UNA GIOVINEZZA DEL SECOLO XIX

1877 NEERA

UNA GIOVINEZZA DEL SECOLO XIX

Che gran dono è il sentire!

È l'aver Dio in sè.

( Dalle lettere di mio Padre

a mia Madre )

PREFAZIONE DI BENEDETTO CROCE

MILANO Casa Editrice L. F. Cogliati 1919

INDICE

Prefazione

Il pregio, in cui ho sempre tenuto gli scritti di Neera, non ha trovato, a dir vero, generale consenso nel nostro mondo letterario, dove a questa scrittrice gentile, austera e nobilissima si assegna di solito un posto assai inferiore al merito. Di ciò intendo bene la ragione.

C'è nello scrivere, e in generale nell'esprimere il proprio sentire, un momento in cui lo spirito si pone come sopra del sentire stesso, e lo ferma e chiude in linee sicure e sobrie, quelle che debbono essere e non altre, godendo di questa sua potenza e facendo di essa godere il lettore e contemplatore. È il momento proprio dell'arte e della divina poesia, in cui si unifica l'individuo col tutto, il dramma particolare e transeunte col dramma eterno del mondo.

A questo momento non tutti gli scrittori, e quasi non mai le scrittrici, giungono appieno, o, giunti, vi si tengono con saldezza; e talvolta quasi si direbbe che ciò avvenga per effetto della stessa gagliardia di altre loro forze interiori, onde, tutto intenti ad enunciare il concetto e il sentimento che urge nel loro animo, e guardando al centro e al motivo fondamentale di esso, trascorrono sui particolari, si accontentano del press'a poco, accettano espressioni generiche e disegnano figure convenzionali. "Mi si rimprovera (mi diceva un giorno Neera ) che non scrivo bene, che pel pensiero trascuro la forma. Da che dipende? Da mancanza di studî giovanili? Come dovrei fare per correggermi?". Ed io le rispondeva: "Non si tratta di tecnica dello scrivere, di grammatica e di lessico; si tratta di atteggiamenti dell'animo". Ed ora ella stessa, in queste memorie autobiografiche (pp. 205-6), con la consueta intelligenza e schiettezza, definisce quale fosse veramente la manchevolezza che era in lei, e richiama un detto di suo padre, il quale, un giorno che ella cantava da sola, la ammonì: "Tu non ti ascolti quando canti: prova ad ascoltarti". "Mi veniva infatti (ella soggiunge) di cantare nello stesso modo che scrivevo, badando al pensiero e non alla forma. Le romanze più sentimentali i duetti più amorosi erano tutto ciò che comprendevo in materia di musica, e quando avevo messo tutta la mia passione nella frase: Ah! forse è lui che l'anima solinga nei tumulti, mi pareva che neanche la Patti avrebbe potuto far meglio. C'era poi quel Lui anonimo che andava subito a posarsi sull'uno o sull'altro dei miei zufoli di stagno, ed allora addio musica! Mi colavano sul volto vere lacrime". Non si potrebbe più esattamente qualificare l'arte che direi femminile, nella sua mollezza e nel suo incanto.

Ma, in compenso, quanta abbondanza di pensieri e di affetti nei libri di Neera! A lei bastava aprire le chiuse dell'anima perchè ne prorompesse un'onda copiosa e calda, che non s'inaridiva mai, non mai aveva bisogno di essere artificialmente eccitata, e, meno che mai, simulata con espedienti e industrie letterarie. Sentiva e meditava come respirava, e scriveva allo stesso modo, senza sforzo. Quando considero le lambiccature che nel mondo letterario passano per cose squisite; le lussurie di sensazioni e d'immagini che si credono prove di ricchezza e sono invece d'interiore povertà, di povertà sostanziale; le lodate raffinatezze e smancerie di ultrasensibilità, che sono rozzezze da gente molto pettinata e profumata, ma priva di gentile costume e ignara di meno superficiali eleganze; l'ironia di cattiva lega e la falsa superiorità con le quali si tenta di fingere l'umanità che manca, l'umanità che è l'unica superiorità dell'uomo; non so frenare un moto di sdegno nel veder tenuto in poco conto, e spregiate come "borghesi", la solidità della mente, la dirittura del giudizio, l'accorata e grave osservazione sociale, il rispetto alle eterne leggi del reale, la semplicità del vivere e del godere e del soffrire, la casta nudità della parola. E mi piace di chiedere e di ottenere la parte mia in quel dispregio che onora, e di sentirmi "borghese" nella buona compagnia di molti e grandi scrittori borghesi, e in quella della mia vecchia e venerata amica Neera.

Nella quale due tratti erano, che voglio notare fra gli altri, perchè sono di quelli che più mi hanno legato a lei. Primo l'amore per la vita, e non già pei diletti e le voluttà che essa talora largisce, ma per la vita nella sua interezza, come vivere e morire, gioire e soffrire, amare ed aborrire, sognare e risvegliarsi, per la vita sublime ed umile, ampia e ristretta, per la piccola ed immensa vita di ciascuno di noi che, così com'è, è fonte inesausta di palpiti, di meditazioni, di ricordi, di tenerezze, di amarezze pur dolci, e che l'uomo forte ed armonico accoglie e fa oggetto di culto come la divinità, la vera e sola divinità, sempre presente. È questo il buono e sano, sebbene inconscio e non teorizzato, "misticismo" di Neera, che ella celebrava col bramoso profondarsi in se stessa, col trovarsi sempre benissimo da sola, non essendosi (come dice) mai annoiata in vita sua "se non in compagnia d'altre persone". L'altro tratto era la costante tendenza ad abolire ogni dualismo di materia e spirito, corpo ed anima, senso e ragione; e anche qui non già con l'abbassare lo spirito, l'anima e la ragione a materia, corpo e senso, ma piuttosto con l'elevare questi a quelli, e idealizzarli in quelli, e, in realtà, con la coscienza, che era in lei vigorosa, dell'unità reale. Così piena di sentimenti e di sogni, Neera non fu "sentimentale"; così alta nel discernimento morale, non fu moralista rigida e disumana; così pura nei suoi affetti, non fu asceta. Le sue difese di quel che altri vorrebbe allontanare come sensualità, di ciò che si vorrebbe reprimere come irruenza di passione e di volontà, di ciò che si considera come egoismo dello scienziato e dell'artista, e simili, sono quanto coraggiose altrettanto vere; e in esse, e in quella sua accettazione della vita intera, la scrittrice femminile si dimostra pensatore virile.

Del resto, anche quel che abbiamo di sopra concesso ai censori letterati circa la forma del suo scrivere, s'intende concesso solo come osservazione generica, e non come giudizio che valga per tutte le parti dell'opera sua. Ella ci racconta in questa autobiografia, che tardi, messa sull'avviso da critici ai quali protesta la sua gratitudine, comprese "quanta forza l'aggiustatezza del periodo e la scelta della parola aggiungano all'idea", e venne al punto di prendere un vero diletto nel vagliare i vocaboli e di sentirsi "quasi felice nello scoprirne uno nuovo", e nel cercare "la frase giusta, la frase unica". Ma in tutti i suoi volumi, anche nei suoi più vecchi, e in quest'ultimo scritto sul letto dei suoi tormenti, con la mano sinistra, avvinto il braccio destro da atroce male, vi sono pagine sgorganti di vena, fresche, limpide, musicali, nelle quali assai poco è dato desiderare. Io non ne dirò altro e non ne recherò esempi, perchè i lettori ne incontreranno subito, nel volgere le carte di questa prefazione e imprendere la lettura del volume.

Napoli, 2 luglio 1919.

BENEDETTO CROCE.

Una giovinezza del secolo XIX

Prologo

13 Luglio 1917.

È l'alba. La suora di guardia entrando col suo passo leggero dischiude le finestre della mia camera. Sul rettangolo della finestra, che costeggia il letto, si disegna un cantuccio del mio terrazzo e nel biancore perlaceo delle prime luci il roseo dischiudersi di un oleandro accende piccoli punti di luce più viva. Tutte le mattine io ho questo angoscioso risveglio dell'anima sana e vibrante, che si riaffaccia al giornaliero supplizio di trovarsi legata a un corpo infermo. Dai sogni della notte sempre pieni di immagini leggiadre, di movimento, di vita, passo senza transazione, con un semplice dischiudersi delle palpebre, a questo atroce stato di immobilità, che dura già da quindici mesi e che sarebbe paragonabile a un torpido vegetare di pianta, se non fosse aggravato da spasmodiche sofferenze.

Il terrazzo, che dal mio letto vedo appena di scorcio, rappresenta il desiderio di molti anni trasformato in una crudele ironia. Molti anni desiderai questo asilo di pace al disopra del brulichio della città, aperto sotto il cielo, diviso dagli uomini per tutti gli arbusti e i fiori che avrei saputo radunarvi, prodigando le mie ultime attività al misterioso germogliare della terra che suole attirare chi è prossimo a entrarvi per sempre. Ma non appena in possesso di questo modesto desiderio un male, che nessuna scienza di medico sa guarire mi inchiodò, fra due materassi dai quali guardo il mio terrazzo, come Mosè guardava la terra promessa, senza potervi entrare.

Pure nell'alba di questo mattino, simile a tutti gli altri da quindici mesi, un improvviso senso di dolcezza, quasi tenero alitare di gioie perdute, ecco si impossessa improvvisamente di me in una rapida ebbrezza del senso che subito dilaga al cuore. Che è questo profumo che mi viene incontro dagli obliati sentieri della mia infanzia, della mia giovinezza? Profumo di orti lontani, di piccoli verzieri sepolti nell'ombra di una fitta vegetazione, un po' umidi, dolcemente romantici? È la maggiorana colla sua canzone « Stella Diana quante foglie ha la vostra maggiorana? » È il timo? « Timo t'amo; di giorno ti vedo, di notte ti bramo? » È la santoreggia dall'odore acuto, ornamento dei davanzali contadineschi? È la selvatica menta cara agli amori dei gatti in fondo ai giardini abbandonati?

Oh! profumi lontani, profumi dei miei giovani anni, io vi affidai alla terra colla nostalgica fedeltà della mia anima provinciale, e voi mi ritornate in quest'alba serena col richiamo misterioso del villaggio nativo che fa voltare indietro il pellegrino giunto alla fine del sentiero. Mi tendo per quanto lo consentono le membra indolorite, verso il terrazzo aspirando la brezza che me ne trasporta gli aromi, inghiottendola con un gusto di ambrosia. E sono felice! Si, per un istante, guardo in volto questa indescrivibile cosa: la felicità.

················

Il cielo si colora a poco a poco, gli uccelli incominciano a pispigliare, tubano i colombi nell'abbaino sopra il tetto; tra non molto la campanella medioevale del palazzo Bagatti-Valsecchi farà sentire i flebili rintocchi che un tempo chiamavano i fraticelli a mattutino. La suora credendomi addormentata rinchiude delicatamente vetri e imposte. Io continuo al buio il viaggio retrospettivo delle mie memorie.

Non ho mai avuto l'abitudine di tenere un giornale. Dando vita ai tanti personaggi della mia fantasia non pensavo a scrivere di me per me; molto meno per il pubblico. Tuttavia, qualche volta, rievocando la mia giovinezza, la trovavo così diversa da quella delle fanciulle d'oggi, che mi avveniva di riguardarla non più come cosa mia, ma come buon soggetto di romanzo psicologico cambiando nomi, luoghi, fatti. E però neanche questo miscuglio di vero e di falso mi accontentava, perchè il solo pregio di un libro vissuto, soggiungo, la sua sola ragione di essere, è l'assoluta sincerità. In caso contrario, avviene come per i romanzi storici, che non sono nè romanzo nè storia. È ben vero che noi italiani abbiamo in tal genere un capolavoro, ma io non mi chiamo Manzoni e i capolavori non sono affar mio.

Parlavo una volta di questa tentazione delle memorie con Gustavo Botta, e chi lo conosce può dire se per ingegno, per coltura, per specialissimo senso critico fosse facile trovare un interlocutore più idoneo al consiglio. Manifestandogli le mie titubanze conclusi con una ragione che mi parve la più convincente di tutte: essere cioè la mia vita così spoglia di avvenimenti di rilievo che non avrei saputo da qual parte rifarmi per darle un qualsiasi interesse.

Gustavo Botta rispose: La storia di un'anima è sempre interessante e per quanto ella sia modesta vorrà credersi meno interessante della sua Teresa?

Lì per lì la ragione mi parve buona. Se Teresa, che è la più umile fra le eroine dei miei romanzi, ottenne forse il maggiore successo, potevo scendere in lizza anch'io con qualche speranza. Ci pensai un giorno o due, poi il tempo passò e non ne feci nulla.

È il concorso di diverse circostanze che fa ora risorgere la tentazione. In primo luogo l'infermità, la quale, privandomi d'ogni forma di vita e spezzando i miei legami col mondo, mi rigetta più che mai nella attività interiore, che fu veramente il perno di tutta la mia esistenza, parte per temperamento, parte in forza delle cose. Che può mai fare una disgraziata prigioniera di se stessa, se non rigirarsi nel breve spazio della catena che la configge al letto? Ma questo lavoro da Sisifo, questo inutile rotolare di pensieri nella gora morta del rimpianto, non ha nulla di comune col soffio creatore che mi investì nell'alba di stamane. Io non sono più oggi quella di ieri, la grazia è discesa sul mio capo. Non penso più se devo scrivere per me o per il pubblico, non domando consiglio agli amici. Ascolto la voce della mia zia Margherita nella canzone delle erbe odorose, rivedo il suo sorriso sarcastico e la sua nera pupilla simile a un granello di pepe sciolto in una lagrima di pietà. Intorno a questa singolare figura di donna sorgono tutti i fantasmi del passato; io li sento agitarsi e correre a nuova vita nel mio cervello. Il dio ignoto mi investe, mi domina, mi prende in servitù d'amore. Obbedisco.

Che cosa riescirà questo libro nato da un profumo non so, non voglio saperlo.

"Quanti da lieve oggetto escon talora

dolci pensieri all'anima!"

E che sia un profumo, un suono, una combinazione di colori che importa? Non sempre si può sapere donde un pensiero prende vita, ma quando il nucleo misterioso del movimento è formato resta in pari tempo acquisito il suo diritto a vivere.

Qui il lettore pensa: Poichè Neera ha già dichiarato che i suoi ricordi sono privi di rivelazioni importanti, fatti o avventure che possano interessare il pubblico non parlerà che di se stessa; dunque un libro egoista e noioso.

Piego il capo al noioso e confermo l'egoista. Ma che vuol dire egoista? Se si considera che ognuno di noi fa, potendo, esattamente quello che vuole, cioè quanto gli consentono i suoi mezzi il suo temperamento e il suo desiderio, dobbiamo riconoscere che l'uomo dal portafogli sempre aperto alle miserie del prossimo, la signora che occupa il suo tempo a scendere e salire le scale del povero, a soccorrere l'ammalato, sono altruisti nel senso che la natura del loro soddisfacimento assume direttamente la forma del bene che procura agli altri; ma non lo sono più dell'artista, del poeta, del pensatore, i quali vuotano la propria anima, dando ad altre, che ne mancano, il beneficio del calore, della luce e dove quelli profondono denaro, pazienza, operosità, questi nella solitudine della meditazione, nella intensità del sentire, nella divina sofferenza del pensiero struggono i propri nervi e il proprio sangue. Pensiamo che milioni di uomini conducono una esistenza al di sopra del bruto solo perchè poche centinaia di grandi anime agitano continuamente dinanzi a loro la fiaccola dell'ideale. Oh! i santi egoisti!

Il volo mi ha portata lontana; io volevo dire appena che non mi sembra conforme al vero la taccia di egoismo fatta ad uno scrittore che parla in persona prima. A ben riguardare è questa la forma d'arte più sincera di tutte quando lo scrittore è sincero; il resto è maschera, finzione, artificio. Chiunque sieno i personaggi inventati o resuscitati, essi non sono che teste di paglia incaricate di presentare al pubblico le opinioni e i sentimenti dell'autore. Ma quando egli ha pianto lagrime proprie, quando ha amato e odiato, e toccate le altezze serene della fede e sceso gli scabri burroni del dubbio, pungendosi ai rovi ed alle pietre, oh! non dubitate, il suo cuore è simile al cuore di tutti gli uomini, e parlando di sè sveglierà un'eco nel cuore di tutti.

Dice Anatole France che non si può essere interamente sinceri senza essere un poco noiosi, ma non gli manca la speranza che parlando del suo Io quelli che lo ascoltano non penseranno che a se stessi. Tutti i ricordi, le confessioni, le meditazioni onestamente soggettive, mentre sono nate dal bisogno di esprimere un certo Io, riescono appunto per l'intensità della propria commozione a comunicare cogli altri uomini o, quanto mai, con gruppi e categorie sociali più interessanti di una vaga e generica umanità. Così, conclude un altro pensatore, i libri autobiografici, colla forza espressiva delle cose individualmente vissute, illuminano circoli di vite più ampie, danno la voce a più vaste ansie che non sanno parlare. Documentano insomma.

È vero che Taine chiama l'Io detestabile, ma per Gian Paolo Richter l'Io è ciò che la lingua può esprimere di più alto e di più comprensivo, essendo ogni Io una personalità che significa una individualità spirituale. Fra l'affermazione di Taine e quella di Richter sta di mezzo un equivoco subito spiegato dalla parola spirituale. E del resto il grande istoriografo della Francia non è andato a cercare le origini alle memorie e ai documenti più oscuri?

E sarò io tanto ingrata da dimenticare l'argomento più persuasivo, l'amore de' miei lettori? Tra le soddisfazioni più vive della mia carriera letteraria devo pure annoverare la larga onda di simpatia che mi venne, non dalla critica ufficiale, ma dal mondo ignorato invisibile e lontano delle anime che mi amarono attraverso l'anima mia.

Sapere che qualcuno dei miei libri ha asciugato delle vere lagrime e qualche altro diede ala di fede a coscienze turbate, è tale profonda contentezza da giustificare l'opera e compensarla al di là di ogni speranza. Ricordo con particolare commozione la preghiera di una madre, la cui unica figlia consunta da mal sottile non trovava altro oblio de' suoi dolori che nella corrispondenza del mio spirito, e la madre, troppo povera per acquistare i miei volumi, me li chiedeva come si chiede il pane. E un giovane, perfettamente sconosciuto, dopo aver letto Senio in una crisi particolare del suo cuore, mi scrisse ringraziandomi del bene che gli aveva fatto quella lettura salvandolo da un cattivo passo che stava per compiere.

Ora Senio è un romanzo mediocrissimo, del primo periodo della mia produzione, quando l'idea e la forma non si erano ancora concretate in sostanza d'arte, e la fanciulla che alleviava il suo male nella comunione col mio pensiero non era probabilmente un genio, ma ho scelto a bella posta questi due esempi fra i più umili, perchè da essi si avvalora la mia tesi, che molta luce può venire alle anime quando un'anima si apre alle sue sorelle.

Ai nostri giorni è poco probabile avvenga ciò che si narra di una città della Tracia, la quale da corrottissima e abbietta come era tutta quanta si convertì per un verso di Euripide che cantava le glorie d'amore; tuttavia ognuno di noi ricorderà i momenti e le ore di vera gioia passate sulle pagine dell'autore prediletto, vale a dire colui che ha maggiori affinità colla nostra psiche, che meglio intende le nostre passioni e i nostri dolori. Vi è qualcuno, che leggendo quel mirabile canto d'amore che è la Nuit d'octobre del De Musset, rivive talmente se stesso, da sentire cadere sul proprio cuore i conforti della Musa al Poeta; ripetere quei versi in certi momenti è aver vicino un fratello, è posare la fronte su un cuore che ci comprende. E vi è chi in alcune pagine delle Confessioni di S. Agostino si trova portato in alto dal profondo senso di umanità che vi domina, quasi preso per mano dal grande santo, che conosceva così bene le passioni degli uomini, e guidato da lui verso sentieri di perfezione.

In seguito a simili esempi è arduo ritornare al mio modesto Io e tuttavia non mi sento sbigottita. Penso quante volte i miei buoni lettori desiderarono conoscermi, e quante volte mi chiesero dove sono nata e chi mi istruì e come mi venne l'idea di scrivere e tante altre cose. Ebbene, eccomi sono qui! Molti, purtroppo, troveranno una Neera diversa da quella, che il bel nome classico e la loro stessa fantasia, potrebbe aver suscitato; nè di tale disappunto mi vorrò soverchiamente dolere, perchè nella mia ansiosa ricerca del vero preferisco essere conosciuta come sono, anzichè avvantaggiarmi di meriti che non ho.

Chiarite così le intenzioni di questo libro che sarà l'ultimo mio e quasi una specie di commiato, rammento a' miei lettori con malinconica rassegnazione che lo scrivo penosamente dal letto, servendomi di una matita guidata dalla mano sinistra, avendo la destra inferma, condizione forse unica fra tante Memorie che furono scritte.

Dedico queste pagine d'amore e di dolore a tutti coloro che mi hanno amata nella vita o nell'arte, un'ora, un giorno o sempre; ai miei morti diletti; ai vivi che mi amano ancora e che mi circondano dalle loro cure, ai lontani che non mi sarà più dato di rivedere; a coloro che non vidi mai e che mi amarono nei miei scritti, infine a coloro che mi ameranno quando non sarò più. Lasciatemi quest'ultima illusione, cara fra tutte, di credere che nei tempi che verranno, qualche solitario, qualche ingenuo sentimentale, qualche innamorato (se ve ne saranno ancora) trovando sulle bancarelle delle fiere uno sciupato volume di Anima sola o di Teresa, dell' Indomani o di Vecchia casa, di Duello d'anime o di Rogo d'amore sarà tentato di leggere questo autore sconosciuto e, forse, lo amerà per la misteriosa corrispondenza delle anime che sopravvivono alla distruzione della materia e si incontrano nel tempo e nello spazio. Lasciate che io ripeta il motto ultimo di Giovanni dalle Bande Nere: « Amatemi quando sarò morta ».

Parte Prima

Viaggi, specialmente negli ultimi vent'anni della mia vita, ne feci parecchi tanto in Italia che all'estero, ma nessuno fu romantico e pittoresco come il primo, che compii a mia insaputa sotto il tabarro di mio zio Bona, attraverso i muriccioli di due o tre giardini, intanto che le palle dei fucili austriaci fischiavano intorno alla mia culla.

Erano le famose Cinque Giornate del quarantotto. Mio padre e mia madre abitavano in via Monte di Pietà la casa segnata ora col numero 9 di rimpetto al palazzo della attuale Cassa di Risparmio sulla cui area sorgeva allora il palazzo del Genio militare, al quale i cittadini avevano dato l'assalto, terminato felicemente coll'atto audace di Pasquale Sottocorno che diede fuoco alla porta, come è noto.

Molte volte, attraversando la contrada così signorilmente tranquilla dove sono nata, mi figuravo le lotte sanguinose di cui fu teatro in quei giorni e lo spavento di mia madre per quelle fucilate che le entravano in camera. Già ad una finestra della medesima casa era caduto ferito mortalmente l'Anfossi, patriota nizzardo, che armato di un fucile aveva tenuto testa alle scariche del palazzo del Genio. Fu allora che un fratello di mia madre, lo zio Bona, pensò di salvarmi nascondendomi sotto il suo tabarro e col piccolo fardello vivo sulle braccia scavalcando il muro del giardino, via per altri giardini consecutivi, mi portava in salvo dalla mia nonna, che abitava in quelle vicinanze.

Ed ancora molte volte, leggendo le lapidi che in via Monte di Pietà ricordano i nomi sacri alla patria di Federico Confalonieri, di Pellico, di Porro Lambertenghi, pensavo che avrebbe potuto trovar posto anche un ricordo per l'Anfossi e per il Sottocorno in quella via e in quel quartiere, che è tutto un documento prezioso per la storia del nostro risorgimento nazionale. Perchè senza uscire dal Monte di Pietà troviamo la casa dove andò sposa Clara Maffei e nella vicinissima via Manzoni quella dove morì e tra l'una e l'altra nella stretta, solitaria, antichissima via Andegari l'ultima dimora di Carlo Tenca, tutti uomini che devono far balzare di tenerezza e d'orgoglio il cuore di noi milanesi, e che possiamo riassumere chiudendo la breve elissi di questo quartiere eroico fermandoci reverenti dinanzi alla targa che alla estremità di esso fissa per i posteri col nome di Giuseppe Verdi una delle glorie più pure d'Italia, l'aedo canoro delle aspirazioni di un popolo.

Sono nata a Milano, ma i miei genitori non erano milanesi. Essi appartennero alla grande fiumana che dalla provincia accorre continuamente ad alimentare di sangue nuovo le arterie delle grandi città. Si erano incontrati, amati e, dopo qualche contrasto da parte della famiglia di mia madre che si credeva forse superiore per ampiezza di mezzi e parentele distinte, sposati; ma di quel primo soggiorno in via Monte di Pietà non ho altre memorie oltre la fuga attraverso i giardini narratami dallo zio Bona molti anni più tardi. Lo zio Bona si chiamava Bonaventura, ma essendovi due cugini dello stesso nome per cui avvenivano malintesi ed equivoci, mia madre aveva sciolta la questione affidando a suo fratello la prima parte del nome, Bona; a un cugino la seconda parte, Ventura; all'altro cugino il nome intero, Bonaventura. E furono contenti tutti e tre.

Nella piazzetta di S. Giuseppe c'è una casa, che ha la porta nell'angolo, che conta ora tre piani, ma che ne aveva allora solamente due; del soggiorno a quel secondo piano ho un vago barlume di ricordanza nel quale non si concreta nessun fatto.

La mia vita, la mia infanzia, la mia giovinezza fino ai vent'anni, si svolse tutta in una casa del Corso Vittorio Emanuele, in un appartamento affondato oltre due cortili, lungi dai rumori del Corso, colle finestre principali aperte sopra una sfilata di giardini in fondo ai quali si disegnava aerea sull'orizzonte la guglia maggiore del Duomo. Nei vent'anni colà trascorsi si decise tutto quanto il mio destino. Dall'andito di quella porta, che ora si vede tagliato a mezzo da una vetrata, ma che in quel tempo si prolungava come un canocchiale sullo sfondo verde degli alberi, entrarono i sogni, le illusioni, gli inganni dell'età prima e da quella porta uscirono le bare dei miei genitori.

Esiste ancora un dagherotipo dove sono ritratte tre giovani donne, mia madre e le sue sorelle, sedute in fila una accanto all'altra; sopra uno sgabello ai loro piedi si vede e non si vede una piccola forma, che potrebbe essere tanto un bambino quanto una bambina, insaccata in una lunga e larga pellegrina dalla quale esce in alto una testa rasata (era allora un'opinione per far crescere i capelli) e in basso due scarpette ineleganti colle calze a borzacchino. Mi hanno detto che sono io.

Infatti, ripensandomi a quegli anni, devo convenire che il dagherotipo non può avermi soverchiamente calunniata. A traverso le imperfezioni di quest'arte, che precedette di poco la fotografia, quel piccolo volto triste e pensieroso dovette proprio essere il mio; persino la positura, che mi ingobbisce contro i ginocchi delle persone che mi stanno a tergo, dà l'immagine perfetta della mia infanzia curva e depressa. Non ho che a guardare le bambine del giorno d'oggi accarezzate, vezzeggiate, infronzolite di trine e di nastri, ridenti e spensierate colle loro chiome date agli omeri sotto il breve ritegno di un nastro roseo o celeste, petulanti e felici, capricciose e felici udendo ripetere dai genitori anzitutto, e poi dagli altri, che sono belle, carine, intelligenti, per sentirmi ancora nelle ossa il freddo della mia infanzia e, riportando gli sguardi sul vecchio dagherotipo, provare l'impressione di affondarli in una gora morta piena di ombre.

Chiesi un giorno (non sono moltissimi anni) alla più giovane delle sorelle di mia madre, la dolce e sorridente zia Carolina: — Dimmi la verità, da piccola ero molto cattiva? — Oh! — rispose con un gran gesto d'affetto — eri tanto buona, tanto ubbidiente! — E allora perchè la mamma mi sgridava sempre? — Chinò la testa la mia dolce zia sospirando: — Poveretta, devi compatirla, si sentiva sempre così male! — È con un profondo senso di sollievo che posso scrivere oggi queste parole a spiegazione di un ingenuo sfogo infantile da me riprodotto in un tentativo, assai male riuscito, di autobiografia, e che alcuni critici presero alla lettera senza darsi la pena di interpretarne la psicologia. Fu certamente quell'ingenuo sfogo di un cuore, che si sente solo, il mio primo passo verso la consolazione. Ne ho perfetto ricordo; sento ancora l'impulso irresistibile, mi vedo in punta di piedi, colla matita alzata a scrivere sul legno di una gelosia «Ho nove anni, sono brutta, la mamma mi sgrida sempre». Era questo il grido spontaneo della mia infanzia senza baci, senza giuochi, priva di quelle blandizie che nei primi albori colorano di rosa ogni oggetto intorno. Probabilmente sarò stata povera di spirito e di intelligenza; è certo che non sentii mai vantare da nessuno la mia intelligenza e nessuno citò mai le mie arguzie. All'età in cui le altre bambine sono già conscie dei propri meriti ed hanno già maliziette o grazie di donna, io non ero che un povero bacherozzolo rinchiuso nel proprio guscio. Timida, seria, incapace, nè di fare, nè di comprendere uno scherzo, il giorno stesso, che affidai ad una gelosia quel famoso documento del mio essere, ero rimasta mortificata e inquieta perchè lo zio Cecco, altro fratello di mia madre, prendendomi il ganascino aveva detto: «Ah! biricchina, hai gli occhi tinti di carbone!» e, mentre protestavo la mia innocenza, egli rideva, rideva.

Erano dunque cause interne ed esterne che contribuivano a rendere poco lieta la mia infanzia; io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure una bimba della mia età, portata dal temperamento e dalle circostanze a ripiegarmi su me stessa; la mamma già delicata, resa sempre più debole dalle frequenti gravidanze, ridotta a quello stato di nervosismo e di irascibilità, a cui accennava la mia buona zia Carolina, e che ben conoscono le donne gracili quando hanno assolto il compito di conservatrici della specie in misura superiore alle loro forze. Ebbi la fortuna in questi ultimi giorni della mia vita di venire in possesso di una voluminosa corrispondenza famigliare, che ha rischiarato molti punti oscuri dei miei ricordi mettendomi in presenza di persone morte prima che io nascessi, di altre intese appena a nominare, di altre amatissime e perdute. Attingendo a questa fonte genuina conobbi mia madre meglio che nei pochi anni vissuti insieme.

Ecco, dapprima, le letterine eleganti su foglietti arabescati che dal collegio scriveva alla madre in occasione del di lei onomastico; lettere tenere e rispettose, dove il pronome in terza persona è rigorosamente conservato; poi quelle alle sorelline, riboccanti d'affetto; infine la corrispondenza con mio padre durante il lungo periodo del fidanzamento, inutilmente contrastato da invidiosi e da maligni (queste lettere sono tra le più pure che mai amanti si sieno ricambiate); finchè dalla ritenutezza della fanciulla si giunge alla frase appassionata della sposa felice, che nelle brevi assenze di lui trova vuoto il mondo. È durante una di queste assenze, che mi vedo ricordata per la prima volta con queste parole che non dovevo mai udire dalle sue labbra «l'angioletto nostro, la nostra adorata bambina». Ma allora io ero ancora presso la nutrice e lei nella pienezza della gioventù.

Sul cielo grigio e nuvoloso delle mie più antiche memorie si apre uno sprazzo di luce che compendia tutta la felicità della mia infanzia; è duopo però che io menzioni prima un'altra delle mie grandi infelicità: la scuola. Credo che pochi sieno andati a scuola così mal volontieri come andavo io. Ne conobbi due di scuole: in entrambe la mia esperienza fu eguale. Regolarmente riuscivo antipatica a tutte le maestre; ai professori no, nemmeno a quello d'aritmetica, che si accontentava di guardarmi con benevola compassione quantunque io terminassi i corsi senza sapere la somma, (come non la so al presente). Fra le compagne cercavo affetto, ma difficile riusciva l'accordo assoluto, perchè fin da allora avvertii quell'ostacolo, quella specie di malinteso fra me e i miei simili che doveva fare di me una solitaria; che se talvolta l'acceso desiderio potè indurmi a credere realizzato il sogno, troppo sovente seguì il disinganno, a scuola e poi.

L'insegnamento ai miei tempi era una miseria. Per le famiglie della borghesia la scuola privata non lasciava altro scampo. Vi si accumulavano prima inferiore e prima superiore, seconda inferiore e seconda superiore così fino alla quarta superiore, dalla quale si usciva a educazione finita senza conoscere un solo verso di Dante. In compenso, quando il professore si trovava a corto di argomenti per la sua lezione, ci leggeva una poesia di Arnaldo Fusinato. Il difetto principale di quelle lezioni era la mancanza assoluta di un concetto regolatore. Invece di incominciare dal principio e procedere gradualmente con nozioni chiare, legate da un nesso logico di continuità, a fanciulle ignoranti, quali noi eravamo, ci scaraventavano addosso una specie di estratto Liebig indigesto e confuso sull'origine delle lingue romanze. Un altro giorno erano idee generali sul secolo XV. Oh, perchè proprio il secolo XV diviso dagli altri secoli e campato in aria come un cervo volante attaccato ad un filo? Forse per farci sapere queste notizie da dizionario? « Cristoforo Colombo, nato a Cogoleto sulla riviera di Genova verso la metà del secolo XV, morto a Valladolid nel 1506. Il solo nome basta alla gloria di un uomo tanto grande, quanto infelice».

« Ambrogio Calepino da Bergamo moriva nei primi anni del secolo XVI. A questo dottissimo filologo siamo debitori di un vocabolario tanto celebrato, onde venne ai dizionari latini il nome di Calepino ».

Se un ammasso di nomi e di date così arido era il meno atto a fissare l'attenzione nostra e ad interessarla, non vi riusciva nemmeno il seguente fioretto di letteratura accademica che ci dettarono:

«Il Poliziano nasceva nell'anno 1452 a Montepulciano. D'ingegno profondo, versatile, prontissimo, cattivossi giovinetto con alquanti facili versi la stima e l'affetto di Lorenzo il Magnifico e visse lautamente la breve sua vita nei ceppi dorati della corte Medicea. Fu ad una filosofo e filologo, poeta e prosatore di chiarissimo nome, ed ebbe così facili le lingue del Lazio e della Grecia, che in esse scriveva colle grazie e le elette forme di Tibullo e di Anacreonte.

«Colla tragedia lirica dell'Orfeo da lui come fama improvvisata in due giorni pel teatro dei Signori Gonzaga di Mantova, favoriva efficacemente lo sviluppo della letteratura drammatica in Italia e coll'epico frammento sulla Giostra di Giuliano dei Medici illeggiadriva l'ottava ancor stentata del Boccaccio e sgombrava la via all'Ariosto e al Berni. Moriva quarantenne il giorno stesso in cui Carlo VIII di Francia entrava in Firenze e lo dissero di carattere invido scostumato ed attaccabrighe».

Non riusciva, perchè nessuna di noi sapeva nulla di Lorenzo il Magnifico, meno ancora di Tibullo e di Anacreonte e ignorava affatto l'entrata di un Carlo VIII in Firenze; e non ce la spiegarono nemmeno dopo questo dettato.

Non so se oggi i maestri si sono persuasi, che l'insegnamento a base di nomi propri e di cifre è un corpo morto, il quale entra nel cervello dell'adolescente come in una tomba e vi si adagia nel sonno eterno. Il tedio, l'ira, l'odio in me suscitati dallo Skager Rak e dal Kattegat mi durano tutt'ora mentre, sarebbe stato tanto più interessante e istruttivo farci conoscere le terre della nostra bella Italia e condurci come in un viaggio di piacere sulle sponde dei nostri laghi e dei nostri mari, prima di ingombrarci la mente con nomi ostrogoti. Occorre bandire la pedanteria dall'istruzione primaria, alleggerirla, renderla fresca e parlare al cuore, parlare all'immaginazione, svegliare la sensibilità sana delle giovani creature che devono svilupparsi nella vita e non ammuffire sui testi. L'educatore che s'accosta alla fremente anima del fanciullo sbadigliando gli aridi spunti, che la sua indolenza gli fa ripetere d'anno in anno, senza che mai vi palpiti l'ala di un pensiero suscitatore, somiglia a colui che applicando a una cassa di legno un cartone sforacchiato e girando una manovella crede di fare della musica. Quella del maestro non è una professione, è una missione; egli è il sacerdote laico dell'umanità che sorge. Il destino di molti uomini, come ruscello avvelenato alla fonte, si guasta e si corrompe, sui banchi della scuola; molti dotati delle migliori attitudini per lo studio se ne svogliarono in causa della cretineria dell'insegnamento scolastico.

Io a scuola non mi ci potevo vedere; preferivo di gran lunga le sgridate di mia madre e il desiderio di finirla con quella oppressione degli studi era tanto che su tutti i miei quaderni scrissi questo ammonimento a me stessa: «Ricordati, se mai un giorno venissi a rimpiangere la scuola, che ne hai tu desiderata ardentemente la liberazione». Ma quel giorno non venne mai.

Oh! soavissimi autunni lontani, quando chiusi tutti i libri e dato un fervido addio alla scuola andavo a passare le vacanze dai miei nonni materni, a Caravaggio, che nel trasporto della mia gioia chiamavo Caro-viaggio. Tutto era letizia per me in quella casa benedetta; le carezze della nonna, la soave indulgenza della zia Carolina, lo sguardo benevolo del nonno che mi poneva la mano sulla testa per assicurarsi che i capelli crescevano. E li rivedo tutti e tre in certe loro particolari attitudini. Il nonno, quando al calar del giorno tornava dalla campagna e noi se ne stava ad ascoltare il rumore del calessino per essere pronti a spalancare il portone, vedere la sterzata sapiente del vecchio Nicola e l'entrata trionfale del nonno fiancheggiato da due enormi canestri di frutta. Egli balzava, lindo e lesto, piccolo vecchietto dai capelli bianchi, vestito di una giubba scura a bottoni dorati, con un cravattone al collo che partendo dal mento gli girava sulla nuca e tornava sotto il mento ad allacciarsi in un nodino minuscolo: in qualunque giorno e in qualunque ora non l'ho mai visto con altro abito. La nonna invece, che non usciva mai di casa, aveva un giorno fisso per mettersi in gala; era il giorno del mercato. La si vedeva allora vestita di seta verde, splendente ne' suoi ori e nella matronale persona, avviarsi in piazza seguita da un domestico carico di sporte e, quando ritornava in possesso di ogni ben di Dio, la si sarebbe detta la figura simbolica dell'abbondanza.

La zia Carolina (oggi si direbbe Carla e pochi anni addietro Carlotta, ma allora si diceva Carolina: nell'intimo nostro poi io l'avevo battezzata Tuina) la mia zia Carolina, dunque, io la vedo sopratutto nella sua cuffietta da notte semplice semplice, una bianca striscia di percallo, ma che stava tanto bene intorno alla sua faccia rosea; la vedo china sul mio letto ad aspettare il mio risveglio; la vedo, meglio ancora, quando seduta dinanzi alla pettiniera si toglieva la cuffietta e l'onda magnifica della sua chioma corvina scendeva fino a terra. Era l'ultima dei sei figli della mia nonna e la meno avvenente delle tre sorelle; la palma della bellezza spettava a mia madre, ma una serenità dolce ed eguale era, insieme ai capelli, la bellezza sua e sempre, ripensando a lei, mi appare come l'angelo tutelare della mia infanzia.

Anche la nonna mi voleva molto bene, mi viziava un po'. È vero che un nonnulla bastava a farmi contenta: un pizzico di semi di popone, (i poponi specialità di Caravaggio trionfavano alla mensa dei miei nonni dove se ne tagliavano fin tre o quattro prima di trovarne uno degno di essere gustato) un nastrino dai bei colori, qualche cencetto per vestire la bambola; ma il maggior piacere era quello di ammettermi nelle sue stanze private. Non ricordo di aver visto in altre famiglie tante guardarobe quante ne aveva la mia nonna. Quelle casette di legno tutte chiuse eccitavano la mia curiosità; ce n'era un po' dappertutto; mi tentavano tuttavia maggiormente quelle che si trovavano sotto la sua diretta sorveglianza, riunite in uno stanzone accanto alla sua camera da letto. Trotterellando dietro le sue sottane m'era dato di vedere talvolta, allo schiudersi di una magica porticina, montagne di lenzuola frammezzate da sacchetti di spigo, che odoravano tanto buono, coltroncini di seta damascata nelle tinte più vaghe, che mi facevano pensare ai divani delle sultane nella reggia di Haaron al Rachid ed alle vesti della bella Shecherazade che lucevano come il sole e come la luna....

Davvero, col mio pizzico di semi di popone in mano, evocavo i tesori delle Mille ed una notti che la zia Carolina mi aveva dato da leggere, e dove capivo, ed anche dove non capivo, mi piacevano immensamente. Altri due stanzini, dei quali la nonna teneva sempre le chiavi, servivano il suo istinto raccoglitore e conservatore e il medesimo istinto in me trasfuso per consanguineità vi trovò il suo primo sviluppo. Ogni forma antica mi attirava irresistibilmente; io amavo i cassettoni panciuti, gli scrigni dagli innumerevoli tiretti, le sedie fuori di moda. Perchè le amassi non appare ben chiaro in una bambina che ne ignorava affatto il pregio, ma io lo so bene il perchè, esso è tutto sentimentale. Sono ancora ignorante; non saprei distinguere un mobile del seicento da uno del settecento, un Brustolon da un Fantoni, un lavoro d'autore da un nulla di nulla; ma io amo tutte queste cose che hanno vissuto, dove palpita tanta parte di umanità, sola sopravvivenza di tanta gente morta. L'uomo colle sue passioni e colle sue illusioni, colle sue ebbrezze e co' suoi dolori è scomparso, la cosa è qui; essa racchiude parte della sua anima, del suo pensiero, della sua volontà; lo strumento ha cessato di lavorare, ma l'opera è salda nel tempo; l'amore che noi le portiamo è la segreta rispondenza all'amore che l'ha creata. È certo che il piccolo bacherozzolo trotterellante dietro alla nonna non faceva queste riflessioni, ma la mente del fanciullo è pari al vetro di una negativa, dove il viaggiatore raccoglie le fuggevoli impressioni che incontra sulla sua strada e che sviluppa più tardi cogli acidi dell'esperienza.

Negli stanzini della nonna attirava particolarmente la mia attenzione uno di quei cofani ricoperti di velluto con leggiadre applicazioni di ferro battuto, nei quali le spose di una volta tenevano il loro corredo. Dolorose circostanze mi privarono per lunghi anni della sua vista; mi riapparve dopo la morte della nonna nell'ora triste e volgare della divisione delle spoglie, e siccome nessuno lo voleva, così tarlato e spelacchiato neppure come cassa da imballaggio, me lo portai via come una santa reliquia. I segreti delle mie proave vi stanno al sicuro sotto la custodia rispettosa del mio affetto.

Da quanti anni è incominciata la voga degli oggetti antichi, da quando abili speculatori percorrendo le nostre provincie, le vallate profonde dove erasi rifugiata la religione delle memorie se ne vennero alla città col loro prezioso bottino? La data la troveranno i freddi compositori di cataloghi. Io penso che tolte dal luogo dove vissero le cose hanno perduto il loro profumo; conservano ancora le belle forme di ciò che fu la loro vita, ma la voce è spenta; appoggiate ai muri della casa straniera, sono lapidi in un cimitero. Oh! come vorrei trovare una parola energica, che fosse l'opposto di snobismo, per esprimere il mio vero sentimento, ma non la trovo. Di fronte a questa giostra di snobs, rincorrentesi su cavallucci di legno per darsi l'aria di cavalieri in sella guardo, con un misto di sdegno per loro e di un certo orgoglio per me, il cofano della mia nonna che ho amato quando tutti lo disprezzavano.

La casa dei miei nonni, ampia e comoda, colle sue sei finestre verso strada e il solito cortile caratteristico del tempo, fra il pozzo e la pianta di fico, aveva pure sul tetto quei draghi di ferro che prima dell'incanalamento delle pioggie le scaricavano sulla via e un grande piacere mio era di stare a vedere le colonne d'acqua che uscivano da quelle forme fantastiche battendo il lastrico con un rumore di cascata.

Dolci ore passavo nel salottino accanto allo studio del nonno, dove la zia Carolina lavorava insegnandomi certe canzonette francesi da lei imparate nel collegio di Madama Garnier.

Arlequin tient sa boutique

Sur les marches d'un palais

Il enseigne la musique

À tous ses petits valets:

À monsieur Pol, à monsieur Li

À monsieur Chi, à monsieur Nel

A monsieur Polichinel!

Guardavo anche con interesse la vecchia Teresa incantucciata dentro il vano di un uscio, sotto il portico, ad agucchiare indefessa intorno ai bucati trimestrali della famiglia e il piccolo Toni sotto il fico a spazzolare energicamente le scarpe del nonno e la lunga Francesca (quanto era lontano il mio viso dal suo) che sciacquava piatti in una vasca di nitido marmo fra quattro pareti fitte di rame di cui ogni oggetto splendeva come un sole. Io andavo dall'una all'altra di queste persone portata da un'aura di simpatia che rendeva il mio passo leggero come un volo. Nessuno mi sgridava mai. Mi sentivo felice.

E come erano belle le sere d'autunno in casa de' miei nonni! Quando il nonno tornava dai campi (aveva terre proprie e molte altre in affitto) si metteva il riso al fuoco e la famiglia vi si riuniva tutta intorno, il nonno, la nonna, la zia Carolina, la vecchia Teresa, la lunga Francesca, il piccolo Toni, ultimo Nicola che era andato a mettere a posto il cavallo. Saliva alta la fiamma sotto la cappa del camino gettando bagliori rossi sulle facce schierate in giro.

Silenzio. Suona l' Ave Maria della sera.

Ai primi rintocchi tutte le fronti si chinano; la nonna fa il segno della croce; tutti la imitano e la breve preghiera recitata insieme da padroni e da domestici si diffonde nell'ampia cucina patriarcale.

La sala da pranzo aveva nel mezzo una grande tavola massiccia apparecchiata e una più piccola da un lato essa pure ricoperta da una candida tovaglia, dove la nonna apparecchiava lei stessa le porzioni per la servitù, in ragione dell'età e dei bisogni di ciascuno, avanzo questo degli antichi rapporti coi domestici i quali sentivano del padrone la soggezione e la protezione insieme. Dopo pranzo il nonno piegava qualche istante il volto pallido e pensoso sull' Eco della Borsa, unico giornale che penetrasse in casa; la nonna allora mi prendeva sui ginocchi, mi baciava, mi coccolava, mi diceva la storia del Mostro turchino e quella delle Due palombe.

Alla domenica si giuocava a tarocchi intorno alla tavola de' miei nonni. A fare il quarto veniva generalmente lo zio Germanico, che era il dottore del paese e aveva sposato la seconda sorella di mia madre. Se capitava qualcun altro la zia Carolina cedeva il suo posto. Io, dopo essermi trastullata un poco a osservare le figurine del giuoco: La ruota della fortuna, Il pazzo, L'appeso, sgaiattolavo dalla mia sedia giù sul pavimento a intraprendere carponi il giro della sala ignorando di aver avuto un celebre predecessore e con intenzioni molto meno filosofiche delle sue. Mi piacevano le pareti rivestite fino a metà da un alto zoccolo di legno scanalato e verniciato, risalendo le quali, fino al soffitto, l'occhio mio fanciullesco si beava in una pittorica esposizione di frutta più grande del vero e di uccelli fantastici; forse l'uccello Roc il di cui uovo miracoloso pendeva dalla volta del palazzo di Aladino?

Poi mi fermavo dinanzi al paracamino dove era dipinta una montagna con un ciuffetto di fumo sulla cima e scritto sotto: Etna o Mongibello. Dall'Etna o Mongibello passavo alla rivista dei ninnoli rinchiusi dietro i vetri di uno di quei mobili che si chiamano étagéres, con un vocabolo francese che non saprei in qual modo sostituire, e finalmente prendevo fiato accanto ad un grazioso Arlecchino alto come me — ma io ero in ginocchio — ricamato a punto croce con una mascherina nera attraverso i cui fori brillavano gli occhietti di vetro. Vestito di verde di rosso e di giallo, con una stecca nel dorso che lo teneva ritto, brandendo la minacciosa spatola di legno, egli faceva la guardia all'uscio vegliando quando era chiuso e tenendolo aperto quando occorreva, contro la forza del vento.

Sollevandomi dal mio viaggio terra a terra, contemplavo il più bell'ornamento di quella sala, i ritratti a olio del nonno e della nonna, opera del pittore Moriggia che della nostra famiglia era amicissimo. Giovanni Moriggia, gloria di Caravaggio, che fu già culla di altri pittori celebri, ebbe l'onore di affrescare la cupola del grande Santuario coi relativi pennacchi rappresentanti le quattro virtù cardinali: Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza. Nel pennacchio della temperanza, che ha per soggetto l'incontro del ricco Booz colla dolce Ruth, la figura della spigolatrice è stata presa da mia madre, che ne aveva veramente nel volto la dolce bellezza. Un grande quadro del Moriggia, ideato durante il suo esilio di patriota in Svizzera, è quello del Guglielmo Tell che riconosce Alberto d'Austria sotto le spoglie di un frate francescano. Io lo vidi durante tutti gli anni che andai a Caravaggio appeso nella camera della zia Carolina e mi rimase negli occhi fra le impressioni più vive della mia infanzia. Conobbi anche Moriggia negli ultimi anni della sua vita. Era un vecchio alto e magro cogli occhi scintillanti. Mi colpì una volta che parlava concitatamente con una mia zia, questa frase «Lo dicevo sempre a Luigi Napoleone, ma egli ci ha traditi». Chiesi poi alla zia chi fosse quel Luigi Napoleone che ci aveva traditi e la zia mi fece rimanere di sasso rispondendo con tutta semplicità: «È l'imperatore dei Francesi». Mazziniano, affigliato alla Giovane Italia, Moriggia conosceva tutte le persecuzioni del governo austriaco, compresa la prigione, ed esiliato più di una volta, nell'esilio appunto si era incontrato col giovane principe cospiratore anch'egli e, come è noto e come provò in seguito favorevole al movimento liberale italiano. Oltre ai ritratti del nonno e della nonna, Moriggia ritrasse quasi tutti della famiglia, ma quei due mi sembrano i più efficaci per finezza di lavoro e somiglianza perfetta della quale rimango testimonio io sola essendo tutti gli altri morti. A quei due ritratti di persone, che tanto sorriso sparsero sulla mia infanzia e che il succedersi delle vicende condusse nella casa di parenti che non li conobbero, invio da queste pagine un saluto pieno di commozione.

Sola superstite di un piccolo mondo scomparso! Ripensandoci mi sembra di aver vissuto due vite. La storia dell'universo è scolpita nella memoria di ciascuno; ogni generazione la trasmette ad un'altra per mezzo di piccole evoluzioni quasi invisibili. Sono io la stessa di ieri?

Oh! l'imprudente fanciulla che avendo abusato dei semi di popone ed anche dei poponi e delle belle pesche vermiglie che il nonno portava a casa nel suo calessino, doveva rimanere a letto un giorno o due invariabilmente tutti gli anni a purgare il suo peccato di gola! Ma anche quei giorni nella casa benedetta non mancavano di letizia. Dormivo in una bella camera, detta la camera dei forestieri, attigua a quella della mia cara zia, e, manco dirlo, fiancheggiata da due grandi guardarobe. Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia d'altre persone.

Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a rimanere da soli?

Quando non avevo accanto la zia o la nonna, mi divertivo a contare i travicelli e i rosoni del soffitto spostandoli a mio talento formando nella mia mente altre combinazioni; oppure l'occhio, innamorato sin da allora della bellezza, si sprofondava con intenso diletto sulle ampie tende che, dall'alto delle finestre, scendevano a toccare il suolo ed avevano il fondo del colore del cielo cosparso di ghirlande di rose. Il momento difficile era quello di prendere la medicina. Mio zio Germanico, il dottore, buon uomo se mai ve ne fu, ma di una semplicità ruvida di cardo, invece di una graziosa pillola inargentata o di una bevanda al sciroppo d'arancio, si ostinava ad infliggermi un bottiglione pieno di un intruglio nerastro al quale dovevo i soli istanti amari del mio soggiorno a Caravaggio. Ma anche su questi vegliava l'affetto inesauribile della zia Carolina con dolci ragionamenti, con promesse, con carezze. Un giorno che doveva recarsi a Milano mi chiese che cosa mi avesse a portare se prendevo docilmente la medicina. Espressi il mio desiderio per un nastrino di velluto à la reine rosa e la vedo ancora partire col suo cabas in mano, la vedo ritornare traendo da esso il vellutino à la reine che mi aveva resa felice tutto il giorno nella aspettativa. Il cabas della zia Carolina, al pari della sua cuffietta da notte, sono nel mio pensiero indivisibili da lei stessa. Non usavano allora le borse di pelle. Quando a Milano, rientrando dalla scuola, vedevo sopra una sedia una specie di sacca ricamata, che presentava da una parte un cagnolino nero accovacciato sopra uno sgabello rosso e dall'altra su un trapunto di perline di vetro due grandi cifre C. M. con un contorno di fiori, spiccavo un salto per la gran gioia. Era il cabas della zia Carolina!

La liberté, ce seul besoin du sage! Non mi era noto allora questo verso, ma la verità che esso contiene fluttuava inconsciamente nel mio istinto di bimba solitaria e nel desiderio occulto di uscire di casa sola. Il mio soggiorno a Caravaggio soddisfaceva anche questo desiderio; lo consentiva l'uso del paese e la vicinanza delle mete che mi era permesso di raggiungere. Una fra queste era la mia nutrice alla quale volevo molto bene. Venivo accolta come una regina; si alzava subito, deponendo fuso e rocca, se stava filando; mi sorrideva, chiamava le sue cognate perchè mi venissero a vedermi, per tal modo erano in tre a farmi festa, tre paia d'occhi benevoli che mi scrutavano da cima a fondo, approvando con un luccicore umido nelle pupille che era tutto una tenerezza. Poi la mia balia apriva la sua rozza credenza, mostrandomi in fondo a una scodella alcuni gamberi in salamoia, che aveva serbato a bella posta per me; da parte mia, quando l'avevo, le davo una mezza muta d'argento, che la faceva contenta ed io più di lei.

Qualche volta, di rado, la nonna mi incaricava di portare un cestello di frutta alle sorelle del nonno, due vecchie zitelle che vivevano sole; una minutina, magra, svelta, la zia Caterina, si incaricava di tutte le loro faccenduole in casa e fuori; l'altra, la zia Lucia, un donnone, corpulenta e grassa, passava le giornate in un salottino semibuio, sdraiata sopra un piccolo divano giallo, che scompariva sotto la grossa persona. Si diceva che da giovane fosse stata molto bella e consapevole di questo suo pregio rifiutasse tutti i pretendenti, commentando che non si sarebbe mai sposata se lo sposo non veniva a prenderla con un tiro a quattro. Forse questa frase era una malignità dei respinti; comunque il tiro a quattro non giunse mai alla sua porta ed ella certo non lo aspettava più. La cuccuma del caffè, l'antica cuccuma di rame, stava tutto il giorno sul focolare delle due vecchie. La zia Caterina magra e svelta la portava a tutte l'ore alla zia Lucia immobile sul sofà e tutte e due sorbendolo pensavano forse che vi è ancora qualche dolcezza nel mondo.

Nel breve tratto di strada, che percorrevo per fare le mie visite, c'era una botteguccia dove una donna vendeva filo, aghi, bottoni d'osso esposti confusamente in una vetrina polverosa ed appannata, con mezza dozzina di fazzoletti intorno sempre gli stessi, e due o tre foglietti di carta da lettera picchiettati dalle mosche. Fra queste povere cose c'era tuttavia un cartoncino che attirava la mia attenzione per tutti gli spilli che vi erano infilati dentro l'uno dietro l'altro come soldatini in parata, colle loro capocchie di vetro assortite nei più bei colori, verde, rosso, aranciato, viola; nè io badavo che fossero di vetro, perchè la mia immaginazione le aveva già poste nella gerarchia delle pietre preziose distinguendole in smeraldi, in rubini, in topazi, in ametiste: elenco di tesori che la lettura delle Mille ed una notte mi aveva reso famigliari.

Questa agilità della fantasia a muoversi nei campi dell'irreale doveva procurarmi i momenti forse più belli della mia vita. L'uomo che nel Morgante maggiore del Pulci, si burla del vicino, che, avendo sognato i suoi buoi ne pretendeva il possesso e mostrandoglieli riflessi nel fiume gli dice ironicamente: «Or va laggiù a pigliarli, son tuoi» afferrando la verità immediata del possesso, trascura il valore della conquista spirituale. Bisogna lasciare al sogno il largo posto che esso occupa nella nostra esistenza. Togliendolo all'uomo lo si priva di uno degli attributi che lo distingue dalla bestia. Coltiviamo il sogno: esso è l'isola incantata dove il navigante tra l'una e l'altra tempesta riposa. Il solo ammonimento che ci dà la ragione è quello di contenerlo entro i limiti di piacere superiore. Dagli spilli che io ammiravo non potevo ritrarre nessun utile personale, ma il diletto, che provava la pupilla posandosi sui variopinti colori, metteva in moto le cellule del mio pensiero e tanto me ne compiacevo da reputarmi ricca quando riuscivo a comperarne una cartina. Mi divertivo allora a contarli, a suddividerli col mio criterio fanciullesco secondo l'età e la condizione del destinatario, come faceva la nonna coi piatti del desinare, e poi correvo a portarli alla mia balia, alle sue cognate, alla vecchia Teresa, alla lunga Francesca. Se fossero stati veramente smeraldi e rubini non avrei potuto sentirmi più fiera del mio dono. E quanto felice!

Un'altra casa sulla quale si raccolgono i buoni ricordi delle mie vacanze a Caravaggio, un po' succursale di quella dei nonni, era la casa della zia Claudia, moglie al dottore. Meno comoda meno ordinata, meno signorile, questa seconda dimora non mi era perciò meno gradita. Alla mia fantasia vagabonda una porta un po' sgangherata, un sottoportico irto di ciottoli come un sentiero di montagna, una catasta di legna in un canto, non presentavano nulla di sgradevole; nemmeno la fossa delle immondizie aperta a ciel sereno stonava troppo, poichè un albero di alloro vi sorgeva dapresso ombreggiandola colle sue lucide foglie e un bel giorno mi sorpresi a comporre questa osservazione «Anche nella vita troppe volte l'alloro cresce sulle immondizie».

Il cortile della zia Claudia non presentava esso pure la costruzione lineare del cortile del nonno, ma aveva, impareggiabile vantaggio, una spalliera di albicocche dorate, così luminose nel sole che tutta la casa ne riceveva una specie di sorriso e un tralcio di vite, che saliva ad abbracciare i pilastri di un loggiato superiore, al quale dava libero accesso uno scalone di pietra, ben noto ai miei piccoli passi leggeri. Nel mezzo del cortile poi molte pianticelle di fiori, senza esclusione del domestico prezzemolo e della salvia aromatica costituivano uno di quei giardinetti provinciali che, forse in memoria dei beati tempi, ho sempre preferito alle aiuole lisciate e pettinate dei giardinieri di professione. C'erano anche intorno al cortile ripostigli e stambugi adattatissimi per il giuoco di nascondersi che si faceva insieme ai nipoti dello zio Germanico, ospiti quotidiani al pari di me.

Lo zio Germanico era l'uomo di compagine più semplice che io abbia mai conosciuto. Flemmatico oltre ogni dire, quando aveva compiuto il giro de' suoi ammalati, ospedale e comune, e fatto il debito sonno del pomeriggio, si metteva a cavalcioni di una delle molte sedie che popolavano il sottoportico a fumare la sua pipa. Se capitava allora un cliente, generalmente un contadino o una povera donna, egli nè mutava posizione, nè si toglieva la pipa di bocca; nemmeno voltava la testa. «Cosa avete? — Signor dottore mi duole lo stomaco — Che stomaco? dove? — Signor dottore....». Balzava fuori allora come un diavolino da una scatola, la zia Claudia e si poneva fra i due «Guardalo dunque, se non lo guardi come puoi capire? E voi, dite su, dove vi duole? Qui? qui?...» Usciva un brontolio dalla bocca chiusa del dottore e la zia Claudia incalzava «Levati la pipa di bocca, come vuoi che capisca?» «Gru, gru» e la zia a spiegare «Ha detto di mostrare la lingua» Così fino alla fine della visita. Era la cosa più buffa che si potesse immaginare: la flemma del marito, il fuoco della moglie.

La zia Claudia aveva veramente l'argento vivo addosso. Seconda delle tre sorelle, non assomigliava nè a mia madre nè alla zia Carolina. Faccendiera per temperamento era in piedi tutto il giorno; una sua particolare fobia di pulitezza gliene dava buon giuoco trovando necessario di sorvegliare la domestica ad ogni passo, sostituendosele anche in certe delicate preparazioni del cibo. Era così schifa su questo capitolo del mangiare che, invitata a pranzo da un'amica, portò con sè il proprio pane non stimando il fornaio dell'amica sufficentemente pulito. Di ciò se ne rideva insieme; ma a me faceva pena quando, non so per quale pio voto, essendosi imposta la mortificazione di baciare la terra, dopo aver recitate le sue preghiere, cercava affannosamente presso ai mobili l'angolo che presumeva più al sicuro delle eventuali sporcizie.

E anche la zia Claudia, quando non fosse occupata a rincorrere la servetta, (occorrevano sempre a lei serve giovani da poter far piroettare) eleggeva a suo domicilio il sottoportico, vi riceveva, vi lavorava, ammesso che lavorasse, perchè io in verità non l'ho mai vista seduta tranne che nel caso di dover discorrere con qualcuno; esso era il centro di riunione come l' hall per le case inglesi; è per questo che tutte le sedie disponibili vi erano raccolte in democratica fratellanza colla catasta di legna e nessuno vi faceva caso. La vecchia dimora, dimora avita dello zio, era sempre stata così. Dovevano, però, i visitatori premunirsi contro le correnti d'aria, perchè l' hall della zia Claudia, posto tra il cortile e la strada colla porta sempre aperta, faceva una terribile concorrenza alla rosa dei venti. Non che mancassero i locali; la casa era ampia, ampia ma scomoda: tutti quegli stambugi, solai, scale e scalette, che formavano la delizia di noi ragazzi, erano un inutile ingombro al disimpegno delle domestiche faccende; moltiplicavano le lontananze, interrompevano le unità, obbligando venti, trenta volte al giorno, ad affrontare l'alpinìsmo dei sassi sotto il portico per recarsi da una camera all'altra che guai ad avere calli (ma noi ragazzi non ne avevamo). Si spiega come, muovendosi sopra un'area abbastanza vasta, lo zio e la zia non disponessero di un salotto conveniente. C'era bensì un salottino dietro la cucina, ma così stretto e buio (somigliava a quello della zia Lucia) che non invitava a rimanervi.

Ma dove lascio la sala d'onore? Perchè esisteva veramente una sala d'onore e bella. Solo che per accedervi bisognava o attraversare il famoso acciottolato del portico, una loggetta, il cortile, (bagnandosi se pioveva); oppure la cucina, il salottino buio, una ripida scaletta di mattoni, un solaio, lo scalone di pietra e la loggetta come sopra. Comodo nevvero? Naturalmente era sempre chiusa e invece delle visite ospitava accanto ai mobili deserti, qualche sacco vuoto, qualche paniere fuori d'uso, qualche dozzina di pere distese a maturare per l'inverno. Un particolare curiosissimo di quella sala era la tapezzeria, rappresentante a larghe linee un paesaggio inverosimile dove un cacciatore puntava il fucile contro un uccellacelo sospeso a pochi palmi sopra il suo naso; ma il bello veniva dopo, quando allo svoltare della tappezzeria nell'angolo l'uccello veniva a trovarsi dall'altra parte del cacciatore.

Qui dovrei forse fare punto fermo, cestinando un altro particolare che ai miei giovani anni mi scandalizzava assai. Ma penso che quei giovani anni, tanto io quanto i miei lettori, li abbiamo sorpassati e siamo ora d'opinione che qualsiasi documento, anche il più puerile e apparentemente insignificante, trova il suo posto negli usi e costumi di un secolo e in questa nostra vita dove tutto si concatena. Dirò dunque che, mentre il cacciatore se ne stava fisso al suo punto di mira, anche se il punto sfuggiva al tiro, un altro misterioso individuo soddisfaceva indisturbato sotto un albero i suoi più intimi bisogni. Sono scherzi che ai nostri giorni, col nostro gusto raffinato, non si potrebbero tollerare. Gli avi e bisavi invece ne ridevano, con quello spirito semplice e primitivo che i nati dopo la rivoluzione francese relegarono in fondo alla provincia. La burla che tenne tanto posto nelle cronache dei Comuni e delle piccole Corti italiane, la burla boccaccesca e rabelasiana, cadde a poco a poco dinanzi a una coltura più diffusa e ad una maggiore sensibilità di nervi ma un lungo strascico, spoglio della crudezza di quei tempi, rimase negli usi del Settecento fino agli albori del secolo decimonono accontentandosi del sottinteso scurrile.

Ho visto io sotto il Coperto dei Figini esposto in una di quelle botteguccie, che i vecchi come me ricorderanno, un fermacarte rappresentante col più crudo verismo una porcheria, che a trovarla per la strada ci fa scansare rapidamente, e qualche anno dopo mi rallegravo del progresso civile che aveva fatto scomparire simili pervertimenti del gusto. Andai poi a Parigi e là, in pieno centro elegante, sull'angolo della via Coumartin, in un negozio all'insegna — Au bon rire gaulois — vidi ancora il medesimo scherzo (chiamiamolo così) che a Milano era scomparso da mezzo secolo.

Per chi ama riflettere sugli atteggiamenti spontanei del popolo è interessante questo sopravvivere di una tendenza, che sembrava sorpassata per sempre e sopravvivere nella città che fu detta il cervello del mondo. Il bon rire gauloi s si vede che è rimasto vitalità tenace della razza, proprio a Parigi dove si trovano ancora la bettole Aux armes de Chartre come ai tempi del Re Sole. Di un altro re più moderno, un re di quel secolo decimottavo durante il quale la burla poco pulita dilagò dovunque, si ha questo aneddotto che prova la diffusione di un uso al quale non sfuggirono fino all'ultimo le più alte classi sociali. Beniamino Franklin trionfava nella capitale della Francia e le sue idee utilitarie formavano il soggetto di tutte le conversazioni; la contessa di Polignac, grande amica della disgraziata Maria Antonietta, se ne mostrava entusiasta al punto che Luigi XVIº, le roi débonaire, per prenderla in giro le mandò un magnifico vaso da notte, espressamente ordinato alle officine di Sèvres, con suvvi impresso il ritratto dell'uomo alla moda e il motto: art e utilité.

In quella casa bizzarra, tra la zia Claudia sempre in moto e lo zio Germanico taciturno, io m'aggiravo in piena libertà. Trascorsi i primi anni dell'infanzia mi disinteressai dei giuochi rumorosi dei miei compagni. Preferivo sedermi sopra un rialzo della loggetta, che fiancheggiava il giardino e, pur non sdegnando i bei grappoli d'uva pendenti sul mio capo con certi chicchi lunghi come bozzoli, mi sorprendevo ad errare collo sguardo sulle aiuole scompigliate dal gatto, così senza un pensiero fisso, ma col germogliare di tante sensazioni sposate alla bellezza dei fiori che incominciavo a conoscere per nome; la diversa colorazione dei gerani, il profumo della vaniglia, lo strano volto delle viole del pensiero e una pianticella di fiori chiamati le meraviglie che odoravano solamente al tramontare del sole, e un'altra che si ingemmava di piccole bacche bianche lucenti rotonde come perle; e le erbe, le care erbe dai molteplici odori che coglievo per mettere nel mio fazzoletto. Non conoscevo ancora il delizioso verso della Cantica «Sia il tuo amore simile a un mazzetto d'erbe odorose appeso alla tua cintura» e non conoscevo l'amore. In nulla fui precoce, nemmeno in questo. Ebbi però prestissimo sviluppata l'attitudine all'osservazione e una intuizione, che contrastava singolarmente con una ingenuità assoluta, da sembrare qualche volta deficienza. Ero anche seria più che non comportasse l'età, con una inclinazione a problemi che raramente interessano le bimbe di nove o dieci anni. Mentre i nipoti dello zio si erano divertiti a disegnare omini e cavallucci sulla parete dello scalone, io vi scrissi questa quartina letta chi sa dove:

Giovin, che tanto altero

vai della tua beltade,

nel fior che presto cade

contempla il tuo avvenir.

A chi la dirigevo? A nessuno in particolare: al mondo, alla vita, forse a me stessa.

Staccandomi dai miei coetanei mi accadeva di rimanere più a lungo in compagnia della zia Claudia e delle persone che venivano a visitarla. Era difficile che qualcuno passasse dinanzi alla porta aperta, alle sedie allineate ed alla vigilanza della zia, senza entrare per poco o per molto a scambiar le reciproche idee sugli ultimi avvenimenti del paese. La zia Claudia mi voleva anche lei molto bene, mi chiamava la sua nipote prediletta e mi parlava come ad una persona grande, privilegio lusinghiero per i miei gusti di fanciulla assennata.

Frequentava la casa anche uno dei nipoti maggiori (ve n'erano di tutte le età). Questo di cui voglio parlare, un giovinetto, sui sedici anni, pallido, delicato, di temperamento dolcissimo, mi si era affezionato in un modo che, data la differenza dell'età, appariva singolare. Diceva che quando fossi più grande mi avrebbe sposata; lo diceva alla zia, lo diceva, a me; la zia abbozzava un sorriso, io non rispondevo nulla perchè era come se mi avesse detto: Fra qualche anno parleremo arabo insieme. Durante una delle ultime vacanze che passai a Caravaggio venne fuori una milanese, una ragazza che fece subito impressione per la disinvoltura piuttosto sguaiata colla quale si accaparrava i giovinotti. Si osservavano i suoi abiti, i suoi gesti. Aveva trovato modo di avvicinare i nipoti dello zio Germanico e per questa via la zia ed io eravamo al corrente dei suoi successi. Un giorno il mio promesso sposo mi comparve d'innanzi con un anellino di corniola al dito; siccome non l'avevo mai visto gli chiesi semplicemente da qual parte gli venisse ed egli con pari semplicità mi rispose: «Me lo ha dato l'E....» «Come! esclamai, dici che vuoi sposarmi e porti l'anello di un'altra. Allora è segno che vuoi bene a lei; sposa quella». Il buon ragazzo si affannò a spiegarmi come glielo avesse posto in dito di viva forza, ma che era pronto, se questo mi faceva dispiacere a levarselo. Aveva già compiuto l'atto ma sembrandogli di non avermi persuasa abbastanza soggiunse: «Vuoi che lo spezzi, che lo schiacci sotto ai piedi, per mostrarti qual conto faccio dell'E..?». «Ah? no, dissi sarebbe peccato». Egli ebbe una rapida ispirazione «Lo vuoi tu? Prendilo, è tuo». Tutto giulivo me lo porse e io fiera del mio trionfo, non potendo tenerlo su nessuna delle mie dita perchè troppo largo, lo ravvolsi nella cuffietta della bambola e lo riposi gelosamente in tasca.

Graziosa corniola lucida rosata, trasparente di quell'anellino! Essa mi rappresenta il primo passo che feci fuori dell'infanzia. Il giovinetto morì consunto prima ch'io diventassi una signorina da marito e ancora non posso vedere una corniola senza provare una dolce commozione. Ma da quanto tempo questa pietra non si vede più? I giovanissimi non la conoscono neppure. Essa e le sue compagne, agate, turchesi, granatine, che le famiglie di quel tempo si trasmettevano di generazione in generazione, con quelle legature così originali, così veramente belle, dove trionfava la nobile arte degli orafi antichi nutriti ancora delle eleganze di Benvenuto Cellini, scomparvero colla diffusione del brillante.

Il solitaire di dieci o quindici mila lire, che i nuovi arricchiti mettono in mostra sul petto delle loro donne come vi appunterebbero un pacchetto di banconote se appena appena brillassero un poco, risponde meglio alle esigenze del secolo materialista. Allora, negli strascichi del romanticismo, la corniola impiegata sovente per ciondolo assumeva le tre forme indivisibili di una croce, un'ancora e un cuore: fede, speranza, carità. Ora ai polsi e all'orologio si appende il maialetto d'oro.

La liberazione della scuola, dei compiti da fare, delle lezioni da studiare non era il minore dei vantaggi delle mie vacanze a Caravaggio. Continuavo ad essere nemica acerrima dell'insegnamento, pur crescendomi il gusto della lettura e un particolare piacere di certe parole, di certe frasi armoniose che mi davano una ebrezza musicale, mentre la musica mi lasciava fredda o, se mi commoveva, era solo come accompagnamento e complemento delle parole. L'intuizione, così superiore in me alla coscienza, mi faceva penetrare in alcuni stati d'animo, che non avrei diversamente compresi. La dolce malinconia, il pathos dei seguenti versi dell' Edmenegarda mi rapiva in una contemplazione che la zia Claudia, ammonendomi di non cogliere l'uva acerba, non sospettava neppure, quando io, indugiando silenziosa sullo scalone di pietra li affidai, in mancanza dei quaderni distrutti, alla solita parete che riceveva gli sfoghi grafici di noi fanciulli.

O giovinette, gioia vereconda

della casa materna, a cui dovrebbe

vergin campo d'amori esser la terra,

quand'io vi veggo rotear ne' balli,

di rose e gigli incoronate il crine,

quand'io v'ascolto ne' giocondi crocchi

le memori narrarvi ore del chiostro

o le speranze del futuro amante,

non vi sorrido, ma pietà mi stringe

dolorosa di voi che imprenderete

la dura via fra poco.

Improvvisamente, un giorno? una sera? Non so: un gran buio circonda quell'ora solenne del mio destino. Ero a Milano; la scuola, secondo l'orario di quegli anni, mi teneva prigioniera senza interruzione dal mattino fino alle quattro; alle quattro e mezza si pranzava; alle otto a letto. La mia vita in casa non era che un passaggio occupato dai compiti e dalle lezioni. Non so altro, non ricordo altro. Mi fanno chiudere i libri a un tratto e il papà mi conduce da una famiglia amica che abitava presso a noi e dove c'erano ragazze e ragazzi della mia età; vi passai tutta la notte in un lettino improvvisato e la novità, la compagnia, i giuochi di quei fanciulli, non mi lasciarono agio di pensare alla singolarità degli avvenimenti.

Il giorno appresso una persona, non rammento chi fosse, venne a prendermi per ricondurmi non dai miei genitori, ma a Caravaggio. Di sorpresa in sorpresa! Anche qui la gioia e la presa di possesso dei miei beni mi impedirono di approfondire ciò che si disse per spiegare la mia venuta fuori del tempo. Importava assai a me la ragione del perchè! Ero felice e credevo ancora che la felicità non dovesse finire mai. Mancava però la nonna e alla mia domanda dove fosse mi si rispose che era andata alla campagna per sorvegliare certe faccende, ma che sarebbe tornata subito. Pranzammo soli, il nonno, la zia Carolina ed io. Il nonno non pronunciò una sola parola, la zia Carolina sospirava spesso indugiando sui cibi come se le tornassero a gola. Avevo visto altre volte a quella tavola i volti rabbuiati per la tempesta che rovinava il raccolto e pensai che si trattasse di una disgrazia del genere e me ne stetti ben zitta e ben tranquilla per non turbare le loro preoccupazioni.

Dopo pranzo venne lo zio Germanico, ma non essendo domenica non veniva per la partita a tarocchi. La zia Carolina gli corse subito incontro nell'andito e poichè tardava a rientrare, il nonno la raggiunse e stettero fuori un po' di tempo. Poi sentii il nonno che saliva al suo studio e la porta di casa sbattere per il dottore che andava via. Quando la mia cara zietta tornò in sala, aveva gli occhi rossi. Io ero turbata per quell'ombra di mistero che mi circondava, ma non sapevo che cosa dire. Ella mi abbracciò strettamente, raccomandandomi di andare a letto subito, che la mattina seguente sarebbe venuta la balia a prendermi per condurmi un po' con lei.

Come fu l'ora giunse infatti la buona donna a prendermi. Ci avviammo verso la chiesa maggiore dedicata a S. Fermo intanto che suonava la messa. — Entriamo — disse la mia nutrice. Ed entrammo. Io non la guardavo, abbandonata oramai al mistero che mi trasportava, ma lei doveva essere molto commossa chinandosi su di me per dirmi — Prega, prega con fervore, la tua mamma è morta. —

Scoppiai in pianto.

Parte Seconda

Acquaforte di LUIGI CONCONI

La profezia racchiusa nell'ultimo dei versi dell' Edmenegarda da me scritti sul muro incominciava ad avverarsi. La morte di mia madre volta una pagina della mia vita. Chiude un periodo della mia umile storia e la figura più augusta di tutte doveva restare nel mio cervello immaturo come una forma evanescente, una pallida donna, della quale non ricordo ne' lo sguardo, ne' la voce.

Tutti la piansero: era così bella, giovane ancora! La settima gravidanza l'aveva recisa lasciando orfani io e i miei due fratelli. La contemplo ora nel ritratto che le fece Moriggia; i lineamenti regolari e fini, lo sguardo dolce, i capelli neri divisi nel mezzo della fronte e ricadenti in folte bande piatte a ricoprire tutto l'orecchio; di seta nera il vestito con un risvolto di delicato ricamo, una camelia in testa, una sciarpa rossa dietro le spalle e una manina nuda, degna di una duchessa.

Era il tredici luglio quando morì e mancando ancora un mese e mezzo a terminare la scuola, mio padre mi pose in collegio rimanendo lui solo col suo dolore nella casa deserta. Mio fratello minore si trovava già da alcuni mesi presso le zie paterne a Casalmaggiore; l'altro fu mandato a raggiungerlo.

Casalmaggiore è una piccola città sulla riva sinistra del Po, poco distante da Cremona e da Mantova su questa riva, da Parma sulla riva opposta. Al tempo dei ducati, come città di confine, ebbe vita lucrosa e relativamente brillante. In seguito decadde, al pari di tanti altri piccoli centri assorbiti dalla continua emigrazione verso i centri maggiori. Sui registri dello stato civile la nostra famiglia vi appare da non molte generazioni; lo stesso nome del nostro casato non è lombardo ne' di alcuna altra provincia dell'alta Italia; si ritrova invece scendendo verso Roma e verso l'Abruzzo. Comunque, ramo divelto dal tronco, non abbiamo nessun documento che affermi la nostra parentela con Taddeo Zuccari, sepolto nel Pantheon di Roma accanto alla Tomba di Raffaello Sanzio, ne' con Federico fondatore dell'Accademia di S. Luca e di quel suo tugurio sul Pincio dichiarato monumento nazionale. Però sappiamo che i due pittori, nati sulla fine del cinquecento a S. Angelo in Vado, avevano cinque altri fratelli e sappiamo pure, per averlo scritto lui stesso, che Federico visse a Parma parecchi mesi. Non è dunque improbabile che, o dal medesimo Federico, o da qualche fratello chiamato lassù, sia rimasto tra Parma e Casalmaggiore, che ebbero per l'addietro continui rapporti, un seme della famiglia.

Mio padre nacque nè primo nè ultimo di sei fratelli, tre maschi e tre femmine. Due maschietti morirono adolescenti e morì più tardi una delle femmine, già preceduta dai genitori. Quando io venni al mondo, della famiglia di mio padre non rimanevano che due sorelle nubili residenti a Casalmaggiore. E, presso di loro, si trovava già il mio fratellino Stefano quando nostra madre perdette la vita sopraparto (e la creaturina la seguì). L'altro mio fratello Luigi fu mandato a raggiungerlo subito dopo. Essi erano abituati a passare le vacanze con quelle zie paterne, mentre io andavo a Caravaggio dai nonni materni. I miei fratelli, poi, stante la lunghezza del viaggio (Casalmaggiore era a novanta miglia da Milano e senza ferrovia) oltre alle vacanze passavano laggiù mesi e mesi. Vi ero stata anch'io per un certo tempo, ma una volta sola, e smorta me ne era rimasta la rimembranza. Trovo un accenno di questo mio soggiorno a Casalmaggiore in una lettera del papà alla mamma. Egli era venuto a prendermi evidentemente e le dava per iscritto le prime notizie. È fortuna che io abbia trovata questa lettera, nella quale rinasce un momento della mia vita che avevo quasi dimenticato; riudire dopo più di mezzo secolo la voce di mio padre, se non il suono, il sentimento di essa, e vedermi descritta colle sue parole, e sapere che cosa egli pensava di me, è tale commovente dolcezza che io non so dire. «Ho veduto gli studi fatti dalla nostra ragazzina e ho dovuto convincermi che ha fatto più progressi qui che a Milano. Quanto al morale conserva quella sua naturale vivacità, talvolta smoderata, e si abbandona facilmente ad atti di subitanea impazienza, di collera e di pianto, specialmente allorchè è ripresa o corretta con modi di disprezzo; all'incontro si fa dolce e mansueta ragionandole del mal fatto e ammonendola con parole temperate e di persuasione. Nell'insieme poi del suo esteriore è tutta quella di prima; figura slanciata, agile, di movimenti rapidi; è cresciuta in altezza tre dita».

Un malaugurato strappo nella lettera di mio padre l'ha privata della data, ma non v'ha dubbio che dovevo essere allora non oltre i sette anni. La collera e il pianto, di cui si fa menzione e che io non ricordo, vennero presto sostituite da un muto dolore in tutte quelle occasioni di rimprovero o di accusa nelle quali intravedevo una ingiustizia. Avevo anche abbastanza sviluppato il senso della realtà per adattarmi senza proteste all'inevitabile; così entrai rassegnata e calma nell'internato della mia scuola a terminare l'anno scolastico, finchè mio padre avesse sistemato l'ordine della famiglia sconvolto per l'improvvisa morte della diletta compagna. Il suo era stato un vero matrimonio d'amore e di stima che nessuna nube aveva alterato mai e la possibilità di una seconda moglie non deve nemmeno aver sfiorato il suo pensiero fermo e fedele. Non poteva tuttavia lasciar soli tre figli ancora adolescenti e fra questo grave dilemma miglior consiglio gli parve quello di persuadere le sue sorelle, a venire in casa nostra per tenerci luogo della mamma.

Era una giornata d'autunno avanzato quando rientrai nella casa paterna. Il mio fratellino Stefano giocava in anticamera col cerchio. Gli chiesi dove erano le zie ed egli mi rispose indicandomi una camera in fondo all'appartamento. Mi inoltrai col cuore che batteva verso il mio nuovo destino, cercando di ricordarmi la faccia di quelle zie, che trovai (fosse stato ieri non mi sarebbe possibile averne una visione più precisa) in una stanza di disimpegno brutta e disadorna. La zia Margherita stava seduta con un rocchetto sulle spalle i pochi capelli grigi sciolti sugli omeri, un libro di preghiere in mano; sopra una sedia collocata dinanzi a lei c'era una scatola oblunga di legno bizzarramente dipinta, nella quale si ammontichiavano spazzole, forcine, un altro libro di preghiere (che era quello della zia Nina) e un pezzo di candela di sego. In piedi dietro a lei la zia Nina la stava pettinando. Al mio apparire la zia Nina ristette qualche minuto col pettine in mano, la zia Margherita sollevò gli occhi dal libro. Dissero una o due parole e ripresero la loro occupazione. Involontariamente rividi come in un barbaglio di luce lontano il dolce sorriso della zia Carolina e l'onda nera de' suoi magnifici capelli.

Le sorelle di mio padre, pur differendo l'una dall'altra, avevano in comune un tipo di razza forte. Brune e secche le loro mani e le loro braccia attraversate da grosse vene a fior di pelle ricordavano un po' le radici di un albero. Avendo begli occhi e lineamenti regolari, nella loro gioventù non saranno state brutte; ma una certa mancanza di femminilità e di gusto, l'impronta della provincia, infine, come era a quei tempi, le aveva segnate di vecchiaia precoce: la zia Margherita in ispecie, che era la maggiore e la più assente dal convegno delle Grazie. Attaccatissime al loro fratello, si erano già piegate a molti sacrifici per lui quando, vivente ancora il padre, aveva dichiarato la sua vocazione e il proposito di andare a Roma a studiare architettura. Andare a Roma quasi un secolo fa e andarvi da un piccolo centro provinciale, da una modesta famiglia borghese già aggravata di sei figli, non dovette essere certo facile impresa e si indovina il sacrificio delle buone sorelle. Ma, non v'ha dubbio, che maggiore d'ogni altro fu quello di abbandonare, non più giovani, la loro casetta, le loro abitudini, le amicizie, i dolci ozii, la libertà, per recarsi in una città sconosciuta a prendersi la doppia responsabilità di reggere una famiglia, di allevare tre fanciulli. Grande, grande sacrificio.

Io avevo allora dai dodici ai tredici anni. Una delle prime cose che mi disse la zia Margherita fu questa: «È tempo di fare giudizio, non hai più nè otto nè dieci anni». La voce e e il volto ammonendo così erano di una tale severità che ne rimasi impressionata. Avevo dunque finito di essere una fanciulla? Non mi sarei data tanta pena se avessi potuto prevedere che due anni dopo avrebbe ripetuto: «... non hai più nè dodici nè tredici anni» e ancora sotto i venti agitava sul mio capo il rimpianto degli anni passati, lo spauracchio dei futuri. Era una donna austera la zia Margherita; era anche pochissimo donna. Non l'ho mai vista una volta guardarsi nello specchio; sdegnava tutto ciò che potesse sembrare eleganza e raffinatezza; dei profumi soleva dire con grande disprezzo che li portavano solamente le persone affette da cattivi odori. Nei servizi dei piatti a tavola prendeva sempre la parte più scadente. Non sdegnava prestarsi ai lavori più pesanti, al contrario si compiaceva di aiutare in quelli la persona di servizio; amava cercare i poveri; rappezzando con zelo le vesti della nostra domestica diceva: "Avrei dovuto nascere povera e sposare un povero; quante belle pezze avrei rimesse". Trovava piacere dove gli altri confessavano un fastidio. Colla sua entrata in famiglia, di poveri non si ebbe più penuria; scomparvero invece le signore eleganti che venivano a trovare la mia mamma. Non riconoscevo più la mia casa; vedevo tutte persone nuove; udivo nomi di sconosciuti; molte abitudini erano cambiate e cambiato il posto di certi mobili. Con una sorpresa, che non saprei ridire a parole, mi accorsi che qualche volta, quando la faccia angolosa della zia Margherita era più arcigna del solito e il puntino nero delle sue pupille mordeva proprio come un granello di pepe, mi interpellava col pronome di seconda persona: "Noi... vostro padre". Non diceva mai papà ed anche per lui aveva un tic particolare, lo chiamava a volte: il padrone.

L'amor del prossimo della zia Margherita non era precisamente quello predicato da Gesù, dolce e mansueto. Mente fervida, temperamento impulsivo, facile allo scatto ed alla violenza, se con una mano era sempre tesa a beneficare, coll'altra non era meno pronta a sciogliere o, quando mai, a minacciare uno schiaffo; lo si sapeva e si evitava, molto più che le sue collere come certi temporali di primavera si disperdevano senza tempesta. Essendo quasi sempre sproporzionati alla causa, quegli scatti mi facevano tuttavia molto male. Credetti una volta che crollasse la casa, perchè mi ero servita di refe invece che di cotone per cucire un non so che ed io, che udivo fare per la prima volta una differenza fra refe e cotone, mi sentii ferita in quel sentimento di verità e di giustizia, che era in me profondo e che doveva farmi tanto soffrire anche in seguito. Era il medesimo sentimento, osservato da mio padre quando scriveva alla mamma, che mi acquietavo nelle mie ire infantili solo se corretta con amorevolezza ragionandomi del mal fatto. L'amorevolezza, che non è possibile negare a una donna la quale negava tutto a se stessa per dare agli altri, la zia Margherita l'aveva in fondo al cuore; ma l'adolescente, che io ero ancora, non sapeva discernerla nell'ammasso di bruscherie e di violenza che la rendeva ingiusta, ponendola nella luce meno favorevole di tutte dinanzi alla mia sensibilità, alla mia timidezza, al mio ardente bisogno d'affetto. Se in certi momenti, nei quali la punta acuta delle sue pupille sembrava ammorbidirsi in un raggio di benevolenza, osavo gettarle le braccia al collo chiedendole un bacio, ella voltava subito la faccia dall'altra parte mormorando nel suo dialetto: " Sciocchezze, sciocchezze ".

Dove avrei io trovato un bacio? "Aprile senza fiori, infanzia senza baci" dice una vecchia canzone malinconica. E come dice vero! Il bacio è ai fanciulli ciò che la rugiada è al fiore, il pigolio al nido. Non avevo più nè otto nè dieci anni, ripetendo la frase della zia, ma il bisogno di tenerezza cresceva insieme agli anni e, in senso inverso dal bisogno, la mia timidezza mi ricacciava tutta dentro di me. Amavo molto mio padre, ma era serio anche lui come tutta la nostra famiglia e di pochissime parole. Il gran lutto, che gravava sul suo cuore, lo ravvolgeva in una specie di nube attraverso la quale mi appariva come un essere superiore, tanto lontano da me, dai miei piccoli affanni. Una ritenutezza, una specie di pudore, quasi uno scrupolo di coscienza mi impedivano di aprirmi con lui. Mai avrei avuto il coraggio di confessargli il mio disagio in quel passaggio dall'una all'altra età, essendo cambiata ogni cosa intorno a me, colla sensazione oscura e profonda di trovarmi sperduta in una landa deserta, sola.

La zia Nina non sapeva nè leggere nè scrivere. Feci questa straordinaria scoperta osservandola quando sua sorella la pettinava. Anche lei stava seduta colla misteriosa cassettina davanti e il suo libro di preghiere sui ginocchi, ma le pagine non le voltava mai. Seria, dura, immobile come una statua, un lieve battito delle palpebre di minuto in minuto la diceva viva. Minore qualche anno della zia Margherita, conservava con lei un'aria di famiglia, più che una vera somiglianza. Anche moralmente partecipavano entrambe delle mancanze, che un secolo fa distinguevano le zitellone di provincia vissute lontane dal mondo; ma tanto la maggiore sorella era schietta, aggressiva, impetuosa, di questa non si udiva mai la voce. Parlava poco e piano, camminava con passo vellutato. Non era nemica dello specchio e quando si coricava alla sera, aveva un modo tutto suo di accomodare i capelli sotto la cuffia che, senza nessun altro artificio, le rimanevano ondulati sulle tempie. La zia Margherita era intelligente e tanto appassionata per la lettura da leggere persino i foglietti dispersi che ravvolgevano le droghe o i bottoni. A' suoi tempi Casalmaggiore non aveva scuole. Un maestro, dal nome melodrammatico di Zefirino, aveva insegnato in casa a leggere, scrivere e far dei conti. La zia Nina pur partecipando a questi studi limitati non aveva imparato nulla. Come però conosceva l'arte di aggiustarsi i capelli, era sua anche quella di saper tacere quando l'argomento si mostrava al di sopra della sua intelligenza. Prendeva allora quell'attitudine di statua che la faceva sembrare così attenta alla lettura del suo libro di preghiere, anche se talora fosse per avventura capovolto.

Le due sorelle andavano di perfetto accordo. Vissute sempre insieme avevano, se non proprio gli stessi gusti, le stesse abitudini; le relazioni di una erano le relazioni dell'altra. Le accomunava una vita intera di affetti, di impressioni, di ricordi, di gioie, di dolori ai quali io ero perfettamente estranea; allusioni a fatti che non conoscevo, ironie di cui mi sfuggiva il significato. Quest'arma terribile dell'ironia usata contro l'adolescenza esse la adoperavano nella loro ignoranza di principii educativi; ma è crudele e di una grande ingiustizia, presupponendo nella costruzione del fanciullo una mentalità rotta alle rudi prove dell'esperienza. L'ironia è l'albero amaro del bene e del male che dà frutti di cenere; scuoterlo sul capo innocente di chi muove i primi passi nella vita, intorbidare la fonte sacra, quella bella confidenza, quell'abbandono cieco del fanciullo alla parola dei genitori o di chi ne fa le veci, è quasi un delitto. A certe frasi pungenti scambiate fra le mie zie con sorrisi di scherno l'anima mia si raggrinziva tutta. Non reagivo, ma cresceva sempre più in me l'impressione di vuoto, di freddo, di straniero: e come il mio temperamento non mi portava alla ribellione, invece di uno sfogo esterno, scendevo dentro di me. Quante volte dinanzi alla forza collegata delle mie due zie desiderai una sorella!

Anche i miei fratelli erano in due. Due vicini di età, uniti dai medesimi studii, distratti nei medesimi giuochi, liberi per il loro sesso più di quello che io fossi e indipendenti dalle zie. La scuola d'altronde ci divideva. Nelle poche ore che stavano in casa si ritiravano a studiare nella loro camera. Io facevo intanto di malavoglia gli ultimi corsi, fisso lo sguardo in quello che sarebbe stato l'ultimo giorno di scuola. I miei fratelli erano molto più diligenti e riportavano trionfi che io ero ben lontana dall'ottenere; ma avevo la fortuna di scrivere con facilità e a poco a poco mi accorsi che da questa facilità me ne derivava anche un piacere, per cui presi l'abitudine di scrivere indipendentemente dai compiti, con meraviglia delle mie compagne, le quali tutte dal più al meno abborrivano dal comporre. Pare invece che alla mia scuola questo ramo dell'insegnamento fosse tenuto in gran conto, perchè si era rinunciato a farmi imparare l'aritmetica (vista la mia incapacità di giungere in fine ad una somma) e la calligrafia (verificato che i miei saggi non erano nè inglesi, nè corsivi, nè rotondi, nè gotici) per conseguenza esonerata da questi due esami e ad onta di ciò non mi venne meno la benevolenza dei professori, compreso quello d'aritmetica. Le maestre mi continuavano la loro antipatia, ma io contavo oramai i giorni che mi avrebbero portata alla liberazione.

C'era l'abitudine nella mia scuola per le allieve più zelanti che terminavano gli studi, di preparare in segreto un patetico componimento che veniva poi declamato il giorno degli esami con accompagnamento di lagrime e di singhiozzi a edificazione delle maestre e dei genitori presenti. Lo si chiamava l' Addio e incominciava generalmente così: "Addio, scuola tanto amata dove ebbi i migliori esempi, ecc. Addio maestre che ci foste nel medesimo tempo educatrici e madri, addio compagne, ecc., ecc.". Per nulla al mondo io mi sarei sobbarcata a recitare una simile commedia; essa era tanto lontana da me, che nell'ora della ricreazione mentre le altre ragazze riunite in crocchi discutevano sugli esami del domani e qualcuna ripassava febbrilmente le lezioni, io senza abbandonare il mio posto, totalmente lontana dalle preoccupazioni generali, trassi dalla cartella i miei scartafacci privati e mi posi a continuare un raccontino, che avevo dovuto lasciar sospeso nel punto culminante di dimostrare il vizio punito e la virtù ricompensata. Navigavo in quell'oceano beato della concezione spirituale, dando ascolto al canto che mi inviavano le sirene dell'immaginazione, quando udii pronunciare il mio nome dalla voce ben nota della direttrice e questa domanda attraversarmi le orecchie come un dardo, che entrando dall'una fosse uscito dall'altra sibilando: Che cosa scrivi? La mia timidezza non seppe suggerirmi altro che un silenzio assoluto e non so in qual modo la faccenda sarebbe andata a finire se, pari ad un fluido elettrico, improvvisamente dischiuso un sorrisetto di intesa non fosse passato tra le mie compagne e qualcuna mormorò: È l' Addio, è l' Addio. La direttrice comprese e si degnò di sorridere anch'essa con sussiego e approvazione, ma la risata più schietta fu la mia, quantunque interna e mascherata dalla fronte china sulla penna a terminare le avventure di Osvaldo e Berenice. "Domani a quest'ora, pensavo, non ci sono più e allora addio scuola per davvero".

Fra le mie condiscepole c'era una trentina, emula mia nei successi letterari e questo fatto, lungi dal creare fra noi una incresciosa rivalità a base di invidia, ci unì in una buona e sincera amicizia, continuata anche dopo scuola per molti anni in regolare corrispondenza. Poi senza alcun motivo, come accade spesso, la corrispondenza cessò. Io pensavo molte volte a lei, certo anche ella mi avrà pensata; ma travolte entrambe nell'onda della vita che ci sospingeva a opposte rive, complice un po' di pigrizia, il silenzio si stese fra noi come un velo d'ombra. Non pensavo neanche più alla possibilità di rivederci. Nella mia singolare ignoranza il Trentino mi appariva fantasticamente lontano. La Val di Sole, la Valle di Non erano a' miei occhi terre favolose, irragiungibili e, per dire tutta intera la verità, non mi avvenne mai di udir pronunciare la parola Trentino fino al giorno che mandata a Roncegno per salute non scopersi a me stessa la bellezza e le sventure di quella terra disgraziata. Ma questo è un salto avanti nella mia vita. Lo accenno ora perchè completa colle parole di chi fu testimonio quel che io ero al tempo della scuola. Ripiglierò in seguito le mie memorie al punto dove le ho lasciate.

Non sono molti anni, dunque, che dovendo recarmi nel Trentino pensai subito alla mia antica amica e le scrissi a caso per sapere se vi fosse modo di poterci incontrare. Mi rispose subito che sarebbe venuta lei stessa a Roncegno. Venne infatti con una sua leggiadra figliuola e appena ella discese dalla vettura dell'albergo ci gettammo nelle braccia l'una dell'altra prima ancora di guardarci in viso... Il piacere di tale visita si duplicò quando poche settimane dopo andai a renderle la visita; un viaggio di sei ore durante il quale ebbi campo di ammirare la ridente bellezza delle valli trentine, la severa maestà delle sue montagne. Due giorni passai in quel piccolo paese sperduto in fondo a una valle, per sei mesi dell'anno sepolto sotto le nevi; ma allora era di primavera, la casa graziosa e confortevole, l'ospitalità perfetta, il giardino pieno di fiori con un salice piangente che si chinava sovr'essi, forse per consolarli di crescere in un suolo calpestato dallo straniero. Poche sere prima a Trento, in una famiglia di fervidi patrioti, circondata dai cuori più ardenti, mentre nel silenzio della via un soldato austriaco passava sotto le finestre, avevo letto il capitolo VI del Rogo d'amore (ancora inedito) dove Ariele esala il suo spasimo e i suoi sogni di irredento; alla mensa dei miei amici, recitai i versi della canzone di d'Annunzio sequestrati dalla censura e i volti erano pallidi e mute le labbra. Si, io ebbi questa gioia di far ascoltare la voce della Patria sulla terra ancora schiava, alle anime che non speravano più. Prima di partire la mia amica mi disse: Sai? Io scrissi una volta un articolo per te. — Davvero? — esclamai — Quanto mi piacerebbe conoscerlo! Gentilissima, l'amica cercò fra le sue vecchie carte e mi diede un numero del giornale L'Alto Adige, 29-30 marzo 1900 (dodici anni prima di quel nostro incontro vale a dire nel tempo che la nostra relazione era stata interrotta). L'articolo intitolato Neera portava un lusinghiero giudizio sull'opera mia che non è il caso di riferire, ma credo interessante far conoscere un lungo brano, dove sono descritta io stessa fanciulla nell'obbiettivo di una spettatrice, la quale non poteva supporre allora che io avrei letto un giorno l'articolo.

"... Nata a Milano, ed ivi sempre domiciliata, sentì fino da fanciulla potente l'attrattiva dello scrivere, e la foga dell'immaginazione attirarla nelle regioni gloriose del campo letterario. Adolescente, scriveva raccontini, che nelle ore della ricreazione scolastica leggeva alle compagne, in crocchio intorno a lei radunate e pendenti dalle sue labbra. Inutile dire quanto fosse benevisa dal professore d'italiano, il quale compiacevasi alla lettura dei suoi componimenti, che palesavano il non comune ingegno e la rara facilità del concetto. Ricordo pure come una volta la di lui severità nel frenarle gli ardimentosi voli della fantasia, i quali rivelavano nella inesperta scolara la nascente scrittrice ardita e spigliata, attirasse un velo di lagrime sulle sue pupille di fuoco; ma fu una volta sola: il buon professore l'amava e si rallegrava al fiorire del bell'ingegno con un represso sorriso di compiacenza ammorzato fra i baffi e barba allorchè stava intento alla lettura dei di lei componimenti. E tutte allora, ella per la prima, comprendevamo la tacita approvazione del professore, tradita dall'atteggiamento del volto, quand'anche la parola suonasse contraria.

"Verso i tredici anni perdette la madre, non aveva sorelle e suo padre la collocò per qualche tempo interna nel collegio, del quale come alunna esterna frequentava la scuola. Vi fece la sua entrata una sera ad ora tarda; eravamo tutte coricate quando ella in punta di piedi, titubante nelle mosse, seguendo la vecchia governante, penetrò nei dormitori; al passaggio della bruna figura, fatta più oscura dalle nere gramaglie, più d'un saluto le pervenne sottovoce all'orecchio a sussurrarle un'espressione di amicizia affettuosa in quella prima ora di separazione dal tetto paterno.

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"L'avvenimento che scosse maggiormente le sue fibre e schiantò il suo cuore portato ad amare con tutta la forza degli affetti, fu la morte dell'ottimo suo genitore, che le spirò quasi improvvisamente nelle braccia, quando a lei, giovane, avvenente, ammirata arrideva in tutto lo splendore la primavera della vita. Fu così intenso il doloroso sentimento della perdita fatta, che promise a sè stessa di perpetuargli un culto di venerazione e d'amore, di trovare nella memoria dell'uomo integerrimo esempio, sprone e conforto all'aspra via del dolore.... Giurai a me stessa, così ella scriveva nell'intimità epistolare, di onorare la sua memoria, di amarlo morto, come non mostrai mai di amarlo in vita, di perpetuare riproducendole le sue virtù, di farlo rivivere nell'intatta fama, nella coscienza pura e intemerata ch'egli mi lasciò, e che io voglio trasmettere ai miei figli".

Dall'apprezzamento della mia amica, pur volendolo accettare intero nel suo ottimismo, mi è duopo cancellare almeno la parola — ammirata —. Che lei, vivendo così lontana, potesse suppormi degli ammiratori e credere, lei esiliata fra i monti, che basta essere giovani e un po' intelligenti perchè vivendo in una grande città come Milano arrida in tutto il suo splendore la primavera della vita, si può anche comprendere. Quando andai a trovarla nell'alpestre romitaggio, non mi nascose la tristezza del suo destino in opposizione ai sogni di un'esistenza più ampia, più ricca di bellezza, forse di gloria, rappresentata a' suoi occhi dal contatto di una grande città. La verità è che io vivevo a Milano nello stesso modo di tanti canarini in gabbia e di tanti cani colla museruola.

Le mie zie erano con noi da pochi mesi e gravava ancora sulla casa il lutto di colei che ne era partita per sempre, quando un avvenimento che nessuno aveva previsto venne a peggiorare la nostra condizione in un modo che io allora non potevo valutare ma le di cui conseguenze provai dolorosamente in seguito. A me direttamente non fu comunicato nulla, ma nelle poche ore che la scuola mi lasciava passare in famiglia notavo un silenzio più profondo, una preoccupazione generale, rotta dagli scatti della zia Margherita più vibranti del solito e quella sua terribile ironia rivolta con allusioni, che mi trapassavano il cuore, sulle persone, che dopo mio padre, amavo più di tutte al mondo, i miei cari parenti di Caravaggio. Un giorno, per un nonnulla, colla solita sproporzione fra la sua collera e la causa che l'aveva prodotta, volle umiliarmi pronunciando contro mio nonno una parola ingiuriosa, che nella sua intenzione doveva coinvolgere anche me in un medesimo disprezzo. Una cosa sola capivo ed era l'ingiustizia di un colpo, che feriva nella mia anima vergine una ancora confusa, ma già potente aspirazione alla rettitudine, alla verità come un'impronta di sanità morale trasmessami nel sangue e che era tutta la mia forza in quelle dolorose occasioni. Forza di resistenza, ma forza passiva, perchè la mia invincibile timidezza mi impediva di reagire e lo stesso mio carattere meditativo e concentrato, che tendeva alle solitarie speculazioni del pensiero piuttosto che ai movimenti disordinati della volontà, mi allontanava con un vero istinto di antipatia da tutto ciò che fosse rivolta. Offesa, tacevo. Il dolore della ferita attingeva immediato acchetamento dal sentirmi ingiuriata a torto. Aver ragione, equivalente a trovarmi nel vero, bastava alla mia intima fierezza. Quando le mie zie, che non mi hanno mai conosciuta, per ignoranza educativa, per ristrettezza provinciale, per abitudine del sospetto, per altre recondite cause, infierivano contro di me, io più che ogni altra sensazione avevo quella della sorpresa e invece di difendermi chiedevo mortificata a me stessa: Perchè?

La disgrazia della mia famiglia era stata questa. Mio nonno aveva in affitto un lotto considerevole di terreni, che nei tempi buoni gli concedevano una larga agiatezza; ma un seguito di annate disastrose per i raccolti avendo provocata la crisi agraria, mio nonno non seppe provvedervi almeno con accorte diminuzioni alle spese, così che, da un giorno all'altro, si trovò a non possedere più nulla di fronte a un cumulo di debiti e in questo disastro naufragò la dote di mia madre, che era stata assegnata in quarantamila lire. Ciò è quanto la zia Margherita non poteva perdonare a mio nonno e nella sua logica particolare se la prendeva con me, con una fanciulla di tredici anni! Dico la zia Margherita perchè era lei che parlava; quanto alla zia Nina non usciva dalla sua immobilità e dal suo mutismo, tanto che per molto tempo non mi riuscì di comprendere che cosa si nascondesse dietro quel contegno impassibile di bonzo indiano. È certo che entrambe nella caduta di mio nonno dovettero rintuzzare le antiche rivalità e i sarcasmi della zia Margherita trovare buon gioco contro le abitudini signorili, che forse qualche volta l'avevano involontariamente umiliata nella famiglia di mia madre.

Dai miei ricordi della casa del nonno risulta infatti l'impressione di una comoda agiatezza. L'avere provvisto ai sei figliuoli, tutti in primarie case di educazione, avviati i maschi alla carriera giudiziaria e dotate le femmine coll'assegnazione di una somma che per i tempi era abbastanza vistosa, faceva credere ad una ricchezza molto maggiore di quello che realmente fosse e certo non fu causa ultima della disgrazia. Nella rimessa del nonno c'erano tre carrozze, una delle quali, un vero carrozzone da parata, serviva per andare a prendere il vescovo di Cremona, quando veniva a Caravaggio per la Cresima, nella quale occasione l'alto ecclesiastico pranzava e dormiva anche in casa del nonno. Di altre abitudini ospitali trovo cenno in una lettera che la mia mamma ancora fanciulla scriveva, non senza una punta di malizia, alle sue sorelle in collegio. Scusandosi di un ritardo nella corrispondenza soggiunge: "Ora che grazie al cielo la filanda è terminata incomincia il passaggio dei militari e voi sapete che la nostra casa è sempre distinta con un bel numero; di più, avvicinandosi la nostra festa della Madonna di settembre il signor Canonico ci favorisce annualmente avendo anche l'avvertenza di condurre con sè parenti e conoscenti".

Mi trovo ora al punto più difficile di queste confessioni. Avrei voluto non uscire mai dai dolci ricordi della mia infanzia di Caravaggio. Tutto era così semplice! Mi parevano tutti così buoni! Ma i ricordi stessi si allontanavano da me ed io, che ero pure semplice e buona, fui gettata improvvisamente dal destino a combattere senz'armi e senza corazza contro la diffidenza ed il sospetto. Per comprendere bene ciò che ho detto, ciò che dovrò dire ancora sul cambiamento della mia vita, è necessario separare le impressioni della fanciulla ignara dagli apprezzamenti che sola l'esperienza può dettare con serietà di giudizio. Se dunque qualcuno dei mie lettori crede di poter già formarsi una sua opinione sulle persone che gli vo' presentando lo prego di sospenderlo, accontentandosi di seguire le fasi della mia vita nello stesso ordine cronologico che si presentarono a me.

A quattordici anni avendo terminati i corsi lasciai la scuola con quella specie di freccia del Parto burlesca che fu l' Addio non dato. Incominciò allora la mia esistenza casalinga, metodica come una regola di convento; alzata alle otto, rifatta la camera e la sala di ricevimento (dove non entrava mai nessuno) preso posto verso le dieci al tavolino da lavoro, dal quale non mi movevo più sino alle quattro, con una zia da una parte e una zia dall'altra; alle quattro preparavo la tavola, alle quattro e mezzo si pranzava; alla sera lavoro di nuovo, generalmente calze, una zia da una parte una zia dall'altra, sino all'ora di andare a letto. Alla domenica c'era la messa e la passeggiata: quasi mai uscivo nel corso della settimana e solamente per uno scopo ben determinato, una compera o una visita a qualche conoscente: ma questo accadeva di rado. Con tale nuova sistemazione delle mie giornate me ne venni a passare tutto il tempo in compagnia delle zie. Neppure la notte ero libera, perchè dal loro arrivo avevo dovuto abbandonare la mia cameretta che mi piaceva tanto, per dormire insieme a loro in un vasto stanzone occupato prima dallo studio di mio padre.

La zia Margherita era una grande lavoratrice, la zia Nina no. Al lavoro d'ago attendevo anch'io volontieri; cuciture, rappezzature, ricamo, calze; ero attivissima e la zia Margherita non mancava di riconoscerlo. Le preparavo qualche volta la sorpresa di terminarle un lavoro che le dava noia e allora ne' suoi occhi neri e vivaci la pupilla si ammorbidiva come per improvvisa tenerezza; nulla mi era più gradito di quel raggio, dolce come una luccioletta che trema nella sera sulla cima di un ramo. Gli occhi della zia Nina erano neri anch'essi, ma opachi e immobili sotto il battito regolare delle palpebre, quel battito che era tutto suo. Lavorava a cose leggere e brevi, attendendo piuttosto a sorvegliare la domestica in cucina e trovava modo di uscire tutti i giorni per incombenze o spese inerenti alla famiglia. Quando non c'era lei intorno al tavolino io mi sentivo sollevata da un gran peso; anche la zia Margherita doveva provare qualche cosa di simile, perchè la conversazione da languida che era in presenza della zia Nina si animava con un sembiante di intimità. Tendevo allora avidamente l'orecchio a ciò che ella mi andava narrando di storie vecchie, di aneddoti famigliari. Ella era una specie di archivio conservatore di memorie e di tradizioni; tutto ciò che ebbi a conoscere sulla nostra famiglia mi venne da lei. Dotata di parola facile, colorita, franca, intercalava al suo dire motti e citazioni di una origine così oscura, che non sapeva lei stessa d'onde le fossero venuti. Quando, per esempio, volendo avvalorare una dimostrazione qualunque, noi avremmo detto: "in nome di Dio!" lei esclamava: "dalla parte di quel buon Giocondo!" e sfido a indovinare a che alludesse. Se avessi potuto presentire in quei giorni le pagine che scrivo oggi, di quante note potrebbero arricchirsi i miei ricordi!

Con l'altra zia l'approccio era impossibile. Non mi guardava, non mi parlava; sembrava ignorare persino la mia esistenza. In qual modo avrei potuto affrontarla, con quella mia ingenita timidezza, che avrebbe avuto bisogno di un gran fuoco, di un gran fuoco d'amore per fondersi e che si trovava innanzi a una sfinge di granito? Mi facevo piccina piccina, per non urtarla, per diminuirle la noia della mia presenza, ma a nulla serviva. Nella distribuzione delle domestiche faccende, che nei primi giorni si erano assegnate tra loro, era rimasto alla zia Nina come la più esperta del genere l'incarico di pettinarmi; improvvisamente, senza alcuna spiegazione, dichiarò di non volerlo più fare e passai dal tocco morbido delle sue mani alle energiche strigliature della zia Margherita finchè imparai a pettinarmi da me. Poco tempo dopo, altra esclusione. Era lei che, più giovane della sorella, più amante del vestirsi e dell'uscire di casa e del veder gente, mi accompagnava tutte le domeniche alla messa ultima nella chiesa di S. Carlo e consecutiva passeggiata; e anche questo da un giorno all'altro cessò, senza ragione, senza spiegazione, come la prima volta. Sotto l'apparenza di non occuparsi di me, spiava ogni mio gesto, atto o parola per trovare pretesto di un rimprovero. Mi accusava di colpe assurde, per esempio di averle servito il caffè in una tazza sbrecciata, non per distrazione come sarà stato benissimo, ma di proposito per farle dispetto. In tali circostanze io negavo appena, perchè sentivo vivamente la dignità di me stessa e quanto sarebbe stato inutile combattere contro un nemico ignoto, che aveva per se il vantaggio di essere mio superiore, che poteva sgridarmi e castigarmi, che io dovevo rispettare e ubbidire.

Ho detto nemico ignoto, perchè in realtà non conoscevo la causa che mi rendeva così ostile una persona verso la quale sentivo di non avere alcuna colpa e strano, ma vero, neppure risentimento. Le sue accuse, le sue ingiustizie erano come frecce che mi fischiavano intorno senza portare il colpo mortale al cuore. Io compresi fin da allora che nessuno al mondo ha il potere di offenderci se la nostra coscienza non ha nulla da rimproverarci e mi sono sempre stupita che vi sia tanta suscettibilità di vanità offesa, mentre è così valido schermo alle piccole ferite dell'amor proprio un alto sentimento di ciò che noi siamo, non di ciò che vuol farci parere l'invidia e la malignità altrui. Allora a quattordici anni non facevo questi bei ragionamenti, perchè il ragionamento nasce dalla riflessione e prima ancora abbiamo la sensazione che ci avverte; ma appunto in quei primi tasteggiamenti della coscienza, che cerca la sua strada, io mi sentivo sicura, come in una proprietà tutta mia, una specie di torre inaccessibile. Tale resistenza passiva inaspriva forse l'avversione di quella donna, ma non potevo far altro. Ho già esternato la mia ripugnanza per le attitudini ribelli; le mortificazioni, colle quali sperava di umiliarmi, si spuntavano contro la muta remissione, che ella chiamava indifferenza. Oh! come avrei potuto rimanere indifferente? Io soffrivo sin nel profondo dell'essere di una sofferenza sottile senza lagrime, una sofferenza che era piuttosto una mite tristezza e questa tristezza si appendeva da sè a guisa di un velo fra me e il mondo. Suonava la diana della vita sulla mia primavera al sole, ma gli stessi raggi del sole si impigliavano nelle maglie di quel velo. Dicono tutti che la gioventù è un tesoro; la mia, quando mai, fu tesoro sepolto.

Quella cara anima onesta, che fu Edoardo Rod a proposito delle tristezze della sua infanzia, diceva: " Oh! ces premières impressions nous façonnent à jamais! Ce sont elles qui donnent le ton à toute notre existence, elles peuvent nous rendre à jamais incapables de bonheur, elles creusent en nous des vides qui ne se comblent pas ". Sopratutto questo: vuoti che non si colmano più. Come potremo noi ridere in seguito, se non abbiamo riso nell'età dell'espansione e della gioia? Se la risata larga, spensierata, trillante e leggera qual volo d'allodola, la volubile risata che si accende e si spegne senza causa sulle labbra dell'infanzia felice, fu isterilita dal sospetto, contaminata dall'ingiustizia? Se nell'età della fiducia completa e del completo abbandono abbiamo dovuto dubitare? Se quando i nostri cuori si aprivano all'amore con tutte le boccucce del desiderio, come fanno nel nido i piccoli nati, un soffio di scetticismo ci raggrinzì nella nostra nudità, nella nostra povertà, si che un po' di freddo rimase nelle intime pieghe dell'anima nostra? Il fanciullo, che non si sente padrone del mondo, non è un fanciullo felice e quando pure la vita gli prepari altre gioie ed altri sorrisi sempre gli resterà quella piega dolorosa dei primi anni mancati, cicatrice indelebile di un'anima ferita.

Tutte le simpatie della zia Nina erano riserbate a mio fratello Stefano. Egli godeva di un'assoluta impunità. Un giorno a proposito di un bicchiere rotto o altro consimile misfatto mi disse: "Sai? Ho pensato di confessare alla zia che sono stato io, tanto non mi sgrida certo". Ma nemmeno la bontà del mio caro fratellino riusciva a difendermi dalle insinuazioni malevoli. Per avere smarrito un fazzoletto, che mi era stato regalato dalla zia Margherita, non dovetti subire l'accusa di averlo distrutto io, di mia mano, per dispregio del dono e della donatrice? Nulla mi faceva tanto male quanto la supposizione di simili bassezze, che non riuscivo nemmeno a comprendere. In quali mondi, in quali cuori potevano nascere? E perchè supporle in me, nella mia anima così sincera, così innamorata dell'alto? Mi pareva che tutti dovessero leggermi dentro come attraverso un cristallo e perchè queste due zie mi leggevano così diversa da ciò che ero? Perchè? Sempre l'assillante perchè!

Venne finalmente l'ora di una grande rivelazione. Entravo nella mia camera, che era pure la camera delle zie, quando un alterno e concitato parlare, in cui era mischiato il mio nome, mi arrestò di botto sulla soglia. La voce della zia Nina per solito bassa e velata tradiva una grande irritazione e quella della zia Margherita si piegava a straordinari sforzi di dolcezza per calmarla, per persuaderla. "È inutile, io non la posso soffrire, mi è antipatica, la odio". Queste parole mi fischiarono nell'orecchio come una scudisciata, poi non udii altro. Ovvero, si, ella ne pronunciò ancora una così orribile che non ressi più e mi allontanai soffocando in un lungo singhiozzo un gruppo di lagrime troppo amare per sciogliersi in pianto. Ecco dunque la risposta ai miei angosciosi perchè, alle accuse, ai sospetti, alle ripulse: perchè mi odiava. Lo aveva detto lei stessa uscendo dal suo mutismo: non era possibile dubitarne. Ora, qualunque cosa facessi o dicessi, sapevo che mi odiava. Questa persona, che viveva presso a me, sangue del sangue di mio padre, chiamata a proteggermi, a guidarmi, a volermi bene, questa persona mi odiava.

Venuta in possesso di sì crudele verità sentivo però che non era tutto il vero. Un'altra domanda urgeva alle porte oramai violate della mia ingenua fede: " Perchè mi odiava? ". Ma l'ingenuità mia era ancora troppo salda, troppo resistente, per potermi dare una risposta chiara e decisiva. Dovevo vivere tutta la mia vita, la vita di osservazione e di esperienza, di teneri sogni e di brutali risvegli, che ognuno di noi vive, prima di afferrare la verità tutta intera. Comprendere è perdonare, si dice, e quante cose, che ci fanno soffrire, ci lascerebbero indifferenti a poterle comprendere in tempo. Intanto, quasi a conforto della dolorosa scoperta fatta, mi riusciva a poco a poco di valutare meglio le intenzioni della zia Margherita, la quale mi voleva bene alla sua maniera e più me ne avrebbe voluto senza le continue istigazioni della sorella e i foschi colori sotto cui ella mi dipingeva, falsando ogni mia azione, facendomi segno alle calunnie le più assurde, le più lontane dal mio modo di pensare e di sentire. Il sistema adottato dalla zia Nina nella sua campagna contro di me era questo: in mia presenza musoneria e mutismo agghiacciante; dietro le spalle lagnanze, accuse, sfoghi di insopportabilità come di un gran peso che la opprimesse. Nè deve sembrare troppo singolare la fede prestata da una sorella alle parole dell'altra; trovo anzi naturalissimo che quella vivace e impetuosa donna che era la zia Margherita, usa da più di mezzo secolo a vivere lo stesso pensiero della zia Nina, ad amare e a disprezzare insieme, sempre unite, sempre concordi, dovesse scattare sotto il racconto delle pretese sofferenze da me inflitte alla sua anima gemella e torna a lode di una innata rettitudine il contrasto, che ella doveva provare, posta così ad arbitra di un conflitto del quale le mancavano da una parte i dati di fatto e sull'altra pesava una giustificata ripugnanza a dubitare. Di tale esitazione io coglievo a volo diverse prove, prima fra tutte la sua diversità di contegno; una specie di inquietudine e di malessere in presenza della zia Nina e quando eravamo sole, una subita espansività, un largo respiro di catena ritolta, specie di oasi nella quale fiorivano i bei racconti, le memorie antiche. Anche in queste ore buone non mi permetteva, è vero, di farle un bacio, ma essendomi sfuggita una volta la storpiatura del suo nome (vezzo mio per tutte le persone che amo) sopportò sorridendo che la chiamassi Màrgula e sempre poi nei rari momenti, che dalla mia gioventù compressa balzava irresistibile un impeto d'affetto e: Màrgula, Margulina! gridavo, tentando di abbracciarla, ella, pur respingendomi, aveva negli occhi quella luccioletta luminosa che era il solo indice della sua commozione. Poco mi importava allora se, quasi parlando sè stessa, tentasse di mitigarne l'effetto con una delle sue bizzarre frasi dialettali: " La vola, la vola!... ".

Arduo mi sarebbe dire se nel lungo corso degli anni e precisamente quando, erba novella che preme di sotto la terra per venire incontro al sole, le quindici primavere pulsano tumultuosamente nelle vene, la zia Margherita abbia volato o no. Certo non le mancavano le ali. Amò una volta sola un piccolo possidente dei dintorni di Brescia, un uomo di salda tempra antica, onesto e leale, che avrebbe fatto con lei un bellissimo paio; ma viveva in famiglia con genitori, sorelle, fratelli, nuore, nipoti e la prospettiva di dovere andare d'accordo con tanta gente le parve così oscura, che temporeggiando e rimandando, dal mese della semina a quello dei raccolti, da Natale a Pasqua, trovaronsi entrambi coi capelli grigi e si accontentarono di restare buoni amici. Vi fu anche un tempo in cui ebbe la velleità di farsi monaca; effimera vocazione che scomparve pur essa riflettendo come, dato il suo temperamento vulcanico, non potesse prendere su di sè garanzia che un bel giorno non le venisse in mente di dar fuoco al monastero.

Per conoscere bene le due zie, che tanta influenza ebbero sulla mia vita, è utile sapere in qual modo si svolse la loro stessa vita, non essendo l'esistenza umana il fungo che spunta solitario e nel posto in cui nasce sta, ma piuttosto una densa ramificazione di foresta dove una fronda abbraccia l'altra, dove nel mistero della terra le radici si incontrano attraverso spazi infiniti e la furia del vento trasporta i pollini che vanno a fecondare altre zolle, a far sorgere nuove foreste. Sui dubbi che trattennero la zia Margherita dall'andar sposa in una troppo numerosa famiglia influì probabilmente il ricordo della sua. Mio nonno viveva con un fratello; avevano case e fondi proprî e commerciavano insieme. Mio nonno mise al mondo sei figliuoli, suo fratello ventidue. Quando tutti erano riuniti a tavola i due padri sedevano ai due capi opposti, avendo ognuno a portata di mano una lunga e flessuosa verga di salice colla quale, attraverso la lunghezza della mensa, toccava quelli de' suoi ragazzi che mostravansi più irrequieti intanto che le rispettive madri badavano a scodellare. Di colei, che sarebbe stata la mia nonna, e che morì ancor giovane dopo il sesto figlio (come mia madre), zia Margherita non serbava che un ricordo: ella rivedeva curva sul suo letto, nelle lontane sere infantili, una dolce e grave figura di donna; era molto bianca in volto, coi capelli neri e portava un abito di panno bleu; rimboccati i lettini, la dolce figura sedeva presso l'ultimo nato e al pallido lume di una fiammella ad olio leggeva nel suo libro di preghiere a fermagli di argento finchè i bimbi fossero tutti addormentati. Zia Margherita non sapeva altro; non potè dirmi altro. Era appena passata la soave visione in quella casa dove l'esistenza dovette essere aspra di quotidiane realtà, passata colla tenuità di un sogno.

Di una visita fatta all'avolo suo la zia Margherita trovò ancora memoria. Viveva egli in un paese poco lontano e vi fu una volta che la maggiore delle sue nipotine (la zia Margherita appunto) gli fu condotta per rimanere alcuni giorni presso a lui; ma non era trascorsa un'ora, che ell'aveva già trovato modo di arrampicarsi sopra una pianta di fico, che sorgeva nel cortile, spezzando il più bel ramo e stracciando da cima a fondo la vesticciuola, per andare a finire nella vetrata di una finestra che mandò in mille frantumi. "E che cosa ti disse il nonno?" — chiesi io alla zia Margherita con una certa inquietudine. "Nulla a me. Chiamò il domestico e disse a lui col massimo sussiego: — Attacca il cavallo e riconduci questa ragazza a casa sua".

Mi mancano i dati per precisare quando mio nonno si separò dal fratello; il fatto avvenne forse in seguito alla crescente figliuolanza, forse per gli affari che incominciavano ad andar male. Fra le disgrazie che la zia Margherita raccontava, c'era la perdita di un mulino sul Po verso la riva parmigiana, dove tratto tratto tutta la famiglia soleva recarsi in barca propria a festeggiare i gnocchi della mugnaia e bere il vino bianco. Dovevano essere state assai gioconde queste imbarcazioni di giovani sul bel fiume dai tramonti dorati, perchè vivo ancora palpitava il rimpianto nell'anima della zia e quasi rancore contro il fiume bello e infido, che nelle sue furie terribili, rosicchiando le rive, aveva a poco poco inghiottito terra e mulino. Ma prima che in seguito a questa ed altre disgrazie avvenisse la divisione dei due fratelli la vecchia casa patriarcale ospitava un'altra di quelle figure di antenati, che la zia Margherita sapeva evocare in poche parole con un tocco solo di pittura impressionista o con una breve punta d'acquaforte, come l'episodio della visita da lei fatta a suo nonno, sì che mentre lei parlava io lo vedevo il vecchio rigido e freddo dinnanzi al triplice disastro dell'albero, della vetrata e della vesticciuola; lo vedevo e lo udivo scandere le parole della sentenza: "Attacca il cavallo e riconduci questa ragazza a casa sua".

L'altro ritratto di famiglia, dirò così, era la madre di mio nonno; carica d'anni la vecchierella non usciva più dalla sua camera a secondo piano, dove se ne stava seduta quasi sempre accanto al fuoco aspettando che i ragazzi venissero a trovarla; ne erano nati ventotto di ragazzi in quella casa e una mezza dozzina di piccoli c'era in ogni tempo. Questi entravano coll'impeto di un turbine, gareggiando a chi arrivava primo e la bisavola, per non far torto a nessuno, si prendeva fra i ginocchi tutte le loro manine una sopra l'altra riscaldandole nell'ampio grembiule, quel grembiule che scottava sempre e il giuoco, che faceva ridere i piccini, dava a lei un risveglio di orgoglio materno, quasi un fiorire di rose intorno alle piccole rughe del suo volto. A una data dell'anno l'avola lasciava il suo cantuccio accanto al camino e, mostrando una certa inquietudine, percorreva la camera a passettini corti e ineguali, sorretta dal bastoncello, piantandosi poi risolutamente dinanzi alla finestra, che si apriva sul cortile interno, come a sorprendere il passaggio di qualcuno: quando vedeva apparire o l'uno o l'altro de' suoi figli, che appunto quelli aspettava, raschiandosi in gola, picchiando nei vetri col bastoncello, se persistevano a non intendere, li obbligava a salire chiamandoli per nome. La vecchierella divisa dal mondo non dimenticava che, venendo sposa in quella casa aveva portato in dono uno spillatico sul quale i suoi figli erano obbligati a passarle una piccola rendita e tutti gli anni, alla scadenza, avveniva poco su poco giù il seguente dialogo.

— Che cosa volete mamma? — Ricordarvi i vostri obblighi. — Ma voi non avete bisogno di denaro. Che cosa vi manca qui? — Non state a cercare quello che mi manca, datemi quello che mi viene. — Voi mamma (tentavano di volgere la cosa in scherzo) spilli non ne portate più. — Ciò non vi riguarda, fate il vostro dovere. Narrandomi questi particolari la zia Margherita si inteneriva e nello stesso tempo era presa da una specie di orgoglio di famiglia, raddrizzandosi sulle spalle un po' curve, quasi per mostrare a sè stessa che nell'occasione saprebbe essere egualmente ferma e fiera.

In seguito a morti e divisioni mio nonno Stefano rimase solo coi suoi figli, dei quali Margherita era la maggiore, poi veniva mio padre, Giulia, Nina e credo ultimi i due maschietti morti presto. Mio padre si chiamava Fermo; non so quali studi avesse fatti nè dove, nè a quale età ottenne di poter andare a Roma per seguire i corsi di architettura alla Sapienza. Era ancora giovinetto quando, prendendo parte alle mascherate carnevalesche che allora usavansi molto a Casalmaggiore, non gli riusciva mai di conservare l'incognito in causa della sua alta statura. La scatola arabescata, dove le mie zie conservavano gli oggetti sommari della loro toeletta, rappresentavano il doloroso insuccesso che egli ebbe sotto le spoglie di un elegante figaro che tutte le Rosine della città riconobbero immediatamente, tanto che l'anno appresso volle escogitare un trucco di nuovo genere. Ripudiando i travestimenti di lusso, sotto le umili spoglie di un contadino, coperto il volto di una rozza maschera, spingendo una carrettella di mele, uscì fuori trionfante in piazza e forse il trionfo lo avrebbe accompagnato fino all'ultimo se i suoi fratellini correndogli dietro e gridando a squarciagola: "Fermo dammene una!" non lo avessero subito scoperto. Si vede che mio padre non era nato per portare maschera.

Mio nonno Stefano, dunque, essendo rimasto solo a governare negozi e figliuoli, pensò di riammogliarsi e il modo col quale vi si accinse è abbastanza bizzarro per essere ricordato. C'era nei dintorni una donna che viveva sola prestando qualche servizio qua e là. Non più giovane, di costumi austeri, senza pretese, gli parve la persona meglio adatta al suo scopo, poichè d'amore non era il caso di parlarne, e così aspettandola un mattino mentre usciva dalla messa la arrestò senz'altro sul sagrato e lasciando da parte inutili preamboli le disse "Teresa, volete venire in casa mia a far da madre ai miei figli?" Quella rispose: "Ci penserò signor Stefano, le darò la risposta domani". E fu tutto. La donna, che prese il posto della soave creatura vestita di panno bleu intenta a leggere nel suo libro di preghiere a fermagli d'argento, era una perfetta massaia, lavoratrice, economa, onesta fino allo scrupolo, tutta compresa de' suoi doveri, ma era ignorante, rozza, dura di modi, dalla virtù arcigna. Cambiando stato ella rimase un'ottima serva, ma le mancò totalmente la grazia della donna. Suo marito lo chiamava sempre "il padrone". Si comprende come nella mia famiglia, che già molto morbida non era, la ruvidezza della nuova venuta dovesse influire in senso peggiorativo. La zia Margherita col suo carattere ardente, colle sue simpatie democratiche, ammirava quella ruvidezza, che a lei sembrava forza e se, dopo tanti anni trascorsi, le accadeva qualche volta di chiamare suo fratello "il padrone" era ancora una prova dell'influenza esercitata dalla matrigna sul suo spirito così ben preparato a riceverla.

Una febbre di quelle che chiamavano perniciose condusse mio nonno al sepolcro in pochi giorni; la seconda moglie era morta anch'essa e morta la figliola che si chiamava Giulia. La famiglia così numerosa non esisteva più, si era sciolta; venduta anche la casa, le due superstiti, Margherita e Nina, si ritirarono in un'altra casa di loro proprietà dove si iniziò quella che fu, per una trentina d'anni, la loro rimpianta vita di pace assoluta e di semplice libertà. A questo punto i miei ricordi tornano ad essere personali. Io la conosco la via fatta ad arco, larga e deserta come quasi tutte le vie di Casalmaggiore, chiazzata qua e là da qualche filo d'erba, coi marciapiedi di mattonelle rosse; vedo il gruppo isolato di abitazioni intorno all'albergo della Croce Verde che forma in certo qual modo la corda dell'arco, vedo le case allineate in giro a semicerchio: la seconda a destra venendo dalla piazza era quella delle mie zie. La zia Nina, che aveva la passione contemplativa dei fiori, era riuscita a trasformare il cortile in un vero giardino; i trecento e più vasi che formavano l'aiuola centrale, curati ad uno ad uno con tenerezze materne, offrivano un aspetto dei più variati; tutte le gradazioni dei garofani, dei gerani, delle verbene e le rose muschiate, e le ortiche americane dal profumo delicato, e quello acuto del geranio d'Africa, e quello misterioso e inebbriante del geranio notturno che odora solamente di notte, e la selva imbalsamata della cedrina, che a Casalmaggiore chiamano erba Luigia in memoria della Duchessa di Parma Maria Luigia, e tutta la innumerevole famiglia dei fiori che si coltivano in provincia, lungo gli anditi soleggiati dove all'ombra di una tenda le donne compiono i loro bei lavori di pazienza, intanto che il gatto sonnecchia sdraiato con pieno abbandono sul lembo della loro gonna e poco lungi nel piccolo chiuso cocoreggiano le galline.

Vita di libertà, vita di pace conducevano le due sorelle; la dimora era modesta, ma perfettamente intonata ai loro bisogni; un salottino a pian terreno, colle finestre basse verso strada così compiacenti al saluto, al breve colloquio: una cucina, sul cui muro esterno rameggiavano le fronde annose di un susino facendo ondeggiare nel vano della finestra come lampadine d'oro sospese i magnifici frutti gialli che si arrampicavano fino al terrazzo sovrastante. Le camere superiori non erano nè così numerose nè così ricche di guardarobe come quelle della mia nonna di Caravaggio, poichè in casa delle due zitelle nè alloggiavano vescovi, nè banchettavano canonici. Eranvi tuttavia bei cassettoni panciuti con riporti di metallo e qualcuna di quelle deliziose placche settecentesche dove, innanzi ad uno specchietto che forma il fondo si accendeva nelle occasioni solenni una candela che, riflettendosi moltiplicata nello specchio, doveva rappresentare il lusso di una luminaria. Regine nel loro piccolo regno esse avevano, come tutti i proprietari di quelle terre ubertose, la festa annuale della vendemmia alla quale non mancavano di assistere in mezzo ai loro contadini e la soddisfazione di riempire con vino proprio la cantina e di colmare la legnaia di ceppi tagliati dai propri alberi. Tutto in misura modesta, ma tutto così facile, così sicuro in un seguito armonico di tradizioni e di misure che, pur non essendo ricche fruivano del principale dono della ricchezza, che è l'indipendenza e di quell'altro pur dolce privilegio di potere, qualche volta, aiutare il nostro simile nella miseria.

Una specie di solaio coronava la casetta delle mie zie o, piuttosto che solaio, due piccole camere basse di soffitto che ne facevano le veci. Lassù, fra diversi oggetti fuori d'uso, la mia fantasia fu colpita da un busto femminile di grandezza naturale, non ricordo se di legno, come quelli che usavano un tempo le modiste per allestire le cuffie, o di terraglia, quali si trovano forse ancora in certi vecchi giardini, ma così ben dipinto, guancie rosee ed occhi lucenti, da giustificare l'ammirazione di una fanciulla un po' fantastica; quel busto aveva anche un nome, si chiamava la signora Tintimillia; non le mancavano altro che le gambe e la parola. Chi fosse, d'onde venisse, nessuno non ne sapeva nulla, ma per me fu oggetto di gran fantasticare, molto più che la signora Tintimillia non era sola lassù. Dal rettangolo di una cornice bucherellata dal tarlo, proprio dirimpetto a lei, sporgeva la testa di un frate. Le mie zie dicevano che era il ritratto di un nostro antenato; quanto al sapere per quale intreccio di eventi lui e la signora Tintimillia si trovassero riuniti nell'esilio, la mia curiosità rimase insoddisfatta, ma ai piaceri della fantasia non occorre la verità, basta il sogno. Io almeno me ne accontentai.

In fondo al semicerchio della via, sull'angolo di un viottolo che si perde fra giardini e verzieri, c'era la casa dove abitavano i migliori amici delle mie zie, una amicizia di tre generazioni, una di quelle rare amicizie su cui è dolce riposare il cuore. Non dimenticherò l'augusto Collella, altro abitante della contrada, oggetto di stupefazione per me quando lo vedevo alzare dai trucioli la sua testa da imperatore romano per rimaneggiare la politica del governo, che, secondo lui, andava male, ed appoggiandosi sulla pialla come avrebbe fatto sopra una clava, giudicare di Cavour, del ministero, dei trattati, quasi fossero legno di noce o di ciliegio. Trinciava giudizi anche sull'arte drammatica. Aveva conosciuto la Ristori: «Già, è stata qui colla compagnia de' suoi genitori, contava tre o quattro anni, l'ho presa in braccio tante volte, le ho date anche le chisseüle ». In seguito a tali confidenze si gonfiava, faceva la ruota, convinto di avere stabilito il suo diritto a parlare d'arte. Questo curioso personaggio, in aggiunta a' suoi meriti, custodiva tre scorpioni in un'ampolla d'olio per medicare ogni genere di tagli e di ferite. La moglie di Collella, un bel donnone fresco e sorridente che metteva allegria solamente a vederla, era una delle persone che passando sotto le finestre basse del salottino delle mie zie non mancava, da buona vicina, di fermarsi ad augurar loro o il buon dì o la buona sera, e avvenne che una sera, per l'appunto passando in fretta, soggiungesse: «Non mi indugio perchè vedo forestieri in casa». Le zie che sapevano di non avere nessuno fecero le meraviglie; ma l'altra assicurò di aver visto stando sul marciapiedi un uomo nella loro camera la quale, pur essendo al piano superiore, era molto bassa sulla strada e soggiunse spaventata: «Allora è un ladro! — Un ladro! — esclamò la zia Margherita e, come le avessero detto che era fuggito il merlo, salì la scala a due gradini alla volta mormorando: — Vado io a prenderlo per lo stomaco». Il bellicoso ardore della zia Margherita non ebbe tempo di tradursi in atto, perchè il ladro, sentendosi scoperto, aveva spiccato un abile salto dalla finestra e già fuggiva lontano lasciando dinanzi alla porta il suo berretto.

L'episodio del ladro fu il solo, io credo, di un certo rilievo che rompesse la placida esistenza delle due sorelle, quantunque mi sia rimasta l'impressione che la zia Margherita per suo conto l'avrebbe voluta più movimentata. Placida e serena esistenza, tutta composta di piccoli movimenti regolari scelti da loro stesse con un perfetto accordo, ostacolati da nessun impegno, da nessuna catena; la semina dei fiori in primavera e lo scambio di sementi colle amiche procurava loro i dolci ozi nel cortile giardinato sotto i raggi tiepidi del sole d'aprile, radrizzando steli, spiando attente il gonfiarsi dei boccioli, sollevando gli occhi al susino di sant'Anna, il quale andava coprendosi di gemme in attesa dei bei frutti d'oro, che sarebbero maturati in luglio sotto la protezione della gran Santa. Il non avere in casa nè uomini nè ragazzi permetteva loro di conservare quell'ordine e quella regolarità dei quali le donne sole hanno il privilegio; ma la loro solitudine non era egoismo, perchè il fratello stabilito a Milano era sempre presente al loro pensiero e non maturavano nell'oblio le susine di sant'Anna, che tutti gli anni un bel paniere ricolmo viaggiava verso la capitale, sì che io, prima ancora di conoscere le zie, conobbi le loro susine. E le belle passeggiate lungo il Po non le avranno mai rimpiante? La grande inondazione, per la quale si dovettero demolire tutte le case che fiancheggiavano la riva ne cambiò totalmente l'aspetto; anche il ponte costrutto per la ferrovia tolse vaghezza e maestà al corso delle acque; ma al tempo delle mie zie una passeggiata sull'argine era quanto di meglio Casalmaggiore potesse offrire. In qualunque giorno, a qualsiasi ora (chi le poteva trattenere dal momento che esse erano libere come l'aria?) «Il tempo è bello, andiamo a fare quattro passi sull'argine? — Ma sì, andiamo. — Tolgo dall'armadio l'abito di seta cangiante o quello à jardin? — Come vuoi. — No, di' tu. — Il cangiante? Benissimo». Vestivano sempre allo stesso modo: due abiti, due mantiglie, due cappelli identici annunciavano a chi non lo sapesse il pieno accordo delle loro volontà. Più ancora che la passeggiata sull'argine era cara al loro cuore la passeggiata della Fontana. Si chiama della Fontana un modesto Santuario che sorge in mezzo ai campi a tre chilometri circa fuori della città. Le mie zie non erano mistiche, ma una dolcezza religiosa si impossessava di loro mettendo il piede sul lungo viale deserto dove stormivano i pioppi, alti verso il cielo, in forma di candelabri e con una gioia di anime semplici si stringevano al petto l'offerta alla Madonna che esse avevano preparata: una tovaglietta di altare o un festone di teletta celeste e argento per ornare la cappella nel mese di Maria. Conoscevano il prete officiante di quella chiesuola ed erano in buoni rapporti colla Perpetua per cui, dopo una visita alla cripta dove si conserva la fontana miracolosa, entravano nell'orto del curato pieno di verde e di frescura colle mente e le maggiorane a ciuffi rigogliosi miste alle ortensie dalle tinte di madreperla e la Perpetua si piegava a cogliere i fiori intanto che si scambiavano ricette di botanica e ricette di cucina. Don Michele, il buon prete, non sdegnava di aggiungere i suoi consigli. Il tempo scorreva così inavvertito, poichè nessuno aveva fretta e che fosse trascorsa un'ora o due o tre, il cielo, l'aria, le piante non avevano mutato; nè scemava la serenità delle due sorelle, che rientravano nella loro casetta colle mani colme di fiori, coll'orlo della gonna impregnato dei profumi delle erbe.

Parte Terza

Temo che l'insufficienza della mia penna non mi abbia concesso di esprimere, come io la sento, la dolcezza della vita di provincia, quando non sia intorbidita dal pettegolezzo o resa manchevole per speciali aspirazioni dell'intelletto; l'uno e le altre non applicabili alle mie zie perchè, se la loro condizione apparteneva a quell'aurea mediocrità lodata dal saggio, non era tal ventura da suscitare l'invidia, cagione principale di discordia; non era nemmeno il caso di pettegolezzi galanti. Esse dunque avevano tratto dalla loro vita ogni possibile bene e potevano legittimamente pensare che avrebbero continuato fino all'ultimo. Il mio desiderio di far conoscere quanto fossero libere e felici è per far risaltare in tutta la sua grandezza il sacrificio d'amor fraterno, da esse compiuto, abbandonando casa, abitudini, relazioni, indipendenza assoluta, per venire a rinchiudersi fra i muri di una città ignota, dove non conoscevano nessuno, dove ogni volto incontrato per via era straniero e solo le cure affannose della famiglia riempivano i giorni altre volte così lieti del dolce passato. Il disastro finanziario del nonno di Caravaggio, che aveva inghiottita la dote di mia madre, contribuì a rendere più difficile il reggimento domestico gravato di tre figliuoli, per cui le generose donne, che se ne erano assunto il carico, dovettero sentirne per le prime il disagio e più cocente il rimpianto della perduta pace.

A consolarle un poco del brusco distacco, mio padre promise loro che saremmo andati tutti gli anni un paio di mesi a Casalmaggiore. Era allora un viaggio di non poca importanza. Si partiva alle dieci di sera colla diligenza Franchetti che stazionava in via Monte Napoleone; ricordo ancora l'impazienza mia e dei miei fratelli nell'attesa dell'ultima ora. Seduti tutti intorno alla sala da pranzo, al lume oscillante di una candela, colle braccia incrociate sul nostro rispettivo bagaglio, il tempo ci sembrava eterno. Il silenzio era un abitudine della nostra famiglia, che solo il mio minore fratellino si permetteva di rompere saltellando intorno alla zia Nina; ma in quella circostanza speciale arrischiavo anch'io di chiedere di tanto in tanto. — Sono suonate le nove? — Il gran momento giungeva alfine ed era allora come un accavallarsi di onde, urtandosi l'un l'altro, a chi faceva più presto, nel puerile timore di non arrivare in tempo. L'assicurazione di papà che i posti erano già presi e che la diligenza non sarebbe partita senza di noi riconduceva la calma. L'illuminazione di Milano non era mezzo secolo addietro così brillante come oggi e quando si giungeva dinanzi all'agenzia Franchetti la massa nera della diligenza ferma ad aspettarci non lasciava scorgere altro. Questa diligenza era composta qualche volta di due scompartimenti, ma più spesso di tre: il coupè a due posti, il centro a sei e la rotonda dietro, alla grazia di Dio. Era tanta la fretta di occupare il nostro posto che non si badava ad altro; ombre indistinte facevano come noi; entravano, prendevano possesso del loro cantuccio e scomparivano nelle tenebre; i cavalli scalpitavano, il mozzo di stalla con una lanterna in mano dava l'ultima occhiata alle ruote, il postiglione schioccava la frusta e via! Traballando la grossa mole attraversava la città, ma il bello veniva dopo, in aperta campagna, quando la diligenza inoltrava per vie maestre completamente buie colla sola guida dei due fanali, che gettavano fra le ruote un scialbo raggio giallastro.

Durava ancora il ricordo degli assalti briganteschi alla diligenza e la zia Margherita, che non conosceva paura, dilungavasi volontieri a narrare le gesta del celebre Strigelli, intorno al quale aleggiava una romantica leggenda di amore infelice propria a concigliargli la benevolenza del sesso gentile; si diceva anche che egli spingesse la cortesia fino a munirsi nelle sue aggressioni di acqua di Colonia, per soccorrere le signore che si fossero spaventate. Siccome però non tutti i briganti somigliavano a Strigelli e fosche storie correvano di non lontani assalti alla diligenza stessa in cui eravamo, non potevo impedire alla mia immaginazione di pensarci, e per un gruppo d'alberi, per un rialzo improvviso di terreno, trasalire quasi vi fosse nascosto un agguato. E lunga una notte intera trascorsa in un cassone buio insieme a compagni di viaggio dei quali non si è ancor vista la faccia. Si tentava di indovinare qualche cosa in un gesto, in una parola; qualcuno buttato in un angolo come un fagotto non si muoveva durante tutto il tragitto; qualche altro russava. C'erano invariabilmente delle donne che soffrivano per dover stare col dorso contro i cavalli: a una di queste una volta un soldato offerse una presa di tabacco. A tratti regolari la diligenza si fermava per il cambio; usciva allora da una osteria un mozzo mezzo assonnato traendosi dietro i cavalli freschi; due o tre viaggiatori scendevano, gli altri stendevano le gambe con un largo respiro di sollievo cacciando la testa fuori dello sportello. Si scambiavano alcune parole: — Dove siamo arrivati? Manca molto? Che ore sono? — Intanto le bestie staccate dalla diligenza passavano a testa bassa, col dorso che fumava, avviandosi alla stalla. Il cassone nero traballando riprendeva la sua corsa nella notte. Quando finalmente l'alba imbiancava l'orizzonte si sapeva di essere ancora lontani dalla meta, ma uscendo dalle tenebre ci sembrava di rivivere. Borghi e paeselli si disegnavano nitidi nel chiarore del sole nascente, si riconoscevano i luoghi, si salutavano con una tenerezza di vecchi amici. A mezzogiorno apparivano le torri e le cupole di Casalmaggiore; battevano i cuori, battevano i piedi impazienti; il postiglione impettito nella sua divisa a mostre rosse e bottoni dorati schioccava la frusta ornata di peli di tasso e imboccando la cornetta — te re tè, te re tè, teretè — con una svolta più sapiente ancora di quella del vecchio Nicola faceva la sua entrata trionfale nell'albergo della Croce Verde a due passi da casa nostra.

Uno o due anni, non più, Casalmaggiore fu la nostra villeggiatura; ma nella prova del tempo gli inconvenienti della lontananza si mostravano sempre più gravi; spesa di viaggio per sei persone, la casa per una decina di mesi abbandonata, l'impossibilità di sorvegliare quel po' di terreno che si aveva, queste e forse altre riflessioni persuasero mio padre della necessità di vendere e tutto fu venduto; i vigneti testimoni di tante allegre vendemmie, la casa con tutti i suoi fiori, coi panciuti cassettoni a riporti di metallo, colle placche civettuole ancora nei loro platonici amori fra lo specchietto arrugginito e il candelabro spento. Tutto; anche il susino di S. Anna, anche le belle incisioni della camera da letto, rappresentanti le scene pietose della rivoluzione francese e quella povera regina che scontò in un modo così atroce le leggerezze di una società intera. Il dolore, che deve essere costato alle mie zie la generosa rinuncia, è segno di una magnanimità che, vieppiù distanziandosi nel tempo, mi appare in tutta la sua grandezza. La zia Nina anche in tale eccezionale circostanza non uscì da quella sua attitudine apparentemente passiva che non la metteva mai sul primo piano dell'azione, che è in fondo l'istintiva prudenza dei deboli; anche la zia Margherita, forse per non far pesare su altri il sacrificio, tentava di mostrarsi rassegnata, ma io la udii nel colmo della notte la sua voce piena di schianto urlare colla bocca sotto le coltri: "Non ho più nulla! Non ho più nulla!..." Cara ed eroica donna, che cosa erano le sue asprezze, le sue collere, i suoi lampi d'ira, se non l'ombra della gran luce del suo cuore?

Più piccolo cuore, senza dubbio, era al confronto quello della zia Nina, ma se io, sua vittima appena adolescente, avessi dovuto giudicarla solo dal male che mi fece mi sarei grossolanamente ingannata. Io non la giudicai allora, soffersi in stupore e in silenzio una avversione che non comprendevo. Ora che la scienza della vita mi ha insegnato a leggere nei cuori, compiango ancora la fanciulla che, per una fatale deviazione del sentimento, nella persona che doveva proteggerla ebbe conturbati gli anni primi e sacri della giovinezza, ma compiango anche colei che il mancato destino aveva trasformata da creatura d'amore in creatura d'odio. La verità che io imparai è questa. Ella era nata per l'amore; non l'amore fantastico, nè l'amore passionale, i quali esigono doti di intelligenza che mancavano a lei, ma l'amore semplice, l'amore per l'amore. Ho pensato qualche volta come la sua indole passiva e silenziosa si sarebbe accomodata alle abitudini della donna orientale, alle lunghe soste su un morbido divano, seguendo con gli occhi le spire dei profumi accesi nei braceri d'argento, immobile, senza alcun pensiero tranne quello dell'arrivo del suo signore. È però quasi certo che la zia Nina non spinse mai la sua immaginazione così lontano e i suoi sogni d'avvenire non oltrepassarono il benessere materiale di una comoda casa e di un buon marito. Tale modesta felicità non le fu concessa; la sognò sempre, la sognò fino ai limiti della vecchiaia e il sogno aveva un nome. Si era innamorata di un giovane senza professione e senza beni di fortuna il quale, lasciandole credere che l'avrebbe sposata quando gli si fosse aperta una carriera, aveva calcolato bene su quel suo temperamento remissivo, molle, che non parlava, che non faceva strepito. Ma la vana attesa di tutta la vita, lavorando inconsapevole dentro di lei, accumulava acredine, invidia, spasimo di sensi insoddisfatti, di amor proprio ferito e un sedimento di veleni si era fatto strada nel suo cuore aspettando una occasione per traboccare. L'occasione sono stata io.

Un semplicismo troppo elementare vorrebbe dividere gli uomini in due distinte categorie, i buoni e i cattivi; ma non vi è nulla di assoluto là dove il movimento è continuo e la trasformazione legge di natura. La zia Nina era buonissima, buona con tutti, pronta sempre a rendere servizio. Bastava guardarla, quando accarezzava il mio minore fratello e si scambiavano tra loro a bassa voce paroline e baci, per riconoscere la donna nel suo istinto primitivo di amante e di madre, l'Eva dal gesto morbido e consenziente, dal grembo fecondo. Se ella avesse potuto compiere la sua missione il veleno corruttore non l'avrebbe neppure intaccata. È con profonda soddisfazione che posso affermare: ella era buona. Durante gli anni del mio martirio i suoi atti, le sue parole, i suoi torbidi silenzi cadevano sull'obbiettivo della mia mente non in modo diverso dei paesaggi che il viaggiatore accumula sugli obbiettivi della sua kodak ma che sviluppa più tardi. La mia mente, inesperta allora, accoglieva ciò che solo gli acidi e i reattivi dell'esperienza mi hanno permesso di classificare secondo il loro valore. Il mio orecchio udì l'orrenda confessione: — Non la posso soffrire, la odio. — Ma è tutta l'anima mia maturata dal dolore, che mi fa ricordare lo schianto della sua voce nel pronunciare quelle parole. Era la voce compressa di una grande sofferenza.

Può a tutta prima non sembrare molto visibile il nesso tra la sua vita mancata e l'odio per la mia che sorgeva; gli è che questa fanciulla, sorta improvvisamente al suo fianco, nel momento in cui forse stava per dimenticare, le rimetteva davanti tutte le sue aspirazioni, i suoi spasimi, i suoi disinganni. Credendo di odiarmi si ingannava; odiava confusamente in me la forma derisoria del suo destino, la rivale, l'usurpatrice giovane, del bene che le era sfuggito. La mia presenza le sembrava una sfida, la mia supposta felicità un insulto. Se non poteva più toccare i miei capelli, se non voleva più uscire con me al suo fianco, era perchè la sua carne martoriata provava al mio contatto una ripugnanza che doveva farla soffrire nelle sue fibre più profonde. Povera donna! Vorrei ella sapesse ora, che mai in nessun momento io le ho voluto male e sono così fiera e sono così felice di aver preso il suo odio sulle mie braccia portandolo in alto alla luce della verità che gli ha reso il suo vero nome: dolore.

È in queste lontane impressioni che si deve cercare l'origine delle molte pagine da me scritte in favore della donna che ha fallita la sua missione. Certo il caso della mia zia non è dei più comuni, ma come fondamento della tesi è tipico e il fatto di averlo potuto esaminare in tutte le sue forme e gradazioni prima, di averlo vagliato poi attraverso anni ed anni di esperienze, mi dà la piena sicurezza del mio asserto. Sarebbe giudizio grossolano il credere che dal solo atto materiale di unirsi ad un uomo dipenda la felicità della donna; essa dipende da una logica concatenazione di cose, ma è pur vero che il desiderio del fiore implica la ricerca della semente. Questioni così delicate vengono purtroppo manomesse da persone superficiali e guaste di spirito che non sarebbero degne neppure di avvicinarvisi; sono costoro che gettano una volgare ombra di ridicolo su ciò che avvi in natura di più santo, di più vicino a Dio. Io dirò ora una cosa che potrà scandalizzare qualche coscienza austera; prego di rammentare l'ammonimento di S. Paolo: La lettera uccide e lo spirito vivifica. Dunque dico che piacere è l'istinto più importante che il fattore dell'universo ha messo nella donna. Non importa se lungo la corruzione dei secoli e dei costumi deviò dallo scopo fino a sopprimere lo scopo stesso; esso è la voce del Creatore che affida con questo mezzo alla donna l'alto dovere di imporre all'uomo la continuazione della specie, al quale il suo egoismo lo sottrarrebbe immancabilmente se non vi fosse l'esca di un diletto. La più frivola delle donne, che si illude di infiocchettarsi e di civettare per seguire la propria vanità, ubbidisce senza saperlo a questa legge suprema; ma la donna che sente nobilmente di sè, che è pronta a tutti i doveri del suo sesso, ne esige pure i diritti e vuole amare e vuole essere amata, perchè le sue labbra non devono chiudersi per sempre senza aver conosciuto il bacio dell'uomo, nè il suo grembo isterilirsi prima di avere comunicato i misteri del suo essere alle generazioni future. Nessuna vera donna sottoscrive a questa rinuncia senza soffrire; talvolta la sofferenza è spasimo e disperazione, tal'altra è profonda mestizia o rassegnazione malinconica od anche fierezza di silenzio, o vertigine di oblio; ma qualunque sia il velo pudico che cela la sofferenza, guardatele bene queste vergini canute e, salvo rare eccezioni, sollevando un lembo di quel velo, troverete la lagrima, congelata fra ruga e ruga.

Alle eccezioni apparteneva forse la zia Margherita. Temperamento virile, abbiamo visto con quanta risolutezza si era opposta al matrimonio con un uomo che pure amava, evidentemente perchè in lei era scarso l'istinto del sesso e il bisogno sentimentale. Mente agile ed arguta, procliva alla critica, all'ironia, al sarcasmo (diceva di leggere volontieri il Fanfulla — il Fanfulla delle prime battaglie — perchè era sarcastico) tutta scatti e violenza, come avrebbero potuto trovar posto in lei i divini abbandoni dell'amore? Non riesco nemmeno a immaginare un tenero bambino sulle braccia della zia Margherita senza tremare per la sua sicurezza. I fautori estremi del femminismo, che vorrebbero emancipare la donna dalla casa, dal marito e dai figli spingendola sulla via delle conquiste maschili col sofistico pretesto che non tutte possono avere una casa, un marito e dei figli, dimenticano che la felicità non si trova che nel pieno esercizio delle proprie attitudini. Le iniezioni di mascolinità, che essi vogliono fare alla donna, se potranno offrire qualche frutto sporadico alle poche eccezioni che sono in grado di profittarne, ben maggior danno recherebbero alla donna e alla società portando il turbamento in migliaia e milioni di animuccie le quali si persuadono facilmente di innalzarsi meglio a sgonnellare negli Uffici pubblici, anzichè raccogliersi vigili e silenziose sopra una culla. Madamigella della Ramée, nota per diversi racconti pubblicati sotto il pseudonimo di Ouida, chiese un giorno a un giovinotto, che le si protestava ardente ammiratore, se la ammirava come scrittrice o come donna. — Oh! come scrittrice! — disse lui convinto di farle la più gradita delle lodi. — Quanto avrei preferito — esclamò lei — essere ammirata come donna! — Sono perfettamente del parere di madamigella della Ramée. E per mio conto soggiungo che se, nella ipotesi di un rinnovamento di vita, mi si promettesse la maggior gloria letteraria in cambio dell'amore, rinuncerei subito, essendo donna, al lauro di Dante, ma non a un sospiro di Beatrice.

Incominciando a scrivere questi ricordi della mia giovinezza ero molto preoccupata dalla necessità di dire quanto le mie zie fraterne l'abbiano resa triste e quanto al confronto dei nonni e delle zie materne, tutti così buoni con me. Ma accanto a questa necessità di fatto si ergeva pure dalla mia coscienza il dovere imprescindibile di difenderle contro i fatti stessi; esempio singolare di una verità non da tutti riconosciuta, quelle mie zie, che per cuore e per amore di famiglia non erano inferiori a nessuno, riuscirono a rendermi infelice perchè, se il male fosse un esclusivo prodotto di coloro che deliberatamente lo vogliono fare, assai meno ve ne sarebbe al mondo, ed infinito invece è il male che si fa senza saperlo, senza volerlo. Se ognuno di noi si esaminasse a fondo troverebbe una quantità di circostanze che lo indussero a fare questo male involontario, molte volte credendo di far bene. Nel caso delle mie zie, la poca conoscenza della vita e la nessuna attitudine educatrice non le rendeva adatte certamente al difficile impegno che era loro caduto sulle spalle, quando, già vecchie, avevano da tempo inquadrata la loro esistenza in forme e modi che non si potevano spezzare impunemente. Lasciate nella loro casetta, con le loro abitudini, le loro amicizie e la santa libertà di due esseri che vanno perfettamente d'accordo, nessun lievito avrebbe fermentato nei cuori che non indietreggiarono davanti al sacrificio. Le forze non furono pari allo slancio, ma il naufrago, che è stato salvato dal maggior pericolo, farà colpa al salvatore di avergli lasciato qualche unghiata sulla pelle?

Io ero una fanciulla un po' diversa dalle altre, bisogna dirlo; diversa nelle qualità, diversa nei difetti. A parte le ragioni di antipatia che poteva avere per me la zia Nina, mancavami affatto quella festevole leggerezza della gioventù che si fa perdonare tutto. Quando penso che io non ridevo mai, che anche nei divertimenti la serietà non mi abbandonava; seria e timida e tutta rivolta dentro di me a cercare la ragione di ogni cosa, devo convenire di essere stata una adolescente, priva delle seduzioni naturali di quell'età. Non ero nè graziosa, nè spiritosa, nè amabile; in una parola non davo ciò che normalmente si poteva pretendere da me. Se la mia estrema sensibilità avesse avuto pascolo di carezze e di buone parole come hanno quasi tutte le fanciulle, anche la grande timidezza che mi paralizzava si sarebbe sciolta; ma tra l'ironia della zia Margherita e l'odio della zia Nina, senza altri parenti vicini, senza sorelle, senza amiche, conducendo una vita rinchiusa, in un ambiente contrario a tutte le mie aspirazioni non ancora sviluppate, ma latenti in tutto il mio essere, che mai potevo fare se non rinchiudermi in me stessa, asilo sempre pronto ad accogliermi? Questa mia solitudine spirituale, questa astrazione da fatti e detti e persone che non mi interessavano venne chiamata a volte aristocrazia, a volte egoismo. È singolare la deviazione di significato che queste due parole assumono nelle menti incolte. Io non so perchè si debba chiamare egoista la persona che vive delle proprie risorse e non quella che povera d'animo e di intelletto va mendicando con graziette e sorrisi l'alimento che non trova in sè. Questo santo, sacro, divino egoismo è l'economia di forze che il poeta, il pensatore, il veggente tengono in serbo per l'opera loro, ben più proficua agli uomini che non la vana dispersione di sorrisi e di grazie fatta da coloro che hanno la testa vuota e il cuore freddo. Non discuto qui dell'ingegno; molti sono i chiamati che non potranno sedere fra gli eletti; ma è certo che quando una vocazione si presenta imperiosa allo spirito, il dovere è di staccarsi dalla strada maestra nella quale si cammina in drappelli, per inoltrare, sia pure povero e nudo e solo, sul sentiero dove la voce misteriosa chiama. Io non sapevo ancora che cosa avrei fatto e dove volevo andare, ma un contrasto inesplicabile fra me e gli altri si accentuava ogni giorno più profondo; mi sentivo isolata, separata, con una sensazione di imbarazzo e di fuori posto che doveva rendermi abbastanza goffa. Era questo che chiamavano la mia aristocrazia?

Un rettangolo di carta lungo sette centimetri che bacio e ribacio con accorata tenerezza è il biglietto da visita di mio padre: Arch. Fermo Zuccari. Egli era anche consigliere e assessore comunale e socio onorario della Accademia di Brera. Nella semplicità di questo biglietto, in cui nemmeno la sua professione era scritta per intero, ritrovo tutta la sua semplice e modesta vita; eppure è con un sentimento di ammirazione che mi fa tremare la mano che mi accingo a parlare di lui, a condurre la sua nobile personalità sulla scena di piccoli avvenimenti e di piccole persone fra le quali sono cresciuta. Nell'articolo di quella mia amica trentina che io venni a conoscere qualche anno dopo che fu stampato, ritrovo con gioia le parole che a proposito di mio padre scrivevo in una lettera privata; esse sono là a testimoniare della sincerità della mia ammirazione. Tuttavia in quegli anni di nebbia per il mio intelletto e di sovrumana tristezza, ricevevo di lui, come ricevevo dalle mie zie, il solo obbiettivo fotografico. Esse mi facevano soffrire, lui no. Dolce, malinconico, distinto in ogni suo gesto, sobrio di parole, io lo veneravo, ma lo sentivo lontano. Sulla mia timidezza agiva anche la sua superiorità. Ne avevo un grande rispetto, alimentato dall'opinione e dal rispetto che ne avevano tutti quelli che lo avvicinavano; ma l'ottuso bacherozzolo, che io ero sempre, non lo conosceva ancora. Furono tutti gli uomini incontrati lungo i sentieri della vita che mi rivelarono veramente chi fosse mio padre, il suo valore morale, la purezza de' suoi sentimenti, la tempra adamantina della sua coscienza. Non è che manchino uomini di incorrotta moralità, sentimenti puri e coscienze oneste; quello che non ho trovato più dopo mio padre (o in numero di sola eccezione) è l'uomo intero, l'armonia assoluta fra ingegno e costumi, in una parola l' esemplare. Io vidi, e ancora il cuore ne soffre, talenti insigni guasti dalla vanità, dall'invidia o dalla sete dell'oro o dalla tabe del vizio; vidi in anime gentili incredibili leggerezze; in promettenti intelligenze assenza di ideali; e sempre e dovunque nei curatori delle vergini anime infantili, padri e maestri, l'insufficenza di ogni criterio educativo soffocato nella volgarità, nel materialismo, nel non saper dominare le proprie passioni.

Mio padre era un silenzioso, ma nelle poche parole che profferiva non perdeva mai di vista i figliuoli che udivano, per cui posso dire che la nostra educazione morale, mia e dei miei fratelli, venne fatta non a mezzo di prediche, ma con pochi assiomi saldamente imperniati sull'esempio. È appunto questo esempio, non mai in difetto, che lo solleva al di sopra della folla e tanto alto nel mio cuore. Le vere qualità di un uomo meglio che in pubblico si giudicano fra le pareti domestiche. Quanti appaiono educati in società che in famiglia si abbandonano ai loro istinti volgari! Le conosciamo tutti, io credo, le famiglie danarose che, fra le eleganti suppellettili dei loro appartamenti, si abbandonano a discorsi da trivio e dinanzi ai figliuoli, che hanno già la loro fortuna assicurata, non sanno parlar d'altro che del modo di accumulare ricchezze e tengono in gran conto A. perchè ha molti soldi e disprezzano B. che è povero. Ah! vivaddio, noi non eravamo ricchi, ma di denari non si parlava mai e quelle celie di cattivo gusto e quei bassi intercalari di gente che porta addosso un patrimonio in brillanti non varcarono mai la soglia di casa nostra. E questo non solo per la innata signorilità di mio padre; anche le sue sorelle erano provinciali, erano ignoranti, ma volgari no; neppure la zia Margherita nei suoi impeti di collera; e non lo erano i miei fratelli, eredi delle migliori qualità del nostro genitore.

Potrebbe per avventura chiedere qualcuno de' miei lettori come mai un uomo simile non avesse influito meglio sulla felicità dei miei giovani anni. Qui si dimostra l'alta missione della donna in famiglia, che solo i miopi di intelletto credono esaurita nello sferruzzare calze e quindi inutile agli evoluti tempi moderni, mentre essa è di tale ed elevata importanza che il migliore degli uomini, ove ella fosse da meno al compito, non potrebbe surrogarla. Ne fanno fede nella cronaca giudiziaria di tutti i giorni il fatto delle matrigne che seviziano i figliastri senza che il padre se ne accorga o sia in grado di porvi rimedio, mentre assai raramente o quasi mai ciò avviene per colpa dei patrigni. Egli è che i figliuoli e specialmente le ragazze stanno colla madre, non col padre; nella casa la vera padrona è la donna. La donna saggia — dice la Bibbia — edifica la propria casa, la stolta la distrugge. E dell'uomo non si parla. Solo il matrimonio ideale, che fonde due anime in una, può dare il risultato di una volontà unica. Chi può dire che cosa sarebbe stato di me se mia madre non fosse morta? Nella condizione dolorosa in cui tutti noi fummo posti per tale perdita, mancava l'elemento primo della felicità, che è l'intesa perfetta. Ognuno di noi faceva soffrire gli altri senza volerlo, ed a sua volta soffriva, ma le zie erano due, i miei fratelli due; mio padre ed io soli alle due estremità della vita.

Non mi sarei accinta a questo esame retrospettivo delle cause che, più o meno, influirono sullo sviluppo della mia mentalità, se non vi avessi scorto una situazione psicologica meritevole di studio, non per quanto riflette la mia piccola persona, ma per gli anelli che la congiungono a problemi di generale interesse. È questa anche una delle ragioni che mi distolsero dal farne soggetto di un romanzo a fine di non alterarne la rigorosa verità. L'intima unione di marito e moglie non poteva esistere fra mio padre e le sue sorelle, è evidente. Egli rimaneva durante il giorno nel suo studio, abbastanza lontano dalle altre stanze, per non sapere nulla di quanto vi accadeva. Se veniva tratto tratto a farci una visitina, ci trovava intente alle nostre occupazioni; se anche un momento prima vi fosse stato un diverbio, al suo apparire tutti tacevano. Per parte mia non so che cosa avrei sofferto piuttosto che portare a lui le mie recriminazioni; e questo, non solo per la soggezione che ne avevo, ma anche e più per un sentimento di dignità superiore ai miei anni e per quell'istintivo abborrimento delle azioni volgari che mi valse tante accuse di aristocrazia. Sotto questo aspetto anche mio padre era aristocratico e lo attestano i suoi modi educativi. Avendo io una volta negato, era la verità, di avere commesso non so più che fallo, stavo per dargliene la prova quando egli mi arrestò di botto dicendomi: "La tua parola mi basta, non aggiungere altro". Ah! che largo respiro! Perchè non ho avuto allora il coraggio di gettargli le braccia al collo? Che delicatezza di tocco! Quale profondo intuito delle anime!

Un ritratto a olio di mio padre, che nel nostro salotto faceva di riscontro a quello della mamma dipinto da Moriggia, lo rappresenta nel costume da atelier dei giovani allievi delle scuole artistiche romane: blusa sciolta, largo risvolto della camicia, berretto di velluto nero detto alla Raffaella. Sotto l'ombra che tale berretto getta sulla fronte, gli occhi di mio padre appaiono bellissimi, pieni di fuoco e di pensiero e bello il volto improntato a grande nobiltà. Gli ultimi dolori della sua vita però avevano spento il fuoco delle pupille; egli è rimasto nella mia memoria come il superstite di se stesso, malinconico, abbattuto, vinto. Il silenzio, velo pudico della sua tristezza, doveva certo popolarsi per lui delle tante immagini del passato. Quando veniva ad appoggiare la persona stanca sul divanuccio della nostra sala da pranzo, sembrava che una nuvola lo sottraesse alla indiscrezione degli altrui sguardi. Che cosa pensava allora? Che cosa vedeva nella folla dei ricordi? È abitudine dei giovani il non occuparsi della gioventù dei propri genitori; così come li vediamo ci pare che siano sempre stati. Brevi frasi, vaghe allusioni, mi guidarono più tardi a comprendere quanto deve essere stata interessante la gioventù di mio padre. Egli non ne fece mai il minimo accenno, non parlava mai di sè; ma là, su quel piccolo divano, nella penombra della stanza poco illuminata, somigliava alla statua del dolore china sull'urna delle illusioni perdute. Troppo tardi io andai cercando nella vecchia Roma le traccie del giovane studente, soffermandomi con intensa commozione nei luoghi dove immaginavo egli avesse maggiormente fermato l'attimo fuggitivo della felicità. E una volta, prima che si vendesse la casa di Casalmaggiore, da certe vecchie carte discese dal solaio dove regnava la signora Tintimillia, sfuggì un piccolo brano sul quale riconobbi subito la calligrafia minuta e regolare di mio padre; era evidentemente l'ultimo foglio rimasto di un diario che egli teneva quando studiava disegno a Roma e vi lessi: " L'oste vedendo i neri nostri barbigi e i nostri cappellacci ci prese per briganti ". Sul foglietto la frase spezzata non aveva seguito e invano lo cercai altrove. La perdita di quel diario, scritto da lui nella antica Roma papale, la narrazione di quella gita fatta coi compagni nella vasta e maestosa campagna del Lazio dove era ancora possibile incontrare dei briganti, forse la relazione di un idillio in alte sfere, romanticamente troncato dal potere di un cardinale zio, (che questo ci fosse stato sapevo dalla solita archivista della famiglia) furono in tutti questi anni ed oggi più che mai oggetto per me di grande rammarico. È così dolce ritessere su documenti autentici la vita di coloro che abbiamo amato! Non è quasi un vivere ancora insieme? E vivrei colla mia anima d'oggi tanto vicino alla sua che non lo fosse nei giorni della ignara giovinezza.

1913

Eravamo due tristezze vicine, ma egli era la tristezza del tramonto, io quella dell'alba e tuttochè vicini i nostri dolori ci dividevano. Ho pensato tante volte, quando mi guardava in silenzio, ed alla mestizia della sua pupilla saliva un'ansia inquieta, che egli pure sentisse vagamente il malessere della mia posizione di fronte alle zie; ma poichè nessun fatto positivo lo confermava ed egli aveva ben a ragione piena fiducia nelle sue sorelle, la mestizia rimaneva fluttuante nel cerchio grigio della fatalità che era piombata su tutti noi colla morte della mamma. Una sera eravamo rimasti soli nel tinello ed era quell'ora della mezza stagione in cui il giorno muore e non è ancor scesa la notte. Mi trovavo seduta, non so come, in un angolo del piccolo divano; papà venne a sedermi vicino ed a me, che nel turbamento di aver preso il suo posto stavo per alzarmi, appoggiò dolcemente la fronte sulla spalla. Io non so che cosa avvenne nel mio cuore rinchiuso e dolorante cinto da una corazza di spine. Trasalii smarrita nella mia nullità. Erano così straordinari quel gesto e quelle parole che tremai tutta, presa da umiliazione per la mia spalla tanto magra, con la paura e la vergogna di pungerlo, di fargli male, si che mi ritrassi lentamente nell'angolo del divano, rattenendo il fiato. Egli allora disse: — Non ami il tuo papà? — Oh! — feci — e non mi fu possibile aggiungere altro, e non compresi che anch'egli, povero d'amore come me, era venuto al buio a cercare la mia carezza!... Vi è cosa più triste dì questo dramma di due anime? Sorvegliata, spiata, oggetto continuo di un mal volere che svisava ogni mio atto e incapace di reazione, le qualità di slancio e di ardore, che erano in me, giacevano soffocate al punto di non sapere io stessa decretarmi qual fosse il mio valore. Andavo avanti ad occhi chiusi, barcollante, impacciata, timorosa sempre dell'ironia che mi feriva con veri colpi di pugnale e in tale contrasto l'affetto per mio padre si rattrappiva in una forma di tenerezza che portava l'abito del mio dolore. Povero vecchio, lo vedevo aggirarsi con passo di fantasma in quelle stanze dove era solo, accanto a me, sola. E me ne veniva uno struggimento, una malinconia piena di rimorsi impotenti. Come il riso era straniero alle mie labbra, anche il pianto non era facile in me. Pure una volta che avevo il cuore gonfio di tutti questi sentimenti in lotta, fermando lo sguardo su di lui che più accasciato del solito giaceva sul divano, rigido e pallidissimo, fui presa da tanto affanno che fuggii in camera, dove la zia Margherita, venuta a raggiungermi, mi trovò immersa in una crisi di lagrime. Alle sue domande risposi schiettamente che piangevo pensando al giorno in cui papà sarebbe morto. Uno scricchiolio di mobili mossi nel salotto attiguo e l'ombra di papà fra uscio e uscio mi fecero capire che anch'egli mi aveva seguita.

Lagrime invece di baci?... Ahimè! se scrivessi il mio panegirico dovrei mostrare la fanciulla intelligente e amorosa, la forte Antigone che sorregge il padre cadente, ma scrivo pagine di assoluta sincerità e per disgrazia non ero nulla di tutto ciò, allora. Poche persone rimasero lungamente acerbe quanto me. Avrei l'aria di mancare a questa dichiarazione di sincerità, se volessi sottrarmi al merito di una certa intelligenza e di una forza nelle battaglie posteriori della mia vita; ma allora, ripeto, ero una povera creatura embrionale. Le sciocchezze, che feci e che dissi nel lunghissimo tempo della mia formazione, sono incredibili. Quel po' di strada, che mi sono fatta nel mondo, me la sono scavata da me graffiandomi ai rovi e lacerandomi ai sassi. Tutte le mie facoltà, anche quello del sentimento, si temprarono nel dolore. È solo dolorando che ho potuto amare mio padre quando era con me; è ancora con un doloroso rimpianto che penso a lui, che vi ho sempre pensato dal dì che lo perdetti. Una o due volte all'anno andavamo insieme a far visita a qualche signora che era stata amica della mamma. Erano brevi oasi di piacere, anche dalle quali non sapevo trarre tutti i vantaggi che avrei potuto nel libero abbandono di me stessa, poichè il mio spirito non era mai libero dalla ossessione delle zie. Un po' di colpa era mia? Me lo domando almeno. Perchè non ho saputo uscire dalle strettoie nelle quali avevano inceppato ogni mio movimento paralizzandomi al punto che non osavo abbracciare mio padre? Perchè non sono stata superiore agli avvenimenti? Mi sa male credere che tutto il male mi sia venuto dagli altri. Conosco una quantità di fanciulle che poste nel mio caso ne sarebbero uscite con una risata. Io invece non avevo nessuna delle grazie dell'età; mancavo anche di quella elasticità di spirito che sa capovolgere una situazione. Ero tutta di un pezzo. Troppo seria, prendevo tutto sul serio. Anche in età inoltrata, anche adesso, il primo che capita può farmi credere qualunque cosa. Una di quelle amiche di mia madre che vedevo a rari intervalli, mi trattenne un giorno a pranzo. Abitava nella casa di Luciano Manara in via S. Andrea e dopo pranzo un fratello di Luciano, Achille Manara, venne a far visita alla signora. Io stavo a un tavolino appartato sfogliando un libro quando udii la signora che parlava di me accennando alla morte prematura della mia mamma. Manara mi guardò un momento e abbassando la voce disse: " Elle a les yeux assassins ". Evidentemente la sua intenzione era di non farsi intendere da me, ma io che non ero sorda e che sapevo il mio francese rimasi grandemente conturbata. Rammentando che alcuni anni prima uno zio mi aveva detto che i miei occhi erano tinti di carbone, non dubitai più di essere una creatura assai disgraziata. Ad onta di questo stato di mortificazione perpetua non posso dire che mi sentissi infelice; di che natura fosse la forza che mi sosteneva lo ignoravo affatto, ma è certo che non conobbi mai quegli accasciamenti, sotto i quali confessano di essersi abbattuti tanti uomini di ingegno e uomini di cuore.

Giovanni Segantini, che ebbe una infanzia tristissima, mi diceva di avere provato questa stessa sensazione. Io non conoscevo il poema di Dante, che nessun professore non mi ha mai spiegato e che ero troppo ignorante per comprendere da me, ma essendomi venuti sott'occhio due versi mi piacquero tanto che li scrissi sopra un mio quaderno e sempre rileggendoli poi mi sentivo invasa da una gran forza e da una sicurezza come se qualcuno mi portasse. I versi sono questi:

«Sta come torre fermo che non crolla

giammai la cima per soffiar di venti».

E mi compiacevo tutta a notare che Fermo era il nome di mio padre.

Non parmi esagerata l'applicazione a mio padre dei versi danteschi. Egli era veramente la torre incrollabile, la torre d'avorio significazione di ogni altezza. Tutti i parenti lo riconoscevano; alla sua morte si disse che anche gli avversari rendevano giustizia alla nobiltà della sua vita, alla saldezza de' suoi principi. Tale saldezza appunto lo rendeva intransigente, poco atto a seguire le vie comuni che conducono alla fortuna. Gli ultimi anni gli furono forse amareggiati anche dalla ingiustizia della sorte la quale preferisce gli intriganti ossequiosi e pieghevoli, all'uomo onesto che non discende a patti servili. Il maggior lavoro di mio padre fu il disegno, scelto fra molti concorrenti, e la messa in opera della grande chiesa abaziale di Casalmaggiore dedicata a S. Stefano titolare della città. Eretto sull'area di una antichissima chiesa distrutta, ampliato per la generosa cessione di località limitrofe, il nuovo tempio si presenta isolato e imponente su tredici gradini di elevazione; un pronao ad archi introduce all'interno che ha forma di croce greca, decorato per ogni lato da un ordine di colonne corinzie. Somiglia un poco, fatte le debite proporzioni, alla chiesa di S. Alessandro in Milano; non ha, per esempio, di questa i numerosi e ricchi affreschi, quantunque ne fosse fatto invito ai giovani pittori concittadini allievi del Diotti. In complesso manca a questo tempio troppo giovane la suggestione delle preghiere salite per anni e per secoli al trono di Dio insieme agli aromi dell'incenso ed ai singhiozzi ed alle lagrime sparse ai piedi dell'altare, o soffocate nell'ombra dei confessionali, che tanto fascino di mistero dànno a certe vecchie chiese. Ma invecchieranno le pietre, i marmi, gli argenti; il tempo stenderà il suo mantello bruno sulla rosea nudità delle pareti; nuovi peccati e nuove lagrime deporrà l'uomo bisognoso di fede e altre generazioni cogli stessi amori, cogli stessi dolori, verranno qui a cercare il fascino del mistero. Un curioso episodio sconosciuto e che mi piace di conservare a giustificazione del coro e dell'abside giudicati da qualcuno troppo ristretti in confronto alla mole del tempio, è che sul disegno di mio padre le proporzioni erano più ampie, appunto per conservare l'armonia dell'insieme, e che dovette cedere con grande malavoglia alle pretese di Monsignore Abate, al quale faceva comodo lo spazio per transitare i carri che al tempo della vendemmia portavano le tinozze cariche d'uva nelle sue cantine. Per tal modo la ragione superiore del tempio la vinse sulla ragione meschina dell'uva di Monsignore ed i cittadini, che avevano ceduto con slancio i propri stabili pur che il monumento religioso usufruisse della maggiore ampiezza, dovettero accontentarsi di sapere che le vendemmie prelatizie non sarebbero disturbate.

In Milano, oltre a lavori secondari per diverse case, mio padre eresse il teatro Fossati, ben diverso però dall'attuale che venne ampliato e modificato in seguito. Era un teatrino popolare, senza pretese architettoniche, con una vivace decorazione floreale ricorrente lungo i palchi e una abbondanza di tappi di gazose che andavano alle stelle. Fu inaugurato, mi pare, dalla compagnia Moro-Lin con Angelo, tiranno di Padova. Il teatro era gremito fino al soffitto. Grandi piene vi fece anche il Preda, l'ultimo dei Meneghini, e vi recitarono il Bellotti Bon, la Marini, la Celestina Paladini esordiente nelle parti di ingenua. Anche Tommaso Salvini fece una comparsa nei Masnadieri. Quella sera noi eravamo in un palco di proscenio e proprio lì venne a fermarsi il Salvini con una faccia truce e minacciosa. Come non bastasse, gli viene in mente di chiedermi a un palmo di distanza: "Ha paura lei di un colpo di pistola?" Mi affrettai ad accennare di no col capo, perchè di voce non ne avevo neppure un filo; ma che grossa bugia avevo detta! Le fortunate vicende del cinquantanove, che liberarono Milano dalla dominazione austriaca, portarono sul palcoscenico del Fossati le rappresentazioni patriottiche e il direttore dell'orchestrina, un tipico vecchietto, che tra un atto e l'altro teneva a bada il pubblico coll'inno di Garibaldi era ben preparato a sentirselo chiedere tre, quattro, cinque volte. Appena taceva, dalla platea e dalle gallerie era un grido solo: L'Innoo! L'Innooo! Pareva il finimondo. Il vecchietto sorrideva e, dimenando il capo da destra a sinistra con un'aria di contentezza come se gli applausi fossero per lui, alzava la bacchetta del comando. Avendo narrato più su l'episodio di Monsignore a proposito della chiesa di S. Stefano non voglio tacere quest'altro relativo al teatro Fossati. Chiunque passa da corso Garibaldi può osservare sul portone del suddetto teatro una statua rappresentante l'eroe di Caprera sul punto di sfoderare una scimitarra sollevata in alto con gesto bellicoso; orbene, quel Garibaldi, comperato a prezzo d'occasione, teneva originariamente una spada; ma al momento di metterlo in opera i proprietari si accorsero che la spada non entrava nella nicchia del frontone. Che fare? Non era possibile privare un soldato della spada lasciandolo colla mano vuota ad acchiappare mosche nell'aria. Si tenne consiglio di famiglia e il più furbo propose di cambiare l'arma a lama diritta colla scimitarra, la cui lama curva segue a puntino la cornice della nicchia. Ed ecco in qual modo Garibaldi divenne turco.

Pochi de' miei lettori ricorderanno il Circo Ciniselli eretto al posto dove ora vediamo il teatro dal Verme; esso ebbe un'esistenza breve ma brillantissima. Destinato ad un uso di pochi anni, perchè l'area era già accaparrata dal teatro attuale, il Circo Ciniselli presentava nel suo genere una semplicità elegante che piacque subito; tutto in legno, fresco, leggero, coi palchi scoperti che pieni di belle signore somigliavano a canestri di fiori, fiancheggiati da un corridoio che permetteva agli eleganti di vedere e di essere veduti, fu trovato nuovo, geniale. Gli spettacoli equestri erano allora in gran voga; i signori dell'aristocrazia vi andavano ad esaminare da vicino il cavallo regalato dal Re, e un poco, io penso, la figlia e la nuora di Ciniselli, bellissime entrambe — la figlia, amazzone impeccabile di puro stile inglese; la nuora, audace volteggiatrice sul destriero in corsa. Eseguìvano poi col concorso di tutta la compagnia quadriglie e caccie presentate con molto lusso di vestiari. Il gusto per questi spettacoli mi sembra assolutamente tramontato, nè io me ne dolgo certo, chè non sono mai riuscita a farmeli piacere, specie quando veniva il turno dei pagliacci e, peggio ancora, quello dei ginnasti che sopra una corda tesa o sopra un trapezio arrischiavano ogni sera la vita. C'era un'altra compagnia rivale di questa, la Guillaume, che ebbe due celebrità: il moro Muller, il quale cavalcava a bisdosso senza sella e senza redini, sicuro come se fosse nella più comoda delle poltrone e miss Ella, da molti supposta un uomo per la forza straordinaria de' suoi garretti; saltava senza interruzione trecento cerchi sfondandone la carta a corsa del cavallo e poi dal medesimo cavallo balzava sovra un palco eretto all'altezza della prima loggia. Una specialità di miss Ella era il breve abito di velo semplicissimo invariabilmente bianco e la sorella, che non la lasciava mai standosene in mezzo al circo con una lunga frusta in mano a dirigere il passo del corridore, ufficio riservato abitualmente agli uomini. In complesso la compagnia Ciniselli era più elegante e giustificava le preferenze dell'alta società. Negli ultimi anni cambiarono gli spettacoli e il piccolo teatro decadde, ma a' suoi tempi buoni fu durante l'estate un ritrovo scelto. Opera anche questo di mio padre, vi si andava qualche volta ed era per me come uno spiraglio aperto sul mondo. Le signore dell'aristocrazia, gli uomini politici, i giornalisti, vi si davano convegno. Naturalmente non conoscevo nessuno, ma una volta che mio padre mi mostrò Leone Fortis in colloquio con Paolo Ferrari apersi tanto d'occhi a rimirarli. Due scrittori?! Nemmeno il Re mi avrebbe fatto battere il cuore a quel modo.

L'idea di pubblicare non mi era venuta ancora, non pensavo affatto a divenire scrittrice, ma i libri e coloro che li scrivevano esercitavano sulla mia mente un fascino singolare. Un opuscolo che trovai nella libreria di mio padre con questa dedica: Al carissimo amico Fermo Zuccari, Tullio Dandolo, mi sorprese come se avessi scoperto un titolo di nobiltà nella mia famiglia; e in casa della signora Cirilla Cambiasi, una delle superstiti amiche della mamma, mi accadde di vedere il manoscritto di una poesia che Giovanni Prati aveva scritta per lei; ricordo i due primi versi: " Dal molle serto delle tue chiome — Sull'arpa, o bella, gettami un fior " e me ne venne tanta esaltazione per cui quella signora mi pareva un essere straordinario. Ispiratrice di un poeta! Vi poteva essere fortuna maggiore? Noto anche una sera in cui mi avvenne di parlare con un vecchio avvocato e la conversazione, innalzandosi dal campo ristretto dei fatti quotidiani al volo delle idee, mi lasciò in un tale stato di orgasmo che per molte ore non potei prender sonno. Conobbi più tardi altre estasi, ma posso dire che la commossa impressione di quella sera non ne rimase offuscata; prima ancora che all'amore il mio cuore si aperse a questo bisogno di intellettualità, che contribuì per molta parte all'isolamento in cui dovevo trovarmi per tutta la vita. Nella modestia delle aspirazioni che già parte della mia naturale timidezza si faceva sempre più ritrosa per la mancanza di incoraggiamenti e dalla ironia e dallo scherno spesso, nei migliori dei casi da un silenzio indifferente, non mi sono mai creduta un solo istante superiore agli altri; ma che fossi diversa tutto me lo diceva, ad ogni passo, ad ogni parola. E perchè ero diversa mi trovavo sola. E perchè essendo sola mi nutrivo di me stessa, non cadevo nel languore che a taluni fa ricercare evidentemente un sostegno nella compagnia altrui. Questo fatto di bastare a me stessa era la forza che mi impediva di essere infelice fino in fondo. In fondo del mio pensiero, in fondo della mia coscienza, una flora misteriosa ed occulta, come quella che si forma negli abissi del mare, dava fosforescenze di luce e incanti di forme all'anima rinchiusa. Non odiavo, non mi vendicavo, non facevo nè volevo male ad alcuno; mancando intorno a me l'ossigeno di vita vivevo altrove, nell'ideale, nel sogno che erano per me la sola verità, la sola felicità, qualche cosa di indivisibile dalla mia carne e dal mio sangue.

Il nostro appartamento era ampio e per buona metà aperto sulla vista di tre o quattro giardini soleggiati; lo studio di mio padre si trovava da questa parte e la camera da letto anche; ma la mia giornata si svolgeva tutta intera nella sala da pranzo che era la più brutta, angusta, con una sola finestra a tramontana, col parato dei muri di un colore fosco che aiutava a renderla tetra e malinconica: essa fu per me il carcere di quelli che chiamano i più begli anni della vita. Seduta fin dal mattino, agucchiavo senza posa, tenendo qualche volta un libro sui ginocchi, nascosto dietro il cuscinetto che, a quei tempi ignoti alla macchina da cucire, serviva per appuntare orli e sopragitti. Oh! le giornate d'inverno trascorse in quel salottino dalla tappezzeria cupa, davanti al tavolinetto dove ammucchiavo i miei cuciti, i rammendi che non finivano mai.... Quanta neve ho visto cadere, un'ora, due ore, tante ore di seguito, da quella sedia dove avevo sempre freddo. La stufa era accesa, portavo due paia di guanti, i piedi ravvolti in una sciarpa di lana, ma avevo freddo, sempre freddo, incommensurabilmente freddo. E l'anima ardente volava!... Aveva ragione la zia Margherita.

Quando qualcuno vuol sapere gli studi preparatori che feci per scrivere la trentina di volumi da me pubblicati, rispondo: calze e camicie, camicie e calze. Questa vita sedentaria e rinchiusa non favoriva certo il mio sviluppo fisico; lo peggiorava la mia repulsione per qualsiasi esercizio dei muscoli, fosse pure scopare una stanza o saltare una sbarra; anche la passeggiata domenicale, la sola in tutta la settimana, mi riusciva di peso; se si aggiunge che parlavo pochissimo, è presto concluso che la mia esistenza si riassumeva nel pensiero e nessun igienista ha mai detto che sia questo la cura di una fanciulla sul crescere. Certe ore del giorno e dell'anno le ricordo anche oggi con un brivido. In febbraio, passato S. Antonio, nel qual tempo al dire delle mie zie, il giorno si allunga di un'ora, non si accendeva la lucerna a pranzo e dopo pranzo non la si accendeva ancora perchè, dicevano le zie, non era necessario vederci.

Era l'ora in cui mio padre stava più a lungo sul divano, immerso in quel suo riposo melanconico che nessuno di noi osava disturbare. Pareva che dormisse; e non dormiva, perchè tra il chiaro e lo scuro i suoi sguardi cadevano su di me; io li vedevo bene ed erano sguardi inquieti e soavi dove la tenerezza si mesceva a qualche cosa di accorato, come un dubbio. Le zie, sedute l'una di fianco all'altra, ritte contro il muro a guisa di due marmoree cariatidi, recitavano mentalmente le loro orazioni. La luce moriva a poco a poco, fuggendo prima dagli angoli, lambendo gli ottoni della stufa, le cornici dei quadri, le bullette del divano, fermandosi un istante tra le pieghe bianche delle tendine, alle quali dava una flessuosità vaga di fantasmi, finchè le tenebre cadevano improvvisamente sul nostro silenzio. Non si scorgeva più nulla, nè mobili, nè persone, ma al posto delle zie si accendeva un piccolo punto luminoso, come un occhio di fuoco. Era il sigaro della zia Nina che passava poi alla zia Margherita. Ora la brutta moda delle donne che fumano è purtroppo entrata nei nostri costumi; non così allora, si che questa abitudine delle mie zie, faceva parte della loro originalità, ed era esente da qualsiasi civetteria, molto più che non si trattava di eleganti sigarette, ma di veri virginia, aspri e forti. Esse però non fumavano in pubblico; è una attenuante.

Dolce è il crepuscolo della sera ai vaneggiamenti delle anime felici; ma io, nonchè felice, non ero nemmeno libera. Per la soggezione che mi dominava sempre non avrei ardito di accendere un lume e rimanevo così, àpata, nella tristezza snervante delle tenebre, immobile anch'io e silenziosa. S'avrebbero potuto udire i nostri quattro respiri. Mi domando ora che cosa sarebbe avvenuto, se non fossi stata supinamente ligia a quella specie di regola conventuale che strozzava in germe ogni mia volontà e sono convinta che non sarebbe avvenuto nulla, come non avvenne nulla ai miei fratelli che, più o meno, facevano quello che volevano. Ma io avevo già preso l'abitudine di ripiegarmi su me stessa, avversa per istinto alla lotta, che mi avrebbe sottratto tempo ed energia. Da quando abitai la mia anima come si abita una fortezza, e ciò avvenne prestissimo, il piano della mia resistenza si tracciava da sè e non mi accorgevo che uscendo da una prigione entravo in un'altra, tagliando i ponti che dovevano congiungermi alla vita.

Altre ore ricordo. D'estate, nei tramonti afosi di luglio e di agosto, spalancavo le finestre verso i giardini e là, accoccolata accanto ai ferri del balconcino, lasciavo errare lo sguardo sulle sale aperte di un appartamento signorile, dove uno sciame di fanciulle ridenti scherzavano con alcuni giovani amici sotto gli occhi carezzevoli delle madri, con quella sicurezza di gesti e di parole, colla libertà di movimenti e la fede in sè e la gioia di vivere, quale hanno solamente le fanciulle che si sentono amate. In altre stanze vedevo persone che si adornavano per il passeggio, donne davanti allo specchio, uomini che leggevano il giornale sdraiati nelle poltroncine, fumando. Poco a poco le abitazioni si facevano deserte, la frescura della sera attirava fuori, al largo, ai concerti delle piazze; la vita notturna si sovrapponeva alla vita giornaliera. Alle finestre apparivano e sparivano lumi, vagolavano ombre incerte, ondeggiavano ventagli, fluttuavano gonne. La brezza faceva dondolare nappe di coltroncini, veli di culla e nella penombra luccicava la sponda nitida di un letto, la maiolica fiorata di un lavabo; dolci intimità di alcova che si abbandonavano alle tenebre nascenti diffondendo nell'aria un profumo sottile di voluttà. Oltre i tetti, tra le sagome dei fumaioli, altri bagliori di lucerne invisibili, note di cembalo, trilli di canzoni, un nome, un grido, allargavano la cerchia del brulichio umano, tutto quel mondo di passioni che si agitava intorno a me, così vicino, così lontano!...

Tra me e i miei fratelli non vi fu mai il menomo screzio. Ma essi vivevano la loro libera esistenza di maschi; non erano obbligati come me a stare giorno e notte sotto la sorveglianza delle zie. Avevano in comune gli studi, i giuochi, le tendenze. Appena usciti dall'adolescenza si trasferivano all'università; quando venivano a casa erano accolti in festa. Nostro padre si occupava di loro con grandissima cura e sempre con quel suo sistema di pedagogia elevata, che mirava a sviluppare i più nobili sentimenti, innalzando la dignità della coscienza a mezzo della fiducia, anzichè deprimerla con sospetti ingiuriosi o ferirla con grossolani castighi. Ed anche verso di loro covava quell'ansia inquieta, quella preoccupazione dell'avvenire che tanta ombra spargeva sul malinconico tramonto della sua vita. Presentiva forse di doverci lasciare prima che si compisse il giro dei nostri destini. Per questo i suoi sguardi erano sempre carichi della tristezza del suo cuore; e non ebbe, povero padre, la soddisfazione così meritata, di vedere in qual modo i miei fratelli continuarono la tradizione della nostra famiglia mostrandosi degni del suo esempio.

La parola aristocrazia è troppo di sovente usata in senso contrario al suo vero significato; mi si permetta di ricondurla alle sue vere origini fissando il motto che ne riassume tutto lo spirito: Nobiltà obbliga. Che cosa vuol dire in fondo aristocratico, se non uomo superiore, uomo migliore? E far suo l'obbligo degli avi per conservarsi superiori, per diventare migliori, non è raccogliere un ideale di bellezza e diffonderlo nel mondo? Solamente un cervello ben meschino può credere che il prestigio dell'aristocrazia consista in un titolo sonoro o in uno stemma variopinto, mentre questi non sono che segni esterni privi di valore e di significato, ove manchi il principio conservatore dei caratteri di una razza. Tutte le supremazie che, abbiamo visto decadere, religiose, politiche o aristocratiche che fossero, decaddero per abuso di potere non per difetto del principio. Al principio di ognuna di esse sta una verità immortale che solo passando attraverso le mani impure degli uomini, degenera in colpa. Il bel cavaliere che moveva incontro alla morte, professando fedeltà a Dio, alla sua donna, al suo re, creava un codice dei doveri dell'uomo del quale possono alla lunga cambiare i nomi, non l'essenza vitale. La borghesia, raccogliendo il potere sfuggito alla classe aristocratica, fece suo l'obbligo e, se volle vincere, dovette ripristinare in tutto il loro vigore le virtù dell'avversario, traversando fiumi di sangue, perchè il dovere, la famiglia, la Patria, tornassero a splendere fra le idealità umane. Ed è giusto riconoscere i meriti della borghesia in un tempo in cui il senso di questa parola è stato svisato e corrotto per farne arma sleale di combattimento. Ognuno di noi che abbia la fortuna di una tradizione risalga il corso degli anni e saluti con rispetto, con riconoscenza, la memoria dei precursori che primi scrissero sullo stemma simbolico della loro famiglia la parola =dovere= che nel probo esercizio delle loro cariche, custodirono religiosamente quel tesoro di fede che donò all'Italia gli uomini del suo risorgimento. La tradizione, questa specie di sanità morale che imprime un passato dolcemente radioso alle generazioni uscite dal suo grembo, non è un sentimento fittizio ideato per il vantaggio di una casta; noi la vediamo continuata in certe famiglie di montanari, di semplici contadini vissuti lungi dai centri corruttori; tradizione rudimentale di ricordi, di abitudini, di pensieri successivamente sovrapposti, pari agli strati di terreni preistorici insaldati nella roccia. È fra queste persone modeste e fiere che noi troveremo l'attitudine severa e religiosa del patriarca, il gesto umile e pur dignitoso, rivestito di intima nobiltà, che certe vecchie donne conservano ancora come riflesso di una antica corona.

Se io cerco sul dizionario il significato della parola aristocrazia, trovo: "forma di politico reggimento nella quale il potere è in mano dei nobili". E sarà benissimo detto. Io però penso ad un'altra missione dell'aristocrazia, quella, che avendo creato il motto nobiltà obbliga, creò in pari tempo una tradizione conservatrice di bellezza. Coll'affievolirsi della tradizione molte forme di bellezza scompaiono; nè serve il dire che altre nascono. Noi siamo attaccati da secoli alla bellezza degli astri e dei fiori e se scomparissero, non credo che gli aeroplani e le macchine agrarie ci compenserebbero; l'uomo assetato di bellezza rimpiangerebbe pur sempre le stelle e le rose.

Vi è inoltre un genere di bellezza, che non si improvvisa, nata da millenni di civiltà, che nessuna scoperta per quanto intelligente può sostituire. I ritratti del patriziato antico sono una guida interessante per studiare i segni delle razze che si sono conservate pure; quelle donne dal collo lungo e sottile, dalla fronte liscia, dalle mani perfette, hanno nell'espressione del volto e nella dignità del portamento, nel fine sorriso e nello sguardo dominatore, un non so che di sovrano, che si impone anche ad un esame superficiale. E come si comprende che esse sole possano adornarsi di quelle trine, di quegli abiti sontuosi, di quei broccati, di quegli ermellini sui quali poggiano i gioielli fantasiosi degli orafi del cinquecento! Par di vedere lo stuolo delle ancelle intente al complicato edificio di quelle chiome divise a ricci, a onde, a treccioline, con giri di perle, con svolazzo di nastri e di nodi da richiedere parecchie ore di lavoro. Perfino le bimbe di cinque anni in abito scollato e guardinfante rivelano la principessa educata per tempo al contegno nobile, al gesto e al riserbo delle corti. Produzione artificiale, lungamente elaborata attraverso filtri di raffinatezza e di gusto, questo tipo della gran dama agì da fulcro elevatore e ispiratore in tempi lontani ma non dimenticati. Anche oggi subiamo il fascino di queste creature d'eccezione, che ci guardano dalle vecchie cornici colle loro pupille estatiche e sentiamo la malinconia di una bellezza che muore, che forse è già morta.

Infatti torna inutile cercarla questa bellezza nelle generazioni sorte ieri, portate in alto dai rapidi guadagni, sotto le quali piegarono vinte le antiche famiglie, ma che non riusciranno neppure coll'aiuto del tempo a formare la misteriosa catena della tradizione, poichè non esiste più il sentimento di essa. Il progresso per sua natura distruttore, ha bisogno di abbattere per edificare; la sua marcia trionfale procede fra mucchi di rottami. L'altera principessa che si faceva dipingere dal Van-Dyk o da Leonardo era conscia di affidare la propria bellezza ai secoli futuri in un esemplare unico; la milionaria d'oggi non sdegna di posare, magari in veste da camera, davanti all'obbiettivo fotografico che la riprodurrà in dozzine di copie per la soddisfazione delle sue cameriere. Ho qui un giornale quotidiano, uno dei più diffusi, dove è riprodotto il gruppo fotografico più recente della famiglia imperiale germanica; e mi domando se mai, invece di una fotografia autentica e legalizzata, non sarebbe questa una caricatura immaginata dal più feroce nemico degli Hoenzollern; tanto la volgare espressione dei personaggi armonizza colla sciatteria della posa. Sono sei i campioni, tre principi e tre principesse, che si presentano di fronte infilati tutti e sei a braccetto l'uno dell'altro, quasi per sorreggersi a vicenda, come operai che ritornano alticci dalla fiera; gli uomini insaccati in certi panni che sembrano lo spoglio del basso personale di una compagnia equestre; le donne spettinate, senza busto... Oh! ritratto di Beatrice d'Este così severamente agghindata in una rete di perle; gemme sfolgoranti e trine meravigliose di Maria de' Medici; pettinatura da dea che sorreggi le chiome fluenti di Lucrezia Tornabuoni, che figura faranno accanto a voi nelle pinacoteche dell'avvenire le sembianze ultra democratiche di questi ultimi rappresentanti dell'imperialismo ad oltranza?

Una delle buone qualità antiche era anche il giusto senso del risparmio praticato serenamente come un dovere, non solo, ma anche con quell'amore della tradizione che ci affezionava alle argenterie di famiglia, ai mobili, ai ritratti come a un tenero e sacro ricordo. "La spada di mio padre, la croce di mia madre" è una frase che ora fa sorridere; ma si ha torto, poichè essa conteneva un principio di felicità e di sicurezza che le famiglie moderne non conoscono. Nata alla metà di un secolo, che divise nettamente due società e cresciuta in un ambiente di provincia, il quale arretrava il progresso di venti o trent'anni almeno, sono certo un ben raro testimonio sopravissuto al morire di usi e costumi che, se avevano dei difetti, nutrivano pure forti virtù. La mia famiglia, composta di sei persone con un reddito modesto e il solo lavoro di un uomo declinante, viveva su un piede di economia, sto per dire, naturale, in cui non vi era nessuna privazione, perchè i nostri desideri oltrepassavano difficilmente la possibilità di soddisfarli. Inoltre mancava in casa mia, parmi averlo detto, quell'assillo della ricchezza, quel continuo parlar di denaro, giudicare una persona su quanto denaro possiede, scegliere moglie e carriera in base al maggior denaro che rappresentano e col denaro pesare la considerazione e riporre nel denaro la somma del bene, cose tutte che, a mio giudizio, oltre la volgarità insopportabile per uno spirito delicato, conducono all'invidia al malcontento, al pessimismo, veleno dell'anima. Per il fatto di avere minori bisogni non v'ha dubbio che si era allora più felici o, per lo meno, era maggiore il numero dei felici, potendolo estendere anche a coloro che non avevano grandi fortune; nè si giudicava minore il piacere di stare insieme bevendo un bicchiere di vino bianco o un siroppo di lamponi perchè non si usavano tovagliette di pizzo e rinforzo di marrons glacés. L'esempio della semplicità veniva dall'alto e da tutti i paesi. Lady Giorgiana Fullerton, nota filantropa e una delle più grandi dame dall'aristocrazia inglese, lasciò scritto che lei e i suoi fratelli non avevano mai a colazione più di una tazza di latte con pane raffermo; pane raffermo era pure il sistema generale delle nostre famiglie e dei nostri collegi; in molte case poi, alle persone di servizio veniva misurata anche la quantità, sì che per dimostrare l'agiatezza di una casa, dicevano che il pane vi era libero. In alcune città della Francia famiglie milionarie offrivano ai visitatori serali un piatto di mele delle loro campagne; e a Venezia, dalla contessa Albrizzi, che riceveva le più alte personalità d'Europa, il trattamento usuale era una guantiera di ciambelle fatte in casa. Il conte Alessandro Verri da Roma esortava il fratello, rimasto a Milano, a non risparmiare passi affinchè il sarto gli restituisse le pezze avanzate da un certo draghetto consegnatogli per fare un vestito e soggiunge ad avvalorare la raccomandazione: "Così vuole la buona economia delle nostre entrate".

Voglio dire qualche cosa di più. L'economia praticata per tradizione e con piacere era un elemento di forza e di serenità. Io l'ho conosciuto largamente il piacere di ridurre a nuovo una vecchia gonna e di ammucchiare nel cassettone tante e tante paia di calze fatte da me punto per punto. C'è in questi umili lavori un orgoglio di creazione, di lotta superata, di tempo bene speso, che è per sè stesso un premio e un incitamento. Gusto ancora, dopo tanto tempo trascorso e tante vicende, la soddisfazione di avere composto e cucito io stessa gli abiti di mio figlio fino ai dieci anni e compiango (non disprezzo forse anche un poco?) le giovani madri di mezzi limitati che non sanno preparare neppure il camicino per il pargolo che deve nascere. Non si dica che questo è un argomento di nessun conto. Non è vero! La donna, che ama i lavori femminili e li applica all'economia della famiglia, trova in casa tanto da occuparsi che non sente il bisogno di fondare comitati e associazioni per ingannare la noia e illudersi di fare qualche cosa. E anche questa tradizione di lavoro rimonta alle classi aristocratiche. Ai ricevimenti della duchessa di Chartres le dame, imitando la duchessa, portavano con sè un lavoro; Maria Luisa, seconda moglie di Napoleone I, quando era ancora fanciulla si sferruzzava allegramente da sè una maglia di lana per star calda, e c'è un ritratto poco noto della marchesa di Pompadour che la rappresenta mentre sta ricamando con un telaio sui ginocchi.

Non ci sarebbe che da regolare la vita un po' troppo rinchiusa delle donne di una volta, col frenetico sgonnellare fuori di casa delle modernissime, per trovarsi nella giusta via di mezzo; ma purtroppo indietro non si torna. La vecchia borghesia saggia, econonoma, dalle abitudini semplici ha disertato i provinciali palazzi aviti, le pingui fattorie dove la vita era comoda e dolce; attratta dal miraggio delle grandi città, ruppe il contatto immediato colla terra, i rapporti giornalieri coi contadini e, giunta nei grandi centri dell'industria, si trovò in mezzo alla nuova borghesia dei rifatti privi di tradizione, di esempi, di memorie, frettolosi di distruggere fino il ricordo del loro passato, avidi di lusso e di gioia, intenti solo ad arricchire. I figli delle grandi rivoluzioni, coloro che avevano conservato intatto il patrimonio di secoli, si trovarono improvvisamente accerchiati e per forza delle cose travolti nel turbine della democrazia distruggitrice di tutto ciò che fu. Alcune famiglie resistono ancora, ma non sarà per molto tempo. Le donne si mostrano particolarmente accanite alla distruzione dei domestici lari, perchè non so chiamare in altro modo quella specie di orrore per la casa che le spinge nel cuore dell'inverno a prendere il treno per l'una o per l'altra città, per un paese, per un monte, per un lago, o anche per un ghiacciaio, pur di non passare in casa propria, anzi per annientarla, la dolce e pensosa poesia del Natale. Anche le nozze, questa festa intima fra tutte, è ora di moda esibirla alla triviale curiosità dei servitori d'albergo..........

A nuova conferma della mia teoria sul valore della tradizione, abbiamo un detto popolare che ne mette in rilievo la grande importanza per l'individuo e la Società, ed è quello di colui che ad una cattiva azione risponde: "Il figlio di mio padre non farà mai ciò". Posso citare per controprova il fatto di una di quelle disgraziate orfane di parenti vivi, abbandonata alla carità cittadina, una esposta. Io la esortavo a crearsi indipendente col suo lavoro per mantenersi onesta; ella mi ascoltò un poco, e poi disse crollando il capo con un cinismo quasi ingenuo, tanto era sentito: "È inutile sa, noi siamo figli della colpa, come ha fatto nostra madre faremo anche noi". Questi problemi educativi e sociali mi hanno sempre interessata moltissimo, ed essi e altri, a cui diedi la mia attenzione, più che sui libri mi piacque studiarli alla viva fonte dell'umanità. Se poi trovavo in un libro gli argomenti in appoggio alle mie osservazioni, amavo quel libro come un amico, e tanto più lo amavo in quanto non avevo materialmente nè amici nè amiche; ovvero qualche amica potevo contarla, ma tutte fuori di Milano, e anche le poche volte che ci riusciva di stare insieme, i nostri cuori erano vicini, i nostri pensieri no. Esse pensavano come tutti, ma io non so come chiamare quel tarlo che lavorava nel mio cervello assorbendo ogni mia attività, rendendomi sempre più incapace di contatto cogli altri, fuggendo ciò che gli altri ricercavano.

Chi non ama le passeggiate campestri in lieta compagnia? Io non le potevo soffrire; sia per la passeggiata che mi riusciva di fatica, sia per la compagnia, allo spirito della quale non sapevo unire il mio. Vagheggiavo allora di trovarmi con una persona di mia fantasia, triste e selvaggia come me, al pari di me sola e andarcene insieme sul sentiero più appartato e dirci tutto quello che non avevamo mai detto a nessuno, e ridere e piangere e cogliere fiori e ringraziare Dio di essere nati.... ma quella persona non l'ho trovata mai. Mi condussero invece un giorno a visitare un'officina di non so che cosa, e non lo so perchè appena posto piede sulla soglia di un camerone dove stavano allineate macchine e uomini e donne tra un assordante rumore di manubri e di pulegge, presa da una repulsione istintiva come se avessi visto un mostro, mi aggrappai disperatamente ad una ringhiera che dava verso il verde dei prati, scongiurando che mi lasciassero a quel posto. Ero allora poco più che adolescente, ma la mia particolare sensibilità, anticipando l'intuizione, mi dava nel quadro che avevo dinanzi agli occhi la sensazione materiale dell'idea per la quale dovevo più tardi combattere non poche battaglie. Null'altro che una sensazione, ma, come sempre, una sensazione che mi appartava dagli altri; che non andò tuttavia perduta se a tanti anni di distanza la ritrovo intatta alla base delle mie idee sulla santità della tradizione famigliare violentemente minata dal crescere delle officine, progresso forse necessario ma pauroso, che strappa la donna dalla casa e distrugge brutalmente le care intimità del focolare.

La disgressione mi è riuscita più lunga che non volessi e sopratutto che il lettore desiderasse; ma è pur necessario che tenti di spiegare, e non sono sicura di riuscirvi, il lavoro caotico della mia mente, non secondato e non guidato da chi mi stava intorno; nessuno dei quali poteva immaginare neanche lontanamente le aspirazioni che giacevano soffocate in me, che non conoscevo io stessa.

Uscita dalla scuola poco meno che ignorante, la volontà di studiare non mi venne neppure dopo. Tanto il pensiero mi attirava colle sue divine libertà, altrettanto detestavo la meccanica dell'insegnamento freddo, pedante, ammalato di miopia cronica, vecchio corpo disfatto che deve la sua resistenza all'appoggio che gli danno tutte le mediocrità. Leggevo con passione, ma pur che fossero libri divertenti e romanzi e poesie d'amore. Mio padre si allarmava qualche volta di questa mia passione, esortandomi a scegliere bene e di abbandonare i romanzi, ma non ebbe il gesto assoluto di indicarmi lui i libri che dovevo leggere, forse in omaggio al suo grande rispetto della libertà individuale od anche perchè sapeva che il miglior mezzo per ottenere buoni risultati da figliuoli moralmente sani è quello di mostrare fiducia in essi. Libri cattivi in verità non ne leggevo, ma inutili quasi tutti e nocivi in rapporto a quelli che dovevo poi scrivere io stessa perchè, presi a casaccio, mi traviarono nella lingua, nello stile, in tutto ciò che dovrebbe formare il buon scrittore. Ma di ciò allora non mi curavo affatto, paga di poter dare attraverso alle pagine di quei volumi uno sguardo nel mondo che non conoscevo.

Desideravo anche molto di avvicinarlo questo mondo pieno di belle cose a me ignote, desideravo specialmente con ardore soffocato di poter andare ad una festicciuola da ballo. Amavo il ballo con passione, ma dove battere il capo se non avevamo relazioni? E andare con chi? Non certo colle vecchie zie di provincia che non avevano mai visto un ballo. Il mio buon padre si sacrificò accettando l'offerta di un conoscente che ci avrebbe presentati in una famiglia; ma sorse subito una grossa questione. — Che vestito metterai? — mi chiese papà con una certa inquietudine. Io che temevo di perdere l'occasione, che non avevo alcuna idea di abiti da sera, mi affrettai ad assicurarlo che non mi mancava nulla. E i guanti? — soggiunse mio padre. — Ho anche i guanti. Allora, felice, combinai la mia toeletta colla zia Margherita.

Premetto che manco di buon gusto naturale. Se sono riuscita, molto tardi, a vestirmi press'a poco convenientemente, mi ci vollero grandi sforzi; nè le mie zie attempate non avrebbero potuto in capitolo moda aiutarmi di consigli. Incominciai dunque a stringere i miei lunghi e folti capelli in due trecce fitte fitte che me li ridussero a metà; indossai poi un abito di mussolina bianco e celeste, accollato come il soggiolo di una monaca, che era stato della mia mamma e che lasciai tale e quale benchè non avessimo la stessa corporatura; ma a me, poichè era stato della mia mamma, sembrava una meraviglia. Per la stessa ragione mi piantai in testa una camelia bianca che aveva servito alla mamma nel ritratto che le fece Moriggia e che riposava da anni in una scatola di cartone fiancheggiata di carta velina. Infine pescai alla stessa fonte un paio di guanti nuovissimi, mai messi, che portavano a farlo apposta il mio numero e che erano di un bel color giallo zampa d'oca. La zia Margherita mi ammirò e strinse un po' più le mie trecce, così, diceva, non c'era pericolo che si sciogliessero danzando. Volevo farmi vedere da papà, ma la solita vergogna mi trattenne e mi ravvolsi subito nel mantello. Appena entrata nell'appartamento di quella famiglia, che non conoscevamo, ci passò davanti, attraverso gli usci aperti, in uno sfolgorio di lumi, una eterea apparizione vestita di bianco colle bionde anella incipriate sparse sull'omero nudo. — Oh! oh! — fece mio padre al quale avevano assicurato che si trattava di quattro salti alla buona. Io non dissi nulla, ma inoltrandomi nelle sale osservai che nessuna delle signore presenti era pettinata come me, nessuna aveva fiori in testa e tutte portavano guanti candidissimi. Verificata così la mia zotica figura, senza impressionarmene troppo, andai tranquillamente a sedermi nell'angolo meno in vista aspettando gli eventi. Dico subito che essi non furono all'altezza di quelli che leggevo nei romanzi, ma ballai tutta notte, quantunque non conoscessi alcuno, e per una ragazza così mal vestita ce n'era d'avanzo.

Le occasioni di trovarmi in società continuavano ad essere molto rare, e dicendo società abuso un poco dell'elasticità del vocabolo. Dovunque però il malinteso fra me e il mio prossimo mi isolava. La titubanza, che irrigidiva i miei movimenti, toglieva ad essi la grazia della gioventù; non ero più una bimba e non ero ancora una giovane donna; l'abitudine quotidiana dei colloqui con me stessa mi rendeva inetta alla conversazione; mancavo poi in modo assoluto dello spirito di società, della risposta pronta, del motto che fa ridere, di quello che provoca e che istiga. Il terribile dono dell'osservazione non mi permetteva di restare indifferente; vedevo bene con quali poveri mezzi le reginette mondane ottenevano i loro trionfi; e mentre esse avranno disprezzata in me l'insulsa creatura che non sapeva nè vestirsi, nè muoversi, nè parlare, io, dal mio posto isolato, studiavo sul vero il loro piccolo cuore. Era questo il solo piacere che ricavassi quando mi trovavo in compagnia: piacere acre, ma non privo di moderato orgoglio sotto la modestia del mio aspetto. Non affrettiamoci a denigrare l'orgoglio, sentimento di natura elevata pur che sia circoscritto entro i limiti di una giusta conoscenza di noi stessi. Non si può ammettere che la modestia, doverosa verso il prossimo e più ancora verso l'ideale, debba giungere al punto di una completa ignoranza quando si tratta di riconoscere le nostre forze. Se non fosse così, chi si metterebbe a capo delle grandi imprese che rivoluzionarono il mondo? Ed anche non bisogna confondere il nobile orgoglio di colui che tende a una meta superiore colla vanità dello sciocco e colla superbia del farabutto. Tacceremo l'aquila di orgoglio perchè fende i più alti cieli, mentre il passerotto si limita a svolazzare sui tetti? Chi salta un fosso ha sentito prima la forza di poterlo saltare.

Tutti questi paragoni, da prendersi colle debite distanze, li trovo ora per spiegare il meglio che mi sia possibile quella singolare resistenza, quella specie di corazza che mi permetteva di rimanere impassibile e ferma, quantunque non indifferente, nella mia solitudine e perchè certi stati di accasciamento, di avvilimento, di prostrazione morale io non li ho provati mai. Ho pensato tante volte in qual modo mi si potrebbe avvilire ed ho concluso che nessuno lo potrà perchè non mi sono mai avvilita io stessa. Posso ingannarmi, ma credo che difetti e qualità procedano in gruppi e chi ha una qualità ha pure la qualità sorella e lo stesso dicasi dei difetti. La mia unilateralità, chiamata qualche volta egoismo, faceva il paio colla mia pretesa aristocrazia, un sentimento tutto ideale che meglio delle parole spiegano le perle della mia nonna. La mia nonna materna aveva tre collane di perle delle quali, per disgrazie della mia famiglia, non una sola giunse fino a me. Ebbene, io non mi fregerei a nessun patto di uno stemma comperato, ma le tre collane di perle della mia nonna me le sono sentite tutta la vita intorno al collo.

Non ho ancora finito di enumerare le doti negative delle quali ero provvista per brillare in società. Erano tante e tante, che probabilmente ne dimenticherò qualcuna, e qualcuna anche può essermi sfuggita, se è vero quel che affermano i saggi sulla difficoltà di conoscere se stessi. Mi felicito intanto di aver scelto per queste memorie il sistema di una semplice e veritiera esposizione dei fatti, per tal modo il lettore perspicace potrà fare da giudice nel caso che io mi dipinga troppo in bello, chiamando complici gli altri della mia manchevolezza, quando forse la causa va ricercata solamente in me. Comunque noto che ero di una straordinaria distrazione la quale, congiunta a una smania di verità assolutamente puerile, mi faceva apparire a volte leggerina, a volte impertinente, a volte, e più spesso, sciocca. È certo che una condizione indispensabile al vivere sociale è quella piccola, ma importante, qualità che si chiama tatto; io ne avevo quanto un negro della Zululandia.

Peccato che mio padre, dal quale vivevo troppo separata, non fosse testimonio dei miei sfarfalloni che li avrebbe, così fine com'era, immediatamente repressi, come una volta fece con un semplice corruscar delle ciglia. E un'altra bella, quantunque indiretta, lezione di tatto, mi diede a proposito di un vecchio signore suo cliente che veniva per affari in casa nostra. Non avendomi veduta da molto tempo mi disse un giorno che mi trovava ingrassata; e siccome dall'accento e dall'espressione del suo viso traspariva l'intenzione di avermi fatto un complimento, appena si fu allontanato papà ebbe a notare che si era espresso male; perchè non poteva sapere se quella osservazione potesse piacermi e che ad ogni modo non era delicata. — Doveva allora tacere? — chiesi io. — Non è questo — rispose mio padre — ma se proprio voleva fare un complimento doveva limitarsi a dire: La trovo bene. — Egli possedeva in sommo grado quest'arte delle sfumature, delle critiche sottili e profonde; ma io compresi subito che l'appunto non era stato fatto per criticare l'amico, bensì per insegnare a me. Era d'altronde il suo sistema educativo; poche parole quando si presentava l'occasione, ma tali che non si dimenticavano. Un'altra volta la lezione fu più diretta. Qualcuno, non ricordo più chi, ebbe a dire che ero simpatica, e quella specie di elogio, a me che non ne ricevevo mai, fece una così lieta impressione da indurmi ingenuamente a riferirglielo, persuasa, per il bene che mi voleva, di far piacere anche a lui. Sorrise il mio buon padre alla innocente fanciullaggine, e volendo nello stesso tempo frenare il possibile sorgere di una vanità intempestiva: "Quando — ammonì dolcemente — non si può dire ad una donna che è bella, la si conforta chiamandola simpatica".

Quale scuola di perfezione avrei avuto, se mi fosse stato possibile di vivere sempre insieme a mio padre! Tutto invece concorreva a dividerci; il sistema della famiglia, le sue e le mie occupazioni, i suoi e i miei dolori non consentirono mai l'intimità dell'abbandono. Forse, è un dubbio che mi venne qualche volta, che sta ora mutandosi in certezza, sentiva anche lui l'ostacolo che, alla libera espansione dei nostri sentimenti, poneva la presenza delle due sorelle. Forse era anch'egli un timido come me e sarebbe bastato che uno di noi due non lo fosse, per rompere la barriera, per cadere nelle braccia l'uno dell'altro. Se quella sera in cui venne, tacito e lieve, ad appoggiare la sua fronte sulla mia spalla avesse detto: — Sono infelice! — Se lo avessi detto io a lui?...

Ma le due donne esuli dalla dolce casa, esse che avevano abbandonato tutto per lui, per noi, che ci davano il loro rustico, ma sincero cuore, la loro opera maldestra, ma così generosa, così disinteressata, non potevano venire anch'esse colle loro mani vuote dei beni che ci avevano sacrificati, coi loro occhi che solo alla notte conoscevano il pianto a ripetere: Anche noi siamo infelici? Situazione veramente crudele questa di persone tutte buone che senza volerlo, senza saperlo, si facevano reciprocamente soffrire. E ancora le mie zie, avendo il vantaggio di sorreggersi a vicenda e di rievocare in due un medesimo passato, sfuggivano al pericolo dell'isolamento che anche mio padre poteva nella sua professione e nella libertà de' suoi atti per qualche ora almeno evitare.

Io diventavo invece sempre più distratta, estranea a quanto mi circondava, estranea alla vita. Delle mie balordaggini segnerò qui un esempio che potrà difficilmente trovare un riscontro altrove. Una delle ultime volte che andammo a passare le vacanze a Casalmaggiore, fui invitata a festeggiare Santa Teresa da una cara vecchietta amica delle mie zie, che abitava quasi tutto l'anno un suo podere in vicinanza del Santuario della Fontana. Buon pranzo, semplicità antica, visita al giardino colmo di frutta nonchè di fiori, e da ultimo, poichè la compagnia era in maggioranza composta di nipoti, tutti giovani, si ballò sull'aia al suono di un organetto e al blando lume di una lanterna sospesa a un palo. C'era anche un dilettante di chitarra che variava il trattenimento con alcune romanze sentimentali. La padrona di casa ebbe un successone ballando una danza de' suoi tempi detta la furlana, avendo per accompagnarla il più attempato de' suoi domestici, che solo tra i presenti, ne ricordava i passi arcaici. A mezzanotte prendemmo tutti la via del ritorno, un po' sbandati sulle prime, indi mettendoci in fila a due a due. Per parte mia fui lieta nel riconoscere nel compagno che mi si pose al fianco, quello fra i danzatori che mi aveva maggiormente interessata. La notte era serena, piena di stelle; dagli alberi del viale, dove ci eravamo inoltrati, gli arabeschi d'argento della luna disegnavano sulla terra asciutta un tappeto fantastico. In simile cornice la mia immaginazione quindicenne stava fabbricando un romanzo in azione, quando alla luce improvvisa di una radura tra i rami, mi accorsi di un grosso involto che il mio cavaliere teneva sotto il braccio. — E che diamine ha lì? — Che ho? la mia chitarra. — Un'altra chitarra?! — Non un'altra, la mia. — Ma allora lei non è X.! — Certamente, sono Y. E tutto ciò che le dissi fin'ora lo credette di X.?!... — lo penso ora le risposte che avrei potuto dare, spiritose, gentili, ingegnose, vaghe, sfuggenti per mettere un rimedio alla mia balordaggine e le trovo. In quel momento però, fedele alla mia smania di verità e al mio puerile semplicismo, fui tanto sciocca da non saper rispondere nulla. Nessuno, fuor che le stelle e la luna di quella notte, seppe questo incredibile caso di distrazione, che rivelo oggi a' miei lettori, perdendo forse un poco nel concetto che essi potevano avere della mia intelligenza, ma rendendoli sicuri almeno della mia sincerità. Avevo parlato più di un'ora con una persona senza accorgermi che era un'altra!

Parte Quarta

Ricompare la zia Carolina, la mia cara Tuina. Poco tempo dopo il crollo de' suoi affari il mio povero nonno era morto e la casa fu venduta per conto dei creditori; allora la zia Carolina insieme alla nonna andarono ad abitare presso lo zio Cecco. Lo zio Cecco, al pari de' suoi fratelli, era la bontà e la dolcezza personificate; copriva in quel tempo la carica di vice pretore a Caprino Bergamasco e scriveva segretamente alcune commedie non mai rappresentate. Suo fratello Bona, che percorreva pur esso la carriera giudiziaria, occupava i suoi ozî nel compilare un dizionario dei vocaboli a radice greca. Miti e semplici anime di galantuomini dalla vita intemerata, anche voi, o buoni zii, contribuiste a creare in me il rispetto della tradizione. Lo zio Bona andava a messa, lo zio Cecco era abbonato al Libero pensiero; avevano in proposito vivaci discussioni che naturalmente lasciavano ognuno nel proprio punto di vista e amici come prima. Io non dispero di rivederli lungo la valle di Giosafat, l'uno accanto all'altro, nella tribuna dei giusti. La nonna aveva pure un fratello consigliere alla Corte d'Appello di Milano, ma quello io non l'ho conosciuto; vidi appena il ritratto che gli fece il solito ritrattista della famiglia, Giovanni Moriggia, serio e imponente nei larghi risvolti della pelliccia di martora. Dove sarà andato a finire quel ritratto? Guarda esso forse dalla bottega di un antiquario gl'inconsapevoli pronipoti che passano?

Le due care donne, che in seguito alla perdita della bella casa di Caravaggio si erano ritirate nel piccolo paesello delle prealpi bergamasche, non tardarono a trovarvisi bene e ad invitarmi a passare un mese con loro. Fu un'oasi benedetta. È ben vero che, non essendo io più una bambina, la nonna non poteva prendermi come una volta sui ginocchi, nè io stessa compiere carponi attraverso le sedie del salotto quel viaggio le cui stazioni erano l'Etna o Mongibello e l'arlecchino ferma-usci cogli occhietti di vetro; l'arlecchino anzi non c'era più. Ma la zia Carolina era sempre così dolce, così sorridente, e allora più che mai, portando nel cuore la gioia del suo fidanzamento con un nobile piemontese, ufficiale nell'esercito liberatore. Oasi di pace Caprino, che lasciò nella mia mente un ricordo indelebile! Fu a Caprino che vidi per la prima volta le montagne, e fu là che incontrai la più cara, la più fedele delle amiche. Io vi godevo inoltre un poco di quella libertà, che fu in ogni tempo uno de' miei bisogni più ardenti, così male soddisfatto in casa mia, dove non ero libera neppure alla notte. In fondo alla vallicella che sottostà al paese, scorre un torrente detto la Sonna, nelle cui acque la servetta della nonna andava a sciacquare i panni. Quando ella infilava il braccio nel paniere della biancheria e la zia Carolina mi diceva: — Vuoi andare anche tu? — esultavo. Si capisce che insieme a quella ragazza era come se fossi sola. Correvo, cantavo (falso), recitavo versi, coglievo erbette sconosciute; una fronda, un sasso, un movimento delle acque, il salto di una cavalletta, l'iridescenza di una farfalla, l'andare religioso delle formiche in fila, silenziose monachine brune, mi riempivano di sensazioni nuove. Non ero mai stata come allora in diretto contatto colla natura; ad ogni passo facevo qualche scoperta; e la gioia di sentirmi libera in mezzo all'aria, libera sotto il cielo, conferiva alle mie membra una leggerezza alata che mi portava in alto; sollevavo le braccia come per un volo e gridavo forte: — Dio! Dio! — per udire il suono della mia voce, per fissarlo nell'eco della valle. Tempo di primavera e quindici anni.... I sentieri laggiù erano sempre deserti, ma già l'amoroso fantasma dei sogni giovanili batteva alla porta suggellata del mio cuore; esso mi seguiva ancora senza volto e senza nome, col misterioso potere del profumo che annuncia la vicinanza del fiore. Non amavo; eppure pensieri d'amore mi attraversavano la mente e mi turbava in modo dolcissimo il sapere che a poca distanza dalla Sonna scorreva parallelo un altro torrente chiamato Sonno e che entrambi dopo quella corserella «in vicinanza coraggiosa e monda» si riunivano sotto l'arco di un ponte, altare e talamo, per uscire dall'altra parte, fusi in un torrente solo. — Come tutto ciò è bello, nevvero? — chiedevo alla zia Carolina, e la zia Carolina con una sua intima letizia rispondeva di sì. È passato mezzo secolo e tanti dolori insieme e tanti disinganni; ma se chiudo gli occhi rivedo Caprino in un raggio di sole.

A Caprino ebbi anche la rivelazione di fiori che non conoscevo. I primi fiori che ricordo li avevo visti nel giardinetto della zia Claudia a Caravaggio; una raccolta più ampia e più varia la trovai a Casalmaggiore colla sua salvia cocinia, le ortiche d'America, le quali non pungono affatto e vestono graziosamente di rosa e di giallino, poi il geranio d'Africa, il geranio notturno, le fucsie, i nasturzi dorati, la madrevite che sostiene sulle esili braccia pensili cuori e quanti, quanti altri! Appena entrata nel cortile dello zio Cecco a Caprino fui investita dalla chioma fluente di una serenella che per le vie degli occhi e dell'odorato prese intero possesso di me. Ah! forse l'albero è disseccato, l'albero mortale del cortile, non quello che verdeggia in me ad ogni primavera, e che depongo oggi, fior di memoria, tra queste pagine. E le peonie fastose che se avessero profumo contenderebbero il primato alla rosa! E quelle anfore carnose di inebbriante aroma che sono i piccoli fiori dell'olea fragrans! E i gelsomini, stelle della siepe! E le tuberose, labbra d'amanti congiunte in un bacio! Ora la moda dei fiori è entrata in tutte le case, imperversa fin sulle tavole delle più modeste trattorie; sono fiori stereotipati a seconda della convenienza di chi li vende, resi volgari dall'abuso e dal carattere commerciale, privi d'odore, profanati dal filo di ferro che squarcia i loro teneri seni; così quando parlo di fiori intendo sempre i fiori coltivati in provincia da mani delicate e amorose, che ne conservano intatto la freschezza e il profumo. Povera è quella donna che non sa trovare nei fiori una delle più delicate gioie di questa vita.

Si allaccia pure a Caprino l'impressione più complessa che mi rimane del nostro nazionale riscatto. A Milano ero andata una volta, da piccina, col papà e colla mamma, in una famiglia di nostra conoscenza, che aveva le finestre sul Corso dedicato allora a Francesco Giuseppe, ma chiamato da tutti solamente Corso, per vedere l'entrata dell'imperatore e dell'imperatrice, e con mia grande delusione le finestre erano ermeticamente chiuse, le tendine rigorosamente abbassate, sì che al momento buono, rizzandomi in punta di piedi, mi fu dato di scorgere appena la cappottina bianca dell'imperatrice e il suo abito di seta nera rameggiato di verde. Intorno alla carrozza imperiale, deserto! Era poi venuto il giorno dell'allegrezza, quando si rise perfino in casa mia, e mio fratello Luigi si diede a preparare coccarde per tutti. Ma fu a Caprino tutto imbandierato per la festa dello Statuto, con ghirlande di sempreverdi erette ad arco di trionfo sulla contrada principale, con musica, con fuochi, con luminarie, coll'intero paese rovesciato fuori, che sentii per la prima volta palpitare, in mezzo al popolo entusiasmato, l'anima della patria.

Da Caprino lo zio Cecco fu trasferito a Bergamo. Altra rivelazione di bellezza e di quel respiro antico, respiro delle cose che vissero prima di noi, verso le quali l'anima mia volava fin da quando i miei sguardi indagavano curiosi e soggiogati le forme fuori moda del baule della nonna. Si intende che la mia ammirazione per Bergamo fin dalla stazione sorvola la gaia leggiadria del borgo per salire ratta al fastigio della città medioevale, così fieramente rizzata a vedetta delle Alpi. Amo le sue porte, le sue chiese, i suoi palazzi e le viuzze sassose in mezzo al verde delle mura dove battè un giorno la zampa ferrata il destriero del Colleoni. Amo gli orticelli sospesi tra casa e casa, come panieri di fresche verdure, che si allietano in primavera di cento e cento rose. Lo zio Cecco andò ad abitare proprio nel centro della vecchia città, in via Porta dipinta, caro nome arcaico che mi faceva andare in estasi e fu quella una delle mie ultime oasi felici. Da quel punto la mia dolce Tuina spiccò il volo per seguire il marito nelle diverse destinazioni della sua carriera militare e da allora il vederci e, più, lo stare assieme divenne un piacere raro.

Io intanto continuavo a scrivere nei pochi momenti in cui mi era concesso di occuparmi a modo mio; vale a dire quell'oretta dopo pranzo durante la quale le zie o fumavano o dicevano le orazioni. Dopo le zie prendevano in mano la calza e la prendevo anch'io, perchè mai mi sarebbe venuto in mente di fare diverso da ciò che esse mi indicavano. L'obbedienza era talmente radicata in me, che se fossi rimasta zitellona in casa, avrei continuato a obbedire fino ai quaranta e ai cinquant'anni, insoddisfatta, rodendo il mio freno, ma incapace di pensare nemmeno un atto di ribellione. Dando la parte più vitale di me alla fantasia, che per essa viveva in un suo meraviglioso mondo e per tutto ciò che era materia e zavorra accettando l'adattamento, mi ero fatta dell'abitudine un guanciale di riposo, che sotto certi aspetti, era quasi un piacere. Dirò una cosa straordinaria, dalla quale risulterà meglio quel complesso di serietà ordinata e di grottesco candore che fecero della mia giovinezza un organismo a parte, diverso da tutte le altre giovinezze. Sappiano le mie lettrici che allorquando mi feci sposa, nella valigetta destinata a raccogliere sommariamente gli oggetti indispensabili a un breve viaggio di nozze, collocai fra questi il mio lavoro di calza.

Un articolo di Matilde Serao per la morte di Vittoria Aganoor, incomincia con queste parole rievocatrici della propria felice gioventù: "O inobliabili, o inobliati giorni di nostra gioventù in cui fremeva ed ardeva, nella nostra anima nuova, non una immensa speranza, ma un'immensa certezza! O primavera della nostra età, in cui nulla ancora sapevamo esprimere, ma tutto sapevamo comprendere; o primavera del nostro spirito, in cui potevamo soddisfare la nostra gaia fame intellettuale e placare la nostra sete inestinguibile intellettuale, al nutrimento più saporoso e alle sorgenti più cristalline! Sapete, allora, come vivevamo in Napoli? In continuo contatto spirituale con Francesco de Sanctis e con Ruggero Bonghi, di cui ogni pensiero e ogni parola erano nostro soave e forte pascolo; in continuo contatto con giovani già fervidi di talento e di dottrina come Giorgio Arcoleo, come Giustino Fortunato; in quotidiano contatto con pubblicisti come Rocco de Zerbi e Martino Cafiero. Conferenze, discorsi, articoli, volumi, giornali, in tutto ciò palpitava di una vita indicibile l'anima nostra, estatica, attraversata da violenti gioie, abbattute da profonde malinconie, ma capace di tutte le esaltazioni, ma risorgente dai suoi accasciamenti, come in una costante resurrezione". Non potrei trovare un'antitesi più stridente con quella che fu la gioventù mia. Quanta gioia in quell'anima librata a spirituale commercio cogli ingegni più eletti che placavano la sua sete di intellettualità, cui ogni parola, ogni pensiero eran forte e soave pascolo! Come si comprende il palpito indicibile di quella vita in cui fremeva ed ardeva, non una immensa speranza, ma una immensa certezza! Trascrivendo queste parole rabbrividisco ancora. Sento ancora il freddo invincibile delle mie giornate d'inverno trascorse nel grigiore del malinconico salottino a cucire, a cucire, a cucire, coi ginocchi ravvolti in uno scialle, sulle mani due paia di guanti; e i vesperi desolati del luglio e dell'agosto, quando abbrancata ai ferri della finestra, nell'abbandono della rassegnazione, scrutavo sulle finestre lontane il ritmo di altre vite, poi che alla mia mancava anche la più lieve speranza. Io non so che sarebbe avvenuto di me se la mia intelligenza si fosse sviluppata in circostanze di serra calda, di coltivazione intensa, di luminosa fioritura, di omogeneità infine e di felicità. Non lo so. Forse sarebbe stato meglio, forse peggio. Al pari dell'albero l'uomo nasce con una struttura propria, direi un temperamento, a cui il terreno più o meno favorevole, concede il più o il meno sviluppo. Anima ardente, ma pensosa e incline alla meditazione, una esistenza di gioia avrebbe probabilmente isterilita la mia attitudine al raccoglimento; obbligata invece a cercare in me stessa quella ragione di vivere che è il diritto di ogni creatura, obbligata a reggermi da sola, a parlare con me sola, ad alimentarmi da me, feci come uno che esiliato su un palmo di terra, non potendo espandersi in ampiezza, scava in profondità. Questo confronto me ne suggerisce un altro; somigliavo anche per molti versi al palombaro che, lasciandosi dietro lo splendore del sole e il tumulto della vita, scende silenzioso con una maschera sul volto verso ignorati abissi.

La mia maschera era tutto quello che si vedeva di me, e giudico mi coprisse molto bene perchè nessuno, nel breve cerchio delle nostre relazioni, sospettò neppure lontanamente, che io potessi divenire una scrittrice; anzi, molti anni dopo, allorchè si conobbe il mio nome, io lessi su alcuni volti una sorpresa non scevra di incredulità. Veramente non lo sapevo neppure io, non ci pensavo. Il grande romanziere Balzac, a cui la gloria arrivò tardi, scriveva a sua sorella; "Laura, Laura, i miei due soli e immensi desideri, essere celebre ed essere amato, saranno essi mai soddisfatti?" Io non ero tanto impaziente. È giusto dire che ero anche più giovane. Ad ogni modo scrivevo per mio sfogo, per mio piacere, per non so che cosa, non certo in vista della celebrità. Mi ritrovo meglio nelle Confessioni di S. Agostino a proposito de' suoi anni giovanili: "Quello ch'io volevo, quello che io bramavo era d'amare e d'essere amato". Il bisogno di scrivere era bensì nato in me prima del bisogno di amare, ma quando fui giunta a quella stagione che fa cantare l'usignolo nella selva, le parole dell'ardente vescovo africano mi apparvero come il vero specchio dell'anima mia. Ero anche affascinata dallo stile di S. Agostino, così caldo, così appassionato, così moderno appena che si allontani dalla disputa coi Manichei per aggirarsi intorno ai delicati problemi della psiche. E per il loro calore, per la loro passione, mi entusiasmai successivamente di Foscolo, di Byron, di tutti coloro che avevano fortemente amato e scritto d'amore. Se i libri e la penna mi confortavano nel tedio monotono della mia esistenza, non è tuttavia su di essi che fissavo lo sguardo per l'avvenire. Scrivevo non pensando a scrivere; all'amore invece pensavo sempre, senza struggimento e senz'ansia, vestendo qua e là coi colori della mia immaginazione qualche fantasma stentatello, che non valeva più dello zufolo di Franklin pagato per argento e che era di stagno. Ma chi non ha nei propri ricordi uno zufolo di stagno creduto argento?

Dei classici trovati nella libreria di mio padre non ne lessi neppure uno; li giudicavo noiosi e freddi. Data la mia ignoranza la questione della forma non esisteva per me. Era, per disgrazia, anche il tempo in cui gli autori dei libri più in voga non si mostravano reverenti alla purezza della lingua; mi mancavano gli esempi nella vita come mi era mancato l'ammaestramento nella scuola. Molto tardi e per opera di alcuni pochi critici, che non finirò mai di ringraziare, incominciai a preoccuparmi della forma. Non studiai ancora, perchè la sola parola studio mi accapponava la pelle, ma mi guardai intorno, osservai, cercando di formarmi un gusto più fine, più esigente; compresi a poco a poco quanto l'aggiustatezza del periodo e la scelta delle parole aggiungano forza all'idea e sono arrivata al punto di prendere un vero diletto a vagliare i vocaboli e sentirmi quasi felice quando ne scopro uno nuovo. Che se talvolta l'antica pigrizia mi arresta sopra una frase fatta, tentando persuadermi dell'impossibilità di uscirne in altro modo, allora dò a me stessa questa strigliatina: "Manzoni, D'Annunzio, tutti coloro che sanno scrivere la troverebbero la frase giusta, la frase unica; dunque c'è, e se c'è, bisogna cercarla!". Lenti progressi i miei e sempre tardivi. Mi basta tuttavia una parola, un leggerissimo colpo di sprone per andare avanti.

Mio padre, udendomi una volta cantare nel corridoio interno del nostro appartamento, ammonì con quella sua dolce voce che anche nel rimprovero faceva sentire la carezza: "Tu non ti ascolti quando canti; prova ad ascoltarti". Non si poteva dirmi più garbatamente che stonavo. Mi veniva infatti di cantare nello stesso modo che scrivevo, badando al pensiero e non alla forma. Le romanze più sentimentali, i duetti più amorosi erano tutto ciò che io comprendevo in materia di musica, e quando avevo messo tutta la mia passione nella frase: Ah! forse è lui che l'anima — Solinga nei tumulti mi pareva che neanche la Patti avrebbe potuto far meglio. C'era poi quel Lui anonimo che andava subito a posarsi sull'uno o sull'altro de' miei zufoli di stagno e allora addio musica! Mi colavano sul volto vere lagrime.

Io sono anche disposta a sorridere ora su queste fanciullaggini della verde età, nella quale siamo, chi più, chi meno, un po' tutti cavalieri dell'ideale e corriamo colla lancia in resta ad espugnare mulini a vento. Sorridiamo pure dei lunghi sospiri e delle veglie e dei primi fiori dell'anima dedicati a persone che si conoscevano appena; uno sguardo ricambiato, una mano che s'indugia alla stretta, tanto bastava, e meno ancora, a immobilizzare il nostro cuore per mesi, per anni. Il mio fratellino minore, quando smise i calzoncini corti, si prese di una grande simpatia per una fanciulletta che vedeva qualche volta all'uscire di chiesa, alla quale non solo non aveva mai parlato, ma che paventava di accostare. "Il mio unico desiderio — mi disse un giorno in grande confidenza — è di possedere un fazzolettino, un bel fazzolettino ricamato, toccare con quello il lembo della sua veste e conservarlo per sempre". Sorridiamo, ma dolcemente, con riguardosa tenerezza, per non disperdere la nuvola lieve che ravvolge il bel sogno. Quanto sarebbe brutta la vita se l'uomo affacciatosi appena dovesse incontrare l'esperienza già fatta, con tutti i suoi compromessi, il male già pronto con tutte le sue armi, la laidezza matura con tutti i suoi orrori! Oh, sia benedetta l'illusione che ci lascia credere, che ci permette di amare! Dove troveremmo la deliziosa freschezza di quell'istante in cui, mentre ogni cosa intorno a noi è tranquilla e noi stessi ci sentiamo tranquilli, un campanello che scatta, un uscio che si apre, ci dà la sensazione improvvisa di avere al posto del cuore un uccello che batte le ali? E se la camera nella quale ci troviamo è buia, tosto si riempie di raggi, e se la percuote il sole noi vi vediamo danzare miriadi di stelle? Che importa se tutto ciò non ha la matematica certezza dell'abbaco? Il solo vero è dentro di noi. Quale afferrabile bellezza sarà più bella del nostro sogno?

Ricordo l'impressione disgustosa che mi diede una bimba di quattro anni; era il giorno di Natale e, trovandola che giocava con diversi balocchi degni di ammirazione, uscii ingenuamente a domandare: "Sono i doni del Bambino, nevvero?" — "Che sciocchezze! — rispose — Io non credo a queste grullerie; li ha comperati papà". Conosco una quantità di persone, oh Dio, quante! che in simile circostanza avrebbero riso; io invece trasalii con quel senso di angoscia che ci prende quando si spezza improvvisamente una cosa fragile e bella, goccia di cristallo o candore d'innocenza. Ricordo per antitesi un caldo meriggio d'estate, ed io in una traballante carrozzella accecata dal sole e dalla polvere della strada maestra. Avevo quattro volte quattro anni, buona vista e nessuna tara nel cervello, tuttavia un filo d'oro, volteggiando nell'aria, mi turbò improvvisamente. Una ninfa, una dea, forse, avevano nell'alba di quel giorno sciolte in quel posto le auree chiome ed un capello, conteso dagli zefiri, ondeggiava ancora da un albero all'altro, dall'uno all'altro cespuglio. Tutta presa dalla visione gentile, mi esaltavo poetando, senza più sentire la molestia del polverone e del caldo. Non pensai neanche per un attimo alla possibilità che un filo, strappato alla frusta del vetturino e indorato dal sole, avesse potuto creare il mirifico inganno.

Un libro che ebbe una grande influenza sul mio pensiero fu il Viaggio sentimentale di Lorenzo Sterne. Non avevo mai letto nulla di simile; mi parve quasi di trovarmi improvvisamente dinanzi a uno specchio che riflettesse una parte ignota di me. Come mai quel pastore evangelico conosceva così bene una piega riposta dell'anima mia celata a me stessa? Erano tutti i miei parenti quel viaggiatore, quel frate, quella dama della désobligence; avrei voluto non staccarmene mai; proseguire insieme ad essi il giro della terra; e non compresi allora la psicologia ironica e profonda che spezza nel punto culminante quel libro unico al mondo. Ma già la verga magica della rivelazione aveva percosso la roccia chiusa; più tardi, molto tardi al solito, quando da vent'anni non leggevo più il Viaggio sentimentale, lo ritrovai in certe attitudini del mio spirito, in certi modi di contemplare la vita: ciò senza mancare di fede alla mia appassionata ammirazione per Foscolo e per Byron, e leggendo pure con interesse la Bibbia, il dizionario delle Favole mitologiche e i versi di Guadagnoli. Eccomi assai lontana dai classici e priva di orientamento, in mezzo a letture disparate.

Continuavo a scrivere, perchè erano questi i momenti più belli della mia giornata, una valvola per mezzo della quale sfogavo pensieri, desideri, rimpianti; ed era anche una base di conversazione perchè tenevo circolo tutte le sere coi personaggi delle mie novelle, de' miei romanzi e vivevo insieme ad essi come se fossero persone reali. I piaceri della fantasia hanno sui piaceri del senso questo grande vantaggio di non trovare ostacoli alla libera espansione; la fantasia non conosce limiti nè leggi; il suo dominio oltrepassa lo spazio, stringe in un solo amplesso il passato e l'avvenire, forza i cancelli del regno della Morte. Un risveglio crudele era quando, in certe sere di feste solenni, le mie zie si mettevano in mente di giuocare a tombola; supplizio indescrivibile per me che detestavo ogni sorta di giuochi e che vedevo portarmi via i pochi istanti preziosi della mia libertà per allineare fagioli in un rettangolo di cartone. Ma poteva l'estrattore gridare tutti i novanta numeri del giuoco, ed altri ancora, che i numeri della mia cartella restavano sempre vuoti, suscitando l'indignazione della zia Nina, la quale non mancava di chiamarmi egoista, mentre io, incorreggibile ragionatrice, andavo almanaccando perchè il mio desiderio di scrivere, che non chiedeva sacrifici ad alcuno, fosse egoismo, e non lo fosse l'imposizione fatta a me di sacrificare il mio unico svago per unirmi a giuocatori che non avevano alcun bisogno dell'opera mia.

Avevo, ed ho ancora, l'abitudine di disinteressarmi de' miei scritti appena vi abbia posta la parola fine; la sola differenza sta nel fatto che ora li pubblico e allora li distruggevo. Non essendo per temperamento collettrice, tutta quella carta scritta mi dava noia. Sono d'altronde convinta di non aver disperso nessun capolavoro; vorrei anche poter distruggere, e sarebbe meglio buona parte delle mie prime pubblicazioni, ma spero che il tempo lo avrà già fatto. Al modo col quale mi sono formata, studiando a vanvera, leggendo a sorte, priva di consigli e di direttiva, dovevo necessariamente procedere a tentoni, a urti, a sbalzi, a cantonate, arrivando tardi a quella meta dove altri giungono di primo acchito. È bensì vero che alcuni critici troppo indulgenti credettero di scorgere una buona promessa in quei primi lavori abboracciati, superficiali, intinti nella pece delle cattive letture, e il pubblico, sorpreso forse di trovare nelle mie novelle la nota di un umorismo assolutamente raro nelle donne che scrivono, se ne divertì senza badare alla scorrettezza della forma e mi accolse con grande simpatia; ma io ebbi la fortuna di non inebbriarmi alle prime lodi. Riconosco in ciò una vera fortuna che auguro e raccomando vivamente a tutti i principianti. Non la quantità della lode soddisfa un solido criterio, ma la qualità. Senza fissare propriamente una meta, c'era latente in me il desiderio della qualità; sentivo di meritarmi una stima superiore a quella di semplice novellatrice, e se tanta sicurezza bastava per sorreggermi nella prova, devo confessare che solamente in seguito alla pubblicazione di Teresa si incominciò a prendermi sul serio. Ero già maritata e mamma quando scrissi quel romanzo, raccogliendo elementi psicologici che giacevano da molto tempo nel mio pensiero; da molto tempo conoscevo la vita di provincia e il mio spirito di osservazione si era lungamente indugiato sul problema della donna che rimane nubile.

Tante fanciulle posarono inconsapevoli per la mia Teresa, ed una che si chiamava veramente Teresa mi bastò vederla una volta sola. Pallida e mesta, seduta in disparte dalle sue sorelle, che giovani ed allegre scherzavano tra loro, cuciva una camicia per il fidanzato lontano, fidanzato già da dieci anni, il quale non veniva mai, ed al quale ella pensava sempre. Queste due antitesi, l'indifferenza di lui, la costanza di lei: ecco il romanzo sorto in un attimo intero e vitale. Gli altri personaggi, l'ambiente, l'intreccio, si formarono da sè; ma il rapido sbocciare di esso, fu come il fiore del pesco che sforza in un mattino d'aprile la corteccia del ramo nudo, coronando nell'improvviso sbocciare dei petali il paziente lavoro delle linfe. Non altrimenti la patetica storia della donna a cui manca l'amore germinava da lunghi anni nel segreto delle mie sofferenze, nelle ingiustizie di cui ero stata vittima, nella persecuzione che aveva attossicato fin dalle sorgenti la mia ingenua giovinezza. Era il dramma di tante anime femminili che si era ripercosso attraverso la deviazione di un'anima sulla speciale sensibilità dell'anima mia; e che avessi colpito nel segno me lo dissero innumerevoli lettere di ignote, e la loro commozione e le loro lagrime e il melanconico e pur dolce conforto di sentirsi comprese.

Non mi dilungherò a parlare dei libri che io scrissi, rammentando opportunamente il consiglio di Jacopo Todi: Dove è chiara la lettera non fare oscura glosa. Inoltre preparando queste Memorie la mia intenzione era solamente quella di far conoscere le circostanze un po' eccezionali in cui si svolsero i primi anni della mia vita, quegli anni che sono per lo sviluppo dell'uomo ciò che il sole e la rugiada sono per la pianta. Poche volte nella storia si avvertirono cambiamenti così radicali come dalla metà del secolo scorso ai nostri giorni, e se considero ciò che erano di arretrato, fin da allora, gli usi e le abitudini delle zie venute dalla provincia a dirigere la mia educazione, posso credere di non essermi ingannata troppo a giudicare che un parallelo sarebbe interessante a farsi fra quel che ero io e quel che sono le fanciulle moderne. Ma non è di ciò che devo occuparmi, giunta oramai alla fine de' miei ricordi, oltre i quali la mia personalità scompare entrando in una vita nuova, con un altro nome, in un'altra famiglia. Questa seconda vita non ho il diritto di rivelarla al pubblico; essa d'altronde aggiungerebbe ben poco alla veridica esposizione, che già feci, del come si andò raffinando fra elementi contrari quella sensibilità che non esito porre alla base del mio ingegno, qualunque esso sia. È certo che, meno sensibile, non avrei avvertito le offese fatte alla mia coscienza e ai miei sentimenti, non mi sarei rinchiusa in me a meditare, forse non avrei scritto o avrei scritto in modo diverso. Ora è proprio a questo modo che tengo più che ai maggiori elogi. Non so quanti punti mi darà in definitiva la critica; ma so che i miei lettori mi amano, so che ho fatto del bene a molti cuori titubanti, a molte anime in pena, ed è una così grande dolcezza quando la penso! Dovrei forse giustificare qualcuno de' mie primi lavori impulsivi, superficiali, sciatti nella forma e acerbi nel pensiero, ma dopo di avere qui descritta la lunga Via Crucis, che dovetti percorrere senza aiuto di Cirenei nè pietà di Marie, che cosa potrei aggiungere che non sia oscura glosa di chiara lettera? La mia opera parla per me; disuguale, come forse nessun'altra, è nelle sue stesse imperfezioni la prova migliore dello sforzo continuo verso un'ideale più alto, e in questo sforzo sta la mia giustificazione. De claritate in claritatem è la gloria dei grandi; sia il dovere dei piccoli: A tenebris in lucem.

Io fo ora come uno che, avendo colto tutti i fiori della propria aiuola, fruga ancora le zolle cogli occhi e colle dita per vedere se ne sia rimasto indietro qualcuno. Eccomi alla fine della mia vita di fanciulla, Neera non è ancor nata, quantunque il bellissimo nome scorto in un libro scolastico delle Odi di Orazio mi avesse già colpita in modo straordinario e così tenace che allorquando, più tardi, volli scegliere uno pseudonimo non tentai neppure di cercarne un altro; per il momento solo l'armonico congiungimento delle sillabe mi attrasse, stringendomi nel fascino di una nota musicale, ben lungi dal sospettare che una nota personalità fosse già sorta in me. Gli anni erano passati senza portare nessun cambiamento nella mia esistenza. Mi vedo sempre nel melanconico salottino dalla tappezzeria cupa, china sul lavoro, le membra intorpidite, tesa la mente nel vacuo e penoso sforzo dell'aspettativa che logora l'ingegno e rammollisce la fibra; etisia morale di tutte le giovinezze rinchiuse. E mi vedo alla sera a leggere a voce alta il giornale che in quei primi anni di libertà stava prendendo un grande sviluppo. Dapprima fu il Pungolo; naturalmente gli articoli di politica non mi interessavano, ma fioriva allora una volta alla settimana l'appendice letteraria e questa me la sorbivo con compunzione. Vi si parlava di Iginio Tarchetti, di Barrili, di De Amicis. Scriveva un certo Giulio Pinchetti, giovane di promettente ingegno che morì suicida e io piansi come se lo avessi conosciuto. Uscì in quei giorni Una capinera di Giovanni Verga. Chi era Giovanni Verga? Uno nuovo, un siciliano, non si sapeva altro. Ebbi occasione di leggere il piccolo volume e ne provai una intima schietta gioia. Ecco, dissi fra me, uno che si farà strada! Ed era contenta del piacere che mi immaginavo avrebbe avuto lui. Gli è che sentivo un alito di vita venirmi incontro, quella che doveva essere la mia vera vita. Perchè invece erano tutti così lontani coloro che avrebbero calmata la sete ardente dell'anima mia? Leone Fortis teneva lancia in resta nelle cronache mondane. Indimenticabile quella che scrisse a proposito di una magnifica festa da ballo in costume offerta alla cittadinanza milanese dal Prefetto conte Pasolini. C'era la Quadriglia delle carte da giuoco colle dame nei quattro diversi costumi di regina di cuori, regina di quadri, regina di fiori, regina di picche, e i quattro re in costumi analoghi. C'era una Notte impressionante di brividi e di mistero; un Fuoco da far desiderar il supplizio di Savonarola ecc. ecc. Il colmo del successo fu l'entrata nella gran sala del ballo di due elegantissime slitte russe nelle quali stavano adagiate, in nivee vesti e pelliccie d'ermellino, due delle più belle signore della nostra aristocrazia. Il mattino appresso, rimestando sul fuoco il latte della mia colazione, ripensavo a tutti quegli splendori sembrandomi che il mondo fosse più bello quando le vecchie fatine regalavano alle piccole Cenerentole la nocciuola coll'abito di stelle per assistere alla festa del Principe. Tutto quel fermento di vita, che aveva portato seco la liberazione del giogo austriaco, pulsava intorno a me. Era il risveglio di una città che, oppressa da secoli, si riscuote con un prepotente bisogno di gioia, e i rapporti della vita cittadina, allora più intimi e più ristretti, me ne lasciavano giungere l'eco tentatrice. Erano le feste, erano i corsi sul bastione di porta orientale animati dalla presenza dell'aristocrazia che vi concorreva con bellissimi equipaggi; i ricchi borghesi facevano altrettanto, e chi non poteva andare in carrozza, seguiva egualmente a piedi il giro del Corso. La ristrettezza relativa della città e il buon accordo delle classi, non ancora corrose dal veleno dell'odio, metteva il piacere alla portata di tutti e facilitava le relazioni.

Non dico questo per me, immobilizzata nel mio angolo d'ombra e nella mia parte di spettatrice, specola modesta dalla quale mi fu dato seguire il sorgere e l'ingrandire di una figura femminile, che la fortuna del nostro paese ha chiamato alla missione storica di prima regina d'Italia. Nessun titolo più glorioso cinse nei secoli una fronte di donna, nessuna donna accorse all'appello del destino, che le conferiva l'altissimo compito, con mani più colme di grazie. Ella apparve, nell'ora che l'Italia per opera de' suoi uomini migliori assurgeva alla dignità di nazione, figlia del nostro sangue, fiore della nostra stirpe, Margherita di Savoia, l'unica, la predestinata. Quando entrò diciassettenne in Milano, sposa da pochi giorni, sembrava una bambina. Seduta per la prima volta al posto d'onore nella carrozza, coi lunghi capelli biondi fluenti sull'abito di mussolina rosa, terminando di calzare sulla mano il piccolo guanto, sorrideva al pubblico con amabile candore. Piacque subito, quantunque per l'età immatura non si potesse chiamare bella, piacque e si attese; nè l'attesa fu delusione. Di volta in volta che veniva a Milano, e veniva spesso, il pubblico si mostrava sempre più conquistato; la gentilezza, il tatto, l'intelligenza colla quale rappresentava la sua parte di futura regina erano davvero sorprendenti. La maternità le portò anche il dono della bellezza, una bellezza tutta sua che sfuggiva all'analisi, bellezza di luce e di colori come una fiamma accesa improvvisamente dietro la trasparenza di una immagine. Mi indugio a proposito in questa descrizione sperando di lasciare un ritratto veritiero di Margherita di Savoia che la fotografia si è affaticata a riprodurre in centinaia di pose invano, sempre invano; che i pittori in possesso della tavolozza credettero di rendere accumulando l'oro e la madreperla, le più tenere rose e l'azzurro più delicato senza avere maggior fortuna. Solo un poeta ci diede di lei la nota giusta, Carducci. Già nei primi versi dell'Ode, in quella magnifica invocazione così travolgente di entusiasmo:

Onde venisti? quali a noi secoli —

Sì mite e bella — ti tramandarono?

sentiamo di trovarci dinanzi a una donna non comune. Quali a noi secoli ti tramandarono? Che lunga schiera di eroi, di guerrieri, di re, composero la psiche di costei che ha lo sguardo d'aquila e di colomba? Tale era veramente lo sguardo di Margherita quando nella prima floridezza dei vent'anni passava in mezzo alla folla dominandola. Ella aveva un modo speciale di guardare e di salutare in pubblico, per cui ognuno restava convinto di avere avuto individualmente quel saluto e quello sguardo. La sua presenza dava la gioia, e di questa gioia era prodiga uscendo tutti i giorni per le vie più frequentate, esercitando colla sua fine intelligenza, colla sua femminilità sempre vigile, l'arte difficilissima di farsi amare dal popolo. Aveva a tal uopo delle trovate geniali. Comparve una volta al corso estivo sui bastioni portando, invece del cappello, un velo nero alla lombarda, capricciosamente rialzato, coi cinque grossi spilloni d'argento delle contadine brianzole. Fu un ardimento e fu un successo. Ella era d'altronde una di quelle rare donne a cui tutto sta bene; le tinte più arrischiate impallidivano al confronto della sua carnagione di una freschezza meravigliosa. Ma mi accorgo di accumulare anch'io parole su parole e non riesco a far comprendere che cosa sia stata per l'Italia nuova questa regina fanciulla, come senza eccezionalità di mente, senza bellezza assoluta, senza ambizione di dominio, per la sua sola grazia, per la luce della sua anima, traesse a sè tutti i cuori. Opera profonda di politica compresa con geniale intuizione del momento, vero trionfo di femminilità regale accanto ai trionfi del re guerriero. L'Italia non deve dimenticare quanto contribuì Margherita di Savoia a rendere cordiali i legami fra reggia e popolo. Dopo il delitto di Monza non venne quasi più a Milano. La incontrai poco tempo appresso in una via solitaria della Roma moderna. Nella carrozza abbrunata che avanzava lentamente, una forma indistinta si intravedeva appena sotto il fittissimo velo di lutto; celato il dolce sguardo tra d'aquila e di colomba; assente il sorriso che aveva dominato le folle; ermeticamente chiuso il bel volto sul mistero della sua luce. Pure attraverso un movimento quasi impercettibile del velo riconobbi la linea elegante del suo saluto, quel chinare del capo così grazioso, come non vidi in altra donna mai. L'ultima visione che me ne era rimasta portava la data inaugurante la prima Esposizione di belle Arti in Venezia, dove Ella apparve nella maturità della sua avvenenza, circonfusa ancora dal duplice fascino femminile e regale che la faceva sovrana per diritto di natura e, a ritrovarla in quella via deserta della Roma moderna tanto mutata d'animo e d'aspetto, mi si strinse il cuore. Lesse Ella forse il rispettoso compianto nel breve inchino della sconosciuta, poi che con tanta grazia rispose; e se mai questa pagina dovesse per singolare fortuna cadere sotto gli occhi della Augusta Donna, voglia Ella accogliere con pari grazia l'omaggio di una suddita, che non brigò mai l'onore di esserle presentata, ma che ammirò sempre in Margherita di Savoia l'ideale realizzato della prima regina d'Italia.

Tra le molte esperienze che mancarono alla mia giovinezza, devo tener conto anche delle malattie. Io non avevo ancor visto un ammalato, quando mio padre si lagnò di un malessere per il quale fu chiamato il medico. Bassotto, tarchiato, rosso in viso, cogli occhi che sprizzavano salute, questo giudizioso seguace di Esculapio (che seppe vivere quasi novant'anni) formava un contrasto perfetto col mio povero padre, sempre triste e malinconico, alto, sottile e pallido come un cero. Il dottore tuttavia non tenne conto di questi sintomi e non ordinò medicine. Disse appena: "Su, su, non si lasci abbattere, non è il caso, lei è sanissimo, stia allegro, mangi dei buoni risotti e non pensi agli anni. Ne abbiamo sessanta? Ebbene siamo uomini, uomini capisce? non vecchi!" Se ne andò lasciandoci nel cuore una sicurezza che ci rese tutti ciechi; così all'indomani mentre egli si lagnava ancora di essere stanco e le sue sorelle gli ripetevano le parole del dottore, io, chinandomi per baciarlo, sentii che diventava freddo. Al contatto delle mie labbra mormorò una sola parola: "Mi raccomando" e mi guardò; ma la pupilla era già spenta, il suo sguardo veniva dall'al di là.

················

Che dolore fu quello, non di parole nè di soverchie lagrime! Ma, come vuole il mio temperamento, discesi più profondamente in me, scavai nell'anima mia il sepolcro per quel padre adorato e da allora, non più divisa da ostacoli, soli noi due, vivemmo sempre insieme. Già fin dalla prima notte che me lo portarono via andai nella sua camera; le finestre erano aperte e vi entrava la luna. Subito fui presa da una grande dolcezza come se egli fosse ancora presente e mi dicesse "Vedi? non ti abbandono". Perchè non sarebbe vero? Io intanto lo sentivo vicino a me e mi pareva che mi guardasse. Il raggio della luna si era adagiato sul letto fluido e molle a guisa di fantasma. Mi avvicinai, tesi le braccia... "Oh! se egli potesse vedermi davvero, vedere una volta almeno quanto lo amo!" La vita ci aveva divisi, la morte ci univa in uno sposalizio d'anime. Nessuno ci avrebbe disgiunto mai più. Da quella notte il mio dolore divenne la mia forza. Incominciai allora veramente a vivere con mio padre, a interrogarlo e in ogni circostanza difficile a pensare in qual modo si sarebbe comportato lui stesso. Tenendolo così sempre presente mi sembrava di prolungare il suo soggiorno sulla terra e, poichè era entrato a far parte della mia vita interiore, non avevo quasi bisogno di parlargli: lo sentivo respirare nel respiro della mia coscienza. Pochi giorni prima di morire mi aveva detto che gli piacevo con un certo nastro rosso intorno al collo, ed io per fargli piacere lo misi ancora un giorno. La zia Nina dichiarò che ero senza cuore.

Bassorilievo di LINA ARPESANI

Se lasciando la sua forma terrena, lo spirito di mio padre non fosse rimasto così tenacemente avvinto al mio proprio spirito, se non mi fossi sentita io stessi la continuatrice, la mia solitudine non avrebbe avuto conforti. Nutrivo per il maggiore de' miei fratelli, Luigi, una ammirazione appassionata che poteva sfogarsi solamente nelle lettere di famiglia essendo lui quasi sempre assente, prima per l'Università alla quale si iscrisse giovanissimo, poi per la campagna garibaldina, poi per la scuola alla Veneria di Torino, uscendone ufficiale d'artiglieria e dando nello stesso tempo gli esami al Valentino per la laurea di ingegnere. Egli aveva ricevuto dalla natura tutti i doni del corpo e della mente, per cui un alto problema di matematica gli riusciva altrettanto facile quanto un esercizio di equitazione, di nautica o di ballo. Di esame in esame, passò allo Stato Maggiore, alla direzione della scuola di guerra, alle Ambasciate; mai una volta gli venne assegnata in sede la sua città nativa, e per quanto il nostro reciproco affetto non ne subisse menomazione di sorta, la vita ci tenne lontani non solo, ma divisi da tutto un ordine di fatti e di idee; lui brillante ufficiale della nuova Italia a contatto colle lusinghiere realtà de' suoi vent'anni, io meschina Cenerentola nutrita di magre fantasie. L'altro fratello era più giovane di noi, e il candore, la semplicità dell'animo suo me lo facevano considerare un eterno fanciullo. Aveva delle manie innocenti: per un po' di tempo si pose a fabbricare scatole e scatolini; in seguito furono libri e libriccini, detronizzati da una raccolta multicolore di bastoncini di ceralacca. Studiava anch'egli matematiche e basta l'evocazione di questa parola per comprendere la differenza intellettuale che esisteva tra me e i miei fratelli; erano orizzonti inesplorati di idee, campi di osservazione sui quali non potevamo incontrarci. Io restavo sempre prigioniera della esuberante mia attività interna. Essi discutevano del calcolo integrale e differenziale, mentre a me cantavano nelle orecchie i versi di Byron e per contrapposto gridavo al vento: "No, no, Ossian non mi piace! È noioso".

Gli ultimi avvenimenti della mia famiglia paterna corrono al loro fine. La povera zia Nina morì di vaiolo nero in due o tre giorni e Stefano, poichè io ero già accasata, rimase solo colla zia Margherita; l'anziana e il più giovane rampollo. Stefano si era appena laureato ingegnere e dal Politecnico stesso gli fu proposta la direzione di un grande stabilimento industriale a Rivarolo Ligure. Mi ero immaginata qualche volta il mio ingenuo fratellino curato di villaggio o medico condotto ad ascoltare con paziente benevolenza i peccatucci de' suoi parrocchiani, od apparire sulla soglia dei miseri casolari apportatore di sollievo a chi soffre, od anche, poichè egli era di spiriti gai e festevoli ed incline alla onesta allegria, seduto sotto una pergola brindare alla festa della vendemmia. Tutto questo sì. Ma il bamboccione che scherzava sui ginocchi della zia Nina, il timido giovinetto che sognava di toccare con una pezzuola aerea il bianco lembo di un abito verginale, il neo ingegnere che non aveva mai passato una sera fuori di casa, lanciato così di punto in bianco nel bailamme di una officina genovese, capeggiando trecento operai di modi risoluti e d'ostica favella, era una cosa che non mi persuadeva. Egli invece partì tranquillo e sereno come per una partita di pesca, portando seco la nostra cara vecchietta, o vecchiorla, secondo il mio vizio inveterato di storpiare i nomi delle persone care.

I fatti, con mio felice scorno, diedero ragione a Stefano.

Accolto sulle prime con un po' di diffidenza, quel foresto mingherlino dalla gentilezza di fanciulla, la sua franca condotta, la lealtà del suo procedere, gli conquistarono a poco a poco fabbrica e paese; i vecchi lo approvavano, lo stimavano i giovani, e le matrone con figlie da marito non gli lesinavano i loro complimenti. C'era però sempre la massa imponente di trecento operai da tenere in freno. Mio fratello si era fatto amare anche da loro sul principio di una giustizia al pari per tutti; ma della giustizia, al pari di tante altre belle cose, si possono fare almeno due versioni: una che serve per chi ha ragione e l'altra per chi ha torto. Avvenne per ciò che un bracciante, ribelle a qualsiasi persuasione di dovere, si fosse creato centro di un tale focolaio di discordia e di cattivo esempio da decidere mio fratello a licenziarlo. Il fatto in sè stesso non usciva dalle regole di una giusta disciplina, ma pare che l'operaio stesse meditando quella tale versione della giustizia a modo suo, perchè qualcuno avvertì mio fratello di stare in guardia, avendo colui giurato la sua vendetta. "Dite a colui — rispose l'anima blanda del mio Stefano — che vado tutte le sere a trovare la mia fidanzata a *** e che ritorno a buio fitto per un dedalo di viuzze tortuose dove non penetra raggio neppure nelle notti di luna, e che non porto armi".

Il 18 febbraio 1881 fui svegliata da un telegramma di Stefano che mi annunciava essere la nostra zia Margherita agli estremi. La sapevo da qualche tempo indisposta, ma ero ben lungi dall'immaginare la gravità del male. Senza pôr tempo in mezzo corsi a prendere il primo treno per Genova. Era forse la peggiore giornata di quell'inverno; freddo intenso e neve a tutto scendere; tuttavia l'impressione più violenta del maltempo l'ebbi quando, lasciandosi dietro la pianura lombarda, il treno entrò sbuffando fra le due pareti di roccia che formano la vallata della Scrivia.

Avevo avuto fino allora l'abitudine di fare quel viaggio nella stagione dei bagni, per cui uscendo dalla estiva fornace milanese tendevo ansiosa la gola riarsa al primo apparire della Scrivia, balzante di sasso in sasso, con una gaia promessa di frescura, e mi trovai invece in un deserto di neve, così triste e melanconico e desolatamente freddo, da agghiacciarmi quel po' di calore che mi restava ancora nel sangue. Oh! come può la condizione del tempo cambiare siffattamente la fisionomia di un paesaggio? Dove erano più nei villaggi liguri le piccole case dipinte di rosa colle foglie di basilico messe ad asciugare sul tetto e le ghirlande di pomodoro appese ai balconi? La neve copriva, sfondava, inabissava tutto; e insieme alla neve un vento di burrasca schiantava gli alberi ululando.

Il peggio fu quando, discesa alla stazione di San Pier d'Arena, il controllore mi strappò di mano il biglietto spingendomi fuori con grande premura di serrare le vetrate, ed io, per prima cosa, mi trovai a non vederci più, perchè una folata di vento mi aveva rovesciato il cappello sugli occhi; nè fu breve impresa districare il cappello dalla veletta avendo le mani occupate da una valigia, un ombrello, uno scialle, e il vento che soffiando proprio verso di me, mi cacciava negli occhi turbini di nevischio e mi sbatteva le sottane contro le gambe, impedendomi di fare un passo. "Un facchino! almeno un facchino per portarmi la valigia!" Cacciavo questo grido di disperazione tra i ghiacciuoli del mio fiato, ma non c'era intorno anima viva. Le poche persone giunte insieme a me, si erano squagliate in un battibaleno; attraverso le vetrate chiuse della stazione non scorgevo altro che usci chiusi. Da quella parte non c'era speranza di aiuto. Mi ingegnai allora a discendere sola la scarpata che conduce al paese, trascinandomi dietro il mio bagaglio, aguzzando gli occhi verso lo stradale per il quale doveva passare il modesto tram che conduce a Rivarolo.

Ma non si vedeva che neve. San Pier d'Arena era trasformato; case, botteghe e finestre tutte sbarrate ne avevano trasformato l'aspetto; e la solitudine e il profondo silenzio di quei luoghi così pieni di vita e la necessità di combattere ad ogni passo col vento che mi spingeva indietro incominciavano a confondere la mia abilità topografica, che non è mai stata forte, finchè vidi un sacco che scivolava lungo il muro, e sotto il sacco due gambe d'uomo. "Per carità, mi dica dove posso trovare il tram di Rivarolo!" implorai con tanto impeto che per miracolo non caddi nella neve io, la valigia, lo scialle e l'ombrello. Il sacco non si fermò, non si volse neppure dalla mia parte, solo una voce sgarbata rispose: "Eh! sì, vada a pigliare il tram oggi!" Scomparso rapidamente l'uomo dal sacco, non si scorgeva alla lettera più nessuno, nè un cane, nè un gatto, nulla. L'effetto che mi fece allora la misera vetrina di un mercantuccio, priva di imposte, col vetro sconquassato, dalle cui fessure il vento penetrava furioso facendo roteare e ballonzolare tre cuffiette da bimbo appese ad una funicella! Ma che nascono ancora bimbi in questa fine del mondo?!

Intirizzita, abbattuta dalla cattiva piega degli avvenimenti, pensando che ogni minuto di ritardo poteva essere fatale per lo scopo del mio viaggio, mi trovai dinanzi a una porticina vetrata che una tendina rossa indicava essere una osteria. Non era il caso di starci a discutere sopra; picchiai risolutamente. Una donna grassa e lenta venne ad aprirmi, guardandomi con indifferenza, ma alla mia domanda dove avrei potuto trovare il tram di Rivarolo, disse subito che non c'era nemmeno da pensarci, con quel tempo, un tempo mai visto! Replicai se fosse possibile trovare una carrozza. "Ma chi vuol mai che metta fuori una carrozza con quest'ira di Dio?" soggiunse l'ostessa, e concluse suggerendomi di dormire la notte a S. Pier d'Arena, che l'indomani si sarebbe provveduto.

Ma la mia insistenza a voler partire dovette essere stata ben tenace, perchè mezz'ora dopo salivo in un trabiccolo che giaceva abbandonato nel cortile, uno di quegli antichi omnibus chiamati in paese scimmie, non so perchè; una vera carcassa spelacchiata che aveva perduto l'imbottitura, sulla quale dal soffitto sforacchiato nevicava come in piazza e vi nevicava certo da parecchie ore essendosi già formato una specie di rivoletto che dovetti saltare alla meno peggio per prender posto sullo stretto sedile dove rimasi appollaiata: rassegnata oramai alla mia sorte apersi l'ombrello. "Cara zia Margherita, in quale stato l'avrei trovata?" Questo era il pensiero dominante, il pensiero unico, mentre lo strano veicolo a trabalzi e a scossoni mi portava attraverso un deserto di neve verso la tristissima meta. Ma prima ancora di giungervi dovetti abbandonare la mia arca, per il fatto della sua mole antiquata, che non le permetteva di passare negli stretti vicoli che precedevano la casa di mio fratello, nella quale potei finalmente entrare solo dopo di avere sfangato un mezzo metro di neve per praticarmi un passaggio.

C'erano tutti e due i miei fratelli, e dall'espressione dei loro visi, compresi che tutto era finito. Mi confermarono che era morta nella notte e prima di entrare in altri particolari, vedendo che gocciolavo da ogni parte, mi trassero dinanzi al caminetto acceso e lì stettimo noi tre, soli superstiti della nostra famiglia, a ragionare di tante piccole cose lontane che in quel posto e in quell'ora acquistavamo una trasparenza di rivelazione. A un tratto Luigi mi disse: "Vuoi vederla?" "Certamente" risposi, ma le forze non erano con pari prontezza sicure e il cuore mi palpitava di pietà. Tuttavia volli rimanere sola colla mia cara morta.

Volli che ella mi vedesse in quell'attimo di suprema verità. Giaceva bianca e morbida nella cassa aperta. Un leggero gonfiore intorno alle guancie le aveva raddolcito i contorni, rischiarata la carnagione. Il suo volto asciutto, tormentato dall'ardore, si era composto nella divinità della morte. Nessuna traccia più delle sue collere violente, nè de' suoi sarcasmi. O mia Màrgula cara, Dio, che non ti aveva concesso le ali dell'angelo, in premio delle tue virtù ti aveva dato la spada del guerriero, e quella brandendo combattesti le tue battaglie per il bene. Come riposi ora tranquilla, Màrgula, Margulina mia! Le parlavo a voce alta, non so se colla speranza che avesse da intendermi, o per il semplice bisogno di intrattenermi ancora una volta con lei, sotto la protezione del mistero di cui sentivo l'augusta presenza; nè mi accorsi del tempo che fuggiva, nè mi fu breve l'indugio. La voce sommessa dei miei fratelli dalla saletta mi chiamò ripetutamente. Allora mi chinai per l'ultimo addio sul feretro che tra poco avrebbe risuonato dei colpi, sinistri del martello: Addio per sempre! Una lagrima cadde da' miei occhi su un ramicello di camelie regalatomi poc'anzi dalla moglie del dottore e che mi era rimasto fra le dita. Con movimento istintivo posai fiore e lagrima sul petto della cara estinta, mormorando: "Lo sai, ora, che ti voglio bene?..."

Uno dopo l'altro tutti i miei vecchi sparivano così, lasciandomi un gran vuoto nel cuore. La zia Carolina si era abbattuta sull'inginocchiatoio, un mattino, mentre recitava le orazioni, chiudendo senza malattia la serena vecchiaia trascorsa nella pace degli affetti domestici, nella casa avita eretta sulle rocce del castello che aveva appartenuto alla famiglia di suo marito, serbando fino all'ultimo il suo dolce e composto sorriso, la sua tenera affezione per me, tanto ricambiata, ricordata sempre.

Ultima rimaneva la zia Claudia, trascinando quella sopravvivenza a sè stessa che è la forma più malinconica dell'invecchiare. Il corpo che si trasfigura perdendo le linee e i colori, il brio di vita che si ottenebra a poco a poco, anticipando nella mente il buio dell'al di là, accompagnano la dipartita dell'essere caro di uno sconforto, quasi una umiliazione che nessuno se non l'ha provata può intendere. Oh! bello trasvolare, come la zia Carolina, dall'uno all'altro mondo prima che la malattia ci afferri, che la decadenza ci scomponga, trasvolare, puri d'anima e di corpo, in una elevazione dello spirito a Dio! Già da qualche anno la povera zia Claudia era entrata in quella trasformazione di tutta la persona che fa dire con una frase popolare, ma efficacissima: "Non è più lei!" E intorno a lei, nell'isolamento pieno di tristezza e di rimpianti in cui viveva, ogni cosa era cambiata, logora, sfasciata, morta innanzi ancora che lei morisse. Un peggioramento improvviso, del quale non fui avvertita, pose fine alle sue sofferenze.

Nel treno, che mi conduceva a Caravaggio il giorno del funerale, pensai che vedevo questo paese per l'ultima volta, e nel mettere piede sull'ampio viale del Santuario, mi sentii battere il cuore. Tutta la mia vita risorgeva da quell'oasi, dove avevo passato i più bei giorni della mia infanzia e dove sapevo di dover trovare solo una nuda bara. A passi lenti, con una esitazione sacra per tutte le memorie che si ridestavano in me, mi avviai verso il paese, fermando gli occhi su ognuna di quelle fronde, su ognuno di quei muricciuoli o di quelle panchine tra albero e albero come per fissarne il disegno nella mia mente. Entrai nella piccola chiesa di San Bernardino, alquanto profana nel suo barocco voluttuoso e nelle pieghe delle cortine che abbracciano gli altari con morbidezza di alcova, ma tanto cara alla mia visione fanciullesca per i bei colori dell'ornamentazione e per quell'aria vecchiotta che in ogni tempo mi tenne sotto il suo fascino. Dinanzi all'arco a tre porte che mette al paese, colla statua della Madonna campeggiante nel mezzo, fiancheggiata da due angeli che imboccano la tromba, una attrazione magnetica mi fece volgere gli sguardi sullo squallido fabbricato, a destra entrando, così squallido e repulsivo, ma che si illuminava a' miei occhi di ridenti e splendenti immagini perchè, appena voltato l'angolo, sapevo di trovare quella reggia di tutti i sogni, che era la casa dei miei nonni. "Dopo, dopo — dissi per calmare la mia impazienza — anzitutto il dovere"; e voltai a sinistra dove per viuzze secondarie delle quali improvvisavo il ricordo passo a passo, giunsi a quella che era stata la dimora della zia Claudia.

Nelle rare ed affrettate visite, che le facevo durante gli ultimi anni, per non perdere un solo istante della di lei compagnia, non uscivo nemmeno dal salottino angusto in cui si spegneva la sua attività, che era stata così grande, così prodiga di sè stessa. Questa volta invece, sapendo di non tornare più, volli compiere un giro pietoso nelle stanze deserte, sotto il portico, attraverso il giardino, un giorno così lieto di fiori, di frutta e di fanciulli. Ad ogni passo era una desolazione; del giardino non restava più nulla; alberi e fiori divelti, appena qualche erbaccia, pestata dai gatti, macchiava qua e là il terreno di chiazze giallastre fra le quali razzolavano tre o quattro galline, sollevando mucchietti di terriccio. Filosofo e prigioniero, solo l'alloro rimaneva appoggiato al muro, curve le rame sulla fossa dell'immondezzaio. Mi sovvenni allora che egli mi aveva ispirato una delle mie prime riflessioni sui rapporti fra la natura e l'uomo. Dovunque girassi lo sguardo i ricordi sorgevano. Riconobbi la sedia sulla quale la zia Claudia faceva sedere le povere donne che venivano a farsi strappare un dente o a prendere consiglio dal dottore; non serviva mai per nessun altro e giaceva ancora sotto il portico, quantunque il dottore fosse morto da molti anni; giaceva rudero abbandonato in mezzo alle altre rovine, ai muri che si scrostavano, ai parati stinti, ai mobili appannati, agli specchi opachi; vecchiaia e distruzione di tutte le cose intorno a una povera vecchia, che si era sentita morire ogni giorno un poco, insieme alla sua casa che moriva. Salii, da ultimo, la breve rampa dello scalone, dove volava un tempo il mio piede leggero per andare a beccuzzare i chicchi oblunghi d'uva galletta, che dal giardino saliva a vestire il terrazzo di grappoli biondi, dei quali rimaneva, unico ricordo, un macabro intreccio di ceppi arsicci e contorti. Posava sovr'essi in quel momento una cocciniglia rossa che mi parve l'anima sopravissuta della mia prima gioventù. E sulla parete dello scalone — oh! sorpresa dolcissima — ecco intatti i versi dell' Edmenegarda quali io ve li scrissi:

«O giovinette, gioia vereconda....».

Ed ora l'ultimo pellegrinaggio, il più tenero, il più doloroso. Da molti anni non attraversavo il paese, dall'infanzia forse. Affacciandomi alla piazza mi parve di sognare. Fra me e le cose intorno si interponeva uno spazio confuso, come se il tempo trascorso vi avesse sospesi veli di nebbia a rendere i contorni meno materiali. Qualche indizio di tale stato d'animo dovette trapelare dalla mia persona, perchè dalla soglia delle botteguccie, dinanzi ai canestri delle ortolane, alcuni curiosi stavano a guardare questa incognita con una certa meraviglia per il fatto che se un forestiero va a Caravaggio, ci va per il Santuario e non per vedere il paese. Avevo una gran voglia di gridare: "Badate, non sono forestiera, ho conosciuto questo paese prima di voi, vi ho succhiato il primo latte...". Fantasticava: "se incontrassi la mia nutrice? o i suoi figli? o la mercantina che mi vendeva gli spilli dai variati colori? ma no, vaneggio, tutti sono morti!...". Improvvisamente mi trovai dinanzi ad un ammasso di calce mostruosamente tormentata e sforacchiata che mi diede l'esatta impressione di un pugno negli occhi. Oh! Dio, cos'è questo? Una casa in stil novo, in stile liberty? E ciò a Caravaggio!

Una malinconia sottile si impossessò del mio spirito; mi sentii straniera, atomo disperso di una generazione lontana. Il senso della morte non mi era mai apparso così generale e profondo negli uomini, nelle cose, nel pensiero, nel sentimento. Ma quando la vidi, essa, l'arca santa dei miei anni migliori, la casa benedetta dei miei nonni, non ebbi più alcun pensiero, nè di morte, nè di vita. Dovetti appoggiarmi alla casa di contro, perchè mi si piegavano i ginocchi, e di là guardai attraverso le palpebre umide, le sei finestre della bella facciata semplice e la finestretta dell'ammezzato dove la zia Carolina mi insegnava:

«Arlequin tient sa boutique».

Vedevo pure di scorcio la chiesetta di S. Giovanni dove mio padre e mia madre si erano sposati, e una grande tenerezza mi disfaceva il cuore. A passi guardinghi, come se stessi per commettere un delitto, traversai la strada e mi avvicinai alla porta. Era chiusa. Trattenendo il respiro mi posi in ascolto. Nessuna voce, nessun rumore. Tremavo in tutte le vene. Quel piccolo ordigno di ferro sul quale le mie pupille si fissavano ipnotizzate era il saliscendi che la mano piccoletta aveva premuto tante volte.... La mia commozione è al colmo, non posso resistere, il desiderio è più forte di me. Appoggio un dito e la porta si apre scampanellando. Che momento!

Al suono improvviso accorse una servetta chiedendomi chi cercavo. Non avendo alcun piano prestabilito, dissi a caso il primo nome che mi passò per la mente, intanto che i miei occhi frugavano ansiosi l'andito, delusa di trovarlo non più quale era rimasto nella mia memoria, ma scialbo, triste e muto, imbiancato da cima a fondo come un sanatorio, in luogo della calda tinta ambrata d'un tempo che sembrava trattenere sulle pareti il palpito della vita. Avrei voluto andare avanti, penetrare nelle stanze, nella cucina sonora di voci, splendente di terse stoviglie, vedere se qualche vestigio rimanesse ancora dei tempi felici; chiudere gli occhi e trovare al buio la bella sala colle paradisee e lo spicchio di cocomero dipinto sul soffitto, l'angoluccio dova la vecchia Teresa preparava il corredo della mia bambola, la camera ridente dei miei sonni infantili colle ampie tende azzurre a ghirlande di rose che palliavano sulle finestre i primi raggi del mattino; ma la servetta teneva aperta la porta con un tacito invito. Per guadagnar tempo le chiesi a chi apparteneva ora la casa; mi disse che vi abitava il direttore dell'ospedale, e questo fu l'ultimo colpo della realtà che disperse i dolci fantasmi del passato. Un istante ancora, un ultimo sguardo, ferma sulla soglia ad invocare l'impossibile miracolo, poi uno scroscio di pianto ricacciato in gola e la fuga.

Epilogo

Eccomi alla fine di queste memorie scritte fra gli spasimi della carne e i tormenti dello spirito, costretta a tutte le rinuncie, inchiodata sulla mia croce, mentre intorno a me imperversa l'orribile guerra facendomi sentire crudelmente l'umiliazione della mia impotenza. Incominciate senza sapere neppure se il male che mi distrugge avrebbe consentito di condurle a termine, compie oramai l'anno da quando vergai le prime parole in una chiara alba di luglio; ed oggi, come allora, dal breve angolo del mio terrazzo, che mi è consentito vedere, il caprifoglio spande la sua fragranza, la glicine che non ha più fiore agita sullo sfondo del cielo le rame vaporose, maggiorana e menta esalano la canzone silvestre dei giardini primitivi.

Quando, acerba fanciulla, in certi mattini d'inverno indugiavo sola presso il focolare scrivendo con un fuscello un nome nella cenere, la vita mi stava davanti ed i miei sguardi vi si figgevano ansiosi, ma tutto era buio e mistero. Ora che mi sta alle spalle la contemplo nella sua interezza e mi chiedo se la vita, questa vita che edificai io stessa colle mie passioni e colle mie illusioni, mi ha dato tutto quello che io cercavo. Pensando alla infinità dei beni che mi furono negati, agli ingiusti apprezzamenti, all'infanzia compressa che mi lasciò per sempre l'incertezza, l'impaccio, la timidità sofferente di coloro che portarono a lungo una catena al piede, dovrei concludere che la vita mi fu matrigna e tiranna. Eppure trassi da essa le maggiori gioie che io abbia mai desiderate: amare e pensare e avere nelle mie mani un istrumento per esprimere tutto ciò. Poichè non mi prese mai desiderio di lusso e di ricchezze, e l'ambizione e la vanità mi furono del tutto ignote; abitai l'anima mia; come i califfi delle novelle orientali abitavano i loro palazzi, lungi dai rumori della folla, chiusi tra giardini meravigliosi dove saliva il canto delle fontane in zampilli d'argento e la sabbia dei viali era cosparsa di pietre preziose. O meglio, sì, meglio ancora, uno di quei conventi sospesi tra cielo e mare, sovra un picco inaccessibile, laggiù nell'Asia profonda, cinti dal misterioso silenzio delle solitudini.

Dovrei lagnarmi della vita se, ad onta dei limiti ristretti tracciatimi dal destino, ebbi tutto il possibile di ciò che mi piacque? Non ho io conosciuto gli slanci dell'anima verso la bellezza infinita e le divine estasi del pensiero, accostandomi riverente alla comunione dei grandi? Quale rovescio di fortuna, fra quelli che da un giorno all'altro distruggono la felicità di una famiglia, potrebbe togliermi la inenarrabile dolcezza delle ore trascorse nell'estasi di un sogno? Ed anche oggi, che tutto è finito, che i miei giorni si chiudono nel dolore e nello spasimo, ti benedico mille volte o vita, poi che tu mi donasti i due grandi beni spirituali di poter pensare e di saper amare. Nata idealista muoio nella fede ideale. Tutte le colpe del mondo non riescono a provare che la virtù non esiste; il solo desiderio che noi abbiamo di essa è un segno della sua presenza fra gli uomini.

Vedere solamente il male è una manchevolezza di chi guarda, non un errore della natura. Noi possiamo essere tanto sfortunati da non incontrare, nel corso della nostra esistenza, un solo campione che ci faccia credere nel bene; ma come avremmo noi coscienza di questo bene se non lo sentissimo nei più profondi abissi del nostro io? Dobbiamo credere più agli altri che a noi stessi? Sarebbe come disconoscere il più alto suggello della divinità posto sulla nostra fronte. Sono convinta che la forza, dalla quale trassi il modo di resistere alle scoraggianti esperienze della mia giovinezza, fosse appunto questa attitudine sicura della mia coscienza, la stessa per la quale ad onta della mia triste infanzia non mi sono mai sentita interamente infelice. Citare in proposito un verso di Dante può sembrare soverchia presunzione ma, è pur vero che l'uomo, pari alla « fronda che flette la cima » non resiste contro i disinganni se non opponendo la propria virtù.

Siate interni, dice l'Apostolo; queste due parole dischiudono un mondo. I beni esterni vengono e vanno; solo ciò che noi abbiamo nell'anima rimane. Rimane immortale quando il genio di Marco Aurelio, di Leonardo o di Dante ne imprima la vasta orma nei secoli; ma filtra pure modestamente di generazione in generazione, sorretto dalle piccole virtù quotidiane, che formano la dignità della famiglia e una non spregevole forza delle nazioni.

Più avanzavo negli anni e più sentivo svilupparsi in me la pensosa anima di mio padre. A mezzo secolo dalla sua morte io lo interrogo ancora e più che mai mi rammarico di non aver prese maggiori notizie su di lui da quel vivente archivio della famiglia che era stata la zia Margherita. Ebbi, però, recentemente la fortuna di trovare un grosso volume di lettere dove figurano quasi tutti i miei parenti e la gioia della scoperta fu tale che dura tutt'ora, mettendomi nella comunione così intima della corrispondenza epistolare, non solo con quelli fra essi che conobbi ed amai, ma anche con altri morti prima che io nascessi.

Che fascino sottile hanno le lettere dei morti? Si pensa al momento in cui le scrissero, lo si rivive insieme, si dice: "Mai più immaginava che io dovessi leggerla!" Ci prende uno scrupolo, un tremore riverente di fedele in presenza di una reliquia. Come si aprono adagio per timore di sciuparle! E si fanno delle scoperte, troviamo delle sorprese; un nome, una data, un accenno che ci rischiarano su tante cose passate; sorrisi e lagrime di vita vissuta, cuori dei nostri vecchi che si aprono a noi dai loro sepolcri.

Lettere intorno al 1830-40 della mia mamma in collegio alla mamma sua ed alle sorelline; foglietti rosei od azzurri e nelle grandi circostanze incorniciati di arabeschi d'oro; frasette scolastiche riboccanti di gentilezza e di tenerezza, pari al grazioso cinguettare di uccelletti da un albero all'altro. Di un interesse più serio, e per me quasi sacro, è la corrispondenza dei miei genitori prima del matrimonio. La loro unione ostacolata da gente invidiosa e maligna che tentava con basse calunnie di staccare i fidanzati è il motivo dominante di queste lettere, nelle quali l'amore sincero, appassionato e impaziente di mio padre non si disgiunge mai da una grande elevatezza di sentimento e di rispetto, a cui la fanciulla risponde con dolce ritegno, colla riservatezza del pudore femminile e di un affetto al quale non osa abbandonarsi, finchè non fosse caduta ogni vergognosa insinuazione e dileguati i sospetti che rendevano esitante il padre a dare il consenso per le nozze.

È in questa corrispondenza che rintracciai la frase di mio padre posta per epigrafe alle presenti memorie: « Che gran dono è il sentire! È aver Dio in noi ». Si può trovare una definizione più bella, più vera, più profonda? Essa spiega e completa il motto dell'Apostolo citato più sopra. Io, quando la lessi la prima volta, ne ebbi un barbaglio come di rivelazione. Conobbi mio padre e mi riconobbi in lui.

A tutti coloro che lodano il mio talento rispondo sempre con perfetta buona fede, che ciò che essi chiamano talento non è altro che una sensibilità superiore alla quota comune. Ognuno crede di averla questa sensibilità e invero una sensibilità l'hanno, ma non questa. Rammento che da bambina salii un giorno sul palco altissimo che serviva al pittore Moriggia per affrescare la volta del Santuario di Caravaggio: (forse il medesimo dove mia madre prestò la sua delicata bellezza a impersonare la dolce figura di Ruth, ma più probabilmente in quello dove campeggia matronale Giuditta reggendo con una mano la testa di Oloferne) La zia Carolina, che era con me, osservò come alcune parti delle figure le sembrassero esagerate e Moriggia; a spiegarle che per ottenere un effetto di naturalezza sullo spettatore che le avrebbe osservate dal basso della chiesa era necessario tener calcolo della distanza e dipingerle più grandi del vero. Manco dire che, se io parlavo poco, ascoltavo però molto e quelle parole di Moriggia, confermate da osservazioni mie particolari, non mi uscirono più dalla mente; mi sembra di poter spiegare colla medesima legge delle distanze la differenza che passa tra la sensibilità dell'artista nell'atto della concezione e quella del pubblico che la comprende e la gusta. Perchè una statua, un quadro, una partitura di musica, un libro, giungano a dare il fremito della vita a quelle fredde cose che sono la creta, la tela, una cassa di violino o un foglio di carta è evidente che l'artista deve aver sentito in un modo sovrumano. L'affermazione magnifica di mio padre « È aver Dio in noi » riconosce in Dio la sola forza creatrice. Dio, il mistero; Dio, la vita. L'ingegno poi è altra cosa; è quella che unita al profondo sentire crea l'opera d'eccezione, il capolavoro. Fuori dal campo dell'arte vi è pure la sensibilità dello scienziato, quella acutezza intuitiva che fa scoprire a Newton e a Galileo in due fatti di ordine comune due forze nuove della natura.

Ma per tornare alla sensibilità psichica e nervosa, sulla quale si è imperniata tutta la mia esistenza e che impresse il mio carattere all'opera mia, rammenterò brevemente in qual modo si manifestasse fin dai più teneri anni nella sensazione di isolamento, che mi faceva così spesso straniera in mezzo alla gente, nell'urto quotidiano di asprezze di stonature, di offese alla bellezza ed alla verità, che gli altri non avvertivano neppure. Per esempio io non posso soffrire le bestie, di nessun genere; nè grosse nè piccole, intelligenti o meno. Ho pensato qualche volta che se fossi obbligata, pena la vita, a tenere in casa una bestiolina metterei un pesce in un boccale di vetro sul mobile più alto del mio appartamento. Questo per dimostrare la mia avversione al genere. Tuttavia mi è accaduto infinite volte di rinunciare a sedermi in un posto che mi faceva comodo, perchè vi si era già insediato un gatto o un cane che la mia sola sensibilità mi impediva di smuovere, non il mio amore; e vedevo invece, chi dell'amore per le bestie si faceva vanto, cacciarnelo allegramente con una pedata. Comprendo la delicatezza di Maometto che tagliò la manica della propria zimarra, anzichè disturbare il suo gatto prediletto che vi si era addormentato sopra; ma si trattava del gatto prediletto e il fondatore dell'Islamismo aveva senza dubbio molte zimarre. Io fui prossima a svenire una volta che, scolara disattenta, sforbiciavo nell'aria con un bel paio di cesoie nuove e una imprudente libellula, entrata dal giardino per la finestra aperta, guizzò fra le due lame così repentinamente che, prima ancora di vederla, sentii nelle mie dita il crac del corpicciolo tagliato in mezzo. Positivamente venni meno; e ricordo che essendo in piedi dovetti appoggiarmi al muro per non cadere. Ricordo anche che le mie compagne ridevano. E sempre, quando narrai questo episodio della mia infanzia, trovai persone che ne risero.

Sono questi malintesi, in apparenza puerili, ma turbatori delle coscienze profonde, che alimentano lo sdegno muto dei solitari. Io compresi a poco a poco il silenzio rassegnato di mio padre, la sua nobile malinconia che non pesava mai sugli altri, il suo ritiro nelle arche del passato dove egli trovava ancora imbalsamati tra gli aromi della memoria i cari fantasmi della sua giovinezza, che dovette essere ardente e misteriosa. Con quale desiderio di sprofondarmi in lui, nella sua vita, sperai di trovare il seguito del diario incominciato a Roma! Ma, come egli non parlava mai degli anni trascorsi, così non si curò nemmeno di conservarne le traccie. Solo rimane questo fascio di lettere che io vado sfogliando e interrogando con ansia amorosa, tutte interessanti, sebbene in diverso modo. Sono letterine brevi, ma appassionate e piene di nostalgia, che la mamma, sciolta dal suo ritegno di fanciulla severamente educata, scrive a papà dopo il matrimonio e durante le assenze di lui (per sorvegliare la fabbrica della grande Abbazziale di Casalmaggiore). Sono ancora le lettere delle sorelle, della mamma, specie la Carolina, zeppe di incarichi per la città. Risorge in questa corrispondenza di giovani donne la Milano ristretta di quei tempi...

················

E qui sospese; interrotta nel mesto conforto di riandare gli anni della giovinezza sul finire della vita, o da un più acuto spasimo del male che le annientava ogni energia, o dal sollevarsi della portiera (ricamata da lei con tralci fioriti) di contro al letto ove giaceva, per l'entrar di qualcuno, forse io stessa. Avrà allora deposta la matita, riuniti i fogli del manoscritto nella cartella rossa colla sola mano sinistra, e voleva fare da sè. Avrà pensato di riprendere in un altro momento buono in cui fosse stata sola; ma non venne più! Io l'avrò incitata a proseguire, desolata di turbare quel risveglio dei pensieri di giovinezza, poichè la sua voce era prossima a tacere per sempre. Ella voleva rivedere, riordinare poi questi cari ricordi che sbocciavano fra i suoi tormenti, quali fiori pietosi fra le spine dell'ultimo sentiero; ma non potè nemmeno rileggerli.

Diceva allorchè era interrotta: "Riprenderò" diceva pure: "Se farò in tempo a finire" e altre volte: "Non potrò terminare le mie Memorie". Rimasero infatti a questo punto quattro o cinque giorni prima che morisse; lasciò nel mistero, che le era caro, altre pagine. A quel filo troncato mi avvinco per seguire il suo pensiero non detto in una eternità di affetti e chiamo i cuori che Ella ha amato, che l'hanno amata, quelli che si sentono compresi nella sua appassionata dedica, a salire in una elevazione ardente di sentimento e d'amore a Lei!

Maria.

APPENDICE

Una bibliografia completa degli scritti di Neera è — si può dire — impossibile a farsi. La compianta Scrittrice collaborò ad un numero grandissimo di giornali e periodici e non si curò affatto di tenerne una raccolta o quanto meno un indice. Nella sua libreria mancano perfino parecchi dei primi volumi; ed alcuni, come Un romanzo, Vecchie Catene, si debbono considerare come perduti, non essendo possibile trovarli neppure alla Biblioteca Nazionale di Brera, dove da molto tempo non si catalogano più i romanzi (e romanzi sono stati ritenuti, di Neera, Il libro di mio figlio, Battaglie per un'Idea, Le idee d'una donna!). Ci limitiamo quindi, oltre a dare l'elenco dei volumi pubblicati dalla morta Scrittrice, e ad indicare sommariamente in quali periodici figurano bozzetti, poesie, articoli di arte, di critica, di polemica, d'attualità, ecc. La prima novella firmata Neera comparve sul giornale Il Pungolo, di Milano, diretto da L. Fortis, nel 1876. D'allora scrisse nel Fanfulla, nel Bersagliere, nel Corriere del mattino, nel Corriere di Napoli, nel Fanfulla della Domenica, nella Scena Illustrata, nella Cronaca d'Arte, nella Vita Intima (anche con altri pseudonimi: Vanessa Atalanta, ecc.), nel Risveglio Educativo, nell' Idea Liberale (anche con altri pseudonimi: Alto, ecc.) nell' Emporium, nell' Arte Illustrata, nel Marzocco, nella Revue bleue, nel Journal des Débats, nella Vita Internazionale, nel Giorno, nel Corriere della Sera, nell' Illustrazione Italiana, nella Lettura, nella Gazzetta del Popolo, nell' Alto Adige, ecc. ecc. ed in vari numeri unici. Contribuì con Allodola mattutina e La prima lettera d'amore, al Vol Nell'azzurro, racconti di sei signori — a beneficio degli orfani di Roberto Sacchetti (Milano, Treves, 1881).

Romanzi e novelle:

  • 1. Un romanzo , Milano, Brigola, 1876.
  • 2. Addio! , ivi, 1877. Undicesima Edizione. Milano, Baldini e Castoldi, 1904.
  • 3. Vecchie catene , ivi, 1878.
  • 4. Novelle gaie , ivi, 1879.
  • 5. Un nido , romanzo, ivi, 1880.
  • 6. Iride , nuove novelle, Milano, Ottino, 1881. Nuova Edizione, Milano, Baldini-Castoldi, 1903.
  • 7. Il castigo , romanzo, ivi, 1881. Nuova Edizione. Torino, Roux, 1891.
  • 8. La freccia del Parto , racconto, ivi, 1883. Nuova edizione: La freccia del Parto ed altre novelle, Milano, Baldini, Castoldi, 1901.
  • 9. La Regaldina , romanzo, Milano, Dumolard, 1884. Fu già pubblicata nella Nuova Antologia, giugno-luglio, 1883.
  • 10. Il marito dell'amica , romanzo. Milano, Galli, 1885. Nuova Edizione nel 1891.
  • 11. Teresa , romanzo, ivi, 1886. Ottava edizione illustrata da G. Mentessi, L. Conconi, G. Buffa, etc., Milano, Chiesa e Guindani, 1898.
  • 12. Lydia , romanzo, ivi, 1887. Pubbl. nella Nuova Antologia dall'aprile al luglio, 1887. Seconda edizione, Roma, Voghera, 1898.
  • 13. L'indomani , romanzo, Milano, Galli, 1890. Fu già edito nella Nuova Antologia dal febbraio al maggio 1890. Nuova Edizione F.lli Treves 1909 (illustrazioni di U. Valeri).
  • 14. Senio , romanzo, ivi, 1892. Nella Nuova Antologia settembre-novembre 1891.
  • 15. Nel sogno , ivi, 1893. Con un disegno di Giovanni Segantini. Doveva recare per epigrafe queste parole di S. Agostino, omesse per isbaglio, e che valgono a chiarire il concetto dell'A.: «Meliu enim iudicavit de malis bene facere quam mala nulla esse permittere.» Pubbl. prima nella Perseveranza 1892 col titolo: Sulle vette .
  • 16. Voci della notte , novelle, Napoli, Pierro, 1893.
  • 17. Anima sola , Milano, Chiesa e Guindani, 1894. Nella Nuova Antologia maggio-giugno, 1894. Ristampa, Baldini e Castoldi, 1919.
  • 18. L'Amuleto , romanzo, Milano, Cogliati, 1897. Ristampa, ivi, 1912.
  • 19. Fotografie matrimoniali , Catania, Giannotta, 1898. Pubbl. prima nel Pungolo della domenica , 1885.
  • 20. La vecchia casa , romanzo, Milano, Baldini-Castoldi, 1900. Nuova Edizione, F.lli Treves, 1909.
  • 21. La villa incantata , Livorno, Belforte, 1901. Pubbl. prima nella Rivista d'Italia , ottobre 1900.
  • 22. Una passione, romanzo, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1903. Nella Nuova Antologia , 1902. Nuova Edizione, F.lli Treves, 1910.
  • 23. Conchiglie , Roma-Voghera, 1905 (nella Piccola collezione Margherita ).
  • 24. Il romanzo della fortuna , 1905. Milano, Lib. Ed. Lombarda, 1906. Nella Nuova Antologia 1905. Nuova Ediz. Casa Ed. L. F. Cogliati, 1909.
  • 25. Crevalcore , romanzo, Milano, Treves, 1906.
  • 26. Duello d'anime , romanzo, ivi, 1911.
  • 27. La sottana del diavolo , novelle, ivi, 1912.
  • 28. Rogo d'amore , romanzo, ivi, 1914.
  • 29. Crepuscoli di libertà , romanzo, ivi, 1917. Pubbl. prima nella Lettura , 1916.
  • 30. Novelle (?) Firenze, Salani. Tredici novelle non ancora pubblicate in volume.

Studii morali:

  • 31. Il libro di mio figlio , Milano, Galli, 1891. Nuova Edizione, Milano, Cogliati, 1909.
  • 32. L'amor platonico , Napoli, Pierro, 1897. Pubbl. prima nell' Idea Liberale , 1896.
  • 33. Battaglie per un'idea , Milano, Baldini-Castoldi, 1898. Serie di articoli pubblicati già nell' Idea Liberale .
  • 34. Un idealista , (Alberto Sormani) Milano, Galli e Raimondi, 1898.
  • 35. Il secolo galante , Firenze, Barbera, 1900. Introduzione ad uno studio sopra alcune donne francesi del secolo decimottavo. M.lla Aissè — M.lla Lespinasse — La march. Du Deffant — La sig.ra Geoffrin — La sig.ra D'Epinay e la contessa d'Houdetot — La contessa di Genlis. Nuova Edizione: Milano, A. De Mohr, 1909.
  • 36. Le idee di una donna , Milano, Libreria editrice nazionale, 1903.
  • 37. La coscienza del fanciullo , Roma, Nuova Antologia, 1908.
  • 38. Profili, impressioni e ricordi . Milano, Cogliati, 1919. Edizione postuma.

Autobiografia:

  • 39. Autobiografia , Torino-Roma, Roux, 1891. Precede la 2ª ediz. del Castigo pp. 5-60 ed è in forma di lettera a L. Capuana, recante la data di Milano, marzo 1891.
  • 40. Una giovinezza del secolo XIX , Milano, Cogliati, 1919. Edizione postuma, con prefazione di Benedetto Croce. Queste memorie furono troncate dalla morte il 19 luglio 1918.

Varia:

  • 41. Il Canzoniere della Nonna ; illustrazioni di Aldo Mazza. Milano, Cogliati, 1908.
  • 42. Poesie , Milano, Cogliati, 1919. Ediz. Postuma.
  • 43. (in collaboraz. con P. Mantegazza): Dizionario d'igiene per le famiglie , Milano, Brigola, 1881.
  • 44. Maura , commedia rappresentata al Teatro Manzoni in Milano, 1886. Compagnia Torelli.

Principali traduzioni:

  • 1. Im traum (con altre novelle), trad. Helene Katz , Erfurt, Ed. Moor, 1897.
  • 2. Teresa , trad. Helene Katz , Leipzig, Ed. Philipp Reclam.
  • 3. Thérèse , trad. Hudry Menos, Paris, Ed. Hachette, 1899.
  • 4. Tereza , trad. Maria Kalasova , Praga, 1890.
  • 5. Teresa , trad. D. E. Epkema , Amsterdam. Ed. M. Olivier, 1889.
  • 6. Lydia , trad. Hanna Van Brielen , ivi 1889.
  • 7. Een Eenzame (Anima sola) trad. C. W. W. Van Enschede ; Amesfoort, P. Dz Veen, 1908.
  • 8. Einsame Seele , trad. Lothar Schmidt , Berlin, Schuster e Loeffler, 1896.
  • 9. Osamela Duse (Anima sola) trad. Maria Kalasova , Praga, J. Ottz, 1898.
  • 10. The soul of an artist , trad. E. L. Murison ; introd. L. D. Ventura ; S. Francisco, Paul Elder and C., 1905.
  • 11. Addio , und andere Novellen, Stuttgart, Deutsche Verlags , Anstalt, 1894.
  • 12. Farväl! trad. E. af D., Stockolm, Looströn e Komps, 1887.
  • 13. Waarwel! trad. E. Epkema , Amsterdam, M. M. Olivier, 1888.
  • 14. Hnizdècko (Un Nido) trad. Frant. Novotny , Praga, Ios. R. Vilimek.
  • 15. Der Pather's Pfeil , Messina, Buchdruckerei, Extra Moenia, 1894.
  • 16. Nazitri (Indomani) e Teta Severina , trad. M. Kalasova , Praga, F. Simacek, 1895.
  • 17. Nach der Hochzeit . Stuttgart, Deutsche Verlags , Anstalt, 1893.
  • 18. Eine Leidenschaft , Wien, Neue Freie Presse , 1902.
  • 19. El amuleto , trad, y prologo Angel Guerra , Madrid, Officina Paseo del Prado, 1902.
  • 20. Crevalcore , trad. Vaclava Jiriny , Praga, F. Simaceck, 1908.
  • 21. Das Schweigende haus , trad. Elise Schweller , Leipzig, Philipp Reclam.
  • 22. Das Galante Fahrhundert , trad. Dr. Von Berthof , Dresden, Carl Reikner, 1903.
  • 23. Les idées d'une femme sur le féminisme , trad. H. Doüesnel , preface de Th. Joran , Paris, V. Jiard et F. Briére, 1908.
  • 24. Das buch meines sohnes , trad. Catharina Brenning , Dresden, Karl Reikner, 1897.
  • 25. Il libro di mio figlio in serbo da J. V. Popovic , Saraievo, 1901.

Scritti critici intorno a Neera:

  • 1. Neera et son oeuvre littéraire : scritto firmato Didymus , che precede (pp. VII XXVIII) la trad. ted.: Des Parther's Pfeil , Messina 1891.
  • 2. Guido Menasci , Neera , nella Nuova Antol. del 16 settembre 1901.
  • 3. Sulle Novelle gaie e Un nido , L. Capuana , Studi di lett. contemp. , 2ª serie, pp. 145-157.
  • 4. Su Senio , Capuana , Gli ismi contemporanei , pp. 113-129; ed. E. A. Butti , Nè odî ne amori , Milano, Dumolard, 1893, pp. 120-7.
  • 5. Intorno a Nel sogno , art. di Severus (A. Sormani) nella Idea Liberale del 1893.
  • 6. Ernest Tissot , La romancière italienne Neera , nella Revue bleue , del 16 gennaio 1897; dello stesso, nella Bibl. universelle , dicembre 1897 e gennaio 1898.
  • 7. Ivan Straunik , nella Revue bleue del 1902.
  • 8. Su La vecchia casa , A. Orvieto , nel Marzocco del 1899.
  • 9. A proposito delle Battaglie per un'idea , E. Tissot , La croisade antiféministe de M.me Neera , nel Journal des Débats , del 28 agosto 1899.
  • 10. Su Le idee di una donna , G. Rensi , nell' Avanti! del 6 luglio 1904.
  • 11. Benedetto Croce , Neera in Letteratura della Nuova Italia , cap. XLVII.
  • 12. Thèodore Joran , Les idées d'une femme (Neera) sur le feminismes nell' Université Catholique (Lyon, 15 Marzo 1908).
  • 13. In generale sull'opera di N., G. Spencer Kennard , Romanzi e romanzieri cit. II, 99-130; Marzocco del 28 luglio 1919.

INDICE

Prefazione Pag. v

Prologo xv

Parte Prima 15

Parte Seconda 63

Parte Terza 119

Parte Quarta 191

Epilogo 245

Appendice 259