LA VECCHIA CASA.
NEERA
La Vecchia Casa
MILANO Fratelli Treves, Editori
Secondo migliaio.
Milano, Tip. Treves — 1922.
Egregio signor Treves,
Lei mi domanda una prefazione per la ristampa di Vecchia casa sul genere di quella che feci per l' Indomani, ma una prefazione è talvolta più difficile di un romanzo, sempre più delicata, e ad ogni modo non è cosa che si possa improvvisare quando non vi sia una ragione ben chiara per farlo.
L' Indomani aveva una sua storia, più o meno interessante secondo il punto di vista, ma una storia infine, mentre Vecchia casa, simile in questo ai popoli felici, non ne ha.
Ora, priva di tale fondamento, che vuol mai ch'io ne scriva? Una lode? Non sarei modesta. Un biasimo? Non sarei sincera; ed io tengo moltissimo ad ornare la mia mediocrità se non altro di queste due piccole virtù.
Che se poi a Lei interessasse di sapere quale accoglienza ebbe Vecchia Casa al suo primo apparire in pubblico (nel 1899) fu male ispirata a rivolgersi all'autore perchè gli autori in genere, nè io pretendo di formare eccezione, hanno per amore delle loro opere la stessa insaziabile brama della fiera Dantesca e se trovano venti lettori ne vorrebbero ventimila.
Purtroppo devo confessare che ventimila lettori Vecchia Casa non li ebbe ancora, ma non dispero che la presente edizione fregiata del suo nome e posta sotto il suo alto patronato possa riuscire a ottenerli, molto più che se la critica mise fuori per questo romanzo inaudite espressioni di lusinga, il pubblico, il gran pubblico, non lo conobbe e tranne qualche profonda anima fedele che ne assaporò in silenzio l'intima essenza, esso passò inosservato così da potere oggi riuscire pressochè nuovo.
Per essere sincera fino all'ultimo devo dire che nel coro delle lodi non mancò qualche nota stonata. Non può piacere a tutti un libro che fu definito: “Una di quelle piccole anfore di Murano in cui il vetro ha raggiunto la sottigliezza del velo più trasparente, anfora di una fragilità leggiadrissima che allontana istintivamente la mano dal toccarla, tessuto imponderabile nel quale anche le cose materiali diventano diafane. Ricostruirlo in sintesi è guastarlo. Una sottile malia si sprigiona da questi libri dello spirito che vi trasporta ai di sopra della realtà, pur sentendo che la realtà vi conquide, una realtà superiore ma non meno reale„. (Natura ed Arte, 15 Aprile 1900 ).
Questione di gusti come sempre. Chi preferisce le anfore di Murano e chi i boccali di Montelupo. Lei da quell'intelligente editore che è ci metta sopra il cartellino, così non vi saranno equivoci.
Con ciò la riverisco distintamente.
Da Campodolcino, settembre 1910.
Neera.
LA VECCHIA CASA
La nebbia che fino allora aveva tenuta la città prigioniera ne' suoi veli sembrava cedere agli sforzi di un pallido sole di novembre. Milano usciva nel trionfo di una opaca e tranquilla bellezza di contro al cielo grigio, uniforme, dolcemente pastoso, sul quale le spire salienti dai numerosi fumaioli segnavano alcune strisce appena più scure e i tetti, i campanili, i frontoni delle chiese smussavano tutto ciò che vi era di troppo acuto nei loro angoli, abbracciati, quasi cullati dalla grande morbidezza dell'aria e del cielo.
Quel delizioso passaggio della stagione, quando il caldo è lontano e il freddo non molesta ancora, dava rilievo alla generale intonazione di compostezza e di calma. Una luce smorta coloriva dolcemente le cose. Se nel centro della città l'andirivieni affrettato della folla e le mostre appariscenti dei negozî rompevano la gamma monotona del grigio, nei quartieri deserti, giù per i navigli, la sinfonia del colore neutro si sbizzarriva sui lunghi muri degli orti e dei conventi, al di sopra dei quali alcuni radi ciuffi di platano e di castagno rameggiavano flosci, tinti di un giallo moribondo.
In una via fra le più antiche dell'antica città, saliva rasentando il muro, con passo fra timido e pauroso, un fanciullo; ma forse non tanto fanciullo come poteva sembrare a primo aspetto con quelle membra gracili strette in abiti rattrappiti, col viso pallido e sofferente delle giovani creature in cui la sensibilità sovrabbonda. Tra lui e l'ambiente e il cielo non ancora completamente snebbiato correva un intimo accordo di malinconia rassegnata, piuttosto sognante che dolorosa, piuttosto organica che dipendente da circostanze esterne.
Saliva, il fanciullo, guardando da lontano innanzi a sè chi gli stesse per venire incontro sul sentiero e voltava pure tratto tratto rapidamente il capo per assicurarsi di chi lo seguiva alle spalle. Vestiva un abito grigio troppo corto, un cappello a cencio sotto il quale il viso piccolo e delicato scompariva tutto, e teneva sotto il braccio pochi libri stretti fra due assicelle. Giunto a mezza via si fermò un momento, con una mossa istintiva adombrata di timidità insieme e di fierezza.
Il ginnasio, che egli aveva abbandonato fra una lezione e l'altra, gli stava dietro a molta distanza e nessun professore si era trovato sulla sua strada. Una visione terrorizzante gli gelò è vero per un istante il sangue nelle vene, poichè aveva scorto, sotto un portone, la schiena obliqua di un uomo magro e segaligno vestito di nero, ma un secondo sguardo lo rassicurò, per cui riprese la strada ripetendo a sè stesso con convincimento: “Non è lui!„
Dopo pochi passi, voltando l'angolo, si trovò dinanzi alla chiesa di Sant'Ambrogio e tornò a fermarsi; non più sbigottito questa volta nè tremante, ovvero tremante ancora, ma di commozione nuova che sembrava stringergli il cuore dentro una morsa.
Il vecchio tempio era parato a lutto: una gran striscia nera ondulava sulla porta dell'atrio e più lungi, al di là del cortile, altre striscie nere orlate di frangia d'oro velavano a mezzo l'entrata del tempio. Egli doveva saperlo, lo sapeva; tuttavia la realtà di quel lutto apparsagli d'improvviso sembrò rinnovargli il dolore. L'incredulità vaga che si impossessa della mente al primo annunzio di morte di una persona cara mutavasi in certezza davanti alla materiale prova, alla bandiera della morte sventolante sulla casa di Dio.
Un rispetto sacro rese ancora più pallide le guancie del fanciullo. Avanzò a piccoli passi tenendo gli occhi fissi sul cartello che fronteggiava l'entrata, smanioso eppur pauroso di leggere ciò che vi stava scritto. I caratteri gli sembravano confusi; non voleva incominciare dal principio; avrebbe desiderato conoscerli in un lampo di intuizione, non essere obbligato a decifrarli parola per parola. Gli pungevano le pupille, gli saltellavano davanti come piccole fiamme. Finalmente si fregò gli occhi, e lesse:
A Gentile Lamberti CHE FU ANIMA FIAMMA PENSIERO CUI LA MATERIA NON GRAVÒ MAI LE FIGLIE IMPLORANO LIEVE LA TERRA NELLA DIMORA ULTIMA ASPETTANDO
XIII NOV. MDCC....
Ma l'impressione che ricevette fu meno dolorosa di quanto aveva temuto; insieme ad una commozione profonda che gli fece salire un gruppo alla gola sentì pure una specie di conforto grandioso, una elevazione del cuore alla immortalità vaga e sognante. Le tre parole anima fiamma pensiero gli rendevano vivo e vero ciò che era stato Gentile Lamberti; gli lasciavano intravedere la possibilità di sopravvivere a sè stessi in un mondo invisibile dove le anime si sposano fuori d'ogni rito e popolano la terra di tutto quanto palpita sovr'essa nella luce del pensiero.
Abituato alla solitudine e ad una lunga disciplina di vita interna, il fanciullo aveva la preparazione dovuta per ricevere l'impressione augusta del grande mistero. L'uomo di cui si celebrava in quel giorno il funerale era stato, nella sua scolorita esistenza di orfanello, l'apparizione più luminosa. Avvicinandolo, egli aveva sempre supposto che fosse differente da tutti gli altri uomini ed aveva provato il segreto desiderio di essergli figlio o parente per un inesplicabile bisogno di comunione colle idee e coi sentimenti da lui espressi. Quante volte, per parte de' suoi superiori, anche de' suoi maestri, la sensibilità del fanciullo era stata ferita, quasi offesa, quasi derisa, e da Gentile Lamberti mai!
— Gentile Lamberti, — ripetè, affascinato da quel nome che non vestiva più alcuna apparenza umana, che non corrispondeva più al timbro di una voce, al lampo di uno sguardo, che non aveva più significato al mondo, un nome che nessuno più portava — un nome morto — poche sillabe accozzate insieme, un suono senza senso — nulla dunque! — No, — disse ancora collo sforzo di una volontà latente che voleva reagire a qualunque costo, — un uomo simile non muore. Non sapeva donde gli venisse quella fede che gli dava tanto coraggio in mezzo allo schianto, quella energia nuova uscente per la prima volta dal suo gracile petto, nata quasi dal suo stesso dolore, ma la accolse largamente, la lasciò cadere a guisa di rugiada nella sua anima e se ne imbevve fino alla dolcezza.
Entrò allora nel tempio che era deserto. All'estremità della navata maggiore, davanti al vecchio altare dove un bassorilievo dorato risalta sullo sfondo di una tinta turchiniccia stridula e primitiva, era stato rizzato il catafalco. Lo scaccino girava ancora torno torno accomodando le pieghe del drappo nero; due banchi parati a lutto lo fiancheggiavano da una parte e dall'altra; alti candelabri tenevano gli angoli. Il fanciullo vedeva forse tutto ciò, ma non guardava, non capiva. — Il funerale è per le quattro — disse lo scaccino rispondendo a una donna che era apparsa dietro a un pilastro — e per quanto le parole fossero pronunciate a bassa voce, il loro suono si diffuse sinistro e cupo sotto la vôlta del tempio, sì che il fanciullo le udì e ne ebbe un sussulto. Anche questo egli sapeva, ma sentirlo dire da un altro gli parve brutale.
Sedette su un banco vicino al catafalco che si pose allora a guardare con intensità, accarezzandone coll'occhio ogni minuto particolare di colore e di forma, divagando di sensazione in sensazione, di idea in idea, secondo una particolare attitudine della sua immaginazione avvezza a prestare anima e vita a tutti gli oggetti che lo circondavano.
Così risalendo senza accorgersene dal suo dolore al suo affetto ed alla causa che li aveva generati entrambi, rivide sè stesso quando, pochi anni prima, era venuto a Milano dalla lontana provincia, senza che fosse stata versata una lagrima per la sua partenza, nè che una carezza lo avesse accolto all'arrivo. Orfano, allevato per pietà da parenti poco prossimi e troppo poveri per potergli essere di aiuto, affidato da ultimo alla sorveglianza meschina di un altro parente sconosciuto che lo tiranneggiava, i soli sorrisi, il solo conforto, le sole parole alte e buone gli erano venute da Gentile Lamberti. Come avrebbe potuto dimenticarlo? Rivedeva la casa ospitale dove soleva passare quasi tutte le sue ore di libertà, tanto vicino alle sue aspirazioni quanto sentivasene lontano nella casa dei parenti, ed era con tenerezza somma, con una vera commozione che rammentava l'indulgenza illuminata e paterna di Gentile Lamberti e le infinite volte che l'autorità incontestata di lui gli aveva mitigati i castighi.
— Il funerale non è che per le quattro — susurrò lo scaccino passando lo strofinaccio della polvere sul banco dove sedeva il fanciullo.
Questi si alzò, un po' rosso, come se fosse stato colto in fallo, e prese a fare il giro degli altari lentamente. I dipinti lo attiravano in particolar modo e quando scoperse nella navata a destra dell'altar maggiore un piccolo Gesù che predicava ai dottori si fermò a lungo, immobile, la mente piena di visioni.
Intanto l'orologio della chiesa suonò le ore.
Qualche persona entrava tratto tratto, dava un'occhiata ai preparativi, scambiava poche parole a bassa voce col custode ed usciva. Il fanciullo, per nulla impaziente, compì il giro degli altari e tornato all'aperto nel cortile lo continuò sotto l'atrio, attratto dapprima dai massicci sepolcri di pietra sul coperchio dei quali posava esitando la mano — una piccola mano nervosa che tremava — fermato poi dai frammenti di affresco che balzavano fuori sulle muraglie, bizzarri e misteriosi nelle loro linee spezzate, nei loro colori di ombre. Uno dei sepolcri, collocato a altezza d'uomo, mascherava tutto il corpo di un santo lasciando scoperti i soli piedi, e quei piedi mozzati lo impressionavano come se fossero stati vivi. Era strano che gli sembrassero veramente piedi e non pitture di piedi; ma le sue sensazioni erano sempre così, profonde e violente.
Una delicata testa femminile, sfumata più che dipinta, gli diede all'occhio una grande dolcezza. Nell'attitudine e nel soave abbandono dell'omero ella sembrava stringersi al seno un bambinello. Contemplò a lungo questo dipinto, sentendosi rimestare in fondo all'anima un tumulto di desiderî e di sogni confusi e ancora la memoria di Gentile Lamberti venne a commuoverlo. Ricordava: era una sera non remota ed egli gemeva sull'arida grammatica che l'inflessibilità del suo mentore gli aveva resa completamente odiosa. Il signor Pompeo, rotando gli occhi nel viso segaligno, gli prediceva tutti gli orrori ai quali sarebbe andato incontro colla sua negligenza, soggiungendo che da uno scolaro al quale mancavano nientemeno che intelletto, memoria e volontà non c'era da aspettarsi niente di buono. — Io credo — aveva detto allora Gentile Lamberti — che lei dimentichi la qualità generativa d'ogni cosa bella. Questo fanciullo sente. — Oh! — aveva risposto il signor Pompeo scandolezzato — quale professione gli insegnerò io mai a base di sentire? — e dopo qualche istante di silenzio Gentile Lamberti replicò: — Perchè non sarebbe egli poeta?
Questo brano di conversazione tornava ora nei ricordi del fanciullo che rapito quasi egualmente da una visione di dolore e da una visione di bellezza si chiedeva trepidante: Sarò io poeta?
Non era ambizioso; il miraggio della gloria e della fortuna non lo tentava. Non era nemmeno uno spirito pratico, per cui facendosi la domanda: sarò io poeta? più che cercare una soluzione al problema del suo avvenire, ripeteva per intimo bisogno di dolcezza quelle parole misteriose che aveva udito pronunciare dalla persona a lui tanto cara, sembrandogli, se avesse potuto diventare poeta, di interpretarne il desiderio. Disgraziatamente fra le due assicelle che tenevano serrati i suoi quaderni di scuola si trovava un penso di letteratura ed egli ricordò con una certa mortificazione come non potesse ritenere più di cinquanta versi. Abbassò il capo contrito, non vinto però.
L'onda delle sensazioni continuava ad incalzarsi nella sua mente acerba ma tenace. Sentiva che il mondo e la vita non sono solamente quello che ognuno dice: che nell'ampio mondo fatto per tutti c'erano dei piccoli mondi occulti e chiusi dove non si poteva penetrare in folla. Colpito da quella rara e squisita sensazione che si intende col nome di rispetto egli misurava sempre più il passo, contemplando i preziosi ruderi che lo circondavano con una simpatia calda e rattenuta che sembrava toglierli dai secolari riposi e infondere un palpito ad ogni frammento di granito, ad ogni evanescente profilo. Egli non sapeva nulla della storia di quel tempio e di quel cortile, nè che fossero considerati come opera d'arte, nè che i forestieri accorressero a visitarli. L'eroica figura del vescovo Ambrogio, che egli non aveva ancora studiata nei suoi corsi ginnasiali, non gli suggeriva nulla davanti a quel monumento della di lui grandezza: ignorava che orde di popolo acclamante avessero invaso gli intercolonni quando gli imperatori venivano a farsi cingere dall'arcivescovo la corona ferrea e che la voce popolare riguardasse la porta maggiore del tempio come la stessa da Ambrogio chiusa in faccia a Teodosio. Nulla sapeva di quanto l'arida dottrina insegna; ma egli udiva la voce delle pietre, egli vedeva trasudare dai marmi le lagrime di dolori passati rinnovati sempre, egli sentiva palpitare silenziosamente l'anima delle cose all'unissono coll'anima sua in una vibrante armonia di tristezza e di luce. Egli amava nel mondo visibile l'invisibile mistero ed a quello tendeva con inconscia sicurezza.
Già la nebbia che si era sollevata nelle ore meridiane ricominciava a cadere lentamente. Il fanciullo argomentò che l'ora attesa non dovesse essere lungi: infatti recatosi sul piazzale e guardando in su verso le vie fuggenti a nord riconobbe in una massa bruna che si andava man mano ingrossando le prime file del corteo funebre. Contemporaneamente alcuni curiosi giunti alla spicciolata da diverse parti entrarono a prender posto sotto l'atrio e lungo i colonnati.
Il fanciullo rimase sulla piazza portandosi verso l'angolo della via che fronteggia il tempio e tenendovisi nascosto in modo che la sola testa sporgesse in fuori a guardare il corteo che si avanzava, dapprima incerto per la molta lontananza e per il velo di nebbia che si stava svolgendo sulla città, poi distinto nel lugubre drappello dei necrofori, nei rocchetti bianchi del clero sopra cui ondeggiava la croce dai pallidi riflessi d'argento, finalmente il carro in un nimbo di fiori. Ecco! Il fanciullo si aggrappò al muro, strisciandovi sopra la faccia con uno spasimo improvviso. Gentile Lamberti gli passava davanti morto. Morto! Sbarrò gli occhi, meravigliato di non vederci più; sentì il muro bagnato sotto la sua guancia e si accorse di piangere....
Quando tornò a vedere, il carro aveva svoltato verso la chiesa seguito dai parenti, dagli amici, dalle rappresentanze cittadine. Molte persone che avevano conosciuto anche per poco l'uomo insigne che non era più, molti di coloro che senza averlo conosciuto personalmente onoravano in lui la rara concordanza fra l'ingegno e il carattere venivano in seguito e ad ogni svolto di via altri se ne aggiungevano; altri, trovandosi sul passaggio della salma venerata, interrompevano la loro corsa di affari o per curiosità o per simpatia o per poterne parlare in casa e ripeterlo agli amici. L'interminabile sfilata si perdeva colle carrozze del seguito in tutte le vie adiacenti.
Allora il fanciullo abbandonò il suo posto di osservazione e guizzando inavvertito in mezzo alla folla ripassò il cortile, rientrò nella chiesa stipata di gente dove gli fu impossibile avanzare, per cui rifugiatosi in una cappella si addossò a un pilastro ed ivi stette aspettando che fosse compiuta la cerimonia religiosa. Alzandosi però sulla punta dei piedi e colla vista che aveva acutissima intento a scrutare quella massa di teste denudate e raccolte vide la testa medusina del signor Pompeo, in prima fila, rigidamente piantato davanti alla luce di un finestrone perchè ognuno potesse sapere che egli era là. Da quel punto la maggior preoccupazione dello scolaro fu quella di schivare il temuto pedagogo che lo credeva a scuola, e appena terminate le preghiere, quando la folla colle sue onde di mare agitato si mosse riversandosi verso le porte del tempio, egli, facendosi piccino, scivolando silenzioso, si confuse cogli ultimi, cogli umili, indifferente alla inferiorità del posto che occupava, pago di accompagnare l'uomo amato con tutto l'ardore, con tutto l'entusiasmo del suo cuore giovane.
La nebbia intanto, la strana, fantastica nebbia del novembre milanese, continuava a cadere molle e muta. Sulla piazza di Sant'Ambrogio, nel lungo viale sotto gli alberi, ogni forma perdendo la precisione del contorno si ingigantiva in una ciclopica visione di masse indecise salienti a toccare il cielo: e talora sembravano palazzi inaccessibili, soggiorno di genî e di fate; tal altra prendevano l'aspetto di monti iperborei sorti improvvisamente a restringere i confini della terra. In mezzo ad essi la linea del corteo funebre, svolgendosi con ondulamenti di serpe, procedeva a guisa d'ombra nera tremolante nella vasta ombra grigia immobile. Parve al fanciullo che Gentile Lamberti movesse così verso il doloroso mistero accompagnato da fantasmi velati, quasi sospinto da forze invisibili in quelle tenebre che si facevano di istante in istante più fitte, verso la gran tenebra ignota. Le ombre incalzavano le ombre, nel silenzio tragico delle vie che si inabissavano paurosamente davanti allo sguardo, davanti al passo, come se una voragine le inghiottisse.
Avvinto da un fascino che un vago inesprimibile terrore rendeva più intenso, il fanciullo si stringeva al gruppo delle persone che lo precedevano: solo un tratto che egli fosse rimasto indietro si sarebbe smarrito irremissibilmente. Camminando con quel suo passo leggero e timido fissava con ostinazione quasi magnetica le torcie accese che rompevano l'oscurità con piccoli punti gialli intorno ai quali il riflesso roseo della fiamma, venendo a contatto colla nebbia, tracciava una zona delicatissima di color violetto morente in una gradazione quasi inafferrabile di verde pallido, poi di grigio, poi di grigio più intenso, che mescendosi alle irradiazioni delle torcie vicine spargeva nella nebbia un chiarore madreperlaceo di un effetto misterioso. Tutti i preparativi del funerale, la chiesa addobbata a lutto, il catafalco, i fiori, la folla, ognuna delle cose stabilite e fisse, ognuna delle materiate manifestazioni umane scomparve dalla sua memoria. Un mondo ignoto sorgeva per lui da quelle tenebre stranamente iridate: mondo di larve rompenti l'ostacolo con petti virili, singhiozzanti con femminei seni: mondo di lagrime portate a vagare lungi dagli occhi che le avevano spremute, lungi dalle mani che le avevano terse, erranti in cerca di altri occhi a cui appendersi, di altre mani da irrorare: ed egli le beveva, quelle lagrime, avidamente, nell'aria umida e densa che gli palpitava sul viso un soffio gelido di morte.
A un tratto non vide più nulla; non la massa incerta delle persone che lo precedevano, non i punti luminosi delle torcie, nemmeno la più lontana rifrazione delle fiamme, nulla! La muraglia nera della notte gli stava davanti terribilmente muta.
Ciò che aveva paventato accadeva. Il corteo funebre che si era andato di continuo assottigliando si tolse ai suoi occhi, improvvisamente divorato da un più fitto strato di nebbia. Egli si trovò solo, perduto nelle tenebre.
Mosse alcuni passi nella stessa direzione, con una forza di volontà disperata che gli faceva sbarrare gli occhi e tendere le palme in attitudine di respingere un nemico; ma il nemico opponeva la sua molle resistenza di fantasma imponderabile, lo serrava e lo soffocava nelle sue braccia di velo, impassibile, penetrante, silenzioso. Non uno spiraglio di luce si offriva a' suoi sguardi, non un suono colpiva il suo orecchio ansioso. Nel breve cerchio della sua persona un crepuscolo violaceo rinnovato di passo in passo, pari a una lanterna portata da una mano invisibile, gli tracciava misteriosamente il cammino. Si fermò cercando di indovinare in qual punto della città si trovasse. Invano. Da una parte e dall'altra l'invincibile muraglia lo respingeva.
Così, abbattuto, avvilito, sbagliando ogni tratto, retrocesse sulle sue proprie orme e quasi riprendendo il possesso della realtà man mano che si avvicinava ai luoghi noti pensò al precettore che doveva attenderlo, al castigo che lo aspettava, e una tristezza infantile sprigionandosi dal suo gracile petto gli serrò la gola con un singulto.
Quando potè ritrovarsi nella sua contrada, davanti alla porta della sua abitazione, esitò un istante; poi riunendo tutto il coraggio entrò di corsa; salì l'ampio scalone signorile che arrestavasi al primo piano e stava per slanciarsi sulla piccola e buia scala del suo precettore, allorchè la voce fessa del signor Pompeo risuonò altamente in uno scoppio di collera ed egli stesso apparve sulla soglia dell'appartamento del primo piano che un domestico gli aveva spalancata. Il fanciullo ebbe appena il tempo di gettarsi in un canto, rannicchiandosi contro la parete; il signor Pompeo si fermò volgendosi verso una persona che gli stava alle spalle:
— Quel ragazzo — disse con accento duro — ha bisogno di una lezione.
Una voce soavissima, una voce di donna angelicata benchè tremante fra le lagrime, pregò con indicibile commozione:
— Non oggi! non oggi!
E temendo forse che la parola non bastasse, l'incognita aggiunse il gesto supplice delle mani congiunte verso l'uomo che già aveva varcata la soglia, seguendolo per ottenerne una promessa di clemenza. Fu allora che ella scorse il fanciullo rattrappito e tremante nell'angolo della scala.
— Flavio! Poverino, che fai qui?
Se lo attirò fra le braccia dolcemente materne e trovandolo intirizzito ne strinse il volto contro il proprio petto con un movimento rapido e lieve, ripetendo: — Poverino!
Flavio si sentì salvato.
Non molto ampia, modesta, coll'intonaco di un bigio caldo che le dava un aspetto vivente quasi di persona, la casa che i Lamberti abitavano da oltre mezzo secolo riuniva tutti i caratteri delle vecchie case, signorili senza sfarzo, costruite con quel sentimento dell'interno che faceva disprezzare ogni pompa, che teneva la porta non più alta del necessario ma discretamente larga perchè la carrozza padronale vi potesse entrare comodamente e che si accontentava di due piani ampiamente soleggiati. Il primo proprietario — un cadetto di nobile famiglia — vi aveva conferito, ad onta dei mezzi limitati, il suggello di distinzione della sua razza e tale suggello si era conservato inalterato attraverso le peripezie delle successioni.
La piccola casa nella via deserta, nel quartiere eccentrico, non aveva destato le cupidigie dei nuovi arricchiti; nessuno aveva mai pensato che si potesse trasformarla in un piramidale palazzo moderno e così come si trovava, senza caloriferi, senza alcuna delle moderne ricercatezze, nessuna signora elegante avrebbe voluto abitarvi.
Era passata per tal modo chetamente di eredità in eredità a gente dignitosa ed oscura che non ne aveva alterato un solo aspetto, lasciando che il grosso fico spadroneggiasse nell'angolo del cortile, che l'erba crescesse fra il rado acciottolato, che una patina nera incrostasse i riccioloni barocchi della scala d'onore e del terrazzo sul quale tutte le piante possibili crescevano a primavera invadendo muri, finestre, embrici, con una prepotenza secolare che era diventata diritto. Le gronde ai tetti, foggiate in forma di draghi che vuotavano a torrentelli nella strada le pioggie raccolte, erano scomparse solamente in seguito al divieto formale del municipio, non senza aver tentato qualche resistenza. Sembrava che tutta la casa, tutto ciò che vi apparteneva, fosse tenuto insieme da un legame invisibile ma tenace che non voleva cedere alla invasione dei tempi nuovi. I proprietari stessi non erano riusciti ad appiccicarvi il loro nome; in tutta la parrocchia di Sant'Ambrogio si diceva la casa del marchese senz'altro. La casa del marchese da pochi anni appena era anche conosciuta col nome di casa dei Lamberti, quantunque i Lamberti non ne fossero proprietari, ma era questo un miracolo di Gentile Lamberti che solo era apparso degno di sostituire il suo nome venerato ad uno tradizionale che durava da secoli.
Già fin dall'esterno, in una rigonfiatura del muro che alterava la linea della facciata insistendo in quel carattere di vitalità così suggestivo e bizzarro, il disegno della casa si presentava con una assoluta indipendenza di criteri. La porta, collocata non nel mezzo della facciata ma da un lato di essa, era sorretta da pilastri piatti di granito che si riunivano alla sommità abbracciando un piccolo scudo dove assai confusamente si intravedevano le traccie di uno stemma. Entrando sotto il breve portico, che una pusterla di legno ingraticciata spartiva a metà, erano visibili ed assai bene conservati i dipinti del soffitto a cassettoni dove il pittore aveva anticipato le chiocciole e gli svolazzi che lo scultore doveva ripetere nelle balaustre della scala, diffondendo l'impressione speciale di morbidezza, di tepore, quasi di carezza e di abbraccio che è il più grande fascino del barocco puro.
Al di là della pusterla qualunque richiamo al movimento cittadino cessava. Si pensava involontariamente al numero infinito di conventi che stavano addossati un tempo in quelle contrade, al mistero di tante vite rinchiuse, scomparse per sempre, e guardando il piccolo portico dalle snelle colonnine che girava per due lati del cortile, la fuggevole visione delle suore oranti faceva passare un soffio di misticismo sulla calda impressione lasciata dalla architettura secentista. Ma era un misticismo dolce, sereno, che diventava quasi gaio quando la bella stagione vestiva di verde tutte le pareti e dal terrazzo la glicine, il caprifoglio, i gerani mandavano ondate di profumi nel cortile.
I due muri non occupati dal portico, essendo molto bassi, lasciavano scorgere una sfilata di orti, di piccoli giardini ingenui e primitivi dove la zappa entrava di rado e che contribuivano a conservare l'illusione della solitudine.
Costruita per una famiglia patrizia la casa aveva un solo appartamento che meritasse veramente questa denominazione: ad esso metteva capo l'ampia scala di stile barocco. Tuttavia alcune stanze del secondo piano erano state adattate per uso del signor Pompeo e dalla parte opposta, dove era la scaletta di servizio, gli ultimi proprietari avevano pure trovato modo di collocare un vecchio pensionato con sua sorella. Ma era tutto. Si trovava per tal guisa accresciuta l'intimità della casa dove poche persone entravano — sempre le stesse — dove da anni ed anni le finestre dei Lamberti si aprivano giocondamente lasciando passare i canti e le risa delle fanciulle, dove il vecchio pensionato, da un piccolo balcone, veniva a scaldare i suoi reumi al sole mentre la sorella appendeva la gabbia del passero solitario; dove il signor Pompeo, attraversando il portico, sbirciava tutte le mattine il cielo facendo pronostici per la giornata; dove Flavio aveva passate tante ore grigie sui propri cómpiti, tante ore azzurre nel salotto dei Lamberti.
Ogni primavera, innanzi che il fico mettesse le fronde, il portinaio saliva con una scala a mano a verificare lo stato dei rami; poi tendeva dei fili di ferro affinchè la glicine che cadeva abbondantissima dal terrazzo non andasse dispersa; egli la obbligava a vestire il muro nel posto lasciato libero dal fico. Una ventina di vasi schierati in bell'ordine e sempre in un dato modo dovevano completare l'assetto estivo del cortile. Il buon uomo vi seminava invariabilmente del basilico e delle violacciocche. Più tardi, quando il sollione di luglio e di agosto sferzava le pianticelle, egli le raccoglieva durante le ore calde sotto il portico, e il ripetersi metodico di tutte queste occupazioni, lo scrupolo di conservare ogni cosa nello stato e nella forma abituale, dava luogo a un ordine monastico in perfetta armonia coll'ambiente. Siccome poi il portinaio era solo, nessuna ciancia di donna, nessun vociare di bimbo rompevano l'alta quiete del cortile. Era così che l'erba cresceva in mezzo ai sassi immacolata, che il fico conservava i suoi frutti fino all'estrema maturanza, che i vasi dei fiori non erano mai spostati di un millimetro, che la patina del tempo si era distesa sui muri, sulle colonne, sui riccioloni della scala e del terrazzo creando effetti impensati di chiaroscuro, mentre dalla parete a tramontana, vestita al piede di una leggera muffa verdastra, salivano le macchie del salnitro con ramificazioni bizzarre, somiglianti ad antichi graffiti che i secoli avessero un po' corrosi.
Un largo sprazzo di cielo proteggeva questa perfetta solitudine. Oltre gli orti, oltre i giardini, appena quando gli alberi erano privi di foglie si poteva scorgere l'alto muro di un convento sul quale stava dipinta una meridiana.
Il lutto che era piombato terribile e repentino sulla casa felice ne palliava momentaneamente il giocondo aspetto. La persistenza della nebbia faceva pensare ad un velo che la morte stessa, passando, vi avesse distesa; cortile, portico, terrazzo, tutto affondava nel tenue mistero. Ma nella camera dove Gentile Lamberti era morto il dolore si era veramente rifugiato più muto, più profondo, non larva o simbolo, ma persona viva.
In quella camera così piena ancora di lui, delle sue abitudini, delle sue memorie, Anna, la maggiore figlia, veniva come ad un tempio — sentendo del tempio la grandezza e la soavità insieme — consolandosi in ciò che per molti è strazio insopportabile: la rievocazione. Ella non comprendeva affatto i conforti che le andavano susurrando, per la maggior parte appoggiati sull'azione del tempo che doveva guarire la sua ferita, che gliela farebbero quasi dimenticare. Non voleva dimenticare. Al contrario, se vi era pensiero dolce per lei in fondo al suo dolore era appunto la sicurezza del ricordo perenne, di un legame ininterrotto collo spirito di colui che ella sentiva ancora vibrare intensamente dentro di sè. Suo padre non era stato solamente l'autore de' suoi giorni, la persona che le tradizioni, l'abitudine, l'interesse insegnano a obbedire e ad amare. Carne della sua carne e sangue del suo sangue ella era sopratutto per una perfetta somiglianza di anime la continuazione del di lui pensiero, l'essenza rinnovata di quell'Io morale che una semplice accidentalità della materia non poteva distruggere. Era la di lui coscienza, era il di lui amore, era ciò che egli aveva voluto che fosse, ciò che doveva rimanere.
Nessuna debolezza si mesceva all'alto sentimento della perdita che aveva fatta, ma piuttosto un ardore concentrato, come se dai più oscuri segreti del suo essere germogliasse il seme del potente albero caduto. Veniva tutti i giorni, dacchè era morto, a passare lunghe ore nella camera di suo padre; le sembrava di vederlo e di parlargli ancora; le sembrava — oh! ma in modo strano — di sentire il tocco leggero e penetrante delle sue mani, quelle mani un po' magre, ma più che magre tenui, le quali scottavano sempre nel palmo. E la sua voce udiva, la sua voce che chiamava: Anna! Questo nome, breve e lucente come una lama snudata, la faceva trasalire ancora nella memoria di lui con un fremito di orgoglio.
Quante volte, seduti là, sul piccolo divano in mezzo alle due finestre, egli aveva parlato della nobiltà della natura umana sollevando l'animo della fanciulla alla comprensione dei sentimenti generosi, mostrandoli non a guisa di eccezioni ma come la sola norma di una vita degna. Era, del resto, il retaggio che i Lamberti si erano sempre trasmessi di generazione in generazione con una fedeltà che aveva conferito loro una specie di aristocrazia morale. Legati alla vita più calda e più palpitante del loro paese, il nome dei Lamberti si incontrava dovunque, sia nelle ansie tragiche della dominazione straniera preparatrice di indimenticabili eroismi, sia nei periodi di calma, quando all'azione violenta dei rivoltosi succedeva l'irradiamento sereno delle contemplazioni intellettuali, uno di loro si trovava sempre collegato alle imprese più simpatiche e più generose. L'aureola popolare (nel significato alto della parola), quell'aureola che viene decretata da migliaia di cuori commossi e riverenti, aveva raggiato troppo fulgida sulla fronte di Gentile Lamberti perchè la sua dipartita non dovesse lasciare un vuoto angoscioso nella figlia che di lui solo era vissuta fino allora, ammiratrice entusiasta fino alla venerazione.
Desolata in mezzo alla gente, sola anche cogli amici che erano tanto diversi da lei, sentendo ad ogni istante per la forza fatale dei confronti l'immensità della sua disgrazia, Anna si ritemprava in quella camera satura delle idee, dei sentimenti, degli appassionati entusiasmi, delle delicate fantasie, delle ricerche amorose e profonde che da vent'anni formavano il nucleo di quella che era stata una esistenza in due.
Nella stessa camera si aggirava ancora la piccola figura elegante della nonna spiritualizzata nel ricordo; e della di lei dimora erano rimasti alcuni pastelli deliziosi appoggiati alla tappezzeria di un rosso cupo, il piccolo divano fra le due finestre, uno stipo tutto a cassettini, verniciato di chiaro, che sorrideva da un angolo come se avesse conservato nelle sue rotondità lucenti e fiorite la serena filosofia della vecchia signora.
Tanto era ininterrotta in quella famiglia la catena d'amore che gli antenati rivivevano coi giovani nipoti, avendo trasmesso a loro i gusti, le abitudini, certi atteggiamenti, certi motti. Tre generazioni erano nate sotto quei soffitti a volta fasciati di una tenera zona cilestrina, tra quelle pareti che gli usci interrompevano con una larga volata di imposte dipinte a nastri azzurri, a ghirlande di fiori sospese fra stipiti dorati, cui sovrastavano pitture a tempera di soggetto ridente. Ogni posto, ogni cantuccio raccontava una storia. Vecchi e bambini avevano pianto e avevano riso, avevano amato, gioito, sofferto, pensato, sognato, nella casa tranquilla, nelle signorili stanze ampie, illuminate, dove il riflesso dei giardini sottostanti faceva salire una gradazione delicata di verde che smorzava l'eccesso della luce. La felicità — una felicità alta e severa fatta di pensiero — palpitava in ogni linea, in ogni profilo; era così profondamente radicata nella casa benedetta che osava sprigionarsi anche dalla gravezza del lutto. Anna non vedeva nè la giornata grigia, nè la camera deserta, nè il posto vuoto. Nella sua anima ardente la vita era eterna.
Giaceva sulla scrivania di suo padre un libro aperto, lasciato aperto da lui nelle ultime ore. Il libro era collocato un po' di traverso (si ricordava benissimo), egli stesso lo aveva allontanato colla mano in un momento di stanchezza, ma senza chiuderlo, come se sperasse di poterne continuare in breve la lettura. Un segno rosso sul margine attrasse particolarmente l'attenzione di Anna: suo padre doveva averlo tracciato nella estrema attività del pensiero, poche ore prima di morire. Questa certezza le fece chinare il capo ansiosamente sul volume. Lesse: “Io non amo inzaccherarmi le vesti col fango delle vie. Io voglio in puri abiti di festa attendere il giorno dell'avvenire„.
Due lagrime cocenti le bruciarono gli occhi, caddero, si posarono sulla pagina segnata. Quelle erano le ultime parole meditate da suo padre!
Presa da una indicibile commozione, non udì la voce della piccola sorella che la chiamava dal corridoio. Solamente al leggero rumore dell'uscio che si apriva volse il capo.
— Flavio ha voluto venire....
I due fanciulli entrarono: Elvira davanti, poi Flavio, timido, cogli occhi che chiedevano scusa.
— Ha voluto venire! — ripetè Elvira, dando un'occhiata sdegnosa alle traccie che le scarpe di Flavio lasciavano sul tappeto.
— Hai fatto bene — disse Anna tentando di sorridere al fanciullo: ma davanti a quella faccina mesta sentì che non era necessario fingere e riprese, senza nascondere nulla del proprio affanno: — Dovevate chiamarmi, vi avrei raggiunti di là.
— Se ti dico che è lui che ha voluto venire!...
Flavio girava il suo cappello fra le dita, incapace di parlare, vedendo confusamente ogni cosa, con un gran nodo nella strozza, un po' ferito dall'insistere che faceva Elvira sulla domanda ch'egli aveva appena posata con grande timidezza.
— Che sciocco! — mormorò Elvira scappando nel corridoio.
Anna non udì precisamente le parole della sorella; guardò il fanciullo e fu colpita dall'espressione disfatta del suo volto.
— Tu volevi vedere la sua camera, nevvero?
Un lampo di riconoscenza per essere stato compreso brillò nello sguardo del fanciullo. Ancora non disse nulla, ma fece qualche passo verso la sua protettrice. Ella gli prese le mani, attirandolo, mormorando con passione:
— Lo amavi dunque molto?
— Oh! — rispose il fanciullo.
Null'altro. Per un istante le loro mani rimasero avvinte. Si guardarono profondamente, disperatamente, in fondo alle pupille. Avrebbero creduto di udir battere i loro cuori!
— Flavio — disse Anna ad un tratto — tu sei ancora giovane, non puoi comprendere chi fosse veramente colui che abbiamo perduto.
— Io lo so — rispose Flavio con molta semplicità.
Anna prese allora a considerare il pallido volto del suo amico, si ricordò che era meno fanciullo di quanto potesse far credere il suo aspetto; vide ad ogni modo nella piega dolorosa delle labbra le traccie di una sensibilità superiore agli anni e la bontà colla quale lo aveva sempre trattato assunse, in quel medesimo istante, un grado di simpatia più elevata che glielo fece riguardare come fratello. Di tutte le persone che avevano pianta la morte di Gentile Lamberti nessuna le era parsa, come quel fanciullo, vicina a lei, al suo modo di amare e di sentire.
Con uno slancio improvviso dove la passione dolorosa si vestì di una ineffabile dolcezza ella disse:
— Guarda!
L'occhio suo guidò Flavio verso il libro aperto, mentre coll'indice additava le parole segnate.
Il fanciullo lesse in silenzio. Anna che lo osservava vide le sue labbra tremare e le sue guancie, che erano già pallide, farsi trasparenti. Tutta presa d'ardore, Anna rilesse a voce quasi alta: “Io non amo inzaccherarmi le vesti col fango delle vie. Io voglio in puri abiti di festa attendere il giorno dell'avvenire„.
Senza rendersene esatto conto Flavio sentiva vagamente di ricevere una particolare distinzione, quasi una prova di fiducia e di tenerezza che da parte di quella donna superiore andava a risvegliare le corde più riposte del suo orgoglio d'uomo. Il fanciullo timido, avvilito, incompreso, il fanciullo di cui nessuno prendeva cura se non per abusare della di lui debolezza, saliva allora il primo gradino della dignità virile, e chi lo guidava, sorreggendolo, era un dolce viso femmineo, era una voce a lui ben nota per altri soavi ricordi. Solamente la sera prima Anna, in un momento di abbandono pietoso, se lo era stretto contro il seno. Tornavagli in quel punto vivissima la sensazione di tepore e di morbidezza risentita nella carezza fuggevole. Standosene egli un po' curvo sul libro vedeva Anna, ritta, più alta di lui, sorgere al suo fianco e disegnarsi contro la luce della finestra in una linea elegante di stelo che l'abito di un rosso vivo sembrava bagnare di sangue. Penetrato di un intimo calore, con una baldanza insolita e nuova, disse:
— Anch'io voglio fare così.
— Perchè è così che si ama — completò Anna.
Rimasero entrambi ad ascoltare il suono delle loro voci, cadente grave nella camera come se un voto solenne fosse stato pronunciato.
Fu Elvira che li trasse dal sogno. Ella, rientrando, arrestò gli occhi sull'abito rosso di Anna a cui la luce immediata della finestra dava un particolare risalto.
— Bisognerà bene ordinare gli abiti di lutto.
Pronunciò queste parole colla sua calma di bimba saggia, con quel criterio pratico e positivo che le attirava sempre l'ammirazione del signor Pompeo.
Anna frenò un moto istintivo di ripugnanza, lasciando cadere gli sguardi sulle sue maniche.
— Gli piaceva tanto quest'abito!
Si volse a Flavio persuasa che egli la comprenderebbe.
— Mi pare, spogliandolo, di spogliare un ricordo suo, di allontanarlo maggiormente dalla mia vita; mentre vorrei continuare in tutto e per tutto, sempre, come se egli mi guardasse ancora. Perchè cambiare la veste che egli amava, la veste consacrata dalle sue carezze?
Elvira soggiunse con un leggiero allarme:
— Il lutto lo portano tutti però. Che direbbe la gente?
— Oh — fece Anna rassegnata — lo metteremo anche noi, non dubitare.
Una malinconica amarezza trapelò dal suo accento. Flavio la fissava cogli occhi sbarrati, non osando parlare, così pallido e immobile che si vedevano palpitare le sue narici come l'ala di un uccello prigioniero; mentre in lei cresceva la sensazione di tedio che le veniva così spesso dalla presenza della sorella, che cercava di combattere con tutte le forze, ma che rinasceva sorda, implacabile, da sorgenti oscure e profonde che sfuggivano a qualsiasi ricerca.
Anche ora (Elvira erasi appoggiata alla scrivania tenendo la mano distesa sul piano levigato, toccando il libro che Gentile Lamberti aveva lasciato aperto in quel medesimo posto) Anna tremava quasi stesse per assistere ad una profanazione. Quella mano ferma e già forte nel suo incompleto sviluppo di bambina, quella mano che sapeva tracciare pagine di una calligrafia perfetta, quella mano così diversa, così straniera, là dove ella aveva veduto per l'ultima volta la mano diafana e scottante di suo padre, le dava una stretta al cuore che nessun ragionamento avrebbe saputo spiegare. Per vincersi e per dominare una sensazione che ripugnava alla sua alta rettitudine si accostò alla sorella passandole un braccio intorno al collo.
Non era suo dovere di amarla, ora più che mai, poichè erano rimaste sole nel mondo? Ella aveva precisamente l'età di Elvira quando la loro madre, sciogliendosi dalla vita, volgeva a lei in particolare la preghiera di sostituirla presso la neonata. Ed ecco, dieci anni erano già trascorsi senza che il vincolo ideale si stringesse. Ingannati dalla gentilezza dei modi tutti dicevano: Come si amano le due sorelle! Ma Anna sapeva bene che non era vero. Col braccio stretto intorno al collo di Elvira ne andava ricercando i baci con ansia affannosa, mormorando:
— Dobbiamo amarci, dobbiamo amarci.
E dal fondo delle sue viscere intanto l'occulto ribrezzo smentiva le parole affettuose.
Dopo le giornate bigie del dicembre, dopo i freddi acuti di gennaio e di febbraio, che tante ore raccolte avevano adunato nel salotto ospitale, la primavera vinceva e già la giovinezza dell'aprile entrava per la sfilata delle stanze aperte facendo sbocciare nell'illusione di una nuova fioritura le ghirlande dipinte sugli usci fra l'oro e l'azzurro tenero degli svolazzi accartocciati.
— Aspetto — aveva detto Flavio un giorno fermandosi estatico davanti a un insolito effetto di luce — che questi fiori mettano dei boccioli.
— Non è vero? È questa l'impressione che fanno anche a me. Io mi domando perchè le altre case non sono come questa e perchè invece di questi grandi usci dipinti, così ridenti, hanno dei piccoli usci di vetro freddi e repulsivi.
Era Anna che aveva risposto a Flavio. Era sempre lei che raccoglieva le rare osservazioni del fanciullo, come già un tempo aveva fatto suo padre. Ciò accadeva spontaneamente per un intimo accordo di sensazioni, ma vi si abbandonava anche volentieri pensando di continuare un lavoro di riabilitazione e di giustizia. Confidenze dirette non ne aveva ricevute ancora, nessuno le aveva chiaramente palesato che cosa fosse stata l'infanzia di Flavio, ma con sottile intuito ella l'aveva letta, la leggeva tutti i giorni nel pallore malaticcio di lui, nella piega dolorosa delle labbra, nell'occhio attonito che aveva talvolta immobilità vitree di anima assente; e quando con femminile pietà aveva fatta sua la tristezza di quell'adolescente senza famiglia, di quell'adolescente che non aveva nemmeno conosciuto la tenerezza di una madre, il suo sguardo ardente e cupo passava come una carezza sulla povera testa dai capelli incolti, sul povero corpo mal vestito, mal nutrito e le dure parole del signor Pompeo: “Scioperato, buono a nulla, vagabondo„; ella traduceva nella luce del suo cuore, così: “Infelice, infelice, infelice.„
Era ben vero che i cómpiti di scuola Flavio li eseguiva malamente o non li eseguiva affatto, impiegando l'ora della traduzione latina a tracciare disegni sopra i quaderni e l'ora di studiare i classici a inseguire via per il cielo il corso delle nuvole nei loro svariati aggruppamenti; ma Anna sapeva pure che egli leggeva molto fuori dei libri di testo e quando infervorata a discorrere delle idee che il padre suo aveva amate — sogni d'arte, entusiasmi di bellezza, ardori di fede — vedeva gli occhi del fanciullo rifulgere giocondamente e fissarsi nei suoi con una intensità di elianto che beve i raggi del sole, Anna si sentiva presa da un rimpianto violento che le faceva esclamare con malinconia: “Perchè non è mio fratello?„
Finchè suo padre era vissuto, la loro solitudine in due le era parsa la più squisita estrinsecazione di una vita che aveva per meta l'ideale. Collaboratrice intima di lui, regina e prigioniera nel loro piccolo alveare, quell'occulto lavoro di preparazione che avrebbe diffuso nel mondo tanto balsamo per le anime era tutto il suo orgoglio, tutta la sua gioia. Altri distribuiscono il bene nella forma concreta di cibo al corpo od all'intelletto; ella amava invece la distillazione primitiva che non è ancora miele ma succo di fiore. Di un'anima, di un'anima aveva bisogno!
Ed ecco che in quel rinnovamento della primavera, compiendo il suo ventunesimo aprile, Anna aveva attirata la sorella sul terrazzo tenendola stretta al fianco con sollecitudine materna, mentre dentro di lei l'angoscioso desiderio la faceva tremare di tenerezza.
— È bella la glicine quest'anno — disse Elvira.
Anna assentì silenziosamente col capo, lisciandone i capelli, osservando l'orecchio di Elvira dal lobulo grasso e pieno, caldamente rosato nella luce mattinale.
Sedettero entrambe sulla balaustra del terrazzo, in un posto lasciato libero dalla glicine e che Anna preferiva perchè da quel posto si scorgeva l'orizzonte ampio terminato dal muro di un convento lontano, quello stesso che portava dipinta sulla sua nudità monastica una meridiana. Alcune parole stavano scritte intorno alla meridiana, parole che per la grande lontananza non si potevano leggere, ma che Anna sapeva e verso le quali i suoi sguardi correvano sempre quasi attirati da un fascino.
— Ho molta lezione da studiare — disse ancora Elvira.
— Sì? Converrà allora guadagnar tempo.
— Oh! una buona metà la so già. Non sono come Flavio, io.
Una linea dura contrasse per un istante le labbra della fanciulla. Anna chinò gli occhi.
— Il signor Pompeo dice che se continua di tal passo l'anno venturo non potrà entrare in liceo.
— Poverino!
— Ieri sera ha avuta ancora la sua tirata d'orecchie.
Anna si coperse il volto colle mani.
— Se le merita però!
— Non so, non credo.... no, veramente, non credo. Flavio ha molta intelligenza.
— Se avesse intelligenza studierebbe.
Queste parole suonarono così male là, sul terrazzo, dove volavano ancora tra i rami rinnovellati della glicine le parole calde e pure di Gentile Lamberti che Elvira stessa se ne accorse e volle correggerle:
— O se avesse un po' di cuore.
Anna trasalì. Come non si intendevano! In qual modo si colmerebbe l'abisso? E la prese, come già altre volte, un terrore del vuoto che stava fra loro due, che sembrava scavarsi sempre più profondo, pari a un profondo burrone nelle cui viscere di sasso si ripercotesse il cadere gelido di poche goccie d'acqua. Teneva ancora gli occhi bassi, ma pur senza guardare la sorella sentiva svolgersi dalla sua forma indistinta una segreta repulsione e vedeva, senza guardarlo, quel lobulo dell'orecchio grasso e pieno che la turbava.
— Elvira — (pronunciò le sillabe a stento) — mia cara Elvira — (ora si sentì un po' sollevata) — se comprimiamo questo germoglio di glicine, così, sotto il pugno, e ve lo teniamo stretto lasciandogli mancare luce ed aria finchè secco e morto ci cada di mano, potremo noi valutare giustamente la sua forza e predire come si sarebbe sviluppato in condizioni normali?
La fanciulla non rispose. Attenta, tutta l'energia del suo cervello era volta alla comprensione del nuovo quesito e ciò che vi era in esso di matematico e di positivo la persuase, ma le sfuggiva il sentimento delle cose. Anna se ne avvide e con un moto lento, quasi di sfiducia, sollevò gli occhi verso la meridiana lontanante nel verde, così fulgida nel pieno meriggio del muro bianco che dovette subito ritorcere la vista.
— Ah! come è difficile — pensò.
Era giorno di domenica. Le campane delle chiese più prossime suonavano a distesa nell'aria mite e raggiante attraversata da ondate di profumo.
— Sarà bene l'ora della messa.
Così dicendo Elvira si tolse dalla balaustra, non senza osservare se qualche po' di terriccio le fosse rimasto sull'abito.
— Che bambina giudiziosa! — esclamò il signor Pompeo apparendo sul limitare del terrazzo colla tuba in una mano e i guanti e la mazza nell'altra.
— Lei va a messa?
— Torno.
— Solo?
— Quello scioperato lo mandai subito di sopra a fare i suoi pensi. Ne avrà per tutto il giorno. Il peggio è che in una zucca vuota non ci si può far allignare nulla. Glie ne dico una? Oggi, proprio oggi, nell'andare a messa col tempo che stringeva, che già era suonato l'ultimo rintocco, e caso mai avesse dovuto pensare a qualcos'altro non poteva logicamente pensare che ai suoi compiti, cerca di qua, cerca di là, non lo trovo estatico ed impalato sopra una scala a mano dimenticata dal portinaio ad esaminare il soffitto del portico? Ripeto: il soffitto del portico. Certe cose non si crederebbero se non le si vedessero. Io abito questa casa da dieci anni, ma sa Iddio se ho mai sprecato un momento a guardare i soffitti. Care signorine, quando non ce n'è.... — si toccò la fronte coll'indice crollando il capo. — Non è come loro! Non è come loro!
Il signor Pompeo si raddrizzò, sbuffò, girando intorno due occhiacci che pareva volessero valutare d'un tratto le lunghe tradizioni intellettuali e morali dei Lamberti, godendole di riflesso come pigionale e come amico.
— Vedrà!...
— Ho già veduto abbastanza, signora Anna. Quel disutilaccio ha quattordici anni, capisce?
— Quattordici!
— Eh? sembrano molti anche a lei? Il doppio dell'età del giudizio; non si direbbe eh? Io a quattordici anni avevo già fatta la prima liceo, conoscevo due lingue vive e due lingue morte e trovandomi in grado di dare delle ripetizioni bastavo a me stesso. È in tal modo che si formano gli uomini.
Sopra queste parole si gonfiò, fece la rota. Anna doveva pur convenire che vi era in esse un criterio comune non destituito di un certo peso, ma sentiva ribollire nel suo interno, altre, ben altre ragioni a favore del suo protetto. Come però Elvira la tirava per la gonna soggiunse in fretta:
— Non tutti i frutti maturano ad un tempo. Per alcuni ci vuole molto calore, molto!...
— E paglia — ghignò il signor Pompeo.
Elvira rise.
Gli apprezzamenti del vecchio presuntuoso e dappoco lasciavano Anna indifferente, ma il riso della sorella la ferì nella sua intima sensibilità. Per queste piccole punture inavvertite ella soffriva, per una sola parola che ad altri sarebbe parsa insignificante, per una espressione colta a volo e tosto dileguata che pure tracciava un solco nella sua mente pensierosa.
Giù nella via, lungo le stradicciuole solitarie che conducevano al tempio, ella fece sforzi sovrumani per essere lieta. Sulle creste dei muri, sui davanzali delle finestre, nello scorcio dei giardini intravisti per il vano delle porte aperte, aprile spargeva la tenerezza ridente del verde novello ed ella se ne imbeveva non senza una punta di malinconia così intima, così profonda, che niun varco trovava per uscire nè dai suoi occhi nè dalle sue labbra. Erano i posti noti e cari, le vecchie strade abbandonate, tante volte percorse insieme al padre, dal quale aveva imparato il sottile diletto di unirsi all'anima delle cose; ma ora l'anima propria gemeva, la sua anima rimasta orfana e così lontana. Sì, questa era l'impressione che meglio d'ogni altra le si delineava chiara dinanzi: sentirsi lontana. Il suo modo di amare esclusivo e violento le interdiceva i facili conforti, le comode sostituzioni. In chiesa, aprendo il suo libro di preghiere, fu particolarmente attratta da queste parole di un gran santo: “Adiratevi e non peccate„. Era dunque permessa, secondo i modi ed i casi, anche l'ira? anche lo sdegno amaro, profondo, che solleva il cuore in certe ore della vita e lo spinge alla rivolta come se volesse liberarsi ad un tratto da catene secolari che lo opprimono?
Al suo fianco Elvira leggeva la messa, voltando i fogli con un movimento compunto e grazioso della sua mano ferma; movimento che ella compiva da cinque o sei anni, che avrebbe continuato a compiere per cinquanta o per sessanta ancora, mentre Anna inquieta cercava inutilmente la preghiera che rispondesse al suo intimo ardore. Era stata qualche volta accusata di poca religione, eppure ella sentiva slanci di adorazione e di pietà, di umiltà e di rispetto quali non aveva visto mai ne' suoi accusatori. La fede, l'amore, il sapere, tutto ciò che è diffuso per il mondo sotto il nome di bene, può venire ristretto in date forme, in dati modi ed accontentare con tali forme e tali modi tutti i cuori? Piuttosto che un pane offerto, che una preghiera recitata, che un libro mandato a memoria, non è il bene una fiamma imponderabile che irradia da certi esseri privilegiati e riscalda, sole ideale, milioni di anime?
Un ricordo la assalì improvvisamente. L'augusta basilica sparve per un istante da' suoi occhi e si ritrovò in una modesta chiesetta di montagna, la chiesa di Courmayeur. Anche allora (da quando datava il ricordo) era una chiara domenica soleggiata; i villeggianti di Courmayeur stavano aggruppati dinanzi all'altare maggiore abbandonando il resto della chiesa ai contadini, alle donne che erano accorse da Prè Saint-Didier, da Entrave, dalla Saxe, dai vicini e dai lontani casolari, un po' stanche, aspettando il pane benedetto che un'antica consuetudine fa distribuire ai fedeli, porgendo l'orecchio umile e calmo alle parole che un giovane prete diceva dal pulpito. Erano parole così dolci che facevano pensare a un volo di colombe: parole calde di un ardore contenuto, simili a nuvole d'incenso sospese, profumanti la vôlta, acute e morbide insieme; ed uscivano, le parole, da una vibrante anima di asceta, da una forma pallida, emaciata, a cui l'interno calore dava riflessi di fiamma attraverso una lampada. La folla dei contadini, il gruppo dei villeggianti, tutta quella massa variopinta ed immobile accomunata nei banchi, addossata ai pilastri, prona sui gradini dell'altare scompariva, ricchi e poveri insieme, quasi atterrata dall'esile persona che a mala pena si scorgeva nella penombra del pergamo. E la voce continuava dolce, soave, a volte singhiozzante, a volte limpida, ma sempre frenata dalla violenza stessa dell'ardore. Un gemito lungo che parve dover straziare il gracile petto in cui si ripercoteva, scese, tremò sulle teste dei fedeli.... “ l'amour paternel, ce dernier couchant du soleil des passions „ aveva detto il giovine prete con tale sentimento della propria rinuncia che Anna aveva trasalito mormorando piano a suo padre: “Oggi abbiamo visto un'anima!„
Quella, quella era la verità. L'anima dell'uomo ispirato, l'anima sensibile spaziante al di sopra dei fedeli che la maggior parte delle volte non la intendono!
Rifece con maggior calma la via dalla chiesa a casa, essendo riuscita ad involgersi completamente nella visione. Suo padre la accompagnava ancora, suo padre era con lei. Questo trionfo dello spirito, sorretto, quasi osannato dalla natura in festa sorridente del suo eterno sorriso di fanciulla, le metteva nel cuore una gioia sopracuta.
— Vivo! Vivo! — esclamò Anna irrompendo nella camera di suo padre, e buttandosi sulla poltrona che era stata la sua, abbracciando il guanciale che serbava quasi intatta l'ombra della di lui fronte, terminò il proprio pensiero singhiozzando:
— E tu pure, in me!
················
Il mobiluccio della nonna, il piccolo stipo dalle tinte chiare di lacca e dai molteplici cassetti, aspettava l'opera di Anna, l'opera amorosa e paziente di vuotarlo, perchè il tempo ne aveva intaccata la solidità e conveniva mettervi riparo. Già il cassetto principale, tutto pieno di modelli di ricamo e di disegni, con qualche fiore dimenticato, con qualcuno di quei misteriosi pezzetti di nastro e di stoffa che dànno tanto fascino e tanta eleganza ai ripostigli femminili caduti in abbandono, quel cassetto era mezzo sfatto; ma molti altri attendevano ed Anna vi gettò uno sguardo non ancora deciso. La dolcezza sognante del pomeriggio festivo la riprese. Ella rinunciò a ordinare, per quel giorno, lo stipo della nonna.
Il terrazzo invece, così lieto di verde, la attirava irresistibilmente. Quando il sole lo ebbe lasciato libero vi tornò, sedendo come già aveva fatto al mattino sul muricciuolo, nel folto delle glicini, prestando la guancia con delizia alla carezza dei grappoli che la lambivano, colle labbra tese verso un bacio ideale di cui smorzavasi il desiderio nella freschezza dei fiori; e un'estasi la prese come di visioni che si svolgessero intorno a lei senza toccarla. I suoi ventun anni compiuti le davano una sensazione di maturità dolce, malinconica e morbida anche e quasi velata, che le faceva riguardare con simpatia più intensa le erbe novelle, i novelli fiori sbocciati su quel vecchio terrazzo tanto caro. Mentre coll'occhio seguiva Elvira che girava intorno coll'inaffiatoio ad abbeverare le pianticelle riarse, aveva pur essa la sensazione di attendere nell'ombra la goccia di una rugiada celeste.
Non si mosse e non volse il capo quando Flavio, all'ora solita, venne e dalla soglia augurò la buona sera. Per qualche tempo lo udì discorrere con Elvira, ma senza ascoltare, tutta immersa nella solitudine che circondava il terrazzo, che copriva i giardini e gli orti sottostanti di una tinta indecisa dove le forme sparivano, come se all'improvviso un mare misterioso ed immobile fosse sorto a dividere la casa felice dalla rimanente città che solo appariva dietro le mura del chiostro con una rada punteggiatura di lumi. Fu dopo, più tardi, che spostandosi per rimuovere un ramo se lo vide ritto accanto. Allora gli sorrise nella semioscurità, assaporando la dolcezza di proteggerlo e con una voce che tradiva sotto il tono ilare una profonda nota di affetto gli disse:
— Come sta?
— Come sto? — rispose Flavio tutto conturbato da quel cambiamento di pronome.
Ella mutò il sorriso in una franca risata, comprendendo.
— Sicuro. L'ho sempre trattato da fanciullo, ma seppi oggi che ha quattordici anni e bisogna cambiare registro. È ormai un giovinotto.
— Oh! se non è che questo, non li ho ancora compiuti quattordici anni.
— Davvero?
— Davvero.
Pronunciò l'affermazione come se dipendesse da quella una grande felicità.
— Ebbene — fece Anna solennemente — aspetterò fino a quel giorno. — Poi carezzosa soggiunse: — Oggi continua ad essere il mio fanciullo e approfittane per raccontarmi le tue disgrazie. Poverino, con questa bella giornata hai dovuto star chiuso, che peccato! Quanto verde hai perduto, quanti fiori, che cielo azzurro! Me ne rammaricai per te.
Flavio sentì tutta la tenerezza di quel dolore, di quel materno interessamento e provò il bisogno di contraccambiarlo con una confidenza. Disse:
— Io non sono stato sempre chiuso.... io fuggii.
— Sei fuggito? Senza che il signor Pompeo se ne accorgesse?
— Oh il signor Pompeo non è padrone di tutto! — esclamò il fanciullo con una intonazione di fierezza affatto insolita in lui. — Sono fuggito come e dove il signor Pompeo non può vedere. — E abbassando la voce soggiunse: — Il cielo azzurro l'ho avuto, l'ho fatto io: ho fatto l'erba ed anche i fiori, ed anche questa lucertolina, perchè non so immaginare una giornata di primavera senza la lucertola che scappa fuori dalla sua tana. Vede, vede come è contenta?
Flavio nella sua fanciullesca esplosione dimenticava che sul terrazzo non ci si vedeva affatto. Anna, preso il foglietto che egli s'era levato di tasca, si avvicinò al salotto dove Elvira, sotto la lucerna, ripassava i suoi cómpiti.
— No, no.... — implorò Flavio che temeva i motteggi di Elvira.
Anna, entrando nel suo pensiero, si fermò allora presso la soglia del salotto dove la luce era sufficiente e dove ella potè vedere il disegno del suo piccolo amico. Le parve meraviglioso di naturalezza e di vita. Consisteva in diversi schizzi fatti a memoria, ma con un sentimento della natura così vibrante, così originale, che davano veramente l'impressione della vita. Ella ne fu commossa al punto da non sapere che cosa dire. Mentre ritornava al suo posticino nel folto delle glicini, Flavio la seguì mormorando:
— Non è in collera, vero?...
— Caro, caro Flavio!...
Queste parole pronunciate da Anna con uno slancio grandioso giunsero all'adolescente attraverso l'aria fresca e profumata a guisa di una misteriosa carezza che lo guidasse verso il futuro. La sua giovine anima compressa volò ebbra di riconoscenza alla pietà femminile che tanto dolcemente gli sorrideva.
— Ne fai spesso di questi disegni?
— Sempre, quando posso.
— Forse anche quando dovresti studiare?
— Forse.
— E non ti sembra che sia male ciò?
— No, non mi sembra.
Anna non trovò alcuna obbiezione da opporre alla ingenua confidenza. Per quanto ella ne vedesse il lato intaccabile sentiva che in fondo Flavio aveva ragione e le venne il desiderio di penetrare più addentro in quel piccolo pensiero chiuso.
— Se gli studi che fai non ti piacciono, perchè non lo dichiari francamente? Nè il signor Pompeo, nè gli altri tuoi parenti vorranno costringerti ad una carriera antipatica.
Un grande sbigottimento si manifestò subito sul fanciullo. La timidezza, ceduta un istante nella comunione colla sua protettrice, lo riprese. Anna che non poteva vederlo bene in volto se ne accorse all'attitudine scoraggiata, al mesto silenzio che permetteva di udire l'affanno della sua respirazione.
— È già deciso che io debba fare l'insegnante.
— Ma chi ha deciso?
— Tutti.
Parve ad Anna che sopra questa parola si accentuasse ancor più lo scoraggiamento del suo amico, talchè fu spinta a prendergli la mano nell'ombra.
— Nessuno — pronunciò con voce grave — nessuno, intendi, può disporre della libertà di un altro; se c'è un dovere sacro per ognuno di noi è appunto quello di servirci delle attitudini che abbiamo facendole convergere allo scopo massimo dell'esistenza. Tu devi pensare a questo. La tua vita, la tua coscienza ti appartengono: hai l'obbligo di difenderle.
La mano di Flavio giaceva inerte in quella di Anna, abbandonate entrambe sulla balaustra; ma avendo ella fatto un movimento per ritirare la sua, avvertì una leggera, quasi supplichevole resistenza, che la indusse a soggiungere con maggior tenerezza:
— Io ho tanta fede in te!
Ancora Flavio taceva. Anna, portandosi avanti col volto ansioso verso il volto di lui, scorse con indicibile commozione i suoi occhi bagnati di lagrime. Erano le ultime lagrime di un fanciullo od erano le prime di un uomo? Il silenzio divenne religioso; solamente Anna, sciogliendo delicatamente la mano, la sollevò a tergere gli occhi del suo amico.
L'oscurità li avvolgeva quasi completamente. In fondo al terrazzo, nel vano del salotto illuminato, si disegnava la testa di Elvira curva sopra i suoi cómpiti, ricevendo dall'immediato contrasto colle tenebre esterne un carattere di vignetta ritagliata, inquietante e stonato nella fusione misteriosa del terrazzo colle ombre della notte. Anna prese un ramo di glicine carico di fiori e se ne fece schermo, stendendolo sulla spalla di Flavio, comunicandogli per quella via una specie di carezza lunga e profumata dove si sciolse tutta l'amarezza dell'adolescente. Egli parlò prima a parole brevi e staccate, poi infervorandosi, sorretto dalla inviolabilità delle tenebre e dalla mano di Anna che sentiva palpitare all'estremità del ramo fiorito.
Narrò la sua infanzia malinconica, la privazione dei baci materni, le sofferenze di una sensibilità acuta che l'ignoranza e l'apatia altrui irritava fino allo spasimo. Tutto non disse, per pudore, per fierezza, perchè non sale mai completamente all'espansione delle labbra la radice profonda del dolore. Ma il suo affetto, ma il suo pensiero, ma l'essenza intima e preziosa della sua spiritualità vaporò, si diffuse nella dolce notte primaverile; fu ala, fu profumo, fu raggio. Come nella chiesetta di Courmayeur, più ancora, Anna singhiozzò:
— Vedo un'anima!
L'intima armonia venne interrotta dallo scricchiolìo di una sedia.
Elvira aveva terminato i suoi cómpiti e moveva verso il terrazzo. Anna, abbandonando bruscamente il ramo che sparse intorno una pioggia di petali odorosi, soggiunse a bassa voce:
— Coraggio. Io ho tanta fede in te. L'aveva anche mio padre; non ti abbandoneremo, sai? qualunque cosa avvenga.
La soave promessa salì alta verso le stelle. Anna, non paga, disse ancora con un crescendo di ardore:
— Ma tu sii forte! Promettilo.
E Flavio promise, senza parole, con una muta dedizione di tutto sè stesso.
Anna era sola in casa. C'era stato un temporale nella mattina e pioveva ancora un poco lentamente, a fili sottilissimi, quantunque già il sole sforzasse le nubi. Da ogni foglia della glicine pendeva una gocciola; su ogni gocciola batteva un raggio di quel tenue sole e tutta una gamma di gradazioni color lilla e verde danzavano sotto il pergolato nelle faccette luccicanti dell'acqua. Anna vi gettava tratto tratto uno sguardo irresistibile, mentre colle agili mani apriva e chiudeva i cassetti dello stipo, impaziente di terminare. Ed aveva già quasi terminato, quando una resistenza insolita la avvertì che qualche cosa di estraneo doveva essersi introdotto nel doppio fondo; allora scosse il mobiluccio con una certa violenza, il fondo si ruppe e balzò fuori una lettera suggellata. Portava l'indirizzo alla signora Antonietta Lamberti; era raccomandata; veniva da Tunisi.
Una grande commozione si impossessò di Anna; Antonietta Lamberti era il nome di sua madre. Nella fervente ammirazione del padre suo ella aveva forse soffocato il culto della memoria materna e la sorpresa e lo sbigottimento della scoperta si mescevano a un senso penoso di rimorso. Sua madre! una figura alta, evanescente; un volto scolorito, un sorriso senza luce, un abito grigio con trine bianche; così la rivedeva, non più di così. Invano cercava ne' suoi ricordi una parola speciale, un gesto, uno sguardo che ve l'avesse scolpita. Era strano! In quella casa popolata di memorie, dove la nonna riviveva ancora fresca e ridente nel suo gaio temperamento di donna felice, dove l'uomo ammirabile che le era stato padre aveva diffusa tanta parte della sua anima, lei, la madre, era passata come un'ombra senza lasciare traccia.
Anna dovette appoggiarsi un istante ai bracciuoli della sedia; una grande tristezza l'aveva invasa e come un presentimento di sciagura. Tremava per tutte le fibre colla lettera in mano, guardandola. Rilesse due o tre volte l'indirizzo e si assicurò che i suggelli non erano stati toccati; sulla ceralacca rossa si intrecciavano confusamente due iniziali. Il timbro postale recava come data di arrivo il giorno antecedente alla morte di sua madre. Di chi era, ora, quella lettera? Chi aveva il diritto di aprirla?
Un fascino misterioso usciva dalla busta che sembrava un sepolcro, così breve, così fragile, eppure così terrorizzante nel muto pallore della superficie che portava impresso il nome di una morta! Anna la posò leggermente sullo stipo, obbedendo a un confuso sentimento di rispetto e di timore; poi si alzò in piedi guardandosi attorno, quasi chiedendo un consiglio alle vecchie pareti da cui pendevano i ritratti della nonna, del padre e della madre anche. Si avvicinò a quest'ultimo. Era un pastello di graziosa fattura, a due sole tinte. La posa della testa, un po' china, non lasciava scorgere gli occhi e la mancanza dello sguardo materno le fu in quell'istante così dolorosa che ne ebbe uno schianto al cuore. Si accusò di non ricordare gli occhi di sua madre. Fece sforzi crudeli per frangere il velo dei dieci anni che la separavano da lei. Invano. Sempre la stessa figura alta, evanescente; il volto scolorito, il sorriso senza luce, l'abito grigio colle trine bianche. Null'altro....
Mosse alcuni passi, girando dietro la scrivania di suo padre, affacciandosi alla soglia del terrazzo dove tutta la glicine piangeva irrorata di pioggia novella, e ritornò presso lo stipo, pensosa. Di chi era, ora, quella lettera? Chi aveva il diritto di aprirla? E perchè nessuno lo aveva fatto prima? Chi l'aveva messa nello stipo?
Chi? Anna gettò un grido. Improvvisamente la fitta tenebra del passato le si squarciò dinanzi. Rivide sua madre nelle ultime ore di vita, in un atteggiamento che ritornandole ora alla memoria le sembrava di grande significato per il tempo e per il modo — allora le era sfuggito; ma ricordava, ricordava con una precisione straordinaria. Era entrata in camera della madre quasi di furto, per vederla intanto che la custode s'era momentaneamente allontanata. L'inferma era scesa dal letto, pallida, disfatta dalle brevi ma acute sofferenze, e colle mani tremanti stava chiudendo il cassetto dello stipo che si trovava in quel tempo nella sua camera ai piedi del letto. Quando si accorse della bimba la sgridò per essere entrata senza chiederne il permesso.
Tutti i particolari della scena le ritornavano in mente con una evidenza straziante. Le coltri del letto rigettate indietro nel movimento brusco di una decisione suprema, un libro caduto a terra, l'ammalata ritta, spettrale, colle mani febbricitanti intorno allo stipo. Ancora, nella evocazione di questa visione, non vedeva gli occhi; gli occhi di sua madre si erano distolti prontamente da lei od ella aveva abbassato i propri nella confusione del rimprovero? Lo ignorava, ma quegli occhi le sfuggivano sempre, sempre....
Che sua madre fosse discesa dal letto in un momento in cui trovavasi sola, per riporre la lettera, sembrava evidente. L'agonia sopravvenuta poi l'aveva tolta a qualsiasi preoccupazione terrena.
Restava ad Anna un'idea confusa del funerale, della camera aperta e vuota, del dolore serio e tranquillo di suo padre; non sapeva in quali circostanze lo stipo avesse cambiato posto, ma risultava palese che nessuno vi aveva mai praticato alcuna ricerca, considerato qual era da molto tempo come oggetto di ricordo più che di uso. Dieci anni dunque gravavano a guisa di tomba inviolata su quella lettera e dopo dieci anni ecco che l'avello si schiudeva sotto la mano innocente di una fanciulla. Ma poteva lei frugarvi?
Anna era troppo seria e troppo coscienziosa per appigliarsi ad una scappatoia che la liberasse da qualsiasi responsabilità. Riconobbe per sè sola il dovere di decidere accettandone le conseguenze, e una volta ferma su questo punto non esitò che un brevissimo istante fra leggere la lettera o distruggerla intatta. Se la morte ha dei diritti ne ha pur anche la vita. Non era essa figlia ed erede? Un sentimento di delicatezza abitudinaria la rendeva esitante a violare il segreto di una lettera non indirizzata a lei, ma un sentimento più profondo e più vero le suggeriva che i vivi si sostituiscono ai morti.
Fu con un rispetto sacro che ruppe il primo dei cinque suggelli. Pensò che forse il plico conteneva dei valori da rendere a qualcuno e che ella si faceva ministra di un tardivo dovere. Oh! qualunque fosse stato l'obbligo se lo assumerebbe intero fino alle ultime conseguenze. Sotto il calore di questa riflessione caddero prontamente gli altri suggelli ed Anna, respirando appena per l'intima attesa, ritirò dalla busta un fascicoletto di pagine scritte minutamente in aspetto di giornale più che di lettera, colla stessa calligrafia ignota della soprascritta e firmate con un segno convenzionale, inintelligibile. Tutto lo scritto era nitido, elegante, contenuto fra margini di una scrupolosa correttezza.
Lasciandosi sfuggire il manoscritto con un lieve moto di disinganno, Anna giudicava inutili le sue ansie ed i suoi timori; nè si sarebbe sentita in alcun modo attirata a leggerlo se l'abbattimento stesso che faceva seguito alla eccitazione di prima non avesse condotto indolentemente e con molta distrazione i suoi sguardi sulle prime righe, dove era descritta una felice traversata da Genova a Tunisi. Si trattava del primo capitolo di un romanzo, od era veramente il racconto di un viaggio? Quella nota terminava con parole d'affetto alla donna lontana, ma così vaghe, così spoglie di personalità che il dubbio non era risolto.
Ancora Anna si lasciò sfuggire il manoscritto, porgendo orecchio alla pioggia che aveva vinto definitivamente e che cadeva ora fitta sulle foglie producendo un rumore molle e cadenzato di una dolcezza avvinghiante. L'aria che veniva dal terrazzo fresca ed umida dava alla fanciulla una voluttà soave fatta di purezza e di tripudio giovanile che ammorbidiva i contorni della sua malinconia. Sempre, quando si abbandonava alla contemplazione della natura, trovava in essa inauditi conforti. Ella era ben persuasa che nulla si forma della vita degli uomini, delle loro passioni, delle loro lotte, che già non esistesse prima nella natura e guardava intensamente i fiori della glicine pesti e disfatti su quello stesso ramo dove avevano brillato di sì vivaci colori. Macchinalmente tornò a leggere.
Non mi pento della risoluzione presa; spero che voi stessa, quando la calma sarà rientrata nel vostro cuore, direte che ho avuto ragione. La mia vita era divenuta impossibile in una situazione precaria, meschina, dove le amarezze di un amore pieno di ansie e di contrarietà non faceva spuntare che troppo rari e troppo pallidi fiori. Ah! non ditemi che a queste cose dovevo pensare prima; sarebbe una inutile crudeltà. Io spero piuttosto, spero fermamente, che un giorno mi darete ragione. Allora parleremo del nostro amore come due buoni amici che hanno fatto un viaggio insieme e che dopo una lunga separazione si ritrovano e rammentano con dolcezza le ore passate.
Che quelle parole “lunga separazione„ non vi spaventino troppo. Tutto è relativo, e non vedo perchè l'anno venturo, in questa medesima stagione non potrei fare una corsa in Italia. Voi che avete la fantasia molto fervida potete fin d'ora immaginarvi lo squillo del campanello e l'apparizione dell'esule sulla soglia del vostro salotto, magari del vostro terrazzo coperto di glicini. E forse non vi troverò sola, Lui o Lei, sarà sui vostri ginocchi.
················
Ricevo la vostra lettera che mi annuncia la nascita della bambina. Sono contento e nello stesso tempo mi dispiace di sapervi ancora agitata e triste. Quando vorrete essere ragionevole? Ora vi crucciate perchè io non vedrò nostra figlia. Ma sì, la vedrò, ve lo prometto. Chiamatela pure Elvira; è il nome che io vi davo nei primi tempi, ricordate? quando non conoscevo ancora il vostro. È un nome che amo e pronunciandolo penserete che io pure l'ho tante volte pronunciato. Mi dite che non somiglia all'altra vostra figlia. Meglio. Datemi presto notizie della vostra salute che desidero e vi auguro buona sotto tutti i rapporti; ma siate calma. Non avete mai temuto i sospetti, eppure essi potrebbero nascere quandochessia da un contegno imprudente. Siate cauta. Come vedete sorveglio anche da lontano la vostra felicità; essa non può fondarsi, specialmente per la donna, che in una grande normalità di condotta e di ambiente. Sarei veramente mortificato se mia figlia dovesse crescere con idee esaltate e violenti le quali, mi dispiace dirlo, non sono affatto estranee alla famiglia in cui vivete; adoperatevi dunque a moderare il vostro cuore e la vostra fantasia; sarà bene per tutti.
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Per un caso singolarissimo e che non perdo tempo a raccontarvi, ma che trova la sua giustificazione nella vita irregolare che conduco in questi giorni, scopro nella valigia i fogli che mi tenevo sicuro di avervi già mandati. Ve ne chiedo scusa; ma, buon Dio, come vi allarmate facilmente! La vostra lettera di questa mattina è disperata. Mi dite che state male, ma permettetemi di pensare che il vostro male risieda piuttosto nella immaginazione. Curatevi e state tranquilla. Dite che Elvira ha la mia fronte, i miei occhi e la mia bocca. Non sarà troppo compromettente questa somiglianza? Io giudico anche che non sia conveniente scriverci spesso. Il nostro amore fu una debolezza; altri lo potrebbe giudicare una colpa.
Ricordatevi pure di distruggere di volta in volta le mie lettere; io faccio altrettanto colle vostre. Quello che è stato è stato. Abbiamo avuto la fortuna fino ad ora di una assoluta impunità. Non affondiamo le nostre navi in vista del porto.
Anna lesse tutto ciò senza battere ciglio, immobilizzata dalla violenza stessa delle sensazioni che l'orribile lettura le suscitava. Sulle prime non aveva capito, poi aveva tentato di non capire; ma l'illusione era impossibile. Onde di gelo e onde di fiamma la investivano volta a volta.
Nulla di quello che aveva supposto durante il periodo della esitazione si avvicinava, neppure lontanamente, alla verità. Come avrebbe ella potuto immaginare quella verità obbrobriosa che metteva una macchia nella sua famiglia? accanto al nome di suo padre? in quella grande aureola di virtù a cui erasi scaldata tutta la sua giovinezza assorbendole le migliori vigorie?
Ah! il grido disperato, il ruggito che le uscì dal petto pensando a suo padre! il desiderio folle di opporsi, di resistere, di gridare: Non è possibile! Non è vero! Ciò non deve essere! — e il torrente torbido, profondo, minaccioso, che gorgogliava già nelle intime sue fibre, quell'istinto di ribellione, di guerra senza tregua ai sentimenti ipocriti, ai convenzionalismi volgari dell'educazione! l'impeto di una natura onesta e libera che consacra nell'odio il suo ardente amore, che nella stessa sua forza di sacrificio e di dedizione ad un alto ideale disprezza e calpesta tutto ciò che ne inceppa il volo!
Suo padre! Suo padre! Non vedeva, non sentiva altro. Le tornava in mente nella sua nobile e fiduciosa semplicità, così alto sempre, così al disopra delle miserie terrene e la prendeva uno struggimento di passione, un dolore nuovo senza nome al cui confronto impallidiva il dolore della morte — poichè in tutto il corso dell'esistenza egli avesse seminato frutti di virtù e germinasse invece sulla tomba l'albero del male.
Ma chi era l'uomo che aveva osato mettersi di fronte a Gentile Lamberti? l'uomo freddo che aveva abbandonata la donna amata alla vigilia di diventar madre? l'uomo calcolatore che misurava odiosamente in una lettera di amore le parole e le espressioni? Anna si provò a rievocare le persone che frequentavano la casa dieci anni prima e tornò a guardare le confuse iniziali del suggello, ma non resistette all'indagine. Un sentimento di pudore la arrestò. Le parve all'improvviso di vedere arrossire il volto di sua madre; quel volto senza sguardo che le stava davanti nel pastello a due tinte, che ella pure ricordava scolorito e privo di luce, come ravvolto nella nube di un mistero.
Avrebbe potuto essere il momento della pietà, eppure Anna non ebbe pietà. La sua austerità di vergine forte le rendeva ignoto il compatimento facile a coloro che già piansero e patirono sul calvario della passione. Le era ignoto l'amore, ma se lo avesse conosciuto sarebbe stato tutto una purezza ed un inno; non lo avrebbe mai compreso così. Così, erano due profanazioni che le si manifestavano contemporaneamente; una, vaga, lontana, ne' suoi sentimenti di donna, l'altra acuta, violentissima, nella sua idolatria figliale. Ciò che l'immaginazione casta non poteva affermare con sicurezza le appariva come una vergogna secreta, impenetrabile e buia ma tanto più orrenda per la viltà di cui si circondava; e quando nella cocente ambascia, nel turbine dei pensieri che la investivano, si fece strada il volto freddo e indifferente di Elvira: — Straniera! — gridò — straniera! — Poi si coperse il volto colle mani e scoppiò in singhiozzi alti, irrefrenati.
Ritornando in sè, Anna vide ritta a pochi passi di distanza la cameriera che la guardava con somma commiserazione e che si arrischiò a dire:
— Signorina, si dia pace alla fine. A furia di piangere in tal modo si ammalerà.
Anna la guardò senza capire. Che cosa voleva da lei quella donna? In quel momento non avrebbe potuto ascoltarla per nessuna cosa, onde la pregò di allontanarsi. L'altra, obbedendo, disse ancora a guisa di conforto:
— Il signor padrone è certamente in un luogo migliore.
Ah! pensò Anna, comprendendo, crede che io pianga ancora mio padre. Ecco che la catena delle menzogne si allarga e stringe gli innocenti.
Ella doveva adunque nascondere il suo dolore e la sua disperazione; doveva sorridere quando aveva l'inferno nel cuore; doveva fingere, doveva mentire, ed aveva pur pianto lagrime disperate sulla tomba di suo padre senza sapere che altre più amare la aspettavano — le lagrime che bisogna nascondere! Ma fin dove arriva il potere del male? Basta che una donna manchi alla sua fede perchè tutta la famiglia ne resti colpita, perchè oltre il silenzio della morte i figli abbiano a piangere ed a maledire?
No. La terribile parola non uscì dalle sue labbra, non si affacciò al suo pensiero; pure l'impossibilità di perdonare le metteva nell'animo una tale amarezza che ogni più dolce affetto ne rimaneva offuscato. Era tutto l'edificio della sua esistenza che crollava, quell'immenso amore di famiglia, quell'orgoglio di appartenere a gente senza macchia, quel sogno alto e benefico dell'onore eretto a tradizione, quell'aureola che da anni, quasi da secoli, raggiava sui Lamberti e di cui ella sentiva con tanto ardore l'obbligo della continuazione. Erano i sentimenti in cui aveva maggiormente creduto, era lo scopo della vita, l'elevazione della felicità — tutto! — e si frangeva, diventava polvere, diventava fango; il nulla saliva dalle solitudini devastate della coscienza a guisa di mostro invisibile di cui solo si udisse, fischiante nel silenzio, l'orribile riso.
Ed era una fanciulla, una semplice ingenua fanciulla che si trovava di fronte a questi crudeli problemi sui quali affaticarono tante intelligenze di filosofi e di moralisti. Ella sentì tutta la sua debolezza, tutta la sua meschinità. Si vide perduta in un paese nemico senza appoggi e senza consigli. Sollevando gli occhi alle care pareti dove aveva ricercato tante volte la traccia della serena esistenza de' suoi avi, il velo delle lagrime le impediva di scorgere nulla. Quante macchie sulle ghirlande, sui nastri azzurri, sugli specchi, perfino negli angoli umili e tranquilli dove ella aveva portato da bambina le sue bambole, dove pensava che altre bimbe buone e felici come lei avevano pure giuocato, così, silenziosamente, accanto ai genitori sorridenti, nella vecchia casa benedetta! Ogni oggetto era adesso profanato; quale mai poteva salvarsi dal sospetto?
Un impeto di furore la prese. Si alzò e nel vano del caminetto dove restava ancora qualche ceppo degli ultimi giorni dell'inverno accese una fiamma e vi pose a distruggere la infame lettera provando un momentaneo senso di sollievo. Così forse avrebbe fatto sua madre dieci anni addietro se ne avesse avuto la forza. Questo intanto la consolava; la certezza che la lettera non esisteva più e che tutto ciò che era già morto prima di essa — amore, illusioni, colpa — tornava a morire. Qualche cosa dell'orgoglio dei giustizieri sosteneva la sua mano tremante intanto che colle molle andava raccattando i più piccoli frammenti di carta mezzo bruciati per ricacciarli nel fuoco.
Ma Elvira? Questa era l'atroce realtà, la prova indistruttibile, l'onta fatta carne ed ossa, la straniera, la ladra!
Il furore la riprese, sordo, intenso. Scorgendosi improvvisamente nello specchio ebbe paura di sè stessa, tanto il suo volto alterato conteneva di odio e di disperazione; e proprio in quel momento le sovvenne di un giorno in cui, dentro al medesimo specchio, ella si era guardata insieme al padre, sorridendo entrambi della grande somiglianza che avevano. Ad una evocazione così precisa provò come una fitta acutissima. Tutto il ricordo sorse luminoso, solenne; quella fronte altera dove gli occhi profondamente dolci sembravano scavare un rifugio per le anime; quei lineamenti puri, quella bocca cui l'eccesso della sensibilità spostava continuamente le linee adducendovi volta a volta l'amarezza e la pietà, lo sdegno dai solchi dolorosi e il sorriso alato, spirituale che vi lasciava, anche quando non era presente, il riflesso di un bagliore! A guisa di una molla che lungamente schiacciata riprende il suo vigore, si distende e scatta alla fine nella piena conquista della sua integrità, Anna riprendeva il possesso di sè medesima.
“Io però sono sua figlia!„ disse, e si sentì calmata.
Fu veramente come se avesse cinto una corazza magica. Egli riviveva in lei, parlavano in lei i sentimenti generosi di Gentile Lamberti, il suo modo alto di giudicare. Poteva lei, sua figlia, e lì in quella casa dove egli era stato così grande e puro non cercare almeno di imitarlo? Il vuoto che le creava intorno il recente dolore non era un mezzo per stringersi maggiormente a lui? Chi nel passato, nel presente, nel futuro potrebbe oramai dividerli, poichè ella era, sola, la continuatrice?
Molti anni erano passati.
Un acuto freddo decembrino teneva chiusi i doppi vetri del terrazzo che sembrava dover esser per tal modo escluso dalla intimità della famiglia; pure esso vi penetrava ancora misterioso e profondo attraverso la limpidità del cristallo, torcendo nella notte i rami brulli della glicine, alcuno dei quali profilavasi dietro la finestra nell'attitudine curiosa di un amico che vorrebbe entrare e non osa.
Le due sorelle ricamavano al lume di una lucerna antica, dal piedistallo di bronzo e dal paralume di seta verde tesa sopra un telaio d'ebano. A intervalli Anna lasciava cadere l'ago e il suo pensiero assente le faceva volgere gli occhi verso le penombre del terrazzo. Il segreto ch'ella aveva scoperto non era uscito, per volgere di anni, dal suo petto, anzi standosene in lei era giunto a fare una parte sola con sè stessa rendendole sempre più difficili i rapporti colla sorella.
Quella istintiva antipatia del sangue che la sua sensibilità le aveva avvertita prima ancora che il caso ponesse nelle sue mani i documenti della nascita di Elvira, cresceva nello sviluppo dell'età e degli istinti contrari, avvalorata dal fatto preciso. Ora ella sapeva perchè vedendo la mano di Elvira appoggiata sui libri di suo padre le scoppiasse dentro al cuore un movimento di rivolta; sapeva perchè quella mano densa, forte, dalle attaccature grossolane, le sembrasse un oltraggio alla memoria di quell'altra mano venerata di cui non poteva rammentare il tocco leggero e scottante senza fremere dalla testa ai piedi; e se quando Elvira diceva nostro padre il sangue le saliva alla fronte accendendole negli occhi un lampo d'odio, ella sentivasi forte del suo diritto e del suo immenso amore.
Invano esaminando Elvira e sè stessa e il ritratto della madre cercava ansiosamente un legame che all'infuori del sangue dei Lamberti le svelasse la sorella. La donna che le aveva portate in grembo entrambe nulla aveva concesso della sua personalità nè alla prima nè alla seconda figlia; come sul pastello dove la luce dello sguardo mancava, mancava al frutto delle sue viscere l'impronta della sua passione. Erano dunque straniere di corpo e d'anima. La piccola calcolatrice anima dello sconosciuto svolgevasi in Elvira sotto l'attraente sviluppo di una florida e superficiale bellezza che Anna interrogava con terrore, temendo di veder sorgere da essa con linee precise il fantasma contro cui si dibatteva angosciosamente. Tutto nella psiche della fanciulla rivelava la irritante mediocrità di colui che aveva scritto la lettera funesta e il pensiero che Elvira era innocente la lasciava senza dolcezza. Lei pure era innocente e soffriva e non poteva dimenticare. Se in certi istanti credeva di esservi riuscita, un gesto di Elvira, una espressione lontana e straniera la facevano sobbalzare, dandole i morsi di una gelosia quasi selvaggia durante i quali la vista le si intorbidava di strisce sanguigne.
Guardando fuori nella oscurità del terrazzo Anna, che aveva ancora lasciato cadere l'ago, mormorò quasi suo malgrado:
— Come sono commoventi le tenebre! Mi pare che esse racchiudano i misteri di tutto il mondo.
— Sì — ripetè Elvira — sono commoventi.
Ma l'accento parve falso ad Anna che non compì il suo pensiero ad alta voce, provando sempre una grande ripugnanza ad aprirsi con chi non la intendeva. Per lei le parole non avevano senso se non rispondevano ad una intima vibrazione.
Il signor Pompeo che si era appisolato in una poltrona accanto al fuoco sbarrò gli occhi improvvisamente e perchè non si sospettasse che aveva dormito pronunciò con dignità:
— È quasi sempre nelle tenebre che si compiono i delitti.
Anna si alzò ed andò ad appoggiare la fronte contro i cristalli. Due o tre stelline bucavano il nero del firmamento; del resto non si vedeva nulla. Una volta le anime pietose come la sua avrebbero pensato ai poveri pellegrini erranti in una notte come quella per le strade mal sicure, lontani da ogni tetto ospitale. Ella invece aveva in mente il lungo convoglio di una ferrovia e i grandi occhi infiammati della locomotiva correnti nel buio.
Un rumore di usci dischiusi ed un passo nel corridoio la fece volgere bruscamente, con un sorriso pronto a uscirle sulle labbra, tutto il corpo slanciato in avanti.
— Chi può essere! — esclamò il signor Pompeo, avvezzo a riconoscere per sè solo il diritto di venire alla sera in casa Lamberti.
Elvira sollevò il capo dal ricamo, preparando il volto all'amabilità convenzionale che la faceva trovare da molti più gentile della sorella e che era in un certo modo il suo abito di società.
Tutti e tre rimasero delusi per diverse ragioni, vedendo entrare un vecchio signore che riconobbero subito per il pensionato loro vicino.
— Che bella sorpresa — disse Anna, aggiungendo un aggettivo pietoso al sostantivo schietto.
Il vecchio pensionato spiegò come venisse in anticipazione ad augurare le buone feste perchè i suoi reumi gli annunciavano poco di lieto per la fine dell'anno.
— Fortunata combinazione di trovarci insieme — aggiunse il signor Pompeo, cedendo al nuovo venuto il suo posto accanto al fuoco.
Egli aveva per agire così due moventi naturalissimi. Prima di tutto si era già scaldato e poi non gli dispiaceva di assumere in presenza del suo vicino l'attitudine vanitosa di amico della famiglia. Spinse la cortesia fino a prendere dalle mani del vecchio l'alto cappello a tuba, iniziando in pari tempo la conversazione.
— È la stagione questa delle visite, dei ritrovi, della pace e del raccoglimento famigliare, in cui tra genitori e figli, tra amici e amici si stringono maggiormente i vincoli d'affetto.
La sua voce d'organetto montato rimase senza eco; il vecchio non sembrò occuparsi per qualche istante che della difficoltà di mettersi a posto. Le due sorelle lo aiutarono ponendogli dei cuscini dietro le spalle e solo quando si trovò ben disteso, colle mani sui ginocchi, davanti al caminetto che ardeva, egli si guardò attorno malinconicamente esclamando:
— Ecco che succede qui come nella vita; occorre tanto tempo per preparare la nicchia e quando è preparata bisogna andarsene.
Elvira pensò: “Non avrà l'intenzione di chiederci da dormire?„ Anna, davanti al volto sofferente del vecchio, sentì il bisogno di un'altra parola pietosa, disse:
— Ma lei può fermarsi fin che crede.
Per molto tempo non dovè dimenticare lo sguardo che il vecchio le gettò allora. Era un misto di amarezza, di sconforto e di paura insieme, col fondo misterioso di un'idea fissa che dava alla sua pupilla la immobilizzazione cristallina degli allucinati. Egli non veniva che un paio di volte all'anno a far visita alle sue padrone di casa, ma dall'ultima volta l'attitudine triste e sofferente che gli era abituale aveva assunto un aspetto tragico che tolse momentaneamente la parola anche agli altri.
Il signor Pompeo tuttavia non poteva rassegnarsi ad un silenzio che lo avrebbe screditato presso sè stesso, inducendo il sospetto che a lui, professore di belle lettere, fosse mai per mancare la replica a qualsiasi argomento.
— Le idee pessimiste — sentenziò, rimettendo legna al fuoco — guastano il naturale concetto dell'esistenza, la quale è in realtà molto migliore della sua fama. Certo bisogna essere filosofi ed accettare le cose come sono.
— Non l'ho sempre trovato così ottimista, signor Pompeo. Per esempio quando impreca contro quel giovinotto, quel suo parente che non vuol saperne di studiare il latino....
Il signor Pompeo scattò come un razzo:
— Ma c'è confronto? C'è confronto? Domando io! Se mi adiro contro quel disutile è perchè ho davanti il problema dell'educazione, capisce? cioè della cosa più importante che vi sia.
— Non mai quanto la vita — rispose il vecchio con voce profonda.
— Ma l'educazione....
— Un bel cerotto l'educazione! Pensare che si nasce costando tante sofferenze a nostra madre, che subito andiamo incontro noi stessi a mille mali; che mettiamo i denti con dolore, che lottiamo colla pertosse, col morbillo, con una filza di guai, che ci tocca di imparare l'alfabeto e poi l'abaco e poi la grammatica e altre diavolerie....
— Tutto ciò per....
— Mi lasci dire che non ho finito. Tutto ciò per educarci nevvero? Difatti ci si insegna che non dobbiamo correre e saltare negli appartamenti perchè si disturbano i vicini, nè buttarci per terra perchè rompiamo i calzoni. Ci fanno eseguire una giudiziosa ginnastica per sviluppare le nostre membra e in seguito ci si inizia ai doveri morali secondo i quali non ci è permesso di dare un pugno ad un compagno che ci incomoda, nè di impadronirci dei frutti che ci ingolosiscono, nè di dire liberamente ciò che pensiamo e nemmeno di guardare tutte le donne che ci piacciono. Arrivati a questo punto ci fanno l'onore di chiamarci galantuomini, ma evidentemente non basta; bisogna che ci perfezioniamo ancora; ed ecco l'arte che ci schiude i suoi miraggi dorati, la scienza che ci attira coll'altezza delle sue cime, la politica che ci vuole nell'ardore delle sue lotte. E la fine di tutto ciò? Quei denti che abbiamo messi con tanto dolore si guastano, traballano, cadono; quei capelli dove una mano cara soleva sprofondarsi nelle ore della nostra giovinezza, incanutiscono e cadono anch'essi. Che avviene delle belle membra sviluppate secondo i precetti dell'igiene? Turpi ed avvilenti malattie ce le rattrappiscono. E il nostro ingegno, i nostri studi, il nostro orgoglio di conquistatori? E il frutto dell'educazione? Si muore! Si muore! Si muore! Ecco.
Queste ultime parole del vecchio risuonarono lugubremente nel salotto. Le due sorelle si guardarono in faccia e sembrando ad Anna che Elvira volesse dirle qualche cosa, si voltò con premura verso di lei. Elvira disse infatti a bassa voce:
— Se è per raccontarci di tali allegrie che quel signore viene a farci visita!
Con un dito sulle labbra Anna la invitò a tacere. Il signor Pompeo intanto si era rimesso dalla specie di sbalordimento in cui lo aveva piombato lo sfogo del pessimista e dimenando il collo come se stesse per liberarlo dal capestro e sorridendo con una certa sua aria tra il melenso e il distratto:
— Via, via, cavaliere, ella scherza!
Non era ben certo che il pensionato fosse cavaliere, ma qualche cosa di simile doveva pur essere e ad abbondare di cortesia in quel momento gli parve atto diplomatico. Senonchè il vecchio sembrava totalmente ricaduto nelle sue meditazioni e se ne stava a capo basso ciondolando la fronte dinanzi al caminetto. Fu Anna che gli si fece dolcemente da presso, ponendo una mano sul bracciuolo della poltrona dove egli stava seduto. Si voltò rapidamente, scusandosi:
— Oh! — disse — le chiedo perdono. È così triste l'invecchiare.
— Ma si vive — rispose Anna con quanta maggior soavità potè mettere nell'accento e nello sguardo.
Il vecchio le fu grato dell'intenzione. Da molto tempo non era più avvezzo a vedere rivolti a sè gli occhi di una giovine donna e le sorrise con un resto di amabilità.
Il signor Pompeo, afferrandosi come era sua abitudine all'ultima parola pronunciata, abbracciò in un colpo solo l'occasione di far pompa di nobili sentimenti e di terminare la sua filippica rimasta in asso.
— La vita è una feconda palestra per l'uomo che sente tutta l'importanza del dovere. (Si fermò un momento ammirandosi, trovando che la sua provvista di buone letture non lo aveva mai servito tanto bene.) Se non fosse per questo alto ideale, crede lei che vorrei darmi tutta la pena che mi dò a raddrizzare le gambe ai cani? Non escludo quel disutilaccio che per vergogna mia è mio parente, lontano però; non lo escludo per l'ottima ragione che fra i cani è il più cane di tutti. Sa che appena terminato il liceo prese il volo? Sa che manca da oltre un anno? Sa che si è messo in testa di fare il pittore? Sa che io ne creperò di bile?
— La conseguenza sarebbe immorale — interruppe il vecchio con una placida ironia — essa scemerebbe assai la fede nel dovere.
Il signor Pompeo preso nei propri lacci ammutolì. L'altro continuò, animandosi, coi pomelli delle guancie che gli si accendevano nel volto scarno.
— Un cerotto anche questo del dovere! Non faccio per difendere il suo parente che conosco appena e del quale non mi importa nulla; dico solamente per dire. Che razza di un dovere può mai far conoscere ad un uomo ciò che sarà meglio per un altro? Lei giudica che il suo ottimismo vale più del mio pessimismo, ma a buon conto quando vuol essere sincero cade nel pessimismo anche lei.
— Un momento, un momento. Posso essere amaro nel vedere il nessun frutto delle mie fatiche, ma ciò non mi distoglie dal far quello che ritengo il mio....
— E dàlli! Io sono più vecchio di lei, ma ho sempre visto che se l'uomo vuole rinchiudersi in una teoria sbaglia certissimamente.
— Allora anche lei! — esclamò il signor Pompeo con un gesto così ingenuamente trionfante, che le fanciulle sorrisero.
— Sicuro, anch'io, ed è questo il peggio, ed è per questo che non credo a nulla.
Grave fu il silenzio che seguì tale dichiarazione. Nè Anna, nè Elvira non osavano prendere la parola, quantunque Anna accompagnasse con un evidente movimento di simpatia lo sguardo perduto che il vecchio scettico sembrava sprofondare al di là della vita. Il signor Pompeo, disorientato, pensò di accomodar tutto con una frase solenne e la pronunciò quasi pontificando:
— Una volontà superiore ci domina; dobbiamo piegare il capo ad essa.
— Non credo a nulla — ripetè il vecchio.
— Scusi, scusi, non è possibile.
— Perchè non è possibile?
— Una fede ci vuole. Non siamo mica bestie, che diamine!
— Eh! Eh!
— Ebrei o cristiani o mussulmani, è la fede che ci distingue dalle bestie.
— La fede?
— Una fede.
— “Questa o quella per me pari sono„ — mormorò il vecchio tamburinando sul bracciuolo della poltrona. — Scommetto che lei le coltiva tutte per misura di precauzione. Se ciò non farà del bene, almeno non farà del male. Che ne pensano le signorine?
Elvira, scandalizzata, non si degnò neppure di rispondere, e mentre il signor Pompeo l'approvava alzando e abbassando il mento coi denti stretti, le palpebre socchiuse, Anna arrischiò timidamente un:
— Forse è questione d'intendersi?
— Cioè?
— Il dubbio è talvolta la prova più sicura della presenza della fede.
Gli occhi del vecchio scintillarono; il vermiglio delle gote gli salì alla fronte investendolo di una fiamma repentina.
— Così giovane e già così profonda?
Anna si confuse, volle schermirsi, ma egli replicò con fuoco:
— No, no, continui; mi dica che ho torto, che questi vecchi occhi non sanno più vedere, nè questo vecchio cuore sa intendere. Mi dica che il sole sorge per opera di un Dio benefico a rischiarare un mondo che deve servire solamente di passaggio a un altro mondo di luce imperitura; io non le crederò, ma mi farà tanto bene sapere che qualcuno crede — qualcuno come lei così pura e buona.
— Ma ammirare non è credere?
— Ah! signorina, ammirare è difficile, credere è più difficile ancora. La fede sta in alto al pari dell'amore; molti si illudono di potervi giungere perchè tenendo i piedi nella mota gridano: “Ti vedo! Ti vedo!„ ma la loro voce non è che un suono vano. Quanto a me vorrei credere e non posso, no, non posso!
— Io pregherò per lei — disse Anna piano, così piano che le sue parole assumettero il mistero di una confidenza.
— Sì, preghi.
Il vecchio, che si era proteso vivamente verso la fanciulla, si arrestò.
Comprese che il singolare colloquio, lì, in quel posto, davanti agli sguardi ostili di Elvira e del signor Pompeo non poteva continuare. Disse ancora qualche parola insignificante e poi prese congedo.
— Se Dio vuole! — esclamò il signor Pompeo sollevando tutte e due le braccia al cielo. — Non mi meraviglierei che quel signore avesse la pretesa, lui che non crede a nulla, di credersi un uomo educato. Domando io se sono discorsi da fare in presenza di due signorine.
— Per parte mia non mi sono scandalizzata affatto — si affrettò a dichiarare Anna.
— Oh! tu non ti scandalizzi mai!
— Elvira, perchè dici questo?
— Non so; probabilmente perchè è vero.
— Perchè perdo tratto tratto una messa?
— Forse per questo.
— Perchè le mie orazioni non sono lunghe come le tue? Perchè non divido il tuo abborrimento per chi professa una religione che non è la nostra?
— O anche non ne professa affatto.
— O anche non ne professa affatto — ripetè Anna malinconicamente con le mani abbandonate in grembo, gli occhi alti seguenti un sogno.
Il signor Pompeo non giudicò prudente di continuare una conversazione che gli aveva già guasta la serata. Augurò in fretta la buona notte e se ne andò. Anna soggiunse allora con molta dolcezza:
— Io, vedi, preferisco il dubbio doloroso di un'anima ardente alla tranquilla acquiescenza di chi non si è mai domandato una volta nella vita: dove vado? Religiosa è per me la persona che si inchina davanti al mistero e lo rispetta, non colei che sul mistero non ha mai palpitato e professa i riti nello stesso modo che metterebbe un paio di guanti.
— Nostro padre....
— Babbo — interruppe Anna divampando improvvisamente — diceva che il miglior modo di riconoscere Dio è quello di trasformare tutta la nostra vita in un profondo ed occulto atto di adorazione.
— E chi lo giudica?
— Chi lo deve giudicare se non Dio stesso?
Non era la prima volta che fra le due sorelle veniva sollevata una questione di alta morale. Anna vi portava tutto il calore della sua anima maturata nella poetica eloquenza di Gentile Lamberti, ma Elvira che aveva oramai compiuta la sua educazione attaccandosi rigidamente alle formole concrete di una morale dottrinaria, si rifiutava a seguirla nei campi trascendentali della speculazione.
— La religione — rispose un po' seccata — è quella che è. Noi dobbiamo accettarla senza discuterla, specialmente noi donne.
— Veramente, trattandosi di anima, il sesso non dovrebbe contare e non capisco, se non facendo un'offesa agli uomini, perchè la donna abbia maggior obbligo di credere che non essi.
— È pur naturale, certe anormalità alle donne non stanno bene....
— Come i cappelli di feltro allora? Ed è per ciò che se ne astengono? Per ciò?
La voce di Anna tremava; una grande amarezza le piegava gli angoli della bocca. Il fantasma dello sconosciuto era là, davanti a lei; le stesse idee, lo stesso modo di giudicare, lo stesso concetto delle convenienze umane, quasi le stesse parole risorgevano: “La felicità della donna non può fondarsi che in una grande normalità di condotta e di ambiente„. In quell'istante Elvira le parve così odiosa che per frenarsi dovette fingere di cercare qualche cosa intorno a sè.
Elvira intanto piegava il suo ricamo, attenta, ponendovi nel mezzo un foglio di carta velina; le sue palpebre sbattevano impercettibilmente sulla pupilla immobile e le labbra semiaperte toglievano ogni intellettualità alla sua fisionomia.
Anna, che avrebbe voluto non guardarla, era invincibilmente attratta a scrutare in quel volto l'altro essere che ne prendeva possesso quando la curiosità o la vanità femminile rallentando la tensione dello sforzo lasciava emergere la piccola animuccia volgare che stava in fondo. Ed ella vedeva chiaramente un uomo serio e metodico, chino a suggellare una lettera, il volto regolare, la tenuta irreprensibile, passando la mano densa e forte sulla fronte nitida....
— Buon riposo — disse Elvira porgendo la guancia al bacio della sorella.
— Buon riposo — rispose Anna sfiorandola appena e con sì manifesta riluttanza che si impose di seguirla per alcuni passi finchè trovò la forza di soggiungere — Dormi bene. — E ancora, quando fu presso a scomparire, le gridò dietro — A rivederci domani.
Questa specie di penitenza che si decretava da sè stessa tutte le volte che l'antipatia l'aveva spinta ad un atto meno che affettuoso, la faceva però soffrire orribilmente. Quando fu sola si lasciò cadere sopra una sedia, scoraggiata. Da tanti anni che durava la lotta non aveva guadagnato un sol punto. Il vecchio scettico aveva detto quella sera stessa: “La fede sta in alto al pari dell'amore. Molti credono di potervi giungere perchè tenendo i piedi nella mota gridano: Ti vedo! Ti vedo! ma la loro voce non è che un suono vano„.
Egli aveva paragonato la fede all'amore?... Anna non aveva pensato mai all'amore. Certo non amava sua sorella; tutti gli sforzi che faceva per raggiungere questo scopo non servivano che a dimostrargliene sempre meglio la impossibilità. Chi avrebbe dunque amato? Il ricordo di suo padre la occupava tanto che sembrava non dovesse restare nessun posto per altri. Non poteva nemmeno supporre che uno dei pochi giovinotti che ella conosceva venisse un bel mattino a chiederle la mano di sposa; meno ancora che ella potesse accettare. Temperamento d'eccezione, iniziata di buon'ora ai godimenti intellettuali, nessuna delle solite impazienze femminili aveva turbata la sua forte e casta gioventù. Gli anni maturavano la bellezza del suo corpo conservandole il carattere verginale di fiore ed ella sembrava compiacersi in questa purità d'elezione e se ne appagava.
Le parole del vecchio però non volevano uscirle di mente. Egli doveva conoscere la vita. Doveva aver amato e creduto e patito assai.
Come aveva fatto in principio di sera, Anna tornò ad accostarsi ai vetri del terrazzo, attirata dall'abisso delle tenebre; ma non vedeva più in mezzo ad esse un lungo convoglio corrente cogli occhi di fiamma. Pensò: “Per quest'oggi non arriva„. Si fece accanto al tavolino e in piedi, sotto la lucerna, rilesse una lettera che teneva nell'alta cintura di seta nera serrata da una fibbia d'argento. Diceva la lettera:
“Mia signora e mia amica, il tempo della prova è quasi passato. Io potrò arrivare da un giorno all'altro, non so quando precisamente e perciò non dico ancor nulla a nessuno, ma a lei sì. Lei ha diritto di saper tutto da me. Non è forse la mia coscienza? In qual modo avrei potuto resistere in questo anno di lotta e come avrei trovato la forza stessa della decisione se ella non mi avesse assistito col suo affetto e co' suoi consigli? se facendosi veramente la mia coscienza e la mia anima non mi avesse indicata questa che oso ora chiamare la mia via? Non dubito più. Lei che mi vuol bene se ne rallegri. So quello che posso; sopratutto so che devo tutto a lei. Lo scrivo con gioia perchè ciò mi permette di dirmi suo e tutto suo
“ Flavio. „
Ogni volta che Anna rileggeva quella lettera, ed era già la quarta, le scendeva al cuore una grande dolcezza. La vivace riconoscenza del fanciullo che ella aveva protetto e di cui aveva indovinato l'ingegno le schiudeva un orizzonte di sensazioni nuove. Ricordando il giorno in cui era partito tra le furie del signor Pompeo, tra i sarcasmi di Elvira, e tutto quel periodo di lontananza confortato da lettere così soavi, l'impazienza di rivederlo si faceva acuta.
Ripiegò la lettera lentamente e senza accorgersene la sollevò all'altezza della faccia come per provare la morbidezza della carta. — Forse — mormorò a fior di labbra — verrà domani.
Quando, un mattino, Flavio senza farsi annunciare aperse l'uscio del salotto, Anna, che pure vi era preparata, gettò un piccolo grido e arrossendo di piacere gli corse incontro colle mani tese.
Lo slancio era stato così spontaneo, l'espansione così affettuosa, che solo qualche istante dopo Flavio si accorse della presenza di Elvira, arrestandosi dubbioso davanti all'espressione indefinibile degli occhi della fanciulla — quegli occhi che già lo avevano avvolto nelle loro elissi freddamente scrutatrici — onde egli istintivamente cercò di discolparsi balbettando:
— Ero smanioso di rivederle e non avendo trovato in casa il signor Pompeo sono corso qui subito senza nemmeno scuotere la polvere del viaggio. Ho avuto torto?
— No — disse Anna.
— Sì — risposero gli occhi di Elvira.
Tuttavia l'imbarazzo fu passeggiero. Flavio si pose subito a raccontare le impressioni sommarie di quell'anno trascorso nel visitare le bellezze artistiche dell'Italia per mettere a prova la sua vocazione. Una sicurezza giovanile e pure pensata traspariva dai suoi detti, dalla voce, dallo sguardo luminoso. Aveva ancora qualche cosa della primitiva timidezza, specie nel colorito che passava rapidamente dal pallore abituale a rapide accensioni fiammee, ma tutt'insieme e nello sviluppo del corpo e nella coscienza di sè stesso egli aveva fatto progressi tali che Anna lo guardava stupita e commossa. Il suo piccolo volto dai lineamenti fini ma risentiti sembrava conservare il riflesso di tutte le commozioni che lo avevano attraversato. Quante cose nuove, quante rivelazioni, quante scoperte avevano concorso alla trasformazione del fanciullo in uomo!
Anna lo scandagliava con un'ansia confusa e ardente di vergine casta, notando certi suoni speciali della voce che prima non aveva, certe pose che le erano ignote; e nell'esame lento e profondo si sentiva mordere al cuore da una inquietudine singolarissima, quasi un presagio, quasi una gelosia cieca e selvaggia di fatti conosciuti, forse insussistenti, ma possibili e sopratutto inafferrabili.
— Come è mutato!
— Non molto, le assicuro — disse Flavio sorridendo, colla mano sollevata ad un vago accenno nel vuoto.
Anna seguì collo sguardo quella mano magra e nervosa che conosceva così bene; se la ricordò tinta d'inchiostro, screpolata dal freddo, convulsa sui doveri di scuola e sui pensi latini, timida e commossa sempre. Essa non aveva cambiato. Anna vi sentiva, come una volta, la potente attrazione che fa della fisonomia della mano uno dei mezzi più sicuri per conoscere il sentimento; e così, come essa amava particolarmente certe abitudini dell'anima di Flavio, amava pure il suo modo di stendere la mano, di ripiegarla, di esprimere con un semplice tocco le oscillazioni più delicate e più sensibili della sua psiche. Fu con gioia che la riconobbe, che la afferrò e la strinse, come una volta, come una volta.
— Un po' vedere se c'è il segno fortunato.
La aperse, stese il pollice e guardò curiosamente la piega in mezzo alle due falangi. Scosse il capo, lasciando ricadere la mano che era la sinistra.
— Mi dia l'altra. Ah! ecco; l'elissi qui è perfetta, non interrotta dalla più piccola linea. In uno almeno de' suoi voti otterrà ciò che vuole.
— Anna crede a queste sciocchezze! — disse Elvira.
— No, non credo positivamente....
— E allora perchè ne fai l'esperimento?
— Perchè.... perchè....
— Perchè — interruppe Flavio — non tutto è positivo nella vita. Ci priveremmo di una quantità di sensazioni squisite se dovessimo accettare solamente quelle che rispondono in stretto modo alla ragione.
— Giudica che sarebbe un gran male ad avere qualche sensazione di meno? — chiese Elvira ironicamente.
— Certo, certo, certissimo! Ah! pensi, l'arte non avrebbe più ispirazioni.
Elvira si morse le labbra soggiungendo:
— Un grande filosofo lo ha già detto. “Non è cosa saggia nè filosofica pretendere che tutta la vita lo sia„. Mi arrendo; anzi vorrei sapere che cosa dicono in proposito i miei pollici. Non c'è male, mi pare. In ambedue le falangi si uniscono senza linee di interruzione. Viva la negromanzia!
Anna sentì stridere dentro di sè quella tal nota scordata che le faceva tanto male.
Ora Flavio si guardava attorno con affettuosa curiosità.
— Ancora tutto eguale! Il soffitto a vôlta cinto dalla fascia cilestrina, il tappeto di panno rosso ripetuto in tutte le camere colla striscia di tela tigrata, gli stessi mobili allo stesso posto.... E i nastri azzurri e gli stipiti dorati....
— Ne ha mai veduto altri di simili in altre case? — domandò Anna.
— Sì, qualcuno, a Venezia principalmente, in un palazzo antico dove ritornai non so quante volte....
— Per gli usci?
— Per gli usci, signorina Elvira, ed anche per certi affreschi del Tintoretto; ma quegli usci mi attiravano invincibilmente. Non mi vergogno a dirlo, io sono un sentimentale incorreggibile.
— Spero bene — pensò Anna più che non disse.
— Le ore belle della mia vita furono sempre dischiuse da uno di quegli usci fioriti. Come potrei non amarli?
— Ciò è molto gentile per noi; ma francamente, queste grandi tavole che ingombrano metà della parete non sono affatto comode. Se Anna volesse essere un po' più condiscendente dovrebbe farle levare.
— Ah! no, Elvira, no. Chiedi quello che vuoi, non di mutare questa casa. Tu — soggiunse dopo una pausa esitante — anderai ad abitarne un'altra più moderna; io resterò qui sola....
— A custodire il fuoco sacro; ma se ti decidi poi a prendere marito porterai gli usci con te.
Anna finse di non udire.
— I più graziosi — disse volgendosi a Flavio — sono nella camera di babbo. Ricorda?
— Hanno nel centro una ghirlanda di roselline gialle alternate a pervinche ed a caprifogli e qualcuno dei caprifogli sale sullo stipite fino alla cima. Vede se ricordo?
— E una delle pervinche, sull'uscio della finestra che mette al terrazzo, ha la forma di un cuore spezzato.
— E accanto a quella pervinca, a destra, una farfalla si slancia a volo.
— Una piccola farfalla bianca — completò Anna.
Si erano alzati. Quasi senza accorgersene, trovandosi all'entrata della camera del babbo, Anna spinse la larga imposta.
— Che freddo! — esclamò Elvira. — È un'altra fissazione di mia sorella quella di non voler mettere i caloriferi nell'appartamento.
— Noi veramente non soffriamo troppo freddo. I muri sono così grossi, le finestre ben riparate, i tappeti folti e il caminetto scintilla così gaiamente bruciando della vera legna....
— Ma non si usa più. Scommetto che in tutta Milano siamo le sole a scaldarci in questa maniera preistorica.
— Felici i soli.
Elvira ebbe una vaga idea che l'affermazione recisa di sua sorella si potesse contraddire apertamente con un passo della Bibbia, ma davanti alla corrente rigida della camera socchiusa non si sentì la forza di discutere e chiuse vivamente l'uscio dietro a Flavio e ad Anna che erano passati dall'altra parte.
Anna fu sul punto di chiedere al suo giovane amico, per cortesia, se avesse freddo anche lui, ma vide subito l'inutilità della domanda. Era lontano il giorno in cui misero, avvilito, perduto nella nebbia e nel terrore ella se lo era stretto al seno con amorevole atto materno.... Una leggera malinconia l'assalì improvvisamente.
Egli intanto girava per la camera pieno di quell'attenzione religiosa e pudica che Anna annoverava tra le sue maggiori attrattive, che lo rendeva qualche volta impacciato, ma che conferiva a' suoi detti, a' suoi sguardi, perfino a' suoi silenzi, una significazione profonda. Si fermò davanti alla pervinca che aveva la forma di un cuore spezzato e ponendovi sopra la punta dell'indice:
— Qui! — disse.
Tutto il passato rinasceva.
— In questo cantuccio, così, precisamente, mentre io seguivo le fantasie delle ghirlande dipinte, suo padre mi parlò dei diritti dell'uomo — la prima volta — la prima volta, intende? Fino allora avevo sempre creduto che l'uomo fanciullo e giovane dovesse essere proprietà dell'uomo vecchio, plasmati l'uno sull'altro come i fogli che escono tutti egualmente bianchi e levigati dalla macchina. Egli mi disse per la prima volta: “Sii te stesso„. Allora, subito, non intesi la grandezza di queste parole, ma quanto vi pensai in seguito!
Si erano portati davanti al ritratto di Gentile Lamberti e lo contemplavano in silenzio. Adorare insieme lo stesso ideale non è amarsi nel modo più raro e più profondo? Quale amplesso, quale bacio, li avrebbe avvinti più strettamente di quell'istante muto e solenne in cui, davanti all'immagine che per essi rappresentava la perfezione terrena, i loro cuori si fusero nella stessa tenerezza, salirono e divamparono nella medesima fiamma? Un soave calore li invase mentre stavano in piedi e vicini contemplando il ritratto amato. In quell'istante Anna sentì distintamente che la sua famiglia, il suo mondo, la sua vita erano lì, personificati nel cuore sensibile, nella delicata intelligenza di Flavio. E Flavio pure godeva l'istante. La nobile femminilità di Anna lo soggiogava, penetrandolo di un fascino sottile.
— La mamma. La nonna — disse Flavio riconoscendo i due ritratti che fiancheggiavano quello di Gentile Lamberti.
— Sì — fece Anna chinando lo sguardo sotto lo sguardo abbassato di sua madre.
— È singolare come lei non assomiglia niente a sua madre; e neppure sua sorella le assomiglia.
Un sospiro violento gonfiò il petto di Anna. Perchè non poteva parlare? Dire tutto a Flavio, confidarsi a lui, metterlo intero nella sua anima, in ogni suo pensiero; nel bene, nel male, negli slanci di fiducia eroica e nelle cadute angosciose. Quando, alcuni momenti prima, ella aveva proclamato: “Felici i soli„ non pensava certo ad una solitudine frammentaria fatta di rimpianti e di desiderî, ma alla divina solitudine di un tutto armonico e completo. Gli posò leggermente una mano sul braccio traendolo verso un'altra parete quasi tutta occupata dalla libreria; ivi la sosta fu breve. Avrebbero voluto leggere ad uno ad uno i frontispizi, toccare le pagine, ridire almeno il titolo dei cari volumi noti; era lavoro troppo lungo. Vi gettarono uno sguardo complessivo pieno di memorie e si ritrovarono da capo a guardare insieme la pervinca in forma di cuore.
— È veramente curioso — mormorò Anna a voce bassissima.
— Che cosa?
— Il fatto che senza comunicarci le nostre impressioni, perchè io mi ricordo benissimo di non avergliene parlato mai, tanto io che lei abbiamo trovato lo stesso simbolo doloroso in questo fiore.
— Ma non è evidente?
— Non saprei. Il signor Pompeo vi trova la forma di un ipsilon e la linea che dovrebbe essere la gamba dell'ipsilon e che per me è una lama che squarcia il cuore, Elvira sostiene non essere altro che una screpolatura del legno.
Flavio sorrise.
Ma Anna sembrava incalzata dalle visioni malinconiche. Ella disse ancora stringendo senza accorgersene il braccio di Flavio:
— Una volta sognai che questo fiore piangeva. No, non può immaginarsi che strazio! Piangeva come una persona viva, come un fanciullino inerme nelle mani del carnefice. Piangeva senza lagrime con un lamento lungo....
Si fermò per guardare Flavio: temeva che sorridesse e se ne sentiva già offesa, ma egli l'ascoltava pallido e serio.
— Crede che gli oggetti inanimati non sentano proprio nulla? Crede che i fiori non soffrano quando si lacerano?
— Ad ogni modo — rispose Flavio come se stimasse inutile una risposta diretta — noi prestiamo loro la nostra anima e tanto basta per renderli degni della nostra compassione. Qual significato avrebbe l'anima chiusa e costretta nel piccolissimo recinto di un cervello umano? L'anima è immortale perchè è infinita.
Avevano dietro a loro il piccolo divano che teneva lo spazio fra le due finestre. Anna vi si lasciò cadere pensosa, col busto ritto, le mani abbandonate in grembo.
Quante cose sapeva ora Flavio! Che slancio aveva preso la mente! Quasi provava un rimpianto dei tempi passati, quando nessuno si interponeva fra lui e lei e che ella poteva liberamente stringerselo al seno da quel povero fanciullo che era.
Flavio non ebbe un vero sospetto dei pensieri che agitavano la sua amica, ma la vide triste e con atto semplice ed affettuoso le si sedette accanto aspettando che parlasse, con un ritegno di tutta la persona, con una espressione negli occhi così umile e devota che Anna ne fu profondamente commossa.
— Oh! Flavio, mi pare che non un anno dieci anni ci abbiano divisi.
— Perchè dice questo? Io non mi sentii mai diviso da lei.
Le dolci parole fluttuarono nel breve spazio, molcendo il cuore di Anna come un'onda di lago che accarezza la riva.
— Non glie l'ho scritto che lei è la mia coscienza? Che cosa sarebbe stato di me, solo, senza consigli, senza aiuto, senza simpatie, solo per il mondo, per città straniere, tra gente ignota e indifferente?
— Aveva il suo sogno d'arte.
— No, avevo lei. Il sogno mi tormentava e la sua immagine, le sue parole, mi calmavano. Si ricorda una sera di primavera, oh! ero ancora quasi un fanciullo, sul terrazzo, in mezzo alle glicini? Ella mi disse che il mio dovere era di seguire la mia vocazione, contro tutti, a qualunque costo. Io credo bene di averla sempre amata.... Scusi, non si offende, vero?... ma da quella sera la venerai. Non si offende?... Se sapesse che cosa è lei per me!
Si fermò, quasi cercando una parola, dubbioso se fosse veramente la parola che egli voleva. Mormorò pianissimo:
— Una santa.
Anna scosse il capo con vivacità, arrossendo.
— No, no, sbaglia. Sono piena di pensieri cattivi. Anche in questo momento, vede, invece di esserle grata per tante buone parole....
— Non sono parole, sono sentimenti.
— ... per tanti buoni sentimenti, ho un cruccio qui.... Non so spiegarmi, non mi comprendo io stessa, ma creda, creda che non vorrei essere così. Mi esamino; è forse orgoglio che soffre nel trovarsi superato? è gelosia della sua gloria futura?
— La mia gloria futura! — esclamò Flavio scuotendo il capo — essa, se mai verrà, si umilia fin d'ora a' suoi ginocchi. Mi ascolti, che non ho mai parlato tanto seriamente. Le giuro che tutto ciò che sono, tutto ciò che potrò diventare è opera sua, è merito suo. Qualunque posto mi riserbi la fortuna, il mio posto preferito sarà sempre qui, come ora. Mi guardi, dove sono cambiato? Nel volto? Mi guardi bene, no. Nel cuore? No, no, no. Non lo vede che sono ancora il suo poverino?
Fu Anna questa volta che sorrise con una tenerezza che la scuoteva tutta e la faceva tremare.
— Mi chiami il suo poverino, mi faccia l'elemosina....
Anna gli pose una mano sulla bocca per farlo tacere, ed egli vi impresse un bacio devoto.
Per qualche istante nessuno parlò. Si udivano dal salotto vicino i lievi rumori che Elvira faceva rimuovendo le forbici, il ditale, i piccoli svariati oggetti del tavolino; fuori, sul terrazzo, qualche pigolìo di passero, qualche rapido sbatter d'ali; lontano la campanella del convento. Niente altro.
— Non è orgoglio offeso, non è gelosia di gloria futura — dibatteva Anna fra sè — che sarà dunque?
Il profilo di Flavio si disegnava nella sua correttezza di piccolo cammeo sul velluto cupo del divano, illuminato da un raggio di sole che vi pioveva obliquo. Anna non ricordava il momento in cui il sole era apparso e voleva ricordarlo, inquietata e sviata dalla tinta di oro pallido che prendevano sotto a quel raggio i baffi nascenti del giovine.
— Se le dicessi che ho pensato a lei davanti a tutti i capolavori, sarebbe certamente la verità, ma una verità un po' volgare e forse anche superficiale. Lei mi è stata molto più vicina, più intimamente e più dolcemente vicina, a Siena per esempio. Conoscesse Siena!
— Bella?
— Oh! bella, non è ciò che voglio dire. Vi sono delle città, come vi sono delle donne che dovrebbero offendersi a sentirsi chiamare belle. È un altro aggettivo che occorrerebbe; più complesso, più misterioso, sopratutto più profondo....
— Sì, sì, comprendo.
— Era un giorno tanto melanconico, pioveva; un lutto cittadino abbrunava quasi tutte le vie; sulla piazza, nei caffè, non si parlava che di morte; le Sibille del Duomo, quelle Sibille che nella snella e dignitosa persona somigliano a lei....
— Mi somigliano?
— Non lo sa? Davvero, le somigliano; ebbene, esse pure sembravano quel giorno addolorate. Probabilmente la tristezza stava in me; ma quand'è che possiamo staccarci così completamente da quanto ne circonda da poter dire che noi soli diamo il colore alle cose?... Entrai nella botteguccia di uno scodellaio che stava riproducendo certi puttini del Sodoma e mi venne la nostalgia dei secoli sereni dell'arte, quando Alighieri s'intratteneva a motteggiare con un umile intarsiatore di chitarre.
— Pensava a Belacqua?
— Sì, invidiandolo. L'artefice senese però era un rozzo calunniatore dei dipinti del Sodoma e la mia tristezza si fece anche maggiore mentre seduto sopra un trespolo ritraevo gli occhi dalla profanazione figgendoli disperatamente per terra, una terra nuda e compatta, dove la pioggia scorreva a rivoletti clandestini. Che gioia fu allora pensare a lei! Pensare che nella tristezza, nel lutto, nell'abbandono, nello scoraggiamento, nelle ore più nere, nei luoghi più tetri e meschini, una voce che esiste, che non è un sogno nè una fantasmagorìa, ci ripete: Credi.
Flavio si era fermato, sorpreso di aver saputo trovar tante parole per esprimere ciò che riteneva inesprimibile. Egli vide allora che vi sono veramente degli istanti nella vita in cui pare che l'anima trabocchi. Un'ora prima o un'ora dopo forse non avrebbe saputo dire altrettanto. E Anna lo ascoltava in estasi chiedendosi con grande trepidazione: “Io dunque gli ho fatto tanto bene?...„
Ma l'attimo volava. Le cose esterne cambiavano già: lo sguardo di Flavio, il suo gesto, seguivano la nuova attitudine del suo silenzio: l'aria intorno aveva trasmesso a distanze indefinite l'onda sonora della sua voce; le parole calde e vibranti non erano più, il pensiero stesso si era già trasformato.
— Ancora! — supplicò Anna.
E Flavio continuò:
— Forse ella era con me fin da quando, adolescente, entravo nelle chiese a imbevermi della dolcezza spirituale dei dipinti antichi visti nella trasparenza colorata delle ogive; sopratutto in certe giornate d'autunno intense di passione o nei mattini teneri di primavera, quando le madonne irradiate improvvisamente nel fondo delle cappelle sembrano sorridere colla loro grazia ingenua di vergini. Molte volte, sgridato per le mie lunghe assenze, non osavo confessare di essere stato in chiesa; non avrebbero creduto; ma a lei, se me lo avesse chiesto, avrei detto subito di sì; ed anche a lui!
I loro occhi si volsero insieme al ritratto di Gentile Lamberti. Flavio continuò:
— Fu in questa cara vecchia casa che nacque veramente, ma fu nelle chiese che maturò la mia vocazione per l'arte. In una piccola chiesa, qui, vicino a noi, ho provato le estasi più squisite.
— Il Monastero Maggiore?
— Appunto. Ha mai osservato lei quel rettangolo di vetro color viola, dietro l'altare? Sì, nevvero? Sopra la finestra per la quale dalla sacristia si confessavano un tempo le monache? È strano come le gradazioni di quel colore in tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell'anno, io le abbia davanti agli occhi sempre; talvolta tragiche qual macchia sanguigna, talvolta ardenti e cupe, talvolta raggianti di luce mistica, celestiale. È questa l'aureola in cui per molto tempo ondeggiarono tutte le mie visioni d'arte e di amore.
All'ultima parola Anna arrossì in un modo così violento e ingiustificabile che si passò una mano sul volto per nascondersi.
— La annoio?...
— Come mai può pensarlo? Ho sempre avuto anch'io una grande preferenza per quella chiesa; vi trovo un fascino raccolto e misterioso. Lei forse saprà trovarvi altra cosa, delle ragioni artistiche che ignoro.
— Ma no. Ero un fanciullo quando incominciai a frequentarla. Essa ha davvero quel fascino indistinto che lei dice e che emana dalle opere d'arte a guisa di una bellezza incorporea, più sentita che ragionata. È per questo che tutti le possono ammirare. L'opera d'arte non ha duopo di spiegazioni: deve apparire in mezzo alle turbe nella stessa guisa di un raggio. Chi ha occhi lo vede.
Tacquero alcuni istanti, avvinti dalla profonda simpatia delle loro anime, per cui anche nel silenzio provavano l'impressione di continuare a parlarsi. Anna trasalì quando Flavio di lì a non molto disse:
— Fu in quelle soavi figure del Luini che cercai le prime forme femminili.
Ella pensava precisamente a ciò e non rispose. Una figura dell'ultima cappella a destra le venne repentinamente innanzi nell'abbandono della persona florida, nella veste discinta che scopriva le ricchezze del seno, e come prima, arrossì, presa da un turbamento che in lei non era affatto solito.
— Ma non riuscii mai a fissarmi in nessuna. Esercitavano tutte insieme una dolce eccitazione nel mio essere, piuttosto come sogno di un desiderio, che come desiderio concreto.
Anna continuava a tacere; pure il suo silenzio aveva un sommesso ardore che non permetteva alla parola del giovane di morire. Egli sentiva che ella era appoggiata a lui, stretta al suo cuore, devota a' suoi pensieri ed a' suoi ideali. Momento divino per il suo orgoglio d'uomo, sentiva di dominarla incondizionatamente. Ma l'uomo era quasi un fanciullo, le sue sensazioni adombrate ancora di pudore, se non di mistero, e la gioia inconscia del dominio prendeva nella sua mente un'attitudine ingenua che ne scemava la portata.
— Lontano, lontano, lontano vanno le memorie! — mormorò Flavio. — Non è lei la piccola fata che io vedevo scendere, salire, nascondersi negli ampi cortinaggi cremisi che ornavano il salotto di mio zio vescovo? Lei sa pure che ebbi uno zio vescovo, che i parenti volevano farmi percorrere la carriera ecclesiastica?... Prima di essere laureato professore fui unto prete.
Un malinconico, un dolce, un buon sorriso di chi ha già perdonato sfiorò le labbra di Flavio.
— È per questo — soggiunse Anna nello stesso tono di malinconia dolce — che ama le chiese.
— E gli angeli.
Flavio aveva pronunciato questa parola angeli senza saperne il perchè; ma il blando suono della parola stessa lo commosse.
— Angeli o fate che fossero, femminili visioni mi apparivano nelle pieghe del damasco antico. Ero così piccino allora, così mingherlino, che penetravo in qualsiasi cantuccio, ed accoccolarmi per terra dietro le tende era una delle mie grandi gioie. L'ondeggiamento della seta mi faceva pensare a gonne misteriose, a fruscii d'ali.... Oh! certe sensazioni dell'infanzia come tornano.
Non disse a proposito di che gli tornavano ora quelle sensazioni. Si alzò in piedi, mosse alcuni passi e riprendendo il suo posto vicino ad Anna, la voluttà delle confidenze lo riprese:
— Ricordo una cugina, grande; era maritata; non so di che età, ma giovane o almeno mi sembrava tale; una mite creatura che vedevo raramente in casa del vescovo e mai altrove; aveva i capelli neri neri, pettinati lisci intorno alla fronte bianchissima. Mi voleva bene, mi proteggeva; quando mi sgridavano troppo (perchè io fui sempre sgridato in tutta la mia vita) mi attirava a sè e mi nascondeva la faccia nel suo grembo.
Ebbe una pausa. Si guardò in giro, guardò l'abito di Anna, parve cercare una parola.
— Come si chiama quella stoffa morbida, che non è seta, non è cotone, non è lana?... Mia cugina aveva un abito così, morbido, cadente con pieghe floscie.... Filugello?
— Non so che si facciano abiti di filugello: dovrebbero essere ruvidi — disse Anna.
— Mi sbaglierò dunque; non sarà filugello; infine non importa. So che era morbido e fresco, e siccome ella mi teneva contro i suoi ginocchi finchè avessi cessato di piangere, piangevo qualche volta un po' più a lungo per sentire contro il volto l'abito di mia cugina.
Anna tentò di sorridere, pure avvertendo una certa contraddizione con un sentimento ben più intimo e profondo che l'andava martoriando da qualche istante.
— È molto tempo che siam qui — disse alzandosi.
— Sì? — fece Flavio con sincera meraviglia.
Ed Anna allora completò più francamente il sorriso.
Un chiaro sole della fine di marzo raggiava nella vecchia casa traendone effetti di luce inaspettati, bagliori civettuoli di gemma sul capo di donna matura che non ha perduta tutta la sua bellezza; così gli embrici rosseggiavano, asciutti e lucenti, nell'aria fatta trasparente per la grande purezza e, digradando ora chiari ora scuri sul pendìo, interrompevano colla nota sorridente della loro fioritura rosata la bianchezza grigiastra dei muri. Il terrazzo, ornato appena di qualche semprevivo e di qualche impaziente tralcio di glicine che incominciava a inturgidire, scopriva per intero l'ampia balaustra barocca dentro ai cui riccioloni il sole giocava a rimpiatterello, guizzando sui rigonfi lucenti, internandosi nelle avvallature dove la patina di un bruno verdastro riluceva sotto ai suoi raggi con una marezzatura calda di bronzo.
Flavio contemplava tutto ciò dalla finestra della sua camera, ebbro della primavera che gli entrava per gli occhi a incontrare la primavera del suo cuore, avendo uno sguardo simpatico anche per il portinaio che girava silenzioso nel cortile a tendere i fili alla glicine, anche per il balconcino del vecchio pensionato dove spenzolava uno scialle di flanella a scacchi bianchi e neri. E non gli erano ugualmente cari gli orti che circondavano la casa, turgidi già per le sementi che gonfiavano la terra, velati qua e là da una nivea cortina di mandorli in fiore? tutto, fino al muro lontano del convento, fino ai due o tre comignoli che chiudevano l'orizzonte? Quale linea gli era ignota? Quale punto o quale colore era sfuggito al suo occhio perspicace ed amante? Egli rivedeva ora ogni oggetto con criterio maturato, con una più larga intelligenza del bello; si inteneriva a pensare la sua adolescenza trascorsa tutta lì, in quella che egli considerava ampiamente la sua casa, che racchiudeva tutte le sue memorie, i suoi dolori, le sue lotte, le sue speranze, le sue rare ma profonde gioie.
Nella recente e incompleta e pure viva esperienza del mondo aveva imparato ad apprezzare più ancora la solitudine di quel cantuccio primitivo, rimasto incolume ai fianchi di una grande città, sfuggito per miracolo alla manìa innovatrice; vi sentiva un tepore particolare di nido, di seno materno, dove è dolce riposare. La meridiana dipinta sul muro del convento aveva una scritta per metà cancellata. Alcune parole si leggevano ancora coll'aiuto di una lente, ma Flavio non ne aveva bisogno: le sapeva a memoria e proprio allora, in quella dolcezza di nido che si rinnovella, gli apparvero fiammeggianti sul muro lontano, quasi aureolate dal vivido sole che vi batteva sopra: Il tempo stringe, facciamo il bene. Fatidiche parole per un giovine che se le sente penetrare nelle carni e nel sangue a guisa di nobile sperone! Nella serena cornice della sua finestra, dinanzi agli orti sbocciarci, l'epigrafe della antica meridiana perdeva il suo carattere monastico per vestire una forza nuova di conquiste, di audaci tenzoni a cui la stagione prestava intime essenze eccitanti che Flavio respirava nell'aria come fumo di prossime battaglie. L'ora del tempo e l'ora della vita si univano insieme per renderlo felice. Egli gustava questa profonda ebbrezza di sentirsi giovine in un mattino di primavera.
Improvvisamente una rondine attraversò lo spazio: era la prima rondine dell'anno. L'agile forma bruna, dopo di avere punteggiato per un istante l'azzurro del cielo, sparì.
Una folata di vento passò ratta. Essa portava in grembo pollini di fiore, pelurie di nido, fiocchi indistinti caduti da ali invisibili e profumi teneri di foglie non odoranti ancora che di freschezza.
Nell'orto più vicino due gattini novelli giuocavano al sole, rincorrendosi con cento moine e capitomboli, carezze, finte, parate, assalti. Al disopra di essi un ciliegio metteva i primi boccioli; poco lungi un pesco agitava alla estremità delle esili braccia, come piccole mani di bimbo, i suoi fiori rosei.
Un grido uscì dal petto di Flavio; uno di quei gridi inconsulti che i giovani lanciano nello spazio per esuberanza di vita nella stessa guisa che i puledri nitriscono in mezzo al prato e che i falchi novelli stridono fendendo l'aria. Se ne stava ascoltando ancora l'eco del suo grido ripercosso contro i vetri aperti che il sole iridava, quando vide Anna ritta sul limitare del terrazzo che gli faceva un cenno amichevole; e perchè Flavio sorrideva senza muoversi, arrotondò le due mani intorno alle labbra mormorando un invito a cui finalmente Flavio corrispose con grande vivacità di gesti e di parole, mentre Anna si ritirava nelle sue camere.
Egli rimase ancora per un po' di tempo immobile al davanzale. L'apparizione della sua protettrice, benchè rapida, gli aveva suscitato una specie di tenerezza malinconica. Anna non gli era mai sembrata così pallida e un po' patita come in quel mattino acerbo di primavera, nella luce intensa del cielo e dell'aria, nel trionfo prepotente di un vigore che fugava tutte le ombre e cresceva la tonalità dei colori rendendoli quasi stridenti. Sì, doveva essere quell'orgia di turchino e di giallo che faceva apparir cereo il bel volto, sottolineando la leggiera emaciatura delle guancie. Tuttavia questa impressione non era isolata: qualche cosa di stanco interrompeva l'armonia generale della figura che egli aveva conosciuta fiera e quasi rigida, e che ora sembrava cedere ad un inesplicabile languore. Flavio si domandò quanti anni ella poteva avere. Non era più un fanciullo, lui. Conosceva la vita, aveva letto, aveva osservato. Per la prima volta pensò perchè Anna non prendeva marito. Ciò era per lo meno singolare; bella, ricca.... Improvvisamente scosse il capo: dove mai si sarebbe trovato l'uomo degno di lei?
Si staccò dalla finestra recando nel cuore l'immagine dell'amica bella e melanconica e già tòcca dal doloroso fascino che circonda sulla terra tutto quello che è inaccessibile. Il suo affetto profondo, confinante colla venerazione, ne ricevette alimento maggiore. Gli parve veramente di non potere allontanarsi da lei mai più.
Ma Anna lo aveva chiamato ed un'onda di pensieri giulivi invase l'animo del giovane. Egli andò subito a staccare dalla parete a cui stava appoggiata una tela amorosamente ricoperta con un drappo; rimosse il drappo e si pose a contemplar l'opera sua.
Quante volte aveva già guardato quel rettangolo di tela dipinta? Quante volte! Assai prima di stemperare i colori sulla tavolozza, in quei divini e febbrili momenti che l'autore solo conosce, non l'aveva egli abbracciato tutto il suo lavoro, palpitante ancora della voluttà della concezione? E quante ansie erano sopraggiunte in seguito alla ebbrezza prima! Ansie fatte più di ardore che di timore, perchè Flavio, non ambizioso, non presuntuoso, sentiva però la sicurezza che sta in fondo ad ogni vera anima di artista. Sulla sua vocazione, nessun dubbio; sulla sua forza qualcuno, ma efficacemente combattuto dalla sincerità della sua fede e dal baldo irrompere di tutti gli entusiasmi di vent'anni. Ricordava il giorno in cui Gentile Lamberti aveva detto: “Perchè non sarebbe poeta?„ e il lungo desiderio che gliene era rimasto e l'affanno del non trovare in sè le caratteristiche volute. Ecco, non era egli poeta adesso? Il diletto maestro aveva indovinato. Egli era veramente poeta nel significato più sacro di questa parola, poichè il suo pensiero ardeva e bruciava nell'amore di tutte le cose belle, ed il suo cuore gonfio di commozione non cercava che di mescersi ai palpiti dell'universo. “Orsù, orsù,„ gridavano dentro di lui tutte le forze della giovinezza, “cammina, questo è il momento!„
Flavio aveva promesso alle signorine Lamberti di portare il quadro per mostrarlo loro, innanzi di mandarlo alla Esposizione che doveva rivelare al pubblico il suo nome ignoto. Compreso di molta dolcezza e di una certa piacevole agitazione, nella quale i ricordi avevano tanta parte, almeno quanto la speranza, si diede a spolverare, a lisciare la tela, allontanandola di qualche passo per giudicarne l'effetto e poi riavvicinandosi precipitosamente per verificare un piccolo punto nero, un errore di ombreggiatura, un granello di sabbia: meno ancora, un sospetto.
Contento era e non era. Il dualismo esistente in ogni uomo, ma non mai così vivo come quando un'opera sta per uscire dai misteri del nulla, si imponeva alla sua coscienza vigile. Se egli considerava l'opera nel riflesso del fuoco interno che l'aveva concepita la vedeva rifulgere della più vivida luce. Ma corrispondeva la forma al concetto? Le ore lente del lavoro avevano plasmato in una veste incorruttibile l'istante fulmineo della visione? Le linee, i colori che gli stavano davanti, erano veramente le linee e i colori da lui intravveduti prima che un'asta di legno irrigidisse le sue dita nelle difficoltà della formazione? prima che il colore uscito dalle storte di un chimico materializzasse in un piano uniforme gli ondeggianti fantasmi della sua immaginazione? Era egli, come tanti altri, il poeta soave ed infecondo che sogna ma che non crea? od era — ciò che solamente voleva essere — il virile poeta dalla mente lucida come cristallo, dai polsi fermi, d'acciaio?
Flavio non diede a sè stesso una risposta precisa. Gorgogliava nel suo petto un torrente di vita; chino su di esso, egli stava ad ascoltarne il muggito profondo, attratto dalla incertezza del mistero più che dal bisogno di spiegarlo, ed era tutto il suo essere pari ad un albero in fiore sospeso al disopra di un abisso con intorno mille profumi d'altri fiori e sul suo capo il cielo.
Si decise finalmente a sollevare il quadro colle stesse delicate precauzioni di una giovine madre verso il suo neonato. A passi leggeri discese la scaletta che faceva capo alla grande scala dei Lamberti. Si sapeva aspettato, e per questo sfiorò appena il cordone del campanello pendente nell'angolo, lungo la parete di stucco, e quando la porta si aperse attraversò di volo l'ampia anticamera, dove due cassoni di legno autenticamente decrepiti si perdevano nella vastità dell'ambiente soleggiato per gli alti finestroni privi di cortinaggio che lasciavano entrare tutta la gaiezza del giorno.
Anna gli venne subito incontro tenendogli aperti gli usci perchè potesse passare senza ostacoli. Quasi nel medesimo punto apparve anche Elvira, vestita di chiaro, coi capelli rialzati in una foggia differente dalla solita. Anna la guardò sorpresa come fosse un'altra persona, morsa al cuore da una improvvisa diffidenza. Pensò che sua sorella aveva avuto ben fretta a vestirsi d'estate, ma non disse nulla.
Flavio intanto cercava il posto favorevole per il suo quadro, alzandolo, abbassandolo, finchè trovasse la luce opportuna. Diceva qualche parola ad Anna, ma mentre si voltava per ringraziarla urtò Elvira. Le chiese perdono, confondendosi un poco, colpito anche lui improvvisamente dall'abito chiaro che la modellava con un vago accenno di statua.
Il quadro era allora a posto e Flavio, rifugiato in un cantuccio, lasciava che le due sorelle ne ricevessero la prima impressione senza preconcetti. La tela, di proporzioni singolarmente armoniche, rappresentava una camera buia dove un giovinetto protendendosi da un seggiolone di convalescente con un palpito che dava espressione a tutto il suo corpo, ascoltava. Dall'uscio spalancato si vedeva il lume di una candela che una persona, avvicinandosi teneva in mano; l'oscillazione della fiamma dava veramente l'impressione del moto, così che l'ansia del giovinetto si comunicava allo spettatore, costringendolo a fissare quasi con uguale intensità di attesa l'orlo pressochè invisibile di un velo bianco sul limitare dell'uscio. Questa composizione idealista rappresentata con un verismo umano ed appassionato portava per titolo: Viene!
Elvira fu la prima a parlare. Ella si rivolse gentilmente a Flavio e con una voce che, pur non riuscendo a dissimulare una certa sorpresa, appariva sincera, disse:
— Ma bello, bello.
La freddezza di tale elogio rimase senza eco. Parve che Flavio non lo avesse neppure udito. Fu ancora Elvira che cercando con gli occhi la sorella esclamò:
— Anna, che hai? Come sei pallida!
La commozione impediva ad Anna di formulare nessuna parola. Forse ella pensava, come aveva detto una volta Flavio, che occorresse un aggettivo più complesso, più misterioso, sopratutto più profondo. Che dire quando il sangue sembra congelarsi nelle vene adducendo sulla pelle un brivido di ignoto terrore? No, a nessun patto ella avrebbe pronunciata la comune, la limitata parola, sotto l'impressione che le dava l'opera d'arte sfolgorante.
Elvira, indispettita che le sue intenzioni gentili non fossero state meglio accolte, si allontanò di alcuni passi fingendo di rintracciare un suo ricamo attraverso il momentaneo disordine che il quadro aveva occasionato.
— È così che lo immaginava? — mormorò Flavio pianissimo accostandosi ad Anna.
La giovane donna trasalì alla voce di Flavio e come tratta da un sogno rispose senza guardarlo:
— Io non avevo immaginato nulla, ma mi pare che non potrebbe essere in modo diverso di così.
— Non ha dunque alcuna osservazione a farmi?
— No.
— Non posso presumere tuttavia che sia perfetto? — insinuò Flavio sorridendo.
— Non so — disse Anna seria. — La perfezione, quando esce dai limiti del desiderio e si concretizza in date forme, può prestarsi ad una disamina direi quasi matematica che è ben lungi dal mio pensiero. Non mi chieda ciò che non posso dare. Mi guardi piuttosto.
Il bel viso pallido e un po' patito si rivolse a Flavio con una tale luminosità di espressione che egli si sentì venire le lagrime agli occhi. La medesima malinconia che lo aveva assalito quel mattino, vedendo dalla finestra la sfiorente bellezza della sua amica, gli dava anche allora un tormentoso ardore di bene vicino e inafferrabile. Avrebbe voluto gettarsi a' suoi ginocchi, baciarle le mani, piangere disperatamente per un dolore che non conosceva ancora, ma che presentiva nella sua sensibilità acuta di nevrastenico. Entrambi, senza dire più nulla, tornarono a figgere gli occhi nel quadro dove la suggestione, che colpiva fin dal primo sguardo, si faceva sempre più intensa all'esame. Quell'adolescente che in una camera buia aspetta mentre presta l'orecchio ad un fruscio che lui solo ode, mentre spalanca le pupille sui bagliori della luce che si avvicina e il silenzio e l'indifferenza che lo circondano, mentre nell'espressione del suo volto fremono tutte le impazienze della vita, rispondeva bene al grido trionfante che l'arte sa sprigionare dalla rozza materia quando l'artista è riuscito a stringere nelle sue mani un cuore.
— È troppo — sospirò Anna afferrata improvvisamente da un senso arcano di paura, sentendo una lama diaccia nel filo delle reni e un fluttuare di veli dentro gli occhi.
Flavio la sorresse fino al divano — il piccolo divano fra le due finestre — e le stette in piedi davanti, palpitante, muto. Nulla li avvinceva come questi silenzi in cui le loro anime si stringevano al di là di ogni possibile amplesso.
Un raggio di sole batteva sulla fronte di Anna. Egli si accostò ad una finestra per abbassare la tenda e intanto vide Elvira che passeggiava sul terrazzo. L'abito chiaro la faceva apparire più alta, più complessa. Sul terrazzo quasi nudo, in mezzo ai rami della glicine che incominciavano appena a germogliare ella emergeva, simbolo vivo della primavera, nell'aria crudamente azzurra. Flavio abbassò la tenda e ritornò presso ad Anna. Restava tuttavia un interstizio fra la tenda e lo stipite e attraverso a quel raggio di luce si vedeva passare e ripassare l'abito chiaro con un movimento cadenzato, molle, dolcemente ritmico.
— Vincerò? — disse Flavio ad un tratto prendendo la manina esangue della sua amica.
— Non ne ho mai dubitato.
— Ma ora, ora?
— Le preme molto di vincere?
— Oh! sì — esclamò Flavio ingenuamente. — Mi pare che debba dipendere da ciò la felicità della mia vita.
— La felicità?... — ripetè Anna con un accento incredulo, intanto che una vaga ambascia le attraversava lo sguardo. — La felicità è forse altra cosa, ma la vittoria sarà sua.
Il giovane trasse un lungo respiro che gli fischiò nella chiostra dei denti lasciandogli sul palato una impressione fresca come avesse trangugiato della menta.
Entrò allora il signor Pompeo. Egli, non avendo più trovato di sopra nè il pittore nè il quadro, veniva a prenderne notizie. La sua voce fessa richiamò Elvira dal terrazzo, per cui si trovarono tutti riuniti intorno a ciò che formava il grande avvenimento della casa.
— Già — disse subito il signor Pompeo, gettando sul quadro un'occhiataccia di sprezzo — incomincia il titolo ad essere sbagliato. Io domando cosa vuol dire Viene? Chi viene? Il titolo, quando non sia un nome proprio, come Andromaca, Caino ed Abele, ecc., oppure un nome che è per sè stesso un qualificativo, come Alba, Tramonto, Bosco, deve darci una proposizione completa col soggetto, oggetto e verbo. A questo modo lo spettatore saprà almeno quello che il pittore ha voluto fare. Ma qui chi ci capisce nulla? Viene! E perchè non Va? Anzi Sta, dal momento che non c'è nessuno che si muove? Questo titolo è una corbelleria, un gabbaprossimo, un nonsenso. Lo dico chiaro e tondo: un nonsenso.
Soddisfatto dell'esordio, il signor Pompeo non lasciò nemmeno la pausa necessaria ad una replica e facendo un passo violento verso l'autore continuò:
— Capisco ora perchè ci tenevi tanto al segreto. Sapevi che non ti avrei permesso di scrivere sotto quel titolo assurdo. Ma potevi bene interrogarmi. Quando si ha la mia cultura, quando si è letto come ho letto io, un titolo si trova subito.
— Non era facile — arrischiò Flavio.
— Per te! Oh! per te, lo credo — disse il professore con un ghigno sardonico.
— E poi quel titolo mi si è imposto. Io l'ho sentito così.
Il signor Pompeo si abbassò a darsi due grandi palmate sui ginocchi, sgangherando sempre più il ghigno.
— L'ha sentito così! Bella scusa, perbacco! Cosa vuol dire sentire? Ragionare si deve. Qui abbiamo un individuo che sta aspettando (voglio per il momento concedere che questa cosa si capisca). L'idea prima che verrebbe ad ogni persona di criterio sarebbe di intitolarlo: L'aspettativa. Alla buonora! Ecco per lo meno un titolo semplice, espressivo, preciso. Perchè questa è la grande qualità che manca a voialtri giovani: la precisione. Non mi voglio spacciare per artista, oh! no. Grazie al cielo di queste ubbie non ne ebbi mai. Ma quando si possiede una certa intelligenza, corredata dallo studio, il primo venuto non può darcela ad intendere. Ho visto i Raffaelli, ho visto i Leonardi (che mi piacciono meno ma che hanno del bonino) e dappertutto la precisione è rispettata. Scommetto che Lo Sposalizio di Maria Vergine, capolavoro che tutto il mondo civile ammira, non avrebbe avuto un eguale unanime successo se si fosse intitolato La verga mistica, obbligando lo spettatore ad un faticoso lavoro di immaginazione per arrivare a questo semplice risultato di un matrimonio.
— Lei scorda intanto — disse Anna senza muoversi dal divano — di giudicare il quadro.
Il signor Pompeo, che anche a tale proposito aveva già detto il fatto suo a Flavio, ma che non gli rincresceva di ripetersi, soggiunse sdegnosamente:
— Pittura nuova, scarabocchi, nessuna consistenza, prospettiva sbagliata, colori falsi, attitudini false. Mi dica un po' se lei od io od uno qualunque appoggia il gomito in quel modo?
Flavio diede un balzo, ma Anna fu pronta a replicare interpretando il di lui pensiero:
— Non è detto che l'arte abbia a valersi esclusivamente delle pose comuni e che ciò che è raro non debba per questo ritenersi possibile.
Elvira che non aveva ancora preso parte alla disputa accennò a parlare. Non ben sicura però o già pentita, si ritrasse, mentre Flavio completava con fuoco la difesa di Anna esclamando:
— E perchè il personaggio che io intendo di rappresentare deve ad ogni costo somigliare a lei od a me o ad uno qualunque? Non può essere un altro? Uno che lei non ha visto, che probabilmente non vedrà mai?
— E quella scarpa — interruppe il signor Pompeo, sdegnando di entrare in discussione col suo antico allievo — Dio sa mai che calzolaio l'avrà fatta! Non parliamo della luce nè del chiaroscuro: sono una aberrazione.
Detto ciò a guisa di sentenza inappellabile il professore voltò le spalle al quadro. Elvira lo seguì domandandogli piano:
— Crede veramente che non valga nulla?
Senza la menoma esitazione egli si arrestò netto sui due piedi e sollevando la mano con un gesto solenne e dando col pollice e il medio un buffetto nell'aria a qualche cosa di invisibile pronunciò:
— Zero.
Sul volto di Elvira, per quanto poco mutevole, rimase come ombra mal dissipata il contrasto di tali opinioni. Flavio non le era mai stato simpatico: cresciuti quasi insieme, ella aveva disprezzato in lui il fanciullo misero, vestito male; sopratutto nella sua qualità di scolara modello lo aveva sempre considerato un essere inferiore, incapace di distinguersi, di diventare un uomo a modo. Lo spirito gretto e calcolatore che era in lei, in aperto contrasto colle idee che avevano presieduto alla sua educazione, la guidava istintivamente verso le mete sicure. La sua scarsa sensibilità si alimentava nelle correnti riconosciute anzichè cimentarsi negli impulsi propri. Intelligente e fredda non si sarebbe mai perdonata uno sbaglio. Tuttavia ciò che vi era di bellezza esterna nel lavoro di Flavio non poteva sfuggirle, e se la commozione di Anna le riusciva impenetrabile, i dileggi del signor Pompeo non la convincevano interamente. Pensò infine che una seconda parola gentile la poteva arrischiare senza compromettersi troppo e si avvicinò al giovane nell'ondeggiamento chiaro della veste, con un amabile sorriso sulle labbra, dicendo:
— Il professore fedele ai principî rigidi dell'etica non vuole guastarla cogli elogi. Speriamo che il pubblico non avrà i suoi scrupoli.
Flavio corrispose sorridendo al sorriso della fanciulla; ed anche più tardi, ed anche il giorno dopo, doveva rimanergli impressa nella memoria la fossetta voluttuosa che si era disegnata in quel momento sulla guancia di Elvira.
Il successo del quadro alla Mostra apparve tanto grande quanto imprevisto. Questa seconda condizione specialmente lo aveva favorito perchè Flavio, ignoto la vigilia, sorgeva in un'accolta di nomi più o meno conosciuti rompendo le reti delle combriccole, dei preconcetti, dei partiti presi, delle simpatie e delle antipatie personali, le quali, preparate da lunghi odi e da gelosie feroci, aspettano il pubblico sulla soglia di ogni Esposizione per avvilupparlo nei loro sottili inganni.
Toccava a Flavio la ventura dell'eroe che oscuro fino al momento dell'azione piomba sul campo della lotta con tale vertiginosa prontezza da essere sollevato in alto prima che la folla abbia tempo di riconoscerlo. Verrà più tardi l'invidia a riannodare le file spezzate intorno al vincitore, verrà l'impotenza, tutte verranno le bieche sorelle, ma intanto il trionfo è suo.
Per quanto fu lunga la primavera, nella verde frescura dell'aprile, nel maggio odoroso, nei primi tepori del giugno, mischiata alle ebbrezze di tutta la natura Flavio assaporò l'ebbrezza della sua gloria nuova. Gli saliva sopratutto al cervello nelle dolci sere trascorse sul terrazzo, in mezzo ai ricordi dell'infanzia che si allungavano nel passato quali ombre scure destinate a dare maggior risalto a un paesaggio ridente da cui gli giungeva l'eco affievolita de' suoi pianti di fanciullo, de' suoi sospiri di adolescente, imprimendo a tutto il suo essere un movimento di ascensione e di conquista. Nell'irradiamento della felicità anche la bellezza gli era venuta; una bellezza delicata di cristallo che il sole indora, dove tutti i colori dell'iride danzano in una aureola di stelle multicolori; fragile bellezza che le sensazioni mutavano d'ora in ora idealizzandola.
Sulla vecchia casa, gli anni, i secoli, si adagiavano uniformi e Flavio era il rampollo nuovo, l'innesto felice di una linfa ricca di forze. Dal cuore della casa, dall'appartamento dei Lamberti, il suo trionfo si spandeva colla sonorità argentina di un riso di bimbo. Sembrava che il terrazzo lo accogliesse conducendolo lontano su per i rami della glicine fino alla finestra del signor Pompeo, il quale oramai non parlava più del giovine parente senza raschiarsi in gola con molta prosopopea avviluppando ogni parola in una nebulosa di se e di ma; fino al piccolo balcone dove il vecchio scettico terminava i suoi giorni in una gloria di sole e di fiori; fino al portinaio, muto filosofo suggestionato — intanto che trasportava i vasi dal cortile al portico e dal portico al cortile — dalla rinomanza onde stava per crescere alla casa il tradizionale lustro severo, protetta come era contro ogni volgarità dalla zona verde degli orti che difendeva la sua nobile solitudine, lasciando giungere ad essa quel tanto appena di rumore mondano filtratovi come attraverso una selezione.
Durante quattro mesi Milano si era appassionata per il giovine pittore che nessuno conosceva, ed ora, volgendo la fine di luglio, avvicinavasi il giorno della premiazione. Flavio l'aspettava senza paura e senza speranza, già pago dell'interesse suscitato dal suo lavoro in quel pubblico da cui solo potevano scaturire le commozioni più profonde che l'artista sogna.
— Eppure — disse Elvira la sera prima del gran giorno — sarebbe una bella cosa ottenere il premio.
— Perchè? — fece Flavio distratto.
— Il giudizio del pubblico non è alla fine che un giudizio di ignoranti, mentre il verdetto di una Commissione intelligente e competente....
— No, no — andava mormorando Flavio disteso a corpo perduto sopra una sedia a bilico nell'ombra della glicine.
— Come, no? Pensi che il pubblico si compone di gente meschina che non ha potuto o voluto studiare, che ignora ogni elemento d'arte; mercanti occupati dei loro affari, bottegai che non sanno giudicare al di là delle loro insegne, donne affatto digiune di coltura....
— O peggio ancora: uomini i quali per avere condotto a termine durante i loro anni giovanili le foglie d'edera e gli ovoidi della scuola di disegno si credono artisti; signore che giudicano i quadri dallo stesso punto di vista dei cappellini e che parlando quattro lingue non pensano in nessuna: snobs privi di gusto, della benchè menoma particella di sensibilità, attenti solo al cenno della maggioranza per dichiararsi. E ancora: artisti mancati che ebbero dalla natura il dono di sentire ma non quello di rendere, eterni Tantali cui morde la sete del bello ma che non giungono a tuffarvi le labbra riarse, che legati invincibilmente alla terra aspirano l'alto con uno spasimo di desiderio da cui germogliano le mille vipere della gelosia.
— Vede dunque?
Queste due brevi parole, pronunciate da Elvira con una risolutezza che ne dimostrava il convincimento, caddero nella silenziosa penombra del terrazzo ammorbidite dalle fronde e dai fiori che vi intrecciavano intorno una odorosa parete. Caddero interamente, si fransero, scomparvero dentro i ciuffi della glicine e dei semprevivi innanzi che Flavio parlasse, e già Elvira stava per riprendere la parola, quando egli saltò in piedi gridando:
— È appunto questa la gioia! Perchè la folla somiglia a un mostro immane dove tutte le laidezze si trovano riunite, perchè è stupida, maligna, senza pensiero e senza viscere, perchè è enorme e bruta, crudele e vigliacca, strisciante e ingrata; perchè è la folla, cioè la riunione prepotente di tutto quello che noi detestiamo, per questo è profonda la gioia di atterrarla, di batterla, di squarciare le sue membra lascive, obbligandola a urlare, a piangere, a versare per una volta almeno davanti a noi qualche goccia del suo sangue impuro! È lei la nemica di ogni cosa nobile e grande, la nemica della bellezza! e quando l'artista sembra andare a lei è nello stesso modo che il domatore va alla belva, per sottometterla.
Flavio si era trasfigurato. I suoi occhi, nell'ombra del terrazzo, gettavano lampi; il fremito di lotta che lo agitava internamente gli faceva passare delle scintille elettriche sulla pelle; tutta la sua virilità sembrava accendersi e divampare nel fuoco dell'idea dominante scaldando l'aria intorno.
— Ciò è bello, — disse Elvira travolta nella calda atmosfera del giovane, attratta inconsciamente dai due occulti misteri dell'ingegno e del sesso; — dominare la folla non è dato che ai forti. Lei è un forte.
E quasi l'affermazione non le sembrasse sufficiente gli si accostò più ancora, insinuante, serpentina, soggiungendo parole vuote di senso ma che apparivano grandiose nell'oscurità tiepida e molle del terrazzo, fra quel giovine di vent'anni e quella fanciulla di diciassette.
Un cuore si schiantava intanto. Anna, che era sopraggiunta sul limitare del terrazzo durante la violenta apostrofe di Flavio, tenevasi nascosta nell'ombra delle piante. Dal suo posto non le sfuggì nessuna inflessione della replica di Elvira, anzi, come avviene di una musica che si percepisce meglio a qualche distanza, ebbe campo di notarne le stonature, i passaggi stridenti, l'urto dell'istrumento inetto a rendere i suoni che il virtuoso avrebbe voluto trarne. Ma sentiva pure che mentre a lei, spettatrice, la verità intima delle cose si disvelava, era tra quei due un ondeggiante mistero complice che la riempiva d'ignoto terrore.
L'indomani, giorno del premio, le due sorelle ugualmente agitate si prepararono fin dal mattino alla visita che stava in cima ai loro pensieri, senza comunicarsi nulla però, come se l'abisso che le aveva sempre divise si andasse colmando di una oscura minaccia, di un pericolo sul quale non osavano ancora tendere gli sguardi. Solamente all'asciolvere, dopo un lungo silenzio, Elvira proruppe:
— Veramente il premio lo merita. È il più bel quadro della Mostra; ha un sentimento, un calore, una penetrazione....
Anna pensava come mai potesse Elvira pronunciare quelle parole che non rispondevano a nessun impulso della sua anima e se ne trovò quasi offesa, derubata di una sua proprietà. In quel momento avrebbe trovato giusto che si vietasse finalmente alle persone di adoperare le parole che non comprendono.
— La delicata intelligenza di Flavio non poteva rivelarsi meglio, — soggiunse Elvira.
Anna stava per dire: “Ma se non l'hai mai riconosciuta!„ Si contenne con uno sforzo che le fece salire tutto il sangue al viso, poichè, se con una sapiente disciplina di se stessa era giunta a domare l'antipatia verso colei che giudicava intrusa nella famiglia, la nuova attitudine di Elvira le risvegliava l'odio del sangue facendovi sorgere accanto un sottil lievito di una amarezza diversa ed ugualmente profonda che ella paventava di analizzare.
Ora, quando Flavio nella sincerità del suo grande affetto veniva a rassegnare il cuore ai ginocchi di Anna, non poteva più isolarla dalla sorella la quale aveva cessato di essere una maligna ragazzetta e le fioriva accanto, indivisibile, prendendo dalla di lei spiritualità il giusto riflesso che le occorreva per animare la sua fredda bellezza. Le due figlie di Gentile Lamberti si confondevano a poco a poco nella mente del giovane come due fiori sullo stesso ramo, ed egli non avrebbe potuto dire sempre se dall'uno o dall'altro gli giungesse maggiore il profumo. Anna sentiva questo. Per lei, così altera della sua nascita, così devota alla memoria paterna, attaccata con tanta tenacia alle tradizioni della famiglia e insofferente d'ogni menzogna e sdegnosa dei cuori volgari e già offesa a morte dalla macchia che lei sola conosceva e che non poteva togliere, quella continuità di inganno che minacciava di traviare anche Flavio, oltraggiandola in tutti i suoi ideali, le scatenava in seno orribili tempeste. Il furto e la menzogna si erano dunque radicati nella vecchia casa?
— Flavio — disse ancora Elvira — si stacca dalla sua famiglia così modesta ed oscura; non si capisce nemmeno come abbia potuto uscirne.
— Chi ne sa nulla! — esclamò Anna con impeto, interrompendola. — Cos'è la famiglia? Una parola di convenzione. L'eredità degli affetti? Un'impostura. L'atavismo? Ah! sì, questo è un bel tema per gli scienziati che lo studiano a tavolino allineando numeri e teorie, ma chi ci dà la verità? Chi osa squarciare questo mistero di carne e di ossa che è l'uomo per vedere realmente come è fatto? Si risale con dei sistemi il corso dei fiumi, non il segreto delle vite. Oh come tutto è tenebra, falsità, menzogna!
La singolare eccitazione di Anna paralizzò per un istante la mente della fanciulla che rispose alfine, non senza nascondere la sua meraviglia:
— Non ti riconosco più! Quanto dici ora contrasta con la fede che hai sempre professata, colle tradizioni della nostra famiglia, coi precetti stessi di nostro padre....
Anna agitatissima gridò:
— Taci! taci! — e alzandosi e movendo verso la finestra per un istintivo bisogno di cambiare aria, quasi di purificarsi, si fermò sul limitare del terrazzo appoggiando contro i vetri la sua fronte che ardeva.
Elvira, rimasta presso alla tavola, pose a scaldare il bricco per il caffè, disponendo per lei e per la sorella due tazzinette bianche a fregi dorati, non senza essersi prima indugiata a misurare la simmetria dei posti. Le tazzettine, come tutto il resto della casa, erano antiche; Gentile Lamberti le aveva viste fra le inanellate dita di sua madre e raramente si lasciavano in balìa delle persone di servizio: l'oro fino che ne ricopriva gli orli era appena intaccato dalle labbra reverenti che vi attingevano quasi una dolcezza di reliquia, ed Anna udiva con una sorda irritazione il leggero tintinnio della porcellana nelle mani di sua sorella.
— Vuoi? — disse Elvira.
Anna si volse, così turbata e con uno sguardo così insolitamente duro, che anche Elvira provò il contraccolpo di quella violenta antipatia. Anna era veramente troppo aspra, nè il fatto di essere la maggiore glie ne dava alcun diritto. Elvira ebbe per la prima volta l'impressione che nulla la legava a sua sorella. Versò il caffè e glielo porse con alterezza. Improvvisamente Anna si sentì gli occhi pieni di lagrime; volle accostare la tazza alle labbra, ma la depose subito e corse a rifugiarsi nella sua camera.
Quando finirebbe quel martirio? Chi verrebbe in suo aiuto impedendole di diventare volgare? Perchè anche questo si aggiungeva alle sue smanie; la paura di decadere. Ad ogni giorno, quasi ad ogni ora, ella vedeva con terrore scemare il livello della propria superiorità. Colla reale sensazione di qualche cosa che scrosciasse intorno a lei si sentiva mancare sotto il terreno, calare, calare abbasso.... Era ella dunque impari alla lotta? Tutto il suo orgoglio, tutte le sue visioni di altezza dovevano frangersi così miseramente in una amaritudine infeconda? Era solamente per sdegnarsi e per adirarsi ch'ella aveva un cuore sensibile, e la sua profonda facoltà d'amare non doveva produrre che dell'odio? Invano un sottile sofisma egoistico le mormorava dentro: Odiare il male, è bene. Non basta! Non basta! Questo grido di protesta sorgeva da tutto il suo essere e la scuoteva non altrimenti che una furibonda bufera fa di un alberello. Ma l'alberello era tenace: torcevasi gemendo e non si spezzava, quasi nemmeno si piegava.
Appoggiata alla sponda del letto, in una muta concentrazione, Anna non si accorgeva dello scorrere del tempo. La sua camera aprivasi sulla via deserta, più che mai deserta in quelle ore meridiane di luglio in cui il sole flagellando i muri penetrava nel chiuso ritiro, smorzato appena attraverso le stecche delle persiane. Da una fessura un po' larga una striscia di luce gialla, entrando, tagliava per metà la camera e i due segmenti svanivano in una penombra dolce d'alcova, dove leggiadri fantasmi si allungavano sulle pareti evocando le scene tenere dell' Orlando Furioso. Questo affresco antichissimo era stato la ragione per cui Anna aveva scelta la camera. Interno al letto si stendeva il mistero della foresta con una arborescenza frondosa che saliva fin quasi alla vôlta, rotta nel suo verde cupo dalle biancheggianti forme di Angelica seduta accanto a Medoro. Dell'eroico poema l'anonimo illustratore di quelle pareti, nell'origine forse destinate ad una sposa, aveva tratto solamente i motivi gentili, per cui gli amori del pastore e della bella non venivano mai interrotti da guerresche e paurose apparizioni, ma era tutto all'ingiro una dolcezza di vita felice, un rameggiare di arboscelli, una luminosità di cielo pallidamente rosato che lasciava nella camera, con parchi rarissimi mobili arredata, l'incerto fluttuare di una visione.
A poco a poco la calma fantastica dell'ambiente avvinse Anna. La voluttà del sogno la prese, aggravata dal torpore del meriggio, in mezzo alla selva che era il suo asilo. Una voce gracile salì dalla strada cantando:
La rosa è il più bel fiore.
Come la gioventù
Nasce, fiorisce e muore
E non ritorna più.
E la voce aveva note gutturali singolarmente dolorose, un po' tremule, che davano alle parole un fascino di passione, come se il cantore improvvisasse per sfogare un suo intimo schianto. La vecchissima canzone che Anna non conosceva, pianta più che modulata nel silenzio ardente del meriggio aveva perduto durante i lunghi anni d'oblìo la volgarità che accompagna tutto quanto cade nel dominio pubblico. Essa rinasceva nella sua freschezza ingenua, nella sua malinconia rassegnata; rinasceva nel signorile paludamento dei morti che non assomiglia a nessun altro e che i vivi guardano con rispetto. Essa, che mille bocche d'amanti avevano ripetuta nei giovani anni e poi scordata, ritentava l'eco della via solitaria, lungo il muricciuolo degli orti; e le note del nuovo cantore gutturali, dolorose, un po' tremule, sembravano tesserle intorno una corona di rose vizze dentro cui tremavano lagrime lontane.
Anna si affacciò al davanzale, ma la canzone era già tornata nel suo sepolcro; il silenzio imperava assoluto: un gobbetto attraversava la strada....
— Anna? — chiese Elvira toccando leggermente l'uscio — ti vesti?
— È già l'ora? — rispose Anna schiudendo l'imposta con una visibile intenzione di gentilezza.
Le due sorelle si trovarono di fronte. Elvira aveva un abito color di rosa sparso di sottili trifogli, stretto alla cintura da un nastro rosa e colle maniche un po' corte che lasciavano scoperto il braccio fino al gomito. Anna la guardò un istante senza parlare.
— Va bene?
Anna pensava come mai Elvira, che non era molto molto bella, si avvantaggiasse così particolarmente per un semplice cambiamento d'abito, ma volendo ad ogni costo cancellare il ricordo della durezza di prima, le cinse la vita con una mano e la baciò. Elvira non avvertì lo sforzo. Dopo averle raccomandato di essere sollecita, per non giungere troppo tardi alla Mostra, dileguò nella fuga delle ampie stanze che il suo abito rosa illuminava di un mobile splendore.
Un profumo di eliotropio, molle ed insipido profumo che ella non poteva soffrire, era rimasto sulle mani di Anna. Si affrettò a versare dell'acqua nel suo lavabo, ma tolto dalle mani il profumo persisteva, caldo ancora del contatto che lo aveva portato sul suo volto. “Odioso odore!„ mormorò Anna slacciandosi la vestaglia. Davanti a lei il lavabo apriva la conca azzurrognola colma d'acqua. Vi tuffò il viso e trascinata da un subitaneo senso di delizia sciolse rapidamente la leggera biancheria che la avviluppava gettandosi ondate d'acqua sulle spalle.
Questo esercizio le diede un benessere fisico così soave da indurla a ripeterlo più volte, eccitata dallo stesso piacevole rumore che l'acqua produceva rimbalzando dalle sue spalle al lavabo e da questo in minutissime perle sul pavimento di pietruzze alla veneziana che già luceva tutto come iridescente cristallo. La striscia di sole, attraverso il filtro delle persiane, si era nel frattempo allungata fino a toccare i piedi della bagnante. Una mezza luce aurea l'avvolgeva tutta e sullo sfondo verdeggiante del bosco dove Angelica e Medoro stavano abbracciati ella poteva credersi una ninfa antica. Le sue forme veramente ritraevano la grazia elegante che intorno al Partenone e fra le ceneri dissepolte di Pompei fa rivivere ancora sulla curva delle anfore la bellezza delle figlie di Nereo.
Sottili, fluide, aventi il raro dono della morbidezza nella esilità, le braccia di Anna riposavano alfine. Ella stava assaporando la frescura dei recenti lavacri, immobile e ritta, col pensiero preoccupato dalla strofa che aveva udito cantare alcuni istanti prima, non ricordandola esattamente, eppure colpita dalla tristezza che accomuna in un solo destino la gioventù e le rose. E si guardava le braccia, sollevandole lentamente fino al viso, al di sopra dei capelli, congiungendole in alto palmo a palmo con un arcano desiderio di amplesso che le fece mormorare sospirando: “Sarebbero pure una nobile coppa per l'amore!„
— Dov'è? Dov'è? — gridò dal corridoio la voce di Flavio.
Ella diede un balzo fino all'uscio, chiudendolo a chiave con un terrore irragionato e convulso, mentre Elvira rispondeva a Flavio:
— Si sta vestendo.
I due giovani entrarono nel salotto che faceva fronte alla camera di Anna. Il mormorio delle loro voci le giungeva distinto attraverso il breve spazio. Diceva Flavio:
— Però verranno?...
— Sì, sì, verremo e subito.
Così rispondeva Elvira con un trillo di allodola felice.
Anna si coperse rapidamente, smaniosa di sottrarsi ad una impressione penosa, o meglio a due impressioni; una penosa e l'altra irritante: e forse ad un'altra ancora più acuta, più indefinita, a cui si mesceva un bizzarro istinto di pudore segretamente offeso.
Per dispetto i nastri si spezzavano, i ganci non si congiungevano. Sotto la sua mano febbrile la stoffa sembrava prendere una attitudine di rivolta, e intanto che dibattevasi contro i piccoli ostacoli materiali tendeva con ansia l'orecchio alle voci dei due giovani che si erano straordinariamente abbassate di tono. Ora non percepiva che qualche sillaba, qualche motto staccato. Tuttavia il dialogo continuava animatissimo, passando dal sommesso bisbiglio della parola al fruscìo alato del sorriso ed al spezzato singulto che fa gorgogliare la voce nelle fauci con un canto di acque profonde.
Nell'ansia Anna sospendeva l'opera, madida la fronte di sudore. A un tratto le voci tacquero. Il silenzio altissimo non era più interrotto che dalle pulsazioni del suo cuore tumultuante. Che cosa avveniva? Erano forse partiti? o Flavio era partito? Provò un istante di vertigine. Dove, dove erano? Perchè tacevano? Le parve di udire un piccolo colpo di tosse, ma avendo in quel medesimo istante urtato in una spazzola che cadde rumorosamente a terra, non poteva essere sicura. Chiamò: “Elvira!„ Nessuna risposta. Forse si trovavano sul terrazzo. Ma perchè Flavio era venuto? Dovevano incontrarsi all'Esposizione. Sua sorella si era vestita prima del tempo: aveva sempre una gran premura di vestirsi. E il silenzio continuava! — Ah! una voce finalmente.... Non la loro voce, no. Era il cantore che ripassava per la via deserta
. . . . . . . . .
Nasce, fiorisce e muore
E non ritorna più!
Anna si affacciò questa volta alle persiane per vederlo. Cercava i suoi guanti, pur avendoli sotto gli occhi, toccandoli.
Finalmente eccola pronta. Si precipita fuori della camera ed urta Elvira che veniva alla sua volta.
— Dove eri?
— Quando?
— Ma ora.
— Qui.
— Sola?
Elvira solleva il capo e la guarda con una certa meraviglia. Anna arrossisce.
— Possiamo avviarci, — soggiunge Elvira. — Flavio ci precede.
— Che cosa aveva?
— Chi?
— Flavio.
— Nulla.
— Perchè è venuto?
— Voleva essere sicuro che noi andassimo.
Attraversano l'ampia anticamera, escono sullo scalone, scendono sotto il portico, il vecchio pensionato rientra allora e le saluta; il portinaio le arresta un momento per mostrar loro un ricciolone del terrazzo che ha bisogno di essere riparato: mostra in pari tempo una nuova piantagione de' suoi vasi, un cespuglio di dittamo, e ne offre un ramoscello a ciascuna. Sulla porta Anna chiede:
— Che cosa ha detto?
— Chi?
— Flavio.
— Nulla.
— Mi sembrava che aveste una discussione.
— No.
Il cielo ha quel pallore opaco delle giornate troppo calde. L'aria è immobile: non trema una foglia; le pietre del marciapiede scottano, bianche di luce e di polvere. Le due sorelle si avviano lentamente.
Sulla soglia della Mostra, proprio nella corrente del pubblico che entrava a frotte, due signori discorrevano con animazione senza perdere di vista i nuovi arrivati, ai quali anzi uno di essi faceva largo con un gesto semicircolare, imponente e grazioso insieme, che aveva dell'invito e della condiscendenza. Era costui un ometto magro, segaligno, il cui volto color limone ornavasi di alcuni cespugli di pelo bigio disposti bizzarramente qua e là, incerti ancora (benchè il loro proprietario toccasse i sessant'anni) se divenire baffi, barba o basette. Vestito accuratamente di panno nero, con uno spillo di mosaico nella cravatta nera e un paio di guanti color marrone, appariva chiaro che la sua dignità naturale si era per la circostanza agguerrita di minuziose cure esterne, incaricate di avvertire dell'esser suo anche i più distratti. Concorreva allo scopo un portamento della testa più eretto del solito, un girare in tondo degli sguardi dove era in eguali dosi compenetrata la sicurezza di sè e un benigno compatimento che distribuiva a caso sulla folla come spruzzi d'acqua benedetta.
— Capirai — diceva al suo interlocutore lasciando cadere le parole dall'alto, palleggiandole quasi prima di decidersi a regalarle — non si riceve per nulla una buona educazione. Mio nipote....
— È suo nipote?
— Già, già, stretto parente, strettissimo. L'ho allevato io dall'età di nove anni; è quasi mio figlio; l'ho coltivato veramente a guisa di una pianticella, potando, estirpando, innestando. Si può dire che egli non ha un'idea che non sia stata prima mia. Il disinteresse col quale noi educatori seminiamo nelle giovani menti germi di frutti che esse sole raccoglieranno è ciò che forma la serietà, direi quasi la santità della nostra missione.
Il signor Pompeo sospese di parlare per gettare un'occhiatina di sbieco sopra alcuni foglietti che l'altro s'era levati di tasca e che stava riempiendo di note. Il signor Pompeo lo conosceva benissimo, perchè era stato suo scolaro e lo aveva bocciato parecchie volte, ma ora essendosi messo a fare il critico d'arte gli incuteva una specie di soggezione dietro la quale stava pure l'ansia di vedersi quando che sia citato su per le gazzette. Non che la cosa gli dispiacesse, tutt'altro, ma capiva l'importanza del momento e la necessità di posare bene. Con una mano nello sparato dell'abito, pendente l'altra con nobile negligenza lungo il fianco, il signor Pompeo pensava: “Anche questo l'ho formato io. Chi sa mai che portato in alto dalla capricciosa fortuna non riesca ad avere il suo quarto d'ora di celebrità; allora deve necessariamente ricordarsi di me. Purchè sia riuscito a purgarsi dei neologismi!„
— Signor professore, lei dunque dice che suo nipote ha vent'anni?
— Ventuno.
— Ed ha sempre avuto questa passione per l'arte?
— Certo, certo.
— Dimostrata fino dall'infanzia?
— Dimostratissima. I suoi quaderni erano pieni di sgorbi.
— Di sgorbi?
— Voglio dire.... sai bene.... i primi tentativi.... Già anche Raffaello avrà incominciato così. Ars longa. Quel Raffaello che pittore!
Il signor Pompeo si lisciò i cespugli del mento inarcando le ciglia e sollevandosi sulla punta dei piedi perchè gli sembrava che la folla lo nascondesse troppo. Si avanzava difatti un gruppo di giovani che dalle corte casacche e dai larghi cappelli apparivano allievi della scuola di pittura: si avanzavano circondando rispettosamente un signore alto, corpulento, ben vestito, il quale procedeva in mezzo a loro nè più nè meno che Gesù fra gli apostoli, predicando il verbo con una voce volontariamente affiochita per non attirare l'attenzione dei profani, esprimendo giudizi brevi, recisi, che si limitavano qualche volta ad una crollata di spalle o ad un peuh! sdegnoso, accolti dalla turba devota con umile deferenza, con rossori e pallori improvvisi che dimostravano l'alta influenza del personaggio.
— È il commendatore professore X — susurrò piano il critico d'arte all'orecchio del signor Pompeo, — vado a sentire che cosa dice.
Facendo subito seguire l'atto alle parole il critico d'arte si cacciò così bene nel crocchio che la sua esile persona di giovinetto stremenzito non apparve più, tra le falde del commendatore e i cappelli degli allievi, che a guisa di un uccelletto saltellante in cerca di becchime.
Dietro le spalle del signor Pompeo entravano intanto senza che egli se ne avvedesse, le signorine Lamberti. Graziose, eleganti, severamente distinte, erano molto guardate sempre dovunque si recassero, ma più che le loro persone si imponeva l'aureola del loro nome. Muta da tanti anni la voce di Gentile Lamberti echeggiava ancora nei cuori che aveva fatto palpitare per quel privilegio che hanno certe anime ardenti di prolungare la loro vita oltre i confini della materia; ed accadeva spesso alle fanciulle di udir mormorare sul loro passaggio: “Sono le figlie di Gentile Lamberti„ con un accento di simpatia rispettosa che faceva vibrare profondamente il cuore di Anna e schiudere sui labbri di Elvira un sorriso di vanità soddisfatta.
La curiosità del premio e le polemiche che lo avevano preceduto attiravano quel giorno alla Esposizione una folla grandissima. Per le sale, dove si circolava a stento, il caldo era insopportabile. Un'afa impregnata di migliaia di esalazioni, corrotta da microbi invisibili, nauseabonda nel suo odore fondamentale che inutilmente veniva a tratti a tratti interrotto dalla presenza di qualche profumata signora, gravava su tutte quelle persone raccolte. I velari di tela bianca distesi a mezza volta per regolare la luce contribuivano a restringere lo spazio, imprigionando l'aria, rendendola vieppiù soffocante e irrespirabile. In quella atmosfera lattea, uniforme, la folla si pigiava più intontita che allettata, ricevendo nella retina degli occhi un'impressione confusa di colori che per la maggioranza si risolveva in una leggera emicrania: scossa tratto tratto da un soggetto impressionante, da una arditezza nuova di esecuzione che le traeva esclamazioni derisorie e faceva correre ratte le facezie di bocca in bocca, ma riprendendo quasi subito il suo andare pesante e rassegnato di branco umano davanti alla sfilata interminabile dei quadri.
— Fa troppo caldo, — disse Elvira.
Le due sorelle erano ansiose di sapere se la premiazione fosse già stata fatta. Non guardavano nulla e nessuno, seguendo docilmente la folla, intente solo a rintracciare Flavio. Una grossa famiglia borghese composta di tre generazioni, tutte ferme davanti ad una tela intitolata La stiratrice le arrestò contro lor voglia per qualche minuto.
— Questo meriterebbe il premio! — esclamò con voce potente il padre di famiglia.
Gli altri fecero coro, lodando chi la bella faccia tonda della stiratrice, chi la rimboccatura perfetta delle sue maniche, chi la trovata di un gattino accoccolato con fine accorgimento nella biancheria appena stirata, chi la naturalezza della pugnetta alla quale non mancava neppure una lieve sfrangiatura di stoffa bruciata. La madre di famiglia guardò a lungo prima di pronunciarsi, poi espresse l'opinione che non si stira sopra una tavola così bassa.
— Fa veramente troppo caldo, — disse ancora Elvira.
— È curioso. Tu non soffri mai il caldo — osservò Anna con dolcezza.
— Ma oggi è eccessivo.
— È vero. Se potessimo trovare una sala meno affollata....
— M'era parso di scorgere il signor Pompeo.
— Dove?
— Non si vede più.
Incontrarono delle amiche:
— Oh! il vostro giovine pittore, che successo!
— Hanno esposto la premiazione? — domandò Elvira.
— Non ancora.
L'onda della folla le divise. Le due sorelle furono sospinte innanzi mentre esse si riguardavano scansando i contatti, desiderose di giungere vicino al quadro di Flavio. Ma il quadro era in una delle ultime sale.
— Fermiamoci un momento, — propose Elvira.
A mala pena trovarono un posto sopra uno dei divani collocati nel mezzo delle sale. Intorno ad esse sedevano alcune persone della buona società, fra cui una signora di quelle che i giornali letterari e gli autori nelle prefazioni dei loro libri chiamano intellettuali. Ella stava appunto concludendo un discorsetto sulla pittura:
— .... è La Sizeranne che lo afferma, dobbiamo credergli.
— Non credo però — rispose un signore di mezza età che le stava ritto dinanzi facendosi fresco con un ventaglietto giapponese — che i nostri artisti farebbero bene ad imitare gli Inglesi.
— Non le piace Burne Jones?
Sì dicendo la signora intellettuale volse un'occhiata alle nuove persone che si erano sedute sul divano per giudicare su di esse l'effetto di quel nome.
— Sì, mi piace un Burne Jones; due sarebbero già troppi. Il genio non può far scuola; essendo la manifestazione di una forte individualità esso è principio e fine a se stesso.
— I preraffaelliti tuttavia non hanno detto la loro ultima parola.
— Eh! eh! — fece il signore dal ventaglietto senza spiegarsi maggiormente.
Due damine intanto si erano fermate a stringere la mano dell'intellettuale.
— Oh! cara, ma questo premio non si vede ancora.
— La giurìa sente il caldo — pronunciò il signore ventilandosi con maggior lena.
— E sì — disse la intellettuale sottolineando le parole — che la scelta non dovrebbe essere difficile. Procedendo per eliminazione, che cosa resta da giudicare? tre o quattro lavori, se pure!
— Per conto mio — rispose una delle dame cui il gran naso a becco usurpava il posto del viso e che portava una corona da marchesa — non vedo un solo quadro che mi ispiri il desiderio di averlo nel mio salotto.
— Quella testa è molto espressiva! — esclamò la sua compagna indicando un San Gerolamo che le stava davanti, nero e giallo come un tizzone abbrustolito.
— Ma ti pare! una bella figura che farebbe al di sopra del mio divano Louis quinze! Roba da Tebaide, cara.
— Sarebbero più in istile quelle fanciulle che il pittore chiama: Primavera ellenica, ma.... troppo nude — interruppe la intellettuale. — I pittori abituati alle crudezze dell'Accademia dimenticano spesso che vi sono al mondo anche delle signore.
— Delle vere signore, — accentuò la proprietaria della corona marchionale dilatando le narici del suo gran naso.
— Un quadro per il suo salotto, marchesa — interruppe il signore dal ventaglio — potrebbe essere quello del giovine simbolista: Viene!
— Ah: no, mi impressiona troppo. Non posso esimermi dal pensare che vi è un ladro nella camera vicina.
— Che idea!
— È così. Dal volto dell'adolescente spira un terrore, un'ansia....
— Ammetto l'ansia, ma la spiego diversamente.
La signora che aveva dimestichezza con Burne Jones e con La Sizeranne aperse una parentesi per dire:
— Non mi pare che appartenga alla scuola simbolistica. È al contrario di un verismo che colpisce.
— Si può essere simbolici e veri nello stesso tempo. Che ne pensa la marchesa?
— Penso che ad ogni modo la cornice è di cattivo gusto.
Le signorine Lamberti si alzarono.
— Se potessimo trovare Flavio! — mormorò Anna.
Elvira non rispose, pallida e oppressa da una stanchezza a cui la breve fermata non aveva recato alcun ristoro.
Ripresero così il lento andare in mezzo alla folla, afferrando a volo brani di conversazione, mezzi giudizi, parole staccate che si incrociavano bizzarramente.
Un vecchiotto arzillo, con baffi alla Vittorio Emanuele e cappello di panno verdone posto alla sgherra, si appoggiava fortemente sul braccio di un compagno, brontolandogli nell'orecchio con attitudine da congiurato:
— Bisogna che ritornino alla pittura storica; non c'è altra salvezza. Cosa vogliono dire tutti codesti fantocci? La fantasia! Il sentimento! Baie. Storia ci vuole; e disegno ci vuole. Non c'è più nessuno che sappia disegnare. Vedere a' miei tempi l'Induni, il Focosi.... Vedere l'Emanuele Filiberto che getta ai piedi dell'ambasciatore spagnuolo le insegne del Toson d'oro!
Il chiacchierio di due ragazze passò sopra alla voce del brontolone.
— .... il basso della gonna filettato di bianco.
— E i bottoni bianchi.
— No, neri.
— Meglio bianchi.
Le signorine Lamberti trasalirono all'improvviso. Qualcuno aveva detto: “Il premio....„ Ma non poterono udire altro. Elvira, tacitamente, infilò il suo braccio sotto il braccio di Anna.
Giunsero infine alle ultime sale. Un drappello di giovani mascherava il quadro di Flavio, tanto che sembrava poco possibile potersi avvicinare. Anna tuttavia che era più alta della sorella si sollevò un istante sulla punta dei piedi e ricadde subito, stringendo nervosamente il braccio di Elvira. Aveva visto il cartello del premio affisso sul quadro.
— Lascia vedere anche a me, — disse Elvira con voce velata da insolita commozione.
Tremanti, felici, pallide, le due sorelle bevettero insieme a quella larga onda di gioia. Si parlava molto e forte intorno a loro, ma non erano più in grado di intendere nulla. Appena se videro, e confusamente anche questo, il signor Pompeo ritto accanto alla tela premiata sorridendo al pubblico con benevolenza.
— Andiamo, — mormorò Anna.
Rifecero una sala o due, ma il bisogno dell'aria pura le portò ben presto nel piccolo giardino della Mostra il quale era stato per la circostanza provveduto di fiori e di alte felci che aggruppate artisticamente davano per gli occhi l'illusione della frescura. Si erano da poco accomodate sopra una panchina, in un cantuccio discreto e ombroso, quando Flavio venne a raggiungerle.
Il povero fanciullo raggiava tutto attraverso una velatura indefinibile di mestizia rimastagli dalla sua triste infanzia e che il successo non poteva cancellare interamente. Egli aveva inoltre quella vera modestia che fa del trionfo un piacere raccolto, che lo sottrae alle manifestazioni turbolente e chiassose per innalzarlo ad una specie di rito intimo, quasi ad un patto religioso e solenne coll'anima.
— Suo, suo, tutto suo! — Alludendo al trionfo così Flavio rispose stringendo la mano di Anna, turbata anch'essa e felice, eppure mesta di una mestizia che anzichè essere in lei l'ombra del passato sembrava un'oscura prossima minaccia.
Elvira indugiava a parlare. Col busto per metà rovesciato sull'appoggiatoio della panchina fissava Flavio con uno sguardo ardente, insolito in lei, che non tardò ad esercitare sul giovane una singolare potenza di attrazione. Ella era in quel divino momento della giovinezza che conferisce ad ogni cosa viva il massimo della sua potenza. Per quanto casta e severamente educata, ed anche innocente, usciva da tutta la sua persona un impetuoso fascino di desiderio. Flavio lo sentiva, e nello stato di sovreccitazione in cui trovavasi gli riusciva impossibile la difesa. Si guardavano così, rapiti, colle pupille molli di involontarie seduzioni.
Quel silenzio parve ad Anna insopportabile; volle romperlo in qualche modo e incominciò a volgere a Flavio una quantità di domande la cui volubilità era troppo palese perchè ella stessa non avvertisse un senso di stonatura. Avrebbe allora voluto muoversi, riprendere la passeggiata affannosa in mezzo ai quadri, ma si erano appena sedute ed Elvira sembrava stanca assai. Guardandola in quella sua posa languida, col momentaneo pallore che le ingentiliva il volto, col busto giovanile fasciato di rose e il collo nudo emergente nel trionfo della linea che nessuna orma di tempo aveva ancor tocca, ne subì suo malgrado il misterioso impero. Sua sorella le apparve in quell'istante più che mai straniera ma armata di invincibili diritti. Piegò il capo e seguendo distrattamente cogli occhi il disegno della ghiaia per terra cadde in un profondo silenzio.
Un'orchestrina mascherata da un gruppo di felci gigantesche eseguiva un'aria dell' Orfeo. Le note delicatamente appassionate cadevano nel piccolo giardino non ancora invaso dalla folla, dove aliava un fresco odore di azalee appena dischiuse, dove il caldo greve ancora ma non contaminato conciliava un soave torpore sognante.
— Come si sta bene qui! — sospirò Elvira a fior di labbro.
Nello stato di sensibilità acuta in cui si trovava Flavio, coi nervi vibranti, la fantasia in tumulto, tutto il suo essere sollevato da un'onda di vita, anche quelle semplici parole si vestirono di imagini dolcemente accese quali fiaccole sul limitare di un sentiero nuovo, sconosciuto e tentante. Gli occhi di Elvira erano quel giorno straordinariamente larghi, natanti in un'ombra violacea di una morbidezza sofferente e voluttuosa e si attaccavano a quelli del giovane con un lungo, insistente richiamo, con bagliori inconsci di febbricitante.
— Temo — continuò Elvira sorridendo di un sorriso infantile — che i suoi ammiratori vengano a rapirla.
— Non è facile, — balbettò Flavio senza sapere molto quel che si dicesse, invaso come era da un dolcissimo turbamento.
Quando Anna sollevò gli occhi li vide stretti in un colloquio di brevi parole: brevi e interrotte come le parole che si erano scambiate poche ore prima a casa e che non aveva potuto comprendere. Vide pure il braccio destro di Elvira, dal quale ella aveva tolto il guanto, abbandonato sulla spalliera in vicinanza di quello di Flavio e benchè l'atto fosse giustificato dalla lunga confidenza, Anna ne ricevette una impressione disgustosa. Deviando lo sguardo avvertì la singolare animazione degli occhi di sua sorella.
— Stai meglio, mi pare?
— Sì, molto meglio. Era il caldo eccessivo delle sale che mi opprimeva. M'è rimasto un po' di cerchio alla fronte, ma passerà anche questo.
Senza volerlo Anna tornava a guardare il braccio nudo di Elvira. Avendo fatto un movimento per accomodare il cappello la manica le era scivolata in alto scoprendo per un istante il gomito.
— Dov'è andato a finire il tuo guanto? — domandò Anna con calma.
Elvira e Flavio si mossero insieme per cercarlo; esso cadde dalla panchina e Flavio lo raccolse prontamente ridendo.
— Non sarà quello della sfida, — gli disse Elvira a bassa voce.
Flavio rise ancora senza rispondere. Cingeva entrambi una zona luminosa, calda di invisibili correnti, dove sbocciavano le loro tenere giovinezze come fiori che il sole ha raggiunti. Anna pensò che riso e parole si riferivano senza dubbio a qualche loro precedente discorso e fu presa da un sentimento penoso di umiliazione che la ripiombò nel silenzio. Ella sentì in quel momento l'amarezza della vita che passava.
················
La folla riversandosi ora nel piccolo giardino li fece fuggire. Elvira dimenticò ancora il suo guanto e intanto che Flavio tornava indietro a prenderlo Anna disse con una certa impazienza:
— Ma dovresti rimetterlo una buona volta!
Dolcemente Elvira ubbidì, infilando le dita del guanto ad una ad una, finchè rimase il solo pollice che fece sparire con un movimento rapido spingendo il braccio in avanti e tendendolo così per qualche secondo, bianco e nudo, nella luce del sole che ne indorava la leggera pelurie.
— Come sono sottili gli abiti delle donne! — esclamò ingenuamente Flavio, fissi gli sguardi sulla manica di Elvira.
— Le piace questo?
— Molto. Fin dal primo istante che lo vidi mi colpì il disegno del trifoglio. È leggiadrissimo.
Anna aveva un abito simile nella stoffa e nel disegno: diverso solamente per il colore che le era parso troppo giovanile. Ma Flavio non se ne era accorto.
— Prima di andarcene vogliamo vedere il quadro un'ultima volta? — disse Elvira con grazia provocante, mostrando un interesse che toccò Flavio nelle più intime fibre dell'amor proprio.
Dinanzi al quadro Elvira si appassionò, si esaltò quasi, trovando parole ardite, dolci, profonde, misteriose, le quali finirono di versare nelle vene del giovane la turbatrice ebbrezza del più capzioso dei liquori.
A un tratto impallidì, aggrappandosi alla parete, coll'occhio che accennava a spegnersi, tutto il corpo preso da un subitaneo languore. Anna e Flavio la sorressero, ma si riebbe subito. Accettò nondimeno il braccio di Flavio per uscire dalle sale.
Giunti a casa fu consigliata di coricarsi perchè si reggeva a stento. Ella non ne volle sapere, assicurando che un po' di riposo in libertà, sul terrazzo, l'avrebbe rimessa completamente. — Quando però fu l'ora del pranzo la debolezza era aumentata.
— È il caldo — andava dicendo a chi insisteva perchè si mettesse a letto. Intanto le durava negli occhi quella strana fosforescenza e nel fondo delle occhiaie si addensava l'ombra violacea.
Volle prendere il suo posto a tavola, ma non toccò cibo. Lagnavasi ancora del caldo e parlava, parlava animatamente della Mostra, del premio, delle persone incontrate. Anna la osservava con inquietudine.
Subito dopo pranzo scese Flavio.
— Non va troppo bene, — gli disse Anna nel vano dell'uscio. — Vorrei chiamare il medico.
Flavio si turbò.
— Speriamo non sia nulla di grave, — soggiunse Anna avvedendosi dell'impressione fatta.
— È sempre grave per me ciò che le riguarda, — rispose Flavio semplicemente.
Elvira era ritornata sul terrazzo. Quando vide Flavio gli sorrise con grande dolcezza e gli fece posto accanto a sè.
— Senta la mia mano. Anna pretende che abbia la febbre.
Flavio le prese la mano.
— E senta qui! — gli tese la fronte. — Scotta?
Flavio non disse nè sì nè no, temendo di spaventarla, ma il suo sguardo cercando quello di Anna lo tradì.
— Sono dunque ammalata davvero? — esclamò Elvira, — e domani che si doveva andare in campagna!
— Giorno più, giorno meno, non importa, — disse Anna in tono conciliativo. — Andremo dopodomani.
Parlarono un po' di tempo di boschi, di montagne, di sentieri ombrosi, di escursioni da farsi tutti e tre insieme, perchè Flavio doveva andare a trovarle. Elvira se lo fece promettere ripetutamente. A poco a poco però l'ardore del conversare le venne meno, il corpo le si piegava spossato, affranto.
— Vieni a letto, — le disse ancora Anna. — Vieni!
Questa volta non oppose resistenza. Si accommiatò da Flavio gettandogli uno sguardo umido e ardente e sorretta dalla sorella si trascinò fino alla sua cameretta attigua alla camera di Anna.
Non aveva nemmeno più la forza di spogliarsi. Anna dovette slacciarla, ritirarle gli abiti ad uno ad uno, coricarla al pari di una bambina. Era la prima volta che Anna si trovava in un contatto immediato con Elvira e per quanto una pietà gentile le consigliasse quell'aiuto non poteva vincere in se stessa il ribrezzo della di lei carne. Perfino dalle vesti di lei, ammucchiate sul tappeto, saliva alla sua sensibilità irritata un'impressione di nausea che la faceva soffrire nell'intimo delle viscere, per cui sollevò rapidamente il cumulo della biancheria ricacciandola in fondo della camera.
— Brucio, — diceva Elvira, e questa parola ripetuta ad intervalli con voce fioca era la sola che ella ormai pronunciasse.
Anna propose di non affrontare la notte senza udire il consiglio del medico.
— Sì, sì, — rispose Elvira, — chiamalo e che mi faccia guarire presto!
Durante l'aspettativa si assopì lievemente. Anna, che la vide chiudere le palpebre, allontanò il lume perchè potesse riposare e oppressa ella stessa dalle fatiche della giornata, si appoggiò al davanzale della finestra respirando l'aria a larghe ondate.
“Non sarà nulla certamente„, pensava sprofondando le pupille nel vuoto oscuro. “Un po' di stanchezza, l'afa di oggi, la commozione.... Era vera commozione? Ma perchè? Lo aveva ella amato fin da piccino? Lo aveva protetto quando gli altri lo deridevano? Aveva ascoltate le prime voci di quell'anima così tenera e così sensibile? Si era fatta il suo pensiero e la sua coscienza?... O non lo aveva invece sempre deriso e disprezzato? Perchè dunque sarebbe commossa lei? Perchè?„
Un gruppo di affanno le strinse la gola. Tutte le scene della giornata le sfilarono davanti: le parole, i silenzi, gli sguardi, i sorrisi. Egli aveva ventun anni e lei diciassette....
“Come riposava ora tranquilla! Non sarebbe nulla certamente, tuttavia....„
Una rapida visione di giovani vite troncate sul fiore le attraversò la memoria.... Sobbalzò, i suoi polsi batterono un istante con violenza; il cuore le si volle schiantare contro le braccia conserte.
“Nulla: non sarà nulla!„ disse a voce alta quasi per combattere un incubo — e chiuse le persiane con precauzione per non svegliare la dormente.
Per quanti giorni, per quante notti il tifo tenne sospesa la sua orribile falce sula vita di Elvira! la ingorda falce grondante di tanto sangue giovane. Finalmente la febbre era cessata. Se non riappariva nella ventitreesima notte l'ammalata poteva considerarsi salva.
— Guarirà! guarirà!„ affermava Anna con gli occhi ardenti nelle guancie infossate, con una eccitazione nervosa che teneva essa pure in uno stato quasi febbrile. Anche quando gli altri, sfiduciati, temevano, Anna ripeteva insistentemente con una specie di furore, quasi prevenendo un'accusa: “Guarirà„. E rammentava tutte le malattie sorpassate da Elvira nella puerizia; una scarlattina delle peggiori, la difterite, che più? non era ella caduta, ai primi passi, per tutta la lunghezza della scala senza farsi il benchè menomo male?...
Flavio non esprimeva alcun giudizio, ma i suoi silenzi pieni di angoscia e le lunghe soste al capezzale dell'inferma avvincevano con forza sempre maggiore la sua anima all'anima della vecchia casa ancora una volta piangente. In qual modo non avrebbe egli amata la dimora che racchiudeva tutto il suo mondo, se alla trama dell'amore passato ogni ora aggiungeva un filo di più? se egli non si sentiva vivere che sotto lo sguardo di Anna e nella vicinanza dolcemente turbatrice di Elvira? La malattia della fanciulla, scoppiata nel giorno stesso che la commozione del premio lo investiva, preceduta dalle inconscie seduzioni delle loro giovinezze, ammantava di un carattere sacro l'attrazione naturale dei sensi. Egli considerava Elvira come la predestinata, colei che doveva unire per sempre il suo destino al destino dei Lamberti e curvo sul letto dove ella soffriva spiava trepidamente le fasi della malattia con una attitudine sicura dove già delineavasi l'idea del possesso.
Quella sera, dopo la sentenza del medico, Flavio indugiava più che mai ad accomiatarsi. Poche ore ancora di angoscia, di aspettativa, e quelle ore doveva passarle solo, nella sua camera, lassù al secondo piano dove tante notti egli aveva già vegliato spasimando.
— Se rimanessi qui.... con lei? — aveva detto ad Anna.
Ma prima ancora che Anna rispondesse comprendeva la necessità di lasciarle qualche ora di riposo.
Lui partito, Anna si soffermò alcuni istanti nella camera dell'inferma per prendere gli ultimi accordi colla suora di guardia. Elvira dormiva, tranquilla, colle lunghe treccie sciolte sul guanciale, le braccia fuori della coltre, velate appena dalla tela sottile della camicia da notte che si arrestava passato il gomito con una arricciatura di trine. Non era più il braccio rigoglioso che sfuggendo al guanto sembrava sfidare la luce nella procace sicurezza della sua nudità; era un povero braccio scarno, madido di sudore: Anna guardandolo lo confrontò macchinalmente colle proprie braccia. E tornò a sentire il ribrezzo di quella carne nuda, perseguitata dall'odore straniero che emanava e da quell'altro odore preferito da Elvira, l'odore molle e scipito d'eliotropio che trovavasi in tutte le sue biancherie e che nell'ambiente chiuso, tra la fuga sottile degli eteri schierati sul tavolino, metteva una nota bassa leggermente nauseabonda.
— Dio le fa la grazia, — disse la suora, — non vede come riposa in pace?
Metodicamente, colla calma dell'abitudine, la suora prese una boccetta di fra le tante che erano sul tavolino e ne versò alcune goccie in un bicchiere; poi andò a riporre la boccetta sopra una mensola riflettendo a voce alta:
— È meglio. Uno sbaglio è subito commesso.
Anna volle guardare la boccetta che la suora aveva creduto di non confondere colle altre. La prese in mano e vide che portava un cartellino con sopra una testa da morto.
“È un calmante„, pensò, rimettendo a posto la boccetta con un istintivo movimento di repulsione; poi si mosse in punta di piedi.
Era il tocco. Se avesse potuto dormire quattro ore, almeno le quattro ore che la separavano dall'alba! Da molto tempo il sonno le era diventato ribelle. Si spogliò tuttavia e si pose a letto, provando l'istantaneo sollievo degli abiti sciolti e delle lenzuola fresche che le conciliarono a tutta prima un soave torpore dove i suoi nervi si distesero e la sua fantasia si acchetò beneficata da un pietoso oblìo. Ma la fiammella del pensiero non riusciva a spegnersi interamente.
Attraverso le nebbie del sonno, l'angoscia dell'idea fissa la martellava nella forma inconsistente dell'incubo. Si sentiva premere il cuore da due mani invisibili, mentre un riso schernitore usciva dalle tenebre senza voce e senza labbra come il riso di uno spettro. E un sogno delineavasi. Ella non aveva riposta la boccetta del veleno sulla mensola, bensì sul tavolino, insieme alle altre; la suora, sbagliandosi, aveva dato il veleno ad Elvira. Una inchiesta era stata aperta e si sapeva che lo sbaglio veniva da lei. — Vero sbaglio?... Vero sbaglio?... — le chiedevano. Una visione raccapricciante della Corte d'Assise e dei giudici le sfilò davanti. Il cuore le si schiantava più che mai stritolato dalle invisibili mani; l'oscuro riso, fischiando, gridava: — Avvelenatrice. — E quella parola sorgeva dalle tenebre in caratteri di fuoco, si avanzava lampeggiando, la investiva, la copriva tutta. Ora non era più una parola, era un volto: un terribile volto sconosciuto che somigliava a Elvira.
Mise un grido e balzò a sedere sopra il letto, colle pupille sbarrate, ansimando. Due rivoletti di sudore le scendevano da una parte e dall'altra delle tempie, mentre una sensazione di gelo la paralizzava nella linea del dorso obbligandola a tenere la testa eretta e fissa in una attitudine di stupore. Riconobbe a poco a poco che si trovava nella sua camera; guardò senza vederle le pareti istoriate, la finestra, il lavabo; allungando le braccia le sue dita si impigliarono nei trafori del merletto che ornava la coperta. Così, muta nel velo delle ombre, Anna assistè gradatamente allo sciogliersi dell'incubo, allo sparire del fantasma, al risorgere della propria coscienza veggente e sicura. Era libera, era monda.
Ricadde supina chiudendo gli occhi.
Ma il sonno non tornava. Una inquietudine, dapprima leggera, le faceva battere i polsi adducendovi un fastidioso prurito che il caldo e l'afa della notte non tardarono a rendere insopportabile. Voltandosi e rivoltandosi pensava: “Sono sicura di aver messa la boccetta sulla mensola?„ E si immaginava di non averla messa, di addormentarsi placidamente e di venire svegliata dai gemiti di Elvira agonizzante. Allora faceva uno sforzo di mente per ricordarsi con esattezza il movimento della sua mano quando aveva deposta la boccetta. Non vi poteva essere alcun dubbio; risentiva ancora nel palmo la sensazione di sfregamento contro la mensola di legno e rammentava l'idea che le era allora balenata di sostituirla, alla guarigione di Elvira, con una mensola di porcellana, di fabbrica fiorentina, più elegante e più gaia.
Posava qualche istante su queste visioni liete, sulle prime passeggiate che farebbero insieme, sulle prime visite; ma lo stesso eccitamento della fantasia in cerca di immagini gioconde le accresceva l'insonnia. A un tratto il dubbio la riprese con violenza: “E se mi fossi sbagliata?„
Ciò che la turbava più che tutto era quella persistenza nel figurarsi la morte di Elvira; nel pensare che l'aveva avuta sempre presente, che le era in certi istanti sembrata quasi necessaria, e in fondo a quel continuo dubbio vide una tentazione mostruosa.
Dormire in tale stato non era più possibile. Accese il lume, scese dal letto, si coprì appena con una vestaglia leggera e lasciando il lume in camera propria entrò in quella di Elvira rischiarata da una fioca lampada. Le sue sottili pianelle non producevano alcun rumore ed ella camminava così leggermente movendo a guisa di stelo l'esile persona che il suo passaggio non spostò neppure una particella d'aria. Solo quando fu presso al letto di Elvira la suora che teneva le palpebre chine sul rosario le sollevò con lentezza mormorando:
— Riposa ancora.
Anna fece scorrere le dita sulla fronte della sorella. La suora disse:
— Non c'è (alludeva alla febbre). — Dio le fa la grazia.
Anna girando gli occhi verso la mensola riconobbe la boccetta del veleno e trasse un lungo respiro. La suora aveva reclinate le palpebre sul rosario.
“Pure„, pensò Anna ricordandosi le parole del medico “del tifo non si è mai sicuri fino a guarigione completa. Se il delirio la riprendesse? La suora mi sembra stanca. Molti ammalati nel delirio sono sfuggiti alla sorveglianza. La suora potrebbe addormentarsi, non sarebbe una cosa straordinaria. Nemmeno sarebbe straordinario che Elvira stessa movesse a prendere quella boccetta. L'ha proprio di contro a lei, a' piedi del letto„.
Il sangue le diede un tuffo. “Io non ne avrei colpa„, mormorò. “Nessuno ne avrebbe colpa„.
Fece alcuni passi verso l'uscio, poi retrocesse titubante. Non sarebbe meglio levarla anche dalla mensola? Portarla fuori di camera addirittura?... Oh! ma tutto ciò era insopportabile alla fine. Prese una decisione violenta ed uscì, dritta, movendo a passi risoluti per la casa tutta aperta nel silenzio della notte d'agosto.
Come era tiepida la notte! e profonda e misteriosa. Dalle finestre spalancate l'argenteo chiaror lunare entrava a illuminare la lunga fuga delle stanze, così alte sotto i loro soffitti a vôlta, nella imponenza maestosa ed elegante dei grandi usci fiorati tra gli stipiti d'oro dolcemente luccicanti nella penombra.
Sul corridoio che separava l'appartamento in tutta la sua lunghezza e dove la luce penetrava più scarsa Anna gettò appena uno sguardo, ma non le parve vuoto. Le orme leggere delle sue bisavole passanti e ripassanti nell'amoroso affaccendamento di massaie intente ad accrescere il benessere della casa, avevano lasciato un soffio quasi impercettibile di operosità onesta e serena che sembrava cingere di una perenne vigilanza i vasti armadi di legno d'acero addossati alle pareti; e brevi orme di bambini narravano pure i giuochi dell'infanzia, le rincorse, i fuggi fuggi accompagnati da strilli e da celie, quando la vita è così lieta nell'età beata che ignora. Ecco le sale, ecco il tinello, ritrovo abituale della famiglia.
Il piano, grandissimo e chiuso, appare come una macchia nera nei riflessi cupi del mogano. Tutto ingiro le poltrone memori, il tavolino amico, le ceramiche dai suggestivi colori, l'acqua degli specchi rompenti il fondo cupo delle pareti con visioni di stagni fantastici dove i mobili vengono riflessi in forme strane e nuove diffondono la sensazione di una vita arcanamente sorta nelle ore sacre al mistero, quando attorno ai vivi addormentati vagolano le ombre di coloro che furono, invincibilmente attaccate al posto dei loro odî e dei loro amori. Non ombre materiate in paurosi aspetti, non fantasmi quali se li rappresentano le piccolette immaginazioni dei bimbi, ma solchi ardenti, ma traccie rimaste sulle cose, non visibili, eppure incancellabili; labbra, mani, occhi che baciarono, che toccarono, che videro; inesorabilmente, eternamente legati agli atomi sopravviventi alla memoria.
Entrando nella camera che fu di suo padre, Anna si arresta sulla soglia. La luna vi batte in pieno e il raggio che attraversa il posto dove soleva stare Gentile Lamberti è di una intensità così palpitante che Anna vi immerge gli sguardi, affascinata.
— Oh! anima, anima! — mormorò religiosamente, avanzandosi con un passo cauto, quasi temesse di interrompere un altissimo mistero. E il silenzio era profondo, poichè la notte incombeva nel suo maggior incanto e neppure lontanamente si udiva alito di vita. — Padre mio! — disse ancora Anna, come se qualcuno potesse intenderla, movendo verso quel raggio di luna, aspirandolo col cuore dilatato e colle labbra aperte. — Io soccombo! — disse ancora questo, lasciandosi cadere con tutto il corpo sullo scrittoio di suo padre, i gomiti appoggiati innanzi e la testa fra le mani.
Il raggio di luna la accolse, la investì tutta, il bel volto addolorato, le belle membra stanche nell'abito bianco; tutta la persona investì dalla testa al lembo estremo, fluido al pari di una carezza, vivo; ed Anna si pose a singhiozzare dolcemente come se l'esile mano di suo padre le stesse ancora sopra, tenera e scottante nel palmo; come se i suoi occhi buoni la stessero a riguardare e la sua voce uscisse calma e profonda a pronunciare parole gravi vestite di mitezza.
Il terribile male di cui soffriva, che le era fino allora rimasto ignoto, traboccò in quell'ora di supremo abbandono. Anna vide chiaro nel proprio cuore. Amava Flavio. Sollevò la fronte con lentezza, quasi arrossendo, nuova alla gran passione. Davanti a lei, sulla parete illuminata dalla luna, il ritratto di sua madre le apparve ad un tratto muto e senza sguardo. Oh! quella posa addolorata, umile, quasi implorante da tanti anni l'oblio, quella posa di anima chiusa e piagata, là, in quell'ora, in quel grande travaglio d'ogni suo sentimento, mentre nessuno la sorreggeva, nessuno la consigliava, oh! quelle pupille materne chinate davanti alle sue.
················
— Perdòno, perdòno, madre mia!
Anna si trovò in ginocchio davanti al ritratto, penetrata da una così forte commozione che il petto le si schiantava fra le lagrime. Tutto scioglievasi in lei; fierezza, sdegno, odio; scioglievasi con lentezza, dolorando, ferendo carni vive che resistevano, asportando dalle intime viscere brani che si staccavano sanguinando, che non si sarebbero ricongiunti mai più all'insieme del suo essere, che dovevano sanarla, purificarla attraverso quel grande spasimo d'amore, poichè ora sapeva che cosa vuol dire amore.
Pensare che non aveva mai amata sua madre! che le era sfuggito completamente il mistero di quella esistenza dove pure si erano agitate, come nella sua, oscure battaglie, dolori ignoti, sacrifici che ella non poteva nè comprendere nè giudicare, che solo esigevano da lei un severo rispetto. E le sofferenze degli ultimi anni! la lunga, ascosa, torturante agonia dell'abbandono.... e il rimorso...., e il lento disfarsi della persona illanguidita! Chiudendo le pupille la vedeva ancora, attraverso vent'anni di sepolcro, aggirarsi per la casa, pallida, sottile, evanescente, il volto scolorito, il sorriso privo di luce.... e quegli occhi, quegli occhi senza sguardo!
Sempre in ginocchio, andava scrutando sul ritratto il volto di sua madre. Come era melanconica la fronte! Quale dubbio angoscioso le palpebre abbassate gettavano sulla guancia rigata da un solco! Povera madre! Le pareti sapevano, tutta la casa sapeva. Oh!... Balzò in piedi. Tutta la casa sapeva.
Si guardò attorno tremando, presa da un brivido sacro. La lampada silenziosa della luna rischiarava ogni oggetto lasciando poco spazio alle ombre che si addossavano mollemente negli angoli proteggendo il mistero, ricacciandolo nel vano degli usci spalancati sopra le tenebre delle altre stanze dove l'astro non penetrava, dove era il respiro invisibile del passato.
Un pensiero nuovo attraversò la mente di Anna. Forse anche suo padre sapeva. Il cuore le si strinse per ineffabile strazio. Come avrebbe voluto che qualcuno potesse risponderle! Ma il silenzio sembrava esso rispondere, quel silenzio calmo e solenne delle cose morte, più potente di qualsiasi parola. Il silenzio di suo padre e di sua madre era ancora in quelle pareti, in quei mobili, in quegli specchi che avevano riflesso ogni movimento dei loro volti, in quei ritratti che dei loro volti perpetuavano la linea e l'espressione e che tacevano. Il silenzio era nell'aria, era nella luce, era in quella luna immobile affacciata alla cornice del cielo e muta.
— Parlate! — disse Anna alle tenebre raccolte negli angoli, vanenti nel corridoio, inseguendole per il lungo andito colle braccia tese, sentendole cedere e dileguarsi in una tacita fuga di fantasmi. Il suo passo stesso, il suo leggero passo non destava alcun rumore nella casa che a tutte le angoscie, a tutti i sospiri di Anna sembrava ripetere: “Silenzio!„
E al di là della casa, oltre gli orti, nella massa degli edifici che formavano la gran città dormente sotto il raggio della luna, quanti drammi occulti si svolgevano angosciosamente in silenzio perchè così vuole l'oscuro segreto della vita!
Anna cedette, affranta. I discorsi che Gentile Lamberti aveva tenuti alla figlia prediletta sulla elevazione dei sentimenti, sulla loro applicazione alle energie superiori, le tornavano in mente con una precisione che nello stato d'animo in cui si trovava doveva necessariamente assumere il carattere di un misterioso avvertimento. Appunto perchè ella era la figlia le spettava esclusivamente l'obbligo di continuare l'opera. E perchè quest'opera le appariva nè grata nè gioconda doveva rinnegarla? Le aveva egli mai parlato di ebbrezza raggiante, di appagamenti compiuti, o non era invece stata tutta la sua vita una predicazione di sprezzo per ciò che i volgari chiamano felicità? Non era ella stessa penetrata, convinta di queste dottrine? Non le erano sembrate ammirabili quando le sue passioni non si trovavano in giuoco, quando cioè non aveva alcun merito a professarle? E doveva nelle sue mani frangersi la intatta tradizione dei Lamberti? Doveva proprio lei venir meno al còmpito? Perchè un'onda impura si era a tradimento mischiata al nobile lignaggio, doveva ella lasciarsi sopraffare da quell'onda, divenire a sua volta impura e volgare? Non sarebbe stata questa la vittoria del nemico? l'orgoglio e l'amore la dominavano; ma quale conquista più degna del suo orgoglio, quale sacrificio più degno del suo amore che il trionfo assoluto d'ogni risentimento personale per la casa, per il nome, per la grande memoria di Gentile Lamberti? Non è ciò che le chiedevano le vecchie mura, le ombre, e suo padre e sua madre, a lei, Anna, a lei?...
E lei stessa, quando dinanzi alla propria coscienza si era assunta la responsabilità di aprire la lettera diretta a sua madre, non ne aveva accettate tutte le conseguenze, qualunque esse fossero? Era ben stata allora superiore alle convenzioni; bisognava ora essere superiore agli avvenimenti. A che servirebbe nascere forti tra i deboli, generosi tra i vili, se quei medesimi ostacoli che fanno cadere gli altri dovessero abbatterci, se misurandoci nella lotta disperata per la vita non ci fosse dato di poter sollevare la fronte al di sopra di essi?
Anna fissò ancora intensamente il gruppo delle tenebre, non più tremando questa volta, ma quasi in attitudine di sfida, aperte le pupille e sbarrate come se fra quelle ombre famigliari la temuta ombra dello Sconosciuto volesse tentarla. E si sentì grande, si sentì forte. Eretto il capo nell'immobile raggio lunare, ella ascoltò palpitare in sè stessa la rinata anima di Gentile Lamberti.
Una dolcezza somma la invase, la penetrò. Le parve che morbide braccia la cingessero cercandole il cuore con una tenerezza immateriale. Ricordava ella mai un abbraccio di sua madre? Così doveva essere l'abbraccio di una madre. Lagrime soavi, ristoratrici, le bagnavano le palpebre. Anna le sentiva, prima calde, raffreddarsi a poco a poco sulle guancie. Una impressione di freschezza la prese pure lentamente alle spalle. Guardò verso il terrazzo; la luna era scomparsa. Varcò la soglia e sull'ultimo lembo di cielo le apparve l'aurora.
In quel momento si udì chiamare per nome. Era Flavio.
— Salva! — esclamò Anna appena la vide.
Il giovine venne a raggiungerla sul terrazzo, già pallido per la notte insonne, reso più pallido dalla commozione.
— Ha sempre riposato — soggiunse Anna. — È senza febbre. È salva.
Il volto del giovine intanto passava per tutte le gradazioni del color roseo.
— Come l'ama! — pensò Anna.
Sedette sul muricciuolo perchè si sentiva immensamente stanca. Ma anche Flavio la osservava, colpito dalla espressione di patimento visibile in tutta la persona di lei, quel misterioso patimento che gliela rendeva così profondamente cara, che già da qualche tempo la minava ma che appariva allora raddoppiato.
— Soffre? — chiese con uno sguardo intenso di tenerezza, mettendosele quasi ai ginocchi nell'attitudine intima ed implorante di quando era fanciullo.
Anna scosse il capo dolcemente senza rispondere. Guardava al di là degli orti la linea del cielo che si andava imporporando.
— Non ha dormito questa notte?
Nuovo cenno negativo.
— Come tutto contribuisce ad unirci, le gioie e i dolori! Io vegliando pensavo a lei che vegliava.
Anna gl'immerse gli occhi negli occhi. Era vero. L'aveva amata prima, amava l'anima sua. Era lei che amava in Elvira.
Flavio, ingannandosi sull'ostinato silenzio di Anna, le chiese turbato:
— Non mi crede?
— Oh! Flavio.
La traboccante dolcezza ch'ella pose nel pronunciare il di lui nome diede ardire al giovane.
— Io lo credo che lei mi vuol bene. Questo affetto fu il raggio della mia triste adolescenza, fu ed è la fede della mia giovinezza. Ignoro che cosa sarei diventato senza di lei. So che lontano da lei non potrei vivere.
Quale delizia e quale malinconia insieme a udirlo parlare così! Non erano sentimenti nuovi che egli le esprimeva, ma ripetuti in quell'ora mistica del giorno che sorgeva, nella pace solenne della casa ancora addormentata, mentre si trovavano soli, forse soli per l'ultima volta, era un tale soavissimo strazio per Anna che tutte le sue fibre ne tremavano. Stettero per un po' di tempo muti, mentre intorno a loro si destava gradatamente la vita nelle fronde degli orti mosse dalla brezza mattutina, negli indistinti pigolii dei nidi, nel fruscìo occulto dei cespugli, nella luce che scialba dapprima si veniva man mano accendendo di colorazioni intense.
— Le vorrei dire una cosa, — disse Flavio.
Anna rispose precipitosamente:
— La so.
Flavio non parve sorpreso. Non c'era forse fra di loro una intima comunicazione, un accordo meraviglioso di sensazioni che rendeva superflua quasi sempre la parola? Con un ritorno ingenuo alla sua lontana infanzia egli appoggiò la fronte sui ginocchi di Anna mormorando:
— Saremo vicini sempre.
Anna rimosse delicatamente dai suoi ginocchi la fronte di Flavio, sollevandosi per metà dal muricciuolo e mostrandosi intenta allo spettacolo meraviglioso del sole nascente. Tutto sfolgorava oramai; i tetti, gli alberi, i vetri delle finestre, i muri bianchi del convento, le punte metalliche dei parafulmini. Le campane scioglievano in larghe onde i loro concenti: alcune finestre si aprivano. Anche il terrazzino del vecchio scettico si aperse ricevendo i primi raggi del sole. Che divina cosa la vita! Respirare, muoversi, ammirare, adorare, darsi, slanciarsi tutti interi e appassionatamente verso la invisibile forza che ci attira in alto!
Per una di quelle misteriose intuizioni che hanno le persone estremamente sensibili, Flavio si trovò avvolto nella commozione della sua amica; la parola “amore„ non presentavasi alla sua mente, ma l'intima essenza dell'amore vibrò in tutto il suo essere ed egli ebbe un fremito simile a quello del viatore che pur senza vederlo sente la presenza dell'abisso.
— Sorella mia! — disse prendendo una mano di Anna con tale rispettosa dolcezza che parve a lei si compisse un rito solenne. Ella assentì, religiosamente, voltata ancora la testa a guardare l'orizzonte in modo che Flavio ne scorgeva la linea del profilo purissima sullo sfondo del cielo, rinnovantegli la sensazione di ansia dolce e tormentosa, come di bene inafferrabile, che aveva provato tante volte accanto a quella donna.
Poi Anna si chinò sul muricciuolo del terrazzo dove un piccolo fiore spuntava tra le connessure delle pietre e spingendosi nel vuoto tentava afferrarlo.
— Che fa? — disse Flavio con impeto, ritraendola dal pericolo. — Vede bene che non si può.
— È vero, — soggiunse Anna a voce bassissima, — non si può.
I loro occhi tornarono ad incontrarsi profondi ed acuti. L'ineluttabile destino che li aveva guidati a quel punto, così vicini, eppure non congiunti, li circondava di una misteriosa malinconia dove era quasi come un profumo d'orto chiuso in cui languissero delle rose non côlte, e poichè lo stesso pensiero li dominava entrambi, palpitante ed oscuro, Flavio si fece col volto presso al volto della sua amica a ciò minor quantità d'aria possibile frastornasse il suono della sua voce:
— Non mi ha ancor detto se mi approva.
Le palpebre di Anna sbatterono un attimo sopra le sue pupille stanche. Flavio che la osservava vide farsi più cupe le piccole rughe che le circondavano l'occhio.
— Ho bisogno che il suo cuore sia con me — insistette Flavio.
Anna tese le mani istintivamente verso la casa come in un appello supremo e rivide le larve, abbracciò in un punto solo passato ed avvenire, quello che era e quello che doveva essere. Non aveva egli ragione? Non era egli nella natura e nella verità? Tutto il resto doveva perire.
Flavio, attento alle gradazioni del di lei pensiero, susurrò tremando:
— Ebbene?
Anna non guardò lui. Altri volti, altri occhi la attiravano nell'ombra. Un sospiro appena uscì dalle sue labbra:
— Sia!
Non aggiunsero altro.
L'avvenimento decisivo delle loro vite si compiva così nella semplicità austera dei loro cuori, pronubo il segreto che la vecchia casa chiudeva nelle mura profonde e di cui Anna erasi fatta la pia vestale.
Sulla soglia del terrazzo intanto la suora appariva, calma e sorridente sotto le bianche ali della benda verginale, annunciando lo svegliarsi di Elvira.
FINE.
Opere di NEERA
(Edizioni Treves).
L'Indomani . In-8, con 27 disegni di U. Valeri e copertina a colori L. 5 —
Crevalcore , romanzo 7 —
Una passione , romanzo 3 50
La vecchia casa , romanzo. Ediz. bijou 7 —
Duello d'anime , romanzo 8 —
Rogo d'amore , romanzo 7 —
Crepuscoli di libertà , romanzo 7 —
La sottana del diavolo , novelle 7 50
Vecchie catene , romanzo. Con la biografia dell'autrice 3 50
Il romanzo della fortuna 5 —
Le idee di una donna 4 —