Lucrezio —Saggio critico-filosofico-letterario L. 2—

La causale a delinquere » 3—

Della responsabilità civile a seguito di un giudicato di assoluzione penale » 1—

Delle condizioni attuali del periodo istruttorio nella Legislazione penale italiana e delle riforme di cui avrebbe bisogno » 2—

Trattato di Codice penale italiano —Parte I. Dei reati e delle pene in generale » 6—

Il processo penale indiziario —Libri due » 3—

La premeditazione —Libri due » 5—

Del resto di ingiurie secondo il Diritto romano » 1—

Macbeth —Studio di psicologia penale » 1—

Schiller - Ibsen —Studî di psicologia penale » 2—

La coscienza criminosa —Studio psicologico-giuridico » 3—

Avv. MICHELE LONGO

Professore di Diritto e Procedura penale presso la R. Università di Napoli

PSICOLOGIA CRIMINALE

TORINO

FRATELLI BOCCA, EDITORI

Librai di S. M. Il Re d’Italia

ROMA Corso Umberto I, 216-17 MILANO Corso Vitt. Eman., 21 FIRENZE (F. Lumachi Succ.) Via Cerretani, 8

Deposit. gener. per la Sicilia: O. FIORENZA. Palermo Dep. gen. per Napoli e Prov.: SOCIETÀ EDITRICE LIBRARIA, Napoli

1906

Proprietà Letteraria

N. 10217—Stab. Tip. Torinese, via Ormea, 3.

ALLA SACRA MEMORIA

DELL’AVVOCATO

RAFFAELE JUSO

1906.

PREFAZIONE

Il lettore che, per avventura, abbia conoscenza delle precedenti mie pubblicazioni, vedrà subito, scorrendo questo libro, che in esso io ho voluto sistematizzare le sparse nozioni di Psicologia criminale, dando loro una forma organica.

Convinto, dopo lunga ed assidua meditazione, che qualunque branca dello scibile debba riconnettersi alla cognizione unitaria scientifica, la cui più esatta ed elevata sintesi è racchiusa nel Monismo, ho creduto non ingannarmi col risolvere il problema soggettivo del delitto mediante teorie le quali ritraggono del processo dinamico di tutti i fenomeni della natura, dagli inorganici agli organici e da questi agli umani. È così che il còmpito del giudice si spoglia di tutto ciò che fittizio son venuto creando vecchi errori metafisici, tradizionali preoccupazioni sociali; ed è così, benanche, che il diritto di punire rientra nel progresso evolutivo a cui tutte le discipline tendono ad avvicinarsi, in teoria ed in pratica. Se non che, questo libro non contiene che la parte generale o fondamentale della psicologia criminale. Perchè le nozioni in esso svolte abbiano più evidente dimostrazione, è necessario che a questo seguano altri due lavori; un trattato di Psicologia criminale etnologica, col fine di studiare l’azione delle forze ambienti sulla genesi e lo sviluppo del delitto; ed un trattato di Psicologia criminale speciale, che esamini per ciascuna categoria di fatti l’evento soggettivo criminoso.

Spero che l’accoglienza, che io mi auguro per questi miei studî, mi sia conforto, in avvenire, a novelli sforzi e più meritevoli.

Lucera, 9 dicembre 1905.

M. Longo.

INTRODUZIONE

1. Contenuto scientifico della psicologia criminale.—2. Processo di distinzione di qualunque fenomeno; formazione naturale del pensiero.—3. Come sorge l’evento psichico del dato giuridico punitivo.—4. Genesi della sanzione sociale; concetto del dolo nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei popoli.—5. Cenno storico dello studio psico-fisiologico del delinquente.—6. Gli odierni scrittori delle differenti discipline intorno al delinquente.—7. Stadio integrativo della psicologia criminale.—8. La teoria dinamica criminale fondamento degli studi psicologici del delinquente; precedenti scientifici in Romagnosi ed in Carmignani.

1. —La psicologia criminale è una branca distinta della psicologia comune e della scienza del diritto di punire. La psicologia comune insegna le leggi del pensiero o le leggi della formazione naturale della coscienza; la scienza punitiva si occupa della genesi giuridica del reato e delle norme legislative per prevenirlo e reprimerlo. Dall’accordo ultimo dei principî, che regolano la produzione e la evoluzione dei fenomeni psichici, con quelli inerenti al fenomeno del delitto, nasce la psicologia criminale il cui contenuto scientifico è nel complesso delle leggi che presiedono alla formazione psichica del fenomeno del delitto considerato dal duplice aspetto di processo evolutivo e di processo dissolutivo. La trattazione della materia assunta darà la spiegazione di quanto per ora enunciamo.—Ma come la psicologia criminale è nata e quali sono i suoi limiti di svolgimento?

2. —Qualunque fenomeno progressivo, quello del pensiero compreso, non è che distinzione operata su precedenti fenomeni meno distinti. Dalla formazione naturale del sistema solare alle più alte manifestazioni della umana intelligenza il principio è costante e si concreta nell’accrescimento di precisione e coerenza con maggiore integrazione dell’effetto prodotto. La scienza può concepirsi come conoscenza definita in opposizione alle conoscenze indefinite del volgo, e però il suo carattere essenziale di progresso sta nell’accrescimento di precisione; di guisa che—secondo Spencer—se la scienza è stata, com’è indubitabile, uno sviluppo graduale delle cognizioni indefinite del volgo, compiutosi attraverso i secoli, è necessario che la conquista graduale della grande precisione che oggi la distingue sia stato il tratto principale della sua evoluzione.

Il vero, che è l’obbietto della mente, dapprima lo percepiamo confuso con la esistenza delle cose; poscia grado a grado lo apprendiamo determinato nei rapporti di spazio e di tempo, per indi sottoporlo al potere riflessivo e precisarlo, distinguendolo, nelle molteplici attinenze dell’attività del pensiero scientifico. Nè suppongasi che la distinzione interrompa la continuità dei processi formativi, chè a ciò si oppone la legge di persistenza di qualunque specie di energia; nè che l’unità del fenomeno impedisca che questo si decomponga negli elementi primigenî. Quindi, al dire di Ardigò, «il pensiero è, effettivamente, e molteplice e uno; poichè anch’esso, il pensiero, è natura, ossia una formazione naturale, come tutte le altre cose. È molteplice come l’aggregazione degli atomi dell’organismo, del quale è la funzione. È uno, come la legge per la quale gli atomi stessi non possono sottrarsi all’azione dell’uno sull’altro. Il pensiero è una formazione, ossia un effetto determinato, per la legge della distinzione, in un punto dell’universo, per la forza risiedente nel tutto, come ogni altra cosa. La contraddizione fra i due termini, della unità e della molteplicità, non è che la conseguenza d’una idea falsa e ormai discacciata definitivamente dalla scienza positiva; l’idea, cioè, della sostanza metafisica, sottoposta ai fenomeni del pensiero e della materia»[1].

3. —L’evento psichico del dato giuridico punitivo sorge per la distinzione ed organizzazione delle idealità sociali antiegoistiche di fronte alle tendenze egoistiche individuali. Ammesse le relazioni tra’ simili, il primo insorgere d’una ragione naturale di diritto è nell’affermazione di prepotenza del forte verso il debole; ovvero nell’esplicazione del talento egoistico in opposizione colla ragione antiegoistica o della idealità sociale o della giustizia. Gli effetti della civiltà, e l’abito mentale di adattamento ai medesimi, partoriscono l’idea d’un potere costituito il quale elimini o impedisca gli atti di prepotenza individuale, dapprima con la sanzione spontanea della pubblica opinione, con gli usi, con i costumi, col sentimento religioso; poscia con sanzioni preventive e repressive legali.

Procedendo la vita sociale parallela alla creazione della idea di giustizia, ed essendo questa la condizione integrale perchè l’aggregato collettivo conservi il suo organismo, si conclude, con l’Ardigò, che la giustizia sia la forza specifica della Società; ne è la forza specifica come si direbbe che l’ affinità è la forza specifica delle sostanze chimiche, la vita delle organiche, la psiche degli animali.

4. —Assommandosi le esigenze delle idealità sociali in contrasto con l’uso della forza individuale, l’elemento psichico del delitto si venne vieppiù distinguendo; poichè, col tramutarsi l’idea di giustizia in forza di repressione, si separò il dato obbiettivo, di pericolo e di danno, dell’atto antigiuridico, dal dato soggettivo, di stato di coscienza contrario al modo comune di sentire, di pensare e di volere, e si concluse con la necessità di una sanzione sociale, mercè l’applicazione della pena. Di qui il concetto del dolo, il cui significato, nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei popoli, è vario ed indeterminato. Il Mittermayer[1], il Nicolini[2] ne assegnano il fondamento or di inganno e di finzione, or di ogni arte e stratagemma onde nascondere altrui la propria intenzione nei fatti che serbano l’apparenza di essere ad essi contrarî. Il Buccellato, dopo di aver detto che il dolus in origine significa esca ( δέλ-εαρ ) e per traslato ogni mezzo di adescamento per trarre gli altri in inganno, conclude che il dolus si contrappose a vis, l’aperta violenza; dualismo che si riscontra anche nell’antico diritto germanico[3].

Finalmente il dolo, o elemento soggettivo del reato, si è mano mano integrato con la intenzione e volontà di infrangere l’ordine morale e giuridico, con la coscienza di contravvenire al dovere di rispetto verso i simili, con la volontarietà del fatto dannoso, e con altri fattori psichici ai quali si è ricorso per suffragare teorie indirizzate a meglio fissare il fondamento dell’imputabilità dell’individuo.

Per l’influsso delle idee metafisiche ed aprioristiche intorno ai fenomeni della psiche e per la errata interpretazione dei fatti sociali si giunse a concepire il delitto un ente giuridico, ed il delinquente quale un essere fuori la influenza dell’ambiente o delle leggi naturali dinamiche alle quali tutti i fenomeni sono sottoposti.

5. —Parallelo al processo storico-giuridico differenziale dell’elemento soggettivo del delitto, si maturava lo studio del medesimo obbietto, ma in campo diverso, con l’uso del metodo sperimentale ed induttivo, senza punto allontanarsi dall’osservazione della realtà effettuale delle cose. Non già, quindi, astratte supposizioni ed ipotesi gratuite ed arbitrarie suffragate dalla sola necessità logica di sistema; ma indagini analitiche, raffronti analogici, pazienti comparazioni, spassionate riflessioni furono i mezzi onde scienziati positivisti si indirizzarono alla soluzione del fenomeno del delitto col prendere ad esaminare la persona del delinquente, nelle sue qualità fisiche e morali e nelle cause ambienti che avrebbero potuto influire a destare ed a rafforzare le di lui tendenze malefiche.

La maggiore attenzione fu dagli antichi rivolta alle note esteriori somatiche, teratologiche od atipiche, massimamente della fisonomia, ed al complesso dei segni degenerativi fisici, che facevano arguire qualità morali anormali.

Aristotele e Galeno sono tra’ primi; presso i Romani evvi Cicerone, per non parlare di minori. Ippocrate lasciò preziose riflessioni circa l’azione del mondo esterno sulle nostre inclinazioni, non che il rilievo da attribuirsi alle forme irregolari organiche. Erano osservazioni profonde che dal campo della scienza passavano nel campo dell’arte e si rispecchiavano in concezioni geniali di sommi poeti. Il Tersite di Omero, eppoi, dello stesso, il brigante Autolico, nonno materno di Ulisse; Achille, Menelao predoni abituali e crudeli; e, nei tragici, Edipo parricida, Ulisse com’è dipinto nel Filottete di Sofocle, l’Ercole furente di Euripide, l’Ajace di Sofocle, ed in fine Oreste, delinquente tipico impulsivo, sì maestrevolmente tratteggiato da Eschilo (nelle Coefore e nelle Eumenidi ), da Sofocle (nell’ Elettra ), da Euripide (nell’ Elettra e nell’ Oreste ), sono a dimostrarci quanto l’arte valga ad anticipare le scoverte della scienza, e come essa, cogliendo direttamente la visione della realtà, meno si allontani dalle vie del vero, dal quale ci distoglie, sì di frequente, il ricercato sussidio di una logica artificiale.

6. —Era, però, riserbato ai nuovi tempi l’assunto di dettagliare ed approfondire la conoscenza psicofisica del delinquente. Ed ecco una schiera di nomi, nelle cui opere è sparso tutto il materiale scientifico che dovrà servirci di fondamento alle applicazioni nella nostra disciplina: G. B. Porta, Lavater, Gall, Lauvergne, Gasper, Morel, Lucas, Ferry, Wilson, Nicolson, Thompson, Despine, ecc.

Ai nostri dì nessuno più sconoscerà il merito sommo di C. Lombroso che, avendo sistematicamente raccolti i dati antropologici del delinquente, agevola di molto il còmpito del psicologo inteso a costruire su solide basi la scienza della psiche del criminale, in applicazione di teoriche positive le più accettate da reputati scrittori di psicologia generale.

7.—Ma, anche ad ammettere che sia già preparato il materiale scientifico, in molta parte sperimentale, per la sistemazione di teorie psicologiche criminali, la peculiare branca distinta manca tuttavia di contenuto proprio. Molti confondono la psicologia criminale con l’antropologia, con la sociologia criminale o con la psichiatria. Krafft-Ebing, ad esempio, nel suo magistrale trattato di Psicopatologia Forense, non fa che limitare lo studio psicologico alla discussione della libertà o meno degli atti criminosi, ed ai principî fondamentali della imputabilità: il resto è materiale di patologia o neuropatologia. Nè altrimenti avviene in altri scrittori, compresi Lombroso, il Virgilio, il Marro tra’ nostri; vi sono nozioni isolate preziose; manca l’ordine, la coordinazione, l’unità del sistema. Forse—e lo vedremo—un indirizzo organico scientifico comincia ad apparire nel dominio della psicologia criminale collettiva, dopo le opere del Tarde, del Rossi, del Sighele: ma oh! quanto è ancora desiderabile che le ricerche avanzino perchè si possa dire di aver tracciati sicuri confini di separazione tra la nostra disciplina e le affini. In generale il difetto promana dalla esagerata importanza accordata al fattore o lato patologico del reato a detrimento dei fattori psichici: il che non deve recar meraviglia, se si consideri che quelli che più di frequente si propongono il còmpito di esame del delinquente non sono psicologi di professione, ma psichiatri: ciò che abbonda in un campo, manca nell’altro.

8. —Lo stadio percorso, fino a noi, dalla psicologia criminale è semplicemente descrittivo: vi sono le nozioni, manca la scienza.

La psicologia generale è, però, sì innanzi da facoltarci ad avvalerci dei suoi lumi per coordinare il prezioso materiale sparso intorno ai principali problemi della psiche del delinquente, fecondarlo ed unificarlo.

La teorica, che da anni noi propugniamo e che va sotto il nome di teorica dinamica criminale, segna l’estremo limite di conciliazione tra i veri generalmente accettati dalla psicologia dell’uomo normale e le nozioni delle anomalie, somatiche e psichiche, proprie del delinquente. L’uomo è una energia, od un complesso di energie in atto: o che egli si svolga normalmente, o che devii dal funzionamento della media degli uomini, non si libererà giammai dal potere delle leggi dinamiche che si riconnettono, in ultima espressione, alla legge di causalità. Comprendere, dunque, la genesi, le variazioni, le oscillazioni, l’antagonismo delle energie psicofisiche dell’uomo comune; saperne cogliere l’aumento ed il decremento, le successive trasformazioni, la repentina insorgenza ed il lento accumularsi e stratificarsi di esse negli atti riflessi e nel fondo oscuro dell’inconscio, è sufficiente preparazione per scendere nei penetrali inesplorati dell’anima del delinquente e render palesi le leggi ond’ella è governata. Che se ai cànoni derivati dalla psicologia si aggiungano i sussidî della psichiatria, dell’antropologia e della sociologia criminale, il còmpito ci riuscirà meno difficile e con più probabile buon esito.

A dir vero, in Italia non è la prima volta che siasi intuita la genesi dinamica del delitto: il Romagnosi ne fu l’antesignano.

Egli comprese che «esiste una infallibile e costante connessione fra i motivi, che sono presenti all’intendimento, e le determinazioni dell’umana volontà; e queste determinazioni sono sempre relative e proporzionate alle specie e alla energia dei motivi medesimi»[4]. Ed altrove: «Se entro le idee reprimenti non fosse racchiusa una naturale energia operante sulla sensibilità e volontà umana; se il consenso di queste facoltà non piegasse a seconda ed a proporzione delle forze delle idee suddette, come potrebbesi spiegare ed asserire, non dico soltanto che esse abbiano efficacia a frenare o a rallentare gli altri precedenti impulsi, ma che nemmeno abbiano la facoltà di produrre un effetto qualunque?»[5]. Anche il Carmignani afferma, che la forza dell’animo necessaria all’offesa non può decrescere che per l’azione di forze estranee che la deprimono; ed oltracciò, che la forza dell’animo umano è come tutte le altre forze, che agiscono in natura, soggetta ad anomalie, ad aberrazioni, ed a vicende prodotte da altre forze, le quali, quasi episodiche alla principale, s’innestano, la modificano e talvolta ne cambiano l’indole affatto[6].

Le idee sostanziali del novello indirizzo erano bene apprese: ma prima che la filosofia non abbandonasse il metodo aprioristico, e prima che la biologia, la fisiologia e la psicologia non si uniformassero al comune sistema evolutivo unitario, mancavano i mezzi per verificare nei singoli fatti o nei multiformi stati di coscienza del delinquente la non difformità, al dir del Carmignani, della forza dell’animo umano, da tutte le altre forze che agiscono in natura.

La psicologia criminale, finalmente, non soltanto si propone l’intento di analizzare ed apprezzare il fenomeno del delitto nel suo contenuto soggettivo, ma si propone ancora di tentare il problema penitenziario o repressivo, nei modestissimi confini a lei imposti; di contrapporre al funzionamento psichico pericoloso del delinquente qualche rimedio di cui ci sia concesso disporre senza infrangere le esigenze della giustizia forza specifica della Società.

CAPO I.

Le funzioni psichiche criminose.

1. Concetto scientifico della parola funzione.—2. Funzionamento psicofisico proprio del delinquente.—3. Anormalità del medesimo: legge generale di equilibrio violata dal delitto.—4. Il concetto di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione tra l’uomo normale ed il delinquente.—5. L’equivalente etico dello squilibrio psichico; suoi riflessi al dato soggettivo ed oggettivo del delitto.—6. In che consistano le funzioni psichiche criminose nel loro aspetto intrinseco ed estrinseco.

1. —Gli atti della nostra vita son tanti effetti che si connettono a reciproche cause. Se queste cause ci son note, ce ne serviamo per qualificare l’atto, distinguendolo da tutti gli altri che con esso abbiano rassomiglianza. Diciamo, per esempio, che taluno sia stato sottoposto ad operazione chirurgica per significare che l’atto su lui operato sia il prodotto di causa intelligente, che noi riferiamo alla persona di un chirurgo. Oltracciò, noi siamo soliti, costretti dal bisogno, di rivolgerci all’opera di un tecnico per la costruzione di qualche macchina, per la cura d’una malattia, per la difesa d’una lite; e ciò perchè presupponiamo che le dette persone sieno le più adatte a soddisfare il nostro desiderio. Congiungendo il primo dato di esperienza al secondo, concludiamo che le qualifiche, con le quali distinguiamo la specialità degli atti e la ragione di scelta delle persone più capaci a compierli, s’integrano nel giudizio abituale di ritenere che date cause con maggiore facilità producano dati effetti. Identica osservazione facciamo, riflettendo sul perchè si distinguano i nostri organi di senso. Noi affermiamo la virtù propria dell’occhio a vedere, dell’udito ad udire, poichè ci è noto che questi organi posseggono le qualità adatte per gli effetti riferiti; che in essi risegga l’attitudine di percepire i colori, di apprendere i suoni.

L’idea di attitudine, di capacità, di facilità sottintesa negli esposti giudizî è espressa, in termine generale, dalla parola funzione. In fisiologia parlasi di funzioni di tessuti, di organi, di apparecchi; di funzioni di nutrizione, di riproduzione, di relazioni, per significare dei fenomeni, isolati o complessi, compiuti dall’organismo per la conservazione dell’individuo e della specie. La sociologia si occupa di funzioni sociali; la psicologia di funzioni della mente. In ogni caso, la parola funzione è accompagnata dal senso di processi con più agevoli disposizioni ad effettuare determinati risultati.

Il Wundt bene osserva, che tutte le volte che, come per gli apparati, a struttura sì complessa, del sistema nervoso, noi non abbiamo alcuna coscienza della composizione reale delle modificazioni molecolari, nelle quali consiste l’esercizio, ci resta solamente questa espressione generale di disposizioni funzionali, la quale può sempre prendersi in un buon senso: quindi, al contrario della teoria delle tracce materiali persistenti, questa espressione suppone un’azione consecutiva, la quale è dapprima durevole e sparisce di nuovo gradatamente per la cessazione o il difetto di esercizio, effetto consecutivo che non consiste punto nella continuazione della durata della funzione, ma nella facilità, con la quale essa riapparisce[7].

E lo stesso aggiunge, che se, dal dominio fisico, trasferiamo questo modo di considerazione al dominio psichico, le sole rappresentazioni coscienti dovranno essere riconosciute come rappresentazioni reali; e le rappresentazioni, sparite dalla coscienza, lascieranno dopo di sè delle disposizioni psichiche, di specie sconosciuta, al loro rinnovarsi. L’unica differenza, che separa il dominio fisico dal dominio psichico, è la seguente: dal lato fisico egli ci è permesso sperare che gradatamente perverremo a conoscere più intimamente la natura di coteste modificazioni permanenti, che noi designiamo in breve col termine di disposizione; mentre che, dal lato psichico, questa speranza ci è sempre interdetta, poichè i limiti della conoscenza segnano, nel medesimo tempo, i limiti della nostra esperienza interna[8].

2. —Se la funzione dipende dall’esercizio ed ha per esponente una più perfetta disposizione, siamo facoltati a credere che essa si rannodi all’adattamento ed alla selezione organica. L’antagonismo tra la legge della variabilità, delle forme e dei caratteri, e la legge della ereditarietà, che mantiene o conserva la specie tra gli individui; non che la sopravvivenza e la prevalenza di individui più adatti e di attitudini meglio consolidate, ci inducono a ritenere che la funzione, fisica o psichica, sia l’equivalente di energia più conforme all’ambiente esterno od interno, e più omogenea al nostro stato di specificazione.

Accingendoci, quindi, allo studio della psiche del delinquente, noi, per prima, troveremo opportuno di formarci un concetto generale del medesimo; ritenendo a priori, salvo dopo a dimostrarlo, che, occupando, nella scala differenziata dell’uomo, il delinquente una varietà sociale e morale, debba anche presentare nell’esercizio delle sue energie un funzionamento affatto proprio, di cui dobbiamo fin da ora tener conto. Le inclinazioni al delitto, appunto perchè tali, debbono farci supporre che l’individuo che, n’è affetto, possegga la specialità di vincere gli ostacoli che nell’imperio della psiche vi si frappongono, pel più facile corso verso l’azione esterna.

La funzione apparisce quando la facoltà dallo stato puramente potenziale passa allo stato attuale; essa, perciò, mentre segna il grado evolutivo degli individui, ne rende palesi le impronte e ci fornisce il mezzo per caratterizzarne le azioni.

3. —A chi guarda gli effetti del delitto apparisce evidente la idea che, nella specie, trattisi di qualche cosa di anormale; di funzionamento psichico non obbediente alle norme logiche, etiche, sociali comuni al rimanente della cittadinanza; ond’è che, anche prima dei lumi apportatici dalle scienze antropologiche, la coscienza della maggioranza considerava il delinquente un essere di tempra eccezionale, da sottoporsi alla sanzione di leggi preventive e repressive. Chi voglia appellarsi al criterio di senso comune, sentirà rispondersi che questi non serba nelle sue azioni la legge di equilibrio e che, infrangendo lo stato di ordine, mostrasi disadatto alla vita civile. La risposta, sì facile e spontanea, suppone il principio che la vita degli esseri, a qualunque categoria appartengano, non sia che ordinata sequela di atti retti dalla legge di equilibrio, e che, non appena questa legge si viola, o gli esseri spariscono o sopravvivono lottando con continue difficoltà per adattarsi all’ambiente.

Spencer ha scritto: «la coesistenza universale delle forze antagoniste, che produce l’universalità del ritmo e la decomposizione di tutte le forze in forze divergenti, rende anche necessario l’equilibrio definitivo. Ogni moto, essendo sottoposto a resistenza, subisce continuamente delle sottrazioni che finiscono colla cessazione del movimento. Così, quando in mezzo a cambiamenti ritmici, che costituiscono la vita organica, una forza perturbatrice opera un eccesso di cambiamenti in una direzione, essa è gradualmente diminuita e finalmente neutralizzata dalle forze antagoniste che effettuano un cambiamento compensatore in una direzione opposta, e ristabiliscono, dopo oscillazioni più o meno ripetute, la condizione media. Tale processo è quello chiamato dai medici forza mediatrice della natura »[9]. L’equilibrio psichico suppone più forze o sistemi di forze in antagonismo. Esso non è la inerzia, ma la risultante di contrarî movimenti che compensano le loro spinte per la eliminazione di qualunque cangiamento. Analogamente al sentimento chiamato senso di equilibrio, pel quale il corpo conserva la sua posizione ed orientazione, gli atti della nostra vita psichica trovansi in equilibrio allorchè il loro centro di gravità non si sposta dalla ordinaria sfera di azioni; segnano la linea ascendente e discendente con moto retto o rettilineo, non si allontanano dalle norme d’una condotta che fa dell’individuo parte integrale del tutto sociale, ed il tutto sociale armonizza ai fini prossimi o remoti della nostra esistenza. Il delitto, negando l’equilibrio, è elemento da eliminarsi; non è soltanto un processo distinto e che trovi il posto nella serie multiforme di effetti della legge di variabilità, ma è epifenomeno o prodotto sovraggiunto, che si distacca dall’armonia dell’insieme e, per soprappiù, ne mina le basi, introducendovi forze disgregative contrarie alla natura evolutiva dell’uomo civile.

4. —L’anormalità del delinquente ci dice che esiste il tipo dell’uomo normale. Non vogliasi, pertanto, esagerare il significato d’una distinzione meramente relativa agli scopi della vita sociale ed alla necessità protettiva di ciascuno. Quando diciamo tipo normale o anormale di uomo, vogliamo intendere concetti che rispecchiano date condizioni di cose; mutate le quali, ogni nozione perde il valore scientifico.

Il concetto di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione tra l’uomo normale ed il delinquente.

La coscienza, l’io individuale, non sarebbe concepibile, negli stati successivi del tempo, se non poggiasse su base stabile ed invariabile che si rende evidente nella fisonomia di ciascun atto, e serve ad enucleare le nostre azioni in organismo compatto ed analogo, pur subendo svariate trasformazioni. Ciò che è per l’individuo, è per l’uomo collettivo; ciò che è per la specie, è pel genere. Mercè l’astrazione noi ci formiamo l’idea del tipo, simbolo d’un modo di essere differenziato e permanente. L’osservazione sulla esistenza e sulle norme regolatrici d’individui formanti la gran maggioranza sociale ci mena all’induzione di regole di funzionamento e di condotta comune, donde l’idea astratta del tipo di uomo normale. Le variazioni, cui il tipo è soggetto, sono analoghe alle condizioni di ambiente o sociale o storico o etnico. Insomma, il concetto di tipo non si diparte da ciò che è inerente a qualunque altro concetto della nostra mente e che si riassume nell’infrascritto principio: il pensiero non è che il prodotto necessario della relatività delle nostre funzioni psichiche.

Nell’antagonismo di forze divergenti il centro di gravità del processo intero è sempre fisso; nella deviazione di moto l’azione e la reazione corrispondono ad oscillazioni compensatrici. Allo stesso modo, la instabilità e la stabilità dell’equilibrio psichico dipende, nella serie di oscillazioni, dall’uso maggiore o minore di potere inibitorio o di forza di resistenza e di arresto. Ciò, in seguito, sarà ampiamente dimostrato.

5. —L’equivalente etico dello squilibrio psichico risponde al disordine causato da volizioni ed azioni non conformi alla media di esistenza sociale in armonia al benessere individuale o collettivo; il delitto turba, di per sè, questa media di ordine, e ciò perchè con esso il comune centro di gravità della nostra attività è spostato; è scosso o negato l’accordo tra l’individuo ed i suoi simili. Uno dei tratti della condotta detta immorale—osserva Spencer—è l’eccesso, mentre la morale ha per carattere la moderazione. Gli eccessi implicano divergenze delle azioni da un medio; la moderazione, per contro, implica conservazione della via di mezzo; donde segue, che le azioni dell’ultima specie possono essere definite più facilmente che non quelle della prima. Chiaramente, la condotta che non è repressa si raggira fra grandi ad incalcolabili oscillazioni, per cui differisce dalla condotta che è moderata, le cui oscillazioni naturalmente sono fra limiti ristretti. Ed essendo fra limiti ristretti, apporta necessariamente determinazioni relative di movimenti[10].

Le regole di condotta ci apprendono che vi sieno determinati intenti a cui dobbiamo dirigere le azioni; e che vi siano modi o maniere da prescegliere onde si pervenga ai detti intenti. La nostra attività, estrinsecandosi, è accompagnata, negli atti consecutivi, dalla consapevolezza, spontanea immanente o riflessa, di relazioni preordinate o sistematizzate a causa della nostra previsione o dell’abitudine. Il delitto, cagionando danno privato e pubblico, è in contraddizione con i fini della coesistenza, di concorrere al benessere dei simili; ed è in contraddizione, ancora, con i modi o le maniere onde debba estrinsecarsi l’attività nelle azioni. L’esquilibrio, quindi, dal soggettivo si proietta nel mondo oggettivo; e desta allarme, perchè scuote la sicurezza del benessere altrui e minaccia di privare, la esistenza, delle condizioni che le sono più propizie. Finchè l’esquilibrio resta nello stato soggettivo, non vi è ragione di esserne allarmati; vi sono dei primi atti di estrinsecazione, i quali neppure richiedono di essere repressi: potendo i medesimi servire a scopi indifferenti o criminosi, nel dubbio, il dovere impone di sospendere qualunque decisione. Ma, tostochè dagli atti incerti, di mera preparazione, si passa agli atti di esecuzione, accrescendosi il pericolo sociale, la legge provvede a che la minaccia sia repressa, poichè nessuno ha il diritto di turbare quell’ordine od equilibrio di vita, il quale è fondamento e condizione imprescindibile di esistenza. Proseguendo a riflettere, si avrà il perchè certi fatti, pur ristretti in termini di mera possibilità di danno, sieno dalla legge puniti; ad esempio il tentativo in alcuni reati, la falsità in atti che debbono serbare la impronta della pubblica fede. L’esquilibrio proprio del delitto, obbiettivandosi esteriormente, conserva sempre i caratteri intrinseci di soggettività: senza che si renda causa di atti che materialmente o realmente offendano i simili, in costoro, soggettivamente, apporta un’alterazione di benessere, il cui esponente è l’allarme o il timore di veder rotta la compagine sociale, ed infranto il reciproco dovere di assistenza e di rispetto tra i componenti l’aggregato. Il concetto di equilibrio o di esquilibrio etico o sociale, soggettivo od oggettivo, va inteso sempre comparativamente alle esigenze di condotta o di benessere comune tra le persone facienti parte d’una società; donde il dovere d’una giustizia distributiva, che s’ispiri, cioè, all’obbligo di salvaguardare il diritto di ciascuno in proporzione del bisogno di mantener saldi i legami delle parti verso il tutto. I costumi, gli usi, le leggi sono tanti termini delimitativi delle umane azioni; sono le pietre miliari che segnano le tappe progressive dell’uomo sul cammino della civiltà. Ma sono, anche, argini opposti al dilagare di correnti che minacciano di travolgere povere vittime. Ciò che altera la costante evenienza dei fenomeni di natura non può tornar mai di bene per l’uomo; ed il delitto n’è l’esempio.

6. —Riassumendo, diciamo, che le funzioni psichiche criminose, considerate nel loro aspetto intrinseco, sono l’equivalente di facoltà disadatte all’uso del potere inibitorio ed allo stato di equilibrio; considerate nell’aspetto estrinseco, sono le cause di turbamento di quell’ordine sociale che è la forza specifica del benessere individuale in accordo col benessere collettivo.

CAPO II.

Gli elementi psichici criminosi.

1. Legge di continuità nei fenomeni psicofisici; legge di correlazione tra l’essere ed il suo ambiente.—2. La legge di continuità e di ambiente rispetto al delitto.—3. Ragioni per cui il funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge all’analisi sperimentale; norme relative alla prova della genesi fisica del delitto.—4. Gli elementi psicofisici del delitto e l’interno stato di equilibrio.—5. Stato di esquilibrio psichico; forza e movimento; motivo, causa ed azione.—6. Che cosa s’intenda per impulso; duplice principio fondamentale della psicologia monistica.—7. La psicofisica ed il suo valore nei fenomeni di esquilibrio del delitto.

1. —Tutti i fenomeni da noi percepiti sono accompagnati dal carattere essenziale di reciproca coordinazione o di continuità. La distinzione che sogliamo fare tra l’uno e l’altro fenomeno, tra l’uno e l’altro modo di esistenza, tra la vita psichica e la fisica non serve che alla nostra conoscenza, la quale, stante la relatività di sua natura, non potrebbe apprendere il vero delle cose se non procedesse per singole nozioni. Questa legge suprema dell’umana conoscenza, detta legge di continuità, impera ancora nella genesi e nella serie evolutiva dei fenomeni psicofisici. La vita mentale e la corporea sono due lati di un unico processo integrativo con gradi ascendenti di maggiore distinzione e complessità: dagli atti puramente automatici, dalle semplici azioni riflesse alle alte concezioni del pensiero non vi è che progresso ininterrotto per gradi infinitesimali.

Chi, dunque, si accinga a studiare qualunque fenomeno psichico non deve arrestarsi alle sue forme estreme; deve, invece, saper cogliere la genesi ed apprezzarne il graduato sviluppo dagli elementi primigenî al più alto esponente della intelligenza.

La seconda legge, base anch’essa della evoluzione organica, è quella di correlazione tra l’essere ed il suo ambiente; la quale legge è espressa, secondo Spencer, dal cànone, che la vita non sia che corrispondenza.

2. —Il delitto sottostà egualmente alla legge di continuità e di ambiente. La continuità riguarda più intimamente l’elemento soggettivo; ossia lo stato di coscienza sintesi di tutti i coefficienti interni i quali concorrono a far sì che la energia criminosa si effettui esternamente mercè l’azione antigiuridica. È da osservare che, essendo il delitto azione anomala in confronto alla media della comune condotta, anche la legge di continuità, nella correlazione dei fenomeni psichici del delinquente, debba subire qualche variazione, di genesi e di sviluppo, da distinguersi, per chi ne analizzi gli elementi informativi, da ciò che avviene per l’uomo normale. La differenza di genesi è analoga alla natura propria della energia criminosa ed ai fattori fisici che ne originano il primo grado di apparizione. La differenza di sviluppo è in relazione specialmente all’azione dei motivi onde la energia criminosa è determinata.

3. —Noi non abbiamo nozioni esatte circa i fattori fisici del delitto; il funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge all’analisi diretta permessa col sussidio dell’esperienza.

Ciò avviene per tre ragioni: a ) perchè non è concesso di riprodurre a nostro beneplacito il fenomeno del delitto; b ) perchè nel momento in cui questo fenomeno si manifesta l’opera riflessiva dello scienziato non può aver luogo; c ) perchè, sottostando la produzione del delitto alla influenza dell’ambiente, questa è relativa alle circostanze accidentali e fugaci ond’è accompagnata. Quindi le seguenti norme, le quali vanno ricordate in materia di prova della genesi fisica del delitto: 1 a Non essendo permesso sul delinquente che l’uso del metodo a posteriori, ossia quel metodo che dalla constatazione di qualità permanenti organiche risale, per supposto, all’accertamento di ciò che nel momento del delitto sia avvenuto, in definitiva non ci è dato apprendere, della genesi fisica del delitto, che nozioni affatto probabili; 2 a La certezza induttiva, sul riguardo, non superando il valore d’ipotesi, è motivo per cui nell’affermazione della imputazione e nella commisurazione della pena evvi un limite abbandonato all’arbitrio del giudice il quale sappia, mercè criterî di esperienza personale, integrare la prescrizione repressiva di legge con la relatività di colpa del delinquente.

4. —Gli elementi psicofisici del delitto si risolvono in tanti equivalenti della natura intima, ereditaria o acquisita, del delinquente, in concorso con gli stimoli, esterni od interni, efficaci a mettere in moto la energia criminosa. Lo studio dei detti elementi ci apprende: a ) che il delitto, avvisato come entità giuridica, sia il composto di fattori diversi la cui analisi deve precedere la sanzione repressiva; b ) che il delitto, considerato siccome la risultante di coefficienti psicofisici individuali, ha bisogno di prove, le quali raccolgano, in sintesi logica, quanto sia necessario pel convincimento del magistrato. Così per lo studio del lato giuridico che per quello del lato psicofisico del delitto ci occorre un concetto fondamentale che sia punto di partenza della nozione dei fatti: concetto, per quanto logicamente semplice, altrettanto obbiettivamente adatto a fissare l’idea di normalità e quella di anormalità nel dominio morale. La esistenza di energia criminosa importa funzionamento difforme alla natura normale dell’uomo, cioè alla media di rettitudine di condotta in conformità a norme imprescindibili di ordine sociale o giuridico.

Questa difformità è conseguenza d’un interno stato di squilibrio o disturbo di armonia di stati di coscienza e contrasto col mondo esterno configurato nella vita di relazione con i proprî simili. L’adattamento, per intima tendenza ereditaria e per qualità acquisite, apporta nel ritmo degli stati di coscienza un funzionamento di regolarità che noi chiamammo di equilibrio, secondo il quale i fatti psichici rappresentativi, emotivi e volitivi si svolgono con nessi, di successione e di simultaneità, integrativi, ossia con la legge costante di corrispondenza al grado ed alla entità degli impulsi che imprimono il moto iniziale all’azione. Siffatto stato di equilibrio, permanendo nei successivi atti esterni, si trasforma in tanti altri stati che, prendendo il nome dalla sfera di azione in cui appariscono, sono altrettanti fulcri di vita individuale o collettiva e corrispondono a differenziata sanzione preventiva o repressiva. Indi abbiamo la prima forma di stato giuridico di equilibrio nell’ordine della famiglia; poscia in quello delle differenti specie di società create dalla legge od imposte dalla esigenza di assicurare e garantire i mezzi per l’esplicamento dei nostri bisogni; per ultimo, in quello più ampio ed universale che dalla idea di nazione, di umanità arriva fino al concetto di giustizia assoluta.

Sono stati di equilibrio, il cui fondamento va sempre riposto nell’armonia di facoltà e di atti, di funzioni e di leggi: dall’individuo all’uomo collettivo il processo è unico, garantire il ritmo del funzionamento cosciente, non fallire all’intento di perfezionamento progressivo che assicuri il benessere proprio con quello degli altri.

5. —Lo stato di squilibrio è di natura opposta a quella esaminata. Indi la nozione di stato anomalo, ovvero contrario al funzionamento normale dell’uomo.

Abbiamo detto che lo stato psichico di equilibrio è ereditario ed acquisito: il funzionamento principale, su cui poggia, è posto da natura, poichè è regola imprescindibile psicologica, che qualunque atto interno emotivo o volitivo abbia la genesi spontanea nel processo organico individuale.—Tostochè negli stati di coscienza comincia a mancare il ritmo, all’azione di qualche stimolo non corrisponde la reciproca reazione; vien meno, perciò, l’attitudine, sia anche passeggiera, al processo integrativo; le correnti di energia funzionale si turbano; le tendenze impulsive vincono l’azione reattiva delle facoltà di arresto; la efficacia dell’impulso non comporta più resistenza; spariscono i confini del campo visivo della coscienza ed all’ottenebramento dell’intelletto succede lo scoppio della passione. Il fenomeno qui descritto, ristretto propriamente al fatto del delitto, c’impone, innanzi tutto, lo studio dei motivi o degli impulsi dell’azione interna ed esterna della energia criminosa.

L’equivoco che in generale si vuole ingenerare, nella dinamica, tra la idea di forza e l’idea di movimento, assumendosi la prima per una potenzialità astratta ed il secondo per qualche cosa che non inerisca alla materia, ma di questa sia modalità accidentale, si riscontra tuttodì tra l’idea di motivo o di impulso e quella d’azione. Si confonde il motivo con la causa; non riflettendo che il primo è in realtà ciò che la seconda è, in astrazione o nei rapporti logici, con l’idea di effetto.

Ora, a chi ben guardi apparirà che il motivo o l’impulso, dinamicamente, si confonde con l’azione; ne è l’essenza e la realtà concreta.

La energia psichica, con funzionamento normale o anomalo, è sempre in attività: appena si effettua l’azione di qualche impulso, il precedente stato di coscienza subisce cambiamento; comincia così un effetto che percorre i gradi di svolgimenti conformi alla intensità impulsiva, e o si esaurisce, perchè arrestato, nel dominio interno, ovvero si riversa nel mondo esterno e si completa in analogo atto di condotta. L’atto esterno è l’equivalente di quello interno, il che spiega la ragione del moto causale dell’impulso, la continuità della energia psicofisica dal momento iniziale di sentimento o di idea fino al termine dell’azione, ed in ultimo il perchè si connetta l’imputabilità fisica dei nostri atti ad analoga imputabilità morale.

6. —Ciò che chiamiamo impulso non è che una scossa, un primo movimento, il quale, rientrando nel campo visivo della coscienza, o influisce a creare un novello stato, ovvero, per identità di natura, riproduce stati precedenti passati nel dominio dell’inconscio o assopiti da non destare più alcun interesse. Per quanto facile, ad intendersi, sembri l’asserto, esso racchiude il problema fondamentale della vita. Che è mai, in fatti, la vita, se non, al dire di De Blainville, il duplice movimento interno di composizione e decomposizione, a un tempo generale e continuo? ovvero, secondo lo Spencer, la coordinazione delle azioni? Nè movimento interno è verificabile, nè coordinazione senza che vi sia un fenomeno chimico e fisico di assimilazione e di trasformazione della energia dello stimolo, senza che l’organo del senso non vi si presti a trasmettere ai centri il cambiamento dinamico subìto.

Migliore definizione della vita, nel senso qui appresa, è quella suggerita da G. H. Lewes, che cioè essa sia una serie di cambiamenti definiti e successivi, tanto di struttura quanto di composizione, che hanno luogo entro un individuo senza distruggere la sua identità.—La psicologia monistica, considerando la concezione naturale della vita psichica quale somma di fenomeni vitali che, come tutti gli altri, sono legati a determinato substrato materiale, detto psicoplasma (Haeckel), rapporta i fenomeni dell’anima alla legge della sostanza, vale a dire al duplice principio della conservazione della materia e della energia; e però ne deriva la conclusione, che all’assimilazione dell’energia trasformata, dello stimolo, segua la funzione delle cellule mediante la irritabilità, la sensibilità ed il movimento. Io accetto pienamente la dottrina di Haeckel, che così si esprime: Il problema neurologico della coscienza è soltanto un caso speciale del problema cosmologico che abbraccia in sè tutti gli altri, il problema della sostanza. Se noi avessimo compreso l’essenza della materia e della forza, si potrebbe anche comprendere come la sostanza, che ne è il fondamento, possa, sotto determinate condizioni, sentire, desiderare e pensare. La coscienza è, come la sensazione e la volontà degli animali superiori, un lavoro meccanico delle cellule gangliari, e si deve, come tale, ricondurre a processi fisici e chimici che avvengono nel plasma di queste. Inoltre, applicando i metodi genetici e comparativi, arriviamo alla convinzione che la coscienza—ed insieme anche la ragione—non è affatto una funzione esclusiva dell’uomo; al contrario questa si riscontra anche in molti animali superiori, non solo vertebrati ma anche articolati. La coscienza dell’uomo è diversa solo a gradi, per uno sviluppo maggiore, da quella degli animali più perfetti, e lo stesso vale per le altre attività spirituali dell’uomo[11].

7. —Data la permanenza di rapporti tra l’azione esterna degli stimoli e gli stati susseguenti sensoriali, Fechner fondò la novella scienza che chiamò Psico-fisica. Egli, però, si arrestò alla misura delle sensazioni; altri, discepoli più diretti di Weber, estesero la misura alla sensibilità in genere; altri arrivarono fino alla misura della durata degli atti psichici, ed ai nostri dì, con maggiore precisione, all’analisi quantitativa delle percezioni. Il Fechner, per mezzo di operazioni matematiche, dedusse la sua «legge psicofisica fondamentale», secondo la quale «le intensità delle sensazioni crescono in proporzione aritmetica, mentre quelle degli stimoli crescono in progressione geometrica»[12].

Checchè altri ne pensi in contrario, noi riteniamo, e ne daremo la prova, che la psicofisica abbia grande valore, specialmente in fenomeni di squilibrio psichico, per comprendere i dati sensibili ed emotivi della conoscenza, i quali contribuiscono alla formazione della percezione, e per misurare i fenomeni psichici attraverso i fenomeni fisici.

Di già appariscono i primi prodotti, abbastanza plausibili, nelle perizie psichiatriche: la psicologia criminale si varrà di siffatti studi in più larga copia, non sfuggendo ai suoi cultori il rilievo di norme sperimentali che, quantunque spesso ipotetiche, tendono a raggiungere la esattezza matematica.

CAPO III.

La dinamica dei motivi.

1. Centro di attività psichica; che si intenda per motivo, impulso, movente.—2. Motivi sensitivi, rappresentativi ed ideali.—3. Che cosa s’intenda per motivo criminoso; differenza tra i motivi di azioni lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli.—4. Postulati sull’energia del motivo e sullo stadio evolutivo dei motivi criminosi.—5. La dottrina della inibizione, base dinamica della coscienza criminosa.—6. Modi onde avviene il processo integrativo psichico della energia dei motivi.—7. Assimilazione e fusione dei motivi.—8. L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo psichico dei motivi.—9. Stato emotivo criminoso.

1. —Nella coesistenza e successione degli stati di coscienza è a notare la maggiore o minore permanenza di qualche centro, sensitivo o intellettivo, di attività, al quale convergono, per impulso di affinità o di analogia, delle correnti che atteggiano l’io a propria fisonomia e ne differenziano le qualità accidentali. Il centro di attività psichica è causato dalla sovrapposizione, agli stati precedenti di coscienza, di novello elemento il quale, cominciando col divergere le correnti interne, finisce per dirizzarle ad un punto diverso od opposto a quello cui dianzi tendevano. La espressione centro di attività psichica è presa nel senso reale, perchè l’alterazione o cambiamento di coscienza per noi equivale a nuovo modo onde l’energia dell’io sposta il suo centro di gravità; dovendosi ritenere che, nella reciproca attrazione di coefficienti interni, la gravità prevalente sia prodotta dalla maggiore energia di azione o di reazione di fronte alle energie concorrenti. L’elemento transitorio integrativo o disintegrativo degli stati di coscienza noi l’appelliamo motivo, impulso, movente. Esso a ) è contraddistinto da una energia propria iniziale; b ) è sottoposto alla legge generale di causalità ed alla speciale di assimilazione; c ) agisce o reagisce sugli stati precedenti concomitanti o consecutivi secondochè corrisponde ai medesimi per natura organica ereditaria, per grado di attività genetica o per unità di coerenza.

2. —I motivi si distinguono, secondo i piani successivi degli stati di coscienza, in sensitivi, rappresentativi ed ideali. Il lato sensitivo del motivo è accidentale, transitorio; resta, però, di esso, nella serie progressiva di trasformazione psicofisica, qualche cosa corrispondente al grado ed alla natura della energia in attività, e che, permanendo, si riproduce quantitativamente nei fenomeni di coscienza ond’è seguito.

Maggiore energia occorre perchè l’impulso o motivo sensitivo si ripresenti o riproduca; il che s’intende dal riflettere che il motivo, per la primitiva azione sensitiva, trova il soggetto in istato di più o meno passività e quindi incontra minori ostacoli reattivi; mentre, riproducendosi, deve vincere le difficoltà provenienti da stati similari od opposti coesistenti ed il cumulo di reazioni inerenti alla natura del soggetto.

Nel piano ideale il motivo assomma la energia di tutti i sentimenti ed i rapporti mentali ond’è preceduto ed accompagnato. Trasformatosi in idea od in concetto esercita sulla condotta la influenza che il Baldwin chiama suggestione motrice. Essa significa—secondo il detto psicologo—che noi non possiamo avere alcun pensiero o sentimento, sia che provenga dai sensi, dalla memoria, dalle parole, dal contegno o dal comando degli altri, che non abbia una influenza diretta sulla nostra condotta. Noi non possiamo per nulla evitare l’influenza dei nostri proprî pensieri sulla nostra condotta, e spesso gli avvenimenti più comuni della nostra vita quotidiana agiscono come suggestione di fatti di grandissima importanza per noi stessi e per gli altri[13].—E qui cade a proposito un’altra originale osservazione del Baldwin; che cioè noi non possiamo eseguire un atto qualsiasi senza che gli corrisponda nella nostra mente il pensiero o l’immagine o la memoria che spinge all’azione. Questa dipendenza dell’atto dal pensiero, che lo spirito ha in un dato momento, si dimostra in modo evidentissimo in certi casi di paralisi parziali, ecc. Un numero considerevole di tali casi autorizza a stabilire il principio generale, che per ognuno degli atti, che abbiamo intenzione di compiere, noi dobbiamo avere qualche modo particolare di pensare l’atto stesso, o di ricordare l’impressione che esso produce e la forma che possiede; noi dobbiamo avere nello spirito qualcosa di equivalente all’esperienza del movimento stesso. Questo principio vien detto dell’ equivalente cinestetico, espressione che perde il suo imponente aspetto quando ci ricordiamo che cinestetico non significa altro se non la coscienza del movimento[14].

3. —Quando diciamo motivo criminoso intendiamo dire determinante del delitto. Ne segue, che la parte fondamentale della psicologia criminale consista appunto nell’esame dinamico dei motivi. Il che non sfuggiva al grande Romagnosi, il quale assegnava tanta parte, nella genesi del diritto punitivo, alla dottrina dei motivi. Sarei, anzi, per dire, che la specialità delle discipline repressive sia la conseguenza di vedute teoretiche e pratiche intorno ai motivi delle azioni che noi giudichiamo violatrici della legge penale.

Tra’ motivi di azioni lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli non vi ha differenza dinamica se non per gli elementi che, nel dominio psichico, li generarono o li precedettero ed accompagnarono. Questi elementi sono di natura rappresentativa ed ideale; sono anche di natura emotiva e si distinguono per certo grado di intensità della loro attività evolutiva. Suppongasi, ad esempio, che Tizio abbia ucciso Sempronio: il motivo può essere la vendetta o l’odio. Ma ciò nulla spiegherebbe, chè la vendetta o l’odio per tanto mostrano di impulsività per quanto, alla loro volta, sono generati ed animati da altro stato di coscienza, o coefficiente dinamico, che, nella fatta ipotesi, potrebbe essere l’idea ed il sentimento dell’ offesa ricevuta. E non basta ancora. La offesa qualche volta merita ed attira il perdono: perchè nel caso di Tizio fu cagione di spinta all’omicidio? È da osservare due cose: la prima, che qualunque stato di coscienza agisce e reagisce sugli stati concomitanti; ha un ritmo di equilibrio mobile con tendenza ad addivenire stabile: la seconda, che nell’azione e reazione di ciascuno stato sugli altri, il processo integrativo psichico, che ne consegue, ha per fulcro l’unità cosciente dell’io col grado quantitativo di attitudine all’adattamento. Chi voglia, perciò, dallo stato emotivo interno, prodotto dall’offesa, estendere la riflessione sugli stati che, in dato momento della nostra vita psichica, sono ad esso concomitanti, deve rendersi di ciò conto col constatare i rapporti intercedenti fenomenici, senza punto pretendere di coglierne il nesso intimo ed essenziale: l’umana conoscenza non può estendere il suo potere oltre la ricerca delle circostanze subbiettive ed obbiettive dello stato individuale di coscienza, circostanze che formano l’ambiente in mezzo a cui il motivo agisce ed a cui l’io è indotto necessariamente ad adattarsi. Tizio, per proseguire l’esempio, nel momento dell’offesa era eccitato per questa o quest’altra ragione; in lui la offesa ebbe presa maggiore perchè fatta alla presenza di persone di cui egli voleva conservare la stima; in pubblico, mentre, per circostanza accidentale, egli era alquanto ebbro, esaltato da precedente dispiacere, e così via dicendo.

4. —In conclusione di quanto si è esposto raccogliamo i seguenti postulati: a ) La energia del motivo ritrae dell’azione o reazione degli stati di coscienza similari coesistenti e successivi; ne aumenta o diminuisce il grado secondo lo adattamento individuale alle circostanze favorevoli o sfavorevoli; b ) I motivi criminosi appartengono segnatamente allo stadio evolutivo degli stati rappresentativi od ideali; la loro energia è in ragione della complessità degli elementi con i quali sono in rapporto di causalità e di successione.

Il primo postulato è abbastanza chiaro da non richiedere ulteriore spiegazione. Non così il secondo. Esso s’intenderà bene quando si pensi, che per stadio evolutivo vogliamo significare il processo dinamico integrativo o disintegrativo di coscienza, quel periodo, breve o lungo che sia, durante il quale avviene il cambiamento di stati interni con moto equivalente all’impulso iniziale, trasformato, del motivo. Il cambiamento o il moto si determina tra stati rappresentativi ed ideali. Finchè il motivo fosse presente, senza uscire dalla sfera della sensibilità o dell’affettività, non produrrebbe reazione se non istintiva od automatica. Noi istintivamente allontaniamo la mano dalla fiamma che ci scotta, ci avviciniamo al cibo quando siamo tormentati dalla fame. Se, in simili operazioni, alla mente non si affaccia o ripresenta l’idea, che la fiamma bruci, che il cibo sia il mezzo per soddisfare il bisogno della fame, non si hanno azioni coscienti di cui si possa esser chiamato a rispondere. Il processo psichico evolutivo comincia dal momento che la energia del motivo passa la soglia della coscienza e si prospetta all’attenzione con fisonomia propria, sia trasformandosi in immagine, più o meno vivace e colorita, del fatto esteriore, sia destando sentimento di piacere o di dolore in precedenza non provato. Si ha la prima ipotesi allorchè la mente ha avuto agio di riprodurre, o per ricordo o per istantanea rappresentazione, il fatto nella totalità delle circostanze determinanti il cambiamento, integrativo o disintegrativo, di coscienza; il che succede quando l’individuo ha qualità atte ad imporsi una certa calma, mediante l’uso, anco momentaneo, dei poteri inibitorî di arresto. Il cambiamento, che ne segue, o integra la coscienza, procurandole nuovo stato che con i precedenti si accordi e si armonizzi, dando luogo ad equilibrio più stabile; ovvero la disintegra, causando un turbamento, il cui effetto si compie esternamente con azione criminosa. Chi ne desideri la dimostrazione ricordi due esempî. Per fortunate circostanze della vita versiamo in istato di contentezza; inopinatamente ci si annunzia qualche notizia apportatrice di grande consolazione. La notizia è appresa e ripresentata alla mente con i caratteri piacevoli, ond’è accompagnata; essa influisce ad accrescere lo stato interno di felicità, ossia integra, rafforzandolo, il precedente stato di equilibrio di coscienza.

Suppongasi, all’opposto, che ci venga riferita qualche notizia dolorosa; essa mette subito in agitazione l’animo e finisce con lo squilibrare, disintegrandolo, il precedente stato di coscienza.

Ognuno vede che nella rappresentazione, o riproduzione immaginaria, del fatto esterno, si accompagna un senso di piacere o di dolore. Allorchè tale senso, attesa la intensità, è fenomeno secondario o semplicemente conseguenziale della rappresentazione ideale del fatto, obbietto del motivo, il cambiamento di coscienza segue il processo più normale, con serie di trasformazioni interne percepibili; ma, avvenendo il contrario, nella ipotesi che la impressione piacevole o dolorosa predomini con potere irresistibile, qualunque reazione di arresto si indebolisce o sparisce, e ne succede il repentino scoppio dell’azione.

5. —A meglio chiarire gli enunciati principî, racchiudenti la teoria fondamentale della dinamica dei motivi in genere, e dei criminosi in ispecie, sentiamo il dovere di ritornare sulle idee avanti espresse intorno alla importanza da accordarsi alla dottrina della inibizione, base, senza dubbio, della genesi dinamica degli atti di coscienza più interessanti allo studio del delinquente.

Tra le teorie svolte da Lourie, e riassunte magistralmente dall’Oddi, in un libro[15] che tutti i cultori di psicologia dovrebbero meditare, intorno alla inibizione, opino che la più esatta sia quella insegnata dal Wundt, cioè che non vi sono apparati distinti per l’inibizione, bensì esistono diversi processi, uno attivo di eccitamento, l’altro depressivo di inibizione.

È teoria fondata sulla meccanica molecolare; sul principio che l’aggregazione fisica (molecolare) e l’associazione chimica (atomica) presentano analogia completa in quanto si riferisce al lavoro molecolare. «Il sistema nervoso—riferisce l’Oddi—non entra in attività se non viene irritato da qualche stimolo. È mestieri dunque distinguere lo stato di attività e lo stato di riposo. Questo stato di riposo non è che apparente, come in tutti i casi nei quali si tratta di stati stazionarî del movimento. Gli atomi di queste combinazioni complesse eseguiscono dei movimenti continui. Essi sortono da tutti i lati, dalle sfere di azione degli atomi, ai quali essi erano legati fino a quel momento, entrano nelle sfere d’azione di altri atomi, che sono egualmente divenuti liberi. In altri termini, si hanno dissociazioni ed associazioni; e se all’esterno non apparisce nulla, gli è perchè questi due processi contrarî si compensano vicendevolmente. Lo stato di riposo, adunque, è uno stato di equilibrio. Il lavoro molecolare interno resta press’a poco costante, il lavoro esterno press’a poco nullo. Nel nervo, durante il processo di eccitamento, quando, cioè, ad esso viene applicato uno stimolo, due effetti opposti si manifestano: un effetto stimolante, che apparisce sotto forma di contrazione muscolare, secrezione, sensazione, ecc.; un altro inibitore, che tende a sopprimere il movimento, a sospendere la secrezione, a ricondurre il nervo allo stato primitivo di equilibrio. Questi due effetti cominciano nel nervo contemporaneamente: sul principio predominano gli effetti di arresto; quando lo stimolo è molto debole, questi possono essere la sola manifestazione dell’irritazione, poichè gli effetti opposti non arrivano ad estrinsecarsi; se invece lo stimolo è forte, gli effetti d’arresto, che crescono molto più lentamente che non quelli di eccitamento, vengono tosto superati da questi ultimi. L’effetto finale, il risultato esterno, è una contrazione muscolare o un equivalente. Riferendoci ai dati meccanici sopra esposti, ciò vuol dire che per l’influenza dello stimolo irritante si rompe nel nervo lo stato di equilibrio: le molecole e gli atomi subiscono una specie d’urto che li spinge ad entrare in nuove combinazioni. E la spinta è doppia, poichè doppî sono gli effetti; e si ha contemporaneamente lavoro positivo e lavoro negativo, con prevalenza del primo.—In ultima analisi ed in modo riassuntivo, si può dire che per Wundt il processo di eccitamento rappresenta l’effetto della disintegrazione del tessuto nervoso, quello dell’inibizione è l’espressione della sua integrazione»[16].

6. —La efficacia criminosa del motivo non si comprende bene se, dopo essersene conosciuta la genesi, non se ne conoscano i modi di adattamento nella coscienza individuale o collettiva.

Il processo integrativo psichico della energia dei motivi avviene: a ) o per assimilazione; b ) o per fusione; c ) o per addizione o sovrapposizione sulle energie dei precedenti stati di coscienza.

L’assimilazione del motivo criminoso va intesa nel senso che le qualità ereditarie individuali si prestino ad identificare, con la propria natura essenziale, la efficacia dinamica del novello coefficiente entrato nel campo della coscienza; il che importa adattamento, dell’elemento accidentale, all’ambiente morale predisposto dalla natura ereditaria dell’individuo. L’adattamento avviene in modo spontaneo quando tra il novello coefficiente ed i vecchi siavi identità assoluta; mentre, poi, occorre un certo sforzo di interna tensione allorachè tra essi siavi sola uniformità. La proclività, o facilità, e la repugnanza ad assimilare dati sentimenti o date idee non sono che effetti di quanto è detto: noi crediamo che ciò dipenda da libera scelta, ma non è guari difficile accorgerci di essere soggetti ad un’illusione, facilmente spiegabile se si rifletta allo sforzo, qualche volta inutile, per vincere la tendenza o la resistenza di stati di animo in contrasto con impulsi che ne variano l’atteggiamento.

Se due correnti di due diversi fiumi si incontrano in un punto e scorrono sul medesimo declivio, si mescoleranno senza difficoltà e continueranno il loro percorso: ma, se le correnti sono di opposta direzione, prima che si uniscano e perdano l’apparenza di direzione diversa, è d’uopo che tra loro succeda un contrasto, un gorgoglio, e che insieme si rimescolino a seconda la prevalenza di spinta o di più agevole piano su cui ciascuna scorre.

7. —Nel processo di assimilazione, dei motivi, si tien conto dell’adattamento alla natura ereditaria individuale; in quello di fusione l’attenzione cade specialmente sulle relazioni intercedenti tra la energia del coefficiente psichico rappresentato dal motivo e l’energia di coefficienti acquisiti ed assimilati in precedenza. Nella fusione dei motivi le correnti psichiche impulsive al delitto sono tante forze concorrenti la cui risultante consiste nella loro somma organizzata ed unificata dalla tempra del carattere individuale. La convergenza delle correnti si verifica per l’attrazione di qualità ereditarie o acquisite; la differenza, tra esse, sparisce subito che il moto potenziale addiviene attuale e si ristabilisce l’equilibrio relativo.

8. —L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo psichico dei motivi si origina, per lo più, in un periodo statico dell’io criminoso.

O che questo periodo sia precedente all’altro di preparazione e di esecuzione del delitto, o che interceda tra atti intermedî, certo è che esso è contrassegnato da maggior calma interna e comporta il potere di controllo della riflessione. Insomma, nell’addizione dei motivi, alla mente appariscono chiari i termini che debbono sommarsi o sovrapporsi. La educazione e le mal contratte abitudini molto influiscono a sovrapporre, al carattere primigenio e spontaneo personale, delle tendenze o inclinazioni le quali finiscono per avere il sopravvento ed alterare l’equilibrio interno; di guisa che, data la occasione propizia, lo stato di coscienza si turba e subisce la trasformazione che ad esso imprime qualche motivo accidentale sopravvenuto.

Non essendo avvenuta la fusione delle correnti di energie sovrapposte, sarà agevole, mediante l’uso di potere inibitorio, di sceverare, nell’addizione, i termini a sommarsi, e di paralizzare quei motivi che, estranei all’indole ed al carattere individuale, riescirebbero altrimenti a turbare l’equilibrio ed a spingerci al delitto: il che avviene quando, con mezzi preventivi, si allontanano le occasioni propizie all’insorgere di sentimenti e di passioni incomposte, oppure al formarsi di idee di egoistici intenti prevalenti.

9. —Il lato emotivo del motivo criminoso attiene al sentimento. Dipendendo l’azione del motivo dalla serie di atti ripetuti in tempi successivi, il sentimento dapprima è di disgusto, di repulsione ed ha pochissima presa nel campo della coscienza. Basta che correnti piacevoli o dolorose attraversino l’animo perchè il velo dell’oblio si estenda sulla triste impressione provata. Ma, ammesso che il motivo si ripeta e la riflessione ci avverta che possa ulteriormente rinnovarsi, al disgusto succede l’impulso rapido ed alquanto intenso che, rafforzandosi pel ricordo del precedente atto repulsivo, si trasforma in sentimento di odio. Comincia dal fondo della coscienza a venire a galla il primo conato reattivo; però ben tosto è represso per la speranza che l’atto non abbia a ripetersi e per l’influenza dei controstimoli emotivi interni. Durando l’azione del motivo, con graduale attenuazione si indebolisce in noi il potere spontaneo inibitorio e si crea un ambiente psichico più adatto alla germinazione di sentimenti e passioni di cui per lo innanzi non si aveva l’esempio.

Lo stato interno, che vieppiù si va specializzando, è qualificato da un senso di costrizione o di depressione; l’io si avvede di esser sotto l’incubo di potere estraneo e, per quanto si sforzi a liberarsene, comprende che riesce vano. Ne succede lo stato di sconforto: la vittima è consapevole che la forza di resistenza comincia a venir meno, e si addolora al pensiero dell’abisso che si scava nell’animo ed in cui potrebbero precipitare tutte le buone intenzioni, i naturali istinti di rettitudine. Durando tuttavia il motivo, di tratto in tratto il campo visivo della coscienza si restringe, si abbuia: l’inconscio piglia il predominio e l’animo è maggiormente oppresso da ricordi di precedenti stati di felicità, da idee frammentarie che passano con rapido corso innanzi alla mente, mostrando appena da lontano un lembo luminoso od oscuro di loro esistenza, la visione crepuscolare di avvenire incerto, alterato dalla fantasia, con aspetto reso pauroso dall’incertezza e dal mistero. L’epilogo di questo dramma psichico si compie o con irresistibile reazione, per la scarica di energia scoppiata con atti rapidi ed irrefrenabili, ovvero, allorchè l’azione del motivo sia perdurata, con indebolimento totale dei controstimoli e con l’insorgenza di poteri reattivi di disordine.

La emotività del motivo è ben altra cosa dalla serie di emozioni speciali che, in tempo più o meno prossimo alla prima spinta al delitto, destansi nell’animo. Inoltre, lo stadio criminoso della emotività, per chi voglia comprenderne a fondo lo sviluppo, dev’essere esaminato, non solo nel corso ordinario di genesi e di progresso, ma, in singolar guisa, per rispetto alle categorie di delitti ed alla diversità dei motivi capaci ad esercitare un’azione sui medesimi. La emotività, nei delitti di scoppio repentino e tumultuoso di passioni di ira, di odio, di vendetta, non sorpassa la sfera del sentimento; mentre, nei delitti di calcolo e di riflessione, si estende fin nel campo della ideazione. Si prenda in esame il delitto di furto. Il ladro, nel concertare il piano della sua azione, è animato dalla idea di arricchire, la quale idea, alla sua volta, si converte in iscopo o intento del delitto. Chi ben rifletta sul contenuto dinamico dei motivi del furto, si accorgerà di leggieri che questi sono scevri della vivace impulsità passionale propria dei reati d’impeto, causati da odio o da vendetta. Il lato emotivo rilevante, nel furto, è affatto ideale, nel significato d’intento calcolato alla stregua di mero interesse. Ciò costituisce il peculiare stato psichico che io chiamo stato emotivo ideale criminoso, dipendente da bisogni insoddisfatti, da desideri vivi, da speranze o lusinghe di miglioramento di benessere personale.

CAPO IV.

Cenestesi del criminale—Fisio-psicologia dei motivi.

1. Cenestesi o sensibilità generale del criminale.—2. Ontogenesi e filogenesi dell’anima del criminale.—3. Insensibilità e disvulnerabilità dei criminali.—4. La eredità.—5. L’infanzia del delinquente.—6. La teoria psico-fisiologica dei motivi.—7. Efficacia attuale e potenziale dei motivi; concomitanti somatici caratteristici del piacere e del dolore.—8. La dinamica del motivo-idea; specificazione della coscienza criminosa.

1. —Allargando ed approfondendo l’esame della vita psicofisica minore dei criminale, c’incontriamo nel problema della sensibilità generale o cenestesi del medesimo. «Il senso cenestetico—scrive il Bianchi—è la sintesi di tutte le sensazioni, in cui si riassume la personalità organica. Le informazioni di tutte le funzioni organiche, e di tutto il lavoro compiuto dagli organi nelle diverse officine organiche della vita, vengono trasmesse ai centri nervosi superiori. Da tutte le parti dell’organismo, anche le meno importanti e le più lontane, è un continuo flusso di onde nervose che stabiliscono rapporti tra tutti gli organi ed i centri nervosi superiori. A queste si aggiungono tutte le sensazioni specifiche, per mezzo delle quali il soggetto sperimenta una serie infinita di mutazioni per gli immediati contatti col mondo esterno, la cui ultima risultante è la progressiva comprensione del proprio organismo, sempre più distinto nell’ambiente in cui vive, mercè la riproduzione mnemonica di tutte le qualità fisiche del mezzo e delle modificazioni che l’organismo subisce sotto l’influenza degli agenti che operano su di esso»[17].

Questo apparato o composto organico, il cui equivalente psicologico corrisponde alla neuropsiche, quarto grado principale della psicogenesi filetica, è il sostrato della vita psichica di tutti gli animali superiori, non che di quella dell’uomo, la quale, secondo l’Haeckel, «è legata ad un apparato psichico più o meno complicato, e questo si compone sempre di tre parti principali: gli organi di senso portano le varie sensazioni; i muscoli, per contro, determinano i movimenti; i nervi compiono la comunicazione tra i primi e gli ultimi, attraversando un organo centrale particolare, il cervello o ganglio. La disposizione e il funzionamento di questo apparato psichico si paragona comunemente con un sistema di telegrafo elettrico; i nervi sono i fili conduttori, il cervello è la stazione centrale, i muscoli e gli organi di senso sono le stazioni locali subordinate. Le fibre nervose motrici conducono centrifugamente ai muscoli gli stimoli volontari o impulsi, e determinano il movimento con la contrazione muscolare; le fibre nervose sensitive, per contro, conducono centripetamente le varie sensazioni degli organi di senso periferici al cervello, e riferiscono le impressioni ricevute dal mondo esterno. Le cellule gangliari o psichiche, che compongono l’organo nervoso centrale, sono le più perfette di tutte le parti organiche elementari; poichè esse non compiono solo la comunicazione tra i muscoli e gli organi di senso, ma anche le più alte tra tutte le funzioni della psiche animale, la formazione di rappresentazioni e di pensieri ed all’apice di tutto la coscienza»[18].

2. —La cenestesi del criminale, analogamente a quella dell’uomo normale, va considerata sotto il duplice aspetto, ontogenetico e filogenetico. Le conseguenze, che ne trarremo, agevoleranno il còmpito di seguire la formazione dell’anima del criminale nelle fasi d’integrazione fino all’ultimo grado evolutivo di coscienti azioni esterne. Sono nozioni appartenenti alla biologia ed alla psicologia. La biologia ci apprende come tutti i fenomeni di coscienza si connettano alla vita di relazione col mondo esterno; che dal protoplasma alla più elevata funzione cerebrale qualunque cambiamento organico abbia per esponente uguale modificazione integrativa o disintegrativa della vita psichica; che il nesso causale tra lo sviluppo biontico (individuale) e quello filetico (storico), legge suprema d’ogni ricerca biogenetica, ha lo stesso valore per la psicologia, come per la morfologia (Haeckel). Ci apprende eziandio che la sensibilità non sia che carattere di vita degli esseri, e che dal psicoplasma (o sostanza psichica nel senso monistico), dal riflesso o funzione riflessa o, meglio, atto riflesso, alla rappresentazione cosciente ed all’intelletto non evvi che trasformazioni continue di sanzioni soggette alla legge di eredità e di adattamento. La mente, sintesi delle leggi psicologiche, non è in fin dei conti che l’altra faccia della vita e costituisce come un organismo che ha la sua storia evolutiva ed è retta nelle sue esplicazioni da leggi fondamentali comuni alla vita in genere (Bianchi). La concezione unitaria, adunque, o monistica degli esseri ci obbliga a concludere, che la genesi cenestetica del delitto, fenomeno affatto naturale, si connetta alla legge di continuità, o che vogliasi semplicemente riferire alla psicogenia individuale o biontica, o che si estenda alla storia genealogica della specie.

3. —Il Lombroso, riflettendo sulla preferenza singolare dei delinquenti per un’operazione così dolorosa e spesso lunghissima e pericolosa, com’è quella del tatuaggio, e la grande frequenza in loro dei traumi, s’indusse a sospettare in essi una sensibilità ai dolori più ottusa del comune degli uomini, come per l’appunto accade in alcuni alienati, dementi in ispecie[19]. Dall’insieme dei fatti da lui osservati dedusse, in effetti, la verità della tesi, concludendo che la insensibilità al dolore ricorda assai bene quella dei popoli selvaggi che possono sopportare, per le iniziazioni della pubertà, torture non tollerabili da un uomo bianco[20]. Al che si aggiunge una gran forza vitale che ripara prontamente i tessuti in caso di ferite o di lesioni gravi, ciò che Benedick designa col nome di disvulnerabilità[21]. Uguali caratteri si riscontrano nella sfera della sensibilità morale, causa dell’assenza di pietà o della ferocia onde si consumano molti delitti.

Fisiologicamente la spiegazione è nella genesi del dolore, il quale, dipendendo da differenziazione progressiva ontogenetica e filogenetica, pel perfezionamento e sviluppo maggiore degli organi dei sensi, non che per raffinata squisitezza di sentimenti altruistici, nel criminale ha dovuto arrestarsi in un grado molto basso, indice o di forma degenerativa o di reversione atavica ad organismi meno perfetti.

4. —Ontogeneticamente la sensibilità del criminale dipende in primo luogo dalla eredità. È fin dal momento della generazione e della vita intrauterina che le qualità malefiche pigliano consistenza e cominciano a palesarsi. Le leggi della eredità fisiologica e patologica si applicano specialmente alla biogenesi del delitto. Le varietà di risultati, che spesso mettono in dubbio la verità delle leggi generali, dipendono dalla infinita serie di circostanze imprevedibili. Ma la indagine accurata sui germi embriologici del delitto, non trascurando alcuno degli elementi ereditarî ed atavici, i quali potettero influire direttamente o indirettamente sulle qualità acquisite dalla nascita, deve fornirci molti lumi, intorno alla conoscenza delle qualità medesime, senza i quali resteremmo di fronte ad imperscrutabili misteri.

Fin dal momento che la vita individua comincia con la cellula-uovo fecondata o cellula stipite ( cytula ), i caratteri organici dei genitori si trasmettono nella prole. Il dubbio che ne potrebbe sorgere, secondo che abbiamo detto, è dal non conoscersi ancora esattamente le trasformazioni tutte inerenti alla legge di variazione nei novelli organismi sôrti dalla unione dei germi dei genitori: però eziandio in ciò vige il principio universale dell’unità della vita nello spazio e nel tempo, non che l’altro della varietà con la identità sostanziale degli esseri.

5. —Dalla biogenesi cenestetica del criminale passiamo ai primi stadî di sviluppo, alla infanzia. Qui troveremo analoghi caratteri tra ciò che si osserva nei fanciulli e la delinquenza nei selvaggi. L’imprevidenza, la crudeltà, la insensibilità, l’impetuosità, sono distintivi dell’infanzia del criminale e trovano perfetto riscontro in uomini barbari a livello sottostante alla civiltà. La natura di questo scritto mi dispensa dall’addurre esempî comprovanti l’asserto, i quali, d’altronde, furono così bene raccolti dal Lombroso nel primo volume del suo Uomo delinquente. Concludendo, diciamo, che la genealogia del delitto, sopratutto nelle forme inferiori della vita psicofisica, non deve mai scompagnarsi dagli opportuni riscontri con lo sviluppo delle qualità criminose dell’individuo; i due campi di studî s’integrano e si completano a vicenda.

Vogliamo soltanto aggiungere, che le anomalie di sensibilità, fisica o morale, del fanciullo, più che da costituzione organica, dipendono dalla deficienza o mancanza di discernimento di molte operazioni causanti effetti dolorosi per sè o per gli altri. Molti psicologi dell’infanzia furono sorpresi di atti in apparenza crudeli in fanciulli che, cresciuti in età adulta, diedero prova di squisita sensibilità e tendenze altruistiche. Essi attribuirono il mutamento, in bene, all’opera della istruzione e della educazione. Si ingannarono. La insensibilità era l’effetto dello stato d’incoscienza o di imprevidenza del fanciullo; la qualità opposta nacque dal momento che si acquistò consapevolezza di ciò che equivalga produrre uno stato doloroso. L’attenzione, facoltà molto tarda a svilupparsi; la riflessione, prodotta dalla padronanza negli interni processi di arresto, giuocano influenza massima sui fenomeni di percezioni sensitive: mancando di regola, od essendo molto deboli nei fanciulli, non vi è a meravigliarsi se questi si mostrino così poco sensibili e sì poco inchinevoli alla pietà per i dolori altrui.

6. —Conosciuta la cenestesi del criminale, riprendiamo la trattazione dei motivi, sotto il riguardo della teoria fisio-psicologica. Abbiamo visto che l’azione dei motivi, sulla nostra sensibilità, interna od esterna, obbedisce a leggi affatto dinamiche. Essi, in altri termini, non sono che altrettanti coefficienti di energie.

La loro principale legge è la legge della dinamogenesi, per cui ogni stato di coscienza tende a continuarsi in un movimento. I motivi furono da noi distinti in esterni ed interni. Essi, però, in quanto sono efficienti o coefficienti dei delitti, non sono che equivalenti di sentimenti o di idee. Vedremo, a suo tempo, la natura differenziale delle emozioni criminose, e quanta efficacia abbiano nel predisporre al delitto.

Per ora diciamo, che l’azione dei motivi, con la energia di sentimenti, svolgesi nella regione dei fenomeni affettivi. Senza pretendere, che non ne sarebbe il luogo, di fare distinzioni dei fenomeni medesimi, basterà dire, pel nostro intento, che essi tutti o sono causa di dolore, ovvero di piacere. Ridotta la energia dei motivi alle due forme primigenie della nostra vita emotiva od affettiva, non resta che ricorrere alle leggi generali, onde quelle sono rette, per concludere a nozioni soddisfacenti.

Il piacere ed il dolore sono i due limiti estremi in cui si polarizza la nostra vita. Corrispondono al primo tutti gli stati psicofisici che rialzano la tonalità delle funzioni al grado di maggiore successo, per esuberanza di energia attuale che non superi la media del bisogno e che agevoli l’opera dell’attenzione ad effettuarsi senza incontrare ostacoli.

Corrispondono al secondo gli stati depressivi delle energie psicofisiche; ne sono cause le difficoltà al funzionamento, l’arresto o l’impedimento alla soddisfazione di bisogni, lo squilibrio parziale o totale dell’organismo. Che vi sieno stati interni indifferenti io non ne dubito; ma indifferenti verso chi?—Certo verso il soggetto che non li avverte, non in sè stessi considerati o nelle loro cause. Il passaggio da un estremo ad un altro, in ogni specie di fenomeno, è segnato da punti intermedî. Il campo visivo della coscienza ha dei limiti abbastanza mutabili, che acquistano o perdono estensione a seconda della luce mentale riflessa: ma chi può dire che nei più oscuri confini essa manchi di contenuto; o che, al disotto o nei pressi della sua soglia, non funzionino delle energie di cui non abbiamo neppure il sospetto?

7. —I motivi o agiscono per efficacia attuale o per efficacia potenziale. Diciamo che la efficacia sia attuale allorchè dipende da motivo presente; diciamo che sia potenziale allorchè dipende da motivo trascorso e del quale si serbi ricordo.

L’attualità del motivo ha importanza grande nei delitti passionali o d’impeto, non così nei delitti di calcolo per i quali il materiale dinamico della determinazione consiste nella risonanza piacevole o dolorosa di svegliati ricordi.

Di qualunque genere si consideri il motivo, purchè sia causa di stato piacevole o doloroso, esso si accompagna a concomitanti somatici caratteristici. «Concomitanti somatici—scrive il Bianchi—del piacere sono: aumento della circolazione del capo senza corrispondente aumento della pressione arteriosa (secondo Meynert, il quale ammette dilatazione vasale con pressione arteriosa diminuita); dilatazione volumetrica degli organi periferici (Lehmann); elevazione del polso; acceleramento del cuore; viso raggiante (si dice gonfio dalla gioia); aumento delle sensazioni; rapidità ed energia dei movimenti; aumento della profondità dell’ispirazione, ritmo respiratorio accelerato; aumento della potenza muscolare. Il piacere è dinamogeno.—Concomitanti somatici del dolore sono: diminuzione del calibro dei vasi per contrazione delle pareti vasali; pallore della cute per ischemia; diminuzione di alcune secrezioni (la bocca secca, la scomparsa del latte) e l’aumento di alcune altre (lagrime); costrizione dei vasi polmonari donde quel senso d’oppressione che avvertono tutti quelli che sono sotto la tirannia del dolore; senso di freddo; atonia dei muscoli volontari, donde il capo curvo (curvato dalla tristezza, dice Lange), la faccia allungata; la voce fioca; gli occhi più grandi (maggiore apertura delle rime palpebrali); il dolore è paralizzante»[22].

8. —Allorchè il motivo si trasformi in equivalente ideale, dal campo affettivo passa nel campo percettivo o rappresentativo. All’azione diretta dell’efficacia determinante si sostituisce l’azione riflessa. Il fenomeno è molto complesso e formerà obbietto degli ulteriori studî sul processo formativo della coscienza criminosa. Limitandoci ora alla parte affatto determinante del motivo-idea, non ci allontaneremo dal rapporto puramente causale, che intercede tra la dinamica ideale del motivo criminoso e l’effetto di squilibrio di coscienza.

L’idea, chi lo ignora? è di per sè un composto psichico. I coefficienti sensitivi o fisiologici ne sono la base soggettiva; le presentazioni o percezioni del mondo esterno ne apprestano il materiale. La forza, dunque, integrante o disintegrante dell’idea equivale alla risultante di componenti fusi insieme in fenomeno di tensione sulla medesima linea direttiva.

Scomposta negli elementi, l’idea si risolverà in fattori fisici e psichici assimilati od unificati per coesione immediata o successiva. Ma perchè il motivo-idea pel criminale è causa di squilibrio, a differenza di quanto avviene nell’uomo normale? Perchè l’offesa è respinta sempre con pari o maggiore offesa dall’impulsivo ed è motivo di generoso perdono per l’uomo virtuoso? La risposta è contenuta nelle nozioni svolte intorno allo stato di equilibrio e di squilibrio psichico, non che nelle leggi della dinamica dei motivi criminosi, secondo le quali, nel criminale, la nota culminante dello stato psicofisico è l’ anomalia. Manca, non per tanto, un altro dato ai precedenti e qui crediamo utile ricordarlo.

La legge di coesione nelle formazioni psichiche ci dà il grado e la fisonomia di ciascun nuovo composto. Essa, però, è completata dalla legge di continuità nella coesione psichica. Più coesione, più specificazione; meno coesione, meno specificazione (Ardigò). Quindi, date le attitudini del criminale a maggiormente assimilare le energie squilibranti dei motivi, ed a renderne più coerenti gli effetti, lo stato proprio che ne seguirà, di squilibrio, sarà più differenziato o specificato. Nel ritmo psichico le energie seguono la linea di minore resistenza. Il fondo degenerativo del criminale, meno ostacolando il predominio di tendenze malefiche, più ne rende agevole la specificazione; il che vale tanto per la singola formazione psichica, quanto per la continuità della intera vita psichica.

CAPO V.

Il processo cosciente del delitto. Stadio di formazione.

1. Formazione naturale della psiche.—2. I germi malefici del delitto nei primordi della vita. 3. La genesi di forze antagoniste nella vita di relazione.—4. Il periodo primordiale di tendenze criminose nel fanciullo.— 5. Il secondo periodo formativo della personalità individua del delinquente.—6. La legge di imitazione nell’infanzia del delinquente.—7. La selezione organica degli elementi integrativi del delitto.—8. Il fenomeno della simpatia e le sue leggi—9. Influenza dell’ambiente di famiglia e del fattore economico sul delitto; la educazione ed i pervertimenti ereditarî. —10. Influenza delle necessità sociali.—11. Effetto degenerativo dell’azione suggestiva criminosa.—12. Influenza dei motivi sentimentali che agiscono sulla immaginazione.

1. —La nostra vita psichica non è che un alternarsi di stati di coscienza. Dalla sensazione alla ideazione, dalla volizione all’azione il processo integrativo dell’io si risolve in atti successivi che o si collegano o si elidono o si fondono insieme. La consapevolezza della vita psichica comincia dal momento che lo stimolo, coefficiente dinamico, agendo sulle nostre tendenze ereditarie od acquisite, entra nel campo visivo della coscienza e ne muta la superficie.

Da siffatto momento ha principio la vita psichica con equivalenti paralleli alle funzioni organiche. Da siffatto momento comincia il processo di formazione della coscienza e nel singolo individuo si rendono percepibili le prime distinzioni di qualità destinate ad ulteriori progressi nel tempo.

Chi desideri formarsi esatti giudizî sul perchè di tendenze spiccate ad azioni virtuose o meno, deve, fin da questo primo periodo, dirò embrionale, della psiche, non tralasciare di notare tutti i modi onde l’organismo psicofisico si va formando, e le leggi che ne regolano lo sviluppo.

Avanti ci occupammo della delinquenza nella età dell’infanzia e ne rassegnammo le somiglianze con la natura dell’uomo selvaggio. Simile analogia ontogenetica e filogenetica, in gran parte, ha la origine in germi ereditarî non per anco differenziati per l’adattamento dell’ambiente sociale; ciò che, con l’opera del tempo, molto facilmente potrà avvenire.

Volendo, frattanto, conoscere come, fin dall’indicato periodo, l’anima del delinquente a poco a poco si venga plasmando, egli è d’uopo rifarci alquanto indietro e, ripigliando la trattazione dei motivi o dei determinanti al delitto, vedere quale efficacia essi giuochino in concorso a tutti gli altri coefficienti, esterni ed interni, nel dare il primo contenuto organico alla coscienza.

2. —La forma indistinta delle tendenze ereditarie ci apprende, che nei primordi della vita i germi malefici del delitto siano involuti in centri di energie di natura siffatta da non sottostare necessariamente alla immanenza di speciale differenziazione. La ereditarietà, tuttochè sia la principale scaturigine del bene o del male operato dall’individuo, non è a concepirsi sotto l’aspetto di causa fatale; chè, così dicendo, si trascurerebbero tutti gli elementi di ambiente e di adattamento, i quali concorrono, simultaneamente o successivamente, alla formazione dell’organismo psicofisico. Invece egli sembra più esatto il pensare, che i germi ereditarî o, meglio, le energie costituenti l’organismo dell’individuo, nella loro forma involuta primigenia, diano luogo all’apparire di caratteri che facilmente si confondono insieme ed agevolmente sono convertibili negli atti esteriori.

La inclinazione al mal fare, all’altruismo, alla carità, alla beneficenza sono qualità che in pratica possono effettuarsi in maniere svariate. Mal fa l’egoista, l’ambizioso, il delinquente; eppure non si dirà che l’uno equivalga gli altri. In breve, è verità incontrastabile che la ricerca del male, o etico o giuridico, debba eseguirsi non già in sè o nella essenza organica germinativa, bensì nei primi atti esteriori con note differenziali.

Proponiamoci, dunque, il dovere di vedere perchè ordinariamente nel fanciullo si riscontrino le qualità dell’uomo selvaggio; vale a dire perchè nei primordi della nostra esistenza il delitto rimugghi dal fondo dell’anima e desti l’allarme in chi n’è spettatore.

3. —Il sentimento primo fondamentale della nostra vita è il sentimento di esistenza. Esistere non significa soltanto essere o vivere, ma avere il senso immanente della potenzialità ad agire ed a mettersi a contatto col mondo esterno. Insieme a questo sentimento un altro ne sorge: il sentimento della difficoltà nell’esplicarsi, ossia il senso di ostacoli frapposti al proprio funzionamento organico. È dal contrasto dei due sentimenti suddetti che sorge la prima forma di forze antagoniste nella vita di relazione; è dalle successive vittorie, effettuate dalla potenzialità sugli ostacoli funzionali, che il progresso personale si concreta con gradi vieppiù ascendenti.

Dagli atti riflessi dei primi mesi di vita, del fanciullo, alle azioni reattive contro qualunque ostacolo si frapponga alla soddisfazione dei più vivi suoi desideri, vi sono esempî d’una coscienza automatica ed istintiva ad affermare vieppiù la prevalenza di energia del tutto personale, base della vita incipiente della psiche e della identità dell’io in mezzo alla varietà incessante dei fenomeni. Fra le relazioni interne, o delle funzioni interne, e le relazioni esterne si stabilisce un rapporto sempreppiù costante: più l’ambiente addiviene complesso e più l’individuo, differenziandosi, si organizza, fino a che egli, in mezzo a’ simili, assume fisonomia personale stabile.

4. —Or, considerate il fanciullo nel descritto periodo primordiale di vita di relazione, e vi accorgerete, di leggieri, che, se germi malefici egli ha ereditati, questi faranno la loro prima comparsa nell’accentuare la energia reattiva personale verso intenti per nulla altruisti, con la scelta di mezzi meno adatti all’ambiente civile. In somma, a dir breve, la genesi psicofisica del delitto, mentre biologicamente non si allontana dalle leggi dell’ontogenesi e della filogenesi, leggi comuni a tutte le specie degli organismi viventi, si ricongiunge al principio generale di perenne lotta per l’esistenza, con la prevalenza degli organismi più adatti all’ambiente. Il senso di delitto, a certe azioni eticamente condannabili e legalmente reprimibili, trova la spiegazione giuridica nella necessità dell’ordine sociale: la sua origine naturale deve attingersi direttamente alle leggi della vita ed alle condizioni ond’essa si accompagna pel progresso dell’organismo umano. Data la lotta tra l’energia individuale e le energie antagoniste, si ha contrasto tra stimoli e controstimoli, e l’aumento di potenzialità è a detrimento della possibilità ad essere indirizzati dalla forza degli agenti esterni che, o naturalmente o artificialmente, hanno effetto su noi.

La prima ed elementare differenza avvertita dal fanciullo, nell’apprezzare l’entità d’un’azione, è improntata dall’attrattiva di sentimento piacevole o doloroso. L’ostacolo, un impedimento alle nostre funzioni, reca dispiacere; l’azione istintiva è di allontanarlo. Il contrario avviene con obbietti piacevoli, i quali ci attraggono a contendercene il possesso.

Il sacrificio di astenersi da ciò che piaccia è ben raro che si esperimenti nel bambino. La ragione è perchè esso si connette ad un processo di arresto, che nei primi anni della vita manca in noi. Nel bambino la sensazione del piacere è seguìta immediatamente da impulsione esterna: mancando l’ideazione dell’atto, il fenomeno è semplicemente riflesso ed istintivo.

5. —Formatosi il primo abbozzo della personalità individua, i dati della coscienza si vanno gradatamente aumentando e spunta la prima volta la distinzione in principio semplicemente intuita poi imposta dalla necessità di adattamento tra le azioni lecite e le non lecite o, meglio, tra ciò che è conseguibile e ciò che dev’essere rispettato. Le impulsioni verso oggetti o atti piacevoli sono frenate dal contrasto dei controstimoli, di cui si comincia a percepire la esistenza; il mondo esterno, durante la lotta, è rappresentato con più precise modalità e confini; fino a che, nel ritmo di azioni e reazioni crescenti, non cominci ad apparire la prima forma di equilibrio o di squilibrio.

Il fanciullo, proiettando al di fuori la sua personalità, assorbe dalle personalità altrui le energie similari alle ereditarie o, accidentalmente, acquisite per sopravvenute modificazioni organiche. Di qui i due potenti coefficienti della evoluzione o dissoluzione personale, la imitazione e la simpatia.

6. —Nessuno scrittore, che io mi sappia, ha dato al adeguata importanza alla imitazione quale coefficiente genetico del delitto, anzi quale mezzo principale di organizzazione spontanea della coscienza del delinquente.

La origine della imitazione si connette ad un fenomeno di vera suggestione, che distingueremo col nome di motrice. Ogni atto, anzi ogni pensiero, ogni sentimento implicano movimento o muscolare o cerebrale: movimento che deve trasmettersi esternamente.

I fenomeni telepatici, e ciò che la quotidiana esperienza ci apprende, sono lì per dimostrarci che nei nostri centri cerebrali, ideativi, emotivi o volitivi, si ripercuotono ininterrottamente movimenti che ci vengono dal di fuori e che rispondono alla equivalenza di energie in via di trasformazione. Reciprocandosi, in tal modo, la relazione dinamica tra noi ed i nostri simili, finiamo col prendere le abitudini mentali, le inclinazioni morali trasmesseci a contatto od a distanza. La imitazione è il fatto più complesso del riferito principio. Essa si connette dall’un lato alla energia potenziale delle qualità ereditarie, dall’altro alle influenze attrattive degli atti o delle azioni costituenti l’ambiente morale e civile in mezzo al quale ci esplichiamo.

È sì grande la influenza imitativa che, qualche volta, arriva alla forza di contagio. Tra la infezione delle malattie fisiche e la infezione delle malattie morali evvi sì stretta analogia che quasi noi possiamo, per spiegarcene l’essenza, supporre dei microbi del vizio e del delitto.

Alcuni scrittori, sforzandosi con pazienti osservazioni di costruire una psicologia scientifica dell’infanzia, incorsero nel difetto di origine di porsi sempre da un sol punto di vista; facendo le loro osservazioni e gli esperimenti in ambienti privilegiati, tra fanciulli nati e cresciuti in famiglie civili, con qualità ereditarie normali. Ben altrimenti dovrebbe praticare chi desiderasse formarsi opinioni illuminate sulla psicologia della delinquenza, il cui massimo esponente si ritrova nei bassi fondi sociali, negli ambienti preparati alla fecondazione spontanea dei germi del male.

Non giova farsi illusioni: la vita sociale, come ovunque si svolge, è formata a strati sì differenti tra loro da non permettere neppure la rassomiglianza di analogia. Pensieri, costumi, azioni son tanto diversi dall’uno all’altro strato sociale che erroneo sistema sarebbe quello di confonderne le osservazioni e le illazioni; peggiore il credere di aver conseguito l’intento scientifico col raccogliere dei principî o dei cànoni d’indole interamente relativa, di valore unilaterale.

7. —La imitazione ad assorbire, ad assimilare gli elementi psicofisici del delitto succede, in ambienti adatti, per legge spontanea di selezione organica. Il delinquente, piccolo o adulto, non si accorge neppure delle infezioni malefiche delle quali è la vittima; proprio allo stesso modo onde le più letali malattie ci trasmettono il loro germe senza che ne avessimo consapevolezza. Durante il periodo di incubazione, embriologico del delitto, la imitazione, agevolandoci i mezzi di contatto e di riproduzione dei germi del male, è la via meglio adatta per la trasmissione di energie criminose destinate a causare, nel soggetto passivo, cambiamenti ed impulsioni a futuri delitti.

Per comprendere il meccanismo o la statica e la dinamica della imitazione criminosa, noi dobbiamo ricordare un altro fenomeno abbastanza trascurato in psicologia, il fenomeno della simpatia, sulla quale non a torto Adamo Smith fondava la morale.

8. —La simpatia fisiologicamente si rapporta alla teoria delle azioni riflesse; psicologicamente è l’attitudine a riprodurre in noi i piaceri ed i dolori dei simili; sociologicamente è la base della legge di solidarietà umana; naturalmente non è che uno dei tanti modi della legge universale di attrazione. Le distinzioni, che delle forme svariate della simpatia, massime sotto il riguardo fisio-patologico, fecero gli scrittori, sono argomenti della importanza ad essa generalmente attribuita e dell’obbligo che si ha di tenerne quel conto che effettivamente merita.

Barthez distingue le sinergie dalle simpatie; Tissot le simpatie attive e le passive; Hunter le simpatie per continuità e le simpatie per contiguità. Noi, riferendoci al sistema meccanico unitario, diciamo che anche la simpatia debba spiegarsi con la legge di attrazione di centri di energie e con la più agevole trasformazione di movimenti per le vie di minore resistenza. Quindi è che la simpatia, nelle relazioni con i simili, è la ragione davvero efficiente della imitazione; poichè questa non si verificherebbe se tra esseri consimili intercedesse tale avversione da allontanarci irremissibilmente l’uno dall’altro. In conclusione, e tenuto presente tutto quanto è sopra detto, possiamo tirare l’infrascritta prima legge: L’ attitudine ereditaria inclina verso l’azione attrattiva di energia similare per la prevalenza di potere di simpatia. L’osservazione quotidiana è che i simili si attraggono con i simili; tra essi, qualche volta, si desta una corrente di affinità irresistibile. Sono le molecole fisiche sociali, che si attraggono, si unificano per formare l’essere virtuoso o il delinquente: è l’immanente potere della vita nelle variazioni delle forme omogenee ed eterogenee, è la perpetuazione degli individui e delle specie nella selezione continua organica e sociale.

La seconda legge, di evidente applicazione all’ambiente del delitto, è che la simpatia agisce con l’attenuare la forza di arresto delle tendenze antagoniste, col rafforzare la efficacia degli stimoli analoghi tra energie a contatto, con l’abituare l’attenzione a trascurare ciò che meno ci alletta, con l’unificare i motivi sinergici.

Chi abbia l’agio di osservare l’amicizia di individui dediti al delitto, vedrà che tra gli stessi ogni divergenza di opinioni o di abitudini tace allorchè trattasi di stringersi nella vicendevole fiducia di sentirsi adatti a commettere date azioni, e nel suggestionarsi, con sforzi reciproci, a non temere la minaccia della legge o le difficoltà che ostacolano la perpetrazione del reo disegno. La forza di simpatia duplica in ciascuno la spinta al delitto, come smorza o attenua l’opera della controspinta; oltre che fa sorgere un senso di compiacimento per l’opera propria, purchè questa riesca gradevole altrui.

Una terza legge, che nelle osservazioni pratiche potrà tanto giovare, è la seguente: La simpatia, in quanto influisce ad organizzare la coscienza criminosa, distinguesi in individuale o collettiva, diretta od indiretta; la prima attiene alle persone con cui si abbia uniformità; la seconda dipende dalla inclinazione a voler commuovere favorevolmente la pubblica opinione.—L’influsso della pubblica opinione sull’animo del delinquente è di estrema considerazione. Consistendo, d’ordinario, il delitto in prevalenza di forza o di astuzia, porta seco la lusinghiera persuasione del compiacimento di coloro da cui amiamo essere ammirati e dell’ammirazione della generalità degli uomini.

9. —La prima fonte di morale degenerazione è la mal costituita famiglia; il primo rimarchevole fattore è l’economico.

Anche a non accettare le estreme conclusioni del materialismo storico, che coordina tutti i fenomeni sociali al sottosuolo dei rapporti economici e pretende che dall’espandersi delle energie produttive sieno determinati gli incessanti contrasti, cause di cambiamenti nella vita pubblica o privata, egli è ragionevole ritenere che la mancanza o la deficienza dei mezzi necessarî alla esistenza ed alla disciplina delle personali facoltà debba molto concorrere all’arresto d’incremento progressivo dell’organismo fisico e morale. Il problema, tuttochè complesso negli elementi, è di facilissima soluzione a chi attenda a quanto avviene tuttodì sotto gli stessi suoi occhi. La miseria è baratro scavato ai più nobili sentimenti morali, alle migliori iniziative dell’esistenza: è tenebra in cui il lume della intelligenza poco a poco si spegne; è causa di sconforto e di esaurimento per le volontà più robuste e meglio agguerrite. A contatto forzato con genitori scioperati, bevoni, dediti al vizio, al delitto; in mezzo a gente non guidata che da motivi di egoismo; privi di controstimoli o di esempî di virtù; col microbo latente e costituzionale del delitto, chi vorrà pretendere atti onesti da uomini sì sventurati? Aggiungasi l’opera incessante, potente dei pregiudizî, il falso convincimento d’una morale fittizia esclusivista, e si avrà il dato giusto del come e perchè la famiglia sia, nei bassi fondi sociali, la vera scuola della demoralizzazione e degli istinti perversi.—Dimandato F. B., un giovanetto di 17 anni, da me difeso pel reato di omicidio, dopo altre due condanne per ferimenti, perchè mai, senza sufficiente motivo, in tenera età si fosse reso colpevole di delitto sì grave, rispondendomi, mi raccontò una lunga istoria di reati in famiglia, dei quali uno di assassinio commesso dal padre morto in carcere, e concluse: «Che cosa potevo far io se non uccidere il primo che mi avesse offeso?». Difesi, in tempi diversi, sei individui della famiglia D. F., tutti per delitti di sangue: l’ultimo rivoltosi al mio patrocinio, perchè responsabile di ferimento, essendo stato richiamato sui precedenti dei congiunti, mi rispose: «Non è a meravigliarsi; è malattia di famiglia!...».

La educazione può molto modificare i pervertimenti ereditarî, ed aiutare lo sviluppo dei buoni semi: ma per educazione, osserva Lombroso, intendiamo non le semplici istruzioni teoriche che di raro giovano, anche agli adulti, per cui vediamo sì poco approdare la letteratura, i discorsi, le arti dette moralizzatrici, e meno ancora le violenze con cui al più si ingenerano degl’ipocriti, si trasforma non il vizio in virtù, ma il vizio in un altro vizio; bensì una serie di impulsioni, moti riflessi sostituiti lentamente a quegli altri che furono cause dirette o almeno favorevoli al mantenimento delle prave tendenze, e ciò col mezzo dell’imitazione, delle abitudini gradualmente introdotte colla convivenza in mezzo a persone oneste e con precauzioni sapienti per evitare che sorga in terreno adatto a proliferarsi l’idea fissa che vedemmo divenire sì fatale nell’infanzia»[23].

10. —La seconda fonte più abbondante e più probabile di morale degenerazione e di preparazione al delitto è l’ambiente di necessità sociali analogo alla classe a cui ciascun di noi appartiene.

I fattori dell’umano progresso, generalmente intesi sotto il nome comune di civiltà, in quanto sono elementi differenziati di maggiori attitudini nella lotta per la vita portano la conseguenza di accrescere la incapacità di adattarsi alle risorse di cui si contentavano i nostri avi. Indi è che, come bene osserva Féré, la consumazione di alimenti, di eccitanti, di materie d’ogni specie da soddisfarsi si accresce di giorno in giorno.

«Per soddisfare i suoi bisogni incessantemente moltiplicati, l’uomo si esaurisce nella lotta contro gli elementi; ed è per compensare gli effetti di questo esaurimento ch’egli si sforza di chiamare in aiuto delle deboli sue braccia le risorse del suo spirito, le quali dovranno compensare con molteplici invenzioni la insufficienza delle lor proprie forze. Ma ciascun nuovo sforzo di adattazione, ciascun progresso di ciò che noi chiamiamo civilizzazione, è una nuova causa di esaurimento il quale si manifesta ognora con più intensità sugli individui maggiormente indeboliti. Questi individui divengono ben tosto incapaci di continuare la lotta, e soccombono sia a disordini generali della nutrizione, sia a degenerazioni più o meno localizzate, trasformandosi in affezioni organiche diverse o in disordini funzionali con predominio verso l’organo il più debole»[24].

Nelle attuali condizioni di lotta per l’esistenza, in particolare nelle città, è sopratutto il sistema nervoso centrale che sopporta le spese del lavoro d’adattazione; l’esaurimento può risultare tanto per sforzi fisici che psichici. «Uno dei principali effetti dell’esaurimento nervoso è l’incapacità dello sforzo continuato. È vero che per i soggetti congenitamente sani e ben conservati il lavoro eccessivo non determina che una fatica in generale facilmente riparabile; ma, se a questo lavoro eccessivo si aggiungono delle privazioni di ogni sorta, ne segue un esaurimento più profondo e più duraturo, il quale non pure favorisce la discesa individuale, ma ancora prepara le attitudini morbose della generazione seguente. È meno in ragione della fatica personale che in ragione dell’esaurimento ereditario, dello spossamento capitalizzato, che la razza subisce l’imposta progressiva della degenerazione e diviene meno capace di sforzi produttivi»[25].

11. —I moltiplici esempî di vizî e di azioni delittuose agiscono, sulla organizzazione della coscienza criminosa, con la forza di stimoli suggestivi. Nè alcuno più dubita sull’effetto degenerativo della suggestione in ambiente propizio alla germinazione di esempî viziosi. Essa altera profondamente la psiche, producendo perversioni nella sensibilità e nelle più alte funzioni cerebrali; giunge perfino a mutare interamente i caratteri della personalità ed a far sorgere inclinazioni e bisogni per lo innanzi sconosciuti. L’effetto equivale ad una stratificazione graduale di sentimenti e di idee, all’abitudine d’adattazioni coscienti o incoscienti a percepire in diverso modo la realtà, a creazione di poteri psichici difformi dai precedenti, a risultati psicofisici con relazioni ed indirizzi nuovi. Dopo alcun tempo, più o meno lungo, il candidato al delitto si trova preformato e preparato all’esperimento; non mancano che le occasioni, le quali, di certo, non si faranno guari attendere.

Lo avete voi mai osservato quel fanciullo che, poco amante di un’ordinata e costante occupazione, ama spesso sfuggire all’autorità paterna e si abbandona al vagabondaggio; buona parte della giornata, di niente altro preoccupato che di provar gusto nel giuoco, nei piccoli vizî, negli atti di sopraffazione, nell’uso di audace astuzia pel conseguimento di qualche intento, con imprevidenza dell’avvenire, con trascuratezza di ogni atto meritevole di lode? Seguitelo nei susseguenti anni della vita. Egli un bel giorno si ribellerà all’autorità dei genitori; ne schernirà i consigli, acquisterà di sè la coscienza autonoma d’una energia disordinata, in lotta con i freni sociali, con chiunque gli apparisca di ostacolo alla soddisfazione di bisogni resi urgenti dalla eccezionalità di vita. Lo sforzo di vincere le difficoltà, nella lotta impegnata, si traduce in un aumento di pericoli di soccombere, da un istante all’altro, sia sotto la sanzione repressiva della legge, sia sotto la reazione altrui; finisce, però, sempre o con l’esaurire la energia, causando qualche forma di degenerazione, ovvero col trasformare fisicamente e psichicamente il soggetto e spingerlo irremissibilmente nel baratro del delitto. È la storia uniforme di quasi tutti i frequentatori della prigione: dalla vita di disordine si passa al vizio; dal vizio al delitto.

12. —Non poca influenza deve attribuirsi a tutti i motivi sentimentali che agiscono direttamente sulla immaginazione. È incredibile dire quanta forza suggestiva sulla pubblica opinione e sui singoli animi possano esercitar delle credenze artificiosamente o morbosamente ridestate; dei sentimenti di malintesa pietà, di falso entusiasmo, di un’attesa ansiosa, di un volere imposto fin con la costrizione di morale supremazia. Dapprima quello che è impossibile fin anche a pensarsi, appare possibile, ma sotto condizioni eccezionali; poi si rende plausibile con le date circostanze di fatti; indi si ritiene per sicuro, anzi certo, e finisce con l’impossessarsi degli animi e col trascinarli fatalmente là dove la ragione non avrebbe giammai permesso che si arrivasse.

La immaginazione, massimamente se ravvivata dal sentimento, è la facoltà magica che tutto trasforma e colorisce, alcuna volta in bene, quasi sempre in male. Chi potrà mai calcolare l’effetto dinamico, sulla immaginazione di poveri degenerati o deboli di mente, prodotto per la teatralità di drammi giudiziarî dai colori i più foschi, dalle scene le più atroci? Chi è abituato, avvocato o magistrato, nelle aule dei Tribunali e della Corte di assise, ha dovuto, oh! quante volte, accorgersi che di fronte alla figura audace, feroce d’un imputato od accusato, il pubblico minuto di persone indifferenti, di donne, di ragazzi, restava estasiato, ammirato. In quelle ore di pubblico spettacolo, in quel periodo di ansie, di godimento morboso, la coscienza degli spettatori è così suggestionata, è così scossa che, quando si arriva all’epilogo o della condanna o dell’assoluzione, molti buoni sentimenti si saranno affievoliti, correnti passionali han preso possesso della coscienza, germi deleterî di pervertimenti futuri han messo radice: e dire che tutto questo succede perchè la giustizia funzioni!

CAPO VI.

Le norme fondamentali della psicologia criminale.

1. Si riassumono le principali verità in precedenza svolte.—2. Norma che guidar deve la conoscenza dei rapporti interni con i fenomeni esterni; legge principale di anomalia del delitto.—3. L’ordine morale ed il processo di arresto inibitorio.—4. L’ autosuggestione motrice; legge della risultante impulsiva al delitto.—5. Rapporti dinamici e logici tra i motivi.—6. Processo organico ed accidentale dei motivi criminosi.—7. Conservazione e sviluppo dei fattori psicofisici del delitto.—8. Legge di atipicità; tipo antropologico del criminale.—9. Disintegrazione dell’anima del criminale; dissoluzione della funzionalità psicofisica organica.—10. In che, psicologicamente, consiste tale dissoluzione.—11. La teoria degenerativa del delitto.—12. La fenomenologia clinica di dissoluzione della personalità.—13. Norma per constatare la ipotesi del processo evolutivo della energia criminosa e la ipotesi d’intervento di qualche affezione patologica; differenza tra anomalia ed infermità; importanza psicologica del criterio della pena.—14. Inefficacia scientifica e pratica delle perizie psichiatriche.—15. Disposizioni dell’articolo 46 e 47 del Codice penale; quali sieno le norme dei periti perchè riescano a constatare le condizioni di integrità psichica necessaria alla imputabilità penale.—16. Necessità, pel perito, di una seria coltura psicologica.—17. In che consistano il metodo di esperimento e quello di osservazione; l’indirizzo sperimentale nei fenomeni psicologici; come debbano servirsene i periti psichiatri.—18. Ragioni di antagonismo tra periti e magistrati: dovere del perito psichiatra; dovere del psicologo e del giurista.

1. —Pervenuti a questo punto sentiamo il bisogno di riassumere le verità che sono la base di ciò che in prosieguo verrà svolto.

Abbiamo detto che il delitto sia un prodotto di attività psicofisica effettuata nell’azione antigiuridica esteriore. Questa attività è sottoposta alla continuità; il suo processo, nel tempo, ha un principio ed una serie di atti consecutivi i quali cessano con la violazione della legge penale. La detta attività, soggettivamente presa, tende alla formazione della coscienza criminosa; gli atti psichici corrispondenti si risolvono nell’associazione di fatti elementari organizzati ed unificati secondo leggi statiche e dinamiche. I fatti psichici criminosi non sarebbero possibili senza il fondo di degenerazione ereditaria o acquisita, senza la divergenza o l’ allontanamento dell’attività psichica dalla comune linea di condotta sociale. L’attività soggettiva del delinquente è causata pel funzionamento di un’ energia criminosa specializzatasi nella trasformazione, dell’azione esterna o interna dei motivi, in impulsi al delitto; oggettivamente essa consiste nella serie dei fattori fisici e sociali che predispongono l’azione esterna in antagonismo con l’interno processo di arresto inibitorio e con i controstimoli reattivi.

2. —Ammessa l’anomalia del delitto, le leggi che ne accompagnano la genesi e lo sviluppo debbono presiedere fin dai fattori elementari dell’attività psichica; da quando incomincia la organizzazione della coscienza criminosa con integrazione degli elementi costitutivi.

Nella serie dei rapporti interni con i fenomeni esterni, in particolar guisa se trattasi di conoscenza di fenomeni sociali, la norma che ne regola la disamina e la nozione è quella che non si scosta dalla costanza di realtà delle cose. Sorprendere e concepire la realtà dei fenomeni esterni val quanto sentire e rappresentare nel campo visivo della coscienza la identica attualità statica o dinamica di ciò che corrisponde alla verità degli obbietti presi a considerare. Il che, a ben riflettere, non si verifica se le condizioni antropologiche del soggetto non sono in istato di equilibrio funzionale; se tra esse non esiste coerenza di facoltà ed armonia di atti. Or, nella dinamica del mondo psichico in relazione col mondo esterno, l’alterazione di funzionamento avviene o perchè l’obbietto della cognizione non si percepisce adeguatamente per difetto dei sensi, o perchè, percepito, non si assimila che in modo erroneo. L’errore è relativo o alla conoscenza o all’affettività, perchè o nasce da alterazione di nessi di causalità, o è prodotto da esuberanza passionale del sentimento che ci offusca la mente e fuorvia la volontà. Dicendo condotta retta, vogliamo intendere conformazione delle nostre azioni alla realtà delle esigenze sociali: con lo scostarci dalla realtà non soltanto neghiamo implicitamente ed esplicitamente il nesso intrinseco di verità tra le cose, ma ci allontaniamo dalla maniera onde le cose ci si rappresentano.

Ciò premesso, osserviamo che la legge principale di anomalia del delitto è inerente allo stato di squilibrio di coscienza in contatto col mondo esterno; essa si concreta nella tendenza ad alterare l’ordine reale delle cose col seguire dettami di falsa logica. Questa tendenza, che assomma i coefficienti psicofisici degenerativi, si sostanzia nella preponderanza di sentimenti egoistici e nel difetto di adattamento di relazione.

3. —L’ordine morale, o armonia di doveri e di diritti, non è che adattamento di arresto delle tendenze individuali entro i limiti imposti dalla necessità della vita in comune. Nel detto arresto è riposto il fondamento del dovere etico. Chi non possa o non sappia comprenderlo trovasi straniero tra simili: in lui gl’impulsi alla soddisfazione dei bisogni s’impongono senza freno e la vita di relazione si svolge attraverso continui sacrificî della felicità altrui per assicurare la propria. Si consideri la fase evolutiva dell’anima del criminale: ogni tappa sulla via del delitto è segnata da un accumulo e da una scarica di energia; accumulo il quale, in definitiva, non appare altrimenti che quale aumento di attitudine a date azioni esteriori, mediante l’opera dell’adattamento. Gli atti psichici, dalla sensazione alla volizione, sia che integrino o che disintegrino la coscienza, sono riducibili ad accumulo o scarica di energia: in altri termini, essi sono gli equivalenti di stimoli ed impulsioni, isolate od organizzate, nel ritmo perenne della vita dello spirito.

4. —Il processo qui descritto di selezione organica è specialmente l’effetto di autosuggestione motrice. La vita sensitiva e la percettiva, addivenute coscienti, si convertono in cause interne di analoghi atti esteriori. Si giunge così—attraverso mutamenti di coscienza—a rinnovare di continuo la fisonomia della personalità, pur rimanendo integra l’unità sostanziale. Ma questi rinnovamenti non restano inefficaci: essi finiscono con lo scuotere le basi naturali dell’io e col creare delle inclinazioni, dei sentimenti e delle volizioni per lo innanzi sconosciute.

In ciò è a segnalare lo sforzo sopportato per fissare il motivo così da renderlo centro del nucleo accumulativo di energia la cui azione immediata è di mutare i precedenti stati di coscienza nel novello stato che è l’ambiente morale meglio adatto agli ulteriori gradi evolutivi degli interni atti psichici. I modi, onde il novello stato di coscienza si esplica, sono: a ) di sopire o reprimere le correnti di attività psichica inerenti agli accumuli di energie di precedenti stati; b ) di creare novelli centri di impulsività in proporzione della spinta del motivo; c ) di restringere o allargare il campo visivo della coscienza nei confini permessi dalla efficacia quantitativa della energia volontariamente accumulata.

Il motivo, tuttochè sia da noi concepito quale unità astratta, è, a sua volta, risultanza di coefficienti dinamici decomponibili. L’idea di offesa comprende tante idee sottostanti; il sentimento ed il concetto della dignità personale violata, l’ingiustizia dell’atto, le conseguenze del medesimo e via dicendo. «In un pensiero—scrive l’Ardigò—anche singolo, di un uomo, molti e diversi sono gli elementi psichici costitutivi: come gli elementi materiali in ogni individualità fisica. E l’unità propria di un pensiero non è altro che il fenomeno accidentalissimo della concorrenza dei momenti mentali, che entrano a formarlo; vale a dire, in ultima analisi, delle sensazioni elementari e dei tenuissimi risentimenti non avvertiti ed innumerevoli, nei quali ciascuna di esse si risolve»[26]. L’estimare l’idea di offesa nel senso logico di causa a reagire o di forza motrice alla vendetta, trascurando gli elementi onde promana, sarebbe grave errore, poichè si verserebbe nella ipotesi di spiegare l’ignoto con l’ignoto; l’ignoto della ragione del delitto con l’ignoto insito a ciascun elemento inavvertito del motivo impulsivo all’azione.

Raccogliendo le esposte osservazioni e facendone l’applicazione alla nostra disciplina, abbiamo l’infrascritta legge: che nella serie consecutiva di stati di coscienza, per l’accumulo o la scarica di energia criminosa, la risultante impulsiva al delitto è proporzionata alla somma degli elementi psichici del motivo.

5. —Non basta: proseguendo l’analisi degli elementi del motivo, ci troviamo a considerare i rapporti dinamici e logici tra gli stessi. Così, nella idea di offesa, gli elementi sopra enumerati si compongono diversamente tra loro e la diversità trae al risultato: a ) di differenza qualitativa o quantitativa del motivo; b ) di modalità o fisonomia peculiare del medesimo. Il predominio della idea di dignitá individuale violata, su i rimanenti componenti della idea di offesa, ci trascinerà, per esempio, a ricorrere ad una riparazione per le vie cavalleresche; prendendo la reazione, dirò così, fisonomia più analoga allo stato di civiltà in cui si vive.

Il sentimento di ingiustizia dell’atto, se accompagnato da ambiente morale corretto del paziente, indurrà costui a ricorrere all’ausilio della legge. Ma, data la preponderanza, nell’offeso, di energia reattiva impulsiva, con deficiente potere di arresto, si vedrà subito l’effetto di immediata personale vendetta.

6. —Gli elementi dei motivi criminosi s’integrano per processo organico, ovvero accidentale. L’integrazione organica è per sovrapposizione di fattori similari agli ereditarî. La tendenza ereditaria, per esempio, ai reati di sangue non raggiungerà subito il grado estremo; ma si rafforzerà durante la perpetrazione di reati consecutivi, passando dai delitti di lesioni all’omicidio; il che, nei riguardi della forza dei motivi, vi dice che gli elementi, onde questi si compongono, acquistano efficacia maggiore secondo la progressiva integrazione nel tempo.

La integrazione si concreta o per concezione e discriminazione dei fattori fisici e sociali, o in virtù di esperienza. La serie cogitativa degli elementi del motivo, obbietto della conoscenza, comincia dalla oscura visione d’un mondo, dello spirito, confinante con l’inconscio, e si estende ed eleva alla forma più complessa ed evoluta del pensiero. Ne acquistiamo consapevolezza soltanto dopo che ne concepiamo la forza rinnovatrice di stati precedenti: ciò che ratifica la legge di relatività, secondo il concetto di Bain, il quale ammette che noi non percepiamo una impressione, non diventiamo coscienti senza un cambiamento di stato o d’impressione.

Il processo di discriminazione comincia dal momento che, accumulato il materiale integrativo del motivo, ci sentiamo in grado di porre tra gli elementi una distinzione qualitativa o quantitativa. Colui che voglia dare sfogo all’ira, col far ricorso alla vendetta, dapprima avverte in complesso i coefficienti determinanti all’azione criminosa, non scorgendo innanzi a sè che l’intento d’un castigo da infliggersi all’avversario; poscia egli distingue e misura la importanza (qualità) e la efficacia (quantità) di ciascuno dei detti coefficienti in relazione al fine da conseguire pel mezzo del delitto.

La esperienza completa la discriminazione, dando peso, per la conoscenza degli effetti degli atti a compiersi, al valore rappresentativo e logico di ciascun elemento del motivo. In che mai va riposto questo valore? Nella possibilità maggioro o minore di creare il nesso causale tra la idea astratta del motivo e l’intento ultimo e reale del delitto: possibilità la quale, relativamente alla ricerca della prova, si traduce in quel perchè logico di imputabilità generalmente inteso con la espressione di causale a delinquere.

7. —Un’altra legge qui ricorre: quella di conservazione di sviluppo dei fattori psicofisici del delitto. Lo sviluppo non significa soltanto accrescimento dinamico dei fatti, o aumento della energia risultante pel composto organico degli stati di coscienza; ma significa ben anche maggiore coerenza degli stati di già rassodati.

La educazione morale, abituandoci all’idea del bene, alla pratica della virtù, forma il tipo dell’onesto; l’azione lenta o rapida, che sia, del male, aiuta i germi degenerativi a metter radice e a crescere; il rigoglio, che ne segue, è effetto duraturo di alterazione e ricomposizione di sopravvenuti stati di coscienza.

Insomma, la energia criminosa, conservandosi, non perde le forme psichiche acquisite; onde, in estremo limite, i caratteri differenziati delle specie di delinquenti. È interessante osservare, oltre al già detto, che la enunciata legge di conservazione è soggetta ad un ritmo di qualità morali, che indicherò col principio di compensazione di qualità negative. I termini più opposti e contrarî si compensano con costanza infallibile.

Potremmo tracciare una tabella quasi esatta per scriverci, l’una accanto all’altra, qualità di natura opposta e che pure ricorrono nei singoli individui. La timidezza, per esempio, è compensata dall’astuzia; la mancanza di discernimento e di riflessione è compensata da grande impulsività. Sono osservazioni di pratica comune; caratteristiche non sfuggite a scrittori di antropologia criminale. Ma che questo debba riferirsi ad una legge, non credo sia stato detto.

8. —Avanzandoci nel processo di differenziazione dei caratteri dei delinquenti, comprendiamo che ciò segue un’altra legge, la quale, allontanando i singoli caratteri da quelli della comune degli uomini, ci fa acquistare il concetto più preciso dell’anormalità integrata di ciascuna specie di delinquente. Tale legge la denomineremo di atipicità, appunto perchè per essa il delinquente, differenziandosi dal tipo dell’uomo comune, ne apparisce da questo palesemente dissimile. Quanto più l’atipicità è perfetta, altrettanto si ingenera il tipo antropologico del criminale.

Discutere se questo tipo esista o non esista in forma perfetta, cioè distinto al grado da essere una individualità a sè, è ignorare la relatività delle umane concezioni, delle nozioni scientifiche.—Il diritto penale è il portato della civiltà sociale; esso spunta tostochè le relazioni individuali si tramutano in relazioni collettive, e la idea della difesa personale si allarga fino al concetto di guarentigia dell’ordine giuridico. Eguale processo evolutivo ha subita la idea di delinquente. Dall’inimico individuale al tipo criminale evvi una serie indefinita di concezioni di atipicità, le quali si distinguono a seconda il grado di avanzamento del concetto del diritto di difesa, dalla guarentigia della persona privata, rispetto alla integrità fisica o morale ed ai beni patrimoniali, alla guarentigia delle relazioni tra’ simili e dei bisogni nascenti dallo stato di avanzata civiltà sociale. Dire, dunque, secondo qualcuno, che il criminale rappresenti un tipo a sè e che esso abbia qualità tali da non trovare riscontro se non con folli e degenerati, non altrimenti deve intendersi che nel senso di un essere racchiudente note sì spiccate da indurre se ne abbia speciale concetto antropologico.

9. —Le svolte osservazioni ci agevolano il mezzo onde studiare la psiche del delinquente da un punto nuovo di vista.

Ci siamo sforzati di dimostrare come dalla cenestesi, o sensibilità generale, agli estremi e più complessi atti della coscienza criminosa si proceda per alterna integrazione e disintegrazione, assorbendosi ed assimilandosi i germi malefici ed affievolendosi i poteri morali di arresto, con risultato ultimo di squilibrio funzionale instabile. L’anima del criminale, abbiamo anche detto, si accompagna a forme specifiche di degenerazione; ond’è che molta analogia esiste tra i suoi atti e gli atti di persone affette da affezioni morbose. Anzi alcuni non dissimularono il convincimento che il delitto, in fondo, non sia che una delle tante specie della umana degenerazione, mettendo, così, più in evidenza il lato patologico dello stato psicofisico del criminale, e confondendo questo col pazzo morale e con l’epilettico psichico. Noi, proseguendo il precedente sistema di studi, diciamo che la morbosità del delitto sia un altro lato della genesi e sviluppo di fenomeni psicofisici che, avendo la base in leggi puramente naturali, possono però giungere ad assumere caratteri talmente patologici da costringerci a ravvisarli sotto l’aspetto di vere affezioni morbose. Lo stadio di formazione della psiche criminale, nel processo, dirò, ordinario, non è che graduale trasformazione evolutiva di una energia che, messa in moto dalla dinamica dei motivi, si organizza in istati specifici di coscienza ed è la causa di azioni la cui equivalenza morale è nella negazione della condotta comune informata a principî di ordine sociale.

Ma—dato che il lato degenerativo del delitto si accentui ed affetti sì il delinquente da trasformarlo in soggetto del tutto patologico—la conseguenza è di assistere, non più a processi evolutivi della energia criminosa, ma ad uno stadio di dissoluzione psicofisica. Anche nel delitto, dunque, e negli analoghi stati psichici, ha vigore la legge della evoluzione e della dissoluzione; legge universale degli esseri inorganici, organici e superorganici, ed a cui dobbiamo riferire le nozioni della nostra disciplina se non vogliamo che essa si distacchi dalla conoscenza unitaria fondamento dell’odierno indirizzo positivo scientifico.

Vi sono forme fisiologiche e forme patologiche del delitto; la distinzione serve a farci meglio apprendere il doppio lato dell’identico fenomeno, non che il grado minore o maggiore del germe degenerativo fondamentale del medesimo.

Delle distinzioni, per esempio, fin’ora seguite di delinquente di occasione e di delinquente nato o epilettico psichico o pazzo morale, possiamo ritenere che la prima specie risulti propriamente dalla forma comune fisiologica di manifestazione della energia criminosa: non così la seconda specie che si sostanzia nello stato morboso di evidente dissoluzione della funzionalità psicofisica organica.

10. —In che, psicologicamente considerata, consiste essa mai questa dissoluzione?

Abbiamo detto che lo stato interno normale del delinquente sia contraddistinto da squilibrio funzionale instabile; ne abbiamo inferito che da ciò appunto nasce il carattere di anomalia del delitto. Ora, ammesso il caso di malattia ereditaria od acquisita, che, aumentando l’effetto degenerativo di germi criminosi, giunga ad alterare talmente l’organismo da invertire o pervertire completamente lo stato funzionale psicofisico, si avrà, in conseguenza, che lo squilibrio instabile addiverrà stabile e l’anomalia si convertirà in affezione morbosa.

Krafft-Ebing scrive: «Tra gli arresti di sviluppo e le alienazioni mentali v’ha un gruppo intermedio che comprende delle forme psicopatiche le più svariate a seconda dei varî individui. Esse, in rapporto con le malattie mentali propriamente dette, vanno considerate come dei semplici vizî di conformazione, e tra questi e quelle intercorre la stessa differenza che passa tra una anomalia di sviluppo ed una malattia. Del resto, la parentela che queste speciali forme, di cui veniamo ad occuparci, hanno con le malattie mentali è dimostrata prima di ogni altra cosa dal fatto che quelle molto spesso rappresentano il rudimento, il periodo premonitorio, od uno stato di transizione alle psicosi vere e proprie. Immenso è il pericolo che corrono questi individui di perdere il labile equilibrio. A ciò portano facilmente le critiche situazioni nelle quali essi facilmente si trovano a causa della loro stravaganza e del deficiente adattamento alla vita sociale, in dissolutezze di ogni genere (eccessi sessuali, alcoolici, ecc.), ai quali essi sono singolarmente predisposti a motivo della deficiente evoluzione del loro carattere, dell’astenia del loro sistema nervoso e dell’anomalia della loro vita istintiva, ed in fine a causa delle passioni e delle nevrosi le quali rappresentano una delle molte manifestazioni della labe organica da cui sono bollati.—Ora, appunto per il fatto che le loro funzioni psichiche più elevate in parte non hanno raggiunto la loro maturità di evoluzione ed in parte sono foggiate in modo pervertito; e altresì per il fatto che in conformità di ciò questi individui deviano dal normale sviluppo psichico e da ciò che costituisce il normale processo di formazione della individualità psichica, essi si possono designare come dei degenerati e l’anomalia della loro esistenza psichica come una degenerazione psichica.—Questi stati degenerativi hanno dei punti di ravvicinamento e di transizione negli stati d’arresto di sviluppo, inquantochè anche in quelli si tratta, in definitiva, di un cervello in via di sviluppo che in questa sua evoluzione naturale viene disturbato per delle cause organiche. Per altro, questo danno che il cervello viene a risentire non ne ferma addirittura l’ulteriore sviluppo in modo da portare per effetto finale la idiozia o una imbecillità; chè anzi permette che esso sviluppo progredisca; soltanto ciò avviene in una direzione morbosamente pervertita e spesso in maniera incompleta. Questo disturbo della evoluzione cerebrale, pur non portando, come dicemmo, ad una vera e propria debolezza mentale (a meno che nei casi in cui trattasi di forme di transizione), rende difettoso lo sviluppo delle funzioni psichiche più elevate (giudizio, sentimenti ed idee morali). Mentre il processo formale della ideazione può essere risparmiato, la elaborazione delle intuizioni fondamentali ed universali superiori, sia nell’orbita della morale che in quella della ragione e che guidar debbono un ben determinato volere, è incompleta e non può farsi addirittura.

Ne risulta che in questi individui manca il carattere e lo spirito di penetrazione del valore, dei doveri e dell’importanza della propria esistenza. Le conseguenze psichiche di ciò sono la inettitudine a raggiungere ed a mantenere una posizione nella società; la incapacità a pensare e ad agire con salda energia e con coscienza sicura dello scopo a cui mirasi, ad utilizzare i mezzi, come, ad esempio, il danaro, a conseguire uno scopo elevato nella vita; la incapacità a condursi secondo i dettami della morale, con il pericolo di dover soccombere ad istinti immorali ed anche criminosi, i quali, per giunta, per lo più sono pervertiti e si fanno sentire con una potenza veramente morbosa. Il pubblico non vede in questi individui che dei vagabondi, della gente di scarsa moralità, degli scialacquatori, dei delinquenti; l’uomo di scienza, invece, vi riscontra le stigmate di un infralimento delle funzioni psichiche più elevate, il quale può a volte aver i caratteri di una vera e propria imbecillità.—Questi stati degenerativi si distinguono poi dalle psicosi—quali malattie acquisite di un cervello che nella maggior parte dei casi ha raggiunto il suo completo sviluppo e che fin qui ha funzionato normalmente,—per il fatto che sollecitamente e stabilmente le funzioni psichiche si alterano, per il sopravvento che le anomalie dei sentimenti superiori e degli istinti ed in generale del carattere prendono sopra i fenomeni intellettuali (imbecillità, delirio, illusioni sensoriali); però anche sotto questo rispetto è da avvertire che talvolta trovansi delle sfumature e delle forme di transizione per il fatto che su questo fondo degenerativo si possono sviluppare, sia a mo’ di episodio o come forme terminali, delle psicosi. Talchè può dirsi che in questi stati degenerativi l’intimo nucleo della personalità psichica venga colpito mentre trovasi in via di sviluppo»[27].—Ed il Sergi: «Di che parlano quelle anomalie, quelle deformità, quegli stati morbosi, quelle perturbazioni funzionali, quando s’incontrano nel delinquente? di che sono indizio? Ricerchiamo. O l’organismo psichico non si è mai formato, o è in dissoluzione; manca l’equilibrio delle funzioni e manca assai spesso qualche elemento integrante dello stesso organismo psichico. Il carattere o non esiste affatto, o è a frammenti, mescolati i nuovi coi vecchi strati e confusamente. La condotta diventa frammentaria e perciò squilibrata. L’organismo psichico, cioè, non è normale, quando non è normale il fisico; l’abnormità totale o parziale di questo apporta abnormità analoga in quello: ciò è una condizione morbosa»[28].

11. —La unilateralità della teoria degenerativa del delitto segna una fase dell’antropologia criminale, con i nomi, specialmente, del Morel, Lucas, Ferrus, Despine, Thompson, Wilson, Nicolson, Maudsley, Féré. Oggi appena, con i progressi fatti dalla psicologia sperimentale e dalla psichiatria, i due campi dell’antropologia criminale, il psicologico ed il patologico, hanno proprî confini delineati. È quindi oggi possibile integrare le cognizioni tutte scientifiche intorno alla psiche del delinquente, seguendone le ricerche funzionali nella fase affatto normale o fisiologica e nella fase patologica, nello stadio di evoluzione e nello stadio di dissoluzione.

12. —La fenomenologia clinica degli stati morbosi, a cui si riferisce la fase degenerativa di dissoluzione della umana personalità, è svariatissima quant’altra mai. La ereditarietà ha importanza principalissima, fino ad ammettersi che vi sieno intere famiglie fatalmente destinate alla degenerazione criminosa. Nel campo della funzionalità sensitiva spesso verificasi una abnorme suscettibilità; dal lato sensoriale si trova la propensione alle iperestesie, fin anco alle allucinazioni, ed una accentuazione estremamente energica e talvolta anche pervertita (idiosincrasia) delle percezioni piacevoli o spiacevoli; in ciò che si riferisce alla funzionalità vasomotoria si manifesta il labile equilibrio dei centri nervosi; dal lato della motilità si riscontrano, quali residui del disturbo funzionale indotto da quei processi morbosi che colpirono il cervello durante la vita fetale o l’età infantile, il nistagmo, lo strabismo, le paralisi spastiche, gli accessi epilettici ed epilettoidi, ecc.; oppure, quali estrinsecazioni di una reattività convulsivante agli stimoli sensitivi, le smorfie della faccia, il tic convulsivo e via dicendo (Krafft-Ebing).

Nel campo della ideazione manca la coordinazione, la coerenza; vi è, ora sistematicamente ora ad intervalli, insorgenza di idee coatte, di intenti fissi o a sbalzi, senza motivi o interesse reale.

La vita affettiva è disturbata da impreveduti turbamenti, da morbosa eccitabilità, che dà luogo, il più delle volte, a passioni impulsive, ad atti irresistibili. Nell’animo di cotesti degenerati ora evvi la calma ed il sereno, ora la tempesta e l’uragano: manca il centro sicuro di gravità delle correnti psichiche, manca qualunque freno morale. La facoltà che più se ne risente è la volontà, che è debole, ed obbedisce alla azione rapida di stimoli accidentali, in forma esplosiva; ovvero mostra impronte di tanta apatia ed indifferenza da far sospettare che qualunque energia personale siasi spenta. Il delitto, che sì di frequente corona l’opera disordinata di costoro, finisce col concorrere a prestare le occasioni di più celere dissoluzione psichica. La vita in prigione, tra stenti, al contatto di altri degenerati, che facilmente si prestano a porgere l’esempio e le istruzioni del male, crea l’ambiente meglio adatto di pericolosissimo contagio morale, le cui tracce restano, durante la vita seguente, a maggiormente disintegrare le poche attitudini che ancora rimanevano in istato di integrità.

In generale, la media della intelligenza—nei degenerati—delinquenti—è molto bassa. Molte volte noi ci inganniamo alle apparenze. Confondiamo l’intelligenza con l’astuzia, con l’avvedutezza nel disimpegno di peculiari atti della vita. Chi è abituato, però, a frequentare la popolazione carceraria, ed a studiarla, si accorge subito che la media dei delinquenti è affetta da palese depressione psichica e che coloro, i quali mostrano maggiori anomalie fisiche teratologiche od atipiche, sono anche meno adatti ad un’associazione ideativa coordinata o ad atti volitivi coonestati da intenti logici. «Malizia, simulazione ed insensibilità—scrive il Marro—sono i tratti caratteristici di questi miserabili, discendenti quasi sempre di genitori alcoolisti, neuropatici od alienati. Le sorgenti dell’affettività sono in essi pressochè inaridite: disamorati della famiglia, incapaci di amicizia ai compagni, essi sono indifferenti per lo stesso loro benessere, che ogni momento compromettono, ed incuranti della propria vita, di cui per un nulla tentano spogliarsi col suicidio. La loro esistenza segna un tormento continuo per tutti; per le famiglie cui procurano mille angustie, non che per la società che è continuamente minacciata dalle stranezze dei loro impulsi; ed in carcere, dopo avere stancate guardie e direttore, vengono colle loro finzioni e simulazioni a mettere in imbarazzo il medico, il quale, mentre le scopre, è obbligato a riconoscere l’anormalità del loro stato psichico ed a tenerne conto nei giudizî che emette su di essi, non che nel trattamento che adotta a loro riguardo»[29]. Son cotesti i caratteri spiccati della forma più culminante della dissoluzione psichica, la forma della pazzia morale. Essa, secondo le osservazioni fatte dal Marro e che corrispondono a verità, è così connaturata coi delinquenti che il numero dei pazzi, a stretto rigore, abbraccierebbe buona parte di quanti frequentano il carcere.

13. —Il psicologo criminalista, contemplando il delinquente nella doppia fase, di uomo il cui organismo psicofisico si distingue per speciali anomalie e di un degenerato affetto da grado più o meno di dissoluzione, ha il dovere di domandarsi: come si farà a porre un criterio teoretico il quale riesca sufficiente, nella pratica, a far bene indicare quando, per assodare la causa del delitto, si debba far ricorso al processo evolutivo di energia criminosa, e quando si debba accontentarsi di constatare l’azione morbosa di qualche affezione patologica? Ben osserva il Maudsley, che come in tutti i fatti naturali v’hanno gradazioni d’intelligenza dal genio all’idiozia, così ancora, secondo la legge naturale, v’hanno gradazioni della forza morale fra la suprema energia d’una volontà ben costrutta e l’assenza completa del senso morale. Ed in oltre, egli aggiunge: fra il delitto e la pazzia corre una linea intermedia; da una parte osservasi poca pazzia e molta perversità; dall’altra è insignificante la perversità e tiranna la pazzia[30].

Insomma, ritornando a quanto già scrivemmo, lo squilibrio psicofisico, caratteristica del delinquente, allorchè si arresta a semplice anomalia funzionale o percettiva o di stati di coscienza, ci faculta a servirci delle comuni nozioni che sono il fondamento della imputabilità; se poi esso giunga a prendere le parvenze di stato patologico, effetto di disintegrazione psichica morbosa, ci costringe a ricorrere al giudizio peritale del medico, con previsioni di trovarci dinanzi piuttosto ad un infermo che ad un delinquente.

Ma—si aggiungerà—e qual’è la differenza tra anomalia ed infermità? Comincio con l’accettare quanto scrive il Maudsley a proposito della nota zona intermedia tra pazzia e stato di ragione, e che essa sia popolata da così fatti equivoci che mette bene studiare. «A nostro avviso—la conseguenza d’un simile studio, sebbene a tutta prima sembra miri a cancellare distinzioni da tutti accettate, e a rendere incerto ciò che prima appariva sicuro, non può che riuscire ad una reale utilità. L’esperienza giornaliera ci addita come molte persone, senz’essere pazze, presentano talune originalità di pensieri, di sentimenti, di carattere che le fan ben spiccare dalla comune degli uomini e le rendono oggetto di rimarco. Può darsi che queste persone divengano o non divengano mai pazze, ma esse discendono da famiglie in cui esiste o la pazzia o qualche altra affezione nervosa; esse, infatti, portano nel loro carattere l’impronta della loro peculiare eredità: hanno un temperamento nervoso particolare, una certa nevrosi, e talune altre ancora un temperamento più peculiarmente pazzo, vale a dire una nevrosi mattesca »[31].

Ritenuta la continuità di processi psicofisici dallo stato normale all’esquilibrato ed al patologico, a meno che non ricorrano casi spiccati e tipici da non farci dubitare del grado cosciente di azione nella perpetrazione del delitto, il criterio da seguire, in pratica, credo che debba, a posteriori, attingersi da una nozione estranea alla diretta indagine del delinquente, dalla nozione della pena. Il perito, il magistrato, invitati a pronunciarsi sulle condizioni fisiche e morali d’un delinquente, sono obbligati, mercè il cumulo di fatti che potranno assodare, di risolvere il quesito, se, nella specie, trattisi di fatto imputabile e punibile penalmente, ovvero se trattisi di atti che si rapportano ad una causa morbosa, priva delle qualità necessarie perchè si ricorra a mezzi repressivi. Assunto gravissimo, siccome ognun vede; ma che, con l’uso dei mezzi sperimentali o peritali, onde disponiamo, può essere conseguito con speranza di molta esattezza.

Il criterio della pena, innanzi enunciato, è criterio, oltre che giuridico, sopratutto psicologico; perchè esso implica il concetto che, e riguardo all’individuo e riguardo alla società, sia vano ricorrere a mezzi repressivi nel caso che l’individuo, incapace a comprenderne e risentirne la efficacia, non ne otterrebbe alcun utile; e la società, in contemplazione della incoscienza del soggetto, ne risentirebbe piuttosto pietà e repugnanza. Anzi, il criterio psicologico ne avverte che la pena, in esseri degenerati o mentecatti, è nuova cagione di danno all’individuo e di pericolo alla società; all’individuo che, nell’ambiente propizio del carcere, perverrebbe al risultato di definitiva dissoluzione psichica, ed alla società che da un essere di simile specie dovrebbe, in avvenire, temere maggiori delitti. Non sarà mai proclamata abbastanza la verità, che rischiarar deve l’attenzione di ognuno sulla necessaria instituzione di ricoveri di cura di uomini la cui eccezionale natura degenerata attende dalla scienza e dalla pratica illuminata i pronti rimedî! La legge repressiva, la pena per costoro non ha effetto di sorta, quando pure non concorra ad esserne di nocumento. Il pubblico, che assiste nelle aule di giustizia, il magistrato che pronuncia la sentenza, pur troppo si accorgono della differenza onde la pena è accolta da molti condannati: essi ciò chiamano cinismo, depravazione morale!—Nessuno, o qualcuno appena, si accorge che il presente stato di indifferenza cinica sia causato da incoscienza; da sì profondo ottundimento morale che non lascia neppure il modo, al disgraziato, di comprendere quanto avvenga a lui dintorno. Non una, ma tante volte, dopo grave condanna, il detenuto è stato condotto via tra la curiosità ed i lazzi del pubblico: il dì seguente—dopo 24 ore!—recatomi in carcere a porgere la parola di conforto al misero, che indarno io cercai dimostrare ai giudici trattarsi di epilettico o di pazzo morale, egli, tra lo stordito e l’apatico, mi ha dimandato quale condanna si abbia ricevuta, non avendo nulla compreso della sentenza del tribunale!

Le guardie carcerarie, se dotate di alquanta coltura e sano discernimento, hanno intimo il convincimento della inutilità della pena per la maggior parte dei detenuti. Essi sanno che costoro, nelle carceri, sono il tormento dei superiori: la disciplina, per loro, è motivo non di freno ma di intemperanza, di stranezze, di atti pazzeschi. Molte volte, per liberarsene o aver tregua, li assegnano nelle infermerie dove il detenuto è trattato da infermo, mentre non ha mali apparenti; trova, però, la calma relativa, vivendo lontano dagli incentivi ad esaltarsi, a commettere atti pericolosi verso le persone con cui tratta.

14. —È utile aggiungere alcune altre osservazioni, che riflettono sopratutto il modo onde generalmente si suol procedere alle perizie psichiatriche su delinquenti il cui stato di mente offra dei sospetti di infermità. Oggi, in generale, i cultori di psichiatria comprendono il dovere di erudirsi negli studi di psicologia per le ricerche da praticare sugli stati mentali dei soggetti loro affidati. Ma, oh quanto talune perizie lasciano a desiderare di esattezza scientifica e di chiarezza di vedute!—Ordinariamente gli esami procedono piuttosto bene nella constatazione delle misure antropometriche, delle rilevanti note somatiche, della vita psichica minore (sensibilità, emotività, affetti, sentimenti); ma quando si passa alla vita psichica superiore, a dover assodare la maniera onde funziona la coscienza, la intelligenza, la volontà, i periti psichiatri, se non posseggono soda coltura psicologica, incorrono in inesattezza ed errori da meritare il biasimo del giudice, chiamato, sui lumi da essi forniti, a decidere sulla imputabilità del prevenuto. Lo stesso Lombroso, che con l’ultimo suo libro dal titolo «La perizia psichiatrico-legale» si è proposto di assegnare i cànoni ed i metodi da seguire nell’esame peritale dei delinquenti, è abbastanza limitato nella parte psicologica. Egli dà molto rilievo alla scrittura, alla pronunzia, alla misura dell’emozione e riflessi vasali; alla attenzione; alla suggestibilità visiva; alla misura del campo appercettivo; alla memoria, ed a niente altro! Dovremmo concludere che, a seguire i dettami peritali del Lombroso, ben scarso materiale psicologico avrebbe a sua disposizione chi volesse risolvere, nei singoli casi, il problema della responsabilità.

15. —L’ultima conclusione, cui deve tendere il perìto psichiatra, nel campo psicologico, è di risolvere il problema giuridico col constatare se nel fatto in esame esista o non esista punibilità per colui che n’è autore, tenuto conto del suo stato di mente. Acciò si riesca nell’arduo còmpito, è necessario che, prima di qualunque altra nozione, il perito abbia il concetto esatto del contenuto giuridico degli art. 46 e 47 del nostro Codice penale. Nel primo articolo è detto: «Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei proprî atti». La parola mente, giusta quando scrisse il Zanardelli, va intesa nel suo più ampio significato, sì da comprendere tutte le facoltà psichiche dell’uomo, innate ed acquisite, semplici e composte, dalla memoria alla coscienza, dall’intelligenza alla volontà, dal raziocinio al senso morale. Il legislatore, con la formola sanzionata, non ha voluto, dunque, indicar altro se non uno stato psichico affetto da tale malattia che tolga il funzionamento di qualcuna o di tutte le facoltà onde promana la consapevolezza dell’atto antigiuridico e la libera esplicazione della volontà. Chi non ha compresa la natura criminosa di ciò che operava o, per forza irresistibile impulsiva, non era in condizione di far uso dei poteri inibitorî, non deve rispondere penalmente del suo operato: egli è un povero infermo, non un delinquente.

Il perito, usando delle cognizioni tecniche, desunte dalla psichiatria, ha il dovere, primamente, di constatare l’esistenza d’una malattia, fisica o psichica, che affetti il funzionamento cosciente ed affettivo del soggetto; e non basta: dopo di aver fatto questo, egli entra nel dominio esclusivo della psicologia, perchè è chiamato a dire se e fino a che punto lo stato morboso abbia agito sugli atti coscienti e liberi. Poichè, o lo stato morboso è sì grave da far scomparire completamente la imputabilità penale dell’atto, e quindi la responsabilità, e si versa nella ipotesi dell’art. 46; ovvero esso è tale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla, e si versa nella ipotesi dell’art. 47. Riassumendo, dunque, il problema complesso, la cui soluzione formar deve il còmpito del perito, diciamo che questi debba: a ) intendere chiaramente il disposto di legge, sulla cui base il giudice è necessitato di far ricorso al di lui giudizio tecnico; b ) indagare se nel soggetto si riscontri, o non, una malattia la quale interessi il suo funzionamento psichico; c ) determinare la facoltà lesa o, meglio, quale regione cerebrale e quale serie di atti psichici ne risentano la patologica influenza; d ) dire il grado maggiore o minore della malattia e della sua influenza; e ) esaminare se la detta influenza si versi nel campo della coscienza od in quello della volontà, e se produca l’effetto di alterare, di restringere, di sopprimere il primo, annullandone la interna visione; od anche di turbare il secondo sì da abbattere e distruggere il potere della pienezza di arbitrio.

A prescindere dalle cognizioni tecniche attenenti alle forme molteplici di malattie che affettano la sensibilità, la ideazione, l’attenzione, la emotività, la personalità, la volontà, la libera o spontanea esplicazione degli atti interni; il perito, nel risolvere il problema psicologico, cioè il problema del funzionamento normale o meno della coscienza e della volontà, non che il grado di responsabilità soggettiva dell’atto formante obbietto d’imputazione, deve a ) aver chiare ed esatte nozioni psicologiche sulle leggi onde si producono e si effettuano tutti i fenomeni interni, dalla sensazione all’ideazione, dall’attenzione al giudizio, dalla riflessione alla volizione, dalla consapevolezza dell’io alla sua spontanea manifestazione nel mondo esterno; b ) saper cogliere il motivo vero dell’azione incriminata, misurarne ed apprezzarne l’efficacia dinamica in relazione agli stadî di coscienza del prevenuto; c ) mettere in palese, non solo il rapporto logico tra il motivo e l’azione, ma ancora lo stato funzionale della coscienza e della volontà circa l’effetto esercitato dal motivo o isolatamente (ipotesi di responsabilità ) o in concorso con cause patologiche (ipotesi di irresponsabilità ), per concludere alla normalità o non degli atti psichici ed alla spontaneità ( libertà ) dell’azione, ovvero al carattere di necessità della medesima.

16. —Donde trarrà il perito le cognizioni utili ed i metodi per riuscire nell’intento di risolvere il problema concernente lo stato psichico del prevenuto, non che le condizioni di responsabilità per l’atto da lui compiuto? Dai sommi scrittori di psicologia. Ma non è sufficiente; chè, in complesso, i risultati della odierna psicologia, per quanto ammirevoli, non sono poi tali da suffragare abbastanza tutte le esigenze pratiche a cui deve giungere l’esame peritale. Per provare l’asserto e perchè nello studio del delinquente si abbia il concetto dei giusti confini, entro i quali debbono limitarsi le pretese del perito, ci permetteremo, a compimento di questo capo, di tracciare sommariamente le nozioni alle quali deve farsi ricorso se vuolsi avere i criterî scientifici in materia di coltura generale psicologica.

17. —Qualunque fenomeno psichico è di sua natura un processo composto risolvibile in elementi. Anche in ciò evvi la riprova d’una legge fondamentale di natura, che ogni parte sia un tutto e che ogni tutto sia il prodotto di parti; non solo, ma che ogni formazione naturale sia il risultato di unità relative. Così, i primi elementi psichici, secondo l’Ardigò, sono i proestemi, le sensazioni minime, i dati ipotetici non sperimentabili direttamente e che entrano nella somma di ciascuna sensazione da noi percepita.

La psicologia, avendo per proprio oggetto non contenuti specifici dell’esperienza ma l’ esperienza generale nella sua natura immediata, non può servirsi di altri metodi che di quelli usati dalle scienze empiriche, così per l’affermazione dei fatti, come per l’analisi e pel causale collegamento di essi (Wundt).

Due sono i metodi, di cui dispongono le scienze naturali, l’ esperimento e l’ osservazione. L’ esperimento consiste, giusta le definizioni del Wundt, in un’osservazione, nella quale i fenomeni da osservare sorgono e si svolgono per l’opera volontaria dell’osservatore; l’ osservazione, poi, in senso stretto, studia i fenomeni senza un tale intervento dello sperimentatore, ma così come si presentano all’osservatore nella continuità dell’esperienza.

L’indirizzo sperimentale (e vedremo fino a che punto) nei fenomeni psicologici è tutto una conquista dell’odierno positivismo filosofico.

Esso, per non parlare che dei fondatori, si deve sopratutto all’opera di Tetens, del Weber, del Fechner, del Wundt. Gli esperimenti che si eseguono nei laboratorî sono di due specie; alcuni attengono alla misura della sensazione ed all’esame delle rappresentazioni, rientrando nel còmpito della psicofisica; altri si estendono ai processi psichici più complessi ed interessanti, formando materia della psicometria. L’indole del mio libro mi dispensa dal rassegnare tutti i sistemi pratici che si tengono per constatare le leggi, a cui obbediscono i rapporti tra gli stimoli e le sensazioni, le rappresentazioni di spazio e di tempo; non che dal ricordare che, con l’uso degli esperimenti psicometrici, si pervenga a misurare il cosidetto tempo di reazione, l’estensione della coscienza e dell’attenzione, i processi mnemonici ed associativi. Il Wundt pretende che la psicologia, per il modo naturale in cui sorgono i processi psichici, è costretta al metodo sperimentale, appunto come la fisica e la fisiologia. Egli spiega: «Una sensazione si presenta in noi sotto condizioni favorevoli all’osservazione, se essa è suscitata da uno stimolo esterno; una sensazione di suono, ad esempio, da un movimento sonoro esterno, una sensazione di luce da uno stimolo luminoso esterno. La rappresentazione di un oggetto è originariamente determinata da un insieme sempre più o meno complesso di stimoli esterni. Se noi vogliamo studiare il modo psicologico in cui sorge una rappresentazione, noi non possiamo usare alcun altro metodo che quello di imitare questo processo nel suo svolgimento naturale. In questo modo abbiamo il grande vantaggio di potere volontariamente variare le rappresentazioni stesse, facendo variare le combinazioni degli stimoli agenti nelle rappresentazioni, e così di giungere ad una spiegazione dell’influenza che ogni singola condizione esercita sul nuovo prodotto. Le rappresentazioni della memoria non sono, è ben vero, direttamente suscitate da impressioni sensibili esterne, bensì le seguono solo dopo un tempo più o meno lungo; ma è chiaro che anche sulle loro proprietà, e specialmente sul rapporto loro alle rappresentazioni primarie svegliate da impressioni dirette, si giunge alla più sicura spiegazione quando non ci si affidi alla loro casuale apparizione, ma si tragga vantaggio di quelle immagini che sono lasciate dagli stimoli precedenti in un modo sperimentalmente regolato. Non altrimenti si fa coi sentimenti e coi processi volitivi; noi li potremo porre nella condizione più opportuna ad un’esatta ricerca, se a nostra volontà produrremo quelle impressioni che, secondo l’esperienza, sono regolarmente legate alla reazione del sentimento e del volere. Non vi è quindi alcuno dei fondamentali processi psichici pel quale non sia possibile usare il metodo sperimentale ed egualmente alcuno per la cui ricerca questo metodo non sia richiesto da ragioni logiche»[32].

Io non oso contestare al Wundt quanto egli ritiene nel campo della psicologia generale; forse qualche eccezione va fatta per i sentimenti e la volontà; ma, ripeto, fino a che noi versiamo nell’esame di processi psichici comuni, il metodo sperimentale riuscirà di inestimabile vantaggio. È lo stesso per i processi psichici criminosi?

I periti psichiatri se ne servono, con buon risultato, nell’esame della vita psichica inferiore (la sensazione, la emotività, l’appercezione, la memoria); ma che diremo delle applicazioni da essi fatte nel dominio della intelligenza o della coscienza, e tanto più nel proporsi l’intento di risolvere il quesito psicologico-giuridico intorno alla responsabilità del prevenuto pel reato da lui commesso? I periti, di consueto, credono di aver adempito al dovere se, con adatti istrumenti, abbiano avuto i dati psicofisici del soggetto; convinti che gli atti di coscienza, di intelligenza o di volontà non dipendano che dalla vita fisica, o che il parallelismo psicofisico si estenda, non solo ai processi sensitivi ed appercettivi, ma eziandio a tutti gli altri che costituiscono la nostra vita psichica superiore. L’errore non è perdonabile. Poichè la vita dello spirito, nella crescente evoluzione delle funzioni coscienti, si appalesa di grado in grado più svariata, più complessa: dagli elementi protoestematici, o dalle impercettibili e minime sensazioni, alle più alte concezioni dei rapporti causali tra le cose ed alle ideali aspirazioni d’un bene altruista, vi è, è vero, continuità di processi, ma vi è puranco sì differenziata distinzione qualitativa di fenomeni, che, ad estimarne l’intima essenza, non bastano le leggi apprese per spiegarci gli atti puramente fisici della vita psichica inferiore. A tutti ormai è noto, che negli atti o nelle manifestazioni della psiche non è a cogliere solamente una somma di elementi informativi, quantitativamente multipli; ma un’unità ed identità che, nel mentre suppongono dei processi composti, si staccano dalla serie degli stati sottostanti e permangono con attività e leggi proprie. La sensibilità, la emotività, chi ne dubita?, si ricongiungono, per leggi dinamiche, con la potenzialità della intelligenza e della volontà: ma altra cosa è la eccitazione prodotta da movente passionale, altra cosa scorgere il nesso causale tra un atto e la responsabilità che se ne assume; tra la scelta di qualsiasi mezzo e l’effetto che vuolsi raggiungere; tra la rappresentazione del motivo a delinquere ed i moltiplici stati di coscienza prodotti; tra il cumulo di nozioni e di apprezzamenti sulla natura soggettiva dell’agente e la conclusione giuridica di ammettere od escludere o graduare la responsabilità delle azioni di cui questi fu causa.

18. —Il delitto, avvisato soggettivamente, è un processo di organizzazione della energia criminosa. La scienza sua propria è la psicologia criminale. E, allo stesso modo che ogni scienza si risolve in unità elementare—la biologia nella molecola, la fisica nell’atomo, la chimica nella monade eterea—la psicologia criminale si risolve nei motivi, che sono i minimi psicofisici del fenomeno complesso dell’anima del delinquente.

Ha il perito la coltura sufficiente per risalire, con analisi minuta, dal motivo criminoso alla determinazione del delitto? Ha egli l’abitudine, per non dir l’attitudine, di riunire in sintesi i dati raccolti e rivolgerli ad illuminare sè medesimo ed il giudice nella risoluzione, alla base di criterî affatto giuridici, del problema penale? Quante volte mi son trovato di fronte a coltissimi medici, i quali, credendo di avere esaurientemente risposto all’ufficio di perito psichiatra, col constatare la esistenza, nel soggetto sottoposto ad esperimenti, di qualsiasi manifestazione psicopatica, concludevano, senz’altro considerare, pel vizio totale o parziale di mente; per la irresponsabilità o per la semiresponsabilità! Essi, come negli esercizî acrobatici, facevano un salto nel vuoto: e se la parola del magistrato o del difensore li richiamava all’apprezzamento psicopatologico della causale del delitto, al decorso dell’azione impulsiva di qualche motivo; eppoi, allo stato normale o transitorio di coscienza, al grado e specie di coordinazione associativa delle idee, dei sentimenti, delle volizioni del prevenuto; alla estensione del di lui campo visivo di coscienza, all’attitudine di attendere, di riflettere, di prevedere; alla forza maggiore o minore di far uso dei poteri inibitorî; alla fisonomia che d’ordinario prendono gli affetti; alla vivacità delle immagini, alla energia delle idee; alla specie dei ligami delle vita di relazione; ed, in ultimo, al complesso di levatura della mente del soggetto, di energia della sua volontà; i periti, d’ordinario, o rimanevano incerti e reticenti, ovvero finivano col confessare che ciò non rientrava nel loro assunto tecnico. Peggio, poi, è avvenuto nel caso siasi richiesto al perito, che cosa ne pensasse, tenuto conto dello stato psicopatico dell’imputato, circa la responsabilità attribuitagli del fatto compiuto. O non si aveva che risposta evasiva, ovvero i giudici doveano accorgersi che una qualsiasi risposta era data senza tener punto calcolo, non solo dello stato del soggetto, bensì di tutti i coefficienti processuali; epperò si è sempre finito coll’annettere minima importanza al giudizio dell’uomo che dicesi tecnico! Di qui l’antagonismo sistematico tra periti e magistrati. Si riconosca una volta per sempre: le perizie, come generalmente son praticate, hanno gran valore pel lato esclusivo dell’esame patologico dell’imputato: il rimanente appartiene al cultore di psicologia, appartiene al giurista: voler confondere l’un ufficio con l’altro è lo stesso che emettere giudizî unilaterali, o erronei o punto confortati dai lumi della scienza. Le nozioni peritali debbono servire di punto di partenza nell’apprezzamento dello stato psichico dell’accusato; esse, cioè, debbono servirci per premettere che l’atto incriminato non possa avere che decorso morboso; mentre, il pronunziarsi sul come e perchè del decorso istesso, sulla genesi e sulle fasi di progresso, non che sulla opportunità di ricorrere, tenuto riguardo alla difesa sociale ed al pericolo di ripetizione dell’atto commesso, a mezzi repressivi, rientra nella sfera di altra coltura che non sia la patologia o la psichiatria: è per altra via, che quella segnata dal perito, che il criterio a posteriori della pena, del quale avanti facemmo motto, si integrerà col criterio a priori dell’intima conoscenza del prevenuto, ed è così che il giudice emetterà il suo giudizio retto ed illuminato.

CAPO VII.

Processo cosciente del delitto. Stadio di sviluppo.

1. —Le diverse classi di elementi constatativi dell’io cosciente del criminale.—2. Sviluppo del carattere individuale; sua importanza nella psicologia criminale dell’infanzia.—3. Condizioni e modi onde si organizza la coscienza comune e quella del delinquente.—4. Le fasi di successiva integrazione della psiche del criminale.—5. Esame delle emozioni criminose; le diverse teoriche—6. Svolgimento della essenza unitaria dell’evento psichico, dalla forma monistica alla manifestazione complessa del pensiero.—7. Errori di James e di Lange intorno alla genesi delle emozioni.—8. Natura delle emozioni criminose.—9. Reazione, periodicità, antagonismo delle emozioni: la reazione.—10. La periodicità.—11. L’antagonismo.—12. La dissoluzione psicologica; teorica meccanica.

1.—Lo stadio di sviluppo di coscienza del delitto suppone un materiale, ereditario ed acquisito, di fattori antropologici, fisici e sociali criminosi. L’io del delinquente si viene plasmando gradualmente quale prodotto di assimilazione dei motivi che a lui porge l’ambiente in mezzo al quale si svolge. Gli elementi, ond’egli assomma e trasforma le energie, sono i medesimi che nella esistenza di ciascun individuo concorrono a dare il peculiare assetto differenziato alla singola coscienza. Questi elementi, secondo la giusta teoria di James, si possono dividere in tante classi costituite rispettivamente: a ) dall’io materiale; b ) dall’io sociale; c ) dall’io spirituale; d ) dall’io puro.

Il delinquente comincia col risentire, sopratutto, gli effetti del proprio organismo, o che funzioni nello stato di equilibrio, dirò così, fisiologico, o che risenta l’influsso di cause patologiche. Indi egli assimila i germi deleterî del vizio o delle tendenze depravate nella propria famiglia, e molto in ciò influisce la condizione economica di privazione di mezzi necessarî perchè egli sollevi il suo stato morale con sufficiente coltura e retta educazione. Le enunciate cause sono altri tanti elementi costitutivi dell’io materiale del delinquente.

Vengon dopo gli elementi sociali, quei fattori che promanano dalla vita di relazione con i simili; quindi gli esempî di virtù o di vizî, che eccitano la nostra tendenza imitativa; l’influsso della pubblica opinione col corredo dei pregiudizî, degli usi, dei costumi, specialmente tradizionali; la cura, la sollecitudine di conservare integra la buona fama personale, comunque essa s’intenda e per qualunque via si giunga a conquistarla.

Ed eccoci all’io spirituale, cioè alla somma delle disposizioni e delle attitudini personali, al complesso delle energie di cui disponiamo per estrinsecarci nella realtà della vita. Sostanzialmente, per questo verso, l’io si viene sviluppando attraverso una lotta continua di tendenze in contrasto tra loro, una successione ininterrotta d’impulsi e d’inibizioni; in guisa che si dovrebbe concludere che ciò che costituisce la coscienza, che noi abbiamo di noi stessi, è essenzialmente il sentimento di movimenti accomodativi, oppure, se si vuole, di impulsioni motrici, di riflessi inibiti[33].

Il primo effetto peculiare, che ne emerge dallo sviluppo organicamente composto dell’io criminoso, è l’antagonismo che vieppiù si viene accentuando tra il fattore antropologico, il cui esponente si sostanzia nella aperta tendenza di egoismo, ed il fattore di ordine sociale nascente dal complesso dei controstimoli, naturali od imposti.

Il fattore antropologico agisce per azione impulsiva; il sociale per azione repulsiva; il primo, nel ritmo dinamico della vita di relazione, è l’equivalente d’un moto accelerato; il secondo di un moto ritardato. Il diritto ed il dovere si limitano reciprocamente; ove l’uno finisce, l’altro comincia. Non è concepibile l’individuo in società senza che a lui si imponga di sacrificar qualche cosa pel benessere altrui: data la ipotesi che l’individuo sia regolato da impulsi incomposti di egoismo, l’armonia tra la parte ed il tutto scompare, e nell’urto dei moti, con opposte direzioni, l’equilibrio è indotto da una forza estranea, la quale impedisce che ne provengano disastrose conseguenze: indi la legge repressiva, la funzione del magistrato.

2. —Dalla lenta o accelerata lotta antagonista tra i sentimenti e le idee del delinquente, improntate ad un fondo di egoismo, manifestantisi in atti di squilibrio psichico, ed i freni imposti dalla sanzione naturale e sociale in correlazione alle umane azioni, si viene assodando e sviluppando il carattere individuale. La fisonomia del criminale si rende meglio delineata; spuntano i segni della specie a cui egli in avvenire apparterrà: la coscienza criminosa si fa più salda, più sicura; l’io personale, bene organizzato, può dire oramai di essere una individualità a sè, non confondibile, per chi sappia bene osservarla, con le rimanenti individualità in comunione.

La psicologia criminale dell’infanzia dovrebbe aver di mira, segnatamente, questo periodo di sviluppo del delinquente; periodo fecondo di utilissime osservazioni, perchè l’io criminoso, non trovando peranco la via unica d’incanalamento (mi si passi la frase) della propria energia, la via del delitto, è proteiforme e si lascia sorprendere senza difficoltà nelle attinenze con la vita esteriore. Si vedrà, per esempio, subito il futuro sanguinario, nel fanciullo, alquanto adulto, che compie, senza mostrare di impressionarsi, atti di crudeltà sulle bestie; che, ribelle o impulsivo, corre là dove lo chiamano le compagnie dei peggiori; che ha posa di prepotente, si accende ad ira per la minima offesa, per un benevolo richiamo; serba odio, cova la vendetta, si sente felice di sacrificare l’altrui benessere ad un momento solo di felicità. Egli ha mobilità di atti, ha scatti felini; esuberante, alle volte, nell’affetto, non sa nascondere il fondo egoistico: la passione lo accieca; lo alletta, lo trascina l’idea di sè, l’umiliazione del debole, dell’oppresso.

3. —È da osservare con Wundt, che «la coscienza individuale soggiace alle stesse condizioni esterne che tutto l’insieme dei fatti psichici, del quale essa è soltanto una espressione diversa, che serve specialmente a mettere in luce le relazioni reciproche delle parti onde esso è costituito. Come sostrato delle manifestazioni di una coscienza individuale ci si offre dappertutto un individuale organismo animale; nell’uomo e negli animali a lui somiglianti l’organo principale della coscienza è la corteccia del cervello, nei cui tessuti cellulari e fibrosi sono rappresentati tutti gli organi che stanno in relazione coi processi psichici. Noi possiamo considerare la connessione generale degli elementi corticali del cervello come l’espressione fisiologica della connessione dei processi psichici data nella coscienza; e la divisione di funzioni nelle diverse regioni corticali, come il correlativo fisiologico delle varietà numerose dei singoli processi di coscienza. Ma, certamente, in quel centralissimo organo del nostro corpo la divisione di funzioni è pur sempre soltanto relativa; ogni formazione psichica composta presuppone sempre la cooperazione di numerosi elementi e di molte regioni centrali»[34].

Ugualmente, nella coscienza del delinquente, si organizzano e si unificano tutti i germi degenerativi che si accumulano per le forme atipiche delle funzioni a lui proprie. L’antropologia vi dirà in che consistano i caratteri differenziali tra il fondo permanente del delinquente e quello dell’uomo normale; la fisiologia descriverà il funzionamento anormale dell’organismo fisico, onde gli atti psichici hanno il primo materiale avariato; la psicologia, prevalendosi dei lumi tolti alle discipline affini, dirà come e perchè il delitto sia il prodotto naturale di condizioni psichiche, il cui esponente causale è nello squilibrio di stati di coscienza.

4.—I germi criminosi, fermentando, componendosi, organizzandosi, con processo parallelo psicofisico, vengono gradatamente trasformandosi da forme omogenee ed indistinte in eterogenee e definite. Dapprima le tendenze egoistiche non sono che l’indice generale di stato funzionale di squilibrio: i segni esteriori, in età, in ambienti diversi del delinquente, lasciano appena intravedere l’essere futuro; il nucleo, dirò, centrale di ciascuna formazione psichica, il colorito dei sentimenti, gl’intenti prossimi o remoti della vita di relazione, il tutto insieme dei processi di affettività, di attività addimostrano il fondo di incoerenza, di insensibilità, di immoralità: il vizio ed il delitto, nei primi stadî di sviluppo dell’anima del criminale, si confondono e si unificano. Ma, se le forze ambienti non giungono a modificare le correnti malefiche dei germi in fermentazione, verrà giorno in cui queste prenderanno direzioni distinte, e l’io del criminale, organizzandosi, si unificherà e rafforzerà, mercè l’assorbimento e la fusione, con la propria energia, di tutte le energie similari coerenti alla inclinazione verso data specie di delitto. Avviene, allora, che tutto intero l’organismo psichico subisca novella trasformazione, e, seguendo un’altra fase di processo disintegrativo ed integrativo, abbandonerà, per legge di selezione organica, gli elementi difformi alla specie di delitto in prevalenza e si rafforzerà a percorrere la discesa fatale su cui si è messo. Le idee morali, i sentimenti, l’intero corredo dei pregiudizî, il cumulo delle impulsioni sociali, fin i convincimenti religiosi avranno modificazioni appariscenti: un nuovo mondo si va enucleando, con leggi e con moto proprio.

Il sanguinario, l’uomo dall’abitudine alla violenza, attingerà coraggio all’offesa, alla vendetta da idee strane, ma sistemate, di falsi pretesti protettivi dell’onore e della dignità personale; da sentimenti morbosi di alterigia di supremazia; da passioni dissolute al giuoco, all’alcoolismo, ai piaceri sessuali; dalla frequenza del delirio di persecuzione; da credenze religiose inchinevoli piuttosto al feticismo, che alla concezione di sanzione dell’ordine etico. Egli, assorbito dall’io egoistico primeggiante, sdegnerà di attentare alla proprietà, di commettere furti; rifuggirà dall’abusare dell’altrui buona fede, dal commettere frodi o falsità; anzi, la esagerata coscienza di sè, gli imporrà l’obbligo di prestare, financo, aiuto a chi sia caduto vittima dell’altrui ingordigia e raggiri. Quante volte, dimandando ad un omicida se in precedenza abbia riportate altre condanne, sentirete rispondere: per ferimenti, per oltraggi; ma giammai per furto! Ogni specie di delinquente ha la sua morale: pel sanguinario è obbligo imprescindibile di non macchiarsi di reati di furto: il rispetto verso i simili si limita alla proprietà, non alla persona!

Ben altrimenti accade per i truffatori ed i ladri. Il fondo comune è sempre lo stato di squilibrio degenerativo. Tra i primi, giusta le osservazioni del Marro, prevalgono le anomalie patologiche; nelle atipiche essi eguagliano i normali, e solo li superano d’alquanto nelle ataviche: l’alcoolismo assume forme più gravi che non nei feritori, in grazia del più propizio terreno naturale che trova in essi; non rare manifestansi le alienazioni mentali; loro tratto caratteristico è la diffidenza, che in nessun’altra classe di delinquenti trovasi così spiccata e generale; avvi frequente propensione al giuoco, l’avidità e la cupidigia del guadagno[35].—I ladri, nel significato generico, sono anch’essi alcoolisti, pieni di pregiudizî religiosi, deficienti di mente, ma astuti e cauti; per lo più timidi; soggetti a forme tipiche di manie impulsive; con scarsezza di sentimenti etici, anzi questi, per loro, messi in ostentazione, servono quali motivi di scuse, quali mezzi onde sfuggire la responsabilità: dediti all’ozio, il lavoro è pretesto di disgusto d’una condotta retta; l’allettamento suggestivo della riuscita della impresa li solletica, li anima, li conquide.

5. —A questo stadio cosciente del delitto appartiene l’esame delle emozioni criminose.

Le percezioni e le rappresentazioni, oltre ad avere un contenuto ideale permanente, sono accompagnate da tono sentimentale di piacere e di dolore. Abbiamo visto che il piacere ed il dolore non sieno che stati integrativi o disintegrativi di coscienza, seguìti da aumento o diminuzione di energia personale. Le emozioni sono stati interni, i quali alterano il senso generale cenestetico e tendono ad impedire il corso naturale di correnti della vita ideale ed affettiva. Circa la loro origine vi sono differenti teoriche. La prima, desunta dalla comune esperienza, ammette che gli stati emotivi sieno di origine centrale ed affatto interna: una rappresentazione, una percezione, una idea destano sentimento piacevole o doloroso che si diffonde e si ripercuote sull’organismo producendo espressioni somatiche. L’ira, l’odio, l’amore sono il prodotto dell’energia di analoghi motivi: il loro equivalente fisico è rappresentato da concomitanti fenomeni vaso-motori.

La seconda teorica, propugnata da Lange e da James, segue il processo inverso. Essa sostiene, che le modificazioni fisiche conseguono direttamente alla percezione del fatto eccitante, e che il senso nostro di quelle modificazioni, mentre avvengono, costituisce l’emozione. James spiega: «Il senso comune dice: Noi perdiamo la nostra fortuna, siamo tristi, piangiamo; incontriamo un orso, siamo spaventati e scappiamo; veniamo insultati da un rivale, siamo arrabbiati e reagiamo. L’ipotesi, che qui difenderemo, afferma che tale ordine di seguenza è scorretto, che l’uno stato mentale non è indotto immediatamente dall’altro, ma che vi si debbano dapprima frapporre le modificazioni organiche, e che l’affermazione più razionale è, che noi siamo tristi perchè piangiamo, siamo spaventati perchè tremiamo, arrabbiati perchè reagiamo, e non che piangiamo, tremiamo, reagiamo perchè siamo tristi, spaventati, arrabbiati, secondo i casi. Se le modificazioni organiche non tenessero dietro immediatamente alla percezione, quest’ultima sarebbe soltanto cognitiva, pallida, fredda, destituita di colore emotivo. Potremmo in tal caso vedere l’orso e giudicare che fosse meglio fuggire; ricevere un insulto e decidere di reagire, ma non sapremmo sentirci effettivamente spaventati o arrabbiati»[36].

A meglio dilucidare le sue idee, James ricorda i seguenti fatti: che gli oggetti eccitano modificazioni organiche mediante un meccanismo preorganizzato, oppure che le modificazioni sono così indefinitamente numerose e sottili, che l’intero organismo può venir chiamato un risonatore che ogni modificazione della coscienza, per quanto lieve, può porre in vibrazione; che ogni manifestazione organica, qualunque essa sia, è sentita, acutamente od oscuramente, appena si produce. «Se ci immaginiamo qualche emozione forte, quindi cerchiamo di astrarre, dalla coscienza che di essa abbiamo, tutte le sensazioni dei suoi sintomi fisici, troviamo che non ci resta alcun residuo, nessuna sostanza mentale onde possa constare l’emozione, ma che non ci resta che uno stato freddo e indifferente di percezione intellettuale. Vero è che, sebbene molte persone interrogate dicano che la loro introspezione verifica questa asserzione, altre persistono nel negare. Molti ancora non arrivano ad intendere la questione..... Un’emozione umana incorporea è una non-entità. Non dico già che essa sia una contraddizione nella natura delle cose, o che i puri spiriti siano condannati ad una fredda vita intellettuale; ma dico che, per noi, è inconcepibile l’emozione dissociata da ogni sensazione organica. Quanto più intimamente io indago i miei stati d’animo, e più mi persuado che tutte le condizioni, gli affetti, le passioni che io ho sono veramente costituite da quelle modificazioni organiche che ordinariamente diciamo essere la loro espressione o la loro conseguenza; e, più, mi sembra che, se mi accadesse di diventare anestesico in tutto il corpo, verrei ad essere escluso dalla vita degli affetti, aspri o teneri, per menare una vita puramente conoscitiva e intellettiva. Una simile esistenza, se anche è apparsa come una vita ideale a certi antichi saggi, è troppo apatica per essere desiderata da coloro che sono nati da qualche generazione, dopo che la sensibilità è tornata in grazia»[37].

6. —Per bene apprezzare la esposta teoria, sostenuta anche dal Ribot, dal Sergi e dall’alienista francese G. Dumas, è d’uopo rifarci alquanto indietro e svolgere l’essenza unitaria, di cui già facemmo parola, dell’ evento psichico, dalla più bassa forma monistica alla più complessa manifestazione del pensiero.

La scala psicologica evolutiva, dal psicoplasma (o sostanza psichica nel senso monistico) agli atti volitivi, percorre degli stadî che sono altrettanti gradi integrativi organici differenziati. A prescindere dagli strati più bassi, arriviamo a comprendere che, rispetto alla vita psichica dell’uomo, il fenomeno fondamentale sia la rappresentazione (Herbart). Il gruppo importante delle attività psichiche emotive interessa specialmente perchè dimostra immediatamente il nesso diretto delle percezioni cerebrali con altre percezioni fisiologiche (impulso cardiaco, attività dei sensi, contrazione muscolare); perciò diventa chiaro quanto c’è di non naturale e di insostenibile in quella filosofia, che vuole separare fondamentalmente la psicologia dalla fisiologia (Haeckel). Il principale problema, al quale si attese da chi volle sorprendere il mistero della vita psicofisica, fu posto, innanzi tutto, nella ricerca dell’equivalente meccanico, chimico o fisico, e fisiologico degli stati di coscienza; indi fu allargato alle forme primigenie dell’attività psichica. Il primo aspetto del problema, però, è un residuo, o non confessato o inconsapevole, del vecchio dualismo, che distingueva la forza vitale dalle altre forze naturali; peggio ancora, l’anima dei bruti da quella dell’uomo.—Senonchè «il pensiero, la coscienza, non è altro che il lato subbiettivo dei fenomeni vitali, e però non può differenziarsi da questi, meno che mai può mettersi di fronte ad essi in una specie di antagonismo, come in fin dei conti avviene del lavoro meccanico di fronte al calore, di guisa che l’uno abbia finito di essere quando l’altro incomincia ad essere. Il fenomeno coscienza accompagna i mutamenti interni trofici e metagenetici del cervello, non li anticipa nè li sussegue; perciò malamente si capisce come entro allo stesso cervello debbano prodursi altri mutamenti o assimilativi o dissimilativi, di cui il pensiero sarebbe la manifestazione subbiettiva. Si dovrebbe perciò supporre (cosa assurda e antibiologica) che i centri nervosi sieno sede di due diverse specie di metabolismo!»[38].

Il principio unitario dell’evento psichico (Mili, Lewes, Spencer, Lotze, Horwicz, Lippe, Haeckel, Morselli, ecc.) si riassume nel ritenere, con Ardigò, che quelle, che i metafisici chiamano facoltà attive e passive, interne ed esterne, animali e razionali, rappresentative affettive e volutive, e così via, non sono infine che combinazioni variate dei medesimi elementi, come altrettante parole, di suono e di significato diverso, formate colle medesime lettere dello stesso alfabeto[39].

7. —Dopo aver ciò premesso, sarà agevole inferire in che consista l’equivoco del James, del Lange e dei loro seguaci. Si è voluto spezzare l’unità psicofisica del fenomeno interno della emozione; si è voluto credere che ciò che per mera opportunità metodica gnoseologica poteva essere avvisato in due momenti differenti (il momento fisico ed il momento psichico) fosse davvero il prodotto di due fatti separati con seguenza necessaria. La verità è, che i due momenti, in apparenza analoghi a fatti diversi, non sono che due lati di unico fenomeno, il cui sostrato dinamico ha l’equivalente nella energia trasformata del motivo esterno od interno. Il Lange e James, separando il contenuto della percezione dal tono sentimentale della emozione, credono di aver trovata la possibilità di uno stato di freddezza e di indifferenza intellettuale; l’argomento, cioè, che la emozione non sia concepibile se non quale effetto di modificazioni organiche. Essi non si avvedono che la fatta ipotesi poggia sull’errore di credere che davvero possa ricorrere una percezione intellettuale fredda ed indifferente, e che sia a noi concesso di astrarre, dalla emozione, tutti i sintomi fisici, senza che di essa non si muti sostanzialmente l’intima essenza. Ogni percezione non è mai disgiunta da un grado di equivalente dinamico: se alla emozione si sottraggono i concomitanti fisici, sopprimendosene fin il ricordo, essa si trasforma in idea; dal campo affettivo passa nel campo intellettivo. A che, dunque, parlare di precedenza o di seguenza, se nella continuità degli stati di coscienza la singola unità d’un fenomeno per tanto serba la fisonomia di processo differenziato per quanto si concepisce quale somma o composto di elementi constitutivi? I fenomeni intellettivi e gli affettivi son due rami del medesimo tronco, le cui radici si profondano nel suolo sottostante delle funzioni riflesse, automatiche ed istintive: la psicologia comparata ci sospinge ancora oltre, e ci induce a concludere con Haeckel, che una catena ininterrotta di tutti i gradi di passaggio possibili riunisca gli stati originarî primitivi del sentimento nel psicoplasma dei protisti unicellulari con queste altissime forme evolutive della passione nell’uomo, che hanno la loro sede nelle cellule gangliari della corteccia cerebrale.

8. —Passando a trattare delle emozioni criminose, non possiamo che ripetere ciò che altrove[40] scrivemmo.

Poichè, come osserva il Sergi, sono varie le vie di attività, varie le condizioni dell’ambiente e di diverso carattere i bisogni animali e umani, varî gruppi di percezioni e di stati psichici, che si riferiscono a dolori e a piaceri associati organicamente, devono essersi formati; i quali gruppi sono come tanti centri psicorganici di emozioni diverse e secondo le condizioni speciali e la composizione degli elementi psichici e degli organici tutti insieme e delle cause esterne determinatrici dei medesimi stati coscienti[41].

Tali gruppi psicorganici, centri emozionali derivati o istintivi, considerati riguardo al delitto, sono la base reale delle tendenze criminose; quindi il vero criterio per una differenziazione scientifica di tipi di delinquenti. La emozione è la scaturigine, prossima o remota, dell’umana attività; ad essa si ricongiungono tutte le nostre azioni. Data, dunque, la ipotesi di centri emotivi differenziati, per lunga azione integrativa di coefficienti d’ambiente o di cause contingenti, l’attività individuale si indirizzerà a fini analoghi alla natura degli impulsi che ne sono la manifestazione, e di qui i caratteri distintivi di tipi criminali.

9. —Questi centri emotivi obbediscono, non che alle leggi statiche e dinamiche, eziandio a dei modi che possono raccogliersi sotto gl’infrascritti termini: reazione, periodicità, antagonismo.

Nel mondo psichico, similmente che nel mondo esterno della materia, è dominante la legge della inerzia, per la quale non sarebbe possibile la produzione di un fenomeno di movimento senza che in precedenza non fosse impresso l’impulso che valga a determinarlo; nè, determinato che sia, si avrebbe la cessazione se il moto non fosse arrestato da ostacoli o da contrario impulso. La coscienza, prodotto di processi accumulatisi, resterebbe in condizione invariata se non sopravvenissero continui motivi, che ne producono i cambiamenti e ne alterano il contenuto. Di qui l’ azione di questi motivi, alla quale corrisponde eguale reazione.

10. —La periodicità delle emozioni rientra nella gran legge del ritmo del moto.—La prova della periodicità di emozioni criminose noi la troviamo nella influenza delle età, dello stato sociale, delle meteore, degli elementi etnici sulla produzione di taluni crimini in aumento o in diminuzione con costante processo statistico. Che se da considerazioni generali scendiamo all’analisi di singole emozioni, vedremo che la legge ha riscontro indefettibile e che ci serve, alle volte, per elevarci a dei criterî logici preziosi di cui ci avvaliamo nella prova della successione degli atti incriminabili e della entità di ciascuno.

Consideriamo, ad esempio, la collera, che, ridestata dall’idea di offesa ricevuta, è emozione caratteristica la quale accompagna i reati d’impeto. L’individuo, che n’è affetto, dapprima è come travolto da tempesta, che gli toglie il discernimento e lo spinge ad atti incomposti di violenza. Poco a poco, dopo che sia avvenuta, mediante una mimica concitata di reazione, la scarica della energia accumulata, subentra lo stato di calma apparente; l’individuo resta oppresso sotto l’incubo della idea che ne ha invasa la coscienza: nell’oscillazione tra il passato ed il presente, il pensiero ed il sentimento ora attingono il grado di esplosione, ora si abbassano fino allo stato di abbattimento, di umiliazione: basterà che qualunque circostanza aggiunga o tolga peso al motivo di offesa perchè o si precipiti difilato all’azione reattiva, o ritorni la calma e si ristabilisca l’equilibrio.

11. —Intendo per antagonismo delle emozioni criminose la concorrenza, simultanea o successiva, di correnti di attività ridestatesi nella coscienza del delinquente, a séguito del motivo interno, per conseguire lo scopo del delitto. Queste correnti sono energie attuali, che partono dal medesimo fondo degenerativo e che, ad un punto del campo della coscienza, insorgono e tendono a prevalere, ciascuna per la sua direzione; alcuna volta fondendosi insieme, altra volta sforzandosi o di elidersi o di sovrapporsi con vicendevole moto, per opposte impulsioni. Nella ipotesi di fusione, la energia emotiva si rafforza in ragione delle coefficienze di correnti; nella ipotesi di contrasto, si hanno i seguenti stati interni: turbamento generale del soggetto, che dapprima tentenna a quale fine indirizzarsi, indi a quali mezzi di scelta appigliarsi; indebolimento dell’eccitamento emotivo iniziale; equilibrio instabile di condizioni associative o appercettive; esaurimento di eccitazione o prevalenza d’una corrente sulle altre ed impulsione unica all’azione.

12. —Parlando della dissoluzione psicofisica del delinquente, ci fermammo segnatamente ad osservarne la forma morbosa o patologica. Dobbiamo completare la trattazione restringendoci, con maggiore attenzione, alla sfera della affettività e della ideazione, in istato non patologico, ma fisiologico; vale a dire durante il processo disintegrativo ordinario della psiche del delinquente, senza che vi intervenga l’influsso deleterio di qualche specie di malattia.

Il Ribot scrive: «La legge di dissoluzione, in psicologia, consiste in una regressione continua che discende dal di sopra al disotto, dal complesso al semplice, dall’instabile allo stabile, dal meno organizzato al meglio organizzato: in altri termini, le manifestazioni, che sono le ultime in data nella evoluzione, spariscono le prime; quelle che sono apparse le prime spariscono le ultime. L’evoluzione e la dissoluzione seguono un ordine inverso»[42].

Il Janet, al Congresso di psicologia di Roma, ha svolto un tema sulle oscillazioni del livello mentale, dimostrando che il progresso e il regresso del livello mentale non sono costanti; che grandi fluttuazioni di questo livello sono state osservate da lungo tempo negli isterici, ma sarebbe un errore il credere che gli individui normali ne vadano esenti. Questo abbassamento del livello mentale è costituito da grande depressione psichica, da un senso di depressione, di diminuzione di sè, di amnesie e da amnesie retrograde. L’ultima cosa appresa è la prima ad essere distrutta nell’abbassamento del livello mentale; ed è perciò che quello che vi è di più nuovo, di più recente, cioè il momento attuale, è ciò appunto che per primo viene a perdere il suo interesse quando lo spirito s’indebolisce; e il primo sintomo dell’indebolimento mentale è appunto l’inseguire fantasticamente oggetti o idee lontane od inutili, perdendo di vista la necessità e l’attività del presente[43].

Rifacendoci alquanto indietro, diamo la teorica più probabile da adottare. Le sensazioni, le rappresentazioni, le idee, i sentimenti, serbando il doppio ritmo di coesistenza e di successione, si fondono, si organizzano, si unificano in composti psichici separati, che tra loro sono in relazioni di affinità o di identità. Il funzionamento psichico, in generale, ha l’equivalenza in analoga funzione cerebrale, che non ammette energie singole ristrette, con attività chimico-fisica, in centri qualitativamente differenziati, nè ammette la localizzazione di facoltà in senso materiale ed assoluto. La localizzazione cerebrale funzionale deve intendersi nel senso di maggiore attitudine di alcuni centri, rispetto agli altri, nel ridestare la efficacia di data energia, o, meglio, nel far sì che l’attività dell’io, fisica o psichica, prenda una direzione o un’altra, si manifesti in modo speciale. Il solo vero interessante è di sapere, che la funzione del cervello sia l’attività risultante di tante energie componenti, e che «una mentalità sia una specialità di onda cerebrale, più o meno estendentesi nella trama craniale, più o meno composta di varie concorrenti, più o meno normalmente spiegantesi, più o meno alterantesi, per le condizioni diversificate del cervello»[44].

Psichicamente avvisata, la risultante ultima della funzione cerebrale corrisponde ai due atti più complessi, il mentale e l’affettivo, la intelligenza e la volontà. La intelligenza, unificando il prodotto psichico delle rappresentazioni, è alla sua volta un composto decomponibile negli elementi di idee e di appercezioni; la volontà, assommando il cumulo delle energie attuali di motivi e di sentimenti, segna la linea discendente della curva descritta dall’integrarsi della psiche, poichè essa corrisponde al momento dinamico in cui l’io tende a proiettarsi al di fuori ed a completarsi nell’azione esteriore. In questo ascendere o discendere continuo, in questa organizzazione vicendevole del tutto insieme e delle parti, in questa relazione statica (o di sola sussistenza ) e dinamica (o di sola operazione ) tra i centri funzionali cerebrali, o tra i composti psichici, è tutta la vita dell’io, è la origine degli stati di coscienza, della evoluzione e della dissoluzione della personalità; evoluzione quando si ascende, dissoluzione quando si discende.

La coscienza si rende più complessa, più stabile a seconda che meglio si organizzi; i suoi piani, o strati, si consolidano come più le rappresentazioni acquistano maggiore compattezza.

L’ultimo composto psichico formatosi è il primo a dissolversi nella disintegrazione della personalità; le emozioni disinteressate, cioè che attingono la più alta cima della vita affettiva, sono le prime, secondo Ribot, a scomparire nella discesa morale. L’importante a ricordare è però questo, che la esaminata dissoluzione è modificata dal duplice ordine di vita di relazione, l’ordine di tempo o della seguenza degli stati di coscienza, e l’ordine di coesistenza o del simultaneo concorso di energie convergenti.

Chi voglia formarsi l’idea approssimativa di ciò che sia la coscienza nello stato normale e nello stato di alterazione, immagini un piano liquido, sotto limpido cielo, attorniato da verdeggianti alberi, rispecchiante i molti oggetti cosparsi sulla riva.

Il cielo, gli alberi si riflettono col colore, con le forme naturali. Anche a non rivolgere gli occhi attorno, basterà fissarli sulla superficie dell’acqua per vedere e riconoscere la realtà di esistenti sopra ed in giro, da vicino e da lontano.

Le onde, che appena si increspano, fan fluttuare le immagini, rendendole, talfiata, poco visibili; altra volta confuse, ondeggianti, di forme alterate: ma, purchè si porga un po’ d’attenzione, purchè si fissi meglio l’occhio, è facile accorgersi dell’errore di senso, ed avere la percezione esatta degli oggetti riflessi.—Suppongasi che qualcuno gitti nell’acqua un grosso sasso. Al rumore del tonfo, subito vi accorgete che succede gran turbamento. La luce più non espande il suo riflesso; le immagini degli oggetti spariscono, le correnti si intorbidano e confondono. Se attendete alcun poco, permettendo che ritorni alquanto la calma, vi accorgete subito che attorno al punto dell’urto, là dove il tonfo è avvenuto, cominciano a descriversi dei cerchi concentrici, con movimenti repulsivi e con ritmo decrescente.

Il piano liquido è la coscienza allo stato normale: essa rispecchia il mondo esterno con naturalezza di forme e di colorito; l’osservazione introspettiva, l’occhio della mente, che si riflette sul suo campo visivo, ne percepisce la realtà; la più perfetta armonia esiste tra il mondo esterno e l’interno, tra le immagini, o le rappresentazioni, e gli stati oscillanti ed instabili, ma contenuti in ritmo di equilibrio. Alla scossa d’un’idea, che viene dal di fuori o insorge repentina dal fondo dell’anima; al furioso assalto di un sentimento, che mette il tutto in subbuglio, succede lo scompiglio della coscienza e scompare la serenità e la calma. Passa alcun tempo, l’ordine si ristabilisce alquanto, ma dal punto, ove la scossa è avvenuta, si seguono continue impulsioni, le quali, con moto centrifugo, sprigionano, con seguenza di scariche, la energia accumulata in grado esuberante.

Suppongasi ancora che, invece dell’urto del sasso (della scossa d’una idea), senza che altra causa di turbamento vi si aggiunga, l’acqua sia messa in moto da tempestose correnti che ne alterino profondamente la superficie e ne sconvolgano il fondo: ov’è più l’agio di veder riflessi gli oggetti esterni, ov’è il flusso e riflusso delle onde, l’avvicendarsi tranquillo di tenui movimenti? Ed ugualmente, se la coscienza sia profondamente turbata, gli stati psichici sovrapposti si infrangono, le energie accumulate ed omogenee si confondono, vengono, con moto incomposto, furiosamente a galla e si espandono; le tendenze, che ad esse sono unite, di impulsività egoistiche, riprendono il sopravvento a detrimento di nuove energie sovrapposte; il fondo rimugghia e distrugge, col sollevarsi, l’ultimo piano, il meno differenziato, ma il più perfetto nella selezione organica della coscienza.

CAPO VIII.

Concetto psicologico del delinquente.

1. Che cosa sia il delinquente.—2. Il prodotto psichico del delitto nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico.—3. Il tipo di Caliban nella Tempesta di Shakspeare.—4. Il Tersite di Omero.—5. Caratteri morali dei delinquenti in formazione.—6. L’integrazione evolutiva anomala del delinquente.—7. Analisi del Riccardo III di Shakspeare.

1. —Dopo aver esaminati gli elementi dinamici della psiche del delinquente, non che i due stadi di coscienza del medesimo, lo stadio di formazione e lo stadio di sviluppo, ci sentiamo in dovere di rivolgerci la dimanda: che è mai il delinquente? In parte vi abbiamo risposto, analizzando i coefficienti psicofisici del delitto; ma è bisogno che si esprima con più chiarezza il nostro concetto, raccogliendo in sintesi ultima le esposte idee.

La dimanda non è nuova, anzi risale al problema fondamentale della genesi del delitto e della imputabilità. Le risposte furono difformi; ciascuna ritraendo del sistema di idee, onde si partiva, e dell’intento pratico cui si tendeva. Maudsley, alla dimanda che cosa fossero i delinquenti, risponde: sono esseri intermedî fra i pazzi e i sani; Albrecht: i criminali sono i normali della umanità; Lombroso: i delinquenti sono i selvaggi di un popolo civile; Sergi: i delinquenti sono degenerati; Minzloff: i criminali non sono che ammalati; Dally: i criminali non sono che pazzi; Benedikt: i delinquenti sono neurastenici fisici e morali; Féré: i criminali sono gl’inadatti all’ambiente sociale; Colajanni: i criminali sono moralmente atavici; Riccardi: i criminali sono inferiori dannosi[45].

2. —Tutte coteste risposte sono abbastanza generiche ed indeterminate per non soddisfare la nostra richiesta. Il problema resta insoluto, il problema della genesi psichica e della imputabilità del delitto.

Per bene intenderci e per liberarci dagli equivoci, presceglieremo metodo diverso da quello fin’ora adottato. Che cosa abbiamo fatto con le precedenti indagini? Niente altro che, per via analitica, tentare di ricostruire la formazione naturale dell’anima del delinquente, cominciando dall’assodare le leggi dinamiche dei motivi criminosi, proseguendo col vedere il processo evolutivo ed integrativo degli stati di coscienza, per finire col prospettare lo stato di dissoluzione della medesima, sia per effetto di cause ereditarie e latenti, che per effetto di cause acquisite ed attuali.

Indugiamoci e riflettiamo. Gli elementi formativi della psiche sol per comodità scientifica si dispongono in serie di atti o di stati simultanei o successivi; ma essi formano un tutto insieme organicamente unificato. La forza psichica, nella risultante finale di ciascuno stato, di ciascun atteggiamento e produzione, non è che energia unica, per quanto complessa altrettanto identificata nel funzionamento totale di azioni coscienti.

L’unità, la totalità, la funzionalità non sarebbero da noi apprese se non si estrinsecassero in atti aventi il valore di tanti effetti, i quali ritraggono dei caratteri qualitativi e quantitativi della causa onde promanano. Il delitto—concepito nella sintesi psichica di stati di coscienza analogamente differenziati—non è che attività, la cui genesi è nella natura del soggetto e nell’azione degli stimoli, o motivi, e la cui perfezione si sostanzia nel fatto violatore dell’altrui diritto.

Abbiamo visto che tale attività criminosa percorre un primo periodo embrionale o di formazione, la cui nota culminante è lo stato tuttavia involuto degli elementi che poscia, allo stadio di sviluppo, debbono, per effetto di selezione organica, attingere il grado di omogeneità e distinzione. Or, dopo che con l’uso dell’analisi ci siam resi conto dei coefficienti dinamici di ciascuno dei due sovraccennati stadî, possiamo, adoperando vedute sintetiche, completare la nostra conoscenza, che deve, poscia, facilitarci la via per più difficili induzioni e deduzioni pratiche e scientifiche.

Nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico, il prodotto psichico del delitto prende la forma istintiva, immanente, quasi automatica. L’animabilità ha predominio incondizionato. Il contrasto di correnti antagoniste segue il ritmo sincrono: le energie si mantengono nello stato di latenza; ma, appunto perchè poco coerenti, sfuggono al potere di controllo e di arresto. A volte, se un forte stimolo ne ecciti la scarica, riappariscono con scoppî istantanei ed imprevisti; poi, incontrando difficoltà a fondersi ed assimilarsi con le energie esterne trasformate, ritornano in istato di inerzia accompagnata da equilibrio stabile.

3. —La concezione artistica più perfetta, che io mi conosca, di questo stadio di formazione psichica del delitto, credo sia il Caliban della «Tempesta» di Shakspeare. Altrove ne scrissi, dimostrandone segnatamente il lato dell’azione inconscia[46]; qui ne completerò l’esame, che tornerà molto utile per concretare gli esposti criterî scientifici.

Caliban, deforme e selvaggio, era figlio della strega Sicora, che per mille malefizî e sortilegi fu sbandita da Algeri e confinata in un’isola ov’ella si sgravò. Prospero, privato, ad opera di suo fratello Antonio, del ducato di Milano, venne insieme alla figlia Miranda abbandonato in alto mare, alla balìa dei venti, e capitò di approdare all’isola di Caliban. Costui fu subito spogliato del possesso dell’isola, e, poichè egli era un essere stupido, un mezzo idiota, il buon Prospero lo commiserò, prese il fastidio di insegnargli a parlare, ed a conoscere ora una cosa ora l’altra. Ma, ad onta di tali insegnamenti, nessun essere buono poteva sostenere il suo ignobile contatto: fino a che, quantunque trattato umanamente ed albergato nella stessa cella del benefattore, un bel giorno osò attentare all’onore di sua figlia! La bestia umana si svegliava cogli impulsi del senso. Prospero ne comprese la natura di fango e lo assoggettò ai più bassi e degradanti uffici. Non l’ombra d’un rimorso turbò l’anima dello schiavo, che, alla deformità del corpo, per degenerazione ereditaria, univa istinti e sentimenti criminosi, indole perversa, odio profondo irresistibile contro Prospero che gli carpì quell’isola, a lui appartenuta per cagione di sua madre Sicora.

La bellezza, la innocenza di Miranda avrebbero dovuto agire, con forza rigeneratrice, sull’anima di Caliban; ma questi nulla poteva sentire di elevato, ed ai rimproveri di Prospero per la immonda azione, invece di scusarsi, risponde: oh, oh ... così fossi riuscito! Tu me lo impedisti, altrimenti avrei popolata quest’isola di Calibani!»

Le continue esplosioni di mal compresa ira, le invettive fiorite sì spontanee sulle labbra del mostro, tuttochè a lui fossero minacciati atroci castighi, vi fanno indovinare che la sua psiche era tuttavia involuta, sotto l’azione immanente di stimoli senza freno, non illuminata dalla luce del vero, non confortata dal desiderio del bene. La scena seconda del secondo atto è tutta una rivelazione incomposta della natura primitiva e bestiale dell’uomo. Caliban, con un carico di legna, si avvia verso casa di Prospero: si ode il rumore del tuono e lo schiavo non sa che profferire maledizioni di odio e di vendetta. «Tutte le infezioni—egli esclama—che il sole estrae dalle acque stagnanti, dalle paludi e dai pantani, cadano su di Prospero e lo convertano in tutto una piaga. I suoi spiriti mi ascoltano, e nondimeno mi è forza il maledirlo!» La fantasia, non sorretta dal sussidio della ragione, facilmente si turba ed è preda di balorde illusioni. Caliban crede nella grande arte magica di Prospero: vede attorno a sè scimie che gli fanno i versacci; tal’altra ei son ricci che gli stan sotto i piedi ignudi appuntando le loro spine; spesso egli è tutto fasciato di serpenti, che colle loro lingue forcute gli sibilano nelle orecchie in modo da farlo diventar pazzo. Egli vede avvicinarsi il buffone Trinculo e, prendendolo per uno spirito, gittasi bocconi per terra, sperando di non esser visto. Gli si avvicina Stefano e Caliban prende lui e Trinculo per discesi dal cielo. È appellato mostro assai balordo, debole e credulo, ed è schernito; ma egli di nulla si risente ed a coloro che lo insultano risponde con atti sommessi, con parole melate, con profferte di obbedienza e di servitù. Traspare, nonpertanto, in tutto ciò, l’istinto vendicativo del criminale e l’accenno a qualche disegno delittuoso che cominciava a profilarsi ed a prender forma nella mente. Il mostro—ed è qualità di animi degenerati—abbassa la sua dignità fino a voler leccar le zampe a Stefano; lo circuisce, lo lusinga, lo attrae a sè soffrendo le più atroci ingiurie, gli scherni più inumani. Dimentica ogni cosa che lo circonda, non pensa che alla vendetta, a procacciar la morte di Prospero con orrendo assassinio. In quell’anima mostruosa, impasto informe di degenerazione ereditata dalla strega Sicora, la donna da’ sortilegi e da’ malefizî, e di sentimenti sistemati, per lungo adattamento, di odio cieco e di malfrenata ira, il delitto si vien disegnando con tinte fosche, con particolari di inaudita ferocia. La simulazione, l’astuzia, trasparenti nel linguaggio accorto e melato, si scovrono; il criminale, in formazione, non sa concepire le difficoltà del progetto, non vede ostacoli: la vendetta si materializza, e la mente, funestata da luce vermiglia di sangue, gode di prospettare innanzi a sè la scena omicida; ei ne racconta i particolari ed anima Stefano a metterli ad esecuzione. Promette di accompagnare costui alla capanna di Prospero; glielo farà trovare addormentato e potrà conficcargli un chiodo nella testa!

E, come se ciò non bastasse, aggiunge: «egli ha il costume di dormire dopo il mezzodì; allora potrai strappargli le cervella, essendoti prima impadronito dei suoi libri; o potrai con una pertica fendergli il cranio, o sventrarlo con un palo, o tagliargli l’arteria maestra col tuo coltello. Ricorda di impadronirti prima dei suoi libri, chè, senza di essi, egli non è che uno sciocco come son io, nè ha più uno spirito al suo comando ... Ma il più importante è la bellezza di sua figlia; egli stesso la dice incomparabile; non ho veduto altre femmine che mia madre Sicora e lei; ma ella è così superiore a Sicora, come quello che v’è di più grande è superiore a quello che vi è di più piccolo».—L’odio è tal sentimento che, se mette nel cuore le radici, aduggia e perverte ogni impulso, sia pure sensuale, istintivo, fortemente passionale. Il pervertimento morale spinge, fin’anco, Caliban a persuadere Stefano al delitto, solleticandolo colla speranza della conquista di Miranda, la bella fanciulla pel cui amore perdette le grazie di Prospero—È proprio così bella fanciulla?—dimanda Stefano: ed egli: sì, monsignore; starà a meraviglia nel tuo letto, te ne assicuro, e ti darà una magnifica prole»—Stefano è deciso: «mostro, io ucciderò quell’uomo; sua figlia ed io saremo re e regina». Gli assassini son pronti al delitto; ma Prospero è sull’avviso. Egli è compreso di meraviglia per l’indole sì perfida di Caliban: «un demonio, un vero demonio, per cui l’educazione può nulla; per cui vane, interamente vane furono tutte le pene che pietosamente mi presi; e, come, col crescer degl’anni, cresce la sua deformità corporea, così si corrompe la sua anima». Avvicinasi il momento di operare; Stefano, Trinculo sono presso la grotta di Prospero: Caliban, nell’ebbrezza di entusiasmo e di gioia pel delitto, esclama: «te ne prego, mio re, fermati. Vedi tu costà? Questa è la bocca della grotta: entra senza strepito. Compi questo bel maleficio, che farà tua sempre quest’isola, ed io, tuo Calibano, leccherò per sempre i tuoi piedi». Ma essi sono assaliti da parecchi spiriti sotto forma di cani che, incitati da Prospero e da Ariele, si avventano sui tre malandrini e li mettono in fuga.

Caliban, tanto deforme, come Prospero afferma, nella parte morale come nella fisica, insuscettibile di miglioramento, si arresta involuto tra le tendenze della bassa animalità. Non l’idea del vero, non il sentimento del dovere han presa in quella coscienza mostruosa: solo la fantasia, facoltà puramente sensibile, talora gli apre la mente alla visione di immagini e di cose che, dilettandolo, lo sollevano ad una sfera alquanto superiore: in quel momento la bestia tace e spunta l’uomo, al cui sguardo appariscono novelli orizzonti di idealità e di bellezza. «Non aver paura—Caliban dice a Stefano—l’isola è piena di suoni, di rumori, di arie dolci, che dilettano e non fan male. Talvolta sento mille istrumenti sonori a rombarmi all’orecchio; e talvolta odo voci che, se mi fossi anche allora svegliato dopo un lungo sonno, mi fanno dormir di nuovo; poi, nei miei sogni mi sembra di veder aprirsi le nubi, per mostrarmi in procinto di cader su di me le più belle cose; e allora, svegliandomi, desidero di sognare ancora!».

4. —Altro tipo di delinquente in formazione, meravigliosamente abbozzato, è il Tersite di Omero.

Non venne a Troia di costui più brutto Ceffo: era guercio e zoppo, e di contratta Gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso Di raro pelo..........[47].

In lui l’istinto della malvagità si era arrestato al disotto della soglia della coscienza criminosa: non il delitto, ma i bassi sensi dell’odio, dell’invidia lo mettevano in mostra e gli procacciavano la repugnanza o lo scherno di tutti. Se l’assemblea del popolo si riunisce per udire i progetti di Agamennone, e se Ulisse interviene, assieme a Nestore, per esortare i Greci a proseguire la guerra, il petulante Tersite non resta di gracchiare e fa tomulto.

Avea costui

Di scurrili indigeste dicerìe Pieno il cerébro, e fuor di tempo e senza O ritegno o pudor le vomitava Contro i re tutti; e quanto a destar riso Infra gli Achivi gli venia sul labbro, Tanto il protervo beffator dicea[48].

Le rampogne del triste, senza motivo, erano l’effetto di impulsività perversa: egli rivolse ad Atride ingiurie atrocissime. Ma gli fu sopra repente il figlio di Laerte e, guatandolo torvo, gridò:

Fine alle tue

Faconde ingiurie, ciarlator Tersite; E tu, sendo il peggior di quanti a Troia Con gli Atridi passar, tu audace e solo Non dar di cozzo ai re, nè rimenarli Su quella lingua con villane arringhe, Nè del ritorno t’impacciar; chè il fine Di queste cose al nostro sguardo è oscuro, Nè sappiam se felice o sventurato Questo ritorno riuscir ne debba[49].

Così dicendo, gli percuote con lo scettro le terga e le spalle; il manigoldo si contorce e lagrima dirottamente:

Di dolor macerato o di paura S’assise, e obliquo riguardando intorno, Col dosso della man si terse il pianto[50].

Gli Achivi si rallegrarono di quella scena; in mezzo alla tristezza sorse il riso e vi fu chi (interpetre della comune opinione) dicea:

Molte in vero d’Ulisse opre vedemmo Eccellenti e di guerra e di consiglio; Ma questa volta fra gli Achei, per dio! Fe’ la più bella delle belle imprese, Frenando l’abbaiar di questo cane Dileggiator. Che sì, che all’arrogante Passò la frega di dar morso ai regi?[51].

5. —In delinquenti di simile specie nè la minaccia della legge, nè la sanzione o morale o sociale han freno di sorta: il potere assoluto dell’animalità non ancora differenziata in tendenze più umane, avendo la insidenza in organismi in formazione ed a cui l’avvenire forse, sviluppando i germi del male, contrapporrà i rimedî del bene, priva l’individuo di regolare le proprie azioni con intenti altruisti e lo tiene stretto alla dura necessità istintiva. Per i medesimi, ugualmente che per qualunque delinquente a forma tipica di degenerazione organica, va ben appropriato ciò che Tucidide mette sulle labbra a Diodoto, che, combattendo l’opinione di chi consigliava doversi dar morte a quei di Mitilene, osserva: «l’uomo è tratto dalla sua stessa natura ad errare; nè vi ha legge atta a ritenerlo; ed invano sono stati trovati e profusi i più crudeli supplizî per tenere in freno i malvagi. Ed egli è a credere, che ab antico fossero assai più miti le pene, ma che, non valendo a porre riparo ai misfatti, elle s’inacerbissero fino al punto di punire di morte. Ma, per dirla in brevi parole, ella è stolta cosa il credere che le leggi o il timore di ogni più grandissimo male ritenga l’uomo dall’errare, allorchè vel trascina una irresistibile natura»[52].

6. —Il delitto, allo stadio di sviluppo, si trasmuta in forza specifica del complesso organismo individuale. Gli elementi, innanzi discorsi, concorrono tutti insieme, o in parte, a plasmare il nuovo essere, che, differenziandosi, prende il suo posto di dinamica sociale col causare effetti disorganizzatori del concetto etico e giuridico di ordine. La nuova personalità può percorrere tutti i gradi ascendenti di integrazione anomala, dal più basso, a cui appartiene il crimine per assenza ereditaria di controstimoli e per deficienza di attività intellettuale, al più alto rappresentato dal delitto geniale, preparato ed accompagnato dal proteiforme corteggio di astuzia, di riflessione, di tradimento, di insidia: onde più grande sorge il pericolo sociale e più urgente l’obbligo di prevenzione e di repressione. Accetto la teorica del delitto naturale escogitata dal Garofalo, consistente in un fatto nocivo dei sentimenti altruisti elementari, la pietà e la probità. Ma, a dir vero, simile teorica, tuttochè scientificamente sostenibile, non ha che valore puramente metodico; essa, limitandosi alla parte sopra tutto emotiva dell’azione criminosa, ne trascura i rimanenti fattori psicofisici, che, organizzandosi, per tendenze ereditarie o attitudini acquisite, si assommano in intimo meccanismo individuale, con equivalenza e funzionamento di speciale energia.

Il meglio che sia possibile ci adopreremo di rendere vieppiù evidente il nostro pensiero; il che faremo col ricorrere a qualche esempio che possegga la virtù di metterci sott’occhio in forma vivente e drammatica quanto la scienza ci apprende. Nè ad altro sussidio potremo più opportunamente far capo che all’arte, la quale, come ben dimostrò l’Alimena, si accompagna con la scienza: ad ogni manifestazione scientifica, come ad ogni manifestazione sociale, corrisponde una parallela manifestazione artistica. E questo parallelismo non è nuovo, poichè esso è inerente alla natura umana; per cui, dato un problema, il quale, per così dire, acquista tanto volume da occupare buona parte dell’aria che si respira, ciascheduno deve assorbirne una parte, e, alla sua volta, la comunica agli altri, secondo le sue proprie attitudini[53].

Esamineremo Riccardo III di Shakspeare con uguale intento pratico ed esito abbastanza proficuo onde esaminammo Macbeth del medesimo, i Masnadieri di Schiller ed alcuni drammi di Ibsen. Per penetrare nei profondi ed oscuri abissi del cuore umano non havvi guida più fida che i lumi prestatici dall’arte, e, chi sappia servirsene, renderà più evidenti e sicure delle norme il cui valore altamente scientifico o non è, di per sè, bene appreso, o lascia sempre incancellabili tracce di dubbio.

7. —Iago e Riccardo III—scrive l’Alimena—sono i delinquenti per eccellenza: in essi, cercheremmo invano la più lieve orma di rimorso[54].

Non siamo interamente d’accordo; poichè, se Iago ordisce, pari ad un freddo ed abile giuocatore di scacchi, insidie all’altrui felicità, per odio e gelosia dell’altrui grandezza, non mostra di sentire l’impulso cieco aberrante del delitto: in lui la dissoluzione si arresta alla sfera della vita morale.

Riccardo III, invece, trova i germi di rassomiglianza nei grandi delinquenti del teatro tragico greco, in Egisto specialmente, e fu il modello cui ebbe presente Schiller nell’ideare Francesco dei Moor, questo tipo di criminale tra l’istintivo, il pazzo e l’impulsivo, rimasto famoso per chi ne comprenda l’importanza profondamente artistica e scientifica.

Riccardo III anche lui ha fondo ereditario degenerativo; il suo corpo, la sua anima troppo si rassomigliano. Egli, ruvidamente sbozzato, ha il viso asimmetrico; è deforme, zoppo, ridicolo nell’incesso: lo sa, e non osa rimirarsi allo specchio. Ma sa puranco di avere a disposizione una grande potenza malefica; e, poichè non gli è dato godere come gli altri, fa proposito di divenire uno scellerato e abborrire i frivoli diletti. Comincia l’infame vita di delinquente con l’uccidere Enrico VI; indi passa all’uccisione del di lui figlio Eduardo di Galles. Geloso del fratello Clarenza, usa insidiose macchinazioni per farlo venire in disgrazia del re e chiudere in prigione. La sua anima demoniaca è tutta palese fin dal principio dell’azione drammatica: Shakspeare, presentandolo intero nella sua mostruosità, ottiene l’effetto desiderato, di colpire la fantasia e di eccitare la riflessione a sprofondarsi nell’abisso dei misteri del cuore umano.

Siamo alla scena II dell’atto primo: si vede giungere un corteggio funebre; il corpo del re Enrico VI è portato in un feretro scoperto. Lady Anna, in gramaglia, lo accompagna e, versando amare lagrime, lo compiange ricordando il suo sposo Eduardo caduto vittima dalla stessa mano omicida di Riccardo. Costui si avvicina ed ordina che il feretro sia deposto: Anna lo redarguisce, lo insulta, gli ricorda il duplice assassinio, di Enrico e di Eduardo; dapprima egli nega, poi confessa con cinismo ributtante. Al ricordo, fatto da Anna, della virtù dello sposo, risponde, con scherno, dapprima che fosse tanto più degno del re del cielo che lo possiede; e poscia: riconoscente mi sia di averlo inviato in cielo, più adatto egli era a quel luogo che alla terra! Anna maggiormente se ne duole e lo maledice; ma qui avviene qualche cosa che davvero sorprenderebbe se la scienza non ci venisse in aiuto. L’energia criminosa è sommamente suggestiva: ce lo dimostra la psicologia dei meneurs, dominatori della folla delinquente; ce lo mostra l’esperienza di grandi malfattori dal fascino irresistibile nel destare ogni forma di passione nell’animo di persone che furono loro a contatto: Musolino conquistatore della protezione, della simpatia e dell’amore di donne di ogni ceto n’è esempio recente. Ebbene, avviene l’istesso per Riccardo: alla presenza d’un feretro, egli osa tentare il cuore di Anna; costei, dapprima sorpresa, poi renitente, in ultimo dubitante, finisce col cedere e col dare una promessa che era speranza di favorevole condiscendenza. Riccardo se ne meraviglia: Che!—egli esclama—Io che le uccisi lo sposo e il padre, trovarla nell’impeto del suo odio, colle maledizioni alla bocca, le lagrime agli occhi, accanto al testimonio sanguinoso che eccitava la sua vendetta, e in onta del cielo, della sua coscienza e di quel feretro..... io, senz’alcun amico che secondasse le mie preghiere, senza altro sussidio che l’inferno e i miei sguardi diabolici, vincerla? Sì, giuoco il mondo contro nulla, ch’ella è mia»[55].

Il colloquio con Margherita[56], l’infelice vedova di Enrico VI, è improntato ad un senso di ironia e di scherno, indice della insensibilità morale dell’omicida; anche il sentimento di gratitudine è messo in dileggio. Rimasto solo, Riccardo confessa a sè stesso le proprie colpe, le segrete tristizie che andava ordendo e che egli poneva a conto altrui. Fa porre in carcere Clarenza, e lo compiange, a suo dire, innanzi a molti stolti, quali sono Stanley, Hastings e Buckingham, sostenendo che la regina e la sua famiglia inveleniscano il re contro suo fratello. «Questo essi credono e quindi mi esortano a vendicarmi di Riverys e di Grey; senonchè allora io gemo e con un brano di scrittura dico ad essi che Dio ci impone di fare il bene per il male. Così è che io cuopro la mia perfidia col manto di quell’antica e strana morale, tolta dai libri sacri, e rassembro un santo allorchè recito le parti del demonio!»[57]. Allorchè la energia criminosa perviene a sistemarsi, convertendosi in potere specifico, atteggia tutta intera la coscienza, imprimendo la efficacia sui sentimenti, le idee, i convincimenti, i propositi: la serietà dei controstimoli morali, perdendo qualsiasi valore, è motivo di ridicolo; appunto perchè, avendo l’etica la sanzione nelle migliori attitudini dell’uomo a conformarsi ad intenti di ordine, se queste attitudini mancano, i sacrificî, che altri faccia del proprio benessere per l’altrui, non ha significato; onde l’ironico compatimento per azioni le quali si informano ad illusioni di menti deboli e vinte da pregiudizî.

Lo schernire e mettere in dileggio le credenze, le abitudini, che altri predilige in adempimento di dovere religioso o morale e che abbiano scopi altruisti, è segno di malferma coscienza etica e di inclinazioni poco adatte ad opere lodevoli. La delinquenza innalza il culto alle sue divinità sugli altari da cui ha scacciato financo il ricordo del rispetto alla morale: il contrasto perenne, che ne promana, tra le sue opere ed i sentimenti e le idee della comune degli uomini o è incentivo a nascondere, sotto la maschera della astuzia e della simulazione, l’interno pervertimento, o, se non si teme la immanenza di minacce della legge, è fonte di scherno e di dileggio che ora traspare evidente nel gergo adoperato da’ malfattori, ora è perpetuato in segni e figure strane del tatuaggio. Chi ha pratica con grandi delinquenti sa da quanto scetticismo è circondata la loro condotta nei minimi atti della vita. Musolino mostrò divertirsi della requisitoria del Pubblico Ministero; P., famoso in un’associazione a delinquere della mia provincia, tante e tante volte recidivo in reati di sangue, da me difeso, mi confessò di non sapersi ancora persuadere del perchè i magistrati qualificassero le sue azioni per riprovevoli, mentre egli aveva fatto quello che nessuno avrebbe saputo e potuto fare, poichè impotente a farlo!—Il male ha grandi risorse nella coscienza del proprio potere: il mezzo migliore per combatterlo è di diminuire le lusinghe e le speranze che di questo potere sono l’ordinario corteggio; ma ciò torna impossibile fin quando la società non sostituisce, e ne vedremo il perchè ed il come, all’unica sanzione della pena, altri mezzi che, in date evenienze, abbattono il male attaccandolo alle radici.

Riccardo—sulla china del delitto—non sente neanche il dubbio ad arrestarsi: egli chiama a sè due sgherri cui commette il mandato di uccidere il povero Clarenza. Il dialogo, tra’ tre malfattori, procede rapido, incisivo; l’idea del delitto infiamma vieppiù mandante e sicarî: Riccardo, licenziandoli, dice: «I vostri occhi versano folgori quando quelli dei pazzi spargono pianti. Vi amo, garzoni; all’opera, presto; ite, ite, affrettatevi»[58].

Clarenza fu trucidato, nè Riccardo è pago di sua morte; egli sentivasi così sprofondato nel sangue che un delitto dovea richiamar l’altro. Nè è a meravigliarsi; per lui il delitto era il prodotto spontaneo di tempra morale sortita dalla culla, non modificata dall’età o dalla educazione. La duchessa di York, di lui madre, gli dice: «No, per la santa croce, tu ben sai che venisti sulla terra per far della terra l’inferno mio. La tua nascita fu un peso doloroso per me: bieca e caparbia fu la tua infanzia; la tua adolescenza violenta, selvaggia, forsennata; la giovinezza scapigliata, cupida, temeraria. Nell’età matura divenisti altero, astuto, dissimulato, sanguinario, meno fiero, ma più pericoloso, carezzevole mentre odiavi»[59].

Alleatosi con Buckingham, triste e remissivo consigliere, Riccardo fa uccidere coloro che avrebbero potuto ostacolare le mire di assorgere al trono, Rivers, Grey, Waugan, Hastings: temendo di affrontare la responsabilità di sì riprovevole condotta, innanzi la pubblica opinione, trova complici che ne mistificano le notizie, ne coonestano gli eventi. Malleabile, simulatore e dissimulatore in pari tempo, mentre medita la morte del legittimo erede al trono, si circonda di religiosi, piega il capo con l’umile posa di uomo contrito e pietoso. Pregato—a sua istanza e sollecitazione—di accettare il trono d’Inghilterra, si scusa, rinunzia; in apparenza costretto, pienamente accetta. Anna, la vedova dell’ucciso Eduardo, è richiamata alla promessa di addivenire sua moglie: ella, tra i tristi ricordi del passato e le maledizioni, che erompono veementi di sua bocca, subisce tuttavia l’effetto suggestivo delle melate parole di lui, e cede, pur sapendo che e’ l’odia a cagione del padre, Warwick, e che fra breve debba da lei disciogliersi. Salito sul trono, ricorre alla mano del sicario Tyrrel per far trucidare i figli del fratello, calunniandoli per bastardi: uccide la moglie Anna, per sposare la figlia del fratello; insospettito di Buckingham, gli nega il premio della cooperazione in tante opere di scelleraggini. Costui si ribella, ma arrestato è messo a morte.

Il dramma di sangue procede alla fine: un esercito, capitanato da Richmond, si avanza contro l’infame usurpatore; costui si prepara a resistere, ma sente di essere impari alla impresa. L’anima del criminale, dopo di essere ascesa all’apice del maleficio, comincia a dissolversi sotto il peso della propria ambizione soddisfatta. Mentre pel passato non un rimpianto, non un solco di rimorso lasciavan dietro di sè gli inumani delitti, la compagine morale di Riccardo, al primo urto di imminenti pericoli, va in frantumi, e dal fondo buio misterioso del suo interno vien su il cumulo di controstimoli morali, la cui forza era stata repressa dal sovrapposto e saldo strato di degenerata coscienza. La fantasia, turbata dall’insorgere di morbosi sentimenti, diffonde una triste luce su quell’anima tenebrosa: cadono le lusinghe, le ardite speranze, e su quel cuore deserto giganteggia minaccioso il dubbio. L’io, la coscienza perdono l’equilibro; le energie si disorganizzano, e l’uomo dal freddo scetticismo è in preda al ribollimento incomposto di timori e di preoccupazioni manifestate in un vero accesso di delirio. Leggasi il soliloquio nella tenda, pria della battaglia, dopo l’apparizione, in sogno, degli spettri delle persone trucidate, e si avrà una pagina di profonda psicologia dello stadio di dissoluzione dell’anima del criminale. Nel primo momento evvi la sorpresa di insolite rappresentazioni: l’idea di imprevista sventura, esercitando forte e repentina scossa sulla compagine della coscienza, eccita lo strazio del rimorso: Riccardo esclama: e Datemi un altro cavallo ... fasciate le mie ferite ... abbi pietà, Gesù!... Silenzio, ho soltanto sognato—Oh rea coscienza, come mi strazî!... Le lampade mandano raggi azzurri ... È la morta ora della mezzanotte ... Fredde goccie spremute dal terrore stanno sulla mia carne tremante»[60].

L’io, disgregato, si sdoppia e si prospetta alla mente personeggiato in duplice immagine: le due coscienze per un momento acquistano opposta omogeneità; il contrasto dinamico di prevalenza si accentua nell’antagonismo di ricordi del passato e di realtà del presente, e, perdutosi il freno di arresto, le idee, i sentimenti si svolgono con la fuga tumultuosa del delirante. «Che! Temo io me stesso? Qui non è alcun altro; Riccardo ama Riccardo; io, son pure io ... È qui qualche omicida? No; ... sì; io ci sono,.. allora si fugga ... Che! Da me stesso? Efficace movente ... Come?... Per paura della mia vendetta ... Oh? Di me, sopra di me? Oimè, io amo me stesso»[61].—Finalmente, nel turbinìo della mente, la coscienza riacquista un certo equilibrio instabile: il passato s’integra col presente e l’uomo, giudicando sè medesimo, si prevale, in parte, delle proprie energie e si accascia sotto il peso d’una realtà tenuta nascosta per forza di abituale dissimulazione.

«Perchè? Per qualche bene ch’io stesso abbia a me stesso fatto? No, sciagurato, mi abborro piuttosto per opere ree da me concepite. Io sono uno scellerato ... No, mento, tale non sono ... Insensato, di’ bene di te ... Insensato, non adularti. La mia coscienza ha mille lingue, ed ognuna di esse ha il suo racconto, ed ogni racconto mi condanna come uno scellerato. Lo spergiuro, lo spergiuro, al sommo grado; l’omicidio, il crudele omicidio, in tutta la sua efferatezza; tutti i delitti, praticati tutti nelle loro varie forme, si accalcano alla sbarra gridando: Colpevole! colpevole! Mi è forza disperare ...»[62].—L’isolamento dell’animo porta lo sconforto; l’ambizione, perduta l’aureola delle intime risorse, cade abbattuta dinanzi al minimo ostacolo; l’annichilimento dello spirito, ultimo termine di dissoluzione affettiva, paralizza la forza del volere e l’anima si spegne nel doloroso rimpianto d’una pietà che si sa di non meritare. «Nessuno mi ama e, se muoio, nessuno mi rimpiangerà..... In effetto, perchè lo farebbero? Dacchè io stesso in me non trovo alcuna pietà per me ... Mi parve che le anime di tutti coloro che ho trucidato venissero nella mia tenda e che ognuno minacciasse per dimani vendetta sulla testa di Riccardo»[63].

Passata l’onda tempestosa del rimordente delirio, ritorna, con la calma dello spirito, la insensibilità, lo scetticismo. In Riccardo la psiche criminosa è, come dicemmo, solidamente organizzata; la propensione al delitto ha la scaturigine nel sentimento di orgoglio, nella speranza di soddisfare la sfrenata ambizione d’un regno. Non manca perciò la tenacia delle imprese, il coraggio di eseguirle. Ed i propositi rei, tuttochè alle volte impulsivi, si fondano in convincimenti, che hanno modificato completamente l’interno ambiente morale. La fortezza di propositi e la tempra salda di carattere pel criminale evoluto son suffragate dal disprezzo di principî direttivi della comune condotta; egli sente di impersonare una forza che fa eccezione in mezzo ai simili, e se ne vanta e si adopra di conservarne la dignità, aureola di luce fosca e di triste augurio. «La coscienza—egli dice—è parola che adoprano i codardi, inventata per tenere i forti in rispetto; le nostre nodose braccia siano la nostra coscienza; le nostre spade siano la nostra legge»[64].

Francesco Moor, sorpreso dall’estremo pericolo, presso a soccombere vittima dell’imperversare di furibondi nemici, trema, si dispera, finisce col suicidio. In lui la degenerazione fisica avea il sopravvento sulle tendenze morali; epperò, di fronte al pericolo, il coraggio mancò, per dar luogo allo estremo sussidio di animo debole e disperato, il suicidio. Riccardo, per esuberante combattività, trova in sè la leva di coraggio e di audacia; pugna e cade sul campo di battaglia, incontrando la fine degna di ben altra sorte!

CAPO IX.

La dinamica della psiche criminosa.

1. Efficacia genetica del motivo.—2. La psicologia delle idee-forze; stadî integrativi di coscienza percorsi dal motivo.—3. Stadio di discernimento del motivo.—4. Stadio di rappresentazione piacevole o dolorosa; conseguenze, dei due descritti stadî, nella vita psichica del delinquente; le manifestazioni istintive; meccanismo dell’attenzione criminosa.—5. La dottrina della conoscenza ed il problema del contenuto dinamico del pensiero; l’unità di legge nella natura, nel pensiero, nella storia; come agisca l’energia criminosa nell’atteggiare diversamente la psiche.—6. Influenza della immaginazione o della fantasia nel processo psichico del delinquente,—7. Analisi, della detta influenza, specialmente nel delinquente epilettico ed in quello affettivo.—8. La legge di rassomiglianza e la legge di contiguità nel tempo e nello spazio, e la dinamica della psiche criminosa.—9. La dinamica psichica del delinquente negli atti del volere.—10. Lo stato di ansia conseguenza della polarizzazione della volontà criminosa; psicologia dell’emozione della paura; differenza tra l’atto spontaneo ed il volontario.—11. Le oscillazioni del volere ed il relativo processo meccanico-cerebrale.—12. Gli atti alternanti o intermittenti di azioni di motivi sopraggiunti; esempio dell’Alfieri nell’ Agamennone.

1. —Il motivo, com’è stato da noi concepito, è il dato mentale o primordiale della vita psichica. Esso, tuttochè si apprenda isolatamente, non resta staccato dalla serie degli atti precedenti di coscienza; ma si fonde e si integra coi medesimi. «Nel cosmo mentale di un individuo—scrive l’Ardigò—i dati cogitativi emergono e stanno come emergono e stanno le cose nel cosmo materiale universo. Qui per una data pianta, ad esempio, si deve pensare, che il seme, onde è nata, è il compendio di una serie infinita di azioni esercitate dall’ambiente a ridurlo alla sua specie; e si deve pensare, che lo sviluppo del seme stesso esige l’azione su di esso del terreno, dell’acqua, dell’aria, del calore, della luce, che operano in quanto il potere loro è determinato dall’insieme di tutte le esistenze; e si deve pensare, che lo stesso è da dirsi per la continuità della esistenza come individuo vegetante, il quale, come tale, si risente di quanto avviene nell’ambiente più distante, fino a quello infinitamente lontano. E allo stesso modo è un pensiero nel cosmo mentale. Nascendovi, concorrono tanto o quanto tutti gli altri a farlo emergere come emerge; standovi, non vi sta isolato, ma coll’accompagnamento, anzi col sostegno, per quello che apparisce che sia, di tutta la psichicità già preparata»[65].

A parte la quistione se le rappresentazioni sieno di origine primitiva o derivata nella dinamica della psiche, certa cosa è che i fenomeni mentali sono in sè stessi appetizioni, le quali, contrariate o favorite, si accompagnano a sensazioni dolorose o piacevoli; in conseguenza, essi sono delle azioni e reazioni (Fouillée).

Allorchè noi parliamo di motivo, dobbiamo estenderne la efficacia dinamica a tutta la serie degli atti psichici, la totalità dei quali, in forma permanente o transitoria, s’incentra nelle qualità psicofisiche organiche fondamentali, ereditate od acquisite, dell’individuo.

È grande illusione di considerare, nel prodotto psichico del delitto, i coefficienti dinamici in modo separato e formanti, ciascuno di per sè, il contenuto logico dell’azione; donde l’erroneo sistema di ricorrere senz’altro a questo o quel movente, o fattore, morale, etnico, sociale ed economico, per spiegare il perchè del delitto.

Il motivo è energia, è attività, è azione: dalla sensazione, percezione o rappresentazione fino al volere non vi sono che stadî di trasformazione e di integrazione della energia iniziale; è perciò che il motivo da efficiente finisce col convertirsi in finale. La psicologia delle idee-forze svolta dal Fouillée credo che abbia l’identico fondamento dei concetti qui enunciati: per essa gli stati mentali debbono avere efficacia interna ed indivisibilmente esterna in ragione della unità del fisico e del morale. Il principio donde parte la psicologia delle idee-forze è il seguente, che stabilisce l’unità di composizione mentale: «Ogni fatto di coscienza è costituito per un processo di tre termini inseparabili: 1 o un discernimento qualunque, il quale fa sì che l’essere senta il suo cambiamento di stato, ed è così il germe della sensazione e della intelligenza; 2 o un benessere o malessere qualunque, per quanto sordo che vogliasi, ma che fa sì che l’essere non sia indifferente al suo cambiamento; 3 o una reazione qualunque, la quale è il germe della preferenza e della scelta, cioè a dire dell’appetizione. Quando questo processo indivisibilmente sensitivo, emotivo e appetitivo, arriva a riflettersi su sè stesso e a costituire una forma distinta della coscienza, noi l’appelliamo, in senso cartesiano o spinoziano, una idea, cioè a dire un discernimento inseparabile d’una preferenza »[66].

Il motivo, qualunque forma psichica prenda, o di sentimento o di idea, deve percorrere i seguenti stadî integrativi di coscienza: 1 o stadio, discernimento d’un cambiamento avvenuto; 2 o stadio, rappresentazione piacevole o dolorosa del cambiamento; 3 o stadio, discriminazione del perchè del cambiamento; 4 o stadio, fusione coi precedenti stati emotivi od ideativi, con analoga eliminazione degli stati antagonisti; 5 o stadio, unificazione qualitativa della energia specifica criminosa; 6 o stadio, unificazione quantitativa dell’attività iniziale dell’azione.

2. —Giustamente osserva Fouillée, che il discernimento di cambiamento di stato sia il germe della sensazione e della intelligenza. La cenestesi, o sensibilità generale, non si specificherebbe, in qualunque prodotto sensitivo, se non ci fosse accordato il potere di concepire questo effetto isolatamente dagli altri, di discernerlo e di fissarlo nel campo del pensiero. Dal punto di vista dell’intelligenza, aggiunge Fouillée, il discernimento può essere implicito, quando un solo termine è presente allo spirito, senza comparazione con altro. Ma la facoltà di discernere non si sviluppa che con la scelta: se noi abbiamo coscienza delle differenze, principalmente sensitive, è perchè queste differenze sensitive trascinano delle differenze reattive. «Si può anche andar più lontano e dire, che ogni discernimento contiene già una scelta pratica rudimentale, che ogni determinazione intellettuale è nello stesso tempo una determinazione dell’attività, sopratutto nei sensi primordiali, i quali sono per essenza vitali, e dove la reazione è inseparabile dalla sensazione. Discernere il piacere di mangiare ed il dolore della fame è indivisibilmente preferire l’uno all’altra. I discernimenti in apparenza indifferenti sono un risultato ulteriore; anche in questo caso l’adesione, che noi accordiamo a ciò che ci apparisce tale o tale, è ancora una preferenza intellettuale, una determinazione in un senso piuttosto che in un altro, ciò che, ben inteso, non implica alcun libero arbitrio»[67].

L’unità indissolubile del pensare e dell’ agire è la legge psicologica di importanza capitale riassunta nella espressione di idea-forza.

In cotesto primo stadio, di discernimento del motivo o di energia cosciente nel cambiamento dei precedenti stati di coscienza, ha molta importanza la inerzia psichica. Ciascuno, in fatti, si accorge dello sforzo adoperato ogni qualvolta la coscienza debba modificare il suo stato totale o parziale: la causa è nella forza di resistenza delle energie organizzate, massimamente per la fusione con gli elementi statici dei residui psichici del passato. L’inerzia, però, della psiche dev’essere intesa non in senso assoluto, ma in relazione al movimento già stabilito con dato ritmo; mentre il cambiamento, sostituendo novello ritmo, mette in giuoco attività che prima o restavano tuttavia in istato latente, ovvero non erano discernibili alla coscienza.

Il lettore si sarà accorto che, trattando della dinamica della psiche criminosa, noi completiamo quanto scrivemmo intorno alla dinamica dei motivi. Allora vedemmo la efficacia isolata del motivo, ora ne esaminiamo l’azione complessa, nell’insieme di tutti gli stati psichici costituiti ed unificati organicamente.

3. —Lo stadio di rappresentazione psichica integrativa della energia criminosa, messa in giuoco dal motivo, è contrassegnato da stato piacevole o doloroso; di che abbiamo esaurientemente discorso trattando della genesi evolutiva e dissolutiva delle emozioni o della vita affettiva.

La legge di composizione e decomposizione della vita fisica, per l’alternarsi continuo di fenomeni di riparazione e di consumo, vale ancora per la vita dello spirito, dove la funzionalità cosciente si polarizza o in sensazione piacevole o in sensazione dolorosa. È da questo momento che l’attività cogitativa, servendosi dell’appercezione, afferma la propria esistenza di forza autonoma o differenziata e l’io personale comincia a costruirsi con materiali consistenti. Il mondo ambiente non è più visto al di fuori, ma si soggettivizza e le energie, che ci partecipa, prendono il posto, che meritano, negli atti successivi o coesistenti interni. L’io, in quanto afferma il novello stato rappresentativo, afferma se stesso, e pone la base d’una realtà soggettiva, che ha il corrispettivo dinamico nel prodotto di attività psichica risultata dalla somma delle energie precedenti fuse con la energia del motivo. Essendo così, la ragione dell’affermazione della rappresentazione non deve attingersi in altro principio che in quello di necessità di effettuarsi. «Per cui—scrive Ardigò—colle diverse forme della rappresentazione si hanno pure diverse forme dell’affermazione. E cioè, affermazione del dato puro della sensazione nella psiche iniziale o del dato integrale nella psiche adulta; del dato di coesistenti o del dato di successivi; del dato intuitivo o del dato discorsivo; del me o del non me; del sentito o del percepito o del ricordato o del riconosciuto; del singolo o del concreto o dell’astratto; del reale o dell’ideale; dell’ a priori o dell’ a posteriori; del relativo o dell’assoluto; del necessario o dell’esistente o del possibile»[68].

4. —I due primi stadî integrativi, di cambiamento di stato e di rappresentazione con funzionalità piacevole o dolorosa, portano, nella vita psichica del delinquente, o un’alterazione nelle manifestazioni istintive, ovvero il processo di attenzione più o meno intenso e duraturo. Il Despine bene osserva «che, quantunque l’organismo presieda alla natura delle facoltà istintive, nel senso che noi non possediamo se non quelle di cui esso permette la manifestazione, e che queste facoltà cangiano di natura a misura che i nostri organi subiscono profonde modificazioni o impressioni passeggiere, c’inganneremmo molto se attribuissimo tutti i cambiamenti, che hanno luogo nelle manifestazioni morali, a delle cause fisiche, a delle modificazioni o a delle impressioni organiche. Si operano cambiamenti considerevoli nel carattere, sotto l’influenza di cause le quali eccitano vivamente certi sentimenti rimasti latenti, e la cui attività sostituisce quella di altri sentimenti che avevano predominio fino ad allora nell’individuo»[69].—Lo stadio di cambiamento, dunque, nella psiche del delinquente, riducesi al destarsi di attività istintive latenti con immediata formazione di tendenza verso l’azione.

Non si saprebbe comprendere come mai il criminale nato, a cui la sensibilità morale fa completamente difetto, trovi in sè le risorse di una potenzialità di tanta attività da meravigliare. «Se l’individuo moralmente insensibile—scrive Despine—la perversità del quale non è affatto attiva, si trova in condizioni che gli permettono di soddisfare i suoi gusti con fortuna, ed alcuna causa non interviene ad eccitare vivamente in lui dei desideri perversi, la sua insensibilità morale non si manifesterà punto, non avendone l’occasione. Questo uomo, tuttochè moralmente insensibile, non essendo trasportato al male, si comporterà in maniera da non meritare biasimo. Tutte le cause che eccitano nelle popolazioni le passioni perverse, cagionano, presso un certo numero di individui, la manifestazione di loro insensibilità, rimasta latente per manco di una causa che abbia eccitato prima in essi dei desideri perversi, criminali»[70]. Il che può essere eziandio l’effetto momentaneo della influenza di violenta passione la quale, se imperiosamente lo richiede, è causa per cui qualcuno sia spinto a commettere un misfatto proprio allo stesso modo di chi sia in permanenza privo di senso morale. Ma, tostochè cessa lo stato passionale, ed accade in generale molto prontamente dopo l’atto compiuto, il senso morale si fa sentir di nuovo e, vivamente compunto, da luogo al rimorso[71].

Per legge fondamentale dinamica evvi, dunque, gran differenza tra l’attività psichica iniziale del delinquente nato e quella del delinquente per passione; nel primo è la energia latente istintiva, che si mette in giuoco, nel secondo il cambiamento è l’effetto transitorio di eccitamento passionale.

Il criminale che uccide per uccidere, che ruba per soddisfare piuttosto al potere imperioso istintivo e non al desiderio di procacciarsi dei mezzi necessarî ai bisogni; che incendia, distrugge sotto l’azione di impulsioni irresistibili, non trova affatto nel compimento delle sue opere il corrispettivo di piacere o di dolore. Tanto è vero che, molte volte, non ne serba ricordo; pare che abbia agito in istato d’incoscienza. Il contrario interviene pel delinquente di occasione, gli atti del quale sono l’effetto transitorio di momentanea sospensione della vita affettiva altruista; forse potrà in esso appalesarsi la più grande ferocia, ma, tornata la calma, l’animo riacquista il perduto equilibrio sentimentale ed il malfatto è causa di rimpianto.

Non essendo la vita affettiva in giuoco, o per la qualità dello stimolo o per la natura del soggetto passivo, bensì la vita cogitativa, il cambiamento di stato è rappresentato dall’atto col quale la mente prende possesso in forma limpida e vivace di uno fra tanti oggetti o fra diverse correnti di pensieri che si presentano come simultaneamente possibili (James). In simile atto, di spontanea o volontaria attenzione, la finalità è di localizzare la coscienza concentrandone la peculiare energia, e ciò vuoi pel maggiore interessamento che alcun elemento sperimentale ha per noi, vuoi perchè ne siamo sollecitati dalla impulsione inerente ad ogni cambiamento avvenga nel dominio dello spirito. L’analogia riscontrata dal Wundt[72] tra l’attenzione, rispetto alla coscienza, e la fissazione rispetto alla retina dell’occhio, sembrami molto esatta. L’attenzione è sforzo selettivo; è processo di arresto ed è funzionamento diretto del potere inibitorio.

Fissandosi la rappresentazione sulla linea degli assi visuali della mente, si prospetta con più chiarezza e distinzione. Ma, si è detto che tutto ciò non è che effetto di interessamento e di impulsione emotiva; la qual cosa ci richiama al punto vero della indagine, il punto in cui la dinamica del motivo si converte in dinamica rappresentativa e cogitativa pel delinquente.

L’attenzione è sollecitata a concentrarsi, sul novello stato interno, dall’appetizione di qualche cosa di cui si sente il difetto o la mancanza: quest’appetizione già di per sè equivaleva ad un movimento vago ed indeterminato con tendenza a determinarsi. E poichè, per legge meccanica, il movimento cominciato nell’organismo si continua, si propaga e si traduce in atto, basta che vi si offra l’incentivo perchè l’appetizione prenda consistenza e si idealizzi, non solo, ma partecipi la energia alla rappresentazione presente alla mente in contrapposizione della cosa di cui si abbia difetto o mancanza, e ci spinga ad opere di estrinsecazioni necessarie a renderci soddisfatti. La scaturigine del movimento della appetizione è nel ricordo di atti e di godimenti reali o possibili, che si provarono pel possesso della cosa in difetto o mancante, o che si ha speranza di provare in conformità della esperienza fatta su altri: indi ne risulta la verità del principio Spenceriano, che la tendenza a produrre un atto non è altro che l’eccitazione nascente dagli stati psichici implicati in quest’atto. In altri termini, la idea d’un movimento è questo movimento cominciato e, per conseguenza, l’idea intensa ed esclusiva d’un movimento trascina il movimento reale (Fouillée). Un ladro, ad esempio, si decide a commettere un dato furto: il fondamento dinamico di questo atto psichico implica parecchi dati: 1 o che si senta il bisogno di qualche cosa di cui si abbia difetto o mancanza; 2 o che questa qualche cosa sia proprio presente alla mente; 3 o che la rappresentazione avutane abbia prodotto un cambiamento nello stato di coscienza; 4 o che insieme al bisogno sia nato il desiderio della cosa e l’animo versi nello stato di agitazione o movimento, sollecitato, più o meno, dalla intensità del bisogno; 5 o che la idea di aver posseduta la cosa e volerla ripossedere, ovvero la speranza di possederla, eserciti azione stimolatrice acciò il movimento interno indeterminato si determini e la impulsione del bisogno si trasformi in energia attrattiva dell’intento perseguibile. Veggasi, quindi, che l’opera dell’attenzione a fissare, nel campo della coscienza, qualche corrente di pensiero, o ad arrestarne l’apparizione, per risentirne la efficacia dinamica, deve riferirsi alla legge di unità continuativa dei processi psichici; nel senso che l’insorgenza di qualche stato di coscienza, obbietto dell’attenzione, si connetta alla esistenza di precedenti stati. La fatta osservazione ha la riprova eziandio nelle singole impulsioni di delinquenti nati, pazzi od epilettici che siano.

Che è mai la manìa omicida se non la impulsione irresistibile ad estinguere la vita dei simili? Ebbene, anche in ciò non si constaterebbe la tendenza a sparger sangue, se non se ne sentisse il bisogno, e se in precedenza non si fosse creato nell’animo quello stato di agitazione, di commozione, di cui l’ultimo termine è il delitto. La differenza, anche qui, tra il delinquente nato ed il delinquente d’occasione risiede nel dato psichico; che pel primo il movimento psichico iniziale è originato da costituzione organica, è istintivo, e l’ attenzione non fa che passivamente risentirne l’eco con risonanza stridente; pel secondo l’attenzione è analoga ai precedenti stimoli ed alla energia del motivo che ha dato l’estremo impulso all’azione.

5. —Trattando della dinamica dei motivi e delle norme generali della nostra disciplina, parlammo del terzo e del quarto stadio percorsi dal motivo: qualche cosa sentiamo di dover aggiungere sul quinto e sesto stadio, vale a dire intorno alla unificazione qualitativa della energia specifica criminosa, ed alla unificazione quantitativa dell’attività iniziale dell’azione.

Premettiamo, che la dottrina della conoscenza sembra che abbia risoluto, con probabile competenza, il problema dell’origine del contenuto dinamico del pensiero, nonchè delle forme graduali in cui successivamente si va esplicando. Il funzionamento cerebrale presuppone il funzionamento fisiologico dell’organismo, ed il funzionamento fisico il mondo ambiente. La sfera dell’attività psichica è l’ultimo modo di essere dell’attività fisica della natura e dell’attività biologica; il pensiero, dunque, in quanto si organizza, è la formazione naturale più alta nella scala delle sottostanti formazioni puramente inorganiche ed organiche. Il cervello non è solo l’organo di risonanza delle note armoniche, onde la natura afferma la sua esistenza e la evoluzione ritmica dei fenomeni; nè è lo specchio che riflette, semplicemente, in vane immagini il mondo esterno; ma è l’organo d’una manifestazione reale delle energie della natura, è l’estremo limite in cui si polarizza la vita nella immanenza di movimento conservato con equivalenza.

Tutto ciò fu formolato dal nostro Bovio nel principio di unità di legge nella natura, nel pensiero, nella storia: il pensiero è la natura che si conosce, la storia è il pensiero che si muove. Il che torna a dire, che la legge di reciprocità è sempre la medesima necessità, che nella natura esteriore opera come gravitazione universale, a cui la natura obbedisce e non sa; nel cervello opera come gravitazione ideale a cui il cervello obbedisce, la intuisce, la insegue, e cerca tramutarla in sistema; nella storia opera come gravitazione di tempi, a cui la storia obbedisce e cerca tramutarla in codici, tirando dal passato i documenti per l’avvenire[73].

La evoluzione è conservazione di energia con parallela continuità di moto: dunque, passando le attività dal mondo esterno all’interno, tramutandosi da attività fisiche in cerebrali, assommando il pensiero i coefficienti dinamici dei motivi, la coscienza, col cambiar di stato, cambia il funzionamento degli atti che ne conseguono, sia qualitativamente che quantitativamente. La qualità non attiene alla essenza o permanenza di identità personale, ma ai modi onde la energia specifica passa di prodotto in prodotto psichico, di meccanismo in meccanismo dell’io, di formazione in formazione, dalla rappresentazione ed appercezione all’attenzione, alla riflessione ed al volere.

L’io senziente, intelligente, attivo son tre fasi dell’identica energia vivente, ma tre fasi che si differenziano sì da non permettere che l’una si scambi nell’altra, se non perchè tutt’e tre sono dipendenti dall’unica ed identica sorgente di energia personale: alla stessa guisa che l’organismo, nel tempo, non resta identico a sè stesso meno che per la conservazione equivalente della energia individuale, la psiche; permutando fisonomia e contenuto, non conserva la identità se non nella sua natura differenziata rispetto ad altri individui della medesima specie.

Si conclude, che la energia criminosa, atteggiando diversamente la psiche, imprime la propria caratteristica e grado di attività alle facoltà messe in moto, il sentimento, la intelligenza, la volontà.

Anche in natura le forze, in correlazione, si trasformano qualitativamente e quantitativamente: «in ogni cambiamento la forza subisce una metamorfosi; e a seconda delle forme che essa assume può risultarne o la ripetizione delle condizioni precedenti, o condizioni nuove in un numero infinito di ordini e combinazioni. Inoltre si vede nettamente che le forze fisiche, non solo presentano tra di loro delle correlazioni qualitative, ma anche quantitative. Dopo aver provato che un modo di forza può trasformarsi in un altro, le esperienze mostrano ancora che da una definita quantità di forza nascono sempre definite quantità di un’altra»[74].

Indi è che l’evento psichico del delitto, effettuatosi nell’azione, esaurisce, individualmente preso, la totalità della energia che lo informa: quel che resta è la conseguenza obbiettiva, fatto imputabile, e qualche traccia di attitudine meglio rafforzatasi per la futura ripetizione dell’atto. Dunque, a che varranno le indagini meramente antropologiche e psichiatriche, non che le norme aprioristiche giuridiche sul giudizio che il magistrato dovrà emettere intorno alla imputabilità soggettiva del fatto incriminato? Tutte coteste indagini e norme si limitano all’ufficio di prove dell’evento psichico criminoso: alla sola psicologia criminale è riservato il debito di sintetizzare i dati psicofisici del delinquente e di unificarli in un giudizio definitivo, tenuto conto di tutti i coefficienti dinamici che precedettero ed accompagnarono la perpetrazione del maleficio.

6. —Avvenuta la rappresentazione del motivo, ed avvertito il cambiamento di coscienza seguitone; fusi ed unificati in un solo processo gli elementi dinamici similari della mentalità; eliminati gli elementi antagonisti, la dinamica ideativa ed affettiva è sussidiata dall’intervento della immaginazione o della fantasia. Nel mondo psichico del criminale questa potenza ha imperio assoluto: essa assoggetta, modifica, trasforma tutto ciò che incontra; dai più lontani orizzonti, di lusinghiere speranze, all’ambiente attuale di turbamento per l’azione soppravenuta di cause passionali, la immaginazione influisce nell’atteggiare e predisporre l’animo a sentire, a pensare, a volere in modo affatto proprio e secondo lo schema ed i fantasmi che ella gli appresta. Le rappresentazioni presenti si rafforzano, le passate si ridestano; le naturali inclinazioni acquistano un più facile avviamento di attività; la realtà obbiettiva delle cose a poco a poco si scolorisce, perde i contorni, è ricoverta dal velo diafano e denso dell’oblio; e, a séguito di processo astrattivo, la immagine ed il fantasma dell’intento logico, compresi nel contenuto statico del motivo, si prospettano alla mente ed esercitano azione immanente suggestiva. Tacciono i ricordi dei controstimoli; sulla superficie della coscienza si ristabilisce un’apparente calma; ma, sotto ad un cielo plumbeo ed attraversato da dense nubi, gli oggetti si confondono, e l’animo è aduggiato dal senso di ansia e di tristizia. Le immagini, i fantasmi si intensificano, si circondano del corteggio lusinghiero di appetiti insoddisfatti, di promettenti speranze; la visione periferica della coscienza si restringe, la centrale si acutizza; il fantasma, idealizzato, dapprima oscillante, finisce col fissarsi sulla linea degli assi visuali; l’occhio della mente n’è attratto, dominato, ossessionato. Le potenze inibitorie, le correnti intercerebrali, subiscono un periodo d’intermittenza; la memoria è lacunare. È cotesto lo stato più interessante della dinamica psichica criminosa; stato in cui la coscienza insensibilmente è travolta dal fondo e la meccanica cerebrale segue il ritmo di movimenti instabili, varianti, dissociati. La fantasia, malefica maliarda, con ghigno satanico innalza il suo trono sulla rovina delle più nobili aspirazioni, e consacra, nel cupo tempio dell’anima del criminale, la religione del delitto!

7. —Chi, di tutto ciò, desideri la prova evidente, rivolga l’osservazione a quanto avviene nella psiche del delinquente epilettico.

La immaginazione e la fantasia sono per l’epilettico la forza specifica della impulsività irresistibile. La emotività enorme (Krafft-Ebing); la straordinaria irritabilità morbosa (Schüle); la lesione delle affezioni (Despine); l’anestesia fisica e morale (Thompson); i facili accessi maniaci, fanno sì che l’epilettico sia davvero lo zimbello di morbosi fantasmi, che gli attraversano la mente e ne travolgono il ritmo ideativo ed affettivo. Il processo morboso ha principio con intensa e protratta preoccupazione, che è la caratteristica istintiva del carattere epilettico: è l’ansioso desiderio di qualche cosa d’indeciso, di vago; è il bisogno di estrinsecare attività latenti di natura incompresa, della cui esistenza appena ci accorgiamo.

Mancando il fondo di realtà al processo ideativo e la coordinazione associativa agli stati emotivi, la fantasia dell’epilettico giuoca una parte essenzialissima nella trama cerebrale. L’equilibrio di facoltà e di atti si mantiene oscillante; la mente, sorpresa, cerca un centro stabile di gravità; attratta dal fantasma, lo scambia con la realtà e lo insegue e vi si affida: ma, in un momento, perdesi del tutto l’equilibrio, la base ideale ed affettiva vacilla, l’abisso si apre repentinamente dinanzi. La stessa vittima se ne spaventa; al fremito passionale, alla scossa, che si diffonde in tutte le regioni dello spirito, risponde il gemito convulso di chi comprende a quale cieco fatale destino sia nato soggetto!

La nota morale di anomalia del delinquente, e specie del delinquente epilettico, risiede proprio nel funzionamento fantastico della dinamica psichica. Il prodotto fittizio ed attrattivo del contenuto ideale ed affettivo risulta dal compenetrarsi ed assommarsi di discrepanti elementi frammentarî, i quali, non trovando posto stabile nella coscienza, o son passati nel fondo di riserva dell’inconscio, ovvero vagano nel vuoto oscuro della mente. Qualcuno di questi elementi, per l’affinità dinamica col novello motivo rappresentativo, insorge ed è attratto verso il centro visivo della coscienza: esso—chi il crederebbe?—molte volte si sviluppa, si svolge in forma così imponente da predominare l’ambiente con potere pieno ed assoluto. Le difficoltà, che di frequente si incontrano nell’indagare il perchè prossimo o remoto di azioni delittuose, sorgono dall’abitudine, tanto comune, di credere che la logica del delinquente sia la logica dell’uomo normale, e che la causa intima o psichica dell’azione debba esser sempre ricercata nel motivo che, in apparenza, è percepito il più sufficiente ed il più coerente con l’insieme logico del processo speciale mentale. E poichè con la prova dei fatti o vien meno la speranza di attingere il movente causativo in qualche circostanza o avvenimento, il quale abbia la sufficienza logica di erudirci circa la origine soggettiva del delitto; ovvero trascuriamo di accordare la debita importanza a dati processuali irrilevanti, si finisce o con erroneo giudizio sulla quantità morale del delitto o col credere che questo sia l’effetto di brutale malvagità!

8. —Indugiandoci, chè ne vale la pena, sulla dinamica coordinatrice o di relazione delle immagini o dei fantasmi a cui, in gran parte, si connette la causalità criminosa, io credo che essa obbedisca alle due leggi essenziali del meccanismo dell’associazione, la legge di rassomiglianza e la legge di contiguità nel tempo e nello spazio. La tendenza di connessione, secondo Stuart Mill, tra idee che si richiamano, dopo che furono pensate insieme, è, sopra tutto, osservabile tra le immagini ed i ricordi fantastici della mentalità criminosa. Il contagio morale del delitto n’è l’esempio ordinario e più apparente.

Le idee, i sentimenti, i giudizî, le rappresentazioni di fatti sensibili, di avvenimenti complessi, sono, bene spesso, i precedenti veri di azioni con le quali la rassomiglianza è equivalenza dinamica di energia causativa; il che può avvenire eziandio in modo incosciente.

Talune persone, ad esempio, molto facilmente perdonerebbero una ingiuria; ma nel loro animo si sveglia il ricordo che altri, in simile contingenza, ricorse alla vendetta consumata in determinata guisa; si affaccia il presentimento della disistima, nella pubblica opinione, a cagione della diminuita dignità personale offesa, e così via discorrendo. Nella prima ipotesi, per seguire l’esempio, la efficacia del ricordo del caso simile si fonde con la efficacia operativa della ingiuria sofferta; l’azione delittuosa altrui si delinea innanzi alla mente con colori fantastici attrattivi e, poco a poco, i due elementi, quello dinamico attuale e quello di ricordo, si unificano ed organizzano in un solo evento psichico ed invadono e preoccupano intero il campo della coscienza. Anzi, evvi di più. La ingiuria subita, forse, di sua natura non avrebbe avuta forza impulsiva, perchè scusata dalla supposizione di un equivoco: ma la suggestione motrice del ricordo è sì potente che, per illusione non guari difficile a verificarsi, noi scambiamo, nel prodotto fantastico, il valore dei due termini mentali e crediamo di sentirci sospinti, all’azione, dalla idea dell’offesa ricevuta, mentre non ci accorgiamo che questa passa in seconda linea nell’associazione, per contiguità di tempo, con la idea dell’avvenimento al quale siamo guidati dalla rassomiglianza dei due fatti presenti al pensiero.

Nella seconda ipotesi, sopra riferita, la connessione fantastica è tra la idea attuale dell’ingiuria ed il sentimento doloroso in noi destato dal presentimento di diminuita dignità o reputazione. Il risultato psichico, derivatone, sarà composto dalla realtà rappresentativa della ingiuria in unione alla coefficienza di sentimentalità associata; ossia, mentre il contenuto sostanziale sarà l’idea della ingiuria, la fisonomia o colorito affettivo corrisponderà al sentimento doloroso inerente al presentimento di dignità personale diminuita di fronte alla pubblica stima.

9. —La dinamica psichica del delinquente rendesi più complessa e più difficile negli atti del volere.

Il Wundt vede, come noi, il fondamento degli atti del volere nei motivi, di cui egli distingue una parte rappresentativa ed una sentimentale, la prima delle quali è detta ragione determinante e la seconda forza impellente. Dalla combinazione di una varietà di motivi, cioè di rappresentazioni e sentimenti, i quali in un composto decorso di emozioni si presentano come quelli che sono decisivi per il compimento di un’azione, sta la condizione essenziale da un lato per lo sviluppo del volere, dall’altro per la distinzione delle singole forme di atti volitivi[75].

Generalmente, nei Codici penali, la responsabilità d’un delitto si fa risalire al fattore soggettivo del dolo, e questo si fa consistere in atti liberi del volere ora avvisato come semplice intenzione ed ora come volontarietà dell’effetto antigiuridico. Sceverando l’estremo grado evolutivo dell’attività psichica criminosa, cioè il volere, dalla serie dei gradi ond’è preceduto, e dando esclusivo rilievo all’evento psichico il più complesso, col trascurarne gli elementi rappresentativi ed intellettivi, si comprende la incertezza del dato giuridico il quale in pratica deve incontrare insuperabili difficoltà di applicazione.

Chi non sa, in vero, in quale buio si versi allorchè, chiamati ad assodare la imputabilità penale d’un reato, ci sentiamo in dovere, anzitutto, di ricercare la esistenza o meno del dolo?

La legge fa obbligo ai magistrati di enunciare nelle sentenze i motivi su cui fondano il loro convincimento; l’art. 45 Cod. pen., pone il cànone fondamentale, che nessuno possa essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce: ma in che consiste la ragionevolezza dei motivi, in che la volontarietà del fatto, staccata dal complesso degli elementi psichici o stati di coscienza, dei quali è il delitto l’esponente ultimo? Dimandatelo al magistrato, ed egli, nelle sue sentenze, si aggirerà tra concetti e giudizî affatto arbitrarî e che, mentre pretendono di rispecchiare cànoni scientifici, sono il riverbero di impressioni fugaci, talvolta passionali, sulla natura dell’atto incriminato e della prova raccolta contro l’imputato. Io mi sono sforzato, in altri miei libri, di assegnare il valore logico al fattore soggettivo del reato così com’è formolato dal patrio legislatore; ma, debbo confessarlo, durante la lunga pratica professionale, ho dovuto, dolorosamente, constatare quale e quanta incertezza resti sempre nell’animo di tutti, giudici, avvocati e pubblico, per riguardo ai criterî di prova sufficiente a ritenere, in singoli reati, il concorso dell’elemento del dolo. Nè altrimenti dovea avvenire. L’opera del giudice non è l’opera dello scienziato; solo a quest’ultimo è affidato il còmpito di mettere in chiaro le norme regolatrici delle umane azioni, ed il modo di interpretarne il significato: voler convertire un codice in trattato di teorie e di cànoni dottrinarî è lo stesso che sottoporre l’alto ed indipendente ufficio del magistrato a restrizioni mentali arbitrarie e pericolosissime. Ed ecco, anche in ciò, la riprova del danno di sistemi aprioristici scientifici, e dell’errore di trascurare, nelle umane cognizioni, il principio logico fondamentale della relatività.

Tornando in argomento, diciamo che il volere è atto complementare del processo psichico, appunto perchè, secondo James, i movimenti volontarî debbono essere funzioni secondarie, non primitive, del nostro organismo. La prima conseguenza, che ne emerge, è di dover ritenere che la facoltà del volere si connetta alla esistenza di rappresentazioni e sentimenti, che formano il suo presupposto dinamico; e che, secondo Wundt, l’ipotesi di un atto di volere sorgente da considerazioni puramente intellettuali, di una decisione volitiva contraria alle tendenze che si esplicano nei sentimenti, ecc. racchiude in sè contraddizione psicologica. Essa si fonda sul concetto astratto di un volere trascendente, assolutamente diverso dai reali processi psichici di volere.

«Nella fisiologia—scrive Fouillée—la dottrina della evoluzione esplica, a mezzo dello sviluppo d’un organo rudimentale e primitivo, la formazione d’un organo posteriore più completo; allo stesso modo, nella psicologia, tutti gli atti riflessi o istintivi, con la loro varietà attuale, debbono essere i derivati d’una sola impulsione essenziale e primitiva. Trasportate questa impulsione in tutte le cellule elementari d’un organismo, ella sarà il fondo psicologico di ciò che succede nei piccoli esseri viventi ond’è composto l’organismo totale. D’altra parte, le reazioni esteriori di queste cellule cadono, com’egli è inevitabile, sotto la legge del meccanismo. Per simile combinazione d’impulsioni psichiche semplici all’interno, di rapporti meccanici all’esterno, voi potrete esplicare i fenomeni più complessi e le adattazioni della volontà alle svariate circostanze»[76].

La meccanica psicologica del cervello ci è nota. Ogni eccitazione periferica o intercerebrale è trasportata e risentita in analoghi centri; indi, mercè l’apparato efferente, si diffonde in operazioni riflesse. Il cervello è l’organo dell’ attività, cosciente o incosciente, della psiche: noi abbiamo il senso di questa attività più specialmente all’apparire dell’atto volitivo. «Questo sentimento dell’attività è di natura spiccatamente eccitante e a seconda degli speciali motivi di volere è a vicenda accompagnato da elementi di piacere o di dispiacere, i quali, alla loro volta, nel corso dell’atto possono mutare e gli uni prendere il posto degli altri. Come sentimento totale, il sentimento di attività è un processo crescente e decrescente nel tempo, il quale si stende su tutto il corso dell’azione e col finire di questa passa nei sentimenti, molto varî, di soddisfazione, contentezza, delusione, ecc., come pure in sentimenti ed emozioni diversi, che sono legati alla speciale riuscita dell’azione»[77].

La consapevolezza di possedere l’attività necessaria al delitto è il primo e fondamentale effetto immanente della energia criminosa. Non si può sentire la spinta al delitto, nè pensarlo nè volerlo, se non se ne possegga l’attitudine; se l’organismo, e per esso il cervello, non risentano l’azione specifica di forze esterne od interne trasformate e concorrenti a quell’evento esteriore dalla legge represso.

Messasi in attività la energia criminosa, ella, diffondendosi riflessivamente, in primo luogo è causa di atti di tensione; la quale potenza di tendere è in ragione della intensità della eccitazione centrale, ed è soggetta alla dispersione della energia eccitatrice, non che all’aumento od alla diminuzione di equivalenti dinamici fisiologici. Le ipotesi verificabili sono svariate, a seconda della natura intensiva dell’attività, dell’attitudine dell’apparato efferente, delle maggiori o minori difficoltà fisiopsichiche della funzionalità organica. È possibile, primamente, che dallo stadio iniziale emotivo all’azione non vi intervenga che trascurabile intervallo, quasi che l’atto esteriore fosse di natura automatica o riflessa. Il perchè del fenomeno si riconnette al problema formolato, nel seguente modo, da James: La semplice idea degli effetti sensibili di un movimento è uno stimolo motore sufficiente, o vi deve essere uno antecedente mentale addizionale, come un fiat, una decisione, un acconsentimento di un mandato imperativo, o qualche altro fenomeno analogo, perchè si possa avere il movimento? Ed egli risponde, che talvolta la semplice idea è sufficiente, ma tal’altra il movimento è proceduto da un elemento addizionale cosciente. Ogni qualvolta un movimento tien dietro senza esitazione ed immediatamente al pensiero di esso, noi abbiamo l’ azione ideo-motrice[78].—Le azioni impulsivamente istantanee, effetti di impeti passionali, di scoppî di ira, di odio senza la previsione delle difficoltà e delle conseguenze, appartengono allo stadio attivo qui descritto. Tostochè evvi insorgenza di antagonismo tra le correnti intercerebrali, e le linee di movimenti efferenti o divergono o si elidono, la vivezza della psichicità si diminuisce; i poteri inibitori si riattivano, e gli atti del volere obbediscono a delle fasi tipiche, che giova ricordare.

10. —Al senso ed alla consapevolezza di un’attività disponibile, accompagnata da tensione, tien subito dietro l’ ansia impaziente di veder cessare il presente stato di incertezza e di dubbio, come anche di dar libero corso alla scarica delle energie reattive. La intensità e la specie di cotesta ansia sono analoghe alla specie ed alla intensità dell’affettività sentimentale del motivo. La volontà è tra due poli della vita psichica: tra la emotività, che attira ed assorbe tutte le risorse di equilibrio della coscienza, e l’idea motrice o suggestiva dell’intento dell’azione esteriore. Or, nei riguardi del delinquente, egli è d’uopo ricordare, che lo stato di ansia, qui accennato, si riconnette, molto di frequente, a due emozioni di cui dobbiamo tenere gran calcolo, la emozione della paura e la emozione dell’ ira o della collera.

Il Lange, il Bain, il Ribot ed il Mosso ci hanno data la descrizione più accurata dei sintomi fisici e psichici della paura. Noi li riassumeremo seguendo segnatamente il Lange[79], che, se non andiamo errati, è sulla materia lo scrittore più autorevole. La paura è ligata alla tristezza: in ambedue evvi paralisi dell’apparato motore volontario e costrizione spasmodica dei vasi-motori; però, alla paura è da aggiungere una contrazione spasmodica di tutti i muscoli organici, ed un sentimento d’ oppressione, con consecutivo sforzo centrifugo cerebrale o segni esterni somatici abbastanza pronunziati.

Il Ribot nota, che la psicologia della paura comprende due momenti ben distinti da studiare. Il primo momento sembra rapportarsi a tendenze ereditarie che appariscono molto evidenti nell’età infantile dell’uomo. Al secondo momento appartiene la paura cosciente, ragionevole, posteriore alla esperienza. Essa ha per base la memoria, non intellettuale, ma affettiva; onde si è accessibile al timore nella misura in cui la rappresentazione del male futuro è intensa, cioè a dire affettiva e non intellettuale, sentita e non concepita. Presso molti l’assenza di paura non è che un’assenza di immaginazione[80].

Circa la emozione della collera ci basti, per ora, notare, col Ribot, che ella ha origine dall’istinto di conservazione individuale, sotto la forma offensiva; e che, secondo Bain, può definirsi: una impulsione cosciente che spinge ad infliggere una sofferenza ed a trarre da ciò un piacere positivo.

La emozione della paura, deprimendo l’energia reattiva ed abbassando il livello cosciente dell’io, fa risentire più a lungo il senso di ansia della irrisolutezza e del dubbio. Assorbita la mente a misurare la probabilità e l’importanza del pericolo presente o futuro; oppresso l’animo dal sentimento vago e doloroso d’un male o danno che è per coglierci; turbata la mente da improvvise rappresentazioni le quali sfuggono al controllo dell’attenzione e della riflessione, il giudizio che ci formiamo del nostro stato è d’imperiosa necessità ad agire in qualsiasi senso, preoccupati dalla sola idea che forse non riusciremo ad allontanare da noi l’imminente pericolo che ci sovrasta. Al primo periodo di depressione succede un secondo periodo di turbamento misto a sentimento d’odio e d’ira per colui che è causa della minaccia; l’equilibrio mentale si ristabilisce in parte, e noi ci accorgiamo di sentirci autorizzati ad usare di tutta la nostra energia per respingere il pericolo, anche a costo di violare la integrità fisica o morale altrui. A questo secondo momento l’emozione della paura ha molta somiglianza con l’emozione della collera: tutt’e due divengono impulsive, con la differenza che la paura è tenuta in certi confini dal calcolo del pericolo minacciato, e la collera, invadendo l’intero campo della coscienza, travolge tempestosamente qualunque sforzo di inibizione e precipita l’azione. In ciò ha grande influenza il carattere risoluto o irresoluto dell’individuo: l’impulso a persistere nella presa risoluzione è, al dir di James, un’altra componente costante nella rete delle motivazioni.

La rapida ed istantanea impulsività degli atti emotivi dell’ira, dell’odio, della tensione risolventesi in energia reattiva, è generalmente qualificata per spontanea ed irresistibile; mentre ritiensi per deliberata qualunque propensione in cui avvi minor grado di sentimentalità passionale. Nella forma volitiva della deliberazione si fa intervenire con maggior potere la libertà di scelta e di azione; credesi che la spontaneità equivalga ad assenza di sforzo di tensione, e che negli atti deliberati noi godessimo la pienezza di forza disponibile, non che a discernere tra motivo e motivo, a risolverci per l’un verso e non per l’altro.

È questa un’illusione molto facilmente dimostrabile per l’analisi del momento genetico della spontaneità degli atti. È illusione pari all’altra di supporre che nella psiche possa esservi uno stato di inerzia assoluta o di assoluto equilibrio stabile. Queste differenze, che appartengono, per linguaggio usuale, alla qualità di stati interni, non sono, in fondo, che differenze di quantità; ed è perciò, che, secondo l’Ardigò, spontaneo si dice quando lo sforzo del centro in tensione è minimo, e quindi non ne è avvertibile il senso; volontario, quando lo sforzo è grande, prolungato e a riprese, e quindi è distintamente rilevabile il senso di esso. Nella deliberazione la volontarietà dello sforzo è accompagnata da più risentita psichicità mentale; per cui, tra l’antagonismo dei controstimoli, si riattiva un ritmo ideativo più costante e la selezione inibitoria riesce ad allontanare le difficoltà apparse sulla linea della corrente cerebrale predominante.

11. —L’ultima conclusione, a cui siamo pervenuti, ci ricorda la esatta osservazione del Wundt, che le emozioni, dalle quali sono introdotti i processi di volere, sempre più decrescono in intensità a causa dell’azione contraria di sentimenti diversi e inibentisi a vicenda, così che alla fine i processi di volere possono nascere da un decorso sentimentale apparentemente tutt’affatto libero di emozioni: di fatto, però, non si ha mai una mancanza assoluta d’emozione.

Intanto, succede che la indecisione si protrae, anche se i motivi contrarî siensi affievoliti, ed il volere non sa prendere stabile direzione, non perchè gli manchi la spinta, ma perchè l’azione attrattiva dell’intento non si fa sentire abbastanza. Quante volte il pensiero fluttua tra disparati ricordi ed opposti propositi, senza tregua incessanti ed opprimenti, nè si è in grado di appigliarsi a qualche divisamento pur di far cessare il doloroso stato di dubbio! Dopo ore, dopo giorni, dopo mesi, l’intervento di qualche motivo irrilevante, la cui accidentale insorgenza resta per noi innavvertita, dà l’ultimo tracollo alla bilancia e noi ci sentiamo senza ulteriore difficoltà trascinati all’opera. Come avviene tutto questo? La meccanica del cervello ci presta una ipotesi molto plausibile. Sappiamo che l’associazione delle rappresentazioni e delle idee si effettua in due modi, o in forma lineare e temporale o in forma spaziale.

L’associazione lineare, giusta l’osservazione di Henle, ha il campo d’azione in un solo e medesimo organo, nell’organo del pensiero sotto forma di associazione di idee, nell’organo centrale dell’udito sotto forma di melodia, assonanza e via dicendo. La seconda specie, cioè l’associazione spaziale, salta da un organo all’altro, dall’organo dei concetti a quello delle rappresentazioni sensorie e viceversa. Essa è identica alla simpatia nervosa[81]. Or, che l’associazione spaziale abbia per punto di partenza la struttura del sistema nervoso centrale, e che i prolungamenti colleganti fra di loro le cellule nervose acquistano tanto maggiore conduttibilità, quanto più frequentemente essi si adoprano, sono ipotesi più o meno plausibili per spiegarci il passaggio dall’un centro all’altro, con collegamento spaziale; ma la difficoltà non è neppure quella proposta da Henle, cioè come l’associazione delle rappresentazioni tra loro corrispondenti sia tratta dal patrimonio dell’uno e dell’altro centro. La difficoltà emerge dal vedere che tra due vicini o lontani centri si generi una corrente, o delle serie di correnti, senza che vi sia stato da parte nostra veruno sforzo, o senza che tra le due lontane sedi di attività cerebrali sia intervenuto un motivo medio che collegasse gli estremi come anello di ininterrotta catena.

Qui, certamente, dobbiamo far ricorso alla causa di energie latenti, per lo più ereditarie; per le quali, in casi simili, si svegliano simpatie nervose, attrattive ideali impreviste. Ciò lo vediamo, con processi più sistematizzati, in forme morbose di squilibrî mentali: le idee fisse, le tendenze irresistibili rinascono con la identica modalità ritmica di forme ereditarie od ataviche; lo stesso, senza dubbio, è per le associazioni tra elementi psichici discrepanti, i quali, poi, sono i fattori immediati o mediati di impulsioni o di deliberazioni volitive. Apprezzando il perchè di date decisioni, noi facciamo le grandi meraviglie del come, per motivi estranei o irrilevanti, si sia pervenuto all’azione di grave delitto; perchè, in oltre, mentre, subito dopo la ragione di odio e di ira, niente di anormale mostrò il paziente, nè alcuno avrebbe dubitato di lui, poscia, all’impensata, egli siasi reso autore di atti feroci di vendetta. Il motivo di odio, nel momento occasionale, restringeva l’efficacia nel mettere in moto l’attività di un solo centro rappresentativo ed ideale; ma, col passare del tempo, altri centri, vicini o lontani, si ridestarono, mettendosi con esso in relazione, alcuna volta per accidentalità sopraggiunta; e, per la confluenza di correnti similari, avvenne, nel momento dato, la fusione e quindi il formarsi di novella energia con potenzialità sufficiente a trascinar seco il pravo volere. Nei reati premeditati il fenomeno è costante, ed è per questo che, in simili reati, evvi la presunzione di maggiore imputabilità e temibilità del reo; supponendosi che nel medesimo siavi un fondo di perversità degenerativa, non domabile sì facilmente, riferendosi ad attitudini antropologiche eccezionali.

Se non che, io dico, che una seconda causa concorre a produrre il fenomeno, e si riferisce al mutamento di stato organico dell’individuo, in periodi di tempo. L’illusione della piena libertà di arbitrio ci persuade che sempre ed ovunque noi disponiamo di forza sufficiente per scegliere e seguire gli intenti delle nostre azioni. Ma la cosa è ben altrimenti. Molta parte del funzionamento cerebrale ci riesce ignota e misteriosa; argomento, per molti, di ricorrere all’ipotesi di cerebrazione incosciente. Certo è che lo sforzo a sovvenirci di alcuna idea, di ristabilire la trama ideale tra centri similari mentali, di riprodurre le rappresentazioni di già avveratesi, spesso ci torna di impossibile esecuzione; e che, mentre meno ci pensavamo, improvvisamente le correnti, che sembravano spente, di pensieri e di sentimenti, si riattivano e producono effetti meravigliosi.

Il citato Henle molto opportunamente, osserva, che la volontà non è assoluta, ma dipende dallo stato d’animo e dal particolare sviluppo della materia pensante. «Quanto i pensieri appaiano arbitrarî, lo attesta anche l’Apostolo allorchè dice che essi reciprocamente si accusano e si scusano. «Essi vengono quando vogliono» lamenta Rousseau, «e non quando voglio io»; e Lichtenberg caratterizza in modo energico la sensazione per cui noi assistiamo quasi come spettatori allo svolgersi del processo dialettico nel nostro intimo, affermando che non si dovrebbe dire «io penso», ma «pensa», come si direbbe «lampeggia». E Goethe esprime la stessa idea, con quella forma vivace che gli è propria: «Il male è che ogni pensiero non aiuta a pensare; dobbiamo essere retti per natura, cosicchè le idee felici si presentino dinanzi a noi come libere figlie di Dio e ci dicano: Eccoci qua!» Goethe c’insegna, inoltre, cosa avvenga nel laboratorio intimo del poeta, con queste parole colle quali egli nella dedica del Faust evoca le fugaci immagini della sua fantasia:

«Cingetemi di voi, spettri diletti, Come da nebbia o da vapor suoi farsi»[82].

Non trascuriamo di aggiungere che, all’alternarsi di idee, di pensieri e di voleri, in molta parte dobbiam far capo alle opinioni individuali. Allorchè le credenze inspirate da’ sentimenti e dalle passioni sono combinate in sistema su d’un obbietto determinato, o religioso, o politico, o artistico, esse costituiscono le opinioni (Despine). Le quali, nè è difficile sperimentarlo, informano di sè tutta la vita psichica; formano il fondo permanente donde si diramano le correnti di energie direttive del lavoro cerebrale; forniscono il materiale di riserva ai deficienti processi mentali.

12. —L’ultima specie dinamica del volere ricorre negli atti alternanti o intermittenti di azioni impulsive di motivi sopraggiunti. La relatività temporale e spaziale del contenuto attivo del pensiero alcuna volta apparisce in momenti così staccati e per sì differenti impulsioni, che la nostra attenzione può fissarne la separata entità dinamica. Volontà deboli, caratteri incerti sono alla discrezione di moventi alternanti, e, talora, tra loro discrepanti; di guisa che, in definitiva, è assai incerto stabilire quando la decisione criminosa ebbe luogo, quale ne sia stato il motivo efficiente. Prima che si generi la persuasione, ossia prima che gli atti mentali si equilibrino e si muovano attorno ad un centro fisso di gravità, si è a discrezione di attività sentimentali od ideali con differenti movimenti suggestivi distaccati: l’ultimo impulso fissa la direzione associativa ed emotiva e decide l’idea dell’azione.

Il fenomeno qui descritto venne intuito in modo sorprendente dall’Alfieri nell’ Agamennone. Egisto, l’uomo dalla premeditata e feroce vendetta, arriva ad assoggettare ai suoi voleri Clitennestra, la quale, resa vittima di morbosa passione, dovea servirgli di strumento per sfogare sui discendenti di Atrèo l’odio ereditato dal padre Tieste. La infelice donna sa che il marito Agamennone è di ritorno in Argo dopo i trionfi della distrutta Troia, e teme di per sè e dell’amante costretto ad allontanarsi, esulando dalla reggia ov’egli era dimorato colla speranza che, morto il re in battaglia, ne potesse usurpare il trono. Clitennestra, agitata tra timori e speranze, sente di non potere staccarsi dall’uomo fatale che ne avea conquistato il cuore: ella chiede un sol giorno per escogitare un rimedio, ma invano la sua mente si dibatte, che tutto concorreva a persuaderla dover Egisto allontanarsi di Argo, se a maggiori sventure ambidue non avessero voluto andare incontro. Il periodo di incertezza, di ansia dolorosa dell’animo di lei è riprodotto dal poeta con esatto rilievo: sotto il dominio suggestivo della passione, ella è chiusa, cogitabonda; dinanzi al marito non sa trovare il verso di dissimulare l’interno stato, di simulare un tratto solo dell’antico affetto che a lui la legava; dinanzi ad Elettra, sua figlia, non sa far altro che scusare Egisto, e, se con qualche affettuoso ricordo è richiamata alla spaventevole realtà del presente, esplode in atti di veemenza e dice:

Sola

Col pensier miei, colla funesta fiamma, Che mi divora, lasciami—L’impongo[83].

È profondamente artistico, e troppo verisimile, il modo onde Egisto insinua nella mente della donna il reo proposito di uccidere il marito: si mediti la scena prima del quarto atto; la drammaticità passionale, la sentimentalità persuasiva criminosa attingono il colmo di colorito e di efficacia intensiva. Egisto dapprima accenna, poi si ritrae dissimulando; Clitennestra dapprima non intende e vuole essere illuminata, poi intuisce il reo pensiero e, sorpresa, esclama:

Or t’intendo—Oh quale

Lampo feral di orribil luco a un tratto La ottusa mente a me rischiara! oh quale Bollor mi sento entro ogni vena!—Intendo: Crudo rimedio,... e sol rimedio..., è il sangue Di Atride[84].

Eppure, ella resta scossa sì ma titubante; la passione amorosa era insufficiente a deciderla di eseguire l’orrendo maleficio. La sua volontà versa in quello stato di tentennamento che è proprio dell’equilibrio instabile per manco di poteri attrattivi predominanti di qualche idea o sentimento in giuoco. Ma Egisto se ne avvede ed aggiunge esca al fuoco, forza alla spinta: confessa alla donna, dissimulandone accortamente il mendacio, che Agamennone sia preso d’amore per Cassandra, la bella fanciulla da lui condotta schiava da Troia. La misura è colma; Clitennestra esclama: «Che ascolto!». Egisto insiste:

Aspetta intanto

Che, di te stanco, egli con lei divida Regno e talamo; aspetta, che a’ tuoi danni L’onta si aggiunga; e sola omai, tu sola, Non ti sdegnar di ciò, che a sdegno muove Argo tutta.

L’effetto è immediato: Clitennestra più non tentenna; ella dice: «Atride pera!».—Egisto:

Or come?

Di qual mano?

Clit.: ———————— Di questa, in questa notte,

Entro a quel letto, ch’ei divider spera Con l’abborrita schiava[85].

Ma, non ostante la presa decisione, trascorse poche ore, la donna non ha più la forza di tradurre in atto il reo proposito: col pugnale tra mano, sulla soglia della stanza ove dorme Agamennone, ella si arresta. La sua mente vacilla; onde di pensieri, di ricordi, di rimorsi, si accavallano, ribollono, la turbano, la travolgono: dal fondo di quell’anima passionata già veniva su la idea di arretrarsi, e forse, per la fusione di concomitanti motivi, la controspinta avrebbe trionfato: ma Egisto appare, e la misera dice a sè stessa: «Io sono perduta, oimè!».—Si ridesta la interna lotta per nuovi coefficienti suggeriti, accumulati dal reo eccitatore: la vista del ferro, a lei offerto dall’uomo che le ricorda il sangue sparso della propria figlia, Ifigenia, da Agamennone, la riaccende; la volontà omicida esplode e l’azione precipita. Clitennestra penetra nella stanza del marito e lo trafigge!...

Quanta verità di naturale riproduzione di cose: quale visione reale di stati di animo sì fugaci e per ciò sì difficili ad esser compresi!...

CAPO X.

Psicologia dell’azione criminosa.

1. Che cosa debba intendersi per azione criminosa.—2. Anomalie ed esquilibrio del carattere del delinquente.—3. Stato di esquilibrio psichico del delinquente nato: caratteri distintivi che accompagnano la sua azione criminosa.—4. La organizzazione psicofisica anomala del delinquente nato: le note culminanti psico-patologiche proprie della sua attività.—5. L’azione del delinquente folle; la pazzia a forma melanconica.—6. La manìa impulsiva; le ossessioni psichiche criminose.—7. Esame dell’ Ercole furente di Euripide, esempio di manìa omicida accompagnata da allucinazione impulsiva; le emozioni ossessive con impulsioni di fobia.—8. L’azione criminosa dell’epilettico.—9. La epilessia larvata o equivalente epilettico.—10. Il delinquente per passione.—11. Psicologia dell’odio.—12. Psicologia della gelosia: Fedra e Medea.—13. L’azione criminosa del delinquente per passione: psicologia dell’ira.—14. Esame di Oreste, secondo Eschilo, Sofocle ed Euripide, quale esempio di delinquente per passione.—15. Il delinquente di occasione.

1. —Intendiamo per azione criminosa la sintesi degli atti che preparano, accompagnano e susseguono il delitto. L’opera esteriore, non che essere il compimento di ciò che entro siasi divisato, ne è la prova più appariscente; quella prova onde, con metodo induttivo, noi procediamo dalla constatazione del noto per arrivare a comprendere l’ignoto. È così che il rito giudiziario completa le prescrizioni della legge repressiva; poichè la imputabilità, avendo bisogno di individualizzarsi per partorire la responsabilità, non può far a meno di date prove di fatto raccolte e coordinate secondo norme logiche prestabilite e consecrate da apposite prescrizioni rituali.

Chi opera, esteriorizza il suo essere intrinseco; ondechè l’azione non è che la manifestazione di ciò che rimane occulto; di ciò che è la somma della vita psichica individuale, dagli elementi sensitivi, emotivi ed intellettivi, alla più completa formazione della coscienza, della intelligenza, della volontà. Il delitto, dunque, considerato obbiettivamente nella azione, non è mai un fatto fortuito, dipendente del tutto da accidentalità di tempo e di luogo; è l’indice della costituzione organica dell’agente, fisica e psichica: il suo fattore è sempre a ricercarsi, come bene si esprime il Garofalo, nella specialità dell’ individuo, plasmato dalla natura in modo da essere delinquente[86].

Gli atti esecutivi si differenziano secondo il fine cui tendono; il fine rispecchia gl’interni propositi e completa la fisonomia morale del carattere individuale. La composizione di questo carattere, pel delinquente, perchè sia bene compresa, ci obbliga a rifarci alquanto indietro ed a ricordare parecchie anomalie psichiche le quali informano le modalità dell’azione, imprimendovi delle note interessantissime nello apprezzamento degli elementi di prova processuale.

2. —Il Marro scrive, che il carattere saliente della mente dei delinquenti è dato per lo più da una mancanza di riflessione, che, congiunta ad egual difetto di affettività, li dispone a forme più o meno gravi del delirio di persecuzione[87].—Questa anomalia di esquilibrio dipendente dal prevalere di morbosa sentimentalità sul contenuto ideale di associazione riflessa è causa di frequenti ossessioni congiunte ad instabilità di propositi e di atti; il che, a prima vista, sembra contraddittorio, ma è pur corrispondente al vero. I delinquenti, per chi ne abbia pratica, sono i vinti, più che della lotta per la vita, dell’invincibile potere di idee fisse o ricorrenti di persecuzioni immaginarie, che, prendendo corpo e rilievo per l’influsso deleterio di scompigliata fantasia, partecipano alla psiche il fondo di grande vulnerabilità, predisponendola ad atteggiarsi, senza difficoltà, secondo gli instabili eventi quotidiani. Dai facili trascorsi in famiglia, nella tenera età, al continuo cambiamento di occupazione e, in fine, al vagabondaggio, la esistenza di codesti disgraziati è alla mercè di perenne flusso e riflusso di forze antagoniste: la personalità si disgregherebbe più facilmente del consueto, se non fosse tenuta salda da idee fisse, da sentimenti giganteggianti, il cui esito è di ossessionare la mente, alterando il carattere di volta in volta che le impulsioni rendonsi più intense.

La incoerenza psichica è causa di imprevidenza sulla possibilità probatoria, di responsabilità, di atti che potevansi evitare o effettuare altrimenti. Chi guarda l’azione criminosa, partendo dall’atto compiuto, è soggetto ad ingannarsi se crede di dover seguire i dettami della comune logica, cioè se crede di scorgere il necessario legame causale tra i precedenti ed i concomitanti del delitto. Questo legame esiste, ma è l’effetto di processo mentale anomalo, perchè predisposto ed originato da fattori rappresentativi ed ideali di cui difficilmente ci è concesso, a posteriori, di riprodurre in noi la trama mentale.

L’eccessiva vanità dei delinquenti spiega come essi, con un’imprevidenza inconcepibile, escano a parlare dei proprî delitti prima e dopo d’averli compiuti, fornendo, così, l’arma più potente che abbia la giustizia per coglierli e condannarli (Lombroso). Il che, aggiungerei, è da manco di riflessione, perchè non si ha il potere di controllare quel che si dice o si opera: il campo visivo della mente è alterato da correnti di sentimentalità invadenti; l’io, staccandosi dalla normale vita di relazione con l’ambiente, si isola e troneggia in una sfera di fantasioso egoismo.

3. —Per procedere con più esattezza in quest’ultima parte del processo psicologico del delitto, esamineremo separatamente:

a ) la psicologia dell’azione criminosa dei delinquenti nati, o con fondo di pazzia morale o di epilessia;

b ) quella dei delinquenti passionali;

c ) quella dei delinquenti di occasione.

Facendo principio dal delinquente nato, osserviamo che in esso lo stato di esquilibrio psichico presenta completa organizzazione a base di fattori degenerativi ereditarî e di fusione integrativa degli elementi similari dell’ambiente. La energia criminosa ereditaria, a contatto con le forze ambienti, si è corroborata, intensificata, ed eliminando, dalla organizzazione dell’io individuale, gli elementi estranei alla sua natura, si è unificata con analoga specificazione. La forma psichica, che ne risulta, apparisce senza veruna impronta di rappresentazione dell’ordine dinamico esteriore con l’ordine immanente di stati di coscienza: il sentimento altruista, di famiglia, di sociabilità, di simpatia non esiste, e dal suo luogo domina assoluto il senso di egotismo, che dispone il delinquente a sentirsi estraneo tra’ simili, anzi in lotta con essi perchè diversamente da lui conformati. Se lo sviluppo mentale si è tenuto basso, il delinquente nato neppur bada ai controstimoli del delitto; per lui la legge penale, la morale, i costumi, la pubblica opinione son come non esistessero; appena, ma di rado, son percepiti o ricordati siccome incentivi ad eseguire il maleficio con maggiore astuzia ed accortezza. Se, poi, lo sviluppo mentale si è arricchito di alquanta coltura e la vita di relazione si è resa vieppiù complessa, il ricordo dei controstimoli serve ad accrescere la morbosità fantastica dell’azione criminosa, poichè è causa per cui dal fondo pervertito del criminale venga su la irresistibile tendenza ad agire in controsenso ed a dispetto del comune modo di sentire e di giudicare. La lotta di prevalenza sociale, che per l’uomo normale si svolge con lo sforzo di arricchirsi di qualità morali preminenti o di maggiori sostanze economiche, frutto di progredita attività, nella mente del criminale si prospetta con le parvenze di antagonismo brutale, con l’urto dispettoso di presunti nemici o persecutori, con l’assenza di ogni traccia di probità o di pietà. Basta il minimo motivo per coonestare i più atroci misfatti: leggasi in Despine[88], in Lombroso[89] i moltissimi esempî di delinquenti, che si scusarono da immani delitti adducendo dei motivi i quali sembravano ridicoli pretesti. La polizia giudiziaria, messa sulla traccia di trovare il responsabile di alcun grave delitto, molte volte erra nel seguire ipotesi, che a lei vengono suggerite dai presupposti di ordinaria esperienza dei fatti umani; perchè credesi che il reo abbia dovuto aver rilevante motivo all’azione, e che questa abbia dovuto consumarsi con tutto l’apparato di mezzi scelti e creduti meglio adatti all’intento criminoso. Niente di tutto questo: il delitto è l’effetto di circostanza, di motivo futilissimo; talfiata è il mezzo di soddisfazione degli istinti perversi che trovano nell’azione il completamento ad una attività irrefrenabile. Il vero motivo presupposto di processo logico degenerativo è a ricercarlo nel fondo anomalo dell’anima del criminale; fondo che ben può indovinarsi apprezzando senza preoccupazioni le modalità esteriori dell’azione, le quali, tuttochè testimoni muti, sono abbastanza eloquenti per indurci a scovrire il vero agente del delitto.

La fredda ferocia e la sensibilità apatica[90] di molti omicidî sono l’indice dello stato psichico dei rei. La sensibilità, fisica e morale, è nell’uomo integro il frutto di coefficienti organici biologici: se questi coefficienti mancano, i nostri atti debbono essere in palese opposizione con la comune condotta.

4. —Trattando degli stadi coscienti di formazione e di sviluppo del delitto, mostrammo il processo integrativo o disintegrativo dell’anima del criminale. Dovendo, ora, veder tali elementi rispecchiati esteriormente nell’azione, converrà aggiungere altre osservazioni che in precedenza furono appena adombrate.

La organizzazione anomala del delinquente nato percorre le fasi di arresti dello sviluppo psichico: di qui la relazione biologica ed antropologica tra il pazzo morale, l’epilettico ed il criminale. Dallo stato di idiozia al deficiente equilibrio psichico ed all’equilibrio pieno si hanno gradi considerevoli, a cui il psicologo è obbligato a rivolgere la sua attenzione. «Per quanto svariati—scrive Krafft-Ebing—possano essere i gradi della idiozia (idiozia propriamente detta e imbecillità) pure vi ha sempre una frontiera che la separa dalla debolezza mentale, e ciò consiste nel fatto che le rappresentazioni psichiche, per quanto frammentarie ed elementari, non possono compiersi spontaneamente ed indipendentemente dagli elementi sensoriali, nè possono servire ad elaborare delle idee astratte (concetti, giudizî). Ma anche la riproduzione delle idee, pur ammesso che avvenga, si fa in modo incompleto, come quella che per la massima parte tien dietro soltanto ad una eccitazione esterna o ad un bisogno organico che si faccia sentire. È perciò che tutto quanto l’andamento del processo ideativo decorre in modo puramente meccanico, come se l’idea si fosse formata primitivamente. L’idiota completo non è suscettibile di emozioni. Sono a lui sconosciuti e simpatia e sentimenti sociali, ed esso non prova nemmeno il bisogno della vita in società: egli ne gode i vantaggi senza comprenderne affatto il significato etico. Egli è capace di reagire in un solo senso, e cioè quando il suo io, così limitato, è contrariato. Allora reagisce con la esplosione dell’ira la più veemente, ma che è addirittura esagerata, e che si manifesta con una brutalità assolutamente sproporzionata allo scopo»[91].

Lo stato più normale del delinquente nato è di debolezza o di insufficienza nei processi mentali. Difettosa l’attività sensoriale, difettosa la rappresentazione del mondo esterno; privo dell’idea dell’intima essenza delle cose e dei loro minuti rapporti; privo della ricchezza necessaria di linguaggio onde ricordare od esprimere le idee che sorpassino le comunicazioni della vita, esso è insensibile al bene ed al male altrui; credulo, inesperto, difeso più dall’astuzia del felino che dalla previdenza di bruti alquanto evoluti. «A causa della facile suggestionabilità, gli individui deboli di mente si possono facilmente incitare a commettere dei gravi delitti con minacce, intimidazioni e prestigio di autorità, e spesso diventano dei docili strumenti nella mano di delinquenti nati più perversi»[92]. In omicidî per mandato, in complicità per assistenza ed aiuto è molto facile incontrarsi in uomini di tale natura: essi subiscono il fascino dell’altrui azione suggestionatrice; obbedendo agli istinti malefici, provano soddisfazione e piacere a sentirsi capaci, ciechi strumenti nell’altrui mano, a commettere qualche impresa criminosa: per costoro l’azione del delitto reca sforzi minori che il vincere l’ordinaria apatia di carattere, poichè nel delitto essi trovano l’incentivo più forte a rendersi attivi, a vivere della vita esteriore. Dopo il delitto, la fantasia si accende e si esalta alla idea delle conseguenze penali; la pubblica riprovazione del fatto risuona con eco di sorpresa sulla indifferenza di animo di malfattori così fatti; ond’essi, trasportati dalla corrente della pubblica curiosità ed incitati dal solletico della vanità, non sanno a lungo nascondere il loro malfatto; ma, o simulando o dissimulando, accentuano talmente i loro atti, il linguaggio, le precauzioni, che finiscono con lo scoprirsi ed esser puniti. Durante la esecuzione del maleficio, son mossi ed accompagnati da contegno di tanto scetticismo da destare ribrezzo: solo in qualche momento, il supremo dell’azione, la loro anima è tempestosa; la mimica è felina, precipitosa fino alla incoscienza. L’intento dell’utile, della vendetta, dello sfogo di odio, per cotesti disgraziati, è piuttosto in apparenza il motivo del misfatto: essi sono attratti dall’ignoto, che circonda sempre il maleficio: se questo debba consumarsi a tradimento, con agguato, di notte, con mezzi pericolosi, il delinquente nato, dalla mente debole, è più proclive ad accettare; egli vede, nelle difficili circostanze, onde l’opera dovrà accompagnarsi, tanti motivi che svegliano in lui un’attività nuova, che lusingano la sua debolezza creandogli la illusione di compiere imprese pari a quelle di uomini superiori per fortezza ed astuzia. La idea di provarsi nei pericoli dell’azione ha attrattiva irresistibile: insemina l’apatia, l’atonia di animo, la coscienza di debolezza, di inferiorità è pel criminale la fonte d’un senso di avvilimento, di disgusto da cui egli cerca tutte le vie per liberarsi; la prima che gli si offra, sia anche pericolosa, è da lui accettata con entusiasmo. Che se, poi, il delitto debba commettersi in più persone, da individui di tempra superiore e da degenerati inferiori, questi ultimi si trascinano con moto automatico: son pronti ed esatti nell’apprestare i mezzi al delitto, fanno mostra di porsi in prima linea, e, compiuto il fatto, acquistano la coscienza fittizia di sì grande superiorità da schernire i complici ed arrogare a sè tutto il merito della riuscita. Guai—però—se durante la esecuzione si è sorpresi da reazione per parte della vittima, o la pubblica forza trovasi pronta ad arrestare i rei: il delinquente, di che scriviamo, è preso da vero panico; manca in lui la forza sufficiente a resistere, manca il coraggio di uomini che abbiano la tempra morale elevata, tuttochè con impronta malefica.

5. —Tra le forme più accentuate della delinquenza con fondo degenerativo ricorrono i casi di follie morali ed epilettiche.

Il delinquente folle è vittima di alterazioni psichiche, le quali o spingono all’azione per stato depressivo di coscienza, ovvero per stato impulsivo. Esempio della prima specie osservasi nella pazzia a forma melanconica, i cui fenomeni consistono in una dolorosa disposizione dell’animo, della quale mancano affatto o non vi sono sufficienti ragioni nel mondo esterno, in un decadimento del sentimento di sè stesso ed in una difficoltà generale nello svolgersi di tutti quanti i processi psichici, la quale può giungere sino al loro temporaneo arresto (Krafft-Ebing). L’individuo è oppresso da un’ansia angosciosa, che lo circonda di tristizia e di sospetto; l’avvenire è buio, il presente è opprimente, privo di speranza e di lusinghe. Quindi è che il melanconico è spesso l’esecutore di azioni violente ed incomposte ed è in preda ad una impulsività sfrenata con furore. «Questa attività del melanconico—scrive Krafft-Ebing—non è che un fatto di reazione provocata dalla tormentosa agitazione della coscienza, che può giungere a tale da spingere il malato alla disperazione; ed allora la potente eccitazione così prodotta può, almeno temporaneamente, spezzare ogni freno interiore. A queste esplosioni affettive e a queste reazioni del malato possono dar occasione delle impulsioni penose o delle memorie dolorose, con i conseguenti moti passionali della sorpresa e dell’attesa, nonchè delle sensazioni pervertite sia fisiche (nevralgie, ecc.), sia psichiche (senso di sconsolata anestesia psichica, inceppamento del pensiero, idee fisse, indecisioni, il sentirsi come soggiogato dalla malattia). A ciò si aggiungono, quali motivi importanti determinanti all’azione, e come complicanze del quadro morboso sinora abbozzato della malinconia senza delirio, certe sensazioni di angoscia (ansia precordiale) tali da provocare un violento scoppio affettivo, nonchè delle allucinazioni sensoriali e delle idee deliranti»[93].

6. —La manìa impulsiva merita più seria considerazione. «Un modo di estrinsecarsi degli stati di degenerazione psichica estremamente importante dal punto di vista medico legale è rappresentato dal verificarsi di certi atti, i quali non hanno il loro movente in idee chiaramente definite nella coscienza,—il cui meccanismo non si svolge secondo lo schema dalla riflessione sulle svariate possibilità del volere, con una savia valutazione dei motivi e con la decisione in favore di ciò che appare il giusto,—ma nei quali l’idea, che muove all’azione, prima ancora di essersi affacciata ben netta e chiara alla soglia della coscienza, si trasforma in azione; o, per parlar in termini anche più generali, mai arriva a tale da esser ben apprezzata e valutata dalla coscienza. Ond’è che l’atto apparisce, tanto a chi lo compie come a chi lo osserva, addirittura senza motivo e perciò inconcepibile,—il modo nel quale esso vien compiuto ha in sè l’impronta dell’azione coatta, impulsiva, istintiva e sorprende anche l’individuo stesso che la compie. Essa apparisce come una necessità organica, la quale sorga su dal fondo incosciente dalla vii» psichica, paragonabile ad una convulsione nel campo psicomotorio»[94].

Accetto la teoria del Bianchi, che la ossessioni siano elementi psichici non eliminati: nelle menti male organizzate (ereditarietà morbosa o altre influenze degenerative) può accadere che il processo di ricambio psichico sia turbato, e che un componente psichico, destinato a passare transitoriamente per il campo della coscienza ed a cadere nell’incosciente, invece vi resti, e non possa venir eliminato: così come talvolta alcuni veleni fabbricati nell’organismo e sostanze introdotte dal di fuori non possono venire espulsi, rimangono e si accumulano nell’organismo[95].—Questa invasione eterogenea di prodotti psichici, con forma statica o di ossessione propriamente detta, e con forma dinamica o impulsiva (Féré) è accompagnata da emotività morbosa (Morel, Ballet, Seglas, Dallemagne, Pitras, Régis); nè dipende da fiacchezza di volontà (Magnan); nè va confusa con malattia della attenzione (Ribot).

Il fenomeno è essenzialmente di insorgenza e di predominio dinamico.

La mancata eliminazione di prodotti psichici avviene perchè le correnti ideative ed emotive sono ostacolate da qualche intoppo che loro impedisce il libero corso; e, come nella confluenza di correnti di acqua, se ad un punto esse incontransi senza sfogo e declivio, si verifica il gorgoglio, così nel flusso delle idee e dei sentimenti qualunque specie di arresto produce disturbo di funzionamento generale psichico. Da principio la invasione è limitata ad un punto solo del campo della coscienza, la quale, accorgendosene, mette in atto tutti gli sforzi, di cui dispone, per liberarsene: subito dopo, se resta impotente ad ottenere lo scopo, la visione mentale è ottenebrata e poscia circonfusa di colori abbaglianti; la volontà resiste tuttavia, ricorrendo al sussidio dei controstimoli ideativi ed emotivi; forse vi riuscirebbe, ma, per l’avvenuto disturbo funzionale, sopravvengono delle illusioni ed allucinazioni, le quali travolgono e trasformano completamente la natura dell’io cosciente.

7. —Una classica intuizione artistica della manìa omicida, accompagnata da allucinazione impulsiva, la troviamo nell’ Ercole furente di Euripide. Ercole, dopo lunga assenza, ritorna in Tebe, ove era suo padre Anfitrione, sua moglie Megara ed i suoi figli. Tostochè giunge presso la sua casa, sa da Megara che Lico, il re di Tebe, avea deciso di sacrificare l’intera famiglia di lui, e già i figli intorno al capo aveano avvolte funeree corone ed attendevano il momento fatale. Egli entra in casa per venerare i domestici dei, deciso a far aspra vendetta su Lico. Costui giunge accompagnato dai suoi sergenti, e, nulla sapendo dell’inatteso ritorno di Ercole, penetra in casa per trarre a morte Megara ed i figli. Ma, abbattutosi in Ercole, è tosto ucciso. Però, per volere degli dei ed accompagnata da Iride, sopravviene l’Insania ( ἡ Λύττα ), detta vergine figlia della fosca notte, nata del nobile sangue di Urano, ed inviata per castigare il misero Ercole. Un nunzio, sbigottito, racconta che Ercole, dopo la uccisione di Lico, apprestava un sacrificio innanzi all’ara di Giove: erano accolti i suoi figli con l’avo e con la madre, e già portato era in giro all’altare il canestro ed elevavansi sacre preci:

Ma ecco, allor che con la destra il tizzo Tôrre, e nella lustrale acqua tuffarlo Dovea d’Alcmena il figlio, immoto stette, E tacito. In quell’atto lungamente Si rimase e teneano i figli in lui Fisso il guardo. Più desso egli non era.

La idea o l’ossessione omicida invade repentinamente l’animo con la scintilla di una sensazione o di un pensiero improvviso; indi—in un terreno predisposto per degenerazione personale o ereditaria—va poi divampando e preoccupando l’attività mentale dell’ammalato e può assumere e presentare tutti i diversi gradi di intensità dell’ossessione morbosa, vincibile od invincibile (Ferri).—Dapprima è un arresto improvviso dei movimenti intercerebrali; un rapido restringersi, con senso di angoscia, del campo della coscienza; l’oscillamento della percezione della realtà; lo sforzo di rendersi conto di ciò che si ha consapevolezza che avvenga: poscia, perdutosi l’equilibrio o il centro dei moti ideativi ed affettivi, gli occhi, la fisonomia, la mimica presentano i segni evidenti del delirio invadente.

Gli occhi stravolti roteggiava intorno, Le sanguigne radici in fuor spingendone; E una schiuma stillava dalla bocca Giù sul mento barbuto.

Completatosi l’accesso, comincia l’allucinazione: l’ammalato dimentica il luogo ov’è, le persone ond’è circondato. Tra le idee ricorrenti, con turbinìo di sangue e di vendetta, una gli si fissa nella mente, con insistenza, l’idea di dar morte ad Euristeo, altro suo nemico. E l’uomo che, pochi istanti prima, avea con calma e freddo discernimento disegnato il come ed il perchè di sue future imprese; inebbriato, pel sopravvenuto delirio, dall’insania di odio irresistibile, è spinto, anzi trascinato a quell’azione che gli si riproduce in modo fantastico, con fondo tenebroso, con contorni foschi, ed alla quale egli già crede di prender parte con la veemenza di chi è di fronte all’aborrito nemico.

Indi proruppe

Con risa forsennate in questo dire: «Padre, a che accendo or io, pria di dar morte Ad Euristeo, l’espiatrice fiamma, E fo doppia opra, ove pur tutto io posso Compier con una? D’Euristeo qui porto La tronca testa, e di più morti a un tratto Poi mi purgo le mani. Olà, versate L’acqua a terra: i canestri al suoi gittate: Chi mi dà l’arco? chi mi dà la clava? Corro a Micene. Oprar picconi e leve A spezzarne fia d’uopo, a rovesciarne Quelle sue mura, che i Ciclopi un giorno Costruir con le subbie alla rubrica». Dettò ciò, quivi presto immaginando Il cocchio aver, fa di salirvi, e spinge (Come avesse la aferza) i corridori, Dimenando la destra. Eran quegli atti E di riso a’ sergenti e di paura: E l’un l’altro guatandosi, dicea Questi a quello: di noi gioco si prende Il signor nostro, o ch’ei delira?

Intanto, scorrendo su e giù la casa, dice di esser giunto a Megara; si adagia sul suolo e si apparecchia la cena; indi, levatosi, si dà a lottare, ignudo, senza avversario di fronte; poi, ordinato a tutti di ascoltare, si proclama vincitore del giuoco. Credendosi in Micene, scaglia, fremendo, fiere minacce contro Euristeo.

Il padre, allora, gli afferra la mano e gli dice: figlio, che cosa fai? che strana cosa è questa? Forse ti tolse il senno il sangue che qui hai sparso poc’anzi?

Ei d’Euristeo credendo

Lui genitor, che supplice la mano Per timor gli toccasse, lo respinge, E dardi trae della feretra, e l’arco Tende contro i suoi figli, uccider quelli D’Euristeo divisando. Esterrefatti Chi qua, chi là si sgominar quei miseri; E l’un corse alle vesti della madre; L’un si acquattò d’una colonna all’ombra: L’altro come augellin tremante stette Dell’ara a piè. Grida la madre: oh sposo, Che fai? che fai? tuoi proprî figli uccidi? Grida il vecchio e i famigli: ei non abbada; E l’un dei figli alla colonna intorno Insegue pria, poi con terribil volto Voltasi indietro, gli si pianta incontro, E nel cor lo saetta. Supin cade Il pargoletto, e la marmorea base Bagna di sangue, l’anima spirando.

Ercole crede di aver ucciso un figlio di Euristeo; così continua ad infuriar contro altro figlio: invano è richiamato alla realtà, l’allucinazione dura prepotente; finchè, essendosi egli slanciato alla strage del padre, dopo aver ucciso figli e consorte, Pallade, comparsa, gli gitta sul petto un sasso (detto, secondo Pausania, sofronistèro, cioè risanator della mente) e, rattenendo il di lui furore, lo fa cadere in profondo sonno.

Siamo allo stadio di esaurimento dell’accesso maniaco. La energia impulsiva, scaricatasi nell’incomposta e turbinosa azione omicida, conduce l’individuo in istato di abbattimento e di prostrazione. Quando Ercole rinviene, si meraviglia di trovarsi legato e di ciò che gli si dice aver commesso; con la calma ritorna la coscienza, ma, ahi!, il misero non può che rimpiangere la sventura toccatagli!

Un tal Fortuna, da me difeso, guardia di finanza, un giorno era in sentinella in un posto di guardia. Vede un amico, lo chiama a sè e, nello stato di semicoscienza, gli porge un orologio con l’incarico di consegnarlo in ricordo alla madre.—Poscia si avvia alla volta del paese, tira una fucilata contro il primo compagno che incontra; si avanza fino al corpo di guardia, e tira, all’impazzata, contro amici e superiori, dieci o dodici fucilate: ferisce qualcuno gravemente. Tra le grida della gente accorsa, si dibatte, si difende, minacciando morte a tutti: è preso, finalmente, ed egli, fissando gli occhi sbalorditi sui presenti, cade in profondo sonno, che dura più di un’ora. I suoi precedenti erano ottimi; niuna causale lo aveva spinto al delitto.

Sostenni il vizio parziale di mente, che, senza difficoltà, mi fu accordato dalla giuria. Il giorno seguente alla condanna, mi recai in carcere per chiedergli se desiderasse voler produrre ricorso in Cassazione. Lo trovai depresso, avvilito. Parlandogli, gli ricordai le modalità del processo. Egli mi fissò lo sguardo, muto, impassibile. Ad un certo punto del discorso mi accorsi che il misero cominciava a tremare, sbarrava gli occhi, avea le pupille dilatate. Mi accorsi che cominciava ad essere in preda ad allucinazione: dopo poco perdette la coscienza del luogo ove trovavasi, di quanto gli era accaduto.

Mi chiese—si crederebbe?—la restituzione dell’orologio consegnato all’amico, scambiando me per costui; finì col minacciare le guardie carcerarie presenti, le quali furono costrette, con forza, a trascinarlo altrove. Mi fu detto che, dopo un’ora e più, riacquistò la coscienza, serbando appena un barlume di ricordo di quanto avea detto ed operato.

Alcuna volta la follia del delitto prende la forma di emozioni ossessive con impulsioni di fobia: l’equivalente psichico è nello scoppio repentino di illusioni sensorie o di allucinazioni. La volontà è trasportata a credere alla realtà di semplici apprensioni, il cui fondo può avere la lontana origine di odio o di altra passione: la coscienza è sconvolta grandemente, nè è più atta a percepire la realtà vera delle cose. Il paziente, se l’accesso è repentino, è preso da angosciosa costrizione di idee e di atti; egli credesi in imminente pericolo, ed è necessitato a veemente reazione.

R. R. da me difeso, un giorno sa che suo fratello, reduce da Napoli, ove dimorava, desiderava vederlo ed abbracciarlo. Egli fu ben lieto dell’incontro, nè frappose tempo a recarsi nella propria abitazione, ove il fratello lo attendeva. Le accoglienze reciproche furono affettuose. Se non che, discorrendo, il fratello lo rimproverò di alcuni dissensi tra lui ed il padre. R. lo fissa, non risponde. Poscia, con azione rapida, corre alla caserma dei carabinieri e, spaventato, chiede aiuto contro un forestiere il quale era in sua casa e tentava di assassinare lui e la moglie! Accorrono un brigadiere ed un carabiniere. Ma quale fu la loro sorpresa nel vedere che il forestiere fosse il fratello di R.? Costui, presente alla scena, insiste a richiamarsi di imminenti pericoli, e, poichè il fratello rispondeva scherzosamente, egli guarda un tiretto, lo apre, tira fuori la rivoltella e la esplode, in mezzo ai carabinieri, ferendo mortalmente il germano.

Arrestato, è tradotto in carcere, senza che nulla osservasse; però, dimandato, lungo il tragitto, da un amico che cosa avesse commesso, ed inteso dai carabinieri di aver ferito il fratello, riacquistò la coscienza del mal fatto, diede in ismanie, ruppe in dirotto pianto, dichiarandosi innocente di ciò che si diceva aver commesso.—In famiglia vi erano casi di isteria, di epilessia. Al dibattimento si svolse la più commovente scena: tutti i testimoni parlarono dell’affetto cordiale tra i due fratelli: gli stessi carabinieri, presenti al fatto, dissero essersi persuasi trattarsi di accesso maniaco. I giurati concessero il vizio parziale di mente.

8. —Ed ora diremo dell’azione criminosa dell’epilettico. Rimandando il lettore ai libri tecnici sulla materia, ci restringeremo a considerare i sintomi che più appartengono alla parte psicologica del delinquente e che, nella pratica, con maggiori difficoltà sono conosciuti ed adeguatamente estimati. È da pochi anni che nelle aule giudiziarie la psicosi epilettica ha cominciato ad avere la debita considerazione sotto il lato scientifico ed il lato giuridico. In generale credevasi che l’epilettico, quando non commettesse i delitti in istato di accesso, dovesse rispondere nel medesimo modo che qualunque individuo normale, perchè, aggiungevasi, la malattia o la frenosi dura i pochi momenti dell’attacco, passato il quale, la coscienza ritorna nel suo decorso normale. Oggi si ammette, in generale, che la epilessia di per sè sia una psicosi e che apporti, in chi n’è affetto, disturbi mentali e morali: durasi, tuttavia, nel credere che questi disturbi debbano limitarsi a certi casi molto gravi, e a quelli in cui l’azione, per prove evidenti, non sia l’effetto di motivi sufficienti e non abbia il decorso di atti in apparenza coscienti. Donde le molte difficoltà e le continue distinzioni di una casistica indegna di tempi sì progrediti nelle scienze positive e sperimentali, inutili, anzi pregiudizievoli e contrarie a giustizia, quando la psichiatria ha detto ormai la sua ultima parola sulla natura della epilessia, assicurando che le sue manifestazioni sono così multiformi e singolari, da costringerci a ritenere che il giudizio di apprezzamento sulla loro imputabilità debba essere molto circospetto, ma tale da non escludere, in qualunque ipotesi, la diminuente di responsabilità pel vizio parziale di mente. La continuità e l’unità nella organizzazione dei fatti psichici debbono convincerci non esser possibile che chi sia affetto da epilessia, quantunque mostrisi ad intervalli sano di mente, goda la pienezza di equilibrio psichico: certi difetti organici, insiti alla vita intima della coscienza, sfuggono alla prova esteriore, ma sono il presupposto scientifico imprescindibile per arrivare a conclusioni giuste che, altrimenti, non sarebbero suffragate dal criterio dottrinale e dalla pratica della esperienza.

9. —Il problema rendesi molto più difficile e complesso nel caso di epilessia larvata o di equivalente epilettico. Essa —al dir di Bianchi—è un disturbo mentale a breve e rapida evoluzione, d’ordinario accompagnato da profondo turbamento della coscienza e amnesia più o meno completa del periodo di durata dell’attacco. Assume le forme più differenti: talora è una qualunque delle psicosi descritte come prae -epilettiche o post -epilettiche; la differenza sta solo nel fatto che manca la convulsione epilettica, la quale è sostituita dal disordine psichico. Molte forme maniache o psicosi allucinatorie ricorrenti, di breve durata, di cui i rispettivi infermi non serbano ricordo, sono di natura epilettica, veri equivalenti psichici della epilessia[96].

Questa forma di epilessia psichica ha la genesi fisiologica nella estrema irritabilità di carattere del paziente, la genesi patologica in disturbi, per lo più ereditarî, dei centri psichici corticali, con esaurimento dei poteri direttivi, ed atrofia parziale od assoluta delle energie associative e coordinatrici degli atti interni e delle azioni esterne, che ne sono la conseguenza. La coscienza è o intermittente o a fondo di continuato turbamento; la memoria è lacunare; la fantasia accesa, veemente; la sentimentalità con decorso tumultuoso ed impulsività furiosa. Ma—nè è raro il caso—talvolta il disturbo epilettico si sistematizza in periodi abbastanza lunghi; la coscienza funziona, ma è dominata da ossessione o da esquilibrio costituzionale: il paziente ha l’agio ed il tempo di preordinare gli atti alla esecuzione del delitto, di scegliere i mezzi; di cogliere la vittima nel luogo, nel momento più adatto. L’apparenza del fatto induce il magistrato ad elevare rubrica di piena responsabilità con l’aggravante della premeditazione, o, mancando una causale, con la qualifica della brutale malvagità. Il psicologo, intanto, osserva; a ) che tra i precedenti, i concomitanti ed i susseguenti del fatto incriminato non è possibile, quando l’imputato sia affetto da epilessia, che esistano e si provino quei nessi logici, di cause e di effetti, i quali sono la prova più evidente della normalità psichica d’un individuo; b ) che l’azione dell’epilettico è sempre disordinata, repentina, furiosa, sebbene rapportisi a precedenti motivi sufficienti ed a preordinazione di mezzi. La morbosità dell’atto è messa in mostra dalla mimica incoordinata, dalla fisonomia stravolta, dall’occhio torbido, da parole incomposte, dalla assenza di previdenza nell’affrontare i pericoli di reazione della vittima o di sorpresa della pubblica forza; dall’immediato abbassamento, dopo il delitto, dell’energia attiva, o dal totale esaurimento della stessa, con stupore morale consecutivo, tendenza al suicidio, ovvero apatica indifferenza come di chi non senta il peso della responsabilità incorsa e non si scuota al ricordo rappresentativo degli atti constituenti il delitto. Infine, il psicologo conclude, che la misura della imputabilità di simili atti dev’essere apprezzata con processo logico sintetico, poichè, se gli atti, normali o morbosi che siano, ma più in quest’ultima ipotesi, si staccano l’uno dall’altro e si valutano isolatamente, non è strano s’incorra in flagrante errore: l’unità del prodotto psichico del reato, corrispondendo, nel caso in esame, ad equivalente epilettico, deve, nella totalità del funzionamento interno ed esterno, portare la nota del disordine e d’un esquilibrio spiegabile non più con germi organici criminosi, ma come l’effetto di affezione morbosa.

Il lettore, che ci ha seguìti fino a questo punto, avrà avuta la prova irrefutabile della verità del nostro indirizzo positivo, di scorgere, in qualsivoglia manifestazione tipica del delitto, il germe della degenerazione, dell’esquilibrio, della anomalia. O che l’anima del criminale versi nello stato di dissoluzione, o che, più propriamente, sia il subbietto di follia morale o di psicosi epilettica, il fondo disintegrativo è identico: i fenomeni interni ed esterni sono i medesimi, con relazione e decorso alternantisi diversamente, e con concorso or di tutti or specificatamente di taluni. Il patrio legislatore, ad imitazione dei migliori codici vigenti, ha per avventura ben fatto a raccogliere in una formola generica tutte le molteplici specie di psicosi, le quali possono diminuire od escludere, secondo il grado, la responsabilità di fatti incriminabili. È affidato al giudizio pratico del giudice, la cui mente sia stata di già illuminata dalla luce della scienza, di schematizzare i singoli fatti sotto il punto di vista generale e di concludere con l’ammettere od escludere la responsabilità penale dell’agente. Le distinzioni scientifiche debbono valere perchè si abbiano norme sicure nella disamina dei fatti; ma la conseguenza è unica: nè il convincimento del giudice, in definitiva, deve preoccuparsi di dettagli teoretici i quali, qualche volta, meglio che illuminare, confondono la rettitudine della sua mente.

1O. —I delinquenti per passione formano una categoria speciale: essi, come osserva il Lombroso, dovrebbero dirsi per impeto, perchè tutti i delitti hanno per substrato la violenza di alcune passioni; ma, mentre nel delinquente abituale, in quello per riflessione l’impulso della passione non è subitaneo, nè isolato, ma cova da lungo tempo e si ripete e rinnova sempre, e si associa, quasi sempre, alla riflessione,—qui accade tutto il contrario.

La passione ha il fondamento negli affetti ed è accompagnata da emozione o di piacere o di dolore. Però, al dir del Tommaseo, la passione è distruggitrice, inaridisce l’anima e la tormenta; l’affetto la solleva e la scalda: la passione è cieca, imprudente, provocatrice; l’affetto è costante, umano, magnanimo: la passione è torrente che assorda, trascina e, per vincere, devasta: l’affetto scorre quieto, ma inesauribile, e per vari rivi discende a portare nei luoghi più riposti le gioie della vita.

Il delinquente passionale non ha le stigmate della degenerazione; in lui la sensibilità, la emotività sono sviluppate in grado elevato, qualche volta eccessivo: la vita psichica superiore, della intelligenza e della riflessione, è alquanto meno accentuata; la fantasia, non che la immaginazione, è predominante, impetuosa, a forti colori, a tinte abbaglianti. La passione, e qualsiasi energia sentimentale, si organizza, si sistematizza, cristallizzandosi, stratificandosi nella coscienza. Dapprincipio l’idea, che ne forma il contenuto; il sentimento, ond’è resa piacevole, scorrono sul campo della coscienza come un giuoco della immaginazione: l’attrattiva, ad essi inerente, sfugge alla riflessione e si rende accetta per le lusinghe, ond’è circondata, per la speranza di futuri intenti desiderati, pel bagliore d’una luce diafana suffusa nell’intera serie delle rappresentazioni, dei ricordi che formano il materiale attuale delle nostre cognizioni. Poco a poco ciò che dapprima era inavvertito prende consistenza, e noi sentiamo il potere di una seduzione lenta, inconscia, ma costante, e tanto più forte quanto più vi si adatta all’ambiente morale e trascina a sè, paralizzandole, le altre inclinazioni della nostra vita affettiva. Il Bergier riteneva, che i moti delle passioni non siano volontari, e che l’uomo è puramente passivo quando vi acconsente o li reprime: no; la passività comincia gradatamente solo dal momento che noi abbiamo accolto nell’animo il germe della passione; ma, se l’attenzione fosse stata più vigile vedetta sulla rocca del cuore, i poteri inibitori potevano allontanare e respingere l’insidioso assalto della passione e questa sarebbe rimasta abortita prima che fosse stata riconosciuta vitale.

11. —Nei delinquenti lo stato passionale si germina dal contrasto di opposte idee e sentimenti; l’idea, il sentimento di qualche bene, di cui manchiamo, o di cui siamo privati, e l’idea ed il sentimento di odio contro chi o vi si oppone o ne contrastò il possesso. È perciò che Plutarco scriveva esser l’odio una disposizione e volontà osservatrice dell’occasione di far male[97]; ed il Machiavelli, che l’odio produce timore e che dal timore si passa all’offesa.—Tra l’idea del bene sperato o perduto e la persuasione, che di ciò sia qualcuno colpevole, si va scavando un abisso in cui precipitano tutti i buoni propositi, i sentimenti altruisti, le idee di simpatia e di benevolenza verso i simili. Questo è ordinariamente verificabile trattandosi di odio muto concentrato. L’intensificarsi del sentimento di ripugnanza della persona dell’avversario; la risonanza dolorosa d’un affetto tradito, d’un’offesa ricevuta; gli scatti ripetuti di interna energia emotiva; il vuoto, che si va formando attorno per la cagione ricorrente ed iniziale dell’ansia, dell’angoscia, dell’incertezza, assorbono tutta la personalità ed ottenebrano la mente. La mimica, che esternamente esprime gli interni moti, è caratteristica. All’inizio della passione, qualora non sia originata da forte impulsione dolorosa, l’animo è compreso da tal quale ilarità o eccitazione piacevole, nascente dalla coscienza della propria superiorità di fronte al nemico. Addensatosi il sentimento di ripugnanza e disegnatasi la idea reattiva, l’individuo è preoccupato, tetro: talora il suo volto è chiuso in tenebrosi pensieri; tal’altra, allo scoppio improvviso di lusinghiera speranza di vendetta, un sorriso sardonico, con ostentata jattanza, sfiora le labbra; l’occhio brilla di luce sinistra ed il cuore anticipa il piacere del castigo destinato al nemico. Ad intervalli sempre meno lunghi, la calma è indotta dalle quotidiane occupazioni della vita, dagli interessi che ne distraggono; ma, nel momento in cui il motivo dell’odio risorge, l’animo è sinistramente scosso e col dolore, resosi più acuto, noi sentiamo accrescersi la repugnanza, l’avversione, finchè si aggiunge un sentimento di particolare dispetto che ci costringe e ci trascina all’azione.

Nella donna l’odio è più profondo, meno soggetto ad esser represso: massime allorchè esso scaturisce dalla passione di amore tradito, o dalla gelosia, arriva financo alla forma di delirio.

12. —Il psicologo criminale deve tenere gran conto di quest’ultima potente cagione di odio, che finisce d’ordinario con l’esplodere in aspra vendetta. Il Mantegazza tentò dare la definizione della gelosia, dicendo: gelosia vuol dire propriamente un dolore del sentimento dell’amore, e quello precisamente che è prodotto dall’offesa recata a noi dall’infedeltà dell’oggetto amato. Questo dolore è naturale in tutti gli uomini, in tutti i tempi e in quasi tutte le razze. È l’offesa della nostra proprietà applicata all’amore[98]. Meglio, però, il Metastasio:

O di soave pianta amaro frutto, Furia ingiusta e crudele, Che di velen ti pasci, E dal fuoco d’amor gelida nasci.

Il Descuret, in un libro che ha tuttavia valore psicologico, scrive: «A vicenda tiranno e schiavo, il geloso si lascia trasportar dall’ira senza misura, o vilmente prega: agitano il suo cervello malato le supposizioni più bizzarre: quindi non riposa mai; chè i sospetti, i timori lo perseguitano in fin nei sogni. Nei gesti, negli atti e massimamente nello sguardo ha qualche cosa di sinistro che fa paura e spegne qualunque simpatia uno provasse per le pene ch’ei soffre. Non è possibile giustificarsi con un geloso: se un moto di pietà gli lascia accordare qualche testimonianza di affetto da colei che egli accusa, questa testimonianza non è agli occhi suoi che dissimulazione abilmente calcolata. Allora i sospetti raddoppiano; ingiuria e minaccia o, anche cedendo ad un moto di convinzione e di pentimento, ammette le prove che gli dànno; ma ricade ben presto ne’ suoi terrori immaginarî, e ritorna non meno ingiusto, nè meno furibondo di prima.

«In generale, il geloso si sforza di nascondere ad ogni sguardo i tormenti che l’agitano, se ne vergogna come di una vil debolezza: non è raro udirlo parlar con disprezzo di chi si abbandona alla gelosia. Ma se prescrive a sè stesso tal riserva innanzi agli estranei, se ne compensa a usura contro la sua vittima, massimamente ove abbia acquistato sopra di lei diritto da far valere. Accade d’ordinario nelle sorde e ascose violenze della domestica tirannia che più terribili sono gli effetti di questa passione; imperciocchè allora la lotta accade fra la forza e la debolezza, e questa non ha che lacrime in sua difesa»[99].

L’arte greca ha rappresentato in Fedra e Medea il delitto passionale della donna portato fino al delirio. Sono due tipi concepiti da Euripide in modo sorprendente. Fedra, presa da cieco amore pel figliastro Ippolito, versa in fenomeni di isterismo, e si abbatte e si dispera e giunge infine all’esaurimento morboso, fisico e morale. Ella si accorge di essere schiava di Ciprigna, e lotta con i ciechi impulsi ond’è dominata, ora col tacere, col chiudersi e raccogliersi tra le domestiche mura, le cure familiari; ora col confessare, disperandosi, ogni cosa alla nutrice.

Ben si avvede che in lei si riproduce, ereditariamente, la passione brutale della madre Pasifae, la quale si innamorò d’un bianco toro visto nelle valli dell’Ida in Creta ed, imbestiandosi nelle imbastiate schegge di una giovenca di legno costruita da Dedalo, fece copia di sè, e ne nacque il minotauro. La nutrice procura di apprestarle soccorso, e ne fa accenno ad Ippolito, il quale, inorridito, minaccia di rivelar tutto al padre. Fedra, travagliata dalla insoddisfatta passione e turbata dal timore della vergogna, decide di suicidarsi; ma in pari tempo concepisce il reo disegno di vendicarsi del virtuoso giovane lanciando contro di lui la più infame accusa. Alla nutrice ella confessa:

Oggi, uscendo di vita, io, sì, contenta Farò Ciprigna che a perir mi porta. D’acerbo amor vinta morrò; ma infesta Pur farò la mia morte anco ad un altro, Sì che male esser vegga di mie pene Altero andar. Sua parte anch’ei provando Di questi guai, fia che umiltade impari[100].

Ella s’impicca, ma in una scritta lascia detto di aver ciò fatto perchè a viva forza violata da Ippolito!

Medea è la furia personificata della gelosia. Ella, posposta da Giasone ad altra donna, dissimula la profonda angoscia, simula contegno calmo remissivo e, per infliggere il castigo al suo offensore, gli uccide la sposa, uccide i proprî figli e si confessa felice di aver tutto ciò commesso![101].

13. —Il delinquente passionale, vittima di spinta veemente, aberrante, di rado si attiene al piano preordinato di esecuzione del delitto. Egli è imprudente; si serve della prima arma che gli capiti; gode di far mostra della vendetta compiuta. Affronta il pericolo con incosciente coraggio, appunto perchè in lui è fermo il convincimento che senza lo sfogo della passione, ond’è agitato, la esistenza rendesi insopportabile: qualunque danno ne consegua sarà minore della tempesta, che lo mette in iscompiglio. Dopo commesso il fatto, il delinquente per passione non sfugge il giudizio della pubblica opinione, che egli sa a sè favorevole; ma rendesi alla pubblica forza e confessa il suo operato senza nulla tacere.

Ritornata la calma, egli è assalito dal rimorso e, sotto il peso della sventura toccatagli, si rammarica, piange, e mostrasi dimesso ed avvilito. Ben osserva il Lombroso, che simili delinquenti, assai più che ai rei comuni, si avvicinano ai pazzi impulsivi e meglio agli epilettici, per l’impetuosità, istantaneità, ferocia degli atti, di alcuni dei quali, notisi l’importante analogia, non ricordansi spesso che incompletamente.

La rassomiglianza è tanto più vera perchè costoro sono vittime dell’ ira, il cui scoppio fu da Orazio e dal Petrarca paragonato a breve furore. Gli antichi, allo stesso modo che gli odierni scrittori, ne ebbero cognizione completa, e Seneca scrisse sull’ ira tre libri che desidererei fossero consultati da chi voglia sulla materia aver preziose nozioni. «Alcuni savî—egli scrive—dissero che l’ira sia breve pazzia, perciocchè parimenti con quella è priva di poter signoreggiare a sè stessa; non si ricorda dell’onore, non tien memoria delle amicizie: ostinata ed intenta in quello che una volta ha principiato, serra la via alla ragione ed ai consigli, ed, agitata da vane cause, è inabile a distinguere il giusto ed il vero, somigliante molto alle rovine, le quali si fiaccano e si rompono sopra quello che hanno oppressato. Ma perchè tu conosca esser pazzi quelli che dall’ira dominati sono, pon mente all’abito loro: perciocchè, come dei pazzi sono indizî certi il volto audace e minaccioso, la fronte malinconica, la faccia torva ed aspra, l’andar frettoloso, le mani inquiete, il colore mutato, i sospiri spessi e veementi, così degli irati sono i medesimi segni. Gli occhi sono vermigli e focosi, in tutto l’aspetto è un rossore acceso; bollendo il sangue nei più bassi precordi, le labbra si muovono e si stringono i denti; s’arricciano e si rizzano i capelli; lo spirito è in loro ristretto e stride, le membra, torcendosi, risuonano; essi sospirano, mugghiano e parlano interrotto con voci non bene spiegate, e le mani spesso si percuotono; batton la terra coi piedi, e tutto il corpo si commuove, facendo molte minacce di collera, ed han la faccia brutta e spaventevole a vedere; perciocchè si contraffanno e gonfiano. Tu non sapresti dire se gli è vizio più detestabile o brutto. L’altre cose si possono ascondere e tener coperte; l’ira scoppia ed esce in faccia, e quanto è maggiore, tanto più manifestamente trabocca. Non vedi come in tutti gli animali, subito che insorgono a nuocere, precorrono indizî, e che in tutto il corpo escono del solito e queto abito, ed esasperano la loro fierezza? Ai cignali esce la spuma di bocca; arrotano ed aguzzano i denti stropicciandoli insieme; i tori muovon le corna al vento e spargono l’arena coi piedi; i leoni fremono; i serpenti istizziti alzano il collo; le cagne, arrabbiate, sono spaventevoli a vedere. Non è alcun animale tanto orrendo e tanto per natura pernicioso, che non appaja in esso, sendo dalla collera assalito, aggiunta di nuova fierezza, Ben so che gli altri affetti ancora mai si occultano, e che la libidine, la paura e l’audacia dànno segni di sè e si possono antivedere. Perciocchè non si sveglia cogitazione alcuna veemente nell’animo nostro, che non muova qualcosa nel volto. Che differenza c’è, dunque? Che gli altri affetti appariscono, questo più di tutti si scopre e si palesa»[102].

E Seneca pone la distinzione tra gli atti, che rapportar si possono alla passione dell’ira, e gli atti che sono l’effetto di ferità; siccome avviene per coloro che d’ordinario incrudeliscono e s’allegrano del sangue umano senza che si avessero ricevuta ingiuria: non cercando essi di battere e lacerare gli uomini per vendetta, ma per piacere. Cita l’esempio del crudele Annibale, che, vedendo una fossa piena di sangue umano, disse: «Oh! bello spettacolo!»; e l’esempio di Voleso, il quale, sendo proconsole dell’Asia sotto il divo Augusto, ed avendo in un giorno decapitati trecento, e andando con superbo volto tra i corpi morti, come se avesse fatta una cosa magnifica e degna di ammirazione, gridò in lingua greca: «oh cosa regia!».—Il filosofo conclude: che avrebbe fatto costui se fosse stato re? Non fu ira questa, no, ma un male maggiore ed insanabile![103].

14. —Negli scrittori di antropologia criminale troverete raccolti esempî molti, i quali illustrano le sintetiche osservazioni psicologiche qui esposte; eppoi, non basterebbe la quotidiana esperienza delle aule giudiziarie? Meglio, mi avviso, sia rammentare al lettore la più perfetta rappresentazione tragica, tramandataci dall’antichità, del tipo di delinquente per passione: intendo parlare di Oreste. Eschilo, Sofocle, Euripide se ne occuparono: il primo trattando del delitto passionale con la profondità che gli veniva dalla intuizione dei più ascosi misteri dell’umana natura; il secondo con la sentimentalità e fantasia d’un’arte che attinge ispirazione e colorito dal bello armonico di facoltà e di contrasti; il terzo coll’uniformarsi alla realtà immanente e spontanea dei comuni fenomeni della vita. Fu osservato, che Oreste abbia molto di Amleto; rassomiglianza nelle vicende storiche di vendetta imposta dalla necessità degli eventi, nell’angoscioso contrasto tra l’apparenza dell’azione ed il fondo dell’anima, nella fine egualmente disavventurata. Se non che Oreste, coonestando l’operato col volere inoppugnabile degli dei e la spinta necessitante del fato, ha meno di contenuto personale, e ritrae in sè l’indeterminatezza psicologica di quella vita greca, che da un sommo poeta fu appellata ombra d’un sogno. Amleto è l’uomo moderno, tutto riflessione, scetticismo, forte sentire temperato dal dubbio della scelta, dalla titubanza dell’azione.

Oreste, bandito anzi trafugato dalle mura domestiche, cresce, alla mercè d’un amico, alimentando nel cuore la speranza, la passione di vendetta contro la madre Clitennestra, non che contro il drudo Egisto, rei di aver ucciso il padre Agamennone. All’opera vendicatrice si unisce Elettra, sorella di Oreste, anima or cupa or simulatrice, ma tenace nell’odio, ispiratrice dei mezzi bene adatti all’intento: ella, con la sentimentalità suggestiva, allontana il dubbio dalla mente del fratello, ne sollecita l’operare. In Eschilo[104] la scena, in cui, dopo la uccisione di Egisto, Oreste mette a morte la madre, è qualificata da tutto l’impeto cieco, tempestoso dell’uomo reso schiavo da prepotente passione: invano la donna ricorda al figlio rispetto a quel seno da cui egli con tenere labbra succhiò il vitale latte, e su cui tante volte si addormentò. Oreste ha un momento, meglio che di pietà, di dubbio e ne chiede consiglio a Pilade: al ricordo che costui gli fa degli oracoli di Apollo e dei sacri suoi giuramenti, lo snaturato figlio dice:

Vince, lo sento

Il tuo giusto parer—Seguimi; io voglio Svenarti là, presso colui. Lui vivo Più in pregio assai del padre mio tenesti: Morta or posa con lui; poi che pur ami Uom tale, e l’uom che amar dovevi aborri.

Ma, non appena commessa la strage, il delinquente passionale è colto da una specie di accesso di epilessia psichica, con turbamento funzionale ed allucinazione. Agli elogi del Coro, egli, che poco prima erasi addimostrato soddisfatto del duplice delitto, esclama:

Ahi ahi! che veggo?

Come Gòrgoni, avvolte in negri panni, Eccole, o donne, e d’affollate serpi Attorte i crini... Io più non resto.

Il Coro lo richiama e dimanda quali fantasie lo perturbino; Oreste risponde:

Non fantasie, non fantasie: le furie Della madre son queste.

Il Coro:

Un fresco sangue

Su le mani ti sta: quindi spavento Su l’animo ti piomba.

Oreste:

Oh sire Apollo!

Cresce la turba; affollansi; e dagli occhi Stillano sangue che mette ribrezzo. Fa’ cor; d’Apollo ti avvicina all’ara: Ei ti sciorrà da questi mali.

Oreste:

Voi

Non le vedete: io si le veggo; e sento, Sento incalzarmi, e più restar non posso!

Sofocle[105] rappresenta Oreste alquanto più calmo: in lui l’odio, essendosi sistemato, ha minori parvenze di impeto: Elettra è più feroce. Mentre Oreste pugnala la madre, e questa chiede da lui pietà, la figlia la schernisce; e quando la misera grida: ahi! son ferita!—ella incita l’uccisore dicendo: ancor, se puoi, ferisci!

Per Euripide[106] la strage si consuma con preordinazione di tempo e di luogo e con scelta di mezzi. Clitennestra è tratta, con inganno, in casa di Elettra data in isposa ad un contadino; Egisto accoglie Oreste e Pilade con l’affabilità dovuta a due ospiti, li invita a prender parte ad un sacrificio. È ucciso prima lui e poscia sua moglie. Anche qui Oreste tituba all’idea di mettere a morte la madre; ma Elettra ve lo incita. Commesso il delitto, essi son presi da turbamento e da rimorsi: veggono il precipizio sotto i loro piedi, e si sforzano di destare pietà: Oreste, però, osserva:

Or la tua mente, or l’animo Tuo si rivolge, come l’aura spira. Pia di sensi or tu sei, pia di pensieri: E tal dianzi non eri, Quando, o sorella, a dira Opra il fratel, che non volea, spingesti. Visto hai come le vesti Via strappando la misera, Nudo mostrommi agonizzando il seno... Ahi ahi, me lasso!... e le ginocchia al suolo Mettea, misera! ed io mi venia meno Di pietade e di duolo!

Con più naturalezza di concezione, Euripide in altra tragedia, l’ Oreste, rappresenta gli effetti del delitto. Oreste, agitato da insano furore, cade in istato di estremo esaurimento, ha il volto squallido, irto il crine, e giace di continuo disteso in letto. Egli è di tratto in tratto assalito da accessi di allucinazioni: Elettra, che, pel rimorso, vede la parte migliore di sua vita trascorrere in gemiti e lamenti, consumata in insonni e lacrimose notti, lo assiste, lo conforta; ma ben si avvede trattarsi di impeti insani; ed il Coro parla di manìa furente, e Menelao vuol sapere il momento in cui questa la prima volta ebbe a prorompere.

Tostochè sopraggiunge il pericolo di essere sopraffatto dagli Argivi, ei riacquista le forze, riprende l’usato furore ed affronta imperterrito l’ira dei nemici, addossando morte a morte, come Menelao si esprime; nè, com’egli medesimo dice, mostrandosi giammai stanco di uccidere ree donne. Aumentandosi il pericolo, la passione infierisce e si converte in impulso di distruzione: egli è pronto ad incendiare la reggia ed a svenare tra le fiamme altra vittima (Ermione) alla presenza del padre: costui, Menelao, implora pietà, ma l’altro è fermo e impone ad Elettra di accender le fiamme in basso, e a Pilade di metter fuoco agli alti palchi. Il reo proposito sarebbe stato messo in atto se opportunamente non fosse comparso Apollo a calmare l’animo tempestoso di Oreste ed a porre fine alla triste istoria di violenze e di delitti.

Ed è così che la Grecia, coll’armonico accordo di facoltà e di atti, di arte e di vita pratica, di entusiasmo pel bello e di sacrificio eroico pel trionfo del bene (il che Socrate, a riguardo della didattica, esprimeva con la parola musica ), personificò il tipo del delinquente per passione contornato da soggetti a lui affini e materiato in forma d’arte a cui la scienza invidia tuttavia la perfetta interpetrazione della verità e dei particolari.

15. —Completeremo l’assunto di trattare la psicologia dell’azione criminosa, scrivendo del delinquente di occasione.

Il Lombroso, ammettendo l’esistenza del reo d’occasione, ritiene che esso non offre un tipo omogeneo come potrebbe offrirlo il reo-nato od il reo per passione; ma esso è costituito da molti gruppi disparati, e sopratutto dai pseudo-criminali, indi dai criminaloidi propriamente detti[107]. Il Ferri, poi, osserva che delle due condizioni, onde si determina psicologicamente il delitto, insensibilità morale ed imprevidenza, a questa risale in prevalenza il delitto d’occasione, a quella invece la delinquenza congenita ed abituale; perchè, mentre nel delinquente nato è sopratutto la mancanza di senso morale che non rattiene dal delitto, nel delinquente d’occasione, invece, questo senso morale esiste ed è assai meno ottuso, e soltanto, non aiutato da una vivace previsione delle conseguenze del delitto, cede all’impulso esterno, senza del quale era e sarebbe stato sufficiente a mantenere la via diritta[108]. Io credo che le osservazioni qui riferite, pur mostrando di contenere, in apparenza, qualche importanza, non spiegano punto la genesi psicologica del delitto di occasione. La previsione più o meno degli effetti del proprio operato, o dell’azione di incentivi a cui ci troviamo esposti, non ci induce a discernere il perchè, in pratica, di tanti uomini imprevidenti, che tuttodì dànno fondo alle loro fortune economiche ed incorrono in errori deplorevoli; ma che pure, messi a contatto con moventi criminosi, sanno opporre più energica resistenza.

Il delitto di occasione ha per genesi psicologica una energia criminosa rimasta, per manco di organizzazione, in istato latente, nè con grado di sviluppo tale da suscitare singole tendenze distinte. Vi è, dunque, il germe del delitto; manca la disposizione del terreno in cui si fecondi e cresca. Ecco perchè nei delinquenti di occasione non vi sono tipi spiccati, ed il Lombroso ha dovuto ricercarli tra gruppi disparati e sopratutto tra’ pseudo-criminali.—La vita di relazione, col mondo esterno e con i simili, è tutta un complesso di incentivi che, in date favorevoli contingenze, ci spingono ad infrangere i dettami dell’etica e le sanzioni della legge: quando l’equilibrio psichico è ben rafforzato ed è reso stabile, il potere dell’incentivo o passa inavvertito o è facilmente vinto; se l’equilibrio è instabile ed incerto, a causa di contrastanti energie opposte, le propizie occasioni possono produrre delitti di cui noi medesimi non avremmo mai creduto di esser capaci.

CAPO XI.

Psicologia degli aggregati criminosi.

1. Relazioni tra singole coscienze.—2. Leggi d’integrazione e disintegrazione della coscienza in quanto si irradia nel mondo psichico esterno.—3. Luce e calore delle energie irradiate; qualità delle correnti di riflesso.—4. Il ritmo dinamico delle psichi concorrenti.—5. L’inconscio dell’anima della folla: la specie di imputabilità dei delitti da questa commessi.—6. Organizzazione delle energie della folla.—7. Le emozioni della folla; il loro ritmo di depressione e di esaltamento.—8. L’esaltamento in forma di psicosi con influsso epidemico; il contagio passionale morboso di sentimenti e di idee.—9. L’azione dei meneurs nella folla.—10. L’associazione per delinquere; germinazione e sviluppo del microbo del delitto associato.—11. La forma e l’esplicamento delle emozioni ed il complesso dei principî etici messi a base delle azioni criminose associate.—12. L’anima della folla e quella delle associazioni criminose.

1. —In altro lavoro[109] noi scrivemmo: la coscienza individuale è a considerarsi come centro di molte attività convergenti, e come energia risultante pel cumulo di aggregati di componenti che nella successione di stati interni, trasformandosi, conservano la loro natura essenziale. Uscendo dalla sfera delle azioni puramente individuali, e coordinando queste ultime alle azioni di altri individui, ci accorgeremo che tra le singole coscienze possono intercedere delle relazioni le quali aprono l’adito ad importantissime nozioni, che interessano tanto il cultore di psicologia generale, quanto quello di psicologia criminale.

La coscienza individuale, quale attività, si irradia nel mondo esterno e comunica la sua energia attraendo nella propria orbita le attività concentriche delle coscienze altrui. La parola concentriche esprime la condizione, perchè ciò avvenga, di centri coscienti di natura simile, ossia che abbiano caratteri che tra loro non si elidano col neutralizzare le energie comunicatesi.

2. —In quanto la coscienza si irradia nel mondo esterno, sottostà alle infrascritte leggi di integrazione e disintegrazione:

1 a Gli elementi psichici della coscienza attiva, non trovando contrasto di resistenza negli elementi d’una coscienza passiva, imprimono la propria energia in guisa che il novello aggregato psichico sia il composto associativo degli elementi anteriori sommati con gli elementi assimilati.

L’azione integrativa o disintegrativa d’una coscienza sull’altra avviene per addizione o per sottrazione: si aumenta, mercè la partecipazione di attività, il contenuto degli stati interni; si modifica il tono della personalità col privarsi in parte dei caratteri che demarcavano la precedente fisonomia psichica individuale. Tutto ciò avviene per l’atto associativo degli elementi psichici; poichè, nel dominio della coscienza, la serie progressiva di stati è prodotta da connessioni successive di rapporti e di processi.

2 a Gli elementi psichici passivi, assimilando l’energia partecipata, si differenziano; e, o integrando maggiormente il precedente aggregato ovvero disintegrandolo, permangono, col trasformarsi, nel contenuto della coscienza attiva.

La differenziazione degli elementi psichici con analoga integrazione del sistema indica progresso della coscienza passiva; il che avviene, tuttodì, nelle relazioni tra insegnante e discepolo, superiore e dipendente. Nella ipotesi di disintegrazione, invece, la coscienza passiva perde lo speciale contenuto e si modella sull’intima natura della coscienza alla cui energia di assorbimento non ha potuto resistere. Il che si riscontra nei caratteri deboli o poco progrediti, i quali molto facilmente sottostanno alla influenza prepotente altrui.

3 a La trasformazione, per integrazione o disintegrazione, della coscienza passiva avviene in ragione dei caratteri simili tra i suoi elementi e quelli della coscienza altrui.

Qualunque alterazione psichica, in conseguenza di energia partecipata, dipende dal grado di recettività specifica degli elementi onde l’aggregato è composto; tale grado corrisponde alla maggiore o minore identità degli elementi in relazione. Gli elementi della coscienza, tuttochè parti di aggregati, sono di per sè dei composti di coefficienti psichici primitivi; ond’è che tra essi, come tra particelle materiali, vige la legge di coesione, che dinota la mutua attrazione di molecole dello stesso corpo, cioè di molecole le quali, non che scomporsi in atomi, abbiano tra loro identità organica. Per l’Ardigò la coesione psichica è la legge onde nelle formazioni psichiche gli elementi si compongono con ligami minori o maggiori. Massima è la coesione nella percezione, media nelle formazioni ideali, minima nei rapporti logici: la norma fondamentale è, che la coesione sta in rapporto inverso con la complessità del lavoro mentale.

4 a Delle energie partecipate, quelle che, per manco di attitudine della coscienza passiva, non sono state nè paralizzate nè assimilate, dànno luogo ad uno stato impulsivo di azione associativa automatica.

Il moto trasmesso dall’urto, diciamo così, di due aggregati psichici o entra nel campo visivo della coscienza passiva, ed allora questa trasforma il contenuto in novello sistema di coefficienti; o in parte si arresta sotto la soglia della coscienza, ed allora, continuando nell’impulsione attrattiva, agisce e trascina, con azione automatica, nella propria orbita gli elementi sottoposti.

3. —Oltre all’effetto integrativo o disintegrativo degli aggregati di coscienze in relazione, le energie irradiate contengono, riguardo alla trasmissione di attività psichica, un grado di luce che ha l’equivalente ontologico nel vero comunicato, non che un grado di calore per i fenomeni affettivi causati.

Le correnti irradiate o trasmesse, esteriorizzandosi, ritornano, per riflesso, nel centro di origine, rafforzandone la intensità del campo visivo. Questo s’intenderà agevolmente considerando che l’assorbimento, di cui abbiamo parlato, da parte della coscienza attiva non è che accumulo di attività pel soprappiù di energia attratta e ritornata nel punto iniziale di movimento impulsivo. Chi ne voglia l’esempio, consideri quanto si rafforzi la coscienza di un convincimento per colui che, messosi in comunicazione con altri, siasi persuaso di averne l’approvazione.

4.—Dall’unione a due, alla forma più complessa della folla delinquente, la dinamica delle psichi concorrenti segue il ritmo d’un differenziamento che comincia dalla identificazione di due volontà in una sola e giunge alla formazione di coscienza collettiva, il cui esponente estremo è un risultato di cui non si hanno che i germi negli individui che vi prendono parte. Come nella dinamica cerebrale, ciascuna cellula psichica, per usare l’espressione di Haeckel, ha vita propria, ma nell’accordo di infinite altre cellule si trasforma in elemento di organo del pensiero; nella composizione di individui, mentre ognuno è di per sè una coscienza integrata, in unione con altri concorre alla formazione psichica della collettività, la quale ha funzione più o meno variata. La suggestione, la imitazione, a cui si è fatto ricorso per fissare il perchè del fenomeno dinamico dell’aggregato psichico, non ne sono che i dati apparenti o accidentali: il meccanismo intimo è nel sincronismo di correnti di energie trasmesse ed accumulate in un centro unico, che, senza aver esistenza a sè od indipendente, si manifesta nel perfezionamento di unica attività complessa, alla stessa guisa che il pensiero, la coscienza individuale siano a considerarsi risultanti di infinite componenti psicofisiche, che, isolatamente prese, hanno vita ed energia propria.

5. —In fondo all’anima della folla evvi molto dell’inconscio, di quell’inconscio che è ripercussione di energie coincidenti, che, per la rapidità d’azione ed il ritmo incomposto, inerente all’equilibrio instabile di sentimenti passionali, si arrestano al disotto della soglia della coscienza e, turbinando, spingono, saltuariamente, ad intenti imprecisi. Vero è che su tutti gli individui affollati si diffonde la efficacia della idea, del pensiero comune, a cui si riferisce il movimento iniziale dell’azione; ma è pur vero che tra l’effetto verificatosi e la relativa causa motrice, a chi ben mediti, non si troverà mai nè la proporzione logica nè la equipollenza dinamica. L’inconscio, del quale parliamo, è nel gesto, nella instabilità del volere, negli accenti inconsulti, negli atti senza significato; ai quali fanno eco i sentimenti di odio, di simpatia senza un perchè chiaro; il rapido svolgersi d’azioni di ferocia, inconcepibili in ciascuno degli associati; la esuberante espansività per scopi o ignoti o per sè poco calcolabili.

Io che ho assistito—per ufficio di difensore—a processi di delitti perpetrati dalla folla, mi son convinto, che l’attenuazione di responsabilità è insita al comune stato d’inconscio ond’è accompagnato il simultaneo concorso di coloro che presero parte all’azione. Pare che tutti, meno chi ne abbia preordinato gli atti, agiscano in condizioni di automatismo psicologico, fino al punto da obliare quel che ciascuno operò e da sconfessare ciò che tutti, con consenso in apparenza evidente, vollero conseguire. Il magistrato, tante volte, non crede alla schiettezza di confessione degli imputati, anzi li sospetta di mala fede e corre dietro alle fantastiche ed architettate accuse di agenti di pubblica sicurezza, i quali, non sapendo approfondire un giudizio su quanto effettivamente si svolse sotto i loro occhi, ricorrono ad opera misteriosa di sobillatori e prospettano intenti criminosi che non furon mai nelle menti dei giudicabili.

Il problema della responsabilità di azioni collettive non sarà mai risoluto fino a quando non si acquisti l’abitudine di prescindere, per l’apprezzamento dell’operato comune, dal l’opera dei singoli. Insomma, la imputabilità della folla deve essere illuminata da concetti affatto diversi da quelli che comunemente seguiamo nella valutazione dei delitti individuali, sia che questi avvengano isolatamente, sia che avvengano in conseguenza di moventi collettivi. La partecipazione maggiore o minore, verificabile nel concorso di pochi individui in un delitto, può dipendere da maggiore o minore volontà ed azione negli atti esteriori. Per la folla succede altrimenti. I più volenterosi, i più attivi non sono sempre i più pericolosi; ma lo sono coloro sulla cui psiche con più vigore si ripercosse la coincidenza attrattiva o repulsiva delle psichi altrui. Sono questi i più deboli alla resistenza: nè è da imputarsi a lor conto; perchè nell’aggregato psichico di pochi concorrenti si ha l’agio di riflettere e di resistere, ma nella folla ciò riesce difficilissimo per la legge, che la inibizione rendesi tanto più difficile per quanto non ci è permesso di sceverare la nostra energia individuale dalle energie ambienti a cui siamo soggetti.

Il Sighele scrive, che la folla sia un terreno in cui si sviluppa assai facilmente il microbo del male, e in cui il microbo del bene quasi sempre muore, non trovandovi le condizioni della vita; ciò perchè in una moltitudine le facoltà buone dei singoli, anzichè sommarsi, si elidono. «Si elidono, in primo luogo, per una necessità naturale e, direi, aritmetica, come una media di molte cifre non può, evidentemente, essere eguale alle più alte fra queste cifre, così un aggregato di uomini non può rispecchiare, nelle sue manifestazioni, le facoltà più elevate, proprie di alcuni tra questi uomini; esso rispecchierà soltanto le facoltà medie che risiedono in tutti o almeno nella gran maggioranza degli individui. Gli strati ultimi e migliori del carattere, direbbe il Sergi, quelli che la civiltà e l’educazione sono riuscite a formare in alcuni individui privilegiati, restano eclissati di fronte agli strati medî che sono il patrimonio di tutti; nella somma totale questi prevalgono e gli altri scompariscono»[110].

6. —La osservazione del Sighele e del Sergi è acutissima; ma non pare che la spiegazione addotta sia molto chiara. Perchè le migliori qualità individuali restano eclissate di fronte agli strati medî della comune degli uomini? Il motivo è nella maggiore energia organizzata di quelli stati di coscienza, che, pel tempo e per forza di naturale selezione organica, acquistarono maggiore compattezza ed unità. Il tronco d’un albero è sempre più resistente della foglia e del fiorellino, ultimi a spuntare sui suoi rami. Le qualità prevalenti ed eccezionali dell’individuo, in confronto delle qualità fondamentali e stratificate della coscienza, hanno minor presa nella trasmissione della loro energia sul fondo dell’animo della collettività. Di qui la forza del costume, delle abitudini, delle comuni credenze, dei pregiudizî. Il delitto è bene spesso il frutto di sentimenti ed idee germinate nell’ambiente morale di falsi principî, di erronee credenze, di inconsulte e cieche passioni. La folla è in soprammodo vittima di questo ambiente morale. I suggerimenti, i consigli, l’azione dei pochi privilegiati non arrivano a scuotere, a rompere lo strato malefico della comune coscienza. Anzi succede, nè è raro, che per una naturale legge dinamica di assorbimento, i pochi finiscono col cedere ai più, non solo perchè impotenti materialmente alla resistenza, ma perchè la loro energia, trasfusa nella larga piena dell’energia altrui, ne è trasformata e sparisce travolta da correnti le quali ne modificano sostanzialmente l’indole. Fate che nella corrente impura d’un fiume cada una quantità di pura acqua, essa perderà tosto la sua purezza e finirà con identificarsi alla gran massa di liquido con cui va confusa.

È legge costante, che le energie, fisiche o psichiche, poste a contatto, tendono a compenetrarsi ed unificarsi. Il centro attrattivo in prevalenza, o il nucleo del nuovo aggregato, si fissa per la affinità di energie similari; la risultante non solo ne comprende la somma, ma ne segna il grado di identificazione.

7. —Nella folla è da apprezzare, segnatamente, lo stato di emotività. Le emozioni, componendosi, si intensificano e si accrescono. Il che avviene in ragion diretta degli incentivi individuali ed in ragione inversa dei controstimoli eliminati o attenuati dall’ambiente di contrarie tendenze in prevalenze.

Le emozioni della folla dapprima sorgono con carattere depressivo, in ultimo prendono il carattere di esaltamento. Sono depressi i controstimoli della calma, dell’ordine: indi sorge la impulsività ad azioni subitanee ed incomposte. Il ritmo è incostante: allo stato caotico o di confusione, che turba le coscienze e fa che ognuno, incerto, tentenni e versi in equilibrio instabile di sentimenti e di idee, sopravviene il rifluire di correnti attive che, fissando uno o più centri di emotività, finiscono con l’imprimere al novello aggregato la fisonomia e la tonalità di atti impreveduti. L’esaltamento produce l’effetto di sospendere il funzionamento autonomo di ciascuna coscienza: sugli animi degli aggregati si diffonde una luce diafana e triste, si va addensando una nube, la quale, mentre toglie allo spettatore l’agio di distinguere i tratti caratteristici e la fisonomia di ciascun partecipante, elimina le singole iniziative e le confonde e le identifica nella unità di prodotto sinergetico.

L’azione delittuosa, per chi ne ignori la genesi in moventi prossimi o lontani, ha l’apparenza di scoppio fulmineo: essa sorprende con fasi impetuose; non ha altri limiti che nelle accidentali difficoltà del momento; scorre con la rapidità spaventevole di corrente tempestosa e, quando giunge alla fine, lascia dietro di sè la distruzione e lo squallore, ma non la prova di chi ne debba dirsi responsabile.

8. —Talora l’esaltamento, per favorevoli circostanze di tempo, investe così l’anima della folla da ingenerare una vera forma di psicosi con influsso epidemico.—Il Rossi—che per profondità ed originalità di vedute io giudico il vero fondatore, in Italia, della psicologia collettiva—così scrive: «Un sentimento od un’idea che si diffonda con una celerità più o meno grande; che conquisti, più o meno prestamente, molta gente, che ad esso creda fermamente, fortemente, è una epidemia psichica». Essa è dunque «uno stato ideo-emotivo che da uno o da pochi si diffonde a molti in maniera rapida ed intensa da produrre un arresto nel flusso della coscienza, e da dominarla, dando luogo a fenomeni strani di psicologia e di neuropatia». Gli elementi, adunque, d’una epidemia o d’un contagio psichico sono tre: uno stato ideo-emotivo, una diffusione anormale, un arresto ed un ingigantimento nel campo consciente capace di generare fenomeni anormali del corpo e della psiche. Abbiamo detto «uno stato ideo-emotivo», ossia uno stato di coscienza, giacchè una idea sola o una sola emozione non avrebbe in sè la forza di determinare uno stato di condotta, una piega del carattere qual’è quella che da un’epidemia psichica. La quale, a coloro che ne sono investiti e trascinati, dà come una personalità nuova. Ora questo non avverrebbe, se il contenuto della psicosi epidemica non fosse un pensiero ed un sentimento, giacchè è risaputo oramai che il carattere è donato non meno dal sentimento che dal pensiero. Inoltre, come noi dicemmo più volte, quelli che compongono la maggior parte della folla sono della gente amorfa o parziale—caratteri, cioè, o non ben definiti o incompleti—; mentre i meneurs sono, a seconda la classificazione del Ribot, dei caratteri «attivi o contradditorî successivi». E gli uni e gli altri— meneurs e folla—per formarsi una personalità nuova o per modificare l’antica, hanno bisogno di essere pervasi in tutto il loro essere; han bisogno di rifarsi o di crearsi il carattere e questo—lo si sa—non è meno pensiero che sentimento, idea meno che emozione»[111].

Il contagio passionale paralizza la facoltà di attendere in persone che, per altre contingenze, han mostrato di possedere il potere di frenare o di indirizzare i voleri, i desideri, le convinzioni dei molti. Lo scompiglio o il turbamento generale di animo fa sì che si perda la visione di un perchè chiaro nelle proprie operazioni: le correnti impulsive e repulsive sovrastano il piano visivo della mente; fin l’istinto di conservazione si indebolisce, perchè pare che tutto sia per crollare; che leggi, costumi, interessi non abbiano più valore, che la vita sia alla mercè d’un evento o sperato o immaginato o temuto. È l’effetto dell’uragano, che sconvolge tutto quello che incontra, abbatte le messi e gli alberi, travolge, rimescola, trascina e precipita in lontani baratri quanto gli si offre dinanzi; il che avviene specialmente nei casi di esplosione degli stati emotivi collettivi. Ma vi sono altri esempî, in cui la idea, il sentimento si sistematizzano lentamente: evvi un periodo di incubazione ed uno di rigoglio; durante il primo l’aggregato si organizza, nel secondo vive di vita tutta propria ed imprime orme indelebili. Fa meraviglia, ed in pari tempo desta orrore, vedere a qual segno possa giungere il contagio epidemico di credenze, di pregiudizî in epoche e tra persone che pur, sotto altro aspetto, restano ammirevoli nella storia della umana civiltà! Basterà citare la epidemia di credenze, al secolo xv e xvi, nelle stregherie, col relativo corredo di occultismo, per persuadersi di quanto danno alla umanità tornino i pregiudizî ed i falsi convincimenti allorchè si diffondano nelle turbe ed acquistino il potere di ottenebrare le coscienze della collettività. «Siffatte credenze—scrive il Cantù—si conservarono traverso al medio evo, sicchè ne son piene le leggende, nelle quali si confondono il misticismo e l’empietà, il tremendo e il grottesco; repulsate dai legislatori e dai dottori, ma serbate tenacemente dal vulgo, finchè vennero a mescolarsi con quella fungaia delle scienze occulte: i Settentrionali vi unirono il tributo delle loro saghe e valchirie e oldi e gnomi e spiriti elementari; gli Arabi le loro fate»[112]. «Massime nella Germania—prosegue il Cantù—così proclive al misticismo, erasi largamente diffuso il timor delle streghe; onde Innocenzo VIII nel 1484 le fulminò di severissima bolla, e spedì due inquisitori, Enrico Institore e Giacomo Sprenger, con facoltà d’estinguere tali infamie con qual fosse mezzo. Appoggiati da Massimiliano I, essi inquisitori si vantano d’averne mandate a morte quatrocentotto in cinque anni nella diocesi di Costanza; nel solo elettorato di Treveri, racconta Möhsen, fossero processate in pochi anni seimila cinquecento persone per stregheria; moltissime trucidate nelle Fiandre il 1459; a Ginevra in tre mesi se ne condannarono più di cinquecento, convinte; Spagna e Francia ne furono insanguinate. Pietro Crespet dice che, al tempo di Francesco I, v’avea centomila streghe; ma Trescale, condannato il 1571 e avuta l’impunità, confessò che erano assai più. Nicola Remy, profondo criminalista e gran giureconsulto, consigliere intimo del duca di Lorena, vanta averne in quindici anni fatte morire novecento: dicono che Enrico IV ne mandasse al fuoco più di seicento nella sola provincia di Labourd; in Slesia nel 1651 ne furono arse ducento; cencinquantotto negli anni 1627, e 28 a Wurtzburg, fra cui quattordici curati e cinque canonici. In Italia pare, per questa sciagura, specialmente segnalata la diocesi di Como, il cui inquisitore nel 1485 ben quarantuno ne bruciò; e Bartolomeo Spina asserisce, che oltre mille in un anno vi si processavano, e più di cento bruciavansi»[113].—Non mancarono spiriti indipendenti, e scevri di apprensioni, nel combattere, ora apertamente ed ora sotto il velame d’una fede religiosa meglio diretta ed illuminata, errori di cotanto nocumento alla umanità; fino al famoso Reginaldo Scoto, il quale negava che il demonio possa cambiar corso alla natura. I supplizî, i roghi moltiplicavansi ovunque; la fantasia popolare era eccitata, nutrita dai pubblici sermoni, dai suffumigi e dalle unzioni, dal secreto di processi terminati quasi sempre con la confessione del paziente estorta col mezzo della tortura. Quando si pensa agli effetti di un’epidemia psichica durata, forse, fino a qualche secolo fa, si resta colpiti dal profondo dubbio se tante credenze reputate oggi scientifiche ed irrefutabili non abbiano la base nell’opera della suggestione e della illusione, e se davvero quella, che noi appelliamo verità, non sia che il prodotto soggettivo di passeggiare stato di coscienza!

9. —Il citato Rossi constata, che «la folla riceve impronta, nelle sue manifestazioni, da coloro che la compongono; massa talora amorfa, talora no per ciò che riguarda il carattere, e sui quali i meneurs gettano l’ombra immane della propria psiche. Onde l’azione della folla nasce da un incontro dei meneurs e degli uomini a fondo attivo su altri a fondo inerte, plastico, facile ad essere dominato e a seconda che gli attivi son volti al bene o al male, sono normali o no, l’azione della folla è buona o triste, normale o criminosa. Ora nella folla delittuosa, oltre i meneurs che vedemmo quali sieno, prevalgono i criminali nati, i pazzi, gli abituali, i quali la conducono al delitto, avvolgendo, nelle sfere d’una passione criminosa, gli amorfi, gli squilibrati, i parziali e facendone dei delinquenti passionali»[114].—La osservazione è esattissima, però richiede che sia completata. È vero che i meneurs, suggestionando la folla, le dànno una forma qualsiasi, il più spesso criminosa; ma è anche vero che essi sono coinvolti nelle spire dell’anima dell’aggregato, ed a seconda della natura di quest’ultima inconsciamente plasmano i loro convincimenti e le loro passioni. L’ambiente, di qualsiasi specie, è dominato dalla potenza di energia di individui predominanti, ma questi, alla loro volta, sono il portato dell’ambiente istesso: ciò che potrebbe semplificarsi nella legge, che tra gl’individui e la folla evvi rapporto di scambievole influenza; con questo di singolare, che la forza definitiva è equivalente alla somma delle forze concorrenti, e l’indirizzo dell’azione è impresso dalla spinta dell’individuo la cui attività suggestiva s’impone alle attività dei componenti l’aggregato.

10. —Tra le forme di aggregati criminosi, che maggiormente attirano l’attenzione del psicologo, va notata la associazione per delinquere. Il patrio legislatore, riproducendo dettami di legge seguìti in tutti i tempi, con gli art. 248-251, ha voluto disciplinare questa forma di delinquenza, la quale, tuttochè per l’influsso della civiltà vada perdendo le modalità più gravi sì frequenti in tempi antecedenti, suscita tuttavia grande preoccupazione, poichè contiene la maggiore minaccia contro il diritto privato ed il pubblico ordine. Gli associati per delinquere, ossia, giusta la definizione non molto felice ma perspicua di Zanardelli, coloro che si uniscono, non già per commettere questo o quel reato, ma in genere una serie di delinquenze, per far quasi, a così dire, il mestiere del delinquente, sono tra loro stretti da vincoli di comune sentire, pensare e volere, e le aspirazioni, ond’essi sono animati, riescono a formare di molteplici energie una sola energia, quasi organismo composto dalla fusione di corpi concorrenti e compenetrati da potente forza coesiva. Non è, dunque, come nella folla, che la dinamica di sentimenti e di idee subisca l’antagonismo e l’alternativa di azione e reazione, per la fusione accidentale di energie di natura simile o diversa; ma le energie associate si organizzano ed unificano con più spontanei e forti vincoli, appunto perchè di natura similare e tra loro congiunti dopo reciproca elaborazione selettiva.

La psicologia di qualunque specie di associazione criminosa procede per virtù di energie attrattive latenti e per azione immanente di assorbimento di energie palesi ed attuali.

Contingenze favorevoli predispongono l’ambiente ad accogliere e far germogliare il microbo del delitto associato. Capita in una città, in una regione, per motivo di occupazioni familiari, un individuo rotto al vizio, proclive al mal fare. Fungendo da nucleolo germinativo del male, egli comincia col circondarsi di persone che posseggano qualità simili alle sue; più spesso di giovani, dall’indole più espansiva, dalla mente meglio accensibile ed inclinevole ad esser vinta dal miraggio della imitazione. La fantasia dei neofiti è colpita dall’attrattiva del mistero; gli animi sono sollecitati dalla speranza di conquistare, senza grandi sacrificî e duri sforzi, un posto di rispetto, di prestigio tra’ compagni; le virtù dei capi, esaltate da cointeressati, esercitano il fascino delle leggende: poco a poco, per la confluenza di elementi estranei, si forma uno speciale consorzio, che, dapprima ristretto a pochi, poscia in più larga sfera, stringe gli affiliati in piccolo mondo e lusinga ed attira gli altri a farvi parte, blandendone le volontà con la promessa di dolci premi, rafforzando il desiderio e le innate tendenze con l’agevolare il loro potere di espansività e renderne più facile lo sperato intento. L’obbligo del secreto, la obbedienza passiva, la ignoranza del perchè di ordini o di comandate azioni; eppoi, il racconto, susurrato appreso di straforo, di imprese, di avventure strane passionali di compagni, che cominciano a mettersi in evidenza; il piacere di sorprendere la buona fede altrui, di violentarne il dominio, di credersi fuori l’imperio della legge, anzi di ridersi del prestigio dei suoi funzionanti, sono tanti incentivi a che l’associazione del delitto prenda consistenza, metta salde radici, si espanda, si imponga.

Le energie latenti e malefiche dei consociati si sviluppano: col vincere la resistenza opposta dai controstimoli etici, sociali e giuridici, si raffermano, e, da principio incerte di sè, finiscono con l’assicurare il loro potere; finchè, cogliendo le occasioni, producono i primi frutti in azioni o disordinate o viziose o delittuose. I vincoli interposti tra individui tratti al male, meglio che da chiari propositi, per opera suggestiva di comunione ed uniformità di tendenze, trascorso alcun tempo, si rendono più stretti e più saldi; n’è motivo principale la coscienza del comune interesse, la reciproca fiducia negli intenti formanti lo scopo o gli scopi di un’unione animata e sorretta da qualche bene o dal cumulo di beni posti a base del novello aggregato.

11. —Due coefficienti principali vanno ricordati nelle associazioni ad organismi composti di persone strette, con lento processo, da fini criminosi effettuabili per ordini ed obbedienza gerarchica; la forma e l’esplicamento delle emozioni, ed il complesso dei principî etici qualificanti le azioni.

Chi ha studiato qualcuna delle vaste associazioni criminose, le quali, com’è quella della Mala vita e della Camorra, fioriscono in grandi centri industriosi e commerciali, di leggieri avrà potuto osservare come tra gli associati si stabiliscano correnti morbose passionali, che accecano e trascinano al delitto per motivo di jattanza, meglio che per intenti di serio interesse ed utilità: la vendetta, lo spirito di rivincita, di sopraffazione simulata sotto le parvenze di giusta reazione, sono ragioni poco attendibili per spiegarci il perchè logico di atti dei quali la vera causa è nel travolgimento del senso di civiltà, nell’abitudine contratta ad esser dominati da basse passioni, che estinguono l’idea di dovere, di previdenza, di rispetto dei simili. Nella scala della decadenza morale dell’uomo, l’ultimo gradino è contrassegnato dall’assenza completa di sentimenti di ordine o di premura del proprio benessere d’accordo con le leggi protettrici del benessere altrui: il vincolo di sociabilità, di solidarietà è spezzato, e l’individuo, raccogliendo gli sforzi nel conato supremo dell’egoismo, si inabissa nella perdizione!

L’abitudine a miscredere alla forza della morale e della legge, l’abbiettezza contratta in consorzio privo di risorse della personale dignità, l’abbandono cieco passivo alla volontà altrui, imposta con la idea di superiorità gerarchica, finiscono col disseccare nell’animo di delinquenti associati la fonte o di rimorso o di resipiscenza, ingenerando lo stato di supina incoscienza, indice di completa dissoluzione morale. Salvo i capi, la massa dei seguaci è poco differenziata, materia amorfa, irreducibile: il delitto si desidera, si compie più istintivamente o per jattanza, che suggerito da necessità o sufficiente motivo; ed è così che l’aggregato di coteste associazioni, formate con processo lento e per effetto di energie latenti sistemate, non presenta al sociologo od al magistrato verun piano certo di prove o di argomenti onde concludere alla imputabilità di tutti o di parte dei prevenuti, ed abilitarci a misurare il grado della responsabilità di ciascuno.

12. —Nella folla, agglomerata e trascinata da subitaneo motivo passionale, evvi un’anima collettiva che vibra e s’impone: non così nelle associazioni criminose, di che discorriamo. Mancando l’unità assoluta d’intenti, e frazionandosi le volontà individuali in atti criminosi isolati e sol tra loro congiunti da uniformità di tendenze, le energie si armonizzano in serie poco compatte, tenute strette dalla forza suggestiva del potere intransigente ed assoluto nell’ordine della gerarchia. La lealtà, la onorabilità, ostentate ad ogni momento, opportunamente o inopportunamente, sono tra gli associati i facili pretesti per coonestare atti turpi, disonorevoli anche per chi della parola onore si serve come scudo di difesa contro i giusti richiami dell’intima coscienza, dei mòniti della morale, delle minacce della legge. Lo spirito abituale di simili disgraziati, diffuso su tutte le operazioni buone o riprovevoli della loro esistenza, è quello di un pessimismo reso leggiero e mutabile per indifferentismo di carattere causato da assenza di sensibilità, di solito fisica, ordinariamente morale. Simulatori e dissimulatori, non è raro il caso che difensori e magistrati sien presi per essi da sentimento di sincera pietà, attenuando le loro colpe con argomenti i quali o nascono dal dubbio sulla prova di responsabilità, o dal convincimento trattarsi di disgraziati, invece che di delinquenti.

Per disilludersi, basterà—a processo finito—informarsi della impressione prodotta sui loro animi dalla mitezza di condanna o dall’assoluzione: il ghigno ributtante, lo scherno cinico accompagna la sentenza del magistrato!—Ricordo d’un famoso capo d’associazione della mala vita, condannato a lieve pena per scatto di arma in rissa, assoluto da altri reati: in un’ora circa di colloquio, il giorno seguente al dibattimento, rideva, rideva sgangheratamente, asserendo che la magistratura dovesse riformarsi per mandare a casa (sue parole) uomini inetti come quel signor presidente, il quale si era fatto gabbare dal suo contegno e dalle sue profferte di innocenza!..... E dire che, in udienza, il furbo avea sì ben simulato tutto ciò che anch’io, e con me il pubblico, mi convinsi della schiettezza e verità di quanto asseriva!...

CAPO XII.

La vita del delitto.

1. Vita individuale e collettiva del delitto.—2. Vita storica del delitto.—3. La necessità nell’apparizione del delitto; teoria del Bovio: la legge di continuità nel fenomeno del delitto.—4. Coefficiente qualitativo e quantitativo nel processo vitale del delitto.—5. Causalità ed uniformità di fenomeni; contenuto metodico e scientifico della statistica; psicologia criminale e statistica.—6. Obbietto della statistica criminale: valore probatorio delle leggi statistiche.—7. Principio fondamentale del calcolo di probabilità applicato alla vita del delitto: norme relative ai dati numerici delle leggi statiche e dinamiche del delitto; opinione del Ferri intorno alla influenza dei vari fattori criminosi nella determinazione del delitto; confutazione.—8. Criterî da seguire nel calcolo di probabilità dei dati statistici criminosi.—9. La psicologia criminale etnografica, suo còmpito e suoi principali obbietti.

1. —Il delitto, fenomeno affatto naturale, ha una vita individuale ed una vita collettiva e storica. Individualmente, il delitto si germina ed apparisce azione di disordine causata da coefficienti statici e dinamici di atipicità antropologica e di anomalia funzionale nel processo evolutivo o dissolutivo di moventi esterni od interni. L’esame da noi fatto, degli stati di formazione e di sviluppo di cotesto processo, ci autorizza a concludere, che il delitto, dalla genesi cenestetica alla consumazione esteriore, non sia che esplicamento della forma di energia da noi appellata criminosa. Abbiamo, quindi, nel delitto i due estremi necessarî alla vitalità o realtà di qualunque fenomeno naturale, una energia in atto, ed il limite, di spazio e di tempo, entro il quale essa si viene effettuando. Inoltre, da quanto abbiamo svolto nei precedenti capi si deduce, che l’attività vitale del delitto dall’individuo si proietta nella collettività, vuoi per la ripercussione del danno privato e pubblico, che per la possibilità di svariate forme di organizzazione negli aggregati. La energia criminosa trova la via di funzionare sia per azioni individuali, che per azioni collettive: nell’uno e nell’altro caso obbedisce a quelle leggi meccaniche, la cui espressione fondamentale è nel principio di causalità.

2. —Il delitto, in fine, ha una vita storica. Il fattore storico, agendo con il cumulo dei coefficienti formanti il proprio ambiente, predispone la energia criminosa a manifestarsi in taluni effetti a preferenza che in altri. Da ciò il mutamento di specie di delitti secondo le epoche; la scomparsa, cioè, di alcuni di essi per la trasformazione del clima storico o l’intervento di nuovi elementi di progresso e di civiltà; l’attenuazione di altri per la eliminazione delle cause onde erano prima resi più gravi.

L’individuo, la collettività, la storia, ecco le tre fasi percorse dal delitto in quanto afferma la propria vitalità. E questa vitalità, si noti, è continuativa, per la legge di permanenza della energia; e le modificazioni, ond’è segnata in apparenza, non la privano della identità di contenuto, poichè, nella indefinita variazione di forme, essa conserva la nota culminante dell’esquilibrio funzionale psicofisico e dell’anomalia antropologica.

La scuola classica, astraendo il concetto del delitto dalla realtà naturale, ne creò un ente giuridico; il positivismo, partendo dalla nozione unitaria o monistica della natura, scorge nel delitto una vitalità accompagnata dal carattere di necessità e di permanenza. Di necessità, perchè in esso i fattori individuali, collettivi e storici agiscono in forza della causalità; di permanenza, perchè la energia criminosa si connette alla legge generale della conservazione, con equivalenza, della energia in genere.

3. —Il Bovio ebbe l’intuito della influenza della necessità sull’apparizione del delitto. Egli divise questa necessità in naturale, storica e sociale. Ricordando le tre possibilità del reato secondo la scuola dei giureconsulti, vale a dire la possibilità del dolo, la possibilità del danno e la possibilità di trasmutare il dolo in danno, domandava: «è compiuta questa dottrina della possibilità o è difettiva, astratta, unilaterale, governata da presupposti ciechi d’una vecchia e bolsa metafisica? Io domando: la possibilità subbiettiva è tutta individuale o entravi in dose più o meno densa la necessità naturale? Domando ancora: nella possibilità obbiettiva entra e in quanta parte la necessità storica? Domando in ultimo: nella possibilità esecutiva entravi e come la necessità sociale? La necessità, in somma, è qualcosa o niente nella storia dell’uomo, della quale il reato è parte sì larga? Sarebbe stato, adunque, assai desiderabile che accanto a quelle tre possibilità si fossero vedute queste tre necessità. Ma niente:—si credette sempre sconfinata la libertà, gelosa cavallerescamente di sè e disdegnosa d’ogni necessità; si credette l’individuo umano affatto autogenetico, autonomo e prodotto d’un solo fattore, di sè solo; e però furono escogitate quelle tre grandi menzogne che furono chiamate tre possibilità»[115].—«La natura ferma il destino d’ogni specie, non esclusa l’umana, e dà carattere e fisonomia così a ciascuna persona come a ciascun popolo: dallo svolgimento di questo carattere per asseguire il proprio destino deriva il presente in cui consiste la necessità sociale; dunque la necessità sociale deriva dalla necessità storica e questa dalla naturale. Ogni libertà deriva da una libertà; ogni necessità da una necessità: la libertà è necessaria; la necessità è libera. I codici dispaiano questa profonda armonia dei contrarî, rompono la dialettica del mondo, divellono la libertà dalla necessità, l’individuo dal popolo, il popolo dal tempo, il tempo dalla natura, e con un fattore credono trovare il prodotto storico e sociale»[116]. Concludendo, il Bovio, proclama, che in ogni reato entrano complici la natura, la società e la storia, oltre la volontà individuale.

E sia. Ma il Bovio, non peranco liberato dalla influenza del sistema sillogistico, crede aver scossa la base del diritto di punire sol perchè in questo entrano elementi che ne modificano profondamente i modi di applicazione. E che è mai la necessità sceverata dalla legge di continuità del fenomeno?; che la ragion penale dissociata dalla causalità naturale, e dall’unità di legge meccanica guidatrice dei fenomeni da noi percepibili? Potete pur negare la proporzione penale, e dire che essa, essendo tra il reato e la pena, che sono termini eterogenei, è intrinsecamente assurda: ma il delitto esiste, ed esiste la necessità sociale di combatterlo e di attenuarne, se non eliminarne, gli effetti.

Il fenomeno, umano o puramente materiale, in sè e nei limiti della conoscenza non ha esistenza assoluta, ma relativa. Relativa è la energia parziale rispetto alla forza universale; relativo è il suo modo di essere e di apparire; relativo il modo onde noi la percepiamo; relativa la conoscenza del suo passato e dell’avvenire. Eppure, in tanta relatività, non evvi forse un che di certo, di permanente? Lo stesso è del delitto: il suo essere individuale, collettivo e storico sono fasi, ond’è segnato il suo cammino: la vitalità, che gli è propria, è, nella energia criminosa, una delle tante guise onde la forza universale si realizza, il perchè dinamico e logico di fenomeni di esquilibrio e di anomalie, il tratto di tenebra che oscura, a momenti, la luce che rischiara ed abbella la nostra esistenza terrena.

4. —La conclusione delle sopraesposte idee è la seguente: il delitto, avendo una vita, con fasi successive nello individuo, nella collettività sociale e nella storia, deve di necessità risentire dei coefficienti statici e dinamici che, qualitativamente e quantitativamente, presiedono al suo nascere ed al suo sviluppo. Due specie di coefficienti, dunque, debbono riscontrarsi nel processo vitale del delitto; un coefficiente che attiene alla qualità ed uno alla quantità del suo contenuto intrinseco ed estrinseco: qualità e quantità che rispondono, nei medesimi fenomeni, all’elemento statico ed al dinamico. È elemento statico del delitto ciò che di esso permane attraverso le forme assunte durante le diverse fasi; è elemento dinamico ciò che cambia di apparenza e di atto, ovvero ciò che è inerente agli effetti multiformi e variabili nella violazione dei diritti individuali e collettivi. L’elemento statico è insito alla specialità della energia criminosa, la quale ha la essenza nello stato di esquilibrio e nell’anormalità di azioni disturbatici dell’ordine sociale; l’elemento dinamico, poi, si ravvisa nella serie degli atti di coscienza, che preparano, accompagnano e seguono gli stadî psicofisici del funzionamento criminoso, individuale o collettivo, non che le forme successive onde la delinquenza si attenua, si aggrava, si trasmuta durante il percorso del progresso o regresso storico.

5. —«Dalla legge causale generale—scrive il Tammeo—deriva come deduzione la uniformità generale dei fenomeni, la quale, a sua volta, risulta dalla coesistenza di uniformità parziali. Il che vuol dire che il corso generale della natura è uniforme, perchè uniforme è il corso degli innumerevoli fenomeni di cui la natura si compone. Date certe condizioni, è necessario quel determinato effetto, e, viceversa, un qualunque fenomeno è necessario così come si manifesta; il che vuol dire che avrebbe potuto essere diverso, se le cause che lo hanno prodotto fossero state diverse. Ciò parrebbe una nozione volgare; eppure tale non è quando si vede che quasi tutti nei giudizî intorno ai fatti sociali dimenticano di considerarli come conseguenze necessarie di cause immutabili. La legge causale spiega le uniformità dei fenomeni, il meccanismo cioè della natura e dei fatti sociali»[117].

Causalità ed uniformità di fenomeni: onde nei fatti sociali la energia criminosa, principio vitale della immanenza e permanenza del delitto, va appresa e dimostrata con la osservazione intorno ad azioni, le quali nei loro caratteri anomali e di esquilibrio conservino il meccanismo necessario alla produzione d’ogni formazione naturale, fisica o morale che sia. Dunque il calcolo numerico nelle grandi masse di dati di osservazione, quando abbia per obbietto la constatazione della vitalità spaziale o temporanea del delitto, non deve essere solamente reputato opera di metodo, ma materia di scienza.

È dall’essersi trascurati i veri principî della statistica, che dura tuttavia il dibattito tra chi in essa non riconosce che solo un metodo, negandole il carattere di scienza (Lo Savio, Guerry, Körösi, Lilienfeld, Gumplowicz, Benini, ecc.), e coloro che in essa riconoscono una scienza ed un metodo (Mayr, Conrad, Engel, Rawson, Block, Wagner, Bodio, Ferraris, Gabaglio, ecc.)[118].

L’aggruppamento e la enumerazione dei fatti sociali, pur essendo il frutto di accurata rilevazione, non saranno mai sufficienti ad insegnarci alcun concetto scientifico, se non sieno lumeggiati da verità e leggi apprese in precedenza e dedotte da principî universali ed inconcussi. La statistica, dunque, perchè ci aiuti ad apprendere la nozione della vita del delitto, importa che non si limiti alla semplice raccolta e comparazione dei dati; deve integrarli con le norme psicologiche criminali, ossia deve saperli rapportare alle leggi generali meccaniche della psiche del delinquente, o che questi sia studiato isolatamente, o che formi parte di aggregato collettivo.

Che cosa è mai lo spettacolo meraviglioso di mondi di esseri viventi per chi non ne conosca che l’apparenza esteriore fenomenica?—per chi non ne comprenda le intime leggi, e non sappia sollevarsi col pensiero a quell’unità di forza universale che tutto spiega e semplifica nel concetto assoluto della conservazione della sostanza? Che son mai le cifre numeriche per chi in esse non sappia leggere, in caratteri muti sì, ma eloquenti, il processo psichico del delitto, formazione naturale di fattori antropologici, fisici e sociali?

La probabilità delle leggi statistiche acquista certezza in ragione della perfetta comparazione ed integrazione con le verità inconcusse delle scienze alle quali si appartengono i dati elaborati. La statistica criminale deve ricorrere alla nostra disciplina, se non vuole errare nelle conclusioni. Ne volete l’esempio? Suppongasi che in una data località, in dato tempo, la media dei reati di sangue si aumenti rapidamente. Lo statista vi segnerà il fenomeno e, per spiegarselo, ricorrerà, in ipotesi, al consumo aumentato di alcool, ad accidentali frangenti di accanite lotte politiche, alla deficienza di pubblica sicurezza, alla mancata percentuale di emigrazione, tante volte valvola di salvezza di fronte ad individui spostati e bisognosi di lavoro o di maggiore espansione di attività.

Quali ne saranno le conclusioni? Che tutte coteste cause abbiano potuto influire alla determinazione di aumento di reati di sangue; ma come, perchè? La psicologia criminale, intervenendo all’uopo, studierà il processo psicofisico dell’aumento della speciale criminalità, ossia vi dirà come dati coefficienti sociali agiscano, trasformandosi in energie individuali, ad eccitare e corroborare le tendenze, latenti od attuali, criminose; ad alterare gli stati di coscienza, far insorgere impulsioni irrefrenabili, creare l’ambiente morale del delitto.—Insomma, per noi la statistica è metodo ed è scienza: è metodo perchè ci dimostra ad evidenza l’utile della osservazione e della induzione indirizzate a raccogliere fatti numericamente noti onde elevarci a conclusioni definitive: è scienza in quanto serve a semplificare quantitativamente la esattezza razionale di cànoni appartenenti a discipline a cui si riferiscono i dati raccolti in grandi masse.

6. —Intesa così la statistica, ben si conclude, che ella debba sussidiarci nello studio della vita del delitto.

Le energie criminose, le attività disorganizzatrici dell’ordine sociale, prese isolatamente, o nell’individuo o nella collettività, formano il contenuto della psicologia criminale; studiate nella media quantitativa di tempo e di luogo entrano nel dominio della statistica criminale e ci insegnano: a ) come e perchè l’evento psichico del delitto, allargando l’attività entro i limiti quantitativi di grandi cifre numeriche, giunga a certo grado di intensità della energia criminosa; b ) come e perchè il meccanismo, statico e dinamico, delle contingenze accidentali temporanee e spaziali influiscano ad imprimere la direzione alle tendenze criminose; c ) come e perchè si debba ricorrere alla scelta di taluni mezzi, di preferenza, per ostacolare l’incremento maggiore di cause predisponenti al delitto.

Le leggi statistiche non esprimono la necessità dell’evento; ma il grado approssimativo di probabilità. Il loro contenuto è eminentemente condizionato all’ambiente mutabile dei fattori sociali: è perciò che Rümelin negava di attribuire ad esse il valore di leggi nel senso assoluto della parola, ed insieme al Mayr le chiama regolarità e normalità.

Nondimeno, anche nella sfera limitata della probabilità, le leggi della statistica, allorchè sieno precedute da induzione su fatti raccolti con accuratezza, hanno valore logico importantissimo; poichè, nei limiti soggettivi della conoscenza, servono di argomento onde assorgere ad intuizioni, che qualche volta hanno l’effetto di divinazioni. Herschel scriveva: «fu inventata l’espressione probabilità, voce che dimostra la nostra ignoranza nell’analisi degli avvenimenti e delle cause efficienti che guidano necessariamente i passi successivi pei quali essi accadono, non già in modo generale, ma bensì speciale e personale a chi usa questa espressione, per cui una relazione fisica, una esposizione storica, un avvenimento futuro possano avere gradi di probabilità molto vari all’occhio delle parti diversamente informate delle circostanze, delle cause in azione, della riputazione di veracità degli autori che ne fanno testimonianza, o delle occasioni che ebbero per conoscere i fatti in questione.

«La scala di probabilità, considerata nella sua maggiore lunghezza, stendesi evidentemente dall’ impossibilità certa dell’avvenimento considerato, alla certezza che accadrà. L’intervallo totale fra questi estremi, ciascuno dei quali è una completa conoscenza, trovasi occupato da gradi più o meno alti o bassi di aspettazione o di credenza, determinati per mezzo della parziale conoscenza che ci è dato possedere, e può essere riguardata come una unità naturale, suscettibile di essere divisa numericamente in parti frazionarie, esattamente come l’intervallo fra il punto di congelazione e quello dell’acqua bollente, sulla scala termometrica, può essere suddivisa in parti aliquote o gradi. Realmente, non esiste una misura numerica naturale di una impressione mentale, come non esiste per le sensazioni corporali; ma in ambi i casi noi siamo certi che gradi più elevati della scala numerica possono ben rappresentare intensità più grandi di impressioni, ed in tutti due vi sono prove che accrescimenti uguali di un certo elemento puramente ideale per l’uno, e che potrebbe essere sostanziale per l’altro, corrispondono a diversità numeriche eguali nella scala, e che l’abbondanza più o meno grande di questo elemento determina in una maniera o in un’altra il grado d’intensità dell’impressione di cui si tratta»[119].

7. —Il calcolo della probabilità, fondato da Pascal e via via perfezionato e svolto da Fermat, Leibnitz, Huyghens, Hudde, Halley, Buffon, Bernouilli. De Moivre, Laplace, Quetelet, ecc., applicato alla constatazione delle leggi concernenti la vita del delitto deve basarsi sul principio, che nel processo evolutivo delle formazioni psichiche, con rispondenza in effetti integrativi o disintegrativi dell’ordine sociale, la permanenza della energia in atto, trasformandosi, conserva qualitativamente e quantitativamente la efficacia di ripresentarsi se concorrano date circostanze favorevoli.

Fissato il punto di partenza, o la stabilità effettuale della energia, ne viene logica la illazione, che la probabilità di riapparizione di certa specie di delitti non sia che accidentalmente l’effetto di circostanze predisponenti, poichè, in essenza, essa riposa sull’opera costante della energia criminosa attutita o scomparsa, non distrutta. Insomma, la statistica criminale deve, prima dei calcoli numerici, accertare il fondamento dinamico del delitto o di generi di delitti; il primo quesito è questo: evvi presso il tal popolo, in tale regione la proclività, l’attitudine, che mostrino la tale specie di energia criminosa propria dei delitti di sangue, dei furti e via dicendo? La risposta affermativa non deve esser data dalle cifre se non di accordo con la nozione di cause esaminate dapprima isolatamente: il fatto di aumento o diminuzione di omicidî può essere l’opera accidentale e passeggiera di torbidi politici, di brigantaggio, di conflitti locali; che direbbe mai il calcolo quantitativo al riguardo?

Trasportate nei rilievi numerici le leggi statiche e dinamiche del delitto; applicate alla vita progressiva o regressiva del delitto nel tempo le norme che accompagnano le oscillazioni della coscienza individuale criminosa, ed avrete il bandolo onde percorrere, senza tema di smarrirvi, il laberinto intricato delle umane azioni in controsenso della morale e della legge. Ciò facendo, però, occorre prescindere da’ singoli casi: il Quetelet, rispondendo alla dimanda, se le azioni dell’uomo morale ed intellettuale siano sottoposte a leggi, scriveva: «impossibile sarebbe il risolvere una simile questione a priori: se vogliamo procedere in modo sicuro, bisogna ricercarne la soluzione nell’esperienza.—Noi dobbiamo, prima di tutto, perdere di vista l’uomo preso isolatamente e considerarlo soltanto siccome una frazione della specie. Spogliandolo della sua individualità, noi elimineremo tutto ciò che non è che accidentale; e le particolarità individuali, che hanno poca o nessuna azione sulla massa, si cancelleranno da sè stesse e permetteranno di afferrare i generali risultati»[120]. Dello stesso Quetelet giova rammentare le infrascritte altre osservazioni: che sia difficilissimo il determinare la divisione delle forze umane e delle forze materiali che agiscono nei fenomeni; ciò che di leggieri si può vedere si è che le leggi del mondo materiale cambiano infinitamente di più mediante le forze della natura, che per l’intervento dell’uomo in generale; e più ancora, che l’azione individuale dell’uomo può essere considerata siccome sensibilmente nulla[121]. Finchè trattasi di cambiamento di leggi fenomeniche io son d’accordo col Quetelet; e son d’accordo nel doversi prescindere, per i calcoli di probabilità, dai casi singoli: ma sarebbe imperdonabile errore voler esagerare la teoria sino a cancellare, nell’ordine logico delle leggi sociali, la impronta iniziale e definitiva dell’azione individuale. La famiglia, la società, la nazione non sono che concetti astratti, di mero interesse logico soggettivo; di reale non evvi che l’individuo. Similmente è nella conoscenza della vita del delitto; la fase storica-sociale, in fondo, non è che il compimento della fase individuale: in sintesi essa è rappresentata dal complesso di cause accidentali temporaneamente sistematizzate da produrre, in forme costanti, l’aumento o la diminuzione della efficacia vitale della energia criminosa. L’azione delittuosa, non essendo immaginabile senza il soggetto cui inerisca, non è neppure apprezzabile se non si percepisca siccome l’effetto di singola energia, centro dinamico del concorso di coefficienti accidentali e causa prima in atto.

Il Ferri, esaminando la influenza dei vari fattori criminosi nella determinazione del delitto, scrisse: «Quando noi assistiamo al movimento della criminalità per una data serie di anni, in questo o quel paese, con un generale ritmo di aumento o di diminuzione, non è neppur pensabile che questo dipenda da analoghe e costanti ed accumulate variazioni dei fattori antropologici e fisici. Infatti, mentre le cifre assolute della delinquenza sono assai lontane dal presentare quella stabilità, che fu molto esagerata dal Quetelet in poi, le cifre proporzionali invece sui fattori antropologici, per il concorso delle diverse età, sesso, stato civile, ecc., nel movimento criminale, presentano in realtà minime differenze, anche in lunghe serie di anni. E per quanto riguarda i fattori fisici, se con taluni di essi potremo spiegarci, come ho dimostrato altrove, le oscillazioni repentine, in epoche determinate, evidentemente però nè il clima, nè la disposizione del suolo, nè lo stato meteorico, nè l’avvicendarsi delle stagioni, nè le temperature annuali possono aver subite nell’ultimo mezzo secolo tali cambiamenti costanti e generali, che neppur di lontano siano paragonabili all’aumento continuo di criminalità, con una serie incalzante di vere ondate del delitto, che ora constateremo in alcuni paesi d’Europa.—È dunque ai fattori sociali, a quelle «altre cause, come dice il Tarde, più o meno facili ad estirparsi, ma di cui non ci si preoccupa abbastanza», che noi dobbiamo attribuire l’andamento generale della criminalità, anche per queste altre ragioni. Primo, che le variazioni pur verificatesi o che si possono verificare in alcuni fattori antropologici, come il vario concorso della età e dei sessi al delitto e la maggior o minor libertà di esplosione lasciata alle tendenze antisociali, congenite o per alienazione mentale, dipendono, per rimbalzo, esse stesse, dai fattori sociali, quali sono le istituzioni relative alla protezione dell’infanzia abbandonata, al lavoro industriale dei fanciulli, alla partecipazione delle donne alla vita esterna e commerciale, ai provvedimenti di sicurezza preventiva o repressiva sulla segregazione degli individui pericolosi e via dicendo: e sono perciò un effetto mediato degli stessi fattori sociali. Secondo, perchè, prevalendo questi fattori sociali nella delinquenza di occasione e per abitudine acquisita, ed essendo queste il contingente più numeroso della criminalità totale, è chiaro come ai fattori sociali spetti in maggior parte l’andamento di rialzo o di ribasso, segnato dalla delinquenza in una lunga serie d’anni. Tanto è vero questo, che, mentre i maggiori reati, specie contro le persone, che rappresentano cioè in prevalenza la delinquenza congenita e per alienazione mentale, offrono una costanza di ritmo, veramente straordinaria, con lievi aumenti e diminuzioni, il movimento generale della criminalità, invece, prende la sua fisonomia da quei piccoli ma molto numerosi reati contro le proprietà, le persone, l’ordine pubblico, che più hanno l’indole occasionale, e, quasi microbi del mondo criminale, più direttamente dipendono dall’ambiente sociale»[122].

Innanzi discorremmo della influenza esercitata dalle necessità sociali sul delitto. La società, comunione di beni e di mali tra gl’individui che ne partecipano, è la fonte delle condizioni e dei moventi alla criminalità; è il terreno in cui germina il microbo del delitto. Grande errore, peraltro, sarebbe confondere il terreno adatto alla cultura con la forza germinativa del seme in esso sparso. Il fattore sociale è secondario in paragone del fattore antropologico; l’evento criminoso è effetto psichico dell’individuo, fuori la sfera del quale le leggi dinamiche non rientrano più nella serie dei fenomeni umani, ma nella serie dei fenomeni materiali. È per l’individuo e con l’individuo che le forze, fisiche o sociali che siano, si compongono e si unificano in formazioni psichiche coscienti; il delitto è una di queste formazioni. Il che, altresì, è dimostrato dall’argomento, che l’estremo del danno, privato e pubblico, prodotto dalle nostre azioni, attinge il carattere di punibilità, o di ragione di mera risarcibilità civile, dall’elemento soggettivo del fatto. Dunque, sia come genesi dinamica, che come effetto di nocumento, nella criminalità è in prevalenza il fattore individuale antropologico sul fattore sociale. Le quali osservazioni smentiscono in parte le conclusioni a cui il Ferri è pervenuto.

8. —Dall’individuo alla società, dalla società alla storia, la vita del delitto, con ritmo statico e dinamico di aumento e di diminuzione, con effetti ora integrativi dei processi di squilibrio psicofisico ed ora dissolutivi della personalità, permane con costanza di organizzazione e di effetti.

La statistica, nel significato di scienza e di metodo, ha il fine di apprestarci i dati numerici e le leggi onde conoscere i processi vitali del delitto nei limiti di spazio e di tempo: perchè ella vi riesca, non deve trascurare due cose: a ) il significato logico da attribuire al calcolo di probabilità degli avvenimenti criminosi; b ) i termini delimitativi di cotesto calcolo.

Laplace disse: la probabilità è relativa in parte alle nostre conoscenze ed in parte alla nostra ignoranza.—Ed, inoltre, spiegò: «tutte le nostre conoscenze non sono che probabili; e nel piccolo numero delle cose che noi possiamo sapere con certezza, nelle medesime scienze matematiche, i principali mezzi di pervenire alla verità, la induzione e l’analogia, si fondano su probabilità.»[123] —Forse con più esattezza, il nostro Mario Pagano osservò: «Il regno della probabilità è confinante con quello della certezza, ma è diviso da quello. La massima probabilità si ha per certezza, ma è distinta da quella. Nelle probabilità la mente non vede nè intuitivamente la verità, nè per necessaria dimostrazione, ma per congettura, la quale, più o meno, si può avvicinare alla dimostrazione. In questa la mente intuitivamente vede la necessaria connessione della media idea cogli estremi della proposizione, onde conchiude la necessaria connessione dei due estremi»[124].

Ritenuto, che il grado di probabilità degli avvenimenti percepibili sia in ragione degli argomenti concorrenti ad aumentare in noi la possibilità dello stato di certezza, si conclude che quanto più cotesti argomenti poggino su nozioni inconcusse di principî e di leggi affatto naturali, altrettanto debbono influire a fermare in noi il convincimento logico di certezza degli avvenimenti.

Nei dati statistici criminosi il calcolo di probabilità deve, innanzitutto, fondarsi sulla conoscenza delle leggi psicologiche, individuali e collettive, del processo evolutivo e dissolutivo dell’evento del delitto; la quale conoscenza ci agevolerà il lavoro di rilevazione dei dati e ci faculterà alla migliore scelta comparativa degli stessi. Nè basta: la probabilità deve estendersi tra due limiti estremi di conoscenza; il primo, soggettivo, consistente nella nozione sintetica delle leggi proprie della energia criminosa; il secondo, obbiettivo, consistente nelle prescrizioni della legge penale, racchiudenti la semplificazione delle differenti specie di delitti. Ma, perchè si ottemperi a tutto ciò, la statistica criminale, invece che attenersi alla legge o, meglio, ai mezzi dei grandi numeri, deve aver cura di compiere le sue osservazioni sul cumulo dei casi studiati con i lumi o con i criterî desunti dalle leggi della psicologia criminale. L’aumento o la diminuzione per questo o quel motivo sociale è scevro di valore scientifico, se non si conosca l’azione dinamica del motivo sulla genesi e la organizzazione vitale e permanente del delitto nell’ambiente sociale o storico. È desiderabile, quindi, tra i mezzi pratici usati dalla statistica, di aggiungere un giudizio definitivo o sintetico del perchè del delitto e del come siasi venuto producendo nel prevenuto: acciò, raccogliendo dopo un periodo di tempo tutti cotesti giudizî, si abbia la cognizione della equivalenza psichica e sociale dei fattori dinamici del delitto, e si scovrano le leggi onde la energia criminosa permane organicamente vitale attraverso le forme sociali e storiche.

9. —È da aggiungere, oltre a ciò, che, nella pratica, le norme della psicologia criminale generale riuscirebbero insufficienti ad illuminare il lavoro statistico: la relatività abbastanza nota del modo onde, in luoghi assegnati, il delitto funziona, ci apprende che, per ottenere risultati statistici probabilmente esatti, occorra conoscere, in precedenza e bene, la psicologia criminale etnografica della regione sulla quale cadono le nostre ricerche.

È qui opportuno ricordare due osservazioni del Quetelet: la prima, che le piante e gli animali sembrano, come i mondi, obbedire alle leggi immutabili della natura, e queste leggi si verificherebbero senza dubbio colla stessa regolarità per gli uni e per gli altri, senza l’intervenzione dell’uomo, il quale esercita sopra sè stesso e sopra tutto ciò che lo circonda una vera azione perturbatrice, la cui intensità pare svolgersi in ragione della sua intelligenza, ed i cui effetti sono tali, che la società potrebbe non rassomigliarsi più in due epoche diverse[125];—la seconda osservazione è, che l’uomo, in società, sia l’analogo dei centri di gravità dei corpi; esso è la media intorno a cui oscillano gli elementi sociali; sarà, se vuolsi, un essere fittizio pel quale le cose tutte accadranno in conformità dei risultati medî ottenuti per la società[126].

L’uomo è forza perturbatrice dell’imprescindibile funzionamento delle leggi di natura, ed è altresì il centro di gravità dei fenomeni sociali. Dunque il primo e principale còmpito della psicologia criminale etnografica è di esaminare la genesi e lo svolgimento del processo di perturbazione della energia criminosa considerata centro di gravità di elementi sociali omogenei in data località. Il detto còmpito è complesso e si risolve negli infrascritti doveri: a ) esatta descrizione della regione scelta ad esaminare; rilievo di tutti i dati fisici che hanno relazione col fenomeno del delitto; b ) rassegna dei costumi, delle credenze, dei pregiudizî, che influir possono a generare e ad aggravare i moventi criminosi; c ) rilevazione delle principali note antropometriche in massa secondo la età, il sesso, le condizioni sociali ed economiche; d ) apprezzamento delle qualità anomale ed atipiche, ereditarie o transitorie.

Dopo coteste notizie di fatto, si ha l’obbligo, servendosi di nozioni psicologiche, di attendere a considerazioni, affatto soggettive, sulle persone, con l’assodare il grado medio di sensibilità generale, di coltura, di proclività a credenze etiche, a principî di progresso, ad abiti di civiltà. L’ultima specie di considerazione mette capo al dettame spenceriano, che la morale non sia che adattamento alle buone abitudini, e deve reputarsi il concetto sintetico delle qualità psichiche individuali e collettive, poichè quanto appartiene alle nostre facoltà affettive e volitive presuppone il fondamento della sensibilità e della intelligenza.

Compiuto il lavoro di analisi, si passerà a fissare, con ordine regolato da vedute scientifiche, le specie di tendenze criminose locali, compartendo la serie dei delitti in categorie generali; ad esempio: a ) delitti contro la persona (fisica e morale); b ) delitti contro la proprietà (semplici o aggravati); c ) delitti appartenenti alla vita morale e fisica di relazione (violazioni della fede pubblica e privata, della libertà, del buon costume, ecc.).

Estimandosi le tendenze criminose, si avrà cura di rammentare quel che si debba alla costituzione organica e psichica, alla tradizione di credenze, usi e pregiudizî, alle peculiari anomalie e, segnatamente, alle più abituali passioni pel giuoco, per l’alcool, e via dicendo.

Lo statista—volendo, in ultimo, tirare delle leggi di stato, della criminalità, o di sviluppo —si avvedrà, che gli elementi numerici sono, in concreto, l’indice, oscillante ma indicativo, della genesi ed evoluzione della vita del delitto nelle tre fasi, individuale, sociale e storica. Adempiendo a questo intento, egli appresterà alla nostra disciplina il sussidio numerico del calcolo, ossia avvalorerà le sue leggi con dati probabili sì, ma che rendono meno astratte e più reali le nostre conoscenze.

CAPO XIII.

Teoria dinamica della Imputabilità.

1. Equilibrio interno ed esterno delle forze; l’idea ed il sentimento di giù. stilla.—2. Che cosa s’intenda per principio di causalità.—3. I tre concetti onde risalta la imputabilità; intento della psicologia criminale.—4. I due problemi fondamentali della imputabilità, quello etico e quello del determinismo giuridico: significato e contenuto della morale positiva.—5. La necessità effettuale; il determinismo organico o determinismo vitale; conseguenze rispetto alla imputabilità.—6. Svolgimento della teoria dinamica del dolo.—7. Dovere, in pratica, di attenersi agli elementi proprî del dolo specifico di ciascun reato.—8. Dottrina del temperamento.—9. I due metodi per la indagine del dolo; il metodo obbiettivo.—10. Il metodo subbiettivo: principio fondamentale della induzione; tentativo d’una logica della psicologia.—11. Norme imposte al giudice nella indagine del dolo.—12. La prova del dolo nei processi indiziarî; la ipotesi del fatto imputabile.—13. Teoria della colpa.—14. Psicologia della prevedibilità nella colpa.—15. La disattenzione e la colpa.—16. Teoria del caso.

1. —Il delitto, abbiamo dimostrato, è, nel ritmo composto dell’aggregato dinamico sociale, un centro di attività con moto divergente, ossia con azione disturbatrice dell’armonia delle forze consociate pel comune scopo di progressivo benessere. Abbiamo eziandio accennato alla verità del principio spenceriano, che la coesistenza universale delle forze antagoniste, che produce l’universalità del ritmo e la decomposizione di tutte le forze in forze divergenti, rende anche necessario l’equilibrio definitivo.

Per meglio comprendere le conclusioni, alle quali perverremo, dobbiamo ricordare talune verità chiaramente svolte dallo stesso Spencer: che, cioè, «quei fenomeni, che chiamiamo, subbiettivamente, stati di coscienza, sono obbiettivamente modi di forza: che una certa quantità di sentimento corrisponde a una certa quantità di moto: che il compimento di un’azione corporea qualunque è la trasformazione di una certa quantità di sentimento nell’equivalente quantità di moto; che quest’azione corporea lotta con varie forze e viene impiegata per vincerle; e in fine, che ciò che rende necessaria la ripetizione frequente di quest’azione è il frequente ritorno delle forze che da quest’azione devono esser vinte. Perciò l’esistenza in un individuo di stimoli emozionali, che siano in equilibrio con certe esigenze esterne, è alla lettera la produzione abituale di una porzione specializzata, di energia nervosa equivalente a un certo ordine di resistenze esterne, che essa abitualmente incontra. Così l’ultimo stato formante il limite, verso cui l’evoluzione ci conduce, è uno stato in cui le specie e le quantità di forze mentali ogni giorno prodotte e trasformate in movimento sono equivalenti ai diversi ordini e ai diversi gradi delle forze ambienti che lottano con questi movimenti o sono con essi in equilibrio»[127].

Ritenuto, che il delitto sia un centro di attività perturbatrice dell’ordine sociale, esso rappresenta un’azione divergente dallo stato o intento di equilibrio definitivo al quale volgonsi le azioni degli individui, siccome ad ultima mèta dei loro sforzi per procacciarsi il miglior bene desiderabile. Indi è che, per naturale legge dinamica, all’azione perturbatrice del delitto debba contrapporsi la reazione della collettività; il che avverrà con quei modi che comporta il grado di progresso sociale, secondo la necessità di soddisfare bisogni conformi allo stato della umana coscienza etica e giuridica.

Avvisata soggettivamente, cotesta umana tendenza alla integrazione dell’equilibrio sociale ha dato origine al primitivo sentimento ed alla prima idea di giustizia; ciò che è avvenuto per l’affermazione dell’istinto di egoismo contemperato dalla consapevolezza di limitazione della libertà propria a garanzia della libertà altrui. «L’affinità, la vite, la psiche—scrive Ardigò—scaturiscono dalle stesse forze onde esistono i loro soggetti; e ne rappresentano la risultante, che, come tale, si distingue specificamente dalle forze producenti medesime. E così la giustizia scaturisce dalle stesse autonomie prepotenti degli individui, ed è la specie distinta di essere risultante naturalmente dal loro contemperarsi insieme»[128].—E lo Spencer: «è chiaro che il sentimento egoistico della giustizia è un attributo subbiettivo, il quale corrisponde a quella esigenza obbiettiva che costituisce la giustizia, l’esigenza, cioè, che ogni adulto riceva gli effetti della propria natura e conseguente condotta. Perchè, se tutte le facoltà non hanno libertà di esercitarsi, questi effetti non possono essere ottenuti nè sofferti, e se non esiste un sentimento, il quale favorisca la conservazione di un campo adatto a questa libertà, il campo sarà invaso ed il libero esercizio delle facoltà sarà impedito»[129].

2. —Chi desideri approfondire i concetti su esposti, vedrà che la loro origine sia il principio di causalità, immanente in tutte le nostre cognizioni.—Per principio di causalità vogliamo intendere la sintesi di due termini: d’una idea di successione di più fenomeni, e d’un rapporto di necessità pel passaggio dall’uno all’altro fenomeno.

Non disputiamo, chè non sarebbe il luogo, se il principio di causalità derivi dall’osservazione puramente sensibile della costante vicissitudine delle cose (Locke): ovvero se non sia che semplice rapporto di successione da noi riguardato costante in virtù del ricordo e dell’associazione delle idee (Hume); o se appartenga alla interna potenza degli atti di coscienza, ossia alla volontà (Maine de Biran); o se, lungi dall’essere un prodotto empirico, sia uno degli elementi constitutivi, uno dei principî della nostra facoltà di conoscere, una delle categorie (Kant): per noi, com’è detto, nel principio di causalità deve entrare un elemento sensibile, la successione, ed un elemento soggettivo sorto dalla certezza sperimentale intorno alla conservazione della energia attraverso le trasformazioni dei fenomeni; il che importa che questa conservazione, a condizioni date, produce costantemente dati effetti, e che l’elemento soggettivo o rapporto causale tra le cose sia necessario.

3. —Nella parola imputabilità, generalmente, non si suol vedere che il significato giuridico, quantunque questo significato abbia per presupposto il senso logico di relazione di causa e di effetto. L’agente, si dice, fu causa del maleficio; dunque egli deve esserne imputato. Chi, peraltro, spinga innanzi l’esame, vedrà che il nesso causale suppone, alla sua volta, il concetto di necessità, il quale racchiude due termini, l’uno logico e soggettivo, e l’altro obbiettivo. Il termine logico si converte nel noto principio di contraddizione, che ciò che è non può non essere; il termine obbiettivo si identifica nella legge universale della conservazione della forza e della materia, ossia nella legge della sostanza, secondo la teoria di Haeckel. Laonde nella imputabilità conviene distinguere: a ) un concetto fondamentale dinamico, che si converte nell’equivalente reale dell’energia criminosa; b ) un concetto logico, di necessità di causa e di effetto; c ) un concetto giuridico, di sanzione legale, che attribuisce all’autore del fatto punibile la responsabilità delle conseguenze.

La psicologia criminale, occupandosi della genesi dell’imputabilità, ha l’obbligo di far principio dall’elemento fondamentale dinamico, dal quale, pel processo evolutivo, i coefficienti psicofisici mano mano si determinano, a cominciare dalla efficacia del motivo infino agli atti della volizione e dell’azione.

I seguaci della scuola antropologica o, in genere, dell’indirizzo positivo del diritto penale, ritengono che la repressione del reato sia coonestata dal dovere di difesa sociale; ma donde il dovere di difesa se non dalla necessità naturale di ristabilire quell’equilibrio di energie collettive turbato dall’azione anomala del delinquente? Il delitto disintegra o tende a disintegrare l’aggregato; la legge repressiva si sforza di reintegrarlo. Ciò—nel ritmo della vita sociale—non è che contrasto od antagonismo di forze con tendenza all’effettuazione di equilibrio definitivo. La energia criminosa, ritraendo della genesi di stato psicofisico di esquilibrio, rompe l’armonia funzionale dell’organismo collettivo: la legge, prevedendo i tristi effetti, è sollecita di apprestare il rimedio; il che si converte in minaccia di pena contro l’autore del fatto, ossia in sanzione legale di quella imputabilità che ha la origine naturale e logica nella esplicazione della energia criminosa.

4. —Le esposte idee ci richiamano a meditare su due problemi, che sono base della imputabilità; il problema etico dei principî direttivi dell’umana condotta, ed il problema del determinismo giuridico.

Bandito dalla scienza positiva l’indirizzo dualistico, ed accettata la concezione monistica unitaria, anche la scienza della morale, informata al principio di relatività, si è liberata dalle astrazioni trascendentali metafisiche, restringendosi alla constatazione dei rapporti esigibili tra i componenti l’umano consorzio. «Spetta al secolo xix —scrive il Morselli—il vanto di avere concepita e formata una morale empirica o scientifica, indipendente, utilitaria, trasformistica, sociologica, ossia naturale ed umana nel vero significato dei termini. Empirica, perchè trae i suoi principî unicamente dalla esperienza, al pari d’ogni altra disciplina scientifica; indipendente, perchè si è liberata dal giogo che le avevano imposto le religioni ed ha acquistata piena autonomia; utilitaria, perchè prende di mira unicamente il bene che è poi l’utile collettivo, e a questo dirige e prescrive la condotta dell’individuo, non senza dimenticare il vantaggio dello svolgimento delle attività individuali; trasformistica, perchè si risolve in uno sviluppo di sentimenti che non mancano nell’animalità inferiore e portano nell’uomo soltanto la impronta di essere resi coscienti a causa del loro rappresentarsi all’intelletto; infine, psico-sociologica, perchè desume l’esistenza del senso etico dall’analisi degli elementi costitutivi della natura umana, così nell’individuo come nella specie e razza»[130].

5. —Non più, quindi, l’idea del bene, del dovere, della responsabilità morale, alla dipendenza da concezioni trascendentali di ordine o religioso o metafisico; ma insita alla natura umana, alla immanenza dei fattori naturali di cui questa è il risultato; non difforme dalla produzione di fenomeni causati dalle leggi della dinamica universale. La necessità effettuale non è la fatalità delle umane azioni, chè queste non sono preordinate da entità estranea al corso spontaneo delle cose, ma obbediscono al processo evolutivo di permanenza delle energie attraverso le successive forme esteriori. Niuno dubitò che i fenomeni fisici e chimici fossero il risultato di leggi che, a condizioni uguali, dessero luogo ad identici effetti: Claudio Bernard dimostrò, che ciò dovesse eziandio ritenersi pel determinismo organico o determinismo vitale, proclamando, che conoscere il numero e l’ufficio di tutte le funzioni organiche, tale è il punto di partenza del determinismo, ed il suo punto di arrivo è che l’armonia la più rigorosa sia anche la legge delle cose della vita: perchè non dovrebbe il medesimo principio spiegarci i fenomeni psichici, che degli organici hanno la identica origine dinamica?—Quest’ultima verità sperimentale contiene e riassume la dottrina da noi fin qui svolta intorno all’evento psichico del delitto; ed abbiamo voluto esplicitamente enunciarla, perchè essa modifica di molto quanto già ritenemmo e propugnammo altrove circa il fondamento etico della imputabilità[131].

6. —Alla dottrina della imputabilità appartiene la teorica del dolo e della colpa. Ne parleremo nei limiti richiesti dal nostro assunto esclusivamente psicologico; ciò che faremo riferendo quello che scrivemmo parecchi anni or sono, e che, meno per alcuni concetti ed opinioni meglio svolti e corretti, resta tuttavia, in chiara sintesi, a delineare la teorica dinamica ampiamente esplicata in questo libro.

Nella dottrina del dolo—noi scrivemmo—[132] debbono concorrere: a ) un fattore iniziale; b ) un fattore psicologico; c ) un fattore fisio-psicologico; d ) un’attività cosciente.

Qualunque forza in azione ha un principio ed un fine; un prima ed un poi. Il principio è dato dall’azione impulsiva di altra forza con cui si è in contatto; il fine dall’esaurimento dell’energia, o dell’attitudine in atto. Quando, dunque, diciamo fattore iniziale, vogliamo intendere la nozione complessiva del movente, cui si è passivo, e della efficacia impulsiva esercitata sulla nostra forza. Da questo momento comincia il processo di trasformazione della energia passiva in energia attiva dell’io; il tempo, che vi occupa, è maggiore o minore a seconda la maggiore o minore attitudine qualitativa del movente rispetto alla nostra forza ed al grado di resistenza determinato o da precedente nostra conformazione o da stato transitorio poco conforme all’adattamento circa l’azione dello stimolo. Anzi, succede che, se lo stimolo agente è interno, l’adattamento è più agevole, perchè tutto ciò che si presenta coi caratteri o di sentimento o di idea partecipa di già sostanzialmente con la natura della nostra psiche; non essendo logico concepire, che una forza si determini in dato effetto senza che ne abbia conformità di attitudine. L’azione o la efficacia d’un’idea, come diceva il Romagnosi, sulle nostre facoltà psichiche ha tutti i caratteri impulsivi degli stimoli esterni: mentre, per questi, il periodo iniziale è la sensibilità fisica, per l’idea è il sentimento (o il tono sentimentale ): la differenza è nel momento evolutivo della energia in atto; ma le due forme di agenti si identificano nella passività psichica. Ed è facile capire che, avuto lo stimolo, si è stabilita una relazione o di accordo o di opposizione tra due energie, le quali o tendono ad equilibrarsi, o si collidono: nel primo caso la risultante ha maggiore vigore e si converte nella intima soddisfazione, che è il grado primo del piacere; nel secondo caso, o l’impulso vince, e si ha il primo grado della coazione psichica; o è vinto, e la spontaneità di facoltà si converte in attitudine all’azione. La coscienza di questi primi stadî dell’attività psichica è sottoposta a delle restrizioni notabili: se l’impulso viene dall’esterno, dobbiamo distinguere se appartenga e formi parti dell’ambiente in mezzo a cui viviamo, ovvero se sorga isolatamente da accidentalità di relazioni; nella prima ipotesi, la trasformazione di energia avviene a nostra insaputa, inconsciamente; nella seconda ipotesi, ci è dato accorgercene quando altro stimolo simultaneo non ci preoccupi l’attenzione. E la coscienza, ridestandosi, non fa che notare il nesso di tempo o di successione tra la esistenza esterna dello stimolo e la esistenza interna; il che è dato dalla così detta percezione sensitiva, intesa nel significato di affermazione della esistenza di un certo che estraneo al nostro organismo e che col medesimo si è messo a contatto. Se lo stimolo è interno, ovvero nasce da idea prevalente sulle rimanenti, le quali nella simultaneità mentale si addimostrano, bisogna eziandio distinguere se essa idea sorga nuova, ovvero abbia dei lontani germi in idee precedenti: nella prima ipotesi, la sua efficacia può essere minima o massima a seconda l’indole o natura speciale che la distingue e la rende conforme alla serie delle idee e dei sentimenti con cui si connette nello stato attuale interno; nella seconda ipotesi, la efficacia è più forte, perchè l’origine latente, cui si riattacca, risulta a maggiore qualità di adattamento alla nostra psiche, ed a maggiore facoltà di resistenza con le idee concomitanti e che hanno tendenza di prevalere.

La coscienza, in questa duplice ipotesi, è in ragione non solo del grado dello stimolo, ma dei precedenti stati di abitudine: poichè, se le idee stimolanti, o idee consimili, abbiano altra volta fatta apparizione nel mondo psichico, la coscienza, essendosi alquanto adattata passivamente, è meno atta a sorprendere il nuovo stato transitorio della interna attività: ma, se la idea è nuova, la coscienza ne avverte di più la presenza o ne sopporta l’azione.

Nei descritti fatti, oltre che aver delineato il fattore iniziale del dolo, abbiamo anche compreso il fattore fisiologico ed il fisio-psicologico. Si comprende, in vero, che nel fatto complesso della coscienza, con significato il più ordinario a concepirsi, lo stato fisiologico dell’individuo è il primo dato permanente di qualunque interna modificazione.

E se abbiamo distinto il fattore fisiopsichico, ciò è per indicare il momento di passaggio dallo stadio della passività, esterna o di percezione sensitiva ed interna o di sentimento, allo stato di attività cosciente od incosciente.

Arrivati a segnalare l’apparire della coscienza, adempiremo l’assunto di studiare la sua attività nei diversi gradi onde suole funzionare.

La efficacia dello stimolo, attuatasi, addiviene motivo; vale a dire partecipa l’azione meccanica o dinamica all’io, mettendolo in grado di agire in un modo ovvero in un altro. La coscienza, a questo punto, passa dallo stato di quasi passività al primo stadio di attività: poichè le energie concorrenti, di idee e di sentimenti, si attuano con speciale direzione e mostrano già di essere indirizzate a determinato sogno. Se il simultaneo sorgere di qualche altro stimolo non viene o a frenare, reagendo, o a rivolgere altrove l’attività iniziale, il primo motivo si trasforma in impulso vittorioso, ed alla mente si rappresenta, non già con i caratteri di agente o di stimolo, ma di fine ultimo da raggiungere, siccome mèta dell’azione. La mente, usando della sua razionalità, vede il nesso causale fra il carattere d’ impulso del motivo e quello di fine, e delibera se dar corso all’attività iniziata, ovvero arrestarne la tendenza. Ed in che modo ciò può avvenire?

Nella collisione delle energie dei motivi comprendesi che la prevalenza è di chi abbia maggior forza; ma non è così nel rapporto tra il motivo e la psiche. Il motivo, di qualunque origine e natura, non ha che efficacia dinamica; nella psiche evvi, per di più, energia razionale, cioè consapevole dei proprî atti, o tale da seguire il corso di qualsiasi spinta, con la coscienza di finalità. È qui, veramente, il problema psicologico, e noi non ne sappiamo dare che la dimostrazione per analogia con le restanti forze naturali.

Come l’ affinità chimica, la forza vitale vegetale e la vitale animale diconsi prevalere ciascuna in un piano particolare di esistenza, similmente nei fenomeni umani la forza razionale è la predominante nel grado più elevato di funzione psichica, e quella che, ritraendo del risultato quantitativo delle coefficienze di energie concorrenti, si spiega nell’attività di funzione circa la scelta di mezzi, i quali debbono procacciarle la soddisfazione di un bisogno. Insomma, il motivo comunica alla psiche la energia meccanica; ne ritrae il carattere di razionalità: dapprima agisce da impulso, poscia acquista la natura di scopo e rientra nella sfera di spontaneità di elezione. Si comprende che, a questo punto, la determinazione comincia ad addivenire necessaria, obbedendo alla causalità del fine, la cui efficacia ideale assorbisce l’attività e ci trasporta alla esecuzione del proposito, ovvero all’uso dei mezzi prescelti.

Riassumendoci, diciamo, che nel dolo vi è la sintesi delle facoltà psichiche dirette a divisato scopo; la quale sintesi consta: a ) di un motivo convertibile in iscopo; b ) di una scelta di mezzi adatti all’azione; c ) di una determinazione ad agire. Ai quali fattori occorre aggiungere, che, quantunque lo scopo, talfiata, sia conseguibile per le vie legali, la immoralità dei mezzi è sempre intrinsecamente riprovevole e perciò causa di sanzione penale. Ond’è che il dolo può definirsi: La determinazione Ai scelta di mezzi rivolti a fine criminoso. Dico determinazione di scelta per segnare il vero momento psicologico in cui la passività mentale si trasmuta in attività cosciente, cioè nel vedere, misurare ed eleggere quei mezzi, i quali, in sè medesimi, contengono la prova della deliberazione, o inclinazione a raggiungere un fine piuttosto che un altro; ossia di correr diritto, per esempio, alla soddisfazione del desiderio di vendetta, piuttosto che attenersi alla garentia della legge, per vedersi fatta giustizia di qualche offesa ricevuta. Dico, inoltre, mezzi rivolti a fine criminoso, per esprimere, non solamente la natura della deliberazione, ma eziandio la qualità dei detti mezzi, ed il fine speciale cui sono indirizzati perchè servissero ad effetti imputabili penalmente. Trovo del Nani la seguente osservazione degnissima di essere ricordata: «La determinazione della volontà dipende dall’agire la medesima per un principio intrinseco della sua attività e dall’avere una forza elettiva regolatrice delle sue operazioni, per cui fra gli oggetti rappresentati dall’intelletto siasi scelto quello che si poteva rifiutare. L’intelletto è quella facoltà con l’uso della quale si conoscono e si distinguono le qualità assolute e relative di più oggetti, si scuopre la loro convenienza o disconvenienza, e colla istituita comparazione tra le diverse conseguenze, che ne risultano o possono risultarne, si viene a deliberare sulla preferenza dei motivi in vista di cui la volontà si determina piuttosto all’un oggetto che all’altro»[133]. Come vedesi, alla mente del Nani non sfuggiva punto l’intrinseco principio attivo della volontà in correlazione della forza elettiva o della funzione dell’intelletto di deliberare sulla preferenza dei motivi; il che, in complesso, adombra l’odierna teorica dinamica della energia criminosa, completata dall’applicazione della legge della conservazione delle forze e della prevalenza qualitativa e quantitativa di una energia sulle altre concorrenti alla formazione dei fenomeni della natura.

7. —Fin qui secondo quello che, come ho detto, ebbi a scrivere parecchi anni or sono. Nondimeno, son di avviso, che la dottrina del dolo, enunciata nelle linee generali o in termini di principî teoretici, nella pratica non abbia che valore molto relativo. Se ne accontenterà lo scienziato, ma il giudice non ne avrà nessun giovamento; anzi potrebbe, nè è raro il caso, esser per lui motivo di difficoltà ed incertezza quando volesse farne scrupolosa applicazione ai fatti sui quali debba dare il giudizio.

Invece, tornerà utilissimo prescindere dalle nozioni puramente dottrinarie intorno al dolo in genere, ed approfondire l’analisi delle qualità e degli elementi proprî di questo o di quel dolo specifico; vale a dire dedurre i coefficienti psicofisici di ciascun evento soggettivo criminoso dal genere e dall’indole di ogni singolo delitto.

E non basta. Alla stessa guisa che in medicina, così in tema di imputabilità, più che fissarsi alle norme generali scientifiche, molto giova osservare e curare l’individuo. Nella disparità irreducibile, perchè eminentemente mutabile, di qualità psicofisiche individuali, l’obbligo del giudice è di non dipartirsi dalle accidentalità di fatto e dagli elementi soggettivi che lo prepararono e lo causarono. Però, siccome con l’abbandonarsi, egli, ai mutabili ed indefiniti concetti accidentali, molto facilmente incorrerebbe nel sistema d’una casistica pericolosa, stimiamo porre dei limiti alle indagini, noti, non che per le nozioni finora svolte, per le osservazioni che aggiungeremo.

8. —Il fondo psicofisico o soggettivo dell’individuo è racchiuso nella specie del suo temperamento. Gli antichi ne compresero l’importanza e si adoperarono, con teorie e distinzioni a sufficienza esatte, di delinearne il concetto scientifico. Il Wundt osserva, che «ciò che l’eccitabilità è per rapporto alla sensazione sensoriale, è il temperamento per rapporto alla emozione ed all’istinto. Noi possiamo discernere una eccitabilità permanente e, in ricambio, delle oscillazioni continue di questa eccitabilità; parimenti, il temperamento apparisce, si manifesta sia come permanente, sia sotto forma di accessi variabili, i quali possono dipendere da cause esterne ed interne»[134]. Il temperamento è la risultante di fattori individuali; non è solo la somma di questi fattori, ma la caratteristica che investe e dirige le nostre tendenze e le facoltà ad agire in quel modo onde l’una azione dall’altra è differenziata.

Il Béhier avvertiva di doverci guardare dal confondere il temperamento con la costituzione e la idiosincrasia. Son tre espressioni che soglionsi scambiare, perchè esprimono insieme uno stato generale dell’economia; ma la parola temperamento esprime la predominanza d’un sistema funzionale sugli altri; esso può ben avere della influenza sulla costituzione; questa, però, offre dei tratti speciali. Per costituzione deve intendersi lo stato generale che risulta dall’azione collettiva dei differenti atti dell’economia e nel quale l’influenza del temperamento entra per la sua parte. L’idiosincrasia, al contrario, è una disposizione generale, che determina una tendenza particolare, più o meno accentuata, a contrarre o ad evitare tale o tal forma patologica. Il temperamento, la costituzione, verisimilmente, concorrono al suo sviluppo; ma questo è affatto ipotetico, e, al di fuori di queste due ultime influenze, si ritrova la idiosincrasia, che noi non possiamo in verun modo riconoscere a priori, che giudichiamo per i suoi risultati sovente sì straordinarî e costituenti un fatto la cui causa ci è interamente sconosciuta.

9. —Il fatto imputabile è noto al giudice in forma o espressione sintetica. Egli non lo conosce che per quanto gli vien riferito per testimoni o gli è appreso per documenti. Come farà ad estimarne le circostanze, onde risalire alla conoscenza della esistenza, qualità e quantità del dolo?

Il giudice ha dinanzi a sè due metodi, dei quali debba servirsi: l’uno obbiettivo, l’altro subbiettivo. Il metodo obbiettivo consiste nella raccolta ordinata di tutte le circostanze, che precedettero, accompagnarono e seguirono il fatto delittuoso; nel fissare il motivo od i motivi, i quali agirono a suscitare il desiderio o la spinta dell’azione, il grado approssimativo di importanza del motivo o dei motivi medesimi, nonchè le prove apparenti onde il soggetto ebbe a dimostrare di averne risentiti gli effetti. I precedenti del delitto sono riducibili alle cause, o permanenti ovvero occasionali, di nuovi rapporti interceduti tra l’autore del fatto e chi ne fu la vittima; tra lo stato psichico dell’agente, prima che in lui si destasse il desiderio o la spinta al mal fare, ed il tempo in cui l’interno mutamento si verificò; tra il primo impulso criminoso e la serie degli atti esterni rivelatori della lotta sostenuta per schivare od evitare il delitto; tra il grado di efficacia del motivo o dei motivi e la energia criminosa addimostrata nel momento dell’azione.

Le circostanze concomitanti formano il cumulo degli argomenti per stabilire, non che il genere e la specie del delitto, la prova di relazione causale tra il motivo od i motivi e l’azione; ciò che induce la mente a ravvicinare i due punti estremi del decorso storico del delitto, il momento della genesi soggettiva del proposito ad agire in controsenso alla legge, ed il momento in cui la interna energia si appalesa nell’attività esterna. In fine, le circostanze susseguenti al fatto, tuttochè sovente non abbiano interessante relazione con gli atti incriminabili, debbono, nondimeno, ben investigarsi, perchè possono essere indizî o prove sicure di ciò che il delinquente ha voluto conseguire col suo operato. Si ricordi, che nel processo logico del delitto il motivo ad agire si trasforma in intento dell’azione; di guisa che la prova del fine d’una serie di atti interni ed esterni è per noi il materiale logico per non smarrire la via nel risalire, dall’ultimo atto operato, alle prossime e lontane cagioni che ci spiegano il perchè ad agire.

10. —Il metodo subbiettivo poggia sull’uso della induzione aiutata dallo sforzo di connettere le proprie rappresentazioni del fatto alla serie delle circostanze storiche dello stesso.

La induzione—e chi lo ignora?—ha la base sul principio di uniformità dei fenomeni della natura; il che avviene, non soltanto in senso generale, ma eziandio particolare, nel senso cioè, secondo Bain, che nella uniformità della natura vi hanno delle categorie le quali sono, per dir così, radicalmente distinte l’una dall’altra: di guisa che la espressione legge della natura dev’essere considerata come l’equivalente di due affermazioni: 1 o che la natura sia uniforme; 2 o che questa uniformità comprende un gran numero di uniformità distinte[135].

Il Bain, in applicazione dei principî generali deduttivi ed induttivi, volle gettare le fondamenta d’una logica della psicologia; ed egli credette di adempiere l’assunto esaminando il problema degli attributi dello spirito, quello dell’unione costante dello spirito e del corpo, e degli aspetti sotto cui si presenta ogni fenomeno dello spirito; per indi trascorrere all’esame delle proposizioni psicologiche, dei metodi logici della psicologia e della logica della scienza del carattere[136]. Il tentativo, secondo me, rimase incompleto, perchè il contenuto d’una logica della psicologia non deve arrestarsi alla genesi ed alle forme degli stati di coscienza, ma deve suggerirci le norme per riprodurre in noi, coordinare ed unificare i fatti della psiche nel loro ordine temporale e spaziale; ciò che appartiene al processo rappresentativo degli altrui fenomeni psichici. Il metodo di introspezione può essere adoperato sia per comprendere ciò che intrinsecamente avviene in noi, che quanto sia stato prodotto per sforzo di riflessione e di immaginazione sui ricordi di fatti e di stati interni appartenenti ad altri: è così che noi abbiamo il mezzo, in forma rappresentativa, di osservare, come per riflesso, i dati soggettivi di importanti avvenimenti sociali, nati dalla vita di relazione tra’ simili ed apparsi con effetti esterni. Esempio evidente si ha nell’ufficio del giudice di investigare l’elemento soggettivo del delitto. Qualunque logica formale circa la specie e la qualità di prove giudiziarie sarà insufficiente se il giudice, ben usando del metodo induttivo, non possegga la virtù di riprodurre e rappresentare in sè, in forma almeno fugace, il processo interno dell’agente, connettendo il tutto insieme obbiettivo del fatto a quel complesso di fattori dinamici soggettivi, i quali debbono, in ultimo, farci consapevoli del nesso logico di causalità tra l’evento psichico del delitto ed il suo effettuarsi nell’azione.

11. —Abbiamo spesso ripetuto, che le nostre cognizioni son sottoposte alla legge di relatività. Qui non intendiamo parlare di quella relatività per cui Spencer, sulla scorta di Hamilton, concludeva, che la realtà esistente dietro le apparenze è e deve sempre essere sconosciuta; ma della relatività limitata alla conoscenza dei fenomeni umani.

Una siffatta relatività dipende in parte dal soggetto, che conosce, ed in parte dall’oggetto della conoscenza. Il psicologo, che vuol comprendere le leggi di certi fenomeni dell’altrui coscienza, dovrebbe aver tutte le attitudini e le opportunità di riprodurre in sè, qualitativamente e quantitativamente, i detti fenomeni; la qual cosa è impossibile che avvenga.

In oltre, pur ammesso che egli possegga le qualità richieste, si troverà dinanzi a difficoltà che trascendono il di lui potere; avvegnachè i fatti interni, perchè fossero esattamente riprodotti, dovrebbero essere conosciuti nelle loro più lontane cagioni ed in tutti gli infiniti rapporti casuali che sfuggono alla più minuta ed attenta osservazione.

Abbiamo voluto richiamare il lettore sulle fatte osservazioni, perchè vegga quanti siano gli ostacoli frapposti all’opera del giudice che voglia adempiere il dovere di rendersi ragione dello stato soggettivo e dell’elemento del dolo d’un imputato. Ciò non ostante, avverrà pel giudice quello che avviene per ogni studioso di fatti psichici. Egli deve aver cura, in primo luogo, di condizionare le conoscenze subbiettive del fatto, ricordando quel che Hamilton scriveva, che pensare è condizionare, e che la limitazione condizionale è la legge fondamentale di possibilità del pensiero.

Il giudice, per convincersi del perchè di avvenimenti affidati al suo giudizio, dovrà saper distinguere e coordinare le circostanze interessanti, eliminare le superflue e cogliere i punti impercettibili che sono gli anelli intermedî tra le cose e che, poco apprezzati in apparenza, sono in sè di inestimabile valore. Il secreto è di non tralasciare verun dato che non sia, in precedenza, posto in relazione con altri dati soggettivi antecedenti, poichè, al dire di Spencer, «ogni completo atto di coscienza, con la relazione e la distinzione, implica anche la rassomiglianza: prima che uno stato di coscienza diventi idea o costituisca un elemento di conoscenza, deve non solo essere conosciuto come separato di specie da certi stati anteriori, coi quali è notoriamente in relazione di successione, ma deve anche essere conosciuto come appartenente alle stessa specie degli stati anteriori»[137].

Le ragioni di precedenti rapporti logici in parte si ricavano dalla pratica della vita, in parte dalla psicologia comune e, massimamente, dalla nostra disciplina: il risultato ottenuto, quale materiale del giudizio definitivo, conterrà la certezza proporzionata al corredo di coltura e di esercizio mentale individuale; avvegnachè, secondo lo stesso Spencer, «una cosa è perfettamente conosciuta solo quando è, sotto tutti gli aspetti, simile a certe cose previamente osservate; e resta incognita in proporzione del numero dei rapporti in cui essa differisce da quelle: in oltre, quando una cosa manca assolutamente di attributi comuni a cose note, essa è assolutamente fuori dai limiti della conoscenza»[138].

12. —Le maggiori difficoltà s’incontrano nella prova del dolo in processi indiziarî. In questo caso il giudice procederà per via di ipotesi. Egli, cioè, partirà, per la estimazione dei fatti, da congetture che avranno più grande conformità sia con l’indole apparente del reato, che con l’evento verificatosi. Bisogna, intanto, avvertire, 1 o che la ipotesi dell’avvenimento non sia nè arbitraria, nè ispirata da impressioni passionali, poichè, altrimenti, o si devierà dal nesso logico effettuale, ovvero si esagererà, pro o contra, l’apprezzamento della qualità e quantità della energia criminosa che abbia causato il delitto. Per quanto si abbia l’abitudine ad apprendere e considerare i fenomeni delittuosi, noi non siamo in grado di spogliarci della impressione che ciascun di essi desta nel nostro animo: la repugnanza, che ognun sente pel maleficio; il sentimento di pietà, di disgusto per le altrui sofferenze; il colorito vivace, che la immaginazione aggiunge al fatto; il modo tutto personale, onde giudichiamo le umane azioni; la influenza esercitata sulla nostra riflessione da’ cento motivi palesi ed occulti, sono altrettante cagioni per cui la mente o è impedita o fuorviata dal cogliere la verità delle cose. Egli è d’uopo spogliarci delle preoccupazioni, o degli idoli della mente, come da Bacone eran chiamati, se vogliamo non errare investigando il perchè logico d’un dato fenomeno. In oltre, 2 o, occorre che la ipotesi abbia la consistenza in qualche circostanza essenziale del fatto; circostanza che sia resa ben chiara e che serva di punto di partenza per comprendere la condizione morale del soggetto agente, il primo ridestarsi in lui di motivi, i quali si trasformarono in azione lenta o rapida agli ulteriori atti interni criminosi. Anche in ciò è da avvertire, che, a riguardo della scelta della circostanza fondamentale alla ipotesi, noi sottostiamo, non pure all’abitudine contratta di percepire le cose e di valutarle in modo peculiare, ma alla suggestione partecipataci da’ testimoni, dall’indole sentimentale degli avvenimenti e dall’interesse che, molte volte senza averne sentore, noi annettiamo a date ipotesi per nostre personali predisposizioni di animo, di educazione e di coltura. L’indizio (da indice ), accenna alla verità; ma chi di questa non siasi reso padrone con precedenti e lunghi esercizî della mente, scambia i termini del giudizio, e, messosi su falsa strada, erra nel ragionare e nel concludere.

13. —Se il dolo —scrivemmo altrove[139] —è nella determinazione di scelta di mezzi, la colpa è nella mancanza di determinazione di scelta; che è a dire, nell’assenza di estimazione del legame tra l’atto voluto e l’effetto conseguito. Il quale stato di animo si vuol dividere nei seguenti termini: a ) un motivo che ci stimola ad operare; b ) uno scopo prossimo, e da noi preveduto, da raggiungere; c ) uno scopo rimoto fuori le nostre previsioni; d ) la scelta di mezzi analoghi direttamente allo scopo prossimo, indirettamente allo scopo rimoto. La relazione tra essi termini, sulla quale si fonda la differenza tra il dolo e la colpa, si è che il motivo non si converte che in iscopo prossimo; e la scelta dei mezzi solo a questo scopo è conforme; mentre la imputabilità dell’atto tira la ragione d’essere dallo scopo rimoto lesivo del diritto. In somma, la nostra dottrina non è differente da quella che ripone la essenza della colpa in un errore evitabile[140], per effetto del quale si è verificata un’involontaria dannosa conseguenza. Il fatto inconsulto, di cui parlavano gli interpreti del Diritto romano[141], si risolve sempre nella imprevedibilità o mancanza di cognizione di qualche effetto che poteva essere in relazione coi mezzi destinati a fine diverso. Il Kleinschrod spiega l’enunciato concetto osservando, che «un errore si connette senza contrasto con una determinazione della volontà, in quanto che nella colpa è palesemente riposto il difetto della volontà di usare, operando, di quella diligenza a cui ciascuno è obbligato, e così il difetto della volontà di deporre l’errore, che si sarebbe potuto e dovuto agevolmente scoprire. Ogni uomo di mente sana può e dee sapere, che è tenuto ad un certo grado di diligenza, a fine di non offendere i diritti degli altri. Ogni uomo probo rifletterà più o meno nelle sue azioni di qualche importanza, se sieno conformi alla giustizia, e se possa derivarne alcuna violazione del diritto. Ogni uomo conosce ancora, che la sua azione soggiacerà ad una pena, se trasgredisce colposamente le leggi. Quando, dunque, uno si rende debitore di colpa, non ha la volontà di applicare la necessaria diligenza alle sue azioni: non vuole, in vero, trasgredire la legge, ma non si dà il pensiero, che dovrebbe, per non trasgredirla. Egli, dunque, è punibile, perchè trascurò contro l’ordine giuridico questa diligenza, non si tolse all’errore, e così produsse una violazione del diritto: egli è punibile, in somma, perchè non si servì della forza della sua volontà, per superare un errore, che si poteva facilmente evitare. Se il delinquente doloso commette col vigore della sua volontà il fatto illegale, si può affermare, che il delinquente colposo lo commette con la debolezza della sua volontà, non usando la debita diligenza»[142].

14. —Da parecchi scrittori si propugna la teoria che ripone la colpa nel nesso aggettivo dell’azione col danno; e noi opiniamo che essa meriti plauso quando trattasi di colpa derivante da quasi-delitti civili; non così in casi di colpa punibile penalmente. La imputabilità, lo abbiamo visto, è l’equivalente giuridico d’una causalità cosciente, o, com’è nella colpa, d’una causalità alla cui coscienza del fatto manchi l’uso d’una facoltà, quello della prevedibilità appartenente al comun modo di funzionamento psichico per evitare le possibili cause di danni altrui.

La prevedibilità o la previsione del fatto, e delle conseguenze che da esso derivano, dipende da due fattori, l’uno psicologico, l’altro logico: il fattore psicologico consiste nel buon uso dell’ attenzione; il fattore logico nel criterio di possibilità di antivedere le probabili evenienze dannose.

Cominciando a trattare del primo fattore, osserveremo: a ) che cosa si intenda per attenzione relativamente ad una conseguenza dannosa imputabile; b ) in quante categorie vadano divisi i reati colposi per i modi e le specie secondo cui l’attenzione è distinta; c ) il meccanismo dell’attenzione nei riguardi dell’obbietto dannoso non preveduto; d ) in che consista la disattenzione.

Nei precedenti capi abbiamo, più d’una volta, avuta la opportunità di parlare dell’attenzione e del suo funzionamento psichico: usando la definizione di James, diciamo, che essa sia l’atto per cui la mente prende possesso in forma limpida e vivace di uno fra tanti oggetti e fra diverse correnti di pensieri che si presentano come simultaneamente possibili.

Avendo per origine degli stati affettivi, i quali hanno per causa delle tendenze, dei bisogni, degli appetiti, l’attenzione si riattacca, in ultima analisi, a ciò che vi è di più profondo nell’individuo, l’istinto di conservazione (Ribot): si converte in una condizione della vita, e conserva il medesimo carattere nelle forme superiori, in cui, cessando di essere un fattore di adattamento all’ambiente fisico, addiviene fattore di adattamento all’ambiente sociale.

Restringendo questi concetti al nostro assunto, premettiamo, che l’attenzione, come causa selettiva, concentra la coscienza agli oggetti ed ai rapporti reali che, isolatamente considerati o come effetti di data azione, contengono la violazione del diritto altrui e cadono sotto la sanzione preventiva o repressiva della legge penale. Ond’è che, essendo il difetto di attenzione la causa psicologica dei reati colposi, la diversità degli oggetti, cui si riferisce, costituisce categorie o serie differenti di fatti imputabili. Una prima divisione dell’attenzione è quella di sensoriale e d’ intellettuale, secondochè trattisi di oggetti presenti ai sensi, ovvero di oggetti ideali o rappresentati. Nell’ordine dei reati colposi, appartengono al difetto di attenzione sensoriale quei fatti i quali possono ledere l’integrità fisica dell’individuo, e che dipendono, per l’appunto, dal non aver noi previsto certi avvenimenti materiali in dipendenza immediata con qualche nostra azione. Ho detto avvenimenti materiali per mostrare la causa reale e sensibile del fatto dannoso; come, ad esempio, sarebbe la lesione prodotta per arma da fuoco, quando l’atto della scarica, di natura sensibile, dia luogo ad una ferita involontaria: ho detto dipendenza immediata, per precisare il rapporto diretto tra l’atto della scarica e ciò che n’è derivato, senza che altro motivo vi sia intervenuto. Appartengono, invece, all’attenzione intellettuale quei reati colposi i quali sono imputabili per ragione strettamente preventiva e perchè sono inerenti ad un dovere di ufficio a cui si era tenuto; come, ad esempio, l’omesso avviso di rinvenimento d’un fanciullo (art. 389 Cod. pen.); l’omessa denuncia d’un reato, per parte d’un pubblico ufficiale (art. 180); la trascurata custodia di detenuti (229, capoverso 2 o ); oltre le contravvenzioni degli art. 439, 471, 477, 482 Cod. penale.

Maggiori difficoltà presenta l’attenzione quando sia studiata nel suo meccanismo, essendo questo tema, secondo il Ribot, finora molto trascurato, e dipendendo da esso, non soltanto il completamento della teoria dell’associazione, ma i concetti per misurare qualitativamente e quantitativamente la specie ed il grado di coscienza necessaria per concludere alla prevedibilità di certi effetti in correlazione con certe cause. Per procedere con ordine, ricordiamo la distinzione dell’attenzione in naturale o spontanea, volontaria od artificiale.

«La prima, osserva Ribot, negletta dalla maggior parte dei psicologi, è la forma vera primitiva fondamentale della attenzione. La seconda, sola studiata dalla maggior parte dei psicologi, non è che una imitazione, un risultato dell’educazione, dell’ammaestramento, dell’adattamento. Precaria e vacillante per natura, essa attinge ogni sua sostanza dall’attenzione spontanea, in cui soltanto trova un punto di appoggio. Sotto queste due forme, l’attenzione non è un’attività indeterminata, una specie di atto puro dello spirito, agente con mezzi misteriosi ed impercettibili. Il suo meccanismo è essenzialmente motore, cioè a dire che essa agisce sempre sui muscoli e per i muscoli, principalmente sotto la forma di arresto, ond’è che come epigrafe di questo studio potrebbe scegliersi la frase di Maudsley: colui che è incapace di governare i suoi muscoli è incapace di attenzione »[143].

Per l’interesse delle conseguenze dannose, ossia in correlazione alla colpa, giova notare alcuni caratteri principali dell’attenzione. Essa, come si è detto, risiede in uno stato affettivo dell’animo, ossia è mossa e determinata da un interesse o da uno stimolo; ond’è che fu divisa in immediata e derivata. È immediata, secondo James, quando lo stimolo è di per sè interessante, senza relazione con niente altro; derivata quando lo stimolo è interessante soltanto per le associazioni che ha con qualche altra cosa più direttamente interessante. Inoltre, l’attenzione, consistendo nella sostituzione di un’unità relativa della coscienza alla pluralità di stati, al cangiamento che n’è la regola; ed essendo il prodotto, insieme alla coscienza, della connessione delle formazioni psichiche (Wundt), ha la virtù di meglio percepire, concepire, distinguere, ricordare, aumentare le forze cognitive stesse. Quest’ultimo carattere dipende dall’assioma scientifico, che la forza non si crea ma si trasforma soltanto; quindi, aumentare la forza cognitiva può significare soltanto trasformare, a disposizione dell’intelligenza, una forza organica (Brofferio).

Da quanto si è detto, nei riguardi psicologici della colpa, crediamo fermare le verità infrascritte: a ) La prevedibilità, la quale poggia sull’attenzione spontanea, ha bisogno di minore sforzo che quella la quale poggia sull’attenzione volontaria o artificiale; imperocchè la prima si svolge per potere intrinseco e con adattamento naturale ed in gran parte ereditario; la seconda è soggetta a dei poteri estrinseci e sopraggiunti. Di qui la maggiore responsabilità o il grado maggiore di colpa in quei fatti, i quali si riferiscono all’ordinario modo di vivere, alla comune esperienza; cioè all’uso di quella attenzione che è un portato spontaneo della natura; come la responsabilità minore in avvenimenti per i quali si richiede una sviluppata educazione, un retto indirizzo, un abituale uso di volontaria attenzione, b ) La regola generale qui espressa soffre eccezione nel caso di diminuita prevedibilità per lo stato di sorpresa o di stupore, essendo esso indice di maggiore colpa nell’uso di attenzione volontaria od artificiale, che nell’uso di attenzione spontanea. Avviene, talora, in qualche nostra operazione, che oggetti o fatti nuovi e straordinarî attraggano l’ammirazione, e pel lato emotivo restringano il potere della coscienza in guisa da arrestare il corso alle nostre idee e fissarci potentemente alla contemplazione di un punto solo percettivo. Siffatto fenomeno, non molto raro ad avverarsi, è causa ordinaria di imprevedibilità; epperò va tenuto in considerazione. Il grado di colpa, a cui da luogo, è maggiore nell’attenzione volontaria che nella spontanea, pel principio logico, che chiunque volontariamente intraprenda qualche operazione, seguendo gli artificî che una speciale attitudine ed istruzione gli hanno appreso, ha l’obbligo di meglio attendere a che qualche evento fortuito non lo sorprenda e lo renda causa involontaria di danno altrui.

Il chirurgo, per esempio, che intraprende un’operazione, deve attendere che non si verifichi una emorragia; e, se questa lo sorprenda, egli, che non ha saputo prevederla, è responsabile di non lieve colpa. c ) L’attenzione spontanea è meglio adatta agli oggetti esterni; la volontaria, o riflessione, meglio agli interni. Darwin ben disse, che quest’ultima è l’attitudine della visione difficile, trasferita dagli oggetti esterni agli avvenimenti interni, i quali si lasciano malagevolmente comprendere.

Tutti i reati colposi, i quali appartengono all’adempimento d’un dovere di ufficio, debbono comprendersi nella seconda specie di potere intenzionale o riflessivo: il grado di responsabilità, dal lato subiettivo, è in ragione della maggiore e più protratta attitudine ad attendere; ciò che rientra nella specie colposa della negligenza, ossia nell’aver omesso quello che si è soliti di non omettere in adempimento d’un dovere esigibile.

15. —A compimento di studio del primo fattore della prevedibilità, il fattore psicologico, dobbiamo parlare della disattenzione.

Chi attende concentra l’energia mentale su un punto fisso, restringendo in esso il campo visivo alla medesima maniera di chi adoperi una lente per raccogliere i raggi sopra unico obbiettivo: chi, invece, non attende, o malamente attende, disperde le attività coscienti ed o resta privo della percezione, o da motivo a confusione di idee e di giudizî. Da ciò lo stato di distrazione, la quale o avviene per incapacità della mente a fissarsi in modo stabile e per la mobilità di passaggio da una all’altra idea; ovvero per l’assorbimento d’un’idea, la quale non lascia agio alla mente di volgersi altrove e di occuparsi altrimenti. Il fenomeno è molto complesso, poichè risultante da particolari condizioni fisiche e di analogo adattamento psichico: basti, però, dire con Helmholz, che noi non avvertiamo tutte quelle impressioni che non hanno valore per noi come segni utili a differenziare le cose. Intanto, o che, secondo il Müller, le correnti delle impressioni non avvertite da alcuni centri trovino la scarica in altre vie inferiori; o che il potere concentrativo diminuisca gradatamente in proporzione dell’abituale funzionamento cerebrale, permettendo che dallo stato di coscienza si passi in quello d’incoscienza, certa cosa è che la disattenzione forma l’obbietto di serî studî, i quali interessano così la pedagogia come la psichiatria, e cercano ancora la spiegazione di problemi rimasti tuttavia insoluti.

In tema di colpa, lo stato di distrazione è generalmente ritenuto motivo di pena: ma fino a che punto ciò è giusto? Vi sono stati normali di distrazione, i quali dipendono da cattiva abitudine dell’uso mentale, ovvero da leggerezza di carattere, e per essi parmi che non vi sia dubbio sulla necessità di mezzi repressivi. Ma altri stati vi sono, i quali mostrano caratteri morbosi, tuttochè non sempre palesi; e parlare di repressione varrebbe quanto contraddire il cardine fondamentale della imputabilità.

Il Bianchi molto esattamente tratta del diminuito potere di detenzione nella coscienza ed anche del potere regolatore selettivo, che scapita, imperocchè tutto quello che invade la mente, non per volere del soggetto ed anzi spesso contro il voler suo, non incontra ripulsa. «Esso irrompe liberamente nel campo della coscienza, togliendole più o meno di potere percettivo e sopratutto del potere dell’appercezione. Trattasi qui sempre di due fatti, i quali si associano e caratterizzano questo stato patologico: da una parte, incapacità a contenere nella coscienza la costellazione ideativa, che è obbietto della attenzione volontaria; incapacità, dall’altra parte, a contenere fuori della coscienza un’altra quantità d’idee, che con le prime non hanno relazione alcuna, e contro le quali si esercita fiaccamente ed inefficacemente il potere volitivo dell’attenzione»[144].

Lo stesso Bianchi ricorda i singoli stati più o meno patologici dell’attenzione; il fenomeno di ipoprosessi (diminuzione di attenzione) per effetto di stanchezza; la diminuzione del potere della medesima, più del distributivo che del fissativo, prodotta dalle emozioni (Feré, Binet, Pick, Mosso); quel che avvenga nel dominio dell’inconscio, dell’automatismo psichico, negli stati nevrastenici e via discorrendo.

16. —Abbiamo detto, che il secondo fattore della prevedibilità sia quello logico consistente nella possibilità di antivedere le probabili conseguenze dannose di un nostro atto. La impossibilità della previsione dà luogo al caso, e quindi alla nessuna responsabilità del fatto. Che è mai il caso? Nel senso usuale è tutto ciò che non può essere rapportato ad una legge; nel senso logico è la ignoranza di tale legge, ovvero la impossibilità di ricordarla pel cumulo di circostanze accidentali, o di prevederla nel nesso di causalità tra fatti a noi noti e gli eventi a cui avrebbero data l’origine.

La teoria del caso, in tutte le attinenze mentali, si fonda sulla teoria della probabilità, appunto perchè, secondo il Mill, noi possiamo supporre che le conclusioni relative alla possibilità d’un fatto riposano sulla conoscenza della proporzione tra i casi in cui si producono dei fatti di questo genere e quelli in cui non si producono; la quale proporzione, d’altronde, può essere trovata per una esperienza speciale o dedotta dalla conoscenza precedente delle cause la cui azione è favorevole alla produzione del fatto in questione, comparate a quelle che la possono neutralizzare.

Applicando tali norme al concetto logico di probabilità nella previsione di conseguenze dannose del fatto proprio, si hanno gl’infrascritti corollarî: 1 o il grado di probabile previsione d’un effetto ignoto, relativo a causa nota, è in ragione diretta dei casi, in cui l’effetto si verifica, ed in ragione inversa dei casi nei quali suole avvenire il contrario; 2 o diminuendo i casi di probabilità, entriamo nel dominio dell’imprevedibile: il che contrassegna una serie indefinita di stati di coscienza incalcolabili a priori, e che vanno dall’accorgimento il più riflessivo alla disattenzione la più abituale; 3 o per l’unità funzionale psicofisica della nostra mente, tutto ciò che direttamente o indirettamente diminuisce o turba la facoltà di attendere, rende meno probabile la previsione; così la retta educazione dell’attenzione e l’uso costante delle attitudini inibitorie, nello eliminare le cause di errori, ci facilitano la prevedibilità, rendendoci più pronti nell’eliminare le cause occasionali concorrenti a far nascere da una nostra azione conseguenze che dobbiamo evitare.

CAPO XIV.

Di alcune forme giuridiche della psicologia criminale

I.

La provocazione.

1. Origine dinamica dello stato affettivo.—2. L’azione di arresto nei fenomeni affettivi.—3. Soggettività dell’atto provocativo.—4. Forme anomale di sensibilità nella scusa della provocazione; le illusioni.—5. Le allucinazioni.—6. Il linguaggio interiore; sdoppiamento dell’io, esempio d’un soliloquio di Lancilotto, nel Mercante di Venezia di Shakspeare.—7. Conseguenza giuridica del turbamento d’animo nello stato di agitazione allucinatoria.—8. Anomalia incosciente d’interno processo provocativo.—9. La provocazione e l’ isterismo.—10. La provocazione nei nevrastenici.—11. Psicologia dell’ intenso dolore.

1. —Lo stato passionale, che abbiamo detto esser causa di tendenza impulsiva al delitto, non dovea trascurarsi dal legislatore chiamato a proporzionare la responsabilità al grado della forza soggettiva dell’azione, diminuita da alcun motivo che ne abbia turbato il naturale funzionamento. È legge fondamentale dinamica, che a qualsiasi azione corrisponda uguale reazione; com’è istintiva nostra inclinazione di respingere l’offesa con l’offesa pel risentimento contro chiunque attenti al benessere personale od alteri l’economia psicofisica della vita. Da ciò la prima specie di giustizia repressiva affidata alla vendetta personale, ed il primo apparire di quella lotta pel diritto, la quale è guarentigia di conservazione della propria esistenza. Da ciò il dovere, nell’aggregato sociale, di limitare l’attività individuale con apposite prescrizioni, che, degradando la responsabilità dei malefici scusati dal turbamento della passione, sanciscano una pena col fine di impedire l’irrompere sconfinato degli istinti brutali della vendetta, e di ristabilire l’imperio del reciproco rispetto tra’ consociati.

Il concetto della provocazione, com’è fermato dal nostro legislatore con l’art. 51 Codice penale, fa sì che noi ci rifacessimo alquanto indietro col ricordare quanto si disse circa la origine delle emozioni, massimamente di quelle dell’ira e dell’odio, e delle leggi dinamiche onde in noi si producono gli stati affettivi di coscienza e son cagione di atti esteriori contrarî al buon ordine sociale. Dobbiamo, primieramente, rammentare, che qual si sia specie di sensazione non è che cangiamento di movimento, il quale dal di fuori si trasforma nel nostro interno ed è indizio d’una forza che agisca in conflitto od in concorso con le altre forze esteriori.

«La sensazione—scrive il Fouillée—non è un riflesso passivo della realtà: essa è la realtà medesima in travaglio e che senta il suo travaglio. Il tutto non avverrebbe affatto, nel mondo, al modo usato, se non vi avesse alcuna sensazione, ma solo dei movimenti non sentiti. Nella ipotesi che questi movimenti fossero stati sufficienti a produrre i medesimi effetti che oggi si producono, per preservare gli esseri organizzati contro le influenze distruttive del di fuori, per assicurar loro il vantaggio della lotta per la esistenza, le sensazioni, essendo inutili, non si sarebbero punto prodotte, ed i fenomeni meccanici non avrebbero provato il bisogno di aggiungersi questo estraneo epifenomeno»[145].

Il bisogno, che qui il Fouillée ricava da un ragionamento di logica conseguenza, non è che l’esponente della legge biologica di azione delle forze sulla materia organica, non che dell’altra di reazioni della materia organica sulle forze[146], nel senso, cioè, generale, che la forza incidente sul nostro organismo, mentre ne altera la precedente economia, deve essa stessa soggiacere ad una corrispondente differenziazione.

2. —Il legislatore, attribuendo la ragion di scusa, della provocazione, al momento dell’ impeto passionale di ira o di intenso dolore, suppone che il giudice non trascuri gli stati precedenti affettivi dell’animo dell’agente; anzi vuole che egli debba farne minuta analisi per concludere, in singoli casi, se e fino a qual punto la passione abbia degradata la coscienza e la libertà degli atti, sì da richiedere che non si applichi la pena in tutta la estensione voluta dalla legge. L’uomo può esser considerato come un complesso di fenomeni, che tendono in una certa misura a sistematizzarsi: ciascuna sua parte fisica o morale tende ad organizzarsi per suo conto, e sovente questa organizzazione d’una parte si opera a spese d’un’altra parte (Paulhan). Il che, a ben considerare, è la fonte della nostra spontanea attività, che, a cominciare dal preservare l’economia organica, è immanente in tutti gli atti della esistenza e, mentre si appalesa nei fenomeni della vita interna ed esterna, acquista vigore dalla lotta con i perenni ostacoli che incontra. È accettabile, quindi, il concetto di coloro i quali nel fenomeno affettivo non scorgono che una tendenza arrestata, o, in altri termini, secondo il Paulhan, un’azione riflessa più o meno complicata, che non può riescire al termine verso il quale riescirebbe se la organizzazione de’ fenomeni fosse stata completa, se vi fosse armonia completa tra l’organismo o le sue parti e la loro combinazione di esistenza, se il sistema, formato a cagion dell’uomo dapprima e poscia a cagion dell’uomo e del mondo esteriore, fosse perfetto[147].

3. —Dopo ciò, egli è a concludere, che il primo elemento ed il più importante della scusa sia l’ atto ingiusto, che ebbe a disorganizzare l’equilibrio delle nostre facoltà, convertendosi in motivo di arresto di quel normale funzionamento psichico che è condizione imprescindibile del proprio benessere. Il quale atto, secondo che prescriveva l’abolito Codice sardo e ritengono gl’insegnamenti della dottrina, deve essere valutato in modo soggettivo al provocato; ondechè, al dire del Carrara, «purchè la non sia irragionevole del tutto e bestiale, anche la credulità erronea di aver patito un oltraggio, di avere ragione di temere imminenti percosse o danni nella persona, deve nei congrui termini valutarsi. Altrimenti si farebbe l’uomo responsabile della ignoranza del proprio intelletto, o di un errore involontario. Se, desto ad un rumore notturno, io veggo introdursi nelle mie stanze furtivamente un estraneo, e, credendolo un ladro od un assassino, esplodo un’arme contro di lui, non sarò io più scusabile se viene poscia a verificarsi che nè un ladro nè un assassino era colui, ma sibbene un infelice sonnambulo, oppure l’amante occulto della fantesca, che aveva sbagliato di camera?»[148].

La giustizia o la ingiustizia dell’atto è in relazione ad un concetto variabile desunto dalla somma delle circostanze che lo occasionarono, ed in ragione al grado di sensibilità con cui l’atto fu appreso dal soggetto passivo. Indi l’infrascritto cànone: il grado di efficacia del motivo provocatore è indicato dalla serie delle circostanze, le quali influirono ad aumentarne la ingiustizia e ad eccitare la sensibilità di chi ne risentì la influenza.

Dal quale cànone dipendono i due seguenti corollarî: 1 o il grado di efficacia del motivo provocatore s’innalza per le circostanze che meno scusano l’ingiustizia dell’atto e favoriscono la proclività a reagire; 2 o diminuisce per circostanze in contrario senso.

La ingiustizia dell’atto e la sensibilità del soggetto, ecco i due termini i quali, componendosi in unico stato transitorio di coscienza, debbono servirci per concludere alla scusa di imputabilità in chi, reagendo, fu trasportato a commettere un maleficio. Il primo termine è appreso dal soggetto con rapido giudizio, che si estende a constatare la contraddizione tra l’operare altrui ed il proprio diritto al rispetto; la niuna necessità dell’offesa, la diminuita dignità personale, la costrizione a far ciò che non si avea in animo di fare. Elementi o modi, questi, d’un solo giudizio, che preoccupa l’attenzione ed, affievolendo ovvero ottenebrando ogni contrario fattore sentimentale ed ideale, assorbe tutta l’energia in uno sforzo reattivo, con l’oblio fin del pericolo cui si va incontro.

4. —Per sensibilità intendiamo il potere di recettività o di passività del soggetto; ossia il grado di attitudine a ripercuotere in sè le impressioni con maggiore o minore tonalità sentimentale, colorito fantastico, senso affettivo.

Parlando delle passioni in genere, notammo il tipo del delinquente impulsivo o d’impeto: per completare l’assunto, dobbiamo occuparci di talune forme anomale di sensibilità ricorrenti sì spesso in delitti che diconsi occasionati da precedente provocazione.

Parleremo, in primo luogo, delle illusioni e delle allucinazioni.—Non è raro il caso di assistere all’interrogatorio d’un imputato, il quale chieda al giudice la scusa di provocazione per fatti che la vittima nega e che nessun testimone ebbe agio di poter constatare. Se il chiesto beneficio non sia vano pretesto suggerito dall’astuzia o dall’interesse di ottenere una diminuzione di pena, potrebbe esser coonestato, in congrui casi, dalla ipotesi di illusione o di allucinazione. L’illusione è apparenza ingannatrice, errore dei sensi: essa potrebbe definirsi l’alterata percezione d’un obbietto al quale si attribuiscono, per disturbo associativo o disordine funzionale dei sensi, qualità apparenti non rispondenti al vero e che siano il prodotto di ricordi mal tra loro organizzati, vivificati dalla immaginazione.

È legge generale della percezione, che, mentre una parte di ciò che noi percepiamo viene dagli oggetti che ci stanno dinanzi, attraverso i nostri organi di senso, un’altra parte, ed è possibile sia la parte maggiore, proviene sempre (secondo la frase di Lazarus) dal nostro proprio cervello (James).

Il materiale della esperienza e della coltura permane nei centri cerebrali con nesso logico di ricordi e di immagini organizzati insieme dall’unità funzionale dell’equilibrio psichico. Mettendosi gli organi di sensi in relazione col mondo esterno, noi apprendiamo gli oggetti con la esattezza rispondente, non che alla realtà obbiettiva, benanche alla verità soggettiva: rispecchiarne in noi il mondo esterno con visione non ingannatrice, e possiamo, con certezza di convincimento, dar giudizio sulla esistenza ed importanza di nozioni acquistate. Ma talora i ricordi, le immagini sono frammentarî; i nessi logici tra le idee sono deboli ed instabili, e sulla estensione della coscienza i pensieri fluttuano con correnti indeterminate, senza che tra esse l’attenzione abbia sufficiente forza per arrestarne il corso tumultuoso. È possibile, allora, che qualche ricordo sensorio-ideale prenda, di botto, il sopravento, stimolato da sensazione di oggetto esterno, ravvivato da interna impulsione, e che la coscienza, come sorpresa, si arresti nel suo oscillare: ne seguirà che all’occhio della mente si prospetti una visione che non è conforme a realtà, ma che pure s’impossessa di noi con tal forza da farcene risentire gli effetti fin nel fondo dell’animo. Crediamo di vedere quel che non è; e, ciò che maggiormente preme, l’inganno proietta, nella trama cerebrale, la sua influenza deleteria fino a travolgere il precedente ritmo psichico ed imprimere ai nostri atti inattesa direzione.

Il fenomeno è molto più facile che avvenga tra idee emotive, appunto perchè le illusioni, fisiologiche o patologiche, si germinano in ambiente psichico preparato da antecedenti impulsioni rimaste abortite, da sentimenti repressi o soffocati, da sensazioni piacevoli o dolorose non completamente dileguate, da vivaci tendenze mal represse.

Io so di un marito geloso, che giurava di aver scorto sulla guancia della moglie la impronta di un bacio a lei dato dal suo amante; di un altro marito che, osservando gli occhi di un figlio neonato, giurava che fossero celesti e somiglianti a quelli del sospettato drudo della moglie; mentre, senza dubbio, eran neri. So di un imputato che vide l’avversario in atto di slanciarsi contro di lui armata mano, mentre questi non si mosse dal posto ed aveva solo il pugno stretto pel risentimento di ingiurie contro lui pronunziate; di un altro imputato il quale diceva di aver visto nelle mani della moglie il ritratto dell’amante, di averlo proprio riconosciuto, mentre trattavasi, e fu dimostrato ad evidenza, di immagine di un santo!

Riguardo ai motivi provocatori, vi sono illusioni meno considerevoli dal lato patologico di serî disturbi sensoriali, ma, peraltro, vieppiù importanti dal lato psicologico. Intendo parlare delle percezioni alterate per interne disposizioni di animo, massime provenienti da tonalità sentimentale o depressa o troppo eccitata; da qualche idea dominante nel processo associativo; da transitoria intermittenza di poteri riflessivi.

L’oggetto, o l’atto percepito, atteggia e riverbera il modo di sentire e di pensare: senza accorgerci dell’errore, ne restiamo impressionati. Un avversario avrà sorriso con aria indifferente? Noi vi scorgiamo il sogghigno dello scherno e ce ne adontiamo. Altri avrà pronunziato parole di consigli? Noi vi leggiamo, dal tono della voce e dal gesto, la intenzione di disistima e di offesa.

Usualmente diciamo esser questi ingannevoli errori: ma, chi ben guardi, si avvedrà che il difetto non è nell’intelletto, sibbene nei sensi; e che l’erroneo giudizio è dipendente da una illusione.

5. —Affine alla illusione, ma con disturbo sensoriale più grave, è l’ allucinazione. «L’allucinazione—scrive il Bianchi— è una percezione subbiettiva. Mentre nella illusione è l’obbietto mal percepito, perchè il soggetto ha fornito i connotati di cui è piena la sua coscienza, e che non appartenevano a quello, nell’allucinazione manca addirittura lo stimolo esterno, e la riproduzione è originaria, primitiva, dai centri sensoriali, di immagini che forse altra volta sono state formate e registrate nei rispettivi centri. Ovvero risultano da connotati forniti da diverse sensazioni in tempi diversi, ed associate ora in un’immagine concreta per la proprietà creatrice del cervello nelle stesse aree sensoriali, nelle quali sono formate e registrate le immagini per processo fisiologico, onde queste vengono risvegliate, per intrinseca attività degli elementi nervosi, e proiettate di fuori, o, come si suoi dire, obbiettivate»[149].

In pratica sogliamo dire, che, dovendosi giudicare gli stati soggettivi, l’ipotetico equivalga al reale, e noi sopra abbiamo riportato il giudizio autorevole del Carrara per ciò che sia l’effetto di errore: tanto più varrà nella ipotesi di illusioni o di allucinazione.

La psicologia allucinatoria, dopo gli studi classici di Brierre de Boismont, ha esteso il dominio in ampi confini, e si è resa dominante nella interpetrazione di fenomeni un tempo appartenenti alle credenze religiose e che ebbero tanto peso in avvenimenti storici di individui e di nazioni.

La idea, il sentimento, lo abbiamo visto, hanno attività propria, anzi non sono che forme di attività cerebrale. Il materiale psichico, nell’attualità di formazioni, ha rapporto accidentale col mondo esterno: esso conserva le energie immagazzinate, le attitudini latenti atte ad insorgere e addivenire operanti, indipendentemente dalle eccitazioni sensoriali. Il lavorio scientifico speculativo, tutto giorno in progresso, il perfezionamento delle belle arti e gli innumeri atti di automatismo psicologico ci addimostrano, che il mondo dello spirito ha vita a sè, quantunque le ricchezze, di cui dispone, gli sian venute d’altronde e si aumentino o si alterino continuamente mercè l’opera dei sensi. In un opificio meccanico vi si osservano gli istrumenti pel lavoro geniale: essi vennero dal di fuori; ma gli operai, impossessatisene, se ne servono per loro conto senza che alcuno, all’esterno, ne abbia sentore. È così che si comprende l’allucinazione, fenomeno tutto interno, scevro dall’influsso del senso, senza riferenza con oggetti fuori dell’io; fatto psichico isolato o staccato dal nesso di continuità con la vita di relazione.

L’analisi introspettiva ci fa consapevoli, che le immagini percepite si proiettano all’occhio della mente e, con moto incerto, prendono fisonomia conforme al nostro desiderio affettivo, alle condizioni passionali di tristezza, di gioia, di simpatia, di odio: ciò è per ciascuno la fonte di quel vagare della mente, or dolce, or doloroso; ora dubbio, or animato da sicurezza, or vinto da sconforto.

La sensazione fissata, sotto forma di immagine, nella memoria, si ripresenta ed è causa di una visione mentale che, giusta la definizione di Ballet, «è quella facoltà che noi abbiamo di conservare, sotto forma di immagini, il ricordo più o meno indebolito delle nostre sensazioni visuali, e di riprodurre e ravvivare queste immagini sotto la influenza di diverse sollecitazioni, per associazione di idee»[150]. E lo stesso prosegue: «Questa facoltà esiste appo ciascun di noi. Ma essa è molto diversamente sviluppata. Mentre che alcune persone non conservano, degli obbietti, che un ricordo vago ed una immagine a contorni indecisi, altre ravvivano le loro immagini visuali con grande facilità; queste immagini hanno presso essi una chiarezza tale che l’oggetto immaginario ha quasi tutta la precisione dell’oggetto reale»[151].

6. —Incontra spesso di osservare che, oltre alla visione mentale di immagini riprodotte, andiamo soggetti al fenomeno inteso col nome di linguaggio interiore o di parola interiore, cioè di udizione mentale consistente nel risveglio delle sensazioni uditive percepite dal nostro cervello e ritenute sotto forma d’immagini, specialmente rappresentative di segni del linguaggio (Rivarol, Egger, Paulhan, Taine, Binet, Charma, Ballet, ecc.). La persona, la cui immagine ci si presenta, dev’essere già stata a contatto con noi per via di qualche atto che ci abbia lasciato nella memoria il ricordo impressionante di disgusto o di odio; com’è, ad esempio, per antipatia, contrarietà o dispetto. Mentrechè pel momento non ne abbiamo risentito che passeggera impressione, in corso di tempo la rappresentazione dell’atto può intensificarsi e convertirsi in visione allucinatoria accompagnata, financo, da sensazioni uditive del linguaggio dell’avversario. Se, per strana combinazione, dopo cotesto lavorio di autosuggestione, il creduto nemico s’incontra, basterà leggiero incidente perchè l’allucinazione, dianzi poco vivace, si accenda e scoppi con impeto tempestoso di ira.

Altra volta, dopo la impressione, poniamo, di dispetto verso qualcuno a séguito di sufficiente motivo, lo stato di equilibrio di animo si affievolisce, la personalità si disgrega, si sdoppia; e noi avvertiamo che l’io si è messo in contrasto con sè medesimo, raddoppiandosi in una visione immaginaria persistente, in atteggiamento di aperta opposizione. L’io primitivo, sorretto dalla ragione, dalla forza persuasiva della educazione e dei principî di ordine, tenta e si ingegna di lottare contro l’io novello che più e più insorge e si ribella e contorna la persona dell’avversario con note repugnanti, ingigantisce l’atto da lui commesso, lo delinea con tinte oscure; risveglia, dai bassi fondi della vita animale, gli istinti sopiti della vendetta; fa sentire, con allucinazione uditiva, proprio la voce, il linguaggio offensivo dell’uomo che di già si odia; accende il fuoco dell’ira e, avuta la occasione propizia, ci spinge impetuosamente al delitto.

Un esempio di questo sdoppiamento dell’io, con la visione di contrasto tra immaginarie energie simbolizzate nel demone e nella coscienza, lo abbiamo in un soliloquio di Lancilotto, nel Mercante di Venezia di Shakespeare.

Certo è per me dover di coscienza Tormi al servizio di cotesto Ebreo: Il diavol mi sta al pelo; egli mi tenta E dice: gobbo o gobbo Lancilotto, Buon Lancilotto —ovver: buon gobbo —od anco: Buon Lancilotto gobbo; su, ti spaccia, Dàlle a gambe, va via!—La coscienza Risponde: bada bene, onesto gobbo, Onesto Lancilotto, bada bene; Od anche: Onesto Lancilotto gobbo, Com’io dicea pur or, non andar via, L’aiuto non cercar delle calecagne. E il dimon, più animoso, di rimbecco M’ordina di sfrattar: Via! mi ripete: Vattene! per lo ciel! dice il dimonio: Ti decidi da forte, a dir ritorna Messer lo dimonio, e netta il campo. Allor si apprende del mio core al collo La coscienza, e con gran senno: o mio Onesto amico, Lancilotto, aggiunge, Tu che figliuolo sei d’un uom dabbene: O meglio: d’una femmina dabbene — (Poichè a mio padre talor pizzicava Non so ch’altro sapor, non so che gusto): La coscienza, dunque: Statti fermo Dice; e il dimonio: Va; No statti, l’altra Replica—[152].

7. —Chi mi domandasse come debba estimarsi l’ultimo atto esecutivo dell’interno proposito criminoso di individuo in preda al sopradescritto stato di agitazione allucinatoria, risponderei: la legge intende minorare la responsabilità in proporzione della degradata coscienza e libertà di arbitrio; intende calcolare, tra’ criterî di imputabilità, di temibilità del reo, di ingiustizia dell’atto, lo stato di turbamento di animo del prevenuto: se tutto questo trova applicazione nella specie dianzi esaminata, perchè non dev’essere accordato il beneficio della provocazione? Il giudice ricordi sempre l’infrascritto mònito del Romagnosi: «A parlar precisamente, l’uomo non è mosso più o meno ad agire a misura della realtà dell’utile, cioè di quello, che le sue cagioni reali prese in sè stesse e combinate colla natura e costituzione dell’uomo possono costantemente e veramente apportare di bene o di male; nè meno a proporzione che certi combinati rapporti fisico-morali possono specialmente apportare di utile agli altri suoi simili; nemmeno a proporzione che l’uomo stesso deliberante e delinquente lo conosce più o meno chiaramente, o semplicemente se lo può ripromettere con maggiore o minore certezza; ma bensì a proporzione, che la di lui idea solletica ed attrae con più o meno di forza la di lui sensibilità»[153].

8.—Un’altra forma, più difficile a considerarsi, di anomalia di interno processo provocativo (mi si passi la frase) è quella che, di origine, o non, patologica, si elabora nel dominio dell’inconscio, al disotto della soglia della coscienza, tra attività ereditarie istintive. Di ciò abbiamo, sotto altri riguardi, parlato ripetutamele innanzi: crediamo, nonpertanto, ripeterne qui l’esame, con novelle applicazioni.

Verificatosi il motivo, che abbia impressionata la nostra sensibilità, ne rimaniamo turbati: tosto ritorna la calma e, per seguite distrazioni, obliamo fin il ricordo di quanto sia avvenuto. Che anzi, qualche volta, ritornando, con la riflessione, sul risentimento provato, ce ne meravigliamo, sicuri di noi stessi, del potere inibitore onde disponiamo, della forza di resistenza a qualsivoglia, non dico reazione delittuosa, ma intemperanza di condotta. Frattanto, in corso di tempo, il motivo provocatore, nascostosi nel buio dell’inconscio, prende vigore a contatto di energie rimaste in perenne stato di potenzialità: non avendo forza sufficiente di venire a galla sulla superficie del piano visivo, rimane involuto in una specie di vita embrionale. Ma—quando meno vi pensiamo—qualche circostanza accidentale ferma, di sorpresa, l’attenzione sul l’insorgere d’una preoccupazione che, apparendo tra reminiscenze del passato, fa sì che si squarci il velo del mistero e ci si mostri la idea ridestata della offesa obliata. L’animo è preso da fremito; e noi rimaniamo vinti, scorati sotto l’incubo opprimente di sentimenti e di triste incertezza. Contro questo stato doloroso, affannoso si spuntano le armi della ragione; par che all’apparire del mostro, rimasto infino a quel momento nascosto nella tenebra, ogni buona intenzione sia messa in fuga. Occorrendo favorevoli circostanze di ritornare a contatto con l’offensore, noi, mercè sforzi estremi, ci adoperiamo, col trattarlo ed esagerare la di lui vicinanza, di sfidare quasi noi medesimi a mostrarci superiori, vittoriosi di fronte all’eccitamento emozionale del ricordo doloroso. Però, senza avvedercene, così operando, aggiungiamo esca al fuoco: ad un dato istante, allorchè, per accidentalità, la vigile nostra resistenza riflessiva si indebolisca, la marea monta rapidamente, eccitata da impreveduto pretesto; la tempesta rugge dal fondo e la nostra volontà è travolta da impeto infrenabile di collera. Se, in conseguenza di ciò, si verifica un delitto, non è improbabile che il giudice, riandando sui precedenti del fatto e notando, dall’apparenza degli avvenimenti, un presunto stato di calma del prevenuto, la insufficienza di motivo ultimo dell’azione, concluda per l’aggravante della premeditazione! E tuttodì simili ingiustizie si deplorano, coonestate da niente altro che dalla ignoranza di fenomeni per quanto strani, altrettanto conformi all’umana natura.

9. —Trattando della specie e del grado di sensibilità, misura di attenuazione d’imputabilità in dipendenza di atti provocativi, non dobbiamo trasandare d’intrattenerci a parlare dello stato di emotività di chi sia affetto da isterismo o da nevrastenia, due forme cliniche morbose altrettanto comuni ai nostri dì, quanto trascurate nelle aule giudiziarie.

Consiste l’isteria in uno stato costituzionale abnorme del cervello, che si appalesa in tutte le funzioni, le motorie, le sensitive, le psichiche (Borri). In chi ne sia affetto, i disturbi della sensibilità e della emotività sono polimorfi: evvi irruenza o apatia nella vita di relazione; percezione reattiva sproporzionata agli stimoli; esaltamento della fantasia; suggestibilità irresistibile; predominio dell’automatismo; vivace rappresentazione e mutabilità di carattere sui minimi toni della sentimentalità; strani orientamenti della coscienza; saltuaria associazione tra le idee più dissimili; fissità di idee fino alla ossessione; insorgenza di prepotenti atti istintivi per effetto del più lieve motivo autosuggestionante (Laségue, Esquirol, Janet, Pitres, Dally, Bianchi ed altri). La gioia ed il dolore, la calma e la tempesta, la simpatia e l’antipatia, l’ira e la quiete sono nella isterica gli eccessi opposti in cui si polarizza la vita dello spirito; epperò sono i tanti segni che debbono metterci in guardia al momento di dover giudicare su azioni commesse in conseguenza di stati cotanto anomali. Bene spesso siamo ingannati dalle apparenze, ondechè qualifichiamo per generosi atti ispirati al più profondo egoismo, ed in cui non evvi di vero che la teatralità, la quale, per la isterica, giunge fino all’architettura dei più fantasiosi progetti. La menzogna, l’inganno sono l’armi onde questa si avvale per lo sfogo di odi mal repressi, di preordinati propositi di vendetta: il sentimento non si limita a muover ed ispirare le comuni disposizioni dell’animo, i varî umori, ma invece si esalta e degenera in un vero moto passionale, iperestesia psichica (Krafft-Ebing).

La sovraeccitabilità morbosa delle isteriche ci autorizza a ritenere in esse estrema suscettibilità ad esaltarsi per qualsiasi motivo di provocazione, massime, poi, allorchè questo appartenga alla sfera dell’affettività erotica, e quindi concorra a suscitare la gelosia, il dispetto, l’ansia del contrasto, la disperazione d’un abbandono. L’azione suggestiva, resa incoercibile pel fascino della immaginazione, molto facilmente, in casi trascurabili, da corpo alle ombre, finisce di scompigliare il labile equilibrio psichico, e l’ira è l’effetto di delirio persecutorio, con scatti od irruzione di estrema violenza.

In processi penali i più complicati, in sensazionali dibattimenti il giudice, e massimamente il giurato, non sa rendersi ragione di delitti atroci per fugaci motivi, che non meritano neanche l’onore di esser presi in considerazione: l’accusata o non sa difendersi, chiusa nel cupo dolore della sventura in cui sia precipitata, o esagera talmente in addurre le sue ragioni da non esser creduta e, quasi sempre, da ingenerare biechi sospetti di malizia, simulazione o dissimulazioni inesistenti.

Quando il difensore, in vista di analoghi casi, si sforzerà di chiedere la scusa della provocazione, sia pure per motivi futili, ma che, per lo stato abnorme psichico della isterica, furon causa di sì gravi effetti disorganizzatori della coscienza e di profondi turbamenti nel dominio dell’affettività, l’accusatore, se non è all’altezza scientifica del suo ministero, comincerà a sillogizzare sulla sproporzionalità della causa con l’effetto, per indurne il convincimento che, riuscendo financo strano, nella specie, che un omicidio fosse commesso per sì lieve motivo, altrettanto più strano sarebbe lo ammettere che all’accusata competa il beneficio della provocazione!

Fino a che, si ricordi, dalle aule della giustizia non siano banditi gli astratti aforismi sillogistici, e non sarà sostituita, in quella vece, la temperanza che viene dalla relatività delle nostre convinzioni, l’errore troverà la via di penetrare nella mente del giudice e di sconvolgere i più santi principî della equità e del vero!

Tra’ criterî misuratori della scusa della provocazione il Carrara voleva quello desunto dall’ intervallo più o meno lungo interceduto fra la offesa e la reazione; appunto perchè, secondo il detto scrittore ed altri della scuola classica, gli affetti non valgono a costituire scusa, se non in quanto abbiano, tra gli altri, il carattere di un’azione rapida e dentro certi limiti breve, veemente, che vinca la ordinaria calma della ragione.

Noi conveniamo, in genere, ad ammettere gli enunciati criterî, ma guai, nella pratica, ad accordar loro autorità assoluta! L’elasso del tempo può dar luogo alla calma, dopo che l’animo sia stato turbato da motivo qualunque di offesa; ma, nè è raro che avvenga, può essere ancora cagione per cui il risentimento si intensifichi e scoppî in impeto susseguente di ira; la qual cosa s’incontra di solito nelle isteriche ed in chiunque non goda la piena integrità delle facoltà sensitive ed emotive.

10. —Dopo di aver accennato allo stato di sensibilità ed emotività delle isteriche, rispetto alle conseguenze di scusa della provocazione, diremo dei nevrastenici.

La nevrastenia, questo stato nevropatico, che ai nostri giorni ripercuote i suoi effetti in sì larga misura su tutte le classi sociali e che è l’esponente così dell’esaurimento dello spirito in lotta con sè stesso, come dello sperpero inadeguato di energia per le necessità dell’esistenza, è da poco tempo che dallo studio del psichiatra è passato allo studio del psicologo-giurista, e ciò pel fine di illuminare il giudice in continui dubbî e difficoltà ingenerati in lui allorchè si trova a dover sentenziare sul grado di imputabilità di infelici talora reputati ingiustamente i più proclivi artefici di delitti, sol perchè meno adatti ad avvalersi dei mezzi di freno suggeriti dalla società civile. Avendo per fondo degenerativo una debolezza irritabile del sistema nervoso (Krafft-Ebing), la nevrastenia va distinta dai seguenti caratteri psichici: atonia generale, con alterazione funzionale del senso cenestetico; passività della coscienza a qual si sia stimolazione esterna o interna; abbassamento dei poteri discriminatori con relativa ripercussione nei processi associativi; affettività tumultuosa, violenta; intermittenza di coscienza in periodi transitori; avventatezza nelle azioni; imprevidenza dell’avvenire; veemente insorgenza di idee fisse, che assediano l’animo, e ne turbano il ritmo dell’equilibrio; proclività alle passioni impetuose, massime all’ira, alla vendetta; sovraeccitazione, commozione che possono giungere al grado di scompigli deliranti. Specialmente la forma eretistica comprende, al dir del Bianchi, individui spesso abbastanza evoluti nella sfera dei sentimenti e dell’intelligenza, ma che sotto i più leggieri stimoli si sovraeccitano, si commuovono, esagerano nei giudizî e nelle azioni sulle quali non possono esercitare il debito controllo, con sperpero mutile di energia; sono violenti, impulsivi, si allarmano per nulla e precipitano le cose[154].

11. —Fu lodevole pensiero del nostro legislatore di aggiungere alla vecchia nozione della provocazione, ristretta al turbamento dell’ira, benanco la ipotesi di minorata responsabilità in conseguenza d’impeto d’intenso dolore.

Discorremmo della cenestesi del criminale e dei concomitanti somatici del dolore: per completarne la conoscenza dobbiamo penetrare più addentro nell’anima del delinquente e veder come, esso dolore, si germini e si confonda con l’attività dell’energia criminosa, e si addensi e preoccupi di sè le più ascose ed intime parti del cuore.

Lo vedete quell’uomo che, ricco per fortunata posizione sociale, rispettato ovunque, traeva, non è guari, vita tranquilla e felice, abbellita dalla pace domestica, lusingata da fulgide speranze nell’avvenire? Egli ora è cogitabondo, è stanco, abbattuto; poco ama il conversare, punto si diletta delle comodità onde dispone: talora inclinato a mestizia, il più delle volte concentrato in cupi pensieri, preoccupato da un mistero che ei si adopera di tener chiuso in sè, geloso che se ne indovini l’esistenza. Se egli opera, se ei conversa, l’acuto osservatore indovina in lui il turbamento, l’indecisione, il timido balenare del pensiero: la fede nell’avvenire è scossa; la mente, ad intervalli, si abbuia, e l’uomo, che poco prima parea oggetto d’invidia, è reso segno di curiosa attenzione del pubblico, di diffidenti riguardi da parte degli intimi. Nell’animo di lui è penetrato dapprima il sospetto, poscia il convincimento di tradimento della fede coniugale, in addietro fonte di beatitudine tranquilla, di fervido lavoro, di sacrificî pazienti. In lui ha preso imperio il dolore, il quale, per essere più intimo, è altrettanto più mesto, più sconsolante: non trovando sfogo nelle affettuose confidenze, si concentra ed assedia l’animo e ne estingue qualunque risorsa di sollievo.

Incerto sui rimedî a tanto male, l’infelice non sa che straziare sè medesimo; ansioso che da sè si allontani l’amaro calice costretto a sorbire goccia a goccia, non sente più amore alla vita trasmutatasi in teatro di amarezze: premuroso di conservare il bene sommo dell’esistenza, l’onore, sente ribollire nel cuore la passione dell’odio, dell’ira contro chi fu causa volontaria della grave offesa: sull’orlo del baratro scavatosi sotto i suoi piedi, egli non teme d’altro che di non soddisfare al dovere impostogli di vendicare l’oltraggio sopportato, di ristabilire, quand’anche col delitto, il suo equilibrio morale sconvolto dall’onta del talamo violato. L’idea fissa—scrive Bourget—produce sul nostro cuore il medesimo effetto che un punto brillante ed immobile sui nostri occhi; ella ipnotizza l’essere dominato e circoscrive la sua sensibilità ad un cerchio affatto piccolo di sensazioni.

Così, lo sventurato coniuge tradito, vittima di intenso dolore, o agitato da tutte le furie; dalla gelosia, che lo richiama alla perduta dolcezza dei godimenti dell’amore e gli incute repugnanza per chi sprezzava la sua felicità nel darsi alle voglie altrui; dal pensiero del disonore cagionato alla persona, al cognome, ai figli, ai parenti; dal convincimento di un male irrimediabile, non colmandosi il vuoto scavato dal disonore se non col ricorrere al mezzo estremo della vendetta!

Il descritto esempio è tra i tanti di dolori intensi per motivi intimi; ma altri vi sono, che si convertono in cause di delitti e si scusano, oltre che dalla legge, per comune sentimento di pietà, di compatimento dei tristi destini inseparabili dalla misera vita umana.

La emozione comune agli stati, alternanti o continui dell’intenso dolore, è la tristezza, il cui tratto caratteristico fisiologico e della fisonomia è l’azione paralizzante ch’ella esercita sui muscoli volontarî (Lange).

Ella o è negativa o positiva: nella prima forma invade e riempie di sè l’animo, abbattendolo e privandolo fin della speranza di rimedio; l’energia personale si abbassa al disotto del livello di reazione istintiva; è disseccata la fonte del desiderio, del volere; è ottenebrato l’orizzonte del pensiero; annichilito lo spirito, chiusa la via alla speranza; prostrata benanco la forza di protestare o di chieder l’altrui compianto. L’uomo è distrutto, poichè a lui venne meno ogni puntello all’esistenza, ed è noto a tutti, che la vita è sorretta da illusioni, da fede, da ideali; guai a chi se ne spogli e crea a sè d’intorno il vuoto; misero chi, per disavventura, siasi ridotto in condizione cotanto abbietta!

Ma la tristezza può essere attiva (seconda forma); quel che, di solito, incontra nel secondo stadio di forte dolore morale. L’uomo comincia, poco a poco, col riattivare i motivi d’interesse alla vita; con sforzi di autosuggestione ricupera la fede in sè, e negli altri; l’orizzonte del pensiero si spiana, il volere è pronto, impaziente d’indugi. Molti—osservatori poco accorti—facilmente scambiano questo stadio, dirò così, accomodativo dell’intimo dolore d’un’offesa, con la calma generata dal convincimento e dall’assuefazione, nella vittima, di deporre il risentimento e sopportare, anche in avvenire, con rassegnazione l’onta patita o direttamente o indirettamente. La calma apparente può nascondere, al disotto, il furore tempestoso dell’anima di Otello, ovvero la riflessione cupa, inflessibile, aspettante l’opportunità della vendetta, siccome in Amleto; ma il dolore continua a dominare, e, quando altri meno sel creda, irrompe furente alla vendetta, con meraviglia di chi credette, per l’apparente calma, quetata la tempesta, la quale, all’incontro, tenendosi nascosta nel fondo dell’animo, avea bisogno di nuovo soffio di vento per scoppiare e travolgere ogni cosa!

II.

Legittima difesa e stato di necessità.

1. Carattere di legittimità o di giustizia, di necessità e di attualità nella discriminante della legittima difesa.—2. Stadio fisio-psicologico del meccanismo della difesa dell’uomo: coefficienti fisici, intellettivi e morali.—3. Valutazione del timore qual fondamento naturale della legalità dell’offesa.—4. Psicologia del timore; esquilibrio psichico; coefficienti secondarî della necessità di difesa.—5. Sistema seguito dal nostro Codice.—6. Delimitazione della legittima difesa.—7. Legittima difesa in persona degli altri.—8. Dello stato di necessità; suo contenuto giuridico e logico.—9. Teoria dei giureconsulti romani.—10. Differenza tra lo stato di necessità e la legittima difesa.—11. Estremi dello stato di necessità.—12. La gravezza e la imminenza del pericolo.—13. L’ accidentalità e la inevitabilità del pericolo.—14. Lo stato di necessità per la salvezza degli altri.

1. —A completamento di alcune forme giuridiche di psicologia criminale, tratteremo della legittima difesa e dello stato di necessità. Ciò facendo, prescinderemo dalle nozioni puramente di diritto, estranee alla materia di questo libro.

Parlando della legittima difesa, altrove[155] scrivevamo le seguenti osservazioni, le quali, ricordate dopo circa dieci anni, servono quale nuovo argomento onde convincere il lettore del come fosse costante in noi la persuasione, che l’unico ed efficace indirizzo positivo in materia criminale fosse quello non difforme dai principî scientifici della scuola dinamica, e che a torto i cultori di antropologia e di sociologia criminale han voluto allontanarsene, allora quando ponevano a sostegno delle loro teorie o l’esclusivo elemento somatico dell’individuo, ovvero la influenza assoluta delle necessità sociali.

Quasi tutti gli scrittori avvisano nella difesa il carattere di legittimità o di giustizia; di necessità e di attualità. È legittimo tutto quello che non è fatto contro la legge, anzi per respingere un attacco antigiuridico: ciò che più non avviene quando si è cagione prima del male che poscia si respinge col danno altrui. La necessità è inerente al pericolo imminente del male minacciato; è imposta dalla eccezionale condizione di non essere alcuno più in grado di far ricorso alla tutela delle leggi, ma di doversi avvalere della forza privata, dell’opera individuale. L’attualità, poi, contiene l’obbligo di far cessare il diritto di reazione tostochè sia cessata l’azione. Il carattere di legittimità è valutabile obbiettivamente, alla base di qualche prescrizione legale, che, determinando l’indole permessa o vietata dei nostri atti, ci apprende altresì il modo di estimarla. Ma il carattere di necessità e di attualità sono da considerarsi soggettivamente ed in relazione, non solo alle circostanze speciali che accompagnarono la violenza, o l’attacco, e la offesa o reazione, ma altresì in relazione all’indole dell’offeso e dell’offensore ed allo stato peculiare di animo che determinò l’offeso a reagire.

Con questo metodo, risalendo alla natura intima e primitiva dell’uomo, si avrà che la discriminante della legittima difesa, piuttosto che poggiare sul godimento di un diritto o l’adempimento d’un dovere, e sulla necessità d’obbedire ad una coazione, sia il risultato spontaneo di una legge dinamica, la quale è costante; presiede a qualunque umana operazione, individuale o collettiva, e si effettua nella prevalenza dell’energia di conservazione dell’essere, in collisione con altre energie che ne vorrebbero distruggere la natura sostanziale ovvero ostacolarne il perfezionamento. La lotta di esistenza o di conservazione, che costituisce la naturale dimostrazione della vita dinamica degli esseri animati, quando vogliasi riguardare nelle relazioni tra gli individui, si converte in prevalenza di energia di conservazione; appunto perchè, come fu da noi accennato, gli esseri individui, e l’uomo segnatamente, sono il prodotto di qualche speciale energia che, per natura propria ond’è differenziata dalle rimanenti, ottiene il sopravvento nella lotta di continua produzione e trasformazione degli esseri, ed impronta di sè la nuova apparizione fenomenica risultatane. L’uomo che, aggredito, si difende, non ha, certamente, il tempo di pensare al diritto o al dovere che gli compete, ovvero di misurare lo stato di coazione in cui versa: in lui l’istinto della conservazione rimugghia potente dall’intimo del cuore, e la reazione è il compimento di un moto meccanico che spontaneamente insorge e si esplica.

Chi ne desideri la prova palese, riguardi a quei nostri movimenti automatici ed incoscienti alla presenza di qualche fatto che all’improvviso e, quasi sempre per caso, minacci il nostro benessere: la mano corre rapida ad allontanare un oggetto che era per riversarsi addosso; l’occhio, pel movimento delle palpebre, è difeso dal pericolo di contatto offensivo con oggetti esterni; la repugnanza dell’olfatto per alcuni cibi vi dice, che questi mal si confanno ai nostri bisogni di nutrizione e di benessere. In questi moti istintivi è la sede della reazione di offesa per respingere la ingiusta violenza, la quale ne minaccia di pericolo; e la ragione per cui appo tutti i popoli e tutte le legislazioni non si dubitò mai dell’origine naturale del moderarne d’incolpata tutela, quantunque discrepanti applicazioni se ne facciano in pratica.

2. —Senonchè, il meccanismo della difesa dell’uomo, per la facoltà di razionalità in lui, quantunque cominci da moto spontaneo, si compie in moti riflessi: alla semplice impulsività iniziale della violenza attuale si aggiungono svariati coefficienti, che conviene classificare in tre ordini; in fisici, intellettivi e morali. Sono fisici tutti quei coefficienti che, dipendendo dalla presenza di un dolore o dall’assenza di un piacere goduto, determinano lo stato psichico conveniente alla scelta del mezzo dell’offesa in preferenza del ricorso alla guarentigia dell’autorità o della legge. È tanto forte la proclività, nello stato di dolore, all’offesa, che qualche volta siamo indotti a respingere, nostro malgrado, colui che, cagionandoci un dolore passeggiero, intende procurarci il risanamento da qualche morbosa affezione fisica. I bruti, che, meglio di noi, sentono la forza degli istinti puramente fisiologici, respingono l’azione dolorosa con reazione altrettanto potente che subitanea.

Sono coefficienti intellettivi quelli che si connettono alla relazione degli eventi, o precedenti o concomitanti o successivi: cioè a dire, che fanno dipendere la prevalenza di una data disposizione dal concorso simultaneo di efficacia psichica di tutte le idee, che abbiano nesso con l’evento verificatosi della violenza e con quello da verificarsi della reazione per respingerla. Sono coefficienti morali quelli che si riferiscono ai sentimenti od alle passioni, le quali preparano o accompagnano il conflitto criminoso dell’attacco e della difesa. Tutti questi coefficienti possono riassumersi in un concetto ed in un sentimento; il concetto di pericolo e quello di timore.

Il pericolo o è fisico, e produce la costrizione di allontanare una causa disorganizzatrice del nostro benessere fisiologico; o intellettivo, ed è la sintesi di tutte le idee che sono il frutto della istruzione ed educazione, non che delle prescrizioni legali ed etiche e della misura o proporzione tra il danno, che si cerca di evitare e quello che ne deriverà dall’appigliarci, con preferenza, all’uso della forza privata, e non al mezzo della legge o dell’autorità competente. Il pericolo, in fine, se è morale, si muta in sentimento di timore, il quale consiste in un turbamento psichico, ovvero in un disordine di facoltà con aumento delle energie istintive di conservazione e diminuzione di energia delle attitudini acquisite e delle cause che loro si riferiscono.

Nel contrasto di tendenze, ogni energia istintiva piglia il sopravvento; la cagione è perchè le facoltà da noi acquistate o, meglio, sviluppate, per lo stato sociale, presuppongono, perchè abbiano peso, la condizione di ordine giuridico; la quale condizione, laddove sparisca con la eccezionale evenienza di non poterci avvalere della protezione delle leggi, mena seco l’indebolimento o la sparizione del potere dei motivi che ci contengono ad agire nei limiti della legalità e del rispetto dell’altrui diritto. Chi fino a questo punto ci ha seguito, nell’analisi della teorica dinamica in materia criminale, intenderà facilmente, che lo stato di necessaria difesa sia il contrapposto dello stato di delinquenza punibile. Pel delinquente evvi prevalenza di energia criminosa con scelta, più o meno cosciente, di mezzi adatti al fine di dar corso all’efficacia del motivo, il quale si è convertito in iscopo; per chi legittimamente si difende, la prevalenza di energia è per una azione di ordine ovvero di ristabilimento dell’equilibrio, naturale e civile, contro cui è dirizzata la violenza dell’aggressore. Se, dunque, vi sono delle leggi che puniscono il primo, perchè non vi deve altresì essere una legge che assolva il secondo?

3. —Parlandosi del timore, fondamento naturale di legalità della reazione, alcuni ne vollero, come pel pericolo, formolare un precetto esclusivo, il quale si adottasse quasi regola logica e costante. Si disse, quindi, che siffatto precetto fosse deducibile dalla natura del danno, che ci vien minacciato; dalla gravezza ed inevitabilità dello stesso, e dalla specie dei mezzi di che facciamo o potevamo far uso, nel respingerlo. Il Carrara, per esempio, scrive[156], che, perchè al timore si accordi questo potente effetto di rendere legittimo un atto violatore dei diritti altrui e materialmente contrario alla legge, è in tutti i casi necessario per regola assoluta, che nel male minacciato si trovino questi tre requisiti: 1 o ingiustizia, 2 o gravità, 3 o inevitabilità. E, parlando del requisito di inevitabilità, aggiunge: «Certamente, se al male, che ci minaccia, potevamo sottrarci altrimenti che col violare la legge, la violazione deve rimanere punibile; perchè l’arbitrio dell’agente non era più ristretto fra la scelta di due mali ugualmente gravi; e la legge dell’ordine poteva essere osservata, purchè egli eleggesse il mezzo innocente col quale avrebbe evitato e il danno proprio e l’altrui. Sottrarsi altrimenti dal male, che ci è minacciato, si può o con previsioni anteriori, o con provvedimenti successivi, o con ripari concomitanti. Perciò la inevitabilità nel pericolo, che indusse ad agire o reagire, si desume da tre criterî distinti: 1 o che sia improvviso; 2 o che sia presente; 3 o che sia assoluto »[157]. Ecco un ragionamento il quale pecca di eccesso: perchè, quando anche si giunga a definire il significato di ciascuno dei tre distinti criterî, non si arriverà mai a precisare, nella indefinita serie dei fatti, la ipotesi in cui o l’uno o l’altro, o tutti insieme, abbiano a riscontrarsi. Il Berner[158], partendo dalla necessità di proteggere un diritto aggredito, che vuol mantenersi contro un assalto ingiusto ed attuale, conclude molto più logicamente, che «non è necessario che lo assalto sia impreveduto, nè che il diritto difeso sia irreparabile. Se si mantiene la legittima difesa nel suo concetto semplice, che il diritto, cioè, non deve piegare davanti una ingiustizia, risulta evidente che essa è applicabile anche per un diritto risarcibile». Esagerando in sistemi restrittivi, si giunge a creare delle norme troppo astratte ed arbitrarie, le quali, se accontentano lo scienziato, non possono a meno che essere dannose pel giudice, che, non della imputabilità, ma della imputazione è chiamato a decidere, ed ha l’obbligo di tenere presenti tutte le circostanze le quali accompagnano il fatto e ne modificano l’indole; lo attenuano o lo aggravano.

4. —L’errore degli scrittori, che posero a fondamento della legittima difesa la teorica della coazione, è nell’avere trasformata la nozione del timore da idea soggettiva e relativa in criterio imprescindibile ed obbiettivo. Indi si adottarono dei concetti di gravezza e di assolutezza non sempre congrui alla realtà delle cose, anzi il più delle volte troppo ipotetici. Il timore, causa morale dell’azione difensiva, non è a staccarsi dalle altre cause fisiche ed intellettive che determinano la scelta e l’uso della forza privata e non della forza pubblica e delle leggi. Fino a che il pericolo è puramente fisico, non sarà difficile il ricorrere a mezzi legali, reprimendo l’atto della istintiva reazione; parimente avviene nel pericolo dall’aspetto intellettivo, perchè vi è l’agio di rafforzarsi nell’intenzione di non reagire pel concorso opportuno di tutte le idee che sono la fonte del diritto e del dovere; ma non è più così pel pericolo addivenuto timore, perchè in questo caso l’equilibrio morale o è indebolito o distrutto. Tornerà chiaro quanto qui è detto se si esaminano alcuni esempî. Tizio è minacciato da Caio per azione involontaria o colposa. Il pericolo per Tizio è già fisico, perchè qualche cosa si è realizzata, la quale mette in dubbio l’animo sulla conservazione della nostra integrità corporale; eppure Tizio sarà facile che non reagisca.

La ragione è perchè egli sa con certezza, che il fatto delittuoso non dovrà ripetersi; epperò non richiede che sia antivenuto o prontamente represso. E del pari: Tizio minaccia Caio di morte; questi, se la esecuzione della minaccia non è immediata, non crederà dì reagire usando della propria forza, perchè riflette alla opportunità di aver comodo a mettersi in condizione, nell’avvenire, di non cadere vittima dell’avversario, e di prendersi la giusta vendetta, che a lui competa, dal soccorso punitivo della legge. Ma non è lo stesso quando il pericolo fisico, vincendo ogni freno intellettivo, si converte in sentimento di timore e giunge ad impossessarsi del nostro animo. Il turbamento, che ne segue, distrugge in pochi istanti l’opera faticosa di buona e lunga educazione, di virtù ereditarie di rispetto della legge; fa scomparire o attenua la forza proveniente dal convincimento di incorrere in possibile responsabilità, dovendosi un giorno dar conto del proprio operato sebbene non delittuoso.

Sapere, però, comprendere l’intimo nesso tra le energie psicofisiche, e vederne poscia lo stato di turbamento, è solo contemplare in apparenza il problema psicologico del moderarne d’incolpata tutela. La maggiore difficoltà è quando ci facciamo a studiare la relazione disorganizzatrice tra l’energia del motivo, causa del pericolo, trasformata in sentimento di timore ossia in causa di esquilibrio (perchè non coerente alla nostra abituale natura), e le facoltà psicofisiche armonizzate ad unità razionale e tendenti alla conservazione dell’ordine giuridico, il quale rispecchia esternamente il nostro ordine interno. È d’ogni stato di squilibrio affettivo l’indebolimento o l’obliterazione della coscienza; ond’è che neppure dal lato meramente morale, o soggettivo, l’azione criminosa commessa nel descritto stato avrebbe sufficiente e plausibile argomento di responsabilità penale.

La legge di necessità, necessaria difesa, è la legge dominante dell’azione reattiva: essa, comechè non sia tutta meccanica, come nei fenomeni puramente automatici, obbedisce alla dinamica di conservazione e si proporziona istintivamente all’energia di tendenza protettiva della integrità personale. Lo stato psichico qui descritto è il normale per chi reagisce spinto dalla necessità di difendersi; è lo stato, cioè, di chi si appiglia all’uso della forza privata perchè veramente ed assolutamente non è in grado di ricorrere all’ausilio della legge. Ma, bene spesso, l’azione è il risultato di un concorso di parecchi altri fattori che mette bene di esaminare. Il primo e più ordinario fattore è quello di vendetta.

Il timore abbatte l’animo, il sentimento di vendetta lo rialza, e la passività prodotta dalla sorpresa dell’attacco è vinta dalla rinata attività di reazione, che di automatica addiviene cosciente. A questo punto, dal fondo della coscienza si desta un secondo fattore, l’idea del diritto proprio in correlazione col dovere dell’avversario; il diritto al rispetto, il dovere, in altri, di non rompere l’ordine imposto dalla legge e dalla necessità della vita sociale. In pari tempo si affaccia alla mente una serie di idee, le quali per lo innanzi non facevano avvertire la loro presenza; idee di tutti i doveri da noi adempiti per conservarci il rispetto alla conservazione; idee delle conseguenze dannose, morali e materiali, che ne deriverebbero, se l’atto illecito non fosse represso: al che si aggiunge un certo istinto, per quanto domato dal progresso e dalla civiltà dell’uomo, altrettanto potente (laddove non ricorrano le ordinarie condizioni della vita giuridica) a sentirci trascinati alla distruzione del simile per blandizia di preminenza, sia pure di forza bruta, contro chiunque osi esserci di contrasto. Il diritto della forza, condannato dalla morale, represso dal mònito della legge, rinasce potente, in tutto il vigore brutale, ogni qualvolta la morale e la legge perdono l’imperio: l’individuo si sostituisce alla società, e nel momento supremo della lotta tra la propria esistenza, protetta dal convincimento del diritto, e l’operare altrui in contraddizione del dovere, la scelta non è dubbia, poichè la conservazione dell’essere, oltrechè spontanea, è frutto di abituale riflessione e di adattamento al consorzio sociale cui apparteniamo.

5. —Pel nostro Codice la legittima difesa è limitata alla persona, cioè, come si espresse il Zanardelli, alla vita, all’integrità personale ed al pudore, non ai beni; salvochè la violenza ai medesimi vada unita ad un attacco alla persona. Il § 53 Cod. pen. tedesco, da cui l’art. 49 del nostro Codice penale è tolto, prescrive che «necessaria difesa è quella che è richiesta per respingere da sè o da un altro un’aggressione attuale ed ingiusta». E gli scrittori interpetrano, secondo il Berner[159], che, essendo il fondamento della legittima difesa la protezione del diritto, ella si estende non solo alla difesa del corpo, della vita, della proprietà e dell’onore, ma anche dei diritti famigliari (adulterio), della libertà, del pegno, di una servitù, ecc.

6. —Questa teorica, com’è detto, non è accettata dal nostro legislatore.

Il Zanardelli, commentando l’art. 357 del suo progetto ultimo[160], così ne significava le ragioni: «Si è dubitato se la giustificazione per l’omicidio e per la lesione personale, universalmente ammessa quando si tratta di difendere a persona, debba ammettersi anche nel caso in cui si tratti di difendere la proprietà. I nostri progetti di codice hanno costantemente respinta, come esorbitante, la teoria accolta da alcuni scrittori ed in qualche codice, secondo la quale si ammetterebbe che, anche al solo fine di salvare la roba, sia sempre legittima l’uccisione del ladro. «La proprietà (scriveva il Nicolini) è cosa sì lieve a fronte dell’onore e della vita, che sarebbe avvilir troppo questi beni sovrani dando a quella i privilegi medesimi; per essa vi è sempre tempo di implorare i giudizî. Che se è violenza, sempre inescusabile, quoties quis id quod sibi debetur non per judicem reposcit (L. 7, D. XLVIII, 7, ad leg. Iul. de vi privata ), molto più dev’esserlo quando in vendetta della proprietà violata si trascorre a’ corrucci ed al sangue»[161]. Ma, se l’attentato alla proprietà abbia tali caratteri, o avvenga in tali circostanze da presentarsi quasi inseparabile dall’attentato alla vita o alla sicurezza personale del proprietario, allora ogni ritegno deve cessare verso i ladri e gli aggressori; e chi è posto in pericolo ha diritto di respingere l’aggressione con tutti i mezzi che a questo effetto siano necessarî. Per tali considerazioni, e limitatamente ai delitti di omicidio e di lesione personale, la giustificazione della legittima difesa, di cui è proposito nell’art. 50, num. 2 (del Progetto), viene estesa alla necessità di difendersi contro gli autori di violenti attentati alla proprietà, come sarebbe nel caso di furto violento o di saccheggio, o quando si respingano i ladri, che scalano o scassano la casa in tempo di notte, o quando, avvenendo ciò in tempo di giorno, la casa sia posta in luogo isolato».

7. —La legittima difesa non è soltanto ammessa per respingere da sè una violenza attuale ed ingiusta, ma ancora per respingerla da altri. Chi desiderasse apprendere la ragione vera ed ascosa di questo precetto, che è sanzionato ben anco dalla morale, dovrebbe risalire a due nozioni essenzialissime del progresso dell’umanità; la prima, che le medesime leggi, le quali regolano la natura individuale dell’uomo, ne regolano la collettiva; la seconda, che il diritto, mediante lo stato sociale o l’integrazione graduale della nostra personalità, si è venuto universalizzando nel suo contenuto di relazione e di imperio. L’individuo, unendosi ai suoi simili, non pure rendesi partecipe dei diritti da lui estimati essenziali e costanti della vita, ma di tutti gli altri onde accidentalmente egli potrebb’essere in facoltà di servirsi: quindi è che la famiglia sociale, mentre è un tutto composto di svariate parti, ciascuna delle quali ha diritti e fini proprî, è parimente unità organica stretta da vincoli di necessità di esistenza, e da bisogni sviluppatisi tra i suoi membri per legge di reciproca convivenza. L’amore, la simpatia tra gli uomini, tutti i sentimenti altruisti, quantunque abbiano la lontana fonte nell’egoismo, sono, allo stato di civiltà, così spontanei ed imprescindibili che, per essere messi in atto, non esigono sforzo, ma sono rivelazione del carattere di espansività della nostra vita affettiva e del fine del progresso di avvicinare i due poli estremi della sociale esistenza, quello dell’individuo e quello della umanità.

Qualunque idea o legge, teoricamente riconosciuta e fermata, ha dovuto, in precedenza, essere da noi scorta quale condizione permanente di un singolo essere o fenomeno; il carattere di universalità è dato dall’astrazione, la quale col considerare i fenomeni individuali si solleva alla serie di verità generali, la cui assolutezza è causa del convincimento e della certezza, che è in noi, quando ci facciamo a giudicare od operare guidati dal lume di nozioni già acquistate. La religione, divinizzando questo principio, fa che tutti dobbiamo considerarci figli d’un solo padre: ognuno sente di non essere nato per vivere isolato o per sè solo, ma di compartecipare al benessere dei simili; poichè l’eccitamento delle tendenze altruiste e la voce della coscienza morale e giuridica ci richiamano al dovere di considerare negli altri noi stessi, e di fare per i medesimi quello che per noi avremmo voluto che fosse fatto. «Il quale, a dir vero, come osserva il Nicolini, non è che il principio ben inteso della conservazione di noi stessi. Imperocchè non vi ha mezzo di esistere, non che di essere educati e giungere all’estrema vecchiezza; non vi ha sicurtà di poter soddisfare alle necessità, alle utilità, ai comodi ed anche ai piaceri della vita, senza concorso di altri. Che se natural cosa è il volgerci altrui per aiuto in qualunque nostro bisogno, natura ci comanda di non esser lenti ad accorrere quando altri ci invoca. Qual’è quell’uomo che in un incendio, in una ruina, in un naufragio o in un assalto repentino, che da qualche fiera, o da uomo peggior di fiera ei sostiene; chi è che pronta non desideri una mano soccorrevole? Ed egli poscia, invocato nel bisogno altrui, si mostrerà restìo, benchè col suo pericolo, ad accorrere? Disse già quel grande interpetre di ogni sentimento umano e della ragione: chi ne ricusa il peso, rinunzia al benefizio[162]. Ma chi può far tal rinunzia senza perire? È dunque un tal peso inerente alla natura dell’uomo, e condizione necessaria della sua esistenza»[163].

8. —Ci resta ora a dire alcun che dello stato di necessità[164]. Il suo contenuto giuridico è in un conflitto tra il proprio e l’altrui diritto a motivo di evento fortuito o di accidenti naturali; il fondamento logico è nell’imperio assoluto ed ineluttabile della legge di necessità. La lotta che si impegna tra la forza uomo e le altre forze della natura; tra il diritto personale e quello dei consociati, è cagione, talfiata, di collisione di interessi, la quale giunge fino al punto di persuaderci ad agire a detrimento altrui, senzachè fossimo animati da sentimento di odio o da vendetta verso la vittima.

9. —Il diritto romano derivava la irresponsabilità dal riguardo di preferenza di un bene maggiore rispetto ad uno minore; epperò Labeone scrive: Se l’impeto dei venti spinse una nave nelle gomene dell’ancora di un’altra, ed i nocchieri hanno tagliate le gomene, non competerebbe verun’azione, qualora non si avesse potuto liberarsi in altro modo che col tagliare le funi. Lo stesso Labeone e Procolo pensarono, che ciò si dovesse applicare anche al caso delle reti de’ pescatori, nelle quali avesse urtata la nave. Certamente, se ciò avvenne per colpa dei nocchieri, avrà luogo l’azione della legge Aquilia[165]. Ed Ulpiano aggiunge, che quegli che, per salvare le proprie merci, ha gittato in mare le altrui, non è tenuto per veruna azione. Ma, se ciò avesse fatto senza giusto motivo, sarebbe tenuto per l’azione del fatto ( in factum ); se con dolo, per quella del dolo[166].

La ragione discriminatrice di responsabilità era da Gelso, secondochè Ulpiano riferisce[167], ammessa in considerazione di justus metus; ciò che è qualche cosa di più della semplice considerazione di entità materiale di un bene in paragone di un altro. Ad uguali risultati arrivarono il diritto canonico e gli antichi giureconsulti.

10. —Secondo il legislatore italiano, dobbiamo, in primo luogo, distinguere lo stato di necessità dalla legittima difesa; in quanto che la difesa legittima è diretta a respingere la violenza altrui, cioè a dire un’aggressione, laddove nello stato di necessità il conflitto tra il proprio e l’altrui diritto è creato da un evento fortuito o da accidenti naturali. Nella quale distinzione è solo indicato il lato oggettivo della giustificazione, di cui ci occupiamo; il che riscontrasi appo tutti coloro i quali si sforzarono di non dipartirsi, nell’assegnare il fondamento giuridico dello stato di necessità, da formole contenenti, con maggiore o minore esattezza, il conflitto tra due beni in lotta, ed il dovere di sacrificare il minore per conservare quello di entità maggiore.

Se fosse così, come da molti è ritenuto, si confonderebbe il caso di giustificazione di inimputabilità penale, con quello di irresponsabilità civile; potendo avvenire, che la necessità, anche in caso di infrangimento di diritto risarcibile civilmente, escluda l’azione di responsabilità, salvo che non si ravvisi nel fatto qualche traccia di colpa da parte dell’agente, relativa all’avvenimento fortuito di cui si deplorano le conseguenze dannose. La essenza propria della discriminante dello stato di necessità parmi che debba cogliersi nell’estremo del pericolo grave ed imminente; ch’è a dire, in uno stato tale di animo da rendere dubbio quel concorso di coscienza e di libertà di atti, che pel nostro legislatore è il primo requisito di qualunque fatto imputabile penalmente. Ed è troppo noto, che vi sono degli stati di coscienza nei quali l’intelligenza e l’attività dell’uomo si arrestano, o per manco di sviluppo o per causa accidentale, e l’azione, che ne deriva, deve rapportarsi piuttosto all’azione meramente meccanica del motivo iniziale, esterno o interno che sia, che all’azione riflessa della nostra mente.

11. —Gli estremi dello stato di necessità sono: a ) un pericolo grave ed imminente alla persona; b ) l ’accidentalità e l’inevitabilità di tale pericolo; c ) la necessità di salvare sè od altri.

Il contenuto reale è sempre un pericolo, il quale esternamente si converte in un bene contro cui è rivolto l’evento fortuito, e soggettivamente in uno stato di giusto timore. La necessità è termine medio tra il bene minacciato ed il timore suscitatosi nell’animo dell’agente; termine medio che sorge quando innanzi alla mente dell’individuo sia preclusa qualunque via di salvezza, meno quella di sacrificare l’altrui diritto; e quando, perciò, la coscienza di scelta di mezzi all’operare è obliterata, o distrutta, dall’esquilibrio psichico causato per l’imminenza del pericolo cui si è di fronte. Ed il legislatore, col fine di rendere meno equivoci gli esposti concetti, ha limitato l’evento del pericolo alla persona, con significato restrittivo che noi facciamo voto sia serbato dalla giureprudenza, acciò non si esageri in arbitrarie ipotesi.

12. —Il pericolo dev’essere grave ed imminente: donde trarremo le regole per giustamente estimarlo? Il Codice tace, ed è logico; perchè anche qui, come per la legittima difesa, versiamo in apprezzamenti del tutto soggettivi. La gravezza e la imminenza non sono caratteri permanenti, ma transitorî; la loro influenza sulla nostra attività è regolata da una serie indefinita di circostanze che torna impossibile esaminare singolarmente.

13. —Il pericolo dev’essere accidentale («al quale non avea dato volontariamente causa») e inevitabile («che non si poteva altrimenti evitare»). È accidentale il pericolo che non potè essere previsto, ed al quale non si è concorso in guisa veruna. Che se il pericolo fosse l’effetto di qualche nostro fatto volontario, non saremmo più nel diritto di invocare la giustificazione della necessità, dovendo sopportare le conseguenze del proprio inconsulto operato. Dev’essere anche inevitabile, ch’è a dire, non poteasi altrimenti sfuggire che col produrre un nocumento altrui. L’obbligo, a siffatto riguardo, imposto dalla legge è molto più stretto che non per la legittima difesa. Chi è aggredito ingiustamente, oltre ad avere il diritto di respingere la violenza pel fine di garentirsi dalla offesa minacciata, ha il dovere di opporsi a che altri infranga quell’ordine giuridico che è cardine del consorzio civile, e che limita l’azione di ciascuno al punto di non permettere che si violi la sicurezza altrui. Ma chi, necessitato, sacrifica il bene di un altro al bene proprio, non si propone che un solo scopo, quello della sua conservazione; ogni motivo diverso, invece di accrescere in lui il diritto di respingere il pericolo, ne attenua il carattere di giustizia e rende eccessivo e punibile l’atto eseguito. Quindi si comprende come la necessità della salvezza, ultimo requisito che accompagnar deve il pericolo, non sia giustificabile le quante volte l’agente abbia fatto prevalere qualche altro motivo che non sia l’esclusivo ed ineluttabile di sottrarsi dalla imminente minaccia di grave danno: dico qualche altro motivo, intendendo di parlare di qualunque coefficiente che, senza essere l’unica determinante dell’azione, vi ha però influito in grado apprezzabile, rendendo, per avventura, necessario ciò che poteva non esser tale. Non è difficile riscontrare dei casi in cui il nostro concetto apparisca chiaro. Ammettasi, ad esempio, che l’incendio si appicchi ad un teatro; e che gli spettatori si accalchino alle porte per mettersi in salvo. Un infelice casca per terra e, calpestato, è in evidente pericolo di morte. Se altri, senza badargli, gli è sopra e gli è cagione di grave lesione, sarà responsabile dell’operato?—ovvero dovrà rispondere in parte del danno, di cui fu l’autore? La risposta equa sarà data dal considerare se tutto quello, che è avvenuto, era necessariamente occorrente per la salvezza di chi ha cagionata la lesione all’infelice caduto; che, se chi si è all’impazzata precipitato alla porta di uscita, senza badare che altri ne soffrisse danno, poteva ancora indugiare ma non lo ha voluto pel motivo, poniamo, o di uscir subito di teatro o di recarsi a chiamar gente che accorresse a spegnere il fuoco, o per ogni altra ragione, la quale non sia propriamente quella di mettersi in salvo, egli risponderà, della lesione cagionata, in proporzione della importanza del motivo secondario in comparazione al principale ed impellente di procurarsi, a qualunque costo, la salvezza.

«E più particolarmente—scrive il Conti—non vi ha necessità quando non sia legittimo il motivo che indusse l’agente alla violazione del diritto altrui, quando, cioè, il minacciato non agisca pel principio della conservazione giuridica. Non vi è necessità, se la rinuncia al bene proprio sarebbe stata giusta e naturale, secondo le idee ed i sentimenti della comune dei cittadini onesti in dato Stato e in data civiltà. Non vi è necessità, se non vi è lotta fra due diritti preesistenti, senza che per questo si fondi l’eccezione dello stato di necessità sulla teorica della collisione e sulla prevalenza, in ogni caso, del diritto maggiore al minore. Ma, certo, il concetto di necessità va basato specialmente sul criterio, inapprezzabile a priori, della proporzione fra i beni tolti ed i beni salvati. Ed esclusa così assolutamente la necessità, resta il fatto delittuoso passibile di pena ordinaria; esclusa solo in parte, resta un fatto solo parzialmente illegittimo, e quindi passibile di pena diminuita. Se non vi ha necessità, non vi ha nè scusa, nè giustificazione; se vi ha tuttora necessità, ma per imprudenza od imprevidenza si diè causa al pericolo, lo si affrontò potendolo evitare, gli si contrappose un’azione sproporzionata, vi ha l’eccesso nello stato di necessità»[168].

14. —Il legislatore estende alla salvezza di altri la giustificante dello stato di necessità; strana, invero, ipotesi di scriminazione; sembrando esorbitante, al dire del Villa, fuori di ragione, che sia lecito sacrificare il diritto di taluno per beneficare un terzo qualsiasi. Checchè si opponga in contrario, noi ci avvisiamo che, estesa fino a questo punto la necessità, molto facilmente può dar luogo all’arbitrio; mancando, in atto, l’estremo vero della giustificazione, vale a dire il timore, e riscontrandosi invece la compassione, la quale, se pure è ragione di attenuare la responsabilità, non può esimere, senza che non si commetta ingiustizia, da pena chi, seguendone il consiglio, infranse la legge.

Il magistrato, ricordando i principî sui quali noi abbiamo creduto di riporre la discriminante in parola, sarà oculato nell’apprezzare molto scrupolosamente i fatti, e nel ritenere, in casi molto eccezionali, la ipotesi di giustificazione per delitti commessi da chi invoca lo stato di necessità di un pericolo che altri correva. La carità, l’amore del prossimo non distinguono individuo da individuo se non pel riguardo di maggiore bisogno di ciascuno; il quale dettame suona ingiustizia allorchè il bisogno, non che essere giustificato da ragionevole opinione di torto o di ragione, è motivato da eventi fortuiti ed accidentali, a cui nessuno degli individui versanti in pericolo ha dato causa.

CAPO XV.

Psicologia della prova del delitto.

1. Dovere del giudice in materia penale; le leggi di rito e le idee teoretiche del delitto.—2. La verità storica del fatto; il criterio di verisimiglianza.—3. Necessità d’una psicologia del testimone; guarentigie logiche della prova testimoniale.—4. Qualità del testimone; importanza del suo fondo individuale sensitivo, intellettivo ed etico: il suo fondo sensitivo.—5. Lato intellettivo del testimone.—6. La relatività delle leggi logiche nella prova testimoniale.—7. Il temperamento individuale ed il tempo, dall’avvenuto delitto, son le due principali cause modificatoci dell’opera del testimone.—8. L’ufficio del giudice, esigenze psicologiche cui egli è sottoposto.

1. —Avvenuto il delitto, importa alla società di punirlo. Ma, prima che questo ufficio si adempia, è mestiere che il giudice, organo di funzionamento della giustizia, si renda conto sia della verità storica del fatto imputabile, che della sua speciale natura violatrice della legge. Anche in questo, alla stessa guisa che per la serie di nozioni e per l’ulteriore e definitiva conoscenza dell’evento psichico del delitto, noi ci troviamo dinanzi a problemi d’indole psicologica e che, risoluti, agevoleranno il lavoro logico di indagini affidate al giudice.

In generale, egli è a notare, che il progresso delle norme di rito è in ragione della conoscenza più o meno scientifica ed approfondita del fenomeno del delitto. Quando, in vero, il delitto consideravasi una infrazione, più che della legge penale, dei supremi principî morali e religiosi, il rito inquisitoriale, affidato all’ufficio pratico d’incerta casistica, esagerò talmente i suoi metodi di ricerca e di estimazione della prova da scuotere il sentimento della umanità a protestare ed a ribellarsi: nè interviene altrimenti oggi in cui, per gli errori e le preoccupazioni di falsa dottrina metafisica, tuttavia seguìta dalla maggioranza, abbiamo un’errata procedura giudiziaria causa, oh! come frequente!, di ingiustizie irreparabili.

2. —Dicemmo, che il primo obbligo del giudice sia quello di rendersi conto della verità storica del fatto. Egli, cioè, deve accertarsi che il fatto violatore della legge abbia avuto esistenza reale e non sia, invece, artificiosa invenzione di persone interessate a creare falsi addebiti. La logica, di accordo con la psicologia, ci insegna, che i fatti naturali si assodano, di regola, con la immediata percezione.

«Per assodare un fatto storico—scrive il Masci—occorre, nell’immensa maggioranza dei casi, affidarsi alla percezione che altri ne ebbe, e valutare il grado di certezza che si può attribuire a questa, cioè occorre avere, non solo la testimonianza, il racconto, ma anche la possibilità di apprezzare la sua conformità al fatto raccontato. E poichè ciò non può farsi col paragone del racconto col fatto, che più non esiste, e (se potesse essere fatto renderebbe inutile la valutazione della testimonianza), così ogni valutazione di una testimonianza è, in fondo, la valutazione di un indizio, di un segno del fatto, e si fonda sul presupposto logico generale, che, se taluno attesta qualche cosa, la ragione più naturale di questa attestazione è che il fatto asserito sia realmente accaduto, e che la testimonianza sia la traccia, il segno, che il fatto storico ha lasciato di sè nella memoria di quegli che l’ha percepito»[169].

Il primo criterio di valutazione della testimonianza è, che il fatto raccontato sia verisimile, cioè «che il racconto abbia non solo intrinseca coerenza e non implichi contraddizione, ma anche che abbia verisimiglianza, tenuto conto delle epoche (del tempo), dei costumi, delle circostanze nelle quali si svolse»[170].

Nella verisimiglianza, criterio logico fondamentale della credibilità storica del fatto, il psicologo nota, che pel testimone e pel giudice la verità imputabile penalmente non consiste solo nella materialità dell’avvenimento, ma nei caratteri o nelle circostanze che lo qualificano. Di guisa che, rispetto all’intento repressivo della giustizia, non basta constatare che una morte sia avvenuta, che un oggetto sia stato trafugato; ma che causa della morte e del trafugamento sia stata un’ azione perseguibile penalmente.

Nè si opponga, che, quando il giudice siasi persuaso della perseguibilità o meno d’un dato fatto, egli abbia già formato il convincimento della natura criminosa del medesimo e quindi ogni altra ricerca appare superflua; perocchè giova distinguere, negli atti istruttorî, due momenti interessantissimi: il primo, che è quello in cui il magistrato, sulla semplice nozione sommaria del fatto, si induce a promuovere l’azione; il secondo, quando, per le prove raccolte, egli si decide a rinviare a giudizio l’imputato.

La verisimiglianza, quale criterio probatorio, è sufficiente pel primo momento; sarebbe erronea pel secondo, in cui necessita la certezza del convincimento.

3. —Il testimone, percependo direttamente il fatto, crede di essere in possesso della verità tutte le volte che, secondo la effettuale esistenza delle cose, egli presume di uniformarsi alla realtà. Ma, e non è il problema più importante della psicologia quello di sapere come e perchè noi, mercè l’opera dei sensi, ci mettiamo in relazione col mondo esterno e ne rappresentiamo, internamente, la realtà? La logica giudiziaria, che tale fu dal Nicolini appellata la procedura, attenda, dunque, a ben premunirsi contro le difficoltà, ed i pericoli inerenti al modo onde il testimone abbia potuto impossessarsi della verità d’un avvenimento e possa, quindi, riuscire argomento di attendibilità pel giudice.

Tutti gli scrittori, dai giureconsulti pratici ai grandi logici moderni, si sono occupati delle norme di credibilità del testimone, secondo il diverso grado di probabilità logica del suo asserto; ma nessuno, ch’io mi sappia, si è occupato ancora della psicologia del testimone. La legge di rito, ossequente a certi dettami tradizionali, ha creduto di segnalare un certo limite alla importanza giudiziale del testimone, escludendo alcuni a deporre ed altri circondando di guarentigie morali, il giuramento, o legali, la pena per la falsità; ma, pel convincimento del giudice, simili restrizioni non hanno valore; anzi, e non di rado si osserva, chi meno, secondo legge, dovrebbe meritar fede, com’è il caso d’un fanciullo, è cagione irrefutabile perchè il giudice formi tranquillamente la sua decisione di condanna o di assoluzione.

Il testimone dev’essere circondato ed accompagnato da tutte le prevenzioni, onde la scienza ci rende edotti, in ordine: a ) al modo normale o difettoso di percepire un fenomeno esteriore; ed al modo, b ) onde il fenomeno percepito impressiona la nostra mente, si fissa o registra nella memoria, si riproduce, più o meno fedelmente, nella dichiarazione giudiziale. È regola costante questa, che le nostre percezioni e rappresentazioni del mondo esterno sono in apparenza l’opera dei sensi, ma effettivamente appartengono al nostro stato soggettivo, transitorio o permanente: il senso non è che il semplice tramite di stimolazione della recettività interna, ma la visione della realtà, il ricordo corrispondente, l’apprezzamento, che ne diamo, appartengono al peculiare stato della nostra coscienza, o, meglio, alle condizioni psico-organiche individuali.

Or, confondere, come si è soliti fare, l’asserto d’un testimone con quello di altri, e discernere la maggiore credibilità di ciascuno tenendo sol conto della verisimiglianza logica, ossia dell’argomento di probabilità, è gravissimo errore: molto facilmente s’invertono i termini del giudizio, poichè quanto noi attribuiamo al testimone non è, bene spesso, che modo nostro personale di vedere e di giudicare le cose, le quali, poi, debbono essere i motivi indefettibili per concludere alla responsabilità o alla innocenza del prevenuto.

4. —Prima che si assuma il testimone a prova di convincimento, è d’uopo che il giudice comprenda ed apprezzi la di lui attitudine a percepire la verità d’un fatto, a ricordarne le modalità, a riprodurne la realtà.

Qualunque avvenimento, circa le percezioni che di esso abbiamo, si svolge in dato spazio ed in dato tempo; son questi i due termini storici di maggiore rilievo per precisare la realtà delle cose, e da queste due nozioni deve cominciare ciascuna indagine istruttoria, se non vuolsi vagare nell’incerto e nell’indeterminato.

Il testimone, posto di fronte all’avvenimento, ed obbligato, per dovere morale, a riprovarne le conseguenze, comincia, con lavorio mentale inconsapevole, a plasmare le circostanze, di cui è spettatore, a seconda il suo fondo individuale sensitivo, intellettivo ed etico, obbedendo alla legge di necessità selettiva di coscienza, la quale consiste nella disposizione, di ciascun di noi, a scegliere e registrare tra’ ricordi, tra le rappresentazioni, tra le idee tutto ciò che si uniformi al nostro modo di sentire e di pensare, trascurando il rimanente. Di parecchi testimoni d’un fatto, troverete che taluno siasi fissato su di una circostanza specifica o generica e ne conservi, con evidenza, la entità storica, mentre egli abbia trascurato le altre che pur si svolsero sotto i suoi occhi con pari impressione sensibile.

Credesi, da alcuni, che ciò avvenga per casualità di cose; invece è l’effetto dell’opera dell’ attenzione, la quale ha fondamento organico, da cui non si può mai prescindere in tutti gli atti della nostra vita di relazione. La reticenza, tante volte, non è l’effetto di mala fede, ma d’impossibilità a scorgere, a concepire ed a ricordare il vero altrimenti.

Il fondo sensitivo individuale è la causa delle attitudini accomodative al mondo esterno. La influenza delle meteore sul senso cenestetico; il sentimento di simpatia, di avversione per dati atti e persone; l’inclinazione a fissarci su taluni oggetti a preferenza che su altri; la prerogativa di percepire, di distinguere certi colori, certi suoni; la diversità di rappresentarci un oggetto con dati contorni, colorito, tono sentimentale, accidentalità piacevoli o dolorose, dipendono dalla nostra costituzione organica, soggetta a tante cause, delle quali l’individuo poco si avvede. Nella pratica della vita, generalmente, noi, parlando, operando, partiamo dal falso supposto, che tutti sentano come noi sentiamo e che tutti apprendano il mondo esterno con l’istesso grado di vivacità e di perpiscuità; ma in ciò evvi grande inganno.

La differenza di età, di sesso, di coltura, di stato sano o infermo, sono le principali e più comuni cagioni di vario sentire ed apprendere i fenomeni esterni. Nè basta; poichè il medesimo stato sensitivo è l’effetto del cumulo di energie precedenti stratificatesi in noi (fondamento dell’io), le quali, predisponendoci a plasmare diversamente la coscienza, nel flusso di atti di questa, permettono, o non, che si aggiunga la novella impressione proveniente dal tramite del senso.

Come per i motivi dell’azione, in genere, altresì per la maniera, onde il testimone percepisce gli avvenimenti esteriori, molto influisce: a ) la sinergia di azione attiva dell’oggetto sensibile e dell’organo sensitivo; b ) la predisposizione individuale accomodativa a data specie di sensazione; c ) la più completa risonanza di coscienza perchè le sensazioni ricevute esternamente si ripresentino e prendano un posto nella serie successiva o simultanea di stati interni.

5. —Passando, dall’esame del fondo sensitivo del testimone, al suo lato intellettivo, il problema si rende molto più complesso; nondimeno, siamo in grado di disporre di maggiori e più esatti mezzi di studio; la qual cosa è conforme ad una legge filosofica formulata da Augusto Comte nell’infrascritto modo: «a misura che i fenomeni da studiare divengono più complicati, sono nel medesimo tempo suscettibili, per loro natura, di mezzi di esplorazione più estesi e più varî, senza che, tuttavia, vi si possa avere una esatta compensazione tra l’accrescimento delle difficoltà e l’aumento delle risorse; di guisa che, malgrado questa armonia, le scienze relative ai fenomeni i più complessi non restano meno necessariamente le più imperfette»[171].

Il progresso fatto, massime in questi ultimi tempi pel sussidio delle scienze sperimentali, dalla logica induttiva e deduttiva ci ha di molto agevolato il dovere di esattamente raccogliere e rettamente esaminare la prova testimoniale: però, seguendo la legge di relatività dell’umano intendimento, si è costretti a non esagerare l’importanza di siffatte leggi logiche, le quali soffrono continue eccezioni in ragione di condizioni individuali di coloro sulla cui fede intendiamo adagiare il nostro giudizio.

Il testimone vive anch’esso di bisogni, di necessità, di passioni: la sua trama intellettuale è limitata alle esigenze della sua vita personale «Esiste—scrive il Comte—in tutte le classi delle nostre ricerche e sotto tutti i grandi rapporti, un’armonia costante e necessaria tra l’estensione dei nostri veri bisogni intellettuali e la portata effettiva, attuale o futura, delle nostre conoscenze reali. Quest’armonia non è punto, come i filosofi volgari son tentati di credere, il risultato nè l’indice d’una causa finale. Essa deriva semplicemente da questa necessità evidente: noi abbiamo solamente bisogno di conoscere ciò che può agire su noi, d’una maniera più o meno diretta; e, d’altro canto, per ciò stesso che una tale influenza esiste, ella diviene per noi, tosto o tardi; un mezzo certo di conoscenza»[172].

6. —Fu detto, che qualunque prova possa ridursi a sillogismi, partendo da premesse di teoremi o di principî, è terminando nella constatazione della tesi a dimostrare. Questo può esser vero nel campo delle scienze pure o affatto teoretiche; non così nello studio dei fatti per i quali vige la nota regola Aristotelica, che la induzione va segnatamente applicata ai casi particolari ( ἡ γὰρ ἠπαγωγὴ διἀ πἀντων ).

La specialità della prova testimoniale, segnatamente in ordine all’applicazione delle leggi logiche alla medesima, dipende dalla maniera con cui ciascuno riproduce in sè e riconnette alle precedenti sue cognizioni tutto ciò che forma obbietto della esperienza della vita. La necessità tra i bisogni intellettuali e la portata delle conoscenze reali, di che Comte faceva motto, è uno dei lati della composizione della trama cerebrale; essa si riferisce piuttosto all’azione stimolatrice dei moventi del pensiero: ma un altro lato, ed è quello che forma la soggettività dell’io, consiste nella preformazione mentale di metodi e di maniere di pensare, nella risonanza dinamica delle novelle onde cerebrali con le preesistenti, nel ritmo personale di coscienza, con il quale le nuove correnti di idee son necessitate a mettersi d’accordo.

7. —Raccogliendo in sintesi le cause che influiscono a modificare, nella mente del testimone, la forma di riproduzione del fatto, con l’analogo ricordo delle circostanze, diciamo che esse sono il temperamento individuale ed il tempo trascorso dal momento in cui il fatto è stato percepito al momento in cui venga ad altri comunicato. Tra l’uomo impressionabile ed il flemmatico, tra un nevrastico ed impulsivo ed un equilibrato e riflessivo, evvi differenza incalcolabile di percezione d’un avvenimento: la squisita o morbosa sensibilità dei primi, esaltata da vivida fantasia, farà sì che delle circostanze insignificanti e trascurabili si ripercuotano sull’animo e si fissino nella memoria con caratteri indelebili, a forti tinte; ciò che non avverrà per i secondi. E quando, il di del pubblico dibattimento, e gli uni e gli altri sien chiamati a deporre, difficilmente il magistrato, suo malgrado, non si sentirà trasportato dal detto di chi con una mimica animata, con parola colorita, con espressioni suggestive va narrando il fatto, non secondo la esattezza delle cose, ma secondo la fisonomia e la impronta di un animo fortemente o morbosamente impressionato.

Come si è fatto per i delinquenti, dovrebbe eziandio farsi con i testimoni; dividerli per categorie e studiarne l’indole e le note culminanti psichiche. Non perchè tra gli uni e gli altri vi sia analogia, ma perchè insieme s’integrano, tra la perpetrazione e la rappresentazione del delitto. Il testimone—mi sia concesso il paragone—è l’artista drammatico in comparazione dello scrittore: vero è che usualmente sogliamo dire, che meno arte scorgesi nel testimone e più balza fuori la sincerità del deposto; ma è benanco vero, che niun di noi, per sforzi che faccia, perviene a cancellare la impronta personale in tutto quello che si appartenga ai proprî atti.

Oltre del temperamento, influisce a modificare la riproduzione del fatto, nella mente del testimone, altresì il tempo. Secondochè la impressione è prossima all’avvenimento, la rappresentazione di questo è più vivace: poco a poco il colorito si sbiadisce, le tinte si rendono incerte, i contorni si restringono e sul registro della memoria non resta segnato che il puro necessario al ricordo della verità.

Ciò per avvenimenti impressionanti, a fondo passionale, riesce molto giovevole: il testimone torna meno suggestivo sull’animo del giudice, meno pericoloso nel trasmettere le sue erronee o esagerate impressioni. Ma non è parimenti in cause indiziarie, nelle quali il lungo tempo trascorso, affievolendo le impressioni, attenua il ricordo di modalità le quali, per avventura, sarebbero preziose al giudice obbligato ad integrare il fatto nella totalità del contenuto storico.

8. —Se il testimone è l’attore o colui che rappresenta o ripresenta il dramma giudiziale, il giudice n’è lo spettatore chiamato a darne l’apprezzamento.

Il giudice, però, non resta impassibile innanzi al testimone; egli, mentre ne giudica i detti, si adopera ad aiutarne l’opera, ed il Codice di rito ha per lui delle particolari prescrizioni, le quali ne dirigono e ne limitano prudentemente l’ufficio.

Si crede comunemente, che dovere del giudice sia di attendere con impassibilità allo svolgimento rappresentativo dei fatti e di formarsi il definitivo giudizio col tenersi immune da qualunque influsso sentimentale o passionale. Così non è, nè potrebbe essere. Non vi è nozione—lo abbiamo dimostrato—che entri nella mente, la quale non contenga una energia suggestiva e motrice. Sarebbe strano concepire un uomo in cui la mente funzionasse indipendentemente dal cuore. Quel che soltanto vuolsi consigliare è, che il cuore non prenda il sopravvento sulla mente, ossia che la ragione non sia vinta dal talento.

La psicologia del giudice merita anch’essa particolare considerazione ed attende tuttavia chi ne formi oggetto de’ suoi studî. Noi ci limitiamo ad osservare, e ciò per la lunga pratica del fôro, che qualsiasi esagerazione, pro o contro l’imputato, da parte del giudice, è la conseguenza o delle preconcette preoccupazioni di minacce e di pericoli sociali, non che di convenienze morali o politiche, nel caso di istruzioni di processi; ovvero, nel caso di dibattimenti, è l’effetto deleterio della teatralità di discussione, di concorso di spettatori, di iperboleggiamenti da parte dell’accusa e della difesa. Se, durante un dibattimento, avessimo agio di interrogare ciascuno dei presenti, e di sentire l’eco dell’anima collettiva di tutti insieme, dovremmo confessare, che i cardini dell’ordine sociale, anzi della esistenza del mondo, poggino sull’esito del giudizio in attesa: eppure, oh!, tante volte, di quali futili interessi, meramente passionali, sogliamo con tanta cura occuparci!... Confesso, senza peritanza, un mio profondo convincimento: verrà giorno, e forse non è lontano, nel quale il giudizio sui delinquenti sarà dato così come quello di infermi; da uomini tecnici, non interessati di altro che di esaminare e constatare la verità nuda delle cose; con la calma possibile delle ricerche sperimentali ed induttive, col senso della equanimità, col giudizio illuminato da coltura sufficiente, da lunga pratica: la giustizia se ne avvantaggerà per evitare tanti errori di che son piene le cronache giudiziarie!

[268][269]

CONCLUSIONE

1. —Pervenuti alla fine del nostro assunto, aggiungeremo, in conclusione, alcune riflessioni che completeranno le teorie svolte.

Il delitto è un fenomeno affatto naturale, il suo evento psichico segue le leggi dinamiche onde tutti gli altri fenomeni son dominati.

Il delitto, però, ha la specialità di essere contrassegnato dal grado evolutivo di coscienza della forza uomo; il che significa che esso ha d’uopo, per effettuarsi, di tutti i coefficienti i quali influiscono a ridestare e modificare, nel nostro dominio morale, talune inclinazioni poco conformi al comune stato di ordine sociale della generalità degli uomini. La legge penale, prevenendo o reprimendo il delitto, tende a riaffermare quest’ordine ed a proteggere il benessere singolo e collettivo. Ma—si domanda—essa legge è sempre cònsona, nelle sue prescrizioni, allo stato o grado evolutivo della nostra società; la sua azione imperativa è in armonia con le guarentigie legali e sociali a cui ella fa supporre di riferirsi ogni qualvolta prescrive una pena per la repressione di dato delitto? La risposta non può essere che negativa.

La società—come oggi giuridicamente è composta—è retta da un cumulo di errori e di pregiudizî contro i quali la scienza ha la missione di energicamente protestare. La cieca tradizione dell’errore, gravitando sui nostri sforzi di progresso, arresta o ritarda fatalmente il nostro cammino sulla via delle riforme legislative; l’interesse politico, quello economico o di lotta di classe, sognano pericoli inesistenti per ciascuna riforma consigliata dalla scienza, ed invano la verità, frutto di lunghe meditazioni, brilla agli occhi di uomini che aman chiudersi nella tenebra per non essere illuminati. Pochi solitarî, paghi di cogliere il premio del loro lavoro nella soddisfazione di adempiere un dovere, fan sentire la loro voce per richiamare i proprî simili al riconoscimento del vero scoverto; ma essi o son derisi o restano ammirati senza che altri ne ascolti i mòniti preziosi! Magistrati, giurati, quanti sono addetti al funzionamento della giustizia, o per ignoranza o per malintesa boria di spirito conservatore, seguono, impassibili, teorie confinate ormai tra’ ferri vecchi della scienza: se la parola di colto difensore li richiama alle ignorate verità, oh! quanti pochi di essi lo ascoltano con interesse di serena coscienza! Eppure tuttodì debbono aver la riprova degli errori commessi nei loro giudizî circa apprezzamenti di fatti i quali ben altrimenti si vengono svolgendo in realtà: tanto è, dunque, a noi arduo di vincere l’errore, di infrangere gli altari di idoli della mente sì deleterî al progresso sociale?

2. —La psicologia criminale insegna il processo evolutivo e dissolutivo dell’evento psichico del delitto; ed essa non si arresta neppure di fronte ai problemi di scelta dei mezzi onde il legislatore giunga ad infrenare o a correggere la energia che del delitto è propria. È debito, nondimeno, di chi amministra la giustizia di studiare, in pratica, come le teorie debbano disposarsi alle riforme legislative; appunto perchè in esso la continua conoscenza svariata dei fatti è fonte sicura per risalire alla riconferma di quei veri che dalla scienza furon proclamati.

3. —Richiamo l’attenzione di alcun giurista sull’impegno di scrivere un lavoro, il quale contenga i dettami da seguire, nella pratica giudiziaria, per assorgere, caso per caso, ai principî della scienza; esso dovrebbe essere un lavoro di riorganizzazione dei tanti concetti teoretici ed osservazioni di fatto, che balzan fuori dallo studio dei processi, dall’esame quotidiano dei delinquenti; ciò che è generalmente trascurato, quasi non avesse importanza alcuna. Mi avviso, che anche la psicologia criminale, come qualunque altra scienza, abbia un lato teoretico ed un lato pratico: essa, per acquistare la importanza che le compete, deve integrarsi nell’unico fine di non tradire la esatta notizia e valutazione del fatto: fuori del fatto, qualunque nostra conoscenza o è ipotetica o arbitraria.

E desidererei che un poco più d’interesse si destasse nel cuore dei magistrati per gli ammaestramenti impartiti da chi osa prescindere dal dettame nudo della legge ed approfondire il problema della imputabilità mediante i lumi che ci vengono dall’odierno indirizzo positivo; abbiano anche un poco più di fiducia per verità ormai lampanti agli occhi dei meno veggenti. Nondimeno, mi è obbligo constatare, che di già uomini insigniti di alti uffici nell’amministrazione della giustizia non si peritano, nei loro scritti, di proclamare la religione della nuova scienza, combattendo vecchie teorie[173]; ad essi, come a tutti coloro che se ne rendono seguaci, sia lieto il plauso di quanti amano che l’umano pensiero, rinnovandosi, progredisca e, progredendo, trionfi sempre contro l’errore!

[272][273]

INDICE DEGLI AUTORI CITATI

Albrecht,94. Alfieri,135. Alimena,102,103. Ardigò,2,3,41,86,91,111,115,132,200. Aristotele,4. Bacone,214. Ballet,147,231,233. Bain,58,130,211. Baldwin,24. Barthez,47. Béhier,210 Benini,187. Benedickt,36,94. Bergier,157. Bernard,204. Berner,215,246,249. Bernouilli,191. Bianchi,34,36,40,147,154,221,222,230,236,238. Binet,222,233. Block,188. Bodio,188. Borri,235. Bourget,239. Bovio,120,184,185. Brierre de Boismont,230. Brofferio,219. Buccellati,3. Buffon,191. Charma,232. Cantù,176,177. Carmignani,7. Carrara,226,230,237,245. Casper,7. Cicerone,4. Celso,253. Colajanni,94,188. Comte,263,264. Conti,256. Conrad,188. D’Auria,271. Dallemagne,147. Dally,94,236. Darwin,220. De Blainville,20. De Francesco,271. De Moivre,191. Descuret,159. Despine,5,65,116,128,135,142. Drago,36. Dumas,83. Egger,232. Engel,188. Eschilo,5,163. Esquirol,236. Euripide,5,148,159,163,165. Fechner,21,73. Ferraris,188. Féré,50,65,147,222. Ferri,143,149,166,193,195. Ferrus,5,65. Fermat,191. Foucault,22. Fouillée,112,113,118,127,225. Gabaglio,188. Galeno,4. Gall,5. Gumplowicz,187. Garofalo,102,140. Goethe,134,135. Guerry,187. Haeckel,21,35,36,86,87,202, Halley,191. Hamilton,212,213. Henle,132,133,134. Helmholz,221. Herschel,190. Horwicz,86. Hudde,191. Hume,201. Hunter,47. Huyghens,191. Ippocrate,4. James,78,84,87,117,127,129,131,219,228, Janet,90,236. Kant,201. Kleinschrod,216. Körösi,187. Krafft-Ebing,5,62,65,94,128,143,144,146,236,238. Labeone,253. Lange,40,84,87,130,240. Laplace,191,195. Lavater,5. Laségue,236. Lauvergne,5. Lazarus,228. Lehmann,40. Leibnitz,191. Lewes,20,86. Lichtemberg,134. Lilienfeld,187. Lippe,8. Locke,201. Lombroso,5,6,36,38,50,70,142,156,161,166,167. Lo-Savio,187. Lotze,86. Lourie,28. Lucas,5,65. Machiavelli,157. Magnan,148. Maine de Biran,201. Mantegazza,158. Marro,6,66,67,82,140. Masci,259. Maudsley,65,67,68,94,219. Mayer,188,190. Meynert,40. Metastasio,158,251. Mill,86,124. Minzloff,94. Mittermayer,3. Möhsen,177. Morel,5,65,147. Morselli,86,203. Mosso,130,222. Müller,221. Nani,208. Nicolini,3,249,251,260. Nicolson,5,65. Oddi,28. Omero,5,100. Orazio,161. Pagano,195. Pausania,151. Petrarca,161. Pick,222. Pitres,147,236. Paulhan,126,232. Plutarco,167, Porta,5. Procolo,252. Quetelet,191,192,197. Rawson,188. Régis,147. Remy,177. Renazzi,215. Ribot,85,90,92,130,148,217,218. Riccardi,94. Rivarol,232. Romagnosi,7,205,234. Rossi,6,175,178. Rousseau,134. Rümelin,189. Scoto,177. Seglas,147. Seneca,161,162. Sergi,64,85,88,94,173. Shakspeare,96,103,233. Sighele,6,173. Schiller,103. Schüle,128 Smith,47. Sofocle,5,163,165. Spencer,12,14,17,86,121,199,201,212,213,214,225. Spina,177. Tarde,6,193. Taine,232. Tammeo,187. Tetens,73. Tissot,47. Thompson,5,65,128. Tommaseo,156. Tucidide,101. Ulpiano,252,253. Virgilio,6. Wagner,188. Weber,21,73. Wilson,5,65. Wundt,10,28,29,73,74,80,118,125,127,128,132,209,219. Zanardelli,71,179,249.

INDICE-SOMMARIO

Dedica Pag. v

Prefazione » vii

INTRODUZIONE

1. Contenuto scientifico della psicologia criminale.—2. Processo di distinzione di qualunque fenomeno; formazione naturale del pensiero.—3. Come sorge l’evento psichico del dato giuridico punitivo.—4. Genesi della sanzione sociale; concetto del dolo nelle fasi evolutive della coscienza giuridica dei popoli.—5. Cenno storico dello studio psico-fisiologico del delinquente.—6. Gli odierni scrittori delle differenti discipline intorno al delinquente.—7. Stadio integrativo della psicologia criminale.—8. La teoria dinamica criminale fondamento degli studî psicologici del delinquente; precedenti scientifici in Romagnosi ed in Carmignani.

Pag. 1 a 8

CAPO I.

Le funzioni psichiche criminose.

1. Concetto scientifico della parola funzione .—2. Funzionamento psicofisico proprio del delinquente.—3. Anormalità del medesimo: legge generale di equilibrio violata dal delitto.—4. Il concetto di equilibrio psichico è l’unico criterio di distinzione tra l’uomo normale ed il delinquente.—5. L’equivalente etico dello squilibrio psichico; suoi riflessi al dato soggettivo ed oggettivo del delitto.—6. In che consistano le funzioni psichiche criminose nel loro aspetto intrinseco ed estrinseco.

Pag. 9 a 15

CAPO II.

Gli elementi psichici criminosi.

1. Legge di continuità nei fenomeni psicofisici; legge di correlazione tra l’essere ed il suo ambiente.—2. La legge di continuità e di ambiente rispetto al delitto.—3. Ragioni per cui il funzionamento psicofisico anomalo del delinquente sfugge all’analisi sperimentale; norme relative alla prova della genesi fisica del delitto.—4. Gli elementi psicofisici del delitto e l’interno stato di equilibrio.—5. Stato di equilibrio psichico; forza e movimento; motivo, causa ed azione.—6. Che cosa s’intenda per impulso; duplice principio fondamentale della psicologia monistica.—7. La psicofisica ed il suo valore nei fenomeni di esquilibrio del delitto.

Pag. 16 a 22

CAPO III.

La dinamica dei motivi.

1. Centro di attività psichica; che si intenda per motivo, impulso, movente.—2. Motivi sensitivi, rappresentativi ed ideali.—3. Che cosa s’intenda per motivo criminoso ; differenza tra i motivi di azioni lodevoli ed i motivi di azioni riprovevoli.—4. Postulati sull’energia del motivo e sullo stadio evolutivo dei motivi criminosi.—5. La dottrina della inibizione, base dinamica della coscienza criminosa.—6. Modi onde avviene il processo integrativo psichico della energia dei motivi.—7. Assimilazione e fusione dei motivi.—8. L’addizione o la sovrapposizione del processo integrativo psichico dei motivi.—9. Stato emotivo criminoso.

Pag. 23 a 33

CAPO IV.

Cenestesi del criminale—Fisio-psicologia dei motivi.

1. Cenestesi o sensibilità generale del criminale.—2. Ontogenesi e filogenesi dell’anima del criminale.—3. Insensibilità e disvulnerabilità dei criminali.—4. La eredità.—5. L’infanzia del delinquente.—6. La teoria psico-fisiologica dei motivi.—7. Efficacia attuale e potenziale dei motivi; concomitanti somatici caratteristici del piacere e del dolore.—8. La dinamica del motivo-idea ; specificazione della coscienza criminosa.

Pag. 34 a 41

CAPO V.

Il processo cosciente del delitto—Stadio di formazione.

1. Formazione naturale della psiche.—2. I germi malefici del delitto nei primordi della vita.—3. La genesi di forze antagoniste nella vita di relazione.—4. Il periodo primordiale di tendenze criminose nel fanciullo.—5. Il secondo periodo formativo della personalità individua del delinquente.—6. La legge di imitazione nell’infanzia del delinquente.—7. La selezione organica degli elementi integrativi del delitto.—8. Il fenomeno della simpatia e le sue leggi.—9. Influenza dell’ambiente di famiglia e del fattore economico sul delitto; la educazione ed i pervertimenti ereditarî.—10. Influenza delle necessità sociali.—11. Effetto degenerativo dell’azione suggestiva criminosa.—12. Influenza dei motivi sentimentali che agiscono sulla immaginazione.

Pag. 42 a 53

CAPO VI.

Le norme fondamentali della psicologia criminale.

1. Si riassumono le principali verità in precedenza svolte.—2. Norma che guidar deve la conoscenza dei rapporti interni con i fenomeni esterni; legge principale di anomalia del delitto.—3. L’ordine morale ed il processo di arresto inibitorio.—4. L’ autosuggestione motrice ; legge della risultante impulsiva al delitto.—5. Rapporti dinamici e logici tra i motivi.—6. Processo organico ed accidentale dei motivi criminosi.—7. Conservazione e sviluppo dei fattori psicofisici del delitto.—8. Legge di atipicità ; tipo antropologico del criminale.—9. Disintegrazione dell’anima del criminale; dissoluzione della funzionalità psicofisica organica.—10. In che, psicologicamente, consiste tale dissoluzione.—11. La teoria degenerativa del delitto.—12. La fenomenologia clinica di dissoluzione della personalità.—13. Norma per constatare la ipotesi del processo evolutivo della energia criminosa e la ipotesi d’intervento di qualche affezione patologica; differenza tra anomalia ed infermità; importanza psicologica del criterio della pena.—14. Inefficacia scientifica e pratica delle perizie psichiatriche.—15. Disposizioni dell’articolo 46 e 47 del Codice penale; quali sieno le norme dei periti perchè riescano a constatare le condizioni di integrità psichica necessaria alla imputabilità penale.—16. Necessità, pel perito, di una seria coltura psicologica.—17. In che consistano il metodo di esperimento e quello di osservazione ; l’indirizzo sperimentale nei fenomeni psicologici; come debbano servirsene i periti psichiatri.—18. Ragioni di antagonismo tra periti e magistrati: dovere del perito psichiatra; dovere del psicologo e del giurista.

Pag. 54 a 77

CAPO VII.

Processo cosciente del delitto—Stadio di sviluppo.

1. Le diverse classi di elementi costitutivi dell’io cosciente del criminale.—2. Sviluppo del carattere individuale; sua importanza nella psicologia criminale dell’infanzia.—3. Condizioni e modi onde si organizza la coscienza comune e quella del delinquente.—4. Le fasi di successiva integrazione della psiche del criminale.—5. Esame delle emozioni criminose; le diverse teoriche—6. Svolgimento della essenza unitaria dell’evento psichico, dalla forma monistica alla manifestazione complessa del pensiero.—7. Errori di James e di Lange intorno alla genesi delle emozioni.—8. Natura delle emozioni criminose.—9. Reazione, periodicità, antagonismo delle emozioni: la reazione.—10. La periodicità.—11. L’antagonismo.—12. La dissoluzione psicologica; teorica meccanica.

Pag. 78 a 93

CAPO VIII.

Concetto psicologico del delinquente.

1. Che cosa sia il delinquente.—2. Il prodotto psichico del delitto nello stadio di formazione, embrionale o ontogenetico.—3. Il tipo di Caliban nella Tempesta di Shakspeare.—4. Il Tersite di Omero.—5. Caratteri morali dei delinquenti in formazione.—6. L’integrazione evolutiva anomala del delinquente.—7. Analisi del Riccardo III di Shakspeare.

Pag. 94 a 110

CAPO IX.

La dinamica della psiche criminosa.

1. Efficacia genetica del motivo.—2. La psicologia delle idee-forze ; stadî integrativi di coscienza percorsi dal motivo.—3. Stadio di discernimento del motivo.—4. Stadio di rappresentazione piacevole o dolorosa; conseguenze, dei due descritti stadî, nella vita psichica del delinquente; le manifestazioni istintive; meccanismo dell’attenzione criminosa.—5. La dottrina della conoscenza ed il problema del contenuto dinamico del pensiero; l’unità di legge nella natura, nel pensiero, nella storia; come agisca l’energia criminosa nell’atteggiare diversamente la psiche.—6. Influenza della immaginazione o della fantasia nel processo psichico del delinquente.—7. Analisi, della detta influenza, specialmente nel delinquente epilettico ed in quello affettivo.—8. La legge di rassomiglianza e la legge di contiguità nel tempo e nello spazio , e la dinamica della psiche criminosa.—9. La dinamica psichica del delinquente negli atti del volere.—10. Lo stato di ansia conseguenza della polarizzazione della volontà criminosa; psicologia dell’emozione della paura; differenza tra l’atto spontaneo ed il volontario.—11. Le oscillazioni del volere ed il relativo processo meccanico-cerebrale.—12. Gli atti alternanti o intermittenti di azioni di motivi sopraggiunti; esempio dell’Alfieri nell’ Agamennone .

Pag. 111 a 138

CAPO X.

Psicologia dell’azione criminosa.

1. Che cosa debba intendersi per azione criminosa.—2. Anomalie ed esquilibrio del carattere del delinquente.—3. Stato di esquilibrio psichico del delinquente nato: caratteri distintivi che accompagnano la sua azione criminosa.—4. La organizzazione psicofisica anomala del delinquente nato: le note culminanti psico-patologiche proprie della sua attività.—5. L’azione del delinquente folle; la pazzia a forma melanconica.—6. La manìa impulsiva; le ossessioni psichiche criminose.—7. Esame dell’ Ercole furente di Euripide, esempio di manìa omicida accompagnata da allucinazione impulsiva; le emozioni ossessive con impulsioni di fobia.—8. L’azione criminosa dell’epilettico.—9. La epilessia larvata o equivalente epilettico .—10. Il delinquente per passione.—11. Psicologia dell’ odio .—12. Psicologia della gelosia : Fedra e Medea.—13. L’azione criminosa del delinquente per passione: psicologia dell’ ira .—14. Esame di Oreste, secondo Eschilo, Sofocle ed Euripide, quale esempio di delinquente per passione.—15. Il delinquente di occasione.

Pag. 139 a 167

CAPO XI.

Psicologia degli aggregati criminosi.

1. Relazioni tra singole coscienze.—2. Leggi d’integrazione e disintegrazione della coscienza in quanto si irradia nel mondo psichico esterno.—3. Luce e calore delle energie irradiate; qualità delle correnti di riflesso.—4. Il ritmo dinamico delle psichi concorrenti.—5. L’inconscio dell’anima della folla: la specie di imputabilità dei delitti da questa commessi.—6. Organizzazione delle energie della folla.—7. Le emozioni della folla; il loro ritmo di depressione e di esaltamento.—8. L’ esaltamento in forma di psicosi con influsso epidemico; il contagio passionale morboso di sentimenti e di idee.—9. L’azione dei meneurs nella folla.—10. L’associazione per delinquere; germinazione e sviluppo del microbo del delitto associato.—11. La forma e l’esplicamento delle emozioni ed il complesso dei principî etici messi a base delle azioni criminose associate.—12. L’anima della folla e quella delle associazioni criminose.

Pag. 168 a 182

CAPO XII.

La vita del delitto.

1. Vita individuale e collettiva del delitto.—2. Vita storica del delitto.—3. La necessità nell’apparizione del delitto; teoria del Bovio: la legge di continuità nel fenomeno del delitto.—4. Coefficiente qualitativo e quantitativo nel processo vitale del delitto.—5. Causalità ed uniformità di fenomeni; contenuto metodico e scientifico della statistica; psicologia criminale e statistica.—6. Obbietto della statistica criminale: valore probatorio delle leggi statistiche.—7. Principio fondamentale del calcolo di probabilità applicato alla vita del delitto: norme relative ai dati numerici delle leggi statiche e dinamiche del delitto; opinione del Ferri intorno alla influenza dei varî fattori criminosi nella determinazione del delitto; confutazione.—8. Criterî da seguire nel calcolo di probabilità dei dati statistici criminosi.—9. La psicologia criminale etnografica, suo còmpito e suoi principali obbietti.

Pag. 183 a 198

CAPO XIII.

Teoria dinamica della imputabilità.

1. Equilibrio interno ed esterno delle forze; l’idea ed il sentimento di giustizia.—2. Che cosa s’intenda per principio di causalità .—3. I tre concetti onde risulta la imputabilità; intento della psicologia criminale.—4. I due problemi fondamentali della imputabilità, quello etico e quello del determinismo giuridico: significato e contenuto della morale positiva.—5. La necessità effettuale ; il determinismo organico o determinismo vitale; conseguenze rispetto alla imputabilità.—6. Svolgimento della teoria dinamica del dolo .—7. Dovere, in pratica, di attenersi agli elementi proprî del dolo specifico di ciascun reato.—8. Dottrina del temperamento .—9. I due metodi per la indagine del dolo; il metodo obbiettivo.—10. Il metodo subbiettivo: principio fondamentale della induzione ; tentativo d’una logica della psicologia.—11. Norme imposte al giudice nella indagine del dolo.—12. La prova del dolo nei processi indiziarî; la ipotesi del fatto imputabile.—13. Teoria della colpa .—14. Psicologia della prevedibilità nella colpa.—15. La disattenzione e la colpa.—16. Teoria del caso .

Pag. 199 a 223

CAPO XIV.

Di alcune forme giuridiche della psicologia criminale.

I.

La provocazione.

1. Origine dinamica dello stato affettivo.—2. L’azione di arresto nei fenomeni affettivi.—3. Soggettività dell’atto provocativo.—4. Forme anomale di sensibilità nella scusa della provocazione: le illusioni .—5. Le allucinazioni .—6. Il linguaggio interiore ; sdoppiamento dell’io, esempio d’un soliloquio di Lancilotto, nel Mercante di Venezia di Shakspeare.—7. Conseguenza giuridica del turbamento d’animo nello stato di agitazione allucinatola.—8. Anomalia incosciente d’interno processo provocativo.—9. La provocazione e l’ isterismo .—10. La provocazione nei nevrastenici.—11. Psicologia dell’ intenso dolore .

Pag. 224 a 241

II.

Legittima difesa e stato di necessità.

1. Carattere di legittimità o di giustizia , di necessità e di attualità nella discriminante della legittima difesa.—2. Studio fisio-psicologico del meccanismo della difesa dell’uomo: coefficienti fisici, intellettivi e morali.—3. Valutazione del timore qual fondamento naturale della legalità dell’offesa.—4. Psicologia del timore; esquilibrio psichico; coefficienti secondarî della necessità di difesa.—5. Sistema seguito dal nostro Codice.—6. Delimitazione della legittima difesa.—7. Legittima difesa in persona degli altri.—8. Dello stato di necessità ; suo contenuto giuridico e logico.—9. Teoria dei giureconsulti romani.—10. Differenza tra lo stato di necessità e la legittima difesa.—11. Estremi dello stato di necessità.—12. La gravezza e la imminenza del pericolo.—13. L’ accidentalità e la inevitabilità del pericolo.—14. Lo stato di necessità per la salvezza degli altri .

Pag. 241 a 257

CAPO XV.

Psicologia della prova del delitto.

1. Dovere del giudico in materia penale; le leggi di rito e le idee teoretiche del delitto.—2. La verità storica del fatto; il criterio di verisimiglianza.—3. Necessità d’una psicologia del testimone; guarentigie logiche della prova testimoniale.—4. Qualità del testimone; importanza del suo fondo individuale sensitivo, intellettivo ed etico: il suo fondo sensitivo.—5. Lato intellettivo del testimone.—6. La relatività delle leggi logiche nella prova testimoniale.—7. Il temperamento individuale ed il tempo , dall’avvenuto delitto, son le due principali cause modificatrici dell’opera del testimone.—8. L’ufficio del giudice, esigenze psicologiche cui egli è sottoposto.

Pag. 258 a 267

Conclusione Pag. 269 a 271

Indice degli Autori citati » 273 a 274

Errori Correzioni

Pag. 5 linea 22 Gasper, Ferry Casper, Ferrus

» 14 » 10 ad incalcolabili ed incalcolabili

» 36 » 8 di sanzioni di sensazioni

» 71 » 8 quando scrisse quanto scrisse

» 7 » 12 proestemi protoestemi

» 86 » 30 e volutive e volitive

» 105 » 26 non ha significato non hanno significato

» 115 (in nota) (68) La psychologie , ecc. (68) Op. cit. , pag. 267

» 122 linea 10 soppravenuta sopravvenuta

» 126 » 1 Dalla combinazione Nella combinazione

» 132 » 6 è accompagata è accompagnata

» 140 » 24 contradditorio contradittorio

» 142 » 5 e dal ed al

» 146 » 36 melinconia melanconia

» 164 » 37 Coro Il Coro