Al Dott. OTTONE HARTWIG
Amico carissimo,
Voi foste, ai nostri giorni, il primo che sulle piú antiche origini di Firenze e del suo Comune, iniziò ricerche scientifiche, fondate sui documenti.
Io ebbi la fortuna di conoscervi quando veniste fra noi, per condurre a termine queste ricerche. D'allora in poi, durante molti anni, potei fare lunga esperienza della vostra fida, costante, inalterabile amicizia, che ripongo tra i maggiori benefizî concessimi dalla fortuna.
Permettete che, in segno di alta stima e di animo sinceramente grato, io dedichi a voi questi miei studî sulla Storia di Firenze.
Vostro affez. amico P. Villari.
Firenze, aprile, 1893.
PREFAZIONE
È necessario che io dica al lettore quando e come questo libro fu scritto.
L'anno 1866 cominciai nel nostro Istituto Superiore alcune lezioni sulla Storia di Firenze. In esse mi proponevo di esaminare piú specialmente quale era stata la costituzione politica della Repubblica, quali le sue varie forme, in conseguenza delle rivoluzioni interne, che cosí lungamente travagliarono la Città. In tal modo io speravo di riuscire a scoprir le cause vere di queste rivoluzioni; di trovare una specie di filo conduttore nel laberinto d'una storia, che, non ostante i grandi scrittori che l'avevano trattata, a molti appariva assai spesso intricata ed oscura; di determinare i periodi, in cui dovrebbe essere logicamente divisa. La soluzione anche d'una parte sola di questi problemi, avrebbe certamente avuto la sua utilità.
Continuai qualche tempo queste lezioni, arrivando sino agli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1293), dove mi fermai. Una parte ne pubblicai nel Politecnico di Milano, un'altra nella Nuova Antologia di Firenze. Mi proponevo allora di raccoglierle, rivederle e ristamparle; ma dopo avere esitato alquanto, non posi in atto il mio pensiero. Mi sembrava necessario aggiungere almeno qualche cosa sui fatti che seguirono dopo la caduta di Giano della Bella e l'esilio di Dante, per conchiudere cosí tutto il primo e piú importante periodo della Storia politica di Firenze. Ma oltre di ciò, io vedevo che l'obbligo di continuare, a giorno fisso, le lezioni una volta cominciate, non mi aveva sempre lasciato il tempo necessario a superare le difficoltà incontrate per via. Non bastava perciò una revisione superficiale; occorreva riempire qualche lacuna, riscrivere da capo alcune pagine. E questo portava la necessità di nuove ricerche, dalle quali altri lavori allora mi distrassero.
Intanto uscivano continuamente alla luce nuovi documenti, nuove dissertazioni e monografie sulla Storia di Firenze, anche opere notevolissime e di gran mole, come quelle del Capponi, del Del Lungo, dell'Hartwig, del Perrens, di altri. Tutto ciò rendeva sempre piú difficile il rivedere e correggere quei miei scritti, che divenivano necessariamente sempre piú antiquati. Ma da un altro lato dovetti piú d'una volta accorgermi, che alcune delle osservazioni da me fatte erano dai nuovi documenti confermate, che alcune delle idee generali da me esposte venivano da autorevoli scrittori accolte e seguite. Questo m'induceva naturalmente ad essere meno severo nel giudicare l'opera mia, che anche amici nei quali fidavo, mi spingevano a ripubblicare.
Cosí fu che m'indussi a riprendere gli studi tralasciati, e nel 1888 feci alcune lezioni sui tempi d'Arrigo VII e dell'esilio di Dante. Piú tardi ancora, nel 1890, convinto che, dopo le recenti pubblicazioni, quello che avevo scritto sulle origini della Città e del Comune, riusciva affatto insufficiente, tornai da capo sull'argomento in una nuova serie di lezioni, che, come le precedenti, pubblicai nella Nuova Antologia. Finalmente cominciai a radunare le foglie sparse, a rivedere ed a correggere.
Da quanto ho detto risulta assai chiaro, che io qui ho dovuto riunire lavori diversi, i quali, sebbene continuino tutti, con uno stesso concetto generale, a trattare il medesimo argomento, furon pure scritti a grandissima distanza di tempo gli uni dagli altri, in un periodo di 25 anni, periodo in cui gli studî sulla Storia di Firenze facevano, per opera di molti e valenti scrittori, rapido cammino. E però, quantunque mi sia adoperato, come meglio ho saputo e potuto, a modificarli e coordinarli, essi restano tuttavia vecchi lavori, piú o meno staccati; né mi fu possibile evitare molte ripetizioni. Per raggiungere una maggiore unità organica, avrei dovuto riscrivere tutto da capo, fare un libro nuovo, non, come volevo, una semplice ristampa di scritti diversi, ai quali appunto perciò ho dato il titolo di Ricerche.
A ristamparli mi sono finalmente indotto, perché mi pare che il concetto dominante e fondamentale di essi rimanga vero, anche dopo le molte pubblicazioni fatte da altri. Anzi, se io non m'inganno, le osservazioni che feci, le idee che sin dal principio esposi sul carattere generale e sullo svolgimento progressivo della Storia fiorentina ne vengono spesso confermate. Il lettore deciderà se mi sono illuso. Io spero tuttavia che, nel dare il suo giudizio su questo libro, vorrà tener conto del tempo e del modo in cui esso s'andò formando.
INTRODUZIONE[1]
I
La storia delle libertà italiane, dal Medio Evo fino alle nuove invasioni straniere, che incominciarono con Carlo VIII nel 1494, si riduce principalmente alla storia dei nostri Comuni. Questa storia non è anche scritta, e quel che è peggio non potrà scriversi fino a che non saran messi in luce, ordinati, illustrati i materiali su cui lo storico deve lavorare. Quali erano i piú antichi Statuti politici, e quelli delle associazioni d'Arti e mestieri, quali le leggi penali e civili, lo stato delle persone, le entrate e le uscite, il commercio, l'industria di quelle repubbliche, sono tutte domande alle quali noi possiamo assai imperfettamente rispondere, e qualche volta non possiamo rispondere punto. E senza rispondervi, la storia civile dei nostri Comuni rimane oscura.
L'Italia, col Machiavelli e col Giannone, dette al mondo i primi esempi della storia civile, e coi lavori giganteschi del Muratori iniziò quella grande scuola di erudizione storica, che è l'unica base sicura della storia moderna, massime della storia civile. Ma noi ci lasciammo ben presto strappar di mano lo scettro, che avevamo conquistato. Non ci sono, è vero, mancati mai grandi eruditi e scrittori di storie; ma a compiere la storia nazionale d'un popolo, non basta il lavoro d'uno o di pochi; essa deve, in qualche modo, essere l'opera della nazione stessa. Solo il lavoro coordinato di piú dotti e di piú generazioni può riuscire a mettere insieme e studiare l'infinita massa di materiali, che è necessaria a ritrovare nella storia di tanti municipii, che sono cosí diversi ed in continua guerra fra loro, la storia del popolo italiano. Fra noi da lungo tempo si lavora ognuno per conto proprio; mancano quell'accordo e quella corrispondenza tanto necessari a fare, col lavoro degl'individui, progredire di pari passo quello di tutta la nazione.
Io certo non dimenticherò qui di citare l'esempio delle Deputazioni e Società di storia patria, sussidiate dal Governo, delle quali fanno parte uomini benemeriti e dottissimi. Ma esse ancora non lavorano secondo un disegno generale e comune; anzi nel seno delle stesse Deputazioni si vedono qualche volta i vari membri attendere a lavori importanti, se si vuole, ma che pure non hanno fra loro alcuna relazione. Cosí si dovrà aspettare un gran tempo, prima che qualche periodo della nostra storia venga da tanti dotti compiutamente illustrato. Eppure noi non avremmo bisogno d'andar fuori di casa a cercar le norme da seguire, perché queste norme noi fummo i primi a trovarle, né le abbiamo dimenticate. Né solamente le Deputazioni e Società pubblicarono raccolte importantissime di documenti. Chi non ricorda le fatiche indefesse del benemerito Vieusseux e de' suoi amici, nel dirigere l' Archivio Storico Italiano? A mostrare quanto possa giovare la pubblicazione d'una sola serie di documenti, basterebbe citare le Relazioni degli ambasciatori veneti, date alla luce per opera dell'Albèri, con tanto profitto della storia non solamente d'Italia, ma d'Europa. Che progresso non si farebbe, se il lavoro di tutti gli eruditi italiani si potesse, per consenso unanime, coordinare ad uno scopo comune? Si guardi che cosa ha potuto fare a Berlino il Pertz, sussidiato dalla Confederazione, e aiutato da tutti i dotti tedeschi. I suoi Monumenta sono davvero un monumento immortale alla storia nazionale della patria tedesca, intorno al quale s'è potuto fondare una nuova scuola di eruditi e di storici.
Ora che l'Italia s'è unita, e di tanti Stati ha fatto uno Stato solo, è necessario che essa sappia nella storia de' suoi Comuni ritrovare la storia del suo popolo. Oltre di che bisogna considerare, che il Comune è la istituzione con la quale dal Medio Evo esce la società moderna. Sorto in mezzo ad una moltitudine di schiavi, di vassalli, di baroni, di duchi e marchesi, seppe creare quel terzo stato e quel popolo, che distrusse il feudalismo in Italia, e con la rivoluzione francese, lo distrusse poi in tutta Europa. Cosí si formò, osserva anche Agostino Thierry, quella immensa riunione di uomini liberi, che nel 1789 intraprese, per la Francia intera, ciò che avevano compiuto nei municipi i suoi antenati del Medio Evo.[2] Ora, siccome l'Italia appunto è stata il centro e la sede delle libertà comunali, cosí si tratta, con questi studi, non solo di conoscere la nostra storia civile, ma di porre in evidenza la parte che noi avemmo nel ritrovare i principii della società e della civiltà moderna. Chi studia attentamente la storia del diritto romano nel Medio Evo, può osservare che i nostri glossatori, mentre che facevano rinascere la vecchia giurisprudenza, inconsapevolmente la modificavano, adattandola ai nuovi tempi. E Francesco Forti affermava, che chi studia i nostri Statuti s'accorge che molte di quelle norme, le quali si trovano nel Codice Napoleone, e che si credono opera della rivoluzione francese, erano già nelle antiche legislazioni italiane. Io credo che la nostra storia dovrà in ogni parte della vita civile degl'Italiani, confermare osservazioni simili, perché in essa sono le prime origini delle libertà moderne. Ma questo lavoro aspetta ancora chi sarà capace d'intraprenderlo, e non basterà, come dissi, un uomo solo. Noi vogliamo occuparci ora d'un soggetto assai piú modesto. Il nostro scopo è di far vedere, con un rapido sguardo alla storia d'un Comune solo, quante nuove ricerche ancora ci restano a fare, e quante quistioni restano ancora insolute.
Le vicende della repubblica fiorentina trovano qualche riscontro solamente nei tempi piú floridi della libertà ateniese. Invano cercheremmo in tutta la storia moderna un'altra città piena, ad un tempo, di tanto tumulto e di tanta ricchezza, dove, versandosi tanto sangue civile, potessero le arti, le lettere, il commercio, l'industria fiorire del pari. Lo storico quasi non crede a sé stesso, quando egli deve descrivere un pugno di uomini che, raccolti sopra un palmo di terra, stendono i loro traffici in Oriente ed in Occidente; aprono le loro banche in tutta Europa; accumulano tesori cosí vasti, che le private fortune bastano qualche volta a sostenere sovrani vacillanti sui loro troni. Egli deve dire ancora, che questi ricchi mercanti fondarono con Dante la poesia moderna, e con Giotto la pittura; con Arnolfo, con Brunellesco, con Michelangiolo, che fu poeta, pittore, scultore e architetto ad un tempo, innalzarono quelle stupende moli che il mondo continuerà sempre ad ammirare. I primi e piú accorti diplomatici d'Europa erano fiorentini, la scienza politica e la storia civile nacquero in Firenze col Machiavelli. In sul finire del Medio Evo quell'augusto municipio somiglia ad un piccolo punto di luce che illumina il mondo.
Parrebbe che a conoscere la storia di questo Comune, le difficoltà dovessero essere già tutte superate, perché di esso i piú grandi scrittori italiani, i piú grandi storici moderni si occuparono da lungo tempo e lungamente. Quale altra città può, infatti, vantare i suoi annali descritti da uomini come il Villani, il Compagni, il Machiavelli, il Guicciardini, il Nardi, il Varchi? Ed alle storie o cronache bisogna aggiungere una serie infinita di Diari, Prioristi, Ricordi, senza parlare per ora dei moderni scrittori. Era tra i Fiorentini comunissimo l'uso di registrare, di giorno in giorno, i fatti che seguivano; e cosí si andò sempre piú aumentando la loro ricca e splendida letteratura storica. Eppure, con tutto ciò, non v'è storia che presenti tante difficoltà, e che sia come questa, piena di tante, che sono o paiono insolubili contraddizioni. Gli avvenimenti passano dinanzi ai nostri occhi, descritti, dipinti con splendidi colori; si succedono con rapida e non mai interrotta vicenda; ma sembra che, senza tregua e senza legge, obbediscano solo al caso. Odii personali, gelosie e private vendette sono cagione di rivoluzioni politiche, le quali contaminano la Città di sangue civile; durano dei mesi e qualche volta degli anni, per finire in leggi arbitrarie, che si tenta di violare o disfare appena che sono sanzionate dai magistrati. E cosí spesso vien fatto di chiedere: questa è dunque l'opera degli accorti diplomatici, dei grandi politici? O sono bugiarde le lodi di senno e di accortezza politica, prodigate ad uomini che non seppero mai dar sicure leggi e ferme istituzioni alla patria, e nelle piú gravi faccende di Stato si lasciarono dominar solo dagli odii e dalle passioni personali; o sono bugiarde le lodi che da secoli noi diamo a questi storici, i quali coi piú splendidi colori ci descrivono fatti impossibili. È egli possibile, in vero, che da tanto senno nasca tanto disordine? E come poi, in mezzo a tanto disordine, su questa nave della Repubblica, abbandonata all'arbitrio di ogni vento, poterono tanto splendidamente fiorire le arti, le lettere e le scienze?
Certo la storia, quale la vogliamo oggi, era ignota agli antichi. Noi cerchiamo le cagioni di fatti, che gli antichi descrivevano solamente. Noi vogliamo conoscere le leggi, i costumi, le idee, i pregiudizi degli uomini, e gli antichi s'occupavano esclusivamente delle azioni e delle passioni umane. La scienza politica del secolo XV era principalmente uno studio dell'uomo, e la nostra è principalmente uno studio delle istituzioni. La storia moderna cerca di essere uno studio dell'uomo e della società, in tutte le sue forme, sotto tutti gli aspetti. Per queste ragioni ci è stato necessario rifar tante volte il lavoro, che pure cosí splendidamente avevano fatto gli antichi.
Lasciando da parte quei raccoglitori di favole e leggende sulle origini di Firenze, le quali si ripetono anche negli scritti posteriori, noi possiamo dividere gli storici fiorentini in due grandi scuole. Primi sono gli autori di Cronache o Diari, i quali fiorirono, piú che altro, nel Trecento, sebbene continuassero per lungo tempo di poi. Lo scrittore registra, giorno per giorno, i fatti di cui fu spettatore, e spesso anche attore; animato dalle medesime passioni che descrive, egli diviene non di rado eloquente, e la sua eloquenza passionata gl'impedisce di fermarsi a fare considerazioni astratte. Egli suppone sempre nei suoi lettori la piena conoscenza di quelle istituzioni politiche, nelle quali era nato e vissuto, che a noi sono ignote, e che piú di tutto vorremmo conoscere. Nondimeno il cronista del Trecento, come spesso avviene a Giovanni Villani, osservatore impareggiabile, si ferma a descrivere cosí minutamente i fatti, raccoglie tante notizie, che, senza quasi avvedercene, noi ci troviamo trasportati in mezzo alla società dei suoi tempi. E nello scendere a questi particolari, egli qualche volta si scusa col lettore d'averlo fermato su cose di sí piccolo momento, tanto era lontano dal supporre quanto preziose piú tardi sarebbero state per noi appunto quelle notizie sul commercio, sulla pubblica istruzione, sulle entrate e sulle uscite della Repubblica, e quante altre dovevamo desiderarne invano. Appena però che questi scrittori s'allontanano dai loro tempi e dai fatti che hanno veduti, essi o debbono copiare letteralmente da altri cronisti, o la loro narrazione perde ogni pregio ed ogni autorità, ogni calore ed ogni colore. Noi passiamo, a un tratto, dalla piú vera e vivace descrizione alle favole piú strane, al piú grande disordine, perché essi, anche nel copiare letteralmente dagli altri, lo fanno senza il piú piccolo discernimento. Ne sono un esempio i loro puerili racconti sulle origini di Firenze. La critica storica allora non era neppure in culla.
Colla erudizione del secolo XV incominciò la lettura e l'imitazione di Sallustio, di Livio, e gli scrittori italiani non si contentarono piú di registrare i fatti alla giornata, senza nesso, senza ordine. Molti scrissero in latino, altri in italiano; ma tutti volevano comporre una narrazione storica piú artistica o piú artificiale. Facevano esordi e considerazioni generali, descrivevano a lungo e con molto aiuto della fantasia guerre che non avevano visto, e di cui poco o punto sapevano; ponevano in bocca ai loro personaggi discorsi immaginari, qualche volta perfino scrivevano in forma di dialogo la loro narrazione,[3] pur di allontanarsi dai loro padri del Trecento. Fu un tempo di esercizi retorici e d'imitazione servile dei classici, nel quale la storia e la letteratura italiana decaddero, apparecchiandosi però a risorgere nel secolo seguente. Ed infatti nel Cinquecento noi troviamo un'arte storica assai progredita. Il Machiavelli, che se ne potrebbe dire il piú illustre fondatore, comincia appunto col fare un rimprovero agli storici precedenti, perché «delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie e degli effetti che da quelle sono nati, avevano una parte al tutto taciuta, e quell'altra in modo brievemente descritta, che ai leggenti non puote arecare utile o piacere alcuno». Queste parole ci danno indirettamente il ritratto fedele del suo libro, col quale ha lasciato un monumento immortale alla propria fama. Egli cerca le cagioni dei fatti, l'origine dei partiti e delle rivoluzioni seguite nella Repubblica: cosí un nuovo metodo è trovato, una nuova via è aperta. Egli abbraccia in una mirabile unità tutta la storia della Repubblica; lascia da un lato, con profondo disprezzo, tutte quelle favole che i cronisti avevano accumulate sulla fondazione di Firenze, e getta uno sguardo di aquila sul gioco dei partiti, dalla loro origine fino ai suoi tempi. Fu il primo a intraprendere questa ricerca, e dopo di lui, dopo tante nuove indagini, il suo concetto fondamentale rimane fermo.
Ma delle istituzioni il Machiavelli s'occupò assai poco, delle leggi, dei costumi, quasi punto. E quello che è piú, egli era cosí fattamente in balìa del suo genio divinatore, che curò assai poco anche la esattezza storica dei fatti particolari. A persuadersi del numero infinito d'inesattezze e di errori, che per noi sarebbero imperdonabili, e che pure si trovano nel suo libro, bisogna paragonare la sua narrazione con le narrazioni contemporanee degli antichi cronisti, alcuni dei quali egli conosceva. Non solo le date sono spesso sbagliate, ma ancora il nome, il numero dei magistrati, la forma delle istituzioni. Sembra che nel tempo medesimo in cui divinava lo spirito dei fatti, raffazzonasse a suo capriccio i fatti stessi. Qualche volta egli prende pagine e pagine intere dalle storie del Cavalcanti, copiando perfino i discorsi immaginari che questi poneva in bocca dei personaggi storici, e con pochi tocchi infonde vita nuova nella pesante narrazione che gli sta dinanzi, senza punto occuparsi di far nuove ricerche. Cosí il suo libro divenne una guida preziosa e pericolosa nello stesso tempo. Egli qualche volta non si asteneva dal porre un fatto vero là dove meglio tornava al suo ragionamento, riempiendo cosí, senza troppo scrupolo, le lacune che trovava. Suo scopo, come egli stesso ci dice, era d'indagar le cagioni dei partiti e delle rivoluzioni. Quello che alcuni chiamano oggi il colorito locale, il colorito storico dei fatti, scomparisce del tutto nella sua narrazione, massime dei primi avvenimenti della Repubblica. Gli uomini appartengono a diversi partiti, commettono azioni ora tristi ora generose, ma in tutti i tempi sono per lui sempre i medesimi. E quanto ciò debba nuocere ad una chiara conoscenza dei fatti è facile immaginarlo. A misura poi che il Machiavelli s'avvicina ai suoi tempi, vede la costituzione della Repubblica alterarsi e corrompersi, la libertà allontanarsi, e mille passioni personali sorgere ad affrettare la rovina delle istituzioni che decadono. La conoscenza dei piú minuti particolari sarebbe allora tanto piú necessaria a farci intendere la trasformazione della società; ma egli, che pure restò sempre un Fiorentino del secolo XV, aveva dinanzi a sé l'esempio di Tito Livio e degli altri scrittori romani, i quali, a lui come a tutti gli eruditi di quel secolo, ispiravano un grande disprezzo dei troppo minuti particolari, che fanno perdere l'epica unità della storica narrazione. E quando piú tardi s'avvicina la prevalenza inevitabile dei Medici, sotto i quali anch'egli visse, rivolge allora, con mal celato disgusto, il suo occhio dai fatti interni della Repubblica, per occuparsi solo dei fatti esterni. Ci parla allora di guerre e di quella politica italiana, che fu la passione di tutta la sua vita. In mezzo agl'intrighi delle Corti, alla prevalenza contrastata degli uni o degli altri, noi ci accorgiamo che esso va cercando il modo con cui un principe nuovo avrebbe potuto riunire le sparse membra della patria italiana, lacerata, calpestata, e questo nobile pensiero gli fa spesso dimenticar la storia di Firenze.
Quando noi leggiamo le antiche cronache contemporanee, vediamo sorgere dinanzi a noi vive e parlanti le immagini di Giano della Bella, Farinata degli Uberti, Corso Donati, Michele di Lando. Le loro passioni, i loro amori e i loro odii ci sono noti, quasi familiari; ma noi siamo in mezzo al tumulto irrequieto e irrefrenabile delle passioni, senza sapere donde spiri il vento che agita e confonde in un solo turbine uomini e cose, senza dar mai tregua. Appena che usciamo dal raggio visuale dello scrittore, le immagini si confondono, e la nostra vista insieme colla sua si oscura. Anche nei momenti della piú eloquente descrizione, udiamo il nome d'istituzioni e di magistrati, che non possiamo comprendere, e che vediamo ora alterarsi, ora scomparire, ora riapparire di nuovo, senza saperne il perché. Ma dall'altro lato, quando, invece, per lo studio e l'imitazione degli antichi scrittori, l'arte di abbracciare una piú vasta cerchia di fatti incomincia, e si cercano le cagioni e le relazioni di questi fatti, per raccoglierli in una visibile unità, manca ancora quella critica storica che accerta i fatti stessi, ricerca, definisce le istituzioni e le leggi, colorisce e quasi ridesta il passato nella sua varia, mutabile fisonomia. Lo storico manda col suo genio come dei lampi di luce, che, di tratto in tratto, illuminano le età trascorse; ma esse restano pur sempre incerte e confuse nella nostra mente. Noi abbiamo bisogno di conoscere gli uomini, le istituzioni, i partiti e le leggi quali veramente furono; né ciò basta, perché bisogna comprendere ancora come tutto ciò si costituí in una sola unità, e da quegli uomini, da quei tempi nacquero quelle istituzioni e quelle leggi.
Questo è ciò che gli scrittori moderni avrebbero dovuto fare, ma che non hanno fatto per molte ragioni. E prima di tutto, il fiorire delle lettere e delle arti nei tempi in cui la libertà s'allontanava da Firenze, e la loro grande efficacia su tutta quanta la cultura moderna, richiamarono l'attenzione degli scrittori principalmente su questa parte della storia fiorentina, che aveva una importanza assai generale, ed era piú intelligibile a tutti. Cosí fu che la piú parte dei moderni, massime gli stranieri, non studiarono, non conobbero quei tempi nei quali s'erano pure formate tutte le qualità piú nobili del carattere fiorentino, e s'erano svolte, educate quelle forze intellettuali, che piú tardi divennero visibili nelle lettere e nelle arti, tanto universalmente ammirate. E molti stranieri sembrarono persuadersi non solamente che le arti e le lettere italiane fossero fiorite quando i costumi erano piú corrotti, ma quasi risultassero da essi, fossero immedesimate con quella corruzione, la quale invece corruppe le arti stesse, che furono figlie della libertà e della moralità, e poterono ad esse solo per qualche tempo sopravvivere.
Vi è inoltre da osservare, che finora non s'è visto nessun libro di grande scrittore moderno, il quale tratti di proposito la storia politica e costituzionale di Firenze.[4] Qualche cosa, bisogna riconoscerlo, anche piú dei moderni fecero i due Ammirato, i quali nel secolo XVII avevano già cominciato a ricercare gli archivi, e composero un lavoro, per quei tempi, veramente nuovo e notevole. Se non che, né essi s'erano proposto di scrivere una storia della costituzione fiorentina, né la loro critica storica era sufficiente a raggiungere un tale scopo, quando pure se lo fossero proposto. Accanto a notizie nuove e preziose sui fatti ed anche sulle istituzioni, ci danno spesso una congerie di particolari inutili, che fanno smarrire l'unità generale della narrazione.
È inutile poi aggiungere che gli scrittori moderni, i quali parlarono di Firenze solo nelle storie generali di tutta Italia, dovettero, di necessità, trattare fuggevolmente ciò che era secondario nei loro lavori. Spesso s'affidarono troppo ciecamente all'autorità ed al gran nome degli antichi, senza neppur distinguere abbastanza nelle opere di essi, quelle parti il cui valore è certo incontrastabile, da quelle in cui copiano narrazioni lette altrove, o ripetono solo tradizioni favolose. Basta paragonare il Villani col Malespini, per vedere come uno dei due ha certamente copiato dall'altro molti e molti capitoli.[5] E non è il solo esempio. Il Machiavelli, come dicemmo, copiò capitoli interi dal Cavalcanti;[6] il Guicciardini tradusse piú volte Galeazzo Capra, piú noto col nome di Capella;[7] il Nardi riprodusse di sana pianta il Buonaccorsi. Senza dunque una critica degli scrittori ed un giusto giudizio del valore relativo che hanno, della fede che meritano le varie parti delle loro opere, nulla è piú facile che lasciarsi trarre in inganno. Per questa e per non poche altre ragioni, molte sono le sorgenti d'errori nei moderni storici dell'Italia, quando parlano delle cose fiorentine. Noi li vediamo, di tratto in tratto, fermarsi, dietro la scorta dei piú reputati cronisti, a definirci che cosa era il Capitano del popolo o il Podestà o il Consiglio del Comune, e poi durare una gran fatica, per mettere d'accordo queste definizioni colla realtà dei fatti, ogni volta che quei nomi ricompariscono nella storia. In tutto ciò v'è quasi sempre una doppia sorgente di errori. Le definizioni che gli antichi ci dànno dei magistrati, sono appena accennate, quando essi parlano dei loro tempi, e sono spesso inesatte quando se ne allontanano. I moderni poi cercano generalmente una definizione precisa e determinata di istituzioni, che incominciarono a mutare il giorno stesso in cui nacquero, e che d'immutabile non ebbero altro che il nome. Questo nome non solo resta inalterato quando l'istituzione è divenuta affatto diversa da ciò che era stata in origine, ma spesso per lungo tempo sopravvive alla istituzione stessa. Ed è singolare allora veder le ingegnose ipotesi che si fanno, per dar corpo e realtà a questi nomi, che son divenuti ombre d'un passato che s'è dileguato. Per uscire da un simile laberinto non v'è altro mezzo, che provarsi a ricostruire la serie dei mutamenti principali, che ciascuna di siffatte istituzioni ebbe, e non perder mai di vista le relazioni che esse serban fra loro nelle continue vicende cui vanno soggette. Solo cercando la legge che regola e domina questi mutamenti, è possibile ritrovare il concetto generale della Repubblica, determinare il valore delle sue istituzioni.
Ma come fare, se molti degli elementi piú necessari a compiere un tale lavoro ci mancano? L'erudito ancora non ha ordinata, studiata, illustrata la serie infinita delle Provvisioni, degli Statuti, delle Consulte e Pratiche, delle Relazioni degli ambasciatori, in una parola degli atti ufficiali della Repubblica, molti dei quali non furono neppure cercati o trovati. Noi tuttavia crediamo che, senza volere ora scrivere una vera e propria storia di Firenze, resti pure a fare un lavoro non del tutto inutile. Possiamo di certo prendere a guida gli antichi storici e cronisti, in quelle parti solamente nelle quali parlano come testimonii oculari, cercando dove è necessario, di temperare il loro spirito partigiano, col metter loro a riscontro gli scrittori d'avverso partito. La serie dei documenti pubblicati alla spicciolata, e di erudite dissertazioni, è pure vastissima, sebbene non ancora compiuta; nelle difficoltà e lacune principali si può agevolmente ricorrere all'Archivio fiorentino. E dopo siffatte indagini a noi è sembrato, che sia agevole dimostrar chiaramente come tutta quanta la storia di Firenze possa rischiararsi d'una nuova luce, e il suo apparente disordine possa scomparire. Le rivoluzioni politiche di Firenze, infatti, per poco che uno le esamini attentamente, cercandone le cagioni vere e reali, al di sotto delle apparenti, che spesso ingannano, si succedono con un ordine logico maraviglioso. Al piú strano disordine, sembra allora che venga rapidamente a sostituirsi una successione e connessione matematica di cause e di effetti. Gli odii e le gelosie personali non sono cagioni, ma occasioni che accelerano il rapido e febbrile avvicendarsi di quelle riforme, per le quali il Comune fiorentino, percorrendo tutte le costituzioni politiche allora possibili, arrivò, di grado in grado, alle piú larghe libertà di cui il Medio Evo era capace. Ed è questo scopo cosí nobile, questa libertà cosí larga, ciò che ridesta tutte quante le forze intellettuali e morali nel seno della Repubblica, che produce un maraviglioso acume politico, ed in mezzo ad un apparente disordine, fa fiorire cosí splendidamente le lettere, le arti e le scienze. Quando poi gli odii e le passioni esclusivamente personali prevalgono, allora il disordine comincia davvero, la costituzione si corrompe, e la libertà precipita al suo fine.
Con questo scritto non si presume altro, che dare un breve saggio della storia di Firenze nei tempi in cui furono fondate le sue libertà. Il soggetto è di tale importanza, che lo storico Thiers se ne è lungamente occupato, e sentiamo che un illustre Italiano vi abbia già dedicato molti anni d'assidue ricerche.[8] Se queste pagine potessero servire d'annunzio o d'incitamento alla pronta pubblicazione d'un'opera che dovrà certo onorare le nostre lettere, esse non sarebbero certo inutili.
II
La storia di tutte le repubbliche italiane può dividersi in due grandi periodi: l'origine del Comune, lo svolgimento della sua costituzione e delle sue libertà. Nel primo periodo, in cui una società vecchia si decompone e ne sorge una nuova, male si può la storia d'un Comune dividere da quella degli altri, perché si tratta di Goti, di Longobardi, di Greci e di Franchi, che dominano, volta a volta, gran parte d'Italia, ponendola, quasi per tutto, nelle medesime condizioni. Lo stato dei vincitori e dei vinti è lo stesso, mutando solo col variare dei dominatori. In mezzo alla oscurità dei tempi ed alla scarsità delle notizie, le differenze che passano fra una città e l'altra d'Italia sono allora assai poco visibili. Esse però si determinano assai piú chiaramente, e divengono sempre maggiori dopo il primo sorgere delle libertà. Di tutte queste origini le piú oscure, quantunque non le piú antiche, son forse quelle di Firenze, la quale assai tardi incomincia ad acquistare la sua grande importanza. Siccome qui è nostro proposito illustrar solo la storia della costituzione fiorentina, cosí diremo poche e brevi parole sul primo dei due periodi accennati, cioè sull'origine dei Comuni italiani in generale.
È una quistione su cui si agitò un tempo lunga, erudita e vivissima disputa, specialmente fra scrittori italiani e tedeschi. Ma il rigore scientifico di queste ricerche, nelle quali i dotti italiani molto si fecero onore, venne spesso diminuito dal patriottismo e dai pregiudizii nazionali. Si vedeva che nelle origini del Comune erano anche le origini delle libertà e della società moderna, e quindi il problema si trasformava tacitamente in quest'altro: sono gl'Italiani oppure i Tedeschi gli autori di queste libertà, di questa società? È facile capire in che modo le passioni politiche venissero allora a prender parte nella disputa, togliendole la necessaria serenità.
Sul finire del secolo scorso la quistione era stata molte volte discussa fra noi da uomini dottissimi, con diversi intendimenti (Giannone, Maffei, Sigonio, Pagnoncelli, ecc.). Il Muratori, senza avere un sistema prestabilito, gettò dei lampi di luce maravigliosa sul soggetto, sollevandolo, colla sua portentosa erudizione, ad una grande altezza. Non cominciò tuttavia la disputa a divenire ardente, fino a che il Savigny non venne a trattar l'argomento nella sua immortale Storia del diritto romano nel Medio Evo. Volendo egli dimostrare la non mai interrotta continuità di quel diritto, siccome tutto nella storia si collega, dovette di necessità sostenere che gl'Italiani sotto i barbari, anche sotto i Longobardi, non avevano perduto ogni libertà personale, ogni antico diritto, e che il municipio romano non era mai stato compiutamente distrutto. Il risorgimento perciò delle nostre repubbliche e del diritto romano, altro non era che un rinnovamento di antiche istituzioni, di antiche leggi non mai affatto scomparse. In Germania furon subito comprese le conseguenze ultime, cui menavano le idee del grande storico, ed allora l'Eichorn, il Leo, il Bethmann Hollweg, Carlo Hegel ed altri si levarono a combattere l'opinione d'una origine romana del Comune italiano. Essi sostennero, invece, che i barbari, massime i Longobardi, la cui signoria era stata infatti piú lunga e dura di tutte le altre, ci avevano tolto ogni libertà, avevano distrutto ogni traccia d'istituzioni romane, in modo che i nuovi Comuni e i loro Statuti furono una creazione nuova, la cui prima origine si doveva solo ai popoli germanici.
Queste opinioni avrebbero, secondo ogni apparenza, dovuto trovare nel patriottismo degl'Italiani un'ardente opposizione, e quelle del Savigny ottenere un favore universale. Eppure non fu cosí. Non mancarono fra noi molti e dotti seguaci né dell'una né dell'altra scuola. Allora si ridestava lo spirito nazionale, si desiderava, si voleva già un'Italia unita, a prezzo di qualunque sacrifizio, e si odiava ogni cosa che a questa unità fosse sembrata avversa. Ebbene i Longobardi erano stati sul punto di dominar tutta Italia, e solo il Papato aveva potuto, col chiamare i Franchi, fermare le loro conquiste. Se ciò non avesse fatto, l'Italia, fin dal nono o decimo secolo, avrebbe potuto essere una nazione unita come la Francia. Era allora già risorta fra noi quella scuola che, sin dai tempi del Machiavelli, aveva veduto nel Papato la cagione funesta delle divisioni d'Italia. E, come era naturale, questi Ghibellini del secolo XIX, confutando le opinioni del Savigny, esaltarono i Longobardi, si provarono a lodarne la bontà e l'umanità, maledissero il Papa, che aveva impedito il loro universale e permanente dominio in Italia. Ma v'era un'altra scuola politica, che invece sperava il risorgimento d'Italia dal Papa, e questa, che prevalse poi nella rivoluzione del 1848, prese a sostenere l'opposta sentenza, e trovò i suoi due piú illustri rappresentanti nel Manzoni ed in Carlo Troya. Ad essi non fu difficile provare che, in fin dei conti, i barbari erano poi stati barbari davvero; che avevano ucciso, distrutto, calpestato ogni cosa, e che il Papa, col chiamare i Franchi, qualunque fine avesse avuto, era pure stato di qualche aiuto alle moltitudini duramente oppresse. I Franchi, infatti, sollevarono alquanto le popolazioni latine, permisero l'uso della legge romana, dettero nuovo potere ai Papi ed ai vescovi, che contribuirono di certo al risorgimento dei Comuni. Cosí, con opposti intendimenti, le medesime opinioni venivano sostenute al di qua e al di là delle Alpi. In questa disputa, senza che gli scrittori stessi ne fossero sempre consapevoli, l'erudizione era sottoposta a fini politici; la serenità e la verità storica ne soffrivano non poco. Il Balbo, il Capponi ed il Capei, inclinando chi piú da un lato, chi piú dall'altro, vennero poi a sostenere opinioni assai temperate, e con la loro dottrina portarono sulla questione moltissima luce.
In vero la difficoltà principale nasce tutta dal perché pochi si vogliono persuadere, che nel Medio Evo, come in tutta quanta la storia moderna, si trova sempre l'azione vicendevole, continua di due popoli, latini e germanici, e che delle piú grandi rivoluzioni politiche, sociali, letterarie, non è mai possibile dar tutto il merito ad uno di essi solamente. Anzi là dove sembra piú evidente che si tratti dell'assoluta prevalenza d'uno di essi, bisogna andare tanto piú guardinghi, e cercar la parte che spetta all'azione dell'altro. A pesare poi e misurare equamente i vicendevoli diritti, che essi hanno nella storia, meglio assai d'un sistema ispirato da idee politiche, riuscirebbe una descrizione imparziale. Quando, in vero, i fatti sono bene accertati, il sistema non è piú necessario, perché le idee generali risultano naturalmente da essi. Se qui fosse permesso portare il paragone di tempi molto diversi, si potrebbe osservare, che nel secolo XVIII la letteratura francese invase la Germania, fu generalmente imitata, e ne derivò, per conseguenza inaspettata, un rinnovamento della letteratura nazionale tedesca. Sarebbe egli necessario, per esaltare il carattere nazionale di questa letteratura, sostenere che quella grande diffusione dei libri francesi fu sognata dagli storici? Piú tardi la bandiera francese entrò in quasi tutte le città della Germania, ed il popolo tedesco fu umiliato, calpestato. Da quel momento noi vediamo lo spirito nazionale tedesco rinnovarsi e ridestarsi vigorosamente. Dovremo dire che questo ridestarsi fu opera dei Francesi? Non val meglio descrivere gli eventi come seguirono, lasciando da un lato le teorie prestabilite? Comprendo bene l'abisso che sépara questi fatti recenti dagli antichi; ma pure mi sembra che avesse ragione il Balbo, quando osservava, che l'essersi potuto disputare sull'origine dei Comuni con tanto ardore e con tanta dottrina, cosí lungamente dalle due scuole opposte, dimostrava che la verità non era né tutta da un lato, né tutta dall'altro. Noi accenneremo dunque rapidissimamente le conclusioni che ci paiono piú ragionevoli.
Ognuno sa che, dopo le prime incursioni dei barbari, i quali devastarono l'Impero e piú volte saccheggiarono anche Roma, vi furono in Italia cinque vere e prorie invasioni. Odoacre con una banda di ventura, composta di gente raccolta in paesi diversi, alla quale si dette generalmente il nome di Eruli, fu colui che vibrò il colpo di grazia nell'anno 476, e divenne padrone d'Italia per piú di dieci anni, senza quasi governarla, solo pigliando il terzo delle terre. Ma dalle sponde del Danubio s'era mossa una gente nuova, che portava il nome di Goti, divisi in Visigoti ed Ostrogoti. I primi, sotto il comando d'Alarico, avevano già prima assediato e saccheggiato Roma; i secondi vennero nel 489, comandati da Teodorico, e furono ben presto padroni di tutta Italia. Il regno di Teodorico fu molto lodato. I capi di questi primi barbari avevano spesso passato parte della loro vita servendo nelle legioni romane, e avevano qualche volta ricevuto educazione romana; sentivano perciò anch'essi una grande ammirazione per la maestà dell'Impero, che nell'ebbrezza delle loro vittorie venivano ora a distruggere. Teodorico ordinò il governo; prese, secondo il costume barbarico, un terzo delle terre pei suoi; lasciò ai Romani le loro leggi, i loro magistrati. In ogni provincia fu un conte che ne ebbe il governo, e giudicò gli Ostrogoti; i Romani s'amministrarono colle proprie leggi, e con esse erano giudicati da un tribunale misto delle due genti. Ma a poco a poco il governo di Teodorico divenne sempre piú duro e meno tollerabile ai Romani, che dopo la sua morte si sollevarono contro i suoi successori, e chiamarono in aiuto i Greci dell'impero d'Oriente. Una tal sollevazione peggiorò assai le loro condizioni, giacché i Goti, per sostenersi, cominciarono ad uccidere i Romani, a togliere la libertà e le istituzioni che avevano ad essi lasciate, ordinando un governo militare e assoluto. Questo governo trovarono Belisario e Narsete, quando vennero da Costantinopoli a liberare e riconquistare gl'Italiani; questo governo imitarono coi loro duchi o duci. Gli Ostrogoti avevano dominato l'Italia per cinquantanove anni (493-552), e i Greci la tennero ben altri sedici (552-568). Fu anch'esso un governo tutto militare, sotto il generalissimo Narsete; i duci, i tribuni, i giudici minori erano nominati in nome dell'Impero. I nuovi venuti presero al solito una parte delle terre, che ora andò probabilmente al fisco. La loro tirannia fu diversa, perché non di barbari, ma di uomini corrotti e quindi anche piú dura.
I Greci avevano cacciato i Goti, ed i Longobardi vennero a cacciare i Greci. A poco a poco essi progredirono nelle loro conquiste, ed in quindici anni furono padroni di tre quarti d'Italia, lasciando solo alcuni lembi di terra, piú specialmente verso il mare, ai Greci, che non poterono mai cacciare del tutto. Misero profonde radici nel suolo italiano, dove restarono per piú di due secoli (568-773), dominando con assai dura tirannia. Presero il terzo delle terre, tennero quasi come servi gl'Italiani, non rispettarono né le leggi, né le istituzioni romane. Sotto di essi parve distrutta l'antica civiltà, e s'apparecchiarono i germi della nuova, i cui primi passi restano ancora in una grande oscurità. Tutte le dispute intorno alle origini dei nostri Comuni cominciarono appunto dall'esame delle condizioni in cui erano gl'Italiani sotto i Longobardi. Se l'antica tradizione fu spezzata, e ne cominciò un'altra del tutto nuova, ciò fu sotto il dominio longobardo. Se essa, invece, fu solo profondamente alterata, per poi rinvigorirsi e rinnovarsi, ciò dovette seguire nel medesimo tempo.
Se non che, là dove il dominio greco era restato, una piú incerta e debole signoria lasciava le popolazioni meno oppresse; laonde sin dal settimo e ottavo secolo si videro sorgere a nuova vita alcune città. Il Comune incominciò presto a formarsi anche in Roma, dove era assai cresciuta la potenza del Papa, nemico dei Longobardi, i quali, venuti fra noi di religione ariana, cominciarono col non rispettare i vescovi cattolici, né il clero minore, nessuna cosa sacra o profana, e piú tardi minacciarono la stessa Città eterna. Cosí, per salvarsi da un nemico esoso e vicino, il Papa invitava i Franchi a liberare la Chiesa e l'Italia dalla oppressione, ed essi vennero fra noi, condotti prima da Pipino, poi da Carlo Magno, che cacciò i Longobardi, rafforzò con donativi di terre il Papa, il quale poté sin d'allora apparecchiare il suo dominio temporale. In compenso di ciò, Carlo fu coronato imperatore, e venne cosí restaurato l'antico impero d'Occidente col nuovo impero dei Franchi, cui successe poi il sacro Impero romano-germanico.
Ed allora il disfacimento delle istituzioni barbariche, che già era cominciato in Italia, divenne assai piú rapido. Si vide nella società italiana un fermento, che annunziava il principio d'un'èra novella. Si trovavano accanto, e mescolate insieme, istituzioni, consuetudini, leggi, tradizioni longobarde, greche, franche, ecclesiastiche e romane. Segue un lungo e violento tumulto d'uomini e di cose, in cui il nome italiano appena si ode. Tutte le vecchie e le nuove istituzioni sembrano lottare fra loro, ed invano cercano impadronirsi della società, quando a un tratto sorge il Comune, che risolve il problema, e l'èra delle libertà incomincia. Come dunque è sorto il Comune? Ecco la stessa domanda, che continuamente ricomparisce.
Noi non vogliamo qui seguire quei dotti, che dalla frase incerta d'un antico codice, dalla dubbia espressione d'un cronista hanno voluto cavare ingegnose e complicate teorie. È certo che l'Impero romano era un aggregato di municipî, i quali s'amministravano da sé stessi. La città era la molecola primitiva, la cellula, se cosí può dirsi, della grande società romana, che incominciò a sfasciarsi, quando nella capitale venne a mancare la forza di attrazione necessaria a tenere unito un cosí gran numero di città, separate da vastissime campagne, deserte o popolate solo da schiavi che le coltivavano. I barbari, invece, non conoscevano il vivere cittadino, ed il Gau o Comitatus (onde la parola contado), in cui erano appena embrioni di città o piuttosto villaggi, che qualche volta venivano bruciati, nel trasferirsi delle genti da un luogo ad un altro, era come l'unità primitiva della società germanica. Il conte coi suoi giudici comandava e giudicava nel comitato; i capi delle schiere erano a lui sottoposti, e divennero poi baroni. Piú comitati uniti formarono i Ducati o Marchesati, in cui l'Italia fu allora divisa, e tutto il popolo invasore era comandato da un re eletto dal popolo.
Quando adunque i popoli germanici si sovrapposero ai latini, il Gau si sovrappose alla città, che anzi divenne parte di esso. E i conti, come capi militari, comandarono la terra conquistata, della quale i vincitori presero un terzo. Cosí fecero i Goti; cosí fecero i Greci, ponendo i loro duci là dove avevano trovato un conte; cosí fecero i Longobardi. Se non che, la signoria di questi ultimi fu, massime nei primi tempi, assai piú dura, e la loro storia è molto oscura. Essi cominciarono coll'uccidere i piú ricchi e potenti Romani; presero, a quanto pare, il terzo non delle terre, ma della rendita, lasciando cosí i popoli oppressi senza proprietà libera, e quindi in una condizione anche peggiore. I Goti avevano lasciato i Romani vivere a lor modo, ma i Longobardi non rispettarono nessuna legge, nessun diritto, nessuna istituzione dei vinti. In tutti gli ufficî regi, in tutti gli atti pubblici, osserva a questo proposito il Manzoni, non si trova mai un personaggio italiano, nemmeno immaginario.[9] Ma da un'assoluta tirannia, da una vera e propria soggezione, alla distruzione totale d'ogni legge, d'ogni diritto, d'ogni istituzione romana ci corre un gran tratto. Perché i Longobardi, che qualcuno fa ascendere a circa 130,000 uomini, avessero potuto davvero estinguere la vita romana per tutto, bisognerebbe supporre un'azione governativa cosí ordinata, disciplinata, costante, permanente, che sarebbe irreconciliabile con lo stato barbarico di quella gente. Come potevano essi, incapaci di comprendere la vita romana, inseguirla per tutto, ed estinguerla? Ammesso pure, quistione del resto anch'essa disputata, che ai Romani non fosse lasciata nessuna proprietà libera; ammesso che il diritto romano non fosse stato legalmente riconosciuto mai, né rispettato da' Longobardi, non ne viene per conseguenza, che quel diritto, che ogni avanzo di civiltà romana fosse allora distrutto. Piú giusta assai e piú credibile sembra l'opinione di coloro i quali sostennero, che i Longobardi, venendo in Italia, pensassero molto piú a sé che agl'Italiani, pei quali non provvedessero legalmente nulla, contentandosi di tenerli sottoposti al loro arbitrio.[10] Cosí i vinti, nelle loro relazioni private, e dovunque l'azione del governo barbarico non arrivava, poterono continuare a vivere col diritto romano, con le loro secolari consuetudini. I Romani ed i Longobardi restano, in vero, sulla terra italiana come due popoli fra loro estranei; la fusione tra vinti e vincitori, altrove cosí facile, dopo due secoli si dimostra in Italia sempre difficile. La tenacia e la persistenza della stirpe latina fra di noi è tale, che i vinti possono piú facilmente essere ridotti in ischiavitú o uccisi, che perdere la personalità loro. Infatti, appena che la necessità delle cose e il lungo convivere avvicinano i vincitori ai vinti, diviene inevitabile ai barbari far larghe concessioni alla civiltà dei Latini, che par sempre estinta e sempre si ritrova in vita. Come comprendere altrimenti quel piegarsi, a poco a poco, del diritto longobardo sotto la forza maggiore del diritto romano; come spiegare quella specie di nuovo diritto che sorge col tempo, e che il Capponi chiama quasi edifizio romano su germaniche fondamenta?
A misura che i Longobardi si fermano stabilmente in Italia, essi cominciano a vivere nelle città, che non poterono mai distruggere del tutto; cominciano a desiderare una proprietà stabile, e però, al tempo del re Autari, invece del terzo dei frutti, presero una parte anche maggiore delle terre. Il che, se da un lato aggravò la condizione dei vinti, dall'altro, lasciando ad essi una libera proprietà, la migliorò grandemente.[11] E se, come osserva il Manzoni, noi non troviamo alcun regio ufficiale, né grande né piccolo, di sangue romano, è certo del pari che i Longobardi avevano pure bisogno di amministratori, di costruttori, di artefici, e dovettero perciò ricorrere ai Romani, in ciò tanto piú abili di loro. Il che fece che le antiche Scholae o associazioni di Arti si mantennero in vita per tutto il Medio Evo, come sappiamo anche dei maestri comacini, alla cui opera spesso ricorsero i vincitori. Per quanto rozza e scomposta fosse la forma, in cui queste associazioni poterono resistere all'urto barbarico, pure erano un elemento dell'antica civiltà, di cui in qualche modo mantennero il filo non interrotto. Intorno ad esse rimanevano pure, come abbarbicati, altri avanzi e tradizioni della stessa civiltà, e quando ogni altra forma di governo, ed ogni protezione mancò agli abitanti delle città, quelle associazioni poterono pigliar qualche cura del pubblico bene. Lo stesso antico municipio, che si trovò in sul principio abbandonato alle proprie forze, non chiuse qualche volta le porte della città ai barbari, difendendosi, quasi governo indipendente? Non riuscí qualche volta a respingerli? Vinto, domato, calpestato, si può supporre che fosse per tutto ugualmente distrutto, scomparso per fino dalla memoria dei Latini, in modo da doverlo supporre, quando torniamo a vederlo, risorto per opera dei popoli germanici, o sia di popoli che non avevano conosciuto le città prima di venire fra noi? Non cominciarono le città greche del mezzogiorno d'Italia a risorgere fin dal VII e VIII secolo, al tempo cioè dei Longobardi, e certamente non per opera di tradizioni germaniche? Non sorse nello stesso tempo il Comune romano? E se gli antichi municipî, caduti sotto i Longobardi, e quindi piú crudelmente oppressi, aspettarono ancora quasi quattro secoli, non seguirono allora anch'essi l'esempio delle città sorelle? Che significa la tradizione tanto diffusa, che solo nella greca Amalfi, esempio d'indipendenza e libertà alle altre repubbliche, Pisa poté trovare e prendere colla forza il volume delle Pandette romane, che conservò come il suo piú prezioso tesoro? Tutta la storia posteriore del Comune non è forse una lotta continua della risorta gente latina contro gli eredi della gente germanica? Che se la civiltà latina era stata totalmente distrutta, strano davvero sarebbe che i morti si levassero poi a combattere ed a battere i vivi. A noi dunque par chiaro che i Longobardi nulla lasciarono per legge ai vinti, ma che pur non poterono realmente toglier loro ogni cosa; molto tollerarono o non videro, e la tradizione, la consuetudine, la persistenza della razza mantennero vivi gli avanzi della civiltà latina. Cosí solo si riesce a spiegar come, dopo una lunga e dura oppressione, la quale sembrava avere distrutto ogni cosa, non appena che incominciò a seguire qualche strappo in quella forte catena di barbari, che stringeva cosí crudelmente le popolazioni italiane, subito risorsero le istituzioni latine, e riguadagnarono il terreno perduto.
La società barbarica aveva non solo una forma, ma anche un'indole essenzialmente diversa dalla latina. Quello che s'è chiamato individualismo germanico, a differenza della sociabilità latina, era il suo carattere predominante. Si osserva una tendenza costante a dividersi in gruppi separati e indipendenti. Era un corpo il quale, quando perdeva quella forza d'unione e di coesione, che gli veniva dal moto e dall'impeto della conquista, subito si sminuzzava, si sgretolava. Dalla vita nomade e selvaggia, dal sangue stesso pareva che i barbari avessero ereditato una personalità e indipendenza eccessiva, che rendeva loro difficile il sottomettersi lungamente ad una comune autorità. Cosí colla pace cominciavano subito a manifestarsi i germi d'una divisione che li indeboliva. In fatti, quando i Longobardi s'ebbero assicurata la conquista di quasi tutta Italia, la divisero in trentasei Ducati, governati da duchi indipendenti e signori assoluti in ciascuno di essi. Sotto i duchi erano qualche volta i conti, che abitavano le città secondarie, e comandavano nei Comitati; nelle città ancora piú piccole si trovano spesso gli sculdasci. Duchi, e sculdasci giudicavano, secondo il diritto longobardo, in compagnia dei giudici assessori, che sotto i Franchi si maturano negli scabini. I capi delle schiere, poco a poco, si resero padroni di castelli e ne divennero poi signori quasi indipendenti. V'erano i gasindi uffiziali regi, anch'essi potentissimi. E come i duchi finirono col dichiararsi indipendenti dal re, cosí il conte e gli sculdasci desideravano indipendenza dal duca, sebbene ancora non vi riuscissero. Pei vinti non v'era, nel primo secolo della conquista, diritto né protezione riconosciuta, e neppure l'autorità del clero e dei vescovi veniva rispettata. L'oppressione fu cosí dura, che nella storia del dominio longobardo, sembra che il popolo oppresso non esista, ed in nessuna piú favorevole occasione si vede mai un serio e vero tentativo di rivolta. Non bastò a muoverlo neppure l'esempio delle città libere del mezzogiorno.
Se non che, come già abbiamo accennato, era cresciuta di molto la potenza della Chiesa, la quale non sapeva tollerare la superbia ed oltracotanza di questi barbari, che per essa avevano assai poco rispetto. Quindi il Papa pensò di cacciare uno straniero con un altro, ed invitò i Franchi a venire in Italia. Carlo Magno, primo fondatore del nuovo Impero non poteva avere pei Latini, dei quali s'era pur molto vantaggiata la rinascente civiltà de' suoi Stati, quel barbarico disprezzo rimasto inestinguibile nei Longobardi. Egli voleva estendere le sue conquiste, il suo potere; voleva rafforzare il Papa, per esser da esso consacrato e moralmente aiutato. Venne quindi in Italia, e la già disgregata famiglia dei Longobardi mal poté resistere alla forte unità franca, ringagliardita dalle sue vittorie. Invano i Longobardi s'erano già eletto un re e gli prestavano obbedienza, invano s'apparecchiarono alla difesa; dopo 205 anni di dominio sicuro e quasi non contrastato, il loro regno cadde per sempre. Nel 774 Carlo Magno era padrone della terra italiana, e l'anno 800 venne in Roma coronato dal Papa imperatore. L'Impero occidentale era cosí ricostituito e consacrato sotto nuova forma, separato affatto e indipendente da quello d'Oriente. I Franchi tolsero ai Longobardi tutto il loro dominio, meno il ducato di Benevento nell'Italia meridionale. Il Papa, coll'assumersi il diritto di consacrare l'Imperatore, da cui ricevette grandi donativi e promesse di terre, ne crebbe assai di potenza. Roma però si reggeva a libero municipio; anche Venezia, come le città greche del mezzogiorno, era già sorta a libertà. Tale era lo stato d'Italia dopo l'ultima invasione di barbari, quella cioè dei Franchi.
Questi nuovi padroni, al solito, presero il terzo delle terre; ma la condizione degl'Italiani fu allora assai migliorata. La legge romana venne riconosciuta come legge dei vinti, il che è segno evidente che nei due secoli di dominazione longobarda essa non era poi morta davvero. Carlo Magno sollevò di molto lo stato dei Latini, che innalzò qualche volta sino agli onori, ossia ufficî di nomina regia. Ma ciò che dette carattere proprio al suo regno in Italia, fu il nuovo ordinamento che vi fondò. Distrusse la potenza dei duchi, minacciosi troppo all'unità dell'Impero; sollevò in lor vece i conti. Neppure nelle Marche, o sia province limitrofe, nelle quali piú Comitati restavano uniti, egli volle un duca; ma vi pose invece i marchesi ( Mark-grafen, Praefecti limitum ). In questo modo l'antica unità del comitato o Gau ritornava ad esser la base della nuova società barbarica. Ma Carlo Magno andò piú oltre ancora; cominciò a dare ufficî, terre, possessi in beneficio, cioè a dire in feudo, e quindi sotto condizione d'un servizio militare obbligatorio. Questo fu il principio d'una rivoluzione sociale, cominciata forse prima di lui, ma portata ora a compimento col nome di feudalismo. Né solo l'Imperatore, ma i re, i conti, i marchesi, per avere buon numero di vassalli, dettero terre, rendite, uffici in feudo. Cosí si creò un numero infinito di nuovi potenti, vassalli, valvassori, e valvassini, che erano i minimi. A poco a poco la forma di tutta la società del Medio Evo divenne feudale: la terra, con gli uomini che la coltivavano, fu concessa con l'obbligo di prestare insieme con essi un servizio militare. I medesimi privilegi, i medesimi obblighi accompagnavano ogni concessione di dominî o ufficî, ed anche a questi era quasi sempre unita la concessione di terre o di rendite. Cosí quella tendenza della stirpe germanica a dividersi e suddividersi in piccoli gruppi, veniva soddisfatta, ed in pari tempo l'Impero, le città, la Chiesa stessa rivestivano forma feudale. I vescovi ben presto divennero anch'essi possessori di benefizî, e di grado in grado salirono a sempre maggiore potenza, fino a che li troviamo come altrettanti conti o baroni. Essi ricevono per sé e pei loro sottoposti la immunità dai tribunali e dalle leggi ordinarie, altro vantaggio inestimabile, che doveva contribuire a farli piú indipendenti, a creare grandi nuclei di popolazioni a loro sottoposte. Il feudalismo adunque è un nuovo ordinamento, una nuova aristocrazia affatto germanica, e nello stesso tempo è il principio d'una profonda rivoluzione nella società barbarica, rivoluzione che dovrà continuare, estendersi in mezzo a molte vicende. A poco a poco la Corona comincerà ad esentare i benefizî o feudi dei vassalli dall'autorità del conte, per dichiararli ereditarî, con una serie di leggi, che tendevano tutte a sollevare i minori potenti contro i maggiori, a dare sempre piú forza all'autorità regia, ma che riuscirono invece ad aprire la via del riscatto al popolo oppresso. Tutto ciò, per altro, non era anche visibile sotto Carlo Magno; egli ordinò il feudalismo, tenne unito e fiorente l'Impero, che poco dopo la sua morte (814) si sciolse in varî regni.
In Italia il dominio dei Franchi durò sino alla morte di Carlo il Grosso, seguita nell'888. E durante questo dominio di 115 anni, la rivoluzione da noi accennata seguí costantemente il suo cammino. Crescevano per tutto i benefizî o feudi, e crescevano del pari, d'anno in anno, le esenzioni. Si concedevano ai vescovi piú che agli altri, perché i benefizî dati ai laici, si trasmettevano agli eredi, e cosí li rendevano troppo potenti. Di tutto ciò, insieme coi vescovi, profittavano le città in cui essi abitavano. Dapprima vi dominava solo il conte, meno che nella parte di patrimonio regio, la quale era detta gastaldiale, perché vi comandava il gastaldo; poi aumentò la potenza del vescovo, ed allora un'altra parte fu esentata, e divenne vescovile. A poco a poco questa parte s'estese a quasi tutta la città: molte di esse si trovano infatti comandate dal solo vescovo. Cosí s'indeboliva la fibra, e, quasi direi, si smagliava la società barbarica, con un metodo utile a tenerla soggetta all'autorità suprema del re, se non vi fosse stato un popolo, che si credeva morto, ma che pure era vivo e vicino a sollevarsi contro i nobili, i re, gl'imperatori, contro i vescovi e contro i papi.
Due rivoluzioni, adunque, hanno luogo successivamente in favore della libertà, cominciate ambedue sotto i Carolingi, e continuate sotto i loro successori. La prima indebolisce e snerva la società barbarica, che in Italia trova un terreno poco adatto a fecondarla; la seconda apparecchia il sorgere dei Comuni. Colla morte di Carlo il Grosso cessa il regno dei Franchi e cessano finalmente le invasioni dei barbari. I popoli germanici s'erano fermati sulla terra italiana, e cominciavano ad incivilirsi. L'Italia però doveva ancora traversare una serie di rivoluzioni e d'anni tristissimi. Nello sciogliersi dell'Impero franco, s'erano visti conti e soprattutto i marchesi, i quali ultimi, riunendo piú comitati, erano come tanti duchi, sorgere a strane pretese, tentando di formare addirittura Stati indipendenti, e spesso finire col riuscirvi. Infatti, anche oggi, molte delle famiglie regnanti sono discendenti di conti e di marchesi franchi. Invano s'erano dati benefizî ed immunità per indebolirli affatto: la loro potenza non si poteva cosí presto estinguere. Ed in vero nella stessa Italia, dove la diversità del paese, l'indole tenace d'un'antica civiltà non mai scomparsa del tutto, che anzi cominciava adesso a rifiorire; dove il Papato ed i Greci bizantini avevano impedito l'assoluto trionfo della società germanica; nella stessa Italia sorgono pure conti e marchesi feudali a disputarsi la corona reale. Seguirono lunghi anni di nuove desolazioni e di lotte, che si chiusero col lasciare finalmente l'ambita corona in mano di re e d'imperatori tedeschi. Disputarono e combatterono dapprima Berengario del Friuli e Guido di Spoleto, con altri conti e marchesi italiani o stranieri, un re di Germania, due di Borgogna, e finalmente Ottone re di Germania, che restò vincitore. Furono piú di settanta anni di guerre continue, durante le quali, per la prima volta, regnarono in Italia re italiani, con dominio però sempre incerto e contrastato. S'ebbero poi circa quarant'anni di pace (961-1002), nei quali governarono Ottone I, II e III, e di nuovo un italiano, il marchese Arduino d'Ivrea, contese ai re tedeschi la corona d'Italia. Ma egli fu vinto nel 1014 da Arrigo di Germania, soprannominato il Santo, a cui successe Corrado della casa di Franconia o Salica.
Questi due sovrani tedeschi compierono la rivoluzione feudale da noi accennata, che i Carolingi avevano cominciata, gli Ottoni proseguita, e che pure non era bastata ad assicurare l'alto dominio dei re ed imperatori in Italia. In ogni modo, siccome gli Ottoni avevano moltiplicato a piú potere le esenzioni dei minori vassalli dall'autorità dei conti e dei marchesi, e moltissime città italiane avevano date ai vescovi, e siccome da tali e tante esenzioni venne assai agevolato il risorgimento dei Comuni, cosí è che nacque l'opinione di coloro i quali vorrebbero di questo risorgimento attribuire agli Ottoni il merito principale. Ma lo scopo degl'imperatori era stato ben altro, e non lo avevano raggiunto. Essi volevano diminuire la forza di quelli che potevano contrastar loro la corona, come di fatto fu minacciato nella sollevazione del marchese d'Ivrea. Per questa ragione Arrigo il Santo andò oltre nel sollevare i maggiori feudatarî a danno dei possessori di onori, che erano appunto i conti ed i marchesi, i quali ultimi furon da lui quasi annullati. Corrado il Salico portò quest'opera a maggior compimento, favorendo anche i minori feudatarî, e dichiarando ereditarî i benefizî. Da quel momento la vittoria dei re ed imperatori tedeschi sull'aristocrazia feudale fu assicurata, perché i vassalli, una volta padroni dei loro feudi, venivano sotto la dipendenza diretta della Corona, e cosí l'orgoglio dei grandi signori era fiaccato per sempre. Ma non era fiaccato il nuovo orgoglio popolare, divenuto tanto piú potente, quanto meno era stato avvertito.
È certo adunque che, per una moltitudine di fatti, le condizioni della gente romana erano andate continuamente migliorando; che la società feudale, per opera degli stessi sovrani, si sfasciava e sfibrava di giorno in giorno sempre piú; che la civiltà latina, per forza naturale delle cose, risorgendo, alterava, assimilava e smaltiva i principî della società germanica. Prima che le due stirpi si combattessero, le tradizioni dei vinti avevano piú volte combattuto e superato quelle dei vincitori, dai quali era stato già accettato in molte parti il diritto romano, quando i vinti d'una volta chiesero la sanzione dei loro municipali Statuti.
Gl'Italiani si trovavano in uno stato di fermento e trasformazione profonda, quando si videro i primi segni del risorgimento dei Comuni. Il dominio barbarico e l'Impero non s'erano potuti mai nella Penisola impadronire davvero di tutta la società, e quando, ordinato il feudalismo, questo pareva che dovesse diffondersi per tutto, ed assicurare agl'Imperatori tranquilla signoria fra noi, sorgevano invece a un tratto nuove cagioni di pericolo e di lotta. Il Papato ed il clero salirono a sempre maggiore e piú pericolosa potenza; le immunità, per tema dei laici, date sempre piú largamente ai vescovi, li resero come signori temporali dipendenti dagl'Imperatori, e dal Papa invece dipendevano come dignitarî spirituali: ebbero in fatti doppia investitura. Da ciò un disordine grande, una corruzione scandalosa nella Chiesa, essendosi i vescovi mutati in altrettanti conti feudali, che comandavano nelle città, guerreggiavano fuori, tenevano corte bandita, si davano a tutti i piaceri. I Papi volevano rimettere la disciplina, reggere con assoluto imperio i vescovi, nominarli senza trovare ostacolo di sorta; ma a ciò si opponeva l'Imperatore, perché il temporale dominio dei vescovi li metteva logicamente anche sotto la sua autorità. Cosí cominciò la tanto romorosa lotta per le investiture, tra il Papato e l'Impero, lotta in cui la vittoria fu lungamente contrastata. E intanto né la Chiesa, né l'Impero, né il feudalismo potevano impadronirsi esclusivamente dell'indirizzo sociale, e le continue dispute crescevano il disordine. In tale stato di cose l'autorità dei vescovi s'andò indebolendo anch'essa, ed i Comuni che, nel tempo delle sedi vacanti, imparavano di necessità a reggersi da sé, che vedevano le repubbliche del mezzogiorno assai fiorenti, che sentivano d'avere forze sempre maggiori pel cresciuto commercio e pel disordine feudale, capirono finalmente che era sonata per essi l'ora del riscatto. Né in quelle città dove restavano a comandare i conti laici, le cose andarono diversamente, giacché il parteggiare per l'Impero o per la Chiesa suscitava sempre un gran numero di nemici ai potenti, e mille aiuti ai deboli.
Nell'undecimo secolo, adunque, dall'un capo all'altro d'Italia sorgevano i Comuni, e una volta gustata la dolcezza del vivere libero, non fu piú possibile rimetterli in vassallaggio dei vescovi, né dei conti, né dell'Impero. Sorgendo, essi si trovarono ovunque circondati da un numero infinito di conti e duchi e baroni, piccoli e grossi, giacché la società feudale era ancora potentissima e padrona di tutte le campagne. Eredi del sangue germanico, esercitati alle armi, questi nobili combattevano, in nome dell'Impero, pe' suoi diritti, nel proprio interesse, contro la nuova società comunale, che ad un tratto si levava potente e minacciosa. Essi scendevano dai loro castelli a chiuder le vie al commercio dei Comuni; imponevano taglie; facevano minacce; volevano trattar da vassalli i liberi cittadini, che perciò, sdegnati, uscivano di tratto in tratto a far vendetta, e non di rado finivano con lo spianare i superbi castelli. Quei nobili invece che erano restati nelle città, stanchi adesso di vivere in mezzo ad uomini che non facevano piú distinzione alcuna di sangue o di casta, spesso emigravano per raggiungere i loro compagni. L'emigrazione fu tale che piú volte i cittadini, risentendone gravi danni, fecero leggi per impedirla. Il Papa incoraggiava i Comuni, perché a lui non doleva la scemata potenza temporale dei vescovi, e gli era necessario l'abbassamento dell'Impero. Cosí la lotta degli artigiani contro il feudalismo finalmente cominciava, e con essa la vera storia dei nostri Comuni.
Non bisogna però credere che il Comune sorgesse in nome dei diritti dell'uomo o delle libertà nazionali. Nulla di ciò. L'Impero era riconosciuto sempre come la fonte unica, universale del diritto. In fatti fino quasi a tutto il secolo XV, le città guelfe o ghibelline, nemiche o amiche dell'Impero, continuarono a scrivere in suo nome i pubblici atti.[12] Le risorgenti repubbliche accettavano sempre l'alto suo dominio, e la loro dipendenza da esso, quasi direi che, chiedendo una nuova e piú generale esenzione, volevano solo essere come duchi o conti di sé stesse. Combattevano i nobili e combattevano l'Impero; ma dopo la vittoria, riconoscevano l'autorità dell'Imperatore, ed a lui chiedevano la sanzione delle conquistate libertà. Né i Papi desiderarono mai la distruzione dell'Impero, della cui protezione avevano spesso bisogno, che riconoscevano anch'essi erede legittimo dell'antica Roma, e quindi sorgente unica del diritto politico e civile: volevano bensí sottomettere il potere temporale allo spirituale. La teocrazia ed il feudalismo, il Papato e l'Impero sussistevano adunque e combattevano sempre, quando il Comune sorgeva. Esso dové lungamente ancora lottare contro ostacoli d'ogni sorta; ma era destinato a trionfare, a creare il terzo stato ed il popolo, che soli potevano dal caos del Medio Evo far nascere la società moderna. In ciò sta la sua principale importanza storica.
Capitolo I[13] LE ORIGINI DI FIRENZE
I
Le origini di Firenze sono assai oscure, né valgono a rischiararle i cronisti, i quali o ne tacquero o le avvolsero nelle leggende. Su di essi, sul valore e la credibilità diversa di ciò che dissero, si è recentemente scritto assai. Ma, per volerne saper troppo e per troppo sottilizzare, si è qualche volta finito col disputare lungamente e dottamente anche su cose che forse resteranno sempre ignote, né importava poi molto conoscere, e si è lasciato da parte ciò che piú era facile scoprire e piú necessario sapere. A questo modo si corre il rischio di formare intorno a tali scrittori una specie di scienza occulta pei soli iniziati, quando tutto quello che di veramente certo ne sappiamo, può esprimersi in poche parole.
Il Comune di Firenze sorse piú tardi di molti altri, e quindi piú tardi ebbe i suoi storici e cronisti, perché la storia del Comune si comincia a scrivere quando esso ha già acquistato coscienza della sua personalità. Cosí fu che nel secolo XII si cominciarono a raccogliere notizie annalistiche, le quali registravano alcuni fatti principalissimi seguiti in Firenze, con le date, i nomi di luoghi e persone, e nello stesso tempo si principiarono a formare elenchi dei Consoli, che erano il primo magistrato del Comune, ai quali s'aggiunsero poi i nomi dei Podestà, che successero ai Consoli. Questi magistrati mutavano d'anno in anno; quindi i loro nomi servirono anche di guida cronologica, e sotto di essi si registrarono ben presto i fatti principali della Città.
Di tali raccolte annalistiche c'è rimasto un frammento assai antico, che trovasi nella Vaticana, ed è scritto a tergo d'un foglio, il quale fa parte d'un codice di leggi longobarde.[14] Sono in tutto diciotto notizie, che vanno dal 1110 al 1173, scritte da diverse mani, tutte però del secolo XII, non senza errori, e neppure in ordine cronologico. Esse sono nondimeno molto importanti, perché le piú antiche che abbiamo. Un'altra simile raccolta di notizie, piú lunga, ma assai posteriore, che va dal 1107 al 1247, si trova nella Biblioteca Nazionale di Firenze, in un manoscritto del secolo XIII.[15]
Ambedue furono recentemente ripubblicate ed illustrate dal dottor Hartwig, che le intitolò Annales florentini I, ed Annales florentini II.[16] Il codice in cui si trovano i secondi Annali, contiene anche il piú antico elenco di Consoli e di Podestà che ci sia rimasto, il quale va dal 1196 al 1267, e poté con nuove ricerche essere reso piú compiuto.[17] Altri non pochi elenchi di notizie fiorentine dovettero certamente esservi, prima in latino, poi in italiano, i quali, girando di famiglia in famiglia, di mano in mano, s'andarono estendendo, correggendo, alterando, secondo i gusti, e qualche volta anche secondo la fantasia di chi li copiava. Ma da tutto quello che ci resta di siffatti elenchi, da ciò che ne troviamo ripetuto nei cronisti, si può quasi con certezza indurre che poco o nulla dicevano sulle origini del Comune. E ciò deve farci credere, che esso non nacque da un conflitto violento, da una vera e propria rivoluzione, che gli annalisti avrebbero certo ricordata, ma s'andò invece lentamente formando e svolgendo in mezzo a lotte di secondaria importanza.
Se noi oggi desideriamo conoscere le origini del Comune fiorentino, questo desiderio, come è naturale, dovettero averlo piú vivo ancora gli antichi. Essi non avevano però quell'arte e quel metodo critico, che fa cercare e spesso scoprire la storia piú remota ed oscura nei documenti, i quali allora dovevano essere di certo molto piú numerosi che non sono oggi. Si abbandonarono quindi piú facilmente alla propria fantasia, e cosí ne nacque una leggenda sull'origine della Città, che ben presto si diffuse assai largamente.
Il primo nucleo, da cui questa leggenda s'andò poi sempre piú svolgendo ed accrescendo, dovette formarsi nel secolo XII, perché essa è già nota al cronista Sanzanome, che la ricorda, ed egli scrisse ai primi del secolo XIII. Molto piú antica non si può supporre che sia, perché i fatti cui accenna, e le date cui allude, per quanto indeterminate e vaghe, la portano, come vedremo, a dopo del mille. Di questa leggenda si trovano ancora parecchie copie inedite nelle biblioteche fiorentine,[18] e tre diverse compilazioni ne furono pubblicate per le stampe. La piú antica di esse, in latino, l'abbiamo in un codice della fine del secolo XIII, o dei primi del XIV.[19] La seconda, che è in italiano, trovasi in un manoscritto lucchese, compilato fra il 1290 e il 1342;[20] essa ricorda in un punto l'anno 1264,[21] nel quale assai probabilmente fu compilata. Un'ultima e piú recente, conosciuta col titolo di Libro fiesolano, trovasi nella Marucelliana di Firenze, in un codice italiano, che ha la data del 1382, e fu scoperta dal signor Gargani, il quale la pubblicò sin dal 1854.[22] L'Hartwig scoprí la seconda di queste compilazioni, che differisce dalla prima solo nella lingua, e le pubblicò tutte e tre col titolo di Chronica de Origine Civitatis,[23] titolo che le dà il codice lucchese; altri codici la chiamano, invece, Memoria del nascimento di Firenze.
Tale è il genere di materiali, che sull'origine di Firenze trovarono, e di cui dovettero servirsi i piú antichi cronisti. Il primo di essi che ci sia rimasto, è il giudice e notaio Sanzanome, il quale, come già dicemmo, scrisse i suoi Gesta Florentinorum in sul principio del secolo XIII. Il suo nome s'incontra piú d'una volta nei documenti fiorentini dal 1188 al 1245.[24] E se non si può affermare che questo nome si riferisca sempre ad una sola e medesima persona, è pur certo che lo stesso cronista ricorda d'essersi trovato presente alla guerra di Semifonte nel 1202, ed a quella di Montalto nel 1207. La sua opera trovasi del resto in un codice fiorentino del secolo XIII, non autografo, ma sincrono o quasi.[25] Questo primo saggio di storia fiorentina, scritto in latino da un giudice e notaio, venuto in Firenze da qualche vicino castello, come suppongono il Milanesi e l'Hartwig, è di un genere a sé, diverso assai da tutti gli altri lavori dei cronisti fiorentini che vennero dopo. Dell'origine del Comune e della sua interna costituzione il Sanzanome non dice neppure una parola. Dopo avere sommariamente, vagamente accennato alla leggenda,[26] incomincia colla guerra e distruzione di Fiesole nel 1125, cum eius occasione Florentia sumpsisset originem. Cosí egli ci mostra, sin dal principio, già costituito il Comune, co' suoi Consoli e capitani, e continua narrando le sue guerre co' vicini, in una forma gonfia e retorica, con date spesso incerte, qualche volta errate, con discorsi nei quali pretende imitare gli antichi storici romani. E per tutto ciò il suo lavoro fu da alcuni scrittori giudicato senza alcuna importanza storica. Ma critici piú imparziali e ponderati, come l'Hartwig, l'Hegel ed il Paoli, riconobbero invece che l'opera di questo notaio, quasi precursore degli umanisti del secolo XV, è un fenomeno letterario, nella sua solitaria apparizione, assai notevole, perché ci dà prova dell'antica cultura de' Fiorentini, e perché al di sotto della retorica c'è pur da ritrovare in essa non poche notizie e cognizioni assai utili sull'antica storia di Firenze.
Il problema quindi che allora si presentò a tutti gli altri cronisti, rimaneva sempre questo: come si poteva scrivere sui primi tempi di Firenze, una storia o anche una cronica, con le scarse e slegate notizie che si avevano? Il notaio Sanzanome se n'era uscito tacendo affatto delle origini, e poi gonfiando, a forza di retorica, la narrazione, con discorsi immaginarî, con descrizioni di battaglie, in cui la fantasia e l'imitazione classica avevano gran parte. Ma un tal metodo non poteva piacere, né poteva riescire a quegli uomini piú semplici, che, dopo di lui, volevano scrivere nella loro lingua parlata, e avevano una cultura minore o almeno assai diversa dalla sua. Rimanevano quindi con una leggenda e con pochi frammenti di notizie, il che non doveva certo soddisfare il loro patriottico orgoglio.
Fortunatamente per essi, allora appunto, cioè verso la metà del secolo XIII, avvenne un fatto che ebbe molta importanza letteraria, e che valse ad aprire ai cronisti fiorentini una strada nuova. Un frate domenicano, Martino di Troppau in Boemia, chiamato perciò anche Oppaviensis, e volgarmente noto col nome di Martin Polono, cappellano e penitenziario apostolico, piú tardi arcivescovo, scrisse un libro di storia, che, sebbene non avesse alcun notevole valore, ebbe pure una straordinaria e rapida fortuna. Era una specie di Manuale di storia universale, cronologicamente distribuita sotto i nomi dei varî Imperatori e Papi, sino al 1268. Piú tardi l'autore stesso la continuò per alcuni anni ancora, e vi premise una introduzione sulla storia anteriore all'Impero romano.[27] Questo libro, meccanicamente ordinato, era pieno di aneddoti, di errori, di favole; ma l'aveva scritto un prelato eminente, animato da spirito guelfo. L'aver poi l'autore diviso i fatti del Medio Evo sotto i nomi dei Papi e degl'Imperatori, dava come una guida, un filo conduttore nel vasto laberinto. Certo è che il libro si diffuse subito in tutta Europa, ma specialmente in Italia, e piú che altrove in Firenze. «Un Fiorentino primo lo tradusse, e un Fiorentino, Brunetto Latini, primo lo adoperò», dice il prof. Scheffer Boichorst. Le biblioteche fiorentine ne conservano infatti un grandissimo numero di copie, in codici latini del secolo XIV, ed in altri dello stesso secolo hanno una traduzione italiana, che, secondo le ricerche degli studiosi,[28] dovrebbe essere stata fatta a Firenze circa il 1279.[29] Questo solo fatto basterebbe a provar luminosamente la rapida popolarità e diffusione dell'opera. In alcuni di coloro che a Firenze copiavano, e copiando rifacevano, come allora usava, questa traduzione, dovette facilmente nascere il pensiero d'introdurvi, qua e là, le piú importanti almeno fra le poche notizie che s'avevano sull'antica storia della Città. Ma siccome, verso la fine del secolo XIII, l'opera di Martin Polono si fermava, e le notizie fiorentine invece crescevano molto di numero e di estensione, cosí ne avveniva che, senza quasi pensarvi, tutti questi rifacimenti smettevano allora la storia universale, e continuavano con la fiorentina, a cui la prima veniva in tal modo a servire d'introduzione, con non piccola soddisfazione dell'amor proprio municipale.
Uno dei primi lavori che ci presenti Martin Polono tradotto, abbreviato, rifatto, con l'innesto d'alcune notizie fiorentine, è quello che ha per titolo: Le Vite dei Pontefici et Imperatori romani, che fu attribuito al Petrarca, e trovasi in parecchi codici fiorentini del secolo XIV. In esso però la storia di Firenze ha ancora un'importanza molto secondaria, tanto è vero che, essendo stato piú tardi raffazzonato e continuato fino al 1478, quando fu la prima volta pubblicato,[30] si seguí sempre il metodo primitivo del Polono, dando cioè, via via, in compendio, le Vite degli altri Papi ed Imperatori. Ma non mancarono ben presto nuovi tentativi, nei quali si dette a Firenze una parte assai maggiore. Un manoscritto del secolo XIV, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, esaminato la prima volta dal Pertz, ci presenta, in fatti, molto abbreviate le notizie di Martin Polono, dando assai piú larga estensione a quelle su Firenze, le quali arrivano sino al 1309.[31] Qui si comincia a veder chiaro che le seconde son per l'autore lo scopo principale del lavoro, tanto che all'Hartwig poté sembrare opportuno estrarle dal codice, e stamparle a parte, come una delle fonti di cui assai probabilmente si valse il Villani.[32] Lo stesso concetto apparisce molto piú chiaro in una Cronica attribuita a Brunetto Latini. Alcune delle notizie fiorentine che in essa si trovano, furono da lungo tempo e piú volte estratte, stampate, adoperate, specialmente la nota dei Consoli e dei Podestà, di cui anche l'Ammirato si valse, e una narrazione del fatto del Buondelmonti (1215), diversa assai da quella dataci dal Villani. Si poté subito affermare che l'autore scriveva nel 1293, perché in quell'anno appunto ricorda un fatto cui dice essersi trovato presente.[33] Piú tardi la Cronica fu attribuita a Brunetto Latini, sebbene la narrazione arrivi fino ad un tempo in cui il maestro di Dante era certamente morto.[34] Nelle sue dotte ricerche il dottor Hartwig scoprí in Firenze quello che, secondo ogni apparenza, dovrebbe essere l'autografo.[35] Quantunque il codice sia mutilo, cominciando solo dal 1181, pure è doppiamente prezioso, perché ci pone dinanzi chiarissimamente il metodo con cui questo lavoro, al pari certo di molti altri simili, fu compilato. Una colonna nel mezzo contiene il solito rifacimento di Martin Polono;[36] nei margini, fra le rubriche, qualche volta anche negl'interlinei, sono aggiunte notizie di storia generale, cavate da altre fonti, ma sopra tutto notizie di storia fiorentina.
E cosí s'arriva al 1249, dove c'è una lacuna che va sino al 1285, quando l'autore ripiglia la sua narrazione, per arrivare al 1303.[37] In questa seconda parte però il suo lavoro muta affatto carattere. Egli non ha piú dinanzi a sé la guida di Martin Polono, e ne abbandona anche il metodo. Le notizie dell'Impero e della Chiesa diminuiscono sempre piú, e crescono invece quelle di Firenze, le quali non sono ora staccate ed introdotte capricciosamente nella narrazione, ma riunite e fuse insieme. Cosí, a poco a poco, noi abbiamo dinanzi una vera cronica di Firenze, che acquista un suo proprio valore indipendente. Il dott. Hartwig, che l'aveva scoperta, la credette in principio autografa, ma finí poi col dubitarne. La gran confusione del manoscritto; l'essere mutilo in sul principio; la lacuna di trentasei anni nel mezzo; la mancanza d'alcune notizie, che si trovavano negli estratti di essa, riportati da antichi scrittori; il vedere che molti di questi citavano un altro codice della Cronica, appartenuto alla Biblioteca Gaddi; tutto ciò gli fece a buon diritto affermare, che per risolvere definitivamente il problema occorreva prima trovare il codice gaddiano, da lui invano sino allora cercato. Il prof. Santini invece sostenne, in una sua tesi di laurea, che il codice gaddiano doveva essere la copia di quello scoperto dall'Hartwig, che egli giudicava essere l'originale mutilo. Non molto dopo la questione fu definitivamente risoluta da un altro alunno del nostro Istituto Superiore, il sig. Alvisi, il quale scoprí nella Laurenziana il codice gaddiano, che è in fatti una copia del secolo XV.[38] In esso i varî brani, che nell'originale erano stati scritti in colonne separate, sono fusi cogli altri, ma in modo spesso arbitrario. Anche qui c'è la lacuna 1249-85, ma la Cronica, invece di cominciare dal 1181, comincia, come la prima compilazione di Martin Polono, da Gesú Cristo, primo e sommo Pontefice, e da Ottaviano imperatore. Cosí noi possiamo ora affermare, che nel codice della Biblioteca Nazionale di Firenze, abbiamo una vera fotografia del metodo seguíto nelle prime compilazioni di storiografia fiorentina. Con esso vediamo l'autore lavorar quasi sotto i nostri occhi.
Un altro esempio, ma assai piú imperfetto, di questi lavori, lo abbiamo nel codice lucchese qui sopra citato. L'autore ci dice esso stesso di averlo composto fra gli anni 1290 e 1342. Egli trascrive tutta la leggenda sull'origine di Firenze; prosegue quindi col rifacimento italiano di Martin Polono, incominciando da Ottaviano imperatore. Di tempo in tempo v'introduce però «molte cose, le quali pertengono ai fatti di Toscana e specialmente di Firenze... la maior parte si trovano in diversi libri di Toscana, e qual na piú, qual na meno». Arrivato cosí all'anno 1309, continua la sua narrazione, valendosi del Villani, che nel 1341 aveva già pubblicato alcuni libri della sua storia, e con questo aiuto va fino al 1342. Continua, riproducendo una descrizione latina di Firenze, scritta nel 1339, e poi, anche in latino, la introduzione che Martin Polono aggiunse alla sua storia. Il compilatore riconosce che l'ordine da lui seguíto non è né logico né cronologico; ma si scusa col lettore, dicendo che ha voluto porre insieme prima le parti italiane e poi le latine di questa sua opera, con l'intendimento però di meglio ordinarle piú tardi, e fonderle insieme, scrivendole tutte in latino, al che pare gli mancasse poi il tempo. Anche da questo codice furono estratte e stampate le notizie attinenti a Firenze.[39] Il metodo seguíto dal compilatore, come si vede, è sempre lo stesso, quantunque piú meccanico e materiale del solito, perché non v'è alcuna intrinseca unione fra le parti diverse. Quello però che v'ha di nuovo, si è l'avere trascritta, nella sua integrità, la leggenda, per farla servire da introduzione alla storia di Firenze, esempio che fu poi, come vedremo, imitato anche da altri.
Per quanto però questo sistema di fondere la storia del Comune nella storia universale, potesse piacere all'amor proprio fiorentino, era tuttavia chiaro che la prima ne rimaneva come soffocata. Non mancarono quindi nel secolo XIV tentativi di esporla separatamente. Paolino Pieri incomincia la sua Cronica dal 1080, anno in cui anche gli altri cronisti dànno la prima notizia storica di Firenze, e continua, accennando poco dei Papi e meno degl'Imperatori, sino al 1305, raccogliendo le scarse notizie fiorentine «di piú cronache, di piú libri trovate, et di nuovo per me Paolino di Piero vedute et ad memoriam scripte». Simone della Tosa, che morí nel 1380, comincia invece i suoi Annali con l'elenco dei Consoli e Podestà (1196-1278), e poi va subito dalla morte della contessa Matilde (1115) fino al 1346, aggiungendo, verso la fine, alle magre notizie su Firenze, anche quelle della sua famiglia. Ma tali modestissimi sunti di poche pagine, meno che mai potevano contentare nel secolo XIV una città, che era già fra le prime d'Italia, che nel suo crescente orgoglio si poneva alla pari di Roma, e voleva nella sua storia veder qualche cosa di simile a quella dell'antica capitale del mondo.
Questo fu l'ambizioso problema che si propose di risolvere Giovanni Villani, come egli stesso ci narra. Mi trovavo, egli dice, a Roma pel Giubileo, l'anno 1300, ammirando le grandi memorie di quella città, leggendone le gloriose imprese, narrate «da Virgilio, Sallustio, Lucano, Tito Livio, Paolo Orosio e altri maestri d'istorie, che scrissero non solo i fatti di Roma, ma eziandio degli strani dell'universo mondo; presi lo stile e forma da loro».[40] Ripensando che «per gli nostri antichi Fiorentini poche e non ordinate memorie ai trovino di fatti passati della nostra città di Firenze»,[41] e che essa «figliuola e fattura di Roma era nel suo montare e a seguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare», deliberai «di recare in questo volume e nuova cronica tutti i fatti e cominciamenti della città di Firenze,... e seguire per innanzi stesamente i fatti de' Fiorentini, e dell'altre notabili cose dell'universo in brieve ».[42] Connettere quindi la storia di Firenze con quella del mondo, come già altri avevano fatto; ma in modo che non vi si perdesse, avesse anzi la parte principale, ecco quale doveva essere la via da tenere, secondo il Villani. Egli quindi non fa piú un lavoro meccanico e di mosaico; coordina, divide la sua storia in libri e capitoli, al modo degli antichi. Noi non conosciamo quali sono tutte le sue fonti, perché su questo argomento non si è fatto ancora uno studio compiuto. Sappiamo però con certezza che sono molte. Per la storia generale, Martin Polono resta sempre la fonte principale; ma vi si aggiungono i Gesta Imperatorum et Pontificum di Thomas Tuscus; la Vita di San Giovanni Gualberto;[43] le Cronache di San Dionigi, la cui traduzione italiana fu stampata (1476) prima dell'originale; il Libro del Conquisto d'Oltremare, che è una storia delle crociate, tradotta nel Medio Evo dal francese in quasi tutte le lingue.[44]
Quale sia il gran valore del Villani per la storia fiorentina, a cominciare dalla fine del secolo XIII, tutti lo sanno e non è questo il luogo da parlarne. Quanto alle origini, le notizie veramente storiche che egli ci dà, sono assai poche. Incominciano al solito dal 1030, e vi si trova piú o meno tutto quello che è disseminato negli altri, non di rado coi medesimi errori, spesso anche colle stesse parole. Questa singolare somiglianza, che fu poi notata, pei primi tempi, fra tanti cronisti fiorentini, si spiegava facilmente quando si poteva supporre che gli uni avessero copiato dagli altri. Ma quando, il che seguiva piú volte, si poteva invece dimostrare che essa esisteva anche fra scrittori l'uno dall'altro affatto indipendenti, la soluzione del problema non era ugualmente facile. Fu questa la ragione per la quale il prof. Scheffer Boichorst, con giuste ed acute indagini, notando il fatto, mise innanzi l'ipotesi, che i varî cronisti avessero attinto ad una fonte comune, ora perduta. E siccome Tolomeo da Lucca, il quale aveva già finito i suoi Annali prima che il Villani cominciasse a colorire il proprio disegno, cita piú volte i Gesta e gli Acta Florentinorum, i Gesta e gli Acta Lucensium, cosí il critico tedesco dette il nome di Gesta Florentinorum a quella che sarebbe stata, secondo lui, la fonte comune dei cronisti fiorentini fino ai primi del secolo XIV. Una tale ipotesi, che in modo assai probabile, spiegava un fatto certo, il quale altrimenti rimarrebbe del tutto inesplicabile, venne generalmente ammessa. Quando però si vollero un po' troppo determinare la natura e i confini dei Gesta, la lingua non solo e l'anno in cui cominciarono, quello in cui finirono, ma anche lo stile ed il carattere preciso dell'opera e dell'autore, fu forza allora restare spesso sopra un terreno assai disputabile. Io perciò lascio da parte siffatte discussioni, estranee ad una sommaria esposizione. Ritengo bensí col prof. C. Paoli,[45] che i Gesta non furono un lavoro veramente personale, ma piuttosto una raccolta di notizie fiorentine, assai magra in sul principio, la quale s'andò poi via via accrescendo di nuove notizie annalistiche e di nuove aggiunte, secondo che passava di mano in mano. Una di tali compilazioni, piú autorevole e piú nota (ora sfortunatamente perduta), dovette venire nelle mani di alcuni cronisti, che l'adoperarono, senza che l'uno sapesse dell'altro. Da questi copiarono poi parecchi di coloro che vennero piú tardi.
Il Villani incomincia dalla Torre di Babele e dalla confusione delle lingue, per darci subito la leggenda sulle origini di Firenze, che egli divide in capitoli, ed espone come se fosse una vera storia, portandovi però alcune alterazioni, di cui parleremo piú oltre. Segue poi la storia generale del Medio Evo, in cui, a cominciare dal 1080, l'autore introduce tutte quelle notizie che poté raccogliere su Firenze, e queste sono anch'esse piú o meno alterate da altre leggende assai diffuse allora nel popolo, da considerazioni spesso fantastiche, che egli vi aggiunge di suo. Che cosa di certo possiamo noi cavare da tutto ciò? In sostanza abbiamo solo una leggenda, ed un piccolo numero di notizie storiche di non dubbio valore, ma non senza errori, che galleggiano qui, come altrove, in un mare di notizie affatto estranee a Firenze, con brani di tradizioni o leggende mal sicure, con spiegazioni o considerazioni affatto arbitrarie. La prima questione da risolvere è perciò questa: quale è l'origine della leggenda, che valore ha essa? Se ne può direttamente o indirettamente cavare nulla di storico? La seconda è: si può con sicurezza determinare quale sia quel nucleo primitivo di notizie autentiche, che si dovevano trovare nei Gesta Florentinorum? La seconda almeno di tali questioni non presenta gravi difficoltà, perché, quando noi paragoniamo i varî cronisti, massime quelli che sono tra loro indipendenti, e ne caviamo tutto ciò che hanno di comune, spesso anche con identiche parole, su Firenze, lo scopo è in gran parte raggiunto. Ma dopo di ciò, e dopo che s'è cercato di cavar qualche costrutto (assai scarso, come vedremo) dalla leggenda, quello che rimane di certo è ben poco. E però bisogna assolutamente aiutarsi con tutti quanti i documenti pubblici o privati, che possono trovarsi negli archivi, colle indagini dei dotti moderni sulla storia medioevale in genere, e su quella di Firenze in particolare. Queste ultime, incominciate già dall'Ammirato, furono con ardore proseguite nel passato secolo dal Borghini, dal Lami, da molti e molti altri eruditi fino ai nostri giorni. I resultati definitivi però di sí lunghe indagini e di sí vasta dottrina, rimasero sempre scarsissimi. La prova ne è, che l'illustre Gino Capponi, dopo alcune poche pagine d'introduzione alla sua storia di Firenze, è costretto, come gli antichi, a fare un salto sino alla morte della Contessa Matilde, ed incomincia, si può dire, a parlar del Comune, quando esso era già da un pezzo formato. Seguono dodici pagine, in cui si fa la storia di quasi due secoli, sino al 1215 circa, e solo dal secolo XIII in poi il racconto procede davvero ampiamente.
Ma ai nostri giorni la critica dei documenti medievali ha fatto, massime in Germania, uno straordinario progresso, e la questione è stata perciò ripresa in esame. Il primo che, con un metodo scientifico e con molta dottrina, si accinse all'opera, fu il D. r O. Hartwig. Egli studiò non solo tutto quello che s'era pubblicato, ma fece nuove indagini nelle biblioteche ed archivi italiani; ebbe dal D. Wüstenfeld appunti preziosi di nuovi diplomi, da questo scoperti in Toscana. Cosí poté nell'opera, che abbiamo già piú volte citata, darci una raccolta di preziosi documenti e di dotte dissertazioni, le quali servirono e serviranno di base alle future ricerche, e sarebbero anche meglio note e pregiate, se fossero state scritte in una forma piú popolare. Molto ha cercato, moltissimo ha letto il prof. Perrens, che dedicò la sua vita alla storia di Firenze, scrivendo un'opera di cui sono già usciti otto volumi. Il primo dei quali, di 550 pagine, arriva solo alla metà del XIII secolo, e tratta quindi lungamente, dottamente delle origini. Di ciò gl'Italiani tutti debbono essergli grati; ma è pur forza riconoscere che allo zelo indefesso, alla vasta dottrina, ad una lettura veramente prodigiosa, non rispondono sempre la precisione delle notizie e la sicurezza del metodo. Trattandosi d'un tempo, pel quale bisogna tutto ricostruire sopra un assai scarso numero di fatti conosciuti, se questi non sono bene accertati, le conseguenze possono essere disastrose davvero. Quando, per esempio, egli cerca le prime origini dei Consoli, si fonda ancora sopra quel documento di Pogna con la data del 4 marzo 1101, in cui essi sono nominati, e non osserva che il Capponi, il quale pure è da lui continuamente citato, aveva dimostrato che quella data sí lungamente creduta esatta, era sbagliata, e bisognava mutarla in 4 marzo 1181, stile fiorentino, il che vuol dire 1182, stile moderno. Cosí egli vede i Consoli prima assai che nascessero.[46] Altrove entra nella disputa molto intricata della giurisdizione, che i Fiorentini del XII secolo avevano sul proprio contado. Ripete cogli antichi cronisti che nel 1186 Federico I lo tolse loro del tutto, sino alle mura; ma che essi lo riebbero nel 1188. E aggiunge che, morto poi l'imperatore Federico nel 1190, il suo successore Enrico VI, «comme don de joyeux avénement, multiplie les privilèges». Né riflette, che il diploma citato a sostegno di quest'ultima asserzione, ha la data, da lui stesso riportata in nota, del 1187.[47] Come può il lettore piú dipanare l'arruffata matassa? E, per addurre un altro esempio, diremo che l'autore ci dà come storia, la narrazione leggendaria sull'origine della festa della colombina, il sabato santo. I Fiorentini sono spinti alla crociata dall'Arcivescovo Ranieri nel 1099, cioè alcuni secoli prima che a Firenze vi fosse un arcivescovo. Pazzino dei Pazzi, pel valore dimostrato nella presa di Gerusalemme, ottiene la corona murale da Goffredo Buglione, il quale gli concede anche il privilegio di mutare la propria arme, adottando le croci e i delfini, cosa che i Pazzi fecero solo qualche secolo piú tardi.[48] Egli torna in Firenze come un conquistatore, sopra un carro, di cui ci è data la descrizione; è accolto come un trionfatore romano dal popolo, dal clero e dai magistrati, in un tempo in cui il Comune non era ancora formato.[49] Porta seco tre pietre cavate dal sepolcro di Cristo, le quali sono pietre focaie, da cui anche oggi si cava la scintilla, per accendere il carro della colombina. E tutto ciò è fondato sulla Storia genealogica del Gamurrini, che non ha valore alcuno.[50] Al lettore parrà stranamente odioso l'essermi io qui fermato a notare alcuni errori d'un'opera, di cui sono primo a riconoscere i pregi, e della quale piú volte ho profittato. Ma dovevo spiegar la ragione, perché, pure lodandola, cosí di rado la cito. È un'opera che contiene di certo un vasto materiale storico, scritta con brio e chiarezza, che ha osservazioni spesso acute, e fa onore al suo autore, cui gl'Italiani debbono riconoscenza; ma se per tutto ciò è necessario studiarla, non è possibile valersene, senza un continuo riscontro delle fonti che cita.
E qui dobbiamo ricordare un altro lavoro assai piú modesto, del quale però ci siamo potuti piú francamente giovare. Il prof. Santini, che in alcuni suoi brevi scritti, pubblicati nell' Archivio storico italiano, aveva dato saggio di molto acume nelle indagini sulla storia primitiva di Firenze, adesso ha avuto il felice pensiero di raccogliere tutti quanti i documenti editi o inediti, che intorno al medesimo soggetto si trovano negli archivi fiorentini. Dopo averli copiati e riscontrati sugli originali, li ha già stampati in un grosso volume, che vedrà presto la luce. Sarebbe assai desiderabile che egli o altri potesse fare lo stesso per tutte almeno le città toscane, che tante relazioni hanno fra loro. Ma intanto il suo libro sarà una nuova e solida base alle indagini storiche fiorentine. E noi dobbiamo essergli doppiamente grati, perché ci ha consentito di studiarlo sulle bozze di stampa. Cosí ce ne siamo potuti valere prima che sia pubblicato, e lo citeremo assai spesso. Di altri lavori non parliamo qui, ma il lettore li troverà ricordati nelle note.
II
Lasciando per ora da parte i documenti e gli autori, veniamo a parlare della leggenda, la quale, come dicemmo, presenta un primo problema da risolvere o almeno da discutere. Essa si diffuse di certo assai largamente nel popolo. Anche la Divina Commedia ( Par. XV, 125), ci descrive la donna fiorentina che, filando,
Favoleggiava con la sua famiglia
De' Troiani, di Fiesole e di Roma.
Ciò non ostante, la sua origine apparisce piú letteraria che veramente popolare. Non è infatti che uno strano amalgama di tradizioni classiche e medievali, la piú parte cavate da libri, e piú o meno arbitrariamente alterate, sull'assedio di Troia, la fuga di Enea, le origini di Roma, con le quali l'orgoglio municipale voleva connettere quelle di Firenze, raccogliendo cosí le poche ed incerte cognizioni o piuttosto tradizioni, che su di ciò si avevano. La leggenda comincia con Adamo, e subito lo abbandona, arrivando rapidamente alla fondazione di Fiesole, per opera di Atalante e di sua moglie, col consiglio di Apollonio astrologo. Fiesole fu la prima città, costruita nel luogo piú sano d'Europa, e di qui il suo nome: Fie sola. I loro figli si sparsero sulla terra, che andarono popolando. Il primo si chiamò Italo, e diede il suo nome all'Italia; il terzo si chiamò Sicano, e dette il suo nome alla Sicilia, che conquistò. Il secondo, Dardano, andò piú lontano a fondare la città di Troia.[51] Qui la leggenda corre di nuovo rapida fino alla guerra di Troia, alla fuga d'Enea, alla fondazione di Roma, di cui Firenze è la figlia prediletta. Si procede quindi assai piú lentamente a parlare di Catilina, e su di esso (tanti sono i particolari che di lui si narrano) deve esserci stata una speciale leggenda, la quale o venne piú tardi a congiungersi con le altre, che formarono la cosí detta Chronica de origine Civitatis, o piú probabilmente si svolse prima da questa, e vi fu poi ricongiunta nelle compilazioni posteriori.
Dopo aver cospirato contro Roma, egli venne a Fiesole, dove i Romani lo inseguirono e lo combatterono, sotto il comando dei consoli Metello e Fiorino, il secondo dei quali morí in battaglia, ed il loro esercito fu pienamente disfatto presso l'Arno. A vendicarli però venne Giulio Cesare, il quale pose l'assedio a Fiesole, la distrusse, e poi sul luogo stesso dove era stato ucciso Fiorino, fu edificata una città nuova, che da lui prese il nome di Fiorenza. Catilina fuggí verso l'Appennino pistoiese; colà fu inseguito e disfatto. La mortalità fu tale e tanta, che ne scoppiò una peste, da cui venne il nome a Pistoia.[52] Il nome delle città toscane è dalla leggenda spiegato sempre collo stesso metodo, Pisa viene da pesare. Ivi i Romani riscuotevano i loro tributi, i quali erano tanti che essi dovevano pesarli in due luoghi diversi; e questa è la ragione per la quale usarono il nome di questa città al plurale: Pisae Pisarum. Lucca viene da lucere, perché essa fu la prima città, che si converti alla luce del Cristianesimo. Dello stesso genere è l'origine del nome di Siena. Quando i Franchi[53] vennero a combattere i Longobardi nel mezzogiorno, si fermarono in un luogo dell'Italia centrale, dove lasciarono tutti i loro vecchi. Cosí alla città che ivi poi sorse, fu dato il nome, usato anch'esso in plurale, di Senae Senarum. Firenze, invece, ebbe, secondo la leggenda, il suo nome da Fiorino, sebbene altri piú tardi lo facessero derivare da Fluentia, perché posta sul corso del fiume Arno; altri, dai molti fiori che crescono sul suo terreno. Essa fu costruita a similitudine di Roma, col Campidoglio, il Foro, il Teatro, le Terme, e fu perciò chiamata la piccola Roma. Suoi amici sono sempre gli amici di Roma, e nemici dell'una son sempre quelli dell'altra.
Dopo cinquecento anni, cosí continua la leggenda, Totila flagellum Dei venne a distruggerla, ricostruendo subito Fiesole, la città rivale. Qui è chiaro che si voleva dire Attila, perché questi ebbe il titolo di flagellum Dei, e fu nel Medio Evo il tipo vero del devastatore e distruttore di città. Ma esso non era venuto a Firenze, e perciò fu mutato in Totila, che v'era stato, ma che non aveva avuto lo stesso appellativo. A questo scambio dei due nomi, contribui anche la loro somiglianza, né è il solo esempio che quella età ci presenti di confondere Attila con Totila. Dante nella Divina Commedia, ( Inf. XIII, 148-9) attribuisce ad Attila la distruzione di Firenze, là dove ricorda
Quei cittadin che poi la rifondarno
Sovra il cener che d'Attila rimase.
E s'allontana doppiamente dalla leggenda, perché secondo essa furono i Romani, che vennero a ricostruirla, e questa volta naturalmente a similitudine di Roma cristiana, con le chiese di S. Piero, S. Giovanni, S. Lorenzo ecc., come nella Città eterna.
Passarono cosí tranquilli piú di altri 500 anni,[54] quando finalmente Firenze volle vendicarsi della sua eterna rivale, ed improvvisamente assalí e distrusse Fiesole. Ora noi possiamo qui osservare, che se Firenze fu la prima volta fondata ai tempi di Cesare; se piú tardi fu ornata di monumenti romani; se, trascorsi 500 anni, fu distrutta da Totila,[55] e dopo piú di altri 500 anni essa distrusse Fiesole, è chiaro che la cronologia stessa della leggenda ci porta per lo meno al secolo XI. Se poi aggiungiamo che l'assalto e la parziale distruzione di Fiesole avvennero storicamente nel 1125, ne segue che la leggenda non può essersi formata prima del secolo XII, come già dicemmo.
Qui essa sarebbe finita, e dovrebbe aver principio la storia. Il Sanzanome infatti, che è il cronista piú antico, incomincia appunto dalla distruzione di Fiesole. Il Libro fiesolano però, che qualche volta inverte a capriccio l'orditura della leggenda, vi fa infine una giunta, che merita d'essere ricordata, perché dimostra quanto era l'arbitrio con cui questi strani racconti s'andavano formando. La giunta si riferisce agli Uberti, potenti cittadini di Firenze, stati sempre avversi al governo popolare della loro Città. Secondo la tradizione essi erano venuti di Germania cogli Ottoni. Questo però evidentemente non piaceva al compilatore del Libro fiesolano, che forse era amico degli Uberti, e però afferma, con un certo sdegno, che gli Uberti erano invece discesi dal sangue di Catilina, «nobilissimo re di Roma», il quale discese dai Troiani. Questi ebbe un figlio chiamato Uberto Cesare, a cui una moglie fiesolana diè 16 figliuoli, dopo di che fu da Augusto mandato a riconquistare la Sassonia, la quale s'era ribellata. Colà suo figlio Uberto Catilina sposò una gran dama tedesca, da cui nacque «il lignaggio del buon Ceto (Ottone) di Sansognia». Cosí è falso che gli Uberti siano «nati dallo Imperatore della Magna, ma la veritade è questa, che lo Imperatore è nato di loro».[56] Con tale giunta, posteriore al resto della leggenda, si vede che l'autore vuol glorificare gli Uberti; ma, ricordandosi che essi furon sempre nemici del governo della Città, li fa discendere da Catilina e da una Fiesolana. Non potendo però neppure disconoscere affatto il loro carattere ghibellino, la loro origine germanica, se non sa decidersi a farli discendere dagli Ottoni, li muta in loro progenitori. Cosí sono soddisfatte la tradizione e l'ambizione o piuttosto l'adulazione del compilatore.
Uno studio delle fonti di questa leggenda, che non ha certo una vera importanza storica, ci condurrebbe fuori del nostro tema, perché non getterebbe nessuna nuova luce sulle origini di Firenze. Diremo solo che, oltre a Darete, De excidio Troiae, ed al comento di Servio a Virgilio, essa attinge alla Storia di Orosio, alla Storia Romana di Paolo Diacono ed alle altre parti della Historia Miscella, ecc.[57] Ma, lasciando ora siffatto argomento, noteremo invece che, incominciando con essa le loro storie, il Villani ed il Malespini, non solo ricorrono a due diverse compilazioni, ma se ne valgono in modo affatto diverso.[58] Ciò serve anche a provare che, se il Malespini deriva dal Villani, non ne è però sempre ed in tutto una copia. Egli si vale del Libro fiesolano, aggiungendovi di suo due interi capitoli,[59] i quali contengono una vera e propria novella, che probabilmente deriva da qualche episodio della leggenda di Catilina. Piena di stranissimi anacronismi, essa è però scritta in una forma piú corretta e assai piú vivace di tutto il resto.
Fiorino, che qui diviene un re di Roma, aveva in moglie la piú bella donna mai vista, chiamata perciò Belisea. Dopo la disfatta e morte di suo marito, ella restò prigioniera d'un pessimo cavaliere, chiamato Pravus, che Catilina fece uccidere, pigliando seco Belisea, di cui s'era perdutamente innamorato. Ma essa trovavasi in preda al piú disperato dolore, perché non sapeva che cosa fosse mai avvenuto della sua bellissima figlia Teverina, che stava chiusa nella casa di Centurione, il quale l'aveva presa prigioniera e se n'era poi invaghito. Baciandone le bellissime trecce, egli esclamava: «Queste sono quelle che mi hanno incatenato, che io non vidi mai le somiglianti trecce di bellezza». Il giorno della Pentecoste, la madre andò a sentire la messa nella Canonica di Fiesole, dove a calde lacrime piangeva la figlia perduta. Colà fu sentita da una fantesca, che conosceva dov'era la giovinetta, e lo rivelò alla madre. Saputolo Catilina, assalí subito Centurione nel proprio palazzo, e dopo fiera battaglia lo prese prigioniero. Questi dovette allora la vita alle intercessioni di Belisea, la quale, avuta la figlia, volle salvarlo; ne curò le ferite, e lo indusse a partire, perché non fosse preda dello sdegno di Catilina. Persuaso a partire, e già salito a cavallo, Centurione chiese di rivedere Teverina, per darle l'ultimo addio. Ma quando l'ebbe vista, distese a lei la mano, la tirò sull'arcione, e se ne fuggí subito con le sue genti, menandola seco a galoppo. La madre tramortí per dolore, e Catilina «con tutta la sua baronía», con mille cavalieri e due mila pedoni, inseguí il traditore, che raggiunse a dieci miglia di distanza, nel castello di Nalde, dove pose l'assedio. Ma in quel momento gli giunse novella che i Romani correvano verso Fiesole, e fu costretto a ripartire subito, per arrivare colà prima che vi ponessero l'assedio. E cosí finisce questo singolare episodio, aggiunto alla leggenda, quando essa, perduto il suo primitivo carattere, pretendeva di essere una storia, e diveniva una novella.
Il Villani segue invece una piú antica compilazione, e non accoglie la novella di Belisea; conosce anche il Libro Fiesolano, e se ne vale, ma lo respinge come poco autorevole, appunto là dove abbiam visto che il Malespini lo segue. Ricordando infatti la pretesa discendenza degli Uberti da Catilina, egli aggiunge: «questo non troviamo per alcuna autentica storia, che per noi si provi».[60] Oltre di ciò, volendo dare alla leggenda, per quanto gli è possibile, una forma piú autorevole e storica, vi porta piú d'una volta alterazioni, che cava ora dalle fonti medesime da cui essa ha attinto, ora da poeti e storici romani che cita, come Ovidio, Lucano, Tito Livio, e specialmente Sallustio, del quale si giova per aggiungere particolari storici ai racconti leggendari su Catilina. Resterà pur sempre un fatto psicologico eternamente istruttivo quello che ci presentano gli uomini di questo tempo, massime il Villani, il quale, contemporaneo di Dante, pratico degli affari, culto, intelligente, acuto osservatore, poteva a tanta intelligenza, cultura e buon senso, unire tanta e cosí puerile credulità.
Ma che cosa, in sostanza, si può cavare di certo dalla Chronica de origine Civitatis? Oltre all'ambizione, che avevano quasi tutte le città italiane, di ricondurre le loro origini ai Romani ed ai Troiani, essa vuol farci sapere che Fiesole, etrusca, fu l'eterna rivale di Firenze, romana, la quale non poté prosperare fino a che non l'ebbe distrutta. E però Catilina, nemico di Roma, è il difensore di Fiesole; Cesare, Augusto, gl'Imperatori sono i fondatori, difensori, restauratori di Firenze, fatta sempre a similitudine di Roma, chiamata piccola Roma, Augusta, Cesarea, ecc.; Totila o Attila, cioè i barbari che sovvertirono l'Impero, sono quelli che la disfecero. Piú tardi un'altra leggenda la fa ricostruire da Carlo Magno, il restauratore dell'Impero. Cosí almeno è narrato dal Villani e dal Malespini; ma non ve n'è traccia nel De Origine, e neppure nel Libro fiesolano, che, imbevuti di tradizioni romane, non conoscono ancora leggende cavalleresche. Infatti, nel darci questo racconto, il Villani dice: «Troviamo per le Croniche di Francia».
Le prime origini di Firenze furono attribuite alla etrusca Fiesole. E Dante stesso dice de' Fiorentini nel suo Inferno (xv-61-3):
Ma quell'ingrato popolo maligno
Che discese da Fiesole ab antico
E tiene ancor del monte e del macigno.
Niccolò Machiavelli nelle sue Storie, lasciando da parte (come aveva già fatto Leonardo Bruni) tutte le leggende medioevali, diceva che i mercanti fiesolani cercarono, fin da tempi remotissimi, di avere un emporio sull'Arno. Cosí a poco a poco s'andarono costruendo capanne, che poi divennero case, le quali formarono una città. Ma ciò sarebbe avvenuto per opera dei Romani, dopo le guerre cartaginesi. Altri suppose che ciò potesse essere avvenuto quando, secondo Livio (187 a. C.), Flaminio viam a Bononia perduxit Arretium.[61] Ma questo primo periodo della storia di Firenze è oscurissimo. Strabone non la nomina neppure; la ricordano Tacito e Plinio, il primo dei quali racconta che insieme con altre città, essa mandò una deputazione a Tiberio, per impedire che la Chiana venisse immessa nell'Arno, dal che temevano una inondazione. Quaranta anni dopo, Floro la ricorda fra i municipia splendidissima, che piú soffrirono ai tempi di Silla, il quale la mise all'asta.[62] Un'antica iscrizione in cui si leggeva: Jul[ ia ] Aug[ usta ] Flor[ entia ] fece ritenere che Firenze fosse colonia romana fondata da Augusto. Ma recentemente il Mommsen sostenne che questa iscrizione si deve riferire non a Firenze, bensí a Vienna nella Gallia[63] Il Liber coloniarum (213.6) la pone tra le colonie dedotte dai Triumviri ( colonia deducta a triumviris, adsignata lege Julia ). E però qualche scrittore, riferendosi al primo triumvirato la dice fondata da Cesare (59 a. C.), gli altri, riferendosi al secondo, la ritengono fondata da Ottaviano Augusto (43. a. C.). Pure, non ostante il Liber coloniarum, non ostante la citata iscrizione e le parole di Floro, altri scrittori propendono a credere che Firenze sia colonia sillana, opinione cui sembra inclinare anche il Mommsen.[64] Gli scavi recentemente fatti proverebbero, secondo il prof. Milani, direttore del Museo Archeologico di Firenze, che ai tempi di Silla la città aveva già non poca importanza.[65] In conclusione però se si disputa sul primo fondatore della colonia, la esistenza di Firenze colonia romana, non solo è certa, ma gli avanzi dei monumenti ai nostri giorni scoperti ce la fanno sempre meglio conoscere. Le mura romane erano visibili ancora nel Medio Evo, ed alcuni avanzi se ne sono pure trovati ai nostri giorni.
Prima però di questa Firenze colonia romana, ve n'era stata di certo un'altra piú antica, quella cui si dovrebbero riferire le parole di Floro, quando la chiama Municipium splendidissimum. Ma di essa non si sa nulla di veramente certo, e finora si hanno delle ipotesi piú o meno fondate, ma solo ipotesi. Possiamo aggiungere che gli scavi piú recenti han messo in luce alcune tombe italiche assai antiche, ed alcuni frammenti architettonici che, come già dicemmo, si possono, secondo il prof. Milani, ritenere anteriori anche ai tempi di Silla.
Comunque sia di ciò, la Firenze colonia romana aveva la forma dell'antico castrum, un quadrato, traversato da due grandi strade perfettamente orientate, le quali s'incrociavano ad angolo retto nel centro di essa, e la dividevano in quartieri. Il Campidoglio era nel mezzo, là dove piú tardi fu la chiesa di S. Maria in Campidoglio; ivi era anche il Foro, nel luogo stesso dove fu poi il Mercato Vecchio ora demolito. V'erano inoltre nella Città un anfiteatro, che nel Medio Evo fu chiamato il Parlascio, del quale si vedono ancora le tracce presso il Borgo dei Greci; un teatro in via dei Grondi; un tempio d'Iside, dove ora è S. Firenze; le Terme nella strada che ora ne porta il nome.[66] Non è quindi da maravigliarsi se questa città, che del resto era allora assai piccola, e tutta al di qua d'Arno, pretendesse chiamarsi piccola Roma, e cercasse le proprie origini nella tradizione romana. Tutto infatti ne' suoi monumenti parlava di Roma, e ciò trovava naturalmente eco nelle menti e nella fantasia fiorentina donde scaturí poi la leggenda. Anche oggi noi troviamo sempre nuovi avanzi di monumenti romani, esempi di architettura bizantina, nulla di veramente gotico o longobardo, appena qualche traccia di etrusco.
Come è naturale la Città s'andò col tempo allargando, e si formarono dei borghi fuori della mura, il piú grosso dei quali, al di là del fiume, congiunto ad essa per mezzo del Ponte Vecchio. Nella seconda metà del secolo XI, e propriamente nel 1078, se è esatta l'affermazione del Villani (IV, 8), alle palizzate che circondavano questi borghi furono sostituite le nuove mura. Si può credere che di ciò egli avesse notizia sicura, giacché, come sappiamo, sorvegliò alla costruzione del terzo ed ultimo cerchio delle mura incominciate nel 1299 (VIII, 2 e 31), e distrutte in gran parte ai nostri giorni, non restandone ora che alcuni brani.
A cominciare dalle invasioni barbariche una profonda oscurità circonda per lungo tempo la storia di Firenze, e le poche notizie che ne abbiamo, o sono di nuovo leggendarie affatto, o dalla leggenda alterate. Nel 405 Radagasio con un'orda di Goti, cui s'erano uniti altri barbari, si fermò in Toscana, ed assediò Firenze, le cui mura poterono resistere fino all'arrivo di Stilicone generale romano, il quale disfece quelle orde, ponendo a morte il loro capo. La resistenza fatta allora venne assai magnificata, e la vittoria di Stilicone fu attribuita a miracolo. La tradizione aggiunse, che il fatto seguí il di 8 ottobre, giorno di S. Reparata, e che perciò i Fiorentini iniziarono in esso le corse del pallio, e fondarono la chiesa di S. Reparata, cose tutte che sono invece di tempi posteriori. Questa leggenda perciò vale solo a provare, come durasse lungamente in Firenze la memoria dello scampato pericolo.
Segue un secolo d'assoluto silenzio, e poi la Chronica de Origine Civitatis, ci dà la notizia ripetuta qui anche dal Villani, che Totila, flagellum Dei, distrusse Firenze e fece riedificare Fiesole.[67] Al che il cronista aggiunge l'altra leggenda, secondo la quale, dopo essere restata la Città cosí guasta e disfatta per 350 anni, Carlo Magno, imperatore, invitò i Romani a volerla insieme con lui riedificare, a similitudine di Roma, e cosí essa sorse con le chiese di S. Pietro, S. Lorenzo, S. Maria Maggiore ecc. come sono a Roma, e le fu dato anche un territorio di tre miglia intorno alle mura.[68] Si vede qui che la ricostruzione di Firenze fatta, secondo il De Origine, subito dopo la pretesa distruzione operata da Totila, e da lui già ricordata piú sopra, gli sembra prematura, perché Firenze restò lungo tempo ancora in grandissimo abbandono; e quindi, senza troppo confondersi, registra anche la leggenda posteriore, che la fa costruire invece da Carlo Magno, il restauratore dell'Impero.
Ma che cosa possiamo noi trovare di vero in tutto ciò? Nel 542 Totila venne veramente in Toscana, e mandò parte de' suoi ad assediare Firenze. Giustino, che ivi comandava la guarnigione imperiale, chiese allora aiuto a Ravenna, ed all'avvicinarsi del soccorso verso la Città, Totila richiamò i suoi, ritirandosi nel Senese. Inseguito dagl'Imperiali, li disfece; ma non tornò poi contro Firenze, andando invece verso il mezzogiorno d'Italia. Tale almeno è il racconto di Procopio, seguito anche dai moderni.[69] I Goti tornarono, è vero, piú tardi, e furono senza difficoltà padroni della Toscana e di Firenze, dove commisero molte crudeltà; ma non la distrussero. Questi sono i fatti, tutto il resto è aggiunto della leggenda, la quale, col suo linguaggio fantastico, voleva dire, che seguí un lungo periodo di oscurità e di oppressione, da cui i Fiorentini cominciarono a sollevarsi alquanto solo a tempo dei Franchi.
I Longobardi infatti occuparono la Toscana verso il 570, ed abbiamo due secoli di tenebre fitte. Troviamo ricordato un Dux civitatis Florentinorum, Gudibrandus, che essi vi posero; ma altro non sappiamo. In mezzo a molte calamità d'invasioni di guerre, di dura oppressione, non solo quel commercio, che aveva dato origine a Firenze, fu interamente distrutto; ma molte famiglie, per maggior sicurezza, dal piano si rifugiarono ai monti, e non pochi cercarono perciò ricovero in Fiesole, alla quale, allora come sempre, tornarono a vantaggio i danni di Firenze. E si arrivò a tal punto, che nella seconda metà dell'ottavo secolo, i documenti parlano di Firenze come se fosse divenuta un borgo di Fiesole.[70] Ben presto però, sotto Carlo Magno, cominciarono tempi di maggiore ordine e tranquillità. Dai monti si discese allora di nuovo al piano; Firenze cominciò a prosperare a danno di Fiesole. E siccome i Franchi ai duchi longobardi sostituirono i conti, cosí anche Firenze ebbe un conte, la cui giudiciaria si estendeva per tutto il territorio della diocesi vescovile, che s'era formata sull'antica divisione romana. Questo era ciò che chiamavasi il contado fiorentino, il quale da un lato arrivava sino quasi a Prato, a un luogo detto i Confini, e di là verso il Poggio a Caiano si stendeva, girando dalla parte di Empoli, e confinando col Lucchese, col Volterrano, col contado fiesolano.[71] Carlo Magno si fermò a Firenze e vi celebrò il Natale del 786; esso difese anche i beni della chiesa fiorentina contro le aggressioni dei Longobardi. Tutto ciò dette origine alla leggenda della riedificazione della Città per opera sua. Il Villani, con manifesto anacronismo, non solo vi aggiunge la concessione di molti privilegi immaginarî, ma fa in questo momento nascere il Comune, che invece tardò parecchi secoli ancora. «Carlo», esso dice, «fece assai cavalieri e privilegiò la Città, facendo franco e libero il Comune e i cittadini, e tutto il contado co' suoi abitanti tre miglia intorno, e tutti quelli che si trovavano ad abitare, anche i forestieri. Per la qual cosa molti vi tornarono, ed ordinarono che la detta Città si governasse a modo di Roma, cioè per due Consoli e per lo Consiglio di Cento Senatori».[72] Ma questa non è che una giunta del cronista, piú arbitraria della leggenda stessa.
E non basta. Come Carlo Magno, cosí Ottone I, il restauratore dell'Impero in Germania, doveva essere fautore di Firenze, «perché», prosegue il cronista, «essa era stata sempre de' Romani e fedele all'Imperio».[73] In Firenze l'Imperatore s'era fermato l'anno 955, nell'andare a Roma per la coronazione, cosí continua il cronista, facendo anche da lui concedere alla Città un contado di sei miglia, doppio cioè, ma non meno immaginario di quello che le aveva fatto concedere da Carlo Magno. Ottone, sempre secondo il Villani, mise pace in Italia, abbatté i tiranni, e molti de' suoi baroni rimasero in Lombardia ed in Toscana, tra i quali ricorda i conti Guidi e gli Uberti. Né riflette che alcune di queste famiglie toscane avevano un'origine piú antica assai, e che anche al suo tempo i nobili principali del contado avevano nome di Cattani lombardi, in memoria della loro origine longobarda. E dimentica di nuovo che Firenze non era allora una città libera, cui l'Imperatore potesse concedere un territorio, il quale, come vedemmo, faceva già parte della sua giudiciaria, e non poteva, verso Fiesole almeno, estendersi a sei miglia.[74]
Un altro racconto favoloso è quello, narrato pure dal Villani, della distruzione di Fiesole nel 1010. Il giorno della festa di S. Romolo, i Fiorentini, deliberati a vendicarsi, sarebbero, colle armi celate sotto le vesti, entrati all'improvviso nella città rivale, dove, cavatele fuori a un tratto, e chiamati i compagni nascosti in agguato, avrebbero corso le vie, facendo man bassa su tutto, distruggendo le case, gli edifizî, eccetto il vescovado, la cattedrale, alcune altre chiese e la rocca, che non s'arrese. Fu dopo ciò promessa salva la vita a tutti coloro che volessero venire ad abitare in Firenze, di che molti profittarono. Cosí di due popoli se ne fece uno, e si riunirono anche le loro bandiere. Quella dei Fiorentini era rossa col giglio bianco, quella de' Fiesolani era bianca con una mezza luna celeste, e con esse si formò la bandiera rossa e bianca del Comune.[75]
Questa unione di due popoli in uno fu, secondo il Villani, la causa principale delle continue guerre civili, da cui Firenze fu tanto travagliata, al che s'aggiunse anche l'essere la Città stata costruita «sotto la signoria e influenza della pianeta di Marte, che sempre conforta a guerra e divisioni». E di nuovo, quasi dimenticando d'averlo già detto ai tempi di Carlo Magno, con poco minore anacronismo, ripete che i Fiorentini allora «feciono leggi e statuti comuni, vivendo ad una signoria di due Consoli, e col Consiglio del Senato, ciò era di cento uomini, i migliori della Città, com'era l'usanza data da' Romani ai Fiorentini».[76] È chiaro che egli non conosce le origini del Comune, è convinto solamente che venivano da Roma, e però di tanto in tanto le ricorda, là dove gli torna piú opportuno o gli pare meno improbabile che cominciassero. Di dove poi cavasse questa guerra e distruzione di Fiesole nel 1010, sapendo pure che il fatto era avvenuto invece nel 1125, come egli stesso racconta a suo luogo, non è facile dirlo. Il piú probabile è che, avendo nella leggenda trovato la guerra e distruzione di Fiesole piú di 500 anni dopo la distruzione di Firenze, per opera di Totila, il quale venne 500 anni dopo la fondazione della Città, il cronista ripeté due volte il fatto della distruzione, cioè nel 1010 e nel 1125, soddisfacendo cosí prima alla leggenda, che, in un modo del resto assai vago, lo aveva rimandato indietro, e poi alla storia, che ai suoi tempi era assai nota. Quanto poi alle ragioni della guerra civile, cercate nella forzata unione di due popoli avversi, si può osservare che per molto c'entrava davvero la diversità del sangue germanico dei nobili dal sangue latino del popolo, cosa che il cronista forse sentiva e non capiva.
Certo è che, dai Franchi in poi, Firenze continuò sempre a prosperare, sebbene assai lentamente. Il suo territorio, è vero, fu, come scrive il Villani, tutto incastellato da baroni feudali di origine germanica, ad essa avversi, molti de' quali trovavano sicuro ricovero anche in Fiesole, di dove cercarono danneggiarla. Ma, ciò non ostante, il vantaggio d'una posizione geografica sulla via di Roma, assai favorevole al commercio, si faceva sempre piú sentire. Sin dall'825 l'imperatore Lotario, nelle sue Costitutiones olonenses, la destinava, con altre sette città italiane, ad essere sede d'una scuola pubblica, il che già ne dimostrava l'importanza. Oltre di ciò, gl'Imperatori tedeschi vi si fermavano quasi sempre, ogni volta che andavano a coronarsi in Roma. Piú spesso e piú lungamente vi si fermavano i Papi, quando, il che succedeva di frequente, i tumulti popolari li cacciavano da Roma. Vittore II morí a Firenze nel 1057, dopo avervi due anni prima tenuto un Concilio; nel 1058 vi morí Stefano IX; tre anni dopo Niccolò II e i cardinali vi restarono sino alla elezione di Alessandro II. Piena di tradizioni e di monumenti romani, in continue relazioni con la Città eterna, essa ne sentí fin dai primi tempi l'influenza, manifestando quel carattere religioso e guelfo, che apparisce sempre piú chiaro in tutta quanta la sua storia. Molte sono le chiese che dentro o vicino alla Città sorsero in sul finir del secolo X. La costruzione poi di un edifizio come quello di S. Miniato al Monte, in su i primi del secolo XI, massime se si aggiungono le chiese che sorsero poco prima o poco dopo, è prova manifesta di cominciata prosperità e di zelo religioso. Ed in vero Firenze divenne allora uno dei centri piú importanti di quel movimento della riforma dei chiostri, che, incominciato da Cluny, si diffuse poi largamente nel mondo. S. Giovanni Gualberto di famiglia fiorentina, morto nel 1073, fu l'iniziatore della riforma benedettina, che prese il nome da Vallombrosa, dove egli fondò un eremo assai celebrato, sottoponendo alla stessa regola altri non pochi conventi vicini a Firenze.
Questo zelo religioso e monastico si accese ben presto cosí vivamente nella Città, che l'accusa di simonia lanciata contro il suo vescovo Pietro da Pavia, sollevò tutto il popolo. I monaci affermavano che esso aveva avuto il suo alto ufficio per favore dell'Imperatore, del duca Goffredo e di sua moglie Beatrice, favore che sarebbe stato ottenuto pagando grossa somma di danaro. La moltitudine seguiva i monaci, e la contesa durò cinque anni (1063-68), non senza spargimento di sangue, tanto s'erano infiammate le passioni. Il vescovo adirato da queste accuse, imbaldanzito dalla protezione che aveva dal Duca, fece, armata mano, assalire i monaci nel convento di S. Salvi, presso Firenze. S. Giovanni Gualberto, il promotore primo dell'agitazione, n'era per sua fortuna partito; ma i sacri altari vennero manomessi, e parecchi dei monaci ivi presenti furono feriti. Tutto ciò doveva naturalmente portare esca al fuoco, e S. Giovanni Gualberto, che già predicando nelle vie della Città, aveva infiammato gli animi, ruppe adesso ogni freno, ed arrivò sino a dire che i preti consacrati dal vescovo simoniaco non erano veri preti. L'esaltamento giunse a tale, che si afferma (cosa certo singolare, ma pur credibile in tempi di viva fede religiosa), che circa mille persone preferirono morire senza i sacramenti, piuttosto che riceverli da preti ordinati dal vescovo simoniaco.[77] Invano papa Alessandro II cercò calmare gli animi; invano mandò a tal fine il pio, dotto ed eloquente S. Pier Damiano. Questi venne o portar parole di pace, che poi ripeté nelle sue lettere indirizzate: Dilectis in Christo civibus florentinis. Biasimava la simonia, ma biasimava anche il prestar troppo facile orecchio alle accuse. — Mandassero, egli diceva, piuttosto i loro rappresentanti al sinodo in Roma, il quale avrebbe autorevolmente deciso la lite; intanto usassero calma, non si abbandonassero alla riprovevole e cieca illusione, che aveva fatto morir tante persone senza i sacramenti, con grave danno delle loro anime. Guai a coloro che vogliono essere piú giusti dei giusti, piú sapienti dei sapienti. Essi finiscono, per troppo zelo, con l'unirsi ai nemici della Chiesa. Gracchiando come rane ( velut ranae in paludibus ) confondono ogni cosa, e possono paragonarsi davvero alle locuste che desolarono l'Egitto, perché portano uguale devastazione nella Chiesa.[78]
Questo moto somiglia assai a quello promosso quasi nello stesso tempo in Milano dai Patarini contro la simonia dell'arcivescovo. Anche qui, come a Firenze, S. Pier Damiano fece la parte di paciere, ed anche qui molti preferirono morire senza sacramenti, piuttosto che riceverli da preti simoniaci.[79] Se però le due insurrezioni si rassomigliarono, il resultato finale fu diverso, per le diverse condizioni delle due città, e per l'attitudine assai diversa che di fronte ad esse prese la Corte di Roma. Ma comunque sia di ciò, le esortazioni di S. Pier Damiano non valsero a nulla in Firenze. I monaci vallombrosani mandarono a Roma i loro rappresentanti solo per dichiarare dinanzi al Concilio allora radunato, che essi erano pronti a risolvere la questione, ricorrendo al giudizio di Dio. La loro proposta non fu accolta né dal Papa, né dal Concilio; anzi essi ne furono severamente biasimati, sebbene l'arcidiacono Ildebrando, che si trovava presente, e che già era salito a grande autorità nella Chiesa, cercasse difenderli, come avevano difeso la Pataria a Milano. Il Concilio impose loro di ritirarsi nei proprî conventi, e restare tranquilli, senza piú osar di agitare gli animi già troppo esaltati. S. Giovanni Gualberto voleva ora obbedire, ma era tardi; esso non poteva piú fermare la tempesta che aveva sollevata. Il popolo, saputo ciò che i monaci avevano proposto in Roma, chiedeva in ogni modo l'esperimento del fuoco. Il campione, a questo fine eletto, già pronto ed impaziente di presentarsi alla prova, era un tal frate Pietro, vallombrosano, conosciuto poi col nome di Pietro Igneo, stato, secondo alcuni scrittori, guardiano di vacche e giumenti nel monastero, sebbene altri lo dicano della nobile famiglia dei conti Aldobrandeschi di Sovana. Guglielmo dei conti di Borgonuovo, soprannominato il Bulgaro, offrí ai monaci il campo franco, presso la Badia di S. Salvatore a Settimo, di suo patronato, a cinque miglia da Firenze.[80] Il vescovo però non solo respinse sdegnosamente la sfida, ma ottenne un ordine, che chiunque, laico o secolare, non avesse riconosciuto la sua autorità, sarebbe stato legato, e non condotto, ma trascinato dinanzi al Preside della città.[81] I beni poi di coloro che si fossero per paura dati alla fuga, sarebbero stati confiscati dalla Potestà, cioè a dire dal duca Goffredo che favoriva il vescovo. Alcuni ecclesiastici ribelli, che s'erano rifugiati in un oratorio, ne furono intanto colla forza cacciati.[82] E tutto questo, come è naturale, non fece che accendere sempre piú gli animi. Pietro Igneo si dichiarò pronto a passare anche solo attraverso il fuoco. Il 13 febbraio 1068, una folla enorme di uomini, donne, fra cui alcune incinte, vecchi e bambini, s'avviarono, cantando salmi e preghiere, alla Badia di Settimo. Ivi tra due cataste di legna (cosí almeno racconta chi dice d'essere stato testimone oculare), quando già le fiamme salivano in alto, il frate passò miracolosamente illeso. L'entusiasmo fu allora indescrivibile, le grida di gioia arrivavano al cielo, e vi mancò poco che Pietro Igneo, il quale dalle fiamme era stato rispettato, non rimanesse schiacciato dalla moltitudine, che s'affollava intorno a lui per baciarne le vestimenta. Fra molte difficoltà, a forza di mani e di braccia, poterono salvarlo alcuni ecclesiastici. La notizia corse come fulmine a Roma, e poi ogni cosa fu minutamente descritta al Papa, che dinanzi al miracolo dové arrendersi. Il vescovo di Firenze si ritirò in un convento; Pietro Igneo venne nominato cardinale, vescovo d'Albano, e fu dopo morte adorato come santo.
Questo ci ricorda l'altro esperimento del fuoco, die doveva farsi a Firenze nel 1498, e che invece provocò il martirio del Savonarola, poco prima della caduta della Repubblica, la quale cosí sarebbe stata, nel nascere e nel morire, preceduta da due simili fatti. Per quanto la narrazione di tutto ciò possa essere stata esagerata dalla passione e dalla superstizione, per quanto i nomi di Preside e di Podestà, che troviamo nell'antica narrazione, indichino solo, in termini generali, chi comandava, noi siamo adesso entrati in una società nuova. Troviamo un Duca di Toscana, un Preside armato, che sembra rappresentarlo in Città, e quello che è piú, un popolo che, sebbene apparisca solo come una moltitudine fanatizzata, pure comincia a sentir finalmente la propria personalità, combatte il Vescovo, resiste al Duca ed al Papa, finisce coll'ottener quello che vuole. Indirizzandosi al Papa, assume il nome di populus florentinus, e ad esso si rivolge S. Pier Damiano, con le parole cives florentini. Non sono, è vero, altro che forme imitate dall'antico; ma hanno, come vedremo, la loro importanza.
Capitolo II LE ORIGINI DEL COMUNE DI FIRENZE
I[83]
I Longobardi, divenuti padroni di quasi tutta l'Italia, che oppressero duramente e lungamente, posero, come è noto, un duca in ciascuna delle città principali che occuparono. Roma restò libera da essi, perché v'era il Papa; Ravenna, perché ben presto vi fu l'Esarca, e quasi tutte le città poste sulla riva del mare furono preservate del pari, perché i Longobardi non erano navigatori, e avevano bisogno di chi facesse per loro il commercio marittimo. Questa è anzi la ragione per la quale le repubbliche come Venezia, Amalfi, Pisa, Napoli, Gaeta, sorsero prima delle altre. I duchi ebbero molta autorità e indipendenza; alcuni dei Ducati, massime ai confini, divennero cosí grossi, che somigliarono a piccoli regni, come furono quelli del Friuli, di Spoleto, di Benevento. Tutto questo contribuí non poco alla decomposizione del regno, ed alla caduta del dominio dei Longobardi, i quali non seppero mai all'ardire ed alla forza unire alcuna grande qualità politica.
Venuti i Franchi, posero invece dei duchi, i conti, i quali ebbero però minore importanza e piú piccolo territorio. Carlo Magno, uomo di grande ingegno politico, non voleva nel suo impero mantenere signori, che, per la voglia di rendersi indipendenti, ne potessero mettere a pericolo l'esistenza. Ma ai confini era pur necessario avere piú forte difesa; vi costituí quindi le Marche, che somigliarono ai piú grossi Ducati longobardi, e venero affidate a margravî o marchesi ( Mark-grafen, conti di confine, marchesi o margravî). Cosí si formò anche il Marchesato di Toscana, la cui sede principale fu in Lucca, città che fin dal tempo dei Longobardi aveva, con un proprio duca, avuto non poca importanza, mentre che, come già ricordammo, Firenze era allora caduta in tanta oscurità da essere, nei documenti del tempo, ricordata come se fosse un borgo di Fiesole. Questi margravî divennero quasi da per tutto potentissimi, ed aspirarono a sempre maggiore grandezza. Da essi sorsero infatti uomini come Berengario, Arduino, che mirarono a costruire un regno d'Italia, s'opposero vigorosamente all'Impero, cui recarono spesso gravissimi danni, e mossero guerre sanguinose.
Non v'è quindi da maravigliarsi se la politica degl'Imperatori tedeschi fu piú tardi costantemente diretta ad indebolire in Italia i margravi ed i conti maggiori, dando esenzioni e benefizî ai vescovi, ai minori feudatarî, dichiarando ereditarî i benefizî concessi a questi ultimi, per renderli indipendenti dai maggiori e piú pericolosi. Ne crebbe quindi, specialmente in Lombardia, la loro importanza e cosí pure l'autorità politica dei vescovi, che divennero anch'essi veri e proprî conti. Ma in Toscana le cose andarono diversamente. Sia che la minor forza ed espansione, che ivi ebbe il feudalismo, lo rendesse meno temibile all'Impero; sia che, per la maggiore lontananza, riuscisse meno agevole governare il paese; sia pel bisogno d'avere nel centro d'Italia uno Stato forte, che facesse argine alla potenza crescente dei Papi; sia che questi ne favorissero la formazione, vedendovi un argine contro l'Impero; sia, come è probabile, per tutte queste ragioni insieme riunite, certo è che i duchi o marchesi di Toscana (giacché portavano l'uno o l'altro titolo) crebbero di forza e di potenza, e piú tardi divennero anch'essi minacciosi all'Impero. Ma ne rimase, al paragone della Lombardia, assai abbassata la potenza dei vescovi e dei conti, sotto il peso crescente dei margravî, che s'andavano d'ogni parte allargando, e sembravano qualche volta veri sovrani dell'Italia centrale. Per le stesse ragioni ne fu ritardato anche il sorgere delle città, massime di Firenze.
Già fin dalla seconda metà del decimo secolo, il marchese Ugo, di origine salica, chiamato il Grande, dominava la Toscana, il ducato di Spoleto, la Marca di Camerino; teneva, quasi come sovrano indipendente, la sua sede in Lucca, ed era favorito dagli Ottoni. I suoi successori continuarono a governare con autorità poco diversa dei duchi di Benevento, e Bonifazio III allargò il suo Stato anche nell'Italia superiore, tanto da dar ombra ad Enrico III, col quale seppe spesso lottare d'astuzia. Bonifazio, assai avido di potere, e d'indole dispotica, privò molti vescovi, conti e conventi de' loro beni, sia per impadronirsene, sia per darli a piú fidi vassalli. Aggravò la sua mano anche su quelle città, che, per la cresciuta loro importanza, aspiravano a qualche maggiore indipendenza. Fra queste erano principalmente Lucca e Pisa. La prima aveva prosperato per essere stata lungamente la sede principale del Ducato, la seconda dovette invece la sua prosperità al mare, su cui era, secondo la felice espressione dell'Amari, già libera, quando in terra rimaneva ancora soggetta. Firenze però viveva allora sempre modesta ed oscura, col suo piccolo commercio, circondata per tutto da castelli feudali.
L'anno 1037 Bonifazio aveva sposato Beatrice di Lorena, da cui ebbe nel 1046 la figlia Matilde, la celebre Contessa o Comitissa, come la chiamano i cronisti. Morto Bonifazio, assassinato nel 1052, Matilde si trovò ben presto a governare la Toscana e tutto il Ducato, insieme con la madre; piú tardi, alla morte di lei nel 1076, fu sola signora dei vasti dominî. Beatrice, donna assai religiosa, aveva, in seconde nozze, sposato Goffredo di Lorena, il cui fratello fu papa Stefano IX, e ciò li spinse sempre piú a favorire la politica papale, che fu poi da Matilde seguíta con passionato ardore. Questa donna d'alto animo e di energico carattere, quando si trovò sola, assunse subito con fermezza le redini del governo, e spesso la vediamo, colla spada al fianco, sui campi di battaglia. La sua politica condizione fu piena di pericoli, perché essa venne trascinata nell'aspra lotta, che scoppiò allora tra l'Impero e la Chiesa. Il grande e fiero Ildebrando condusse questa lotta dapprima come ispiratore di varî Papi; piú tardi, salito sulla cattedra di S. Pietro col nome di Gregorio VII, si trovò egli stesso a dirigerla di fronte ad Arrigo IV, ed ebbe in Matilde il piú franco e valido sostegno. In questo conflitto, che divise ed agitò l'intera Europa, molte furono, come era naturale, le opposte passioni che s'accesero in Italia. Le città che, come Pisa e Lucca, si tenevano oltraggiate dal duca Bonifazio, si dichiararono per l'Impero, che subito le favorí contro Matilde. Lo stesso fecero tutti i feudatarî scontenti, massime quelli che da Bonifazio erano stati spogliati dei loro beni. Matilde, è vero, piú di una volta li tolse a coloro cui erano stati arbitrariamente donati; ma di rado li restituí poi agli antichi possessori, preferendo concederli invece a chiese, a conventi, a suoi fedeli. E ciò dette nuova esca al fuoco. Ne nacque cosí un viluppo sempre piú intricato di opposte passioni, d'interessi in conflitto, fra i quali Firenze cominciò finalmente a cavarne vantaggio. Il suo spirito guelfo e la sua posizione commerciale, sulla via che conduce a Roma, l'avevano, sin dal principio, fatta inclinare verso la Chiesa, e la facevano adesso parteggiare apertamente per Beatrice e per Matilde, che perciò molto la favorirono.
II
Per lungo tempo si credette che sin dal 1102 la città avesse avuto i suoi Consoli, cioè la sua indipendenza, perché essi sono ricordati in un trattato, che ha questa data, col quale gli abitanti di Pogna le si sottomettevano. Ma riusciva difficile mettere in armonia un tal fatto con la dipendenza allora chiaramente manifesta di Firenze da Matilde. Piú tardi fu provato che la data del documento era sbagliata, e doveva mutarsi in 1182, quando realmente era avvenuta la sottomissione di Pogna. L'indipendenza della Città fu perciò portata a dopo del 1115, anno in cui morí la Contessa. Ma non riusciva poi facile spiegare le guerre che già prima la Città aveva mosse, per suo proprio conto, ed altri eventi di simile natura. La verità è che non si può assegnare un anno determinato alla nascita del Comune fiorentino, il quale s'andò lentamente formando e svolgendo dalle condizioni in cui Firenze s'era trovata sotto gli ultimi duchi o marchesi. Riassumiamo un momento il già detto. Noi abbiamo ricordato i tumulti popolari, degli anni 1063-68, contro il vescovo Mezzabarba, accusato di simonia, ed abbiamo narrato come finissero con la prova del fuoco, sostenuta da Pietro Igneo nel 1068. Citammo, a questo proposito, le lettere di S. Pier Damiano, indirizzate: civibus florentinis. Citammo pure un documento[84] in cui il clerus et populus florentinus si rivolgevano al Papa, e, narrando ciò che era accaduto, parlavano di un municipale praesidium, di un Praeses della Città, e di una superiore Potestas. Questo ci provò che la cittadinanza allora già sentiva la sua propria personalità, e che dentro le mura v'era già l'embrione d'un governo locale. La suprema Potestas era senza dubbio il duca Goffredo, marito di Beatrice: il Praeses era il loro rappresentante in Firenze. Dinanzi ad esso il Vescovo aveva minacciato di far trascinare, come vedemmo, i suoi avversarî, i cui beni sarebbero stati confiscati, egli diceva, se persistevano nella disubbidienza. Questo Preside comandava il praesidium, al quale si dava nome di municipale prima ancora che il municipio veramente esistesse, ed un tal nome ci prova che, almeno in massima parte, il presidio doveva essere composto di cittadini. Ma tutto ciò dimostra del pari che, quando Firenze faceva ancora parte integrante del Margraviato, le forme, le tradizioni, le idee romane prevalevano già tanto in essa, da far dare nomi romani ad istituzioni di origine feudale. Questo è un fatto sul quale dobbiamo ora fermarci, perché ne sorge una questione, che non è solo di forma, ma ha una vera importanza storica.
Un tale linguaggio non deve recare gran meraviglia, se pensiamo che lo studio degli elementi del diritto romano, unito a quello della retorica,[85] dell' ars dictandi, faceva allora parte del Trivium, e s'insegnava perciò largamente in Italia. Nella prima metà del secolo XI, uno studio anche piú elevato del diritto era già fiorente nella scuola di Ravenna, di dove faceva sentire la sua crescente azione in tutta la Romagna, e di là in Toscana. Pareva che questo diritto rifiorisse spontaneamente dal seno stesso delle popolazioni latine, in mezzo alle quali non s'era mai interamente perduto: nel suo nuovo vigore esso modificava, alterava le istituzioni, le legislazioni diverse con cui veniva a contatto.[86] Infatti nelle sentenze di Beatrice e di Matilde troviamo qualche volta citato il Digesto, che secondo la procedura del tempo, era portato nei tribunali da coloro che su di esso fondavano i loro diritti.[87] Che anche i Fiorentini attendessero a questo studio, e tenessero in gran pregio il diritto romano, ne abbiamo una prova abbastanza manifesta nelle opere di S. Pier Damiano. Egli ci narra d'una loro disputa giuridica, per la quale, verso la metà di quel secolo, avevano chiesto il parere dei sapientes di Ravenna, che, a suo grande disdegno, presumevano, coll'autorità del Digesto, alterare le prescrizioni del diritto canonico. E fra tali sapienti, egli dice, il piú impetuoso e sottile, era appunto un Fiorentino.[88] Un'altra prova se ne potrebbe vedere nella osservazione già fatta dal Ficker,[89] che cioè nei tribunali tenuti in Firenze e nel suo contado, assai di rado si trovarono presenti quegli assessori o causidici romagnoli, che abbondavano invece nei tribunali d'altre parti della Toscana. Questo vorrebbe dire, ci sembra, che i Fiorentini non avevano per ciò bisogno di ricorrere alla Romagna. Piú tardi, cioè verso la fine del secolo, cominciò a fiorire in Bologna la scuola d'Irnerio, che mirava all'esatta riproduzione, e promosse un vero rinascimento del diritto romano. Ma la scuola di Ravenna, nel tempo di cui qui parliamo, rappresentava invece una continuazione dell'antica sapienza, in parte decaduta, in parte alterata dai diversi elementi di civiltà, in mezzo ai quali sopravviveva, e che a sua volta andava profondamente modificando.[90] Una di queste alterazioni, assai notevole per le sue conseguenze, non solo giuridiche, ma anche politiche, seguí nella formazione e nell'indole del tribunale margraviale.
Noi sappiamo che Matilde, al pari de' suoi antecessori, amministrava, in nome dell'Impero, la giustizia, solennemente presiedendo i tribunali. Questo era anzi uno de' suoi principalissimi ufficî. Abbiamo parecchie delle sue decisioni, dalle quali possiamo vedere come era composto il tribunale. Accanto a lei sedevano alcuni grandi feudatarî; poi v'erano giudici, assessori, causidici e testimoni; poi il notaio. Già il Lami aveva osservato, che i giudici e specialmente gli assessori mutavano, secondo che la Contessa andava da città a città, il che gli dimostrava che non pochi di essi erano abitanti di quelle città in cui giudicavano.[91] Ed invero chi sono costoro in Firenze? Noi vi troviamo i Gherardi, i Caponsacchi, gli Uberti, i Donati, gli Ughi ed alcuni altri.[92] Questi erano sin d'allora i principali e piú autorevoli cittadini, i Bomi Homines, i Sapientes, gli stessi che piú tardi vedremo Consoli. È un piccolo numero di famiglie, che prima entrarono a far parte del tribunale margraviale, e poi si trovarono alla testa del Comune. Il mutamento politico venne agevolato, apparecchiato da un mutamento giuridico, seguito per la crescente azione del rinnovato diritto romano. Quale fu questo mutamento? La distinzione precisa delle diverse funzioni che, secondo il diritto germanico, spettavano al presidente del tribunale, il quale pronunziava la sentenza, o ai giudici, che l'apparecchiavano, applicando la legge, s'era andata perdendo. Qualche volta la Contessa sentenziava senza i giudici; piú spesso erano essi che facevano il processo, applicavano la legge, formulavano la sentenza, la quale veniva semplicemente sanzionata da lei, che si riduceva cosí ad essere, secondo dice il Ficker, un presidente inattivo.[93] Ciò vien confermato dal vedere come piú di una volta manchi nel tribunale la presenza stessa di Matilde, ed il processo rimanga interamente affidato ai giudici. Entrata che fu per questa via, le sue molte e gravi occupazioni politiche, le continue guerre in cui si trovava impegnata, dovettero aumentare il numero dei giudizî abbandonati a giudici cittadini. Ed il fatto doveva avere una grande importanza in un tempo nel quale l'amministrazione della giustizia era uno dei principali attributi della politica sovranità. Questi tribunali cittadini sono quindi un segno precursore della indipendenza comunale, prima che il Comune abbia ancora acquistato la sua vera autonomia, la sua piena personalità. La notevole mancanza di documenti, i quali provino la esistenza di giudizî presieduti da Matilde in Firenze, negli ultimi quindici anni della sua vita, è una conferma di quanto diciamo. Un fatto simile si riscontra ancora in quelle città toscane che erano rimaste fedeli all'Impero, giacché vi troviamo del pari esempi di tribunali, nei quali la giustizia non veniva amministrata da potestà feudali, ma da cittadini investiti dell'autorità giudiziaria dall'Imperatore.[94] Anch'essi sono un apparecchio all'indipendenza comunale, quantunque non ne siano veramente il principio, come alcuni pretesero.
Certo è che per questa e per altre vie, durante la lotta fra Matilde ed Arrigo IV, molte delle città toscane, parteggiando per la Chiesa o per l'Impero, venendone perciò efficacemente favorite, iniziarono cosí la propria indipendenza. Dopo la sconfitta data a Matilde nel Mantovano, l'anno 1081, Arrigo IV fece larghe concessioni a Pisa ed a Lucca, dimostratesi a lui amiche. In un diploma dato a Roma, il 23 giugno 1081, egli non solo garantiva a Lucca la integrità delle sue mura, ma le concedeva facoltà di non permettere ad alcuno di costruire castelli dentro le Città o nel contado, a sei miglia d'intorno, e le assicurava che non sarebbe costretta a edificare palazzo imperiale. Dichiarava inoltre che non manderebbe messo imperiale a pronunziar sentenze nella Città, riservando però il caso che fossero presenti l'Imperatore stesso, il suo figlio o il cancelliere. Finalmente annullava le perverse consuetudini imposte da Bonifazio III a danno di Lucca,[95] a cui dava libera facoltà di esercitare il proprio commercio nei mercati di S. Donnino e di Capannori, dai quali espressamente escludeva i Fiorentini. Quest'ultima clausola ci prova ad un tempo l'avversione dell'Impero contro Firenze, e l'importanza che doveva allora avere già preso il commercio di questa città. Nel medesimo anno, con un altro diploma, furono a Pisa garantite le sue antiche consuetudini, ed Arrigo le dichiarava, che non avrebbe nelle mura o territorio di essa mandato a far placiti alcun messo imperiale, appartenente ad altro contado. Ma, quello che è piú ancora, dichiarava che non manderebbe in Toscana alcun marchese, senza il consentimento di dodici Buoni Uomini, eletti dall'assemblea popolare, radunata in Pisa al suono della campana.[96] Qui, se noi ancora non vediamo apparire i Consoli, abbiamo però in questi Buoni Uomini o Sapientes eletti dal popolo, i loro precursori, ed abbiamo già una popolare assemblea. Se il Comune non è ancora nato, lo vediamo, si può dire, nascere sotto i nostri occhi. Notevolissimo è poi (se non v'è qualche interpolazione) il trovare sottomesso all'approvazione del popolo l'invio di un margravio imperiale. Questo accennerebbe anche al bisogno (inattuabile finché viveva Matilde) di assumere direttamente il governo del Margraviato, cosa che, dopo la morte di lei, fu davvero tentata, ma che anche allora solo in piccola parte e per breve tempo poté, come vedremo, riuscire.
III
Ma le condizioni di Firenze erano molto diverse da quelle di Pisa e di Lucca. Queste due città, già lo vedemmo, erano da gran tempo state piú prospere. Esse avevano spesso combattuto fra loro; Pisa, fiera e baldanzosa sui mari, aveva, sin dalla metà del decimo secolo, cominciato una guerra lunga ed ardita contro i Musulmani in Sicilia, nella Spagna, in Africa.[97] Firenze, invece, parteggiando per Matilde, si trovava di necessità nemica di tutta quella grossa nobiltà feudale del contado, che da ogni parte la circondava, e che, sin dai tempi di Bonifazio III, scontenta del modo come era stata trattata dai marchesi di Toscana, aderiva in parte non piccola all'Impero. Il suo antagonismo con la Città era reso maggiore, non solamente dall'essere i nobili di origine germanica, come germaniche erano le istituzioni feudali, quando invece in Firenze s'era riunita una popolazione principalmente artigiana, di origine e di tradizioni romane; ma anche dalla stessa posizione geografica della Città. Se questa fosse stata sulla pianura, come Pisa e Lucca, o sul monte, come Siena ed Arezzo, la nobiltà feudale avrebbe avuto assai maggiore interesse ad entrarvi. Ma si trovava in una valle, in mezzo ad un cerchio di colline, su cui s'erano incastellati i nobili, che da ogni lato la circondavano minacciavano e stringevano, chiudendo tutte le vie al suo commercio.
Queste condizioni geografiche portarono conseguenze non lievi nel destino futuro di Firenze; anzi contribuirono non poco a dare alla sua storia la particolare fisonomia che essa ebbe. Prima di tutto ne resultò piú inevitabile, piú sanguinoso il conflitto tra i nobili feudali e la Città, che sin dal principio dimostrò un carattere assai piú democratico; ne fu inoltre molto ritardata la proclamazione d'indipendenza. Perché questa fosse possibile, era infatti necessario che Firenze giungesse ad aver forze sue proprie, tali da poter combattere contro i tanti nemici che l'accerchiavano. Fino a che ciò non avveniva, ogni suo interesse la induceva a starsene amica e sottomessa a Matilde, che sola poteva tenere a freno i nobili, e che, abbandonandola, l'avrebbe lasciata in preda sicura ai loro odî. Ciò spiega, insieme col ritardo della proclamata indipendenza, anche la totale mancanza di documenti intorno alle origini di un Comune, il quale aveva già acquistato forze notevoli, e cominciava a far guerre per suo conto, prima che avesse una esistenza ufficialmente riconosciuta. Quelle guerre continuavano ad esser fatte in nome di Matilde, che qualche volta si trovava presente in campo; la Città non compariva nei pubblici atti, perché non aveva ancora una personalità propria. Ciò non ostante, noi dobbiamo riconoscere i primi segni della sua vita comunale nelle guerre da essa cominciate contro i nobili del contado, a tutela del proprio commercio, guerre che andarono sempre crescendo di numero e di forza, né cessarono mai fino al totale annientamento d'ogni nobiltà feudale. Questo fu il punto di partenza e il punto di mira di tutta quanta la storia fiorentina.
Di certo, sin dal principio noi troviamo anche in Firenze non poche famiglie che possono dirsi nobili. Tali sono i Donati, i Caponsacchi, gli Uberti, i Lamberti e quegli altri che abbiam visti nei tribunali, e troveremo fra poco nel Consolato. Sono essi che comandano, che governano, che stanno alla testa della Città. Ma non erano né conti, né marchesi, né duchi, come i conti Cadolingi, Guidi, Alberti, che dimoravano nel contado; non appartenevano a quei Cattani lombardi, come li chiamavano allora, per indicare appunto la loro origine germanica. Piú che veri nobili, essi erano dei Boni Homines, dei Grandi,[98] senza titoli feudali; gente salita in Città a maggiore fortuna, o discesa dalla piccola nobiltà feudale, oppressa nel contado, e rifugiatasi perciò dentro le mura. Essi ben presto s'assimilarono col popolo, alla cui testa si trovarono; presero parte a tutte le sue guerre contro i vicini castelli, e le guidarono. Né è raro il caso, come vedremo, di trovare piú tardi alcuni di essi, che esercitano il commercio o sono a capo delle Arti, non appena che queste si furono costituite un po' stabilmente. Ed è un fatto certo non privo d'importanza, il vedere che nei tumulti seguiti a Pisa, a Siena, altrove, s'incontrano spesso veri e propri nobili cittadini, come conti, visconti e simili, i quali non s'incontrano mai a Firenze. Nei documenti non c'è quasi mai avvenuto, quando si parla dei Fiorentini, d'imbatterci nella parola nobiles, che invece è usata non di rado quando si parla dei Pisani, dei Senesi o di altri. Troviamo, è vero, di frequente, la parola Milites; ma se questi non erano popolani, che certo allora non facevano parte della cavalleria, non erano in Firenze neppure nobili feudali; erano quei maggiori cittadini, che non attendevano ai mestieri, quei Grandi, di cui abbiamo piú sopra fatto cenno. Accolti da Matilde nei tribunali, adoperati da lei in piú modi, essi comandavano il municipale praesidium, ad essi era molto probabilmente affidato l'ufficio di Præses, essi conducevano le guerre. Piú culti, piú ricchi, piú adatti alla politica ed alle armi, perché non costretti al lavoro giornaliero, erano quei Boni viri, quei Sapientes, quei Milites, che troviamo piú o meno per tutto, e qui con un carattere diverso.
Ma con questo Preside e presidio, con questi tribunali, sappiamo assai poco del modo in cui era governata, amministrata una società, la quale già cominciava a prosperare non poco, ad avere svariati interessi. Il governo esercitato da Matilde doveva in Firenze essere poca cosa, una volta che la Città poté cominciare a far guerre per proprio conto, nel suo proprio interesse, sia pure che le facesse ancora in nome di lei. A misura che la sua prosperità commerciale cresceva, e la lotta coll'Impero teneva Matilde sempre piú occupata, la Città doveva rimanere sempre piú abbandonata a sé stessa. La conseguenza fu che sin d'allora si andarono formando quelle associazioni, in cui la cittadinanza si divise ed organizzò, e che piú tardi noi troviamo già forti e vigorose. Questo faceva sí che quasi senza un governo centrale, esistesse un governo locale, e che le forze del Comune s'apparecchiassero di lunga mano, prima che esso proclamasse la sua indipendenza. E spiega come è che quando esso fu sorto davvero, poté subito con grande rapidità progredire e mettersi a capo della Toscana. Certo è che, nella seconda metà del secolo XII, noi vediamo da una parte i Grandi o, se cosí vogliamo chiamarli, i nobili ordinati in Società delle torri, delle quali ben presto troveremo anche gli statuti; e vediamo dall'altra le associazioni delle Arti non solo esistere, ma avere anche una politica importanza tale da far loro assumere qualche volta la rappresentanza stessa della Repubblica. È possibile supporre che ciò avvenisse senza una lunga preparazione antecedente? Le Scholae, da cui vennero poi le Arti, non continuarono nel basso Impero, non le troviamo in tutto il Medio Evo dividere la società intera, anche l'esercito, anche gli stranieri a Roma, a Ravenna? Potevano averle distrutte i barbari, che non esercitavano i mestieri, di cui pure avevano bisogno? Il commercio e l'industria fiorentina erano già, sotto la contessa Matilde, cresciuti di certo. Il diploma del 1081 ce ne ha dato una prova, e le prime guerre iniziate dai Fiorentini, nell'interesse del loro commercio, ce ne dànno una sicura conferma. Se in tali condizioni noi non ammettessimo le associazioni delle Arti, dovremmo ammettere sin d'allora l'operaio moderno, isolato, indipendente, il che non è possibile nel Medio Evo. Era un tempo in cui tutti i mestieri venivano esercitati da gruppi di famiglie, e tradizionalmente si trasmettevano da padre in figlio. Spesso anche gli ufficî pubblici venivano serbati ad alcune famiglie. Era una società di gruppi e di caste, quella da cui il Comune cavò poi lo Stato moderno, ma di questo non v'era allora neppur l'idea. Supporre, come fanno alcuni, che le Arti sieno cominciate solo quando ebbero proprî statuti, è assurdo. Questi formularono sempre ciò che da un pezzo già esisteva, ed a Firenze ogni cosa ci fa credere che le associazioni, sebbene ancora embrionali, delle Arti e delle Torri, dovettero precedere la formazione del Comune, che da esse si svolse.
IV
Da per tutto noi vediamo del resto, in modo diverso, un lungo periodo d'incubazione, che precedette la formazione del Comune, il quale nacque, come era naturale, dagli elementi preesistenti. La celebre Concordia che il vescovo Daiberto fece a Pisa, circa il 1090, forse anche qualche anno prima,[99] dimostra che i nobili erano organizzati e fieramente si combattevano fra loro colle torri, che egli indusse a demolire in parte, con solenne giuramento di non oltrepassare mai l'altezza di 36 braccia, la quale era stata già prima determinata nel diploma di Enrico IV (1081).[100] E colui, cosí proseguiva la Concordia, che crederà essere ingiustamente danneggiato nelle sue case, dovrà querelarsene ad commune Colloquium Civitatis; né la casa del disturbatore potrà essere demolita, senza l'approvazione della cittadinanza intera.[101]
Da tutto questo documento si vede non solo che i nobili pisani erano già organizzati; ma che avevano dentro la Città una importanza non mai avuta a Firenze.[102] Ancora non troviamo i Consoli, e se ci fossero stati, il documento li avrebbe certo nominati. Vi sono però tutti gli elementi che costituiranno quel Comune assai piú aristocratico del fiorentino.[103] Si vede in fatti già un commune Consilium di Sapientes o Boni homines, che è una specie di Senato, ed il commune Colloquium di tutti i cittadini, che sarà poi il Parlamento o Arrengo. Cinque Sapientes, di cui si danno i nomi, si trovano accanto al Vescovo.[104] Essi sono gl'immediati precursori, i Vorbilder, (come dice giustamente il Pawinski) dei Consoli, che poco dopo, nel 1094, troviamo finalmente nominati in un'altra Concordia dello stesso Daiberto. Alla loro autorità ( huius civitatis Consulibus ) egli esplicitamente se ne appella, ordinando che fossero lasciati in pace i fabbri, i quali attendevano ai lavori che eran tenuti fare al Duomo.[105] Il Comune pisano adunque è preceduto da una lotta di nobili armati ed ordinati intorno alle loro torri, ed i suoi Consoli sono nominati la prima volta a difesa dei fabbri.
L'esistenza delle Arti fin dal secolo IX in Venezia viene accertata dalla cronaca Altinate, la quale ci prova che sin d'allora esistevano alcune maggiori industrie, esercitate da determinate famiglie, ed i mestieri propriamente detti o ministeria, assai piú umili, costituiti già come consorzî di persone, che esercitavano l'arte loro, con regole tradizionali, definite. Questi mestieri o ministeria indicavano una condizione non perfettamente libera, giacché coloro che vi appartenevano erano tenuti a prestare allo Stato alcuni servizî gratuiti. Le industrie maggiori, invece, come quelle del mosaico, dell'architettura e simili, che richiedevano piú coltura ed ingegno, esercitate dalle principali famiglie, erano conciliabili con gli ufficî politici dello Stato.[106] Un documento del secolo XI ci dimostra che allora l'Arte dei fabbri era costituita con a capo un Gastaldo, contro il quale uno dei membri ricorse al Doge, per aver giustizia, secondo le consuetudini non ancora scritte.[107] Tutto ciò costringe a credere che l'esistenza delle Arti e delle associazioni in genere, nelle quali la cittadinanza dei Comuni si trova piú tardi divisa, era antichissima, e che a Firenze come altrove erano costituite già prima che il Comune avesse proclamato la sua indipendenza. Altrimenti sarebbe impossibile spiegarsi l'esistenza d'una città che, senza quasi avere un governo visibile, già prosperava nel commercio, e faceva guerre per proprio conto. Tutti i fatti che seguono e dei quali non si può dubitare, resterebbero inesplicabili.
V
Noi abbiamo dunque sin da' tempi di Matilde, una cittadinanza divisa e costituita in gruppi. Da una parte sono le antiche Scholae, trasformate in associazioni d'arti e mestieri, il germe delle future Arti maggiori e minori; da un'altra le parentele, le consorterie dei Grandi, il germe delle future Società delle Torri. Tutte queste associazioni formavano già il governo effettivo della Città, nella quale i Grandi avevano i principali ufficî, affidati ad essi da Matilde. È assai probabile che quello di Preside, secondo l'usanza del Medio Evo, rimanesse in una medesima famiglia o consorteria, forse quella degli Uberti, i quali, come vedremo, già erano tra i piú potenti, e vantavano un'origine germanica. Però Grandi e popolo non erano allora nemici e divisi, ma uniti da vincoli e da interessi comuni. Infatti, come dicemmo, ben presto i documenti ci mostreranno che alcuni dei Grandi pigliano parte al commercio, si trovano alla testa delle Arti, e già ora combattono, uniti al popolo, contro i nobili del contado. Essi erano, è vero, i possessori della terra e degli armenti, ma tutto ciò formava allora la sorgente principale dell'industria e del commercio fiorentino, a difesa del quale furon intraprese le prime guerre. I castelli che circondavano la Città, chiudevano le vie del commercio; da essi usciva di continuo gente armata, che assaliva, batteva coloro che dalla Città portavano i prodotti del suolo o dell'industria nei vicini paesi. La contessa Matilde, occupata nelle sue continue guerre, di rado poteva dare aiuto, e quindi i Fiorentini, che combattevano in nome di lei, dovevano di fatto difendersi colle proprie armi. Questa unione di tutta la cittadinanza, stretta dai medesimi interessi, in un solo pensiero, contro un comune nemico, fu ciò che costituí allora la forza del popolo di Firenze, del quale Dante ed i cronisti esaltarono con tanto calore la lealtà, la purità dei costumi ed il valore. È il momento in cui si pongono, con la virtú, le basi della futura indipendenza e prosperità del Comune.
Il Villani certo esagera, ma dice pure una cosa che in fondo è vera, quando all'anno 1107 (IV, 25) afferma, che «la Città, essendo molto montata e cresciuta di popolo, di genti e di podere, ordinarono i Fiorentini di distendere il loro contado di fuori, e allargare la loro signoria, e qualunque castello non gli ubbidisse, di fargli guerra». In questo anno infatti essi cominciarono le loro guerre, assalendo il castello di Monte Orlando, presso la Lastra a Signa, che i cronisti chiamano anche da Gangalandi o Gualandi, e che dipendeva dai conti Cadolingi,[108] famiglia allora potentissima, ben presto nemica acerrima di Firenze. Nello stesso anno assalirono e distrussero il castello di Prato, che apparteneva ai conti Alberti, altri nemici potentissimi. Qui però troviamo presente in campo la Contessa, e cosí si spiega piú facilmente la vittoria.[109]
Nel 1110 abbiamo notizia di un'altra guerra. Florentini iuxsta Pesa Comites vicerunt, dicono gli Annales I, i quali incominciano appunto con questo avvenimento, che fanno seguire il 26 maggio. I Comites qui non possono essere i conti Guidi, amici allora di Matilde e di Firenze, contro la quale combatterono assai piú tardi, quando vennero per antonomasia chiamati i Conti. In Val di Pesa furono nel 1110 combattuti e vinti i Cadolingi, chiamati anche Cattani lombardi, che possedevano da Pistoia, per la Val di Nievole, fin verso Lucca, e pel Val d'Arno inferiore, fin verso Firenze. Se questa poté dar loro una rotta, bisogna concluderne che già aveva acquistato una gran forza, quantunque si debba supporre che anche ora sia stata aiutata dalle genti di Matilde.
Nel 1113 seguono altre due imprese militari, che dettero luogo a dispute infinite fra gli eruditi, perché narrate in modo diversissimo dai cronisti. Abbiamo prima di tutto l'assalto e distruzione di Monte Cascioli, che alcuni pongono nel 1113, alcuni nel 1114, altri nel 1119, quando sarebbe stato difeso da un Tedesco, Rempoctus o Rabodo, vicario imperiale, che vi morí. Altri cronisti ripetono la distruzione del castello nei tre diversi anni, e finalmente il Villani mette il colmo alla confusione, riunendo in uno i vari assalti, ponendoli tutti nel 1113, e dicendo che il castello era stato ribellato da Roberto tedesco vicario dell'Imperio, il quale risedeva in S. Miniato al Tedesco (IV, 29). Ma nel 1113, prima cioè che morisse la Contessa, non v'era un vicario imperiale in Toscana, e però non poteva risiedere a S. Miniato, che ancora non aveva l'appellativo al Tedesco. La confusione però secondo noi cessa del tutto, i cronisti si pongono d'accordo, e le diverse narrazioni si spiegano facilmente, se si ritiene che nel 1113 vi fu solo un primo assalto a Monte Cascioli, che poté difendersi con vigore.[110] Non si riuscí allora che a distruggere una parte sola delle mura, e fu perciò necessario rinnovare l'assalto nel 1114, quando esse furono demolite. Piú tardi vennero ricostruite, e però nel 1119, quando Firenze già era indipendente, tornò ben due volte all'assalto, nel quale uccise il messo dell'Impero, che ne aiutava la difesa: il castello allora venne finalmente demolito e bruciato. Ma senza anticipare i fatti, possiamo qui concludere che, prima della morte di Matilde, i Fiorentini colle guerre di Monte Orlando, di Prato, di Val di Pesa, di Monte Cascioli, si erano aperte al commercio le vie di Signa, Prato e Val d'Elsa.
Un altro avvenimento, seguito pure negli anni 1113-15, e ricordato invece dai cronisti nel 1117, l'impresa cioè dei Pisani alle Baleari, dette anch'esso origine ad una disputa abbastanza intricata. Come già dicemmo, i Pisani guerreggiavano i Musulmani fin dalla metà del decimo secolo, e la guerra infierí piú che mai nella seconda metà dell'undecimo. Nel 1087, uniti ai Genovesi, essi schierarono una flottiglia di quaranta navi dinanzi a Mehdia; nel 1113 partirono per la piú grossa impresa delle Baleari. Con essi andarono molti conti e marchesi lombardi e dell'Italia centrale, fra cui anche alcuni del contado fiorentino. Unitisi poi ai conti di Barcellona, di Montpellier, al visconte di Narbona e ad altri, assalirono le Baleari, e, dopo ostinatissima difesa, presero il castello di Maiorca, menando secoloro un giovane Burabe, ultimo rampollo della dinastia che ivi governava. Il Villani accennando a questa guerra (1113-15), la fa seguire, al pari di altri cronisti, nel 1117, ed aggiunge che i Pisani, temendo, nel partire, che i Lucchesi, come già altra volta avevano fatto, assalissero la loro città, ne affidarono la guardia ai Fiorentini. Questi s'accamparono subito a due miglia dalle mura, e severamente ordinarono che nessuno del campo osasse entrare in Pisa, pena la vita, perché non volevano che, trovandosi essa quasi vuota di uomini, venisse fatta qualche ingiuria all'onore delle donne, con grave discredito della lealtà fiorentina. E l'ordine dato fu mantenuto. Un solo che osò violare le leggi della disciplina venne condannato a morte, né a salvarlo valsero punto le preghiere dei Pisani, i quali, non potendo altro, protestarono di non volere che sul loro territorio si eseguisse dai Fiorentini una sentenza capitale. E questi, per dimostrarsi anche in ciò scrupolosi degli altrui diritti, avrebbero, secondo il cronista, comperato un pezzo di terra, sul quale misero a morte il colpevole.
Tornati intanto dalle Baleari i Pisani carichi di preda, offrirono, in segno di loro riconoscenza agli amici fedeli, o due porte di metallo o due colonne di porfido, a libera scelta. I Fiorentini preferirono le colonne, che furon consegnate, come cosa preziosa, ricoperte di drappo scarlatto, e son quelle che si trovano ora sulla porta principale di S. Giovanni. Quando però le ebbero scoperte, s'avvidero che, per invidia, erano state sciupate col fuoco. È chiaro che in tutto ciò la leggenda ha avuto la sua parte, e vi si scorge almeno una giunta posteriore, fatta quando tra Pisa e Firenze nacque un lungo ed inestinguibile odio.[111] Ma l'errore di data che troviamo ripetuto nel Villani ed in altri non pochi cronisti, a proposito d'una guerra durata piú anni, e che nel 1117 pareva dovesse solo ricominciare, non può essere una ragione per negare quello che da tanti è costantemente affermato.[112] L'impresa delle Baleari è certa, come è certo che fu condotta dai Pisani, con l'aiuto di parecchi amici ed alleati. Il timore che la Città potesse essere, nella loro assenza, aggredita dai Lucchesi, era giustificato, essendosi il fatto già in altri tempi avverato. I Pisani erano ora nemici dei Lucchesi ed amici dei Fiorentini, la cui lealtà, in quei primi tempi, veniva assai generalmente riconosciuta. Perché non si deve credere, che ad essi gli amici pisani affidassero, in sul partire, la guardia della propria città, e che essi rispondessero degnamente alla fiducia in loro riposta? Paolino Pieri non solo ripete il fatto narrato da tutti gli altri cronisti, ma aggiunge, che la terra su cui venne eseguita la condanna del soldato violatore della disciplina, fu comprata per mezzo di Bello sindaco, e che egli la vide ai giorni suoi tenuta sempre senza lavorarla, in memoria del fatto: «ciò fu a di quattro di luglio, anni trecento due piú di mille, allora ch'io la viddi soda». Il che dimostra almeno come la tradizione del fatto continuasse nel secolo XIV, e come tutti vi prestassero piena fede.
VI
L'anno 1115 morí la contessa Matilde, e ne seguí un pericolo di tanto disordine, che incominciò addirittura un'èra novella per tutta l'Italia centrale, e specialmente per Firenze. La Contessa, come è noto, aveva lasciato in testamento alla Chiesa i suoi beni; ma una tale donazione poteva avere effetto solamente pei beni allodiali, perché i feudali tornavano di diritto all'Impero. Distinguere con precisione gli uni dagli altri, non era sempre facile, spesso non era possibile: quindi una serie interminabile di liti. E queste venivano sempre piú complicate per l'ambizione del Papa e dell'Imperatore, ognuno dei quali pretendeva avere diritto a tutto, l'uno perché erede universale di Matilde, l'altro perché autorità suprema del Margraviato. Si aggiungeva poi, come vedemmo, che molti si ritenevano ingiustamente spogliati dei loro beni, dati invece a chi non vi aveva diritto alcuno. E ne seguí quindi una vera crisi politico-sociale, che portò il disordine al colmo. L'imperatore Arrigo IV mandò allora in Toscana un suo rappresentante, col titolo di Marchio, Iudex, Praeses, ad assumerne in suo nome il governo. Legalmente nessuno poteva certo contestargli questo diritto; ma l'opposizione del Papa; l'attitudine delle città, che ormai si ritenevano indipendenti; il disordine universale mandarono in fascio il Margraviato. I rappresentanti dell'Impero non poterono perciò far altro che mettersi alla testa della nobiltà feudale del contado, e raccoglierla intorno a loro, per formare un partito germanico avverso alle città. Nei documenti del tempo, i membri di questo partito sono di continuo chiamati addirittura Teutonici.[113]
Firenze, circondata dai nobili incastellati nel suo territorio, non aveva adesso che due partiti dinanzi a sé. O cedere a coloro che, stati sempre suoi mortali nemici, erano insuperbiti del favore che dava loro Arrigo, o, per combatterli a viso aperto, dichiararsi nemica anche dell'Impero, il che, nello stato presente delle cose, equivaleva ad una dichiarazione d'indipendenza. E fu quello che fece. Ormai aveva acquistato coscienza delle proprie forze, ed in sostanza poi non aveva altro scampo che nelle armi. Il fatto avvenne in modo semplicissimo, quasi senza parere. Quegli stessi Grandi, che avevano amministrato la giustizia, guidato il popolo, comandato il presidio in nome di Matilde, ora, che ella piú non non c'era, né altri ne aveva preso il posto, continuarono a governare in nome del popolo, che nelle occasioni piú solenni consultarono. Cosí essi divennero i Consoli del Comune, che si può dir nato, senza che alcuno se ne avvedesse. Ed è perciò che i cronisti non ne parlano, che i documenti ne tacciono del pari, e che sembra quindi oscurissimo e complicato un fatto chiarissimo e per sé stesso evidente. A forza di volere scoprire avvenimenti ignoti, e documenti smarriti, che non sono mai esistiti, si rese difficilissima la soluzione d'un problema assai facile, e si perderono di vista perfino i particolari piú evidenti e noti, che meglio valevano a spiegarlo.
Non bisogna però credere che tutto ciò avvenisse addirittura senza alcuna scossa, perché un mutamento assai notevole vi fu. Il governo, è vero, rimaneva quasi lo stesso; ma se ne cambiava la base, giacché veniva assunto, non piú in nome di Matilde, ma del popolo. E neppure questa sarebbe stata gran cosa, perché già da un pezzo la Città era, non legalmente, ma di fatto, padrona di sé, ed il popolo sentiva e faceva sentire la sua propria personalità. Ma le conseguenze sociali e politiche non furono poche né piccole. Come era naturale, sotto Matilde, coloro che governavano venivano scelti da lei, e per quanto nei tribunali e negli uffici le persone di tanto in tanto mutassero, si restringevano però sempre in un piccolissimo numero di famiglie, a capo delle quali, come già dicemmo, assai probabilmente si trovavano gli Uberti e i loro consorti. Ora, invece, che l'elezione doveva esser fatta dal popolo, essa cadeva di necessità sopra un numero piú largo, sebbene pur sempre limitato, di famiglie. Si mutava quindi piú spesso, e si andava a turno dall'una all'altra. Questo era l'uso che già prevaleva negli altri Comuni, ed anche a Firenze nelle associazioni del popolo e dei Grandi. Dovette quindi inevitabilmente prevalere adesso nella formazione del nuovo governo.
E neppure è credibile che coloro i quali avevano in passato primeggiato, cedessero senza alcuna resistenza, non tentassero di mantenere il loro posto col favore dell'Impero e dei Teutonici, né che coloro cui spettava adesso avere nel governo una parte maggiore di prima, non cercassero a loro volta di farsi forti del favor popolare, sostenuto dai piú vitali interessi della Città. Un conflitto fra queste famiglie di Grandi apparisce inevitabile, e dovette esservi in Firenze, come v'era stato in Pisa al tempo di Daiberto, come vi fu in quasi tutti i Comuni italiani. I cronisti in verità non ci parlano qui di un tumulto propriamente detto; ma quello che dicono basta certo a dimostrarne l'esistenza. Il Villani (V, 30), gli Annales, altri non pochi ci dicono che nel 1115 seguí in Firenze un incendio, il quale si ripeté nel 1117, e cosí «ciò che non arse al primo fuoco, arse al secondo». Questa rovina di tutta la Città è certo un'esagerazione, ma l'incendio è universalmente affermato.[114] E noi sappiamo che allora, quando non v'era la polvere da sparo, il fuoco e gl'incendî erano l'arme piú efficace nei tumulti popolari. Lo stesso Villani aggiunge, che «tra i cittadini si combatteva... armata mano, in piú parti di Firenze». È vero che, secondo lui, si combatté per la fede, essendosi nella Città diffuse l'eresia, la lussuria, la sètta degli Epicurei, e però Iddio la puniva con la pestilenza e con la guerra civile. Ma, sebbene d'una eresia largamente diffusa allora in Firenze non troviamo traccia sicura negli storici, è pur certo che sin dal 1068 noi abbiamo visto i primi albori della libertà fiorentina, mescolati, confusi con un moto religioso, ed è certo ancora che gli Annales I, all'anno 1120, registrano il fatto d'un Petrus Mingardole sottoposto per eresia alla prova del fuoco,[115] ed aggiungono che dal 1138 al 1173 la Città incorse, per ben tre volte, nell'interdetto, cose tutte che sono prova d'una continua agitazione religiosa. Oltre di che Firenze, e sopra tutto il popolo, si mantenne sempre fedele al partito della Chiesa, che gli Uberti ed i loro amici, parteggiando invece per l'Impero, dovevano avversare, e quindi facilmente incorrere allora nella taccia d'eretici. Anche a tempo del Villani si dava il nome generico di Paterini a tutti gli eretici non solo, ma anche ai Ghibellini.[116] Oltre di ciò, avendo egli posto le origini di Firenze, prima ai tempi di Carlo Magno, poi subito dopo la immaginaria distruzione di Fiesole nel 1010, è naturale che non volesse vederle una terza volta ora che il Comune nasceva davvero, e quindi cercasse di esagerare il carattere religioso, che era assai secondario in quel movimento, e non ne vedesse il politico, che era certo principalissimo.
In ogni modo siccome par certo che gli Uberti cercarono l'appoggio dell'Impero, cosí ne segue che dovettero di necessità dimostrarsi ora nemici della Chiesa. Il chiamarli eretici o paterini non avrebbe perciò, specialmente nella bocca del Villani, sempre guelfo dichiarato, nulla d'insolito. Che, al tempo di Matilde, gli Uberti fossero già potenti, apparisce chiaro dai molti documenti che li ricordano. Che avessero avuto allora parte principalissima nel governo, ed il tumulto fosse perciò diretto principalmente contro di loro, trova conferma esplicita nelle parole di un cronista finora poco studiato, in gran parte anzi ignoto, il quale, per avere attinto anche a fonti diverse da quelle del Villani, getta qualche volta nuova luce sugli avvenimenti. Il pseudo Brunetto Latini, infatti, all'anno 1115, narra, al pari degli altri cronisti, il primo incendio, che dice cominciato da Santi Apostoli, e propagatosi fino al vescovado, «ardendo la maggior parte della Cittade, onde molta gente mori di fuogo». Di eresia non parla, ma, quello che è piú, venendo al secondo incendio, seguito nel 1177, aggiunge: «In questo anno s'apprese il fuogo in Firenze, appresso agli Uberti, che reggievano la Cittade, e quasi tutta l'arse, che poco ne campò, e molta gente fu morta per fuoco e per ferro».[117] Qui dunque noi abbiamo chiaramente un vero e proprio tumulto, quasi una rivoluzione col ferro e col fuoco, diretta contro gli Uberti, che reggevano la Città.
E del resto c'è poi da maravigliarsi di quest'odio contro gli Uberti, di questa guerra civile cui essi dettero occasione? La tradizione, noi lo sappiamo, li diceva venuti di Germania cogli Ottoni; ed abbiam visto che anche la leggenda del Libro Fiesolano, respingendo questa origine, li faceva nondimeno discendere dal «sangue nobilissimo di Catilina», il nemico di Firenze. E secondo la storia, non sono essi gli antenati di quei medesimi Uberti, che piú tardi, nel 1117, troviamo primi ad assalire il governo dei Consoli, incominciando quelle guerre civili che per sí lunghi anni lacerarono poi la Città? Non sono essi gli antenati di quello Schiatta Uberti, che nel 1215, insieme con altri, pugnalava il Buondelmonti sul Ponte Vecchio, ai piedi della statua di Marte? Non sono gli antenati del gran Farinata, che diè in Montaperti la rotta ai Guelfi, e si trovò nell'assemblea di Empoli, là dove cosí fieri propositi si meditarono contro Firenze, eterno nido di Guelfi; quel Farinata che Dante pone nella bolgia infernale degli eretici?[118]
VII
Ma chi vinse intanto nella lotta seguita dopo la morte di Matilde? I fatti lo provano abbastanza chiaramente. Nell'anno 1119 i Fiorentini uscirono a dar quell'ultimo assalto al castello di Monte Cascioli, cui abbiamo sopra accennato. Ed è in questo momento che incontriamo davvero il già menzionato Rempoctus[119] o Rabodo, che il Villani (IV, 29) con altri cronisti, fa apparire nel 1113, chiamandolo Roberto tedesco, vicario imperiale, e facendolo quell'anno morire in guerra, a difesa del castello. Noi abbiam detto che allora non potevano esserci vicarî imperiali in Toscana, dove furono mandati dopo la morte di Matilde. Infatti i documenti solo adesso cominciano a parlarne, trovandosi l'11 settembre 1116, per la prima volta, ricordato Rabodo ex largitione Imperatoris Marchio Tusciae;[120] e nel 1119, Rabodo Dei gratia si quid est,[121] la stessa formola di cui si serviva Matilde ne' suoi diplomi. Nel 1120 esso scomparisce dalla scena, ed in sua vece troviamo il margravio Corrado. Possiamo dunque ritenere, che Rabodo veramente morí alla difesa di Monte Cascioli, nel 1119, per opera dei Fiorentini, i quali allora finalmente riuscirono a demolire del tutto e bruciare il castello.[122] E cosí la prima loro impresa, dopo la morte di Matilde, fu la distruzione d'un castello dei Cadolingi, con la disfatta e l'uccisione del primo vicario imperiale, mandato allora in Toscana. Ce n'è piú che d'avanzo, per sapere quale fu l'attitudine che essi presero di fronte all'Impero ed ai Teutonici.
L'altro fatto piú notevole ancora, che seguí poco dopo, fu la presa e distruzione di Fiesole nel 1125. Il Sanzanome, che da questa guerra fa incominciare la storia, come esso dice, moderna di Firenze, ce ne dà una descrizione assai lunga, retorica, ampollosa. Dalla quale però caviamo che la vera origine del conflitto fu principalmente il commercio. I Fiesolani avrebbero malmenato, spogliato d'ogni suo avere un mercante fiorentino, che, con le proprie mercatanzie, passava tranquillo per la loro città. E questo fatto, unito alla memoria degli antichi rancori, di altre recenti depredazioni, avrebbe acceso gli animi alla guerra. Immantinente factum est Consilium per tunc dominantes Consules de processu. Uno dei primi cittadini arringò il popolo, incominciando: Si de nobili Romanorum prosapia originem duximus.... decet nos patrum adherere vestigiis. Dopo di che, illico a Consulibus exivit edictum. Un Fiesolano, invece, alludendo alla origine leggendaria della propria città, cosí cominciava la sua perorazione: Viri frates, qui ab Ytalo sumpsistis originem, a quo tota Ytalia dicitur esse derivata. Tutta questa retorica erudita, che, in uno scrittore dei primi del secolo XIII, ci fa sempre piú vedere quanto pieni di tradizioni romane fossero gli antichi Fiorentini, innanzi e dopo la formazione del loro Comune, non può nascondere l'origine vera della guerra, quale ci vien confermata anche dal Villani, che incomincia adesso ad avere assai maggiore importanza storica. Fiesole, questi dice, era divenuta un vero nido di Cattani e masnadieri, i quali infestavano le strade ed il contado fiorentino.[123] Eran sempre quei signori feudali, che dalle loro rocche volevano impedire il commercio e l'espansione del Comune.
Ma in questo caso v'erano speciali ragioni, che dovevano rendere inevitabile e piú sanguinosa la guerra. I comitati o contadi delle due città s'erano, come avvenne anche altrove, formati sul territorio delle diocesi, che a lor volta erano stati calcati sulle antiche divisioni romane. Essendo però, non solo vicini, ma quasi intrecciati, compenetrati fra loro, e i rispettivi vescovi non avendo mai avuto, come in Lombardia, l'autorità ed il potere di conti, ne seguí, che finirono col formare una sola giudiciaria. I documenti infatti parlano spessissimo del contado o giudiciaria di Fiesole e di Firenze, come se fosse una sola medesima cosa. Era quindi naturale che, alla morte di Matilde, Firenze, col divenire un Comune indipendente, volesse dominare sui due contadi, come era naturale che Fiesole a ciò si opponesse vivamente, e però, sebbene assai piú piccola, valendosi della sua forte e fortificata posizione, s'alleasse coi nobili di contado, li accogliesse nella sua rocca, e di là dessero insieme noia continua ai mercanti fiorentini, e depredassero le campagne. Cosí incominciò la guerra. I particolari di essa ci restano ignoti, perché il Sanzanome li esagera in modo da renderli incredibili, e gli altri ne tacciono affatto.[124] Non dovette però essere breve, né facile, a cagione della forte posizione di Fiesole, e fini certo con stragi crudeli, con la quasi distruzione di quella città. Né ce lo dicono solo i cronisti. L'abate Atto di Vallombrosa, poco dopo, invocava da papa Onorio II perdono pro Florentinorum excessibus, adducendo, a loro scusa, che fra di essi v'erano pure vecchi, donne e bambini, che certo non avevano potuto prender parte alla fesulana destruccio, e che molti di quelli che erano andati al campo, dichiaravano ora di volersi correggere, perché sinceramente pentiti di tutti gli eccessi, che non meditata nequitia commisere.[125] La memoria del fatto, sopravvissuta poi lungamente in Firenze, s'incontra spesso nei documenti,[126] ed è certo che con esso e con la disfatta del vicario imperiale a Monte Cascioli, la indipendenza del Comune fu assicurata stabilmente.
VIII
Nessuno può dubitare che Firenze avesse ora un proprio governo coi suoi Consoli, sebbene nei documenti che abbiamo, si trovino menzionati la prima volta solo nel 1138. Il Sanzanome però ce ne parla esplicitamente nella impresa contro Fiesole, quando, come vedemmo, fa da essi deliberare la guerra. Ma quale è l'origine vera e la natura di questo nuovo magistrato? Fu da molti sostenuta l'opinione, che i Consoli derivassero generalmente dagli antichi giudici. In Lombardia sarebbero stati non altro che una trasformazione degli Scabini franchi, e sarebbe quindi assai naturale che fossero in Firenze una trasformazione dei giudici del tribunale margraviale, ai quali Matilde aveva, già assai prima di morire, abbandonato l'ufficio di pronunziare le sentenze. Ma questa è un'idea, che ormai non può piú sostenersi, perché contiene una parte sola del vero. Quando, infatti, noi vediamo i Consoli nell'esercizio delle loro funzioni, che cosa essi sono, che cosa essi fanno, secondo i cronisti e secondo i documenti? Conducono le guerre: conchiudon trattati in nome di tutto il popolo, che rappresentano; governano la Città; amministrano la giustizia. E quest'ultimo è a Firenze come altrove, uno dei loro ufficî, il quale essi adempiono, perché strettamente connesso coll'esercizio del potere politico, che è la vera e principalissima loro funzione. D'altronde che cosa è che fa veramente nascere il Comune fiorentino? La mancanza appunto di quella superiore autorità politica che sino allora aveva comandato in Toscana, il bisogno di condurre le guerre contro gli antichi e nuovi nemici. Il carattere politico ed il carattere militare dovevano adunque di necessità prevalere.
Ed in questo concetto dobbiamo confermarci ancora, se esaminiamo come era costituito il tribunale dei Consoli. Dapprima sembra che tutti o parte di essi indistintamente lo presiedessero; piú tardi tre di essi, scelti a turno, e chiamati Consules super facto iustitiae, o anche Consules de iustitia, presiedono per un mese; piú tardi ancora sono due che presiedono per due mesi, e finalmente, quando però il governo primitivo ha mutato natura, ve n'è uno solo che presiede per tutto l'anno.[127] Potevano essere o non essere uomini periti in legge, giacché non facevano che pronunziare, confermare la sentenza, ma non l'apparecchiavano, né la formulavano. A quest'ufficio attendeva un vero e proprio iudex ordinarius pro Comune, con tre Provveditori o Provisores, che studiavano il processo e scrivevano la sentenza. I Consoli non facevano che presiedere il tribunale, e quando mancavano, il che pur seguiva qualche volta, esso funzionava da sé. Il posto adunque che vi pigliavano era in sostanza quello di Matilde, di chi cioè rappresentava la sovranità, non quello de' suoi giudici.[128]
L'indole vera del nuovo governo noi la possiamo intendere meglio, esaminando piuttosto quali erano i diversi elementi che costituivano la cittadinanza, dai quali esso necessariamente si svolse. Due, come sappiamo, erano le classi principali e gl'interessi che si dividevano la Città: le associazioni cioè delle Arti e quelle dei Grandi o delle Torri. La forza del numero stava di gran lunga dalla parte del popolo; ma i Grandi avevano assai piú la cultura, l'educazione alle armi ed alla politica, l'arte di governo già da essi in parte esercitata. Quindi è che da essi vennero i Consoli, i quali, in sul principio, s'aggirarono in un numero assai ristretto di famiglie, tanto da sembrare poco meno che ereditarî. La sventura di Firenze, come del resto anche degli altri Comuni, esclusa Venezia, fu che i Grandi non poterono mai andare d'accordo fra loro. La nobiltà feudale fu in Italia come una pianta esotica, portata sopra un terreno ingrato. Di origine germanica, essa formava altrove parte di tutto un sistema politico; era capitanata dall'Imperatore intorno a cui si stringeva; ebbe delle virtú qualche volta eroiche; dette origine ad una particolare forma di civiltà, ad una letteratura che fiorí nella Francia e nella Germania, non mai in Italia, molto meno poi in Toscana. I nostri signori feudali dominati solo da interessi personali, s'appoggiavano all'Impero, per combattere il Papa; al Papa, per combattere l'Impero; all'uno o all'altro indistintamente, per combattere le città. E questo seguiva di continuo anche nel contado fiorentino. I Grandi che risiedevano dentro le mura della Città, erano, è vero, d'indole assai diversa, molto piú vicini al popolo, con cui si accomunavano; ma erano composti di elementi assai discordi, perché alcuni di loro erano venuti su dal popolo; altri discesi dai castelli feudali, con cui avevano aderenze, da cui speravano aiuti. L'ambizione del potere ben presto li divise, e la facilità con cui gli uni trovavano favore negli artigiani, quando gli altri lo cercavano e lo avevano nel contado, fecero da questi semi rapidamente germogliare le civili discordie. Piú tardi poi, con l'aumentarsi di coloro che dai castelli venivano in Città, si formò tra di essi un vero partito aristocratico, ghibellino, contro il partito guelfo e popolare. Ma siamo ancora assai lontani da ciò, perché l'interesse generale di far guerra ai signori del contado, prevalse lungamente su tutto e su tutti, da essa dipendendo l'esistenza stessa del Comune.
Da quanto abbiam detto fin qui risulta sempre piú chiaro, che due ordini ben distinti di cittadini già esistevano in Firenze: il popolo o le Arti, ed i Grandi. Se il nuovo governo fosse sorto solo dalle Arti, avrebbe preso la forma d'un ordinamento secondo i mestieri. Se fosse sorto invece solo dai Grandi, avrebbe dato origine ad un ordinamento regionale, locale, secondo i Sestieri della Città, nei quali essi erano sparsi. Questa diversa tendenza noi la troviamo in tutti i Comuni italiani. A Roma prevalse l'ordinamento per Regioni o Rioni; a Firenze invece prevalse col tempo quello per Arti, a cagione della grandissima prosperità che ebbero in essa il commercio e l'industria. Ma intanto il predominio morale dei Grandi, le necessità urgenti della guerra, per la quale l'esercito poteva assai piú facilmente raccogliersi ed ordinarsi a Sestieri, favorirono un ordinamento locale, ed i Consoli furono quindi eletti per Sestieri.[129]
Che i Grandi fossero allora già costituiti in Società delle Torri, può ritenersi provato dai documenti. Uno del 1165 parla di esse come già esistenti da un pezzo,[130] e poco dopo troviamo nelle pergamene dell'Archivio fiorentino addirittura brani dei loro Statuti.[131] La torre era proprietà comune dei socî o consorti, i quali non potevano lasciare la loro parte a chi non fosse della Società, o non venisse ammesso col voto di tutti i componenti meno uno. Le donne erano naturalmente escluse. Le spese per mantenere, armare la torre, che era in comunicazione con le case vicine dei consorti, e serviva a loro comune difesa, erano a carico di tutti. Tre o piú Rettori, che qualche volta sono chiamati anche Consoli, governavano la Società, erano arbitri delle liti, e sceglievano i loro successori. Questi Rettori e loro consorti sono quelli che troviamo ora alla testa del governo; i documenti provano chiaro che i Consoli del Comune sono quasi tutti di famiglie che fanno parte delle Società delle Torri. Il vedere poi che alcuni di essi, come ad esempio i Cavalcanti ed altri non pochi,[132] si trovano qualche volta anche Consoli delle Arti, è una prova certa della buona armonia in cui essi, come già piú volte dicemmo, erano col popolo. L'ordinamento di queste Società, simile in qualche modo a quello delle Arti, da cui forse era stato ispirato, non aveva nulla di veramente feudale.[133] Se fossero in Città prevalsi solo gli Uberti, piú aristocratici, le cose avrebbero di certo preso ben altro aspetto; ma essi dovettero, sebbene di mala voglia, cedere alla forza degli eventi, che spesso furono loro avversi. Assai di rado infatti li troviamo nel consolato prima del 1177, quando cominciarono ad entrarvi piú spesso, dopo aver fatto una vera rivoluzione. E ciò conferma che nel 1115 essi avevano subito uno scacco. Il governo consolare venne allora in mano di parecchie famiglie di Grandi, amiche del popolo, che prevalse nelle assemblee, senza le quali non si decideva nessuna delle grandi questioni e dei grandi interessi dello Stato.
I Consoli erano eletti in principio d'anno,[134] due per Sesto, tale almeno sembra il loro numero normale, quantunque non sia certo, né paia sempre costante. Fra questi dodici, due, scelti a turno, funzionavano da capi del collegio, ed erano detti Consules priores. Cosí ne seguí che i cronisti usarono nominare solo due, e qualche volta uno solo dei Consoli. I documenti ne nominano due, tre o piú, che stanno però sempre a rappresentare anche i colleghi, di cui si danno spesso i nomi. Di rado, e solamente in casi eccezionali, se ne trovano ricordati piú di 12,[135] forse perché gli uscenti erano stati in ufficio alcuni giorni insieme coi nuovi eletti, o per altra causa temporanea a noi ignota. Tutto ciò non farà maraviglia, se si tien presente, che la costituzione fiorentina è ora in uno stato di formazione, quindi sempre incerta e mutabile, di che ne avremo molte altre prove.
IX
Importa qui osservare la parte che aveva il popolo nella costituzione. Che le Arti fossero solidamente ordinate nei primi del secolo XII, è fuori di ogni dubbio. Il Villani ci dice che i Consoli dei Mercanti o sia dell'Arte di Calimala, verso il 1150 «ebbero in guardia dal Comune di Firenze la fabbrica dell'opera di S. Giovanni». (I, 60). Ma quello che è piú, noi troviamo che il 3 febbraio 1182 gli uomini di Empoli, sottomettendosi a Firenze, si obbligarono a pagare ogni anno 50 libbre di buoni danari, che dovevano dare ai Consoli o Rettori della Città, e quando non vi fossero, ai Consoli dei Mercanti, che avrebbero ricevuto come rappresentati il Comune.[136] Ora se questi avevano già acquistato una tale importanza nel 1182, è chiaro che ciò deve far credere ad una esistenza assai piú antica dell'Arte. E se si pensa che si tratta dell'Arte di Calimala, quella cioè che raffinava e tingeva i panni di lana, fabbricati all'estero, massime in Fiandra, che poi da Firenze andavano in tutti i mercati stranieri, si capirà a che grado di prodigioso svolgimento dovesse essere già arrivato il commercio fiorentino, e quanto piú antico bisogna perciò credere l'ordinamento di molte delle sue Arti. Un solo esempio, è ben vero, proverebbe assai poco, perché potrebbe interpetrarsi in piú modi; ma ne abbiamo anche altri. Il 21 luglio del 1184 si faceva alleanza tra Lucca e Firenze, con la dichiarazione, che i patti potevano essere modificati dai Consoli fiorentini a comuni populo electi, e da 25 Consiglieri, tra cui era espressamente stipulato, che dovevano essere compresi i Consoli dei Mercanti.[137] Ed il 14 luglio del 1193, nella sottomissione degli uomini di Trebbio, i sette Rectores qui sunt super Capitibus Artium avevano essi soli l'incarico di far inserire i patti nel Costituto della Città.[138]
Ma qui si presenta un'ultima osservazione, la quale ci fa vedere di nuovo quanto incerto e mutabile fosse ancora questo governo. I documenti, nell'accennare a quelli che erano a capo del Comune, dicono quasi sempre: Consules seu Rectores vel Rector, e piú tardi aggiungono ancora: Potestas sive Dominator.[139] Tutte queste parole avevano allora un significato assai generale. Pure lo scrivere nei trattati di pace, di alleanza o in altri solenni documenti: i Consoli o i Rettori o la Potestà, deve avere una qualche ragione, e tanto piú dovrà averla, se si aggiunge che spesso dicevano pure: Consules qui pro tempore erint, et si non erint ne faranno le veci i Rettori o la Potestà o i Consoli delle Arti. Perché tanta incertezza nell'indicare il supremo magistrato della Repubblica? Noi non troviamo che una sola spiegazione possibile. Il governo reale, efficace della Città era in mano delle associazioni; l'ufficio dei Consoli aveva poche attribuzioni, né mai ebbe l'importanza e la forza d'un governo centrale, quale noi lo immaginiamo oggi. Lo stesso può dirsi anche dei Priori, degli Anziani e degli altri, che vennero dopo; ma è piú che mai vero per i Consoli, i quali riunirono la prima volta in un governo solo le varie associazioni della Città. Si prevedeva quindi che, per una ragione qualunque, non fossero stati nominati, nel qual caso i Rettori delle Torri o delle Arti avrebbero naturalmente assunto quel potere che da essi emanava direttamente. Noi però non troviamo atti pubblici, compiuti in nome di questi Rettori, il che prova che il caso, preveduto come possibile, di rado s'avverava.
Piú volte trovammo menzionati i Consiliarii, fra i quali vedemmo compresi i rappresentanti delle Arti. Sappiamo infatti che a Firenze, come in tutti i Comuni italiani, v'era un Consiglio, che il Villani (IV 7, e V. 32) ci dice essere chiamato, «secondo l'usanza data dai Romani ai Fiorentini», Senato, e composto di cento Buoni Uomini. Nei documenti, è vero, essi sono quasi sempre chiamati Consiliarii, una sola volta avendo noi incontrato la parola Senator;[140] ma Senato o Consiglio, Senatori e Consiglieri erano parole che si adoperavano allora spesso l'una per l'altra, massime quando si trattava d'un Consiglio ristretto o Speciale, come si disse piú tardi. Il numero dei Consiglieri non lo troviamo mai con precisione determinato nei documenti; crediamo però che quello ricordato dal Villani sia alquanto al di sotto del vero, perché abbiamo un giuramento dato da 133 Consiglieri.[141] Forse se ne eleggevano 20 o 25 per Sestiere, numero che poteva anche non essere costantemente lo stesso, dal che ne seguiva che il Consiglio si poteva, con vocabolo approssimativo, chiamare dei Cento. Ad esso bisogna aggiungere il Parlamento, detto pure Arengo,[142] che era un'adunanza generale del popolo, tenuta nelle grandi occasioni, per gli affari piú gravi.
X
Il Comune fiorentino era dunque come una confederazione di Società delle Arti e delle Torri. Alla sua testa si trovavano, per la guerra, per la finanza, la giustizia e gli affari piú importanti, i Consoli, eletti ogni anno, con un Senato o Consiglio di Cento Buoni uomini circa, eletti anch'essi ogni anno, e poi il Parlamento. I Consoli erano quasi sempre scelti fra i membri che appartenevano alle Consorterie delle Torri, e quando, per una qualunque ragione, l'elezione non avesse avuto luogo, i Rettori di esse o quelli delle Arti potevano temporaneamente farne le veci. Nel Consiglio le Arti avevano la preponderanza, e cosí ne seguí che fin d'allora il governo fu veramente popolare, e tutta la politica fiorentina fu diretta sempre a favorire l'industria ed il commercio della Città.
A formarci però di un tale governo un'idea anche piú chiara, occorrerebbe sapere con precisione quali e quanti erano i cittadini che effettivamente vi partecipavano, e su ciò restano ancora parecchi dubbî. Il contado veniva interamente escluso dal far parte della cittadinanza, la quale non era concessa piena ed intera neppure a tutti coloro che abitavano dentro le mura, gli operai minori e la plebe essendone privi.[143] Il governo si trovava quindi in mano d'alcune potenti famiglie, dei capi delle Arti e dei loro principali aderenti. Fino agli ultimi tempi della Repubblica, infatti, la vera cittadinanza, che sola dava diritto agli ufficî politici, rimase un privilegio concesso a pochi, i quali anche nel 1494 non superavano di molto i tre mila. E questa è la ragione per la quale, anche ai nostri giorni, v'erano alcune modeste famiglie che si vantavano d'avere l'antica cittadinanza fiorentina, come se fosse un ambito privilegio, quasi un titolo di nobiltà. In Venezia, fino agli ultimi tempi della repubblica, anche nel secolo passato, troviamo ancora diversi gradi di cittadinanza, ed il governo sempre in mano di pochi. Questo in ogni modo è uno degli argomenti che anderebbero nella nostra storia meglio studiati. Nel Parlamento, è vero, s'adunava il popolo indistintamente; ma queste adunanze erano il piú delle volte di pura forma. E quando noi vediamo che il Parlamento veniva convocato in una piazza, spesso non molto grande, o in una chiesa, bisogna pur concludere, che di nome, ma non di fatto, vi pigliavano parte tutti gli abitanti delle Città.
È superfluo poi aggiungere, che allora non si conosceva alcuna esatta divisione di poteri, quale si trova nelle costituzioni moderne. Gli affari si dividevano piú secondo la loro importanza, e secondo la qualità delle persone cui si riferivano, che secondo la loro natura. Il Consiglio dei Cento non era, come si crederebbe oggi, un'assemblea legislativa, né i Consoli un potere esecutivo. Questi giudicavano, amministravano, comandavano in campo, eseguivano la volontà popolare, e qualche volta compievano anche atti legislativi, senza il Consiglio, che nelle riforme di maggiore importanza era sempre consultato, ma assai spesso le votava o le respingeva senza discuterle. Il Parlamento, nei casi piú solenni, approvava con un placet, senza capir sempre neppure di che cosa si trattasse. Da un altro lato non solo gli affari d'una certa gravità, massime se occorrevano danari, venivano portati in Consiglio; ma questo poteva essere consultato su tutto ciò che piaceva ai Consoli, da una proposta di condanna a morte, per ragioni politiche, fino alla concessione d'un permesso per trasferire la propria abitazione da un Sestiere ad un altro,[144] perché questo fatto che a noi apparisce di cosí poco momento, poteva allora alterare la distribuzione degli abitanti nelle diverse parti della Città, e quindi la forza relativa di esse, e la proporzionale partecipazione dei cittadini agli ufficî pubblici, cosa di cui s'era molto gelosi.
Tale era la forma di governo con cui il Comune di Firenze si costituí la prima volta. Esso non era però ancora consolidato, né abbastanza sicuro di sé. Il contado, in cui il Comune comandava, era molto ristretto; i suoi confini incerti, disputabili e disputati; ed anche dentro questi confini la sua autorità era debolissima, perché i castelli dei nobili, non solamente si dichiaravano indipendenti dalla Città, e non volevano riconoscere altra autorità fuori quella dell'Impero, a cui neppur sempre obbedivano; ma le movevano guerra continua, e continuamente eccitavano, aiutavano a ribellarsi da essa le vicine terre. La prima cosa dunque che occorreva fare in questo momento era: impadronirsi del contado colla forza delle armi, sottometterlo davvero e governarlo, il che doveva, come vedremo, essere causa di molte nuove e gravi perturbazioni, cosí interne come esterne. Esse costituiscono la vera storia del Comune fiorentino, la quale ora finalmente incomincia.
Capitolo III PRIME GUERRE E PRIME RIFORME DEL COMUNE FIORENTINO[145]
I
Dopo la morte di Matilde, i messi inviati dalla Germania a riassumere, in nome dell'Impero, il Margraviato di Toscana, si successero rapidamente gli uni agli altri.[146] Furono quasi tutti uomini piú o meno incapaci, che seguirono una politica titubante, senza mai nulla concludere. Pigliavano l'autorità di margravî, ma erano ufficiali temporanei dell'Imperatore. Privi di forze, ignari del paese, s'appoggiavano ora agli uni, ora agli altri, senza distinguere gli amici dai nemici; ed intorno ad essi scoppiavano guerre continue, di cui non riuscivano mai a capir le ragioni. Un tale stato di cose, attissimo a favorire la comunale indipendenza, durò fino al 1162, quando Federico Barbarossa cominciò a far sentire la sua mano ferma, iniziando una politica piú chiara e determinata, sebbene neppure a lui riuscisse di ottenere grandi risultati.
I Fiorentini furono quelli che piú di tutti seppero profittare di questa debolezza dell'Impero. Nel 1129, s'impadronirono del castello di Vignale in Val d'Elsa;[147] nel 1135 distrussero quello di Monteboni, da cui ebbero nome i Buondelmonti, che dovettero allora sottomettersi, con l'obbligo di servire in guerra il Comune, ed abitare alcuni mesi dell'anno in Città.[148] Il Villani, a questo proposito, osserva che ora il Comune cominciò ad ingrandirsi «colla forza piú che con ragione...., sottomettendosi ogni nobile di contado e disfacendo le fortezze». Questa infatti fu la politica fiorentina, e da essa due conseguenze dovevano inevitabilmente venire. La prima era l'ingrandimento del territorio; la seconda, l'introduzione in Città d'un numero sempre maggiore di nobili, il che apparecchiava la formazione d'un partito aristocratico, avverso al popolo, e quindi le guerre civili e i futuri mutamenti di governo.
Nel giugno 1135 entrava in Firenze il messo imperiale Engelbert,[149] che pareva le fosse amico. Egli andò subito verso Lucca, dove toccò una grave sconfitta. Fu piú tardi mandato Errico di Baviera, che venne con qualche forza, e pareva avverso ai Fiorentini; ma ben presto andò via, e gli successe Ulrico d'Attems, che si mostrò loro favorevole, anzi nel 1141 andò con essi a fare una scaramuccia contro Siena.[150] Queste erano però meteore che apparivano e sparivano. La principale guerra dei Fiorentini incominciava adesso contro il conte Guido, soprannominato il Vecchio, che era divenuto loro nemico. Occasione della rottura era stata un'eredità contestata; ma la ragione vera bisogna trovarla nella sua cresciuta e minacciosa potenza. Coi suoi possedimenti egli circondava infatti da ogni lato la Repubblica: per se quasi civitas est et provincia, scriveva di lui il Sanzanome.[151] E prima gli tolsero un castello presso Ponte a Sieve, poi assalirono quello di Monte di Croce. Ma il Conte, aiutato dalle vicine città, poté il 24 giugno 1146, dare ai Fiorentini una disfatta. Pure anche allora riuscirono ad ottenere patti vantaggiosi: una parte delle mura doveva essere demolita, e sul castello essere innalzata la bandiera fiorentina.[152] Ciò fu fatto, e per qualche tempo si ebbe tregua, tanto piú che il Conte pare s'allontanasse per altre imprese. Ma piú tardi le mura furono ricostruite,[153] ed i Fiorentini, dichiarando violati i patti, improvvisamente assalirono nel 1153 il castello, e lo demolirono. E cosí Mons Crucis est cruciatus, scriveva il Sanzanome. Tutto ciò non poteva di certo contribuire alla pace. Il conte Guido cedette una parte di Poggibonsi ai Senesi, con obbligo di fortificarlo e difenderlo contro i Fiorentini, i quali si apparecchiavano ad assalirlo. Accettando il dono, Siena s'impegnava quindi a prendere parte attiva alla guerra, che cosí s'allargava.[154]
II
Se non che, appunto allora lo stato delle cose mutava, perché s'incominciò a sentire in Toscana l'azione di Federico I Barbarossa. Avvistosi che il duca Guelfo non riusciva a farsi rispettare, mandò (1162-3) l'arcivescovo Rainaldo di Colonia, uomo accorto ed energico, col titolo di Italiae archicancellarius et imperatoriae maiestatis legatus, e l'incarico di riordinare l'amministrazione imperiale, secondo un nuovo concetto. Federico accettava, come fatto inevitabile, la dissoluzione del Margraviato, e voleva direttamente assumere il governo delle varie parti di esso, per mezzo di Conti o Podestà tedeschi, come già aveva fatto in Lombardia. E Rainaldo si mise con ardore all'opera, ponendoli, con presidî tedeschi, nei principali castelli del contado: dove i castelli mancavano, ne furono costruiti dei nuovi.[155] S. Miniato, con la sua torre in cima del colle, col borgo di S. Genesio in basso, fu il centro di questa nuova amministrazione. Ivi Rainaldo pose Everardo d'Amern, col titolo di Comes et Federici imperatoris legatus.[156] Il concetto politico di Federico era chiaro e preciso; ma ad attuarlo, contro il volere dei Comuni già liberi, contro l'interesse di molti dei conti indigeni, sarebbero occorsi gran tempo ed un grosso esercito, cose che allora mancavano ambedue. Rainaldo dové ben presto partire per altre imprese, e quantunque gli succedesse l'arcivescovo Cristiano di Magonza, anch'esso uomo di valore, i risultati pratici dell'opera loro furono assai scarsi. Riuscirono solo a cavar danari, smungendo le popolazioni: «come buoni pescatori, cosí dice un cronista, stesero abilmente le loro reti per tutto». Ma politicamente nulla di stabile fondarono.
Si videro, è vero, per tutto sorgere i nuovi Podestà tedeschi, i Teutonici, come li chiamavano. Troviamo infatti ora di continuo menzionati il Potestas Florentiae o Florentinorum, e cosí quelli di Siena, Arezzo, ed altri molti. Dentro le mura, però, delle grosse città, poco o nulla potevano, perché in esse continuavano a governare i Consoli, i quali nel contado contrastavano l'autorità dei Teutonici. Era uno stato di cose che non poteva durare a lungo. Ad alcune città amiche, l'Imperatore stesso concedeva, che, per mezzo dei loro Consoli, ma in suo nome, esercitassero la giurisdizione dentro le mura, qualche volta anche in una parte del contado, esentandone però sempre i nobili, spesso le chiese e conventi, che riteneva sotto la sua autorità.[157] In tutto il resto dell'Italia centrale dovevano i suoi Podestà comandare senz'altro, non avendo egli alcun dubbio sul pieno e assoluto diritto dell'Impero. Ma la questione era adesso piú di fatto che di diritto, e poteva essere risoluta solo dalla forza, che l'Impero non aveva in Toscana. E però quello che ne seguí, fu una gran confusione. Le grosse città, e piú specialmente Firenze, continuarono a reggersi come prima; nel contado invece Podestà imperiali, Conti toscani, signori feudali, grossi e piccoli. Consoli od altri ufficiali del Comune si disputavano ogni giorno l'esercizio dell'autorità; e le popolazioni non sapevano piú a chi obbedire. Le stesse città, gli stessi nobili che si dichiaravano per l'Impero, non si adattavano ai disegni di Federico, anzi li combattevano, perché in sostanza a tutti puzzava questa signoria teutonica, esercitata da avidi e prepotenti ufficiali dell'Impero.
Una pittura abbastanza fedele di tale stato di cose possiamo cavarla dalle antiche deposizioni di testimoni, che furono, in diverse occasioni, chiamati a dare autentici ragguagli sulle condizioni del paese. Coloro che andarono a deporre sul monastero di Rosano, ce lo descrivono come dipendente dal conte Guido, che era continuamente costretto a difenderlo «dal castellano di Montegrossoli, da altri Teutonici e dai Consoli fiorentini», che tutti presumevano esercitarvi la loro autorità. Essi ci fanno vedere a Monte di Croce, Consoli di quella terra e vice-comiti, i quali comandano nello stesso tempo, e sono costretti a difendersi dai Teutonici, dalle pretese dei Consoli e di altri ufficiali del Comune fiorentino.[158] Né minore confusione descrivono quelli che furono, in altra occasione, chiamati a deporre sul castello e sulla valle di Paterno, il cui dominio veniva disputato tra Fiorentini e Sanesi. Un testimone dice, che ai suoi tempi vide comandare colà, come in tutto il contado fiorentino, un tal Pipino, Potestas Florentiae. Un altro ricorda di aver percorso la Valle di Paterno e tutto il contado fiorentino, in compagnia dei Consoli del Comune e di un Teutonico. Parecchi affermano di esservi andati ora con Pipino, ora con altri Teutonici, ora coi Consoli, i quali tutti erano obbediti del pari, e riscotevano tasse. Singolare è la deposizione d'un Giovanni de Citinaia, che fece lungo racconto delle vicende seguite colà, negli ultimi tempi. Narrò d'un prete, che svelse dal suolo un grosso pilastro, di cui, non sapendo a quale scopo vi fosse posto, voleva servirsi per la costruzione della sua chiesa. Ma pesava tanto che, con un carro e due buoi, non riuscí a portarlo via. Laonde i contadini ivi presenti, esclamavano: Domine sacerdos, male fecisti, quia est terminus inter Florentinos et Senenses. Dopo di ciò, cosí continuava il teste, due individui andarono dal castellano di Montegrossoli, dicendogli che se li secondava nel far ricostruire il castello di Paterno, gli avrebbero fornito le prove dei diritti che aveva sopra di esso. Il castellano corse lieto a Firenze per ottenerne l'assenso; ma tornò in fretta, dicendo che smettessero di lavorare, avendo i Fiorentini ricusato, perché veniva in Toscana l'arcivescovo Cristiano di Magonza, il quale già era in Lombardia. Allora i Senesi, profittando della occasione propizia, demolirono i lavori abbandonati, e spadroneggiarono essi. Di certo non è possibile immaginare una moltiplicità maggiore, una maggior confusione e contrasto di autorità e di diritti.[159]
Per Firenze e pei Comuni di Toscana in genere, non v'era quindi ora da far altro, che profittare d'ogni occasione opportuna a sostenere, colle armi o coll'astuzia, i proprî diritti. La guerra era già scoppiata tra Pisa e Lucca, con la quale s'era unito il conte Guido, nemico dei Fiorentini, che fecero perciò trattato d'alleanza con Pisa. Ne ottennero molti vantaggi pel loro commercio, impegnandosi però a pigliar parte attiva nella guerra.[160] E lo facevano volentieri, perché si trattava non solo di combattere i Lucchesi, ma anche il conte Guido e Cristiano di Magonza, che li sostenevano. Parve dapprima che Cristiano, ponendo, il 23 marzo 1173, Pisa al bando dell'Impero, e togliendole cosí tutti i privilegi già prima concessi, la inducesse alla pace. Infatti il 23 maggio fu concluso un accordo (cui erano presenti anche i Fiorentini), con obbligo che fra Pisa e Lucca si procedesse allo scambio dei prigionieri. Il bando fu ritirato il 28 del mese stesso, e la pace venne solennemente conclusa in Pisa, il primo di giugno.
Ma dopo due mesi avvenne un fatto inaspettato, che fece correre subito alle armi. Il 4 di agosto l'arcivescovo aveva invitato a San Genesio i Consoli di Pisa e di Firenze; e quando furono colà, li fece improvvisamente prendere e gettare in carcere. Che cosa era seguito di nuovo, per voler rendere inevitabile la guerra, dopo aver tanto cercato la pace? Si sono immaginate molte spiegazioni, ma una cosa sola si sa di certo. Il 5 maggio 1172, mentre cioè che erano già innanzi le trattative di pace, s'era a Firenze stretto un segreto accordo, al quale i Pisani non potevano essere rimasti estranei. Alcuni Samminiatesi, cacciati dalla loro terra come ribelli all'Impero,[161] avevano, nel palazzo del vescovo di Firenze, giurato non solo di far causa comune coi Pisani e coi Fiorentini; ma di dar loro la terra di San Miniato, se riuscivano a riprenderla, anche quando la torre fosse rimasta in mano dei Tedeschi.[162] Il fatto è certo, perchè il documento che stringeva l'accordo è arrivato fino a noi. Non è un vero e proprio trattato, non essendovi stati presenti i Consoli, e mancandovi le formole essenziali alla vera legalità. Ma l'aver giurato e firmato nel palazzo del vescovo; l'avervi preso parte alcuni dei principali cittadini, fra cui uno degli Uberti;[163] l'aver conservato il documento in Archivio,[164] sono prove che i governi delle due città non furono estranei all'accordo, e che si voleva solo nasconderne o mascherarne la vera importanza. Da tutto ciò, dalla mala voglia e lentezza con cui procedeva lo scambio dei prigionieri, Cristiano si persuase che la pace era fittizia, che volevano aggirarlo e tradirlo. Perduta quindi la pazienza, si lasciò andare all'atto imprudente ed inconsiderato, che rese ormai impossibile la pace da lui tanto desiderata.
I Fiorentini erano infatti già nell'agosto a Castel Fiorentino, dove i Pisani, accampati a Pontedera, mandarono loro in aiuto 225 cavalieri, con due dei proprî Consoli. Cristiano s'avanzò subito col conte Guido e coi Lucchesi; ma questi ultimi dovettero abbandonarlo, perché i Pisani, consigliati a ciò dai Fiorentini, erano entrati nel loro territorio e lo devastavano. Tuttavia, sebbene stremato di forze, egli affrontò il nemico, e combatté con valore accanto alla bandiera; ma fu disfatto. Noi ignoriamo il seguito della guerra; certo è però che Cristiano ben presto partí, che nel 1174 i Samminiatesi ribelli tornarono con onore nella propria terra, e che finalmente nell'anno seguente si concluse una pace fra le tre città combattenti.[165]
I Fiorentini intanto continuavano sempre a sottomettere città e castelli nel loro contado.[166] Sin dal 1170 avevano costretto a duri patti gli Aretini,[167] amici del conte Guido, ed ora andarono a combattere sotto le mura d'Asciano, terra vicina ad Arezzo, la quale s'era sottoposta in parte ad essi, in parte ai Senesi, che volevano ora impadronirsene del tutto. Questi furono, il 7 luglio del 1174, disfatti, lasciando al nemico un migliaio di prigionieri, e dovettero quindi, sottomettersi a condizioni di pace assai dure.[168] Le trattative andarono in lungo, ma furon pure concluse nel 1176. I Fiorentini vennero riconosciuti legittimi padroni di tutto il contado fiesolano e fiorentino, ed ebbero una parte di ciò che possedevano in Poggibonsi i Senesi, i quali dovevano aiutarli nelle loro guerre, salvo contro l'Impero ed i suoi messi, che[169] promettevano cercare con ogni opera di rendere amici di Firenze. V'erano anche parecchie altre durissime condizioni.[170] Che i Fiorentini riuscissero ad imporre tali patti, dopo la piccola guerra d'Asciano, è certo una prova della loro cresciuta potenza; ma è certo ancora che, se i Senesi non erano per sempre decaduti, questa non poteva essere che una pace fittizia e, dopo molto esitare, conclusa solamente per ottenere la liberazione dei prigionieri.
III
Questi trionfi esterni si ripercotevano però in modo impreveduto nell'interno della Città. Il governo dei Consoli, con la prevalenza in esso del partito popolare, aveva sempre piú lasciato da parte i potenti, massime la consorteria degli Uberti, i quali ben di rado noi troviamo ora alla testa del Comune,[171] di che, come era naturale, si mostravano assai poco contenti. Invece le continue sottomissioni di castelli e terre avevano in Città aumentato sempre piú il numero dei nobili di contado. I quali, se dapprima, come semplici assidui habitatores o cives salvatichi, non potevano pigliar parte al governo, potevano unirsi agli scontenti, ingrossarne il numero e la forza. Divenuti coll'andare del tempo, veri e proprî cittadini, ebbero modo d'operare piú efficacemente. E cosí ne seguí finalmente, che nel 1177 gli Uberti presero animo a tentare una rivoluzione, la quale fu la prima delle guerre civili in Firenze.
Tutti i cronisti ne parlano, e non dovette esser cosa di poco momento, perché durò due anni circa, con molto spargimento di sangue, con incendi che distrussero gran parte della Città, al che s'aggiunse anche una piena d'Arno, che fece crollare il Ponte Vecchio. Il Villani descrive i due incendî seguíti nel 1177, dal Ponte al Mercato Vecchio, il primo; da San Martino del Vescovo a Santa Maria Ughi ed al Duomo, il secondo; poi descrive la caduta del ponte, ed aggiunge, al solito, che tutto ciò fu giusto giudizio di Dio contro la Città divenuta ingrata, superba e piena di peccati. Della rivoluzione seguita nello stesso tempo, egli discorre come se con gl'incendi non avesse relazione alcuna. Gli Uberti, esso continua, che erano «i piú possenti e maggiori cittadini di Firenze, co' loro seguaci nobili e popolani, cominciarono guerra contro i Consoli, che erano signori e guidatori del Comune, a certo tempo e con certi ordini, per la invidia della Signoria che non era a loro volere. E la guerra fu cosí aspra che si combatteva in piú parti da vicinanza a vicinanza, con le torri armate, le quali erano alte da 100 a 120 braccia. Se ne costruirono anzi delle nuove per le Comunità delle contrade, coi danari delle vicinanze, e le chiamavano Torri delle Compagnie. Si continuò cosí a combattere per due anni, con molte uccisioni; e venne questo perpetuo guerreggiare in tale uso fra i cittadini, che l'un dí si battevano, e l'altro bevevano e mangiavano insieme, novellando l'uno all'altro delle loro imprese e prodezze. Finalmente si pacificarono per stracchezza, e i Consoli restarono in signoria; ma queste cose crearono poi e partorirono le maledette parti, che furono appresso in Firenze».[172]
Il pseudo Brunetto Latini, invece, pone al 4 agosto 1177 il primo incendio da Ponte Vecchio fino a Mercato Vecchio. Ma, continuando, aggiunge subito che nello stesso anno cominciò «discordia e guerra durata ventisette mesi tra i Consoli e gli Uberti, i quali non ubbidivano né Consolato, né Signoria, né eziandio per loro facevano reggimento. Questa battaglia cittadinesca portò gran mortalità, rubamenti ed incendi. In cinque parti diverse della Città fu messo il fuoco, che arse il Sesto d'Oltrarno, e da S. Martino del Vescovo a S. Maria».[173] Il 4 novembre del 1178 sarebbe, secondo lo stesso cronista, caduto il Ponte, e la guerra cittadina sarebbe finita solamente nel 1180, con la vittoria degli Uberti, uno dei quali, Uberto degli Uberti, entrò poi nel consolato. «Da ciò derivò piú tardi la creazione dei Podestà, che furono gentiluomini, possenti e forestieri».[174]
Non ostante alcune apparenti contraddizioni dei due cronisti, risulta pur chiaro da essi e da altri ancora, che nel 1177 vi fu una rivoluzione capitanata dagli Uberti, la quale durò circa due anni, con incendi, uccisioni e rubamenti. La loro vittoria fu parziale, perché il consolato restò; ma essi vi entrarono piú spesso di prima, insieme coi loro amici, e però il pseudo Brunetto Latini li dice vittoriosi. Tutto ciò diede nel governo maggior forza ai nobili, ed apparecchiò la riforma aristocratica, che poi sostituí il Podestà ai Consoli, e seminò il germe delle parti e delle guerre civili, che dovevano cosí lungamente lacerare ed insanguinare la Città. Tale in sostanza è la conclusione dei cronisti: i documenti e i fatti posteriori la confermano pienamente. Nondimeno la pace interna fu ristabilita, e la politica fiorentina non fu punto alterata. Il parziale trionfo dell'aristocrazia, rendendola, per ora almeno, contenta, giovò anzi a fare, col suo efficace aiuto, prosperare sempre piú le cose di tutta la Repubblica. Ne è prova la ricordata sottomissione del 1182, con cui gli Empolesi promisero di pagare un tributo ai Rettori della Città, ed in loro mancanza ai Consoli dei mercanti, obbligandosi a far guerra, secondo il volere dei Fiorentini, salvo però contro i conti Guidi, da cui in parte gli Empolesi dipendevano ancora.[175] Il 4 di marzo si sottomisero gli uomini di Pogna, che dipendeva invece dai conti Alberti.[176] I Pognesi si obbligavano non solo a far guerra, secondo la volontà de' Consoli fiorentini, ma a non costruire nuove mura o fortezze nella loro terra o nella vicina Semifonte: se a ciò altri si provasse, dovevano essi opporvisi ed avvertirne subito i Fiorentini, che dalla loro parte promettevano amicizia e protezione.[177] Nello stesso anno presero anche il castello di Montegrossoli.[178] Il 21 luglio 1184 strinsero alleanza coi Lucchesi, che s'obbligarono ad aiutarli ogni anno, per venti giorni almeno, con 150 militi e 500 fanti, nelle guerre che i Fiorentini farebbero nel proprio contado.[179] Questi nell'ottobre assalirono in Mugello il castello di Mangona, appartenente agli Alberti, i quali fecero perciò ribellare la terra di Pogna, che i Fiorentini allora andarono subito ad assalire.[180] Nel conflitto che ne seguí, par certo che fosse presente il conte Alberto, perché nel novembre noi lo troviamo prigioniero, e costretto ad accettare durissimi patti per sé, per la moglie ed i figli. Dové promettere di distruggere nel prossimo aprile il castello di Pogna, salvo il palazzo e la torre; demolire la torre di Certaldo, né piú ricostruire quella di Semifonte; cedere ai Fiorentini una delle torri di Capraia, a loro scelta; dividere con essi, a metà, un accatto o dazio da porsi in comune sui beni che egli possedeva fra l'Arno e l'Elsa. Finalmente, appena uscito di prigione ( postquam exiero de prescione ), doveva far giurare obbedienza a tutti i suoi uomini, e pagare 400 libbre di buoni denari pisani. I suoi figli abiterebbero in Firenze due mesi dell'anno in tempo di guerra, uno in tempo di pace.[181] Questa sottomissione ed umiliazione del conte Alberto era per sé stessa un fatto di grande importanza. Ma, se vi si aggiunge che ciò avveniva dopo che Firenze aveva abbattuto i Cadolingi, umiliato i conti Guidi, fatto vantaggiosissima alleanza con Pisa, Siena e Lucca, si capirà facilmente la fortissima e quasi minacciosa posizione, che essa aveva saputo, in cosí breve tempo, prendere.
IV
Tutto questo contribuí di certo non poco ad affrettare la venuta dell'imperatore Federico I in Toscana, dove lo troviamo infatti nel 1185, con animo deliberato a sottomettere il paese. Venne però senza un esercito, fidando nell'autorità dell'Impero, nella sua propria accortezza e reputazione. Credeva di poter riuscire ne' suoi intenti, staccando da Firenze alcune delle città toscane, riducendole a favorire contro di essa l'Impero. Faceva soprattutto assegnamento su Pistoia, che si trovava fra Lucca e Firenze, nemica d'ambedue; su Pisa, che con larghe concessioni sperava di poter ricondurre al partito imperiale, cui essa aveva piú volte aderito in passato. E ciò gli appariva anche piú facile quando, arrivato a San Miniato nella state del 1185, molti dei nobili del contado vennero ad ossequiarlo, levando alti lamenti contro le città libere che li opprimevano. Il 25 di luglio liberò dalla giurisdizione di Lucca molti di loro, ed alcune terre ad essa sottostanti.[182] Il 31 dello stesso mese entrò in Firenze, ed anche ora fu circondato dai nobili del contado, i quali, scrive il Villani, amaramente si dolevano contro la Città, «che aveva occupato i loro castelli, a grande dispregio dell'Impero».[183] E qui i cronisti affermano che Federico tolse a Firenze la giurisdizione sul proprio contado, fino alle mura; anzi la stessa deliberazione egli avrebbe, secondo essi, presa per tutte quante le città toscane, salvo Pisa e Pistoia.[184] Ma su di ciò è sorta grave disputa, non volendo molti prestar fede alla possibilità di un tal fatto, il quale non trova conferma in nessun documento. Altri invece ne vorrebbero vedere la prova in un altro fatto posteriore, che non solo è narrato da parecchi cronisti, ma è anche confermato dai documenti.
Ed in vero, con un diploma che ha la data del 24 giugno 1187, Errico VI, in premio, esso diceva, dei servigi resi dai Fiorentini a suo padre ed a lui stesso, concedette loro la giurisdizione nella Città e nel contado, fino ad un miglio dalla parte di Fiesole, a tre verso Settimo e Campi, a dieci in tutto il resto.[185] Anche in cosí ristretti confini, però, i nobili ed i militi dovevano restare indipendenti dalla Città. In riconoscenza di questa liberalità dell'Impero, i Fiorentini dovevano ogni anno dare ad esso un buono sciamito, bonum examitum.[186] Simili concessioni, limitate del pari, furono fatte ad altre città.[187] Si disse perciò: — se Errico restituí ai Fiorentini la giurisdizione, è chiaro che essa era stata loro tolta dal padre. Noi sappiamo infatti che Federico mise in tutta Toscana Podestà imperiali, che presero nome dalle città.[188] — E andando di questo passo, s'arrivò anche a voler vedere Firenze privata della sua propria giurisdizione fin dentro le mura. Se non che, il diploma d'Errico non parla di restituzione, parla solo di liberalità usata in premio dei servigi resi dai Fiorentini, i quali servigi non si sa in verità quali possano essere stati.[189] È probabilmente un modo di dire, giacché simili concessioni furono da lui fatte a molte città. Da un altro lato riesce assai difficile credere che Firenze, la quale, quando era tanto piú debole, aveva osato combattere a mano armata i messi dell'Impero, uccidendo Rabodo, ponendo in fuga Cristiano di Magonza, potesse, quando si trovava tanto piú forte, alla testa di tutta Toscana, lasciarsi, senza alcuna resistenza, privare della propria giurisdizione in tutto il contado e fin dentro le mura. Oltre di ciò, la esistenza de' suoi Consoli in questi medesimi anni, non par dubbia, il che farebbe senz'altro crollare l'ipotesi di Podestà imperiali dentro la Città. Infatti nel 1184, i documenti ci dànno i nomi dei Consoli. Nei tre anni successivi, è vero, ce li dà solo il pseudo Brunetto Latini; ma è difficile supporre che egli li abbia tutti inventati, o che siasi per tre volte consecutive ingannato. Ed anche in questo triennio, se i documenti non ci dànno nomi di Consoli, indirettamente però accennano di continuo alla loro esistenza.[190]
Bisogna, io credo, cominciare dal riconoscere, che, secondo le idee e la politica di Federico I, il suo diritto d'esercitare giurisdizione nella Toscana, non era disputabile; che se le città l'avevano di fatto esercitata, senza una speciale concessione, esse avevano violato i diritti dell'Impero, il quale poteva, anzi doveva riprenderli. Perciò egli aveva mandato Rainaldo e Cristiano a mettere per tutto suoi Podestà,[191] a far tornare le cose in quello che per lui era il solo stato legale e normale. Se non che, la difficoltà qui non stava nel provare il suo diritto, secondo la teoria imperiale; stava invece nel farlo valere. Era una quistione di fatto, che solamente la forza poteva risolvere. I Podestà imperiali, come noi abbiamo già visto, furono per tutto istituiti; ma se nel contado riuscirono ad ottenere obbedienza, non senza contrasto e parzialmente, nelle città piú grosse, invece, massime a Firenze, non riuscirono punto. I Potestates Florentiae o Florentinorum, come di Siena o dei Senesi, e simili, che noi incontriamo assai di frequente, son quasi sempre, e per Firenze può dirsi addirittura sempre, Podestà imperiali, messi nel contado, di cui disputavano la giurisdizione ai Consoli. Or siccome pel Comune il contado era suo proprio territorio, e voleva perciò comandarvi; per l'Impero, invece, il contado doveva, insieme con la Città, essere sottoposto ai Podestà imperiali, cosí ne seguiva naturalmente che essi venivano da tutti chiamati Podestà di Firenze o dei Fiorentini, e per le stesse ragioni, Podestà di Siena o dei Senesi, d'Arezzo o degli Aretini, ecc. Nel fatto però, essi non solamente non riuscivano a comandare dentro le mura delle grosse città, ma nel contado stesso erano in conflitto continuo con l'autorità dei Consoli, ed abbiamo già visto quanta confusione ne nascesse. È tuttavia assai naturale il credere, che, con la venuta di Federico I in Toscana, l'autorità di questi Podestà dovesse immensamente crescere, e che, per qualche tempo almeno, riuscissero davvero ad esercitare la propria giurisdizione in tutto il contado, fin sotto alle mura delle città. Questo fece dire ai cronisti, che l'Imperatore aveva tolto a Firenze il contado. È certo però, che quando egli partí, le cose tornarono subito nello stato di prima; i Consoli cioè continuarono a rendere ovunque, piú che potevano, vana l'opera e l'autorità degli ufficiali imperiali. Il sorgere dei Comuni aveva creato un nuovo stato di cose, del quale l'Impero poteva non ammettere il valore legale, ma che non aveva poi la forza di distruggere. Questo fu che indusse finalmente Errico a riconoscere in parte, e sotto forma di liberale elargizione, lo stato di fatto, che egli sperava cosí di potere almeno circoscrivere entro limiti determinati.
E veramente, col diploma 1187, egli concedeva ai Fiorentini meno assai di quanto essi già da un pezzo possedevano. Se infatti il territorio del Comune non avesse dovuto estendersi piú d'un miglio dalla parte di Fiesole, ne sarebbe rimasta fuori questa città, già sottomessa con le armi, insieme con tutto il suo contado, il quale sin dal 1125 faceva parte del territorio fiorentino, come era stato sempre nei trattati riconosciuto. E quasi ciò non bastasse, anche in sí angusti confini, Errico dichiarava esenti dalla giurisdizione della Città tutti i nobili, cioè anche quelli che ad essa si erano legalmente e solennemente sottomessi. Ma, ciò non ostante, a Firenze conveniva d'accettare la concessione imperiale. Lo stato di fatto sarebbe rimasto quale era, essa avrebbe cioè continuato sempre a comandare ed a prendere piú che poteva. Il cronista Paolino Pieri, nel ricordare questa concessione, dice che i Fiorentini riebbero il contado, «cioè che si ritolsero,» espressione con la quale inconsapevolmente egli manifesta la vera condizione delle cose. Intanto l'Impero cedeva nel punto di diritto, riconoscendo la giurisdizione dei Consoli nella Città ed in una parte del contado. Il resto sarebbe stato in avvenire, come pel passato, risoluto dalla forza. A noi pare che tutto ciò ponga in chiaro le cose, e spieghi ancora le inesattezze e la confusione dei cronisti, i quali, non sapendo distinguere la questione di fatto da quella di diritto, mescolarono di continuo l'una con l'altra. E veramente non era agevole distinguerle, quando di fronte al fatto stavano due, anzi tre diritti, ognuno dei quali non riconosceva gli altri: il diritto cioè dell'Impero, quello del Comune e quello finalmente del Papa, che ripeteva sempre, quantunque sempre invano, che la Chiesa era l'erede di Matilde.
V
L'esistenza dei Podestà o conti tedeschi nel contado non fu però senza un'azione, per lo meno indiretta, nell'interno della Città. Essi contribuirono anzi a modificarne la costituzione, promuovendo in certo modo la creazione d'una nuova magistratura municipale, che portò lo stesso nome. In vero, il nome latino di Potestas, Potestà o Podestà era dato nel Medio Evo ad ogni superiore autorità: noi lo abbiamo visto già attribuito nel 1068 a Goffredo duca di Toscana. Piú tardi fu dato ai conti tedeschi, insediati nel contado, in nome di Federico I. Da essi passò poi a magistrati municipali. Sembra che dapprima venisse dato ad ufficiali che il Comune mandò nel contado, quando v'erano già i conti tedeschi, ad imitazione di essi e contro di essi. Tali almeno dobbiamo credere che siano alcuni, i quali hanno nomi italiani; e portano il titolo di Podestà fiorentini o di Firenze, prima che una tale magistratura fosse Stata creata dentro la Città. Ne conosciamo almeno due, Renuccio da Stagia e Guerrieri,[192] che i testimoni di Rosano ricordano piú di una volta. Renuccio sembra, con abbastanza probabilità, aver tenuto l'ufficio prima del 1180,[193] quando cioè in Firenze v'erano certamente i Consoli.[194] Bisogna quindi ritenerlo ufficiale del contado. Si ammetta però o non si ammetta una tale ipotesi, è qui da notare che nei documenti fiorentini, ogni volta che s'allude ora ai Consoli, si comincia costantemente ad aggiungere le parole: sive Rector vel Potestas vel Dominator. Dapprima non è che una formola vaga e generica, la quale accenna, in modo assai indeterminato, alla possibilità di un'altra magistratura. Ma a poco a poco la formola assume un carattere piú concreto; la parola Potestas prende una importanza sempre maggiore, tanto che spesso precede quella di Consules.[195] E allora la nuova magistratura è vicina a nascere; essa infatti comparisce finalmente l'anno 1193, nella persona di Gherardo Caponsacchi, un Fiorentino di famiglia consolare.
L'Ammirato s'ingannò quando credette di ritrovare un tal magistrato nel 1184, perché nella lega tra Firenze e Lucca vide ricordato non un individuo in particolare, ma l'ufficio in genere del Podestà.[196] Questo però, come notammo, segue troppo spesso nei documenti, anche quando a Firenze v'erano di certo i Consoli, per poterne tirare una tal conclusione. Può darsi che anche prima del 1193 vi sia stato in Firenze un qualche Podestà; ma sino a che non si trovi il nome dell'individuo in un documento, che ce lo mostri in ufficio, noi non possiamo asserirlo.
L'istituzione della nuova magistratura fu, in ogni modo, preceduta da un incremento della nobiltà dentro le mura cittadine. Questo anzi ne fu una delle cause efficienti. Le carte del tempo ci hanno dato di ciò prove continue, che sono confermate dai cronisti. Il pseudo Brunetto Latini dice, che nel 1192 erano Consoli «Messer Tegrino dei conti Guidi, paladino in Firenze, e Chianni de' Fifanti». Ora il vedere al Consolato in Firenze un conte ed un conte palatino o paladino che sia, è un fatto assolutamente insolito. Lo stesso cronista ci dice che, nel medesimo anno, si fece ordinamento in Firenze, che li conti Guidi et li conti Alberti et li conti da Certaldo, Ubaldini et Figiovanni, Pazzi et Ubertini, conti di Panago et altri nobili assai, cittadini, dovessero abitare i quattro mesi dell'anno nella città di Firenze». Sia qualunque il valore che si voglia attribuire a questo cronista, la sua asserzione è in armonia colle notizie che si cavano dai documenti, e spiega l'origine della nuova magistratura. Non poteva certo ai nobili piacere di sottostare al governo popolare dei Consoli, contro cui fin dal 1177 avevano combattuto, e specialmente poi essere giudicati da coloro che essi ritenevano inferiori per grado e dignità. Inoltre, quanto piú gli elementi di cui la cittadinanza si componeva, divenivano eterogenei, e piú si avvicinava perciò il pericolo di guerra civile, tanto piú la possibilità di essere giudicati dai proprî avversarî politici, doveva apparire incomportabile. E quindi si cercava una magistratura nuova, d'indole diversa, preferibilmente aristocratica, e si prese a modello una istituzione imperiale, quale era quella del Podestà. Esso non è già un semplice giudice, come molti credettero e scrissero; è addirittura il capo e rappresentante del Comune; firma i trattati e comanda l'esercito; piglia il posto dei Consoli.
Infatti il 14 luglio 1193, il castello di Trebbio si sottometteva al Comune di Firenze, di cui avevano la legale rappresentanza Gherardo Caponsacchi Potestas Florentie et eius Consiliarii, insieme coi sette Rettori delle Capitudini delle Arti.[197] I Consiglieri, dei quali il documento dà i nomi, sono sette anch'essi, e quasi tutti di famiglie consolari; due sono anzi veri e proprî nobili, un conte Arrigo (forse da Capraia) ed un Tegghiaio Buondelmonti. Nel 1194 par certo che si tornasse ai Consoli, anzi il pseudo Brunetto ci dà i nomi di due, fra i quali un Uberti. Nel 1195 comparisce nuovamente il Podestà nella persona di Rainerius de Gaetano, cum suis Consiliariis, uno dei quali è Consul iustitiae.[198] Si può con certezza ritenere che questi Consiglieri, il cui numero nei documenti varia di continuo, non sono altro che i Consoli stessi, che, per qualche tempo, persistono ancora sotto questa forma transitoria, durante la quale il Podestà è come il loro capo. Essi rappresentano il Comune insieme con lui, o anche senza di lui. A poco a poco però la loro importanza diminuisce, e quella del Podestà aumenta. Insomma è un periodo di trasformazione, durante il quale la nuova forma, non ancora ben determinata, di governo, si alterna con quella dei Consoli.
Nel 1200 il Podestà non è piú un fiorentino, ma uno straniero, e già rappresenta il Comune senza la compagnia de' suoi Consiglieri, che nel 1207, quando cioè la nuova magistratura piglia la sua forma definitiva, sono addirittura scomparsi. Per meglio dire, essi si vanno sempre piú trasformando, ed aumentano di numero, fino a che formano un Consiglio speciale della Città intiera, accanto all'antico Consiglio o Senato, che diventa il Consiglio generale. Il governo allora sarà rappresentato dal Podestà e da due Consigli, i quali qualche volta voteranno separatamente, qualche altra uniti, e si chiameranno in questo caso, il Consiglio generale e speciale. L'ufficio dei Consoli si può dire cosí morto per non piú ricomparire. Salvo infatti un ultimo tentativo, pel quale essi furono di nuovo eletti negli anni 1211 e 1212, noi piú non li ritroviamo. E da quanto abbiam detto finora può facilmente intendersi, perché i cronisti pongano in tempi assai diversi l'origine del Podestà. Il pseudo Brunetto Latini lo fa cominciare nel 1200, quando cioè esso fu la prima volta un ufficiale forestiero, qualità che era tenuta essenziale. E però il cronista prima d'allora sembra vedere in esso piú che altro un capo dei Consoli.[199] E si capisce ancora perché il Villani lo faccia invece cominciare nel 1207. Questo è infatti l'anno in cui l'ufficio prende la sua forma definitiva davvero, giacché il Podestà non solo è forestiero, ma apparisce anche senza i Consiglieri. Il Villani però s'inganna quando ce lo vuol dare come un magistrato eletto all'unico ufficio di amministrare piú imparzialmente la giustizia, e quando aggiunge che allora «non si rimase la signoria dei Consoli, ritegnendo a loro ogni altra cosa del Comune». Sono due errori, il secondo dei quali si può credere poco piú che un semplice anacronismo. Infatti se ciò che egli afferma non può esser vero nel 1207, tale può ritenersi, in parte almeno, per gli anni precedenti, quando cioè i Consoli sopravvivevano quasi a sé stessi, come Consiglieri del Podestà.
VI
Certo dal 1196 al 1199 c'era stato un ritorno ai Consoli.[200] Ma in questo tempo seguí anche un fatto assai importante, che mutò profondamente la politica generale di tutta la Toscana, e sul quale perciò dobbiamo ora fermarci. Il 27 settembre 1197 moriva l'imperatore Arrigo VI, e questa morte portò prima l'abbandono, poi la totale caduta di quel sistema imperiale, con tanta cura e persistenza iniziato da Federico I nell'Italia centrale. I Samminiatesi distrussero la rocca, che era in mano dei Tedeschi; poi le mura di S. Genesio.[201] I Fiorentini ripresero per denaro Montegrossoli, che era stato rioccupato e fortificato da nobili, che davano noia continua.[202] E dopo di ciò Firenze si pose ad un'assai maggiore impresa, iniziando una lega delle città toscane contro l'Impero. Essa fu conclusa il dí 11 novembre 1197, a S. Genesio, dove giurarono primi i Lucchesi, poi i Fiorentini, i Senesi, i Samminiatesi, il vescovo di Volterra, presenti, per maggiore solennità, due cardinali di Santa Chiesa. I patti principali erano: alleanza a comune difesa contro chiunque attaccasse la Lega; non far pace o tregua cum aliquo Imperatore vel Rege seu Principe, Duce vel Marchione, senza il consenso dei Rettori della Lega stessa; muover guerra contro le città, conti, vescovi o borghi, che, invitati ad entrarvi, si ricusassero.[203] Ma dove era il pericolo imminente? Perché questa alleanza contro l'Impero, ora appunto che esso piú non minacciava? Uno dei patti ci spiega, meglio d'ogni altro, lo scopo vero cui si mirava. I castelli, i borghi, le piccole terre, cosí esso diceva, possono essere ammessi solo come dipendenti da coloro, che sono legittimi possessori del territorio in cui queste terre o castelli si trovano. Unica eccezione era fatta per Poggibonsi,[204] perché di esso molti si disputavano il dominio. Montepulciano sarebbe stato ammesso come dipendente da Siena, appena che questa fosse riuscita a provare il suo diritto di dominio su di esso.
Da tutto ciò adunque par chiaro che, in sostanza, quello che veramente si voleva era: profittare della morte dell'Imperatore, per assicurare alle città il pieno dominio dei propri territori. A questo fine occorreva essere in Toscana uniti, e però si voleva che la Lega fosse, per quanto era possibile, obbligatoria. Gli atti posteriori di essa non lasciano alcun dubbio sul vero suo fine; provano anzi assai ampiamente che Firenze l'aveva promossa, perché tutta Toscana l'aiutasse ora ad impadronirsi subito del suo contado. Se però la Lega era contro l'Impero, non per questo essa era a difesa del Papa, delle cui pretese, come erede di Matilde, non teneva anzi conto nessuno. Si dichiarava, è vero, di non riconoscere imperatore, re, duca o margravio, senza l'approvazione della Romana Chiesa; ma si aggiungeva che se il Papa voleva entrare nella Lega, doveva accettarne i patti, altrimenti ne sarebbe restato fuori. Se chiedeva aiuto, per riconquistare le proprie terre, si doveva far solo ciò che i Rettori della Lega avrebbero ordinato. Non si sarebbe però, in nessun caso, tenuti ad aiutarlo, se le terre da lui richieste fossero già tenute in possesso di qualcuno dei Comuni o città alleate. Piú chiaro non si poteva parlare. E però quando ai primi del 1198 fu eletto papa Innocenzo III, questi, sebbene avverso all'Impero, e fautore dello spirito nazionale in Italia, si dimostrò, come vedremo, assai scontento di un tal modo di procedere.
Il 4 dicembre 1197, a Castel Fiorentino, giurarono i Rettori della Lega, fra cui primi il vescovo di Volterra ed il Console fiorentino Acerbo, che ne fu il capo effettivo, sebbene il titolo venisse dato al Vescovo, a cagione della sua ecclesiastica dignità. Pisa e Pistoia per ora ne restarono fuori; ma ad esse, come ad altre città toscane, era serbato libero l'aderire, cosa che Arezzo aveva già fatto il 2 dicembre.[205] Il 5 febbraio 1198 giurò il conte Guido, ed il 7 giurò il conte Alberto. I Fiorentini però espressamente dichiaravano nel secondo di questi due trattati, che essi si serbavano liberi d'assalire Semifonte, e di sottoporre anche colla forza Certaldo e Mangona, terre degli Alberti.[206] E cosí continuarono a procurare una quantità di altre adesioni alla Lega, con atti che erano piuttosto di sottomissione a Firenze.
Fu questo il momento in cui papa Innocenzo, da poco eletto, nel mese stesso di febbraio in cui fu consacrato, scriveva ai due cardinali stati presenti alla Lega, che in molte cose essa nec utilitatem contineat, nec sapiat honestatem, non essendosi tenuto conto alcuno che il Ducato di Toscana apparteneva alla Chiesa, ad ius et dominium Ecclesiae Romanae pertineat. Egli intendeva perciò far valere i suoi diritti. Se i collegati a lui si sottomettevano, avrebbe colla minaccia d'interdetto obbligato anche i Pisani ad unirsi a loro, contro l'Impero; altrimenti li avrebbe lasciati liberi di fare quel che volevano.[207] Non gli fu però dato ascolto, e gli convenne fare di necessità virtú, moderando non poco il suo linguaggio.[208] Pare nondimeno che alcune concessioni di forma gli fossero fatte (sebbene non sappiamo quali), perché, scrivendo poi ai Pisani, si dimostrava piú contento, e li spingeva ad entrare nella Lega. Certo è però che essi ne restarono sempre fuori, e che se egli, fatto accorto dagli eventi, si dichiarò piú tardi fautore energico degl'interessi nazionali, e promotore della Lega contro l'Impero, poté cosí riuscir solo ad aumentare la sua autorità morale e politica, non a guadagnare un sol palmo di terra, né a far valere alcuno de' suoi pretesi diritti sulla Toscana.
Chi ogni giorno ne cavava invece vantaggio erano i Fiorentini. Il 10 aprile 1198 Figline entrava nella Lega, sottomettendosi a Firenze, pagando anche un annuo tributo;[209] ed il dí 11 maggio Certaldo faceva lo stesso.[210] La Repubblica continuava a procedere non solo con energia, ma con grande accortezza per la via intrapresa. Lasciava che i nobili pigliassero sempre maggior parte al governo, perché cooperassero di buona voglia al compimento della deliberata impresa. Quel conte Arrigo da Capraia, che nel 1193 trovammo fra i Consiglieri del podestà Caponsacchi, lo troviamo ora, nel 1199, addirittura fra i Consoli.[211] Nell'anno 1200 si eleggeva finalmente a Podestà uno straniero,[212] Paganello Porcari da Lucca, cosa a cui, come già notammo, da un pezzo miravano i nobili. Ed egli venne confermato nel 1201, perché condusse la guerra con energia e valore. Infatti, nel febbraio del 1201, il conte Alberto giurò di cedere ai Fiorentini il poggio di Semifonte col castello e le mura; di aiutarli, ogni volta che fosse necessario, ad impadronirsi di Colle, Certaldo, Semifonte.[213] Il vescovo di Volterra giurò anche esso di aiutarli nelle medesime guerre.[214] E tutto ciò si faceva come se fosse conseguenza e parte degli obblighi della Lega, il che incominciava naturalmente a stancare ed insospettire gli alleati, che si vedevano ridotti cosí a fare il solo interesse di Firenze. La quale, non curandosi d'altro, era pronta a cominciare la guerra contro Semifonte, a ciò essendosi andata spianando la via con tutti questi trattati.
Da un pezzo essa meditava la presa di quel castello, la cui strategica posizione e la facilità grande che esso aveva di ricevere aiuti da tutti i vicini, lo rendevano come un pruno negli occhi della ormai superba Repubblica, deliberata perciò a disfarsene. Il conte Alberto, sebbene si fosse nel 1184 obbligato a non farlo, come due anni prima s'erano obbligati i Pognesi, aveva, non ostante, poco dopo, costruito sul colle di Petrognano il castello di Semifonte, profittando della venuta di Federico I, e della posizione assai difficile in cui si erano allora trovati i Fiorentini, che mai non glielo perdonarono. Egli aveva in quell'occasione assunto anche il titolo di Comes de Summofonte. Presso il castello s'andò subito formando un borgo, che crebbe rapidamente, perché v'accorrevano molti dalle vicine terre, che Firenze andava via via sottoponendo e tassando. E già si ripeteva nel contado:
Firenze, fatti in là.
Che Semifonte si fa città.
Per queste ragioni la Repubblica aveva insistentemente cercato assicurarsi dei vicini, con i molti trattati già ricordati, e con altri ancora, condotti a termine dal suo operoso Podestà. Rimaneva però sempre Siena, che poteva dar valido aiuto al nemico, il quale si dimostrava già pronto alla difesa. E però il 29 marzo del 1201 i Fiorentini conchiusero con essa un'alleanza, promettendo d'aiutarla contro Montalcino, che aveva di fronte a Siena la stessa minacciosa posizione di Semifonte contro la loro Città.[215] Anche Colle fu obbligato a giurare di non dare aiuto ai Semifontesi.[216] Finalmente la guerra incominciò.
Il cronista Sanzanome, che vi si trovò presente, la fa, con la sua solita esagerazione, durare cinque anni, forse tenendo conto di tutte le precedenti scaramucce.[217] Certo però la lotta fu dura, perché, non ostante i trattati, Semifonte venne d'ogni parte aiutata, essendo la gelosia contro Firenze assai cresciuta. Oltre di che, la forte posizione di quel castello e la condotta del suo valoroso podestà Scoto, fecero sí che potesse resistere con molto vigore all'esercito che d'ogni parte lo circondava, tanto che i Fiorentini, non fidando nella sola forza, ricorsero anche al tradimento. Un tal Gonella, che s'era colà dalle vicine terre rifugiato con altri compagni, aveva insieme con essi avuto la guardia della torre detta di Bagnuolo, di cui si valse invece per tradire la terra al nemico. Quando furono però a compiere il tradimento, trovarono tale resistenza nei terrazzani che vi lasciarono la vita. L'effetto, non ostante, s'ottenne lo stesso, perché, poco dopo, Semifonte dovette arrendersi. E se di ciò non fu causa unica il tradimento, come credé il Villani (V, 30), dovette pure avervi non poco contribuito. Il 20 febbraio 1202, infatti, i Consoli, che allora erano tornati in ufficio a Firenze, esentarono in perpetuo da ogni gravezza i discendenti del Gonella e de' suoi compagni morti per la Repubblica,[218] ed il 3 dell'aprile seguente furono sottoscritti e giurati i patti della resa. I Fiorentini promettevano perdono, protezione e restituzione dei prigionieri ai Semifontesi, i quali però dovettero distruggere la torre e le mura; discendere dal poggio al piano; pagare 26 danari l'anno per ogni focolare, salvo i militi e le chiese.[219]
Il Papa rimproverò vivamente i Fiorentini, per la loro condotta crudele contro Semifonte: ma i Consoli, dopo essersi difesi con una lettera,[220] continuando per la loro via, attaccarono briga coi Senesi. Fu a cagione del castello di Tornano, nella valle di Paterno, che essi volevano, e che i Senesi dicevano di non poter dare, perché in possesso di signori da loro indipendenti. I Fiorentini allora incominciarono, al solito, coll'indurre Montepulciano, grossa terra dei Senesi, a giurare sottomissione, con l'obbligo anche di un annuo tributo.[221] La guerra perciò sarebbe subito necessariamente scoppiata, se Ogerio, podestà di Poggibonsi, non si fosse intromesso. Accettato che fu il suo arbitrato, egli esaminò con gran diligenza la questione dei confini, e li determinò coscienziosamente. Il suo lodo fu pronunziato il 4 giugno 1203.[222] A Firenze restò tutto il contado fiesolano e fiorentino, secondo la delimitazione esattamente data da Ogerio, nella quale la valle di Paterno veniva compresa. I Senesi dovevano adoperarsi a far cedere anche il castello da coloro che ne erano signori. Questo trattato dalle due parti accettato, e dai Senesi rispettato scrupolosamente,[223] venne il 15 maggio 1204 sanzionato da papa Innocenzo III, secondo l'espresso desiderio dei Fiorentini.[224] I quali però continuarono i loro segreti accordi con Montepulciano, che avevano, nei giorni 30 e 31 maggio 1203, indotto a giurare di nuovo alleanza offensiva e difensiva contro Siena.[225] Quindi, non appena che ciò si seppe, nuovi rammarichi, nuove proteste di Siena, che portò l'affare dinanzi alla Lega, i cui Rettori furono perciò espressamente radunati il 5 aprile del 1205, a S. Quirico di Osenna, sotto la presidenza del vescovo di Volterra, avendo ricusato di presentarsi i Fiorentini e gli Aretini. Dall'esame dei testimonî risultò chiaro che Montepulciano apparteneva ai Senesi.[226] Non sappiamo se venne allora pronunziato il lodo, né quale risultato definitivo ebbe la disputa. Sembra però chiaro che questo fu il momento in cui la Lega di fatto si sciolse, per opera dei Fiorentini stessi che l'avevano iniziata. Lo scopo che s'erano proposto, essi lo avevano in gran parte raggiunto; ora non potevano dagli alleati aspettarsi altro che ostacoli al conseguimento dei loro fini ulteriori, perché tutti erano piú o meno insospettiti della loro ambizione, di cui nessuno voleva piú a lungo continuare ad essere strumento passivo.
Ma ciò non arrestava punto nel loro cammino i Consoli fiorentini, che ora attaccarono briga coi conti di Capraia, i quali avevano un castello di tal nome sulla riva destra dell'Arno, vicino al confine dei Pistoiesi. Unendosi con questi, potevano essi facilmente chiudere la via dell'Arno ai Fiorentini, che perciò, sin dal 1203, avevano deliberato costruire sull'opposta riva del fiume, nel luogo chiamato Malborghetto, un altro castello, cui dettero il nome di Montelupo, nome che spiegava chiaramente quale era il loro scopo. Infatti già s'andava ripetendo il motto:
Per distrugger questa capra.
Non ci vuol altro che un lupo.[227]
Anche qui la guerra sarebbe necessariamente scoppiata, se profittando della intromissione amichevole dei Lucchesi, l'accortezza diplomatica dei Fiorentini non avesse trovato modo d'evitarla, come sempre, a proprio vantaggio. Nel giugno del 1204: infatti si concluse un trattato, mediante il quale essi s'obbligavano a non recare molestia sulla destra, e i conti di Capraia a non recarne alcuna sulla sinistra del fiume.[228] Il Conte poco dopo giurò addirittura alleanza e fedeltà ai Fiorentini, insieme co' suoi uomini, i quali restarono obbligati a pagare un tributo di 26 denari per focolare, ad eccezione dei militi. Cedeva inoltre il castello e tutto ciò che possedeva sulla sinistra dell'Arno, presso Montelupo, che si obbligava anche a difendere.[229]
Se è vero, come si trova nel pseudo Brunetto ed in uno degli antichi elenchi di Consoli,[230] non però in documenti ufficiali, che il conte Rodolfo di Capraia, figlio del conte Guido, fu nel 1205 podestà di Firenze, bisogna credere che ciò avvenisse anche in conseguenza di questi accordi. Nell'anno seguente pare si tornasse ai Consoli,[231] ma nel 1207 abbiamo finalmente in Gualfredotto Grasselli da Milano, il vero e proprio Podestà forestiero, che ormai rappresenta il Comune, senza piú bisogno d'essere assistito dai suoi Consiliarii. Anch'egli fu riconfermato un secondo anno, perché condusse a compimento le imprese da tanto tempo, con tanto ardore iniziate dai Fiorentini. E l'occasione a ricominciare non si fece aspettare. La faccenda di Montepulciano s'era inasprita; i Senesi erano perciò decisi ad assalire quella terra, su cui credevano avere giusto diritto di possesso. Montepulciano, sicuro d'essere aiutato, si difese con ostinato ardore; e i Fiorentini dapprima lasciarono fare, poi nel 1207 corsero anch'essi alle armi. Uniti ad amici lombardi, romagnoli, aretini, andarono col Carroccio ad assalire il castello di Montalto della Berardenga, fra l'Ambra e l'Ombrone, che i Senesi avevano circondato coi loro amici pistoiesi, lucchesi, orvietani. Tutti questi furono il 20 giugno messi in fuga, lasciando in mano del nemico un gran numero di prigionieri, che Paolino Pieri fa ascendere a 1254. Il castello venne distrutto; ma la guerra continuò, sebbene il Papa si fosse interposto per la pace. I Fiorentini assalirono quasi con ferocia il castello di Rigomagno, ed essendosi rotte le scale, salirono gli uni sulle spalle degli altri, riuscendo cosí ad entrare. Con Rigomagno essi furono padroni della valle dell'Ombrone.[232] I Senesi dovettero allora (febbraio 1208) sottomettersi a durissime condizioni di pace, che ben presto giurarono (fra il 13 e 20 ottobre),[233] rinunziando con esse a tutto ciò che possedevano in Poggibonsi, obbligandosi a cedere Tornano con la torre, a rispettare in ogni sua parte il lodo di Ogerio, né piú molestare Montepulciano. I prigionieri furono vicendevolmente resi.
Ma questa guerra segna già il principio di un nuovo periodo nella storia di Firenze. Ormai non si trattava piú di conquistare il proprio contado, che la Repubblica già possedeva. Si trattava invece di aprire le vie del grande commercio ad una città, che, per le molte sue conquiste, prosperava ogni giorno piú. Siena e Firenze erano in conflitto continuo, non solo per la incertezza dei loro confini, che ognuno voleva allargare; ma per la gara delle loro manifatture nei mercati d'Italia, e specialmente del commercio colla vicina Roma, la quale, per le grandi relazioni che la Chiesa aveva per tutto, era divenuta il centro principale degli affari bancarî nel mondo civile. Firenze mirava da un pezzo ad avere il monopolio di tali affari, ed anche perciò si mantenne sempre guelfa. Essa contrastò piú volte con Arezzo, Volterra, sopra tutto con Siena, la piú potente delle città che trovava sulla via di Roma. Questo fu causa permanente di nuove e piú grosse guerre fra le due rivali, come il bisogno irresistibile, che Firenze cominciò ben presto a sentire d'arrivar sino al mare, fu principale causa di guerre non meno lunghe e sanguinose con Pisa, che gliene sbarrava la via. Ma su di ciò dovremo tornare in seguito, giacché per ora questi conflitti non sono anche cominciati. Dopo la pace con Siena, abbiamo infatti alcuni anni di tregua, fuori però, non dentro la Città, dove invece sono già pronti a germogliare i semi della guerra civile.
La istituzione del Podestà forestiero, non piú circondato e frenato da quelli che potrebbero dirsi Consoli-consiglieri, è ormai definitiva. Salvo la loro breve ripristinazione negli anni 1211 e 12, i Consoli sono ora, come già dicemmo, per sempre scomparsi. Questo era di certo un trionfo evidente dell'aristocrazia, al quale il popolo artigiano s'era momentaneamente piegato, per averla cooperatrice nella difficile impresa di sottomettere colle armi il contado. Ed una tale conquista dette straordinario incremento all'industria, al commercio, cui apriva ogni giorno campo piú vasto, e faceva nascere voglia d'ingrandirlo sempre di piú. Non era quindi in modo alcuno sperabile, che quella Repubblica la quale nell'industria e nel commercio trovava la sua prosperità, e da essi riceveva la sua forza, potesse o volesse, a lungo andare, rimaner contenta d'un governo favorevole all'aristocrazia, la quale mirava a divenire ogni giorno piú forte, piú prepotente e superba. La lotta fra il popolo ed i Grandi si può perciò ritenere ormai inevitabile. La lunga serie delle guerre civili, che dovranno lacerare ed insanguinare la Città, è infatti già vicina a cominciare.
Capitolo IV I PARTITI, LA COSTITUZIONE DEL PRIMO POPOLO E DELLE ARTI MAGGIORI IN FIRENZE[234]
I
Dopo che l'ufficio del Podestà era stato nel 1207 stabilmente costituito, l'aristocrazia, che piú di tutti lo aveva desiderato e promosso, crebbe di ardire, s'ordinò sotto di esso militarmente, e prese parte sempre maggiore a tutte le guerre esterne. Le cose pareva che dovessero perciò procedere con rapida fortuna, quando invece nel 1215 il fatto del Buondelmonti fece scoppiare la guerra civile. Per pacificare i mali umori, che già serpeggiavano fra alcuni dei nobili, specialmente fra i Buondelmonti da una parte, gli Uberti e i Fifanti dall'altra, con molti aderenti di qua e di là, s'era concluso un matrimonio fra Buondelmonte Buondelmonti ed una giovane degli Amidei. Ma quando tutto era fissato, la moglie di Forese Donati, chiamò il Buondelmonti, e gli disse: «Oh! cavaliere vituperato, che prendi in moglie una donna degli Uberti e dei Fifanti, meglio faresti e piú saresti onorato, se togliessi questa». Ed in cosí dire gli mostrò la propria figliuola, che il Buondelmonti accettò e sposò ben presto, abbandonando l'Amidei. I parenti e gli amici della giovane tradita s'unirono in casa Amidei, ove giurarono di vendicare l'ingiuria. Fu allora che Mosca Lamberti, rivolgendosi a chi doveva eseguir la vendetta, disse: «Chi batte o ferisce solamente, s'apparecchi la sepoltura». E poi a significare che bisognava farla finita, aggiunse le memorabili parole: «Cosa fatta, capo ha». E si venne al sangue.
Il giorno di Pasqua, del 1215, Buondelmonte Buondelmonti, che era bellissimo giovane, venendo d'Oltrarno, sopra un bianco cavallo, elegantemente vestito, con una ghirlanda in testa, passò il Ponte Vecchio, e appena che giunse ivi ai piedi della statua di Marte, fu aggredito. Schiatta degli Uberti, con un colpo di mazza lo gettò a terra, gli altri congiurati gli corsero subito addosso, e con un coltello gli segarono le vene. Allora il cadavere fu messo nella bara, e con la sposa che gli teneva il capo, vennero portati in giro per la Città, ad eccitare nuovi odî, nuove vendette.[235] E cosí ebbe origine una serie di guerre intestine, con le quali molti cronisti fanno cominciare in Firenze la divisione dei Guelfi e dei Ghibellini. Ma nessuno storico moderno vorrà dare cosí grande importanza ad un fatto d'indole privata, e credere che la mancata promessa alla giovane Amidei, fosse la vera causa di due partiti, i quali già dal 1177 noi abbiamo visto insanguinare piú volte la Città. Lo stesso Villani, che pure al fatto del Buondelmonti attribuisce l'origine dei Guelfi e dei Ghibellini, aggiunge: «Con tuttoché dinanzi assai erano le sette tra nobili cittadini e le dette parti, per cagione delle brighe e questioni dalla Chiesa allo 'mperio».[236] Il fatto del Buondelmonti venne di certo, con gli odî privati, ad infiammare sempre piú le passioni politiche di due partiti, che già esistevano, ma che a tempo di Federico II acquistarono una importanza politica assai piú generale, connettendosi con tutta quanta la storia d'Italia, e solo allora presero in Firenze il nome tedesco di Guelfi e di Ghibellini. Ed è da notarsi, che appunto nel luglio del 1215, Federico II entrò solennemente in Aix-la-Chapelle, e prese la corona di Re di Germania, il che non è senza importanza, per la storia dei partiti in Italia. Tutto ciò può spiegar facilmente perché i cronisti attribuissero al fatto del Buondelmonte, seguíto in quello stesso anno, l'origine dei Guelfi e dei Ghibellini. Ma i nomi, non i partiti cominciarono allora.
Il Villani, nella sua cronica, (V. 39) ci dà ora la lista delle principali famiglie ghibelline e guelfe, dalla quale si cava già che quelle di piú antica nobiltà erano quasi sempre ghibelline, mentre che tra i Guelfi v'erano molti «non di grande antichità», ma che pure «già cominciavano a divenire possenti». Piú tardi, quando i Ghibellini saranno distrutti, i nobili guelfi formeranno il partito del popolo grasso. Per ora essi sono nobili avversi agli Uberti, e cominciano perciò ad avvicinarsi alle famiglie dei nuovi ricchi, ed anche al popolo, parteggiando per la Chiesa. Fortunatamente, in questo medesimo tempo, papa Innocenzo III iniziava una Crociata, e molti dei potenti fiorentini andarono in Oriente, a portare in servizio d'una causa piú nobile, il loro ardore bellicoso. Nella presa di Damiata infatti si fecero grande onore, e Bonaguisa dei Bonaguisi fu primo a salir sulle mura, piantandovi, insieme con la bandiera cristiana, quella della Repubblica. Fino ai tempi di Giovanni Villani si conservava e teneva in grandissimo onore questa bandiera.
Nel 1218 si ricominciò la guerra nel contado, e fino al '20 si conquistarono altre terre e castelli, facendo giurare fedeltà a tutti quelli che venivano sottomessi. Ma poi si venne subito ad una guerra assai piú grossa coi Pisani. La gelosia fra queste due repubbliche rivali andava sempre crescendo, gareggiando esse già da un pezzo fra loro, per avere l'assoluto predominio commerciale in Toscana. L'una era padrona del mare, l'altra comandava sul continente, e però l'una aveva bisogno dell'altra. Facevano quindi sempre accordi e trattati, ma erano pur sempre in continua gelosia. Firenze si manteneva costantemente amica della Chiesa; Pisa, invece, dell'Impero. Ma le cose erano a poco a poco giunte a tale, che la piú piccola occasione poteva bastare a promuover la guerra, anzi a cominciare una serie di guerre interminabili, che dovevano dar nuovo carattere ai partiti in Toscana.
Infatti, il primo pretesto alla guerra, quale almeno lo narra il Villani (VI. 2), è cosí futile da sembrare assolutamente ridicolo. Alla incoronazione dell'imperatore Federico II in Roma (1220), assistevano, secondo il cronista, molti ambasciatori, e fra gli altri quelli di Pisa e di Firenze, che da un pezzo si guardavano in cagnesco. Avvenne che uno degli ambasciatori fiorentini, andato a convito da un cardinale, gli chiese in dono un bellissimo canino, che il cardinale promise. Il giorno di poi questi invitò i Pisani, uno dei quali chiese lo stesso canino, che il cardinale promise del pari. Il Fiorentino però mandava prima del Pisano a prenderlo, e l'ebbe. Da ciò nacquero ire e ferite, non solo tra gli ambasciatori e tra i loro seguaci; ma anche tra i Pisani e i Fiorentini che si trovavano a Roma. È difficile dare a questo racconto un valore storico: esso vale però a dimostrare che gli animi erano allora concitati in modo, che ogni occasione bastava per far venire alle mani. Il fatto vero è, come si ritrae anche dal Sanzanome, che Fiorentini e Pisani s'azzuffarono tra loro in Roma. I Pisani furono primi ad assalire, ma ebbero poi la peggio. Giunta a Pisa la notizia della contesa, vi destò grandissimo sdegno: si voleva una pronta riparazione, e furono perciò sequestrate colà le mercatanzie dei Fiorentini. Questi pare che allora facessero di tutto per evitare un conflitto, ma invano. Gli apparecchi continuarono un pezzo da una parte e dall'altra, fino a che, nel 1222, essendo scoppiata la guerra tra i Lucchesi ed i Pisani, i Fiorentini presero la occasione, per assalire i secondi presso Castel del Bosco, e li disfecero, facendo, secondo i cronisti, 1,300 prigionieri. Seguirono poi altri assalti e conquiste di piccoli castelli fino al 1228, quando vediamo i Fiorentini in guerra piú grossa coi Pistoiesi, che dovettero con essi venire a patti. In questo anno si trova per la prima volta, nelle guerre dei Fiorentini menzionato il carroccio.[237] Iniziato già da piú tempo a Milano, era stato a poco a poco, con leggiere modificazioni, adottato dalle altre città italiane, quando le guerre e gli eserciti ingrossando, avevano sentito il bisogno d'un centro intorno a cui far testa. Tirato da buoi coperti di scarlatto, portava due grosse antenne dalle quali sventolava il grande stendardo, bianco e rosso, della Repubblica. Seguiva, sopra un altro piccolo carro, una campana detta la Martinella, la quale serviva a dare ordini militari. Qualche tempo prima che si dichiarasse la guerra, la Martinella veniva attaccata alla porta della chiesa di S. Maria in Mercato Nuovo, e colà sonando, avvisava i cittadini ed i nemici che si tenessero pronti alle armi. Intorno al carroccio stavano a guardia i piú valorosi cittadini; la sua resa era tenuta come l'ultima disfatta ed umiliazione dell'esercito.
Si cominciò ancora una lunga e sanguinosa guerra coi Senesi, che fu continuata quasi ogni anno dal 1227 sino al 1235. I Senesi soffrirono gravissimi danni, ma presero Montepulciano, di cui disfecero le mura e le torri, e danneggiarono Montalcino, che era in lega coi Fiorentini. Questi però, non solamente guastarono molte volte il contado senese, e fecero numero grande di prigionieri; ma posero l'assedio alla stessa città nemica, e, sebbene non potessero pigliarla, pure vi si avvicinarono tanto da manganarvi dentro degli asini, in segno di disprezzo. Finalmente, per la mediazione del Papa, si concluse la pace, che fu fatta a grande vantaggio dei Fiorentini. I Senesi dovettero pagare grossa somma di danaro, per far ricostruire le mura e le torri di Montepulciano, terra che non dovevano piú disturbare, e si obbligarono anche a rifornire il castello di Montalcino, a richiesta dei Fiorentini, che restarono padroni di Poggibonsi.
II
E cosí, fra tutte queste guerre, nelle quali l'azione del Papa e dell'Imperatore si faceva da un lato o dall'altro sentire, noi possiamo vedere come s'andassero costituendo i partiti in Toscana, e come andasse cominciando il predominio politico e commerciale di Firenze. Le sue rivali sono ora Pisa e Siena, che aderiscono all'Impero; essa invece aderisce sempre di piú alla Chiesa. Pisa le chiudeva la via del mare, onde l'origine della loro rivalità, e delle guerre continue, rese inevitabili quando la potenza commerciale di Firenze le fece sentire piú che mai insistente il bisogno d'uno sbocco al mare. Siena da un altro lato rivaleggiava con Firenze, per porre in mano dei proprî banchieri tutti gli affari della curia romana, i quali erano tali e tanti che bastavano ad arricchire coloro che li trattavano. Queste gelosie continue spingevano costantemente Pisa e Siena a favorire l'Impero. Lucca, invece, per la rivalità che aveva con Pisa, s'accostò a Firenze, e fu guelfa. Pistoia si trovava fra due città guelfe, che sempre la minacciavano, e divenne perciò ghibellina. Cosí dunque si divisero i partiti in Toscana, e reagirono poi sulla formazione dei partiti in Firenze, i quali, a cagione del carattere piú generale che andavano ora assumendo, per la crescente azione dell'Imperatore Federico II in Italia, presero il nome germanico di Guelfi e di Ghibellini. Firenze, avendo umiliato Pisa, Siena e Pistoia, si trovò di fatto alla testa della Toscana; ma c'era il pericolo che aumentasse la potenza di Federico II, nemico del Papa, che lo aveva scomunicato, e dei Guelfi. Egli s'era prima allontanato, per andare alla Crociata in Asia; ora si trovava in Germania a lottare contro il proprio figlio, che gli s'era ribellato, e tutto ciò aveva molto contribuito alla buona fortuna dei Fiorentini. Ma doveva ben presto tornare, e ciò poteva far rialzare la testa a tutti i loro nemici.
Intanto, sotto la signoria dei varî Podestà, che s'erano in questo tempo seguiti, Firenze prosperava nella guerra, s'ordinava ed abbelliva nella pace. Per opera del podestà Torello da Strada (1233) furono chiamati a scriversi presso i pubblici notai tutti gli uomini del contado, secondo la loro condizione di liberi, servi, o dipendenti, perché si potesse cosí conoscere lo stato vero della popolazione, e meglio amministrare. Il podestà Rubaconte da Mandello (1237 e 38) fece costruire un nuovo ponte sull'Arno, che da lui si disse a Rubaconte, e piú tardi, alle Grazie, dalla vicina chiesa. Furon del pari, per opera sua, lastricate la prima volta tutte le vie di Firenze, ed eseguite altre opere pubbliche, utili alla salute dei cittadini, o di ornamento alla Città. Cosí un magistrato che, secondo i cronisti, aveva cominciato con l'ufficio di semplice giudice, lo vediamo sempre piú operare come capo della Repubblica. E l'aristocrazia sotto di esso cresceva ogni giorno piú d'ardire e di potenza, massime quando la venuta di Federico II cominciò a sollevare il partito ghibellino in tutta Italia. All'assedio che questi pose a Brescia nel 1237, vediamo pigliar parte molti nobili Fiorentini. Le amicizie e gli aiuti che l'Imperatore trovava nella loro Città andavano ogni giorno crescendo, il che fu causa di molti tumulti, per la viva opposizione che a tutto ciò faceva la nobiltà guelfa, unita al popolo, che era guelfo anch'esso.[238] Nel 1240 noi troviamo che furono nominati tre cittadini, per raccoglier danari in aiuto dell'esercito imperiale,[239] cosa strana veramente in una repubblica dove il popolo era tutto guelfo. Non è però strano, che tali fatti portassero l'inevitabile conseguenza, d'una reazione.
Sin dal 1246 Federico II aveva mandato vicario generale in Toscana, il suo figlio naturale Federico d'Antiochia, e pose ancora in Firenze suoi vicarî a tenere l'ufficio di Podestà. Questo suscitò il malumore dei nobili guelfi, che volevano invece ricondurre la Città alla loro parte. Allora Federico II, che l'anno 1247[240] trovavasi nella Lombardia, in guerra sempre piú aperta col Papa, il quale ripeteva le scomuniche, gli toglieva il titolo d'Imperatore, e gli suscitava nemici per tutto, mandò suoi messi agli Uberti in Firenze, avvisandoli ch'era venuto per essi il momento d'impadronirsi del governo della Repubblica. Osassero pur di pigliare le armi, che i suoi aiuti non sarebbero fra poco mancati. E gli Uberti non furono sordi. Raccolti i capi delle piú potenti famiglie ghibelline, decisero di venire senz'altro alla prova delle armi. La Città si trovò subito divisa: da un lato era l'aristocrazia ghibellina, dall'altro tutto il popolo coi nobili guelfi, e fu levato il rumore. Si combatteva da una contrada all'altra, continuando di giorno e di notte, dai serragli, dalle torri, con manganelle e con altri strumenti di guerra. A poco a poco gli animi si riscaldarono per modo, che la lotta divenne generale. I Ghibellini, sicuri nella speranza dei vicini aiuti, e piú destri nelle arti di guerra, avevano unità di comando, e fecero testa alle case degli Uberti, donde partivano gli ordini. Il popolo, invece, che si batteva senza alcun ordine, si vide ben presto circondato. Pure vi fu un momento, in cui pareva che ciò appunto dovesse assicurargli la vittoria. Stretto da ogni lato, si trovò poco a poco forzato a raccogliersi intorno al serraglio dei Bagnesi e dei Guidalotti, di dove, facendo testa con gran vigore, sembrava che fosse per ripigliare il terreno perduto. Ma in quel punto arrivarono gli aiuti imperiali, e allora tutto fu perduto. Federico, figlio e vicario generale dell'Imperatore, entrò in Firenze conducendo 1,600 cavalieri tedeschi, i quali con molto impeto assalirono il popolo, che per tre giorni ancora si difese con grande ostinazione d'animo. Ma era una resistenza vana del tutto. I Ghibellini da per ogni dove soverchiavano, e l'Imperatore avrebbe, all'occorrenza, potuto mandar loro sempre nuovi aiuti. Rustico Marignolli, uno dei piú valorosi Guelfi, che aveva fino allora tenuto nella mischia la bandiera del popolo, venne ferito e morto d'un quadrello nel viso. I capi della parte perciò decisero finalmente di cedere, e di esulare la notte della Candelora (2 febbraio 1249). Radunatisi in armi tutti quelli che erano decisi a partire, andarono a pigliare il corpo del Marignolli, e con grandissima pompa di popolo, di armi e di fiaccole, lo seppellirono di notte in S. Lorenzo, portando la bara sulle spalle i piú onorati cavalieri, e trascinando per terra la bandiera vinta, ma non umiliata. Tutto aveva somiglianza piú d'un giuramento di futura vendetta, fatto sul cadavere del morto guerriero, che d'un funebre convoglio.
Dopo di ciò i capi de' Guelfi partirono, e si rifugiarono nei vicini castelli, quei medesimi castelli, da cui con tanto sangue avevano snidata la nobiltà feudale, che, venuta poi in Città, ripagava ora in tal modo le sofferte ingiurie. Trentasei case di Guelfi furono disfatte, fra cui il palazzo Tosinghi in Mercato Nuovo, alto novanta braccia, tutto a colonnini di marmo. L'odio andò tanto oltre, che si poté dire e credere da molti avere i Ghibellini meditato perfino la distruzione del tempio di S. Giovanni, perché ivi solevano radunarsi i Guelfi. Avevano, si affermava, scavato le fondamenta della vicina torre del Guardamorto, acciò, cadendovi sopra, lo rovinasse. Il tentativo non sarebbe riuscito, perché, nel cadere, la torre prese miracolosamente altra direzione. Ma assai piú credibile è il racconto del Vasari, il quale scrive, invece, che la torre fu abbattuta per sgomberare la piazza, e che Nicolò Pisano, il quale ne ebbe commissione, la tagliò e fece cadere in modo da non danneggiare la chiesa né le case vicine.
Comunque sia, fu questa la prima volta, in cui cominciò veramente la storia funesta delle crudeli vendette cittadine, non solo col disfare le case dei vinti, ma esiliandoli in massa. I Ghibellini restaron padroni di tutto, e per maggior sicurezza ritennero 800 soldati tedeschi, comandati dal conte Giordano Lancia. Si direbbe che il partito il quale traeva la sua origine di Germania, dove riteneva sempre forti aderenze, non potesse neppure ora pigliare in mano le redini del governo fiorentino, senza essere sostenuto dal braccio del soldato tedesco, e potesse nella Repubblica comandar solo in nome dell'Imperatore. Tali furono dunque le ultime conseguenze dell'aver lasciato entrare in Firenze l'aristocrazia feudale-imperiale, e dell'averle permesso di trovare nel Podestà non solamente un giudice, ma ancora un capo politico e militare.
III
La vittoria ottenuta nel 1249 dai Ghibellini contro i Guelfi in Firenze, era stata violenta e sanguinosa, ma non sicura. I Ghibellini avevano disfatto gli ordini della libertà; avevano cacciato in esilio un numero grandissimo dei loro nemici; con l'aiuto del conte Giordano Lancia, vicario di Federico II, e cogli 800 Tedeschi, erano divenuti padroni di Firenze; ma il popolo, la borghesia, tutto il maggior numero de' cittadini erano Guelfi. Inoltre papa Innocenzo IV sollevava in Italia tanti nemici all'Imperatore, che i trionfi di questo non potevano durare a lungo. Gli esuli fiorentini perciò s'erano annidati nei vicini castelli, specialmente in quello di Montevarchi, nel Valdarno superiore, ed in quello di Capraia, nel Valdarno inferiore. Di là facevano continue scorrerie, dimostrando chiaro di non avere perduto la speranza di tornare ben presto in Città. Bisognava dunque proseguire la guerra contro di essi, per non vederli da un momento all'altro tornare potenti.
Venne perciò assalito Montevarchi, con l'aiuto dei soldati tedeschi; ma furono quasi tutti uccisi o fatti prigionieri. Quella rotta fece veder piú chiaro ai Ghibellini di Firenze il pericolo in cui si trovavano, e decisero perciò di portare un regolare assedio al castello di Capraia, dove s'erano chiusi i principali Guelfi, capi della parte o Lega, come allora la chiamavano, i quali guidavano i movimenti degli altri. Sebbene circondati da forze maggiori, gli assediati si decisero ad un'ostinata difesa, ed i Ghibellini s'apparecchiarono a combatterli con l'armi e con la fame. Non sarebbero tuttavia riusciti nell'intento, se non fosse venuto aiuto di nuove genti, mandate dall'imperatore Federico, che allora appunto aveva dovuto abbandonare l'assedio di Parma, ed erasene venuto in Toscana. Ma anche dopo questi aiuti, solo la fame fece arrendere i Guelfi. I principali di essi furono mandati a Federico II, che si trovava a Fucecchio. Egli li menò seco nel regno di Napoli, e quivi li fece, dicono i cronisti fiorentini, barbaramente accecare, mazzerare, affogar nel mare, salvandone uno solo, cui concesse la vita, ma non la vista.
L'Imperatore era stanco, irritato dalla continua guerra mossagli dai papi. Non aveva avuto mai pace dacché Sinibaldo de' Fieschi, pigliando nome d'Innocenzo IV, era salito sulla sedia di S. Pietro, il 24 giugno 1243. In un concilio tenuto a Lione (1245), questi lo aveva condannato e deposto. Aveva poi segretamente promosse contro di lui molte cospirazioni, e si era sempre piú o meno adoperato a farle riuscire nell'intento. In una di esse i sospetti dell'Imperatore caddero perfino sul suo piú fedele segretario ed amico, Pier delle Vigne, che, chiuso nella torre di S. Miniato al Tedesco, fu colà condannato a perdere gli occhi, e menato poi a Pisa, si uccise battendo la testa ad un muro. Queste traversie ora irritavano ed ora piegavano l'animo di Federico, che, sebbene filosofo e scettico, pure temeva assai i fulmini del Vaticano. Voleva riconciliarsi col Papa, partire di nuovo per l'Oriente a combattere gl'infedeli; ed Innocenzo, invece, allora appunto sollevava contro di lui tutte le città guelfe, obbligandolo a prendere di nuovo le armi, per sostenere il partito ghibellino e la propria autorità in Italia. Il che egli non seppe fare, senza abbandonarsi, come abbiam visto, ad eccessi d'inaudite crudeltà, le quali naturalmente accrebbero per tutto il numero de' suoi nemici. In Germania già il partito guelfo non aveva voluto riconoscere l'autorità di Corrado, figlio dell'Imperatore, che lo aveva mandato colà per essere da lui rappresentato. A Parma l'esercito comandato da Federico in persona era stato disfatto. Bologna si mise alla testa di tutte le città guelfe di Romagna, e con forte esercito, andando incontro ai Ghibellini, comandati da re Enzo, altro figlio naturale di lui, li ruppe nella battaglia di Fossalta, il 26 maggio 1249. Lo stesso Enzo fu preso e portato trionfalmente nelle prigioni di Bologna, dove rimase sino alla sua morte, seguita nel 1271. Federico non visse però tanto da provar quest'ultimo dolore. Il 13 dicembre 1250 moriva in un castello presso Lucera, nelle Puglie, e la sua morte fu l'ultimo crollo del partito ghibellino in Firenze ed in tutta Italia.
Contro questo partito s'univa allora all'odio politico anche un odio religioso, non solo perché i Ghibellini combattevano il Papa; ma piú assai, perché le eresie che cominciavano a serpeggiare in Italia, trovavano fra di loro molti seguaci, come avevano spesso trovato nell'Imperatore tolleranza e favore. Questo veleno, che ora filtrava lentamente nella società italiana, teneva i Papi in grandissimo pensiero. Avevano dapprima cominciato a levar grido e trovare seguaci gli Albigesi nella Provenza, dove i poeti avevano attaccato con tutte le loro forze la Corte di Roma. Erano però sorti a combatterli, gli ordini religiosi di S. Francesco e S. Domenico. Innocenzo III aveva a questo fine fondata la Sacro-Santa Inquisizione, e S. Domenico, alla testa di moltitudini assetate di sangue eretico, aveva comandato la strage degli Albigesi, dilaniando tutta la Provenza. Ma gli esuli erano venuti in Italia a comunicare lo stesso odio contro Roma, a seminare il medesimo veleno. Infatti i Paterini, che combattevano il Papa e non credevano alla verginità della Madonna, né alla transustanziazione, né ad altri dommi della religione cattolica, trovavano seguaci per tutto, e si riunivano pubblicamente. Gli Epicurei, gli Avverroisti, altre sette filosofiche si propagavano con rapidità fra i dotti italiani. Per qualche tempo era parso, che il centro principale di questo tumulto intellettuale e religioso si formasse a Palermo, nei giorni piú felici della Corte di Federico II. Circondato da scolastici, da trovatori, da poeti d'ogni sorta, da Musulmani e da Greci scismatici, da Provenzali albigesi e da filosofi materialisti, egli che pure andò alla Crociata, e perseguitò gli eretici, s'era singolarmente compiaciuto di questa multiforme società, nella quale, fra il sarcasmo, il dubbio e l'odio ai preti, sorse quella poesia italiana, che nella Divina Commedia doveva mostrarsi piena di tanta vera fede e di cosí nobili aspirazioni. Ma intanto l'eresia e il dubbio s'eran diffusi per tutta la Penisola. I Paterini s'erano rapidamente moltiplicati tra i Ghibellini di Firenze, dove il Papa mandava l'Inquisizione ad iniziar processi e condanne. Nel 1244 fra Pietro da Verona, animato piú da furore che da zelo religioso, veniva dal pergamo ad infiammare lo spirito cattolico; istituiva una Società dei Capitani di S. Maria o della Fede, nella quale s'arrolavano uomini e donne a sterminio degli eretici. Le passioni s'accesero, e nel 1245 vi fu per le vie di Firenze una regolare battaglia fra cattolici ed eretici. A. S. Felicita ed alla Croce al Trebbio, dove una colonna rammenta ancora l'infausto giorno, i Capitani della Fede, vestiti di bianco, croce-segnati, e guidati da fra Pietro da Verona, alto, robusto, animoso, ruppero i Paterini e li costrinsero a lasciar Firenze. In premio di questa sanguinosa vittoria, esso fu nominato inquisitore di Toscana, e poi anche di Lombardia, dove finalmente, tra Milano e Como, trovò la morte, per opera di coloro che erano stanchi delle sue persecuzioni. Il che gli fece aver nome di santo e di martire, e fu d'allora in poi chiamato S. Pietro martire da Verona.[241]
IV
Ma intanto l'anno 1250, di cui dobbiamo ora discorrere, Federico II moriva, Enzo suo figlio era in prigione a Bologna, Innocenzo IV sollevava il partito guelfo, Pietro da Verona faceva terrore agli eretici ed a tutti i nemici del Papa, in Toscana ed in Lombardia. Il trionfo ghibellino non poteva quindi durare a lungo in Firenze. Ed infatti, sin da quando Federico s'era ritirato in Puglia, già vicino a morire, i Guelfi avevano preso tanto animo, che i Ghibellini pensarono di far nuovo sforzo, ed andarono ad assalirli nel castello d'Ostina, in Valdarno, ove in gran numero s'erano radunati. Ma nel porre l'assedio, bisognò tenere una forte guardia a Figline, per difendere le spalle degli assalitori contro gli altri Guelfi, che in numero non piccolo si trovavano raccolti a Montevarchi. E questi allora assalirono di notte il campo, che era posto a guardia di Figline, e lo ruppero per modo che, quando la nuova giunse ad Ostina, i Ghibellini levarono l'assedio, tornandosene a Firenze. Allora subito cosí il popolo come la borghesia, stanchi già delle incomportabili gravezze sopportate per le guerre continue fatte dai Ghibellini, delle «gravi torsioni e forze e ingiurie», con cui essi tiranneggiavano il popolo, videro giunto il momento della vendetta, e si levarono a tumulto. Ne furono capi i piú autorevoli fra gli uomini, cosí detti, di mezzo, che allora guidavano il popolo. Costoro si raccolsero nella Chiesa di S. Firenze, poi in quella di S. Croce, e finalmente, temendo sempre d'essere assaliti dagli Uberti, si restrinsero in minor numero, piú sicuri, nelle case degli Anchioni, dove nell'ottobre del 1250, nominarono trentasei Caporali di popolo, sei per Sesto, i quali posero le basi della terza costituzione di Firenze, che si chiamò del Primo Popolo, perché intesa principalmente a costituire il popolo e renderlo forte contro i nobili. E questi si trovavano ora cosí perduti d'animo, che senza resistere, accettarono le nuove leggi.
Si cominciò col rimuovere d'ufficio tutti i magistrati; si pose poi mano alla riforma. Si mantenne la istituzione del Podestà, che anzi rimase sempre piú come capo dei nobili, perché di fronte ad esso fu ora istituito il Capitano del popolo, quale capo dei popolani. E perché cosí la Repubblica si trovò divisa in due, furono alla testa di essa, come governo centrale, posti dodici Anziani di popolo, due per Sesto. Questi venivano in certo modo a riprendere l'antico ufficio dei Consoli; ne differivano però non solo perché eran popolani, ma anche per la esistenza del Podestà e del Capitano, nelle mani dei quali si trovò principalmente il governo della Città. La parte nuova e piú importante della riforma fu infatti la istituzione del Capitano, messo a comandare il popolo, che venne allora militarmente ordinato. In Città fu diviso in 20 compagnie armate, con 20 gonfaloni o bandiere, sotto 20 Gonfalonieri; nel contado si ordinarono invece 96 compagnie, trovandosi esso già diviso in 96 pivieri. Riunite tutte queste compagnie della Città e del contado, formarono un solo esercito popolare, pronto, in ogni occorrenza, a combattere cosí i nemici esterni, come le prepotenze dei nobili all'interno. Esso stava sotto gli ordini del Capitano, che era come il tribuno, il generale ed il giudice di questa moltitudine armata, e perciò fu piú tardi chiamato anche Difensore delle Arti e del Popolo, Capitano della massa de' Guelfi, ecc. Simile al Podestà, durava in ufficio un anno, e doveva essere guelfo, nobile e forestiero. Conduceva seco, nel venire a Firenze, giudici, cavalieri, e cavalli armigeri, perché nella guerra guidava il popolo, e nella pace amministrava la giustizia. L'ufficio del Podestà ritenne, come già dicemmo, tutta la sua importanza civile e militare. A lui spettavano di regola le cause civili e criminali; al Capitano erano serbate principalmente quelle che nascevano da violenze dei grandi contro il popolo, quelle risguardanti la gabella o l'estimo, e ancora le estorsioni, falsità, violenze, quando però non ne fosse prima venuta querela al Podestà, o questi non se ne fosse occupato.[242] Ed in tali cause il Capitano poteva condannare anche a morte. A lui era affidato il gonfalone o bandiera del popolo, bianca e vermiglia, e con la campana posta sulla torre detta del Leone, radunava il popolo. Esso dimorava nella Badía, insieme cogli Anziani, che in molte cose furon come suoi consiglieri. Il primo che assunse il nuovo ufficio fu messer Uberto da Lucca. Il Podestà poi, sebbene alcuni scrittori, ingannati dalle parole alquanto oscure del Villani e del Malespini, lo credessero, almeno per qualche tempo, abolito, restò sempre a capo di quello che chiamavasi piú specialmente Comune.[243] Ebbe anch'esso le sue compagnie d'uomini armati, ed ebbe inoltre le bandiere della cavalleria, composta quasi tutta di nobili, e quelle degli arcieri, dei palvesari, dei balestrieri, ecc., i quali, insieme riuniti, formavano l' oste propriamente detta, o sia la parte piú regolare dell'esercito repubblicano. Il Podestà comandava assai spesso tutto l'esercito, ma era suo speciale ufficio stare a capo della cavalleria e dell' oste.[244] E per crescerne sempre piú la importanza, fu deliberata la costruzione d'un grande e monumentale palazzo,[245] in cui avesse residenza, e raccogliesse i suoi ufficiali e consiglieri. Ma da un altro lato, siccome nulla si tralasciava, per afforzare il popolo a danno dei nobili, fu ordinato che tutte le torri dei potenti venissero abbassate in modo che niuna superasse l'altezza di 50 braccia, e con le pietre cosí raccolte, si murò la città oltre l'Arno.[246]
Insomma la terza costituzione, o del Primo Popolo, fu una costituzione politico-militare, che divise la Repubblica in Comune e Popolo, nei quali, come in due campi avversi, si raccolsero l'aristocrazia e la democrazia. L'esercito usciva in campo, a Comune ed a Popolo, le principali deliberazioni dovevano essere approvate dal Comune e dal Popolo. Che se una tal divisione ci sembra strana, essa era pure assai generale nel Medio Evo. La troviamo in molte città di Toscana, la troviamo a Bologna, dove i nobili ed il popolo formavano come due repubbliche, con leggi e statuti diversi, con due palazzi di residenza distinti. A Milano troviamo la repubblica tripartita nella Credenza dei Consoli, nella Motta e nella Credenza di Sant'Ambrogio, nelle quali erano la nobiltà maggiore, la media ed il popolo. E tutto ciò sembrava assai naturale, giacché le istituzioni ritraevano lo stato della società, e questa era divisa, perché sorta in origine dalla lotta delle popolazioni latine con le germaniche, dei conquistati coi conquistatori. I lontani eredi degli uni e degli altri si trovavano armati, in due campi opposti, pronti sempre a combattersi.[247]
In tale stato di cose è facile comprendere, come il governo centrale avesse a Firenze ben poca autorità, e come invece, nel contrasto continuo e nella gelosa emulazione, si andassero rafforzando sempre piú il Podestà ed il Capitano. Il primo, sebbene si trovasse ora in compagnia d'altri magistrati, era sempre quello che piú propriamente rappresentava la Repubblica. Faceva i trattati di pace in nome di essa; accettava concessioni e sottomissioni d'altre terre o castelli, e, come già in passato, cosí continuava adesso ad avere due Consigli, lo Speciale che era di 90, il Generale, di 300 Consiglieri. E due ne ebbe anche il Capitano del popolo, che furono del pari, come era l'uso allora, lo Speciale o Credenza di 80 Consiglieri, che uniti al Consiglio generale, arrivavano a 300, fra cui erano gli Anziani, i Capi delle Arti, i Gonfalonieri delle Compagnie ed altri, tutti popolani, a differenza dei Consigli del Podestà, nei quali entravano anche i nobili. Assai spesso i membri del Consiglio speciale entravano a far parte anche del generale, che perciò soleva chiamarsi Consiglio generale e speciale del Podestà o del Capitano. Gli Anziani ebbero un loro proprio Consiglio che fu di 36 Buoni uomini di popolo, al quale bisogna però aggiungere il Parlamento, sebbene ora s'adunasse di rado, e solo nelle grandi occasioni. Ma tutti questi Consigli solo col tempo presero, come noi vedremo; un assetto definitivo; per ora, salvo quelli del Podestà, che erano piú antichi, ebbero una forma ancora incerta e mutabile.[248] In ogni modo l'ordinamento generale che la Repubblica in gran parte aveva già preso, e verso di cui sempre piú s'avviava, era questo: gli Anziani, il Consiglio dei 36 ed il Parlamento costituivano il governo centrale, assai indebolito però dalla costituzione e dalla forza crescente del Comune e del Popolo, i quali, col Podestà e col Capitano alla loro testa, coi rispettivi Consigli maggiori e minori, formavano come due repubbliche l'una di fronte all'altra. Il Comune aveva di certo piú grande autorità ed importanza legale; ma il Popolo cresceva ogni giorno di numero e d'ardire. Ben presto infatti si videro alcune antiche famiglie mutare i loro nomi e lasciare i titoli, per andare a confondersi tra i popolani.
La nuova costituzione venne diversamente giudicata dai grandi scrittori politici di Firenze. Donato Giannotti la biasimò, dicendo che era: «soggetto da sedizioni e non vinculo di pace e concordia, perché chi ordinò quel governo tutto lo dirizzò contro ai Grandi, che avevano al tempo di Federico retto, li quali, stando con continuo timore, furono necessitati sollevarsi tosto che l'occasione apparse».[249] Il Machiavelli, invece, la lodava, concludendo: «Con questi ordini militari e civili fondarono i Fiorentini la loro libertà. Né si potrebbe pensare quanto di autorità e fortezza in poco tempo Firenze si acquistasse. E non solamente capo di Toscana divenne: ma in tra le prime città d'Italia era numerata, e sarebbe a qualunque grandezza salita, se le spesse e nuove divisioni non l'avessero afflitta».[250] Ed aveva ragione. I cronisti del tempo, e la storia imparziale dei fatti dànno piena conferma alle sue parole. La Repubblica cominciò ad abbellirsi di nuovi monumenti. Fu costruito non solamente il palazzo del Comune o sia del Podestà, ma anche il ponte a S. Trinita, opera alla quale concorse largamente un privato cittadino col suo proprio danaro. Si coniò il fiorino d'oro,[251] moneta che, per la sua ottima lega, ebbe subito corso, non solo in tutti i mercati d'Europa, ma ancora negli scali d'Oriente, e fu di vantaggio grandissimo al commercio fiorentino, che ogni giorno s'andava estendendo di piú. I nobili certamente non furono contenti, e lo dimostraron subito nel '51, quando la piú parte di essi ricusarono d'andare al campo contro Pistoia; ma dopo che ne furon mandati alcuni in esilio, gli altri s'acquetaron subito. Vennero richiamati gli esuli guelfi, si fecero paci in Città; ed essendo già morto Federico II, l'aristocrazia si trovò frenata dal popolo, divenuto forte e sicuro di sé. Allora ricominciarono subito le guerre esterne, le quali furon cosí fortunate, che i dieci anni che seguirono, si dissero gli anni delle vittorie.
V
Questo Primo Popolo o Popolo Vecchio, come lo chiamarono, perché era infatti il popolo la prima volta politicamente e militarmente costituito, fece subito sentir la propria forza. Per dare alle crescenti mercatanzie fiorentine libero accesso al mare, senza ancora combattere Pisa, concluse il 30 d'aprile 1251 un trattato coi conti Aldobrandeschi, possenti signori della Maremma, mediante il quale la Repubblica ebbe facoltà di passare liberamente per le loro terre, e cosí arrivare a Porto Talamone ed a Port'Ercole, facendone libero uso pel suo commercio.[252] Tutto ciò non poteva certo piacere ai Pisani, che subito strinsero alleanza con Siena, cui aderí anche Pistoia. Cosí le tre città ghibelline si unirono a danno della guelfa Firenze. Ma non bastava. Il 24 luglio 1251 i Ghibellini della Città, mediante un segreto accordo con Siena, aderirono alla lega, con promessa vicendevole d'aiutarsi al conseguimento del fine comune, al trionfo cioè della parte in tutta Toscana. A questo accordo, come era naturale, parteciparono poi i Ghibellini delle vicine terre, che si trovarono cosí tutti collegati a danno di Firenze.
I Fiorentini allora, trovandosi circondati da tanti nemici, cominciarono a difendersi coll'assalir subito Pistoia; ma i Ghibellini della Città ricusarono di pigliar parte ad una guerra, manifestamente diretta a loro danno. E però, quando l'esercito tornò vittorioso dalla scorreria fatta, molti dei piú autorevoli di essi, fra cui gli Uberti ed i Lamberti, furono cacciati in esilio. La cosa dovette avere un'importanza maggiore assai che non pare, perché gli esuli innalzarono la bandiera della Repubblica, la quale s'indusse a mutare la propria, ed invece del giglio bianco in campo rosso, ebbe d'allora in poi il giglio rosso in campo bianco. La bandiera del popolo rimase sempre la stessa, cioè, dimezzata, bianca e rossa. Nella state di quel medesimo anno si sollevarono in Mugello gli Ubaldini, rinforzati dagli esuli, ma furono sconfitti. I Fiorentini s'avvidero adesso che dovevano seriamente pensare ai proprî casi. E però, mediante i Lucchesi già loro amici, strinsero alleanza (agosto 1251) con S. Miniato al Tedesco, dove non era in quel momento vicario imperiale; rinnovarono (settembre) quella che già avevano con Orvieto, e un'altra ne strinsero con Genova (novembre), sempre nemica di Pisa.
Cosí tutta Toscana si trovò divisa in guelfa e ghibellina. Gli esuli, insieme con alcuni soldati tedeschi delle bande di Federico II, si chiusero nel castello di Montaia, nel Val d'Arno di sopra, che era del conte Guido Novello. I Fiorentini corsero ad assalirlo verso la fine dell'anno, ma ne furono con vergogna respinti. Tornati a casa, sonarono la campana, raccolsero un grosso esercito, ed uscirono di nuovo, armati a Popolo ed a Comune, proseguendo nel gennaio con ardore la guerra, non ostante il freddo e la neve. Le condizioni generali delle cose in Toscana allargarono le proporzioni di questa guerra, da un lato essendosi all'esercito fiorentino uniti i soldati lucchesi, e dall'altro movendosi i Pisani ed i Senesi in aiuto degli esuli. Il Primo Popolo si mostrò ora degno di se stesso. I nemici furono respinti, il Castello di Montaia fu preso e demolito, i difensori vennero menati prigionieri a Firenze (gennaio 1252).[253]
Andarono poi i Fiorentini a dare il guasto nel Pistoiese, e si fermarono nel ritorno ad assediare il Castello di Tizzano. Ma saputo colà, che i Pisani, dopo aver disfatto i Lucchesi, se ne tornavano a casa con i prigionieri e la preda, lasciarono l'assedio, per correre loro incontro. Li raggiunsero, infatti, e dettero loro una totale sconfitta a Pontedera, il dí 1 luglio 1852. Fu preso prigioniero lo stesso podestà di Pisa, e si vide anche un altro fatto assai singolare. I prigionieri lucchesi, che erano stati legati e venivano trascinati a Pisa, non solo furono liberati, ma poterono, coll'aiuto dei Fiorentini, menare a Lucca que' medesimi Pisani, dai quali erano stati presi e legati.
Gli esuli intanto, profittando della lontananza dell'esercito fiorentino, s'erano col conte Guido Novello chiusi in Figline, di dove facevano scorrerie continue. E quindi fu necessario affrettarsi ad assalirli. La terra s'arrese, a condizione però che i forestieri, i quali l'avevano difesa, venissero lasciati liberi, e gli esuli riammessi, il che fu fatto; ma essa fu poi, contro i patti, corsa ed arsa (agosto 1252).[254] Ed intanto i Senesi, profittando della occasione, avevano assediato Montalcino, forte castello ai confini dei Fiorentini, i quali perciò corsero subito a liberarlo. Respinti i Senesi, fornito il castello d'ogni cosa necessaria alla difesa, se ne tornarono a casa.
Questi fortunati eventi non furono senza le loro conseguenze. Infatti, essendo nel 1253 i Fiorentini andati di nuovo contro Pistoia, questa, senza molta resistenza, s'arrese, obbligandosi (1 febbraio 1254) ad uscire dalla Lega ghibellina, a rimettere nella città i Guelfi, ad essere in tutto a disposizione di Firenze.[255] La quale andò subito a difendere Montalcino, di nuovo assalito dai Senesi, e cosí la guerra contro di essi, cominciata alla fine del 1253, fu ripresa vigorosamente nel 1254, e finita con la sottomissione di Siena, che perdette un gran numero di castelli (giugno 1254), venuti in mano dei Fiorentini, che altri ancora ne presero colla forza o ne ebbero per danaro dai conti Guidi. Tornando poi a casa, sottomisero la grossa terra di Poggibonsi, assai importante, che aderiva ai Ghibellini ed a Siena. Portarono il guasto a Volterra, la quale per la fortezza del luogo pareva addirittura inespugnabile; ma i Volterrani, preso animo, uscirono arditamente a battaglia, e furono vinti ed inseguiti con tanto impeto, che i Fiorentini si trovarono dentro la città prima ancora che avessero pensato di poterla conquistare. Lo spavento fu cosí generale, che vecchi, donne, bimbi, una moltitudine grandissima, con alla testa il vescovo, si presentarono supplichevoli, per arrendersi ai Fiorentini, i quali si dimostrarono assai generosi, proibendo il saccheggio, contentandosi di riformare il governo della città, che ridussero a parte guelfa. E Pisa, trovandosi isolata, fini coll'arrendersi anch'essa a patti, che vennero sottoscritti il 4 di agosto 1254. In conseguenza di essi i Fiorentini poterono entrare ed uscire di Pisa, insieme con le loro mercatanzie, liberi per terra e per mare, da ogni tassa, dazio o gabella. Dovettero inoltre i Pisani, nel contrattar con loro, adoperare il peso, la misura, ed in parte anche la moneta fiorentina. Cedettero varie terre e castella, fra cui Ripafratta. Per sicurtà di questi patti e dell'amicizia che avevano giurata, furono costretti a dare 150 ostaggi. E dopo di ciò si sottomise (25 agosto) anche Arezzo, che accettò un podestà dai Fiorentini.[256]
Questi furono chiamati gli anni delle vittorie del Primo Popolo, di cui i cronisti tanto esaltano il valore e la bontà. Il Villani, copiato al solito dal Malespini, ci dice che esso fu «molto superbo d'alte e grandi imprese», e i suoi rettori «furono molto leali e diritti a Comune».[257] E poco dopo aggiunge: «I cittadini di Firenze viveano sobrî e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti (buoni?) costumi e leggiadrie, grossi e ruddi, e di grossi drappi vestiano loro e le loro donne. E molti portavano le pelli scoperte senza panno, e colle berrette in capo, tutti con gli usatti in piede, e le donne fiorentine co' calzari senza ornamenti, e passavansi le maggiori d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro o di Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale[258] all'antica, e uno mantello foderato di vaio, col tassello[259] di sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne vestite d'uno grosso verde di Cambragio per lo simile modo. E lire cento era comune dota di moglie, e lire dugento o trecento era a quegli tempi tenuta isfolgorata; e le piú belle pulcelle avevano venti o piú anni, anzi ch'andassono a marito».[260] Anche la Divina Commedia, come è noto, dà ampia conferma a questi giudizi sul buono e leale popolo vecchio di Firenze, giudizio di cui i fatti rendono testimonianza continua.
E la prosperità cittadina cresceva non solo nella guerra, ma anche nella pace, fuori e dentro le mura. Alle molte opere di pubblico interesse già piú sopra accennate, e che furono ora compiute, altre non poche se ne aggiunsero, avendo gli Anziani a questo fine comperato terreni in piú parti della Città. Ed essi, insieme col Capitano del Popolo, Lambertino di Guido Lambertini, ordinarono (1252-3) che si ricopiasse e continuasse regolarmente il registro di tutti gl'instrumenti del Comune, acciò, dicevano, iura et rationes Communis non restino ignoti né deperiscano, ma si possano in piú luoghi vedere. Questi sono i Capitoli cosí bene conservati fino ad oggi, e tanto utili alla storia di Firenze.[261]
Ma ora lo stato delle cose doveva nuovamente mutare. Per la morte di Corrado, a Federico II succedeva nel Reame l'altro figlio, Manfredi, ardito, ambizioso, di molto ingegno, che s'adoperava a tutt'uomo, per sollevare la fortuna del partito ghibellino in Italia, ed i Fiorentini, sempre accortissimi, cominciarono subito a procedere piú cauti. Nel 1255 fecero alleanza coi Senesi, nell'anno seguente fecero lo stesso con Arezzo, disapprovando severamente il conte Guido Guerra, loro capitano, che aveva di là cacciati i Ghibellini, ed obbligandolo a rimetterli. Anche coi propri esuli si dimostrarono piú benigni assai e piú larghi, facendone via via rientrare alcuni. Ma erano, cosí da una parte, come dall'altra, lustre che non menavano a nulla. Ognuno temporeggiava, per vedere che piega pigliavano gli affari generali d'Italia.
Se la fortuna di Manfredi fosse risorta davvero, i Fiorentini dovevano aspettarsene gravi danni, e lo sapevan bene. Un primo segno, se ne vide infatti nel 1256, quando i Pisani, dimenticati tutti i patti e le promesse giurate, assalirono Ponte a Serchio, castello dei Lucchesi, amici de' Fiorentini, che perciò corsero subito a difenderli, e sconfissero i nemici, molti dei quali, fuggendo, affogarono in quel fiume. Dopo questa vittoria, i Fiorentini andarono sotto le mura di Pisa, a battere moneta, segno allora di grande umiliazione al nemico. I Pisani, inoltre, furono costretti (23 Settembre 1256) non solo a rinnovare la pace umiliante del 1254, ma a cedere molti castelli ai Fiorentini, qualcuno anche ai Lucchesi.[262] E fra i patti della pace v'era adesso aggiunto ancora, che il castello del Mutrone, importantissimo per la sua posizione cosí ai Lucchesi, come ai Fiorentini, fosse reso a questi con la facoltà di distruggerlo o conservarlo, secondo che i loro magistrati avessero deliberato. Fu quindi tenuto a Firenze un Consiglio d'Anziani, fra i quali Aldobrandino Ottobuoni, popolano e povero, ma pel suo amor patrio assai autorevole, sostenne che il castello dovesse distruggersi. E la sua proposta fu vinta, con la condizione però che dovesse essere sottomessa a giudizio del Parlamento. Ma in questo mezzo, i Pisani, ignari della presa deliberazione, e della opinione sostenuta dall'Ottobuoni, sapendo però quanto pericoloso quel castello poteva ad essi riuscire, una volta venuto in mano de' Lucchesi, mandarono ad offerirgli la somma, a que' tempi assai ingente, di 4,000 fiorini, perché sostenesse, fra gli Anziani, quella opinione appunto, che egli aveva già difesa e vinta. Ma questo giovò, invece, a fargli aprire gli occhi, e conoscere il suo errore. Tornato quindi fra gli Anziani, fece in contrario senso mutare la presa deliberazione. La buona fama delle virtú d'Aldobrandino ne crebbe perciò tanto che, dopo la sua morte, gli fu, a pubbliche spese, decretato un monumento in Duomo, che stesse in luogo piú alto di tutti gli altri.[263] Molti furono gli uomini celebrati per le loro virtú, al tempo del Primo Popolo; ma questo governo durò solo dieci anni, e noi siamo già vicini a nuove riforme, a nuove rivoluzioni, che ricominciano ben presto a travagliar la Repubblica.
VI
I semi di questi rivolgimenti erano nella costituzione stessa, come abbiamo già accennato, ed aspettavano solo un'occasione propizia a germogliare, la quale non tardò molto a venire di fuori. Il partito ghibellino, decaduto dopo la morte di Federico, risorgeva ora in Italia, per opera di Manfredi, che a tutt'uomo s'adoperava a ciò. I suoi messi arrivarono finalmente anche a Firenze nel 1258, e, come era naturale, si diressero a casa gli Uberti, che trovaron prontissimi a tentare la fortuna delle armi. Questi chiamarono subito i loro amici, e congiurarono di levare il governo di mano al popolo. Ma era ancora troppo presto, perché, come giustamente osservava il Machiavelli, allora «i Guelfi molto piú che i Ghibellini potevano, sí per esser questi odiati dal popolo pei loro superbi portamenti, quando al tempo di Federigo governarono; sí per esser la parte della Chiesa piú che quella dell'Imperatore amata, perché con l'aiuto della Chiesa speravano preservare la loro libertà, e sotto l'Imperatore temevano perderla».[264] La congiura infatti fu subito scoperta, e gli Anziani citarono gli Uberti, i quali, per consiglio di Farinata loro capo, invece di presentarsi, s'afforzarono nelle proprie case. Il popolo allora, assai sdegnato, si levò a tumulto, e le case degli Uberti vennero saccheggiate; alcuni dei loro amici furon presi, altri uccisi, e neppure a quelli che erano semplicemente sospetti si volle usare pietà. L'abate di Vallombrosa, dei Beccaria di Pavia, ebbe tagliato il capo, sebbene fosse, come fu poi da molti riconosciuto, innocente.[265] Tutta la famiglia Uberti e i principali seguaci dovettero, per questi fatti, salvarsi coll'esilio, andandosene a Siena, fautrice dichiarata di Manfredi, e quartier generale dei Ghibellini di Toscana. Gli esuli ivi radunati, si posero sotto il comando di Farinata, il piú ardito e autorevole fra di essi. I Fiorentini giustamente si lamentarono dei Senesi, che, accogliendo i profughi, violavano la pace del 1255; ma i Senesi, che da gran tempo erano in segreto accordo coi Ghibellini, non dierono retta.
Il conflitto era perciò inevitabile, ed i primi segni se ne videro subito nell'assalto dato da Firenze a parecchi castelli e terre nella Maremma senese.[266] Poi la Martinella fu attaccata all'arco di Mercato Nuovo, e sonò a distesa, per annunziare una guerra assai piú grossa. Da una parte e dall'altra cominciarono ad armarsi, chiamando a raccolta anche gli amici. I Fiorentini avevano inviato Brunetto Latini ambasciatore ad Alfonso di Castiglia, che aspirava alla corona imperiale, perché venisse in Italia contro di Manfredi. Ma già i Senesi, con assai maggiore speranza di buon successo, avevano, per mezzo degli esuli fiorentini, chiesto aiuto direttamente a Manfredi. Questi, trovandosi allora assai occupato nel Reame, mandò Giordano d'Anglona, conte di S. Severino, con circa cento cavalieri tedeschi, che arrivarono a Siena nel dicembre 1259, portando la bandiera del Re. I Fiorentini uscirono finalmente, nell'aprile del 1260, col carroccio, armati a Popolo ed a Comune, con alla testa il podestà Iacopino Rangoni, gli Anziani, i capi delle Compagnie, e vennero addirittura sotto le mura di Siena, presso la Porta Camollia. Il 17 maggio, nel luogo dove è il monastero di Santa Petronilla, vi fu battaglia. Si narra che Farinata degli Uberti, il quale, come capo degli esuli s'era molto adoperato a promuovere la guerra, vedendo il piccolo aiuto mandato da Manfredi con la propria insegna, dicesse: «Noi la conduceremo in luogo che ne sarà fatto tale strazio, che gli verrà voglia d'essere nemico de' Fiorentini, e (de' cavalieri) daranene piú che non vorremo noi».[267] E si aggiunge ancora, che ubriacarono i soldati tedeschi, perché combattessero con cieco furore.[268] Certo è che da Siena uscirono i cittadini armati sotto il comando del loro Podestà, e i Tedeschi con gli esuli, fra i quali primeggiava sempre Farinata, sotto il comando del conte Guido Novello. L'impeto del primo assalto fu da parte de' Tedeschi tale, che i Fiorentini, credendo d'avere addosso un formidabile esercito, si misero in rotta; ma avvistisi poi che il nemico era assai inferiore di forze, resistettero con valore, e dopo una mischia sanguinosa, lo respinsero e presero la bandiera di Manfredi, che trascinarono nel fango. La gioia in Firenze fu grandissima, sebbene la vittoria fosse costata cara, e si fosse anche visto che pochi cavalieri tedeschi, assai bene addestrati, avevano, per un momento almeno, potuto mettere in rotta un esercito numeroso d'artigiani e di contadini. Ciò dava invece animo ai Senesi, massimamente ora che il loro principale cittadino Provenzano Salvani, con altri ambasciatori, tornava da Manfredi, menando un grosso sussidio di 800 Tedeschi,[269] posti anch'essi sotto il comando del conte Giordano, il quale aveva ora anche l'ufficio di vicario di Manfredi in Toscana.
Era perciò inevitabile che la guerra continuasse, ed i Senesi già erano in campo per sottomettere Staggia e Poggibonsi, dare il guasto a Colle, Montalcino e Montepulciano, il che rendeva inevitabile che i Fiorentini pigliassero di nuovo le armi. Farinata degli Uberti e gli altri esuli gettavano di continuo olio sul fuoco, adoperando ogni sottile astuzia per provocarli, e per ordir tradimenti nella loro stessa Città. Furono infatti mandati due frati minori a dire, sotto apparenza di gran segreto, agli Anziani, che Siena era stanca dei Ghibellini e del predominio che in essa aveva Provenzano Salvani; sarebbe perciò stato facile fare aprire le porte all'esercito fiorentino, mediante 10,000 fiorini. Fu agevole ai frati, ingannati, come pare, essi stessi, ingannare gli altri. Venuti nella Città, cosí almeno narra il Villani, chiesero di trattare con due soli degli Anziani, sotto giuramento di strettissimo segreto. E furono a ciò deputati due, i quali, udite le proposte, e pensando che venivano dagli esuli, figli anch'essi della stessa Repubblica, non rammentando quanto potenti erano stati sempre fra loro gli odî di parte, prestarono fede ai fallaci messaggi. Sebbene tutto fosse proceduto con gran mistero, pure a decidere la guerra, era sempre necessario consultare i cittadini. Si tenne perciò un Consiglio numeroso di nobili e di popolo, nel quale gli Anziani, sotto varî pretesti, piú o meno plausibili, sostennero l'utilità e la necessità di ricominciare subito la guerra contro i Senesi. Vi fu nondimeno grandissimo dissenso. E quantunque le leggi fiorentine mettessero mille freni alla discussione, massime quando si trattava di combattere una proposta dei magistrati,[270] pure la deliberazione era di tanta gravità, che piú d'uno si provò a combatterla, sostenendo che il far la guerra adesso, quando si sapeva che Siena non aveva mezzo di mantenere a lungo i Tedeschi, era impresa stoltissima. I nobili specialmente si dimostravano contrarî, perché essi avevano riconosciuto la superiorità della cavalleria tedesca, e non credevano possibile adesso, che ne era venuto un assai maggior numero, tenerle fronte con un esercito d'artigiani e di mercanti poco pratici nell'arte della guerra, la quale aveva già cominciato a far tali progressi, che le battaglie non si vincevano piú col solo valor personale. Ma l'opposizione dei nobili rendeva invece piú caldi i popolani, i quali gridarono che bisognava armarsi e partire senza indugio. Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari era stato dei primi a dichiararsi contrario, proponendo che s'aspettasse. Ma a lui lo Spedito, che era, secondo il Villani, uno dei due Anziani a parte del segreto, rispose con ingiuriose parole, concludendo, che se aveva paura, si cercasse le brache. Al che messer Tegghiaio di rimando esclamò, che allo Spedito non sarebbe bastato l'animo di seguirlo a gran distanza nella guerra. E dopo queste irate parole, sorse Cece Gherardini, il quale, senza alcuna reticenza, cominciò anch'esso a parlar forte contro la guerra proposta dagli Anziani. Questi allora, in nome della legge, gl'imposero silenzio, minacciando la pena di 100 lire, voluta dagli Statuti contro chi parlasse senza permesso dei magistrati; ma egli rispose, che voleva pagare e parlare. Portarono allora la pena a 200, poi a 300 lire, e finalmente dovettero, per farlo tacere, imporgli silenzio sotto minaccia del capo.[271] Cosí fu infine deliberata la guerra, la quale, del resto, anche senza questi segreti maneggi, narrati ed esagerati dai cronisti, sarebbe stata inevitabile, tanto s'erano omai accesi gli animi.
L'esercito dei Fiorentini si trovava (1260) sotto gli ordini del medesimo Podestà, che lo aveva comandato nel passato maggio. Ma ora essi avevano aiuti dai Guelfi di tutta Toscana, di Perugia, Orvieto, Bologna ed altre molte città, in modo che si dice ponessero insieme 30,000 fanti e 3,000 cavalli. Messo in moto, nel mese d'agosto, un cosí gran numero di gente, col carroccio, con tutti i capi, con le molte salmerie, entrarono nel territorio senese, e fecero sosta il 2 settembre, alla Pieve Asciata. Le pratiche fatte dagli esuli avevano avuto un doppio resultato. Da un lato cioè avevano nei Fiorentini infuso la vana speranza, che Siena potesse aversi senza sangue, solo con danaro e con la mostra di grandi forze. Da un altro s'erano nell'esercito stesso stretti veramente segreti accordi di tradimento coi nemici. Si cominciò quindi col mandare baldanzosamente ad intimare la resa. Ma gli ambasciatori, entrati in Siena, trovarono tutto il popolo animato dal furore della guerra e della vendetta. Accolti solennemente dai Ventiquattro, che erano alla testa del governo, questi, udite le domande, dissero: Che sarebbe loro risposto in campo, a viva voce. Non restava quindi che apparecchiarsi senz'altro alla decisiva giornata.
La mattina del tre di settembre un banditore andava in giro per Siena, intimando che ognuno s'affrettasse, «in nome di Dio e della Vergine Maria», ad accorrere sotto il proprio gonfalone.[272] Cosí fu raccolto un grosso esercito, che il giorno stesso uscí di città, per andare incontro ai Fiorentini. È assai difficile dirne il numero, tanto variano i ragguagli dei cronisti. Coi Senesi v'erano i Tedeschi, v'erano gli esuli ghibellini di Firenze, v'erano anche parecchi alleati. Tuttavia erano certo in numero minore dei nemici. Come di regola, il comando generale lo aveva il podestà Francesco Troghisio. Ma la condotta effettiva delle armi l'avevano il conte Giordano e il conte d'Arras, che conducevano i cavalieri ed i fanti tedeschi; il conte Aldobrandino di Santa Fiora ed altri capitani valorosi. Il conte Guido Novello comandava gli esuli fiorentini, fra i quali, piú irrequieto che mai, era Farinata degli Uberti. Alla testa dell'esercito fiorentino stava del pari il podestà Iacopino Rangoni; ma i capitani erano gente inesperta, che si cullava ancora nella lusinga di vincere senza combattere. S'avanzarono adunque col carroccio fino a Monselvoli, in Val di Biena, dove misero il campo, non lungi dal fiume Arbia e dal castello di Montaperti, a quattro miglia da Siena. La mattina del quattro settembre i Senesi, sopra tutto i Tedeschi, iniziarono con grandissimo slancio la battaglia. Il conte d'Arras si teneva con la sua banda in agguato, per attaccare di fianco il nemico, al momento opportuno. Sino all'ora di vespro i Fiorentini resistettero con valore, ma poi cominciarono a dar segni di stanchezza. Ed allora il conte d'Arras, uscendo dall'agguato, al grido di San Giorgio, piombò sul loro fianco con tale impeto, che subito li sgominò. Nello stesso tempo, Bocca degli Abati, uno dei Fiorentini che tradivano, mozzò, con un colpo di spada, la mano a Iacopo dei Pazzi, che teneva la bandiera della cavalleria. E questa, che era quasi tutta di nobili, parte per lo sgomento, parte pel tradimento, si dette alla fuga. La fanteria, composta invece di buoni popolani e fedeli alleati, tenne ancora fermo; ma poi cedette, e fu anch'essa trascinata nella fuga generale. Solo la guardia del carroccio, comandata da Giovanni Tornaquinci, che a 70 anni combatté da leone, stette salda fino a che l'ultimo di essa non fu morto accanto alla bandiera, la quale, con la Martinella e col carroccio, cadde in mano del nemico, che li portò via, trionfando, in Siena, dove mise in pezzi ogni cosa.[273] La strage fu grandissima, molti dei Fiorentini correvano al castello di Montaperti, gridando: misericordia, ch'io m'arrendo; ma erano uccisi lo stesso. Finalmente il capitano dei Senesi, conte Giordano, d'accordo coi gonfalonieri del popolo, consigliato anche da Farinata degli Uberti, mandò ordine, che si sospendesse la strage, e restasse salva la vita di chi s'arrendeva.[274] È assai difficile dire qual fosse in quel giorno funesto il numero dei morti. Il Villani, che li riduce al minimo, afferma che i cavalieri si salvarono tutti colla fuga, ma che la strage fu tra i popolani, di cui 2,500 rimasero morti, 1,500 prigionieri. I Senesi, che riducono le loro perdite a 600 morti e 400 feriti, portano quelle dei Fiorentini a 10,000 morti, 15,000 prigionieri, 5,000 feriti, oltre 18,000 cavalli fra morti e perduti. Se queste cifre sono al di sopra, quelle del Villani possono ritenersi al di sotto del vero.[275] Ma questi descrive il vero stato delle cose quando conchiude: e allora «fu rotto e annullato il Popolo vecchio di Firenze».[276] Tale infatti può dirsi la conseguenza ultima di quella battaglia, che fece l'Arbia colorata in rosso.
Grandi furono la gioia, le feste, i trionfi in Siena; grandissimi il lutto, i lamenti in Firenze, dove non era famiglia che non avesse perduto qualcuno. I capi dei Guelfi sapevano, che per essi non v'era omai piú speranza di salvezza, e però, in gran numero, esularono le famiglie dei loro nobili, e non poche anche di popolani. Uscirono di Città il 13 settembre, ed alcuni si sparsero pei castelli della Toscana, ma i piú andarono a Lucca, che rimase come centro principale dei Guelfi. Il 16 entrò in Firenze il conte Giordano con i suoi Tedeschi, e con essi tornarono gli esuli carichi di preda, che la fecero subito da padroni. Uno dei primi loro pensieri fu d'andare in Duomo a disfare il monumento d'Aldobrandino Ottobuoni, quasi che egli, piú che guelfo o ghibellino, non fosse stato cittadino onesto e benemerito della patria. Cosí cominciarono, sin dal principio, a fare ogni opera, per rendersi sempre piú odiosi ed incomportabili. Poggibonsi, Montalcino, molti dei castelli, pei quali s'era tanto combattuto, furono abbandonati a Siena. Gli ordini della libertà furono distrutti, ed il conte Giordano nominò, per due anni, podestà di Firenze il conte Guido Novello,[277] che entrò subito nel Palazzo del Comune, di dove fece poi aprire una via, che andò fino alle mura, e si chiamò, come anche oggi si chiama, Via ghibellina. Cominciarono intanto gli esilî, le persecuzioni, le distruzioni delle case e delle torri de' Guelfi, i cui beni, confiscati, venivan raccolti a benefizio della parte ghibellina, che doveva trionfare per tutto. Fra gli esuli vi fu anche Brunetto Latini, già stato, come vedemmo, ambasciatore ad Alfonso di Castiglia, e rimasto ora in Francia, dove scrisse il Tesoro, in cui ricorda la sua ambasceria.
Il conte Giordano, richiamato da Manfredi nel Reame, dové partire, lasciando in sua vece il conte Guido Novello. Ed allora si tenne in Empoli un concilio di tutti i capi ghibellini, per prendere accordi sul da fare. Quello che dimostra a che segno fosse giunto allora il feroce odio di parte contro Firenze, si fu la proposta fatta di distruggerne le mura, abbatterne le case, e ridurla a borgo, come nido eterno dei Guelfi, i quali altrimenti sarebbero in essa sempre risorti. A questo si oppose però generosamente Farinata degli Uberti, il quale nell'impeto della sua collera, mettendo la mano sull'elsa, dichiarò al conte Giordano ed agli altri capitani, ch'egli aveva combattuto per riavere, non per perdere la patria, e che l'avrebbe difesa contro coloro i quali la volevano distruggere, con piú ardore che non aveva combattuto i Guelfi.[278] Tali parole fecero subito respingere l'insensata proposta.
Il conte Guido pose in Toscana alcuni ghibellini come podestà, ritenendo nelle sue mani il governo generale di quella provincia, e reggendo anche la Città, come vicario di Manfredi. Egli si fece basso strumento di tutti gli odî della parte ghibellina, alla quale però assai poco potevano giovare la sua condotta incerta, il suo carattere debole. Tuttavia la persecuzione contro i Guelfi continuò non solamente in Firenze, dove le confische, le demolizioni di case e di torri s'andarono lungamente ripetendo,[279] ma anche nei vicini castelli ed in Lucca, di dove i Guelfi, che vi s'erano rifugiati, vennero cacciati. Fu in questa occasione, che Farinata degli Uberti, avendo preso prigioniero Cece dei Buondelmonti, se lo portava in groppa del cavallo, chi dice per salvarlo, chi dice come preda di guerra. A quella vista però non seppe frenarsi suo fratello Piero degli Uberti, il quale, a colpi di mazza, uccise il prigioniero sulla groppa stessa del cavallo. Tale era allora la ferocia degli odî di parte. Dopo la sconfitta del '60 molti dei Guelfi andarono pel mondo raminghi. Alcuni si recarono colle armi a servire il proprio partito nell'Emilia, addestrandosi nelle nuove discipline dell'arte militare; altri invece andarono in Francia ad esercitare la mercatura, dando cosí nuovo ed assai maggiore impulso al commercio fiorentino.
VII
Dalla fine dell'anno 1260, in cui seguiva la battaglia di Montaperti, al 1266, in cui cessava il dominio del conte Guido e di Manfredi, la storia di Firenze non presenta alcun fatto notevole. La sua libertà è distrutta, le sue guerre sono piccole e ingloriose scaramucce di partito, le nuove istituzioni, se pur meritano questo nome, non hanno valore nello svolgimento storico della sua costituzione. Chi vuol conoscere il logico legame, che unisce le varie sue forme, nella storia della Repubblica, non deve por mente a queste soste che la libertà subisce, a questi interregni, nei quali la tirannide spezza il corso regolare degli eventi e delle istituzioni, che poi ripigliano il loro naturale cammino, quando la libertà torna a rivivere. Il Podestà che governava in nome di Manfredi, lasciò sussistere i due Consigli (nei quali prevalsero come era naturale i Grandi ed i Ghibellini), il Generale cioè di 300, lo Speciale di 90. Ma del Capitano del popolo e de' suoi Consigli non sentiamo piú parlare, come non sentiamo parlare degli Anziani e del loro Consiglio. Troviamo però, invece di essi, Ventiquattro cittadini, quattro per Sesto, che siedono nei Consigli del Podestà.[280] Dell'antica costituzione non sono rimasti che frammenti ed anche questi di antico non sembrano avere altro che il nome. In sostanza si è, coll'aiuto di Manfredi e per opera dei Ghibellini, costituito un dispotismo aristocratico, che fa singolare contrasto con la costituzione che lo precedette, e con quella che lo seguirà, le quali invece si trovan fra di loro in perfetta armonia e connessione. Intanto, a continuare la guerra contro i Guelfi, non solo si demolivano le loro case, confiscavano i loro beni, ma si ponevano ancora taglie sopra taglie, che oppressavano duramente il popolo, cui s'era tolta ogni parte al governo. Nel 1264 però moriva Farinata degli Uberti, nel 1265 nasceva Dante Alighieri, e l'Italia cominciava ad essere agitata da nuovi eventi, che dovevano ripercuotersi anche in Firenze.
Era veramente un pezzo, che la politica italiana accennava a volersi sostanzialmente mutare. Federico II dispotico e crudele assai spesso, aveva pure saputo raccogliere intorno a sé gli uomini piú culti della Penisola, fra i quali aveva incontrato grandissimo favore. Manfredi, che gli successe, fu un principe avventuroso ed infelice, d'animo grande, che doveva quindi trovare e trovò molti ammiratori. I Papi, è vero, avevano combattuto l'uno e l'altro come Ghibellini; ma la loro politica cominciava lentamente ad essere avversa del pari ai Ghibellini ed alle libertà comunali, perché l'ambizione loro cresceva ogni giorno, e volevano rafforzare il dominio temporale a danno dei Comuni. Firenze si manteneva ancor sempre guelfa; ma i tempi mutati cominciavano in tutta Italia a mutare, se non il nome, il carattere e il valore dei partiti, laonde spesso si passava dall'uno all'altro, senza troppo esitare, né era sempre facile dire se il mutamento seguiva piú nell'animo di chi abbandonava il proprio partito, o nel partito stesso, che perciò veniva abbandonato. E questo disordine cresceva grandemente ora che i Papi, sempre inquieti, sempre paurosi di perdere il loro predominio in Italia, si decidevano a chiamare nuovi stranieri, e quindi facevano su di essa cader nuove miserie.
Intimoriti nel vedere il gran potere e il gran favore acquistato dagli Svevi, cercarono mettervi riparo, seguendo quella politica cosí bene descritta dal Machiavelli, quando dice che i Papi, «ora per carità della religione, ora per loro propria ambizione, non cessavano mai di chiamare in Italia umori nuovi, e suscitare nuove guerre. E poiché eglino avevano fatto potente un principe, se ne pentivano, e cercavano la sua rovina, né permettevano che quella provincia, la quale, per loro debolezza, non potevano possedere, altri la possedesse».[281] Cosí, dopo molte ed ostinate pratiche, riuscirono finalmente a far venire gli Angioini contro Manfredi, alla conquista del regno di Napoli. Carlo d'Angiò, benedetto ed aiutato da papa Clemente IV, seguito non solo dai suoi Francesi, ma anche da molti Italiani, tra cui gli esuli guelfi di Firenze, che si dimostrarono fra i piú valorosi,[282] s'avanzò verso la frontiera napoletana, ed il 26 febbraio 1266 venne, presso Benevento, a battaglia con Manfredi, il quale, abbandonato e tradito da' suoi, pugnò da valoroso, morí da eroe. Il suo cadavere, invano cercato per tre giorni in mezzo ai morti, venne poi trovato e trasportato sopra un asino. Non volle re Carlo concedergli sepoltura in terra consacrata, perché era stato scomunicato dal Papa, e fu quindi messo in una fossa, presso il ponte di Benevento, dove i soldati francesi, gettando, ognuno, sopra il cadavere una pietra, elevarono un monte, che poteva dirsi monumento condegno al valore ed alla sventura del soldato morto combattendo. Ma papa Clemente gl'invidiò anche questo umile riposo, e per suo ordine l'arcivescovo di Cosenza persuase il re angioino a far disotterrare il cadavere, e gettarlo fuori del Regno, presso il fiume Verde.[283] Tutti questi fatti diedero il crollo al partito ghibellino in Italia. La sede imperiale era vacante, gli Svevi abbattuti, ed in Napoli succedeva ad essi un'altra dinastia straniera, venuta per opera del Papa. Se la morte di Federico II aveva fatto decadere in Firenze i Ghibellini, ben si può immaginare che cosa dovesse succedere ora che il loro mal governo aveva accumulato contro di essi odî sempre maggiori, e che con Manfredi non era morto solamente un principe amico, ma s'estingueva in Italia il dominio d'una casa imperiale e reale, che era stata il piú valido sostegno del partito.
Ed infatti, all'annunzio di questi eventi, tutto il popolo di Firenze si commosse, e cominciò a pigliare animo contro i Grandi che dominavano ancora. Quando poi si seppe che buona parte di quei Guelfi fiorentini, i quali avevano con gran valore combattuto nell'esercito di Carlo d'Angiò, tornavano con la sua bandiera a Firenze, la moltitudine si mostrò cosí pronta a sollevarsi, che al conte Guido ed ai suoi mancò l'animo. E però i Ghibellini, dice il Machiavelli, «giudicarono che fosse bene guadagnarsi con qualche beneficio quel popolo, che prima avevano con ogni ingiuria aggravato, e quelli rimedî che, avendoli fatti prima che «la necessità venisse, sarebbero giovati, facendoli di poi, senza grado, non solamente non giovarono, ma affrettarono la rovina loro».[284] Volevano infatti il conte Guido ed il partito ghibellino concedere qualche libertà, per acquetare il popolo, ma non sapevano da che parte rifarsi. Gli antichi ordini erano distrutti, ed eglino s'erano talmente allontanati dal popolo, governando ad arbitrio e taglieggiando, che ora il cominciare a ceder qualche cosa, li avrebbe ben presto costretti a ceder tutto. Il popolo dall'altro lato, escluso dal governo, s'era dato all'industria ed al commercio, portandovi quell'attività ed energia, che gli era vietato di esercitar direttamente nella politica. Le industrie perciò, maravigliosamente cresciute, s'ordinarono sempre piú fortemente in associazioni politico-industriali, chiamate Arti maggiori ed Arti minori, le quali, cominciate nei primordî del Medio Evo, andarono assumendo anche una grande forza ed autorità politica, ed acquistarono un grandissimo predominio nella Città. Cosí s'erano formate adesso molte famiglie di nuovi potenti, quasi una nuova aristocrazia del danaro e del lavoro, o, come incominciavano già a chiamarla, di popolani grassi, divenuti di fatto i veri padroni della cittadinanza fiorentina.[285] I Ghibellini quindi, a poco a poco, si trovarono al governo, come una casta separata, e si dovettero sempre piú reggere con la sola amicizia di Manfredi, e con l'aiuto de' suoi Tedeschi. Quasi gente accampata in terra straniera, erano andati perdendo di giorno in giorno ogni ascendente morale e politico, ogni civile autorità sopra i popolani, i quali colle loro industrie ed il loro commercio, s'erano come formato un mondo a parte, costituendosi in una società divisa, e, fra certi limiti, indipendente da chi li governava. Rivolgersi dunque ai piú autorevoli fra costoro, era difficile e pericoloso, perché essi, capi del popolo guelfo, non potevano chiedere altro che la sua partecipazione al governo, il che sarebbe stato ben presto la rovina dei Grandi e dei Ghibellini. Dare, di loro propria iniziativa, parziali riforme neppure era facile ai Grandi, perché non si sapeva quali, né come darle, ora che il popolo si sentiva già in forza da dominar la Città. Si pensò quindi a chiamar da Bologna due cavalieri del nuovo Ordine detto dei Frati Gaudenti, il cui ufficio era di soccorrere vedove e pupilli, metter pace fra i partiti avversi. E perché apparisse un qualche segno piú visibile d'imparzialità, si volle che fossero guelfo l'uno, ghibellino l'altro. E tutto ciò fu fatto col consenso, anzi quasi per consiglio di papa Clemente IV, il quale, provenzale e grande sostenitore di Carlo d'Angiò, scriveva continuamente lettere imperiose[286] ai Fiorentini, come se per la vacanza dell'Impero, ne potesse egli assumere l'autorità, e come se, per la vittoria di Carlo, fosse divenuto il loro padrone.
Questi frati gaudenti però, il cui Ordine durò poco, erano, secondo il Villani, uomini dati piú ai loro piaceri, che capaci di trattar seriamente l'impresa loro affidata di far come da podestà in Firenze, proponendo anche le nuove riforme. E tanto ciò era evidente, che essi stessi videro subito la necessità di consigliarsi e intendersi con le Arti. Laonde, arrivati in Città, alloggiarono nel Palazzo del Comune, e convocarono un Consiglio di 36 mercatanti guelfi e ghibellini, i quali cominciarono subito a radunarsi ogni giorno, per discutere, nella Corte dell'Arte di Calimala, o sia de' panni forestieri che si raffinavano in Firenze, dove questa industria era assai progredita e formava già l'Arte piú potente. Furono subito tutti d'accordo, che si dovesse proporre la costituzione industriale e politica delle sette Arti maggiori, con insegne proprie, armi e capi intorno a cui raccogliersi, e cominciarono ad ordinarle, dando un gonfalone a ciascuna di esse cioè: Giudici e Notai, di Calimala o dei panni forestieri, della Lana, dei Cambiatori, de' Medici e Speziali, della Seta, dei Pellicciai. Ma i Ghibellini s'avvidero che per questa via s'andava rapidamente a costituir di nuovo, sotto altra forma, il Primo Popolo. E però gli Uberti, i Lamberti, i Fifanti, gli Scolari si dimostrarono decisamente avversi a tali novità, e fecero sentire al conte Guido il bisogno di mettervi immediato riparo, se non si voleva lasciarsi fuggire di mano il governo. Ed il conte Guido, che altro non cercava, mandò subito a chiedere aiuti dalle città ghibelline. Da Arezzo, da Siena, Pisa, Pistoia, Colle, S. Gimignano vennero parecchi cavalieri, che uniti ai Tedeschi, furono in tutto circa 1,500. Ma se essi erano agli ordini del conte Guido, erano anche alle sue spese: i Tedeschi già gridavano che volevano le paghe, e a lui mancavano affatto i danari. E però, continuando tuttavia le pratiche d'accordo col popolo, pensò di mettere una nuova imposta del dieci per cento sulle entrate dei cittadini. Ma questa, dopo tante altre gravezze, riusciva ora incomportabile alle piccole fortune, tanto che il popolo, già stanco del mal governo, irritato ancora dal vedere che il Conte aveva spogliato dell'armi il Palazzo del Comune, per arricchirne il suo castello di Poppi, imbaldanzito dalla prospera fortuna, e sempre piú eccitato contro i Ghibellini, protestò energicamente, dando chiari segni di voler correre alle armi. I Trentasei cercarono allora di calmarlo, e, postisi di mezzo, proposero di riscuotere essi la nuova tassa, distribuendola in modo da farla il piú possibile cadere sopra i ricchi e potenti.
Ma questo fu invece il momento in cui i Grandi, divenuti audaci pei nuovi soccorsi avuti, scelsero per farla finita, e levarono addirittura il rumore nella Città. Primi a muoversi furono i Lamberti, che, scesi in Piazza armati, andavano gridando: ove sono questi ladroni dei Trentasei, che noi vogliamo farli in pezzi? E i Trentasei, che erano allora a consiglio, si sciolsero; le botteghe si chiusero; il popolo, levato a rumore, si pose sotto gli ordini di essi, dei Consoli delle Arti, e soprattutto di Giovanni Soldanieri, nobile che, per ambizione, si era nel tumulto messo alla testa dei popolani. Fecero capo a S. Trinita, dove ben presto sopraggiunse colla sua cavalleria il conte Guido, che si teneva sicuro della vittoria. Ma trovò, invece, che la moltitudine, asserragliata, resisteva gagliardamente, e dalle finestre, dalle terrazze venne giú una tal pioggia di sassi e di frecce, che i suoi cavalieri cominciarono a perdersi d'animo, ed egli si sbigottí per modo, che, fatte subito voltar le insegne, se ne tornò alla piazza S. Giovanni; di là, andato poi al Palazzo del Comune, dove erano i due Gaudenti, chiese le chiavi della Città, per partirsene. Né le preghiere de' suoi amici, né lo sdegno de' suoi seguaci bastarono a persuaderlo, che non v'era nessun grave pericolo, e che poteva restare. Egli si sentiva cosí smarrito che, avute le chiavi, volle essere accompagnato da tre dei Trentasei, temendo altrimenti d'essere ferito dalle finestre. E, per la porta detta dei Buoi, se ne andò colle sue genti a Prato, il giorno di S. Martino, 11 novembre 1266.
Il dí seguente, passata la paura, s'avvide dell'errore commesso, e persuaso dai Ghibellini di Firenze, che lo avevano accompagnato, si provò, dice il Machiavelli, «a ripigliare quella città per forza, che aveva per viltà abbandonata».[287] E venne co' suoi ordinato a battaglia, fin sotto la porta del Ponte alla Carraia, là dove è ora Borgo Ognissanti. Ma il popolo, che difficilmente lo avrebbe potuto cacciare prima, se egli non avesse avuto cosí gran paura, facilmente poteva respingerlo adesso. Ed alle domande, tra minacciose ed umili del Conte, perché aprissero, fu risposto colle armi, saettando dalle mura. Dové quindi retrocedere co' suoi, e si sentivano tutti cosí umiliati e adirati, che per via tentarono di pigliare un castello vicino, pur di aver l'aria di fare qualche atto di vigore. Ma respinti anche in questo piccolo assalto, ritornarono a Prato piú avviliti che mai, in gran dissenso tra loro. Il Conte, persuaso ormai d'aver perduto lo Stato, se ne andò in Casentino, ed i Ghibellini di Firenze se ne andarono nei castelli o ville del contado.
VIII
I Guelfi, rimasti ora padroni della Città, posero mano alle riforme necessarie a riordinarla popolarmente, consigliati sempre con lettere imperiose dal Papa, cui però si dava retta solo quanto era necessario per non irritarlo. Prima di tutto furono licenziati i due frati Gaudenti, che non avevano fatto buona prova; poi si mandò ad Orvieto a chiedere un Capitano del popolo ed un Podestà, con qualche aiuto di cavalieri a guardia del Comune. E vennero 100 cavalieri, con messer Ormanno Monaldeschi podestà, ed un messer Bernardini capitano. Per amor di pace rimisero in Firenze i Ghibellini, concludendo tra essi ed i Guelfi paci e matrimonî, sperando cosí accomunare il popolo, e smorzare gli odî: ma in verità si riuscí solo ad eccitare piú vivi rancori, perché gli animi erano ancora troppo esaltati.
Firenze adesso sembrava non aver piú l'antica fiducia nelle proprie forze, tanto che in mezzo alle gravi complicazioni della politica italiana, anche i Guelfi sentivano il bisogno d'avere un protettore straniero. Era un uso funesto, introdotto la prima volta dai Ghibellini, che, per ossequio all'Impero, avevano chiesto un vicario imperiale in Città, ed ora che il popolo aveva vinto, perché nel regno di Napoli, agli Svevi erano successi gli Angioini, parve quasi inevitabile ricorrere allo stesso pericoloso procedimento. Il Papa, facendola da Imperatore, aveva nominato Carlo d'Angiò, prima Paciaro, poi addirittura vicario imperiale per dieci anni in Toscana. E i Fiorentini, credettero di dovere accettare questo nuovo stato di cose, anzi fare ad esso buon viso, e quindi offrirono addirittura a Carlo la signoria della loro Città per sei anni, che furon poi dieci. Ma sia che a ciò ponessero condizioni le quali al Re angioino piacevano poco, sia che egli volesse farsi pregare, certo è che parve dapprima esitar molto. Poco dopo mandò Filippo di Monforte, il quale con 800 cavalieri entrò in Firenze, il giorno di Pasqua del 1267, anniversario, come fu allora notato, della morte del Buondelmonti. Piú tardi vi mandò qual suo vicario Guido di Monforte;[288] poi venne anch'esso a condurre in persona la guerra contro i Ghibellini in Toscana.
Ed ora, cacciati i Ghibellini, accettata la supremazia di Carlo come inevitabile, era pur necessario dare a Firenze un assetto definitivo, studiandosi, in mezzo a condizioni cosí nuove, cosí difficili, di garantirne la libertà, e si venne a quella che fu la quarta costituzione della Repubblica. Le condizioni della società fiorentina erano assai mutate, e con esse doveva mutare anche il carattere della nuova costituzione. Il partito ghibellino o aristocratico s'era ristretto in un piccolo numero di Grandi, che esercitavano l'arte della guerra e volevano spadroneggiare. Coi nobili che, mutando nome e abbandonando i titoli, s'univano ai popolani, e con coloro che, pei rapidi guadagni della mercatura, entravano in una nuova condizione di viver civile, s'era formata, come abbiam visto, quasi una nuova aristocrazia, un popolo grasso divenuto padrone della Città.[289] E v'era poi anche questo di notabile, che andavano, tanto il popolo grasso, quanto il minuto, perdendo ogni giorno piú l'antica educazione militare, non solamente perché ora nelle guerre prevalevano gli uomini d'arme, e cominciavano a valer poco gli eserciti popolari, ma anche perché il commercio aveva preso tali proporzioni, che non potevano i mercanti, sempre affaccendati a bottega, o in giro pel mondo, passare ogni anno, come pel passato, due o tre mesi al campo. Il commercio era divenuto la principalissima occupazione, quasi la vita stessa del popolo fiorentino, che ora poteva dirsi davvero un popolo di banchieri e di mercanti. Ed a tutto questo s'aggiungeva, che in Firenze v'era adesso un'autorità straniera con soldati stranieri. Carlo d'Angiò direttamente, o per mezzo di suoi vicari, o di persone in altro modo da lui nominate, teneva l'ufficio del Podestà, e spesso sceglieva anche il Capitano. I Fiorentini perciò, sempre accortissimi, ristabilirono i Dodici Anziani, due per Sesto, col nome Dodici Buoni Uomini, coi quali il Podestà doveva consigliarsi. E con essi ancora, invece di 36, un Consiglio di 100 Buoni Uomini di popolo, «senza la diliberazione dei quali nessuna grande cosa, né spesa si poteva fare». Con questo Consiglio, unito al Parlamento, che, di diritto almeno, a Firenze non mancò mai, noi abbiamo la ricostituzione di un governo centrale e popolare, che toglieva importanza al Podestà angioino. Può quasi dirsi un ritorno all'antica costituzione consolare, da cui erano già usciti il Podestà ed il Capitano, che si cercava ora sottomettere ad essa. Ma ciò non era tutto. Furono ripristinati i due Consigli, speciale e generale, del Podestà e del Capitano. Se non che, il Capitano del popolo che, nella costituzione del 1250, teneva il secondo posto, e sotto il dominio ghibellino sembrava quasi scomparso, adesso non solo ricomparisce, ma si cerca dargli prevalenza sul Podestà.
Infatti, quando una legge era stata dai Dodici proposta ai Cento ed approvata, passava ai due Consigli del Capitano, e prima a quello speciale e delle Capitudini, detto anche la Credenza, che rimaneva come in antico, composto di 80 membri. Approvata la legge in questa assemblea, veniva proposta al Consiglio generale, speciale e delle Capitudini, che era di 300. Le tre votazioni si facevano di regola in un giorno solo. Nel successivo la legge veniva portata dinanzi ai due Consigli del Podestà, e prima al Consiglio speciale di 90, poi al Consiglio generale di 300, ai quali spesso si univano quelli dello speciale, ed erano allora 390. Poco sappiamo del modo con cui s'eleggevano questi Consigli, che solevano durar sei mesi. Però, essendo molto numerosi, e trovandosi dall'altro lato assai ristretto il numero dei cittadini, noi riteniamo che tutti gli abili a sedere, o sia gli eleggibili, che erano appunto i veri e proprî cittadini, v'entrassero a turno. Ma qui è da notare che non sempre, né tutte le deliberazioni passavano per ognuno di questi varî Consigli. Le leggi e le consuetudini lasciavano non di rado ai magistrati la libertà di consultarne alcuni solamente, come lasciavano loro il diritto di radunar prima un piú ristretto Consiglio di Richiesti, invitandovi solo quegli ufficiali o cittadini, che potevano giovare colla loro esperienza a preparare le deliberazioni. Altre volte s'invitavano nei Consigli anche alcuni estranei. Cosí, per esempio, discutendosi le faccende della guerra, vi si trovano chiamati coloro che avevano l'incarico di provvedervi. Gli Statuti non erano né molto precisi, né molto rigorosi a questo proposito. E pareva che si studiassero singolarmente di frenare la libertà della discussione, forse per impedire che la moltitudine di tanti Consigli mandasse le cose troppo per le lunghe. La proposta d'un provvedimento qualunque, era sempre riservata ai soli magistrati, che la facevano sostenere dal notaio o da altri in loro nome. I Consiglieri, meno i casi di molta gravità, dicevano solo poche parole prima di votare. Il numero degli oppositori era sempre assai piccolo, e ciò anche perché quando una provvisione veniva portata ai Consigli, era stata già prima vagliata molte volte. Piú tardi, lasciando sempre liberissimo il votare contro le proposte dei magistrati, si giunse perfino a proibire il parlare altrimenti che in favore. Laonde con tanti Consigli non si vide nascere in Italia la vera eloquenza politica, della quale infatti la nostra letteratura è assai povera. E qui v'è ancora un'ultima considerazione. Il Consiglio dei 100 era tutto di popolani, e cosí quelli del Capitano; i Consigli del Podestà eran composti invece di popolani e di Grandi. Le Capitudini come abbiam visto, erano sempre presenti nei Consigli del Capitano, ed assai spesso anche in quelli del Podestà. Da tutto ciò risulta chiarissimo che il partito democratico e le Arti maggiori, le quali ne formavano il nucleo principale, avevano grandissima prevalenza.[290] Ed in questo modo re Carlo ottenne la signoria della Città, ma fu vincolato in modo che il potere effettivo rimase nelle mani del popolo, soprattutto del popolo grasso.
Le nuove leggi da noi esaminate, parlano ora assai poco di Guelfi e di Ghibellini, assai piú di Grandi e di Popolani, perché la lotta dei partiti comincia a mettersi ne' suoi veri termini, e si vede chiaro che, in sostanza, trattasi di aristocrazia e democrazia. Ma ciò nondimeno, il partito ghibellino esisteva sempre, anzi era esso veramente il partito aristocratico. Il popolo ne voleva quindi la totale rovina, ed a ciò mirava un'altra parte della nuova costituzione. Si pose mano a fare un elenco di tutti coloro che dal 1260 al 1266 erano stati perseguitati dai Ghibellini, e dei beni loro confiscati. Si trovò che grandissimo era stato il numero dei condannati, e che i danni ascendevano alla somma allora assai ingente di lire 132,160.8.4.[291] Si cercò allora di fare lo stesso contro i Ghibellini, e negli anni 1268 e 69 vi furono tremila circa fra confinati e ribelli, con le rispettive confische, le quali continuarono poi lungamente.[292] Dei beni via via confiscati si cominciò, come dicevasi, a far Monte, cioè a raccoglierli insieme; poi vennero divisi in tre parti, una delle quali doveva andare al Comune; una ai Guelfi, per risarcirli dei danni sofferti; una finalmente alla Parte guelfa, per darle sempre maggior forza, a scapito dei Ghibellini. Coll'andare del tempo però, quasi tutti questi beni si concessero solo alla Parte, e ad amministrarli furono creati sei governatori, tre Grandi e tre popolani, chiamati prima Consoli dei cavalieri, poi Capitani della Parte guelfa, seguendosi in tutto ciò i funesti consigli di papa Clemente IV e di Carlo d'Angiò. E siccome allora ogni magistratura importante soleva essere circondata da due Consigli, cosí anche i Capitani di Parte ebbero un Consiglio segreto o speciale di 14 membri, ed uno generale di 60.[293] Duravano i Capitani due mesi in ufficio, e si radunavano nella chiesa di S. Maria sopra Porta. Piú tardi ebbero un proprio palazzo, e vennero loro concessi altri incarichi, come la cura delle pubbliche fabbriche, la direzione degli ufficiali di torre, e simili. Ma la loro principal cura fu sempre di proteggere la Parte, perseguitare i Ghibellini. E questo ufficio essi adempierono con tanto ardore, e tante furono le persecuzioni, che, coll'andar del tempo, si giunse a tale che chi era padrone dei Capitani di Parte, si poteva dire padrone di Firenze. Esclusione dai pubblici ufficî per mezzo delle ammonizioni, esilî, confische saranno le opere con cui fra qualche tempo li vedremo funestar la Repubblica, e rendersi sempre piú potenti.
Se ora gettiamo finalmente uno sguardo generale alla nuova costituzione, in mezzo alla intricata moltitudine de' suoi Consigli e de' suoi magistrati, essa ci parrà abbandonata al disordine ed all'arbitrio. Ma se guardiamo piú attentamente allo scopo cui essa era destinata, noi la vedremo singolarmente adatta a raggiungerlo. La guerra civile non è finita di certo, deve anzi ancora per lungo tempo continuare; la democrazia s'avanza, per giungere al suo pieno trionfo, e distruggere totalmente l'aristocrazia. Né si contenterà di toglierle il dominio della Repubblica, ma vorrà toglierle l'esistenza stessa, il che non potrà fare senza versar molto sangue, senza molte rivoluzioni. Nel nuovo ordinamento politico, il potere centrale, mutabile ben presto ogni due mesi, è sempre debolissimo di fronte alla grande importanza, alla durata ed alla forza che hanno assunta il Podestà ed il Capitano. Messi alla testa del Comune e del Popolo, circondati ognuno da due Consigli, essi restan sempre come capi di due repubbliche armate e nemiche. Ma in quella del Popolo, che finora era stata la piú debole, niuno dei nobili può entrare; in quella del Comune, invece, il popolo ha preso accanto ai nobili un posto assai importante, e nelle sue mani è perciò legalmente venuta la decisione principale di tutti gli affari, non ostante la supremazia che di fatto Carlo d'Angiò esercitava nei piú gravi momenti. Che odî nasceranno da un tale stato di cose è facile immaginarselo. Se poi osserviamo che, in siffatta repubblica, quasi preordinata alla guerra civile, v'era una magistratura importante, quale i Capitani di Parte, che sembrava creata solo a tener viva la discordia, come una macchina di guerra, che agitava continuamente queste forze incomposte, senza dar mai posa, come uno strumento di sanguinosi disordini e di distruzione, allora noi possiamo prevedere dove ci condurrà il seguito della narrazione. Dobbiamo aspettarci continue lotte, un mutare irrequieto di magistrati e di leggi, il non veder mai giungere a mezzo novembre quello che si fila d'ottobre. Ma tutto era anche singolarmente preordinato al fine costante cui la Repubblica, fin dalla sua prima origine, mirava.
IX
Noi siamo però ancora assai lontani dall'aver dato un concetto adeguato e chiaro della Costituzione e della società fiorentina, nella seconda metà del secolo XIII. Ancora non abbiamo parlato abbastanza della parte piú importante delle nuove riforme, l'ordinamento cioè delle Arti. Le proposte che a tal fine i Trentasei, radunati nella Corte di Calimala, avevano fatte sin dal principio, quelle contro cui i Grandi piú s'eran sollevati, furono subito accettate dal popolo, e divennero d'ora in poi la base principale degli Statuti fiorentini. Le associazioni d'arti e mestieri erano antichissime in tutta Italia, ed a Firenze avevano ben presto fatto maggiore progresso che negli altri Comuni. In esse s'era, come vedemmo, concentrata tutta la vita del popolo, quando la tirannia dei Ghibellini, protetti da Manfredi, lo aveva escluso da ogni partecipazione al governo. Ed ora non si fece altro, che dar forma piú ordinata e legale a ciò che naturalmente era sorto e progredito. Le Arti maggiori, le sole che furono nel '60 sollevate a vera e grande importanza politica, eran sette; le altre solamente piú tardi poterono, al pari delle prime, ricostituirsi. Che cosa dunque divennero adesso le sette Arti maggiori? Pigliamone ad esaminare minutamente una sola, quella che prima e piú di tutte divenne importante; essa ci servirà di guida e modello a comprendere le altre.
Nel tempo di cui noi ragioniamo, insieme con le industrie, fiorivano in Italia le arti belle, e questo non solo giovava alla cultura nazionale, ma cominciava già a portare alle nostre manifatture il vantaggio di dar la legge del gusto in Europa. La moda partiva allora da Firenze, da Milano[294] e Venezia, come oggi viene da Parigi. Ed al buon gusto italiano l'arte di Calimala[295] dovette in parte la sua origine ed il suo rapido incremento. Essa consisteva nel raffinare e tingere, con colori di cui i Fiorentini soli possedevano il segreto, panni forestieri, che venivano di Fiandra, di Francia o d'Inghilterra, per poi, cosí perfezionati, tornare in tutti i mercati d'Europa, col bollo dell'Arte. E questo bollo aveva una riputazione grandissima, giacché assicurava della buona qualità, e che nessuna contraffazione vi era, che la misura delle pezze era scrupolosamente esatta e verificata in Firenze. Egli è facile comprendere come i mercanti di Calimala si trovassero in molteplici relazioni con tutta l'Europa, e come i loro interessi s'estendessero ovunque era qualche progresso di civiltà e di agiato vivere. Nacque quindi, sin da antico, il bisogno di scegliere capi dell'Arte, fare Statuti, avere Consoli non solo in Città, ma anche fuori, per tutelare questi interessi. Ma ora, per le nuove riforme, essa, al pari d'ogni altra delle Arti maggiori, fu costituita addirittura come una piccola repubblica.[296]
Ogni sei mesi, adunque, in giugno cioè e dicembre, si radunavano i capi di fondachi o botteghe, e questa Unione dell'Arte, che, in qualche modo, potrebbe paragonarsi a ciò che nella Repubblica era il Parlamento, sceglieva gli elettori, cui era commesso di nominare i magistrati. Primi erano i 4 Consoli, che rendevano giustizia secondo gli Statuti; rappresentavano l'Arte, e la governavano con l'aiuto di due Consigli, uno speciale, non minore di 12 membri, e l'altro generale, che andò spesso variando di numero, e si restrinse anche fino a 18. Con l'approvazione di questi Consigli, potevano i Consoli anche riformare gli Statuti. Essi portavano la bandiera dell'Arte, e sotto i loro ordini si radunavano, all'occorrenza, gli artigiani armati. V'era poi il Camarlingo che durava in officio un anno, ed amministrava le uscite e le entrate dell'associazione. E come la Repubblica aveva un magistrato forestiero nel Podestà, cosí l'ebbe anche l'Arte nel suo Notaio, il quale durava anch'esso in ufficio un anno; era eletto dal Consiglio generale, e doveva arringare nei Consigli, a nome dei Consoli; spesso andava nelle ambascerie per l'Arte, e soprattutto vegliava continuamente alla scrupolosa osservanza degli Statuti, con la facoltà di punir severamente chiunque li violasse, non esclusi i Consoli stessi. Tutti questi magistrati dovevano essere fedeli a Parte guelfa. Il salario del Notaio era fissato d'anno in anno. I Consoli, che non potevano ricusare l'ufficio, ed avevano poi per un anno divieto d'essere rieletti, ricevevano un salario che fu prima di 10 lire, e qualche multa a loro favore riscossa; ma si ridusse piú tardi ad alcune libbre di pepe e zafferano, ad alcune paniere e scodelle di legno. Non molto diversamente, ed anche meno, era pagato il Camarlingo o Camerario. Ogni anno venivano eletti tre ragionieri, per sindacare l'operato dei Consoli, del Camerario e degli altri magistrati usciti d'ufficio. E cosí pure s'eleggevano dodici mercanti statutarî, con arbitrio di correggere e migliorar lo Statuto; ma le loro riforme dovevano essere approvate prima dai due Consigli, poi dal Capitano del Popolo. I Consoli che, col nome di Capitudini, pigliavan parte ai Consigli del Capitano e del Podestà, dovevano in essi curare gl'interessi dell'Arte, e promuovere leggi in suo favore.
Ma che cosa volevano, nell'interesse proprio dell'Arte, questi Statuti alla cui osservanza tanti magistrati vegliavano? Essi stabilivano tutte le regole e i modi con cui l'Arte doveva essere esercitata. Le contraffazioni o la cattiva qualità della mercanzia erano severissimamente punite. Una macchia, uno strappo non rivelato sulla scritta che ogni pezza doveva portare, venivano del pari puniti. Piú di tutto poi si era severissimi sulla esattezza della misura. Gli ufficiali dell'Arte spesso andavano ad esaminare le pezze, ed ogni due mesi riscontravano, in ogni bottega, le canne e passetti con cui si misurava, e ne dovevano tener modelli esposti al pubblico, in alcuni punti della Città. Né ciò era tutto. I Consoli mandavano in ogni fondaco a visitare se i libri e le scritture dei mercanti erano in regola, e punivano coloro che deviavano dalle norme stabilite. Componevano fra i mercanti dell'Arte loro, o fra di essi e quelli di un'altra, tutte le liti che nascevano per ragione dell'Arte stessa, ed era severamente punito chi, in queste liti commerciali, avesse voluto ricorrere ai tribunali ordinarî. Ma in qual modo si rendevano efficaci le condanne dei Consoli? Quasi tutte le pene erano in danaro, e chi non le pagava, dopo essere stato piú volte ammonito e piú gravemente tassato, era, se non si sottoponeva alla condanna, escluso dall'Arte, il che voleva dir la rovina totale del suo commercio. Non solamente la sua mercanzia non aveva piú il bollo, e quindi perdeva la guarentigia dell'Arte; ma egli perdeva ancora molti altri grandissimi vantaggi, e finiva col non potere piú esercitar la sua industria in Firenze, spesso anche neppure fuori. Infatti, i Consoli eletti in Firenze vegliavano, come vedemmo, sull'interesse dell'Arte anche fuori della Repubblica, eleggendo a ciò Consoli in diverse parti d'Italia e d'Europa, i quali crebbero di numero a misura che il commercio si estese. Due specialmente di maggiore importanza, ne eleggevano in Francia. E tutti questi s'occupavano perfino degli alberghi destinati ad accogliere i mercatanti dell'Arte. Quando poi, secondo l'uso di quei tempi, uno Stato concedeva rappresaglie su i beni di essi, dovevano i Consoli aiutarli e difenderli. Cosí, in qualunque modo e dovunque un mercante veniva ingiuriato o danneggiato, trovava subito valida protezione. L'Arte era gelosa custode di tutti gl'interessi de' suoi membri, ed a difenderli in paese straniero, e far rendere giustizia contro le ingiurie o i danni ricevuti, mandava spesso suoi ambasciatori ai rispettivi governi.[297] Questo era un aiuto incalcolabile, quando gli stranieri non avevano alcuna efficace protezione per diritto internazionale, e continue erano le rappresaglie. Ad un mercante conveniva perciò sottomettersi a qualunque pena, piuttosto che essere cancellato dall'Arte; né vi era bisogno d'altra minaccia per costringerlo a rispettare gli Statuti. E come veniva governata l'arte di Calimala, cosí erano anche le altre sei. I loro Consoli riuniti formavano le Capitudini, le quali ebbero piú tardi alla loro testa un Proconsolo, che fu un magistrato tenuto in grandissimo onore.
Se ora mettiamo da un lato gl'immensi vantaggi industriali e commerciali, che nel secolo XIII doveva portare alla Repubblica un tale ordinamento delle Arti, e le esaminiamo solo dal lato politico, vedremo vantaggi non punto minori. Tutti questi mercanti, che costituivano la grandissima maggioranza dei cittadini fiorentini, si trovavano continuamente ad amministrare grandi interessi, a giudicar liti commerciali, a discutere leggi e Statuti; avevano relazioni in tutte le parti del mondo conosciuto, e vi andavano in ambascerie, per difendere i comuni interessi. Si vede una continua, febbrile partecipazione di tutti alla vita politica, giacché ognuna di queste Arti era una istituzione autonoma, che si reggeva da sé, con magistrati, leggi, Statuti e Consigli suoi proprî, ed ognuna di esse diveniva un centro di vita intellettuale, politica, industriale. Cosí le forze del popolo fiorentino, liberamente circolando, si moltiplicavano con raddoppiato vigore, e tutte le facoltà dello spirito umano, tutta l'energia morale e politica di cui l'uomo è capace, sorsero d'un tratto in Firenze, ad una prodigiosa altezza. Bastava quasi mettere alla ventura la mano fra quei mercanti, e il primo che si toccava, riusciva capace di governare la Repubblica; gli si poteva affidare la piú gelosa missione diplomatica, ché egli avrebbe saputo cavarsene con onore, farsi ricevere con decoro da papi, re o imperatori, senza lasciarsi aggirare, senza mancare neppure alle forme convenzionali delle Corti. La sottigliezza dell'ingegno dei Fiorentini poté cosí acquistare quella grande reputazione, che li rese celebri in tutta Europa, ed in mezzo a quella straordinaria attività industriale e politica si andarono formando anche l'arte, la letteratura italiana, e la piccola repubblica di mercanti divenne ben presto come un punto di luce che illuminava il mondo.
Un altro vantaggio ancora portarono a Firenze le Arti maggiori. Nel tempo in cui l'ordinamento politico teneva come divisa in due la Città; quando i partiti dovevano di nuovo fieramente combattersi, e i Capitani di Parte eccitavano le passioni, mantenendo sempre accesa la discordia, ed il supremo magistrato dei Dodici, mutando di continuo portava cittadini sempre diversi e sempre passionati a reggere la cosa pubblica; in tempi siffatti riusciva d'un benefizio incalcolabile l'avere dicentrato il governo in un numero infinito di piccole associazioni. Se il popolo o i nobili si ribellavano contro i reggitori per mutare i Dodici o il Podestà o il Capitano o anche lo Statuto, la sospensione degli affari che doveva necessariamente seguirne, produceva un disordine assai piú apparente che reale. La Repubblica, divisa in tante piccole associazioni, poteva restare anche piú mesi senza governo, perché le Arti armate, disciplinate e costituite cosí fortemente, bastavano, assai meglio che nel passato, a reggerla, ed impedivano quei danni, che altrimenti sarebbero stati inevitabili in una città abbandonata a sé stessa. Cosí la costituzione delle Arti, quale fu formata nel 1266, ci spiega nello stesso tempo come la poesia, la pittura, la scultura, l'architettura, potessero sorgere in mezzo a un popolo di mercanti; come, in mezzo a tanto apparente disordine, fosse possibile tanto progresso, e come la democrazia riuscisse in Firenze a distruggere del tutto ogni avanzo di feudalismo, arrivando ad una assoluta eguaglianza, a tutte quante le libertà di cui il Medio Evo era capace. Il Comune di Firenze fu il centro di una cosí grande cultura, perché fu la sede delle maggiori libertà che erano allora possibili. Il piú bello e splendido fiore di quella cultura si deve alla democrazia, che lasciò la sua impronta, dette il proprio carattere alle chiese e ai palazzi di Arnolfo, ai quadri di Cimabue e di Giotto, alla poesia di Dante. Nella letteratura provenzale, francese, tedesca, inglese del Medio Evo, non pochi furono i nobili signori che acquistarono fama, anzi la piú parte di quei poeti furono nobili. Le arti e le lettere fiorentine, che costituirono il germe piú fecondo delle arti e delle lettere italiane, furono essenzialmente repubblicane; molti degli scrittori, moltissimi degli artisti furono figli di mercanti o di semplici artigiani.
Capitolo V IL PREDOMINIO DI FIRENZE IN TOSCANA[298]
I
Dopo la morte di Federigo II, vi fu un lungo interregno imperiale. Per ventitre anni nessuno fu in Germania definitivamente proclamato re dei Romani, e per sessantadue nessuno venne in Roma a prendere la corona dell'Impero. Il partito ghibellino si trovò quindi abbandonato a sé stesso, ed i suoi capi cercarono di far prevalere i loro diritti feudali, le loro armi, la loro fortuna, a danno della Città e dei minori potenti, che non avevano speranza di trovare protezione nell'Imperatore. Cominciavano quindi a sorgere per tutto piccoli tiranni, e la piú parte di essi erano nobili ghibellini, i quali, fra le tante disfatte avute dall'aristocrazia in Italia, trovavano pure nuovo ed inaspettato aiuto nelle mutate condizioni dei tempi. Assai vi contribuiva anche la nuova arte militare, la quale aveva dato nella guerra prevalenza agli uomini d'arme, che erano cavalieri coperti, insieme col loro cavallo, di pesanti armature, e muniti d'una lunga lancia, con la quale abbattevano il fantaccino prima che potesse, con la sua alabarda, arrivare fino a loro. Occorreva perciò un lungo tirocinio, il quale rendeva sempre piú difficile all'artigiano o al mercante il seguire con fortuna il mestiere delle armi, che diveniva invece l'occupazione principale dell'aristocrazia. Molti infatti delle piú nobili famiglie cominciavano ora ad acquistar nome nella nuova arte della guerra, trovavano seguaci, e, messisi alla testa d'una piccola compagnia, a poco a poco divenivano potenti, e cosí nascevano in essi il desiderio e la speranza di farsi tiranni. Per questa e per molte altre ragioni, che appariranno anche piú chiare in seguito, quasi tutte le città di Lombardia, e non poche della Italia centrale, andavano perdendo la loro libertà.
Non mancavano certo le medesime ambizioni anche nel partito guelfo; ma in esso l'aristocrazia feudale era assai meno potente, e maggiore invece il numero dei mercanti e dei ricchi popolani. Oltre di che, il Papa era vicino, e nella vacanza dell'Impero, le città guelfe trovavano nello stesso tempo un pericolo ed un protettore ambizioso non solo in lui, ma anche in Carlo I d'Angiò, Paciaro e Vicario imperiale in Toscana, durante l'interregno. Carlo nominava i Podestà in tutte le città guelfe di Toscana, dove, quando non veniva egli stesso, mandava un suo rappresentante, o, come lo chiamano i cronisti, Maliscalco del Re, accompagnato da alcune centinaia di fanti e cavalieri, Pisa, Arezzo, tutte le città ghibelline, che non riconoscevano la sua autorità, si trovavano esposte a continue minacce di fuori, ed erano dentro lacerate dai tentativi di coloro che volevano fondarvi la tirannide. Le città guelfe, invece, si trovavano, sotto il continuo incubo dell'ambizione del Re; ma egli non era poi tanto sicuro di sé, da potere, con un ufficio temporaneo e limitato, pretendere di dominare come signore di Toscana, sebben tale fosse la sua segreta mira. Per ora gli bastava presentarsi come alto protettore dei diritti e delle libertà municipali, affinché le città guelfe potessero lusingarsi di trovare in lui un aiuto contro le ambizioni esterne dei Ghibellini, e contro i tentativi di tirannide interna.
Ma i Fiorentini non erano uomini da lasciarsi illudere sull'avvenire, né ingannare sul presente. Avevano richiesto la protezione di Carlo, ponendovi però dei limiti, che erano decisi a fare, in ogni modo, rispettare. Anch'essi avevano un segreto pensiero, e questo era: valersi dell'autorità e delle armi del Re, per crescere non il suo, ma il loro predominio in Toscana. L'autorità imperiale era in Italia assai decaduta; l'autorità temporale dei Papi decadeva anch'essa, e i municipî, sentendosi piú indipendenti, estendevano il proprio territorio. Tutte le città italiane miravano ora a questo scopo. Ma appena che una diveniva piú potente, le altre ad essa vicine, o dovevano fare altrettanto, o divenivano sua preda. E cosí erano spinte a guerreggiare continuamente fra loro, non tanto per gara di partiti o gelosia, quanto per difesa dei propri interessi. Inoltre, con l'uso invalso d'assoldar gente straniera e soldati di ventura, chiunque aveva denari a sua disposizione, poteva a un tratto mettere insieme un esercito potente, ed assaltare il vicino. Bisognava quindi premunirsi, star sempre sull'avviso, accrescere le proprie forze, la propria potenza; ed i Fiorentini pensavano, a questo fine, di valersi ora dell'autorità, del nome e delle genti di Carlo.
E però quando vennero in Firenze, da lui mandati (1267), il Podestà Emilio di Corbano,[299] ed il Maresciallo Filippo di Monforte con 800 cavalieri francesi,[300] i Fiorentini andarono subito con quest'ultimo, con la sua cavalleria, ed un loro esercito, raccolto da due Sesti della Città, ad assediare il castello di S. Ilario o S. Ellero, dove s'erano rifugiati parecchi Ghibellini, capitanati da Filippo da Volognano. Il castello venne preso, e 800 Ghibellini che v'erano dentro furono quasi tutti uccisi fatti prigionieri[301]. Si trovavano fra di essi molti delle piú nobili famiglie di Firenze, come i Fifanti, gli Scolari, gli Uberti, e l'odio di parte era, allora tale, che un giovanetto degli Uberti, quando vide ogni difesa riuscita vana, piuttosto che cader nelle mani dei Buondelmonti, preferí gettarsi dall'alto di un campanile.[302] Continuando la guerra, furono presi i castelli di Campi e Gressa; volte a parte guelfa, cacciandone i Ghibellini, le città di Lucca, Pistoia, Volterra, Prato, S. Gemignano, Colle ed altre ancora, che entraron nella Lega o Taglia coi Fiorentini, sotto il comando del Maresciallo di Carlo.
Pisa e Siena restarono però ghibelline; la prima era stata sempre, e si manteneva ancora il piú forte sostegno del partito in Toscana; nella seconda s'erano, come al solito, rifugiati di nuovo gli esuli di Firenze, e parecchi Tedeschi avanzati alla strage di Manfredi. I Fiorentini non erano riusciti ancora a vendicare la rotta di Montaperti, il che era come una spina nel loro cuore; e Carlo che desiderava anch'esso ardentemente di distruggere ogni avanzo degli amici e sostenitori di casa sveva, s'apparecchiava a venire in Toscana, per condurre in persona la guerra contro Siena. E intanto i Fiorentini, dopo avere invano assalito la città e dato il guasto al contado, visto che gli esuli, coi Tedeschi e con altri Ghibellini, s'erano fortificati in Poggibonsi, andarono coi Francesi e coi Guelfi della Taglia, a portarvi regolare assedio. Allora appunto re Carlo arrivò a Firenze, dove le accoglienze furono perciò assai liete. I piú autorevoli cittadini gli andarono incontro col carroccio, segno di grandissimo onore, e dopo otto giorni di festa in Città, dove nominò varî cavalieri, egli se ne partí pel campo. L'assedio durò quattro mesi, dopo i quali il castello dovette arrendersi per fame, verso la metà di dicembre 1267. Carlo vi mise allora un Podestà che governasse in suo nome, e vi cominciò una fortezza, per costruire la quale, secondo il suo costume, impose gravi tasse alle città della Taglia. Firenze dovette dare 1992 lire. E dopo di ciò, senza metter tempo in mezzo, si condusse l'esercito contro Pisa. Sottomettere una cosí potente e bellicosa repubblica non era impresa agevole; ed il Re quindi si contentò solo di umiliarla, pigliando per ora Porto Pisano e facendone abbatter le torri. Nel febbraio del 1268 andò a Lucca, donde si mosse ad assediare il castello di Mutrone, che prese e donò ai Lucchesi. E cosí aveva, con una serie di vittorie, non di molta importanza, ma pure abbaglianti e rapide, rialzato assai il nome e l'autorità della parte guelfa, la quale aveva contribuito alla guerra, non solo coi suoi uomini, ma sostenendone tutta la spesa, con grosse e continue somme di danaro, che Carlo imperiosamente e continuamente chiedeva. Infatti, fino a tutto il febbraio del 1268, Firenze sola aveva pagato 72,000 lire, 20,000 delle quali per pigliare Poggibonsi, dove il Re non aveva poi costruito la fortezza promessa. Ma ora si levava improvviso un grido di guerra, che commoveva tutta Italia, e Carlo si vide a un tratto minacciato da un pericolo cosí imminente, che, dopo avere alquanto esitato, dovette nel marzo decidersi a tornar nel Reame per difenderlo.
II
Corradino, figlio di Corrado e nipote di Federico II, era l'ultimo erede di casa sveva in Germania, e l'ultima speranza dei Ghibellini in Italia. A lui spettava per eredità il regno di Napoli, che Carlo d'Angiò aveva usurpato colle armi; ed era anche ritenuto da molti futuro imperatore. Giunto che fu alla età di 15 anni, si presentarono a lui molti fuorusciti di Napoli, di Sicilia, e d'altre parti d'Italia, invitandolo a riconquistare il suo regno, a sollevare la parte imperiale in Italia. Ed egli, che era d'animo precoce, pieno di ardore e di ambizione, appena che vide balenare una speranza, subito decise di passare le Alpi. Vendé i pochi beni che gli restavano, raccolse i suoi piú fidi amici, mise insieme un piccolo esercito, e giunse a Verona il 20 ottobre, con 3000 cavalieri e parecchi fanti. Di là spedi a tutti i principi cristiani lettere, che narravano le sue sventure; le ingiurie ricevute per le usurpazioni di Carlo d'Angiò, per l'odio di papa Urbano IV, il quale, non contento d'invitare un usurpatore francese a calpestare i diritti dell'Impero, aveva ancora scomunicato i legittimi eredi dell'Impero stesso. E papa Clemente, in risposta, rinnovava ora la scomunica contro Corradino; mandava per tutto lettere violenti, velenose contro di lui; sollecitava Carlo, che ancora se ne stava in Toscana ad aspettare ivi la battaglia, perché andasse a difendere il suo Reame dai pericoli imminenti. Infatti la cospirazione ghibellina si estendeva adesso in tutta Italia. Pisa e Siena sollevavano l'animo a grandi speranze, le città di Romagna, le città del Napoletano, quelle soprattutto della Sicilia, si ribellarono contro di lui. Nell'aprile del 1268 Corradino era già a Pisa, col suo esercito, che s'andava aumentando per l'accorrere di molti partigiani, sebbene la mancanza di danari avesse fatto tornare a casa parecchi Tedeschi. Carlo era già tornato nel Reame, per apparecchiarsi alla difesa, ed intanto assediava Lucera, dove i Saraceni di Manfredi avevano innalzato la bandiera di Corradino, che era pronto a partire, senza neppur fermarsi in Toscana ad incoraggiare le città che si sollevavano in suo favore, Pisa e Siena erano apertamente per lui; Poggibonsi si ribellò subito dai Fiorentini; altre terre s'apparecchiavano a far lo stesso. Intanto i soldati tedeschi s'avviarono subito verso Roma, dove il senatore Errico di Castiglia li attendeva. I Francesi, che erano in Firenze, uscirono per chiuder loro la via, e furono invece respinti con gravissime perdite, il che dette nuovo animo a Corradino ed ai suoi.
Ma la battaglia di Tagliacozzo, seguita il 23 d'agosto 1268, presso le rive del Salto, doveva decidere il suo fato. Dapprima l'esercito di Carlo, inferiore di numero, pareva disfatto, a segno tale che i Tedeschi già si davano da ogni lato ad inseguirlo. Ma quando s'erano sbandati, inseguendo e saccheggiando, Carlo, che s'era nascosto con una riserva di 800 cavalieri, piombò loro addosso, e la vittoria improvvisamente fu sua. La sera stessa, frenetico di gioia, annunziò il fatto al Papa, non meno di lui esultante. Inaudite furono le crudeltà commesse contro i prigionieri, amputati, decapitati, bruciati vivi. Corradino, con circa 500 de' suoi, in compagnia di Arrigo d'Austria, Galvano Lancia, il conte Gherardo Donoratico di Pisa, ed altri fidi, s'avviò verso Roma, di dove, abbandonato dai piú, dovette fuggire per la Maremma, ricoverandosi nel castello d'Astura. Ma ivi, mentre che s'apprestava ad andarsene con pochi de' suoi, sopra una barca in Sicilia, fu preso da Giovanni Frangipane signore del luogo, che lo consegnò a Carlo, e ne ebbe in premio alcuni feudi.
Questi adesso manifestava la sua grande gioia con sempre nuove crudeltà. In Corneto, si afferma, fu vista una torre incoronata di cadaveri dei piú cospicui e valorosi soldati ghibellini. Nelle città del Reame egli eccitava i piú crudeli furori della plebe contro i signori, che avevano parteggiato per Corradino. E i suoi ministri gareggiarono di crudeltà in Sicilia, dove, fra le altre barbarie, si racconta che in Augusta il carnefice dovette, in un sol giorno, ammazzare tanti infelici Siciliani, che ne rimase esausto, e, a forza di vino, lo rinfrancarono per farlo continuare nel macello. Ma l'animo feroce del Re si fermò piú particolarmente a decidere il destino, che voleva serbare a Corradino. Uccidere migliaia di cristiani, farli morire fra i piú crudeli tormenti, era cosa per lui di poco momento; ma dinanzi ad un uomo di sangue reale ed imperiale, egli doveva esitare alquanto. Dicesi infatti che chiedesse consiglio al Papa; ma poi, senza aspettar la risposta, cercò di coonestare la sua vendetta con le forme menzognere d'un giudizio legale. Egli presumeva di trattare un rivale, cui aveva usurpato il regno, come un ribelle al legittimo sovrano, e come reo d'alto tradimento un prigioniero di guerra, che voleva render colpevole ancora di tutti gli eccessi commessi nella guerra dai soldati tedeschi. E pure, sebbene il tribunale fosse composto di persone scelte dal Re fra i nemici di casa sveva, pare che non mancasse chi difese nobilmente Corradino. Si affermò, che Guido da Suzzara, nell'Emilia, giureconsulto al suo tempo riputato, adducesse la giovane età dell'accusato, i diritti che esso credeva d'aver sul Reame, le ragioni della guerra. Si affermò del pari che molti dei giudici si tacquero, e che uno solo si dichiarò apertamente per la condanna. Ma fu tutto invano. Carlo, che già aveva messo a morte alcuni dei baroni, e fra gli altri il conte Galvano Lancia, a cui, prima di morire, aveva fatto vedere il figlio strangolato sotto i proprî occhi, aveva iniziato il processo di Corradino per pura forma: interpetrò quindi il silenzio dei giudici come assenso alla condanna, che fu senz'altro pronunziata. E la sentenza venne subito comunicata nella prigione a Corradino, che giocava agli scacchi col cugino Federico d'Austria. Il 29 d'ottobre 1268 essi furono condotti al patibolo sulla piazza del Mercato di Napoli. Il protonotario Roberto di Bari, che aveva sostenuto l'accusa, lesse la sentenza, e Carlo volle esser presente. Dicesi che non pochi dei Francesi stessi fremevano di sdegno e di umiliazione dinanzi a questo crudele spettacolo. Una moltitudine immensa era nella piazza, e molti s'inginocchiarono commossi. Corradino si levò il mantello, dette uno sguardo alla folla silenziosa, gettò ad essa, in segno di futura vendetta, il guanto, e poi sottopose il capo alla scure. Cosí moriva l'erede di Federico II, l'ultimo degli Svevi. Federico d'Austria voleva baciarne il capo, ma fu subito preso, e la scure del carnefice fece a lui subire la stessa fine. Non pochi sono i particolari, storici o leggendarî, con cui i cronisti accompagnarono il racconto di questa lugubre tragedia. Il Villani, che pur era guelfo, prestò fede all'erronea voce (VII, 29), la quale affermava che Roberto conte di Fiandra, genero di Carlo, all'udire il Protonotario di Bari leggere la sentenza di morte, fu preso da tal furore che gli dette un colpo di stocco col quale lo finí sotto gli occhi del Re. Tutto ciò prova almeno quale era la impressione che il fatto universalmente produsse. Della parte avuta in questa tragedia dal Papa, s'è diversamente parlato. Il vero è che egli vide e tacque.[303]
III
Ma sebbene questi fatti venissero da tutti in Italia con grande severità condannati, pure essi tornarono subito a vantaggio di Carlo e della parte guelfa. I Fiorentini ne profittarono per pronunziar nuove condanne contro i Ghibellini, e poco dopo s'apparecchiarono a ripigliare la guerra contro i vicini, massime contro Siena, desiderosi sempre di vendicare la rotta di Montaperti, ed ora piú che mai irritati dal vedere colà raccogliersi di nuovo, ed essere festeggiati i loro esuli. A Siena essi attribuivano anche la recente ribellione di Poggibonsi, il cui territorio andarono perciò a devastare, il che bastò a riaccendere la guerra. I Senesi, che per la passata di Corradino s'erano levati a grandi speranze, non volevano ora darsi facilmente per vinti. Prevaleva sempre nella loro città Provengano Salvani, uno dei promotori della battaglia di Montaperti, nella quale aveva fatto prova di gran valore. E molti fatti generosi a lui si attribuivano anche ora. Narrasi come, trovandosi un suo amico prigioniero di Carlo, che gl'impose una taglia di 10,000 scudi, sotto pena del capo, e non potendo la famiglia pagarli, né avendo Provenzano il danaro sufficiente ad aiutarlo, stendesse un tappeto sulla piazza, e, ponendosi pubblicamente a questuare pel prigioniero, raccogliesse la somma voluta e liberasse l'amico. Tutto ciò gli dava nel popolo una grandissima autorità; ed esso era ghibellino e nemico dichiarato di Firenze. A Siena v'era inoltre un buon numero di Spagnuoli e di Tedeschi avanzati alle battaglie ghibelline, e v'era il conte Guido Novello, che, sebbene assai poco valesse, pure eccitava di continuo gli animi alla guerra. Cosí fu raccolto un esercito, che il Villani dice di 1,400 cavalieri, e 8,000 pedoni, ed andò ad assediare il Castello di Colle in val d'Elsa, per vendicare il guasto dato al contado di Poggibonsi. I Fiorentini, guidati dal vicario di Carlo, con 800 cavalieri, uniti ad un numero non molto grande delle loro genti, si avanzarono subito, e sebbene con forze assai minori, andarono contro i Senesi, che accettarono la battaglia (17 giugno 1269) e furono disfatti. Il conte Guido Novello, secondo il suo solito, sparí dal campo; ma Provenzano Salvani, non smentendo mai sé stesso, morí combattendo. La sua testa, fitta sopra un'asta, fu portata in giro pel campo, verificandosi cosí una profezia, che gli aveva detto, prima che partisse: la tua testa fia la piú alta nel campo, parole che egli aveva interpretate, invece, come augurio di vittoria. I Fiorentini, che non dettero ora quartiere ai Senesi, se ne tornarono trionfanti a casa, e, credendo di avere finalmente vendicata l'ingiuria di Montaperti, cominciarono trattative di pace. E prima espressa condizione fu, che i Senesi non dovessero piú ricoverare gli esuli ghibellini, i quali se ne dovettero, infatti, ben presto partire, andando d'ogni parte raminghi, per tutto inseguiti, e crudelmente trattati. I Pazzi, fra gli altri, che avevano ribellato il castello d'Ostina, furono presi e tagliati a pezzi.
Dopo un guasto, dato dai Fiorentini e Lucchesi nel contado di Pisa, che aveva, nell'aprile 1270, fatta pace con Carlo, se ne conchiuse il 2 maggio un'altra anche tra essa e Firenze, nella quale si stipularono quasi gli stessi patti e la medesima alleanza politico-commerciale che nella pace del 1256.[304] In quel momento erano di Siena partiti pel Casentino, Azzolino, Neracozzo e Conticino degli Uberti, con un cavaliere Bindo dei Grifoni, che caddero subito nelle mani de' Fiorentini. Questi interrogarono re Carlo in qual modo dovessero trattarli, ed egli rispose: punirli come traditori, inviando a lui Conticino, ch'era assai giovane. Gli altri tre vennero subito decapitati per ordine del podestà Berardino d'Ariano (8 maggio 1270). Si narra che, avvicinandosi al patibolo, Neracozzo domandasse ad Azzolino: dove andiamo? A che l'altro avrebbe tranquillamente risposto: a pagare un debito che ci lasciarono i nostri padri. Conticino morí nelle prigioni di Capua. Tutto ciò dimostra chiaramente quanto grande fosse divenuta l'autorità di Carlo nella Repubblica. Ma i Fiorentini tolleravano ogni cosa, pur di arrivare col suo aiuto a rendersi temuti in Toscana, ed a rialzare in essa il nome del partito guelfo, nel che si può dire che erano già riusciti. Tutta Toscana era infatti ridotta al partito guelfo; le antiche e le nuove ingiurie erano vendicate. Disfecero adesso anche il castello di Pian di Mezzo in Val d'Arno, e le mura di Poggibonsi.
Nello stesso tempo era però cresciuta la potenza, e s'era resa temibile l'autorità degli Angioini. Carlo, sicuro padrone del reame di Napoli; nominato dai Papi, durante l'interregno, Senatore di Roma e Vicario, non solo in Toscana, ma anche in Romagna, aveva, nel rendere potente il partito guelfo, reso piú potente assai ancora sé stesso. Si vedeva chiaro, che già balenava in lui l'ambizione di farsi signore d'Italia, ed ai Fiorentini cominciava perciò a puzzare quel suo inframmettersi per tutto; quel tenere in ogni Comune i suoi Podestà, che in suo nome e sotto la sua autorità, comandavano e condannavano. E quasi ciò non bastasse, vi doveva essere in Toscana ancora un Maresciallo o Vicario del Re, che insieme cogli altri vessava le città con domande sempre insistenti e minacciose di nuovi danari. Ma piú di tutti s'ingelosiva ora anche la Corte di Roma. I Papi avevan chiamato gli Angioini ad abbassare la potenza degli Svevi, non tanto perché questi erano ghibellini e quegli guelfi; quanto perché gli Svevi avevano avuta quella medesima ambizione, che ora cominciava a nascere anche nell'animo di Carlo. V'erano dunque le stesse ragioni per combatterlo. Niccolò Machiavelli ha piú volte ripetuto, che i papi «temevano sempre colui, la cui potenza era divenuta grande in Italia, ancora che la fosse con i favori della Chiesa esercitata. E perché e' cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e le spesse variazioni, che in questa seguivano, perché la paura di un potente faceva crescere un debole, e cresciuto che gli era, temere, e temuto, cercare di abbassarlo. Questo fece torre il governo di mano a Manfredi e concederlo a Carlo, questo fece poi aver paura di lui, e cercare la rovina sua».[305] Infatti Urbano IV aveva invitato Carlo a prendere il regno di Napoli, Clemente IV lo aveva nominato Vicario, Gregorio X cominciava ora ad avversarlo, ed i suoi successori seguirono l'esempio dato da lui. Cosí nel centro d'Italia venivano ora in gioco tre politiche diverse: quella degli Angioini, che già vagheggiavano il dominio d'Italia; quella dei Fiorentini, che volevano servirsi della potenza di Carlo d'Angiò, per divenire padroni di Toscana; e quella dei Papi, che volevano frenare l'ambizione angioina, e ripigliare il loro antico ascendente in Toscana.
IV
Il primo segno di questa mutazione nella politica papale si vide subito in Firenze, sebbene a Roma si cercasse, con ogni arte, nascondere il vero scopo e le vere cagioni del mutamento, si facesse anzi ogni opera perché nessuna variazione d'animo apparisse. Gregorio X cominciò a mostrarsi dolente, che gli odii tra i Guelfi ed i Ghibellini continuassero a tenere divisa una città cosí ricca e fiorente qual era Firenze. Voleva che tra loro si facesse la pace. Niun desiderio doveva sembrare piú naturale nel capo dei fedeli; ma in Carlo già destava sospetto vedere il Papa nutrire a un tratto questa insolita pietà pei Ghibellini. E piú dovette esserne insospettito, quando vide i Fiorentini accettare assai volentieri le proposte papali. Essi già avevano dato segno di volersi emancipare, chiedendo al Re un Potestà italiano, a forma dei loro Statuti, ed egli l'aveva dovuto, con parole piene di benevolenza, concedere fin dal gennaio 1270.[306] Ora essi afferravano a volo il segreto pensiero di Roma, comprendendo che era tempo di profittarne, secondandolo. E lo facevano tanto piú volentieri, quanto piú volevano non solo mettere un freno alla crescente autorità di Carlo, ma riparare ad un altro danno, che questa supremazia già faceva nascere nella Città. Carlo era circondato sempre dai suoi baroni e soldati, che come stranieri non erano ben veduti: da nobili e cavalieri guelfi di Toscana e d'altre parti d'Italia. In Firenze egli favoriva costantemente la vecchia nobiltà guelfa; ed ogni volta che vi si fermava, creava sempre nuovi cavalieri. Cosí i mercanti guelfi, fatti nobili, s'univano agli altri, e pigliando nome di Grandi, si trovavano subito in opposizione col popolo, e ridestavano tutto l'antico odio della democrazia fiorentina, la quale, come non aveva voluto in passato tollerare la superbia feudale dei Ghibellini, cosí non voleva ora tollerare neppure quella dei vecchi e nuovi Guelfi. Bisognava dunque in ogni modo frenarli, ed a ciò pareva opportuno consiglio richiamare i Ghibellini loro nemici e del Re. Il popolo avrebbe in tal modo ricevuto forza dalla divisione dei nobili, e lasciandoli consumarsi fra loro, avrebbe anche indebolito il numero di coloro che si dimostravano troppo ossequenti a Carlo. Il quale perciò non poteva farsi illusione di sorta sul segreto significato di questi maneggi, e massimamente sulle vere intenzioni del Papa. Egli sapeva che questi sollecitava ora i Tedeschi ad eleggere Rodolfo d'Asburgo a re dei Romani, perché cessasse l'interregno imperiale, e quindi il vicariato di Carlo. Quale altra ragione poteva avere il Papa per desiderare un Imperatore, se non quella d'indebolire la potenza degli Angioini? Pure il Re ed il Papa s'infingevano, e sembravano essere tuttora nel migliore accordo del mondo; ma il vicendevole sospetto traspariva continuamente.
Gregorio X aveva convocato pel 1274 un Concilio in Lione, a fine d'indurre i Cristiani a combattere gl'infedeli; passò, nel suo viaggio, per Firenze, dove arrivò il 18 giugno 1273, e vi si fermò appunto, cosí egli affermava, per farvi la pace generale. Veniva con tutto il seguito dei cardinali e prelati; con l'imperatore di Costantinopoli, Baldovino II, che sollecitava il soccorso dei Cristiani contro gl'infedeli, con re Carlo d'Angiò, che in segno di onore e d'ossequio, diceva di non voler lasciar solo il Papa in Firenze. E questi trovando assai lieta una tale dimora, decideva di passarvi la state. Il 2 di luglio era il giorno fissato per la gran pace tra Guelfi e Ghibellini, ed i sindachi degli uni e degli altri erano in Città. Sul greto dell'Arno, in gran parte asciutto, presso al Ponte alle Grazie, furono costruiti palchi di legno, sui quali salirono a sedere il Papa, l'imperatore Baldovino e Carlo d'Angiò. In presenza d'una gran moltitudine ivi accorsa, fu dato il giuramento di pace; i sindachi si baciarono; il Papa pronunziò la sua benedizione, minacciando la scomunica contro chiunque osasse violare il giuramento. Furono dati ostaggi, ceduti castelli dall'una e dall'altra parte, in pegno della giurata fede. Tutto pareva che fosse seguíto secondo le benevole intenzioni del Santo Padre, il quale aveva preso alloggio nel palazzo dei Mozzi suoi banchieri. Baldovino abitava al Vescovado, e Carlo in alcune case nel giardino de' Frescobaldi. Altro non restava che darsi bel tempo in Firenze, aspettando il ritorno dei Ghibellini per festeggiarli. Ma ad un tratto si seppe, che i sindachi dei Ghibellini, invece di eseguire le ultime clausole della pace, s'erano dati a precipitosa fuga. E la ragione di ciò si disse essere stata, che il vicario di Carlo aveva fatto loro intendere, che se non partivano subito, egli li avrebbe, a richiesta dei Grandi guelfi, fatti tagliare a pezzi. Il Papa allora se ne partí senz'altro pel Mugello, assai adirato, non solo contro il Re, ma piú ancora contro i Fiorentini, che si dimostravano indifferenti a tutta questa commedia, e lasciò la Città interdetta pel giuramento violato.
Carlo intanto proseguiva la sua politica aggressiva contro i Ghibellini, e i Fiorentini lo secondavano, andando con la bandiera del Comune, qualche volta soli, piú spesso in compagnia dei cavalieri francesi, ad imporre la pace ed il trionfo della Parte in tutte le vicine città. Ma qualche volta spinsero la loro superbia troppo oltre. I Bolognesi avevano cacciato i Ghibellini, ed essi, non richiesti, si misero subito in moto per portar loro aiuto. Ma con grande maraviglia, quando furono sul fiume Reno, trovarono i Bolognesi che li aspettavano pronti a respingerli. Avevano voluto e saputo, colle proprie armi, cacciare i Ghibellini; ma non volevano che Firenze, sotto colore di portare aiuti, venisse colla sua alterigia a seminare anche fra di loro gli odî delle sue parti. Il Podestà dei Fiorentini, che voleva andar oltre, venne ucciso, ed essi dovettero, umiliati, tornarsene a casa (1274).
Piú fortunati furono contro Pisa, che, lacerata dalle sue fazioni, aveva cacciato Giovanni Visconti giudice di Gallura ed il conte Ugolino della Gherardesca di Donoratico, nobili ambiziosi, i quali da parte ghibellina erano passati a parte guelfa, e chiesero aiuto ai Fiorentini, che subito li concessero. E allora andarono tutti, insieme coi Francesi, a muover guerra all'antica rivale, cui nel settembre del 1275 presero il castello d'Asciano. Nel giugno del seguente anno, istigati dai medesimi fuorusciti, tornarono in campo, con piú grosso esercito, aiutati dai Lucchesi e da altri Guelfi, insieme col Maresciallo del Re, e dopo una nuova vittoria obbligarono Pisa a fare la pace il 13 giugno del 1276, a richiamare gli esuli, specialmente il conte Ugolino, la cui ambizione doveva poi portare a sé stesso ed alla sua città guai infiniti.
Intanto papa Gregorio, tornato da Lione, era giunto in Toscana nel dicembre del 1275, e non voleva entrare in Firenze, contro cui si dimostrava sempre irritatissimo; ma l'Arno era cosí grosso, che dovette pure traversarlo sopra uno dei ponti della Città, e sospese perciò l'interdetto su di essa, ma solo durante il tempo del suo passaggio. Egli moriva poco dopo, il 10 gennaio 1276, ed in un solo anno gli succedevano rapidamente tre nuovi papi: Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI; e finalmente veniva eletto (25 nov. 1277) Niccolò III, che restò sulla sedia pontificale tre anni, nei quali riprese con piú ardore che mai la politica di Gregorio X. Ambizioso e superbo, esso voleva sollevare non solo l'autorità pontificia, ma anche il nome della sua famiglia. Fu egli che ricominciò lo scandalo del nepotismo e della simonia, facendo cardinali alcuni de' suoi parenti, ad altri dando ufficî assai importanti. Ma quando pensò di dare una sua nipote in moglie ad un nipote del re Carlo, questi ne ferí mortalmente l'orgoglio, dicendo: — Che sebbene il Papa avesse il calzamento rosso, non per ciò il suo sangue s'era nobilitato abbastanza, per potersi mescolare con quello dei reali di Francia.[307] — E Niccolò III, che già era insospettito e scontento del Re, non poté facilmente perdonar questa ingiuria. Valendosi quindi della prima opportunità, fece osservare a Carlo, che se Rodolfo di Asburgo non era ancora venuto a Roma per farsi coronare imperatore, era pure stato eletto in Germania Re de' Romani, il che rendeva inutile e vana la continuazione del vicariato, a lui concesso solo durante l'interregno. E cosí Carlo dovette finalmente lasciare il vicariato di Toscana, il titolo di Senatore di Roma, ed anche la giurisdizione sulle terre di Romagna e delle Marche, la quale in parte aveva ottenuta, in parte usurpata. Vedendo che a questo colpo non v'era rimedio possibile, il Re cedette subito, senza pure far mostra del piú piccolo risentimento, tanto che il Papa ebbe ad esclamare: — Questo principe avrà ereditato la sua fortuna dalla casa di Francia, la sua astuzia dalla Spagna; ma la sua accortezza nel discorrere deve averla imparata frequentando la Corte di Roma.[308] — Pure non si lasciava punto illudere da questa apparente tranquillità di Carlo, e profittava d'ogni occasione che potesse scemarne la potenza, accrescendo quella della Santa Sede. Cosí quando Giovanni da Procida percorreva l'Italia, cercando fautori alla rivoluzione siciliana, che doveva piú tardi scoppiare, trovò incoraggiamento nel Papa. Profittando poi della occasione opportuna, questi che tanto favoriva Rodolfo, ottenne da lui, che riconoscesse l'estensione del dominio della Chiesa sino ai confini del regno di Napoli da un lato, e dall'altro v'includesse la Marca d'Ancona, la Romagna e la Pentapoli. Erano presso a poco i medesimi confini, che lo Stato della Chiesa ritenne sino ai nostri giorni. In parte, è vero, i Papi non ebbero allora che un alto dominio piú che altro nominale; ma seppero, a poco a poco e con molta costanza, trasformarlo poi in dominio effettivo.
V
Niccolò III infatti cominciava col mandare a pacificar la Romagna, suo nipote il cardinale Latino dei Frangipani, domenicano, che aveva reputazione di grande oratore, perché in questo modo si cominciasse a far sentire la nuova autorità della Chiesa, e con lui mandò anche il conte Bertoldo Orsini. Dopo una breve dimora colà, il Cardinale fu inviato a Firenze, per tentare una seconda volta e con migliore successo, quella pace fra i partiti, che Gregorio X non era riuscito a concludere. Questa volta i Fiorentini stessi ne avevano mostrato vivo desiderio. Liberati dalla troppo grave protezione di Carlo, sentivano ora le tristi conseguenze della sua politica. I Grandi, sempre irrequieti, erano cresciuti di numero e di potenza, e minacciavano di dividere lo stesso partito guelfo. «Riposati», dice il Villani, «dalle guerre di fuori con vittorie e onori, e ingrassati sopra i beni de' Ghibellini usciti, e per altri loro procacci, per superbia e invidia cominciarono a riottare tra loro; onde nacquero in Firenze piú brighe e nimistadi tra' cittadini, mortali e di ferite».[309] Avevano cominciato gli Adimari, per odio contro i Tosinghi, poi i Pazzi e i Donati, a far nascere subbuglio; e si vedeva che questo era un principio di mali maggiori. Fu perciò che i Guelfi inviarono messi a pregare il Papa, che mandasse a pacificare la Città, se non voleva vedere lacerata la stessa parte guelfa. Uguale desiderio dimostravano i Ghibellini, stanchi del lungo esilio, delle confische continue, e per la speranza avevano, che l'odio popolare, essendosi ormai acceso anche contro i Grandi guelfi, potesse essere divenuto piú mite contro di loro.[310]
Il cardinale Latino adunque entrò in Firenze il dí 8 ottobre 1279, con 300 fra cavalieri e prelati, e fu accolto con ogni specie di onori. Gli venne incontro il clero fiorentino, e la Repubblica mandò anche il carroccio con gran numero d'armeggiatori. Egli, come domenicano, prese alloggio nel convento di S. M. Novella, dove pose la prima pietra per la fondazione della celebre chiesa di quel nome. E incominciò subito le pratiche per la pace. Il 19 novembre furono costruiti alcuni palchi sulla piazza di S. M. Novella Vecchia, e fatto in essa, presenti i magistrati ed i Consigli, radunare il Parlamento, il Cardinale chiese ed ottenne di poter concludere la pace con l'autorità stessa che aveva il popolo, il che voleva dire facoltà di por taglie, fare confische, occupare castelli, per sicurtà dei patti che sarebbero stati giurati. Incominciò poi a tentare accordi fra quelli che piú s'odiavano, tra quei Guelfi che eran fra loro divisi, tra i Ghibellini, tra Guelfi e Ghibellini. E la cosa riuscí fino a che non si venne ai Buondelmonti ed agli Uberti, tra i quali i vecchi odî erano cosí profondi, che non vi fu modo a conciliarli, essendosi alcuni di loro sdegnosamente ricusati. Laonde il Cardinale dovette risolversi a scomunicare ed a far bandire dal Comune i piú renitenti. Finalmente il 18 gennaio 1280 fu stabilito di concludere la pace generale. Nella piazza di S. Maria Novella Vecchia era grande apparecchio di palchi, di arazzi, di teli che ricoprivano la piazza stessa. Vennero i Dodici, il Podestà, il Capitano del popolo, che allora chiamavasi della Massa di parte guelfa, coi loro Consigli; vennero tutti gli altri magistrati e grandissimo popolo. Il Cardinale comparve finalmente in mezzo ai suoi prelati, da tutti aspettato, anche perché doveva parlare, ed aveva voce d'essere uno dei piú eloquenti oratori del suo tempo. Parlò sulla utilità e necessità della pace, che finalmente fu letta. Con essa si poneva fine a tutti gli odî antichi; si ordinava che fossero resi ai Ghibellini i beni confiscati, capitale e parte anche degl'interessi; che si cancellassero le sentenze, i giuramenti, le leghe o consorterie fatte da una parte a danno dell'altra, levando dagli Statuti tutto ciò che poteva alimentare questi odî. Richiese 50 mallevadori da ciascuna delle parti, con obbligo di pagare 50,000 marchi d'argento, quando la pace fosse violata. Volle alcuni castelli per maggiore sicurezza, e si riserbò di chiedere anche altri mallevadori. Seguiva un numero assai grande di minute condizioni tutte intese allo stesso fine. Molte delle principali famiglie restavano confinate fino a che non avessero fatta pace coi loro avversarî, e data, con danaro e con ostaggi, sicurtà di mantenerla. I sindachi delle parti si baciarono in bocca, gli atti dell'accordo furono solennemente rogati, e i bandi e le condanne delle parti furono cancellati o arsi. Gli esuli poterono tornare; il Capitano e le Capitudini ebbero, senza pregiudizio del Podestà, l'incarico di mantenere inalterate le condizioni della pace. E per questa ragione il Capitano non doveva piú d'ora innanzi essere chiamato Capitano della parte guelfa, ma della Città, e Conservatore della pace. Essendo poi cessato l'ufficio di Vicario imperiale concesso a Carlo, veniva ordinato del pari, che d'ora innanzi Podestà e Capitano sarebbero per due anni eletti dal Papa, e avrebbero ciascuno a loro comando 50 uomini a cavallo e 50 a piedi. Dopo due anni, l'elezione tornerebbe al popolo, con l'obbligo di non nominare alcuno contrario a Santa Chiesa, la quale doveva anzi approvare la scelta. Avrebbero ciascuno a loro comando 100 uomini a cavallo e 100 a piedi, che non dovevano essere né della Città né del distretto, per potere cosí meglio riuscire a mantener la pace. A questo fine dovevano contribuir pure le Arti, che anch'esse giurarono. Si dovevano rivedere gli Statuti, riformare il governo della Città, fare un estimo dei beni di coloro i quali erano condannati a multe o a risarcimenti di danni.[311]
Da tutto ciò parrebbe, che al Cardinale fosse stata concessa quasi una dittatura temporanea di fare e disfare a suo arbitrio. Ma molte di queste condizioni di accordi egli le propose dopo aver consultato i magistrati, e di molte altre i Fiorentini tennero poi il conto che vollero. La pace si desiderava dal popolo, per le ragioni che abbiamo accennate, e si dette piena balía al Cardinale, perché, con l'autorità sua e della Chiesa, la conducesse a termine. Ma egli ottenne in realtà meno assai che non parrebbe. Continuò infatti la costituzione della Parte guelfa; continuarono le divisioni a lacerare la Città, appena che il 24 d'aprile egli fu partito, non senza aver prima ricevuto Mille floreni auri in pecunia numerata, et alie zoie empte pro Comuni Florentie.[312]
Tuttavia nel febbraio e nei primi di marzo, egli, contento assai del buon successo che si lusingava d'avere ottenuto, attese a concludere molte amicizie anche fra quelli che erano rimasti confinati; cercò d'attuare le riforme della costituzione, accennate nella pace, e principalmente sostituí ai Dodici, Quattordici Buoni uomini, otto dei quali dovevano esser Guelfi e sei Ghibellini. Essi, che insieme col Capitano e coi Consigli, ebbero il governo della Città, mutavano ogni due mesi. Continuarono però a durare un anno l'ufficio del Podestà e del Capitano. L'autorità del primo era stata, sotto il dominio di re Carlo, che lo nominava, diminuita assai; e però si cercava adesso accrescere quella del Capitano e dei Dodici, che divenuti ora Quattordici, formavano la Signoria vera e propria.[313]
Su questa mutazione della Signoria ogni due mesi, che continua sino agli ultimi tempi, si è molto ragionato in senso diverso. Certo la Repubblica non poteva aver pace in un cosí rapido alternarsi del supremo magistrato; ma noi abbiamo già piú volte osservato, che la nuova costituzione delle Arti aveva ridotto a ben poca cosa le attribuzioni del governo centrale. E da un altro lato, la tendenza, che sembrava manifesta in tutte le repubbliche italiane, di cadere nella tirannide, rendeva i Fiorentini sospetti d'una Signoria che durasse piú lungo tempo. Specialmente ora che tornavano i Ghibellini, si temeva che essa fosse spinta a cospirare per sostenere l'ambizione di qualche tiranno, che da un momento all'altro poteva sorgere. Furon queste le ragioni per le quali si volle da un lato scemare l'importanza del Podestà, e da un altro mutare cosí spesso non solo i capi del governo, ma, come vedremo, anche altri ufficî politici; e piú tardi si ricorse alla elezione a sorte, sempre per evitare che in nessun caso riuscisse possibile l'attuazione di un disegno prestabilito a danno della libertà.[314]
VI
Intanto il Re dei Romani mandava in Italia un suo Vicario con soli 300 uomini, per vedere in quali disposizioni fosse il paese, e se le città riconoscevano ancora la loro soggezione all'Impero. Il Vicario, arrivato in Toscana, si fermò a S. Miniato al Tedesco, e trovò i Pisani, sempre ghibellini, pronti a fare subito atto d'obbedienza; ma le altre città toscane ricusarono; i Fiorentini, per mezzo di danaro, lo corruppero, e mostrandogli l'inutilità della sua impresa, lo persuasero d'andarsene, riconoscendo i privilegi che essi avevano ottenuti dal Papa. In questo modo, la mutata politica di Roma riusciva a loro vantaggio, di che seppero abilmente profittare, e a danno di Carlo d'Angiò, che perdette ogni autorità nell'Italia centrale. Niccolò III, rievocando l'Impero, incoraggiando Rodolfo di Asburgo, e mettendolo di fronte a Carlo, aveva saputo indebolire l'uno e l'altro, accrescendo forza al papato. E i Fiorentini, con non minore accortezza, s'erano valsi di Carlo per dominare la Toscana; del Papa per indebolire Carlo; e finalmente dell'uno e dell'altro, per non sottomettersi a Rodolfo.
Niccolò III moriva nel 1280. Egli aveva costretto Carlo a lasciare la Toscana, a contentarsi di ricevere l'investitura della Provenza e del Reame da Rodolfo. E perché questi accordi ricevessero una qualche sanzione, s'era anche stretto un parentado, avendo Rodolfo dato la propria figlia in moglie ad un nipote di Carlo. Ma questi, come era naturale, assai di mal'animo accettava tutto ciò, anzi non tralasciava mai di sobillare in segreto i Guelfi di Toscana contro i Ghibellini, che ora alzavano la testa. E conoscendo già per lunga esperienza che grande differenza vi fosse tra l'avere amici o nemici i Papi, corse ad Orvieto, dove s'era adunato il nuovo Conclave, deciso a far di tutto per avere una elezione a lui favorevole. Secondo il suo solito, egli operò senza scrupoli e senza esitare. Visto che i cardinali temporeggiavano, né avendo tempo da perdere, promosse una rivoluzione, per la quale il popolo s'impadroní di due cardinali di casa Orsini, parenti del Papa defunto ed avversissimi agli Angioini. Dopo di che, l'elezione ebbe luogo, ed il 22 febbraio 1281 fu proclamato papa Martino IV, il quale, francese e di re Carlo amicissimo, si dette subito a favorirne la politica ed a sostenere i Guelfi.
Ma le condizioni generali dell'Italia erano assai mutate, e però il trionfo ottenuto da Carlo a Viterbo, non valse ad impedire che le conseguenze già preparate dalle sue crudeltà nel Reame e dalla politica di Niccolò III, avessero il loro effetto. L'accordo concluso da questo con Rodolfo fu continuato anche dal nuovo Papa, che raccomandò alle città italiane di fare buona accoglienza alla figlia di lui, la quale veniva sposa al nipote del Re. Ed anche Firenze dovette accoglierla con onore, sebbene fosse accompagnata da un Vicario imperiale, che al solito si fermava a S. Miniato, per cercare di far rivivere in Toscana i diritti dell'Impero. Ma un mutamento assai piú grave avvenne quando nel marzo 1282, i Siciliani, stanchi della mala signoria, raccolsero il guanto gettato al popolo da Corradino, e coi Vespri cominciarono quella sanguinosa rivoluzione, che, dopo una lunga e gloriosa guerra, doveva per sempre togliere l'Isola agli Angioini. I Fiorentini, per tenersi fedeli al partito guelfo, e non irritar troppo né il Papa né Carlo, mandarono a questo 500 cavalieri, i quali, sotto il comando del conte Guido di Battifolle de' conti Guidi, con la bandiera del Comune, andarono all'assedio di Messina. Ma la rivoluzione superò tutto, ed essi vennero come gli altri battuti, lasciando anche la bandiera in mano del nemico. L'Isola fu inevitabilmente perduta dai Francesi.
Era assai naturale che i Fiorentini, prima ancora che scoppiasse la rivoluzione dei Vespri, avessero aperto gli occhi, e pensato ai casi loro. Vedendo che il Vicario imperiale era venuto con poca gente, e non trovava gran seguito, cercarono subito contentarlo con danari, ed ottennero che, riconosciute le antiche concessioni fatte loro, se ne partisse. Nello stesso tempo, profittando della debolezza di Rodolfo, combattuto in casa sua, e della lontananza di Carlo, già nel Reame turbato dal pensiero dei gravi avvenimenti che s'apparecchiavano in Sicilia, posero mano a riformare la loro costituzione. E prima di tutto, ora che il Podestà ed il Capitano erano eletti non piú dal Re, ma dal Papa, vollero accrescerne la forza, per mantenere la Città tranquilla, mettendo un freno alle prepotenze dei Ghibellini, ed all'arbitrio dei Grandi, che ogni giorno divenivano piú minacciosi. Questi ultimi specialmente facevano colla violenza cancellare i bandi dei magistrati, impedivano l'esecuzione delle leggi, commettevano o promovevano gli omicidi per vendette partigiane, e tenevano perciò la Città continuamente perplessa. Quindi s'ordinò che il Podestà avesse mano piú libera a procedere severamente contro tutti i delitti, e che il Capitano avesse maggior forza a mantenere la pace, a punire coloro contro i quali il Podestà non usasse subito il dovuto rigore. E i Grandi dovettero dare non solo promessa di sottostare alle leggi, ma anche sicuri mallevadori, affinché se, commesso il delitto, riuscissero ad evadere, vi fosse sempre in Città chi scontasse la pena, o pagasse la somma, cui veniva condannato colui pel quale s'era dato mallevaria o sodato, come allora dicevasi. Tutti i vagabondi e gli oziosi furono cacciati dal territorio della Repubblica, e coloro che avevano dimostrato odio contro qualche privato cittadino, dovettero far promessa di rinunziare alla vendetta, dandone anch'essi mallevaria. E perché a tutti questi ordini si desse esecuzione, furono scelti dalla cittadinanza mille uomini armati, 200 del Sesto di S. Piero Scheraggio, 200 di quello di Borgo, e 150 dagli altri, che, divisi in compagnie, con un gonfalone per Sesto, furono messi, 450 sotto gli ordini del Podestà, e 550 sotto quelli del Capitano. Le insegne eran loro date da quei due magistrati in presenza di pubblico Parlamento, e quando la campana sonava per raccoglierli, non era permesso tenere radunanze in Città.[315]
Questa riforma parve necessaria anche perché, durante la signoria di Carlo, era andato in disuso l'ordinamento del popolo armato sotto i Gonfalonieri delle Compagnie, e la tranquillità cittadina si era mantenuta con l'aiuto dei soldati stranieri, per la qual cosa anche il Capitano aveva perduto una parte di quella importanza, che gli veniva ora restituita. Ma oltre di ciò noi troviamo che i Quattordici governavano senza adunare il Consiglio dei Cento, il quale nei documenti sembra infatti scomparso. Da ciò e anche dal trovarsi essi fra loro divisi, perché otto dovevano esser guelfi e sei ghibellini, ne venne che la loro autorità, invece di crescere, s'andava indebolendo. Si pensò quindi ad un'altra riforma, quando la notizia dello scoppio dei Vespri lasciava ai Fiorentini le mani piú libere. Tre cose essi avevano sopra tutto di mira. Rendere la Repubblica indipendente dal Papa, dall'Imperatore e da Carlo; farla finita coi Ghibellini, perché nobili e aderenti sempre all'Impero, che riaffacciava le sue pretese in Toscana; abbassare la superbia dei Grandi, guelfi o ghibellini che fossero, perché colle loro prepotenze turbavano di continuo la Città. Ed anche per questa ragione si era finito col non piú osservare neppure i patti della pace del cardinale Latino; specialmente non si erano pagate le somme promesse ai danneggiati ghibellini. Inoltre il di 8 febbraio 1282 si strinse una lega guelfa con Lucca, Pistoia, Prato, Volterra, e Siena, che dovette per forza aderirvi; e si lasciò luogo d'entrarvi anche a S. Gimignano, Colle e Poggibonsi. Si giurò di restare per 10 anni uniti a difesa comune, con obbligo di prendere a soldo 600 cavalieri col loro seguito, e s'aggiunse al solito una specie d'unione doganale fra gli alleati.
Ma ciò che per Firenze ebbe piú grande importanza fu la riforma interna. Le Arti, massime alcune delle maggiori, andavano acquistando un ordinamento sempre piú vigoroso, e con esso aumentava il loro potere politico. Le Capitudini infatti compariscono nei documenti sempre piú spesso, accanto ai Quattordici, al Capitano, al Podestà. Ed ora appunto (1282-3) noi troviamo anche un Defensor Artificum et Artium con due Consigli, il che dimostra di certo la cresciuta potenza di queste.[316] Esso, è vero, piú tardi scomparisce e si fonde col Capitano; ma ciò avvenne dopo che le Arti stesse salirono addirittura al governo della Repubblica. Intanto già partecipavano alla elezione dei Quattordici, e li consigliavano. I cronisti ci dicono che, con una riforma del giugno 1282, i Priori delle Arti, pigliando il luogo dei Quattordici, salirono finalmente al Governo; ma in verità ciò non avvenne ad un tratto, come apparirebbe dalle loro parole. Noi troviamo invece, che per qualche tempo, i Quattordici (come seguiva sempre nelle riforme fiorentine) continuarono a governare insieme coi nuovi Priori, sino a che, dinanzi all'importanza crescente di questi, finalmente scomparvero. Certo è che il 15 giugno del 1282 furono messi a capo della Repubblica tre Priori delle Arti, uno dell'Arte di Calimala, il secondo dei Cambiatori, il terzo della Lana. Ebbero sei berrovieri e sei messi, per chiamare i cittadini a Consiglio; abitavano nella casa della Badia, donde non uscivano mai, e deliberavano di regola insieme col Capitano. I Quattordici continuarono ancora qualche tempo, piú che altro pro forma, a comparire accanto ad essi.[317] Passati i primi due mesi, si vide la necessità d'aumentare il numero dei Priori, non solo perché quello di tre appariva troppo ristretto; ma ancora perché, dovendo essere scelti ora in una metà, ora in un'altra dei sei sestieri, pareva che il loro governo rappresentasse sempre una parte sola dei cittadini. E cosí nell'agosto di quell'anno, senza metter tempo in mezzo, alle tre Arti già menzionate furono aggiunte quelle dei Medici e Speziali, dei Setaioli e Merciai, dei Vaiai e Pellicciai. Piú tardi ve ne furono aggiunte anche altre, ma il numero dei Priori restò fermo a sei, uno per Sesto. «Le loro leggi... (dice il Compagni) furono, che avessino a guardare l'avere del Comune, e che le Signorie facessino ragione a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fossino oppressati dai grandi e potenti».[318] Quelli che uscivano d'ufficio, insieme con le Capitudini e con alcuni cittadini aggiunti, cui si dava nome d' Arroti, eleggevano ogni due mesi i successori.
Il Villani afferma che il nome di Priori fu preso dal Vangelo, là dove Cristo dice ai discepoli: Vos estis priores. Certo è però che con questa riforma le Arti o sia il commercio e l'industria salirono addirittura al governo della Repubblica; ed è pur notevole che, sebbene quelle che abbiamo qui sopra nominate, costituissero, insieme con i giuristi e notai, le sette Arti maggiori, pure di questi, forse perché non rappresentavano né l'industria né il commercio, non si fa qui dai Cronisti menzione alcuna. Certo d'ora in poi la Repubblica è proprio una repubblica di mercanti, e solo chi è ascritto alle Arti può governarla: ogni grado di nobiltà antica o nuova è piú un danno che un privilegio.
Infatti molte delle piú grandi famiglie cominciarono a mutare i loro nomi, per nascondere l'antica e nobile origine. I Tornaquinci si divisero in Popoleschi, Tornabuoni, Giachinotti, ecc.; i Cavalcanti in Malatesti e Ciampoli; altri presero altri nomi.[319] Ciò nonostante, molti ritennero con orgoglio i nomi e i titoli antichi, e quando il principe di Salerno, figlio di re Carlo, chiamato a Napoli dalla Provenza, passò per Firenze, egli, imitando l'uso paterno, vi si fermò per crear nuovi cavalieri. Cosí cercavasi, con mezzi artificiali e vani, perché contrarî affatto all'indole della costituzione e della società fiorentina, di ridonar forza a quella aristocrazia, che il cammino naturale delle cose distruggeva continuamente. Liberi ormai dal Papa e dall'Imperatore, liberi dalla uggiosa protezione di re Carlo, tutto occupato nelle faccende della Sicilia, i Fiorentini avevano ordinata a lor modo la costituzione, dando la Repubblica in mano delle Arti maggiori; avevano ottenuto in Toscana un grande predominio, di cui seppero giovarsi mirabilmente per aumentare il loro commercio. A questo infatti giovò moltissimo la lega politico-commerciale, conclusa nel marzo dell'82, cui abbiamo piú sopra accennato, come aveva giovato la sottomissione delle terre o città vicine.
Restavano però sempre nemiche Arezzo e Pisa, ambedue ghibelline. La prima minacciava nella valle superiore dell'Arno; la seconda, ricca, potente, signora del mare, minacciava nella valle inferiore, e teneva in mano la chiave del commercio marittimo dei Fiorentini, trovandosi nella via che mena a Livorno ed a Porto Pisano. Bisognava quindi che Firenze prima o poi pensasse, con le forze riunite de' suoi amici, con nuove alleanze, a liberarsi da questi nemici, soprattutto dal secondo, che, chiudendole il mare, divenuto ora piú che mai necessario al suo commercio, poteva render vani tutti i trionfi già ottenuti.
Intanto vi furono due anni tranquilli, nei quali i Fiorentini poterono godersi i benefizî della pace. Vennero accolti in Città, con pompa ed onore, il principe di Salerno figlio di re Carlo, ed altri della casa reale. Nel marzo del 1283 venne il Re stesso, che andava in Francia, per battersi in singolar tenzone a Bordeaux con Pietro d'Aragona, il quale dal popolo di Sicilia era stato proclamato signore dell'Isola. Con questo duello, di cui fu molto parlato, ma che non ebbe poi luogo, doveva finir la guerra che desolava l'Italia meridionale. Ed anche ora il Re, sebbene dovesse aver l'animo turbato da molti e gravi pensieri, sebbene ricevesse in Firenze una clamorosa accoglienza, pure, non curando punto la noia che dava al popolo, volle creare altri cavalieri. Tuttavia, partito che fu, le feste continuarono con piú ardore che mai. In occasione del giorno di S. Giovanni, sempre solennemente celebrato in Firenze, si formò una compagnia di mille giovani, i quali, vestiti di bianco, avendo alla testa uno di loro che rappresentava l'Amore,[320] si dettero a giuochi e sollazzi d'ogni sorta, con balli di dame, cavalieri e popolani nelle vie e nelle case. Questa specie di corte d'amore era una imitazione dei costumi francesi, che s'erano cogli Angioini introdotti in Firenze. Ora vi si numeravano 300 cavalieri di corredo, creati in massima parte, secondo l'usanza francese, dal re Carlo. Essi imbandivano tavole con donzelli, cortigiani e buffoni, che venivano da molte parti d'Italia e di Francia. Ma tutto ciò era uno sforzo vano, per introdurre nella Città costumi contrarî alle sue tradizioni; un desiderio puerile di far credere all'esistenza d'una nuova aristocrazia. Il basso popolo godeva di questi passatempi; ma la cittadinanza piú operosa, che teneva il governo e costituiva la forza della Repubblica, li disapprovava altamente, e s'accorgeva che, dopo tante guerre fatte ai nobili, v'era pur sempre da combattere ancora, per distruggerne gli ultimi avanzi. E v'era anche da combattere in tutta Toscana il partito imperiale, che dopo i Vespri pareva volesse alzare la testa. Il 26 febbraio 1285, Corso Donati aveva perciò esclamato in una delle Consulte, che tutte le terre, le quali erano de Imperio, e confinavano col territorio fiorentino, dovevano essere sottoposte ad iurisdictionem Comunis Florentiae.[321] Ed a questo fine si fecero nuovi accordi con le città guelfe.[322] Innanzi tutto era però urgente il pensare a domare la potenza e l'orgoglio di Pisa, sempre ghibellina, contro cui s'era sempre dovuto, e si doveva ora combattere di nuovo. Ma per venirne veramente a capo, quando non si poteva né si voleva fidare piú negli aiuti di re Carlo, tutte le forze unite della Repubblica e de' suoi alleati non erano sufficienti. Bisognava, coll'ingegno o coll'accortezza politica, saperle moltiplicare; ed in questa occasione si vide di che cosa i Fiorentini erano capaci.
VII
La città di Pisa, sebbene traesse tutta la sua forza e la sua potenza dal commercio marittimo, pure, sia per essere stata sempre imperiale, sia perché tale pareva che fosse in Italia il destino delle repubbliche marittime, si trovava dominata da una potente aristocrazia, al pari di Genova e di Venezia. I Fiorentini avevano, da lungo tempo e con molta prudenza, cercato d'esercitare fra i nobili pisani la loro azione per poterli dividere. Giovanni Visconti, chiamato giudice di Gallura, pel ricco e potente ufficio da lui già tenuto in Sardegna, dove aveva governato alcune province in nome della repubblica pisana, ne era stato poi esiliato nel 1274 come guelfo, e s'era quindi unito col vicario di re Carlo e colla Taglia dei Guelfi contro la sua patria. Egli morí nell'anno seguente; ma allora uno dei piú potenti e ambiziosi uomini di Pisa, il conte Ugolino della Gherardesca, che aspirava alla tirannide, fu, insieme con altri Guelfi assai possenti, esiliato (1275). Ed essi, non solamente s'allearono co' Fiorentini, ma, insieme con la Taglia, combatterono contro i Pisani, occuparono Vico Pisano ed altri castelli. Nel settembre del medesimo anno, tornarono all'assalto coi Fiorentini, coi Lucchesi, col vicario di re Carlo, ed a tre miglia della loro città sconfissero i proprî concittadini, pigliando il castello d'Asciano, che restò ai Lucchesi. Nel 1276 i Fiorentini ed i Lucchesi ripigliarono la guerra, istigati sempre dal conte Ugolino e da' suoi amici. Questa volta, come abbiamo già accennato piú sopra, s'incontrarono da una parte e dall'altra due poderosi eserciti, fra Pisa e Pontedera, presso quello che chiamavasi Fosso Arnonico, un canale fatto già dai Pisani colle acque dell'Arno, per difendere con esso il territorio della loro repubblica. La disfatta che questi subirono fu ora anche maggiore, e bisognò accettar dai Fiorentini le condizioni della pace, fra cui la prima e piú dura fu, che dovessero rimettere in città gli esuli guelfi, specialmente l'ambizioso e già molto odiato conte Ugolino.
Gregorio X era assai scontento della guerra, proseguita con tanto ardore, con tanta ostinazione d'animo, perché egli vedeva nel ghibellinismo pisano un argine contro la crescente potenza de' Fiorentini, i quali eran guelfi, ma facevano ogni opera per rendersi affatto indipendenti dal Papa. Avendo loro imposto di posare le armi, e vedendo che invece continuavano a combattere, scomunicò la Città, la quale, scusandosi alla meglio, non tenne di ciò alcun conto fino al 1276, quando si concluse una pace, che fu però assai breve, e già si meditavano nuovi assalti.
La repubblica di Pisa restò allora tranquilla qualche anno, ed il suo commercio era cosí vasto, le sue colonie cosí estese, che le finanze in brevissimo tempo ritornarono assai floride. Se non che, queste medesime ricchezze avevano colà reso alcune famiglie tanto potenti, che, non soddisfatte piú d'una eguaglianza repubblicana, volevano primeggiare nell'interno, e dirigere la politica estera, non già secondo l'interesse dello Stato, ma secondo le loro ambizioni personali. Il giudice di Gallura ed il giudice d'Arborea, i conti Ugolino, Fazio, Neri e Anselmo della Gherardesca tenevano ognuno una piccola corte con uomini armati, quasi fossero altrettanti principi. Occupati nelle loro gare ambiziose, distraevano l'attenzione dei magistrati dai pericoli che, ogni giorno piú da vicino e piú gravi, minacciavano la loro repubblica. Infatti non era solo la Lega guelfa, che con una guerra continua esauriva sempre piú le forze dei Pisani; ma da qualche tempo l'eterna rivalità di Genova minacciava una guerra ben piú sterminatrice. Queste due città marittime, ambedue ghibelline, avrebbero avuto ogni ragione d'essere unite, per difendersi dal predominio assai maggiore, che aveva sui mari quella di Venezia. Ma sembrava che tutto ciò le rendesse invece piú gelose l'una dell'altra. Le loro navi venivano continuamente alle prese sui mari di Oriente. Un fiero scontro ebbe luogo nel 1277 presso Costantinopoli e nel mar Nero. Cominciato dai Pisani, era finito con loro danno, ed aveva lasciato in essi un grande desiderio di vendetta. Né le occasioni mancavano. Mentre che i Veneziani dominavano quali padroni assoluti nell'Adriatico, i Genovesi ed i Pisani, che erano a poca distanza sul Mediterraneo, s'incontravano ogni giorno, perché facevano i medesimi commerci, e possedevano terre nelle medesime isole di Corsica e di Sardegna. Tutto ciò era cagione di continue discordie. Inoltre la Lega guelfa, diretta specialmente contro i Pisani, dava a Genova occasioni continue d'iniziare la guerra, alla quale i Fiorentini l'istigavano con tutte le arti della loro politica. Tale e tanto era poi l'odio fra loro, che furono i Pisani stessi quelli che primi si lasciarono indurre a provocarla. Li moveva un'ardente brama di tornare alle armi, sempre riaccesa dalle ambizioni dei nobili, che speravano cosí di farsi strada al potere, ed erano anch'essi stimolati, incoraggiati da Firenze.
Comandava in Corsica un tale Sinucello, che aveva titolo di Giudice di Cinarca. Costui, allevato in Pisa, era stato da essa aiutato a riprendere ed accrescere nell'isola i possessi della sua famiglia. Dominando come protetto e dipendente da Pisa, s'era poi sottomesso invece con giuramento di fedeltà, a Genova, che teneva un'altra parte dell'isola. E piú tardi, commettendo ogni sorta di crudeltà e di prepotenze, era tornato nemico dei Genovesi, le cui città nell'isola aveva devastate. Rifuggitosi a Pisa, questa se ne dichiarava protettrice come di suo antico vassallo, senza fare alcun conto né dei posteriori trattati, con cui esso aveva giurato fedeltà a Genova, né delle crudeltà commesse. Voleva rimetterlo colla forza in Corsica, ma i Genovesi volevano invece tenerlo lontano, e fu questa un'occasione alla guerra. Egli venne ricondotto nell'isola con 120 cavalli e 200 fanti, coi quali riprese le sue terre; e da quel momento (1282) le navi genovesi e pisane s'andarono cercando sul Mediterraneo, per combattersi. Ed infatti dalla fine dell'anno 1282 all'agosto del 1283 fu una serie continua di sanguinose scaramucce, che piú d'una volta presero le proporzioni di vera battaglia navale, quasi sempre colla peggio dei Pisani, i quali però ripigliavano subito forza, e s'apparecchiavano a nuove lotte. Una volta ebbero metà delle navi distrutte dalla tempesta, e, ciò nonostante, poco di poi (1284) ventiquattro delle loro galee scortarono il conte Fazio, che andava in Sardegna, dove essi avevano coi Genovesi continua cagione di guerra. Infatti il dí 1 maggio incontrarono l'armata genovese, e cominciò la battaglia, che durò tutto il giorno con grande ostinazione; ma finalmente i Pisani lasciarono 13 galere in mano del nemico, con moltissimi prigionieri. Eppure fu in quello stesso anno, che ebbe luogo fra le due repubbliche un'altra battaglia navale, che è fra le piú memorabili nelle storie del Medio Evo.
Genova, che aveva dovuto pagar care le sue vittorie, faceva costruire ed armare navi in tutta la Riviera; Pisa, esausta da tante guerre per terra e per mare, fece prodigi d'ogni sorta. Ricorse al patriottismo delle sue piú nobili famiglie, che si mostrarono degne del proprio nome. I Lanfranchi, assai numerosi in Pisa, armarono a loro spese non meno d'undici galere; i Gualandi, i Lei, i Gaetani ne armarono sei, i Sismondi tre, gli Orlandi quattro, gli Upezzinghi cinque, i Visconti tre, i Moschi due, altre famiglie s'unirono per armarne una. Andrea Morosini veneto, dei piú reputati nelle cose di mare, fu nominato Podestà, ed a lui venne data ogni autorità per provvedere agli apparecchi della guerra, e tener poi sul mare il comando supremo del naviglio. Cosí, da un lato e dall'altro, si misero in moto due delle piú formidabili armate, che si vedessero mai a que' tempi. Gli scrittori genovesi fanno ascendere a 96 le navi di Genova, a 72 quelle di Pisa; gli storici pisani, invece, numerano 130 navi genovesi e 103 pisane. Comunque sia, gli uni e gli altri riconoscono nelle prime una superiorità numerica, che fu aiutata anche dall'arte maggiore nel comando. Le due armate si cercarono lungamente, e poi temporeggiarono, perché ciascuna voleva trovarsi in una posizione piú vantaggiosa. Dicesi che i Pisani arrivassero sino al porto di Genova, tirando frecce d'argento e palle fasciate di porpora, per far pompa della propria ricchezza, secondo il costume del tempo. Certo è però, che una parte delle loro navi trovavasi ancorata a Porto Pisano, altre erano nell'Arno fra i due ponti della città, quando venne l'annunzio che i Genovesi erano in vista. Tutta Pisa fu a rumore; i marinai corsero alle loro navi; l'arcivescovo, seguito dal clero, portando in mano lo stendardo della repubblica, venne sul Ponte Vecchio, di dove benedisse l'armata, che con un grido di gioia levò l'ancora, e, scendendo il fiume, s'avviò al mare. Si racconta pure che, nel momento della benedizione, cadde il Cristo che era sull'alto della bandiera, e fu tenuto segno di sinistro augurio.
Il 6 agosto 1284 fu un giorno memorabile. I due navigli s'incontrarono presso la Meloria, a poca distanza da Porto Pisano. Ivi, in passato, i Genovesi aveano ricevuto una grave disfatta dai Pisani, ed ora venivano a vendicarla, con la battaglia memorabile di cui son piene le nostre storie. La distanza del tempo, e la moltitudine spesso discorde degli scrittori toscani e genovesi, rendono assai difficile una vera esattezza nei particolari. Cercheremo quindi d'accennare solo i piú notevoli e sicuri.
L'armata pisana era divisa in tre schiere. Comandava la prima l'ammiraglio Andrea Morosini; la seconda era affidata al conte Ugolino, valoroso, ma poco sicuro, perché divorato da un'ambizione, che gli faceva posporre l'interesse della patria al desiderio di dominarla; la terza era comandata da Andreotto Saracini. Oberto Doria, assai valoroso ed esperto, era l'ammiraglio dell'armata genovese, la quale, a vederla allora sul mare, sembrava per numero uguale alla pisana; ma ciò era perché Benedetto Zaccaria, con una riserva di trenta galere, se ne stava nascosto, secondo alcuni, dietro la Meloria, secondo altri, dietro Montenero, pronto ad accorrere in tempo opportuno. Poco dopo il mezzogiorno si cominciò a combattere, e la lotta durò aspra ed incerta per lungo tempo. Quando le due navi ammiraglie s'avvicinarono, lo scontro delle armate fu generale. Un numero grandissimo d'uomini vennero da una parte e dall'altra gettati nel mare, tra morti, feriti o storditi dai colpi ricevuti. Le onde erano rosse pel sangue; i naufraghi s'attaccavano ai remi per salvarsi, ma venivano dai medesimi remi rituffati nel mare, per la necessità di continuare le manovre, in un momento in cui la mischia era giunta al suo punto culminante e decisivo. Ed allora appunto, Benedetto Zaccaria, il quale già aveva ricevuto l'ordine d'avvicinarsi, fece forza di vele e di remi, per arrivare in tempo a decidere l'esito della battaglia. Quando i Pisani lo videro apparire, riconobbero subito la inferiorità delle proprie forze, e l'animo cominciò loro a mancare, sebbene proseguissero con uguale ardore a combattere. Lo Zaccaria, appena che sopraggiunse, riuscí ad avvicinare la sua galera a quella del Doria, per poter cosí pigliare in mezzo il Morosini, che con la sua capitana combatteva fieramente. Nel medesimo tempo la galera che portava lo stendardo di Pisa, veniva anch'essa circondata da piú lati. L'improvviso aiuto aveva per tutto accresciuto l'animo dei Genovesi, abbattuto quello dei Pisani. La lotta, divenuta troppo disuguale, continuava pure senza cedere da ambo i lati, perché ciascuna delle due eterne rivali pareva che volesse questa volta distruggere con l'armata nemica, l'esistenza stessa dell'avversa repubblica.
Ma cosí non si poteva durare a lungo. Ad un tratto si vide lo stendardo di Pisa, che era sostenuto da una grossa asta di ferro, piegarsi e cadere con fracasso orribile sotto i ripetuti colpi che aveva ricevuti, e nello stesso tempo cominciava a cedere la capitana dell'ammiraglio Morosini, il quale, orrendamente ferito nel volto, dovette arrendersi insieme con essa. Fu questo il momento in cui il conte Ugolino tradiva, dando il segnale della fuga: la disfatta divenne allora generale. Sette galere pisane colarono a fondo, ventotto restarono in mano del nemico, e i prigionieri furono, secondo una iscrizione che si trova sulla facciata della chiesa di S. Matteo a Genova, non meno di 9,272. Gli scrittori pisani li fanno ascendere fino ad undici, ed alcuni anche a quindicimila, forse perché vi computano molti dei morti, che furono 5,000. Certo è che dopo la battaglia della Meloria, soleva dirsi in Toscana, che per veder Pisa bisognava ormai andare a Genova.
Quando i superstiti pisani ritornarono a casa, tutti i cittadini uscirono nelle strade, per aver notizia dei loro parenti, e non vi fu quasi nessuno che non dovesse piangere qualche morto o prigioniero. Una moltitudine di donne, di vecchi e bambini, errava per la città come forsennata, a segno tale, che i magistrati dovettero dare ordine, che ognuno tornasse alle proprie case. Ben presto tutti in Pisa erano vestiti a bruno, e per le vie non si vedevano che donne. A Genova, invece, era dovunque gioia e tripudio; né l'odio contro i nemici s'era per la vittoria punto scemato. E di ciò s'ebbe una prova, quando si venne a discutere che cosa dovesse farsi dei prigionieri. Alcuni proposero di restituirli per una grossa somma di danaro; altri volevano invece avere il Castel di Castro, in Sardegna, ch'era la chiave dei possedimenti pisani in quell'isola; ma non fu vinto nessuno di questi partiti. Si levarono oratori, i quali proposero di ritenere i prigionieri fino a che non fosse finita del tutto la guerra. In tal modo, si diceva, le donne resterebbero vedove, senza potersi rimaritare, e si sarebbe impedito alla popolazione, e quindi all'armata pisana, di rifarsi delle perdite sofferte. La guerra infatti durò sedici anni ancora, e quando i prigionieri vennero restituiti, erano ridotti a poco piú di mille, gli altri essendo morti per le malattie, l'età, le ferite o gli stenti sofferti.
VIII
Mal si potrebbe dire, se in questi anni sia stata maggiore l'energia eroica dei Pisani nella sventura, o l'odio insaziabile dei loro nemici. Subito dopo la terribile rotta della Meloria, i Fiorentini ed i Lucchesi offerirono a Genova d'allearsi, per compiere insieme lo sterminio della comune rivale. L'alleanza doveva durare sino a 25 anni dopo finita la guerra. Le ostilità sarebbero cominciate fra 15 giorni, con l'obbligo a Genova di mettere in mare 50 galere, ai Fiorentini e Lucchesi di mettere insieme un esercito. Questi assalirebbero dalla parte di terra, quelli dalla parte di mare. Ogni anno, almeno per quaranta giorni, si sarebbe combattuto. Pisa capí che ormai si voleva la sua ultima rovina, e tale fu allora il suo odio contro Lucca, soprattutto contro Firenze, che, per non cedere ad esse, si dichiarò pronta a sottomettersi piuttosto ai patti che Genova avesse voluto imporle. Ma invano. Il 13 di ottobre l'alleanza fu conclusa nella casa della Badia in Firenze, presenti i sindachi di Genova e di Lucca, insieme con quelli di Firenze, fra i quali ultimi si trovava Brunetto Latini; e si lasciò luogo alle altre città toscane d'entrare nella Lega. Ma, quello che è piú notevole, in essa potevano essere ammessi ancora i piú autorevoli prigionieri pisani, che avessero dato sicurtà di venire a muover guerra alla patria loro. Potevano, alle medesime condizioni, essere ammessi anche il conte Ugolino, i suoi figli ed il Giudice di Gallura, se divenivano cittadini genovesi, e riconoscevano le proprie terre in feudo da Genova. Tutti questi dovevano però essere accolti di comune consenso degli alleati, e non oltrepassare il numero di 20. Si conferma da ciò chiaramente che fra i Pisani v'erano parecchi, che avevano tradito o erano disposti a tradire. Firenze non dimenticò neppure ora quello che del resto non dimenticava mai, cioè, di stipulare, insieme con le alleanze politiche, vantaggiosi patti commerciali.[323]
Ben presto parecchie altre città di Toscana entrarono nella Lega, e cominciarono gli apparecchi di guerra. Pisa allora si vide subito da ogni lato circondata. I Fiorentini entrarono in Val d'Era, i Lucchesi pigliarono alcuni castelli, lo Spinola con le navi genovesi assalí e danneggiò molto Porto Pisano. Ma ad un tratto i Fiorentini si dimostrarono assai freddi nell'impresa, con grandissimo scontento dei Lucchesi e dei Genovesi. Essi volevano sopra tutto avvantaggiare il proprio commercio, e quindi era loro necessario fiaccare l'orgoglio di Pisa, e sottometterla, come avevano fatto delle altre città di Toscana; ma non volevano che ciò seguisse per opera principalmente dei Genovesi, molto meno poi a loro unico profitto, come sarebbe di certo ora avvenuto per la preponderanza che avevano sul mare. Ed in vero, se Genova si fosse resa padrona di Pisa, sarebbe stata padrona anche del Mediterraneo, e la sua potenza, di molto accresciuta, sarebbe divenuta addirittura formidabile ai Fiorentini. Quindi è che essi, dopo avere addensata cosí gran tempesta contro Pisa, pensavano ora, secondo la dubbia fede di quei tempi, in cui poco o punto si rispettavano i trattati, a volgere ogni cosa a loro esclusivo vantaggio. E i Pisani videro subito l'occasione opportuna, e cercarono profittarne; ma lo fecero poi in modo, che tutto tornò invece a loro rovina. Avendo, come vedemmo, invano cercato un accordo con Genova; non potendo, dopo tante calamità, sostenere una guerra del pari formidabile per terra e per mare, cercarono d'intendersi almeno con Firenze. Ed a questo fine nominarono loro Podestà il conte Ugolino, dandogli piú tardi anche il comando della guerra, non ostante le accuse ben note di tradimento alla Meloria. Ma essi lo sapevano guelfo e segreto amico dei Fiorentini, quindi lo ritenevano adatto allo scopo ora che li volevano allontanare da Genova. Il Conte, è vero, sembrava non avere che un solo pensiero, quello di dominare in Pisa; ed era perciò pronto ad intendersi, occorrendo, coi nemici della patria, capace di lasciarsi trasportare ad ogni atto nefando, pur di soddisfare la sua sfrenata ambizione. Una volta però che questa era soddisfatta, credevano i Pisani che egli, coraggioso, accortissimo, con molte amicizie tra i Guelfi, avrebbe saputo trovar modo di venire ad un accordo. E cosí fu, ma con resultato ben diverso da quello che s'aspettavano.
Narrano i cronisti, che egli inviasse ai rettori di Firenze un dono di fiaschi con vino di vernaccia, in fondo ai quali aveva messo fiorini d'oro per corromperli.[324] Questa tradizione prova solamente, che egli era tenuto capace di ricorrere ad ogni mezzo pur di raggiungere i suoi fini. Ma ben duri furono i sacrifizî, che dovette imporre a Pisa, per indurre i Fiorentini a sospendere la guerra contro di essa. Bisognò cedere terre e castelli importanti, come S. Maria a Monte, Fucecchio, S. Croce, Monte Calvoli, e mandare in esilio i Ghibellini, riducendo la città a parte guelfa, il che per una repubblica stata sempre ghibellina, era un'umiliazione grandissima. Pisa doveva ormai piegarsi a tutto, perché trattavasi di salvare la propria esistenza. Quando però i Genovesi e i Lucchesi s'accorsero che erano abbandonati da Firenze, la quale sosteneva i Pisani contro Lucca, i lamenti furono cosí grandi contro la violata fede, che il conte Ugolino, per far tacere almeno i Lucchesi, cedette loro Bientina, Ripafratta e Viareggio. In questo modo l'orgogliosa repubblica pisana restringeva il suo territorio fin quasi alle mura, privandosi d'ogni difesa dalla parte di terra, quando le sue navi erano su tutti i mari inseguite e predate dai Genovesi. Solo il conte Ugolino trionfava in mezzo a tante rovine ed umiliazioni, perché comandava in città, ed era tutto quel che voleva. Ma nel suo ambíto dominio egli era essai meno sicuro di quel che pensava, perché i fieri spiriti pisani non erano del tutto domati, e già i piú tolleravano assai male una tirannia interna, che non riusciva a salvare dalle umiliazioni esterne. Ogni piú piccola occasione faceva ora veder segni manifesti, che le passioni cittadine potevano da un momento all'altro prorompere.
Un'altra causa di mali umori continuavano ad essere le trattative per riavere da Genova i prigionieri, che formavano parte non piccola della migliore gioventú pisana. Tutti desideravano riaverli in ogni modo; ma il Conte frapponeva ogni giorno nuovi ostacoli, perché li sapeva ghibellini e però a lui avversi. Faceva sempre proposte inaccettabili dai Pisani, per mandare le cose in lungo. Cosí nulla si concludeva, ed era quel che voleva. Ma la sua alterigia finí col portare la divisione nel seno dello stesso partito guelfo. Nino Visconti, giudice di Gallura, suo nipote e capo naturale dei Guelfi, cominciò ad accostarsi ai Ghibellini per far guerra allo zio. Il quale allora, senza esitare, mandò in esilio molti altri Ghibellini, e fece abbattere dieci dei loro piú ricchi palazzi. Lo sdegno cominciò a divampare. Nino si uní strettamente ai Gualandi, ai Sismondi, e cercarono di sollecitare il ritorno dei prigionieri, cosa che il Conte ritardava con nuovi pretesti, mantenendo vive le cagioni di guerra con Genova. Pensarono allora di sollevare il popolo contro di lui, ma non vi riuscirono; ricorsero perciò alle vie legali, per vedere se cosí potevano porre un freno alla sua autorità eccessiva. Egli era stato nominato Capitano generale del popolo, ma aveva illegalmente assunto anche l'ufficio di Podestà, e senza diritto s'era alloggiato nel Palazzo della Signoria. Nino e i suoi amici protestarono presso gli Anziani, e l'obbligarono ad abbandonare il Palazzo, riducendosi nei termini della legge. Il che egli fece, ma per poco tempo, e ripigliò ben presto con la forza la sua prima autorità. Intanto l'odio delle parti cresceva, studiandosi il Conte di mantener viva la discordia con Genova, i suoi nemici cercando invece di concludere la pace e riavere i prigionieri, perché anche questo era un mezzo per abbatterlo.
Finalmente, accortosi del grave pericolo in cui versava, il Conte voleva in qualche modo uscirne. Visto che alcuni dei Guelfi, uniti ai Ghibellini, gli erano divenuti del pari avversi e gli facevano guerra, pensò d'avvicinarsi a questi, per separarli da quei Guelfi che lo avevano abbandonato, e che perciò voleva abbattere, sperando di potere piú tardi compiere la medesima opera contro i Ghibellini, dopo averli isolati. Ma, sebbene non gli mancasse di certo l'astuzia, finí coll'aver contro di sé gli uni e gli altri, ed alla testa de' suoi nemici cosí riuniti, si pose l'arcivescovo Ruggieri, ghibellino autorevolissimo. La guerra civile infiammò la città intera, ed il Palazzo del popolo si trovò in mano ora dell'Arcivescovo, ora del Conte, il quale, accecato dal furor della vendetta, non tollerava avvertenze o consigli neppure da' suoi piú intimi. Un giorno in cui lo scontento del popolo era al colmo pel caro dei viveri, e niuno osava parlargli, uno de' suoi nipoti si presentò a lui, per rivelargli lo stato delle cose, consigliandogli di sospender le gabelle, acciò diminuisse il prezzo dei viveri. Ed il Conte si lasciò talmente trasportare dall'ira, che gli tirò un colpo di pugnale, ferendolo nel braccio. Un nipote dell'arcivescovo, amico del giovane, trovandosi presente, non seppe resistere, e gli fece scudo della sua persona. Il Conte, fuori di sé pel furore, pose mano ad un'ascia, che era vicino a lui, e con un colpo alla testa lo stese morto a' suoi piedi.
L'arcivescovo Ruggieri dissimulò un pezzo, aspettando l'occasione, che finalmente venne. Il 1.º luglio 1288 il Consiglio della repubblica era radunato nella chiesa di S. Sebastiano, per deliberare sulla pace coi Genovesi. I Ghibellini ed il popolo la volevano in ogni modo, ma il Conte frapponeva nuovi ostacoli, sperando sempre aiuto dagli amici. Quando uscirono dall'adunanza, l'Arcivescovo capí che l'ora era giunta, che non v'era piú tempo da perdere. I Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi ed altri ancora s'unirono con lui, e andarono ad assalire il Conte, che con due figli, due nipoti, ed alcuni altri a lui piú fidi, si difese valorosamente. Dopo il primo scontro, nel quale vide morire un suo figlio naturale, si ritirò nel Palazzo del popolo, e continuò a difendersi da mezzogiorno alla sera, quando gli assedianti si decisero a mettervi fuoco. Penetrando poi attraverso le fiamme, fecero prigioniero il Conte con i suoi due figli piú giovani, Gaddo e Uguccione, e due nipoti, Nino detto il Brigata e Anselmuccio. Furono chiusi nella torre dei Gualandi, sulla piazza degli Anziani, dove l'arcivescovo Ruggieri li tenne alcuni mesi in assai dura prigionia.[325] Finalmente la chiave della torre fu gettata in Arno, e morirono tutti di fame, tra quelle angosce che l'Alighieri rese immortali.[326]
IX
Questi fatti però, sebbene indebolissero sempre piú la misera città di Pisa, abbatterono anche il partito guelfo, dettero luogo a nuovi esilî, ed aiutarono le speranze dei Ghibellini, che adesso sembravano risorgere in Toscana. Firenze dovette perciò ripigliare di nuovo le armi. Carlo I d'Angiò era morto, e papa Onorio, che si dimostrava favorevole al partito ghibellino, aveva spinto il suo parente Prenzivalle del Fiesco a venire in Toscana come Vicario imperiale. Ma le città della Lega lo accolsero assai male, ed egli se ne andò ad Arezzo, donde invano pronunziò condanne contro i Guelfi, giacché ai vicarî dell'Impero pareva che ormai nessuno desse piú ascolto. Se ne ripartí quindi per la Germania, lasciando Arezzo in preda a tumulti, nei quali la vittoria fu dei Ghibellini, che ebbero aiuto da molti esuli fiorentini. I Guelfi si ritirarono nei castelli del contado, dove ricevettero invece soccorsi dal governo di Firenze. Cosí la guerra diveniva inevitabile anche nel Valdarno di sopra, e bisognava da due lati combattere i Ghibellini, ritornati potenti sotto la guida del vescovo d'Arezzo e dell'arcivescovo di Pisa. Difatti come in Pisa l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, cosí in Arezzo comandava il vescovo ghibellino, Guglielmo degli Ubertini. Questi, dedito anch'esso piú alle armi che alla religione, signore di molte castella, e di assai dubbia fede, si provò dapprima a tradire la città ai Fiorentini, mediante accordi coi quali voleva salvare i suoi possessi. Ma gli Aretini seppero costringerlo a restar fermo nel proprio partito. Il 1.º di giugno 1288 l'esercito della Lega guelfa si mise in moto. Erano nobili, popolani d'ogni parte di Toscana, insieme con gente assoldata, formando in tutto 2,600 cavalieri e 12,000 pedoni. Restarono ventidue giorni in campo, assediando e disfacendo tra grandi e piccoli, piú di 40 castelli degli Aretini; ma poi sopravvenne una tempesta che pose il campo in tanto disordine da costringerli a ritirarsi. Avevano, in segno di disprezzo, corso un pallio sotto le mura d'Arezzo, nominandovi 12 cavalieri di corredo; ma poi, levato il campo, se ne tornarono a Firenze, senza avere abbattuto né scemato l'ardire del nemico. Ed infatti, quando i Senesi si separarono per tornarsene a casa, furono presi in un agguato, e rotti pienamente.
Nell'agosto i Fiorentini, insieme con Nino di Gallura, esule guelfo di Pisa, fecero scorrerie nel contado pisano, pigliando il castello d'Asciano, e nel settembre corsero contro gli Aretini, che avevano messo insieme un esercito di 700 cavalli e 8,000 pedoni. Ma non vi fu battaglia, perché i nemici si ritirarono, lasciando che i Fiorentini guastassero le loro campagne, andando poi essi in principio del 1289 a guastare il contado fiorentino, ed arrivando fin presso a S. Donato. Erano piú o meno grosse scaramucce, che facevano prevedere una guerra maggiore.
Da ogni lato s'armava adesso in Toscana. I Pisani eleggevano a loro capitano il conte Guido da Montefeltro, che aveva acquistato grandissima reputazione nello scontro vittorioso avuto a Forlí contro i Francesi di Carlo d'Angiò. Egli era veramente uno dei piú valorosi soldati del tempo, e giunto che fu a Pisa, riordinò subito le milizie, creò una nuova fanteria leggiera di tre mila balestrieri, che poté resistere con onore a quella cavalleria pesante, tenuta allora la forza principale degli eserciti. Da un altro lato anche gli Aretini s'armarono sempre di piú, in modo che, quando Carlo II d'Angiò passò da Firenze, per andare ad incoronarsi in Napoli, i Fiorentini, dovettero accompagnarlo con i loro migliori fanti e cavalieri, perché le genti aretine minacciavano d'assalirlo. Gli chiesero allora un buon capitano, per poter proseguir con vigore la guerra, e ne ebbero Amerigo di Narbona, che, in compagnia del bali Guglielmo di Durfort, venne con 100 uomini d'arme.
Il 2 di giugno 1289, il nuovo capitano Amerigo di Narbona usciva in campagna alla testa d'un esercito di 1,600 cavalieri e 10,000 fanti della Lega. V'era il fiore della nobiltà e delle genti fiorentine, fra cui seicento cavalieri dei meglio armati, che uscissero mai della Città. Prato, Pistoia, Siena e tutti gli alleati, anche i Guelfi di Romagna avevano mandato il loro contingente. Gli Aretini avevano dall'altro lato raccolto tutti i Ghibellini delle vicine città, e vennero a Bibbiena con 800 cavalieri e 8,000 pedoni, sotto il comando dei loro capitani, fra cui primeggiava il fiero arcivescovo Guglielmo degli Ubertini. Dopo essersi persuaso che l'accordo con Firenze, per salvare i suoi propri castelli, lo avrebbe esposto al furore degli Aretini, esso s'era gettato con giovanile ardore nella guerra. Procedeva altiero e pieno di baldanza, perché fidava nel proprio coraggio ed in quello de' suoi soldati; aveva poca stima de' Fiorentini, i quali, esso diceva, si lisciavano come donne.
Sul piano di Poppi, il giorno 11 di giugno, i due eserciti si trovarono di fronte, presso Campaldino, dove ebbe luogo, e donde prese nome quella battaglia che fu resa piú celebre, per esservisi trovato a combattere Dante Alighieri, allora giovane ancora ed ignoto. I Fiorentini avevano in prima linea una schiera mista di pedoni, balestrieri e scudieri, ed alle loro ali avevano messo 150 feritori di cavalleria leggiera, scelti fra i piú arditi. V'era fra questi Vieri dei Cerchi, che, avendo avuto il carico di fare la scelta degli uomini del suo Sesto, volle, sebbene malato, trovarsi alla battaglia insieme col figliuolo e coi nipoti. Dietro la prima schiera, ne veniva un'altra piú grossa di pedoni e cavalleria pesante, in ultimo erano le salmerie. Corso Donati comandava un drappello di circa 250 tra pedoni e cavalieri lucchesi, pistoiesi e forestieri. Egli era allora Podestà di Pistoia e doveva, con la sua piccola riserva, accorrere all'uopo, secondo il comando del generale. Si vedeva un'emulazione grandissima, perché da un lato e dall'altro v'era lo sforzo dei Guelfi e dei Ghibellini, e s'erano, per soddisfare anche l'ambizione dei potenti, creati nuovi cavalieri in quel giorno stesso, acciò dessero maggior prova di valore. L'ordine dato ai Fiorentini fu d'aspettare l'impeto del nemico, e messer Simone dei Mangiadori da San Miniato, disse ai suoi uomini: — Signori, le guerre di Toscana si vincevano per bene assalire, ed ora si vincono per istare ben fermi. — Gli Aretini invece, fidando nel proprio valore e nell'abilità dei capitani, assalirono al grido di Viva S. Donato, con tale impeto, che l'esercito fiorentino mal sostenne il primo urto, e dovette cedere. I feritori furono quasi tutti scavalcati, la schiera grossa indietreggiò; ma i pedoni che erano alle ali della seconda schiera, s'avanzarono al grido di Narbona cavaliere, e minacciando di circondare il nemico, l'arrestarono, dando cosí tempo ai compagni di riordinarsi. Il conte Guido Novello, che aveva 150 cavalieri degli Aretini, per ferire di lato, mancò d'animo nel momento appunto in cui doveva assalire il nemico disordinato, e fu grandissimo danno. Ma gli seguiva sempre cosí, e poco di poi, fervendo ancora la mischia, si dette alla fuga. Corso Donati, invece, che aveva ordine di star fermo colle sue genti, e non muoversi senza comando espresso, nel vedere i Fiorentini cedere a quel primo urto, non poté piú stare alle mosse, e disse ai suoi: — Se perdiamo, io voglio morire coi miei concittadini; se vinciamo, aspetterò che chi vuole, venga in Pistoia a punirci della nostra disobbedienza; — e ordinò subito d'investir di fianco i nemici. Cosí gli Aretini da assalitori si trovarono assaliti. Resistettero con mirabile valore, e non avendo sufficiente numero di cavalieri, i loro pedoni si spinsero carponi fra la cavalleria nemica, e con le coltella sventravano i cavalli, ferendoli nella pancia, dove non avevano difesa. Ma erano prodigi di valor personale, che non potevano decidere la battaglia. La mischia fu aspra e lunga, i Fiorentini pugnarono con gran coraggio, e gli Aretini perderono quasi tutti i loro capi. L'arcivescovo Ubertini morí combattendo; cosí pure il suo nipote Guglielmino dei Pazzi, tenuto allora fra i piú valorosi capitani d'Italia, e Buonconte figlio del conte di Montefeltro. Perirono ancora molti esuli fiorentini, fra cui tre Uberti e uno degli Abbati. Solo il conte Guido Novello salvò la vita con la fuga. La rotta degli Aretini fu grandissima, e, secondo il Villani, lasciarono sul campo 1,700 morti e 2,000 prigionieri. Di questi però ne entrarono in Firenze solo 740, gli altri essendo stati trafugati o riscattati per denaro. Né ciò deve far gran meraviglia, se si pensa che in queste guerre di Guelfi e Ghibellini combattevan fra loro uomini della medesima città, e spesso antichi amici o parenti; per il che la pietà era piú naturale che l'odio, sebbene questo fosse pur troppo frequente e feroce. I Fiorentini ebbero poche perdite, e nessuna d'importanza. Corso Donati che, col suo ardire, contribuí assai a decidere la battaglia, e Vieri de' Cerchi si coprirono di gloria. Molti, poco stimati in passato, acquistarono quel giorno grande reputazione, e molti invece che già prima l'avevano, la perdettero allora. In ogni modo tutti i principali cittadini e capitani tornarono salvi a Firenze, dove l'allegrezza fu perciò universale.[327]
I Fiorentini s'erano tenuti sin da principio sicurissimi della vittoria. Si narra infatti che quando, nel giorno stesso della battaglia, i Priori, stanchi delle vigilie durate, si addormentarono, furono desti, come da una voce, che ad un tratto pareva dicesse loro: levatevi su, che gli Aretini sono sconfitti. E nello stesso tempo tutti i cittadini si trovavano per le vie, aspettando impazienti la notizia che ancora non veniva. Finalmente arrivò il desiderato messo, e la gioia, le feste furono grandissime. Dispiacque piú tardi sentire che l'esercito non aveva saputo profittare della vittoria, inseguendo il nemico fin dentro le mura della città, della quale allora sarebbe stato facile impadronirsi. Invece presero Bibbiena, terra del vescovo; saccheggiarono varî castelli, e guastarono il contado per venti giorni. Corsero il pallio intorno alle mura d'Arezzo, a forza di mangani gettandovi dentro, per dileggio, asini con le mitrie in capo. Ma in sostanza non fecero altra impresa di momento, sebbene la Repubblica, quando furono eletti i nuovi Priori, ne mandasse due al campo, perché sollecitassero in persona la guerra, e tentassero subito di prendere la nemica città. Ma omai era tardi, e gli Aretini riuscirono anche a fare qualche sortita, nella quale misero fuoco alle macchine d'assedio. Per il che i Fiorentini, lasciati ben guardati i castelli già presi e le opere cominciate, tornarono a casa il 23 di luglio; e ciò dispiacque tanto alla Città, che si disse esser corso nel campo oro nemico. In ogni modo la vittoria era stata grande, e grandissima fu l'accoglienza che ebbero i reduci. Tutto il popolo, con le insegne e i gonfaloni di ciascuna Arte, tutto il clero uscí in processione per andare incontro al vittorioso esercito. Il capitano Amerigo di Narbona ed il podestà Ugolino de' Rossi fecero la loro entrata solenne, sotto ricchissimi baldacchini di drappi d'oro, portati dai piú nobili cavalieri di Firenze. E tutta la spesa di questa guerra si fece con una imposta di lire sei e soldi sei per cento sui beni nella Città e nel contado, il che portò subito trentasei mila fiorini d'oro, essendo allora l'estimo, l'amministrazione e le rendite del Comune mirabilmente ordinate, come osserva il Villani (VII, 132).
La repubblica fiorentina, dopo la umiliazione delle due nemiche città d'Arezzo e di Pisa, aveva in tutta Toscana abbattuto il partito ghibellino, fatto trionfare il guelfo; s'era assicurato in essa un predominio politico e commerciale quasi senza limiti; e la sua ricchezza andò d'ora in poi rapidamente crescendo. Vi furono grandi feste, cene, desinari in tutte quante le piú ricche case, radunandosi i cittadini nelle corti dei loro palazzi, le quali venivano ricoperte di zendado, ornate di ricchissimi drappi. Le donne, in segno d'allegrezza, andavano per la Città, inghirlandate di fiori. Eppure si voleva ancora proseguire la guerra, perché pareva che si desiderasse addirittura veder la fine delle due piú potenti città ghibelline. Ma ciò non poteva riuscir facilmente.
Nel 1289 seguirono nuove scaramucce tra Guelfi e Ghibellini, ma furono cose di poco momento. I Fiorentini tentarono piú volte, però sempre invano, di pigliare Arezzo per forza o per inganno. Nel novembre erano riusciti a fare un accordo segreto, col quale pareva dovessero proprio entrare nella nemica città, per sorpresa. Improvvisamente fu dato ordine a tutti gli uomini atti alle armi di trovarsi riuniti fuori delle mura, prima che una candela accesa innanzi ad una delle porte, fosse consumata. E l'esercito cosí tumultuariamente raccolto, corse a furia verso Arezzo; ma l'accordo era stato già scoperto, almeno si disse, da uno che morendo l'aveva rivelato al confessore. Certo è che bisognò ritirarsi senza aver nulla concluso. I Fiorentini tornarono nel giugno del seguente anno, con un esercito di 1,500 cavalieri e 6,000 pedoni della Lega; circondarono Arezzo, e per sei miglia intorno ne guastarono il contado, durante 29 giorni, ma anche ora non conclusero altro. Le città erano a quei tempi tutte fortificate, e le opere d'assedio, prima dell'invenzione della polvere, riuscivano affatto inutili, ogni volta che v'era una resistenza decisa e senza tradimenti. Al che s'aggiungeva adesso, che i Fiorentini volevano combattere nello stesso tempo Arezzo e Pisa. Infatti, lasciati a guardia dei vicini castelli 300 cavalieri e molti pedoni, andarono col resto dell'esercito dal Valdarno di sopra a quello di sotto, per far guerra a Pisa.
Nello scorso anno erano stati i Lucchesi che, con l'aiuto di Firenze e della Lega, avevano raccolto e guidato un esercito di 400 cavalieri e 2,000 pedoni, per tener viva la guerra contro Pisa, mentre che Firenze era occupata con Arezzo. Arrivarono fino alle porte, e, secondo il solito costume, vi corsero il pallio; per 25 giorni guastarono il contado, pigliando il castello di Caprona, assalendo piú volte Vico Pisano, ma senza altro risultato. Nel 1290 si ripigliava dai Fiorentini la medesima guerra, con le forze assai maggiori di tutta la Lega. E nel tempo stesso che questa, col suo esercito, faceva dalla parte di terra un assalto generale, i Genovesi assalivano dalla parte di mare, con un'armata la quale recò danni infiniti. Livorno e Porto Pisano furono presi, rovesciate in mare le quattro torri a guardia del porto, e il fanale detto della Meloria fu del pari abbattuto, insieme cogli uomini che v'erano dentro. Prima di ritirarsi i Genovesi affondarono alla bocca del porto quattro navi cariche di pietre, distrussero i palazzi ed i magazzini. Ma dalla parte di terra non vi furono che guasti nel contado e rovine di piccoli castelli. Intanto i Pisani resistevano a tutti con animo fermo. Il loro capitano Guido di Montefeltro, alla testa della nuova fanteria leggiera da lui istituita, combatteva con molta efficacia contro i fanti toscani della Lega, contro la cavalleria pesante da essa assoldata. E piú volte riuscí a fare sortite, con le quali vendicò sanguinosamente le perdite sofferte. Nel dicembre del '91, i Pisani assalirono il castello di Pontedera, e trovandolo mal difeso, se ne impadronirono; fecero poi ribellare contro S. Miniato il castello di Vignale. I Fiorentini volevano subito correre a nuova battaglia; ma il loro esercito partí tardi, e quando fu in via, caddero pioggie torrenziali, le quali inondarono per modo la campagna, che bisognò retrocedere.
Le cose della guerra procedettero ora sempre piú debolmente, perché cominciavano in Città mali umori, che facevano presentire discordie assai gravi. Laonde, sebbene il giudice di Gallura spingesse a ripigliare le armi, nelle quali egli s'era mostrato operoso e valoroso, pure era divenuto cosí grande nei Fiorentini il bisogno della pace, che finalmente la conclusero a Fucecchio il 12 giugno '93. I patti furono: restituzione dei prigionieri; esenzione da ogni gabella, tanto per gli abitanti dei Comuni della Lega, che passavano per Pisa, quanto pei Pisani, che passavano per detti Comuni. L'ufficio del Podestà o Capitano di Pisa doveva darsi ad uomini della Lega, venendo espressamente vietato il darlo a ribelli o nemici di essa, o ad alcuno dei conti di Montefeltro. Ed il conte Guido, il valoroso soldato, che con tanta energia e coraggio aveva difeso la repubblica pisana, dovette essere licenziato con tutti i Ghibellini forestieri, in fede di che bisognò dare in ostaggio 25 cittadini delle migliori famiglie. Cosí furono pagati la fede e l'eroismo del vecchio capitano, che, riscosso il suo soldo, entrò nel Consiglio, e rimproverata dignitosamente ai Pisani la loro ingratitudine, se ne partí senza mostrare alcun desiderio di vendetta. E avrebbe potuto farla, se avesse voluto operare secondo il costume di quei tempi, trovandosi egli tuttavia a capo d'un esercito agguerrito, che in lui fidava pienamente. Fu ancora pei patti di questa pace stabilito, che i discendenti del conte Ugolino ed il giudice di Gallura venissero liberati da ogni bando, e rimessi nei loro beni.[328]
X
Da questo momento i Fiorentini cominciarono a pensare sopra tutto alle cose interne della Città, che neppure durante le ultime guerre avevano abbandonate. Infatti l'amministrazione della Repubblica s'era andata migliorando sempre, ed in molte parti si poteva dire esemplare; il commercio, l'industria, la ricchezza erano assai aumentati. E nello stesso tempo si erano compiute molte opere pubbliche, lavorando allora il celebre architetto Arnolfo di Cambio, autore di parecchi de' piú bei monumenti di Firenze. Col suo disegno si pose mano nel 1285 ai primi lavori per allargare la Città, costruendo piú tardi il terzo cerchio delle mura, alle quali sorvegliò anche il celebre cronista Giovanni Villani; e per opera dello stesso architetto fu nel medesimo anno costruita e lastricata tutt'intorno la Loggia d'Or S. Michele, sotto la quale allora vendevasi il grano; e cosí pure fu lastricata la Piazza dei Signori, e venne abbellita e restaurata la Badia. Folco Portinari, padre della Beatrice di Dante, fondava a sue spese la chiesa e l'ospedale di S. M. Nuova. Si lavorò alla Piazza di S. M. Novella; e s'iniziarono molte altre opere di simil natura.[329]
Intanto continuavano come sempre le riforme politiche, fra cui ricorderemo quella che nel 1290 ridusse da un anno a sei mesi l'ufficio del Podestà,[330] che fu dato allora a Rosso Gabrielli da Gubbio, città dalla quale vennero in Firenze e per tutta Italia molti Podestà e molti Capitani del popolo. Le Marche, la Romagna e l'Umbria pareva ne fossero allora il vivaio, perché gli abitanti di quelle province dediti alle armi, come è provato dal gran numero di capitani e soldati di ventura che ne uscirono, erano anche assai pratici della giurisprudenza, a cagione della vicina Università di Bologna. Questa riduzione dell'ufficio del Podestà a soli sei mesi, non durò molto; ma si deliberò per le ragioni stesse che fecero restringere a due la durata della Signoria. L'ufficio di un magistrato, che doveva amministrar la giustizia, comandare l'esercito, e menava seco un certo numero di gente armata e per proprio conto assoldata, poteva riuscire pericoloso, perché assai facile a trasformarsi in tirannide, come era seguito già in parecchi Comuni italiani. Quindi è che a Firenze si cercava ripararvi con una rapida mutazione, la quale non desse modo di maturare disegni funesti alla libertà, né di trovare favori ed amici su cui a lungo contare.
Ma ben altri e piú gravi mutamenti politici e sociali avevano luogo nel seno della cittadinanza fiorentina. I segni d'una nuova e profonda trasformazione divenivano ogni giorno piú visibili; era perciò sempre piú necessario apparecchiarsi con la pace a sostenere l'urto inevitabile e vicino delle future rivoluzioni. Gli Angioini, colla loro presenza, coll'esempio dei loro baroni, col creare sempre nuovi cavalieri in Firenze, avevano fatto crescere a dismisura l'orgoglio dei potenti guelfi, cui ora si dava nome di Grandi. Costoro, imitando i nobili francesi, assumevano modi poco repubblicani, e volevano soverchiare in tutto e su tutti. Nel 1287 vi fu grave tumulto, perché uno di questi prepotenti, a nome Totto Mazzinghi, venne, per omicidio e per altri delitti, condannato a morte dal Podestà; e quando lo menavano al supplizio, messer Corso Donati, uno dei maggiori cavalieri in Firenze, si provò coi suoi a liberarlo colla forza. Il Podestà, non volendo tollerare una cosí manifesta violazione delle leggi, fece sonar la campana a martello, ed il popolo, levatosi a rumore, corse armato, a piedi ed a cavallo, gridando: giustizia, giustizia dopo di che la giustizia venne fatta, ed anche assai severa. Il Mazzinghi, condannato nel capo, fu prima strascinato per via e poi impiccato; gli autori della ribellione contro il magistrato, furono condannati in danaro, e la Città ritornò tranquilla. Ma questi non eran che segni di mali maggiori, e gli uomini politici in Firenze se ne impensierivano assai. I popolani guelfi, per mettere un argine all'alterigia dei Grandi, e per impedire la loro unione col popolo minuto, cominciarono ad allargare sempre piú le libertà politiche, nel tempo stesso che vincolavano l'azione dei potenti. Questi erano già stati costretti, come abbiam visto, a dare mallevadori responsabili delle loro azioni, a giurare di non far vendette, di non sopraffare la plebe, e simili. Destinata ad abbattere in Città e fuori la potenza dei Grandi, ad accrescere quella del popolo, disfacendo gli ultimi residui del sistema feudale, ancora esistenti, fu la legge assai memorabile del 6 agosto 1289. Con essa fu interamente distrutta la servitú nel contado, dichiarando con parole le quali suonano come una proclamazione dei diritti dell'uomo, che la libertà è un diritto imprescrittibile di natura; che essa non può dipendere dall'arbitrio altrui; che la Repubblica voleva in tutto il suo territorio, non solo mantenerla, ma anche accrescerla.[331] E veniva cosí abolita ogni specie di servitú, temporanea o a vita, ogni contratto, accordo o patto contrario alla libertà personale.
Parve ad alcuni che già sin dal 1256 il Comune di Bologna avesse compiuta questa riforma importantissima, la quale i Fiorentini avrebbero solo 33 anni piú tardi imitata. Ma è un errore nato dal supporre che l'abolizione della servitú si compiesse nei Comuni italiani a un tratto, quando invece procedette lentamente e per diversi gradi. Nel contado v'erano non solo i nobiles ed i loro servi, ma anche i fideles, i quali avevano già una personalità giuridica, ma dipendevano ancora dai nobiles, cui prestavano servigî e pagavano dazî. Piú tardi questa condizione dei fideles migliorò ancora, ed essi ottennero terre, in feudo o a livello, dai signori, ai quali rimanevano però legati da patti personali, che li obbligavano a restare in perpetuo sul fondo. E per questa ragione, i signori si credevano sempre, o almeno fingevano credersi, in diritto di vendere il fondo insieme coi fideles, anche quando ciò era divenuto contrario allo spirito della legislazione. Nel 1256 i Bolognesi abolirono la servitú, lasciando i contadini sempre dipendenti dal padrone, cioè nella condizione piú o meno di fideles, condizione che nell'83 migliorarono ancora, ma non abrogarono del tutto. Invece già prima del 1289 nel contado fiorentino non v'erano piú servi, e i fideles erano giuridicamente da piú tempo divenuti quasi indipendenti dai padroni, sebbene questi, abusando di patti puramente personali, li obbligassero spesso a risiedere sul fondo, e presumessero di poterlo vendere, anzi lo vendessero non di rado insieme con essi. Questi sono gli abusi che i Fiorentini condannarono e soppressero nel 1289, come contrarî alla libertà, la qual è «di diritto naturale», e perciò inalienabile. La nuova legge dichiarava inoltre che, in conseguenza di ciò, tutte queste vendite erano abusive e però di nessun valore nei loro effetti: sciogliendo ed annullando ogni patto illegale, garantiva finalmente al contadino la sua piena ed intera libertà. Aggiungeva anzi, che d'ora in poi esso poteva (ancora senza che la vendita del fondo avesse luogo) sciogliersi, mediante denaro, dai patti personali con cui s'era legato al padrone. Cosí è che la legge del 1289 non aboliva la servitú già da un pezzo abolita dai Fiorentini, ma per la prima volta rendeva pienamente liberi i lavoratori della terra. E ciò seguiva ancora con grande vantaggio economico del Comune, perché essi divenivano cosí tutti suoi contribuenti diretti, e con non minore vantaggio della democrazia, perché si spezzavano gli ultimi legami del sistema feudale, e si fiaccava la potenza dei signori del contado.[332]
In questo e nel seguente anno furono prese altre non poche deliberazioni intese a rafforzare il popolo nella Città, le quali dimostrano che Firenze procedeva sempre piú oltre nelle sue trasformazioni politiche e sociali. Prima di tutto s'accrebbe il numero delle Arti legalmente costituite, aggiungendone alle 7 maggiori altre cinque, portandole a 12, con proprie insegne, ordini, armi ed importanza politica.[333] Infatti noi ora troviamo, che gli atti ufficiali della Repubblica parlano di 12 Arti maggiori, mentre che per lo innanzi parlavano solo di sette. Ben presto, è vero, esse tornarono a sette; ma le cinque che restavano, vennero allora unite ad altre, e portate cosí a quattordici, col nome di Arti minori, formando in tutto 21 Arti, che fa il numero definitivo. Si fece nel 1290 un'altra legge, chiamata del divieto, la quale ordinò che chiunque fosse stato una volta Priore, non potesse per tre anni di poi tornare in ufficio. Piú tardi questo divieto fu in parte esteso anche ai parenti.[334] Erano sempre provvedimenti intesi a mettere un argine contro ogni possibilità di futura tirannide, un freno alla crescente alterigia dei Grandi.
A questo medesimo fine miravano ancora altre leggi. Troviamo infatti due provvisioni deliberate alla quasi unanimità il 30 giugno ed il 3 luglio 1290.[335] Con esse si proibiva severamente a tutti coloro che erano a capo delle Arti di far monopolio, accordi, leghe, posture e simili, con cui si cercasse, in qualunque modo, imporre prezzi arbitrariamente fissati, senza osservare le norme prescritte dagli Statuti. E la pena ricadeva severamente non solo sugli autori di questi arbitri, che dovevano pagare l'ammenda di 100 lire, ma anche sull'Arte cui essi appartenevano, la quale era condannata in 500 lire, per non aver provveduto all'osservanza delle leggi, e sui Rettori e Consoli di essa, che erano condannati in 200 lire.
Di assai maggiore importanza fu un'altra legge deliberata il 2 gennaio 1291, la quale diceva chiaro di voler frenare con la forza la rapacità felina dei Grandi ( volentes lupinas carnes salsamentis caninis involvi ).[336] Essa proibiva severamente di ricorrere a tribunali o magistrati, che non fossero quelli per legge costituiti, cioè i Priori, il Capitano, il Podestà e i giudici ordinarî del Comune. Coloro che dal Papa, dall'Imperatore, dal re Carlo o dai loro Vicarî avessero ottenuto esenzione di qualunque sorta, o arbitrio di ricorrere ad altri magistrati, e pretendessero di poterlo fare; coloro che, con questo medesimo intento, vantassero pretese di antichi diritti feudali, erano avvertiti di non valersene sotto minaccia di pene gravissime. La nuova legge discorreva per minuto le varie forme di tali pretese esenzioni, e determinava le pene. Ma quello che è piú singolare, essa puniva non solamente coloro che vantavano questi diritti e li volevano esercitare, i notai che trascrivevano gli atti, e gli avvocati che ne sostenevano la validità; ma quando i veri autori fossero riusciti a sfuggire la pena, chiamava responsabili i loro parenti o anche lontani congiunti, i loro coloni e perfino i loro inquilini. Il popolo minuto, il popolo grasso e i Grandi formavano a quel tempo come tre ordini di cittadini, anzi tre società distinte, che nelle offese e nelle difese, negli odî, nelle vendette e nei diritti politici, agivano come se ognuno fosse, volesse e dovesse essere responsabile pe' suoi colleghi. La legge veniva quindi spinta, riconoscendo questo stato di cose, a provvedimenti che, se erano opportuni o anche necessarî in aiuto della democrazia e dei deboli contro i potenti, non cessavano perciò di essere arbitrarî. Tuttavia ogni giorno si vedeva piú chiara la necessità di ricorrere a rimedî estremi. I Grandi, pei favori del Papa e degli Angioini, erano divenuti troppo orgogliosi. E i prosperi successi ottenuti recentemente a Campaldino, dove il valore di Corso Donati e di Vieri de' Cerchi aveva deciso la battaglia, li inorgogliva per modo, che si vantavano di non temer piú le leggi, le quali di fatto ogni giorno violavano. E cosí fu apparecchiata quella rivoluzione che, scoppiata nel 1293, costituí il secondo popolo, e condusse i potenti alla loro ultima rovina.
Nota A.
«In Dei nomine amen. Anno sue salutifere incarnationis millesimo ducetesimo octuagesimo nono, indictione secunda, die sexto intrante mense augusti. Cum libertas, qua cuiusque voluntas, non ex alieno, sed ex proprio dependet arbitrio, iure naturali multipliciter decoretur, qua etiam civitates et populi ab oppressionibus defenduntur, et ipsorum iura tuentur et augentur in melius; volentes ipsam et eius species non solum manutenere, sed etiam augmentare, per dominos Priores Artium civitatis Florentie, et alios Sapientes et bonos viros ad hoc habitos, et in domo Ghani Foresii et Consortum, in qua ipsi Priores pro Comuni morantur, occasione providendi super infrascriptis unanimiter congregatos, ex licentia, bailia et auctoritate in eos collata, et eisdem eshibita et concessa in Consiliis et per Consilia domini Defensoris et Capitanei et etiam Comunis Florentie, provisum, ordinatum extitit salubriter et firmatum: Quod nullus, undecumque sit et cuiuscumque condictioni dignitatis vel status existat, possit audeat vel presumat per se vel per alium tacite vel espresse emere, vel alio aliquo titulo, iure, modo vel causa adquirere in perpetuum vel ad tempus aliquos Fideles, Colonos perpetuos vel conditionales, Adscriptitios vel Censitos vel aliquos alios cuiuscumque conditionis existant, vel aliqua alia iura scilicet angharia vel perangharia, vel quevis alia contra libertatem et condictionem persone alicuius, in civitate vel comitatu vel districtu Florentie; et quod nullus, undecumque sit, et cuiusque condictionis, dignitatis vel status existat, possit, audeat vel presumat predicta vel aliquid predictorum vendere, vel quovis alio titulo alienare, iure, modo vel causa concedere in perpetuum vel ad tempus alicui persone, undecumque sit, vel cuiusque condictionis dignitatis vel status, in Civitate vel comitatu vel districtu Florentie, decernentes irritum et inane et ipso iure non tenere, si quid in contrarium fieret in aliquo casu predictorum. Et tales contractus et alienationes quatenus procederent, de facto cassantes, ita quod nec emptoribus vel acquisitoribus ius aliquod acquiratur, nec etiam ad alienantes vel concedentes ius redeat, vel quomodolibet penes eos remaneat: sed sint tales Fideles, vel alterius conditionis astricti, et eorum bona, et filii et descendentes libere condictionis et status. Et nihilominus tales alienantes, vel quomodolibet in alios transferentes, in perpetuum vel ad tempus, per se vel per alium et quilibet eorum, et ipsorum et cuiusque eorum sindici, procuratores et nuntii, et tales emptores, vel alio quovis titulo, modo, causa vel iure acquirentes, per se vel per alium in perpetuum modo vel ad tempus, et eorum procuratores, sindici et nuntii et iudices et notarii et testes, qui predictis interfuerint vel ea scripserint, et quilibet eorum, condempnentur in libris mille f. p., que effectualiter exigantur, non obstantibus aliquibus pactis vel conventionibus, etiam iuramento vel pena vallatis, iam factis vel in posterum ineundis, super predictis vel aliquo predictorum vendendis, permutandis vel alio quovis modo vel titulo transferendis. Quos contractus supradicti domini Priores et Sapientes nullius valoris et roboris fore decreverunt, et quatenus de facto processissent vel procederent, totaliter cassaverunt et cassant. Decernentes etiam quod si aliquis non subiectus iurisdictioni Comunis Florentie, et qui non respondeat in civilibus et criminalibus regimini fiorentino, vel non solvat libras et factiones Comunis Florentie, undecunque sit, per se vel per alium, predictos contractus vel aliquem predictorum iniret aliquo modo iure vel causa, quod pater et fratres et alii propinquiores ipsius, si patrem vel fratrem non haberet, et quilibet eorum condempnentur in libris mille f. p., que pena effectualiter exigatur; reservantes etiam sibi et populo fiorentino potestatem super predictis et quolibet predictorum acrius providendi contra tales concedentes vel concessiones recipientes per se vel per alium in aliquibus casibus de predictis. Et quod in predictis omnibus et singulis et circa predicta domini Potestas et Defensor et Capitaneus presentes et futuri et quilibet eorum plenum, merum et liberum arbitrium habeant et exercere debeant contra illos, qui in predictis vel circa predicta committerent in personis et rebus, ita et taliter quod predicta omnia et singula effectualiter observentur et executioni mandentur. Salvo tamen quod Comuni Florentie quilibet possit licite vendere et in ipsum Comune predicta iura transferre; et etiam ipsi Fideles et alii supradicti se ipsos et eorum filios et descendentes et bona licite possint redimere sine pena; et illi tales qui talia iura haberent, possint ipsa iura ipsis fidelibus volentibus se redimere vendere et eos liberare a tali iure licite et impune. Et hec omnia et singula locum habeant ad futura et etiam ad preterita, a kallendis ianuarii proxime presentis citra, currentibus annis Domini millesimo ccº lxxxviijº indictione secunda». — Questa legge fu letta e approvata nel Consiglio generale e speciale del Capitano e delle Capitudini, secondo il consueto, ma non in quello del Podestà. Essa è stata pubblicata piú volte, bensí non senza errori e lacune: dall'avv. Migliorotto Maccioni in una sua scrittura a favore dei Conti della Gherardesca (tomo II, p. 74); da C. F. von Rumohr, Ursprung der Besitzlosigkeit des Colonen in neuren Toscana (Hamburg, 1830), pag. 100-103; e nell' Osservatore Fiorentino, vol. IV, pag. 179 (Firenze, Ricci, 1821). — Noi la riproduciamo secondo il testo originale che si conserva nel R. Arch. di Stato di Firenze, Provvisioni, Registro 2, a c. 24 t -25.
Nota B.
Il Difensore degli artefici e delle Arti, Capitano e Conservatore della città e del Comune di Firenze, fece la proposta nel Consiglio speciale e generale, il 30 giugno 1290, presentibus et volentibus Dominis Prioribus Artium, e la provvisione, vinta alla quasi unanimità ( placuit quasi omnibus ), diceva: «Quia per quamplures homines civitatis Florentie fide dignos, relatum est coram officio dominorum Priorum Artium, quod multi sunt artifices et comunitates seu universitates Artium et earum Rectores, qui certum modum et formam indecentem, et certum precium incongruum imponunt in eorum mercantiis et rebus eorum Artium vendendis contra iustitiam et Rempublicam». ec. Si concludeva poi, vietando severamente ogni specie di monopolio, ogni obbligo di vendere in un modo contrario all'uso ed alle leggi, « et quod dogana aliqua vel compositio non fiat contra honorem et iurisdictionem Comunis Florentie, per quam vel quas prohibitum sit a Rectoribus vel Consulibus ipsorum Artis, quod aliqui vel aliquis ad certum modum et certam formam et certum precium vendant, vel vendere debeant mercantias» ec. Al che Guidotto Canigiani aggiunse, che i Signori potessero in avvenire formolare altri articoli, non per derogare alla detta provvisione, ma solo per sempre piú rafforzarla nell'interesse delle Arti. E la sua aggiunta fu, insieme colla provvisione stessa, approvata (R. Archivio di Stato in Firenze. Provvisioni, Registro IV, c. 29). Ed il 3 luglio, in forza della precedente riformagione, i Priori delle Arti, con altri Savi da loro chiamati, provvidero: «Quod nulli Consules vel Rectores alicuius Artis, aut aliquis alius, vice et nomine alicuius Artis, vel aliqua singularis persona alicuius Artis, utatur aliquo ordinamento scripto vel non scripto, extra Constitutum Artis approbatum per Comune Florentie, vel aliter vel ultra quam contineatur in statuto talis Artis, ec.... Et siqua facta essent in contrarium vel fierent in futuro tacite vel expresse, non valeant nec teneant ullo modo vel iure, sed sint cassa et irrita ipso iure ec. Et quod nullus notarius vel alius scriptor scribere debeat aliquid de predictis vel contra predicta, et nullus nuntius vel alius precipiat aliquid aliquibus artificibus contra predicta: sub pena Rectori et Consuli contrafacienti auferenda librarum cc. pro quolibet et qualibet vice; et Arti, librarum quingentarum; et sub pena librarum centum pro quolibet, qui observaret talia ordinamenta vel precepta prohibita; et sub pena libr. centum cuilibet qui de predictis ordinamentis prohibitis faceret precepta Arti seu artificibus alicuius Artis». Questa provvisione doveva essere ogni mese letta nel Consiglio del Capitano, e bandita per la Città ( Provvisioni, Reg. cit., a carte 30-31).
Nota C.
Il 31 gennaio 1290 (stile nuovo, 1291) fu fatta una provvisione, la quale incominciava con questo singolare proemio: «Ad honorem ec. Ut cives et comitatini Florentie non opprimantur sicut hactenus oppressi sunt, et ut hominum fraudibus et malitiis que circa infrascripta committi solent, debitis remediis obvietur et resistatur, quod quidem videtur nullomodo fieri posse, nisi iuxta sapientis doctrinam, dicentis quod contraria suis purgantur contrariis; ideoque, volentes lupinas carnes salsamentis caninis involvi et castigari debere, ita quod lupi rapacitas et agni mansuetudo pari passu ambulent, et in eodem ovili vivant pacifice et quiete» ec.
Si viene poi a proibire severamente, che nessuno osi o presuma «aliquas litteras impetrare vel impetrari facere, aut privilegium vel rescriptum, per quas vel quod aliquis vel aliqui de civitate vel districtu Florentie citentur vel trahantur ad causam, questionem vel litigium aut examen alicuius iudicis, nisi coram domino Potestate, Capitaneo et aliis officialibus Comunis Florentie»; e chi contraffaceva, se, richiesto, non rinunziava all'azione, pagando danni ed interessi in tre giorni, veniva condannato alla pena di 100 lire di fiorini piccoli o piú, ad arbitrio del Podestà o Capitano o altro magistrato, che avesse iniziato il processo. E se qualcuno non volesse sottostare o sfuggisse all'autorità dei magistrati, «teneantur Potestas et Capitaneus, qui de predictis requisitus esset, condemnare patrem vel filium vel fratrem carnalem vel cuginum ex parte patris vel patruum et nepotes eius etc., in dicta pena, et dictam condemnationem exigere cum effectu, et etiam in maiori pena, ad arbitrium eorum et cuiuscunque eorum, si eis vel alteri eorum videbitur expedire. Et nichilominus compellat eos et quemlibet eorum dare et facere tali contra quem dicerentur tales littere vel privilegium vel rescriptum impetrata, omnes expensas quas faceret vel fecisset, occasione predicta, credendo de predictis expensis iuramento huiusmodi contra quem dicerentur predicta vel aliquod predictorum impetrata».
Veniva inoltre, come abbiam detto, minacciato di gravi pene chiunque, nella Città, Comune e distretto fiorentino, direttamente o indirettamente pubblicasse tali atti, il notaio che li trascrivesse e l'avvocato che li difendesse.
Il Podestà e Capitano potevano procedere d'arbitrio contro chi «audeat vel presumat facere precipi eis vel alicui eorum, quod faciant aliquid vel ab aliquo desistant, vel citari Potestatem vel Capitaneum vel Priores vel Consiliarios vel aliquem officialem Communis Florentie, vel eorum offitia impedire vel retardare coram aliquo vel aliquibus, ex autoritate aliquarum licterarum, privilegii vel rescripti, vel ex auctoritate alicuius iudicii ordinarii, delegati vel subdelegati, vel vicarii». E al solito la pena era applicabile anche ai congiunti e parenti.
Siccome poi molti chiedevano l'appoggio della giustizia civile ( brachium seculare ) «in deffectum iuris et in lesionem et in preiuditium personarum et locorum subdittorum Comuni Florentie» ec., fu deliberato che questo appoggio non si desse, se non finita la causa innanzi ai magistrati competenti, e presa cognizione di essa. Se in questo caso i magistrati si ricusavano, allora si poteva procedere contro di essi. Ma altrimenti coloro che richiedevano un'ingiusta esecuzione erano punibili, secondo è prescritto nel primo paragrafo di questa legge, essi e i loro congiunti. «Verum si consanguineos, ut dictum est, non haberet, procedatur contra bona talis petentis brachium seculare, et contra inquilinos, laboratores, pensionarios et fictaiuolos eiusdem potentis, et illorum cuius occasione petitur, et ad alia procedatur, prout ipsis dominis Potestati vel Capitaneo et Prioribus videbitur expedire». Seguono altri due paragrafi, che in tutto sono dieci, e poi la legge resta interrotta nel codice. ( Provvisioni, Registro II, a c. 175-177).
Capitolo VI IL COMMERCIO E LA POLITICA DELLE ARTI MAGGIORI IN FIRENZE[337]
I
La fine del secolo XIII segna il principio d'un'era nuova nella storia dell'Italia e dell'Europa. Da Carlo Magno in poi v'era stato nell'Europa settentrionale un periodo di disordine politico, ma d'una cultura letteraria, che, poco studiata in passato, è stata oggi messa in grandissima luce dagli eruditi. La letteratura provenzale e cavalleresca; quei poemi che si dividono nei cicli di Carlo Magno e d'Arturo; i Nibelungen; le mille canzoni; le splendide cattedrali, che si trovano da un lato e l'altro del Reno, e costituiscono un'arte mille volte imitata, non mai superata; tutto ciò fu l'effetto d'una prima e grande cultura nel Medio Evo, alla quale l'Italia, per molto tempo, non partecipò. Nel settentrione d'Europa i vinti ed i vincitori s'erano piú facilmente mescolati fra di loro, e cosí vi poteron sorgere piú presto una letteratura ed un'arte nazionale. In Italia, invece, i vinti furono oppressi, ma non si confusero mai del tutto coi vincitori. Essi anzi, a poco a poco, cominciarono a risorgere ed a resistere. La prima storia dei Comuni è la conseguenza di questa lotta; laonde, nel tempo in cui la Francia cantava le sue canzoni ed i suoi poemi cavallereschi, l'Italia pensava solo a gettar le basi delle sue istituzioni politiche e della sua libertà.
Col principio del secolo XIV la scena si muta totalmente. Quelle letterature sono come colpite da subita decadenza, la fantasia e l'immaginazione settentrionale sembrano a un tratto inaridirsi. Comincia anche colà un lungo, lento e penoso lavoro per ordinarsi politicamente. Ed in questo momento, invece, essendo già costituiti i municipî italiani, sorge fra noi la letteratura nazionale, che, colla sua splendida luce, fa scomparire dall'orizzonte, e per molti secoli rende invisibili e dimenticate le altre letterature, che l'avevano preceduta. Ed è questo appunto il tempo in cui Firenze, che diviene il centro e la sede principale della nuova cultura italiana, trovasi governata dalle Arti Maggiori. L'Impero sembra abbandonare le sue pretensioni sull'Italia; il Papato, combattuto e indebolito, non osa piú comandare la società laica col medesimo ardire d'una volta; le lotte fra i vincitori ed i vinti son cessate, perché ogni differenza tra sangue germanico e sangue latino è del tutto scomparsa, ed in Italia non vi sono ora che Italiani.
Nel seno del Comune fiorentino, la lunga lotta della democrazia contro l'aristocrazia feudale, è vicina a cessare col trionfo della prima, e la Repubblica si può già chiamare una repubblica di mercanti, la quale in poco tempo, col suo commercio, accumula tesori che sembrano favolosi. Tutto parrebbe annunziare un'era novella di pace, di concordia e di prosperità. Ma invece, se noi gettiamo uno sguardo all'avvenire, vediamo che le discordie civili continuano ancora fieramente a lacerar la Repubblica; vediamo che, fra lo splendore delle Arti e d'un commercio fiorente, le istituzioni politiche decadono, e si cammina quasi fatalmente alla perdita della libertà. Per qual ragione, adunque, un municipio che, sorto nel principio del secolo XII, in mezzo a tante difficoltà, ha saputo continuamente progredire, comincia ora, fra tanta prosperità, a decadere? Per qual ragione le guerre civili durano ancora, quando sembra cessato ogni pretesto di discordia, con la vittoria del partito popolare, che ora ha in mano il governo? Noi troveremo la soluzione di questo problema, esaminando un poco piú da vicino le nuove condizioni della società fiorentina, specialmente le Arti maggiori e minori, che ne formano il nucleo e la forza principale.
Le Arti, costituite in associazioni, dopo avere piú volte variato di numero, furono in Firenze ventuna, sette maggiori e quattordici minori, sebbene spesso le dividessero ancora in dodici maggiori e nove minori. In ogni modo le prime ed assai piú importanti erano le seguenti:
- 1. dei Giudici e Notai,
- 2. di Calimala o dei panni forestieri,
- 3. della Lana,
- 4. della Seta o di porta S. Maria,
- 5. dei Cambiatori,
- 6. dei Medici e Speziali,
- 7. dei Pellicciai e Vaiai.
La prima di esse, come ognun vede, è propriamente fuori dell'industria e del commercio, avvicinandosi assai piú alle professioni liberali. Pure è bene osservare, che i giudici ed i notai contribuivano allora moltissimo al progresso delle Arti, nelle quali venivano continuamente adoperati. Erano essi che, insieme coi Consoli, sedevano nella Corte o tribunale di ciascuna delle Arti, e decidevano tutte le liti commerciali che si presentavano; componevano i dissensi; pronunziavano o proponevano le pene. I notai poi erano piú specialmente destinati all'importante ufficio d'apparecchiare i nuovi Statuti ed a riformarli di continuo; essi ne sorvegliavano la esecuzione, stendevano i contratti, e nei maggiori e minori Consigli delle Arti, pigliavano spesso la parola in nome dei Consoli. I buoni giudici e buoni notai erano molto ricercati in Italia, e riccamente pagati, come un mezzo necessario di prosperità. Essi quindi divennero un'Arte delle piú autorevoli in Firenze, i cui notai avevano reputazione d'essere i piú abili nel mondo. Goro Dati, nella sua Storia di Firenze, dice di quest'Arte, che essa «ha un Proconsolo sopra i suoi Consoli, e reggesi con grande autorità, e puossi dire essere il ceppo di tutta la notaria, che si esercita per tutta la Cristianità, e, indi sono stati i gran maestri, autori e componitori di essa. La fonte dei dottori delle leggi è Bologna, e la fonte dei dottori della notaria è Firenze».[338] Nelle pubbliche funzioni il Proconsolo andava innanzi a tutti i Consoli, e veniva subito dopo il supremo magistrato della Repubblica. Capo dei giudici e notai, egli aveva come un'autorità giuridica su tutte le Arti.
Le quattro altre che seguono, cioè di Calimala, della Lana, della Seta e del Cambio, son quelle che avevano in mano la piú gran parte dell'industria e del commercio fiorentino. Esse erano molto antiche. L'Ammirato osserva che dei Consoli delle Arti è fatta menzione in un diploma del 1204, ma ne parlano anche documenti assai anteriori. Le Arti però, sebbene antichissime, ebbero un lungo periodo di lenta formazione, e vennero in fiore molto piú tardi, ciascuna in tempo diverso. Piú antiche e prime a progredire furon quelle di Calimala e della Lana, che si potrebbero quasi ritenere come un'industria sola, perché ambedue lavoravano panni di lana, e ne facevano largo commercio. Questo traffico però era fatto in modo affatto speciale da ciascuna di esse, ed acquistarono perciò tale e tanta importanza propria, che restarono sempre divise in due Arti separate.
Sino dai primi tempi del Medio Evo, gl'Italiani avevano avuto costumi e vivere piú delicato, e civile dei barbari, industrie assai piú avanzate. Un cronista citato dal Muratori, racconta che Carlo Magno, venuto in Italia, volle un giorno andare a caccia, e mandò a chiamare improvvisamente i suoi cortigiani, che si trovavano a Pavia. Ivi già i Veneti avevano cominciato a portare i preziosi prodotti dell'Oriente, e però i cortigiani poterono presentarsi all'Imperatore vestiti in grandissima gala. Andati a caccia, le penne e le stoffe preziose dei cortigiani furono dalla pioggia e dalle spine interamente sciupate; ma l'abito dell'Imperatore, ch'era d'una semplice pelle di capretto, rimase intatto. Laonde egli, rivolto ai suoi cortigiani, quasi deridendoli, disse: a quale scopo gettate voi cosí inutilmente il danaro, quando avete le pelli, che sono l'abito piú conveniente, piú resistente e meno costoso?[339] Si può certamente dubitare dell'autenticità storica di questo fatto; ma la narrazione del cronista proverebbe in ogni modo due cose: che nel secolo IX, cioè, l'uso di vestir pelli di capretto o agnello era cosí generale, che si poteva supporre non le sdegnasse un imperatore; e che, sebbene le industrie italiane fossero allora assai povere, pure già stoffe di lusso venivano dall'Oriente, per mezzo dei Veneti.
II
L'industria dei piú rozzi tessuti di lana però è cosí semplice, che non dovette tardare a risorgere in Italia, anzi non si può credere che andasse mai perduta del tutto. Sembra che i primi progressi si facessero imitando i piú semplici tessuti, che venivano dall'Impero d'Oriente, dove la cultura e l'industria si mantennero assai piú lungamente. Infatti, a questa origine accennano i nomi di quasi tutti i primi tessuti italiani, come Velum holosericum, Fundathum alithinum, Vela tiria, bizantina, Crysoclava, ecc.[340] Sebbene però l'arte di lavorare la lana abbia un'origine assai antica, e sia nota perfino ai popoli pastori, essa trovava in Italia gravi difficoltà al suo progresso. E la difficoltà principale stava nella cattiva qualità della nostra lana. Per migliorarla bisognava migliorare gli armenti, quindi la pastorizia e l'agricoltura. Ma i municipî italiani promossero con ogni piú gran cura l'industria; disprezzarono e spesso anche oppressero l'agricoltura. Gli artigiani formavano la repubblica, e la governavano; essi vinsero l'aristocrazia feudale e salirono ai piú alti onori; ma l'agricoltore, sebbene fosse in Toscana trattato assai meglio che altrove, rimase pur lungamente attaccato alla gleba, e non ebbe mai i diritti di cittadinanza. Da questo solo fatto si può immaginare il resto. Tutte le leggi, tutti i provvedimenti che risguardano l'industria sono pieni di senno e di preveggenza; tutti quelli che risguardano l'agricoltura sembrano dettati dal pregiudizio o dalla gelosia. In Toscana s'aggiungeva poi, per ciò che s'attiene alla pastorizia e quindi all'industria della lana, un paese montuoso, in cui allignano la vite e l'ulivo, vi si produce buonissimo grano, ma difettano i prati naturali o artificiali. Migliorare la qualità della lana, e crescerne la produzione, era dunque una impresa difficile assai. Onde è che i Fiorentini arrivarono subito a fare quei tessuti di lana, che chiamavano pignolati, schiavini, villaneschi; ma con questi panni, i cui nomi indicano abbastanza la loro qualità, non potevano fare che un commercio assai ristretto, nel contado o poco lungi dai confini della Repubblica. E quando volevano migliorarli, allora incominciavano le gravi difficoltà. Provarsi a lavorare tessuti fini con lana grossa, era un'impresa che non poteva metter conto per nessun verso; far venire lana forestiera da lontani paesi, non era facile nei tempi in cui l'industria ed il commercio erano ancora in sul nascere: la spesa del trasporto avrebbe mangiato il guadagno. Eppure fu nel superare tutte queste gravi difficoltà, che i Fiorentini cominciarono a dar le prime prove del loro genio industriale.
Nella Fiandra, nell'Olanda e nel Brabante la lana era d'assai migliore qualità, e l'arte di tesserla v'è cosí antica, che la sua origine, come quella dei tessuti di lino nella Germania settentrionale, si perde quasi nei tempi che si possono chiamare anti-storici. Se non che, nonostante la buona qualità della materia prima, questi panni erano assai grossolani, e venivano in commercio intonsi, non raffinati, tinti con colori di pessimo gusto e poco duraturi. Pensarono allora i mercanti fiorentini di portarli a Firenze, per raffinarli e tingerli. Cosí nacque l'arte di Calimala o Calimara.[341] Dalla Fiandra, dall'Olanda e dal Brabante cominciarono a partire le balle, che chiamavano torselli, di panni franceschi o oltramontani, e venivano a Firenze, dove erano cardati, cimati, affettati, tagliati. Con queste prime operazioni si levava destramente quella peluria, che li rendeva grossolani, e si ritrovava un tessuto di lana piú fina assai che l'italiana, e cosí facilmente si poteva dare un colore finissimo, nel quale i Fiorentini cominciarono subito a dimostrare un gusto che superava tutti. Stirati, cilindrati e ripiegati, questi panni ritornavano nel commercio, con ben altra forma e di ben altro valore. Dapprima molto ricercati in Italia, andarono poi in Oriente, dove erano cambiati con droghe, colori ed altri prodotti dell'Asia. E finalmente, perfezionandosi sempre, arrivarono in Francia, in Inghilterra, negli stessi mercati, donde erano la prima volta partiti, e dove si mutavano con altri panni da raffinare. In questo modo, non solamente si sopperiva alla mancanza della materia prima, ma il lavoro straniero contribuiva al guadagno fiorentino. Con un numero di braccia non molto grande, si faceva un commercio estesissimo, ed occupando la popolazione in questi lavori di ultimo raffinamento, si spingeva innanzi l'Arte di Calimala, la quale doveva poi, nel suo cammino, tirarsi dietro inevitabilmente anche quella della lana.[342]
Questa infatti, spinta dall'esempio e dall'amor del guadagno, faceva ogni opera per migliorare. Ed al suo maggiore progresso contribuirono del pari gli sforzi dei privati e gli accorti provvedimenti della Repubblica. V'era allora in Italia un Ordine religioso detto degli Umiliati, la cui prima origine si dovette ad alcuni esuli lombardi, che, nel 1014, confinati da Arrigo I nella Germania settentrionale, v'avevano appreso l'arte quivi antichissima del tessere la lana. Costituitisi poi in devota società, s'erano dati a vivere col lavoro delle proprie mani, e dopo cinque anni tornarono in patria associati ed industriosi. E cosí, mantenendosi laici, durarono sino all'anno 1140, quando pensarono di formare un Ordine religioso, che venne piú tardi approvato da papa Innocenzo III. I sacerdoti allora non lavorarono piú colle proprie mani; ma amministrarono e diressero l'industria, che venne continuata dai laici, sotto la direzione del mercatore, e andò sempre perfezionandosi. Era naturale che uomini culti, i quali avevano il loro Ordine sparso in varie province, datisi a diriger una industria, la sapessero far progredire. Essi infatti s'andarono acquistando tale e tanta reputazione d'abili amministratori, che noi li troviamo impiegati a Firenze ed altrove come camarlinghi dei Comuni, come fornitori degli eserciti in tempo di guerra. Ovunque si trasferiva una casa del loro Ordine, ivi subito si vedeva nel paese progredire l'arte della lana. Ed è perciò che la repubblica fiorentina, provvida sempre quando si trattava del suo commercio e della sua industria, invitò i frati Umiliati a portar presso Firenze una delle loro case, le quali essa riteneva come grandi scuole industriali.
Gli Umiliati vennero adunque nel 1239, e si fermarono a poca distanza dalla Città, nella chiesa di S. Donato a Torri, che fu loro concessa. E gli effetti furono quali s'erano preveduti. In poco tempo essi divennero uno dei centri principali dell'industria fiorentina, in modo che le maestranze si dolevano della loro lontananza, e li sollecitarono a venire ancora piú presso alle mura. Nel 1250 ottennero case e terre nel popolo di S. Lucia sul Prato, con esenzione dalle gravezze sui loro beni, il che i Fiorentini solevano concedere a chiunque sapeva portare nella Città una nuova industria. Nel 1256 fondarono la chiesa e convento di S. Caterina in Borgo Ognissanti, ove posero la loro insegna, che era una balla di lana, legata con funi a forma di croce. E da questo momento l'Arte della lana fece in Firenze grandissimo progresso; i panni fiorentini cominciarono a vincere gli altri in tutti i mercati d'Europa. Si cercò di migliorare la materia prima, se ne raffinò moltissimo la lavorazione, e si fecero venire le lane piú fini di Tunisi, Barberia, Spagna, Portogallo, Fiandra, e finalmente anche dell'Inghilterra. Cosí s'apri un commercio vastissimo, e s'accumularono tali ricchezze, che l'Arte della lana emulò e vinse perfino quella di Calimala. Esse divennero come due grandi potenze commerciali in Europa, e ciò che avevano una volta deliberato in Firenze, la Repubblica non osava contrastarlo.[343]
Giovanni Villani, nella preziosa statistica, che ci ha lasciato di Firenze nell'anno 1338, dice che le botteghe della lana erano duecento o piú, e facevano da 70 ad 80 mila panni del valore d'un milione e duecento mila fiorini, di cui «bene il terzo rimaneva nella terra per ovraggio, senza il guadagno de' lanaiuoli del detto ovraggio, e viveanne piú di trentamila persone». L'incremento dell'industria s'era ottenuto assai piú col perfezionare la mano d'opera; che coll'aumentare la quantità della produzione. Lo stesso Villani osserva che, trenta anni prima, cioè nel 1308, il numero delle botteghe era maggiore, arrivando esse fino a 300, che facevano 100,000 panni: «ma erano piú grossi e della metà valuta, perocché allora non ci entrava e non sapevano lavorare lana d'Inghilterra, come hanno fatto poi».[344] Cosí è chiaro, che il primo progresso dell'arte, cominciato nel secolo XIII per opera degli Umiliati, si compié nel XIV per l'introduzione delle lane inglesi.
Nello stesso anno 1338 l'Arte di Calimala aveva in Firenze venti fondachi, «che facevano venire per anno piú di dieci mila panni, di valuta di trecento migliaia di fiorini, che tutti si vendevano in Firenze, senza quelli che si mandavano fuori di Firenze».[345] La perizia raggiunta da quest'Arte nel raffinare e colorire era grandissima, massime nel dare la tinta ai panni rosati, de' quali si faceva in Firenze larghissimo uso, perché di esso soleva formarsi il lucco fiorentino, che doveva esser portato da chiunque entrava nel Palazzo, a sedere nei magistrati o nei Consigli della Repubblica. Queste due Arti s'erano poi diviso il lavoro per modo, che l'una non invadesse il dominio dell'altra. Gli Statuti vietavano assolutamente all'Arte di Calimala di tingere altro che panni forestieri; l'Arte della lana aveva i suoi propri tintori, che formavano come un'altra associazione sottoposta ad essa. E questi tintori sodavano, cioè davano garanzia all'Arte della lana per 300 fiorini, somma da cui si cavavano le penali, ogni volta che si scopriva una macchia o si trovava un colore falso. Su di ciò gli officiali delle Arti erano d'una severità senza pari. Tutto, come già vedemmo, veniva minutamente esaminato, e la piú piccola magagna, sia nel colore, sia nella qualità e nella misura della stoffa, era soggetta a pene gravissime. Queste grandi Arti fiorentine costituivano assai spesso piú che un'industria sola, un insieme numeroso di mestieri diversi, e ciò può dirsi specialmente di quella della lana, che andava dal cardare la materia prima fino al tingere e raffinare i piú costosi tessuti. E cosí, quando l'Arte poteva essa stessa compiere ogni lavoro di cui aveva bisogno, e i mestieri destinati ad uno scopo comune erano fra loro collegati, essi non si potevano osteggiare col crescere i prezzi l'uno a danno dell'altro. L'Arte della lana aveva per insegna un agnello con una bandiera ( Agnus Dei ), e quella di Calimala, un'aquila rossa sopra un torsello bianco, legato a piú giri.
Per tutto il secolo XIV e per buona parte del XV, queste due Arti andarono migliorando, e mantennero il loro primato nei mercati d'Europa. Ma si trovavano pur sempre in una condizione difficile, non essendo mai riuscite a produrre in Italia tutta quanta la materia prima di cui abbisognavano, né avendo le braccia necessarie a compiere tutto il lavoro che occorreva al loro commercio. Diffondere l'industria nei vicini paesi, nelle sottoposte città, era cosa che le idee economiche e politiche del Medio Evo non consentivano. L'industria era allora la maggior forza e potenza sociale dei Comuni, e quindi ognuno di essi voleva mantenerla tutta a proprio vantaggio, e gli Statuti avevano mille prescrizioni dettate da questa cieca gelosia. Per tali ragioni i Fiorentini, seguendo il sistema di fare essi i lavori piú fini e lucrosi, avevano aperto fabbriche pei lavori piú grossolani e di preparazione, là dove si trovavano le migliori lane, in Olanda, cioè, nel Brabante, nella Francia e nell'Inghilterra. Ed anche in queste fabbriche avevano cura, che la parte piú intelligente e lucrosa del lavoro fosse condotta sempre da braccia fiorentine. Nelle loro cronache troviamo, che essi tenevano allora sugli stranieri quel linguaggio medesimo, che gli stranieri tengono oggi su di noi: deridevano l'inerzia e la dappocaggine dei settentrionali, che in propria casa si lasciavano strappar di mano il guadagno. Ma un tale stato di cose non poteva durare a lungo. Fino da tempi assai antichi i Fiamminghi s'erano dimostrati sempre uomini industriosi; i Francesi e gl'Inglesi, ben presto non furon da meno. A poco a poco essi aprirono gli occhi, ed i Fiorentini videro sorgere all'estero, accanto alle loro, nuove fabbriche, che cominciavano ad emularli, e si dovettero accorgere, che, contro ogni loro desiderio, avevano diffusa fra gli stranieri l'arte di cui volevano far monopolio. Né ciò era tutto. Una volta scaltriti, gli stranieri cercarono d'impedire l'estrazione delle loro lane, dei loro panni intonsi, o sia non ancora raffinati; e cosí, sin dalla fine del XV secolo, cominciò a fare Arrigo VII d'Inghilterra. Allora fu inevitabile la decadenza delle Arti della Lana e di Calimala in Firenze. Fortunatamente però, prima che ciò avvenisse, già l'industria della seta aveva preso nel commercio fiorentino quella importanza che le altre due andavano perdendo.
Ognuno conosce come il lavoro della seta, antichissimo in Oriente, sia cominciato assai tardi in Occidente. I Romani ricevevano dalla Persia, dall'India e dalla China alcuni drappi di seta, che pagavano a carissimo prezzo; conoscevano alcuni bruchi, col bozzolo de' quali facevano tessuti molto pregiati; ma il baco da seta restò ignoto in Italia fino al Medio Evo assai inoltrato, e la storia della sua introduzione in Occidente, non è sicuramente nota in tutti quanti i suoi particolari. Si racconta che, nel sesto secolo dell'era volgare, due monaci persiani riuscirono ad introdurre il seme dei bachi da seta nell'interno dei loro bastoni, e, viaggiando, poterono, cosí custodito, portarlo infino a Costantinopoli, dove insegnarono l'arte d'allevare i bachi. In tal modo sarebbe cominciato, la prima volta, a diffondersi nelle province dell'Impero bizantino l'industria della seta, che gli Arabi, i Musulmani diffusero poi nella Grecia ed in Sicilia. Quando Ruggiero II, conte di Sicilia, conquistò le isole dell'Arcipelago, e, tornando a Palermo, vi portò numerosi prigionieri (1147-48), questi fecero assai progredire quell'industria nell'isola. Di là passò facilmente in Lombardia ed in Toscana; ma prima si fermò e perfezionò a Lucca, essendo i Fiorentini tutti ancora dediti ai ricchi guadagni della lana. I Consoli dell'Arte della seta o di Por S. Maria, come la chiamavano a Firenze dal luogo ove risiedeva, trovansi insieme cogli altri menzionati nei trattati; ma se anche quest'arte è molto antica, certo è che cominciò a fiorire assai piú tardi. È notevole che Giovanni Villani, il quale, all'anno 1338, ci dà un ragguaglio minutissimo dell'industria e del commercio fiorentino, non accenni punto all'Arte della seta, il che farebbe credere, che in quel tempo non avesse ancora molto progredito.[346]
Noi sappiamo che, quando Uguccione della Faggiola assediò e prese Lucca (1314), i profughi di questa città diffusero in Lombardia, nel Veneto, in Toscana i perfezionamenti della seta, ed a Firenze la trovarono cosí poco avanzata, che da parecchi cronisti i Lucchesi furono tenuti come quelli che primi ve la introdussero. Tuttavia per molti anni ancora l'industria si continuò ad esercitare, facendo venire dall'Oriente la materia prima. Ma quando l'Arte della lana cominciò inevitabilmente a decadere, allora tutto l'ardore di Firenze si rivolse alla seta, e i progressi furono rapidissimi. Nei primi anni del secolo XV, Gino Capponi, quel medesimo che era commissario all'assedio di Pisa, insegnò ai Fiorentini l'arte di filar l'oro, che essi avevano sino a quel tempo fatto venire da Colonia o Cipro, per tesserlo colla seta. E cosí cominciarono quei finissimi broccati d'oro e d'argento, nei quali, gareggiando l'industria col genio artistico, i Fiorentini furon subito senza rivali. I mercati, donde erano cacciati i pannilani, vennero subito riconquistati dai drappi di seta e dai broccati. Nella seconda metà del secolo XV troviamo, infatti, che Benedetto Dei, mercante della compagnia dei Bardi, scriveva ai Veneziani una lettera, nella quale, lodando le glorie e la grandezza del commercio fiorentino, diceva: «Noi abbiamo due Arti piú degne e piú magne, che non ha la vostra città di Vinegia, per ognun quattro». E continuava presso a poco cosí: «I nostri panni di lana vanno a Roma, a Napoli, in Sicilia, in Morea, Costantinopoli, Bursia, Pera, Gallipoli, Scio, Rodi, Salonicco. Dappoi di seta e broccati d'oro ne facciamo piú che Vinegia, Genova e Lucca insieme, e lo vedete a Lione, Brugia, Londra, Anversa, Avignone, Provenza, Ginevra, Marsiglia, dove sono case, banchi e fondachi».[347] Da questa lunga enumerazione di città si vede chiarissimo, come, al tempo del Dei, i panni di lana, padroni ancora dell'Oriente, erano stati cacciati dai mercati principali dell'Occidente, dove era già entrata la seta; e cosí le due Arti si dividevano fra loro il commercio, una nell'Oriente, l'altra nell'Occidente. V'erano allora in Firenze, secondo il medesimo Dei, 83 botteghe che facevano i drappi di seta, oro e argento, che chiamavano damaschini, velluti, rasi, taffetà, maremmati, ed erano tessuti con seta, la quale in gran parte continuava ancora a venire dall'Oriente, sopra le galee fiorentine.[348] Questa industria è una di quelle che piú lungamente si mantennero vive in Firenze ed in Italia, dove anche oggi la seta rappresenta uno dei nostri piú ricchi prodotti. Se non che, allora il guadagno maggiore veniva dal lavoro, ed oggi invece assai spesso mandiamo fuori la materia prima, per ripagarla a mille doppi, quando torna lavorata dalla mano straniera. Allora ci venivano di fuori la lana e la seta, e si mandavano panni e broccati italiani; oggi mandiamo invece non piccola parte della nostra seta a Lione, per riceverne le stoffe. E cosí altre non poche delle nostre materie prime, che potremmo e dovremmo noi stessi lavorare, vanno nelle officine straniere.
III
Ma v'era un'altra industria, che si può dire quasi tutta opera dell'ingegno e dell'attività umana, e nella quale i Fiorentini furono davvero i primi nel mondo. Dal cominciare del secolo XIII a tutto il XV, l'Arte del cambio fu per eccellenza un'arte fiorentina. Avendo, colle loro industrie, esteso le proprie relazioni in tutti quanti i mercati d'Oriente e d'Occidente, vi facevano naturalmente girare moltissimo oro. Era quindi naturale, che se un mercante d'Anversa o di Bruges voleva mandar denaro in Italia a Costantinopoli, non trovasse modo piú semplice e sicuro, che rivolgersi ad uno dei mercanti fiorentini, che si trovavano nel suo proprio paese. Essi comperavano colà la lana o i panni intonsi, che, raffinati a Firenze, tornavano novamente nel settentrione d'Europa, o andavano a Costantinopoli, a Caffa, alla Tana, dove si cambiavano con seta, colori, spezierie. Il mandar quindi una somma qualunque da un paese all'altro del mondo allora conosciuto, costava loro poco piú che una semplice lettera, e guadagnavano per ogni verso. Ricevevano un aggio sul denaro, e, trasmettendolo in mercanzia, vi facevano un secondo guadagno. Se, invece, un Fiorentino voleva mandare a Londra la somma di 100 fiorini, egli trovava subito a pochi passi il mercante di Calimala o di Por S. Maria, che, scrivendo ai suoi corrispondenti in Lombard Street, la faceva pagare. E queste che si chiamarono lettere di cambio, furono una delle invenzioni piú utili ai progressi del commercio moderno. Si è molto discusso per sapere chi fu primo a fare una tale scoperta. Alcuni r attribuiscono agli Ebrei, raminghi e perseguitati in Francia ed Inghilterra; altri ne danno il merito, assai piú tardi, agli esuli guelfi di Firenze nel secolo XIII. Ma è molto difficile indovinare il primo autore di questa che non può veramente dirsi scoperta, perché si presenta all'uomo cosí naturalmente, che esempî se ne possono trovare anche in un'assai remota antichità. Ciò che costituisce la vera importanza della lettera di cambio, non è già la sua prima invenzione, ma il suo carattere legalmente stabilito, la sua diffusione, i mille usi diversi che se ne possono fare, per trasmettere con rapidità, ed accrescere il capitale. In ciò nessuno precedette e nessuno superò mai i Fiorentini di quel tempo, che in tali operazioni furono maestri inarrivabili.
Gli esuli guelfi, andando nel secolo XIII, raminghi pel mondo, riannodarono le già vaste relazioni commerciali di Firenze, fondarono molte banche per tutto, dettero un grandissimo impulso all'Arte, e furono quindi creduti inventori della lettera di cambio, cui avevano dato larga diffusione e nuova importanza. Non v'è sottile ed ingegnoso trovato, per moltiplicare il danaro col danaro, facendolo girare d'un mercato all'altro, là dove la scarsità n'era maggiore, e però maggiore l'aggio e l'interesse che si pagava; non v'è quasi operazione complicata e difficile dei nostri banchieri moderni, che i Fiorentini non avessero già trovata. Quando la Repubblica doveva fare un debito, essa iniziava coi banchieri fiorentini tutte quelle medesime pratiche, e nel medesimo modo, che si usan oggi, perché ad essi non era ignota nessuna delle vie di guadagno. E quando da questi debiti riuniti si fece il Monte Comune, che, consolidando il capitale, pagava la rendita, allora i luoghi di Monte, che oggi si direbbero le azioni del debito pubblico, si negoziavano come ora per l'appunto. Noi troviamo i mercanti fiorentini, sotto le Logge di Mercato Nuovo, scommettere sull'alzare e ribassare della rendita, come ai nostri giorni si fa alla Borsa delle grandi città.[349] E tutti questi guadagni divenivano anche maggiori in un tempo nel quale l'interesse legale andava dal 10 al 20 per cento, né molti si facevano scrupolo di portarlo, con contratti fittizi, fino al 40. Fissavano l'interesse legale ad una scadenza, alla quale sapevano di non potere essere pagati, e passata questa, pigliavano, sotto pretesto di pena e di risarcimento convenuto, il 40.
Importa notare, che tutte queste operazioni dei banchieri fiorentini venivano molto aiutate dalla buona qualità della loro moneta, nel coniare la quale la Repubblica ebbe sempre di mira il vantaggio maggiore del commercio. A questo fine, l'anno 1252 fu battuto il fiorino d'oro di ventiquattro carati, con l'immagine di S. Giovanni da un lato, il giglio di Firenze dall'altro; e per la bontà della lega e della sua coniazione, ebbe subito corso in tutti quanti i mercati, non solo d'Europa, ma anche d'Oriente. Otto di essi pesavano un'oncia, ed ognuno valeva circa 12 delle nostre lire. Ma i Fiorentini solevano fare i loro conti in lire soldi e danari. La lira d'argento, moneta allora di convenzione, era divisa in 20 soldi, il soldo in 12 danari. Il fiorino variò assai poco, ma la lira, sia per la maggiore mutabilità nel valore dell'argento, sia per altre ragioni, variò di continuo, e cosí la troviamo in proporzione sempre diversa col fiorino. Nel 1252 questo era eguale alla lira, e com'essa diviso perciò in 20 soldi; nell'82 era già di 32 soldi; nel 1331 di 60 soldi o sieno tre lire, e sempre mutando, giunse nel 1464 a valere lire quattro e soldi 8.
I Fiorentini avevano esperimentato di che grande vantaggio fosse al proprio commercio, avere una moneta universalmente ricercata in tutti quanti i mercati, in cui mandavano i loro prodotti. Ma quando, nel principio del secolo xv, i loro traffici s'estesero assai piú nell'Oriente, essi vi trovarono i Veneti, il cui ducato d'oro, alquanto piú largo e di maggior peso del fiorino, era già in corso per tutto. Fu per questa ragione, che nel 1422 deliberarono la coniazione del loro secondo fiorino, uguale di peso, grossezza e valore al ducato veneziano, per poterlo facilmente barattare con esso. E perché esso era destinato ad andar sulle galee in Oriente, ed era anche piú largo, lo chiamarono fiorino largo o di galea, distinguendolo cosí dal piú antico, che chiamarono di suggello. Nel 1471, i due fiorini si riunirono di nuovo in uno, tornando all'antico, che durò fino al 1530, quando valeva sette lire, e allora venne temporaneamente abolito.[350] Noi abbiamo, adunque, per qualche tempo, due fiorini diversi; il valore della lira, che muta d'anno in anno; e se a questo aggiungiamo, che fra il valore dell'argento e dell'oro ai nostri tempi ed in quelli della Repubblica, passa una differenza non piccola, sulla quale gli economisti non poterono mai venire d'accordo, comprenderemo tutta la difficoltà di far calcoli sicuri, che, determinando con precisione il prezzo delle cose, abbiano un significato per noi chiaramente intelligibile. Vi sono scrittori, i quali pretendono che una medesima quantità di oro non valesse allora piú del doppio di quel che vale oggi; altri arrivarono, esagerando, a farla valere fino a 40 volte di piú. Il Sismondi crede che, nei secoli XIV e XV, l'oro valesse quattro volte piú di quello che vale oggi. In ogni modo il fiorino o zecchino, come lo chiamarono piú tardi, vale circa 12 delle nostre lire. Resta però sempre incertissima la differenza nel valore dell'oro. Quando poi gli scrittori antichi ci parlano di lire, è necessario ricordarsi che esse mutavano sempre, e che non si può fare un calcolo neppure approssimativo, se non sappiamo di quale anno si discorre.
Ma tornando ora all'Arte del cambio, dobbiamo ricordare ciò che piú volte dicemmo, e cioè che, oltre le estese relazioni commerciali, gli accorti provvedimenti della Repubblica e l'attività singolare dei cittadini, v'era un'altra condizione che contribuí moltissimo al rapido incremento dei banchieri fiorentini, e questa fu la loro vicinanza a Roma. Le rendite della Santa Sede e de' suoi prelati, sparse per tutta la Cristianità, da ogni dove affluivano nella Città Eterna. Ivi erano i grandi prelati, vescovi e cardinali, i cui ricchi benefizi si trovavano in Oriente ed in Occidente; ivi da ogni parte della terra conosciuta arrivavano l'obolo di S. Pietro e le offerte dei credenti, ricchissime in un tempo di fede e di fanatismo religioso. I Fiorentini col loro grande acume, s'avvidero subito, che il divenire banchieri del Papa era un grosso affare: la piú gran quantità di capitali circolanti nel mondo, sarebbe passata per loro mani. Ed a questo scopo rivolsero, fin dal principio, tutta quanta la loro tenace volontà. Se noi li vediamo in condizioni, in tempi diversissimi, restar sempre guelfi, e ritener questo nome ancora quando aveva perduto il suo significato, dobbiamo non solo alle ragioni politiche, ma anche alle ragioni commerciali dare non piccolo peso. Trovandosi nel centro d'Italia, vicini a Roma, essi dovevano lottare principalmente con i Senesi ancora piú vicini alla Eterna Città. Perciò li vediamo subito in guerra e gelosia con questi, che furono poi vinti dalle armi e dalle relazioni molto piú estese del commercio fiorentino. Dalle lettere di Gregorio IX si vede, che sin dal 1233 i Toscani rimettevano al Papa danari da piú parti del mondo; e a poco a poco il monopolio di questi affari s'andò restringendo sempre piú nelle mani dei Fiorentini. Quando la Sede pontificia si trasferí da Roma ad Avignone (1305), per ritornare piú tardi novamente a Roma, vi fu, per ben due volte, un grandissimo spostamento d'interessi, un gran movimento di capitali, grandi rimesse di danaro, e fu quello secondo i piú autorevoli scrittori, il tempo e l'occasione in cui i Fiorentini da appaltatori delle rendite papali, divennero anche i principali banchieri di Roma. Da quel momento la loro fortuna fu fatta, i piú grossi affari bancari d'Europa vennero nelle loro mani, ed essi acquistarono tanta reputazione, che in faccende di denaro tutti ricorrevano al loro aiuto ed ai loro consigli.
Noi li vediamo chiamati a dirigere le zecche, ad ordinare i pesi e le misure in vari Stati d'Europa. Nel 1278 una convenzione tra il re di Francia e le Universitates dei Lombardi e dei Toscani, chiama gli uni e gli altri a trovar danari per quel governo. Nel 1306 un decreto del popolo modenese, per la medesima ragione, si rivolgeva ai notai e banchieri fiorentini. E quando nel 1302 il re di Francia, non avendo denari per fare la guerra, si decise ad alterare piú volte la moneta, quel funesto consiglio non si seppe attribuire ad altri, che a due Fiorentini, Bicci e Musciatto Franzesi, che furono perciò severamente biasimati dai loro concittadini, molti dei quali vennero nel proprio commercio rovinati da quella falsificazione. Ogni volta che i re di Francia si decidevano ad una grossa guerra, eran come costretti ad assicurarsi prima il concorso di qualche noto banchiere fiorentino, per sostenerne le spese. Alcuni di questi erano allora quel che sono oggi i Rotschild in Europa, e le fortune che accumulavano, sembrano anche a noi favolose. Nel 1260 i Salimbeni prestarono ai Senesi 20 mila fiorini. I Bardi ed i Peruzzi li troviamo nel 1338 creditori del re Edoardo III d'Inghilterra per un milione e trecentosessantacinquemila fiorini, il che, senza tener conto d'alcuna differenza nel valore dell'oro, risponderebbe a circa sedici milioni delle nostre lire; e tenendo conto di questa differenza, secondo i computi del Sismondi, s'arriverebbe a 64 milioni. Il Pagnini aggiunge una nota di molti altri prestiti, che ammontano ad un totale davvero straordinario. Nel 1321 i Peruzzi avevano col solo Ordine dei Gerolosomitani un credito di 191,000, ed i Bardi ne avevano un altro di 133,000 fiorini. La casa di Tommaso di Carroccio degli Alberti e suoi parenti aveva nel 1348 banchi in Avignone, Brusselle, Parigi, Siena, Perugia, Roma, Napoli, Barletta, Costantinopoli, Venezia.[351] E Filippo di Commines, nella fine del secolo XV, affermava che Edoardo IV d'Inghilterra dovette il suo trono all'aiuto dei banchieri fiorentini.
L'Arte del Cambio era assai antica in Firenze, i suoi Consoli si trovano al pari degli altri nominati nei documenti; abbiamo una copia de' suoi Statuti del 1299 (1300 s. n.), i quali si riferiscono ad un'altra redazione del 1280, che neppur essa era la piú antica. Quest'arte fiorí e decadde insieme col commercio fiorentino; si esercitava in Mercato Nuovo, dove erano le sue botteghe con banco o tavolello, la borsa del danaro ed il libro. Tutti gli affari dovevano essere conclusi nella bottega, notati a libro, sotto gravi pene per ogni infrazione; né si poteva esercitare l'arte, senza essere scritti nella matricola, il che si otteneva solamente dopo aver dato in essa prove di capacità e di onestà, e dopo averne giurato gli Statuti. Nel 1338 questi banchi di cambiatori erano circa 80, e si battevano in Firenze da 350 a 400 mila fiorini d'oro.[352] Nel 1422 erano invece 72 e si calcolava, che in Firenze vi fosse un capitale circolante di 2 milioni di fiorini, senza mettere in conto alcuno il valore delle mercanzie.[353] Nel 1472, parte perché incominciavano i primi segni della decadenza del commercio, e parte perché esso s'era andato accumulando in un numero sempre minore di case, i banchi erano già ridotti a 33,[354] e tuttavia il cronista Benedetto Dei ancora scriveva con orgoglio, che questi banchieri facevano affari per Levante e per Ponente, «et i Venetiani e Gienovesi lo sanno benissimo, e cosí lo sa la Corte di Roma».[355] Essi erano conosciuti per tutto col nome di cambiatori, prestatori, usurai. Toscani, Lombardi, e insieme cogli altri Italiani, occupavano una intera strada a Parigi ed a Londra.
IV
Per compiere la serie delle Arti Maggiori, dobbiamo ora accennare a quelle dei medici e speziali, dei pellicciai e vaiai, specialmente alla prima. Sebbene di minore importanza commerciale di quelle finora ricordate, pure esse contribuirono assai ad aprire alla Repubblica il commercio dell'Oriente, donde venivano quasi tutte le droghe e spezierie, e non meno di 22 qualità diverse di pelli, molte delle quali, d'animali assai rari, erano fra i piú costosi oggetti di lusso. E sotto tale aspetto acquistarono anche queste Arti grande importanza, giacché il commercio dell'Oriente è stato sempre per tutti, ma per l'Italia specialmente, la principale sorgente di ricchezze. Esso alimentò la gran fortuna dei Veneti; esso aveva arricchito Amalfitani, Genovesi, Pisani; e però ad esso avevano sempre mirato i Fiorentini, che arrivarono all'auge della loro ricchezza solo quando poterono mandar galee nel Mar Nero, ed ebbero franchigie al pari dei Veneti, in Egitto, a Costantinopoli, in Crimea. Ma questo che, per molto tempo, fu il loro scopo principale, non venne cosí presto raggiunto: dovettero lottare per quasi tutto il secolo XIV.
E le lotte che i Fiorentini sostennero per diffondere sempre di piú il loro commercio, hanno molta importanza in tutta quanta la storia della Repubblica, perché ci fanno conoscere non solo i progressi della loro ricchezza, ma anche i moventi principali della loro politica. Infatti, dopo vinte le prime battaglie contro i baroni del contado, che per ogni dove li circondavano, essi mirarono subito ad assicurarsi il commercio colla Lombardia. Uno dei loro primi trattati fu cogli Ubaldini signori di Mugello, per aprire questa via alle loro mercanzie; e subito dopo fecero trattato coi Bolognesi (1203). Ma coll'andare del tempo questi ultimi, profittando della loro posizione, aggravarono le imposte sul passaggio, divenuto continuo, delle mercanzie dei Fiorentini, i quali allora, senza perdersi d'animo, fecero trattato con Modena, aprendo altra via al loro commercio, il che obbligò i Bolognesi a tornare agli antichi patti. Nel 1282, in occasione della guerra contro Pisa, fecero trattati che assicuravano il passaggio libero alle loro mercanzie per Lucca, Prato, Pistoia, Volterra, e cosí cominciarono a dominare il commercio di Toscana. Quasi tutte le loro guerre muovono da ragioni commerciali, e finiscono con trattati commerciali. Essi trattano nel 1390 con Faenza, Ravenna, e a poco a poco, con la piú parte delle città d'Italia.[356]
Questo continuo crescere del commercio dei Fiorentini sul continente, rendeva sempre maggiore e piú insistente il bisogno d'avere uno sbocco libero al mare. Ma sia che mirassero a Porto Pisano, sia che mirassero a Livorno, i due soli porti agevoli al loro commercio, dovevano sempre passare per Pisa, repubblica vicina, potente e rivale. Se essi s'erano fatti padroni di quasi tutto il commercio toscano per terra, i Pisani erano invece padroni del mare, e non volevano quindi lasciare opportunità d'impadronirsene ad un popolo cosí energico ed industrioso, come erano i loro vicini e rivali. Per raggiungere il loro scopo, ai Pisani bastava mettere forti tasse sul passaggio delle merci dei Fiorentini, ai quali, in questo caso, non restava altro rimedio che la forza delle armi. Quindi l'occasione a guerre continue, l'eterna rivalità delle due repubbliche. Nel 1254, dopo la presa di Volterra, colle minacce di un esercito vittorioso, i Fiorentini obbligarono i Pisani a concedere libero passaggio alle loro merci, e cosí nel '73, '93, nel 1317, e '29 li obbligarono a confermare i medesimi patti, il che questi fecero sempre di mala voglia, e solo per evitare la guerra, o dopo una battaglia perduta.
Intanto i Fiorentini continuavano a spingere sempre piú oltre le loro mercanzie in Oriente, dove facevano nuovi trattati. Il che da un lato cresceva in essi il bisogno d'aver libero il mare, e dall'altro ridestava sempre piú la gelosia dei Pisani. Il Pagnini, nella sua opera sulla Decima, ha pubblicato la Pratica della mercatura, composta, nella prima metà del secolo XIV, da Balducci Pegolotti, agente della compagnia dei Bardi. Quest'opera che, dopo il Milione di Marco Polo, è una delle piú importanti a farci conoscere i viaggi ed il commercio degl'Italiani in Oriente, ci dà minutissimi ragguagli specialmente sul traffico de' Fiorentini. Da ciò che il Pegolotti dice di sé stesso, noi possiamo argomentare che cosa facevano tutti i suoi concittadini. Per essi, egli riusciva nel 1315 ad ottenere in Anversa e nel Brabante franchigie simili a quelle che già godevano i Genovesi, i Tedeschi e gl'Inglesi. Andò poi in Oriente, dove vide che a Cipro solo i Bardi ed i Peruzzi pagavano sulle mercanzie il 2 per cento d'entrata e uscita, al pari di tutti i Pisani; gli altri Fiorentini dovevano pagare il 4 per cento, o adoperarsi a passar per Pisani, e questi allora, con mille angherie, li trattavano peggio che schiavi o giudei. Sdegnato il Pegolotti per tali fatti, sebbene fosse della compagnia dei Bardi, pure s'adoperò molto, e riuscí a fare estendere le medesime franchigie a tutti i Fiorentini (1324). Cosí essi, aiutandosi a vicenda, coll'attività dei privati non meno che del governo, continuavano sempre i loro progressi in Oriente, ed i Pisani sempre piú se ne ingelosivano. Nel 1343 questi vollero infatti limitar la franchigia concessa alle merci fiorentine, decidendo che solo fino al valore di 200,000 fiorini potessero passar libere per la loro città; il resto doveva pagare due soldi per lira, cioè il 10 per cento. Ai Fiorentini non restava allora che o far la guerra, o abbandonare la via di Pisa, se trovavano il modo. E per mostrare che il loro commercio non era poi davvero dipendente dai Pisani, prescelsero il secondo partito. Fecero quindi un trattato coi Senesi, col quale ebbero da essi Porto Talamone, dove con grandissima spesa, e superando molte difficoltà, riuscirono finalmente a fare un grande emporio delle loro mercanzie. La via per giungervi era assai lunga e scomoda; ma i Pisani dovettero subito accorgersi, che ad essi ne seguiva un danno maggiore di quella che recavano ai Fiorentini; e che se potevano dar loro noia, non era in alcun modo sperabile di distruggerne il commercio: s'indussero perciò nuovamente a lasciar libero il passo alle mercanzie. E cosí i Fiorentini pigliavano animo sempre maggiore a proseguire il loro cammino in Oriente.[357]
La via piú facile e diretta di questo commercio era quella dell'Egitto; ma ivi i Sultani ed i Califfi chiudevano il passo ai cristiani. Soltanto i Veneti, i quali si diceva che concludessero trattati, «nel nome santo di Dio e di Maometto», v'aveano fatto qualche progresso, e con molta gelosia ne tenevano lontani gli altri Italiani, che perciò pigliavano generalmente la via di Costantinopoli e del Mar Nero, dove, massime i Genovesi, avevano fondato città popolose e fiorenti. Piú oltre, nel mar d'Azoff, a pochi chilometri dall'imboccatura del fiume Don, eravi la Tana (Azov), grande emporio di mercanti russi, arabi, persiani, armeni, del Mogol, della China meridionale; e vi si faceva il piú grande scambio di prodotti orientali ed occidentali. Gl'Italiani portavano tessuti di lana o di seta, olio, vino, pece, catrame e metalli bassi, che mutavano con perle, pietre preziose, oro, droghe, zuccheri, stoffe orientali di lana o di seta, cotone, seta greggia, pelli di capra, legni per tingere, schiavi e schiave orientali, che si trovano fra noi sino a tutto il secolo xv.[358] Tutto questo commercio, iniziato una volta da Amalfi e da altre repubbliche meridionali, era poi venuto in mano dei Veneti, Genovesi e Pisani. Le loro navi solcarono in ogni direzione l'Arcipelago, il Bosforo ed il Mar Nero. L'italiano era parlato in tutti gli scali d'Oriente, dove non vi erano solo banchi, officine, opifici italiani; ma si ritrovava l'architettura di Genova e di Venezia in città fondate ed abitate da soli Italiani, come l'architettura italiana, massime la veneta, si modificava, pigliando ispirazione dalla orientale. Grandissimo era il numero dei Genovesi che si trovava colà. E per dare un'idea della forza che i Veneti avevano sul mare, basti ricordare che nella Crociata del 1202, essi avevano apparecchiato un naviglio capace di condurre 4,500 cavalieri, 9,000 scudieri, 30,000 fanti, e viveri per nove mesi. Le loro galee, non mai piú corte di 80 piedi, arrivavano a 110 di lunghezza e 70 di larghezza, ed erano 45 nel sec. XV, con 11,000 marinai. Avevano inoltre nello stesso tempo 3,000 legni fra le 10 e le cento botti, con 17,000 marinai, e 300 navi grosse con altri 8,000 marinai. In tutto 3,345 legni, con 36,000 marinai,[359] potenza che passa i limiti dell'immaginazione, quando si pensa, che la Serenissima Repubblica veneta era una città fondata sugli scogli della laguna; che tutto l'indirizzo della sua politica e del suo commercio era nelle mani di coloro solamente che erano nati nei confini della medesima laguna. S'immagini, che cosa dovesse poi essere la potenza riunita di tutte queste repubbliche di mare, e che animo dovessero avere i Fiorentini, quando gareggiavano cosí ostinatamente con esse per il commercio dell'Oriente.
Prima d'avere una sola galea sul mare, essi avevano già molte case e banchi per ogni dove, ed in tutti gli scali principali d'Oriente avevano fatto penetrare le loro mercanzie. Non solamente li troviamo operosi ed intraprendenti alla Tana, ove facevano grandissimo traffico; ma di là si spinsero assai oltre, ed il Pegolotti ci descrive per filo e per segno la via che tenevano, il tempo che impiegavano, ed il loro modo di viaggiare. Andavano, egli dice, per Astracan (Gittarchan), poi Saracanco (Sarai) presso il Volga, di là per Organci nel Zagataio,[360] non molto lungi dal Caspio, e traversando l'Asia, per molti altri luoghi, i cui nomi non sono riconoscibili, perché non rispondono piú a quelli di oggi, arrivavano fino a Gambaluc o Gamalecco, la città mastra della China, cioè Pechino. Impiegavano otto o dieci mesi, per andar dalla Tana a Pechino. Cosí computando andata, ritorno e dimora, ci volevano poco meno di due anni; e se poi s'aggiungono l'andata ed il ritorno da Porto Pisano o Livorno alla Tana, si vedrà che il Fiorentino il quale si partiva di sua casa per Pechino, di rado tornava prima che fossero scorsi tre anni.[361]
A misura che questi traffici nell'Oriente, condotti con tanta e cosí tenace perseveranza, crescevano fra mille difficoltà, i Fiorentini miravano sempre al mare, senza mai perder di vista l'assoluta necessità di avere un porto. E quando finalmente, colla presa di Pisa nel 1406, lo scopo dei lunghi desideri fu raggiunto, incominciò un'era novella pel loro commercio. Tutti gli affari aumentarono rapidissimamente, e la prima metà del secolo XV fu quella appunto, in cui essi accumularono le maggiori ricchezze. Nel 1421 crearono i Consoli di mare, dando loro ordine di costruire subito due grosse galee di mercato e sei sottili, continuando a costruirne un'altra grossa ed una sottile ogni sei mesi, per il che assegnarono la somma di 100 fiorini al mese, da prelevarsi sulle rendite dello Studio pisano. Cosí in poco tempo ebbero una marineria mercantile di 11 galee grosse e 15 sottili, che facevano continuamente, per ordine della Repubblica, il viaggio d'Oriente. Ad ognuna di esse era determinata la via che doveva tenere, i porti che doveva toccare, le mercanzie che poteva caricare. L'annunzio della partenza e del ritorno veniva affisso sotto le logge di Mercato Nuovo; i privati noleggiavano le navi, ed il governo teneva cosí aperte a tutti le vie dell'Oriente senza sua spesa. Nel 1422, quando, come abbiamo già notato, fu battuto il fiorino di galea, i Fiorentini accettando il consiglio di Taddeo Cenni, che aveva lungamente esercitato la mercatura a Venezia, mandarono in Egitto due oratori, per poter aver chiesa, fondachi, propri facchini o portatori in Alessandria. Ottenuto il loro intento, dettero nel 1423 ordine ai Consoli di mare, di creare altri consoli ovunque potevano essere utili al commercio fiorentino. Già ve n'erano, da piú o meno tempo, a Costantinopoli, a Pera (1339), a Londra (1402); ma da questo momento li troviamo in Alessandria, Maiorca, Napoli, per ogni dove. Avevano cancelleria, ufficiali propri, interpreti, uomini d'arme, chiesa, e pagavano tutto ciò colla tassa che riscuotevano sulle mercanzie, dalla quale dovevano trarre anche il proprio stipendio.[362]
Ma se vogliamo comprendere davvero, come e quanto i Fiorentini sapessero profittare delle nuove condizioni in cui li poneva la conquista di Pisa, ci è forza osservare che questo fatto segna non solo il tempo d'una maggiore prosperità nel loro commercio, ed il principio della loro marineria militare e mercantile; ma anche il tempo in cui essi cominciarono a darsi agli studî nautici ed astronomici. Ed è un'altra prova della grande intelligenza e della instancabile loro attività, il vedere come, datisi una volta a tali studî, affatto nuovi per essi, riuscissero ad iniziar quella splendida êra della scienza, che s'aprí con Paolo Toscanelli, il primo ispiratore di Colombo, continuò con Amerigo Vespucci, si chiuse con Galileo Galilei e la sua scuola immortale.
V
Le sette Arti, che noi abbiamo sino ad ora esaminate, si chiamavano maggiori, appunto perché erano le piú importanti, ed avevano in mano la ricchezza ed il commercio principale della Repubblica. Non poche di esse potevano, come vedemmo, dirsi piú una riunione di mestieri diversi, che un'industria sola; occupavano moltissime braccia, raccoglievano e adoperavano ingenti capitali. Tuttavia c'erano in Firenze parecchie altre Arti, che si chiamavano minori, ed arrivavano a quattordici:
Linaioli e Rigattieri — Calzolai — Fabbri — Pizzicagnoli — Beccai e Macellai — Vinattieri — Albergatori — Correggiai — Cuoiai — Corazzai — Chiavaiuoli — Muratori — Legnaiuoli — Fornai.[363]
Anche alcune delle minori industrie fiorentine avevano molta reputazione in Italia, come, per esempio quella degl'intagliatori in legno o in pietra, che erano stimati fra i primi nel mondo. Ogni volta che all'opera dell'artigiano s'univa, poco o molto, l'arte del disegno, i Toscani non avevano piú rivali. Cosí pure i lavoratori fiorentini d'immagini in cera (lo nota anche il cronista Dei), erano tenuti inarrivabili per la loro perizia. Gli uni e gli altri non s'erano però costituiti in associazione, e si potrebbero dire piú artisti che operai. Comunque sia di ciò, le Arti minori, sebbene numerose ed operose, non poterono mai acquistare una grande importanza. Esse differivano dalle Maggiori, principalmente perché provvedevano solo al commercio interno della Repubblica, e quindi restavano chiuse in una cerchia assai angusta d'affari e d'interessi, a differenza delle altre, che, facendo il commercio dell'Oriente e dell'Occidente, poterono salire ad una grande importanza, anche politica, ed impadronirsi addirittura del governo.
Se ci riconduciamo per poco a quel tempo, in cui le Arti Maggiori arrivarono al potere, noi le vedremo, in una medesima ora, aver nelle mani il commercio, la ricchezza ed il governo della Repubblica fiorentina. E ci sarà facile capire con quanta energia esse dovessero adoperarsi per far servire la politica all'aumento della ricchezza, che nelle nuove condizioni d'Italia, era divenuta la forza maggiore dei nostri Comuni. I mercanti fiorentini, i quali da lungo tempo avevano compreso, che l'avvenire apparteneva ad essi, furono sempre i piú tenaci sostenitori del partito guelfo contro il ghibellinismo imperiale dei nobili, cui avevano giurato un odio eterno. Noi possiamo ora immaginarci Firenze come una grossa casa di commercio, la quale posta nel centro della Toscana, era circondata da altre, che tutte le facevano concorrenza. Il Medio Evo non conosceva le leggi e l'equità del diritto internazionale; quindi nulla era piú naturale ad uno Stato geloso del suo vicino, che chiudergli il passaggio sul proprio territorio, ponendo sui prodotti dell'emulo temuto, dazi incomportabili. E cosí Firenze, che pel continuo aumento del suo commercio destava ogni giorno gelosie maggiori, e per la mancanza del mare si sentiva come mancar l'aria da respirare, sarebbe stata subito ridotta all'impotenza, se non avesse ricorso alla forza delle armi contro i suoi vicini. La necessità di difendere la propria esistenza, la condusse perciò ad una serie non interrotta di guerre, che si concludevano sempre con vantaggiosi trattati di commercio, nei quali essa dette prova della sua non mai smentita accortezza.
Noi l'abbiam vista, sin dal principio, combattere i vicini baroni, per assicurare il suo nascente commercio; aprirsi poi, pel Mugello, la via ai maggiori traffici con la Romagna e la Lombardia. Piú tardi la vedemmo combattere fieramente e, dopo varia fortuna, vincere quasi tutte le città ghibelline della Toscana, come Volterra, Siena, Arezzo. E quando chiedemmo, perché Firenze, con tanta ostinazione d'animo, restasse sempre guelfa, anche se minacciata dal Papa, e ripetemmo la domanda medesima, che il ghibellino Farinata faceva a Dante:
Dimmi, perché quel popolo è sí empio
Incontro a' miei in ciascuna sua legge?[364]
la risposta fu sempre che, oltre le ragioni politiche di un ordine piú generale, bisognava ricordarsi che quest'aristocrazia del danaro, salita al potere, s'era cominciata ad arricchire facendo con Roma i suoi piú grossi affari. Siena, Arezzo, Volterra, che si trovavano sulla via di Roma, e ad essa piú vicine, venute una volta in gara con Firenze, dovettero inevitabilmente soccombere. Sicura che fu la Repubblica degli affari di Roma e del commercio di Lombardia, noi vedemmo il bisogno d'arrivare al mare divenuto irresistibile, e una guerra di sterminio con Pisa, inevitabile. Supporre che la lunga, eterna, sanguinosa guerra pisana nascesse solo da un odio cieco ed istintivo, quando vi sono altre cagioni manifeste e gravissime, sarebbe un voler rinnegare l'evidenza dei fatti. Era un vero e violento conflitto d'interessi. I Pisani sapevano bene che il concedere libero il passo a chi faceva già il principale commercio nell'interno d'Italia; a chi, senza avere ancora una sola galea sul mare, era già penetrato in tutti gli scali d'Oriente; a chi, con tanto ardore, mirava all'assoluto primato in Toscana, era un volersi mettere per sempre alla sua dipendenza. Quindi essi resisterono con tutte le loro forze. Queste forze veramente eran tali, e cosí grande era il numero di coloro i quali mal tolleravano il predominio dei Fiorentini, che questi non avrebbero mai potuto sottomettere i Pisani, se, oltre alle arti della guerra, non avessero saputo costantemente adoperare tutta la loro accortezza. Niuna cosa, infatti, dimostra tanto il genio politico dei Fiorentini, quanto il modo che tennero in questa guerra, e le vie che presero per raggiungere uno scopo, che, in tutta la loro storia, ebbero costantemente in mira. Noi li vediamo sempre amici di Lucca, sempre pronti a soccorrerla con ogni sacrifizio, perché Lucca non fu mai amica dei Pisani, e perché la sua alleanza poteva essere d'una grandissima utilità in una guerra contro di questi. Noi li vediamo sempre amici di Genova, fuggire ogni occasione di mal umore con essa, che era la rivale naturale di Pisa sul mare. E questa rivalità i Fiorentini cercarono, con ogni arte, di tener sempre viva, giacché fino a quando non trovavano chi avesse per loro distrutta la potenza dei Pisani sul mare, non sarebbe mai stato ad essi possibile domarli. E il giorno venne, in cui i Pisani furono disfatti alla Meloria dai Genovesi (6 agosto 1284). D'allora in poi la vittoria dei Fiorentini su Pisa, sebbene ancor lungamente contrastata, era pur certa, e da quel momento la loro amicizia pei Genovesi cominciò ad intiepidirsi. Volevano essere aiutati a domar Pisa; ma non volevano accrescere la preponderanza d'un'altra repubblica, ghibellina e già potentissima sul mare. Quindi li vediamo, dopo che hanno con tanto ardore assalito ed indebolito Pisa, aiutarla a reggersi in piedi contro i Genovesi, fino a che questi, avendo abbandonato il pensiero di conquistarla, poterono provarsi a conquistarla essi per proprio conto, e vi riuscirono.
La stessa via, con uguale accorgimento, tennero negli anni in cui si videro minacciati dalla potenza dei duchi di Milano, i quali volevano impadronirsi di tutta Italia, ed in quelli in cui ebbero a mezzogiorno nemico il re Ladislao di Napoli. E quando le armi non bastavano, allora appare straordinario davvero l'accorgimento politico, col quale seppero salvarsi da avversarî che avevano forze assai maggiori. L'arte di rivolgere i loro nemici gli uni contro gli altri, di sostenere i deboli contro i piú orgogliosi vicini, di trovar sempre modo di raccoglier mezza Italia contro chi saliva a tanta potenza da minacciar la Repubblica, fu costantemente quella con cui l'indipendenza e la libertà fiorentina poterono esser salvate in mezzo a Stati che da ogni lato le andavano perdendo, in mezzo a nemici molteplici e potenti, che da ogni lato la circondavano. E tutto ciò fu l'opera delle Arti maggiori o sia dei popolani grassi.
Questa aristocrazia mercantile governò la Repubblica con tanta energia e con tanto ardore, perché essa accresceva nello stesso tempo la potenza fiorentina e la propria ricchezza, il proprio commercio. Cosí fu che una città, la quale di rado superò i 100 mila abitanti, e molte volte ne ebbe assai meno, con un territorio ristretto e circondato da tanti nemici, poté divenire uno Stato minaccioso in Italia e rispettato in Europa. Questi mercanti erano cosí gelosi della loro libertà, che non conoscevano limiti ai sacrifizî necessarî a sostenerla, né si lasciavano illudere o spaventare da pericoli di sorta, neppure quando si minacciava il loro proprio commercio. Noi li vediamo, infatti, sebben guelfi tenacissimi, con tante relazioni ed interessi commerciali in Roma, pronti a combattere anche il Papa, quando esso combatteva la loro libertà, e chiamare Otto Santi quei magistrati che dovevano condurre la guerra contro Gregorio XI (1376). E li vediamo del pari sostenere contro i Visconti di Milano una guerra, che costava ogni anno milioni e milioni di fiorini, senza che le forze della Repubblica si esaurissero mai, senza che l'animo de' suoi reggitori si stancasse mai.
VI
Ma chi supponesse, che questo dominio delle Arti maggiori fosse, almeno nell'interno della Città, sicuro e non contrastato, anderebbe assai lungi dal vero. Il giorno in cui, nella corte di Calimala, si concepí la prima volta il disegno di farle salire al governo, esse dovettero subito riconoscere che ciò era possibile solamente perché, con l'aiuto delle Minori, avevano combattuto e vinto i nobili. E quindi da un lato avevano ora gli avanzi di questa aristocrazia feudale, la quale doveva nutrire contro di esse un odio inestinguibile, e da un altro avevano le Arti minori, che chiedevano di partecipare a quel governo, che col loro aiuto s'era potuto costituire. Cosí nella Repubblica si trovarono tre ordini di cittadini e tre partiti diversi. Certo le Arti maggiori costituivano di gran lunga il partito piú forte; ma gli altri due, riunendosi, potevano divenire un nemico assai minaccioso. E questa riunione non era impossibile.
Le Arti maggiori e minori, infatti, non differivano solo per essere piú o meno ricche, piú o meno potenti; ma perché avevano interessi diversi, che le spingevano ad una diversa politica. Il mercante della lana o della seta era sempre pronto a sacrificare il suo ultimo fiorino, purché Livorno e Porto Pisano cadessero in potere della Repubblica. Egli teneva perciò sempre l'occhio aperto a vegliare sulla politica dei Lucchesi e dei Genovesi, perché non s'avvicinassero ai Pisani. Il banchiere fiorentino voleva, che la Repubblica tenesse sempre accorti ambasciatori e Consoli, che ragguagliassero costantemente di tutto ciò che si faceva a Roma, ad Anversa, a Caffa; che non lasciassero colà pigliar troppo vantaggio ai Senesi, ai Genovesi, ai Veneti, ai Lombardi. Quando uno di questi interessi era in pericolo, essi si trovavano sempre pronti a promuovere anche una guerra lunga, costosa e pericolosa, sottoponendo sé medesimi e la Repubblica ad ogni sacrifizio. Ma tutto ciò importava assai poco al fabbro ferraio, al muratore, al legnaiuolo, ad un membro qualunque delle 14 Arti minori, le quali pure costituivano una grandissima parte della popolazione fiorentina. Ad esse importava molto piú che in Firenze vi fossero ricchi e splendidi signori; che s'innalzassero sontuosi palazzi, ville e chiese monumentali; che il lusso e l'agiato vivere di quella ricca e nobile cittadinanza, sulla quale essi vivevano, andasse sempre crescendo. Le guerre, invece, lo frenavano; e le Arti Maggiori, a cagione appunto dei bisogni delle guerre, che di continuo promovevano, facevano sempre nuove leggi contro il lusso. Il popolo minuto perciò odiava questi popolani grassi, che da esso erano stati aiutati ad impadronirsi del governo, dal quale poi lo avevano insieme coi nobili, escluso; che accumulavano milioni e milioni, per vivere assai spesso in Città con una parsimonia spartana; che ogni giorno facevano nuove leggi contro il lusso delle donne; che vietavano gli ornamenti d'oro e d'argento; che nelle feste e nei conviti per nozze, proibivano ogni lauta spesa; che presumevano di limitare perfino il numero e la varietà delle vivande, e non volevano nei conviti vasellame d'oro o argento; ma erano poi prontissimi a gettar milioni per fare la guerra ai Pisani, al re di Napoli, ai Visconti di Milano, o anche per avere una chiesa, un Console di piú a Caffa o a Pera. Questa diversità di umori generava odio di parte. Né è da tacersi, che fra coloro che piú aspramente si lamentavano delle Arti maggiori, v'erano le donne fiorentine, come suole avvenire, nemiche della guerra ed amiche del lusso, il quale esse non volevano ristretto da leggi, che trovavano vessatorie, ma che sapevano eludere con indicibile scaltrezza.[365]
È ben facile intendere l'opportunità che si presentava ai Grandi di soffiare in queste passioni, per trovar favore nel popolo minuto. Essi non esercitavano alcuna industria, vivevano colle loro entrate, ma facevano tutte le maggiori e piú laute spese in Firenze. Ogni volta quindi che volevano fare un nuovo tentativo, per impadronirsi del governo, o non perdere affatto la parte che ancora v'avevano, s'alleavano con quel popolo minuto, che viveva, o almeno credeva di vivere, solo alle loro spalle, e sollevavano le sue passioni contro i popolani grassi, facendogli notare che tutte le Arti esercitavano del pari l'industria ed il commercio, ma che una parte non piccola di esse trovavasi esclusa da quel governo, di cui le altre facevano monopolio a loro esclusivo profitto. Con questi mezzi i Grandi non riuscirono certo a salvarsi, molto meno a ripigliare il potere, perché lo spirito democratico era troppo vivo in Firenze; affrettarono invece quelle leggi draconiane, che a piú riprese furon fatte contro di loro; ma riuscirono a stimolare nel popolo minuto un desiderio ardente, irresistibile di partecipare al potere, ed a destare nell'infima plebe passioni rivoluzionarie. Cosí, nel momento stesso in cui dovettero rinunziar per sempre a comandar nella Città, si vendicarono lasciando dietro di loro una lunga eredità di odi, che tennero la Repubblica divisa e ne affrettarono la rovina.
Le Arti minori, infatti, arrivarono pure un giorno ad aver parte nel governo, ed allora non andarono mai d'accordo colle Maggiori. Si osteggiarono continuamente nei Consigli, nei magistrati, in piazza; e qualche volta ricorsero al pericoloso partito d'infiammare le passioni piú sfrenate dell'infima plebe, che, come sempre, si dimostrò docile strumento delle mire degli ambiziosi. Si scatenarono cosí quelle passioni anarchiche, che ora portarono al tumulto dei Ciompi, ora alla necessità di cercare un protettore alla Repubblica, e finalmente al dominio de' Medici. Ma prima di giungere a questi estremi, corsero due secoli di lotte, in mezzo alle quali la politica fiorentina fu quasi costantemente diretta dai popolani grassi. Il potere piú volte parve sfuggire dalle loro mani; ma essi sapevano ritener sempre tanta autorità da restar costantemente padroni delle elezioni dei magistrati. Cosí la loro volontà trionfava di nuovo, e s'impadronivano da capo del governo. Quando invece le passioni anarchiche trionfavano per modo, che era necessario ricorrere ad un protettore, e questi, chiamato a difender la Repubblica, appoggiandosi agli scontenti, cercava farsi tiranno, allora i popolani grassi sapevano riunire tutti i partiti, in nome della libertà, e restaurar la Repubblica, che cosí poté rimanere lungamente in vita. Non è credibile l'accortezza, l'ardire e la costanza, con la quale essi seppero lottare, in mezzo a mille pericoli interni ed esterni. Costretti a combattere di continuo con coloro che volevano la pace, e chiedevano sempre maggiori libertà; circondati da nemici esterni potentissimi, che ora volevano distruggere il loro commercio, ora la Repubblica stessa, l'attività ed il patriottismo loro non ebbero mai posa, non si stancarono mai. Era una lotta, una febbre, una violenza continua, in cui la libertà sempre in pericolo di perdersi, fu per due secoli salvata sempre, in mezzo a Municipi che l'andavano perdendo. E come questi popolani grassi avevano saputo creare mille istituzioni di credito, per aumentare l'industria e moltiplicare la ricchezza, cosí fu inesauribile del pari il loro ingegno, nell'immaginare sempre nuovi trovati e nuove istituzioni, che prolungarono la vita della Repubblica.
Nella politica estera i diplomatici fiorentini s'acquistarono tale e tanta reputazione d'accortezza e di prontezza, che in alcune parti superarono perfino quella grandissima dei Veneti ambasciatori. Questi, infatti, con una lunga tradizione di sapienza politica, seguivano le norme costanti d'un governo forte, tranquillo, sicuro di sé. La loro forza veniva dalla forza e dal senno d'una repubblica rispettata e temuta, che sembrava parlare essa stessa per la bocca de' suoi ambasciatori. Il Fiorentino aveva, invece, un'azione individuale e diretta, che veniva dall'acume del suo ingegno, dalla conoscenza straordinaria che aveva degli uomini, da un'attitudine maravigliosa di tutto comprendere e tutto far comprendere. La Repubblica operava certo in lui e per suo mezzo; ma non tanto perché parlasse per la sua bocca, quanto perché aveva invece saputo ridestare ed affinare in lui tutte quante le facoltà dello spirito umano, formare la sua intelligente, indipendente personalità. Il mercante, il notaio, l'amministratore, il diplomatico fiorentino erano cercati per tutto, ed in ogni angolo della terra pareva che fossero a casa loro. Quindi è che si narra come Bonifazio VIII, vedendo un giorno arrivare a lui da ogni parte del mondo, ambasciatori che eran tutti fiorentini, egli, senza esserne punto maravigliato, dicesse loro: — I Fiorentini sono il quinto elemento nel mondo. —
Ed in mezzo a queste lotte politiche, a questo moto di tutte le facoltà dello spirito umano, apparve quello splendore di arti e di lettere, per cui il mondo si vide come illuminato dalla luce che sorgeva dalle città italiane, ma che in nessuna rifulse cosí viva come a Firenze. L'attività della sua industria, del suo commercio si trovava quasi per tutto; ma anche là dove essa non arrivava, pareva che fosse pur sempre presente il suo genio letterario ed artistico, che iniziava in Europa la cultura dei popoli moderni.
VII
Ma tutto ciò non seguiva senza continui e sempre nuovi pericoli, che minacciavano l'esistenza stessa della Repubblica, e per difendersi dai quali occorrevano qualche volta forze piú che umane. Quando si ricorre col pensiero all'antica Firenze col suo Consiglio, coi suoi Consoli, che usciva ogni anno, unita e concorde alla guerra, per abbattere i baroni, ed assicurare le vie del suo commercio; che, sottomessi uno alla volta questi baroni, li obbligava a vivere dentro lo due mura, sotto l'uguaglianza delle leggi repubblicane; che per vincere i piú potenti vicini, dovette accrescere le sue forze, liberando i servi della gleba, concedendo i diritti politici a quei mercanti che ancora non li avevano; quando il pensiero ricorre a quei tempi, ritrova subito in essi i germi della futura grandezza del Comune, che con una guerra continua riuscí ad accrescere da ogni lato le proprie forze. Ma le cose andarono poi sostanzialmente mutando, per molte ragioni, specialmente per quella rivoluzione nell'arte della guerra, alla quale abbiamo già accennato, e che dobbiamo ora piú particolarmente ricordare.
Fino al secolo XIV gli eserciti repubblicani erano composti di pedoni leggermente armati d'uno scudo, un elmo ed una daga, con qualche piastra di ferro che difendeva il petto o le gambe. La cavalleria era poca, e non decideva mai la sorte delle battaglie. Cosí avevano combattuto, presso a poco, tutti i barbari, meno gli Unni e gli Arabi, che andavano quasi sempre a cavallo, ed i Bizantini, che colla cavalleria piú volte vinsero i Goti. Con la fanteria aveva principalmente combattuto in Italia Federico Barbarossa, e con essa gli avevano resistito i nostri Comuni, che, da un giorno all'altro, potevano allora mutare in soldati tutti quanti i cittadini abili a portare le armi. Ma le guerre di Federico II, di Manfredi e di Carlo d'Angiò avevano di Francia e di Germania portato in Italia una nuova maniera di combattere. I Fiorentini se n'erano dovuti avvedere sin dalla battaglia di Montaperti, quando il loro numeroso esercito fu disfatto dall'urto di pochi cavalieri tedeschi. E d'allora in poi la cavalleria pesante o degli uomini d'arme fu quella che cominciò a decidere la sorte delle battaglie in Italia. Il cavaliere, sebbene non fosse ancora, come alla fine del secolo XV, chiuso, esso ed il suo cavallo, in un'armatura cosí pesante che, caduti una volta a terra, non potevano rialzarsi senza aiuto; pure già era coperto di ferro da capo a piedi. Colla sua lunghissima lancia, egli atterrava il fantaccino, prima che questi potesse raggiungerlo colla corta sua spada, la quale, in ogni caso, non riusciva mai a forare l'armatura del cavaliere o del cavallo. Né gli strali tirati dagli archi riuscivano a far danno maggiore. Bastava quindi, che poche centinaia d'uomini d'arme si spingessero, come una fortezza mobile ed impenetrabile, nel mezzo d'un esercito di fanti, per disfarlo in poco tempo. Un tale stato di cose durò sino alla invenzione della polvere e del fucile, e portò un radicale mutamento nelle condizioni dei Comuni italiani. Infatti, per formare questi cavalieri, ci voleva un lungo tirocinio ed una grande spesa. Bisognava non solo aver grandi fabbriche d'armi, non solo formare una nuova razza di cavalli, ed addestrarli; ma il cavaliere stesso doveva essere in continuo esercizio, dedicare la sua vita intera alle armi, tener continuamente occupati ed addestrati due o tre scudieri. Questi portavano tutti gli arnesi da guerra, e menavano il cavallo armigero del cavaliere, che se ne serviva solo nel giorno della battaglia, e solamente allora s'armava di tutto punto, perché altrimenti si sarebbero l'uno e l'altro trovati esausti di forze nell'ora del pericolo. Ma ciò doveva riuscire impossibile nelle nostre repubbliche, perché i loro cittadini vivendo tutti col commercio e coll'industria, non potevano abbandonare i traffici per darsi alle arti della guerra. Queste divennero allora un vero e proprio mestiere, e coloro che vi dedicavano la vita, cominciarono ben presto a mettere a prezzo la loro spada. Cosí è che sin dagli ultimi anni del secolo XIII, noi cominciamo a sentir parlare negli eserciti repubblicani di soldati catalani, borgognoni, tedeschi ed altri cavalieri oltramontani, che vanno ogni giorno crescendo di numero.
A poco a poco i mercanti dovettero persuadersi, che essi non potevano piú avere alcuna personale efficacia nella guerra. E però, quando le repubbliche erano minacciate, esse non s'arrischiavano piú a combattere, senza assoldare qualche capitano, che venisse col suo manipolo di cavalieri stranieri. Il nome del valore italiano cominciò rapidamente a decadere per tutto, e si formarono quelle compagnie di ventura, che furono una delle nostre maggiori calamità. È ben vero che, quando poi Alberico da Barbiano, Attendolo Sforza, Braccio da Montone ed altri si dettero a questa vita, essi raggiunsero e superarono anche gli stranieri, che piú volte dovettero retrocedere nuovamente dinanzi al valore italiano. Molti anzi vennero allora di fuori ad imparar la nuova arte della guerra, sotto il comando dei nostri capitani, per opera dei quali essa cominciò la prima volta a divenire anche una scienza. Ma eran sempre pochi coloro che nelle libere città potevano darsi a questa vita. I nobili, gli sfaccendati, gli esuli, coloro che non avevano un altro mestiere, i sudditi dei piccoli tiranni eran quelli che andavano a far parte delle compagnie di ventura. E poche molte, italiane o straniere, esse affrettarono sempre la rovina di tutti i nostri Comuni, massime di Firenze.
Le continue guerre, che essa ora deve fare, non riescono piú a mantener vivo il suo spirito militare, l'energia del suo popolo. Costretta a servirsi sempre di gente straniera e venduta, cominciò ben presto a perdere la coscienza delle proprie forze, che di fatto andarono rapidamente decadendo. La guerra si ridusse ad una operazione di banca o di nuove imposte, per trovare il danaro necessario ad assoldare uno di quei capi di compagnie, i quali si davano sempre al maggiore offerente. Quando era trovato il danaro, bastava spesso mandarlo al piú potente e sicuro alleato, che pensava al resto, cioè al contratto da fare con un capitano, che assoldasse il maggior numero di gente. Bisognava sapersi procurare amici, saper provocare avversari al nemico, ed in ciò i Fiorentini fecero sempre prova di grande accortezza. Ma queste non erano di certo virtú militari. I personaggi piú importanti, che essi inviavano al campo, erano i loro commissari che vegliavano all'andamento generale delle cose, all'amministrazione dell'esercito, all'indirizzo politico della guerra; e sebbene, piú d'una volta, noi troviamo che questi commissari d'improvviso si trasformavano in Capitani, pigliando il comando delle armi, e con singolare ardimento decidendo le sorti d'una battaglia, pure il loro ufficio rimaneva sempre piú civile e diplomatico che militare.
Quali conseguenze tutto ciò dovesse avere per l'avvenire della Repubblica, e sul carattere morale de' suoi abitanti, è facile immaginarlo. I popolani grassi erano nel governo occupata in un continuo lavoro di furberia e di sottigliezza. Bisognava essere accorti nei Consigli; osteggiare i Grandi; trovarsi sempre desti per non lasciare divenir troppo forte il popolo minuto, e pure indurlo a pagare il denaro per fare le guerre, che erano necessarie alla prosperità ed alla sicurezza del commercio esterno. Bisognava essere ancora piú accorti nei maneggi diplomatici, per non trovarsi isolati, e saper sempre mantenere l'equilibrio degli Stati italiani a vantaggio della Repubblica. La guerra stessa, risolvendosi, come abbiam visto, in un'operazione di banca, era del pari una nuova prova d'accortezza. Non si vedeva piú alcuno di quei grandi sacrifizî di sangue cittadino e di uomini, coi quali un popolo si rigenera continuamente; niun atto di forza generosa ed aperta. E quando questi popolani grassi non erano immersi nella politica, allora, insieme con tutta la cittadinanza, si davano anima e corpo al commercio, occupando le ore di ozio nel leggere Tacito, Virgilio od Omero, che tenevano perciò sotto il banco. Ma era sempre e solo la loro intelligenza, che si trovava in una continua attività; le altre piú nobili facoltà dello spirito restavano come soffocate, atrofizzate in questo esercizio costante di sottigliezza e di furberia. Ciò doveva prima o poi portare una decadenza inevitabile nella vita morale e politica della Repubblica, nella piú alta cultura dello spirito. E se le guerre riuscivano funeste pel modo in cui bisognava apparecchiarle e condurle, non riuscivano meno funeste per le conseguenze che portavano dopo la vittoria. Gli eserciti di ventura, appena che cessavano le paghe di guerra, da amici divenivano nemici, e cercavano subito un altro padrone che li pagasse. Quando non lo trovavano, e restavano perciò senza paga, si scioglievano in bande armate, che mettevano a soqquadro le campagne e le città, con una specie di brigantaggio militare. Il piú delle volte era forza venire con esse a patti, e dar danari per tenerle tranquille.
Ma quello che piú di tutto importa qui notare si è, che anche la conquista di nuovi territori, divenuta pur tanto necessaria alla Repubblica, cominciava ad essere un pericolo grave, una sorgente di future calamità. Il Comune italiano era stato nel Medio Evo causa feconda di progresso; ma quando il suo contado si cominciò ad ingrandire, esso si dimostrò affatto impotente, se non mutava radicalmente la sua costituzione, a trasformar la libera città in quello che noi oggi chiamiamo lo Stato. Infatti anche a Firenze, che fu il piú democratico dei nostri Comuni, la cittadinanza era tutta dentro la cerchia delle mura. Si fecero leggi per abolire la servitú nel contado, per migliorarne le condizioni; ma non si pensò mai a concedere i diritti politici agli abitanti di esso. Il nome di cittadino restò sempre come un privilegio concesso solamente ad una minoranza, e la plebe non l'ottenne mai neppur dentro le mura. Ogni volta che una nuova città veniva conquistata e sottomessa alla Repubblica, essa era governata con maggiore o minore durezza; le lasciavano piú o meno franchigie locali; potevano anche concederle che continuasse a ritenere una forma repubblicana, sotto gli ordini di un Podestà, d'un Capitano o d'un Commissario, pagando le gravezze che volevano imporle; ma i suoi abitanti non erano mai ammessi ai diritti della cittadinanza fiorentina, né i loro rappresentanti entravano mai nei Consigli o negli uffici politici in Firenze. Quindi, a misura che le conquiste crescevano, quel nucleo di cittadini che teneva in mano il governo, e che era già una minoranza, si trovava in una proporzione sempre minore verso le popolazioni, ogni giorno piú numerose, che doveva governare. Nelle idee dei Fiorentini come di tutti quanti i repubblicani del Medio Evo, non entrò mai il pensiero d'uno Stato governato nell'interesse di tutti. L'interesse e la grandezza di Firenze erano, invece, la sola norma costante, lo scopo a cui ogni cosa doveva essere sottomessa. Né quel popolo minuto e quella plebe, che per sé chiedevano sempre maggiori libertà, avevano in tutto ciò principi piú larghi o diversi. Anzi le loro idee, aggirandosi in una cerchia piú angusta, si dimostravano anche piú pregiudicate, e le loro passioni piú cieche. In conseguenza di ciò, era per una repubblica tenuta allora maggiore sventura venir conquistata da un'altra repubblica, che da una monarchia; giacché i principi, nella comune oppressione, trattavano tutti alla pari, e quindi, politicamente almeno, la grande maggioranza dei vinti soffriva danni minori. Invece, quando Firenze poté raggiungere il suo lungo desiderio della conquista di Pisa, essa fu padrona del mare, e vide subito il proprio commercio crescere assai rapidamente; ma l'essersi aggregata una repubblica grande e potente, piena di vita e di forza, ricca di tanti traffici, non le portò nessuno di quei vantaggi che una piú libera unione ed una partecipazione comune ai diritti politici le avrebbero recati. I piú notevoli cittadini, le piú ricche famiglie pisane emigrarono, preferendo vivere in Francia, a Milano, o in Sicilia sotto gli Aragonesi, che almeno concedevano loro una civile uguaglianza, piuttosto che nella propria città, sotto il duro, tirannico governo dei popolani grassi di Firenze. Il commercio, l'industria, la marineria militare e mercantile di Pisa scomparvero con la sua indipendenza; il suo Studio, antica gloria italiana, fu disfatto, per essere piú tardi ricostituito dai Medici; ed essa in breve tempo presentò l'aspetto della miseria e dello squallore. Lo stesso seguiva in tutte le città vinte; esse venivano con tanta maggior durezza trattate, quanto piú grandi e potenti erano state nei giorni della loro libertà.[366] È facile da ciò il comprendere come ogni volta che Firenze si trovava in pericolo, tutte quelle città sottomesse, nelle quali la vita non era stata anche spenta del tutto, cercavano sollevarsi per rivendicare la loro indipendenza, ed in ogni caso preferivano un tiranno domestico o anche straniero alla loro forzata sottomissione ad una repubblica, la quale non imparò mai dalla esperienza a mutare consiglio. E non poteva, giacché per farlo avrebbe dovuto mutare sostanzialmente tutta la sua costituzione, il suo proprio essere.
In questo modo, accumulando ricchezza e potenza, essa moltiplicava le cagioni della sua futura e inevitabile decadenza. Il Comune appariva sempre piú impotente a fare scaturire dal suo seno lo Stato moderno, e però quando il commercio su cui esso si reggeva, cominciò a decadere, la forza dei popolani grassi fu sgominata, e la forma monarchica fu subito giudicata come un sollievo dalla moltitudine degli oppressi, che erano di gran lunga i piú numerosi. Cosí fu che i Medici poterono salire al potere in nome della libertà, appoggiandosi al popolo minuto ed alla plebe. E cosí fu che, ora con la violenza, ora con l'astuzia, ora con l'una e con l'altra insieme, il Comune italiano venne da per tutto sottomesso al principato, e là dove, per condizioni eccezionali, la forma repubblicana poté piú lungamente salvarsi, ivi essa sembrò solo sopravvivere a sé stessa, non portando piú alcuno dei benefizî, pei quali era nata. Bisognava che il principato rendesse, sotto un medesimo scettro, uguali in faccia al dispotismo quelle popolazioni che non s'erano sapute rendere uguali dinanzi alla libertà. Le Signorie furono il necessario passaggio dal Comune medioevale allo Stato moderno. Queste Signorie indicarono la via alla formazione ed alla retta amministrazione delle grandi monarchie, che s'andavano ora costituendo nel continente d'Europa, e si mantennero anch'esse assolute e dispotiche fino a che la Rivoluzione Francese non venne a compiere nelle campagne, nelle città e per ogni ordine di cittadini, quel lavoro di emancipazione sociale, che i Municipî italiani avevano mirabilmente iniziato, ma che non avevano saputo mai estendere fuori la cerchia delle proprie mura. Firenze resisté ancora lungamente, ma dovette pur correre la sorte comune.
FINE DEL VOLUME PRIMO
Pag. 71, nota 1, lin. 7. Millesimo LVIII, leggi Millesimo LXVIII.
Pag. 101, lin. 25. 1117, leggi 1177.
Pag. 177, nota 1. Villani, VI, 31, leggi Villani, VI, 51.
INDICE
Prefazione Pag. v
Introduzione 1
Capitolo I — Le origini di Firenze 35
Capitolo II — Le origini del Comune di Firenze 73
Capitolo III — Prime guerre e prime riforme del Comune fiorentino 119
Capitolo IV — I Partiti, la costituzione del Primo Popolo e delle Arti Maggiori in Firenze 155
Capitolo V — Il predominio di Firenze in Toscana 213
Capitolo VI — Il commercio e la politica delle Arti Maggiori in Firenze 273