CARLO DARWIN

1º MIGLIAIO ROMA CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C. 3, Via Due Macelli, 3

1883

Proprietà Letteraria

332.—Firenze, Tip. dell'Arte della Stampa—1883

AL PROFESSORE FRANCESCO TODARO

[Pg 6][Pg 7]

I

Il Times non ha la pretesa di governare e volgere a sua posta la pubblica opinione ma si contenta di esserne specchio.

Quel giornale, annunziando la morte di Carlo Darwin, ha queste parole:

«....Non è ancora deliberato dove debbano essere sepolti i suoi avanzi mortali, ma il posto della sepoltura deve essere nel tranquillo cimitero del villaggio di Down presso il luogo dove Darwin passò quasi quarant'anni della sua vita....»

Ma la voce potente del popolo inglese gridò che la salma di Carlo Darwin doveva collocarsi nella abbadia di Westminster cogli antichi re e cogli uomini più grandi di quella grande nazione, accosto al Newton. E ciò seguì immediatamente.

L'amplissimo giornale parlò della cosa come se non avesse potuto essere altrimenti e riferì a lungo le onoranze di quella sepoltura.

Nella famiglia di Carlo Darwin il lavoro intellettuale e lo studio della natura erano cosa ereditaria.

Erasmo Darwin, nonno di Carlo, fu uno degli uomini più insigni del suo tempo, medico e naturalista originalissimo. Parlerò di lui a lungo più oltre.

Terzo figlio di Erasmo Darwin, dal suo primo matrimonio, fu Roberto Waring Darwin, padre di Carlo. Egli volse tutte le sue forze, tutt'altro che scarse, alla medicina. Si riferisce che avesse una meravigliosa potenza nel diagnosticare le malattie, col sussidio solo di pochissime interrogazioni; egli indovinava anche senza parlare, colla sola potenza investigatrice degli occhi, ciò che si passava nella mente dei suoi malati. Era un uomo dabbene, pieno di benevolenza pei suoi simili. Carlo Darwin, che si compiaceva nel parlare di suo padre e rammemorarne le virtù, raccontava spesso l'aneddoto seguente. Per beneficare i poveri, in Shrewsbury, dove esercitava la medicina, Roberto Darwin si propose di dare gratuitamente i medicamenti a chi, abbisognandone, non avesse potuto pagarli, e fece sapere la cosa in paese. Egli rimase sorpreso di ciò, che pochissimi poveri malati si acconciavano a godere di quel benefizio. Investigando le ragioni del fatto, credette riconoscere che la ragione si fosse questa, che ai poveri dispiaceva ricevere per carità le boccette; che volentieri avrebbero gradito il dono dei medicinali, ma non sapevano risolversi ad aver in elemosina i recipienti. Allora Roberto Darwin fece sapere che avrebbe dato bensì i medicinali gratuitamente, ma che voleva essere pagato delle boccette. Egli assegnava a queste un prezzo insignificante, e i poveri accorrevano numerosi. L'aneddoto è caratteristico tanto del medico quanto del contadino.

Prendo questi, come altri ragguagli, dal giornale inglese Nature che pubblicò nel corrente anno una serie di articoli di varii naturalisti intorno a Carlo Darwin.

La madre di Carlo Darwin discendeva pure da uno stipite nobilissimo; era figlia di Giosuè Wegdwood, quel grande fabbricatore di porcellane che fu artista e scienziato e di cui anche oggi è in tutta Inghilterra popolarissimo il nome. L'eredità, di cui doveva il Darwin studiare tanto accuratamente gli effetti, lo aveva servito bene.

Nato a Shrewsbury addì 12 febbraio 1809, gli furono dati i nomi di Carlo e Roberto, ma quasi sempre egli firmava solo col primo: passò in quella piccola città i suoi primi anni, nella libera vita della campagna, tanto favorevole allo sviluppo dei fanciulli. Frequentò la scuola della città ed ebbe a maestro il reverendo dottore Butler, che fu poi vescovo di Lichfield.

In età di sedici anni Carlo Darwin lasciò Shrewsbury per andare agli studi in Edimburgo. Suo padre lo destinava alla medicina e in Inghilterra si credeva che gli studi medici in quella città si facessero meglio che non altrove. Poi, suo nonno Erasmo aveva studiato medicina in Edimburgo. Ebbe a maestro colà il professore Jameson, che non fu guari contento del suo scolaro; lo dichiarò svogliato degli studi della storia naturale e inetto alla medicina.

Se il maestro era poco contento dello scolaro, lo scolaro non era guari meglio contento del maestro. Dichiarava, in fatto di cognizioni intorno al regno animale, di non essere andato al di là delle volpi e delle pernici e, in quanto a medicina, di non volerne proprio sapere.

Allora il dottore Roberto Darwin deliberò di avviare suo figlio per la carriera ecclesiastica, e lo mandò a Cambridge al collegio del Cristo. Ma egli colà fu preso in breve di tanto amore per la storia naturale che si volse tutto ad essa e non se ne staccò più mai per tutto il rimanente della sua vita.

La cosa avvenne, se dobbiamo credere a ciò che il Darwin stesso afferma, mercè l'opera di un buon maestro, che lo innamorò dello studio della natura e si conquistò in sommo grado la sua affezione e la sua ammirazione, tanto che egli lo amò ardentemente fin che visse e ne conservò poi sempre affettuosissima memoria. Quel maestro era il professore Henslow, che allora aveva lasciato lo insegnamento della mineralogia per assumere quello della botanica, ma era pure valente entomologo e in pari modo geologo valente e, in una parola, versatissimo in ogni ramo della storia naturale.

Il professore Henslow portava seco il Darwin in escursione, lo ammaestrava nello osservare e nel raccogliere, e in breve si destava ardente nel giovane studioso l'amore delle collezioni, segnatamente per la entomologia. Lo stesso Darwin ricordava sovente anche negli ultimi anni della sua vita come il suo nome fosse stato stampato la prima volta quando appunto egli studiava a Cambridge sotto la direzione del professore Henslow, in proposito di un insetto di palude che egli aveva trovato.

Nel giornale inglese Nature, che già ho citato, trovo riferito uno scritto dal Darwin intorno al professor Henslow, che merita di essere testualmente tradotto. Eccolo:

«Andai a Cambridge sul principio dell'anno 1828, e feci subito la conoscenza, per mezzo di un entomologo mio compagno, del professore Henslow, il quale prendeva interessamento e aiutava tutti coloro che si dedicavano a un ramo qualsiasi della storia naturale. Non vi poteva esser nulla di più semplice, cordiale e senza pretese, quanto l'incoraggiamento che egli dava ai giovani naturalisti. Divenni in breve molto intimo con lui, perchè aveva un modo di fare suo proprio, per cui i giovani si sentivano a loro bell'agio in sua compagnia, quantunque fossimo tutti meravigliati della somma di cognizioni che egli possedeva. Prima di conoscerlo, io aveva sentito un giovane riassumere il suo sapere con queste semplici parole:—Egli sa ogni cosa.—Quando rifletto come in breve tempo si diveniva famigliari con un uomo più vecchio, e per ogni verso tanto grandemente superiore a noi, penso che ciò dipendeva tanto dalla somma sincerità del suo carattere, quanto dalla bontà del suo cuore, e forse anche più dal non avere egli per nulla una grande idea del proprio valore. Ci accorgevamo subito che egli non pensava mai alle sue varie cognizioni, o al grande intelletto, ma si occupava solo dell'argomento che stava trattando. Un altro punto del suo carattere tanto simpatico ai giovani si era che il suo modo di fare con una persona alto locata era lo stesso che adoperava col più giovane degli studenti: con tutti la stessa attraente cortesia. Egli mostrava interessamento alla più insignificante osservazione sulla storia naturale e, per quanto assurdo fosse l'errore fatto, egli lo dimostrava con tanta chiarezza e bontà, che si andava via senza provare sconforto, ma deliberati ad essere un'altra volta più attenti e accurati. Cosicchè nessun uomo sapeva meglio di lui guadagnarsi la fiducia dei giovani e animarli a proseguire nelle loro ricerche....

«Durante gli anni in cui fui tanto famigliare col professore Henslow, non vidi mai una volta sola il suo umore alterarsi. Non prendeva mai in mala parte il carattere di alcuno, sebbene fosse tutt'altro che cieco sui difetti degli altri. Mi faceva sempre meraviglia vedere come la sua mente non potesse provare nessun basso senso d'invidia, vanità o gelosia.

«Malgrado questa uguaglianza di carattere, e questa notevole benevolenza, il suo carattere non era insipido. Bisognava esser ciechi per non accorgersi che sotto a quella apparente placidezza vi era una volontà forte e piena di fermezza. Quando si trattava di un principio, nessuna potenza umana avrebbe potuto rimuoverlo di un capello....

«Per ciò che riguarda l'intelletto, per quanto io potessi giudicare, vi predominavano una grande potenza di osservazione, buon senso e criterio molto cauto. Nulla pareva dargli maggiore soddisfazione quanto il trarre conclusioni da osservazioni minute. Ma la sua mirabile memoria sulla geologia di Anglesea ci mostra quanto grande fosse la sua attitudine per osservazioni estese e larghezza di vedute. Riflettendo sul suo carattere con gratitudine e riverenza, i suoi attributi acquistano una preminenza, come segue nei caratteri più elevati, sopra la sua intelligenza.»

Nell'anno 1831 Carlo Darwin conseguì il grado di baccelliere nella Università di Cambridge, e si proponeva di prendere poco dopo quello di maestro nelle arti, che corrisponde a un dipresso alla laurea in filosofia come si dà nelle Università germaniche, ed ebbe fra noi il Gené nella Università di Pavia. Ma sopravvenne una vicenda che gli fece ritardare fino all'anno 1837 quella laurea, e gli anni che trascorsero fra il baccellierato e la laurea ebbero una suprema importanza nella vita e nelle opere del grande naturalista.

Un giorno, nell'autunno dell'anno 1831, il Darwin era in escursione col professore Henslow, e il professore gli tenne il seguente discorso:

—Ho ricevuto questa mattina una lettera del professore Peacock. Questo mio amico mi scrive che il capitano Fitz-Roy sta per imprendere il giro del mondo sopra una nave dello Stato, e che avrebbe caro di avere a bordo un naturalista giovane e valente. Vorreste voi andare?

Carlo Darwin si compiaceva molto della lettura dei libri di Humboldt e vagheggiava i grandi viaggi coll'ardore de' suoi ventidue anni. Accettò di slancio.

Il padre di Carlo Darwin fece qualche obbiezione, perchè non gli pareva che quella fosse per suo figlio la via più corta per arrivare allo stato ecclesiastico cui lo aveva destinato. Tuttavia si arrese in breve.

La nave che doveva fare quel viaggio di circumnavigazione sotto il comando del capitano Fitz-Roy si chiamava il Beagle.

Il capitano Fitz-Roy doveva proseguire l'opera iniziata dal capitano King dall'anno 1826 all'anno 1830. Egli doveva visitare diligentemente la Patagonia e la Terra del fuoco, le spiagge del Chilì e del Perù e alcune isole del Pacifico, e compiere una serie di misure cronometriche intorno al mondo.

Carlo Darwin s'imbarcò, e fu accordato che egli non avrebbe avuto stipendio, ma che sarebbe rimasto padrone delle sue collezioni. Fin d'allora egli si proponeva di dare poi quelle collezioni a pubblici istituti, come realmente fece.

Quel viaggio durò cinque anni, e il Darwin ne raccontò le principali vicende in un volume intitolato: Viaggio d'un naturalista intorno al mondo, che è certamente la cosa più bella che siasi mai fatta in tal genere, sebbene molti naturalisti, diplomatici, viaggiatori di vario genere abbiano pure narrato i loro viaggi in modo non indegno e talora anche degnissimo e per più di un verso piacevole e vantaggioso.

Io ho tradotto questo volume di Carlo Darwin, e le ore che ho consacrato a una tale traduzione le annovero fra le più piacevolmente e nobilmente spese della mia vita. Ho imparato allora ad amare Carlo Darwin, e ciò non può a meno di avvenire a chiunque sia per leggere questo suo libro. La semplicità dell'animo, la bontà del cuore, la finezza del criterio, la rettitudine del giudizio, la vastità delle cognizioni, l'abilità nell'osservare e nel tener conto d'ogni fatto più minuto tanto nel campo delle cose fisiche e naturali quanto in quello più arcano delle passioni umane, il collegare fra loro i varii fatti e segnalare il legame fra gli effetti e le cause, le considerazioni sul passato e i prevedimenti dello avvenire, la maestrevolezza della pittura, la potenza dei tocchi, la brevità mirabile e la mirabile evidenza, la imparzialità in tutto e su tutto, fanno sì che ogni lettore trova in questo libro diletto, ammaestramento, benefizio e sollievo.

Sono trascorsi dieci anni da che mi venne fatta quella traduzione, e in questo decennio, come in tutta la mia vita, non ho avuto guari tempo a gustar la dolcezza di riposarmi col pensiero nel passato. Pure oggi ho quel viaggio nella memoria come quando lo traduceva, e ancora tengo dietro a passo a passo al grande viaggiatore, e sento vivo più che mai l'affetto per lui che non ho mai veduto, con cui non ebbi mai che fare altrimenti che per la lettura e lo studio de' suoi libri; ma il lungo addentrarmi nel suo pensiero, il seguirlo nel suo vagar di spiaggia in spiaggia e più nel pellegrinaggio sublime della mente, mi hanno affezionato a lui per modo che egli ha preso posto nell'animo mio fra le persone più care cui sia mai stata legata la mia esistenza.

II

Il Beagle, salpando da Devonport, lasciò l'Inghilterra il giorno 27 dicembre 1831 e, toccando qualche punto secondario, il giorno 29 febbraio dell'anno 1832 approdava al Brasile, a Bahia, e il giorno 4 aprile a Rio-Janeiro.

Là ebbe il Darwin la prima occasione di fare quello che sempre cercò poi di fare lungo il viaggio, e invero ripetutamente fece, una escursione dentro terra. Un inglese di cui aveva fatto, appena arrivato, la conoscenza, doveva andare a visitare un suo podere, discosto oltre cento miglia dalla città; gli fece l'invito, che molto di buon animo egli accolse, di tenergli compagnia. Partirono addì 8 aprile.

«La giornata, dice egli, era terribilmente calda, e nello attraversare i boschi ogni cosa era immobile, tranne le grandi e splendide farfalle che svolazzavano qua e là. Il paesaggio veduto nell'attraversare le colline dietro Praia Grande era bellissimo; i colori intensi, e la tinta dominante l'azzurro scuro; il cielo e le tranquille acque del golfo splendevano a gara. Dopo di avere attraversato un po' di terra coltivata, entrammo in una foresta, di una maestà al tutto insuperata. Giungemmo a mezzogiorno ad Ithacaia; questo villaggetto è posto in una pianura e intorno alla casa centrale stanno le capanne dei neri. Queste, per la loro forma regolare e per la loro posizione, mi rammentarono i disegni delle abitazioni degli Ottentoti nell'Africa meridionale. Siccome la luna si alzava di buon'ora, determinammo di partire la stessa sera per andare a dormire a Lagra Marica. Mentre andava facendosi buio, passammo sotto uno di quei massicci, nudi e scoscesi dirupi di granito che sono tanto comuni in questo paese. Questo luogo è notevole per essere stato da lungo tempo la dimora di alcuni schiavi fuggiti, i quali, coltivando un pezzetta di terra presso alla cima, riuscirono a sostentarsi. Alla fine furono scoperti, e una compagnia di soldati spedita contro di loro s'impadronì di tutti gli schiavi, salvo una vecchia, la quale anzichè ricadere in schiavitù amò meglio morire precipitandosi dalla rupe. In una matrona romana quest'atto sarebbe stato chiamato amore nobilissimo di libertà; in una povera nera era solo brutale ostinazione. Continuammo a cavalcare per alcune ore. Per le ultime poche miglia la strada era intralciata, e attraversava una landa deserta, sparsa di paludi e di lagune. Il paesaggio veduto al chiaro di luna aveva un aspetto desolatissimo. Alcune poche lucciole svolazzavano accanto a noi; e il beccaccino solitario mandava, spiccando il volo, il suo grido lamentoso. Il lontano mormorio del mare rompeva appena la quiete di quella notte.»

Lo spettacolo della schiavitù contristò profondamente l'animo del Darwin. Più volte egli ne parla e quando, compiuto il viaggio, il Beagle tornò a Rio-Janeiro, al momento di salpare egli ha queste parole:

«Ringrazio Dio di non aver mai più da visitare un paese di schiavi. Fino ad oggi, se sento un gemito lontano, esso mi richiama alla mente con dolorosa verità il senso che provava quando passando vicino a una casa di Pernambuco, udiva gemiti pietosissimi, e non poteva supporre altro che la tortura di qualche povero schiavo, mentre sapeva che io era tanto impotente quanto un fanciullo per fare anche solo una rimostranza. Io sospettava che quei gemiti venissero da qualche schiavo torturato, perchè mi fu detto che questo era il caso in un'altra circostanza.

«Presso Rio-Janeiro io abitava in faccia ad una vecchia signora che aveva uno strumento a vite per schiacciare le dita delle sue schiave. Io ho dimorato in una casa ove un giovane maggiordomo mulatto era giornalmente e ad ogni ora avvilito, battuto e perseguitato per modo da rendere stupido l'animale più basso. Ho veduto un fanciullo di sei od otto anni, colpito tre volte con una frusta (prima che io avessi potuto intervenire) sul capo nudo, per avermi portato un bicchiere d'acqua non ben pulito; vidi il padre di quel bimbo tremare ad una occhiata del padrone. Fui testimonio di queste ultime crudeltà in una colonia spagnuola, nella quale si è sempre detto che gli schiavi son meglio trattati che non dai Portoghesi, dagli Inglesi, e da altre nazioni europee. Ho veduto a Rio-Janeiro un nero robusto spaventato ripararsi da uno schiaffo che credeva rivolto alla sua faccia. Era presente quando un uomo molto compassionevole stava in procinto di separare per sempre gli uomini, le donne, i bimbi di un gran numero di famiglie che da lungo tempo eran vissuti insieme. Non menzionerò neppure le molte dolorose atrocità che ho udito menzionare da fonti autentiche; nè avrei riferito i rivoltanti particolari suddetti, se non avessi incontrato certe persone, le quali, accecate dalla indole naturalmente allegra del nero, parlano della schiavitù come di un male sopportabile. Quelle persone hanno frequentato in generale le case delle classi più agiate, ove per solito i domestici schiavi sono trattati bene; e non hanno vissuto al pari di me fra le classi inferiori. Cosifatti investigatori chiedono ragguagli agli schiavi intorno alla loro condizione; essi dimenticano che lo schiavo deve essere ben stupido se non calcola la conseguenza che può avere la sua risposta se venisse all'orecchio del padrone.

«Si è detto che l'interesse proprio può impedire una eccessiva crudeltà; come se l'interesse proteggesse i nostri animali domestici, che son molto lontani dal somigliare a schiavi degradati nel destare la rabbia dei loro selvaggi padroni. È un argomento contro il quale da lungo tempo ha protestato con nobile sentimento, e con esempi notevolissimi, il sempre illustre Humboldt. Si è cercato spesso di palliare la schiavitù comparando lo stato degli schiavi con quello dei nostri più poveri contadini; se la miseria dei nostri poveri non fosse cagionata dalle leggi della natura, ma dalle nostre istituzioni, il nostro peccato sarebbe grande; ma non vedo come questo abbia rapporto colla schiavitù; sarebbe come se per difendere l'uso delle tanaglie per stritolare le dita in un paese, si dicesse che in un altro gli uomini vanno soggetti a qualche terribile malattia. Coloro che considerano con tanta benevolenza il padrone, e con tanta freddezza lo schiavo, non si sono mai messi nei panni di quest'ultimo—quale desolato avvenire, senza neppure la speranza di un mutamento! Immaginatevi la probabilità, che sempre vi sta sul capo, di vedere vostra moglie e i vostri bambini—che anche allo schiavo la natura dà il diritto di chiamare suoi propri—strappati dal vostro petto e venduti come animali al primo offerente! E questi fatti sono compiuti e sostenuti da uomini che professano di amare il loro prossimo come loro stessi, che credono in Dio, e dicono pregando che la Sua volontà sia fatta su questa terra! Fa bollire il sangue, tremare il cuore, il pensiero che noi inglesi ed i nostri discendenti americani, col loro vantato grido di libertà, abbiano compiuto e compiano ancora simili delitti; ma è una consolazione pensare, che noi almeno abbiamo fatto un sagrifizio maggiore, non mai fatto da nessuna altra nazione, per espiare il nostro delitto.»

In quelle prime sue gite nello interno del Brasile, poco dopo l'approdo, imbattutosi per avventura in una discreta venda, o locanda, dice:

«Siccome la venda era qui molto buona ed io ho la piacevole, sebbene rara, rimembranza di un eccellente desinare, mi mostrerò riconoscente, e la descriverò come tipo della sua classe. Queste case sovente sono grandi e fabbricate con pali spessi, diritti, con intreccio di ramoscelli e quindi intonacate. Di rado hanno un pavimento, e non mai finestre a vetri, ma per lo più hanno un tetto ben fatto. Generalmente la facciata è aperta, e forma una sorta di veranda, nella quale sono allogate tavole e panche. Le stanze da letto stanno ai due lati, e là il viaggiatore può dormire comodamente quanto gli è possibile, sopra una piattaforma di legno, coperta di un sottile materasso di paglia. La venda è posta in un cortile, ove mangiano i cavalli. Appena arrivati solevamo toglier via la sella ai nostri cavalli e dar loro del grano indiano; poi, dopo un leggero inchino, domandare al senore di favorirci qualche cosa da mangiare.—Tutto ciò che volete signori,—era la risposta consueta. Per le prime volte io ringraziava a torto la Provvidenza di averci condotti da un uomo tanto buono. Mentre la conversazione continuava, il caso diveniva costantemente deplorevole.—Potreste favorirci un po' di pesce?—Oh! no, signore.—Un po' di minestra?—Oh! no, signore.—Un po' di pane?—Oh! no, signore.—Un po' di carne secca?—Oh! no, signore.—Quando eravamo fortunati, dopo aver aspettato un paio d'ore, si otteneva qualche pollo, un po' di riso e farina. Non di rado accadeva che eravamo obbligati ad uccidere a sassate il pollame per la nostra cena. Allorchè, sfiniti al tutto dalla stanchezza e dalla fame, osavamo timidamente esporre il nostro desiderio di aver presto la cena, l'altera, e (sebbene vera) poco soddisfacente risposta era:—Sarà pronto quando sarà pronto.—Se avessimo ardito d'insistere ancora, ci avrebbero detto di continuare il nostro viaggio, siccome troppo impertinenti. Gli osti hanno modi sommamente sgarbati e spiacevoli; le loro case e la loro persona sono spesso molto sucide; è comune la mancanza di forchetta, di coltelli e di cucchiai; e son certo che non si trova una capanna o un tugurio in Inghilterra tanto sprovvisto di comodità. Tuttavia a Campos Novas fummo trattati sontuosamente; pel desinare ci vennero ammanniti polli, riso, biscotto, vino, liquori; caffè alla sera, e pesce e caffè per la colazione. Tutto questo, compreso un buon nutrimento pei cavalli, ci costò solo due scellini e mezzo a testa. Tuttavia l'oste di quella venda, essendogli stato chiesto se sapeva dirci qualche cosa di una frusta perduta da uno della compagnia, rispose sgarbatamente:—Che cosa posso sapere io? perchè non ci avete badato? Credo che i cani l'abbiano mangiata.—»

Il Beagle doveva passar due anni nella esplorazione delle coste meridionale e occidentale al sud della Plata. Ciò diede campo al Darwin a rimanere a lungo in quelle contrade. Da Maldonado fece una escursione al fiume Polianco, dove trovò superata la sua aspettazione rispetto alla ignoranza di quelle genti, da cui, per la loro agiatezza, il viaggiatore si potrebbe aspettare qualche cosa di meglio. Egli era lì come un essere per ogni rispetto straordinario, e destava sovratutto meraviglia una bussola che egli teneva in tasca. Ecco in qual modo parla di ciò:

«In tutte le case mi chiedevano di mostrar loro la bussola, e con quella ed una carta geografica segnare la direzione dei varii luoghi. Destava una viva ammirazione vedere che io, al tutto estraneo, potessi conoscere la strada (perchè la direzione e la strada sono sinonimi in quella ampia regione) verso luoghi ove non era mai stato. In una casa una giovane donna, ammalata in letto, mi mandò a pregare di andarla a trovare per mostrarle la bussola. Se la loro sorpresa era grande, la mia era ancor maggiore nel trovare una tale ignoranza in persone che posseggono migliaia di capi di bestiame ed estancias estesissime. Questo non si può attribuire ad altro se non al fatto che quella parte così remota di paese è visitata raramente dagli stranieri. Mi fu domandato se sia la terra o il sole che si muova; se al nord faccia più caldo o più freddo; dove sia la Spagna, e molte altre domande di questa sorta. La maggior parte degli abitanti aveva un'idea indistinta che l'Inghilterra, Londra e l'America settentrionale siano paesi separati ma confinanti, e che l'Inghilterra sia una grande città di Londra. Io portava con me alcuni zolfanelli, cui accendeva mordendoli; sembrava così meraviglioso che un uomo potesse far fuoco coi denti, che per solito si riuniva tutta la famiglia per vedere questo fatto; mi fu una volta offerto un dollaro per farlo. Il lavarmi la faccia al mattino destò grande stupore nel villaggio di Las Minas; uno dei principali mercanti mi fece molte domande intorno a una pratica così singolare, ed anche perchè portassimo la barba a bordo, cosa che aveva udito raccontare dalle nostre guide. Egli mi guardò con molta diffidenza; forse aveva sentito parlare delle abluzioni della religione maomettana, e, sapendomi eretico, ne concluse probabilmente che tutti gli eretici siano turchi. È costume generale in questo paese di chiedere l'alloggio per la notte nella prima casa all'uopo. La meraviglia della bussola, ed altri miei fatti da prestigiatore, mi erano fino a un certo punto vantaggiosi, perchè con ciò, e colle lunghe storie che narravano le mie guide del mio spaccare sassi, delle mie cognizioni intorno ai serpenti innocui e velenosi, della raccolta che faceva d'insetti ecc., io li ripagava della loro ospitalità. Scrivo come se fossi stato in mezzo agli abitanti dell'Africa centrale; Banda Oriental non sarebbe molto lusingata dal paragone; ma allora i miei sentimenti erano questi.»

La vita dei gauchos, il modo in cui adoperano il lazo e le bolas, si descrivono maestrevolmente dall'autore, che parla poi a lungo della lotta fra gl'indiani e i bianchi, e della parte che aveva al tempo del suo viaggio il generale Rosas nelle vicende della sua patria.

La lotta fra i bianchi e gli indiani è lotta di esterminio, e sono, naturalmente, gli indiani quelli che hanno la peggio.

A Bahia Blanca un cotale raccontava al Darwin come un indiano inseguito gli domandasse misericordia, mentre nascostamente si scioglieva le bolas dalla cintura per slanciargliele alla testa; poi soggiunse:

«Ma io lo atterrai con un colpo di sciabola, e poi, sceso da cavallo, gli tagliai la gola col coltello.»

Soggiunge il Darwin:

«È questa una scena terribile; ma quanto più tremendo è il fatto certissimo che tutte le donne le quali sembrano avere più di venti anni vengono massacrate a sangue freddo! Quando io diceva che questo mi pareva piuttosto inumano, mi si rispose:—Come si fa? sono tanto feconde!—»

Vide là il Darwin due fanciulle spagnuole di meravigliosa bellezza, che i bianchi, in uno scontro cogli indiani, avevano prese prigioniere; quelle fanciulle erano state nella infanzia rapite ai genitori; non ricordavano più nulla nè della famiglia nè della lingua in cui avevano detto le prime parole.

«Quattro uomini in un combattimento fuggirono insieme; vennero inseguiti, uno fu ucciso, tre presi vivi; si trovò che erano messaggeri o ambasciatori di un grosso corpo d'indiani, uniti per la difesa comune presso le Cordigliere. La tribù alla quale erano stati mandati stava per tenere un gran consiglio; il festino di carne di cavallo era apparecchiato e il ballo pronto; il mattino dopo i messaggeri dovevano ritornare alle Cordigliere. Erano uomini notevolmente belli, di carnagione chiara, alti 1 metro e 80 circa, e tutti in età di 30 anni. I tre superstiti erano naturalmente bene informati, e per farli parlare furono posti in fila. I due primi essendo interrogati risposero nosè (non so), e fucilati l'uno dopo l'altro. Il terzo disse pure nosè, soggiungendo:—Sparate, sono uomo e posso morire!—Non dissero sillaba che potesse recar danno alla causa del loro paese! La condotta del sopra menzionato cacico fu ben diversa; salvò la vita svelando il piano di guerra concertato e il punto di unione nelle Ande.»

Ecco in qual modo il Darwin racconta l'eccidio di una tribù d'indiani e il modo in cui un vecchio cacico riuscì a salvarsi.

«Quando le truppe vi giunsero per la prima volta, vi trovarono una tribù d'indiani, dei quali ne uccisero una ventina o una trentina. Il cacico si salvò in modo meraviglioso. I capi indiani hanno sempre uno o due cavalli legati che tengon pronti per ogni occasione urgente. In una di queste il cacico balzò sopra un vecchio cavallo bianco prendendo con sè un suo bambino. Il cavallo non aveva nè sella nè briglia. Per sfuggire alle palle l'indiano cavalcava nel modo particolare alla sua nazione; vale a dire tenendo un braccio al collo del cavallo e con una gamba sola sul dorso. Sospeso in tal modo, egli accarezzava il capo del cavallo e gli parlava. I persecutori fecero ogni sforzo nella caccia; il comandante mutò tre volte il cavallo, ma invano; il vecchio indiano col suo figlio furono liberi.

«Che bel quadro ci possiamo formare nella mente: la nuda ed abbronzata figura del vecchio indiano col suo bambino, cavalcando come Mazzeppa sopra un cavallo bianco, lasciando lontano l'orda dei persecutori!»

Il Darwin fece per via di terra tutto il lungo tragitto da Bahia Blanca a Buenos-Ayres, e all'ultima stazione ecco quanto gli avvenne:

«A sera cadde una pioggia dirotta; arrivati alla casa di posta, il proprietario ci disse che se non avessimo avuto un passaporto in piena regola, noi avremmo dovuto continuare la nostra strada perchè vi erano tanti ladri da non prestar fede più ad alcuno. Quando lesse però il mio passaporto, che cominciava con queste parole:—El naturalista Don Carlos,....—il suo rispetto e la sua cortesia non ebbero limiti come prima i suoi sospetti erano stati illimitati. Di ciò che sia un naturalista nè lui nè i suoi compatriotti non hanno, credo, neppure l'idea; ma probabilmente il mio titolo non perdette per questo nulla del suo valore.»

In una escursione da Buenos-Ayres a Santa Fè dovette il Darwin passare due giorni a letto per mal di capo, e ciò gli porse modo di avere un concetto della medicina del paese.

«Una buona vecchia che mi accudiva, mi consigliò di provare molti singolari rimedii. È qui una pratica comune il legarsi una foglia di arancio, o un pezzetto d'impiastro nero, sopra le tempia; ed è ancora più comune spaccare una fava in due, inumidirne le due metà e metterle sopra ogni tempia, ove aderiscono agevolmente. Non si crede bene di toglier via le fave o gli impiastri, ma si lascia che cadano da loro, e talvolta se si domanda ad un uomo che cosa siano quegli oggetti appiccicati sulla sua testa risponde:—Ho avuto mal di capo due giorni fa.—Molti dei rimedii adoperati dalle genti della campagna sono stranamente ridicoli, ma troppo disgustosi per essere menzionati. Uno dei meno nauseanti è quello di uccidere e spaccare due cagnolini e fasciarli da ogni lato di un membro rotto. I piccoli cani senza pelo sono molto ricercati per farli dormire sui piedi degli ammalati.»

In quella escursione rischiò il Darwin di rimaner prigioniero e non fu senza difficoltà che riuscì a potersene andare. Egli esprime così la sua contentezza.

«Una città bloccata deve essere sempre un luogo di dimora poco piacevole; in quel caso poi vi erano sempre da temere i briganti interni. Le sentinelle erano le più da temersi, perchè pel loro ufficio e per aver le armi in mano rubavano con un grado d'autorità che gli altri uomini non potevano assumere.»

Procedendo nella Banda Oriental, verso Mercedes sul Rio Negro, domandò il Darwin una sera l'ospitalità in un podere presso cui era arrivato. Dice che quel possedimento era uno dei più vasti, che il padrone di esso era uno dei più ricchi possidenti del paese, che il nipote del padrone ne aveva allora il governo e la sera in cui egli giunse colà vi si trovava pure un capitano dell'esercito fuggito pochi giorni prima da Buenos-Ayres. Poi parlando di quei signori prosegue così:

«Considerata la loro posizione sociale, i loro discorsi erano assai divertenti. Al solito mostravano una illimitata meraviglia della rotondità del globo, e non potevano quasi credere che un buco fatto nella terra sufficientemente profondo, verrebbe a riuscire dall'altra parte. Tuttavia avevano sentito parlare di un paese, ove vi erano sei mesi di luce e sei mesi di buio, e dove gli abitanti erano altissimi e sottilissimi. Erano molto curiosi di conoscere il prezzo e la condizione delle bovine e dei cavalli in Inghilterra. Avendo udito che non prendevamo il nostro bestiame col lazo, esclamarono:—Ah! dunque adoperate soltanto le bolas?—L'idea di un paese con recinti era al tutto nuova per essi. Finalmente il capitano mi disse che aveva da farmi una domanda e che mi sarebbe stato molto grato se avessi voluto rispondergli con piena veracità. Tremai pensando quanto profondamente scientifica doveva essere quella domanda; ed era:—Se le signore di Buenos-Ayres non erano le più belle del mondo.—Io risposi, come un rinnegato:—Precisamente così.—Egli soggiunse:—Io ho un'altra domanda;—Le signore in qualche altra parte del mondo portano pettini così alti?—Io con grande solennità lo assicurai di no. Questo fece loro un grande piacere. Il capitano esclamò:—Vedete! un uomo che ha visitato mezzo mondo dice che questo è il caso; noi lo abbiamo sempre creduto, ma ora ne siamo certi.—Il mio eccellente giudizio intorno ai pettini ed alla bellezza mi procurò il più ospitaliero ricevimento; il capitano mi obbligò a prendere il suo letto, ed egli dormì sul suo recudo.»

In sul finire del mese di novembre dell'anno 1833, lasciando la Plata per veleggiare verso la Patagonia, il Darwin fa, intorno a quella gente che sta per lasciare, queste considerazioni:

«Durante gli ultimi sei mesi ebbi l'opportunità di studiare alcun poco l'indole degli abitanti di quelle provincie. I gauchos, o campagnuoli, sono molto superiori a quelli che dimorano nelle città. Il gaucho è invariabilmente più cortese, più educato, più ospitale; non ho mai incontrato un caso di inospitalità o di scortesia. Egli è modesto, rispetta se stesso e il paese, ma nello stesso tempo è ardito e spiritoso. D'altra parte si commettono molti furti e molti omicidii; l'uso di portar sempre il coltello è la causa principale di questi ultimi. È penoso sentire quante vite umane si perdono in dispute insignificanti. Nel combattimento, ogni avversario cerca di segnar l'altro nel volto ferendolo sul naso o negli occhi, come spesso è dimostrato da profonde e orribili cicatrici. I furti sono una conseguenza naturale dell'uso comune di giuocare, di bere molto e della somma indolenza. A Mercedes domandai a due uomini perchè non lavorassero. Uno mi rispose con somma gravità che i giorni erano troppo lunghi; l'altro che egli era troppo povero. Il numero dei cavalli e l'abbondanza del cibo sono la distruzione di ogni industria. Inoltre vi sono molti giorni festivi; poi nulla può riuscire se non è cominciato quando la luna cresce, per cui la metà del mese si perde per queste due ragioni.

«La polizia e la giustizia sono al tutto insufficienti. Se un uomo povero commette un omicidio ed è preso, sarà messo in prigione e forse fucilato; ma se è ricco ed ha amici, può esser tranquillo che non incontrerà alcuna pena. È cosa curiosa che gli abitanti più rispettabili del paese aiutano l'assassino a fuggire. Sembrano credere che l'individuo pecchi contro il Governo e non contro le persone. Un viaggiatore non ha altra protezione che le sue armi da fuoco, e l'uso costante di portarle è l'unico ostacolo a più frequenti ruberie.

«Il carattere delle classi più alte e più educate che dimorano nelle città, partecipa, ma forse in un grado minore, delle buone qualità del gaucho, ma temo sia macchiato da molti vizii di cui quello va immune. La sensualità, lo scherno di ogni religione, la più grossolana corruzione non sono al tutto insoliti. Quasi ogni funzionario pubblico può essere comperato. Il capo dell'uffizio postale vendeva franchi governativi falsificati. Il governatore e il primo ministro si accordano apertamente per saccheggiare lo Stato. La giustizia, quando il danaro entra in giuoco, non esiste più. Conosco un inglese, il quale andò dal primo giudice cui disse che, non conoscendo gli usi del paese, tremava entrando nella stanza, e soggiunse:—Signore, vengo ad offrirvi duecento dollari (di carta del valore circa di 125 franchi), se volete far arrestare prima di un certo tempo un uomo che mi ha truffato. So che questo è contro la legge, ma il mio avvocato (e lo nominò), mi ha raccomandato di fare questo passo!—Il primo giudice aderì e sorridendo lo ringraziò, e l'uomo prima di notte era in prigione. Con questa assoluta mancanza di principii nella maggior parte dei governanti, col paese pieno di ufficiali turbolenti e mal pagati, il popolo spera tuttavia che una forma democratica di governo possa riuscire! Penetrando per la prima volta nella società di questi paesi due o tre particolarità colpiscono come singolarmente notevoli. I modi cortesi e dignitosi che s'incontrano in ogni classe, il buon gusto delle donne nei loro abbigliamenti, e l'uguaglianza di tutte le classi. Al Rio Colorado alcuni piccoli bottegai solevano pranzare col generale Rosas. Il figlio di un maggiore a Bahia Blanca si guadagnava la vita facendo carta per sigaritos, e si offerse per accompagnarmi, come guida e servitore, a Buenos-Ayres; ma suo padre non acconsentì per timore del pericolo. Molti ufficiali dell'esercito non sanno nè leggere nè scrivere, tuttavia stanno nella società come uguali agli altri. In Entre Rios, la Camera non è composta che di sei deputati. Uno di essi aveva una botteguccia, ed evidentemente non si credeva degradato per questo. Tuttavia ciò è naturale in un paese nuovo; nondimeno, la mancanza di gentiluomini di professione sembra ad un inglese alquanto strana.

«Quando si parla di queste regioni, il modo in cui sono state allevate dalla loro snaturata madre, la Spagna, deve essere sempre presente alla mente. Nel complesso forse, si deve dare maggior lode per quello che è stato fatto, che non biasimo per quello che manca ancora. È impossibile porre in dubbio che l'estrema libertà di questi paesi non debba infine produrre buoni effetti. Il modo stesso con cui sono generalmente tollerate le religioni straniere, l'attenzione che si porta ai mezzi di educazione, la libertà della stampa, le agevolezze offerte a tutti i forestieri, e, specialmente, mi sia permesso aggiungere, ad ognuno che professi le più piccole pretese alla scienza, debbono essere ricordate con gratitudine, da coloro che hanno visitato le provincie spagnuole del Sud America.»

III

In faccia alle pianure sterminate della Patagonia, un ufficiale del Beagle domandava al Darwin da quanti secoli quelle pianure fossero nello stato in cui le vedevano, per quanti secoli ancora sarebbero state per durare in tal modo. Il naturalista rispose colle parole del poeta Shelley:

Nissuno sa. Tutto ora sembra eterno. Parla il deserto un suo linguaggio arcano Che insegna dubbi spaventosi....

La immobilità e il dubbio colpirono il giovane naturalista in quelle terre desolate soprattutto nel contemplare il proprio simile, l'uomo, in così miseranda condizione e fuori d'ogni progresso.

Quando nella Terra del Fuoco il Darwin vide per la prima volta quegli indigeni, non poteva dar fede ai proprii occhi.

«Non potevo credere che la differenza fra l'uomo selvaggio e l'uomo incivilito fosse tanto grande; essa è maggiore ancora di quella che passa fra l'animale domestico e l'animale selvatico, per la ragione che nell'uomo v'ha una più grande potenza di miglioramento. L'oratore principale era vecchio, e pareva essere il capo della famiglia; gli altri erano giovani robusti, alti circa un metro e ottanta centimetri. Le donne e i bambini erano stati mandati via. Questi abitatori della Terra del Fuoco sono una razza molto differente da quei rachitici, meschini, miserabili che stanno più all'occidente; e sembrano più strettamente affini ai famosi Patagoni dello stretto di Magellano. Il loro unico vestimento consiste in un mantello fatto colla pelle del guanaco, colla lana al di fuori; lo portano gettato sulle spalle, lasciando le loro persone tanto coperte quanto scoperte. La loro pelle è di color rame rosso sudicio. Il vecchio aveva una rete di piume bianche intorno al capo, che in parte tenevano indietro la sua nera, ruvida e arruffata capigliatura. Il suo volto era attraversato da due larghe striscie trasversali; una tinta di un bel rosso brillante andava da un orecchio all'altro inchiudendo il labbro superiore; l'altra, bianca di calce, si estendeva sopra e parallelamente alla prima, per cui anche le sue palpebre erano in tal modo colorite. Gli altri due uomini erano adorni di righe di polvere nera fatta con carbone. Tutta la comitiva rassomigliava molto ai demonii che vengono rappresentati in opere come il Freischutz.

«Il loro aspetto era basso e triviale, e l'espressione del loro volto era la diffidenza, la sorpresa, e lo sgomento. Dopo che noi avemmo loro regalato qualche pezzo di panno scarlatto, che si ravvolsero immediatamente intorno al collo, si fecero subito famigliarissimi. Il vecchio mostrava ciò battendosi sul petto colla mano, mandando un suono chiocciante, come fanno alcuni quando danno da mangiare ai pulcini. M'incamminai col vecchio, e questa dimostrazione d'amicizia fu ripetuta parecchie volte; e fu conchiusa con tre forti percosse che mi furono date sul petto e sul dorso contemporaneamente. Egli allora si scoperse il petto onde potessi rendergli il complimento, ciò che feci con sua grande soddisfazione. Il linguaggio di questo popolo, secondo le nostre nozioni, non merita quasi il nome di articolato. Il capitano Cook lo ha paragonato al suono che fa un uomo rischiarandosi la voce; ma certamente nessun europeo si è mai rischiarato la voce mandando suoni così aspri, gutturali e chioccianti. Sono eccellenti mimi; appena qualcheduno di noi tossiva o sbadigliava, o faceva un qualche movimento strano, essi immediatamente lo imitavano. Taluno della nostra comitiva cominciò a guardar biecamente e far smorfie; ma uno dei giovani indigeni (il volto del quale era tinto di nero, tranne una striscia attraverso agli occhi) riuscì a far smorfie ancor più brutte. Ripetevano correttissimamente qualunque parola di ogni frase che noi rivolgevamo loro, e per un certo tempo si ricordavano quelle parole. Tuttavia noi europei sappiamo quanto sia difficile distinguere bene i suoni di un linguaggio forestiero. Chi di noi, per esempio, potrebbe tener dietro ad un indigeno americano in una frase che avesse più di tre vocaboli? Tutti i selvaggi sembrano avere in un grado non comune questa facoltà d'imitazione. Mi fu detto, quasi colle stesse parole, che questo curioso costume esiste fra i cafri; parimente gli australiani sono da un pezzo conosciuti per la facoltà che hanno d'imitare e di descrivere l'andatura di taluno in modo da farlo riconoscere. Come si può spiegare questa facoltà? È dessa una conseguenza di maggiore acutezza nei sensi, comune a tutti gli uomini nello stato selvaggio, paragonati con quelli degli uomini civili?»

Della parte occidentale della Terra del Fuoco era anche più miserando lo spettacolo che gl'indigeni presentavano al navigante.

«Un giorno, dice il Darwin, mentre andavamo a terra presso l'isola Wollaston, passammo vicino a una barchetta con sei indigeni. Queste erano le creature più abbiette e miserabili che io avessi mai vedute. Sulla costa orientale, gli indigeni, come abbiamo detto, hanno vestimenta di guanaco, e sulla costa occidentale posseggono pelli di foca. Fra queste tribù centrali gli uomini generalmente hanno una pelle di lontra, o qualche simile cencio largo appena come un fazzoletto, che non basta quasi a coprir loro le spalle fino ai lombi. È tenuto con cordicelle che attraversano il petto, e secondo la parte d'onde soffia il vento è fatto girare da un lato all'altro. Gli indigeni della barchetta erano al tutto nudi, e anche nuda era una donna che si trovava con essi. Pioveva dirottamente, e l'acqua dolce unita alla salata loro sgocciolava sul capo. In un altro porto non molto lontano, una donna, che allattava un bambino nato da poco tempo, venne un giorno vicino alla nave e vi rimase un certo tempo per semplice curiosità, mentre il nevischio cadeva e s'induriva sul suo petto nudo e sulla pelle del suo nudo bambino! Questa povera gente appariva stentata nel crescere, i suoi orridi volti erano imbrattati di pitture bianche, la pelle sucida e untuosa, i capelli arruffati, la voce discorde e i gesti violenti. Guardando quella sorta di uomini non si poteva quasi credere che fossero nostri simili e abitanti dello stesso mondo. È argomento comune di congettura pensare quale piacere possano godere nella vita gli animali inferiori: quanto più ragionevolmente si potrebbe fare la stessa domanda rispetto a questi barbari! La notte, cinque o sei esseri umani, nudi e appena protetti dal vento e dalla pioggia di questo tempestoso clima, dormono sul terreno umido raggomitolati come bestie. Quando l'acqua è bassa, d'inverno o di estate, di notte o di giorno essi debbono alzarsi per staccare le conchiglie dalle rocce; e le donne allora si tuffano per raccogliere ricci di mare, oppure stanno pazientemente nelle loro barche e con una lenza adescata senz'amo, fanno saltar fuori i pesciolini con una sferzata. Se una foca viene uccisa, o il carcame galleggiante di una balena putrefatta viene scoperto, allora si fa festa; a questo miserabile cibo vengono aggiunte alcune insipide bacche e funghi.

«Sovente soffrono la fame; ho udito il signor Low, navigatore maestro, il quale conosce intimamente gl'indigeni di questo paese, dare una curiosa relazione dello stato di cento cinquanta indigeni della costa occidentale, i quali erano magrissimi e in grande miseria. Una serie di uragani aveva impedito alle donne di raccogliere molluschi sulle rocce, ed essi non potevano uscire colle barche per prender foche. Una piccola brigata di questi uomini partì per un viaggio, e gli altri indigeni gli dissero che erano andati per un viaggio di quattro giorni in cerca di cibo; al loro ritorno Low andò a incontrarli, e li trovò eccessivamente stanchi; ogni uomo portava un gran pezzo quadro di balena imputridita con un buco nel mezzo, pel quale avevano passato la loro testa, come fanno i gauchos nei loro mantelli. Quando il pezzo di balena era in un wigwam, un vecchio lo tagliava in fette sottili, e brontolandovi sopra le faceva arrostire per un minuto, e le distribuiva alla famelica brigata, che durante questo tempo conservava un profondo silenzio. Il signor Low crede che quando una balena vien gettata sulla sponda, gli indigeni ne seppelliscono grossi pezzi nella sabbia per adoperarli poi in tempo di carestia; e un fanciullo indigeno che egli aveva a bordo trovò una di queste provviste sepolte. Le differenti tribù quando fanno guerra sono cannibali. Secondo concorrente testimonianza del fanciullo preso dal signor Low e di Jemmy Button, è certamente vero che quando in inverno sono stretti dalla fame, uccidono e divorano le loro vecchie donne prima di uccidere i loro cani; il fanciullo al quale il signor Low domandò perchè facessero questo, rispose:—I cani prendono le lontre; le vecchie no.—Questo fanciullo descriveva il modo in cui sono uccise, essendo tenute sopra il fumo e in tal modo soffocate; egli imitava per scherzo le loro grida, e descriveva le parti del corpo che sono considerate migliori da mangiare. Per quanto orribile debba essere la morte ricevuta dalle mani degli amici e dei parenti, i terrori delle vecchie quando la fame comincia a farsi sentire sono ancora più dolorosi da immaginare; ci fu detto che sovente esse fuggono via nei monti, ma che sono inseguite dagli uomini e ricondotte indietro per essere macellate nelle loro proprie case!

«Le varie tribù non hanno nessun governo e nessun capo; tuttavia ognuna è circondata da altre tribù nemiche che parlano differenti dialetti, e sono separate fra loro soltanto da una landa deserta o da un territorio neutrale: la causa della loro guerra sembra essere il modo di sostentamento. Il loro paese è una massa rotta da aspre rocce, da alte colline e da intatte foreste, e queste si vedono in mezzo alle nebbie e alle infinite burrasche. La terra abitabile è ridotta ai ciottoli della spiaggia; per cercarsi il cibo essi sono obbligati a girare continuamente da un luogo all'altro, e la costa è così scoscesa che non possono muoversi se non nelle loro miserabili barchette. Non possono conoscere il piacere di avere una casa ed ancor meno quello degli affetti domestici; perchè il marito è per la moglie padrone brutale di una laboriosa schiava. Si vide mai un fatto più mostruoso di quello che vide Bynoe, di una povera madre che raccolse il suo bambino morente e coperto di sangue, che il marito aveva spietatamente slanciato contro le rocce per aver lasciato cadere un cestino di ricci di mare! Quanto poco possono le più alte facoltà della mente venir poste in giuoco! che cosa vi è qui perchè l'immaginazione possa dipingere, perchè la ragione possa comparare, perchè il giudizio possa decidere? Staccare una conchiglia dalla roccia non richiede la più piccola maestria, il più piccolo lavoro mentale. La loro abilità può essere per alcuni rispetti comparata agli istinti degli animali; perchè non è migliorata dalla esperienza; la barchetta, l'opera loro più ingegnosa, per quanto povera, è rimasta la stessa, come vediamo da Drake, durante questi ultimi duecento cinquanta anni. Osservando questi selvaggi si può domandare: d'onde sono venuti? Che cosa può aver tentato, o qual mutamento può avere obbligato una tribù di uomini ad abbandonare le belle regioni del nord, a scendere le Cordigliere, la spina dorsale dell'America, a inventare e fabbricare barche che non sono adoperate dalle tribù del Chilì, del Perù e del Brasile, e poi entrare in una delle più inospitali contrade del mondo? Quantunque queste riflessioni debbano a prima vista occupare la mente, possiamo esser certi che sono in parte erronee. Non vi è ragione per credere che gli abitatori della Terra del Fuoco diminuiscano di numero; perciò dobbiamo supporre che godano di una certa tal quale felicità, qualunque essa possa essere, che rende loro cara la vita. La natura facendo l'abitudine onnipotente, e i suoi effetti ereditarii, ha reso l'abitatore della Terra del Fuoco acconcio al clima e alle produzioni del suo miserabile paese.»

Tre indigeni della Terra del Fuoco, un uomo adulto, un giovinetto e una giovinetta, s'erano imbarcati sul Beagle in Inghilterra. Il capitano Fitz-Roy era già stato una volta, nel 1826, in quelle regioni, aveva portato con sè quelle persone, le aveva fatte ammaestrare e quanto meglio fosse possibile incivilire, e le riportava ora a casa loro. Lo studio fisico e morale che fa il Darwin di quei fuegiani a bordo insieme agli inglesi, e i fatti che racconta seguiti dopochè essi furono riportati a casa loro, costituiscono uno dei brani più piacevoli e ammaestrativi di questo suo libro che io non so ripetere abbastanza quanto per ogni verso sia ammaestrativo e piacevole.

Prima di lasciare l'Oceano Atlantico per passare nel Pacifico, per due volte il Beagle approdò alle isole Falkland, e il Darwin, secondo il suo consueto, fece lunghe e fruttuose escursioni nell'interno, e la parte del suo viaggio che si riferisce a questo arcipelago non è meno delle altre ricca di cognizioni importanti e di giusti apprezzamenti sull'uomo e sulla natura.

IV

Valparaiso val quanto dire Valle del Paradiso. Ciò basta a far comprendere quanto debba essere attraente la regione cui venne dato un tal nome. Ma quanto più doveva riuscire attraente ai naviganti che vi avevano approdato col Beagle, venendo dalle spiagge desolate della Patagonia.

Quella lunga striscia di terra che ha da tergo le Cordigliere e davanti i flutti ora carezzevoli ora furiosi dell'Oceano Pacifico rammenta, fatto il ragguaglio dal grande al piccolo, quella striscia di terra tanto bella e cara fra noi, bagnata dal mare e sovrastata dall'Appennino, che è la Liguria.

Come aveva fatto dalla parte dell'Atlantico, così pure il Beagle doveva fare dalla parte del Pacifico, uno studio diligente delle spiaggie dell'America meridionale. Perciò veleggiando per oltre un anno andò su e giù lungo la costa del Chilì e anche a quella del Perù esplorando arcipelaghi, isole, seni e porti. Come aveva fatto dall'altra parte, il Darwin colse anche qui ogni opportunità che gli si offerisse, sempre secondato dal degno comandante del Beagle, per visitare le terre e farvi dentro lunghe, e talora lunghissime escursioni.

Le fatiche di queste escursioni furono così grandi che alla fine di una di esse, trascinandosi con molta pena gli ultimi giorni, arrivato a Valparaiso il giorno 27 settembre 1834 dovette subito mettersi a letto e vi rimase fino alla fine del mese di ottobre. Un inglese, il signor Corfield, gli fu largo di una ospitalità della quale egli si ricordò sempre poi con animo gratissimo.

Il Darwin trovò nel Chilì un qualche maggior grado di incivilimento e nota la differenza fra i guasos e i gauchos.

«I guasos del Chilì, che corrispondono ai gauchos dei Pampas, ne sono tuttavia ben diversi. Il Chilì è il più civile dei due paesi, e per conseguenza gli abitanti hanno perduto gran parte del loro carattere individuale. Le distinzioni di classi sono molto più fortemente segnate; il guaso non considera per nulla ogni uomo come suo eguale, ed io fui molto sorpreso trovando che ai miei compagni non piaceva di mangiare con me nello stesso tempo. Questo sentimento di disuguaglianza è una conseguenza necessaria dell'esistenza di un'aristocrazia del danaro. Si dice che alcuni dei più grandi proprietari posseggono da 125,000 a 250,000 lire all'anno; questa disuguaglianza di ricchezze non credo che si incontri in nessuno dei paesi di allevatori di bestiame all'est delle Ande. Un viaggiatore non incontra qui quella illimitata ospitalità che rifiuta ogni pagamento, ma che viene accettata senza scrupoli. Quasi ogni casa del Chilì vi accoglierà per una notte, ma l'indomani mattina sarà necessario dare una mancia; anche un uomo ricco accetterà due o tre scellini. Il gaucho, quantunque possa essere un assassino, è un gentiluomo; il guaso per alcuni rispetti ne è migliore, ma nello stesso tempo è un uomo volgare e grossolano. Questi due uomini, sebbene per molti riguardi abbiano le stesse occupazioni, hanno costumi e aspetto differenti; e le particolarità di ognuno sono universali ne' loro rispettivi paesi. Il gaucho sembra far parte del suo cavallo e disdegna qualunque esercizio, tranne quello che fa cavalcando; il guaso può esser preso a giornata per lavorare nei campi. Il primo vive interamente di cibo animale, il secondo quasi tutto di vegetale.»

Dall'una e dall'altra parte delle Ande la vita dell'uomo si lega a quella del cavallo, dalle due parti v'ha tanta abbondanza di questi animali che l'uomo li adopera senza pietà. Ciò mostra Darwin colle seguenti parole:

«Un giorno mentre io cavalcava nei Pampas con un rispettabile estanciero, il mio cavallo essendo stanco restava indietro. L'uomo mi diceva spesso di spronarlo. Quando io gli diceva che io non aveva cuore, perchè il cavallo era stanchissimo, egli esclamava:—Perchè no? Non ci badate; spronatelo; il cavallo è mio.—Mi ci volle una certa difficoltà a fargli capire che io non adoperava gli sproni per amore del cavallo e non per amor suo. Egli con uno sguardo tutto meravigliato esclamò:—Ah! Don Carlos, que cosa!—Evidentemente quell'idea non gli era mai passata per la testa. I gauchos sono conosciutissimi per essere eccellenti cavalieri. L'idea di cader da cavallo, qualunque cosa faccia quest'ultimo, non passa mai loro per la mente. Secondo la loro opinione un buon cavaliere è un uomo che sa domare un puledro selvaggio, o che, quando il cavallo cade, scende di sella sui proprii piedi, o sa compiere altre cosifatte gesta.

«Ho sentito parlare di un uomo che scommetteva di gettar giù il suo cavallo venti volte ed egli rimaner ritto diciannove. Mi ricordo d'aver veduto un gaucho che cavalcava un cavallo molto restìo, il quale per tre volte di seguito si rizzò tanto alto da cadere violentemente all'indietro. L'uomo cavalcava con meravigliosa freddezza e spiava il momento acconcio per scender giù, non un momento prima nè uno dopo del tempo giusto; ed appena il cavallo era di nuovo in piedi, l'uomo gli balzava sul dorso, ed alla fine partirono di galoppo. Il gaucho non sembra mai esercitare nessuna forza muscolare. Un giorno io stava osservando un buon cavaliere, mentre galoppavamo rapidamente, e pensava fra me:—Certo se il cavallo fa un salto, tu che sembri così noncurante sulla tua sella, devi cadere.—In quel momento uno struzzo maschio sbucò fuori proprio sotto il naso del cavallo, il giovane puledro spiccò un salto da una parte come un cervo; ma tutto quello che si sarebbe potuto dire dell'uomo era che egli si era scosso e spaventato col suo cavallo.

«Nel Chilì e nel Perù si accudisce molto di più la bocca del cavallo che non nella Plata, e questo evidentemente è una conseguenza della natura più intricata del paese. Nel Chilì un cavallo non è tenuto per veramente domato, finchè non si possa farlo fermare di botto, quando è in piena carriera, sopra un punto particolare; per esempio, sopra un mantello steso sul terreno; oppure slanciarlo contro un muro e farlo alzare e graffiarne la superficie cogli zoccoli. Ho veduto un animale pieno di spirito, il quale, guidato soltanto con due dita, prese il galoppo attraverso un cortile, e fu fatto girare intorno ad uno steccato di una veranda, con grande speditezza, ma conservando sempre la stessa distanza, tantochè il cavaliere tenendo il braccio steso, sfregò per tutto il tempo il suo dito contro lo steccato, poi facendo un volteggio in aria, coll'altro braccio steso nello stesso modo, egli ricominciò a correre con meravigliosa forza nella direzione opposta.

«Un cavallo cosiffatto è ben domato, e per quanto questo possa parere a prima vista inutile, non lo è per nulla. Non si fa che quello che ogni giorno vuol esser fatto, con perfezione. Quando un toro selvatico è inseguito e preso col lazo, si mette talora a galoppare in giro, ed il cavallo spaventato del grande sforzo, se non è ben domato, non si metterà subito a girare come il perno d'una ruota. In conseguenza di ciò molti uomini sono stati uccisi, perchè se il lazo si avvolge per caso intorno al corpo di un uomo, esso viene all'istante, per la forza dei due opposti animali, quasi tagliato in due. Per lo stesso principio non si fanno grandi corse, e queste sono della lunghezza di due o trecento metri, volendo avere cavalli che facciano uno slancio veloce. I cavalli da corsa non sono ammaestrati soltanto per toccare coi loro zoccoli una linea, ma per portare tutti quattro i piedi insieme, onde al primo sbalzo mettere in giuoco la piena azione delle parti posteriori. Mi fu raccontato al Chilì un aneddoto, che credo vero; esso presenta un buon esempio dell'uso di un animale ben domato. Un rispettabile signore incontrò, un giorno, mentre era a cavallo, due uomini, uno dei quali montava un cavallo che quel signore sapeva essergli stato rubato. Egli li accusò di questo; essi risposero sguainando la sciabola ed inseguendolo. L'uomo, sul buono e veloce cavallo, si tenne sempre a poca distanza da loro; mentre egli passava accanto ad un fitto cespuglio, cominciò a correre attorno a questo e mise il suo cavallo dietro a questo riparo. Gli inseguitori furono obbligati a slanciarsi dall'una e dall'altra parte. Allora sbucando fuori repentinamente, proprio dietro di essi, immerse il suo coltello nel dorso di uno degli uomini, ferì l'altro, ricuperò il suo cavallo dal ladro moribondo, e se ne andò a casa. Per queste gesta ippiche sono necessarie due cose; un freno molto forte, come quello dei mammalucchi, la forza del quale, sebbene adoperata di rado, è notissima al cavallo; grandi sproni spuntati che possono essere adoperati talora come un semplice tocco, talora come uno strumento dolorosissimo. Comprendo che gli sproni inglesi, i quali pungono la pelle al menomo tocco, sarebbero impossibili da adoperare con un cavallo domato al modo del sud America.

«In un podere presso Las Vacas un gran numero di cavalle vengono uccise ogni settimana per la loro pelle, sebbene questa non valga più di cinque dollari di carta, o dodici franchi e mezzo l'una. Sembra dapprima strano che valga la spesa di uccidere tante cavalle per un prezzo così minimo; ma siccome in questo paese è tenuto come cosa ridicola domare o cavalcare una cavalla, esse non hanno altro valore tranne che da la loro riproduzione. L'unico caso in cui vidi adoperare cavalle era per levare il grano dalla spiga; perciò erano fatte girare in un recinto circolare ove i covoni erano distesi. L'uomo incaricato di macellare le cavalle era celebre per la sua destrezza nel maneggiare il lazo. Allogatosi alla distanza di dodici metri dall'ingresso del recinto, egli aveva messo pegno che avrebbe preso le zampe di ogni animale senza mancarne uno, mentre gli passava di corsa vicino. Vi era un altro uomo il quale diceva, che egli sarebbe entrato nel corral a piedi, avrebbe preso una cavalla, le avrebbe legato le zampe anteriori insieme, l'avrebbe tirata fuori, gettata a terra, uccisa, scuoiata, e preparata la pelle per seccare (quest'ultima faccenda è molto noiosa); ed egli si impegnava a compiere tutte queste operazioni sopra ventidue animali in un solo giorno. Oppure ne avrebbe ucciso e scuoiato cinquanta nello stesso tempo. Questo sarebbe stato un compito prodigioso, perchè viene considerato come una buona giornata di lavoro lo spelare e preparare le pelli di quindici o sedici animali.»

Il concetto dell'ufficio di un naturalista, secondochè il Darwin ebbe campo a riconoscere, non era più preciso dalla parte occidentale delle Ande di quello che egli lo avesse trovato ad Oriente.

«Un giorno, un raccoglitore tedesco di storia naturale chiamato Renous venne a farci una visita, e quasi nello stesso tempo venne pure un vecchio avvocato spagnuolo. Mi divertii molto al sentir la conversazione che ebbe luogo fra loro. Renous parlava lo spagnuolo tanto bene, che il vecchio avvocato lo prese per un Chiliano. Renous volendo parlare di me, gli domandò che cosa pensava del re d'Inghilterra che mandava un naturalista nel loro paese, per raccogliere lucertole e scarafaggi e per spaccar pietre? Il vecchio signore rimase meditabondo per qualche tempo e poi disse:—Non va bene— Hay un gato encerrado aqui (vi è un gatto chiuso qui). Nessuno è tanto ricco per mandare in giro un uomo a raccogliere cosiffatte porcherie. Non mi piace. Se uno di noi andasse in Inghilterra a fare queste cose non credete che il re d'Inghilterra ci manderebbe via subito da quel paese?—E questo vecchio signore, per la sua professione apparteneva alla classe più istruita e più intelligente! Renous stesso, due o tre anni prima, aveva lasciato in una casa a San Fernando alcuni bruchi, sotto la sorveglianza di una fanciulla, perchè desse loro da mangiare e divenissero farfalle.

«Questo venne saputo nella città e finalmente consultatisi insieme i Padres ed il governatore, furono d'accordo per dire che doveva essere qualche eresia. In conseguenza quando Renous tornò, venne arrestato.»

Non era molto più chiaro il concetto che si aveva là della differenza fra un cattolico e un protestante. Presso Santiago.

«La sera si giunse ad un comodo podere, ove si trovavano varie belle signorine. Esse furono molto scandalizzate sentendo dire che io era entrato in una delle loro chiese per pura curiosità. Esse mi domandarono:—Perchè non vi fate cristiano, mentre la nostra religione è la buona?—Le assicurai che io ero una specie di cristiano, ma non mi vollero credere, riferendosi alle mie parole:—Non è vero che i vostri preti, i vostri vescovi prendon moglie?—L'assurdità di un vescovo ammogliato era ciò che le colpiva maggiormente e non sapevano quasi se ridere o inorridire d'una tale enormità.»

Al sud del Chilì è ancora numeroso l'elemento indiano puro, o misto, e nell'isola di Chiloe il Darwin, parlando di una famiglia indiana da lui veduta, e intorno alla quale dà, secondo il solito, con poche parole importanti ragguagli, esclama:

«Fa piacere veder gli indigeni giunti allo stesso grado d'incivilimento, per quanto basso esso sia, al quale sono giunti i loro conquistatori bianchi.»

Questo grado d'incivilimento invero non è guari elevato.

«Gli abitanti, come quelli della Terra del Fuoco, girano principalmente sulla spiaggia o nei loro battelli. Quantunque vi sia cibo in abbondanza, gli abitanti sono poverissimi; non vi è richiesta di lavoro ed in conseguenza le classi più basse non possono mettere insieme danaro sufficiente anche per comprarsi le più piccole superfluità. V'ha pure una grande deficienza di mezzo circolante. Ho veduto un uomo che portava sul dorso un sacco di carbone, col quale voleva comprare qualche piccola cosa, ed un altro portava una tavola per mutarla contro una bottiglia di vino. Quindi ogni negoziante deve anche essere bottegaio, e vendere di nuovo le merci che prende in cambio.»

A Castro, antica capitale di Chiloe, ora abbandonata e deserta,

«Si poteva ancora scorgere la disposizione quadrangolare delle città spagnuole, ma le strade e la piazza erano ricoperte di una bella erba verde sulla quale brucavano le pecore. La chiesa che sta nel mezzo è al tutto fabbricata di legno, ed ha un aspetto piuttosto pittoresco e venerabile. Si può immaginare la povertà di quel luogo da questo fatto, che quantunque contenga alcune centinaia di abitanti, uno della nostra brigata non riuscì in nessun luogo a trovar da comperare una libbra di zucchero o un coltello comune. Nessun individuo possedeva un oriuolo, ed un vecchio, il quale si supponeva avesse un'idea giusta del tempo, era incaricato di suonare la campana della chiesa così a caso.»

Nell'isola di Lemuy gli abitanti furono meravigliatissimi di veder arrivare gli inglesi, e compresero allora perchè poco prima avessero veduto un gran numero di pappagalli e perchè il Cheucau, un uccellino del petto rosso, mandasse con tanta insistenza un certo grido con cui suole destare la loro attenzione nei casi più straordinarii. Quegli abitanti

«Furono subito molto volonterosi di fare cambi. Il danaro non valeva quasi nulla, ma la loro avidità pel tabacco aveva qualche cosa di straordinario. Dopo il tabacco veniva subito l'indaco, poi il capsicum, le vecchie vestimenta e la polvere da schioppo. Quest'ultimo articolo era richiesto per uno scopo innocentissimo; ogni parrocchia ha un moschetto pubblico, ed hanno bisogno della polvere per far rumore il giorno della festa del santo o di altre feste.»

Quella gente sa contentarsi. A Castro

«A notte cominciò a piovere dirottamente, ciò che bastò appena ad allontanare dalle nostre tende la folla dei curiosi. Una famiglia indiana, che era venuta per trafficare in una barca da Caylen, bivaccava accanto a noi. Non avevano nulla che li riparasse dalla pioggia. Al mattino domandai ad un giovane indiano, bagnato fino alle ossa, come avesse passata la notte. Pareva di buonissimo umore e rispose:— Muy bien, señor.

Il giorno 20 febbraio 1835, a Valdivia, mentre il Darwin s'era sdraiato nella foresta sulla spiaggia del mare per riposarsi, sentì una scossa, per cui balzato in piedi provò l'effetto del mal di mare in un grado leggero, come quando il bastimento non fa che dondolarsi. Era un terremoto che il Darwin descrive in alcune pagine che sono fra le più dotte e belle del suo dottissimo e bellissimo libro.

Il Chilì è terra classica pei terremoti, e in tutti i libri di geologia si citano gli effetti prodotti in quella contrada dal terremoto del 1822. Questi effetti ebbe campo ad esplorare il Darwin nelle sue ricerche geologiche, che lo spinsero ad attraversare le Ande partendo da Santiago e scendendo da Mendoza, pel passo del Patille all'andata e per quello Acomagne o Uspallate al ritorno. Egli spese ventiquattro giorni in quelle gite e dice che non aveva mai provato tanta soddisfazione in tale spazio di tempo. Si può soggiungere che difficilmente il lettore può ricavare da una lettura tanto ammaestramento quanto è quello che si ricava dalle poche pagine in cui egli descrive la sua gita.

Nelle numerose e lunghe sue escursioni al Chilì il Darwin si occupò pure delle miniere, anche dal punto di vista applicato. Egli parla così di quei minatori:

«I minatori chiliani sono pei loro costumi una singolare razza di uomini. Vivendo per alcune settimane nei luoghi più deserti, quando i giorni di festa scendono nei villaggi, non v'ha eccesso o stravaganza cui non si abbandonino. Talora guadagnano una grossa somma, ed allora, come fanno i marinai del loro danaro, essi cercano il mezzo più spiccio per poterla scialacquare. Bevono all'eccesso, comprano un numero sterminato di vestiti, ed in pochi giorni tornano senza un soldo nei loro miserabili tugurii, per lavorare peggio di animali da soma. Questa spiensieratezza, come quella dei marinai, è evidentemente l'effetto di un consimile tenore di vita. Il loro cibo giornaliero è assicurato, e non acquistano nessuna abitudine di risparmio; inoltre, la tentazione e le occasioni per cedere sono nello stesso tempo in loro potere.»

Ciò disgraziatamente non segue solo al Chilì. Come non segue solo al Chilì che una società di miniere che potrebbe fare buoni guadagni vada in rovina per mala amministrazione.

Il Darwin parla di società inglesi di miniere al Chilì e dice che malgrado i grandi vantaggi, come è ben noto, finiscono per perdere somme immense di danaro. La prodigalità del maggior numero dei commissarii e degli azionisti va fino alla pazzia, in certi casi si sborsano venticinquemila franchi all'anno per pagare le autorità chiliane; biblioteche di libri di geologia ben rilegati, minatori fatti venire per metalli particolari, come lo stagno, che non si trova nel Chilì, contratti per fornire di latte i minatori, in luoghi ove non si trovano vacche; macchine ove non è possibile adoperarle, e cento simili disposizioni che dimostrano grande assurdità e che fino ad oggi sono argomento di risa agli indigeni. Tuttavia non v'ha dubbio, che lo stesso capitale bene adoperato in quelle miniere avrebbe dato un immenso profitto; un amministratore di fiducia, un minatore pratico ed un saggiatore è tutto quello che ci sarebbe voluto.

Egli trovò là un minatore inglese del Cornovaglia, sopraintendente di una miniera presso Quillota, il quale aveva sposato una spagnuola e aveva rinunziato al pensiero di ritornare in patria, pur sempre conservando una carissima rimembranza e una grande ammirazione per le miniere della Inghilterra.

Quel soprintendente di miniere fece al Darwin la seguente domanda:

«Ora che è morto Giorgio Rex, quanti membri della famiglia Rex rimangono ancora?»

Il Darwin dice che questo Rex per certo deve essere parente del grande autore Finis, che scrisse tanti libri.

Al Perù, che si direbbe un paese condannato all'anarchia permanente, le cose non andavano meglio di oggi quando il Beagle approdò ad Iquique e quindi al Callao. Perciò, tranne una diligente visita alle cave di nitrato di soda di Iquique, il Darwin non potè dar guari opera a ricerche di storia naturale. Egli fa invece assennatissime considerazioni intorno alle febbri di quel paese e alle cause in generale delle malattie prodotte dalla malaria, e riferisce certe sue importantissime osservazioni intorno alle tracce che si riscontrano là delle dimore e della vita degli abitatori antichi e antichissimi di quella contrada, chissà quanti secoli prima che l'uomo incivilito vi ponesse il piede.

[Pg 60][Pg 61]

V

Il conte Camillo di Cavour stette ascoltando con molta attenzione un progetto che gli veniva esponendo un signore di piccola statura, di giuste forme, del sembiante quanto mai simpatico e intelligente, pel quale il grande ministro mostrava molto riguardo. Questo signore era il conte Giuseppe Canevaro.

Le isole Galapagos costituiscono nell'Oceano Pacifico un arcipelago sulla linea equatoriale, a cinquecento o seicento miglia di distanza dalla spiaggia americana della repubblica dell'Equatore. Presentano un singolarissimo aspetto anche all'occhio di chi non abbia l'abito di osservare e discernere le varie foggie e la varia natura dei rilievi della superficie terrestre; sono di origine vulcanica e si contano un duemila crateri che in periodi remotissimi della vita del nostro globo sono stati in eruzione. Strane piante vestono quelle isole che nelle parti più elevate hanno una vegetazione abbastanza rigogliosa, e le popolano i più strani animali. L'uomo non vi pose mai ferma dimora. Vi approdarono di tratto in tratto filibustieri e balenieri, vi si allogarono un due o trecento banditi della repubblica dell'Equatore.

Il conte Canevaro voleva fondare là una colonia italiana. Centocinquanta famiglie genovesi ne avrebbero costituito il primo nucleo. Egli aveva già divisato il modo della distribuzione di quelle famiglie e i varii compiti da assegnarsi a caduno dei loro componenti.

Dai segni frequenti di viva approvazione che di tratto in tratto era venuto dando il conte Cavour, che non ne aveva mai interrotto il discorso, dal vivissimo sguardo con cui cercava di leggergli negli occhi, dal frequente animarsi della sua fisonomia tanto intelligente ed espressiva, il conte Canevaro si aspettava che il ministro avrebbe accolto con passione il suo progetto. La sua meraviglia fu quindi estrema quando, finito il suo parlare, si sentì rispondere:—Non ne faremo nulla.

Il ministro ammirò il progetto del Canevaro e se ne commosse e non fu avaro di parole ad esprimere la sua ammirazione; ma gli spiegò pure che una colonia di quella fatta aveva bisogno di essere sostenuta e all'uopo protetta con tutta l'efficacia da un governo abbastanza forte per non indietreggiare in faccia a nissuna evenienza, e che egli non si sentiva di impegnarsi in una tale impresa.

Oggi con Assab ci andiamo più alla svelta.

Dal Perù il Beagle fece vela verso le isole dell'arcipelago Galapagos, dove approdò il 15 settembre e rimase fino al 20 ottobre dell'anno 1835, navigando poi per tremila e dugento miglia per arrivare a Tahiti di cui fu in vista il giorno 15 di novembre.

Dice il Darwin di Tahiti che essa è un'isola che deve rimaner per sempre classica pel viaggiatore del mare meridionale; ne descrive le bellezze e le particolarità più notevoli e dice:

«Quello che mi piacque maggiormente furono gli abitanti. La dolcezza dell'espressione delle loro fisonomie bandisce ad un tratto l'idea di un selvaggio; e l'intelligenza che vi brilla mostra che progrediscono in civiltà. I popolani quando lavorano tengono la parte superiore del corpo al tutto nuda, ed è allora che i tahitiani fanno più bella figura. Sono molto alti, colle spalle larghe, atletici, e bene proporzionati. È stato osservato, che basta un po' d'abitudine per rendere all'occhio di un europeo una pelle nera più piacevole e più naturale che non il suo proprio colore. Un bianco che si bagna accanto ad un tahitiano, somiglia ad una pianta imbiancata dall'arte del giardiniere comparata con un bell'albero verde oscuro che cresce vigoroso in mezzo ai campi. La maggior parte degli uomini sono ornati di tatuaggi, e questi ornamenti seguono le curve del corpo tanto graziosamente, che producono un effetto elegantissimo. Un disegno comune, che varia solo nei particolari, è alcunchè simile al capitello di una palma. Esce fuori dalla linea centrale del dorso, e gira con grazia intorno ai lati. La similitudine può parere fantastica, ma io pensai che il corpo di un uomo cosifattamente adorno fosse simile al tronco di un albero maestoso, stretto da una delicatissima rampicante.

«Molte fra le persone attempate hanno i piedi coperti di figurine, messe per modo da sembrare uno zoccolo. Tuttavia, questa moda è in parte scomparsa ed altre le si sono sostituite. Qui, sebbene la moda sia tutt'altro che immutevole, ognuno è tenuto a seguire quella che prevaleva nella sua gioventù. In tal modo un vecchio ha la sua età stampata sul corpo, e non può atteggiarsi a giovanotto. Anche le donne hanno tatuaggi come gli uomini, e comunissimamente li hanno sulle dita. Una moda è ora quasi universale che non istà guari bene, cioè quella di radersi i capelli della parte superiore del capo, circolarmente, tanto da lasciare solo un anello esterno. I missionarii hanno cercato di persuadere la popolazione a mutare questo costume; ma è la moda, e questa risposta vale tanto a Tahiti quanto a Parigi.

«L'aspetto delle donne produsse in me un vero disinganno; per ogni rispetto sono molto inferiori agli uomini. L'uso di portare un fiore bianco o scarlatto sul di dietro del capo, o attraverso ad un forellino dell'orecchio, è molto grazioso. Portano pure una corona di foglie di cocco intrecciate per fare ombra agli occhi. Le donne sembrano aver maggior bisogno degli uomini di qualche moda che vada loro bene.

«Quasi tutti gli indigeni capiscono un po' l'inglese; cioè, sanno il nome delle cose comuni, e con questo e con l'aiuto di qualche segno si può fare con essi una scarsa conversazione. Tornati a sera alla barca, ci fermammo per osservare una scena graziosissima. Un gran numero di bambini si trastullavano sulla spiaggia, ed avevano acceso fuochi che illuminavano il placido mare e gli alberi circostanti; altri in cerchio cantavano versi tahitiani. Ci sedemmo anche noi sulla sabbia, e ci unimmo alla brigatella. Le canzoni erano improvvisate, ed avevano rapporto, credo, col nostro arrivo: una fanciullina cantava un verso, che il resto ripeteva in parte, formando così un coro molto piacevole. Tutta la scena ci dimostrava con evidenza che eravamo seduti sulla spiaggia di una isola del rinomato mare del sud.»

Più sotto, dopo d'aver parlato dei pareri discordi di Ellis e di Beechey e Kotzebue intorno allo stato di quelle genti e all'opera dei missionari, il Darwin soggiunge:

«Nel complesso mi sembra che la moralità e la religione degli abitanti siano molto rispettabili. Vi sono molti che censurano, anche più acerbamente che non Kotzebue, tanto i missionari, quanto il loro sistema e gli effetti da esso prodotti. Quei ragionatori non comparano omai lo stato attuale dell'isola con quello di soli vent'anni fa; nè anche con quello dell'Europa d'oggi, ma lo comparano con quello della più alta perfezione evangelica. Vorrebbero che i missionari compiessero ciò, in cui non riuscirono neppure gli Apostoli. In qualunque parte dove la condizione delle genti si scosta da quell'alto punto di perfezione, si getta il biasimo al missionario, invece di lodarlo per quello che ha fatto. Essi dimenticano, o non ricordano, che i sacrifizi umani e la potestà dei preti idolatri—un sistema di scelleraggine che non aveva riscontro in nessuna altra parte del mondo—l'infanticidio, conseguenza di quel sistema; le guerre sanguinose nelle quali i vincitori non risparmiavano nè donne, nè bambini, sono stati aboliti; e che la disonestà, l'intemperanza, e la svergognatezza sono molto diminuite dopo l'introduzione del Cristianesimo. In un viaggiatore, dimenticare queste cose è una bassa ingratitudine; perchè se egli per disgrazia naufragasse sopra qualche ignota costa, alzerebbe al cielo una ben divota preghiera, perchè le lezioni dei missionari si fossero estese fino a quella regione.

«In quanto alla moralità è stato detto che la virtù delle donne sia una vera eccezione. Ma prima di biasimarle troppo severamente, bisogna tener ben presenti alla mente le scene descritte dal capitano Cook e dal signor Banks, in cui le nonne e le madri della razza presente avevano molta parte. Coloro i quali sono i più severi, debbono considerare come la moralità delle donne in Europa sia dovuta alla educazione data di buon'ora dalle madri alle loro figliuole, e in ogni caso individuale ai precetti della religione. Ma è inutile discutere intorno a cosiffatti ragionatori; credo che delusi per non aver trovato un campo di licenziosità tanto vasto quanto era prima, essi non prestano fede ad una moralità che non desiderano praticare, o ad una religione che non apprezzano, se pur non disprezzano.»

Un effetto opposto a quello di Tahiti producono nel nostro viaggiatore le isole e le genti della Nuova Zelanda per modo che, partendone addì 30 dicembre 1835, egli esclama:

«Credo che fummo tutti ben contenti di lasciare la Nuova Zelanda. Non è un bel luogo. Fra gli indigeni non vi è quella graziosa semplicità che si trova a Tahiti e la maggior parte degli inglesi sono il rifiuto della società. Neppure il paesaggio ha molte attrattive.»

Due mesi dopo lasciando l'Australia così esclama:

«Addio, Australia. Sei una fanciulla che cresce, e senza dubbio un giorno regnerai come regina del sud, ma sei troppo ambiziosa per ispirare affetto.»

Il 1º aprile 1836 il Beagle veleggiava nell'Oceano Indiano a un seicento miglia di distanza dalla costa di Sumatra e aveva alla vista le isole Keeling, che diedero campo a Carlo Darwin a studiare e riconoscere il modo di originarsi delle formazioni coralligene, isole madreporiche, atolli, banchi, scogliere.

Il Beagle proseguendo la sua via toccò l'isola Maurizio, il Capo di Buona Speranza, S. Elena e nuovamente il Brasile per compiere la misura cronometrica del mondo. Il giorno 2 ottobre 1836 Darwin rivide la costa dell'Inghilterra e lasciò a Falmouth il Beagle su cui aveva navigato quasi cinque anni.

VI

Ripensando al suo viaggio e ai vantaggi e agli svantaggi, ai piaceri e alle pene che può dare una circumnavigazione, Carlo Darwin parla nel modo seguente:

«Se taluno mi chiedesse il mio parere, prima di imprendere un lungo viaggio, la mia risposta dipenderebbe dal suo possedere un gusto deciso per qualche ramo di sapere, che con questo mezzo potrebbe progredire. Senza dubbio è una grande soddisfazione vedere vari paesi e le varie razze umane, ma i piaceri che si hanno allora non bilanciano i mali. Bisogna sperare dall'avvenire la messe per quanto lontana possa essere, quando un po' di frutto abbia maturato, qualche bene si sia compiuto.

«Molte delle perdite che si debbono provare sono evidenti, come la società di ogni vecchio amico, e la vista di quei luoghi ai quali si rannodano le nostre più care rimembranze. Queste perdite, però, sono in parte riparate dalla inesauribile delizia di anticipare il giorno lungamente desiderato del ritorno. Se, come dicono i poeti, la vita è un sogno, son certo che in un viaggio sono le visioni che servono meglio a far passare la lunga notte. Altre privazioni, quantunque non si sentano dapprima, pesano molto dopo un certo tempo; queste sono la mancanza di spazio, di reclusione, di riposo; il senso divorante di una continua fretta, la privazione d'ogni piccolo comodo, la mancanza di società domestica, anche di musica e di altri piaceri dell'immaginazione. Quando si è fatto menzione di queste inezie, è evidente che i veri mali, tranne quelli cagionati da accidenti della vita di mare, sono terminati. Il breve periodo di sessant'anni ha fatto una meravigliosa differenza nell'agevolare una lunga navigazione. Anche al tempo di Cook, un uomo che lasciava la sua casa per imprendere cosiffatte spedizioni, andava incontro a privazioni talvolta durissime. Oggi un yacht, con ogni comodo della vita, può fare il giro del mondo. Oltre i grandi miglioramenti nelle navi e nella natura, tutte le spiaggie occidentali dell'America sono aperte, e l'Australia è divenuta la capitale di un nascente continente. Quanto sono diverse le circostanze di un uomo che naufraga oggi nel Pacifico da quello che erano al tempo di Cook! Dal tempo del suo viaggio un emisfero è stato aggiunto al mondo civile.

«Se una persona soffre molto del mal di mare, questo è un inconveniente che deve essere molto considerato. Parlo per esperienza: non è un male di poco rilievo da curarsi in una settimana. Se, d'altra parte, egli trova piacere nella tattica navale, certamente allora otterrà piena soddisfazione pel suo gusto. Ma bisogna tener bene a mente la grande proporzione di tempo che, durante un lungo viaggio, si passa sull'acqua, in paragone dei giorni che si passano in porto. E che cosa sono le vantate meraviglie di uno sterminato oceano? Una monotona distesa, un deserto d'acqua, come lo chiamano gli Arabi. Senza dubbio vi sono spettacoli deliziosi. Una notte di luna, col cielo sereno ed il mare scintillante; e le bianche vele gonfie dalla dolce brezza di un vento regolare; una calma perfetta, colla gonfia superficie, liscia come uno specchio, e tutto silenzioso tranne talora lo sbattere delle vele contro gli alberi. Per una volta è bello vedere una burrasca mentre irrompe colla sua furia sempre crescente, o un forte vento che fa alzare come monti le onde. Confesso, tuttavia, che la mia immaginazione si era figurato qualche cosa di più maestoso, di più terribile in una grande burrasca. È uno spettacolo infinitamente più bello quando è veduto sulla terra, ove l'ondeggiare degli alberi, il volo spaventato degli uccelli, le cupe ombre, i lampi repentini, l'irrompere dei torrenti, tutto narra la lotta degli elementi scatenati. In mare l'albatrosso e la piccola procellaria volano come se la tempesta fosse il loro proprio elemento, l'acqua si solleva e si abbassa come se compisse il suo consueto compito, solo la nave e i suoi abitanti sembrano lo scopo di tutta quella furia. Sopra una costa battuta dal tempo e desolata, lo spettacolo è invero differente, ma i sentimenti che si provano partecipano piuttosto dell'orrore che non di un selvaggio piacere.

«Vediamo ora la parte bella del tempo trascorso. Il piacere derivato dal vedere il paesaggio e l'aspetto generale dei varii paesi da noi visitati è stato invero la sorgente più grande e costante di sodisfazione. È probabile che la bellezza pittoresca di molte parti d'Europa superi ogni cosa da noi veduta. Ma vi è sempre un piacere maggiore nel comparare il carattere del paesaggio delle varie regioni, piacere che, fino ad un certo punto, è distinto da quello di ammirarne solo la bellezza. Dipende principalmente dal conoscere le singole parti di un dato panorama; sono fortemente indotto a credere che, come nella musica, la persona la quale comprenderà ogni nota se è dotata di un certo gusto, sentirà maggior piacere nel complesso, così colui il quale esamina ogni parte di un bel panorama, può parimente comprenderne l'effetto pieno e complesso. Quindi, un viaggiatore dovrebbe essere botanico, perchè in tutti i paesaggi le piante formano l'abbellimento principale. I massi ammucchiati di roccie nude anche se sono nelle forme più selvaggie, possono per un certo tempo porgere uno spettacolo sublime, ma in breve diverrà monotono; dipingetele di colori svariati e brillanti, come nel Chilì settentrionale, diverranno fantastiche; rivestitele di vegetazione, formeranno un quadro passabile se non bello.

«Quando ho detto che il paesaggio di certe parti d'Europa è forse superiore a qualunque cosa che abbiamo veduto, faccio una eccezione, come di una classe a parte, di quello delle zone intertropicali. Le due classi non possono essere paragonate assieme; ma mi sono di già spesso dilungato intorno alla grandiosità di quelle regioni. Siccome la forza delle impressioni dipende generalmente da idee preconcette, posso aggiungere che le mie erano prese dalle brillanti descrizioni di Humboldt nella Personal Narrative, che supera qualunque altra cosa che io abbia letto. Tuttavia, con queste altissime idee, il sentimento da me provato non ebbe neppure una tinta di disinganno quando sbarcai per la prima e per l'ultima volta al Brasile.

«Fra le scene che si sono più fortemente impresse nella mia mente, nessuna supera in grandezza le foreste primitive, non ancora tocche dalla mano dell'uomo; tanto quelle del Brasile, ove predominano le forze vitali, come quella della Terra del Fuoco, ove prevalgono la morte e la distruzione.

«Entrambe sono templi pieni degli svariati prodotti del Dio della natura; nessuno può trovarsi senza emozione in quelle solitudini, e non sentire che nell'uomo vi è qualche cosa di più che non il solo soffio del suo corpo. Richiamando alla mente le immagini del passato, trovo che le pianure della Patagonia spesso mi ripassano sotto gli occhi, eppure quelle pianure son dette da tutti desolate ed inutili. Non si possono descrivere che con caratteri negativi, senza abitazioni, senza acqua, senz'alberi, senza monti, allevano solo alcune piante nane. Perchè, dunque, e questo fatto non è speciale a me solo, quelle aride pianure si sono impresse con tanta forza nella mia mente? Perchè i verdi, fertili, e ancor più piani Pampas, utili all'uomo, non hanno prodotto una simile impressione? Non posso guari analizzare questi sentimenti; ma debbono derivare in parte dal libero volo dall'immaginazione. Le pianure della Patagonia sono sterminate, perchè non sono guari valicabili, e quindi sono ignote; portano l'impronta d'avere durato, nel loro stato attuale, per lunghi secoli, e non sembra esservi alcun limite nel durare pel futuro. Se, come supponevano gli antichi, la terra piana fosse circondata da un'invalicabile distesa d'acqua, o da deserti scaldati all'eccesso, chi non guarderebbe quegli ultimi limiti dalle cognizioni umane con sensi profondi e mal definiti?

«Infine, fra i paesaggi naturali, quelli veduti dalle alte montagne, sebbene certamente non belli in un senso, sono molto memorabili. Quando guardavamo giù dall'altissima cresta delle Cordigliere, la mente, non disturbata da minuti particolari, era compresa dalle stupende dimensioni dei massi circostanti.

«Fra gli oggetti individuali, nulla forse sveglia più certamente la meraviglia del primo vedere un barbaro nel suo tugurio nativo, l'uomo nel suo stato più abbietto e più selvaggio. La mente ritorna indietro allora ai secoli passati, e si domanda se i nostri progenitori fossero uomini come quelli; uomini, di cui i moti e l'espressione sono per noi meno intelligibili di quelli degli animali domestici; uomini che non hanno gli istinti di quegli animali, e non sembrano vantare la ragione dell'uomo, o almeno le arti che derivano da questa ragione. Non credo che sia possibile descrivere o dipingere la differenza che passa fra un uomo selvaggio ed un uomo incivilito. È la differenza che esiste fra un animale domestico ed uno selvaggio; e una parte dell'interesse che si prova guardando un selvaggio è lo stesso che spingerebbe taluno a desiderare di vedere il leone nel suo deserto, la tigre mentre dilania la preda nella giungla, o il rinoceronte mentre si aggira pei piani selvaggi dell'Africa.

«Fra gli altri più notevoli spettacoli che abbiamo veduto, si può citare la Croce del Sud, la nube di Magellano, ed altre costellazioni dell'emisfero meridionale; le trombe marine; il ghiacciaio che porta la sua corrente azzurra di ghiaccio fino al mare cui sovrasta come uno scosceso precipizio; un'isola dalla laguna che sorge per opera degli animali del corallo; un vulcano attivo, e gli effetti disastrosi di un terribile terremoto. Quest'ultimo fenomeno, forse, aveva per me un interesse speciale per la sua intima connessione colla struttura geologica del mondo. Tuttavia il terremoto deve essere per ognuno un avvertimento che fa impressione; la terra, che fino dalla nostra infanzia abbiamo considerata come tipo di solidità, ha oscillato come una crosta sottile sotto i nostri piedi; e vedendo le opere fatte dall'uomo rovesciate in un istante, abbiamo sentito la piccolezza della sua tanto vantata potenza.

«È stato detto che l'amore della caccia è una gioia inerente all'uomo, un avanzo di una passione istintiva. Se ciò è vero, son certo che il piacere di vivere all'aria aperta, col cielo per tetto e il terreno per mensa, è parte dello stesso sentimento, è il selvaggio che ritorna ai suoi usi nativi e barbari. Io torno sempre con somma gioia colla mente alle nostre escursioni in barca, ed ai miei viaggi per terra in regioni non frequentate, che nessun paesaggio in paese civile avrebbe potuto destare. Non dubito che ogni viaggiatore debba ricordarsi il senso di piena felicità da esso provato, quando per la prima volta si è trovato in un paese forestiero, ove l'uomo incivilito ha di rado o non mai posato il piede.

«Vi sono parecchie altre sorgenti di piacere in un lungo viaggio che sono di una natura più ragionevole. La carta del mondo cessa di essere ignota; diviene un quadro pieno di figure svariatissime ed animate. Ogni parte assume proprie dimensioni, i continenti non si considerano collo stesso occhio come le isole, o le isole non si guardano come macchiette, mentre in verità sono più grandi di molti regni d'Europa. L'Africa e l'America del nord e del sud sono nomi ben sonanti, e facilmente pronunziati, ma, solo quando si viaggiò lungo piccole porzioni delle loro spiaggie, si è interamente convinti del grande spazio che occupano questi nomi nel nostro immenso mondo.

«Considerando lo stato attuale è impossibile non prevedere con grandi aspettazioni il futuro progresso di quasi tutto l'emisfero. La via del miglioramento, in conseguenza dell'introduzione del Cristianesimo in tutto il mare del sud, starà da sola nelle memorie della storia. È cosa ancor più notevole pensare che solo sessant'anni fa, Cook, cui nessuno negherà il retto giudizio delle cose, non poteva prevedere nessuna speranza di mutamento. Tuttavia questi mutamenti sono stati compiti dallo spirito di filantropia della nazione inglese.

«Nella stessa parte del globo l'Australia sorge, o meglio si può dire è sorta, in un grande centro d'incivilimento, che, in qualche remotissimo periodo, dominerà come regina l'emisfero meridionale. È impossibile ad un inglese di vedere quelle lontane colonie senza provare un senso di sommo orgoglio e di grande sodisfazione. La bandiera inglese sembra portar seco, come certa conseguenza, la ricchezza, la prosperità e l'incivilimento.

«In conclusione mi sembra che nulla può essere più utile ad un giovine naturalista di un viaggio in paesi lontani. Esso rende più acuto e mitiga in parte quel bisogno e quel desiderio, che, come osserva sir J. Herschel, sente un uomo, quantunque ogni bisogno del suo corpo sia pienamente sodisfatto. L'eccitamento per la novità degli oggetti e la probabilità di riuscita, lo stimolarono ad una crescente attività. Inoltre, siccome un numero di fatti isolati perde in breve il suo interesse, l'abito di far comparazioni conduce a generalizzare. D'altra parte, siccome il viaggiatore rimane solo un breve tempo in ogni luogo, le sue descrizioni debbono essere in generale semplici abbozzi, invece di essere osservazioni particolareggiate. Quindi ne viene, come ho provato a mie spese, una costante tendenza a riempire i larghi vani del sapere, con ipotesi trascurate e superficiali.

«Ma io ho provato un piacere troppo profondo in questo viaggio, per raccomandare a qualunque naturalista, sebbene non debba aspettarsi di essere tanto fortunato nei suoi compagni come lo sono stato io, di approfittare di ogni occasione ed imprendere viaggi se è possibile per terra, se non con una lunga navigazione. Può esser certo che incontrerà difficoltà o pericoli, tranne qualche caso raro, non tanto cattivi quanto se lo era immaginato. Da un punto di vista morale l'effetto sarà quello di insegnargli una gioconda pazienza, lo libererà dall'egoismo, gli darà l'abito di operare de sè, e fare il meglio possibile in ogni circostanza. In breve, deve partecipare delle qualità caratteristiche della maggior parte dei naviganti. Il viaggiare gli insegnerà la diffidenza, ma nello stesso tempo gli dimostrerà, quante persone veramente di cuore vi sono, colle quali egli non ebbe mai, o non avrà mai più comunicazione, le quali tuttavia sono pronte a prestargli il più disinteressato aiuto.»

[Pg 80][Pg 81]

VII

I primi navigatori che percorsero le sterminate distese dell'oceano Pacifico e anche dell'oceano Indiano lungo la zona equatoriale provarono un'immensa meraviglia nel vedere certe isole di una foggia al tutto inaspettata e singolarissima. L'isola è come un grande anello rotto in una qualche parte in modo che rimane una comunicazione fra l'interno e il difuori. Sul cercine è una vegetazione in cui campeggia l'albero del cocco; l'interno della laguna è di un'acqua tranquilla e limpidissima, mentre urtano fuori i cavalloni furiosi contro la spiaggia e splende su tutto la volta azzurra del cielo. Gli uccelli volanti e le correnti marine portano a quelle spiaggie varie sorta di semi, talora un tronco d'albero o un viluppo di tronchi natanti sulla corrente vi approdano portando vivi animaletti terragnoli che vi si propagano, e anche una qualche grossa pietra silicea, prezioso materiale all'uomo che vive su quella sorta d'isole singolari e non ha che una materia minerale friabile e poco resistente nel materiale che la costituisce.

Fin dal 1605 Francesco Pyrard, di Laval, in faccia a quelle singolari isole cui venne dato il nome di atolli, esclamava:

«C'est une merveille de voir chacun de ces atolles, environnés d'un grand banc de pierre tout autour, n'y ayant point d'artifice humain.»

Talvolta si ha, invece dell'atollo, una scogliera, cioè una grande striscia del materiale medesimo che costituisce l'atollo, la quale sta al davanti di una spiaggia, sovente per un lunghissimo tratto, limitando fra la spiaggia e il mare aperto una laguna coll'acqua limpida e tranquilla al riparo delle onde dell'aperto mare.

Sono altre volte banchi a fior d'acqua, o poco sotto il livello della superficie, pericolosissimi ai naviganti, della stessa natura degli atolli e delle scogliere, vale a dire fatti da animaletti della famiglia di quelli che producono il corallo, onde il nome di polipi coralligeni che venne loro dato. Furono poi chiamati in particolare madrepore certi polipi che costituiscono la maggior parte di quelle formazioni, che perciò furono chiamate formazioni madreporiche in generale, isole e scogliere madreporiche e banchi madreporici.

Fin dal 1702 un viaggiatore inglese, del resto poco conosciuto, il signor Strachan, aveva osservato come i coralli riescano a formare grandi masse di rocce. Giovanni Rinaldo Forster, l'ingegnoso compagno di Cook, nel 1780 dimostrò positivamente che un grande numero di isole del mare del sud devono la loro esistenza a grandi agglomeramenti di coralli. Poco dopo questa dimostrazione fu confermata e sviluppata da Flinders e da Peron.

Due errori si produssero contemporaneamente a quella dimostrazione di un fatto vero.

Quei primi osservatori credettero e fecero credere che le formazioni madreporiche si incominciassero a produrre a grandi profondità sottomarine salendo poi a mano a mano fino alla superficie e abbastanza rapidamente. Questa credenza diede luogo a strani timori. Si calcolò che in un dato tempo una grande parte dello spazio occupato dalle acque marine avrebbe finito per essere riempita dalle formazioni madreporiche, e che le acque avrebbero quindi dovuto riversarsi e sommergere isole e continenti producendo modificazioni profonde sulla superficie della terra e nella vita delle piante, degli animali e dell'uomo. Ciò ora è dimostrato falso. Gli scandagli praticati dagli ufficiali del Beagle e riferiti dal Darwin, che ne fu testimone oculare, dimostrano che la profondità consueta al disotto della superficie dove i polipi coralligeni cominciano le loro costruzioni è a diciotto metri. A trentasei metri se ne trova appena traccia, non se ne trova più traccia al disotto di cinquantaquattro metri.

L'altro errore fu la credenza che i polipi facciano le loro costruzioni per mettersi al riparo dei marosi e campar quetamente dalla parte di dentro dell'atollo, mentre appunto è vero l'opposto.

Per spiegare il modo della formazione degli atolli si suppose che essi fossero venuti su sopra i crateri di monti vulcanici sottomarini. La forma cerciniforme dei crateri, costituiti appunto da un anello incompiuto, o, come si disse, in foggia di ferro di cavallo, e la forma somigliante degli atolli, spiegano come siasi potuto fare una tale supposizione, che si trova anche nelle prime edizioni dei principii di geologia di Carlo Lyell.

Questa supposizione, siccome ha dimostrato il Darwin, non regge quando si consideri la forma e la mole di alcuni atolli, il numero, la vicinanza, la posizione relativa di altri; così:

«L'atollo Svadiva ha il diametro di 44 miglia geografiche in una linea e 34 in un'altra; Rimacko è lungo 54 miglia con 20 di larghezza, e ha un margine stranamente foggiato; l'atollo Bon è lungo trenta miglia e in media è largo solo sei miglia, l'atollo Munchiroff è fatto di tre atolli uniti o attaccati insieme. Questa teoria, inoltre, è al tutto inapplicabile agli atolli settentrionali Maldiva nell'oceano indiano (uno dei quali ha 88 miglia di lunghezza e 10 a 20 di larghezza), perchè non sono circondati come gli atolli soliti da strette scogliere, ma da moltissimi e piccoli atolli separati fra loro; altri piccoli atolli sporgono dalle grandi lagune centrali.»

Nessuno aveva cercato poi, mentre tutti si occupavano degli atolli, di spiegare la formazione delle scogliere madreporiche e dei banchi.

Il Darwin studiò diligentissimamente le formazioni madreporiche così numerosamente sparse lungo la via tenuta dal Beagle, e cercò dopo il suo ritorno tutti i possibili documenti intorno a quelle che egli non aveva vedute, ma che altri aveva visitato e descritto; dall'esame diligente e profondo fatto, venne nella conclusione che sostanzialmente la causa principale di tutte le formazioni madreporiche, atolli, scogliere, banchi, fosse un lento abbassamento del suolo per modo che, mentre il suolo andava scendendo, i coralli si andassero elevando. Questa sua teoria egli corredò di tante dimostrazioni e di tante prove che quando nel 1842 pubblicò in proposito il suo volume intitolato Coral reefs, avvenne un fatto veramente raro, questo cioè, che subito i geologi accettarono la sua spiegazione la quale, salvo piccole e non sostanziali modificazioni, corre anche oggi.

Questa, certo, è la cognizione nuova geologica, derivata dal viaggio di Carlo Darwin, la più importante e capitale. Ma è tutt'altro che la sola. Al Brasile, nei Pampas, sulle Cordigliere, dappertutto, il Darwin fece osservazioni geologiche importanti e nuove, dappertutto lasciò una traccia della sua grande abilità nello spiegare le cose osservate in questo come in tutti gli altri rami delle scienze naturali.

Bisognerebbe riportare tutto quanto il volume del Darwin per fare un po' di rassegna delle sue osservazioni in botanica e in zoologia. Dalle conferve microscopiche dell'oceano Indiano ai giganti vegetali delle foreste vergini del Brasile, dagli infusorii alle balene, lungo la sua via egli osserva tutto, e da tutto trae argomento ad osservazioni nuove, singolari, curiose, importanti e profonde.

Ma invero, ripeto, qui non è possibile una scelta; bisognerebbe riportar tutto e io non so far altro che raccomandare ancora al lettore la lettura di questo bellissimo libro.

VIII

La vita di Darwin, dopo che egli ebbe compiuto il suo viaggio, fu tutta quanta consacrata allo studio della variabilità della specie. Giova quindi cercare, nella relazione del suo viaggio, quei cenni che egli dà intorno alle cose vedute e alle idee venutegli in mente per la osservazione dei fatti che si riferiscono a questo argomento.

Presso Rio Janeiro egli trova in alcuni laghi conchiglie d'acqua dolce e in altri conchiglie d'acqua salsa, e pensa all'adattamento di certe specie all'ambiente. Ecco le sue parole:

«Lasciata Mandetiba, continuammo ad attraversare un'intricata solitudine di laghi; in alcuni di questi vi erano conchiglie d'acqua dolce, in altri d'acqua salsa. Del primo genere trovai una Limnea molto numerosa in un lago, nel quale, secondo quello che mi dissero gli abitanti, il mare entra una volta all'anno, o talora anche più sovente, e rende l'acqua al tutto salata. Son certo che si potrebbero osservare fatti molto interessanti, intorno ad animali marini e di acqua dolce, in questa serie di lagune che limita la costa del Brasile. Il signor Gay ha asserito che egli trovò, in vicinanza di Rio, conchiglie dei generi marini Solen e Mytilus, e ampullarie d'acqua dolce, che vivono assieme nell'acqua salmastra. Io ho pure osservato frequentemente nella laguna, presso il giardino botanico, ove l'acqua è solo un tantino meno salsa di quella del mare, una specie d'idrofilo, somigliantissimo ad un coleottero acquatico comune negli stagni d'Inghilterra; nello stesso lago l'unica conchiglia apparteneva ad un genere che si trova generalmente negli estuari.»

Questo adattarsi degli animali alle condizioni in cui si trovano, gli ritorna alla mente visitando un grande lago salato nella valle del Rio Negro, presso la città di Cannea o Patagones:

«Alcune parti del lago vedute non molto da lontano apparivano avere un colore rossiccio, e ciò forse deriva da animalucci infusorii. In molti punti il fango era spinto in su da un gran numero di animali vermiformi od anellidi. Quanta sorpresa desta il fatto di animali che possono vivere in mezzo a cristalli di solfato di soda e di calce! E che cosa segue di quei vermi allorchè, durante la lunga estate, la superficie si muta in un compatto strato di sale? Numerosissimi fenicotteri dimorano e vivono in quel luogo; io incontrai in tutta la Patagonia, nel Chilì settentrionale e nelle isole Galapagos, questi animali ogni qualvolta v'erano laghi salati; li vidi qui che sguazzavano intorno in cerca di cibo, probabilmente i vermi che si nascondono nel fango; questi forse si nutrono di infusori o di conferve. In tal modo abbiamo un piccolo mondo vivente in sè stesso, acconcio a questi laghi salati interni. Si dice che un piccolo crostaceo (Cancer salinus) viva in numero sterminato nelle pozzanghere salse a Lymington; ma solo in quelle ove il liquido ha acquistato, per lo svaporamento, una notevole saturazione, vale a dire, circa 93 grammi di sale in 56 centilitri d'acqua. Possiamo ben dire che ogni parte del mondo è abitabile! Tanto i laghi di sale, o quelli sotterranei nascosti sotto monti vulcanici, le sorgenti minerali calde, la sterminata distesa e il profondo degli oceani, le parti più alte dell'atmosfera, e perfino la superficie delle nevi eterne, dovunque albergano esseri organici.»

A queste parole egli aggiunge la nota seguente:

«È un fatto singolare come tutte le circostanze che hanno rapporto coi laghi salati della Siberia e della Patagonia siano somiglianti. La Siberia, come la Patagonia, sembrano esser sorte recentemente sul livello del mare. Nei due paesi i laghi salati occupano profonde depressioni nelle pianure; in entrambi il fango del margine è nero e puzzolente; sotto la crosta del sale comune si presenta il solfato di soda o di magnesia, cristallizzato imperfettamente; ed in entrambi la sabbia fangosa è mescolata a globuli lentiformi di gesso. I laghi salati della Siberia sono abitati da piccoli crostacei ed i fenicotteri ( Edin. New Philos. Jour. Gen. 1830) li frequentano parimente. Siccome queste circostanze, in apparenza tanto insignificanti, si osservano in due distanti continenti, possiamo esser certi che sono gli effetti necessari di cause comuni.—Vedi Viaggi di Pallas, 1793-1794, p. 129.»

Tre specie di uno stesso genere di funghi parassiti si trovano sopra i faggi, una specie nella Terra del Fuoco, la seconda al Chilì, la terza nella terra di Diemen, ed egli esclama:

«Quanto è singolare questa parentela fra i funghi parassiti e gli alberi sui quali crescono, in parti del mondo tanto lontane!»

Nel tragitto da Bahia Blanca a Buenos Ayres, oltrepassata la piccola città di Guardia del Monte, egli trova che nello stesso terreno a poca distanza muta l'aspetto della vegetazione, come segue pure in alcune località dell'America del nord, dove l'erba grossolana alta da uno a due metri si muta in un terreno pastorizio comune quando è pascolata dal bestiame, e soggiunge:

«Io non sono sufficientemente botanico per dire se il mutamento qui sia dovuto all'introduzione di nuove specie, all'alterazione avvenuta nel crescere di alcune, o alla differenza del loro numero proporzionale.»

La vita animale e vegetale alla Nuova Zelanda fa esclamare al Darwin:

«Rispetto agli animali, è un fatto notevolissimo, che un'isola tanto grande, che si estende sopra una latitudine di oltre 700 miglia, con varie stazioni, un bel clima e altitudini differenti, da 4200 metri in giù, non possegga nessun animale indigeno, tranne un piccolo topo. Le varie specie gigantesche di quel genere di uccelli, il Dinornis, sembrano aver qui sostituito i quadrupedi mammiferi, nello stesso modo dei rettili nell'arcipelago Galapagos. Si dice che il topo comune della Norvegia, nel breve spazio di due anni, abbia distrutto in questa parte settentrionale dell'isola le specie della Nuova Zelanda. In molti luoghi notai parecchie sorta di piante, le quali, come i topi, fui obbligato di riconoscere per compatriote. Una specie di porro aveva invaso interi distretti, e si mostrava molto incomodo, ma era stato importato come un regalo da una nave francese.

«L'acetosa comune è pure molto sparsa, e resterà, temo, prova sempiterna della scelleratezza di un inglese, che vendè i semi di quella pianta per semi di tabacco.»

I costumi degli animali, che porgono dappertutto al Darwin un campo immenso a osservazioni tanto varie quanto importanti, gli fanno scorgere come sovente certi animali modifichino il loro fare a seconda dei casi.

«Ove la viscaccia vive e scava buche, l'aguti se ne serve; ma dove, come a Bahia Blanca, la viscaccia non si trova, l'aguti si scava le tane da sè stesso. Lo stesso segue colla piccola civetta dei Pampas (Athene cunicularia), che è stata sovente descritta come sentinella di guardia all'imboccatura delle tane; perchè nella Banda Oriental, in mancanza della viscaccia, è obbligata a scavarsi la sua tana.»

Lo stesso organo viene talora adoperato da animali della stessa classe in modo assai diverso.

«Così nell'America del sud troviamo tre uccelli che adoperano le ali per altro scopo oltre il volo, il pinguino come pinne, il piroscafo come remi, e lo struzzo come vele; e l'Apterice della Nuova Zelanda, come pure il suo estinto gigantesco prototipo, il Dinornis, posseggono soltanto rudimenti di ali.»

Un serpente velenoso di Bahia Blanca, una specie di trigonocefalo, porge modo al Darwin di accennare al variar dei caratteri nella specie. Egli dice:

«Cuvier, contro il parere di alcuni altri naturalisti, fece di questo un sottogenere del serpente a sonagli, ed un intermedio fra esso e la vipera. In appoggio a questa opinione osservai un fatto, che mi sembra curiosissimo ed istruttivo, perchè dimostra come ogni carattere, anche in qualche grado indipendente della struttura, abbia una tendenza a variare lentamente. L'estremità della coda di questo serpente termina in una punta che si allarga lievissimamente, e mentre l'animale striscia, ne fa vibrare costantemente l'ultimo pezzo; e questa parte urtando l'erba ed i ramoscelli secchi produce un rumore gorgogliante, che si può distintamente udire alla distanza di circa due metri. Appena l'animale veniva irritato o sorpreso, scuoteva la coda, e le sue vibrazioni erano rapidissime. Anzi, finchè il corpo conservava la sua irritabilità, era evidente una tendenza a questo movimento consueto della coda.

«Perciò questo trigonocefalo ha, per alcuni riguardi, la struttura della vipera, ed ha i costumi del serpente a sonagli; tuttavia il rumore è prodotto da un congegno semplice.»

Nell'isola di Sant'Elena il Darwin trovò numerosissimi i topi.

«Se il topo sia realmente indigeno, è cosa molto dubbia; ve ne sono due varietà descritte dal signor Waterhouse; una è di color nero, con una bella pelliccia lucente, e vive sulla cima erbosa; l'altra di color bruno e meno brillante, con peli più lunghi, vive presso lo stabilimento della costa. Queste due varietà sono un terzo più piccole del topo nero comune (M. rattus) e differiscono da esso tanto nel colore quanto nel carattere della loro pelliccia, ma non in nessun altro punto essenziale. Io posso appena mettere in dubbio che questi topi (come il topo comune, che si è rinselvatichito), non siano stati importati, e come alle Galapagos, abbiano variato per effetto delle nuove condizioni a cui sono stati esposti; così la varietà della cima dell'isola differisce da quella della costa.»

Nelle isole Falkland:

«Il coniglio è un altro animale che è stato introdotto, ed è riuscito benissimo, cosicchè è molto abbondante in varie parti dell'isola. Tuttavia, come i cavalli, i conigli stanno entro certi limiti; perchè non hanno varcato la catena centrale di colline, e neppure si sarebbero estesi alla base di queste se, come mi hanno detto i gauchos, non ne fossero state colà portate alcune piccole colonie. Non avrei mai supposto che questi animali, originari dell'Africa settentrionale, avrebbero potuto vivere in un clima tanto umido come questo, e che gode di così poco sole che anche il frumento matura solo qualche volta. Si asserisce che in Svezia, dove ognuno crederebbe essere un clima più favorevole, il coniglio non può vivere all'aria aperta. Inoltre, le prime poche paia hanno dovuto contendere contro i nemici indigeni, cioè la volpe ed alcuni grossi avoltoi. I naturalisti francesi hanno considerato la varietà nera come una specie distinta, e l'hanno chiamata Lepus magellanicus. Essi credono che Magellano, quando parlava di un animale chiamato Conegos, nello stretto di Magellano, si riferisse a questa specie; ma egli alludeva ad una piccola cavia, che anche oggi vien così chiamata dagli spagnuoli. I gauchos ridevano all'idea che la specie nera fosse differente dalla grigia, e dicevano che in ogni caso non aveva estesa la sua cerchia più in là di quello che avesse fatto la specie grigia, che le due non erano mai state trovate separate, e che si riproducono insieme facendo prole pezzata. Di quest'ultima posseggo ora un esemplare, ed è macchiato verso il capo differentemente dalla descrizione specifica francese. Questa circostanza dimostra quanto cauti debbono essere i naturalisti nel fare nuove specie, perchè anche Cuvier, guardando il cranio di uno di questi conigli, credette che fosse probabilmente distinto.»

Nella stessa località, parlando delle bovine, avverte come esse differiscano molto nei colori e come nelle varie parti della piccola isola predomini questo o quel colore.

«Intorno al monte Usborne, all'altezza di 300 a 450 metri sopra il livello del mare, la metà circa delle mandre è di color topo o piombino, tinta poco comune nelle altre parti dell'isola. Presso Porto Pleasant predomina il bruno scuro, mentre al sud dello stretto di Choiseul (che divide quasi l'isola in due parti) sono comunissimi gli animali bianchi, colla testa e i piedi neri; in tutte le parti s'incontrano animali neri e macchiettati. Il capitano Sulivan osserva che la differenza nei colori dominanti era tanto evidente, che guardando le mandre presso Porto Pleasant, sembravano da lontano macchie nere, mentre al sud dello stretto Choiseul apparivano come macchie bianche sui fianchi della collina. Il capitano Sulivan crede che le mandre non si mescolino; ed è un fatto singolare che il bestiame color topo, sebbene viva sui terreni montuosi, partorisce quasi un mese prima che non le altre bovine colorite della pianura. È così interessante vedere come il bestiame un tempo domestico si sia diviso in tre colori, di cui uno probabilissimamente finirà per prevalere sugli altri, qualora le mandre siano lasciate tranquille per parecchi altri secoli.»

Nella Banda Oriental il Darwin trova una razza di bovine veramente molto singolare, di cui parla nei termini seguenti:

«Incontrai due volte in questa provincia alcuni buoi di una curiosissima razza detta Náta o Niata. Sembrano esternamente avere quasi la stessa affinità coll'altro bestiame, come ha il cane mastino cogli altri cani. La loro fronte è brevissima e larga, colla punta nasale rivolta in su ed il labbro superiore molto all'indietro; la mascella inferiore sporge oltre la superiore, ed ha una curva corrispondente all'insù; quindi i loro denti sono sempre scoperti. Le narici sono collocate in alto e molto aperte; gli occhi sporgono all'infuori. Quando camminano portano il capo basso sopra un corto collo, e le loro zampe posteriori sono alquanto più lunghe delle anteriori che non sogliano essere. I loro denti scoperti, il capo corto, le narici rivolte in su, danno loro un aspetto semifiducioso, semi-provocante, quanto si può immaginare ridicolo.

«Dopo il mio ritorno, ho ottenuto il cranio di uno di questi animali, per la gentilezza d'un mio amico, il capitano Sulivan R. N.; questo cranio ora si trova nelle collezioni del Collegio dei Chirurghi. Don F. Muniz di Luxan ha raccolto cortesemente per me tutte le informazioni che ha potuto avere intorno a questa razza. Dalla sua relazione appare che circa ottanta o novant'anni fa questi animali fossero rari e tenuti come curiosità a Buenos Ayres. Si crede generalmente che questa razza abbia avuto origine fra gli Indiani al sud del Plata, e che presso di essi fosse comunissima. Anche oggi, quelli allevati nelle provincie presso il Plata svelano la loro origine meno incivilita, essendo più fieri del bestiame comune, ed abbandonando la femmina il suo primo piccolo, quando è visitata o disturbata troppo sovente. È un fatto singolare che una struttura quasi simile alla anormale come quella della razza niata, caratterizza, secondo quello che mi ha riferito il dottor Falconer, quel grosso ruminante estinto dell'India che si chiama il Sivatherium. La razza è purissima, ed un toro ed una vacca niata producono invariabilmente vitelli niata. Un toro niata con una vacca comune, o l'incrociamento opposto, producono prole munita di caratteri intermedii, ma quelli della razza niata sono spiccati: secondo il signor Muniz, vi sono prove evidenti, contrarie alla credenza comune degli agricoltori in casi analoghi, che la vacca niata, quando è incrociata con un toro comune, trasmette le sue particolarità più fortemente che non il toro niata quando viene incrociato con una vacca comune. Quando l'erba è abbastanza alta, il bestiame niata mangia colla lingua e col palato come le bovine comuni; ma durante le grandi siccità, quando muoiono tanti animali, quelli della razza niata soffrono maggiormente, e sarebbero distrutti se non fossero accuditi; perchè il bestiame comune, come i cavalli, può mantenersi in vita, brucano colle labbra sui rami degli alberi e nei canneti; i niata non possono far questo tanto bene perchè le loro labbra non si congiungono, e quindi si è osservato che muoiono prima del bestiame comune. Questo fatto mi ha colpito come una buona prova della difficoltà che abbiamo a giudicare, dai costumi ordinarii della vita, in quali circostanze, che si presentano solo a lunghi intervalli, si possa determinare lo scarseggiare o lo estinguersi di una specie.»

Nell'isola di Sant'Elena:

«Sulle parti più alte dell'isola, un numero notevole di una specie di conchiglia, lungamente creduta marina, si trova incorporata nel terreno. È riconosciuta essere una Cochlogenas, o conchiglia terragnola di una forma particolarissima; unita a quella trovai altre sei specie; ed in un altro punto un'ottava specie. È notevole che non se ne trovi una vivente. La loro estinzione è stata probabilmente cagionata dall'intiera distruzione dei boschi, e dalla conseguente perdita di cibo e di ricovero, che seguì durante la prima parte dello scorso secolo.»

Parlando delle isole Galapagos, che gli porsero campo ad osservazioni zoologiche di grande importanza su certe specie di rettili che vi trovò e descrisse, egli dice:

«La storia naturale di queste isole è sommamente curiosa e merita bene tutta la nostra attenzione. La maggior parte dei prodotti organici sono creazioni aborigene che non s'incontrano in nessun'altra parte; vi è anche una differenza fra gli abitanti delle varie isole; tuttavia mostrano tutti una spiccata affinità con quelli dell'America, sebbene siano separati da quel continente da un vasto spazio di mare, largo circa 500 a 600 miglia. L'arcipelago è in sè stesso un piccolo mondo, o meglio un satellite attaccato all'America, dal quale ha tratto alcuni pochi coloni dispersi, ed ha ricevuto il carattere generale delle sue produzioni indigene. Considerando la piccola mole di queste isole, sentiamo maggior meraviglia pel numero dei loro esseri aborigeni, e per la ristretta cerchia di questi. Vedendo ogni altura coronata dal suo cratere, ed i limiti della maggior parte delle correnti di lava ancor distinti, siamo indotti a credere che durante un periodo geologicamente recente, lo sconfinato oceano coprisse qui ogni cosa. Quindi, tanto nello spazio, quanto nel tempo, ci pare di esserci in certo modo avvicinati a quel grande fatto—quel mistero dei misteri—la prima comparsa di nuovi esseri su questa terra.»

Se è per Darwin il mistero dei misteri il comparire di nuovi esseri sulla terra, egli ci vede assai più chiaro nello scomparire delle specie e nel legame fra le specie fossili e le viventi.

«L'affinità, sebbene lontana, tra la macrauchenia ed il guanaco, tra il toxodon ed il capibara,—l'affinità ancor più stretta fra i tanti sdentati estinti ed i viventi tardigradi, formichieri ed armadilli, ora così grandemente caratteristici della zoologia del sud America—e l'affinità ancor più stretta fra le specie fossili e viventi di Ctenomys ed Hydrochaerus, sono fatti interessantissimi. Questa affinità è dimostrata meravigliosamente—tanto meravigliosamente quanto quella fra gli animali marsupiali fossili ed estinti dell'Australia—dalla grande collezione portata ultimamente in Europa dalle caverne del Brasile dai signori Lund e Clausen. In questa collezione vi sono specie estinte di tutti i trentadue generi, eccetto quattro dei quadrupedi terrestri che abitano ora le provincie in cui si trovano queste caverne, e le specie estinte sono molto più numerose che non quelle viventi oggi; vi sono fossili formichieri, armadilli, tapiri, pecari, guanachi, opossum, tutti fossili, ed un gran numero di rosicanti del nord America, di scimmie e di altri animali. Questa meravigliosa affinità nello stesso continente fra i morti ed i vivi, spargerà, senza dubbio, in seguito maggior luce sull'aspetto degli esseri organici del nostro globo e la loro scomparsa da esso, che non qualunque altra classe di fatti.

«È impossibile pensare al mutamento seguìto nel continente americano senza provare la più profonda meraviglia. Anticamente esso deve aver brulicato di enormi mostri; ora non troviamo che pigmei, se si comparano colle razze affini antecedenti. Se Buffon avesse conosciuto i giganteschi animali simili al tardigrado ed all'armadillo, ed i perduti pachidermi, egli avrebbe potuto dire con maggior verità che la forza creatrice aveva perso in America il suo potere, piuttostochè dire che essa non aveva mai avuto grande vigore. La maggior parte, se non tutti, di questi quadrupedi estinti vivevano in un periodo recente, ed erano contemporanei della maggior parte delle conchiglie marine viventi. Dal tempo in cui vivevano non può essere seguìto nessun grande mutamento nella forma del terreno. Che cosa adunque può avere distrutto tante specie o interi generi? La mente dapprima è irresistibilmente indotta a credere a qualche grande catastrofe, ma per distruggere in tal modo animali tanto grandi che piccoli, nella Patagonia meridionale, nel Brasile, nelle Cordigliere del Perù, nel nord America sino allo stretto di Behring, noi dobbiamo scuotere tutta l'ossatura del globo. Inoltre, l'esame della geologia del Plata e della Patagonia induce a credere che tutti i profili del terreno risultano da mutamenti lenti e graduati. Dal carattere dei fossili in Europa, in Asia, nell'Australia e nell'America settentrionale e meridionale, sembra che le condizioni che favoriscono la vita dei quadrupedi più grossi fossero estese per tutto il mondo; quali fossero queste condizioni nessuno fin'ora ha saputo trovare. Non può essere stato neppure un mutamento di temperatura quello che abbia nello stesso tempo distrutti gli abitanti delle latitudini tropicali temperate ed artiche nelle due parti del globo. Sappiamo positivamente dal signor Lyell che nel nord America i grossi quadrupedi vivevano dopo quel periodo in cui i massi erratici erano portati in latitudini ove oggi non giungono mai i ghiacci; da varie cagioni indirette ma concludenti possiamo esser certi che nell'emisfero meridionale anche la macrauchenia viveva molto dopo il periodo in cui i ghiacci trasportavano i massi erratici. Potrebbe l'uomo, dopo la sua prima invasione nell'America del sud, aver distrutto, come è stato supposto, i pesanti megaterii e gli altri sdentati? Dobbiamo almeno cercare qualche altra causa per la distruzione del piccolo tucutuco a Bahia Blanca, e di molti topi fossili ed altri piccoli quadrupedi del Brasile. Nessuno supporrà che una siccità, anche più terribile di quelle che sono causa di tante perdite nelle provincie del Plata, avrebbe potuto distruggere ogni individuo ed ogni specie dalla Patagonia meridionale allo stretto di Behring. Che cosa diremo dell'estinzione del cavallo? Queste pianure, che sono state poi percorse da migliaia e centinaia di migliaia di discendenti della razza introdotta dagli spagnuoli, hanno forse mancato di pascoli? Le specie introdotte dopo hanno esse consumato il cibo delle razze antecedenti? Possiamo noi credere che il capibara abbia preso il cibo del toxodon, il guanaco quello della macrauchenia, i piccoli sdentati viventi quello dei numerosi loro giganteschi prototipi? Certo, nessun fatto nella lunga storia del mondo è tanto notevole quanto le vaste e ripetute distruzioni dei suoi abitanti.

«Nondimeno, se noi consideriamo questo argomento da un altro punto di vista, ci sembrerà meno incerto. Noi non teniamo presente alla mente la profonda ignoranza in cui siamo delle condizioni di vita di ogni animale, nè ci ricordiamo sempre che un qualche ostacolo impedisce costantemente il troppo rapido accrescimento di ogni essere organizzato lasciato allo stato di natura. In media la provvista del cibo rimane costante; tuttavia la tendenza di ogni animale a crescere colla propagazione è geometrica; ed i suoi effetti sorprendenti non sono stati in nessun luogo più meravigliosamente dimostrati, come nel caso degli animali europei che si sono rinselvatichiti in America durante gli ultimi secoli. Ogni animale allo stato di natura si riproduce regolarmente; tuttavia, in una specie da lungo tempo stabilita ogni grande accrescimento di numero è evidentemente impossibile e deve essere arrestato in qualche modo. Tuttavia raramente possiamo dire con certezza, di una data specie, a qual periodo di vita o a qual periodo dell'anno segua questo ostacolo, se solo abbia luogo a lunghi intervalli, o anche quale sia la vera natura di questo ostacolo. Da ciò probabilmente segue che proviamo pochissima sorpresa, vedendo due specie, strettamente affini nei costumi, essere una rara e l'altra abbondante nello stesso distretto, ovvero anche, che una si trovi numerosa in un distretto, ed un'altra, che compie lo stesso ufficio nell'economia della natura, abbondi in una regione vicina che differisce pochissimo nelle sue condizioni. Se ci viene domandato come questo segua, si risponde immediatamente che deriva da qualche lieve differenza nel clima, nel cibo, o nel numero dei nemici; tuttavia quanto raramente, se pur mai, possiamo segnare la causa precisa e il modo di azione dell'ostacolo! Perciò siamo indotti a concludere, che certe cause, quasi sempre al tutto inapprezzabili da noi, determinano se una data specie sarà in numero abbondante o scarsa.

«Nei casi in cui noi possiamo segnare l'estinzione prodotta dall'uomo di una specie, sia entro una vasta od una limitata cerchia, sappiamo che essa diviene sempre più rara finchè sia perduta; sarebbe difficile segnare una qualche esatta distinzione fra una specie distrutta dall'uomo o dall'accrescimento dei suoi naturali nemici. L'evidenza della scarsità che precede l'estinzione è più notevole negli strati terziari successivi, come è stato notato da parecchi insigni osservatori; è stato sovente veduto che una conchiglia, molto comune in uno strato terziario, sia ora rarissima, e sia stata per lungo tempo anche creduta estinta. Se dunque, come appare probabile, le specie cominciano a divenir rare e poi si estinguono; se il troppo rapido accrescimento d'ogni specie, anche fra le più favorite, è certamente arrestato, come dobbiamo riconoscere, sebbene sia difficile dire come e quando, e se noi vediamo senza la più piccola sorpresa, sebbene non possiamo conoscerne la vera ragione, una specie abbondante ed un'altra strettamente affine rara nello stesso distretto, perchè proveremo noi tanta meraviglia di ciò, che lo scarseggiare faccia ancora un passo e giunga all'estinzione? Un'azione che procedesse intorno a noi, fosse anche appena apprezzabile, potrebbe certamente essere spinta un po' più avanti senza eccitare la nostra osservazione. Chi proverebbe molta sorpresa udendo che il megalonyx era anticamente raro a petto di una delle scimmie viventi? E tuttavia in questa comparativa scarsità noi abbiamo la più chiara prova delle condizioni meno favorevoli alla loro esistenza. Ammettere che le specie divengano generalmente rare prima di estinguersi; non sentir sorpresa della comparativa scarsità di una specie rispetto ad un'altra, e tuttavia attribuire a qualche agente straordinario l'estinzione di una specie e maravigliarsene grandemente, mi sembra quasi lo stesso come ammettere che la malattia nell'individuo è il preludio della morte; non sorprendersi della malattia, ma quando l'ammalato muore meravigliarsi, e credere che sia morto violentemente.»

Parlando poi dei viventi lungo i due pendii delle Ande, egli dice:

«Rimasi molto colpito dalla notevole differenza che esiste fra la vegetazione di queste valli orientali e di quelle del versante chiliano; tuttavia il clima come pure la natura del terreno è quasi la stessa, e la differenza di longitudine non ha importanza. La stessa osservazione vale pei quadrupedi ed in un grado minore per gli uccelli e gli insetti. Posso citare il topo, di cui ne ottenni sedici sulle spiaggie dell'Atlantico, e cinque su quelle del Pacifico, e nessuna di esse era identica. Dobbiamo eccettuare tutte quelle specie che consuetamente o per caso frequentano le alte montagne, e certi uccelli che si estendono al sud fino allo stretto di Magellano. Questo fatto concorda perfettamente colla storia geologica delle Ande; perchè quei monti hanno esistito come una grande barriera, dacchè le presenti razze di animali sono comparse, e perciò, a meno di supporre che le stesse specie siano state create in luoghi differenti, non dobbiamo aspettarci nessuna più intima somiglianza tra gli esseri organici dei versanti opposti delle Ande, che non fra quelli delle sponde opposte dell'oceano. Nei due casi, dobbiamo lasciare in disparte quelle specie che hanno potuto varcare la barriera, sia di roccia solida come di acqua salsa.»

A queste parole egli soggiunge in nota: «Questo è semplicemente un esempio delle leggi meravigliose, dimostrate per la prima volta dal signor Lyell, sulla distribuzione geografica degli animali, sottomessa all'azione dei mutamenti geologici. Naturalmente, tutta la teoria è fondata sulla credenza dell'immutabilità delle specie, altrimenti la differenza nelle specie di due regioni potrebbe essere considerata come seguita durante un lunghissimo tratto di tempo.»

Leggasi finalmente quanto segue:

«Il tucutuco ( Ctenomys brasiliensis ) è un curioso animaletto, che si può descrivere in poche parole, dicendo che è come un rosicante coi costumi di una talpa. È numerosissimo in alcune parti del paese, ma è difficile da ottenere, e non viene mai, credo, alla superficie del terreno. Ammucchia all'imboccatura della sua tana monticelli di terra come quelli della talpa, ma più piccoli. Grandi tratti di paesi sono scavati per modo da questi animali, che i cavalli nel passare si affondano fin sopra al pasturale. Il tucutuco appare, fino ad un certo grado, di costumi gregari; l'uomo che me ne procurò alcuni esemplari ne aveva presi sei insieme, e diceva che questo era il caso consueto. Fanno vita notturna; ed il loro cibo principale è la radice delle piante, che sono lo scopo dei loro scavi tanto estesi e superficiali. Si scuopre generalmente questo animale per un rumore speciale che fa quando è sotto terra. Colui che lo sente per la prima volta rimane molto sorpreso, perchè non può facilmente spiegarsi donde venga, nè può comprendere quale sorta di creatura lo possa produrre. Il rumore consiste in un grugnito breve, ma non nasale nè aspro; e questo grugnito è ripetuto monotonamente circa quattro volte in fretta; il nome di tucutuco gli è stato dato per imitazione di questo suono. Dove questo animale abbonda si può sentire in tutte le ore del giorno, e alle volte precisamente sotto i propri piedi. Quando si tiene in una stanza, il tucutuco si muove lentamente e goffamente, ciò che sembra doversi attribuire al movimento che fanno all'infuori le zampe posteriori, le quali non possono affatto, per la mancanza di un certo legamento nel cavo articolare della coscia, fare il benchè minimo salto. Allorchè tentano fuggire sono stupidissimi; quando sono in collera o spaventati mandano il loro grido di tucu-tuco. Di quelli che tenni vivi, parecchi, anche dal primo giorno, divennero al tutto fiduciosi, non tentando di mordere nè di fuggire, altri erano un po' più selvatici.

«L'uomo che li aveva presi mi disse che se ne trovavano moltissimi ciechi. Un esemplare ch'io osservai nell'alcool era in questo stato; il signor Reid considerava ciò come un effetto dell'infiammazione della membrana nittitante. Quando l'animale era vivo, gli accostai il dito fino a due centimetri dal capo, e non se ne accorse affatto; tuttavia, sapeva come gli altri girare per la stanza. Considerando i costumi al tutto sotterranei del tucutuco, la cecità, sebbene tanto comune, non può essere un male molto serio; tuttavia appare strano che un animale qualunque abbia un organo il quale tanto sovente corre rischio di venire ammalato. Lamarck sarebbe stato contentissimo di questo fatto, se lo avesse conosciuto, quando meditava (probabilmente con maggior verità di quello che non fosse solito) sulla cecità gradatamente acquistata dello spalace, rosicante che vive sotterra, e del proteo anguino, rettile che vive entro buie caverne piene d'acqua; entrambi questi animali hanno l'occhio in uno stato quasi rudimentale, e coperto da una membrana tendinosa e dalla pelle. Nella talpa comune l'occhio è sommamente piccolo, ma perfetto, sebbene molti anatomici non siano ben certi che abbia relazione col vero nervo ottico; la sua vista deve essere certo imperfetta, sebbene probabilmente sia utile all'animale quando esce dalla sua tana. Nel tucutuco, che io non credo venga mai alla superficie del suolo, l'occhio è piuttosto più grande, ma spesso diviene cieco ed inutile, sebbene ciò non rechi, a quanto pare, grande disturbo all'animale; senza dubbio Lamarck avrebbe detto che il tucutuco sta ora operando il suo passaggio allo stato dello spalace e del proteo anguino.»

[Pg 110][Pg 111]

IX

I viventi, animali e piante, che vediamo oggi intorno a noi tanto numerosi, pei mari, sulla terra, nell'aria, dappertutto, sono essi proprio somiglianti ai loro antenati più remoti? Le forme dei viventi non hanno mutato col volgere dei secoli? Sono essi, i viventi, oggi tali e quali furono i loro primi progenitori?

Ecco un quesito che generalmente l'uomo non si è guari fatto, risolvendo preventivamente la quistione in modo affermativo.

L'uomo, in generale, ha creduto e crede che le forme dei viventi non abbiano mutato e che quelle che vediamo oggi non differiscano da quelle che le precedettero di generazione in generazione e non siano per differire quelle che di generazione in generazione terranno loro dietro.

Il pino sul monte, il delfino nel mare, il leone nella foresta, il lombrico nel terreno, non incominciarono altrimenti che coll'essere un pino, un delfino, un leone, un lombrico, con quelle forme appunto e quei caratteri e quel modo di vita in cui vi si mostrano oggi.

Una prima coppia di progenitori ha potuto dare origine a quel numero sterminato di individui che si sono poi andati e si andranno ancora moltiplicando, o anche un individuo solo, perchè non sempre è necessario il concorso di due individui alla riproduzione. Ma quei primi riproduttori avevano appunto le forme, i caratteri, il modo di vita di tutta la loro discendenza.

A questa discendenza da una coppia di progenitori, o anche da un solo progenitore in quei casi in cui va così la cosa, fu dato il nome di specie. Partendo dal concetto della piena somiglianza dei primi progenitori con tutta la loro discendenza si disse essere la specie immutabile, o fissa, mentre il concetto opposto ammetterebbe la variabilità di essa.

Nel sentimento del volgo la immutabilità della specie è un fatto fermo. Tale fu anche per la maggioranza dei dotti, ma non per tutti.

Molto erroneamente si suol dire oggi che Carlo Darwin sia stato il primo a mettere in campo il principio della variabilità della specie. La cosa va ben altrimenti ed egli fu in ciò tutt'altro che il primo.

Quegli studiosi che trattano oggi questo argomento con qualche cura, dimostrano che Carlo Darwin ebbe in ciò molti predecessori.

È cosa degnissima di nota che fu predecessore di Carlo Darwin nel sostenere la variabilità della specie il suo nonno paterno, Erasmo Darwin, che nei suoi libri si dava modestamente il titolo di medico di Derby, e che in sul finire dello scorso secolo menò molto rumore coi suoi scritti in Inghilterra e anche fuori.

Ebbe veramente Erasmo Darwin un ingegno sommamente colto e originale. Fu medico valente, studiosissimo dell'anatomia e della fisiologia, filosofo investigatore, naturalista profondo e nella botanica segnatamente eruditissimo, e poeta, certo fornito di una propria e rimarchevole individualità.

Anche oggi in Inghilterra è popolare il suo poemetto che egli intitolò Giardino botanico, il quale, mutandogli il titolo in quello di Amori delle piante, tradusse in sciolti italiani il medico Giovanni Gherardini di Milano.

Il poema è in quattro canti; fra il primo e il secondo canto, il secondo e il terzo, e il terzo e il quarto v'ha sempre un intermezzo che l'autore intitola: Dialogo fra il poeta e il suo libraio e in cui espone certi suoi concetti d'arte poetica con molta arguzia e con molta evidenza.

Erasmo Darwin volle fare al tempo suo col verso per le piante ciò che il Grandville volle fare al tempo nostro colla matita. Entrambi riuscirono quanto era possibile in tal sorta di cimento. Ma nello stesso modo in cui non sempre nei disegni del Grandville riesce sodisfacente la espressione dei suoi fiori animati, così nel poema del Darwin vi lascian talora freddi quei pastorelli in vario numero, che son poi gli stami, e quelle ninfe che sono i pistilli. Ma splendono di viva luce certi tratti del poema, sono brevi, efficaci, di calde tinte certe descrizioni e sono poi rimarchevolissime le note che tengon dietro a ogni canto, nelle quali veramente brilla il grande ingegno e l'animo nobile e buono dell'autore.

Erasmo Darwin ha pur esso in certo grado quella bella qualità che ha in grado altissimo il suo sommo nipote, di farsi amare nei suoi scritti.

Nelle note ai quattro canti del suo poema Erasmo Darwin appare, siccome ho già detto, botanico eruditissimo, medico valente, filosofo osservatore, uomo di cuore. Sono nobilissime alcune sue parole intorno all'abuso degli alcoolici in Inghilterra. Certi tocchi intorno ai caratteri delle piante, alla loro vita, al legame loro cogli animali, alla eredità e allo ibridismo colpiscono per lo stretto rapporto che hanno col concetto delle variabilità delle specie.

Ma questo concetto egli lo doveva esprimere poi più chiaramente nella zoonomia, che veramente è un'opera meritevole della maggiore attenzione.

La zoonomia di Erasmo Darwin venne pubblicata in Inghilterra nel 1794 e poco dopo tradotta in tedesco dal Brandis. Fu anche tradotta in italiano, e ne fu traduttore un medico che ebbe gran fama ai suoi tempi ed ebbe pure nobile cuore di patriota, Giovanni Rasori. Il Rasori dava tanta importanza alla zoonomia di Erasmo Darwin che volle che fosse conosciuta nella nostra lingua prima di pubblicare la sua teoria del controstimolo e, non facendo altri la traduzione, si accinse a farla e la compì egli stesso. La prefazione che egli mise in capo a questa sua traduzione ha la data del 3 gennaio 1803. Il primo volume fu pubblicato in Milano, dai signori Pirotta e Maspero, stampatori librai in Santa Margherita, in quell'anno 1803, l'ultimo nel 1805.

Erasmo Darwin aveva compiuto già da oltre vent'anni la maggior parte del suo lavoro quando si accinse a pubblicarlo. Questo lavoro è diviso in tre parti; la prima e più lunga contiene una serie di considerazioni tanto svariate quanto importanti intorno ai viventi; la seconda si riferisce alle malattie, alla loro enumerazione, alla loro classificazione, alla loro cura; la terza parla dei medicamenti e della loro azione.

Naturalmente, la prima parte soltanto è quella di cui qui mi devo occupare.

Un capitolo notevolissimo tratta della vita delle piante, della affinità tra le piante e gli animali, stimando che le piante si devono tenere in conto come di animali inferiori; dimostrasi come un albero dicotiledone si deve tenere in conto di un complesso di individui piuttostochè di un individuo solo, e come ciò si deva dire di molti animali marini, che in quel tempo venivan giudicati individui e sono invece realmente un complesso d'individui collegati. Tratta a lungo dei movimenti delle piante, della loro irritabilità, le crede suscettive di sensazioni, e si ferma su certi fenomeni speciali e fra gli altri su quelli presentati dalla Drosera. Questo capitolo è intitolato della Animazione vegetabile. Che cosa poi egli intenda per animazione, l'autore dice più tardi in un altro capitolo dove tratta della produzione delle idee:

«Colla denominazione di spirito di animazione o potenza sensoria, io intendo soltanto quella vita animale che l'uomo possiede in comune coi bruti, ed alcun poco persino coi vegetabili; e abbandono la porzione immortale di lui, oggetto di religione, all'indagine di quelli che trattano della rivelazione.»

Un capitolo importantissimo della zoonomia di Erasmo Darwin è consacrato all'istinto; in questo capitolo splende la vastissima erudizione di quel grande naturalista, come lo acume della sua osservazione e la finezza del suo criterio. Egli dice sostanzialmente che nello istinto non v'ha nulla di cieco e di fatalmente necessario, ma che gli atti che si chiamano istintivi si modificano e si mutano a norma delle circostanze. Passa in rassegna gli atti della vita di tutti gli animali, ma si ferma principalmente su quelli degli animali superiori e parla a lungo delle migrazioni degli uccelli e del loro nidificare, e di certe circostanze speciali in cui tanto le migrazioni quanto le costruzioni dei nidi si sono modificate e si vanno modificando; parla degli animali domestici e di parecchi atti della vita tanto degli animali domestici quanto dei selvatici, che rivelano un ammaestramento attuale ed ereditario. Questo capitolo finisce così:

«Le idee e le azioni dei bruti, simili in ciò a quelle dei fanciulli, sono quasi sempre il prodotto dei loro piaceri e dolori presenti, e.... raro è che gli animali si occupino dei mezzi onde procurarsi felicità futura o sfuggire futura infelicità, laddove l'acquisto della lingua, l'esercizio delle arti, e ogni modo di industriarsi per guadagnar danaro, nel che consistono finalmente tutti i mezzi onde procurarsi dei piaceri, e così pure l'indirizzar preci a qualche divinità, come altro mezzo con cui parimente procurarsi alcuna felicità, formano il tratto proprio e caratteristico della umana natura.»

Rispetto all'argomento di cui parliamo qui, la variabilità della specie, la discendenza degli animali gli uni dagli altri, il loro adattamento alle condizioni esterne, il capitolo più importante della zoonomia di Erasmo Darwin è quello in cui tratta della generazione, nel quale espone a lungo gli argomenti in favore di questi concetti, ripete e sviluppa quello che ha esposto altrove e accenna a una certa insita virtù dell'organismo, produttrice di mutamenti più o meno profondi.

Tanto nella zoonomia quanto nelle note del Giardino botanico, Erasmo Darwin si ferma a considerare i colori degli animali in rapporto alle condizioni della loro vita.

«I colori degli insetti e di molti piccoli animali contribuiscono a nasconderli alla vista di altri animali che li depredano. I bruchi che vivono nelle foglie, sono generalmente verdi; e i vermi terrestri sono del color della terra in cui abitano; le farfalle sono dipinte alla foggia dei fiori che frequentano; gli uccelletti che svolazzano fra le siepi, hanno il dorso verdiccio come le frondi, e il ventre d'un color chiaro come quello del cielo, lochè li rende meno visibili al falcone che passa sopra e sotto di loro. Quelli uccelletti che amano di stare in mezzo ai fiori, come il cardellino, sono forniti di colori vivaci. L'allodola, la pernice, la lepre hanno il colore delle stoppie e della terra ove dimorano. Le rane cangiano il loro colore secondo il fango dei rigagnoli dove s'abbicano; e quelle che vivono sopra li alberi sono verdi. I pesci che aggiransi generalmente a fior d'acqua e le rondini che generalmente volteggiano nell'aria, per lo più hanno il dorso del color della terra e la pancia del color del cielo. Ne' climi più freddi, molti di questi animali diventano bianchi durante i mesi nevosi.»

In altra parte in cui Erasmo Darwin ritorna su questo argomento dei colori degli animali e considera anche la cosa negli animali domestici, il fatto lo colpisce, ne apprezza tutta la utilità, ma non ne sa rinvenire la causa efficiente.

«Dei quali colori facilmente si comprende la causa finale, in quanto che servono all'animale per qualche uso; ma la causa efficiente sembra quasi al di là d'ogni conghiettura.»

La presenza di mammelle nei maschi fa dire a Erasmo Darwin: «Forse ciò si deve a qualche cambiamento a cui hanno soggiaciuto questi animali nel progresso graduale della formazione della terra e di tutti gli esseri che l'abitano.»

Degnissimi di attenzione sembrano all'autore i cambiamenti in cui sono venuti gli animali domestici e li espone lungamente. Quanto ai cambiamenti avvenuti negli animali in natura, giova riferire testualmente quanto segue:

«Un gran bisogno d'una parte del mondo animale ha dovuto consistere nel desiderio dell'esclusivo possesso delle femmine; e a tal effetto, per combattere cioè l'uno contro dell'altro, siffatti animali acquistarono armi, come per esempio la cute densissima, aculeiforme, cornea della spalla dell'orso, è soltanto una difesa contro gli animali della propria specie di lui, che menano colpi obliquamente all'insù; e certi denti di lui non hanno neppur essi altro uso, tranne quello di servirgli di difesa, perchè egli non è naturalmente animale carnivoro. Così le corna del cervo sono acute per offendere l'avversario, ma sono ramose appunto per parare e ricevere i rami delle corna di cervio simile a lui, e sono perciò state formate all'uopo di combattere contro altri cervi per l'esclusivo possesso della femmina; e queste poi, come soleano le dame dell'antica cavalleria, stanno attendendo per darsi premio al vincitore.

«Gli uccelli che non portano alimento alla loro prole, e che per conseguenza non si maritano, sono armati di speroni onde combattere per l'esclusivo possesso della femmina, come sono i galli e le quaglie. Certo è che queste armi non sono date loro per difendersi da altri avversarii, giacchè le femmine della medesima specie ne son prive....»

E qui io mi fermo prima di proseguire nella citazione e prego il mio lettore di badare alle parole che seguono, le quali sono nel volume terzo della traduzione italiana della edizione soprammenzionata, a pagina 229, linea 8.

«Sembra poi che la causa finale di questa guerra tra maschi sia quella che la specie venga propagata dagli animali più forti e più attivi, e vada perciò perfezionandosi.»

Non è d'uopo che io dica al mio lettore perchè l'ho fermato qui e l'ho invitato a badar bene alle parole citate. Proseguo nella citazione.

«Un altro gran bisogno consiste nei mezzi di procurarsi alimenti, e questo bisogno ha diversificate le forme di tutte le specie degli animali. Per esso il naso del porco s'indurì onde poter volgere sossopra il terreno in cerca d'insetti e di radici. La tromba dell'elefante è un allungamento del naso ad oggetto di poter tirar giù i rami degli alberi di cui si ciba, ed assorbir l'acqua che beve, senza aver d'uopo di piegar le ginocchia. Gli animali da preda hanno acquistato forti artigli e valenti mascelle. I bovi e le pecore, una lingua ed un palato aspri per cacciar giù gli steli delle erbe. Alcuni uccelli, come il pappagallo, becchi più duri per poter romper le noci. Altri, come i passeri, becchi adattati a rompere i semi duri. Altri, come gli uccelli di becco gentile, li hanno adattati a più molli semi di fiori, o a gemme d'alberi. Alcuni hanno acquistato becchi lunghi, capaci di penetrare nel terreno inumidito in traccia d'insetti e di radici, come sono le beccacce; ed alcuni altri li hanno larghi per filtrare le acque dei laghi, e ritenersi gli insetti acquatici di cui si nutrono. Tutte le quali parti sembrano essere state gradatamente prodotte pel lungo tratto di molte e molte generazioni dai perpetui sforzi degli animali stessi per provvedere al bisogno d'alimento, e tramandate alla rispettiva progenie con quel costante perfezionamento che andarono acquistando nel servire a quelli usi determinati.

«Il terzo gran bisogno degli animali è quello della sicurezza; e questo pure sembra aver molto contribuito a diversificare le forme ed il colore dei loro corpi, ed è quello che produce i mezzi di evitare la persecuzione degli animali più forti. Quindi alcuni animali, come gli augelli più piccoli, acquistarono ale invece di gambe, onde poter viemeglio fuggire, altri si formarono gran lunghezza di pinne o di membrane, come il pesce volante ed il pipistrello, altri gran velocità di gambe, come la lepre; ed altri dure scorze ed armate, come la tartaruga e l' echinus marinus.

«Gli artifizi all'uopo di mettersi in sicuro, si estendono sino ai vegetabili, come vediamo nei vari e meravigliosi mezzi con cui nascondono e difendono il miele dagli insetti, ed i semi dagli uccelli. D'altra parte il falcone e la rondine hanno acquistato gran velocità di volo per tener dietro alla loro preda; e l'ape, la farfalla e l'uccello ronzante hanno acquistata una proboscide ammirabilmente costruita ad effetto di saccheggiare i nettari dei fiori....»

Cito questi brani che si riferiscono agli animali più elevati, ma avverto che mutamenti di tal fatta, avvenuti «nelle serie lunghissime di tempi, dappoichè la terra incominciò ad esistere, forse milioni di secoli prima del principio della storia del genere umano,» l'autore considera partitamente anche negli animali inferiori, come pure nelle piante.

Il concetto del succedersi e perfezionarsi delle generazioni dei viventi è fondamentale per Erasmo Darwin, e ad ogni passo in un modo o nell'altro lo esprime. Mi contenterò di fare ancora una sola citazione.

«Siccome le parti abitabili della terra crebbero e tuttora continuano a crescere per mezzo della produzione dei gusci delle ostriche e delle coralline e per mezzo dei secrementi d'altri animali e vegetabili, così fin dalla prima esistenza di questo globo terracqueo gli animali che lo abitano andarono sempre perfezionandosi e sono tuttavia in uno stato di perfezionamento progressivo.» (Vol. 3º, pag. 269).

Io mi sono limitato qui, siccome non poteva fare altrimenti, a poche citazioni, tratte da taluno di quei punti nei quali l'autore parla della variabilità e delle origini dei viventi. Anche in questo solo campo avrei potuto dilungarmi assai maggiormente, e più ancora, sempre solo rispetto a zoologia, nel capitolo dell'istinto. Ma questa parte dell'opera di Darwin agli occhi di lui non era che accessoria, volgendo egli tutta la sua attenzione allo studio delle funzioni, e ciò ancora non come fine, ma come mezzo. Il fine per Erasmo Darwin, siccome ho già detto, è lo studio delle malattie e del modo di curarle. La zoonomia di Erasmo Darwin è uno di quei libri originali che meritano sempre di essere studiati, anche quando il progredir della scienza è venuto a mutare molti dei concetti e delle credenze del tempo. Un medico che facesse questo studio non perderebbe neppur oggi il suo tempo, come non perderebbe il suo tempo un naturalista che estraesse dalla zoonomia e pubblicasse oggi, lasciando fuori il rimanente, tutto ciò che in questo rimarchevolissimo libro si riferisce alla storia naturale.

Mentre Erasmo Darwin sosteneva per tal modo in Inghilterra il principio della variabilità della specie in sul finire del secolo passato, in Germania pure in quello stesso tempo il medesimo argomento occupava alcuni nobilissimi ingegni.

Fra questi vuol essere menzionato primo Volfango Goethe, il quale, siccome oggi si incomincia a sapere generalmente, alla sua immortale corona di poeta aggiunse pure il pregio di un culto felice e potente delle scienze naturali.

Fin dal 1790 il Goethe espose i suoi concetti intorno alla Metamorfosi delle piante, e sostanzialmente egli cercò di dimostrare che nel regno vegetale vi ha un organo fondamentale unico, la foglia, che, sviluppandosi e trasformandosi in svariatissimi modi, dà origine a tutte le forme dei vegetali. Ciò si comprende chiaramente, diceva il Goethe, considerando un tipo semplice, una forma semplice primitiva, e tenendo dietro alla sua trasformazione in quel modo nel quale si fanno nella musica le variazioni sopra un tema. Così il Goethe fece considerare siccome foglie trasformate le varie parti del fiore, di cui alcune poi sono destinate alla loro volta a trasformarsi in frutto.

Sebbene non si possa dire che questi concetti del Goethe intorno alle metamorfosi delle piante siano stati subito accolti senza contestazione, sebbene anzi si debba dire che incontrarono qua e là una viva opposizione, convien riconoscere tuttavia che furono subito presi in considerazione, furono discussi, e in complesso incontrarono favore.

La stessa cosa è da dirsi della teoria del Goethe, secondo la quale le ossa del cranio si vogliono considerare siccome vertebre modificate.

Gli antichi anatomici, i quali unicamente si davan pensiero dell'anatomia dell'uomo e non cercavano di comparare la struttura di questo con quella degli animali, consideravano il cervello come la parte sostanziale, e il midollo spinale come una sorta di coda, un'appendice di questo. Corrispondentemente a ciò la scatola craniana, destinata ad accogliere il cervello, era per essi una parte sostanziale in cui non cercavano legame colle vertebre.

Oggi si sa che il cervello non è che un'appendice del midollo spinale e il cranio un'appendice della colonna vertebrale. Ciò si scorge esaminando lo sviluppo dell'uomo, come di tutti i mammiferi, nei primordii della loro esistenza; ciò si scorge considerando la forma più semplice fra i vertebrati, dove si trova un midollo spinale senza cervello.

Io non posso parlare di ciò senza pensare a Dante che dice chiarissimamente che il midollo spinale è la parte sostanziale, il principio dei centri nervosi. Bertran del Bornio è condannato al supplizio inimmaginabile di portare in mano, a guisa di lanterna, la sua testa pei capegli e dice di sè:

Partito porto il mio cerebro, lasso, Dal suo principio che è in questo troncone.

Passeggiando a Venezia sul lido, il Goethe vide a terra un cranio spezzato di montone e n'ebbe la prima idea della teoria delle vertebre craniane, la quale fu dapprima contrastata, poi accolta generalmente e variamente modificata, e in questi ultimi tempi sapientemente studiata e formulata dal Gegenbaur.

Il Goethe ebbe pure il merito di scoprire la presenza degli ossi intermascellari nell'uomo, ciò che egli fece in rapporto col suo concetto di uno strettissimo legame anatomico fra l'uomo e gli animali, e sovrattutto i mammiferi che gli sono più affini, e segnatamente le scimmie superiori e antropomorfe.

I mammiferi hanno alla mascella superiore due ossi, che stanno framezzo ai due ossi mascellari, e perciò si chiamano ossi intermascellari; si chiamano anche ossi incisivi, perchè reggono i denti incisivi superiori.

Gli studiosi della anatomia umana, al tempo del Goethe, dicevano che questi due ossi, i quali si trovano in tutti i mammiferi, anche nei mammiferi più elevati, anche nelle scimmie antropomorfe, mancano nell'uomo. Si compiacevano di questa mancanza, siccome quella che segnava un carattere differenziale fra l'uomo e la scimmia.

La marea cominciava allora a crescere. Intendo dire che pigliava sempre più campo il concetto di intimi rapporti anatomici e fisiologici, di uno strettissimo legame, fra l'uomo e gli animali, di una semplice differenza di grado. L'uomo si difendeva e gli anatomici menavan vanto di questa differenza (già eran ridotti a questo vanto meschino) del non aver l'uomo le ossa intermascellari che hanno le scimmie. Il Goethe non era persuaso; venne nel pensiero che gli ossi intermascellari ci dovessero essere anche nell'uomo, li cercò e li trovò. Collo studio di molti crani umani riuscì a riconoscere che talora questi ossi rimangono distinti permanentemente, sebbene per lo più si saldino presto cogli ossi mascellari accosto, ciò che è la ragione per cui non erano stati prima riconosciuti. Riconobbe poi che si trovano sempre evidentissimi nell'uomo nei primordii del suo sviluppo. Oggi è riconosciuto che si saldano pure sovente e scompaiono come nell'uomo in certe scimmie antropomorfe adulte.

Tanto più è meritevole il Goethe per questa sua scoperta, che egli la fece perchè volle farla; cioè pensò che la cosa doveva essere così, e a furia di investigazioni riuscì a provare che aveva pensato giusto.

Durante tutta la sua vita, e fino all'ultimo della sua vita, il Goethe ebbe nella mente questo suo argomento del legame fra i viventi e del passaggio delle forme dalle une alle altre. Ernesto Haeckel, nella sua Morfologia generale, mette in capo a ciascun capitolo qualche brano del Goethe relativo a questo argomento e ne riporta nella sua Storia della creazione naturale e nella Antropogenia. Eccone qualche saggio:

«Tutte le parti si modellano secondo leggi eterne, e ogni forma, per quanto straordinaria, racchiude in sè il tipo primitivo. La struttura dell'animale determina le sue abitudini, e a sua volta il suo modo di vivere reagisce poderosamente su tutte le forme. Perciò si rivela la regolarità del progresso, che tende al mutamento sotto la pressione dello ambiente esterno.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

«In fondo a tutti gli organismi v'ha una comunanza originaria; allo incontro la differenza delle forme proviene dai rapporti necessari col mondo esterno; dunque bisogna ammettere una diversità originaria simultanea e una metamorfosi incessantemente progressiva, se si vogliono comprendere i fenomeni costanti e i fenomeni mutevoli.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

«L'idea della metamorfosi è comparabile alla vis centrifuga e si perderebbe nell'infinito delle varietà, se non trovasse un contrappeso, vale a dire la potenza di specificazione, quella tenace forza d'inerzia, che, una volta realizzata, costituisce una vis centripeta che nella sua intima essenza si sottrae a ogni azione esterna.»

Nota giustissimamente lo Haeckel che col vocabolo metamorfosi il Goethe non intende già di parlare soltanto dei mutamenti che il vivente sopporta nel corso del suo sviluppo individuale, ma bensì della grande trasformazione delle forme organiche. Di ciò fanno fede le seguenti parole:

«Splende il trionfo della metamorfosi fisiologica là dove si vede il complesso suddividersi in famiglie, le famiglie suddividersi in generi, i generi in specie, e queste in varietà che fanno capo all'individuo, ma non v'ha soltanto suddivisione, v'ha anche trasformazione. Questo procedimento della natura non ha altro limite che l'infinito. Per la natura non vi ha riposo, non vi ha fermata; ma d'altra parte, essa non saprebbe mantenere e conservare tutto ciò che produce. A partire dal seme le piante sopportano uno sviluppo sempre più divergente, il quale cambia sempre più i mutui rapporti delle loro parti.»

Fin dal 1796, parlando degli animali vertebrati, il Goethe diceva:

«Siamo giunti a poter affermare senza tema, che tutte le forme più perfette della natura organica, per esempio i pesci, gli anfibi, gli uccelli, i mammiferi e, in prima fila fra questi ultimi, l'uomo, sono stati modellati tutti secondo un tipo primitivo di cui le parti che sono le più fisse in apparenza non variano che entro a limiti ristretti, e che, ogni giorno ancora, queste forme si sviluppano e si metamorfosano riproducendosi.»

Undici anni dopo egli esprime anche più chiaramente questo concetto fondamentale:

«Quando si esaminino le piante e gli animali che stanno al basso della scala degli esseri, appena si possono distinguere gli uni dagli altri. Per la qual cosa possiamo dire che gli esseri, dapprima confusi in uno stato di parentela in cui appena si differenziano gli uni dagli altri, a poco a poco sono diventati piante e animali, perfezionandosi in due direzioni opposte, per far capo, le une all'albero durevole ed immobile, le altre all'uomo, che rappresenta il grado più elevato di mobilità e di libertà.»

Ho detto sopra che il Goethe si diede pensiero tutta quanta la sua vita del grande argomento delle origini, delle affinità e delle trasformazioni dei viventi. Ne è prova ciò che segue che io prendo dallo Haeckel, come le precedenti e anche le seguenti citazioni.

Correva l'anno 1830. A Parigi, in quell'Accademia delle scienze, Stefano Geoffroy Saint Hilaire sosteneva che gli animali sono foggiati secondo un unico stampo (unità di composizione) che le specie mutano col volger del tempo, che le varie forme attuali ebbero una origine comune. Giorgio Cuvier negava l'unità di composizione e sosteneva l'immutabilità delle specie, condizione, a parer suo, fondamentale per una storia naturale scientifica.

Quest'ultima asserzione, fra parentesi, io l'ho sentita da un botanico moderno, valente nella determinazione delle specie, il quale gridava che il concetto della variabilità della specie è la rovina della scienza; e ho sentito un suo interlocutore rispondergli con queste parole di Giorgio Byron:

—Quanto sarebbe bello se l'uomo potesse proprio scorgere addentro la verità delle cose, ma quanta buona filosofia andrebbe perduta!

Il Cuvier era eloquentissimo e si appoggiava a fatti attuali evidenti, mentre Stefano Geoffroy Saint Hilaire, relativamente meno felice nello esprimere i proprii pensieri, non poteva dimostrare palpabilmente quanto veniva dicendo.

La grande maggioranza si schierò col Cuvier; non così il Goethe.

Ma in quello stesso anno si faceva la rivoluzione di Parigi che inaugurava il regno di Luigi Filippo.

Un amico del Goethe, il Soret, il giorno di domenica 2 agosto 1830, andò a trovare nel pomeriggio il sommo poeta che aveva ottantun anno.

Appunto allora i giornali davano la notizia dello scoppio della rivoluzione.

Appena il Goethe ebbe veduto il suo amico, esclamò:

—Ebbene? Che cosa pensate voi del grande avvenimento? Il vulcano è in eruzione; tutto è in fiamme; non si tratta più di un dibattimento a porte chiuse.

—Sì,—rispose il Soret—l'avvenimento è grave. Ma da quello che si sa dello andamento delle cose, e con un ministero di tal fatta, c'è da aspettarsi che tutto finisca colla espulsione della famiglia reale.

—Ma noi non c'intendiamo, ottimo amico mio,—rispose il poeta.—Io non vi parlo di quella gente. Per me si tratta di ben altro. Io vi parlo dello scoppio seguìto all'Accademia, della discussione tanto importante per la scienza, avvenuta fra il Cuvier e il Geoffroy Saint Hilaire.

Pel vecchio poeta una rivoluzione colla quale si mandava via un re per metterne un altro, era un fatto di pochissima importanza rispetto a una discussione in cui pubblicamente si proclamava un principio destinato a portare un profondo cambiamento nella scienza.

—La cosa,—proseguì il Goethe,—è sommamente importante e non vi potete figurare ciò che io provai nel leggere il resoconto della seduta del 19 luglio. Ora abbiamo nel Geoffroy Saint Hilaire un potente alleato che non ci abbandonerà. Vedo quanto si danno pensiero della quistione i dotti francesi; perchè, a malgrado della terribile animazione politica, la sala della seduta dell'Accademia era zeppa il giorno 19 luglio. Ma la cosa più importante di tutto è che il metodo sintetico inaugurato in Francia dal Geoffroy non può più scomparire. Pel fatto di una libera discussione all'Accademia, in presenza di un uditorio numeroso, l'affare è slanciato nel dominio del pubblico; non è più cosa possibile il liberarsene con una esclusione segreta; non si potrà più sbrigare o soffocare a porte chiuse.

Passati due anni, nel 1832, in età di ottantatrè anni, il Goethe compiva un suo lavoro intorno allo stesso argomento e moriva pochi giorni dopo.

Nello stesso modo in cui la vista di un cranio spezzato di montone, veduto dal Goethe a Venezia, fece nascere nella sua mente il concetto delle vertebre craniane, così qualche anno dopo un cranio di cerva biancheggiante lungo la via del Broken fece esclamare a Lorenzo Oken, quasi come colpito da una rivelazione:

—È un pezzo di colonna vertebrale.

Gli scienziati per molti anni lasciarono in disparte il Goethe e, nell'esporre la storia della teoria delle vertebre craniane, incominciavano addirittura dall'Oken.

Ma Lorenzo Oken ebbe meriti ben più grandi come antesignano di quelle idee che dominano ora nel campo della scienza; soltanto egli non può dare nessun fondamento dimostrativo alle sue idee giuste e grandiose, le quali, del resto, vanno confuse con molte altre insostenibili e false. Il signor Ernesto Haeckel ha fatto un lavoro accurato di cernita negli scritti dell'Oken tirandone fuori granellini d'oro dalle arene. In sostanza l'Oken pone siccome punto di partenza di tutti i fenomeni vitali, di tutti gli organismi, un sottostrato chimico comune, una sorta di sostanza vitale, generale e semplice, che egli chiama sostanza colloide primitiva, nella quale è facile ravvisare il protoplasma dei moderni. In questa sostanza, che egli dichiara prodotta dapprima spontaneamente dal mare, vede una forma primitiva vescicolare, che è la cellula dei giorni nostri. Finalmente, egli ha queste parole testuali:

—L'uomo si è sviluppato; non è stato creato.

Intorno alla origine dei viventi si esprime in modo anche più esplicito e con somma evidenza, contemporaneamente al Goethe e all'Oken, Goffredo Rinaldo Treviranus di Brema; nella sua Biologia egli dice:

«Ogni forma vivente può essere prodotta dalle forze fisiche in due modi; può provenire, sia dalla materia amorfa, sia, per modificazione, da una forma già esistente. In questo ultimo caso, la causa prima della modificazione può essere, o l'influenza di una sostanza fecondante eterogenea sul germe, o l'influenza di altre forze che appaiono soltanto dopo la fecondazione. In ogni essere vivente risiede la facoltà di piegarsi a una folla di modificazioni; ogni essere ha il potere di adattare la sua organizzazione ai mutamenti che si producono nel mondo esterno; si è questa facoltà, messa in opera dalle vicissitudini sopravvenute nell'universo, quella che ha permesso ai semplici zoofiti del mondo antidiluviano di arrivare a gradi di organizzazione di mano in mano sempre più elevati, e ha introdotto nella natura vivente una varietà infinita.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Questi zoofiti sono le forme primitive da cui sono provenuti tutti gli organismi delle classi superiori per via di sviluppo graduale. Inoltre, noi crediamo che ogni specie, come pure ogni individuo, percorre certi periodi di accrescimento, di fioritura e di morte; ma che la morte della specie non è la dissoluzione, come è nell'individuo, ma bensì la degenerescenza. Da ciò pare a noi che risulti che, contro ciò che generalmente si crede, non sono le catastrofi geologiche quelle che hanno sterminato gli animali antidiluviani; molti di quegli animali hanno sopravvissuto, e, se scomparvero dalla natura contemporanea, ciò è perchè le loro specie, avendo compiuto il corso della loro esistenza, si sono fuse in altri generi.»

Avverte qui lo Haeckel che parlando di degenerescenza il Treviranus intende questo vocabolo nel senso di adattamento o di modificazione per via di cause esterne, e fa vedere quanto fosse giusto il concetto che il Treviranus si faceva della mutua dipendenza di tutti i viventi, riportandone le seguenti parole:

«L'individuo vivente dipende dalla specie, la specie dipende dal genere, questo dipende da tutta la natura vivente; e quest'ultima medesima dipende dall'organismo della terra. Dunque l'individuo possiede una vita che gli è propria, e, per questo rispetto costituisce un mondo particolare. Ma, per ciò appunto che la sua vita è limitata, esso costituisce pure un organo nell'organismo generale. Ogni corpo vivente esiste per via dell'universo, ma, reciprocamente, l'universo esiste pure per via di questo corpo vivente.»

Non havvi pel Treviranus nella natura un posto speciale privilegiato per l'uomo, non havvi lacuna fra la natura organica e la natura inorganica.

«Ogni ricerca che abbia per oggetto l'influenza del complesso della natura sul mondo vivente deve prendere le mosse da questo dato fondamentale, che tutte le forme viventi sono dei prodotti fisici, che appaiono ancora nella nostra epoca, e che vi sono state delle modificazioni soltanto nel grado, nella direzione delle influenze.»

Il Treviranus soggiunge poi che con ciò «è risolto il problema fondamentale della biologia.»

Non si può parlare del movimento scientifico in Germania in sul finire del secolo passato senza pensare al Kant, che vi ebbe una così larga parte. È imminente in Italia il compimento di uno studio intorno al grande filosofo tedesco per opera del professore Carlo Cantoni, dell'Università di Pavia. Il lavoro del filosofo italiano intorno al filosofo tedesco, condotto con lungo amore e con grande intensità di applicazione, chiarirà molti dubbi e dimostrerà che non è senza qualche esagerazione lo asserire che fanno taluni che troppo il Kant si contraddica intorno alle leggi naturali che regolano i viventi. Qui ora io sto pago a riportar le seguenti parole del grande filosofo:

«È bello percorrere, mercè l'anatomia comparata, la vasta creazione degli esseri organizzati, per vedere se non vi si trova qualche cosa di somigliante a un sistema derivante da un principio generatore, per modo che non siamo per trovarci obbligati ad attenerci a un semplice principio del giudizio (che non ci insegna nulla intorno alla produzione di questi esseri) e a rinunziare senza speranza alla pretesa di penetrar la natura in questo campo della scienza. Il concordare di tante specie di animali con un certo tipo comune, il quale non sembra servir loro di principio solamente nella struttura delle loro ossa, ma anche nella disposizione delle altre parti, e quell'ammirabile semplicità di forme che, accorciando certe parti e allungandone certe altre, involgendo queste e svolgendo quelle, ha potuto produrre una varietà tanto grande di specie, fanno nascere in noi la speranza, sebbene, per vero, debole, di poter arrivare a qualche cosa col principio del meccanismo della natura. Questa analogia di forme le quali, a malgrado della loro diversità, sembrano essere state prodotte secondo un tipo comune, fortifica l'ipotesi che queste forme abbiano una affinità reale, e che vengan fuori da una madre comune facendoci vedere come ciascuna specie si riaccosti gradatamente a un'altra specie, da quella in cui il principio della finalità sembra meglio stabilito, vale a dire l'uomo, fino al polipo, e dal polipo fino ai muschi e alle alghe, infine, sino all'ultimo grado della natura che noi possiamo conoscere, fino alla materia bruta, d'onde sembra derivare, secondo le leggi meccaniche (somiglianti a quelle che essa segue nelle sue cristallizzazioni) tutta questa tecnica della natura, tanto incomprensibile per noi negli esseri organizzati che crediamo in obbligo di concepire un altro principio:

«È permesso allo archeologo della natura di valersi dei vestigi che sussistono ancora delle sue produzioni più antiche, per cercare in tutto il meccanismo, di cui ha conoscenza o sospetto, il principio di questa grande famiglia di creature (perchè questo è il modo in cui bisogna rappresentarsela, e questa pretesa affinità generale ha qualche fondamento).»

Il signor Alfonso De Candolle ha parlato testè di un botanico ed orticultore francese che prima ancora di Erasmo Darwin, vale a dire fin dal 1766, parlò della variabilità della specie, e non in modo ambiguo e dubitativo, ma con molta precisione. Questo botanico ed orticultore è il Duchesne. Il volume in cui è trattato di ciò, pubblicato appunto in quell'anno 1766, è intitolato: Histoire naturelle des fraisiers, ed ha in appendice delle Remarques particulières.

Il signor Duchesne aveva raccolto presso Versailles semi di fragole selvatiche e li aveva seminati. Con grande sua sorpresa trovò che le pianticelle che ne otteneva avevano quasi tutte una sola fogliolina in luogo delle tre consuete. Affidò novamente al terreno i semi di queste pianticelle e ne ottenne altre somiglianti, e così successivamente, ricavandone una sorta di nuova pianta di fragola alla quale venne dato il nome di Fragaria monophylla. Da questi e altri fatti somiglianti osservati nella coltivazione prese le mosse per ragionare, dice il De Candolle, in un modo molto profondo, sulle forme nuove più o meno ereditarie, e su ciò che si possa chiamare specie, razza o varietà. Egli crede che molte delle forme designate col nome di specie sono razze, di cui l'origine può essere riconosciuta o almeno presunta, e vien fuori con queste parole:

«L'ordine genealogico è il solo indicato dalla natura, il solo che sodisfaccia al tutto la mente: ogni altro è arbitrario e vuoto d'idee.»

Seguendo questo concetto egli si spinge persino a fare un albero genealogico delle fragole secondo le derivazioni che egli conosceva o presumeva.

Certo, tutto ciò è rimarchevolissimo, ma, da quanto pare, il signor Duchesne non comprese l'importanza della grande verità che gli era balenata nella mente, non s'applicò a considerare il fatto nella pluralità delle piante, non pensò agli animali, non s'accorse ch'egli aveva che fare con una legge applicabile a tutti i viventi, degna di essere sostenuta e posta con ogni sforzo nella maggiore evidenza.

Ciò veramente si doveva poi fare in Francia, dopo il Duchesne, si doveva fare con tutto l'impegno, con grande corredo di argomenti e di cognizioni, con tutta la consapevolezza della importanza della cosa, da un uomo che fra quelli oggi chiamati i predecessori di Darwin si doveva spingere più avanti di tutti, sebbene, cosa miseranda a pensarvi, con nessun visibile effetto pel suo tempo.

Parlo di Giovanni Lamarck. Questo grande naturalista ebbe chiarissimo nella mente il concetto della variabilità della specie e si sforzò d'investigare le cause adducendo argomenti di cui anche oggi non si può a meno di tenere conto, sebbene oggi a questi se ne siano venuti ad aggiungere altri che hanno un valore incomparabilmente più grande.

L'esercizio di una data parte del corpo di un animale produce un maggiore sviluppo in quella parte; v'ha un maggiore afflusso di sangue in quella parte che si esercita di più, una maggior nutrizione, un aumento di volume. Di ciò ci si dà tutti i giorni più di un vistoso esempio, anche nell'uomo nella vita civile. Il maestro di scherma finisce per avere il braccio destro molto più grosso del sinistro; il barcaiuolo ha sviluppatissime le braccia e le spalle, poco le gambe, mentre i ballerini hanno enormi i polpacci. Un suonatore di violino ha le dita della mano sinistra molto più lunghe di quelle della destra. Tutto ciò per effetto del lungo esercizio della parte. Questi sono caratteri che l'individuo acquista necessariamente ogniqualvolta si trova nella condizione voluta. Si potrebbero anche trasmettere questi caratteri di generazione in generazione e si verrebbero ad esagerare grandemente quando di generazione in generazione i figli facessero sempre quei medesimi esercizi che hanno fatto i loro genitori. Supponiamo una lunga serie di generazioni in cui sempre di padre in figlio si desse opera allo esercizio della scherma. Il carattere del maggiore sviluppo del braccio destro s'incomincia a trasmettere fino a un certo punto ereditariamente dal padre al figlio. Tutti sanno quanto si trasmettano i caratteri per eredità. Ma il figlio che ha ereditato dal padre questo braccio destro maggiormente sviluppato, a sua volta lo accresce proseguendo costantemente nello stesso esercizio e lo trasmette alla sua volta in un grado maggiore alla sua prole. Così, ove, ripeto, si proseguisse nella vita civile per una lunga serie di generazioni questo esercizio della scherma di padre in figlio, dopo parecchi secoli si verrebbe ad avere negli ultimi discendenti una differenza notevole nello sviluppo delle due braccia. Ciò invero non capita nella vita sociale, dove i padri generalmente fanno fare ai figliuoli un mestiere differente dal loro e dove più generalmente ancora i figliuoli hanno poca voglia di fare il mestiere del padre.

Ma capita negli animali.

Lo esercizio di una parte in un dato animale promove lo sviluppo di quella parte; l'animale trasmette ereditariamente questo sviluppo, ma la prole con un nuovo esercizio lo accresce e lo trasmette accresciuto, e così via via. Guardiamo come è fatta la talpa: le sue zampe anteriori sono smisuratamente più grosse delle posteriori; ciò si vede bene nella talpa in carne e pelle, ma si vede anche più nello scheletro; l'osso della talpa che corrisponde al braccio è così stranamente foggiato come non si vede in nessun altro caso; non è più un osso lungo, è smisuratamente largo e grosso e coperto di fortissimi rilievi e spigoli per dare inserzione ai muscoli poderosissimi che lo devono movere; la stessa cosa si dica delle ossa dell'antibraccio, delle dita e delle spalle; anche lo sterno qui si sviluppa con una carena, sempre per lo scopo di porgere una maggiore superficie d'inserzioni alle masse muscolari. Le parti posteriori invece sono, al paragone, gracili e meschine. Noi possiamo benissimo supporre che la talpa non sia sempre stata, ma sia invece diventata, come è ora, e che quindi la sua forma attuale sia notevolmente diversa di quella dei suoi remoti antenati. Possiamo supporre che dapprima la talpa avesse una minor sproporzione fra le parti anteriori e le posteriori, e che a poco a poco, inseguendo i vermi e gli insetti e le larve, e scavando per inseguirli il terreno, abbia, per via di un continuo esercizio e per via di una continua trasmissione ereditaria, acquistato l'attuale suo poderoso sviluppo delle parti davanti, e con esso abbia a poco a poco progredito nel suo menar quella vita sotterranea in cui la vediamo oggi. Ma questo suo venire a poco a poco e di generazione in generazione acconciandosi a una vita sotterranea, avrebbe poi prodotto un altro effetto inverso, ma concepibilissimo nello stesso modo. Se l'esercizio accresce lo sviluppo e le dimensioni di una data parte del corpo di un animale, il fatto opposto, il difetto di esercizio, deve necessariamente produrre un effetto opposto. A mano a mano che la talpa venne acconciandosi alla vita sotterranea, sempre meno dovette aver bisogno degli occhi. Nelle buie sue gallerie la talpa non ci ha che vedere; avvezzandosi al buio di generazione in generazione, e non esercitando più gli occhi, la talpa finì per vedersi stranamente rimpicciolito, appunto per difetto di esercizio, il suo organo visivo. Certe talpe hanno un piccolo occhiolino, che di fuori non si vede affatto perchè affondato tra i peli, appena a fior di pelle, col quale non possono forse altro discernere che la luce dalle tenebre. Altre talpe hanno l'occhiolino anche più piccolo, addirittura coperto dalla pelle. Qui si può supporre la riduzione a' minimi termini di un occhio per difetto di esercizio, fino al punto che esso, mentre ancora è presente in condizione rudimentale, pure non serve più a nulla.

Certi insetti che vivono in caverne fuori d'ogni luce furon detti anottalmi dallo apparente loro mancare d'occhi; dico apparente perchè non è che ne manchino affatto; ma appena li hanno, in condizioni al tutto rudimentali e fuori d'ogni uso; in altri insetti che vivono nelle foreste di castagni alle falde dei monti in buche sotterranee, scavate da altri animali e coperte consuetamente dalle foglie cadute, ma di cui pure alcuni hanno talora un po' di luce, vedesi mancar gli occhi nel massimo numero, ma taluni aver occhi i quali, sebbene minutissimi, non si possono dire tuttavia affatto senza uso. Il proteo anguino che vive in acque buie ha gli occhi rudimentali e coperti dalla pelle.

Nell'uomo avviene, per disgrazia non tanto raramente, che una ottalmia produca nel bambino un opacamento della cornea davanti alla pupilla. Ove ciò avvenga, quell'occhio non ci vede più; ora, quando ciò segue in un occhio e non nell'altro, coll'andar degli anni l'occhio che non funziona, sebbene per tutto il rimanente integro, finisce per essere notevolmente più piccolo dell'altro. Il difetto di esercizio trae con sè difetto di sviluppo.

Si potrebbe fare uno sperimento, se pur non è stato fatto; prendere un coniglio piccino e tenergli costantemente un occhio coperto; quest'occhio nell'animale adulto riescirebbe notevolmente più piccolo dell'altro. Si potrebbe tener coperti tutti e due gli occhi fin da piccini a una coppia di conigli e poi alla loro discendenza, tenendoli sempre pel rimanente in condizioni acconcie di nutrizione. In capo a poche generazioni si avrebbero conigli con occhi normalmente piccoli, in capo a molte generazioni si avrebbero conigli con occhi rudimentali.

La giraffa ha lunghissimo il collo, lunghissime le zampe davanti, tanto che il suo dorso è un piano inclinato dal garrese alla groppa. Fu sempre così? Nelle grandi foreste africane essa cerca il suo pascolo fra le rigogliosissime fronde di quegli alberi sterminati. Quel tener su continuamente il collo, quel sollevarsi sulle zampe anteriori, quella continua tensione di muscoli, arrecando maggior copia di sangue a tutte le parti in tal modo costantemente esercitate, ha potuto dare un grande sviluppo in quel senso alla muscolatura e allo scheletro della giraffa, che per tal modo si è potuta venire coi secoli trasformandosi sino a ridursi nello stato veramente eccezionale in cui si trova oggi.

Gli uccelli di ripa, col lungo sollevarsi sulle zampe ad allungare il collo, han potuto finire per acquistare maggior lunghezza di zampe e di collo; così la rana la sua palmatura e anche la foca, così il picchio la sua lunghissima lingua, e il formichiere e il pangolino. Così, in una parola, possiamo credere che si siano tanto venute modificando, per via dell'esercizio e dell'inerzia di certe parti, le forme di tanti animali, da essere ora i viventi grandemente diversi nella forma dai loro primi progenitori.

Per tal modo, secondo il Lamarck, l'uomo deriva dalla scimmia. Egli non dubita punto di ciò, anzi ci si ferma sopra a lungo, cercando il modo per cui la trasformazione deve essere avvenuta. Gli uomini più degradati derivarono da scimmie di struttura molto elevata, che a poco a poco si erano avvezzate a star su due piedi. Così venne col lungo sforzo di generazione in generazione a modificarsi la forma del tronco tenuto eretto, e si vennero differenziando le quattro estremità. Le due estremità posteriori diventando a poco a poco inferiori, si fecero più robuste, si appiattì il piede e si svilupparono i polpacci, mentre le estremità inferiori si foggiarono in quello strumento meraviglioso che doveva tanto aiutare l'uomo nel suo progresso: la mano. All'uomo in posizione eretta si presentavano in condizioni di molto più grande agevolezza di osservazione gli oggetti esterni, mentre la mano, come più unicamente strumento di prensione, ma pur anco di esplorazione e di esame, dava maggior contezza di essi all'intelletto che per tal modo si veniva sviluppando. Questi primi uomini derivati da scimmie di maggior elevatezza ebbero una vita sociale più intima, presero a meglio aiutarsi nei loro bisogni, dovettero adoperarsi continuamente ad uno scambio maggiore di pensieri, onde una serie di gridi sempre di più svariati che venivano a far capo a un linguaggio articolato il quale, per quanto dapprima rozzo e limitato, non ha pur potuto a meno di segnare un immenso progresso nello sviluppo dell'uomo; progresso di cui l'effetto principale non può a meno di essere stato un maggiore sviluppo del cervello e un più lungo esercizio di quelle facoltà di cui esso è strumento.

Ciò, ripeto, pel Lamarck non ammette dubbio, egli ci insiste.

A dare un concetto del modo in cui il Lamarck considerava l'origine, le trasformazioni, le derivazioni, le affinità fra i viventi, varrà meglio di ogni discorso riferire testualmente queste sue parole:

«Le divisioni sistematiche, classi, ordini, famiglie, generi e specie, come le loro denominazioni, sono un lavoro puramente artificiale dell'uomo. Le specie non sono tutte contemporanee; sono discese le une dalle altre e non hanno che una fissità relativa, e contemporanea; le varietà danno origine alle specie. La diversità delle condizioni della vita influisce, modificandola, sulla organizzazione, sulla forma generale, sugli organi dell'animale; si può dire tanto dell'uso come del difetto d'uso degli organi. Dapprima furono prodotti solamente gli animali più semplici, e le forme più semplici, poi gli esseri dotati di una organizzazione più complessa. La evoluzione geologica del globo e il suo popolamento organico ebbero luogo in un modo continuo e non furono interrotti da rivoluzioni violente. La vita non è che un fenomeno fisico. Tutti i fenomeni vitali sono dovuti a delle cause meccaniche, sia fisiche, sia chimiche, aventi la loro ragione d'essere nella costituzione della materia organica. Gli animali e le piante più rudimentali, collocati nello scalino più basso della scala organica, nacquero e nascono anche oggi per generazione spontanea. Tutti i corpi viventi od organismi della natura sono sottomessi alle stesse leggi dei corpi privi di vita o inorganici. Le idee e le altre manifestazioni dello spirito sono semplici fenomeni di movimento che si producono nel sistema nervoso centrale. In realtà, la volontà non è mai libera. La ragione non è che un grado più alto di sviluppo e di comparazione di giudizi.»

Fra i manoscritti del Museo zoologico di Torino si trova qualche appunto di Franco Andrea Bonelli da cui si vede, e così pure da qualche lettera, come egli fosse stato colpito dalle idee del Lamarck e ne fosse diventato seguace. Il Bonelli morì giovane e l'immensa mole del lavoro che egli fece nella sua breve vita gli impedì di occuparsi di questo come di tanti altri argomenti che pure aveva divisato di trattare.

Sosteneva le idee del Lamarck all'altro capo d'Italia Michele Foderà di Girgenti, professore di fisiologia a Palermo. Egli era stato a Parigi, alunno del Blainville, che s'era atteggiato a oppositore di Giorgio Cuvier; ritornato in patria, sostenne nelle sue lezioni la mutevolezza della specie e lo scomparir lento di certe forme senza scosse violente.

Così in Italia ebbe ascolto il Lamarck più assai che non in Francia. Ma ancora si tratta di casi isolati, e il Bonelli e il Foderà non lasciarono pubblicazioni in sostegno di questo loro avere accolto le idee del Lamarck.

È cosa che desta la più grande meraviglia questa, che l'opera del Lamarck sia passata allora inosservata; non solo non abbia avuto lodi, ma nemmeno biasimi; sia stata lasciata in disparte e non degnata nemmeno di una discussione.

La spiegazione del fatto sta in ciò, che allora teneva il campo onnipotentemente la scuola di Carlo Linneo e di Giorgio Cuvier, che intorno all'argomento della specie aveva messo come cardine fondamentale il principio opposto.

Carlo Linneo aveva risollevata la storia naturale all'altezza di scienza. Dopo quasi venti secoli aveva ripreso l'opera di Aristotile e l'aveva fatta progredire. Aveva dato le norme per riconoscere, distinguere, denominare, descrivere, ordinare le innumerevoli specie dei viventi e ciò con tanto criterio, con tanto acume, con tanto senno, con tanto ingegno, da non lasciar più guari che fare ai suoi successori.

Ma rispetto alle specie egli ne aveva dichiarato assolutamente l'immobilità. Egli aveva detto esplicitamente, che esistono tante specie quante ne sono state create. Le specie sono state create tutte insieme, la specie è il complesso di tutti gli individui che sono scesi o si possono considerare come scesi da una coppia di progenitori o anche da un solo progenitore; dal giorno della creazione non ha mutato, non muta, non sarà per mutare.

Così i viventi sono stati fatti tutti insieme, tutti in una volta. Si è parlato anche di una virtù generatrice della terra in qualche modo fecondata. Vincenzo Monti, rivolgendosi alla Bellezza dell'universo, dice:

Tumide allor di nutritivi umori Si fecondâr le glebe, e si fêr manto Di molli erbette e d'olezzanti fiori.

Allor degli occhi lusinghiero incanto, Crebber le chiome ai boschi, e gli arboscelli, Grato stillar dalle cortecce il pianto.

Allor dal monte corsero i ruscelli Mormorando, e la florida riviera Lambir freschi e scherzosi i venticelli.

Tutta del suo bel manto primavera Coprìa la terra; ma la vasta idea Del gran Fabbro compita ancor non era.

Di sua vaghezza inutile parea Lagnarsi il suolo, e con più bel desiro Sguardo e amor di viventi alme attendea.

Tu allor, raggiante d'un sorriso, in giro Dei quattro venti sulle penne tese, L'aura mandasti del divino Spiro.

La terra in sen l'accolse e la comprese, E un dolce movimento, un brividìo, Serpeggiar per le viscere s'intese;

Onde un fremito diede e concepìo, E il suol che tutto già s'ingrossa e figlia, La brulicante superficie aprìo.

Dalle gravide glebe, o meraviglia! Fuori allor si lanciò scherzante e presta La vaga delle belve ampia famiglia.

Ecco dal suolo liberar la testa, Scuoter le giubbe, e tutto uscir d'un salto Il biondo imperator della foresta;

Ecco la tigre e il leopardo, in alto Spiccarsi fuori della rotta bica, E fuggir nelle selve a salto a salto.

Vedi sotto la zolla che l'implica, Divincolarsi il bue, che pigro e lento Isviluppa le gran membra a fatica.

Vedi pien di magnanimo ardimento Sovra i piedi balzar ritto il destriero, E nitrendo sfidar nel corso il vento;

Indi il cervo ramoso ed il leggiero Daino fugace, e mille altri animanti, Qual mansueto e qual ritroso e fiero;

Altri per valli e per campagne erranti, Altri di tane abitator crudeli, Altri dell'uomo difensori e amanti.

E lor di macchia differente i peli Tu di tua mano dipingesti, o Diva, Con quella mano che dipinse i cieli.

Poi di color più vaghi onde l'estiva Stagion delle campagne orna l'aspetto, E de' freschi ruscei smalta la riva,

L'ale spruzzasti al vagabondo insetto, E le lubriche anella serpentine Del più caduco vermicciol negletto.

Nè qui ponesti all'opra tua confine; Ma vie più innanzi la mirabil traccia Stender ti piacque dell'idee divine.

Cinta adunque di calma e di bonaccia, Delle marine interminabil'onde Lanciasti un guardo sull'azzurra faccia.

Penetrò nelle cupe acque profonde Quel guardo, e con bollor grato natura Intiepidille, e diventâr feconde,

E tosto varii d'indole e figura Guizzâro i pesci, e fin dall'ime arene Tutta increspâr la liquida pianura.

I delfin snelli con le curve schiene Uscir danzando, e mezzo il mar coprîro Col vastissimo ventre orche e balene.

Fin gli scogli e le sirti allor sentîro Il vigor di quel guardo e la dolcezza, E di coralli e d'erbe si vestîro.

È una creazione questa a rovescio, per cui si comincia dal fine e si termina col cominciamento. Vengono prima le fiere, poi gli animali che devono servir loro di pasto, e il bue, che vien fuori dalla terra bue addirittura, e non toro; poi gli insetti, poi ultimi gli animali delle acque, e i pesci prima e i coralli dopo!

Giorgio Cuvier ritenne invero il concetto Linneano rispetto alla immobilità della specie, e lo pose anzi a fondamento della zoologia. Ma egli segna tuttavia un progresso, e un grande progresso, su Linneo.

Il Cuvier si applica allo studio dei fossili, che prima era campo miserando di errori; riconosce che altri viventi diversi dagli attuali hanno popolato la terra in epoche remotissime, anteriori all'esistenza dell'uomo; che le forme primitive erano più semplici, che la struttura dei viventi si andò man mano complicando, che la struttura più perfetta si trova nei viventi dell'epoca attuale, l'epoca umana. Questa verità lo condusse a una teoria, secondo la quale sarebbero avvenuti sulla terra molti e grandi e repentini rivolgimenti di tal fatta da mutar tutto a ogni volta alla superficie di essa. Il nostro globo ha avuto grandi e spaventose rivoluzioni, susseguite ciascuna da un lunghissimo tratto di calma. Ogni rivoluzione spegne sulla terra qualsiasi traccia di viventi, si distruggono di colpo le piante e gli animali; ma rimessa la calma si fa una nuova creazione e i vegetali e gli animali dell'ultima creazione che vien dopo sono sempre più complicati, più elevati, più perfetti di quelli della creazione precedente; così, a poco a poco e di miglioramento in miglioramento, si viene all'epoca attuale, contrassegnata dal più perfetto di tutti i viventi che è l'uomo.

Il Cuvier trovò un potente alleato alla sua teoria dei rivolgimenti nel signor Elia de Beaumont, il quale non solo accettò la cosa in complesso, ma credette di poterne anche definire i particolari: considerando le grandi catene di montagne in ogni parte del globo, studiandone la natura e le direzioni, esaminandone ogni particolare, egli credette di essere riuscito a determinare il numero e le successioni di quei grandi rivolgimenti.

Giorgio Cuvier s'era elevato ad un'immensa celebrità colla grande opera sua. Egli aveva molto migliorata la classificazione di Linneo; aveva preso a rivelare i rapporti degli animali mercè una diligente investigazione della loro interna struttura; aveva insegnato l'importanza della subordinazione de' caratteri, aveva posto le fondamenta di quella grande scienza che è l'anatomia comparata, aveva fatto conoscere un gran numero di forme e di strutture prima di lui ignote o mal note; era sommamente operoso, eloquentissimo, popolare nel senso più elevato della parola e dappertutto si giurava nel suo nome. Egli aveva mostrato un profondo disprezzo per la teoria del Lamarck, e i suoi contemporanei disprezzarono pure la teoria del Lamarck tanto da non crederla neppure degna di biasimo.

Poco prima di morire, Giorgio Cuvier ebbe a sostenere una lotta con Stefano Geoffroy Saint Hilaire, quella lotta di cui ho detto precedentemente parlando del Goethe. Stefano Geoffroy Saint Hilaire sosteneva la unità dell'organizzazione, o, come si diceva allora, la unità di composizione, la unità del piano della struttura degli animali. Secondo il suo concetto la specie è variabile, le forme mutano costituendosi innumerevoli differenze da una origine comune; gli agenti esterni hanno una grande azione in questi mutamenti. Nelle vicende geologiche passate venne un giorno in cui scemò la quantità dell'acido carbonico nell'atmosfera e ciò valse a promuovere la trasformazione di taluni rettili che, con una maggior intensità di respirazione, di circolazione, mutarono in penne le scaglie e assunsero forma di uccelli.

In verità non era al tutto ingiusto il rimprovero che si faceva a questi concetti di aggirarsi troppo nei campi della teoria. Se a ciò si aggiunge quanto già sopra è detto intorno allo ascendente del Cuvier sui suoi contemporanei, si intende come il Geoffroy Saint Hilaire non apparisse aver riportato nella sua grande discussione gli onori della vittoria.

Giorgio Cuvier morì nel pieno splendore della sua gloria e senza ombra di sospetto che fossero minacciati quei principii scientifici di cui ben si poteva vantare di aver posto le fondamenta. Ciò non fu dello Elia de Beaumont, il quale ebbe a provare l'ineffabile dolore di vedere crollare il suo edifizio e trovarsi da ultimo solo colle sue opinioni.

Il grande geologo tedesco Leopoldo De Buch, nella sua Descrizione fisica delle isole Canarie, pubblicata nel 1836, parlando della distribuzione delle piante, fa le seguenti considerazioni, le quali sono tanto più importanti per quello che dice contemporaneamente intorno ai dialetti:

«Sui continenti, gli individui dei gruppi organici si spandono, si disseminano lontano, e, per azione della differenza dello habitat, della alimentazione del suolo, formano delle varietà le quali, trovandosi le une discoste dalle altre, non possono andar soggette ad incrociamenti ed essere per tal modo ricondotte al tipo principale; si è perciò che esse, alla fine, diventano delle specie costanti, particolari. Poi le specie le quali sono state simultaneamente modificate, si ritrovano in contatto colla varietà primiera, per tal modo modificata; ma a un tal punto esse sono abbastanza differenti e non possono più mescolarsi insieme. La cosa va in ben altro modo nelle isole. Ivi, ordinariamente confinati entro a valli anguste e entro a zone ristrette, gli individui si possono raggiungere e possono in tal modo distruggere ogni varietà in via di costituirsi. Si è senza dubbio in questo modo che certe particolarità, o certi vizii di linguaggio, dapprima particolari al capo di una famiglia, si estendono con questa famiglia a diventare comuni a un intero distretto. Se questo distretto è separato, isolato, se non hannovi continui rapporti coi distretti vicini che riconducano costantemente il linguaggio alla sua purezza primiera, da questa deviazione linguistica nascerà un dialetto. Quando segue che certi ostacoli naturali, le foreste, la configurazione del suolo, anche il governo, vengano a collegare anche più strettamente fra loro gli abitanti nel distretto di cui parliamo, questi si separeranno anche più schiettamente dai loro vicini; il loro dialetto si fisserà e diventerà una lingua perfettamente distinta.»

Nell'anno 1818, il dottor M. E. Wells leggeva alla Società Reale di Londra un suo rapporto intorno ad una fanciulla di razza bianca colla pelle avente parzialmente l'apparenza della pelle dei neri. In quel lavoro il dottor Wells avvertì che tutti gli animali, entro una certa misura, hanno tendenza a mutare, e che, mercè questa proprietà, i coltivatori possono, colla scelta degli individui, migliorare i loro animali domestici; poi soggiunse:

«Ma pare che l'equivalente del risultamento artificiale ottenuto in tal modo si produca pure, sebbene con maggior lentezza, nella organizzazione delle razze umane, le quali si sono adattate alle contrade in cui vivono. Fra le varietà umane accidentali, che appaiono in mezzo ai rari abitanti sparsi per la regione africana, se ne trovano di quelle che resistono meglio delle altre alle malattie del paese. In conseguenza di ciò queste ultime razze si moltiplicano, mentre le altre diminuiscono, e non diminuiscono solamente perchè sono meno atte a resistere alle malattie, ma perchè non sono in condizione di reggere alla concorrenza di altre più robuste. Io ammetto come dimostrato che il colore di queste razze più vigorose sia di una tinta intensamente colorita. Ma siccome la tendenza alla formazione di varietà sussiste sempre, col tempo si forma una razza sempre più nera; e, siccome la razza che ha la tinta più cupa è la meglio adatta al clima, essa finirà per essere, se non la sola, almeno la razza dominante.»

Il Darwin, nella sesta edizione inglese del suo volume sulla Origine della specie, in un breve cenno storico preliminare, menziona parecchi altri contemporanei che poco prima della pubblicazione della sua opera espressero più o meno chiaramente il concetto della variabilità della specie. In una nota a quel breve cenno storico ha le parole seguenti:

«Aristotile ( Physicae auscultationes, libro II, cap. 8) osserva che la pioggia non cade per far nascere il grano, come non cade per guastarlo quando viene trebbiato a cielo scoperto, ed applica lo stesso ragionamento agli organismi. E soggiunge (fu il signor Clair Grece che mi additò questo passo): «Che cosa impedisce che anche le parti (del corpo) in natura si comportino (a caso) nella stessa guisa, che, per esempio, i denti crescano per necessità, e cioè gli anteriori taglienti ed atti a fendere, al contrario i molari larghi e atti a triturare il nutrimento, poichè non diventano tali a siffatto scopo, ma questo si raggiunge in modo accidentale. Altrettanto avviene nelle altre parti, nelle quali sembra sussistere un adattamento ad uno scopo. Ora le cose, nelle quali ogni singola parte si forma come se fosse fatta per uno scopo speciale, mentre si sono costituite spontaneamente in modo adattato, si conservano, e quelle invece perirono e periscono, in cui la stessa cosa non successe.» Noi troviamo qui un oscuro cenno al principio della selezione naturale, ma quanto Aristotile fosse lontano dal comprenderla pienamente ce lo insegnano i suoi asserti sulla formazione dei denti.» ( Sulla origine della specie, traduzione italiana sulla sesta edizione inglese, per cura di Giovanni Canestrini. Torino, Unione tipografica editrice, 1875).

Recentemente il signor Ernesto Haeckel, in un suo discorso al Congresso dei fisici e naturalisti tedeschi in Eisenach, parlò dei filosofi dell'antichità che sostennero il principio della derivazione dei viventi dalla materia inorganica e del succedersi di essi trasformandosi a mano a mano.

Anassimandro sostenne che la infinita materia eternamente in moto ha dato origine ai corpi celesti condensandosi a mano a mano i fluidi in materia salda e che la terra è uno di tali corpi. I primi viventi si generano nell'acqua per l'azione del sole, poi passano, piante e animali, a vivere sulla terra asciutta. L'uomo deriva per una serie graduata di trasformazioni dagli animali, e probabilmente da animali acquatici pesciformi. Eraclito di Efeso è anche più esplicito. Un grande e non mai interrotto processo di sviluppo domina il mondo intero, tutte le forme sono travolte in una corrente incessante e la lotta è «madre di ogni cosa.»

Empedocle di Agrigento afferma il mutare incessante dei fenomeni, e riconosce siccome fondamento e causa della continua lotta universale due opposti principii in azione, il principio dell'odio e quello dell'amore, che sono appunto ciò che i fisici moderni chiamano attrazione e ripulsione. Così l'unione dei corpi è prodotta dall'amore e la loro separazione dall'odio. Questi due grandi principii operanti hanno pure prodotto i corpi organici. Dalla lotta dei due principii vennero fuori vittoriosamente quelle forme che vivono ora, e si trovarono preparate alla battaglia e atte a reggersi nella vita.

Così queste, che noi chiamiamo teorie moderne, hanno la bella età di venticinque secoli.

Ma perchè, esclamerà qui il lettore, se queste idee hanno venticinque secoli, ci vieni qui tu ora a far perdere il tempo con Carlo Darwin? Se in venticinque secoli queste teorie hanno fatto così poca strada da essere state dimenticate tanto che ora si riprendono per nuove, non è questo un troppo forte argomento contro di esse?

Questa domanda non si può fare che da un lettore ignorante; ma appunto io credo il mio lettore ignorantissimo.

I dotti non badano a me.

Dunque rispondo al mio lettore ignorante, che altro è avere la intuizione di una verità ed esprimerla, altro è avvalorare la propria asserzione con argomenti, i quali, se non ne danno una dimostrazione, valgono almeno a farla considerare come una ipotesi ragionevole, o meglio come una buona teoria.

La sfericità della terra, la circolazione del sangue, la pressione atmosferica, la costituzione dell'aria e dell'acqua, la stessa grande attrazione universale, ebbero accenni più o meno remoti da questo o da quel filosofo, e talora tanto espliciti da riempirci ora di meraviglia. Ciò non toglie che siano state accolte universalmente o come verità dimostrate o come teorie razionali solo quando venne chi, comprendendo tutta l'importanza della cosa e applicandovisi con tutte le forze, addusse argomenti persuasivi in favore della sua asserzione.

Carlo Darwin sentì e comprese primo tutta la grande, la somma, la immensa importanza del principio della variabilità della specie e vide il nesso di questo grande problema con tutti quegli altri più elevati e sublimi che son degni di esercitare la intelligenza dell'uomo; sentì e comprese la necessità di studiarli addentro il più possibile, e a questo grande compito consacrò tutta la sua mente poderosa e grande, tutta la sua vita nobile e generosa, e vinse.

Pochi sanno oggi e sapranno in avvenire chi fosse e che cosa facesse Anassimandro, tutti sanno e sapranno finchè durerà l'uomo nell'incivilimento chi sia Carlo Darwin e che cosa abbia fatto.

X

Quando Carlo Darwin s'imbarcò giovinetto per quel grande viaggio di circumnavigazione, conosceva certamente le idee del suo nonno, Erasmo Darwin. Non si può supporre che non avesse letto la Zoonomia e il Giardino botanico colle note, non si può supporre che conversando in famiglia non ne avesse frequentemente udito parlare da suo padre.

Tuttavia è certo che egli non aveva accolto quelle idee: egli stesso dichiarò esplicitamente che quando faceva il suo viaggio credeva alla immutabilità della specie. Il professore Henslow, secondo ogni probabilità, non dava valore alle idee sulla specie di Erasmo Darwin.

In Inghilterra le idee di Erasmo Darwin avevano suscitato un certo commovimento al loro apparire, erano state molto biasimate, poi erano state lasciate in disparte; il medico filosofo era stato sepolto, s'era conservato vivo il poeta, che il Byron giudicò non indegno dei suoi sarcasmi, dicendo che egli era grande maestro nell'arte di mettere insieme rime che non significassero nulla.

Carlo Darwin aveva certamente letto il Lamarck, e l'aveva letto come egli sapeva leggere un libro di scienza. Ciò risulta dalle citazioni che ho fatto in principio di questo volume di brani del suo viaggio. Ma risulta però che in sostanza allora egli si atteneva al concetto scolastico della specie, cosa la quale, ripeto, egli ebbe poi espressamente a dichiarare.

Nei brani del viaggio che ho riferito si vede come egli qua e colà osservando certi fatti, e osservando da quell'osservatore ch'egli era, ne rimanesse colpito, e primieramente nascesse nell'animo suo il dubbio intorno all'invariabilità della specie.

Molti anni dopo, addì 8 ottobre 1864, egli scriveva a Ernesto Haeckel:

«Nell'America del sud, tre classi di fenomeni fecero sopra di me una viva impressione; primieramente, il modo in cui certe specie, vicinissime, si succedono e si rimpiazzano a mano a mano che si va dal nord al sud; in secondo luogo, la prossima parentela delle specie che abitano le isole del littorale dell'America del sud e di quelle che sono proprie di quel continente; ciò mi stupì grandemente, come la varietà delle specie che abitano l'arcipelago delle Galapagos, vicino alla terra ferma; in terzo luogo, i rapporti stretti che collegano i mammiferi sdentati e i rosicanti del nostro tempo colle specie estinte della medesima famiglia. Io non dimenticherò mai la sorpresa che provai nel dissotterrare un avanzo di un gigantesco armadillo analogo all'armadillo vivente.

«Riflettendo su tali fatti, comparandoli con altri dello stesso ordine, mi parve verosimile che le specie vicine potrebbero ben essere la posterità di una forma antenata comune....»

Ritornato dal suo viaggio, il Darwin si trovava in cattive condizioni di salute per le grandi fatiche patite e soprattutto pel mal di mare che sempre aveva sofferto in modo straziante. Le conseguenze di quel viaggio rispetto alla sua salute gli si fecero sentire per tutta la vita. Ebbe sempre una certa difficoltà nel digerire e, se potè campare a lungo e lavorar tanto, ciò fu dovuto alla vita regolata che egli seppe menare, cercando ogni suo conforto là dove sempre si trova, nel lavoro intellettuale e nell'esercizio del bene.

A Londra prese, appena ritornato, ad occuparsi delle sue collezioni. Nel 1837 andò a Cambridge, dove aveva ottenuto soltanto il grado di baccelliere, e prese quello di maestro nelle arti, che, siccome ho già detto, è a un dipresso equivalente alla laurea in filosofia che si dà in Germania. Poi andò da un suo zio, nello Straffordshire, e sposò sua cugina Emma Wegdwood, che gli diede una degna figliuolanza e gli fu degna compagna.

Dico che Emma Wegdwood fu degna compagna a Carlo Darwin, e dico ciò non per modo di dire, ma come cosa positiva e meritevole di essere riferita. Emma Wegdwood, donna veramente rara per altezza d'animo, per verecondia, per bontà, fu degna di Carlo Darwin, del quale seppe comprender tutta la grandezza non soltanto intellettuale ma anche morale, e a cui si pose in faccia come un diamante limpidissimo in faccia a un raggio di sole.

Il Balfour, che doveva morire così poco tempo dopo il Darwin e in così giovane età, in modo tanto inaspettato e doloroso e con tanto grave danno della scienza, quando morì Carlo Darwin esclamò:

—Si è spezzata la meglio unita famiglia di tutta l'Inghilterra!

Nell'anno 1842 Carlo Darwin pose la sua dimora nel piccolo villaggio di Down, presso Beckenam, nella contea di Kent, e vi passò tutto il rimanente della sua vita, quarant'anni, di cui non so se nella storia dell'umanità si possano annoverare altri più degnamente vissuti.

Facciamogli una visita.

Il professore Nicolaus Kleinenberg, della Università di Messina, invitato dai suoi scolari, appena il Darwin fu morto, ne fece una commemorazione, che veniva pubblicata col titolo: Carlo Darwin e l'opera sua. È una delle più belle cose che io mi abbia letto nella mia vita; son trenta pagine, trenta perle in un filo d'oro.

Visitiamo, col Kleinenberg, Carlo Darwin a Down:

«Aprite il cancello e vi ricevono le fresche ombre di esculi altissimi e folti. Un po' in là c'è la casa, una di quelle solide costruzioni del secolo passato, tanto caratteristiche per la campagna inglese, non molto bella, nè grande, ma spaziosa e comoda; poi il giardino con delle stufe per la coltivazione di piante esotiche, abbastanza vasto per un privato; e poi entrate nel parco, nella silenziosa campagna; estesi prati di quella freschezza, di quella verzura smagliante, che il mezzodì non conosce, alberi così sani e così alti, qua e là piccoli gruppi di bei cavalli e di vacche che quando passate alzano lentamente la testa a guardare il forestiero coi loro occhi limpidi e scuri, e poi tornano tranquilli a pascere; e nell'aria quella leggiera vaporosità, che ammorbidisce ogni contorno del paesaggio, come un velo sul volto di una donna. Nella casa quel comfort che a noi pare lusso, mentre in Inghilterra non significa se non che un uomo colto si trova in regolate condizioni finanziarie; un'amabilissima famiglia; libri, strumenti, ecco l'insieme pacifico dal fondo di cui staccasi l'alta e serena figura di Darwin. Soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente può intendere il fascino che esalava la sua anima pura e semplice. C'era qualche cosa della gentilezza e dell'ingenuità di un fanciullo in quell'uomo forte, che gli dava una grazia inesprimibile. Intorno a lui era un'atmosfera piena di rispetto e di simpatia.

«Darwin era liberale, non solamente nel significato abbastanza meschino a cui l'uso politico ha ridotto questa parola, ma era liberale in quel magnifico senso che intendevano i trecentisti: un uomo largo di mente, largo di cuore e largo di mano.

«La vita pubblica gli ripugnava; non ha bramato nè accettato alcun posto nel governo dello Stato. Lesse parecchi suoi scritti nella Società Reale e nella Società Linneana, ma non parlava pubblicamente, e rare volte scrisse sui giornali. Ma quando sentiva il dovere di pronunziare la sua opinione, allora la disse, modesto sì, ma franco e fermo, senza badare nè alla persona degli avversari, nè alla propria popolarità. Insomma, l'uomo più grande dei nostri tempi era un semplice gentiluomo di campagna.

«E da quella pacifica casa di campagna partì l'impulso che propagavasi con velocità inaudita attraverso l'intero mondo intellettuale, scuotendolo nelle sue fondamenta più salde. Qual contrasto tra la vita privata di Darwin e la gigantesca lotta sostenuta dai suoi libri! Per certo Darwin non era un agitatore, non era affatto nelle sue intenzioni il commuovere le masse, ma il pensiero, si sa, una volta sprigionato dal cervello, ha vita propria e non bada nè punto nè poco ai desiderii del suo creatore.»

Il pensiero di Carlo Darwin, appena egli ebbe posto definitivamente dimora in Down, il suo pensiero dominante, fu lo studio del grande argomento della variabilità della specie. Ma tuttavia, mentre incominciava le sue ricerche intorno a questo argomento, dava pure opera ad altri lavori, di cui alcuni erano in rapporto col viaggio fatto, altri si riferivano a ricerche originali. Tra i primi conviene menzionare il volume intorno alle isole del corallo di cui ho parlato sopra, e altre pubblicazioni geologiche relative al viaggio, e anche di geologia delle isole britanniche. Qui pure prende posto il volume nel quale egli racconta il suo viaggio, quello intorno a cui mi son tanto dilungato in principio. Fra i lavori zoologici originali del Darwin, pubblicati in quel tratto di tempo, ha un grande valore la sua Monografia dei Cirripedi. Sono due volumi di un migliaio di pagine, con quaranta tavole. Molti fatti nuovi si vennero a rivelare per quel lavoro, e di grande importanza. Differenze sessuali enormi, l'unisessualismo, l'ermafrodismo, la condizione complementare di alcuni maschi, tutto nella medesima specie, onde il Darwin stesso diceva non trovarsi nulla di somigliante a ciò che egli era venuto riconoscendo in tutto il resto del regno animale, ma trovarsi bensì in alcune piante; e conchiudeva soggiungendo, che nella serie dei fatti che egli era venuto investigando, appariva una singolare illustrazione di più di una cosa da lungo tempo nota, che la natura, cioè, muta gradatamente da una condizione all'altra, e nel caso di cui egli stava parlando, dalla bisessualità alla unisessualità....

Per tutte le vie il Darwin si trovava ad arrivare alla stessa conclusione; la verità di cui si era consacrato alla ricerca lo veniva stringendo da tutte le parti.

Ma la via principale per cui Darwin venne ad investigare il fatto della variabilità della specie e a rintracciarne le cause, la via che, appena vi ebbe posto il piede, gli si appalesò tale da menarlo ad una grande meta, fu una via la quale era stata sempre aperta a tutti, patente, amplissima, in cui tutti avevano sempre camminato senza saper quello che facevano, come il borghese gentiluomo del Molière aveva sempre fatto della prosa senza saperlo.

Fu la osservazione degli animali domestici e delle piante coltivate.

Nessuno prova meraviglia di quelle cose che ha quotidianamente sottocchio. Perciò non ci meravigliamo delle modificazioni che l'uomo induce negli animali domestici, per quanto esse siano meravigliose.

L'uomo modifica a sua posta, direi quasi si aggiusta a suo piacimento gli animali domestici, secondo i suoi bisogni, i suoi gusti e i suoi capricci. Ne muta il colore e la qualità dello integumento, la mole, la forma, le proporzioni, le viscere, gli organi dei sensi, tutto.

Se un naturalista, approdando ad un'isola non ancora visitata dall'uomo, trovasse forme come il cane di Terranova, il veltro, il bracco, il botolo, non avrebbe neppure per un momento l'idea che potesse trattarsi di animali della medesima specie.

Il cavallo da corsa inglese, allungatissimo, fino, sottile, tutto muscoli, meravigliosamente atto a percorrere un grande spazio in brevissimo tempo, comparato col poney piccolissimo e tarchiatello, e col macchinoso e pesante cavallo da tiro, sembrerebbero, a chi li vedesse per la prima volta, animali ben diversi.

Dal maiale l'uomo non vuole che carne e grasso, ed è arrivato a ottenere una razza in cui nell'adulto il corpo non appare più che un otre enorme rimpinzato di grasso e di carne. Le zampe sono tanto piccole che l'animale non ci si può reggere, non si muove, non opera, non sente; ingoia, grugnisce, procombente a terra aspetta la morte.

L'uomo ha voluto conigli con le orecchie giù penzolanti e li ha avuti, ha voluto anche conigli con un orecchio su e l'altro giù e li ha avuti pure; galline grosse come tacchini e galline grosse come quaglie, con ogni maniera di ciuffi e di creste e perfino col piumaggio al rovescio, pecore, capre, bovine senza corna, cani senza coda, piccioni con coda di pavone, piccioni con becco di falco, piccioni capitombolanti, pesci con duplici e triplici pinne, filugelli con bozzoli di una data forma, di un dato colore, di una data qualità di seta, e via dicendo.

Come uno scultore si modella l'argilla, a poco a poco l'uomo si modella la forma animale e se la foggia a suo piacimento.

Come fa ciò l'uomo?

Anche il contadino sa rispondere a questa domanda, sa che ciò si fa con un mezzo tanto facile e semplice quanto efficace e sicuro.

La scelta dei riproduttori.

Vien su accidentalmente in una greggia un capro senza corna; dico accidentalmente per dire che non so come la cosa sia avvenuta; se questo capro avrà una figliuolanza, è molto probabile che tra i suoi figli qualcuno riesca pure senza corna. Quando per avventura in quella greggia si fossero trovati accidentalmente un capro senza corna e anche una capra senza corna e questo maschio e questa femmina fossero stati messi insieme a dare opera alla riproduzione, anche più probabilmente qualcuno dei loro figli sarebbe venuto su senza corna. Dico qualcuno, non tutti; o fors'anche nessuno, ma, poi, un figlio di questi figli. Comunque, se l'allevatore prende questi nati senza corna e fa in modo che fra loro producano figliuolanza, i nati della seconda generazione senza corna saranno più numerosi di quelli della prima. Così più che non quelli della seconda saranno numerosi senza corna i nati della terza generazione, e più ancora quelli della quarta, e via dicendo. Scegliendo sempre gli individui senza corna e facendoli riprodurre insieme, si finirà per avere una razza di individui tutti e sempre senza corna. Tutti e sempre, salvo forse una volta o l'altra un qualche raro individuo che nascerà colle corna per ricordare ancora il carattere dei suoi antenati, al quale fatto venne dato il nome di atavismo, che è sempre più raro quanto più son numerose le generazioni discese dai primi progenitori senza corna, vale a dire quanto più è antica la razza.

Ora è un secolo da che nacque nel Massachussett un montone che aveva il corpo allungato e le gambe corte e torte come il cane bassotto. Il proprietario della greggia che ebbe quel montone pensò che sarebbe stato vantaggioso per lui avere molti montoni di quella sorta, perchè non avrebbero potuto saltar fuori dal ricinto e gli sarebbe stato più facile custodirli. Fece adunque riprodurre quel montone di cui i figli vennero pure col corpo lungo e colle gambe torte, e ne ebbe in breve tutta quanta una razza.

Il dottor Gaspare Pacchierotti di Padova regalò al professore Canestrini un cane da caccia nato colla coda corta, figlio di due genitori che avevano avuto tagliata la coda. (Vedi La teoria di Darwin criticamente esposta da Giovanni Canestrini, Milano, Dumolard, 1880).

In Piemonte nel principio del secolo, quando erano esclusivamente adoperati per la caccia delle quaglie i cani bracchi a cui si soleva tagliare la coda, il nascere dei cagnolini bracchi senza coda era un fatto frequente, e mi ricordo bene di averne veduti, e soprattutto di aver inteso parlare della cosa siccome veduta da molti, e frequente tanto da non destare nessuna meraviglia. Ho anzi intorno a ciò una ricordanza al tutto speciale. Mio padre mi fece vedere un giorno uno di quei cagnolini senza coda, ancora poppante, e me ne parlò come di un esempio molto evidente della ereditarietà dei caratteri negli animali domestici.

A Roma, nell'orto botanico a Panisperna, v'è un bel cane da guardia che si chiama Orso, ed è in questo momento ben lontano dallo aspettarsi che venga stampato il suo nome. Orso non ha coda e nacque senza coda. Il professore Pedicino, che lo ebbe poppante, attesta il fatto, il qual fatto è comune fra i pastori della campagna romana ed era già noto fin dal secolo passato.

Presso Iena, alcuni anni or sono, un toro al quale, pel chiudersi repentino della porta della stalla, s'era strappata la coda, fu padre di vitelli senza coda.

Un toro nato senza corna da genitori cornuti, al Paraguay, nell'anno 1770, accoppiato con una vacca provveduta di corna, produsse vitelli senza corna, i quali si propagarono sempre collo stesso carattere negativo, per modo che, mercè la scelta degli allevatori, oggi al Paraguay i bovi cornuti sono rarissimi ed è invece al tutto dominante la razza delle bovine senza corna.

Le pecore merinos degli spagnuoli furono perfezionate in Inghilterra e in Germania. Si pratica una scelta a tre riprese degli individui che si vogliono destinare alla riproduzione; si collocano i più belli sopra una tavola, se ne esamina attentissimamente la lana, e si tirano fuori quelli che l'hanno più fina; poi si mettono sulla tavola questi soli, e fra essi ancora se ne separano i migliori; poi si fa una terza scelta, di alcuni pochissimi, ottimi fra tutti. Questo lavoro, per lunghi anni compiuto nello Elettorato di Sassonia, ha prodotto una razza di cui ciascuna pecora è di una rara perfezione.

Appunto per essersi fatta nell'Elettorato di Sassonia questa razza, la pecora che le spetta ebbe il nome, popolarissimo fra gli allevatori, di Pecora elettorale, nome che mi produce un certo effetto ora che lo scrivo, perchè lo scrivo appunto mentre bolle il lavoro elettorale con suffragio allargato e scrutinio di lista.

La scelta dei riproduttori è adunque il mezzo capitale che l'uomo adopera per farsi le razze degli animali domestici, e a questo poi, naturalmente, aggiunge quei mezzi accessorii che ottiene col porre l'animale, che vuole sviluppare in un dato senso, nelle condizioni meglio acconce allo intento; la quantità e la qualità del nutrimento, le abitazioni, gli esercizi, l'aria, la luce, l'uomo regola intorno all'animale secondo i casi. Così esercita nella corsa il puledro, mentre tiene nell'immobilità il maiale, e avvezza i piccioni viaggiatori al ritorno portandoli un po' discosto e abbandonandoli appena sanno volare, e a poco a poco allungando sempre le distanze.

La stessa cosa come per gli animali domestici avviene, mercè l'opera dell'uomo, per le piante coltivate, e non è d'uopo dire quanta sia la varietà dei frutti, dei fiori, delle forme stesse delle piante che l'uomo coltiva; le esposizioni che si fanno ora tanto frequentemente hanno messo ognuno in condizioni di verificare la cosa. La via per ottenere tante e tante singolari varietà costanti è la stessa, la scelta dei semi di quelli individui che hanno in maggior grado il carattere che si ricerca e lo adattamento delle condizioni esterne, quanto più si possa, allo scopo che si vuole ottenere.

Questo argomento delle modificazioni che l'uomo induce negli animali domestici e nelle piante coltivate, della via che tiene e dei risultamenti cui giunge, fu, come ho detto, lo studio principale fatto da Carlo Darwin negli anni che tennero dietro a quello in cui fermò in Down la sua dimora. Studiò tutto, ma si applicò segnatamente allo studio delle razze dei piccioni. Questi uccelli domestici sono stati profondissimamente modificati e svariati in numerose e differentissime razze dall'uomo, e danno certezza allo studioso (ciò che non si può dire sempre degli altri animali domestici) di provenire tutti da una sola specie selvatica, il comune piccione terraiolo. Carlo Darwin si fece membro di società inglesi che danno opera allo allevamento dei piccioni, scrisse in ogni parte del mondo, ebbe esemplari in pelle di tutte le razze e ragguagli di ogni sorta da persone intelligenti e capaci di comprendere bene e di rispondere acconciamente alle sue domande.

Così egli si compenetrò scientificamente e riuscì a comprendere tutta la importanza della verità volgare che l'uomo ottiene tanto differenti le razze degli animali domestici e le varietà delle piante coltivate mercè la scelta dei riproduttori, o come egli disse, la scelta artificiale, contrapponendo questo nome a quello della scelta naturale che egli riconobbe essere il grande fattore della modificazione e della trasformazione delle specie dei viventi, animali e piante, in natura.

[Pg 176][Pg 177]

XI

La teoria dei cataclismi, dei grandi rivolgimenti, delle rivoluzioni del globo, la teoria di Cuvier era caduta, morta e sepolta.

Carlo Lyell, pubblicando nel 1830 i suoi Principii di geologia, era venuto a mutare le opinioni allora in corso, e quella sua pubblicazione fu tanto sapiente, tanto limpida, tanto persuasiva, tanto ricca di dimostrazioni e di prove, fin là dove possono andare le prove e le dimostrazioni in fatto di geologia, tanto stringente nelle argomentazioni dove non era più questione di prove, che si osservò questo fatto notevole di un profondo rivolgimento operato nel campo della scienza in un tempo breve e con così poco contrasto come raramente suole avvenire in tal sorta di casi.

Carlo Lyell dimostrò che quei mutamenti profondi sulla superficie della terra di cui appaiono tanto evidenti le traccie, non sono già avvenuti mercè scoppi, cataclismi, azioni violentissime in modo istantaneo e repentino, ma bensì a poco a poco, lentissimamente e per l'azione di quelle medesime cause che operano anche oggi.

La vita di un uomo, la vita di parecchie generazioni d'uomini, è troppo breve a riconoscere certi mutamenti che avvengono alla superficie della terra. Questi mutamenti non si fanno riconoscere che in capo a molti secoli. Il suolo si muove, si può dire, in ogni parte, qua si solleva, là si abbassa, questi sollevamenti e questi abbassamenti sono lentissimi, si fermano, riprendono, proseguono, per tornare a formarsi e per tornare a proseguire; il fondo dei mari si solleva, la terra emersa si sprofonda, l'acqua e l'aria intaccano le rocce e la materia solida si altera, si sgretola, s'intacca, si scompone e costituisce nuove combinazioni; tutto si muta, e dove prima era un clima caldo diventa temperato e poi freddo, e dove era ghiacciato tutto l'anno s'apre il campo a poco a poco ad una lussureggiante vegetazione. Dico a poco a poco, lentissimamente, col volgere di centinaia e migliaia di secoli.

Così i viventi hanno potuto di generazione in generazione trovarsi in condizioni che siano venute mutandosi lentissimamente; questi mutamenti esterni hanno potuto bene, anzi hanno dovuto trarre con sè la modificazione di alcuni caratteri. Gli individui di una data specie di animali in natura si rassomigliano moltissimo fra loro; tuttavia una qualche differenza individuale c'è; in una località dove il clima si vada facendo più freddo, quegli individui di questa o quella specie di mammiferi che per avventura abbiano un po' meglio dei loro compagni folto e lungo il pelame, si troveranno in condizioni migliori e avranno maggior probabilità di campare e di invecchiare, di propagarsi, che non gli altri. Questi individui più riccamente forniti di pelo produrranno figli in pari modo, gli uni più e gli altri meno, privilegiati per un pelame più ricco e meglio protettore; quei figli che saranno meglio privilegiati avranno maggior probabilità di sopravvivere e trasmettere a loro volta il carattere benefico ai loro discendenti. Così a poco a poco, dopo molte generazioni, si avrà un cambiamento stabile per questo riguardo e i discendenti avranno sopportato un mutamento rispetto agli antenati, appariranno diversi da quelli, la specie avrà variato in natura, come varia in domesticità e si modifica la razza. In domesticità la modificazione segue mercè la scelta artificiale che fa l'uomo degli individui meglio forniti del carattere che si trasmette. In natura la scelta avviene da sè stessa col sopravvivere e propagarsi degli individui che hanno il carattere favorevole, e si ha quindi la scelta naturale. Tutti sanno che il colore del pelo, delle piume, delle scaglie, della pelle nuda, dello integumento degli animali, si conforma al colore del mezzo in cui questi vivono. La raganella che sta nel fogliame degli alberi e la cavalletta che sta nell'erba dei prati sono verdi, l'orso delle regioni polari è bianco come la neve, gli insetti son variopinti come i fiori in cui vivono, la lucertola muraiola ha il color dei muri, la steppa, il deserto, danno il loro colore agli animali che vi albergano. La stessa cosa è nel mare. Le alghe marine hanno belle e svariatissime tinte, sovente sfumature delicate e gradazioni da pareggiare i fiori dei prati e dei monti, ma dominano soprattutto tre grandi tinte, la verde, la rossa e la bruna. Quei pesciolini del mare che vivono fra le alghe e i nostri pescatori denominano collettivamente col nome di pesci di scoglio, son bruni, verdi, rossi, variopinti, conformemente al color delle alghe in mezzo alle quali s'aggirano guizzando; così hanno il color delle alghe le chiocciole e le limacce marine, i gamberelli, e via dicendo. Ciò segue mercè la scelta naturale. Se in un prato vi fossero cavallette di varii colori, alcune verdi, altre rosse, altre gialle, altre bianche, più facilmente senza dubbio le prime si sottrarrebbero alla vista degli uccelletti che ne fanno loro pasto, più facilmente le altre sarebbero beccate. Così a poco a poco verrebbero a scomparire le cavallette colorite altrimenti che non in verde, mentre quelle colorite di questo colore si salverebbero. Alla lunga, il color verde finisce per rimaner solo in campo scomparendo tutti gli altri mercè l'opera irresistibilmente efficace della scelta naturale. Lo stesso si dica per gli altri esempi citati e per gli innumerevoli che si potrebbero citare.

Gli animali da preda, le fiere, gli uccelli rapaci, e tanti altri animali più piccoli, ma non meno fieri predoni, debbono lottare fra loro di forza, di velocità, o altrimenti, per campare la vita. Data una località dove i predatori siano numerosi e le vittime vi vadano, per una delle tante cause che possono produrre questo effetto, facendosi più scarse, i più deboli fra i predatori soccomberanno, mentre i più forti persisteranno, e questi saranno i più veloci, i meglio armati, quelli per qualsiasi carattere più favorevole in condizioni migliori per vincere, e questi caratteri favorevoli si verranno sempre più sviluppando e seguirà nella specie una trasformazione.

Invero, la lotta per la vita è una legge fatale, dolorosa, crudele, di tutti i viventi: di tutti i viventi non escluso l'uomo. Malthus dimostrò come nelle generazioni degli umani segua questo fatto, che nascon molti più bambini di quello che si possa alimentare di uomini, quindi c'è una certa quantità di umani che langue, deperisce, muore vinta nella lotta per l'esistenza, fierissima nelle società incivilite.

Questa lotta per la vita che è nella umanità, è in tutti i viventi in natura. L'uomo potrà forse un giorno farla cessare e potrebbe fin d'ora attenuare in parte gli effetti tremendi di questa lotta quando veramente il forte si volesse dare più pensiero del debole. Nei viventi in natura non c'è rimedio.

I naturalisti si son divertiti qualche volta a calcolare il numero degli individui che deriverebbero da una sola coppia di animali, quando tutti i loro nati crescessero e si propagassero a loro volta per un certo tratto di tempo. È una cosa che fa spavento. Le aringhe nate dalle ova di un'aringa sola, ove ciò avvenisse, in pochi anni empirebbero tutti i mari.

È terribile invero questa legge che condanna il maggior numero dei viventi a perire prima di arrivare allo stato adulto, prima di soddisfare al compito supremo della riproduzione.

Il Kleinenberg ha in proposito le seguenti notevoli parole:

«La sproporzione tra gli individui virtualmente esistenti e quelli che realmente arrivano al completo svolgimento di tutte le funzioni, è senza dubbio un fatto generale nel regno organico. L'ammissione di questo fatto come principio scientifico incontra tuttavia, al parer mio, alcune difficoltà. Invero l'indomabile tendenza degli esseri organici a moltiplicarsi oltre i limiti del realmente possibile, non mi pare comprensibile senz'altro come una qualità fondamentale della materia vivente; sarebbe una relazione ragionevolissima se la vita si mantenesse eternamente in proporzione diretta coi disponibili mezzi di sussistenza. D'altro canto s'intende che questo fenomeno biologico non possa essere effetto della selezione naturale, imperocchè la sua esistenza è precisamente la necessaria presupposizione, senza la quale non si avrebbe nè la lotta per l'esistenza, nè la selezione naturale. La lotta per l'esistenza quindi non può essere una condizione primitiva della vita e deve aver avuto origine da certe relazioni posteriori. Sarebbe una ipotesi forse accettabile che la vita comparve sulla terra per la prima volta in quantità assai scarsa relativamente all'esuberanza di elementi vitali offerti dalla natura; che tale sproporzione in favore alla vita ne provocò la rapida moltiplicazione e che l'abbondante riproduzione ben presto diventò abituale, ereditaria. In questo primo periodo della vita terrestre non esisteva nè lotta per l'esistenza, nè selezione, nè sviluppo. Ma appena fu raggiunto l'equilibrio, esso fu immediatamente disturbato a causa dell'ereditaria rapida propagazione, la vita traboccava, la bilancia si abbassava dal lato opposto, e da quel momento incominciano la concorrenza, la soppressione del meno perfetto, le trasformazioni.

«Quanto alla lotta per l'esistenza, essa è fondata sulla tendenza del vivente a conservar sè stesso, tendenza che è assolutamente inseparabile dal concetto della vita in qual modo pure vada formulato; la selezione è poi una conseguenza della lotta, e ne risulta, dato un certo numero di variazioni, con necessità inevitabile, la formazione di nuove specie.»

Erasmo Darwin parla di una lotta che segue in natura nel regno vegetabile, e dice:

«Tutto il mondo vegetabile si contende a vicenda e luce e aria; gli arbusti s'inalzano disopra le erbe, e, togliendo loro la luce e l'aria, arrivano a danneggiarle a segno che le fanno perire, gli alberi soffocano e danneggiano gli arbusti, le piante parassite arrampicanti, come l' edera e la vitalba, nuocciono agli alberi più alti, ed altre piante parassite, che sussistono senza essere abbarbicate entro la terra, come il Visco, la Fillandsia, l' Epidendrum, i Muschi e i Funghi, nuocciono agli alberi sopra cui vivono.

«Una delle gramigne indiche, Paniscum arborescens, il cui stelo non è più grosso d'una penna d'oca, s'inalza tanto alto, quanto i più grandi alberi, per cagione di questa contesa per l'aria e la luce....»

Qui Erasmo Darwin parla della lotta fra le varie specie di vegetabili. Accenna, per verità, alla gramigna indica diventata così alta, ma non esprime chiaramente il concetto della lotta fra i varii individui di una stessa specie per la quale finisce la specie per trasformarsi.

In una fitta foresta le piante arboree tenderanno sempre ad allungarsi verticalmente e salire, mentre un albero che cresce liberamente solo in una ampia pianura tenderà ad allargare i suoi rami, e quando i semi di questo per una lunga serie di generazioni venissero a trovarsi sempre nelle medesime condizioni finirebbe per derivarne una forma d'albero poco alto con espansissime fronde.

Gli alberi in montagna han foglie sottili e rami orizzontali, nelle condizioni migliori per resistere al vento e alla neve; possiamo benissimo intendere come, per una lunga serie di trasformazioni lentissime mercè la scelta naturale, sian venuti al punto in cui oggi li vediamo; come intendiamo il caule brevissimo di altre piante alpine, di alcune delle quali possiamo tener dietro allo accorciarsi del caule a mano a mano alle varie altitudini.

Venticinque anni or sono (scrivo ora nell'ottobre del 1882), entrai un giorno nel Museo zoologico di Torino, nello studio di Vittore Ghiliani, entomologo valentissimo, ma ancora uomo di cui la virtù e la bontà superavano il sapere, per quanto questo fosse grande. Trovai quell'ottimo uomo curvo sul tavolino colla lente; aveva davanti una tavoletta di sughero stretta e lunga, con sopra insetti coleotteri infilzati. Levò il capo, mi corse incontro a stringermi affettuosamente la mano. Io dimorava allora in Genova e solo di rado capitava a Torino.

C'era sempre qualche cosa da imparare quando il Ghiliani parlava, e io gli domandai che cosa stesse guardando con tanta attenzione al mio arrivo.

—Sto guardando—mi rispose concitatamente—questa prova che ho qui sotto gli occhi del fatto, che in natura non vi sono specie. Vedete qui; osservate, di questa dozzina di forme, la prima e l'ultima; vi paion ben differenti l'una dall'altra; tanto che non vi viene in mente, se mettete le due sole accosto, di dire che appartengono alla medesima specie: ma guardate quelle che stanno in mezzo, guardatele l'una dopo l'altra nell'ordine in cui sono disposte: la prima è talmente affine alla seconda che voi non credete di poterla separare specificamente; ma questa seconda si lega nello stesso modo alla terza, la terza alla quarta, e così via. La prima è della schietta pianura, la seconda delle falde del monte, le altre del monte stesso a mano a mano sempre a un'altezza maggiore. Le specie si modificano salendo, e ciò non solo negli insetti, ma in generale negli animali e nelle piante.—

Queste parole io le ascoltava dal Ghiliani, due anni prima che venisse fuori con uno scoppio, che doveva echeggiare per tutto il mondo, il volume intorno all'origine della specie, di Carlo Darwin.

Nessuno più di Vittore Ghiliani era in condizioni di comprendere quel volume, e invero egli sommamente se ne compiacque e nella sua immensa ricchezza di cognizioni entomologiche trovò poi pel rimanente della sua vita argomenti suoi in appoggio di questa dottrina.

XII

Il moltiplicarsi di una data specie di viventi in una data località è sovente in rapporto colla esistenza di altri viventi, talora assai lontani e diversi dai primi e tali che non si crederebbe mai, quando la cosa non fosse dimostrata dalla osservazione, che possano gli uni giovare o nuocere agli altri.

Una sorta di gambero marino chiamato Paguro dai naturalisti, comune lungo le spiagge italiane, e notissimo ai pescatori che lo cercano per inescarne i loro ami, presenta questa singolare conformazione, che quella parte che volgarmente nel gambero si chiama la coda, ma che invero è il ventre, invece di avere la copertura di scaglie che hanno gli altri gamberi, si trova in esso al tutto nuda e con una pellicina sottile. Con un ventre di tal fatta allo scoperto il paguro non potrebbe vivere; oltrechè la pellicina sottile si lacererebbe contro gli spigoli delle pietruzze e delle arene, ogni sorta di pesciolini di scoglio la morderebbero e ne farebbero pasto. Singolare forma questa del paguro, che mentre ha il capo e il petto saldati insieme e protetti da una salda corazza, ha il ventre molle e indifeso. A ogni costo bisogna che il paguro faccia una difesa a quel suo ventre nudo; la fa in singolarissimo modo. Dove esso vive fra gli scogli, sulle ghiaie e nelle fanghiglie sottomarine lungo la spiaggia, vivono parecchie sorta di chiocciole di mare, le quali siccome vivono muoiono. La parte molle dell'animale si disfà tutta dopo la morte e rimane la conchiglia vuota. Il paguro prende questa conchiglia e ci alloga dentro il suo molle ventre e se la trascina dietro camminando. Se le conchiglie vuote son molte e i paguri pochi, tutto va bene; ma se i paguri son molti e poche le conchiglie vuote, tutto va male. Seguono fra i paguri fiere battaglie pel possesso di una conchiglia. Avviene talora che un paguro, annoiato di trascinarsi sempre la conchiglia dietro, la lascia per darsi un po' di sollazzo e fare una passeggiatina. Un altro paguro subito se ne impadronisce e quando ritorna il primo proprietario se ne trova espropriato. I combattimenti fra i paguri pel possesso delle conchiglie sono tanto frequenti che quegli animaletti si son fatto un certo abito del combattere e quando due s'incontrano s'azzuffano per tenersi in esercizio. Qui adunque si ha un crostaceo di cui la vita dipende dalla vita, o piuttosto dalla morte, di un mollusco; ma lo scarseggiare o lo abbondare del mollusco è in rapporto colla quantità dei suoi varii predatori, colla quantità e colla qualità delle alghe di cui esso si pasce, le quali sono in rapporto colla qualità della roccia, colla condizione di movimento e di purezza dell'acqua, e via dicendo.

In alcune vallate presso Genova, dice il professore Arturo Issel ( Varietà di Storia naturale, Milano, Treves, 1866) scarseggiano le chiocciole, perchè esse sono avidamente divorate dai topi, che quivi molto abbondano; una sola specie vi è comunissima ( Helix cespitum ) e, a quanto pare, essa sfugge alla regola, perchè vive sul cespite dei cardi spinosi, i quali coi loro pungenti aculei le fanno schermo contro gli attacchi dei suoi nemici.

Una mosca, chiamata dai naturalisti cecidomia, depone le uova sugli stami di una scrofularia, e secerne un veleno producente una galla, di cui si nutre la larva; un altro insetto, chiamato misocampo, depone le uova entro quella galla nel corpo stesso della larva della mosca, e così si nutre della sua preda vivente. Ne risulta che un imenottero dipende da un dittero, il quale dipende a sua volta dalla proprietà che possiede di produrre una secrezione mostruosa in un organo particolare di una certa pianta.

Il bue, il cavallo, il cane, non sono ritornati allo stato selvaggio nel Paraguay, mentre ciò avvenne di questi animali un po' più al nord e un po' più al sud di quella contrada. Due naturalisti benemeriti pel grande studio che hanno fatto della zoologia dell'America meridionale, Azara e Rengger, hanno trovato la ragione di questo fatto. È comune al Paraguay una sorta di mosca, la quale depone le sue uova nell'ombellico dei cani, dei buoi e dei cavalli appena nati, e li fa morire. Questa mosca ha per nemici gli uccelli insettivori e i suoi parassiti, e il più o il meno di questi viene così ad operare sui bovi, sui cavalli e sui cani.

Giova riferire le seguenti parole del Darwin:

«....La visita delle farfalle è assolutamente necessaria a molte nostre orchidee per spandere il loro polline e fecondarle. Abbiamo esperienze che ci convincono che i pecchioni sono quasi indispensabili alla fecondazione della viola del pensiero ( viola tricolor ), perchè le altre api non vi si arrestano. Ho anche scoperto che parecchie specie di trifoglio richieggono la visita delle api per divenire feconde: per esempio 20 capi di trifoglio olandese ( trifolium repens ) diedero 2290 semi, mentre 20 altri individui di questa specie, inaccessibili alle api, non ne diedero uno solo. Così 100 piante di trifoglio rosso ( trifolium pratense ) produssero 2700 semi, ma altrettante pianticelle difese dalle api non diedero semente di sorta. I soli pecchioni visitano il trifoglio rosso; le altre api non ne possono suggere il nettare. Si è sostenuta l'idea che le falene potessero cooperare alla fecondazione dei trifogli; ma io dubito che ciò sia possibile pel trifoglio rosso, giacchè il loro peso non basta a deprimere i petali della corolla. D'onde può inferirsi che se l'intero genere dei pecchioni divenisse molto raro o si estinguesse in Inghilterra, probabilmente la viola del pensiero ed il trifoglio rosso diminuirebbero assai o scomparirebbero interamente.

«Il numero dei pecchioni in qualsiasi regione dipende in gran parte dal numero dei topi campagnuoli che distruggono i loro favi e i loro nidi; e M. H. Newman, che osservò lungamente le abitudini dei pecchioni, crede che «più di due terzi di questi sono così distrutti in Inghilterra.» Ora, il numero dei topi dipende principalmente, come tutti sanno, dal numero dei gatti; e il signor Newman dice che presso i villaggi e le borgate egli ha trovato i nidi dei pecchioni in maggior copia che altrove, il che egli attribuisce al gran numero dei gatti che distruggono i topi campagnuoli. È dunque credibilissimo che la presenza di un gran numero di animali felini in un distretto, determini, mediante l'intervento dei sorci e delle api, la quantità di certi fiori nel distretto stesso.

«La moltiplicazione di ogni specie è dunque sempre inceppata da diverse cause, che agiscono in varii periodi della vita e nelle differenti stagioni dell'anno; alcune sono più efficaci, ma tutte concorrono a determinare il numero medio degli individui od anche l'esistenza delle specie. In alcuni casi si può dimostrare che in diverse regioni agiscono cause diverse sopra le medesime specie. Quando si considerano le piante e gli arbusti che coprono un terreno incolto, siamo indotti ad attribuire il loro numero proporzionale e le loro specie a ciò che chiamiamo il caso. Ma quanto falsa è questa opinione! Quando si atterra una foresta americana sappiamo che sorge una vegetazione diversissima; pure si è notato che le antiche rovine indiane del mezzogiorno degli Stati Uniti, che un tempo erano state spogliate dei loro alberi, spiegano al presente la medesima meravigliosa diversità e proporzione di razze, quale è quella delle vergini boscaglie vicine. Quale tenzone deve essersi continuata per lunghi secoli fra le differenti specie di alberi, quando ciascuna spande annualmente i proprii semi a migliaia! Quale guerra degli insetti contro gl'insetti; degli insetti, lumache e altri animali contro gli uccelli e gli animali rapaci! Tutti sforzandosi di moltiplicare e tutti nutrendosi gli uni degli altri o cibandosi a spese degli alberi, dei loro semi, dei loro pollini o d'altre piante che prima coprivano la terra e impedivano conseguentemente lo sviluppo degli alberi! Che si getti in aria un pugno di penne e ognuna ricadrà al suolo secondo leggi definite; ma quanto è semplice il problema della loro caduta in confronto di quello delle azioni e reazioni delle piante ed animali innumerevoli che nel corso dei secoli determinarono i numeri proporzionali e le specie degli alberi, che ora crescono sulle rovine indiane!» ( Sulla origine delle specie, traduzione di Giovanni Canestrini. Torino, Unione tipografica editrice, 1875).

Questo grande principio della scelta naturale è come un sole splendido e fiammeggiante che illumina e rende in ogni parte riconoscibili una infinità di fatti intorno ai quali prima era buio. Non tutto a ogni modo, nel regno dei viventi, si spiega con questo principio. Non si spiega, o almeno non si spiega sempre la differenza, talora molto grande, che si scorge negli animali fra le femmine e i maschi.

Dico che nella scelta naturale non si spiega sempre la differenza fra le femmine e i maschi, perchè in qualche caso veramente si può spiegare. I fagiani presentano grandissime differenze nei due sessi, come tutti sanno. I maschi hanno un piumaggio bellissimo variopinto, mentre le femmine hanno un modesto colorito uniforme; ma le femmine dei fagiani covano sul suolo, non protette da fronde o fogliame od altro, e quando avessero vivacemente colorito il piumaggio, facilmente sarebbero scorte dagli uccelli rapaci e predate. Il modesto piumaggio in armonia col colore circostante protegge queste femmine dei fagiani; si può adunque credere che qui si sia fatta una scelta naturale sopravvivendo le femmine più brune e soccombendo quelle meglio colorite, e che questo carattere ereditariamente si sia andato trasmettendo sempre alle femmine di generazione in generazione tanto da diventare costante.

Ma questa spiegazione che sta pel fagiano non sta nella maggioranza dei casi, che sono numerosissimi, di differenze fra i maschi e le femmine in tante sorta di animali.

Generalmente il maschio è quello che si modifica di più e varia di più nelle sue modificazioni. Il maschio ha maggior bellezza, maggior vigore, indole più battagliera, organi dei sensi più fini, maestria di canto, ghiandole odorose, certi caratteri qualche volta che non gli servono nella vita ordinaria e non si possono intendere che come ornamenti fatti per meglio piacere alle femmine. Talora il maschio si fa bello al tempo degli amori e si tramuta per modo da non essere più riconoscibile e sfoggia la nuova bellezza e fa strani atti ed inconsueti davanti alla femmina, e combatte furiosamente e uccide i rivali.

I maschi più gagliardi e più belli in ogni tempo hanno dovuto avere maggior facilità di debellare i rivali e piacere alle femmine; la gagliardia e la bellezza dei padri ha dovuto trasmettersi ai figli, e così nuovi caratteri differenziali fra il maschio e la femmina a poco a poco hanno dovuto apparire e trasmettersi e costituirsi. Per tal modo s'intendono queste differenze sessuali e s'intende come i giovani somiglino alle femmine e i caratteri differenziali non appariscano che più tardi.

A questa maniera di scelta per la quale si vengono differenziando i sessi e che è diversa dalla scelta naturale, perchè i maschi hanno acquistato la loro attuale struttura non già per essere meglio atti a sopravvivere nella lotta per l'esistenza, ma per avere acquistato un vantaggio sopra altri maschi e per averlo trasmesso ai loro figli maschi, a questa maniera di scelta il Darwin diede il nome di scelta sessuale, e con essa spiegò buon numero di fatti inesplicabili altrimenti.

[Pg 196][Pg 197]

XIII

Per oltre a venti anni nel secolo passato Erasmo Darwin meditò e lavorò intorno alla sua zoonomia prima di farne la pubblicazione. Per oltre a vent'anni nel nostro secolo Carlo Darwin meditò e lavorò intorno alla origine delle specie prima di dirne una parola per le stampe. La suprema importanza dell'argomento che egli sentiva tutta, e questo è sommo suo merito, lo rendeva dubitoso. Voleva venir fuori con buone ragioni a sostegno delle sue idee, voleva che i fatti fossero la base delle sue meditazioni e di quelle conseguenze grandiose alle quali la sua mente veniva arrivando. Viveva lontano dai tumulti, libero del suo tempo, intento tutto e sempre all'opera sua. Si rivolgeva da ogni parte a chi potesse dargli aiuto, e veniva esponendo a due suoi dottissimi amici, Carlo Lyell e il dottor Hooker, i risultamenti delle sue ricerche e i suoi pensieri. Dopo cinque anni di assiduo lavoro in questa via egli incominciò a scrivere alcune annotazioni; e nell'anno 1844 fece un abbozzo dell'operato suo, notando le conclusioni cui era venuto. Di questo suo scritto ebbero conoscenza i suoi due amici sopranominati, e il dottor Hooker lo lesse tutto.

Carlo Lyell e il dottor Hooker sollecitavano vivamente il Darwin a pubblicare qualche cosa intorno ai suoi studi e ai suoi concetti, ed egli rispondeva di sì, ma non ne faceva nulla. Sebbene avesse raccolto un grande corredo di fatti a sostegno delle sue idee, non gli pareva mai di averne abbastanza e andava sempre procrastinando il giorno di una pubblicazione preliminare. Forse avrebbe ritardato indefinitamente, forse, come quei grandi artisti ignorati di cui taluno narra che abbiano accarezzato tutta quanta la vita un concetto senza mai incarnarlo, avrebbe proseguito sempre nelle sue ricerche senza creder mai di essere arrivato al punto di poterne parlare, se non fosse sopraggiunta una circostanza, la quale fece sì che i suoi amici insistessero presso di lui più del consueto ed egli finisse per arrendersi.

Il signor Alfredo Russel Wallace, sommo naturalista e viaggiatore, per molti anni esplorò le isole dell'arcipelago della Sonda, si addentrò fra le foreste vergini dell'arcipelago indiano, studiò dal vero vivi e in azione i prodotti della natura in quelle rigogliose contrade tanto abbondanti di vita. Viaggiando, osservando, meditando, Alfredo Russel Wallace venne alle stesse conclusioni intorno alla variabilità delle specie cui era venuto Carlo Darwin. E a Carlo Darwin egli mandò, l'anno 1858, uno scritto intorno a questo argomento, pregandolo di darlo a Carlo Lyell, il quale lo presentò alla Società Linneana.

Ma allora Carlo Lyell e il dottor Hooker fecero comprendere al Darwin che non era più tempo d'indugiare, ed egli alla perfine si arrese.

Il volume intorno alla Origine delle specie venne fuori a Londra il giorno 24 novembre 1859.

In due parole ne è così espresso il carattere fondamentale:

«Quando si riflette al problema della origine delle specie, considerando i mutui rapporti di affinità degli esseri organizzati, le loro relazioni embrionali, la loro distribuzione geografica, la successione geologica ed altri fatti analoghi, si può conchiudere che ogni specie non è stata creata indipendentemente dalle altre, ma bensì discende, come le varietà, da altre specie.»

Nella introduzione il Darwin espone così limpidamente, in brevissimo spazio, il piano del suo lavoro, che non si può far meglio che riferire le sue proprie parole:

«...Fino dai primordii delle mie ricerche fui d'avviso che un accurato studio degli animali domestici e delle piante coltivate mi avrebbe offerto probabilmente i dati migliori per risolvere questo oscuro problema. Nè mi sono ingannato, mentre non solo in questa circostanza, ma ben anche in tutti gli altri casi perplessi, ho sempre trovato che le nostre esperienze, relative alle variazioni degli esseri organizzati avvenute allo stato di domesticità o di coltura, sono tuttavia la nostra guida migliore e la più sicura. Io non esito ad esprimere la mia convinzione sull'alta importanza di questi studii, benchè troppo spesso siano stati trascurati dai naturalisti.

«Per questo motivo io consacro il primo capitolo di questo compendio all'esame delle variazioni allo stato domestico. Vedremo da ciò, che sono per lo meno possibili sopra una vasta scala variazioni ereditarie, e quel che più importa, vedremo quanto grande sia la facoltà dell'uomo di accumulare leggiere variazioni, per mezzo della elezione artificiale, cioè mediante la loro scelta esclusiva. Passerò poscia alla variabilità delle specie nello stato di natura; ma io dovrò a malincuore trattare con troppa concisione questo soggetto, che non può svolgersi convenientemente se non colla scorta di lunghi cataloghi di fatti. Potremo nondimeno discutere quali siano le circostanze più favorevoli alle variazioni. Il capitolo successivo tratterà della lotta per l'esistenza fra tutti gli esseri organizzati del globo, lotta che necessariamente deriva dal loro moltiplicarsi in proporzione geometrica. È questa la legge di Malthus applicata a tutto il regno animale e vegetale. Siccome gli individui d'ogni specie che nascono sono di numero assai maggiore di quelli che possono vivere, e perciò deve rinnovarsi la lotta fra i medesimi per l'esistenza, ne segue che se qualche essere varia, anche leggermente, in un modo a lui profittevole, sotto circostanze di vita complesse e spesso variabili, egli avrà maggior probabilità di durata e quindi potrà essere eletto naturalmente. Inoltre, secondo le severe leggi dell'eredità, tale varietà eletta tenderà continuamente a propagare la sua forma nuova e modificata.

«Di questo principio fondamentale di elezione naturale tratterò diffusamente nel quarto capitolo: e noi conosceremo in qual modo questa elezione naturale produca quasi inevitabilmente frequenti estinzioni di specie meno adatte e conduca a ciò che io chiamo divergenza dei caratteri. Nel seguente capitolo io discuterò le leggi complesse e poco note della variazione. Altri cinque capitoli risolveranno le difficoltà più gravi e più apparenti della teoria. In primo luogo la difficoltà delle transizioni, cioè come possa darsi che un essere o un organo semplice siasi trasformato in un essere più complicato oppure in un organo più perfetto; secondariamente l'istinto e le facoltà mentali degli animali; in terzo luogo l'ibridismo o la sterilità delle specie incrociate e la fecondità delle varietà incrociate; da ultimo l'insufficienza dei documenti geologici. Nel capitolo successivo io considero la successione geologica degli esseri organizzati nel corso del tempo; nel dodicesimo e tredicesimo la loro distribuzione geografica nello spazio; nel decimoquarto la loro classificazione e le loro mutue affinità tanto nello stato adulto quanto nello stato embrionale. L'ultimo capitolo comprenderà un breve riassunto di tutta l'opera con alcune osservazioni finali.

«Se teniamo conto della nostra profonda ignoranza sulle reciproche relazioni di tutti gli esseri che vivono intorno a noi, non possiamo fare le meraviglie se ci restano ancora inesplicate molte cose sulla genesi delle specie e delle varietà. Come può spiegarsi che mentre una specie è numerosa e sparsa sopra una grande estensione, un'altra specie assai affine trovasi rara e in uno spazio ristretto? Ora questi rapporti sono della più alta importanza, giacchè determinano il benessere presente e credo anche la prosperità futura e le modificazioni di ogni abitante di questo mondo. Noi conosciamo poi ancor meno le relazioni reciproche degli innumerevoli abitanti terrestri in molte fasi geologiche del loro passato sviluppo. Quantunque molte cose restino oscure e rimarranno tali ancora per lungo tempo, io non posso dubitare, dopo lo studio più esatto e il giudizio più coscienzioso di cui sono suscettibile, che l'opinione adottata dalla maggior parte dei naturalisti e per lungo tempo anche da me, cioè che ogni specie sia stata creata indipendentemente dalle altre, sia erronea.

«Io sono pienamente convinto che le specie non sono immutabili; ma che tutte quelle che appartengono a ciò che chiamasi lo stesso genere, sono la posterità diretta di qualche altra specie generalmente estinta, nella stessa maniera che le varietà riconosciute di una specie qualunque discendono in linea retta da questa specie. Finalmente, io sono convinto che l'elezione naturale sia, se non l'unico, almeno il principale mezzo di modificazione.»

Questo suo lavoro l'autore non lo considera che come un estratto, e ne lamenta la imperfezione.

«L'estratto che oggi metto in luce è dunque necessariamente imperfetto. Io sono costretto ad esporvi le mie idee senza appoggiarle con molti fatti o con citazioni di autori: e mi trovo nel caso di contare sulla confidenza che i miei lettori potranno avere sull'accuratezza dei miei giudizi. Senza dubbio questo libro non sarà esente di errori, benchè io creda di non essermi riferito che alle autorità più solide. Io non posso produrre se non le conclusioni generali alle quali sono arrivato, con alcuni esempi che tuttavia basteranno, credo, nella pluralità dei casi. Niuno è penetrato più di me della necessità di pubblicare più tardi tutti i fatti che servono di base alle mie conclusioni, e spero di farlo in un'opera futura. Imperocchè io so bene che non vi è un passo in questo volume, al quale non si possano opporre argomenti, che, in apparenza, conducano a conclusioni diametralmente opposte. Un risultato soddisfacente raggiungesi soltanto raccogliendo tutti i fatti e le ragioni favorevoli e contrarie ad ogni quistione, e pesando gli uni contro gli altri; ciò che nell'opera presente non posso fare.»

Per buona ventura il Darwin visse ancora dopo la pubblicazione del volume intorno alla origine delle specie, abbastanza per poter pubblicare tutti quegli altri lavori che egli ne considerava come il complemento. Ma anche quando non avesse potuto far ciò, il volume intorno alla origine delle specie avrebbe bastato a dar salde fondamenta alla nuova teoria e avrebbe portato quel grande rivolgimento nelle menti e quel grande progresso nel sapere umano che appunto ne derivarono.

La prova che il volume sulla origine delle specie non aveva bisogno d'altro, si ha nello immenso effetto che ne conseguì appena venne pubblicato e lo scoppio di furore frenetico da una parte e di amore indomato dall'altra che subito produsse. «La storia, diceva il Times in un cenno necrologico su Carlo Darwin, di una di quelle scene quale è quella che seguì nel celebre meeting della Associazione britannica ad Oxford nel 1860, e della battaglia campale fra il vescovo Wilberforce e il giovane e ardente signor Huxley, si legge come una scena della storia antica, come un episodio nella persecuzione di Galileo, o un preliminare della scomunica di Spinoza....»

La frenesia contro il Darwin da parte di molti suoi avversari, oltre alla sostanza della cosa, si accresce anche per ciò che quest'uomo sommo, senza grandi attrattive di stile, senza ombra di ricercatezza nella forma, senza apostrofi, senza mire ad effetto, irresistibilmente si cattiva l'animo del suo lettore, il quale, rapito da quel purissimo amore del vero che splende in ogni parola del Darwin, rapito da quella calma sublime che non lo abbandona mai, ammirato di quella imparzialità veramente unica, colla quale il grand'uomo in luogo di scansarle va in cerca delle obbiezioni e le più gravi se le fa da sè, prende ad amarlo e si compiace del suo consorzio come di cosa sommamente desiderabile e cara.

Sentite queste stupende parole del professore Kleinenberg:

«Lo stile di Darwin è estremamente semplice, senza alcuna declamazione, senza ornamenti retorici e manca perfino di frasi e di motti incisivi. Eppure i suoi scritti sono di una straordinaria, immediata efficacia, e pieni di vita e di armonia. Ciò dipende in gran parte dal modo in cui sono esposti e disposti i fatti e le conclusioni; in questo riguardo la maestria del Darwin è impareggiabile; nessuno scrittore scientifico fra antichi e moderni, che io conosca, ha dominato mai la sua materia—e quella del Darwin era difficilissima e affatto nuova—con sì assoluta sovranità. Ne risulta un mirabile ordine ed una unità dell'opera, che mi ricordano sempre quei templi dorici di Pèsto e di Girgenti, le creazioni più sublimi dell'arte architettonica, che producono così profonda impressione per la sola vastità e armonia delle loro proporzioni.

«Le opere del Darwin posseggono in massimo grado una qualità comune a tutte le emanazioni del genio: sono persuasive. Ma l'energia irresistibile con cui esse s'impadroniscono della mente del lettore non sta solamente nell'ingegno superiore e nell'arte della composizione, un altro elemento v'influisce forse più di quelli, ed è il carattere morale di Darwin. Ogni pagina dei suoi libri vi dice ad alta voce: chi mi scrisse è un uomo onesto e sopra ogni cosa veritiero. Quello spirito che, partendo dal foro, dalla stampa, dalle assemblee politiche, invade sempre più la coscienza pubblica ed insegna che per difendere la verità è d'uopo esagerare, nascondere i proprii lati deboli e scoprire spietatamente quelli dell'avversario, e dire ancora—s'intende sempre in omaggio alla verità—ogni tanto qualche piccola bugia; questo spirito che al nostro tempo anticlericale alle volte dà un non so che di gesuitico, la mente di Darwin non l'aveva sfiorato. Egli difende la verità, ma con la sola verità. Nessuno ha più freddamente di lui denudato le debolezze della sua teoria, nessuno è stato più di lui abile nell'escogitare ingegnose difficoltà e obbiezioni alla sua dottrina, mai egli ha taciuto un fatto sfavorevole, mai ha soppresso una apparente contradizione. Ne volete la prova? Leggete gli scritti dei più fieri avversarii del Darwin—ben inteso fra i naturalisti—e vedrete che essi molti dei più forti argomenti contrarii li hanno presi in prestito dalle opere dello stesso Darwin. Era un grande ingegno, ma il suo carattere era più grande.

«Permettetemi, o signori, un ricordo personale. Quando io l'anno passato era ospite di Darwin, gli dissi:—Avrei poca ragione di rileggere la vostra Origine delle specie, poichè il suo contenuto teorico credo averlo assimilato, per quanto me lo concede il mio ingegno, e per i miei lavori mi occorrono gli stessi animali vivi piuttostochè libri. Ma, vedete, sono un uomo debole. Ogni tanto, ora per colpa mia, ora per colpa altrui, si scatena in me uno scirocco che intristisce tutta l'anima mia. Allora la vita mi pare tanto brutta, insipida la scienza, vuota l'arte. Ebbene, la lettura di qualche vostra pagina tutte le volte mi ha rialzato da questo avvilimento. Dimodochè un giorno, a Napoli, senza sapere proprio quel che mi facessi, quasi meccanicamente, scrissi col lapis sul margine del vostro libro queste parole italiane: Qui si sana! —E Darwin mi porgeva la mano e disse che questa era la miglior lode che avesse ricevuto in vita sua.»

Un anno dopo la prima edizione della Origine delle specie se ne fece una seconda, nel 1864 se ne fece una terza, e il Canestrini, che già aveva tradotto la prima nel 1875, pubblicò in Torino coi tipi della Unione tipografico-editrice una nuova traduzione fatta sulla sesta edizione inglese notevolmente ampliata. Parecchie altre edizioni, invero non so quante, ne vennero fatte poi e si faranno in avvenire, perchè questo è un libro destinato a rimanere nella scienza immortalmente.

Ragion voleva che il Darwin, secondo l'impegno che aveva preso con sè stesso e coi suoi lettori, volendo sviluppare per via di fatti e di deduzioni da essi il concetto della variabilità delle specie, esponesse quanto aveva veduto negli animali in istato di addomesticamento e nelle piante in coltivazione e quelle conclusioni che aveva saputo trarre dalle cose vedute.

Perciò nell'anno 1868 egli pubblicò una grande opera sulle Variazioni degli animali e delle piante allo stato domestico, di cui pure il professore Giovanni Canestrini fece la traduzione, stampata dalla Unione tipografico-editrice torinese. Sono, nella traduzione italiana, oltre a ottocento pagine con molte incisioni intercalate.

Ecco quanto dice lo stesso autore di questa sua pubblicazione:

«Lo scopo di quest'opera non è punto il descrivere le molte razze di animali che l'uomo seppe addomesticare, nè le piante ch'ei seppe coltivare; se anche avessi le cognizioni che si richiedono per compiere un'impresa così gigantesca, in questo caso sarebbe opera superflua. Io intendo unicamente di esporre, tra i fatti ch'io potei raccogliere ed osservare in ogni specie, i più atti a mostrare la importanza e la natura delle modificazioni subite dagli animali e dalle piante sotto il dominio dell'uomo; e spargere un po' di luce sui principii generali della Variazione. Solo tratterò più diffusamente dei colombi domestici, di cui descriverò tutte le principali razze, la storia, l'estensione e la natura delle loro differenze, e lo stipite probabile della loro discendenza. Ho prescelto questo esempio ad ogni altro, perchè, come si vedrà nel corso dell'opera, esso fornisce materiali più acconci degli altri; e un esempio pienamente descritto può illustrare tutti gli altri. Mi fermerò pure più particolarmente sui conigli, sui polli e sulle anatre domestiche.

«I subbietti che si svolgeranno in questo volume sono collegati in modo tale, che riesce difficile decidere quale sia il migliore modo di ordinarli. Io ho creduto bene di esporre nella prima parte un complesso considerevole di fatti che si riferiscono a varii animali e piante, dei quali fatti, a prima vista, alcuni pareano non avere che una piccola relazione col nostro subbietto, e dedicare l'ultima parte a generali disposizioni. Quando poi mi parve necessario estendermi in maggiori particolari, per corroborare qualche proposizione o conclusione, mi sono valso dei tipi più minuti. Così feci acciocchè il lettore, che accetta senz'altro le conclusioni, o poco si cura dei particolari, distingua i passi ch'ei può trasandare; però mi si permetta di dire che alcune di queste disquisizioni meritano l'attenzione, almeno di chi fa professione di naturalista.»

In questo libro espone il Darwin la sua teoria della pangenesi. La trasmissione dei caratteri per via della eredità lo conduce a domandarsi «come avvenga che un carattere, proprio di un antico progenitore, riapparisca improvvisamente nella sua discendenza; come gli effetti dell'accrescimento o della diminuzione d'uso di un membro si possano trasmettere alla seguente generazione; come l'elemento sessuale maschile possa agire non solo sull'ovulo, ma qualche volta anche sulla forma materna; come possa prodursi un ibrido dall'unione del tessuto cellulare di due piante, indipendentemente dagli organi della generazione; come avvenga che un membro possa riprodursi esattamente nella linea di amputazione, senza che vi sia eccesso o difetto di sviluppo; come esseri organizzati, identici sotto tutti i rapporti, possano essere di continuo prodotti in guise tanto differenti, come sono la germinazione e generazione seminale; e finalmente, come accada che di due forme affini, l'una attraversi nel suo sviluppo delle metamorfosi complesse, e l'altra no, e tuttavia allo stato maturo sieno simili in ogni dettaglio di struttura.»

Il concetto della pangenesi esprime ancora il Darwin nel modo seguente:

«Si ammette quasi universalmente che le cellule, o le unità del corpo, si propaghino per divisione spontanea o prolificazione, conservando la stessa natura, e trasformandosi da ultimo nei varii tessuti e sostanze del corpo. Ma oltre tale maniera di moltiplicarsi, io suppongo che le unità emettano dei minuti granuli, che sono dispersi in tutto il sistema, e allorquando hanno ricevuto una sufficiente nutrizione, si moltiplicano per divisione, e si sviluppano da ultimo in cellule simili a quelle da cui derivano. Questi granuli possono chiamarsi gemmule. Esse sono raccolte da tutte le parti del sistema, per costituire gli elementi sessuali, ed il loro sviluppo nella prossima generazione costituisce un nuovo essere; ma esse possono trasmettersi in uno stato dormente alle future generazioni, e poi svilupparsi. Il loro sviluppo dipende dall'unione con altre gemmule parzialmente sviluppate, che le producono nel corso regolare della crescenza. Noi vedremo, quando discuteremo l'azione diretta del polline sui tessuti della pianta madre, la ragione per la quale io impiego il termine di unione. È supposto che le gemmule sieno emesse da ciascuna cellula od unità, non solo allo stato adulto, ma in ogni stadio di sviluppo dell'organismo. Infine, io immagino che nel loro stato dormente le gemmule sentano le une per le altre una mutua affinità, dacchè risulta la loro aggregazione in gemme o in elementi sessuali. Per cui non sono punto gli elementi riproduttori, nè le gemme che producono i nuovi organismi, ma le cellule od unità stesse dello intero corpo.»

Ho citato queste parole nella summenzionata opera del Darwin, Variazione degli animali e delle piante allo stato domestico. Il Darwin espone a lungo la sua ipotesi nel capitolo XXVII di questa opera, e direi che questo capitolo è veramente un meravigliosissimo capolavoro, se non fosse che parlando del Darwin di troppi altri capitoli è ciò da ripetere. In una nota il Darwin parla di parecchi autori che dalla antichità in poi hanno emesso opinioni più o meno affini a questa sua, e menziona specialmente il Mantegazza dicendo che egli (è il Darwin che parla) «previde chiaramente la mia dottrina sulla pangenesi.»

XIV

«L'uomo sta in mezzo ad un movimento universale: intorno a lui tutto gira, tutto s'avvicina o s'allontana, ed esso stesso si sente trascinato in questo vortice, che non ammette resistenza e non lascia speranza di un solo minuto di riposo assoluto. Eppure per mille e mille anni tutto ciò che toccava così intimamente l'esistenza umana, anzi che ne formava tanta parte, tutto ciò restò un'apparenza fantastica, enigmatica, incomprensibile, e quando nascono le prime idee sulla natura di tali fenomeni, esse sono piuttosto emanazioni dell'interno sgomento, della profondamente sentita impotenza rimpetto all'attività delle forze mondiali. Ancora l'acuto ed elevato ingegno dei Greci non seppe trovare la soluzione, benchè il problema gli si presentasse in mille forme diverse; Archimede arrivò a formulare alcune leggi della statica, ma per la dinamica mancava l'organo all'intelligenza antica.

«Nacque Copernico e morì il vecchio sistema mondiale. La coscienza umana ricevette una delle più forti scosse che mai abbia subìto. Ma la dimostrazione del movimento della terra intorno al sole non è che un fatto, un fatto d'immensa importanza sì, nient'altro però che un fatto nudo e isolato. Sicuro, tanto bastava a distruggere la superba superstizione dell'uomo che lo faceva credersi possessore del centro dell'universo, ma la storia insegna che spesso una superstizione va vinta da un'altra; e dove erano gli elementi per inalzare sulle rovine del vecchio un nuovo mondo? Copernico era un titano che buttò giù il cielo e la terra, ma non era lo spirito generatore da crearne dei nuovi.

«Il mondo nuovo lo fece Galileo. I concetti della eternità del moto e del momento meccanico determinabile in ogni sua attività aggiungevano alle facoltà intellettuali un altro elemento essenziale, un novello organo di cui la funzione sta nella trasformazione dei fenomeni del moto in semplici modalità del pensiero, e nell'assegnare quindi ai primi il carattere della necessità. Con ciò l'uomo aveva ricuperato il suo posto nell'universo e, quel che è più, in ricambio del vecchio ambiente oscuro e fantastico, ne aveva trovato uno più vasto, più profondo, sovrattutto intelligibile. Quel che caratterizza l'epoca moderna dell'umanità in fondo in fondo non è altro che l'evoluzione del pensiero di Galileo; sulle spalle di quel fiorentino riposano la nostra scienza, la nostra cultura, e in certo senso anche la nostra morale. Nei duecento anni che lo seguirono l'intelligenza umana non si è essenzialmente allargata se non mediante la filosofia critica di Kant, la quale ai fenomeni assegnava il loro vero valore psicologico; e con la recente dimostrazione dell'unità delle forze fisiche.

«I principii meccanici spiegarono i movimenti terrestri e celesti, e più, indicarono l'origine e il destino finale dei mondi che nell'infinito etere circolano, ma non ci fecero intelligibile l'esistenza della più piccola mosca. L'organico era la soglia che il pensiero meccanico non varcava. Eravamo più in casa nostra tra i pianeti che non tra gli esseri viventi, i continui compagni della nostra vita. È vero che l'anatomia e la fisiologia avevano raccolto grande quantità di preziosissimi dati e soltanto guidati da tali fatti era possibile toccare i problemi; tuttavia il contenuto veramente scientifico era oltremodo scarso, e se i problemi erano proposti mancavano le soluzioni. Ci voleva un nuovo organo; ora l'abbiamo: è la teoria di Darwin. E in questo senso l'opera dell'inglese è contemperata a quella dell'italiano. Il mondo organico diventa intelligibile, i fenomeni vitali assumono il carattere della necessità, non solo il come, ma il perchè dell'organizzazione diventa il fine della ricerca. Ogni forma organica ha la sua causa efficiente determinabile; ogni funzione è un adattamento all'ambiente acquistato nella lotta per la esistenza; ogni organo è la realizzazione morfologica d'una funzione. La vita, unica nella sua origine, si manifesta in mille e mille forme, ma tutte queste forme riunisce un principio generale. Dall'inferiore e semplice nasce il superiore complicato. Senza l'amiba non sarebbe l'uomo, data l'amiba e l'ambiente era inevitabile necessità nascesse l'uomo. Non l'essere, il divenire è il principio del mondo.

«A noi zoologi rincresce quasi essere la teoria darwiniana diventata una questione personale dell'uomo. Si starebbe tanto meglio, il lavoro manterrebbe molto più facilmente la sua equanimità scientifica se non venissero le passioni, l'odio e la provocazione a disturbarci. E poi, l'applicazione della teoria della discendenza alla morfologia dell'uomo non ha proprio un'importanza particolare. L'origine dell'uomo è in questo senso un problema speciale, limitato, come lo è l'origine di qualsiasi altra specie, neppure tra i più interessanti. Imperocchè la struttura del corpo umano è conforme a quella di certi mammiferi superiori sino a tal segno che alcuni vecchi anatomici osarono le loro preparazioni dei muscoli, nervi, vasi, ecc. delle scimmie, rappresentare come quelli dell'uomo, e ciò con grave offesa alla buona fede, ma senza notevoli inconvenienti per l'uso pratico nella medicina. La fabbrica del corpo umano e le sue funzioni inferiori non offrono alcun problema che non si ripeta in altri organismi, e spesso più evidente e puro.

«Ma la scienza ha ancora un altro lato che è altrettanto grande; non solo il modo esterno, non solo le condizioni che determinano la sua esistenza materiale sono fenomeni che l'uomo cerca di rendere intelligibili, anche le manifestazioni di quell'intimo suo essere, che egli chiama l'anima, formano l'obietto del suo pensare. Conoscere il mondo e conoscere sè stesso, ecco l'intero compito della scienza. E dalle azioni dell'anima vale lo stesso che dissi delle azioni esterne; molte rimangono fuori della coscienza; altre c'entrano, ma confuse, indistinte, poche sono chiare, determinate, di nessuna sinora fu detto il perchè. Mancava l'organo ed ora l'abbiamo, per imperfetto che sia. I problemi della vita sociale, del pensiero, del sentimento sono teoricamente solubili se consideriamo il loro contenuto non come eternamente stabilito, creato, ma come diventato. Lo so bene che per raggiungere questa meta ci vuole assai, che non abbiamo i mezzi da poter attaccare direttamente neanche i più semplici di tali problemi, che coloro—non pochi disgraziatamente—che oggigiorno vi offrono le soluzioni bell'e fatte, dello scienziato posseggono forse l'arditezza, ma certo non l'assennatezza nè il sentimento della propria responsabilità, ma tuttociò non impedisce di veder aperto l'orizzonte da cui sorgerà la luce per tramandare i suoi raggi sino alle più profonde tenebre del nostro interno.»

Il Darwin aveva compreso bene che la maggior difficoltà, per molta gente, a che la teoria della variabilità delle specie fosse accolta era questa, che con una tale teoria si veniva necessariamente a far derivare l'uomo dagli animali, e propriamente dalle scimmie colle quali, mal suo grado, si è sempre sentito legato in strettissima parentela. Perciò nel volume intorno alla origine delle specie egli lasciò in disparte la questione dell'origine dell'uomo, sebbene avesse fatto molte ricerche intorno ad essa e preso molte note. La lasciò in disparte per non suscitare più forte la tempesta che pur prevedeva sarebbe stata prodotta dal suo libro. Ma in breve, appunto per l'immenso scoppio che tenne dietro alla pubblicazione di quel volume, e pel buon accoglimento fatto alla teoria della variabilità delle specie da uomini di gran sapere, egli sentì che non doveva tacersi più oltre, e venne fuori con un grosso volume intorno alla origine dell'uomo, che, poco dopo la pubblicazione nello originale inglese, la quale fu fatta nell'anno 1871, io tradussi, pubblicandosi la mia traduzione dalla Unione tipografico-editrice di Torino.

Quest'opera è divisa in due parti; la prima tratta propriamente della origine dell'uomo, la seconda tratta della scelta sessuale.

La prima parte è divisa nei sette capitoli: Evidenza dell'origine dell'uomo da qualche forma inferiore. Comparazione fra la potenza mentale dell'uomo e quella degli animali sottostanti. Paragone fra le facoltà mentali dell'uomo e quelle degli animali sottostanti. Del modo di sviluppo dell'uomo da qualche forma inferiore. Dello sviluppo delle facoltà intellettuali e morali durante i tempi primitivi e i tempi inciviliti. Delle affinità e della genealogia dell'uomo. Delle razze umane.

Della scelta sessuale il Darwin aveva detto pochissimo nel volume intorno alla origine delle specie, per cui s'indusse a parlarne qui a lungo. Esposti pertanto, nella seconda parte di questo suo volume, i principii della scelta sessuale, egli esamina a mano a mano i caratteri sessuali secondari in tutte le classi del regno animale, con sterminata erudizione e colla consueta mirabile potenza di osservazione anche di quei fatti che possono a primo aspetto parere i più insignificanti e che, osservati da lui, acquistano una importanza capitale per le conseguenze che ne sa ricavare.

Egli conchiude così:

«Considerando la struttura embriologica dell'uomo; le omologie che presenta cogli animali sottostanti; i rudimenti che conserva, e i ritorni a cui va soggetto, possiamo in parte richiamarci alla mente la primiera condizione dei nostri primi progenitori; e possiamo approssimativamente collocarli nella propria posizione nella serie zoologica. Noi impariamo così che l'uomo è disceso da un quadrupede peloso, fornito di coda e di orecchie aguzze, probabilmente di abiti arborei, e che abitava l'antico continente. Questa creatura, quando un naturalista ne avesse esaminata tutta la struttura, sarebbe stata collocata fra i quadrumani, colla stessa certezza quanto il comune è ancora più antico progenitore delle scimmie del vecchio e del nuovo continente. I quadrumani e tutti i mammiferi più elevati derivano probabilmente da qualche antico animale marsupiale, e questo per una lunga trafila di forme diversificanti da qualche creatura rettiliforme od anfibiforme, e questa del pari da qualche animale pesciforme. Noi possiamo scorgere, nella fosca oscurità del passato, che il progenitore primiero di tutti i vertebrali deve essere stato un animale acquatico, fornito di branchie, coi due sessi riuniti nello stesso individuo, e cogli organi più importanti del corpo (come il cervello e il cuore), imperfettamente sviluppati. Questo animale sembra essere stato più simile alla larva della nostra esistente Ascidia di mare che non a qualunque altra forma conosciuta.

«La più grande difficoltà che si presenta, quando siamo tratti alla sovraesposta conclusione intorno all'origine dell'uomo, è il livello elevato di potenza intellettuale e di disposizione morale cui egli è giunto.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Lo sviluppo delle qualità morali è un problema interessantissimo e difficile. Queste qualità si fondano sugli istinti sociali che comprendono i legami della famiglia. Questi istinti sono di natura sommamente complessa, e nel caso degli animali sottostanti producono tendenze speciali verso certe azioni definite; ma gli elementi più importanti per noi sono l'amore e la distinta emozione della simpatia. Gli animali dotati di istinti sociali si compiacciono della compagnia del loro simile, si difendono a vicenda dal pericolo, si aiutano fra loro in molti modi. Questi istinti non si estendono a tutti gli individui delle specie, ma solo a quella medesima comunità. Siccome essi sono sommamente benefici alla specie, sono stati molto probabilmente acquistati per opera della scelta naturale.

«Un essere morale è quello che può riflettere sulle sue azioni passate e sui motivi di esse, approvarne alcune e disapprovarne altre, ed il fatto che l'uomo è quella tal creatura che certamente può essere in cosiffatto modo indicata, è la più grande di tutte le distinzioni fra lui e gli animali sottostanti. Ma nel nostro terzo capitolo ho cercato di dimostrare che il senso morale deriva, prima, dalla natura persistente e sempre presente degli istinti sociali, nel qual rispetto l'uomo concorda cogli animali sottostanti; secondo, dal poter egli apprezzare l'approvazione e la disapprovazione dei suoi simili; e terzo, da ciò che le sue facoltà mentali sono sommamente attive e le sue impressioni dei passati avvenimenti vivacissime, nel qual rispetto egli differisce dagli animali sottostanti. A cagione di questa condizione di mente, l'uomo non può evitare di guardare dietro e innanzi a sè, e comparare le sue passate impressioni. Quindi dopo che qualche temporaneo desiderio o qualche passione hanno vinto i suoi istinti sociali, egli rifletterà e comparerà la impressione ora indebolita di quei passati impulsi, cogli istinti sociali sempre presenti; e sentirà allora quel senso di scontento che tutti gli istinti insoddisfatti si lasciano dietro. In conseguenza egli si determina ad agire differentemente in avvenire, e questa è la coscienza. Qualunque istinto che è permanentemente più forte o più persistente che non un altro, origina un sentimento che noi esprimiamo dicendo che deve esser obbedito. Un cane pointer, se fosse capace di riflettere alla sua passata condotta, direbbe a sè stesso: io avrei dovuto (come invero diciamo di lui) postare quella lepre e non aver ceduto alla fuggitiva tentazione di saltar su e darle caccia.

«Gli animali sociali sono spinti in parte da un desiderio di porgere aiuto ai membri della medesima comunità in un modo generale, ma più comunemente a compiere certe azioni definite. L'uomo è spinto dallo stesso desiderio generale di assistere i suoi simili, ma ha pochi o non ha affatto istinti speciali. Differisce pure dagli animali sottostanti per la facoltà che ha di esprimere i suoi desideri colle parole, che così divengono la guida dell'aiuto richiesto ed accordato. Il motivo di dare aiuto è parimente molto modificato nell'uomo; esso non consiste più soltanto in un cieco impulso istintivo, ma è grandemente spinto dalla lode o dal biasimo dei suoi simili. Tanto l'apprezzare quanto l'accordare la lode ed il biasimo riposano sulla simpatia; e questo sentimento, come abbiamo veduto, è uno degli elementi più importanti degli istinti sociali. La simpatia, sebbene acquistata come istinto, è pure resa più forte dall'esercizio o dall'abitudine. Siccome tutti gli uomini desiderano la propria felicità, si dà lode o biasimo a quelle azioni ed a quei motivi secondo che conducono a quello scopo; e siccome la felicità è una parte essenziale del bene generale, il principio della più grande felicità serve indirettamente come un livello quasi sicuro del bene e del male. Man mano che le potenze del ragionamento progrediscono e si acquista esperienza, si scorgono gli effetti più remoti di certe linee di condotta intorno al carattere dell'individuo, ed al bene generale; e allora le virtù personali venendo entro la cerchia della pubblica opinione, ricevono lode, e le opposte vengono biasimate. Ma nelle nazioni meno civili la ragione sovente erra, e molti cattivi costumi e basse superstizioni vengono nella stessa cerchia; e in conseguenza sono stimate come alte virtù, e la loro infrazione come enormi delitti.

«Le facoltà morali sono in generale stimate, e giustamente, come molto superiori alle potenze intellettuali. Ma dobbiamo sempre aver presente che l'attività della mente nel richiamare con vivacità le passate impressioni, è una delle basi fondamentali, sebbene secondarie, della coscienza. Questo fatto somministra l'argomento più forte per educare e stimolare con ogni possibile mezzo le facoltà intellettuali di ogni creatura umana. Senza dubbio un uomo di mente torpida, qualora le sue affezioni e simpatie sociali siano bene sviluppate, sarà indotto a compiere buone azioni, e può avere una coscienza pienamente sensitiva. Ma qualunque cosa che renda l'immaginazione degli uomini più viva e rinforzi l'abito del ricordare e del comparare le passate impressioni, renderà la coscienza più sensitiva, e può anche compensare fino a un certo punto gli affetti e le simpatie sociali più deboli.

«La natura morale dell'uomo è giunta al più alto livello finora ottenuto, in parte pel progresso delle forze del ragionamento e in conseguenza di una giusta opinione pubblica, ma specialmente per ciò che le simpatie sono divenute più dolci e più estesamente diffuse per gli effetti della abitudine, dell'esempio, dell'istruzione e della riflessione. Non è improbabile che le tendenze virtuose, mercè una lunga pratica, possano essere ereditate. Nelle razze più incivilite, il convincimento dell'esistenza di una Divinità onniveggente, ha avuto una azione potente sul progresso della moralità. Infine l'uomo non accetta più la lode o il biasimo del suo simile come guida principale, sebbene pochi sfuggano a questa azione, ma le sue convinzioni abituali governate dalla ragione gli somministrano la regola più sicura. Allora la sua coscienza diviene il suo giudice e mentore supremo. Nondimeno il primo fondamento e la prima origine del senso morale si basa sugli istinti sociali, compresa la simpatia; e questi istinti senza dubbio vennero primieramente acquistati, come nel caso degli animali sottostanti, per opera della scelta naturale.

«La credenza in Dio è stata sovente posta come non solo la più grande, ma anche la più compiuta di tutte le distinzioni fra l'uomo e gli animali sottostanti. È tuttavia impossibile, come abbiamo veduto, asserire che questa credenza sia innata o istintiva all'uomo. D'altra parte una credenza in agenti spirituali onnipotenti sembra essere universale; e da quanto pare deriva da un notevole progresso nelle potenze di ragionamento dell'uomo, e da un ancor più grande progresso delle sue facoltà immaginative, la curiosità e la meraviglia. So che l'asserita credenza in Dio è stata adottata da molte persone come un argomento per la sua esistenza. Ma questo è un argomento ardito, perchè saremmo così obbligati a credere nell'esistenza di molti spiriti crudeli e maligni, che posseggono appena un po' più di potere dell'uomo; perchè la credenza in essi è molto più generale che non quella in una Divinità benefica. L'idea di un benefico ed universale Creatore dell'universo non sembra nascere nella mente dell'uomo, finchè questa non siasi elevata per una lunga e continua cultura.

«Colui il quale crede che l'uomo proceda da qualche forma bassamente organizzata, chiederà naturalmente come questo possa stare colla credenza nell'immortalità dell'anima. Le razze barbare dell'uomo, come ha dimostrato sir J. Lubbock, non hanno una chiara credenza di tal sorta, ma gli argomenti derivati dalle primitive credenze dei selvaggi non hanno, come abbiamo veduto testè, che poco o nessun valore. Poche persone provano qualche ansietà per l'impossibilità di determinare in quale preciso periodo nello sviluppo dell'individuo, dalla prima traccia della minuta vescicola germinale al bambino, prima o dopo la nascita, l'uomo divenga una creatura immortale; e non vi può essere nessuna più grande causa di ansietà, perchè non è possibile determinare il periodo nella scala organica graduatamente ascendente.

«Sono persuaso che le conclusioni a cui sono giunto in questo lavoro, saranno da taluno segnalate come grandemente irreligiose; ma colui che le segnalerà è obbligato di dimostrare perchè sia più irreligioso spiegare l'origine dell'uomo come una specie distinta che discenda da qualche forma più bassa, mercè le leggi di variazione e la scelta naturale, che spiegare la nascita dell'individuo mercè le leggi della riproduzione ordinaria. La nascita tanto della specie come dell'individuo sono parimente parti di quella grande fila di avvenimenti che le nostre menti rifiutano di accettare come l'effetto cieco del caso. L'intelletto si rivolta ad una tale conclusione, sia che possiamo o no credere che ogni lieve variazione di struttura, l'unione di ogni coppia in matrimonio, la disseminazione d'ogni seme, ed altri cosiffatti eventi, siano stati tutti ordinati per qualche scopo speciale.»

Il libro si termina con queste parole:

«Mi fa rincrescimento pensare che la principale conclusione a cui sono giunto in quest'opera, cioè che l'uomo sia disceso da qualche forma bassamente organizzata, riescirà sgradevolissima a molte persone. Ma non vi può essere quasi dubbio che noi discendiamo dai barbari. Non dimenticherò mai la meraviglia che provai nel vedere la prima volta un gruppo di indigeni della Terra del Fuoco raccolti sopra una selvaggia e scoscesa spiaggia; ma mi venne subito alla mente che tali furono i nostri antenati. Quegli uomini erano al tutto nudi, e imbrattati di pitture; i loro lunghi capelli erano tutti intricati, la loro bocca era contorta dall'eccitamento, e il loro aspetto era selvaggio, sgomentato e sgradevole. Non avevano quasi nessuna arte, e come gli animali selvatici vivevano di quello di cui potevano impadronirsi; non avevano alcun governo, ed erano senza misericordia per chiunque non fosse stato della loro piccola tribù. Chi abbia veduto un selvaggio nella sua terra nativa non sentirà molta vergogna, se sarà obbligato a riconoscere che il sangue di qualche creatura più umile gli scorre nelle vene. In quanto a me vorrei tanto essere disceso da quella eroica scimmietta che affrontò il suo terribile nemico per salvare la vita al suo custode, o da quel vecchio babbuino, il quale, sceso dal monte, strappò trionfante il suo giovane compagno da una folla attonita di cani; quanto da un selvaggio che si compiace nel torturare i suoi nemici, offre sacrifizi di sangue, pratica l'infanticidio senza rimorso, tratta le sue mogli come schiave, non conosce che cosa sia la decenza, ed è invaso da grossolane superstizioni.

«L'uomo va scusato di sentire un certo orgoglio per essersi elevato, sebbene non per propria spinta, all'apice della scala organica; ed il fatto di essere in tal modo salito, invece di esservi stato collocato in origine, può dargli speranza per un destino ancora più elevato in un lontano avvenire. Ma non si tratta qui nè di speranze, nè di timori, ma solo del vero, fin dove la nostra ragione ci permette di scoprirlo. Ho fatto del mio meglio per addurre prove; e dobbiamo riconoscere, per quanto mi sembra, che l'uomo con tutte le sue nobili prerogative, colla simpatia che sente per gli esseri più degradati, colla benevolenza che estende non solo agli altri uomini, ma anche verso la più umile delle creature viventi, col suo intelletto quasi divino che ha penetrato nei movimenti e nella costituzione del sistema solare, con tutte queste alte forze, l'uomo conserva ancora nella sua corporale impalcatura lo stampo indelebile della sua bassa origine.»

XV

Nel mettere insieme i materiali pel suo libro intorno alla origine dell'uomo il Darwin fu tratto a fare uno studio sul modo con cui l'uomo e gli animali sottostanti esprimono le varie emozioni, e ad esaminare a qual punto le emozioni siano espresse nello stesso modo dalle varie razze umane. Egli si proponeva di esporre nel volume stesso i risultamenti cui, mercè lo studio fatto, era venuto. Ma, da una parte, la mole già considerevole del volume in questione, da un'altra parte la grande copia dei materiali raccolti, furon causa che egli abbandonasse quel pensiero e si deliberasse a pubblicare più tardi un volume speciale sulla Espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali. Questo volume fu pubblicato in Inghilterra nell'anno 1871, e venne tradotto dal professore Giovanni Canestrini e pubblicato in Torino coi tipi della Unione tipografico-editrice.

L'autore non trascurò, secondo il consueto, di consultare, anzi di leggere colla massima attenzione, tutto ciò che era scritto prima di lui intorno all'argomento; ma trovò un materiale assai scarso, e dovè pure riconoscere che quegli scienziati e quegli artisti che avevano pubblicato qualche cosa intorno alla espressione dei sentimenti non avevano fatto che poco o nulla nella via che egli credeva quella che dovesse essere percorsa in questo campo di investigazioni. Dovette far tutto da sè, e fece con quella sua solita diligenza di ricerche e acume e potenza di deduzioni che sono fra i dati più caratteristici della sua mente. Scrisse una serie di quesiti intorno alla espressione dei sentimenti nelle varie razze umane e li mandò in tutte le parti del mondo a quelle persone direttamente o indirettamente di sua conoscenza da cui poteva ragionevolmente aspettarsi soddisfacenti risposte. E le risposte vennero invero, soddisfacenti e numerose.

La comparazione del modo di esprimere i sentimenti fra gli animali e l'uomo, egli la dovette sostanzialmente far tutta da sè, perchè, sebbene gli accenni in proposito nelle varie letterature siano tutt'altro che infrequenti, una investigazione regolare dell'argomento non era mai stata fatta.

Tre principii fondamentali, secondo il Darwin, rendono conto della maggior parte delle espressioni e dei gesti involontarii nell'uomo e negli animali, come si producono sotto l'impero delle emozioni e delle diverse sensazioni. Questi tre principii sono i seguenti:

«I. Principio dell'associazione delle abitudini utili.—In date condizioni dell'animo, per rispondere o per soddisfare a date sensazioni, a dati desiderii, ecc., certe azioni complesse sono di una utilità diretta; e tutte le volte che si rinnovella il medesimo stato di spirito, sia pure a un debole grado, la forza dell'abitudine e dell'associazione tende a produrre gli stessi movimenti, benchè d'uso veruno. Può nascere che atti ordinariamente associati per l'abitudine a certi stati di animo siano in parte repressi dalla volontà; in tali casi, i muscoli, sopratutto quelli meno soggetti alla diretta influenza della volontà, possono tuttavia contrarre e produrre movimenti che ci paiono espressivi. Altra volta, per reprimere un movimento abituale, altri leggeri movimenti si compiono, e pur essi sono espressivi.

«II. Principio dell'antitesi.—Talune condizioni di spirito determinano certi atti abituali che sono utili, come lo stabilisce il nostro primo principio. Dappoi, allorchè si produce uno stato dell'animo direttamente inverso, siamo fortemente e involontariamente tentati di compiere movimenti del tutto opposti, per quanto inutili, e in alcuni casi questi movimenti sono molto espressivi.

«III. Principio degli atti dovuti alla costituzione del sistema nervoso, affatto indipendenti dalla volontà e, fino a un certo punto, anche dall'abitudine.—Quando il cervello è fortemente eccitato, la forza nervosa si produce in eccesso e si trasmette in certe determinate direzioni, dipendenti dalle connessioni delle cellule nervose, e in parte dall'abitudine; oppure può avvenire che l'afflusso della forza nervosa sia, in apparenza, interrotto. Ne risultano effetti che noi troviamo espressivi. Questo terzo principio potrebbe per maggior brevità dirsi quello dell'azione diretta del sistema nervoso.»

I primi tre capitoli dell'opera sono consacrati alla spiegazione di questi tre principii fondamentali. Il capitolo seguente tratta dei mezzi di espressione negli animali, la emissione di varie sorta di suoni e i suoni vocali, il sollevamento, per terrore, dei peli e delle piume, i movimenti delle orecchie, e via dicendo. Il capitolo quinto è consacrato alle espressioni speciali di certi animali, movimenti diversi nel cane, nel cavallo, nei ruminanti, nelle scimmie, espressioni di gioia, di affetto, di dolore, di collera, di stupore, di spavento.

Un capitolo è consacrato alle espressioni speciali all'uomo, dolore, pianto nelle varie età della vita, effetti della repressione del pianto, singulto. Poi si passano in rassegna le espressioni molteplici di affanno, sconforto, disperazione, gioia, amore, devozione, riflessione, meditazione, ira, odio, orgoglio, sorpresa, stupore, paura, orrore, modestia, vergogna, e via dicendo.

In tutto ciò l'autore dimostra come l'eredità abbia una amplissima parte; per la qual cosa il libro si chiude colle seguenti parole, che dimostrano il legame suo colla quistione principale che tenne la mente dell'autore per tutta quanta la vita:

«Noi abbiamo veduto che lo studio della teoria dell'espressione, conferma fino a un certo punto l'idea, che l'uomo abbia avuto la sua origine da una bassa forma animale, e appoggia l'opinione della specifica o subspecifica identità delle diverse razze umane; ma, a mio giudizio, ciò abbisogna appena di una tale conferma. Noi abbiamo anche visto che l'espressione in sè o il linguaggio del sentimento, come fu anche talvolta denominata, è certamente importante per il benessere dell'umanità. L'imparar a conoscere, per quanto è possibile, la fonte e l'origine delle diverse espressioni, che ad ogni momento ci è dato osservare sulla faccia degli uomini (per non parlare affatto degli animali domestici), dovrebbe avere un grande interesse per noi. Per questi motivi noi possiamo conchiudere che la filosofia del nostro soggetto è degna di tutta l'attenzione che le fu già concessa da parecchi distinti osservatori e che essa merita uno studio sempre maggiore da parte di tutti i distinti fisiologi.»

[Pg 234][Pg 235]

XVI

Non meno degli animali Carlo Darwin studiava le piante. Il cenno che egli dà intorno alla distribuzione delle piante nelle isole Galapagos, quale gli era venuto fatto di osservare durante il suo viaggio, come parecchi altri cenni intorno ai caratteri della vegetazione nei paesi cui visitava, dimostrano come pure la botanica occupasse i suoi pensieri ed egli fosse assai avanti in questa scienza. Il giorno in cui incominciò a fare a sè stesso il quesito della variabilità delle specie e si propose di cercare i materiali per una risposta ad esso, fece le sue ricerche nel regno vegetale al paro che nel regno animale.

Queste ricerche lo menarono alla medesima conclusione per le piante come per gli animali, ed anche per la via della botanica egli dimostrò non esservi una distinzione fondamentale fra la varietà e la specie, e dimostrò il modificarsi degli organi e il trasmettersi ereditariamente dei caratteri e il variar delle forme. Ma lungo la via mentre andava facendo le sue ricerche, gli venne fatto di trovare altre cose nuove, e le sue scoperte in questo campo sono pure tanto importanti che i dotti riconoscono che anche qui egli venne a dare un grande contributo alla scienza.

Scolasticamente si asseriva esserci, fra le altre differenze fondamentali che distinguono gli animali dalle piante, questa, che le piante non hanno il potere di muoversi. Il Darwin dimostrò che giova dire piuttosto che le piante acquistano e adoperano questo potere soltanto quando ne possono ricavare un qualche vantaggio; e che ciò avviene in esse meno frequentemente, perchè stan radicate nel terreno, e l'aria e la pioggia portano loro il nutrimento. Dimostrò una sensitività nelle piante in rapporto con certi movimenti e consacrò un grosso volume ai movimenti delle piante, considerandoli per ogni verso fin dai primordii del loro sviluppo; e un volume speciale alle piante rampicanti esaminando il vario modo e i varii strumenti coi quali esse si vanno arrampicando.

Studiò il Darwin il modo speciale di fecondazione delle piante della famiglia delle orchidee, facendo in proposito una pubblicazione, e un'altra ne fece sullo incrociamento e la autofecondazione nel regno vegetale, e un'altra ancora sulle differenti forme dei fiori nelle piante della medesima specie. Il lavoro che queste pubblicazioni hanno costato al loro autore, lavoro di osservazione e di sperimentazione, è veramente immenso, e tale che la mente al pensarvi rimane atterrita. Ma tutte le credenze scolastiche sullo ibridismo, sullo ermafrodismo, sul modo di compimento della fecondazione nei vegetali son venute a mutarsi e nuovi orizzonti si apersero alla scienza, splendidi e forieri di luce anche più sfavillante in un avvenire forse poco lontano.

Una differenza capitale si ammetteva pure siccome costantissima e senza ombra di dubbio fuori di ogni e qualsiasi eccezione, fra gli animali e le piante; questa, che gli animali si nutrono di materie organiche e i vegetali di materie inorganiche. I vegetali, si diceva, preparano il cibo agli animali; prendono dal terreno e dall'atmosfera i materiali del loro accrescimento e del loro sostentamento, e compiono questa meraviglia fra le meraviglie di trasformare la materia inorganica in materia organica, di cui poi, direttamente o indirettamente, si nutrono gli animali. Direttamente gli animali erbivori, indirettamente gli animali carnivori, essendo poca fra queste due schiere di animali, considerata dal punto di vista chimico, la differenza del cibo, sebbene poi differiscano notevolmente fra loro gli animali erbivori dagli animali carnivori per molti rispetti, nella struttura, nei mezzi di offesa e di difesa, nella prolificità, nei costumi.

Si sapeva di certe piante, che quando un insettuccio si viene a posare sopra una delle loro foglie, ci trova la morte. Ma nessuno aveva mai sospettato che in queste piante l'insettuccio acchiappato servisse di cibo alla pianta stessa, che si compisse dalla foglia una vera digestione, quale è quella che si fa dai carnivori nel regno animale. Il Darwin dimostrò colla maggiore evidenza questo fatto; diede a queste meravigliose piante il nome di piante insettivore, e pubblicò intorno ad esse un grande volume, che pur esso solo basterebbe larghissimamente a dare al suo autore un posto immortale nella scienza. Egli non si contentò di dimostrare la cosa, ma la investigò sapientissimamente con molte sorta di sperimenti, esaminando gli effetti prodotti sulle foglie da varie sorta di sostanze alimentari animali, da veleni, da anestetici, e via dicendo.

Come sempre, egli applica quel suo mirabile metodo critico con cui passa in rassegna diligentemente ad una ad una tutte le spiegazioni possibili di un fatto, e a mano a mano elimina sempre con saldissimi argomenti quelle che non si possono ammettere. Era vicino ai settant'anni quel sommo uomo, quando si mostrava così profondamente versato nella fisiologia vegetale e nella chimica fisiologica e porgeva una incomparabile guida a chi voglia cimentarsi nella via sperimentale con quella varietà di procedimenti e con quella severità di critica che sono necessarie alla buona riuscita.

Non fu tuttavia quello l'ultimo lavoro di Carlo Darwin. L'ultimo suo lavoro, non meno caratteristico della sua tempra, non meno ben condotto, non meno ricco di osservazioni, di sperimenti e di deduzioni, non meno fondato sui fatti, quei fatti che appaiono insignificanti agli altri e che per lui sono fecondi di conclusioni tanto grandiose, è un lavoro sulla formazione della terra vegetale per l'azione dei lombrici, di cui appunto in questi giorni la Unione tipografico-editrice pubblica una mia traduzione. Nel 1837 il Darwin si occupava già del modo di formazione della terra vegetale. In quell'anno egli pubblicava, nelle memorie della Società geologica di Londra, un lavoro intorno a questo argomento. Per quarant'anni, in mezzo a tante altre ricerche, egli condusse avanti anche queste, e le espose alla perfine in un volume destinato non meno degli altri a destare la più viva ammirazione per l'autore e arricchire di nuove conquiste il patrimonio della scienza.

In tutti i suoi libri il Darwin dà in poche parole un sunto di ciò che ha esposto, nel primo o nell'ultimo capitolo, riassumendo limpidamente le cose principali del libro. Così fa anche qui nell'ultimo capitolo, il quale, siccome assai breve, credo utile riferire.

«I lombrici hanno avuto nella storia del mondo una parte molto più importante di quello che molti possano pensare. In quasi tutti i paesi umidi essi sono numerosissimi, e per la loro mole posseggono una grande forza muscolare. In molte parti d'Inghilterra ogni anno una quantità di terra asciutta del peso di oltre a dieci tonnellate (10,516 chilogrammi) passa pei loro corpi ed è portata alla superficie per ogni acro di terra; cosicchè tutto lo strato superficiale di terra vegetale passa pei loro corpi nello spazio di pochi anni. Pel crollare delle buche più antiche dei lombrici, il terreno vegetale è in continuo sebbene lento movimento, e le particelle che lo compongono vengono così sfregate assieme. In tal modo nuove superfici sono continuamente esposte all'azione dell'acido carbonico nel suolo, e degli acidi dell'humus che sembrano essere ancor più efficaci nel decomporre le rocce. La produzione degli acidi umici viene probabilmente affrettata durante la digestione delle numerose foglie semi-infracidite che i lombrici consumano. Così le particelle della terra, che formano lo strato della superfice, vanno soggette a condizioni sommamente favorevoli alla loro decomposizione e alla loro disintegrazione. Inoltre, le particelle delle rocce più molli sopportano un certo grado di trituramento meccanico nel ventriglio muscoloso dei lombrici, nei quali le pietruzze fanno ufficio di pietre da macina.

«I rigetti finamente levigati, quando sono portati alla superfice in condizione umida, scivolano durante la pioggia sopra un pendio moderato qualunque; e le particelle più piccole sono trascinate molto più in giù anche sopra a una superfice poco inclinata. I rigetti asciutti spesso si sbriciolano in pallottoline, le quali possono rotolare lungo una superfice in pendenza qualsiasi. Ove la terra è interamente piana e coperta d'erba, e ove il clima è umido tanto che la polvere non può essere portata via dal vento, sembra a prima vista impossibile che vi possa essere una quantità apprezzabile di denudamento subaereo; ma i rigetti dei lombrici sono portati via, specialmente mentre sono umidi e vischiosi, in una direzione uniforme dai venti dominanti che sono accompagnati da pioggia. Con questi varii mezzi il terreno vegetale della superfice non può accumularsi ad un grande spessore; e uno strato denso di terra vegetale arresta in molti punti lo sgretolamento delle rocce sottostanti e dei frammenti della roccia.

«Il mutar di luogo dei rigetti dei lombrici per le cause sopra indicate produce dei risultamenti che sono tutt'altro che insignificanti. È stato dimostrato che uno strato di terra dello spessore di 5 millimetri viene annualmente in molti punti portato alla superficie per ogni acro; e se una piccola parte di questa quantità scorre, o rotola, o è trascinata dall'acqua, anche per un breve tratto, lungo un pendio qualsiasi, o viene portata via dal vento in una direzione, nel corso dei secoli tutto ciò deve produrre un grande effetto. Colle misure prese e coi calcoli fatti si è trovato che sopra una superficie di una inclinazione media di 9° 26', 37,5 centimetri cubi di terra emessa dai lombrici, formano, nel corso di un anno, una linea orizzontale lunga 90 centim., cosicchè in 100 anni 3750 centimetri cubi formerebbero una linea lunga 90 metri. Questa quantità allo stato umido peserebbe chil. 4,29.

Così un peso notevole di terra viene continuamente movendosi lungo ogni fianco di ogni valle, e col tempo deve giungere al letto di essa. Finalmente questa terra sarà trasportata dai corsi d'acqua che scorrono nelle valli fino nel mare, grande ricettacolo di tutta la materia del denudamento della terra. Si sa, per la quantità di sedimento che ogni anno viene portato al mare dal Mississippi, che questa enorme area di drenaggio deve in media diminuire ogni anno di millimetri 0,6575; e questo basterebbe in quattro milioni e mezzo di anni ad abbassare tutta l'area di drenaggio a livello della spiaggia del mare. Cosicchè, se una piccola frazione dello strato di terra fine, dello spessore di 5 millimetri, che viene ogni anno riportata alla superficie dai lombrici, viene portata via, non può mancare di prodursi un grande effetto in un periodo che nessun geologo considera come estremamente lungo.

«Gli archeologi debbono essere grati ai lombrici, dell'avere essi protetto e conservato per un periodo indefinitamente lungo ogni oggetto non soggetto a decomporsi, caduto sulla superficie della terra, sotterrandolo sotto ai loro rigetti. Così pure, molti pavimenti quadrellati eleganti e curiosi e altri avanzi vennero conservati; sebbene senza dubbio i lombrici furono in questi casi grandemente aiutati dalla terra trascinata dall'acqua e dal vento dal terreno contiguo, specialmente quando questo è coltivato. I pavimenti a mosaico antichi hanno, tuttavia, sofferto sovente per essersi abbassati disugualmente, per essere stati disugualmente minati dai lombrici. Anche gli antichi muri massicci possono venire minati e abbassarsi, e nessun fabbricato ne va immune per questo rispetto, a meno di avere dei fondamenti profondi m. 1,80 a 2 metri sotto alla superficie, a una profondità ove i lombrici non possono lavorare. È probabile che molti monoliti e certi muri antichi siano crollati per essere stati minati dai lombrici.

«I lombrici preparano il terreno in modo eccellente pel crescere delle piante dalle radici fibrose e per i seminati di ogni sorta. Essi espongono all'aria periodicamente il terreno vegetale, e lo stiacciano per modo che nessun sasso più grosso delle particelle che possono inghiottire rimane in esso. Mescolano tutto intimamente, come fa il giardiniere quando prepara la sua terra fina per le sue piante più scelte. In questo stato esso è bene acconcio tanto per trattenere l'umidità e assorbire tutte le sostanze solubili, quanto pel processo della nitrificazione. Le ossa degli animali morti, le parti più dure degli insetti, i nicchi dei molluschi terrestri, le foglie, i ramoscelli, ecc., vengono in un tempo non molto lungo sepolti sotto a rigetti accumulati dei lombrici, e sono così messi in uno stato di decomposizione ancora più grande a portata delle radici delle piante. I lombrici tirano un numero infinito di foglie nelle loro buche, in parte per turarne l'apertura e in parte per nutrirsi.

«Le foglie che sono portate nelle buche per cibo, dopo d'essere state sbriciolate in pezzettini, in parte digerite, e saturate dalle secrezioni intestinali e urinarie, vengono mescolate con molta terra. Questa terra forma quell' humus ricco, di color bruno, che copre quasi in ogni parte la superfice della terra di un manto bene definito. Von Hensen mise due lombrici in un recipiente del diametro di 45 centimetri, pieno di sabbia su cui erano sparse delle foglie; e queste furono in breve tratte entro alle loro buche ad una profondità di 7 centimetri e mezzo. Dopo 6 settimane circa uno strato quasi uniforme di sabbia, dello spessore di un centimetro, era convertito in humus per avere attraversato il canale alimentare di quei due lombrici. Alcune persone credono che le buche dei lombrici, le quali sovente penetrano nel terreno quasi perpendicolarmente ad una profondità di 1 m. 50 a 1 m. 80, agevolino materialmente il suo drenaggio, sebbene i rigetti viscidi ammucchiati sulle aperture delle buche impediscano o arrestino l'acqua dal penetrare profondamente entro alla terra. Esse agevolano pure molto il passaggio dello scendere a delle radici di piccola mole; e queste vengono nutrite dall' humus con cui sono spalmate le buche. Molti semi vanno debitori del loro germogliamento allo essere stati coperti dai rigetti; e altri sepolti a una profondità notevole sotto a rigetti accumulati giacciono inerti, finchè in un tempo avvenire siano scoperti per accidente e possano germogliare.

«I lombrici sono meschinamente provveduti di organi di senso; perchè non si può dire che abbiano la vista, quantunque possano distinguere tra la luce e l'oscurità; sono interamente sordi, e hanno poco odorato; solo il senso del tatto è bene sviluppato. Possono quindi conoscere poco di ciò che sta loro attorno nel mondo esterno, e fa meraviglia come possano mostrare una certa abilità nello spalmare le loro buche coi loro rigetti e colle foglie, e, nel caso di alcune specie, ammucchiare i loro rigetti a mo' di edifizi torreggianti. Ma è ancor più sorprendente che possano mostrare un certo grado d'intelligenza invece di un semplice impulso dell'istinto nel modo di turare le bocche delle loro buche. Operano quasi nel modo stesso come farebbe un uomo il quale avesse da chiudere un tubo cilindrico con varie sorta di foglie, di picciuoli, di triangolini di carta, ecc., perchè ordinariamente ghermiscono questi oggetti per la parte più aguzza. Ma gli oggetti più sottili sono tirati dentro per lo più per le estremità più larghe. Essi non operano nello stesso modo in tutti i casi, come fanno molti animali inferiori; per esempio, non tirano dentro le foglie pel loro picciuolo, a meno che il gambo sia tanto sottile quanto l'apice, o più stretto di questo.

«Quando noi stiamo a guardare una distesa larga coperta d'erba, dobbiamo ricordarci che la sua levigatezza, dalla quale tanto dipende la sua bellezza, è dovuta in parte all'opera dei lombrici che hanno lentamente spianato tutte le sue scabrosità. È stupendo pensare che tutto il terreno vegetale della superfice di una distesa erbosa qualsiasi è passato e passerà di nuovo ogni tanti anni pel corpo dei lombrici.

«L'aratro è una delle più antiche e più utili invenzioni dell'uomo; ma molto prima che esso esistesse la terra era infatti regolarmente arata, e continua ad essere arata dai lombrici o vermi della terra. Si può mettere in dubbio se vi siano molti altri animali i quali abbiano avuto una parte tanto importante nella storia del mondo quanto quella avuta da questi esseri dall'organismo tanto basso. Tuttavia vi sono altri animali, di una organizzazione ancora più bassa, vale a dire i coralli, che hanno compiuto un'opera ancor più cospicua, avendo costrutto un numero sterminato di scogliere e di isole nei vasti oceani; ma questi sono quasi tutti limitati nelle zone dei tropici.»

XVII

I fisiologi moderni insegnano che la riproduzione vuol essere considerata come una maniera di nutrizione, una nutrizione in eccesso per la quale la porzione eccedente si costituisce in un nuovo individuo. Dante aveva già chiarissimo nella sua mente questo concetto. Una parte del sangue, la parte più pura, che non viene assorbita, e che risulta evidentemente da un eccesso di nutrizione,

Quasi alimento che di mensa leve,

è quella che è destinata a trasformarsi nel nuovo individuo. Ma la virtù attiva per cui s'ingenera il nuovo individuo è appena quale è quella di una pianta. Con questa differenza capitale tuttavia che la pianta è destinata a non andar più oltre, è arrivata alla sua meta, mentre l'animale è appena in strada.

Anima fatta la virtute attiva, Qual d'una pianta, in tanto differente, Che questa è in via e quella è già a riva.

Nei primordii del suo sviluppo, quell'essere che è destinato a diventare un uomo, ha una sensitività e un movimento quali spettano agli animali inferiori, alle spugne del mare, che Dante considerava come i più semplici fra tutti gli animali.

Tanto erra poi, che già si muove e sente, Come fango marino, ed ivi imprende Ad organar la possa ond'è semente.

L'embriologia ha dimostrato ai giorni nostri, come il feto umano compia i suoi passaggi per gli stadi inferiori.

L'uomo si vergogna oggi di discendere dagli animali, si ribella al concetto di una tale provenienza, come prima si ribellò al concetto del movimento della terra e del suo roteare intorno al sole e del suo far parte, e piccola parte, di un sistema di corpi celesti, vergognandosi di non essere nel centro dell'universo, e di non poter considerare come fatti per lui il sole, la luna, i pianeti, tutti gli astri del firmamento.

Sentite il Kleinenberg:

«I principii meccanici spiegarono i movimenti terrestri e celesti, e più, indicarono l'origine e il destino finale dei mondi che nell'infinito etere circolano, ma non ci fecero intelligibile l'esistenza della più piccola mosca. L'organico era la soglia che il pensiero meccanico non varcava. Eravamo più in casa nostra tra i pianeti che non tra gli esseri viventi, i continui compagni della nostra vita. È vero che l'anatomia e la fisiologia avevano raccolto grande quantità di preziosissimi dati e soltanto guidati da tali fatti era possibile toccare i sommi problemi; tuttavia il contenuto veramente scientifico era oltremodo scarso, e se i problemi erano proposti mancavano le soluzioni. Ci voleva un nuovo organo; ora l'abbiamo; è la teoria di Darwin. E in questo senso l'opera dell'inglese è contemperata a quella dell'italiano (Galileo). Il mondo organico diventa intelligibile, i fenomeni vitali assumono il carattere della necessità, non solo il come, ma il perchè dell'organizzazione diventa il fine della ricerca. Ogni forma organica ha la sua causa efficente determinabile; ogni funzione è un adattamento all'ambiente acquistato nella lotta per l'esistenza; ogni organo è la realizzazione morfologica d'una funzione. La vita, unica nella sua origine, si manifesta in mille e mille forme, ma tutte queste forme riunisce un principio generale. Dall'inferiore e semplice nasce il superiore e complicato. Senza l'amiba non sarebbe l'uomo, data l'amiba e l'ambiente era inevitabile necessità nascesse l'uomo. Non l'essere, il divenire è il principio del mondo.

«A noi zoologi rincresce quasi essere la teoria darwiniana diventata una quistione personale dell'uomo. Si starebbe tanto meglio, il lavoro manterrebbe molto più facilmente la sua equanimità scientifica se non venissero le passioni, l'odio e la provocazione a disturbarci. E poi, l'applicazione della teoria della discendenza alla morfologia dell'uomo non ha proprio un'importanza particolare. L'origine dell'uomo è in questo senso un problema speciale, limitato, come lo è l'origine di qualsiasi altra specie, neppure tra i più interessanti. Imperocchè la struttura del corpo umano è conforme a quella di certi mammiferi superiori sino a tal segno che alcuni vecchi anatomici osarono le loro preparazioni dei muscoli, nervi, vasi, ecc. delle scimmie rappresentare come quelli dell'uomo, e ciò certamente con grave offesa della buona fede, ma senza notevoli inconvenienti per l'uso pratico nella medicina. La fabbrica del corpo umano e le sue funzioni inferiori non offrono alcun problema che non si ripetesse in altri organismi, e spesso più evidente e puro.

«Ma la scienza ha ancora un altro lato che è altrettanto grande: non solo il mondo esterno, non solo le condizioni che determinano la sua esistenza materiale sono i fenomeni che l'uomo cerca di rendere intelligibili, anche le manifestazioni di quell'intimo suo essere, che egli chiama l'anima, formano l'obbietto del suo pensare. Conoscere il mondo e conoscere sè stesso, ecco l'intero compito della scienza. E delle azioni dell'anima vale lo stesso che dissi delle azioni esterne: molte rimangono fuori della coscienza, altre c'entrano, ma confuse, indistinte, poche sono chiare, determinate—di nessuna sinora fu detto il perchè. Mancava l'organo ed ora l'abbiamo, per imperfetto che sia. I problemi della vita sociale, del pensiero, del sentimento sono teoricamente solubili; consideriamo il loro contenuto non come eternamente stabilito creato, ma come diventato. Lo so bene che per raggiungere questa meta ci vuole assai, che non abbiamo i mezzi da poter attaccare direttamente neanche i più semplici di tali problemi, che coloro—non pochi disgraziatamente—che oggigiorno vi offrono le soluzioni bell'e fatte, dello scienziato posseggono forse l'arditezza, ma certo non la assennatezza nè il sentimento della propria responsabilità; ma tuttociò non impedisce di veder aperto l'orizzonte da cui sorgerà la luce per tramandare i suoi raggi sino alle più profonde tenebre del nostro interno.

«Nessuno si ribella all'idea esistere entro ai limiti del genere umano un legame che noi viventi connette al primo uomo comparso, essere ogni nuova generazione l'erede di tutte quante la precedettero, di modo che quel che siamo non lo siamo se non per le virtù e i vizi dei nostri antenati. Ma qui non possiamo fermarci: per comprendere l'umanità bisogna varcare i limiti dell'uomo. Vediamo preceduta la sua apparizione da altri organismi che non erano uomini, ma certamente possedevano i germi sviluppati poi nel pensiero e nel sentimento umano; ed anche questi organismi avevano i loro predecessori e via sempre così dal superiore all'inferiore, sintantochè si arriva alla sostanza, la quale dalla materia inorganica non si distingue che per quest'ultimo carattere: vive.

«Sicuro che l'uomo diventato, sviluppato non è più quel semidio che si credeva al disopra di ogni comunanza colla natura: però la scossa che gli dà il trasformismo non è, in un certo senso, nemmeno tanto forte come quella che la sua arroganza ricevette dal sistema copernicano; questo, smovendo la terra dalla sua posizione centrale, non le lasciava che un posticino modesto, subordinato nel meccanismo solare, mentre la teoria di Darwin non contrasta in niun modo la superiorità dell'uomo sugli altri organismi; lo comprende bensì per la più perfetta realizzazione, cui la vita cosmica sinora è pervenuta. Ma la parentela cogli animali, cui siamo usi a guardare con tanto disprezzo, ripugna sempre, ed è naturale: non sì facilmente si abbandonano i pregiudizii secolari, e la trasformazione dei cervelli non succede da oggi a domani. Se io vi mostro una di quelle belle meduse, fiori animali del nostro mare, e vi dico che questo organismo tanto semplice rappresenta uno stadio decisivo nello svolgimento paleontologico dell'uomo, forse anche fra noi sarà qualcuno per rispondermi: fantasticherie! Oh sì! il veramente fantastico già non è l'arte, la quale senza tradire la sua indole non può mai discostarsi dall'apparenza, il veramente fantastico sono i principii della scienza, che tutti quanti sono evidenti contraddizioni della nostra immediata esperienza. Neanche il più semplice problema meccanico si comprende senza l'assioma che il moto abbandonato a sè stesso perdura eternamente, e non vediamo forse fermarsi ogni corpo in movimento, tostochè gli vien meno la forza motrice? Nessuno di noi dubita del girare della terra intorno al sole, e giorno per giorno i nostri occhi ci dicono che il sole si alza nell'oriente, sale e poi discende dalla parte occidentale per tuffarsi nel mare. La scienza insegna la trasformazione degli organismi e noi non vediamo nascere che uomini da uomini e mosche da mosche.

«In quest'ultimo caso i teoremi sono però alquanto più in armonia colla comune esperienza. La mia medusa non vi persuade? Ora, permettetemi di presentarvi un altro animale. Eccolo qua: la sua organizzazione differisce essenzialmente da quella dell'uomo, è molto inferiore; quest'organizzazione è mirabilmente adattata ad un modo di vivere, che però non ha nulla di comune con la vita umana; le sue facoltà intellettuali sono senza dubbio assai al disotto di quelle della formica, è oltremodo brutto colla sua sproporzionata testa, coi suoi tozzi arti, colla larga coda, ed ora vi dico che questa cosa sarà una donna la cui mortal bellezza deciderà inappellabilmente sul destino della vostra vita, o sarà un uomo dall'ingegno sì potente da dominarci tutti quanti. Quell'animalaccio! impossibile! Questa volta però, o signori, il vostro impossibile non vale: perchè quello che vi feci vedere era un embrione di uomo. Ora, se siamo costretti ad ammettere di essere stati ognuno nella stessa nostra esistenza individuale, sia anche per soli pochi giorni, così inferiori, così brutti, così stupidi, non mi pare tanto offensiva l'idea che milioni di anni fa i nostri progenitori non fossero nè più nè meno di quell'embrione imperfetto si ma dotato d'un'immensa facoltà, d'evoluzione. Per sapere quel che siamo, bisogna sapere quel che eravamo.

«Si accusa la teoria della discendenza di materialismo; ciò non ci fa nè caldo nè freddo. Nessuna grande scoperta, nessuna nuova idea nella scienza, nessun liberale concetto della morale contro cui non sia stato gridato l'anatema. Così la va da secoli e così seguirà ancora per un pezzo. Un significato preciso lo cercherete invano in quella parola, e praticamente essa non è che la protesta di chi non vuole il progresso, non vuole la verità, non vuole la scienza. Ma se prendiamo il materialismo nel senso che, se non ha, dovrebbe avere, allora si scorge subito essere la dottrina di Darwin antimaterialista. Niuna teoria biologica concede maggior spazio all'attività dello spirito, dell'anima. È egli materialismo vedere l'origine dell'uomo in animali di cui si riconosce la mirabile intelligenza ed il puro e gentile sentimento, mentre il volgo e una tradizione corrotta li chiama bruti? L'avvenire, l'evoluzione futura del genere umano, la teoria non può nè vuole determinarli; c'è campo per le più profonde degenerazioni e per il più alto infinito perfezionamento. Io, che forte sento il bisogno di credere, credo in una cosa, nell'indeterminato perfezionamento dell'uomo: due manifestazioni della sua anima me lo garantiscono: l'arte e la scienza. Non disprezzo per certo l'enorme sviluppo materiale di cui va tanto superba la nostra età, ma non posso che dire, con un convincimento, il quale s'avvicina di molto all'evidenza scientifica, che nell'evoluzione dell'umanità un canto di Dante, un quadro del Dürer, valgon più di tutte le ferrovie del mondo e che una pagina di Galileo e di Darwin è nella lotta per l'esistenza un'arma assai più potente degli eserciti e de' cannoni. Sia vicino il tempo ove la lotta per l'esistenza sarà compresa come la lotta per l'umanità!»

Il Morselli, che ha fatto un bellissimo studio su Carlo Darwin ( Carlo Darwin per E. Morselli, Milano, Dumolard) dice che «nissun libro ebbe mai sullo scibile umano l'influenza che ebbe il piccolo volume della Origine delle specie, in cui si condensavano il lavoro, le meditazioni, le esperienze, le veglie di ventotto anni.» Ma soggiunge ragionevolissimamente che Carlo Darwin era pienamente consapevole dello effetto che sarebbe stato per produrre il suo libro. In prova di ciò egli non trova di poter far meglio che citare alcune parole del Darwin medesimo, che stanno in fine al volume. Anch'io credo di dover far lo stesso, ma, avendo maggior spazio disponibile, faccio la citazione un po' più lunga e la faccio colle parole della traduzione del Canestrini. Ecco le ultime parole che si leggono nel volume della Origine delle specie.

«Quantunque io sia pienamente convinto della verità delle idee esposte in questo libro sotto forma di compendio, non ho alcuna speranza di convincere gli abili naturalisti che hanno la mente preoccupata da una moltitudine di fatti considerati, per molti anni, da un punto di vista direttamente opposto al mio. Egli è tanto facile capire la nostra ignoranza, nelle espressioni analoghe a queste: il piano della creazione, l'unità di tipo, ecc., e crederò per questo di dare una spiegazione, quando invece altro non si fa che constatare un fatto. Chiunque propende ad annettere un peso maggiore alle difficoltà non spiegate, che alla dimostrazione di un certo numero di fatti, respingerà senza dubbio la mia teoria. Pochi naturalisti soltanto, dotati di molta flessibilità di spirito, e che hanno già cominciato a dubitare dell'immutabilità delle specie, possono tener conto di questo libro; ma io guardo con calma e fiducia l'avvenire, e quei giovani naturalisti che ora si formano, i quali saranno capaci di esaminare ambi i lati della questione con imparzialità. Coloro che professano i principii della mutabilità delle specie presteranno un ottimo servizio esprimendo coscienziosamente la loro opinione; perchè in questo modo soltanto potranno dissipare tutti i pregiudizi che circondano questo argomento.

«Parecchi naturalisti eminenti hanno pubblicato recentemente l'opinione che una quantità di specie credute tali in ogni genere, non sono specie reali; ma che altre specie sono appunto reali, vale a dire, sono state create indipendentemente. Mi pare che questa conclusione sia singolare. Essi ammettono che una moltitudine di forme, le quali fino ad ora essi avevano riguardate quali creazioni speciali e che anche la maggior parte dei naturalisti considerano tuttora come tali, le quali hanno per conseguenza ogni esterna apparenza caratteristica di vere specie, essi ammettono che queste forme siano state prodotte per mezzo della variazione, ma ricusano di estendere il medesimo concetto alle altre forme leggermente diverse. Tuttavia essi non pretendono di poter definire o congetturare, quali siano le forme della vita create, e quali quelle prodotte da leggi secondarie. Essi ammettono la variazione come una vera causa nell'un caso, ma la respingono arbitrariamente nell'altro, senza porre alcuna distinzione fra i due casi. Verrà giorno in cui questa idea sarà riguardata come un comico esempio della cecità delle opinioni preconcette. Questi autori non mi sembrano maggiormente sorpresi da un atto miracoloso di creazione, che da una nascita ordinaria. Ma credono essi realmente che, nei periodi innumerevoli della storia della terra, certi atomi elementari siano stati improvvisamente riuniti a formare dei tessuti viventi? Credono essi che ad ogni supposto atto di creazione si sia prodotto un solo individuo ovvero molti? Tutte le innumerevoli sorta di animali e di piante furono create allo stato di uova e di semi, oppure interamente sviluppate? Nel caso dei mammiferi, dobbiamo credere che questi fossero creati coi falsi contrassegni degli organi, per mezzo dei quali traggono il loro nutrimento dall'utero dell a madre? Senza dubbio codeste questioni non possono risolversi nemmeno da coloro che, nello stato presente della scienza, credono alla creazione di poche forme originali od anche di una forma di vita qualsiasi. Fu detto da diversi autori che non è meno facile il credere alla creazione di cento milioni di esseri, che a quella di uno solo; ma l'assioma filosofico di Maupertuis della minima azione, dispone lo spirito ad accogliere più volentieri il numero più piccolo; e certamente non dobbiamo pensare che gli esseri innumerevoli di ogni grande classe siano stati creati con caratteri evidenti, ma ingannevoli, che proverebbero la loro provenienza da un solo parente.

«Come ricordo ad uno stato passato di cose io ho conservato nei paragrafi che precedono ed altrove parecchie proposizioni, da cui risulta che i naturalisti credono ad una separata creazione di ciascuna specie, e fui molto censurato perchè così mi espressi. Ma tale era indubbiamente l'opinione generale, quand'io pubblicai la prima edizione dell'opera presente. Io aveva parlato prima con molti naturalisti sul tema della evoluzione, e non avea trovato nemmeno una simpatica accoglienza. Probabilmente alcuni credevano allora ad una evoluzione; ma o se ne tacquero, o si espressero in modo così ambiguo, che tornava difficile capire le loro idee. Ora le cose sono affatto cambiate, e quasi ogni naturalista ammette il grande principio della evoluzione. Ve ne hanno tuttavia ancora alcuni, i quali ritengono che le specie abbiano potuto produrre repentinamente con mezzi del tutto sconosciuti delle forme valenti all'idea di modificazioni grandi e repentine. La ipotesi che nuove forme siansi sviluppate dalle vecchie e interamente diverse in modo subitaneo e con mezzi sconosciuti, considerata come punto di vista scientifico e come introduzione ad ulteriori indagini, non può recare che un ben piccolo vantaggio di fronte alla credenza che le specie siano nate dal fango della terra.

«Potrebbe chiedersi quale sia l'estensione che io attribuisco alla dottrina della modificazione delle specie. A tale questione difficilmente può rispondersi, perchè quanto più distinte sono le forme da noi considerate, tanto più gli argomenti divengono deboli. Ma certi argomenti del massimo valore si estendono assai. Tutti i membri di intere classi possono collegarsi insieme con vincoli di affinità, e tutti possono classificarsi, pel medesimo principio, in gruppi subordinati ad altri gruppi. Gli avanzi fossili tendono talvolta a riempire le vaste lacune che si trovano fra gli ordini esistenti.

«Gli organi rudimentali dimostrano evidentemente che un antico progenitore li possedeva in uno stato di completo sviluppo; e ciò implica in alcuni casi una enorme quantità di modificazioni nei discendenti. In certe classi varie strutture sono formate col medesimo sistema, e nell'età embrionale le specie si rassomigliano molto fra loro. Perciò non posso dubitare che la teoria della discendenza modificata abbracci tutti i membri della medesima classe. Io credo che gli animali derivino da quattro o cinque progenitori al più, e le piante da un numero uguale o minore di forme.

«L'analogia mi condurrebbe anche più avanti, cioè alla opinione che tutti gli animali e le piante derivino da un solo prototipo. Ma l'analogia può essere una guida ingannevole. Nondimeno tutti gli esseri viventi hanno molte qualità comuni, la loro composizione chimica, la loro struttura cellulare, le leggi del loro sviluppo, e la facoltà di essere affetti dalle influenze dannose. Noi lo vediamo anche nelle circostanze meno importanti; per esempio, il medesimo veleno colpisce ugualmente le piante e gli animali; eppure il veleno che si depone dal Cynips produce delle protuberanze mostruose nei rosai e nelle quercie. In tutti gli esseri organizzati la unione di cellule elementari del maschio e della femmina sembra necessaria occasionalmente per la formazione di un essere nuovo. In tutti, per quanto oggi sappiamo, la vescichetta germinativa è la stessa. Per modo che ogni essere organico individuale parte da un'origine comune. Anche se consideriamo le due divisioni principali, cioè il regno animale e il regno vegetale, certe forme inferiori sono intermedie pei loro caratteri, al punto che i naturalisti disputarono a quale dei due regni dovessero riferirsi; e come osservò il professore Asa Gray «le spore ed altri corpi riproduttivi di molte alghe inferiori possono condurre sulle prime una vita decisamente animale, indi una indubitata esistenza vegetale.» Perciò, secondo il principio della elezione naturale colla divergenza di carattere, non può sembrare incredibile che da una di queste forme inferiori ed intermedie siano sorti gli animali e le piante; e se noi ammettiamo ciò, dobbiamo anche concedere che tutti gli esseri organizzati, che esistettero sulla terra, possono essere stati prodotti da una qualche forma primordiale. Ma questa deduzione è principalmente fondata sull'analogia e poco monta che sia accettata o respinta. Il caso è differente nei membri di ogni grande classe, come i vertebrati, gli articolati, ecc., perchè qui, come abbiamo osservato, abbiamo nelle leggi della omologia e della embriologia, ecc., diverse prove, che tutti sono provenuti da un solo stipite.

«Quando le idee da me esposte in questo libro e sostenute dal Wallace nel Linnean Journal, o idee analoghe sull'origine delle specie, saranno generalmente accettate, possiamo vagamente prevedere che avverrà una notevole rivoluzione nella storia naturale. I sistematici potranno continuare i loro lavori come al presente; ma essi non saranno più molestati continuamente dal dubbio insolubile se questa o quella forma sia in essenza una specie. Sono certo, e parlo per esperienza, che questo non sarà un piccolo vantaggio. Si porrà fine alle molte discussioni che si sono fatte, per decidere se una cinquantina di specie di rovi inglesi siano vere specie. I sistematici avranno solo da decidere (e ciò non sarà sempre facile) se ogni data forma sia abbastanza costante e distinta dalle altre forme, da essere suscettibile di una definizione; e quando possa definirsi, se le differenza siano abbastanza importanti da meritare un nome specifico. Quest'ultimo punto diverrà una considerazione assai più essenziale che oggi non sia; perchè le differenze, per quanto piccole, fra due forme qualsiasi, quando non siano connesse da gradazioni intermedie, sono considerate dalla maggior parte dei naturalisti come sufficienti ad elevare le due forme al rango di specie. Quindi noi saremo costretti a riconoscere che la sola distinzione possibile fra le specie e le varietà ben marcate consiste in ciò: che queste ultime sono attualmente collegate da gradazioni intermedie, mentre al contrario le specie furono in tal guisa collegate in epoca più antica. Per conseguenza, senza rigettare la considerazione della esistenza presente di gradazioni intermedie fra due forme qualsiansi, noi saremo condotti a pesare con maggiore accuratezza e a dare un valore più forte all'attuale complesso delle differenze che passano fra le medesime. Egli è molto probabile che le forme ora conosciute generalmente come semplici varietà, possano in seguito meritare un nome specifico, come la Primula vulgaris e la Primula veris; ed in tal caso il linguaggio comune ed il linguaggio scientifico saranno in armonia. Insomma, avremo da trattare le specie come si trattano i generi da quei naturalisti che ammettono essere i generi combinazioni puramente artificiali, fatte per comodità. Questa non può essere una prospettiva molto lieta; ma noi almeno saremo liberi dalla vana ricerca dell'essenza ignota del termine specie.

«Gli altri rami più generali della storia naturale presenteranno allora un interesse maggiore. I termini impiegati dai naturalisti, come: affinità, parentela, unità di tipo comune, paternità, morfologia, caratteri di adattamento, organi rudimentali ed abortiti, ecc., non saranno più metaforici, ma avranno un significato evidente. Quando non riguarderemo più un essere organizzato nel modo con cui un selvaggio considera un vascello come una cosa interamente superiore alla sua intelligenza; quando conosceremo che ogni produzione della natura ebbe la sua storia; quando contempleremo ogni struttura complicata ed ogni istinto come il risultato di molti adattamenti, ciascuno dei quali fu vantaggioso allo individuo, quasi nella stessa guisa con cui consideriamo ogni grande invenzione meccanica come il prodotto del lavoro, dell'esperienza, della ragione e anche degli errori di numerosi operai; quando noi prendiamo ad esaminare ogni essere organizzato da questo punto di vista, posso dirlo per esperienza, quanto diverrà più interessante lo studio della storia naturale!

«Un vasto campo di osservazione, quasi sempre inesplorato, sarà aperto sulle cause e sulle leggi della variazione, sulla correlazione di sviluppo, sugli effetti dell'uso e del non uso, sull'azione diretta delle condizioni esterne, ecc. Lo studio delle produzioni domestiche crescerà di valore immensamente. Una varietà nuova, allevata dall'uomo, formerà un soggetto più importante ed interessante di studio che una specie di più, aggiunta alla moltitudine di specie già conosciute. Le nostre classificazioni diverranno, per quanto si potrà fare, altrettante genealogie; e così ci daranno veramente ciò che può chiamarsi il piano della creazione. Quando avranno in vista un oggetto definito, le regole di classificazione diverranno certamente più semplici. Noi non abbiamo in tal caso nè alberi genealogici, nè prosapie araldiche; e dobbiamo scoprire e tracciare le molte linee divergenti della discendenza delle nostre genealogie naturali, per mezzo dei caratteri d'ogni sorta che furono ereditati da lungo tempo. Gli organi rudimentali ci indicheranno infallibilmente la natura delle strutture perdute in epoche remote. Le specie e gruppi di specie, dette aberranti, e che possono fantasticamente chiamarsi fossili viventi, ci aiuteranno a compiere il disegno delle antiche forme della vita. L'embriologia ci rivelerà la struttura, che rimase alterata, dei prototipi di ogni grande classe.

«Quando potremo essere certi che tutti gli individui della medesima specie e tutte le specie strettamente affini della maggior parte dei generi, sono derivate in un periodo non molto lontano da un solo progenitore ed emigrarono da un dato luogo di origine; e quando saremo più addentro nella cognizione dei molti mezzi di migrazione, allora, pei lumi che ci fornisce attualmente e che continuerà a fornirci la geologia, sugli antichi cambiamenti di clima e di livello delle terre, noi saremo in grado sicuramente di seguire, in un modo mirabile, le antiche migrazioni degli abitanti del mondo intero. Anche al presente, paragonando le differenze che presentano gli animali marini sui lati opposti di un continente e la natura dei diversi abitanti del continente stesso, in relazione ai loro mezzi apparenti di migrazione, potrà darsi qualche nozione sull'antica geografia.

«La nobile scienza della geologia perde la sua gloria per l'estrema imperfezione delle memorie. La crosta della terra, coi suoi avanzi sepolti, non deve riguardarsi come un museo completo, ma come una scarsa collezione fatta a caso o ad intervalli rari. Si riconoscerà che l'accumulazione di ogni grande formazione fossilifera dovette dipendere da uno straordinario concorso di circostanze e che gli intervalli di riposo e di inazione fra gli stadii successivi furono di una lunga durata. Ma noi giungeremo ad apprezzare la durata di questi intervalli con qualche sicurezza, facendo il confronto fra le forme organizzate anteriori e le posteriori. Noi dobbiamo essere molto cauti nel cercare di stabilire una correlazione di esatta contemporaneità fra due formazioni, le quali racchiudono poche specie identiche, mediante la successione generale delle loro forme di vita. Siccome le specie si producono e si estinguono, per cause che agiscono lentamente e che esistono ancora, e non già per atti miracolosi di creazione e col mezzo di catastrofi: e siccome la più importante di tutte le cause dei cambiamenti organici è quasi indipendente dalle condizioni fisiche alterate, e forse anche improvvisamente alterate, voglio dire, la mutua relazione di un organismo all'altro, poichè il perfezionamento è l'esterminio degli altri, ne segue che l'insieme dei cambiamenti organici nei fossili delle formazioni consecutive, probabilmente può darci una precisa misura della durata del tempo che effettivamente trascorse. Tuttavia un certo numero di specie, che si conservano riunite, possono continuare per un lungo periodo senza modificarsi; mentre durante il medesimo periodo alcuna di queste specie, emigrando in nuovi paesi ed entrando in concorrenza colle specie straniere associate ad esse, possono subire delle modificazioni; per modo che non dobbiamo esagerare l'applicazione dei mutamenti organici nella misura del tempo.

«In un lontano avvenire io veggo dei campi aperti alle più importanti ricerche. La psicologia sarà fondata sopra il principio già bene propugnato da Herbert Spencer, che cioè ogni facoltà e capacità mentale siasi necessariamente sviluppata a gradi. Si spanderà un viva luce sull'origine dell'uomo e sulla sua storia.

«Alcuni autori fra i più eminenti sembrano pienamente soddisfatti dell'opinione che ogni specie sia stata creata indipendentemente. Nel mio concetto, si accorda meglio con ciò che noi sappiamo, intorno alle leggi impresse dal Creatore alla materia, l'idea, che la produzione e l'estinzione degli abitanti passati e presenti del mondo siano dovute a cagioni secondarie, simili a quelle che determinano la nascita e la morte degli individui. Allorquando io riguardo tutti gli esseri non come creazioni speciali, ma come i discendenti diretti di pochi esseri, che esistettero molto tempo prima che si formasse lo strato più antico del sistema siluriano, mi sembra che quegli esseri si nobilitino. Giudicando dal passato, possiamo inferire con sicurezza che niuna delle specie viventi trasmetterà la sua configurazione identica alle future età. Pochissime specie, ora esistenti, trasmetteranno una progenie qualsiasi alle epoche avvenire; perchè il modo con cui tutti gli esseri organizzati sono insieme congiunti, dimostra che la maggior parte delle specie di ciascun genere e tutte le specie appartenenti a molti generi, non hanno lasciato alcun discendente, ma rimasero interamente estinte. Noi possiamo anche penetrare nel futuro, con uno sguardo profetico, fino a predire che le specie comuni e più ampiamente diffuse, appartenenti ai gruppi più vasti e dominanti di ogni classe, saranno quelle che in ultimo prevarranno e procreeranno delle specie nuove e dominanti. Siccome tutte le forme viventi della vita sono i discendenti diretti di quelle che esistettero molto tempo prima dell'epoca siluriana, possiamo essere certi che la successione ordinaria, per mezzo della generazione, non è mai stata interrotta e che nessun cataclisma non venne mai a desolare il mondo intero. Quindi possiamo pensare con qualche confidenza ad un tranquillo avvenire, di una lunghezza egualmente incalcolabile. Se riflettiamo che l'elezione naturale agisce soltanto per il vantaggio di ogni essere, col mezzo delle variazioni utili, tutte le qualità del corpo e dello spirito tenderanno a progredire versa la perfezione.

«È cosa molto interessante il contemplare una spiaggia ridente, coperta di molte piante d'ogni sorta, cogli uccelli che cantano nei cespugli, con diversi insetti che ronzano da ogni parte e coi vermi che strisciano sull'umido terreno; ed il considerare che queste forme elaborate con tanta maestria, tanto differenti fra loro e dipendenti l'una dall'altra, in una maniera così complicata, furono tutte prodotte per effetto delle leggi che agiscono continuamente intorno a noi. Queste leggi, prese nel senso più largo, sono: lo Sviluppo colla Riproduzione; l'Eredità che è quasi implicitamente compresa nella Riproduzione; la Variabilità derivante dall'azione diretta e indiretta delle condizioni esterne della vita e dall'uso o dal non uso; la legge di Moltiplicazione in una proporzione tanto forte da rendere necessaria una lotta per l'Esistenza, dalla quale deriva l'Elezione naturale, la quale richiede la Divergenza del Carattere e l'Estinzione delle forme meno perfezionate. Così, dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte segue direttamente l'effetto stupendo che possiamo concepire, cioè la produzione degli animali più elevati. Vi ha certamente del grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore in poche forme od anche in una sola; e nel pensare che, mentre il nostro pianeta si aggirò nella sua orbita, obbedendo alla legge immutabile della gravità, si svilupparono da un principio tanto semplice, e si sviluppano ancora, infinite forme viepiù belle e meravigliose.»

Sublimemente grandiosa è la poesia che raggia da queste parole del Darwin. Tuttavia essa non fu guari compresa fino ad oggi. Non fu compresa nemmeno dai poeti. Parlo dei poeti italiani. I nostri poeti che parlano del Darwin ne parlano con scherno. Prati, Zanella, Rondani potrebbero essere citati. Ma io mi permetto di domandare a questi signori, o piuttosto domando a me stesso, se veramente essi abbiano letto l' Origine delle specie, l' Origine dell'uomo, e le altre opere del Darwin.

Quando io pubblicai la traduzione dell' Origine dell'uomo di Carlo Darwin, ci misi in capo una prefazioncina (gli editori vogliono sempre almeno una prefazioncina) nella quale io raccontava il fatto che era stato raccontato a me di un gentiluomo napoletano che ebbe quattordici duelli per sostenere la preminenza del Tasso sull'Ariosto, e che all'ultimo, ferito a morte, sclamò:

—E dire che non ho mai letto nè l'Ariosto, nè il Tasso!

Ripeto ora le stesse parole. Da quel tempo in qua si è fatto più che mai un gran parlare di Carlo Darwin, in male e in bene, ma pochi fra quelli che ne hanno parlato e ne vanno parlando, interrogati se lo abbiano letto, quando volessero essere sinceri, potrebbero rispondere affermativamente. Eppure nessun libro è più ammaestrativo dei libri di Carlo Darwin, nissun libro può produrre più vario e più grande frutto dalla sua lettura. Come si facevano nel medio evo ammaestramenti sopra Aristotele, come in Germania si fa anche oggi un insegnamento su Dante (si fa anche in Italia per verità, ma si dovrebbe fare assai più), così vorrei che in ogni città italiana si facesse un pubblico insegnamento su Carlo Darwin, salvo a decidere sul miglior modo in cui dovrebbe essere fatto e sulla migliore scelta di chi lo dovesse fare. Dico ciò perchè se il ministro della pubblica istruzione dovesse dare l'incarico, andrebbe incontro al rischio di incaricare, in buona fede, di insegnare il darwinianismo un di quei tali che parlano di Carlo Darwin senza averne mai letto i libri.

Ma i libri di Carlo Darwin si leggeranno sempre più d'ora in avanti e nessun uomo studioso potrà fare a meno di una tale lettura.

Carlo Darwin morì il giorno di mercoledì 19 aprile del passato anno 1882, alle ore 4 pomeridiane, circondato dalla sua famiglia. Era sofferente di cuore, e se riuscì a lavorar tanto fino all'ultimo ciò fu mercè le grandi cure che seppe aversi e la somma regolatezza della sua vita. La notte del martedì egli fu preso da dolori nel petto con deliquii e nausee. Queste sofferenze, con qualche leggero intervallo di alleviamento, si proseguirono fino all'ultimo, senza togliere al morente la coscienza di sè e la conoscenza dei suoi cari, che perdette solo un quarto d'ora prima di morire.

La morte di Carlo Darwin ridestò più vivo l'indomato amore dei suoi seguaci e l'odio accanito dei suoi avversarii. Si potè vedere quanto l'amore prevalga, ma si potè vedere ancora quanto l'odio sia intenso, tanto nel volgo quanto pure fra gli scienziati. Io cito ancora una volta il Kleinenberg, ed è l'ultima volta, perchè sono al termine del mio lavoro, il quale si salverà colle citazioni. Il Kleinenberg chiude così il suo scritto su Carlo Darwin:

«Non solamente il sentimento popolare, ancora la stessa scienza muoveva opposizione al trasformismo. Anche la scienza ha i suoi uomini che guardano sempre all'indietro perchè non sanno guardare innanzi, che non hanno nè abbastanza coraggio nè sufficiente discernimento per liberarsi dall'incubo della più logora tradizione.

«L'ignoranza poi crede disfare le incomode idee, che non intende, burlandosene. Così è andato sempre il mondo. Al prepotente romano e allo scettico greco doveva sembrare oltremodo ridicola la pretesa divinità di un povero giudeo, di un figlio di quel popolo umile e disprezzato, di un uomo cui un impiegato romano qualunque poteva torturare ed ammazzare senza veruna difficoltà; al cristiano pare ridicola l'idea che scorge anche negli animali un pochettino d'umanità. Un giornale illustrato ha creduto di fare dello spirito annunziando la morte di Darwin con una caricatura, dove vedesi il busto dell'inglese circondato da una ciurma di scimmie, le quali esprimono il loro buffonesco lutto. Questa volgarità non mi offese tanto, mi rese invece pensieroso e tornai colla mente in altri luoghi e in altri tempi.

«A Roma nel Museo Kircheriano c'è un graffito del secondo secolo, trovato sul Palatino. Rappresenta una croce cui sta inchiodato un corpo umano con la testa d'asino; allato della croce è un uomo all'impiedi. Sotto v'è questa iscrizione in greco: Aleximenos adora il suo Dio.

«Nel Museo di storia naturale di Firenze esiste una specie di monumento, la cosidetta Tribuna di Galileo; è una cosa fatta con gran lusso ma con poco gusto. Le pareti sono coperte di affreschi. In uno di questi è dipinto Galileo che tiene in mano un piccolo modello del semplice apparecchio per studiare le oscillazioni del pendolo; attorno a lui molti uomini, preti e laici, che ridono. La spiegazione dice: Galileo deriso dai filosofi. Il quadro è cattivo ma mi fece impressione. E pensai: se l'idea appartiene allo stesso pittore, peccato che egli all'essere un mediocre artista non ha preferito essere un buon scienziato, che tale sarà per certo chi comprende così profondamente il significato della scienza e il destino che le spetta nel mondo.

«Ma no! non voglio terminare con un pensiero amaro. Sarebbe ingiusto e sarebbe indegno della memoria serena del grande morto! Darwin non fu un martire. Nessuno ha osato toccargli un capello, nessuno gli ha imposto la revoca della verità, allato di lui stava l'ombra di Galileo per difenderlo contro ogni offesa. I suoi avversari più aperti l'hanno stimato ed amato. Non solo il mondo scientifico ha rimpianto la sua perdita, sinanche dal pulpito abbiamo sentito calde parole di dolore e di conforto. Che un prete dell'ortodossissima chiesa anglicana abbia potuto dire alla sua comunanza, la domenica dopo la morte di Darwin, queste parole: «Fra i più grandi interpreti della parola di Dio, il Darwin deve sempre avere un alto e onorevole seggio,» questa è una testimonianza preziosa che non dimenticheremo, perchè prova essere la civiltà moderna non solo la più potente ma ancora la più tollerante. Onore al secolo nostro, onore al secolo di Darwin!»

Dunque rallegriamoci!

Ma, in verità, mi viene in mente il mi rallegro di Don Abbondio!

Il prete inglese mette un po' d'acqua nel suo vino, ma, dovunque sia nato e in qualsiasi tempo abbia vissuto, il prete prima d'ogni altra cosa è stato ed è prete.

Penoso pensiero questo, come una piccola schiera di uomini si sia sempre staccata dalla grande maggioranza dei proprii simili e abbia preso a vivere alle spese di questi sfruttandone la debolezza, le paure, i vizii, le viltà, promovendo la discordia, l'odio, la strage, lo sterminio, il delitto.

Lucrezio esclamava già:

Tantum religio potuti suadere malorum!

Ma dopo Lucrezio le guerre religiose si fecero ancor più feroci, i fratelli contro i fratelli, i figli contro i padri, tradimenti, delazioni, roghi, miseria, abbominazione.

Io vidi in Cairo un uomo a cavallo cogli occhi bassi e le labbra in lieve movimento, e altri uomini gittarsi forsennatamente sotto ai piedi del cavallo per farsi calpestare, perchè era la festa del profeta. Quegli uomini eran molti, tanti che facevano sotto ai piedi del cavallo un pavimento non interrotto, e la folla intorno mandava urli come gli sciacalli nelle foreste.

Io vidi in Alessandria di Egitto, alla processione per la fiera di Tantah, uomini ignudi, che si foracchiavano le carni con chiodi e dilaniavano coi morsi grossi serpenti che furiosamente si attorcigliavano loro fra le mani.

Mentre io stava guardando quello spettacolo, udii dietro di me queste parole in dialetto genovese:

—Non c'è poi mica tanta differenza dalla festa di san Paolo a Malta.

Mi volsi. L'uomo che aveva detto quelle parole era un marinaio.

Vidi io pure a Malta la festa di san Paolo. Quando il grosso fantoccio di legno appare in capo alla via lo scoppio delle voci selvagge che prorompe da tutti i petti rintrona l'isola intera, e una parte della folla segue festosa e plaudente a passo a passo qualche disgraziata donna che trascina penosamente una enorme catena, facendo un terribile sforzo a ogni movere di piede e lasciando sul terreno una striscia del sangue che le sgocciola dalle carni, in cui sono entrati gli anelli della catena. Io vidi le faccie stravolte delle donne nelle chiese di Napoli, di Napoli ove ogni anno bolle pubblicamente il sangue di san Gennaro. Io vidi in Liguria la Madonna entrare in chiesa di gran corsa fra gli applausi della folla e un uomo cader morto sotto al peso di una croce enorme che portava sullo stomaco in processione.

La madonna di Lourdes è visitata oggi da personaggi segnalati di tutta Francia, da signore delle classi più colte, che si precipitano ai piedi di quei confessori che non hanno orecchi che bastino per dar loro ascolto.

La confessione auricolare, questa orrenda mostruosità, questo maleficio spaventoso da cui scaturiscono tanti danni, è in pieno vigore ancora nella mia patria, e i miei amici liberi pensatori mi parlano anche oggi della necessità di un freno per le loro mogli e pei loro figli, e non sanno che da se stessi aprono ad un nemico una finestra dalla quale egli può vedere quanto si passa nella loro casa e leggere anche nei loro pensieri, e danno al nemico il modo di volgere e dominare a sua posta le persone che essi più dovrebbero tutelare. Dico un nemico, perchè il prete è nemico ora doppiamente. Non si contenta più, come al tempo di Dante, di essere peggiore dell'idolatra, non si contenta più di essersi fatto un Dio d'oro e d'argento, ma si è fatto strumento di una politica avversa alla patria e s'affanna a disfare l'opera della unione nazionale costrutta con tante vittime e con tanto sangue. Il prete, sono ancora parole di Dante, si indraca contro chi fugge e si placa come un agnello a chi gli mostra il dente o la borsa. Quanto più volentieri ci abbrustolirebbe sul rogo quel prete che oggi, vista la mala parata, pone Darwin fra gli interpreti della parola di Dio! Quanto furore compresso! Quanta smania di vendetta! Quanto cupo anelare a riscossa!

Rallegriamoci col nostro secolo che non consente più al prete di conficcarci nelle carni le tanaglie roventi, ma non dimentichiamo che, se potesse, ciò farebbe ancora.

Rallegriamoci, ma pensiamo che sempre la umanità è divisa in due schiere disugualissime, di cui una, la più numerosa, continua a bever grosso, l'altra, più scarsa, continua a darla a bere.

Un filosofo moderno, il Gavarni, fa dire a Tommaso Vireloque, quella sua creazione originale del buon senso in cenci, che la storia antica era tutta divoratori e divorati, la storia moderna è tutta blagatori e blagati.

Non credo che il verbo blagare, coi suoi derivati, sia di buona lingua, ma è noto che fra le mie poche virtù, se pur ne ho qualcuna, la buona lingua non è la prima.

Verrà un giorno in cui l'uomo sia per essere un po' meno pecora e un po' meno lupo?

Caro Kleinenberg, vi stringo affettuosamente la mano.

FINE

[Pg 278][Pg 279]

PUBBLICAZIONI PRINCIPALI DI CARLO DARWIN

DI ARGOMENTO GENERALE

A naturalist's voyage round the world on board of H. M. S. Beagle, 1831-86.

Journal of researches into the natural history and geology of countries visited by H. M. S. Beagle, 1845.

On the origin of species by means of the natural selection, 1 vol., 1859.

On the variation of organic beings in a state of nature, (Journal of the Linnean Society, 3 vol., Zoology ), 1859.

The variation of plants and animals under domestication, 2 vol., 1868.

The descent of man and selection in relation to sex, 2 vol., 1871.

The expression of the emotions in man and animals, 1 vol., 1871.

The formation of vegetable mould, 1881.

ZOOLOGIA

The zoology of the voyage of H. M. S. Beagle, edited and superintended by Ch. Darwin, 1840.

Observations on the structure of the genus Sagitta. ( Ann. his., 13 vol. 1844).

Brief description of general terrestrial Planariae ecc. (Ibidem, 14 vol., 1844).

A Monograph of the Cirripedia, parte I, Lepadidae, Roy. Soc., 1851.

A monograph of the Cirripedia. Part. II. Balanidae, 1854, Roy. Soc.

A monograph of the fossil Lepadidae. Pal. Soc., 1851.

A Monograph of the fossil Balanidae and Verrucidae. Pal. Soc., 1854.

BOTANICA

On the action of seawater on the germination of seeds. ( Journ. Linn. Soc., 1 vol., 1857).

On the agency of bees in the fertilisation of papilionaceus flowers. ( Ann. nat. hist., 2 vol. 1858).

On the two forms or dimorphic condition of the species of Primula. ( Journ. Linn. Soc., 7 vol., 1862).

On the various contrivances by which British and Foreign Orchids are fertilised, 1862.

On the existence of two forms and their reciprocal sexual relations in the genus linum. ( Journ. Linn. Soc., 1 vol., 1868).

On the sexual relations of three forms of Lythrum. ( Journ. Linn. Soc., 8 vol., 1864). On the character and the hybrid-like nature of the illegitimate offspring of dimorphic and trimorphic Plants. ( Journ. Linn. Soc., 10 vol., 1867).

On the specific difference between Primula veris and P. vulgaris ecc. (Ibidem, 10 vol., 1867).

Insectivorous Plants, 1 vol., 1875.

On the movements and habits of climbing Plants. ( Journ. Linn. Soc., 10 vol., 1865).

The Effects of cross and self fertilization in the vegetal kingdom, 1876.

On the different Forms of Flowers on Plants of the same species, 1877.

The Power of Movement in Plants, 1880.

GEOLOGIA

On the formation of mould. ( Trans. geolog. Soc., 5 vol., 1837).

Origin of the saliferous depots of Patagonia. ( Journ. geol. Soc., 2 vol., 1838).

On the connection of the volcanic phenomena in South America. ( Transact. geolog. Soc., 5 vol., 1838).

On the parallel roads of Glen Roy. ( Trans. Phil. Soc., 1839).

On the distribution of the erratic boulders in South America. ( Trans. geol. Soc., 6 vol., 1841).

On a remarkable bed of sandstone of Pernambuco. ( Phil. Mag., 1841).

Notes on the ancient glaciers of Caernarvonshire. ( Phil. May., 20 vol., 1842).

The structure and distribution of coral-reefs, 1844.

Geological observations on volcanic islands, 1842.

An account of the fine dust which often falls on the vessels in the Atlantic Ocean. ( Proc. geol. Soc., 1845).

On the geology of the Falkland island. ( Journ. geol. Soc., 1846). On the transportal of erratic boulders from a lower to a higher level. (Ibidem, 1848). On the power of icebergs to make grooves on a submarine surface. ( Phil. Mag. Any., 1855).

Geological observations on South America, 1846.

TRADUZIONI ITALIANE

Viaggio di un naturalista intorno al mondo, trad. del prof. M. Lessona. Torino, Unione tip. tor.

Sulla origine delle specie per elezione naturale, trad. del prof. G. Canestrini. Ibidem.

I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti, trad. dei prof. G. Canestrini e P. A. Saccardo. Ibidem.

Variazione degli animali e delle piante, trad. del professore G. Canestrini. Ibidem.

L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto col sesso, trad. del prof. M. Lessona. Ibidem.

Dell'espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali, trad. del prof. Canestrini. Ibidem.

Le piante insettivore, trad. dei prof. Canestrini e Saccardo. Ibidem.

Degli effetti della fecondazione incrociata e propria nel regno vegetale, trad. del prof. Saccardo. Ibidem.

La formazione della terra vegetale per l'azione dei lombrici, trad. del prof. M. Lessona. Ibidem.

Intorno ai diversi apparecchi atti a promuovere la fecondazione delle orchidee col mezzo degli insetti o sull'utilità dell'incrocio, trad. del prof. Canestrini. Ibidem.

CASA EDITRICE ANGELO SOMMARUGA E C. ROMA 3—Via Due Macelli—3

G. Carducci . Confessioni e Battaglie —Serie I. Terza edizione. Elegante volume di circa 400 pagine L.   4 —

—  Serie II. Seconda edizione. Id. Id 4 —

Eterno femminino regale 1 25

L. A. Vassallo . Ad un Crocifisso — 50

La regina margherita. Elegantissimo volume di pagine 300 2 —

La Contessa Paola Flamini (esaurita) 2 —

G. Rovetta. Ninnoli. Elegantissimo volume dipagine 200. Quarta edizione 2 50

P. Siciliani. Fra Vescovi e Cardinali. Elegantissimo volume 1 50

N. Razetti. Ad una Felce. Ode con prefazione di G. Carducci — 50

G. Leopardi. Poesie , con prefazione di R. Bonghi. Edizione principe. Formato 30 × 45 35 —

U. Fleres. Versi 2 —

O. Bacaredda. Bozzetti Sardi 2 50

Papiliunculus. Primi ed Ultimi Versi 2 50

Dott. Pertica. Cantanti — 50

Dopo Morto — 50

Storielle Bizantine 2 —

G. Faldella. Roma Borghese. Elegantissimo volume di pagine 300 3 —

L. Morandi. Shakespeare, Baretti e Voltaire , 300 pagine 3 —

E. Onufrio. Albàtro. Elegante volume 1 50

C. Cerboni. Leggenda Elbana 1 25

C. Pascarella. Er Morto de Campagna — 50

G. Carducci. Eterno Femminino Regale. (Terza edizione) 1 25

E. Panzacchi. Al Rezzo. Elegantissimo volume di pagine 300. Prima edizione 2 50

C. Rusconi. Memorie Aneddotiche per servire alla storia del rinnovamento italiano 3 —

Principessa della Rocca. Errico Heine. Ricordi, note e rettifiche 2 —

G. Chiarini. Ombre e Figure. Elegantissimo volume di 450 pagine 4 —

Contessa Lara. Versi. Splendidissimo volume di oltre 200 pagine 4 —

Carmelo Errico. Convolvoli. Elegantissimo volume in cromotipografia di circa 200 pagine 3 —

A. Baccelli. Germina 1 —

M. Lessona. C. Darwin 2 —

LA CRONACA BIZANTINA

—che ha già tre anni di vita—vita gloriosa—è il più elegante di tutti i giornali letterari. In ogni numero pubblica scritti di G. Carducci e di O. Guerrini. Vi collaborano assiduamente Lessona, Nencioni, Panzacchi, D'Annunzio, Chiarini, Capuana, D'Arcais, Scarfoglio, Salvadori, Testa, Mantovani, Cirimele, Dossi ecc.

S'occupa d'arte, di teatri, di mode, di finanze, di tutto e di tutti.

Dà premii a tutti gli abbonati che spiegano esattamente i passatempi crittografici pubblicati in copertina.

Si pubblica due volte il mese in gran formato di dodici pagine, con fregi, intestazioni a colore ecc.

L'abbonamento annuo, escluso assolutamente l'abbonamento semestrale, è di L. 10 e dà diritto al premio di un volume, a scelta fra i seguenti:

1. G. Chiarini. Ombre e figure.

2. G. Carducci. Confessioni e Battaglie. (Serie I).

3. — Confessioni e Battaglie. (Serie II).

4. A. Ademollo. Il Carnevale di Roma nei secol XVII e XVIII.

» C. Lombroso. Due Tribuni.

5. G. Mazzoni. Poesie con prefazione di G. Carducci.

» R. De Zerbi. Il mio romanzo.

Un numero separato Cent. 50.

Hanno diritto al premio soltanto coloro che si abbonano direttamente presso l'Amministrazione del giornale. Aggiungere al prezzo d'abbonamento Cent. 50 per l'affrancazione del premio.

Direzione e Amministrazione: ROMA, Via Due Macelli, 3.

COLLEZIONE SOMMARUGA

Prezzo di ciascun Volume: Lire UNA

1. G. D'Annunzio Canto Novo —III edizione.

2. — Terra Vergine —III ediz.

3. G. Mazzoni In Biblioteca.

4. M. Lessona In Egitto —La Caccia della Iena.

5. G. Mazzoni Poesie , con prefazione di G. Carducci .

6. R. De Zerbi Il mio Romanzo.

7. A. Ademollo Il carnevale di Roma nei secoli XVII e XVIII.

8. C. Lombroso Due Tribuni.

9. P. Lioy Altri Tempi.

10. Navarro della Miraglia Le Fisime di Flaviana.

11. L. Capuana Storia Fosca.

12. C. R. La nullità della Vita —L'Infinito.

In corso di stampa:

13. Papiliunculus Nuovi Versi.

14. O. Guerrini Brandelli , Vol.  I.

15. — Id.          II.

16. — Id.         III.

17. — Id.         IV.

18. G. Salvadori Vigilia d'Armi.

19. C. Dossi La Colonia Felice.

20. G. A. Costanzo Nuovi Versi.

21. C. Dossi Ritratti Umani.

22. R. Bonghi Il papa.

23. N. Misasi Marito e Sacerdote.

24. E. Onufrio L'Adultera del Cielo.

25. M. Serao A mosca cieca.

26. G. Marradi Ricordi lirici.

L'abbonamento ai primi dodici volumi costa L. 10 Dirigere vaglia alla Casa Editrice A. Sommaruga e C. Roma, Via Due Macelli, 3

LA DOMENICA LETTERARIA

DIRETTORE: FERDINANDO MARTINI. COLLABORATORI:

G. Carducci G. Trezza G. D'Annunzio G. Chiarini R. Bonghi E. Panzacchi G. Rigutini M. Lessona G. Boccardo G. Mazzoni ecc. ecc.

Abbonamento annuo Lire Cinque. Un numero separato Centesimi Dieci.

Col 1º aprile è aperto un abbonamento straordinario a tutto dicembre per il prezzo di lire Quattro. Detto abbonamento da diritto alla

Bibliografia per ridere di OLINDO GUERRINI

splendidissimo volume che la casa editrice A. Sommaruga e comp. ha messo in vendita il 5 aprile al prezzo di lire Due.

L'abbonamento annuo cumulativo colla CRONACA BIZANTINA costa lire Quattordici. Tale abbonamento dà diritto alla Bibliografia per ridere e ad un altro premio da scegliersi fra i seguenti:

1. G. Chiarini. Ombre e figure.

2. G. Carducci. Confessioni e Battaglie. (Serie I).

3. — Confessioni e Battaglie. (Serie II).

4. A. Ademollo. C.Lombroso Il Carnevale di Roma nei secoli XVII e XVIII. Due Tribuni.

5. G. Mazzoni. R. De Zerbi Poesie con prefaz. di G. Carducci. Il mio romanzo.

Hanno diritto al premio coloro soltanto che si associano direttamente presso l'Amministrazione della Domenica Letteraria.—ROMA.

Aggiungere 50 cent. per l'affrancazione del premio.

ALTRI LIBRI IN VENDITA PRESSO LA CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.

G. Giordano Zocchi. Saggi d'arte L.    3 —

P. G. Molmenti. Vecchie storie 7 —

P. Valera. Alla conquista del pane 2 —

G. Carducci. Odi barbare 3 —

— Nuove odi barbare 3 —

— Levia Gravia 3 —

— Iuveniliaa 4 —

— G. Garibaldi 1 50

— Nuove poesie 3 —

— Giambi ed epòdi 3 —

— Satana e polemiche sataniche 1 —

— Il canto dell'amore — 50

E. Panzacchi. Teste quadre 3 —

— Liriche 3 —

— Racconti e liriche 3 —

L. Stecchetti. Postuma 3 —

— Nuova polemica 4 —

La Casa Editrice A. SOMMARUGA e C. ha in corso di stampa i seguenti libri:

R. Bonghi. Oræ Subsecivæ.

E. Scarfoglio. La prima femmina. Romanzo.

G. Ferri. Manola. Romanzo.

O. Guerrini. Il Trentanovelle.

G. D'Annunzio. L'albero del male. Romanzo.

A. G. Barrili. Canzoni al vento.

— Sirena

V. Imbriani. Dio ne scampi dagli Orsenigo.

G. Carducci. I trovatori alla corte di Monferrato.

— Vite e ritratti.

— La canzone di Legnano.

— Scatti e Schizzi.

E. Castelnuovo. Il prof. Romualdo.

R. De Zerbi. L'avvelenatrice.