IN EGITTO. LA CACCIA DELLA JENA

IN EGITTO

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LA

Caccia della Jena

PER

MICHELE LESSONA

Iº MIGLIAIO

ROMA Casa Editrice A. Sommaruga e C. 3 — Via Due Macelli — 3. — 1883

Proprietà letteraria. Alla Signora

M. E. C.

I.

Stavamo, al tramonto d'un giorno d'autunno, sul pendio d'una collinetta, una lieta brigata di vostri ospiti; ed io narrava d'un crocchio artistico e letterario torinese, che avea messo nel regolamento il seguente articolo come condizione d'ammissione:

« Art.... Ogni socio, la sera in cui sarà accolto, narrerà in stile sublime la storia della sua vocazione, e in istile dimesso la storia dei suoi primi amori».

Parlammo di primi amori e di ultimi, comparativamente; si cadde d'accordo che convien lasciar soli a narrare i loro amori i poeti capelluti che vivono sulla anatomia patologica del proprio cuore; e di discorso in discorso contrassi il debito con voi di narrarvi qualche avventura mia di viaggio: questo debito vengo ora a pagarvi, come soglio pagar i debiti, tardi.

La scena è in Egitto, a Khankah (non pronunzierete mai bene questo nome se non con una spina di pesce confitta nella gola): siamo al Nord-est del Cairo, una trentina di chilometri discosto dalla gran capitale, un po' meno dal Nilo, sulle sabbie dove comincia il deserto di Gessen, e proprio là dove s'accampano a pernottare, dopo la prima giornata di cammino, le carovane che dal Cairo muovono verso la Mecca.

Dalla parte del villaggio che guarda verso il Cairo, v'ha moschea abbastanza grande e bella; e una delle prime casipole presso la moschea, non meno cadente delle altre, è il caffè. Dentro è una tana buia ove non entra nessuno; fuori, due mattoni ritti con un po' di carbone acceso fan da caminetto; una stoia in terra fa da sedile; una stoia stesa sopra, e il fogliame di un sicomoro, fanno da parasole.

Il gusto di esercitarmi nella lingua del paese e di studiarne i costumi m'avea tratto, verso il tramonto di un bel giorno di ottobre, a quel caffè, e me ne stavo accovacciato sulla stoia presso ai personaggi più segnalati del luogo, il scek beled, o capo del villaggio o sindaco, il cadì o giudice, l'imam o prete della moschea, e qualche altro: essi vestivano l'abito civile del paese, caftan, cintura, babbucce e turbante, quel vestimento che gl'Italiani in Egitto chiamano alla lunga: io vestiva alla nizam, cioè come i zuavi, e portava al petto la mezzaluna ottomana secondo il mio grado militare di capitano aiutante maggiore. Per quelle misteriose vie il mio destino mi guidava alla toga!

Accosto al caffè v'era la bottega del barbiere, e veniva ad ogni tratto qualcuno a farsi radere il capo.

La conversazione era lenta, più il fumare che il parlare; io mandava giù il fumo fragrante che mi veniva dal lungo e tortuoso tubo del narghileh, e teneva gli occhi lungamente fisi a ponente, ove i raggi del sole al tramonto facevano su quella parte del cielo un mare di fuoco, fiammeggiante di vivissima fiamma.

Signora, io aveva allora venticinque anni, e, come il vecchio Schiller, aveva già vedute molte sventure mie ed altrui.

I miei vicini mi scossero, indicandomi un dromedario e un asino che venivano per le sabbie dalla parte del Cairo, portando ciascuno rispettivamente un uomo: il dromedario veniva a passo lento, l'asino di portante e assai celeremente, per tenersi a fianco del suo compagno di via.

I due viaggiatori erano vestiti alla nizam, ma appena si appressarono potemmo scorgere che uno solo dei due era indigeno; l'altro, quando le fattezze non l'avessero detto apertamente subito, si mostrava europeo al modo impacciato con cui portava il suo vestimento, al modo in cui si teneva sul dromedario, allo sfoggio delle armi di cui s'era coperto: schioppo, pistole, scimitarra, cangiar; peggio di un arnauto, dicevano i miei vicini.

Giunti davanti a noi si fermarono, e l'europeo disse con piglio irato all'altro, parlando in lingua francese: — Moammed-effendi, domandate a ces coquins, accennando a noi, dove dimori... — E qui portò la mano destra al costato sinistro come per cercare la tasca toracica del soprabito; poi s'accorse del nuovo vestito senza tasca, frugò nella cintura, ne trasse un portafogli, l'aperse, e leggendo la soprascritta, prosegui... — dove dimori... — e pronunziò il mio nome, cognome, e titoli.

Mentre Mohammed-effendi ci si accostava per interrogarci, il francese proseguiva, brontolando sempre dall'alto del suo dromedario, e guardandoci fisso: — Quelles figures de brigands! Je ne voudrais pas me trouver seul la nuit avec de pareils gredins...

L'altro frattanto ci aveva fatto in arabo la domanda, e subito mi feci io a rispondere nella stessa lingua:

— Proseguite fino al capo opposto del villaggio, poi volgete a destra verso quel grande casamento biancheggiante che vedrete isolato e cinto di un muro; là domandate alla sentinella: sarete introdotti dalla persona cui cercate; e se non la troverete subito in casa, state certi che non tarderà.

Si mossero: il francese intanto mandò un urlo, i miei compagni una risata: quell'urlo, il cipiglio e l'atteggiamento del francese per tutto il tempo della fermata, dicevano troppo chiaro come egli, non avvezzo a stare sul dromedario, avesse dovuto patire una discreta tortura, e quei signori non lasciano sfuggire nessuna occasione di ridere alle spalle di un europeo. Essi erano meravigliati di me, perchè, invece di compiere al sacro debito dell'ospitalità precedendo il mio ospite, l'aveva mandato avanti senza farmi conoscere. Mi avviai bentosto verso casa.

Il francese era seduto sul mio divano, e già servito di limonata, caffè e pipa; fece atto di alzarsi e venirmi incontro, con un gesto ed una faccia che ora mi tornano sempre a mente quando ricordo Gaspare Pieri nello Stordito; ricadde seduto, ed allungando la mano per porgermi la lettera che aveva novamente tratta dal portafogli, sclamò:

— Vi domando mille perdoni, ma quel maledetto animalaccio m'ha abîmé: contava di adagiarmi mollemente fra le due gobbe di un camelo, come le aveva sempre vedute dipinte, e tutte queste sciagurate bestie in Egitto hanno una gobba sola!... Gaetani-bey mi ha dato per voi questa lettera, e questo signore che vedete qui con me è Mohammed-effendi, mio interprete e mia guida.

— Se l'ospitalità, risposi, non fosse sempre sacro dovere, la persona che vi manda è tale per me che io non desidero nulla tanto quanto di potervi compiacere, e farvi star contento in casa mia. Permettete ch'io legga, e voi, Mohammed-effendi, vogliate sedere e continuar a fumare la vostra pipa.

La lettera di Gaetani-bey mi annunziava il signor Oscar Verdier, parigino e letterato.

Mentre io aveva gli occhi sulla lettera, il mio ospite aveva gli occhi su di me, e mi guardava attonito. Finalmente esclamò:

Pardon, monsieur, ma io credo di avervi veduto altra volta: sì certo, la vostra fisonomia non mi giunge nuova.

— La mia fisonomia era tra quelle poche che avete veduto sul caffè all'entrare del villaggio.

Oh charmant, charmant, délicieux! Vi faccio i miei complimenti, vous vous déguisez supérieurement en musulman! Narrerò questo aneddoto, ne farò un capitolo nel mio libro.

— A meraviglia, o signore; ed io avrò caro di sapere qual sarà l'indole del vostro libro, e quale specialmente il genere di curiosità che vi move, e cui debbo il piacere della vostra visita. Ma voglio frenare per ora la mia curiosità, e pensare a voi. Siete probabilmente affamato, certamente stanco e affranto dal viaggio.

— Affamato discretamente, affranto a dismisura.

— La stanza del bagno è all'ordine; non sarete venuto fin qui, nel cuor dell'Egitto, senza avere imparato ad apprezzare il benefizio dei bagni orientali; andrete ora subito in bagno, e le impressioni dolorose della sella si dilegueranno per incanto dalla vostra memoria.

— Dio voglia!

— Poi prenderemo un po' di refezione; poi v'avrete questa sera stessa una sorpresa, un divertimento inaspettato, ch'io non avrei potuto darvi qualunque altro giorno foste capitato qui. Ma non c'è da perder tempo; vedete che annotta: fra un paio d'ore al più dobbiamo esser presti ad uscire di casa.

— Uscir di casa! Vi confesso che in questo momento parmi che, dopo mangiato, il divertimento più piacevole per me sarebbe quello d'andarmene a letto. Ad ogni modo m'affido a voi. Dove andremo?

— Questo è il mio segreto; state tranquillo però, che non sarà che pochi passi discosto da casa, e cavalcherete un buon asinello, che va di portante assai comodo.

— Se son pochi passi, preferisco andare a piedi.

— Farete come meglio vi gusterà. Venite ora al bagno... Mohammed-effendi, soggiunsi poi, volgendomi a quell'altro, che fino a quel punto s'era sempre taciuto, e balzò in piedi alla chiamata, — volete prendere il bagno anche voi?

Io aveva proseguito parlando in francese, ed egli mi rispose parimente:

— Oh mille grazie, io non ne ho bisogno: mentre monsieur prenderà il bagno, io avrò l'onore di favellare con voi.

Mohammed-effendi portava scolpito in volto il tipo del fellah: parlava speditamente francese, e vestiva pulito; io aveva indovinato a un dipresso la sua condizione, ma volli interrogarnelo appena fummo soli.

— La mia storia, egli mi disse, è pari a quella di tanti altri miei compagni di sventura, e nota pei tratti principali a voi, che siete pratico del paese. Io ve la narrerò in poche parole; non sarei così franco con chi non conoscessi, ma, quantunque io vi sia ignoto, molto ho inteso parlare di voi, e so che siete giusto e compassionevole per la mia razza, molto più che non sogliano essere i vostri qui.

Vedete, signora; come il fellah è adulatore!

— Sono nato in Galiub, proseguì Mohammed-effendi, e credo d'avere poco più di vent'anni: non è d'uopo ch'io vi dica che sono figlio d'un fellah. Una notte gli arnauti del vicerè circondarono il villaggio, e sull'alba legarono pel collo tutti gli uomini giovani e adulti per portarli via soldati; era un urlar disperato che saliva alle stelle.

Mia madre, con un bimbo lattante fra le braccia, s'era avvinghiata al collo di mio padre, quando la vidi ad un tratto stramazzare insanguinata a terra per un colpo di kourbak che un arnauto le aveva dato sulla testa. Quest'è la rimembranza più distinta ch'io m'abbia della mia infanzia, e da quel giorno in poi nessuno del villaggio ha più inteso parlar di mio padre.

Vissi qualche anno ignudo sulla sabbia, all'ombra dei lebbakh la state, al sole l'inverno, nudrito di quei datteri e di quegli aranci che la nostra prodiga terra non nega a nessuno de' suoi figli più miseri; quando un giorno fui preso, portato in Cairo, lavato, vestito, e messo ad imparare l'arabo letterale ed il francese nella scuola delle lingue all'Esbekieh. Due anni dopo mi portarono a Parigi a studiare legislazione!

Mohammed Alì vicerè voleva far credere all'Europa che egli sudava ad incivilire il paese. Fece scuole in Egitto, in cui dovè mettere i figli più poveri del povero fellah de' villaggi, perchè nessun turco avrebbe voluto che un figlio suo studiasse le lingue e i libri abborriti de' cristiani. Quindi il vecchio pascià scelse fra noi quelli che avevan meglio imparato il francese, e li mandò a Parigi a far mostra de' loro tarbusci nelle scuole, ne' teatri, nelle passeggiate, nelle feste, in tutti i pubblici luoghi. Eravamo parte d'un vasto programma; e quel gran commediante che ci faceva fare questa parte, e che accudiva con pari studio alle piccole cose come alle grandi, aveva cura di farcela far bene. Ci tenevano lautamente nudriti in Parigi, ben vestiti, ben pagati; ed io vi sono stato sei anni.

Ritornato qui, la mia parte era finita; mentre si faceva credere in Europa che eravamo destinati ad alti impieghi al nostro ritorno, per diffondere la luce della civiltà, nel cui foco avevamo vissuto gli anni della giovinezza, in vero fummo abbandonati tutti: non uno di noi potè avere un pane dal governo, che profonde ai suoi Turchi scimuniti i tesori.

Campo ora la vita facendo da interprete ai viaggiatori, ciò che vuol dire facendo da servo, da cuoco, e peggio. Fossi almeno stato a Londra, e non a Parigi, chè dagli Inglesi sarei pagato meglio e tormentato meno!

— Vi tormenta questo signore con cui siete venuto qui?

— È uno di quelli che tormentano meno, ma mi molesta a furia di domande inconcludenti; gli rispondo quel che mi salta pel capo; scrive tutto, e se farà il suo libro colle mie risposte, sarà un famoso libro!

Feci notare a Mohammed-effendi che ad ogni modo la sua condizione attuale era incomparabilmente migliore di quella che gli sarebbe toccata se avesse continuato a crescere in Galiub; ed egli mi rispose che non si sapeva rassegnare a quel suo stato dopo aver vissuto tanto meglio; poi mi scappò fuori con questa domanda:

— Di qual parte d'Italia siete voi?

— Del Piemonte.

— Ah, Piemonte, capitale Torino.

— Sì, capitale Torino.

— Ditemi, non potreste farmi nominare professore di arabo a Torino? Io parlo un tantino l'italiano....

— A Torino c'è un professore di caldaico e due di sanscrito, ma nessuno finora d'arabo, e il Parlamento non pensa d'istituire cattedre nuove: il deputato Valerio strepita per l'economia. Converrà farvi raccomandare al deputato Brofferio dal poeta Regaldi, che verrà fra breve a visitare l'Egitto...

II.

Il signor Oscar Verdier usci dal bagno: gli s'erano sgranchiate le membra, e malgrado qualche smorfia intermittente che tradiva ancora qualche doglia celata, s'era fatto tutto ilare. Era un bell'uomo in sui trentasei anni, azzimatello; s'era cucito sopra il vestito musulmano il nastrino rosso della legion d'onore.

Egli mi venne narrando, mentre stavamo a mensa, che era stato feuilletoniste, poi vaudevilliste, poi scrittore politico di premiers Paris nei giornali dell'opposizione; che aveva fatto una guerra feroce ai mariages espagnols, e che poi era ritornato al feuilleton; che, scoppiata la rivoluzione del 1848, s'era fatto bello de' suoi meriti come giornalista della opposizione; che questi meriti, in un colla benevolenza che aveva per lui un'attrice d'un piccolo teatro, la quale aveva un grande ascendente sull'animo del ministro della pubblica istruzione, gli avean fruttato une mission in Oriente, e che, visitato l'Egitto, si proponeva d'andare in Soria, poi a Costantinopoli, poi in Grecia, poi ritornare in Francia, e narrare in un libro il suo viaggio.

— Faccio assegnamento su voi, soggiunse, per molte cose, e sovratutto pel capitolo Khankah, che comincerà colla narrazione dello aneddoto dell'avervi incontrato déguisé en musulman all'ingresso del villaggio.

— Un capitolo così ben incominciato, risposi, non potrà a meno di riuscir brioso. Ma spero che vorrete dire qualche cosa di più intorno a Khankah, ed io vi farò parte di tutto il mio poco sapere. In verità mi dispiace che non siate medico o naturalista, chè vi potrei far leggere qualche appunto, e mostrar qualche oggetto non del tutto indegno di destar curiosità.

— Non son medico, nè naturalista: vedo bene che avete qui ogni genere di bestioline en bocal, ma di ciò non mi cale. Chi volesse parlar delle malattie dell'Egitto, non trova forse il bisognevole nel libro di Clot-bey?

— Quegli farebbe meglio a leggere e studiare il prezioso librettino del dottor Pruner sulla topografia medica del Cairo. Eccovelo qui: è scritto in francese, benchè l'autore sia tedesco.

Il dottor Pruner è un tedesco che parla e scrive, come nella lingua sua propria, in quelle d'Europa e d'Oriente; voi lo sentite parlare, con molta proprietà in vocaboli, italiano, francese, spagnuolo, inglese, latino, greco, sanscrito, arabo, turco, ebraico, copto e indostano; e trova tempo ancora a scrivere libri di medicina, e guadagnar centomila franchi l'anno colla pratica medica.

Vedete in questo libretto la bella pianta del Cairo e contorni, incominciata dal signor Baur e, dopo la morte di questo, compiuta da quel tanto dotto quanto modesto colonnello Schultz: non trovereste altrove un cosiffatto lavoro.

— Questo dottor Pruner è ora in Cairo?

— È, ma non lo troverete in casa di Clot-bey: quando aveste vaghezza di farne la conoscenza, io m'onoro della sua amicizia...

— No, no, io non cerco uomini di tal fatta; non amo i Tedeschi, gente senza immaginazione.

— Sentite questo primo brano della prefazione del libro del Pruner, e ditemene il vostro parere:

«Dall'alto della cittadella, al sud-est della città dei califfi, sull'ultimo rialzo del Mokattam, lo sguardo del viaggiatore si posa sulla città e sui suoi contorni. Là l'occhio, abbassandosi, trova un mare di case, per lo più vestite del cupo manto del medio evo, che si confondono in lontananza; alcune tuttavia, pel colore e la costruzione, si dimostrano moderne. Le tante piazze e i giardini che circondano i palagi, paion come isolette in questo oceano, e un infinito numero di minareti si slanciano in una limpidissima atmosfera. Un nastro di eterna verzura s'allarga o si ristringe al lato del fiume, e, presso questa scena di rigogliosa vita, le colline aride e bianchicce del deserto si stendono all'orizzonte coi più antichi monumenti del mondo, le imponenti Piramidi. Scende nell'animo dell'osservatore un sentimento misto di stupore, di ammirazione e di malinconia soave: nella immaginazione sua si confondono lo spazio ed il tempo, e la sua mente risale per un istante alla contemplazione dell'infinito.

«Ma riceve ben altre impressioni l'artista pacifico, che passa nel giorno per le vie della popolosa città, ove tanta folla ad ogni istante s'incrocicchia, si confonde e si separa. Incontrando nello stesso tempo, in un ristrettissimo spazio, gente di ogni razza d'Africa e d'Asia, diversa di lingua, di colore e di abiti, come l'umile coltivatore presso l'altero magistrato, il mendico cencioso presso il commerciante coperto di drappi indiani, l'ebreo attivo, il copto dallo sguardo astuto, e l'osmanli sfolgorante del lusso orientale, e tutta questa gente insieme brulicante e spesso trattenuta o respinta dai cameli e dai carri, si crederebbe di assistere ad una scena del giudizio finale, ed infallantemente l'animo dello spettatore è preso da una specie d'ansietà.

«Infine il medico osservatore, che entra nei palazzi come nelle capanne, è colpito dalla infinità di mali che affliggono una popolazione sì immensa e varia.....»

— Oh! par exemple, sclamò interrompendomi il signor Oscar Verdier, questa è una prefazione che il dottor Pruner s'è fatto fare da qualche francese immaginoso, da qualche homme de style della mia fatta. È nostro ufficio far le prefazioni ai libri dei savants; nè solo ci facciamo la prefazione, ma ci tocca anche ravvivarne l'interno, inverniciarli. Quanta fatica ci costano i savants! Insomma io vi prego de me faire grâce d'ogni ragguaglio di cose di medicina e di storia naturale.

— Non so allora che cosa io vi potrò dire; ad ogni modo, domani, se vorrete, monteremo a cavallo, e andremo a vedere il sito, poco discosto di qui, ove fu la città di Eliopoli; vi porterò al piede dell'obelisco del re Osortasen, importantissima reliquia istorica; è un monumento che risale ai tempi del patriarca Abramo; non vi dico che sia sempre stato in piedi da quell'epoca ed allo stesso sito: sapete che questo Osortasen fu uno degli ultimi re della XVI dinastia, e che dopo questa i tiranni invasori, che costituirono la XVII....

— Vi prego di risparmiarmi le geste de ces messieurs della XVII dinastia, e vi assicuro che non mi do pensiero nè del re di cui avete pronunziato testè il barbaro nomaccio, nè del suo monumento. Tutto ciò, caro mio, è pretta erudizione; abbiamo in Parigi chi vive di questo pane, e lautamente, ma non è il mio.

— Ebbene io vi farò vedere qualche cosa di cui i dotti di Parigi non san nulla, o non sanno quanto so io.

Par exemple!

— Seicento anni or sono, lungo la via che teneste per venir qui dal Cairo, le sabbie del deserto s'erano a un tratto mutate in giardini ridenti, pieni di alberi di Soria carichi di dolcissime frutta. Questa trasformazione veniva per le acque tratte qui dal Nilo per un canale fatto scavare dal sultano Nassir, il qual canale arrivava fino a Siriacusa, proprio qui presso Khankah; in questa città il sultano aveva fatto un grande edifizio, ove teneva permanentemente cento sofi in meditazione, e lungo il canale sorgevano i più magnifici palazzi del sultano e dei suoi emiri.

Quanta fatica ora per ritrovare una traccia delle case di Siriacusa! Come fra cento anni si durerà fatica a trovar traccia di questa bella casa, ove ho il piacere di ospitarvi, e delle belle case vicine, opera di Mohammed-Alì.

Ma riparlando del canale del sultano Nassir, vi dirò che quei vostri dotti di Parigi che hanno letto davvero lo storico arabo Macrisi, vi sapran forse dire che veramente le acque del Nilo vi scesero dentro; ma io vi saprò far vedere il sito ove esse scorrevano, chè io l'ho scoperto nelle mie cacce. Vi farò vedere il corso dell'antico canale e il sito qui presso ove credo stessero i cento sofi in meditazione, e vi narrerò la storia dei quarantatrè anni di regno del sultano Nassir.

— Ma dunque voi siete un erudito?

— Piacemi sapere quel che è avvenuto nel luogo dove dimoro. Volete vedere il campo, che è pure qui presso, ove ai tempi nostri si compirono le gloriose geste di Kléber?

Nullement!....

— Ma dunque?

— Dunque, volete dire, che cosa sono io venuto a cercare qui da voi? Se mi aveste lasciato parlare....

— Mi pare di non aver fatto altro finora.

— No, avete parlato troppo voi di obelischi, di canali e di geste guerresche, di cui nulla mi cale. Io appartengo alla scuola degli uomini immaginosi, les hommes de style; noi mettiamo in disparte la storia, la geografia, la filosofia, le scienze tutte dalla prima all'ultima; coltiviamo lo stile; è nostra cura lavorar la frase, farla sibilar col vento, mugghiar col torrente, ruggir col leone, brillare con le stelle, splendere col sole e lampeggiar col baleno. Comprenez-vous?

— Poco.

— È giusto. Sappiate adunque ch'io cerco nel mio viaggio avventure, e che il fatto dell'avervi incontrato all'entrata del villaggio déguisé en musulman, e d'avervi dato del brigand senza conoscervi, è pel futuro mio libro tal tesoro, che non darei per la storia di tutti i re egiziani di tutte le dinastie. Voi siete cacciatore.

— Sono.

— Io vi prego di farmi fare la caccia della jena; questo è lo scopo della mia venuta qui: ma badate di lasciarmela fare a modo mio; l'ho già scritta in gran parte, e capite bene che deve avvenire quale io l'ho scritta: lasciatemi adunque dirigere la cosa, e siate pago di secondarmi ed accompagnarmi.

— Sia pure, ma permettete che di questo parliamo domattina. È tempo ora che vi dica qual è la sorpresa che vi aspetta questa sera. L' attâr del villaggio, o droghiere, che è pur farmacista, medico, chirurgo e qualche altra cosa, dà questa notte una fantasia in onore delle sue nozze; quel vecchione s'è annoiato della moglie che aveva da dieci anni, e le mette accanto una sposa giovinetta: non fate quel viso lieto; questa sposa non la vedrete; ma vedrete scene nuove per voi, buon materiale pel capitolo del vostro libro su Khankah.

Andiamo.

III.

Nella casa del vecchio attâr gli uomini invitati stavan tutti in cortile, le donne confinate in casa. Il cortile era in parte coperto da un telone quadrilungo, attaccato per due lati al muro, e per gli altri due sorretto da pali, e illuminato sotto da lumicini di vetro ad olio, sospesi a fili di ferro; qui stavano gli invitati rannicchiati in fila lungo il muro, sopra una stoia, tutti colla pipa alla bocca; bei turbanti, bei profili, belle barbe nere o biancheggianti.

Io sapeva di non far cosa grata nè all' attâr nè ai suoi amici portando meco un europeo, ma sapeva pure che me l'avrebbero perdonato. Il padrone di casa mi venne incontro, accolse cortesemente il francese e Mohammed-effendi, e ci portò ad accovacciarci presso gli altri: c'eran tutti gli amici del caffè: il povero compagno mio non sapeva acconciar le gambe sulla stoia a mo' degli altri, e il padrone gli fece portare un cuscino, della qual cortesia io stesso rimasi meravigliato. Non eravamo ancor fermi, che già ci avean dato pipa e caffè.

La festa era incominciata: al nostro arrivo si rappresentava una sorta di scena o dialogo improvvisato fra due giovani del villaggio, di cui uno, armato di scimitarra, pistole e kurbak, rappresentava il turco che viene a riscuotere il tributo, e l'altro, col suo consueto vestimento, il fellah che deve pagare. Quello che faceva da turco contrafaceva il parlare arabo coll'accento e colle storpiature dei dominatori, ed imitava i portamenti, i gesti, l'incesso di questi. Il fellah si pigliava grandi colpi di kurbak sulla schiena, e si sfiatava a protestare, strillando, che avea pagato tutto il tributo dell'anno, e non gli restava un parà. Il finto turco ripigliava che, se aveva pagato il tributo suo, gli rimaneva pur da pagare quello di un vicino che era fuggito, e di un altro vicino cui il Nilo aveva portato via il campo, e che il governo non deve mai perdere; e seguitava a battere. Il dialogo procedeva frizzante e incalzantissimo, e turchi ed arabi presenti si smascellavano dalle risa.

S'intese ad un tratto un cinguettìo di voci femminine dalla parte della casa, i due filodrammatici disparvero, e tutti i visi si rivolsero da quella parte: la cantatrice stava per dar cominciamento al suo canto. Noi non vedevamo che una gran tela; dietro, sopra una specie di palco scenico nascosto, s'era allogata la cantatrice col suo coro, in modo che il canto si potesse sentire ugualmente dalla casa e dal cortile. La tela non s'alzò, ma dietro salì per l'aria il malinconico maual della cantatrice: il coro ne ripetè le ultime note, e i tocchi del tar o tamburello annunziarono che la canzone era finita.

— Come mai potete gustare una tal sorta di cantilena? mi disse il sig. Oscar, che m'avea visto tutt'orecchi.

— Capisco, risposi, come, avvezzo alle musiche d'Europa, voi non possiate a tutta prima gustar questo canto, e vi faccia meraviglia la mia ammirazione, e quella ben più viva che vedete scolpita qui su tutti i volti; ma se foste da qualche tempo in questo paese, vi assicuro che ne provereste ben altro effetto; tanto più se vi fosse inteso il senso di queste canzoni.

— E quale è il senso della canzone testè cantata?

— Eccovelo: è una donna che si lagna della morte del suo amante:

«Quale profumo dell'Arabia Felice, qual fiore del giardino dei genii, qual voluttà di giovinezza è più dolce della tua rimembranza, o amante mio, o mio diletto? Chi mi sa dire se col dileguarsi del nostro ultimo dì si ritrovano nel soggiorno del riposo eterno le persone amate e le gioie ineffabili dei tempi trascorsi? O caravane celesti! o angioli consolatori! fateci sentire le melodie con cui incantate i cieli. Diteci, diteci se Colui che nella sua sapienza ci strappò quaggiù l'uno dall'altro, ha possanza di riunirci in cielo».

La cantatrice cantò dipoi due altre canzoni, sempre seguite ciascuna dal canto in coro e dai tocchi del tar: la prima era lamento di schiava amata, poi negletta e venduta; la seconda, imprecazione d'amante derelitta. Le venni traducendo al mio compagno così:

«Tu mi hai respinta. Ciò era scritto. Io ti aspetterò, ingrato, finchè tu abbia fatto il giro del mondo, e trovata una schiava che abbia cura di te e ti ami d'un amore pari al mio. Intanto tu vai errando con un branco di vagabondi così varii che rassomigliano ad una scatola piena di fili di seta d'ogni colore! Allah ti soccorra! Tu mi hai lasciata per un branco di stranieri vigliacchi; ma l'anima mia non ti abbandonerà mai. Non sarei già io quella che t'avrei venduto per oro: tu m'hai venduta per un fuscellino di paglia».

— Ecco l'imprecazione:

«Ho pianto quando l'amante mio s'allontanò da' miei occhi; poi, silenziosa e coll'occhio asciutto, mi lasciai divorar dal dolore. Oh se ti potessi afferrare, te cui maledico, nemico feroce, che hai separato quelli che si amavano, ti imprigionerei frammezzo a giunchi secchi; io arderei le tue viscere, e spargerei ai venti, colla mia propria mano, le tue ceneri impure».

Dopo qualche altra canzone, la cantatrice si tacque, e vennero limonate, caffè, pipe, mentre gli uditori facevano i loro commenti.

— Chi è quel drôle, domandò il signor Oscar, che si muove con un piattello in mano in atto di domandar l'elemosina?

— Gli è un servo della cantatrice, che raccoglie l'offerta del pubblico.

— Ma la cantatrice non è pagata dal padrone di casa? Tocca a noi a pagarci la festa?

— La cantatrice è pagata dal padrone di casa, ma è uso che invochi pure la generosità degli invitati.

— E che sono queste grida?

— Il servo che raccoglie il danaro dice man mano il nome di chi dà e la somma data e, quando questa è discreta, il coro dietro la tela manda un grido di ringraziamento.

— E conviene dar molto?

— Domandatene a Mohammed-effendi vostro interprete.

L'interprete insegnò al francese una gherminella per dar poco e parer generoso.

— Date a me, diss'egli, una moneta da mettere per voi nel piattello, poi datemene un'altra da far scivolar nella mano del servo, e questo griderà che avete dato dieci volte tanto che non è realmente.

Riprese il canto: siccome le canzoni precedenti erano state quasi tutte in onore degli uomini, così le seguenti furono quasi tutte in onore delle donne: eccone alcune fra quelle di cui venni dicendo il senso al mio vicino:

«Quando passi pei solitari sentieri del tuo incantato giardino, e levi, per godere il rezzo, il velo misterioso che copre la tua inebriante bellezza, il rosignolo rapito sospende il suo lagno d'amore, e la rosa, la sua sposa adorata, è gelosa della tua beltà. I giunchi del ruscello s'incurvano al tuo passaggio con murmure melodioso. Il sole stesso par prodigo a te di carezze amorose. Come mai il mio cuore non languirebbe per te? Gli sguardi tuoi celesti rapiscono, le tue parole incantano, più dolci del raggio delle notti; i baci tuoi inebriano; le tue carezze fanno morire. O maraviglia della bellezza! nulla prima di te, nulla dopo di te».

«Viene verso noi colei che tutti gli uomini adorano. Il velo pudico ricopre il suo volto, ma al suo appressarsi tutti i cuori si commovono, e fremono di tenerezza. La sua pieghevole e svelta persona è fatta per ingelosire il ramo più flessibile dell'oasi dei palmizi. Eccola: essa leva il velo geloso che nascondeva le sue divine fattezze. Tutti gli uomini della valle gridano rapiti: — È questo un baleno celeste che brilla ai nostri occhi, o sono i fuochi della carovana nel deserto che splendono nella notte?»

La canzone seguente destò grande entusiasmo nell'uditorio:

«La tua snella persona, o mia diletta, s'è fatta svelta e graziosa come lo stelo del giglio. Il momento è venuto di scordare nelle gioie dell'amore il tempo che fugge, che fugge senza posa. Non respingere la tenerezza dalla soglia misteriosa de' tuoi favori; perchè, credi, la giovinezza passa come un olezzo portato via dalla brezza. La donna è un essere labile, come ogni cosa quaggiù, e nessuno ha possanza di rendere eterno l'impero della bellezza».

Il maual che venne dopo, era fatto per muovere altri affetti:

«Te ne vai rapido come il vento nel deserto, te ne vai verso la valle, o mio pensiero, o anima mia! Così, fendendo coll'ala il limpido cielo di Bagdad, sopra i giardini fioriti del califfo, l'azzurra colomba, colpita nel volo dalla perfida saetta del cacciatore, fa uno sforzo supremo per portare la sua ferita e il suo ultimo sospiro nel nido odoroso, ove l'attende il suo diletto; così, cattiva in strania terra, la generosa giumenta del Nezdi, triste e stanca, aspira a piene nari il vento del deserto, e riconoscendo a un tratto le fragranze della sua patria, rompe i lacci per volare, attraverso alle solitudini, verso la prateria ove saltellano le sue compagne, verso le tende risonanti dei preparativi della battaglia; così tu vai, o pensiero mio, vai verso la valle, ove ho lasciato la mia diletta; vai verso le tende dei nostri padri, ove i capi delle tribù, assisi all'ombra ospitale dei palmizi, m'aspettan forse perch'io racconti loro le geste maravigliose di Antar, o perchè io muova con loro alla battaglia. Te ne vai, o pensiero mio! Mentre io resto qui, sulla soglia della casa straniera, gli occhi fisi al cielo che vorrei varcare, per andare dove tu vai, o mio pensiero, o anima mia».

A questo mestissimo canto tenne subito dietro un grido trionfante d'amore avventurato.

«La sua persona è pieghevole e delicata. Le ciglia de' suoi occhi spirano languidezza. La grazia e la voluttà trapelano dalle sue vestimenta gelose. Perdio, che vaga e fiera beltà! Essa mi venne a trovare al tramonto, sparsa la guancia di mille rose. Come non le avrei dato io prova dell'amor mio? Perdio, che vaga e fiera beltà!»

Il letterato parigino trovava esagerato l'entusiasmo degli uditori ed il mio, ed io gli faceva notare essere impossibile che dalla mia povera traduzione si potesse fare un concetto di quella poesia.

— Ma insomma, mi diss'egli, siamo noi condannati a sentire soltanto questa signora senza poterla vedere? Se questo vecchio tien nascosta la sposa e le sue amiche, sarà ugualmente severo riguardo alla cantatrice e al suo coro?

— Nessun maggior disonore per una donna musulmana oltre a quello di mostrare scoperto il viso ad un uomo che non sia suo marito: le sole ballerine ciò fanno; non isperate di veder viso di donna musulmana non ballerina.

— Questo mi dice pure Mohammed-effendi; gli ho domandato tante volte se fosse possibile, per danaro, entrare di soppiatto in un harem, e sempre mi rispose negando.

— Mohammed-effendi è galantuomo; un altro v'avrebbe preso il danaro, e condotto in casa di ballerine, facendovi credere di avervi portato in un harem....

Cependant....

— Credete a me, astenetevi dal fare altrui una simile domanda, se non volete andare incontro a qualche brutto risico.

Intanto la cantatrice cantò un maual, che fece rivolgere a noi gli occhi di tutta l'assemblea. Il francese mi domandò che cosa ciò significasse, ed io gli dissi che il senso del maual era il seguente:

«Il mio diletto copre il suo capo con un cappello. Il suo calzone è adorno di nodi e di cappi. Io lo volli abbracciare, ed egli mi disse in italiano: Aspetta.

«Abbracciami adunque, gli risposi; abbracciami, o tu dalla dolcissima favella — Allah mi guardi da colui che ha gli occhi di gazzella! Ah! quanto è dolce la sua favella italiana!»

— Ma questo, sclamò egli, è un complimento a brûle-pourpoint fatto a voi.

— È un complimento fatto ad entrambi; la canzone parla d'amante italiano, perchè la lingua italiana è più popolare di ogni altra in Levante, anche oggidì; la cantatrice sa che siam qui, e ci ha voluto ringraziare prima di riposarsi, come fa ora.

Un suono improvviso s'intese dalla parte del cortile opposta a quella dove era la cantatrice, e tutti si rivolsero con lieto susurro da quella parte: un uomo soffiava in una sorta di cornamusa, un altro accompagnava battendo la tarabukah.

— Che cosa vuol dir ciò? mi domandò il francese.

— Vedrete.

Una donna giovane e bella, scoperto il viso, impudicamente vestita all'orientale, sbucò di colpo di là d'onde veniva il suono e, scotendo fra le mani un tamburello coi sonagli, si precipitò come un turbine in mezzo all'assemblea, e ristette immobile.

Signora, una ballerina araba non è descrivibile. Tutto quello che vi posso dire si è che il suo ballo è fatto d'una serie d'atteggiamenti e di movenze, or lente e languidamente molli, ora vibrate e turbinose, secondate dallo scoppiettìo delle nacchere, e che essa si mette davanti ad uno degli spettatori, balla un tratto, poi abbandona quello, e va a ballare da un altro. Da ciò è nato fra gli Arabi un grazioso proverbio, a significare la mutabilità delle sorti umane.

— Il mondo, dicono essi, è come una ballerina; or balla davanti a questo, or davanti a quello.

Ma la ballerina non si stacca da quello davanti a cui ha ballato, senza che esso le abbia fatto un regalo: sogliono quei signori trar di borsa una monetina d'oro, d'argento o di rame, secondo la varia fortuna, la bagnano da una parte sulla loro lingua, poi la appiccicano alla fronte, alla guancia, al petto della ballerina: questa torna più sovente a chi abbia appiccicata la moneta di maggior valore.

Il mio compagno francese appiccicò a quella quanta moneta aveva nel borsello, poi ce ne tornammo a casa: egli non rifiniva di parlarmi della ballerina. Quando fu a letto, introdussi con cura il lembo della zanzariera sotto i suoi materassi.

— Fate di non movere questo cortinaggio, dissi; se no, lasciato uno spiraglio da qualunque parte, avrete una notte infernale, e domani il viso doppio per la gonfiezza.

— C'est bon, rispose di dentro alla zanzariera, c'est bon: ma tant'è, avete un bel dire, non lascerò l'Egitto sans m'être fourré dans un harem.

IV.

Stavo aspettando al mattino che il mio ospite parigino si svegliasse, quando a un tratto sentii lo sparo d'una pistola nella sua stanza. Corsi, e lo trovai seduto sul letto, la pistola ancor fumante nella mano, la zanzariera dietro le spalle, lo sguardo a terra verso un angolo, ove si attorcigliava un serpente insanguinato.

— Vedete, gridò, da quale pericolo ho saputo scamparmi! M'avete messo a dormire nella vostra stanza di studio, ed io, svegliato testè, stava guardando macchinalmente attraverso la zanzariera i vostri libri e queste pelli di uccelli e queste bocce, che ingombrano i tavolini, piene di animali nello spirito di vino, mentre mi ballava sempre nella mente la ballerina di ieri a notte, quando, chinati a caso gli occhi, vidi strisciar tacitamente a terra lungo il muro quella bestiaccia viva: afferrar le pistole che avevo sotto il guanciale e colpirla fu un punto solo: buon per me che ho imbroccato!

— Avete ucciso un innocente animale, che da molto tempo mi faceva buona compagnia!

Merci de la compagnie! Quello è un animale innocente?

— Innocentissimo! non v'è casa nel villaggio che non abbia il suo serpe familiare, tenuto di buon augurio, come le rondini dai contadini nel villaggio mio. Questo povero animale prediligeva la mia stanza di studio, e sovente mi veniva strisciando amorevolmente intorno ai piedi, mentre io me ne stava a tavolino. Il solo difetto ch'io gli abbia dovuto rimproverare, fu quello d'esser ghiotto dei teneri piccioni e delle uova di questi uccelli: mandava giù tutto, i piccioncini colle piume.

— E digeriva?

— A meraviglia; ma imparai a tenerlo lontano dalla piccionaia, spargendo sul suolo la lavatura delle pipe; d'allora in poi fu pago della caccia dei topi e degli uccelletti nei nidi sulle acacie del giardino. Ora non lo posso neppur mettere nell'alcool od in pelle, tanto l'avete disfatto col vostro colpo.

— Quando è così, mi dispiace di averlo ucciso; ma davvero è una singolar compagnia!

— Buon per me che non avete veduto quel camaleonte che è sull'alto della finestra, e due lucertoloni del deserto che mi sono carissimi, e per fortuna han passato questa notte in un'altra stanza.

— Ma voi avete in casa l'arca di Noè!

Feci portar via il serpente, e portare il caffè al mio ospite.

— Ditemi, proseguì egli centellando, non temete che coi serpi innocui scivoli talora qualche serpe velenoso in casa vostra?

— Nelle case vengono solo, e son reale pericolo, gli scorpioni. Eccone uno che non vi farà più paura, nell'alcool: se avete veduto così fatti animali nel vostro paese, ove si trovano nelle parti più meridionali ed orientali, troverete che questo è foggiato sullo stesso stampo, ma più grosso: la sua puntura è dolorosissima, ma non tanto pericolosa quanto si dice.

— Avete trovato talvolta scorpioni in questa casa?

— Sovente; si cacciano sotto le stoie, negli armadi, nei letti, anche nelle vestimenta: ma sapendo tal cosa, ogni giorno si fa un'ispezione diligente e circospetta, e si scansa un pericolo.

Drôle de pays tout de même, ove convien fasciarsi il viso per salvarsi dalle zanzare, gli scorpioni passeggiano per la casa la canne à la main, e i serpenti girondolano intorno ai piedi! Ma, vi ripeto la mia domanda, non avete serpenti velenosi qui d'intorno?

— Ne abbiamo, e non pochi. Eccovene nell'alcool; questa è la cerasta, o vipera dai cornetti; questa piccina la vipera delle piramidi; vedete la naja haje, che si fa sì gonfio il collo, e da cui, per darsi morte, si è fatto mordere il bel seno la regina Cleopatra. Stanno queste serpi tutte qui d'intorno, ma non ho mai sentito che siasene visto una nelle case del villaggio: alcune trovansi sulle sabbie del deserto; altre pei campi; ma non s'avventano all'uomo, paghe di guardarlo se non le tocca. Ho veduto più gente morsicata dalle vipere nelle alpi piemontesi che non qui: questi Arabi prendon con isveltezza le serpi più velenose per la coda, e staccanle di colpo da terra: per quanto il serpente si rivoltoli, non arriva col capo alla mano che tien la coda. I serpenti velenosi che vedete qui, li ho avuti tutti vivi.

— Non vorrei vederne io vivi, e se ne viene qualcuno oggi, vi prego di confinarlo fuori sino a domani.

— Non avete veduto mai per le strade del Cairo i giocolieri coi serpenti vivi?

— No.

— Fate di vedere, che è spettacolo curioso.

— E questi pesci che cosa sono? mi domandò interrompendomi il francese.

— Sono pesci elettrici del Nilo: me li portò dal Cairo il dottor Diamanti, il quale, venuto in Egitto per incarico del Matteucci a studiare l'anatomia di così fatti pesci, fece come il corvo, non ritornò più all'arca universitaria di Pisa. Egli vien talora a consolarmi di qualche sua visita, e non vi posso dir quanto io glie ne sia grato.

— Come si chiamano le bestioline che voi avete infilzate sotto questo vetro?

— Si chiamano coleotteri.

— Questo sapeva, me ne fu parlato in collegio. Vi domando i singoli nomi.

— Ecco due specie di Copris: il Copris isidis e il Copris sesostris: qui è l' Aleucus sacer, e lì vicino l' Aleucus ægyptiorum; questo si chiama Prionotecha coronata, quell'altro Heteracantha depressa....

— Basta, basta!

— Dunque venite con me in giardino: vi farò vedere qualche animale vivo, un fenicottero, una rossetta, un icneumone, una piccola lince, due gazzelle; poi faremo l'asciolvere.

— Come passa qui la giornata un uomo che non abbia nulla da fare?

Così m'interrogava il mio ospite, fumando la pipa sdraiato sul divano, dopo alcuni vani tentativi per fumare il narghileh, come fumava io.

— La passa, risposi, orizzontalmente, e si distrae colla pipa e col caffè.

— E la sera?

— La sera va a letto quando il moazino intona il canto dell'Aesce, cioè un'ora e mezzo dopo il tramonto.

— Che vita!

— Caro signore, io credo che chi non ha nulla da fare passi la sua giornata male in ogni parte della terra.

— Ah! de la morale!... Ditemi un poco, per parlar d'altro, perchè avete messo una rete ad ogni vostra finestra, ed una alla porta?

— Ciò feci per tener fuori le mosche.

— Come! le mosche non passano attraverso la rete? Ma le maglie di queste vostre reti sono tali, che tre mosche ad ali aperte v'entrerebbero insieme!

— Sì, e ciò non ostante non entrano, purchè non siano due finestre o la porta e la finestra aperta l'una in faccia all'altra; quest'uso è qui antichissimo, e ve lo trovò già Erodoto.

— Per esempio, ciò solletica tutta la mia curiosità, e sarà bella novità del mio libro.

— In Francia ne parlerete primo, e un anno fa ne avreste parlato primo in tutta Europa; ora sarete stato preceduto in Inghilterra dal dottor Spence, che da poco ne lesse una memoria alla Società entomologica di Londra, dicendo di aver imparato questo metodo da un signore fiorentino che gli raccontò averlo veduto in atto in un convento presso Firenze, e averlo inteso lodato da un pittore romano, che con esso avea il doppio vantaggio di lavorare colle finestre aperte senza la molestia delle mosche e di non aver guasti i suoi quadri da questi importuni insetti. Dopo la lettura del dottor Spence, il dottor Stanley fece una serie di sperimenti con varie sorta di reti, e trovò che anche quando i fili son sottilissimi, le mosche pur non passano. Egli cercò di darsi ragione di questo fatto, e pensò che le mosche si spaventino delle reti scambiandole per tele di ragno.

— Mi pare che se le mosche avessero tanta paura delle tele di ragno, non c'incapperebbero così sovente.

— Quest'è quel che disse il dottor Spence, il quale considera la avversione delle mosche per le reti siccome dipendente dalla struttura particolare dell'occhio della mosca, che le farebbe vedere in ogni filo una successione d'ostacoli aumentati e moltiplicati dalla rapidità del volo.

— Oh, lasciamo la spiegazione in disparte, se non vi dispiace. Quello che mi preme è la certezza del fatto. Dunque voi mi assicurate che con tal semplicissimo mezzo questi molesti insetti sont consignés à la porte?

Ils sont consignés à la croisée.

— Vivaddio, ecco la prima spiritosaggine che vi vien detta. Ma è tempo che vi parli dello scopo principale della mia venuta, dacchè non me ne domandate, e appena me ne avete lasciato dire una parola ieri.

— Mi avete espresso il desiderio di fare la caccia della jena.

— Sì, ma a condizione che me la lasciate fare a modo mio.

— Sia pure.

— V'han jene nel vicinato?

— Molte: stan sul confine del deserto, e rendono a questo villaggio un segnalato servigio divorando i cani morti, e anche un tantino i cadaveri umani nei cimiteri.

— Che cosa direste se nel mio libro facessi un'invettiva contro le jene, per questa loro profanazione? Non vi par tema un po' vecchio?

— Mi pare, e credo che fareste meglio a dimostrare, che finchè gli Orientali non si daranno cura di seppellire un po' meglio i loro morti, è bene che le jene facciano quello che fanno.

— Ma le jene non sono anche paurose per gli uomini vivi?

— Qui non sono: esse fuggono dall'uomo. Un capo ameno di questo villaggio fece una volta scommessa di uccidere una jena senz'armi, strozzandola colle mani; si sdraiò la notte in campagna, facendo il morto, e una jena si avvicinò sino a fiutargli i piedi; egli allora sorse in un tratto, e le si slanciò sopra; ma essa non gli diede tempo, e fuggì. Se un giorno andrete in Algeria, vedrete come là pure, sì dagli Arabi come dai Francesi, sia poco temuta la jena.

— Sentite! V'ho detto che voglio fare una caccia a modo mio, e che anzi l'ho già descritta quale deve avvenire: ma vorrei pure mettere nel mio libro qualche cosa di nuovo, di interessante intorno alla jena.

— Di nuovo anche pei naturalisti?

— Sì, se fosse possibile.

— Mettete i brani genuini di Plinio e di Aristotele, ove questi autori parlano della jena.

— E questo sarà nuovo pei naturalisti?

— Novissimo: ecco qui Plinio colle aggiunte zoologiche di Cuvier: ecco Aristotele; non ho la traduzione francese di Camus, ma questa edizione col testo greco da una parte e la traduzione latina dall'altra.

— La cosa più strana che direi nel mio libro, sarebbe quella d'aver letto Plinio e Aristotele a Khankah: ma senza costringermi a sentire questi brani, ditemene voi in succinto il contenuto.

— Plinio dice molte stranezze credute ai suoi tempi, ed è citato da tutti gli autori moderni: parla dell'ermafrodismo della jena, della sua imitazione del vomito e della voce umana, dice che ha la colonna vertebrale tutta d'un pezzo, che la sua ombra fa muti i cani, che ogni animale cui abbia girato intorno tre volte diventa immobile, e che colla leonessa fa un prodotto spurio chiamato corocotta, strana bestia, chè fra le altre singolarità avrebbe, senza gengive, invece di denti un osso in cerchio. E non s'accorge di aver dato prima lo stesso nome di corocotta ad un altro animale, non meno strano, che egli dice venuto dal cane e dal lupo. Aristotele parla della jena quattro volte nelle sue opere: nella storia degli animali ne parla due volte, e una nei libri della generazione degli animali; fa vedere il motivo per cui si crede falsamente questo animale ermafrodito, e dà della jena una descrizione assai esatta. Egli dice che si prendono molto più jene maschi che non femmine, dacchè un cacciatore gli ha narrato d'aver trovato, in undici di questi animali, una femmina sola. In un altro libro, assai men letto, e che non è certo che sia suo, ove il grande filosofo non la fa più da osservatore, ma parla delle mirabili cose che si sentono dire, narra la storiella dell'azione dell'ombra della jena.

— Non mi pare che tutto questo debba essere molto dilettevole.

— Allora parlate della prima comparsa della jena in Europa sotto l'imperatore Gordiano, oppur delle jene fossili scoperte anche in America.

— Peggio che mai. Vedo che convien ch'io dipinga maestrevolmente la mia caccia, perchè il capitolo mi riesca brillante.

— Ma si può sapere finalmente come la volete fare, questa caccia?

— Voglio legare una pecora ad un palo nei siti ove la jena suol venire di notte, e voglio che noi ci appiattiamo per tirarle sopra. Questa stessa notte dobbiamo farlo; non mi dite di no, se no andrò solo.

— Se andaste solo, avreste una grande probabilità d'essere spogliato ed ammazzato dai Beduini, poi mangiato dalla jena la notte seguente. Ma io disporrò le cose per bene. Farò venire un beduino con noi, e così saremo sicuri; a voi darò, in luogo del vostro schioppo, la mia carabina; andremo a legar la pecora e passar la notte sotto un palmeto alla distanza di un'ora di qui: ma la jena non verrà a mangiare la pecora viva.

— Oh verrà certo, non dubitate...

Mentre stavamo così parlando, il sole si oscurò a un tratto; ed allora appena il moazino aveva finito di cantare il canto dell'Asser, cioè erano le tre pomeridiane.

— È un nuvolone che passa, mi disse il mio interlocutore.

Andai fuori, e bentosto lo chiamai perchè venisse a vedere la cagione di quell'improvviso abbuiarsi del sole: era uno stormo innumerevole di cavallette, le famose cavallette d'Egitto, che passavan volando: fecero velo al sole per un'ora.

Era la notte splendida di stelle, e stavamo sdraiati, fumando la pipa, sotto il palmeto: la pecora legata al palo, poco discosto da noi, si divincolava mandando gridi lamentevoli.

— Sentite, dissi al signor Oscar, io mi voglio sdraiare sulla stoia, e addormentarmi, come già hanno fatto il vostro interprete e il beduino: voi guardate le stelle, fate un'ode, se vi riesce, e quando vedete la jena svegliatemi. Buona notte.

Il lamento della povera pecora mi suonò negli orecchi finchè m'addormentai.

Non s'era ancor desta l'alba quando mi svegliai e volsi gli occhi intorno a me. Il signor Oscar Verdier dormiva, Mohammed-effendi dormiva, il beduino dormiva.

Guardai dalla parte dove avevamo legato la povera pecora, che mi aveva tanto impietosito.

La pecora dormiva.

Il signor Oscar Verdier morì un mese dopo, assassinato una notte in Alessandria da due Greci, che lo trassero in trappola, promettendogli d'introdurlo in un harem. Il console generale di Francia andò in furia. Il bascià promise una splendida riparazione, e disse al capo della polizia che se prima di mezzogiorno giustizia non fosse fatta, egli avrebbe fatto mozzare a lui la testa. Il capo della polizia mandò a prendere un fellah, e lo fece impiccare immediatamente.

Il console di Francia si dichiarò soddisfatto.