NICOLÒ MACHIAVELLI
LA MANDRAGOLA
LA CLIZIA—BELFAGOR
A cura di Vittorio Osimo
Disegni di A. Magrini
Formiggini Editore in Genova
1914
Indice
INTRODUZIONE
MANDRAGOLA
COMEDIA DI CALLIMACO E DI LUCREZIA
Per il testo della Mandragola, mi sono attenuto all'edizione curatane per la Bibliotheca romanica (Strasburgo, J. H. Ed. Heitz, 1912) da Santorre De Benedetti. Ne ho però tolto e modificato quelle peculiarità grafiche che già al principio del Cinquecento non avevano più alcuna rispondenza nella pronuncia. Per la Clizia, ho seguito l'edizione Italia, 1813. Per il Belfagor, l'edizione di G. A. Gargàni, Firenze, Dotti, 1869.
Canzone da dirsi innanzi alla comedia cantata da ninfe e pastori insieme.
Perché la vita è brieve E molte son le pene Che vivendo e stentando ognun sostiene, Dietro alle nostre voglie, Andiam passando e consumando gli anni, Ché chi il piacer si toglie Per viver con angoscie e con affanni, Non conosce gli inganni Del mondo, o da quai mali E da che strani casi Oppressi quasi sian tutti i mortali. Per fuggir questa noia, Eletta solitaria vita abbiamo, E sempre in festa e in gioia Giovin leggiadre e liete Ninfe stiamo. Or qui venuti siamo Con la nostra armonia Sol per onorar questa Sì lieta festa e dolce compagnia. Ancor ci ha qui condutti Il nome di colui che vi governa, In cui si veggon tutti I beni accolti in la sembianza eterna. Per tal grazia superna, Per si felice stato Potete lieti stare, Godere e ringraziar chi ve lo ha dato.
PROLOGO Iddio vi salvi, benigni uditori; Quando e' par che dependa Questa benignità da io esser grato Se voi seguite di non far romori, Noi vogliam che s'intenda Un nuovo caso in questa terra nato Vedete l'apparato, Quale or vi si dimostra; Questa è Firenze vostra. Un'altra volta sarà Roma, o Pisa; Cosa da smascellarsi per le risa. Quello uscio che mi è qui in su la man ritta, La casa è d'un dottore, Che 'mparò in sul Buezio leggi assai. Quella via, che è colà in quel canto fitta, È la Via dello Amore, Dove chi casca non si rizza mai. Conoscer poi potrai A l'abito d'un frate, Quel priore o abate Abiti il tempio, ch'all'incontro è posto, Se di qui non ti parti troppo tosto. Un giovane, Callimaco Guadagni, Venuto or da Parigi, Abita là in quella sinistra porta. Costui, fra tutti gli altri buon compagni A' segni ed a' vestigi L'onor di gentilezza e pregio porta. Una giovane accorta Fu da lui molto amata, E per questo ingannata Fu come intenderete, ed io vorrei Che voi fussi ingannate come lei. La favola Mandragola si chiama. La cagion voi vedrete Nel recitarla, come io m'indovino. Non è il componitor di molta fama. Pur se voi non ridete, Egli è contento di pagarvi el vino. Uno amante meschino, Un dottor poco astuto, Un frate mal vissuto, Un parassito di malizia el cucco, Fien questo giorno el vostro badalucco. E se questa materia non è degna, Per esser pur leggieri, D'un uom che voglia parer saggio e grave, Scusatelo con questo, che s'ingegna Con questi van pensieri Fare il suo triste tempo più suave, Per ch'altrove non have Dove voltare el viso; Che gli è stato interciso Mostrar con altre imprese altra virtue, Non sendo premio alle fatiche sue. El premio che si spera è, che ciascuno Si sta da canto e ghigna, Dicendo mal di ciò che vede o sente. Di qui depende, sanza dubbio alcuno, Che per tutto traligna Da l'antica virtù el secol presente; Imperò che la gente, Vedendo ch'ognun biasma, Non s'affatica e spasma Per far, con mille suoi disagi, un'opra Che 'l vento guasti, o la nebbia ricuopra. Pur se credesse alcun, dicendo male, Tenerlo pe' capegli, E sbigottirlo, o ritirarlo in parte, Io lo ammunisco, e dico a questo tale Che sa dir male anch'egli, E come questa fu la sua prim'arte; E come in ogni parte Del mondo, ove el sì suona, Non istima persona, Ancor che faccia il sergieri a colui, Che può portar miglior mantel di lui. Ma lasciam pur dir male a chiunque vuole. Torniamo al caso nostro, Acciò che non trapassi troppo l'ora. Far conto non si de' delle parole, Né stimar qualche mostro, Che non sa forse s'e' si è vivo ancora. Callimaco esce fuora E Siro con seco ha Suo famiglio, e dirà L'ordin di tutto. Stia ciascuno attento, Né per ora aspettate altro argumento.
CALLIMACO. SIRO. MESSER NICIA. LIGURIO. SOSTRATA. FRATE TIMOTEO. UNA DONNA. LUCREZIA.
La scena è in Firenze.
[I. 1.]
CALLIMACO e SIRO, interlocutori.
Ca. Siro, non ti partire, i' ti voglio un poco.
Si. Eccomi.
Ca. Io credo che tu ti maravigliassi della mia subita partita da Parigi, ed ora ti maravigli, send' io stato qui già un mese senza fare alcuna cosa.
Si. Voi dite el vero.
Ca. Se io non ti ho detto infino a qui quello che io ti dirò, non è stato per non mi fidare di te, ma per iudicare le cose che l'uomo vuole non si sappino, sia bene non le dire, se non forzato. Pertanto, pensando io avere bisogno dell'opera tua, ti voglio dire el tutto.
Si. Io vi son servidore; e' servi non debbono mai domandare e' padroni d'alcuna cosa, né cercare alcuno loro fatto, ma quando per loro medesimi le dicono, debbono servirgli con fede, e cosi ho fatto, e son per fare io.
Ca. Già lo so. Io credo tu mi abbi sentito dire mille volte, ma e' non importa che tu lo intenda mille una, come io avevo dieci anni, quando da e' mia tutori, sendo mio padre e mia madre morti, io fui mandato a Parigi, dove io sono stato venti anni. E perché in capo di dieci cominciorno, per la passata del re Carlo, le guerre in Italia, le quale ruinorno quella provincia, deliberai di vivermi a Parigi, e non mi ripatriare mai, giudicando potere in quel luogo vivere più sicuro che qui.
Si. Egli è cosi.
Ca. E commesso di qua che fussino venduti tutti e' mia beni, fuora che la casa, mi ridussi a vivere quivi, dove son stato dieci altr'anni con una felicità grandissima…...
Sì. Io lo so.
Ca. Avendo compartito el tempo parte alli studii, parte a' piaceri, e parte alle faccende; e in modo mi travagliavo in ciascuna di queste cose, che l'una non mi impediva la via dell'altra. E per questo, come tu sai, vivevo quietissimamente, giovando a ciascuno e ingegnandomi di non offendere persona; tal che mi pareva di essere grato a' borghesi, a' gentiluomini, al forestiero, al terrazzano, al povero, al ricco.
Si. Egli è la verità.
Ca. Ma parendo alla Fortuna che io avessi troppo bel tempo, fece che capitò a Parigi un Cammillo Calfucci.
Si. Io comincio a indovinarmi del male vostro.
Ca. Costui, come gli altri Fiorentini, era spesso convitato da me, e nel ragionare insieme, accadde un giorno che noi venimmo in disputa, dove erano più belle donne, o in Italia, o in Francia. E perché io non potevo ragionare delle Italiane, sendo si piccolo quando mi partii, alcuno altro Fiorentino, che era presente, prese la parte franzese, e Cammillo la italiana; e dopo molte ragione assegnate da ogni parte, disse Cammillo, quasi che irato, che se tutte le donne italiane fussino mostri, che una sua parente era per riavere l'onore loro.
Si. Io son or chiaro di quello che voi volete dire.
Ca. E nominò madonna Lucrezia, moglie di Messer Nicia Calfucci, alla quale dette tante laudi e di bellezze e di costumi, che fece restare stupidi qualunche di noi; e in me destò tanto desiderio di vederla, che io, lasciato ogni altra deliberazione, né pensando più alle guerre o alla pace di Italia, mi messi a venire qui, dove arrivato ho trovato la fama di madonna Lucrezia essere minore assai che la verità, il che occorre rarissime volte, e sommi acceso in tanto desiderio d'essere seco che io non truovo loco.
Si. Se voi me ne avessi parlato a Parigi, io saprei che consigliarvi; ma ora non so io che mi vi dire.
Ca. Io non ti ho detto questo per voler tua consigli, ma per sfogarmi in parte, e perché tu prepari l'animo ad aiutarmi, dove el bisogno lo ricerchi.
Si. A cotesto son io paratissimo; ma che speranza ci avete voi?
Ca. Ahimé! nessuna, o poche. E dicoti: in prima mi fa guerra la natura di lei, che è onestissima, e al tutto aliena dalle cose d'amore; avere el marito ricchissimo, e che al tutto si lascia governare da lei, e se non è giovane, non è al tutto vecchio, come pare; non avere parenti o vicini con chi ella convenga ad alcuna vegghia, o festa, o ad alcuno altro piacere, di che si sogliono delettare le giovani. Delle persone meccaniche, non gliene capita a casa nessuna, non ha fante, né famiglio che non tremi di lei: in modo che non ci è luogo di alcuna corruzione.
Si. Che pensate adunque potere fare?
Ca. E' non è mai alcuna cosa si desperata, che non vi sia qualche via da poterne sperare; e benché la fussi debole e vana, e la voglia e il desiderio che l'uomo ha di condurre la cosa, non la fa parere cosi.
Si. In fine, e che vi fa sperare?
Ca. Dua cose: l'una la semplicità di Messer Nicia, che benché sia dottore, egli è el più semplice e il più sciocco uomo di Firenze; l'altra la voglia che lui e lei hanno di avere figliuoli, che, sendo stata sei anni a marito, e non avendo ancor fatti, ne hanno, sendo ricchissimi, un desiderio che muoiono. Una terza ci è, che la sua madre è stata buona compagna, ma l'è ricca, tale che io non so come governarmene.
Si. Avete voi per questo tentato per ancora cosa alcuna?
Ca. Si ho, ma piccola cosa.
Si. Come?
Ca. Tu conosci Ligurio, che viene continuamente a mangiar meco. Costui fu già sensale di matrimonii, dipoi s'è dato a mendicare cene e desinari. E perché egli è piacevole uomo, Messer Nicia tien con lui una stretta dimestichezza, Ligurio l'uccella; e benché noi meni a mangiare seco, li presta alle volte danari. Io me lo son fatto amico, e li ho comunicato il mio amore; lui mi ha promesso d'aiutarmi con le mane e co' piè.
Si. Guardate che non v'inganni: questi pappatori non sogliono avere molta fede.
Ca. Egli è el vero. Nondimeno, quando una cosa fa per uno, si ha a credere quando tu gliene comunichi, che ti serva con fede. Io gli ho promesso, quando e' riesca, donargli buona somma di danari; quando non riesca, ne spicca un desinare e una cena, che ad ogni modo non mangerei solo.
Si. Che ha egli promesso infino a qui di fare?
Ca. Ha promesso di persuadere a Messere Nicia che vada con la sua donna al bagno in questo maggio.
Si. Che è a voi cotesto?
Ca. Che è a me? Potrebbe quel luogo farla diventare d'un'altra natura, perché in simili lati non si fa se non festeggiare. E io me ne andrei là, e vi condurrei di tutte quelle ragioni piaceri, che io potessi, né lascerei indrieto alcuna parte di magnificenzia; fare' mi familiare suo e del marito. Che so io? Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa.
Si. E' non mi dispiace.
Ca. Ligurio si partì questa mattina da me, e disse che sarebbe con Messer Nicia sopra questa cosa, e me ne risponderebbe.
Si. Eccoli di qua insieme.
Ca. Io mi vo' tirare da parte, per essere a tempo a parlare con Ligurio quando si spicca dal dottore. Tu intanto ne va in casa alle tue faccende, e se io vorrò che facci cosa alcuna, io tel dirò.
Si. Io vo.
[I. 2]
MESSER NICIA, LIGURIO.
Ni. Io credo ch'e' tua consigli sien buoni, e parla'ne iersera con la donna. Disse che mi risponderebbe oggi; ma a dirti el vero, io non ci vo di buone gambe.
Li. Perché?
Ni. Perché io mi spicco mal volentieri da bomba. Dipoi a avere a travasare moglie, fante, masserizie, ella non mi quadra. Oltra di questo, io parlai iersera a parecchi medici. L'uno dice che io vada a San Filippo, l'altro alla Porretta, l'altro alla Villa; e' mi parvono parecchi uccellacci; e a dirti el vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescano.
Li. E' vi debbe dare briga quel che voi dicesti prima, perché voi non siete uso a perdere la Cupola di veduta.
Ni. Tu erri. Quando io era più giovane, io son stato molto randagio. E non si fece mai la fiera a Prato, ch'io non vi andassi, e non ci è castel veruno all'intorno, dove io non sia stato; e ti vo' dire più là: io sono stato a Pisa e a Livorno, o va.
Li. Voi dovete avere veduto la carrucola di Pisa.
Ni. Tu vuo' dire la Verrucola.
Li. Ah! sì, la Verrucola. A Livorno vedesti voi el mare?
Ni. Ben sai, che io il vidi.
Li. Quanto è egli maggiore che Arno?
Ni. Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire: e non si vede se non acqua, acqua, acqua.
Li. Io mi maraviglio adunque, avendo voi pisciato in tanta neve, che voi facciate tanta difficultà d'andare al bagno.
Ni. Tu hai la bocca piena di latte. E' ti pare a te una favola avere a sgominare tutta la casa? Pure io ho tanta voglia d'avere figliuoli, che io son per fare ogni cosa. Ma parlane un poco tu con questi maestri; vedi dove e' mi consigliassino che io andassi; e io sarò intanto con la donna, e ritroverrenci.
Li. Voi dite bene.
[I. 3]
LIGURIO, CALLIMACO.
Li. Io non credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui; e quanto la fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lui bella donna, savia, costumata ed atta a governare un regno. E parmi che rare volte si verifichi quel proverbio ne' matrimonii che dice: Dio fa gli uomini, e' si appaiano; perché spesso si vede uno uomo ben qualificato sortire una bestia, e per avverso una prudente donna avere un pazzo. Ma della pazzia di costui se ne cava questo bene, che Callimaco ha che sperare. Ma eccolo. Che vai tu appostando, Callimaco?
Ca. Io ti aveva veduto col dottore, e aspettavo che tu ti spiccassi, da lui per intendere quello avevi fatto.
Li. Egli è uno uomo della qualità che tu sai, di poca prudenzia, di meno animo; e partesi mal volentieri da Firenze. Pure io ce l'ho riscaldato, e mi ha detto infine che farà ogni cosa. E credo che, quando e' ci piaccia questo partito, che noi ve lo condurremo; ma io non so se noi ci faremo el bisogno nostro.
Ca. Perché?
Li. Che so io? Tu sai che a questi bagni va d'ogni qualità gente, e potrebbe venirvi uomo a chi madonna Lucrezia piacesse come a te, che fussi ricco più di te, che avessi più grazia di te; in modo che si porta pericolo di non durare questa fatica per altri, e che intervenga che la copia de' concorrenti la faccino più dura, o che dimesticandosi, la si volge ad un altro, e non a te.
Ca. Io conosco che tu di' el vero. Ma come ho a fare? Che partito ho a pigliare? Dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia periculosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare el tempo; ma qui non ci è rimedio, e se io non son tenuto in speranza da qualche partito, io mi morrò in ogni modo; e veggendo di avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudo, nefando.
Li. Non dir cosi, raffrena cotesto impeto dell'animo.
Ca. Tu vedi bene che per raffrenarlo io mi pasco di simili pensieri. E però è necessario o che noi seguitiamo di mandare costui al bagno, o che noi entriamo per qualche altra via, che mi pasca d'una speranza, se non vera, falsa almeno, per la quale io mi nutrisca un pensiero che mitighi in parte tanti mia affanni.
Li. Tu hai ragione, e io son per farlo.
Ca. Io lo credo, ancora che io sappia ch'e' pari tuoi vivono d'uccellare li uomini. Nondimanco, io non ti credo essere in quel numero, perché quando tu il facessi ed io me ne avvedessi, cercherei di valermene, e perderesti ora l'uso della casa mia, e la speranza d'avere quello che per lo avvenire t'ho promesso.
Li. Non dubitare della fede mia, che quando e' non ci fussi l'utile che io sento, e che io spero, ci è che 'l tuo sangue si affà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu. Ma lasciamo ire questo. El dottore mi ha commesso che io truovi un medico e intenda a quale bagno sia bene andare. Io voglio che tu faccia a mio modo, e questo è che tu dica di avere studiato in medicina, e abbi fatto a Parigi qualche sperienza; lui è per crederlo facilmente per la semplicità sua, e per essere tu litterato e poterli dire qualche cosa in grammatica.
Ca. A che ci ha a servir cotesto?
Li. Serviracci a mandarlo a qual bagno noi vorremo, ed a pigliare qualche altro partito che io ho pensato, che sarà più corto, più certo, più riuscibile che'l bagno.
Ca. Che di' tu?
Li. Dico che se tu arai animo e se tu confiderai in me, io ti do questa cosa fatta innanzi che sia domani questa otta. E quando e' fussi uom che non è, da ricercare se tu se' o non se' medico, la brevità del tempo, la cosa in sé farà che non ne ragionerà, o che non sarà a tempo a guastarci el disegno, quando bene e' ne ragionassi.
Ca. Tu mi risusciti. Questa è troppa gran promessa, e pascimi di troppa grande speranza. Come farai?
Li. Tu el saperrai quando e' fia tempo; per ora non occorre che io te lo dica, perché el tempo ci mancherà a fare nonché a dire. Tu vanne in casa e quivi mi aspetta, e io anderò a trovare el dottore; e se io lo conduco a te, andrai seguitando el mio parlare e accomodandoti a quello.
Ca. Cosi farò, ancora che tu mi riempia d'una speranza che io temo non se ne vada in fumo.
Canzone. Chi non fa prova, Amore, Della tua gran possanza, indarno spera Di far mai fede vera Qual sia del cielo il più alto valore; Né sa come si vive insieme, e muore, Come si segue il danno e 'l ben si fugge, Come s'ama sé stesso Men d'altrui, come spesso Timore e speme i cuori agghiaccia e strugge; Né sa come ugualmente uomini e dei Paventan l'arme di che armato siei.
[II, l].
LIGURIO, MESSER NICIA, [SIRO].
Li. Come io vi ho detto, io credo che Dio ci abbi mandato costui, perché voi adempiate il desiderio vostro. Egli ha fatto a Parigi esperienzie grandissime, e non vi maravigliate se a Firenze e' non ha fatto professione dell'arte; che n'è suto cagione prima per esser ricco, secondo perché egli è ad ogni ora per tornare a Parigi.
Ni. Ormai frate sì, cotesto bene importa; perché io non vorrei che mi mettessi in qualche leccieto e poi mi lasciassi in sulle secche.
Li. Non dubitate di cotesto; abbiate solo paura che non voglia pigliare questa cura; ma se la piglia, e' non è per lasciarvi infino che non ne vede el fine.
Ni. Di cotesta parte i' mi vo' fidare di te; ma della scienzia, io ti dirò ben io, come io li parlo, s'egli è uom di dottrina, perché a me non venderà egli vesciche.
Li. E perché io vi conosco, vi meno io a lui, acciò gli parliate. E se, parlato gli avrete, e' non vi pare per presenzia, per dottrina, per lingua, uno uomo da metterli il capo in grembo, dite che io non sia desso.
Ni. Or sia, al nome dell'Agnol santo, andiamo. Ma dove sta egli?
Li. Sta in su questa piazza, in quell'uscio che voi vedete a dirimpetto a voi.
Ni. Sia con buona ora.
Li. Ecco fatto.
Si. Chi è?
Li. Evvi Callimaco?
Si. Si, è.
Ni. Che non di' tu maestro Callimaco?
Li. E' non si cura di simil baie.
Ni. Non dire cosi, fa il tuo debito, e se l'ha per male, scingasi.
[II, 2].
CALLIMACO, MESSER NICIA, LIGURIO.
Ca. Chi è quello che mi vuole?
Ni. Bona dies, domine magister.
Ca. Et vobis bona, domine doctor.
Li. Che vi pare?
Ni. Bene, alle guagnele!
Li. Se voi volete ch'io stia qui con voi, voi parlerete in modo che io v'intenda, altrimenti noi faremo duo fuochi.
Ca. Che buone faccende?
Ni. Che so io? Vo cercando due cose che un altro per avventura fuggirebbe: questo è di dare briga a me e ad altri. Io non ho figliuoli, e vorrene, e per aver questa briga vengo a dare impaccio a voi.
Ca. A me non fia mai discaro fare piacere a voi, ed a tutti li uomini virtuosi e da bene come voi; e non mi son a Parigi affaticato tanti anni per imparare, per altro, se non per potere servire a' pari vostri.
Ni. Gran mercé; e quando voi avessi bisogno dell'arte mia, io vi servirei volentieri. Ma torniamo ad rem nostram. Avete voi pensato che bagno fussi buono a disporre la donna mia ad impregnare? Ch'io so che qui Ligurio vi ha detto quello che vi s'abbia detto.
Ca. Egli è la verità; ma a volere adempiere il desiderio vostro, è necessario sapere la cagione della sterilità della donna vostra, perché le possono essere più cagioni. Nam causae sterilitatis sunt: aut in semine, aut in matrice, aut in strumentis seminariis, aut in virga, aut in causa exstrinseca.
Ni. Costui è il più degno uomo che si possa trovare.
Ca. Potrebbe oltre di questo causarsi questa sterilità da voi per impotenzia; e quando questo fussi, non ci sarebbe rimedio alcuno.
Ni. Impotente io? Oh! voi mi farete ridere! Io non credo che sia el più ferrigno ed il più rubizzo uomo in Firenze di me.
Ca. Se cotesto non è, state di buona voglia che noi vi troveremo qualche rimedio.
Ni. Sarebbeci egli altro rimedio ch'e' bagni? Perché io non vorrei quel disagio, e la donna uscirebbe di Firenze mal volentieri.
Li. Sì, sarà, io vo' rispondere io. Callimaco è tanto rispettivo, che è troppo. Non mi avete voi detto di sapere ordinare certa pozione, che indubbiamente fa ingravidare?
Ca. Sì ho. Ma io vo ritenuto con li uomini che io non conosco, perché io non vorrei mi tenessino un cerretano.
Ni. Non dubitate di me, perché voi mi avete fatto maravigliare di qualità che non è cosa che io non credessi o facessi per le vostre mane.
Li. Io credo che bisogni che voi veggiate el segno.
Ca. Senza dubbio, e non si può fare di meno.
Li. Chiama Siro, che vada col dottore a casa per esso, e torni qui; e noi l'aspetteremo in casa.
Ca. Siro, va con lui. E se vi pare, Messer, tornate qui subito, e penseremo a qualche cosa di buono.
Ni. Come, se mi pare? Io tornerò qui in uno stante, che ho più fede in voi che gli Ungheri nelle spade.
[II, 3].
MESSER NICIA, SIRO.
Ni. Questo tuo padrone è un gran valente uomo.
Si. Più che voi non dite.
Ni. Il re di Francia ne de' fare conto.
Si. Assai.
Ni. E per questa cagione e' debbe stare volentieri in Francia.
Si. Così credo.
Ni. E fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi; non ci s'apprezza virtù alcuna. S'egli stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardassi in viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per imparar due hac; e se io ne avessi a vivere io starei fresco, ti so dire.
Si. Guadagnate voi l'anno cento ducati?
Ni. Non cento lire, non cento grossi, o va. E questo è, che chi non ha lo stato in questa terra, de' nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad altro, che andare a' mortori, o alle ragunate d'un mogliazzo, o a starci tutto di in sulla panca del Proconsolo a donzellarci. Ma io ne li disgrazio, io non ho bisogno di persona; cosi stessi chi sta peggio di me. Non vorrei però che le fussino mia parole, ch'io arei di fatto qualche balzello, o qualche porro di drieto, che mi farebbe sudare.
Si. Non dubitate.
Ni. Noi siamo a casa; aspettami qui, io tornerò ora.
Si. Andate.
[II, 4].
SIRO solo.
Se gli altri dottori fussino fatti come costui, noi faremmo a' sassi pe' forni; che sì, che questo tristo di Ligurio, e questo impazzato di questo mio padrone, lo conducono in qualche luogo, che gli faranno vergogna? E veramente io lo desidererei, quando io credessi che non si risapessi; perché risapendosi, io porto pericolo della vita, el padrone della vita e della roba. Egli è già diventato medico; non so io che disegno el fia in loro, e dove si tenda questo loro inganno. Ma ecco el dottore che ha un orinale in mano; chi non riderebbe di questo uccellaccio?
[II, 5].
NICIA, SIRO.
Ni. Io ho fatto d'ogni cosa a tuo modo; di questo vo' io che tu facci a mio. S'io credevo non avere figliuoli, io arei preso più tosto per moglie una contadina. Che se' costì, Siro? Viemmi dietro. Quanta fatica ho io durata a fare che questa monna sciocca mi dia questo segno; e non è dire che la non abbi caro di fare figliuoli, che la ne ha più pensiero di me; ma come io le vo' far fare nulla, egli è una storia.
Si. Abbiate pazienzia; le donne si sogliono con le buone parole condurre dove altri vuole.
Ni. Che buone parole? Che mi ha fracido. Va ratto, di' al maestro ed a Ligurio che io son qui.
Si. Eccogli che vengon fuori.
[II, 6].
LIGURIO, CALLIMACO, MESSER NICIA.
Li. El dottore fia facile a persuadere; la difficultà fia la donna, ed a questo non ci mancherà modo.
Ca. Avete voi el segno? Ni. E' l'ha Siro sotto.
Ca. Dallo qua. Oh! questo segno mostra debilità di rene.
Ni. E' mi par torbidiccio; e pur l'ha fatto or ora.
Ca. Non ve ne maravigliate. Nam mulieris urinae sunt semper maioris glossitiei et albedinis, et minoris pulchritudinis, qaam virorum. Huius autem, in caetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum quae ex matrice exeunt cum urina.
Ni. O, u, potta di san Puccio! Costui mi raffinisce tra le mani; guarda come ragiona bene di queste cose.
Ca. Io ho paura che costei non sia la notte mal coperta, e per questo fa l'orina cruda.
Ni. Ella tien pur addosso un buon coltrone; ma la sta quattro ore ginocchioni a infilzar paternostri innanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia a patire freddo.
Ca. Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no; o io vi ho a insegnare un rimedio certo, o no. Io per me el rimedio vi darò. Se voi avrete fede in me, voi lo piglierete, e se oggi a uno anno la vostra donna non ha un suo figliuolo in braccio, io voglio avervi a donare dumila ducati.
Ni. Dite pure, che io son per farvi onore di tutto, e per credervi più che al mio confessore. Ca. Voi avete a intendere questo, che non è cosa più certa a ingravidare una donna, che darli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me due paria di volte, e trovata sempre vera; e se non era questo, la Reina di Francia sarebbe sterile, e infinite altre principesse di quello Stato.
Ni. È egli possibile?
Ca. Egli è come io vi dico. E la fortuna vi ha in tanto voluto bene, che io ho condotto qui meco tutte quelle cose che in quella pozione si mettono, e potete averle a vostra posta.
Ni. Quando l'arebbe ella a pigliare?
Ca. Questa sera dopo cena, perché la luna è ben disposta, e el tempo non può essere più appropriato.
Ni. Cotesta non fia molto gran cosa. Ordinatela in ogni modo; io gliene farò pigliare.
Ca. E' bisogna ora pensare a questo: che quell'uomo che ha prima a fare seco, presa che l'ha cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe el mondo.
Ni. Cacasangue! io non voglio cotesta suzzacchera; a me non l'appiccherai tu. Voi mi avete concio bene.
Ca. State saldo, e' ci è remedio.
Ni. Quale?
Ca. Fare dormire subito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé tutta quella infezione della mandragola. Dipoi vi iacerete voi senza periculo. Ni. Io non vo' far cotesto.
Ca. Perché?
Ni. Perché io non vo' far ia mia donna femmina, e me becco.
Ca. Che dite voi, dottore? Oh, io non v' ho per savio come io credetti. Si che voi dubitate di fare quello che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là?
Li. Chi volete voi ch'io truovi che facci cotesta pazzia? Se io gliene dico, e' non vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto; io non ci voglio capitare sotto male.
Ca. Se non vi dà briga altro che cotesto, lasciatene la cura a me.
Ni. Come si farà?
Ca. Dirovvelo: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere, e subito la metterete nel letto, che fieno circa a quattro ore di notte. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene cercando in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti; e il primo garzonaccio che noi troviamo scioperato, lo imbavaglieremo, e a suon di mazzate lo condurremo in casa, e in camera vostra al buio. Quivi lo metteremo nel letto, direngli quello che abbia a fare, né ci fia difficultà veruna. Dipoi, la mattina, ne manderete colui innanzi di, farete lavare la vostra donna, starete con lei a vostro piacere e senza pericolo. Ni. Io son contento, poi che tu di' che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo; ma sopra a tutto che non si sappia per amore degli Otto.
Ca. Chi volete voi che 'l dica?
Ni. Una fatica ci resta, e d'importanza.
Ca Quale?
Ni. Farne contenta mogliema, a che io non credo che la si disponga mai.
Ca. Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non la disponessi a fare a mio modo.
Li. Io ho pensato el rimedio.
Ni. Come?
Li. Per via del confessoro.
Ca. Chi disporrà el confessoro?
Li. Tu, io, e' danari, la cattività nostra, loro.
Ni. Io dubito, che altro che per mio detto la non voglia ire a parlare al confessoro.
Li. Ed anche a cotesto è remedio.
Ca. Dimmi!
Li. Farvela condurre alla madre.
Ni. La le presta fede.
Li. Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsù, avanziamo tempo, che si fa sera. Vatti, Callimaco, a spasso, e fa che alle dua ore noi ti troviamo in casa con la pozione ad ordine. Noi n'andremo a casa la madre, el dottore ed io, a disporla, perché è mia nota. Poi n'andremo al frate, e vi ragguaglieremo di quello che noi aremo fatto. Ca. Deh! non mi lasciare solo.
Li. Tu mi pari cotto.
Ca. Dove vuoi tu che io vada ora?
Li. Di là, di qua, per questa via, per quell'altra; egli è si grande Firenze.
Ca. Io son morto.
Canzone. Quanto felice sia ciascun sel vede, Chi nasce sciocco ed ogni cosa crede. Ambizione nol preme, Non muove il timore, Che sogliono esser seme Di noia e di dolore. Questo vostro dottore, Bramando aver figliuoli, Crederia ch'un asin voli; E qualunque altro ben posto ha in oblio E solo in questo ha posto il suo desìo.
[III. 1]
SOSTRATA, MESSER NICIA, LIGURIO.
So. Io ho sempre mai sentito dire che egli è uffizio d'un prudente pigliare de' cattivi partiti el migliore. Se ad avere figliuoli voi non avete altro rimedio, e questo si vuole pigliarlo, quando e' non si gravi la coscienza.
Ni. Egli è cosi.
Li. Voi ve ne andrete a trovare la vostra figliuola, e Messere ed io andremo a trovare fra Timoteo suo confessore, e narreremgli el caso, acciò che non abbiate a dirlo. Voi vedrete quello che vi dirà.
So. Cosi sarà fatto. La via vostra è di costà; e io vo a trovare la Lucrezia, e la merrò a parlare al frate ad ogni modo.
[III. 2]
MESSER NICIA, LIGURIO.
Ni. Tu ti maravigli forse, Ligurio, che bisogni fare tante storie a disporre mogliema; ma se tu sapessi ogni cosa, tu non te ne maraviglieresti.
Li. Io credo che sia, perché tutte le donne son sospettose.
Ni. Non è cotesto. Ell'era la più dolce persona del mondo e la più facile; ma sendole detto da una sua vicina, che s'ella si botava di udire quaranta mattine la prima messa de' Servi, che la impregnerebbe, la si botò, e andovvi forse venti mattine. Ben sapete che un di quei fratacchioni li cominciorno a dare datorno, in modo che la non vi volse più tornare. Egli è pure male però, che quelli che ci arebbono a dare buoni esempli, sien fatti cosi. Non dich'io el vero?
Li. Come diavolo, se egli è vero!
Ni. Da quel tempo in qua ella sta in orecchi come la lepre; e come se le dice nulla, ella vi fa drento mille difficultà.
Li. Io non mi maraviglio più; ma quel boto come si adempié?
Ni. Fecesi dispensare.
Li. Sta bene. Ma datemi, se voi avete, venticinque ducati; ché bisogna in questi casi spendere, e farsi amico al frate presto, e dargli speranza di meglio.
Ni. Pigliali pure; questo non mi dà briga, io farò masserizia altrove.
Li. Questi frati son trincati, astuti, ed è ragionevole, perchè e' sanno e' peccati nostri e' loro; e chi non è pratico con essi, potrebbe ingannarsi, e non gli sapere condurre a suo proposito. Pertanto io non vorrei che voi nel parlare guastaste ogni cosa, perché un vostro pari, che sta tutto il dì nello studio, s'intende di quelli libri, e delle cose del mondo non sa ragionare. (Costui è sì sciocco, che io ho paura non guastassi ogni cosa).
Ni. Dimmi quello che tu vuoi che io faccia.
Li. Che voi lasciate parlare a me, e non parliate mai, s'io non vi accenno.
Ni. Io son contento. Che cenno farai tu?
Li. Chiuderò un occhio, morderommi el labbro. Deh! no. Facciamo altrimenti. Quanto è egli che voi non parlaste al frate?
Ni. È più di dieci anni.
Li. Sta bene: Io gli dirò che voi siate assordato, e voi non risponderete, e non direte mai cosa alcuna, se noi non parliamo forte.
Ni. Così farò.
Li. Non vi dia briga che io dica qualche cosa che vi paia disforme a quello che noi vogliamo, perché tutto tornerà a proposito.
Ni. In buona ora.
[III. 3]
FRATE TIMOTEO, una DONNA.
Fra. Se voi vi volessi confessare, io farò ciò che voi volete.
Do. Non per oggi; io sono aspettata; e' mi basta essermi sfogata un poco così ritta ritta. Avete voi detto quelle messe della Nostra Donna?
Fra. Madonna sì.
Do. Togliete ora questo fiorino, e direte dua mesi ogni lunedi la messa dei morti per l'anima del mio marito. E ancora che fussi uno omaccio, pure le carne tirono; io non posso fare non mi risenta quando io me ne ricordo. Ma credete voi che sia in purgatorio?
Fra. Senza dubbio.
Do. Io non so già cotesto. Voi sapete pure quello che mi faceva qualche volta. Oh, quanto me ne dolsi io con esso voi. Io me ne discostavo quanto io poteva; ma egli era si importuno. Uh! nostro Signore.
Fra. Non dubitate, la clemenzia di Dio è grande; se non manca all'uom la voglia, non gli manca mai el tempo a pentirsi.
Do. Credete voi che 'l Turco passi questo anno in Italia?
Fra. Se voi non fate orazione, sì.
Do. Naffe! Dio ci aiuti con queste diavolerie: io ho una gran paura di quello impalare. Ma io veggo qua in chiesa una donna che ha certa accia di mio; io vo' ire a trovarla. Frate, col buon di.
Fra. Andate sana.
[III. 4]
FRATE TIMOTEO, MESSER NICIA.
Fra. Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge e' fastidii e l'utile; chi le intrattiene ha l'utile e' fastidii insieme. Ed è el vero che non è il mele sanza le mosche. Che andate voi facendo, uomini da bene? Non riconosco io Messer Nicia?
Li. Dite forte, ché egli è in modo assordato che non ode più nulla.
Fra. Voi siate el ben venuto, messere.
Li. Più forte.
Fra. El ben venuto.
Ni. El ben trovato, padre!
Fra. Che andate voi facendo?
Ni. Tutto bene.
Li. Volgete el parlare a me, padre, perché voi, a volere che vi intendessi, aresti a mettere a romore questa piazza.
Fra. Che volete voi da me?
Li. Qui Messere Nicia e un altro uom da bene, che voi intenderete poi, hanno a fare distribuire in limosine parecchi centinaia di ducati.
Ni. Cacasangue!
Li. (Tacete in malora, e' non fien molti). Non vi maravigliate, padre, di cosa che dica, ché non ode, e pargli qualche volta udire, e non risponde a proposito.
Fra. Seguita pure, e lasciali dire ciò che vuole.
Li. De' quali danari io ne ho una parte meco, ed hanno disegnato, che voi siate quello che le distribuiate.
Fra. Molto volentieri.
Li. Ma egli è necessario, prima che questa limosina si faccia, che voi ci aiutate d'un caso strano intervenuto a Messere, e solo voi potete aiutare, dove ne va al tutto l'onore di casa sua.
Fra. Che cosa è?
Li. Io non so se voi conosceste Cammillo Calfucci, nipote qui di messere.
Fra. Si conosco.
Li. Costui n'andò per certe sua faccende uno anno fa in Francia; e non avendo donna, che era morta, lasciò una sua figliuola da marito in serbanza in uno munistero, del quale non accade dirvi ora el nome.
Fra. Che è seguito?
Li. È seguito, che o per stracurataggine delle monache o per cervellinaggine della fanciulla, la si truova gravida di quattro mesi; di modo che, se non si ripara con prudenza, el dottore, le monache, la fanciulla, Cammillo, la casa de' Calfucci è vituperata; ed il dottore stima tanto questa vergogna, che s'è botato, quando la non si palesi, dare trecento ducati per l'amore di Dio.
Ni. Che chiacchiera!
Li. (State cheto). E daragli per le vostre mane, e voi solo e la badessa ci potete rimediare.
Fra. Come?
Li. Persuadere alla badessa, che dia una pozione alla fanciulla per farla sconciare.
Fra. Cotesta è cosa da pensarla.
Li. Guardate, nel fare questo, quanti beni ne resulta. Voi mantenete l'onore al monistero, alla fanciulla, a' parenti, rendete al padre una figliuola, satisfate qui a messere, a tanti sua parenti, fate tante elemosine quante con questi trecento ducati potete fare; e dall'altro canto voi non offendete altro che un pezzo di carne non nata, senza senso, che in mille modi si può sperdere; ed io credo che quello sia bene, che facci bene a' più, e che e' più se ne contentino.
Fra. Sia col nome di Dio. Faccisi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatto ogni cosa. Ditemi el munistero, datemi la pozione, e se vi pare, cotesti danari, da potere cominciare a fare qualche bene.
Li. Or mi parete voi quello religioso che io credevo che voi fussi. Togliete questa parte dei danari. El munistero è…... Ma aspettate, egli è qua in chiesa una donna che m'accenna; io torno ora ora, non vi partite da Messer Nicia, io le vo' dire dua parole.
[III. 5]
FRATE, NICIA.
Fra. Questa fanciulla che tempo ha?
Ni. Io strabilio.
Fra. Dico, quanto tempo ha questa fanciulla?
Ni. Mal che Dio li dia.
Fra. Perché?
Ni. Perché e' se lo abbia.
Fra. E' mi par essere nel gagno. Io ho a fare con un pazzo e con un sordo. L'un si fugge, l'altro non ode. Ma se questi non sono quarteruoli, io ne farò meglio di loro. Ecco Ligurio, che torna in qua.
[III. 6]
LIGURIO, FRATE, NICIA.
Li. State cheto, Messere; oh, io ho la gran nuova, padre!
Fra. Quale?
Li. Quella donna con chi io ho parlato, mi ha detto che quella fanciulla si è sconcia per sé stessa.
Fra. Bene, questa limosina andrà alla Grascia.
Li. Che dite voi?
Fra. Dico che voi tanto più doverrete fare questa limosina.
Li. La limosina si farà, quando voi vogliate; ma e' bisogna, che voi facciate un'altra cosa in benefizio qui del dottore.
Fra. Che cosa è?
Li. Cosa di minor carico, di minore scandolo, più accetta a noi, più utile a voi.
Fra. Che è? Io son in termine con voi, e parmi avere contratta tale dimestichezza, che non è cosa che io non facessi.
Li. Io ve lo vo' dire in chiesa da me e voi, e el dottore fia contento di aspettare qui. Noi torniamo ora.
Ni. Come disse la botta all'erpice.
Fra. Andiamo.
[III. 7]
NICIA solo.
È egli di dì, o di notte? son io desto, o sogno? Son io imbriaco, e non ho beuto ancora oggi, per ire drieto a queste chiacchiere? Noi rimanghiam di dire al frate una cosa, e' ne dice un'altra; poi volle che io facessi el sordo, e bisognava che io m'impeciassi gli orecchi come el Danese, a volere che io non avessi udito le pazzie che egli ha dette, e Dio el sa a che proposito! lo mi truovo meno venticinque ducati, e del fatto mio non s'è ancora ragionato, ed ora m'hanno qui posto, come un zugo, a piuolo. Ma eccogli che tornano, in malora per loro, se non hanno ragionato del fatto mio.
[III. 8]
FRATE, LIGURIO, NICIA.
Fra. Fate che le donne venghino. Io so quello che io ho a fare; e se l'autorità mia varrà, noi concluderemo questo parentado questa sera.
Lig. Messer Nicia, fra Timoteo è per fare ogni cosa. Bisogna vedere che le donne vengano.
Ni. Tu mi ricrei tutto quanto. Fia egli maschio?
Li. Maschio.
Ni. Io lacrimo per la tenerezza.
Fra. Andatevene in Chiesa, io aspetterò qui le donne. State in lato che le non vi vegghino; e partite che le fieno, vi dirò quello che l'hanno detto.
[III. 9]
FRATE TIMOTEO solo.
Io non so chi s'abbi giuntato l'un l'altro. Questo tristo Ligurio ne venne a me con quella prima novella per tentarmi, acciò, se io non gliene consentiva, non mi arebbe detta questa, per non palesare e' disegni loro senza utile, e di quella che era falsa non si curavono. Egli è vero che io ci sono stato giuntato; nondimeno questo giunto è con mio utile. Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai; la cosa conviene che stia segreta, perché l'importa cosi a loro a dirla, come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento. È ben vero che io dubito non ci avere difficultà, perché madonna Lucrezia è savia e buona; ma io la giugnerò in sulla bontà. E tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire dua parole, e' se ne predica, perché in terra di ciechi chi v'ha un occhio è signore. Ed eccola con la madre, la quale è bene una bestia, e sarammi un grande aiuto a condurla alle mie voglie.
[III. 10]
SOSTRATA, LUCREZIA.
So. Io credo che tu creda, figliuola mia, che io stimi l'onore tuo quanto persona del mondo, e che io non ti consigliassi di cosa che non stessi bene. Io t'ho detto e ridicoti, che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza che tu lo faccia senza pensarvi.
La. Io ho sempre mai dubitato, che la voglia che Messere Nicia ha d'avere figliuoli non ci faccia fare qualche errore: e per questo, sempre che lui mi ha parlato d'alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia e sospesa, massime poi che m'intervenne quello voi sapete per andare a' Servi. Ma di tutte le cose che si son tentate, questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio, ad essere cagione che un uomo muoia per vituperarmi; che io non crederei, se io fussi sola rimasa nel mondo, e da me avessi a risurgere l'umana natura, che mi fussi simile partito concesso.
So. Io non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuole bene.
Lu. Io sudo per la passione.
[III. 11]
FRATE, LUCREZIA, SOSTRATA.
Fra. Voi siate le ben venute. Io so quello che voi volete intendere da me, perché Messere Nicia m'ha parlato. Veramente io son stato in su' libri più di due ore a studiare questo caso; e dopo molte esamine, io truovo di molte cose, che e in particulare e in generale fanno per noi.
La. Parlate voi davvero, o motteggiate?
Fra. Ah! madonna Lucrezia, son queste cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
La. Padre no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udisse.
Fra. Madonna, io ve lo credo, ma io non voglio che voi diciate più cosi. E' sono molte cose, che discosto paiano terribile, insopportabile, strane; e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabile, dimestiche; e però si dice che sono maggiori li spaventi ch'e' mali; e questa è una di quelle.
La. Dio el voglia.
Fra. Io voglio tornare a quello che io diceva prima. Voi avete, quanto alla coscienzia, a pigliare questa generalità, che dove è un ben certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a Messer Domenedio; el male incerto è, che colui che iacerà dopo la pozione con voi, si muoia. Ma e' si truova anche di quelli che non muoiono; ma perché la cosa è dubbia, però è bene che Messer Nicia non incorra in quel periculo. Quanto all' atto che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine se ha a riguardare in tutte le cose. Il fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibbia, che le figliole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usarono con el padre; e perché la loro intenzione fu buona, non peccarono.
Lu. Che cosa mi persuadete voi?
So. Lasciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna che non ha figliuoli, non ha casa? Muorsi el marito, resta come una bestia abbandonata da ognuno.
Fra. Io vi giuro, madonna, per questo petto sacrato, che tanta coscienzia vi è ottemperare in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el mercoledì, che è un peccato, che se ne va con l'acqua benedetta.
Lu. A che mi conducete voi, padre?
Fra. Conducovi a cose, che voi sempre arete cagione di pregare Dio per me; e più vi satisfarà questo altro anno che ora.
So. Ella farà ciò che voi vorrete. Io la voglio mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccicona? E' c'è cinquanta donne in questa terra che ne alzerebbero le mani al cielo.
La. Io son contenta; ma non credo mai essere viva domattina.
Fra. Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'agnol Raffaello, che t'accompagni. Andate in buona ora, e preparatevi a questo misterio, che si fa sera.
So. Rimanete in pace, padre.
Lu. Dio m'aiuti e la nostra Donna, che io non capiti male.
[III. 12]
FRATE, LIGURIO, MESSER NICIA.
Fra. O Ligurio, uscite qua.
Li. Come va?
Fra. Bene. Le sono ite a casa disposte a fare ogni cosa, e non ci fia difficultà, perché la madre si andrà a stare seco, e vuolla mettere a letto lei.
Ni. Dite voi el vero?
Fra. Bembé, voi siete guarito del sordo.
Li. San Chimenti gli ha fatto grazia.
Fra. E' si vuol porvi una immagine per rizzarvi un poco di baccanella, acciò che io abbia fatto questo guadagno con voi.
Ni. Noi entriamo in cetere. Farà la donna difficultà di fare quel che io voglio?
Fra. Non, vi dico.
Ni. Io sono el più contento uomo del mondo.
Fra. Credolo. Voi vi beccherete un fanciullo maschio; e chi non ha non abbia.
Li. Andate, frate, alle vostre orazioni, e se bisognerà altro, vi verreno a trovare. Voi, Messere, andate a lei per tenerla ferma in questa opinione, e io andrò a trovare maestro Callimaco, che vi mandi la pozione; e all'una ora fate che io vi rivegga, per ordinare quello che si de' fare alle quattro.
Ni. Tu di' bene; addio.
Fra. Andate sani.
Canzone. Sì suave è l'inganno Al fin condotto desiato e caro; Ch'altrui spoglia d'affanno, E dolce face ogni gustato amaro. O rimedio alto e raro, Tu mostri il dritto calle all'alme erranti; Tu, col tuo gran valore, Nel far beato altrui fai ricco Amore, Tu vinci sol co' tuoi consigli santi Pietre, veneni e incanti.
[IV. 1]
CALLIMACO solo.
Io vorrei pure intendere quello che costoro hanno fatto. Può egli essere che io non rivegga Ligurio? E non che le ventitré, le sono ventiquattro ore. In quanta angustia d'animo sono io stato e sto! Ed è vero che la fortuna e la natura tiene el conto per bilancio: la non ti fa mai un bene, che all'incontro non surga un male. Quanto più mi è cresciuta la speranza, tanto mi è cresciuto el timore. Misero a me! Sarà egli mai possibile che io viva in tanti affanni e perturbato da questi timori e queste speranze? Io sono una nave vessata da due diversi venti, che tanto più teme quanto ella è più presso al porto. La semplicità di Messere Nicia mi fa sperare, la providenzia e durezza di Lucrezia mi fa temere. Oimé, che io non truovo requie in alcuno loco! Talvolta io cerco di vincere me stesso, riprendomi di questo mio furore, e dico meco: che fai tu? se' tu impazzato? quando tu l'ottenga, che fia? Conoscerai el tuo errore, pentira'ti delle fatiche e de' pensieri che hai avuti. Non sai tu quanto poco bene si truova nelle cose che l'uomo desidera, rispetto a quelle che l'uomo ha presupposte trovarvi? Da l'altro canto el peggio che te ne va è morire, e andarne in inferno; e' son morti tanti degli altri: e sono in inferno tanti uomini da bene. Ha'ti tu a vergognare d'andarvi tu? Volgi il viso alla sorti; fuggi el male, o non lo potendo fuggire, sopportalo come uomo; non ti prosternere, non ti invilire come una donna. E cosi mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su, perché da ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante de' pie al capo tutto alterare: le gambe triemono, le viscere si commuovono, il core mi si sbarba del petto, le braccia s'abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliono, el cervello mi gira. Pure, se io trovassi Ligurio, io arei con chi sfogarmi. Ma ecco che viene verso me ratto. El rapporto di costui mi farà o vivere ancor qualche poco, o morire affatto.
[IV. 2]
LIGURIO, CALLIMACO.
Li. Io non desiderai mai più tanto di trovare Callimaco, e non penai mai più tanto a trovarlo. Se io li portassi triste nuove, io l'arei riscontro al primo. Io sono stato a casa, in piazza, in mercato, al pancone delli Spini, alla Loggia de' Tornaquinci, e non l'ho trovato. Questi innamorati hanno l'ariento vivo sotto piedi, e' non si possono fermare.
Ca. Veggo Ligurio andar di qua guardando, debbe forse cercar di me. Che sto io che io non lo chiamo? E' mi pare pure allegro: o Ligurio! Ligurio!
Li. O Callimaco, dove sei tu stato?
Ca. Che novelle?
Li. Buone.
Ca. Buone in verità?
Li. Ottime.
Ca. È Lucrezia contenta?
Li. Si.
Ca. Il frate fece el bisogno?
Li. Fece.
Ca. O benedetto frate! Io pregherò sempre Dio per lui.
Li. Oh buono! Come se Dio facessi le grazie del male, come del bene. Il frate vorrà altro che preghi.
Ca. Che vorrà?
Li. Danari.
Ca. Darengliene. Quanti ne gli hai promessi?
Li. Trecento ducati.
Ca. Hai fatto bene.
Li. El dottore n'ha sborsati venticinque.
Ca. Come?
Li. Bastiti che gli ha sborsati.
Ca. La madre di Lucrezia che ha fatto?
Li. Quasi el tutto. Come la intese, che la sua figliuola aveva avere questa buona notte senza peccato, la non restò mai di pregare, comandare, confortare la Lucrezia, tanto che la la condusse al frate, e quivi operò in modo, che l'acconsentì.
Ca. O Dio! Per quali mia meriti debbo io avere tanti beni? Io ho a morire per la allegrezza.
Li. Che gente è questa? Or per l'allegrezza, or pel dolore, costui vuol morire in ogni modo. Hai tu ad ordine la pozione?
Ca. Sì ho.
Li. Che li manderai?
Ca. Un bicchiere di ipocras che è a proposito a racconciare lo stomaco, rallegra el cervello. Ahimè, ohimè, io sono spacciato!
Li. Che è? Che sarà?
Ca. E' non ci è remedio.
Li. Che diavol fia.
Ca. E' non si è fatto nulla, io mi sono murato in uno forno.
Li. Perché? Che non lo di'? Levati le man dal viso.
Ca. O non sai tu che io ho detto a Messere Nicia che tu, lui, Siro ed io piglieremo uno per metterlo allato alla moglie?
Li. Che importa?
Ca. Come, che importa? Se io son con voi, non potrò essere quello che sia preso; se io non sono, e' si avvedrà dello inganno.
Li. Tu di' el vero; ma non ci è egli remedio?
Ca. Non credo io.
Li. Sì, sarà bene.
Ca. Quale?
Li. Io voglio un poco pensarlo.
Ca. Tu mi hai chiarito; io sto fresco, se tu l'hai a pensare ora.
Li. Io l'ho trovato.
Ca. Che cosa?
Li. Farò che 'l frate che ci ha aiutato infino a qui, farà questo resto.
Ca. In che modo?
Li. Noi abbiamo tutti a travestirci. Io farò travestire el frate: contraffarà la voce, el viso, l'abito; e dirò al dottore che tu sia quello; e' sel crederà.
Ca. Piacemi, ma io che farò?
Li. Fo conto che tu ti metta un pitocchino indosso, e con un liuto in mano te ne venga costì dal canto della sua casa, cantando un canzoncino.
Ca. A viso scoperto?
Li. Sì, che se tu portassi una maschera, gli entrerebbe 'n sospetto.
Ca. E' mi conoscerà.
Li. Non farà, perché io voglio che tu ti storca el viso, che tu apra, aguzzi o digrigni la bocca, chiugga un occhio. Pruova un poco.
Ca. Fo io così?
Li. No.
Ca. Così?
Li. Non basta.
Ca. A questo modo?
Li. Sì sì, tieni a mente cotesto; io ho un naso in casa; io vo' che tu te l'appicchi.
Ca. Orbé, che sarà poi?
Li. Come tu sarai comparso in sul canto, noi sarem quivi, torrenti el liuto, piglierenti, aggireremo, condurrenti in casa, metterenti al letto. El resto doverrai tu far da te.
Ca. Fatto sta condursi.
Li. Qui ti condurrai tu, ma a fare che tu vi possa ritornare, sta a te, e non a noi.
Ca. Come?
Li. Che tu te la guadagni in questa notte, e che innanzi che tu ti parta, te le dia a conoscere, scuoprale lo inganno, mostrile l'amore le porti, dicale el bene le vuoi; e come senza sua infamia la può essere tua amica, e con sua grande infamia tua nimica. È impossibile che la non convenga teco e che la voglia che questa notte sia sola.
Ca. Credi tu cotesto?
Li. Io ne sono certo. Ma non perdiam più tempo, e' son già dua ore. Chiama Siro, manda la pozione a Messer Nicia, e me aspetta in casa. Io andrò per el frate; farollo travestire, e condurremo qui, e troverremo el dottore, e faremo quel manca.
Ca. Tu di' ben. Va via.
[IV. 3]
CALLIMACO, SIRO.
Ca. O Siro!
Si. Messere!
Ca. Fatti costì.
Si. Eccomi.
Ca. Piglia quello bicchiere d'argento, che è drento allo armario di camera, e coperto con un poco di drappo, portamelo, e guarda a non lo versare per la via.
Si. Sarà fatto.
Ca. Costui è stato dieci anni meco, e sempre mi ha servito fedelmente. Io credo trovare anche in questo caso fede in lui; e benché io non gli abbi comunicato questo inganno, e' se lo indovina, che gli è cattivo bene, e veggo che si va accomodando.
Si. Eccolo.
Ca. Sta bene. Tira, va' a casa Messere Nicia, e digli che questa è la medicina che ha a pigliare la donna dopo cena subito; e quanto prima cena, tanto sarà meglio; e come noi saremo in sul canto ad ordine al tempo, e' facci d'esservi. Va' ratto.
Si. I' vo.
Ca. Odi qua. Se vuole che tu l'aspetti, aspettalo, e vientene quivi con lui; se non vuole, torna qui da me, dato che tu glien'hai e fatto che tu gli avrai l'ambasciata.
Si. Messere sì.
[IV. 4]
CALLIMACO solo.
Io aspetto che Ligurio torni col frate; e chi dice che egli è dura cosa l'aspettare, dice el vero. Io scemo ad ognora dieci libbre pensando dove io sono ora, e dove io potrei essere di qui a due ore, temendo che non nasca qualche cosa che interrompa el mio disegno. Che se fusse, e' fia l'ultima notte della vita mia, perché o io mi gitterò in Arno, o io mi appiccherò, o io mi gitterò da quelle finestre, o io mi darò d'un coltello in sullo uscio suo. Qualche cosa farò io perché io non viva più. Ma io veggo Ligurio? Egli è desso, egli ha seco uno, che pare sgrignuto, zoppo; e' fia certo el frate travestito. O frati! Conoscine uno, e conoscigli tutti. Chi è quell'altro che si è accostato a loro? E' mi pare Siro, che ara di già fatto l'ambasciata al dottore; egli è desso. Io gli voglio aspettare qui per convenire con loro.
[IV. 5]
SIRO, LIGURIO, FRATE travestito, CALLIMACO.
Si. Chi è teco, Ligurio?
Li. Uno uom da bene.
Si. E' egli zoppo, o fa le vista?
Li. Bada ad altro.
Si. Oh! gli ha el viso del gran ribaldo!
Li. Deh, sta cheto; ché ci hai fracido! Ov'è Callimaco?
Ca. Io son qui. Voi siete e' benvenuti.
Li. O Callimaco, avvertisci questo pazzerello di Siro; egli ha detto già mille pazzie.
Ca. Siro, odi qua: tu hai questa sera a fare tutto quello che ti dirà Ligurio, e fa conto, quando e' ti comanda, che sia io; e ciò che tu vedi, senti o odi, hai a tenere secretissimo, per quanto tu stimi la roba, l'onore, la vita mia e il ben tuo.
Si. Cosi si farà.
Ca. Desti tu el bicchiere al dottore?
Si. Messere sì.
Ca. Che disse?
Si. Che sarà ora ad ordine di tutto.
Fra. È questo Callimaco?
Ca. Sono a' comandi vostri. Le proferte tra noi sien fatte; voi avete a disporre di me e di tutte le fortune mia, come di voi.
Fra. Io l'ho inteso, e credolo, e sommi messo a fare quello per te, che io non arei fatto per uomo del mondo.
Ca. Voi non perderete la fatica.
Fra. E' basta che tu mi voglia bene.
Li. Lasciamo stare le cerimonie. Noi andremo a travestirci, Siro ed io. Tu, Callimaco, vien con noi, per potere ire a fare e' fatti tua. El frate ci aspetterà qui; noi torneremo subito, e anderemo a trovare Messere Nicia.
Ca. Tu di' bene, andiamo.
Fra. Vi aspetto.
[IV. 6]
FRATE solo travestito.
E' dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche; e molte volte uno capita male, così per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa che io non pensava ad iniuriare persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e' mia devoti; capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno errore, donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto, che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno avere cura. Ma ecco Ligurio e quel servo che tornano.
[ IV. 7]
FRATE, LIGURIO, SIRO.
Fra. Voi siate e' ben tornati.
Li. Stiam noi bene?
Fra. Benissimo.
Li. E' ci manca el dottore. Andiam verso casa sua; e' son più di tre ore, andiam via?
Si. Chi apre l'uscio suo? È egli el famiglio?
Li. No: gli è lui. Ah, ah, ah, eh!
Si. Tu ridi?
Li. Chi non riderebbe? Egli ha un guarnacchino indosso, che non gli cuopre el culo. Che diavolo ha egli in capo? E' mi pare un di questi gufi de' canonici, e uno spadaccino sotto, ah, ah! e' borbotta non so che; tiriamci da parte, e udiremo qualche sciagura della moglie.
[IV. 8]
MESSER NICIA travestito.
Quanti lezii ha fatto questa mia pazza! Ell'ha mandato le fante a casa la madre, e il famiglio in villa. Di questo io la laudo; ma io non la lodo già, che innanzi che la ne sia voluta ire al letto, ell'abbi fatto tante schifiltà. Io non voglio... Come farò io... Che mi fate voi fare?... O me! mamma mia... E se non che la madre le disse il padre del porro, la non entrava in quel letto. Che le venga la contina! Io vorrei ben vedere le donne schizzinose, ma non tanto; ché ci ha tolta la testa, cervello di gatta! Poi chi dicessi: impiccata sia la più savia donna di Firenze, la direbbe: che t'ho io fatto? Io so che la Pasquina entrerà in Arezzo, e innanzi che io mi parta da giuoco, io potrò dire come Monna Ghinga: di veduta con queste mane. Io sto pur bene! Chi mi conoscerebbe? Io paio maggiore, più giovane, più scarzo; e non sarebbe donna che mi togliessi danari di letto. Ma dove troverò io costoro?
[IV. 9]
LIGURIO, MESSERE MICIA, FRATE travestito, SIRO.
Li. Buona sera, messere.
Ni. Oh, eh, eh!
Li. Non abbiate paura, no' sian noi.
Ni. Oh! voi siete tutti qui. Se io non vi conoscevo presto, io vi davo con questo stocco el più diritto che io sapevo. Tu se' Ligurio? E tu Siro? E quello altro, el Maestro? ah!
Li. Messere, sì.
Ni. Togli. Oh! s'è contraffatto bene, e non lo conoscerebbe. Va qua tu.
Li. Io gli ho fatto mettere dua noce in bocca, perché non sia conosciuto alla voce.
Ni. Tu se' ignorante.
Li. Perché?
Ni. Che non me'l dicevi tu prima? Ed are'mene messo anch'io dua, e sai se l'importa non essere conosciuto alla favella.
Li. Togliete, mettetevi in bocca questo.
Ni. Che è ella?
Li. Una palla di cera.
Ni. Dalla qua, ca, pu, ca, co, co, cu, cu, spu. Che ti venga la seccaggine, pezzo di manigoldo!
Li. Perdonatemi, che io ve ne ho data una in scambio, che io non me ne sono avveduto.
Li. Ca, ca, pu, pu. Di che, che, che, era?
Li. D'aloe.
Ni. Sia in malora! spu, spu. Maestro, voi non dite nulla?
Fra. Ligurio mi ha fatto adirare.
Ni. Oh! voi contraffate ben la voce.
Li. Non perdiam più tempo qui. Io voglio essere el capitano, e ordinare l'esercito per la giornata. Al destro corno sia preposto Callimaco, al sinistro io, intra le due corna starà qui el dottore. Siro fia retroguardo, per dare sussidio a quella banda che inclinassi. El nome sia San Cucù.
Ni. Chi è San Cucù?
Li. È el più onorato santo che sia in Francia. Andian via, mettian l' agguato a questo canto. State a udire: io sento un liuto.
Ni. Egli è esso. Che vogliam fare?
Li. Vuolsi mandare innanzi uno esploratore a scoprire chi egli è, e secondo ei referirà, secondo faremo.
Ni. Chi v' andrà?
Li. Va via, Siro. Tu sai quello hai a fare. Considera, esamina, torna presto, referisci.
Si. Io vo.
Ni. Io non vorrei che noi pigliassimo un granchio, che fussi qualche vecchio debole o infermiccio; e che questo giuoco si avesse a rifare domandassera.
Li. Non dubitate, Siro è valente uomo. Eccolo, e' torna. Che truovi, Siro?
Si. Egli è el più bel garzonaccio che voi vedessi mai. Non ha venticinque anni, e viensene solo in pitocchino, sonando il liuto.
Ni. Egli è el caso, se tu di' el vero; ma guarda, che questa broda sarebbe tutta gittata addosso a te.
Si. Egli è quel che io v' ho detto.
Li. Aspettiamo ch'egli spunti questo canto, e subito gli saremo addosso.
Ni. Tiratevi in qua, maestro; voi mi parete un uom di legno. Eccolo.
Ca. «Venir ti possa el diavolo allo letto. Da poi che io non ci posso venire io».
Li. Sta forte. Da' qua questo liuto.
Ca. Ohimè! che ho io fatto?
Ni. Tu el vedrai. Cuoprigli el capo, imbavaglialo.
Li. Aggiralo.
Ni. Dagli un'altra volta, dagliene un'altra, mettetelo in casa.
Fra. Messere Nicia, io m'andrò a riposare, che mi duole la testa, che io muoio. E se non bisogna, io non tornerò domattina.
Ni. Sì, maestro, non tornate; noi potrem fare da noi.
[IV. 10]
FRATE solo.
E' sono intanati in casa, e io me ne andrò al convento; e voi, spettatori, non ci appuntate, perché in questa notte non ci dormirà persona, sì che gli atti non sono interrotti dal tempo.Io dirò l'uffizio. Ligurio e Siro ceneranno, che non hanno mangiato oggi, el dottore andrà di camera in sala, perché la cucina vada netta. Callimaco e madonna Lucrezia non dormiranno, perché io so se io fussi lui, e se voi fussi lei, che noi non dormiremmo.
Canzone.
O dolce notte, oh sante Ore notturne e quete, Ch'i disiosi amanti accompagnate; In voi s'adunan tante Letizie, onde voi siete Sole cagion di far l'alme beate. Voi giusti premii date All'amorose schiere Delle lunghe fatiche, Voi fate, o felici ore, Ogni gelato petto arder d'amore.
[V. 1]
FRATE solo.
Io non ho potuto questa notte chiudere occhio, tanto è il desiderio che io ho d'intendere come Callimaco e gli altri l'abbiano fatto. Ed ho atteso a consumare el tempo in varie cose: io dissi mattutino, lessi una vita dei Santi Padri, andai in chiesa ed accesi una lampana che era spenta, mutai uno velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tenghino pulita! E si maravigliano poi se la divozione manca. Io mi ricordo esservi cinquecento imagine, e non ve ne sono oggi venti; questo nasce da noi, che non le abbiamo saputa mantenere la reputazione. Noi vi solavamo ogni sera dopo la compieta andare a processione, e farvi cantare ogni sabato le laude. Botavanci noi sempre quivi, perché vi si vedessi delle imagine fresche; confortavamo nelle confessioni gli uomini e le donne a botarvisi. Ora non si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo se le cose vanno fredde! Oh, quanto poco cervello è in questi mia frati! Ma io sento uno grande romore da casa
Messere Nicia. Eccogli per mia fé; e' cavono fuori el prigione. Io sarò giunto a tempo. Ben si sono indugiati alla sgocciolatura; e' si fa appunto l' alba. Io voglio stare a udire quello che dicono, senza scuoprirmi.
[V. 2]
MESSERE NICIA, LIGURIO, SIRO.
Ni. Piglialo di costà, ed io di qua; e tu, Siro, lo tieni per il pitocco di drieto.
Ca. Non mi fate male.
Li. Non aver paura, va pur via.
Ni. Non andiam più là.
Li. Voi dite bene, lascialo ire qui. Diamgli due volte, che non sappi donde el si sia venuto. Giralo, Siro.
Si. Ecco.
Ni. Giralo un'altra volta.
Si. Ecco fatto.
Ca. Il mio liuto.
Li. Via, ribaldo, tira via. S'i' ti sento favellare, io ti taglierò il collo.
Ni. E' s'è fuggito, andianci a sbisacciare; e vuolsi che noi usciamo fuora tutti a buon'ora, acciò che non si paia che noi abbiamo vegghiato questa notte.
Li. Voi dite el vero.
Ni. Andate voi e Siro a trovare maestro Callimaco, e gli dite che la cosa è proceduta bene.
Li. Che li possiamo noi dire? Noi non sappiamo nulla. Voi sapete che, arrivati in casa, noi ce n'andamo nella volta a bere. Voi e la suocera rimaneste alle mani seco, e non vi rivedemo mai, se non ora, quando voi ci chiamasti per mandarlo fuora.
Ni. Voi dite el vero. Oh! io v'ho da dire le belle cose! Mogliema era nel letto al buio. Sostrata m'aspettava al fuoco. I' giunsi su con questo garzonaccio, e perché e' non andassi nulla in capperuccia, io lo menai in una dispensa che io ho in sulla sala, dove era uno certo lume annacquato, e gittava un poco d'albore, in modo che non mi poteva vedere in viso.
Li. Saviamente.
Ni. Io lo feci spogliare, e' nicchiava; io me li volsi come un cane, di modo che li parve mill'anni d'avere fuora e' panni, e rimase ignudo. Egli è brutto di viso. Egli aveva uno nasaccio, una bocca torta; ma tu non vedesti mai le più belìi carni! bianco, morbido, pastoso, e dell'altre cose non ne domandate.
Li. E' non è bene ragionarne, che bisognava vederlo tutto.
Ni. Tu vuoi el giambo. Poi che aveva messo mano in pasta, io ne volsi toccare il fondo; poi volsi vedere s'egli era sano: s'egli avessi auto le bolle, dove mi trovavo io? Tu ci metti parole.
Li. Avete ragione voi.
Ni. Come io ebbi veduto che gli era sano, io me lo tirai drieto, ed al buio lo menai in camera; messi al letto; e innanzi mi partissi, volli toccare con mano come la cosa andava, che io non son uso ad essermi dato ad intendere lucciole per lanterne.
Li. Con quanta prudenzia avete voi governata questa cosa!
Ni. Tocco e sentito che io ebbi ogni cosa, mi uscii di camera, e serrai l'uscio, e me n'andai alla suocera, che era al fuoco, e tutta notte abbiamo atteso a ragionare.
Li. Che ragionamenti sono stati e' vostri?
Ni. Della sciocchezza di Lucrezia, e quanto egli era meglio che senza tanti andirivieni, ella avessi ceduto al primo. Dipoi ragionamo del bambino, che me lo pare tuttavia avere in braccio, el naccherino! tanto che io sentii sonare le tredici ore; e dubitando che il di non sopraggiungessi, me n' andai in camera. Che direte voi che io non poteva fare levare quel rubaldone?
Li. Credolo.
Ni. E' gli era piaciuto l'unto. Pure e' si levò, io vi chiamai e l'abbiam condotto fuori.
Li. La cosa è ita bene.
Ni. Che dirai tu, che me ne incresce?
Li. Di che?
Ni. Di quel povero giovane, ch'egli abbi a morire si presto, e che questa notte gli abbi a costare sì cara.
Li. Oh! voi avete e' pochi pensieri. Lasciatene la cura a lui.
Ni. Tu di' el vero. Ma mi pare bene milla anni di trovare maestro Callimaco, e rallegrarmi seco.
Li. E' sarà fra un'ora fuora. Ma gli è chiaro el giorno; noi ci andremo a spogliare; voi che farete?
Ni. Andronne anch'io in casa a mettermi e' panni buoni. Farò levare e lavare la donna, e farolla venire alla Chiesa ad entrare in santo. Io vorrei che voi e Callimaco fussi là, e che noi parlassimo al frate per ringraziarlo, e ristorallo del bene che ci ha fatto.
Li. Voi dite bene, cosi si farà.
[V. 3]
FRATE solo.
Io ho udito questo ragionamento, e m'è piaciuto, considerando quanta sciocchezza sia in questo dottore; ma la conclusione ultima mi ha sopra modo dilettato. E poiché debbono venire a trovarmi a casa, io non voglio star più qui, ma aspettarli alla chiesa, dove la mia mercanzia varrà più. Ma chi esce di quella casa? E' mi pare Ligurio, e con lui debbe esser Callimaco. Io non voglio che mi veggano, per le ragione dette; pure, quando e' non venissino a trovarmi, sempre sarò a tempo andare a trovare loro.
[IV. 4]
CALLIMACO, LIGURIO
Ca. Come io t'ho detto, Ligurio mio, io stetti di mala voglia infino alle nove ore; e benché io avessi grande piacere, e' non mi parve buono. Ma poi che io me le fu' dato a conoscere, e che io l'ebbi dato ad intendere l'amore che io le portava, e quanto facilmente, per la semplicità del marito, noi potavamo vivere felici sanza infamia alcuna, promettendole che, qualunque volta Dio facessi altro di lui, di prenderla per donna; ed avendo ella, oltre alle vere ragione, gustato che differenzia è dalla iacitura mia a quella di Nicia e da baci d'uno amante giovane a quelli d'uno marito vecchio, dopo qualche sospiro disse: poi che l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro mi hanno condotta a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che e' venga da una celeste disposizione che abbi voluto così, e non sono sufficiente a ricusare quello che el cielo vuole che io accetti. Però io ti prendo per signore, padrone, guida; tu mio padre, tu mio difensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quello che 'l mio marito ha voluto per unasera, voglio ch'egli abbia sempre. Faraiti adunque suo compare, e verrai questa mattina alla Chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l'andare e lo stare starà a te, e potremo ad ogni ora e senza sospetto convenire insieme. Io fui, udendo queste parole, per morirmi per la dolcezza. Non potetti respondere alla minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo; e se questa felicità non mi mancassi, o per morte o per tempo, io sarei più beato ch'e' beati, più santo che e' santi.
Li. Io ho gran piacere d'ogni tuo bene, e ètti intervenuto quello che io ti dissi appunto. Ma che facciamo noi ora?
Ca. Andiamo verso la chiesa, perché io le promisi d'essere là, dove la verrà lei, la madre e il dottore.
Li. Io sento toccare l'uscio suo: le sono esse, ed escono fuora, ed hanno el dottore drieto.
Ca. Avvianci in chiesa, e là aspetteremo.
[V. 5]
MESSERE NICIA, LUCREZIA, SOSTRATA.
Ni. Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con timore di Dio, e non alla pazzaresca.
Lu. Che s'ha egli a fare ora?
Ni. Guarda come ella risponde! La pare un gallo.
So. Non ve ne maravigliate, ella è un poco alterata.
Lu. Che volete voi dire?
Ni. Dico che egli è bene che io vada innanzi a parlare al frate, e dirli che ti si facci incontro in sullo uscio della chiesa per menarti in santo, perché gli è proprio stamane come se tu rinascessi.
Lu. Che non andate?
Ni. Tu se' stamane molto ardita! Ella pareva iersera mezza morta.
Lu. Egli è la grazia vostra.
So. Andate a trovare el frate. Ma e' non bisogna, egli è fuora di chiesa.
Ni. Voi dite el vero.
[V. 6]
FRATE, MESSERE NICIA, LUCREZIA, CALLIMACO, LIGURIO, SOSTRATA.
Fra. Io vengo fuora, perché Callimaco e Ligurio m'hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa.
Ni. Bona dies, Padre.
Fra. Voi siate le benvenute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bel figliuolo maschio.
Lu. Dio el voglia.
Fra. E' lo vorrà in ogni modo.
Ni. Veggo in chiesa Ligurio e maestro Callimaco?
Fra. Messere sì.
Ni. Accennateli.
Fra. Venite.
Ca. Dio vi salvi.
Ni. Maestro, toccate la mano qui alla donna mia.
Ca. Volentieri.
Ni. Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi aremo un bastone che sostenga la nostra vecchiezza.
Lu. Io l'ho molto caro, e vuoisi che sia nostro compare.
Ni. Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi.
Lu. In ogni modo.
Ni. E vo' dare loro la chiave della camera terrena d'in sulla loggia, perché possino tornarsi quivi a lor comodità, che non hanno donne in casa, e stanno come bestie.
Ca. Io l'accetto, per usarla quando mi accaggia.
Fra. Io ho avere e' danari per la limosina?
Ni. Ben sapete come, domine, oggi vi si manderanno.
Li. Di Siro non è uomo che si ricordi!
Ni. Chiegga, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossoni hai a dare al frate per entrare in santo?
Lu. Dategliene dieci.
Ni. Affogaggine!
Fra. Voi, madonna Sostrata, avete, secondo mi pare, messo un tallo in sul vecchio.
So. Chi non sarebbe allegra?
Fra. Andianne tutti in chiesa, e quivi diremo l'orazione ordinaria; dipoi, dopo l'ufficio, ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciamo più fuora, l' ufficio è lungo, e io mi rimarrò in chiesa, e loro per l' uscio del fianco se ne andranno a casa. Valete.
CLIZIA
Canzone cantata da una ninfa e da due pastori. Quanto sie lieto il giorno, Che le memorie antiche Fa ch'or per me sien mostre e celebrate, Si vede, perché intorno Tutte le genti amiche Si sono in questa parte raunate. Noi, che la nostra etate Ne' boschi e nelle selve consumiamo, Venuti ancor qui siamo, Io ninfa, e noi pastori, E giam cantando insieme e' nostri amori. Chiari giorni e quieti, Felice e bel paese, Dove del nostro canto il suon s'udia; Pertanto allegri e lieti, A queste vostre imprese Farem col cantar nostro compagnia. Con si dolce armonia, Qual mai sentita più non fu da voi; E partiremei poi, Io ninfa, e noi pastori, E torneremei a' nostri antichi amori.
PROLOGO
Se nel mondo tornassero i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbero mai cento anni, che noi non ci trovassimo un'altra volta insieme a fare le medesime cose, che ora. Questo si dice, perché già in Atene, nobile ed antichissima città in Grecia, fu uno gentiluomo, al quale, non avendo altri figliuoli che uno ma schio, capitò a sorte una piccola fanciulla in casa, la quale da lui infino all'età di diciassette anni fu onestissimamente allevata. Occorse dipoi, che in un tratto egli e il figliuolo se ne innamorarono, nella concorrenza del quale amore assai casi e strani accidenti nacquero, i quali trapassati, il figliuolo la prese per donna, e con quella gran tempo felicissimamente visse. Che direte voi, che questo medesimo caso pochi anni sono seguì ancora in Firenze? E volendo questo nostro autore l'uno delli dua rappresentarvi, ha eletto il Fiorentino, giudicando che voi siate per prendere maggiore piacere di questo che di quello. Perché Atene è rovinata, le vie, le piazze, i luoghi non vi si riconoscono. Dipoi quelli cittadini parlavano in greco; e voi quella lingua non intendereste. Prendete pertanto il caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato, o gli uomini, perché lo autore, per fuggire carico, ha convertiti i nomi veri in nomi finti. Vuol bene che, avanti che la commedia cominci, voi veggiate le persone, acciocché meglio nel recitarla le conosciate. Uscite qua fuora tutti, che il popolo vi vegga. Eccoli. Vedete come e' ne vengono soavi? Ponetevi costi in fila l'uno propinquo all'altro. Voi vedete: quel primo è Nicomaco, un vecchio tutto pien d'amore. Quello che gli è a lato, è Cleandro, suo figliuolo e suo rivale. L'altro si chiama Palamede, amico a Cleandro. Quelli due che seguono, l'uno è Pirro servo, l'altro è Eustachio fattore, dei quali ciascuno vorrebbe essere marito della dama del suo padrone. Quella donna che vien poi, è Sofronia, moglie di Nicomaco. Quella appresso è Doria sua servente. Di quelli ultimi duoi che restano, l'uno è Damone, l'altra è Sostrata sua donna. Ecci un'altra persona, la quale per avere a venire ancora da Napoli, non vi si mostrerà. Io credo che basti, e che voi gli abbiate veduti assai. Il popolo vi licenzia; tornate drento. Questa favola si chiama Clizia, perché cosi ha nome la fanciulla che si combatte. Non aspettate di vederla, perché Sofronia, che l'ha allevata, non vuole per onestà che la venga fuora. Pertanto se ci fusse alcuno che la vagheggiasse, avrà pazienza. E' mi resta a dirvi come lo autore di questa commedia è uomo molto costumato, e saprebbegli male, se vi paresse nel vederla recitare, che ci fusse qualche disonestà. Egli non crede che la ci sia: pure quando e' paresse a voi, si escusa in questo modo. Sono trovate le commedie per giovare, e per dilettare agli spettatori. Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente ai giovanetti, conoscere l'avarizia d'un vecchio, il furore di uno innamorato, gl'inganni di un servo, la gola d'uno parasito, la miseria di un povero, l'ambizione di un ricco, le lusinghe di una meretrice, la poca fede di tutti gli uomini; de' quali esempi le commedie sono piene, e possonsi tutte queste cose con onestà grandissima rappresentare. Ma volendo dilettare, è necessario muovere gli spettatori a riso, il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo; perché le parole che fanno ridere, sono, o sciocche, o ingiuriose, o amorose. È necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche, o innamorate, e perciò quelle commedie, che sono piene di queste tre qualità di parole, sono piene di risa; quelle che ne mancano, non trovano chi con il ridere le accompagni. Volendo adunque questo nostro autore dilettare, e fare in qualche parte gli spettatori ridere, non inducendo in questa sua commedia persone sciocche, ed essendosi rimasto di dire male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamorate ed agli accidenti che nell'amore nascono. Dove se fia cosa alcuna non onesta, sarà in modo detta, che queste donne potranno senza arrossire ascoltarla. Siate contenti adunque prestarci gli orecchi benigni, e se voi ci satisfarete ascoltando, noi ci sforzeremo recitando satisfare a voi.
CLEANDRO. PALAMEDE. NICOMACO. PIRRO. EUSTACHIO. SOFRONIA. DAMONE. DORIA. SOSTRATA. RAMONDO.
La scena è in Firenze.
[I. 1].
PALAMEDE e OLEANDRO.
Pa. Tu esci si a buon'ora di casa.
Cle. Tu donde vieni si a buon'ora?
Pa. Da fare una mia faccenda.
Cle. E io vo a farne un'altra, o, a dir meglio, a cercare di farla; perché se io la farò non ho certezza alcuna.
Pa. È ella cosa che si possa dire?
Cle. Non so; ma io so bene ch'ella è cosa che con difficultà si può fare.
Pa. Orsù, io me ne voglio ire, ch'io veggo come lo stare accompagnato t'infastidisce; e per questo io ho sempre fuggito la pratica tua, perché sempre ti ho trovato mal disposto e fantastico.
Cle. Fantastico no, ma innamorato sì.
Pa. Togli, tu mi racconci la cappellina in capo.
Cle. Palamede mio, tu non sai mezze le messe. Io sono sempre vivuto disperato, ed ora vivo più che mai.
Pa. Come così?
Cle. Quello che io t'ho celato per lo addietro, ti voglio manifestare ora, poi ch'io mi sono ridotto al termine che mi bisogna soccorso da ciascuno.
Pa. Se io stavo mal volentieri teco in prima, io starò peggio ora, perch'io ho sempre inteso che tre sorte di uomini si debbono fuggire, cantori, vecchi ed innamorati. Perché se usi con un cantore, e narrigli un tuo fatto, quando tu credi che t'oda, ei ti spicca uno ut, re, mi, fa, sol, la, e gorgogliasi una canzonetta in gola. Se tu sei con uno vecchio, e' ficca il capo in quante chiese e' truova, e va a tutti gli altari a borbottare un paternostro. Ma di questi duoi io innamorato è peggio; perché non basta che, se tu gli parli, ei pone una vigna, che ei t'empie gli orecchi di rammarichìi e di tanti suoi affanni che tu sei forzato a moverti a compassione. Perché s'egli usa con una cantoniera, o ella lo assassina troppo, o ella l'ha cacciato di casa: sempre vi è qualcosa che dire. S'egli ama una donna da bene, mille invidie, mille gelosie, mille dispetti lo perturbano; mai non vi manca cagione di dolersi. Pertanto, Cleandro mio, io userò tanto teco quanto tu avrai bisogno di me; altrimenti io fuggirò questi tuoi dolori.
Cle. Io ho tenuto occulte queste mie passioni infino a ora per coteste cagioni: per non essere fuggito come fastidioso o uccellato come ridicolo; perché io so che molti sotto spezie di carità ti fanno parlare e poi ti ghignano. Ma poiché ora la fortuna mi ha condotto in lato che mi pare avere pochi rimedii, io te lo voglio conferire per sfogarmi in parte, ed anche perché, se mi bisognasse il tuo aiuto, che tu me lo presti.
Pa. Io sono parato, poiché tu vuoi, ad ascoltare tutto, e cosi a non fuggire né disagi né pericoli per aiutarti.
Cle. Io lo so. Io credo che tu abbia notizia di quella fanciulla che noi ci abbiamo allevata.
Pa. Io l'ho veduta. Donde venne?
Cle. Dirottelo. Quando dodici anni sono, nel 1494, passò il re Carlo per Firenze, che andava con uno grande esercito all'impresa del Regno, alloggiò in casa nostra un gentiluomo della compagnia di Monsignor di Fois, chiamato Beltramo di Guascogna. Fu costui da mio padre onorato, ed egli (perché uomo da bene era) riguardò e onorò la casa nostra; e dove molti fecero una inimicizia con quegli Francesi avevano in casa, mio padre e costui contrassero una amicizia grandissima.
Pa. Voi aveste una gran ventura più che gli altri, perché quelli che furono messi in casa nostra, ci fecero infiniti mali.
Cle. Credolo, ma a noi non intervenne cosi. Questo Beltramo ne andò con il suo re a Napoli; e come tu sai, vinto che ebbe Carlo quel regno, fu costretto a partirsi, perché il Papa, l'Imperatore, i Veneziani e il duca di Milano se gli erano collegati contro. Lasciate pertanto parte delle sue genti a Napoli, con il resto se ne venne verso Toscana; e giunto a Siena, perché egli intese la Lega aver uno grossissimo esercito sopra il Taro per combattere allo scendere de' monti, gli parve di non perdere tempo in Toscana, e perciò non per Firenze, ma per la via di Pisa e di Pontremoli passò in Lombardia. Beltramo, sentito il romore dei nimici e dubitando, come intervenne, non avere a far la giornata con quelli, avendo intra la preda fatta a Napoli questa fanciulla, che allora doveva avere cinque anni, d'una bella aria e tutta gentile, deliberò di torla dinanzi ai pericoli, e per uno suo servidore la mandò a mio padre, pregandolo che per suo amore dovesse tanto tenerla che a più comodo tempo mandasse per lei; né mandò a dire se l'era nobile, o ignobile; solo ci significò che la si chiamava Clizia. Mio padre e mia madre, perché non avevano altri figliuoli che me, subito se ne innamororno.
Pa. Innamorato te ne sarai tu?
Cle. Lasciami dire. E come loro cara figliuola la trattarono. Io, che allora avevo dieci anni, mi cominciai, come fanno i fanciulli, a trastullare seco e le posi uno amore estraordinario, il quale sempre coll'età crebbe; di modo che, quando ella arrivò alla età di dodici anni, mio padre e mia madre cominciarono ad avermi gli occhi alle mani, in modo che, se io solo le parlava, andava sottosopra la casa. Questa strettezza (perché sempre si desidera più ciò che si può avere meno) raddoppiò l'amore; e hammi fatto e fa tanta guerra, che io vivo con più affanni che se io fussi in inferno.
Pa. Beltramo mandò mai per lei?
Cle. Di cotestui non s'intese mai nulla; crediamo che morisse nella giornata del Taro.
Pa. Cosi dovette essere. Ma dimmi: che vuoi tu fare? A che termine sei? Vuola tu torre per moglie, o vorrestila per amica? Che t'impedisce, avendola in casa? Può essere che tu non ci abbia rimedio?
Cle. Io t'ho a dire delle altre cose, che saranno con mia vergogna; perciò io voglio che tu sappia ogni cosa.
Pa. Di' pure.
Cle. E' mi vien voglia, disse colei, di ridere, e ho male: mio padre se n'è innamorato anch'egli.
Pa. Nicomaco?
Cle. Nicomaco, sì.
Pa. Puollo fare Iddio?
Cle. E' lo può fare Iddio e' Santi.
Pa. Oh! questo è il più bel fatto ch'io sentissi mai. E' non se ne guasta se non una casa. Come vivete insieme? Che fate? a che pensate? Tua madre sa queste cose?
Cle. E' lo sa mia madre, le fante e' famigli; egli è una tresca il fatto nostro.
Pa. Dimmi infine, dove è ridotta la cosa?
Cle. Dirottelo. Mio padre per moglie, quando bene ei non ne fusse innamorato, non me la concederebbe mai, perché è avaro ed ella è senza dota. Dubita anche che la non sia ignobile, lo me la torrei per moglie, per amica e in tutti quei modi che io la potessi avere. Ma di questo non accade ragionare ora; solo ti dirò dove noi ci troviamo.
Pa. Io l'avrei caro.
Cle. Tosto che mio padre s'innamorò di costei, che debbe essere circa un anno, e desiderando di cavarsi questa voglia, che lo fa proprio spasimare, pensò che non ci era altro rimedio che maritarla a uno che poi gliene accumunasse; perché tentare d'averla prima che maritata, gli debbe parere cosa impia e brutta. E non sapendo dove si gittare, ha eletto per il più fidato a questa cosa Pirro nostro servo; e menò tanto segreta questa sua fantasia che a un pelo la fu per condursi, prima che altri se ne accorgesse. Ma Sofronia mia madre, che prima un pezzo dello innamoramento s'era avveduta, scoperse questo agguato, e con ogni industria, mossa da gelosia e invidia, attende a guastarlo. Il che non ha potuto far meglio che mettere in campo un altro marito, e biasimare quello, e dice volerla dare a Eustachio nostro fattore. E benché Nicomaco sia di più autorità, nondimeno l'astuzia di mia madre, gli aiuti di noi altri, che senza molto scuoprirci le facciamo, ha tenuta la cosa in punta più settimane. Tuttavia Nicomaco ci serra forte, ed ha deliberato, a dispetto di mare e di vento, far oggi questo parentado, e vuole che la meni questa sera, e ha tolto a pigione quella casetta, dove abita Damone vicino a noi, e dice che glene vuole comperare, fornirla di masserizie, aprirgli una bottega e farlo ricco.
Pa. A te che importa, che l'abbia più Pirro che Eustachio?
Cle. Come che m'importa? Questo Pirro è il maggiore ribaldello che sia in Firenze; perché, oltre ad averla pattuita con mio padre, è uomo che mi ebbe sempre in odio; di modo che io vorrei che l'avesse piuttosto il diavolo dello Inferno. Io scrissi ieri al fattore che venisse a Firenze; maravigliomi ch'e' non ci venne iersera. Io voglio stare qui a vedere se io lo vedessi comparire; tu che farai?
Pa. Andrò a fare una mia faccenda.
Cle. Va' in buon'ora.
Pa. Addio; temporeggiati il meglio puoi; e se vuoi cosa alcuna, parla.
[I. 2]
CLEANDRO solo.
Veramente chi ha detto che l'innamorato e il soldato si somigliano, ha detto il vero. Il capitano vuole che i suoi soldati sieno giovani; le donne vogliono che i loro amanti non sieno vecchi. Brutta cosa è vedere un vecchio soldato: bruttissimo vederlo innamorato. I soldati temono lo sdegno del capitano; gli amanti non meno quello delle loro donne. I soldati dormono in terra allo scoperto; gli amanti su pe' muriccioli. I soldati perseguono insino a morte i loro nimici; gli amanti i loro rivali. I soldati per la oscura notte nel più gelato verno vanno per il fango, esposti alle acque e a' venti per vincere una impresa che faccia loro acquistar la vittoria; gli amanti per simili vie, e con simili e maggiori disagi, di acquistare la loro amata cercano. Ugualmente, nella milizia e nello amore è necessario il segreto, la fede e l'animo: sono i pericoli uguali, e il fine il più delle volte è simile. Il soldato muore in una fossa, lo amante muore disperato. Cosi dubito io che non intervenga a me. Io ho la donna in casa, veggola quanto io voglio, mangio sempre seco, il credo mi sia maggior dolore; perché quanto è più propinquo l'uomo ad un suo desiderio, più lo desidera, e non lo avendo, maggiore dolore sente. A me bisogna pensare per ora a disturbare queste nozze; dipoi nuovi accidenti m'arrecheranno nuovi consigli e nuove fortune. È egli possibile che Eustachio non venga di villa? E scrissigli che ci fusse infino iersera? Ma io lo veggo spuntare là da quel canto. Eustachio, o Eustachio?
[I. 3]
EUSTACHIO, CLEANDRO.
Eust. Chi mi chiama? O Cleandro!
Cle. Tu hai penato tanto a comparire?
Eust. Io venni infino iersera, ma io non mi sono appalesato; perché poco innanzi ch'io avessi la tua lettera, ne avevo avuta una da Nicomaco, che m'imponeva un monte di faccende; e perciò io non volevo capitargli innanzi, se prima io non ti vedevo.
Cle. Hai ben fatto. Io ho mandato per te, perché Nicomaco sollecita queste nozze di Pirro, le quali tu sai non piacciono a mia madre; perché, poi che di questa fanciulla si ha a fare bene ad un uomo nostro, vorrebbe che la si desse a chi la merita più; ed invero le tue condizioni sono altrimenti fatte che quelle di Pirro, che, a dirlo qui fra noi, egli è uno sciagurato.
Eust. Io ti ringrazio: e veramente io non avevo il capo a tor donna; ma poi che tu e madonna volete, io voglio ancora io. Vero è che io non vorrei anche arrecarmi nimico Nicomaco, perché poi alla fine il padrone è egli.
Cle. Non dubitare, perché mia madre ed io non siamo per mancarti, e ti trarremo d'ogni pericolo. Io vorrei bene che tu ti rassettassi un poco. Tu hai cotesto gabbano, che ti cade di dosso; hai il tocco polveroso, una barbaccia. Va' al barbiere, lavati il viso, setolati cotesti panni, acciò che Clizia non ti abbia a rifiutare per porco.
Eust. Io non son atto a rimbiondirmi.
Cle. Va', fa' quel ch'io ti dico, e poi te ne vai in quella chiesa vicina, e quivi mi aspetta; io me ne andrò in casa, per vedere a quel che pensa il vecchio.
Canzone
Chi non fa prova, etc. (cfr. Mandr., I).
[II. 1]
NICOMACO solo.
Che domine ho io stamani intorno agli occhi? E' mi pare avere i bagliori che non mi lasciano vedere lume; e iersera io avrei veduto il pelo nell'uovo. Avrei io beuto troppo? Forse che si. Oh Dio, questa vecchiaia ne viene con ogni mal mendo! Ma io non sono ancora si vecchio che io non rompessi una lancia con Clizia. È egli però possibile che io mi sia innamorato a questo modo? E, quello che è peggio, mogliema se n'è accorta; ed indovinasi perché io voglia dare questa fanciulla a Pirro. Infine e' non mi va solco diritto. Pure io ho a cercare di vincere la mia. Pirro, o Pirro; vien giù; esci fuora.
[II. 2]
PIRRO, NICOMACO.
Pir. Eccomi.
Ni. Pirro, io voglio che tu meni questa sera moglie in ogni modo.
Pir. Io la merrò ora.
Ni. Adagio un poco. A cosa a cosa, disse il Mirra. E' bisogna anche fare le cose in modo che la casa non vada sottosopra. Tu vedi, mogliema non se ne contenta; Eustachio la vuole anch'egli; parmi che Oleandro lo favorisca; e' ci s'è volto contro Iddio ed il diavolo. Ma sta' tu pur forte nella fede di volerla; non dubitare; che io varrò per tutti loro; perché, al peggio fare, io te la darò a loro dispetto; e chi vuole ingrognare, ingrogni.
Pir. Al nome di Dio, ditemi quel che voi volete che io faccia.
Ni. Che tu non ti parta di quinci oltre; acciocché, se io ti voglio, che tu sia presto.
Pir. Cosi farò; ma mi era scordato di dirvi una cosa.
Ni. Quale?
Pir. Eustachio è in Firenze.
Ni. Come in Firenze? Chi te l'ha detto?
Pir. Ser Ambrogio nostro vicino in villa; e mi dice che entrò drento alla porta iersera con lui.
Ni. Come! iersera? Dov'è egli stato stanotte?
Pir. Chi lo sa?
Ni. Sia in buon'ora. Va' via, fa' quello che io t'ho detto. Sofronia avrà mandato per Eustachio; e questo ribaldo ha stimato più le lettere sue che le mie, che gli scrissi che facesse mille cose, che mi rovinano se le non si fanno. Al nome di Dio, io ne lo pagherò. Almeno sapessi io dove egli é, e quel che fa. Ma ecco Sofronia, ch'esce di casa.
[II. 3]
SOFRONIA, NICOMACO.
Sofr. Io ho rinchiusa Clizia e Doria in camera. E' mi bisogna guardare questa fanciulla dal figliuolo, dal marito, da' famigli; ognuno le ha posto il campo intorno.
Ni. Sofronia, ove si va?
Sofr. Alla messa.
Ni. Ed è pur carnasciale; pensa quel che tu farai di quaresima.
Sofr. Io credo che s'abbia a far bene d'ogni tempo, e tanto è più accetto farlo in quelli tempi che gli altri fanno male. Ma e' mi pare che a far bene noi ci facciamo da cattivo lato.
Ni. Come? Che vorresti tu che si facesse?
Sofr. Che non si pensasse a chiacchiere, e poi che noi abbiamo in casa una fanciulla bella, buona, e d'assai, ed abbiamo durato fatica ad allevarla, che si pensasse di non la gittare or via; e dove prima ogni uomo ci lodava, ogni uomo ora ci biasimerà, veggendo che noi la diamo a un ghiotto senza cervello, che non sa far altro che uno poco radere, che non ne viverebbe una mosca.
Ni. Sofronia mia, tu erri. Costui è giovane di buono aspetto; e se non sa, è atto ad imparare, e vuol bene a costei; che sono tre gran parti in uno marito: gioventù, bellezza ed amore. A me non pare che si possa ir più là, né che di questi partiti se ne trovi a ogni uscio. Se non ha roba, tu lo sai che la roba viene e va; e costui è uno di quelli, che è atto a farne venire, ed io non lo abbandonerò, perché io fo pensiero, a dirti il vero, di comperargli quella casa che ora ho tolta a pigione da Damone nostro vicino, ed empierolla di masserizie, e di più, quando mi costasse quattrocento fiorini, per mettergliene...
Sofr. Ah, ah, ah!
Ni. Tu ridi?
Sofr. Chi non riderebbe?
Ni. Si, che vuoi tu dire? Per mettergliene in su una bottega, non sono per guardarvi.
Sofr. È egli possibile però che tu voglia con questo partito strano torre al tuo figliuolo più che non si conviene e dare a costui più che non merita? Io non so che mi dire; io dubito che non ci sia altro sotto.
Ni. Che vuoi tu che ci sia?
Sofr. Se ci fosse chi non lo sapesse, io gliene direi: ma perché tu lo sai, io non te lo dirò.
Ni. Che so io?
Sofr. Lasciamo ire. Che ti muove a darla a costui? Non si potrebbe con questa dote, o minore, maritarla meglio?
Ni. Si, credo; nondimeno e' mi muove l'amore che io porto all'una ed all'altro, che avendoceli allevati tutti e due, mi pare di beneficarli tutti a due.
Sofr. Se cotesto ti muove, non ti hai tu ancora allevato Eustachio tuo fattore?
Ni. Si, ho; ma che vuoi tu, che la faccia di cotestui, che non ha gentilezza veruna, ed è uso a star in villa tra' buoi e tra le pecore? Oh! se noi gliene dessimo, la si morrebbe di dolore.
Sofr. E con Pirro si morrà di fame. Io ti ricordo che le gentilezze degli uomini consistono in aver qualche virtù, saper fare qualche cosa come sa Eustachio, che è uso alle faccende, in su' mercati, a far masserizia, ad aver cura delle cose d'altri e delle sue, ed è un uomo che viverebbe in su l'acqua; tanto più che tu sai ch'egli ha un buon capitale. Pirro dall'altra parte non è mai se non in su le taverne, su per i giuochi, un cacapensieri, che morrebbe di fame nell'altopascio.
Ni. Non ti ho io detto quello ch'io gli voglio dare?
Sofr. Non ti ho io risposto che tu lo getti via? Io ti concludo questo, Nicomaco, che tu hai speso in nutrire costei, ed io ho durato fatica in allevarla; e per questo, avendoci io parte, io voglio ancora io intendere come queste cose hanno andare; o io dirò tanto male, e commetterò tanti scandoli, che ti parrà essere in mal termine, che non so come tu ti alzi il viso. Va', ragiona di queste cose colla maschera.
Ni. Che mi di' tu? Se' tu impazzata? Or mi fai tu venire voglia di dargliene in ogni modo; e per cotesto amore voglio io che la meni stasera, e merralla, se ti schizzassi gli occhi.
Sofr. O la merrà, o e' non la merrà.
Ni. Tu mi minacci di chiacchiere; fa' che io non dica. Tu credi forse ch'io sia cieco, e che io non conosca i giuochi di queste tue bagattelle. Io sapevo bene che le madri volevano bene ai figliuoli; ma non credevo che le volessero tenere le mani alle loro disonestà.
Sofr. Che di' tu? Che cosa è disonestà?
Ni. Deh! non mi far dire. Tu intendi, ed io intendo. Ognuno di noi sa a quanti di è San Biagio. Facciamo per tua fé le cose d'accordo; che se noi entriamo in cetere, noi saremo la favola del popolo.
Sofr. Entra in che cetere tu vuoi. Questa fanciulla non si ha a gittar via; o io manderò sottosopra, non che la casa, Firenze.
Ni. Sofronia, Sofronia, chi ti pose questo nome, non sognava, se tu sei una soffiona, e se' piena di vento.
Sofr. Al nome di Dio. lo voglio ire alla messa; noi ci rivedremo;
Ni. Odi un poco. Sarebbeci modo a raccapezzar questa cosa, e che noi non ci facessimo tenere pazzi?
Sofr. Pazzi no, ma tristi si.
Ni. E' ci sono in questa terra tanti uomini da bene, noi abbiamo tanti parenti, e' ci sono tanti buoni religiosi: di quello che noi non siamo d'accordo, domandiamne loro, e per questa via o tu o io ci sganneremo.
Sofr. Che vogliamo noi cominciare a bandire queste nostre pazzie?
Ni. Se noi non vogliamo torre o amici, o parenti, togliamo un religioso, e non si bandiranno, e rimettiamo in lui questa cosa in confessione.
Sofr. A chi andremo?
Ni. E' non si può andare ad altri che a frate Timoteo, che è nostro confessore di casa, ed è un santarello, e ha già fatto qualche miracolo.
Sofr. Quale?
Ni. Come, quale? Non sai tu che per le sue orazioni monna Lucrezia di messer Nicia Calfucci che era sterile, ingravidò?
Sofr. Gran miracolo, uno frate far ingravidare una donna! Miracolo sarebbe, se una donna la facesse ingravidare ella.
Ni. È egli possibile che tu non mi attraversi sempre la via con queste novelle?
Sofr. Io voglio ire alla messa, e non voglio rimetter le cose mie in persona.
Ni. Orsù, va', io t'aspetterò in casa. Io credo che e' sia bene non si discostare molto, perché non trafugassero Clizia in qualche lato.
[II. 4]
SOFRONIA sola.
Chi conobbe Nicomaco uno anno fa, e lo pratica ora, ne debbe restare maravigliato, considerando la gran mutazione ch'egli ha fatta. Perché soleva essere un uomo grave, risoluto, rispettivo. Dispensava il tempo suo onorevolmente. E' si levava la mattina di buon'ora, udiva la sua messa, provvedeva al vitto del giorno. Dipoi s'egli aveva faccenda in piazza, in mercato, a' magistrati, e' la faceva; quando che no, o e' si riduceva con qualche cittadino tra ragionamenti onorevoli, o e' si ririrava in casa nello scrittoio, dove egli ragguagliava sue scritture, riordinava suoi conti. Dipoi piacevolmente con la sua brigata desinava, e desinato, ragionava con il figliuolo, ammonivalo, davagli a conoscere gli uomini, e con qualche esempio antico e moderno gl'insegnava vivere. Andava dipoi fuora, consumava tutto il giorno o in faccende, o in diporti gravi ed onesti. Venuta la sera, sempre l'Avemaria lo trovava in casa. Stavasi un poco con esso noi al fuoco, s'egli era di verno, dipoi se n'entrava nello scrittoio a rivedere le faccende sue; alle tre ore si cenava allegramente. Questo ordine della sua vita era uno esempio a tutti gli altri di casa, e ciascuno si vergognava non lo imitare; e cosi andavano le cose ordinate e liete. Ma da poi che gli entrò questa fantasia di costei, le faccende sue si stracurano, i poderi si guastano, i traffichi rovinano: grida sempre, e non sa di che; entra ed esce di casa ogni di mille volte, senza sapere quello si vada facendo; non torna mai a ora che si possa cenare o desinare a tempo; se tu gli parli, e' non ti risponde, o e' ti risponde non a proposito. I servi, vedendo questo, si fanno beffe di lui, e il figliuolo ha posto giù la riverenzia; ognuno fa a suo modo, e infine niuno dubita di fare quello che vede fare a lui. In modo che io dubito, se Iddio non ci rimedia, che questa povera casa non rovini. Io voglio pure andare alla messa, e raccomandarmi a Dio quanto io posso. Io veggo Eustachio e Pirro, che si bisticciano: be' mariti che si apparecchiano a Clizia!
[II. 5]
PIRRO, EUSTACHIO.
Pir. Che fa' tu in Firenze, trista cosa?
Eust. Io non l'ho a dire a te.
Pir. Tu se' così razzimato; tu mi pari un cesso ripulito.
Elist. Tu hai si poco cervello che io mi maraviglio che i fanciulli non ti gettino drieto i sassi.
Pir. Presto ci avvedremo chi avrà più cervello, o tu, o io.
Eust. Prega Iddio che il padrone viva, che tu andrai un di accattando.
Pir. Hai tu veduto Nicomaco?
Eust. Che ne vuoi tu sapere, se io l'ho veduto o no?
Pir. E' toccherà bene a te a saperlo, che se e' non si rimuta, se tu non torni in villa da te, e' vi ti farà portare a' birri.
Eust. E' ti dà una gran briga questo mio essere in Firenze.
Pir. E' darà più briga ad altri che a me.
Eust. E però ne lascia il pensiero ed altri.
Pir. Pure le carni tirano.
Eust. Tu guardi e ghigni.
Pir. Guardo che tu saresti il bel marito.
Eust. Orbè, sai quello ch'io ti voglio dire? Ed anche il Duca murava; ma se la prende te, la sarà salita su muricciuoli. Quanto sarebbe meglio che Nicomaco l'affogasse in quel suo pozzo! Almeno la poverina morrebbe a un tratto.
Pir. Doh, villan poltrone, profumato nel litame! Part'egli aver carni da dormire a lato a sí delicata figlia?
Eust. Ella arà ben carni teco, che se la sua trista sorte te la dà, o ella in un anno diventerà puttana, o ella si morrà di dolore. Ma del primo ne sarai tu d'accordo seco, che per uno becco pappataci, tu sarai desso.
Pir. Lasciamo andare, ognuno aguzzi i suoi ferruzzi, vedremo a chi e' dirà meglio. Io me ne voglio ire in casa, che io t'arei a rompere la testa.
Eust. Ed io me ne tornerò in chiesa.
Pir. Tu fai bene a non uscir di franchigia.
Canzone. Quanto in cor giovanile è bello amore Tanto si disconviene In chi demi anni suoi cassato ha 'l fiore. Amor ha sua virtute agli anni uguale, E nelle fresche etati assai s'onora, E nelle antiche poco o nulla vale. Sì che, o vecchi amorosi, il meglio fora Lasciar l'impresa a' giovinetti ardenti, Ch'a più forte opra intenti, Far ponno al suo signor più largo onore.
[III. 1]
NICOMACO, OLEANDRO.
Ai. Oleandro, o Oleandro?
Cle. Messere.
Ni. Esci giù, esci giù, dich'io. Che fai tu in tutto il di in casa? Non te ne vergogni tu, che tu dai carico a cotesta fanciulla? Sogliono in simili di di carnasciale i giovani tuoi pari andarsi a spasso veggendo le maschere, o ire a fare al calcio. Tu sei uno di quelli uomini, che non sai far nulla, e non mi pari né morto né vivo.
Cle. Io non mi diletto di coteste cose, e non me ne dilettai mai, e piacemi più lo stare solo che con coteste compagnie; e tanto più stavo ora volentieri in casa veggendovi stare voi, per potere, se voi volevi cosa alcuna, farla.
Ni. Deh, guarda dove e' l'aveva? Tu se' il buon figliuolo! Io non ho bisogno d'averti tutti i di dietro. Io tengo duoi famigli ed uno fattore, per non aver a comandar te.
Cle. Al nome di Dio. E' non è però che quello che io fo, non lo faccia per bene.
Ni. Io non so per quello che tu te 'l fai. Ma io so bene che tua madre è una pazza, e rovinerà questa casa: tu faresti il meglio a ripararci.
Cle. O ella, o altri.
Ni. Chi altri?
Cle. Io non so.
Ni. E' mi par bene che tu non lo sappia. Ma che di' tu di questi casi di Clizia?
Cle. Vedi che vi capitamo.
Ni. Che di' tu? Di' forte ch'io t'intenda.
Cle. Dico che io non so che me ne dire.
Ni. Non ti pare egli che questa tua madre pigli un granchio a non volere che Clizia sia moglie di Pirro?
Cle. Io non me ne intendo.
Ni. Io son chiaro. Tu hai presa la parte sua; e' ci cova sotto altro che favole. Parrebbet'egli però, che la stesse bene con Eustachio?
Cle. Io non lo so, e non me ne intendo.
Ni. Di che diavol t'intendi tu?
Cle, Non di cotesto.
Ni. Tu ti sei pure inteso di far venire in Firenze Eustachio e trafugarlo, perché io non lo vegga, e tendermi lacciuoli per guastare queste nozze. Ma te e lui caccerò io nelle Stinche; a Sofronia renderò io la sua dota, e manderolla via; perché io voglio esser io signore di casa mia, ed ognuno se ne sturi gli orecchi, e voglio che questa sera queste nozze si facciano; o io, quando non avrò altro rimedio, caccerò fuoco in questa casa. Io aspetterò qui tua madre, per veder s'io posso esser d'accordo con lei; ma quando io non possa, ad ogni modo ci voglio l'onor mio, ch'io non intendo che i paperi menino a bere l'oche. Va' pertanto, se tu desideri il ben tuo e la pace di casa, a pregarla che faccia a mio modo. Tu la troverai in chiesa, ed io aspetterò te e lei qui in casa; e se tu vedi quel ribaldo d'Eustachio, digli che venga a me; altrimenti non farà bene i casi suoi.
Cle. Io vo.
[III. 2]
CLEANDRO solo.
Oh miseria di chi ama! Con quanti affanni passo io il mio tempo! Io so bene che qualunque ama una cosa bella come Clizia, ha di molti rivali che gli danno infiniti dolori; ma io non intesi mai che ad alcuno avvenisse di avere per rivale il padre; e dove molti giovani hanno trovato appresso al padre qualche rimedio, io vi trovo il fondamento e la cagione del mal mio; e se mia madre mi favorisce, la non fa per favorire me, ma per disfavorire l'impresa del marito. E perciò io non posso scuoprirmi in questa cosa gagliardamente, perché subito la crederebbe che io avessi fatti quelli patti con Eustachio, che mio padre con Pirro; e come la credesse questo, mossa dalla coscienza, lascierebbe ire l'acqua alla china, e non se ne travaglierebbe più, ed io al tutto sarei spacciato, e ne piglierei tanto dispiacere che io non crederei più vivere. Io veggo mia madre ch'esce di chiesa; io voglio ire a parlar seco, ed intendere la fantasia sua, e vedere quali rimedi ella apparecchi contro ai disegni del vecchio.
[III. 3]
OLEANDRO, SOFRONIA.
Cle. Dio vi salvi, madre mia.
Sofr. O Cleandro, vieni tu di casa?
Cle. Madonna si.
Sofr. Se' vi tu stato tuttavia, poi che io vi ti lasciai?
Cle. Sono.
Sofr. Nicomaco dov'è?
Cle. È in casa, e per cosa che sia accaduta, non è uscito.
Sofr. Lascialo fare al nome di Dio. Una ne pensa il ghiotto, e l'altra il tavernaio. Hattegli detto cosa alcuna?
Cle. Un monte di villanie; e parmi che gli sia entrato il diavolo addosso. E' vuole mettere nelle Stinche Eustachio e me; a voi vuole rendere la dota e cacciarvi via; e minaccia, non che altro, di cacciare fuoco in casa; e' mi ha imposto che io vi trovi, e vi persuada a consentire a queste nozze; altrimenti non si farà per voi.
Sofr. Tu che ne di'?
Cle. Dicone quello che voi; perché io amo Clizia come sorella, e dorrebbemi infino all'anima che la capitasse in mano di Pirro.
Sofr. Io non so come tu te l'ami; ma io ti dico bene questo, che se io credessi trarla dalle mani di Nicomaco e metterla nelle mani tua, che io non me ne impaccerei. Ma io penso che Eustachio la vorrebbe per sé, e che il tuo amore per la sposa tua (che siamo per dartela presto) si potesse cancellare.
Cle. Voi pensate bene; e però io vi priego che voi facciate ogni cosa perché queste nozze non si facciano. E quando non si possa fare altrimenti che darla ad Eustachio, diasele; ma quando si possa, sarebbe meglio (secondo me) lasciarla stare cosi: perché l'è ancora giovanetta, e non le fugge il tempo. Potrebbero i cieli farle trovare i suoi parenti; e quando e' fussero nobili, avrebbero un poco obbligo con voi, trovando che voi l'avreste maritata ad un famiglio o ad un contadino.
Sofr. Tu di' bene. Io ancora ci avevo pensato; ma la rabbia di questo vecchio mi sbigottisce. Nondimeno e' mi s'aggirano tante cose per il capo che io credo che qualcuna gli gua. sterà ogni suo disegno. Io me ne voglio ire in casa, perch'io veggo Nicomaco aliare intorno all'uscio. Tu va'in chiesa, e di' ad Eustachio che venga a casa e non abbia paura di cosa alcuna.
Cle. Cosi farò.
[III. 4]
NICOMACO, SOFRONIA.
Ni. Io veggo mogliema che torna; io la voglio un poco berteggiare, per vedere se le buone parole mi giovano. O fanciulla mia, hai tu però a stare si malinconosa, quando tu vedi la tua speranza? Sta' un poco meco.
Sofr. Lasciami ire.
Ni. Fermati, dico.
Sofr. Io non voglio; tu mi pari cotto.
Ni. Io ti verrò dietro.
Sofr. Se' tu impazzato?
Ni. Pazzo, perché io ti voglio troppo bene.
Sofr. Io non voglio che tu me ne voglia.
Ni. Questo non può essere.
Sofr. Tu m'uccidi; uh, fastidioso!
Ni. Io vorrei che tu dicessi il vero.
Sofr. Credotelo.
Ni. Eh! guatami un poco, amore mio.
Sofr. Io ti guato, e odoroti anche. Tu sai di buono; bembé tu mi riesci?
Ni. Ohimè! che la se n'è avveduta. Che maladetto sia quel poltrone, che me l'arrecò dinanzi!
Sofr. Onde sono venuti questi odori di che tu sai, vecchio impazzato?
Ni. E' passò dianzi di qui uno che ne vendeva; io li trassinai, e mi rimase di quello odore addosso.
Sofr. Egli ha già trovata la bugia. Non ti vergogni tu di quello che tu fai da uno anno in qua? Usi sempre con 'sti giovanetti, vai alla taverna, ripariti in casa femmine; e dove si giuoca, spendi senza modo. Belli esempli che tu dai al tuo figliuolo!
Ni. Ah, moglie mia, non mi dire tanti mali a un tratto! Serba qualche cosa a domane. Ma non è egli ragionevole che tu faccia piuttosto a mio modo, che io a tuo?
Sofr. Si, delle cose oneste.
N\. Non è egli onesto maritare una fanciulla?
Sofr. Si, quando ella si marita bene.
Ni. Non starà ella bene con Pirro?
Sofr. No.
Ni. Perché?
Sofr. Per quelle ragioni che io t'ho detto altre volte.
Ni. Io m'intendo di queste cose più di te. Ma se io facessi tanto con Eustachio che non la volesse?
Sofr. E s'io facessi tanto con Pirro che non la volesse anch'egli?
Ni. Da ora innanzi ciascuno di noi si pruovi; e chi di noi dispone il suo, abbia vinto.
Sofr. Io sono contenta. Io vo in casa a parlare a Pirro, e tu parlerai con Eustachio, che io lo veggo uscire di chiesa.
Ni. Sia fatta.
[III. 5]
EUSTACHIO, NICOMACO.
Eust. Poiché Cleandro mi ha detto ch'io vada a casa e non dubiti, io voglio fare buon cuore, e andarvi.
Ni. Io volevo a questo ribaldo una carta di villanie e non potrò, poiché io l'ho a pregare. Eustachio?
Eust. O padrone.
Ni. Quando fusti tu in Firenze?
Eust. Iersera.
Ni. Tu hai penato tanto a lasciarti rivedere; dove se' tu stato tanto?
Eust. Io vi dirò. Io mi cominciai iermattina a sentir male, e mi doleva il capo. Avevo una anguinaia, e parevami aver la febbre; ed essendo questi tempi sospetti di peste, io ne dubitai forte. Iersera venni a Firenze, e mi stetti all'osteria, né mi volli rappresentare per non fare male a voi o alla famiglia vostra, se pure e' fusse stato dessa; ma grazia di Dio, ogni cosa è passata via, e sentomi bene,
Ni. E' mi bisogna far vista di credere. Ben facesti. Tu se' or bene guarito?
Eust. Messer si.
Ni. Non del tristo. Io ho caro che tu ci sia. Tu sai la contenzione che è tra me e mogliema circa al dare marito a Clizia. Ella la vuole dare a te, ed io la vorrei dare a Pirro.
Eust. Dunque volete voi meglio a Pirro che a me?
Ni. Anzi voglio meglio a te che a lui. Ascolta un poco: che vuoi tu fardi moglie? Tu hai oggimai trentotto anni, e una fanciulla non ti sta bene, ed è ragionevole che come la fosse stata teco qualche mese, che la si cercasse uno più giovane di te, e viveresti disperato. Dipoi io non mi potrei più fidare di te; perderesti lo avviamento, diventeresti povero, e anderesti tu ed ella accattando.
Eust. In questa terra chi ha bella moglie non può essere povero, e del fuoco e della moglie si può essere liberale con ognuno, perché quanto più ne dai, più te ne rimane.
Ni. Dunque vuoi tu fare questo parentado per farmi dispiacere?
Eust. Anzi lo vo' fare per far piacere a me.
Ni. Or tira, vanne in casa. Io ero pazzo, se io credevo avere da questo villano una risposta piacevole. Io muterò teco verso. Ordina di rimettermi i conti e d'andarti con Dio, e fa' stima essere il maggior nemico ch'io abbia, e ch'io ti abbia a fare il peggio ch'io possa.
Eust. A me non dà briga nulla, purché io abbia Clizia.
Ni. Tu arai le forche.
[III. 6]
PIRRO, NICOMACO.
Pir. Prima che io facessi ciò che voi volete, io mi lascerei scorticare.
Ni. La cosa va bene, Pirro sta nella fede. Che hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?
Pir. Combatto ora con chi voi combattete, sempre.
Ni. Che dice ella? Che vuole ella?
Pir. Pregami che io non tolga Clizia per donna.
Ni. Che le hai tu detto?
Pir. Ch'io mi lascerei prima ammazzare ch'io la rifiutassi.
Ni. Ben dicesti.
Pir. Se io ho ben detto, io dubito non avere mal fatto; perché io mi sono fatto nimico la vostra donna, il vostro figliuolo e tutti gli altri di casa.
Ni. Che importa a te? Sta' ben con Cristo, e fatti beffe de' santi.
Pir. Si, ma se voi morissi, i santi mi tratterebbero assai male.
Ni. Non dubitare, io ti farò tal parte che i santi ti potranno dar poca briga; e se pur ei volessero, i magistrati e le leggi ti difenderanno, purché io abbia facoltà per tuo mezzo di dormire con Clizia.
Pir. Io dubito che voi non possiate; tanta infiammata vi veggio contro la donna.
Ni. Io ho pensato che sarà bene per uscire una volta di questo farnetico, che si getti per sorte di chi sia Clizia, da che la donna non si potrà discostare.
Pir. Se la sorte mi venisse contro?
Ni. Io ho speranza in Dio che la non verrà.
Pir. Oh, vecchio impazzato! Vuole che Dio tenga le mani a queste sue disonestà. Io credo che se Iddio s'impaccia di simili cose, che Sofronia ancora speri in Dio.
Ni. Ella si speri, e se pure la sorte mi venisse contro, io ho pensato al rimedio. Va', chiamala, e digli che venga fuori con Eustachio.
Pir. Sofronia, venite voi ed Eustachio al padrone.
[III. 7]
SOFRONIA, EUSTACHIO, NICOMACO, PIRRO.
Sofr. Eccomi, che sarà di nuovo?
Ni. E' bisogna pur pigliar verso a questa cosa. Tu vedi, poi che costoro non si accordano, e' conviene che noi ci accordiamo,
Sofr. Questa tua furia è straordinaria. Quello che non si farà oggi, si farà domani.
Ni. Io voglio farlo oggi.
Sofr. Facciasi in buon'ora. Ecco qui tutti a duoi i competitori. Ma come vuoi tu fare?
Ni. Io ho pensato, poi che noi non consentiamo l'uno all'altro, che la si rimetta nella fortuna.
Sofr. Come nella fortuna?
Ni. Che si ponga in una borsa i nomi loro, ed in un'altra il nome di Clizia, e una polizza bianca; e che si tragga prima il nome di uno di loro, e che a chi tocca Clizia, se l'abbia, e l'altro abbia pazienza. Che pensi? Tu non rispondi?
Sofr. Orsù, io sono contenta.
Eust. Guardate quello che voi fate.
Sofr. Io guardo, e so quello che io fo. Va' in casa, scrivi le polizze, e reca due borse, che io voglio uscire di questo travaglio, o io entrerò in uno maggiore.
Eust. Io vo.
Ni. A questo modo ci accorderemo noi. Prega Iddio, Pirro, per te.
Pirro. Per voi.
Ni. Tu di' ben a dire per me. Io arò una gran consolazione che tu l'abbia.
Eust. Ecco le borse e la sorte.
Ni. Da' qua. Questa che dice? Clizia. E quest'altra? È bianca. Sta bene. Mettile in questa borsa di qua. Questa che dice? Eustachio. E quest'altra? Pirro. Ripiegale, e mettile in quest'altra. Serrale, tienvi su gli occhi, Pirro, che non ci andasse nulla in capperuccia; e'ci è chi sa giocar di bagatelle.
Sofr. Gli uomini sfiduciati non sono buoni.
Ni. Son parole coteste: tu sai che non è ingannato se non chi si fida. Chi vogliamo noi che tragga?
Sofr. Tragga chi ti pare.
Ni. Vien qua, fanciullo.
Sofr. E' bisognerebbe che fusse vergine.
Ni. O vergine, o no, io non vi ho tenute le mani. Trai di questa borsa una polizza, dette che io arò certe orazioni: O Santa Apollonia, io prego te e tutti i santi e le sante avvocate de' matrimoni, che concediate a Clizia tanta grazia che di questa borsa esca la polizza di colui che sia per essere più a piacere nostro. Trai col nome di Dio. Dalla qua. Ohimè, io sono morto! Eustachio.
Sofr. Che avesti? O Dio, fa' questo miracolo, acciocché costui si disperi.
Ni. Trai di quell'altra. Dalla qua. Bianca. Oh! io sono risuscitato, noi abbiam vinto. Pirro, buon prò ti faccia; Eustachio è caduto morto. Sofronia, poi che Iddio ha voluto che Clizia sia di Pirro, vogli anche tu.
Sofr. Io voglio.
Ni. Ordina le nozze.
Sofr. Tu hai si gran fretta; non si potrebbe indugiare a domane?
Ni. No, no, no; non odi tu che no? Che? Vuoi tu pensare a qualche trappola?
Sofr. Vogliamo noi fare le cose da bestie? Non ha ella a udir la Messa del congiunto?
Ni. La Messa della fava, la può udire un altro di. Non sai tu che si dà le perdonanze a chi si confessa poi, come a chi si è confessato prima.
Sofr. Io dubito ch'ella abbia l'ordinario delle donne.
Ni. Adoperi lo straordinario degli uomini. Io voglio che la meni stasera. E' par che tu non m'intenda.
Sofr. Menila in malora. Andiamne in casa, e fa' questa ambasciata tu a questa povera fanciulla, che non fia da calze.
Ni. La fia da calzoni. Andiam dentro.
Eust. Io non vo' già venire, perché io voglio trovare Cleandro, perch'ei pensi se a questo male è rimedio alcuno.
Canzone. Chi giammai donna offende A torto o a ragion, folle è se crede Trovar per prieghi o pianti in lei mercede; Come la scende in questa mortal vita Con l'alma insieme morta, Superbia, ingegno, e di perdono oblio, Inganno, e crudeltà le sono scorta, E tal le danno aita, Che d'ogni impresa appaga il suo disio, E se sdegno aspro e rio La muove, o gelosia adopra, e vede; E la sua forza mortai forza eccede.
[IV. 1]
CLEANDRO, EUSTACHIO.
Cle. Come è egli possibile che mia madre sia stata si poco avveduta, che la si sia rimessa a questo modo alla sorte d'una cosa, che ne vadia in tutto l'onor di casa nostra?
Eust. E egli è come io t'ho detto.
Cle. Ben sono sventurato; ben sono infelice. Vedi s'io trovai appunto uno che mi tenne tanto a bada che si è senza mia saputa concluso il parentado, e deliberate le nozze, ed ogni cosa è seguita secondo il desiderio del vecchio! O fortuna, tu suoi pure, sendo donna, essere amica de' giovani; a questa volta tu se' stata amica dei vecchi! Come non ti vergogni tu ad avere ordinato che si delicato viso sia da si fetida bocca scombavato, si delicate carni da si tremanti mani, da si grinze e puzzolenti membra tocche? Perché non Pirro, ma Nicomaco (come io mi stimo) la possederà. Tu non mi potevi far la maggiore ingiuria, avendomi con questo colpo tolto ad un tratto e l'amata e la roba; perché Nicomaco, se questo amor dura, è per lasciare delle sue sustanze più a Pirro che a me. E' mi pare mille anni di vedere mia madre per dolermi e sfogarmi con lei di questo partito.
Eust. Confortati, Cleandro, che mi pare che la n'andasse in casa ghignando, in modo che mi pare essere certo che il vecchio non abbia aver questa pera monda, come e' crede. Ma ecco che viene fuora egli e Pirro, e sono tutti allegri.
Cle. Vanne, Eustachio, in casa; io voglio stare da parte per intendere se qualche loro consiglio facesse per me.
Eust. Io vo.
[IV. 2]
NICOMACO, PIRRO, CLEANDRO.
Ni. Oh, come è ella ita bene! Hai tu veduto come la brigata sta malinconosa; come mogliema sta disperata? Tutte queste cose accrescono la mia allegrezza; ma molto più sarò allegro, quando io terrò in braccio Clizia; quando io la toccherò, bacerò e stringerò. Oh, dolce notte, giugnerovvi io mai? E questo obbligo che io ho teco, io sono per pagarlo a doppio.
Cle. O vecchio impazzato!
Pir. Io lo credo; ma io non credo già che voi possiate far cosa alcuna questa sera, né ci veggo comodità alcuna.
Ni. Come no? Io ti vo' dire come io ho pensato di governare la cosa.
Pir. Io l'arò caro.
Clc. E io molto più, che potrei udire cosa, che guasterebbe i fatti d'altri e racconcerebbe i miei.
Ni. Tu conosci Damone nostro vicino, da chi io ho tolto la casa a pigione per tuo conto?
Pir. Si, conosco.
Ni. Io fo pensiero che tu la meni stasera in quella casa, ancora che egli vi abiti e che non l'abbia sgombera; perché io dirò che io voglio che tu la meni in casa, dove ella ha a stare.
Pir. Che sarà poi?
Cle. Rizza gli orecchi, Oleandro.
Ni. Io ho imposto a mogliema che chiami Sostrate moglie di Damone, perché gli aiuti ordinare queste nozze ed acconciare la nuova sposa; e a Damone dirò che solleciti che la donna vi vadia. Fatto questo, e cenato che si sarà, la sposa da questa donna sarà menata in casa di Damone, e messa teco in camera e nel letto. E io dirò di voler restare con Damone albergo, e Sostrata ne verrà con Sofronia qui in casa. Tu, rimaso solo in camera, spegnerai il lume, e ti baloccherai per camera, facendo vista di spogliarti; intanto io pian piano me ne verrò in camera, mi spoglierò, ed entrerò a lato a Clizia. Tu ti potrai stare pianamente sul lettuccio. La mattina avanti giorno io mi uscirò dal letto, mostrando di voler ire ad orinare, rivestirommi, e tu entrerai nel letto.
Cle. Oh, vecchio poltrone! Quanta è stata la mia felicità intendere questo tuo disegno! Quanta la tua disgrazia, che io l'intenda!
Pir. E' mi pare che voi abbiate divisata bene questa faccenda. Ma e' conviene che voi vi armiate in modo che voi paiate giovane, perch'io dubito che la vecchiaia non si riconosca al buio.
Cle. E' mi basta quel ch'io ho inteso; io voglio ire a ragguagliare mia madre.
Ni. Io ho pensato a tutto, e fo conto, a dirti il vero, di cenare con Damone, e ho ordinato una cena a mio modo. Io piglierò prima una presa di un lattovaro, che si chiama satirione.
Pir. Che nome bizzarro è cotesto?
Ni. Egli ha più bizzarri i fatti; perché gli è uno lattovaro che farebbe, quanto a quella faccenda, ringiovenire un uomo di novanta anni, non che di settanta, come ho io. Preso questo lattovaro, io cenerò poche cose, ma tutte sustanzievoli. In prima una insalata di cipolle cotte; dipoi una mistura di fave e spezierie.
Pir. Che fa cotesto?
Ni. Che fa? Queste cipolle, fave e spezierie, perché sono cose calde e ventose, farebbero far vela a una caracca genovese. Sopra queste cose si vuole uno pippione grosso, arrosto cosi verdemezzo, che sanguigni un poco.
Pir. Guardate che non vi guasti lo stomaco, perché bisognerà che vi sia masticato, o che voi lo ingoiate intero; non vi veggo io tanti o si gagliardi denti in bocca.
Ni. Io non dubito di cotesto, che, bench'io non abbia molti denti, io ho le mascelle che paiono d'acciaio.
Pir. Io penso che, poi che voi ne sarete ito, e io entrato nel letto, ch'io potrò fare senza toccarla, perch'io ho viso di trovare quella povera fanciulla fracassata.
Ni. Bastiti ch'io arò fatto l'uffizio tuo e quel d'uno compagno.
Pir. Io ringrazio Iddio, poiché mi ha data una moglie in modo fatta ch'io non arò a durare fatica né a impregnarla né a darle le spese.
Ni. Vanne in casa, sollecita le nozze, e io parlerò un poco con Damone, che io veggo uscir di casa sua.
Pir. Cosi farò.
[IV. 3]
NICOMACO, DAMONE.
Ni. Egli è venuto quel tempo, o Damone, che mi hai a mostrare se tu mi ami. E' bisogna che tu sgomberi la casa, e non vi rimanga né la tua donna né altra persona, perché io vo' governare questa cosa come io t'ho già detto.
Da. Io sono parato a far ogni cosa, pur ch'io ti contenti.
Ni. Io ho detto a mogliema che chiami Sostrata tua che vadia ad aiutarla ordinare le nozze. Fa' che la vadia subito come la la chiama, e che vadia con lei la serva sopra tutto.
Da. Ogni cosa è ordinata, chiamala a tua posta.
Ni. Io voglio ire insino allo speziale a far una faccenda, e tornerò ora; tu aspetta qui che mogliema eschi fuora e chami la tua. Ecco che la viene; sta parato. Addio.
[IV. 4]
SOFRONIA, DAMONE.
Sofr. Non maraviglia che il mio marito mi sollecitava che io chiamassi Sostrata di Damone! Ei voleva la casa libera per poter giostrare a suo modo. Ecco Damone di qua (oh, specchio di questa città e colonna del suo quartiere!) che accomoda la casa sua a si disonesta e vituperosa impresa. Ma io li tratterò in modo che si vergogneranno sempre di loro medesimi; e voglio ora cominciare ad uccellare costui.
Da. Io mi maraviglio che Sofronia si sia ferma e non venga avanti a chiamar la mia donna. Ma ecco che la viene. Dio ti salvi, Sofronia.
Sofr. E te, Damone; dov'è la tua donna?
Da. Ella è in casa, ed è parata a venire se tu la chiami; perché il tuo marito me n'ha pregato. Vo io a chiamarla?
Sofr. No, no, la debbe aver faccenda.
Da. Non ha faccenda alcuna.
Sofr. Lasciala stare, io non le vo' dar briga; io la chiamerò quando fia tempo.
Da. Non ordinate voi le nozze?
Sofr. Si, ordiniamo.
Da. Non hai tu necessità di chi ti aiuti?
Sofr. E' vi è brigata un mondo per ora.
Da. Che farò ora? Io ho fatto un errore grandissimo a cagione di questo vecchio impazzato, bavoso, cisposo e senza denti. E' mi ha fatto offerire la donna per aiuto a costei, che non la vuole, in modo che la crederà cir io vadia mendicando un pasto, e terrammi uno sciagurato.
Sofr. Io ne rimando costui tutto inviluppato. Guarda come ne va ristretto nel mantello! E' mi resta ora a uccellare un poco il mio vecchio. Eccolo, che viene dal mercato. Io voglio morire, se non ha comperato qualche cosa per parer gagliardo e odorifero.
[IV. 5]
NICOMACO, SOFRONIA.
Ni. Io ho comperato il lattovaro e certa unzione appropriata a far risentire le brigate. Quando si va armato alla guerra, si va con più animo la metà. Io ho veduto mogliema; ohimè, ch'ella mi avrà sentito.
Sofr. Si, ch'io t'ho sentito, e con tuo danno e vergogna, s'io vivo insino a domattina.
Ni. Sono a ordine le cose? Hai tu chiamato questa tua vicina, che ti aiuti?
Sofr. Io la chiamai come tu dicesti; ma questo tuo caro amico le favellò non so che nell'orecchio, in modo che la mi rispose che la non poteva venire.
Ni. Io non me ne maraviglio; perché tu sei un poco rozza e non sai accomodarti colle persone, quando tu vuoi alcuna cosa da loro.
Sofr. Che volevi tu, ch'io lo toccassi sotto il mento? Io non sono usa a far carezza a' mariti d'altri. Va', chiamala tu, poiché ti giova andare dietro alle mogli d'altri, ed io andrò in casa a ordinare il resto.
[IV. 6]
DAMONE, NICOMACO.
Da. Io vengo a vedere se questo amante è tornato dal mercato. Ma eccolo davanti all'uscio. Io venivo appunto a te.
Ni. Ed io a te, uomo da farne poco conto. Di che t'ho io pregato? Di che t'ho io richiesto? Tu m'hai servito cosi bene!
Da. Che cosa è?
Ni. Tu mandasti moglieta! Tu hai vuota la casa di brigata, che fu un sollazzo! In modo che alle tue cagioni io sono morto e disfatto.
Da. Va', t'impicca, non mi dicesti che moglieta chiamerebbe la mia?
Ni. La l'ha chiamata, e non è voluta venire.
Da. Anziché gliene offersi; ella non volle che la venisse, e cosi mi fai uccellare, e poi ti duoli di me. Che 'l diavolo ne porti te, e le nozze, e ognuno!
Ni. Infine, vuoi tu che la venga?
Da. Si, voglio in malora, ed ella, e la fante, e la gatta, e chiunque vi è. Va', se tu hai a far altro; io andrò in casa, e per l'orto la farò venire or ora.
Ni. Ora m'è costui amico; ora andranno le cose bene. Ohimè, ohimè! che romore è quel ch'io sento in casa?
[IV. 7]
DORIA, NICOMACO.
Do. Io son morta, io son morta. Fuggite, fuggite. Toglietele quel coltello di mano; fuggitevi, Sofronia.
Ni. Che hai tu, Doria? Che ci è?
Do. Io son morta.
Ni. Perché sei tu morta?
Do. Io sono morta, e voi spacciato.
Ni. Dimmi quel che tu hai.
Do. Io non posso per l'affanno. Io sudo, fatemi un poco di vento col mantello.
Ni. Deh! dimmi quel che tu hai; ch'io ti romperò la testa.
Do. O padrone mio, voi siete troppo crudele!
Ni. Dimmi quel che tu hai, e qual romore è in casa.
Do. Pirro aveva dato l'anello a Clizia, ed era ito ad accompagnare il notaio infino all'uscio di dietro: ben sai che Clizia, da non so che furore mossa, prese un pugnale, e tutta scapigliata, tutta furiosa, grida: Ov'è Nicomaco? Ove Pirro? Io li voglio ammazzare. Cleandro, Sofronia, tutti noi la volemmo pigliare e non potemmo. La s'è arrecata in un canto di camera, e grida che vi vuole ammazzare in ogni modo; e per paura chi fugge là e chi qua. Pirro s'è fuggito in cucina, e si è nascosto dietro alla cesta de' capponi: io sono mandata qui per avvertirvi che voi non entriate in casa.
Ni. Io sono misero di tutti gli uomini. Non si può egli trarle di mano il pugnale?
Do. No per ancora.
Ni. Chi minaccia ella?
Do. Voi e Pirro.
Ni. Oh, che disgrazia è questa! Deh! figliuola mia, io ti prego che tu torni in casa, e con buone parole vegga che se le cavi questa pazzia del capo e che la ponga giù il pugnale; ed io ti prometto ch'io ti compererò un paio di pianelle e un fazzoletto. Deh! va', amor mio.
Do. Io vo; ma non venite in casa, se io non vi chiamo.
Ni. Oh miseria, oh infelicità mia! Quante cose mi s'intraversano per far infelice questa notte che io aspettavo felicissima! Ha ella posto giù il coltello? Vengo io?
Do. Non ancora, non venite.
Ni. O Dio, che sarà poi? Posso io venire?
Do. Venite, ma non entrate in camera, dove ella è; fate che la non vi vegga; andatevene in cucina da Pirro.
Ni. Io vo.
[IV. 8]
DORIA sola.
In quanti modi uccelliamo noi questo vecchio! Che festa è egli vedeie i travagli di questa casa? Il vecchio e Pirro son paurosi in cucina; in sala sono quelli che apparecchiano la cena; e in camera sono le donne, Oleandro ed il resto della famiglia; e hanno spogliato Siro nostro servo, e de' suoi panni vestito Clizia e de' panni di Clizia vestito Siro, e vogliono che Siro ne vadia a marito in scambio di Clizia; e perché il vecchio e Pirro non scuoprano questa fraude, gli hanno, sott'ombra che Clizia sia crucciata, confinati in cucina. Che belle risa! Che bello inganno! Ma ecco fuori Nicomaco e Pirro.
[IV. 9]
NICOMACO, DORIA, PIRRO.
Ni. Che fai tu costì, Doria? Clizia è quietata?
Do. Messer si, e ha promesso a Sofronia di voler fare ciò che voi volete. Egli è ben vero che Sofronia giudica sia bene che voi e Pirro non gli capitiate innanzi, acciocché non se le riaccendesse la collera; poi, messa che la fia a letto, se Pirro non la saprà dimesticare, suo danno.
Ni. Sofronia ci consiglia bene, e così faremo. Ora vattene in casa; e perché gli è cotto ogni cosa, sollecita che si ceni. Pirro ed io ceneremo a casa Damone; e come egli hanno cenato, fai che la menino fuora. Sollecita, Doria, per l'amor di Dio, che son già sonate le tre ore, e non è ben star tutta notte in queste pratiche.
Do. Voi dite il vero; io vo.
Ni. Tu, Pirro, rimani qui; io andrò a bere un tratto con Damone. Non andar in casa, acciocché Clizia non s'infuriasse di nuovo: e se cosa alcuna accade, corri a dirmelo.
Pir. Andate, io farò quanto m'imponete. Poiché questo mio padrone vuole ch'io stia senza moglie e senza cena, io son contento, né credo che in un anno intervengano tante cose quante sono intervenute oggi; e dubito non me ne intervengano delle altre, poiché io ho sentito per casa certi sghignazzamenti che non mi piacciono. Ma ecco io veggo apparir un torchio: e' debbe uscir fuora la pompa; la sposa ne debbe venire. Io voglio correre per il vecchio. Nicomaco, o Damone, vienne da basso, da basso; la sposa ne viene.
[IV. 10]
NICOMACO, DAMONE, SOFRONIA, SOSTRATA, SIRO vestito da donna, che piange.
Ni. Eccoci; vanne, Pirro, in casa, perché io credo che sia bene che la non ti vegga. Tu, Damone, paramiti innanzi, e parla tu con queste donne. Eccole tutte fuora.
Sofr. Oh, povera fanciulla, la ne va piangendo! Vedi che la non si lieva il fazzoletto dagli occhi.
Sostr. Ella riderà domattina; cosi usano di fare le fanciulle. Dio vi dia la buona sera, Nicomaco e Damone.
Da. Voi siate le benvenute. Andatevene su, voi donne, mettete a letto la fanciulla, e tornate giù; intanto Pirro sarà a ordine anch'egli.
Sostr. Andiamo col nome di Dio.
[IV. 11]
NICOMACO, DAMONE.
Ni. Ella ne va molto malinconosa. Ma hai tu veduto come ella è grande? La si debbe esser aiutata con le pianelle.
Da. La pare anche a me maggiore ch'ella non suole. O Nicomaco, tu sei pur felice! La cosa è condotta dove tu vuoi. Portati bene; altrimenti tu non vi potrai tornare più.
Ni. Non dubitare, io sono per fare il debito; che poi ch'io presi il cibo, io mi sento gagliardo come una spada. Ma ecco le donne che tornano.
[IV. 12]
NICOMACO, SOSTRATA, SOFRONIA, DAMONE.
Ni. Avetela voi messa a letto?
Sostr. Si, abbiamo.
Da. Sta bene; noi faremo questo resto. Tu, Sostrata, vanne con Sofronia a dormire, e Nicomaco rimarrà qui meco.
Sofr. Andiamne, che par lor mille anni di avercisi levate dinanzi.
Da. E a voi il simile. Guardate a non vi far male.
Sostr. Guardatevi pur voi, che avete l'arme; noi siamo disarmate.
Da. Andiamne in casa.
Sofr. E noi ancora. Va' pur là, Nicomaco, tu troverai riscontro; perché questa tua donna sarà come le mezzine da Santa Maria in Pruneta.
Canzone.
Si soave è lo inganno etc. (cfr. Mandr., III).
[V. 1]
DORIA sola.
Io non risi mai più tanto, né credo mai più ridere tanto, né in casa nostra questa notte si è fatto altro che ridere. Sofronia, Sostrata, Oleandro, Eustachio, ognuno ride. E' s'è consumata la notte in misurare il tempo, e dicevamo: ora entra in camera Nicomaco, ora si spoglia, ora si corica a lato alla sposa, ora le dà la battaglia, ora è combattuto gagliardamente. E mentre noi stavamo in su questi ragionamenti, giunsero in casa Siro e Pirro, e ci raddoppiarono le risa; e quel che era più bel vedere, era Pirro, che rideva più di Siro, tanto ch'io non credo che ad alcuno sia tocco questo anno ad avere il più bello né il maggior piacere. Quelle donne mi hanno mandata fuora, sendo già giorno, per vedere quello che fa il vecchio, e come egli comporta questa sciagura. Ma ecco fuora egli e Damone. Io mi voglio tirar da parte per vederli, e aver materia di ridere di nuovo.
[V. 2]
DAMONE, NICOMACO, DORIA.
Da. Che cosa è stata questa tutta notte? come è ella ita? Tu stai cheto. Che rovigliamenti di vestirsi, di aprire uscia, di scendere e salire in sul letto sono stati questi, che mai vi siate fermi? Ed io, che nella camera terrena vi dormiva sotto, non ho potuto mai dormire, tanto che per dispetto mi levai, e trovoti che tu esci fuora tutto turbato. Tu non parli, tu mi pari morto; che diavolo hai tu?
Ni. Fratel mio, io non so dove io mi fugga, dove io mi nasconda o dove io occulti la gran vergogna nella quale io sono incorso. Io son vituperato in eterno, non ho più rimedio, né potrò mai più innanzi a mogliema, a' figli, a' parenti, a' servi capitare, lo ho cerco il vituperio mio, e la mia donna me lo ha aiutato trovare, tanto ch'io sono spacciato. E tanto più mi duole quanto di questo mio carico tu anche ne partecipi, perché ciascuno saprà che tu ci tenevi le mani.
Da. Che cosa è stato? Hai tu rotto nulla?
Ni. Che vuoi tu che io abbia rotto? Che rotto avess'io il collo!
Da. Che è stato adunque? Perché non me lo di'?
Ni. Uh! uh! uh! Io ho tanto dolore ch'io non credo potertelo dire.
Da. Deh, tu mi pari un bambino! Che domine può egli essere?
Ni. Tu sai l'ordine dato, ed io secondo quell'ordine entrai in camera, e chetamente mi spogliai; ed in cambio di Pirro, che sopra il lettuccio si era posto a dormire, non vi essendo lume, a lato alla sposa mi coricai.
Da. Orbe, che fu poi?
Ni. Uh! uh! uh! Accostaimegli secondo l'usanza de' nuovi mariti, vollile porre le mani sopra il petto, ed ella con la sua mano me la prese, e non mi lasciò. Vollila baciare, ed ella con l'altra mano mi sospinse il viso indrieto. Io me le volli gittare tutto addosso: ella mi porse un ginocchio, di qualità che la m'ha infranta una costola. Quando io vidi che la forza non bastava, io mi vuoisi a' prieghi, e con dolci parole ed amorevoli (pure sotto voce, ch'ella non mi conoscesse) la pregavo fusse contenta fare i piaceri miei. Dicevole: deh! anima mia dolce, perché mi strazi tu? Deh! ben mio, perché non mi concedi tu volentieri quello che le altre donne a' loro mariti volentieri concedono? Uh! uh! uh!
Da. Rasciugati un poco gli occhi.
Ni. Io ho tanto dolore ch'io non trovo loco, né posso tenere le lacrime. Io potetti cicalare; mai fece segno di volermi, non che altro, parlare. Ora, veduto questo, io mi volsi alle minacce, e cominciai a dirgli villania, e che le farei, e che le direi. Ben sai che a un tratto ella raccolse le gambe, e tirommi una coppia di calci, che se la coperta del letto non mi teneva, io sbalzavo nel mezzo dello spazzo.
Da. Può egli essere?
Ni. E ben può essere. Fatto questo, ella si volse bocconi, e stiacciossi col petto sulla coltrice che tutte le manovelle dell'Opera non l'arebbero rivolta. Io, veduto che forza, prieghi e minacce non mi valevano, per disperato le volsi la schiena, e deliberai di lasciarla stare, pensando che verso il dí la fusse per mutare proposito.
Da. Oh, come facesti bene! Tu dovevi il primo tratto pigliar cotesto partito; e chi non voleva te, non voler lui.
Ni. Sta' saldo, la non è finita qui; or ne viene il bello. Stando cosi tutto smarrito, cominciai, fra per lo dolore e per lo affanno avuto, un poco a sonniferare. Ben sai che a un tratto io mi sento stoccheggiare un fianco, e darmi qua sotto 'l codrione cinque o sei colpi de' maledetti. Io cosi fra il sonno vi corsi subito colla mano, e trovai una cosa soda ed acuta, di modo che tutto spaventato mi gittai fuora del letto, ricordandomi di quel pugnale che Clizia aveva il di preso per darmi con esso. A questo romore Pirro, che dormiva, si risenti; al quale io dissi, cacciato più dalla paura che dalla ragione, che corresse per un lume, che costei era armata per ammazzare tutti a due. Pirro corse, e tornato col lume, in cambio di Clizia vedemmo Siro mio famiglio ritto sopra il letto tutto ignudo, che per dispregio (uh! uh! uh!) e' mi faceva bocchi (uh! uh! uh!) e manichetto drieto.
Da. Ah! ah! ah!
Ni. Ah! Damone, tu te ne ridi?
Da. Ei m'incresce assai di questo caso; nondimeno egli è impossibile non ridere.
Do. Io voglio andar a ragguagliar di quello che io ho udito la padrona, acciocché se le raddoppino le risa.
Ni. Questo è il mal mio, che toccherà a ridersene a ciascuno, ed a me a piangere; e Pirro e Siro alla mia presenza or si dicevano villania, ora ridevano; dipoi, cosi vestiti a bardosso se ne andarono, e credo che siano iti a trovare le donne, e tutti debbono ridere. E cosi ognuno rida, e Nicomaco pianga!
Da. Io credo che tu creda che m'incresca di te e di me, che sono per tuo amore entrato in questo lecceto.
Ni. Che mi consigli che io faccia? Non mi abbandonare, per l'amor di Dio.
Da. A me pare, se altro di meglio non nasce, che tu ti rimetta tutto nelle mani di Sofronia tua, e dicale che da ora innanzi e di Clizia e di te faccia ciò ch'ella vuole. La doverebbe anch'ella pensare allo onore tuo, perché, sendo suo marito, tu non puoi aver vergogna che quella non ne partecipi. Ecco che la viene fuora. Va', parlale, ed io ne andrò intanto in piazza ed in mercato ad ascoltare s'io sento cosa alcuna di questo caso, e ti verrò ricoprendo il più ch'io potrò.
Ni. Io te ne prego.
[V. 3]
SOFRONIA, NICOMACO.
Sofr. Doria mia serva mi ha detto che Nicomaco è fuora, e ch'egli è una compassione a vederlo. Io vorrei parlargli per veder quello ch'ei dice a me di questo nuovo caso. Eccolo di qua. O Nicomaco?
Ni. Che vuoi?
Sofr. Dove vai tu si a buon'ora? Esci tu di casa senza far motto alla sposa? Hai tu saputo come l'abbia fatto questa notte con Pirro?
Ni. Non so.
Sofr. Chi lo sa, se tu non lo sai, tu che hai messo sottosopra Firenze per far questo parentado? Ora ch'egli è fatto, tu te ne mostri nuovo e malcontento.
Ni. Deh! lasciami stare: non mi straziare.
Sofr. Tu sei quello che mi strazi, che dove tu doveresti racconsolarmi, ed io ho a racconsolare te; e quando tu gli avresti a provvedere, e' tocca a me, che vedi ch'io porto loro queste uova.
Ni. Io crederei che fusse bene che tu non volessi il giuoco di me affatto. Bastiti averlo avuto tutto questo anno, e ieri, e stanotte più che mai.
Sofr. io non lo volli mai il giuoco di te; ma tu sei quello che l'hai voluto di tutti noialtri, ed alla fine di te medesimo. Come non ti vergogni tu di avere allevata in casa tua una fanciulla con tanta onestà, ed in quel modo che s'allevano le fanciulle da bene, di volerla maritare poi a un famiglio cattivo e disutile, perchè fusse contento che tu ti giacessi con lei? Credevi tu però aver a fare con ciechi o con gente che non sapesse interrompere le disonestà di questi tuoi disegni? Io confesso aver condotti tutti quelli inganni che ti sono stati fatti, perché, a volerti far ravvedere, non ci era altro modo se non giugnerti in sul furto con tanti testimoni che tu te ne vergognassi, e dipoi la vergogna ti facesse fare quello che non ti avrebbe potuto fare far niuna altra cosa. Ora la cosa è qui. Se tu vorrai ritornar al segno, ed esser quello Nicomaco che tu eri da uno anno indietro, tutti noi vi torneremo, e la cosa non si risaprà; e quando ella si risapesse, egli è usanza errare ed emendarsi.
Ni. Sofronia mia, fa' ciò che tu vuoi; io sono parato a non uscire de' tuoi ordini, purché la cosa non si risappia.
Sofr. Se tu vuoi far cotesto, ogni cosa è acconcia.
Ni. Clizia dov'è?
Sofr. Mandaila, subito che si fu cenato iersera, vestita co' panni di Siro in un monasterio.
Ni. Oleandro che dice?
Sofr. È allegro che queste nozze siano guaste; ma egli è bene doloroso che non vede come e' si possa aver Clizia.
Ni. Io lascio aver ora a te il pensiero delle cose di Cleandro. Nondimeno se non si sa chi costei è, non mi parrebbe di dargliene.
Sofr. E' non pare anche a me, e' conviene differire il maritarla tanto che si sappia di costei qualche cosa, o che gli sia uscita questa fantasia, ed intanto si farà annullare il parentado di Pirro.
Ni. Governala come tu vuoi. Io voglio andare in casa a riposarmi, che per la mala notte che io ho avuta, io non mi reggo ritto, ed anche perch'io veggo Cleandro ed Eustachio uscir fuora, con i quali io non mi voglio abboccare. Parla con loro tu; di' la conclusione fatta da noi, e che basti loro aver vinto, e di questo caso più non me ne ragionino.
[V. 4]
CLEANDRO, SOFRONIA, EUSTACHIO.
Cle. Tu hai udito, come il vecchio n'è ito chiuso in casa; ei debbe averne tocco una rimesta da Sofronia; e' pare tutto umile. Accostiamoci a lei per intendere la cosa. Dio vi salvi, mia madre; che dice Nicomaco?
Sofr. È tutto scorbacchiato il pover'uomo: pargli essere vituperato; hammi dato il foglio bianco, e vuole ch'io governi per l'avvenire a mio senno ogni cosa.
Eust. Ella andrà bene, io doverò aver Clizia.
Cle. Adagio un poco; e' non è boccone da te.
Eust. Oh! questa è bella; ora ch'io credetti avere vinto, ed io avrò perduto come Pirro!
Sofr. Né tu né Pirro l'avete avere; né tu, Cleandro, perchè io voglio che la stia così.
Cle. Fate almeno che la torni a casa, acciò ch'io non sia privo di vederla.
Sofr. La vi tornerà, e non vi tornerà, come mi parrà. Andiamne noi a rassettar la casa; e tu, Cleandro, guarda se tu vedi Damone, perché egli è bene parlargli, per rimaner come si abbia a ricoprire il caso seguito.
Cle. Io son malcontento.
Sofr. Tu ti contenterai un'altra volta.
[V. 5]
CLEANDRO solo.
Quando io credo esser navigato, e la fortuna mi ripigne nel mezzo al mare, e tra più torbide e tempestose onde. Io combattevo prima coll'amore di mio padre; ora combatto coll'ambizione di mia madre. A quello io ebbi per aiuto lei, a questo sono solo; tanto ch'io veggo men lume in questa ch'io non vedevo in quello. Duolmi della mia mala sorte, poich'io nacqui per non aver mai bene; e posso dire, da che questa fanciulla ci venne in casa, non aver conosciuti altri diletti che di pensar a lei, dove si radi sono stati i piaceri che i giorni di quelli si annovererebbero facilmente. Ma chi veggo io venir verso di me? È egli Damone? Egli è desso, ed è tutto allegro. Che ci è, Damone? Che novelle portate? Donde viene tanta allegrezza?
[V. 6]
DAMONE, CLEANDRO.
Da. Né migliori novelle, né più felici, né ch'io portassi più volentieri, potevo sentire.
Cle. Che cosa è?
Da. Il padre di Clizia vostra è venuto in questa terra, e chiamasi Ramondo, ed è gentiluomo napolitano, ed è ricchissimo, ed è solamente venuto per ritrovare questa sua figliuola.
Cle. Che ne sai tu?
Da. Sollo, ch'io gli ho parlato ed ho inteso il tutto e non ci è dubbio alcuno.
Cle. Come sta la cosa? Io impazzo per l'allegrezza.
Da. Io voglio che voi l'intendiate da lui. Chiama fuora Nicomaco e Sofronia tua madre.
Cle. Sofronia, o Nicomaco? Venite da basso a Damone.
[V. 7]
NICOMACO, DAMONE, SOFRONIA, RAMONDO.
Ni. Eccoci, che buone novelle?
Da. Dico che il padre di Clizia, chiamato Ramondo, gentiluomo napolitano, è in Firenze per ritrovare quella; ed hogli parlato, e già l'ho disposto di darla per moglie a Cleandro, quando tu voglia.
Ni. Quando e' sia cotesto, io sono contentissimo. Ma dov'è egli?
Da. Alla Corona e gli ho detto che venga in qua. Eccolo che viene; egli è quello che ha dietro quelli servidori! Facciamcegli incontro.
Ni. Eccoci. Dio vi salvi, uomo da bene.
Da. Ramondo, questo è Nicomaco, e questa è la sua donna, che hanno con tanto onore allevata la figliuola tua; e questo è il loro figliuolo, e sarà tuo genero, quando ti piaccia.
Ra. Voi siate tutti i ben trovati, e ringrazio Iddio, che mi ha fatta tanta grazia, che avanti ch'io muoia, rivegga la mia figliuola, e possa ristorar questi gentiluomini, che l'hanno onorata. Quanto al parentado, a me non può essere più grato, acciocché questa amicizia fra noi per i meriti vostri cominciata, per il parentado si mantenga.
Da. Andiamo dentro, dove da Ramondo tutto il caso intenderete a punto, e queste felici nozze ordinerete.
Sofr. Andiamo; e voi, spettatori, ve ne potete andare a casa, perché senza uscir più fuora si ordineranno le nuove nozze, le quali fieno femine, e non maschie, come quelle di Nicomaco.
Canzone. Voi, che si intente e quiete, Anime belle, esempio onesto e umile, Mastro saggio e gentile, Di nostra umana vita udito avete; E per lui conoscete, Qual cosa schifar deesi, e qual seguire, Per salir dritti al cielo; E sotto rado velo, Più oltre assai, ch'or fora lungo a dire; Di qui preghiam tal frutto appo voi sia, Qual merta tanta vostra cortesia.
BELFAGOR ARCIDIAVOLO
BELFAGOR ARCIDIAVOLO è mandato da Plutone in questo mondo, con obbligo di dover prender moglie. Ci viene, la prende; e non potendo sofferire la superbia di lei, ama meglio ritornarsi in Inferno che ricongiungersi seco.
Leggesi nelle antiche memorie delle fiorentine cose, come già s'intese per relazione d'alcuno santissimo uomo, la cui vita appresso qualunque in quelli tempi viveva era celebrata, che standosi astratto nelle sue orazioni vide, mediante quelle, come andando infinite anime di quelli miseri mortali che nella disgrazia di Dio morivano all'Inferno, tutte o la maggior parte si dolevano, non per altro che per avere preso moglie essersi a tanta infelicità condotte. Donde che Minos e Radamanto insieme con gli altri infernali giudici n'avevano meraviglia grandissima; e non potendo credere queste calunnie che costoro al sesso femineo davano, esser vere, e crescendo ogni giorno le querele, ed avendo di tutto fatto a Plutone conveniente rapporto, fu deliberato d'avere sopra questo caso con tutti gli infernali principi maturo esamine, e pigliarne di poi quel partito che fusse giudicato migliore per iscoprire questa fallacia, o conoscerne in tutto la verità.
Chiamatogli adunque a concilio, parlò Plutone in questa sentenza: «Ancora che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e per fatale sorte al tutto irrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obbligato nd alcuno indizio, o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggior prudenza di quelli che possono più sottomettersi alle leggi e più stimare l'altrui iudizio, ho deliberato essere consigliato da voi come in un caso, il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare; perché dicendo tutte l'anime degli uomini che vengono nel nostro regno esserne stato cagione la moglie, e parendoci questo impossibile, dubitiamo che, dando giudizio sopra questa relazione, ne possiamo essere calunniati come troppo crudeli, e non ne dando, come manco severi e poco amatori della giustizia. E perché l'uno peccato è da uomini leggieri, e l'altro da ingiusti, e volendo fuggire quelli carichi che dall'uno e dall'altro potrebbono dependere, e non trovandone il modo, vi abbiamo chiamati, acciocché consigliandone ci aiutiate e siate cagione che questo regno, come per lo passato è vivuto senza infamia, così per l'avvenire viva.»
Parve a ciascheduno di quelli principi il caso importantissimo e di molta considerazione, e concludendo tutti come egli era necessario scoprirne la verità, erano discrepanti del modo. Perché a chi pareva che si mandasse uno, a chi più, nel mondo, che sotto forma d'uomo conoscesse personalmente questo vero. A molti altri occorreva potersi fare senza tanto disagio, costringendo varie anime con vari tormenti a scoprirlo. Pure la maggior parte consigliando che si mandasse, s'indirizzorno a questa opinione. E non si trovando alcuno che volontariamente prendesse questa impresa, deliberorno che la sorte fosse quella che la dichiarasse. La quale cadde sopra Belfagor Arcidiavolo, ma per l'addietro, avanti che cadesse di cielo, Arcangelo; il quale, ancora che male volentieri pigliasse questo carico, nondimeno, costretto dallo imperio di Plutone, si dispose a seguire quanto nel concilio s'era determinato, e si obbligò a quelle condizioni che infra loro solennemente erano state deliberate; le quali erano, che subito a colui che fosse a questa commissione deputato fossino consegnati centomila ducati, co'quali doveva venire nel mondo, e sotto forma d'uomo prender moglie, e con quella vivere dieci anni; e dipoi, fingendo di morire, tornarsene, e per isperienzia far fede a' suoi superiori quali sianoci i carichi e le incomodità del matrimonio. Dichiarossi ancora che durante detto tempo ei fusse sottoposto a tutti quegli disagi e mali che sono sottoposti gli uomini e che si tira dietro la povertà, le carcere, la malattia ed ogni altro infortunio nel quale gli uomini incorrono, eccetto se con inganno o astuzia se ne liberasse.
Presa adunque Belfagor la condizione e i danari, ne venne nel mondo, ed ordinato di sua masnade cavalli e compagni, entrò onoratissimamente in Firenze; la qual città innanzi a tutte le altre elesse per suo domicilio, come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte usuraria esercitasse i suoi danari, e quando ci fussi bisogno di compre, li gioverebbe per averne d'altrui; e fattosi chiamare Roderigo di Castiglia, prese una casa a fitto nel borgo d'Ogni Santi. E perché non si potessino rinvenire le sue condizioni, disse essersi da picciolo partito di Spagna, e itone in Soria, ed avere in Aleppe guadagnato tutte le sue facultà; donde s'era poi partito per venire in Italia a prender donna in luoghi più umani, e alla vita civile e all'animo suo più conformi.
Era Roderigo bellissimo uomo, e mostrava una età di trent'anni; e avendo in pochi giorni dimostro di quante ricchezze abbondasse, e dando esempli di sé d'essere umano e liberale, molti nobili cittadini che avevano assai figliuole e pochi danari, se gli offerivano; intra le quali tutte Roderigo scelse una bellissima fanciulla, chiamata Onesta, figliuola d'Amerigo Donati, il quale n'aveva tre altre insieme con tre figliuoli maschi, tutti uomini, e quelle erano quasi che da marito. E benché fusse d'una nobilissima famiglia, e di lui fosse in Firenze tenuto buon conto, nondimanco era, rispetto alla brigata ch'aveva, e alla nobiltà, poverissimo.
Fece Roderigo magnifiche e splendidissime nozze, né lasciò indietro alcuna di quelle cose che in simili feste si desiderano, essendo per la legge che gli era stata data nell'uscire di Inferno, sottoposto a tutte le passioni umane. Subito cominciò a pigliare piacere degli onori e delle pompe del mondo, e avere caro d'esser laudato tra gli uomini; il che gli recava spesa non picciola. Oltre di questo non fu dimorato molto con la sua monna Onesta che se ne innamorò fuori di misura, né poteva vivere qualunque volta la vedeva stare trista ed aver alcuno dispiacere. Aveva Monna Onesta portato in casa di Roderigo insieme, con la nobilità seco e con la bellezza tanta superbia che non n'ebbe mai tanta Lucifero; e Roderìgo, che aveva provata l'una e l'altra, giudicava quella della moglie superiore. Ma diventò di lunga maggiore come prima quella si accorse dell'amore che il marito le portava; e parendole poterlo da ogni parte signoreggiare, senza alcuna pietà o rispetto lo comandava, né dubitava, quando da lui alcuna cosa gli era negata, con parole villane ed iniuriose morderlo; il che era a Roderigo cagione d'inestimabil noia.
Pur nondimeno il suocero, i fratelli, il parentado, l'obligo del matrimonio, e sopra tutto il grande amore le portava, gli faceva aver pazienza, io voglio lasciare ire le grandi spese che per contentarla faceva in vestirla di nuove usanze e contentarla di nuove fogge, che continuamente la nostra città per sua natural consuetudine varia, che fu necessitato, volendo star in pace con lei, aiutare al suocero maritare l'altre sue figliuole, dove spese grossa somma di danari. Dopo questo, volendo avere bene con quella, gli convenne mandare uno dei fratelli in Levante con panni, e un altro in Ponente con drappi, all'altro aprire uno battiloro in Firenze; nelle quali cose dispensò la maggior parte delle sue fortune. Oltre a questo, ne' tempi de' carnasciali e di San Giovanni, quando tutta la città per antica consuetudine festeggia, e che molti cittadini nobili e ricchi con splendidissimi conviti si onorano, per non essere Monna Onesta all'altre donne inferiore, voleva che il suo Roderigo con simili feste tutti gli altri superasse. Le quali cose tutte erano da lui per le sopraddette cagioni sopportate, né gli sarebbono, ancora che gravissime, parute gravi a farle, se da questo ne fosse nata la quiete della casa sua, e se egli avesse potuto pacificamente aspettare i tempi della sua rovina. Ma gl'interveniva l'opposito, perché con l'insopportabili spese, l'insolente natura di lei infinite incomodità gli recava, e non erano in casa sua né servi né serventi, che, non che molto tempo, ma brevissimi giorni la potessino sopportare. Donde ne nascevano a Roderigo disagi gravissimi, per non poter tenere servo fidato che avesse amore alle cose sue, e, non che altri, quelli diavoli i quali in persona di famigli aveva condotti seco, piuttosto elessero di tornarsene in Inferno a stare nel fuoco che viver nel mondo sotto lo imperio di quella.
Standosi adunque Roderigo in questa tumultuosa e inquieta vita, e avendo per le disordinate spese già consumato quanto mobile si aveva riserbato, cominciò a vivere sopra la speranza de' ritratti che di Ponente e di Levante aspettava; e avendo ancora buon credito, per non mancar di suo grado, prese a cambio, e girandogli già molti marchi addosso, fu presto notato da quelli che in simile esercizio in Mercato si travagliano. Ed essendo di già il caso suo tenero, vennero in un subito di Levante e di Ponente nuove, come Ialino de' fratelli di Monna Onesta s'avea giuocato tutto il mobile di Roderigo, e che l'altro, tornando sopra una nave carica di sua mercatanzia, senza essersi altrimenti assicurato, era insìeme con quella annegato. Né fu prima pubblicata questa cosa, che i creditori di Roderigo si ristrinsono insieme, e giudicando che fosse spacciato, né possendo ancora scuoprirsi, per non esser venuto il tempo de' pagamenti loro, conclusono che fosse bene osservarlo cosi destramente, acciocché dal detto al fatto di nascoso non se ne fuggisse.
Roderigo dall'altra parte, non veggendo al caso suo rimedio e sapendo a quanto la legge infernale lo costringeva, pensò di fuggirsi in ogni modo; e montato una mattina a cavallo, abitando propinquo alla porta al Prato, per quella se ne usci; né prima fu veduta la partita sua, che il romore si levò fra i creditori, i quali, ricorsi ai magistrati, non solamente co' cursori, ma popularmente si missono a seguirlo. Non era Roderigo, quando se gli levò dietro il rumore, dilungato dalla città uno miglio, in modo che, vedendosi a mal partito, deliberò, per fuggire più secreto, uscire di strada, e attraverso per gli campi cercare sua fortuna. Ma sendo a far questo impedito dalle assai fosse che attraversano il paese, né potendo per questo ire a cavallo, si mise a fuggire a pie, e lasciata la cavalcatura in su la strada, attraversando di campo in campo coperto dalle vigne e da' canneti di che quel paese abbonda, arrivò sopra Peretola a casa di Gian Matteo del Bricca, lavoratore di Giovanni del Bene, e a sorte trovò Gian Matteo che recava a casa da rodere a' buoi, e se gli raccomandò, promettendogli che, se lo salvava dalle mani de' suoi nemici, i quali per farlo morire in prigione lo seguitavano, che lo farebbe ricco, e gliene darebbe innanzi alla sua partita 1aIe~saggio che gli crederebbe; e quando questo non facesse, era contento che esso proprio lo ponesse in mano ai suoi avversari.
Era Gian Matteo, ancora che contadino, uomo animoso, e giudicando non poter perdere a pigliar partito di salvarlo, gliene promise; e cacciatolo in un monte di letame, quale aveva davanti alla sua casa, lo ricoperse di cannucce e altre mondiglie, che per ardere avea radunate. Non era Roderigo appena fornito di nascondersi, che i suoi perseguitatori sopraggiunsono, e per ispaventi che facessino a Gian Matteo, non trassero mai da lui che l'avesse visto. Talché, passati più innanzi, avendolo invano quel di e quell'altro cerco, stracchi se ne tornorno a Firenze. Gian Matteo adunque, cessato il romore e trattolo dal luogo dov'era, lo richiese della fede data. Al quale Roderigo disse: «Fratello mio, io ho con teco un grande obbligo, e lo voglio in ogni modo sodisfare; e perché tu creda ch'io possa farlo, ti dirò chi io sono: e quivi gli narrò di suo essere e delle leggi avute all'uscire d'Inferno, e della moglie tolta; e di più gli disse il modo col quale lo voleva arricchire, che in somma sarebbe questo; che come ei sentiva che alcuna donna fusse spiritata, credesse lui essere quello che gli fosse addosso; né mai se n'uscirebbe, s'egli non venisse a trarnelo, donde arebbe occasione di farsi a suo modo pagare da' parenti di quella: e rimasi in questa conclusione, spari via.»
Né passorno molti giorni che si sparse per tutta Firenze, come una figliuola di messer Ambrogio Ainidei, la quale aveva maritata a Buonaiuto Tebalducci, era indemoniata. Né mancorno i parenti di farvi tutti quelli rimedi che in simili accidenti si fanno, ponendole in capo la testa di S. Zanobi e il mantello di S. Gio. Gualberto; le quali cose tutte da Roderigo erano uccellate. E per chiarir ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito, e non altra fantastica immaginazione, parlava in latino, e disputava delle cose di filosofia, e scopriva i peccati di molti; intra i quali scoperse quelli d'un frate che s'aveva tenuta una femina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella sua cella; le quali cose facevano maravigliare ciascuno. Viveva pertanto messer Ambrogio malcontento, e avendo invano provati tutti i rimedi, aveva perduta ogni speranza di guarirla, quando Gian Matteo venne a trovarlo, e gli promise la salute della sua figliuola quando gli voglia donare cinquecento fiorini per comperare uno podere a Peretola. Accettò messer Ambrogio il partito; donde Gian Matteo, fatte dire prima certe messe e fatte sue ceremonie per abbellire la cosa, si accostò agli orecchi della fanciulla e disse: «Roderigo, io sono venuto a trovarti perché tu m'osservi la promessa». Al quale Roderigo rispose: «Io sono contento; ma questo non basta a farti ricco; e però, partito ch'io sarò di qui, entrerò nella figliuola di Carlo re di Napoli, né mai n'uscirò senza te. Farati allora fare una mancia a tuo modo, né poi mi darai più briga». Detto questo, s'uscì d'addosso a colei con piacere ed ammirazione di tutta Firenze.
Non passò dipoi molto tempo che per tutta Italia si sparse l'accidente venuto alla figliuola del re Carlo, né vi si trovando rimedio, avuta il re notizia di Gian Matteo, mandò a Firenze per lui, il quale, arrivato a Napoli, dopo qualche finta cerimonia, la guarì. Ma Roderigo, prima che partisse, disse: «Tu vedi, Gian Matteo, io t'ho osservato le promesse d'averti arricchito, e però sendo disobligo, io non ti sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto sarai contento non mi capitare più innanzi; perché, dove io ti ho fatto bene, ti farei per l'avvenire male».
Tornato adunque a Firenze Gian Matteo ricchissimo, perché aveva avuto dal re meglio che cinquantamila ducati, pensava di godersi quelle ricchezze pacificamente, non credendo però che Roderigo pensasse d'offenderlo. Ma questo suo pensiero fu subito turbato da una nuova che venne, come una figliuola di Lodovico VII, re di Francia, era spiritata; la qual nuova alterò tutta la mente di Gian Matteo, pensando all'autorità di quel re e alle parole che gli aveva Roderigo dette. Non trovando adunque il re alla sua figliuola rimedio, e intendendo la virtù di Gian Matteo, mandò prima a richiederlo semplicemente per un suo cursore; ma allegando quello certe indisposizioni, fu forzato quel re a richiederne la Signoria, la quale forzò Gian Matteo ad ubbidire. Andato pertanto costui tutto sconsolato a Parigi, mostrò prima al re come egli era certa cosa che per lo addietro aveva guarita qualche indemoniata, ma che non era per questo che egli sapesse o potesse guarire tutti; perché se ne trovavano di si perfida natura che non temevano né minacce né incanti né alcuna religione; ma con tutto questo era per fare suo debito, e non gli riuscendo, ne domandava scusa e perdono. Al quale il re turbato disse che, se non la guariva, che lo appenderebbe. Senti per questo Gian Matteo dolor grande; pure fatto buon cuore, fece venire l'indemoniata, e accostatosi all'orecchio di quella, umilmente si raccomandò a Roderigo, ricordandogli il beneficio fattogli, e di quanta ingratitudiue sarebbe esempio, se l'abbandonasse in tanta necessità. Al quale Roderigo disse: «To', villano traditore, sì che tu hai ardire di venirmi innanzi? Credi tu poterti vantare d'esser arricchito per le mia mani? Io voglio mostrare a te ed a ciascuno come io so dare e torre ogni cosa a mia posta; e innanzi che tu ti parta di qui, io ti farò impiccare in ogni modo Donde che Gian Matteo, non veggendo per allora rimedio, pensò di tentare la sua fortuna per un'altra via, e fatto andare via la spiritata, disse al re: «Sire, come vi ho detto, ci sono di molti spiriti, che sono si maligni che con loro non s'ha alcun buono partito, e questo è uno di quegli; pertanto io voglio fare un'ultima sperienza, la quale se gioverà, la V. M. ed io aremo l'intenzione nostra; quando non giovi, io sarò nelle tua forze, e arai di me quella compassione che merita l'innocenzia mia. Farai pertanto fare in su la piazza di Nostra Dama un palco grande e capace di tutti i tuoi baroni e di tutto il clero di questa città; farai parar il palco di drappi di seta e d'oro; fabricherai nel mezzo di quello un altare; e voglio che domenica mattina prossima tu con il clero, insieme con tutti i tuoi principi e baroni, con la real pompa, con splendidi ricchi abbigliamenti convegnate sopra quello, dove, celebrata prima una solenne messa, farai venire l'indemoniata. Voglio oltre di questo che dall'un canto della piazza sieno insieme venti persone almeno, che abbino trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli e d'ogni altra qualità romori, i quali, quando io alzerò uno cappello, dieno in quelli strumenti e sonando ne venghino verso il palco. Le quali cose, insieme con certi altri secreti rimedi, credo che faranno partire questo spirito».
Fu subito dal re ordinato tutto, e venuta la domenica mattina, e ripieno il palco di personaggi e la piazza di popolo, celebrata la messa, venne la spiritata condutta in sul palco per le mani di dua vescovi e molti signori. Quando Roderigo vide tanto popolo insieme e tanto apparato, rimase quasi che stupido e fra sé disse: «Che cosa ha pensato di fare questo poltrone di questo villano? Cred'egli sbigottirmi con questa pompa? Non sa egli ch'io sono uso a vedere le pompe del cielo e le furie dello Inferno? Io lo gastigherò in ogni modo». E accostando-segli Gian Matteo e pregandolo che dovesse uscire, egli disse: «Oh! tu hai fatto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu fuggir per questo la potenza mia e l'ira del re? Villano, ribaldo, io ti farò impiccare in ogni modo». E cosi ripregandolo quello, e quell'altro dicendogli villania, non parve a Gian Matteo di perder più tempo, e fatto il cenno con il cappello, tutti quelli ch'erano a romoreggiar deputati, dettono in quelli suoni, e con rumori che andavano al cielo ne vennero verso il palco. Al qual romore alzò Roderigo gli orecchi, e non sapendo che cosa fusse, e stando forte maravigliato, tutto stupido domandò Gian Matteo che cosa quella fusse. Al quale Gian Matteo tutto turbato disse: «Ohimè, Roderigo mio, quella è la mogliera che ti viene a ritrovare. Fu cosa maravigliosa a pensare quanta alterazione di mente recasse a Roderigo sentir ricordare il nome della moglie; la quale fu tanta che, non pensando s'egli era possibile o ragionevole se la fusse dessa, senza replicare altro, tutto spaventato se ne fuggi, lasciando la fanciulla libera, e volse pili tosto tornarsene in inferno a render ragione delle sua azioni che di nuovo con tanti fastidi, dispetti e pericoli sottoporsi al giogo matrimoniale. E cosi Belfagor, tornato in Inferno, fece fede de' mali che conduceva in una casa la moglie; e Gian Matteo, che ne seppe più che 'l diavolo, se ne ritornò tutto lieto a casa.
INDICE
IntroduzioneMandragola[Comedia di Callimaco e di Lucrezia]CliziaBelfagor Arcidiavolo