I PRIMI DUE SECOLI DELLA STORIA DI FIRENZE

I PRIMI DUE SECOLI DELLA STORIA DI FIRENZE

RICERCHE

DI

PASQUALE VILLARI

Vol. Secondo ED ULTIMO

IN FIRENZE G. C. SANSONI, EDITORE — 1894

PROPRIETÀ LETTERARIA

Firenze — Tip. G. Carnesecchi e figli, Piazza d'Arno, 1

INDICE

Capitolo VII[1] LA FAMIGLIA E LO STATO NEI COMUNI ITALIANI[2]

I

È certo che non si potrà mai scrivere una vera storia nazionale d'Italia, se prima non saranno pubblicati, esaminati, studiati, con dottrina storica e giuridica ad un tempo, gli Statuti e le leggi dei nostri Comuni. Questo fu un desiderio espresso prima dall'illustre Savigny, e dopo di lui da molti Italiani, senza essere stato ancora pienamente soddisfatto. Lo studio degli Statuti e delle leggi ci farebbe conoscere il diritto pubblico dei Comuni, e porrebbe sotto i nostri occhi un quadro chiaro e preciso delle loro politiche istituzioni, che noi ancora intendiamo assai poco. Ma, quello che non è di certo meno importante, ci farebbe conoscere del pari il nostro antico diritto civile, nel quale, secondo la opinione di molti dotti, fra cui citerò Francesco Forti, si trovano le origini del moderno diritto, i germi di molte disposizioni giuridiche, che noi accettammo piú tardi dal Codice francese, come cosa nuova.

Il diritto pubblico e privato hanno fra loro un'attinenza maggiore assai di quel che molti sembrano credere; l'uno ci apre a vicenda la piú chiara e precisa intelligenza dell'altro. La società, lo Stato nascono dalla famiglia, e a lor volta agiscono su di essa e la modificano. Chi vuol trovare adunque la vera chiave delle istituzioni politiche, quando esse spontaneamente si svolgono in un paese, non deve dimenticare la costituzione della famiglia, nella quale sono le prime origini del diritto civile, a cui si collega piú o meno anche il diritto pubblico. Spesso, è vero, noi vediamo un popolo accettar da un altro le leggi civili, senza mutare le proprie istituzioni politiche, o viceversa; spesso anche la forza straniera impone d'un tratto le une o le altre. Ciò ha fatto credere a molti che esse non abbiano fra loro il legame che veramente hanno. Ma questi casi non risguardano quello svolgimento naturale e spontaneo del diritto, del quale ora parliamo. In esso la politica e la giurisprudenza, lo Stato e la famiglia sono strettamente connessi.

Piú volte noi vediamo nella storia fiorentina scoppiare ad un tratto rivoluzioni politiche, che sembrano inaspettate; studiandole però da vicino, ci accorgiamo che esse accusano profondi mutamenti sociali, già di lunga mano apparecchiati, i quali, invisibili dapprima, sono poi divenuti cosí generali, da apparire come improvvisi agli occhi di tutti, ed esser causa di riforme politiche. Cosí è che il diritto privato, il quale accompagna sempre i movimenti sociali, e muta con essi, ci fa non di rado scoprire le origini, spiegare l'indole propria e la necessità inesorabile delle rivoluzioni, prima ancora che avvengano. L'averne generalmente trascurato lo studio nella storia d'Italia, è stato perciò un gran danno. Niuno crederebbe oggi di poter fare la storia politica di Roma, senza punto occuparsi della sua giurisprudenza. Eppure abbiamo mille volte scritto e riscritto la storia delle nostre repubbliche, senza occuparci della loro legislazione civile e penale.

Un tale lavoro presenta, in vero, grandissime difficoltà, perché la nostra storia è soggetta, nel Medio Evo, ad una serie di vicende sempre rapide, sempre diverse. Le repubbliche sono per numero infinite; ogni provincia italiana, ogni brano di terra si divide e suddivide in Comuni, ciascuno dei quali ha la sua propria storia, ed una forma politica che di continuo muta. E gli Statuti rendono fedele immagine di questa perenne mutazione. Nei loro margini troviamo le varianti e correzioni d'anno in anno registrate, spesso formulate dopo che furon prima insanguinate le strade della città. Quando le postille o correzioni sono arrivate ad un certo numero, si fa una nuova compilazione dello Statuto, e anche di queste se ne trova un gran numero. Gli ufficiali statutarî hanno incarico di apparecchiare, di tempo in tempo, le nuove e continue modificazioni, che vengono poi approvate nei Consigli del popolo. Cosí ci segue qualche volta, che apriamo lo Statuto compilato in un dato anno, e vi troviamo minutissimamente descritte le attribuzioni d'uno dei primi magistrati della Repubblica; guardiamo alle postille, e queste attribuzioni sono già mutate; pigliamo la nuova compilazione dello Statuto, ed il magistrato stesso piú non esiste. Come fare allora, per dare una giusta idea della forma politica d'un tal municipio? Non v'è altro modo che raccogliere da tutti i suoi Statuti, la storia della costituzione nelle sue forme successive. Bisogna, in una parola, riconoscere che non siamo in presenza d'una istituzione cristallizzata, immobile, immutabile; ma che sotto i nostri occhi è invece un organismo vivente, il quale si svolge secondo una legge determinata. Questa legge sola è costante; è dessa che dobbiamo cercare, perché essa sola ci può svelare il mistero, e darci idee precise.

Se ci rivolgiamo poi dal pubblico al privato diritto, le difficoltà crescono invece di scemare. Quando noi leggiamo questa parte, che non è certo la meno importante dello Statuto, ci accorgiamo che in essa sono unite molte legislazioni diverse, spesso anche contradittorie, le quali s'intrecciano e si combattono. La mèta e la dote, il mundio e la tutela, il testamento ed il patto successorio, il guidrigildo, il morgengab; diritto longobardo, romano, feudale, canonico, sono in presenza, coesistono in proporzioni sempre diverse. E queste varie legislazioni agiscono l'una sull'altra, alterandosi a vicenda: nel diritto romano filtrano continuamente disposizioni, che dobbiamo attribuire al diritto longobardo, il quale poi è profondamente alterato, mutilato, castrato, come dice il Gans, dal romano. Quale è dunque il concetto che domina in siffatto impasto di leggi diverse? V'è egli un principio nuovo, originale, che assimila gli elementi eterogenei e costituisce un nuovo diritto? Quale è desso? Ecco il difficile problema, che il Savigny c'incoraggiava a risolvere, e che noi ancora non abbiamo risoluto. Se però il problema non è risoluto, la sua importanza è oggi ammessa da tutti; molti lavori, molte pubblicazioni, alcune delle quali importantissime, si sono fatte. Qualche osservazione si può finalmente esporre.

La costituzione della famiglia e le sue relazioni con lo Stato, sono come il centro principale intorno a cui si debbono aggirare le nuove ricerche, e formano anche il soggetto di questo breve e sommario lavoro. La soluzione d'un tale problema richiede, innanzi tutto, un esame accurato delle varie forme che assunse la famiglia nelle diverse legislazioni che si successero in Italia, per venir poi a vedere come dalla riunione di queste varie forme ne risultò un'altra non poco diversa. La prima questione che si presenta, risguarda perciò le condizioni in cui erano il diritto e la famiglia romana, quando vennero fra noi i barbari. Trattandosi di Comuni italiani, è ben naturale che la giurisprudenza di Roma sia quella che mise piú tenaci e profonde radici nella società, e che la storia delle nostre leggi trovi in essa la sua prima origine. Noi siamo quindi costretti a fare una digressione, che parrà in sul principio oziosa, ma ci aiuterà poi a meglio comprendere la società nuova, che si anderà formando. Oltre di che lo studio del diritto romano fu soggetto di tante e cosí dotte ricerche, che possiamo venire a conclusioni certe, le quali, ponendo in evidenza lo stretto legame della famiglia romana con la società politica che ne derivava, ci aiuteranno a trovare la via da seguire, per ritrovare questo medesimo legame nella storia italiana.

II

Chi dice diritto romano, dice due parole solamente; ma chi studia le Pandette s'accorge che esse sono la sintesi d'un lungo lavoro precedente, un'ultima forma di giurisprudenza, che non si può ben capire, senza l'analisi di tutti gli elementi storici che la prepararono e la costituirono. E allora subito la storia del diritto romano si trasforma come in una storia di molte legislazioni diverse, le quali si succedono di tempo in tempo. Dalle XII Tavole fino a Giustiniano, questo diritto non s'arresta un'ora sola nel suo continuo svolgimento. Anche nel Medio Evo, quando glossatori e commentatori lo studiavano con religiosa devozione, nelle raccolte compilate a Costantinopoli, e non volevano far altro che riprodurlo fedelmente e diffonderlo; anche allora esso si trova nelle loro mani alterato, senza che se ne avvedano, trascinati come sono dai tempi mutati e dai nuovi bisogni sociali. Solo nel secolo XV si può dire che questo storico svolgimento cessi del tutto fra noi, e che il diritto romano divenga piú che altro un soggetto di erudite ricerche. Apparisce allora manifesta la storia e la vita propria d'un nuovo diritto moderno, il quale ha già una sua forma indipendente, sebbene anch'esso, in parte non piccola, derivi dal romano, che perciò continua ad avere un grandissimo valore e si studia anche oggi da noi con ardore, ma con uno scopo assai diverso da quello che si aveva nel Medio Evo. Si tratta ora di conoscere un monumento immortale dell'antica sapienza, di formare con esso la nostra educazione giuridica, di meglio intendere i nostri codici, di contemplarlo nelle sue successive manifestazioni, ricercando la legge che le regola. Questa legge infatti, appena che fu trovata, gettò una luce nuova sulla storia di tutto il diritto romano; perché si vide che essa lo dominò sempre, senza interruzione, in maniera da fargli prendere un carattere cosí costante e continuo nelle sue varie trasformazioni, che quella apparente successione di legislazioni diverse si mutò di nuovo ai nostri occhi, sí che ci sembra ora di assistere come all'evoluzione d'una stessa idea, allo svolgimento progressivo d'un'opera della natura.

Tutto questo cammino, questa evoluzione fu il risultato di due forze, di due elementi diversi. A Roma v'era stato in origine un diritto, il vero e proprio diritto dei Quiriti, del quale troviamo gli avanzi nelle XII Tavole, severo, ristretto, pieno di formole, la cui osservanza, tenuta come sacra, era affidata ad un piccolo numero di cittadini, di cui la scienza era occulta e l'autorità era sanzionata dalla religione. Il piú piccolo errore nella forma annullava il piú giusto diritto, e quando la legge non determinava la formola da osservare, mancava ogni efficace azione giuridica. Il dolo, l'inganno non potevano sciogliere un contratto, se la formola che doveva legare era stata una volta pronunziata: Ut lingua nuncupassit ita ius esto. Schiavo delle forme, il giudice non poteva ascoltare la voce della morale e della buona fede; il piú giusto lamento lo trovava indifferente, se non era appoggiato ad un testo di legge. Il difensore non osava muovere un passo, se non era continuamente guidato dal legislatore, perché ogni forma giuridica era inviolabile e sacra, e la scienza del diritto, fatta monopolio del Collegio dei Pontefici, il corpo piú aristocratico e conservatore che fosse in Roma, divenne una specie di scienza occulta. Eppure questo carattere, in apparenza cosí ristretto e pedantesco, fu quello appunto che dette la sua gran forza alla legge in Roma. Liberato per la prima volta il diritto da ogni elemento estraneo, proprio della morale o della buona fede, esso divenne fermo ed inesorabile. Chi aveva in suo favore la legge, era sicuro di vederla prontamente eseguita: nella storia non s'incontra mai una sanzione e riparazione legale cosí pronta e sicura come quella che aveva luogo a Roma. Ad Atene, infatti, dove le leggi erano piú filosofiche, e la coscienza popolare giudicava, ricercando le intenzioni, disprezzando le formule, mirando alla sostanza, l'arbitrio facilmente signoreggiava, e il diritto non ebbe mai la fibra ferrea e tenace della romana giurisprudenza.

Se non che, col mutare dei tempi, ogni cosa mutava in Roma. Questa giurisprudenza, rispettata come sacra, che il Vico chiamò tutta di formole, tutta di umani parlari, era propria d'un popolo rozzo e primitivo. Ai tempi di Cicerone le idee erano già tanto mutate, che egli, nella sua orazione pro Murena, fece la piú amara satira d'una scienza divenuta ai suoi occhi ridicola: res enim sunt parvae, prope in singulis literis atque interpunctionibus occupatae. Egli la riteneva perciò un'impostura dei sacerdoti, i quali ne volevano soli far monopolio. Aveva ragione o torto? Il Vico, esaminando una tal questione, dimostrò come Cicerone si fosse ingannato. Questi ed i suoi contemporanei, egli disse, vivevano in tempi troppo culti, per comprendere la primitiva e rozza giurisprudenza; essi non ne intendevano piú il vero significato, e giudicavano le leggi antiche colle idee e i principi d'una età nuova. Un tale concetto, messo in luce la prima volta nella Scienza Nuova, fu poi da molti altri accolto, e venne sempre piú confermato che il primitivo diritto di Roma non fu un artificio di pochi dotti, ma un prodotto spontaneo e necessario del popolo in mezzo a cui nacque.

Dapprima il costume, chiaramente distinto dal diritto già formulato e scritto, ne temperò la troppo dura rigidezza. La buona fede e l'equità, non curate, respinte dalle leggi, trovarono la loro sanzione nei costumi; ebbero i loro tribunali propri, e furono sempre rispettate, perché il magistrato, a cui ne era affidata la tutela, pronunziava una sentenza, non legale, ma morale, che aveva però la sua grande efficacia, come genuina espressione della pubblica opinione. La sua condanna non costringeva, è vero, colla forza, ma portava l'infamia, ed egli poteva da ultimo menar l'accusato dinanzi al popolo, giudice e legislatore supremo. Piú tardi però i costumi si corruppero, e non bastarono piú a tutelare la pubblica fede e la morale, che furono costrette a cercare un asilo ed una sanzione nel diritto, cominciando cosí, a poco a poco, ad alterarne il primitivo carattere. La sostanza prevalse allora sulla forma, l'equità sull'antico testo di legge, la intenzione dei contraenti sulle parole pronunziate per errore: il diritto divenne piú morale, a misura che i costumi furono piú corrotti. Questa trasformazione, cominciata assai lentamente, fu poi accelerata dalle nuove condizioni della Repubblica, nella quale avvenne qualche cosa che si può paragonare a ciò che seguí nella storia della scienza, verso il principio del secolo XVII. I vari Stati d'Europa, colle loro diverse leggi, avendo stretto nuove relazioni, si videro allora nella necessità di ritrovare alcune norme di diritto comune, e cosí sorse con Ugo Grozio, quella che si chiamò la scuola del Diritto Naturale. Non nella scienza, ma nella pratica del diritto, seguí lo stesso a Roma. A misura che il dominio della Repubblica si stendeva nell'Italia, aumentavano le sue relazioni coi popoli vicini, nelle cui leggi prevalevano i principi piú filosofici e meno severi della giurisprudenza greca. Non era possibile imporre a tutti, senza alterarlo, il rigido diritto dei Patrizi romani. Si formò quindi e crebbe rapidamente un nuovo diritto, comune, naturale, piú largo, che si chiamò delle genti, a differenza dell'altro, che fu detto civile. Ius gentium est quod naturalis ratio inter omnes homines constituit. Esso non veniva però dedotto da principi filosofici sull'umana natura, come nel secolo XVII il diritto naturale propriamente detto; nasceva invece, per necessità pratica, dalle nuove relazioni dei Romani coi popoli italici; era alimentato dai principî della greca giurisprudenza filtrata nell'Italia meridionale; rispondeva ai nuovi bisogni di Roma stessa, e pigliando il posto che prima tenevano i costumi nei giudizî romani, crebbe accanto al diritto dei Patrizi, e continuò lungamente insieme con esso. Cosí vi furono a Roma due diritti. E quindi si ebbero da un lato giudici e giudizî che restarono fedeli al vecchio formalismo; dall'altro giudici e giudizî che tennero conto dell'equità, della buona fede, sostituendo quasi l'ufficio del Censore. Il continuo e progressivo avanzarsi del diritto delle genti, l'azione che le due giurisprudenze esercitarono l'una sull'altra, per confondersi finalmente in una sola, nella quale il vecchio formalismo romano andò perdendo la sua rigidezza, e il diritto d'equità, incorporandosi col civile, andò pigliando forme piú regolari e determinate, sono conseguenza della legge che domina la vita e la storia del diritto romano, si può dire anzi che la costituiscano. Esso si è formato e diffuso nel mondo, ereditando dagli antichi Quiriti uno scheletro di ferro, e dal contatto cogli altri popoli, dai germi che cosí poté assimilarsi della cultura greca, ereditando uno spirito piú generale, piú largo, piú umano. In tal modo raggiunse quella sua forma matematica e filosofica ad un tempo, e sembrò che divenisse il diritto universale per eccellenza, quasi il fondamento necessario di tutte le legislazioni. Il Pretore fu colui che promosse questo giuridico connubio; rappresentò lo spirito nuovo e lo spirito vecchio, allargando l'antico diritto con le eccezioni di equità, la quale egli rese piú severa, sottoponendola alla procedura tradizionale. Questo in sostanza è ciò che ebbe luogo nei costumi, nelle lettere, in ogni cosa. La fusione della cultura greca e della romana è la storia del mondo antico.

III

E ciò, come è naturale, si riscontra anche nella storia della famiglia, dalla quale scaturisce in gran parte il diritto civile. Chi infatti guarda la primitiva famiglia romana, vi ritrova subito la base su cui si costituí poi la futura grandezza giuridica e politica di Roma. La famiglia è sacra; il padre è padrone dei beni, della libertà, della vita cosí della moglie, come dei figli. Egli è sacerdote, giudice, arbitro supremo: moglie, figli, nipoti formano con lui una stessa associazione, una sola persona giuridica, da esso rappresentata. La donna può essere venduta, uccisa, rivendicata in giudizio, come una schiava; libera appena dalla tirannia paterna, ricade sotto quella degli agnati, e la sua incapacità giuridica l'accompagna per tutta la vita. Ma i primitivi costumi temperano per modo questa dura legge, che non si trova nell'antichità un altro popolo, il quale abbia uguale ossequio alla santità della famiglia, uguale rispetto alla donna. Il matrimonio è chiamato: consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio. Il divorzio per parte del marito ( repudium ) non è proibito dalla legge; ma colui che ripudia la moglie, è disonorato dal Censore, scomunicato dal sacerdote, ed in cinque secoli di rado se ne trova qualche esempio. In Grecia si trovano ancora tracce della poligamia orientale, ma in Italia la monogamia è antica quanto Roma. I figli naturali non formano mai parte della famiglia, sebbene si possano legittimare. L'adozione è un atto solenne, la cui moralità è affidata alla sorveglianza del Pontefice, custode della santità della famiglia, ed è sottoposta alla sanzione del popolo. La donna non si vede in piazza, fra le riunioni popolari; ma nella casa è domina, e cosí la chiama il marito. L' atrium è il centro e santuario della casa. Ivi si radunano parenti, amici e stranieri; ivi è il focolare domestico, con l'altare degli Dei Lari, e gli oggetti piú sacri della famiglia; il letto nuziale; le immagini degli avi, calcate in cera sul volto degli estinti; la rócca; il fuso della matrona; il forziere in cui sono i registri e i denari della casa. E tutto ciò è affidato alla custodia e direzione della madre di famiglia, che sacrifica col marito, e con lui amministra il patrimonio comune: essa veglia ai lavori domestici, all'educazione dei figli. Negli annali e nelle leggende di Roma, il nome di una qualche eroina, come Virginia o Lucrezia, è sempre congiunto alle glorie maggiori della Città Eterna: non cosí in Grecia. Quando i Romani fondarono e santificarono la famiglia, essi posero la prima pietra del Campidoglio.

Ma per mantenere sempre stretto e compatto questo nucleo primitivo della società romana, la legge deve vegliar sempre con gelosa accortezza, e moltiplicare le sue prescrizioni. Bisogna tenere unita la proprietà di famiglia quanto piú lungamente e piú rigorosamente si può. Il padre ne è il padrone e l'arbitro; ma alla sua morte, il patrimonio si divide in parti uguali tra i figli e le figlie. L'unità della famiglia allora deve essere protetta, difesa dalla legge, perché il pericolo maggiore le viene dalla donna, che, andando a marito, porta fuori di casa la proprietà domestica. Essa viene quindi dalla legge sottoposta ad una continua tutela, che le impedisce di disporre ad arbitrio de' suoi beni. Morto il padre, la donna cade sotto la tutela degli agnati. I giureconsulti del tempo di Cicerone, quando s'era, come notò il Vico, perduto il vero significato del primitivo diritto romano, credevano che questa tutela fosse su di lei stabilita a cagione della sua fragilità, propter sexus infirmitatem. Ma Gaio notò l'errore d'una tale opinione, che egli chiama volgare e speciosa, dichiarando che la tutela era stabilita invece nell'interesse degli agnati; affinché la donna, di cui erano eredi presuntivi, non potesse alienare, diminuire l'eredità, o in qualunque modo defraudarli.[3]

Fino a che la donna restava sotto la tutela paterna, essa non aveva ereditato ancora, e la legge le permetteva perciò di assumere obblighi giuridici; ma alla morte del padre, ereditava, e cominciava quindi per la famiglia il pericolo; laonde allora appunto essa cadeva sotto la tutela degli agnati, suoi eredi, e non poteva piú obbligarsi senza il loro consenso. La tutela era dunque per gli agnati non solo un dovere, ma anche un diritto ed una proprietà. Se l'agnato era minore, incapace o alienato di mente, non perdeva il suo diritto, salvo a farlo esercitare da un terzo. Il tutore costituiva la dote, che era della donna; ma il resto del patrimonio di lei doveva restare intatto, per tornare poi agli agnati della famiglia. Essa non poteva testare, perché non doveva aver diritto di defraudare la famiglia. Venendo però sotto la manus del marito, la donna subiva una capitis deminutio, entrava quasi loco filiae in un'altra famiglia, e allora suoi eredi legittimi essendo i nuovi parenti, la legge le consentiva di testare, perché cosí poteva, non ostante la nuova parentela, far tornare il patrimonio alla sua originaria famiglia.

Quando la donna era nella manus del marito, usciva dalla patria potestà e dalla tutela degli agnati. Pure la gelosia della sua propria famiglia era tale, che si cominciò ben presto a fare un matrimonio per semplice consenso, secondo il quale la donna veniva personalmente sotto l'autorità del marito, senza che questi avesse su di lei la manus, il che gli veniva a togliere la potestà sui beni di lei. In tal modo essa restava ad un tempo sotto la potestà del padre o degli agnati, e sotto quella del marito, dal che nascevano collisioni inevitabili, le quali accelerarono quella che doveva essere, col tempo, la piú profonda alterazione della famiglia romana: la piena indipendenza della donna. Ma prima d'arrivare a ciò, i conflitti trovarono, per lungo tempo, un freno ed un efficace rimedio in un potere mediatore, in una istituzione di somma importanza: il tribunale domestico. Regolato dai costumi e non dalla legge, questo consiglio di famiglia si componeva degli agnati, cognati, propinqui, e qualche volta vi pigliavano parte anche gli amici. Esso presiedeva agli sponsali, al primo vestir della toga virile; proteggeva gli orfani; assisteva il capo della famiglia nei giudizî e nelle condanne, temperandone l'autorità. Secondo la legge, il padre poteva agire anche senza il Consiglio; ma si esponeva alla infamia ed alla pubblica disapprovazione del Censore, che, occorrendo, l'accusava dinanzi al popolo. La donna nubile era sottoposta e protetta da questo Consiglio. Maritata con la manus, usciva dalla sua famiglia, per far parte d'un'altra; maritata senza la manus, continuava invece ad essere sottoposta al Consiglio, in cui veniva ad aggiungersi il marito.

IV

Al tempo di Cesare la famiglia romana non è piú quella di prima. Tutto è mutato: leggi, costumi, idee ed ogni cosa s'avvia a sempre piú radicale trasformazione. Il diritto delle genti ed il diritto civile piú rigoroso sembrano divenuti una cosa sola. Il fide-commisso acquista quasi la forza del legato, e forma come parte del diritto civile; il contratto verbale, l'antica stipulatio, tanto schiava delle formole, diviene cosí pieghevole da somigliare ad un contratto di diritto delle genti. Ma piú di tutto è mutata la famiglia. Il focolare domestico non è piú il tempio della casa. L' atrium è trasformato in una corte aperta, rallegrata da fiori e limpide fontane, ornata di busti dorati e di statue, spesso oscene; in essa non si sacrifica piú agli Dei, nel silenzio e nella castità dei domestici e sacri affetti; l'arricchito e corrotto patrizio vi riceve i numerosi amici e clienti. L'antica famiglia, una volta quasi Stato nello Stato, è ora disciolta e come assorbita dal potere politico: gli agnati si separano; il tribunale domestico non ha piú forza, o è scomparso; l'autorità paterna, divenuta meno dispotica, pesa di piú, perché i mutati costumi non la sopportano. Se il padre disereda il figlio, il giudice cancella il testamento; se rifiuta il suo consenso al matrimonio di lui, lo Stato l'obbliga a darlo; se lo punisce con la morte, l'Imperatore lo esilia; egli non può neppure maltrattare gli schiavi senza essere punito dalla legge, che è divenuta morale in mezzo alla cresciuta corruzione dei costumi. La donna, a poco a poco, sfugge alla tutela ed alla manus; acquista finalmente la sua indipendenza. Ma essa, sempre piú libera dalla famiglia e dai suoi, si trova sempre piú sottomessa allo Stato, e nella nuova indipendenza, ritrova incapacità nuove, le quali non derivano piú dal suo essere moglie o figlia, ma dal suo essere donna, e non sono stabilite nell'interesse della famiglia, ma create a tutela della fragilità di lei. Ecco perché i nuovi giureconsulti s'ingannarono, nell'interpretare il significato dell'antica tutela sulla donna. La dote le è sempre piú garantita, e diviene finalmente quasi una proprietà inseparabile da lei: non può alienarla, né diminuirla; ne resta padrona se vedova, se divorziata, se torna nella casa paterna. Il marito che scopre la moglie in adulterio, non può piú giudicarla e punirla col consenso del tribunale domestico, nascondendo o soffocando la vergogna fra le pareti domestiche. Egli deve essere vendicato dallo Stato, e deve ricorrere al giudice anche per le pene minori. Il divorzio è divenuto un atto pubblico, assai frequente. La donna, insomma, non è piú sotto la mano del marito, né sotto la patria podestà, né sotto la tutela degli agnati, ma è protetta dallo Stato. Quando la legge richiede ancora un tutore o procuratore, essa può scegliere un estraneo, che diviene il suo servo, piuttosto che il suo padrone, fino a che anche quest'ultima ombra di soggezione scomparisce. Padrona di sé, ella possiede, si arricchisce, fa testamento, si corrompe; ma la sua dote, garantita e mantenuta intatta dalla legge, l'accompagna per tutta la vita.

Nondimeno la donna ancora non ha diritti uguali ai maschi, nella successione. Alla morte del padre, è vero, le viene ab intestato una parte della eredità, uguale a quella dei fratelli; ma in tutti gli altri casi, le agnate piú prossime vengono dopo gli agnati piú lontani. La donna non può ora fare per altri alcun atto in giudizio, il che prima non le era vietato; non può testimoniare; non può impegnarsi pei debiti altrui. Il Senato-consulto Velleiano stabilisce, con norme determinate, e in parte rispettate fino ai nostri giorni, che la donna non può intercedere o sia obbligarsi per altri. Può alienare in favore altrui, può prendere obbligo diretto, contrarre un debito e trasmettere il danaro ad altri; ma non può obbligarsi per un altro, né garantirlo. La sua fragilità, secondo la mente del legislatore, la lascia accorta abbastanza, per non farle con leggerezza assumere obblighi diretti, né alienare i suoi beni; ma la espone ad assumere facilmente obblighi lontani, indiretti, sebbene spesso non meno gravi.

Né con ciò le continue alterazioni della famiglia romana sono ancora finite. Alle mille cagioni di mutamento se ne aggiunge una nuova col Cristianesimo, che penetra nell'Impero, nella letteratura, nel diritto, ed altera ogni cosa. Per esso l'uomo e la donna sono uguali; il padre e la madre hanno diritti e doveri uguali verso i figli; tutto deve essere ordinato nell'interesse di questi, quando invece nell'antica legge, i diritti dei figli erano sottoposti all'interesse della famiglia. E cosí un nuovo elemento entra nel diritto romano, alterandone il carattere, già assai mutato dalla filosofia greca e dal dispotismo bizantino. Il diritto canonico accetta i principi del romano, riconosce l'assoluto regime dotale, e respinge l'unione dei beni. La donna rimane esclusa da tutti gli uffici, che gli antichi chiamavano virili; non può obbligarsi per altri, esercitare arbitrato, intentare un'accusa, né deporre in giudizio; la sua testimonianza non è valida. Ma dall'altro lato il diritto romano arriva inesorabilmente alla uguaglianza democratica, all'equità naturale, ed all'assoluta prevalenza dello Stato. Il potere pubblico toglie ogni avanzo d'autorità al potere domestico; la famiglia, direi quasi, politica scomparisce, per riordinarsi sul principio della reciproca affezione. L'ultimo suggello a queste alterazioni, è posto dalla celebre legge di successione (Nov. 118 e 127) fatta da Giustiniano, negli anni 543 e 547, la quale, respingendo ogni privilegio d'agnazione e di sesso, misura i diritti secondo il grado di parentela, e vuole che sieno reciproci. Inoltre aumenta la legittima, e alla dote corrisponde una donatio propter nuptias, fatta dal marito, l'una e l'altra inalienabili a vantaggio dei figli. Il marito non può toccar la dote, neppure col consenso della moglie; esso ne è un semplice amministratore, e la reciprocità deve essere perfetta. La moglie non solo è proprietaria della dote, ma ha ipoteca generale, privilegio d'azione e rivendicazione sui beni del marito. La madre ha col padre uguali diritti alla successione dei figli, dei quali è divenuta tutrice legale. Anche il Senato-consulto Velleiano, che impediva alla donna d'intercedere, viene modificato col medesimo intento. Giustiniano è molto piú severo contro la intercessione di lei a profitto del marito, per salvare cosí da ogni pericolo i beni della donna; ma è invece assai piú indulgente per la intercessione a favore dei terzi, la quale è valida, se dopo due anni viene rinnovata, se è fatta per una cagione manifestamente giusta. Questa è anzi la forma in cui troviamo quel Senato-consulto rispettato in tutto il Medio Evo. Cosí la reciproca uguaglianza s'è raggiunta; ma l'antica unità della famiglia s'è disciolta; il nucleo compatto, ferreo della società romana, è ridotto in frantumi sotto l'azione continua, crescente dello Stato. In tutte le sue istituzioni Roma poté giungere alla democrazia ed all'uguaglianza, sacrificando però la piena libertà individuale, lo svolgimento delle particolari associazioni e della vita locale all'unità dello Stato. Conciliare questi due elementi, senza distruggere l'uno a vantaggio dell'altro, sarà il problema d'un'era novella e d'una civiltà nuova.

Per quanto si possa esaltare la meravigliosa e indisputabile grandezza dell'opera dei legislatori e dei giureconsulti dell'Impero, raccolta nel Corpus iuris ai tempi di Giustiniano, è certo che l'antico e primitivo carattere del diritto romano s'è in essa profondamente alterato, e che il dispotismo dello Stato, sempre prevalente in Roma, è divenuto enorme. Il Tocqueville ed altri con lui credono anzi, appunto perciò, che la grande diffusione del diritto giustinianeo nei popoli latini, sia stata piú di una volta dannosa alla libertà politica. A molti una tale asserzione può parere assurda; ma, se è vero che tra il diritto privato e pubblico v'è uno stretto legame, se è vero che le ultime alterazioni nel diritto romano furono portate dall'azione del crescente dispotismo dello Stato, l'asserzione dello scrittore francese deve pure avere il suo valore.

V

Comunque sia di ciò, è certo che la famiglia, quale noi la troviamo costituita, anzi indebolita nel diritto giustinianeo, non è tale da potere, nei secoli di barbarie che si avvicinano, resistere all'urto violento delle germaniche popolazioni che si avanzano, e molto meno essere il nucleo ed il germe da cui potrà scaturire la nuova società del Comune italiano. Negli Statuti, infatti, noi la troviamo assai diversamente ordinata. L'agnazione ha ripreso il suo ascendente; la donna è sotto una nuova specie di tutela; e sebbene il regime dotale sia rigorosamente osservato, mille prescrizioni sono destinate a mantenere o a far tornare la proprietà nelle famiglie, per serbare intatta l'unità del patrimonio domestico. Sorge quindi una grave disputa: questa nuova costituzione della famiglia, che si trova in una stretta relazione col diritto pubblico dei Comuni, è dessa un ritorno al diritto anti-giustinianeo, o pure è una conseguenza delle istituzioni germaniche, del diritto longobardo, nel quale infatti noi troviamo del pari preferita l'agnazione, e la famiglia piú saldamente costituita? Gli scrittori italiani, massime gli antichi, seguirono generalmente la prima opinione; la piú parte dei Tedeschi, che trovarono imitatori recenti anche fra di noi, la seconda.[4] E cosí si sono da un lato e dall'altro formulate, sulla costituzione della famiglia italiana nel Medio Evo, teorie analoghe a quelle sulla origine dei Comuni.

La persistenza del diritto romano nel Medio Evo, anche quando la condizione degl'Italiani era piú misera, e tutto pareva sottoposto alla legge longobarda, fu sostenuta con maravigliosa dottrina ed acume nell'opera immortale del Savigny. Ed in vero il diritto pubblico, il diritto penale potevano con qualche facilità totalmente mutarsi, sotto il dominio dei conquistatori; ma il diritto civile, che era filtrato per tanti secoli nei costumi, nel sangue romano, che aveva regolato le molteplici relazioni d'un popolo civile, che soddisfaceva ai suoi mille bisogni, non sembra che potesse svanire del tutto sotto la spada dei barbari, che questi bisogni non conoscevano, che queste relazioni non sempre intendevano. Essi non avevano assai spesso neppur potuto menzionare nelle proprie leggi queste relazioni, le quali sfuggivano all'azione di coloro ai quali rimanevano in gran parte ignote o indifferenti. E quindi una parte di ciò che s'attiene ai matrimonî, alle successioni, ai contratti dovette assai di frequente continuare fra gl'Italiani, secondo le consuetudini antiche. E ciò riesce anche piú facile ad intendersi, quando si pensi che, se il diritto romano era stato il diritto di tutti nei paesi in cui la conquista romana aveva messo profonde radici; le leggi barbariche, invece, secondo l'uso germanico, serbarono sempre un carattere personale, procedevano cioè col popolo in mezzo a cui erano nate, e non si comunicavano facilmente agli altri. Infatti, quando per le successive invasioni, si trovarono in uno stesso paese unite diverse stirpi germaniche, fra di loro indipendenti, o anche le une sottoposte alle altre, ciascuna riteneva l'uso della sua propria legge. Pei Romani, invece, il loro diritto aveva un carattere universale, e però lo comunicavano, l'imponevano a tutti. Esso era quasi il primo germe della grandezza e civiltà di Roma, e il diffonderlo era perciò ritenuto come l'ufficio piú sacro del popolo-re. Quindi è che anche sotto la piú dura oppressione barbarica, il diritto privato degl'Italiani poteva continuare ad essere il diritto romano, in tutti quei casi, e non furon pochi, in cui il germanico non lo abrogò direttamente, non lo sostituí o non lo avvertí.

Ma la presenza di due legislazioni diverse, una imposta dalla forza, l'altra mantenuta dalla consuetudine; le condizioni profondamente mutate per la distruzione del vecchio Stato romano: la formazione di una società nuova dovevano cominciare di necessità una vita, una storia nuova del diritto italiano. Negli Statuti dei nostri Comuni noi troviamo in presenza, e quasi in lotta, il diritto romano e il diritto longobardo, ambedue alterati a vicenda l'uno dall'azione dell'altro. Ma sotto quale delle mille forme che ha subite, il diritto romano si trovava fra noi, quando venne come sopraffatto dal germanico? Era la forma letteraria e filosofica del Corpus iuris di Giustiniano, o pure la forma anti-giustinianea, meno sistematica, ma pur meno alterata dalle idee bizantine, e piú consuetudinaria?

Il Savigny dice chiaramente, che le Pandette furono subito mandate in Italia, e che non appena la potenza dei Goti fu dai Greci fiaccata, Giustiniano non tardò ad emanare la Prammatica Sanzione (554), con cui tutto il Corpus iuris venne legalmente proclamato in Italia. Quindi è, cosí egli prosegue, che le Pandette si trovavano allora in ogni angolo d'Italia, e da quel momento vi furono accolte con favore, il diritto giustinianeo essendo piú consentaneo ai bisogni di questa contrada. E cosí parimente si spiega, secondo lui, perché i primi comentatori o glossatori italiani si volsero tutti e solo allo studio del Corpus iuris. Ma il lettore si può avveder facilmente, che in questo punto il Savigny è andato troppo oltre nelle sue deduzioni. Piú d'una volta, infatti, i documenti l'obbligano ad una interpretazione forzata, per impedire che contraddicano alla sua tesi. Egli trova nei documenti ravennati la mancipazione, ma in termini che a lui sembrano esser solo la nuda e vuota terminologia d'una età trascorsa. Alcuni atti di vendita lo costringono però a dire, che in essi v'è realmente un qualche avanzo dell'antica mancipazione. La stipulatio, la fiducia, le forme antiche del testamento sembrano piú volte avvertirlo, che vi sono nel Medio Evo avanzi visibili d'un diritto antigiustinianeo; ma egli si studia sempre piú di trovare in tutto ciò solo i resti di forme antiquate. Molti nuovi documenti però vennero pubblicati piú tardi, e la questione si ripresentò sempre con la medesima insistenza. Tutto conduce a riconoscere, come di recente osservò uno scrittore tedesco assai dotto in queste materie, che la storia del diritto romano nel Medio Evo va divisa in due periodi ben distinti.[5] Nel primo esso continuò per consuetudine, e sopravvissero perciò molte forme anti-giustinianee; nel secondo, assai posteriore, prevalse invece il diritto giustinianeo, favorito piú tardi dallo studio letterario delle Pandette, per opera dei professori di Bologna, e solo allora le piú antiche forme scomparvero affatto. Questa opinione, che è confortata dai documenti, risponde anche all'indole dei tempi, ai bisogni della società, e viene confermata dai nostri antichi scrittori e dalle nostre tradizioni letterarie.

Invero, lo stesso Savigny esamina e riconosce tutta l'importanza delle varie fonti del diritto anti-giustinianeo, diffuse nel Medio Evo. Il Codice Teodosiano (438) che ebbe allora molta autorità, era appunto compilazione di giurisprudenza antica. L'editto di Teodorico ostrogoto (500) è anch'esso una compilazione di diritto romano anti-giustinianeo, fatta per ordine di quel principe. E se guardiamo in esso alla costituzione della famiglia, massime alla successione, la troviamo quale era prima che gli editti imperiali l'avessero intralciata.[6] Il Breviario di Alarico ( Lex romana Visigothorum ), e il cosí detto Papiano ( Lex Romana Burgundionum ), posteriori al 500, sono del pari compilazioni di diritto anti-giustinianeo, e si trovano diffusi in varie provincie dell'Impero. La famosa Lex Romana Utinensis, seu Curiensis, che sembra essere un rimpasto fatto col Breviario d'Alarico nel IX secolo, per uso degl'Italiani, nei paesi già dominati dai Longobardi, presenta i medesimi caratteri. È vero, che tutti questi monumenti del dritto medioevale sono anteriori a Giustiniano, ad eccezione della Lex Romana Utinensis, e che secondo l'ipotesi del Savigny, il Breviario d'Alarico sarebbe stato in uso presso i Franchi, che soli lo avrebbero portato in Italia, dopo la cacciata dei Longobardi. Cosí stando le cose, noi troveremmo l'antico diritto in uso fra di noi solamente prima e dopo dei Longobardi; sotto la loro feroce oppressione, invece, non ne troveremmo nessuna traccia sicura. Ma è assai difficile supporre, che l'antico diritto consuetudinario si spegnesse quando appunto la consuetudine poteva salvarlo, e che la legge romana pigliasse allora la forma piú letteraria giustinianea, per poi tornar di nuovo a forme piú antiche. Una volta che il diritto giustinianeo fosse stato davvero accettato nella sua forma genuina, esso avrebbe dovuto, col progredire della cultura e sotto il dominio assai meno duro dei Franchi, già piú vicini al viver dei Latini, andare guadagnando terreno. Il fatto è che, in tutto il Medio Evo, s'incontrano forme anti-giustinianee, ove piú ove meno alterate, anche nelle stesse leggi longobarde.[7] E quanto al vedere i glossatori ricorrere alle Pandette ed a tutto il Corpus iuris, ciò prova solamente che, col risorgere dei Comuni e delle lettere, essi si rivolsero, come era naturale, alla fonte piú letteraria e piú autorevole del diritto. Da quel tempo, infatti, non se ne ritrova piú altra.[8]

Si pensi poi che, quando i Greci vennero in Italia a combattere i Goti, vi trovarono l'antica consuetudine romana e l'Editto di Teodorico che la sanzionava; che i Goti furono definitivamente disfatti nel 553; che nel 568 al dominio dei Greci successe quello dei Longobardi; che questi ridussero i loro rivali nell'Italia meridionale, donde furono poi cacciati dai Normanni. Colà il corrotto dispotismo bizantino riuscí non meno funesto di quello dei barbari, e forse fu la prima cagione delle molte sventure e del lungo abbandono in cui caddero piú tardi quelle provincie. Ma poteva un cosí breve ed incerto dominio bastare a diffondere in Italia il diritto giustinianeo, in modo da farlo non solo universalmente accettare, ma anche entrare per modo nei costumi da poter continuare a vivere quando non era legalmente piú riconosciuto dai barbari? Una tale ipotesi parrà anche meno sostenibile in tutto ciò che s'attiene alla famiglia ed alla successione, se si pensa che le riforme fatte in questa parte del diritto da Giustiniano, a Costantinopoli, non rispondevano certo alle condizioni in cui si trovava allora l'Italia. Per quanto la filosofia greca si fosse diffusa tra di noi, lo spirito bizantino non era identico a quello di Roma, e molto meno erano identiche ora le condizioni delle due società. A Costantinopoli il dispotismo orientale corrompeva, soffocava la società nel lusso ed in una cultura troppo raffinata; lo Stato, sostituendosi a tutto, dava nuovo carattere alle leggi. In Italia, invece, la società, non meno corrotta, si andava decomponendo, e già cadeva a brani; l'antica unità, l'antica forza dello Stato s'infiacchivano sempre piú, e si cedeva sempre piú dinanzi alle aggressioni barbariche. Da un lato si aveva l'onnipotenza dello Stato, dall'altro invece cominciava a mancare in esso ogni forza. Fra noi adunque le donne, i deboli erano naturalmente spinti a cercare rifugio nelle private associazioni, sopra tutto nel seno della famiglia. E se la forza naturale delle cose doveva spingere da un qualche lato, determinare una qualche nuova tendenza, questa non poteva di certo mirare a sempre piú indebolire la famiglia, per sottometterla alla forza di uno Stato che andava crollando; ma piuttosto mirare a rafforzarla, perché essa era l'unica salvaguardia possibile, in mezzo alle rovine che da ogni lato s'andavano accumulando. È infatti ciò che segue sempre nelle società barbariche, nelle quali lo Stato non avendo forza, la difesa dei deboli e la vendetta delle ingiurie restano affidate ai parenti. E però tanto lo sgominarsi della società latina, quanto l'esempio dei barbari concorrevano a presentare una forte resistenza alla diffusione del diritto giustinianeo, massime quando le vecchie consuetudini romane si trovavano piú consone ai nuovi e crescenti bisogni della società, ed aiutavano a ricostituire con forza maggiore la famiglia, sempre piú necessaria al comune benessere. Era questo il solo modo, che potesse aprire una via a ricominciare da capo il lavoro sociale, avviare piú tardi ad ordini e ad istituzioni nuove.

Né facciamo noi gran caso della Prammatica Sanzione, perché sappiamo che tra la promulgazione d'una legge, specialmente per opera di un governo temporaneo e debole, in una società che precipita nel disordine, e la pratica attuazione di essa, il suo entrar nei costumi, corre un grandissimo divario. Anche sotto la Repubblica romana o sotto l'Impero, bandite che erano le nuove leggi, non perciò le antiche sparivano a un tratto. E nelle stesse società moderne noi possiamo osservare la lunga persistenza delle antiche consuetudini, quando esse rispondono meglio alle condizioni dei tempi. I principî del Codice di Napoleone furono banditi nelle nostre provincie meridionali durante il dominio francese, riconfermati poi nelle legislazioni posteriori, e la eredità doveva perciò esser divisa in parti eguali tra i figli. Tuttavia nelle Calabrie ed in molte altre di quelle provincie, la proprietà continua a rimanere anche ora concentrata nelle famiglie, giacché, per mutuo consenso, uno solo dei maschi prende moglie, gli altri restano celibi. E per le stesse ragioni, alle donne si dà il meno possibile, né tutte si maritano, alcune di esse venendo spinte o forzate a chiudersi in convento. Solo il progresso sociale farà lentamente attuare davvero i principî della civile uguaglianza, sanzionata nei codici.

Tutto adunque ci permette di concludere, che il diritto romano sopravvisse fra di noi alla caduta dell'Impero d'Occidente, ritenendo per consuetudine molte delle forme che aveva prima della compilazione del Corpus iuris. In questo stato esso venne a contatto col diritto germanico, e cominciarono le loro mutue alterazioni, per le quali la famiglia italiana ne uscí costituita in una forma affatto nuova, insieme col Comune. Fu una lenta trasformazione, con la quale le idee e le tradizioni latine andarono sempre guadagnando terreno, e a poco a poco smaltirono o distrussero le leggi e le istituzioni barbariche. Proclamate finalmente le libertà comunali, incominciò una nuova coltura, e con essa anche un nuovo periodo nella storia del diritto romano. L'università di Bologna divenne il centro da cui partí la cognizione e la diffusione delle Pandette, ed il Corpus iuris fu ben presto ritenuto come la sorgente prima e perenne del diritto comune fra di noi. La tradizione che narra delle Pandette d'Amalfi, rapite dai Pisani, che le avrebbero scoperte e fatte conoscere la prima volta in Occidente, pone il fatto circa l'anno 1135, cioè nel secolo appunto in cui sorsero i Comuni, ed in cui Irnerio, secondo un'altra tradizione, per invito della contessa Matilde, fondò la scuola di Bologna.[9] Cosí la storia, la leggenda e la logica vengono a sostegno delle nostre conclusioni.

VI

Nel cominciare del Medio Evo, adunque, la famiglia dava in Italia preferenza agli agnati, e, pel continuo indebolirsi dello Stato, era costretta a cercare in sé stessa forza maggiore. Le irruzioni barbariche portarono una diversa costituzione della famiglia, che non poté gran fatto alterare la nostra, fino a quando i Longobardi non fermarono stabilmente il loro dominio su di noi. Allora cominciò una grande alterazione della società italiana, costretta dalla violenza a prendere forma piú o meno barbarica. Importa quindi studiare la famiglia longobarda, per vedere come e sino a qual punto essa poté alterare la nostra.

La società longobarda, al pari d'ogni altra società barbarica, aveva a suo fondamento la forza; essa era nella guerra strettamente unita sotto un capo, e nella pace si scioglieva in gruppi, per mancanza di forza nel potere centrale, e per eccesso d'indipendenza nei varî suoi capi. Infatti, appena che i regni barbarici cominciarono a costituirsi con qualche stabilità in Occidente, li troviamo subito divisi in Marche, Ducati, in gruppi diversi, piú tardi ancora in feudi. E se guardiamo i barbari nel loro stato primitivo, innanzi che vengano fra di noi, troviamo che sono sparsi per la campagna; manca la città vera e propria, manca il vero concetto dello Stato, che apparisce piuttosto come una confederazione di gruppi secondarî. L'unità sociale barbarica è nei villaggi, o anche nelle tribú, che sono associazioni derivate forse in origine da una stessa famiglia. Lo Stato prende ovunque forme famigliari; la forza sociale germanica apparisce piú visibile nei gruppi minori, e quindi nella famiglia. Non deve perciò maravigliarci il trovarla piú fortemente costituita che fra i Latini, i quali l'avevano, già per molti secoli, alterata, decomposta sotto l'azione crescente del potere politico.

In origine, la famiglia barbarica fu anch'essa, come era stata quella di Roma, un'associazione consacrata dalla religione. Una Dea presiedeva al focolare domestico, luogo sacro; il padre era sacerdote e protettore della famiglia. A Roma, il potere era nelle mani d'un solo, che stringeva il freno con ferrea autorità; in Germania, invece, era in mano di tutti i forti, di tutti i membri atti alle armi. A Roma la famiglia era una monarchia assoluta, ed il piú vecchio era sempre il piú autorevole; in Germania era quasi una repubblica di forti, e l'uomo incapace di portare le armi perdeva la sorgente principale della sua autorità. Il consiglio di famiglia aiutava il padre romano e ne temperava il duro dispotismo; in Germania il consiglio comandava e concentrava in sé stesso una gran parte del potere della famiglia. Il padre romano poteva spezzare a suo arbitrio ogni vincolo, mettere il figlio fuori della famiglia, venderlo, ucciderlo; il figlio germanico, invece, quando era atto alle armi e combatteva insieme col padre, poteva separarsi, volendo, dalla famiglia, per andare a far parte anche d'un'altra tribú. In Germania la forza, la proprietà comune e i vincoli naturali del sangue costituivano la famiglia; in Roma era il concetto stesso della famiglia quello che dominava su tutto, e la rendeva autorevole e sacra. In Roma l'individuo scompariva nello Stato, il figlio nel padre; nei popoli germanici, invece, la libertà individuale era assai maggiore, e se lo Stato ci apparisce come una confederazione, la famiglia sembra un'associazione di membri piú indipendenti, solidali fra di loro. La vendetta, la colpa, la proprietà erano comuni a tutti; se un membro della famiglia era offeso, toccava ai parenti vendicarlo e fargli giustizia riparatrice. Alle vendite, alle donazioni, come alle vendette, dovevano tutti consentire, perché la proprietà era di tutta la famiglia, e doveva restare in essa: di qui la inutilità del testamento, che i barbari non conoscevano. La proprietà era sacra, costituiva la famiglia, conferiva diritti e doveri sociali, restava principalmente nelle mani dei maschi.

In questa famiglia ed in questa società, che aveva a fondamento la forza, la donna, incapace di portare le armi, restava naturalmente, come tutti i deboli, affidata alla difesa dei parenti armati, e quindi sotto la loro perpetua protezione ( manus, Munt ), sotto il mundio. Questa tutela, costituita in conseguenza della debolezza e fragilità del sesso, non poteva cessare come a Roma, dove era stata, invece, costituita nel solo interesse della famiglia. Ma la donna germanica, sebbene oppressa, sebbene potesse essere venduta, espropriata e fatta schiava, trovavasi sotto un potere che, diviso fra molti, era piú debole e meno dispotico del romano. Nel consiglio di famiglia, da cui essa dipendeva, sedevano infatti il padre, i figli, i parenti del padre, della madre, del marito e della moglie. La donna trovava quindi assai facilmente un protettore. Incapace di fatto, per la sua debolezza, non era poi ugualmente incapace in diritto. Poteva presentarsi ai tribunali, o scegliere chi ve la rappresentasse; possedere; succedere, sebbene in parte minore dei maschi. Essa era religiosamente rispettata dall'uomo che ne seguiva i consigli; ma era un rispetto dovuto al sesso piú debole, mentre che a Roma era invece un rispetto dovuto alla madre, alla sposa, carattere sacro, che fu il fondamento della famiglia, della grandezza romana.

Il diritto longobardo, essenzialmente germanico, ebbe in Italia una lunghissima durata: anche nel secolo XIV si trovano tracce molto visibili della sua esistenza. Ma esso perdette ben presto la nativa e selvaggia sua originalità, piegandosi sotto l'azione piú forte del romano. Basti notare, dice il Gans nella sua Storia del diritto di successione, il fatto che, dopo la redazione storica di questo diritto, ne fu compilata un'altra, che è sistematica, per convincersi come il carattere piú disordinato, ma pure piú naturale, spontaneo e vigoroso del diritto germanico, dovette restare alterato, quasi cristallizzato in una forma, che è piú propria del romano. Pure questa forma appunto contribuí non poco alla sua diffusione fra di noi.

VII

Come in tutti i popoli germanici, cosí anche presso i Longobardi, la donna non era mai libera dal mundio, mai selb-mundia. Colui che la voleva sposare, doveva prima di tutto pagare il prezzo del mundio, che il matrimonio gli faceva acquistare sopra di essa; doveva inoltre prometterle la meta, o sia una specie di dote, come osserva anche Tacito, là dove dice che presso i Tedeschi, non la donna al marito, ma questi portava la dote alla moglie. Alla meta, chiamata poi anche dotalitium, dos, sponsalicium, ecc., si aggiungeva il faderfium, che il padre soleva donare, a suo beneplacito, alla figlia. Il giorno dopo le nozze, il marito faceva alla moglie un dono del mattino, morgengab, e questo, secondo una interpetrazione, che è però assai discutibile, in premio della verginità di lei. L'ammontare della meta e del morgengabio fu, sotto l'azione crescente del diritto romano, limitato. Anche il faderfio, che si trasformò piú tardi in dote, venne nell'età dei Comuni limitato.

La meta, il faderfio, il morgengabio erano proprietà della moglie, che poteva richiederli alla morte del marito. Ma, per un carattere proprio del diritto germanico, interamente serbato anche presso i Longobardi, non si ammetteva punto il regime dotale romano, col quale si costituisce una proprietà separata e indipendente della donna: ciò che è suo le viene invece dal marito. Il diritto germanico preferiva generalmente la comunione dei beni. La donna fra di noi, cosí dice il Gans, non ha bisogno, come presso i Romani, d'una proprietà, per affermare la sua giuridica personalità, e provare che è uguale al marito. Essa possiede ciò che il marito possiede, e la sua uguaglianza è costituita dall'amore, nel quale ogni differenza scomparisce. Il marito rappresentava in giudizio la moglie, che era sotto la protezione della sua spada, ed egli poteva anche ucciderla, quando l'avesse trovata in adulterio. Tutta la proprietà mobile e immobile di lei, non esclusi i doni nuziali fatti da qualche amico, erano proprietà del marito, il quale doveva solamente prevedere il caso in cui, per morte, cessasse il matrimonio, e di qui la necessità della meta e del donativo. Morendo la moglie senza figli, tutto ricadeva al marito; morendo il marito, la moglie aveva diritto di far prelevare la meta, e il donativo. In tutto il resto, essa era sottoposta alla libera generosità del marito, il quale poté piú tardi lasciarle metà dell'usufrutto delle proprie sostanze, e piú tardi ancora l'intero usufrutto.

Se il matrimonio dei Longobardi è tanto diverso dal romano, neppure il mundio può, come abbiam visto, andare confuso con la tutela, a cui era, presso i Romani, sottoposta la donna. Avendo esso la sua origine nella incapacità a portare le armi, era temporaneo sull'uomo, e cessava colla sua incapacità; in sul principio cessava a 12 anni, piú tardi cessò a 18. Sulla donna, invece, era perpetuo, perché essa era sempre incapace alle armi. Prima sotto il mundio del padre, passava poi col matrimonio sotto quello del marito, e colla morte del padre, se non aveva marito, cadeva sotto quello del figlio o degli agnati, i quali erano anche suoi eredi. In ultimo veniva protetta dalla Curtis Regia. Il carattere del mundio era però sempre lo stesso, cioè una protezione del debole. Infatti la donna, sotto il mundio del padre, del marito, del figlio, degli agnati o della Curtis Regia, era sotto una protezione che aveva sempre la medesima natura. Non potrebbe dirsi lo stesso della tutela romana, che aveva la sua origine nel concetto della famiglia. La tutela del padre romano sui figli durava tutta la sua vita, ma egli poteva disfarsene; il mundio che esercitava il padre longobardo durava finché durava la incapacità dei figli alle armi, e come logica conseguenza cessava con essa. Sebbene non possa dirsi che la emancipazione sia rimasta ignota ai Longobardi, essa può, secondo l'indole del loro diritto, ritenersi come un fatto eccezionale. Se la donna romana era sottoposta alla patria potestà, o alla manus del marito, o alla tutela degli agnati, queste erano tre protezioni assai diverse, appunto pel diverso carattere domestico di colui che le esercitava, e nulla avevano da fare col mundio. Il padre longobardo poteva vendere i figli, li rappresentava in giudizio, e ciò che essi acquistavano, era suo; ma il consiglio di famiglia temperava la sua autorità, nel modo che abbiamo accennato piú sopra, e i fratelli della madre, natural protettrice dei figli, vi pigliavano gran parte.

Né solamente nel matrimonio, ma ancora nella successione, il diritto di famiglia longobardo manifesta il suo proprio ed originale carattere. Prima di tutto bisogna però notare, che presso i Longobardi si trova il testamento, il che sembra contraddire all'uso dei popoli germanici, i quali non lo conoscevano: ma esso deriva dall'azione del diritto romano sul longobardo. Tuttavia la irrevocabilità della donazione e del testamento longobardo ci presenta il carattere o piuttosto un residuo del carattere germanico; giacché il concetto del testamento romano sta appunto nella sua revocabilità, ed i Longobardi non conobbero la testamenti factio romana.[10]

I piú prossimi eredi erano i figli legittimi, con i quali succedevano anche i naturali. Sebbene questi non facessero propriamente parte della famiglia, erano pure ammessi a succedere coi legittimi, ma in proporzioni minori, e potevano essere pareggiati mediante la legittimazione. Piú tardi questo carattere essenzialmente germanico della successione, si perdette per opera del diritto romano e del diritto canonico, i quali escludono i figli naturali. In origine, secondo la legge longobarda, un figlio legittimo pigliava due terzi dell'eredità, lasciando solamente il resto ai naturali. Se i figli legittimi erano due, i naturali prendevano la quinta parte; la settima se i legittimi erano tre. Ai figli naturali non si poteva lasciare piú di quello che era prescritto, né si poteva diseredare un figlio senza giuste e provate ragioni, le quali vennero prese in prestito dal diritto romano. Si poteva tuttavia vantaggiare un figlio a preferenza degli altri.

La preferenza dei maschi sulle femmine, ha una grande importanza, ed è un altro dei caratteri propri del diritto longobardo. Quando il testatore, morendo, lasciava un figlio ed una o piú figlie nubili, doveva a queste lasciare la quarta parte dell'eredità; quando v'erano piú figli, le figlie avevano solo la settima parte. Le maritate però non potevano pretendere a nessuna parte dell'eredità, dovendo contentarsi di ciò che avevano avuto nel giorno delle nozze, e piú non dimandare. In mancanza di figli maschi, i piú prossimi eredi erano le figlie, che succedevano come maschi, fossero o no maritate. Un altro carattere proprio del diritto longobardo è quello di essere molto favorevole alle figlie ed alle sorelle del testatore, quando erano nella casa paterna o fraterna ( in capillo ). Il fratello viene escluso dalla figlia e dalla nipote, ed in questo caso si vede una singolare e strana preferenza data alla donna. Cosí pure troviamo, che le figlie e le sorelle non passate a marito, prendono porzioni uguali, quando trovansi le une e le altre nella casa paterna o fraterna.

Noi abbiamo notato, che gli Statuti dei Comuni italiani danno, al pari del diritto longobardo, una decisa preferenza agli agnati sui cognati, e che ciò dette origine a vive discussioni. Infatti si volle da molti vedere in questa preferenza un carattere assolutamente germanico, dal diritto longobardo passato negli Statuti. Ma noi abbiamo notato del pari che anche il diritto romano, in tutta la sua storia preferí gli agnati, e solo negli ultimi tempi perdé questo carattere, che però, in parte almeno, esso riteneva ancora in Italia, quando vennero i barbari. E ci parrà sempre piú necessario concludere, che questa preferenza data agli agnati non sia negli Statuti venuta dal diritto longobardo, se rifletteremo alle diversità che, anche in tale preferenza, corrono fra le leggi germaniche e le italiane; ed al fatto non meno notevole, che essa andò crescendo sempre piú, nel tempo stesso che andavano negli Statuti aumentando l'azione e la importanza del diritto romano. In verità piú si esamina da vicino, e piú bisogna riconoscere che sono ragioni politiche, tutte proprie dei Comuni e della società italiana del Medio Evo, quelle che condussero ad un tale risultato. Ma anche in ciò l'azione vicendevole dell'uno sull'altro diritto, rimane evidente. Possiamo infatti osservare, che la successione degli agnati, nel diritto longobardo è anch'essa alterata dal romano, il quale l'ha resa indifferente alle cose, che compongono la eredità, mentre che è un carattere proprio e costante del diritto germanico l'essere intimamente connessa, legata a queste.

Per concludere adunque con una osservazione generale, ripetiamo che fra i Longobardi predominano i vincoli del sangue, che nella loro famiglia si trova una maggior libertà individuale, e che l'azione dello Stato su di essa è molto piú debole. A Roma, invece, il concetto della famiglia domina sui vincoli del sangue, e la sua unità è in origine costituita dall'assoluto dispotismo paterno, distrutto poi dal potere politico, che quasi si sostituisce ad esso. Lo Stato allora domina ogni cosa, riduce in frantumi la famiglia, conduce all'assoluta uguaglianza di tutti, senza avere la forza di tenere insieme una società, in cui né la libertà individuale, né l'attività locale, né le libere associazioni si poterono svolgere abbastanza. Ed esse erano pure necessarie a salvare l'immensa mole d'una società composta di popoli diversi, che non aveva perciò nessun carattere o unità nazionale, che la Repubblica e l'Impero avevano costituita. Questi nuovi elementi sono quelli appunto che vennero fra di noi coi barbari. Cosí fu che due popoli, due forme di famiglia e di società, quasi direi, due idee, due caratteri sociali affatto diversi s'incontrarono, l'uno dei quali era divenuto necessario a complemento dell'altro. I Tedeschi portarono dalle loro foreste la libertà individuale, la indipendenza personale, il vigore delle piccole associazioni; i Latini avevano già trovato l'unità dello Stato, un concetto piú generale e organico della società, l'idea politica della famiglia, quale noi la vedremo piú tardi trionfare nel Comune. Dall'impasto di queste due società diverse, dovrà nascere la società moderna, nella quale l'azione dell'una è di rado scompagnata da quella dell'altra, ed è perciò vano il presumere di farla derivare esclusivamente dall'una o dall'altra di esse.

VIII

Se però negli Statuti italiani, i due elementi giuridici che piú visibilmente coesistono e lottano fra di loro, sono il diritto romano ed il longobardo, ve ne ha ancora altri che non vogliono essere dimenticati, e fra questi noteremo il diritto feudale ed il diritto canonico. Il feudo è una delle istituzioni piú importanti nella storia del Medio Evo, è la prima forma che piglia la società, nell'uscire dal caos barbarico, ed ha un carattere prevalentemente germanico. Con esso la proprietà e la famiglia assumono una forma speciale e nuova affatto: può dirsi che sia la prima e principale manifestazione politica e sociale dell'individualismo germanico. La tribú barbarica tendeva di sua natura a sciogliersi in piccoli gruppi, nelle famiglie, che solo il pericolo teneva unite. Durante le invasioni, la tribú trasformavasi in banda armata, lasciava i deboli o impotenti, reclutava uomini anche dalle tribú vicine, e sotto un capo acquistava, per le necessità della guerra, ferma e forte unità. Gli assalti già prima dati dai Romani, avevano per le stesse ragioni contribuito a far nascere fra i barbari, colla riunione di diverse tribú, alcuni regni forti e potenti, ma sempre di breve durata, perché colla pace tendevano subito a sgretolarsi e decomporsi di nuovo. Appena che i barbari cominciarono a fermarsi in Occidente, fu subito visibile l'impotenza in cui essi erano di fondare l'unità dello Stato. I capi delle schiere, cominciata che era la pace, si dividevano le terre; si separavano, ed il loro re o duce supremo restava come isolato, con assai debole impero. Ognuno di essi cercava rafforzarsi in un castello, per esservi assoluto padrone, riconoscendo appena la sua dipendenza dal re. Nel feudo, che cosí nasceva, la proprietà e la sovranità si confondevano in uno, ed erano ambedue ricevute in benefizio da un signore piú potente, con oneri ed obblighi annessi. Dato per temporanea concessione, il benefizio o feudo divenne ereditario solo col tempo. In origine poteva essere ripreso da chi l'aveva dato, ed a lui tornava quando il feudatario moriva, per essere con nuova concessione trasmesso agli eredi di questo: a poco a poco venne, per uso o abuso o esplicita concessione, trasmesso in eredità. E finalmente tutta la proprietà, ogni possesso o dominio prese nel Medio Evo una forma feudale. La poca forza che aveva il supremo potere politico, obbligava i deboli a cercare altrove protezione; molti liberi possessori si rendevano volontariamente vassalli, e gli ostacoli che da un altro lato i grandi signori incontravano a mantenere la loro autorità sopra vasti dominî, li obbligavano a cedere in benefizio a minori vassalli parte delle loro terre. Cosí lo Stato, la Chiesa, ogni cosa prese una forma feudale. Quest'opera nell' XI secolo era compiuta, quando i Comuni sorsero in Italia a combatterla ed a disfarla.

Nel castello, come era naturale, i vincoli della famiglia divennero sempre piú forti; esso doveva bastare a sé stesso, era come il mondo proprio e indipendente del signore che l'abitava, e che divideva il suo tempo fra le pericolose avventure e la vita domestica. Tutti gli storici hanno notato che il feudalismo crebbe il rispetto, l'affetto e l'ossequio cavalleresco alla donna; educò nell'uomo l'energia personale e la forza della volontà. Il barone, salvo i casi di guerra, era quasi libero e indipendente signore nel suo piccolo regno, nel quale tutti da lui dipendevano. I suoi vassalli ricevevano da lui gli uffici di siniscalco, conte di palazzo, scudiero, ecc. Questi uffici, dati sotto una forma anch'essa piú meno feudale, a gente di nobile sangue, tendevano a divenire ereditari, e intanto popolavano alquanto la solitudine del castello. I figli dei nobili minori venivano nella corte del signore, per esservi educati alla gentilezza dei modi ed alle arti cavalleresche, per ricevere finalmente la spada dalle sue mani, ed essere proclamati cavalieri. Cosí da un lato si accresceva splendore al castello, e si manteneva al signore la fedeltà de' suoi vassalli; dall'altro si lusingava l'orgoglio dei minori.

La legge feudale longobarda si trova in relazione con le leggi romane, che spesso sono chiamate a venirle in aiuto, sebbene abbiano uno spirito assai diverso, spesso anzi sieno fra loro in opposizione. Certo è che il diritto romano fa vedere in Italia la sua persistente azione sul feudale. Il feudo non essendo, come è noto, una proprietà diretta e indipendente, ma una concessione condizionata e limitata, non può di sua natura essere sottoposto al principio ereditario. Il diritto dell'erede deve essere, invece, nuovamente riconosciuto nella sua persona, perché non deriva, come abbiamo già visto, da quello del testatore. E cosí continuò anche quando la consuetudine cominciò a renderlo ereditario. Il successore non rappresentava allora, secondo il diritto feudale, la persona da cui ereditava, ma in lui la prima concessione veniva da capo rinnovata. Inoltre tutta la famiglia ha diritto al feudo, quando è divenuto ereditario, e questo diritto non ha origine nella volontà del testatore, alla sua morte, ma esiste già lui vivente. V'è però bisogno di stabilire un ordine successorio, per determinare la preferenza, e quest'ordine si comincia a prendere in prestito dal diritto romano. Sebbene sia diverso dalla vera e propria successione, a poco a poco comincia a confondersi con essa, e finalmente altera e decompone il feudo. Cosí è che il diritto romano penetra nel feudale e lo modifica.

La discendenza femminile, per la natura stessa del feudo, è esclusa dall'eredità, e i discendenti maschi dei figli estinti, succedono insieme coi figli superstiti. Vi sono però dei feudi, per prima concessione, femminili, e questi naturalmente possono, in mancanza di maschi, ritornare alle femmine; ma una volta che maschi vi sono, hanno la preferenza. Gli ascendenti non possono succedere, perché la successione è regolata non dalla parentela, ma dalla prima concessione; e però il ritorno dovrebbe farsi non all'ascendente, ma a colui che primo concesse il feudo. I collaterali dell'ultimo possessore, che non siano discendenti del primo, non succedono; né i fratelli come tali possono succedere, se il padre non è stato possessore del feudo. Neppure il marito e la moglie si succedono. Ma tutto questo carattere primitivo scomparisce anch'esso sotto l'azione crescente del diritto comune. L'importanza del diritto feudale è assai poca negli Statuti italiani; ma grandissima invece è l'importanza politica e sociale del feudalismo nella storia dei Comuni. Esso rappresenta una società distinta per consuetudini e leggi proprie, che ricorre all'Imperatore, i cui giudici e giudizi preferisce sempre ai magistrati ed alle leggi della repubblica, che disprezza e non vorrebbe riconoscere. E questa perciò vede nei nobili un nemico da distruggere, il che le riuscirà solo dopo lotte sanguinose, non senza aver prima, in conseguenza di tali lotte, profondamente alterato sé stessa.

Il diritto canonico ha di certo una parte non trascurabile nella storia e nella formazione del diritto comunale, ma neppur'essa è proporzionata alla grande azione politica, sociale e religiosa della Chiesa. Compilato da frammenti di santi Padri, canoni di Concili, Costituzioni pontificie, con una parte non piccola di leggi romane, esso ricorre anche all'autorità della ragione e delle Sacre Scritture. E quindi si mostrò favorevole alla equità naturale contro il sofisma legale, temperò l'asprezza delle leggi barbariche, protesse i deboli, sostenne la santità della famiglia, secondò il trionfo del diritto romano sul longobardo. Ma cercò ancora di sottomettere l'autorità civile alla ecclesiastica; accrebbe il numero dei tribunali eccezionali; favorí il giudizio inquisitorio, la tortura, i giudizi di Dio. E la tendenza che esso ebbe sempre d'invadere il campo del diritto civile, trovò aperta una porta nell'uso del giuramento, che ogni magistrato, non escluso il Podestà, doveva dare, con la formola salva la coscienza, espressa o sottointesa. Siccome il clero deliberava appunto sui casi di coscienza, cosí ad esso spettava il giudicare la validità dei giuramenti. E ciò favoriva naturalmente la diffusione del diritto canonico. Esso contribuí non poco a sopprimere il divorzio, e ad escludere i figli naturali dalla successione. La sua azione è assai visibile negli Statuti, ma piú ancora nella lotta dell'autorità civile colla ecclesiastica, la quale vuol mantenere incrollabili i suoi privilegi, i suoi tribunali eccezionali, la sua supremazia anche nelle cause civili e politiche.

IX

Noi abbiamo adunque negli Statuti quattro legislazioni diverse, che sono come in lotta fra di loro: diritto longobardo, romano, feudale, canonico. Esse si possono però ridurre quasi a due, perché il diritto feudale è germanico, e il diritto canonico, per quella parte che penetra negli Statuti, è principalmente romano. Cosí anche qui si torna alla vecchia lotta del sangue germanico col latino. Sono due popoli che combattono, e con essi le loro istituzioni, le leggi, le idee; le loro anime sembrano sfidarsi dovunque s'incontrano, nella letteratura, nell'arte, nella politica. Eppure l'uno è necessario all'altro, e debbono scomparire ambedue, per dar luogo ad una nuova forma sociale, ad uno spirito piú vasto, che, nato dalla fusione dei due opposti elementi, sarà il solo trionfatore in questa lunga lotta. In Italia però il sangue latino predomina sempre, come si vede anche negli Statuti, nei quali il diritto romano è il tronco principale intorno a cui s'aggira tutto quanto questo lavorio giuridico. Il tempo in cui si cominciano a compilare gli Statuti, è quello stesso in cui comincia a diffondersi dalla Università di Bologna la cognizione del Corpus iuris in tutta Italia. D'allora in poi la legislazione giustinianea è ritenuta come il diritto per eccellenza, una specie di filosofia giuridica, ed è riconosciuta in tutte le nostre repubbliche come il diritto comune, quello che entra in vigore ogni volta che tace lo Statuto. Per questa ragione la parte che risguarda il diritto civile è negli Statuti svolta assai meno della parte politica. Ed è perciò ancora che i professori, dati principalmente allo studio del diritto civile, s'occuparono piú del diritto romano, canonico, feudale e longobardo, che degli Statuti. Questi erano da essi esaminati, massime nei primi tempi, piú come una conseguenza dello studio del diritto romano, che come un soggetto di vero e proprio studio; li ritenevano una consuetudine popolare scritta, a cui non si dava gran valore scientifico, perché quasi legge di eccezione all'unico diritto, che solo aveva ragione di essere universalmente ammirato. Assai piú tardi i professori cominciarono ad occuparsi anche degli Statuti, che ai nostri giorni acquistarono finalmente una grande importanza. Venezia è forse l'unico Comune nel quale, in mancanza dello Statuto, si soleva ricorrere alla ragione naturale; laonde il Bartolo diceva, che il magistrato veneto giudicava manu regia et arbitrio suo.[11] Questo non impediva però, che anche colà un tale arbitrio venisse regolato od ispirato dalla conoscenza e dall'ammirazione che s'aveva pel diritto romano.

Da tutto ciò risulta sempre piú chiara l'importanza straordinaria che ebbero le Università ed i professori di Bologna, i quali annotavano, glossavano il Corpus iuris, per renderlo intelligibile all'universale, e cosí preparavano, educavano i notai, i giudici, i Podestà, i Capitani del Popolo. Certo la loro dottrina non era storica; in questa anzi essi si dimostravano debolissimi. Era invece l'esposizione razionale d'un diritto ancora vivente, e però dicevano: «chi non sa cavalcare, tengasi a l'arzone; ita debet Iudex tenersi a la glossa». In questo modo l'Università di Bologna divenne come la depositaria d'un diritto quasi universale e sacro. Ad essa mandavano i Papi le loro decretali, e gl'Imperatori le costituzioni, per farle rivedere o raccogliere. L'Imperatore era però tenuto come la sorgente viva e universale del diritto, il solo che potesse osar di aggiungere nuove leggi alle romane. Chi lo bestemmiava, veniva severamente condannato; chi non credeva alla sua autorità universale, era dagli stessi giuristi dichiarato eretico. Questa autorità egli l'aveva come signore di tutti i popoli, e gli veniva dall'Impero romano, di cui era legittimo erede. Riusciva quindi naturale che, per determinare la estensione e i limiti d'una tale autorità, fosse necessario ricorrere di nuovo ai professori di Bologna, che erano i veri depositari della legge romana, ed acquistavano perciò importanza sempre maggiore. Quello che si cercava era sempre la scripta ratio; ed i Comuni, anche quando dicevano di voler serbare illese le loro vecchie libertà, non tralasciavano mai di promettere che avrebbero rilasciato all'Imperatore le veteres iustitias, le quali gli erano dovute, e che essi volevano rispettare. Si trattava solo di ricercarle, e quindi di nuovo il bisogno di consultare i professori di Bologna.

Prima della gran contesa dei Lombardi contro Federico Barbarossa, vi fu un vero e proprio giudizio, che finí con una condanna dei Milanesi, dichiarati ribelli, adstipulantibus iudicibus et primis de Italia. A Roncaglia Federico esercitò il potere giudiziario e legislativo, assistito da quattro professori di Bologna, che propugnarono i diritti dell'imperatore, non perché nemici della patria, ma perché professori di diritto romano, e quindi sostenitori del Sacro Romano Impero. Né i Comuni sostenevano una teoria diversa. Vinto Federico, essi continuarono infatti a scrivere i loro Statuti, le loro leggi, i pubblici strumenti, in nome suo. E ciò si può vedere anche nel secolo XV, quando i notai rogavano tuttavia i pubblici atti in nome dell'Impero. Nella pace di Costanza l'elezione dei magistrati civili e criminali, dei Consoli, Podestà e Notai fu espressamente riservata all'Imperatore, il cui diritto venne in tutto ciò riconosciuto, al pari di quello che esso aveva, in ultimo appello, nelle cause d'una certa gravità. E se i Milanesi di fatto non tennero di ciò nessun conto, il diritto non fu mai da essi negato. I Lombardi si riconoscevano legalmente sudditi, ma poi volevano agire come liberi e padroni di sé. Lo stesso Arrigo VII, quando venne in Italia, ai tempi di Dante, faceva ancora processi contro le città italiane, e le condannava; imponeva ad esse taglie d'uomini e di denari; citava dinanzi a sé il re Roberto di Napoli. Tutto ciò poteva a molti sembrare allora una commedia; ma era l'eco d'una età trascorsa, di un passato che la stessa mente immortale dell'Alighieri credeva di poter richiamare in vita, come provano le sue lettere ed il libro De Monarchia. La Chiesa, è ben vero, combatté sempre l'Impero, ma l'autorità politica e giuridica dell'Imperatore, in tutto quanto il Medio Evo, non fu mai messa in discussione, restò sempre riconosciuta.

In mezzo a questa lotta continua tra la Chiesa e l'Impero, tra i Comuni e i Feudi, tra i Guelfi ed i Ghibellini, si formarono gli Statuti, nei quali si scrivevano via via cosí le consuetudini nuove, che s'andavano formando, come le consuetudini vecchie alterate dalle nuove. E se poco importava ai giuristi di Bologna studiare un diritto allora assai noto, perché viveva nell'uso comune, e scaturiva da quel diritto romano, che formava l'occupazione di tutta la loro vita, molto invece importerebbe a noi studiarlo, per conoscere appunto quale era il valore e il carattere di questa vita comunale nel Medio Evo. Ma pur troppo bisogna ancora aspettar molto, prima di poter risolvere pienamente il problema. Nondimeno è sempre necessario cominciar coll'esaminare i vari Statuti, e paragonarli tra loro, paragonando anche le diverse redazioni d'ognuno di essi, per arrivare a vedere la evoluzione del diritto nuovo, scoprire e comprendere il principio che la regola.

X

Gli Statuti abbracciano tutta quanta la vita del Comune: la elezione e l'ufficio dei magistrati politici; il diritto pubblico, civile, criminale, amministrativo e commerciale. Piú ampiamente trattato è il diritto pubblico; il civile, invece, per le ragioni che abbiamo già dette, rimane assai incompiuto. Si occupano però, piú o meno largamente, dello stato delle persone, delle doti, dei contratti, delle forme di giudizio, delle successioni, dei testamenti, dei diritti nascenti dalle vicinanze dei fondi, sopra tutto della famiglia. Essi mirano ad una procedura semplice e sommaria, senza cavilli; cercano la buona fede e la speditezza negli affari; ma i vizi di redazione, un dissertare continuo, che è fuori di luogo nelle leggi, il frequente rimettersi ai giudici, raggiungono il piú delle volte un fine contrario. È strano veramente l'osservare come in secoli nei quali sorgeva una splendida letteratura; quando i piú modesti scrittori del tempo sono per noi esempio di bello stile; quando giudici, notai e professori di diritto avevano sempre dinanzi agli occhi il modello immortale del Corpus iuris, si scrivessero gli Statuti in una forma cosí inculta, che spesso può dirsi barbara, certo è sempre intricata e confusa. Essi costituiscono una legislazione consuetudinaria, mutabile, popolare, incerta ancora di sé, che, nata in mezzo alle guerre civili ne serbò l'immagine, e non raggiunse mai una forma classica, resa impossibile anche dal gergo scolastico che prevaleva sempre nelle nostre università e nei nostri giuristi. Le accuse che il Petrarca faceva sopra tutto alla forma usata dai professori di diritto al suo tempo, erano pienamente giustificate. L'umanesimo, che volle adoperare una lingua latina piú corretta ed elegante, dovette cominciare fuori delle università, spesso contro di esse; si diffuse largamente durante tutto il secolo XV, ma serbò sempre un carattere letterario e filosofico, assai piú che giuridico.

Da un altro lato il Comune italiano, non ostante i suoi grandi meriti e le sue grandi imprese, ha qualche cosa di transitorio, di medioevale; accenna sempre ad un periodo di passaggio. Esso fu il germe da cui doveva piú tardi uscire la società moderna; ma non poté generarla senza prima distruggere sé stesso, e quindi restò sempre in uno stato di continua trasformazione. Sorto dall'impasto di due società diverse, la romana e la germanica, ebbe dalla prima il concetto generale dello Stato, pigliando dalla seconda la libertà individuale, l'attività locale, la forza delle speciali associazioni. Il problema che dovette risolvere, quello che costituí la sua vita e la sua storia, sta appunto negli sforzi continui fatti per porre in armonia questi due elementi, i quali restarono lungamente, non solo separati, ma spesso anche in opposizione fra di loro. Fino a che la compiuta fusione non ebbe luogo, con la distruzione stessa del Comune, il conflitto continuò, ed il disordine fu inevitabile. Il governo e la politica hanno in esso una importanza grandissima, sconosciuta alla società barbarica; ma il Comune somiglia pur sempre ad una forte agglomerazione di piccole associazioni, piuttosto che ad una società sola, ad un vero e proprio Stato. La vita ferve anzi piú rigogliosa in questi mille gruppi, nell'attività dei quali si moltiplica; la forza sociale si trova principalmente nelle associazioni d'arti, di mestieri, di famiglie, di nobili, di popolani, le quali hanno leggi, statuti, magistrati e tribunali propri. Cosí ha luogo un intreccio straordinario di ordinamenti, di passioni, d'interessi diversi e fra loro cozzanti. La vera libertà individuale, la vera uguaglianza in faccia alla legge, non è conosciuta ancora; ma l'individuo è protetto, educato nella sua associazione, che gli comunica una forza e gli garantisce una libertà sempre maggiore. Questi gruppi secondari, però, a differenza di quelli da noi già incontrati nelle società germaniche, non possono separarsi, hanno bisogno di vivere nello Stato, fuori del quale perderebbero la loro ragione di essere. La moltiplicità loro infinita, le gelosie, l'urto e le collisioni continue, rendevano tanto piú necessaria, tanto piú desiderata e amata la repubblica, per la quale ognuno di quei mercanti era pronto a dare la vita, giacché da essa, nella pace e nella guerra, dipendeva la loro salvezza e quella delle varie associazioni. I capi ed i principali componenti di queste, entravano di diritto nei Consigli della repubblica, la governavano, ne erano padroni, e vi trovavano la sola valida difesa contro i mille rivali che ognuno di loro aveva. Cosí si poneva in armonia il particolare col generale interesse, ed il potere frazionato, diviso in mille mani, riesciva pure a tutelare la libertà di tutti, in un tempo nel quale ancora non era sorto il vero concetto dello Stato e della generale uguaglianza. Ma è ben facile immaginare, quanto poco ordinate e determinate dovessero essere le legislazioni di repubbliche in questo modo divise e suddivise, nelle quali, ad ogni piè sospinto, si trovava un nuovo Statuto speciale, un nuovo tribunale; in tempi nei quali il potere giudiziario e politico erano per modo confusi, che chi aveva una parte dell'uno, possedeva di necessità una parte dell'altro.

Il carattere che domina in tutto il diritto civile degli Statuti sembra essere la gelosia dei vicini Comuni, la paura che la proprietà possa, coi matrimonî, uscire dalla città, dalla consorteria o dalla famiglia. Ed a ciò le leggi e le consuetudini provvidero in modo, che noi vediamo in una repubblica democratica come quella di Firenze, nella quale ogni vestigio d'aristocrazia fu distrutto, e i Ciompi salirono al governo, la proprietà immobile conservarsi unita per modo, che fino ad oggi si trovano famiglie, le quali possiedono i fondi stessi che i loro antenati possedevano fin dal secolo XIV. Il bisogno di tenere strettamente unite le famiglie, le associazioni e le consorterie, obbligando in solido i vari membri di esse, si manifesta con tanta forza, che queste ragioni politiche e sociali son quelle appunto che determinano l'indirizzo del diritto civile, spesso ne impediscono il naturale svolgimento. E cosí, non ostante le debolezza dello Stato, noi ritroviamo anche qui la vecchia tradizione latina, che dà sempre un'eccessiva importanza alla politica, e quindi un'azione preponderante del pubblico sul privato diritto. Gli Statuti italiani perciò si spiegano e si comprendono solo con la storia dei Comuni, che a loro volta illustrano. E questa è un'altra ragione, per la quale i professori di Bologna, usati al carattere filosofico del diritto giustinianeo, e poco o punto pratici della interpretazione storica, trascurarono cosí lungamente gli Statuti.

L'azione predominante della politica, come è ben naturale, si manifesta chiarissima anche nella costituzione della famiglia, nella quale i diritti che derivano dal concetto che ha di essa il Comune, prevalgono sui vincoli del sangue, assai piú rispettati nel diritto germanico. Il regime dotale romano è pienamente accettato, ma la dote è assai limitata. I maschi hanno una grande precedenza sulle femmine e sui discendenti femminili. In ogni caso però la donna è sicura di ricevere gli alimenti. Non si vuole che sia ricca, non si vuole che divida il patrimonio domestico, portandolo in altra famiglia, e molto meno in altro Comune; ma, nel peggiore dei casi, deve essere sicura d'un vivere decoroso, secondo la propria condizione. Essa rimane sotto la perpetua protezione del mondualdo; ma il mundio prende negli Statuti il carattere della tutela romana degli ultimi tempi, e sembra quasi confondersi con essa. La donna, infatti, può chiedere al giudice il suo mondualdo; può sceglierlo, quando le occorra per un affare speciale. E per tutto si vede questa tendenza a trasformare in romane le istituzioni longobarde, di cui spesso riman solo il nome;

La proprietà immobile si trovava vincolata per modo, che alla morte del padre, la parte disponibile era minima; e cosí chi nasceva di agiata famiglia, poteva restar tranquillo sul suo avvenire. Ma, nello stesso tempo, questa proprietà immobile era cosí piccola, in proporzione della proprietà mobile, nei nostri Comuni, simili tutti a grosse case di commercio, che se da un lato si avevano tanti vincoli e tanta stabilità, dall'altro v'erano i subiti guadagni, le fortune improvvise ed una estrema mobilità di capitali.

Venerata era l'autorità paterna, e somma confidenza si aveva nei tutori da essa eletti; ma non si trova negli Statuti un grande svolgimento della patria potestà. Invece, il carattere predominante nella famiglia, come per tutto, è il fare ogni cosa in comune. Il Consiglio di famiglia, la riunione dei parenti deliberano ogni faccenda di qualche gravità. La legge e la consuetudine vanno sempre piú oltre per questa via. Vi è una tale comunanza d'interessi nella famiglia, nella consorteria e nell'associazione, che arriva qualche volta a prendere proporzioni stranissime. Non solo il padre o il fratello possono essere chiamati a pagare i debiti del figlio e del fratello; ma chi ha un credito verso una società, può agire contro i singoli membri di essa, e un consorte può essere tenuto a scontare persino i delitti dell'altro. Nel seno della famiglia o della consorteria, le cause si decidevano per mezzo di arbitri, le cui sentenze avevano tutto il valore di giudizi legali. Nel seno delle associazioni d'arti, v'erano, come abbiamo già detto, veri e propri tribunali speciali. Questi fatti, questi caratteri del diritto statutario non si possono certo attribuire al diritto romano; ma trovano la loro spiegazione nelle origini stesse della storia italiana, nelle quali certamente i popoli e le istituzioni germaniche hanno avuto una parte non piccola. L'indole propria del Comune è sempre la stessa. Da un lato le particolari associazioni hanno un grande svolgimento; da un altro l'azione del potere politico qualche volta è troppo debole, ma qualche altra è pur tale da sembrare anche ai nostri tempi eccessiva. È singolare certamente, in una società nella quale lo Stato è cosí debole da sembrar di continuo minacciato nella sua stessa esistenza, il vederlo esercitare una grandissima e diretta ingerenza negli affari privati dei cittadini. La emancipazione del figlio deve farsi solennemente nel Consiglio del popolo, radunato in maggioranza, presenti i capi della repubblica. Se un cittadino di qualche autorità vuol mutare abitazione, passando da uno in un altro Quartiere della città, l'affare è portato dinanzi ai medesimi Consigli del Popolo e del Comune, dai quali si richiede una speciale deliberazione.[12] Noi vediamo i Signori della repubblica fiorentina continuamente variare la divisione e le proporzioni che sono fra i Quartieri o Sestieri della Città, ingrossandone, impicciolendone ora l'uno ora l'altro, per mantenere l'equilibrio sempre minacciato dei partiti e delle consorterie; per impedire che uno dei Quartieri, divenuto troppo potente, predomini eccessivamente. Il portare la propria abitazione da uno in un altro di essi, poteva trascinare un cittadino in una diversa consorteria o partito, e divenire quindi un affare politico. Ma tutto ciò dimostra sempre piú, che la società non ha ancora trovato il suo naturale e definitivo assetto. I molteplici e nuovi e vari elementi che la compongono, si svolgono da ogni lato; ma quella sintesi che li riunisce ed assimila, non poté mai essere raggiunta dal Comune italiano.

XI

Venendo ora ad esaminare particolarmente le disposizioni statutarie, che risguardano da vicino il soggetto di cui ci occupiamo, volgeremo l'attenzione piú di tutto allo Statuto fiorentino, il quale ha per noi una doppia importanza. Noi abbiamo intrapreso questo studio, con lo scopo di aprirci la via a meglio comprendere alcune riforme politiche seguite in Firenze, che potevano trovare la loro spiegazione solamente nelle condizioni sociali della Repubblica. Ed inoltre, esaminando il Comune fiorentino, bisogna pure riconoscere che esso è quello in cui l'aristocrazia venne piú radicalmente distrutta, e la democrazia piú ampiamente trionfò. Ogni traccia di feudalismo, ogni elemento estraneo scomparisce dal suo Statuto, che perciò, in mezzo alle perenni mutazioni, serba un carattere piú uniforme e costante, ha una tendenza continua verso uno scopo che finalmente raggiunge. Negli altri Statuti, invece, la mutabilità non è minore; ma è prodotta da cause meno costanti, da elementi che sono assai piú spesso estranei alla vita del Comune, e quindi rendono sempre piú difficile il comprendere quali sono i veri principî che ne informano le leggi, e che determinano il carattere storico di esse.

Se cominciamo negli Statuti ad esaminare la patria podestà, vediamo subito l'incerto carattere che domina in questa legislazione. Dapprima troviamo il mundio longobardo; ma a poco a poco esso si trasforma nella patria potestà romana, secondo il diritto giustinianeo, che finalmente predomina, non mai però in modo assoluto. E nelle varie disposizioni, anche su questo argomento sempre monche degli Statuti, ora troviamo imposta al figlio una soggezione maggiore che nel diritto romano, ora esso gode d'una grandissima indipendenza, e predomina invece il diritto longobardo. Il piú delle volte sono particolari ragioni di politica o di commercio, che portano questa poco logica mutabilità. Secondo gli Statuti romani, il figlio di famiglia si può presentare ai giudizi criminali, senza permesso del padre, che non sopporta alcuna condanna pei delitti del figlio, il quale può anche essere arbitrariamente punito dai suoi genitori. I bastardi dei Magnati sono in una condizione inferiore, civilmente e politicamente, ai figli legittimi, giacché non possono salire ad alcuna dignità popolare.[13] Secondo gli Statuti di Pesaro, il figlio può disporre per testamento del peculio avventizio, lasciando il dovuto usufrutto al padre; tutte le emancipazioni, per riuscir valide, debbono esser fatte dinanzi al Consiglio generale; ma i figli che sposano senza il consenso del padre, possono essere diseredati.[14] Il padre è obbligato ad assegnare la sua parte di eredità al figlio condannato in danaro, acciò possa pagare. Se esso percuote i figli o nipoti o le loro mogli, in nihilo puniatur, nisi pro enormi delicto.[15] In Lucca il figlio di famiglia può a 18 anni obbligarsi per un prestito, se anche il padre non vi consente; a 25 anni il prestito, fatto in suo proprio nome, è valido. Il padre poi ha facoltà di mandare in prigione il figlio, emancipato o sotto tutela, che abbia dissipato i propri beni, viva senza rispetto al buon costume. Il magistrato è tenuto ad eseguire la volontà paterna, senza bisogno di alcuna prova.[16] Il figlio può cosí essere dal padre confinato in casa, legato, imprigionato a suo arbitrio, con obbligo solo di somministrare a lui gli alimenti. Lo stesso ha luogo ancora verso altri discendenti.

Se in tutta questa grande varietà di leggi, vogliamo trovare un qualche carattere piú proprio e speciale degli Statuti, dobbiamo cercarlo nella unitas personæ tra padre e figlio, che spesso è molto estesa. Ed anche ciò risulta dal concetto generale, che della famiglia hanno gli Statuti. Ad Urbino ed altrove il padre può essere punito per il figlio, il padrone pel servo.[17] Quanto poi alla responsabilità commerciale, non solo tra padre e figlio, ma fra i parenti in genere, questa la troviamo a Genova, a Firenze, in molte delle città piú commerciali. In Firenze il padre, l'avo, il proavo sono responsabili pel loro discendente, anche se figlio di famiglia, che si trovi nel commercio, come se lo avessero garentito. Non volendo a ciò sottostare, debbono farne pubblica e formale dichiarazione, ricusando ogni responsabilità.[18] Cosí se il figlio di famiglia è agente o fattore in una compagnia o casa di commercio, il padre è ritenuto responsabile, quando non abbia diffidato la società commerciale per mezzo di pubblico istrumento. E per la stessa ragione anche la emancipazione del figlio deve essere pubblica e denunciata alla Società dei mercanti.[19] Col matrimonio della donna, però cessa sopra di lei la patria potestà, ed ella non può piú, in nessun modo, essere chiamata a rispondere pel padre, sia che si tratti di obblighi civili o di delitti, quando egli siasi sottratto alla pena con la fuga.

La donna è in Firenze sotto la continua protezione del mondualdo. Questo nome dura ancora nel secolo XVIII, ma il mundio diviene negli Statuti ben presto simile affatto alla tutela romana. Essa può scegliere e chiedere al magistrato che le conceda un mondualdo, anche vivendo il padre o il marito.[20] Non può nelle cause civili agere, experiri vel defendere per se, ma solo per mezzo del procuratore o altro idoneo amministratore da lei scelto. Richiesta dall'avversario, può tuttavia rispondere positionibus, capitulis et interrogationibus da sé stessa, anche senza il consenso del suo mondualdo.[21] Questa disposizione però e propria degli ultimi tempi. Nello Statuto del 1355, il procuratore è ancora necessario.[22] E sebbene, cosí negli Statuti come nel diritto romano, la tutela della donna vada col tempo diminuendo, pure i suoi diritti non arrivano mai ad essere pareggiati a quelli dell'uomo.

Nel matrimonio è piú che altrove visibile la mescolanza delle varie giurisprudenze. Fu già notato dal Gans come i Pisani, trovando che il diritto romano vietava le seconde nozze, durante l'anno di lutto, mentre che il diritto canonico non faceva un uguale divieto, perché vedeva nella parola dell'Apostolo un permesso illimitato, e che il germanico si contentava del divieto di soli 30 giorni, essi limitarono nei loro Statuti il divieto a sei mesi. Ma con questa meccanica conciliazione, non si ottenne lo scopo voluto dal diritto romano, che cioè il secondo matrimonio non avesse mai luogo durante la gravidanza, che poteva essere conseguenza del primo, né si concesse la libertà data dal diritto canonico e dal longobardo. Piú spesso però la unione dei vari diritti ha luogo con la graduata trasformazione dell'uno nell'altro. Gli Statuti pisani, ad esempio, regolano il matrimonio secondo la legge romana. Vi è una dos portata dalla moglie, e una donatio propter nuptias, data dal marito, e detta anche antefactum perché fatta prima del matrimonio. Essa viene, per questo lato, a confondersi con la meta, e la parola stessa accenna ad un'origine longobarda. Cosí per l'una come per l'altra, v'era l'ipoteca privilegiata sui beni del marito, anche al di là di ciò che prescrive il diritto romano.[23] Ma l' antefactum deve corrispondere alla quarta parte della dote, e può esser maggiore, quando non superi la quarta parte dei beni del marito. Esso è piuttosto un assegnamento vedovile, un aumento della dote, e non può quindi paragonarsi alla meta vera e propria. Nei popoli germanici l'assegnamento vedovile e la donazione si confondono nella comunione dei beni, e la dote non è mai altro che un accessorio. Negli Statuti, invece, come nel diritto romano, questa è il principale, e tutto si riferisce ad essa. Quindi è che la meta e il dono germanico, non potendo svolgersi normalmente, si confondono con la donatio, la quale tende a divenire un augumentum dotis. Di rado infatti troviamo le due cose distinte negli Statuti; pure non ne mancano esempi, e uno trovasene in quello di Firenze, nel quale si parla continuamente di donatio e di augumentum. In questo modo la donazione non è piú una guarentigia della dote, ma tende a confondersi con essa, facendola supporre maggiore.

I Pisani, oltre la dote e la donazione o antefactum, aggiungono altri donativi, che chiamano corredo, e che appartengono alla donna, quando si scioglie il matrimonio; ma se allora fossero stati dissipati, ella avrebbe diritto ai due terzi del valore di essi. In generale poi i coniugi pisani vivono in una perfetta separazione di beni, tanto che il matrimonio sembra qualche volta una relazione ostile, piuttosto che una comunione d'interessi.[24]

Alcuni Statuti ammettono una dos e una donatio propter nuptias, con la meta e il donativo longobardo. Lo Statuto fiorentino parla di una dote, di una donazione che deve essere uguale alla metà della dote, purché non superi le 50 lire, e di un aumento. In mancanza di figli, di nipoti maschi o nipoti venuti da figli maschi, la donna ripigliava, a morte del marito, la dote con la donazione e l'aumento; in caso diverso aveva solo la dote, e ciò che piaceva al marito di lasciarle. Se questi moriva, senza ancora aver ricevuto la dote, la moglie prendeva la donazione promessa, che non doveva però superare un ottavo dei beni del marito. Sui beni di esso v'era per la dote ipoteca privilegiata, e l'avevano cosí la moglie come tutti coloro che, col marito o separatamente, si erano obbligati per la dote stessa. Né il consenso della moglie a far vendere o alienare i beni del marito, toglieva l'ipoteca sui beni venduti, sui quali v'era anche reversibilità: ma ciò solamente a cominciare dal 1388.[25] Questa data, che si legge nello Statuto fiorentino a stampa, che è del 1415, ci prova che il regime dotale e la separazione dei beni avevano col tempo fatto grande progresso, il che del resto è confermato anche dagli altri Statuti, nei quali l'avanzarsi del diritto romano è costante.

La moglie non poteva defendere bona viri contro i creditori del marito in genere; ma bensí contro quelli che si erano obbligati alla restituzione della dote, il che non indeboliva la garanzia che essa poteva avere sui beni di lui. Anche i beni dotali inestimati venivano difesi da lei contro qualunque creditore, e poteva, se il marito era caduto nella miseria, richieder sempre la restituzione della dote.[26] I beni che acquistava o ereditava, lui vivente, le appartenevano; ma non poteva alienarli senza il consenso del marito, al quale spettava l'usufrutto. Ciò che, a morte di lui o della moglie, rimaneva ancora intatto di tali frutti, poteva essere richiesto da lei o dai figli.[27] E poteva la moglie obbligarsi col consenso del marito, nel qual caso esso era il suo legittimo mondualdo.[28]

XII

Il regime dotale e la separazione dei beni, non solamente si trovano in tutti gli Statuti; ma spesso vengono ancora esagerati, come abbiam visto in quelli di Pisa. Cosí pure le donazioni fra coniugi sono vietate, e qualche volta anche quelle agli estranei, quando si possa temere che si voglia con esse mascherare una donazione fra coniugi. Questa cura gelosa, con la quale si cerca, in ogni modo, d'impedire che la proprietà esca dalla famiglia, e piú ancora dalla città, la troviamo in tutti gli Statuti. In Urbino, per esempio, nessuno straniero poteva ereditare ab intestato, se prima non prometteva di abitare nella Città o suo contado.[29] Una simile promessa doveva fare a Pesaro, se voleva sposare in quella città, ed aveva anche l'obbligo di chiedere il consenso del Podestà.

A Verona[30] le donne potevano, per testamento, aver parte uguale ai fratelli; ma ab intestato avevano solamente la dote. I fratelli e i loro figli non dividevano coi figli delle sorelle; i discendenti della donna non dotata avevano però diritto d'avere la dote dai fratelli della madre. A Pisa la successione era per testamento regolata secondo il diritto romano: de ultimis voluntatibus per legem romanam iudicetur. La legittima però s'avvicinava alla legge longobarda, e si poteva anche, secondo le prescrizioni di questa, vantaggiare un figlio a preferenza degli altri. Quanto poi alla successione intestata, i maschi erano, come sempre, di gran lunga preferiti. In difetto di discendenti maschili, ereditavano le donne; ma la preferenza dei primi era ammessa anche per la eredità materna, quando mancassero le figlie.[31] E ciò lo troviamo in tutti quanti gli Statuti, non escluse le Consuetudini di Napoli, di Amalfi e di Sorrento, città nelle quali si poté assai meno sentire l'azione del diritto longobardo.[32] Sulla ragione vera di tali disposizioni, gli Statuti stessi si spiegano chiaro. In quelli di Mantova è scritto: «ut familiarum dignitas, nomen et ordo serventur, et bona morientium in eorum agnatos et posteros transmittantur, per quos nomina generis conservantur, statuimus et ordinamus quod existentibus masculis et descendentibus per lineam transversalem et lineam mascolinam, coniunctis usque ad quartum gradum inclusive, secundum iuris canonici ordinem, computato ( sic ) qui ad successionem defunctae personae admitti vellint et possint, matres et ascendentes per lineam maternam, et femminae ascendentes etiam per lineam paternam, suis descendentibus non succedant, sed habeant et habere debeant, dumtaxat in bonis predictorum suorum descendentium debitum bonorum subsidium, videlicet tertiam partem portionis quae eisdem ab intestato obveniret».[33] A Ravenna sembra che il lungo dominio dei Greci riuscisse a sopprimere questa preferenza degli agnati, e la Novella di Giustiniano fu adottata. Lo stesso seguí pure ad Osimo.

L'adozione era assai poco frequente, ed i figli legittimati venivano posposti ai legittimi; i naturali, che per diritto longobardo erano favoriti nei primi Statuti, vennero piú tardi negletti, per l'azione crescente del diritto canonico e del romano. Tutta la successione statutaria è talmente dominata dal concetto politico, il quale invece di perdere va guadagnando terreno, che la volontà del testatore, sempre limitatissima, può arrivar solo ad un resultato alquanto piú equo e naturale, ma non giunge mai ad un vero e proprio arbitrio nel senso romano della parola. Lo Statuto fiorentino, al pari di tutti gli altri, in questa come in ogni parte del diritto civile, non ci presenta mai un trattato compiuto, ma solo frammenti; giacché gli Statuti si riferiscono continuamente al diritto romano.

Nessuna donna succede ab intestato ai figli o figlie, quando vi sieno discendenti o ascendenti diretti fino al terzo grado: zio, fratello, sorella o nipote di fratello sono a lei preferiti. Esclusa dalla successione, essa può chiedere però gli alimenti a coloro che per legge la escludono. Quando tali parenti non esistano, eredita ab intestato la quarta parte dei beni del figlio, purché non si tratti d'una somma maggiore di lire 500. In ogni modo, non avrà immobili, ma solo danaro. Se danari non vi sono, avrà diritto al prezzo dei fondi che le spetterebbero. Le medesime disposizioni hanno luogo per l'ava, proava, e discendenti in linea materna.

La donna non succedeva ab intestato al fratello, che avesse figli o nepoti o fratelli; ma anche in questo caso, esclusa dall'eredità, poteva chiedere gli alimenti. Non succedeva neppure al padre; aveva però diritto di ricevere dagli agnati la dote, e intanto le spettavano gli alimenti, anche se vedova.[34] Come si vede in tutte queste disposizioni, i diritti della donna alla successione erano assai limitati; ma le era assicurato un modo di vivere. Anzi negli Statuti fiorentini noi vediamo, che da un lato cresce col tempo la preferenza degli agnati, e dall'altro crescono i diritti della donna agli alimenti. Lo Statuto del 1355, le concede l'usufrutto della eredità paterna, in mancanza di figli maschi, e nel medesimo caso gli Statuti posteriori le negano un tal diritto, per sostituirvi gli alimenti.[35] Lo Statuto del 1324,[36] parlando di essi e di chi ha l'obbligo di concederli, dice: si filius, nepos vel pronepos facultatis abundarent, in modo che possano commode subvenire, etc.; lo stesso obbligo con le medesime condizioni impone lo Statuto del 1355. Invece quello a stampa, del 1415,[37] è assai piú esplicito: il padre, la madre, l'avo, proavo, ava, proava hanno diritto agli alimenti, e il Podestà è tenuto a fare eseguire la legge. La donna succede ab intestato alla madre o ad altri ascendenti femminili, se però non vi sono figli maschi. I fratelli uterini, come nati di linea femminile, non succedono fra loro, se vi sono parenti maschili del defunto, fino al quarto grado, i quali sono preferiti alla madre ed ai parenti femminili.[38] Lo Statuto fiorentino poi dice, che la moglie è preferita al fisco, uxor mariti defuncti praeferatur fisco, nelle quali parole si vede quanto poco conto si facesse de' diritti della donna, essendovi bisogno d'una espressa disposizione di legge, per impedire che il fisco le togliesse i beni del marito. Anche i figli naturali erano preferiti al fisco, il quale succedeva solo quando non v'erano parenti fino al quarto grado. Ai bastardi succedevano poi i loro parenti, come se i primi fossero legittimi.[39] E bisogna aggiungere, che l'uso fiorentino non permetteva di lasciare i figli naturali senza un qualche aiuto, e senza provvedere alla loro educazione, come si vede dai molti testamenti che ci restano. Soleva il padre cercar loro un ufficio, se maschi, o marito, se donne, e li raccomandava ai suoi legittimi eredi.

Il marito ereditava la dote, quando non v'erano figli o altri discendenti prossimi. Dei beni extra-dotali gli spettava un terzo; e la moglie non poteva, per testamento o donazione, disporre della dote a danno di lui o dei figli.[40]

XIII

Ma oltre la successione, v'è anche un'altra parte degli Statuti italiani, nella quale l'azione della politica sul diritto civile, si manifesta del pari, ed è quella che tratta dei diritti fra i vicini, dell'obbligo che hanno in solido fra di loro, non solamente i membri delle famiglie, ma quelli anche delle consorterie. Noi già notammo che essi arrivano fino a dover l'uno rispondere pei debiti o anche pei delitti dell'altro; e questa è una legge su cui dovremo tornare a fermarci piú di una volta. Nelle vendite dei fondi immobili, troviamo sempre che agnati e cognati hanno la preferenza. Nella Marca d'Ancona i consanguinei del condannato a morte possono essere obbligati a comperarne i beni.[41] A Bologna i parenti sono spesso tenuti a rispondere in giudizio l'uno per l'altro, e nella corporazione dei mercanti, i fratelli carnali che, un mese prima del fallimento, vivevano in comune, son tenuti a rispondere pel fallito, anche se poi s'erano divisi.[42]

Secondo lo Statuto fiorentino, il creditore d'un Comune o d'una Universitas poteva procedere contro di essi sicut procedi potest contra alias singulares personas debitrices, in persona. E la cosa andava tanto oltre, che si poteva agire contro ogni singolo individuo dell'associazione, e farlo anche arrestare: liceat ipsi creditori capi et detinere omnes et singulares personas dicti Communis vel Universitatis, quousque fuerit integre satisfactum.[43] Quando una terra, una casa era devastata o bruciata, il proprietario aveva diritto al risarcimento contro l'autore del misfatto; contro i consorti di esso, se si trattava di nobili, e contro i parenti sino al quarto grado, se di popolani. Ma ciò non basta: esso poteva procedere ancora contro il Comune, l'Università o il Plebato, in cui il danno aveva avuto luogo: era in suo arbitrio prendere l'una via o l'altra, e non riuscendo nella prima, pigliar la seconda, o viceversa.[44] Lo Statuto determinava la forma della procedura e i termini della condanna.[45] Il Comune, l'Università o il Plebato erano tenuti a star sempre pronti a levare il rumore, quando simili fatti succedevano; ad inseguire ed a prendere i colpevoli, perché,[46] non riuscendo, erano essi responsabili.

Una grande importanza si dava in tutto, anche nelle compre e vendite, alla qualità delle persone. In alcuni casi la legge obbligava, volendosi disfare d'una terra, a venderla al vicino; ma questa disposizione non era obbligatoria per il popolano verso il magnate.[47] E cosí non si poteva comperare, vendere, né acquistare usufrutto sopra terre possedute in comune, o fondo o casa che fosse appoggiata al muro di un altro, senza aver prima dato preferenza al comproprietario, al consorte o al vicino.[48]

Se nasceva controversia fra parenti o consorti, qui consortes sint de eadem stirpe, per lineam masculinam usque ad infinitum,[49] il giudice, a richiesta d'una delle parti, era tenuto a rimetter la cosa in arbitri eletti dalle parti stesse. La donna non doveva accettar compromessi in cose attinenti alla sua dote, né essere obbligato ad accettarli chi era padre di sei figli: un popolano non poteva essere arbitro fra nobili.[50] Lo Statuto del 1355, riproducendo una legge assai piú antica,[51] ci fa sapere che in questa si discorreva degli arbitri, come consanguinei. E da ciò si può indurre che siffatti compromessi erano cominciati da tempi assai remoti, per consuetudine, fra parenti e consorti, i quali volontariamente sceglievano fra di loro gli arbitri. Prima del 1324 la consuetudine era stata sanzionata per legge; piú tardi andò perdendo il suo primitivo carattere d'accordo volontario e domestico, per pigliar la forma di regolare e legale giudizio.

XIV

Se ora paragoniamo lo Statuto fiorentino cogli altri italiani, troveremo vari caratteri che lo distinguono, e che in gran parte dipendono dal fatto, che in esso le libertà democratiche raggiunsero l'estremo limite cui era possibile arrivare nel Medio Evo. Non solo ogni privilegio feudale, a poco a poco, scomparve in esso del tutto; ma i magnati finirono col trovarsi in una condizione inferiore a quella dei popolani. Firenze fu, come vedemmo, una delle prime città italiane che abolirono affatto la servitú nel contado, con la legge del 1289.[52] E sebbene trattasse gli abitanti della campagna peggio assai dei cittadini, pure è certo che essi si trovavano in condizioni di gran lunga migliori che in moltissimi altri Comuni. Prova ne è quel contratto di mezzeria, che fa del lavoratore della terra un vero socio del proprietario, e resta sempre un grande monumento di civiltà, ammirato dai moderni economisti, i quali non seppero mai escogitare nulla di meglio.[53] La libertà e la forza delle associazioni, la straordinaria facilità con cui si saliva al governo del Comune, tutto contribuiva al trionfo della piú larga democrazia. Ma un altro carattere generale dobbiamo pur notare in questo, come in quasi tutti gli Statuti italiani, ed è la mira costante a liberarsi dalla ingerenza dell'autorità ecclesiastica, la quale s'adopera, con una ostinazione incredibile, a mantenere intatti i suoi privilegi, e vuole aumentarli; ma li vede, invece, poco a poco ridotti quasi a nulla. Lo Statuto del 1415 dice: «nessuna persona. Università, Chiesa, luogo religioso o clericale, osi ricusare il fòro del Comune, sotto scusa di beneficio o privilegio, e quando operi in contrario, si proceda all'arresto, fino a che non rinunzia a tale privilegio.[54] Nessuna scomunica o interdizione potrà impedire, né diminuire l'azione dei magistrati, o l'effetto delle loro sentenze.[55] Ognuno può esercitare liberamente i suoi diritti su tutti i beni della Chiesa, che le vengano da laici».[56]

XV

Tornando ora a dare uno sguardo generale agli Statuti italiani, dobbiamo osservare, che se la storia del diritto statutario presenta molte difficoltà, pel numero infinito di disposizioni diverse che troviamo in essi, la diversità di siffatte disposizioni deriva principalmente da cagioni accidentali e temporanee, estranee allo svolgimento naturale e spontaneo del diritto, il quale, esaminato in sé stesso e nei suoi caratteri fondamentali, presenta invece una grandissima uniformità. Si può però notare che nelle repubbliche del nord predomina assai piú il diritto longobardo; in quelle del centro e del sud piglia pronto e rapido ascendente il romano, che finisce col dominare in tutto, con le alterazioni che abbiamo già notate. Questo progresso è d'anno in anno piú visibile, e cosí noi assistiamo, anche nell'esaminare gli Statuti, a quel medesimo contrasto di opposti elementi, che abbiamo notato in tutta quanta la storia dei Comuni e della cultura italiana: nelle guerre civili, nelle sanguinose lotte fra Guelfi e Ghibellini, nell'arte, nella letteratura, in ogni cosa. Negli Statuti si tratta, è vero, solamente d'idee e di disposizioni giuridiche; ma queste sembrano combattersi con uguale ardore, mirare al medesimo fine, che gli uomini governati da esse.

Verso il declinare del secolo XIV, il commercio incominciò a prendere un grandissimo slancio in Italia, il che portò un nuovo progresso nella legislazione. Abbiamo infatti una serie di disposizioni con le quali si raggiunge un'assai maggiore speditezza negli affari commerciali, si evitano i cavilli legali, si tolgono le ipoteche sui crediti del mercante, si puniscono severissimamente la frode e i fallimenti dolosi. In una parola, troviamo chiaramente le origini del moderno codice di commercio, con cui tali disposizioni assai spesso consuonano.

Ma in tutte queste leggi vediamo sempre le conseguenze d'un Comune diviso e frazionato in particolari associazioni, che hanno propri Statuti, propri giudici, vita rigogliosa, e troviamo un potere centrale che, sebbene veda da ogni lato minacciati, usurpati i suoi naturali diritti, esercita la sua azione, con poco ordine e senza uniformità, ma pure non senza forza, spesso anche con violenza. Ora par sopraffatto, ora invece riesce a sopraffare. Tutta la storia del Comune dimostra una tendenza continua a porre in armonia questi elementi politici, sociali, e legislativi, diversi e spesso fra loro cozzanti, problema che esso non riesce mai a risolvere pienamente, e finisce quindi col cadere nel dispotismo. Mancava un vero concetto della unità sociale, mancava nel fatto e nella mente degli uomini ogni idea della distinzione dei poteri; laonde chiunque assumeva una parte del potere esecutivo, assumeva ancora non solo una parte del giudiziario, ma dell'amministrativo e del legislativo, che vi erano necessariamente connessi. E però, a salvare la libertà pareva che unico mezzo fosse dividere il governo fra mille mani, facendo in modo che i partiti, le associazioni, le famiglie, i quartieri della città, le consorterie servissero le une di freno alle altre. In questa divisione e suddivisione tutti gli elementi che costituirono piú tardi la società moderna, furono apparecchiati; ma lo Stato vero e proprio non fu mai trovato. Ondeggiando in una continua tempesta, scossa da ogni lato, la nave della repubblica sembrava non aver mai posa né direzione determinata; non poter mai solcare le acque con fermezza, per mancanza di zavorra. Non s'arrivò giammai ad un chiaro e sicuro concetto del diritto, il quale, limitando e determinando la libertà garantita a ciascuno, assicura quella di tutti.

La vita politica dei Comuni inoltre fu sempre circoscritta nella cerchia delle città dominanti, restandone esclusi non solo il contado, ma anche le città vinte o annesse. Ogni forma di governo rappresentativo era allora ignota. Tutti quelli che godevano dei diritti politici, alternandosi fra di loro, entravano direttamente nei Consigli della repubblica, e la piú parte di essi, prima o poi, salivano al potere. Ciò rendeva necessario avere Stati con confini assai circoscritti, per non rendere impossibile addirittura il governarli in un modo qualunque. Solo la Rivoluzione francese, facendo per la nazione interna, quello che il Comune italiano aveva fatto per le città, poté proclamare l'uguaglianza civile e politica di tutti coloro che facevano parte della nazione, i quali finalmente furono perciò tutti cittadini. La democrazia divenne allora il carattere predominante delle società moderne, che col sistema rappresentativo, poterono assicurare la libertà anche nei grandi Stati, conciliando l'unità e la vigorosa azione del governo centrale con la indipendenza personale, con l'attività e le libertà locali. Ma il Comune restò sempre incerto fra gli opposti elementi di cui era composto, e che non seppe mai comporre in un vero organismo politico.

La storia delle nostre repubbliche si potrebbe infatti ridurre tutta al diverso predominio che ebbero in esse ora l'una, ora l'altra delle grandi associazioni che le costituivano. A Firenze dapprima lottarono fra loro, con varia fortuna, nobili e popolani. Quando le consorterie dei magnati presero tale ascendente da minacciare le libertà popolari, e distruggere ogni equilibrio sociale, allora ebbe luogo una grande riforma degli Statuti, una vera trasformazione del Comune, e con gli Ordinamenti di Giustizia, di cui ora dobbiamo parlare, furono abbattuti i nobili e disfatte le loro consorterie. Ma esse erano parte integrante dello Stato, e però quando vennero sgominate, vi fu un momento di rapida corruzione e decadenza. Alle passioni, agl'interessi della casta, succedettero le passioni, gli odi, le ambizioni personali, anche piú pericolose. Le famiglie cominciarono a combattersi fra loro, sorsero i potenti ambiziosi, e Corso Donati o qualche altro simile a lui, sarebbe divenuto subito padrone e tiranno della Repubblica, se non vi fosse stato un popolo potente, arricchito dai rapidi guadagni del cresciuto commercio, amico della libertà, nemico dei Grandi. Al dominio delle consorterie successe perciò il dominio delle Arti Maggiori, e cominciò la loro lotta con le Minori, che finalmente arrivarono anch'esse al potere. Piú tardi s'avanzò la gran massa dei Ciompi, i quali minacciarono di decomporre del tutto la vecchia forma sociale della Repubblica; e vennero sulla scena nuove ambizioni personali, anche piú funeste alla libertà, perché piú fortunate. Lottarono fra loro Albizzi, Pitti e Medici, i quali ultimi trionfarono con Cosimo il Vecchio, che uccise la Repubblica. Ma tutto questo non ci deve gran fatto maravigliare, perché una volta che si tengano presenti le origini del Comune, e gli elementi che lo composero, si vede assai chiaro, che in sostanza avvenne quello che doveva inevitabilmente avvenire.

Capitolo VIII GLI ORDINAMENTI DELLA GIUSTIZIA[57]

I

La storia di Firenze negli ultimi anni del secolo XIII, richiama tutta la nostra attenzione per molte ragioni. In quel tempo seguiva una delle rivoluzioni politiche piú importanti, che ebbe per resultato quegli Ordinamenti della Giustizia, di cui è tenuto autore Giano della Bella, e che il Bonaini chiamò la Magna Carta della repubblica fiorentina. Quando anche il paragone sembri esagerato, è pur certo che questi Ordinamenti noi li vediamo, ora afforzati, ora modificati, qualche volta sospesi, restar nondimeno in vigore per piú di un secolo, cosa che non è di piccolo momento in una repubblica mutabile come quella di Firenze. Molte delle vicine città prima o poi li imitarono, ed i Romani mandarono nel 1338 a chiederne una copia, per riordinare con essi la loro città. Al quale proposito scrisse il Villani: «e nota come si mutano le condizioni e gli stati de' secoli, che i Romani feciono anticamente la città di Firenze, e dierono loro legge, e in questi nostri tempi mandaro per le leggi a' Fiorentini».[58] Da un altro lato, in quegli anni appunto, si vede sorgere a un tratto, nel seno della Repubblica, il piú splendido fiore delle arti e delle lettere. La lingua, la poesia, la pittura, l'architettura, la scultura avevano già fatto le loro prime prove in varie città d'Italia; ma ora si raccolgono stabilmente in Firenze, iniziano un'èra nuova nella storia del pensiero nazionale, sono come una luce che sorge improvvisa ad illuminare non solo l'Italia ma l'Europa. Importa quindi conoscere, in tutti i loro particolari, quali furono le fortunate condizioni politiche e sociali, che fecero di Firenze il centro di cosí maravigliosa attività, il foco in cui questi raggi vennero a concentrarsi.

Si potrebbe, è vero, osservare che se quei tempi sono per tante ragioni meritevoli della nostra attenzione, la storia ne è pure notissima. Narrata da contemporanei come il Compagni ed il Villani, che furono non solo testimoni oculari, ma spesso anche parte dei fatti che descrissero, essa venne illustrata con molti documenti originali, e nuovamente esposta da alcuni dei piú chiari storici moderni. Ma pure, chi bene la esamina, deve accorgersi che quei tempi non sono poi cosí noti come pare. Basta infatti leggere gli storici anche piú moderni, perché mille difficoltà e mille dubbi sorgano nella nostra mente. Che cosa in vero ci dicono, non solo il Machiavelli, l'Ammirato, il Sismondi, il Napier; ma il Vannucci, il Giudici, il Trollope, che scrissero quando era già seguita la pubblicazione di molti e nuovi documenti originali? — Dopo la battaglia di Campaldino, l'insolenza dei Grandi era trascorsa in Firenze oltre ogni limite. Ingiuriavano, opprimevano, calpestavano il popolo. Si levò allora un uomo ardito e generoso, Giano della Bella, nobile dato al partito popolare, il quale, essendo dei Priori, propose una nuova legge, che doveva rimediare per sempre a questi mali, e che fu accettata, sanzionata col nome di Ordinamenti della Giustizia. Questa legge escludeva i Grandi o sia i magnati da ogni ufficio politico; permetteva di salire al governo della Repubblica solo a quelli che effettivamente esercitavano un'Arte; puniva ogni grave offesa dei Grandi contro i popolani, con giudizi e con pene eccezionali e crudeli: il taglio della mano, la morte, piú spesso la confisca. Per le offese minori, v'erano solo pene pecuniarie. I magistrati avevano facoltà di punire un popolano, che si mostrasse avverso alla Repubblica o ne violasse le leggi, col dichiararlo Grande, il che lo escludeva subito dal governo e lo sottoponeva alle stesse angherie. Ma quello che è piú, quando uno dei magnati, commessa l'offesa, sfuggiva alla giustizia, doveva in sua vece pagar la pena il suo parente o consorto.[59] — Cosa unica nella storia del mondo! esclama, a questo proposito, il Giudici. E chi non vede, infatti, come questa, che è pure una legge fondamentale nella storia della Repubblica, sembra invece una vendetta ispirata solo dalle piú cieche passioni di parte? I dubbî perciò sorgono quasi ad ogni parola di essa. Come spiegare che Dante si trovava dei Priori, e con lui altri, che certo non erano artigiani, o solo di nome, se è vero che gli Ordinamenti escludevano tutti coloro che non esercitavano effettivamente una delle Arti? Ma, lasciando da parte mille altri dubbi minori, egli è certo che il sentire che allora si condannava alla morte un innocente, solo perché parente o consorto d'un colpevole sfuggito alla giustizia, è cosa che non si può assolutamente capire. Potremmo intenderla appena in mezzo alla piú oscura barbarie; resta un mistero ed una contraddizione nel secolo di Dante; confonde tutte le nostre idee intorno a quei tempi. Il riesaminare adunque un tale soggetto non può essere senza qualche utilità. Si tratta di determinare il vero carattere della rivoluzione seguita allora, e della legge che ne fu conseguenza; di metterle in armonia coi tempi e colla storia di Firenze.

II

In sul finire del secolo XIII, la Repubblica aveva acquistato in Toscana ed in tutta Italia una importanza grandissima. La caduta degli Svevi, la venuta degli Angioini, la vacanza dell'Impero avevano dato al partito guelfo, che in Firenze era quello della democrazia, un grandissimo ascendente. Pisa, Siena ed Arezzo, le sue tre grandi rivali ghibelline, erano state dai Fiorentini, con una diplomazia accortissima e con la forza delle armi, umiliate e vinte, il che non solo aveva rialzato in Toscana l'autorità politica della loro Repubblica, ma le aveva aperto ed assicurato tutte le grandi vie del commercio. Al mare s'andava per Pisa; a Roma, nell'Umbria, nell'Italia meridionale per Siena ed Arezzo; al settentrione s'andava per Bologna, città lontana, guelfa ed amica. Quindi è che il commercio di Firenze prese allora un rapido incremento, ed essa, che era una repubblica di mercanti, in mezzo a repubbliche date del pari all'industria ed al commercio, si trovò a capo di tutta Toscana. Da un altro lato però la cresciuta potenza degli Angioini cominciava già ad ingelosire i Papi stessi, che li avevano chiamati, e che ora volgevano l'occhio alla Germania, per farvi risorgere le pretese imperiali, e cosí mettere un freno alla crescente ambizione di Carlo d'Angiò, il quale, fatto da essi Senatore di Roma e Vicario imperiale in Toscana, sembrava volesse seguire l'audace politica degli Svevi, aspirando alla signoria d'Italia.

In un tale stato di cose, i Fiorentini seppero destreggiarsi con un'accortezza maravigliosa, ed inclinando ora a destra ora a sinistra, fecero piú volte piegar la bilancia dal lato che volevano. Si servivano dei soldati di Carlo, per abbassare le città e i nobili ghibellini; s'appoggiavano al Papa, per frenare l'albagía di Carlo; e mostravano di voler favorire l'Impero, quando il Papa parlava da supremo signore temporale, quasi, nel presente interregno, fosse lui l'erede naturale dei diritti imperiali. In questo modo la Repubblica, non solo mantenne salva la sua indipendenza, ma divenne uno Stato rispettato e temuto in Italia.[60] Tutto ciò era conseguenza dell'attività, dell'accortezza e intelligenza de' suoi popolani, i quali governavano con una tale parsimonia nelle spese, con tanta prudenza, che si giunse ad una prosperità inaudita. «E nota (dice il Villani), che infino a questo tempo e piú addietro, era tanto il tranquillo stato di Firenze, che di notte non si serravano le porte alla Città, né avea gabelle[61] in Firenze; e per bisogno di moneta, per non fare libbra,[62] si venderono mura vecchie, e' terreni d'entro e di fuori a chi v'era accostato».[63] Con poche tasse e senza debiti, l'amministrazione procedeva mirabilmente; non gravava i cittadini, ed aumentava il benessere comune.

III

Pure, al disotto di questa apparente tranquillità, v'era nel seno della Repubblica il germe d'una profonda discordia, che di tanto in tanto scoppiava in sanguinosi conflitti, dei quali era causa principale il malcontento dei Grandi. È un grave errore il credere, che gli Ordinamenti di Giustizia li escludessero per la prima volta dal governo. Questo era una disposizione di lunga mano apparecchiata, e che, sebbene non fosse ancora rigorosamente eseguita, poteva dirsi già sanzionata nel 1282, con la istituzione dei Priori delle Arti, posti a capo della Repubblica. Ma non bisogna credere per questo, che allora i Grandi avessero di fatto perduto nella Città ogni potere. Prima di tutto, il nuovo modo di guerreggiare, pel quale gli eserciti municipali d'artigiani, senza cavalieri, senza uomini d'arme, facevano pessima prova, aveva reso inevitabile l'aiuto dei nobili, e cominciava anche a rendere necessario il ricorrere a gente forestiera: Tedeschi, Francesi e Spagnuoli, soldati di ventura che vivevano per la guerra e della guerra. A Montaperti (1260) erano stati i Tedeschi di Manfredi e i nobili ghibellini, esiliati da Firenze, che avevano inflitto una terribile rotta all'esercito guelfo della Repubblica. A Campaldino (1289) erano stati Corso Donati, Vieri dei Cerchi e altri Grandi o potenti di Firenze, che avevano deciso la giornata. Questi lo sapevano e lo ripetevano di continuo, sprezzando gli artigiani ed il popolo. Educati alle armi, non distratti dal commercio, erano irritatissimi, vedendosi esclusi dal governo da gente piú rozza e assai meno di loro atta alla guerra. Le passioni politiche s'accendevano perciò sempre di piú, ed essi non avevano né davano pace.

Bisogna poi notare che i Grandi d'allora non erano piú i nobili feudatari d'una volta, isolati e chiusi nei loro castelli, come tanti sovrani, dipendenti solo dall'Impero, e nemici della Repubblica. Vinti nel contado, ed obbligati già da un pezzo ad entrare ed abitare in Città, le si erano adesso affezionati, ma avrebbero in essa voluto comandare. Trovandosi circondati per ogni lato da un popolo potente, associato in Arti, e padrone del governo; sottomessi per forza alle leggi repubblicane, che non riconoscevano i diritti feudali, s'erano dovuti, a legittima difesa, associare nelle consorterie o società delle Torri, regolate meno da leggi che da consuetudini, e però tanto piú fortemente unite. Questi erano stati in origine, quasi esclusivamente, vincoli di sangue, che s'andarono sempre piú stringendo collo scomporsi dell'ordinamento feudale, quando le parentele, per non perdere la loro forza, si formarono in caste o associazioni separate, che accoglievano un numero sempre maggiore di soci. Abitavano gli uni vicino agli altri nei loro palazzi, che stavano accosto ed occupavano spesso una o piú vie della Città; vivevano insieme co' loro aderenti, uomini d'arme, palafrenieri, servitori, stallieri, e nei momenti di pericolo chiamavano anche i contadini dai loro ricchi possessi nella campagna. Non solamente le loro proprietà restavano sempre nella famiglia o nella consorteria, e le liti si componevano per mezzo di arbitri;[64] ma le vendette si deliberavano in comune, e colui che le eseguiva era sempre messo in salvo dagli amici, ritenendosi tutta la consorteria responsabile del fatto. Spesso avevano tra casa e casa, o nelle Corti dei loro palazzi, un arco sotto cui davano la corda a chi loro piaceva. Della famiglia Bostichi, infatti, dice il Compagni: «Feciono moltissimi mali e continuoronli molto. Collavano gli uomini in casa loro, le quali erano in Mercato Nuovo, nel mezzo della Città, e di mezzodí gli metteano al tormento. E volgarmente si dicea per la terra: molte corti ci sono; e annoverando i luoghi dove si dava tormento, si diceva: a casa i Bostichi, in Mercato».[65] Tuttociò continuava sempre, quantunque si fossero già pubblicate severissime leggi contro i Grandi. Un popolano era bastonato, ferito o messo alla corda, senza che l'autore dell'offesa si potesse mai legalmente ritrovare. In campagna questi medesimi Grandi s'adoperavano in mille modi a tener viva la servitú, che pure era stata per legge abolita da piú anni, inducendo i contadini, con la forza o le minacce, a riconoscere, mediante contratti fittizî, obblighi che non avevano.[66]

E cosí fu che questi cittadini, già potenti per le loro condizioni sociali, avevano sempre molta forza ed autorità politica nella Repubblica, non ostante le leggi fatte contro di loro. Esclusi dalla Signoria, non potevano entrare nel Consiglio dei Cento, e neppure in quelli del Capitano, nei quali le cose piú importanti si trattavano. Entravano però in quelli del Podestà, che doveva esser cavaliere, e però spesso favoriva i nobili ne' suoi giudizî. Nelle ambascerie erano di continuo adoperati, e nelle guerre pigliavano i primi posti; ma sopra tutto prevalevano in quella istituzione che dicevasi la Parte Guelfa, i cui principali ufficî erano ad essi piú specialmente affidati. Fondata, come abbiamo già visto, nel 1267, dopo la cacciata del conte Guido Novello, essa doveva amministrare tutti i beni confiscati ai Ghibellini, dei quali s'era fatto monte o mobile, o come diremmo noi capitale. Questi beni dovevano essere adoperati ad abbassare i Ghibellini ed a sostenere i Guelfi, dei quali Firenze era capo in Toscana. Fu a questo proposito, che il cardinale Ottavio degli Ubaldini esclamò: Dappoi che i Guelfi di Firenze fanno mobile, giammai non vi torneranno i Ghibellini; e la sua profezia s'avverò.[67] Difatti il partito ghibellino a poco a poco scomparve, per le continue persecuzioni subite dopo il rovescio generale degli Svevi; e la Città, divenuta allora affatto guelfa, si divise in popolani da un lato, nobili, potenti o Grandi dall'altro. Questi, esclusi dal governo o dagli onori, come dicevano allora, non poterono mai essere esclusi dalla Parte, di cui continuarono invece ad amministrare le ricche entrate. Essa era ordinata come una piccola repubblica, e nonostante i molti tentativi fatti per introdurvi, in proporzione sempre maggiore, i popolani, non vi si poté mai riuscire, e furono invece sempre sopraffatti, tanto che nello statuto, che ne abbiamo a stampa, compilato nel 1335, si trova incoraggiata, con premî in danaro, la nomina di nuovi cavalieri. Ad ognuno di essi, fino a sei per anno, davasi la somma di cinquanta fiorini in oro, «conciosiacosaché a cosí magnifica Città si confaccia risplendere per quantità di cavalieri». E cosí da un lato s'abbassavano i Grandi, e quasi pareva che si volessero sterminare: da un altro invece essi trovavano sempre forza ed aiuto.[68]

IV

Con tutti questi vantaggi, se i nobili fossero stati uniti, anche dopo le battiture avute nel '66 e nell'82, avrebbero potuto ottenere una rivincita, e dominare il popolo. Ma erano invece divisi e si combattevano aspramente anche fra di loro. «Aveva grande guerra (dice il Villani) tra gli Adimari e' Tosinghi, e tra' Rossi e' Tornaquinci, e tra i Bardi e' Mozzi, e tra i Gherardini e' Manieri, e tra i Cavalcanti e' Buondelmonti, e tra certi de' Buondelmonti e' Giandonati, e tra' Visdomini e' Falconieri, e tra i Bostichi e' Foraboschi, e tra' Foraboschi e' Malespini, e tra' Frescobaldi insieme, e tra la casa de' Donati insieme e piú altri casati».[69] Né deve recar maraviglia, che le consorterie cosí forti e potenti fossero gelose le une delle altre. S'aggiungeva poi, che fra questi nobili guelfi c'erano gli avanzi del partito ghibellino, con le loro simpatie imperiali, il che costituiva un altro germe di discordia, e dava animo, eccitava il popolo a procedere sempre piú oltre nella guerra di sterminio, che aveva incominciata. Assai meglio ordinato e piú unito; associato nelle varie Arti, che formavano parte della generale costituzione dello Stato, esso dimostrava, in ogni occasione, una forza ed unità di azione, che i Grandi non avevano mai. Cominciava, è vero, a scorgersi già sin d'allora il germe di qualche gelosia tra le Arti maggiori, le minori e la plebe; ma questa discordia scoppiò assai piú tardi. Per ora non se ne vedeva neppure il principio. S'erano formate, tra i membri d'una stessa Arte o di varie Arti, quelle che allora chiamavansi Leghe, Posture, Convegni, ossieno accordi speciali, fatti anche per mezzo di regolari scritture. Ma avevano uno scopo piú che altro commerciale, mirando a tenere abusivamente alti certi prezzi, a fare monopolî poco legittimi: solo in piccola parte nascevano da passioni o interessi politici. Non erano permessi dalle leggi, né certo favorivano la concordia, ma avevano poca importanza.

La Città si trovava cosí sempre piú divisa e suddivisa in gruppi, e pareva che minacciasse d'andare in frantumi. I popolani erano di certo sempre i padroni del governo; ma i nobili, sebbene in diverso modo, erano anch'essi potenti; quindi l'unità e la concordia dovevano di continuo correre grave pericolo. L'ottenere una maggiore uguaglianza fra i cittadini, una maggiore unione e forza cosí nella società come nel governo, doveva essere perciò lo scopo cui, per necessità delle cose, bisognava mirare, se non si voleva restar sempre sull'orlo di un precipizio. Da gran tempo infatti la legislazione fiorentina e le continue rivoluzioni si erano indirizzate a questo fine. La legge del 6 agosto 1289, con la quale si aboliva la servitú, per dare la libertà ai contadini, fu anch'essa un nuovo passo verso l'uguaglianza. Quelle del 30 giugno e 3 luglio 1290 proibirono ogni accordo, che in qualunque modo s'allontanasse dalla costituzione legale delle Arti. La legge del 31 gennaio 1291 pose un altro freno ai nobili, obbligando tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, a sottostare ai giudici ordinarî, minacciando pene severissime a chiunque pretendesse d'avere o di volere impetrare il privilegio di tribunali eccezionali.[70]

Ma ciò che è ancora piú, la pena pecuniaria minacciata in tali casi, ricadeva sul consorto o parente del colpevole, se esso riusciva a sfuggire alla giustizia. È questa una legge che deve a noi sembrare molto strana; ma che pur trova la sua spiegazione in quello che abbiamo già detto sull'ordinamento che aveva allora la proprietà, sulla costituzione delle famiglie e delle consorterie. Il patrimonio domestico rimanendo, in massima parte, indiviso nella famiglia, l'imporre pena pecuniaria ad uno solo de' suoi membri, senza colpire gli altri, doveva riuscire di certo non solo assai difficile, ma anche pericoloso, e per questa ragione la legge tendeva sempre ad obbligarli tutti in solido. Un tal principio sembrava piú logico ancora quando trattavasi di pene imposte ai Grandi, che vivevano strettamente uniti fra di loro nelle consorterie; che in comune trattavano i loro interessi, deliberavano le vendette, mostrando di volere in ogni cosa vivere ed essere insieme responsabili. Se la proprietà apparteneva a tutta la famiglia, ed era perciò sempre questa che pagava; se comune era anche la vendetta, e le piú gravi offese erano fatte in nome e per volontà di tutti i parenti, non pareva che vi fosse nulla di strano nella legge che obbligava l'un consorto o parente a pagare per l'altro, cominciando dai piú prossimi. E già da lungo tempo, per queste ragioni appunto, le leggi, dopo aver ordinato l'elenco dei Grandi, li obbligavano a sodare, cioè a dare, ciascuno, malleveria non solo direttamente per sé, ma anche l'uno per l'altro parente, mediante la somma di lire due mila, che a questo fine si depositava. In tal modo, quando le pene pecuniarie, che generalmente non passavano mai tale somma, ricadevano sopra un Grande, v'era già il danaro da lui stesso depositato, o il parente in simil modo vincolato a pagare per lui, nel caso in cui questi fosse fuggito o avesse con qualche indebito artifizio saputo eludere la legge.[71] Tali precisamente e non altri sono i principi sui quali si fondano anche gli Ordinamenti di Giustizia, che non si possono perciò in nessun caso ritenere opera personale di Giano della Bella, essendo invece una conseguenza logica, un resultato naturale, inevitabile delle rivoluzioni, delle istituzioni e delle leggi precedenti. In gran parte anzi essi non fanno altro che raccoglierle ed ordinarle, rendendo piú chiaro e visibile il loro scopo antico e costante.

V

Giano della Bella era un uomo d'azione, non un legislatore né un politico. Nobile di origine, aveva combattuto a Campaldino, dove ebbe ucciso il suo cavallo; s'era poi dato al partito popolare, secondo che si diceva, per una contesa avuta in san Piero Scheraggio con Piero Frescobaldi, il quale sarebbe giunto a mettergli le mani sul viso, minacciando di tagliargli il naso.[72] Vero o no che sia il fatto, certo egli era di carattere violento, di molto ardire, di poca prudenza, e disinteressato amico della libertà; ma non punto scevro dalla passione della vendetta, di che anzi veniva accusato dagli stessi suoi ammiratori. «Uomo virile e di grande animo (dice il Compagni) era tanto ardito, che lui difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri taceva, e tutto faceva in favore della giustizia contro ai colpevoli, e tanto era temuto dai rettori, che temeano nascondere i maleficî».[73] — «Egli era (dice il Villani) il piú leale e diritto popolano e amatore del bene comune, che uomo di Firenze, e quegli che mettea in Comune e non ne traeva. Era presuntuoso e voleva le sue vendette fare, e fecene alcuna contro gli Abati suoi vicini, col braccio del Comune»,[74] di che il buon cronista gravemente lo biasima. Mandato Podestà a Pistoia, s'era subito gettato in mezzo ai partiti, perseguitando alcuni e favorendo altri, con tanto ardore, che invece di calmarli, come era suo debito, li accese maggiormente, tanto che non potette neppur compiere il tempo dell'ufficio suo.[75] Tutta la condotta di lui in Firenze, noi lo vedremo, dimostra che esso era un uomo di poca prudenza e di grande impeto. Furono anzi queste passioni appunto, che ne fecero non già un legislatore, ma un capopopolo, un implacabile nemico dei Grandi.

Dopo la battaglia di Campaldino, questi dimostravano una maggiore audacia ed una superbia crescente. — Siamo noi, essi dicevano continuamente, che demmo la sconfitta in Campaldino, e voi ci volete ora disfare. — Volevano invece primeggiare e comandare, ed ogni giorno ingiuriavano o ferivano qualche popolano. Né le leggi bastavano, a punirli, perché gli offensori non si trovavano mai; venivano nascosti, e nessuno voleva o osava fare testimonianza contro di essi. Un popolano era circondato, assalito, riceveva una pugnalata, e l'autore del delitto non era visto da nessuno. Un altro era tirato in mezzo alle case d'una consorteria, malmenato, picchiato, collato alla fune, e tutto quello che ivi seguiva rimaneva un mistero. Si condannava ad una multa qualche Grande, e subito egli dichiarava di non aver nessuna proprietà individuale, di non aver sodato per negligenza sua o dei magistrati,[76] ed i parenti facevano lo stesso discorso. Bisognava dunque richiamare in vigore, rafforzare le antiche leggi, venire a nuovi e piú duri provvedimenti. Cosí finalmente i Priori, che si trovavano in ufficio dal 15 dicembre '92 al 15 febbraio '93, spinti dalla opinione popolare, che era guidata da Giano, dettero commissione a tre cittadini, Donato Ristori, Ubertino della Strozza e Baldo Aguglioni di stendere una nuova legge, la quale, provvedendo ai pericoli presenti, desse per l'avvenire un piú stabile assetto alla Repubblica. Il 10 gennaio, essendo già pronta la legge, il Capitano del popolo radunava il Consiglio dei Cento, proponendo che si chiedesse agli opportuni Consigli la balía[77] di proclamarla, quando fosse stata approvata dai magistrati e da alcuni savî cittadini. Vi fu chi propose invece che si leggesse e discutesse prima nei Consigli; ma cosí si correva rischio di non venir mai a capo di nulla. Prevalse quindi il partito piú pratico, e fu con 72 voti contro soli 2, deciso di concedere la chiesta balía. Il 18 gennaio la nuova legge, chiamata Ordinamenti o Ordini della Giustizia, fu promulgata in nome del Podestà, del Capitano e dei Priori, sentite prima le Capitudini delle 21 Arti,[78] ed alcuni savi cittadini. Tutto fa credere che fra questi fosse anche Giano della Bella; ma, sebbene gli storici lo dieno come autore e promotore della legge, perché fu esso che guidò il popolo e costrinse la Signoria, pure non si trovava allora al governo, né il suo nome apparisce negli atti ufficiali in modo alcuno.[79] Tanto fu lontano dall'essere il vero e solo autore o compilatore della legge.

VI

Ma che cosa sono dunque questi Ordinamenti? Per rispondere a una tale domanda, bisogna mettere da parte gli storici ed esaminare la legge stessa. Se non che, noi ne abbiamo molte compilazioni antiche, le quali sono tra loro cosí diverse, che in una trovansi solo 22 rubriche, in altre piú di cento. È necessario quindi, prima di tutto, determinare quale di esse è la primitiva e genuina, fatta il 18 gennaio '93, perché solamente su questa possiamo fondare un giudizio sicuro, e però solamente da essa dobbiamo prender le mosse.

Queste compilazioni cosí diverse arrivano al numero di sei, quattro a stampa, e due ancora inedite. Noi possiamo subito metterne da banda due, perché non fanno al nostro scopo. Una è quella che si trova nella compilazione generale degli Statuti fiorentini, fatta nel 1415 per opera di Bartolommeo Volpi e Paolo de Castro, pubblicata per le stampe verso la fine del secolo XVIII, colla falsa data di Friburgo (1778-83). In essa sono riunite leggi di tempi diversissimi, senza ordine cronologico, e gli Ordinamenti vi si trovano, ma alterati da tutte le modificazioni posteriori, accumulate anch'esse alla rinfusa. Per lo storico dei tempi di Giano della Bella, una tale raccolta non può essere utile, perché non dà nessuna sicura garanzia. E cosí anche dobbiamo porre da banda una miscellanea, che si trova nell'Archivio fiorentino, e che, come dice il Bonaini, è un grosso zibaldone, in cui sono leggi disparate, di varî tempi e di varia indole, qualcuna delle quali afforza o modifica gli Ordinamenti di giustizia. Essa può quindi avere importanza per la storia degli Ordinamenti, ma non dà nessun aiuto a trovarne la forma primitiva.

Restano cosí quattro compilazioni, delle quali una sola è inedita. Esaminandole, si vede subito che quella pubblicata dal Bonaini, non ha che 22 rubriche, l'ultima delle quali, la conclusione generale, è mutila; le altre compilazioni ne hanno assai piú, ma in esse i veri e proprî Ordinamenti del gennaio 93 sono contenuti sempre nelle prime 28 rubriche.[80] Infatti dalla ventinovesima in poi cominciano giunte e leggi posteriori, che portano assai spesso la loro propria data, e furono unite agli Ordinamenti, perché li modificano, li rafforzano, li rendono piú miti o trattano materie affini. È la vicenda che piú o meno subirono tutte quante le leggi, tutti gli Statuti della Repubblica. In questo modo adunque le grandi divergenze delle diverse compilazioni si riducono in assai ristretti confini, per ciò che s'attiene ai primi Ordinamenti. Restano tuttavia de' dubbî, perché non solo abbiamo da un lato 22 rubriche, e da un altro 28; ma esse differiscono fra di loro in varî punti. Cominciamo dunque dal notare, come la piú antica compilazione è senza dubbio quella che il Bonaini pubblicò nel 1855, da un codice originale dell'Archivio di Stato. Egli credette d'aver trovato la redazione primitiva degli Ordinamenti; ma pure, diligente com'è, preferí chiamarla prima bozza, perché non è veramente la legge stessa, approvata e promulgata dai Magistrati, secondo che l'Hegel ha poi dimostrato.[81] Il codice è antichissimo; si può anzi ritenere dei tempi di Giano della Bella. Infatti, in una intestazione, che fu prima messa, poi cancellata, trovasi la data, 1292 de mense ianuarii.[82] (s. n. 1293). Vi manca la formula con cui s'intestavano tutte le provvisioni della Repubblica, e nella quale si ponevano, non solo la data e il titolo, ma qualche volta anche i nomi dei magistrati, che promulgavano la legge. Il codice, in piccolo formato, è pieno di cancellature, pentimenti, aggiunte scritte da mani diverse; e spesso tra una rubrica e l'altra sono spazî vuoti, lasciati per dar luogo appunto alle aggiunte o correzioni possibili. Tutto fa chiaramente vedere che in questo antico Codice abbiamo solo la bozza della legge, quale fu compilata, per ordine dei magistrati, dai tre cittadini piú sopra nominati, senza che questa avesse ancora ricevuto la sua forma definitiva, né la sanzione legale di coloro che dovevano discuterla ed approvarla, prima che potesse essere promulgata. Non possiamo perciò dire con certezza, se e quali modificazioni essa poté subire.

Ma se questa bozza è alquanto anteriore alla vera e propria legge, le altre compilazioni che abbiamo di essa son tutte posteriori, e quindi possono avere giunte e modificazioni fatte piú tardi. Esaminando cosí la compilazione latina, pubblicata dal Fineschi nel 1790, come quella italiana che fu pubblicata dal Giudici nel 1853, cavate ambedue da codici antichi ed autentici, troviamo nell'una e nell'altra tutti quanti i caratteri d'una legge legalmente promulgata. Ambedue cominciano con la formula ufficiale, e hanno la data del 18 gennaio 92 (s. n. 93). Guardando alle rubriche aggiunte nella seconda di esse (italiana), che è molto piú lunga, si trovano diverse date, una delle quali del 1324; la prima invece (latina) non ha nessuna data posteriore al 6 luglio 1295. Questa è dunque la piú antica delle due, e le poche divergenze che osserviamo anche fra le sue prime 28 rubriche, e quelle della compilazione italiana, debbono di certo derivare da modificazioni posteriormente introdotte in questa. Tuttavia anche le prime rubriche della compilazione latina han dovuto subire modificazioni, anteriori però al 6 luglio '95. Nella rubrica VI troviamo infatti che il numero dei testimoni, il quale restava indeterminato nella bozza (rub. V), è portato a tre nelle due compilazioni posteriori, il che (come vedremo) si può coi documenti provare che fu deliberato nel luglio '95. Possiamo dunque in conclusione affermare, che di queste due compilazioni degli Ordinamenti, la latina, cioè la piú antica, ce li presenta nella forma che ebbero nel luglio '95; l'italiana, invece, sebbene sia una traduzione, che dall'esame del codice può dirsi ufficiale, ha in qualche punto subito modificazioni anche posteriori al '95. Se poi, tenendo conto solamente delle loro prime 28 rubriche, le paragoniamo con la bozza del Bonaini, troveremo che, salvo la mancanza in questa di sei rubriche, quasi tutte di assai poca importanza, le altre divergenze sono piú di forma che di sostanza. In ogni modo, quando le tre redazioni vanno fra loro d'accordo, possiamo essere certi d'avere la legge sanzionata il 18 gennaio '93, nella forma stessa che ebbe allora; quando invece troviamo delle divergenze, bisogna, prima di poter arrivare a qualche conclusione certa, aiutarsi col soccorso dei cronisti e di nuovi documenti, se ve ne sono. Con queste norme procediamo dunque all'esame della legge.[83]

VII

Che cosa dunque ci dicono, che cosa sono questi Ordinamenti di giustizia nella loro forma originale? Essi portano nella Repubblica un mutamento politico e sociale, col manifesto intento di promuovere l'uguaglianza civile, dare maggiore unità al governo, maggior forza alle Arti; assicurare l'unione e la concordia del popolo; metter freno all'albagia dei Grandi. La riforma piú propriamente politica si restringe a dare norme sicure per la elezione dei Priori, ai quali è aggiunto un nuovo e piú autorevole magistrato, il Gonfaloniere di giustizia, che siede con essi.

I sei Priori in ufficio, invitati dal Capitano del popolo, radunavano per mezzo suo le Capitudini, ossia i Consoli delle 12 Arti maggiori, e i savi cittadini, che credevano richiedere, per deliberare con loro sul piú opportuno e sicuro modo di scegliere i propri successori. I quali dovevano essere ascritti nella matricola di un'Arte ed esercitarla, questo essendo il modo piú sicuro di provare, che non appartenevano a famiglie di Grandi, che era sempre il punto essenziale. Infatti chi fosse rimasto ancora dei Grandi, sebbene esercitasse l'Arte, non poteva entrare nella Signoria.[84] Si poteva, con sottili ed anche sofistiche interpetrazioni, transigere sull'esercizio effettivo dell'Arte, non mai però sull'essere realmente fuori dell'aristocrazia.[85] Lo stesso Giano della Bella, che aveva appena, come dice il Villani, qualche interesse commerciale in Francia, di nobile fattosi popolano, poté nel febbraio '93 essere dei Signori. Nel luglio del '95, come vedremo, furono modificati gli Ordinamenti, e bastò addirittura essere ascritto all'Arte, senza di fatto esercitarla, richiedendosi però sempre che non si fosse dei nobili. Seguivano molte prescrizioni destinate a dare equa parte negli uffici a tutti quanti i Sesti della Città, a tutte le Arti, vietandosi che vi fossero piú Priori d'un medesimo Sesto, d'una medesima Arte o famiglia. Chi usciva d'ufficio aveva divieto a tornarvi per due anni, e cosí pure avevano divieto i suoi parenti. L'ufficio dei Priori durava due mesi; non si poteva chiedere né brigare, e non si poteva neppure ricusare. Essi sceglievano, per abitarvi, una casa nella quale vivevano e mangiavano insieme, senza potere accettare inviti o dare udienze private.[86]

Si veniva poi alla elezione del nuovo magistrato, cioè il Gonfaloniere della Giustizia. Esso era eletto ogni due mesi, d'un Sesto sempre diverso della Città, dai nuovi Priori, dal Capitano e dalle Capitudini, piú due Savi per Sesto. Era in tutto pareggiato ai Priori, salvo che aveva divieto d'un anno invece di due; viveva con essi qual primus inter pares; aveva, come essi, l'onorario di dieci soldi al giorno, comprese anche le spese, per il che si poteva dire un ufficio gratuito. Avendo però dalla legge maggiori attribuzioni, ben presto divennero di necessità il capo della Signoria.[87] A lui si consegnava, in pubblico Parlamento, il Gonfalone del Popolo, donde veniva il nome di Gonfaloniere, ed aveva a propria disposizione 100 pavesi o scudi, 25 balestre con quadrella, i quali servivano a meglio armare alcuni dei 1000 popolani scelti ogni anno, per essere agli ordini suoi, del Capitano e del Podestà, e provvedere cosí al buon ordine ed alla esecuzione delle nuove leggi.[88] Non poteva esser parente dei Priori in ufficio. La creazione di questo nuovo magistrato viene di certo a provare chiaramente, che si sentiva già il bisogno di dare maggiore unità e capo al governo. La gelosia repubblicana però non permise allora d'andar oltre una semplice apparenza. E quindi il Gonfaloniere non fu che il piú autorevole fra i Priori, mutabile al pari di essi; ma in certe occasioni poteva direttamente disporre de' popolani armati, il che aumentava di certo la sua autorità.

Venendo ora a quella parte degli Ordinamenti, che aveva un carattere assai piú sociale che politico, noteremo innanzi tutto, che da essi ha origine la definitiva costituzione delle Arti in Firenze, le quali ben presto formarono o rinnovarono i propri statuti; ed essi ancora ne fissarono il numero normale, il quale d'allora in poi rimase sempre fermo a 21.[89] La prima rubrica infatti ordinava che le Arti facessero solenne giuramento di mantenere l'unione e la concordia del popolo. La seconda annullava e proibiva severamente tutte quante le compagnie, leghe, promesse, convegne, obbligazioni e sacramenti, ossia tutti gli accordi fra i popolani, non preveduti o permessi dalle leggi, contrari o estranei alla costituzione delle Arti stesse. Al procuratore ed agli stipulatori di simili accordi si minacciava perfino la pena del capo; e l'Arte in cui l'accordo avesse avuto luogo, doveva pagare mille lire; cinquecento dovevano pagarne i suoi Consoli ed il notaio che avesse compilato l'atto.[90] Da tutto ciò si vede chiaro che non si trattava solo, come fu affermato e creduto, d'una legge di vendetta contro i nobili; ma si voleva anche riordinare la Città ed il governo, costituendo fortemente le Arti, dando ad esse nuova importanza politica. L'abbassamento dei Grandi formava tuttavia uno degli scopi principali della legge. Vediamo dunque quali erano le disposizioni a ciò destinate.

VIII

Prima di tutto, era necessario, per punire i Grandi delle loro continue offese contro i popolani, obbligarli a sodare, cosa che molti di essi avevano saputo, in onta alle leggi, evitare. Le pene per la maggior parte dei delitti erano pecuniarie, e chi non aveva sodato, facilmente poteva trovar modo di sfuggirle con una o un'altra scusa: ciò si voleva con gli Ordinamenti impedire.[91] Essi richiamavano quindi in vigore le antiche leggi, già troppo spesso violate. «Ancora, per ischifare molti inganni, li quali per alquanti piú Grandi e nobili de la Cittade e del contado di Firenze, sono commessi cotidianamente intorno a' sodamenti li quali per loro si fanno o debbonsi fare, per la forma e secondo la forma del Costituto del Comune di Firenze, posto sotto la rubrica: De le securtadi che si debbono fare da' Grandi de la città di Firenze, e comincia quello capitolo: Acciò che la isfrenata specialmente de' Grandi, etc. proveduto e ordinato è,[92] etc.» Tutti i Grandi, adunque, i quali erano già notati nel sopradetto Costituto, e dei quali si fece allora nuova lista, dovevano dai 15 ai 70 anni, senza eccezione, sodare per lire duemila, somma a cui vediamo generalmente ammontare le piú gravi pene pecuniarie, oltre la confisca di cui soleva allora farsi uso ed abuso. Se qualcuno di essi era dell'Arte, ciò non bastava ad esentarlo dall'obbligo del sodare; ad ottenere un tale vantaggio era necessario, che a tutta la famiglia, per una qualche ragione, anche per sola tolleranza, fosse stato concesso, durante cinque anni almeno, di non sodare, o che l'avessero dichiarata addirittura francata. In questi casi essa era ritenuta come davvero popolare, con tutti quanti i vantaggi che ne derivavano. Ai piú poveri si poteva dai Signori alleviare il sodamente, ma questo era ciò che dava poi occasione a parzialità ed a frodi.[93] I sodamenti, continuava la legge, saranno fatti nel mese di gennaio, o al piú nel febbraio; se qualcuno si ricusa o ritarda in qualunque modo, verrà bandito, ed in sua vece saranno obbligati i parenti piú prossimi in linea maschile. Commettendosi il maleficio da chi non ha sodato, la pena ricadrà sui parenti. Se poi si tratta di pena capitale, ed il colpevole fugge, i parenti allora, invece delle duemila lire del sodamento, ne pagheranno tremila. Quando però fra questi parenti vi siano nimicizie di sangue, cesserà l'obbligo di sodare l'uno per l'altro. Ciò prova chiaro che, cessando la comunanza degl'interessi e l'alleanza delle passioni, la legge non richiedeva piú la responsabilità collettiva dei parenti o consorti, il che fa sempre meglio vedere quale era lo scopo cui essa mirava.[94]

Solamente quando i membri delle consorterie agivano in comune, come se formassero davvero una persona sola, la legge, che voleva disfar le consorterie, dichiarava gli uni responsabili degli altri, ed obbligava l'un socio a sodare ed a pagare per l'altro. Ma è sempre una pena pecuniaria, ed anche questa tra certi limiti, quella che ricade sui parenti, perché essa sola è come imposta alla consorteria collettivamente. Ciò spiega che cosa significassero le parole del Compagni e del Villani, quando dicevano che, secondo gli Ordinamenti, «l'un consorto era tenuto per l'altro».[95] E si vede come erroneamente, o almeno assai esageratamente le interpretasse il Machiavelli, quando disse in termini generali: «obbligavansi i consorti del reo alla medesima pena che quello»;[96] e come s'ingannassero i moderni nel ripetere una interpretazione, che si trova contraddetta dagli Ordinamenti stessi, i quali altrimenti sarebbero in opposizione con la cultura dei tempi, e con i piú fondamentali principî d'ogni diritto. Ciò che essi fecero davvero contro i Grandi, si può ridurre a due punti principali: richiamare in vigore e rendere piú severe le leggi, che li escludevano dagli uffici, e li obbligavano a sodare ed a pagare l'uno per l'altro; aggravare le pene contro di loro, «raddoppiando le pene comuni diversamente», dice il Villani.[97] Vediamo ora quali erano queste pene cosí aggravate.

Se un Grande, dicono gli Ordinamenti, uccide o fa uccidere un popolano, tanto il Grande come l'esecutore del delitto saranno dal Podestà condannati a morte; i loro beni disfatti e confiscati.[98] Se fuggono, saranno condannati in contumacia, oltre la confisca; il mallevadore pagherà, nonostante, la somma per cui ha sodato, con diritto di rivalersene poi sui beni confiscati e disfatti del contumace. Tutti gli altri Grandi i quali, senza essere direttamente autori del maleficio, vi avevano preso parte, venivano condannati in lire duemila; non pagandole, si confiscavano loro i beni, e s'obbligavano i parenti o mallevadori a pagare. Quando si trattava invece d'una grave ferita, l'esecutore del delitto e colui che aveva istigato a commetterlo, venivano condannati in lire duemila. Ricusando di pagar la pena, era ad essi mozza la mano; sfuggendo alla giustizia, i loro beni venivano disfatti e confiscati, i mallevadori costretti a pagare, potendo al solito rivalersi sui beni confiscati. Scemando la gravità dell'offesa, scemava la pena. In ogni modo, i colpevoli avevano per cinque anni divieto da ogni pubblico ufficio. A provare il delitto, se si trattava di morte, bastavano il giuramento dell'offeso o del suo prossimo parente, e due testimonî di pubblica fama; non era cioè necessario che fossero testimonî oculari. Questa era la parte della legge che piú offendeva i Grandi. In generale essi si curavano poco della minaccia di pene anche severissime, sperando sempre di poterle sfuggire. Invece molto s'impensierivano, andavano anzi in furore, quando si provvedeva ai modi di eseguire rigorosamente le condanne. E tale era appunto il principale scopo, il carattere vero degli Ordinamenti. Tutto il giudizio da essi ordinato procedeva in modo sommario, quasi di legge stataria, dando molto peso alla voce pubblica, che in mezzo alle passioni dei partiti non era certo guida sicura. La stretta unione delle consorterie, aveva reso assai difficili, se non impossibili, i procedimenti legali. E quindi si ordinava che, commesso una volta il delitto, il Podestà dovesse, nel termine di cinque o al piú otto giorni, secondo la maggiore o minore gravità di esso, scoprirne l'autore, sotto pena, ove trascurasse, di perdere l'ufficio, e di 500 lire per le offese minori. Allora però doveva provvedere il Capitano, sotto minaccia delle medesime pene. Le botteghe si chiudevano, gli artigiani s'armavano, il Gonfaloniere vegliava, punendo chi non era pronto all'obbedienza. Quando invece il Podestà scopriva il reo, e si trattava d'omicidio, esso d'accordo col Gonfaloniere faceva, senza neppure aspettare il resultato del giudizio, sonare la campana a martello, e, radunati i mille uomini armati, andavano a disfar le case del colpevole. I capi delle Arti si tenevano pronti ad ogni chiamata del Capitano. Se si trattava invece di minori delitti, il disfacimento aveva luogo dopo il giudizio.[99] Ed è qui da notare che questi disfacimenti non solevano mai arrivare ad una totale distruzione, giacchè Gonfaloniere e Podestà, massime pei delitti minori, si ponevano d'accordo sulle proporzioni che credevano darvi.[100]

Erano minacciate pene assai severe cosí agli offesi che non denunziavano il maleficio,[101] come a coloro che facevano false denunzie.[102] Quando un popolano s'intrometteva nelle zuffe dei Grandi, e ne toccava, o quando si trattava di contese tra servitore e padrone, allora non avevano esecuzione gli Ordinamenti, ma tornava in vigore la legge comune.[103] Seguivano altre disposizioni circa le ingiuste occupazioni, che i Grandi facevano dei beni dei popolani, gli ostacoli che ponevano alla riscossione delle loro rendite, e si determinavano le pene pecuniarie in 1000 o 500 lire, con le norme consuete.[104] Al Grande condannato era vietato di fare accatto o colletta per trovare il danaro, giacché allora sarebbe stato piú facile far le vendette in comune, e poi sottoscriversi fra molti per pagare. E però il Grande che faceva l'accatto, veniva condannato in lire 500; quelli che andavano raccogliendo per lui il denaro, e quelli che lo davano, erano condannati in lire 100.[105]

Non si concedeva appello di sorta contro i giudizi dati in forza degli Ordinamenti,[106] perché questi erano superiori ad ogni statuto, e non potevano essere prorogati, né sospesi o alterati, sotto gravi pene, determinate nella Conclusione generale.[107]

IX

Tali furono dunque gli Ordinamenti di giustizia. Essi cercavano, come già dicemmo, di rafforzare le Arti, dare maggiore unità al governo ed al popolo, abbassare i Grandi, affrettare la dissoluzione delle consorterie. Solo era a dubitarsi che una legge siffatta riuscisse ad avere la sua piena esecuzione, e non fosse invece violata dai Grandi, come tante altre già promulgate coi medesimi intendimenti. Ed a questo appunto Giano della Bella cercò provvedere. Egli non era stato compilatore degli Ordinamenti, né si trovava in ufficio quando furono discussi e sanzionati; ma ne fu certo promotore. Poco dopo la loro proclamazione, il 15 febbraio '93, venne eletto dei Priori; ed il 10 aprile, o sia cinque giorni prima che uscisse d'ufficio, troviamo letta, discussa ed approvata in tutti i Consigli della Repubblica, una nuova provvisione, intesa a fortificare gli Ordinamenti dei quali poi fece parte.

Questa legge, che risponde assai bene al carattere di Giano, uomo d'azione e non di discussione, era semplicissima. Ai mille popolani, posti a disposizione del Gonfaloniere di giustizia, del Capitano e del Podestà, se ne aggiungevano altri mille, piú centocinquanta magistri de lapide et lignamine e cinquanta piconarii fortes et robusti, cum bonis picconibus.[108] Lo scopo di tutto ciò era ben chiaro: si voleva davvero punire; venire in ogni modo alle confische, al disfacimento delle case dei Grandi, che offendevano i popolani. L'irritazione dei nobili fu quindi grandissima, ed il loro odio contro Giano non ebbe piú limiti. Ma egli non si spaventava; voleva anzi andare sempre piú oltre, e mirava ad un nuovo provvedimento, che se fosse stato davvero attuato, i Grandi eran di certo spacciati per sempre. La loro forza, come abbiamo visto, rimaneva ancora intatta nei magistrati della Parte Guelfa, e Giano, per abbassarli, voleva appunto torre ai Capitani di essa «il suggello e 'l mobile della Parte, ch'era assai, e recarlo in Comune, non perché egli non fosse guelfo e di nazione guelfa, ma per abbassare la potenza dei Grandi».[109] Infatti, tolto che le fosse stato il suggello, che era come il segno della propria personalità; toltole il mobile o sia il danaro, per darlo al Comune, essa sarebbe stata disfatta, o almeno assai indebolita, e i Grandi avrebbero perduto cosí l'ultima fortezza in cui s'erano ricoverati. La proposta di Giano trovava poi un giusto appiglio nella legge che aveva istituito la Parte, secondo la quale a questa spettava un terzo solamente dei beni confiscati ai Ghibellini: non avrebbe dovuto prender tutto, come aveva fatto. Quindi si poteva con qualche giustizia obbligarla alla restituzione dei due terzi almeno, che aveva indebitamente usurpati. Fino a che punto Giano riuscisse nell'intento non sappiamo, perché mancano i documenti. Da un lato gli storici accennano al fatto,[110] dall'altro la Parte Guelfa continuò per lungo tempo ancora a spadroneggiare. Certo il solo tentativo basta a spiegarci l'odio crescente che s'accumulò contro di lui, e i segni che si videro subito d'una vicina catastrofe nella Città.

X

I popolani s'accorsero allora del pericolo che minacciava, e per esser parati agli eventi, cercarono di liberarsi subito da ogni minaccia di guerra esterna, concludendo la pace coi Pisani, sebbene questi fossero già ridotti agli estremi, sicché il continuare la guerra li avrebbe sottomessi ed umiliati sempre di piú. Ma i Fiorentini vollero cosí «fortificare loro stato di popolo, e affiebolire il podere de' Grandi e de' possenti, i quali molte volte accrescono e vivono delle guerre».[111] Le trattative cominciarono sotto il gonfalonierato di Migliore Guadagni (15 aprile a 15 giugno 93), e furono concluse sotto quello di Dino Compagni, che venne eletto subito dopo. I patti furono: restituzione dei prigionieri; esenzione da ogni gabella sulle mercanzie dei Comuni della Lega toscana, che passavano per Pisa, con reciproco privilegio ai Pisani. Per quattro anni questi dovevano eleggere il Podestà ed il Capitano, in modo che uno dei due venisse dai Comuni della Lega, l'altro da gente non ribelle ad essa, e non mai fra i conti di Montefeltro. Di questi era appunto il conte Guido, che aveva sino allora comandato con gran valore la difesa di Pisa, tenendovi l'ufficio di Podestà, di Capitano del popolo e di guerra. Egli doveva ora, secondo i patti della pace, abbandonare la città insieme con tutti i Ghibellini forestieri, in fede di che si dovettero dare in ostaggio 25 dei migliori cittadini. Tutto ciò fu un obbligare i Pisani alla piú dura ingratitudine, che il Conte avrebbe potuto far loro pagar cara, trovandosi esso alla testa d'un esercito ancora numeroso e a lui devoto; pure volle invece sopportare l'ingiuria dignitosamente. Entrato in Consiglio, ricordò loro i servigi resi, la ingratitudine con cui veniva pagato, e, ricevuto il suo soldo, se ne parti senza indugio. Ai Fiorentini fu anche promesso, che le mura del castello di Pontedera verrebbero disfatte, e i fossati riempiti; che i piú potenti esuli guelfi sarebbero stati rimessi in città. Ai Pisani però si doveva la restituzione del castello di Monte-Cuccoli e di ogni altra loro terra in Val d'Era.[112]

Posto cosí termine ad un'impresa, che sembrava allora la piú grave di tutte, il popolo procedette con piú ardire ad altre di minore momento. Furono sottomesse varie terre o castelli, come Poggibonsi, Certaldo, Gambassi, Cutignano. Ai conti Guidi si tolse la giurisdizione d'un assai gran numero di terre nel Val d'Arno di sopra. In Mugello furono riacquistati molti possessi ingiustamente occupati dagli stessi conti Guidi, dagli Ubaldini e da altri potenti. Fu poi formata una commissione di tre popolani, per allibrare, cioè fare un censimento dei beni della Città e del contado. La stessa commissione liberò anche le terre dell'Ospedale di Sant'Eustachio presso Firenze, che ingiustamente erano state occupate da molti, e le fece porre sotto la protezione diretta dei Consoli di Calimala.[113] Merita poi d'essere accennato un altro fatto, che dimostra con quanta energia procedesse allora in ogni cosa il popolo di Firenze, il quale, secondo l'espressione del Villani, «era fiero e in caldo e signoria». Un tale, avendo commesso un maleficio, fuggí a Prato, e vi fu accolto. La Repubblica subito lo richiese, e non essendo stato rimandato, condannò il Comune di Prato a pagare diecimila lire, ed a rendere il malfattore, inviando a tal fine un solo messo con lettera. I Pratesi non obbedirono, ed allora, senza indugio, fu intimata la guerra, chiamando sotto le armi fanti e cavalieri, il che finalmente li costrinse a cedere. «E cosí di fatto facea le cose, l'acceso popolo di Firenze».[114]

XI

Tutto era dunque tranquillo e sicuro fuori della Città, quando appunto i maggiori pericoli cominciarono dentro. I Grandi erano decisi a non volere che avessero esecuzione gli Ordini della giustizia, e però s'adoperavano in maniera che, quando seguivano offese contro i popolani, gli offensori venissero condotti dinanzi a giudici del loro medesimo partito, i quali stendevano il processo a loro favore, e cosí il Podestà, senza saperlo, era spinto a colpire gl'innocenti. Nascondevano i malfattori, difendevano i consorti, e quando si poneva mano all'esecuzione della legge, tentavano di far nascere tumulti. Contro tutto ciò appunto reagiva ora fieramente il popolo, guidato da Giano della Bella, il quale soleva ripetere sempre: perisca piuttosto la Città che la giustizia. Le passioni perciò s'esaltarono in modo, che già si minacciava di voler trascorrere a gravi eccessi contra i Grandi. Primi a cader sotto le piú severe pene degli Ordinamenti furono i Galli. Avendo uno di essi ferito in Francia un mercante fiorentino, che poi ne morí, le case loro furono disfatte in Firenze.[115] Dopo questo esempio, facilmente s'andò oltre. Il popolo chiedeva nuove e sempre piú severe esecuzioni: si temeva perciò, dice il Compagni, «se l'uomo accusato non fosse punito, che il rettore non avesse difensione né scusa, il perché niuno accusato rimaneva impunito». I Grandi erano al colmo del loro furore, ed esclamavano, non senza qualche apparenza di ragione: «Un caval corre e dà della coda nel viso a un popolano, o in una calca uno darà di petto senza malizia a un altro, o piú fanciulli di piccola età vengono a quistione; debbono però costoro, per sí piccole cose, essere disfatti?»[116]

In questo modo sorse fra di loro il pensiero di cospirare contro la persona di Giano, capo e istigatore del popolo, e cosí farla finita una volta per sempre. La cosa non doveva esser di difficile riuscita, a cagione del carattere impetuoso, aperto, imprudente di lui. Il suo predominio sul popolo minuto era grandissimo, ma anche qui v'era un'altra cagione di debolezza. La plebe e le Arti minori vivevano, come vedemmo, colla piccola industria, col piccolo commercio nell'interno della Città, e facevano i loro maggiori guadagni coi nobili, i quali perciò avevano su di esse molta autorità, e fra di esse trovavano parecchi seguaci. Da un altro lato non mancava sin d'allora una qualche gelosia tra il popolo minuto ed il popolo grasso, il quale viveva, invece, principalmente col commercio d'esportazione e d'importazione,[117] ed era indipendente dai Grandi, che odiava e voleva abbattere. Non per questo però il popolo grasso poteva veder con piacere che Giano sollevasse l'ambizione e la potenza della plebe, la quale era scontenta perché si trovava esclusa dal governo, e cominciava a desiderare di prendervi parte.

S'aggiunse piú tardi l'elezione di Bonifazio VIII (dicembre 1294), il quale aveva un'ambizione smodata di temporale dominio, e credeva che, per la vacanza dell'Impero, il Papato potesse ora assumerne in Italia ed in Europa i diritti. Voleva perciò specialmente in Firenze, che era capo di Toscana, e dove già i suoi predecessori avevano nominato Carlo d'Angiò vicario imperiale, accrescere la propria autorità. Cominciò quindi a intendersela subito coi Grandi, coi quali era molto piú facile venire ad accordi, perché, trovandosi essi già indeboliti, avrebbero ben volentieri ripreso il governo della Città in nome suo, come i loro antenati ghibellini lo avevano piú volte tenuto in nome dell'Imperatore. Ma a ciò naturalmente si opponeva il popolo grasso, il quale, volendo invece mantenere la Repubblica libera e indipendente, non poteva, sebbene guelfo, intendersi ora col Papa.

I segreti maneggi fra i Grandi e Bonifazio VIII cominciarono subito, per mezzo degli Spini, ricchi mercanti fiorentini, che, essendo banchieri della Curia, avevano agenti a Roma. Il primo risultato di ciò fu l'invito di venire in Toscana, fatto a un tal Giovan di Celona,[118] che già con alcune centinaia d'uomini armati s'avanzava ora verso l'Italia, chiamato dal Papa e dai Grandi, i quali ultimi volendo giovarsene ai loro propri fini, gli avevano fatto molte promesse, a quanto pare, d'accordo anche con alcuni dei popolani. Ma tutto ciò andava per le lunghe, e le passioni correvano ora piú rapide dei maneggi politici, che servivano però a tenerle sempre accese. Si pensò quindi ad ordire senz'altro indugio una trama, per uccidere addirittura Giano della Bella. Percosso il pastore, fiano disperse le pecore, dicevano i Grandi.

Se non che, su coloro che desideravano pronta violenza, prevalsero quelli che consigliarono invece l'astuzia. Nel popolo seguivano allora molti eccessi, che restavano impuniti per la debolezza dei giudici. I beccai soprattutto, guidati da un tal Pecora, pessimo e audace, che pubblicamente minacciava i Signori, trascorrevano ogni giorno di piú. E però, sapendo l'amore che Giano aveva alla giustizia, i Grandi, nelle riunioni che avevano spesso con lui e coi popolani, gli dissero: «Non vedi tu la violenza dei beccai; non vedi l'insolenza dei giudici, che, minacciando di punire i Rettori, al tempo del sindacato, ottengono ingiusti favori? Si lasciano sospesi i piati tre o quattro anni, e non si pronunziano mai le sentenze.[119] » Giano, nella sua lealtà, subito rispondeva: «Perisca piuttosto la Città, che ciò si sostenga. Facciansi leggi che siano freno a tanta malizia». E i Grandi correvano allora malignamente a dire ai giudici ed ai beccai, che esso voleva rovinarli con nuove leggi.[120] Continuando poi l'astuta trama, consigliavano una legge contro gli sbanditi, colla speranza di poterla presto applicare a lui stesso. Pare che egli fosse per cader nella rete, ma ne fu avvertito in tempo. E allora, senza piú volere ascoltare né amici né nemici, non consentí che nessuna legge si proponesse, minacciando di farli uccidere tutti. Cosí si sciolse l'adunanza, senza concludere altro che irritar sempre piú gli animi.[121]

Ma i Grandi non perciò s'arrestavano. Vedendo che Giano aveva sempre molti amici, e non era sperabile di vincerlo con quelle astuzie, si radunarono soli in S. Iacopo Oltrarno, per discutere sul da fare, e tornarono allora in campo i consigli violenti. Betto Frescobaldi, suo nemico personale, colui che gli aveva già posto le mani sul viso in S. Piero Scheraggio, disse: «Usciamo di questa servitú; prendiamo l'arme e corriamo sulla Piazza; uccidiamo amici e nemici di popolo, quanti noi ne troviamo, sicché giammai noi né i nostri figliuoli non siamo da loro soggiogati». Ma di nuovo si opposero i fautori dell'astuzia, e Baldo della Tosa, con molta calma, disse: «Il consiglio del savio cavaliere è buono, se non fosse di troppo rischio, perché se il nostro pensiero venisse manco, noi saremmo tutti morti. Vinciamgli prima con ingegno, e scomuniamgli con parole pietose.... E cosí scomunati, cacciamgli per modo che piú non si rilevino».[122]

Se non che a un tratto, l'occasione opportuna alla violenza si presentò da se stessa. Corso Donati, uno dei piú potenti e prepotenti nella Città, spinse alcuni suoi uomini a ferire messer Simone Galastroni, e ne seguí una zuffa, nella quale vi furono un morto e due feriti. Le parti presentarono querela; ma quando si fu dinanzi ai giudici che stendevano il processo, uno di essi, dominato dal solito spirito di parte, fece sí che il notaio scrivesse a rovescio le deposizioni dei testimoni. E venuta la cosa in questi termini dinanzi al Podestà Gian di Lucino, egli assolvette il Donati e condannò il Galastroni. Il popolo allora, che s'era trovato presente alla zuffa e sapeva come era andata la cosa, levatosi a tumulto, gridava per le strade: Muoia il Podestà; al fuoco, al fuoco! E corse subito al Palazzo con la stipa in mano, per bruciarne la porta, sperando d'avere a guida e sostegno Giano della Bella, il quale invece prese le parti dei magistrati, che voleva sempre rispettati. La porta del Palazzo del Podestà fu nonostante arsa, i suoi cavalli e gli arnesi rubati, i suoi uomini presi, gli atti stracciati; e molti che sapevano trovarsi presso di lui carte e processi a loro carico, riuscirono a distruggerli. Egli, che aveva seco la moglie, fuggí con essa nelle case vicine, dove furono ricoverati. Corso Donati, che era allora nel Palazzo, si salvò fuggendo su per i tetti.

Il giorno seguente furono radunati i Consigli, e per onore della Repubblica si deliberò di restituire al Podestà ogni cosa indebitamente a lui tolta, pagandolo e lasciandolo partire. Cosí fu subito rimesso l'ordine; ma gli animi erano sempre assai eccitati, ed i Grandi s'avvidero che il momento della vendetta contro Giano era finalmente arrivato. Infatti alcuni del popolo gli erano avversi, per le mille calunnie sparse ad arte contro di lui, fra cui quella d'aver egli promosso leggi a danno dei giudici e dei beccai; altri erano sdegnati, per aver egli preso le parti del Podestà; ed altri finalmente lo accusavano d'essere stato cagione del tumulto. In tanta incertezza e confusione di animi, i suoi nemici riuscirono a far eleggere prima del tempo una Signoria a lui avversa, che subito lo fece richiedere come autore dei disordini. Tutta la Città si trovò allora sollevata. Alcuni lo volevano condannare; ma il popolo minuto correva invece a difenderlo. Allora egli giudicò bene allontanarsi, ed il 5 marzo 1295 se ne usci di Firenze, per evitare una guerra civile, sperando che la sua partenza aprirebbe gli occhi ai piú savi, e che questi lo avrebbero perciò richiamato. I suoi calcoli però andarono falliti, avendo egli molti piú nemici che non credeva. E cosí fu condannato in contumacia, in nome di quegli stessi Ordini della giustizia, che aveva promossi, e dei quali era tenuto autore. Il Papa allora mandò subito a rallegrarsi coi Fiorentini, e Giano capi che la sua stella era ormai tramontata. Senza perciò esitare, come portava la sua indole sdegnosa e pronta, andossene in Francia, dove aveva alcuni interessi nella casa dei Pazzi, e quivi morí esule. Le sue case vennero disfatte, i suoi amici e parenti furono condannati, ma gli Ordinamenti della Giustizia restarono fermi per lungo tempo ancora.[123] Il Villani, a questo proposito, nota come chiunque in Firenze «s'è fatto caporale di popolo o d'università, è stato sempre abbandonato». E aggiunge che «di questa novitade ebbe grande turbazione e mutazione il popolo e la cittade di Firenze, e d'allora innanzi gli artefici e' popolani minuti poco potere ebbono in Comune; ma rimase al governo dei popolani grassi e possenti».[124]

XII

Queste ultime parole d'un cronista e di un osservatore assai accorto ci aprono la via a comprendere anche meglio il carattere generale della rivoluzione cui abbiamo assistito, la quale fu conseguenza necessaria delle molte altre che l'avevano preceduta, e che perciò dallo studio di essa ricevono nuova luce. Quando i Fiorentini riuscirono a disfare nel contado i castelli dei nobili feudali e ghibellini, obbligandoli a venire in Città, la Repubblica si trovò, come abbiam visto, divisa in due partiti, che fieramente si lacerarono fra loro: nobili ghibellini da un lato, popolani guelfi dall'altro. Quando gli Svevi da Napoli e Palermo sollevarono in tutta Italia il partito ghibellino, quei nobili primeggiarono in Toscana, e coll'aiuto di Federico e di Manfredi dominarono ancora in Firenze, opprimendo e cacciando i Guelfi. Ma quando caddero gli Svevi e vennero gli Angioini, allora l'Impero ne fu indebolito, e la politica italiana mutò di nuovo: i Guelfi si rialzarono in Firenze, e la democrazia, che da un pezzo costituiva la vera forza della Repubblica, fece le sue vendette contro i Ghibellini, che parvero quasi scomparsi. Se non che, in quel momento appunto i Guelfi si trovarono divisi in Grandi da una parte, popolani dall'altra, e ne seguí una nuova e non meno aspra lotta, nella quale si trattava di fare scomparire del tutto i magnati. Questi perciò si videro costretti a chieder d'essere ascritti alle Arti, ad affettare modi popolari, a mutare perfino i loro antichi nomi di famiglia, se non volevano restare esclusi dal governo. Gli Ordinamenti di Giustizia furono lo statuto che, dopo una lunga serie di leggi e di rivoluzioni, assicurò per sempre il trionfo della democrazia, verso cui da lungo tempo, anzi fin dalla sua origine, mirava la repubblica fiorentina.

Se non che in essa v'era il popolo, ma v'era anche la plebe, e s'eran trovati fra di loro uniti finché si trattò di combattere insieme i Grandi; ma si divisero appena che ebbero ottenuto il comune trionfo. Cosí a poco a poco s'andò formando il partito dei popolani grassi o delle Arti maggiori. Queste dapprima eran dodici, e pareva che andassero d'accordo con le nove minori, le quali piú tardi divennero quattordici e si andarono separando sempre piú dalle altre sette, che furon veramente le maggiori, con le quali si posero in lotta; e fu costituito cosí il popolo grasso. La formazione ed il trionfo di un tal partito, che per lungo tempo governò la Repubblica, cominciò appunto, come osserva il Villani, subito dopo la caduta di Giano della Bella, vinto dalla unione temporanea dei Grandi con i popolani piú potenti. Questi si separarono allora cosí dai Grandi come dai popolani minori, vincendo gli uni e gli altri, formando una delle democrazie piú attive, accorte ed intelligenti che si conoscano nella storia. Essa fu costituita dalla parte piú vigorosa e ricca del popolo, che perciò si chiamò grasso, ed a poco a poco divenne padrona della Città; e tutto ciò fu una conseguenza inevitabile delle passate rivoluzioni, ma venne ora affrettato dagli Ordinamenti. Essi erano stati promossi da Giano coll'aiuto del popolo contro i Grandi. Di questi egli fu vittima, quando riuscirono ad ingannare i popolani, ai quali per un momento sembrarono unirsi. E certo fu contro ogni sua voglia, se si trovò cosí a favorire la formazione d'un partito che, sorgendo sulle rovine dei Grandi e della plebe, finí coll'escluderli ambedue del tutto dal governo della Città.

Questo partito, in ogni modo, fece per lungo tempo salire a grandissima altezza la potenza della Repubblica, e ne diresse per piú d'un secolo la politica. Il momento in cui riuscí a formarsi, è quello stesso in cui Firenze divenne il centro della cultura italiana, e quindi anche della cultura in Europa. Né è da meravigliarsi punto d'un cosí grande trionfo intellettuale, politico e morale della democrazia commerciale in Firenze. L'aristocrazia, al tempo degli Svevi, era stata di certo la parte piú culta e civile della nazione italiana; le grandi questioni politiche, le grandi lotte fra il Papato e l'Impero, nelle quali tutta l'Europa prese vivissima parte, furono da essa sostenute. La reggia di Federico II era stata il centro principale di tali lotte, il punto allora piú luminoso di luce intellettuale nel mondo. La lingua fu cortigiana; la Corte, scettica, ed i primi poeti furono principi o baroni. Lo stesso imperatore Federico, il suo figlio Enzo, il suo segretario Pier della Vigna fecero udire i primi accenti della musa italiana. Era un ordine privilegiato e ristretto, in cui la letteratura e la scienza serbarono sempre il carattere della cavalleria e della scolastica. Al pari dei Provenzali e dei Francesi, che imitarono, essi cantavano in versi sempre artificiosi una donna immaginaria, un amore fantastico e non sentito. Non si riuscí mai ad abbandonare le forme medievali e convenzionali. In quello stesso tempo, invece, i mercanti, i popolani delle nostre repubbliche, massime di Firenze, correvano il mondo, fondando banche, case di commercio in Oriente ed in Occidente; studiando il diritto; dimostrando sempre e per tutto una singolare attitudine a far leggi, a creare istituzioni nuove, a regolare grandi interessi. E cosí acquistarono quella conoscenza pratica degli uomini e del mondo, quel senso del vero e del reale, che era appunto ciò che sostanzialmente mancava alle letterature preesistenti, ciò che era necessario per dar finalmente origine alla prima fra le letterature moderne.

Questi mercanti, educati solo al commercio ed alla piccola politica municipale, non potevano di certo avere le idee, né lo spirito abbastanza elevato e largo, l'intelletto abbastanza culto ed ingentilito, per risolvere essi soli il difficile problema. Ed allora appunto, nella piú operosa ed intelligente delle nostre repubbliche, seguiva quella serie di grandi e radicali mutamenti, che abbiamo esposti, i quali, attraverso lotte sanguinose, dopo una nuova ricomposizione degli ordini sociali, la posero a un tratto in una condizione fortunata davvero. In conseguenza delle guerre già fatte, Firenze aveva adesso aperto tutte quante le vie al suo commercio, che prese perciò un rapido, maraviglioso incremento; e poté cosí acquistare una grande, né piú contestata preponderanza in tutta Toscana, di cui era stato il centro e divenne il capo. L'antagonismo sorto tra il Papa e gli Angioini, le mutate condizioni dell'Impero le permisero di destreggiarsi abilmente fra di essi, assumendo per la prima volta una vera, una grande importanza politica e storica in Italia. Cosí si estesero in un medesimo tempo il giro dei suoi affari, e la cerchia delle sue idee. I due ordini di cittadini piú intelligenti e piú avversi, i mercanti cioè divenuti potenti, e i nobili costretti ad accomunarsi con essi, furono nella loro aspra lotta trasformati, fusi finalmente in un ordine solo, lasciando da una parte la plebe piú rozza, e dall'altra quei Grandi, che aspiravano a signoria assoluta, o restavano sempre troppo tenaci fautori delle consuetudini feudali, e dell'autorità imperiale, ciechi avversari delle istituzioni comunali, che pure erano destinate inevitabilmente a trionfare. C'è egli da maravigliarsi, se si vide allora appunto sorgere il fiore piú bello delle lettere e delle arti, e sotto il benefico soffio della nuova libertà, della cresciuta uguaglianza, aprire le sue foglie, diffondere i suoi effluvî nel mondo? Basta leggere le storie, basta svolgere le leggi della Repubblica, per vedere come un nuovo spirito animi il popolo, e quasi un nuovo sole sorga sull'orizzonte, in questi ultimi anni del secolo XIV.

Ogni paragrafo dei cronisti ci annunzia nuove opere pubbliche di grande importanza: piazze, canali, ponti, mura della Città. E insieme con essi si vedono sorgere i piú immortali monumenti dell'arte moderna. In questi anni Arnolfo di Cambio lavorò al Battistero, cominciò la Chiesa di Santa Croce, e, secondo che scrivono, ebbe dalla Signoria, con solenni parole, l'ordine di rinnovare affatto il vecchio duomo, costruendone uno nuovo, «innalzandolo con la maggiore magnificenza possibile alla mente dell'uomo, facendolo degno d'un cuore divenuto grandissimo, per la unione di piú animi in uno solo».[125] Certo è che allora egli pose la prima pietra di questa, che non pochi giudicano la piú bella chiesa del mondo. E nello stesso tempo si conduceva innanzi un altro grandissimo numero di monumenti e di opere pubbliche: S. Spirito, Orsammichele, S. M. Novella. Nel 1299 lo stesso Arnolfo pose mano anche al Palazzo dei Signori, un altro dei piú grandi monumenti dell'arte moderna, nel quale sembrano impressi tutto il carattere repubblicano, tutto il giovanile vigore, che animava il popolo fiorentino in quei giorni. Nel medesimo anno si ripigliò la costruzione delle nuove mura, abbandonata nell'85. E mentre che per tutto sorgevano chiese, palazzi pubblici e privati, la mano di Giotto veniva con profusa ricchezza a stendere sulle loro mura le sue immortali e solenni composizioni; la scultura, emulando la pittura, ornava i templi colle sue creazioni immortali, ed iniziava quella scuola toscana, che doveva poi arrivare a Donatello, al Ghiberti, ai Della Robbia, a Michelangiolo. E quali sono i nomi che piú di frequente troviamo nella storia di questi anni, in mezzo alle lotte che promossero o che seguirono gli Ordinamenti di Giustizia? Ad ogni piè sospinto, fra i Priori, fra i Gonfalonieri e gli ambasciatori, in mezzo alle tumultuose discussioni dei Consigli, incontriamo Dante Alighieri, Brunetto Latini, Giovanni Villani, Dino Compagni, Guido Cavalcanti, i creatori della poesia e della prosa italiana. La Divina Commedia è piena d'allusioni continue a questi eventi, tra i quali è nata, e nei quali si direbbe che vive un solo e medesimo spirito, perché, sotto mille forme diverse, apparisce sempre uguale a se stesso. Gli Ordinamenti di Giustizia adunque non sono l'opera d'un uomo solo, quasi capriccio improvviso di Giano della Bella; ma sono il risultato di molte rivoluzioni, uno Statuto che ci dimostra e ci spiega quale era la forma definitiva che prese, quale il carattere che ebbe la repubblica fiorentina, carattere che, in una forma assai meno splendida, ove piú ove meno, ebbero anche gli altri Comuni italiani, dei quali essa restò sempre il tipo piú originale o luminoso.

NOTA

Dobbiamo qui accennare ad una questione recentemente sollevata a proposito degli Ordinamenti di Giustizia. Il Salvioli ed il prof. Pertile, ricordando alcuni Statuti bolognesi del 1271 contro i Grandi, facevano supporre che da essi fossero stati imitati gli Ordinamenti fiorentini del 1293. Questi Statuti del 1271, non essendo però stati mai ritrovati, l'ipotesi fece poco cammino. Il prof. Gaudenzi, pubblicando nel 1888 (Bologna, Tipografia fratelli Merlani) gli Ordinamenta sacrata et sacratissima di Bologna del 1282 e 84, notò la grande somiglianza che essi avevano cogli Ordinamenti di Giustizia del 1293, e credette non potervi essere piú dubbio, che questi fossero imitati da quelli. Anzi andò piú oltre, affermando addirittura «che in genere i rivolgimenti e gli ordini di Firenze non furono che l'imitazione di quelli di Bologna». (Prefazione, pag. v).

Che questa ultima affermazione vada assai oltre i limiti del giusto, fu già notato dal Dott. Hartwig nel suo ultimo e pregevole lavoro sulla storia fiorentina ( Ein menschenalter florentinische Geschichte — 1250-1293 — (Freiburg, 1889-91), estratto dai volumi 1, 2 e 5 della Deutsche Zeitschrift für Geschichtwissenschaft ). Ed invero le leggi e le istituzioni di Firenze scaturiscono assai direttamente dalla storia della società e delle rivoluzioni fiorentine, che sono molto diverse da quelle di Bologna.

Quanto all'altra questione, se cioè gli Ordinamenti fiorentini del 1293, derivino veramente da quelli bolognesi del 1282, io ne dubito assai, e credo in ogni modo che a risolverla definitivamente siano necessarie ancora nuove ricerche speciali negli Archivi di Firenze, le quali diano compimento a quelle già fatte dal prof. Gaudenzi in Bologna. Mi limito intanto ad osservare: 1º Che la lotta del popolo contro i Magnati, e le leggi severe, spesso crudeli, contro di essi, non sono un fatto proprio esclusivamente di Firenze, ma un fatto invece assai generale nella storia dei nostri comuni. Ciò non esclude le molte diversità di queste lotte e di queste leggi nei vari Comuni, non ostante le non poche somiglianze. E quindi per dimostrare se e fino a qual punto gli Ordinamenti di Bologna siano stati il modello di quelli di Firenze, non basta paragonare gli uni cogli altri, e notare le rispettive loro date. Risulta certamente provato da quanto noi abbiam detto qui sopra, e fu poi nuovamente confermato da tutte le ricerche posteriori dell'Hartwig, del Del Lungo, del Perrens, che gli Ordinamenti fiorentini sono la sintesi di altre leggi molto piú antiche contro i Grandi, leggi che qualche volta letteralmente riproducono. Essi stessi ne citano una del 1286, piú volte ricordata dagli storici, e noi vedemmo che le Consulte del 1282 ricordano già un'altra legge piú antica contro i Grandi. Queste leggi anteriori sono le fonti vere degli Ordinamenti fiorentini, i quali però non solo abbattono i Grandi, come fanno anche gli Ordinamenti di Bologna; ma danno il governo in mano alle Arti maggiori, il che a Firenze era già cominciato nel 1250. In questo doppio fatto si ritrova il loro vero e proprio carattere. Bisogna continuare a ricercar queste leggi negli Archivi fiorentini e paragonarle con quelle di Bologna, prima di potere affermare con sicurezza che gli Ordinamenti di Giustizia, cosí connessi con tutta la storia fiorentina, siano copiati da quelli di Bologna. Il prof. Gaudenzi è stato con la sua pubblicazione assai benemerito degli studi storici. Ma ripeto che, a mio avviso, per risolvere davvero la questione, occorrono nuove indagini in Firenze. A questo lavoro attende ora il sig. Salvemini, ed io gli auguro che possa arrivare a qualche nuovo ed utile resultato. Il problema è tale che merita una soluzione definitiva.

DOCUMENTO[126]

(V. pag. 83 )

In nomine domini amen. Liber defensionum et excusationum Magnatum Civitatis et comitatus Florentie, qui se excusare volunt a satisdationibus Magnatum non prestandis, receptarum per me Bax. de Amgnetello notarium nobilis Militis domini Amtonii de Fuxiraga de Laude, potestatis Florentie.

In anno currente Millesimo ducentesimo ottuagesimo septimo.

Ad defensionem

Absoluti Dardoccii quondam domini Uguicionis de Sachettis

Manni fratris sui producta fuit

intentio singnata per Credo (sic), et ad ipsam probandam producti fuerunt infradicti testes.

Baldus Brode populi sancti Stephani de Abatia, iuratus die suprascripta de veritate dicenda. et lecta sibi intentione per me Bax., dixit quod bene vidit dictum Dardocium et Mannum eius fratrem facere artem cambii in Civitate Florentie, iam sunt XX anni, et ab eo tempore citra, et credit eos fecisse. Set propter guerram et brigam quam nunc habent, predicti fratres Dardocci non tenent tabulam in mercato, set stat in domo sua, et ibi facet ( sic ) artem canbii. Interrogatus si ipsi palam tenent banchum et tapetum ante dischum domus sue sicut faciunt alii campsores, respondit non, quia est consuetudo prestatorum et non campsorum tenere tapetum. Interrogatus, dixit quod predictus senper cotidie exercuit.

Lapus Benvenuti qui vocatur Borrectus populi sancti Petri Maioris iuratus die suprascripta (?) ut supra, lecta sibi intentione per Be., dixit quod ipse testis est consocius predictorom. Dardoccii et fratris in arte canbii; et vidit dictum Dardoccium et fratrem dictam artem in civitate Florentie continue [exercere], et predictum Mannum vidit in Borgongna facere dictam artem per decem annos et plus, quibus stetit in Borgongna; set dixit quod predictus Dardocius[127] propter guerram quam ad presens habet, non audet uti ipsa arte in mercato sive in pubblico, set ea continue utitur in domo sua, et vidit ipso testis; et vox et fama est in populo dictorum fratrum et in civitate Florentie, quod ipsi fratres fuerunt et sunt campsores.

L. S. Ego Ruffus Guidi notarius predicta ex

actibus Communis Florentie exemplando

transcripsi, pubblicavi rogatus.

Capitolo IX[128] LA REPUBBLICA FIORENTINA AI TEMPI DI DANTE

I

La Repubblica Fiorentina, dopo gli Ordinamenti di giustizia (1293) e la cacciata di Giano della Bella, entra in un periodo di straordinaria, quasi vertiginosa confusione. I fatti sono assai noti, perché questo è il momento in cui comincia quella splendida serie di cronisti e di storici fiorentini, i quali raccontano, coi piú minuti particolari, tutto ciò che hanno essi stessi veduto. E i moderni vi sono tornati sopra, rovistando gli archivi, massime il professor Del Lungo, il quale recentemente ha dato prova d'una diligenza e di una dottrina che non si potrebbero lodare abbastanza. Pure io credo che non sia inutile provarsi a raccogliere questi fatti, ricercandone l'unità organica, per vedere donde essi muovano, dove vadano, e cosí spiegare, se è possibile, la causa di tanta confusione ed il significato vero delle nuove rivoluzioni. Aggiungerò anzi che questa ricerca può avere una grande importanza storica, perché noi siamo al tempo in cui non solo incominciano un'arte, una letteratura ed una civiltà nuova; ma la vecchia società medioevale si decompone e sparisce, la società del Rinascimento incomincia a formarsi. Ed in mezzo a questi avvenimenti sorge gigantesca la figura di Dante, che ridesta subito una straordinaria attenzione, dà un grande valore a tutto ciò che lo circonda.

La storia di Firenze fino al 1293, noi lo abbiamo visto e ripetuto piú volte, è assai chiara: una serie di guerre e di rivoluzioni, con le quali il popolo guelfo della Città, prima assale i baroni feudali e ghibellini, che incastellavano tutte le colline d'intorno, impedivano il suo commercio, e, dopo averli vinti, demolisce i loro castelli, obbligandoli ad abitare dentro la cerchia delle mura, sotto le leggi del Comune. Ma allora il popolo è costretto a combattere ed abbattere gli avanzi del feudalismo, che tentava di ricostituirsi dentro la Città. Esso era stato già distrutto prima del 1293, lasciando dietro di sé i Grandi, cioè nobili che erano rimasti senza titoli e senza i loro antichi privilegi feudali. Gli Ordinamenti di giustizia che disciolsero le loro consorterie e li esclusero addirittura dal governo, avevano rafforzato invece le Arti ed il popolo, che fu allora padrone di Firenze, e colla nuova legge ebbe in mano un'arme efficacissima per continuare a perseguitare e battere i Grandi dinanzi ai magistrati. I nomi di Guelfi e di Ghibellini duravano ancora, ma avevano perduto il loro antico significato. La vecchia aristocrazia che aveva formato il nucleo vero del partito ghibellino, essendo ora scomparsa, la Città era divenuta tutta guelfa. Anche le condizioni generali d'Italia favorivano un tale stato di cose. Infatti, con la caduta degli Svevi, col trionfo degli Angioini, chiamati in Italia dai Papi, il partito guelfo aveva vinto in tutta la Penisola. La morte di Corradino (1268) era stata il funerale dei Ghibellini. La Francia trionfava sempre piú, e durante l'interregno imperiale, Filippo il Bello assumeva quasi le parti d'imperatore. Nello stesso tempo Bonifazio VIII dichiarava altamente, che il Papa era superiore a tutti i principi e re della terra, i quali dovevano, esso diceva, prestargli obbedienza.

Ma non perciò le divisioni cessavano in Firenze. E prima di tutto v'erano nel popolo stesso germi di future discordie, perché esso trovavasi diviso in popolo grasso o delle Arti maggiori, e popolo minuto o delle Arti minori, alle quali teneva dietro la plebe. Le maggiori, che facevano la grande industria, il grande commercio d'esportazione e d'importazione, erano sempre pronte ad intraprendere nuove guerre, le quali, opprimendo di tasse la Città, rendevano, se non impossibile, assai difficile quel lusso interno, di cui vivevano invece le Arti minori, che esercitavano in essa le piccole industrie. Ci voleva poco a mutare questo conflitto d'interessi economici in un conflitto politico, specialmente se si riflette, che le Arti maggiori s'erano impadronite del governo, e le minori ne erano escluse. Tuttavia, per ora almeno, il popolo minuto, sebbene numeroso e tumultuoso, non aveva coesione, né esperienza, né capi. Ma se mancava d'ogni vera forza politica, e non poteva ancora formare un partito, era tuttavia materia attissima a dar forza ai partiti che si fossero formati, che avessero saputo profittare del suo aiuto, cercando cosí di salire al governo.

I Grandi dall'altra parte, quantunque perseguitati, oppressi, battuti, non erano certo scomparsi, né erano senza autorità o senza accortezza. Un esempio se n'era avuto nella cacciata di Giano della Bella, che essi seppero riuscire un momento a far credere nemico del popolo, che di fatti lo abbandonò, ed a sollevargli contro la plebe. Se i Grandi non avevano piú la forza legale, avevano ancora la forza reale. Essi che si vantavano sempre d'aver vinto a Campaldino, erano veramente quelli che avevano in passato capitanato tutte le piú grosse guerre della Repubblica, ed anche ora si trovano piú assai dei popolani educati alle armi. Ricchi, nella città e nella campagna, di case, castelli e poderi, non erano distratti dal commercio; potevano piú facilmente darsi agli esercizi militari; e la materiale indipendenza di cui godevano, faceva loro piú vivamente sentire l'aculeo delle passioni politiche. A combattere il popolo grasso, era naturale che cercassero e trovassero favore nel popolo minuto. E cosí, riuniti insieme con questo formarono una gran massa di gente irrequieta e pericolosa; ma poco organica e tenuta fuori del governo, perché gli uni n'erano stati cacciati nel '93, gli altri non v'erano mai stati ammessi.

II

E qui si cominciò a vedere di che cosa fosse capace la sottile astuzia dei Fiorentini. Quell'arte d'essere padroni dello Stato senza parere, che piú tardi dètte, con sí grande fortuna la Repubblica in mano di Cosimo e Lorenzo dei Medici, i quali di fatto furon principi, sebbene restassero sempre legalmente privati cittadini; quell'arte fu trovata ora dai Grandi. Essa consisteva nel lasciare intatte le istituzioni repubblicane, non curandosi neppure di farne parte, cercando però che v'entrassero solo i propri amici. Mezzo principale a ciò erano gli uffici della Parte Guelfa, nei quali, come è noto, i Grandi erano ammessi, e cosí potevano, col dichiarar ghibellino un cittadino, farne confiscare i beni, ed escluderlo dal governo ogni volta che volevano. Se dunque non entravano nella Signoria, avevano pure un modo, piú o meno legale, per impedire che v'entrassero gli avversari piú odiati. Giano della Bella s'era bene avvisto del pericolo, e aveva cercato di porvi riparo; ma non arrivò in tempo, perché i Grandi riuscirono prima a farlo cacciare.

Un altro mezzo efficace per riafferrare il potere perduto, i Grandi lo trovavano nel cercare di riuscire ad esser padroni della scelta dei giudici, per poi agire sopra di essi personalmente. Molti di questi giudici, come il Podestà ed il Capitano del popolo, che dovevano essere anche cavalieri, cioè nobili, erano forestieri insieme coi loro notai, cancellieri e giudici subalterni. Essi decidevano non solo le cause civili e criminali, ma le politiche ancora. Al Podestà ed al Capitano, insieme col Gonfaloniere, spettava infatti l'applicazione degli Ordinamenti; ed inoltre il diritto pubblico si trovava allora talmente mescolato col privato, che non era possibile separar l'uno dall'altro. In origine anzi il Podestà, come abbiam visto, era stato poco meno che il capo del Comune. Comandava l'esercito, firmava i trattati di pace; e come gli storici antichi ricordavano gli avvenimenti di Roma sotto il nome dei Consoli, cosí i cronisti fiorentini registrarono quelli di Firenze prima sotto il nome de' suoi Consoli, poi sotto quelli dei Podestà. In sul finire del secolo XIII le cose erano però mutate. Colla distruzione del feudalismo, col progresso della civile eguaglianza e della cognizione del diritto romano, scemò la importanza politica di quei magistrati. Podestà e Capitano del popolo andarono sempre piú divenendo semplici giudici superiori. E però, tanto essi quanto i loro dipendenti, ebbero sempre minore autorità, minor forza; furono peggio pagati e meno rispettati, il che li rendeva piú facili alla corruzione ed a cadere sotto il dominio dei Grandi. Molti di essi venivano dalla Romagna, dalle Marche, moltissimi da Gubbio. Vissuti sotto le tirannidi, educati col diritto romano nello Studio di Bologna, ignoravano affatto, e spesso non riuscivano mai a capire il significato vero della lotta dei partiti in Firenze, e quindi neppure quello di leggi come gli Ordinamenti di giustizia, che erano sopra tutto leggi politiche. Ciò contribuiva non poco a renderli piú facilmente ciechi istrumenti di coloro che volevano impadronirsene. Tutta la letteratura di questo periodo infatti è piena di sanguinose imprecazioni contro «i tristi, i maledetti, i perversi giudici, rovina delle città».[129]

Cosí, col favore del popolo minuto e della plebe, con le ingiuste sentenze dei Capitani di Parte guelfa, con la corruzione dei giudici forestieri, i Grandi cercavano riguadagnare il terreno perduto, e impadronirsi nuovamente del governo. Né era del tutto impossibile riuscirvi, tanto piú che (come vedremo fra poco) essi avevano appunto allora potenti aiuti di fuori. Ma occorreva che fossero uniti, quello appunto che non era sperabile, perché essi erano composti d'elementi non solo diversi, ma anche eterogenei. Si poteva quindi fin d'ora prevedere che, prima o poi, la discordia sarebbe inevitabilmente e sanguinosamente scoppiata anche nel loro seno.

Dino Compagni osserva nella sua Cronica, che «i potenti cittadini non tutti erano nobili di sangue, ma per altri accidenti erano detti Grandi».[130] Essi infatti si componevano di antiche famiglie nobili, spogliate dei loro titoli e privilegi feudali; di antichi popolani, per moltiplicate ricchezze, saliti in alto; di coloro che il popolo dichiarava Grandi, a solo fine di punirli, escludendoli dal governo. E gli antichi nobili, come è naturale, guardavano con diffidenza e disprezzo questi nuovi venuti, che assai spesso (se non essi, i loro parenti) continuavano nei traffici e nelle industrie, il che li teneva in continue relazioni col popolo grasso, avverso al minuto, che perciò s'avvicinava invece alla parte piú potente e aristocratica dei Grandi. Né questo è tutto. V'erano fra di essi anche i nobili di contado, come gli Ubertini, i Pazzi del Valdarno, specialmente poi gli Ubaldini, che possedevano quasi tutto il Mugello, e l'occupavano coi loro forti castelli. Fortissimo era tra gli altri quello di Montaccenico, circondato da tre cerchi di mura, e fondato già da quel cardinale Ottavio degli Ubaldini, che Dante pone nell'inferno, e che disse un giorno: «Se anima è, per li Ghibellini io l'ho perduta». Tutti questi nobili di contado serbavano assai piú vivo l'antico carattere feudale, ed erano avversissimi al popolo, quindi alla Repubblica, che di continuo li combatteva. Se venivano in Città, dovevano certo al pari degli altri sottostare alle leggi comuni; ma i loro parenti ed essi stessi, quando tornavano nei propri castelli, restavano sempre baroni feudali.

Nel 1296 i Fiorentini, per indebolire i Pazzi e gli Ubertini, fondarono nel Valdarno di sopra, tra Figline e Montevarchi, le due terre di S. Giovanni e Castelfranco, nelle quali esentarono per dieci anni dalle tasse, e liberarono dal vassallaggio tutti i fedeli dei nobili, che vi andavano ad abitare.[131] Contro gli Ubaldini però simili provvedimenti sarebbero stati inefficaci, e fu quindi necessaria una guerra prolungata e sanguinosa. Questi baroni del contado avrebbero dovuto logicamente essere imperiali e ghibellini; ma l'Impero era omai debole e lontano, il Papa e la Francia vicini e forti. Laonde essi s'avvicinarono invece ai Grandi guelfi di Firenze, piú specialmente a quelli di antiche famiglie, venendo cosí a formare un nuovo elemento in quello strano agglomerato di forze diverse. Se a ciò s'aggiungano le gelosie private e gli odi sempre piú pronti ad infiammarsi e a divenire irrefrenabili là dove mancano l'unità organica e l'interesse comune di un partito bene ordinato, si capirà facilmente quanta dovesse essere la confusione, quale il disordine.

III

Per validi che fossero gli aiuti che i Grandi, in uno o in un altro modo, ricevevan di fuori; per minacciosi che allora divenissero, rimaneva però sempre vero un fatto, che non bisogna mai perder di vista, perché è quello che meglio può spiegarci la storia fiorentina di quel tempo. Che essi cioè erano un partito destinato a scindersi, a decomporsi ed a sparire, che aveva di fronte a sé, nelle Arti maggiori, un partito giovane, vigoroso, unito da comuni interessi, nel quale risiedevano invece la forza vera e l'avvenire del Comune. La storia di questi tempi non è infatti altro, che la storia del modo in cui le Arti Maggiori riescono, fra mille ostacoli, a divenire la Repubblica stessa, eliminandone gli altri elementi ostili o estranei. Già da un pezzo queste Arti, massime le prime cinque,[132] da cui le altre piú o meno dipendevano, erano in uno straordinario incremento. E quando gli Ordini della giustizia vennero a rafforzarle, esse nei loro Statuti, che in quegli anni rinnovarono, espressero molto chiaramente lo scopo commerciale e politico che avevano nell'aumentare la propria fortuna, rendendo non solo piú ricca, ma ancora piú potente la Repubblica. Ben presto le cinque Arti principali si collegarono in una Universitas Mercatorum, che nel 1308 ebbe l'autorità di un vero tribunale di commercio, e nel 1312 compilò definitivamente i suoi statuti. Tutto ciò si deve anzi ritenere che fu una parte principale dell'opera promossa da Giano della Bella,[133] quella in cui, secondato dalle condizioni dei tempi, esso riuscí meglio, come ne fece prova la prosperità di Firenze, divenuta in quei giorni, non ostante le continue lotte dei partiti, prodigiosa davvero. Di tale prosperità e felicità il Villani parla ripetutamente, aggiungendo che le feste erano allora continue, che la Repubblica poteva mettere in armi 30,000 uomini nella Città, e 70,000 nel contado.[134] Ma quello che è ancora piú, i suoi banchieri tenevano in mano il commercio principale del mondo, che venne inondato dalle manifatture fiorentine. Essi facevano gli affari della Curia romana; essi facevano quasi tutto il commercio della Francia e dell'Italia meridionale; ad essi ricorrevano i sovrani d'Europa, che nelle loro zecche, nelle loro amministrazioni ed ambascerie adoperavano assai spesso qualche accorto e intraprendente Fiorentino. Cosí il danaro d'ogni parte affluiva nella Città; ed è questo il momento in cui si narra che Bonifazio VIII, ricevendo gli ambasciatori delle varie potenze, e vedendo con maraviglia che erano tutti Fiorentini, esclamò: «Voi siete dunque il quinto elemento!». La conseguenza naturale di tutto ciò fu che la piccola repubblica divenne una potenza di primo ordine, la quale esercitava dovunque, specialmente in Italia, un'azione preponderante. Tutte le vicine città volevano imitare le sue leggi, le sue istituzioni, in cui vedevano la causa di cosí mirabile prosperità; né solo le piccole, ma anche le grandi, Roma stessa sembra ora intenta a modellare i suoi magistrati, i suoi Consigli, il suo Comune su quello di Firenze.[135]

E questo appunto era ciò che piú irritava i Papi, sempre in lotta col municipio di Roma; sopra tutto poi irritava adesso Bonifazio VIII, che sembrava deliberato a schiacciarlo, ma trovava vivissima opposizione nella nobiltà e nel popolo, i quali non gli davano mai pace, lo facevano andare quasi ramingo di città in città. Di un'indole impetuosa, di un'ambizione sconfinata, egli aveva dell'autorità papale un cosí alto concetto, che voleva dominare il mondo. Non poteva quindi rassegnarsi alla resistenza dei Romani, e molto meno all'esempio ed all'incoraggiamento che essi ricevevano da Firenze. Concepí quindi il disegno di sottometterla, per farne come un feudo della Chiesa, con un capo di sua elezione. Una volta concepito questo disegno, ci si volse con tutto il suo solito ardore. Non mancava di certo qualche probabilità di riuscita; ma s'urtava contro un ostacolo insuperabile, del quale egli non si rendeva conto. La probabilità nasceva da ciò, che Firenze, divenuta ora come una repubblica di mercanti, si trovava poco atta alle armi. I suoi 100,000 soldati, che vantava il Villani, erano una specie di guardia nazionale d'artigiani e contadini, poco o punto educati alla vita militare, senza ufficiali, senza generali che sapessero comandarli. Mancava quella cavalleria d'uomini d'arme, della quale solo i nobili potevano avere il tempo d'educarsi a farne parte. Ma il Comune diffidava dei nobili di città, e quelli del contado gli erano addirittura nemici. Le compagnie di ventura, che piú tardi s'ebbero per danaro, non si erano ancora cominciate a formare. Pure un esercito occorreva, e sopra tutto capi i quali sapessero comandarlo, se la Repubblica voleva mantenere in Italia la propria autorità, tutelare il suo commercio contro la gelosia crescente dei vicini. Questa era la ragione per la quale in passato essa aveva, a un tratto, accettato Vicari nominati dai Papi, ed era giunta sino a dare, per dieci anni, il supremo dominio a Carlo d'Angiò, che le mandava in fatti capitani e soldati. Perché non poteva ora Bonifazio indurla ad un simile accordo, in modo anche piú efficace e permanente? Il bisogno d'un capo militare v'era oggi, come e piú che in passato; il consenso e favore dei Grandi si potevano ritenere sicurissimi. Ma l'ostacolo insuperabile, di cui il Papa non si rendeva conto, era che i Fiorentini avevano sempre voluto e volevano chi li difendesse, non chi li comandasse, né in questo sarebbe stato facile ingannarli o piegarli. Ciò a cui essi piú tenevano, a cui non avrebbero mai rinunziato, era il governo popolare delle Arti, quello appunto che il Papa avrebbe dovuto distruggere o sottomettere, se voleva riuscire nel suo intento. E questo non era facile di certo.

Il problema poteva essere risoluto solamente dalla forza, ed il Papa non era uomo da indietreggiare per ciò: una collisione diveniva quindi inevitabile. A rendere poi sempre piú intricato un tale stato di cose, s'aggiungeva che questa Repubblica, contro cui Bonifazio VIII assai irritato ora si volgeva, era guelfa e voleva restar tale, né solo per sentimento o antica tradizione, ma piú ancora per interesse. Essa infatti s'era costituita combattendo per secoli i nobili e potenti ghibellini, sulle cui rovine aveva finalmente fondato il governo delle Arti, ed a ciò aveva contribuito non poco il trionfo degli Angioini chiamati dai Papi. Il suo principale commercio, quello da cui venivano la sua forza e la sua potenza, era colla Francia, coll'Italia meridionale dove erano gli Angioini, e con Roma. Non poteva quindi, in nessun modo, pensare a farsi nemici il re di Francia, il Papa e gli Angioini, che erano allora uniti. Il partito ghibellino si trovava poi in Toscana rappresentato da tutte le città nemiche di Firenze. Siena, Arezzo, Pistoia v'inclinavano piú o meno apertamente. La repubblica di Pisa, che con tanto ardore aveva aiutato l'impresa di Corradino, teneva sempre alta e spiegata la bandiera di quel partito. Ed essa era l'eterna rivale di Firenze, alla quale voleva chiudere il mare, di cui questa aveva piú che mai urgente bisogno. La guerra fra loro era tale che doveva assolutamente finire con la distruzione dell'una o dell'altra repubblica. E cosí i Fiorentini si trovano costretti ad essere amici del Papa, ed a combatterlo nello stesso tempo. Che la loro storia riesca, in tali condizioni, complicata e difficile, può capirlo ognuno.

IV

Dopo la cacciata di Giano della Bella i Grandi parvero un momento tornati padroni della Città; ed il loro animo crebbe a dismisura, quando il 16 giugno del '96 riuscirono a fare eleggere una Signoria composta tutta di loro amici. Ai primi di luglio essi già s'erano messi fra loro d'accordo, e scesero addirittura armati in piazza. Ma il popolo fece lo stesso, ed in numero anche maggiore, sicché si era già sul punto di venire alla guerra civile, quando fortunatamente alcuni frati ed alcuni cittadini, messisi di mezzo, riuscirono a pacificare gli animi. Nondimeno la Signoria, che era amica dei Grandi, volle profittare della occasione, e fece vincere il 6 luglio '95 quella provvisione cui abbiamo piú sopra accennato, la quale fece parte degli Ordinamenti, che modificava, attenuandoli non poco.[136]

Alcune di queste attenuazioni erano di pura forma, altre erano però di sostanza. Autori principali dei delitti puniti dagli Ordinamenti, non furono piú come nel passato tutti coloro che v'avevano preso parte; ma si riconosceva un solo Capitaneus homicidii. A provare il delitto non bastavano piú due testimoni di pubblica fama, ma ne occorrevano invece tre. E finalmente, per entrare a far parte della Signoria, non era piú necessario che i candidati esercitassero effettivamente l'arte, continue artem exercentes; bastava che fossero semplicemente ascritti ad essa, qui scripti sint in libro seu matricola alicuius artis. Questa ultima concessione era in realtà minore che non pareva, perché anche prima l'esercizio effettivo dell'arte era stato assai spesso piú apparente che reale. Ma il principio per cui s'era combattuto veniva abbandonato, e se si pongono insieme le varie concessioni fatte nel '95, si vedrà chiaro che la nuova legge fu veramente una vittoria dei Grandi. Infatti grandissimo si dimostrò per essa lo scontento del popolo, ed il Villani ci dice, che i Signori i quali la proposero e la fecero vincere, vennero, nell'uscire d'ufficio, derisi, insultati, col tirar loro persino delle sassate nella pubblica via.[137] E ne seguí addirittura una reazione popolare, che fu il germe di nuove e gravi discordie cittadine. Si cominciò col levare ai Grandi alcune delle loro armi; e poi quelli fra di essi che erano tenuti meno faziosi, vennero dichiarati di popolo, per indebolire cosí il loro partito.[138] Inoltre si cominciarono ben presto a fare altre leggi, che rafforzarono da capo gli Ordinamenti, procedendo sempre piú oltre per questa via, fino alla creazione d'un nuovo magistrato, che, come vedremo, fu esclusivamente destinato ad assicurarne la rigorosa esecuzione. Ma tutto ciò non poté seguir senza nuove divisioni e senza spargimento di sangue cittadino.

Questo infatti è il momento in cui non solo s'inasprí la divisione fra Grandi e popolo, ma i primi si divisero in due partiti, quelli cioè che persistevano a voler distruggere gli Ordinamenti, e quelli che di ciò abbandonavano il pensiero. I due nuovi partiti presero nome da due famiglie che li capitanarono, i Donati cioè ed i Cerchi. Questi ultimi erano gente venuta su di piccolo stato, ma fra i piú ricchi mercanti del mondo. Vantavano numerosa parentela, molte amicizie, vasti possessi in campagna ed in città, e menavano gran vita. Avevano recentemente comprato i molti palazzi dei conti Guidi, stati già fra i piú antichi nobili di Firenze; nelle proprie case, in S. Procolo, alloggiavano la Signoria stessa, che ancora non aveva un suo palazzo, e cosí restava ad essi piú facilmente tenuta ed amica. Il Villani, che era del partito avverso, li chiama «morbidi, innocenti e salvatichi». Non erano infatti gente data alle armi, ma al commercio, né molto rotta ai maneggi politici. Il nome di salvatichi veniva loro dalla modesta origine, e lo stesso Dante chiama selvaggia la loro parte, che fu anche la sua. Questa origine ed il continuare essi nell'esercizio della mercatura, faceva loro incontrar simpatia e favore nel popolo, favore che crebbe sempre piú quando si dimostrarono avversi ai Donati.[139] Né meno delle ricchezze e della larga parentela giovavano ad essi i modi cortesi.

I Donati, invece, che il Villani chiama «gentili e guerrieri», erano di antica origine feudale. E Messer Corso loro capo era un uomo audace, manesco, accorto, non molto ricco, ma pure ambizioso e superbo in modo, che non sapeva tollerare uguali, massime poi fra i mercatanti arricchiti. Lo chiamavano il Barone, ed il Compagni, che parteggiava pei Cerchi, dice che, quando passava per le vie a cavallo, pareva «che la terra fosse sua». A lui facevano capo molti Grandi della città e nobili del contado, principali fra di essi i Pazzi del Valdarno di sopra. Né mancavano anche mercatanti, fra i quali sono da annoverare gli Spini, che avevano banco a Roma, dove facevano gli affari della Curia e del Papa, col quale avevano perciò grande entratura. Dal popolo grasso erano odiati, ma trovavano invece favore nel minuto, che acclamava per le vie il Barone. Al quale, se assai giovavano, nella lotta cui già s'apparecchiava, l'audacia e l'accortezza, noceva non poco la sua superbia, che allontanava molti da lui, respingendoli verso i Cerchi. Lo detestavano fra gli altri i Cavalcanti, e sopra tutti il giovane Guido, gentile poeta, ardito cavaliere, che gli era divenuto mortale nemico, a segno tale che non si potevano scontrare per via senza metter mano ai ferri. I Donati si facevano valere in città piú specialmente col favore dei Capitani di Parte; i Cerchi invece col favore della Signoria. Cosí il Palazzo della Parte e quello dei Priori erano come i quartieri generali dei due campi avversi. Le due famiglie si trovavano inoltre vicine nei loro possessi in campagna ed in città. Ambedue avevano case nel sesto di S. Piero, che per le continue zuffe fu chiamato allora il Sesto dello Scandalo. Tutto dava esca al fuoco. Le parole venivano da una parte all'altra riferite, esagerate. Quando Corso alludeva a Guido Cavalcanti, lo chiamava Guido Cavicchia; quando alludeva a Vieri de' Cerchi, che era il capo della famiglia e della parte, domandava: Ha oggi ragghiato l'asino di Porta? I Donati invece erano dai loro avversari chiamati Malefami, quasi di mala fama, autori di malefici.

Come e quando questi partiti assumessero il nome di Bianchi e di Neri, non è facile dirlo con precisione, perché i cronisti non sono in ciò molto chiari, né vanno tra loro sempre d'accordo. I due nomi erano antichi in Firenze, come distintivi di famiglia; v'erano infatti già prima i Cerchi bianchi ed i Cerchi neri, ma questi ultimi erano quelli che poi divennero i capi della parte bianca.[140] I medesimi nomi avevano allora diviso in due avverse fazioni la famiglia dei Cancellieri in Pistoia, dove fieramente si laceravano. I Fiorentini, che vi esercitavano molta autorità, s'intromisero fra quelle parti, per pacificarle; ed a tal fine mandarono da quella città alcuni dei Bianchi ed alcuni dei Neri a Firenze. I primi alloggiarono in casa Frescobaldi, i secondi in casa d'alcuni dei Cerchi, loro parenti. Ma avvenne il contrario di ciò che si sperava, giacché, osserva il Villani:[141] come una pecora malata corrompe l'altra, cosí i Pistoiesi comunicarono i loro odi partigiani ai Fiorentini, che sempre piú si divisero. Certo è che d'ora in poi i Donati sono Neri ed i Cerchi sono Bianchi.

Questa divisione, come chiaro apparisce da quanto abbiam detto, non ha piú nulla che fare con quella di Guelfi e di Ghibellini. Ai principi si vanno ora sostituendo sempre piú gli odî, le passioni personali. Se però, stando alla natura delle cose, si fosse voluto dare a qualcuno il nome di ghibellino, questo in Firenze sarebbe di certo toccato ora ai Donati, famiglia di origine feudale, alleata coi nobili piú antichi nella città e nel contado. Essi avevano a loro capo Messer Corso, il quale, morta la prima moglie, aveva condotto in seconde nozze una giovane degli Ubertini, antica famiglia ghibellina, stata sempre avversa al governo popolare, e pareva che egli avesse nelle vene il sangue stesso dei tiranni di Romagna e di Lombardia. Pure fu principalmente per opera sua, che anche ora avvenne il contrario di quel che si poteva supporre. Divorato dall'ambizione, egli iniziò a Roma, per mezzo degli Spini, segrete pratiche con Bonifacio VIII, il quale credette d'avere in lui trovato finalmente il suo uomo.[142] E tutto ciò non tardò molto a rendersi palese.

V

Che il Papa volesse allora assumere una indebita ingerenza nelle cose di Firenze, si vide chiaro quando si cominciò in essa a parlar di revocare l'esilio di Giano della Bella. Non solo, senza avervi diritto di sorta, egli vi si oppose con violenza; ma il 23 di gennaio 1296, scrisse ai Fiorentini, minacciandoli addirittura d'interdetto, se non ne abbandonavano il pensiero.[143] Allora non si sapeva però che egli avesse già formato un disegno, e tramasse in segreto per attuarlo; non si supponeva, che Papa Bonifacius volebat sibi dari totam Tusciam,[144] come si vide piú tardi, e come si trova scritto sopra un antico documento, che ci fa conoscere assai bene quali erano veramente le sue mire.[145] Queste però furono abbastanza chiaramente espresse dal cronista Ferreto, quando scrisse che Bonifazio meditava: «faesulanum popolum iugo supprimere, et sic Thusciam ipsam, servire desuetam, tyrannico more comprehendere».[146] Infatti già nel maggio del 1300 il Papa aveva mandato al Duca di Sassonia, per esporgli come le parti di Toscana si diffondessero ne' suoi Stati, e gli rendessero impossibile andare innanzi senza sottomettere questa provincia. Sebbene potesse farlo di sua autorità, cosí egli scriveva, pure desiderava avere l'assenso dei principi elettori, e d'Alberto d'Austria, re dei Romani, al quale mandava addirittura la minuta dell'atto di rinunzia.[147] Il Donati era a parte di tali disegni, e però aveva subito cominciato ad assumere l'attitudine di guelfissimo tra i Guelfi, e dava nome di Ghibellini ai Cerchi, ai quali, come era naturale, sempre piú s'andavano accostando tutti coloro che diffidavano di Bonifazio.

Ad un tratto s'ebbe in Firenze notizia abbastanza certa delle trame, che in segreto venivano condotte dal Donati in Roma, per mezzo degli Spini. Messer Lapo Salterelli, un avvocato assai accorto, ma di dubbia fede, pronto a seguire sempre il vento che tirava, si presentò con due suoi amici[148] ai magistrati, e pubblicamente accusarono di attentato contro lo Stato tre Fiorentini residenti a Roma, nel banco degli Spini, tre «mercatores romanam Curiam sequentes».[149] In quel momento Corso Donati non era a Firenze, perché si trovava a Massa Trabaria, città dello Stato romano, ai confini di Toscana, e nella quale appunto allora egli era stato nominato rettore dal Papa, il che aumentava i sospetti, e faceva credere il pericolo ancora piú grave ed imminente. Non volendo chiudere un occhio, né troppo irritare Bonifazio VIII, i magistrati condannarono subito a gravissime multe quei tre cittadini, aspettando nuove indagini, per procedere contro tutti gli altri, che pure dovevano aver avuto parte nella congiura. A sopire i sospetti contro di sé, il Papa avrebbe dovuto ora con prudenza tacere, ma la sua impetuosa natura non gli permetteva riguardi. Andò quindi sulle furie, e con lettera del 24 aprile 1300, minacciò di scomunicare la Città, che osava condannare i suoi familiari, e intimò ai tre accusatori di recarsi subito a Roma.[150] Naturalmente non ottenne nulla, anzi Lapo Salterelli, che era appunto allora stato eletto dei Priori, negandogli il diritto d'ingerirsi nei fatti interni di Firenze, sollevò il conflitto di giurisdizione. Il Papa intanto aveva fatto chiamare a Roma Vieri dei Cerchi, per indurlo a pacificarsi col Donati, che già si trovava colà. Ma il Cerchi, senza mostrarsi consapevole del processo, affermando di non avere odio contro alcuno, ed adducendo altri vaghi pretesti, ricusò di far la pace, cosa che portò al colmo l'ira di Bonifazio.[151] Era naturale che a lui importasse molto pacificare i Grandi, essendo il solo mezzo possibile a sottomettere il popolo. Ma appunto perciò a questo premeva invece che stessero divisi, e quindi piú che mai favoriva i Cerchi, e li aizzava a tutta possa contro i Donati.

VI

In tale disposizione d'animi venne quello che fu da alcuni chiamato il fatale Calen di Maggio. A festeggiare l'entrata della primavera del 1300, le giovani fiorentine, secondo il costume, ballavano in Piazza Santa Trinita. La gente s'affollava e stringeva a guardare da una parte e dall'altra. V'erano giovani a cavallo, cosí dei Bianchi come dei Neri, che si spingevano innanzi e si urtavano. Dalle parole si venne ai fatti, le armi balenarono, e vi furono molti feriti. A Ricoverino dei Cerchi fu addirittura staccato il naso dal volto, ferita che non poteva restare senza sanguinosa vendetta. E come il fatto del Buondelmonti fu dai cronisti dichiarato causa della divisione dei Guelfi e dei Ghibellini, cosí questo del Calen di Maggio venne da altri ritenuto origine e causa delle parti Bianca e Nera.[152] Ma anche esso non fu che lo scoppio improvviso di passioni da lungo tempo represse, le quali erano state ora dalle trame del Papa riaccese. In conseguenza di questi tumulti, si deliberò subito nei Consigli una provvisione (4 maggio), che dava alla Signoria piena balía, per far tornare la Città tranquilla; tener fermi gli Ordini della giustizia; tutelare «l'antica, consueta e continua libertà del Comune e Popolo fiorentino, la quale correva pericolo d'essere mutata in servitú, per le molte e pericolose novità tam introrsum, quam etiam de foris venientes ».[153] E con queste ultime parole s'alludeva chiaramente al Papa, il quale perciò scrisse da Anagni, il 15 maggio, al vescovo ed all'Inquisitore in Firenze, una lettera violentissima. In essa si doleva che quei «figli d'iniquità, per ritrarre il popolo dalla obbedienza alle Somme Chiavi, andassero spargendo che egli voleva togliere alla città le sue giurisdizioni, e scemarne le libertà, quando invece voleva accrescerle». Ma poi scattava: «Non è il Papa supremo signore di tutti, e specialmente di Firenze a lui per speciali ragioni soggetta? Gl'Imperatori e Re dei Romani non si sottomettono forse a noi, e non sono essi qualche cosa piú di Firenze? La Santa Sede non nominò forse, vacando l'Impero, re Carlo d'Angiò vicario generale in Toscana? E non fu da voi stessi riconosciuto? L'Impero è adesso vacante, perché la Santa Sede non ha ancora approvato l'elezione del nobile Alberto d'Austria». E cosí, con un crescendo continuo, minacciava i Fiorentini, che se non obbedivano, «avrebbe non solo contro di essi scagliato l'interdetto e la scomunica, ma esposto i loro cittadini e mercanti ad ogni ingiuria; i loro beni ad essere rubati, confiscati in ogni parte del mondo; sciolto i loro debitori dall'obbligo di pagare». Tornava ad inveire contro i tre audaci accusatori, che egli avrebbe trattati e puniti come eretici, scagliandosi con particolare acrimonia contro Lapo Salterelli, il quale aveva osato sostenere, che il Papa non poteva mescolarsi nei giudizî del Comune. E di nuovo imponeva che fosse annullata la sentenza contro i tre suoi familiari.[154]

I Fiorentini non dierono retta, ed i Neri allora cominciarono a pensare ai casi loro, perché temevano che la parte bianca o, come essi già la chiamavano, ghibellina, «non esaltasse in Firenze, che sotto titolo di buono reggimento già ne faceva il sembiante».[155] E però indussero il

Papa a mandare il Cardinale d'Acquasparta, perché si provasse a far pace tra i Grandi. Il Cardinale venne ai primi di giugno, e chiese balía per fare gli accordi, proponendo che i Signori si traessero a sorte, per evitare cosí i continui tumulti che seguivano ad ogni elezione.[156] I Fiorentini gli fecero a parole grandi profferte, ma non gli dettero poi la balía che chiedeva. Si sapeva da un pezzo, per esperienza, che accordo fra i Grandi voleva dire «frangere il popolo», e se ne ebbe un'altra prova in questi giorni medesimi. Non aveva infatti il Cardinale cominciato appena a riavvicinare fra loro i Grandi, che già essi si sollevavano, e quasi sotto i suoi medesimi occhi, la vigilia di S. Giovanni (23 giugno), assalirono i Consoli delle Arti, che andavano a fare offerta nel tempio del Santo, e li percossero, dicendo: «Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino, e voi ci avete rimossi dagli ufficî e onori della nostra città».[157] La enormità della cosa era tale, che non poteva passare senza qualche grave provvedimento, e la Signoria, composta allora di popolani Bianchi, tra i quali trovavasi anche Dante Alighieri, esiliò il giorno dopo alcuni Grandi dell'una e dell'altra parte.[158]

I Bianchi obbedirono subito, andando a Sarzana; i Neri invece ricalcitravano, e solo cedendo alle minacce di piú severo castigo, andarono a Castel della Pieve, nel Perugino. Si disse che avevano osato resistere perché, d'accordo col Cardinale, aspettavano dai Lucchesi aiuti che poi non vennero. E questi aiuti sarebbero mancati, perché i Fiorentini, già insospettiti di ciò, s'erano parati alla difesa, e ne avevano mandato avviso a Lucca. Vero o non vero che sia, certo è che lo sdegno contro il Cardinale arrivò a tale, che il popolo tirò colpi di balestra alle finestre del vescovado, dove egli alloggiava. Uno dei quadrelli restò infisso nell'asse del soffitto, di che egli si spaventò per modo, che prima alloggiò altrove, poi se ne partí, lasciando la città interdetta e scomunicata.[159] Ma gli odî e le zuffe continuarono; e presto anche si lasciarono tornare dall'esilio i Bianchi. Si usò loro questa indulgenza, in parte perché il clima di Sarzana era malsano, tanto che si ammalò Guido Cavalcanti, il quale poco dopo ne morí; ma in parte ancora perché essi erano in assai migliori termini col popolo. I Neri invece tramavano piú che mai col Papa, e secondati dai Capitani di Parte, cospiravano con animo di venire addirittura alle armi,

Bonifazio intanto sollecitava vivamente a muoversi di Francia in Toscana Carlo di Valois, fratello del Re, e già chiamato in aiuto anche da Carlo II d'Angiò, per la lotta che sosteneva contro i Siciliani. Esso era un audace e crudele soldato. Nella guerra di Guascogna aveva, l'anno 1294, fatto appiccare 60 cittadini, e trucidare gli abitanti di Réole, quando già avevano deposto le armi. Nei primi del 1300 aveva guerreggiato in Fiandra, e dopo la presa di varie città, costretto quel Conte ad aprirgli le porte di Gand. Giurò allora, in nome del Re, di restituirlo ne' suoi Stati; ma poi lo mandò invece a Parigi, e, spergiurando, annesse la contea alla Francia.[160] Questi era l'uomo che il Papa mandava adesso a Firenze. Per indurlo a venir subito e di buon animo, gli faceva balenare perfino la speranza della corona imperiale. In ogni caso, valendosi dell'autorità che presumeva d'avere durante l'interregno, lo avrebbe nominato vicario imperiale e paciaro in Toscana, «per recarla colla forza a suo intendimento».[161] Quale fosse questo intendimento, lo dice il Villani stesso che parteggiava per lui: «abbattere il popolo e parte bianca».[162]

I Neri perciò si davano ora un gran da fare, con l'aiuto dei loro amici in città e nel contado. Ebbero varie adunanze; ma piú celebre e piú tumultuosa fra tutte, fu quella tenuta il giugno del 1301 in S. Trinita, per sollecitare il Papa a far venire Carlo di Valois a rimetterli in istato, dichiarandosi essi, per parte loro, pronti a cooperare con qualunque sacrifizio.[163] Tutto ciò non poteva certo restare segreto; ed infatti la Signoria pronunziò subito varie condanne contro i cospiratori. Messer Corso, assente, fu condannato nell'avere e nella persona; alcuni dei Neri furono confinati; altri dovettero pagare 2000 lire, ed anche da Pistoia furono cacciati i loro amici, per sempre piú indebolire la Parte.

Intanto Carlo si mosse di Francia, ed in quell'anno stesso era già a Parma «cum magno arnese equorum et somariorum;»[164] nei primi d'agosto giungeva a Bologna, dove trovò ambasciatori dei Bianchi e dei Neri, i quali ultimi già avevano in «curia domini Papae» versato la grossa somma di 70,000 fiorini, per aiutare l'impresa,[165] che ormai era certa. Egli andò prima con 500 cavalieri ad Anagni, dove vide re Carlo di Napoli, e s'accordarono insieme per la guerra di Sicilia. Il Papa lo nominò subito Conte di Romagna, e poi, in nome dell'Impero vacante, Paciaro in Toscana.[166] Dopo di che, senz'altro esso partí per Firenze, accogliendo per via gli esuli che venivano ad ingrossare le sue schiere. Il mandato era: abbattere i Bianchi ed il popolo, esaltare i Neri. E Carlo lo aveva accettato con animo deliberato; ma in verità piú per compiacere al Papa, del cui favore gli Angioini avevano ora gran bisogno in Sicilia, che per suo interesse personale. A lui, infatti, che sapeva di non poter pensare a farsi signore di Firenze, la cosa importava assai mediocremente. Sperava tuttavia di poter cavare dalla città buona somma di danaro, ed a questo fine menava seco per suo pedotto, come dice il Villani, Messer Musciatto Franzesi. Costui era un notissimo mercante del contado fiorentino, che in Francia s'era arricchito con leciti ed illeciti guadagni; era stato nominato cavaliere da quel Re, che molto lo aveva adoperato, ed al quale, nella guerra di Fiandra, aveva suggerito il modo di far danaro, falsificando la moneta.[167] In questo suo pedotto molto sperava Carlo di Valois; molto invece ne diffidavano i Fiorentini.

Il 13 settembre s'adunarono nel Palazzo del Podestà tutti i Consigli, nei quali sedeva in quel giorno anche Dante Alighieri, per deliberare «quid sit providendum et faciendum super conservatione Ordiuamentorum lustitiae et Statutorum Populi».[168] Questa e non la lotta fra i Bianchi ed i Neri, era sempre pei Fiorentini la questione sostanziale. Fu quindi concluso, che per ora rimanesse tutto affidato alla cura dei magistrati repubblicani, non tralasciando l'invio d'una ambasceria al Papa. Sulla parte che, secondo gli storici, prese Dante Alighieri a questa ambasceria, s'è molto disputato, come su tutta la vita del sommo poeta. In quel tempo egli era con grande ardore entrato nella vita politica, e sebbene d'antica famiglia, non solo si trovava scritto alle Arti, e parteggiava pei Bianchi, ma era d'un animo solo col popolo, favoriva gli Ordini della giustizia, ed avversava le mire di Bonifazio. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300, era stato dei Priori che avevano esiliato i capi dei Bianchi e dei Neri. Nelle Consulte del 1296 e 97 lo vediamo opporsi a coloro che volevano inviare danari a Carlo d'Angiò, per aiutarlo nella impresa di Sicilia. Nel 1301 pigliò parte anche maggiore alle discussioni nei Consigli, manifestando sempre i medesimi sentimenti. Infatti, nelle Consulte del 14 aprile, per ben due volte, alla proposta di mantenere a servizio del Papa, ed a spese del Comune, cento militi, egli rispondeva: Quod de servitio faciendo domino Papae nihil fiat.[169] Era stato piú volte adoperato anche in altri uffici dalla Repubblica, e non è impossibile che lo mandassero ora a Roma, come affermano molti biografi. Che cosa si poteva dire al Papa? Certo era inutile sperare che egli ora sospendesse l'invio di Carlo di Valois; ma oltre alle buone parole per calmarlo, non era affatto inopportuno o inutile provarsi a fargli capire, che, col cacciare i Bianchi ed esaltare i Neri, non avrebbe ottenuto lo scopo cui mirava, perché il governo della Città sarebbe rimasto sempre in mano delle Arti. Meglio valeva mettersi d'accordo col popolo, che era rimasto sempre guelfo, e che, come in passato, cosí, calmati gli animi, avrebbe anche per l'avvenire potuto accettare da lui un vicario temporaneo, salva però sempre la libertà del governo popolare, gli Statuti e gli Ordinamenti. Ma questo governo era quello appunto che il Papa s'era omai deciso a non volere assolutamente. E però, senza far molte parole, senza quasi dare ascolto agli ambasciatori, esso, secondo il Compagni, a tutti i loro discorsi rispose solamente: — Umiliatevi a noi. — Due di loro sarebbero, secondo lo stesso cronista, tornati subito a Firenze, e Dante, che era il terzo, sarebbe invece rimasto ancora per poco a Roma.[170]

VII

E intanto Carlo di Valois, con la solita mala fede, per sempre piú ingannare tutti, scriveva il giorno 20 settembre, al comune di San Gimignano: «Siate pur certi che non è punto intenzione del Papa né mia de iuribus iurisdictionihus seu libertatibus, quae per comunitatis Tusciae fenentur et possidentur, in aliquo nos intromictere, sed potias... favorare ».[171] Ma i Fiorentini non si lasciarono illudere da queste mendaci promesse, ed il 7 di ottobre elessero, con anticipazione, la nuova Signoria, cercando di accomunarla fra le due parti, sperando cosí di calmare alquanto i rancori. Ormai però, come osserva giustamente il Compagni, era tempo piuttosto «da arrotare i ferri». Carlo giunto il 14 a Siena, mandava ad annunziare la sua venuta per mezzo d'ambasciatori, che furono accolti nei Consigli radunati insieme, non esclusi quelli della Parte Guelfa. Vi si trovavano perciò non pochi dei Neri e dei Grandi, i quali, uniti a coloro che dovunque e sempre sogliono andare con la fortuna che trionfa, fecero a chi parlava piú calorosamente in favore della buona accoglienza da farsi allo straniero.[172] In sostanza nessuno voleva ora opporsi a quella che era divenuta necessità inevitabile, tanto piú che Carlo non solo ripeteva a voce, ma scriveva agli ambasciatori fiorentini in Siena, che voleva rispettare le leggi e giurisdizioni della città.[173] Cosí il dí d'Ognissanti, 1º novembre, accolto con gran festa ed armeggiamenti, egli entrava come paciero, «disarmata sua gente», dice il Villani. Dante Alighieri però scrisse nella Commedia:

Per far conoscer meglio sé e i suoi,

Senz'armi n'esce solo con la lancia

Con la qual giostrò Giuda, e quella ponta

Sí che a Fiorenza fa scoppiar la pancia.[174]

Le sue genti s'erano per via accresciute in modo che arrivavano a circa 800 cavalieri forestieri e 400 italiani. Certo non erano abbastanza né per assediare, né per tener sottomessa Firenze; ma egli aveva con sé il favore di Roma e quello di Francia, e i Neri erano pronti a pigliare le armi. Andò quindi sicuro ad alloggiare Oltrarno, in casa Frescobaldi, una volta amici, ora nemici dei Cerchi. Ivi riposò alcuni giorni, per meglio apparecchiare il terreno; poi chiese la signoria e guardia della Città, per pacificarla. Il 5 di novembre si tenne per ciò solenne adunanza in S. Maria Novella, dove intervennero tutti i primi cittadini e magistrati fiorentini. La sua domanda fu accolta, avendo egli giurato come figlio di re, di conservare la città in buono, pacifico e libero stato. Il Villani che si trovò al giuramento di Carlo, e lo favoriva, aggiunge, «che incontanente per lui e per sua gente fu fatto il contrario». Di fatti, per consiglio di Musciatto Franzesi, in ciò d'accordo coi Neri, si pose subito mano alle armi, il che fece andare in subbuglio tutta Firenze, essendosi capito che l'ora dell'assalto e del tradimento era sonata.

La Signoria, combattuta dai Neri, tradita da Carlo, abbandonata dai Bianchi, che l'accusavano d'essersi fatta sorprendere impreparata a resistere, si trovò impotente, e la Repubblica restò senza governo. Il nuovo podestà era Messer Cante dei Gabrielli di Gubbio; venuto con Carlo, si può bene intendere a qual fine. Ed in questo momento, alla Porta a Pinti si presentava, armato co' suoi. Corso Donati. Trovatala chiusa, poté, col favore degli amici di dentro, sfondare la postierla, ed entrare in Città, dove la plebe l'accolse al solito grido: Viva Messer Corso, viva il Barone. Senza indugio egli s'affrettò ad aprire le prigioni, poi andò al Palazzo dei Signori, che costrinse a tornarsene alle case loro. E in «tutto questo stracciamento di cittade,» dice il Villani, Carlo, violando i patti appena che li aveva giurati, non impedí nulla, ma stava a guardare».[175] Cominciarono subito i saccheggi, le ferite, le uccisioni contro i Bianchi. Questa «pestilenza» durò cinque giorni in Firenze, otto nel contado, dove le masnade scorrazzavano, ponendo fuoco alle ville, dopo di avere rubato e ferito. I Medici furon tra coloro che commisero maggiori eccessi e piú crudeli.[176] Il giorno 7 i Signori, ormai sgomenti, proposero essi stessi una legge che permetteva loro di abbandonare il potere prima del tempo legale, e cosí il dí 8 novembre entrò in ufficio la nuova Signoria, che doveva durare sino al 14 dicembre, quando, secondo la legge, sarebbe stato necessario procedere alla consueta elezione. Essa annunziò subito a tutti il felice trionfo della parte della Chiesa, sotto gli auspicî del Papa e di Carlo, per mezzo dei quali Populus roboratus, Status et Ordinamenta Iustitiae, iurisdictiones, honores et possessiones Populi et Comunis Florentiae suorumque civium observata.[177] Per quanta ipocrisia vi fosse in questo linguaggio, era pur certo che neppure ora si osava annullare gli Ordinamenti, e levare il governo di mano al popolo, come era vero del pari che, con questa Signoria di Neri, con un Podestà quale Cante dei Gabrielli, con Carlo circondato da Musciatto Franzesi e da Corso Donati, i Bianchi erano spacciati. I rubamenti infatti continuarono, gli esuli amici furono richiamati, venne confermato il bando degli avversarî,[178] e Carlo cominciò colle minacce a cavar danari dai cittadini. Prima di tutto ne richiese ai Signori usciti d'ufficio, ai quali propose di pagare o andar prigionieri in Puglia, il che si sapeva che cosa volesse dire.[179]

Il Papa intanto, non fidandosi molto di Carlo di Valois, né della poca conoscenza che questi aveva di Firenze, e persistendo sempre nella sua idea di pacificare tra loro i Grandi, per sottomettere il popolo, mandò di nuovo il Cardinale d'Acquasparta «a secondare», cosí diceva la lettera del 2 dicembre 1301, «i provvedimenti di Carlo, sostituendo alle dissensioni cittadine l'opera di carità e di pace».[180] Erano però vane speranze. Il Cardinale s'adoperò a tutt'uomo, e concluse qualche accordo, anche qualche matrimonio fra Bianchi e Neri; ma quando fece la proposta d'accomunare gli ufficî, i Neri, sostenuti da Carlo, vivissimamente s'opposero. E quando il Cardinale continuava ne' suoi vani sforzi, Messer Niccolò dei Cerchi, andando cogli amici a diporto in campagna, arrivato in Piazza Santa Croce, fu, di pieno giorno, inseguito da Simone di Messer Corso Donati, che lo uccise in sul ponte dell'Africo. Simone ricevette però dall'avversario che si difese, una tale ferita che poco dopo ne morí. E come egli era il figlio prediletto di Messer Corso, cosí si può bene immaginare se tutto ciò doveva favorire la pace promessa dal Papa per mezzo del Cardinale. Intanto già Messer Cante dei Gabrielli aveva cominciato a pronunziare le condanne dei Bianchi, le quali vennero poi trascritte in quel Libro del Chiodo, che è pervenuto sino a noi, e che con esse appunto incomincia. Quattro dei Bianchi vennero esiliati il 18 gennaio 1302; cinque, fra i quali Dante Alighieri, il 27. Nel febbraio furono pronunziate altre quattro sentenze, che mandarono in esilio piú di cento tra popolani e Grandi di città e di contado.[181] Per tutto ciò il Cardinale adirato se ne partí, lasciando Firenze da capo interdetta, non senza aver prima riscosso 1100 fiorini, che vennero per lui stanziati il 26 febbraio 1302, come remunerazione della sua vana opera.

Carlo di Valois era in questo mezzo andato a Roma, non si sa bene a che fare. Il Compagni dice che v'andò per cercar danari al Papa, il quale gli avrebbe risposto: «Io t'ho messo nella fonte dell'oro, tocca adesso a te pensare di trovar modo». È però molto probabile che egli andasse a persuaderlo, che la pace sognata da Sua Santità non era possibile, e che non c'era da far altro che sollevare i Neri, ed abbattere i Bianchi insieme col popolo, il quale li favoriva. Poco pratico dei Comuni italiani e di Firenze, neppur egli s'avvedeva che si potevano abbattere i Bianchi, non però il popolo. A ciò infatti sarebbe stata necessaria una vera strage, e non vi si sarebbe poi riuscito. Comunque sia, egli fu di ritorno il 19 marzo, e subito si pretese d'avere scoperto una congiura, tramata contro di lui dai Bianchi, d'intesa con un suo barone, Pietro Ferrando, provenzale; e si trovò perfino l'accordo messo in iscritto e suggellato dai congiurati. I cronisti, fra i quali il Villani,[182] dicono che fu tutta una finzione; ma il trattato, che è del 26 marzo, esiste anche oggi nell'Archivio fiorentino.[183] O dunque fu sin d'allora falsificato, per averne pretesto ad altre condanne, o Pietro Ferrando lo fece per ingannare i Bianchi, e cosí dare contro di essi una nuova arme in mano a Carlo, che infatti ricominciò subito a perseguitarli. I capi furono citati a comparire; ma invece emigrarono subito a Pistoia, Arezzo, Pisa, dove s'allearono coi Ghibellini, con tutti i nemici di Firenze. Undici di essi vennero condannati come ribelli; le loro case, i loro beni furono confiscati e disfatti.

Dopo questo nuovo colpo dato ai Bianchi, e dopo avere assicurato il trionfo dei Neri, Carlo di Valois se ne partí, non senza aver prima avuto dagli amici promessa di nuovo danaro. Nel dicembre infatti ebbe 20,000 fiorini, e nell'ottobre del 1303 gliene furono mandati altri 5000.[184] Il Podestà Messer Cante continuava intanto le condanne, che nel maggio erano arrivate a 250, e furono continuate poi dal suo successore; sicché in quel solo anno 1302 ascesero a piú di 600, tra confische, esilî e sentenze capitali.[185] «Così», conclude il Villani, «fu disfatta e cacciata l'ingrata parte dei Bianchi, per opera di Carlo, e commissione di Bonifazio VIII, di che seguirono poi molte rovine».[186] E fin qui la successione dei fatti è ormai chiara abbastanza. Ma dal momento in cui gli esuli cercarono amici di fuori, e si posero in guerra con la loro città natale, il disordine dei partiti e la difficoltà d'intendere il significato vero dei fatti divengono sempre maggiori. È quindi il momento di provare se le osservazioni finora esposte possono gettare qualche nuova luce sopra un periodo storico, che non riesce interamente chiaro, sebbene sia stato già da molti studiato con grande acume e con profonda dottrina.

Capitolo X[187] DANTE, GLI ESULI FIORENTINI E ARRIGO VII

I

Dopo la partenza di Carlo di Valois, e le vicende che ne seguirono, la storia di Firenze entra in un nuovo periodo. Gli esuli si unirono ai nobili di contado, alle città ghibelline, per ribellarle contro la Repubblica, ed aprirsi cosí la via a tornare in patria. Questo naturalmente tenne, per qualche tempo, dentro la città riuniti e concordi i Grandi della parte nera, i quali sempre piú si vantavano d'essere i veri, i soli Guelfi, e davano nome di Ghibellini agli esuli. Pistoia ed il castello di Piantravigne furono primi a sollevarsi, ma vennero subito sottomessi. E allora, il dí 8 giugno 1302, i capi degli esuli, fra i quali era anche Dante Alighieri, s'adunarono nella Chiesa di S. Godenzio sull'Appennino, e fecero esplicita alleanza cogli Ubaldini, obbligandosi a risarcirli colle proprie fortune, dei danni che avessero risentito dalla guerra, nelle loro terre in Mugello, dove il forte castello di Montaccenico doveva essere come il quartier generale dei nemici di Firenze. E i Fiorentini, senza punto aspettare, vennero subito a dare il guasto alle terre degli Ubaldini di qua e di là dall'Appennino.[188] Gli esuli, adoperandosi a tutt'uomo, riuscirono col favore di Pisa e di Bologna, a mettere insieme un esercito di 800 cavalli e 6000 fanti, e nella primavera del 1303 posero l'assedio al Castello di Pulicciano, ch'era dei Fiorentini. Ma anche qui furono poco fortunati. Da Firenze uscirono subito armati «popolo e cavalieri», e li assalirono. I Pisani non mandarono gli aiuti promessi, gli Ubaldini non si mossero, i Bolognesi si dissero traditi e si ritirarono; e cosí i Bianchi, rimasti soli, si dierono alla fuga vergognosamente. I Neri poterono allora tornare in città vittoriosi, menando seco molti prigionieri, alcuni de' quali uccisero per via, altri fecero decapitare dal Podestà. Poi presero improvvisamente il castello di Montale presso Pistoia, e disfecero quel contado. Cosí pareva che la guerra fosse finita, e le speranze degli esuli cadute a terra.

Ma fu questo il momento in cui scoppiò da capo la discordia in Firenze. Già prima v'erano stati segni di malumore e tumulto, per il che s'era dovuto venire a qualche nuovo esilio, a qualche nuova sentenza di morte. Ora però le cose pigliarono piú grave aspetto. L'arrogante superbia di Corso Donati ricominciava a portare i suoi frutti. Disgustando gli amici, li spingeva a gettarsi verso il popolo grasso, che essi odiavano. Separato dai nobili di contado, che stavano cogli esuli, tentava farsi di nuovo capo dei Grandi piú intolleranti, e cercava favore nel popolo minuto, dicendogli che lo spogliavano colle imposte, con le quali alcuni dei popolani grassi s'empievano le tasche. «Veggasi dove sí gran somma n'è ita, che non se ne può esser tanta consumata nella guerra». E voleva un'inchiesta, cominciando cosí, come dice il Villani, «a seminare discordia sotto colore di giustizia e di pietà».[189] Si parlò, si strepitò molto, ma non si concluse nulla, sebbene s'arrivasse a votare una provvisione (24 luglio 1303), che dava al Podestà ed al Capitano piena balía d'indagare e di provvedere. Ma i popolani grassi contro cui l'accusa era diretta, cominciarono ad irritarsene molto, e per dare un nuovo colpo ai Grandi, fecero rimpatriare alcuni degli esuli che erano di popolo, e che non avevano rotto il confine. Poi richiamarono qualcuno dei Cerchi, avendo in ciò l'approvazione dello stesso Bonifazio VIII, il quale era molto impensierito dei tumulti che i Bianchi sollevavano per tutto, anche nelle città della Chiesa.[190] E cosí Corso Donati, «ripescando», secondo la felice espressione del Del Lungo, «i Grandi dal crogiuolo»,[191] poté accogliere intorno a sé piú di trenta famiglie, fra le quali alcune anche di popolani, e qualche ribandito. V'erano parecchi dei Tosinghi, i quali tenevano pei Bianchi, e uno di loro, il valoroso Baschiera della Tosa, si trovava fra gli esuli. V'erano i Cavalcanti, stati suoi antichi nemici, famiglia ricchissima e numerosissima, che aveva perciò gente di tutti i partiti, piú assai dei Bianchi che dei Neri, e possedeva nel centro di Firenze uno sterminato numero di case, botteghe, fondachi, dati in affitto ai mercanti, coi quali si trovava quindi in buone relazioni. Cosí questo dei Donati non era piú un partito; si poteva piuttosto dire un'accozzaglia di gente, che Messer Corso teneva unita coll'odio contro il popolo. Infatti egli andava ora ripetendo, che essi «erano prigioni e in servitú d'una gente di popolani grassi, anzi cani, che gli signoreggiavano, e toglieansi gli onori per loro».[192] In sostanza però i veri Grandi, quelli cioè che di nome e di animo eran tali, s'accostavano quasi tutti a lui, e quelli che non potevano tollerare i suoi modi insolenti, preferivano piuttosto starsene di mezzo a guardare. Con lui era anche l'arcivescovo Mess. Lottieri della Tosa, che s'armava nel suo palazzo. Di fronte a costoro era sorto però un gruppo di famiglie come gli Spini, i Pazzi, qualcuno dei Frescobaldi, i Gherardini, ed alla loro testa si trovava Mess. Rosso della Tosa, ambiziosissimo anch'egli, il quale, pigliando l'attitudine stessa già tenuta da Vieri dei Cerchi, s'accostava al popolo grasso. E valendosi dei piú arditi suoi seguaci, specialmente dei Bordoni, popolani Neri, che nelle sue mani divenivano, come dice il Compagni, «tanaglie par pigliare il ferro caldo»,[193] faceva ogni giorno attaccare il Donati nei Consigli.

II

Parevano cosí nuovamente tornati quei tempi che avevano preceduto la venuta di Carlo di Valois. Da un lato infatti Rosso della Tosa, unito co' suoi al popolo, difendeva la Signoria; da un'altra il Donati, favorito dai Capitani di Parte, di continuo la minacciava ed assaliva. Da capo i cittadini s'armavano e s'azzuffavano ogni giorno; da capo seguivano rubamenti, ferite, omicidi, incendi nella città e nel contado. Perfino dalla torre del vescovado una manganella tirava contro gli avversari di Corso Donati. La Signoria ed il Podestà erano ridotti all'impotenza. E la cosa arrivò a tale, che si ricorse allo stranissimo partito di dare per sedici giorni il governo in mano dei Lucchesi, acciò si provassero a ricondurre la quiete in città. Essi ristabilirono l'ordine, senza però punire alcuno, sicché quando furono partiti, le cose tornarono come prima. Si cercò anche di nominare una Signoria (sempre ben inteso di popolani), d'accordo fra le due parti; ma erano tentativi che non menavano a nulla.[194] Ciò che portava la confusione al colmo, e la rendeva permanente, era che, se la divisione tra Grandi e Popolani aveva costituito davvero due partiti, quella fra i Grandi, che ora agitava la città, era promossa dalla sola ambizione di Corso Donati e di qualche altro; non aveva nessuna ragione politica; non era guidata da nessun principio e da nessun interesse generale. Col Donati infatti v'erano, come vedemmo. Grandi di tutti i colori, v'erano anche ribanditi che avevano amici o parenti fra gli esuli, né mancavano alcuni popolani. E nel partito avverso, che difendeva la Signoria, non poteva neppure esservi molta coesione, perché v'erano potenti e popolani, tra i quali l'accordo non fu mai sicuro. Se gli avversari della Signoria erano uniti dalla volontà e dall'ambizione di messer Corso, i fautori erano piú che altro uniti dall'odio contro di lui. E però, a cagione di questo carattere personale dei partiti, ne seguivano divisioni e suddivisioni sempre mutabili, sempre crescenti; passaggio irrequieto, perpetuo, da un gruppo all'altro.

A tutto ciò s'aggiungeva ora la morte di Bonifazio VIII (11 ottobre 1303), cui successe Benedetto XI, assai piú mite e di carattere incerto. Questi avrebbe voluto ad ogni costo ristabilire la pace in Firenze, e farvi tornare gli esuli, perché essi tenevano agitato il suo Stato, ed egli era già in Roma stessa talmente avversato dal popolo e dall'aristocrazia, che subito dopo l'elezione aveva dovuto rifugiarsi a Perugia, sui confini cioè dell'agitata ed irrequieta Toscana. Né poteva, in mezzo a tante calamità, aspettarsi ora alcun aiuto dalla Francia, perché aveva iniziato un processo contro gli autori dell'attentato d'Anagni, che, tramato appunto da quel Re, era stato causa della morte di Bonifazio VIII. Per tutte queste ragioni, sollecitato dai Bianchi dentro e fuori di Firenze, il 31 gennaio 1304, vi mandò a far la pace il Cardinale da Prato, che era in voce di ghibellino. Questi arrivò il 10 marzo, e voleva contentar tutti: Grandi, popolani, esuli. Bianchi, Neri di Corso Donati e Neri di Rosso della Tosa. Ma quello che piú commosse gli animi e portò la confusione al colmo, fu il suo pensiero di far tornare gli esuli e pacificarli con la città. Tuttavia coloro che meno vi si opposero erano i popolani, i quali vedevano in ciò un modo d'indebolire i Grandi, tenendoli fra loro sempre piú divisi. Invece Rosso della Tosa, con parecchi de' suoi, era avversissimo al ritorno degli esuli, perché gli pareva che ne verrebbe rafforzata la parte degli avversari, i quali già a molti di essi s'andavano avvicinando. Corso Donati, pigliando pretesto dal male della gotta che lo aggravava, stavasene per ora di mezzo a guardare. Ma i Cavalcanti favorivano con ardore l'accordo, anzi sembravano esserne i promotori.

Il Cardinale, avuta piena balía dal popolo, si provò subito a concludere paci, e riuscí a farne una tra il Vescovo e Mess. Rosso della Tosa, che ne era consorto. Fece poi nominare Mess. Corso Capitano di Parte Guelfa, e riordinò le antiche milizie del popolo, sotto 19 gonfalonieri delle compagnie, secondo l'antica usanza. Ma sebbene a comandarle avesse fatto nominare alcuni dei Grandi, questi molto si dolsero della riforma, dicendo che egli dava cosí nuova forza al popolo, e che era ghibellino, ed avrebbe finito coll'abbandonare la città in mano dei Bianchi, i quali richiederebbero i beni che loro erano stati confiscati, per essere amministrati a benefizio della Parte Guelfa. Ma il Cardinale non si curava di questi lamenti, e si ostinava a tenere adunanze per venire ad accordi. Il 26 aprile infatti si fecero in piazza S. Maria Novella parecchie paci tra Neri donateschi e Neri tosinghi. E furono celebrate con molte feste, fra le quali una assai solenne ne apparecchiò la Compagnia del Borgo S. Frediano, annunziando per tutta la Città, che chi voleva aver nuove dell'altro mondo, poteva venire la sera del 1º maggio sull'Arno, dove le avrebbe avute. E mediante fuochi d'artifizio, s'apparecchiò una rappresentazione dell'Inferno, con barche piene di gente, che dovevano figurare i condannati alle varie pene. La folla accorse numerosissima lungo il fiume, e sul ponte alla Carraia, il quale, essendo allora di legno, sprofondò con danno gravissimo di molti feriti e morti, che andaron davvero nell'altro mondo. Questo parve a tutti un funesto augurio di nuove calamità, e cosí fu.

III

Intanto coloro che piú erano avversi al ritorno degli esuli, con sottile astuzia consigliarono al Cardinale d'andar prima a pacificare Pistoia, dicendogli che, se essa rimaneva come ora in mano dei Bianchi, la pace in Firenze sarebbe stata sempre fittizia. E quando egli andò, avversarono l'opera sua in modo che, non solamente dove tornarsene senza nulla aver concluso, ma volendo entrare in Prato, si vide dalla sua stessa città natale chiudere le porte in viso. Di tutto ciò il Papa fu adiratissimo, ed il 29 maggio scriveva ai Fiorentini una lettera piena di sdegno.[195] Ma essi erano in tale disordine e tumulto che, avendolo pregato di trovar loro un Podestà, di quattro che ne propose, non uno volle accettare. Pure il Cardinale persisteva impassibile nella sua idea d'accordo, e fece, sotto sicurtà, venire a Firenze dodici sindachi dei fuorusciti, sei dei Bianchi e sei dei Ghibellini, perché s'intendessero con dodici eletti in città, due per Sesto, uno dei donateschi, l'altro dei loro avversari.[196] Questi ventiquattro cittadini erano tutti dei Grandi, e diffidavano tanto gli uni degli altri, che i dodici fuorusciti, sebbene avessero avuto dal popolo buona accoglienza, e fossero, sotto la pubblica fede, alloggiati in casa Mozzi, dove abitava il Cardinale stesso, pure, temendo d'essere da un momento all'altro tagliati a pezzi, volevano andarsene via. Ma furono dagli amici consigliati, invece, ad armarsi ed asserragliarsi nelle case dei Cavalcanti, con l'aiuto dei quali avrebbero potuto, occorrendo, respingere e domare gli avversarî colle armi. I Cavalcanti parevano a ciò assai ben disposti, e cominciarono a trattare. Ma dopo avere cosí sollevato un sospetto e un odio infinito nei loro nemici, si ritrassero a un tratto, scontentando fieramente anche gli amici. I fuorusciti allora partirono, il dí 8 giugno 1304, piú che in fretta.[197] E subito s'andava ad alte voci gridando contro il Cardinale, che egli aveva tradito la città con questi suoi oscuri maneggi, e s'aggiungeva ancora che aveva incitato i fuorusciti ad accostarsi alle mura, armata mano. Si mostravano le lettere col suo suggello, e s'affermava che i fuorusciti erano pel Mugello venuti fino a Trespiano, tornandosene indietro solamente quando seppero che i meditati disegni erano andati in fumo. Il Villani dice che queste erano calunnie;[198] ma anche dalle Epistole attribuite a Dante Alighieri si deduce che il Cardinale voleva davvero il ritorno dei fuorusciti, ed aveva perciò trattato con loro.[199] Adesso però egli era finalmente stanco, e partissene il 10 giugno, lasciando al solito la Città interdetta, ed esclamando: «Dappoiché volete essere in guerra e in maledizione, e non volete udire né ubbidire il messo del Vicario di Dio, né avere riposo né pace tra voi, rimanete con la maledizione di Dio, e con quella di Santa Chiesa».[200]

La condizione dei Cavalcanti e dei loro amici divenne in questo momento terribile davvero. La loro presente unione coi Donati non bastava a far dimenticare l'odio antico, che si era sopito un momento, ma solo per favorire il ritorno dei Bianchi, a danno dei Tosinghi. I quali infatti restarono isolati, perché abbandonati anche dal popolo grasso, che, stanco delle continue guerre civili, e persuaso dal Cardinale, aveva favorito l'accordo fra Donati e Cavalcanti. Ma quando questi, giunti al punto di concluderlo, s'erano inaspettatamente tirati indietro, allora risorse subito l'odio antico, ed essi si trovarono fra due fuochi. Messer Corso frenava per ora lo sdegno, non volendo troppo avvicinarsi ai Tosinghi, e col pretesto della gotta se ne stava ancora da parte, lasciando fare ai suoi. Ma l'odio di Rosso della Tosa era irrefrenabile, addirittura feroce contro i Cavalcanti, i quali lo avevano veramente messo sull'orlo della totale rovina. Laonde non era appena partito il Cardinale, che già Firenze pareva alla vigilia d'una catastrofe. I Cavalcanti videro il pericolo in cui si trovavano; ma erano numerosi, arditi e potenti. I Gherardini, i Pulci, i Cerchi del Garbo stavano con essi; molti amici avevano anche nel contado e fra gli esuli bianchi; né mancavano d'aderenze fra i popolani grassi, non pochi dei quali abitavano nel centro di Firenze le loro case. Quelli però che ora s'armavano contro i Cavalcanti, non erano i popolani, ma i Grandi. I Cerchi del Garbo cominciarono ad azzuffarsi di giorno e di notte coi Giugni. In aiuto dei primi vennero subito i Cavalcanti cogli amici loro, e furono vittoriosi, tanto che poterono da Or S. Michele arrivare, senza quasi trovar resistenza, fino alla piazza di San Giovanni. Ma quando s'erano cosí allontanati dalle proprie case, si manifestò in queste un grave incendio. I nemici v'avevano appiccato un fuoco lavorato, che da piú giorni a questo fine andavano apparecchiando. Il primo a metterlo, cominciando dalle abitazioni dei suoi propri consorti, fu Neri degli Abati, priore di San Piero Scheraggio; poi lo vennero saettando molti altri, fra i quali troviamo lo stesso Simone della Tosa e Sinibaldo di Mess. Corso Donati.[201] Era il 10 giugno del 1304, e soffiava un forte vento di tramontana; l'incendio si diffuse perciò rapidissimamente in Calimala, Mercato Vecchio, Or S. Michele; e cosí arse, con le case dei Cavalcanti, tutto il centro, «tutto il midollo e tuorlo e cari luoghi della città di Firenze»,[202] come dice il Villani. Esso aggiunge che, tra palazzi, case e torri, ne andarono in rovina piú di millesettecento, con infinita rovina delle mercanzie ivi raccolte, giacché quelle che non arsero, vennero, nello sgomberarle, rubate, continuandosi a combattere ed a saccheggiare anche in mezzo alle fiamme.[203] Paolino Pieri dice nella sua Cronica, che fu distrutto un decimo della Città, il sesto per valore. Molte famiglie, molte compagnie furono disfatte; ma piú degli altri soffrirono i Cavalcanti, i quali rimasero come esterrefatti dinanzi al fuoco, che bruciava tutto quello che avevano. Eppure tale era l'odio concepito contro di essi, che anche dopo aver subito cosí crudeli calamità, vennero come ribelli cacciati di Firenze.

IV

Ma quale fu la conseguenza politica di questi fatti? In sui primi, essendosi i Donati e i della Tosa uniti a disfare i Cavalcanti e loro amici, si temette che i Grandi, rafforzati dalla unione e dalla vittoria, volessero tentar di disfare gli Ordini della Giustizia, e prendere in mano il governo. Né, secondo il Villani, sarebbe stato impossibile riuscirvi in mezzo a quel generale sgomento. Ma avrebbero dovuto essere concordi davvero, e si vide che erano invece, «per le loro sette divisi e in discordia, e però ciascuna parte s'abbracciò col popolo, per non perdere stato».[204] La divisione dei partiti rimase in sostanza la stessa. Da una parte, cioè, Grandi in guerra fra loro, che cercavano nel popolo aiuto contro i propri nemici, e dall'altra il popolo, che dalla discordia dei Grandi cercava trarre vantaggio. Gravissime perdite di certo avevano nell'incendio subito anche i mercatanti; ma la loro ricchezza era di sua natura tale, che rapidamente si riproduceva, mentre che quella dei Grandi non si poteva rifare dei danni assai maggiori che aveva sostenuti. Tale infatti era allora la prodigiosa prosperità del popolo fiorentino, che, anche dopo tanta distruzione, noi non vediamo segno alcuno che faccia apparire diminuita la sua ricchezza. Troviamo invece assai decaduta la potenza dei Grandi, i quali nel primo cerchio, cioè nel centro della città, là dove erano le antiche famiglie, scomparvero quasi del tutto. E però non senza ragione il Capponi afferma nella sua Storia, che «d'ora in poi ogni signoria di nobili può dirsi interamente diradicata, e i nuovi ordini assodati».[205] E cosí anche questa sventura riuscí, come era sempre seguito in Firenze, a vantaggio del popolo.

Per tutti questi dolorosi fatti, e per ciò che il Cardinale da Prato aveva riferito al Papa in Perugia, vennero colà chiamati alla sua presenza dodici dei Grandi piú autorevoli in Firenze; e fra di essi erano Mess. Corso Donati e Mess. Rosso della Tosa, una volta nemici, ora divenuti amici d'un giorno. Andarono con gran seguito, formando una compagnia in tutto di cinquecento uomini a cavallo. E questo parve agli esuli il momento piú opportuno per ripetere il tentativo di tornare in patria. Si disse, al solito, che il Cardinale li aveva incoraggiati, assicurando che avrebbero trovato favore; si aggiunse ancora che aveva istigato Pisa, Bologna, Arezzo, Pistoia, la Romagna tutta ad aiutarli. Ma se da un lato alcuni dei piú fieri avversari degli esuli s'erano per un momento dovuti allontanare da Firenze, è certo da un altro lato che la forza dei loro nemici doveva essere non poco cresciuta per la strage dei Cavalcanti e dei Gherardini. E se le Arti Maggiori si erano prima indotte a favorire il ritorno degli esuli, massime di quelli che erano popolani, non si poteva sperare che volessero continuare a favorirli ora che essi si avanzavano col favore dei Pisani, dei Ghibellini di Toscana e di Romagna. La loro alleanza coi nemici della Repubblica, la riuniva naturalmente contro di essi.

Pure gli esuli parevano ora pieni di speranza, perché coi nuovi aiuti erano riusciti a formare un esercito di 9000 fanti e 1600 cavalieri, coi quali s'avanzarono il 19 luglio sino alla Lastra, dove ne aspettavano altri, che dovevano venire da Pistoia, sotto il comando di Tolosato degli Uberti, valoroso capitano ghibellino, d'un'antica famiglia fiorentina sempre odiata dai Guelfi, ai quali ricordava la disfatta di Montaperti. Non vedendolo arrivare, gli esuli si decisero non ostante ad avanzare; ma l'indugio d'un giorno era bastato a far sí che non fosse piú possibile pigliar Firenze alla sprovvista. Si presentarono infatti solo 1200 cavalieri, in attitudine pacifica, con rami d'olivo in mano; e passato il cerchio non ancora finito delle nuove mura, si fermarono dinanzi alle antiche, nel podere detto di Cafaggio, tra San Marco e i Servi. Ivi, trafelati, senz'acqua, esposti al sole del 20 luglio, aspettarono invano che le porte s'aprissero. Alcuni altri di loro, riuscendo a sforzare la porta degli Spadai, entrarono in Città, e s'avanzarono sino a S. Giovanni, dove invece d'amici trovarono 200 cavalieri e 500 fanti, che li respinsero, facendo alcuni prigionieri, oltre parecchi morti e feriti. E questo fu il segnale d'una ritirata, che si mutò presto in fuga generale. Infatti quelli che erano in Cafaggio, già estenuati dal caldo e dalla sete, gettarono a terra le armi, e si ritirarono inseguiti da «masnadieri di volontà». Molti ne morirono di ferro o trafelati; altri furono derubati, presi e poi appiccati agli alberi. Prima dei fuggiaschi arrivò alla Lastra la notizia della rotta, e cosí anche quelli che s'erano colà fermati, si dettero alla fuga, né poté per via trattenerli Tolosato degli Uberti, il quale, avendoli incontrati, tentò invano di ricondurli all'assalto. Tutto questo è, fra gli altri, narrato dal Villani, il quale si trovò presente ai fatti seguiti in Città.[206] Dante Alighieri non venne alla Lastra, perché s'era poco prima separato quasi con violenza dai suoi compagni d'esilio, disgustato probabilmente delle loro ibride alleanze con tutti i nemici di Firenze, dei segreti accordi iniziati con Corso Donati e i Cavalcanti, addolorato dalle stragi cittadine, che per la vana speranza di far tornare alcuni degli esuli, erano state cosí ciecamente provocate.[207]

La vittoria della Lastra dové certo dar nuovo ardimento e nuovo potere ai Grandi. Cosí forse si spiega come è che appunto ora alcuni di essi chiedano d'essere cancellati dalle Arti,[208] cosa affatto nuova in Firenze, dove era stato solito invece vederli spogliarsi dei loro titoli, mutar casato, chieder d'essere scritti alle Arti. E se ne ha conferma ancora in un altro fatto assai grave, che seguí il 5 di agosto 1304. Uno degli Adimari commise un maleficio, e fu menato nel palagio del Podestà, per essere condannato. Ma i suoi consorti, armata mano, assalirono quel magistrato, mentre che con i suoi famigli tornava dai Priori, e dopo averne ferito o ucciso parecchi, trassero dalle prigioni il colpevole. Laonde Mess. Gigliolo da Prato, Capitano del popolo, che allora faceva anche da Podestà, perché, a cagione dei continui tumulti, nessuno aveva voluto ancora accettare quest'ufficio in Firenze, se ne andò via sdegnato. E i Fiorentini, se vollero amministrar la giustizia, dovettero contentarsi d'eleggere dodici cittadini, due per Sesto, uno dei Grandi ed uno dei popolani, che facessero le veci del Podestà.[209] Tuttavia la guerra di fuori, ben presto ricominciata, fece tornare una momentanea calma in Firenze.

V

Gli esuli ritornarono a scorrere la campagna, sollevando i vicini castelli; e i Fiorentini si mossero subito per sottometterli. Fra questi castelli primo fu quello delle Stinche, ribellatosi per opera dei Cavalcanti. Esso venne facilmente preso (agosto 1304), e i prigionieri furono condotti nelle carceri nuove, che d'allora in poi si chiamarono le Stinche. Piú grossa guerra si dové fare contro Pistoia, che si ribellò nel 1305 in favore di parte bianca, con l'aiuto degli Aretini e dei Pisani, ed era comandata da Tolosato degli Uberti. Ne seguí un lungo e rigoroso assedio, posto dai Lucchesi e dai Fiorentini, sotto gli ordini di Roberto duca di Calabria, il quale, chiamato come capitano della lega, era venuto con molti fanti e 300 cavalieri catalani.[210] L'assedio durò tutto l'inverno, e nell'aprile del 1306 i Pistoiesi, estenuati dalla fame, dovettero arrendersi. Le loro torri e e le mura furono disfatte, il loro territorio diviso tra i Fiorentini ed i Lucchesi. Invano Clemente V s'era adoperato a far cessare questa guerra, che portò un altro duro colpo ai Ghibellini di Toscana. Egli era francese, aveva trasferito ad Avignone la sede pontificia, e non conosceva l'Italia, che non poteva amare un Papa straniero, il quale abbandonava Roma. Infatti ai suoi messi di pace, venuti al campo, i Fiorentini non dierono ascolto, né si curarono dell'interdetto contro di loro pronunziato. Il duca di Calabria si ritirò; ma fu solo per gettar polvere negli occhi, avendo lasciato al campo le sue genti col capitano Pietro de la Rat. E cosí la guerra venne condotta a termine.

Né fu piú fortunato l'altro legato di pace, il cardinal Napoleone Orsini, che in Toscana e nella Romagna non solamente fu male ricevuto, ma venne derubato, e si trovò anche in pericolo della vita. Delle sue scomuniche, de' suoi interdetti, dei suoi consigli di pace ridevano tutti. I Fiorentini ormai volevano andar fino in fondo, e non avevano finito la guerra di Pistoia, che incominciarono quella contro il forte castello di Montaccenico, rocca principale degli Ubaldini, da cui dominavano tutto il Mugello, e dove era il quartier generale degli esuli. Il castello finalmente fu preso a tradimento, provocato con danaro sparso fra gli Ubaldini stessi, e venne demolito dai Fiorentini, che subito deliberarono di fondare colà le due terre di Scarperia e di Firenzuola, «per fare battifolle agli Ubaldini, e torre i loro fedeli», rendendo liberi da ogni vassallaggio tutti coloro che entravano in quelle due piccole città, a tale scopo fondate. La prima pietra di Scarperia fu messa subito, il 7 settembre 1307; la costruzione di Firenzuola cominciò invece assai piú tardi (1332).

Ma a che cosa s'arrivava, qual fine raggiungeva la Repubblica con queste continue guerre, cui anche i Grandi pigliavano parte; con questa sottomissione delle città ghibelline; con questa demolizione di castelli in tutto il territorio? Da una parte cresceva rapidamente il suo predominio politico in Toscana, e si aprivano nuove vie al suo commercio; da un'altra la potenza dei Grandi fuori di Firenze veniva distrutta con l'aiuto di quelli che erano dentro, e che, accecati dall'odio contro gli esuli, non sapevano quel che si facevano. Gli antichi popolani avevano demolito i castelli, che una volta arrivavano fin quasi alle mura di Firenze; avevano costretto i baroni a venire in città, sottoponendoli alle leggi repubblicane, fiaccando il loro orgoglio, escludendoli dal governo. Valendosi delle loro discordie, li spinsero piú tardi a distruggersi fra di loro; e finalmente si facevano ora da essi aiutare per combattere i nobili piú lontani, e demolirne i castelli nel Casentino, nel Valdarno, in Mugello, il che tutto ritornava sempre a vantaggio del popolo e delle Arti. Infatti nel 1306, quando continuava ancora la guerra contro Pistoia, i Fiorentini rinnovarono le compagnie del popolo armato sotto 19 gonfalonieri. E questa fu la costituzione del «buon popolo guelfo», riforma, secondo il Villani, fatta perché «i Grandi e possenti non presumessero di pigliare forza e baldanza, per le molte vittorie ottenute contro i Bianchi ed i Ghibellini».[211]

Ma ciò, non era tutto, che anzi la parte sostanziale della nuova riforma fu la legge del 23 dicembre 1306, con la quale vennero rafforzati gli Ordinamenti, e fu creato l'Esecutore di Giustizia, che doveva curarne una piú rigorosa applicazione. Il fine della legge era chiaramente espresso nelle sue prime parole, che la dicevano fatta «a conservare la libertà del Popolo di Firenze, ed a rompere la superbia de li iniqui, la quale tanto è cresciuta che piú oltre, con gli occhi riguardando, non si puote passare». Le Arti, in sostanza, non davano quartiere ai Grandi, neppure quando combattevano insieme con essi i nemici comuni. L'Esecutore doveva essere popolare e guelfo, forestiere, cioè non toscano, e di luogo lontano almeno 80 miglia da Firenze, di città o terra non sottoposta ad alcun signore. Non poteva essere cavaliere né giudice di legge, e ciò per l'odio sempre crescente contro i perversi giudici, e per la funesta esperienza che, negli ultimi anni, s'era fatta del Podestà. Durava in ufficio sei mesi, e doveva menar seco un giudice, due notai, 20 masnadieri o berrovieri, tutti guelfi e forestieri, due cavalli armigeri. Il suo ufficio era: difendere il popolo e i deboli contro i potenti, ad ogni maleficio che occorresse chiamando le compagnie sotto le armi, per venire subito all'applicazione delle pene. Toccava ora a lui principalmente provvedere all'esecuzione degli Ordini della giustizia, ed ogni volta che il Podestà o il Capitano non facevano la parte che loro era imposta, doveva subito assumerne le veci, secondo le norme minutamente prescritte dalla nuova legge, che fece d'ora innanzi parte integrante degli Ordinamenti.[212] Toccava inoltre a lui punire le falsità e baratterie commesse negli uffici del Comune. E quando il Podestà non disfaceva i luoghi (salvo sempre le chiese), in cui s'erano tenute conventicole o adunanze senza legale permesso, doveva egli provvedere subito, e multare il Podestà stesso in 500 lire. Se le adunanze si erano tenute contro la libertà ed il governo popolare, allora c'era addirittura la pena di morte. E questa, trattandosi di Grandi, veniva inflitta dal Podestà, il quale se non procedeva subito, era al solito punito dall'Esecutore, che doveva farne le veci. Quando i colpevoli erano popolani, spettava al solo Esecutore condannarli a morte, dichiarando Grandi i loro discendenti. E cosí pure i popolani che aiutavano i Grandi nel commettere maleficî, dovevano dall'Esecutore essere condannati ad una pena doppia di quella richiesta dalle leggi comuni. Il sindacato del Podestà e del Capitano che uscivano d'ufficio, spettava all'Esecutore, il quale, a sua volta, era sottomesso al sindacato di persone elette dai Priori e dai Gonfalonieri delle Compagnie.[213]

VI

Intanto il Papa, inquieto nel vedere come gli esuli fiorentini tenessero sempre piú agitata non solo tutta Toscana, ma la Romagna e le Marche, insisteva da capo per la pace. Delle nuove trattative era però incaricato il Cardinal Orsini, uomo egli stesso partigiano e di dubbia fede. Infatti, andato nel 1307 ad Arezzo, ivi chiamò a raccolta, oltre gli esuli fiorentini, anche parecchi suoi amici dalle vicine terre della Chiesa, ponendo cosí insieme 1700 cavalieri ed un gran numero di fanti. Pare che avesse fatto accordo con Mess. Corso Donati e ricevuto da lui danaro per l'impresa che meditava. Questi, divorato sempre dalla sua ambizione, s'era imparentato in terze nozze col ghibellino Uguccione della Faggiuola, il che lo rendeva ora assai sospetto ai Guelfi, e però egli, piú che mai scontento ed irritato, era tornato da capo nimicissimo di Mess. Rosso della Tosa e dei suoi seguaci, i quali, per naturale conseguenza, s'erano di nuovo stretti coi popolani grassi. E questi, veduti gli apparecchi che faceva ora il Cardinale, e il nuovo agitarsi del Donati, raccolsero un esercito di 3,000 cavalieri, 15,000 pedoni, e, senza mettere altro tempo in mezzo, corsero ad Arezzo, dando per via il guasto alle terre nemiche. Il Cardinale allora, credendo d'usare un'astuzia di guerra, invece d'affrontare il nemico, si diresse pel Casentino verso Firenze; ma i Fiorentini, tornando sui loro passi, arrivarono in città prima di lui. Ed egli, con grande sua vergogna, rientrò in Arezzo, di dove cominciò a trattare coi Fiorentini, i quali, mostrando d'accogliere le sue proposte, gli mandarono due ambasciatori con incarico di trattenerlo a parole, e canzonarlo. «Né fu mai», dice il Compagni, «femina da ruffiani incantata e poi vituperata, come costui da quelli due cavalieri».[214] Sicché non gli restò altro che andarsene con le pive nel sacco, lasciando al solito la Città scomunicata,[215] di che i Fiorentini si vendicarono col gravare di nuove tasse i preti, punendo quelli che resistevano.[216]

Piú scontento di tutti rimase allora Mess. Corso Donati, da cui il Cardinale aveva cavato danari con la promessa di venire in Firenze, per abbattere il della Tosa ed i suoi amici Neri, senza poi osare neppur d'appressarsi alle mura. Ma non perciò si dette per vinto, che meditava anzi nuove e piú audaci cospirazioni. Allontanatosi per poco da Firenze, forse a cercare danari ed aiuti, vi tornava nel 1308. E sempre piú accecato dalla rabbia, sperando soccorso cosí dal suocero Uguccione della Faggiuola, che in quel momento era signore d'Arezzo, come da Prato e da Pistoia, raccoglieva i suoi partigiani in Firenze. Ad essi esponeva le sue speranze, giurando di voler rompere gli Ordinamenti della Giustizia, e li incitava a prendere le armi, per farla una volta finita con quei Neri, ai quali esso aveva dato tanta forza, che a lui dovevano la vittoria ottenuta, e che ora cosí iniquamente lo trattavano. Ma non meno grande era contro di lui l'irritazione del popolo, per la voce già diffusa, che Egli aspettasse aiuti da Uguccione, valoroso capitano e nemicissimo di Firenze.[217] E quest'odio per qualche tempo represso, scoppiò improvvisamente, prima ch'ei si movesse o se ne accorgesse. Il 6 di ottobre 1308, a un tratto, i Signori sonarono le campane; il popolo si levò a romore, e corse alle armi coi della Tosa, con gli altri Grandi loro amici, coi soldati catalani del De la Rat. L'accusa di traditore della patria fu contro il Donati portata al Podestà Piero della Branca di Gubbio, e in meno d'un'ora, accusa, bando e condanna erano sanzionati. Subito dopo i Signori, il Podestà, il Capitano, l'Esecutore, con la loro famiglia, coi Catalani, le compagnie del popolo e i cavalieri, corsero a S. Piero Maggiore, ed ivi assalirono le case del Donati. Esso si difese allora cogli amici cosí gagliardamente, che se Uguccione e gli altri fossero, come avevano promesso, venuti in tempo, vi sarebbe stato veramente assai da fare. Sembra che da Arezzo si fossero mossi; ma che, sentito come già tutta la città s'era levata a tumulto contro di lui, se ne tornassero indietro. Certo è che nessuno venne, e che Mess. Corso ben presto si vide abbandonato anche da molti degli amici fiorentini, che, allontanandosi dai serragli, disertarono la zuffa. Allora il popolo irruppe, ed egli dové abbandonare le sue case, che furono subito disfatte. Con pochi dei piú fidi, prese, fuggendo, la via di Porta alla Croce, inseguito da' cittadini e da' Catalani. Il primo ad essere raggiunto in sull'Africo, fu Gherardo dei Bordoni, che venne subito ucciso. Poi gli tagliarono la mano, che andarono ad affiggere alla porta di Tedici degli Adimari, perché questi era stato colui che lo aveva indotto ad unirsi col Donati. Pochi momenti dopo il Donati stesso fu raggiunto a San Salvi dai Catalani, che subito lo uccisero, come loro era stato ordinato. Altri dicono, invece, che egli tentò prima di corromperli con promesse di danaro, e non essendovi riuscito, si lasciò, per non venire nelle mani dei suoi nemici fiorentini, cadere a terra, dove fu, con un colpo di lancia alla gola, finito. I monaci di San Salvi ne raccolsero il corpo, ed il giorno seguente lo seppellirono nella Badia assai modestamente, per non incorrere in odio.[218]

Quale fosse la causa di questo improvviso e irrefrenabile furore di popolo, è chiaramente espresso nelle lettere che il Comune scrisse poco dopo ai Lucchesi, presso i quali s'erano rifugiati i Bordoni. «Sapersi per tutta Toscana, che questa dei Donati era stata una guerra a morte per consegnare la città di Firenze e la parte guelfa in mano dei Ghibellini, e sottoporla al loro giogo, con perpetuo esterminio e morte ultima dello Stato guelfo. Costoro volevano rompere tutti i confini, e sottoporre la Città al loro dominio, sebbene Mess. Corso e i suoi sfacciatamente chiamassero invece ghibellina la Signoria».[219] Cosí questa scriveva nel marzo del 1309. E veramente una volta che i Neri s'erano divisi fra Donati e Tosinghi, e questi s'erano uniti ai popolani grassi, dove potevano i Donati trovare aiuto, se non fra i Ghibellini? Il popolo minuto era debole, e il Papa lontano insisteva sempre piú pel ritorno degli esuli. Questi si erano uniti ai nobili di contado, antichi amici del Donati, separandosi da molti di quei popolani bianchi, che erano stati cacciati insieme con loro, ma che, a poco a poco, erano ritornati in città; s'erano separati anche dagli uomini indipendenti come l'Alighieri, il quale, nemico di messer Corso e fautore degli Ordinamenti di giustizia, era stato finalmente costretto a far parte da sé. E cosí i Bianchi, esiliati perché amici del popolo, si trovavano ora amici dei Grandi, d'Uguccione, dei Ghibellini e del Donati, il quale solo da questa ibrida unione aveva potuto sperare valido aiuto. E quale fu infatti l'immediata conseguenza della sua morte? Un altro terribile colpo agli esuli ed alla potenza dei Grandi, cosí dentro come fuori della città. Ne abbiamo subito, ai primi del 1309, una prova, vedendo che i fieri e superbi Ubaldini vennero in Firenze a sottomettersi al Comune, e promisero di guardare i passi dell'Appennino, dando perciò idonei mallevadori. In conseguenza di che furono accettati come amici con la condizione «che, in ogni atto e fazione, dovessero fare come distrettuali e cittadini».[220]

Questo fu il processo con cui dal principio alla fine della sua storia, il Comune di Firenze andò accogliendo i nobili nel proprio seno. Ma fu anche il modo col quale i Grandi, quantunque vinti e sottomessi, ritrovavano in città sempre nuove forze. Essi perciò non tralasciarono di combattere il popolo e la Repubblica, prima fuori, poi dentro le mura, se non quando furono da essa distrutti, dal che non siamo ora molto lontani. E se in mezzo a questa lotta cosí sanguinosa, la prosperità di Firenze non accenna ancora a diminuire punto, occorre tener presente due cose. I continui conflitti da noi esposti nascevano dal bisogno costante d'escludere dal seno d'una repubblica di mercanti, il corpo estraneo del feudalismo, che minacciava di impedirne il naturale incremento. Ma queste guerre civili si combattevano fra un numero comparativamente piccolo di cittadini, che volevano impadronirsi d'un governo, il quale esercitava allora sulla società un'azione assai minore di quello che generalmente si suppone. La forza, la direzione vera della Repubblica stavano assai meno nella Signoria, mutabile ogni due mesi, che nella costituzione economico-politica delle Arti, fortemente ordinate e finora almeno sempre concordi fra loro. Lo Stato moderno che ogni cosa assorbe, le cui scosse scuotono perciò tutta la società, ancora non esisteva nel Medio Evo. Le repubbliche italiane erano piccole confederazioni di associazioni, alla cui testa si trovava un governo centrale cosí debole, che qualche volta poteva essere per un momento anche soppresso, senza che se ne risentisse gran danno.

VII

La morte di Corso Donati pose fine alla tragedia cominciata con la cacciata dei Bianchi; ed un nuovo avvenimento mutò ora le condizioni, non solo di Firenze, ma di tutta Italia. Alberto d'Absburgo era stato ucciso da suo nipote, il 1 maggio 1308. Si trattava quindi di eleggere il nuovo re dei Romani, il futuro imperatore. Filippo il Bello sperava con l'aiuto di Clemente V, d'avere, quando non fosse per sé, almeno pel fratello Carlo di Valois, la corona imperiale. Ma il Papa che, trovandosi in Francia, non poteva opporsi direttamente ad un tale disegno, non voleva di certo neppure favorirlo. Cogli Angioini in Napoli, con la sede in Avignone, con Roma a lui ribelle, egli sarebbe restato addirittura in balía di Filippo, quando un Francese fosse divenuto imperatore. E però favoriva segretamente Arrigo di Lussemburgo, che risultò eletto il 27 di novembre 1308, pigliando il nome di Arrigo VII. Nato sulle frontiere della Francia, nella quale era stato educato, egli serbava in sé qualche cosa di germanico e di latino ad un tempo. Non aveva veramente nessuna forza e potenza propria, i suoi stati essendo poca cosa; ma d'un animo nobilissimo e fantastico, quasi mistico, era tutto pieno d'un alto concetto della dignità e grandezza dell'Impero universale, che voleva restaurare in Roma. Non sembrava comprendere punto, che l'unione feudale della Germania coll'Italia, non riuscita neppure nel primo Medio Evo, era divenuta impossibile ora che l'Italia aveva quasi distrutto il feudalismo, base principale del sacro-romano Impero. Nondimeno le speranze che Arrigo destò nel partito ghibellino, quando cominciò a spiegare la sua bandiera, furono infinite, e si diffusero con grandissima rapidità nella Penisola. Pareva che improvvisamente un vero entusiasmo s'impadronisse di tutti gli animi.

I Ghibellini adesso non erano piú quelli d'una volta, l'idea dell'Impero s'era in Italia trasformata. L'attitudine presa dai Papi contro la libertà e l'indipendenza delle repubbliche; la loro lotta continua contro il Comune di Roma; la lontananza, la debolezza, la dipendenza di Clemente V dalla Francia; il bisogno già cominciato a sentirsi per tutto, di creare sulle rovine degli antichi municipi un nuovo Stato, quale già di fatto si vedeva sorgere in Francia ed altrove; il risorgimento degli studi classici, che nella Repubblica e nell'Impero di Roma antica facevano letterariamente intravedere l'unità e la forza di quello Stato laico, che la realtà delle cose rendeva necessario; tutto ciò aveva, nella mente degli uomini, alterato affatto l'idea dell'Impero medioevale. Ora che la Francia ed altre regioni se n'erano separate, esso non era piú universale, ma solamente romano-germanico, eppure agli occhi degl'Italiani cominciava ad apparire, sebbene assai confusamente, come se fosse la resurrezione dell'antica Roma, che era sempre capo morale del mondo civile, e poteva divenire centro d'uno Stato italiano confederato. Questa idea fu prima di tutti formulata chiaramente dall'Alighieri nella sua Monarchia, che divenne allora il programma del partito ghibellino. Trovò di poi piú largo svolgimento nel Defensor Pacis di Marsilio da Padova, e piú tardi ancora la vediamo riempire di fantastico entusiasmo Cola di Rienzo. Il suo tentativo d'una nuova Repubblica romana, italiana, imperiale, tanto lodato dal Petrarca, fu un sogno, parte scolastico, parte classico-umanistico, parte feudale e medioevale, che però conteneva in germe un oscuro presentimento del futuro stato italiano, che si presentiva, senza ancora capirne la natura. In ogni modo, questo incomposto amalgama d'idee divenne allora la bandiera dei Ghibellini in Italia.

A tutto ciò i Guelfi non opposero un altro programma filosofico. La realtà presente delle cose, il bisogno, l'interesse che c'era a sostenere la indipendenza delle città italiane dal Papa e dall'Imperatore, questa fu la bandiera sollevata allora da Firenze in nome dei Guelfi. La venuta dell'Imperatore rappresentava per essa il risorgimento del vecchio partito ghibellino, quindi d'Arezzo, di Pistoia, di Pisa, di tutte le città nemiche, che l'avrebbero circondata d'un cerchio di ferro, fermando il suo commercio. E però essa chiamava a raccolta le città guelfe, tutti coloro che volevano difendere la propria libertà, e non si volevano rendere schiavi dello straniero, proponendo una confederazione italiana, alla cui testa si pose. Questo è, infatti, il momento in cui la piccola repubblica di mercanti inizia una vera politica nazionale, diviene una grande potenza italiana. E cosí, sotto la forma medioevale d'Impero feudale, universale da una parte, e sotto quella di confederazione municipale dall'altra, il concetto nazionale, per la prima volta, cominciava a balenare, sebbene ancora in nube e da lontano. I due partiti combattevano con ardore pei loro interessi del momento, e pel giusto presentimento che avevano d'un nuovo avvenire, senza però avvedersi, che questo avvenire era possibile solo colla distruzione dell'uno e dell'altro.

Il Papa sembrava adesso favorire Arrigo VII; lo incoraggiava infatti all'impresa d'andare a Roma a prendere la corona imperiale; raccomandava agl'Italiani che gli facessero buona accoglienza. Ma egli (e i Fiorentini lo avevano sin da principio capito) non poteva desiderare che l'Italia fosse sottomessa all'Imperatore: ricordava bene ciò che Federico II aveva fatto soffrire alla Chiesa. E però, seguendo la vecchia politica della Corte di Roma, favoriva nello stesso tempo Roberto di Napoli, il già Duca di Calabria, per la morte di Carlo II, divenuto re di Napoli (3 maggio 1309), il quale naturalmente s'apparecchiava per resistere a tutt'uomo alle pretese d'Arrigo. I Fiorentini sembravano dapprima stare a guardare; non prestavano però nessuna fede agl'incoraggiamenti che il Papa mostrava di dare ad Arrigo. Volevano fare con Clemente piú stretta alleanza, ma questi era irritatissimo anch'egli dalla loro passata condotta, e ripeteva in cuor suo, non senza ragione, le parole di Benedetto XI: «Chi potrebbe mai credere che costoro, combattendo la Chiesa, presumano d'essere suoi figli?» Nondimeno essi, punto sgomenti di ciò, trattarono con re Roberto, il quale teneva sempre presso di loro il De la Rat coi cavalieri catalani, anzi mandava ora anche la sua bandiera. E con questi aiuti i Fiorentini andarono ripetutamente contro Arezzo; né si fermarono quando Arrigo intimò loro di rispettarla come terra d'impero. Ebbero sempre il vantaggio, penetrarono fin dentro la città; ma non poterono restarvi, si disse allora, per tradimento dei Grandi.[221] In fronte a tutti gli atti e bandi del Comune scrivevano: — A onore di Santa Chiesa e della Maestà di Re Roberto, ad abbassamento del Re della Magna.[222]

VIII

Nel 1310, lasciata al figlio la cura delle cose di Germania, Arrigo si mosse per l'Italia. Aveva mandato innanzi Luigi di Savoia, eletto Senatore di Roma, che il 3 di luglio era in Firenze, con due prelati tedeschi. Questi furono ricevuti in Consiglio; ma alla loro domanda, che s'apparecchiassero a ricevere con onore l'Imperatore, Betto Brunelleschi rispose: «Che i Fiorentini mai per niuno signore inchinaro le corna»; risposta che era certo poco conveniente, ma che in sostanza esprimeva il sentimento comune. Infatti i messi imperiali, bene accolti dovunque, nulla poterono ottenere in Firenze, neppure far sospendere la guerra contro Arezzo. Ed a Losanna, Arrigo ricevette gli ambasciatori di quasi tutte le città italiane; ma quelli di Firenze non v'erano. Essa, con grande operosità, si apparecchiava invece alla difesa; rialzava le nuove mura per altre otto braccia, e circondavale di fossati da Porta al Prato fino a Porta San Gallo, e da questa fino all'Arno.[223] Il 30 di settembre Roberto venne da Avignone, dove il Papa lo aveva coronato re di Napoli, e nominato anche vicario di Romagna, per tema che Arrigo volesse impadronirsi di quella provincia da poco alienatasi dall'Impero. Ben presto s'intese coi Fiorentini, e fece con essi gli accordi per la comune difesa. Ciò non ostante, Arrigo s'avanzava, intitolando sempre i suoi atti, in nomine regis pacifici, ed assumendo la persona di giudice imparziale e giusto. Invitava a sé Guelfi e Ghibellini, che tutti voleva ricevere con uguale amplesso. Il 24 di ottobre era a Susa, ed il 6 gennaio 1311, giorno dell'Epifania, prese la corona di ferro nella chiesa di Sant'Ambrogio di Milano.

Ma colà invece della pace da lui sognata, scoppiò subito la guerra civile. I Torriani che erano guelfi, furono cacciati dai Visconti sotto gli occhi stessi d'Arrigo; e da questo momento egli, trascinato con violenza in mezzo ai partiti, cessava d'essere il pacificatore, e tornava Imperatore tedesco, straniero, barbaro. Si disse che i Fiorentini avevano mandato danaro a Guido della Torre, per ribellarlo, il che sarebbe stato causa della sua cacciata. Questo non è certo, ma certo è invece che essi mandarono danari, lettere, ambasciatori a Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, ad altre città lombarde, per sollevarle contro Arrigo, e vi riuscirono.[224] Inviarono inoltre ambasciatori a Napoli, in Francia, sopra tutto in Avignone, dove spendevano e spandevano per corrompere le genti della Curia, a fin di sapere quando il Papa diceva davvero e quando fingeva. La loro febbrile attività era tale per tutto, che il Cardinale da Prato esclamò un giorno, dinanzi al Re di Francia: «Quanto grande ardimento è quello dei Fiorentini, che con loro dieci lendini ardiscono tentare ogni signore».[225]

Ma neppure in cosí difficili momenti i Grandi sapevano smettere in Firenze i loro odi, e di tanto in tanto turbavano la città con qualche nuova zuffa. Nel febbraio del 1311 i Donati uccisero Betto Brunelleschi, che tenevano autore della morte di Mess. Corso, di cui andarono subito dopo a dissotterrare il cadavere a San Salvi, celebrandogli, ora che l'avevano vendicato, solenni esequie.[226] L'ordine però fu rimesso assai presto, perché non c'era tempo da perdere in gare private, e gli animi erano occupati di ben altro. Ai primi di giugno 1311 fu firmata la lega guelfa fra i Fiorentini, Pisani, Pistoiesi, Lucchesi, Sanesi, Volterrani, giurando tutti insieme di resistere con le armi ad Arrigo. Il 26 i Fiorentini mandarono a Bologna il De la Rat con 400 cavalieri catalani, mentre che i Senesi ed i Lucchesi mandavano altre genti in servizio del re Roberto in Romagna, dove esso perseguitava, imprigionava i Ghibellini e gli esuli Bianchi di Firenze, che allora cercavano ribellare le città della Chiesa.[227] Ed al re stesso, non appena corse la voce che egli cercava accordi con Arrigo, scrivevano, invitandolo ad entrar subito in Roma come aveva promesso, avvertendolo che se esitava, se tentava accordi coll'Imperatore, essi, che non volevano mezze misure, avrebbero ritirato le loro genti dalla Lega. «Piú volte la vostra regia potestà ci ha promesso che col re tedesco non voleva accordo nessuno, che avrebbe inviato lo sforzo delle sue armi, e personalmente sarebbe andato in Roma a sterminio del nemico comune».[228] E non fu senza effetto, perché ben presto Roberto mandò suo fratello Giovanni, il quale con 400 cavalieri e l'aiuto degli Orsini, cominciò ad occupare i giunti principali di Roma. Il Re fingeva ancora d'operare come amico dell'Impero; ma nessuno piú s'illudeva, ed i Fiorentini erano contenti.

Arrigo VII, fisso sempre nella sua idea, senza punto accorgersi dello straordinario mutamento che intorno a lui seguiva, dopo aver sottomesso Cremona, trovavasi ad assediar Brescia, che gli opponeva una piú viva resistenza. Il pacifico sovrano incrudeliva adesso contro i prigionieri, e faceva morire fra i piú atroci tormenti uno dei capi guelfi. Ma i Bresciani non cedevano per ciò, ed il fiore dell'esercito tedesco moriva di malattie o di ferite, e di ferite moriva lo stesso fratello d'Arrigo. In mezzo a queste stragi, i Fiorentini scrivevano ai Bresciani: «Ricordatevi che dalla vostra difesa dipende la salute d'Italia tutta e dei Guelfi. I Latini debbono in ogni modo aver per nemica la gente tedesca, d'opere, di costumi, d'animo e volere avversa; impossibile, non che servire ad essa, averla comecchessia compagna».[229] E nello stesso tempo scrivevano ad altre città, incuorandole alla difesa, alla rivolta. Invitavano i Perugini a «scuotere il vassallaggio sotto cui si trovavano, a proclamare la dolce libertà»; e a tutti ripetevano che essi non si sarebbero mai stancati di mandar contro Arrigo armi, uomini, danaro.[230] Nello stesso tempo, per dare maggior forza alla cittadinanza ed alla parte guelfa, levarono il bando a tutti gli esuli che si potevano credere amici dei Guelfi, lasciandolo solo contro quelli che ritenevano ghibellini, i quali arrivavano sempre a parecchie centinaia, e fra di essi era Dante Alighieri. Questo ribandimento di esuli fu chiamato la riforma di Baldo d'Aguglione, il quale era uno dei Priori che lo deliberarono il 2 di settembre 1311.[231]

Intanto Brescia, dopo un'eroica resistenza, s'era dovuta arrendere a patti, ed Arrigo s'avviò subito a Genova, dove era il 21 ottobre 1311. Ivi fu grandemente addolorato dalla perdita della moglie, ma non per questo rallentò punto i preparativi necessari a continuare il suo cammino per la via di Pisa a Roma. E a tali notizie i Fiorentini raddoppiarono i loro sforzi. Fornirono di genti S. Miniato al Tedesco; richiamarono da Bologna il De la Rat con i suoi; fecero provvedere d'uomini Lucca, Sarzana, Pietrasanta, i castelli di Lunigiana, il Valdarno di ponente.[232] Ma, quello che è assai notevole, neppure in questi cosí difficili momenti perdevano di vista il loro commercio. Infatti essi scrivevano allora appunto al Re di Francia, facendogli conoscere le gravi difficoltà, in cui la venuta d'Arrigo li aveva messi, e dolevansi che la presente guerra facesse pigliare al Re provvedimenti che danneggiavano il commercio dei loro mercanti, dai quali dipendeva in gran parte la prosperità di Firenze: « cum Civitas nostra ex predictis Florentinis ex maiori parte consistat. Voi,» essi concludevano, «li avete sempre protetti, e nella Maestà Vostra noi poniamo, dopo Dio, il fondamento principale della nostra speranza, massime ora che Arrigo minaccia di andare a Pisa, e venir contro di noi, qui firmavimus et parati sumus nostram quam a vobis et a vestris recognovimus, defendere libertatem ». E chiedevano che il Re provvedesse in modo che, anche durante la guerra, il loro commercio potesse continuare in Francia senza interruzione.[233]

Intanto l'Imperatore aveva mandato a Firenze nuovi ambasciatori, Niccolò vescovo di Botrintò e Pandolfo Savelli; ma essi, dopo mille traversie, che incontrarono per via, arrivati alla Lastra, furono prima derubati, e poi messi anche a pericolo della vita. Le campane sonarono a stormo, la loro dimora venne invasa da gente armata, ed a fatica furono salvati dal Podestà e dal Capitano giunti da Firenze, i quali li consigliarono a partir subito, il che essi fecero piú che in fretta.[234] L'Imperatore allora citò (20 novembre 1311) i Fiorentini a comparire in Genova dinanzi a lui, per scusarsi e prestargli obbedienza. Ma, non avendo, come era da prevedere, obbedito, pronunziò (24 dicembre) contro la loro città il bando dall'Impero,[235] di che essi fecero il conto medesimo che avevano fatto degl'interdetti del Papa. Richiamarono però da Genova i loro mercanti, continuando ad armare.

E qui noi abbiamo un'altra fra le tante prove della condotta sempre turbolenta dei Grandi. In questi giorni appunto, senza curare i gravi pericoli nei quali la Repubblica si trovava, essi misero colle loro private vendette la città a soqquadro. Il dí 11 gennaio 1312, Pazzino dei Pazzi, assai amato dal popolo, e uno dei maggiorenti, andando a cavallo a caccia, fu raggiunto ed ucciso da Paffiera dei Cavalcanti, per vendicare la morte al Pazzi attribuita di Masino dei Cavalcanti e di Betto Brunelleschi. Il corpo dell'ucciso fu portato al Palazzo dei Priori, ed il popolo indignato, prese le armi, corse sotto il proprio gonfalone alle case dei Cavalcanti, che furono arse. La Signoria allora, per metter subito un freno a questi tumulti, esiliò i Cavalcanti, e nominò cavalieri quattro dei Pazzi, ai quali dette in premio alcuni beni e rendite del Comune.[236] Cosí anche ora l'ordine fu subito ristabilito.

IX

Arrigo s'apparecchiava intanto a partire per Roma; nel campo imperiale i menestrelli cantavano la morte pietosa di Corradino, e la musa popolare dei Ghibellini continuava a salutare ed esaltare il giusto giudice, il celeste paciaro. Poeti, letterati, giuristi, filosofi s'ostinavano a vedere in lui un nuovo redentore, che doveva restituire a Roma la corona imperiale, all'Italia dar pace e libertà. Cino da Pistoia esclamava: Nunc dimittis servum tuum, Domine, quia viderunt oculi mei salutare tuum.[237] Ma piú di tutti s'era esaltato Dante Alighieri, che in questo momento fu come il rappresentante principale del partito imperiale in Italia. Fin da quando Arrigo s'era avvicinato alle Alpi, egli aveva scritto una lettera ai principi e governi d'Italia, esclamando: «Osanna a te, misera Italia, che ormai sarai da tutti invidiata, perché Sponsus tuus et mundi solatium et gloria plebis tuae, clementissimus Henricus, Divus et Augustus et Caesar, ad nuptias properat. Si rallegrino gli oppressi, che la loro salute è vicina. Perdonino, perdonino coloro che come me hanno sofferto ingiurie, perché ora il Pastore, mandato da Dio, ci ricondurrà tutti all'ovile».[238] Ma piú tardi, quando Arrigo stava per andar contro Cremona, e i Fiorentini già gli si erano dichiarati aperti nemici, la gioia dell'Alighieri si mutò in ira, e dalle sorgenti dell'Arno, sui monti del Casentino, scriveva il 31 marzo 1311, una nuova Epistola indirizzata: Scelestissimis Florentinis. «Non sapete voi che Iddio ha ordinato il governo del genere umano sotto un solo Imperatore, a difesa della giustizia, della pace, della civiltà, e che l'Italia fu sempre in preda alle guerre civili ogni volta che l'Impero mancò? E osate, voi soli, ribellarvi al giogo della libertà, e cercare nuovi regni, come se alia sit florentina civitas, alia sit romana? Voi, vanissimi ed insensati, soccomberete all'aquila imperiale. Non sapete che la libertà vera sta nell'obbedire volontariamente alle leggi divine ed umane? E mentre che presumete di volere la libertà, cospirate contro tutte le leggi!»[239] Quando poi Arrigo, invece d'andare innanzi, si fermava in Lombardia a combattere le città sollevategli contro dai Fiorentini, lo sdegno di Dante arrivò al colmo, ed il 16 di aprile dello stesso anno gli scriveva nuovamente: «Si dice che tu esiti nella tua impresa, e che, scoraggiato, vuoi tornare indietro. Ma non sei tu dunque l'aspettato da tutti noi? Quando le mie mani toccarono i tuoi piedi, io esultai, esclamando: Ecce agnus Dei, ecce qui abstulit peccata mundi. Che indugi? Se non ti muove la tua propria gloria, ti muova quella almeno di tuo figlio:

Ascanium surgentem, et spes haeredis Iuli

Respice, cui regnum Italiae, romanaque tellus

Debetur...

( Aen, IV, 272).

A che ti giova fermarti a sottomettere Cremona? Insorgeranno Brescia, Bergamo, Pavia, altre città, fino a che non estirperai la radice del male. Ignori tu forse dove riposa e cova la fetida volpe? Essa s'abbevera nell'Arno, che avvelena con le sue labbra. Non sai che si chiama Firenze? Questa è la vipera che s'avventa al seno della madre, la pecora che corrompe il gregge, la Mirra incestuosa col padre. Infatti è dessa che dilania il seno della madre Roma, che la fece a sua similitudine, e viola gli ordini del Padre dei fedeli, che è teco d'accordo. E mentre che dispregia il proprio sovrano, parteggia con re non suo, diritti non suoi. Dunque non esitare, e colla frombola della tua sapienza, colla pietra della tua fortezza abbatti il nuovo Golia».[240]

Questo linguaggio scolastico, biblico e classico ad un tempo, spesso anche ampolloso, dipinge mirabilmente le idee del tempo, e dimostra quanto si fosse esaltato lo spirito di Dante. Egli è certo il primo che chiaramente esponga il nuovo concetto dei Ghibellini, che s'era andato svolgendo e maturando nella sua mente, quando egli si separò sdegnosamente dai compagni d'esilio, per chiudersi nello studio. Questo concetto che, come già dicemmo, trovasi ampiamente delineato nella Monarchia, era di certo piú teorico e letterario, che pratico; ma esso aveva profonde radici nelle idee del tempo, e nel libro che lo espone si vede già assai chiara la tendenza del secolo a trasformarsi. Leggendo, noi siamo assai spesso ricondotti nel Medio Evo, ma una nuova aurora biancheggia pure dinanzi ai nostri occhi. «L'Impero rappresenta il diritto, che è il saldo fondamento dell'umana società; deriva perciò da Dio, da cui l'Imperatore riceve il suo potere, non altrimenti che il Papa». Come si vede, è già la società laica, indipendente, emancipata dalla Chiesa, ed è la prima volta che l'idea d'uno Stato fondato sul diritto, idea ispirata dall'antica Roma, suggerita da nuove necessità pratiche, viene formolata in sull'uscire dal Medio Evo, che l'aveva negata. Dante però non s'accorge che il nuovo Stato deve di sua natura essere nazionale, e non vede che l'Impero universale, rappresentato da Arrigo VII, che egli invoca, è quello appunto che rende impossibile questo Stato. Cosí ciò che v'ha di nuovo, quasi di profetico, nel suo libro, è distrutto da ciò che vi ha di teorico e di scolastico. Lo Stato laico, indipendente, che egli già vede con la sua gran mente, deve trionfare; ma questo trionfo farà sparire l'Impero medioevale, di cui egli, col suo libro, voleva scrivere l'apoteosi, e scriveva invece l'epitaffio, come fu giustamente osservato. Eppure il concetto non solo dello Stato, ma dello Stato nazionale, sebbene in confuso e da lontano, piú d'una volta balena nel suo libro, svolgendosi faticosamente attraverso il classicismo che risorge. L'Impero infatti è inseparabile dalla Città Eterna, da cui deriva, di cui è l'erede. La venuta dell'Imperatore a Roma, sua sede naturale, permanente, dovrà ricondurla all'antica grandezza. E Roma e l'Italia non sono una sola e medesima cosa? Arrigo VII è il rappresentante non solamente del diritto, ma della pace, della libertà, della civiltà, e l'Italia troverà in lui la fine delle sue miserie, la garanzia delle sue libertà. Non è egli il padrone del mondo? Epperò nulla può desiderare di piú, e non potrà non essere a tutti giusto signore e padre, rispettando tutti i diritti e le giurisdizioni legalmente acquisite. Ma era appunto questo suo voler esser signore di tutto e di tutti, ciò che si opponeva a quello spirito nazionale, che già si cominciava a sentire da molti, e che, quasi a sua insaputa, veniva cosí vivamente esaltato dall'Alighieri, nel momento stesso che lo negava col chiedere la resurrezione dell'Impero.

Una tal contraddizione rendeva tragica davvero la condizione in cui lo spirito di Dante si trovava. Egli era profondamente sincero e convinto della verità delle sue idee. Pieno di santo sdegno contro coloro che aiutavano il Papa e gli Angioini, memore di ciò che aveva visto operare da Bonifazio VIII e da Carlo di Valois in Firenze, prevedeva, quasi vedeva le molte calamità che i suoi avversari avrebbero, colla loro ostinazione, fatto ripiombare su tutta Italia. Ma non vedeva che il suo concetto politico avrebbe ricondotto l'Italia al Medio Evo feudale, resa vana l'opera dei Comuni, e le loro lotte secolari, alle quali egli stesso non era stato estraneo. In mezzo a questo conflitto, che era nella sua mente, nacque la Divina Commedia, nella quale due mondi sono in presenza, spesso a contrasto, ed uno spirito nuovo, rianimando il passato, lo trasforma e ne fa sgorgare l'avvenire, un'arte, una letteratura, una civiltà nuova. Nel grande poema la realtà umana delle passioni e della vita, penetrando nelle mistiche nebbie del Medio Evo, le dissipa finalmente per sempre. Il filosofo, lo storico vi trovano quindi tutti gli elementi che costituirono quel secolo, in cui una società muore, ed un'altra, quasi sotto i nostri occhi, apparisce e si forma. Ma se da tale conflitto sgorgò una poesia immortale, non ne sgorgò, e non poteva, una politica pratica.

Ed era ciò che dava il vantaggio ai Fiorentini, i quali si tenevano invece stretti alla presente a prossima realtà. Essi contavano e pesavano le balle della seta e della lana; calcolavano di quanto sarebbero, col trionfo dell'Impero in Italia, diminuite la loro importazione e la loro esportazione; e vedevano in esso la rovina del loro commercio; il trionfo dei loro nemici, dei Grandi, di Pisa, dei molti piccoli tiranni italiani; la rovina delle loro libertà e del governo delle Arti. I fatti di Milano, di Cremona, di Brescia non davano loro ragione? E perciò essi chiamavano a raccolta le città guelfe, e nel nome d'Italia, della libertà e della comune indipendenza, le confederavano a difesa contro lo straniero. Ma s'alleavano anche con Roberto, e sposavano la causa della Francia e del Papa, il cui trionfo sarebbe stato a sua volta, come fu di fatto, funesto alla libertà ed alla indipendenza italiana. La nazione, noi lo abbiamo già detto, poteva cominciare a formarsi solo colla distruzione, sulle rovine dell'uno e dell'altro partito. Il lungo e faticoso processo di storica evoluzione, che doveva apparecchiare un avvenire lontano, era allora ignoto a tutti. I Fiorentini pensavano solo a salvare il presente, ed in ciò ebbero ragione e furono fortunati.

X

Intanto Arrigo VII, vittima coronata del proprio fato, come dice il Del Lungo, s'avanzava impassibile, fidente. Il dolore di avere egli, re pacifico, insanguinate le città italiane, e seminata la discordia; la perdita del fratello, e della moglie; la morte dei suoi migliori soldati; l'abbandono di molti amici; il sarcasmo sprezzante dei nemici non gli facevano perdere la sicurezza e la fede nella sua impresa. Il 6 marzo del 1312, tranquillo e sereno, entrava in Pisa, dove fu accolto con grandissima festa, e si trattenne fino al 23 d'aprile fra un popolo a lui veramente amico. I Pisani gli avevano già mandato 60,000 fiorini a Losanna, ed ora gli professavano sincera sottomissione, accettando da lui nuovi magistrati, e promettendogli altra uguale somma.[241] Né egli si sgomentò punto, quando seppe che le forze del principe Giovanni, fratello di Roberto, erano in Roma cresciute.

Il principe aveva seco piú di 600 cavalieri catalani e pugliesi, e già glie ne erano venuti altri 200 dei migliori cavalieri fiorentini, comandati dal De La Rat, che aveva menato anche mille pedoni, oltre i suoi Catalani. Da Lucca, da Siena, da altre città erano venute nuove genti. Il Campidoglio, S. Angelo, Trastevere, tutte le fortezze furono cosí occupate. E finalmente il re di Napoli, che aveva prima affermato d'aver occupato Roma come amico, si dichiarava adesso aperto nemico d'Arrigo. Questi nondimeno s'avanzava con soli 2000 cavalieri, oltre parecchi fanti, ed il 7 di maggio 1312 entrava nella Città Eterna. Il Campidoglio fu subito da lui assalito e preso con la forza; ma quando si provò ad aprirsi con le armi la via a S. Pietro, per pigliarvi la corona imperiale, vi fu allora nelle strade una vera battaglia; ed una sortita da Castel S. Angelo respinse le sue genti, che subirono gravi perdite. Né la coronazione avrebbe avuto mai luogo, se il popolo romano, che gli era favorevole, non avesse minacciosamente obbligato i prelati a compiere, contro l'usanza, in Laterano la solenne cerimonia (29 giugno). Ma ora dovette accorgersi che nemico gli era anche il Papa, il quale gli ordinava di non assalire Napoli, di far tregua d'un anno col Re, di lasciar Roma il giorno stesso della incoronazione, di rinunziare ad ogni diritto sulla Città Eterna, né piú tornarvi senza permesso. La maschera era finalmente caduta, e i Fiorentini erano stati i piú accorti profeti. Però in questo stesso momento, in cui la loro politica guelfa trionfava, e la rottura tra Papa e Imperatore era cosí manifesta, il popolo romano proclamava Roma città imperiale, ed il Campidoglio sede perenne dell'Imperatore, il quale solo dal popolo romano doveva riconoscere la sua autorità. « Dum sola tribunitia, exterminatis Patribus, potestas adolevisset illo sub magistratu.... omnia haec paravi Caesari, ipsum evocandum in Urbem, vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe recogniturum ».[242] Era l'idea stessa di Dante proclamata ora dal popolo di Roma.

Arrigo finalmente, dopo molto esitare, si decise a seguire il consiglio, che l'immortale poeta già da un pezzo gli aveva suggerito, e andò ad assediar Firenze. Traversò nell'agosto la campagna romana, che con le febbri decimò le sue genti, e dopo aver preso Montevarchi e S. Giovanni, venne a Figline.[243] I Fiorentini accorsero in gran fretta, senza buoni capitani, quasi tumultuariamente, con molti fanti e 1800 cavalieri, al Castello dell'Incisa. Ma non vollero poi accettar battaglia, e l'Imperatore per altra via continuò il suo cammino, respingendo vigorosamente tutti coloro che dall'Incisa gli vennero incontro per fermarlo. Il 19 di settembre cinse d'assedio Firenze, ponendo a S. Salvi il suo quartier generale. E i cittadini, che non sapevano ancora nulla di ciò che era seguito del loro esercito, trovandosi come sorpresi, corsero subito alle armi, e sotto i gonfaloni del popolo andarono alle mura, dove venne anche il vescovo, armato coi suoi preti. Dopo due giorni, i militi che erano andati incontro all'Imperatore, per vie traverse tornarono in Firenze, dove arrivarono anche aiuti da Lucca, Siena, Pistoia, Bologna, dalla Romagna, da tutte insomma le città della Lega. E cosí, secondo il Villani, si mise insieme un esercito di 4000 cavalli, con numero infinito di fanti. L'Imperatore, che aveva solo 800 cavalieri tedeschi, mille italiani e buon numero di fanti non poté far altro che dare il guasto alla campagna. Fortunatamente per lui l'annata era stata assai fertile, e quindi non mancarono le vettovaglie ai suoi soldati. I Fiorentini, sebbene in numero tanto superiore, non osarono neppure adesso uscire a battaglia; ma nella città si sentivano tanto sicuri, che solo le porte di fronte all'Imperatore erano chiuse le altre restavano aperte, e i traffici procedevano come in tempo di pace. In tal modo si continuò sino al novembre, quando la notte d'Ognissanti Arrigo VII, ormai stanco ed esausto, se ne parti per Poggibonsi e Pisa. Lo seguirono i Fiorentini, e piú volte lo assalirono per via, ora con prospera, ora con avversa fortuna. A Poggibonsi restò fino al 6 marzo 1313, privo di denari e di vettovaglie, con l'esercito stremato in modo che non aveva piú di mille cavalieri. Pure continuò la sua via e, sebbene gli assalitori fossero, secondo il Villani, quattro contro uno, poté pur sempre resistere, arrivando a Pisa il 9 di marzo.

Era allora, pei travagli dell'animo e del corpo, rovinato in salute, senza danari, senza soldati, pure senza aver perduto la sua fede e la sua calma. Iniziò quivi molti processi contro i Fiorentini, che privò delle loro giurisdizioni; depose i loro giudici e notai; impose grosse taglie; condannò nell'avere e nella persona molti dei loro cittadini, sentenze che restarono tutte prive di effetto. Ma egli continuava senza darsene pensiero. Proibí loro di batter moneta, consentendo ad Ubizzo Spinola di Genova, ed al marchese di Monferrato di battere nelle loro terre fiorini falsi col conio fiorentino, cosa che fu molto biasimata, come contraria alla pubblica fede.[244] Condannò il re Roberto come traditore dell'Impero, e s'alleò con Federico di Sicilia, con i Genovesi. Voleva andare contro Napoli, non ostante che il Papa avesse minacciato la scomunica a chi assalisse quel regno, ritenuto feudo della Chiesa. Tutto pieno d'ardore e di fede nella nuova impresa, mandò in Lombardia ed in Germania, per avere uomini e danari. Raccolse cosí 2,500 cavalli oltramontani, 1,500 italiani, oltre le genti a piede. I Genovesi armarono 70 galere; Federico ne armò 50; i Pisani, che già per lui avevano fatto ogni sacrifizio, ne armarono 20; raccolse anche del danaro, e il dí 8 agosto 1313 parti, non senza ragionevole speranza di buona fortuna. Ma il 24, arrivato a Buonconvento, morí, e cosí tutto fu finito.

Il 27 dello stesso mese i Fiorentini, con grandissima gioia, annunziavano ai loro amici, che «Gesú Cristo aveva fatto morire quello fierissimo tiranno Arrigo, che i ribelli persecutori di S. Chiesa, cioè i Ghibellini vostri e nostri nemici, chiamavano Re dei Romani e Imperatore».[245] Già, lui vivente, essi avevano dato per cinque anni la signoria a Roberto; gliela rinnovarono ora per altri tre, a condizione, ben inteso, che il governo restasse libero, guelfo e popolare nelle loro mani. Si trattava solo d'avere da lui un capo militare che menasse, in nome e con la bandiera del Re, alcuni buoni uomini d'arme, e potesse comandare le forze cittadine, per difendere la Repubblica contro i possibili assalti di Genova e di Pisa, contro i capitani ghibellini, come Uguccione della Faggiuola ed altri. Di quest'ultimo soprattutto si temeva e di Pisa; che già aveva preso al suo soldo mille dei soldati d'Arrigo, i quali formarono la prima di quelle compagnie di ventura, destinate ad essere ben presto un vero flagello d'Italia.[246] Il Papa, schiavo ormai della Francia, si gettò nelle braccia di Roberto, che nominò Senatore di Roma, dove tornarono subito i vicari angioini. Egli presumeva di potere, durante la vacanza dell'Impero, assumerne tutta l'autorità, e quindi annullò il decreto d'Arrigo contro Roberto, che nominò vicario imperiale in Italia, sino a due mesi dopo la prossima elezione.

Non ostante la nuova potenza di Roberto, e la signoria a lui affidata della loro città, i Fiorentini ebbero allora un grande aumento di forza morale e materiale, poiché avevano meglio assai degli altri preveduto l'avvenire, erano stati gli autori principali di tutto ciò che era seguito, si trovavano amici ed alleati di coloro che insieme con essi avevano trionfato. Il popolo rimaneva in sostanza padrone; i Grandi erano disfatti; il commercio, non interrotto durante la guerra, pigliava colla pace nuovo vigore. Ma che cosa era divenuta la confederazione guelfa, e il nome d'Italia che essi avevano invocato nel formarla? Tutto era svanito in un attimo. Il fatto stesso che essi si sentivano appunto ora costretti a cercare un re che li proteggesse, dimostra chiaro che, non ostante cosí prospera fortuna, la loro repubblica, restando sola, non sentiva la fiducia e la forza necessarie a renderla davvero indipendente e padrona di sé. Ciò minacciava di necessità nuove complicazioni e nuovi pericoli, i quali pur troppo non potevano tardar molto. Il Comune italiano doveva morire; lo Stato moderno doveva nascere; ma per arrivarvi bisognava passar sotto la tirannide. Questo è il fato che da lontano pesa ora anche su Firenze.

Dopo la morte di Arrigo VII muta il carattere dell'Impero e delle sue relazioni con l'Italia. Dopo l'alleanza del Papa con la Francia mutano sostanzialmente anche le relazioni del Papato coi Comuni italiani, alla cui indipendenza e libertà esso si dimostra sempre piú avverso. Il Medio Evo si chiude, un'epoca affatto nuova incomincia ora nella storia di Firenze e dell'Italia.

AVVERTENZA

Della Cronica attribuita a Brunetto Latini, e di coloro che recentemente se ne occuparono, noi abbiamo già parlato piú sopra (Vol. I, pag. 42 e seg.); ora dobbiamo aggiunger poche parole a spiegare le ragioni e il modo della pubblicazione che ne facciamo. Questa Cronica degli ultimi del secolo XIII era nota da lungo tempo, e la sua importanza fu subito riconosciuta, perché vi si trova il piú antico e compiuto elenco di Consoli e Podestà fiorentini che si conosca. Esso infatti comincia coll'anno 1180, mentre l'altro, che fu pubblicato dal Fineschi ( Memorie storiche ecc.: Firenze, 1790) incomincia solo col 1196. E senza la Cronica non sarebbe possibile colmar la lacuna neppure coi documenti, perché questi dal 1180 al 1196 sono ora scarsissimi. Il nostro autore ne vide certamente alcuni che poi andarono perduti.

Per tutto ciò questa Cronica doveva richiamare l'attenzione degli storici e degli eruditi. Del suo elenco di Consoli e Podestà si valsero, infatti, l'Ammirato ( Storie fiorentine ) ed il Padre Ildefonso ( Delizie, VII, 137); l'infaticabile senatore Carlo Strozzi lo copiò insieme con alcuni brani della narrazione. Piú tardi, nel 1832, L. M. Rezzi, bibliotecario della Barberiniana di Roma, pubblicò da un codice del sec. XVII, ivi esistente, lo stesso elenco, con alcune notizie degli anni 1210,[247] 1213, e specialmente una narrazione del notissimo fatto del Buondelmonti (1215), assai diversa da quella lasciataci dal Villani. E a tutto ciò, seguendo l'indicazione del codice Barberiniano, dette il titolo di Storietta antica: credesi di S. Brunetto Latini. Anche nel manoscritto ora smarrito, di cui s'era servito il Padre Ildefonso, si leggeva: cuius auctor dicitur S. Brunettus Latini. Per qual ragione poi, e da chi la prima volta s'attribuisse a colui che fu tenuto maestro di Dante una cronica, la quale narra fatti posteriori alla morte del presunto autore di essa, noi non sappiam dire. L'averla però a lui attribuita dimostra che se ne riconosceva l'importanza e l'antichità.

Ma allora si potrebbe qui domandare: perché mai nessuno pensò finora a pubblicarla, come s'è pur fatto di tante altre croniche meno antiche e piú voluminose? La risposta può darsi solo esaminando la Cronica stessa nei codici che la contengono. Essi, come abbiam detto altrove, sono due: l'Autografo, che è mutilo ed incomincia con la carta 39, dove prima registra i Consoli del 1180, poi accenna al pontificato di Alessandro III, che fu eletto nel 1159; ed il Gaddiano, che è una copia del secolo XV, la quale ci dà tutta la Cronica, incominciando da Gesú Cristo primo e sommo pontefice, e da Ottaviano imperatore. In questo secondo codice, noi vediamo che essa procede, narrando le vite dei Papi ed Imperatori fino al 1249, dove fa un salto di 35 anni circa, per ripigliare il racconto al 1285, e continuarlo fino al 1303, o piú veramente al 1297, con una sola notizia (di mano posteriore) del 1303, cui s'aggiunge l'indicazione dell'anno 1316,[248] con le parole «Giovanni XXII...». E qui resta in tronco.

Si tratta evidentemente d'un lavoro abbozzato e non finito, con diverse lacune, una delle quali, come s'è detto, dal 1249 al 1285, un'altra dal 1220 al 1226, dove sono, nell'Autografo, tre carte bianche. Esso lavoro può dividersi in tre parti, ciascuna con un carattere suo proprio. La prima, che è piú lunga delle altre due insieme riunite, arriva fino al 1180 circa. Questa parte, che manca affatto nell'Autografo mutilo, non è altro che un sunto italiano del testo latino delle vite dei Papi ed Imperatori di Martin Polono, senza nessuna notizia su Firenze, salvo alcuni pochi paragrafi, privi affatto d'ogni valore storico, che riproduciamo in nota qui sotto.[249] La seconda parte, che va dal 1180[250] al 1249, continua il sunto di Martin Polono, aggiungendovi però molte notizie fiorentine. Se la esaminiamo nell'Autografo, dove si trova quasi tutta, a cominciare cioè dal 1181, vediamo chiaramente come essa fu dall'autore compilata. Nella colonna di mezzo egli continuò il sunto cominciato nella prima parte; ma nei due larghi margini, a destra ed a sinistra, andò, via via che poté raccoglierle, registrando notizie su Firenze. E si direbbe che, per aiuto della memoria, avesse voluto usare una diversa scrittura, secondo le fonti diverse cui attingeva. Nel codice Gaddiano, invece, tutto ciò venne riunito, fuso insieme, probabilmente per opera di chi in esso copiò l'Autografo. Ciò si può dedurre anche dal modo incerto e mal sicuro con cui furono qualche volta connessi fra loro i vari brani.

Per qual ragione poi il cronista, arrivato al 1249, saltasse all'anno 1285, noi non sappiam dirlo. È possibile che, vivendo nel 1293, come dice egli stesso, cominciasse dapprima la sua narrazione dall'anno 1285, con l'intendimento di scrivere solo una cronica di fatti contemporanei, sui quali era a lui agevole avere maggiori e piú esatte notizie. Arrivato però ai giorni in cui scriveva, si può credere, seguendo la nostra ipotesi, che gli venisse l'idea di rifarsi da capo, e cominciasse quindi dai tempi di Gesú Cristo, con l'intendimento di compilare un piú vasto lavoro. Ma non riuscendogli fino all'anno 1180 di trovare notizie su Firenze, si dove contentar di fare un sunto della storia generale di Martin Polono, aggiungendovi dal 1181 in poi quelle notizie fiorentine che gli riuscí di raccogliere. Arrivato al 1249, non poté forse, per morte o per altra ragione, continuare questa seconda parte del suo lavoro, la quale rimase perciò interrotta al pari della terza ed ultima, che era stata scritta prima, sebbene narrasse fatti posteriori. Ma in ogni modo, sia che s'accetti o no la nostra ipotesi, certo quest'ultima parte è di un genere affatto diverso da tutto ciò che la precede. Non solamente le notizie su Firenze in essa abbondano, e si vede, esaminando l'Autografo, che furono sin dal principio fuse col sunto di Martin Polono; ma il sunto è qui divenuto qualche cosa d'affatto secondario, ed in sostanza abbiamo una vera e propria cronica fiorentina. Chi piú tardi raccolse tutti questi fogli, li riuní con una numerazione sola, non interrotta neppure là dove si ha la lacuna di 35 anni.[251]

Da tutto quello che abbiam detto apparisce chiaro, che nessuno poteva sentirsi invogliato a pubblicare una cronica fiorentina, la quale per piú d'una metà non è che il sunto dell'opera di Martin Polono, notissima fra di noi, e già sin d'allora stata assai spesso copiata, tradotta, compendiata; una cronica che in tutto il resto appariva compilata in maniera da doversi ritenere piú che altro un abbozzo incompiuto, quasi una raccolta d'appunti. È ben vero che anche il Villani ed il pseudo Malespini cominciarono col copiare e compendiare Martin Polono; ma essi si valsero pure d'altre fonti storiche medioevali, e dettero al Polono una parte molto minore nell'opere loro, le quali perciò divennero ben presto vere e proprie croniche fiorentine, assai piú corrette e limate nella forma. Bisogna inoltre notare che, sin dalle prime pagine, essi aggiunsero tradizioni, leggende, favole sulle origini di Firenze, ed il Villani anche notizie cavate da antichi scrittori latini, specialmente da Sallustio.

Comunque sia di ciò, certo è che non solo la Cronica attribuita a Brunetto Latini non fu mai pubblicata, ma si finí ancora col perdere poco a poco ogni traccia dei codici che la contenevano. Restaron sempre noti l'elenco dei Consoli e Podestà, con quei brani di narrazione già dati alla luce dal Rezzi.[252] Piú tardi, col ricominciare delle indagini sulle origini di Firenze, si ricercarono di nuovo i manoscritti della Cronica. Noi abbiam detto altrove (Vol. I, pag. 42 e segg.) quale fu la parte che ebbero in queste ricerche l'Hartwig, il Santini e l'Alvisi. Il primo di essi, che ne fu il vero iniziatore, pubblicò nelle sue Quellen und Forschungen tutte le notizie fiorentine, che poté cavare da quella parte della Cronica, che si trova nell'Autografo da lui nuovamente scoperto. Il prof. Santini ed il bibliotecario Alvisi, unitisi al dott. Rödiger, fecero poi tutti gli studi necessari ad una compiuta pubblicazione della Cronica stessa, che trascrissero dai due codici, e andarono stampando con note, illustrazioni e confronti. È certo da deplorare che un tale lavoro, già da molti anni condotto quasi a termine, non abbia finora visto la luce. Né se ne è mai saputo altro.

Quindi è che, dopo aver lungamente invano aspettato ed anche sollecitato questa pubblicazione, pensai che, fino a quando non sarà compiuta un'edizione diplomatica ed illustrata della Cronica, poteva essere opportuno farla in qualche modo conoscere agli studiosi; e mi decisi perciò a stamparla in una forma assai piú modesta, come appendice ad un lavoro su Firenze. Essa va fino al 1297, e quindi abbraccia quasi tutto il medesimo periodo di storia fiorentina, di cui mi sono occupato in queste Ricerche, nelle quali ho dovuto spesso citarla. Di essa si è in questi ultimi anni molto e da molti continuamente parlato, e qualunque opinione si abbia del suo valore storico, certo è l'opera d'un precursore del Villani, a cui secondo alcuni serví anche di modello. Ci dà poi varie notizie che in lui non troviamo, e spesso narra i medesimi fatti con particolari nuovi o diversi. Anche la forma incompiuta ed imperfetta, in cui ci è rimasta, ha il vantaggio di farci meglio conoscere, quasi direi di metterci sotto gli occhi il modo preciso che tennero, il metodo che seguirono gli antichi cronisti fiorentini nel compilare le loro narrazioni. Certo una edizione diplomatica o una fototipia dell'Autografo renderebbero tutto ciò assai piú evidente; ma questo non poteva ora essere il nostro scopo. Noi abbiam voluto solo pubblicare un documento che ci pare importante, che illustra, spesso conferma la nostra narrazione. E perciò credemmo opportuno di sopprimere tutta quella prima e piú lunga parte della Cronica, che, dando solo un magro sunto di Martin Polono, poco diverso da quelli che si trovano in molti codici, o anche a stampa, nulla assolutamente dice di Firenze. Cominciammo di là dove si legge la prima notizia di storia fiorentina.

Ci siamo nella stampa attenuti fedelmente ai manoscritti. Ed essendoci necessariamente dovuti valere non solo dell'Autografo,[253] ma ancora, per quella parte che in esso manca affatto, della copia Gaddiana, che è assai posteriore, trovammo due ortografie assai diverse, delle quali riproducemmo non solo le singolarità, ma anche gli errori, quando erano facilmente riconoscibili e non generavano equivoco. Dove sembrò veramente necessario, li correggemmo, segnalandoli in nota. Le parole che mancano nell'originale per rottura della carta, supplimmo in parentesi quadre, col riscontro di Martin Polono (edizione d'Anversa del 1574); qualche volta ricorremmo ancora ad altri testi, dichiarandolo però sempre esplicitamente nelle note. Tutti gli spazi vuoti, che non ci fu possibile riempire, furono rappresentati da puntini.

Del merito che negli studi fatti sulla Cronica ebbero i signori Hartwig, Santini, Alvisi e Rödiger abbiamo piú volte discorso. Ora dobbiamo ringraziare il nostro amico A. Gherardi dell'Archivio fiorentino, pel valido aiuto che ci ha dato in questa pubblicazione. Colla sua grande perizia paleografica, col suo raro e ben noto acume, egli ha collazionato le stampe coi due codici della Cronica: aiutandoci non poco anche nelle note dichiarative ed illustrative del testo. Ci è quindi grato rendergli pubblica testimonianza della nostra riconoscenza.

CRONICA FIORENTINA COMPILATA NEL SECOLO XIII

Anni M....

Arrigo secondo imperò anni xvij. Questi fu figliuolo di Currado primo, ma secondo altra oppenione elli fue suo figliuolo adoctivo e fu suo genero. Questi, vegnendo in Italia, prese per forza Pandolfo prencipe di Capova e fecelo mectere in prigione; e un altro il quale avea nome Pandolfo, simigliante, il qual era conte,[254] sí 'l confermò principe in luogo di lui.

In questo tempo, del mese di giugnio all'entrante, il decto Arrigo venne ad hoste sopra la città di Firenze, e puose suo campo, actendato di loggie, trabacche e padiglioni, nel piano del Cafaggio, del Vescovado di Firenze, fuori delle mura di San Lorenzo,[255] con exercito grande di popolo e di cavalieri.[256] Allora i Fiorentini uscirono fuori armata mano e combacterono con lui e colla sua gente; e infine elli fue vinto e sconficto, e molti de' suoi vi rimasono morti, fediti e presi. Ma elli campò fuggendo innaverato.[257] E de' Fiorentini pochi morirono, ma gran quantità ne furono fediti: ma tucti sanavano per la virtú d'un bagno ch'era nel decto Cafaggio e presso alle mura; la quale acqua usciva per condocto del monte di Fiesole. E questo bagnio fu trovato e facto al tempo de' Romani, quando hedificarono la città di Firenze. La quale acqua guariva certe malactie e etiandio i lebrosi, e gli atracti stendeva, e li fediti sanava. E di questa victoria fare fu capitano messer Ugulino degli Ughi; i quali gentili huomini fondarono la chiesa di sancta Maria a Ughi in Firenze, e la chiesa di sancto Martino a Montughi: dov'elli fece la prigione di xxvij nobili huomini ch'elli prese nel predecto stormo, i quali molta moneta poi si ricomperarono.

Et allora nacque gran guerra tra loro e' Berteldi, di fedite e di morte, per una donna de' Lamberti che l'uno e l'altro guardava per amore; e finalmente ciascuno ne fu consumato d'avere e di persone.

In questo tempo il principe Goctifredi di Buglione, mirabile duca, venne in Ytalia; e per li Romani fu cacciato da Roma ad Anania.

Nel decto tempo ad Roma fu trovato in una sepultura socterra uno corpo d'uno giogante morto e non punto calterito, con una scritta a capo in uno petrone di marmo, che diceva: — Questo giogante avea nome Pallanteo Brunocto lo figliuolo d'Ulandro.[258] — Et avea una fidita la cui apritura fu misurata iiij piedi e mezzo, e della sua grandezza era xvij piedi e oltre. E fulli trovato a capo socto il petrone una lucerna d'oro, che continuamente ardeva, la quale per vento né per fuocho e per nullo modo si potea spegnere: lo quale fu morto per la lancia di Turno[259] giogante.

Ancora nel decto tempo, in Puglia, era una statua di marmo, la quale intorno al capo avea un cierchio di rame, nel quale era scritto: — In calendi maggio, levante il sole in tauro, il capo d'oro.[260] — Il quale verso intese e spuose uno savio huomo saracino del Levante, il quale era prigione di Ruberto Guiscardo. Elli puose mente nel segnio della libra, nel levare del sole, e notò il termine di quell'ombra; ove trovò molto tesoro, il quale egli gli diede per sua recuperatione.

In questo medesimo tempo le chiese di Francia fortemente furono conturbate per Berlinghieri del Torso, il quale falsamente affermava che 'l sacramento della Chiesa cioè dell'altare, che noi prendiamo, non è verace corpo di Cristo ma è figura del sangue di Cristo.

Anni Mlj.

Damaso ij, nato di Roma, sedecte papa dí xxij; vacò la Chiesa dí xj. Questi tenne et ebbe il papato per forza, e elli subitamente morí di subitana morte.

Anni Mlij.

Leone x,[261] nato della Magnia, sedecte papa anni v, mesi ij, dí vj. I Romani per mala usanza adimandarono allo imperadore Arrigo, papa per sua auctoritade; e il decto Imperadore, non possendo niuno intendere né conducere che per sua mano volesse pigliare il papato, il Vescovo di Tulerse,[262] huomo semplice e buono a queste cose:[263] il quale venuto ad Roma, e la conscienzia sua rimordendoli forte che lla sua electione non era di ragione, rifiutò, e poi fu legictimamente e di ragione electo. Il quale poi, dopo la sua sancta e buona vita morí, e fu sepolto in San Piero honorevolmente.

Anni Mlv.

Arrigo terzo imperò anni xlviiij. Questi venne ad Roma dí xxv di maggio, e adsediò Tiberi dí iij di giugnio. Et in quest'anno fu per tucto il mondo quasi ad la croce di levante e alla fine del ponente, e dall'austa di meriggio insino ad la tramontana, fame e mortalità. Et in quest'anno morirono piú genti che xx anni dinanzi passati. Nel tempo di costui apparve nel cierchio della luna, quando era piena, una stella chiarissima, e cominciò dí xiij inanzi calendi maggio.

Nel tempo di costui, Aldobrando cardinale della Chiesa, il quale fu facto poi papa Gregorio, fu mandato in Francia per legato. E faccendo processo in uno concilio contro a certi vescovi corrocti di simonia, e procedendo contro al Vescovo di ciò molto infamato, et essendo i testimoni per pecunia corrocti, i quali doveano dire contro a llui, e non possendo provare la verità; disse il Legato: — Con ciò sia cosa che la dignità del vescovo sia dono del Sancto Spirito, cessi in questo facto la inquisitione mondana e facisi la divina: perciò[264] chi prende vescovado non degniamente fa contro il Sancto Spirito.[265] La qual cosa sanza paura cominciò a ddire. Avendo decta Gloria Patri et Filio, non poté compiere et Spiritui Sancto, rifaccendosi piú volte da capo; ma privato e disposto del vescovado, pienamente poi il disse.

In quello tempo uno gentile e potente huomo, sedendo intra cavalieri in uno nobile convito, fu assalito da' topi che decti sono racti; per la qual cosa essendo i topi raunati sanza numero, niuno tocchavano se non solamente lui: onde per questa cagione fu portato in mare e messo in uno bactello e pinto infra l'acqua, e nonostante questo, tucti i topi del paese vi trassono notando per mare, e tucta la nave rodeano; e finalmente riposto in terra, da' topi fue tucto mangiato. E ciò sappiate, che del decto facto non è da maravigliare, perciò che si truova che in certe terre dove l'uomo è morso dal leopardo, i topi incontanente in quella parte abondano, e tucti gli pisciano adosso, sicché quasi vi fanno un lagho, per la qual sozzura si ne seguita a questo huomo la morte. Ancora si truova che fu uno principe che per niuna medicina non si poteva aiutare che non fusse consumato da' mignacti, i quali in nostro volgare sono decti pidocchi; e chi gli chiama seme d'albero ritroso, cioè seme d'uomo.

Anni Mlvij.

Vectorio secondo, nato della Magnia, sedecte papa anni ij, mesi iij, dí xviij; vacò la Chiesa dí iij. Questi per paura dello Imperadore fu facto papa. Elli fece Concilio al tempo d'Arrigo imperadore, in Toscana, nella città di Firenze; e molti vescovi per simonia e per fornicatione dispuose della sedia. Questi andando in Francia, dallo Imperadore gloriosamente fu ricevuto, e presente lo Imperadore cadde morto.

Anni Mlviiij.

Stefano nono, nato di Toringia, sedecte papa mesi viiij, dí xxvj; vachò la Chiesa dí j. Questi fu il primo abbate di Montecasino, e morí nella città di Firenze in Toscana, e quivi fu sepellito, e nella chiesa di sancta Liperata, allato ad l'altare di sancto Zanobi, a mano sinistra. Elli dannò ciò che l'altro Papa dinanzi avea facto, sicome heretico, e fece Concilio in Firenze; e fu sancto.

Anni Mlx.

Benedecto x sedecte papa mesi viiij. Questi, essendo vescovo, fu per forza chiamato papa, e poi fu cacciato.

Anni Mlxj.

Niccolaio secondo, nato di Borgognia, sedecte papa anni ij, mesi vj, dí xxvj; vacò la Chiesa dí x. Questi, essendo in Toscana vescovo di Firenze, in concordia de' cardinali, adpresso la città di Siena, fu facto papa. Elli fece uno Concilio di cxiij vescovi contro Berringhieri del Torso, il quale affermava che 'l sacramento dell'altare non era verace corpo di Cristo. E dicesi che 'l decto Berringhieri in ogni altra cosa fu savio e diricto huomo, salvo che in questo. Poi fu correcto di questo errore, e alla fine bene adventurosamente morí. Del quale ritractamento si fa mentione il dicreto sancto ove dice Ego Berringherius etc. Poi il decto papa Niccolaio ad Roma santamente morí.

Anni Mlxiij.

Alexandro secondo, nato della città di Melano, sedecte papa anni xj, mesi vj, dí xxv. Questi, essendo vescovo di Luccha, in concordia de' cardinali, fu facto papa. Contro a costui si levò Caldulo[266] vescovo di Parma, e fu electo papa quasi da tucti i vescovi di Lombardia, dicendo e opponendo che non si poteva eleggiere papa se non del paradiso d'Italia. Il quale Caldulo venne ad Roma per due volte con grande hoste di popolo e di cavalieri, e per forza volle prendere il papato. Ma poi papa Alexandro, ad priego d'Arrigo imperadore, venne in Lombardia, e fece solempne Concilio nella città di Mantova, e quivi pacificò trall'uno e l'altro tucta la discordia. Tornò ad Roma, e morto, quivi fu socterrato nella chiesa di Laterano.

Nel decto tempo quelli di Normandia, per dispecto del Papa, occuparono lo reame di Puglia, ed in Campagnia[267] davano gran danno, e discacciarono per forza Goctifredi duca di Spuleto e la contessa Mactelda divotissima figliuola di San Piero. Questa contessa Mactelda fu di tanta potentia che collo Imperadore fece molte e molte bactaglie, e ebbe piú victorie. E ciò sappiate ch'ell'era ricchissima donna e di gran possessioni, e tucte l'oferse alla Chiesa del beato Pietro. E chiamasi ancora al giorno d'oggi il patrimonio di San Pietro.

Anni Mlxxiiij.

Gregorio vij, nato di Toscana del contado di Firenze, luogo decto Sangiovanni in Soana, sedecte papa anni xij, mesi j, dí iiij; il quale per la sua sancta vita da' cardinali fu facto papa. Questi fue preso dal figliuolo di Censo[268] la nocte di Natale, quando cantava la Prima [messa] a Sancta Maria a Presepe in Roma, e misselo in prigione nella torre sua. Ma i Romani di ciò furono fortemente adirati; et in quella medesima nocte presero per forza la torre e disfecerla, e liberarono il Papa di carcere, e cacciarono il figliuolo di Censo di Roma. Questo Papa maladisse e scomunicò Arrigo terzo imperadore, in uno Concilio di ex vescovi, per cagione ch'elli volle rompere l'unitade della Chiesa. Ma poi, venendo il decto Imperadore al decto Papa in Lombardia, per molti giorni inanzi, a piedi scalzi, in sulla neve e in su' ghiacci, li venne a domandare perdonanza; e a pena gli perdonò.

Questo imperadore Arrigo stando in Italia, e' principi della Magnia venneno e elessero re Ridolfo, il qual era duca di Sansognia. E perché il Papa ad petitione dello Imperadore non volle fare scomunicatione, se prima nol conoscesse per ragione; il decto Imperadore, auta[269] Victoria di bactaglia combactuta contra Ridolfo predecto, si raunò la corte sua nella città di Brescia, e quanto per lui si poté fare, anullò e cassò il decto Papa e dispuose ogni suo ordinamento: et a xxiiij vescovi fece eleggiere papa Guberto, il qual era arcivescovo di Ravenna, e fu chiamato Clemente terzo. Per la qual cosa il decto papa Gregorio lo scomunicò di nuovo, e assolvecte tutti i suoi baroni della fedeltade e del sacramento che avevano a lui facto. Ora advenne che lo Imperadore, col Papa ch'avea facto, e con quelli che li fecero electione, venne ad Roma, e quello suo Papa fece consecrare al vescovo di Bolognia e benedicere, e[a] quello di Modona e di Cervio, faccendolo [adorare][270] con grande reverenzia; e da lui ricevecte la corona dello Imperio. E rinchiuse papa Gregorio e adsediollo in Castelsantagnolo e i cardinali con lui insieme. Ma il valoroso huomo Ruberto Guiscardo,[271] re di Puglia, venne ad Roma in soccorso del Papa, e lo Imperadore, sentendo la sua venuta, col suo Papa ch'era in signoria, e con li suoi vescovi, tantosto si partí di Roma, e fuggí a Siena la Veglia,[272] avendo già distructa la città Leonina e 'l Campidoglio. E 'l decto Ruberto diliberò papa Gregorio delle mani dello Imperadore, con li suoi cardinali, e rimisseli nel palagio di Laterano; e molti Romani ch'erano colpevoli di decte cose gravemente puní. Poi il decto Papa n'andò in Puglia col decto Ruberto, e morí nella città di Salerno, sancto, faccendo Idio molti miraculi per lui.

Nel decto tempo la città di Saragosi in Cicilia fue forte gravata di grandissimi tremuoti. Per la qual cosa cadde la chiesa maggiore della terra: e questo fu domenicha mattina nell'ora della terza, dí 10 di maggio. E tucta la gente che v'era drento morí, salvo il prete e il diacano e il subdiacano[273] che cantavano la messa: questi non ebbono niuno male, della qual cosa le genti molto si maravigliarono.

In questo tempo, nel Mlxxx, il decto Arrigo imperadore venne ad hoste sopra la città di Firenze, e adsediolla xvij dí, uscendo di Siena con gran forza di sua gente e altra gente raccolta. Et a dí xxj di luglio feciono la bactaglia con lui, e fue sconficto coll'oste suo.

Anni Mlxxx.

I Fiorentini presero Monte Orlandi[274] a pacti, e poi abacterono le mura a terra. Ancora andarono ad hoste alla terra di Prato, e ebberlo per forza di bactaglia, e disfecero le mura e impierono i fossi e abacterono le fortezze. E pagano di censo lire ccc. per anno, e uno cero grande alla chiesa di sancto Giovanni Baptista. E messer Oddo Arrighi degli Amidei ne fu chiamato castellano ad sua vita.

Anni Mlxxxvj.

Victorio terzo sedecte papa anni j, mesi iiij, dí viiij. Questi ebbe prima nome Disiderio e fue abbate di Monte Casino. E poy fu avelenato nel sacrificio del calice per uno suo diacano, onde morí. Al costui tempo si cominciò l'ordine Cartusiense.[275]

Anni Mlxxxviiij.

Urbano secondo sedecte papa anni xj, mesi iij, dí j; vachò la Chiesa dí xv. Nel costui tempo Baimondo nobile duca di [Puglia][276] con li cristiani, crociato, andò oltremare e racquistò il sancto sepolcro di Cristo.

In questo tempo nella città di Mirra,[277] essendo già distructa, da' cictadini della città di Bari, l'ossa del beato sancto Niccolaio furono traslatate. Ancora nel decto tempo la grande e nobile città di To[ledo] in Ispagnia per li cristiani fu tolta a' Saracini. Et in questo tempo fiorí il valente huomo Anselmo[278] in Inghilterra, il quale fue in prima abbate e poi vescovo di Conturbiero; il quale di vita e di scienzia fu maraviglioso. Questo Urbano papa fece il primo Concilio a Claramonte, nel quale s'ordinò che l'ore dell'uficio di sancta Maria si diciessono ogni dí, e l'uficio suo si facesse solempnemente il sabato. Nel decto Concilio s'annuntiò prima anni x[279] con grandissimo pianto, come Ierusalem era perduta e venuta in servitú de' cani Saracini, e che lxx m di cristiani v'erano morti per la difensione della fede; e sopracciò chiese aiuto e consiglio.

Ancora il decto Papa fece il secondo Concilio in Francia alla città del Torso, nel quale indusse e provocò quasi tucto l'Occidente, e spetialmente la gente di Francia, al passaggio d'oltremare: e raunati furono con Arrigo imperadore, e tennero e per terra e per mare per lo strecto braccio di San Giorgio e passarono in Gostantinopoli, e poi arrivarono nella città d'Antioccia. E di questo hoste fu capitano Goctifredi di Buglione duca di Locteringia e il conte di Bosce,[280] 'l conte Filippo di Fiandra, il conte di San Gilio e altri assai grandi e nobili baroni. Et inanzi ch'elli prendessono Antioccia, il beato sancto Andrea appostolo apparve visibilmente a uno villano saggio provenzale, huomo semplice e di buona vita, e disse a lui: — Vieni e mostrami la lancia con che Cristo fu fedito nel fiancho. — Il quale villano, presa la cictà d'Antioccia, in presentia di R.[281] conte e del cappellano suo, cavò con uno marrone nella chiesa di san Piero, là ove gli era rivelato, e quivi trovò la decta lancia; e ciò fu nell'anno del Mlxxxviiij. E di ciò dubitando molte persone, ch'ella non fusse la diricta lancia con che Cristo fu fedito, uno cavalieri saggio, ch'avea nome Bartolommeo, a cui Cristo era apparito, elli certificò della lancia, la quale era lunga xiij piedi. Elli fece fare uno grande e maraviglioso fuocho, e pianamente colla lancia in mano passò questo fuocho sanza nullo dannaggio. E cosí l'oste de' Cristiani, vedendo il miracolo, confidandosi in Cristo e nella lancia con ch'elli fu fedito, con isperanza di ben fare andavano inanzi, non dubitando; e presono per forza la città di Tolomaida, che oggi s'apella Acri, e poi presono Tripoli, Alexandria e Damiata e il Conio e Castelpellegrino e quasi tucta la Terra Sancta, salvo Ierusalem; e aportaro a Cesaria. E stando loro a Cesaria, apparve loro sopra l'oste una colomba candida, la quale fu fedita da uno sparviere, e cadde in terra, e fulle trovato socto l'alia diricta una lectera che si conteneva in questo modo: — Il rege di Charon al duca di Cesaria salute. Generatione[282] canina viene, giente di tencione, contra i quali parte[283] e per altri la gente tucta difende: e le decte cose anuntia agli altri cictadini dintorno da te. — Poi si levò l'oste e andonne in Gierusalemme, e quivi puosero l'asedio, e per forza l'ebbono. La qual terra è in montagna e non ha pozi né fonte né fiumi, se non la fonte di silice, nella quale àe abondevolmente assai acqua. E poi che questa città fu disfacta per Tito e per Vespasiano, si era grandemente rifacta[284] per uno signiore ch'ebbe nome Ellio Adriano; ma non la rifece in quello luogo medesimo dove era posta prima. E ciò sappiate che 'l buono duca Goctifredi morí in quello hoste, faccendo molte bontadi; e fannone memoria i libri che parlano di lui, E fu seppellito nella decta città. Et era da tucti appellato rege e principe. E nel secondo anno della sua signoria passarono in quello passaggio piú di cc m. di persone.

In quest'anno, il dí di san Benedecto, fu fondato il nobile munisterio di Cestella nel vescovado Cabillonese.

Anni Mc.

Pasquale secondo, nato di Bleuda[285] in Toscana, sedecte papa anni xviij, mesi iiij, dí xxiiij; vacò la Chiesa dí iij.

Nel tempo di costui Arrigo quarto re de' Tedesci con grande hoste venne in Toscana, per essere coronato dello Imperio d'oriente.[286] E mandò lectere al Papa e ambasciadori, nelle quali si conteneva ch'elli rifiutava tucte le investiture de' vescovi e altri cherici, delle[287] quale s'era facto per adietro grande quistione intra lli papi e li 'mperadori. E mandò a dire che di tucte le decte cose elli e i suoi baroni voleano con saramento fermare. Onde facto questo per volontà del Papa, venne ad Roma per suo comandamento. E nell'entrare che Arrigo fece nella terra di Roma, si li fece incontro tucto il chericato col popolo e li nobili della cictade; ed entrò dal lato di Monte Mallo col maggiore honore che mai entrasse alcuno signiore. E 'l Papa si li fece incontro insino in sulli gradi di fuori delle reggi di San Pietro con li cardinali e vescovi. E giungendo, lui s'inginocchiò e baciò amendue e' piedi al Papa. Poi il Papa si baciò con lui in viso e in fronte, segnandolo e benedicendolo, e rendersi pace. Poi si presono per mano e venneno insieme insino ad la porta argentea, nel quale luogo datosi pace insieme....[288] Ma poi che furono ad porta[289] porficha, il Papa gli dimandò il saramento sopra la quitanza sopra la investitura della dignità de' cherici. Lo Imperadore, avuto sopra ciò consiglio, si prese il Papa per forza e li cardinali, e tucti gli misse in prigione, con favore e consentimento de' Romani. E questo fu nell'anno Mcxiij.

In questo anno i Fiorentini disfecero Monte Gasoli. E Ruberto Tedesco morí sbavigliando alla tavola; il quale stava nella roccha di Saminiato del Tedesco vicario per lo Imperadore, e sbandito di Firenze per sue malvagie opere. Il quale molta guerra di fuocho e di ferro e di rubagione faceva contro li Fiorentini.

E nel Mcxv anni, del mese di maggio, s'apprese il fuocho in Borgo Sancto Appostolo in Firenze, e arse insino al Vescovado, e quasi la maggior parte della Cictade; onde molta gente morí di fuogo.

In questo anno morí la contessa Mactelda, la quale avendo indicato di suo Toscana e gran parte di Lombardia....[290]

Anni Mcvij.

Arrigo quarto figliuolo dell'altro Arrigo imperò anni xv. Questi, facto imperadore, prese il suo padre Arrigo e fecelo morire in prigione.

Nel decto tempo Ruberto Guisscardo vinse in bactaglia Alesso e Cuviano[291] imperadore di Gostantinopoli. Questo Ruberto valente fu nato di Francia, e venne ad Roma con grande hoste per pigliare la terra e puosevi l'asedio, e per forza ne fu cacciato. Et allora entrò in Puglia, ov'egli acquistò uno figliuolo maschio ch'ebbe nome Ruggieri re di Cicilia, e una figliuola ch'ebbe nome Gostanza, la qua' fu madre di Federigo secondo imperadore, il quale fu promosso contro a Octo quarto imperadore. Questo Ruggieri generò Guiglielmo re di Puglia, il quale in tucti suoi facti fu savio e gratioso sopra gli altri principi del mondo a quel tempo. Nel costui tempo il regnio di Puglia e di Cicilia crebbe e abondò di richezze e d'allegramento e di gaudio e letitia piú che nullo altro reame del mondo: ché questo re Guiglielmo li teneva in tanta pace ch'elli non actendeano se none a sonare e ad cantare e danzare. E quasi elli fecero di nuovo un'altra Tavola Ritonda.

Nel decto tempo, poi che papa Pasquale co' suoi fratelli cardinali fu diliberato della carcere dello Imperadore, contro a llui si levarono iij papi in diversi tempi e condictioni; ciò fue Alberto Anguulfo[292] e Teodorico: i quali, advegnia che ne' loro cominciamenti catuno a decto Papa desse molta briga, l'uno da l'altro erano svariati.[293] E finalmente tucti e tre 'papi, non degni, da papa Pasquale degnio furono soperchiati.

In questo tempo lo Re d'Ungheria, admunito da papa Pasquale che facea contro a llui, rifiutò per lectere bollate tucte le investiture delle dignità de' vescovi e prelati, i quali gli altri Re ch'erano stati per adietro erano usati di fare.

In quest'anno fu fondata la gran badia di Chiaravalle, e fuvvi mandato per abate [Bernardo].

Papa Pasquale, avendo facto pace col decto Arrigo, e lui incoronò nel campo fuori delle mura. E tornando elli ad casa con li cardinali, tanta giente li si fece incontro che tucta la terra copría, lodando e benedicendo Iddio; e fu prima sera buia ch'egli potesse giugnere al palazzo suo. Poi il decto Papa morí ad la chiesa di sancta Maria Traispadine,[294] e poi dal popolo e dal chericato fu levato di quivi, e fue sepulto nella chiesa di sancto Salvatore. Al quale, doppo lui, succedecte Giovanni chancelliere della chiesa di Roma, e fu chiamato papa Gelagio. Ma perché lo Imperadore non fue presente alla electione, si cacciò lui e elesse un altro papa che avea nome Bordino nato di Spagnia: ma elli non è scripto nell'autentiche cronice de' pastori, perciò ch'elli non ebbe il manto. Ma morto questo Gelagio papa in Cluniaco,[295] fue messo e sacrato[296] papa in quello medesimo luogo, il quale si chiamò papa Calixto. Il quale, incontanente ch'elli fu ad la dignità, si maladisse e scomunicò il decto Imperadore con tucti suoi seguaci.

In questo anno s'aprese il fuogo in Firenze appresso agli Uberti che reggiavano[297] la Cittade, e quasi tucta l'arsero che poco ne campò. E molta giente fu morta per fuoco e per ferro.

Anni Mcxviij.

Gelagio terzo, nato del Regnio, della città di Gaeta, sedecte papa anni j, mesi v; vacò la Chiesa dí xxiiij. Questi per paura d'Arrigo imperadore con li cardinali n'andò ad Gaeta, e quindi per mare n'andò in Francia, in Cluniaco di sopra scripto. Quivi morí e fue sepellito.

In quest'anno i Pisani andarono ad hoste sopra Maiolica, e francamente per forza di bactaglia la presero, e portaronne uno paio di porti di metallo intagliate molto nobile, e due colonne di profèrito. Le quali porte sono poste alle mastri porti della chiesa maggiore di Pisa; e le due colonne di proffèrito donarono a' Fiorentini, per cagione ch'e' Fiorentini guardorono loro la terra quando erano ad hoste. Queste due colonne furono poste dinanzi alla mastra porta di levante del beato Giovanni Batista in Firenze.

Anni Mcxviiij.

Calisto secondo, nato di Borgognia, figliuolo di Conte,[298] sedecte papa anni v, mesi x, dí xiij; vacò la Chiesa dí V. Questi, essendo arcivescovo di Vienna, doppo la morte di Gelagio papa, nella città di Damiata, di concordia de' cardinali, fu facto papa; il quale tornando ad Roma per la Proenza e per Lombardia e per Toscana, e in ogni luogo dove capitò, allegramente fue ricevuto. Ma Bordino,[299] il quale era facto per Arrigo imperadore, udita la sonante boce che 'l giusto Papa veniva, si partí da Roma e andonne a Sutri; nel quale luogo il popolo di Roma l'assediarono, e per forza ebbono Sutri e presono il decto papa Bordino e recarlo ad Roma, in su 'n uno chamello col viso volto alla groppa di dietro, e teneva la coda in mano per freno; e poi lo missono in prigione.

Nel primo anno del decto Papa, i Pisani andarono ad hoste sopra Maiolicha, e i Fiorentini guardarono la città di Pisa. E presa Maiolicha per forza, sí ne recharono molte dignitadi e gioie, come decto è disopra.

In questo tempo l'ordine de' signori Tempieri, che sono decti cavalieri del Tempio, si cominciò.

In questo tempo lo imperadore Arrigo, tornando il suo cuore ad coscientia, la investitura de' vescovi e altri prelati, per anello e per bastone, ad Calisto papa rassegniò e concedecte: della qual cosa molto avea combactuto con papa Pasquale. E volle che per tucte le chiese dello Imperio il Papa facesse le electioni, e tucte possessioni e dignitadi di Sam Piero, le quali avea vendute o in altro alienate o baractate, per la cagione della discordia ch'avea auta colla Chiesa o per niuna altra cagione, liberamente le fece rendere; e tucte l'altre possessioni, le quali avea tolte ad altre chiese o a cherici o a laici per cagione della decta guerra, fedelmente dispensò che tucte fussono rendute.

Nel decto tempo Calisto papa, ad reverenzia del beato Iacopo appostolo, il vescovo di Compostella fece arcivescovo; al quale soctopuose tucta la provincia Emeritana.

Questi, avendo facta pace col decto Arrigo imperadore, si morí, e fu sepellito nella chiesa di san Giovanni Laterano.

Ancora il decto Imperadore, per cagione che 'l suo padre contro la Chiesa s'era mal portato, giudicato fue per la gente che si credesse che per giusto giudicio di Dio elli morisse sanza herede, e di lui non rimase niuno figliuolo maschio né femina: ad cui Loctieri duca di Sansognia suo fratello in suo luogo nello imperio succedecte.

Anni Mcxxv.

Onnorio terzo,[300] nato di Bolognia di Lombardia, sedecte papa anni v, mesi ij, dí iij; vachò la Chiesa dí j. Questi andando ad Aquila, alla richiesta de' baroni, acciò ch'elli il difendessono dalla ingiuria che lli facea il conte Ruggieri di Cicilia, dicendo loro essere della iurisdictione di San Piero; ma il Papa veggiendo la malvagità de' baroni, prese piú savio consiglio, e Ruggieri ricevecte in gratia, e ricevuta la fedeltà, e fermata per sacramento, sí llo investí del ducato di Puglia. Questi per uno suo legato cardinale due patriarchi dispuose, ciò fu quello d'Aquilea e quello di Vinegia. Poi morí, e fu sepulto ad Roma in Antichano.[301]

In questo anno i Fiorentini, avendo per anticho tempo grande nimistade insieme colla città e cictadini di Fiesole, mossonsi di nocte tempo con popolo e cavalieri, e di subito la mactina in su l'alba del giorno entrarono dentro e preserla; e disfecero tucte le porti e li steccati, mura e tucte fortezze, salvo che le chiese. Et allora si misse e fece ordine che giamai, ad perpetua memoria di sempiterna ricordanza, in sul poggio drento dalle mura non si rifacessono case se none cinque braccia alte.

E ritornati in Firenze, tantosto cavalcarono a Montebuoni, il quale era de' figliuoli di Guiccione, i quali s'appellano al presente giorno Buondelmonti; e disfecerlo a terra.

Anni Mcxxvij.

Loctieri quarto, nato di Francia, imperò anni xj. Questi fu savio e valente huomo, e in tucte sue cose fu gratioso. Al suo tempo per tucta Ytalia fue mortalissima fame.

E papa Onnorio predecto morí. Et il Senato di Roma si rinnovò contro la volontade del popolo.

Anni Mcxxx.

Innocentio secondo, nato di Roma, figliuolo di Giovanni Trastevere, sedecte papa anni xiij, mesi vij, dí viij; vacò la Chiesa di ij. Questi condannò tucta la parte di Pietro Leone con tucti suoi ordinamenti. Questo Pietro fu figliuolo di Pietro Leone cardinale; e da pochi cardinali essendo electo, e chiamato Anecleto, fece per forza d'arme adsalire ad furore le case degl'Infragnipane, là ove papa Innocentio colli cardinali era fuggito. Ma ivi non possendo fare nullo male, assalí a pochi giorni la casa di san Piero, e vintola per forza, sí tolse e rubò il vasellamento[302] che vi trovò d'oro e d'argento, il quale valeva grandissimo tesoro; e tolse una cassa grande d'avorio ch'era piena tucta di pietre pretiose, e uno crocifisso tucto d'oro, di v braccia, con una corona in testa piena di gemme pretiose; e disfece il nobile e grande lavorio del tabernacolo che Leone papa avea facto. E simigliantemente rubò la gran chiesa di santa Maria Maggiore di Roma, là ove aveva maravigliose richezze, e quella di san Giovanni Laterano e del beato san Salvadore, e molte altre chiese di Roma; delle quali trasse sí gran tesoro ch'al mondo non era maggiore: col quale tesoro corruppe tucti i nobili e potenti di Roma, sí che 'l Papa non avea niuno aiuto. Advenne che si partí di Roma segretamente con tucti i cardinali, e entrò in due galee, e fuggí per mare, e andonne in Francia, e fu dal Re e da' principi molto bene ricevuto. E fece Concilio ad Claramonte e a Rreno. Poi Loctieri, il qual era electo imperadore, raunata gran gente, venne in Cicilia, e menò seco Innocenzio papa con molti vescovi e arcivescovi, e cacciò via Pietro Leone per forza d'arme, il quale avea occupato il papato, e victoriosamente rimise papa Innocenzio nella sedia papale. E da lui Loctieri ricevecte corona imperiale.

In quello tempo quelli di Boem nella Magnia aveano facto contro la sancta Chiesa. Andò Loctieri sopra loro, e ricevectevi gran danno di suoi cavalieri e popolo, per tradimento di suoi baroni.

Questo Loctieri, doppo la sua coronatione, fue fortemente acceso dell'amore di Cristo, e del tucto si fece difenditore e campione della chiesa di Roma. E ragunò grandissimo exercito di popolo e di cavalieri, e col Papa insieme andò in Cicilia sopra il conte Ruggieri, il qual era nimico rubello della Chiesa, e incontro levato, e avea occupato e teneva per forza contro della Chiesa lo regnio di Cicilia. Prima perdè la Puglia e per forza fuggí in Cicilia, e Loctieri fece conte in Puglia il conte Rayonne. Et ad acquistare questa victoria fu molto utile il grande navilio che dierono i Pisani. Poi Loctieri, sancto e cristianissimo, se n'andò nella Magnia, vinto Cicilia, e il Papa si ritornò ad Roma, e quivi celebrò Concilio. Onde, considerando lui il beneficio che lli Pisani e Gienovesi gli aveano facto ond'egli n'acquistò Cicilia, il Papa diede a' Gienovesi uno vescovado, il qual era socto il vescovado di Melano; e a' Pisani di vescovo fece arcivescovo, e fecelo signiore di tutti i vescovadi di Sardignia.

Nel decto tempo in Francia fue sí grandissimo seccho che tucti i fiumi e pozzi e fontane si seccarono, et in molte parti per lo reame, per le fessure della terra, cominciò a uscire fummo di fuocho, sí grandi e forti che poi a due anni, né per piova né per ghiacci né per altro humidore, non si poteano spegnere: onde genti per questo seccho e fuocho morirono.

Anni Mcxxxviij.

Currado secondo della Magnia, nato della casa di Soave, imperò anni xv.

Nel tempo di costui uno ch'avea nome il maestro Rynaldo, predicando in Roma e riprendendo fortemente le richezze e le cose fuori di misura che le genti usavano per li dilecti del mondo, onde molti gentili huomini e gran possenti di Roma si convertirono alla sua predicatione e lui seguitavano. Il quale maestro Rinaldo venne in grande odio a' cherici, e fue per loro preso e tràctogli gli occhi.

Nel decto tempo la cictà d'Ascalona fu presa per li Cristiani.

E nel primo anno di costui il nobile cavalieri messer Giovanni cavaliere del Tempio[303] morí, ch'era vissuto anni ccclxj; e fu cavalieri della masnada di Carlo magnio. Et Innocenzio papa morí, e fu sepulto in uno avello di proffèrito, nella chiesa di san Giovanni Laterano.

Anni Mcxliiij.

Cilestrino secondo, nato di Toscana del castello di sancta Filicita, sedecte papa mesi v, dí xij; vacò la Chiesa dí j. Morí e fu sepulto ad Laterano.

Anni Mcxlv.

Luzio secondo, nato di Bolognia di Lombardia, figliuolo d'Alberto, sedecte papa mesi xj, dí iiij. Questi fu primamente cardinale di sancta Croce, e tucta la decta [chiesa][304] dal fontispizio dinanzi insino al coro, col circustato dello chiostro, rinnovò tucto di nuovo insino al fondamento. Poi morí e fu sepulto in Laterano.

Anni Mcxlvj.

Eugenio terzo, nato di Pisa, sedecte papa anni viij, mesi iiij, dí xx; vachò la Chiesa di ij. Questi essendo abbate di sancto Anastasio, da tucti i cardinali in concordia fu facto papa appresso la chiesa di sancto Cesario. E per paura de' Sanatori,[305] i quali erano stati electi dal popolo contro la volontà del suo precessore, n'andò a stare nel munisterio Farfense, e quivi [appellati] i cardinali e prelati,[306] quivi fu consegrato. Questi essendo huomo semplice e di grossa materia, poi che fu facto papa, Idio lo riempiè di molta gratia e di savio e maraviglioso parlare. E tornando elli ad Roma, il chericato e tucto il popolo gli si fece incontro con grande letizia, gridando Benedictus qui venit in nomine Domini. Nel decto anno Mcxlvij il decto Papa, a priego di Lodovico re di Francia, andò in Francia e segniolli di croce per andare oltremare, e fece un grande Concilio ad [Rems]. Onde il decto Lodovico con Currado imperadore, seguaci di simigliante croce, passarono oltramare con Franceschi, Tedeschi, Inghilesi e Normandi e Fiaminghi, e con quelli di Terra d'Ocho e con molta altra gente; andarono per Paonia e parte per Ungaria e parte per mare, con piú di cclx tra galee e navi, insino in Costantinopoli; e tucto in altra guisa ch'elli non pensavano: dond'elli ricevectono gran dannaggio per lo inganno de' Greci, che mescolavano la calcina colla farina, e davano loro quello pane ad mangiare; e anchora parte di loro ne furono presi da' Turchi, e altri morirono di fame, e chi di sete e altri per faticha. Ma poi, entrati nella Terra Sancta, quivi molte bactaglie victoriosamente feciono; e cosí vinsero gran parte del Levante.

Questo Currado, poi tornò d'oltremare, si morí; il quale advegnia che regiesse xv anni lo imperio, non ebbe alcuna volta la benedictione imperiale.

Lodovico re, di pellegrinaggio andò in Gierusalem' adorare, e fu nel tempio Domini e in quello di Salamone, e quivi stecte per buona peza e poi tornò ad casa.

In questo tempo Eugenio papa morí ad Roma, e fu sepulto a san Piero lungo l'altare maggiore.

In quest'anno Mcxlvj, mossi[307] i Fiorentini ad hoste sopra il castello di Monte di Croce, ch'era de' conti Guidi. E standovi ad assedio, dí x di giugnio, da' conti Guidi villanamente furono percossi, e levarsene ad modo di sconficta.

Poi nel Mcliij i Fiorentini feciono hoste sopra Monte di Croce, e per forza fu adsediato, e preso e disfacto e rapianato. E fu ordinato e stantiato di giamai non fare in sul decto poggio casa di fortezza alcuna.

Anni Mcliiij.

Anastasio iiij, nato di Roma, figliuolo di Benedecto, sedecte papa anni j, mesi iiij, dí xxiiij; vacò la Chiesa dí xx. Questi fece uno palagio nuovo ad Sancta Maria Ritonda, e diede alla chiesa di Laterano uno calice grande di bella forma, e fu opera di peso di xxx marchi, pieno di pietre pretiose. Poi morí e fu sepulto in una tomba di proffèrito.

In questo tempo soldati di Firenze e cavalieri pratesi, essendo insieme cavalcati sopra il terreno di Pistoia in quantitade di vj c pedoni e cc. cavalieri, da' Pistoiesi nel piano di Carmignano furono sconficti.

Anni Mclv.

Adriano quarto, nato d'Inghilterra, sedecte papa anni iiij, mesi viiij, dí xxviij; vacò la Chiesa dí xx. Questi essendo vescovo d'Albana, fu mandato per legato in Norveggia a predicare la fede di Cristo, e elli converti alla fede quella gente barbara; e quando elli fu tornato ad Roma e papa Anastasio morí, e elli fu facto papa. Questi, per uno cardinale che fu fedito, tucta la città di Roma interdisse insino a degnia satisfactione. Elli scomunicò Guiglielmo re di Cicilia siccome rubello della Chiesa; il quale, poi ch'elli fu absoluto, fece omaggio al Papa, ricevecte la terra in....[308] da lui. Di costui si dice ch'elli fue il primo papa che con corte dimorò prima in Orvieto; e fece le mura e le torri di Radicofani. Elli comperò da' conti di Sancta Fiore molte possessioni e castella allato al logo[309] di Sancta Cristiana. Poi morí e fu sepulto in San Piero.

Anni Mcliiij.

Federigo primo decto Barbarossa imperò anni xxxvij, e coronossi nella chiesa di sam Pietro ad Roma. Nel decto tempo, venendo lui ad Roma per Tiburi, ch'era disfacta, comandò ch'ella fusse rifacta. Elli fu coronato da papa Adriano il dí medesimo ch'elli giunse ad Roma; e tese loggie e padiglioni e puose albergo nel campo di Nerone. Onde i Romani crudelmente, con armata mano, dalla parte di Santagnolo manomissero la famiglia dello Imperadore, e uccidendogli e cacciandogli insino al padiglione dello Imperadore. Levato il romore per la città, i Tedeschi si ragunarono insieme e crudelmente uccidiano e menavano a morte i Romani; e infino che 'l Papa e lo Imperadore trassono a dividere; e con tucto ciò i Tedeschi non si potevano raffrenare.

Questo Imperadore, ricordandosi per adietro del primo anno del suo imperiato, fece disfare la città di Spuleto, perché lli fu facto noia quando passava a corte. Elli fu molto savio ma troppo ontoso ad vendecta; e fu largo e gratioso, gentile e bontiadoso[310] in tucti suoi facti.

Nell'anno Mclxij il sole scurò per tucto il mondo, e stecte serrato[311] in cielo dall'hora di mezogiorno infino alla mezza nona, a dí vij di luglio. Et in quel dí si perdé il sancto Sepolcro d'oltremare. E per tucto il mondo fu fame e mortalità. E la croce sancta di Cristo venne alle mani del gran pagano Saladino soldano di Babilonia.

Ancora in quest'anno il predecto Imperadore, per forza, in Lombardia prese la nobile città di Melano, e rapianò le mura e tucte le fortezze della terra; e per ricordanza che l'aveano ingiuriato al venire del suo coronare, si arò con buoi con giogho le mastre rughe e le piazze della città, e poi la seminò a sale.

Item in quest'anno medesimo l'antica città d'Albana da' Romani fu disfacta.

Anni Mclviiijº.

Alessandro iiiº, nato di Siena, figliuolo di Rinuccio, sedecte papa anni xxj, mesi xj, dí viiijº. Questi vinse iiijº papi heretici e sismatici, i quali si levarono contro a llui e contro santa Chiesa; ciò fue Octaviano Guidi da Cremona, che Victorio si facea chiamare; il secondo fu Pasquale, che Ginanni Astreniense si facea appellare; il terzo fu Calixto; il quarto Innocentio.[312] Di[313] quactro papi predecti contro Alessandro levati furono maladecti, scomunicati, e li tre di questi erano cardinali, i quali morirono di mala morte. Nel decto tempo di costui, nella Chiesa fu grandissima discordia, e fue cacciato il convento di sancto Anastasio e l'abate di san Paulo perch'elli diceva l'ufficio divino palesemente. E poi per lo decto papa fu rifacto.[314]

E gran discordia nacque tra lo Imperadore e 'l Papa, che per suo favore questi iiij papi predecti si levarono incontro a llui; e perseguitarlo sí forte che il Papa si fuggí in Francia al re e ad sua potentia che l'aiutasse. Onde lo Imperadore si mosse molto pieno di cruccio e di maltalento con grande hoste di popolo e di cavalieri, et andò sopra il Re di Francia, ché v'era il Papa, e con lui vennero 'Re di Brectagnia overo Buemmia e di Danzia[315] e di Pollano[316] con tucto loro sforzo. Et intrando lo 'mperadore col suo exercito in Borgognia, credectesi al tucto torre la terra e il reame. Onde lo re Tebaldo d'Inghilterra soccorse con giente e con moneta lo Re di Francia; e gratia di Dio, sopra i Franceschi non poté acquistare nulla cosa.

Nell'anno Mclxvij fu rifacta la città di Melano. E li Romani furono sconficti a Toscolano dal cavalieri del decto Imperadore.

In quel tempo il decto Imperadore, doppo molti scandoli e persecutioni ch'elli avea facto a papa Alexandro, avendo tema e forte conscienza di cadere della signoria imperiale, per molte cittadi e possenti huomini di Lombardia, che lli s'erano rubellati e volti adosso, e perché il decto papa Alexandro era tucto rinvigorito, fece lo Imperadore ambasciadori e messi spetiali, procacciando di riconciliarsi col Papa. Et il Papa lo ricevecte, et alla città di Vinegia si fece la pace. E questo fu nel Mclxxvij. La qual guerra era bastata xvij anni.

Et in quest'anno arse la città di Firenze, a dí iij d'agosto, da Mercato Vecchio insino al Ponte Vecchio.

Et in quest'anno si cominciò in Firenze gran discordia e guerra intra Consoli di Firenze e la casa degli Uberti; e bastò la guerra xxij mesi, che lli Uberti non ubidivano Consolato né signoria, né etiandio per loro facevano reggimento. E di questa discordia nacque bactaglia cittadinesca e gran mortalità di rubamenti e d'incendij nella città di Firenze. Si misse fuocho in cinque parti, e arse il sexto d'Oltrarno, e da San Martino del Vescovo insino a Sancta Maria a Ughi.

Et in quest'anno Mclxxviij, dí iiij uscente novenbre cadde il Ponte Vechio di Firenze.

Poi nel Mclxxx anni gli Uberti ebbero l'auctorità, e fu consolo[317] e rectore della città di Firenze messer Uberto degli Uberti e messer Lamberto Lamberti e loro compagni. Et in costoro si cominciò il primo Consolato della Città. E questi[318] fu per forza; advegnadio che poi cominciarono a governare la Cittade per modo di ragione e di giustizia, conservando ciascuno in suo stato, tanto che, da Consoli cittadini, feciono electione di chiamare Podestà gentili huomini possenti forestieri; siccome legiendo inanzi scritto troverrete.

Questo Papa fece due Concilii, l'uno fu al Torso in Francia, e l'altro fu ad Roma. E fece fare la pace tra lo Imperadore Emanovello di Gostantinopoli e' Romani; ancora Guiglielmo re di Cicilia e' Lombardi, e bastò per xv anni.

Ne' decti tempi furono diverse cose di gran tremuoti, e castella e rocche e città rovinate, e venti sí forti che rovinavano le magioni e divegliavano gli àlbori di terra con tucte le barbe. E per tremuoto cadde la città di Penitus[319] e di Damasco e gran parte di Costantinopoli, e Actene tucta si disfece, che piú di xx m di persone vi morirono; e il Culiseo di Roma gran parte ruinò. Et il mare forte scemò di calare, e molti navilii afondarono, e piú di lx m d'huomini affogarono; e V m ne perirono solo nel mare di Cicilia, che annegarono.

In questo tempo la città di Melano e Chermona e Piacenza fecero una città contro Pavia, ch'avea guerra con loro. Acciò che fusse piú famosa di nome, si lla chiamarono Allexandra, per nome del buono papa Alexandro. Poi il decto Papa, adimandato da' Lombardi, si lle diede vescovo; e lo vescovo di Pavia privò della dignitate della croce e del palio, per ciò ch'elli teneva la parte dello Imperadore contro la Chiesa, e sempre teneva colli regi antichi che perseguitavano la Chiesa.

Questi, con ciò fusse cosa che lo 'mperadore e i decti papi tenessero tucto tucto[320] il patrimonio di san Piero da Acquapendente insino ad Capperano, salvo la città d'Orvieto e Saracina[321] e Anagnia, si n'andò in Francia e fece un gran Concilio nella città del Torso. E tornando ad Roma per mare, elli per forza di venti capitò a Messina in Cicilia. Il nobile huomo Guiglielmo re di[322] Cicilia non solamente lo ricevette come papa, e' avea guerra co llui, ma sí, co' fa buono filgluolo al buono patre, co' molta dolcezza e bonaritade; e fedelmente si riconobbe a buona cosscienza ch'elli tenea la terra e 'l rengno tutto per la Chiesa e per lui. E perciò, sicome fedele, si llo sequitò e venne co llui. Onde il decto Federigo inperadore, per l'amenda della persicuzione ch'avea data a santa Chiesa, nel nome di Dio elli prese il sengno della santa + per passare oltremare, per riconperare la Terra Santa di Christo, la quale era perduta e venuta alle mani de' cani Saracini,[323] e 'l Saladino soldano avea presa Jerusalem; donde lo stuolo generale passò oltremare: e ciò fue nell'anno del Mille cento lxxxviij. Giunto lo 'nperadore[324] in Ermenia, al passare d'un picciolo fiumicello, elli faghò dentro; ma il suo filgluolo, il qual era allora co llui, sí llo inbalsimò e recollo infino a Ttiro, e quivi si soppellio. Ed elli essendo colla madre si morio poi. Ed[325] ancora morirono quasi tutti i baroni suoi e quelli di Filippo re di Francia e quelli del re Ricciardo filgluolo del re Tebaldo d'Inghilterra, in questo passaggio, sanza nullo adquisto.

In questo tenpo fue il valoroso e savio huomo messer Jovacchino abate in Calavra, il quale fece molti libri sopra l'Apochalipx e sopra il Germia profeta e sopra altri profeti. Questo Abate fue domandato da questi Regi predecti, com'elli capiterebono di questo passaggio ch'elli faceano oltremare contra i Saracini. Rispose l'Abate e disse: — Voi andate e farete niente, però che non è ancora venuto il tenpo che stabolito[326] est.

In questo tenpo Ridolfo, arcivescovo di Colongne, le sante corpora di tre magi, ciò fu Caspar e Baltasar e Melchior, allo re di Persia fece trasslatare in Costantinopoli, e quindi da Santo Storgio in Melano maravilglosamente trassportate, disfatta Melana dallo 'nperadore, in Colongne le ne portò.

Nel decto tenpo san Tomaso arcivescovo di Conturbiera in Inghilterra, nella chiesa sua metropolitana, chantando la messa all'atare, da ij servi del re Ricciardo fu morto: il quale Iddio fece per lui molti miracoli, e da beato Allexandro papa fue con reverenza calonizato. Nel decto tenpo Arrigo re d'Inghilterra mandò anbasciadori al decto Papa, singnificando la morte del decto san Tomaso; i quali anbasciadori giurarono in loro anima dinanzi al Papa ed al suo collegio, come Ricciardo re d'Inghilterra nonn avea colpa di quella morte. Ma il decto Papa, riceputi i decti anbasciadori in Toscanella, sí mandò in Inghilterra, per fare inquisitione di queste cose, iij cardinali, e dinanzi a questi tre cardinali venne il decto re Arrigo, ischusandosi e dicendo ke per sua fattura né consilglo il decto san Thomaso non fu morto. Ma per cagione ke san Tomaso era stato crucciato con Ricciardo re, per amenda della sua morte, mandò cc. chavalieri oltremare, a servire un anno la Terra Sancta contra li Saracini, ed ancora elli si sengnò di +, passare oltremare da ivi a iijº anni.

Mclxxxj.

Lucio terzo, nato di Tosscana, sedecte papa anni iiijº, mesi ij, di xviij; e vachò dí xiij. Nel tenpo di costui aparve la bontà di Pietro Mangnante, il quale rechò tutte le storie del vecchio testamento inn uno velume, disponendole uttilemente; e questo libro est chiamato il libro delle storie isscholastiche.[327] A questo Papa fue acusato il Vescovo di Rodens[328] di Francia per piú cagioni, d'esser disspossto de bbenificio; si ke il Papa il volea dissporre. E quelli fue colli suoi amici episcopi e cardinali ke ll' aiutassero, e pregò il Papa ke per Dio nollo dovesse dissporre né falli questo disinore, infino a tanto ch'elli non fosse tornato nel suo vescovado, però [ch'elli][329] era grande e gentile huomo di suo paese: si ke [il Papa], per prieghi e per amore, si lli bollò lettere k' elli non fosse privato di suo benificio infino a tanto k' elli non fosse ritornato nel suo vescovado. Incontanente k' el Vescovo ebbe la lette[330] apo sé, si disse: — Io oe ingannato il Papa. — Non pensò mai di ritornare al vescovado, anzi tenea dietro alla corte, godendo e faccendo grassa vita. Un giorno disse il Papa: — Episcopo, perké non torni tue a tuo vescovado? — Ed e' li rispose e disse: — Messere, perk' io non volglo essere dispossto. — E cosí tenne il vescovado, mentre ch'elli vivette, sanza ritornare.

In questo anno era consolo di Firenze messer Iacopo Eliseo messer Catello Dietisalvi e messer Uberto Berteldi.

Anno Mclxxxij.

I Fiorentini presero per forza Montegrossoli; ed in Firenze fue grandissimo caro, ché llo staio del grano valse soldi viij.

A questo tenpo era consolo di Firenze messer Bongianni Amidei e messer Uberto Infangati. Poi nel Mclxxxiij anni e' fue consolo di Firenze messer Bonfantino Bogolese e messer Donato Caponsacchi. Poi nel Mclxxxiiij anni fue consolo messer Vecchietto de' Vecchietti e messer Gianni Schiatta delli Uberti.

Questi Consoli governavano la città di Firenze dentro e di fuori, in tenpo di pace e di guerra.

Mclxxxv.

Urbano iijº, nato di Lonbardia, sedette papa anni j, mesi x, dí xxv.

In questo tenpo venne lo 'nperadore Federigo in Firenze, e menò secho un leofante. E tolse tutto il contado alle città di Toscana infino alle mura, salvo ch'alla città di Pisa ed a Pistoia. Poi asedette la città di Siena e combattèla infino alle mura.

Nel tenpo di costui fue presa Ierusalem e llo sancto Sipulcro d'oltremare, die primo kalendi lulglo,[331] dal Saladino soldano. Sentendo il Papa questa cosa, sí ssi diede a tanto dolore che di duolo sí ssi morio: e fue sepulto nella città di Ferrara.

E in questo die il sole ischuroe da la terza alla nona.

E di questo anno e mese i Fiorentini asedetto'[332] — e disfecero il castello di Pongna e di Marcialla. Allora era' consoli di Firenze messer Petri Bosstichi e messer Uguiccione Uguiccioni e messer Ugho Ughi.

Mclxxxvj anni.

In questo anno Mclxxxvj Arrigo filgluolo di Federigo inperadore fu facto reggi di Sicilie, a contrario della corte di Roma.

Ed allora era' consoli di Firenze messer Scolaino delli Scolari e messer Ugholino de' Fifanti.

Mclxxxvij anni.

Consoli di Firenze messer Accorri de' Tedaldini e messer Caponsaccho de' Caponsacchi.

Gregorio viijº, nato di Benevento, sedette papa anni j, die xxvij; vacò dí xx. Questi, procacciando di soccorrere la Terra Sancta, iscrisse lettere in diverse parti del mondo, e fece invitare regi, principi e singnori al decto passaggio fare; e fece fare la pace tra Pisa e Genova: ed elli si mosse ad andare in quello viaggio; ed a Pisa morio, e quivi fu sepulto.

Ancora il predecto Federigo inperadore, per amenda della guerra ch'avea fatta contra la Chiesa, si mosse sengnato di croce da Grigorio papa ottavo; e passato in Rimaniansia,[333] passando uno picciolo fiume dentro v'afoghoe, che ssi chiamava Ferro; e molta della sua gente vi perio.

E in questo medesimo anno molta gente di Firenze e di Toscana sí presero croce da l'arciprete di Ravenna, a San Donato a Torri, per andare oltremare.

E in questo anno Mclxxxviij fue renduto il contado a' Fiorentini x milgla apresso alle mura. Ed allora era' consoli di Firenze messer Rustico Abati e messer Giuoco Giuochi e mesmer Ugho Albizzi de' Galigarii.

Mclxxxviiijº.

Clemente iijº, nato di Roma, filgluolo di Iohanni Scolaio, sedette papa anni iij, dí xxvj. In questo tenpo mosse lo stuolo generale, del mese di febraio, di crociati d'Italia, e passare inn Acri oltremare. Questo Papa ordinò in Roma il chiostro di Sa' Lorenzo fuor le mura, e ricrebbe il palazzo di Laterano, e fece fare il pozzo dinanzi al cavallo del metallo.

Allora era' consoli di Firenze messer Uberto di Macci e messer Carretto de' Conpiobbi e Tingnosino delli Uberti. Poi nel Mclxxxx anni era' consoli di Firenze messer Mariano della Tosa e messer Bonbarone de' Sizii. Poi nel Mclxxxxj anno erano consoli di Firenze messer Manfredi Ponzetti e messer Chianni de' Fifanti e lo Schiatta delli Uberti.

Mclxxxxij.

Celestrino terzo, nato di Roma, filgluolo di Pietro Bubone, consegrato il die della Surexione di Christo, sedette papa anni vj, mesi viij, dí x; vacò dí j. Questi, il secondo die k'elli fu facto papa, coronò d'inperiale corona Arrigo inperadore. Elli fece un palazzo allato al palazzo di san Pietro.

In questo anno erano consoli di Firenze messer Tegrimo di conti Guidi paladini in Toschana, e Chianni di Fifanti.

E in questo anno si fece ordinamento in Firenze ch'e' conti Guidi e li conti Alberti e li conti da Capraia e li conti da Certaldo, Ubaldini e Filigiovanni, Pazzi ed Ubertini, conti da Panago e li singnori da Montemangno e la casa d'Ormangna e di Pier Pagano, ed altri nobili assai cittadini, dovessero abitare i quatro mesi dell'anno nella città di Firenze. E lungo tenpo s'aservoe a grande onore del Comune.

Mclxxxxij.

Arrigo della Mangna quinto inperò anni viij, e fue coronato da papa Celestrino predecto del mese d'aprile, il lunedí d'alba di Risorexio.

In questo anno Arrigo intrò coll'oste sua in Pulgla; e donò alli Romani il rengno di Toscolano, il quale fue per loro disfatto.

In questo anno, dí xxij di giungno, si oschuroe il sole dal mezodí infino alla nona.

Questi,[334] il primo anno, entrò nel reame di Cicilia e vinse tutta la terra di Pulgla infino a Nnapoli; ed asediò Napoli continuamente per iij mesi passati. E fue in quella osste sí grande infermeria che gran parte di baroni e chavalieri infermaro e morirono; e llo 'nperadore medesimo v'infermò, e con pocha gente tornò adietro. Questo Inperadore tolse per molgle la nobile donzella Gostanzia filgluola del re Guisscardo di Cicilia. E nel quarto anno del suo inperiato elli vinse tutto il rengno di Pulgla; e molti che ssi fecero suoi rubelli a morte ed a pena tormentò; e Tancredi filgluolo del re Tancredi di Cicilia suo rubello, lui e la molgle Margarita menò presi nella Mangnia prigioni.

Mclxxxxiij ani erano consoli di Firenze messer Alberto conte di Mangone e messer Iacopo Usinbardi.

In questo anno Mclxxxxiiij anni, il decto Arrigo inperadore prese Salerno per forza, e tucto il rengno di Cicilia e tutto il retaggio della reina Gostanzia, cioè Cicilia, Pulgla e Calabra; la quale conquistò il predecto Ruberto Guisscardo per forza di lancia, e trassela di mano di Saracini;[335] la quale possedea il Saladino soldano e 'l grande Massamuto di cavalleria e lo nobile huomo Sirii di Baruti.

Erano consoli di Firenze messer Catalano Salandri della Tosa e messer Uberto delli Uberti. Poi nel Mclxxxxv anni fue consolo di Firenze messer Lanberto Lanberti e messer Ubaldo Usinbardi. Poi nel Mclxxxxvj anni fue consoli di Firenze messer Aldobrandino Barucci e conpangni.

Poi nel Mclxxxxvij anni, del mese d'ottobre, morio il detto Arrigo inperadore in Cicilia nella città di Palermo; a grande onore fu sopellito.

In questo anno erano consoli di Firenze messer Conpangno Arrighucci e messer lo Schiatta delli Uberti. Poi nel Mclxxxxviij,[336] esendo consoli di Firenze messer Davizzino della Tosa e messer Gherardello di Vissdomini,[337] i Fiorentini disfecero Frondingnano, e l'asedio si puose a Simifonti, nobile e fortissimo castello ch'era di conti da Certaldo.

In questo anno Mclxxxxvij fu disfatta la roccha di Saminiato del Tedessco da' terrazzani.

In questo anno fue generale pace per tutta Ytalia.

Anni Domini Mclxxxxviiijº.

Inocentio terzo, nato di Campangna, filgluolo di Trassmodo, sedette papa anni xviij, mesi iiij, dí xxiij; vacò dí iij. Questi fue consecrato papa il dí di Chattera San Pietro; e quanto elli fue grorioso nell'opere di vertute, elli fue manifessto. Tutte le sue opere fuorono di misericordia: elli maritava femine povere e popille, e tal mettea in monistero, e consolava orfani e vedove, e facea ponti e spedali; e fece lo nobile spedale in Roma di sancto Spiritu; e rinnovò la chiesa di san Sixto papa; e conpuose dicreti e dicretali e sermoni, e conpuose il libro della misera[338] conditione dell'umana generatione; e molte altre cose fece gloriose. Elli diede a tutte le chiese di Roma una libra di fine argento per fare calici, in cotale patto ke mai non si potesse vendere sotto di certa pena.

Erano consoli di Firenze messer Arrigo conte di Capraia e messer Bonconpangno Lanberti.

Anni Domini Mcc, di nuovo fu fatto ed eletto primamente podestade in Firenze per invidia del Consolato: ciò fue messer Paganello da Porcara di Luccha; e 'l suo salaro con tutta sua familgla, per anno, libre c. di piccioli.

Nel tenpo di costui,[339] sotto l'anno del Mcc anni, la città di Costantinopoli fu presa per li Francesschi e da' Viniziani, la quale è una delle maggiori cittadi del mondo. Della quale presura molti cittadini della terra da ivi a pochi che non poteano credere che cciò fosse vero, sí perké la terra è molto forte e grande, ed ancora si trovava in una profezia ke lla terra dovea esser presa per uno angelo, e non per huomo humano. Ma nollo 'ntendeano bene; però che lli nimici entrarono per una porta che v'è intalglato di marmo uno angelo, e llo singnore di quella osste avea nome messer Angelo Angiolieri. Poi Baldovino conte di Fiandra ne fu coronato inperadore.

Ed in questo anno morio Arrigo inperadore nella città di Palermo in Cicilia; donde nacque grande disscordia intra 'principi di fare eletione, e 'lleggere Inperadore: l'una parte 'lesse Otto iiij di Sansongna e l'altra elesse Filippo. Ma Otto fu poi per volontà del papa Inocentio, ke llo 'ncoronò.[340] Ma alla fine vincendo Filippo, essendo già tra lloro la pace ordinata, per inganno e frode dell'Antigrado[341] della Mangna, Filippo da assesini fu morto; e per questo modo tenne Otto lo 'nperiato, ed anke perké papa Innocenzio era nimicho de Felippo ch'era rubello della Kiesa. E ciò fue ancora per lo suo fratello Arrigo, k'era stato malvagio inperadore contra la Chiesa ed avea fatti uccidere in Cicilia vescovi ed arcivescovi ed altri plelati;[342] per la qualcosa il Papa lui e suoi discendenti e seguaci erano scomunicaty: e però s'erano appogiati il Papa a Otto di Sansongna. Item il decto Papa, dopo la morte del decto Filippo, fece choronare il decto Otto re della Mangna.

In questo anno Mccij fu coronato il detto Otto. E lla singnoria di Tartari coninciò[343] a sengnoreggiare, i quali abitavano sotto i monti d'India, e uccisero il loro rege il quale avea nome David, il quale era stato filgluolo di Iohanni prete;[344] ed allora coninciaro ad acquistare terre e a ffare reami, e a ffare d'arme e di cavalleria.

Questo Otto fue poi disspossto della singnoria, perké cadde in briga colla Chiesa e non observava la fedaltade.

Ma in questa indictione nel Mcc anni, il nobile borgo di Sanginegio, posto a piede di Saminiato, per li Saminiatesi fue tutto disfatto e recato a piano; ed etiandio le chiese infino le fondamenta.

Apresso, nel Mccij anni, i Fiorentini, parendo loro essere gravati da certi nobili e potenti huomini della terra di Simifonti, da capo riconinciaro guerra e fecero osste; e ciò che di prima v'era rimaso, si llo guastaro. E similglante fecero al castello di Conbiada[345] in Valdimarina. Allora era consolo Aldobrandino Barucci e Nerlo di Sizij di Mercato vecchio.

Poi apresso, Mcciiij anni, i Fiorentini fecero di nuovo il castello di Montelupo per dispetto e contradio del castello di Capraia, il quale li è possto diriupetto. E in questo anno a' Fiorentini, per trattato di conti Guidi, i Pistoiesi tolsero a' Fiorentini il castello di Monte Murlo, con ciò sia cosa che 'l terziere di Pistoia, cioè porta Guida, era libera giurizione[346] di conti Guidi, e la terra di Monte Rappoli e tutto Greti, col castello d'Enpoli vecchio e di Puntormo.

Mccvij.º

Otto quarto di Sansongna inperò anni viiij. Questi fue incoronato da Inocentio papa terzo nella chiesa di san Petro. E nel suo primo anno elli mandò un legato con xij abati dell'ordine di Cestella nella terra Albingese, a predicare la fede di Cristo alli eretici;[347] ay quali s'angiunse di Sspangna e Didacho vescovo si smosse e menò in sua conpangnia il santissimo huomo frate Domenico, per li eretici convertire.[348] Il quale Domenico fue capo mastro dell'Ordine di frati predicatory.

In questo anno i principi d'Ytalia elessero inperadore Federigo filgluolo dello 'nperadore Arrigo; il quale re di Cicilia mosse del rengno, e venne per mare ad Roma, onde dal Papa e da' Romani honorevolemente fu receputo: e quivi fece convengna e ordinatione co lloro, e partisi di Roma e andò nella Mangna, e fece battalgla contra Otto di Sansongna inperadore e di lui ebbe vittoria.

E in questo anno, Mccvij anni, esendo podesstade di Firenze messer Gualfredotto da Milano, a dí xxj di giungno i Fiorentini puosero asedio al castello di Monte Alto di Siena. Onde i Sanesi uscirono fuori per fare la difensione; fecero battalgla, dove molta gente fue morta: e' Fiorentini ebbero la vittoria sopra i Sanesi, e xij c. di prigioni ne menaro presi in Firenze. E tralli conti Guidi e Pistolesi si cominciò grande guerra; onde i Pistolesi li privarono dell'onore e del censo[349] ch'elli aveano della città di Pistoia.

Poi, nel Mccviij, i Fiorentini andaro, del mese di maggio, ad oste sopra la città di Siena, e tutta la guastaro infino alle mura; e poi disfecero Rugongnano, uno nobile castello.

Item nel Mccviiij i Fiorentini conperarono il castello di Monte Murlo libre v m.; e' Fiorentini andaro ad osste sopra Siena e tutta la guastaro, e disfecero Rapolana loro castello. Era podestà messer Gianni Giudice di Papa.

In questo tenpo, nel Mccx, si convertio alla fede di Cristo lxx m. huomini.

E nel Mille ccxv, del mese di novembre, nella chiesa di Laterano, la madre di Federigo inperadore chiamata Gostanzia, per papa Innocenzio fu celebrato un Concilio universale[350] in soccorso della Santa Terra d'oltremare, e per buono e universale stato della Chiesa; intra lla quale sollenitade e Concilio fue tra vescovi ed arcivescovi e patriarci e sancti abati e nobili prelati mccxv. Nel quale Concilio molti buoni e sancti ordinamenti;[351] e fue consecrata la chiesa di santa Maria Trasstevere. In questo Concilio il decto Papa dannò il libello che ll'abate Jovacchino avea facto contra il mastro Pietro Lonbardo. Item dannò Amerigo[352] Carnontese colla sua dottrina, secondo che dice la dicretale che conincia: Dannamus etc. Il quale Amerigo disse che lle forme ke ssono nella mente di Dio, a cchui similitudine tutte l'altre cose sono fatte, ed erano in principio e sono create.[353] Ma beato Angustino dice ke nella mente di Dio nonn à nulla mutazione, ma ttutta cosa etternale e che giamai non si muta. Disse ancora beato Agostino che Ddio è fine di tutte le cose, perciò ke in Dio tutte le cose si riposano sanza nullo mutamento e infine tutte permarranno in lui, sicome cosa ke non si può dividere né mutare. E ancora dicea il decto Amerigo erronico, che Ddio est essenzia di tutte le creature e ll'essere di tutte le cose; e item disse ke tutti quelli che ssono in cantate niuno peccato sarà inputato. Onde, sotto cotale spezie di pietade, i seguagi del decto Amerigo ongni sozza cosa liberamente faceano in ongni bruttura di pecchato. E ancora allegava ke sse ll'uomo e lla femina nonn avesse' peccato, cioè c'avesse peccato pur l'uno e non l'altro, le genti non sarebbono perdute, e dicea che sarebbe stata generatione: e secondo che montiplicano[354] li angeli sarebbero gl'uomini montiplicati: e che dopo la sua surexione, l'uomo e la femina sarà pur uno sensu. I quali tutte queste cose si truovano errori, secondo ch'appare nel libro intitolato Perphiseo, e à nome il libro d'Amerigo. Il quale Amerigo fu arso a Parigi con tutti i suoi seguaci e libri.

In questo tenpo Innocentio papa, per soccorso della Terra Sancta, intendendo di mettere pace tra' Genovesi e' Pisani e Lonbardy, si mosse, e non poteo finire e morio a Perugia, ed ivi fue soppellito nella chiesa di Sancto Laurentio. Ma i Perugini distrynssero sí forte i cardinali, che da ivi a j[355] giorni fecero Papa.

Anni Mccviiij.

Onnorio quarto, nato di Roma, sedette papa anni x, mesi viij, dí xxiij; vacò dí j. Questi fue eletto papa in Perugia; il quale apo Sa' Lorenzo fuor le mura il conte Altissiodorense,[356] ch'avea nome Pietro, coronò inperadore di Costantinopoli. Elli rinnovò la chiesa di Sancta Sanctorum. Elli confermò l'Ordine di predicatori[357] nel primo anno del suo pontificato, procacciandolo frate Domenico nato di Sspagna, il quale fu trovatore dello sancto Ordine; sopra al quale era stato molto duro papa Innocentio a confermare. Ma elli vide una visione ke lli parea che lla chiesa di sancto Johanni di Laterano cadesse, se non fosse che parca ke questo frate Domenico, che cominciò l'Ordine di frati predicatori, la sostenesse; e perciò si puose in chuore di confermallo, senno' che lla morte gli sopravenne, siché non poteo. Ed in questo tenpo fue beato sancto Francesscho, capo dell'Ordine di frati minori, filglolo di.... nato di.... E lli Romani passaro oltremare, e per forza presero la città di Damiata; e' Saracini che v'erano dentro tutti fuoro messi alle spade: e questo nel Mille ccxiij anni; ed alla decta cittade istette l'assedio[358] ij anni e vij mesi e xxj die.

Item Mccx anni si fece la pace tra' Fiorentini e li Sanesi, ch'era bastata la guerra anni v. Allora era consolo messer Catalano della Tosa.

Ed in questo medesimo anno fue coronato Otto di Sansongna e unto e consecrato re della Mangna e re di Romani, ed era vacato lo 'nperio anni xiij. E in questo medesimo anno, il detto Otto inperadore si rubellò dalla Chiesa, e per l'Aposstolico fue disspossto e maladetto e scomunicato. Ed in questa medesimo anno il predecto Otto fece battalgla collo re di Francia nel reame di Francia, e fue sconfitto e morto elli e tutta la sua gente maladetti e scomunicati. E la battalgla fue in Fiandra al Ponte a Bovine.

Poi, nel Mccx ani, morio il grande e valente huomo messer lo conte Guido vecchio di conti Guidi, huomo savio e dengno di molte lode.

Item Mccxv anni, esendo podestade messer Currado Orlandi, nella terra di Canpi apresso a Florenzia vj milgla, si fece chavaliere messer Mazzingo Tegrimi de' Mazinghi; ed invitòvi tutta la buona gente di Firenze. Ed essendo li chavalieri[359] a tavola, uno giucolare di corte venne e llevò uno talgliere fornito dinanzi a messer Uberto dell'Infangati, il qual era in conpangnia di messer Bondelmonte di Bondelmonti; donde fortemente si cruccioe. E messer Oddo Arrighi de' Fifanti, huomo valoroso, villanamente riprese messer Uberto predecto; onde messer Uberto lo smentio per la gola, e messer Oddo Arrighi li gittò nel viso uno talgliere fornito di carne: onde tutta la corte ne fue travalglata. Quando fuorono levate le tavole, e messer Bondelmonte diede d'uno coltello a messer Oddo Arrighi per lo braccio, e villanamente il fedio. Tornati ongnuomo a sua magione, messer Oddo Arrighi fece consilglo di suoi amici e parenti, infra lli quali fuorono Conti da Gangalandi, Uberti, Lanberti e Amidei; e per loro fue consilglato che di queste cose fosse pace, e messer Bondelmonte tolglesse per molgle la filgluola di messer Lanbertuccio di Capo di ponte, delli Amidei, la quale era filgluola della sorore di messer Oddo Arrighi. Fatto il trattato e la concordia, e l'altro giorno apresso si dovea fare il matrimonio; e madonna Gualdrada molgle di messer Forese di Donati sacretamente mandò per messer Bondelmonte e disse: — Chavaliere vitiperato,[360] ch'ài tolto molgle per paura dell'Ubarti e di Fifanti; lascia quella ch'ai presa e prendi questa, e sarai senpre inorato[361] chavaliere.[362] — Tantosto elli ebbe asentito a questa opera fare, sanza alkuno consilglo. Quando venne l'altro giorno, al mattino per tenpo, giovedí die x di febraio, e la gente dall'una parte e d'altra fue raunata, venne messer Bondelmonte e passò per Porte Sancte Marie, e andò a giurare la donna di Donati, e quella delli Amidei lasciò stare, sotto questo vituperio chen inteso avete. Vedendo messer Oddarighi questa cosa, fu molto cruccioso; e fece uno consilglo, nella chiesa di santa Maria sopra Porta, con tutti li suoi amici e parenti, e quivi fortemente si lamentò della vergongnia che lli era stato fatto per messer Bondelmonte. Si che fue consilglato per certi huomini ch'a llui fosse dato d'uno basstone, e altri dissero k'elli fosse fedito nella faccia: infra lli quali rispose messer Mosscha di Lanberti e disse: — Se ttu il batti o ffiedi, pensa prima di fare la fossa dove tue ricoveri; ma dalli tale che ssi paia che cosa fatta cappa à. — Avenne che tra lloro fue diliberato che lla vendetta fosse fatta in quello loco dove la gente era raunata a fare il giuramento del matrimonio. Siche lla mattina della Passqua di Risorexio, appiè di Marzo, in capo del Ponte Vecchio, messer Bondelmonte, cavalcando a palafreno in giubba[363] di sendado e in mantello con una ghirlanda in testa, messer Ischiatta delli Uberti li corse adosso e dielli d'una mazza in sulla tessta e miselo a terra del cavallo, e tantosto messer Oddarighi con un coltello li seghò le vene, e lasciarlo morto. E questa possta fue fatta in casa gli Amidei. Allora lo romore fue grande; e fue messo in una bara, e la molgle istava nella bara e tenea il capo in grenbo fortemente piangendo;[364] e per tutta Firenze in questo modo il portarono.

In quello giorno si cominciò la struzione di Firenze, che inprimamente si levò nuovo vocabile, cioè Parte guelfa e Parte ghibellina. Poi dissero i Guelfi: — Appellianci parte di Chiesa; — e Ghibellina[365] s'apellarono parte d'Inperio, avengnadio ch'e' Ghibellini fossero plubici paterini. Per loro[366] fu trovato lo 'nquisitore della resia. Onde per tutti i Cristiani è sparta questa malattia. E iij m. d'huomini e piú ne sono morti, ké ll'uno pilgla l'una parte e l'altro l'altra. Durando la guerra lunghissimi[367] tenpi, i Bondelmonti e li Uberti fecero pace; e messer Rinieri Zingani di Bondelmonti diede per molgle la filgluola a messer Neri Piccolino fratello di messer Farina: ciò fue nel Mccxxxviiij anni. La quale donna fue molto valente donna e molto savia e bella.

Or avenne che lli Uberti, Lanberti, Caponsacchi e Amidei, Conti da Gangalandi, Bogolesi e Fifanti andarono a Canpi in servigio di Bertaldi; da' Bondelmonti e loro seguagi guelfi traditamente di subito fuorono assaliti e sconfitti e morti; e messer Iacopo dello Schiatta Uberti per Simone Donati vi fue morto, e messer Oddarighi di Fifanti con altri assai gentili huomini; ed a messer Guido de' Galli fu mozzo il naso con tutto il labro, e fessa la boccha da ciascuno lato insino alli orecchi. E questo trattato fue di Bondelmonti, credendo avere preso messer Farinata e messer Neri Piccolino e messer lo Schiatta Uberti. Ritornati i Ghibellini in Firenze sconfitti, la guerra cittadina fue coninciata, le fortezze di torri e di palagi tutto giorno conbatteano di manganelli e di trabocchi, dove molta gente peria. Allora messer Neri Piccolino rimandò al padre la molgle dicendo: — Io non volglo generare filgluoli di gente traditore. — Tornata la donna a casa Bondelmonti, messer Rinieri Zingare suo padre, contra sua volontade, al conte Pannocchino di conti Pannochiesschi la rimaritoe. E quando la donna fue a casa del suo marito, e volendo prendere gioia di lei per debito modo, e lla donna piangendo li chiese mercede e disse: — Gentile huomo, io ti priego per cortesia che ttu non mi debbie apressare né fare villania, sapiendo che tu se' ingannato, k'io non sono né posso essere tua molgle, anzi sono molgle del piú savio e milglore chavaliere della provincia d'Italia, cioè messer Neri Piccolino delli Uberti di Firenze. — Quando il conte Pannocchino udío questa cosa, come gentile e cortese huomo, non prese di lei alkuno sollazzo; ma presa a dimandare com'era la cagione, e poi amorosamente la prese a confortare e consilglando, si lle fece nobili e grandi donamenti, e si lle diede quella conpagnia ch'a llei si convenia. E fecesi suora rinchiusa del munistero di Monticelli Vecchio. Poi rimase la guerra di Bondelmonti colli Uberti e colli Fifanti con molta travalgla, sicome legendo iscritto troverete, ke ll'una parte è Guelfa traditori e l'altra sono Ghibellini paterini.

In questo anno Mccxv papa Inocenzio fece a Rroma concilio di tutti i cherici d'Italia.

Anno Domini Mccxx.

Federigo secondo, nato della Mangna, del gentile lingnaggio della casa di Soave, filgluolo dello 'nperadore Arrigo quinto e della 'nperadrice[368] Gostanzia filia del re Ruggieri, reina di Cicilia e di Pulgla e di Calavra, fue incoronato a Roma, la die di sancta Cicilia, inperadore.[369] Inperò anni xxxiij, e fue coronato da Onnorio papa iiijº nella chiesa di san Pietro, lo benaventuroso giorno di santa Cicilia. Questi rimase pupillo in guardia della Chiesa sicome sua tutrice, e infino nella sua giovanezza coninciò ad essere huomo di grande valore. Or avenne ch'elli cadde in disscordia con papa Onnorio, donde sopra lui fece forti processi e scomunicollo e tutti i suoi baroni asolvette del saramento della fedaltade ch'alla sua maestà inperiale aveano giurato. Donde naquero diverse tribulationi e scandali tra llui e la Chiesa, sicome qui apresso udirete.

In questo anno Mccxxj la città di Damiata rivenne a mano di Saracini; e papa Onnorio predecto morio, e fue sepulto nella chiesa di santa Maria Maggiore di Roma.

Elgl'è vero ke questo Federigo secondo fue huomo mirabile e di grande intendimento: elli conobbe ed ebbe in sé tutte le grandi bontadi ch'omo del mondo dovesse avere. Quando elli fue allo 'ncoronare si vi fue tutte l'anbascerie del mondo, Cristiani[370] ed ispezialmente di Fiorentini molta nobilissima:[371] donde li Pisani ne portarono grande invidia, usando contra i Fiorentini oltraggiose parole e fatti. Onde i Fiorentini conbattero co lloro, e fedirlli e ucciserli con grande danno e disonore di Pisani. Allora si coninciò la guerra tra Pisa e Firenze.

Mccxxij anni. Esendo podesstà di Firenze messer Ugho Grigorii di Roma, grande guerra si coninciò tra li Pisani e li Fiorentini; e a dí xx di lulglo i Fiorentini andarono ad oste sopra il terreno di Pisani; e' Pisani, volendo risistere contra li Fiorentini, usciro[372] di Pisa, popolo e chavalieri, e fecero battalgla grandissima e perdero; e' Fiorentini ebero la vittoria sopra di loro, nel piano di Morici al castello del Bosso; dove fue grande mortalità, e xv c. di prigioni Pisani ne fuoro menati presi in Firenze.

Nel Mccxxv[373] anni i Fiorentini asediarono Fighini e l'Ancisa e poi l'ebbero e disfecerlo; ma poi rifecero l'Ancisa. E in questo anno valse lo staio del grano soldi xvij.

Anni Domini Mccxxvj.

Grigorio nono, nato di Campangna, huomo di gentile linguaggio, sedette papa anni xiiij, dí x; vacò dí xx. Questi era inprima cardinale vescovo d'Osstia, ed era il piú drudo e caro amico che llo 'nperadore Federigo avesse in corte; ed avea nome messer Ugolino. E fue eletto papa a dí vij di marzo apo Settesolglo.[374] Questi fue poi il magiore nimico dello 'nperadore k'elli avesse nel mondo. Elli canonizzò la beata sancta Helisabet, filia del re d'Ungaria. La quale un giorno, essendo pulzella delle piú belle del mondo e delle piú amaestrate in iscritura, si era piena di tanta limosina e caritade ke nulla cosa si lassciava a dare per Dio; ed ispendea e donava per suo amore tutti suoi vestiri e gioielli, e tutto il pane levava delle mense e dava a' poveri, ricevendone molte vergongne dal padre e da la madre e dalle sue cameriere. Or avenne un giorno che llo re d'Ungaria suo padre fece una grande festa, dove convitò molti baroni e chavalieri, per maritare Ysabetta sua filia al filgluolo dell'Antigrado della Mangna. E quella stando alle finestre della camera, e vide molta quantità di poveri ch'aspettavano la limosina, celatamente fece torre per suo comandamento tutto il pane della casa e fece[375] dare per Dio a' poveri; e finalmente vi ne canparo[376] v poveri ke nonn ebero limosina. E Llisabetta si mosse, e tolse il pane ch'ella dovea desinare colle sue cameriere, e portavalo in grenbo per dare a' poveri; si ch'all'uscire della camera, il Re co molti baroni le si fece incontro per farle vergongna, fecesi mostrare quello c'avea con seco. La faccia le coninciò ad arossare ed a inpiersi di paura e di vergongna, e mostrali il grenbo; e questo pane fu diventato tutto rose bianche e vermilgle: ed era per la passqua della Nattività di Cristo all'uscita di dicenbre. Donde tutta la corte e 'l reame si n'enpieo, e quivi fue la maggiore fessta del mondo; e tutte[377] le tavole si trovaro piene di rose e di fiori e di pane biancho, e tuttavia crescea.

Questo Gregorio papa confermò tucto ciò k'avea facto papa Innorio suo anticessoro; e tolse per sentenzia l'antigrado di Toringia allo 'nperadore Federigo. E volendo elli celebrare Concilio ad Roma, ed essendo per mare e per terra per lo 'nperadore istrette le vie e' passi, venendo due cardinali d'oltremonte a corte, ciò fue messer Oddo e messer Iacobo vescovo di Penestrino, con molti cherici e plelati[378] di sancta Kiesa al Concilio in soccorso della Chiesa, da' Pisani per comandamento dello 'nperadore, a Monte Argentaio, fuorono presi e tursati in mare.

Questo Papa fece fare a frate Ramondo, suo penetenziere e capellano, dell'Ordine di predicatori, di tutti i velumi de' Dicretali fece fare un libro; e comandò ke per tutti i maestri fosse usato e insengnato.

Questi, avendo grande briga collo 'nperadore, era quasi in Roma assediato: e lo 'nperadore avea già preso[379] per forza tutto il patrimonio di San Pietro e quello della Kiesa, e tutti i grandi di Roma erano corrupti per pecunia, e da neuno potea essere atato né consilglato; si tolse le capita delgli apostoly santi, e portando queste sante orlique a processione dal Laterano infino a San Piero, per la qual cosa rappellò a ssé li animi delli omini di Roma, e grande pianto di pietade, tutti gran parte si sengnarono di croce contra lo 'nperadore. Per la qual cosa lo 'nperadore udendo e vedendo ciò, maravilglossi forte, che ssi vedea rivolta la gente contra sé, e credeasi intrare in Roma e fare tutte le sue volontadi; per questa paura si ritornò indietro.

Questo papa canoninzò il beato Domenico di Spangna, maestro e capo dell'Ordine sancto di frati predicatori, il qual era stato soppellito in Lonbardia nella città di Bolongna, concorrente gli anni Domini Mccxxiijº; essendo passati xviij anni da quello giorno al die della confermagione dell'Ordine, e anni viij dalla sua morte.

Mccxxviij anni, alla singnoria di messer Andrea Iacopi de Perugia i Fiorentini andarono, popolo e chavalieri col carroccio, sopra la città di Pistoia, e le borgora infino alle mura, intorno intorno, tutto guasstaro; e disfecero Monte Fiore, una bella torre, e lo castello di Carmingnano. Poi vennero alle comandamenta di Fiorentini, e fecero pace.

Mccxxviiij anni i Sanesi ruppero pace alli Fiorentini, e per dispetto di Fiorentini guasstaro il castello di Monte Pulciano ch'era racomandato di Fiorentini; e questo fue del mese d'agosto. Poi del mese di settenbre, per fare la vendetta, i Fiorentini cavalcarono popolo e chavalieri nelle terre di Sanesi, sopra il castello d'Asciano e tutto il contado[380] di Siena da quella parte guastarono.

Nel Mccxxx i Sanesi ruppero pace a' Fiorentini. E fu trovato nella cossta del Ppoggio di Montissci, nel contado di Firenze, uno bangno freddo d'una sancta acqua, la quale gueria tutte infermitadi; ed eziandio somilglante fu trovato un altro bangno freddo santissimo, ch'è nella cossta di Monte Morello, sopra lo rivaggio di Tersolla. E ciascuno di questi bangni per lo Comune di Firenze fu dotato di c. braccia di terreno intorno intorno.

E in questo anno, era podestà messer Otto da Bandello, die xxj di giungno,[381] i Fiorentini andaro ad oste sopra la città di Siena, col carroccio e collo stendale ispiegato; e guastando tutto dintorno il contado di Siena infino alle porte, chavalcaro innanzi infino alla roccha di Radicofano ed a San Guilicho e lo Bangno a Petriuolo; e disfecero xxij castella, e talglaro il grandisimo pino da Monte Cilglese e la torre colli serralgli ed istecchati del borgo, infino alle mura. E' Sanesi uscendo fuori per difende', la battalgla fue grande; i Fiorentini gli sconfissero. E le donne vi vennero a conbattere, e Alberto conte di Mangone alla porta puose lo schudo. La mortalitade fu grande, e la terra fu quasi tutta presa; e sed e' non fossero stati misericorduosi,[382] tutta la poteano distruggere a ffuoco ed a ferro. Li prigioni, che nne menaro presi in Firenze, fuorono mcccxxxv huomini; e molte donne belle di Siena fuorono prese, e per forza menate in Firenze per drude di coloro che ll'aveano guadangnate.

Nel Mccxxxij anni i Sanesi, per disspetto di Fiorentini, disfecero il caste[llo] di Monte Pulciano. E tantosto i Fioren[ti]ni cavalcaro sopra Siena, popolo e chavalieri, e tutta la guasstarono; e poi puosero l'assedio a Quercia Grossa, a iiij milgla presso a Siena, e per forza di battalgla la presero; e tutti gl'uomini ke v'erano dentro ne menarono in Firenze in prigione. E fue del mese di settenbre battalglato fortemente con vij difici.

In questo anno s'aprese il fuoco in casa di Caponsacchi, tra lli Spadari; e quivi arse tutta la ruga, e xxij tra omini femine e fanciulli.

Nel Mccxxxiij anni, alla singnoria di messer Torello da Strata, die xviij di maggio, i Fiorentini andaro ad osste sopra li Sanesi, ed asediarono la città di Siena dalle tre parti; e xxij[383] vi gittarono dentro,[384] e per piú onta di loro, v asini vi fuorono manganeggiati; e intorno intorno fue guassta. E liiij die vi stette l'osste.

Ancora l'altro venente apresso di quello, Mccxxxiiij anni, i Fiorentini ritornaro ad oste sopra la città di Siena, e tutto il suo contado infino alle mura guasstarono; e liij die vi dimorarono, e disfecero Assciano ed Arcaleccho e xlv castella; e questo fue a dí ij di giungno. Era podestà di Firenze messer Gianni Giudice di Roma.

In questo anno, la notte della passqua di Natale[385] arse[386] tutto il Borgo di Piazza, oltrarno, dall'uno capo all'altro.

Apresso, l'altro anno, Mccxxxv anni, alla singnoria di messer Conpangnone Poltroni, i Fiorentini e' Sanesi, di lunga guerra ch'aveano fatto, fecero grandissima pace, per patto e condizione che lli Sanesi dovessino rifare Monte Pulciano, e' Fiorentini rifacessero Montalcino; le quali due castella i Sanesi aveano disfatto, per cagione che ss'erano racomandate a' Fiorentini per la mala singnoria ch'e' Sanesi usavano loro. E somilglante aveano facto il conte Unberto e el conte Rosso colgli altri suoi consorti conti di Marema, i quali aveano lxiiij castella, ed era loro Grosseto e Massa e Corneto e Soana, tutte cittadi, ed ancora Monte Falcone, Castello Guidi, Malglano, Montalcino e Monte[387] Pulciano e....[388] E questi conte[389] Rosso e conte Unberto e le loro castella, sicome racomandati del Comune e popolo di Firenze, ongn'anno, la vigilia di sancto Iohanni Bactista, nobili e orrevoli ceri ufereano per omaggio. E lo detto conte Unberto mandava la cerbia vestita di scharlatto: e facea osste e cavalcata, quanto facea bisongno per li Fiorentini.

Nel decto tenpo anno Mccxxxvj, del mese di febraio, mastro Giordano, frate dell'Ordine di predicatori, huomo laudabile per vita e per senno, si mise in porto e passò oltremare a predicare li Saracini e là morio.

In questo tenpo Federigo inperadore, sengnato di croce, passò oltremare: e quando ritornò, ciò fue Mccxxxvij anni, isconfisse la città di Melana, popolo e chavalieri di gran quantità, a Corte Nuova.

In questo anno si fece in Firenze il ponte Rubaconte; e la prima pietra che si fondò si fue quela di messer Rubaconte della Torre di Melano ch'era podestade in Firenze. Ed uno grande fuoco s'aprese in Firenze, nella torre della Volpe; onde tutta Terma arse.

Ed apresso,[390] Mccxxxviij ani, esendo morta una donna in casa gl'Orciolini, e raunate le donne, cadde il palcho dov'era 'raunate, e xxvj donne vi morirono.

Apresso, nel Mccxxxviiij anni, venerdí, die 7[391] intrante giungno, ischuroe[392] il sole nell'ora della nona, e stette ischurato piú d'una ora e una mezza a cielo stellato; poi si rifece die chiaro.

Anni Domini Mccxxxviiijº.

Celestino quarto, nato della città di Melana, sedette papa die xvijº; vacò la Chiesa xx mesi e die xiiijº. Questo Papa, essendo huomo di sancta vita, era vescovo di Sabina, ed era molto vecchio si di tenpo com'era di senno. Fatto fue papa, tostamente si morio, e fue sepulto nella chiesa di san Pietro.

In questo anno, il primo venerdí di giungno, schuroe il sole nell'ora della nona, e basstò per gran pezza.

In questo anno la gente de' Tartari, avendo presi quasi tutti i reami di Levante e sottopostilisi crudelmente, dividendosi in due parti, entrarono per forza in Ungaria ed in Polloni. Ruberto duca di Colmanno, fratello del re d'Ungaria[393] e 'l duca Isslezie Arrigo,[394] in Pollonia ed in Paonia, huomini e femine, grandi e piccioli, crudelmente uccisero e misero alle spade; e quasi tutti questi ij reami rimasero diserti[395] di gienti, e quelli tanti che schanparo d'inopia fame morivano,[396] e ancora l'uno mangiava l'altro per fame.

In questo tenpo, in Borgongna inperiale, i monti de' paesi l'uno dall'atro per tremuoti si partirono, onde molte castella e casali profondarono; e piú di v m. persone afogaro.

Mccxl anni.

In questo tenpo, esendo don Ferrante re di Spangna, nella città di Tolletta avea uno giudeo ch'avea nome Iosep; cavando una sua vingna, trovò j grande lapida cavata dentro e di fuori tutta salda, sanza nulla fessura; la quale facendo manifessto al popolo della città, presente loro la ruppe, e dentro vi trovò uno bellissimo[397] libro ch'avea quasi i folgli grossi come tavole, ed era iscritto di tre maniere lettere, cioè in lingua[398] ebrea e greca e latino: e potea avere tanta lettera quanto si mette in uno saltero compiuto di cl. salmi: il quale libro si crede che fosse fatto per Noè che fece l'arca del diluvio. La letteratura ebrea brevemente parlava da Adamo infino ad Anticristo; l'altra partita dicea delle propietadi degl'uomini, exprimendo di catuno mondo e menbro; l'altra partita dicea il principio del terzo mondo, e come il Filgluolo di Dio nasscerà d'una pulzella sancta vergine ch'averà nome Maria, il quale patirà passione e morte per salvare l'umana generazione del peccato d'Adamo[399] e d'Eva. Tantosto che questo libro fue aperto e lletto, Iosep giudeo, con tutta la sua familgla e co molti altri giuderi, si battezaro e tornaro alla fede cristiana. E nell'assi di fuori di questo libro si era scritto come questo libro si dovea trovare al tenpo di don Ferrante re di Castello. E somilglante troverai iscritto al tenpo di Costantino sexto, il quale fu ciecho dalla madre.

In questo anno lo 'nperadore Federigo secondo asediò Faenza, una nobile città di Romangna, che s'era da llui rubellata; e vij mesi continui vi stette l'asedio; e poi perché nonn aveano sale, si ss'arenderono a patti.

In questo anno era podestà di Firenze messer Castellano da Cafferi, huomo sapio e pieno di giustizia. E al suo tenpo il borgo a San Ginegio fa possto e rifatto nel piano di Saminiato.

E in questo anno Arrigho filgluolo dello 'nperadore Federigo, esendo eletto re della Mangna per la Chiesa di Roma, contra il suo padre si rubelloe, e molta guerra li facea; onde lo 'nperadore si llo prese, e per forza d'asspre carcere in Pulgla il fece dolorosamente morire.

Anni Domini Mccxlj.

Innocenzio iiijº, nato di Genova, gentile huomo nato della casa di conti de Llavangna, sedette papa anni xj, die xij; vachò la Chiesa die lij. Quessti rienpieo tutte le sedie di cardinali, che lunghissimi tenpi erano state vote, del numero di lj cardinali; facendo di loro elezioni di diverse parti del mondo.

Quessti, dopo molto trattamento ch'era fatto di fare pace tra llui e lo 'nperadore Federigo, il qual era aversario e caduto in contumacia[400] per sentenzia de la Chiesa, coll'aiuto e navilio di Genovesi, celatamente per paura dello 'nperadore n'andò in Francia, e quivi celebroe Concilio generale nella città di Leone sovra Rodano; nel quale Concilio per sententia appostolicale plubicato fue nimico della Chiesa, e sentenzia sopra lui fue data di maladizione scomunicale, e privato fue e disspossto di ttuti honori e ufici inperiali.[401] E llo 'nperadore,[402] vedendo questa sentenzia, si ll'[403] appelloe a Ddio; e prochacciò di fare eleggere a' baroni della Mangna, a chu' s'apartiene la lezione, di fare chiamare re della Mangna l'antigrado di Toringia; il quale per morte fu privato e non venne alla dingnitade: poi fece chiamare lo conte di Laudi; ed ancora eletto, tantosto morio.

Quessto Papa, alla città di Leone predecto, chalonizzoe santo Emundo confessore, vescovo di Conturbiera d'Inghilterra. Po' si partio da Lleone e venne a Perugia; e quivi callonizzò il beato santo Pietro martire, nato di Verona, dell'Ordine di frati predicatori; il quale, esendo filgluolo d'uno eretico ed ereticha, e dalli eretici fu fatto uccidere; ed Uccherino[404] e..... l'uccisero tra Chommo e Milano, perch'elli predicava contra la loro setta. Ancora calonizzò[405] ad Ascesi san Stanilao martire, vescovo, il quale da Malagio principe fu morto.

Item in questo tenpo plubicamente si manofesstò la grande bontade di frate Ugho, cardinale dell'Ordine di predicatori, huomo mirabile di scienza e di boutade, il quale tutta la Bibbia disspuose e dichiarò a sano intendimento.

Poi nel Mccxlvij anni,[406] alla singnoria di messer Iacopo di Rota, la notte di sancta Maria Candelloria, di febraio, la Parte guelfa di Firenze, per forza, da' Ghibellini ch'aveano la forza dello 'nperadore Federigo, fuori della Città fuorono cacciati. E questo fue la prima fiata che Parte guelfa o ghibellina uscisse fuori di Firenze. Ed allora i Ghibellini dissfecero torri e palazzi e tutte fortezze ch'e' Guelfi aveano, ed altre cose fecero assai laide e biasimevoli, di sforzare donne e pulzelle, di grande vergongnia.

Nel Ccxlviij anni fue disfatto il Borgo a Sanginegio, die primo iulii, per li.... Ed essendo lo 'nperadore. Federigo con grandissimo exercito di popolo e di cavalieri, avea asediata la città di Parma di Lonbardia, dov'era il Legato chardinale della Chiesa di Roma; e sí stretto era l'asediamento che nulla persona vi potea intrare né uscire: ed apresso [a][407] Parma avea facto una cittade nuova, la quale puose nome Vittoria, per contrario di Parmigiani; e lungo tenpo era bastato l'assedio, sí che quasi tutti moriano di fame. Avenne ch'uno giorno, die martedí primo di febraio, lo 'nperadore con certa quantitade di suoi baroni andò a chaccia di falconi: i Parmigiani col Legato, popolo e chavalieri, uscirono fuori di Parma e fedirono al canpo dello 'nperadore, e quivi tutta la sua gente fu morta e sconfitta; e la corona con tutta la camera ed arnesi dello 'nperadore[408] vi si perdeo, e molto tesoro similglante.

Nel Mccxlviiij anni, die xxvij del mese di marzo, Lodovicho re di Francia....[409]

Mcclxxxv.

Onnorio, nato di Savelli gentilissimi cittadini di Roma, sedette papa anni ij e dí xxj; vachò la Chiesa mesi x, dí xiiij. Questi fue avarissimo come cane.

Nel tenpo di costui il conte Guido di Montefeltro, il quale avea occupata Romangna sicome camera della Chiesa di Roma, per chui molto sangue si sparse. Il quale conte Guido fue huomo savio e di grande valore.

In questo anno Guilglelmino vescovo d'Arezzo, nato della casa delli Ubertini di Firenze, huomo franco e maestro di guerra, a sua masnada[410] fece torre un castello di Sanesi, il quale si chiama il Poggio a Sancta Cicilia; e 'l filgluolo, k'avea nome Monaco e Simone Pazzo di Pazzi di Valdarno, ne fece capitano, con alquanti[411] ghibellini usciti di Siena. E tennero i' castello, contra i Sanesi e Fiorentini e di tutta Toscana, mesi xiiij e dí xviij, conducendosi a mangiare i topi e rodere i chuoi di tavolacci; e richolglieano la rugiada per sete ch'aveano, e finalmente il loro pisscio medesimo beveano.[412] Finalmente la notte di venerdie sancto, non potendo piú sostenere il castello, abandonaro il castello e fugirono fuori, venendo una grande piova, e canparo. Sapiendo ke nel decto anno fue sí gran caro che quasi tutta la gente moria di fame.

In questo anno Mcclxxxvj Redolfo re della Mangna eletto inperadore fece suo vicari in Toscana messer Prizzivalli del Fiessco di Gienova, per raquistare le sue ragioni sicome vicario d'inperio. Elli comandò a' Fiorentini ed alli altri Toscani ke giurassero le comandamente dello 'nperio; i quali, non esendo ubbedito, condannò i Fiorentini e li altri ke non ubidiano in cl m. marchi d'argento. E poi n'andò e fece suo capo inn Arezzo, e diede bando alle decte terre d'avere e di persone; e poi si ritornò nella Mangna.

Mcclxxxvij.

Del mese di giungno Guilglelmino vescovo d'Arezzo, chon Ubertini e Pazzi di Valdarno e con Bonconte filgluolo del conte Guido di Montefeltro, chon Uberti e Lanberti ed altri sbanditi di Firenze, di notte tenpora, entraro del mese di giungno inn Arezzo, e cacciaro fuori tutti i Guelfi. E pocho stante Prizzivalli vicario dello 'nperio della Mangna tornò inn Arezzo, e quivi aunò gran quantitade di chavalieri a soldo, e facea, guerra in Firenze ed algli altri Toscani ke Parte guelfa reggea.

In questo anno e nel decto mese di iunio Carlo Martello e Ruberto conte d'Artese fecero una grande armata di galee per passare in Cicilia, e di ciò fecero capitano d'alquante il nobile chavaliere messer Renaldo Avelli di Pulgla, per passare in Cicilia. Onde don Giacomo re di Cecilia per possedimento, filgluolo del re Piero d'Aragona, sentendo la sua venuta, e che non prendesse terra, con sua gente per forza il fece levare dell'isola con dalmagio di lui. Avenne ke 'l die di san Giovanni proximo vinente, Carlo Martello si mosse del porto di Napoli per passare in Cicilia, dov'era capitano il conte Guido di Monforte, el filgluolo del conte di Fiandra, el conte di Brennai,[413] ed amiralglo messer Aringhino da Mmare,[414] nato di Genova, il quale avea lx galee bene fornite; e in quelo dí medesimo, apresso[415] a Nnapoli a vj milgla, intopparsi coll'armata del re Giacomo, dov'era amiralglo messer Rugieri di Loria di Calavra, huomo benaventurato; e quivi fecero una dura ed asspra battalgla. Finalmente Carlo Martello, filgluolo del re Carlo secondo, fu preso aprigione co' sotii, e fu sconfitto; dove molta nobile gente fu morta e presa. E decti capitani vi fuoro presi: salvo ke messer Aringhino da Mare si partio, e non volle conbattere, sano e salvo con tutte le sue galee.

Mcclxxxvij.

Niccholao, nato d'Asscholi, sedette papa anni iiij. mesi iij, dí viij; vachò la Kiesa anni ij e dí j. Questi, essendo frate minore e loro maestro, fu facto cardinale; e poi il die di Chattera Sancti Petri fu facto papa.

Nel decto tenpo i Fiorentini andaro ad oste[416] sopra la città d'Arezzo, e fecero di loro sforzo xlvjº. di chavalieri: ed ebero alle comandamenta Laterino e xliij castella delli Aretini, e la città guastarono infino alle mura. Onde i Sanesi, partendosi dell'oste de' Fiorentini e tornando a casa, guastaro[417] il castello di Lucignano. Tegrimo de' Conti da Porciano, podestà d'Arezzo, uscio fuori, popolo e chavalieri, d'Arezzo, e fecero battalgla alla Pieve al Toppo; e quivi fuorono i Sane' isconfitti dalli Aretini, lo die di sancto Iohanni di giungno. E questo si crede che avenisse per cagione ch'e' Sanesi, la vigilia del beato Giovanni, mangiaro comunemente la carne; e per opera manifesta nuovi sengnali si videro, ché in quello giorno nel canpo loro si levò sí grandissimo vento che non lassciò padilglone né trabaccha che della terra non divellesse, e infino al cielo le portò tutte spezzando.

Ed allora era podestà di Firenze messer Antoniolo da Forceracha[418] da Llodi[419] per vj mesi. Ed allora era priore[420] Vanni Ugolini, Alberto Attaviani, Baldovino Rinucci, Lapo Guilglelmi, Fantino dalla Lastra e Passa Finiguerra.

In questa battalgla fu morto il prudentissimo huomo Rinuccio di Pepo di Conti di Maremma[421] e Lano sanese.[422]

In questo tenpo il conte Ugolino, esendo singnore di Pisa, per la mala singnoria ch'elli usava, a furore di popolo, colla forza dell'Arcivescovo delli Ubaldini, con grande remore gridando: Muoia, muoia! fu preso e messo in prigione, e v tra filgluoli e ij nepoti fecero di fame morire in prigione. E allora Nino Iovane singnore filgluolo......[423] cacciare fuor di Pisa colli Vissconti e colli Upizzinghi e con tutti gli altri guelfi di Pisa.

In questo tenpo, del mese di novenbre,[424] Carlo Martello fu tratto fuori di prigione, per fattura e procaccio d'Aduardo nobile re d'Inghilterra suo cugino, promettendo a domi Afuso[425] filgluolo del re d'Aragona di fare ke Carlo filgluolo di Filippo di Francia finirebbe il reame d'Aragona, per consentimento del Papa; e se cciò non facesse, promise a ivi[426] a tre anni ke Carlo tornerebbe alla prigione. Onde per questa cosa fare fermamente, si lli diede tre filgluoli[427] di Carlo per istadichi e XXX m. di marchi di sterlini e l. chavalieri di magiori e di piú nobili di tutta Proenza.

In questo tenpo Guido conte di Montefeltro,[428] esendo riconciliato colla Chiesa e andato a' confini in Piamente, e dati ij suoi filgluoli per istadichi al Papa, sanza parola si partio da' confini e venne in Pisa; e fatto fue del tucto singnore. Allora il Papa iscomunicò lui e 'l Comune di Pisa, e per sentenzia il piuvichò filgluolo di perdizione e nimico della Kiesa. Allora tantosto Guido conte di Montefeltro comandò ke mai al conte Ugolino ed a' suoi filgluoli e nepoti fosse dato mangiare; e cosí morirono d'inopia fame[429] tutti e cinque, ciò fue il conte Ugolino, Uguiccione, Brigata, Anselmuccio e Guelfo; e quivi si trovò che ll'uno mangiò de le carni all'altro; e finalmente fu loro dinegato il sacerdoto[430] per confessare i loro peccati, e tutti e v in una mattina fuero tratti morti di prigione. Questo conte Ugolino fue huomo di cosí fatta maniera ch'elli facea morire il popolo di Pisa di fame; ed al suo tenpo avendo grande abondanza di formento, fu sí crudele che vij libre facea conperare lo staio del grano in Pisa: poi finalmente per fame morio con tutta sua familgla.

In questo anno i' Firenze si fece la loggia d'Orto Sa' Michele ornatamente in x[431] pilastri, tutta dipinta.

Mcclxxxviijº anni, del mese di maggio, alla singnoria di messer Antonio[432] da Forceracha, i Fiorentini colla loro amistade di Tosschana andarono ad osste sopra la città d'Arezzo, arso per fuoco il borgo di Leona; e poi si puose ad asedio al castello di Laterino ed ebberlo a patti. Poi andarono e puosero il canpo al Vescovado vecchio lungo le mura d'Arezzo, e tutto il suo contado guastaro intorno intorno. I Sanesi esendo in questa osste in conpangnia di Fiorentini, quando l'osste tornava, partirsi da' Fiorentini per guasstare il castello di Lucingnano delli Aretini. E ll'Aretini,[433] sentendo ch'e' Fiorentini erano partiti, andarono adosso a' Sanesi e fecero battalgla alla Pieve al Toppo.

Mcclxxxviiij.

Del mese di magio, Tebaldo soldano di Banbillonia con grandissimo exercito di gente puose assedio alla città di Tripuli, e per forza la prese con tutta la gente cristiana, k'erano tra grandi e piccioli piú xxx m., tutta a fferro fuoro morti.

Nel decto tenpo il principe Carlo secondo venne a corte, ed innorevolemente dall'Apostolico e da' suoi frati cardinali fu receputo; e llo giorno della Pentacosta proxima venente il decto papa Niccolao il coronò re di Pulgla e di Cecilia, salvo ke 'n Cicilia no' salío elli.

Mcclxxxviiij anni.

In questo anno, Guido conte di Conti Guidi, esendo podesstà della città d'Arezo, e regevasi per li Ghibellini, e in Firenze era podesstade messer Ugolino Rosso di Parma, i Fiorentini ke reggea in Parte guelfa, con Lucchesi, Pistolesi, Pratesi e Saminiatesi,[434] e altra gente assai di loro amistade, andaro ad osste sopra la città d'Arezzo, a dí xv di magio, con xv m. pedoni e ij m. chavalieri; e passaro Monte al Pruno, e fuorono a Bibiena nel piano di Certomondo, loco decto Canpaldino. Usciro fuori gli Aretini per difendere lo guassto, e quivi fecero battalgla, lo die di sancto Barnaba, xj di giungno; e gli Aretini, popolo e chavalieri, da' Fiorentini fuorono sconfitti e morti assai, e presi ne fuoro viiij c.. Nella parte di Fiorentini fuorono morti ij nobili chavalieri, ciò fue messer Guilglelmo Bernardi, balio di messer Amerigo di Nerbona, ch'era capitano generale dell'oste di Fiorentini; e 'l decto messer Amerigo fue nel volto fedito, e messer Bindo Baschiera de la Tosa fue morto. Dalla parte delli Aretini fuorono morti molti nobilissimi e gentili valenti huomini, e quasi il fiore di tutta la milglore gente di Toscana d'arme; ciò fue messer Guilglelmino delli Ubertini vescovo d'Arezzo, e messer Guilglelmino Pazzo di Pazzi di Valdarno, Neri Piccolino e Federigo di messer Farinata e Lapo di messer Marito, tutti e tre delli Uberti, e Ciante de' Fifanti, Loccio da Toscanella e Guiderello d'Allexandro,[435] il conte Buatto da Montedolglo e 'l conte Bonconte da Montefeltro, Francessco da Sinigalgla e Lancialotto Pulglese, messer Uffredi Uffredi di Siena e Armaleo da Montenero, Dante delli Abati e Corbizzo da Pelago, con altri assai gentili huomini, i quali per c. anni inanzi in Toscana non s'arebono a uno tenpo trovati. Elli erano viij c. chavalieri e xij m. pedoni, e fecero xij paladini tra lloro, e piú galglardamente conbattero che giamai facesse' paladini in Francia: xxv c. e piú fuoro li morti. E Guido conte Novello, esendo in s'uno poggio con uno drappello di ccc. chavalieri, tantosto che lla battalgla fosse coninciata, dovea fedire sopra i Fiorentini: elli sicome vile e codardo tantosto si partio e andò sua via. Incontanente i Fiorentini disfecero[436] Bibiena e tutte le castella dintorno e cavalcaro inverso Arezzo, e puosero il canpo al Vescovado vecchio, ed asediaro la terra e conbatterla co molti difici, gittandovi asini e pietre. E' Pistoiesi vi battero la moneta, e ben si sarebbe auta la terra, se non fosse che si partiro dall'asedio; e lij die vi stette l'osste. Ed allora era in Toscanella papa Niccolao d'Asscholi: sentio la novella per contrario, credendo ch'e' Fiorentini fossero sconfitti; chiuse le mani al cielo, con allegra faccia dicendo al Collegio di cardinali: — Dingnum e giusstum est. — E però faciendo manofessto che lli Aretini, inanzi a questa sconfitta, del mese di marzo, per forza presero il borgo di Fighini, e gonbattero l'Ancisa, e arsero le porte, e poi vennero infino a San Donato in Collina, ardendo e guastando il contado[437] di Fiorentini, e quando fuoro al decto San Donato talglarono uno ramo dell'olmo della chiesa, avengna che caro costasse loro. Sconfitti, morti e presi gli Aretini, frate Guittone, chavaliere dell'Ordine di Bengodenti, al Comune di Firenze iscrisse una lettera, la quale disse in questo modo....[438]

Anni Mcclxxxx.

Alla singnoria di messer Rosso Gabriello d'Agobbio, del mese di giungno, i Fiorentini andaro ad osste sopra la città d'Arezzo, e puosero il canpo allato alle mura al Vescovado vecchio, e intorno intorno tutta la città guasstaro; poi si puosero ad asedio al castello d'Anghiari, e iij mesi e xviij die vi stette l'asedio,[439] e poi l'ebbero a patti, e disfecerlo del mese di settenbre.

In questo anno, del mese di maggio, nel sexto d'Oltrarno s'aprese il fuoco in casa Pegolotti, ed arsevi messer Neri Pegolotti e uno suo filgluolo e xj persone.

Poi del mese di settenbre die xij, esendo podestà di Firenze messer Guido da Ponente[440] di Ravenna, i Fiorentini andare ad osste sopra la città di Pisa e guastarla insino alle mura; e poi andarono colla forza del Genovese a Porto Pisano, e disfecero il porto e lle torri e tutta la contrada di Levornia, e tutto il fornimento del porto ne recaro, ke fue pregiato piú xxx m. di fiorini d'auri; e per lo grande[441] di Guido conte di Montefeltro ch'era podestà di Pisa, si tenne la terra che non fue presa da' Fiorentini.

Nel Mcclxxxxj anno, del mese di maggio, i Fiorentini co lloro isforzo andaro ad osste sopra la città di Pisa, e guasstarla tutta intorno dalle tre latora, ad una saettata a piè delle mura; ed abattero San Sevino e 'l Ponte ad Era e tutte le loro castella. Poi la notte della Natività di nostro Singnore, Nerino Tezzoni, castellano del Ponte ad Era per li Fiorentini, perdeo il castello, e la persona con tutta la sua gente dentro da' Pisani fuorono presi e morti.[442]

In questo anno, del mese d'aprile die xx, Tebaldo soldano di Banbillonia con oste di cento cinquanta milia chavalieri venne sopra la città d'Acri, ispeziale camera e magione di Cristiani e della sancta Kiesa di Roma, e per forza di fuoco e di ferro la detta cittade prese e distrusse; e piú di lxx m. cristiani vi fuorono morti. E xliiij giorni continuamente si lla notte come 'l die fue conbattuta, isperando tuttafiata porto di salute, infino a tanto che non videro morto il famosissimo e nobile huomo messer Guilglelmo di Belgiuoco, maestro del Tenpio, nato della gentil casa di Brabant, il quale fu morto d'una saetta avelenata da un turchio. Tanto che fu morto, la gente fue tutta isbigottita; e allora il santisimo huomo messer lo patriarca di Gerusalem, con una parte delli scanpati fediti, si ricolse in sulla nave sua, ch'erano da xxij a xxiij c. di persone; e navicando fugendo, pocho dimorò che lla nave profondò, ed elli e tutta[443] afochò. Un'altra partita di genti, dove[444] pulzelle e fanciulli in quantitade di x m. persone, si richiuso' nel cerchiovito del tenpio;[445] finalmente da' Saracini fuoro messi a fuoco ed a ferro. Un'altra partita[446] di giovani huomini fuorono presi e menati in servaggio, e tutto giorno fatto loro arare la terra come buoi. In questa perdita d'Acri la conpangnia di Peruzzi di Firenze guadangnaro grandissimo tesoro, che fue loro acomandato, e giamai non richessto.

In questo anno Redolfo re della Mangna, non pervenendo alla benedizione inperiale, ch'era eletto re di Romani, morio.

E in questo ano, del mese di marzo, morí il conte Guido Novello e messer Rinieri della Fagiuola e messer Ubaldino dalla Pila delli Ubaldini.

Mcclxxxxij anni.

In questo anno papa Niccolao d'Asscoli morio a Rroma, e 'n Vaticano nella chiesa di sancto Pietro fu sepulto.

In questo anno si fece la pace tra' Fiorentini e li Aretini coll'Intarlati, e' Fiorentini rendero loro i prigioni ch'erano presi. Poi i Fiorentini rendero pace a' Volterrani, e dentro in Volterra per li Fiorentini fu facto uno chassero a nostro ridotto.

Poi del mese di gennaio asediamo e disfacemo il chastello d'Anpinana, ch'era del conte Guido Novello.

E del mese di settenbre[447] la beata Vergine Maria d'Orto Sa' Michele coninciò a fare grandisime maravilgle etc.

In questo anno i principi della Mangna concordevolemente elessero[448] re della Mangna Adolfo conte di Nasso, ma no venne a la benedizione inperiale.

In questo anno uno nobile cittadino popolaro ch'avea nome Giano della Bella, avendo una difirenza co messer Berto di Frescobaldi, volendoli acupare sue ragioni per forza, il decto messer Berto, nella chiesa di san Piero Scheraggio, puose la mano in sul naso a Giano della Bella, e disse che 'l glie mozzerebbe. E molte altre forze e violenze [tutto][449] giorno li Grandi faceano contra li popolani. Per la quale cagione il decto Giano fue a certi grandi e possenti popolani di Firenze, e fecero congregatione e ordine di levare, e levaro popolo incontra li Grandi: e co llui fue Duccio e Cione Magalotti, Coso Mancini, Lapo Talenti, messer Donato Alberti, messer Albizzo Corbinelli, messer Boninsengna Becchenugi, Baldo Ruffoli, Giova Algloni, Rosso Bacherelli e tutti li altri grandi e nobili popolani; e fecero popolo sotto questa forma: in conpangnia di Priori acrebero uno Gonfaloniere di giustizia, e mmmm pedoni fecero a seguitare questo Gonfalone, tutti ad una insengna, il canpo bianco e la croce vermilgla; e molti forti e duri ordinamenti sopra li Grandi. E le prime case che fuoro disfatte per questo popolo si fuoro quelle di Galli, per cagione che Sengna di Galli uccise in Francia ij fratelli di Vanni Ugolini etc.

In questo anno si perdeo, della terra ch'era rimasa a' Cristiani, parte del Cipri, Suri e Castello Pellegrino.

Mcclxxxxiij anni.

Del mese di maggio si fece la pace tra' Fiorentini e' Pisani.

E del mese d'ottobre, quelli della terra di Prato, tenendo a contrario di Fiorentini uno sbandito e condanato del Comune e popolo di Firenze, amichevolemente a' Pratesi da' Fiorentini fue richesto. Per cagione ch'e' Pratesi non rimandaro il detto sbandito, da' Fiorentini fuoro condannati nelle mura o in diecemilia libre,[450] e dal terzo die inanzi,[451] se non avessero pagata la condanagione, infino a diece die, ciascuno die fossero m libre piú; siché finalmente, vedendo i Pratesi che ll'oste v'andava, pagaro libre xj m. di danari contanti.

In questo anno, esendo insieme il re Carlo e lo re d'Ungaria, e andavano a corte di Roma, quando fuoro a Perugia, die xiij di lulglo, il re Carlo fece pilglare il conte dall'Acerra, per certa malivolglenza che lli portava sacretamente, ed apuoseli ch'elli era soddomito, ed uno palo li fece ficcare per la natura disotto, ed ispicciolli per la bocca, e come uno pollo il fece arostire.

In questo anno il re di Castello, colla forza di messer Aduardo re d'Inghilterra, del mese d'aprile, fece battalgla con tre re Saracini, e fue lo re di Granata, e lo re di Morroccho e lo re Arpino, e tutti e tre fuoro sconfitti, e morti piú di ccl. milglaia di Saracini; e xlij nobili e maggiori baroni di tutta quella gente pagana mandaro prigioni alla Chiesa di Roma, e io li vidi. E menaro co lloro uno piccinacho morto ed uno vivo e uno asino vergato.

In questo anno e mese i Viniziani e Genovesi con cxxij galee tra lloro fecero battalgla si mortale, che ciaschuna parte l'uno dall'altro fue sconfitto e con grande danno: di pocha gente schanpata ciascuno tornò a casa.

In questo anno di settenbre Tebaldo soldano di Babillonia da uno cristiano rinegato, nato della casa di Rossi di Firenze, fu morto, e tantosto quelli ch'uccise si fece soldano e tenne l'uficio.

In questo anno Filippo secondo, lo piú bello huomo del mondo,[452] re di Francia, prese guerra co messer Aduardo re d'Inghilterra, il quale era il piú leale principe e la milglore lancia del mondo; onde per questa guerra nacque grandissime battalgle e mortalitate[453] tra Guascongnesi e Normandi e Francesschi[454] ne fuoro privati delle persone e dell'avere.

Mcclxxxxiiij anni.

In questo anno, d'agosto, morio il sancto huomo messer Latino cardinale delli Orsini vescovo d'Osstia, il quale diede e fece pace in Firenze tra Guelfi e Ghibellini.

In questo tenpo i Sanesi levarono guerra incontra la terra di Montepulciano, per cagione k'elli s'erano racomandati al popolo di Firenze. Allora i Fiorentini fece' nobile e grande anbasceria e mandalla al Comune d'Arezzo, pregando per loro amore che non si dovessono tramettere del fatto di Montepulciano. Allora i Sanesi isdengnando, a furore gridaro: — Muoiano, muoiano[455] i Fiorentini; — vitiperosamente rinproverando loro la dolorosa isconfitta da Montaperti, gittando loro le pietre e lapidandolgli.

In questo anno, lo die di kalendi novenbre, Neri Schelmi fue condannato per lo popolo di Firenze nell'avere e nella persona, e tutti li suoi beni in cittade ed in contado fuoro guassti.

In questo anno, die xvij d'ottobre, il conte Guelfo di Pisa fue sconfitto a Villa di Chiesa e perdeo tutta la Sardingna, ed ebbe iij fedite, e fue preso da' Sardi.

Item a' dí xxiij di gennaio, esendo podestà di Firenze messer Giovanni del Luncino da Como, in domenica, fece condanagione per cagione che messer Corso Donati[456] fedito messer Simone Galastrone Donati suo cugino, ed anche avea morto uno suo fante medesimo: e messer Corso apuose a messer Simone ch'elli avea morto il fante, e nonn era veritade. Per la qual cosa la predecta Podestade, secondo le prove de' testimoni, condannò messer Corso in libre mm, e v anni fu privato che non potesse[457] avere singnoria d'alchuna terra; e messer Simone Galastrone condannò nell'avere e nella persona, e tutti li suoi beni fossero disfatti. Allora si levò il popolo a furore, gridando: — Muoia, muoia la Podestade —, ed arsero la porta del Palagio e presero la Podestade e tutta la sua familgla, e tutti li arnesi del Palagio e della Podestade fuoro rubati. Per la qual cosa di questa opera nacque molta zenzania nella Cittade.

In questo tenpo avea guerra la casa di Mozzi e quella di Bardi di Firenze tra lloro; si fece la pace, e' Mozzi diedero a' Bardi per questa pace mm fiorini d'oro, ciò fuoro a coloro che ricevettero le fedite da' Mozzi a' dí xxviiij di genaio.

In questo tenpo messer Gian di Celona venne in Toscana per vicario dello 'nperio, avengna che poco vi stasse.

In questo tenpo, nel Garbo, in una schuola di gramatica, si trovò morto uno garzone giovane di xv anni, il quale avendo riotta con Giano della Bella, fu plubicato per tutta la cittade che 'l detto Giano l'avea facto uccidere: onde poco tenpo dimorò che 'l detto Giano da tutti i grandi popolari, per trattato di Grandi, fu tradito. A' dí xviij di febraio nell'avere e nella persona fue condannato, e co llui fue il fratello e 'l filgluolo, e da' gonfalone di popolo fue disfatto. Era allora priore Lippo del Velluto, Bachino tavernaio, Gheri Paganetti, Bartolo Orlandini, messer Andrea da Cerreto, Lotto Milglore, Gherardo Lupicini gonfaloniere. Di questo Giano della Bella si puote con veritade dire, ch'elli fosse diritto padre del popolo di Firenze, e llo piú leale huomo che giamai fosse a popolo: salvo che tutte le sue vendette facea sotto la singnoria del popolo etc.

Anno Domini Mcclxxxxiiijº. Alla singnoria di messer Pino Vernacci di Carmona potestà di Firenze.

Celestrino quinto filgluolo di Giacopo, nato di Parma, santo remito, chiamato Piero di Morrona, facto papa del mese di giugno, sedette papa mesi v e die viij, e vachò la Kiesa mesi xxx.[458] Questi, essendo huomo religioso e di santa vita, elli fue ingannato sottilmente da papa Bonifazio per questa maniera etc.: che llo decto Papa, per suo trattato e per molta moneta che spese al patrizio, rinchiudevasi la notte nella camera del Papa, ed avea una tronba lunga, e parlava nella tronba sopra il letto del Papa, e dicea: — Io sono l'angelo che tti sono mandato a parlare, e comandoti dalla parte di Dio grorioso, che ttue inmantanente debi rinunziare al papato e ritorna ad essere romito. — E cosí fece iij notti continue; tanto ch'elli credette[459] alla boce d'inganto,[460] e rinunziò il papatico, del mese di dicenbre, e con animo diliberato, co li suo frati cardinali, dispose sé medesimo, ed elesse papa uno cardinale d'Anangna ch'avea nome messer Benedetto Gatani, e suo nome papale Bonifazio ottavo. E si disse che questo Papa fece sacretamente pilglare papa Celestrino che rinunziò, e fecello istrangolare, e altri dissero che llo fece morire in prigione, aciò che non perdesse il papatico; ma di sua morte non si legge alkuna cosa, o quello che di lui si fosse. Elli fue sinpricissimo e sancto. In vita fece miracoli di molte cose. Elli cavalcava l'asino, e vilmente vestia, e similglante vivea. E si disse ch'elli morio in prigione nella roccha[461] di Formone, presso ad Alangna a x milgla, a dí xvij di maggio, per fattura di papa Bonifazio. E per questa opera tutta la cristianitade[462] si ne dolea: onde molti cherici, e perché diceano ch'elli no potea esser Papa di ragione, si lli facea prendere, mettere in prigione e tali uccidere. Elli fece frate Gilio di Roma, maestro dell'Ordine di romitani a chu' era data molta fede, arcivescovo di Borgi in Berri, acciò che no llo infamasse, per cagione ch'era maestro di dicreti e dicretali; e messer Rinieri Ghiberti di Firenze, gran maestro, fece mettere nella malta, forte prigione nel lago di Bolsena.

Mcclxxxxiiij.

Bonifazio ottavo, filgluolo di Liffredi chavaliere, nato della ccità d'Anangna, della casa di Gatani, sedette papa anni viij, mesi viiij, die xviij: vachò la Chiesa die xj. Questi essendo prete cardinale di sancto Martino in Monte, avea nome Benedetto Guatani. Elli fece dicreto ke nella Kiesa di Dio, in ongni cittate o villa o castello, iscomunicata od interdetta, si potesse iiij volte dell'anno sacrificare e cantare messa palesemente al popolo cristiano: l'una si è per la Natività di Cristo filgluolo di Dio, la seconda per la Surexione, la terza per la Pentecosta, la quarta per Sancta Maria d'agosto. Eli fue eletto papa la vigilia della Natività di Cristo. Elli venne colla corte a Rroma, e fue coronato a die xv di gennaio. E tantosto ch'elli fue coronato, mandò ij cardinali in Francia, per fare concordia intra llo re di Francia e llo re d'Inghilterra. Elli candelezzò[463] ad Orbivieto Lodovico re di Francia, il quale morio esendo ad osste sopra lo re di Tunisi.

E ciò sappiate, che da san Piero infino a Bonifazio sono stati cc. Apostolici; e da Iulio Cesare infino a Federigo secondo, lxxxxv Inperadori e xv in conpangnia di padre e di fratello.

Elli fue huomo[464] di perversa natura e di grande coraggio, ed asultoe[465] la Chiesa meravilglosamente.

In questo tenpo sancto Bartolo, prete di Sancto Gimingnano, santifichoe e fece meravilgle grandi.

Mcclxxxxv anni.

Alla singnoria di messer Matteo di Maggio di Bresscia, si fondò la grande ecclesia di sancta Croce; e a' dí xviiij del detto mese si fece la pace tra lla casa delli Adimari e de' Tosinghi: e quasi tutte le paci si fecero intra Guelfi solamente, per essere a una concordia a uccidere il popolo. Concordati li Grandi insieme, e facto intra lloro giura pensatamente, con serralgli e con saettamenti, e co molta gente e fortezze armati, lo die de sancto Romolo, die vj di lulglo, con parola e volontade di singnori Sanatori che reggevano la cittade di Firenze, manomisero il popolo per tutta la Cittade; e conbattendo quasi tutto il giorno a cavallo ed a piede in tutte parti, i Grandi da' popolari per la grazia di Dio fuorono isconfitti, non avendo il popolo alkuno capo di suo aiuto. In quello giorno tutti li Grandi ebbero a sospetto la casa di Cerchi, per cagione che non fue co lloro sopra il popolo. E 'l Comune di Lucca, conti Guidi e conti Alberti, Pratesi, Pistoiesi e Saminiatesi e tutti i nobili del contado vennero inn aiuto de' Grandi, e 'l popolo sanza capo fu vettorioso: donde i Guelfi in quello giorno ebero grande paura di non perdere la terra. L'altro giorno il popolo mise a terra il palagio di Cantino di Vissdomini. Ed allora era capitano del popolo messer Carlo da Spuleto, savio e leale huomo e grande difenditore del popolo; ed era priore al governamento della terra Noffo Guidi, messer Lapo Salterelli indice, Tingnoso Bellanda, Amannato Rota Becchenugii, Amadore Ridolfi, Milglore de' Guadangni, e Cante Guidalotti gonfaloniere. Poi del mese di settenbre morio l'arcivescovo di Pisa e lo vescovo di Bolongna, anbedue[466] nati della casa delli Ubaldini; e 'l vescovo di Firenze, messer Andrea di Mozzi, fue dissposto e fatto vescovo di Vincenzio.[467] E morio l'arcivescovo di Milano.

In questo anno papa Bonifazio fece fare la pace tra llo re Giacomo di Ragona, il quale per forza tenea il rengno di Cicilia, e lo re Carlo secondo; e tolse per molgle[468] la filia del re Carlo a patto e condizione ch'elli lasciasse il rengno, e dielli per dota centomilia libre di grossi tornesi, ed ongn' anno per sopragiunta d'infino a xij anni, ongn'anno li dovesse dare la Chiesa di Roma xij m. libre di grossi tornesi. E fue ricomunicato e benedetto, e fue fatto canpione e gonfaloniere della Chiesa, e lasciò il reame. Tantosto ch'elli fue fuori del reame, i Ciciliani tutti si cosarono[469] quasi morti. Incontanente Federigo terzo suo fratello, colla volontade e richessta di baroni di Cicilia, montò in sul reame, e possedettelo in tenpo di pace e di guerra.

Mcclxxxxvj anni.

Lo die di kalendi aprile, esendo i Bolongnesi ad oste sopra la città d'Imola, ardendola e guastandola, Maghinardo da Susinana con sua gente andò incontro a' Bolongnesi, e nel piano di Santerno fece battalgla co lloro, e quivi li sconfisse: tra popolo e chavalieri piú di mcccc. fuoro li morti.

A dí XV del decto mese il re di Scozia si rubellò da messer Aduardo re d'Inghilterra, e fece battalgla co llui in canpo con piú di xij m. chavalieri tra ll'una parte e l'altra: il re di Scozia fue sconfitto. Avuta la vittoria, venne in Guascongna sopra le sue terre che lli erano rubellate, e teneale per forza lo re di Franzia; e quivi prese v cittadi, e puosesi ad oste sopra la città di Bordella, e finalmente e' ll'ebe a suo comandamento.

Item a dí xv di maggio, intra 'l mare di Cicilia[470] e quello di Romania, si scontrarono navi di Viniziani e di Genovesi, e fecero battalgla molta forte e crudele; le navi di Viniziani erano lxxxxv, quelle di Genovesi erano lij, de le quali i Viniziani presero xxxiiij a prigione.

Die xiiijº di lulglo, tenendo la terra di Forlí in Romangna Maghinardo da Susinana, per gli Orgolglosi fu tradita e data di notte tenpora a messer Malatesta da Rrimine ed a messer Guido da Ponente di Ravenna ed a' singnori da Calbuli. Per la qual cosa lo romore si levò nella terra, e Maghinardo, ch'era ad osste sopra Castelnuovo, lasciòvi ij capitani ed alquanta gente forniti, ed elli si mosse, e 'l conte Galasso figluolo del conte Guido da Montefeltro, con molta gente, popolo e chavalieri, e ricoverarono in Forlí gridando: — Siano morti i traditori. — Quivi fue grandissime battalgle; pur finalmente Maghinardo li mise in isconfitta e cacciolli fuor della terra, e piú di diece milgla basstò la caccia. E quivi fuorono morti piú di mccc. uomini, e morti gli Orgolglosi e li singnori da Gesso e iij di quelli da Calbuli e Fantino da Brettinoro, e molti buoni e grandi huomini capitani di Parte guelfa di tutta Romangna. Messer Guido da Ponente e Malatesstino di messer Malatessta con altri piú conpangni gentili huomini fuoro presi, e tantosto Maghinardo fue socorso da' conti da Porciano e da Ciappettino delli Ubertini di Valdarno, e tenne la terra con vittoria.

E a dí xviij d'agosto messer Ruggieri di Loria, il nobile amiralglo e grazioso per lo re Piero di Ragona, venne al porto di Brandizio, lo quale si tenea per lo re Carlo, e subitamente di notte il conbatteo, si che 'l porto fue difeso; e tirossi a terra ferma, e quivi fece battalgla ordinata in canpo, dura ed asspra, sicché ll'uno né ll'altro quivi nonn ebero vittoria, ma quasi tutti morti. E messer Ruggieri vi fue fedito, e 'l filgluolo fue morto, e messer Giuffredi di Gianvilla nobile barone francesscho vi fue morto.

E lo die di kalendi settenbre morio il Giudice di Galluria in Sardingna, e li Viniziani presero xxij galee di Genovesi.

E a' dí x di settenbre messer lo piovano di Gherardini, per certa guerra ch'avea colli Manieri, da lloro fue fedito e di quelle fedite morio.

E a' dí xij di settenbre s'aprese il fuoco in Firenze a casa di Lauberti, ed arse le case loro e di Pilli e di Pilasstri e di Minerbetti; e fece grande grandissimo danno.

E a' dí j d'ottobre, avendo difirenza tra l'arcivesscovo di Cosenzo e l'abate di Cosenzo, fecero intra lloro battalgla piú di mille chavalieri, e l'arcivescovo fue sconfitto.

In questo tenpo si coninciò grande briga intra 'l Comune di Bolongna e Azzo marchese di Ferraia; però che' Bolongnesi presero uno suo castello ed uccisero tutta la gente che v'era dentro. E questo fecero per cagione che 'l Marchese facea alkuno trattato con certi grandi della terra di pilglare Bolongna e ronpere il popolo. Po' venne il Marchese ed asediò, a dí XV d'ottobre, la gente di Bolongna ch'erano rimasi alla guardia del predecto castello; e stando una notte, di subito il Marchese con v c. chavalieri e x m. pedoni prese il castello di Bazzano del Bolongnese apresso a Bolongna a x milgla. Allora i Bolongnesi isforzatamente, colla potenzia di Lonbardi e di Romangnuoli, assediarono il decto castello con iiij m. chavalieri e xxxx milia di pedoni; e xxxv giorni vi stette l'asedio, tutta fiata gittava tra die e notte xij difici; poi finalmente e' l'ebero a patti. Con ciò sia cosa che 'l Marchese avea facto molta cavalleria e popolo, vennero[471] per difendere il castello, e fue in sul canpo e domandò la battalgla, ed al castello; sarebe venuto se non fosse per la molta pioggia ch'era venuta, ed avea a passare uno fiume; siché Maghinardo da Susinana ch'era in sua conpangnia si consilglò che 'l fiume non si passasse, e la battalgla per questo modo rimase: avengna dio che 'l Marchese da' Fiorentini forte si tenne gravato, i quali erano all'aiuto del Bolongnese, e' Bolongnesi ischifaro la battalgla quanto poterono. Tornato il Marchese a Ferraia, tantosto fece suo consilglo, e trattò giura e conpangnia con tutti li usciti di Bolongna; e legaro insieme i singnori della Fontana e Maghinardo da Susinana, Ferrala ed Argenta, Modana e Reggio con tutti li usciti di Lonbardia[472] di Parte guelfa e ghibellina; e legossi col duca di Charentana e col Marchese di Monferrato e co messer Alberto della Scala di Verona e co messer Matteo Vissconte capitano di Milano e co' Mantovani; e fece tutta una lega, e conincia[473] a guerreggiare Bolongna tuttogiorno sovente: donte[474] molta mortalitade e briga nacque in Lonbardia.

E ancora, esendo prengna la città di Firenze di molte diverse e variate macule, uno giorno, a dí xvj di dicenbre, esendo morta una donna a casa di Frescobaldi, al qual morto molta gente vi fue invitata, intra lli quali v'era messer Corso Donati e Simone suo filgluolo, e lli filgluoli di Manieri Bellicozzi, i quali aveano guerra colla casa di Gherardini, erano una parte; e' Gherardini v'erano similglante co lloro gente: dubitò l'uno dell'altro, fecero intra lloro assalimenti; onde la terra andò a romore e fue sotto l'arme. La casa di Cerchi co lloro conpangni e seguagi, Gherardini, Cavalcanti, Belincioni, armati a cavalli coverti, con fanti a piede, corsero a furore a san Piero Magiore a cassa di messer Corso gridando: — Al fuoco al fuoco —; messer Corso riparandosi conbattendo, siché 'Cerchi e' loro conpangni vitiperosamente tornaro a casa. Guido Cavalcante fue fedito nella mano e condannato per lo Comune in mille ce. libre, Baldinaccio di messer Bindo delli Adimari fu fedito nel volto e condanato per lo Comune in libre mcc; messer Vieri di Cerchi e messer Giano suo filgluolo, messer Bindo, messer Torrigiano e Ubaldino di Cerchi fuoro condannati per questa opera, e pagaro al Comune di Firenze xij m. cc. libre;, e dati loro i confini. Sinibaldo fratello di messer Corso e Simone suo filgluolo fuorono condanati in libre mm. e mandati a' confini. Onde per questa opera nacque molto male in brobbio[475] della Città e di cittadini; ché tutti i Grandi e popolari della Città si partíno di volontade, e chi tenea l'una parte e chi tenea l'altra, in tal maniera che sucitaro l'antico hodio tra lla casa delli Uberti e quella de' Bondelmonti; donte tutta Ytalia n'à sparto sangue.

In questo anno fue grande battalgla tra ll'Inghilesi[476] e' Francesschi, e lo conte d'Artese duramente vi fue innavorato.

In questo tenpo Filippo re di Francia, hodiato da' suoi, nemicho di buoni, venne in tanta grandezza ch'elli era re di Francia e re di Navarra, conte di Canpangna, ducha d'Urliens e paladino di Briga;[477] bellissimo della persona sopra gli altri del mondo, e avarissimo come cane. Per le sue malvagie opere fare, d'acchattare tesoro e non rendere, abattere la buona moneta e dare corso alla rea, cadde in tanto dissdengno, che da llui si rubellò quasi tutti i suoi maggiori baroni; ed inprese grande briga collo re Adulfo della Mangna. Infra lli quali rubelli fue lo conte dí Brettangna e quello di Borgongna, lo conte Filippo di Fiandra e lo conte d'Aynaldo, lo conte d'Universa[478] e lo duca di Brabant, E a petizione del re della Mangna lo conte di Borgongna disfece il parentato[479] del filgluolo del re di Francia, e diede la filia al filgluolo del duca di Borgongna: donde molte guerre di ciò nacquero.

In questo anno don Brasscho Catalano,[480] huomo prudentissimo e savio, malisschalcho de rre Federigo di Cicilia, fece battalgla in Calavra colli Francesschi ed ebbe vittoria di vij c. chavalieri morti.

In questo anno messer Ruggieri di Loria, lo vittorioso amiralglo, per certa difirenza, dallo re Federigo si rubellò e feceli molta guerra, e morio suo nimico.

Ed in questo anno messer Tosolato delli Uberti di Firenze talglò la tessta al Giudice d'Alborea, e tutto il suo tesoro, ch'era in grande quantitade si fece venire alle mani; e a' dí xv di gennaio si fece chavaliere in Sardingna, la quale ysola co molta travalgla per lui fue aquisstata. Poi a dí v di marzo venne in Pisa, e da' Pisani non fue acettato a quello onore ch'a llui parea che ssi convenisse. E com'elli avea aquistata la Sardingna a' Pisani, cosí lla rubellò loro, dove cosstò loro molta moneta; e poi si riconciliò co lloro.

E a' dí viij di marzo i Bolongnesi uscirò ad oste sopra le terre del Marchese da Ferraia, ed arsero e guasstaro infino al ponte a sant'Anbruogio.[481]

Mcclxxxxvij anni.

Giovedí, die iij d'aprile, papa Bonifazio unse e sagrò rege di Sardingna, di Corsica e d'Elba lo re Giacomo di Ragona; e messer Rugieri di Loria fece amiralglo per la Chiesa di Roma di l galee.

A die ij di maggio Filippo re di Francia fece iij grandisdissime ossti di xxx m. chavalieri e c m. pedoni; l'una fece in Borgongna, l'altra in Guasscongna, la terza in Fiandra; ma in Fiandra fu elli vitiperosamente isconfitto e ricevettevi grandissimo dalmaggio.

E a' dí XX di maggio il decto Filippo fece [tregua] collo re Aduardo d'Inghilterra, a patti e condizione che tutta la Guasscongna rimase allo re Aduardo sanza fare alkuno homaggio.

In questo die iij di maggio Istefano della Colona rubò il tesoro di papa Bonifazio quando venia d'Alangna etc.

A dí iij di giungno, mossi i Bolongnesi co grande quantitade di popolo e chavalieri per pilglare il castello di Doccia, Maghinardo da Susina', maestro di guerra, fedio loro adosso ed isconfisseli, e c. huomini ne menò prigioni.

E in questo anno, del mese di maggio, in Firenze si fondò la pila del ponte al castello Altafronte.

E lo die di beato sancto Iohanni Batista, del mese di giungno, Filippo re di Francia andò ad osste sopra lo conte di Fiandra con xxx m. chavalieri e cc m. di pedoni, e privossi della corona reale e rivistinne il suo filgluolo maggiore; e prese e vinse Guanto, Bruggia e Lilla e tutta la contea di Fiandra. In questo mezzo tenpo il malisscalcho[482] di Belcaro per lo re di Francia dal conte di Fiandra fue sconfitto e preso, e feceli talglare la tessta. Poi fue intra lloro iij asalti, donde molti Francesschi, popolo e chavalieri, vi perdero la vita; e l'osste vi stette infino a calendi ottobre e poi ritornò a casa.

Del mese di settenbre e d'ottobre i Viniziani ebero grandissima vittoria sopra li Genovesi, ché xvj navi grosse presero di quelle di Genovesi tra nel mare di Romania e di Cicilia; e tutta la gente che v'era entro mazzerarono.

Istando inferma di gravi e dure malattie la città di Firenze, fue santamente proveduto dalla Chiesa di Roma e da messer lo papa Bonifazio, sí come attore di pace, di volere sanare quelle piaghe, e di riconciare la Cittade e' cittadini insieme a stato di pace e di tranquilitade. Diligentemente in concesstoro fue fermato vecepapa paziaro nella città di Firenze frate Matteo cardinale d'Acquassparte. Giunto in Firenze, honnorevolemente fue ricevuto; predicando pace e volendo dar pace, non lli fue creduto.[483]

INDICE

Capitolo VII — La Famiglia e lo Stato nei Comuni Italiani Pag. 1

Capitolo VIII — Gli Ordinamenti della Giustizia 65

Capitolo IX — La Repubblica Fiorentina ai tempi di Dante 113

Capitolo X — Dante, gli Esuli Fiorentini e Arrigo VII 145

Avvertenza 185

Cronica Fiorentina compilata nel secolo xiii 195

NOTE:

1. Pubblicato nel Politecnico di Milano, luglio e agosto 1868.2. Per non moltiplicare inutilmente le note in questo capitolo d'indole generale, destinato solo a gettar qualche luce sulle condizioni politiche dei nostri Comuni, e piú specialmente quello di Firenze, ricorderò una volta per sempre, che oltre gli Statuti, i quali anderò via via citando, gli autori di cui piú spesso mi valsi sono: Savigny, Storia del Diritto Romano nel Medio Evo; Francesco Forti, Istituzioni Civili e Trattati inediti di giurisprudenza; Gans, Il Diritto di successione nella Storia italiana, traduzione di A. Torchiarulo: Napoli, Pedone, Lauriel, 1853; Gide, Étude sur la condition privée de la femme: Paris; 1868; Schupfer, La Famiglia longobarda, nell'Arch. giuridico di Bologna, fasc. 1 e 2. — È superfluo ora aggiungere che dopo del 1868 questi studi hanno fatto in Italia un progresso davvero grandissimo, e sono uscite alla luce molte opere di capitale importanza, le quali io non potevo conoscere quando scrivevo queste pagine, che allora miravano solo a far meglio comprendere ai miei alunni la rivoluzione seguita in Firenze l'anno 1293, e gli Ordinamenti di Giustizia, che ne furono la conseguenza da lungo tempo resa necessaria.3. Gaio, I, 190-2.4. Comitis Gabriellis Verri, De ortu et progressu iuris mediolanensis, etc. Nel primo libro di quest'opera troviamo, fra le altre, queste parole: «Quae omnia manifeste demonstrant, maiores nostros maximum atque perpetuum studium contulisse ad agnationem conservandam pro veteri XII tabularum iure, a Iustiniano postea immutato, quo certe nihil ad servandum augendumque familiarum splendorem..... utilius, commodius, aptius, commendabilius potuit afferri».

Un altro degli antichi scrittori di diritto, che piú insistono su questa opinione, è il cardinal De Luca, il quale, nel suo Theatrum veritatis et iustitiae, si scaglia con un'ira singolare davvero, contro Giustiniano e contro tutti coloro che ne seguirono le idee intorno all'agnazione. Gl'Italiani, secondo lui, non accettarono mai queste riforme o piuttosto, come esso dice, distruzioni e corruzioni promosse da Giustiniano. Anche il Giannone, nella sua Storia Civile del Regno di Napoli (lib. III, paragrafo V), dice che i libri di Giustiniano fra noi non ebbero fortuna. «Non furono in Italia né in queste nostre province ricevuti, né qui come in alieno terreno poterono essere piantati e mettere profonde radici; ma si ritennero gli antichi libri dei giureconsulti, ed il codice di Teodosio niente perdé di stima e di autorità». — È necessario qui osservare, che la persistenza del diritto romano in Italia, durante il Medio Evo, sostenuta dal Savigny, ma da altri combattuta, non trova oggi piú oppositori.

5. D. r J. Ficker, Forschungen zur Reichs-und Rechtsgeschickte Italiens, 4 vol.: Innsbruck, 1868-74.6. Questa è pure l'opinione del Gans, il quale nondimeno accettò le idee del Savigny intorno alla diffusione del diritto giustinianeo, il che giovava allo scopo che egli aveva di far derivare le nuove forme del diritto italiano dalle leggi longobarde.7. Il Baudi di Vesme nelle sue note alle leggi longobarde, osserva qualche volta: Theodosiani iuris vestigia hic agnoscere mihi videtur. — Recentemente il Del Giudice ha provato che alcuni brani derivano dal diritto giustinianeo, altri dal Codice Teodosiano.8. Questa disputa può dirsi ormai inutile, perché oggi è generalmente ammesso, che anche dopo la Prammatica Sanzione il Codice Teodosiano continuò ad essere in vigore. Cosí fu che vissero insieme forme giustinianee e forme autigiustinianee; solamente le Pandette vennero piú a lungo trascurate.9. Secondo il Savigny, la scuola d'Irnerio era fiorente negli anni 1113-1118. Essa, come ora è ben noto, era stata preceduta da altre assai meno scrupolose osservatrici delle forme giustinianee.10. Gans, Il diritto di successione ecc. pag. 28 e seg.11. L'antico Statuto di Giacomo Tiepolo, che si trova manoscritto nell'Archivio dei Frari a Venezia, e che fu piú volte pubblicato per le stampe, conchiude il suo primo prologo cosí: «Et se alguna fiada occorresse cosse che per quelli Statuti non fossero ordinade, perché l'è de plui i facti che li Statuti, sel occorresse question stranie, et in quele alcuna cossa simele se trovasse, de simel cosse a simele è da proceder. Aver, secondo la consuetudine approvada, oltremente, se al tuto sia diverso, over si facta consuetudine non se trovase, despona i nostri iudexi come zusto et raxionevole a la so providentia apparèrà, habiendo Dio avanti i ochi de la soa mente, sí fatamente che, al di del zudixio, de la streta examination davanti el tremante ( tremendo ) Iudexe render possa degna raxione».12. Di questi esempî ne ho trovati molti nei volumi delle Provvisioni, che sono nell'Archivio fiorentino.13. Statuta Romæ, Romæ 1519, II. § 110, 111; e III, 17.14. Statuta Pisauri, noviter impressa, 1531. II, 79, 81, 106, 107.15. Ibidem, III, 24, 30.16. «Etiam nullis probationibus, quia volumus quod nuda patris assertio plenam probationem faciat ». Vedi Statuta Civitatis Lucensis, 1539. II, 66, 67, 68.17. Statuta Civitatis Urbini, impressa Pisauri, 1519. VI, 30. Quod pater pro filio, dominus pro famulo teneatur in damnis datis.18. Statuta Florentiæ (ediz. colla data di Friburgo) II, 110.19. Ibidem. Ibid.20. Statuta Florentiae II, 112.21. Ibidem, II, 9.22. Archivio di Stato, Statuti, 9, Lib. II. rub. 6.23. Gans, op. cit.24. Vedi gli Statuti pisani pubblicati dal Bonaini.25. Statuta Florentiae, II, 61. 62, 63.26. Ibidem, II, 64.27. Ibidem, II, 65. Vedi pure gli Statuti del 1324, (II, 36 e 74) e del 1355 (II, 39) nell'Archivio di Stato.28. Statuta Florentiae, II, 111.29. «Nisi promiserit de continuo habitando in dicta civitate, vel comitatu Urbini», Statuta Urbini: Pisauri 1519. II, 54.30. Liber iuris civilis urbis Veronae, cap. 44: Veronae, 1728.31. Vedi Gans, nell'opera citata. Questo autore esaminò assai minutamente il diritto pisano negli Statuti, allora non anche pubblicati, che si trovano in un codice manoscritto a Berlino.32. Vedi le Consuetudini della città d'Amalfi, pubblicate con note di Scipione Volpicella, pag. 22; e le Consuetudini della città di Napoli, tit. de successionibus ab intestato. Anche nelle Consuetudini sorrentine trovansi le medesime disposizioni. Vedi pure il lavoro del Dr. Ottone Hartwig, Codex iuris municipalis Siciliae. Heft I. Das Stadtrecht von Messina: Cassel und Göttingen, 1867.33. Statuta Comunis Mantuae, Rub. LI, De successionibus ab intestato. Cod. MS. F, T, 1, nell'Archivio di Mantova, del sec. XIV. Uno stesso linguaggio tiene lo Statuto di Verona ( Statuta Veronae,: Veronae, 1588, Lib. II, cap. 82). Ut in successionibus parentum, quae liberis deferuntur, omnis quaerimonia conquiescat, et bona parentum in filios masculos et caeteros per lineam masculinum descendentes conserventur, pro conservandis domibus, et oneribus Communis Veronae sustinendis, statuimus quod ex filiis vel nepotibus vel deinceps masculis, per lineam masculinam descendentibus, filiae vel nepotes vel deinceps foeminae per utramque lineam descendentes, non succedant patri, matri, avo, aviae, etc. etc.34. Statuta Florentiae, II. 130.35. Gli Statuti 4 (anno 1324), II, 70, e 9 (anno 1355) II, 73, nell'Archivio di Stato, dicono, infatti, che se non esistono figli, ma solo fratelli o loro figli, la donna avrà diritto all'usufrutto dei beni del padre avo o proavo « Tunc ipsa mulier habeat usumfructum omnium bonorum talis patris, avi, vel proavi defuncti ». E questo è l'usufrutto che si muta piú tardi in alimenti.36. Archivio di Stato, Statuti, 4, lib. II, 50, e 9 lib. II, 51.37. Statuta Florentiae, II, 32.38. Ibidem, II, 130.39. Ibidem, II, 126.40. Statuta Florentiae, II, 129.41. Constitutiones Marchiae Anconitanae: Forolivii, 1507.42. Statuti della honoranda Universitate deli Mercatanti de la Citade di Bologna: 1530, f. 98 e seguenti.43. Statuta Florentiae, II, 51.44. Ibidem, II, 76.45. Ibidem, II, 75.46. Ibidem, II, 77.47. Ibidem, II, 108.48. Ibidem, II, 109.49. È notevole questa frase spesso ripetuta, perché fa capire come solevano essere formate le consorterie.50. Statuta Florentiae, II, 66.51. Archivio di Stato, Statuti 9, II, 30. La medesima disposizione trovasi nello Statuto del 1324 (II, 87), ed era già in quello di Pistoia del 1296 (II, 6), il quale l'aveva copiata da un altro Statuto fiorentino piú antico.52. Vedi il cap. V di quest'opera.53. La mezzeria, è ben vero, si estende in tutta la Toscana, nel Lucchese, in gran parte della Romagna. Ma i patti e la forma dei contratti piú favorevoli al contadino, si trovano presso Firenze e nel Pistoiese. Esempi di contratti a mezzeria, piú o meno informe, ne abbiamo già verso la fine del secolo XII. Il Ruhmor ne pubblicò due del 1250 e 1251, nel territorio fiorentino (V. anche Capei negli Atti dei Georgofili, vol. XIV, pag. 228); altri poco posteriori ne ha trovati a Cortona il notaro L. Ticciati, che li pubblicò nell' Arch. Stor. It., serie V, tomo X, disp. 4, anno 1892. Si può tuttavia ritenere che solo ai primi del sec. XIV la mezzeria vera e propria divenne il contratto generalmente in uso. Un contratto, stipulato l'anno 1331 nel contado senese, fu dal prof. C. Paoli comunicato al barone S. Sennino, che lo pubblicò a Firenze nel 1875, in un suo lavoro Sulla Mezzeria in Toscana. Il marchese L. Ridolfi nel giornale L' Agricoltura Italiana, anno XIX (1893), fase. 274-5, suppone, giustamente a nostro avviso, che la difficoltà di trovare antichi contratti di mezzerie nel territorio fiorentino, nasca dall'uso ivi prevalente, di ricorrere assai di rado al pubblico notaio, scambiandosi le parti il testo del contratto, scritto da ciascuna di esse.54. Statuta Florentiae, II, 18.55. Ibidem, II. 21.56. Ibidem, II, 23. Vedi, a questo proposito, Salvetti, Antiquitates florentinae.57. Nuova Antologia: Firenze, luglio, 1869.58. G. Villani, Cronica, XI, 96.59. P. E. Giudici, Storia dei Comuni italiani, lib. VI, paragr. 53 e 54: Firenze, Le Monnier, 1866. — Vannucci, I primi tempi della libertà fiorentina, cap. 4, pag. 168 e seg.: Firenze, Le Monnier, 1861. — Napier's, Florentine History, 600 k I, chap. 13, pag. 342: London, 1846. — T. A. Trollope, A history of the Commonwealth of Florence, book II, chap. 3, pag. 212: London, 1865. Bisogna notare che il Trollope, non rimuovendo tutte le difficoltà, riuscí pure a difendersi da varie inesattezze in questo punto, limitandosi a tradurre alcuni brani degli Ordinamenti stessi, senza però interpretarli in tutti quei punti nei quali presentavano maggiori difficoltà. — Il sig. Perrens, venuto piú tardi, dopo la pubblicazione di questo scritto, ne ha generalmente accolto le conclusioni, confermandole con nuove ricerche.60. Vedi vol. I, cap. V e VI di quest'opera.61. Non credo possibile che veramente non vi fossero allora gabelle di sorta. Dal 1336 al 38, il Villani stesso, lib. XI, cap. 92, ne enumera moltissime, ed alcune erano di certo assai piú antiche. Forse voleva dire: con poche e lievi gabelle.62. Per non mettere gravezza. Ogni volta che si aggravavano i beni dei cittadini, se ne faceva l' estimo, si allibbravano, e siccome l'imposta si pagava in lire o libbre, cosí il far libbra, allibbrare indicò qualche volta tanto il notare e valutare i beni, quanto il porre l'imposta.63. G. Villani, VIII, 2.64. Vedi il precedente capitolo.65. Dino Compagni, lib. II, pag. 201, ediz. Del Lungo. Cito ora questa edizione assai piú corretta delle altre, sebbene pubblicata (1879), dieci anni dopo che fu stampato, la prima volta, questo capitolo.66. Vedi nelle Delizie degli Eruditi toscani del padre Ildefonso, il documento in fine del volume VIII. È una petizione d'alcuni abitanti di Castelnuovo, che erano stati dai Pazzi e da altri assaliti, armata manu, cum militibus et peditibus, i quali arsero le case loro, uccidendo alcuni, costringendo altri a firmare un contratto, sotto il falso pretesto d'una lite, che non esisteva: et scribi faciendo litem contra eos esse super renovationem servitiorum.67. G. Villani, VII, 16.68. Vedi lo Statuto della Parte Guelfa, cap. 39. Trovasi nel vol. I (1857) del Giornale storico degli Archivi toscani, che si pubblicò per alcuni anni unito all' Arch. stor. It. Questo statuto, che è del 1335, e fu pubblicato dal Bonaini, è il primo che si conosca della Parte, ma non sembra il primo che fu compilato. Nello stesso Giornale, vol. III (1859), il Bonaini cominciò un lavoro, Della parte guelfa in Firenze, che fu continuato in vari fascicoli, senza però essere condotto a termine. Vedi anche G. Villani, VII, 17, dove parla della prima istituzione della Parte. Lo stato preciso in cui essa era nel 1293 non è perfettamente noto; si può tuttavia dedurlo da ciò che era stato poco prima, e da ciò che fu poco dopo.69. VIII, 1.70. La prima di queste leggi, già nota, e le altre che erano inedite, furono da noi esaminate nel cap. V di quest'opera, e in fine di esso pubblicate.71. Gli Ordinamenti (rub. XVIII ediz. Bonaini) rimandano infatti a questa legge, che è del 2 ottobre 1286 ( Provvisioni, I, 27) e fece parte dello Statuto. Essi ne citano la rubrica ed il titolo. Una Consulta del 20 marzo 1280 (81), in Gherardi pag. 33, rimandava già ad un'altra legge simile e piú antica: De securitatibus prestandis a magnatibus, la quale venne poi riformata da quella dell'86.72. Ammirato, lib. IV, in principio; e nell'Arch. fiorentino Provvis., II, 72.73. Dino Compagni, lib. I, pag. 56.74. G. Villani, VIII, 8.75. Ammirato, lib. IV, pag. 348.76. Il sodare infatti era da moltissimi trascurato, e piú leggi si fecero per costringere i renitenti.77. Ciò risulta dalla deliberazione stessa, che fu pubblicata dal Bonaini nell' Arch. Stor. It., Nuova Serie, tom. I, pag. 78, documento B.78. Erano allora 12 maggiori e 9 minori.79. Molti storici lo dicono dei Priori, quando si compilarono gli Ordinamenti. Ma questi hanno la data ufficiale del 18 gennaio, e Giano entrò nella Signoria il 15 febbraio, come dice il Compagni; come apparisce dalla nota che ci dà dei Priori Coppo Stefani, nello Delizie degli Eruditi toscani, voi. VIII, e come è anche confermato dai documenti.80. V'è pure un'altra compilazione che si trova inedita nell'Archivio fiorentino, nella quale furono introdotte piú tardi alcune nuove rubriche, anche fra le prime 28, come noteremo piú oltre.81. D. r K. Hegel Die Ordnungen der Gerechtigkeit: Erlangen, 1867 ec. È una Prolusione, in cui il dotto autore della Storia della Costituzione dei Municipi italiani, esamina con molto acume, la pubblicazione del Bonaini, paragonandola con altre. Non esamina però il valore e l'importanza intrinseca degli Ordinamenti, dei quali dà solo un breve sunto.82. Arch. Stor. It., Nuova Serie, tom. I (1855) pag. 38, nota 1.83. Prima che fosse pubblicata la bozza, si avevano solamente le compilazioni posteriori, e non si poteva sapere fino a che punto fosse stato in esse alterato l'originale primitivo. Il Bonaini, senza averlo trovato, rese, colla sua pubblicazione, possibile avvicinarsi talmente ad esso, che poco o nulla vi può mancare. E ciò non fu cosa di piccolo momento, se si pensa che le leggi della Repubblica fiorentina da un giorno all'altro subivano cosí profonde alterazioni, che anche una compilazione di due o tre soli anni posteriore alla primitiva, poteva essere assai diversa. Citiamo ad esempio il doc. A, col quale il Bonaini pubblica, nella sua forma ufficiale ( Arch. Stor. It., come sopra, p. 72), un afforzamento degli Ordini della giustizia, fatto il 9 e 10 aprile '93. Esso fu aggiunto, come parte della legge stessa, nelle compilazioni pubblicate dal Fineschi e dal Giudici.

Aggiungo ora alcune notizie bibliografiche, nelle quali dovrò qualche volta, per maggiore chiarezza, riassumere o ripetere cose già dette.

1º Prima ad essere pubblicata, fra le compilazioni degli Ordinamenti, fu quella che trovasi negli Statuti a stampa.

2º La seconda pubblicazione fu fatta dal P. F. Vincenzo Fineschi nelle sue Memorie storiche, che possono servire alle vite degli uomini illustri di Santa Maria Novella, ecc.: Firenze, 1790.

Sono 65 rubriche, di cui le prime 28 contengono gli Ordinamenti, con la data del 18 gennaio 1292 (93). Dopo ne seguono altre 34 (29-62), fra le quali si trova il rafforzamento che fu fatto con la legge dell'aprile 93, e che il Bonaini pubblicò nella sua forma originale. La data di esso leggesi nella compilazione italiana, e manca nella pubblicazione del Fineschi, ma per sola inavvertenza, giacché si trova nel codice latino, di cui egli si servi, e che noi abbiamo riscontrato (Magliabechiana, palch. II, 1, 153). Cosí finisce questa compilazione latina degli Ordinamenti, che è del 6 luglio 95; ma nello stesso codice furono aggiunte piú tardi, di mano diversa, tre altre rubriche, che hanno la data del 29 marzo 1297, e che il Fineschi pubblicò del pari.

3º La terza pubblicazione fu fatta dal prof. P. E. Giudici, in appendice alla sua Storia dei Municipî italiani: Firenze, Poligrafia italiana, 1853; ristampata in tre volumi: Firenze, Le Monnier, 1864-66. L'autore pubblicò da un codice dell'Archivio di Stato in Firenze (Statuti, n. 8) questa compilazione italiana, che è divisa in 118 rubriche, di cui l'ultima è mutila. Per semplice inavvertenza egli tralasciò di pubblicare le ultime tre rubriche. Dopo la 115, avendo il codice quasi una intera pagina in bianco, il Giudici s'ingannò, credendo che ivi gli Ordinamenti finissero; ma poteva osservare che lo stesso vuoto trovasi anche altrove, p. es. dopo la rubrica 28. In ogni modo, sino alla rubrica 62 questa compilazione va d'accordo coll'originale latino del Fineschi, che traduce, salvo alcune aggiunte o alterazioni, le quali sono di poco momento, ma dimostrano che la traduzione è posteriore. La rubrica 9, infatti, ha una giunta; un'altra ne ha la rubrica 17, e questa con la data del 6 luglio 95, che manca nel testo latino. Le rubriche latine 63-65, che nel codice pubblicato dal Fineschi vedemmo ultime, ed aggiunte d'altra mano, si trovano qui al numero 82-84. E cosí può dirsi di altre divergenze. La rubrica 80 è una provvisione del 3 agosto 1294, con la quale si afforzano gli Ordinamenti di giustizia; la rubrica 116 ha la data dell'11 agosto 1307; la 117 quella del 28 maggio 1309; la 92 ha la data dell'8 agosto 1324. Cosí la compilazione italiana degli Ordinamenti di Giustizia non può essere anteriore a questo giorno. Con la rubrica 93 cominciano gli Ordinamenti dell'Esecutore di giustizia, dei quali parleremo piú oltre: essi hanno la data del 23 dicembre 1306, e vanno fino alla rubrica 118; poi seguono altre leggi. Il Giudici s'è fermato, come dicemmo, alla rubrica 115.

4º L'ultima pubblicazione è quella fatta dal Bonaini nell'Arch. Stor. It., Nuova Serie, tom. I, disp. i, anno 1855, della quale abbiamo già discorso e torneremo a discorrere.

5º Bisogna anche ricordare un'altra compilazione da noi piú sopra accennata (pag. 79 nota 1), che è inedita nell'Archivio fiorentino (Cl. II, Dist. I, numero 1). Di essa il padre Ildefonso pubblicò alcuni frammenti nel vol. IX delle Delizie ecc., ed il Bonaini pubblicò l'indice delle rubriche, che sono 136. Fino alla 117, che risponde alla 113 della compilazione italiana, vanno ambedue quasi d'accordo, salvo alcune aggiunte, come le rubriche in questo codice indicate coi numeri 7-8, 20-23. Dalla 118 in poi seguono altre provvisioni, alcune delle quali sono assai posteriori. La 136, che è l'ultima, porta la data del 25 ottobre 1343; la 133, quella dell'8 ottobre 1344, e determina il tempo prima di cui la compilazione non poté essere stata fatta. Questa compilazione ci dà una forma meno antica, ma piú compiuta, degli Ordinamenti, per la storia dei quali è perciò importantissima.

6º E finalmente ricordiamo la Miscellanea o Zibaldone cui accennammo del pari, nel quale, oltre molte provvisioni, che vanno dal 1274 al 1465, ed alcune di esse afforzano gli Ordinamenti, si trova anche la domanda con la quale il popolo fiorentino, nel giugno 1378, l'anno cioè in cui si sollevarono i Ciompi, chiese ed ottenne che gli Ordinamenti di giustizia venissero rimessi in vigore. Anche questo codice può servire alla storia degli Ordinamenti.

Recentemente il prof. Del Lungo ( Bullettino della Società Dantesca, num. 10-11, luglio 1892) ed il sig. G. Salvemini, studente nell'Istituto Superiore, ( Arch. Stor. It., serie V, tomo X, anno 1892) pubblicarono la provvisione del 6 luglio 1295, con la quale furono portate diverse modificazioni ed attenuazioni agli Ordinamenti. Sebbene fosse allora già nota, avendola molto prima esaminata lo stesso prof. Del Lungo nel suo Dino Compagni (I, 1078-80), pure il Salvemini ha saputo cavarne nuovo profitto, comentandola con acume. Essa contiene tutte le modificazioni portate nel '95 agli Ordinamenti, e riproduce assai spesso anche i brani, che poi modifica, nella forma che fino allora avevano avuta. L'Hegel, esaminando 1 documenti pubblicati al suo tempo, fu primo a dimostrare con metodo sicuro, che la bozza del Bonaini, salvo alcune poche rubriche, che secondo lui vi mancavano, ed alcune divergenze, piú che altro di sola forma, conteneva la sostanza vera dei primi Ordinamenti. Questo era già un notevole resultato. Su tali divergenze però e sulle rubriche mancanti, il Salvemini, valendosi del doc. 6 luglio '95, poté aggiungere nuove osservazioni che esamineremo.

84. La rubrica III della bozza dice: De prudentioribus, melioribus et legalioribus artificibus civitatis Florentiae, continue artem exercentibus, dummodo non sint milites. E piú oltre: Aliquis qui continue artem non exerceat, vel aliquis miles non possit nec debeat modo aliquo eligi, vel esse in dicto officio Prioratus. Arch. Stor. It., come sopra, a pag. 44 e 45. La rub. XVIII, a pag. 66 dice chi sono quelli che dovevano sodare come i Grandi, sebbene esercitassero l'Arte: non obstante quod ipsi vel aliquis eorum de dictis domibus et casatis... sint artifices vel artem seu mercantiam exerceant.85. Vedi, a questo proposito un documento del 1287, che diamo in fine di questo Capitolo. Esso prova come l'esercizio effettivo dell'Arte si richiedesse prima del '93; e quante cautele occorrevano, perché la legge non venisse facilmente frodata.86. Rubrica III G. Citiamo generalmente la compilazione italiana pubblicata dal Giudici, come piú nota e diffusa, paragonandola però con quella del Fineschi e con quella del Bonaini, e notando le divergenze quando è necessario. Indichiamo con le lettere B. G. F. le pubblicazioni del Bonaini, Giudici, Fineschi.87. Il Perrens (vol. II, p. 385, nota 2) dubita di ciò, affermando che avvenne solo nel 1306. È certo che il Gonfaloniere doveva provvedere alla esecuzione degli Ordinamenti, e che, perduto questo ufficio con la creazione dell'Esecutore nel 1306, cominciò allora ad essere piú specialmente capo della Signoria; ma è certo ancora, che fra sette magistrati, sian pure legalmente uguali, colui che, fin dal principio, ebbe maggiori attribuzioni e piú direttamente dispose della forza armata, diveniva di fatto, se non di diritto, il presidente e capo.88. Rubrica IV, G. e F. Notiamo che la bozza latina limita il divieto del Gonfaloniere ad un anno solo, le altre compilazioni lo portano a due, come era stabilito pei Priori e come poi si praticava. Noi abbiamo seguito la bozza latina, anche perché nella legge del 9 aprile 93, pubblicata dal Bonaini (Doc. A, a pag. 74) troviamo ordinato, che i Priori ed il Gonfaloniere abbiano tutti quanti i benefizi e privilegi medesimi, salvo et excepto quod quae in Ordinamento iustitie, loquente de electione Vexilliferi, continentur circa devetum et tempus deveti ipsius Vexilliferi, et circa alia omnia in ipso ordinamento descripta, in sua permaneant firmitate. Questo si trova ripetuto anche nella rubrica XXXI, G. ed F., il che ci obbliga a concludere, che il divieto pel Gonfaloniere fosse, in origine, diverso da quello pei Priori, e solo piú tardi venisse pareggiato. Non si pensò poi, nelle compilazioni F. G., a correggere quello che dice la rubrica XXXI, la quale suppone ancora che la prima diversità continui a durare. Le leggi fiorentine erano sempre fatte e rifatte a brani. — Ogni dubbio vien tolto adesso dal citato doc. 6 luglio 1295, che muta per il Gonfaloniere il divieto, portandolo da un anno a due. Il Salvemini ha nelle Provvisioni e Consulte trovato che di fatto s'era già cominciato a praticar ciò nel dicembre del 1294.89. Questo fu prima osservato dal D.r Lastig, come vedremo piú oltre.90. Rubrica I e II in B. F. G.91. Nelle rubriche LXIII-LXV che abbiamo visto aggiunte d'altra mano, nel 1297, al codice pubblicato dal Fineschi, e che rispondono in quello pubblicato dal Giudici, alle rubriche LXXXII-LXXXIV, si parla ancora delle frodi per non sodare o rendere nullo il sodamento. Quando un grande commetteva delitto e non pagava, si ricorreva secondo la legge al piú prossimo parente, perché pagasse; ma spesso questi adduceva: «che cotale il quale peccò e non sodò, overo meno idoneamente sodò, hae uno figliuolo o piú legittimi overo naturali, d'un anno overo di maggiore overo di minore etade; e per la detta cagione i piú prossimani, i quali fossono tenuti per vertude del detto Ordinamento, sieno richiesti, fuggono la pena la quale si contiene nel detto Ordinamento». Rubrica LXXXII, G. LXV, F.92. Rub. XVII, G. La legge qui citata è del 2 ottobre 1286 ( Provvis., I, 27).93. Rubrica XVII, B. F. G. Nelle due compilazioni posteriori v'è in fine una giunta che manca nella B. Nel codice italiano (G.) la giunta è senza data, in quello del Fineschi, invece, ha la data del 6 luglio, '95. Si cerca con essa di attenuare la legge, dichiarando che coloro i quali non si trovano nel Costituto notati fra i Grandi, ovvero hanno mutato nome, e vanno sotto altro casato, non sieno tenuti per Grandi. Questa giunta fu fatta nel tempo stesso in cui si ottenne di portare i testimoni da due a tre.94. Rubriche XVIII e XIX, F. G. Queste due rubriche e la XX mancano nella bozza latina, come osserveremo nuovamente piú sotto.95. Compagni, I, 11; Villani, VIII, 1.96. Storie, lib. II, pag. 80, Italia, 1813.97. VIII, 1.98. Assai spesso i Grandi eseguivano le loro vendette o violenze, per mezzo di loro amici o dipendenti, e però gli Ordinamenti parlano quasi sempre di piú autori del maleficio, come imputati principali. La legge 6 luglio '95, come vedremo, attenuò anche questo punto, riconoscendo un solo capitano del maleficio; gli altri eran puniti solo come complici.99. Rubrica VI, F. G. e V, B.100. Questo caviamo dagli stessi Ordinamenti e dai cronisti, i quali dicono che qualche volta i colpevoli furono in parte risarciti, per essersi disfatto troppo.101. Rubrica XII, F. G. VII, B.102. Rubrica XIII, F. G. Manca nella compilazione B, perché fu aggiunta nel '95.103. Rubriche VI, VII, F. e G. Ambedue mancano nella B, perché aggiunte nel '95. Dobbiamo qui notare che per diritto comune, nel linguaggio legale di quei tempi, solevasi intendere il diritto romano, quello degli Statuti ritenendosi quasi come un diritto eccezionale. Ma gli Ordinamenti, essendo essi stessi una legge eccezionale, rispetto agli Statuti, si riferiscono a questi, quando parlano di legge comune. Quando si trattava di due municipi, l'uno sottoposto all'altro, il sottoposto soleva (ad eccezione della parte politica) conservare il proprio Statuto; ma nei casi in cui questo era insufficiente, si ricorreva a quello della città dominante, come a diritto comune.104. Rubrica IX, F. G. e VI, B. Il maleficio era in questo caso provato sempre da due testimoni, e qui tutte le compilazioni, anche la prima bozza, vanno fra loro d'accordo. Negli altri casi, la B (rub. V) dice semplicemente: per testes, il che vuol dire piú di uno, cioè due o tre. Il 6 luglio '95, il per testes fu mutato in per tres testes, e cosí trovasi nella rub. VI, F e G.

Notiamo che la compilazione italiana contiene in questa rubrica IX una giunta che manca non solo nella bozza, ma anche nella compilazione del Fineschi, il che dimostra sempre piú come la italiana sia posteriore al testo latino, che pure in generale traduce fedelmente. La giunta dice che la pena sarà pagata dall'offensore o dal suo piú prossimo parente al Comune.

La rubrica XI, F. G., che risponde alla XVI, B., parla delle ragioni acquistate dai Grandi sui beni immobili dei popolani, nel qual caso accenna ai consorti o parenti dei popolani. Ciò prova come fosse allora generale la consuetudine delle consorterie, e che grande relazione avessero con le parentele.

105. Rubrica, XVI, F. G. IX, B.106. Rubrica XXVI, G. XXI, B.107. Questa conclusione è mutila nella rubrica XXII, ultima della B. Trovasi intera nelle rubriche XXVII della F e XXV della G.

È qui opportuno il notare come, lasciando da parte altre parziali divergenze, le rubriche che si trovano nelle compilazioni G., F., e mancano interamente nella B, senza che si possa con certezza provare se siano state aggiunte con deliberazioni posteriori, o furono invece approvate quando la bozza ricevette la sua forma definitiva, sono quelle segnate in ambedue coi numeri XVIII, XIX, XX. Il sig. Salvemini, coll'aiuto della legge 6 luglio '95, cerca dimostrare che la bozza pubblicata dal Bonaini è identica alla legge promulgata il 18 gennaio '93. Ma siccome né la bozza, né la legge del '95 dicono nulla che si riferisca alle tre rubriche, cosí egli s'aiuta con ragionamenti, che sono acuti ed ingegnosi, per quanto si riferisce alle rubriche XVIII e XX, non cosí per la XIX. Il trovarsi questa fra due rubriche che egli crede aggiunte piú tardi alla legge, non basta a provare che sia stata anch'essa aggiunta nel medesimo tempo. Né le parole secundam formam suprascriptam, in fine della stessa rubrica, si riferiscono, come egli crede, alla precedente, ma a ciò che è detto in principio della stessa rubrica XIX. Provare in modo assoluto che la bozza sia identica alla legge promulgata, non lo credo possibile: sarà sempre un'ipotesi, e lo stesso sig. Salvemini ne conviene.

Del resto questa è una questione che, comunque si risolva, lascia il tempo che trova, trattandosi di divergenze poco importanti. Osserviamo però che l'Hegel non si era proposto di dimostrare, che la bozza pubblicata dal Bonaini era assai diversa dalla legge del 18 gennaio '93. Invece, egli che non conosceva il doc. 6 luglio '95, il quale non era stato ancora pubblicato, volle dimostrare, che con la bozza si poteva arrivare, per la prima volta, a conoscere con grandissima approssimazione la forma vera degli Ordinamenti del 18 gennaio '93, dai quali essa assai poco differiva. Le divergenze probabili erano quasi tutte, secondo lui, di poco momento. Se ora il Salvemini, con le sue acute osservazioni (di cui gli va data lode) sulla legge 6 luglio '95, ha dimostrato che queste divergenze si riducono addirittura a' minimi termini, egli in sostanza conferma la tesi sostenuta dall'Hegel, e convalida sempre piú le conclusioni a cui questi era arrivato, senza conoscere il nuovo documento, di cui è ora dimostrata l'importanza.

108. Troviamo questa legge, con tutte le sue forme ufficiali, nel documento A. della pubblicazione Bonaini, ove rimane ancora come una legge a parte. Nelle compilazioni F. e G., invece, è incorporata negli Ordinamenti, che era destinata a rafforzare. Nella G. vi è la data 10 aprile '93, che manca nella F., sebbene non manchi nel codice latino. Bisogna qui osservare che la legge pubblicata dal Bonaini non solamente è, nelle compilazioni F. e G., incorporata cogli Ordinamenti, ma vi sono anche aggiunte fatte ad essa piú tardi. Si dà per esempio facoltà di armare quasi tutta la Città ed il contado, potendosi arrivare a chiamar sotto le armi fino a 12,200 uomini. Se ciò fosse stato deliberato al tempo di Giano, gli storici ne avrebbero certamente parlato. Il Villani dice che prima furono scelti soli mille uomini, cioè quanti ne concedono i primi Ordinamenti; poi crebbero a duemila, quanti ne vuole la nuova legge, e poi a quattromila. (VIII, 1). Anche secondo il cronista, s'andò adunque sempre crescendo.109. Villani, VIII, 8.110. Dopo del Villani, l'Ammirato scrisse: «Imperocché Giano, oltre gli ordini presi, avea tolto a' Capitani della Parte il suggello; e i mobili di essa Parte, i quali erano in gran quantità, avea operato che si recassero in Comune». Vol. I, lib. IV, pag. 346, ediz. Batelli, Firenze, 1846-49.111. Villani, VIII, 2.112. Villani, VIII, 2, Ammirato, ad annum, vol. I, pag. 339.113. Villani, VIII, 2, Ammirato, vol. I, pag. 340-41.114. Villani, VIII, 2; e la Cronica del pseudo B. Latini, ad annum.115. Villani, VIII, 1. Il Compagni I, 12, racconta il fatto diversamente. Dice che i colpevoli furono i Galigai, e che egli, essendo Gonfaloniere, si trovò a disfare le loro case. Noi abbiamo seguito il Villani, che fa succedere il fatto sotto il primo Gonfaloniere, che fu Baldo Ruffoli (15 febbraio al 15 aprile), quando invece il Compagni fu Gonfaloniere dal 15 giugno al 15 agosto 93, e non par facile che solo allora avesse luogo la prima esecuzione degli Ordinamenti. È noto che del Compagni abbiamo solo copie posteriori ai suoi tempi, e quindi possono esservi errori, alterazioni, giunte di copisti. La sua cronologia è spesso assai disordinata. Egli poté certo trovarsi a qualche esecuzione come Gonfaloniere; ma la prima par che seguisse secondo che dice il Villani, e cosí la raccontano Coppo Stefani, lib. III, rubr. 198, l'Ammirato, vol. I, pag. 338, ed altri autorevoli storici. — Qualche anno dopo la pubblicazione di questo nostro scritto, venne alla luce il noto lavoro del prof. Scheffer-Boichorst (nell' Historische Zeitschrift, XXIV, 313, anno 1870), che sollevò la tanto agitata disputa sull'autenticità della Cronica di Dino Compagni. Ma piú tardi il dotto libro del prof. Del Lungo indusse lo stesso prof, tedesco a recedere da molte delle sue affermazioni. Ora noi dobbiamo valerci di Dino Compagni con molto accorgimento, ma possiamo di certo continuare a valercene.116. Compagni, I, 12, pag. 55.117. Vedi cap. VI di quest'opera.118. Châlons in Borgogna.119. È noto che il Podestà, il Capitano e molti altri magistrati, uscendo d'ufficio, erano sottomessi a sindacato.120. Dino Compagni, I, 13; Villani, VIII, 10.121. Ibidem. L'autore non dice che sorta di riunioni erano queste, in cui Grandi e popolani si trovavano insieme. Potevano essere riunioni private preparatorie; ma anche nei Consigli della Parte Guelfa, come in quelli del Podestà, Grandi e popolani erano insieme, ed avevano perciò continua occasione di parlar fra loro delle cose di Stato, e discutere proposte di leggi.122. Ibidem, I, 15.123. Questa narrazione abbiamo tratta dal Villani e dal Compagni, cercando metterli fra loro d'accordo, cosa non punto agevole, perché differiscono in molti particolari. Abbiamo perciò cercato di raccogliere quelli almeno che si trovano nelle due narrazioni, e non si contraddicon fra loro. Compagni, I, 16 e 17; Villani, VIII, 8.124. Villani, loc. cit.125. La celebre provvisione riferita dal del Migliore, Firenze illustrata (Firenze, Ricci, 1821), vol. I, pag. 6, e riportata tante volte da tanti scrittori, è certo assai bella; ma non è stato possibile trovarne l'originale, e la sua forma fa credere che una mano piú moderna l'abbia per lo meno modificata.126. Archivio fiorentino, Carte Strozziane-Uguccioni, 127. Questo documento fu trovato dal sig. Salvemini che ce lo ha gentilmente comunicato.127. Questo Daddoccio si era immatricolato nell'arte del cambio il 11 Dicembre 1283, e il 1º Dicembre 1287 pagava la sua rata d'associazione. (Strozz. Ugucc. 1283 11 Dic.)128. Nuova Antologia di Roma, 1 dicembre 1888.129. Molte giuste osservazioni ed importanti notizie, a questo proposito, troviamo in L. Chiappelli, L'Amministrazione della giustizia in Firenze ( Arch. Stor. It., Ser. IV, vol. XV, pag. 35 e segg.), e Francesco Novati, La Giovinezza di Coluccio Salutati (Torino, Loescher, 1888, Cap. III, pag. 66 e segg.). Mi sembra però che, colle loro acute e dotte indagini, questi due scrittori si siano fermati a mettere in evidenza la corruzione dei giudici, senza notare le origini di questa corruzione ed il suo grande aumento nel secolo XIV. Le origini si debbono, io credo, cercare nelle mutate condizioni dei Podestà, Capitani del popolo, cancellieri, notai, giudici, ecc. E certamente quello che di essi si diceva nel secolo XIV non si sarebbe potuto dire nei tempi di Pietro della Vigna, di Rolandino dei Passeggeri o di quei molti Podestà del Medio Evo, i quali erano tanto potenti, che cercavano e spesso riuscivano a farsi tiranni dei Comuni. Essi non erano allora gente da piegarsi a far da ciechi strumenti delle altrui voglie partigiane; operavano piuttosto per conto proprio. Forse alla decadenza politica dell'ufficio del Podestà, al suo venire perciò piú facilmente in balía dei partiti, si deve, a cominciare dal 1290, la riduzione del suo ufficio da un anno a sei mesi ( Ammirato ad annum ). Lo stesso si dové fare, come era naturale, anche pel Capitano.130. Cronica, I, 13, pag. 57.131. G. Villani, VIII, 17.132. Di Calimala o dei panni forestieri, raffinati e tinti a Firenze; dei Cambiatori o Banchieri; della Lana; di Porta S. Maria o della Seta; dei Medici, Speziali e Merciai, cui andavano uniti anche i Pittori: a quest'arte s'era ascritto Dante Alighieri.133. Lastig, Entwicklungswege und Quellen des Handelsrechts: Stuttgart, Enke, 1877 pag. 251 e segg. Questo autore, fra molte altre giuste osservazioni, nota che gli Ordinamenti fissano a ventuno il numero delle Arti, numero che d'allora in poi restò sempre inalterato, e che nei loro Statuti l'anno 1293 è continuamente ripetuto come il loro anno normale, «wiederholt geradezu als Normaljahr» (pag. 244). Vedi anche a pag. 267 e segg.134. G. Villani, lib. VIII, cap. 2 e 39.135. V. Il Comune di Roma nel Medio Evo, nei miei Saggi Storici e Critici: Bologna, Zanichelli, 1890.136. Villani, VIII, 12. V. anche la provvisione 6 luglio 1295, piú sopra citata.137. Villani, VIII, 12.138. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, I, pag. 162. L'autore suppone che fosse del numero anche Dante Alighieri.139. Di ciò parlano molto i cronisti. Il Compagni, (pag. 86-7) dice che i Cerchi «accostarsi a' popolani e reggenti»; piú oltre aggiunge che «ad essi s'avvicinarono tutti quelli che erano dell'animo di Giano della Bella» (pag. 106). Lo Stefani (IV, 220) dice che il popolo «per parte tenea pe' Cerchi, la maggior parte perché erano mercatanti».140. Su di ciò il prof. Del Lungo dà, in piú luoghi della sua opera, particolari notizie.141. VIII, 38.142. Le mire di Bonifazio VIII e le sue trame coi Neri, furono messe in nuova luce, con sottili indagini e nuovi documenti, dal signor Guido Levi, nel suo bel lavoro: Bonifazio VIII e le sue Relazioni col Comune di Firenze, pubblicato prima nel Vol. IV dell' Archivio Storico della Società Romana di Storia Patria, e poi a parte: Roma, Forzani, 1882. Io cito l'edizione a parte.143. Levi, Documento I.144. V. Ficker, Forschungen, IV, n. 499, pag. 506, e Levi, pag. 49.145. Le parole qui sopra riferite si trovano in testa a una delle copie del documento ricordato dal sig. Levi (pag. 49, nota 2), e furono da lui premesse, come motto, al suo lavoro.146. Tutto il brano si legge nel Levi, pag. 51, nota 2.147. Levi, pag. 48-49, e doc. III.148. Bondone Gherardi e Lippo di Ranuccio del Becca.149. Levi pag. 39-40. Secondo una lettera del Papa, pubblicata dallo stesso signor Levi, doc. IV, i tre accusati erano: «Simonem Gherardi familiarem nostrum, nostraeque Camerae mercatorem; Cambium de Sexto procuratorem in audientia nostra; Noffum de Quintavallis, qui tunc ad Curiam nostram accesserat».150. Levi, Doc. II151. Levi, pag. 66.152. Anche il Villani (VIII, 39) lo paragona al fatto del Buondelmonti.153. Levi pag. 42; Dino Compagni, Cronica I, XXII, nota 9.154. G. Levi, Doc. IV.155. Villani, VIII, 40.156. Villani, VIII, 40.157. Dino Compagni, I, pag. 96-7.158. Il Del Lungo, colla sua solita diligenza, notò che gli esuli furono allora tutti dei Grandi. Il Levi (pag. 59) ripetendo l'osservazione, trova singolare un tal fatto, «quando il mal seme della discordia si era appreso all'intera cittadinanza». Ma si spiega facilmente, mi pare, dopo quello che ho detto piú sopra.159. Villani VIII. 40, Compagni, I. 21.160. Perkens, Histoire de Florence, vol. III, pag. 31.161. Villani, VIII. 43.162. Idem, VIII. 42.163. Il signor Levi ha qui posto assai bene in chiaro, distinguendoli, i vari fatti che i cronisti confusero insieme.164. Cronicon Parmense, in Muratori R. I. IX. 843.165. Del Lungo, vol. I, pag. 230; Dino Compagni, lib. II, 8, nota 3.166. Villani VIII, 43 e 49; e Del Lungo. Vol. I, pag. 206.167. Villani VIII. 56. Lo ricorda anche il Boccaccio, dicendolo «di mercante divenuto cavaliere».168. Il Fraticelli, nella Storia della Vita di Dante (Firenze, Barbèra, 1861), a pag. 135 e seg. pubblicò i frammenti delle Consulte in cui Dante prese parte, i quali, piú correttamente e compiutamente, furono ripubblicati poi dall'Imbriani nel suo scritto: Sulla Rubrica dantesca del Villani (prima nel Propugnatore di Bologna, anni 1879 e 80, e poi a parte: Bologna, 1880). Del Lungo, pag. 209.169. Fraticelli e Imbriani, op. cit.170. Uno dei primi che negaron fede a questa ambasceria, fu il prof. V. Imbriani nel già ricordato scritto: Sulla Rubrica dantesca del Villani. Piú tardi il mio amico e collega, professor Bartoli, nel volume V, della sua Storia della letteratura italiana, avendo, con molta dottrina, ripreso in esame tutta la vita di Dante, non negò esplicitamente l'ambasceria, ma espose i dubbi che su di essa potevano muoversi. In fine del volume pubblicava ancora uno studio del prof. Papa, il quale, piú giovane e piú ardito, recisamente la negava. Il prof. Del Lungo invece l'aveva, con la sua ben nota dottrina, sostenuta. La questione ha molta importanza nella vita di Dante, ma ne ha assai poca nella storia generale di Firenze, perché, in sostanza, se l'ambasceria vi fu, essa non ebbe nessun resultato pratico. Pure, senza presumere di farmi giudice nella lunga lite, dirò le ragioni per le quali io credo all'ambasceria.

Se G. Villani non ne parla, ne parla Dino Compagni (II, 25), alla cui autenticità credono il Bartoli, il Papa e il Del Lungo. E quindi chi di essi vuol negare l'ambasceria, senza negare affatto l'autenticità del Compagni, suppone che appunto in questo luogo, vi sia una interpolazione, la quale però in nessun caso potrebbe essere posteriore al manoscritto del secolo XV, in cui la notizia si ritrova. Restano però sempre quasi tutti i biografi. Infatti, Leonardo Bruni, che era nato nel 1369, parla assai esplicitamente dell'ambasceria; Filippo Villani, che era nipote di Giovanni, e che nel 1401 spiegava la Divina Commedia, per incarico della Repubblica, parla d'una legazione di Dante ad summum Pontificem, urgentibus Reipublicae necessitatibus. Assai piú indirettamente e vagamente vi accenna il Boccaccio. È vero che questi non è uno storico autorevole, e che gli altri due non sono contemporanei. Ma, quando si è riconosciuto tutto ciò, e si è ammesso ancora che alcuni di essi hanno potuto copiare l'uno dall'altro, e si è ammessa l'ipotesi di una interpolazione fatta nel Compagni, durante il secolo XV, resta pur sempre il fatto innegabile che, in tempi a Dante abbastanza vicini, coloro che studiavano le sue opere e ne scrivevano la vita, che potevano conoscer meglio di noi, credevano all'ambasceria.

Che ragioni abbiamo per negarla, senza nuovi documenti, noi che siamo cosí lontani? Non si sarebbe mai, dice il prof. Papa, mandato ambasciatore a Bonifazio VIII un suo avversario, che era l'autore della Monarchia. Ma prima di tutto, il tempo in cui fu scritta la Monarchia rimane finora sempre disputabile e disputato. Molti la credono, come il prof. Del Lungo, scritta assai piú tardi. Dante allora, per quanto ne sappiamo, era sempre guelfo, sebbene non fosse di certo favorevole alle pretese di Bonifazio, per combattere le quali il governo fiorentino lo mandava. Non v'è quindi nulla fin qui, che renda incredibile l'ambasceria.

C'è però un'altra ragione, addotta in ultimo dal prof. Papa, la quale secondo lui risolverebbe con certezza la questione. Se Dante fosse davvero, come dicono il Compagni e l'Aretino, andato ambasciatore a Roma, e rimasto colà, per ripartirne senza tornare a Firenze, la condanna d'esilio non avrebbe mai potuto dire, come dice, che egli era stato per mezzo del nunzio citato a comparire. — Lo Statuto voleva, che agli assenti o forenses la citazione venisse fatta per lettera. Dunque la citazione fatta per mezzo del nunzio, prova che Dante si trovava certamente in Firenze, e però non era andato a Roma. — A mio avviso questa obbiezione non può avere il peso che vorrebbe darle il prof. Papa. Lascio da parte, che non è possibile fare assegnamento di sorta sulla scrupolosa osservanza delle forme legali per parte di coloro che osavano condannar Dante come barattiere, e lasciavano rubare, ferire, assassinare i Bianchi, senza darsene pensiero alcuno. E lascio da parte che, come tutti sanno, nei tumulti fiorentini, specialmente allora, le leggi venivano assai generalmente violate cosí nella forma come nella sostanza. Ma io non credo che, secondo lo Statuto, il Podestà fosse in nessun modo tenuto a citare per lettera l'Alighieri assente. Il forensis non è l'assente, colui cioè che extra civitatem manet, è invece, secondo lo Statuto, colui che non ha domicilio nella Città, nel suo contado o nel distretto. È verissimo che al forensis la citazione doveva farsi per lettera; ma non cosí all'assente, a colui cioè che trovavasi lontano, ma aveva il domicilio in Firenze, come sarebbe stato il caso di Dante, se trovavasi a Roma. Secondo lo Statuto era allora necessario andare alla casa, dimittere cedulam, e poi affiggerla alla porta. Infatti esso, che sempre menziona esplicitamente la presenza personale, quando è richiesta, qui invece non ne parla. Anzi aggiunge che, ove venisse provato che il citato maneret extra civitatem, allora la citazione doveva farsi pubblicamente, nella piazza di San Giovanni ed in quella d'Or S. Michele, e poi doveva affiggersi la cedola al Palazzo del Podestà. (Statuto, Lib, I, rub. 74, De officio nunciorum; Lib. II, rub. 2, De officio iudicum maleficiorum, et de modo procedendi in criminalibus; ed anche Lib. II, rub. 68 e 69).

Dante adunque non era forensis, e se andò allora a Roma, era solo assente; la sua ambasceria, deliberata nel settembre, dové presto finire, perché un nuovo e contrario governo entrò in ufficio l'8 novembre; la sua condanna d'esilio fu pronunziata il 27 gennaio dell'anno seguente. Egli fu con altri tre citato a comparire, per scusarsi e difendersi. Non essendo venuto, come non vennero gli altri, e come non sarebbe nessuno di loro venuto, quando anche si fosse trovato in Firenze, furono condannati, come sarebbe in ogni caso seguito. Cosí, a stretto rigore, non può dirsi neppure che questa volta fosse stata violata la forma legale, sebbene in quei giorni venissero senza scrupolo di sorta calpestate la giustizia, le leggi e l'umanità.

Non vi sono dunque, come ammette il prof. Bartoli, ragioni per dire addirittura che l'ambasceria non era possibile. E se il silenzio del Villani par singolare, se l'affermazione del Compagni si vuol credere che sia stata interpolata, riman sempre vero che all'ambasceria si credeva in tempi che a Dante erano assai vicini, e da uomini che della sua vita sapevano piú di noi. Per queste ragioni, pure ammettendo il peso dei dubbi piú volte esposti, io, fino a prova in contrario, credo all'ambasceria.

171. Vedi la lettera in Del Lungo, vol. I, Appendice VI, pag. XLV e XLVI.172. Compagni, II, 8.173. Villani VIII, 49. Il Compagni dice che vide le lettere bollate.174. Purg. XX, 72-5,175. Villani, VIII. 49, pag. 53.176. Idem, VIII. 49. Molti altri particolari si trovano nelle cronache del Compagni, di Paolino Pieri, Neri degli Strinati ed altri.177. Vedi in Del Lungo, (Vol. I, Appendice, Doc. VI, pag. XLV) la lettera del 12 novembre al Comune di S. Gimignano.178. V. la Provvisione in Del Lungo, vol. I, pag. 290.179. Compagni, Cronica, II, 20 e 21.180. Lettera del Papa nel Potthast, Regesta Pont. Rom., pag. 2006.181. V. le notizie e documenti raccolti dal prof. Del Lungo noi suo scritto: Dell'Esilio di Dante: Firenze, Successori Le Monnier, 1881. Qualche cosa intorno a ciò era stata già prima, ma incompiutamente, pubblicata nelle Delizie degli Eruditi Toscani, vol. X.182. Lib. VIII, cap. 49, pag. 53.183. Dino Compagni II, 25, e nota 3 del prof. Del Lungo, a pag. 212-3.184. Del Lungo, I, pag. 305.185. Libro del Chiodo.186. G. Villani, lib. VIII, cap. 49, pag. 54.187. Nuova Antologia di Roma, 16 dic. 1888 e 16 genn. 1889.188. Villani, VIII. 52, 53. Del Lungo, Appendice XII alla Cronaca del Compagni, pag. 562, e segg.: Le guerre mugellane e i primi anni dell'esilio di Dante.189. Villani, VIII, 58. Dino Compagni, Cronica, II, XXXIV, e note 13, 14.190. Dino Compagni, Cronica, II, XXXIV, nota 20 (documento).191. Pag. 546.192. Compagni, III, II.193. Compagni, III, II.194. Villani, VIII, 68.195. V. la lettera nel Del Lungo, pag. 556-7.196. Dino, III, VII.197. Villani, VIII 69; Compagni, III, VII.198. VIII, cap. 69, pag. 87.199. Un'epistola, senza data e senza nome d'autore, indirizzata al cardinale da Prato, dal capitano Alessandro (che si suppose essere Alessandro da Romena), dal Consiglio e dalla Università della Parte Bianca, fu pubblicata tra quelle di Dante, che l'avrebbe scritta per i suoi compagni d'esilio, e tale per lungo tempo venne ritenuta dai biografi. Il nome del capitano non si trova però nell'antico manoscritto, da cui la lettera fu pubblicata, e nel quale si legge solamente: A. ca. (Epistola Iª nell'ediz. Fraticelli: Firenze, Barbèra 1863).

Essa, rispondendo ai consigli ed alle lettere del Cardinale, dice, che i Bianchi gli sono grati e son disposti alla pace. Ad quid aliud in civile bellum corruimus? Quid aliud candida nostra signa petebant? Et ad quid aliud enses et tela nostra rubebant, nisi ut qui civilia iura, temeraria voluptate truncaverant, et iugo piae legis colla submitterent, et ad pacem patriae cogerentur? Dante in sostanza avrebbe dunque detto: — Noi ci siamo ribellati solo perché vogliamo rispettate le leggi e la nostra libertà; né altro desideriamo se non che la giustizia e la pace trionfino di nuovo. — Sarebbe stato, mi pare, un linguaggio degno di lui.

Ma recentemente s'è messo in dubbio che la lettera sia di Dante. Il professor Bartoli esamina il soggetto da tutti i lati, discute con molto acume le varie opinioni, e dopo una lunga e dotta indagine, conclude: che mancano le prove storiche per affermare o negare che sia veramente di Dante ( Storia della letteratura italiana, vol. V, cap. 8, 9, 10). Il prof. Del Lungo dice che lo stile della lettera, cosí pei pregi, come per alcuni suoi difetti, è dantesco; ma che questo solo non basta ad affermare che essa sia del sommo poeta, potendo essere stata invece scritta da un contemporaneo trovatosi nelle medesime condizioni di lui. Anzi, venendone ad esaminare il contenuto, ritiene che non possa esser sua fra le altre ragioni, principalmente perché le parole candida nostra signa, ed enses et tela nostra rubebant ecc. si ritrovano quasi identiche nel Compagni, là dove parla del fatto della Lastra, avvenuto il 20 luglio 1304. Da ciò egli argomenta che a quel fatto la lettera certamente alluda; e quindi dové essere stata scritta dopo. Or siccome Dante s'era già prima separato dagli esuli, è chiaro, dice il Del Lungo, che non può essere stato l'autore della lettera.

Io non so persuadermi che essa debba assolutamente alludere al fatto della Lastra. — Le nostre bianche insegne furono spiegate, e le nostre armi scintillavano, — sono parole che possono, mi pare, alludere cosí al fatto della Lastra, come a qualunque altro fatto d'armi degli esuli, per quanto somiglino e possin sembrare quasi tradotte da quel luogo del Compagni che al fatto della Lastra accenna. Ciò posto, senza voler proprio respingere l'opinione del prof. Del Lungo, osservo solo che la ragione da lui addotta non basta essa sola a dimostrare che la lettera non sia di Dante, il quale potrebbe averla scritta in nome degli esuli, quando essi trattavano di pace col Cardinale, trattative, che, come abbiam visto, condussero poi all'invio dei dodici loro rappresentanti in Firenze. La nessuna riuscita di queste trattative, le stragi crudeli dei Cavalcanti e dei loro amici, gl'incendi, la rovina di tanta gente, l'avvicinarsi dei Bianchi a Corso Donati, e l'unione degli esuli coi Bolognesi, Pistoiesi, Pisani, con tutti i nemici di Firenze, per tentar subito dopo la folle impresa della Lastra, poterono anzi essere stati ragione sufficiente per allontanar sdegnosamente dagli esuli bianchi non solo Dante, ma parecchi altri, i quali forse perciò appunto non si trovarono alla Lastra, come si vedrà anche meglio piú basso.

200. Villani, VIII, 69. Questi dice che il Cardinale partí il 4 giugno, Dino Compagni dice il 9, Paolino Pieri e la Cronica, che il Del Lungo chiama Marciana-Magliabechiana, dicono il 10, data che segue anche il Del Lungo pag. 563. V. Dino Compagni, Cronica, III, 7, nota 26.201. Compagni, III, 8.202. Villani, VIII, 71.203. Ibidem.204. Villani, Ibidem.205. Storia della repubblica fiorentina, vol. I, cap. 6, pag. 116, (edizione del 1875).206. Villani, VIII. 72.207. Sono note le parole che gli dice Cacciaguida, nel XVII Canto del Paradiso: E quel che piú ti graverà le spalle

Sarà la compagnia malvagia e scempia,

Con la qual tu cadrai in questa valle;

Che tutta ingrata, tutta matta ed empia,

Si farà contra te; ma poco appresso

Ella non tu n'avrà rotta la tempia

Di sua bestialitade il suo processo

Farà la pruova, sí che a te fia bello

L'averti fatta parte per te stesso.

( Parad. XVII, 61-69).

208. Lo nota il Del Lungo, (vol. I, p. 577), osservando che ciò si ripeté piú volte dal 1301 al 1304.209. Villani, VIII, 74; Del Lungo, pag. 578-9.210. Erano soldati che, avendo nella Spagna combattuto contro i Mori, andarono poi in diverse parti del mondo, senza voler piú tornare in patria.211. Villani, VIII. 87.212. Comincia in essi dalla rubrica LXXXXIII. Vedi Giudici, Storia dei Comuni Italiani, Vol. III, pag. 119 e segg. Firenze, Le Monnier, 1864-66.213. A questa legge furono nel 1307, 1309 e 1324 aggiunte, per rafforzarla sempre piú, altre rubriche, come si vede anche dalla già citata pubblicazione fatta dal Bonaini nell' Archivio Storico Italiano, N. Serie, Tomo I, anno 1885.214. III, 18, pag. 326.215. Villani, VIII, 89.216. Idem, VIII, 89.217. Idem, VIII, 96.218. Villani, VIII, 96; Dino Compagni, III, 20 e 21.219. Dino Compagni, III, 20, nota 29; Del Lungo, Introduzione, pag. 607. Il Del Lungo, che ha pubblicato questi documenti, non vuol credere che Corso favorisse allora gli esuli ed i Ghibellini, i quali del resto non eran piú i veri Ghibellini d'una volta. La Signoria però non avrebbe avuto nessuna ragione d'ingannare i Lucchesi, che le erano amici, e le sue lettere sono confermate anche dai fatti precedenti, che abbiamo narrati.220. Villani, VIII, 100.221. Villani, VIII, 118, 119.222. Compagni, Cronica, III, 35, nota 26.223. Villani, IX, 10.224. Villani, IX, 11.225. Compagni, III, 32.226. Villani, IX, 12.227. Villani, IX, 18.228. Vedi la lettera dei Fiorentini, 17 giugno 1311, in Gregorovius, 3ª ediz. vol. VI pag. 39, nota 2.229. Bonaini, Acta Enrici VII, II, LV, LXXXVI: Firenze, Cellini, 1877.230. Bonaini, ibid. II, XCVIII, XCIX.231. Pubblicata nelle Delizie degli Eruditi Toscani, e piú compiutamente dal prof. Del Lungo, Dell'Esilio di Dante, ecc., pag. 107 e seg.232. Villani, IX, 21, 24, 26, 29.233. Ita quod ipsi Fiorentini possint uti, pro eorum faciendis negotiis et mercutionibus, regno vestro, non obstantibus novitatibus antedictis. La lettera è del 1311, senza data di mese, accenna però al recente arrivo d'Arrigo a Genova. Vedila in Desjardins, Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane. Vol. I, pag. 12 e seg.234. Il Vescovo di Botrintò narra la singolarissima storia delle loro peripezie nel suo libro, De Henrici VII imperatoris itinere italico, in Muratori, R. I., recentemente ripubblicato dal dottor Heyck in Innsbruck, 1888.235. Villani, IX, 26-29. Del Lungo, pag. 632.236. Villani, IX, 33. Il premiare i Pazzi col nominarli cavalieri, dimostra che questo titolo già cominciava a perdere il valore che aveva avuto alla fine del secolo XIII, quando, come segno di nobiltà, contribuiva a fare escludere dal governo. Piú tardi questo valore lo perdette del tutto.237. Perrens, vol. 3, pag. 145.238. Questa lettera fu scritta tra la fine del 1310 e i primi del 1311. È la V nell'edizione Fraticelli.239. Epistola VI nell'edizione Fraticelli.240. Epistola VII.241. Gregorovius, vol. VI, pag. 40; Perrens, III, 172; Cronaca di Pisa, R. I. S., XV, 985; Malavolti, par. II, lib. IV, f. 66; Mussato, lib. I, rub. 10.242. Mussato in Gregorovius, VI, 73, nota 1.243. Villani IX, 45 a pag. 170.244. Villani IX, 49.245. Bonaini, Op. cit. II, CCCLXV.246. Gregorovius, VI, 89.247. Quivi, come nel codice Gaddiano, trovasi la notizia della morte del conte Guido Vecchio, con la data del 1217, che nell'Autografo (ved. qui appresso a pag. 233) ha invece la data del 1210.248. Questa data ed il nome del Papa furono aggiunti piú tardi ancora, e si trovano solo nel codice Autografo.249. «Anni Domini xlv. — Beato Pietro Apostolo... mandò.... beato Romolo a Fiesole.

«Anni Domini cij. — In questo tempo in Toscana, nella città di Firenze, per li pagani fu edificato uno oratorio tucto di marmo, dove si coltivava l'idoli; ed era facto a octo gheroni, et alto lxxij braccia, tucto tondo, posto in colonne di marmo.

«Anni dxxv. — Giovanni primo nato di San Casciano del contado di Firenze.

«Anni dlxxxvj. — Questo Maurizio imperadore venne ad hoste sopra la città di Firenze in Toscana, e quivi fece bactaglia.

«Anni dlxxxxj. — Questi (Maurizio) venne ad hoste sopra la città di Firenze in Toscana, e puose campo nel Chafaggio del Vescovado, presso alla chiesa di San Lorenzo. E quivi fue preso, et sconfitta la sua gente da' Fiorentini il dí di Sancta Reperata; e per quella Victoria si hedificò la chiesa della beata Sancta Reparata; e da' Lamberti fu facto il monumento nel campanile della chiesa; e fue deliberato che si socterrasono a cavallo, però ch'elli presono il gonfalone della libertà del Popolo contro al decto Maurizio. Poi morí in prigione nella decta città, e fue sepulto in uno avello di marmo intagliato in figure, alla chiesa di San Giovanni».

250. Abbiamo già osservato che, dopo aver dato i Consoli del 1180, torna qualche anno indietro.251. Questo si riferisce all'antica numerazione, giacché l'altra piú moderna fu fatta quando i vari fogli del codice vennero messi insieme a capriccio.252. Dopo del P. Ildefonso si valsero dell'elenco da lui cavato dalla Cronica, anche il Gori ed il Lastri; il Fraticelli, nella sua Storia della vita di Dante, ristampò la narrazione dei fatti del 1215.253. Incomincia alla pag. 220.254. «Comes Theatinus» in Chronicon Martini Poloni, ed. cit., pag. 354.255. La chiesa di S. Lorenzo, ch'era allora fuori delle mura.256. Questo è l'assedio posto a Firenze dal quarto (o terzo) Arrigo, e non dal secondo, l'anno 1080. Potrebbe a prima giunta credersi che nell'Autografo fosse un'aggiunta marginale, e che il copista lo mettesse qui fuori del luogo suo. Ma dal trovarsi in seguito ricordato, piú succintamente, il medesimo assedio anche sotto l'anno 1080, pare si possa argomentare esser questo un anacronismo dello stesso autore.257. Cioè ferito.258. Cosí, invece di Evandro.259. Il testo ha «Terno».260. M. P., a p. 355: «Calendis maii, oriente sole, habeo caput aureum».261. Leggi IX.262. di Toul ( Tullum ).263. Invece di «a queste» l'orig. doveva avere a questo, e invece di «cose» un verbo che qui manca. M. P. (p. 357) ha «ad hoc inclinavit».264. Invece di perciocché.265. Qui è un salto del copista o dell'originale, che si supplisce con la citata Cronica del P., il quale a p. 358 scrive: «... contra Spiritum Sanctum facit. Si tu contra Spiritum Sanctum non fecisti, dic Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto » ec.266. Cadolo o Caldolo era il nome di questo vescovo; e cosí penso dovesse avere l'originale, e non «Calduco», come qui e appresso ha la copia.267. Cosí credo dovesse avere l'originale, cioè «ed ī Campagnia», e non «e di Campagnia», come intese il copista.268. Cosí il ms. invece di Cencio, e anche appresso.269. Cosí è certo che leggeva o doveva legger l'originale invece di «avea», come scrisse il copista. Il P. (pag. 364) dice «Victoria habita».270. M. P. (p. 362) dice: «quem rex Henricus pronus in terra cum omnibus aliis mox adoravit».271. Il testo legge «co uiscardo», certo per errore del copista, che prese per un co, con un segno d'abbreviatura sopra, la G maiuscola dell'originale.272. Sena Vetus.273. Il testo: «dicano» e «subdicano».274. Il testo ha Molti Orlandi, e questa è proprio grafia dell'originale, come appresso vedremo; una volta però corretta dallo stesso autore, onde anche qui si corregge.275. Il testo ha «Carturiense».276. Supplito con la Cronica del Villani, lib. IV, cap. XXIV.277. Cioè Myra, città della Licia nell'Asia minore.278. Il testo ha «danselmo».279. Qui resta nel ms. un piccolo spazio bianco, come per aggiunta di altre cifre; mentre poi sulla cifra « X » è un segno come di cancellatura.280. Cosí il ms. Intendi Stefano, detto anche Enrico VI, conte di Blois e di Brie. E conte di Brois è nel Villani, IV, XXIV.281. Rinieri conte di San Gilio, nel Villani, ivi.282. Il testo ha «gneneratione».283. Cosí ha il testo. Forse per te (?) Ad ogni modo il passo non è chiaro.284. Cosí pare che debba leggersi. Il testo ripete «disfacta».285. Bleda.286. Cosí il testo.287. Il testo ha «della».288. Qui rimane in tronco il periodo. M. P. lo compie (p. 367) «..., dominus Papa designavit Imperatorem».289. Non porta ma rota, porfirica, cioè quella pietra di porfido di forma circolare, incastrata nel pavimento, nella stessa chiesa di S. Pietro. Il P. ha la corretta lezione cioè «ad rotam porphyricam».290. Resta cosí in tronco.291. Cosí il testo, e intendi Alessio Comneno.292. Cosí il testo. M. P. (p. 368) ha «Agnulfum»: e forse l'originale aveva Angnulfo. Il Platina, nelle Vite de' Pontefici, e gli altri storici dei Papi lo chiamano Maginulfo.293. Cosí il testo. M. P., a pag. 368: «Qui licet in principio domino Papae multas infestationes fecissent, in fine tamen ab ipso prostrati sunt».294. Intendi presso alla chiesa di S. Maria in Trastevere.295. Il testo, qui ed appresso, invece di in Cluniaco (Cluny), ha «Indiaco».296. Il testo ha «secrato».297. Cosí il testo.298. Figliuolo del conte Guglielmo di Borgogna.299. Cosí addietro, e avanti un'altra volta. Qui il copiatore scrisse per isbaglio «lordine». Questi è Maurizio Bordino, arcivescovo di Braga, antipapa col nome di Gregorio VIII.300. Cosí, invece di Onorio secondo, che fu eletto nel 1124.301. Cosí, invece di Vaticano.302. Il testo, per uno scambio facilissimo di sillabe, ha invece «vallessamento».303. Giovanni d'Estamps. «Ioannes de Temporibus» lo chiama il P., pag. 372.304. «totam illam ecclesiam» ha il P., p. 374.305. «sanatari» ha per errore il ms.306. M. P. (p. 376): «vocatis cardinalibus et prelatis».307. Cosí il testo, forse per sbaglio di copia, invece di mossersi.308. Supplisci la parola feudo o altra equivalente,309. Il testo ha «lago».310. Cosí il ms., ma credo che la lezione originale fosse bontadioso.311. Cosí, e potrebbe stare; ma potrebbe anche essere sbaglio invece di scurato.312. Qui c'è, come spesso, gran confusione; il Villani (V. 1) è molto piú corretto. Il cardinale Ottaviano prese il nome di Vittorio IV; Guido di Cremona prese il nome di Pasquale III; Giovanni abate di Struma, che il Villani chiama strumiense, prese il nome di Calisto III; Landò di Sezza si chiamò Innocenzo III.313. Cosí, ma forse l'originale aveva «Li».314. «...Et eiectus fuit conventus sancti Anastasii; et abbas sancti Pauli eundem locum sibi vendicavit, per regem schismaticum. Qui locus per eundem Alexandrum est restitutus». M. P., p. 383.315. Per Dazia, Dacia.316. Per Pollonia.317. Cosí, e appresso altre volte, invece di consoli.318. Cosí il testo, e pare che dovrebbe dir questo.319. Leggi Beritus.320. Cosí il testo, e forse è un'erronea ripetizione.321. Cosí, e pare che dovrebbe dire Terracina.322. Di qui incomincia il testo Magliabechiano-Strozziano, cioè il frammento dell'Autografo.323. Qui è aggiunto nel margine, da mano posteriore: «l'anno 1187».324. «'nperadore» è correzione interlineare, sovrapposta a «stuolo» cancellato.325. Cosí rappresentiamo, e anche in seguito, il segno di congiunzioni «7» succeduto dalla lettera «d».326. Cosí il testo.327. Questi è Petrus Manducator o Comestor, in Italia Mangiatore, in Francia le Mangeur; cosí chiamato per l'avidità con cui, leggendo, divorava i libri. Nato a Troyes in Francia, morí a Parigi nel 1198. La sua opera sulla Bibbia è detta appunto Scholastica historia. V. Lalanne, Dictionnaire hist. de la France, art. Comestor; Migne, voi. 198. V. anche Fabricio, nella Bib. lat. mediae et infimae aetatis, similmente alla voce Comestor.328. Rodez.329. Supplito, per la rottura della carta, e cosí appresso.330. Cosí il testo, invece di lettera.331. «d'oltremare die primo kalendi lulglo» è una delle giunte marginali, la quale continua «E in questo die il sole iscuroe» ec., fino a «messer Ugo Ughi», due capoversi che si stampano appresso. Questa trasposizione è necessaria per il senso; e cosí certo dovea stare anche nella mente dello scrittore, che errò nel fare i richiami.332. Cioè assedettono, assediarono.333. Anche addietro (pag. 220) parla di questo passaggio dell'Imperatore «in Ermenia», cioè in Armenia, come dev'essere; e qui di nuovo, come si vede, in un'aggiunta che comincia con questo capoverso «Ancora il predecto Federigo» ec. La parola «Rimaniansia» è chiara ed è scritta tra rigo e rigo, sopra e in sostituzione della parola «Suria» cancellata. Il copiatore del cod. Gaddiano scrisse Romania.334. Intendi, l'Imperatore.335. Qui manca qualche parola. Dopo aver parlato di Roberto Guiscardo, il cronista probabilmente voleva parlare di Gerusalemme e delle Crociate.336. Era prima scritto «mclxxxxviiij», e fu corretto il «viiij» in «viij».337. Questi due nomi sono sostituiti a quelli di «Arrigho conte di Capraia e Conpangno Arrighucci».338. Il testo, per errore, ha «miseria».339. Intendi, il papa detto di sopra.340. Cosí il testo. M. P. ha in questo luogo, p. 384: «Sed Otto coronatus est ex mandato Papae».341. Langravio. Allude alla uccisione di Filippo (21 giugno 1208) per mano di Ottone di Wittelsbach.342. Cosí il testo.343. Cosí il testo, e anche appresso altre volte.344. Allude alla leggenda del Presto o Presbitero Giovanni e di David suo figliuolo. Ved. anche Villani, V, 39.345. Combiate.346. Cosí il testo.347. Non l'Imperatore, ma il Papa, mandò il legato e gli abati a predicare agli eretici. Il compilatore non intese bene il testo di M. P. (pag. 387), che dice: «Ab Innocentio papa cum legato duodecim abbates... mittuntur».348. Anche qui è male tradotto il P. (pag. 387), che dice: «Quibus de Hispania Didatus Oxoniensis episcopus, habens secum fratrem Dominicum, in suo comitatu haereticis convertendis adiungitur».349. Il testo ha «celso», per quello scambio dell' n colla l di cui già vedemmo un esempio a pag. 203, e altri ne vedremo in seguito.350. Altro e piú grave strafalcione. Il testo di M. P. (p. 392) è «in basilica Lateranensi, quae Constantiana vocabatur, celebratum est Concilium generale» ec.351. Manca furono fatti o altro simile complemento. Il P. (loc. cit) dice «multa utilia statuta fuerunt promulgata».352. Americo di Bena. V. Tocco, L'Eresia nel Medio Evo, lib. II, cap. 2.353. Il P. (loc. cit.): «Qui Almaricus asserit, ideas quae sunt in mente divina creare et creari».354. Cosí il testo, e anche appresso.355. Prima avea scritto «tre», poi cancellò e pare correggesse «j».356. Anche il P. (pag. 398) ha «Petrum Altisiodorensem comitem», il quale è Pietro di Courtenai conte d'Auxerre.357. Qui è nell'originale un «el p» che omettiamo, sebbene non cancellato. Pare che il compilatore cominciasse a scrivere el primo.358. Il testo ha «assedi».359. Il testo ha «cavali», per mancanza del segno d'abbreviatura.360. Cosí il testo.361. Cosí, invece di onorato.362. Il testo «havaliere».363. Il testo pare che legga «gibba».364. Il testo pare che legga «piangento».365. Intendi, e la Parte ghibellina; se pure non voleva scrivere Ghibellini.366. Intendi, per cagion loro, o anche, contro di loro.367. Il testo ha «lunghissi».368. Il testo ha «'nperadice».369. Da «fue incoronato» fin qui fu aggiunto dal compilatore tra rigo e rigo, erroneamente forse parendogli di aver omesso questo particolare, che è subito dopo.370. Cosí il testo.371. Sottinteso ambasceria.372. Il testo, per errore di scrittura, ha uscriro.373. Prima avea scritto «xxiij», poi corresse «xxv».374. Il Settizonio, presso il Palatino.375. Il testo ha, per errore di scrittura, «fede».376. Intendi, ve ne restarono.377. Il testo ha «tutta».378. Cosí il testo.379. Il testo ha «presa».380. Il testo legge «conto».381. Prima era scritto «lulglo», poi fu cancellato e corretto «giungno».382. Cosí il testo.383. Cosí il testo, e pare debba intendersi a xxij di maggio.384. Cosí, con evidente difetto di qualche parola. Il Villani (cap. x del libro VI) scrive che «vi gittaro dentro pietre assai».385. Aveva scritto «risorexio», ma subito cassò e scrisse di seguito «natale».386. Il testo ha, per errore di scrittura, «arte».387. Il testo ha «Molte», e anche sopra aveva «Molte Falcone» e corresse, e qui no.388. Spazio bianco, capace di altre due righe di scrittura.389. Prima avea scritto: «E questo conte tratta...», poi corresse «questo» in «questi», e cassò l'ultima parola ammezzata.390. Qui avea scritto e poi cassò «l'altro anno».391. Avea prima scritto «iij».392. Il testo, per errore di scrittura, ha «iscurore».393. Cosí il testo. M. P. (pag. 399) ha «frater regis Ungariae dux Colomannus».394. Cosí il testo. M. P. ha «dux Blesiae Henricus». V. anche Villani, VI, 28.395. Il testo ha «diserte».396. Cosí il testo. Ved. anche appresso, a p. 250.397. Il testo ha «bellimo», per mancanza dell'abbreviatura.398. Il testo ha «linga».399. Il testo ha «Amo», per mancanza dell'abbreviatura.400. Il testo: «contucia».401. Il testo: «inperiale».402. Il testo: «llo peradore».403. Cosí, e forse è error di scrittura invece di ss'.404. Pietro Balsamo, soprannominato Carino, fu l'assassino di Pietro da Verona; poi si penti, entrò nell'Ordine domenicano, ed è qualche volta chiamato Beatus Acerinus. Suoi compagni furono Stefano Confaloniero e Manfredo Clitoro. V. Lea, History of the Inquisition, II, 214.405. Il testo, per errore di scrittura: «colonizzò».406. Ripetuto dalla stessa mano in margine «Mccxlvij».407. Si aggiunge quest'a, che forse dimenticò di aggiungere l'autore, dopo avere cancellato «alla»; volendo dapprima scrivere alla città di.408. Anche qui il testo ha «dello peradore».409. Qui è interrotto il senso; c'è un segno di richiamo che non ha corrispondenza, e poi una lacuna di 35 anni circa, della quale abbiamo parlato piú volte. Seguono in fine della pagina questi due paragrafi, aggiunti da un'altra mano, posteriore di almeno un secolo:

«Papa Adriano quinto, nato di que' del Fiesco da Genova 1276, stete papa die 39; vacò la Chiesa 28 dí».

«Papa Inocenzio sexto fu eletto, che fu da Portogallo». V. vol. I di quest'opera, pag. 43, nota 1.

410. Il testo ha, per error di scrittura, «masinada».411. Il testo: «alqualti».412. Qui è lasciato bianco uno spazio di tre righe.413. Conte di Brienne.414. Arrigo de' Mari.415. Il testo: «apresse».416. Il testo ha «ose».417. Il testo ha «guastare».418. Antonio de Fixiraga da Lodi.419. Prima avea scritto «di Bresscia», poi cassò e scrisse sopra «dallodí».420. Cosí il testo, invece di erano priori; come addietro, piú volte, era consolo invece di erano consoli.421. Il testo ha «Marena».422. Qui è lo stacco di un verso.423. Spazio bianco nell'originale. Questi è Nino giudice di Gallura, figliuolo d'una sorella del conte Ugolino.424. Il testo ha «novebre».425. Cosí, per Alfonso.426. Nel testo si legge «aniui».427. Il testo: «filgluolo».428. Qui e appresso: «Moltefeltro».429. Cosí. Ved. anche addietro, a pag. 243.430. Cosí il testo.431. Noto che dopo il « X » è lasciato un piccolo spazio bianco, come per aggiungervi altre cifre.432. Il testo ha «Anonio».433. Il testo: «Aretino».434. Il testo ha «Samiatesi».435. Il testo ha «Alexandra».436. Il testo: «disícero».437. Il testo ha «cotado».438. Cosí rimane, in fine di pagina.439. Il testo ha «adio».440. Cosí, e anche appresso altre volte, per da Polenta.441. Qui manca un sostantivo: sforzo, valore, ardire o altro consimile. Il Cod. Gaddiano salta qui il fosso e legge; «e per lo conte Guido da Montefeltro ch'era podestà di Pisa» ec.442. Una mano piú recente ha qui aggiunto in margine: «Anno 1291 dí 18 di magio».443. Supplisci la gente444. Sottintendi erano.445. Cosí ci pare da correggere. Il testo ha «tenpo».446. Il testo, per errore di scrittura, ha «partina».447. «settebre» ha il testo, qui e appresso altre volte.448. «elexessero» ha il testo.449. Supplito, per la rottura della carta nell'originale.450. Intendi, ad avere atterrate le mura, o a pagare diecimila lire.451. «inazi» ha il testo.452. Il testo ha «mono», e si corregge perché poco appresso ha «mon lo».453. Il testo: «mortalite».454. Sottintendi molti.455. «maiano» ha questa seconda volta il testo.456. Supplisci avea.457. Il testo ha «posse.»458. Prima avea scritto «die xj», poi cancellò e corresse «mesi xxx».459. Il testo, forse per errore di scrittura, ha «crette».460. Cosí, o per incanto, o per error di scrittura, invece di inganno.461. Avea dapprima scritto «castello», ma subito cassò e riscrisse « rocca ».462. Il testo ha «cristinitade».463. Per canonizzò.464. Ritorna a papa Bonifazio.465. Per esalto.466. Il testo ha «anbendue».467. Cioè Vicenza.468. Intendi, Giacomo.469. Cosí il testo. Il cod. Gaddiano scrive «s'acusarono.»470. Il testo ha «Cicila».471. Forse doveva dire e vennero. Il Gaddiano omette «vennero», e legge «molta cavalleria e popolo per difendere» ec.472. Il testo ha «Lonbordia».473. Cosí il testo, e forse doveva dire cominciò. Il Gaddiano corregge senz'altro.474. Cosí il testo, e appresso un'altra volta.475. Cioè, in obbrobrio.476. Il testo ha «Ighilesi».477. Brie.478. Anversa.479. Il testo ha «piato», e certo è errore di lettura del ms. a cui l'autore attingeva. Anche il Gaddiano corregge in parentado.480. Blasco Alagona. V. Amari, Vespri, cap. XV.481. Il testo: «Abruogio».482. Il testo ha, per errore di scrittura, «malisscho».483. Qui ha termine la compilazione originale. Un'altra mano, che forse è la medesima che scrisse la data «Anno 1291» ec. (ved. addietro, a pag. 254, nota 2), aggiunse: «Mccciij. Benedetto xjº figluolo di Guliano, nato di Trevigi della Marcha Trivigiana, sedete papa mesi otto die xv. Questi fu confermato papa a dí 22 d'otobre. Di llui si può dire: vita honesta. Fu de l'Ordine de' frati predicatori. Elli confermò tutto ciò che papa Bonifazio avea fatto e ricomunichò lo re Filipo di Francia; e mandò in Firenze, per riconciliare e fare pace tra Bianchi e Neri, il cardinale Nicholao da Prato vescovo di Ostia etc.». Le parole «vescovo di Ostia» furono poi cassate dalla stessa mano.

Segue infine: «1316 (corretto da 1416). Giovanni xxijº»; aggiunta che pare della stessa mano che scrisse addietro (ved. a pag. 246, nota 4): «Papa Adriano quinto» ec.