351. Kâmah in arabico, tradotto canna in un diploma arabico-latino del 1187, presso Morso, Palermo Antico, pag. 358. Si confronti l’Edrîsi de’ professori Dozy e De Goeje, pag. 372.1352. Il saum della Mecca, secondo Ibn-Giobair, lesto del professor Wright, pag. 122, contenea quattro sâ’. Nei diplomi arabi di Sicilia il latino “salma” e “sagoma” risponde al noto vocabolo arabico modd, il quale, alla sua volta, sembra trascrizione di modium.1353. Kafiz, notissima misura arabica di capacità e di superficie.1354. Ritl o rolt, è la libbra degli Arabi, come ci è occorso di notare altrove.1355. Si vegga il libro IV, cap. xiij, pag. 458, del II volume.1356. Rob’ vuol dir “quarta parte.” Occorre nelle misure del grano di tutti i porti musulmani del Mediterraneo. Veggiamo anche il ῤουζος ne’ diplomi greci di Sicilia del 1189 e del 1328, presso Spata, Pergamene greche, pag. 304 e 366, denotar misura di superficie nel primo, e di capacità nel secondo. Con lo stesso suono e lettere diverse ci occorre ρουος e ρουζος in due diplomi calabresi del 1188 e 1228, presso Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli, 1865, pag. 296 e 388.
Metto tra le voci arabiche il carato, manifesta trascrizione di κεράτιον, parendomi verosimile non sia passato direttamente dal greco, ma per mezzo dell’arabico, sì come “fondaco,” ed altri vocaboli.
1357. Per esempio l’italiano giubba, voce prettamente arabica, analoga alle siciliane “giubba e jippuni;” camellotto, non da camelo, come dicono i dizionarii, ma da khamlah, che significa proprio panno velloso.1358. Delle vivande si ricordi il cuscusu, uguale di nome e poco diverso di qualità da quello della Barberia.
De’ camangiari vanno notate le paste fermentate e fritte che in Sicilia, al par che in Barberia, si chiamano sfinci, dal latino “spongia” com’e’ pare; e i ceci ammollati e poi torrefatti che si dicono càlia, con pura voce arabica.
1359. Si vegga il capitolo precedente, pag. 785, nota 5. Il nome della torta nel testo è ke’k. D’origine arabica mi sembra la notissima cassata di Palermo, poichè kas’at vuol dire scodella grande e profonda, com’è veramente la pasta di quel dolce, ripieno di ricotta o di crema. Kobbeit è in arabico (oltre i dizionarii si vegga D’Herbelot, all’articolo “Cobbathi”) una specie di torrone, appunto come la cubbaita di Sicilia. Quella che si chiama in Sicilia mostarda, è del mosto cotto, non con senapa, ma con farina e ridotto in pasta, del quale abbiam fatta menzione nel libro IV, cap. xiij, secondo il libro dell’agricoltura d’Ibn-Awâm. Questa stessa maniera di dolciume in Girgenti si chiama tibu, con puro vocabolo arabico. La nucatula di Sicilia, non essendo composta di noci, par che derivi più tosto dal nukl degli Arabi, ch’è quel che in Toscana si chiama seccume.1360. Si vegga ciò che abbiam detto di questo commercio nel capitolo precedente, a pag. 786 di questo volume.1361. Makrizi, Mowâ’iz, testo di Bulâk, I, 387. Ho tradotto “panforte” il vocabolo semîd o semîds, al plurale sewâmîds, per designare piuttosto la grandezza e l’uso, che la composizione. In oggi semîds vuol dire fior di farina e il pane fatto di quello: ma nel passo di Makrizi sembra diverso, leggendovisi che ciascun semîds pesava tre rotl (libbre) ed era impastato con la più scelta farina e unto al di fuori di grasso, sì che usciva lustrato dal forno e prendea bellissima apparenza.1362. Abdallatif, edizione del Sacy, pag. 312.1363. Loc. cit., e nella nota del Sacy, a pag. 307, 308.1364. Sacy, nell’op. cit, pag. 325, nota 41, al cap. vj, del libro I, nella quale è riferito che quella pasta si mangiava fresca e talvolta secca. Si confronti il Lane, Modern Egyptians, cap. xxv.1365. Lane, op. cit., cap. xiv.
I semi di zucca o di popone sono annunziati al Cairo col grido: “Oh i consolatori de’ tribolati, oh i semi!;” in Palermo li dicono “Sbija oziu.” Gridano per le arance: “Ecco il miele!” Per le sicomore: “Oh l’uva!”
1366 . Ibn-abi-Dinar, Storia di Tunis , testo arabico stampato a Tunis il 1286 (1869), pag. 3. 1367 . Voyage , etc., pag. 206, dell’estratto dal Journal Asiatique del 1853. Si riscontri il testo arabico, ms. di Parigi, Suppl. ar. 911-2, fog. 104 recto.